Looker's New Adventures

di NoceAlVento
(/viewuser.php?uid=162092)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1x01 - Bellocchio chi? ***
Capitolo 2: *** 1x02 - La Dama Cremisi ***
Capitolo 3: *** 1x03 - L'ora di Karen ***
Capitolo 4: *** 1x04 - Nuvole ***
Capitolo 5: *** 1x05 - Veleno e fiamme ***
Capitolo 6: *** 1x06 - L.K. Noire ***
Capitolo 7: *** 1x07 - Ciao a tutti, mi presento ***
Capitolo 8: *** 1x08 - Natura umana ***
Capitolo 9: *** 1x09 - Istantanee ***
Capitolo 10: *** 1x10 - Reazioni collaterali ***
Capitolo 11: *** 1x11 - La lunga partita ***
Capitolo 12: *** 1x12 - L'ultima notte ***
Capitolo 13: *** 1x13 - Il burattinaio di Kalos ***
Capitolo 14: *** 1x14 - Il ladro di ombre ***
Capitolo 15: *** 1x15 - Cinque minuti di speranza ***
Capitolo 16: *** 1x16 - Evoluzione ***
Capitolo 17: *** 1x17 - Women's Day ***
Capitolo 18: *** Presentazioni & 1x18 - Le nebbie di Castel Vanità ***
Capitolo 19: *** 1x19 - Dietro la porta ***
Capitolo 20: *** 1x20 - L'orfano dell'universo ***
Capitolo 21: *** 1x21 - Ultimo piano ***
Capitolo 22: *** 1x22 - La suite di mezzanotte ***
Capitolo 23: *** 1x23 - Il colore dell'oro ***
Capitolo 24: *** 1x24 - Otto piccoli indiani ***
Capitolo 25: *** 1x25 - La stella di fuoco ***
Capitolo 26: *** Christmas Special 2014 - A Spaceman Came Travelling ***
Capitolo 27: *** M1x01 - Registered ***
Capitolo 28: *** 1x26 - F. L. A. R. E. ***
Capitolo 29: *** M1x02 - Tempo ***
Capitolo 30: *** 1x27 - Sabbie oscure ***
Capitolo 31: *** 1x28 - L'ultimo tramonto ***
Capitolo 32: *** 1x29 - Kalos brucia ***
Capitolo 33: *** 1x30 - Il nuovo sole ***
Capitolo 34: *** 1x31 - Il pianeta nero ***
Capitolo 35: *** 1x32 - Il teatro degli spettri ***
Capitolo 36: *** M1x03 - Postumi ***
Capitolo 37: *** 1x33 - Seconde opportunità ***



Capitolo 1
*** 1x01 - Bellocchio chi? ***


Untitled 1

Looker's New Adventures

 

 

 

 

Il villaggio riposava placidamente nel tepore delle notti pre-primaverili. Sopra di esso una spessa coltre di nubi spente precludeva alle stelle la possibilità di rischiarare il cielo con la loro luce. Fino a quel momento l’unico suono percepibile era stato il lieve soffiare del vento attraverso i cespugli verdeggianti che accompagnava il valzer delle lucciole serali.

Fino a quel momento.

 

 

Attenzione. Rilevata anomalia nei motori centrali. Attenzione. Rilevata anomalia nei motori centrali. Attenzione. Rilevata anomalia––

Digitò rapidamente sulla spessa tastiera alcuni codici, osservando compiaciuto il risultato sull’imponente schermo di fronte a lui. A seguito della successione di caratteri verdognoli che comparivano in sfilata compatta ai suoi ordini, il messaggio comunicato dall’altoparlante cambiò.

Attenzione. Il motore sinistro risulta fuori uso. Prepararsi a un atterraggio di emergenza.

Un rumore secco annunciò che la porta dal lato opposto della sala di controllo era stata sfondata. « La cosa si fa intrigante » mormorò divertito mentre, composte ma non inviate le ultime istruzioni, con un impulso delle sue gambe ruotò la sedia girevole fino a posizionarsi faccia a faccia con il suo avversario. Un uomo dai folti capelli rossi, attorniato da due o tre guardaspalle e diversi Houndoom ringhianti, lo scrutò con sguardo grave.

« Ah, Clipse! Che piacere rivederla! ».

« Non ti muovere » gli intimò. Intorno a loro scintille sfavillavano a fiocchi dai condotti metallici della stanza, aizzando ulteriormente i Pokémon intimoriti.

Incurante dell’imposizione appena ricevuta, l’uomo si alzò in piedi e con un leggero calcio fece sdrucciolare la poltroncina su un lato, rimanendo affiancato al prompt dei comandi « Su, su, siamo gentiluomini, non serve essere così violenti! ».

« Allontanati subito dalla tastiera, Bellocchio ».

« Ah, beh, mi piacerebbe. Ma vede, devo insistere e restare qui, altrimenti mandereste in fumo il mio lavoro ».

« Non ti permetterò di distruggere anche l’altro motore ».

Il giovane rise rumorosamente « Ah! Sia serio, Clipse, che vantaggio trarrei dal fare cadere questo ferrovecchio? Ci rimarrei secco anche io! ». Detto ciò accennò a un ghigno prima di calcare con un atto fulmineo il tasto di invio e afferrare con l’altra mano il volante, ruotandolo di un angolo piatto. In risposta l’aeronave si capovolse, cogliendo tutti meno che Bellocchio di sorpresa e facendo perdere l’equilibrio ai presenti.

Quest’ultimo, appena ripresosi dalla manovra effettuata, premette un pulsante dell’orologio che portava al polso, rivolgendo subito dopo gli occhi ai suoi avversari: di essi il solo Clipse e un paio di Houndoom non avevano perso i sensi. Contemporaneamente dal soffitto ora collocato sotto i loro piedi si aprì uno sportello a scorrimento di ampie dimensioni, forse cinque metri quadri, lasciando penetrare una brutale corrente indotta dalla differenza tra pressione esterna e interna.

Bellocchio controllò nuovamente l’orologio e le nubi visibili attraverso l’apertura. « Beh, a quanto pare ci dobbiamo salutare di nuovo, amico mio. Ah, a proposito, i laboratori Delta e Omega sono già andati a fuoco, quindi non le suggerisco di rischiare la vita per recuperarli. Buon atterraggio! ».

« Lanciafiamme! » ruggì l’uomo, indicando con le ultime forze residue l’uscita prodotta dal suo nemico perché Houndoom sapesse dove mirare.

Una Yanmega, apparsa da sotto le nuvole proprio durante il salto del giovane, intercettò l’attacco subendolo personalmente, procedendo quindi nel suo individuale viaggio aereo. La nave proseguì invece il proprio, superando il paesello e inoltrandosi tra le imponenti catene montuose a sud.

Clipse batté con violenza il pugno contro il rigido metallo sottostante, in preda all’ennesimo sconforto. Aveva vinto Bellocchio. Aveva di nuovo vinto Bellocchio.

 

 

 

Episodio 1x01

Bellocchio chi?

 

 

 

Serena aprì gli occhi. Un sobrio lampadario quadrangolare pendeva qualche metro sopra di lei, spento come l’aveva lasciato poche ore prima quando aveva deciso di provare a dormire. Oltre esso solo il soffitto scuro della sua camera da letto.

Si drizzò seduta e appoggiò la schiena alla sua fidata coppia di cuscini. Rivolse rapidamente lo sguardo a destra, posandolo su un bicchiere vuoto che aveva accolto svariate dosi di latte e miele, fin da quando era piccola l’unico toccasana che conosceva per l’insonnia. Sua madre lo preparava sempre, e sempre aveva funzionato.

Fino ad allora, quantomeno. Da due giorni persino la sua antica arma segreta aveva cessato di avere la minima utilità, abbandonandola a una veglia snervante e ininterrotta. Forse era lei a non saperlo preparare, si ritrovava a pensare; e l’assenza della madre la rendeva ancora più intrattabile, sentendosi tradita dalla persona a cui più era affezionata.

Dopo aver lanciato un’occhiata rapida alla finestra scorrevole scese le scale, arrivando in soggiorno e dirigendosi nel cucinotto. Aprì il frigorifero, trovandovi però solo cibarie di varia natura e due cartoni di latte che non voleva aprire visto che il loro gusto, a furia di assumere la bevanda in illusori tentativi di riposare, aveva iniziato a darle la nausea.

In preda a un’implacabile sete si accontentò di un bicchiere di liquame di rubinetto. Liquame perché l’acqua lì non era un granché, e infatti dopo un sorso la appoggiò sul ripiano disgustata. Si incamminò quindi verso i gradini quando udì un rimbombo, un’esplosione ovattata.

D’istinto si precipitò verso il cassetto della mensola più vicina, estraendone una malandata torcia elettrica; successivamente accorse all’esterno, dove tuttavia governava il silenzio più totale. A prima vista nessuno si era reso conto di quel rumore, a parte lei.

D’un tratto il cielo si illuminò per un breve istante, come se una singola freccia di fuoco lo avesse perforato, per poi spegnersi nuovamente nell’oscurità notturna. Serena rimase intontita per diversi minuti a osservare la volta in cerca di un segno. Poi fece per rientrare, e un altro suono giunse alle sue orecchie.

Questa volta era decisamente più vicino, e anzi riuscì a identificarne con precisione la fonte: qualcosa era caduto nei cespugli del giardinetto di casa. La ragazza si voltò stupita e in buona misura allarmata, dato che non aveva intravisto nulla precipitare negli attimi precedenti.

« S… ».

Quella voce la fece sobbalzare mentre inconsapevolmente puntava il suo fascio di luce portatile verso l’origine. « C-chi va là? ».

« S… ».

« Guarda c-che sono… » Serena squadrò lesta la torcia, poi proseguì senza molta convinzione « … s-sono armata! Dimmi chi sei! ». Nel frattempo, mosse lentamente qualche passo timoroso in avanti.

Dai cespugli capitombolò fuori un corpo, accompagnato da un’esclamazione soffocata della giovane che fece cadere la pila elettrica a terra.

« Sete… ».

Serena lo osservò attentamente: era un uomo tra i venticinque e i trent’anni, vestito con una camicia celeste ridotta alquanto male e dei jeans celesti slavati. Sembrava prossimo al trapasso, nonché per qualche poco intuibile ragione affannato.

« Che ti è successo? Aspetta, ti aiuto ad alzarti ».

« Sete… Acqua, per favore… » ripeté lui, facendo segno con la mano di non avvicinarsi. Solo allora i due si resero conto, con diverse reazioni interiori, che il dorso stava sanguinando per una ferita superficiale.

Lo spirito di cameratismo di Serena prese il sopravvento: scomparve per qualche minuto all’interno della casa per poi tornare con un bicchiere ricolmo di quanto aveva raccolto dal rubinetto. L’uomo lo afferrò e lo trangugiò d’un sorso, salvo sputare tutto per terra con un volto al limite del ripugnato e una sorprendente energia per uno che fino a un secondo prima era parso in fin di vita « Bleah! Cos’è questo, veleno? ».

« È acqua… Sì, non è granché, ma… ».

« Non ti aspetterai che la beva! Non sono così disperato! ».

Seccata e sbalordita la giovane rientrò ed esaminò le alternative mentre rifletteva su ciò che stava facendo. Chiunque fosse quell’uomo, bere non doveva essere il suo problema primario: sarebbe stato più opportuno chiamare un’ambulanza, o meglio ancora fornire ella stessa un primo soccorso. In seconda battuta, in effetti, quell’individuo aveva rifiutato l’acqua che gli aveva offerto, quindi forse non era messo tanto male. Probabilmente la scelta migliore era quella: fare ciò che le chiedeva. Dopo? Beh, qualcosa le sarebbe venuto in mente.

Dopo un po’ di rimuginare optò per il suo latte e miele, uscendo dunque con in mano il drink fumante di forno. Titubante lo offrì al misterioso personaggio, che come prima lo ingerì tutto d’un fiato, stavolta senza rigettare nulla.

Al contrario con uno scatto fulmineo si alzò in piedi allegro e tonificato, suscitando nell’astante un moto di sorpresa non indifferente. Era poco più alto di lei, pur essendo sicuramente di età ben maggiore. « Wow! Questo sì che è intrigante! Cos’è? ».

« Latte e miele… Mi aiuta a dormire ».

« È spettacolare! Posso averne dell’altro? ».

« Uhm… S-sì, non vedo perché no… » balbettò Serena, rendendosi però conto di stare parlando al vuoto: dopo il primo monosillabo pronunciato il nuovo arrivato si era fiondato all’interno dell’abitazione senza proferire altro.

 

 

La ragazza lo guardò pigramente sorseggiare il suo sesto bicchiere in appena dieci minuti, anche se presumibilmente avrebbe impiegato anche meno se non fosse stato limitato dai fisiologici tempi del microonde. Non sembrava più così moribondo, e anche il taglio che aveva notato prima ora non stillava più sangue. Certo non era il ritratto della salute, questo no: portava segni di escoriazioni su quasi ogni lembo di pelle esposto, il suo vestiario era un mosaico di brandelli e grondava sudore; però l’ambulanza sembrava non essere più necessaria.

Notò che il bicchiere che aveva in mano in quel momento si stava svuotando più lentamente degli altri, segno che forse poteva iniziare a intavolare un dialogo. « Da quanto non bevevi? ».

Il giovane interruppe per un secondo il rinfresco, sistemando la riga dei capelli a destra « Oh, non è quello, ma vengo da un posto caldo ».

« Già, da dove vieni? ».

« Un’aeronave. Beh, un’aeronave in fiamme, in effetti. Bella esperienza, ma non la rifarei ».

« Aspetta, aspetta, che intendi? Eri su un’aeronave adesso? ».

« Sì ».

« E sei caduto? ».

« In realtà mi sono buttato. È una lunga storia ».

La ragazza ricordò la scia rosseggiante nella volta celeste, e immaginò che doveva trattarsi proprio del velivolo nominato dal suo interlocutore. Ciò non significava che la storia fosse credibile: punto primo, che un dirigibile o qualcosa di simile si fosse trovato casualmente nel cielo sopra il villaggio era fuori da ogni logica, visto che non vi erano rotte aeree in quel punto; punto secondo, se davvero si era buttato come diceva ora non sarebbe stato più spesso di un pancake. Decise comunque di concedergli il beneficio del dubbio. « E come diamine hai fatto a sopravvivere? ».

« Oh, mi ha trasportato–– » quello batté la mano sulla testa, come chi ha improvvisamente rammentato una questione fondamentale « Sheila! ». Senza nemmeno terminare il bicchiere si alzò e volò all’esterno, scrutando poi i dintorni.

Serena lo inseguì senza comprendere il motivo di un tale repentino cambiamento d’umore « Sheila? ».

« Il mio Yanmega, dannazione! È venuto giù con me! » strepitò mentre alzava l’indice per individuare la direzione del vento. Stabilitala con sommaria esattezza tornò a Serena « Okay, io vado a cercarlo. Tu aspettami qui e… Ah, tienimi in caldo il latte, che quando torno lo finisco! ».

« Aspetta, aspetta, aspetta! » esclamò lei trattenendolo per la camicia « Stammi bene a sentire, tu non vieni in casa mia a sbafare il mio latte e miele e poi te ne vai a spasso così, senza criterio! Quindi ora io vengo con te! ».

« Sei in pigiama! ».

« Non è un pigiama, è una… » Serena si rivolse uno sguardo approssimativo « … tuta ».

Seguì un lungo silenzio imbarazzante.

« Okay, è un pigiama ».

Estenuato, l’uomo si rassegnò « Va bene, va bene. Regole per andare in giro con me: uno, niente domande stupide; due, niente iniziative; tre, fai tutto ciò che ti dico. Intesi? ».

Dopodiché prese a incamminarsi con decisione verso un boschetto a sud della dimora, con Serena al piccolo trotto dietro di lui.

« Ehi, non mi hai detto come ti chiami! ».

« Bellocchio ».

La ragazza trattenne una risata. Che nome ridicolo, i suoi genitori un figlio proprio non dovevano averlo voluto. « Bellocchio chi? ».

« Cos’ho appena detto riguardo le domande stupide? ».

« Ma ti chiami davvero così? ».

« Ma certo che no! Chi mai si chiamerebbe Bellocchio, è un nome ridicolo! ».

Lei assunse un’espressione stranita. Ripassò a mente le ultime quattro o cinque battute della conversazione, ma non riuscì a individuare un filo logico. Forse avrebbe dovuto chiedere spiegazioni, ma il suo interlocutore stava accelerando il passo e non aveva molto fiato da spendere. « … Beh, il mio nome è Serena ».

« Tanto piacere, non vedo quanto sia di importanza ora ».

« Mia mamma mi ha sempre detto che la prima cosa che bisogna fare è presentarsi ».

« Giusto, tua mamma. Com’è che non l’abbiamo svegliata? ».

« Non è qui. È a una gara di corsa con Rhyhorn a Luminopoli ». Come ogni anno in questo periodo, soggiunse internamente Serena. I suoi obblighi di campionessa plurima del Palio di Luminopoli le imponevano di partecipare. Ogni tanto aveva la bizzarra idea di invitarla come spettatrice, dimenticando le ragioni per cui lei non poteva lasciare casa sua in tali giorni.

« Frena, frena, frena. Corsa con Rhyhorn? » domandò confuso Bellocchio.

« Sì… La gente cavalca i Rhyhorn… e ci fa le corse. Cosa c’è di così assurdo? ».

« Dove ci troviamo, Serena? ».

La giovane rispose con orgoglio patriottico « Borgo Bozzetto ».

« Mai sentito ».

« Come sarebbe a dire mai–– ».

« Non siamo a Sinnoh, vero? ».

Nel bel mezzo della discussione i due entrarono nella boscaglia, dove anche le fioche illuminazioni stradali del paese cessarono di aiutarli nel loro cammino. Serena si pentì di non aver portato con sé la sua torcia. « Che cos’è Sinnoh? ».

« Una regione. Non saprei dirti quanto lontana da qui, ma visto che non la conosci direi parecchio ».

« Ora sei nella regione di Kalos ».

« Kalos… » borbottò Bellocchio tra sé e sé « Chissà dove mi ha portato quel pazzo di Clipse… ».

Serena stava finalmente per azzardarsi a chiedere chiarimenti, ma fu interrotta dal lamentoso verso di un Pokémon lì vicino. Il suo compagno di viaggio lo riconobbe immediatamente e si lanciò alla sua ricerca, fino a ritrovare l’oggetto dell’indagine: una mostruosa libellula color verde scuro con un paio di occhi rossi come il fuoco e lunga circa due metri.

Disgustata la ragazza si ritrasse mentre Bellocchio andava incontro all’ennesimo mutamento caratteriale della notte: dopo essere passato dal moribondo al concitato, il suo tono era adesso divenuto più dolce mentre sussurrava all’orecchio del Pokémon. « Ehi, ehi, ehi… Sei ancora intera? ».

La creatura esalò un verso a metà tra un guaito e un assenso, un responso che fu accolto con piacere dal suo proprietario. « Come speravo. Non ti preoccupare, ti porterò in un Centro il prima possibile ».

« Ecco, sì, dovrei avvisarti che non ne abbiamo, qui a Borgo Bozzetto ».

« Beh, io non sarò un esperto in notizie, però questa la classificherei tra le non buone se sei d’accordo ».

Serena, fino a quel momento in qualche modo distratta, domandò curiosa « Che le è successo? ».

« Un Lanciafiamme. Sull’aeronave hanno tentato di ostacolarmi con degli Houndoom, e Sheila si è presa il colpo al posto mio ».

« Sheila? ».

« È il suo nome ».

« Tu dai i nomi ai Pokémon? ».

« Tu no? » ribatté il giovane « Dà loro un’identità. Il nome che abbiamo dice molto di noi. E, se mi è concesso, tu hai un nome davvero bello, Serena ».

Lei emise un risolino compiaciuto. Era andata sempre molto fiera del suo nome. Comunque di certo non era il tipo a cui le adulazioni facevano dimenticare le questioni rilevanti, ragion per cui riprese l’interrogatorio informale. « Ehi, aspetta, perché mai ti avrebbero attaccato su un’aeronave? ».

« Credimi: meno sai di me, meglio è ». Ogni ulteriore intervento fu troncato da un’altra smorfia di Yanmega, cui corrispose un sorriso allietato di Bellocchio. Serena notò che si era voltato, ma impiegò qualche istante a capire che si era voltato verso di lei.

« Cosa c’è? ».

« Vuole che l’accarezzi » spiegò.

« Come? ».

« Su, un’Allenatrice come te non sarà spaventata da una Yanmega. Sarebbe imperdonabile! ».

Serena, punta nell’orgoglio, si avvicinò alla libellula riservatamente, protendendo la mano destra. Fece quindi passare il suo palmo sulla verdastra pelle ruvida, ottenendo in risposta un cenno di felicità frammisto all’espressione di un pensiero che non era in grado di comprendere.

« Dice che hai paura… » tradusse Bellocchio.

La ragazza osservò il suo braccio, rendendosi conto che in effetti stava tremando. Tentò quindi di giustificarsi « Ah, ma non è… Non è colpa sua… Non sono abituata, ecco… ».

« … ma non di lei » proseguì il suo interlocutore, al che il silenzio calò ex novo sul bosco « Di qualcos’altro. Non è così? ».

Serena, comprendendo di essere stata colta in flagrante, annuì e indicò con lo sguardo una zona di Borgo Bozzetto non troppo lontana « Si vede anche da qui ».

« Che cosa? ».

« La Maison Darbois » chiarì « Una villa abbandonata secoli fa. Non ci abita più nessuno, a quanto dicono. Eppure ogni tanto mi capita di vedere una luce, al piano di sopra… Che si accende e poi si spegne, tutto in pochissimo tempo ».

« E ti fa paura? ».

Serena assunse un’espressione molto più seria di quanto fosse abituata a fare « Non dormo da due giorni perché si vede dalla finestra di camera mia. Mi terrorizza ».

« E allora cosa aspettiamo? » esclamò eccitato Bellocchio saltando in piedi. Con rinnovato dinamismo estrasse una Mega Ball turchina e richiamò Yanmega al suo interno.

« A fare cosa? ».

« Regola numero uno » le rammentò « Cosa potrei mai voler fare? Andremo alla Maison Darbois! ».

« Cosa? Ti ho appena detto che mi terrorizza! ».

« Appunto! Dove sarebbe il divertimento altrimenti? » Bellocchio s’avviò ad ampi passi nella direzione individuata, voltandosi poi dopo poco « Anche se non mi spiego come un’Allenatrice possa aver paura di una casa stregata. Ah, a proposito, hai con te i Pokémon? Oh, senz’altro, nessuno sano di mente andrebbe in giro la notte senza. Bene, in marcia! Avec moi! ».

Serena rimase per diversi istanti a esaminare quell’uomo, riflettendo ancora su come il suo comportamento e la sua età sembrassero variare a seconda del momento con avvicendamento impercettibile. Poi, accorgendosi di essere rimasta indietro, si affrettò a rincorrerlo.

« Ehi, aspetta! Io sono ancora in pigiama! ».

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1x02 - La Dama Cremisi ***


Untitled 1

La Maison Darbois, o la Vecchia Darbois come la chiamavano i locali, era un’imponente villa dal gusto ottocentesco decorata da intarsi vittoriani e colonne corinzie celate nella penombra. Oltre il cigolante cancello, una filiera di stanghe ferree su cui campeggiava un malridotto cartello che riportava un generico “non sedersi o appoggiarsi alla recinzione”, si sviluppava uno spazioso giardino abbandonato a se stesso e denso di rampicanti ed erbacce.

Bellocchio oltrepassò l’inferriata con noncuranza; altrettanto non si può dire di Serena, che rimase immobile di fronte a essa scrutando con timore il conturbante edificio. Fin da piccola l’aveva vissuto come un tabù inviolabile, senza contare i recenti avvistamenti di cui era stata testimone; ciò senz’altro non contribuiva a tranquillizzarla. Alzò lo sguardo al secondo piano, prima finestra da sinistra sul lato frontale, e proprio in quel momento un lampo di luce la rischiarò.

Agghiacciata corse oltre la cancellata e non si fermò finché non ebbe raggiunto il suo protettore « Ehi, ehi! L-l’ha fatto di nuovo! ».

« Che cosa? ».

« La finestra… ha fatto… sai, wooosh » mimò come poteva l’evento a cui aveva assistito, non riuscendo per la paura a trovare le parole per esprimersi « Si è accesa e spenta, di n-nuovo ».

« Oh, oh, oh! » Bellocchio rise e si strofinò le mani in segno di contentezza « Finalmente! Iniziavo a temere che fossero tutte storie! ».

 

 

 

Episodio 1x02

La Dama Cremisi

 

 

 

Se non felice per essere entrata nell’incarnazione dei suoi incubi, eventualità senz’altro non considerabile, Serena si sentì se non altro sollevata per trovarsi finalmente in un ambiente che ricordasse almeno vagamente il tepore casalingo che conosceva, dopo essere rimasta a mezzanotte al freddo in pigiama nelle periferie di Borgo Bozzetto. Bellocchio si era allontanato quasi subito, tornando con due candelabri a due bracci accesi per vie ignote.

Stavano ora osservando l’atrio della Vecchia Darbois, costituito da due scaloni laterali che si congiungevano al piano di sopra e da una via centrale che, passando sotto a un arco a tutto sesto sulla cui chiave di volta era scolpito un massiccio incrocio tra un dragone e un pipistrello, giungeva a un bivio che avvolgeva l’intera struttura mediante un perimetro quadrato, una sorta di passeggiata che circondava la sala centrale chiusa da un portone in legno.

« Allora, la finestra qual era? ».

« È al piano di sopra ».

Bellocchio annuì e dal suddetto ingresso a quella che intuiva essere la sala da pranzo tornò sui suoi passi, inerpicandosi lungo la ripida scalinata di destra che aveva notato poco prima. Saltuariamente cacciava colpi di tosse anche violenti, dettati dall’alta quantità di pulviscolo presente nell’atmosfera « Questo posto non è molto frequentato, vero? ».

« Non entra mai nessuno qui. Gli abitanti del Borgo cercano di starne alla larga, per la verità » l’attenzione di Serena fu attirata dalle eleganti cornici auree che adornavano la parete. Quando mise a fuoco il contenuto dei quadri, tuttavia, lanciò un urlo terrificante e dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non lasciare cadere le sue candele sul tappeto.

« Ehi, ehi, che succede? ».

« I-i quadri! S-sono… ».

Bellocchio puntò il suo doppiere verso i ritratti, non nascondendo un impeto di sorpresa: per quanto abiti e atteggiamenti rappresentati fossero sicuramente regolari, tutti i protagonisti dipinti erano del tutto privi di volto « Beh, questo è strano ».

« O-ora noi ce ne andiamo! ».

« Non se ne parla ».

« Ma io ho paura! ».

« Siamo qui proprio perché tu devi sconfiggere le tue paure » replicò con certezza il giovane, proseguendo il cammino « Su, se vuoi possiamo parlare. Aiuta, sai? È così che faccio io ».

« Siamo nel bel mezzo di una casa infestata! Non vedo molti argomenti di conversazione ».

« Tanto per cominciare, perché è infestata? ».

« Perché ci sono i fantasmi? ».

« Sono sicuro che in un mondo in cui ci sono Gengar a piede libero ciò non sia una situazione così poco comune ».

« Beh… Le leggende dicono che ci abiti uno spettro umano, ecco. La Dama Cremisi, la chiamano. Lo spettro di una ragazza che si innamorò di uno dei servi di suo padre. Alla fine quello divenne così furioso per la faccenda che rinchiuse la figlia tra le mura della Maison Darbois, mura che la Dama abiterebbe ancora. Qualcuno giura di averla vista, ma pare che compaia sempre e solo al buio. Nel momento in cui una qualsiasi luce si accende scompare, come se fosse fatta di ombre ».

« Mi ricorda una storia che gira nella regione da dove provengo io, Sinnoh. Laggiù c’è una villa simile a questa, la chiamano Antico Château. Ci sono stato, e purtroppo era tutto falso. È uno dei miei rammarichi ».

Frattanto i due erano giunti al secondo piano, per molti versi una copia carbone di quanto avevano visto oltre le due scale di sotto: un altro portone ligneo che delimitava il muro attorno a cui si sviluppavano incroci di corridoi bui. Questa volta, però, l’ingresso alla sala era adornato anche da qualcos’altro: una coppia di sarcofaghi d’oro con fregi in lapislazzuli ritti di fronte a esso. Guardandosi attorno Serena adocchiò anche altre tombe di simile fattura addossate contro le pareti più esterne.

« Ne avevo sentito parlare… I sarcophages di Darbois. Dicono fosse un appassionato di archeologia, in particolare degli Antichi Egizi, così ne aveva fatti mettere un po’ in casa sua ».

« Un bel gusto per l’orrido. Mi piace » Bellocchio avvicinò il candelabro alla lucida superficie dei reperti, risultandone accecato dal riflesso al punto da abbassare immediatamente la luce « Affascinante. Ma c’è qualcosa che mi sfugge ».

« Che cosa? ».

« Non lo so… È una sensazione. C’è qualcosa di importante che sto trascurando » commentò pensieroso « Beh, lasciamo perdere! Quale finestra hai detto che si era illuminata? ».

« Ah, quella frontale. Quindi sta dall’altra parte ».

Il duo fece dietrofront, oltrepassando anche la sommità delle gradinate fino a giungere al lato anteriore della Maison, anch’esso abbellito dalle onnipresenti casse sepolcrali. Bellocchio passò in rassegna gli infissi uno a uno, chiudendo proprio con quello incriminato « Si accendeva solo questa? ».

« Sì. Solo lei ».

« Molto strano. L’ambiente è un tutt’uno. Se qualcuno avesse illuminato si sarebbe vista luce anche dalle altre ».

« Sono assolutamente certa che fosse solo questa » ribadì Serena, sentendosi in qualche misura ferita dalla diffidenza del suo accompagnatore.

Questi, però, era tutt’altro che diffidente. Era piuttosto perplesso, confuso da qualcosa che, ne era pienamente convinto, gli stava passando dritto sotto il naso senza che lui se ne avvedesse. Un segnale, un avvertimento. Riesaminò rapidamente gli indizi in suo possesso: la leggenda della Dama Cremisi, la finestra… Tutto riconduceva alla luce.

La luce!

Il cuore iniziò a battergli a mille, e per una volta non dall’eccitazione: si era appena reso conto di aver commesso una tremenda svista « Serena, hai detto che nessuno entra mai qua? ».

« Esatto. Il cancello è sempre chiuso ».

« Quindi nessuno passa per pulire ».

« Mi pare ovvio ».

« E allora com’è possibile che non ci sia polvere sui sarcofaghi? ».

Un sibilo echeggiò tra le pareti della villa. Bellocchio si voltò di scatto e puntò il candelabro verso il corridoio adiacente alle scale, che si era illuminato di decine di fiammelle ardenti.

« Polvere? ».

« Riflettevano perfettamente le candele. Erano pulitissimi. Come diamine ho fatto a non accorgermene subito? ».

« Ma non ha senso! Come avrebbero fatto i sarcofaghi a–– ».

« Quelli non sono sarcofaghi » replicò glaciale il giovane « Sono Cofagrigus ».

Le luci si accesero inaspettatamente, illuminando un esercito di bare semoventi che avanzavano a braccia spiegate nella loro direzione. Su ciascuno di essi si era dipinto un ghigno malevolo, mentre i loro occhi fulvi luccicavano raccapriccianti.

Serena si avvicinò al suo amico, stringendosi a lui nella paura « Sono c-che cosa? ».

« Pokémon crudeli che risalgono ai tempi degli Egizi. Si fingono tombe e divorano i razziatori che non li riconoscono. Alquanto pericolosi ».

« Non dovremmo chiedere aiuto a qualcuno? ».

« Oh, giusto! » Bellocchio le batté una pacca sulla testa « Perché in effetti è orario di punta e ci sarà di sicuro qualcuno nei paraggi! ».

« Hai idee migliori? ».

Con un movimento istantaneo le afferrò la mano e la fissò negli occhi « Scappiamo! ».

Insieme balzarono per anticipare i loro inseguitori agli scaloni. Lì, tuttavia, fecero i conti con una sconfortante scoperta: anche il pianterreno era in mano ai Cofagrigus, probabilmente fuoriusciti dalla sala da pranzo. Con una manovra evasiva si gettarono alla cieca nell’arco che introduceva al quadrato superiore; giunti al bivio si trovarono tuttavia spalle al portone e completamente accerchiati da ogni lato. Nonché, qualora servisse chiarirlo, senza una plausibile via d’uscita.

« Va bene, Serena, direi che questo è il momento opportuno per usare i tuoi Pokémon! Certo, questi simpaticoni sono parecchi, ma dovremmo riuscire a cavarcela con un po’ di fortuna ».

La ragazza, al limite della sopportazione, lo afferrò per le spalle e lo fissò dritto in viso « Mettitelo bene in testa, caro il mio senza-nome: io non ho Pokémon con me! ».

« Tu… Tu cosa… Quale razza di Allenatrice non porta i––».

« Io. Non. Sono. Una. Allenatrice! ».

Bellocchio rimase a dir poco confuso da quelle parole. Lanciò nuovamente uno sguardo ai Cofagrigus che aumentavano in numero « Ah, ehm, scusate, ma avremmo bisogno di una riunione tattica ». In contemporanea caricò il portone retrostante con un calcio, sfondandolo e cadendo a terra dentro il buio salone che proteggeva, una camera da letto in disuso a giudicare dai soprammobili accatastati in disordine e da un baldacchino nascosto in un angolo.

Dopo aver verificato sommariamente che fosse privo di nemici trascinò all’interno Serena e, agguantata una sedia da una pila di fianco, la impiegò per sbarrare per sommi capi l’ingresso. Dovette rimanere lui stesso a incassare gli assalti dei Pokémon siti dall’altra parte, finché essi non si placarono concedendogli di riprendere fiato.

« Si sono fermati? ».

« Spero di sì ».

« Sono spettri, no? Perché non passano attraverso la porta? ».

« Non possono attraversare il legno ».

« Davvero? ».

« Ovvio che possono! Santo cielo, devi smetterla di credere a tutto quello che dico! » l’uomo si accasciò al suolo sfinito.

« E perché non cercano di entrare? ».

« Ho un’ipotesi » replicò lui « Spero solo di sbagliarmi. Per quanto riguarda un argomento completamente diverso, quanti anni hai? ».

« Diciannove. Perché? ».

« Diciannove anni. Oltre due terzi dei miei, e non sei un’Allenatrice. Perché? ».

Lo sguardo di Serena si fece sfuggente, come se stesse cercando di evitare il contatto visivo mentre parlava « Da bambina volevo esserlo. Un Pokémon in particolare mi piaceva, elegante e maestoso, era il mio preferito. Avrei dato di tutto per averlo ».

« E poi che è successo? ».

« Poi sono cresciuta. È da bambini voler allenare i Pokémon, prima o poi devi fare i conti con la realtà. Sono maturata ».

Bellocchio rabbrividì « Maturare… La cosa peggiore del mondo ».

« È normale. Tutti maturiamo prima o poi. Chi non lo fa è solo stupido ».

« Io, dal mio canto, preferisco avventuroso » proclamò alzandosi in piedi « Yawn. Ma suppongo siano punti di vista. Ora, la cosa più importante è uscire di qui. Siamo circondati da ogni lato, ma abbiamo un vantaggio: l’effetto sorpresa! Non si aspetterebbero mai che due individui senza uno straccio di arma attacchino una milizia di Cofagrigus, perché saremmo… uccisi all’istante. Quindi sarebbe una sorpresa molto breve. Facciamo una cosa, dimentica quello che ho detto ». Un altro sbadiglio lo colse, un’occorrenza davvero poco comune per lui.

« Stanco? ».

« No, no, io… » Bellocchio prese a barcollare « Oh, no ».

« Oh – yawn – no che cos… Oh, no ».

Entrambi realizzarono che cosa stesse succedendo con pochi secondi in anticipo: un’Ipnosi. Riuscirono a rimanere lucidi ancora per poco, dopodiché si prostrarono al regno di Morfeo cadendo per terra come sacchi di sabbia sospinti dal vento.

 

 

« On the first day of Christmas my true love sent to me… ».

« Svegliati ».

« … a partridge in a pear tree… ».

« Sveglia! ».

« Fiiive golden riiings! » l’uomo si drizzò seduto cantando a squarciagola. Poi si guardò attorno confuso, massaggiandosi la nuca « Questa non è la festa di Natale a casa di nonna Gillan. Proprio no ».

« Bellocchio, concentrati ».

« Per caso hai visto la mia pernice? ».

Serena gli assestò uno schiaffo sulla guancia destra, facendogli sussultare il capo.

« Ah! Giusto, giusto! Orda di Cofagrigus, casa infestata, Borgo Bozzotto. A rapporto ».

« Bozzetto ».

« Fa lo stesso. Dove sono andati i nostri amiconi? ».

La ragazza si lasciò cadere all’indietro, accomodandosi sul freddo parquet della stanza e facendosi più vicina possibile ai due candelabri, unici irroratori di calore « Non lo so. Mi sono svegliata qualche minuto fa, ma non ci sono stati rumori ».

Bellocchio si alzò in piedi e si accostò con l’orecchio al portone di legno « Già. Silenzio… Questo vuol dire molto bene o molto male ».

« Quale delle due? ».

« Non lo so, non sono un veggente. Proporrei di uscire » prima che la sua compagna potesse accennare una qualche protesta rimosse la seggiola e fece forza sulla maniglia, trovandola però bloccata. Tentò diverse volte, dovendo infine arrendersi all’evidenza « Siamo chiusi dentro ».

« Chiusi dentro? E da chi? ».

« La Dama Cremisi ».

« La Dama Cremisi? Ma è una leggenda! ».

« Sì, no, forse, sa Dio. Il punto è che attualmente è la sola nostra pista, e incidentalmente l’unica via che abbiamo di scamparla. Per quanto abbiamo dormito? Ah, già, ho un orologio… Sette ore! Ciclo di sonno perfetto, oserei dire ».

« Come, scusa? » Serena sbiancò « Sette ore? ».

« Esattamente, il che vuol dire che se Clipse non mi ha portato in Nuova Zelanda il sole sorgerà tra circa mezz’ora » osservò Bellocchio « Quindi, se ciò che raccontano sulla Dama è vero, saremo salvi appena la luce solare sfiorerà questa catapecchia! Problema risolto ».

« Ma… ma io non posso aspettare così tanto! ».

« Ovviamente no ».

Serena fu sbalordita da questa replica. Si sarebbe attesa una domanda, del tipo perché non potesse aspettare. Ma forse lui si era dimostrato ancora più intelligente di quanto non avesse dato a vedere in quelle poche ore. Forse lui aveva già capito.

« Ieri era il 20 marzo, il che significa che a meno che non abbiamo dormito per più di un giorno ora sono esattamente le ore 7:04 del mattino dell’equinozio di primavera » proseguì il giovane « A Sinnoh, da dove vengo io, questo è un giorno molto speciale per i nostri bambini. E a giudicare dalla tua espressione attuale, lo è anche per te ». Con discrezione le si sedette vicino, mentre lei provava in tutti i modi a evitare i suoi occhi indagatori « Oggi è il giorno in cui sono distribuiti i Pokémon, vero? ».

In un gemito che tentava di soffocare le lacrime, Serena si voltò verso di lui rattristata. Ci aveva visto giusto, allora. L’aveva davvero capito « Sì ».

« Però non capisco. Se tu vuoi essere un’Allenatrice… Perché hai aspettato così tanto? Nove anni… Un’eternità ».

« A Kalos c’è una stretta politica per quanto riguarda gli Allenatori che ricevono Pokémon. Ogni città ne riceve un numero ben limitato, per preservare la fauna locale da eccessivi viaggiatori che intendono catturarne. Credo sia colpa delle proteste degli ecologi, fatto sta che Borgo Bozzetto ne riceve tre ogni anno. E ogni anno io vengo anticipata, ogni anno devo rimanere senza ».

« A che ora inizia la distribuzione? ».

« Alle sette e mezzo » rispose con avvilimento « Ma è inutile. Ci vorrebbe un miracolo per uscire da qua dentro, e un altro per arrivare in tempo. Dopotutto posso aspettare ancora un po’… Giusto? Anno più, anno meno… ».

La ragazza si chiuse in un pianto sommesso. Bellocchio rimase attonito a contemplare i candelabri che rischiaravano l’oscurità. L’unico barlume in tutta la villa racchiuso in quelle minuscole lingue di fuoco giallastre inerpicate sui loro alti steli di cera.

Un’intuizione lo perforò nuovamente. Era successo ancora. Aveva ancora una volta tralasciato il dettaglio più importante.

« No » esclamò a un tratto, alzandosi e dirigendosi verso i doppieri.

« Come? ».

Afferrati i due oggetti si accostò nuovamente alla sua amica, tanto che le loro fronti si sfioravano « Hai aspettato abbastanza il tuo destino. Oggi ti prometto che avrai il tuo primo Pokémon ».

« Cioè hai trovato un modo per farci uscire di qua? » domandò lei emozionata. Si scoprì sorpresa per non aver messo in dubbio che l’idea maturata da Bellocchio potesse essere in qualche modo sbagliata. In un certo senso si fidava di lui.

« Grossomodo. Ma vedremo subito gli effetti ».

« E il tuo piano qual è? ».

« Parleremo con il loro gran generale » spiegò eccitato, poi soffiò uno a uno sui lumi ancora accesi nelle sue mani « Preparati a incontrare la Dama Cremisi ».

« Ma come… Non credo tu possa semplicemente… Che cosa stai facendo? » estinta anche l’ultima delle lucerne l’ambiente si fece scuro come il carbone. Serena perse completamente la visuale su qualsiasi cosa prima ci fosse e si sentì smarrita; poi, dal nulla, la sua mano venne stretta da un’altra.

« Tieniti pronta » sussurrò una voce. Per alcuni interminabili secondi non avvenne nulla; poi un fascio di energia luminosa biancastra esplose dai candelabri.

« Che sta succedendo? » gli urlò, tentando di sovrastare il rumore che si era diffuso.

« Non ci eri arrivata, vero? Nemmeno io! La Dama Cremisi appare al buio, ma non perché tema la luce! No, sarebbe sciocco. Appare al buio perché, se ci pensi, c’è solo una cosa che può illuminare le camere qua dentro! ».

Il flusso energetico si intensificò, iniziando ad assumere una colorazione più tendente al rosso vivo.

« Quella che voi chiamate Dama Cremisi è stata con noi tutto il tempo! Era lei a farci luce, era lei che ordinava ai Cofagrigus come bloccarci ogni via d’uscita, ed è stata lei a farci addormentare! In tutto questo tempo lei era dissimulata sotto forma dei nostri candelieri! Come avrebbero fatto altrimenti a essere esattamente uguali a come li avevamo lasciati sette ore fa? La cera avrebbe dovuto consumarsi! Un errore grossolano, non ti pare? ».

« Ma come può essere? Li abbiamo toccati, quegli affari! Uno spettro non ha consistenza! ».

« È qui che viene il bello: la Dama Cremisi non è uno spettro! » strepitò accalorato « Non uno tradizionale, per meglio dire! Immaginati la scena. Darbois ha appena scoperto che tutti i suoi preziosi reperti archeologici sono in realtà dei Cofagrigus pronti ad assalirlo, e il loro leader è una creatura che non ha mai visto prima, un essere completamente unico. Come avrebbe mai potuto chiamarlo? ».

« Ma perché Dama Cremisi? Non ha senso! ».

« Femme Cramoisie, ovvero la Donna Cremisi, era ciò che fu divulgato ai tempi con ogni probabilità. Ma è sempre stato un errore storico clamoroso! Il nome pronunciato da Darbois fu Flamme Cramoisie! La Fiamma Cremisi! Guarda! » Bellocchio puntò il dito verso il vortice d’aria che si era prodotto al centro del salone, precisamente sopra i doppieri. Al suo interno si stava delineando una silhouette dai connotati di un lampadario « Un Pokémon che vive in questa villa da secoli, che ha terrorizzato generazioni di visitatori al punto da rendere questo luogo ciò che è ora. Fatti avanti, Chandelure ».

Il turbinio si acquietò. Quattro fiamme intense rischiararono l’ambiente, più una quinta disposta poco sopra. Un paio di occhi fucsia luccicavano su una sfera di apparente vetro, mentre bracci di metallo bruno completavano la figura.

Era effettivamente un Chandelure, ma non uno qualunque: il colore delle vampate era un più realistico chermes rispetto al convenzionale viola cadaverico. Era un Chandelure cromatico. Bellocchio lasciò la mano di Serena per avvicinarglisi, facendole segno di restare indietro « Terra a Fiamma Cremisi, Terra a Fiamma Cremisi, mi ricevete? ».

« Chi sei tu? » domandò. Il suo tono era lugubre e sottile, ben diverso da quello sicuro di sé del suo interlocutore.

« Sono sicuro che puoi arrivarci da solo ».

Il Pokémon rimase inebetito, occupato nell’analizzare l’uomo che aveva di fronte. Dopo qualche esitazione, ribatté con fare vago « Tu non sei di questo posto ».

« Mi aspettavo potessi fare di meglio, ma mi accontento. Mi ha tradito l’abbigliamento? No, no, anzi, sicuramente l’accento. Quel mio maledetto accento del nord ».

« Che cosa ci fai qui? ».

« Domanda noiosa. Eccone una migliore: che cosa ci fai tu qui? » Bellocchio cominciò a passeggiargli intorno, ignorando completamente Serena e rendendo il dialogo un effettivo confronto a due « Perché è evidente che non sei arrivato qui da solo. Passino i Cofagrigus, ma Darbois non avrebbe mai avuto ragione di portare delle candele speciali nella sua villa ».

« Sono stato inviato ».

« Questo era già stato stabilito. Il punto è: perché? ».

« Per tenerla sotto controllo ».

« Che cosa, Borgo Bozzetto? Un villaggio da dieci abitanti e mezzo? » mentre parlava scorse l’espressione accigliata della ragazza, compiacendosene « Non me la dai a bere ».

Chandelure scosse la testa, pur senza tradire alcuna emozione al di là di questo.

« Resterei qui a interrogarti per tutto il giorno, ma vedi, io e la mia amica qui avremmo anche da fare. Quindi ecco il piano: tu apri le tue porte, ritiri i tuoi Cofagrigus e insieme ve ne andate in vacanza in qualche posto, preferibilmente molto lontano da qui. Come ti sembra? ».

« Ho sentito i vostri discorsi. Siete disarmati, non avete modo di costringermi a farlo ».

« Ah! Ma ti sei sentito? Serena, l’hai sentito? » Bellocchio rise sonoramente « Io non dovrò costringerti a fare nulla, perché lo farai di tua spontanea volontà ».

« Non capisco ».

« Tu non sai chi sono io, vero? No, certamente. Altrimenti avresti già fatto i bagagli e prenotato l’agenzia di viaggio ».

« Il tuo nome è Bellocchio ».

« Oh, andiamo! Lo so bene che chiunque ti abbia mandato mi conosce, diamine, mi conoscono tutti! Avrò cambiato nome, ma non faccia! Ah, ho capito, devo fare tutto io ». Con passo convinto si avvicinò al lampadario animato e gli sussurrò qualcosa che Serena non riuscì a udire o intuire. L’unica cosa che poté constatare è che, di qualsiasi natura fosse stata l’informazione, aveva mutato radicalmente l’atteggiamento di Chandelure: da distaccato e superiore era passato a trasudare terrore da ogni poro.

« N-no… Non può essere! ».

« In carne e ossa. Quindi, cara la mia Fiamma Cremisi, ti darò un suggerimento da amico. Scappa ».

Il portone si spalancò con un sonoro rimbombo e tutte le luci di Villa Darbois si accesero nel medesimo istante. Il loro oppositore scomparve in una nuvola di fumo e un ghigno si dipinse sul volto di Bellocchio. Tutto era tornato in una frazione di secondo a un’irreale calma, un mutamento repentino e sconvolgente. Serena, dal canto suo, era esterrefatta a voler minimizzare.

« Tu… Come diamine hai… ».

Lui la prese per le spalle e la scrutò negli occhi « Starei volentieri a esporti tutto il mio acume, visto che mi piace farlo, ma non ho fatto tutta questa fatica per lasciarti sprecare l’occasione. Corri e vai a prendere quel Pokémon ».

La giovane, in preda a un’euforia che raramente aveva vissuto in tempi recenti, annuì con un sorriso e si voltò, slanciandosi a perdifiato verso l’uscita.

 

 

A Borgo Bozzetto c’è una collina particolare. Non ha un nome specifico, ma gli abitanti spesso si riferiscono a essa come il Colle degli Inizi. Circondata da una recinzione ferrea e abbellita da un solitario lampione che la sorveglia nelle ore notturne, volge a nord e offre agli spettatori un panorama mozzafiato consto di foreste, laghetti, nuvole e, molto in lontananza, i troneggianti grattacieli di Luminopoli.

Tutti gli Allenatori provenienti da questo villaggio sperduto nell’entroterra di Kalos ricordano bene il giorno in cui salgono sul Colle degli Inizi: perché quel giorno è anche il loro di inizio. L’inizio di una nuova avventura, di un viaggio che li condurrà ai confini della conoscenza.

Serena si stava dirigendo proprio lì. Correva senza fermarsi un secondo, temendo che anche quella breve pausa per riprendere fiato potesse rivelarsi fatale per lei. Non doveva fallire. Lo doveva a Bellocchio e a se stessa, per tutto quello che aveva passato per essere lì. Era il suo destino.

Quando le scale che scortavano al poggio comparvero di fronte a lei si sentì al settimo cielo. Si guardò attorno: non c’era nessuno che potesse rubarle il primo posto della fila. Il cielo limpido risplendeva nel fulgore mattutino di un sole non ancora del tutto sorto. Un celeste sbiadito, quasi ancora avvolto nelle tinte fosche del vespro. Serena inspirò profondamente e salì i gradini uno alla volta, solennemente.

In cima, dall’altro lato di uno spiazzo cementato, si trovava una ragazza. A occhio e croce aveva circa sedici anni, anche se in effetti avrebbero potuto essere di più, e indossava un abito turchino orlato di un blu scuro alle estremità delle maniche, nonché un brioso copricapo rosato che copriva in parte una lunga chioma castana sciolta sulle spalle. Era voltata verso il bordo della balaustra e si godeva il paesaggio.

« Mi scusi? ».

Quella si girò, osservandola con due luminosi occhi azzurri « Sì? ».

« Ah, salve… Lei è per caso l’inviata del professor Augustine Platan? ».

« Proprio io ».

« Ah! Piacere, il mio nome è Serena Williams ».

« Casey Dawning. Ma ti prego, dammi del tu » le sorrise stringendole la mano « So che non è affar mio, ma come mai giri in pigiama? ».

« Ah! » Serena arrossì vistosamente e desiderò con intensità di avere il potere di sparire a proprio piacimento. Era stata così terrorizzata dall’idea di non arrivare in tempo che si era completamente scordata dell’abbigliamento « È una lunga storia… ».

« Tu vivi qui, immagino ».

« Sì, ci sono nata ».

« Bel posto, Borgo Bozzetto » Casey tornò ad ammirare la veduta dalla collina « Mi ricorda la regione da cui vengo io. Sono qui in visita, sai, quando Platan è a corto di personale convoca Allenatori da luoghi lontani per assisterlo ».

« Ah, sì, a tal proposito… ».

« Sì, sì, capisco. Dunque, vuoi che porti un messaggio particolare al professore? ».

« Oh, ecco… » la ragazza era in preda a un imbarazzo senza precedenti « … In realtà io sono qui per i Pokémon, sa–– volevo dire, sai. Tu sei quella che li distribuisce, giusto? ».

« Ah… Sì… Scusa, è solo che… Per l’età, ecco, non credevo che fossi qui per quello ».

« Non importa, tranquilla… Quindi posso averli? ».

« Ecco… » Casey le mise una mano sulla spalla, e Serena si sentì sprofondare. Aveva già vissuto quella stessa sequenza di eventi tante, troppe volte. Nove anni. Non poteva stare succedendo di nuovo « … Sono finiti. Altri ragazzi li hanno presi prima di te. Mi dispiace davvero tanto… ».

Per un po’ le parve che il tempo si fosse fermato. Quella volta ci aveva creduto, ci aveva davvero creduto. Aveva affrontato una casa infestata e ne era uscita in tempo, era convinta di avercela fatta. E invece ancora una volta era stata beffata, ancora una volta era arrivata troppo tardi.

Ringraziò Casey con tutta la gentilezza che riuscì a mostrare, poi tornò sui suoi passi verso casa, cercando di imboccare le vie più solitarie che conosceva: un po’ per la vergogna di essere ancora in camicia da notte, un po’ perché non voleva incontrare più nessuno. Voleva solo sprofondare nel letto e lasciar perdere. Non aveva più senso cercare di essere un’Allenatrice.

Giunta al giardinetto della dimora le venne incontro Walt, il Rhyhorn di famiglia, segno che sua madre era rientrata. Per l’appunto la trovò nell’angolo della cucina, affaccendata a preparare un’abbondante prima colazione.

« Ciao, mamma » la salutò stancamente « Andata bene la gara? ».

« Serena! » la donna si staccò dai fornelli e l’abbracciò felicemente, con un sorriso a trentadue denti stampato in viso « Dov’eri stanotte? Sono tornata qualche ora fa e non ti ho trovata… Mi stavo preoccupando! ».

« Ah, scusa… Mi ero accampata al Colle degli Inizi per riuscire ad avere un Pokémon, almeno quest’anno… » improvvisò « Ma è stato tutto inutile ».

« Beh, certo che lo è stato » commentò sua madre sorpresa « Te l’hanno portato qua ».

Serena fu completamente colta di sorpresa e sgranò gli occhi « Come, scusa? ».

« È passato un giovanotto, circa un quarto d’ora fa… Ha detto di essere un inviato del professor Platan, e di averti portato un Pokémon direttamente da parte sua come regalo. In cambio ha chiesto solo dei vecchi vestiti di tuo padre, e lo capisco, messo male com’era. Chissà che gli era capitato… Comunque l’ha lasciato di sopra, in camera tua ».

« Scusa… Per caso ha lasciato un nome? ».

Un rumore di uova sbattute tornò a risuonare per il salotto « Sì… Belloccio, mi pare. Penso fosse un nome in codice ».

La ragazza esplose di felicità e incredulità mentre con rinnovata energia saliva le scale per la sua stanza. E la trovò lì, appoggiata sopra un letto rifatto dalla premurosa madre: una lucida Poké Ball rossa come la Fiamma Cremisi, ma cento volte più piacevole da ammirare; al suo fianco una bizzarra pietra semiopaca dalle tinte rosee, di cui non comprendeva però il senso – non che avesse importanza, al momento. Serena prese in mano la sfera stringendola, notando con stupore che non si trattava della stessa che aveva visto accogliere Sheila, e la lanciò con le mani tremanti.

Il suo ospite era una specie di fanciullina dalla lunga veste bianca la cui testa era coperta da un casco verdognolo con un paio di antenne che le conferivano un aspetto alieno. Era un Ralts.

Colta da un’euforia incomparabile Serena iniziò a saltellare per tutta la stanza, gridando a squarciagola la propria contentezza al mondo. Il suo amico, alla fine, aveva mantenuto la promessa fatta. Dopo nove lunghissimi anni anche lei aveva ottenuto il suo primo Pokémon.

Anche lei era diventata un’Allenatrice.

 

 

Spirava una piacevole brezza su Borgo Bozzetto. L’arco d’ingresso era alquanto promettente verso i nuovi visitatori: “Una città pronta a sbocciare”.

Un po’ gli dispiaceva, abbandonarla. Era stata una bella notte, dopotutto. Ma in fin dei conti senza Pokémon e con nessuna conoscenza nella regione non aveva molta scelta. Si diede un’occhiata compiaciuta: aveva preso in prestito un elegante completo marrone e un cappotto del medesimo colore, ma più chiaro, che gli arrivava alle ginocchia. Non il massimo della comodità, specie per la cravatta amaranto che gli procurava prurito al collo, ma aveva sempre amato quell’aria da signore distinto che conferiva quel tipo di abbigliamento.

« Ehi! Ehi, Bellocchio! » gli urlò dietro una voce. Il giovane sorrise e si voltò, osservando Serena che gli veniva incontro agitando la Poké Ball appena ricevuta. Notò con piacere che si era cambiata: i suoi lunghi e biondi capelli fluenti risaltavano ora contro il nero che caratterizzava il suo intero vestiario se si escludevano minigonna e cappello, entrambi di uno sgargiante color scarlatto. Si era anche portata dietro una borsa a completare il tutto, presumibilmente pronta per partire per il suo tanto agognato viaggio.

« Te ne vai senza salutare? ».

« Non ho mai amato i saluti. Sono sempre così tristi ».

« Come hai ottenuto la Ralts? Non l’avevi con te ».

Bellocchio si grattò la nuca, tentando di minimizzare « Quando sono tornato al villaggio dopo che tu te n’eri già volata via, ho visto tre ragazzini che parlavano dei loro nuovi Pokémon, e ho capito a cosa stavi andando incontro ».

« Sì, ma… Non ci sono Ralts, qui vicino ».

« No? Non conosco la zona. Ho incontrato un’Allenatrice vestita completamente di bianco, nella piazza principale, non ricordo il nome. Sembrava una brava persona, amorevole verso i suoi Pokémon… E molto interessata a Sheila ».

Serena si mise una mano sulla bocca per lo sconvolgimento, intuendo ciò che sarebbe seguito.

« Non ti preoccupare » la rassicurò l’uomo « Anche lei era d’accordo. Sheila, intendo. Ne avevamo vissute tante, insieme, ed era ora che ognuno andasse per la sua strada. Entrambi ci ricorderemo sempre di quello che abbiamo passato, e lei starà molto bene con quella donna. In cambio mi ha offerto i Pokémon più vari, ma quando ho visto quella Ralts ho capito che era perfetta per te ».

La ragazza era sul punto della commozione. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma sentì di non avere ancora quel tipo di confidenza e cercò nel possibile di mantenere un’aura di distacco simile alla sua « E la pietra? ».

« Già, la pietra. Ha insistito perché l’avessi, ha detto che era molto importante. Voleva saldare il debito, a suo dire era uno scambio impari. Alla fine l’ho accettata per cortesia ».

« E ora… Cosa farai? ».

« Adesso immagino che mi recherò a Luminopoli come mi ha consigliato quell’Allenatrice, e da lì prenderò un treno per tornare a Sinnoh. Tutto com’era prima, almeno per me ».

« Ah… Luminopoli… C’è una sola via rapida che porta là… Se vuoi potremmo… » Serena arrossì « V-voglio dire, siccome magari non sai arrivarci… ».

« È una linea retta, non sembra molto difficile ».

« Sì, s-sì, ma… Sei senza Pokémon, e c’è erba alta sulla strada, quindi potresti… » si fece forza « … venire con me? ».

Bellocchio assunse un’espressione divertita « Ma sì, perché no? A viaggiare da soli non c’è mai molto gusto ».

Il volto di Serena s’illuminò. Senza attenderlo iniziò a correre verso il Percorso 1, tagliando quell’arco che l’aveva confinata per diciannove lunghi anni. Il giovane invece rimase fermo per un po’, meditando sul cielo le cui nuvole della sera prima si erano dileguate.

Poi, come un fulmine silenzioso, intuì. Le parole di Chandelure iniziarono a girare in circolo nella sua testa, illuminate di un nuovo, pericoloso significato. Per tenerla sotto controllo, aveva detto, e lui aveva pensato che si fosse riferito a Borgo Bozzetto.

Com’era stato stupido. No, non era la città il punto: si era riferito a Serena.

Così, mentre la guardava partire verso la sua nuova avventura piena d’insidie e di gioie, di nuovi amici e nuovi nemici, avrebbe potuto dire tante cose. Ma essendo Bellocchio, solo una fu la frase borbottata tra sé e sé, a metà tra un monito e un augurio. Un tratto identificativo, se così si può dire.

« La cosa si fa intrigante ».

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 1x03 - L'ora di Karen ***


Untitled 1

« Ehi, ora che ci penso non ci siamo ancora presentati! Mi chiamo Serena Williams! ».

I due camminavano spensieratamente lungo il Percorso 1, noto anche come Vicolo Bozzetto, che al momento si presentava come una timida strada lastricata e diritta costeggiata da alberi ad alto fusto. Non esattamente l’emblema dell’avventura, si può dire.

« Che nome da professoressa ».

« Spiritoso. Il tuo è… ? ».

« Bellocchio. Non l’avevo già detto? ».

« Ma hai detto anche che non ti chiami veramente così. Perché non mi dici il tuo vero nome? ».

L’uomo si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni castani, assaporando la brezza primaverile « Hai dato un nome a Ralts? ».

« Come? Ah, intendi… No, non ancora ».

« Io non mi sentirei mica felice a non avere un nome ».

« Beh, vediamo… » Serena sfilò dalla borsa la Poké Ball e aggrottò la fronte pensierosa « Che ne dici di Atena? La dea della saggezza ».

Bellocchio rubò la sfera dalla mano della ragazza e la accarezzò con fare protettivo « Vuole darti un nome da agenzia di assicurazioni… Oh, povera piccola! ».

« Ah, ha parlato il giudice onomastico! » esclamò lei riprendendosi il Pokémon con vigore « Sentiamo te, allora ».

« Eh, non funziona mica così! Devi sceglierlo tu, non io ».

« Ma che senso ha se quando lo scelgo poi tu mi dici che fa schifo? ».

« Rende le cose più divertenti! ».

Serena sbuffò e tornò a riflettere, chiudendosi in un riservato silenzio per qualche istante. Poi, come illuminata, riprese « Beh, ci sarebbe… ».

« Oh! » proruppe Bellocchio frenando l’andatura e impalandosi di fronte a lei « Mi piace quello sguardo! Vuol dire che il nome che hai trovato significa qualcosa per te ».

« Eh, sì, diciamo di sì… Pensavo a Karen ».

« Come mai? ».

« Era il nome di mia nonna… Mia nonna paterna. Mio padre è scomparso quando avevo nove anni, ma lei ci è sempre rimasta vicina, a me e alla mamma… Come ti sembra? ».

Il giovane annuì convinto « Mi pare un nome perfetto ». Detto ciò si allontanò e, come morso da una tarantola, riprese a parlare concitato « Bene! Adesso possiamo finalmente dichiarare iniziata la nostra avventura! Direi di iniziare subito catturando qualche Pokémon, qui, su questo percorso! ».

« Bellocchio… ».

« Sì, sì, lo so, siamo senza Poké Ball, ma… se siamo carini magari saranno loro a seguirci! L’ho letto sul libro di un tal Ketchum, uomo affascinante ».

« Bellocchio ».

« Dunque! Si facciano avanti le insidie! Pidgey, Sentret, Bidoof, chi ha più coraggio! Non vi temo! Beh, in realtà sono disarmato, quindi magari vi temo un attimo… Ma non è un problema! ».

« Bellocchio! ».

« Sì? ».

Serena alzò il braccio a indicare qualcosa dietro di lui « Siamo arrivati ».

Quello si girò a sua volta e il suo sguardo incontrò un massiccio edificio a tre piani in bugnato rustico in pietraforte abbellito da bifore marmoree. Nel suo esatto centro era stato incavato un breve traforo sulla cui entrata campeggiava la scritta “Rio Acquerello: la città che si rispecchia nelle acque”. La loro destinazione, almeno per quel tratto.

« Beh, tutto ciò è stato molto anticlimatico ».

 

 

 

Episodio 1x03

L’ora di Karen

 

 

 

Una delle caratteristiche salienti di Rio Acquerello, tra le molte che si possono citare, è senz’altro la disposizione delle strade: pur essendo un centro abitato relativamente piccolo, infatti, esso s'inerpica in salite e discese lungo cui sono asserragliati edifici semidiroccati di stampo novecentesco. Perché si comprenda meglio, l’ingresso da cui i nostri due protagonisti erano passati si trovava, se così si può dire, al pianterreno, dove si sviluppava anche una piazza di notevoli dimensioni che girava in circolo. Al centro di essa era collocata una sorta di montagnola sopra cui erano disposte, attorno all’unica via spiroidale, le abitazioni dei residenti.

Serena rimase inebetita al cospetto di un labirinto di mura e cemento simile; Bellocchio, con poca sorpresa, no. O meglio, come suo solito era distratto da altro.

« Ah! Una bacheca! Amo le bacheche! » esclamò dirigendosi verso un riquadro rettangolare issato tra due paletti in legno proprio al varco della città « Ci fanno sempre quelle battute spiritose, tipo… “È pericoloso andare da solo, prendi questo!”. L’apice della comicità ».

« Come avranno fatto a costruire Rio così? La montagnola c’era già prima, oppure… ».

« Sai cosa si fa dalle mie parti, in questi casi? Si… » la sua attenzione fu attirata da un annuncio apposto nell’angolo in basso a destra dell’albo « … chiede ».

« Cosa c’è? ».

Bellocchio strappò il foglio con forza, esaminandolo poi accuratamente. La sua amica gli si affiancò per dare un’occhiata: il pezzo di carta il marchio del Comune di Rio Acquerello e dell’Amministrazione di Kalos. Sopra una scritta a lettere cubitali: “Ricercato uomo per rapimento”. In basso un indirizzo e un numero di telefono cellulare, presumibilmente per allertare chi di dovere; ancor più sotto un inquietante avvertimento: “Segnalare eventuali sospetti”.

« R-rapimento? » domandò Serena terrorizzata, guardandosi al contempo intorno per controllare che nessun individuo ambiguo fosse nei paraggi « Qui? ».

« Beh, non sarei certo che sia proprio qui. Avrebbero semplicemente messo in embargo questo posto. Normalmente è la procedura standard, da dove vengo io ».

« Ma rapimento di chi? E perché è ancora in giro? ».

« Più che altro non capisco perché non via sia una sua fotografia allegata. Sarebbe la cosa migliore per mettere in guardia la popolazione » replicò Bellocchio « Ma conto di scoprirlo quanto prima ».

« Scoprirlo come? ».

« Seguirò l’indirizzo. Non sembra complicato, vedo una piazza e una via. Mi orienterò ».

In quel momento urla confuse si udirono dall’ingresso di Rio Acquerello. La coppia si voltò preoccupata solo per notare un gruppo di tre ragazzini – due maschi e una femmina – che correvano attraverso l’arco d’entrata del borgo. Il gruppo si fermò per un attimo a riprendere fiato; quindi, accortisi di Serena, le corsero incontro gridando a gran voce il suo nome in maniera caotica.

Uno era un giovanotto alquanto tondetto dai capelli bruni agghindati in un’acconciatura ad ananas; il secondo, leggermente più basso, sfoggiava invece una folta chioma a casco color carota; infine c'era l’ultima, vestita di una maglietta rosa e dalla pettinatura alquanto almanaccata per l’età.

I loro nomi erano Tierno, Trovato e Shana, rispettivamente. Li conosceva bene.

« Serena! » esclamò il primo vedendola « Cosa ci fai anche tu qui? ».

« Ho iniziato il mio viaggio da allenatrice. Voi? ».

« Anche! Abbiamo avuto oggi il nostro primo Pokémon! Io ho un bellissimo Froakie, l’ho chiamato Ranocchio! ».

Serena intuì che dovevano essere stati loro tre i menzionati da Bellocchio, coloro che l’avevano anticipata al Colle degli Inizi mentre era bloccata alla Vecchia Darbois « Ne sono felice! Quindi partiremo insieme! ».

« Oh, sì! » si inserì Shana, energica come sempre « Magari potremmo attraversare con te Bosco Novartopoli! ».

« Intendi quello a nord di qua? Non vedo perché no! » rispose l’adolescente, e mentre quella festeggiava parlottando con Tierno si rivolse all’ultimo dei tre « Tu, invece, come te la passi? ».

Trovato iniziò a farfugliare « Ah! Io, sì… Bene, diciamo, ho avuto il mio Chespin! ».

« E ora dove state andando? ».

« Oh, a–– ».

Il verso di un Pokémon nei cieli della cittadina ruppe la quiete generale. Tutti spostarono lo sguardo in alto, osservando una sagoma stagliata contro un limpido azzurro che stava atterrando: un grande volatile cavalcato da un giovane dell’età di Serena che indossava una felpa blu e un berretto sportivo vermiglio. Il gruppo lo conosceva alquanto bene: il suo nome era Calem, fratello maggiore di Shana e una sorta di celebrità o poco meno a Borgo Bozzetto.

« Ah, tutta la combriccola! » denotò una volta sceso dalla monta « Salve a tutti ».

« Ciao! » lo salutò in anticipo su tutti gli altri la sorella « Cosa ci fai qui? ».

« Ero passato a salutare i nuovi tre allenatori dell'anno » dopo la spiegazione, il ragazzo contò rapidamente i presenti, rimanendone stupefatto « Però qui siete quattro. Dov'è il trucco? ».

« Io, Tierno e Trovato eravamo al Colle degli Inizi a prendere i nostri. Serena… Beh, a dire la verità non l'abbiamo vista fino a qui. Non so dove abbia avuto il suo Pokémon ».

« Frena, frena, Serena ha un Pokémon? Questo sì che è un grande avvenimento! » la canzonò Calem.

La diretta interessata non controbatté, ma in cuor suo si sentiva ribollire. Come il lettore avrà intuito non correva buon sangue tra i due, e per una ragione più che valida: nove anni prima era stato proprio Calem a sottrarre a Serena la possibilità di ottenere il suo primo Pokémon per tempo, anticipandola con poca lealtà al Colle. Da quel momento la loro amicizia era stata rovinata, in parte anche perché il giovane nelle sue pur frequenti visite al Borgo non si era mai curato di passare da lei.

« Però aspetta un attimo… Tu hai ottenuto un Pokémon, e va bene, ma come? ».

« Me l'ha dato un mio amico, siamo partiti insieme » chiarì lei.

« E ora il tuo amico dov'è? ».

« Come sarebbe a dire dov'è? È proprio acca–– » Serena sobbalzò dopo aver controllato alla sua destra: dovunque Bellocchio fosse, senz'altro non era lì.

 

 

« Ah, beh, non è un gran modo di trattare gli elettori, Raymond! Si sogni che voterò per il suo datore di lavoro alle prossime comunali! ».

L'uomo, in linea con il trattamento a lui abitualmente riservato dagli enti pubblici, era stato quasi in contemporanea cacciato dagli addetti alla sicurezza del Municipio di Rio Acquerello, sito proprio in cima alla montagnola del paese. Alzatosi in piedi si ripulì rapidamente il capotto al ritmo delle sghignazzate di un anziano signore intento a sorseggiare un analcolico al tavolo di un bar adiacente.

« Devi aver proprio dato loro sui nervi per costringerli a una terapia simile! » commentò divertito.

« Ho chiesto informazioni sul rapitore che circola a Kalos, ma evidentemente oggi è una giornata no ».

« Sei nuovo di qui? ».

« Sono arrivato nella regione con un'aeronave in fiamme ieri notte ».

« Questa è quasi meglio delle storielle che racconto sul Conflitto Globale! » rise quello « Intendevo se sei nuovo di Rio ».

« Beh, direi che è una conseguenza. Perché? ».

« Perché non sai la regola numero uno di Rio Acquerello! ».

« Niente domande stupide? ».

« Vale più il Bar di Gant che mille municipi per tutte le informazioni e tutti i princìpi! Beh, in realtà princìpi l'ho messo lì solo per fare rima, non c'entra molto con il resto ».

« E dove posso trovare questo bardigant? ».

« Ci sei davanti! » esclamò con orgoglio il vecchio.

Bellocchio alzò lo sguardo a incrociare una vistosa insegna con una tazza di caffè al neon che per ignoti motivi gli era sfuggita fino ad allora « Ah! Bar-di-Gant! Ora ha molto più senso ».

« Non sei molto sveglio, vero, forestiero? ».

« Tendono a sfuggirmi le cose semplici. Quindi immagino che lei sappia qualcosa. Come si chiama? ».

« Gant. Seriamente, ci sei o ci fai, giovanotto? ».

« Bene, Gant, mi dica quello che sa ».

L'anziano sospirò con rassegnazione, poi cominciò « Nessuno sa il suo nome. Del rapitore, dico. Da quello che si dice, però, è fuggito dal Carcere di Luminopoli, ed è stato uno dei pochi a farlo. La parte più raccapricciante è che nessuno ha mai visto quel volto prima dell'annuncio, come se non fosse esistito prima della fuga ».

« E lei che idea si è fatto? ».

Gant sorrise e versò altro analcolico da una bottiglietta sul tavolino « Che quel tizio non esiste. È una storia inventata dall'Amministrazione di Kalos per tenerci sotto il giogo della paura. Controllo psicologico, fa il paio con quello fisico-meteorologico delle scie chimiche ».

Bellocchio pensò che sarebbe stata una teoria alquanto interessante, non fosse stato per l'ultima frase. D'altronde che il Comune di Rio non fornisse informazioni su un pericoloso fuggitivo era quantomeno sospetto, quindi ogni ipotesi era benaccetta. Salutò cordialmente Gant e si diresse dunque verso la base della collinetta.

A metà strada si imbatté in un folto drappello di abitanti, tutti dalla mezza età in su, accalcati sul margine della stradicciola mentre osservavano la piazza sottostante. Parlottavano intensamente tra di loro, al che Bellocchio si avvicinò per chiedere spiegazioni.

Uno del gruppo parlò prima degli altri, con il tono più eccitato che un sessantenne potesse sfoderare « Una battaglia Pokémon! ».

« Una cosa? » il giovane si fece strada a spintoni nella piccola folla fino a raggiungere la ringhiera. Alcuni metri più in basso, Serena e una rappresentante dei ragazzini che avevano intravisto all'ingresso del borghetto si trovavano faccia a faccia, divise solo da erba radente il terreno; poco distante il resto della comitiva osservava l'imminente scontro.

« Allora, Serena, sei pronta? Ricordati che sei stata tu a sfidarmi, prenditela con te stessa quando perderai! ».

« Fatti avanti, Shana! » esclamò lei.

Le due avversarie afferrarono all'unisono le uniche Poké Ball a loro disposizione e le lanciarono al grido dei loro rispettivi compagni di viaggio: Karen e Fennekino. Un soprannome decisamente poco originale, quest'ultimo, per un volpino di fuoco che avrebbe potuto ispirarne ben di migliori.

 

« Ralts? Quale persona sana di mente darebbe un Pokémon così debole a una principiante? » commentò uno degli spettatori sopraelevati.

Un suo conoscente gli fece eco « Una battaglia già decisa ».

 

« Coraggio, Karen! » Serena prese l'iniziativa « Usa Fascino! ».

Un'aura rosea avvolse il Pokémon, che la scaricò poi sul suo nemico senza che questi ne risultasse leso. Quando essa si dissipò, tuttavia, il bersaglio parve in qualche modo più fiacco.

« Indebolisci gli attacchi fisici… Mossa interessante, ma contro Fennekino è inutile. Usa Braciere! ».

L'attacco fu scansato per un soffio da Ralts, che mostrò una notevole rapidità di riflessi. La padrona ordinò quindi colpi identici in successione, l'ultimo dei quali riuscì nell'impresa di centrare la creatura.

« E va bene, avete attaccato abbastanza! Karen, usa Confusione! ».

Un flusso di energia avvolse Fennekin in una sfera semitrasparente, collassando dopo pochi istanti proprio sulla volpe ignea e generando una brusca onda d'urto che trascinò con sé polvere dal suolo. Ritornata la visibilità, tuttavia, il Pokémon mostrò di non aver subito alcun danno, avvolto com'era in una bolla violacea poco più grande di lui.

« Cosa? » Serena sgranò gli occhi « Cos'è quella? ».

« Schermoluce » spiegò Shana orgogliosa « Io e Fennekino ci intendiamo alla perfezione. Per un po' di tempo sarò ben protetta dai tuoi attacchi speciali ».

« Ma… Senza quelli Karen è inerme! ».

« Precisamente. Forza, Fennekino, riprendiamo con i Bracieri! ». La raffica di fiamme riprese più fitta di prima, e sempre più tentativi andavano a segno di fronte al calo di velocità di Ralts, la cui sofferenza cresceva rapidamente di fronte alle offensive avversarie.

 

« È finita ».

« Con Schermoluce attivo quella ragazza non ha più speranze ».

« Fennekin è più forte già di suo. Ralts ha fatto il possibile, ma era una causa persa in partenza ».

Bellocchio, dal canto suo, osservava la sfida con interesse. Serena era senz'altro in difficoltà, ma da lì a dichiarare il match concluso ne passava di acqua sotto i ponti.

 

La ragazza, tuttavia, era entrata nel panico. La sintesi dell'emozione per la sua prima battaglia e della tensione per l’eventualità di una sconfitta l’avevano indotta in una sorta di caos catalettico, un'incapacità di impartire ordini diversi dallo schivare. Venne il punto in cui Karen rimase tanto esausta dai colpi da essere impossibilitata a muoversi.

Shana colse l'occasione al balzo « Ci siamo, Fennekino! Un ultimo Bra–– ». Si interruppe, gettando uno sguardo ai suoi amici che osservavano la battaglia poco più in là. Come se avesse d'improvviso realizzato qualcosa, il suo tono di voce mutò marcatamente « Fennekin, Turbofuoco! ».

« Che cosa? ».

Le esclamazioni di preoccupazione di ambedue le file di spettatori, Trovato sopra tutti, accompagnarono la creazione di un turbinio infernale dalla bocca della volpe, che arrivò ad avvilupparsi attorno a una Karen impossibilitata a difendersi: in un barlume fu fatta preda del vorticare di fiamme, che lentamente la seviziava fino alla sconfitta sotto l'espressione compiaciuta di Shana.

 

« Cosa accidenti combina? » Gant, entrato da poco nell'assembramento degli abitanti di Rio, sobbalzò in un impeto di apprensione « Rischia di fare seriamente male a Ralts in questo modo! ».

« Lo sta torturando. Che le è preso? ».

Bellocchio, che fino ad allora aveva tenuto gli occhi foschi fissi su Shana, gridò verso il campo di scontro « Ehi, Serena! ».

La ragazza alzò la testa di scatto, risvegliandosi dal torpore indotto « Eh? ».

« Cerca di guadagnare tempo! ». Detto ciò uscì dall'adunanza e scattò verso la discesa della montagnola più rapidamente possibile « Qualcuno deve fermare questa follia ».

 

« Shana, ma che diamine stai facendo? » le urlò suo fratello mettendo mano alla cintura che teneva in vita « Smettila subito! Turbofuoco infligge ustioni a ripetizioni, e Ralts non può muoversi! ».

« Stai indietro, Calem! » gli sbraitò contro con inaudita ferocia la ragazzina « Questa è la mia battaglia e scelgo io come vincerla! ». Poi si rivolse a tutti i presenti « Se qualcuno si avvicina intensificherò il Turbofuoco! ».

« Karen, Calmamente! ».

La voce di Serena spiccò nell'allibito silenzio degli spettatori. Dall'interno del turbine una luce iniziò a brillare, rischiarando le cupe fiamme che si innalzavano da terra. Bellocchio, ancora impegnato a percorrere a ritroso l'unica via di Rio Acquerello per giungere in soccorso della sua amica, sorrise. Non era ancora finita, proprio come aveva predetto tra sé e sé.

« Coraggio, continua così! Ancora Calmamente! ».

« Calmamente? ».

« È una tecnica che migliora la resistenza agli attacchi speciali. Il tuo Turbofuoco ormai è poco più di acqua calda, per Karen ». Esattamente come Shana anche il modo di parlare di Serena era cambiato: anziché crudele, però, era divenuto più determinato e sicuro di sé.

« E con ciò? Ralts, non può muoversi, è ancora alla mia mercé » ribatté l'avversaria « Fennekin, usa Fuocobomba! ».

« Teletrasporto! ».

L'intero pubblico sussultò in coro. Il colpo infernale scagliato dalla volpe passò dritto attraverso il Turbofuoco estinguendolo, ma di Karen non c'era alcuna traccia. Per alcuni istanti ognuno si concentrò nella sua localizzazione, ma Serena di nuovo fu più rapida di tutti « E ora finiamola! Usa Veicolaforza! ».

Ralts, teletrasportatosi poco dietro Fennekin, fu avvolto da un brillio senza pari, preparandosi a lanciare l'attacco decisivo.

« E che cosa sarebbe? Non sei riuscita a colpirmi nemmeno una volta » osservò sprezzante Shana « Figurati se un unico attacco basta ».

« La potenza di Veicolaforza cresce esponenzialmente per ogni volta che una statistica del mio Pokémon è migliorata grazie a una sua mossa. Tu hai contato quante volte Karen ha usato Calmamente? Perché io sì: sei » la giovane sistemò il proprio cappello in testa « Oh, e hai controllato che Schermoluce sia ancora attivo? ».

Una smorfia di terrore si dipinse sul volto dell'allenatrice mentre il singolo raggio rosato generato da Ralts colse in pieno Fennekin mandandolo al tappeto. Shana, come se fosse stata privata tutta d'un colpo della sua energia, cadde a terra sfinita.

Un esercito di occhi rimase impalato nella posizione in cui era. Nessuno si mosse eccetto due persone: Serena, che richiamò Karen nella sfera, e Bellocchio che si precipitò in aiuto della ragazzina appena svenuta.

Quest'ultima rinvenne quasi subito, causando un sospiro di sollievo nel soccorritore. Si guardò attorno spaesata e stanca « Che è successo? ».

Calem raggiunse quasi subito i due, seguito a ruota da tutti coloro che si trovavano nella piazza a seguire il combattimento « Ehi, ehi, Shana! Tutto bene? ».

« S-sì… Perché me lo chiedi? » la bambina mise a fuoco la situazione « Come sono finita per terra? ».

« Ma scusa… Non ricordi nulla? ».

« Di che cosa? ».

Bellocchio appoggiò delicatamente il capo di Shana a terra e si alzò, allontanandosi a passi decisi dal gruppo che si era affollato intorno a lei; quindi si incamminò verso al collinetta di Rio Acquerello.

« Ehi! » Serena gli corse dietro « Dove stai andando? ».

« Resta qui con gli altri » le intimò « Devo fare una cosa ».

 

 

Gant versò un altro goccio di analcolico nel bicchiere da liquore, portandolo poi vicino agli occhi per ammirare le sfaccettature del cristallo. Amava quel contenitore: ingannava gli avventori facendo loro credere che stesse sorseggiando whiskey di chissà quale annata. Mentre era assorto nei suoi pensieri scorse attraverso il vetro una figura che avanzava verso di lui.

« Ah! Chi poteva essere, se non il mio forestiero di fiducia! Resti per pranzo? ».

Giunto di fronte a lui, Bellocchio lo squadrò severo « Lei si è scordato di dirmi qualcosa ».

« Davvero? Alla mia età può succedere, giovanotto ».

« Lei era con me e gli altri quando Shana ha avuto quella crisi. Era sconvolto, senz'altro, ma non sorpreso » spiegò l'uomo « O meglio, non come tutti gli altri. Come se a posteriori se lo fosse aspettato. Quindi mi dica: cosa ha visto in questi giorni di diverso dal normale? ».

« Del livello di una ragazzina che sta per uccidere un Pokémon? Nulla ».

« Abbassiamo le pretese ».

Gant ingerì un assaggio di aperitivo « Beedrill ».

« Beedrill? ».

« Nel Bosco Novartopoli. Solitamente là dentro c'erano solo Weedle, forse uno o due Kakuna persi tra gli alberi. Non avevano abbastanza energia per evolversi » il barista fece ondeggiare il bicchiere e il liquido al suo interno « Invece stamane ho trovato un Beedrill grosso così sull'insegna del mio locale, ti lascio immaginare lo spavento. Poi, poco prima di vedere uno svitato buttato fuori dal Municipio, ne è passato uno in volo a due centimetri dalla mia testa ».

« Bosco Novartopoli… È dove vogliono andare Serena e gli altri » borbottò Bellocchio tra sé e sé, facendo quindi dietrofront per tornare dai suoi amici.

« Ehi, forestiero! » lo richiamò Gant « Tu sei qui da ieri notte, giusto? ».

L'uomo annuì fermandosi sul posto, senza tuttavia degnare il suo interlocutore di uno sguardo.

« Hai mai pensato che forse potresti essere tu? La causa di tutte queste stranezze, dico. Beedrill, bimbe indemoniate… Non si sa mai, una volta che ne hai viste una certa… ».

Bellocchio rivolse con la coda dell'occhio una sbirciata arcigna al banconiere; dopodiché riprese ad andare per la sua strada, senza voltarsi indietro.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 1x04 - Nuvole ***


Untitled 1

Pedalare.

Pedalare, pedalare, pedalare.

Lo strofinio stridente della gomma sullo sterrato, la polvere sollevata, la tiepida afa delle tre del pomeriggio che stava facendo sudare Jesse da ogni poro. Staccò per un attimo il braccio destro dal manubrio per asciugarsi la fronte, rischiando di perdere l'equilibrio quasi immediatamente.

Mai pedalare a un braccio in salita. Mai.

Alzò lo sguardo, intravedendo finalmente il Municipio di Rio Acquerello. Con un sospiro di sollievo tratto dalla poca aria che ancora serbava nei polmoni scese dal sellino, lasciando che la bicicletta facesse il suo corso fino ad accasciarsi al suolo, e si precipitò all'interno della struttura. Al bancone lo attendeva un uomo intento a scartabellare alcuni documenti impilati sul bordo. All'altezza del taschino della giacca era spillata una targhetta identificativa: Raymond Darvill.

« Desidera? » domandò stancamente.

Jesse, affannato, si concesse qualche minuto per riprendere fiato. Finalmente, tra un ansito e l’altro, sputò le parole « Il fuggitivo! ».

L'addetto al ricevimento alzò gli occhi dalle carte e lo fissò negli occhi con apprensione « Con chi sto parlando? ».

« Messaggero… per ordine del… Grande Assessorato… di Luminopoli… ».

« Che cosa le hanno detto di comunicare? ».

« Il fuggitivo… È stato localizzato… ».

« Dove? ».

Dopo aver inspirato profondamente, Jesse rispose « Novartopoli ».

I due si guardarono l'un l'altro, incapaci di maturare una decisione sul da farsi. Raymond, visibilmente scosso, si diresse poi verso la porta alle sue spalle, non incespicando sul cammino per un nonnulla « Io avverto il sindaco ».

 

 

 

Episodio 1x04

Nuvole

 

 

 

« Uno splendido pomeriggio, non trovate? ».

Shana era china sul ruscello che scorreva lungo il Percorso 2, o Via Progresso, attraverso il quale l'intera comitiva di allenatori si era inoltrata dopo aver smaltito il pranzo. Ai canonici viaggiatori alle prese con le loro prime esperienze si era unito anche Calem, preoccupato per la condizione della sorella dopo l'incidente di Rio. Sia lui che Bellocchio l'avevano tenuta sotto stretta sorveglianza, temendo altre ricadute. Il ragazzo aveva inoltre colto l'occasione per regalare al gruppo due Poké Ball a testa, disfandosi così della decina in disavanzo che aveva portato con sé per diverso tempo; un gesto del tutto inusuale, considerando il suo carattere.

Proprio Bellocchio, quello che meno era entrato in sintonia con l'aggregato, a un certo punto della traversata sobbalzò e fece segno a Serena e gli altri di non muovere un passo « Fermi! ».

« Che succede? ».

« Una mutazione genetica! Proprio lì, la vedete? È uscita ora dall'erba! Voleva fingersi un Pokémon comune! ».

La ragazza si sporse oltre il suo braccio, osservando l'oggetto dell'allarme: un pettirosso dal colorito fiammeggiante che cinguettava placidamente « Quello? ».

« Resta indietro, non ho idea di come possa reagire al contatto umano ».

« Bellocchio… Quella è una Fletchling ».

L'uomo le rivolse uno sguardo interrogativo « Una cosa? ».

« Una Fletchling ».

« Tu conosci questa mutazione? Serena, credo proprio che dovremmo rivedere il nostro concetto di confidenza in termini di sicurezza comune ».

« Non è una mutazione, santo cielo! È un Pokémon! ».

« Un… Pokémon? » l'espressione di Bellocchio si fece, se possibile, ancor più confusa.

« Mhm-mhm ».

« Ma… » le si avvicinò per sussurrarle all'orecchio, come stesse rivelando un segreto « … Insomma, non ne ho mai visto uno prima… ».

« Magari da dove vieni tu non ci sono? ».

« Quindi a Kalos ci sono Pokémon che non conosco? Questo rende il tutto molto più intrigante, senza dubbio alcuno ».

Serena, desolata, sprofondò il volto nel palmo della mano per nascondere il rossore « Che imbarazzo… ».

« Quindi questa mutazione non è pericolosa! Eccellente! » proseguì l'uomo sistemandosi il cappotto e il completo sottostante « Va bene, è il momento di mettere in pratica gli insegnamenti di Ketchum. Dunque! Ora mi avvicino… Signorina Fletchling, le andrebbe di divenire nostra amica e unirsi a noi in questa entusiasmante avventura a Kalos? ».

L'uccellino e Bellocchio si scrutarono intensamente per diverso tempo, leggendo l'uno i pensieri dell'altro. Poi il primo scosse la piuma della coda e aprì la bocca, lasciando fuoriuscire uno sbuffo ardente che finì dritto in volto al suo allenatore mancato. Quindi, mentre quest'ultimo barcollava all'indietro, il Pokémon volò via in un guizzo di vitalità.

Serena retrocesse in preda a una tremenda vergogna, neanche quel Braciere l'avesse subito lei; i tre ragazzini erano rimasti attoniti a osservare quel supposto adulto responsabile comportarsi peggio di loro; Calem, impietrito ancora più degli altri, fu l'unico a trovare il coraggio di rompere il silenzio.

« Io ora entro nel Bosco ».

 

 

« Per l'ultima volta, è evidente che bisogna andare a sinistra! Guarda com'è battuto il sentiero da questo lato! ».

« Senti, Trovato, ho passato questo posto almeno una decina di volte, vuoi che non sappia dove andare? ».

« Calem ha ragione, è quello più esperto qui! Andiamo a destra, avanti ».

« Oh, giusto, Calem ha sempre ragione, giusto? ».

« Serena, non essere così acida! Mio fratello è l'unico che abbia mai visto prima il Bosco! ».

« Ma cos'è la destra… Cos'è la sinistra… » canticchiava Bellocchio appoggiato all'albero della contesa. Tutto il gruppo era fermo a quello snodo fondamentale del Bosco Novartopoli: al primo dei classici bivi sulla via della grandezza, la loro grande unità si era spaccata. Su un fianco si erano schierati Calem, Shana e Tierno, che proponevano di proseguire a destra; Serena e Trovato, invece, optavano per andare a sinistra.

« Ehi, Bellocchio, non hai ancora preso posizione! ».

« Come? Oh, sì, sempre con te, Serena, contami dalla tua parte » replicò distrattamente.

« Allora siamo in stallo, a quanto pare » osservò Trovato « Tre e tre. A questo punto proporrei di dividerci e fare una gara ».

« Che tipo di gara? ».

« Il gruppo che giunge per primo al traguardo vince ».

« Vi rendete conto che è una gara persa in partenza, vero? » sentenziò Calem « Conosco a memoria ogni angolo di questa foresta, mentre chi è che guiderà voi? L'amico dei Fletchling? ».

« Non perdere tempo a chiacchierare, fratellone! » lo richiamò Shana « Muoviamoci! ». Detto ciò il trio iniziò a correre nella direzione prescelta, scomparendo dietro le chiome verdeggianti degli alberi poco dopo. Gli altri si incamminarono a loro volta, con non poche incertezze su come comportarsi a ogni diramazione.

 

 

« Ehi, Serena! ».

« Sì? ».

Trovato si chinò e rimosse gli occhiali per osservare meglio da vicino « Questo non è un filo della tua gonna? ».

La ragazza abbassò lo sguardo, notando che effettivamente il suo capo d'abbigliamento era sfilettato sull'orlo « Oh, diamine, era nuova! ».

« Non è quello il punto. Se questo filo è tuo, dobbiamo per forza essere già passati di qui ».

« Di bene in meglio! Quindi stiamo girando in tondo? » Serena si sedette stremata « Abbiamo davvero scelto la strada sbagliata? Visto che Novartopoli si trova a nord-ovest di Rio Acquerello sembrava la soluzione più logica ».

« È quello che pensavo anche io, ma apparentemente non è così ».

« Ehi, tu! » gridò rivolgendosi a Bellocchio « Non hai nulla da dire? Se ti fosse sfuggito ci siamo persi! ».

« Ah-ha! » esclamò il giovane accovacciandosi di scatto mentre frugava con le mani in un mucchietto di foglie « Lo sapevo! Un enigma nascosto! ».

Sui volti dei suoi due compagni si dipinse un'espressione a metà tra il confuso e l'impaurito.

« Oh… No, era solo un ramoscello. Beh, in ogni caso non avevo abbastanza monete aiuto » commentò sconsolato « Bene, qual è la situazione attuale? ».

« Oh, grazie per esserti finalmente interessato! Secondo Trovato siamo già passati di qua ».

« Allora proporrei che sia Trovato a guidarci fuori. Sono troppo disattento per occuparmene personalmente. Oltretutto sono certo che Trovato troverà la strada… Capite? Ah, ah! Trovato… troverà… Siete il peggior pubblico che abbia mai avuto ».

Il ragazzo annuì, ignorando come poteva l’ultimo pezzo, e analizzò la zona in cui stavano sostando: si trattava di una radura attorniata da spessi tronchi bruni e impenetrabili fronde che costituivano una sorta di cupola sopra di loro. Due sole vie: una portava avanti, l'altra indietro. Nessun indizio su quale fosse quale.

« Partiamo dal fatto che in ogni caso restare bloccati in questo bosco mi pare impossibile. Troppo diretto, e basta tornare indietro per di là per uscirne. Non corriamo pericoli ».

« Questo è rassicurante » concordò Serena.

« Quindi vi esporrò il mio piano d'azione per vincere la sfida » riprese Trovato indicando un punto della selva « Quello è evidentemente il centro della foresta. Ci sono più alberi e c'è molta meno luce. Se ricordo bene là è da dove siamo arrivati, quindi Calem e gli altri si sono addentrati verso l'interno. Noi stiamo andando più verso il bordo, diciamo ».

« Altra buona notizia… Credo ».

« Credi molto bene. Se riusciamo a raggiungerlo possiamo costeggiare una via laterale e anticiparli al traguardo! » dichiarò con entusiasmo « Ma c'è un problema: andando per di là siamo già tornati qua. Ci serve qualcosa che ci indichi se stiamo girando in tondo, o potremmo rimanere qui per ore ».

« Questo non è un ostacolo » si intromise Bellocchio rizzandosi sulle gambe « Io andrò per di là, voi resterete qui a fare il mio totem ».

« Ehi, fermo! ».

« Per favore, Serena, dopo aver affrontato la Fiamma Cremisi vuoi che mi preoccupi una gita in un boschetto? ».

« La Fiamma Cremisi? ».

« Lunga storia » liquidò la ragazza « Il punto è un altro: una volta che avrai trovato la via laterale come ci avvertirai? ».

Bellocchio si portò pensierosamente la mano al mento « Ottima osservazione ».

Trovato frugò nel suo zaino dalle tinte smeraldine, sfilandone un oggetto dai lineamenti fortemente tecnologici « Prendi ».

« Oh, uno smartphone! Che gentile, non dovevi! ».

« È un PSS ».

« PSS? ».

« Player Search System. L’espansione Holovox consente di comunicare con gli altri. Ha memorizzati tutti i nostri numeri, li abbiamo registrati a Rio. Anche Serena ne ha uno, potrai avvertirci tramite quello se ti perdi o se trovi la strada ».

« Sì, ma ce l'ha l'interfaccia touch? » Bellocchio iniziò a incamminarsi verso lo sbocco frontale della radura « Vedi te se mi tocca pure imparare a usarlo adesso… Scommetto che non ha neppure il 3G ».

 

 

« Avrei giurato che ci fossero più allenatori qui, l'ultima volta. Che fine hanno fatto tutti? ».

Calem passeggiava sul sentiero battuto con tranquillità, ignorando i richiami della sorella e di Tierno che lo invitavano con poca eleganza a un passo più spedito.

« Su, sbrigati, Snorlax! ».

« Tu mi chiami Snorlax, Tierno? ».

Il ragazzino abbassò la testa mentre Shana lo sbeffeggiava in tono derisorio « Woooooo! Speeento, proprio! ».

« Via, via, Shana, più garbata » Calem continuava a esaminare il Bosco Novartopoli con sospetto, in particolare l'erba alta « Nessun Pokémon ci ha ancora attaccato. Com'è possibile? ».

« Forse hanno appena mangiato e dormono! » suggerì Tierno.

« Ma io voglio allenare i miei Pokémon! Fennekino non ha ancora avuto una prima lotta ufficiale! ».

« Ma certo che l'ha avuta! Contro Serena, non ricordi? ».

« Oh, per l'ultima volta: se io non la ricordo vuol dire che non è successa! Fennekino sicuramente confermerà ».

« Ah, sì? Allora ti sfido io per una lotta! Anzi, tu e tuo fratello insieme! ».

« Non scherziamo. Alleno Pokémon da nove anni, ti schiaccerei solo guardandoti ».

« Ah, sì? E se sei così forte com'è che ancora non hai sconfitto la Capopalestra di Fluxopoli? ».

« Piccolo impertinente… Shana, gliel'hai detto tu? ».

« E che vergogna c'è, fratellone? Tanto nessuno di noi ha Medaglie, sei comunque il più forte! ».

« Ma non è quello, santo cielo, è… Grrr » Calem si fermò di colpo, protendendo l'orecchio verso la fila di alberi che costeggiavano il tracciato.

« Cosa c'è–– ».

« Sssh ».

« Co–– ».

« Sssh ».

« Non–– ».

« Ti ho detto di stare zitto! » ordinò sottovoce a Tierno, tappandogli la bocca con una mano « C'è qualcuno là dietro ».

I tre tacquero con il fiato sospeso. Calem si fece avanti a piccoli passi, passando tra due ceppi di legno e gettando uno sguardo oltre, pronto a lanciare una Poké Ball dalla cintura. Il cuore gli balzò in gola quando vide un uomo che si stava aggirando di spalle lì intorno. Non riuscì a scorgerlo in faccia, ma gli balzò subito all'occhio un cappotto marroncino che gli arrivava alle ginocchia.

Tanto bastò: solo una persona poteva indossare un cappotto simile. Faticò un attimo a ricordarne il nome, tanto era assurdo, ma alla fine gli uscì.

« Bellocchio? ».

« Aaaaaaaaaaah! » gridò il giovane voltandosi con uno scatto, le braccia in posizione difensiva. Una volta riconosciuto lo afferrò per la giacca « Non farlo mai più! ».

« Ah! Che ci fai tu qui? » lo interrogò con fare serioso Shana « Ci spiavi, vero? Ti hanno mandato gli altri due per metterci i bastoni tra le ruote! ».

Tierno incrociò criticamente le braccia « Che sleali! ».

« Che? Sono qui perché ho costeggiato la via laterale del Bosco! Ho camminato per venti minuti o forse più, e alla fine vi ho incontrati! Non solo, è stato Calem a trovarmi! Ecco, dal mio punto di vista siete voi che avete messo i bastoni tra le ruote. Che sleali ».

« Questa conversazione sta sfociando nel ridicolo. Dove sono gli altri due? ».

« Non lo so. Lontani miglia, presumo ».

In quel momento un suono di passi rapidi sull'erba accompagnò il respiro affannoso di qualcuno che si trovava non distante dal gruppo. Di nuovo tutti si misero in allerta, finché dal labirinto di fogliame sbucò un volto ben noto dalla densa capigliatura rossa.

« Trovato! » Bellocchio lo sorresse mentre questi, stremato dalla corsa, cadeva tra le sue braccia « Non è il momento di essere romantici! Come sei arrivato qui? ».

« Cor… Correndo… ».

« Sì ma… Devi essere partito insieme a me per avermi mancato di così poco! Perché? ».

« Sono par… partito… cinque minuti fa… » rispose indicando una direzione perpendicolare al sentiero seguito dal team di Calem.

L'uomo non nascose un imbarazzo per la figura, ma al contempo non se ne curò più di tanto, come spesso faceva « Ti sei addentrato nella foresta? Per quale ragione? ».

Trovato inspirò ed espirò per un po', tentando di riprendere fiato, e alla fine il colore paonazzo svanì dalla faccia « Serena… è scomparsa ».

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 1x05 - Veleno e fiamme ***


Untitled 1

Previously on LKNA: Bellocchio e Serena, uniti al gruppo di neo-allenatori Trovato, Tierno e Shana, nonché a Calem fratello di quest'ultima, decidono di addentrarsi nel Bosco Novartopoli per raggiungere la città successiva. A causa una diatriba decidono di prendere due strade diverse per raggiungere l'uscita. Sfortunatamente il team formato da Bellocchio, Serena e Trovato si perde nei meandri della foresta: il primo parte in avanscoperta per ritrovare la via, ricongiungendosi infine con l'altra comitiva. Proprio allora viene raggiunto però da Trovato che comunica un'agghiacciante notizia: Serena è scomparsa.

 

 

 

 

 

 

« Scomparsa? » Bellocchio cambiò completamente carattere, apparendo visibilmente preoccupato « Come fa qualcuno a scomparire quando vi ho espressamente detto di restare dov'eravate? ».

Le condizioni di Trovato sembrarono migliorare, dal momento che riuscì dopo qualche tentativo issarsi sulle sue gambe « Lo so. È quello che le ho detto, ma lei si è intestardita ».

« Specifica ».

« Eri via da un po', un quarto d'ora, o roba simile, e lei ha deciso di provare un altro percorso, andando in mezzo agli alberi. Io ho cercato di spiegarle che si sarebbe persa, che era più conveniente chiamarti via Holovox, ma non mi ha dato retta. Così le sono corso dietro, e mentre provavo a raggiungerla ho sentito un urlo ».

« Ed era scomparsa ».

« Sì. Nessuna traccia. Sono scappato sperando di trovarvi, e grazie a Dio ce l'ho fatta ».

« Potresti portarci dove l'hai vista l'ultima volta? » domandò Calem.

Bellocchio replicò sentenzioso « No. Troppo rischioso, al novanta percento ci perderemmo, e anche con un senso dell'orientamento pazzesco sprecheremmo comunque una decina di minuti ».

« E che cosa suggerisci di fare? ».

L'uomo aprì il cappotto e trasse da una delle tasche interiori un congegno metallico che risplendeva alla luce che filtrava attraverso le fronde.

« Questo è il PSS di Trovato. L'altro ce l'ha ancora Serena, dico bene? ».

« Sì, o almeno dovrebbe ».

« Perfetto, allora direi di chiamarla ».

« Fermo » Calem coprì con una mano l'interfaccia « Potrebbe essere stata rapita. Che facciamo se ci risponde quello che l’ha presa? ».

« Allora sarà lui a dover temere noi ».

Detto ciò manovrò alcuni pulsanti che attivarono il proiettore frontale del PSS, l'applicazione che riproduceva in ologrammi tridimensionali quanto riprendeva la telecamera del corrispettivo ricevente.

Ciò che si presentò agli occhi degli osservatori era un ambiente per gran parte buio. Una solitaria, flebile luce di un colore non precisato – l'intera proiezione era bluastra – rischiarava la zona dall'angolo in basso a sinistra. L'unico oggetto visibile era una specie di sacca pallida, peraltro visibile solo parzialmente, che appariva e svaniva come se ondeggiasse. Quanto al sonoro, si udiva soltanto un rumore statico di fondo.

« Che cos'è? » bisbigliò Tierno « Non si vede niente ».

« Non lo so » rispose Bellocchio, poi alzò la voce « Serena? Sei lì? ».

« Serena, siamo noi » si aggregò Calem « Se ci sei, rispondi ».

Senza preavviso l'immagine mutò radicalmente. Una nuova figura occupò quasi interamente l'ologramma, un mostruoso volto d'insetto che, i bulbi oculari grandi come pietre preziose, fissava direttamente l'obiettivo dell’Holovox e di riflesso coloro che si trovavano da questo capo del filo.

Tutti sobbalzarono all'unisono e Trovato, che reggeva lo strumento, lo lasciò cadere a terra provocandone lo spegnimento. I più piccoli ne rimasero a dir poco traumatizzati, in particolare Shana che abbracciò suo fratello nel terrore « C-cos'era q-quello? ».

Bellocchio, dal canto suo, aveva le pupille ancora stralunate per lo sgomento; tuttavia trovò nella sua eccezionale fibra morale la forza di rispondere « Era un Beedrill ».

 

 

 

Episodio 1x05

Veleno e fiamme

 

 

 

« Beedrill? » Tierno, portavoce dei tre bambini, domandò spiegazioni « Che cos'è un Beedrill? ».

« Creature terribili » rispose Calem « Ne ho visto uno solo in vita mia, in mano a un Pigliamosche che in qualche modo aveva fatto evolvere il suo Kakuna. Grazie al cielo non era selvatico, o me la sarei vista brutta ».

« Qualcuno mi spiega che cosa sono? ».

« Quando un Weedle accumula una certa dose di energia è in grado di evolversi, un fenomeno che nel suo caso avviene mediante la chiusura in un bozzolo » iniziò a illustrare Bellocchio « Quello noi lo chiamiamo Kakuna. Non può muoversi, a stento riesce ad attaccare, quindi possono passare anche anni prima dell'evoluzione successiva. In linea di principio un Kakuna in ambiente selvatico vive tre, quattro settimane al massimo, quindi non ha il tempo di raggiungere lo stadio seguente. Ogni tanto, però, qualcuno ce la fa, e lì nascono i Beedrill ».

Il giovane si prese una breve pausa, poi continuò « L'avete visto. Sono insetti alti un metro, dotati di tre pungiglioni da circa venti centimetri l'uno. Violenti, molto violenti, a Sinnoh sterminano nidi di Combee per nutrirsi del miele che producono. Sono in grado di spruzzare un veleno che… Beh, forse è meglio che voi non lo sappiate. Siete ancora piccoli ».

« Scioglie la pelle ».

Le parole pronunciate da Calem, che ricevette un'occhiataccia di Bellocchio, furono accolte con sussulti di terrore dagli altri presenti.

« Avrei preferito non dirglielo ».

« Se vogliamo salvare Serena dovremo affrontarli. È bene che sappiano tutto ».

« Ma dov'è il problema? » questionò Shana « Voglio dire, hai detto che sono pochi, no? Non possiamo batterli in combattimento? ».

« Il problema è che qui non dovrebbero essercene » chiarì Calem « Nel Bosco non ci sono mai state segnalazioni di Beedrill. Già uno è di troppo ».

« Esattamente. Ho parlato con un barista di Rio Acquerello che mi ha detto di averne visti due, oggi ».

« Due? » Calem sgranò gli occhi « Come diamine è possibile? ».

« Ci sto lavorando. La mia teoria attuale è che da qualche parte qui in giro ci sia una fonte di energia che ha alimentato uno o più Kakuna causandone la schiusa, ma è un'ipotesi » Bellocchio si aggiustò la cravatta « Comunque non fa differenza. Come hai detto tu, per salvare Serena dovremo necessariamente affrontarli ».

« Sei pazzo. Uno è fattibile, ma due iniziano a diventare problematici, visto anche che sono l’unico in grado di battermi alla pari con loro. Ci conviene andare a Novartopoli e chiedere aiuto lì, è decisamente più sicuro per tutti ».

« Se hanno preso Serena c'è una ragione, Calem, e preferirei non doverti spiegare quale potrebbe essere di fronte ai bambini. Non abbiamo tutto il tempo del mondo » si impose rigido Bellocchio « Procediamo un passo alla volta. Serena è da qualche parte in compagnia di uno o più Beedrill qua nel Bosco, ma dove? ».

Shana e Tierno non distolsero lo sguardo l'una dall'altro, cercando di farsi coraggio reciprocamente per non cadere vittima della paura; Trovato, che sfoggiava ben più determinazione, si intromise timidamente « Scusate, ma il PSS ha un sistema di triangolazione di posizione ».

« Ce l'ha? » domandò spaesato Calem, recuperando l'oggetto da terra.

« Solo i modelli recenti, di questa generazione » il ragazzo, come colto da un improvviso spirito di comando, strappò dalle mani del fratello di Shana il proprio strumento, sorprendendosi poi di se stesso « … Scusa. Non… Non volevo ».

Calem sbuffò, facendogli indolentemente segno con la mano di continuare. Se la sarebbe legata al dito in un secondo momento, ma era meglio non ostacolare le ricerche per non fare infuriare il gruppo. Non avrebbe decisamente giocato a suo favore.

« Vediamo, se faccio così… Ecco! Il posto è quello! » esultò indicando un puntino lampeggiante su un lato della mappa a griglia rappresentata sullo schermo.

 

 

Bzzzzzt.

« Questo ronzio mi dà sui nervi » sussurrò Calem « Io ora vado ».

« No. Non sappiamo quanti siano ».

I due erano addossati a un solido tronco dalla corteccia profondamente intagliata, parte di una corona vegetale che circondava un'isolata radura della foresta; i più piccoli erano rimasti poco distante per evitare rischi inutili.

« Che Pokémon vuoi usare? ».

« Charmeleon. Tipo Fuoco, li abbrustolirà anche in venti se sono abbastanza vicini ».

« Troppo lento » decretò Bellocchio « Avrai un solo colpo a disposizione ».

« Un colpo mi basta » rispose confidente Calem. Quindi si spostò di lato, lanciò una Poké Ball e ordinò l'attacco « Charmeleon, Lanciafiamme! ».

Il flusso incendiario si diresse verso un Beedrill solitario che stava pattugliando la zona, riducendolo a nulla più di un corpo esausto incapace di arrecare altro danno.

« Ed è uno a zero per noi! Troppo lento, ma mi faccia il piacere » tripudiò il ragazzo, facendo cenno a coloro che erano rimasti indietro « Su, su, venite, il campo è libero! ».

« Ssssssssh! » gli intimò Bellocchio uscendo allo scoperto, venendo poi raggiunto dagli altri. Si trovavano in uno spiazzo d'erba sul quale crescevano sporadici fiori dal profumo che permeava l'aria. In alto solo il cielo tinto d'arancione alla luce del tramonto incipiente.

« Uno solo. Molto strano ».

« Già. Dov'è Serena? » si interrogò Calem.

« Non avrai veramente pensato che l'avresti trovata così, vero? » l'uomo si accovacciò a terra, scostando cespi di steli color smeraldo con le mani « Il luogo ripreso dall'Holovox era buio. Non si trova in superficie ».

« Non in superficie? Che vorrebbe dire? ».

In risposta Bellocchio alzò un braccio, facendo segno a tutti di riunirsi attorno a lui, e più precisamente attorno a quanto aveva rinvenuto: un buco largo due metri celato da un cespuglio che lo occultava nel suo fogliame.

« Che cos'è? ».

« Quello che cercavamo. Serena è lì sotto ».

« Lì sotto? Cioè quello è… ? ».

« Il nido dei Beedrill. Precisamente ».

Calem trasalì « Nido? Vuoi dire tipo… Con dei Beedrill dentro? ».

« E dei Kakuna, probabilmente » completò Bellocchio « Un Beedrill depone in media un Uovo al mese, ma considerando che potrebbe esserci una sorgente di energia dobbiamo rifare i calcoli ».

« E come dovremmo fare? Non sappiamo nemmeno che sorgente potrebbe essere! ».

« Si può ipotizzare il caso peggiore. Diciamo che abbiano un dispositivo con una quota di produzione vicina a una centrale elettrica, che francamente mi sembra il caso limite a meno che nessuno si sia accorto di un reattore nucleare finito per caso nel Bosco: circa una decina di Kakuna sarebbero divenuti Beedrill. Visto il tasso di deposizione conseguente ci sarebbero più o meno cinque Weedle circolanti laggiù, o più facilmente cinque Kakuna in via di evoluzione ».

« Dieci Beedrill e cinque Kakuna. Ben fuori dalle mie possibilità » commentò Calem.

« Beh, è il caso peggiore. Inoltre hanno lasciato fuori uno di loro a sorvegliare questo buco e non si sono nemmeno accorti della fine che ha fatto, il che significa che sono in fase di riproduzione ».

« Quindi? ».

« Quindi potrebbe non essere necessario un attacco » concluse Bellocchio « Se uno di noi è abbastanza silenzioso dovrebbe poter recuperare Serena senza che se ne rendano conto ».

« Vado io » sancì con autorevolezza Calem « Sono l'unico che può difendersi in caso di fallimento ».

« Una dote completamente inutile, se quei Beedrill ti sentono non uscirai vivo di lì. Andrò io ».

« Perché tu? Non hai nessun Pokémon. Sei il meno qualificato tra tutti ».

« Perché io ho disinfestato meno di dodici ore fa la Maison Darbois completamente disarmato ».

Quella frase ebbe il potere di zittire persino il presuntuoso allenatore. I bambini, Trovato in cima, rimasero sbalorditi.

« Hai qualche obiezione? ».

« I-io… ? No ».

« In tal caso » Bellocchio si tolse il cappotto e lo lanciò per terra, in modo da non esserne intralciato nella discesa « la cosa si fa intrigante ».

 

 

La galleria verticale doveva proseguire a occhio e croce per un'altra decina di metri, visto che riusciva a scorgere un bagliore azzurrognolo sul fondo. La corda che Trovato aveva miracolosamente rinvenuto nel suo zaino continuava lentamente a scendere, con Bellocchio aggrappato saldamente a essa.

« Ehi, tutto bene per ora? ».

« Vai tranquillo, Trovato! ».

La discesa procedette senza intoppi per qualche altro metro, quando si arrestò improvvisamente. La fune penzolò per un poco, poi si stabilizzò perpendicolare a terra, con l'estremità inferiore ancora ben distante dalla meta.

« Qui si è fermata! ».

Rispose la poco rassicurante voce del ragazzino « È finita! Riesci a saltare da lì? ».

Bellocchio non era in grado di stimare precisamente quale fosse l'entità del balzo che avrebbe dovuto compiere. Ma dopotutto ne aveva fatti anche di peggiori: prese un respiro profondo e lasciò la presa, atterrando scompostamente su un terriccio lurido e buio. Immediatamente riprese conoscenza, pensando quindi di accertarsi di non aver causato rumore sufficiente a destare i Beedrill: dopo un rapido sguardo, tuttavia, stabilì che era il problema minore.

« Sei ancora intero? » domandò Trovato « Abbiamo sentito un tonfo! ».

« Fate silenzio, santo cielo! » li ammonì « Calem, hai presente quando mi hai detto di voler andare tu? ».

« Sì… ? ».

« Accetto volentieri la proposta ».

Un barlume turchese verso sinistra rischiarava l'ambiente, una caverna scavata nella roccia. O almeno era presumibile lo fosse: l'intera estensione delle pareti era coperta da quelli che potevano essere migliaia di Kakuna appesi o incollati ai sostegni più vari. Quella grotta era un gigantesco nido nel senso proprio del termine.

Un imminente esercito di Beedrill.

Bellocchio ingoiò un groppo in gola che si era formato alla tremenda scoperta. Lentamente le sue pupille si abituarono all'oscurità, dilatandosi di conseguenza, e l'unico lume presente divenne sufficiente per analizzare meglio la situazione: pareva di trovarsi all'interno di un organismo ciclopico, tanta era la sensazione che si provava che quel luogo respirasse e vivesse. Avanzò a piccoli passi, avendo cura di non urtare alcun guscio di quelli presenti. Dopo qualche tentativo, infine, lo vide.

Era un bozzolo o qualcosa del genere, una sacca filamentosa biancastra che pendeva dal soffitto in un anfratto dell'antro. Si diresse verso di essa quanto più in fretta poté, iniziando a scavare la corazza fibrosa fino a reperire ciò che sperava: un volto pallido ma ancora pulsante, coperto da una matassa di capelli biondi.

« Serena! ».

La ragazza scosse leggermente il capo; dopodiché, una volta che realizzò la sua condizione, il suo urlo di terrore fu strozzato per un pelo dalla pronta mano di Bellocchio.

« Calma, calma… Se fai rumore li sveglierai » le bisbigliò.

« Svegliare chi? ».

« I Beedrill ».

Serena sbatté le palpebre, come chi si risveglia da un sonno poco rinfrancante e fatica ancora a ragionare « Che cos'è un–– ».

« Tagliando corto, Pokémon che non vorresti mai incontrare. E attualmente siamo nel loro nido ».

« Gli altri dove sono? ».

Bellocchio rammentò il PSS, che fino a quel momento aveva rimosso dalla mente, e lo avvistò lì di fianco. Senza indugio lo afferrò e, prima di ogni altra cosa, tamburellò rapidamente alcuni bottoni fino a che il display non si spense.

« Che hai fatto ora? ».

« Ho disattivato la retroilluminazione dello schermo. L'ultima cosa di cui questi Kakuna hanno bisogno è accorgersi che io sono qui ».

Il giovane passò poi a impartire altri comandi di cui non riusciva a constatare gli effetti ma che, almeno apparentemente, doveva aver memorizzato, visto che la voce di Trovato rispose alla chiamata dall'altro capo del filo « Ehi, tutto bene? ».

« Ho trovato Serena. Credo sia ancora viva, il che per oggi è già un successo ».

Tiepidi festeggiamenti corrisposero in superficie a quella notizia, rapidamente placati da Trovato che aveva ormai preso il comando del suo plotone « Ora come volete uscire? Riuscite a saltare per prendere la corda? Altrimenti penso che Calem abbia qualche Pokémon utile ».

« Credo che uscire non sia esattamente in cima alle nostre priorità ».

« E cosa ci sarebbe sopra? ».

« Non farci uccidere » replicò Bellocchio « Vuoi prima la buona o la cattiva nuova? ».

« Ma ti sembra il momento per questi giochetti? Pretendo di parlare con Serena » proruppe Calem incollerito.

« La buona è che non vedo Beedrill nei paraggi. La cattiva è che, beh, di primo acchito direi che siamo circondati da un migliaio di Kakuna in procinto di evolversi ».

Dapprima nessuno fiatò dall'altra parte. Poi riprese la parola Trovato « Un migliaio? ».

Calem gli andò sopra, forse veramente impaurito per la prima volta in quella giornata. Mille erano troppi anche solo per concepirli « Non è possibile. L'energia necessaria sarebbe–– ».

« Troppa, lo so anche io » assentì Bellocchio « Ma ti giuro che è esattamente quello che c'è qui ».

« Beh, è difficile capirlo, non si vede niente ».

« Dammi qua, non lo stai orientando bene ».

« Calem, lasciamelo, per piace–– ».

« Dammi il PSS ».

Si udì un colpo secco e un suono di foglie smosse. D'improvviso un allarme infernale perforò le orecchie dei due che ancora si trovavano nella caverna, iterandosi diverse volte con intensità crescente ed echeggiando tra le mura rocciose.

« Che diamine sta succedendo? ».

« È il segnale di localizzazione! » esclamò Serena nel panico « Devono averlo attivato per errore! ».

« Perché qualcuno metterebbe qualcosa del genere nel PSS? ».

« Per trovarlo se smarrito! Hai idea di quanto costino quegli affari? ».

Il segnale si arrestò sotto impulso di Trovato nel Bosco, ma era troppo tardi: in ciascuno dei Kakuna nella grotta si era aperta una fenditura luminosa. Mille fiammelle bianche, come un cielo stellato, ma pronte a scatenare un pandemonio in Terra. Un poco rassicurante ronzio iniziò a diffondersi nell'ambiente.

« No… No, dannazione » Bellocchio prese il PSS in una mano e Serena ancora barcollante nell'altra, cercando una disperata, ultima fuga che però si arrestò anticipatamente al centro della spelonca.

« Che sta succedendo? ».

« Si stanno evolvendo ».

« Cosa? » esclamarono all'unisono i quattro in superficie, lasciando poi parlare Calem « Mando giù Charmeleon! ».

« No, è inutile. Volevo arrivare alla corda, ma l'uscita è intasata ».

Serena trasalì « Che vuol dire? ».

« Vuol dire che siamo al capolinea. Non possiamo andarcene di qua » l'uomo si volse verso la ragazza vicino, il cui respiro iniziava a farsi affannoso « Mi spiace di non essere riuscito a salvarti ».

Un pezzo di corazza giallognola rotolò ai piedi dei due. Poi un altro, e un altro ancora. Le prime minacciose silhouette dei Beedrill si erano dispose in cerchio intorno a loro, sbarrando ogni via di ripiegamento. Erano pronti all’assalto finale.

D'un tratto una lingua luminosa brillò attraverso l’ammasso di insetti che si erano accalcati in prossimità del tunnel verticale, irradiando un fulgore rosseggiante nell'antro. La temperatura parve incrementarsi, quasi qualcuno avesse acceso una stufa.

Un attacco di tipo Fuoco.

« Ehi! Avevo detto di non mandare Charmeleon qua! Ora saremo in tre a morire! » sbraitò Bellocchio con inusuale ira al microfono.

« Ma veramente… Nessuno di noi ha mandato nulla ».

Il giovane strabuzzò gli occhi e alzò il capo incrociando le fiamme che infuriavano all'entrata. Non poteva non trattarsi di una tecnica di un Pokémon, era impossibile.

« Non è un Charmeleon » acclarò Serena scostando le ciocche di capelli dal volto per esserne ancor più sicura « È un Fletchling ».

I loro sguardi osservarono allibiti il piccolo pettirosso che si stava facendo strada tra i fatali aculei dei Beedrill con agilità innata, abbrustolendo con vampe di fuoco ogni nemico che gli si parava di fronte. Il suo agile corpicino scansava ogni offensiva degli spuntoni acuminati, dominandoli con sorprendente abilità.

« È troppo veloce… Non riescono a prenderlo ».

Serena si gettò a capofitto sul PSS, gridando a squarciagola ai suoi amici « Mandate giù Charmeleon, subito! E tutti i vostri Pokémon di Fuoco! ».

In poco più d'un batter di ciglia nuove fiammate accompagnarono quelle scagliate da Fletchling e nel nido esplose un incendio incandescente che bruciò ogni rimasuglio dei loro assalitori. I due ragazzi si misero in salvo per il rotto della cuffia, afferrando con sforzi congiunti il lembo penzolante della fune per essere trascinati in cima, giusto pochi momenti prima che il fuoco raggiungesse anche quell'angolo per condannare tutti gli infausti Beedrill rimasti sottoterra al loro altrettanto infausto destino.

Dicono che la natura si riprenda sempre ciò che è suo. Quella volta, senz’altro, era stato il Bosco a distruggere il suo parassita.

 

 

Bellocchio e Serena stavano camminando fianco a fianco su quello che, finalmente ne erano certi, era l'ultimo sentiero che avrebbero percorso del Bosco Novartopoli. Gli altri si erano affrettati per concludere quella tappa del loro viaggio, ma loro due si erano attardati perché lui aveva voluto attendere che il tramonto si concludesse, mentre consultava affaccendato un taccuino in pelle nera. Lei gli aveva chiesto di leggerlo, racimolando come al solito una delle sue repliche sibilline.

E dunque eccoli lì, ai confini di quella foresta dove almeno uno di loro aveva vissuto, al momento, l'avventura della sua vita. Al buio, soli.

Soli?

« Fletchliiii~! ».

Serena si voltò per prima, gettando uno sguardo al cammino appena battuto: sopra di esso stazionava ora un piccolo uccellino ben noto ormai alla coppia più che a chiunque altro.

« Credo che qualcuno voglia vederti » commentò divertita.

Al secondo verso del Pokémon corrispose anche la reazione di Bellocchio, che notatolo si accovacciò di fronte a lui con un sorriso « Guarda chi si vede! La mia salvatrice! ».

Giocosamente le tese la mano, e con sua meraviglia la creatura rispose facendosi stringere la zampetta « Fletchling! ».

« Credo che voglia venire con te ».

« So tutto sull'argomento, per piacere, ho letto quel libro » replicò con finto sdegno il giovane, procedendo poi a recitare quella che secondo lui doveva essere, per così dire, l'etichetta « Signorina Fletchling, le andrebbe di divenire nostra amica e unirsi a noi in questa entusiasmante avventura a Kalos? ».

La reazione del pettirosso a questa iterazione della domanda fu priva di adito a dubbi e affermativa. Bellocchio passò al setaccio le tasche, estraendo una delle due Poké Ball ricevute da Calem quel giorno; lì però Fletchling arretrò leggermente.

In principio i due pensarono che non volesse soggiornare nella sfera. Non era quella la ragione: aveva semplicemente qualcosa da fare prima. Sotto gli occhi circospetti della coppia, l'uccello fece rotolare una scintillante biglia bluastra fino ai piedi di Bellocchio, che ne rimase a dir poco interdetto.

« Che cos'è? ».

L'uomo lo squadrò per un istante, un singolo istante: tanto bastò perché comprendesse. Si chinò con un guizzo, incitando Serena a fare lo stesso, e si rigirò tra le mani l'oggetto. Si trattava di un frammento celeste che scatenava un carnevale di giochi di luce e, cosa più interessante, ne produceva di propria.

« È uguale alla tua ».

La ragazza non riuscì a interpretare il senso di quelle parole « La mia cosa? ».

« La pietra che ho ricevuto insieme a Karen ».

« Quella? Ma… non brilla da sé ».

Bellocchio la fissò negli occhi « Tirala fuori ».

Lei ottemperò alla richiesta, denotando che in effetti la gemma rotonda aveva iniziato a produrre un vivido barlume rosato che rischiarava il paesaggio.

« Si illumina al buio ».

« Cioè è fosforescente? ».

« No, no. La luce è sua, ma la crea solo… al buio » Bellocchio la esaminò con ancor maggiore meticolosità, come assorbendone egli stesso la reale natura.

« Illumina meno della mia » gli fece notare Serena.

« È solo un pezzo, una briciola di quella originale. Ma al completo sarebbe esattamente come la tua, ne sono certo ».

Bellocchio si alzò in piedi, sempre con l'artefatto tra le mani, e con la Poké Ball che prima aveva estratto catturò, anche se sarebbe più corretto il termine accolse, Fletchling. La sua concentrazione, tuttavia, era ancora su altro « Però ancora non capisco ».

« Che intendi? » domandò Serena.

« Questa era dentro al nido dei Beedrill. È stata lei a emanare l'energia che ha permesso loro di evolversi e deporre, un'energia inimmaginabilmente più forte di qualsiasi cosa che abbia mai visto in vita mia. Sono arsi vivi pur di difenderla ».

L'uomo strinse il pugno con un'inquietudine maggiore di quanta ne avesse mostrata fino ad allora, persino quando era prossimo alla morte. Perché lì, almeno, aveva l’intera situazione ben chiara. Ma quella pietra non aveva il minimo senso. Perché lei? Da dove veniva? Come poteva irradiare una simile energia?

E soprattutto perché i Beedrill l’avevano protetta fino alla morte?

 

 

Calem, Trovato, Shana e Tierno avanzavano verso una folla accalcata al confine di Novartopoli. La cittadina era inusualmente illuminata per il suo scarso numero di abitanti, e pareva immersa in uno stato di fibrillazione incontenibile.

« Che succede? ».

« Non lo so » replicò il più grande del gruppo « ma lo scoprirò ». Si diresse quindi verso uno di coloro che dovevano essere gli addetti ai lavori, nonché i responsabili di quell'inedito ingorgo. Quest'ultimo, vestito in uniforme color indaco e attorniato da una ventina di cronisti che brandivano videocamere e microfoni, lo bloccò all'ingresso con fare autoritario.

« Io e i miei amici vorremmo entrare nella città ».

« Solo chi dispone di un legittimo documento d'identità riconosciuto dall'Amministrazione di Kalos ha diritto d'accesso ».

« Si dà il caso che ne sia in possesso » replicò gelido Calem esponendo un tesserino provvisto di fotografia e dati anagrafici. La guardia esaminò l'attestato, annuendo con una smorfia.

« Anche i suoi amici devono mostrarlo ».

« Lo faranno. Ma prima deve dirmi la ragione ».

« Stiamo tenendo sotto controllo chi entra ed esce da Novartopoli ».

« Perché? ».

L'agente si guardò attorno, facendo attenzione a dire solo ciò che i giornalisti già sapevano « Il fuggitivo di Luminopoli si trova qui ».

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 1x06 - L.K. Noire ***


Untitled 1

« Ehi, cos'è quella folla laggiù? Non mi avevi detto che Novartopoli fosse così popolata ».

« Non lo è, infatti ».

L'uomo accelerò il passo, dirigendosi risoluto verso il cuore dello sciame di persone; venne però trattenuto per un braccio appena prima di raggiungere l'obiettivo.

« Inutile che vai, mi sono già informato ».

« Calem! » esclamò Serena raggiungendo i due e i ragazzini che si erano loro aggregati. Solo a quel punto Bellocchio riconobbe colui con cui aveva trascorso buona parte della giornata.

« Ah, il bimbolin ».

« Cos'è un bimbolin, ora? ».

« Sei tu » tagliò corto « Allora, che novità? ».

Calem li trasse fuori dall'assembramento, conducendoli in uno spiazzo più tranquillo e privo del caos urbano che poco aveva a che fare con il pauperistico villaggio che tutti, eccettuato Bellocchio naturalmente, conoscevano.

« Sono giornalisti. Per la maggior parte, se non altro ».

« Giornalisti a Novartopoli? Per che cosa? ».

« Non ne ho idea. Parlavano di un fuggitivo, o roba simile ».

Serena e Bellocchio si scambiarono un'occhiata preoccupata, rammentando quanto era avvenuto a Rio Acquerello parallelamente allo scontro con Shana.

« Sapete qualcosa? » li interrogò Calem.

« A Rio abbiamo trovato un avviso sulla bacheca che parlava di un ricercato per… rapimento, dico bene? ».

Bellocchio annuì « Sono andato al municipio per avere qualche informazione, ma sembravano, come dire, restii a parlarne. Uno del luogo mi ha detto che era scappato dal Carcere di Luminopoli ».

« Quel Carcere di Luminopoli? ».

« Ti sembro uno che ne sa qualcosa? Entriamo e scopriamolo, no? ».

Calem non lo diede a vedere, ma gongolava interiormente per la notizia che stava per comunicare. Avrebbe messo fuori gioco quel presuntuoso estraneo per parecchio, e non avrebbe potuto desiderare di meglio.

« Beh, vedi, c'è un problema: tu non puoi entrare ».

 

 

 

Episodio 1x06

L.K. Noire

 

 

 

Novartopoli, almeno all'interno delle benevole mura cittadine, era rimasta il tradizionale paesello che tutti si erano attesi di trovare fin dal primo istante: grilli notturni, silenzio etereo e ombre rinfrescanti proiettate dai pini seminati lungo le vie principali, anche se in effetti l'unica fonte di illuminazione, eccezion fatta per una pallida falce di luna stagliata nel cielo, era fornita dai rarefatti lampioni sparsi qua e là senza impegno, come se nessuno li avesse veramente desiderati.

Bellocchio, in quanto non in possesso di un valido documento d'identità, era dovuto rimanere fuori dalla contrada, sotto lo sguardo compiaciuto di Calem e quello irritato di Serena. Comunque aveva assicurato che, in un modo o nell'altro, sarebbe riuscito a entrare; e se lo diceva lui c'era da starne certi.

Accompagnati da Shana, Trovato e Tierno, che si erano categoricamente rifiutati di rientrare a Borgo Bozzetto – erano in un'avventura anche loro, dopotutto –, avevano dunque deciso di trascorrere la notte nel locale Centro Pokémon, una rustica struttura poco distante dall'ingresso meridionale della città. Il suo piano superiore, quantunque piccolo, era comunque in grado di accoglierli tutti – seppur per un pelo, dal momento che su sette posti letto disponibili ne erano stati occupati solo due.

« Beh, a quanto pare è una fortuna che il Dottor Cravatta sia rimasto fuori da questa storia. Avrebbe dovuto dormire all'addiaccio. Pensa cosa gli abbiamo risparmiato » commentò divertito Calem.

Serena fu per assestargli uno dei suoi schiaffi, ma strinse i pugni e si contenne. Ringraziò cordialmente l'infermiera e si recò alle scale mobili, attendendo pazientemente che il mezzo di trasporto facesse il suo corso.

La stanza adibita al loro soggiorno temporaneo era ampia e fredda, illuminata solamente da una lampada al neon sul soffitto: le pareti erano di un anonimo grigino salvo per una solitaria finestra su un lato nonché per un angolo dove, in corrispondenza dell'unico calorifero presente, esse si erano annerite.

I letti erano, come relativamente da programma, sette brande malmesse addobbate con pesanti coperte color topo: due di esse ospitavano già effetti personali altrui, le altre erano libere. Tutti meno Calem, essendo per nulla avvezzi a una simile confusione nelle proprie camere, ne rimasero sconvolti: anche quest'ultimo, tuttavia, non aveva mai assistito a un tale degrado nei comunemente molto puliti Centri Pokémon, non avendo per giunta mai pernottato a Novartopoli.

Un suono di acqua corrente attirò la loro attenzione, convogliando i loro sguardi verso una porta che non avevano notato prima, il bagno. Una volta tornato il silenzio proprio questa si aprì cigolante e una figura ben nota ai presenti, che però mai si sarebbero aspettati di incontrarla , ne uscì. Serena, la più perplessa di tutti, arrossì per l'imbarazzo.

« M-mamma? ».

La donna, vestita in abiti mondani e inusuali per il suo classico stile sportivo, realizzò con un secondo di ritardo la presenza di sua figlia e dei suoi amici.

« Oh, tesoro! Che ci fai qui? Oh, e chi c'è con te… Shana, Trovato e Tierno! » soggiunse.

« Cosa ci faccio io qui? » domandò spaesata Serena « Cosa ci fai tu qui! Non mi hai nemmeno avvertita che te ne saresti andata da Borgo Bozzetto! ».

« Signora Williams, come mai a Novartopoli? Non ci sono gare di Rhyhorn qua, no? » intervenne Tierno con poco conscia diplomazia.

« Oh, mi piaceva la città… E poi con quel fuggitivo in giro, non volevo che rischiaste di rimanere da soli qui! Dunque, che cosa vogliamo fare per prima cosa? Se non sbaglio domani è giorno di mercato, anche se non so se ci sarà ancora, con tutto quello che sta succedendo… ».

Calem si fece avanti, essendo l'unico a non essere stato salutato nel primo giro « Buonasera, signora ».

« Buonasera anche a te, bimbolin ».

La comitiva sgranò gli occhi all'unisono. Con un guizzo felino la donna afferrò un mantello scuro e se lo calò addosso fino a esserne completamente ricoperta; quindi, trascorsi alcuni istanti, lo lanciò in aria per rivelare ben diverse sembianze.

« T-tu? ».

« Non fare quella faccia sorpresa, su » lo schernì Bellocchio « Ah, per la cronaca Dottor Cravatta non è nemmeno male, come nome. Se ti chiedessi come l'ho sentito, le voci rimbombano un po' tra queste mura ».

Serena non sapeva bene come sentirsi: da un lato era sollevata per il fatto che non si trattasse realmente di sua madre, dall'altro l'idea che il suo amico ne avesse assunto le sembianze la inquietava non poco. Optò per un generico stato di disorientamento « Come hai fatto a cambiarti così in fretta? ».

« Regola numero uno, niente domande stupide! Molto bene, il letto vicino alla finestra è mio» soggiunse con eccitazione l'uomo, atterrando con un balzo su una delle brande « Posto perfetto per un fuggitivo, non vi pare? Novartopoli… La chiamano la città dei black-out, perché spesso manca l'elettricità e si resta tutti al buio. Uno direbbe che i criminali se le pensino queste cose, anziché trovarsele già pronte ».

« Chi ti ha detto tutto ciò? » lo interrogò Serena mentre, scelto il giaciglio accanto a quello di Bellocchio, vi deponeva il contenuto della sua borsa.

« La gente sembra essere molto più propensa a fornirti informazioni quando sei un'avvenente signora… Anche questa non l'ho mai capita ».

« Già, già, com'è poi la storia di mia madre? Cioè, ti sei travestito per entrare, ma non potevi avere anche la sua carta d'identità… vero? ».

« Non ho avuto il tempo di falsificarla, ammetto di essere stato colto un po' alla provvista » spiegò lui mentre dispiegava alcuni dépliant esplicativi recuperati chissà quando e dove « Però ho pensato che come Bellocchio sarei stato più sospetto che come mamma-di-Serena. Ora! Dove potrò trovare a quest'ora una TV con il digitale terrestre? Non posso rischiare di perdermi Breaking Bad proprio ora che Elliott e Gretchen–– ».

La porta principale della camera si aprì nuovamente, catalizzando ancora l'attenzione di tutti. Questa volta entrò una ragazza di più o meno sedici anni dai lunghi capelli rossi e ricci agghindati in una coda e abbigliata con quella che a tutti gli effetti pareva un’uniforme scolastica canonica, completa di giacchetta grigia abbottonata e minigonna scozzese abbinata. Si trovò di fronte tre ragazzini, due che potevano essere suoi coetanei e un ventisettenne in completo; eppure la sua reazione, con un sorriso stampato in volto, fu la più comune possibile.

« Oh, coinquilini! ».

Seguì un silenzio surreale. Nessuno aveva il coraggio di fiatare, temendo che la sua frase cadesse nel vuoto e accrescesse il disagio. Poi Shana si comportò com'era abituata a fare e corse incontro alla nuova arrivata « Ciao! Come ti chiami? ».

« Io… Ada. Voi? ».

« Ah, Ada. Bel nome ».

« Lascia stare, lo dice a tutti ».

« No, per una volta concordo con il Dottor Cravatta » intervenne Calem « È un bel nome. Familiare ed esotico ».

« Sì, abbiamo capito » strinse Serena.

« Io mi chiamo Shana! Loro sono Tierno, Trovato, mio fratello Calem, Serena e… ».

« Bellocchio ».

« Bellocchio? » domandò con un risolino Ada « Sarebbe un nome? ».

« A essere precisi è uno pseudonimo » puntualizzò il portatore « Se preferisci puoi chiamarmi Dottor Cravatta, però per par condicio il ragazzo laggiù diventa Bimbolin ».

« Sentimi bene, tu–– ».

« Oh, ignorali » la consigliò Serena avvicinandosi a lei che, nel frattempo, si era riappropriata della sua branda, esattamente di fronte a quella della ragazza, e aveva iniziato a mettere ordine « Noi siamo allenatori in viaggio. Tu come mai sei qui? ».

« Oh, studio al Liceo per Allenatori ».

« Scusa, sarebbe… Il Liceo per Allenatori di Novartopoli, giusto? Mia madre voleva mandarmi lì visto che non riuscivo ad avere il mio primo Pokémon ».

« Proprio quello. Dovreste avere incrociato il campus arrivando qua ».

« C'era folla, a dire il vero, quindi non abbiamo visto molto della città ».

« Ah, io l'ho notato mentre mi intrufolavo dall'altra parte » si inframmise Bellocchio, che aveva ancora il capo immerso nelle carte raccattate lungo la via « Molto barocco. Come mai non dormi là? ».

« L'anno scorso uno di Chimica Sanitaria ha fatto saltare in aria la sua camera mentre cercava di sintetizzare un Revitalizzante Max. Indovina a chi è toccato alloggiare nel Centro per mancanza di fondi per le riparazioni? ».

« Ah, che fortuna! ».

« Ma là che siete tutti dei cervelloni » l'ingerenza era questa volta di Calem « sapete mica perché questo posto fa così schifo? ».

« Credo che i sovvenzionamenti del paese siano stati dirottati tutti al Liceo, peraltro con scarso successo. Non avranno soldi per pagare una donna delle pulizie ».

« Io sarei potuto essere una donna delle pulizie. Sarei stato la Regina delle Pulizie. O Colei Che Ha Pulito. Pensa che vita » parlottò tra sé e sé Bellocchio « Che mi dici dei black-out, invece? ».

« I black-out? ».

« Controllavo un opuscolo della Centrale del Percorso 13 che dettaglia la produzione di energia geotermica e la distribuzione a Kalos. Secondo i miei calcoli a Novartopoli viene convogliata grossomodo due volte l'energia necessaria per il suo fabbisogno ».

« Quale razza di opuscolo ti di–– ».

« E ciononostante » riprese l'uomo ignorando le proteste di Serena « ogni tanto parte la tensione. Come ve lo spiegate al Liceo? ».

Ada rimase inebetita e per un attimo non rispose.

« Nessuno si è mai fatto questa domanda prima ».

 

 

Bellocchio alzò il braccio e consultò l'orologio da polso attraverso la luce lunare che filtrava attraverso il vetro a parete: undici e ventitré. I suoi compagni di stanza dormivano profondamente. Avendo cura di non produrre alcun rumore molesto si alzò dal letto e recuperò il suo fido cappotto marrone da un appendiabiti a parete in un angolo. Quindi aprì con delicatezza i battenti della finestra, assaporando la frescura notturna della primavera che lo investiva, il profumo identico a quello che si percepiva a Sinnoh.

« Che stai andando a fare? ».

Il giovane si voltò: era stata Serena a parlare, in uno stato di dormiveglia poco chiaro. Forse non era nemmeno lucida. La osservò per un po', pensieroso.

« Vado a fare chiarezza su un paio di cose » le sussurrò prima di spiccare un volo attraverso la fessura nel muro che lo vide atterrare sul terriccio sottostante, nell'aiola che contornava il Centro Pokémon.

Era una notte silenziosa in cui l'unico vociare proveniva dai confini di Novartopoli, dove ancora la polizia sorvegliava l'ingresso. Sorprendentemente non si notavano molte pattuglie nelle ore serali, forse perché vista la scarsa illuminazione provvista dai lampioni era una causa persa.

Bellocchio fu dunque in grado di incamminarsi con decisione verso una meta che aveva individuato non molto tempo prima, mentre eludeva i controlli di frontiera del paesello. Imboccò un paio di svolte, passando di fianco ai vari dipartimenti universitari, finché non avvistò una bettola dalle luci ancora accese, proprio come aveva sperato. Alla Jynx Nera, il suo nome.

Si avvicinò circospetto alla porta, un'asse di legno che aveva visto certamente tempi migliori. Si assicurò rapidamente che non vi fossero esponenti delle forze dell'ordine nei paraggi, quindi entrò attraverso l'uscio stridulo.

L'interno era soffusamente illuminato da un paio di gialle lampade ballerine, con alcuni uomini addormentati sui tavoli in abete o, al più, intenti a consumare con calma il loro ultimo bicchiere di whiskey. L'atmosfera era riscaldata da un duetto, sassofono e pianoforte, affaccendato nell'esecuzione di un pezzo cool jazz.

Bellocchio si avvicinò al bancone, dove uno stanco barista di mezza età stava sfregando uno straccio nella conca di un boccale cristallino. Non somigliava molto a Gant: tanto per cominciare non stava parlando.

« Buonasera ».

« 'sera » lo salutò stancamente « La spina di bionda è rotta, quindi non la chieda ».

« A dire il vero non sono qui per bere ».

« Allora ti suggerisco di cercarti un'altra taverna ».

Bellocchio infilò la mano nella tasca esterna del cappotto, estraendone il frammento blu che Fletchling gli aveva consegnato quello stesso giorno.

« Sto cercando qualcuno che mi sappia dire il valore di questa pietra. L'ho fregata a uno svitato a Rio, sembrava tenerci parecchio ».

L'oste mise da parte un attimo il suo gotto ed esaminò la piccola gemma « Non ti darò un centesimo per questa roba ».

« Non mi interessa il tuo parere. Conosci qualcuno che sappia farmi una perizia? ».

Quello ci pensò un po' su « Beh, sembra un lavoro per Saul ».

I musicisti, frattanto, avevano cambiato melodia: il più giovane aveva abbandonato il sassofono in favore di una chitarra acustica, e ora il brano eseguito era più frivolo.

« Chi è questo Saul? ».

« Un esperto di pietre preziose e robe così. Non l'ho mai incontrato, però ho sentito di alcuni e sembra bravo. Se quella cosa è buona può anche darsi che te la compri ».

« E dove posso trovarlo? ».

Il taverniere si allontanò per un minuto, ripresentandosi poi con un pezzo di carta con sopra scritto a calligrafia sommaria una via e un numero civico. Bellocchio lo inquisì con meticolosità, per poi rigettarglielo in faccia innervosito.

« Non prendermi in giro. Questo indirizzo non esiste, Novartopoli è troppo piccola perché tu possa fregarmi ».

« Sei nuovo di qui, vero? » ghignò il barista.

« Sono arrivato oggi ».

« Vedi, io potrei anche dirti dove trovare questo indirizzo. Ma se tu fossi uno sbirro non ne uscirei tanto bene, e la gente come Saul sa essere pericolosa ».

« Io non sono uno sbirro ».

« E come faccio a saperlo? ».

« Perché se lo fossi adesso tu mi staresti già portando da questo Saul scortato da quattro dei miei ».

L'uomo non rispose. Facendogli segno con la mano lo invitò nel retrobottega, dove lo condusse fino a un quadro che ritraeva quello che pareva un albero genealogico dalle migliaia di membri: qui sfiorò con l'indice il ramo di uno dei suoi antenati – o che presumibilmente erano i suoi – e proseguì il suo cammino fino a un piccolo ripostiglio alla fine di un breve andito. All'interno di esso, nel mezzo dello stanzino, si era aperta una botola rivelando una scaletta mezza arrugginita.

L'oste sospinse Bellocchio con una pacca sulla schiena « Rimarrà aperta per venti secondi ancora. Muoviti, e quando devi risalire batti tre colpi ».

« Dove porta? ».

« Quindici secondi ».

Il giovane afferrò l'antifona e iniziò a scendere i pioli, cercando ove possibile di non tagliarsi per scansare crisi tetaniche. L'apertura si richiuse con un tonfo sopra di lui, immergendolo nel buio, ma continuò a calarsi giù fino a raggiungere un pavimento in cemento.

Lo percorse con cautela, temendo un agguato o qualcosa di simile. Al suo termine, invece stava una delle opere più inquietanti che avesse mai visto. Uno solo era il termine possibile per definirla: una città sotterranea.

In realtà era più un quartiere viste le dimensioni, ma per il resto era terribilmente fedele: il soffitto della struttura era consto di un'orchestra di lanterne arancioni su un fondo color castagna, mentre gli isolati veri e propri erano rischiarati da un'infinità di lampioni. I black-out avevano una spiegazione, e lui l'aveva appena trovata.

Si avviò verso un incrocio laterale di vie, di modo da entrare nella ragnatela stradale che stava contemplando. Un cartello appena prima di esso portava inciso a grandi lettere:

 

 

IL NIDO

 

 

Bellocchio consultò il foglio fornitogli dal taverniere, constatando che l'indirizzo ivi scritto combaciava con uno dei vicoli che si dipartivano da lì. Seguì dunque le indicazioni fino a un'altra osteria, questa volta più piccola e silenziosa di quella in superficie, ma anche meglio curata – del resto probabilmente vi bazzicavano meno persone.

All'interno vi erano solo tre persone: due di esse erano accasciate sui rispettivi ripiani rotondi, in una condizione a metà tra il sonno e il coma etilico; il terzo, in giacca e cravatta e dall'aria distinta, leggeva tacitamente un quotidiano. Bellocchio gli si sedette di fronte, al che l'uomo abbassò il giornale a rivelare un volto distinto in qualche modo rovinato da un unticcio riporto di capelli sulla testa.

« Lei è Saul? ».

« Così mi chiamano » rispose lui con un sorriso che di allegro non aveva assolutamente nulla. Pareva un individuo dal timbro imprenditoriale, una sorta di professionista del mestiere. L’enigmatico frammento fosforescente ruzzolò sul tavolo, pronto per l’esame.

« Mi hanno detto che è un esperto di pietre. Volevo sottoporle questa ».

« Mineralista, prego » Saul lo prese e se lo rigirò tra le dita, annuendo e stringendo le palpebre di tanto in tanto « Dove l'ha trovato? ».

Bellocchio comprese che mentire non sarebbe stato di alcuna utilità « L'ho rinvenuto nel Bosco Novartopoli, a sud di qua. Ha fatto impazzire dei Beedrill ».

« Non me ne sorprendo. Prima di comunicarle il mio responso, tuttavia, devo avvertirla che i miei servigi sono tutt'altro che a buon mercato ».

« L'uomo che finge di dormire lì all'angolo è un mio sottoposto. Ha lui i soldi necessari, la pagherà quando sarò uscito ».

« Gradirei che me li consegnasse personalmente ».

« Sono un uomo di una certa levatura » replicò Bellocchio glaciale « Preferirei che nessuno mi vedesse consegnare mezzo milione in contanti a qualcuno qua sotto ».

Udita la cifra Saul si leccò le labbra e si ammansì « Molto bene. Credo già sappia che questa pietra non è integra. È una briciola, credo un quarto di quella originale ».

« Ho avuto modo di appurarlo ».

« Ho già avuto a che fare con questo materiale prima d'ora. La funzione di questi reperti non mi è propriamente chiara, ma so per certo che hanno a che fare con la Meridiana ».

« La Meridiana? ».

« Lei non è di Kalos, dunque » dedusse Saul facendo scivolare la pietruzza sul ripiano di legno « Questo spiega perché non l'abbia mai vista prima. Deve sapere che a Fluxopoli, a nordest di qui, c'è un gigantesco orologio solare in cristallo giunto su questa Terra in modi ignoti. Nessuno ha documenti che ne attestino la costruzione, e i popoli antichi la chiamavano gigim xul, “colei che è venuta” ».

Bellocchio rimase esterrefatto. Non tanto per il concetto della Meridiana, che da dove veniva lui sarebbe stata in buona compagnia; quanto per il fatto che tale concetto non gli era nuovo, come se da qualche parte nel suo subconscio ne avesse già sentito parlare, o addirittura avesse già visto una cosa simile.

« E che cosa c'entra questo con il frammento? ».

« Ho avuto in via eccezionale la possibilità di entrare in possesso di una scheggia della Meridiana, e la sua composizione mineralogica è del tutto affine a quella delle pietre di cui la sua fa parte ».

« E per quanto riguarda il fatto che si trovasse nel Bosco Novartopoli? ».

Saul si appoggiò allo schienale e prese a giocherellare con il suo giornale come fosse un antistress.

« Le dirò, in tutta franchezza non ne ho la minima idea. Il reticolo di questi minerali è estremamente compatto, mi sorprendo persino che si possa rompere. D'altronde » soggiunse con un ammicco « non è l'unica cosa strana che è successa in questi giorni ».

A quelle parole Bellocchio si drizzò sulla sedia e appoggiò i gomiti sul tavolo. Era troppo sveglio per non cogliere un riferimento tanto ovvio « Parla del Fuggitivo? ».

« Questa è una sua supposizione ».

« Le mie supposizioni raramente si rivelano errate. Che cosa sa lei del Fuggitivo? ».

« Che cosa sa lei? » replicò con astuzia Saul.

Il giovane incrociò le braccia, avvicinando al contempo la mano destra alla sfera di Fletchling senza dare nell'occhio « So che è evaso dal Carcere di Luminopoli. Ma a giudicare da come ne parla direi che lei ne sa parecchio più di me, e non me lo vuol dire. Teme anche lei che sia un agente in borghese, vero? ».

« Al contrario. È proprio perché so che lei non è dei loro che non posso dirle nulla ».

Quella frase enigmatica risuonò nella mente di Bellocchio come un puzzle arrogante che ostenta la sua insolubilità. Non aveva il minimo senso, non detta da un criminale che trascorreva le notti nel Nido.

« Che vuole dire? Cosa sanno le forze dell'ordine? ».

« Più di quanto sappia io, forse ».

« Se le sa lei, non vedo perché non potrei saperle io ».

« Non è esatto. Vede, punto primo io so essere estremamente discreto, e difficilmente mi avventurerei in un tentativo di sostituire le autorità » rispose Saul « Ma ha ragione, io potrei dirle tutto quello che so e nessuno mi torcerebbe un capello ».

« E allora il problema qual è? ».

« Che ci sarebbero delle… » l'uomo fece una pausa, come se stesse ricercando la locuzione più appropriata « … reazioni collaterali, ecco. Conseguenze su scale che non voglio accollarmi ».

Bellocchio si alzò in piedi, e altrettanto fece colui che gli stava di fronte. Si scrutarono inflessibilmente per un minuto o forse più, scandagliandosi l'un l'altro con accuratezza incomparabile.

« Mettiamo le cose in chiaro, Saul. Io avrò quelle informazioni, con le buone o con le cattive ».

« Giusto perché non faccia sciocchezze, sappia che sono armato ».

« Davvero? Io sono un allenatore ».

Lo sguardo di Saul fu attraversato da un fulmine di incertezza, come se gli fosse ceduto il terreno sotto ai piedi. Poi scattò con un balzo verso l'uscita della bettola, venendo prontamente inseguito da Bellocchio.

I due percorsero una lunga venatura del Nido, a quell'ora completamente deserto. La caccia si protrasse sottoterra per un paio di minuti, il tempo di aggirare il perimetro del nascondiglio e trovarsi al confine opposto rispetto alla scaletta arrugginita. A un certo punto Saul, conscio di non essere in grado di superare in velocità il suo mastino personale, imboccò uno svincolo che conduceva a un'alta gradinata a spirale.

La caccia proseguì dunque lungo l'impalcatura verticale, al termine della quale una porticina conduceva in un lungo tubo maleodorante in cui fluiva un fiume di liquame verdognolo: le fogne di Novartopoli. Saul fuggì lottando contro il fiatone fino a un'ulteriore scala a pioli, che questa volta attraversava un tombino per dare di nuovo su uno dei viali di Novartopoli.

Una volta fuori prese un respiro profondo e sferrò un calcio al coperchio per chiudere il passaggio, sfoderando poi una Desert Eagle dalla tasca interna della giacca e puntandola contro di esso. A quel punto, dito sul grilletto, la tenne pronta aspettando che il suo avversario commettesse l'ultimo errore della sua vita.

« Fletchliiiii~! ».

Un colpo secco accompagnò una fitta alle mani e un tonfo a terra della sua pistola. Con la coda dell'occhio scorse il volo acrobatico del Fletchling che lo aveva disarmato; contemporaneamente il tappo metallico saltò e l'inseguitore balzò fuori atterrandolo con uno sprazzo.

« Bravissima, Nephtys! » si congratulò Bellocchio « Allora, Saul, ti sei deciso a parlare? ».

« Tu non hai idea! » gli sbraitò addosso « Se te lo dico–– ».

« Non mi interessa ».

« Io… Io so solo… Dove… ».

« Che cosa? Parla! ».

« … dove si nasconde! ».

I due rimasero per un istante a guardarsi, mentre Bellocchio pareva intento a decidere il da farsi. Nel frattempo Nephtys era atterrata e li osservava a sua volta dal basso.

« Beh, allora dillo ».

« Ci… ci sei… ».

« Dillo! ».

« … ci sei davanti… ».

L'uomo guardò a lato, incontrando un mastodontico edificio che si sviluppava su svariati metri di larghezza, chiuso da un ciclopico cancello metallico. All'interno ospitava un ampio giardino sviluppato attorno a una elegante fontana in marmo.

« Ne sei assolutamente sicuro? ».

« Me l'ha detto… lui… Giuro su Dio! » esclamo Saul in preda al terrore, del tutto dimentico della sua nonchalance da criminale di alta classe « Ti prego, non uccidermi! Non mi vedrai più, te lo prometto! ».

Bellocchio allentò la presa, permettendo che il codardo se la svignasse attraverso il tombino giù fino al Nido. Quindi si drizzò sulle gambe, inspirò due o tre volte e, richiamato il suo Pokémon, si diresse alla più prossima cabina telefonica pubblica. Digitò il numero 17 e attese che una voce impostata rispondesse dall'altro capo del filo.

« Polizia Regionale di Kalos. Desidera? ».

« Vorrei denunciare la presenza di una struttura sotterranea a Novartopoli. A quanto ho scoperto per ora è accessibile mediante il sistema fognario e una taverna locale, la Jynx Nera ».

Senza attendere risposta, il giovane riattaccò la cornetta con serenità e si allontanò, puntando il Centro Pokémon e lasciando dietro di sé la pesante inferriata del Liceo per Allenatori.

 

 

 

 

 

 

 

Un ringraziamento speciale a Nicola, in arte Roy, che detiene la proprietà intellettuale del termine “bimbolin”.

Se c’è un vero bimbolin al mondo quello è lui.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 1x07 - Ciao a tutti, mi presento ***


Untitled 1

Giovedì, ore 08.11

Craig cavò con cura la bustina ormai fradicia dalla tazza e la depose su una pezzuola accanto, rimandando il momento in cui avrebbe dovuto gettarla nel cestino. Setacciò poi tra le bustine di dolcificanti fino a trovare un tubetto di zucchero di canna, spolverandolo gentilmente nel the caldo appena preparato. Diventava sempre più raro trovare saccarosio puro in quel magazzino di aspartame, specie da quando il Liceo aveva deciso di tagliare i fondi per la ristorazione.

« Hai finito con quel microonde? Anche ad altri serve ».

« Solo un attimo ».

Prestando attenzione a non scottarsi, l’uomo traslocò il suo spuntino mattutino sul tavolo centrale dell’Aula Professori, vagando poi con la mano destra in cerca di qualcosa che con disappunto non trovò.

« Silvia, hai per caso visto i miei Pan di Stelle? ».

« Dovrei? » domandò con un sorriso una donna sulla trentina d’anni dalla chioma bionda e gli abiti che parevano prelevati dal guardaroba di una di almeno il doppio della sua età. Questo in qualche modo non guastava la sua immagine, anzi la valorizzava in un certo senso. Craig non se l’era mai spiegato.

La osservò, rimanendo per un istante estasiato; poi riprese il controllo di sé e si diresse verso il suo comparto personale nella cassettiera. Per sua fortuna teneva sempre un pacchetto di biscotti di riserva, nel caso qualche ingordo come Donovan o Seacombe trafugasse i suoi.

« Ne vuoi un po’? » chiese protendendo la confezione sul palmo dopo averla aperta.

« No, grazie, lo sai che non amo il cioccolato ».

Già, vero. Ogni tanto fingeva di dimenticarsene: così, per avere un appiglio di conversazione. Altre volte le chiedeva che classe avesse all’ora successiva anche se aveva memorizzato il suo orario a menadito per sfruttare gli incroci in corridoio; altre volte ancora provava a discutere dei rendimenti dei suoi alunni nelle verifiche. Lei tagliava corto, tagliava sempre corto.

Avrebbe desiderato almeno un aggancio per poterle presentare la proposta. Ma d’altronde, di quali agganci si ha veramente bisogno per invitare qualcuno a un ballo scolastico che si terrà a giorni? No, doveva essere lui a vincere il blocco.

« Silvia, mi chiedevo se–– ».

Toc toc toc.

« Bussano? » commentò la professoressa « Qualcuno ancora non ricorda che hanno messo la serratura ».

Dopo il sospetto furto di compiti in classe, d’altronde, che scelta avevano? A Craig non poteva interessare di meno. Gli importava solo che per l’ennesima volta era stato abbattuto a un passo dal traguardo.

« Questo è Jem di sicuro » borbottò avviandosi alla porta per aprire al ritardatario. Con un ampio gesto ruotò l’asse sui cardini, scaricando in faccia al malcapitato tutta la sua frustrazione « Senti, quante volte te lo devo dire che se ti danno una chiave c’è una ragione e non puoi sempre sperare che qualcuno si trattenga qua? ».

« Buongiorno anche a lei ».

Craig sussultò. Non era Jem, il pacioccone in carne che conosceva. All’uscio dell’Aula si era affacciato un uomo ben più giovane, vestito in completo elegante e con un vistoso cappotto marrone sulle spalle. Troppo anziano per essere uno studente, ma conosceva ogni singolo docente del Liceo e non l’aveva mai incontrato prima.

« Mi scusi, io, io credevo fosse… Che cosa sta facendo? ».

Il giovane di fronte a lui aveva estratto da una tasca una lente d’ingrandimento e gli stava ora esaminando il volto, soffermandosi sul suo imbarazzante naso adunco.

« Nulla. Oh, dei Pan di Stelle! » esclamò infilando la mano nel sacchetto e prendendone un biscotto « Di norma preferisco le Gocciole, ma anche questi non sono male. Non si preoccupi, la perdono per il pessimo primo saluto. Posso entrare? ».

Senza attendere un lasciapassare lo scostò e si introdusse nella stanza, esaminandola con un’occhiata e ignorando completamente Silvia a due passi mentre masticava il frollino « Toh, un microonde! Per caso avete anche un fornello o due? Preparo un ottimo risotto con le erbette ».

« Scusi, ma lei non può entrare qui senza dire nulla! Tanto per cominciare, qual è il suo nome? ».

« Oh, negli ultimi tempi me ne hanno dati tanti. Dottor Cravatta, forestiero, “lei”… Io, personalmente, amo chiamarmi Bellocchio. Ma sono aperto a suggerimenti! Oh, e che abbiamo qui, una signorina? Mi perdoni per non averla salutata, mi distraggo molto facilmente ».

Craig, innervosito, fece appello a tutto il suo autocontrollo « Questa è un’aula per soli professori ».

« Ah, che sbadato! Vede che mi distraggo? » Bellocchio si tolse il giaccone e lo lanciò sull’appendiabiti, centrandolo con una mira da cecchino « Io sono il vostro nuovo supplente! ».

 

 

 

Episodio 1x07

Ciao a tutti, mi presento

 

 

 

Giovedì, ore 08.13

« Mi scusi, ma che è successo a Jem? ».

I due passeggiavano lungo un ampio corridoio costeggiato da armadietti verdognoli di metallo alternati alle porte delle aule. In fondo era sita una finestra da cui penetravano i raggi mattutini che, riflettendosi sul pavimento, si univano all’illuminazione al neon in un concerto di luci e di ombre.

« Ah, il professor Wall? Indigestione di cozze al cinnamomo ».

« Cozze al cinnamomo? Esistono? ».

« Oh, certo che esistono » replicò Bellocchio « Esistono eccome. Non le dico cosa succede in caso di allergia, ma è davvero un brutto spettacolo ».

Craig annuì poco convinto « Come ha detto di chiamarsi? ».

« Bellocchio ».

« Cioè vuole presentarsi come Bellocchio agli studenti? ».

« Sì. Che c’è di male? ».

« Beh, è… » il professore incespicò sulle parole da impiegare, cercando di essere quanto più delicato possibile « Voglio dire… Non pensa che si metterebbero a ridere? ».

« Perché mai? ».

« Perché… Insomma, non le conviene usare un soprannome? ».

« Bellocchio è già un soprannome. Perché dovrei volerne un altro? Sarebbe il soprannome di un soprannome. Soprannomeception » ribatté come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Poi si soffermò a riflettere. Dopotutto era in missione segreta, non poteva rischiare di dar via la propria copertura in questo modo. Un nome fittizio era la scelta migliore. Di più: un nome in codice.

« Che ne dice di Heisenberg? ».

« Sono sicuro che più di uno studente segue Breaking Bad ».

« Davvero? Pensa potrebbero svelarmi qualche spoiler? Perché vorrei evitare ».

« Le spiace concentrarsi? » lo implorò Craig stizzito.

« D’accordo, d’accordo… Che ne dice di… Professor Warren Peace? ».

« Beh… Credo possa andare » convenne l’uomo. Si fermarono di fronte a una soglia da cui proveniva un vociare persistente di alunni indisciplinati.

« Questa è la sua aula. È sicuro di ricordarsi tutto ciò che le ho detto? ».

« Supplente di chimica, un’ora, cozze al cinnamomo. Ricevuto ».

« Storia ».

« Come? ».

« Supplente di storia » lo corresse Craig sconsolato « Oh, santo cielo, ma chi diamine l’ha assunta? ».

 

 

Giovedì, ore 07.15

« Ehi! C’è nessuno? ».

Serena bussò con maggior vigore al portone della Palestra, senza ottenere però alcuna risposta. Tierno, Trovato e Shana, che l’avevano accompagnata per assistere alla sua prima sfida ufficiale, attendevano trepidamente che qualcuno aprisse; Calem, trascinato controvoglia da sua sorella, palleggiava con una piccola pietra un metro o due più in là.

« Credo sia vuoto » constatò a un tratto il ragazzo.

« Grazie, Capitan Ovvio. Ma perché dovrebbe esserlo? ».

« Per il Fuggitivo ».

I cinque si voltarono: a parlare era stato un giovane di una trentina d’anni, dai capelli castani lunghi fino alle spalle e gli occhi di un arancio innaturale. Portava sulle spalle un pesante zaino giallo limone colmo fino all’orlo, ma non ne pareva per nulla affaticato.

« Il Fuggitivo? ».

« Esattamente. La Capopalestra Violetta è impegnata a rassicurare i cittadini, quindi non può affrontare nessuno al momento ».

Serena reagì in un misto di sconforto e irritazione « E quando tornerà? ».

« Quando lo avranno preso, immagino. Sfortunatamente la polizia pare sia impegnata a setacciare una specie di covo sotterraneo che si trova proprio sotto i nostri piedi » soggiunse l’uomo battendo il tacco al suolo « Il Nido, lo chiamano. Pare ci siano dei malviventi al suo interno ».

« Come? » intervenne Calem sorpreso « Intende una specie di base segreta? ».

« Esattamente. Pare che il black-out qui a Novartopoli fossero a causa dell’energia usata dalle luci di quel posto, che essendo nascosto la prendeva abusivamente dalla quota della città. L’ha denunciato un tizio, dicono che vada in giro elegante e che in questo periodo stia qua in zona. Uno strambo, pare ».

« Mph… Ancora il Dottor Cravatta… ».

L’avventuriero si avvicinò a Calem, gli appoggiò alla mano sulla spalla e gli rivolse uno sguardo ammiccante. « In realtà » gli mormorò « il nome è Bellocchio ».

« Oh, no ».

« Non due volte in due giorni… ».

« Su, non pretenderete di viaggiare con me se non riuscite nemmeno a riconoscermi nei miei travestimenti! » esclamò Bellocchio con il suo regolare tono di voce.

« Io veramente non voglio viaggiare con te ».

« Quello zaino, poi, da dove viene? » Serena si fermò e anticipò il suo amico « Ah, già, regola numero uno. Che noia ».

« Non è noia, è prassi! Ora, discutiamo di cose più serie–– santo cielo, questo coso è pesante! » commentò deponendo l’ingombrante carico sul terreno « Il Fuggitivo sta al Liceo per Allenatori ».

« Cosa? E tu come l’hai scoperto? ».

« Fonti certe provenienti dal Nido. Adesso, siccome la polizia è convogliata là sotto nessuno si metterà a setacciare la scuola, ma finché quel tizio non viene riacciuffato qui siamo in grosse rogne ».

« E quindi cosa proporresti? ».

« È molto semplice » replicò Bellocchio con un mezzo ghigno « Entreremo di straforo nel Liceo ».

Calem si grattò i capelli, calciando via il ciottolo con cui si stava svagando « Questa è l’idea più assurda che abbia mai sentito ».

« Solo perché non mi hai visto alla Maison Darbois. In realtà è un piano molto semplice: ci fingeremo voi studenti e io un professore e ci infiltreremo per indagare in cerca del Fuggitivo ».

« Come conti di infiltrarti? ».

« Trovato! ».

« Trovato cosa? ».

« Trovato. Il vostro amico, hai presente? ».

Il quattordicenne si ritrovò così cinque paia di occhi puntati addosso. Si guardò attorno, come a dire “io?”; poi, accertatosi che parlavano proprio di lui, domandò « Che cosa c’entro ora? ».

« Indossi una polo, hai una massa indistinta di capelli in testa e sei basso. Il che, se tutto ciò che ho imparato dai Disney Channel Original Movies è vero, significa che sei anche bravo con la tecnologia ».

« Bellocchio! ».

Trovato ignorò l’abbozzato tentativo di difesa di Serena, pur apprezzandolo « Beh, diciamo di sì, ma–– ».

« Problema risolto, signore e signori e… bambini! Il nostro e vostro amico Trovato ci inserirà nel database del Liceo come studenti all’estero e supplente temporaneo! Credi di essere in grado di farlo? ».

« Io… Sì, credo di sì ».

« Eccellente! » esclamò Bellocchio prendendo per mano Trovato e iniziando a trainarlo dietro di sé a forza « Non c’è tempo da perdere! Al PC del Centro Pokémon! E vediamo di non rilasciare Jay Leno, stavolta! ».

 

 

Giovedì, ore 8.10

« Ragazzi, buongiorno. Prima di iniziare volevo presentarvi due vostri nuovi compagni arrivati oggi al Liceo ».

La professoressa, donna tonda e impacciata, li stava introducendo alla loro classe da dietro la cattedra, seduta su un’angusta seggiola bluastra. Calem avrebbe detto che era incastrata, a giudicare dallo scarso movimento che faceva in quella posizione. Gli ricordava uno Snorlax. O Tierno, che nella fattispecie era un po’ la stessa cosa. Parlava in modo forbito e compassato, quindi doveva insegnare con ogni probabilità latino. Quantomeno pareva affabile, anche se ogni tanto staccava e riattaccava il tappo alla penna con la violenza di chi sta immaginando di far calare una ghigliottina sulla testa dei propri studenti.

« Provengono da molto lontano, più precisamente dalla Bimbolin High School di Sinnoh, quindi siate comprensivi, mi raccomando! ».

Un risolino si levò dal fondo della classe. Serena sprofondò nel palmo della sua mano, mentre Calem strinse il pugno e le sussurrò « Io lo ammazzo il Dottor Cravatta, lo ammazzo ».

« Stai calmo, ricorda che dobbiamo comportarci in modo da non destare sospetti ».

« Fottesega proprio ».

« Ora, se volete prendere i vostri posti, così possiamo cominciare la lezione… ».

La mansueta voce della professoressa li riportò all’ordine. Solo due erano i banchi liberi: uno in fondo a destra, addossato a un calorifero dall’aspetto per nulla comodo; l’altro in seconda fila, colonna interna, sotto il pieno controllo dell’insegnante. Serena fece un paio di calcoli e, seguendo il suo istinto, si diresse verso quest’ultimo. Era sempre stata portata per l’onestà, una di quelle che non imbrogliavano mai in un compito, anche a costo di un votaccio.

« No, no, no » Calem la trattenne per un braccio, spostandola a forza per appropriarsi del posto prescelto.

« Come? Vuoi andare tu davanti? ».

« Quella non me la toglierai certo tu ». Con uno sguardo poco rassicurante accennò alla ragazza che sedeva di fianco al punto vuoto, una diciassettenne dal prominente ciuffo platinato che sormontava due occhi dal trucco pesante. Serena si espresse in una smorfia di repulsione e accettò di buon grado di allontanarsi verso il fondo.

Calem quindi si incuneò al meglio sulla seggiola in legno, l’unica di quel tipo e presumibilmente raccattata all’ultimo momento per offrirgli un posto. Mentre sfilava dallo zaino alcuni quaderni reperiti da Bellocchio sa Dio dove, la professoressa iniziò a sproloquiare su qualcosa come la coniugazione perifrastica passiva. Troppi –bus e –ant per i suoi gusti, così si rivolse alla sua compagna.

« Una noia, vero? Scommetto che nessuno la ascolta mai, tanto a che mi serve il latino nella vita? Quando mai mi sarà utile sapere la terza declinazione? ».

« Sì, come dici tu… ».

Il ragazzo sbirciò il sottobanco della vicina, dove questa stava tenendo fissi gli occhi. Era concentrata su qualcosa, anche se Calem non riusciva a scorgere cosa. Probabilmente l’ultima applicazione per il PSS.

« Ehi, quello è Angry Birds? » azzardò.

« Veramente è Il ventaglio di Lady Windermere di Wilde ».

« Lady Windermere? Non era quella dell’isol–– ».

Il giovane tacque, riflettendo su quello che aveva appena detto e convenendo non aveva il minimo senso. Aveva parlato completamente a caso. Il suo peggior incubo si stava avverando: era entrato in modalità Dottor Cravatta.

La sua mente cercò rapidamente di distogliersi da un’eventualità simile « Ah, non mi sono presentato. Piacere, mi chiamo Calem ».

« Elesabeth ».

« Non intendi Elizabeth? ».

« No. Perché? » gli rispose lei con lo sguardo più innocente del mondo.

Calem la osservò stranito. Quel dialogo stava sfociando senza dubbio nel nonsenso più totale. Per un istante ipotizzò di provare a riportarlo su binari razionali, poi ritornò a ciò che aveva concluso poco prima: ora era in modalità Dottor Cravatta. Ciò che pensava aveva senso solo per lui. Quindi probabilmente Elesabeth era un nome normale, e quella conversazione da un punto di vista neutro era perfettamente logica. Meglio non guastare tutto.

Dall’altra parte dell’aula Serena era alle prese con un grattacapo di non minore complessità. A differenza di Calem non aveva ancora spiccicato parola verso il suo compagno di banco. Era rimasta a squadrarlo per lunghi minuti, cercando di metterne a fuoco il volto. L’aveva già visto, non c’era alcun dubbio. Per ignote ragioni dentro di lei si insinuava un senso di avversione all’idea di stargli così vicino, ma poteva anche semplicemente trattarsi dell’espressione da finto duro che ostentava.

« Scusa, come ti chiami? » gli domandò sottovoce, verificando di non essere vista.

Quegli replicò con tono indisponente « Justin Bieber ».

Serena rimase inebetita, lo sguardo perso nel vuoto di fronte; quindi intrecciò le braccia, le appoggiò sul banco e vi crollò dentro. Finalmente era successo. Era entrata in una fan fiction.

 

 

Giovedì, ore 8.14

« Professor… Warren… Peace… » scandì Bellocchio ad alta voce, sottolineando più volte con il gesso le parole alla lavagna. Più che altro per lui: di sicuro con un vademecum così evidente non si sarebbe scordato il suo pseudonimo nel mezzo della lezione. Gli studenti in aula, plotone di quattordicenni in uniforme, annuirono con poca attenzione.

« Vediamo… » proseguì togliendosi il cappotto e grattandosi il mento « Normalmente cosa si fa in una lezione? ».

Un ragazzo dai capelli arruffati in terza fila alzò svogliatamente la mano.

« Sì! Tu, con gli occhiali di mio nonno! Come ti chiami? ».

« George ».

« Parla pure ».

« Lei è sicuro di essere un professore? ».

« Sono sicuro che troverai che sono un professore di astronomia pienamente qualificato ».

« Veramente adesso ci dovrebbe essere storia ».

« Giusto! » esclamò Bellocchio tra sé e sé, battendosi la mano sulla fronte « Storia… Bene, che ne dite se ci raccontiamo qualche aneddoto? Cioè, se io li racconto a voi. Per esempio sapevate che la regina Elisabetta I Tudor una volta lanciò una ciabatta al Primo Ministro inglese per farlo stare zitto? ».

« Veramente… ».

« O magari siete più orientati alla storia americana? Ne ho una carina a riguardo: sapevate che Martin Luther King partorì le sue novantacinque tesi sul suo gabinetto a causa di una costipazione cronica? Lo hanno ritrovato una decina di anni fa a… No, aspetta, Wittenberg non stava negli Stati Uniti però… ».

Un gruppetto ammucchiato agli ultimi banchi sghignazzò sottovoce mentre il George di prima, visibilmente imbarazzato, continuava a chiedere l’attenzione del docente.

« Ah, ci sono! Il presidente Churchill, interrogato da Paul Johnson sul segreto del successo, rispose che esso era moderare lo sforzo! Non solo: aggiunse che la prima regola è non restare mai in piedi quando si può essere seduti! Il che mi rammenta… ».

Bellocchio rivolse uno sguardo alla sedia posta dietro la cattedra e con un guizzo vi si appollaiò sopra, tornando poi a osservare la classe « È finita l’ora di lezione? ».

« In realtà… ».

« In quest’aula si alza la mano prima di parlare. A parte me, io parlo quando voglio ».

L’alunno sbuffò irritato, ma alla fine obbedì.

« Ora sì che si ragiona. Come ti chiami? ».

« Sono sempre George ».

« Giusto! Quello con gli occhiali. Dimmi ».

« Noi siamo abituati a studiare solo la storia di Kalos ».

« Beh, questo è un bel problema » denotò Bellocchio « Non so nulla della vostra regione. Non avreste mica un libro di testo? ».

« Sì, credo che il professor Wall lo tenga nel cassetto ».

In effetti era proprio lì: si trattava di un volume inusitatamente spesso, dalle tonalità arancioni e con un dipinto alquanto anonimo in copertina. Il titolo non era per la verità molto più invitante: Tratteggi storici, vol. 1 – Dalla preistoria alla civiltà ardeca. Bellocchio lo scaraventò sul ripiano orizzontale di legno di fronte a lui, provocando uno scroscio di rumori secchi causati dagli studenti che facevano lo stesso.

« Pagina 243 » si affrettò a comunicargli George.

L’insegnante improvvisato sfogliò il tomo giungendo a un grande titolo scritto in carattere sgargiante: una scelta stilistica a dir poco peculiare, dato ciò che esprimeva. L’uomo aggrottò la fronte.

« L’Ultima Grande Guerra di Kalos? ».

« Sì, professore. Abbiamo quasi terminato l’argomento ».

« Quale argomento? ».

« Le Guerre di Kalos ».

Guerre di Kalos. Era scritto in alto a destra, doveva essere il nome del capitolo. Guerre. Quindi dovevano essere state più d’una. Bellocchio scorse rapidamente il testo, individuando la datazione dell’Ultima: tremila anni prima, suppergiù. Molto, molto tempo addietro. Non ne aveva mai sentito parlare, eppure…

George si intromise sbriciolando il silenzio che si era generato « Non intende spiegarci… Insomma… ».

« Come? Ah, sì… Sì, inizia a leggere tu ».

L’allievo si schiarì la voce e incominciò « Intorno all’inizio del primo millennio a.C. scoppiò la quinta e ultima guerra di Kalos, spesso citata come la Grande Guerra poiché fu la più sanguinosa. Come nel caso delle altre quattro, le cause scatenanti del conflitto sono tuttora ignote: racconti trasmessi oralmente nei secoli successivi fanno risalire però l’origine a cause interne alla famiglia reale che al tempo governava il Regime Monarchico delle Tribù di Kalos, e più particolarmente al fratello del Re. La guerra si protrasse per sette dei più terribili anni che la regione di Kalos abbia mai conosciuto, risultando in oltre sedici milioni di vittime tra umani e Pokémon e impattando profondamente la… ».

Il ragazzo andava avanti imperterrito, recitando a pappagallo ciò che leggeva dal libro. Bellocchio, lui aveva cessato di ascoltare da poco dopo l’inizio, arrovellato nei suoi pensieri. L’Ultima Grande Guerra di Kalos… Perché la sola idea lo turbava a quel modo?

 

 

Giovedì, ore 13:33

La mensa scolastica, stando alle laconiche informazioni fornite da Elesabeth, non era mai stata granché. Sotto vari punti di vista: era caotica e gremita di studenti, il cibo era di qualità discutibile e l’aspetto lasciava a desiderare in quanto ad allegria. Sulle prime due Calem poteva senza dubbio concordare; ma esteticamente era forse il miglior refettorio che avesse mai visto.

I colori erano vividi e caldi – dominava il rosso –, e soprattutto la disposizione dei tavoli era ottimizzata: il locale, cinto da ampie vetrate luminose, si sviluppava su tre ponti non sovrapposti, quasi a formare la faccia di una piramide, lungo i quali erano disseminate tavolate rotonde di varie dimensioni. C’era dunque il lato appena descritto che cresceva in altezza e percorso da gradinate laterali; dall’altro era disposto invece un ampio bancone che accoglieva inservienti poco disponibili impegnate a distribuire brodame e insipidi hamburger senza un criterio, come andava a loro.

« E allora la prof. mi ha detto che non potevo lottare in classe con il mio Fennekino, ci rendiamo conto? E io cosa ci vengo a fare al Liceo per Allenatori? ».

Tierno, Shana e Trovato stavano discutendo animatamente da ormai un quarto d’ora del loro primo giorno di scuola. Non c’era un filo conduttore: a turno si lamentavano di qualcosa, qualsiasi cosa. In effetti era più un gioco a chi per primo finiva i motivi per protestare. Per di più, a causa dell’elevato rumore nella sala, le loro voci si alzavano di conseguenza, assordando Calem che per sua sfortuna si trovava tanto vicino.

« Per l’ultima volta, sei stata messa nell’indirizzo dedicato al Pokémon Musical. Le lotte non sono previste ».

« Allora voglio cambiarlo! Sei stato tu a mettermi lì, Trovato, no? Quindi puoi anche spostarmi! ».

« Non siamo qua per divertirci, Shana, siamo qua per indagare sul fuggitivo » provò a spiegare il ragazzo « Se cambiassi sezione di punto in bianco desteremmo sospetti ».

« Più di quanti ne abbiamo già destati? » si intromise Serena, che fino ad allora non aveva parlato. Pareva più incupita del solito « Avete scoperto qualcosa? ».

« Il Dottor Cravatta ha trascurato il fondamentale fatto che a scuola non ti lasciano andare in giro durante le lezioni » commentò Calem.

« Io non ho trascurato proprio niente ».

Un prorompente tintinnio di vetri interruppe la conversazione. Bellocchio aveva appoggiato con energia sul tavolo il suo vassoio, zeppo di una quindicina di bicchieri colmi di una bevanda biancastra, e solo di essi.

« Quello è per caso… ».

« … latte e miele, precisamente! » l’uomo si sedette con il suo solito sorriso irreale, indicando Serena come a complimentarsi per l’ipotesi corretta « Non trovate che ci sia poca musica? L’ultima volta che sono stato in una mensa scolastica cantavano tutti ».

« Non riesci mai a essere serio per un secondo? ».

« Io sono serio, bimbolin » replicò Bellocchio stizzito appena prima di trangugiare a un sorso una delle porzioni « Dunque, che avete scoperto? ».

« Nulla, geniaccio. Come ho detto non possiamo girovagare per il Liceo come te, quindi non possiamo scoprire niente ».

« Tutte scuse. Fortunatamente io invece mi sono dato da fare, e ho trovato una cosa davvero intrigante… ».

Tutti attesero per qualche secondo un proseguimento, che però non arrivò. Il giovane fissava il vuoto, in un punto non precisato, e sebbene Serena fosse stata la prima a seguirne lo sguardo non aveva incrociato nulla di interessante. Calem, dopo un inquietante silenzio, riuscì infine a intromettersi.

« E allora? ».

« Come? Scusate, ero convinto che sarebbe partito il flashback » Bellocchio sorseggiò un altro bicchiere e procedette « Oggi ho conosciuto il professor Craig Vesely, di Tecnologie Applicate. Uomo simpatico, ma un po’ timido. Però mi ha offerto un Pan di Stelle, quindi è mio amico in automatico ».

« Questa storia va a parare da qualche parte? ».

« Stai buono, bimbolin, certo che sì. Dopo aver assaggiato il mio formidabile risotto alle erbette si è sciolto e mi ha raccontato che qualcuno ha trafugato un oggetto ieri notte da uno dei laboratori ».

« Un oggetto? » domandò incuriosito Trovato « Di che tipo? ».

« Non si sa, non me l’ha voluto dire. So solo che lo chiamavano il Prototipo, e che era il progetto delle alte sfere dell’indirizzo per quest’anno. Uno strumento estremamente complesso, da quello che ho capito ».

« E non possiamo chiedere semplicemente a qualcuno che segue il corso di studi? ».

« Non è così facile » obiettò Serena « Non è che puoi andare da uno sconosciuto e dirgli: “senti, non è che mi diresti qualcosa sul vostro progetto supersegreto?” ».

« Hai colto nuovamente nel segno » si congratulò Bellocchio « Fortunatamente, come direbbe uno di mia conoscenza, la fortuna è una dea benevola ».

Sfilò quindi dall’onnipresente cappotto un fascicolo pinzato su cui era stampata una lunga tabella a svariate colonne. La scrittura era foltissima, sarebbero potute essere anche centinaia di voci in quelle poche pagine: una in particolare era stata sottolineata con un marker giallo brillante.

« Cosa dovrebbe essere? ».

« L’elenco degli studenti iscritti a Tecnologie Applicate ».

« Non dirmi che… ».

« Esatto » annuì l’uomo gongolante.

« Hai conosciuto qualcun altro di quell’indirizzo? Quali sono le probabilità statistiche? ».

« Non solo io » puntualizzò indicando l’identificativo evidenziato, dono della buona sorte ai nostri protagonisti. Nella meraviglia generale, esattamente alla cinquantesima posizione era impresso il nome di Ada Delaware.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 1x08 - Natura umana ***


Untitled 1

Previously on LKNA: un rapitore è evaso dal Carcere di Luminopoli ed è scappato verso sud, venendo però incastrato a Novartopoli da un embargo escogitato dalla polizia di Kalos per catturarlo. Gli agenti sono tuttavia rapidamente distratti dalla rivelazione del Nido, quartiere sotterraneo a uso e consumo della malavita regionale; il nostro gruppo di protagonisti, che conta attualmente Bellocchio, Serena, Calem, Shana, Tierno e Trovato, decide quindi di infiltrarsi nel Liceo per Allenatori di Novartopoli, dove hanno scoperto si nasconde il fuggitivo, e indagare. I risultati sono interessanti: un progetto che circolava sotto il nome in codice di Prototipo è stato trafugato dai laboratori di Tecnologie Applicate. Che fortuna, proprio l’indirizzo di studi seguito dalla loro compagna di stanza Ada!

 

 

 

 

 

 

Giovedì, ore 13:52

« Mi spiace, ma non hai dimostrato una preparazione adeguata. Sono costretta a darti un quattro e mezzo ».

Non stava ascoltando. Le labbra della docente di fisica si muovevano avanti e indietro, vaneggiando sulle sue lacune nella dinamica e su quanto essa fosse importante per lo studio dei meccanismi connaturati delle Poké Ball. Nell’interrogazione in classe le aveva chiesto qualcosa sul momento torcente; non aveva risposto, e da lì era stato tutto in salita. Poi aveva infierito su di lei anche dopo la fine dell’ora, facendole girare la testa a forza di esercizi sulle rototraslazioni. Cosa poteva importarle, delle rototraslazioni? Non era quello che voleva fare nella vita. Non era…

« Ada? ».

La ragazza chinò il capo da un lato a far capire che era presente. La professoressa Barrett sembrava attendere qualcosa da lei, segno che probabilmente le aveva posto una domanda.

« Scusi, mi ero distratta ».

« Dicevo, magari è perché nel Centro Pokémon non riesci a studiare bene? Posso provare a fare domanda per–– ».

« No, no, si figuri, non è per quello ».

« E allora cosa c’è? Mi spiace vederti così afflitta ».

« È solo… » si interruppe. Avrebbe voluto dire tutto all’insegnante, che considerava un po’ una seconda madre dopo che si era trasferita da Temperopoli a Novartopoli. Era palese che voleva fare qualcosa per lei, ma Ada era ben oltre le sue possibilità di aiuto.

« … Non mi aspettavo l’interrogazione, ecco. È stata colpa mia ».

La donna sospirò « Va bene, dai, c’è tempo per recuperare da qui alla fine dell’anno. Cerca solo di non buttarlo via così, mi raccomando. Ora vai a mangiare, sono desolata di averti trattenuto così a lungo ».

Ada e la Barrett si salutarono con un sorriso di cortesia mentre la giovane usciva dalla cigolante porta in legno. Appena fuori, nemmeno il tempo di mettere a fuoco in che ala del Liceo fosse stata condotta, una mano le coprì la bocca con forza impedendole di urlare. Un’altra la afferrò per l’uniforme e, con vigore accentuato dalla sua incapacità di opporre qualsiasi tipo di resistenza psicologica in quel momento, la trascinò dentro la classe adiacente.

Lì fu lasciata andare, consentendole di difendersi come poteva a braccia alzate. Identificati tuttavia i suoi rapitori, tutto ciò che fu in grado di dire fu uno spaesato « Voi? ».

« Bimbolin, chiudi a chiave la porta ».

« Con i miei poteri magici? ».

« Con il passe-partout che ti ho dato nell’atrio ».

« Senti, ma era davvero necessario che la portassi qui come se fossi un killer? Dov’è il vantaggio? ».

« Nessuno, Serena, però è stato divertente ».

Ada osservò la scena con uno sguardo misto di preoccupazione e leggero divertissement. Non aveva idea di che cosa stesse accadendo; ma dopo il pessimo risultato in fisica non poteva farle che bene distrarsi.

« Ecco, chiusa. Nemmeno un Tauros potrebbe sfondarla ora ».

« Che cos’è un Tauros? ».

« Non ora, Shana » la zittì Calem « Dottor Cravatta, vuoi cominciare o aspetti il mio cinquantesimo compleanno? ».

« Io a differenza tua sono un gentiluomo, bimbolin » replicò Bellocchio con tono superiore « Un gentiluomo cede sempre il passo a una signora. E credo che Ada abbia parecchio da chiedere ».

Chiedere era un termine vagamente riduttivo: non aveva minimamente compreso quanto era appena successo. Come spesso in simili situazioni, la sua scelta ricadde sulla questione meno rilevante « Voi… Voi siete quelli del Centro. Cosa ci fate qui? ».

« In soldoni, siamo qui per catturare il Fuggitivo ».

« Il che cosa? Quello di Novartopoli? ».

« Lui. Un informatore mi ha detto che si nasconde qua ».

« Sì, a tal proposito, ci vuoi dire come fai a esserne certo? » polemizzò Calem « Potrebbe anche averti mentito ».

« Credimi, so essere alquanto persuasivo » Bellocchio si asciugò la fronte e si tolse il cappotto, accompagnando il gesto con un commento sulla temperatura inconsuetamente alta « Immagino la prossima domanda sarà qualcosa sulla linea di: perché hai mandato Serena a prelevarmi? ». Ada annuì.

« Beh, la spiegazione è rapida: da uno dei laboratori di Tecnologie Applicate è stato trafugato un progetto che i professori del luogo chiamano Prototipo ».

« Prototipo? Quel Prototipo? ».

« Ne sai qualcosa? ».

« All’incirca » rispose la giovane « Non era un lavoro per quelli del mio anno, troppo complesso. Però so dove si trova… Cioè, si trovava ».

« E puoi portarci lì? ».

« Volendo ho la chiave, ma non è proprio regolamentare che gente di altri corsi vada là dentro ».

« Non avevo dubbi, infatti pianificavo di andarci stanotte ».

« Stanotte? » sobbalzò Serena « Ma sei pazzo! Ci saranno allarmi di ogni tipo, come pensi di fare? ».

Bellocchio la ignorò « Ada, ho bisogno di sapere se hai la chiave del laboratorio che ospitava il Prototipo ».

« Sì, ce l’ho. È il Laboratorio D, terzo piano dell’ala est, che poi è questa qui. Dovreste riconoscerlo, è una porta in fondo a un lungo corridoio. Però vengo anche io » aggiunse.

« Non se ne parla, troppo rischioso ».

« Sono io che ho la chiave, quindi non puoi porre condizioni » si impose con autorità Ada « E ora scusate, ma vado a mangiare. Ci vediamo questo pomeriggio ». Detto ciò si voltò, strappò il passe-partout dalle mani di Calem e uscì dalla classe, richiudendo la porta con decisione. Era convinta che la questione fosse chiusa.

E aveva ragione. Per un attimo regnò il silenzio, spezzato poi da un sospiro rassegnato di Bellocchio « E va bene, io mi occuperò di disattivare gli allarmi dell’ala est. Serena, accompagna i ragazzi al Centro e riposati, che stasera avrò bisogno di te ».

« Vuoi dire della mia bella presenza? ».

« Esattamente. Trovato, tu vedi di trovarmi un inventario del Laboratorio D, ho bisogno di sapere che cos’altro esattamente è stato rubato ».

« Vado anche io » annunciò Calem « Sono parecchio stanco, e conto di essere con voi al Liceo stanotte. Non posso certo lasciare Ada in mano al Dottor Cravatta ».

« Ta-ta-ta, bimbolin, tu non vai da nessuna parte ».

« Che cosa vuoi ancora? Se è per dissuadermi sognalo ».

Bellocchio scosse la testa e afferrò il cappotto per andarsene dall’aula « Dobbiamo parlare di calcio ».

 

 

 

Episodio 1x08

Natura umana

 

 

 

Giovedì, ore 15:01

Fiiiiiiiii~

« Forza, ancora un giro di campo per tutti! » gridò Bellocchio sputando il fischietto che, legato a mo’ di collana attorno al collo, gli ricadde davanti penzolante.

Calem era in seconda o terza posizione e poté riposarsi prima di diversi altri: il prezzo era un fiatone persistente e la completa incapacità di reggersi in piedi, il che lo portò ad prostrarsi sul pavimento per nulla pulito della palestra del Liceo. Mano a mano tutti i giocatori presenti terminarono l’esercizio fisico e si sedettero intorno all’uomo che li stava coordinando, vestito per l’occasione in pantaloni neri e camicia bianca aperta al collo.

« Molto bene, ragazzi, vi siete comportati bene. A parte te, numero 10, tu non ti sei minimamente impegnato. Fuori di qui ».

« Come? Sono il migliore di questa squadra! Non penserai seriamente di–– ».

« Non obbligarmi a insegnarti come si tirano i calci. Fuori ».

Il ragazzo si alzò con fare sdegnato e, sistematosi la vistosa cresta corvina che troneggiava sul capo rasato, se ne andò con passo nervoso.

« Perfetto. Voialtri siete tutti confermati » proseguì Bellocchio, notando poi una mano alzata « Sì, numero 8? ».

« Che cosa ci fai qui tu? » domandò un giovane basso e tarchiato dai capelli scompigliati in testa. La sua voce aveva un che di ringhiante, ma doveva essere il suo tono normale.

« Ottimo punto. Il vostro allenatore, il professor Wall, è attualmente indisposto per un’indigestione fulminante. Dal momento che dubita di poter essere presente per la finale della Coppa degli Istituti di Kalos in programma dopodomani allo Stade de Neuvartault, stamane si è tenuto un consiglio straordinario per decidere il vostro nuovo allenatore ad interim » con la mano destra si indicò come a presentarsi « Professor Warren Peace, laureato in sociologia e, per l’occasione, vostro nuovo mister. Sì, 45? ».

Questa volta a parlare fu un ragazzo alto e scuro di carnagione dall’accento trascinato « Senti, ma… tu ne sai di calcio? ».

« Mpff, per favore » rise Bellocchio « Nella mia regione ero noto come il nuovo Allegri, che penso fosse un complimento. Dunque, prima di tutto c’è qualche questione da affrontare: dato che il crestato se n’è andato, il suo ruolo di 10 e fantasista della squadra sarà preso dal qui presente Bimbolin ».

Calem trasalì e protestò « Chi, io? Ma sei fuori, io il 10? Sono arrivato oggi nella squadra, e solo perché mi ci hai portato tu con la forza! ». Lo affiancarono lamentele da parte di vari elementi del gruppo.

« Silenzio, qui il mister sono io e io prendo le decisioni. Bando alle ciance, passiamo ad argomenti più pratici » l’uomo iniziò a passeggiare in circolo attorno ai giocatori « La tattica. Come sapete molti allenatori tendono a impiegare moduli come il 4-2-3-1 o il 3-5-2, che francamente ritengo molto limitanti. Voglio dire, perché limitarsi a un solo sistema di progressione con la palla? Così ho pensato a un modulo di mia invenzione: il 4-3-1-4! Si tratta di una sorta di combinazione tra la logica dello sfruttamento delle fasce del 4-4-2 e il classico gioco palla al piede per vie centrali tipico del 4-3-1-2! Con questo saremo imprevedibili, e inoltre sarà necessaria molta meno fatica per la densità e l’equilibrio dei reparti! Cosa ne dite? ».

Dapprima vi fu solo un vociare indistinto; poi alzò la mano il 21, un ragazzo quieto e dall’espressione spenta « Sono più di dieci giocatori, mister ».

« So perfettamente contare » replicò quello con voce supponente.

« Le regole impongono dieci giocatori e un portiere ».

« Oh! » Bellocchio tacque, enumerando sulle dita delle mani più volte « Beh, questo spiega molte cose. Va bene, se tolgo uno da qui e ne sposto uno qui… 21, dalle registrazioni che ho visionato tu sei molto bravo nelle palle in profondità, giusto? ».

Il diretto interessato fece spallucce, ma alcuni compagni ai suoi lati annuirono concordanti: Andrea era davvero uno specialista, forse il migliore di Kalos in quello che faceva.

« Perfetto! Allora sentite questa, un 4-1-2-3! » controllò un’ultima volta, assicurandosi che la somma dei reparti fosse effettivamente dieci « I tre in attacco saranno il fulcro dell’azione, perché al momento giusto dovranno scattare oltre i difensori avversari e posizionarsi isolati in fondo. Quindi toccherà al nostro mediano centrale, il caro 21, che metterà le sue palle miglior–– niente battute prego, dicevo, effettuerà uno dei suoi brillanti passaggi verso qualunque delle punte. A questo punto sarete in tre contro il solo portiere, dovrebbe essere relativamente facile metterla dentro ».

Di nuovo Andrea chiese la parola « Scusi mister, ma così non rischiamo di incorrere nel fuorigioco? ».

« E che cos’è il fuorigioco? ».

 

 

Giovedì, ore 16.23

« Tu sei un pesce palla… Pensaci: piccolo di dimensioni, non svelto, non molto astuto, facile vittima dei predatori. Ma il pesce palla ha un'arma segreta, no, lo sai… Cosa fa il pesce palla, Jesse? ».

« La ciudad se llama Duke… Nuevo Mexico, el estadoooo~ » canticchiava Bellocchio chino sul PSS di Serena. Con qualche modifica al software era riuscito a impiegare la sua antenna per captare le frequenze del digitale terrestre, riuscendo così a seguire Breaking Bad. Un peccato che stessero trasmettendo solo repliche a quell’ora, ma meglio di niente.

La porta della stanza si aprì rinfrescando l’aria e lasciando che Ada vi entrasse. Una volta richiusa, la ragazza si guardò attorno prima di dirigersi verso il suo letto « Dove sono tutti? ».

« Al Liceo, se ho ben capito studiano un piano d’azione per stasera ».

« Quindi siete ancora convinti di andarci? ».

« Direi di sì » rispose Bellocchio spegnendo il suo televisore portatile « Peraltro sei stata tu a voler venire con noi, giusto? ».

« Sì, beh… Non ero molto in me, diciamo. Ero nervosa e arrabbiata ».

« Come mai? ».

Ada, seduta trasversalmente al letto e ricurva su se stessa, sospirò « Io non volevo fare Tecnologie Applicate. Mio padre è Antoine Delaware, qui lo conoscono un po’ tutti. È uno dei saggisti più famosi di Kalos, ha scritto diversi trattati e anche alcuni libri di testo. Sono sicura che persino qualche professore al Liceo usa uno dei suoi ».

« Antoine Delaware… Mi pare di averlo già sentito anche io. Saggi di che tipo? ».

« Leggende. Lui è laureato in Storia Antica, quindi i suoi testi scolastici parlano principalmente di quello, però la mitologia è la sua vera passione » spiegò la ragazza « Io volevo essere come lui, io… Io voglio essere come lui ».

« E cosa te lo impedisce? ».

« Tutto! ».

Ada scoppiò in un pianto isterico. Aveva vomitato fuori quelle parole con una veemenza, con una furia repressa che nemmeno lei si era attesa. Il cuore le batteva all’impazzata nel petto, principalmente per l’emozione nell’essersi finalmente confessata.

« Voglio dire, mio padre dice che quel mondo non fa per me, che è pieno di squali, di gente pronta ad accaparrarsi senza scrupolo il frutto delle tue ricerche… Così mi ha mandata qua a studiare Tecnologie Applicate, ed è tutto l’anno che vado male. Io non voglio passare la mia vita su queste cose, io voglio… » volse lo sguardo al suo interlocutore, ancora immerso in un devoto silenzio « Ti rendi conto di quanto mi è andata male? Sono completamente inadatta alla cosa che più amo fare al mondo… ».

Il volto di Ada sprofondò tra i suoi palmi. Bellocchio la osservò singhiozzare, incerto su come reagire: in qualche modo si sentiva partecipe del suo dolore. Non importava che lui stesso avesse passato ben di peggio: in quel momento c’era solo una ragazza in difficoltà, e ciò trascendeva ogni ragionamento logico. Il paese delle lacrime è così misterioso, aveva detto qualcuno.

L’uomo si alzò per appostarsi vicino a lei e cingerle le spalle con un braccio. La sedicenne a sua volta si strinse a lui, inumidendogli la lana della giacca. Bellocchio avvertì un’empatia spontanea, come se avesse conosciuto quella persona per tutta la vita. Doveva essere quello che si provava a essere padre.

O un pesce palla.

« Qui da voi ci sono i Magikarp? ».

Ada rimase perplessa per la domanda « Sì… ».

« Il Pokémon più inutile del mondo, vero? Incapace di nuotare, finisce per essere trascinato dalla corrente. Debole, lento, non sembra per nulla nato per essere in mare. Eppure… Eppure basta solo un po’ di tempo perché si evolva nel Re degli Oceani, il Pokémon Atroce, Gyarados. All’inizio il suo Allenatore è sorpreso, non se l’aspettava… Ma un giorno, molto lontano o molto vicino, chi lo sa, guarderà quel suo amico fidato e compagno di battaglie e si chiederà come poteva pensare che Magikarp non avesse valore. E la sai la cosa migliore? ».

La ragazza scosse il capo.

« Che il più patetico tra i pesci diventerà un giorno la più feroce tra le creature marine. Altro che squali » soggiunse con un sorriso ricambiato da Ada che frenò le lacrime. I due rimasero per qualche minuto così, a riflettere ciascuno sulle proprie questioni interiori. Poi il primo si alzò e si indirizzò verso l’uscita.

« Vado a recuperare gli altri. Te la senti di venire con noi stasera, quindi? ».

La ragazza annuì asciugandosi gli occhi. Bellocchio aprì la porta, urtando qualcosa che c’era dietro. Si udì il rumore di qualcosa che rotolava giù per le scale mobili, e poco altro. Sporgendosi oltre l’uscio e chiudendolo dietro di sé scorse una sagoma più simile a un grande pallone che a un essere umano che si stava rimettendo in piedi.

« Tierno? Che ci facevi qua dietro? ».

« Io? Ah, io… » il giovanotto si stabilizzò nuovamente sulle gambe e, con il ritmo che riusciva a sostenere, gli corse incontro in un gesto intimidatorio « Sentimi bene, coso, stavo origliando ».

« Diciamo che l’avevo supposto ».

« Sappi che non mi importa se sei più grosso di me, io… Non mi porterai via Ada, ecco! ».

La convinzione con cui aveva pronunciato quelle parole colse di sorpresa Bellocchio « Sei un pesce palla in tutto e per tutto ».

« Cosa? ».

« Nulla. Sentimi bene tu, Tierno: ha sedici anni. Per quanto mi riguarda puoi avere tranquillamente l’esclusiva ».

« Sì, certo » sbuffò con tono derisorio « E allora cosa volevi fare solo nella stanza con lei? ».

« La stavo consolando ».

« Molto realistico. Prima cerchi di barare nel Bosco Novartopoli e ora… Non capisco come faccia Serena a fidarsi di te ».

« Non mi credi? Ora Ada è di là tutta sola. Vai e fai quello che credi, non ho nulla in contrario. Anzi, avrò più tempo per concentrarmi su come beccare il Fuggitivo ».

« Oh, puoi scommetterci! » confermò Tierno minaccioso, per quanto minaccioso potesse mostrarsi un Tierno « Ora andrò di là e le chiederò di venire con me al ballo! ».

Bellocchio, che si stava avviando al pianterreno, si fermò e lo squadrò « Quale ballo? ».

 

 

Giovedì, ore 16.44

« Quale ballo? ».

« Oh, che meraviglia, non sono l’unico disinformato della squadra! Grazie, Serena, sai sempre come tirarmi su di morale ».

Seduto a braccia conserte su una sedia dell’aula, Bellocchio osservava la ragazza seduta alla sua sinistra agitarsi inopinatamente nel furore del momento. Dall’altro lato dei due banchi uniti che avevano accostato per parlare più agevolmente, Calem accanto a Trovato sorrideva beffardamente « Dai, è un classico. Sul serio non lo sapevi? ».

« Perché, tu sì? ».

« Ovviamente » ribatté sornione « Elesabeth potrà essere una di poche parole, ma quando parla sa essere molto chiara. È una tradizione annuale del Liceo, cade sempre la sera della finale della Coppa di Kalos ».

« E quando contavi di dircelo? ».

« Onestamente credevo lo sapeste già. Non è colpa mia se non avete attività sociale al di fuori di “ehi, chissà se quello là è il Fuggitivo!” ».

Serena alzò le spalle con disinteresse « Beh, non fa molta differenza, tanto non ci andrò ».

« Hah, contaci! » il ragazzo alzò l’indice destro e lo mosse da un lato all’altro a mimare un evidente cenno di diniego « Non se ne parla. Dobbiamo andarci tutti, è tassativo ».

« Ah, davvero? E perché? ».

« Immaginati la scena: tu non vai al ballo di primavera. Il giorno dopo arriva il caro Justin Bieber a chiederti perché non sei andata, magari a prenderti in giro per quello, attirando su di te l’attenzione della classe ».

« Sai che mi importa ».

« Oh, adesso dici così. Devo ricordarti quanto è regolare la nostra iscrizione a questa scuola? Siamo talpe che hanno avuto almeno per ora la fortuna di lavorare sottotraccia e non essere beccate. Non possiamo rischiare di mancare un evento a cui parteciperà tutto il Liceo, l’ultima cosa che vogliamo sono altri occhi puntati addosso ».

« Ma, ma… » Serena mugugnò qualche parola, girandosi poi di scatto verso Bellocchio « E tu non dici niente? Noi dovremmo… ».

« Mi spiace dirlo ma stavolta il bimbolin ha ragione. Troppo rischioso non andare ».

« Io, io… Uff » sbuffò lei, tornando a parlare con Calem « Cos’è questa insistenza, eh? Vuoi convincermi ad andarci con te per potermelo poi rinfacciare a vita natural durante? ».

« Con te? » il giovane scoppiò in una sonora risata « Ma per piacere, piuttosto inviterei Tierno, sarebbe meno duro da sopportare e decisamente meno imbarazzante. E comunque perché dovrei quando ho già l’escamotage perfetto? ».

« Cioè? ».

« Andrò con Shana. Non è ovvio? ».

Bellocchio inarcò un sopracciglio « Lo sai che cosa penseranno tutti, giusto? ».

« Sai quanto m’importa. Agli atti scolastici Shana ha quattordici anni, io diciassette e non siamo imparentati. Mi sembra un pieno intervallo di compatibilità ».

« Quindi se il pericolo Calem è scampato… Bellocchio, io… » si interruppe esitante « Che ne dici se andiamo insieme? ».

« Negativo » rispose categorico « Sono un professore e tu un’alunna, rischierei di non uscire vivo da quella sala da ballo. Già me li vedo, i commenti come “Warren Peace, you sick fuck”. Peraltro ai professori è concesso se lo desiderano di andare da soli, per fare da sorveglianza ».

Serena incrociò le dita e si mise a tamburellarle sui dorsi delle mani « Allora… Beh, suppongo che potrei sempre chiedere a Tierno ».

« No, mi spiace. L’ultima volta che l’ho visto stava andando a chiedere ad Ada di essere la sua accompagnatrice ».

« Ah, beh, perfetto! ».

La ragazza si chiuse in un silenzio meditabondo; poi, dal nulla, esclamò « Trovato! ».

« Trovato cosa? ».

« Io ti ammazzo! Io ti ammazzo! » Calem balzò verso Bellocchio rovesciando la sua sedia e atterrandolo « Quella battuta non fa ridere, lo vuoi capire? Eh? Lo vuoi capire? ».

I due cominciarono ad azzuffarsi con dubbio impegno. Serena non se ne curò, interpellando il ragazzino che era rimasto per l’intera conversazione taciturno.

« Tu hai già trovato qualcuna per il ballo? ».

« Ehm… A dire il vero no… ».

« Allora è perfetto! » esultò raggiante « Ti andrebbe di andarci con me? ».

« Sì… Sì, non vedo perché no… » Trovato puntò gli occhi altrove, cercando di evitare il suo sguardo.

Serena emise un risolino soddisfatto, quindi si ricordò degli altri due ancora impegnati a terra « Ehi, avete finito? ».

« E comunque… Questa cravatta… È ridicola! ».

 

 

Venerdì, ore 00.52

« Rilevatore termico, articolo #BD52579783 » commentò Serena tracciando una linea, l’ennesima, sul catalogo fornito da Trovato « Devo proprio farlo questo lavoro? ».

« Certamente, è fondamentale » rispose Bellocchio « Qui vedo una specie di PSS, solo che sembra diverso dal vostro ».

« Ce l’ho… Archetipo PSS 5S, #XY24234668. Segnato ».

« Chissà per cosa sta la S. Forse per Sasso. Oppure per Cinque… ».

L’uomo fece roteare la luce della torcia in giro per il laboratorio, lungo gli scaffali straripanti di ampolle e le sudicie scrivanie grigie. La quantità di merce destinata a marcire in quella fucina futuristica era sconcertante, chi ci lavorava la sfruttava forse al dieci percento del suo potenziale.

« Che avete trovato voi? » domandò a un tratto agli altri due topi d’appartamento che li avevano accompagnati nell’incursione notturna.

« Qui ho trovato una specie di megafono. Credo sia il #RC83011931, ma potrei sbagliarmi » comunicò Calem « E poi ci sarebbe una specie di cerchio, non so dire bene cosa sia… ».

« Credo sia quello che sull’inventario è chiamato Anello, #XY15786431 » suggerì Ada « Serena, quanto manca? ».

« Un attimo… Dunque, segnati questi ed escludendo il Prototipo disperso, ci sono tre articoli che rimangono liberi. I loro nomi sono Dows. MCHN, Xtransceiver e Upgrade ».

« Vado a dare un’occhiata nella prima sala, può essere che ci sia sfuggito qualcosa ».

« Buona idea, Ada… Ehi, questo cos’è? » l’attenzione di Bellocchio fu attirata da uno spesso plico di fogli seminascosto dietro una catasta di fiale opache. Serena si avvicinò a sua volta puntando la pila elettrica su di esso. La prima pagina, quasi completamente bianca, portava sopra solo una scritta in un font sobrio.

 

#PT44987708

 

« L’hai già schedato, per caso? ».

« Non è il suo identificativo » replicò la ragazza « #PT44987708 è il codice del Prototipo ».

« Tutti questi numeri mi ricordano quella volta che ho hackerato il sistema del Centro Pokémon per scovare sopravvissuti dopo il Lampo. Ah, giorni felici! » preso dalla curiosità iniziò a sfogliare il fascicolo, srotolando pagine e pagine di calcoli fisici e ipotesi di funzionamento.

« Sembra… un progetto dettagliato. Forse lo usavano per lavorare al Prototipo ».

« Questo non ci starà mai nel mio taccuino » commentò Bellocchio « Il tuo PSS ha una fotocamera decente? ».

« L’idea mi piace » concordò Serena sfilandolo dalla tasca « Vuoi fotografare le pagine e inviarle a Trovato ».

« Veramente volevo farmi un selfie con il dossier, ma anche il tuo piano va bene ».

Una filiera di flash sgargianti accompagnarono la documentazione di quelle pagine, forse il più grande successo ottenuto quella notte. In cuor suo ci sperava, di trovare qualcosa del genere. Rischiare di essere presi per una scorreria senza scopo non era proprio da lui, che pure amava mettersi in situazioni del genere. Ma se doveva farlo preferiva avere una ragione: e quella volta, eccezionalmente, l’aveva trovata.

Crash!

Un fragoroso rumore di vetro rotto invase la stanza. Tutti si voltarono di scatto verso l’uscita del Laboratorio D, sita nell’ambiente adiacente. « Resta qui e continua a fotografare » intimò Bellocchio a Serena prima di correre verso la sorgente del suono.

Il pavimento davanti alla porta era disseminato di cocci. Una provetta doveva essere caduta dal banco di fronte e diverse altre erano sparpagliate su di esso, segno evidente di una colluttazione. Si precipitò all’esterno, ritrovandosi in un andito oscuro costellato da laboratori su ambo i lati. In lontananza, nella luce lunare penetrante attraverso un piccolo corridoio dalle pareti in vetro, avvistò una figura che correva nella direzione opposta alla sua.

Partì come un razzo al suo inseguimento, rincorrendola per le corsie labirintiche del Liceo. A un certo punto, giunto a uno degli infiniti snodi del piano, si scontrò con qualcun altro proveniente dalla sua sinistra. I due caddero in terra frastornati; appena ripresosi puntò la torcia che aveva portato con sé sul volto che l’aveva intralciato, mettendo a fuoco una matassa di ricci fulvi.

« Ada! » sobbalzò Bellocchio « Dove diamine eri? ».

La ragazza respirava affannosamente, cercando di riprendersi dalla lunga corsa « Lui mi ha… Mi ha preso… ».

« L’hai visto in faccia? ».

« Io… Mi spiace, Bellocchio, era buio… Sono riuscita a malapena a fuggire… ».

« No… Non fa niente, tranquilla » la consolò « Tu stai bene? ».

« Sì, direi di sì ».

L’uomo alzò gli occhi al soffitto e sospirò. Era stato tanto preso dalla sua immotivata foga nel catturare il Fuggitivo che aveva dimenticato qual era il suo vero scopo: salvarli da lui. Anche avesse effettivamente preso il criminale quella notte, a nulla sarebbe valso se persino uno solo dei suoi amici… No, meglio non pensarci.

Un veloce rintocco di passi echeggiò negli androni, facendosi sempre più intenso nel giro di pochi secondi. Bellocchio si voltò istintivamente illuminando la zona dietro di lui appena in tempo per scorgere una silhouette ricoperta da un grembiule color indaco che passava rapidamente lungo l’intersezione colonnata per uscire attraverso una porta sita sul fianco opposto. Il volto non fu identificato dalla luce irradiata, ma sicuramente si trattava di un uomo tra i quaranta e i cinquanta, vista l’andatura goffa.

« Ehi, inseguiamolo! » esclamò Ada, che tuttavia si fermò di fronte a un gesto evidente dell’uomo a qualche metro da lei.

« Lascia perdere. Il nostro amico ha appena commesso un grave errore ».

« Come? ».

« Quel passaggio conduce all’ala nord, di cui non ho disattivato l’allarme. Si è cacciato in una… Oh, no ».

La realizzazione colpì Bellocchio proprio quando pensava di aver vinto. Il Fuggitivo non era caduto in nessuna trappola: si era solo garantito una via di fuga sicura. Perché lui non era l’unica persona che quella notte non avrebbe dovuto trovarsi lì.

Un assordante allarme bombardò le loro orecchie. Ada rimase stordita, perdendo completamente il contatto con la realtà. Non esisteva nulla, solo quel suono assordante che rivelava la loro posizione. Quando rinvenne dalla catalessi temporanea, Bellocchio la stava trascinando a forza lungo uno dei corridoi già percorsi, imbattendosi quindi in Serena e Calem che venivano verso di loro.

« Ah, state bene! » esclamò l’uomo sollevato.

« Che succede? Credevo avessi spento gli allarmi! » gli gridò in faccia la ragazza, cercando di sovrastare il segnale acustico.

« Non tutti. Il nostro amico lo sapeva e ne ha fatto scattare uno per farci fuggire » spiegò Bellocchio riprendendo la propria corsa verso le scale. Poi si fermò, scrutò le mani dei due provenienti dal Laboratorio e constatò « Non avete preso il manuale del Prototipo. Perfetto, tornerò qui domani sera a finire il lavoro ».

« È inutile » lo gelò Calem « Il manuale è scomparso ».

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 1x09 - Istantanee ***


Untitled 1

Previously on LKNA: un rapitore è evaso dal Carcere di Luminopoli ed è scappato verso sud, venendo incastrato da un embargo a Novartopoli escogitato dalla polizia di Kalos per catturarlo. Bellocchio, Serena, Calem, Trovato, Tierno e Shana si infiltrano nel Liceo per Allenatori locale, dove si presume il fuggitivo sia nascosto, in un tentativo di catturarlo. Qui scoprono che un misterioso oggetto dal nome in codice di Prototipo è stato sottratto, ragionevolmente dal criminale stesso, e programmano una visita notturna al laboratorio che lo ospitava. Bellocchio, Serena, Calem e la loro nuova amica e compagna di stanza Ada penetrano dunque nel Liceo dove trovano un progetto dettagliato del Prototipo. Non c’è tempo per riflettere: una misteriosa figura rapisce Ada, che viene poi salvata da Bellocchio, e attiva gli allarmi costringendoli alla ritirata. Le brutte notizie non finiscono qui: i documenti, di cui solo una parte è stata inviata a Trovato per le analisi, sono scomparsi.

 

 

 

 

 

 

Venerdì, ore 08:01

« I ladri tornano nel Liceo per Allenatori di Novartopoli, ma questa volta non lasciano segni del loro passaggio. Fortunatamente, infatti, gli individui che si sono introdotti nella scorsa notte all'interno del plesso scolastico non hanno sottratto nulla, né hanno compiuto atti vandalici di alcuna sorta. Questo hanno accertato ieri mattina le autorità chiamate da alcuni abitanti limitrofi allertati da un allarme: uno o più ignoti si sono introdotti nell’ala nord, bla, bla, bla… Le ipotesi che riguarderebbero l’evaso del Carcere di Luminopoli, ancora a piede libero, si sprecano, bla, bla… Niente, non parlano di noi » commentò Bellocchio sdraiato sul letto, mentre sorseggiava del latte e miele da un bicchiere appoggiato su un comodino in abete lì accanto « Che delusione. Per voi, voglio dire, non sarebbe la prima volta che io finisco in prima pagina » Detto ciò posò la sua copia de L’Eco di Novartopoli sul ripiano e tornò al PSS, intento a seguire le repliche mattutine di Breaking Bad.

« Già. Immagino che tu avessi una vita molto avventurosa prima di arrivare qua dal cielo ».

Bellocchio non rispose, lasciando Serena in una meditazione solitaria mentre Calem, l’unico altro inquilino della stanza al momento, stava occupando il bagno.

Si era chiesta diverse volte cosa facesse il suo amico prima di Kalos. Da quando era entrato nella sua, di vita, aveva visto nell’ordine una villa infestata, una bambina posseduta, dei Beedrill che l’avevano quasi uccisa e un rapitore evaso che si nascondeva in una scuola. Non poteva fare a meno di chiedersi se tutto ciò fosse nuovo, se in qualche modo lo stupisse. Che per lui fosse divertente era fuor di dubbio: eppure, pur non annoiandosi, affrontava quelle situazioni con la sicurezza di chi ha visto di peggio. Di chi ne è esperto. Chissà cosa sarebbe stato del suo viaggio, una volta che lui fosse tornato alla sua regione natale.

Un Calem vestito con l’usuale giacca color indaco varcò la soglia della toilette, guardandosi attorno sorpreso « Dove sono gli altri? ».

« A scuola, presumo. Sai, la copertura » rispose Bellocchio sovrappensiero. Il cuore di Serena saltò un battito.

« A scuola? Che ore sono? ».

« Le otto e qualcosa ».

« E perché tu sei ancora qui? ».

« Che domande, perché non ho la prima ora oggi. Jem si era concesso il venerdì per dormire di più » l’uomo alzò lo sguardo, fulminato dalla tempestiva realizzazione « Ah, aspetta, ma voi… ».

 

 

 

Episodio 1x09

Istantanee

 

 

 

Venerdì, ore 11:15

Driiiiiiiiiiin~

« Una verifica! A chi è arrivato ieri! Quali sono le politiche di questo Liceo? ».

« Dimentichi che siamo in una fan fiction, Calem. Mi sono sorpresa che non ci fosse ieri, di solito è così ». I corridoi della scuola iniziavano a riempirsi per l’intervallo quotidiano, affollandosi di studenti esausti.

« Parli come il Dottor Cravatta ».

Serena fece spallucce « Beh, qualcuno dovrà pur fare battute senza senso quando non c’è lui, giusto? ». Detto ciò entrò nell’aula in cui il giorno precedente avevano portato Ada, vuota come se l’aspettava dal momento che era libera per usi straordinari come interrogazioni fuori orario: al suo interno c’erano Trovato e Shana, con il primo curvo sul suo PSS che studiava le poche fotografie che era riuscita a inviare dal laboratorio.

« Dov’è Tierno? » domandò la ragazza.

« Che domande, sarà a fare la fila alle macchinette ».

« Gentile come al solito, Calem. Che state facendo? ».

Trovato alzò la testa « Scopriamo a cosa serve il Prototipo, non è ovvio? ».

« Adesso? » chiese Serena perplessa « Non avete lezione dopo l’intervallo? ».

« No ».

« Che coincidenza! Anche noi abbiamo un’ora vuota adesso ».

« Non è una coincidenza » replicò Trovato « È fatto apposta. Le classi in cui ho inserito tutti hanno le pause sincronizzate, così possiamo parlare meglio ».

« Oh, brillante! » esclamò lei, causando nel ragazzino un moto d’orgoglio « Che cosa aspettiamo, allora? ».

« Beh, aspettiamo Capo Rosso ».

« E chi sarebbe? ».

La porta dell’aula si spalancò e Bellocchio entrò di corsa con un bicchiere traboccante della solita bevanda « Scusate per il ritardo, il microonde era preso da Craig e dal suo infame the ».

Calem sghignazzò « Capo Rosso? ».

« Poverino, non apprezza le citazioni a Guerre Stellari » lo compatì l’uomo con una pacca sulla spalla « Povero davvero. Allora! Siamo pronti per cominciare? ».

« Beh, manca Tierno, ma direi che non è una scusa accettabile » convenne Trovato « Ho esaminato le poche pagine che mi avete inviato, e sono riuscito a ottenere qualche informazione interessante ».

« Ovvero? ».

« Beh, ecco, guardate un attimo sullo schermo… Questa sezione è molto simile a un oggetto che ho trovato negli archivi, lo chiamano Devonscopio. Nulla di segreto questa volta, ma pur con qualche ritocco è sicuramente il suo processore quello che vedo qua ».

« Devonscopio » ripeté Serena, battendo l’indice sulla tempia « Mi sembra di averlo già sentito. Cosa fa? ».

Bellocchio anticipò Trovato « Rileva i Pokémon invisibili, un altro modo per dire Kecleon. Non è uno strumento molto interessante, principalmente perché i Kecleon sono molto rari ».

« In effetti non li ho mai sentiti ».

« Pff, sai che novità ».

« Ah, ah, molto spiritoso, Calem. C’è altro? ».

« Parecchio. Questa sezione qua, per esempio, è presa pari pari da un modello particolare di Spettrosonda, la 1.8.10. A quanto pare è stata prodotta in una regione, Kanto, dove i Pokémon di tipo Spettro si sono evoluti in modo tale da rendersi irriconoscibili agli occhi umani, e la Spettrosonda serve proprio a identificarli. Notate un trend? ».

« Riconoscimento di Pokémon che si camuffano » intuì Calem.

Trovato annuì « Esattamente. Il che è fondamentale per capire ciò che costituisce il terzo pezzo del Prototipo: un sollecitatore cellulare. A dire il vero non avevo mai visto nulla del genere in vita mia, ma nelle tue foto era chiamato così. Trattandosi solo delle prime pagine nessuna delle tre componenti è approfondita, questo per farvi capire che le mie sono supposizioni ».

« Arriva al sodo ».

« Le cellule nei nostri tessuti, e in generale di qualunque essere vivente, sono tenute insieme da sostanze intercellulari che consentono loro di essere più o meno stabili. Ciò che fa questo sollecitatore è stimolare proprio le associazioni di cellule stesse, inducendole a smembrarsi ».

Serena trasalì, soffocando al contempo i conati di vomito. Trovato le fece segno di tranquillizzarsi.

« Non fa quello che pensi, non scioglie le persone. Il tipo di sollecitazione fornita è estremamente debole, poco più di un solletico per organismi saldi. C’è un caso però in cui ciò non è verificato: quando un Pokémon usa Trasformazione ».

La stanza precipitò in un silenzio tombale. Calem, a essere sinceri, aveva intuito che doveva trattarsi di quello, visti i principi seguiti dal Prototipo; ma l’idea che un Ditto trasformato potesse essere identificato era comunque rivoluzionaria « Nel qual caso cosa succede? ».

« Le cellule ricollocatesi da poco vengono spinte a riprendere la loro conformazione iniziale. Ditto torna Ditto » Trovato abbassò di nuovo la testa sul PSS, riprendendo a studiare « Questo è quello che ho scoperto. Sul perché un evaso dovrebbe volerlo, buio totale ».

« Per venderlo ».

Tutti gli occhi furono puntati su Bellocchio, fino a quel momento rimasto taciturno a braccia congiunte « Mi stavo chiedendo da ieri che senso avesse per un criminale nascondersi in una scuola anziché, non so, in una casa, magari minacciando i proprietari ». Inspirò ed espirò, allentando la cravatta che iniziava a procurargli un fastidioso prurito al collo « Ecco la risposta. Non si sta nascondendo, si sta pagando il nascondiglio. La sua missione è stata fin da subito rubare il Prototipo e riuscire a portarlo all’uomo che in cambio gli fornirà protezione dalle autorità. Qualcuno cerca di identificare Pokémon, ed è disposto a tutto per farlo ».

Trovato si batté la mano sulla fronte « Ma certo! ».

« Ehi, ehi, aspetta un attimo » intervenne Shana « Questo vuol dire che non è più nella scuola? ».

Bellocchio non rispose, mantenendo lo sguardo meditabondo fisso nel vuoto. Poi fece dietrofront e uscì dall’aula, sempre senza dire una parola. Troppi pensieri per la mente, troppi problemi che si affollavano chiedendo ciascuno di essere esaminato per primo. Era talmente assorto che quasi non si accorse del fatto che qualcuno di sua conoscenza lo stava attendendo appena fuori. Quasi.

« Ah, eccoti! Ti ho cercato per tutto l’intervallo! ».

« Oh, ciao Ada. Dovevi dirmi qualcosa? ».

« Possiamo dire così » sorrise « Però è meglio parlarne fuori ».

 

 

Venerdì, ore 11.21

Tierno gironzolava ciondolante per il corridoio, un Twix nella mano e una bottiglia di the alla pesca nell’altra. Stava masticando silenziosamente l’ultima delle merende che si era accaparrato alle macchinette durante la ricreazione, passando la lingua sui denti per togliere il caramello che vi si appiccicava sopra. D’altronde non aveva fatto colazione, ne aveva il pieno diritto.

Giunto nell’ampio atrio del primo piano si diresse dal lato opposto, dove si trovava una rampa di scale che percorreva l’intero edificio attraverso ogni piano, a differenza di alcune che sostavano a livelli alterni.

« Ah, professor Seacombe! Non si preoccupi, sarò qui ancora per poco, devo solo controllare lo scheda–– ».

Un violento rumore, come se qualcosa avesse urtato contro un muro, fece sobbalzare Tierno. Proveniva da una porta socchiusa dietro di lui che aveva appena imboccato gli scalini. Si voltò, notando la targhetta apposta su di essa: Aula professori.

« Che cos’hai in mente? » domandò una voce ringhiante dall’interno. Il ragazzo si avvicinò alla stanza, accostandosi per sbirciare attraverso lo spiraglio di luce. Dentro due individui, uno alto e slanciato in abiti eleganti e un inserviente più basso in sopravveste blu, stavano avendo un diverbio. Il primo aveva preso il secondo per il colletto della maglia e lo stava premendo contro un mobile a cassettoni addossato alla parete.

« Non… Io non capisco cosa–– ».

« Credi che qui siamo tutti stupidi? Che non ci accorgiamo di cosa stai facendo? ».

« Professore, davvero, io–– ».

Seacombe non lo lasciò finire, sbraitandogli contro « Dal Laboratorio D è scomparso anche il dossier del Prototipo. Sia questo che il primo furto sono successi quando tu avevi in custodia l’ala est. Quanto ci credi deficienti, bastardo? ».

Tierno avvertì un groppo alla gola quando la voce del bidello, da spaventata e tremolante, divenne cupa e minacciosa « Lasciami andare ».

Quindi afferrò i polsi del suo aggressore e senza battere ciglio li spostò come fossero di cartapesta. Seacombe, sorpreso e con il respiro pesante, si prese qualche istante per rendersi conto della situazione. Poi riprese « Stammi bene a sentire, sappi che staserà ci sarò io stesso. Quindi vedi di non fare scherzi, o è la volta buona che te ne esci di qui con qualche dente di meno. Non me ne frega nulla se la polizia ti sta cercando ».

L’altro uomo, sempre inflessibile, aggiustò il proprio camice e fissò dritto negli occhi il docente « Con chi credi di stare parlando? ».

Seguì un breve ma teso silenzio. « Se pensi davvero che io abbia rubato il Prototipo del laboratorio… E che io sia colui a cui le autorità stanno dando la caccia in questo preciso momento… » gli si avvicinò, sussurrandogli all’orecchio « Forse la tua prossima mossa dovrebbe essere muoverti con cautela ».

Sibilate quelle parole si avviò verso l’uscita, e i suoi occhi incrociarono per un istante quelli di Tierno. Il ragazzo scappò giù per le scale con il cuore che gli rimbalzava nel petto, sperando con tutto se stesso che quell’individuo fosse stato troppo distratto per accorgersi che li stava spiando. Sempre terrorizzato e con le mani sudate raggiunse più velocemente che poteva il secondo piano, dove si trovava l’aula designata per il raduno. Spalancò la porta in preda al panico, trovandosi di fronte Trovato e Shana seduti mentre parlavano.

« Ma scusa, allora che differenza c’è tra Ditto e Zoroark se entrambi si trasformano? Come li distingui? ».

Tierno rimase ritto davanti a loro aspettandosi di essere quantomeno notato; invece i due continuavano imperterriti il loro animato dialogo.

« Beh, Zoroark tende a diventare di più la maschera, diciamo, imita ogni aspetto dell’oggetto in cui si trasforma ».

« Ah, capisco… ».

« Ahem! » si schiarì la voce.

« Oh, ciao! » esclamò Shana « Perché ci hai messo così tanto? ».

Il ragazzo prese una sedia e si appostò dal lato opposto della coppia di banchi che stavano utilizzando « So chi è il fuggitivo ».

A quelle parole Trovato si fece sfuggire di mano il PSS che cadde sul tavolo con un tonfo « Come? Nel senso che l’hai visto? ».

« Esatto. Era nella sala dei professori e stava litigando con qualcuno che sospettava di lui. Gli ha detto di fare attenzione, o una cosa simile ».

« Wow, io non… E chi è? ».

« È il bidello che ha in carica il primo e il terzo piano dell’ala est » proseguì « Non so se ce l’avete presente, quello bassino col riporto ».

« Lui? » Trovato sobbalzò, con la sua amica al seguito, all’annuncio. Poi, come se avesse realizzato qualcosa, annuì « Ricordo, l’ho visto un paio di volte. Cavolo, avrei dovuto pensarci, era lui ad avere sotto controllo il laboratorio dove siete stati voi ».

« Scusate, ma ora che facciamo? » intervenne Shana con una leggera inflessione ansiosa dettata dall’idea di trovarsi a qualche gradino da un criminale « Lo diciamo a mio fratello e agli altri? ».

« Quello è il passo successivo, ma nel frattempo dobbiamo iniziare a pensare a come comportarci. Se quello che ha detto Bellocchio è vero, se era qui solo per rubare il Prototipo… potrebbe anche essere l’ultima volta che lo vediamo ».

« Quindi? ».

« Quindi serve qualcosa per seguire i suoi spostamenti. Se dovesse riuscire a sfuggire alla polizia riprenderlo sarebbe un’impresa tanto quanto trovarlo la prima volta » Trovato fissò il suo PSS, come se dovesse suggerirgli la soluzione « Denunciarlo ora sulla base della nostra testimonianza sarebbe rischioso considerando le sue possibili ritorsioni, senza contare che noi non dovremmo nemmeno essere qui. Dobbiamo agire senza uscire allo scoperto, come ha fatto lui ».

Shana annuì, poi ebbe un’intuizione « Perché non una cimice? ».

« Una cimice? ».

« Sì, una cimice. Sai, come quelle nei film, quelle che segnalano la posizione ».

« Un segnale triangolare » comprese Trovato « Sì, ma come dovremmo ottenerla? Non possiamo aspettare e pregare che in un laboratorio che ne sia una ».

« Non puoi costruirla tu? ».

Il ragazzo sorrise con una punta di amarezza « Sono un novellino, non so nulla di ricetrasmittenti. Non saprei nemmeno da dove iniziare ».

« Tu no » Tierno gli fece eco risoluto. Poi si guardò attorno a braccia conserte « Ma so chi può farlo. Dov’è Ada? ».

 

 

Venerdì, ore 11.16

Dall’interno la fontana del campus del Liceo appariva ben meno imponente di quando l’aveva adocchiata in quella fatidica notte, quando aveva inseguito Saul per tutta Novartopoli e ritorno. Il sole mattutino che in quella limpida giornata vi si rifletteva produceva comunque giochi di luce affascinanti, tanto che non si sarebbe nemmeno detto che era appena iniziata la primavera. La campana era appena suonata riportando gli studenti alle loro classi, tuttavia Ada proseguiva imperterrita la sua marcia sul sentiero di mattoni.

« Non hai lezione, ora? ».

« La Barrett ritarda sempre, non è un problema ».

Ponendo più attenzione mentre seguiva i suoi passi, Bellocchio aveva notato che teneva sottobraccio un volume con un’etichetta della biblioteca scolastica, probabilmente preso in prestito per l’occasione. Non ne aveva scorto il titolo, però.

I due raggiunsero un muretto di mattoni alto sì e no mezzo metro che circondava i gorgoglianti giochi d’acqua. Ada vi si sedette sopra, invitando il suo amico a fare lo stesso, e aprì il tomo sulle sue ginocchia. Erano soli nel giardino antistante l’edificio e regnava una calma quasi paradisiaca. Bellocchio gettò uno sguardo sulla pagina aperta, pressoché bianca e occupata da una breve citazione.

 

Interrogare il presente non serve a niente. È al passato che bisogna fare le domande. Senza passato, il presente è solo disordine.

 

« Che cos’è? ».

« L’ho trovato la scorsa ora. Mi hanno mandata a cercare un libro al quarto piano ed era vicino a questo ».

Spirava una fresca brezza campagnola. « E perché l’hai preso? ».

« È una raccolta di fotografie del secolo scorso » spiegò Ada « Si chiama 1000, perché dentro ce ne sono mille appunto, raccolte meticolosamente in tutta Kalos ».

« Beh, affascinante, ma perché mi hai fatto venire qui? ».

La ragazza iniziò a sfogliare le pagine, fermandosi alla 64: essa era interamente occupata da un ritratto di coppia a scale di grigi, come diversi se ne erano scorti nelle istantanee precedenti. Sotto di essa compariva una lunga didascalia: Foto di matrimonio di Mary MacIntyre e William Grundy. Flusselles, 6 giugno 1908.

« Chiamami pazzo, ma continuo a non capire ».

« Guardali bene ».

Bellocchio si sforzò di concentrarsi sui particolari. Lo sposo, dalla fronte alta e i baffi a manubrio, indossava sopra la camicia bianca un panciotto corredato con orologio da taschino, insieme a giacca in cotone e pantaloni di tela propri del periodo. La sposa, dal tradizionale abito nuziale a collo alto ornato da una quantità industriale di pizzi e merletti, aveva raccolto i capelli smossi in una corona sormontata da un fiocco scuro. Nulla di speciale. L’uomo alzò le spalle, come a dire che proprio non ci arrivava.

« Non sembriamo noi due? ».

« Come? ».

« Ecco, guarda lui ad esempio » Ada coprì parte del volto con un indice e medio « Ha il tuo stesso sguardo ».

Non guardandosi spesso allo specchio Bellocchio non poté né confermare né smentire. Tuttavia concordò su una cosa « Effettivamente lei ti assomiglia in un certo senso. Per l’attaccatura dei capelli, e anche la bocca ha un che di tuo ».

La ragazza sorrise « Tu pensi che siamo stati imparentati? Del tipo cugini di chissà quale grado ».

« Beh, non vedo perché no » ribatté lui condiscendente. 1908, praticamente tre generazioni, tutto poteva essere. Dovevano essere state delle belle ramificazioni, però, se lui era finito a Sinnoh. Ciò che era più importante, però, era che ciò che aveva intuito durante il dialogo con Saul era vero: serbava qualcosa di Kalos dentro di sé.

Buttò nuovamente un’occhiata alla fotografia, cogliendo questa volta i dettagli dello sfondo: oltre le due figure umane si riusciva a intravedere, per quanto sfocata, una sorta di enorme gemma preziosa stagliata su una scogliera.

« Che cos’è quella? » domandò indicandola.

Ada avvicinò la foto agli occhi per osservarla meglio, quindi rispose sicura « La Meridiana di Fluxopoli ».

 

 

Venerdì, ore 17:59

Dom si deterse il sudore della fronte con uno straccio, rendendosi poi conto che era lo stesso con cui aveva appena finito di ripulire la lavagna. Lo gettò a terra con un sobbalzo, rammentando bene la sua allergia al gesso, e il panno ricadde nel secchio d’acqua sporca ai suoi piedi. Con uno sbuffo si chinò a recuperarlo, lasciandolo gocciolare sulle scarpe con uno sguardo rassegnato. Chi gliel’aveva fatto fare, poi.

« Mi scusi, signore ».

Colto da un mezzo attacco di cuore, l’inserviente si voltò di scatto trovandosi di fronte un ragazzino paffuto che lo fissava insistentemente con un paio di occhi persi. Sospirò sollevato.

« Cosa c’è? Sto pulendo, non vedi? ».

« Sì, lo so, volevo ridarle questo ».

Tierno sfilò la mano da dietro la schiena porgendo all’uomo un drappo di tessuto violaceo in apparenza alquanto logoro. Dom lo squadrò perplesso, non capendo.

« E cosa dovrei farmene? ».

« Beh, usarlo per pulire, no? ».

« Ma se è più sporco dei banchi ».

« Come? No! » esclamò Tierno burrascoso « Lo sembra e basta, in realtà è pulitissimo! Quello è il suo colore naturale! ».

 

« Questo piano è la cosa più stupida che abbia mai sentito » bofonchiò Calem con il naso premuto contro la finestra. Bellocchio, accanto a lui e Trovato nella stanza, sorvegliava attraverso il vetro ciò che accadeva dal lato opposto dell’edificio con un binocolo.

« E abbi un po’ di fede, bimbolin, so quello che faccio ».

« D’accordo, ripassiamo un attimo, tu vuoi? » lo interrogò polemico « Hai alzato il riscaldamento della sala in cui si trova il bidello sperando che si asciugasse la faccia con il suo unico straccio usato per la lavagna e che quindi per l’allergia lo bagnasse rendendolo inutilizzabile ».

« Ed è successo tutto, mi pare. Di che ti lamenti? ».

« Ma è solo fortuna! Santo cielo, ti rendi conto che non potevi sapere che proprio oggi sarebbe rimasto senza, vero? ».

Bellocchio rise di gusto « La fortuna non c’entra ».

Proprio in quell’istante la porta dell’aula si spalancò lasciando entrare un’esausta Serena. La ragazza, tra un annaspo e l’altro, trascinava dietro di sé un pesante carrello di plastica ricolmo fino all’orlo di strofinacci dei più svariati colori. Ebbe a malapena la forza di richiudere l’anta prima di stramazzare al suolo.

« Senti… » cominciò trattenendo il fiatone « C’è una ragione particolare… anf… per cui i lavori pesanti… anf… devo sempre farli io? ».

 

Dom, dopo aver immerso per la quinta volta un lembo dello straccio nel secchio d’acqua, convenne che era violaceo di natura.

« Va bene » bofonchiò seccato « Ora puoi lasciarmi in pace? Dovrei lavorare ».

« Okay, però domani me lo deve restituire… ».

« Io… Sì, d’accordo, come ti chiami? ».

« Genta Kojima, della 1C ».

« Gen… Gem… » il bidello si strofinò i capelli, innervosito dalla calura e dal tono di voce del ragazzino « Non me lo ricorderò mai ».

« Genta Kojima! ».

« Genna Ko… Non me lo ricordo, ho detto! Non puoi venire a riprendertelo tu? ».

« No! » esclamò Tierno con irriverenza « Ah, aspetti ». Quindi infilò la mano nella tasca posteriore, estraendone un tesserino plastificato con una sua fototessera appiccicata sopra « Prenda questo ».

Sull’orlo dell’esaurimento Dom gli strappò dalle mani la carta, esaminandola. Era il badge riconoscitivo del Liceo « Ma non ti serve? ».

« Tanto me lo può ridare domattina ».

In altri casi avrebbe detto di no. Assumersi una responsabilità simile, lui! Se quei badge andavano perduti si rischiava l’espulsione. Figuriamoci. Ma quel giorno sembravano tutti coalizzati per mandarlo in esaurimento, quindi accettò.

« Ora vattene ».

 

« Ha messo via la tessera! E andiamo! » Bellocchio lanciò in aria il binocolo, afferrandolo al volo. Quindi si rivolse a Calem, ancora imbronciato contro la parete « Qual è il piano stupido, ora? Eh? ».

« Oh, ma per piacere! Hai solo messo insieme un mucchio di variabili fuori dal tuo controllo e pregato che ti andasse tutto bene! È stato solo un caso che ti sia riuscito, lo sai anche tu! ».

« Il caso non esiste » chiosò il giovane voltando il capo verso Trovato « Allora? ».

Quello, occhi chini sul suo PSS, osservava soddisfatto un puntino rosso che lampeggiava sullo schermo « Funziona! Il GPS nel badge sta passando il segnale! Il nostro fuggitivo non può sfuggirci ».

« Scusate, fatemi capire bene » intervenne Serena smorzando l’entusiasmo « La tessera contiene il chip per tracciarlo, giusto? ».

« Sì ».

« E il nome è falso ».

« Sì ».

« E allora cosa gli impedirà di buttarla quando avrà capito che lo studente associato non esiste? ».

Bellocchio sorrise beffardo, inarcando un sopracciglio « Non siamo così sprovveduti. Abbiamo inserito il nome di Genta Kojima nel database, nell’archivio degli studenti passati ».

« Risulta immatricolato dieci anni fa » soggiunse Trovato con orgoglio « Sembrerà che uno degli addetti abbia sbagliato una cifra all’iscrizione, e dovranno andare a verificare aula per aula se Genta esiste. La parte migliore è che nessuno controlla mai quegli archivi, quindi non si accorgeranno dell’intrusione ».

« E questa parte del piano è dello stesso psicopatico che contava su uno straccio bagnato per spiare un evaso? » commentò Calem « Bogo gredibile. Ora cosa dovremmo fare? Voglio dire, dovremo fare dei turni per evitare che lasci la città, no? ».

« Ada ci ha già pensato » replicò Bellocchio « Se il nostro amico esce dai confini un allarme ci avverte. Hai presente quello che a momenti faceva secchi me e Serena nel nido dei Beedrill? Ecco ».

« Beh, allora siamo a posto. Credo che andrò a prendere un panino al chiosco qui vicino, tutti questi sotterfugi mi hanno messo fame ».

« Ta-ta-ta, bimbolin, tu non vai da nessuna parte » lo fermò simbolicamente alzando il braccio « Non rischierò che il mio numero 10 stia male alla vigilia della finale. Ora dritto nel Centro Pokémon a riposarti, ti voglio carico per domani ».

 

 

Venerdì, ore 18:30

Il sole tramontava indisturbato abbassandosi oltre la linea dei bassi edifici di Novartopoli, scurendone le silhouette in controluce e ponendo in risalto la slanciata sagoma del campanile cittadino. Dom era giunto alla fine di un vicolo cieco stretto fra tre mura. Abbassò lo sguardo osservando un tombino arrugginito a otto fenditure incastrato nel terreno.

Sfilò dalla tasca interna della giacca un paio guanti di gomma, corredo dell’arsenale in dotazione ai bidelli scolastici, e sollevò il pesante coperchio avendo cura di non produrre rumore. Iniziò a discendere la scaletta sottostante, accendendo al contempo una piccola torcia. Percorse la lunga galleria in mattoni delle fognature fino a giungere a una porticina seminascosta.

Dietro di essa gli si spalancò di fronte il Nido. Dom gettò un’occhiata d’insieme al quartiere sotterraneo, senza scorgere nessun poliziotto. Mentre percorreva verso il basso l’impalcatura metallica a chiocciola si accertò dell’ora corrente: ancora un quarto d’ora al cambio di turno, quando le forze dell’ordine sarebbero tornate là sotto per l’usuale pattugliamento. Ringraziava ogni minuto che la burocrazia di Kalos fosse così fallimentare da non riuscire a chiudere baracca e burattini là sotto di fronte all’evidenza: così aveva tutto il tempo di nascondersi.

Percorrendo le strade arrivò a una piccola casetta illuminata dai bagliori giallognoli dei lampioni. Vi entrò circospetto e, una volta barricatosi dentro, emise un sospiro di sollievo. Affaticato, si tolse la giacca e la posò su un appendiabiti a muro. Colse il momento per fissarvi anche lo straccio che aveva ricevuto in prestito, così da ricordarsene.

« Bentornato » sibilò una voce da un angolo buio del soggiorno.

Dom sbuffò seccato « Si sta facendo dura ».

« Spero non ti aspettassi rose e fiori ».

« Oggi quello scimmione di Seacombe mi ha preso e sbattuto al muro. Sospetta di me ».

« E non solo lui ».

L’uomo non rispose, reclinando il capo in segno di confusione. La figura si alzò in piedi e procedette ciondolante fino a sfiorarlo con una mano. Introdusse quest’ultima nella tasca posteriore dei pantaloni, estraendone un badge scolastico in plastica. Quindi alzò l’altra mano, che reggeva un congegno simile a una pistola segnaprezzi; passò lo strumento sopra l’oggetto due o tre volte porgendolo poi a Dom.

Questi esaminò il piccolo schermo sobbalzando: il rilevatore termico aveva evidenziato una calda macchia arancione sotto l’angolo dedicato alla fototessera. Una spia.

L’inserviente strinse i pugni, sentendo il sangue pulsare nelle sue vene « Quel bastardo di un ragazzino… Scommetto che l’ha mandato il cavernicolo… ».

« Non è stato lui ».

« E tu come lo sai? ».

« Ti tenevo d’occhio » la figura gli rivolse uno sguardo minaccioso « E non è stato lui ».

« Oh, perfetto, quindi qualcun altro lo sa? Come se uno non fosse abbastanza… » Dom si grattò la testa, prossimo a dare in escandescenza « No, no, no, io non posso più andare avanti in questo modo. Avrò un giorno, due al massimo, ma prima o poi avranno le prove, e allora sì che sarò nella… ».

« Non dovrai aspettare tanto ».

« Come? ». L’uomo avvertì un tuffo al cuore e insieme uno scatto d’ira interno « Che cosa vorresti dire? ».

« Porta pazienza, caro il mio codardo, ci avviciniamo alla conclusione » replicò la sagoma leccandosi le labbra « Presto sarà tutto finito ».

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 1x10 - Reazioni collaterali ***


Untitled 1

Previously on LKNA: un rapitore è evaso dal Carcere di Luminopoli ed è scappato verso sud, venendo incastrato però da un embargo a Novartopoli escogitato dalla polizia di Kalos per catturarlo. Bellocchio, Serena, Calem, Trovato, Tierno e Shana si infiltrano nel Liceo per Allenatori locale, dove si presume il fuggitivo sia nascosto, in un tentativo di catturarlo. Nella medesima scuola si aggira anche Ada, studentessa di Tecnologie Applicate e compagna di stanza del gruppo; insieme organizzano un'indagine notturna sul furto del Prototipo, misterioso progetto in grado di riconoscere Pokémon camuffati, e avvistano per un breve istante il criminale. Il giorno seguente le cose migliorano: Tierno riconosce nel bidello Dom il loro uomo e i sette riescono a fargli portare con sé un localizzatore per evitare che fugga. Piccolo problema: anche Dom lo sa. E non è da solo.

 

 

 

 

 

 

Venerdì, ore 23:32

La stanza era scura, solo fiocamente illuminata da piccoli faretti incastonati nel soffitto a specchio. Il sobrio arredamento comprendeva: un lungo tavolo in mogano cinto in una cornice nera come la pece e protetto da un ripiano di vetro senza l'ombra di un graffio; cinque sedie in pelle per lato più due ai capi; uno schermo televisivo pervaso da un filtro azzurrino inquadrato nel muro e sintonizzato su una frequenza statica; un solitario quadro del tardo ottocento accantonato in un angolo, per non importunare con la sua grazia un luogo così tetro.

« Buonasera, signorina Bryonia ».

« Buonasera, signor D. ».

L'uomo si collocò sulla poltrona in preda al nervosismo più invadente. Si trovava al limitare sinistro del ripiano, invischiato in un incontro cui non avrebbe voluto partecipare. Di fronte a lui sedeva una procace fanciulla di circa trent'anni dai corti capelli corvini, vestita come lui in giacca e cravatta per l'occasione. Per quanto la sua figura lo mettesse in soggezione cercò di concentrarsi su di lei per non dover pensare al terzo invitato, rigidamente appollaiato trasversalmente ai due a capo del tavolo.

« Mi scusi per l'ora tarda, ma si tratta di una questione di massima rilevanza. Ha portato ciò che le ho chiesto? ».

« C-certamente » balbettò il signor D., rovesciando sul piano una cascata di documenti densi di grafici a dispersione e linee di tendenza « Tutto il necessario. Se non risulto inopportuno, potrei chiedere… perché ne ha bisogno ora? ».

« Sarò molto schietto con lei » chiarì Bryonia « Sono sorti alcuni intoppi di natura aleatoria nel nostro esperimento. Avevamo assoluta emergenza di valutare i risultati correnti ».

« Capisco, senz'altro. Se ne avesse necessità possiamo organizzare un secondo incontro, per spiegarle con maggiore precisione la mia relazione di quanto l'ora attuale ci consenta… ».

« No, forse non mi sono spiegata, signor D. » la giovane sospinse via i fogli sul tavolo con noncuranza « Noi abbiamo bisogno di un responso ora ».

« Ah… » l'uomo si sentì pugnalato allo stomaco. Aveva perso il sonno e trascurato la propria famiglia per consegnare quei file in tempo, e ora venivano liquidati come semplice burocrazia « Beh, un responso di che genere? ».

« La Cavia ci ha informati oggi che alcuni civili indipendenti stanno indagando sulle sue azioni ».

Il signor D. sobbalzò sulla sedia in pelle, avvertendo il proprio cuore aumentare i battiti « Ciò può essere estremamente pericoloso ».

Bryonia annuì; ma era un cenno privo di approvazione, una condiscendenza asettica « Quindi? ».

« Il mio più caldo suggerimento è terminare subito l'esperimento. Se un incidente simile dovesse ripetersi o ispirare emulazioni di sorta, manderebbe un fumo sia questa fase che le successive ».

« Questo lo sappiamo bene, ma il mio assistito voleva esporle dei dubbi in proposito ».

« Lei può garantire di aver raccolto dati adeguati agli scopi che si era prefisso? ».

La voce cruda e tagliente del terzo invitato perforò le orecchie del signor D. come un coltello rigirato dritto nei suoi timpani. Per tutto il meeting aveva cercato di non incontrarne la sagoma ossuta, ma dopo essere stato da lui interrogato non poteva più esimersi. Gli rivolse uno sguardo timoroso, incontrandone la faccia. Non gli occhi, non sarebbe stato possibile.

« Io… Io… Sì, non ho più bisogno della Cavia. Gli esiti sono stati molto… Lasciano ottime speranze per il futuro della vostra missione ».

« La nostra missione » lo corresse l'uomo senza volto, lasciando intendere con un cenno del capo che anche lo studioso era incluso nella sua modifica della frase « Molto bene, allora. Signorina Bryonia, proceda come crede ».

 

 

 

Episodio 1x10

Reazioni collaterali

 

 

 

Sabato, ore 20:14

« Zefane… Attenzione! Campo aperto! Può andare Gamy che è velocissimo… Gamy… In area di rigore… Gamy… Gamy… PALO! Non è finita… Mendes… Doppio passo… Mendes la mette in mezzo… E qui forse c'era fallo di mano di Medimo…! ».

« Per tutti i sacchi! » imprecò Bellocchio gettando a terra il suo taccuino in preda a un attacco d'ira. D'istinto si voltò verso il suo vice che, chiuso in giacca e cravatta, osservava pensieroso la situazione scuotendo la testa. « Che poi chi è Gamy? » gli domandò.

« Il numero 19 » rispose Craig.

« Ehi, 19! La prossima volta che sbagli il golden gol in questo modo ti spedisco alle cave di Mineropoli a spalare carbone per tutta la vita, mi hai sentito? » inveì Bellocchio, rivolgendosi poi al resto dei giocatori in campo « Su, su, niente panico! Dai, dai, dai! Facciamola girare! ».

Lo Stade de Neuvartault era gremito fino all'orlo e cori assordanti si levavano dalle due curve: una, trionfante di colori rossoneri, accoglieva i tifosi del Liceo di Novartopoli, mentre dall'altra parte vi era la massa bianconera in trasferta da Luminopoli. I due schieramenti erano inchiodati al finire del primo supplementare sull'1-1 fin dal trentottesimo minuto del secondo tempo, quando un rigore dubbio finalizzato da Gommi aveva pareggiato i conti aperti al quattordicesimo da Martin su tiro dalla distanza deviato.

« Ehi, tu! » gridò a un tratto Bellocchio all'indirizzo della panchina avversaria e del loro coordinatore « Mi spieghi a che gioco stai giocando? Non è consentito tenere più di due difensori come centrali, lo sanno tutti! ».

« Ma ghe gosa sdai digendo! Ma sei agghiaggiande! ».

« E parla la nostra lingua, che non si capisce niente! » commentò esasperato prima che il quarto uomo lo riportasse all'ordine. Gettò uno sguardo distratto al campo di gioco, dove il loro Andrea Béria era pressato troppo stretto per costruire un'azione produttiva.

« Alla fine l'hai invitata Silvia al ballo? ».

« Non credo che questo sia il momento migliore per parlarne, non crede? » denotò Craig « E poi come fa a sapere che volevo invitarla? Lei mi ha interrotto proprio quando stavo per chiederglielo ».

« Niente domande stupide ».

Il professore sospirò rassegnato « In ogni caso sì, io–– ».

« Ehi, ehi, arbitro! Quello è rigore! Non fare l'infame, santo cielo, ho già i miei stessi giocatori a rovinarmi! » lo interruppe Bellocchio inveendo contro il direttore di gara, che in risposta fischiò una punizione dal limite in favore del Novartopoli. L'allenatore strapazzò Craig in preda a convulsioni, riprendendo poi a urlare verso i suoi giocatori « Ehi, ehi! La tira il 21, mi sono spiegato? Chi prova a prendergli la battuta lo chiudo negli spogliatoi appena fischia la fine! ».

« Potrebbe essere l'ultima occasione di questo primo supplementare… I minuti di recupero sono finiti ora, ma pare che l'arbitro lascerà battere la punizione… Si prepara Béria, potrebbe provare la maledetta… Ecco il fischio, parte Béria… Incredibile Vercoutre! ».

« Ma porco Grumpig! ».

« La palla resta lì… Rete! Rete! Incredibile! Proprio lui! Non sbaglia! Darvill ha segnato sulla ribattuta! 2-1 per Novartopoli, e per il golden gol finisce la partita! Il Liceo di Novartopoli ha vinto la Coppa di Kalos, un trofeo che non arrivava da… ».

La sezione di casa dello Stade eruttò in un'esultanza assordante, trascinando con sé anche giocatori e staff tecnico. Lo speaker dell'impianto imbracciò il microfono con intensità inusitata « Ha segnato per noi, con il numero 10, Calem… ».

« … Darvill! ».

Bellocchio prese a saltare per tutta la panchina, abbracciando il suo allenatore in seconda; solo dopo, nel mezzo della celebrazione generale, gli venne in mente di chiedere « Ma poi, chi è questo Darvill? ».

« Il numero 10! Come fa a non ricordarselo, l'ha messo lei in squadra! ».

L'uomo assunse un'espressione ancora più confusa, al che Craig rammentò come usava chiamarlo.

« … Il bimbolin ».

« Ah! E dille prima le cose! ».

 

 

Sabato, ore 20:28

« Grandissimi, ragazzi! Ottima partita da parte di tutti! Grande punizione, 21! » accennò Bellocchio mentre in smoking nero e papillon abbinato passeggiava lungo il perimetro dello spogliatoio, battendo il cinque con chi capitava e assaporando il gusto della vittoria mentre fuori risuonavano le fanfare. Finito il giro di routine alzò la mano in segno di saluto « Ci vediamo al ballo, come sapete la premiazione si terrà là! ».

Quindi uscì dalla porta. Non appena iniziò a salire le scale per giungere al corridoio principale, tuttavia, si scontrò con qualcuno in abito da cocktail che correva nella sua direzione con la foga di chi fugge per salvarsi la pelle.

« Ah! Dritto in faccia! ».

« Bellocchio! » esclamò Serena sollevata « Per fortuna ti ho trovato fuori, avevo paura di dover entrare ».

« Avrei avuto paura anche io. Hai seguito la partita? ».

« Sì, sì, molto bravo, ma abbiamo problemi più incombenti ».

L'uomo sporse la testa oltre la sagoma della ragazza, controllando chi avesse al seguito « Non vedo gli altri ».

« Sono già al ballo per conto loro » si affrettò a spiegare Serena « Non sanno che sono qui ».

« Brutto segno ».

« Pessimo. Il notiziario online del PSS dice che ci sono elicotteri partiti in serata da Luminopoli ».

Bellocchio rielaborò mentalmente l'informazione « Elicotteri… Devono essere per il Fuggitivo. Ma per quale ragione? ».

« Non ne ho idea, hanno abbastanza forze di polizia già a Novartopoli. Forse hanno paura che fugga » ipotizzò la giovane « Per questo credo dovremmo accertarci che non lo faccia. Dopotutto possiamo localizzarlo ».

« Dov'è ora? ».

« Trovato mi ha prestato il suo PSS, ecco… Vedi, qui c'è il nostro amicone » proseguì indicando un puntino lampeggiante sulla mappa.

« Non sembra molto lontano dal Liceo, in linea teorica dovremmo riuscire a raggiungerlo in tempo » osservò Bellocchio. Quasi nell'istante in cui pronunciava quelle ultime parole la porta dello spogliatoio si spalancò nuovamente, aprendo strada a una sfilata di ragazzi in abito elegante che si dirigevano sul campo per lasciare lo stadio. Tra di essi l'uomo ne individuò uno in camicia bianca e cravatta che stava tentando in tutti i modi di passare inosservato.

« Come siamo eleganti oggi! ».

« Sta zitto, Dottor… » Calem osservò il suo aguzzino « … Cravattino ».

« Congratulazioni, sei stato veloce. Purtroppo questo non ti eviterà una corsa insieme a noi all'inseguimento del fuggitivo ».

A quelle parole il ragazzo mutò espressione in una più seria « Come? Che sta succedendo? ».

 

 

Sabato, ore 20.44

Era uno spiazzo, nulla più e nulla meno. Nessun'anima viva in giro, poiché chi aveva abbandonato lo Stade de Neuvartault si era recato al ballo e non in un largo isolato della cittadina. Nei paraggi non si notavano nemmeno volanti della polizia. Serena non si fidava: controllò il PSS quattro, cinque, sei volte, ma il segnale puntava dritto lì.

« Io… Io non capisco » balbettò confusa « Dovremmo starlo calpestando proprio ora ».

Bellocchio diede un'occhiata allo schermo: l'indicatore del localizzatore e quello del loro strumento effettivamente combaciavano alla perfezione. Il posto era quello.

« Lo siamo ».

« Che vorrebbe dire? » domandò Calem.

« Siamo sopra il nostro amico. Il PSS non sta sbagliando nulla ».

« Ma davvero? Perché io non vedo nessun criminale in fuga in questo momento ».

« Devi ampliare gli orizzonti » replicò Bellocchio battendo i tacchi per terra « Chi stiamo cercando si nasconde sottoterra, nel Nido ».

I due compagni si batterono la testa quasi all'unisono, sorpresi di non esserci arrivati. Era ovvio, troppo ovvio, e avevano trascurato l'ipotesi come bambini inesperti.

Bellocchio non perse tempo e prese da parte Serena, fissandola negli occhi « Ascoltami bene, devi tornare ora al Liceo ».

« Come? Adesso? » la ragazza lo scrutò offesa « Credi che sarei d'intralcio? Vuoi portare lui anziché me? ».

« Il tuo compito è molto più importante. Guarda l'indicatore, Serena ».

« Non capisco ».

« È fermo » evidenziò l'uomo « Quegli elicotteri sono andati sul notiziario, non è possibile che non ne sia a conoscenza. Perché non sta scappando? ».

« Pensi che abbia scoperto la spia? ».

« Anche. Ma penso soprattutto che nessuno resta fermo ad attendere la propria sorte. Se tu fossi un criminale e fossi a minuti dalla tua cattura certa, che cosa faresti? ».

« Io… Io non lo so, forse prenderei… ». Serena afferrò, in un lampo, ciò che il suo amico aveva già elaborato « … un ostaggio. Sono tutti nella hall, nessuno si accorgerebbe se un estraneo entrasse! ».

Non vi fu necessità di altre parole: la ragazza fece inversione di marcia e si precipitò a perdifiato verso la scuola.

« Ha cinque minuti » commentò Bellocchio voltandosi verso Calem « Seguimi ».

I due raggiunsero il tombino più vicino, calandosi nel sistema fognario di Novartopoli e rintracciando l'accesso più vicino per il quartiere sotterraneo. Con loro sbigottimento l'intera area era deserta, laddove si sarebbero attesi un dispiegamento delle forze di polizia allertate per un imminente arresto. Seguirono il segnale attraverso il labirinto fino a una piccola casupola apparentemente disabitata, se non per il particolare che era stata barricata dall'interno.

« Sai cosa fare, spero ». Il tono di Bellocchio era molto più gutturale del solito, se ne poteva percepire la gravità.

« Nessun problema, Dottor Cravattino » replicò Calem con una punta di sarcasmo « Charmeleon, Nitrocarica! ».

Una corona di fuoco avvolse la sagoma del Pokémon, che spiccò uno scatto in avanti sfondando la porta. I due fecero immediata irruzione all'interno dell'abitazione che, ora fumosa, li mise in stato d'allerta. Una volta che la visuale tornò ottimale individuarono un uomo imbavagliato e legato a una sedia. Se non era morto, poco mancava, visto che era sudato e smunto.

Bellocchio gli si avvicinò e gli sfilò la banda che aveva premuta contro la bocca, consentendo sia la facoltà di parola sia una migliore possibilità di identificarlo. Era il bidello incriminato, sì. Ma era anche qualcun altro.

« Saul? » sobbalzò strabuzzando gli occhi.

Il mineralista si destò in stato confusionario fino a che non riconobbe in chi gli stava davanti la stessa persona che l'aveva perseguitato tre giorni prima: a quel punto la paura ebbe la meglio, facendogli produrre un balzo all'indietro e ribaltando su un lato la sedia cui rimaneva ancorato.

« Come? » lo interrogò Calem « Credevo si chiamasse Dom ».

« Lo credevo anche io, non mi ero accorto della somiglianza. Evidentemente era sotto copertura esattamente come noi » commentò Bellocchio « Allora, come preferisci che ti chiamiamo? ».

L'uomo, ansimante, sputò a terra prima di rispondere « Dom è solo uno pseudonimo ».

« Vada per Saul, allora ».

« Non capisco, l'hai già incontrato? » domandò il ragazzo.

« Alla mia prima visita al Nido. È lui che mi ha detto dove si nascondeva il Fuggitivo, e a quanto pare è stato onesto come proclamava. Si è solo scordato di dirmi che chi cercavo era lui ».

« Sai essere davvero ottuso per uno che è pure riuscito a estorcermi qualcosa » ringhiò l’uomo a terra, contorcendosi tra le corde.

Bellocchio si chinò fino a squadrarlo dritto nelle pupille, senza battere ciglio « Parole grosse per uno che fino a poche ore fa implorava pietà come un agnellino. Forse vuoi che ti ricordi perché lo facevi? ».

Saul fu percorso da un brivido lungo la schiena e, scuotendo la testa come poteva, abbassò decisamente i toni « No, no, senti, cerchiamo di rimanere civili, dai. Hai preso il pesce sbagliato, tutto qui, non sono evaso da nessun carcere ».

Calem scoppiò in una breve risata, avvicinandosi a sua volta al prigioniero « E immagino che la polizia ti abbia messo la sedia all'angolo perché sei stato un cattivo bambino, giusto? ».

« La polizia? Ma di che diamine parlate? È stato il vostro amato fuggitivo a farmi questo! Sto così da un giorno ormai, mi ha mollato qui con il vostro trasmettitore del–– ».

Bellocchio inarcò un sopracciglio « Aspetta, vuoi dire che tu conosci quello vero? ».

« Certo che lo conosco, santo cielo. Perché credi che mi trovassi nella scuola? Ero il suo proxy per evitargli di esporsi ».

« E dov'è ora? ».

« Quale parte di “sto qui da un giorno” non ti è chiara? » Saul si agitò ancora di più, in un tentativo di liberarsi, ma constatò che non ne era minimamente in grado.

« È al ballo, è sicuro » affermò Calem.

« Lo penso anche io. Ora stammi bene a sentire, Saul, rispondi alla prossima domanda e ti lascio andare » Bellocchio reclinò il capo, incrociando diagonalmente lo sguardo dell'interrogato « Chi è il Fuggitivo? ».

« Ma cosa ne so, io non… ».

« Santo cielo, dimmi che aspetto ha! Devo trovare il modo di riconoscerlo, non credi? ».

« Ma secondo te che ne so io dopo un giorno di tempo che forma ha ora? ».

 

 

Sabato, ore 20.46

« Earth angel, earth angel, will you be mine? My darling dear… ».

Il refettorio del Liceo era stato addobbato a festa mediante l'installazione di filamenti di luci bianche lungo tutto il soffitto, nonché di gruppi di riflettori multicolore agli angoli. Voci dell'ultimo minuto avevano parlato di una sfera specchiata, ma si erano rivelate infondate; del resto, l'ambiente era già così sufficientemente somigliante a una discoteca.

« Oh, un lento! » esclamò Trovato non appena udì i primi accordi di Earth Angel. La banda della serata, arroccata in cima alla piramide a gradoni contro la parete, doveva aver diramato precise direttive agli studenti, perché la pista da ballo si riempì istantaneamente di decine e decine di coppie.

« I fell for you, and I knew the vision of your loveliness… ».

Tierno si asciugò il sudore dalla fronte con la manica della giacca. Bellocchio aveva impiegato ore a cercare nel suo fantomatico armadio segreto un abito che gli andasse bene e alla fine l'opzione era caduta su un frac bianco. Sembrava un Abomasnow, salvo il fatto che stava soccombendo dal caldo.

« Su, su, su, Tiernooo~ » lo stuzzicò Shana alle spalle « Ada è laggiù sola soletta… ».

« Ma smettetela! Insomma, vi rendete conto che sarei ridicolo? Non so nemmeno ballare! ».

« Guarda il lato positivo » gli fece notare Trovato « Stanno per prendere il Fuggitivo. Questa gente non la vedrai mai più in vita tua dopo stanotte ».

« Eh, già… Facile per voi parlare, Serena e Calem vi hanno dato buca ».

« Oh, ehi, ma chi è quello? Bellocchio… ? Perché sta andando dritto verso Ada? ».

« Cosa? » Tierno trasalì e, senza pensarci due volte, balzò verso la sua accompagnata come un felino che insegue la sua preda, rendendosi conto soltanto dopo di essere stato raggirato. Shana, soddisfatta, ghignò beffarda.

« Oh, avanti, è molto sleale da parte tua » la riprese Trovato.

« I'm just a fool, a fool in love with you… ».

Il ragazzo la raggiunse con il cuore che batteva a mille. Si guardò attorno, rendendosi conto che se mai c'era stato un Bellocchio in quella stanza si era dileguato prima di essere a una distanza ragionevole da lei. Strinse il pugno, sul punto di tornare indietro.

« Ciao, Tierno! ».

Il saluto lo colse completamente di sorpresa. Ricambiò incerto, incontrando l'espressione gentile di Ada. Era un poco più alta di lui, eppure non lo scrutava con aria di superiorità come sarebbe stato naturale. Ora o mai più.

« Ti andrebbe di ballare? ».

« Volentieri! » rispose lei con un risolino. Tierno le offrì la mano, portandola poi con sé fino alla densa pista ballo, dentro la quale riuscì a fatica a ritagliarsi uno spazio per loro due.

I primi passi furono strani. Lui non era in grado di tenere il ritmo, e in più ci si era messo un fastidioso tremolio alla gamba sinistra. Dopo un po' si era reso conto che si trattava del suo PSS, ma chi lo chiamava ora, nel momento più importante della sua vita? Alzò gli occhi incrociando quelli celesti di Ada, e nel terrore gli parve di scorgervi una traccia di noia.

« Ti vergogni di me, vero? ».

La sua cadenza rallentò in risposta al timore, ma non quella di lei. Lei proseguì imperterrita, rivolgendogli il suo solito, affabile sorriso.

« Se mi fossi vergognata di te non avrei accettato il tuo invito ».

La chiamata in arrivo terminò in quell'istante. Tierno lo interpretò come un segnale, anche se non era ancora certo di cosa; il suo passo si fece più sicuro di prima, e intorno a sé avvertì ogni altra coppia scomparire: dapprima solo quelle più vicine, poi lentamente tutta la stanza si era fatta vuota all'interno della sua mente. C'erano solamente loro due, illuminati da un faro di luce intensa, che danzavano una canzone doo-wop degli anni '50 senza domandarsi nemmeno se i loro movimenti fossero giusti o sbagliati, mentre fuori di lì turbinava l'inferno del mondo.

Un fragoroso rumore di elicotteri tramutò d'un tratto l'etereo silenzio in un vociare persistente e angoscioso. La musica si interruppe, così come i balli, e tutti alzarono il capo al soffitto, come se ciò potesse aiutarli a capire meglio. Tierno aggrottò la fronte prima di cercare con lo sguardo i suoi amici mentre il suono proseguiva.

« Ti chiedo perdono ».

Il ragazzo si voltò verso Ada, che si era allontanata da lui isolandosi. « Come? ».

Fece per avvicinarsi a lei, ma ricercando i suoi occhi rassicuranti notò che in essi si era accesa una luce diversa, più sinistra. La ragazza si piegò ed emise un urlo, anche se di un urlo aveva ben poco: era un verso animalesco, dalle tonalità selvagge. Tierno osservò terrorizzato ciò che ne seguì: da ogni punto della sua pelle iniziò a crescere una peluria scura mentre il volto veniva orribilmente sfigurato e le orecchie stirate. In neanche un minuto la graziosa giovane con cui aveva ballato era divenuta una demoniaca volpe bipede.

Trovato accorse verso Tierno per soccorrerlo, ma quello lo fermò a metà strada. Nel silenzio generale tese la mano tremante verso la creatura. Non poteva essere, non dopo ciò che avevano appena trascorso insieme. « A-Ada? » domandò balbuziente.

« Zooooooorrrrr~! » ruggì in risposta, questa volta con anche maggiore violenza. Nel refettorio tuonarono grida di terrore mentre il ballo di primavera si trasformava in un caos informe. Trovato trascinò indietro Tierno, entrato in uno stato di catalessi indotta.

« Io… Io non capisco… ».

« Stai indietro! » esclamò il primo lanciando la Poké Ball contenente Chespin « Quello è uno Zoroark, non è più Ada ».

Shana imitò il suo compagno di viaggio, chiamando in causa Fennekino. I due Pokémon si schierarono l'uno accanto all'altro, pronti ad attaccare; in risposta Zoroark li allontanò con i suoi artigli, tenendoli a debita distanza.

« Presto, usa Braciere! ».

L'attacco andò a segno, scalfendo però a malapena la Mutevolpe. Le sue falangi, in risposta, furono avvolte da un alone oscuro, preparandosi a scagliare un Nottesferza. La tecnica si infranse tuttavia contro una barriera invisibile eretta appena prima.

« Vi lascio soli un attimo e combinate questo? » esclamò Serena accorrendo in difesa dei tre ragazzini. La Protezione di Ralts, teletrasportatosi in mezzo tra Zoroark e la coppia Fennekin-Chespin, andò in frantumi sotto la brutalità del colpo, ma riuscì comunque ad assorbirlo.

« Serena! Dove diamine eri finita? ».

« È una lunga storia. Questo coso da dove salta fuori? ».

Trovato faticò a trovare le parole adatte « Quella è Ada ».

La ragazza non ebbe modo di domandare spiegazioni: il suo PSS annunciò una chiamata in entrata e sul display comparve il nome di Calem. Rispose in preda al nervosismo e portò lo strumento all'orecchio.

« Senti, non è per dire, ma hai scelto davvero il momento sbagliato ».

« Non c'è tempo da perdere, Serena, abbiamo scoperto una cosa fondamentale! ».

« Riguarda per caso uno Zoroark? ».

Un ruggito assordò per un attimo i presenti; quindi il Pokémon, un secondo prima apparso sul punto di attaccare, si dileguò in direzione delle scale che conducevano ai piani superiori.

« No, no, no! » inveì Serena, il PSS sempre stretto tra mano e testa, mentre partiva al suo inseguimento « Karen, con me! ».

« Ehi, sei sempre lì? Hai parlato di Zoroark? ».

« Ce n'è uno, anzi, una che sta andando in giro per il Liceo a fare casino ».

« Devo dedurre che il Fuggitivo si è palesato? ».

« Come? Mi stai dicendo che Zoroark è il Fuggitivo? ».

« Parole del Dottor Cravatta, non mie. Ha detto che sarebbe andato verso il tetto, è vero? ».

Serena, per quanto a corto di fiato, trovò la forza di analizzare i movimenti di chi le stava davanti: in effetti saltava lungo la rampa principale, la cui destinazione finale era proprio quella.

« Dov'è Bellocchio ora? ».

« Non ne ho idea, ha detto che stava andando al Laboratorio D! ».

« Il giorno in cui agirà secondo uno schema logico sarà il giorno della sua morte! ». La ragazza scorse la targa del piano corrente: terzo. C'erano quasi.

« Senti, ma toglimi una curiosità, chi era alla fine il Fuggitivo? Cioè, che forma aveva Zoroark? ».

Quelle parole le pesarono più di ogni altra cosa in quella serata « Era Ada ».

« Cosa? ».

Serena alzò la testa appena in tempo per scorgere la volpe che con un Urtoscuro aveva divelto l'architrave della porta per il tetto subito dopo averla varcata. La giovane, in un tentativo di frenare, inciampò in uno dei gradini, finendo con il ginocchio contro lo spigolo e lasciando inavvertitamente cadere il PSS ancora acceso giù per la tromba delle scale appena percorse.

Attraverso il minuscolo spiraglio lasciato dalle macerie riuscì a guardare oltre: il tetto era illuminato da luci a terreno e Zoroark si era fermata esattamente nel centro, mentre sopra di lei si stavano affollando almeno mezza dozzina di elicotteri con i fari a loro volta puntati sul Pokémon.

Il primo pensiero della ragazza fu che avevano vinto. Ma a ripensarci, il loro obiettivo sapeva che l’avevano ormai rintracciata. Perché si era esposta in quel modo?

 

« Wolf 5, bersaglio agganciato ».

« Qui Wolf 1, ricevuto » scandì il militare nel microfono della comunicazione interna. Si sporse oltre i sedili posteriori per parlare al pilota « Prepara il flusso di contenimento ».

Quello annuì senza replicare, iniziando a manovrare pulsanti sulla console di comando. Le eliche del velivolo giravano meccanicamente mantenendoli ad alta quota; il giovane gettò uno sguardo al radar per tenere sotto controllo gli altri elicotteri in movimento.

« Flusso pronto all’uso » annunciò l’aviatore « Appena abbiamo l’autorizzazione procedo ».

Il secondo passeggero ghignò mentre prendeva nuovamente in mano il ricevitore « Wolf 1 alla Base, richiediamo l’autorizzazione per l’impiego del flusso di contenimento. Il bersaglio è già agganciato ».

Attese trepidante la replica, ma questa tardava ad arrivare. « Allora? » lo incalzò il pilota.

« Non rispondono. Wolf 1 alla Base, ripeto, è richiesta l’autorizzazione per il resbeam ».

Di nuovo dall’altro capo del filo si udì solo un rumore statico, come un’interferenza.

« Come sarebbe a dire non rispondono? ».

« Anche il radar è impazzito! È come se qualcosa stesse mandando in tilt la strumentazione! Il sistema di guida automatica è attivo? ».

« Sto usando il manuale. Dannazione, questo complica le cose ».

« Ma scusa, che ti importa dell’autorizzazione? » proruppe irritato il militare « Usalo e basta, credi che non ce la darebbero? ».

« Non se ne parla, ci sono procedure da–– che cosa diamine è quello? ».

Il giovane si gettò contro il sedile anteriore del velivolo per vedere di persona dal vetro frontale. Sgranò gli occhi per lo sbigottimento: un’immensa nuvola di smog nero si stava addensando con velocità e connotati innaturali fino a chiudere l’intero Liceo sotto una cappa impenetrabile. Una voce amplificata risuonò per buona parte di Novartopoli, beffarda e determinata.

« Buonasera a tutti! ».

 

Quando quel suono giunse alle sue orecchie, Serena andò d’istinto in giubilo. L’aveva atteso per molto, forse troppo in quella nottata infernale, ma alla fine era arrivato. Con rinnovata fiducia premette la guancia contro i frantumi della porta, individuando una figura che si stava facendo strada sul tetto con qualcosa in mano.

« Coraggio, avanti con quel Muro di Fumo! » gridò Bellocchio all’indirizzo di una sagoma che svolazzava ininterrottamente sopra l’edificio: uno Swellow che stava trasportando un Charmeleon sul suo dorso, gentile concessione di Calem. Quindi avvicinò nuovamente la bocca al megafono, rivolgendosi agli elicotteri fluttuanti « Spero stiate trascorrendo una piacevole serata! Non vi preoccupate, non è nulla di tossico, ma non vi suggerirei di andarci dentro: il Supersuono ha messo fuori uso i vostri sistemi di rilevamento, e non vorrei finire schiacciato dai relitti di un paio di velivoli poco avveduti! ».

« Bellocchio! » lo chiamò Serena dall’interno « Che diamine stai facendo? ».

« Il solito, improvviso! » rispose sorridente « Voglio solo fare due chiacchiere con Zoroark, se non vi spiace! Vi prometto che poi potrete averla tutta per voi! ».

« Sei andato anche oltre le mie aspettative. Congratulazioni ».

Bellocchio si voltò: alla sua sinistra un’affusolata sagoma volpina lo stava scrutando a qualche metro di distanza. Il suo torace a stento si gonfiava al ritmo del suo respiro: segno che tante cose poteva essere in quel momento, ma non nervosa.

« Quelli sono elicotteri governativi, per caso? » domandò alzando lo sguardo al cielo.

« Proprio così ».

« Sarà divertente vedere che mi faranno dopo ». L’uomo tornò a guardare Zoroark e il suo consueto sorriso scomparve completamente dal volto. Serena non l’aveva mai visto così serio, forse nemmeno nel nido dei Beedrill.

« Sai, devo dire che non ci ero arrivato. Credevo davvero che avessi rubato il Prototipo per venderlo, magari su commissione. Ma a pensarci bene un mutaforma non avrebbe potuto agire diversamente ».

Il suo tono di voce si era fatto notevolmente più grave e la sua espressione più truce. Non sembrava furia, però; pareva più consapevolezza della situazione. In alto i velivoli volteggiavano al di là della nuvola nera, costantemente rigenerata da Charmeleon in groppa a Swellow.

« Volevi nasconderti nella scuola, e uno strumento in grado di identificarti era il tuo più grande pericolo. Perché prendere anche il progetto, però? ».

« Per te ».

« Per me? ».

Zoroark annuì « Ho sempre saputo che saresti stato tu a smascherarmi per primo. Nel progetto si parlava spesso della nostra capacità di trasformarci in esseri umani. Temevo avrebbe acceso un campanello d'allarme, che avresti capito che il fuggitivo era un mutaforma ».

Il ritmo che Bellocchio teneva con le parole era lento ma serrato, senza concedere una tregua al silenzio « Quel carcere è un carcere per umani. Che cosa ci facevi là dentro? ».

« L’hai già intuito, no? Non sono mai stata in quel carcere ».

« E allora spiegami, perché non capisco. Quanto della storia del fuggitivo è vera? Perché il governo ha sparso questa voce? ».

« Credi che ne sappia qualcosa? ».

Bellocchio la scrutò negli occhi e la sua bocca si distorse per un breve attimo in una smorfia nervosa che ricordava un ghigno bieco e senza emozione.

« Sì ».

 

« Ehi, è vero quello che dice? ».

« Sì! » esclamò esasperato il militare « Troppe interferenze, non vedo gli altri elicotteri! Se entriamo in quella nuvola rischiamo di non uscirne vivi! ».

« Ma porca miseria, non riesci a riparare quel radar? » lo esortò il pilota « Sappiamo che usa le frequenze del Supersuono, dovresti poterle isolare, no? ».

« È quello che sto facendo, genio, ma non è roba da poco! Questi scanner non sono esattamente una lavagnetta magnetica, eh! ».

« Quanto ti ci vuole? ».

« E che ne so? Ti sembra una cosa che faccio tutti i giorni? » lo attaccò l’uomo mentre cercava di far stare ferme le mani tremanti « Un minuto, forse qualcosa di più. È il minimo che posso garantire ».

L’aviatore batté i pugni sulla console dei comandi, furibondo. Bryonia questa volta l’avrebbe ammazzato di sicuro.

 

« Ci sono così tante cose che non sai, Bellocchio. Così tanti dubbi che tieni nascosti » Zoroark pareva quasi compatirlo con sincerità, senza deriderlo « Dipende da te, sai? ».

« Che cosa dipende da me ».

« Il ritorno delle Guerre di Kalos ».

Il giovane sussultò « Le Guerre di Kalos sono finite millenni fa ».

Il Pokémon in risposta gli rivolse uno sguardo ambiguo, una specie di cenno d’assenso. Bellocchio non riuscì a interpretarlo.

« Sono stati loro a mandarti, vero? » la interrogò indicando con un braccio gli elicotteri sopra il Liceo « La polizia non ha messo il minimo impegno nella cattura, e hai dovuto bloccare personalmente Saul là sotto perché evitasse di farsi troppe domande. Non vogliono catturarti, o per meglio dire non volevano ».

« Sei molto perspicace. Avevo ragione a temerti » convenne la volpe « Ma ormai nulla ha più importanza. Siamo all’epilogo, almeno per me ».

« Dimmi perché, Zoroark. Perché sei stata mandata qui? ».

« Per seminare in vista della mietitura. Hanno grandi piani, sai. Verrà il giorno in cui li scoprirai, e quello » il Pokémon interruppe per un istante la risposta, ponendo un accento particolare sulla parola « sarà il giorno in cui tutto cambierà ».

« Zoroark, non muovere un passo e alza le mani! Chiunque sia stato a fermarci, allontanati dal fuggitivo e non ti sarà fatto nulla di male! » gridò qualcuno attraverso un altoparlante. Bellocchio alzò lo sguardo con un guizzo per guardare fissamente un esercito di velivoli che si erano fatti strada attraverso il Muro ormai diradato, patchando il sistema radiorilevatore che aveva provvisoriamente mandato in palla poco prima.

Un faro luminoso si accese su uno di essi, puntando dritto il Pokémon di fronte a lui. Mosse qualche passo indietro cercando di assecondarli mentre Zoroark veniva avvolta in una bolla di contenimento. Riuscì per un ultimo istante a incontrare i suoi occhi, celesti come quelli di Ada.

« Addio, Bellocchio » gli disse lei « È stato un onore incontrarti di nuovo ».

Alle ultime due parole l’uomo sgranò gli occhi in un’espressione di sorpresa mentre la sfera e il suo prigioniero scomparivano in un lampo di luce. Gli elicotteri, tanto vicini da fare svolazzare il suo cappotto con gli spostamenti d’aria causati dalle pale, ripresero quota e si allontanarono in gruppo verso Luminopoli. Presto tornò la quiete, salvo per i discorsi ovattati degli abitanti di Novartopoli ai piedi della scuola.

Lassù, invece, c’era solo Bellocchio, i suoi dubbi e le sue domande; e l’unica creatura che avrebbe potuto rispondervi si era appena dissolta davanti a lui.

 

 

Domenica, ore 10.01

Il Liceo quella mattina aveva un che di diverso, di più malinconico. Forse era perché di domenica gli studenti non lo frequentano, lasciandolo alla mercé di stanchi professori in giacca di tweed. Però c’era dell’altro, qualcosa che andava al di là della giornata di sole, al di là degli uccellini cinguettanti. Un malumore di sottofondo, come un disco incastrato su un suono statico appena percettibile.

Craig osservò quello strano uomo pervaso da sentimenti contrastanti. Era bizzarro, intrattabile a volte, difficile stabilire cosa gli passasse per la mente; ma era trasparente, sincero.

« Sicuro di non voler restare? Ci farebbe comodo qualcuno per la Supercoppa ».

« La ringrazio, ma ho fatto il mio tempo qui. E poi il professor Wall non sarebbe felice di sapere che qualcuno l’ha rimpiazzato ».

« Molto bene. Allora arrivederci » lo salutò l’uomo con un sorriso e una stretta di mano. Bellocchio ricambiò la seconda, ma le sue labbra erano inerti. Craig non lasciò la presa, trattenendolo per un braccio.

« Ehi… Tutto bene? ».

Il giovane annuì « Io sto sempre bene ». Quindi si incamminò verso il giardino della scuola, al centro del quale troneggiava la fontana sfavillante nel chiarore mattutino. Si attardò, sedendosi infine sul muretto in mattoni circostante, proprio dove quarantott’ore prima aveva parlato con Ada di quell’enigmatica raccolta di istantanee d’epoca.

Non era tanto l’idea che se ne fosse andata a farlo stare male, e nemmeno la consapevolezza di non sapere perché fosse stata inviata. Niente di tutto ciò: era il fatto che una vera Ada Delaware non era mai neanche esistita. La ragazza oppressa dal padre che sognava di diventare una saggista mitologica era solo una copertura, un’invenzione. L’empatia che provava verso di lei, allora, quella che cos’era? Un’invenzione anche quella? Era parte dello spettacolo?

Bellocchio alzò lo sguardo stanco per notare una sagoma che veniva verso di lui in controluce. Anche in quella situazione, comunque, non faticò a riconoscerla: era Tierno, e sembrava anche più afflitto di lui.

Dapprima non lo guardò in faccia, aspettandosi che a sua volta lo ignorasse; invece gli si sedette accanto e insieme fissarono gli occhi sull’orizzonte celato dagli alberi della campagna. Vi furono minuti di silenzio contemplativo, almeno finché il ragazzino non li interruppe porgendogli un panno logoro. Anche la sua voce appariva molto più spezzata del solito, meno allegra.

« Prendi ».

Lo esaminò: era uno straccio violaceo consumato dall’uso prolungato. « Cos’è? ».

« È quello che abbiamo usato quando dovevamo spiare il bidello. Tienilo tu, così ti ricorderai di quel giorno ».

Il giovane ringraziò con una mezza smorfia e lo ripose nella tasca interna del suo cappotto. Avrebbe preferito non ricordare, per la verità.

« Ieri io e Ada abbiamo ballato ».

Bellocchio si sorprese che la chiamasse ancora con il suo nome. Ma comprese che non era il caso di puntualizzare, anche perché personalmente detestava farlo. Non osava concepire di essere stato per tutto quel tempo l’oggetto di un raggiro.

« Com’è stato? ».

Tierno sospirò « Non avevo mai ballato prima. Non avevo mai provato nulla di simile prima ».

L’uomo espresse un cenno di assenso, senza però dire nulla, anche perché non avrebbe avuto nulla da dire persino volendo.

« Secondo te è stato vero? ».

Già, chissà. Proprio la domanda che si stava facendo lui. Ma la sua risposta era troppo amara per poterla riferire a un dodicenne speranzoso. Ogni tanto la verità va sacrificata.

« Mi chiamo Bellocchio. Ho ventisette anni. Ho viaggiato in lungo e in largo per regioni sconosciute, e ho incontrato migliaia di persone. E tre giorni fa, mentre tu origliavi dalla porta della camera il nostro dialogo, mi sono sentito per la prima volta veramente attaccato a qualcuno ». Alzò la testa al sole per poi rivolgersi direttamente a Tierno « Come poteva non essere vero? ».

« Lo penso anche io » concordò lui « Trovato ha detto che Zoroark… diventa la maschera, mi pare. Credo voglia dire che imita il personaggio fino a comportarsi come farebbe lui ». Si interruppe, girandosi a sua volta verso l’interlocutore « Secondo te esiste una vera Ada, da qualche parte? ».

Bellocchio sorrise all’idea « Magari sì. Da qualche parte, chissà, esiste una ragazza di nome Ada Delaware che vuole diventare una scrittrice contro la volontà del padre. È un bel pensiero. Magari un giorno… ».

Si fermò di colpo. Un campanello era risuonato nella sua mente, flebile eppure distinto. Un’incongruenza che aveva nascosto. Fin da subito quel nome gli era sembrato familiare, senza capire per quale ragione.

Anzi, no, non fin da subito. Non aveva annotato nulla la prima sera, lì Ada era una ragazza qualunque. La pulce gli era saltata addosso dopo. Dopo…

« Aspettami qui » ordinò a Tierno prima di correre a perdifiato dentro all’edificio. Non si prese nemmeno un istante per riposare, temendo che la soluzione potesse sfuggirgli di mano per l’ennesima volta, come sabbia nel deserto. Non poteva permetterlo.

Ci sono giorni speciali. Giorni da ricordare, in cui tutto va come deve andare. E anche se all’inizio sembra che sia ancora notte fonda, arriva sempre l’istante in cui un raggio sfiora la pelle dal confine tra cielo e terra rivelando la più brillante delle aurore. Giorni in cui ci si sente in fiamme, perché ogni cosa acquista un senso.

Ala nord, secondo piano, in fondo al corridoio. Bellocchio quasi sfondò la porta dell’aula vuota per la foga, gettandosi tra i cassetti della scrivania in cerca di un libro. Infine lo trovò, sfilandolo con la gioia di un bambino ed esaminandolo attentamente due, tre, dieci volte, per esserne sicuro, prima che un sorriso si riaccendesse sul suo volto. Perché certi giorni sono tanto meravigliosi da risultare incredibili finché non ti capaciti della loro esistenza.

In certi giorni a tutti è data l’opportunità di sorridere, alla fine.

 

 

TRATTEGGI STORICI, VOL. 1

DALLA PREISTORIA ALLA CIVILTÀ ARDECA

di Antoine Delaware

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** 1x11 - La lunga partita ***


Untitled 1

Il quartiere del Centro Pokémon in quella mattina domenicale era brulicante di credenti che rientravano dopo la messa alle loro abitazioni. Fortuna voleva che la chiesa locale fosse sita poco distante, vivacizzando il villaggio normalmente quieto. A ciò contribuivano inoltre sporadici agenti di polizia intenti a interrogare i cittadini riguardo gli avvenimenti della notte passata, asciugandosi di tanto in tanto il sudore e osservando il cielo tinto di un azzurro intenso.

« D’accordo, ecco, guardate bene la mappa. I giardini qua sopra, li vedete? Dobbiamo passare di lì per arrivare a Novartopoli » spiegò Trovato tracciando un cammino con l’indice sulla carta « Li chiamano Jardins Parterre ».

« Bene! Che stiamo aspettando? Andiamoci, forza! » esclamò Shana eccitata.

« No, no, no, non se ne parla! ».

I due si voltarono verso Tierno, che aveva attirato anche l’attenzione di Calem sdraiato pigramente sul suo letto.

« E perché no? ».

« È tutto qui, nella guida turistica J’adore Kalos!, ovviamente! » sentenziò esibendo un libro spesso cinque centimetri dalla vivace copertina violacea.

« E quella dove l’hai presa? » indagò Trovato.

« Me l’ha data Bellocchio ».

« Io l’ho già finita » fece capolino la voce del giovane appena menzionato, anch’egli sul suo letto e intento a scorrere schede del PSS di Serena.

« Per l’amor del cielo, non esiste che tu l’abbia già letta tutta se l’hai presa arrivando a Novartopoli » commentò Calem.

« Sono molto veloce a leggere » replicò Bellocchio lapidario « E ora scusate, pare che mentre tenevo il mio show al Liceo abbiano trasmesso il finale di Breaking Bad. Alla fine si scopre che la timeline parallela era una specie di purgatorio, pare… ».

« E perché non possiamo andare ai giardini? » riprese Shana « C’è il sole! ».

« Esatto! Stando al capitolo-due-paragrafo-ventidue della guida, “i Jardins Parterre offrono un mirabile spettacolo nelle ore notturne, quando la suggestiva fontana centrale si accende di mille colori attraverso luci sul fondo” » recitò Tierno tutto d’un fiato.

« Cioè dovremmo andarci quando fa buio? E in tutto questo tempo che facciamo? ».

« Visitiamo la città! Stando alla guida in Boulevard St. Jacques c’è il mercato, oggi! Potremmo comprare… ».

Bellocchio, terminata la lettura della sintesi degli episodi, si alzò in piedi ignorando le discussioni dei tre e, afferrato il cappotto, scese le scale per uscire dal Centro Pokémon. Appena fuori, appoggiata a un albero che le faceva ombra, una ragazza in gonna rossa osservava il paesaggio comunale con occhi persi. Le si avvicinò, avendo cura di non produrre eccessivo rumore.

« Tutto bene? ».

Serena alzò il capo all’orologio del campanile, che segnava le undici in punto. Sotto la chioma fiorente della pianta il refrigerio trovato era davvero un toccasana « Tutto bene ».

« Nervosa? ».

« Un po’ » annuì « È la mia prima volta ».

Bellocchio sorrise e le cinse le spalle con un braccio, provando a rassicurarla con la propria calma.

« Ma sono pronta » aggiunse lei scuotendo la testa in assenso. Inspirò ed espirò profondamente « Possiamo andare alla Palestra ».

 

 

 

Episodio 1x11

La lunga partita

 

 

 

La Palestra di Novartopoli era un raffinato edificio verdeggiante circondato da alberi di ogni tipo. Sopra un vestibolo architravato campeggiava il logo della Lega Pokémon di Kalos inciso sul frontone, una variazione di una Poké Ball che le dava un tocco più dinamico. A differenza di pochi giorni prima ora le porte erano aperte al pubblico, anche se non si vedeva nessuno nei paraggi.

« Certo che è proprio… » Serena si fermò, cercando invano un termine migliore « … grande ».

« Ci si fa l’abitudine, non preoccuparti » commentò Calem « Ah, mi ricordo di quando ho affrontato questa Palestra. Nove anni fa spaccati, giorno più, giorno meno. Tipo Normale, non particolarmente difficile ».

Shana si fece avanti per incoraggiare la sfidante « Coraggio, ce la farai! ».

« Infatti! » fece eco Trovato « Facciamo il tifo per te! ».

« Grazie, ragazzi! Siete proprio–– ».

« Su, su, basta dialoghi filler, sto già dormendo! » Bellocchio, rimasto indietro fra i suoi pensieri, sorpassò tutti con passo affrettato « Ah, quindi questa è la Palestra… Beh, da dove vengo io sono un po’ meno megalomani, però… Ehi, e questo cos’è? ».

La sua attenzione fu attirata da un colorito manifesto apposto sulla parete frontale della struttura. Il suo titolo era semplice ma essenziale: Regolamento. A guardare un attimo più in basso, però, la cosa si faceva decisamente meno epigrafica: Linee guida per la partecipazione alla Lega Pokémon di Kalos.

« Sono le regole » spiegò Calem « Le avrete anche voi a Cravattonia, immagino ».

« Sì, ma… » Bellocchio scorse i punti del documento come se percepisse qualcosa di anomalo con un sesto senso tutto suo. Poi sgranò gli occhi e, strappando il foglio dal muro, esclamò « Ehi! ».

« Ehm… Non sono sicura che potessi staccarlo… ».

« Ieri ho ostacolato gli elicotteri governativi, sono già partito con il piede sbagliato. Leggi qua: “Hanno diritto a partecipare al biennale Esame della Lega Pokémon di Kalos solo e soltanto i possessori di almeno sette delle otto medaglie delle Palestre convenzionate della regione. Di seguito le città…”, eccetera, eccetera ».

Bellocchio osservò gli altri come se si attendesse una reazione. L’unico a parlare fu però Calem « … e? ».

« Perché soltanto sette? Da me sono obbligatorie tutte e otto ».

« Beh, una volta è consentito sbagliare » intervenne Shana « Voglio dire, può capitare che tu non sconfigga una Palestra ».

« Ma che senso ha? Tanto si possono affrontare di nuovo. Se sei qualificato vincerai, no? ».

Di nuovo un silenzio tombale, di nuovo rotto dal solo Calem « Le Palestre si affrontano una volta sola ».

« Come? ».

« Che vuol dire come? È la normalità ».

« Ma è una barbarie! » inveì Bellocchio « La maggior parte degli Allenatori sono ragazzini! Perché dovresti metter loro altra pressione addosso? ».

« Senti, Dottor Cravatta, la questione è semplice: se non sei portato per allenare, fai altro » replicò crudamente il ragazzo « Oppure aspetti due anni e riprovi. Partecipare all’Esame non è cosa da tutti, e nemmeno allenare se è per questo ».

« È vero » confermò Trovato « Io per esempio so già di non essere all’altezza delle Palestre, quindi mi dedicherò a completare il Pokédex ».

Bellocchio fu talmente colpito da quella pratica che per un istante rimase senza parole. Gli tornò alla mente la reazione di Saul quando aveva scoperto che lui era un Allenatore, una reazione che adesso acquistava un senso tutto nuovo. A Kalos allenare era un privilegio, non un diritto. Magari Trovato avrebbe voluto diventare un Maestro di Pokémon, ma per via di precetti inculcatigli da bambino si era rassegnato all’impossibilità di ciò. Doveva correggersi: non era una barbarie, era di più. Era controllo.

« Se avete finito di litigare io entrerei » li richiamò all’ordine Serena; quindi varcò la soglia, facendo appello a tutta la sua fibra morale.

 

 

L’interno della Palestra somigliava in effetti più a una serra: il soffitto in vetro lasciava che i raggi del sole nutrissero le piante che vi crescevano, e la temperatura era considerevolmente più alta di quella primaverile che caratterizzava Novartopoli in quei giorni. L’unica tangibile differenza era un ampio campo di battaglia in terra battuta, arena degli scontri che vi si tenevano.

« Deduco che abbiamo degli sfidanti? ».

La voce era rimbalzata da un angolo all'altro della sala, ma Bellocchio e Serena avevano individuato immediatamente l'origine; l'uno per abitudine, l'altra per l'acutizzazione dei sensi provocata dal nervosismo del momento. Una sinuosa silhouette femminile risplendeva nella luce mattutina, una ragazza dai biondi capelli agghindati a caschetto e una macchina fotografica Reflex appesa al collo.

« Sì » scandì Serena, incoraggiata dal suo amico « Vorrei sfidare la Palestra ».

La Capopalestra si diresse verso di loro con passo cadenzato, quasi stesse danzando, ma mantenendo un'aura di distacco nei confronti dei presenti. Bellocchio ebbe l'impressione che si stesse gloriando della sua posizione.

« Molto piacere, il mio nome è Violetta. Dovrò chiederti di vedere un documento identificativo » spiegò con un tono che ricordava quello dei controllori degli autobus. La ragazza lo porse tremante perché lo esaminasse.

« Serena Williams da Borgo Bozzetto » ripeté leggendo la Capopalestra, alzando e abbassando gli occhi « Questa è la tua prima Palestra? ».

« Sì ».

« Allora sarà necessario qualche procedimento burocratico per validare la tua partecipazione » spiegò Violetta con un sorriso « Seguimi ».

Le due si allontanarono verso il lato opposto del campo. Bellocchio, che le aveva tenute sotto il suo attento sguardo fino a quel momento, si girò notando che nel frattempo gli altri del gruppo si erano riuniti a cerchio tagliandolo fuori.

 

 

 

« Ehi, scusate… » disse tentando di aprire un varco nella barriera umana che lo precludeva « Permesso… ».

 

 

« Ve lo sto dicendo, non è quella che ho affrontato io in tutti gli anni passati ».

 

 

 

 

« Che vuoi dire? ».

 

 

 

 

« Scusate… ».

 

« Io me la sono vista con un cinquantenne imbottito di analcolici che ha perso più tempo a parlare di complotti che a combattere. Di certo non era questa Violetta ».

 

 

 

 

 

« Potrei partecipare… ».

 

 

 

 

« Quindi i Capipalestra cambiano? ».

« Mi pare ovvio, Shana, non sono eterni ».

 

 

 

 

 

« Mi stai dicendo che Serena sta facendo un salto nel buio? ».

 

 

 

La faccia di Bellocchio sbucò da sotto le loro dopo essersi miracolosamente infiltrata « Ah-ha! Eccomi! Dicevamo? ».

« Molto bene! » annunciò Violetta ritornando con Serena dal retrobottega. Il circolo di amici si smembrò così com'era nato, lasciando Bellocchio nel disappunto di un trionfo futile.

La Capopalestra proseguì « Poiché questa è una sfida ufficiale, dovrò chiedervi di allontanarvi dal campo. Come potete notare la Palestra è sviluppata su due piani, quindi vi invito a recarvi al corridoio superiore se volete seguire il combattimento ». Dunque si rivolse a Serena, silenziosa come per tutto il tempo « Prendi pure posto da quel lato. La battaglia sta per cominciare ».

La giovane iniziò a camminare lentamente verso la sua destinazione, un rettangolo contornato da segni bianchi come il latte, cercando di mantenere il controllo sulla sua respirazione. Avvertiva una fitta persistente al palmo della mano sinistra, una peculiarità che aveva fin da bambina e che si manifestava ogni volta che era davvero tesa. Quella volta, però, probabilmente le batteva tutte. Più di ogni altra volta, un mantra le martellava la testa: vincere.

« Sei pronta? ».

La voce di Violetta echeggiò irrealmente nella sua mente, come se non fosse diretta a lei ma a qualcuno di lontano. E invece era il suo momento, era la sua ora. Serena Williams, Allenatrice di Pokémon. Quante notti aveva sognato quelle parole così accostate, e finalmente era realtà. Gettò uno sguardo al medagliere appena ricevuto. Vincere.

« Sì! » esclamò con un sorriso determinato.

« Così mi piaci! » le gridò di rimando la Capopalestra « Visto che è la tua prima volta ti sarà concesso un handicap: due Pokémon te, uno io ».

Handicap. Favoritismo. Una parola che suonava malissimo. Anche avesse potuto, non avrebbe accettato. Ma non poteva. « Ho un solo Pokémon » replicò Serena stringendo tra le mani la Poké Ball di Karen.

Violetta, pur sorpresa, accettò e adattò le regole « Uno contro uno secco, allora. Al mio tre. Uno, due… ».

Le due allenatrici lanciarono le proprie sfere. Dal lato di Serena si materializzò Ralts come al solito, mentre dall'altro fu schierata una farfalla celeste dalle lunghe antenne e alta circa un metro.

 

« Ehi, e quello cos'è? » sobbalzò Bellocchio « Un'altra mutazione! ».

« Vivillon » replicò Calem, appoggiato con il gomito al corrimano del matroneo « Nulla di speciale, l'unica particolarità è che cambia il colore delle ali a seconda della zona in cui vive ».

Trovato e Tierno non distoglievano gli occhi dal terreno di scontro. Shana si concesse invece una pausa « Quindi ora è una Palestra di tipo Coleottero? ».

« Pare di sì ».

 

« Ralts? » domandò Violetta con un cenno di arroganza « Potenzialmente molto forte in futuro, ma non è rischioso usarlo a questo stadio per una lotta in Palestra? ».

« Questa l'ho già sentita » liquidò Serena « Vedrai che vincerò anche con lei! E ora fai la tua mossa! ».

« Sei una orgogliosa, vero? » rise la donna incrociando le braccia « Una di quelle che vogliono vincere a prescindere dall'avversario. L'ho visto da come tieni a questa partita ».

« E cosa c'è di male? È lo scopo di un'Allenatrice! ».

« Solo quello? ».

« La smettiamo di perdere tempo? Fai la tua mossa! ».

« L'ho già fatta ».

Serena, e per estensione gli spettatori, sgranarono gli occhi spiazzati. Non aveva ordinato nessun attacco, e Vivillon non si era mosso. Aveva passato il tempo a volteggiare per aria, sbattendo le sue ali e attendendo un comando.

Oppure non lo stava attendendo? Forse lo stava eseguendo?

« Lezione numero uno della tua prima sfida in Palestra » scandì Violetta piena di sé « Mai distogliere gli occhi dall'avversario ».

« Che mossa ha usato? ».

« Eledanza. Migliora le tecniche speciali offensive e difensive, nonché la velocità del mio Pokémon ».

Tecniche speciali offensive e difensive, il che corrispondeva al Calmamente di Karen. Ma la velocità, quella lei non la poteva superare. Non poteva perdere altro tempo. « Vai, usa Confusione! ».

Vivillon provò a evitare l'attacco con uno scatto in rapidità verso l'alto, ma il flusso violaceo di energia collassò sul bersaglio come stabilito. La farfalla però non ne risentì, incassando senza problemi.

Serena ricordò della sfida contro Shana di qualche giorno prima, a Rio Acquerello: anche in quella occasione i suoi attacchi contro Fennekin si erano rivelati inefficaci. Ma quello era Schermoluce, destinato a svanire; in questo caso l'effetto dell'Eledanza era permanente. Doveva variare la tattica.

Gli occhi di Karen da sotto il casco incrociarono per un istante quelli di Serena, e il suo corpo fu avvolto da un alone rosa.

« Confusione di nuovo, avanti! Non diamogli tregua! ».

 

Bellocchio e Calem erano concentrati al massimo sulla sfida, molto meno intuitiva di quanto si sarebbero attesi. Si erano parlati sporadicamente, i cinque del gruppo, e loro due in particolare; ma tutti concordavano su un fatto: quella non era una battaglia da esordiente. Violetta aveva altro in mente, o non avrebbe iniziato con una delle tecniche più micidiali possibili.

Tuttavia, Shana a parte, ricordavano bene l'exploit di Serena contro Fennekino. Se la Capopalestra voleva giocare duro aveva scelto la sfidante giusta per farlo.

 

« Abbiamo subito abbastanza, Vivillon. Usa Entomoblocco! ».

Il Pokémon partì verso Ralts a tutta velocità, avvolto da una sfera color erba, e la tramortì facendola ruzzolare all'indietro senza nemmeno fare contatto, tanta era l'energia che aveva scatenato. Karen si rimise in piedi a fatica, apparendo notevolmente fiaccata.

Serena strinse i denti. Tutte le sue Confusioni erano andate a segno, ma Vivillon aveva retto senza problemi, e sospettava che Violetta avesse fatto ricorso a qualche Eledanza ulteriore. Non poteva cedere ora.

« Sei ancora convinta che un Ralts sia sufficiente per vincere? » domandò la Capopalestra. Non c'era tanto cattiveria nella sua voce quanto volontà di fare crescere la sua avversaria. Non era un professoressa arrogante, bensì una maestra severa. Serena non rispose.

« Molto bene » annuì Violetta « Possiamo chiuderla qui, direi. Vivillon, usa ancora Entomoblocco! ».

Nuovamente il suo Pokémon produsse la sfera energetica necessaria. Quell'attacco sarebbe con ogni probabilità stato l'ultimo se Serena non avesse reagito. Ma non bastava reagire, non in uno scontro in Palestra. Non doveva semplicemente salvare l'onore: doveva vincere. Per fortuna, lei aveva un'idea chiara in testa.

« Non è presuntuoso da parte tua credere di aver vinto? » le gridò con un sorriso ritrovato « Karen, usa Doppioteam! ».

Vivillon si arrestò. Di fronte ai suoi neri occhi compositi la piccola creatura si moltiplicò fino a riempire l'intero campo di sue copie che fluttuavano nella stanza. Quasi a sbeffeggiare il nemico, ognuna delle illusioni produceva l'esatto verso dell'originale, saturando l'aria di un coro leggiadro di voci infantili e producendo una sorta di parodia grottesca dell'Eledanza.

 

« Oh! Così si fa! » esclamò Shana agitando la mano all'indirizzo dell'Allenatrice « Vai, Serena! ».

« Ralts potrà pure essere debole, ma lo sta sfruttando al massimo » convenne Trovato « Per me ora la vince ».

I due si voltarono verso Bellocchio, che si grattava pensierosamente il mento come se avesse notato una falla.

« Qualcosa non va? ».

« Apparentemente no » replicò lui « Ma non capisco perché Violetta stia sorridendo ».

 

« Allora? Che cosa hai intenzione di fare? » la provocò Serena.

La Capopalestra cercava di nascondere quel ghigno poco professionale « Ti è familiare il concetto di Abilità? ».

« Che cosa sarebbe? ».

« Un'Abilità è una caratteristica di un particolare Pokémon, una sorta di potere speciale. È parte delle informazioni trasportate dai suoi geni, una combinazione particolare di filamenti di DNA » spiegò « Ogni Pokémon generalmente presenta un'Abilità da un parco di due o tre, e ciò gli conferisce poteri speciali ».

« Non voglio la lezione, grazie, vai al punto » la interruppe seccamente Serena, che quando combatteva assumeva un'impazienza non sua.

« Il mio Vivillon possiede il gene Insettocchi, il che significa che la sua vista è perfetta » proseguì Violetta « Se non ci fossi già arrivata, questo vuol dire che sa esattamente qual è il vero Ralts. Vai, usa Entomoblocco! ».

A Serena si mozzò il fiato, e come a lei anche agli spettatori, mentre la farfalla si illuminava nuovamente per dirigersi verso una delle copie: l'originale, come Violetta aveva annunciato. Non c'era tempo da perdere, era il momento del Piano B.

« Karen, Ondasana! ».

Attorno al Pokémon si produsse una bolla rosea un istante prima dell'assalto di Vivillon. Nella collisione tutti i cloni si dissolsero e Ralts fu sbalzato all'indietro, resistendo però per un soffio all'attacco avversario. Ansimava, ma quantomeno era ancora in grado di combattere.

 

Calem si sorprese per la prima volta nel match « Non ci credo! Non ci avrei scommesso nulla! ».

« Evvai! » esclamò Tierno battendo i pugni contro il muro « Che poi, cos'è Ondasana? ».

« Una tecnica curativa » spiegò Bellocchio « Curioso però, teoricamente non sarebbe dovuta bastare. È come se l'Entomoblocco si fosse indebolito ».

 

« Molto ben giocata, congratulazioni. Ma non puoi puntare a resistere in eterno, e sappiamo entrambe che Entomoblocco indebolisce le mosse speciali di Ralts » Violetta incrociò le braccia « Hai intenzione di fare qualcosa? ».

« Chi ha detto che non l'abbia già fatta? ».

La Capopalestra sussultò a quelle parole « Come? ».

Serena sorrise con soddisfazione « So imparare dal mio avversario, sai? O credevi di essere l'unica capace di usare potenziamenti sottotraccia? ».

« Vuoi dire che… ? ».

« Calmamente » la anticipò la ragazza « Karen l'ha impiegato per tutto questo tempo. Il che non solo significa che è messa molto meglio di quanto credevi, ma che ora può passare al contrattacco ».

Violetta batté le mani « Davvero niente male per un'esordiente. Questo non vuol dire comunque che ti lascerò vincere ».

« Voglio vedere come mi fermerai. Karen non ha sbagliato un colpo, e ti garantisco che non fallirà questo » proruppe la sfidante con decisione « Vai, usa Veicolaforza! ».

Ralts fu circondato da una fascia luccicante che a poco a poco si accumulò in una singola sfera che fluttuava tra le sue mani, carica di tutti i Calmamente prodotti nel corso dello scontro. Concentrandosi al massimo, si preparò a scagliarla.

« Vivillon, Doppioteam! ».

Le mani di Serena caddero lungo i fianchi nello sconforto. Aveva vagliato molte ipotesi, ma aveva scordato quella più ovvia: così come lei aveva preso in prestito la tattica di Viola, ora quest'ultima la stava ripagando con la sua stessa moneta. Sotto i suoi occhi centinaia di lepidotteri celesti avevano infestato la Palestra e ora svolazzavano senza sosta nell'aria.

Provò a calcolare le probabilità di scegliere quello giusto, ma erano infinitesime. Quel che era peggio era che non avrebbe avuto una seconda possibilità: nell'istante in cui Veicolaforza fosse partito verso una delle illusioni, il vero Vivillon avrebbe attaccato a sua volta annichilendo quel che restava di Karen. Si voltò, incontrando gli sguardi tesi di Calem e Bellocchio e quelli ansiosi dei tre bambini, ancora immobili sul matroneo. Nemmeno loro ci credevano, e come biasimarli.

La prima Palestra, e già si stava per giocare la sua unica sconfitta concessa. Forse non era nata per essere un'Allenatrice. Aveva atteso inutilmente.

Ma non poteva darsi per vinta, questo no. La probabilità era bassa, ma doveva provare. Si concentrò sulle farfalle che aleggiavano, provando a individuare quella vera. Beh, quella là, che gironzolava attorno a una chioma d’albero, quella le sembrava diversa, più naturale. Forse era la sua immaginazione, ma era l'ultima speranza che le restava. Si fece coraggio.

« Karen, attacc–– ».

« Mi arrendo » dichiarò Violetta.

Quelle due parole la colpirono gelide come una stalattite che cade dal soffitto. Il cuore saltò un battito, il fiato fu mozzato e la bocca rimase socchiusa in un ordine interrotto. Mi arrendo.

Le copie di Vivillon si dissolsero, compresa quella che Serena era precedentemente intenzionata ad attaccare. L'originale era da tutt'altra parte, mimetizzato alla perfezione, e la osservava con i suoi occhi di ghiaccio. Avrebbe perso. Aveva perso.

« Congratulazioni, ti sei guadagnata la Medaglia Insetto » si complimentò Violetta venendole incontro. Frattanto la raggiunsero anche i suoi sostenitori, a parte Bellocchio che era rimasto immobile e meditabondo sul posto, un po' come lei. La Capopalestra le porse uno stemma, ma lei lo allontanò con una mano.

« Perché ti sei arresa? Avevi vinto ».

« Sei riuscita a mettermi in difficoltà con un Pokémon nettamente svantaggiato » spiegò « Parte del nostro lavoro è anche valutare le potenzialità di un Allenatore, specie se questo Allenatore è un esordiente ».

« Ma io… ». Serena faticava ad esprimere le sue sensazioni, perché non era certa di comprenderle nemmeno lei. Sapeva solo che non voleva accettare quel premio « Io stavo attaccando il Vivillon sbagliato. Io ho perso ».

« A volte vincere non è l'unica cosa che conta. A volte crescere è più importante » Violetta le regalò un sorriso accennato che scomparve subito dal suo volto « Adesso accetta la Medaglia, ci sono altri sfidanti che potrebbero necessitare la mia presenza ».

La ragazza le mise di forza in mano il piccolo frammento di metallo per poi allontanarsi verso il computer a cui l'aveva condotta prima, accompagnando il tutto con un eloquente gesto che la invitava ad andarsene.

 

 

Sempre lo stesso albero, quello di fronte al Centro Pokémon. Otto ore prima o giù di lì era un'Allenatrice nervosa per la sua prima lotta ufficiale in Palestra; ora di lei era rimasta solo una ragazza sconsolata e pallida, perseguitata da una Medaglia conquistata immeritatamente.

Se la stava rigirando tra le mani proprio in quel momento, ammirandone i riflessi scatenati dalla luce arancione del tramonto incipiente, quando intravide i suoi amici che tornavano dal mercato di Boulevard St. Jacques. Lei non aveva voluto accompagnarli ed era rimasta nel Centro per il resto della giornata uscendo solo pochi minuti prima per una boccata d'aria. Bellocchio le aveva tenuto compagnia, per modo di dire, mentre seguiva in differita il tanto decantato finale di serie di Breaking Bad.

Trovato si staccò dal gruppo, lasciando al già carico Tierno i suoi sacchetti, per recarsi a parlarle. Non esordì, per la verità, nel migliore dei modi « Tra poco andiamo ai Jardins Parterre. Appena tramonta il sole ». Serena annuì distratta.

« Sei ancora triste per la Palestra? » le domandò, pur conoscendo già la risposta « Guarda che Violetta ha ragione, te la sei meritata ».

« Non è quello » si affrettò a rispondere lei, in un tono per la verità poco convincente « È che… Insomma, non voglio avere favoritismi. Sono stanca di gente che pensa che non ce la possa fare da sola ».

« Beh, se permetti, a me sembra che tu ce l'abbia fatta eccome! » le fece notare Trovato « Insomma, l'hai sentita, no? Ralts è più debole rispetto a Vivillon, eppure è riuscita a batterti per il rotto della cuffia! Chi ha colmato la differenza, se non tu? ».

Serena sorrise a metà, ma non accettava scusanti « Questa sarà la Palestra Zero. D'ora in poi basta bonus. Ho imparato la lezione, Ralts da solo non basta. Devo ampliare la mia squadra se voglio essere una grande Allenatrice ».

« E quindi che hai intenzione di fare? ».

« Beh, il Capopalestra corrente di Luminopoli è Lem, tipo Elettro, almeno se Bellocchio ha detto la verità » pensò a voce alta la giovane « Proverò a catturare qualcuno che sia avvantaggiato nei Jardins ».

« Quindi vuoi affrontare Lem? » la interrogò con una punta di ironia una nota voce non molto distante. Dalla siepe che circondava l'edificio spuntò fuori Calem, assente ingiustificato da appena dopo la Palestra.

« È il più vicino, non vedo perché no ».

Il ragazzo emise una risata sommessa « Buona fortuna, è ritenuto uno dei Capipalestra più abili di tutta Kalos. Personalmente non l'ho ancora affrontato, ho deciso di tenerlo per ultimo ».

Serena non fiatò, mugugnando mentalmente insulti più o meno pesanti rivolti a colui che le stava di fronte. Se prima aveva parlato di persone che la sminuivano, lui era senz'altro in cima alla lista.

« Ma sai » proseguì senza degnarla di uno sguardo « Forse potresti persino farcela. Te la sei cavata bene contro Violetta ».

Senza sorridere rientrò nel Centro. Probabilmente non lo considerava un complimento, un termine che significa esaltare le capacità di qualcuno. Era più una constatazione, una sottolineatura della realtà; e Calem non si poneva problemi a farne, anche verso chi considerava suo rivale.

 

 

Violetta infilò la chiave nella toppa sotto il quadro elettronico che regolava le porte scorrevoli della Palestra e la ruotò verso destra, serrando lo stabile. Era stata una giornata poco impegnativa, solo tre sfidanti. Alzò lo sguardo al sole che si apprestava a chiudere il suo viaggio attraverso Novartopoli, poi lo diresse verso sinistra in corrispondenza di un rumore di passi. Non molto distante, un uomo stava avanzando verso di lei.

« Mi spiace, l'orario per gli incontri è terminato. Dovrai ripassare domani ».

« Non voglio sfidare nessuno » replicò lui divertito.

Come si fece più vicino, a Violetta parve di riconoscerlo « Ci siamo già incontrati? ».

« Non mi aspettavo si ricordasse di me. Ero tra gli spettatori di Serena Williams, stamane ».

« No, no, non per quello… Ah, il Liceo! » rammentò d'improvviso « Lei era quello sul tetto, giusto? Un paio di filmati amatoriali l'hanno inquadrata ».

« Anche » confermò Bellocchio.

« E perché si trova qui? ».

« Dopo lo scontro di oggi, quello con Serena, sono rimasto confuso. Sentivo che c'era qualcosa che non mi tornava, qualcosa di molto atipico nel modo in cui si era svolto » l'uomo infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, sotto il cappotto « Poi ho capito. Vivillon è un Pokémon estremamente veloce, se la può giocare con chiunque. A volte faticavo personalmente a seguirne i movimenti. Eppure mai una volta, nemmeno una, un colpo di Ralts ha mancato il bersaglio. Sono andati tutti a segno ».

« Può capitare » commentò Violetta alzando le spalle « Statisticamente improbabile, ma non certo impossibile ».

« Oh, certamente. Ma vede, io ho una teoria migliore » riprese Bellocchio « Lei ha familiarità con l'abilità Traccia? ».

La Capopalestra si irrigidì, come colta da un brivido. Un sogghigno percorse il volto di Bellocchio: aveva fatto centro.

« Un Pokémon con il gene di Traccia si adatta al suo avversario, copiandone l'Abilità. Ralts in quel momento aveva imitato il gene di Insettocchi, che aumenta la precisione dell'utilizzatore. Per questo non ha mai fallito, esattamente com'è stato per Vivillon ».

« È un punto di vista interessante, devo dargliene atto. Non ci avevo pensato ».

« Ah, invece io credo che ci avesse pensato eccome » la corresse Bellocchio « Ed è per questa ragione che si è arresa, non per gentilezza. Perché esattamente come Vivillon sapeva qual era il vero Ralts, così Ralts sapeva qual era il vero Vivillon. Se Serena avesse dichiarato l'attacco lei avrebbe perso ».

Violetta sorrise, colta con le mani nel sacco « Molto ben arguito. Dovrebbe intraprendere la carriera di detective, farebbe faville ».

« Ho i miei momenti » rispose gelido « Però non ho risolto tutti i miei dubbi. Perché ha deciso di arrendersi? ».

« Perché Serena è un'esordiente. Se non si imparano certe cose adesso, si rischia di non impararle più ».

« Quali cose? ».

« Che abituarsi alla vittoria è pericoloso. Si rischia di perdere confidenza con la sconfitta, e di non sapere come affrontarla veramente » spiegò la Capopalestra con la calma più totale « Ora mi scusi, il mio fidanzato mi aspetta a casa ».

La ragazza si incamminò lungo la stradicciola sterrata che conduceva al centro di Novartopoli con una tracolla nera in spalla. Bellocchio ne squadrò l'andatura, lenta e spensierata.

« Io so come affrontare una sconfitta » le disse. Non seppe nemmeno capire per quale ragione, gli era uscito spontaneo.

Violetta si fermò senza girarsi, ma il giovane presunse che dietro la nuca stesse celando un'ingenua espressione di perplessità. « Perché ha pensato che mi riferissi a lei? » gli domandò prima di scomparire dietro l'angolo.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 1x12 - L'ultima notte ***


Untitled 1

« No, no, dannazione! » esclamò Desmond come il primo flash della sirena rosso fuoco che pendeva dal soffitto comparve annunciandone lo scatto. Gettò il suo camice bianco sulla sedia girevole e si precipitò fuori dal laboratorio, finendo dritto sopra un labirinto di scalette e ponteggi metallici che tremavano al passaggio. Guardò in alto, dove la struttura metallica si ergeva per metri e metri fornendo l'accesso a decine di uffici privati. Quasi tutti i suoi colleghi stavano percorrendo l'impalcatura verso il basso; ma Desmond era alla Piattaforma Alfa, quindi toccava a lui.

Senza pensarci due volte imboccò i gradini più vicini fino a giungere alla Base, una mastodontica sala circolare che costituiva, neanche a dirlo, il pianterreno del Terzo Dipartimento. Nelle pareti erano state incavate solo due porte, di cui una conduceva all'esterno; Desmond entrò nell'altra, trovandosi di fronte solo un balconcino ferreo e un uomo che stava febbrilmente premendo pulsanti e tirando leve – a giudicare dal suo modo di fare, senza grande successo.

« Dottor Lopez, Piattaforma Alfa ».

« Non stia lì a guardare, mi aiuti a stabilizzare gli orbitali! I covalenti stanno per saltare! ».

Desmond inspirò profondamente: nel suo ufficio, probabilmente il più importante come posizione strategica, aveva dovuto sopportare ogni minuto la vista di un accecante poster plastificato che recitava il da farsi in queste situazioni. Si diresse alla parte del quadro comandi non coperta dal ricercatore già presente e, manovrando con lui la strumentazione, riuscì infine a innescare lo spegnimento dell'allarme.

Il suo compagno, il volto completamente fradicio di sudore, si lasciò andare sulla sua poltroncina a rotelle sfiancato. Desmond avrebbe fatto lo stesso se in quel pianale avessero previsto spazio per più di una persona. Provò a gettare uno sguardo oltre il terrazzino: il Baratro, secondo quanto aveva sentito una volta alle macchinette del caffè, era profondo oltre cinquanta metri. Ma non era illuminato, quindi il suo tentativo di sbirciata andò a vuoto; e, in ogni caso, un po’ tutti là dentro cercavano di non pensare a cosa ci fosse là sotto.

« Da quanto sei alla Piattaforma Alfa? » gli domandò l'uomo sulla sedia. Lo vide in volto per la prima volta: era più vecchio di quanto avrebbe detto dai suoi movimenti, ma poteva anche essere che portasse la sua età molto male.

« Due giorni ».

« Consolati, il resto del mese non dovrebbero esserci altri incidenti » lo rassicurò con un sorriso tirato tra un affanno e l'altro « Piacere, Foster Tate ».

« Desmond Lopez ». Si udì uno squillo di telefono, e gli occhi di entrambi caddero su uno schermo a cristalli liquidi di una decina di pollici incastonato tra un oscilloscopio e un voltmetro.

« Il Tablafono » spiegò Foster con un gesto pigro della mano « Sistema di comunicazione interno. Rispondi pure ».

Desmond annuì e abbassò un interruttore. Sul monitor impolverato si materializzò una donna dai folti capelli rossicci. « Qui Secondo Dipartimento, qual è la situazione? ».

L'uomo si girò ancora verso Tate, la cui espressione chiariva meglio di ogni parola lo stato delle cose.

« Qui Secondo Dipartimento, parla la dottoress–– ».

« La situazione è sotto controllo » comunicò frettolosamente con tono professionale. Si mangiucchiò l'interno della guancia per calmare i nervi, poi soggiunse « Però ormai è successo. Prepariamoci a restare di nuovo al buio ».

 

 

 

Episodio 1x12

L'ultima notte

 

 

 

« Lo vedi? ».

Shana si riposizionò cambiando il ginocchio di appoggio, che iniziava a farsi dolorante « Sì. Non credo ci abbia notate ».

« Un solo tentativo » Serena si rigirò per le mani la sua ultima Poké Ball, rilucente del bagliore irradiato dai lampioni « O la va o la spacca ».

« Pronta? »

« Pronta » la ragazza si alzò in piedi con uno scatto e lanciò la sfera all'indirizzo di un Budew che passeggiava placidamente tra le siepi della sezione dei Jardins Parterre. La piccola creatura si scansò all'ultimo istante, lasciando che l'oggetto si scontrasse con il suolo con un tonfo.

« Dannazione, mancata! ».

Shana si gettò all'inseguimento del Pokémon, facendo cenno all'amica di seguirla « La Ball non si è aperta! Prendila, possiamo ancora farcela! ».

La giovane annuì e la recuperò per poi pedinare la piccola pianta in fuga: compito non certo facile, visto che non l'intera superficie del Percorso 4 era completamente illuminata in quella notte, il che risultava in tristi e frequenti scivoloni. L'inseguimento si protrasse nel labirinto di foglie per mezzo minuto o forse più, al termine del quale Budew si ritrovò all'interno di un corridoio longilineo cinto dalla vegetazione geometrica del parco e ostruito per ambo i lati dalle due ragazze.

« Vai, tirala ora! ».

« Contaci! » gridò Serena scagliando nuovamente la Poké Ball, che stavolta centrò il bersaglio in pieno. Budew scomparve in un lucido lampo candido all'interno dello strumento, che cadde a terra inerte. Il centro della sfera brillò di un rosso acceso.

Dai, coraggio, non stavolta, non di nuovo, lo implorò mentalmente la potenziale padrona avvicinandosi cautamente.

Uno.

Tre secondi di instabilità particellare, tre secondi per uscire. Doveva farcela, o non avrebbe avuto altre possibilità.

Due.

« Mi sembra più calma delle altre » osservò Shana dall'altra parte « Potrebbe essere la volta buona ».

« Lo spero ».

Tre.

Non ora, non così vicino. Non poteva farle questo.

Budeeeeew~!

E invece sì. La Poké Ball si aprì in un guizzo lasciando che Budew si riformasse dall'amorfa sagoma fuoriuscita. Il Pokémon spiccò un balzo, sospinto dalla carica energetica rilasciata, per oltrepassare la siepe e fuggire verso un angolo d'ombra del parco per scomparire tra gli alberi. Serena sferrò un pugno rabbioso al suolo. Niente più sfere, niente più catture. E lei aveva fallito il suo obiettivo per quel Percorso.

« Tutto ciò sarebbe stato molto più fattibile se non ci avessero tolto i Pokémon » osservò Shana accostandosi a lei.

La giovane non poteva che concordare: pur essendo d'accordo con la politica di preservazione della fauna e flora locale, togliere le squadre agli Allenatori all'ingresso dei Jardins Parterre sortiva un effetto paragonabile a rimuovere gli estintori dalle pareti di un museo del legno.

Non che si fosse pentita di aver fatto tappa notturna in quella riserva: le lanterne ingiallite e il profumo primaverile di primule in fioritura rendevano l'ambientazione assai romantica, adatta a una serata tiepida come quella. Però il suo obiettivo primario era prepararsi per la sfida contro Lem, e lei l'aveva fallito totalmente.

« Io vado a cercare gli altri » le annunciò Shana.

Serena annuì, come concedendole il permesso, e la vide allontanarsi verso un sentiero che tagliava un prato verdeggiante. Si guardò attorno: era in uno spiazzo privo di punti di riferimento e, cosa più importante, completamente sola. Iniziò a gironzolare, danzando tra i pali dei lampioni e i cartelli di orientamento, cercando con gli occhi lo skyline di Luminopoli senza trovarlo. Era come isolata dal mondo, in un universo bolla a parte, senza influenze esterne. C'erano solo lei, le piante e le luci.

Poi, senza preavviso, le luci si spensero.

 

 

« Che succede? » si domandò Calem. Stava camminando in tutta tranquillità lungo un tracciato suggerito dalla pro loco di Novartopoli, attorniato da graminacee e pini silvestri, quando si era fatto buio.

« Sarà saltata la corrente ».

Il ragazzo per poco non fu colto da un infarto. Si voltò, ma a causa dell'oscurità non scorse nulla e nessuno; essendo anche notte di luna nuova, l'unica flebile luce era adesso fornita dalle stelle sparse nella volta celeste, nonché dal chiarore della Via Lattea che appariva più visibile del solito.

« Chi va là? ».

« Come sarebbe a dire? Sono Tierno! ».

« Tierno? » si sorprese Calem « Come diamine mi hai trovato? ».

« Veramente ti stavo seguendo da un po'. Non ti eri accorto di me? ».

In effetti era un'occorrenza singolare: Tierno non era proprio un maestro nel passare inosservato. Calem trasalì, pensando a cosa poteva aver detto tra sé e sé convinto di essere da solo. Nulla di compromettente, sperava.

« Da quanto mi segui? ».

« Da abbastanza per sentire del tuo orsacchiotto! ».

Dannata la sua abitudine di pensare ad alta voce. Il giovane strinse i denti cercando di contenersi, poi provò a sviare l'argomento di conversazione « La corrente, hai detto? ».

« Penso di sì. Avranno problemi, magari con quella cosa che ha detto Bellocchio, il Nido ».

« Oh, già, giusto, giusto » Calem si sedette per terra, trovando appoggio in un tronco di legno che si affacciava sul sentiero in pietra « C'entra sempre il Dottor Cravatta, vero? ».

« Ma perché ce l'hai così tanto con lui? » lo interrogò Tierno « Voglio dire, anche io non sono partito col piede buono, ma mi sembra uno a posto ».

« Perché è ingiusto. L'hai visto, di recente? È un buffone, sempre a ridere di tutto quello che succede. Al Liceo c'è mancato poco che qualcuno si ferisse, e lui era costantemente rilassato ».

« Ma che problema c'è? È il suo modo di essere ».

« E invece il problema c'è eccome » sentenziò Calem « Perché alla fine, anche ridendo tutto il tempo e senza mai prendere nulla sul serio, è stato in grado di bloccare gli elicotteri. Capisci? Uno come il Dottor Cravatta che tiene testa al governo ».

« Quindi sei invidioso ».

« No, non è invidia, è… Insomma, perché lui sì e io no? ».

Tierno ridacchiò « Ma quella è la definizione di invidia ».

Calem guardò fisso di fronte a sé, dritto del buio, con l'espressione vuota di chi è stato colto in flagrante. Poi inspirò profondamente, cercando di mantenere l'autocontrollo « Non fare l'intelligente, non sei credibile. Io sono quello intelligente, tu sei quello paffuto ».

In altri momenti il ragazzino si sarebbe risentito di una simile affermazione; ma in quel momento capiva benissimo di essere in vantaggio, quindi non vi diede peso.

« E il fatto che sia amico di Serena non c'entra niente? ».

Calem rise genuinamente, pur con una punta di sarcasmo « Ti sei dimenticato chi le ha impedito nove anni fa di iniziare il suo viaggio? Pensi che m'importi qualcosa? ».

« Dopo oggi penso di sì » rispose Tierno « Perché hai visto che potrebbe raggiungerti ».

« Beh, ti sbagli ».

I due rimasero in silenzio nelle tenebre, una quiete innaturale e perlopiù forzata dalla resistenza al dialogo di Calem. Lo specifico argomento doveva pizzicare corde molto distanti della sua memoria. Di nuovo Tierno lo incalzò « Non ho ancora capito com'è successo, in quell'ultima notte in cui siete stati amici. Come hai fatto a impedirle di andare al Colle? ».

Il ragazzo si passò una mano dalla fronte alla guancia, tirandola per la stanchezza; forse fu proprio in ragione di quest'ultima che parlò « Nove anni fa a Borgo Bozzetto c'erano due allenatrici molto promettenti. Una si chiamava Rosa, l'altra Valérie. E con promettenti intendo molto più di me ».

« Tu sei famoso a Borgo Bozzetto. Perché di loro non ho mai sentito parlare? ».

« Perché non sono mai tornate a casa per fare visita » tagliò corto Calem. Naturalmente era una bugia, o almeno una parziale bugia: in realtà il motivo era che lui si era vantato molto di più dei suoi successi, presentandosi vittorioso al Borgo dopo ogni Medaglia conquistata. Ma era troppo orgoglioso per ammetterlo a se stesso, figurarsi a Tierno.

« Sua madre è sempre via nel periodo della consegna dei Pokémon, quindi Serena mi ospitò a casa sua. Contavamo di svegliarci presto per anticiparle al Colle, ma era una sua illusione e solo sua. Io sapevo che mentre noi ci infilavamo sotto le coperte loro probabilmente erano già là. Così l'ho chiusa in camera sua e sono andato solo io, di prima mattina, a prendere il mio Pokémon ».

Il giovane aveva liquidato così in fretta l'ultima parte che Tierno intuì che era meglio non indagare oltre. Avrebbe potuto chiedergli la ragione, ma in fondo già la sapeva: allenare non è per tutti. Serena era troppo condiscendente, troppo poco egoista per avere un futuro nel mestiere. Serena non avrebbe mai chiuso nessuno nella sua stanza per poter partire, nemmeno dopo nove anni di attesa. Certe volte le persone sanno essere davvero orribili.

Alzò lo sguardo al cielo, notando con la coda dell'occhio una fugace stella cadente che squarciò il cielo in una falce luminosa, e sorrise.

 

 

I rami secchi scricchiolavano sotto i piedi di Trovato, inoltratosi nelle aiole normalmente vietate al pubblico per sfuggire a qualcosa. Cosa non lo sapeva nemmeno lui: al blackout nel parco era rimasto immobile per non rischiare di perdersi, finché non aveva sentito un rumore simile a quello che produce la pioggia, persistente e martellante, senza che nemmeno una goccia lo sfiorasse. A quel punto aveva deciso che forse restare fermo in una situazione simile non era la migliore delle opzioni, e aveva iniziato una corsa forsennata finita solo da poco. Ancora ansimava, il che implicitamente segnalava la sua posizione.

« Trovato? ».

Dapprima sobbalzò alla menzione del suo nome; poi riconobbe la voce e tirò un sospiro di sollievo « Sei tu, Shana? ».

« Oh, grazie al cielo ho trovato qualcuno! ».

Il cuore di Trovato fu piacevolmente sollevato. Restare da soli al buio non è mai un'esperienza apprezzabile; paradossalmente, invece, in due acquista un significato opposto. Non aveva Pokémon con sé, men che meno Pokémon in grado di fare luce; ma anche li avesse avuti, probabilmente non li avrebbe chiamati in causa.

Alla fine le sue mani incontrarono le spalle di Shana e, localizzatisi a vicenda, la coppia si sedette per terra a guardare gli astri che disegnavano costellazioni sopra le loro teste. Il silenzio del parco era rotto solo dal fruscio delle foglie sospinte da una lieve brezza e, saltuariamente, da versi di Pokémon. Trovato non poté fare a meno di domandarsi se fossero entrati solo loro là dentro.

« Certo che non avrei voluto passare proprio così la mia ultima notte con voi » disse a un tratto.

Non riuscì a scorgere l'esito nell'oscurità, ma era quasi certo che Shana si fosse voltata per osservarlo « Che significa ultima notte? ».

« Poco prima che uscissimo dal Centro per andare qui mi ha chiamato mia madre. Mi ha detto che presto ce ne andremo da Kalos ».

La ragazza trattenne il fiato alla notizia. Era arrivata così, dal nulla, senza alcuna preparazione, cogliendola completamente alla sprovvista « Ve ne andate già domani? ».

« No, no. Però mi ha detto di smettere di andare in giro, perché tanto non potrei concludere nulla. Mi porterò con me Chespin e inizierò un'avventura là » spiegò Trovato « Il resto del tempo lo passerò dai miei nonni a Luminopoli. Nel momento in cui entrerò nella città finirà il mio viaggio ».

Si fermò, cercando di celare dentro di sé la malinconia per mostrarsi forte almeno un'ultima volta « Non l'ho ancora detto agli altri. È il mio segreto ».

Shana si rifiutò di rassegnarsi « Ma perché? Di punto in bianco andate via? ».

« Non me l'ha detto, ma penso c'entri mio papà. Non l'ha menzionato per tutta la telefonata, quindi ho paura che non verrà con noi ».

« Come mai? ».

« Beh, ultimamente torna a casa molto tardi, anzi, a volte non torna proprio » raccontare fatti tanto privati era per Trovato una sofferenza che si aggiungeva a quella della fine imminente « È sempre chiuso nel suo ufficio, a lavorare al computer per qualcosa. La mamma se ne lamenta spesso, per questo penso che abbia deciso di lasciarlo ».

Il giovane si coprì il volto con le mani stropicciandosi gli occhi. Shana, pur non potendo vederlo, cercava di essergli il più vicino possibile. Poi decise di parlare a sua volta « Posso dirti io un segreto? ».

« Dimmi ».

« Ho detto a tutti che non so nulla della mia battaglia a Rio Acquerello, ma non è vero. Ricordo tutto »

Trovato emise un sussulto. Ricordava bene quello scontro, la paura che aveva avuto per Serena e le fiamme infernali che avvolgevano il suo Ralts e lo tormentavano senza tregua. Aveva ancora i brividi al solo pensiero.

« E cosa ricordi? ».

« Il battito del mio cuore. Riuscivo a sentirlo distintamente, mi martellava le orecchie » il respiro di Shana si fece pesante e ritmico, come se stesse rivivendo quelle sensazioni « E nel momento in cui ho visto mio fratello, il fuoco… Mi sono sentita leggera, potevo fare tutto. Ma pensavo che se avessi smesso, se avessi fatto la mossa sbagliata… il battito sarebbe ritornato ». Tu-tun, tu-tun, tu-tun, tu-tun.

« Ehi, ehi, tutto bene? » Trovato le appoggiò una mano sulla spalla per tranquillizzarla.

« Io… Sì, sì, tranquillo. Per fortuna è tutto finito ».

« Già… » annuì il ragazzo « Dimenticatene, secondo Bellocchio era quella pietra a farti questo effetto. Adesso ce l'ha sotto controllo lui, è innocua ». In realtà non credeva molto a ciò che egli stesso stava affermando: ma non poteva certo confessare alla sua autocoscienza che pochi secondi prima, nella quiete notturna, quel battito l'aveva sentito anche lui.

 

 

Serena aveva camminato per chilometri, o almeno tanti le erano sembrati visto che potenzialmente poteva aver girato in tondo per tutto quel tempo. Il blackout perdurava ormai da almeno mezz'ora senza dare cenni di miglioramento: non un singolo lampione si era mostrato prossimo alla riaccensione, e anzi tanto più i Jardins si inoltravano nella notte tanto più la luce irrorata dalle stelle calava filtrata da impalpabili nuvole, come se quest’ultime volessero partecipare alla disfatta locale del genere umano.

A un tratto le sue ginocchia si scontrarono con una lastra in pietra levigata, facendola sprofondare in avanti; le sue mani d'istinto cercarono di attutire la caduta finendo dritte in una pozza d'acqua e schizzandole il viso. Serena comprese nel modo meno ortodosso dove si trovava: era appena incespicata nella fontana del parco, il che significava che si trovava nel suo centro esatto.

« Ah, Serena! Guarda chi si vede! No, aspetta, pessima scelta di parole ».

La ragazza aggrottò la fronte, non trattenendo tuttavia un sorriso: la voce proveniente dal capo opposto dell'abbeveratoio era quella che più avrebbe voluto sentire se si fosse persa in un luogo sconosciuto.

« Come sapevi che ero io? ».

« Dal suono delle tue scarpe ».

« Sai pure riconoscere le persone dal suono che fanno quando camminano » rise sciacquandosi la faccia per rinfrescarsi « C'è qualcosa che non sai fare? ».

« Toccarmi il naso con la lingua. Ma ci sto lavorando » rispose Bellocchio avvicinandosi a lei. O almeno così supponeva dal rumore che produceva, visto che non riusciva a scorgerne nemmeno la silhouette « Bella serata, vero? ».

« Insomma, avevo piani migliori che rimanere al buio ».

« Non posso dire di no. Ma sai, forse il buio è proprio quello che ci serve. Tempo per riflettere, dopo questi giorni così frenetici » l'uomo si sedette sul fontanile « C'è un posto, da dove vengo io, si chiama Flemminia. Un villaggio rurale nel cuore della campagna, dove puoi rilassarti e pensare ai fatti tuoi cullato dal vento ».

Serena si avvicinò a lui come poteva, ovvero senza avere una precisa idea di dove fosse « Parli sempre di questo posto. Si chiama Sinnoh, giusto? Com'è? ».

« Ah, dovresti vederla. Un'isola solitaria nel mare avvolta da un cielo terso. Accogliente e amena, ma anche gelida e ostile. E c'è una vetta, il Monte Corona, che si staglia imperiosa visibile da ogni città, lucida e tagliente, sormontata da antiche rovine di marmo. E una città, Giubilopoli, moderna e tradizionale al tempo stesso… » Bellocchio chinò il capo « Un gran bel posto ».

« Ci tornerai domani, vero? » gli domandò Serena con occhi tristi « Prenderai il treno dalla Stazione di Luminopoli per raggiungere il Porto di Temperopoli ».

« Sì… Sì, domani » il giovane rammentò ciò che in quei giorni si era quasi completamente scordato « Questa è la nostra ultima notte ».

« Pare di sì. Beh, sarai felice però. Tornerai dalla tua famiglia, dai tuoi amici… Saranno stati in pensiero ».

La bocca di Bellocchio si contorse in una smorfia di accettazione « Non credo. Non ho nessuno là ».

Serena socchiuse le labbra nella sorpresa « Come sarebbe nessuno? È casa tua… Avrai almeno i tuoi genitori ».

« Io… Io non sono nemmeno certo che sia casa mia… È complicato da spiegare ».

« E allora come mai senti di dover tornare là? ».

« È complicato da spiegare anche questo » chiosò Bellocchio con un sorriso « Forse un giorno potrò farti capire. Alcuni, come Calem, come Craig, sono fatti per stare insieme alle persone. Altri, come me… sono semplicemente diversi ».

« E io? » gli domandò Serena « Secondo te cosa sono? ».

« È dalla prima volta che ti ho vista che lo penso. I capelli biondi, gli occhi azzurri… Sembri uscita da una fiaba. Serena Williams, la Ragazza delle Fiabe » l'uomo sogghignò « Suona bene, non trovi? ».

« Sì, magari… Ho mancato per nove anni la distribuzione dei Pokémon, e l'anno che finalmente arriva uno gentile come te a regalarmi Karen fallisco la prima Palestra… Sono tutt'altro che perfetta ».

« Oh, ma le ragazze delle fiabe non sono perfette. Anzi, ognuna di loro ha un difetto caratterizzante  » ribatté Bellocchio « La peculiarità delle fiabe è un'altra ».

« Ovvero? ».

« Finiscono tutte bene ».

Una luce rosata si accese dietro di loro, facendoli voltare. Non era un lampione a irradiare quei raggi luminosi, bensì un evento molto più speciale: una coppia di Ralts parzialmente immersi nell’acqua le cui mani alzate si stavano sfiorando. Proprio da quell'unico punto di contatto scaturiva il flebile chiarore che avviluppava il circondario della fontana.

Serena ammirò lo spettacolo tacitamente, le pupille che brillavano per lo stupore « Che cos’è? ».

« Qualcosa di davvero singolare. Producono luce mediante il loro stesso campo telepatico ».

« Non suona molto poetico » fece notare lei « Non ti sembra invece che siano innamorati? ».

Bellocchio sorrise, scoprendo in quei Ralts un nuovo risvolto che prima non aveva notato. « Che ti avevo detto? Ragazza delle fiabe » soggiunse, causando un risolino da parte sua.

Poi, d’un tratto, la giovane fece cenno di restare in silenzio.

 

 

« Ehi, cos’è questo rumore? ».

Calem alzò il capo alle stelle, protendendo le orecchie: una melodia dalle tonalità gioiose si stava insinuando tra le chiome degli alberi, scortata da una lieve brezza refrigerante fino alle sue orecchie. Si girò verso Tierno, il quale aveva come lui percepito il canto e lo stava ora assaporando a occhi chiusi.

« Che strano… Sembrano bambini » commentò. In effetti non tanto bambini quanto bambino, al singolare, un’unica voce modulata che spargeva la sua armonia come un violino solista che si esibiva su un palco all’aperto.

 

 

« Ehi, ho trovato una pianta di Baccastagne! » esclamò Trovato, che aveva speso gli ultimi minuti a tastare il terreno per sopperire alla cecità momentanea. Sfregò i polpastrelli sui tre frutti appesi per valutarne la consistenza e stabilire se fossero maturi o meno: alla fine uno del gruppo fu lasciato dov’era, mentre gli altri due furono colti delicatamente dall’arboscello. In quel momento il ragazzo avvertì una dolce musica che pervadeva l’ambiente.

« Che cos’è? » domandò rivolto a Shana, che si trovava da qualche parte dietro di lui « Sono impazzito? ».

Serrò le palpebre per concentrarsi, stabilendo che non solo udiva le note ma anche la loro provenienza: non era pazzo, ed effettivamente una qualche sorgente stava producendo quell’aria.

« Ehi, se anche gli altri la stanno sentendo magari la seguiranno! Potremmo riuscire a ritrovarci! » esclamò comprendendo che quella poteva essere la loro salvezza. Solo a quel punto si rese conto che non aveva ancora ricevuto risposta dalla sua amica; si voltò, trovandola china sulle ginocchia e con le mani sulle orecchie, tremante.

« Ehi, ehi, che ti succede? » le domandò correndole incontro per accertarsi della sua condizione « Va tutto bene? ». Più le si faceva vicino, più si rendeva conto che la sua compagna di viaggio era in lacrime.

« Falla… Falla smettere, ti prego… ».

« Shana, cos’hai? ».

« Portami via… » lo implorò singhiozzante « Così triste… ».

Trovato non comprese. Nel balbettio confuso della ragazza gli era parso di capire che il canto le causasse una tristezza senza pari, nonostante fosse gioioso come pochi ne aveva sentiti in vita sua. Ma di una cosa era assolutamente certo: ora lei era una sua responsabilità.

« Ascoltami bene, Shana » le sussurrò prendendole il capo tra le mani e alzandolo per guardarla negli occhi « Dobbiamo andare. Dobbiamo ritrovare Serena e gli altri ».

 

 

I due Ralts, ancora affiancati a scrutarsi intensamente negli occhi, avevano iniziato a produrre una melodia. La loro voce sembrava diretta al cuore di Serena, più che alle sue orecchie, tanto era meravigliosa e intrisa di energia.

« È… È bellissima… » farfugliò asciugandosi una lacrima di commozione « Che cos’è? ».

« Musica psichica. Non stanno realmente cantando, comunicano direttamente con la tua mente ».

« Ma sembra… Sembra vera… ».

« Tu non le senti? ».

La ragazza si voltò verso Bellocchio spaesata « Sì che la sento. È stupenda ».

« No, non la musica » replicò lui aggrottando la fronte « Le parole ».

Le parole? Serena non comprese: tutto ciò che sentiva erano note e armonia. Provò a concentrarsi di più, ma nessuna sillaba fuoriusciva da quell’oceano di suoni.

« Non sento nessuna parola ».

« La breccia sarà aperta » scandì Bellocchio pensieroso. Nella sua testa i due Ralts non facevano altro che ripetere quella frase, ininterrottamente, come se la loro vita dipendesse da ciò. Mai una variazione di tono, mai un aumento di volume. Una nenia triste e priva di senso, reiterata alla nausea.

« Che cosa dovrebbe voler dire? ».

« Io… non ne ho idea ».

Serena ridacchiò « Questa sì che è nuova! ».

« Se… Se io potessi… ».

Di colpo tornò il silenzio e l’oscurità. I Ralts dovevano essersi staccati l’uno dall’altro, dal momento che sia le luce che la musica erano svanite nel nulla. Bellocchio d’istinto si gettò nel punto della fontana prima occupato dalla coppia, trovando però solo acqua. Batté il pugno sul fondo della conca, esasperato dalla sua ignoranza.

L’ombra non durò a lungo: appena un istante dopo si riaccesero i lampioni, inondando i Jardins Parterre dell’illuminazione venuta meno non molto tempo prima. Bellocchio e Serena si guardarono attorno stupiti, rendendosi conto che in quella frazione notturna avevano quasi dimenticato che aspetto avesse il mondo – complice il melodico contributo dei Pokémon ora scomparsi.

« Serena! Bellocchio! ».

Un’esclamazione proveniente da sud catalizzò la loro attenzione: da un’aiola li avevano avvistati Trovato e Shana. Pressoché contemporaneamente dal lato opposto qualcun altro aveva invocato i loro nomi: Calem e Tierno, spuntati da un vicolo seminascosto. Il gruppo si riunì tra abbracci sentiti come se fosse uscito da un pericolo mortale.

Serena fu sollevata che il peggio fosse passato, anche se non se l’era mai vista particolarmente brutta. Ma a rifletterci sopra, non era così per tutti. Per alcuni la vera paura non è affrontare Beedrill o criminali; per alcuni la vera paura è rimanere soli e spersi.

Si rivolse a Bellocchio, che a parte qualche sorriso di cortesia sembrava assorto in altro, tenendo lo sguardo fisso verso una direzione non precisata. Fu solo seguendolo che la ragazza intese: nel resto del parco non era visibile. Ma da lì, nella piazza centrale libera da alberi, Luminopoli, la Ville Lumière, troneggiava scintillante come non mai.

La loro prossima tappa. Per alcuni, l’ultima.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 1x13 - Il burattinaio di Kalos ***


Untitled 1

Luminopoli era nota con molti nomi: i turisti la conoscevano come Ville Lumière, i locali la chiamavano familiarmente Illumis. Alcuni, per la verità un gruppo piuttosto ristretto, si riferivano a essa con il nome di Antares, l’antica capitale del Regno di Kalos sulle cui rovine era sorta la città odierna. Contava un paio di milioni di abitanti nel comune stretto, ma salivano a una decina se si considerava l’area metropolitana comunemente nota come Grande Luminopoli. Il dato più impressionante però riguardava i turisti: oltre ventotto milioni all’anno, stando alla Pro loco.

Il panorama che si mostrava alla compagine di Bellocchio all’ingresso dalla Porta Sud era romantico a dir poco: le tenebre erano da lungo tempo calate sul centro urbano e per le strade lastricate fiorivano avventori che passeggiavano lungo Boulevard Masséna. Ai bordi della strada si affastellavano ristoranti di ogni risma, accompagnati il più delle volte da proprietari imbonitori che cercavano di accalappiare clienti tirando a indovinarne la nazionalità. Mentre il gruppo ammirava il circondario uno di loro ebbe la pessima idea di avvicinarli, venendo perforato da uno sguardo seccato di Calem. Ciò dovette fare una certa impressione sugli altri, visto che da quel momento in poi furono lasciati in pace.

Le mille luci risplendenti, i tetti dei condomini tinti d’indaco, la folla amorfa che si aggirava e il ritmo pulsante e frenetico della capitale persino a una così tarda ora della sera – erano ormai quasi le nove, e per quanto ciò possa sembrare ridicolo Borgo Bozzetto andava a dormire anche prima – sortirono effetti diversi su ciascuno dei viaggiatori. Bellocchio esaminava il panorama con occhio clinico, non nascondendo una certa ammirazione e tuttavia perfettamente cosciente che, in quanto a panorami, ne aveva visti di anche più strabilianti; Calem era il meno interessato di tutti, essendo il solo ad aver visitato Luminopoli in precedenza; Serena pur riconoscendo la maestosità della tanto decantata Ville aveva altri pensieri per la testa, in cima a tutti il panico di dover affrontare Lem in chiaro svantaggio. Un discorso simile era plausibile per Trovato, su cui però la giovane età incideva di più nella percezione di quel paesaggio che, almeno per poco, era riuscito ad allontanare i fantasmi di un addio inderogabile; Tierno era forse il più spensierato fra tutti, o forse quello più preoccupato per il fatto che non aveva ancora cenato e quei bistrot a due metri di distanza glielo stavano amaramente ricordando. La più stupefatta fu però senza dubbio Shana, che mai nella sua vita aveva pensato una simile bellezza potesse esistere: sul suo cuore di dieci anni l’atmosfera sentimentale incise molto più che sugli altri, in quanto più emotivo, e la ragazza si sentì fin da subito stimolata.

Localizzare un Centro Pokémon non fu cosa semplice: mancavano punti di riferimento affidabili e, per la verità, le strade si assomigliavano un po’ tutte. Dopo una mezz’ora di viaggio condita dalle lamentele di Tierno e i proclami di sicurezza di Calem, la squadra ne individuò uno in Place d’Italie, da qualche parte nei pressi del Parc de Bercy. Era ben diverso da quello di Novartopoli: tanto per cominciare, pur non trovandosi precisamente nell’Île de la Cité, era decisamente più grande. C’era poi la questione delle stanze per viaggiatori: anziché un’unica sala costellata di brande la locanda era suddivisa tra maschi e femmine, e le singole camere – da due fino a quattro letti – erano eleganti e riccamente fornite. Con loro sorpresa c’era anche una televisione con accesso al digitale terrestre, che a Bellocchio sarebbe servita di più un paio di giorni prima.

La stanza degli uomini del gruppo ospitava due letti, una branda e un divano estendibile. Ovviamente non occorre specificare che furono i due leader contrapposti ad accaparrarsi i primi due, lasciando i più giovani a spartirsi il resto. Bellocchio, non avendo a differenza di altri bagagli da sistemare – apparentemente ogni suo effetto personale trovava posto nell’inesauribile cappotto –, accese la TV sul canale preimpostato, TK1, che in quel momento trasmetteva un’intervista condotta da un giornalista sulla sessantina a un uomo il cui abbigliamento ricordava da vicino il suo.

« Signor Hanlov, ci dica di più sull’Opéra Pirouette, invece ».

Quello rise e annuì « Beh, Enrico, i lavori procedono bene. Anzi, posso sbilanciarmi e dire che potrebbero essere terminati addirittura prima di questo Natale, in netto anticipo sul programma ».

« Beh, congratulazioni davvero, sembra che stia mettendo davvero… anima e cuore in questo Secondo Galà di Luminopoli ».

« Non vogliamo che gli sfidanti si facciano una cattiva idea della nostra regione. Beh, non di nuovo! » incalzò Hanlov, causando ilarità nel pubblico in sala.

In sovrimpressione comparve una striscia dominata da un presentatore sorridente in giacca nera e cravatta rossa, affiancato da una didascalia concisa: L’Avvocato, domani sera alle 21.10.

« Galà di Luminopoli? » borbottò Bellocchio tra sé e sé. La finestra, anche questa volta posizionata accanto al suo letto come già a Novartopoli, lasciava spirare una piacevole brezza serale che trascinava con sé i suoni della folla di turisti all’esterno e i balenanti riverberi notturni.

« Una competizione di Allenatori e Coordinatori provenienti da tutto il mondo. Sarà la prossima estate, se non mi sbaglio, e la terranno proprio qui » spiegò Trovato.

« E immagino che questo Hanlov ne sia… ».

« … l’organizzatore, sì. Ha rilevato quello del Primo Galà, era finito in un casino ».

« Che noia » commentò Bellocchio facendo roteare il telecomando nella mano « Vediamo gli altri canali ». Slittò quindi avanti di una frequenza, finendo su Kalos 2. Con sua sorpresa, nonostante l’ora stava andando in onda un notiziario.

« È arrivato oggi a Luminopoli l’Intermediario Lysandre Faubourg, che ha annunciato la sua presenza nella seduta pomeridiana del Parlamento di domani, aggiungendo che quasi certamente terrà un discorso. Probabili argomenti trattati saranno l’attuale crisi di governo e l’affidabilità del Presidente Moon, nonché le deliberazioni del Consiglio dei Superquattro riunitosi… ».

« Politica… » sbuffò il giovane roteando gli occhi verso l’alto « Come se mi interessasse qualcosa, a stento so in che regione mi trovo ». Fu sul punto di cambiare un’altra volta, ma qualcosa lo distrasse, qualcosa che personalmente avrebbe preferito non sentire: un grido disperato e lacerante di donna che, dal mezzo del vociare di visitatori, si era levato nell’aria.

 

 

 

Episodio 1x13

Il burattinaio di Kalos

 

 

 

Bellocchio e Calem furono i più svelti a uscire dal Centro per accorrere. Rintracciare l’origine non fu complicato: una massa si era accumulata sul fianco del marciapiede opposto, e dal suo interno la donna invocava freneticamente un medico. I due sgomitarono senza remore per addentrarsi tra la folla, incuranti di tutti gli altri. Alla fine riuscirono ad aprirsi un varco: al termine dell’oceano di persone c’era una madre di una quarantina d’anni, inginocchiata, che teneva tra le braccia il corpo inerte di un bambino di sette anni.

Bellocchio gettò uno sguardo alla situazione, dopodiché si rivolse a Calem « Trovami una Baccastagna ».

« Come? ».

« Meno storie, portamene una! Chiedi in giro! » esclamò gettandosi poi sul ragazzino per analizzarlo. Prima gli toccò la fronte, poi lo scosse leggermente come a controllare cosa ci fosse sotto di lui.

La madre provò a protestare « Scusi, lei è un dottore? ».

« No. Ora silenzio, devo ragionare, potrei essere ancora in tempo » replicò freddamente sfilando dal cappotto una lente d’ingrandimento ed esaminando le pupille della vittima « Anzi, non stia zitta, mi dica che è successo ».

« Io… Io… Stavamo camminando qua, e… » la donna tratteneva a stento le lacrime « Lei può salvarlo? ».

« Mi dica che è successo! » le ruggì in faccia. Serena, arrivata da poco con Trovato al seguito, fu a dir poco sconvolta da quella dimostrazione d’ira.

« È svenuto! » rispose collassando poi in un pianto nervoso. Serena fece per andare a consolarla, ma fu interrotta da una luce celeste fluorescente emanata dal corpo del bambino. Sotto gli occhi increduli di dozzine di spettatori, una fiamma si levò dal petto e iniziò ad innalzarsi al cielo, una lingua di fuoco azzurra e priva di calore. Proseguì l’ascesa per un paio di metri, poi si arrestò e prese a tremare come una foglia in preda a raffiche di vento.

« C-che… C-che cos’è… ? » domandò la madre.

Bellocchio tacque per qualche istante prima di spiegare « Quello è suo figlio ».

Le parole causarono un moto di sussulti ininterrotti nella moltitudine che stava assistendo fino a quel momento in silenzio religioso. Qualcuno pretese chiarimenti, ma i più arretrarono nel terrore. Un comportamento così omertoso irritò l’uomo più di quanto non lo fosse già « Allora, questa Baccastagna? ».

« Ne… ne ho io » balbettò Trovato alzando timidamente la mano. Quando il suo sguardo incrociò quello di Bellocchio, teso e con una palpebra in preda a un tic nervoso, comprese che non poteva attendere che le chiedesse: con quanta destrezza fu in grado di mostrare le sfilò dalla tasca dove per sua fortuna le aveva lasciate dopo i Jardins e le lanciò. Il giovane ne afferrò una ignorando il resto e, approntato il corpo del bambino e apertane la bocca, spremette il succo della bacca in modo che finisse nella faringe.

« Coraggio… » farfugliò a denti stretti « Coraggio, ce la puoi fare… ».

Per pochi, terribili istanti non accadde nulla, e Bellocchio temette il peggio; poi, accompagnato da un suo sospiro di sollievo, la fiamma celeste iniziò a calare di quota fino a rientrare nel torace del piccolo, e quest'ultimo inspirò rumorosamente in un guizzo.

Sollevata, la madre lo abbracciò in lacrime per la gioia, mentre il diretto interessato non aveva ben compreso cosa stesse succedendo. Tutto intorno le persone ebbero le reazioni più disparate: alcune si espressero in un applauso di acclamazione, altre più semplicemente si rincuorarono del pericolo scampato, altre ancora scattavano fotografie o telefonavano chissà chi dell'accaduto. La donna, dopo aver stretto a sé il figlio, si rivolse confusamente al suo salvatore.

« Lei… Lei… Grazie infinite, non so davvero come… ».

L'atteggiamento di Bellocchio, però, fu tutto fuorché incoraggiante. Anziché accogliere gli elogi con la sua consueta modestia, la sua espressione non si rilassò di un millimetro « Dove si trovava sei ore fa? ».

« Come, scusi? » domandò la madre disorientata.

« Il bimbo. Dove si trovava sei ore fa? Risponda ».

« Io… Io non… ».

« Lasciala in pace! » intervenne Calem incollerito in difesa della signora « Non vedi che è sotto shock? Davvero sei così–– ».

« Stai zitto » lo interruppe freddo, mostrando poi alla donna il suo orologio da polso per un confronto « Mi dica dov'era suo figlio sei ore fa ».

« Ah! Beh… Alle Galeries Ételfay, mi pare ».

« E che cosa sono? ».

« Un centro commerciale » si interpose Serena per troncare quell'interrogatorio il prima possibile « Ci sono stata l'anno scorso venendo qua ».

Bellocchio si alzò annuendo e, senza proferire una parola di più, si diresse verso il Centro Pokémon. Qualcuno provò a seguirlo per porgli qualche domanda, ma alla fine con lui all'ingresso erano rimasti solo i membri della compagine usciti in precedenza. L'uomo ignorò le loro richieste fino a che non fu nella sua stanza, e per allora il volume della loro voce si era ben alzato.

Tierno, che era rimasto lì a guardare la televisione, fu il più sorpreso di quel trambusto « Che succede? ».

« È quello che vorremmo sapere anche noi » rispose arcigna Serena, la quale non sopportava di essere tenuta all'oscuro di qualcosa « Cos'hai fatto a quel bambino? ».

« L'ho salvato. Se vi ha infastidito vedrò di evitare la prossima volta ».

« L'hai salvato con una Baccastagna? » domandò Calem dubbioso.

« Dormiva, non avete visto? Con cos'altro avrei dovuto svegliarlo? ».

« No, non dormiva » lo corresse Trovato « Ho riconosciuto quello che aveva sopra, era un fuoco fatuo. Secondo alcune leggende è–– ».

« Leggende, appunto. Sentite, lasciate perdere, è decisamente meglio per voi. Prendetelo come un caso isolato ».

« Salvo il fatto che non lo è ».

La voce di Tierno colse un po' tutti di sorpresa, in quanto in linea teorica sarebbe dovuto essere quello che ne sapeva meno. E invece stava lì, seduto sul letto, in una posizione di convinta superiorità.

« Come? ».

« Persone che svengono senza ragione, o per meglio dire cadono in coma vigile. In tutta Luminopoli sono già diciannove, primo caso ieri pomeriggio alle quattro e ventinove » recitò il ragazzino a macchinetta « Ne hanno parlato al notiziario mentre voi eravate fuori ».

Serena si fece più determinata di prima « Anche ora non hai intenzione di dirci e fare nulla? ».

Bellocchio emise un sospiro di rassegnazione « E va bene, domani io e Calem andremo a indagare a queste Galeries Ételfay. Voi, intanto, statene alla larga e andrà tutto bene ».

« Cosa? » lo interrogò il giovane in tono polemico « Io? E perché? ».

« Perché sei l'unico che può difendersi ».

 

 

Luminopoli di giorno poco aveva a che fare con la sua controparte notturna. L'unico vero punto di contatto era il costante afflusso di visitatori, il che però introduce anche alla differenza più evidente: se nelle ore serali il turista è una preda che deve pensare soprattutto a difendersi dai cacciatori, ruolo interpretato in questo caso dai ristoratori che tentano di accalappiarlo, alla luce del Sole egli si scopre vero padrone della città e libero di aggirarsi per le vie urbane senza temere assalti.

Ciò era un netto vantaggio per Serena, Shana, Tierno e Trovato, i quali verso le dieci di mattina stavano salendo lungo Boulevard de l'Hôpital per arrivare al Jardin des Plantes, una delle innumerevoli chiazze verdi della pianta della Ville Lumière. Al centro di questo parco era sita una collinetta che definire famosa è un eufemismo: la sua cima era infatti sede del Laboratorio di Ricerca del professor Platan; e proprio là erano diretti i nostri protagonisti, in parte come obbligata tappa di presentazione e in parte per ricevere il loro Pokédex. Trovato sembrava a tal proposito alquanto circospetto nei movimenti, come se temesse di incontrare qualcuno che non voleva incontrare.

Il primo impatto fu senz'altro positivo: una struttura immersa nella vegetazione, dai colori sgargianti e circondata da un placido giardino denso di Pokémon era la location ideale per gli studi di un professore, e tuttavia non emanava alcuna aura di austerità. Per arrivarci fu necessario percorrere una lunga scalinata in pietra, dettaglio che Tierno non apprezzò. Tuttavia se intendeva viaggiare a Kalos avrebbe dovuto inevitabilmente far fronte alla fatica, dunque accettò di buon grado la prova di tenacia.

L'interno era al contempo pieno e vuoto, un'impressione difficile da spiegare: le pareti erano costellate di macchinari per quasi la totalità – faceva eccezione un'ampia finestra dal lato opposto all'entrata –, la zona centrale era invece completamente spoglia. Era sviluppato su due piani non separati raggiungibili mediante scalette metalliche: di sopra due assistenti danzavano da un macchinario all'altro con la sicurezza di chi svolge quel lavoro da anni, mentre di sotto vi era un solo uomo che stava venendo loro incontro.

« Salve, ragazzi! » li salutò sorridente « Siete qui per i Pokédex, presumo. Piacere, Augustine Platan ».

Quelle ultime tre parole suonarono alquanto strane al gruppo. Ognuno di loro aveva sempre immaginato il professore come un vecchio arcigno arroccato nel suo castello del terrore – anche se forse Serena non era stata così drammatica –, quindi trovarsi di fronte un quarantenne dalla barba incolta e il camice largo fu una sorpresa. Tra lui e Bellocchio, i bambini iniziavano a chiedersi se gli adulti non avessero finto serietà con loro per tutto quel tempo.

Dopo le dovute presentazioni Platan si diresse verso una scaffalatura a cassettoni in un angolo e sfilò da uno dei cassetti quattro oggetti color rosso fuoco, somiglianti in qualche misura ai loro PSS. Con passo ritmato ritornò dalla compagnia, mostrando nella sua mano sinistra uno degli strumenti « Immagino sappiate già cos'è, ma per contratto devo dirvelo comunque. Questo è un Pokédex, un’enciclopedia virtuale che contiene dati su tutti i Pokémon contenuti nel suo database. Il trucco, però, è che per avere informazioni complete su un Pokémon dovrete prima catturarlo. Alcuni Allenatori puntano a vincere la Lega, ma personalmente trovo che completare un Pokédex sia un obiettivo molto più scientifico ».

Terminata la spiegazione prese da parte ciascuno dei giovani per ufficializzare il loro status di viaggiatori e raccomandando personalmente di provare a completarlo. A Trovato dedicò un discorso più lungo degli altri: Serena suppose che nella sua esperienza decennale il professore avesse imparato a distinguere gli obiettivi di un Allenatore, e dichiaratamente quello in particolare voleva impegnarsi soprattutto sul Pokédex.

« Ah, e ora ho un piccolo regalo per voi » soggiunse Platan con un sogghigno « So bene che avete ricevuto il vostro Pokémon iniziale, ma mi sono occupato personalmente di catturarne un altro per ciascun Allenatore in partenza quest'anno! Beh, come ogni anno del resto ».

Quella notizia produsse fermento nei giovanissimi, un po' meno in Serena che già presagiva il seguito. Comunque non lo diede a vedere, simulando lo stesso grado di eccitazione.

« Dunque, voi da dove venite? ».

« Borgo Bozzetto! » esclamarono tutti in coro.

Platan assunse un'espressione confusa. Li contò per esserne certo: erano quattro, e tutti dichiaravano di essere da un villaggio che di regola ne inviava tre. Fu per chiedere la ragione di ciò, ma Serena lo anticipò per risparmiargli la fatica « Io non sono regolare, non ho preso uno dei Pokémon che ha mandato lei ».

L'uomo annuì con uno sguardo che alla ragazza ricordò da vicino quello di Bellocchio quando aveva scoperto dei suoi nove anni di tentativi per allenare « Senti… Credimi, io sono contro questa spazzatura degli Allenatori limitati, per me è una delle leggi più stupide emanate dal nostro governo… Però purtroppo avevo previsto solo tre Pokémon, quindi… ».

« Oh, non si preoccupi, per me è già un miracolo essere in viaggio. Posso rinunciare a un bonus » rispose lei con un sorriso. Il professore lo ricambiò per recarsi poi a prendere i Pokémon annunciati, lasciando i quattro da soli.

« Serena, prendi il mio ».

La giovane, e con lei tutto il resto del novero, si voltò verso Trovato, che a sua volta la stava guardando negli occhi.

« Ma guarda che dico sul serio, non mi serve un altro Pokémon. Io e Karen stiamo bene così ».

« So che hai cercato di catturare un Budew per affrontare Lem. Quello è uno forte, ti servirà tutto l'aiuto possibile » spiegò il ragazzo « Prendilo, tanto io non ho intenzione di affrontare le Palestre ».

« Sei un vero Allenatore ».

La voce di Platan, calda e gentile, accompagnò la sua stretta di mano al ragazzo « Pronto al sacrificio. Questa è una virtù più importante della determinazione ». Dopodiché si rivolse agli altri tre, pronti a ricevere il loro Pokémon « Ora, dov'eravamo? Borgo Bozzetto… La scelta per voi è sempre la stessa, ma credetemi, sono esemplari molto rari! ».

Con eccitazione li guidò fino a uno schermo a cristalli affisso al muro, afferrando al contempo un telecomando che doveva controllare delle specie di diapositive « Ecco le vostre opzioni: Bulbasaur, Pokémon Seme di tipo Erba; Charmander, Pokémon Lucertola di tipo Fuoco; e Squirtle, Pokémon Tartaghina di tipo Acqua! ». Alla menzione di ciascun nome corrispose la comparsa della silhouette correlata sul display.

« Uffa, ma sono tutti belli! ».

« Perché possiamo averne solo uno? ».

« Ma poi li possiamo trovare a Kalos gli altri? ».

« Calma, calma » li riportò all'ordine Platan « Allora, chi va per primo? ».

« Credo dovrebbe andare Serena » propose Tierno « Sono anni che aspetta, dovrebbe avere lei il primo ».

Shana gli fece eco. La giovane si sentì lusingata e in certa misura ingiustamente privilegiata, ma non pensò per un secondo di contestare la decisione di quei due, anche perché sembravano decisamente convinti. Dopo qualche ponderazione optò per Bulbasaur, in quanto era colui che gli sarebbe stato più utile contro i Pokémon elettrici di Lem.

Tierno e Shana si affrettarono per fare la loro scelta, finendo tuttavia per litigare su chi avrebbe preso Squirtle. Serena colse quella pausa per meditare di fronte alla sua sfera, ornata con una singola fogliolina verde impressa sopra il bottone di apertura. Doveva ricambiare il favore di Trovato, ma in che modo? Lui…

« Professore » proruppe ad un tratto « Qui in laboratorio c'è una macchina per lo Scambio Dati? ».

Platan le ammiccò facendole capire che sapeva cos'aveva in mente, poi assentì « Vicino alla finestra, la vedete? Quella con i due sportelli ».

Serena ringraziò e, preso Trovato per una mano, lo trascinò verso la posizione indicata. Lo strumento nominato Scambio Dati era una grande cassa di metallo con due rientranze buie; la ragazza lo accese con sorprendente facilità.

« Che… Che cos'è? » domandò Trovato interdetto.

« Vedi queste cavità? Ci vanno i nostri Pokédex » mentre parlava infilò il proprio nello spazio apposito, e così fece il suo amico. Una spia si accese in cima al dispositivo a segnalare che era pronto « Era sugli opuscoli di Bellocchio, me ne ha passato qualcuno: in pratica lo Scambio Dati condivide le informazioni di ciascun Pokédex ».

« Sì, ma… Perché? ».

« Beh, perché hai ragione. Quel Pokémon serve più a me che a te. Ma questo non vuol dire che io non possa fare qualcosa per te » proseguì Serena con buonumore « Vuoi completare il Pokédex, no? Adesso hai un Pokémon in più degli altri ». Gettò uno sguardo prima alla macchina, che stava ancora processando la richiesta, e poi ai due bambini ancora indecisi sul da farsi « Ci vorrà qualche minuto ».

Trovato ammirò il paesaggio fuori dalla finestra, che si affacciava sul troneggiante Flare District a nordovest che dominava quel lato di Luminopoli, sovrastando persino la Torre Prisma nella sua imponenza. La sua attenzione per la verità era ferma al piccolo giardino che circondava l'istituto di ricerca, pervaso da Fletchling che planavano dal cornicione per gioco. Ogni tanto qualche Pidgeotto li importunava, ostentando sua capacità di volare più in alto; ma appena si approssimava al suolo riprendeva subito quota, temendo una collisione. A Trovato tutto ciò ricordava il giardino della casa di Serena a Borgo Bozzetto, quando da piccolo usava spiarla con interesse di nascosto. Avrebbe dato tutto per tornare indietro.

« Tra non molto andrò via da Kalos ».

Gli era uscito dal nulla. Se avesse potuto se lo sarebbe rimangiato; e invece con le parole è sempre così: una disattenzione ed eccole che restano perennemente, senza alcun tasto di backspace.

« Come sarebbe a dire? » domandò Serena.

« Penso che mia madre e mio padre abbiano litigato, lei vuole andarsene. Già oggi sarei dovuto essere dai miei nonni, qui a Luminopoli, per restare lì fino alla partenza, ma gli ho detto che ero ancora a Novartopoli. Potrò rimandare fino a domani sera al massimo, poi inizieranno a non crederci più » Trovato trattenne le lacrime come poteva, accertandosi velocemente che nessuno degli altri avesse sentito nulla, anche se di fatto Shana già ne era al corrente. Serena non disse nulla, come si confà a simili situazioni: si limitò ad abbracciarlo, una cosa che sapeva non essere un conforto ma con la quale sperava di comunicargli che lei c'era, che non si sarebbe dimenticata di lui.

Un doppio bip annunciò che lo scambio dati era completo: tre Pokémon registrati per ciascuno. Contemporaneamente la porta d'ingresso del laboratorio si spalancò senza preavviso, lasciando entrare una coppia: un uomo corpulento alto probabilmente oltre il metro e novanta, quarant'anni, dalla folta capigliatura fiammeggiante, in abito nero nonostante la temperatura mite; la sua accompagnatrice era una venticinquenne in giacca e cravatta e capelli neri lunghi al collo, forse una segretaria a giudicare all'atteggiamento e da un'agenda Moleskine in pelle che sporgeva dalla tasca posteriore destra. Serena e Trovato si riunirono ai loro compagni; di essi Shana era confusa quanto loro, mentre l'espressione di Tierno era più di sorpresa, come non si aspettasse di trovare quelle persone lì. Platan, dal canto suo, aveva un altro comportamento ancora.

« Mi pareva di averti detto di non presentarti più qui » lo accolse incrociando le braccia in ostilità. Dall'alto i suoi assistenti osservavano la scena immobili, temendo di fare rumore sul ripiano metallico « Qual buon vento ti porta nei bassifondi di Luminopoli? ».

« Tempesta » replicò l'uomo senza distogliere gli occhi dal professore. I due si scrutarono trucemente, con i nervi a fior di pelle. Provarono a resistere quanto possibile: il primo a cedere però fu proprio il nuovo arrivato, che perse il controllo e scoppiò in una fragorosa risata. Platan si unì a lui e i due si abbracciarono con forza.

« Quanti anni sono stati, due? Sei invecchiato, Elisio! ».

« Alla tua età vai ancora in giro come all’università e parli? Torna ai tuoi studi, che è meglio! ».

Se prima il gruppo era stato confuso, ora aveva raggiunto un nuovo stadio di scombussolamento. Shana si avvicinò a Tierno, l'unico che sembrava più o meno capire cosa stesse succedendo « Scusa, ma quello chi è? ».

« Come chi è? » domandò lui sottovoce, come se fosse una cosa ovvia « Ma non sapete nulla di politica? ».

« Pff, sai quanto mi importa della politica! Ho dieci anni, ne mancano prima che possa votare! ».

« Io seguo più o meno lo scenario di Kalos » intervenne Serena « Ma non capisco chi sia ».

« Sì, beh, preferisce stare nell'ombra, non è uno che vedrete ospite a L'Avvocato » convenne Tierno « Mio padre è molto interessato alla politica, a volte seguo programmi di approfondimento con lui ».

« Hai intenzione di arrivare al punto? ».

« Con calma, con calma! Santo cielo, sembra di parlare con tuo fratello » riprese il ragazzo « Quello lì è Lysandre Faubourg, l'Intermediario ».

Trovato aggrottò la fronte « Cos'è un Intermediario? ».

« A questo posso rispondere io » si intromise Lysandre, che evidentemente doveva essere dotato di un udito sopraffino « In pratica vado avanti e indietro tra il Parlamento e il Consiglio dei Superquattro per fare da mediatore ».

« Il grande burattinaio di Kalos » declamò beffardo Platan « Questa volta che notizie porti? ».

« Ne ho portate di migliori. Laggiù alla Lega iniziano a non fidarsi più di Mr. Moon. Con tutta questa storia delle raccomandazioni sta rischiando grosso ».

« Però aspetti, non ho capito una cosa » intervenne nuovamente Tierno « Prima il professore l'ha chiamata Elisio. Come mai? ».

« Ah! » esclamò Platan divertito « Questa sì che è una bella storia. Vuoi raccontarla tu? ».

« Faccio anche a meno ».

« Oh, beh, in tal caso la dirò io. Io ed Elisio veniamo entrambi da Ponte Mosaico e abbiamo frequentato insieme il Liceo per Allenatori di Novartopoli. Tecnologie Applicate, sezione B. Bei tempi. Ti ricordi di Wall? Quell'invasato… ».

L'accoppiata di parole tecnologie applicate risvegliò nei quattro viaggiatori ricordi agrodolci a seconda di ciascuno. Il più colpito fu, come si può immaginare, Tierno, per il quale quell'esperienza aveva assunto connotati molto importanti.

« Comunque il qui presente Intermediario aveva un vistoso difetto di pronuncia: si mangiava le sillabe. Ci fu una volta, doveva recitare una poesia, La regina di Neruda, piena di monosillabi » Platan si fermò un istante per sfogare risate soffocate, mentre Lysandre alzava gli occhi al cielo in rassegnazione. « Da lì in poi divenne un tormentone, e visto che sembrava elidere tutte le parole iniziammo a chiamarlo Elisio. Naturalmente era una goliardia da adolescenti, ragion per cui sento il bisogno di ricordarglielo ogni volta che ci vediamo » concluse con un occhiolino.

« Ma siete stati cattivissimi! » protestò Shana « Non è affatto carino verso il signor Fo… Faup… verso il signor Elisio… Ehm, mi scusi ».

L'Intermediario proruppe in una genuina risata « Inizio a capire perché abbia avuto tanto successo. Comunque devo ringraziarvi, è per cercare di farvi cambiare idea che ho iniziato i miei corsi di dizione, diventando… ».

« … il miglior oratore di Kalos. Sì, lo so, lo so » sospirò Platan annoiato « Come argomenti di conversazione sei alquanto noioso. Perché non ci parli della tua segretaria, invece? ».

La donna emise un risolino e arrossì per l'imbarazzo « Mi chiamo Rosa Bryonia, sono l'assistente personale del signor Faubourg ».

« Ti ho già detto di non chiamarmi così, mi fai sentire vecchio! ».

« Beh, lo sei ».

« Stai zitto, Augustine, hai la mia stessa età ».

« Mai detto il contrario. Allora, Rosa, tu da dove vieni? Le sue ultime due erano di qui ».

La segretaria parve sempre più a disagio, ma comprese che quantomeno non la stavano trattando come una stupida, il che la rincuorava « Borgo Bozzetto ».

Platan soffocò uno sghignazzo mentre il gruppo di Allenatori sgranava gli occhi. Shana anticipò tutti nella moltitudine di domande che volevano porre « Anche noi! ».

« Come? Sul serio? ».

« Sì! Anche se non mi ricordo di te… » si fermò a riflettere.

« Beh, sono partita nove anni fa, dovevi essere ancora in fasce » spiegò la donna. Il suo interesse fu attirato sulla più grande dei quattro, la bionda in rosso. Poteva essere che… « Tu sei forse la piccola Williams? ».

La ragazza annuì con una precisazione « Serena ».

« Giusto, giusto. Scusa, è stato molto tempo fa e non sono un granché con i nomi, però mi pare di ricordarmi di te ».

« Ah, ma certo! » sobbalzò Tierno battendosi la mano sulla testa « Rosa! Calem mi ha detto di te, siete partiti insieme! ».

« Oh, vero! Calem Darvill, quel ragazzino… » Bryonia era entrata in una sorta di girandola di ricordi da cui era difficile uscire « Quello che aveva scelto Taillow. Beh, “scelto”, era l'ultimo rimasto… Dov'è ora? Non è con voi? ».

« È andato a indagare sui coma recenti con un nostro amico » spiegò Serena. Calem e Bellocchio, investigatori privati… Chissà a che punto erano nella ricerca. Senza dubbio per loro era un’occasione interessante: quei due avrebbero potuto imparare molto l’uno dall’altro. Oppure uccidersi a vicenda.

 

 

Le Galeries Ételfay sono, se non un simbolo di Luminopoli come la Torre Prisma, qualcosa che ci va molto vicino. Si tratta di due edifici distinti che si affiancano per un lungo tratto, separati solo da una stradina relativamente stretta e al contempo congiunti da un ponte di vetro che sormonta quest'ultima. Sono un centro commerciale, anche se è una definizione riduttiva: qualsiasi tipo di articolo si possa pensare di desiderare si trova alle Galeries, dal cibo ai vestiti a un'immensa profumeria al pianterreno. Le due strutture non sono divise in maniera casuale: quella a sinistra è dedicata agli uomini, quella a sinistra alle donne.

« Ah! Grandi magazzini, ultima frontiera » declamò solenne Bellocchio alzando la testa. Il frontone dei due fabbricati era decorato da lampadine che, pur non risultando particolarmente apprezzabili in ore diurne, offrivano uno spettacolo non indifferente in quelle notturne.

Calem lo seguiva svogliatamente, trascinando la gamba destra come uno zoppo « Già, già, perché siamo qui? Tra tutti i posti per indagare, intendo ».

« Non è un po' tardi per chiedermelo, bimbolin? ».

« Veramente te lo sto chiedendo da ieri sera. A intervalli di mezz’ora, continuamente. Ma tu depisti sempre il discorso sull'influenza degli accampamenti precolombiani nello sviluppo del formato FLAC ».

« Trovo sempre nuovi argomenti di conversazione, altrimenti mi annoio! » replicò l'uomo « L'hai sentita, la madre. Sei ore prima del collasso stavano qui ».

« Sì, ma perché sei ore prima? » lo incalzò Calem « Davvero non ti capisco. Sei sempre così loquace su quello che ti passa per la testa e questa volta… Niente, ermetico come… come qualcosa di ermetico. Qualsiasi cosa voglia dire ».

« Parlo solo di ciò che mi rilassa ».

« E allora? ».

Bellocchio chinò la testa e puntò lo sguardo sul ragazzo « E allora questa volta siamo tutti in serio pericolo ».

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** 1x14 - Il ladro di ombre ***


Untitled 1

Previously on LKNA: appena arrivati a Luminopoli si preannuncia già un pessimo soggiorno per il team dei buoni. Una madre grida aiuto: suo figlio è improvvisamente svenuto per strada e sopra di lui fluttua quello che pare un fuoco fatuo. Bellocchio risolve la situazione con una Baccastagna, ma pare tutt'altro che sollevato: il giorno dopo parte con Calem alla volta delle Galeries Ételfay, dove la vittima si trovava sei ore prima della sfiorata tragedia. Ma perché?

 

 

 

 

 

 

Adele stava azionando a ritmo i registratori di cassa disposti lungo l'intero bancone di L&O, il più rinomato negozio di vestiti delle Galeries Ételfay. Altri avrebbero considerato un onore essere assegnati a quel nome prestigioso; per lei anche solo quell'unico turno alla settimana era di una pesantezza infinita. Dozzine di altezzosi clienti in fila davanti a ciascuna commessa intenti a lamentarsi aspramente del servizio per poi sfoggiare un falso sorriso al loro momento. La nausea. Anche una come lei, ventitreenne, con il suo taglio di capelli dal ciuffo moro sbarazzino che le cadeva sull'occhio destro da un caschetto ben pettinato, poteva sopportare solo un tanto prima di perdere la calma.

Per aiutarsi nell'arduo compito della preparazione psicologica nella mezz'ora prima dell'apertura aveva alzato l'altoparlante diffusore di musica del suo PSS al massimo, con il prevedibile risultato di non udire minimamente l'ingresso di un'altra dipendente: Katie. Quest'ultima, lunghi capelli biondi e una morbosa devozione ai diktat delle ditte per cui lavorava – era l'unica di tutto il plotone di commesse di L&O ad abbottonare fino al colletto la camicia d'ordinanza –, entrò per l'appunto nel negozio accompagnata da un motivo che rimandava a un lounge bar di Kansas City degli anni trenta.

Dapprima la giovane provò a parlare con la sua amica, concludendo però che il baccano non consentiva interazioni vocali; quindi si sbracciò come poteva finché Adele non scorse la sua figura e si rese conto che forse non stava ballando a sua volta, decidendosi così a mettere in pausa il brano riprodotto.

« Ah, ciao! » la salutò con il tono tipico di chi invoca un perdono sincero « Scusa per la musica, ma senza questo turno è un inferno ».

« Non fa nulla. Bello swing » commentò Katie appendendo alle grucce la sua giacca « Di chi è? ».

« Parov Stelar ».

« Oh, un remix » comprese con una punta di delusione. Lei era più una da musica naturale, senza l'ausilio di quei fastidiosi sintetizzatori « Oggi è lunedì ».

Una simile affermazione, per quanto apparentemente banale alle orecchie di un profano, causò invece nella sua amica un moto di eccitazione. La sua espressione si distorse in un sogghigno dileggiatore « Pensavi non me ne sarei ricordata, vero? ».

« Assolutamente! Allora, sei riuscita poi a farti cambiare gli orari? ».

« Niente da fare, anche oggi cinque ore più una di pausa pranzo » sospirò Adele con rassegnazione « A te, invece? ».

« Nulla anche io, non mi vogliono dare il pomeriggio libero. Fino alle tre sono qui a L&O, poi mi sposto a Yellow e me ne posso andare alle otto. Il che… Oh, no » Katie si passò la mano sul volto strofinandosi gli occhi « Dannazione, mi aveva inviato un SMS Carrie questa mattina, lei ha il primo giro di Yellow… Ha detto che arriva in ritardo, e mi ha chiesto se potevo andare io ad accendere le luci visto che sono sempre puntuale. Il supervisore là è un vero cerbero su queste cose ».

« Beh, vai, no? ».

« Lo farei, ma devo ancora sistemare i camerini… Dannazione, sono proprio fuori fase oggi ».

Adele alzò le spalle e sorrise « Non ti preoccupare, vado io da Yellow ad accendere ».

« Sei un amore » la ringraziò Katie inviandole un bacio simbolico. La ragazza annuì come a dire “chissà cosa faresti senza di me” e, recuperata una torcia elettrica da uno dei cassetti dietro al banco, si diresse verso l'uscita. Yellow Label, sito un piano più sotto di L&O, era il principale esercizio alimentare della sezione femminile delle Galeries, e per estensione delle Galeries stesse. Se lavorare nel secondo era considerato il più alto onore e onere di una dipendente delle Ételfay, collaborare nel primo era altrettanto degno di stima. Da questo punto di vista Katie era una delle rarissime elette che potevano vantarsi di formare l'anello di congiunzione del duo.

Adele l'aveva sempre un po' invidiata, Katie, e non certo segretamente. Tanto per cominciare era più snella e più giovanile di lei nonostante avesse quasi trent'anni, o quantomeno tanti ne dichiarasse; in secondo luogo era ligia al dovere come poche persone tra quelle che aveva incontrato nella sua vita, e ciò motivava almeno in parte la sua posizione di prestigio nel centro commerciale; ma soprattutto Katie era dotata di una cultura che Adele sognava di avere, tanto che spesso era portata a domandarsi in che modo una come lei si fosse ridotta a sopportare le ingiurie degli acquirenti anziché elucubrare attorno a un tavolo con alti filosofi.

Al di sotto delle scale mobili si spalancò l'elegante entrata di Yellow Label e il suo labirinto di scaffali ricolmi degli alimenti provenienti dalle più variegate regioni ora immerso nel buio. Ora si poneva il problema: Adele lì non ci aveva mai lavorato. Dove diamine era il quadro elettrico? Controllò l'orario: dieci e sei. Il tempo non le mancava, perlomeno.

Che fosse nella zona accessibile ai clienti era fuori discussione, doveva quindi trovarsi nel retrobottega. Quest'ultimo, come spesso accade nelle grandi catene, lasciava a desiderare sia per avvenenza sia per praticità, essendo consto di un dedalo di tunnel grigi e sudici che il più delle volte sfociavano in ugualmente polverosi magazzini.

Finalmente dopo un'intricata ricerca identificò la centralina, ricoperta di interruttori tutti uguali, neri e limpidi al bagliore della sua pila. Con qualche fatica ulteriore riuscì anche a trovare la partizione della luce elettrica, ma avvicinata la mano agli switch si rese conto di non poter dare alcun contributo: ognuno di essi era posizionato su ON. O meglio, quasi: mancava all'appello proprio quello dell'illuminazione dell'area staff. Adele lo attivò, il che rese più agevole il viaggio di ritorno. Di nuovo nel supermercato, la ragazza constatò che era vero: l'intero apparato di lampadine di Yellow Label, inattivo fino a poco prima, sfolgorava tra i ripiani.

Controllò l'ora per sicurezza: dieci e undici. No, non era tardi. Forse l'altra commessa l'aveva anticipata? Aspetta, che nome aveva fatto Katie?

« Carrie? Sei tu? » chiamò alla cieca. Nessuno rispose.

Beh, quantomeno il suo turno si era accorciato di dieci minuti durante la sua passeggiata mattutina. Solo cinque ore e quarantanove minuti al cambio.

Curioso, però.

 

 

 

Episodio 1x14

Il ladro di ombre

 

 

 

Bellocchio chinò la testa e puntò lo sguardo sul ragazzo « E allora questa volta siamo tutti in serio pericolo ».

Calem aggrottò la fronte, ripercorrendo la sua ultima settimana: mercoledì avevano affrontato un nido di Beedrill, e da giovedì a domenica erano stati infiltrati clandestini in uno dei più prestigiosi licei di Kalos per impedire che un misterioso evaso causasse scompiglio, peraltro scoprendo che ci avevano dormito insieme per tutto il tempo. Ma ora, solo ora erano in serio pericolo?

Comunque comprese che ora non era il momento di questionare ancora. « Cosa facciamo allora? ».

« Beh, direi che tu puoi andare nel Reparto Uomo, io mi occuperò delle donne ».

« Frena, Dottor Cravatta » lo interruppe il ragazzo « Perché tu quello delle donne? E poi, scusa, ma hai una certa età, non puoi metterti a provarci con le commesse ».

« Ventisette anni, una certa età » commentò risentito Bellocchio « Non è per quello, comunque. Guarda un po' ». Detto ciò frugò nel suo cappotto per estrarne una pagina del Journal du 9e arrondissement d'Illumis, un quotidiano locale; quella particolare edizione era di tre giorni prima. Calem ne esaminò il titolo: Furti alle Galeries Ételfay.

« Hai intenzione di farmi leggere l'articolo? ».

« Tre giorni fa in un negozio chiamato Yellow Label, nella sezione femminile, la notte è sparito del cibo. Non troppo, ma difficilmente opera di una sola persona » sintetizzò l'uomo per poi abbassarsi leggermente per incrociare gli occhi di Calem « Dividersi è d'obbligo se vogliamo avere la copertura massima. Sospetto tu non voglia andare da solo nella zona in cui si sono verificati i tafferugli, giusto? ».

« Ah! Ah! Beh, in effetti mi sembra un argomento convincente ».

« Lo sospettavo » Bellocchio diresse lo sguardo sulla sua prossima destinazione. In tutta quella conversazione non aveva sorriso una volta, fatto del tutto atipico per lui. « Bene, io vado » dichiarò; poi si voltò un'ultima volta come se sentisse di aver dimenticato qualcosa « Ah, scusa. Ti ho detto di tenere d'occhio la tua ombra, vero? ».

« Veramente no ».

« Allora è una fortuna che me ne sia ricordato ora. Fallo » concluse prima di allontanarsi.

 

 

Calem vagava da un'ora e qualcosa nelle Galeries, incerto sul da farsi. La struttura era alquanto semplice: gli interi grandi magazzini ruotavano attorno a una conformazione centrale a torre cava che culminava in una cupola a vetrate multicolori. Al pianterreno c'era una profumeria maschile, e sulle circonferenze che si inerpicavano da lì erano disposti i negozi più disparati, dal vestiario agli accessori passando per l'Ételfay Gourmet. Alla fine aveva optato per l'emporio di abbigliamento Clint Eastwood, dove a dispetto del nome i gorilla in tenuta nera sparsi per l'intero reparto lasciavano il passo a impiegati dalla camicia sbottonata ben meno intimidatori. Dopo un'altra mezz'ora trovò il coraggio di andare da uno di essi.

« Buongiorno » disse con il tono più tranquillo che riuscì a sfoderare. Tra tutte le cose che aveva fatto nella sua vita, fare domande come un agente segreto mancava all'appello.

« Ciao! » esclamò il giovane – giovane nel vero senso della parola, poteva essere persino della stessa età di Calem – mentre con un gesto fulmineo lo squadrò dall'alto in basso con occhio clinico. Il suo atteggiamento indicava che con buona probabilità non apprezzava il look trasandato che il suo cliente sfoggiava « Ti serve aiuto? ».

D'accordo, niente panico, se l'era studiata. Step uno: simulare interesse per la merce. « Sì, quella giacca a quadri in vetrina… Vorrei una XS, ne avete? ». Che orrore, non l'avrebbe indossata nemmeno sotto tortura.

« Certo! Vieni con me ».

Lo condusse alla casa naturale di quell'articolo, uno stand cui ne erano appesi cinque o sei di essi: non molti, segno che probabilmente andava a ruba. Il giovane frugò tra le giubbe un paio di volte cercando la taglia desiderata, ma apparentemente era proprio quella che mancava. Di fianco a lui, Calem mascherava con un sorriso di cortesia un ghigno di soddisfazione: non era casuale che mancasse la XS, si era scelto il capo apposta.

Tutto secondo i piani. Step due: iniziare una conversazione a prima vista innocua. « Magari è in qualche altro punto del negozio? ».

« Uhm, sì, può essere… Però è strano » commentò prima di avviarsi nei ripiani limitrofi.

Strano. Step tre: trovare un aggancio pretestuoso per spostarsi sull'argomento desiderato. « Strano, eh? D'altronde ne sono successe di cose strane in questo periodo, qui, non trova? ». Che piano, degno del Dottor Cravatta.

« Beh, non troppo. Cioè, mercoledì scorso qualcuno ha parlato di “apparizioni” nel Reparto Donna, ma qui nulla ».

« Ah, sì? Interessante » annuì Calem « E che mi dice di quella sindrome a Luminopoli in questo periodo? ».

Il commesso si fermò nel mezzo del punto vendita a guardarlo incuriosito « Che intendi? ».

« Come, non lo sai? Diverse vittime pare si trovassero qui alle Galeries Ételfay in giornata, prima di cadere in coma ».

A quel punto lo sguardo del ragazzo passò dal vigile al sospettoso « Non sarai mica un inviato di Le Monde, vero? ».

« C-chi? Io? Ma cosa ti salta in mente? ».

« E ora che ci penso, a cosa ti serve la XS? Tu non mi sembri proprio uno che porta quella taglia ».

Calem iniziò a sudare freddo. Non avrebbe voluto, ma era il momento dello step quattro: annullare. « Forse è meglio che vada… ».

« Sicurezza! ».

« Oh, mi stanno chiamando! » esclamò prima di iniziare a correre. In breve tempo, e con sua sorpresa, fu fuori da Clint Eastwood, catapultato di nuovo nella torre centrale. Gettò uno sguardo a destra: una coppia di buttafuori a due ante si stava dirigendo verso di lui. Non restava molto da fare: imboccò la via opposta e percorse la circonferenza del secondo piano in senso orario fino a lasciarla dall'altro lato.

L'inseguimento si protrasse quindi attraverso gli esercizi di quel livello, da Lowshop allo store ufficiale dell'Illumis Saint Germain, scansando clienti e rovesciando scaffali fino a un corridoio di vetro che fungeva da ponte tra i due edifici delle Galeries. Lì le guardie si fermarono e uno di loro sfilò dalla tasca della giacca un walkie talkie nero, premendo poi il pulsante di comunicazione « C'è un pazzo che sta andando nel Reparto Donna passando dal secondo piano. Lo lasciamo a voi ».

Calem, che nel frattempo non aveva mai smesso di fuggire, si voltò in corsa ad ammirare il tunnel trasparente, inorgogliendosi per aver distanziato i suoi cacciatori « Beh, ora dovrebbe essere tutto in disc–– ».

Thud!

E così quel giorno, dopo la presa di coscienza che lo step quattro è un passaggio necessario, imparò anche un'altra importante lezione: sempre guardare davanti. La martire questa volta non era un'acquirente, bensì un'impiegata bionda che era stata tramortita dallo scontro e ora giaceva riversa sulla schiena, attorniata da una pila di capi sparpagliati e dalle Poké Ball dell’Allenatore, intenta a massaggiarsi la fronte che aveva incassato direttamente la collisione.

« Katie! » gridò un'altra donna che stava accorrendo in aiuto della prima. Calem arretrò strisciando di un metro, prevedendo reazioni non proprio caritatevoli nei suoi confronti. Nel frattempo avevano raggiunto la scena altri gorilla, ora divenuti tre e identici in tutto e per tutto tra loro.

« Ah, ti chiami Katie? Mi dispiace, ero–– ».

« Per te è Katrina » rispose sdegnosa « Katie è solo per chi ha la mia fiducia ».

« D'accordo, d'accordo, ora prima di–– ».

« Ma cosa ti salta in mente! Potevi farle davvero male! » inveì contro di lui la soccorritrice sostenendo la testa della ferita tra le braccia « Potevi–– ».

« Va tutto bene, Adele, è solo una botta… ».

« No, no, non va tutto bene! Giuro che ti faccio spedire in prigione, oh, sì, dritto al Carcere di Luminopoli! Vedrai come ti conceranno i tuoi compagni di cella! ».

« Ah! Ecco dov'eri, Günther! ».

Quella voce. Santo cielo, quella voce. Calem si girò e lì, in piedi, il suo indice ossuto puntato contro di lui, esattamente da dove prima era intervenuta quella Adele: il Dottor Cravatta. Senza cravatta. Che lo chiamava Günther. Chissà se quei gorilla l'avevano già stordito dalle batoste e stava allucinando tutto.

« Maledizione, ti avevo detto di aspettarmi all'entrata! » proseguì Bellocchio avvicinandosi con calma a lui come si fa a un cane ringhiante, rivolgendosi poi agli altri presenti « Scusatemi, scusatemi davvero, sono mortificato ».

« Ah, quindi lui è Günther? » domandò Adele interessata.

Uno degli uomini in nero si fece avanti « Mi scusi, lei conosce questo individuo? ».

« Oh, sì, certo! Madonna, sono desolato, davvero. Lui è il mio… » il giovane guardò nuovamente Calem, cercando la locuzione adatta « … fratello speciale ».

« Fratello speciale? ».

« Sì, lui fin da piccolo ha questo… problema, insomma, non sa bene relazionarsi con gli altri. Quando si trova in una folla… Però il dottore aveva detto che potevamo uscire, fare una prova, vero? ».

Gli occhi di tutti furono puntati sul Calem, il quale non poté fare altro che assecondare suo “fratello” e annuire obliquamente.

« Oh, sì, il signor Bellocchio è una persona così buona! » proruppe Adele all'indirizzo delle guardie « Pensate che deve occuparsi di Günther tutto da solo, perché i loro genitori sono morti in un incidente aereo… L'ha portato qui perché vuole a tutti i costi aiutarlo a guarire, o almeno a farlo diventare autosufficiente, perché teme che non sarà qui ancora a lungo per fargli da aiutante. Ha una… un brutto male » concluse sottovoce.

In quell'istante il portavoce dei buttafuori avrebbe probabilmente desiderato trovarsi da qualsiasi altra parte, anche un torrente in piena. Con la voce spezzata dall'imbarazzo domandò scusa quanto più poteva « Mi dispiace davvero per suo… fratello. Non si preoccupi per i danni, sono sicuro che le Galeries copriranno le spese ».

« Grazie mille, lei è davvero un'anima pia » Bellocchio si esibì in un inchino interrotto « Ah, mi scusi, potrei chiederle un ultimo favore? ».

« Senz'altro, tutto quello che desidera ».

« Voi avete per caso due walkie talkie? Sa, se scappasse di nuovo vorrei poterlo contattare, da un mese ormai non posso più correre… ».

 

 

« Come diamine fai? Piacere a tutti, cavartela sempre… Dannazione, ho letteralmente distrutto mezzo reparto e tu sei pure riuscito a farti regalare due walkie talkie! ».

I due camminavano per le corsie di un supermercato del Reparto Donna, sfiorando scatole di cereali e biscotti nella sezione dedicata alla prima colazione. Yellow Label era il suo nome, ed era il teatro dei furti di cibo di cui parlava il giornale locale. Bellocchio, dopo avergli restituito l’ultima delle Poké Ball che aveva raccolto in fretta e furia prima di dileguarsi, si era rimesso la sua classica cravatta; apparentemente era stato interrotto mentre le due commesse, Adele e Katie, gli consigliavano un nuovo completo da abbinare al suo cappotto marrone.

« Non piaccio a tutti ».

« Ah, davvero? Fammi un esempio ».

« Tu, tanto per cominciare. Nemmeno mi chiami per nome ».

Calem scrollò lo spalle « Io non conto. E poi quello che usi non è nemmeno il tuo vero nome. Bellocchio o Dottor Cravatta, sempre finto è ».

« Per quanto riguarda Adele e Katie, hai assistito a un semplice caso di sindrome del malato terminale. Naturalmente ho dovuto arricchirla un po', la versione standard funziona al massimo per procurarti una stanza d'albergo ».

« C'era proprio bisogno di farmi passare per un ritardato mentale? Non è proprio di buon gusto ».

« A dire il vero quella parte l'ho fatta per te. In qualche modo mi aspettavo che avresti fatto casino » rispose Bellocchio estraendo un taccuino nero dalla tasca esterna del suo soprabito, presumibilmente per appuntare la replica alla domanda successiva « Hai scoperto qualcosa? ».

« Nulla di nulla. Cioè, mercoledì scorso ci sono stati degli avvistamenti di qualcosa, ma è troppo in là ».

« No, decisamente no. Primo caso alle quattro e ventinove dell'altro ieri, non può essere stato in pausa per tre giorni ».

« Quattro e ventinove… Pazzesco, ricordi addirittura l'orario esatto ».

« Memoria di ferro » glossò l'uomo « Comunque a questo punto dovremmo pensare a un piano d'azione. Direi di nasconderci da qualche parte e attendere l'orario di chiusura per indagare, tanto tutte le informazioni possibili me le ha date Katie. Ragazza splendida, molto precisa ».

« Oh, certo, Katie. Quindi di te si fida » Calem gli si parò davanti, bloccandogli la strada « Stammi bene a sentire, io non sono Katie. Quindi se vuoi che io resti con te a infrangere altre regole dovrai dirmi esattamente cosa sta succedendo ».

Bellocchio lo fissò negli occhi con una smorfia di rassegnazione. « Sì, dopotutto te lo meriti » annuì. Dopodiché si addossò contro il muro ricolmo di succhi di frutta, di fronte a confezioni e confezioni di biscotti, usandolo come supporto « Sai cos'è un fuoco fatuo? ».

Rovistando nella sua mente in cerca del termine, Calem lo imitò nella postazione sgombrando il passaggio ai compratori « Trovato ha detto che era quello il nome della fiamma azzurra sopra il bambino, no? ».

« Sì, ma sai cosa rappresenta? » gli domandò. Il ragazzo scosse la testa. « Secondo alcune leggende, i fuochi fatui sono la forma sensibile dell'anima ».

« L'anima? » ripeté sorpreso Calem « Mi stai dicendo che ho visto l'anima di quel bimbo? ». Il tono era quasi derisorio, ma di fronte all'espressione grave del Dottor Cravatta le sue convinzioni vennero a cadere « Come, sei serio? ».

« Vorrei non esserlo ».

« Ma non è possibile, dai. Come potrebbe l'anima uscire dal corpo? ».

« Normalmente? Non può » illustrò Bellocchio « Ed è per questo che dovresti avere paura. Perché qualcuno l'ha tirata fuori. Esiste un'antica parola collegata a questo potere: Darkrai ».

« Darkrai… Che cosa sarebbe? ».

« Un Pokémon. Beh, un Pokémon in senso lato. Esiste più nelle leggende che nella memoria. È un ladro di anime, le rapisce e le conduce nel suo mondo, un mondo da cui non potranno uscire mai ».

Calem trasalì. Mai? Cioè le vittime attuali, quel numero pronunciato da Tierno la sera prima che prima gli era apparso così piccolo e ora così grande… Non sarebbero mai tornate? « No, aspetta, ma tu quel bambino l'hai salvato. Con la Baccastagna, no? ».

« Era trascorso pochissimo tempo dalla presa. Inoltre penso che qualcosa fosse andato storto sul momento, perché il fuoco fatuo era ancora là. Normalmente la trasmissione è istantanea » Bellocchio ne parlava con assoluta naturalezza nonostante l'argomento facesse raccapriccio « Per gli altri diciannove non c'è più speranza, nemmeno Darkrai stesso potrebbe riportarli indietro. Ciò che possiamo e dobbiamo fare è impedirgli di mietere altre vittime ».

« Ma, ma… Insomma, stai dicendo che anche noi potremmo… da un momento all'altro… Perché diamine mi hai portato qui se potrei scomparire per sempre in un attimo? ».

« Rilassati, non sei in pericolo. Né tu, né nessuna delle persone che ci è passata davanti in questi minuti. Quantomeno non ora ».

« Ah, davvero? ».

Bellocchio fece cenno di sì « Guarda quelle che passano in questo momento. Hanno tutte qualcosa, e quel qualcosa è la loro garanzia di sopravvivenza ».

Calem si concentrò su coloro che transitavano di fronte a loro. Prima una madre con il figlio esausto in braccio, poi uno degli impiegati di Yellow Label, dopo ancora uno studente diretto al banco dei surgelati. Non avevano nulla in comune se non i tratti di un essere umano. Mani, piedi, testa…

… ombra. Rammentò ciò che il Dottor Cravatta gli aveva raccomandato all'entrata delle Galeries: tenere d'occhio la sua ombra. Quasi gli avesse letto nel pensiero, Bellocchio proseguì « Ora dovresti iniziare a capire perché siamo venuti qui ».

« Questo Darkrai fa scomparire l'ombra delle persone? ».

« Precisamente. La stessa parola darkrai significa “ladro di ombre”. Quando vieni scelto da Darkrai la tua ombra svanisce, e quello è il segno che il suo processo di assimilazione è iniziato. Circa sei ore dopo si prende la tua anima, e il corpo rimane un guscio vuoto. Se quel bambino si trovava qui sei ore prima del collasso, c’era anche Darkrai ».

Calem si osservò di scatto la sua ombra, verificando con sollievo che era ancora lì. Quindi rialzò la testa « Ma perché nelle Galeries? ».

Bellocchio alzò le spalle « È ciò che mi piacerebbe sapere. Da quello che ho visto online sono due giorni che agisce qui senza spostarsi, come se aspettasse qualcosa. E poi normalmente i Darkrai non hanno un tasso di vittime così alto ».

« Forse vuole fare un rito ».

Un rito. Che strano, perché gli sarebbe dovuto venire in mente ora? « Come mai un rito? ».

« Beh, guardavo i biscotti » spiegò il ragazzo indicando le confezioni che avevano di fronte « Rigoli, Incontri e Tarallucci. Vedi, le lettere in grande formano RIT ».

In effetti tutti i pacchi siti seguivano lo schema, e il fatto che la prima lettera di ogni marca fosse rigorosamente in evidenza accentuava l’effetto ottico. Accanto a ciascuna delle serie, curiosamente, c’erano delle Macine. Inizialmente Bellocchio non focalizzò bene perché, ma a uno sguardo più attento il frollino raffigurato era di forma circolare. R-I-T-O, rito. Un intero scaffale che scriveva quella parola. Singolare era dir poco.

« Fammi controllare una cosa ».

L’uomo si spostò verso il reparto delle spezie, incappando nella zona riservata ai sali, e lì il suo sospetto si tramutò in un’atroce certezza. rosso delle Hawaii, Iposal, Le Tribunal, Orpheus. RITO, di nuovo. File e file con quel termine.

Più avanti gli aromi: rosmarino, issopo, timo, origano. E così su tutte le mensole, per ogni tipo di prodotto, lungo l’intero Yellow Label, di fronte ai passanti, eludendo gli addetti ai lavori. Un messaggio lasciato in tutto il negozio da qualcuno. Bellocchio sgranò gli occhi, deglutendo con forza. Non aveva idea di che cosa fosse questo rito, perché fosse in atto, o perché Darkrai l’avesse comunicato in quel modo. Ma una cosa era certa: non era più tempo di preparazione. Era Ragnarǫk.

 

 

DI NOTTE ALLE GALERIES?! voi siete completamente pazzi…se vi fate arrestare non contate su di me

SW

 

Alle solite, pensò Bellocchio rileggendo l’ultimo messaggio della sua cronologia con Serena. Il PSS di Calem era più usurato rispetto agli altri, se aveva ben capito era anche due modelli indietro. Averlo scambiato con uno dei suoi walkie talkie per mantenere un contatto là dentro pareva quasi un’operazione a suo svantaggio. La toilette in cui si era nascosto era un cubicolo angusto e maleodorante, ma per lo scopo di nascondersi fino a un’ora tarda andava più che bene. Controllò l’orologio da polso sulla mano sinistra: dieci e due minuti.

Tempo di agire. Inviò a Serena un ultimo, laconico messaggio con cui le ordinava di restare lontano dalle Galeries: in questo modo almeno lei sarebbe stata al sicuro. Certo, non era sicuro nemmeno un po’ che lei gli avrebbe dato retta.

Con un gesto fulmineo portò il trasmettitore vicino alla bocca e, premendo il pulsante PTT, parlò nel microfono « Capo Rosso a Rosso Tre, mi ricevi? ».

Una voce seccata rispose dall’altro capo « Un’altra volta quel nome in codice e ti giuro che non esci vivo di qui ».

« Dove stai? ».

La pausa fu più lunga di quella precedente, questo perché Calem stava controllando la trasposizione criptata della sua locazione corrente. Una volta verificatala, e pur con qualche esitazione d’imbarazzo, comunicò « … Bimbolin Bar ».

Bimbolin Bar. Bellocchio decifrò mentalmente il nome: L&O, il negozio di vestiti. Sia lui che il suo compagno di serata si erano appostati nel Reparto Donna per affrontare di petto Darkrai se si fosse fatto vivo, o per stanarlo in alternativa – come, non era stato stabilito. Lui si trovava nel bagno di Yellow Label, anche se ancora per poco.

« Vengo io da te. Aspettami » annunciò nella trasmittente, quindi aprì la porta della toilette e ne uscì. Fin da subito dovette regolare i passi per non fare echeggiare il rumore delle scarpe sulle piastrelle lucide. Il PSS forniva un’illuminazione sommaria attraverso un fascio prodotto dal flash, ma a causa dell’alto dispendio energetico non sarebbe rimasto acceso a lungo. Si fece strada attraverso il bagno fino a uscirne e, superata l’anticamera che collegava quello maschile alla controparte femminile, oltrepassò la porta che conduceva al negozio vero e proprio.

Qui lo attendeva però una sorpresa: tutte le luci erano attive. Yellow Label al momento appariva esattamente come nelle ore tarde di apertura, salvo il fatto che era deserto. Lo era?

Un rumore attirò l’attenzione di Bellocchio. Dopo aver disattivato la sua torcia diede uno sguardo alla sua ombra, ancora intatta, e mise mano al walkie talkie pronto per avvertire Calem. Piano piano si diresse verso la sorgente, localizzandola oltre un angolo formato da due scaffali. Figurati se non era oltre un angolo, pensò, è sempre così. Va bene, al tre. Uno, due… Sporse il capo al di là delle mensole. Ma non c’era nessun Darkrai.

« Katie? ».

La ragazza trasalì, lasciando cadere a terra una scatoletta bronzea di alluminio per mettersi la mano sul cuore e iniziare a inspirare ed espirare pesantemente. Bellocchio si mostrò completamente, gli occhi sgranati in un’espressione confusa.

« Che… cosa ci fai qui? ».

« Ah! Io, uhm… Controllavo… Mhm, sì, pareva scaduto, volevo verificare… ».

L’uomo si chinò a esaminare il malcapitato contenitore: Tonno Vostromo. « Che tonno… » commentò tra sé e sé « Questo doveva scadere? ».

« Ah, p-perché… non può? » lo interrogò con poca convinzione Katie. Anche lei capiva che, dopo aver mostrato un’intelligenza fuori dal comune, parlare di deperimento per un alimento a lunga conservazione non avrebbe ingannato nemmeno il più boccalone.

« Oh! Oh, oh! Ora ci sono! » esclamò Bellocchio battendosi la mano sulla testa « Tu sei la ladra di cibo di notte! Ti sei nascosta qua due giorni fa… e hai preso del tonno? Questo è il furto più inutile di cui abbia mai sentito parlare! ».

La giovane provò a intervenire, ma fu interrotta senza nemmeno aver iniziato. « No, no, aspetta, non è tutto. Quel giornale diceva che il cibo era troppo per una singola persona, e tu sei tutto fuorché una buona forchetta. Il che deve voler dire… » si strofinò le mani come se stesse fisicamente faticando per giungere a una conclusione « … Ah, ma certo, Adele! Quegli sguardi ammiccanti mentre mi passavate le giacche, ovvio! Che vergogna, da voi non me lo sarei mai aspettato! ».

« Ehi, ci pagano una miseria! Hanno tolto le telecamere da Yellow Label per manutenzione » si giustificò Katie « Abbiamo fatto bene ad approfittarne ».

« E mangiare tonno? ».

Il tono della commessa mutò « Ti prego, non ci denunciare… ».

« Non denuncio nessuno, altrimenti dovrei spiegare che ci facevo qui. Dov’è Adele? ».

« Mi piacerebbe saperlo. Oggi finiva il turno alle quattro, non la vedo o sento da allora ».

« Come sarebbe a dire? » domandò sorpreso Bellocchio « Non potevi contattarla sul PSS? ».

« Oh, sì, certo, e io mi prendo un PSS con quali soldi? ».

« Ottimo punto. Senti, non so come dirtelo, ma questa è la notte peggiore per trovarsi qua dentro ».

« Che intendi? ».

L’uomo cercò di usare quanto più tatto possibile « Ecco… C’è questo… Hai presente la gente che va in coma senza ragione? Pensiamo che si trovi qui… Sì, la causa ».

« Cosa? Nelle Galeries? » sobbalzò Katie « Aspetta, pensate? Tu e chi? ».

Una voce uscì in quel momento dal walkie talkie che Bellocchio teneva in mano « Ehi, dove sei? Qui è buio, e senza il mio PSS non posso muovermi! ».

« Quello era Günther? » domandò la ragazza scombussolata « Hai portato tuo fratello disabile qua? Ma cos’hai nella testa? ».

« Oh, non mi pare proprio il momento per–– ».

« Bellocchio, mi ricevi? ».

« Uno alla volta! » gridò cercando di fare ordine mentale. Per prima cosa premette il tasto della trasmittente, rivolgendosi a Calem « Sto arrivando. Non parlarmi più qui, lo sto dando a Katie ».

« Che? » domandò la donna; ma prima che potesse fare altro si vide messo in mano lo strumento nero pece.

« Io vado a recuperarlo, cercherò di stare via il meno possibile. Se tu vedi qualcosa, qualunque cosa, dillo nel microfono. E stai in guardia ».

 

 

L&O era completamente immerso nelle ombre. La luce della torcia di Bellocchio roteava da un manichino all’altro rischiarando le vie solitarie del negozio. Aveva visitato i reparti 10-14 e 15-18 alla ricerca del suo amico senza però ottenere risultati, e si stava ora dirigendo verso la zona dedicata alle donne adulte, preannunciata da gonne primaverili e cappelli variopinti.

« Calem! Se ci sei di’ qualcosa! » invocò a gran voce, poi soggiunse borbottante « Ogni volta, ogni santa volta, devono sempre fare di testa loro ».

Insperabilmente un richiamo risuonò in risposta da un angolo del punto vendita « Bellocchio? Sei tu? ».

« Chi diamine dovrebbe essere! Dove sei? ».

« Ma cosa ne so, hai tu il PSS! Però sbrigati a venire! ».

Bellocchio si concentrò: la fonte non doveva essere molto distante, sembrava provenire da un angolo della stanza.

« Continua a parlare! » gli ordinò prima di inseguire il suono conseguente. Calem si ritrovò così a declamare frasi senza senso, una situazione che per quanto assurda sortì l’effetto sperato: tra fantocci rovesciati e ometti sulla fronte incontrati procedendo a tentoni, i due si ritrovarono non distante dai camerini dove con ogni probabilità il ragazzo si era nascosto.

« Finalmente! » sobbalzò quest’ultimo non appena incrociò la sagoma di Bellocchio « Dove diamine eri finito? Cos’è questa storia di Katie? ».

« Oh, a quanto pare rubano scatolette di tonno. Lunga storia, ora abbiamo cose più importanti a cui pensare » l’uomo si guardò attorno puntando il PSS a ciò che intravedeva « Ehi, certo che queste giacche sono proprio brutte messe vicine, non trovi? ».

« Concentrati ».

« Ah! Ci sono. Vediamo, dobbiamo cercare questo Darkrai ».

« Ovviamente. Dove potrebbe trovarsi? Voglio dire, se si aggira per le Galeries rischiamo di non trovarlo… » Calem osservò il suo interlocutore fissare il suo sguardo verso qualcosa dietro le sue spalle, completamente perso nel vuoto « Ehi, mi stai ascoltando? ».

« Che cos’è quello? ».

Il giovane fece una smorfia per fare segnale di mancata comprensione, al che Bellocchio prese la sua testa a forza per girarla. Il sangue di Calem si raggelò alla vista: il fascio di luce di cui erano in possesso era adesso indirizzato a quello che sembrava un massiccio sacco di patate lasciato per terra, come quelli di tuberi che ogni tanto si vedono nelle rivendite all’ingrosso. Un paragone alquanto inappropriato, considerato ciò che davvero era. Si trovava dietro un deposito di vestiti ammassati per uno sconto complessivo, stretto in un angolo, il che spiegava perché nessuno l’avesse notato in giornata: chi può permettersi L&O non compra in saldo.

Dapprima si rifiutò di accettarlo « Sarà… Un manichino, sì. Quando sono uscito dallo stanzino… ».

Bellocchio scosse la testa, e del resto nemmeno il ragazzo credeva seriamente a ciò che stava dicendo. Con la morte nel cuore si avvicinarono lentamente, come temendo che quell’ente potesse animarsi da un istante all’altro – o forse sperando che lo facesse. Ma ogni congettura era inutile: giaceva lì, inerte, attendendo solo di essere identificato per scatenare l’orrore. Perché non era un sacco di patate. E non era nemmeno un manichino.

Era Adele.

Il più grande dei due rimase rigido a osservare il casco di capelli mori della donna velare un volto che nessuno della coppia aveva intenzione di scoprire; Calem emise un sussulto, poi deglutì rumorosamente per scacciare di nuovo in gola un accenno di vomito che aveva fatto capolino. Dopo un lasso di tempo indeterminato Bellocchio trovò la forza di avvicinarsi e controllarne l’ombra, solo per constatarne l’assenza come si era atteso.

Il suo ritmo respiratorio si velocizzò per un attimo, un solo attimo in cui parve perdere il controllo. Poi afferrò nervosamente il walkie talkie e lo portò alla bocca. Doveva avvertire Katie, non poteva permettere un’altra vittima quella sera.

« Ka–– ».

« B-Bellocchio? ».

Trasalì. L’acuta voce di Katie l’aveva anticipato appena prima che premesse il pulsante di comunicazione. In altre situazioni una piacevole coincidenza; in questa, tutto fuorché un buon segno.

« Katie… » sussurrò nell’interfono « Katie, mi senti? Devi andartene. Ha preso Adele, non sei al sicuro ».

« Bellocchio… Dov’è… » la donna si interruppe per inspirare con forza « Chi ha preso Adele? ».

« Non… Non lo sappiamo ancora » mentì. O meglio, più che una bugia era una mezza verità: sospettava fortemente di Darkrai ma non escludeva, o forse sperava, che potesse non trattarsi di lui. « Vattene subito, ce ne occupiamo io e Calem ».

« C-chi è Calem? ».

« NON È IMPORTANTE! Devi andartene! » gridò nel microfono in un accesso d’ira. Si fermò. Per tutto quel tempo le parole che erano risonate per L&O avevano trascinato con sé un sottofondo costante che fino a quel momento non aveva messo a fuoco. Nel silenzio che era scaturito dopo il suo attacco, però, quel rumore si era portato in primo piano rivelandosi per ciò che era.

« Katie… » cominciò Bellocchio, scoprendosi ostacolato dalla sua stessa lingua nel parlare, impegnata com’era a incastrarsi tra i denti « Katie, perché stai piangendo? ».

La giovane scoppiò in lacrime, ma bastò un attimo per rendersi conto che non erano gemiti di tristezza, bensì gemiti di paura. « C’è… C’è qualcosa davanti a me… ».

Bellocchio e Calem trattennero il respiro all’unisono. Il primo cercò di mantenere la calma e, dopo aver ripreso il controllo, avvicinò di nuovo il walkie talkie alla bocca « Che aspetto ha? ».

« Ma che stai dicendo? » lo aggredì il ragazzo accanto a lui in un moto di collera « Dille di fuggire! Che ti salta in mente? ».

« È… Nera, io… Che cosa mi farà? ».

« Niente. Non ti farà assolutamente niente. Ascoltami, Katie, e ascoltami bene: quell’essere orrendo si chiama Darkrai. E non potrà nemmeno sfiorarti senza prima prenderti l’ombra. Sei al sicuro. Sei-al-sicuro » ripeté, questa volta scandendo vocabolo per vocabolo dopo aver pronunciato il resto del messaggio ad alta velocità « Ora esci ».

Il pianto della donna si fece più intenso e drammatico, intervallato tra spasmi di puro spavento « La… mia ombra… è scomparsa… ».

La faccia di Bellocchio si chiuse in un’espressione muta e atona, gli occhi fissi sul nulla. Non una lacrima sul suo volto, come non ne fosse in grado. Di fronte all’ineluttabilità che quella sua amica, appena conosciuta e a cui eppure si era così facilmente affezionato, fosse completamente perduta, il suo corpo non trovò alcun modo per esprimere il dolore se non un eloquente silenzio. Calem lo stava in qualche modo incitando a combattere, ma lui non gli prestava la minima attenzione.

« Bellocchio… ». La voce di Katie lo raggiunse dalla trasmittente dandogli la forza necessaria per riprendere il contatto con il mondo.

« Sì? ».

La ragazza inspirò prima di pronunciare quanto seguì, segno che doveva pesargli ancora più della condanna che pendeva sulla sua testa « … per te è Katrina ».

Katie è solo per chi ha la mia fiducia, completò mentalmente.

E così, in quel momento, poté sperimentare anche l’altra faccia della medaglia. Due giorni prima Ada lo aveva deluso, e ora lui aveva deluso Katrina. Ciò lo ferì, se possibile, ancora più della realizzazione precedente.

« Aiutala » gli ordinò con timbro perentorio Calem, afferrandolo per la giacca « Aiutala, capito? Fai qualcosa! Sei tu quello che salva sempre tutti, vero? Sei tu l’eroe! E allora AIUTALA! ». Di fronte all’imperturbabilità di Bellocchio gli strappò la radiolina di mano, dirigendo poi la sua invettiva al Darkrai dall’altro capo del filo « Ehi, tu, mi senti? Sei ancora lì a crederti un Dio in terra, a fare il tuo rito? Sappi che sto venendo a prenderti, e sono molto arrabbiato ».

Mentre il ragazzo inveiva nell'etere contro il loro comune nemico, lo sguardo del suo compagno vagò per le ombre del negozio. Il PSS in modalità fiaccola era ancora in mano sua, e roteandolo riusciva a scorgere i chiaroscuri dei manichini e gli stand di vestiti. L'occhio cadde su uno di questi, uno che già poco prima lo aveva incuriosito.

Le giacche. Non erano banalmente brutte se messe vicine: erano in disordine. L&O era una delle punte di diamante delle Galeries, non si sarebbero mai permessi un caos simile. Come aveva potuto essere così ottuso? Si avvicinò agli appendiabiti.

« Ehi » lo riprese Calem. Non ottenendo risposta reiterò « Ehi, ti pare il momento? Non hai proprio idea di cosa significhi essere sensibili, vero? ».

Mutismo assoluto.

« Te lo devo ricordare? Adele e Katie sono–– ».

« Le marche » replicò Bellocchio senza ascoltarlo, con un accento che trasudava la rassegnazione che provava « Le marche, sono in disordine. Nessun commesso le metterebbe così ».

« E questo cosa c'entra? ».

« Ricordi cos'ha fatto Darkrai da Yellow Label? ».

« Sì, e con… ». Ma certo. RITO. Aveva usato i prodotti per lasciar loro un messaggio. Il sangue gli ribolliva per gli atti appena compiuti dal mostro, ma si forzò di smettere di lanciare invettive per concentrarsi sulla pista offerta dall'uomo. « Che dice? ».

« As… er… Aserpor… No, aserpros ».

« Aserpros… Sembra una di quelle parole che ho sentito ad Ardeco antico, al Liceo. Chissà se… ».

« Sorpresa ».

« Come scusa? ».

« L'ho letta al contrario » chiarificò Bellocchio « Senso sbagliato. Letta dritta è “sorpresa” ».

« E che diamine dovrebbe voler dire? ».

Le luci si accesero di colpo, tutte in contemporanea. Calem e Bellocchio, le pupille ormai dilatate per abitudine all'oscurità, ne furono abbagliati e impiegarono qualche secondo per rimettere a fuoco la realtà. Non l'avessero mai fatto, perché una terza figura era apparsa ai loro occhi. Qualcuno che avrebbero onestamente preferito evitare di incontrare.

« Ben fatto, Jim » biascicò il poliziotto nella sua trasmittente, mantenendo la pistola puntata di fronte a sé. Il suo tono di voce si fece quindi più deciso, completamente in contrasto con la sua sagoma mingherlina « Non vi muovete! Tenete le mani in alto e niente movimenti bruschi! ».

La coppia agì come le fu ordinato, con Calem che tremava per la concitazione. Bellocchio, dal canto suo, non riusciva a capacitarsi di non aver sentito i passi di quella guardia risuonare nella stanza nei minuti precedenti. Sicuramente Darkrai doveva averli contattati in qualche modo, ma per essere lì così puntualmente doveva essere stato un piano meditato e attuato con discreto anticipo. Di più, una trappola argutamente escogitata; e loro erano caduti dritti nella tela.

« Niente panico » bisbigliò al ragazzo a un tratto « Non c'è nulla di incriminante a nostro carico. Mi scusi, agente, sono certo che troverà che non abbiamo commesso nessun reato ».

« Che cos'è quello? ».

« Come, scusi? ».

« Quello » indicò con un cenno del capo, senza allentare la presa sull'arma da fuoco. Bellocchio si voltò verso il punto indicato, e in quel momento si rese conto che forse aveva sottovalutato la gravità della situazione. Quello intravisto dal poliziotto era il corpo privo di coscienza di Adele.

« Ehi, Jake » chiamò qualcuno dalla radio « Qui c'è un'altra vittima in coma, identica alle altre. Qualsiasi cosa abbia causato questo casino è qua dentro ».

Jake, dopo una rapida occhiata alla trasmittente agganciata alla cintura d’ordinanza, fissò in faccia quello strano uomo in abito elegante senza battere le palpebre. Un ghigno di compiacimento ne deformò per un istante la bocca per poi sparire tra le pieghe della pelle.

« Okay » convenne Bellocchio « Questo sarà un po' più difficile da spiegare ».

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 1x15 - Cinque minuti di speranza ***


Untitled 1

PREVIOUSLY ON LKNA: indagando su una serie di vittime cadute misteriosamente in coma, Bellocchio e Calem si trattengono di notte alle Galeries Ételfay, centro commerciale di Luminopoli. Con loro sorpresa anche Adele e Katie, due commesse, si trovano lì, ma il tempo per parlare è poco: entrambe sono lasciate prive di sensi da Darkrai, un enigmatico mostro in grado di rapire le anime delle persone, posto che si impadronisca della loro ombra sei ore prima. Come se non bastasse, un’altra sorpresa attende i due investigatori improvvisati: la polizia.

 

 

 

 

 

 

Well, I've roamed about this Earth with just a suitcase in my hand…

Serena aprì gli occhi di scatto. Stava facendo un sogno emozionante, ma non ricordava bene cosa fosse. Forse su un vulcano e un condominio in fiamme. No, aspetta, c'entravano i Beedrill. Beedrill in fiamme? Non suonava così assurdo.

And I've met some bog-eyed Joe's, I've met the blessed, I've met the damned…

Mise a fuoco: era la suoneria del suo PSS. E non una suoneria qualunque: era la suoneria generica. Da quando era partita non l'aveva sentita nemmeno una volta, dato che tutte le chiamate che aveva ricevuto provenivano dalla ristretta cerchia salvata sotto il vago nome di “amici” – persino quelle di Calem. Una telefonata ignota alle undici di sera promette il più delle volte molto male. Si alzò per dirigersi barcollante al tavolino su cui aveva lasciato lo squillante aggeggio.

But of all the strange, strang––

« Pronto… Yawn… Qui Serena Williams ».

« Serena! Che meraviglia sentirti! Come ti va la vita? ».

« Bellocchio… » commentò indolente la ragazza « Ma che razza di ora è per chiamare, tu non dormi mai? ».

« Come i criminali e i delfini! Che tra l'altro non sono poi così diversi, dopo quell'invasione di Arenipoli. Bando alle chiacchiere, ho bisogno che tu faccia una cosa per me ».

« Spara ».

« Dovresti andare da Trovato e dirgli questa esatta parola: Ragnarǫk » spiegò l'uomo « Lui capir–– MA CHE DIAMINE TI SALTA IN MENTE! ».

« Bellocchio? Ehi, Bellocchio, con chi parlavi? ».

« Un cretino, un completo cretino! Ehi, non mi–– Ho i miei diritti, ho letto quella liberatoria! È lui che l'ha fatto, che c'entro io? ». La sua voce si era allontanata più volte tra quelle frasi sconnesse, come se il suo amico stesse opponendo resistenza a qualcuno o qualcosa « Ehi, Serena, hai capito? Ragnarǫk! Ricordalo bene! ».

« Sì, sì… Bellocchio, ma da dove stai chiamando con precisione? » lo interrogò.

« Che domande, dal telefono del Carcere di Luminopoli! ».

 

 

 

Episodio 1x15

Cinque minuti di speranza

 

 

 

Il pavimento della cella era freddo e sporco, ma stranamente comodo stando agli impulsi inviati dalla guancia di Calem. Più probabilmente doveva essere l'effetto residuo di un qualche anestetico a comunicargli quella sensazione, e in un certo senso ne ebbe la prova quando, aprendo gli occhi, si trovò a pochi centimetri dal naso un dardo verde pistacchio conficcato al suolo. Il ragazzo si alzò a fatica e dovette battere le palpebre per un po', ma finalmente riuscì a mettere a fuoco la prigione in cui evidentemente si trovava. L'ora tarda la rendeva buia; ma soprattutto era spoglia, molto spoglia: gli unici arredamenti erano una latrina a muro e una panca in legno peraltro già occupata da qualcuno nascosto sotto una coperta.

Non era il Dottor Cravatta: lui era steso supino qualche metro più in là. Proprio nel momento in cui lo sguardo di Calem gli si posò sopra, questi borbottò qualcosa in dormiveglia.

« Phil, non entrare in bagno… ».

« Cravatta… ».

« C'è un gatto della giungla in bagno… ».

« Cravatta! » lo richiamò con forza.. Quello si destò con un guizzo e, prima ancora di accertarsi di ogni altra cosa, verificò l'ora sull'orologio da polso « Questo complica le cose ».

« Questo cosa? ».

« Abbiamo dormito per oltre cinque ore. Per quanto ne sappiamo, qualsiasi cosa Darkrai avesse in mente potrebbe averla ben che completata ».

« Sì, beh, grazie tante » polemizzò Calem con acredine « La colpa è solo tua ».

« Mia? » questionò Bellocchio « Potrò non essere un esperto di penitenziari a Kalos, ma sono convinto che la fucilata a sonnifero non sia parte del pacchetto di benvenuto. Se tu non avessi dato un pugno alla tua guardia per provare a difendere le tue Poké Ball… ».

« Erano mie » ribatté perentorio il giovane, senza accettare critiche « E comunque non parlavo di quello. Parlavo della tua grande attitudine a salvare gli altri che è venuta meno proprio quando Katie ne aveva bisogno. Forse se tu imparassi a tenere a bada il tuo complesso dell'eroe la gente non si aspetterebbe che tu lo fossi ».

Bellocchio inspirò e sorrise senza alcuna allegria. Si avvicinò a Calem fino a trovarsi di fronte a lui, scrutandolo dall’alto in basso e mettendogli i brividi per lo sguardo che gli stava rivolgendo. Con una calma gelida gli sussurrò « Cosa stavano facendo quelli intorno al bambino svenuto? ».

« In… Intorno a… ».

L’uomo non attese che finisse. « Nulla. Erano lì accalcati, ma nessuno ha mosso un dito. La gente come loro, la gente come te » si corresse « non agisce, assiste alle disgrazie altrui con la stessa complicità di chi si ferma a guardare un’ambulanza che soccorre un malcapitato, ringraziando che non sia toccato a lui. Poi, quando qualcuno come me, qualcuno diverso da loro, decide di intervenire… Allora quello è un esibizionista, allora quello ha il complesso dell’eroe. Perché non è riuscito a stare a guardare ».

Calem tacque. Bellocchio, placando il respiro che si era fatto affannato, arretrò di qualche passo recuperando il suo cappotto, rimasto afflosciato al suolo dopo il risveglio « Passiamo a questioni più serie, tu vuoi? Per esempio, io non ho mai visto un addormentato tremare di paura ».

Il giovane allenatore sussultò. Le sue pupille si mossero specularmente a quelle del suo compagno per posarsi sulla terza persona che occupava la cella con loro. Per quanto dopo l'osservazione del Dottor Cravatta avesse cercato di reprimere i fremiti, vibrava ancora come una foglia.

« Chi sei? » gli domandò « Non ti faremo nulla, puoi anche farti vedere ».

Quello, seppur titubante, decise di obbedire. Si alzò per mettersi seduto sulla branda lignea, scoprendo ciò che fino a quel momento aveva celato tra le pieghe della sua trapunta: una sobria accoppiata di maglia e pantaloni blu, un incrocio tra la divisa d'ordinanza di un chirurgo e quella di un detenuto, e un volto carnoso che conoscevano.

« Il bidello? » domandò Calem incredulo. Rivolse uno sguardo a Bellocchio aspettandosi una sua reazione, ma lui si era limitato ad alzare le sopracciglia in un segno di sorpresa.

« Ehi, ho anche un nome » lo riprese il prigioniero.

« Saul… » completò il terzo in un incrocio tra uno sfoggio di conoscenza e una riflessione a voce alta « Ti chiederei cosa ci fai qui, ma credo sarebbe superfluo ».

« Se intendi insinuare che mi hanno preso per quello che è successo a Novartopoli sei fuori strada. Sono qua dentro per una truffa andata male ».

« E io continuo a imbattermi in te. Se non credessi negli oroscopi direi che è destino ».

« Oppure tua stupidità. Che ci fai qua dentro? C'entra quello che hai combinato con gli elicotteri del governo? ».

Bellocchio si sfregò il braccio sinistro per placare un fastidioso prurito all'altezza del bicipite: il dardo anestetico doveva averlo colpito lì « Non al momento. Per ora il nostro capo d'accusa è di aver spedito in coma mezza Luminopoli ».

Saul sobbalzò, una reazione che all'uomo che aveva di fronte non sfuggì. « Ne sai qualcosa? » lo interpellò.

« Chi, io? So quello che sanno i giornali che arrivano qua dentro » rispose sbrigativamente il mineralista « Però non torna, se davvero avessi quel tipo di potere non ti saresti lasciato catturare. Che hai fatto per farli sospettare di te al punto di mandarti qua? ».

L'uomo non rispose, dovendo combattere con una ferita ancora aperta dentro di sé, e si strinse in silenzio appoggiandosi alla parete posteriore della cella. Calem colmò il vuoto da lui lasciato « Darkrai, il responsabile per quello che è successo, si trova alle Galeries Ételfay. Stavamo indagando, ma con un trabocchetto ci ha incastrati con due vittime nostre amiche ».

« Alle Galeries, dici? Che coincidenza ».

Bellocchio alzò il capo. La parola coincidenza nella sua mente equivaleva alla locuzione di indizio fondamentale. « Come mai? ».

« Cosa? Non ho detto niente ».

Lo sguardo del giovane si fece truce mentre avanzava verso Saul; quest'ultimo, terrorizzato, decise di vuotare il sacco « Stai calmo, stai calmo, era… Era uno scherzo, ecco! Stavo pensando che la notte in cui ci siamo incontrati per la prima volta, ricordi, leggevo Il geologo, un periodico a cui sono abbonato… E parlava delle Galeries di Luminopoli ».

« Perché un giornale del genere dovrebbe parlarne? » lo interruppe Calem dubbioso.

« Avete presente la cupola che c'è nel Reparto Donna? Quello con i negozi di per–– ahem, avete capito » Saul tossì tanto vistosamente quanto falsamente « Beh, l'architetto che l'ha progettata, un tal Abatangelo, era mineralista pure lui, e l'ha ideata ispirandosi a un sistema cristallino bipiramidale ditrigonale ».

« Ho capito tutto ».

« Non hai mai studiato niente. Bambini » commentò il galeotto rammaricato « È un reticolo suscettibile alle alte energie. Per esempio la benitoite diventa fluorescente se esposta a luce ultravioletta. Secondo questo Abatangelo, una sufficiente energia avrebbe spalancato le porte di un nuovo mondo. Era il 1913, la gente passava il tempo a praticare riti per evitare la fine del mondo predetta da Geova ».

Riti. Quelle quattro lettere fecero balzare l'attenzione dei due ascoltatori. Possibile che Darkrai stesse cercando di…

« Ma certo! » esclamò Bellocchio, battendo la mano sulla fronte con violenza « Perché non ci ho pensato subito, ho bisogno di una testa più grande! Calem, cos'hai detto di aver sentito riguardo un avvistamento precedente ai coma? ».

Il ragazzo strinse le palpebre in una smorfia di sforzo, provando a ricordare « Vediamo, era… Martedì scorso, mi pare… ».

« No! » lo corresse l'uomo, che nel frattempo aveva individuato il ricordo stipato nella sua mente « No, no, mercoledì scorso. Il giorno in cui ho disinfestato la Maison Darbois! ».

« Aspetta, stai dicendo che l'avvistamento era… ? ».

« … la Dama Cremisi! ».

« Quindi esisteva davvero? ».

« Certo! Le ho detto di scappare e lei l'ha fatto nel modo più letterale possibile. Non capisci? È tornata da dov'è venuta ».

« Fermo, intendi tipo… un mondo degli spettri? ».

Bellocchio annuì « E ovviamente c'è bisogno di energia per arrivarci. La Dama Cremisi era un Chandelure, quindi non avrebbe avuto problemi a produrne, ma Darkrai… Lui in qualche modo vuole usare le anime delle persone. Ma in che modo… ? ».

Saul si interpose con sicurezza, una peculiarità che raramente mostrava in presenza dell'aguzzino che lo tormentava « Cioè c'è un fantasma che cerca di aprire un varco da questo universo verso il suo… Domanda: perché? ».

« Questo è l'altro punto oscuro. Per un’invasione, forse. Ad ogni modo conto di scoprirlo il prima possibile ».

« E come intendi farlo? Dubito potrai convincere Darkrai a venire qui ».

Bellocchio gettò un'occhiata al suo orologio: quattro meno tre del mattino. Dalla piccola finestra a barre metalliche filtravano solitari raggi gialli dei lampioni e il frinire delle cicale squarciava la quiete notturna. « Evadiamo, non è ovvio? ».

« Impossibile » rise Saul « Nessuno evade dal Carcere di Luminopoli ».

« Non ha tutti i torti » gli diede ragione Calem « Insomma, conoscevamo una sola persona che ce l'aveva fatta, e non era neppure vero ».

« Rifletti, bimbolin, rifletti. Sei stato in questa cella per un po' di tempo, ti sarai guardato intorno. Cos'è che manca? ».

Il ragazzo fece un giro su se stesso, passando in rassegna ogni angolo della prigione in cui si trovava. Pareti? Presenti. Finestra? Presente. Sul punto di arrendersi, però, comprese: l'uscita. Un lato era aperto e serrato dalle sbarre, ma non c'era traccia di…

« … serrature ».

« Esattamente! ».

« Ma non ha senso. Come diamine ci hanno portati qui dentro senza? ».

« Quanto sei stupido, bambino? » lo fomentò aspro Saul. « Lo sanno tutti che il Carcere di Luminopoli è regolamentato da un elaboratore centrale. In questo modo nessuna guardia può essere corrotta o minacciata, anche volendo non potrebbero liberare i detenuti. Tuttavia » soggiunse in direzione dell'altro presente « questo non fa che rendere ancora più improbabile il tuo delirio di evasione ».

« Ci sono molte cose che non sai di me, esperto di pietre ».

« Mineralista ».

Bellocchio proseguì incurante « Io e Calem abbiamo un comune amico che ci può liberare facilmente ».

Un comune amico… « Trovato? » chiese conferma incredulo il giovane una volta colto il riferimento « Ma sei impazzito? Ha quattordici anni! Non è che siccome uno porta gli occhiali può infiltrarsi in un sistema così sofisticato. E poi nemmeno li porta, gli occhiali ».

« Chi ha parlato di infiltrarsi, bimbolin? Non ce ne sarà alcun bisogno! ».

« Non mi piacciono i segreti » bofonchiò Saul « Vuota il sacco, Allenatore ».

Compiaciuto, Bellocchio accettò la richiesta di spiegazioni « Confesso che mi aspettavo che nelle indagini prima o poi saremmo finiti in galera, mi capita spesso. Così mi sono letto la liberatoria che viene fatta firmare all'arresto ».

« Te la sei letta tutta? Erano cinquanta pagine scritte da formiche! ».

« Sono veloce a leggere. Non te l'avevo già detto? In ogni caso, una delle postille riguardava il cosiddetto Ragnarǫk Scenario ».

« Ragnarǫk? Come la fine del mondo nordica? » domandò Calem.

« Proprio lei. In questo caso si tratta di una sorta di garanzia ai prigionieri: in caso di calamità naturale tutte le celle vengono aperte in automatico, di modo che possano salvarsi la vita. D'altronde in un complesso automatizzato è il minimo che si possa fare ».

I due compagni di stanza iniziarono a capire il disegno che Bellocchio aveva sapientemente orchestrato per tutto quel tempo. Ciò non impedì comunque a quest'ultimo di ultimare l'esposizione.

« Il mio orologio invia un segnale al computer di Trovato per avvertirlo. Lui a sua volta ingannerà i rilevamenti del processore principale per fargli credere che ci troviamo in preda a una catastrofe, e senza pensarci due volte quello entrerà in Ragnarǫk Mode facendoci evadere ».

Saul non riusciva a capacitarsi di quanto semplice fosse quel piano: si stringeva la testa tra le mani, come per punirsi per non esserci arrivato « Come diamine è possibile che in tutto questo tempo nessuno abbia pensato a una cosa così banale? ».

Tre secondi alle quattro in punto. Due. Uno.

« Perché non hanno mai avuto un prigioniero come me ».

Bellocchio premette il tasto in alto a destra dei quattro che ornavano la corona del suo orologio da polso. Qualche istante dopo tutte le inferriate del penitenziario scattarono slittando a sinistra con un colpo secco, svegliando gli altri detenuti. L'uomo attese ancora un attimo, il tempo che quest'ultimi si riversassero in massa nei corridoi della struttura scatenando il panico tra le guardie.

Una volta che la fiumana di energumeni celesti si fece inarrestabile afferrò la mano di Calem e lo trascinò fuori. L'ultima cosa che udirono prima di entrare nel torrente fu una intempestiva invettiva di Saul « Ehi, aspettate un momento! Mancavano solo due giorni alla mia liberazione! Con questa evasione dovrò passare minimo un altro anno qua dentro! ».

I due imboccarono l'andito nel senso opposto a quello scelto dalla totalità delle persone che lo affollavano. Calem cercò più volte senza successo di attirare l'attenzione del giovane in un tentativo di fargli notare l'errore prima di ottenerla in via definitiva.

« Ehi, Bellocchio, l'uscita è di là! ».

« Sì, e ci sarà un esercito di poliziotti ad accoglierci se ci andiamo, usa la logica! ».

« E allora dove stiamo andando? ».

« Che importanza ha? Il mio obiettivo di oggi l'ho già raggiunto! » esclamò accelerando il passo.

« Evadere? ».

Bellocchio ghignò gettandogli uno sguardo fugace « Farti dire il mio nome! ».

La risposta desiderata dal ragazzo non si fece comunque attendere: la loro destinazione si rivelò essere l'ampio cortile ricreativo cinto da alte mura di cemento del Carcere di Luminopoli, completamente vuoto e disseminato di cicche di sigarette spente e un paio di attrezzi da palestra accatastati in un angolo. Sopra di loro uno svettante cielo stellato vigilava sulla città, e le sirene della polizia in arrivo da ogni cantone di Luminopoli avevano destato l'intero circondario.

Calem cercò invano una via di fuga, ma non ne trovò. « E ora? ».

« E ora tocca a te » replicò Bellocchio dandogli una pacca sulle spalle. Contemporaneamente un verso acuto dal timbro tipico degli uccelli di piccola taglia giunse alle loro orecchie sommessamente, quasi volesse farsi udire solo dalla coppia. E in effetti era così, perché guardando in alto i due avvistarono un Fletchling che discendeva ad alta velocità.

« Come diavolo… » domandò il ragazzo interrompendosi a metà « Non è mai entrato qua dentro, vero? ».

« Te l'ho detto, no? Sapevo che la probabilità di essere presi era alta, quindi mi sono preparato prima di trattenermi alle Galeries. Trovato e Nephtys erano due terzi del mio piano di riserva ».

« Immagino che quel che rimane sia come uscire di qua., dato che Fletchling di sicuro non ci può trasportare. Quindi spara ».

« Ovviamente » annuì l'uomo « La terza parte sei tu ».

Io? Calem aggrottò la fronte. Come avrebbe dovuto tirarli fuori dai guai disponendo solo di un pettirosso spennato? Mentre ancora rifletteva su quell'affermazione un roboante tonk si diffuse tra le mura. Abbassò gli occhi: una Poké Ball color rosso fiammante era caduta ai suoi piedi, presumibilmente portata dallo stesso Fletchling. Rivolse un'espressione inquisitoria a Bellocchio, il quale si affrettò a spiegare.

« L'ho tenuta quando ti sono cadute le sfere scontrandoti con Katie ».

Il ragazzo la esaminò, lasciando che il semiglobo superiore diventasse trasparente rivelando il Pokémon al suo interno: uno Swellow. La terza parte del piano.

« Non se ne parla » si rifiutò fermamente « Una cosa è organizzare un'evasione in cui non possono risalire a te, ma… Se voliamo via da qui da soli ci inseguiranno sicuro ».

« Non se ti sbrighi » rispose Bellocchio « Altrimenti ciò che è successo a Katie e Adele sarà stato inutile ».

« Ehi, che vi avevo detto? Ero certo che qualcuno ci avrebbe provato! ».

Il duo trasalì. La loro discussione aveva coperto i passi che in caso contrario avrebbero annunciato l'arrivo di un manipolo di agenti nel cortile dalla stessa entrata da cui erano passati, ora ostruita. Calem intuì che doveva prendere una decisione in fretta: uscire di prigione da innocente o rientrarci da eroe.

« Promettimi che le vendicheremo » disse a metà tra un ordine e una richiesta di aiuto. Proprio questo era alquanto peculiare: per la prima volta in vita sua era completamente consapevole di non potercela fare da solo.

« Te lo prometto ».

« Bene ». Con un gesto fulmineo chiamò Swellow in campo, avvinghiandosi a lui insieme a Bellocchio prima che la polizia potesse reagire. « Forza, forza! » esclamò in direzione del suo Pokémon « Alle Galeries Ételfay! ».

« Fermi o spariamo! ».

« Sparite pure! » proruppe con una risata Calem, rendendosi conto solo dopo che era una battuta che nemmeno il Dottor Cravatta avrebbe pronunciato. Doveva essere questo che si provava quando l'adrenalina entrava in circolo. Guardò sotto di lui il pavimento allontanarsi sempre di più e gli agenti rimpicciolirsi fino a diventare null'altro che un granello di polvere nel festival di luci notturno che era Luminopoli, con la Torre Prisma che sfavillava più in alto di ogni altro edificio.

« Wo-hoooo! » gridò al cielo il più giovane, osservando le Galeries farsi gradualmente più grandi e vicine. Si stava avvicinando lo scontro finale, il confronto con il nemico. Katie e Adele non sarebbero potute tornare indietro, e con loro nessuna delle vittime: questo lo sapeva bene, anzi continuava a farselo ronzare in testa per ricordarlo. Ora era focalizzato sulla missione più importante: fare giustizia. Darkrai avrebbe pagato, e poteva star certo che il conto sarebbe stato salato. Eppure, novità curiosa per lui, una vocina gli suggeriva qualcosa da molto nel profondo. Un’eco quasi spersa, che timidamente gli sussurrava all’orecchio: salvale. Prova a salvarle.

« Calem, ci siamo! » lo informò Bellocchio indicando la destinazione « Scendi sul tetto! ».

Swellow iniziò la manovra di atterraggio con leggiadria, planando sulle zampe senza traccia di scossoni. Immediatamente i due scesero dalla monta, e mentre uno richiamava la sua fida creatura l'altro si sporgeva dalla ringhiera della sommità del centro commerciale a inquadrare la situazione. Almeno tre vetture delle forze dell'ordine stavano convergendo verso di loro, sarebbero state lì in dieci minuti al massimo.

« Avanti! Darkrai, dove sei? » urlò Calem con rabbia « Pensavi di esserti liberato di noi? Pensa meglio! ».

Si alzò un vento tagliente dove prima c'era solo una bonaccia primaverile, tanto che Bellocchio dovette riportarsi verso il centro per evitare di sbilanciarsi e cadere di sotto. Sia lui che Calem furono poi costretti a indietreggiare verso l'ingresso delle Galeries, l'unico punto rialzato del tetto: proprio dove prima si trovavano stava sorgendo un vortice di polvere che, una volta dissoltosi, rivelò il loro avversario.

Era silenzioso, innaturalmente silenzioso. Aveva addirittura appianato il caos circostante, e ora l'intera superficie piana su cui si trovavano pareva immersa in un grande batuffolo d'ovatta. La figura che si parava loro di fronte non aveva connotati definiti e, se ciò non si poteva dire per Calem, Bellocchio notò che ciò era se non altro atipico. Non somigliava per nulla alle illustrazioni dei Darkrai che aveva appuntato sul suo taccuino, e lui era un disegnatore provetto. Non aveva nulla che lo distinguesse da un'ombra qualunque, salvo il fatto che era slegato dal terreno e in posizione verticale.

« Eccoti » commentò Calem con un volto che trasudava un desiderio di rivincita « Non sai parlare? ».

« Dovrebbe » gli rispose Bellocchio.

« Quindi è zitto apposta? Non è molto gentile ».

« No, c'è qualcos'altro… » proseguì l'uomo « Non si è comportato come al solito. Quel bambino io non sarei dovuto essere in grado di salvarlo, eppure ci sono riuscito. E ci sono molte cose che non tornano in questa faccenda. Questa storia del rito… Perché vuole invaderci? ».

« Beh, non credo che avremo risposte stanotte » osservò Calem stringendo la sua Poké Ball tra le mani. In quell'istante gli occhi gialli dell'ombra si spostarono focalizzandosi su Bellocchio, scrutandolo con freddezza dalle due feritoie nell'oscurità.

« Hai fatto colpo! » commentò il più giovane.

« No » replicò l'altro « Mi sta solo deridendo perché sono debole. Perché non ho ancora avuto il coraggio di dirtelo ».

« Dirmi cosa? ».

Bellocchio inspirò profondamente « Tu non hai più un'ombra ».

La realizzazione fu qualcosa di strano. Calem abbassò il capo per verificarlo, ed effettivamente le luci della metropoli non proiettavano nulla oltre il suo corpo, come se egli stesso fosse invisibile. Eppure non si sentì cadere a pezzi, né ebbe l'impulso di provare a fuggire: quando scopri che la morte sta già prendendo le misure su di te, inizi anche a comprendere che opporsi è futile.

« Da quando lo sai? ».

« Da quando ho letto la parola sorpresa su quelle giacche. Ho pensato si riferisse a noi, e lì mi sono accorto che ti era scomparsa ».

Il ragazzo annuì mordendosi il labbro inferiore « Sei ore fa ».

« Sì… » Bellocchio trovava a stento la forza per parlare « Io… Mi dispiace, avrei dovuto… ».

Con sua sorpresa Calem rise, nemmeno trovasse tutta la faccenda atrocemente piacevole « Per tutto questo tempo ti ho visto come un presuntuoso perfettino, e invece… ».

« Mi dispiace… ».

« Smettila! » gli urlò in volto con ferocia, provocandogli uno spasmo. Gli occhi di Darkrai si aprirono di scatto, trasformandosi da due fessure in un paio di cerchi paglierini. Anche lui doveva essere sorpreso. « Viaggi con Serena da quasi una settimana e non hai imparato nulla da lei. Non ricordi cos'ha fatto quando ha capito di non avere speranze contro quello sciame di Vivillon? Ha attaccato ».

« Ma io… Insomma, come… ».

« Mi hai fatto una promessa, mi hai promesso di vendicare Katie e Adele » continuò imperterrito, senza traccia di tremore nella voce « Ora te ne chiedo un’altra: salvale ».

Quelle parole colsero Bellocchio completamente di sorpresa. Salvale. Gli aveva detto che era impossibile, non poteva esserne già scordato! No, anzi, sicuramente no: il suo sguardo diceva tutt’altro. Era lo sguardo di chi sapeva di stare chiedendo l’infattibile. Ma come avrebbe potuto ricordarglielo quando era un passo dalla fine?

« Io… D’accordo, ci proverò » rispose trattenendo le emozioni che turbinavano dentro di lui: paura, tristezza, colpevolezza. Udì le sirene intensificarsi, minaccia costante che si avvicinava. « Ma come? Saranno qui tra poco per arrestarmi, e non so nemmeno quanto gli manchi per finire il rito! Io non… ».

« Non avrai intenzione di arrenderti ora che hai un incentivo in più, vero? ».

Il respiro di Bellocchio si fece più pesante sotto il peso di centinaia, migliaia, milioni di vite umane che stavano lasciando le spalle del ragazzo che aveva di fronte per gravare completamente sulle sue. Lo fissò in volto, trovando un’espressione che pareva un’implorazione. Voleva sentirgli dire una frase precisa, glielo leggeva negli occhi: voleva che la smettesse di provare. Non doveva provare, doveva fare.

« Va bene » assentì, ripetendo poi per farsi coraggio « Va bene, vi salverò tutti ».

« Finalmente » ribatté Calem con un sorriso « E poi dici che non hai un compl–– ».

La sua frase fu soffocata a metà, spezzandosi nell'ultimo respiro cosciente. Le gambe si fecero molli e il corpo cadde all'indietro come morto, finendo tra le braccia di Bellocchio che fu reattivo abbastanza per afferrarlo. Fu un istante di distrazione, ma bastò: quando l'uomo, inginocchiato e dolorante, guardò di nuovo in basso, la sua ombra era scomparsa a sua volta.

Ciò, comunque, non aveva alcuna importanza: le automobili della pubblica sicurezza erano ormai giunte a destinazione, restava loro solo da scalare le Galeries Ételfay fino in cima. Altro che sei ore, una questione di cinque minuti al massimo; poi lo avrebbero preso, e non avrebbe avuto alcuna prova di essere innocente dopo aver prodotto un'evasione di massa. Niente armi, niente difese se non la piccola Nephtys, e un'invasione incombente che avrebbe significato la fine del loro mondo.

Riusciva quasi a sentire la voce di Calem che, a metà tra uno sbeffeggio e un incitamento, echeggiava nella sua mente. Solo cinque minuti di speranza, Dottor Cravatta. Solo cinque minuti di speranza.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** 1x16 - Evoluzione ***


Untitled 1

PREVIOUSLY ON LKNA: indagando su una serie di vittime cadute misteriosamente in coma, Bellocchio e Calem si trattengono di notte alle Galeries Ételfay, centro commerciale di Luminopoli. Con loro sorpresa anche Adele e Katie, due commesse, si trovano lì, ma il tempo per parlare è poco: entrambe sono lasciate prive di sensi da Darkrai, un enigmatico mostro in grado di rapire le anime delle persone, posto che si impadronisca della loro ombra sei ore prima.

Come se non bastasse, un’altra sorpresa attende i due investigatori improvvisati: la polizia. Incarcerati con l'accusa di essere i responsabili della sfilza di crimini, la coppia fugge grazie a Bellocchio che, sfruttando una falla nel sistema del penitenziario, organizza un'evasione di massa. Giunti sul tetto delle Galeries per impedire a Darkrai di ultimare il suo “rito”, l'apertura di un varco per il mondo degli spettri, Calem scopre però che da sei ore non ha più l'ombra e viene preso. Le forze dell'ordine stanno arrivando: Bellocchio ha solo cinque minuti per scongiurare l'invasione, ha appena perso l'ombra, ed è completamente indifeso.

 

 

 

 

 

 

Il vento che batteva sopra le Galeries Ételfay si era fatto rigido di abbandono. Luminopoli turbinava al piano di sotto, splendente di lucerne gialle su cui troneggiava il faro celeste della Torre Prisma. Nessuno sapeva della catastrofe in procinto di esplodere sopra le loro teste, il che rendeva lo scenario anche più funesto.

Bellocchio adagiò a terra il corpo inerte di Calem chiudendogli delicatamente gli occhi, quindi si erse in piedi volgendo lo sguardo a Darkrai. L'ombra, spettro tetro e inespressivo, a sua volta lo scrutava in tono intimidatorio. L'uomo però non se ne curò: ne aveva avuto abbastanza.

« Non giocare con me. Tra sei ore non ti servirò più a nulla. La sola ragione per cui hai appena preso la mia ombra è perché vuoi imbrogliarmi, vuoi farmi credere di aver tutto sotto controllo. Vuoi farmi credere di non aver paura ». Strinse il pugno destro mentre con la mano sinistra tastava il suo taccuino, saldo nella tasca anteriore « Ma tu hai paura perché sai chi sono. E anche adesso, a cinque minuti dalla fine, temi che abbia ancora un asso nella manica ».

Darkrai lo fissò con un'espressione inquisitoria. Ovviamente Bellocchio non era ingenuo: il suo passato poteva aver impaurito la Dama Cremisi, ma il suo avversario attuale era molto diverso. Taciturno, perso nel vuoto, non era nemmeno certo che capisse ciò che stava facendo.

« E in effetti è così. Perché vedi, io so come funziona il tuo processo di assimilazione. Una volta che hai preso l'ombra non puoi arrestarlo, e le sei ore sono dovute solo alla resistenza neutra dell'anima stessa a separarsi dal corpo » l'uomo sorrise di sbieco « Ma io voglio che lo faccia ».

La creatura non pareva in grado di produrre suoni, ma fu distintamente percepibile una sua reazione di sgomento a quelle parole. Tutto nel modo in cui aveva accolto la notizia pareva domandare: cosa?

« Da qua non posso fare nulla, e tu avresti vinto. Ma dal mondo in cui porti le anime perdute voglio scommettere che troverò una soluzione. Certo, come essenza eterea potrei fare poco » convenne alzando le spalle ironicamente « Ma se io vorrò essere catturato ora, tu sarai costretto a prendere il corpo con te ». Puntò l'indice contro l'ombra che, presa completamente alla sprovvista, non sapeva come reagire « Il mio nome è Bellocchio, e desidero che la mia anima sia presa! Avanti! ».

Dalla dichiarazione trascorsero una manciata di istanti: il giovane avvertì una fitta al petto, le sue gambe persero sensibilità e iniziò a cadere all'indietro, ma perse conoscenza prima ancora dello scontro con il ruvido terreno sulla sommità del centro commerciale.

 

 

 

Episodio 1x16

Evoluzione

 

 

 

Si svegliò in un antro. Era ampio svariati metri quadri, di forma affine a una semisfera superiore sulla cui base Bellocchio poggiava dai piedi alle spalle. Le pareti erano ruvide al tatto – vi si trovava a ridosso –, così come il suolo roccioso su cui era coricato. Mosse le mani lungo il corpo fino alle ginocchia, verificando di avere ancora tutto con sé, cappotto incluso.

Il suo primo pensiero fu che, con sua sorpresa, il bluff che aveva escogitato aveva funzionato. Non era assolutamente vero che il tempo di assorbimento fosse influenzato dalla resistenza dell'anima, quantomeno non che lui ne sapesse – a dire il vero le sue conoscenze sul sistema impiegato dai Darkrai erano alquanto limitate. Ciò, a catena, confermava l'altra ipotesi che aveva maturato nel tempo: quel Darkrai non era un Darkrai come tutti gli altri. Nelle quasi trentasei ore in cui l'aveva visto in azione aveva notato a più riprese che pareva incerto sul suo stesso potere, e il fatto che si fosse lasciato imbrogliare da Bellocchio era la prova definitiva che fino ad allora era mancata. Se lo ripeté a mente un paio di volte: amava quando i suoi piani andavano a buon fine.

Solo a quel punto si concentrò sul luogo in cui si trovava: era una caverna, ma non una caverna qualunque. O meglio, lo sarebbe stata se non si fossero considerate due caratteristiche salienti: la prima era un ampio ciclone di decine e decine di fantasmi lattei che, Bellocchio intuì, dovevano essere proprio gli spiriti sottratti in quei giorni; la seconda, invece, saltava subito all'occhio: una massiccia palla di fiamme roventi che ardeva al centro della spelonca. Di più: una palla di fiamme roventi tiepida, la temperatura era forse quella di un falò. La spiegazione era implicita: un fuoco fatuo.

Quella non era una dimensione parallela. Non era semplicemente possibile: c'era un solo luogo che poteva potenzialmente contenere un fuoco fatuo paragonabile. Bellocchio soffocò una risata: quanto era stato stupido. Aveva davvero bisogno di una testa più grande. Alzò lo sguardo alle anime vaganti e, pur non identificando quella desiderata, decise comunque di provare a parlarle. « Ehi, Calem, tu l'hai capito dove ci troviamo? ».

Nessuna risposta. Chissà che si aspettava.

« Non è divertente se nessuno mi ascolta. E va bene, lo dirò comunque: dentro un Dusclops! ». A quelle parole non riuscì più a trattenersi, lasciando sfuggire un risolino divertito « Capisci? Per tutto questo tempo ci ha fatto credere di essere un Darkrai per metterci paura, per evitare che osassimo interferire con la sua opera! Ecco perché sono riuscito a salvare quel bambino, perché non aveva perfezionato la tecnica! ».

Non lo disse, ma ciò motivava anche la ragione per cui la madre, che era con il figlio alle Galeries, non era stata sfiorata: un Pokémon così claudicante nelle sue sicurezze non poteva permettersi di dover gestire due vittime in contemporanea. E per questo aveva aspettato a prendere Calem e lui: si era già impegnato con Adele e Katie. Era tutto così ovvio.

« Vuoi produrre energia per aprire quel varco, certo » proseguì, questa volta rivolgendosi direttamente a Dusclops « Ma sei ottuso, irrimediabilmente ottuso, proprio come lo sei stato nel cercare di imitare un essere che forse avrai visto mezza volta in vita tua. Hai bisogno di evolverti per farlo, vero? Ma non lo sai che ciò che hai fatto finora è del tutto inutile? ».

Quasi fossero la manifestazione della coscienza stessa del Pokémon, gli spiriti intensificarono la loro velocità di volo, roteando come migliaia di api intorno all'alveare di fuoco.

« Serve un Terrorpanno perché tu possa completare il processo evolutivo. E indovina un po', nessuno qui–– ».

Oh. Oh. Forse non era stupido come aveva affermato. O forse era solo una coincidenza, e Dusclops era semplicemente lo spettro più fortunato del mondo. Bellocchio infilò la mano nel suo cappotto con un fremito strozzato fino a estrarne un logoro drappo dalle tinte violacee.

Era lo straccio che gli aveva regalato Tierno dopo la conclusione della sua avventura a Novartopoli, quello impiegato per ingannare Saul. L'uomo rifletté: un Terrorpanno non è altro che un cencio intriso di energia spirituale. E dove poteva esserne maggiormente pregno se non all'interno del corpo di un finto Darkrai che aveva trascorso gli ultimi giorni a fagocitare decine di anime? Chi l'avrebbe detto che sarebbe stato proprio il piccolo bambino paffuto a fornirgli una via di scampo: quello era un Terrorpanno in piena regola. E questo peggiorava molto le cose.

Perché sì, avrebbe potuto usarlo per innescare l'evoluzione. Ma in questo modo avrebbe concesso a Dusclops, o per meglio dire Dusknoir, la potenza necessaria per aprire il varco e invadere il loro mondo. Se invece si fosse rifiutato lui e le anime imprigionate non sarebbero mai uscite di lì, e con ogni probabilità il loro ospite sarebbe partito alla volta di nuovi stermini. Quindi ecco la scelta del cavaliere bianco, Calem: la vita di pochi contro la salvezza di molti. Sarebbe stato facile, se non avesse commesso lo smisurato errore di affezionarsi a coloro che adesso dipendevano da lui.

Rammentò ciò che quell'allenatore presuntuoso gli aveva detto sul tetto: fare come Serena e attaccare Vivillon. Se non avesse agito sarebbe stata una sconfitta certa; ma liberandoli avrebbe avuto anche solo una minima possibilità di fermare Dusknoir. Una minima possibilità di salvarli tutti.

« Forse hai ragione, Calem » commentò. Strinse lo strofinaccio tra le mani dopo averne annusato l'acre aroma di detergenti e lerciume « Forse ho davvero un complesso dell'eroe ».

Detto ciò prese la rincorsa e, caricando tutte le forze rimanenti nel braccio destro, scagliò il panno nella sfera incandescente. Dapprima non accadde nulla; poi, come reagendo a scoppio ritardato, il globo iniziò a ribollire internamente per poi espandersi poco a poco. Bellocchio arrettrò finché poté, e a un certo punto l'espansione parve fermarsi; in seguito senza preavviso l'antro detonò in un turbinio di fiamme calde, con il tiepido braciere di solo pochi istanti prima che, carico di nuova energia, ora ardeva come i sobborghi dell'averno. Bellocchio cacciò un atroce urlo di dolore negli attimi più strazianti della sua vita, quindi perse i sensi.

 

 

Dama Brianna sedeva nel tetro e desolato ambulatorio dell'Hôpital Regional Leveinard, il più importante ospedale di Luminopoli e di tutta Kalos. Il fatto di essere circondata da cadaveri aggrappati a un filo la inquietava non poco, ma sarebbe stata in grado di sopportarlo per stare vicina a sua figlia. Non erano mai andate molto d'accordo, loro due: Brianna avrebbe desiderato per Katie un futuro nella medicina, ma la ragazza si era sempre rifiutata preferendo un'infruttuosa laurea nel settore umanistico. Pur di far valere le sue ragioni la madre le aveva tagliato i fondi, costringendola a quel lavoro tanto odiato alle Galeries Ételfay. Tra l'altro proprio lì era stata scoperta in coma, il che alimentava i sensi di colpa che la donna cercava di placare.

Ed eccola lì, Katie: le palpebre socchiuse in stato vegetativo, adagiata sul letto dell'ospedale, bionda come la sua genitrice che tuttavia ormai era costretta a tingersi per preservare quel colore. Un rumore di passi echeggiò nella sala, preannunciando la corsa forsennata di qualcuno all'esterno. Brianna alzò la testa: un'altra figura aveva fatto capolino dalla porta, anch'ella dai capelli paglierini che però erano in questo caso spettinati e sporchi in ragione dello sforzo fisico appena compiuto.

« Mamma! » esclamò sottovoce Silvia cercando di non produrre rumore eccessivo. Corse incontro a Brianna con foga, come aveva fatto fino a quel momento. Da quando aveva scoperto dello stato di sua sorella Katie non si era fermata un istante, lasciando Novartopoli nel cuore della notte per raggiungere a piedi Luminopoli, e poi via taxi l'ospedale. E ciononostante, vedendo la sua compagna di una vita costretta a letto, connessa permanentemente a una macchina cuore-polmone che segnava sui sessanta battiti al minuto, non riuscì a trattenere le lacrime. Sprofondò tra le braccia della madre, con cui a differenza di Katie aveva sempre intrattenuto ottimi rapporti pur non condividendone alcune scelte.

Forse il fatto più struggente era che loro due erano le uniche persone a fare compagnia ai comatosi. Era impossibile che nessuno degli altri avesse un famigliare, ma anche l'idea che avessero gettato la spugna puramente per l’ora tarda era comunque tremenda. Nemmeno i parenti di Adele, pur essendo ella una delle due vittime più recenti, erano venuti ad assisterla. Brianna aveva provato a telefonar loro, ma non avevano risposto, probabilmente ancora addormentati.

« Cosa dicono i dottori? » domandò Silvia.

« Niente di nuovo, non sanno che fare. Se la cosa andrà avanti potrebbero anche dichiarare l'arrondissement pericoloso ed evacuarci tutti » la voce di Brianna si spezzò, e la donna dovette faticare per continuare « La mia casa… ».

Silvia alzò la testa e restituì l'abbraccio, cercando di far forza a sua madre. In quel momento varcarono la soglia della stanza altri due individui, annunciandosi l'uno con un colpo di tosse imbarazzato, l'altro con uno sguardo taciturno. Il primo indossava un semplice maglione in lana beige sotto cui si intravedeva una camicia a quadri, nonché un paio di jeans trasandati; il secondo un Chesterfield abbinato ai pantaloni di tela che copriva un'accoppiata di camicia rosso sangue e cravatta bianca. L’uomo in pullover si precipitò ai letti affiancati di Katie e Adele, sincerandosi della loro condizione.

« Craig! » esclamò Silvia « Tu… Tu perché sei qui? ».

Per te. O meglio, così avrebbe risposto se avesse avuto un minimo di coraggio. « Ah, Isidore voleva aiuto con le indagini ».

« Non è vero » lo smentì l'amico con la rapidità di un falco « Anzi, ti ho pure detto che mi sei d'intralcio ».

« Sì, grazie mille ». Craig passò a ignorarlo, dedicandosi unicamente alla famiglia riunita « Niente novità? ».

« Niente di niente » spiegò Silvia, ripetendo quindi le parole della madre. Quest'ultima arricchì in seguito il racconto per ovviare alla distanza spaziale che aveva impedito ai due di sapere gli sviluppi del caso dei coma.

« … C'è addirittura chi dice che è un castigo divino… Sì, insomma, che abbiamo a che fare con un Dio. Stanno anche nascendo sette blasfeme ».

« Hanno paura e quindi decidono di farsi servi del nuovo arrivato. Tipico. Spero almeno che le autorità non si stiano facendo intimidire da queste idiozie » concluse fermamente il professore.

Isidore, nel frattempo, non aveva cessato di balzare figurativamente da un letto all'altro, facendo ondeggiare sinuosamente il suo cappotto. Ogni tanto si era fermato per qualche secondo, aveva acceso e spento la piccola torcia che aveva portato con sé, e poi aveva ripreso la sua danza misteriosa.

« La puoi smettere? » lo riprese Craig, che spesso era egli stesso irritato dal comportamento tenuto dal suo amico « Almeno una volta nella vita non fare l'esibizionista ».

« C'è qualcosa di molto strano » commentò tra sé e sé « Come se il colpevole di tutto ciò non fosse certo di quello che fa ». Si era fermato di fronte alla postazione di un atletico ragazzo sulla ventina, una delle prime vittime a cadere.

« Che dici? ».

« Ti ricordi quando ti ho fatto notare che quel vecchio ritrovato lungo Rue de Provence non proiettava alcuna ombra se illuminato? ».

Craig annuì.

« Beh, succede anche a tutte le persone qui, Katrina compresa » proseguì ravviandosi i capelli in un tic nervoso per godersi la piega data dalla pettinatura « Tranne a questo qua. Lui ce l'ha ancora ».

« E da ciò cosa deduci? » lo interrogò Silvia incuriosita, pur con una certa dose di sarcasmo dettato dall'ansia per sua sorella.

« Che il nostro Dio non si è mai mosso stabilmente dalle Galeries Ételfay ».

I tre sgranarono gli occhi, e Dama Brianna in particolare: se ciò che Isidore diceva fosse stato vero, lei aveva involontariamente spedito Katie nella tana del drago. Ciò le provocò angoscia più di quanta già ne fosse costretta a patire.

« Cosa te lo fa pensare? » trovò il coraggio di domandare.

« I ritrovamenti sono sempre avvenuti nella fascia oraria che va dalle quattro del pomeriggio alle due di notte. Credo che trascorra del tempo tra la selezione della vittima e il coma effettivo, quindi ci sono dieci ore in cui il Dio agisce, come il tradizionale orario continuato dei negozi del nono arrondissement. Nessuna delle persone finite in questa stanza era di famiglia povera, anzi, erano tutti benestanti, quindi come idea è logica. Scacco ». Si voltò verso i suoi ascoltatori dopo aver dato loro le spalle fino a quel momento per osservare il vetro insonorizzato dell’ambulatorio. Fuori stava accadendo un bel caos, a quanto aveva appena visto. « L'unica eccezione era David Burke, il qui presente giovane rinvenuto alle cinque e tre minuti della mattina di domenica dopo che un testimone lo aveva sentito urlare, cosa mai riscontrata nelle altre occasioni, e che ha ancora l’ombra. Ciò mi fa pensare che forse il Dio in quel caso era, come dire, di fretta, e ha agito in modo approssimativo. E infine abbiamo Katie e Adele, che sono rimaste alle Galeries tutto il giorno e sono state catturate comunque. Il Dio sta là. Scacco matto ».

« Ma, Izzy caro, che importanza ha? » intervenne Dama Brianna in un intimo tentativo di discolparsi « L'hanno preso ormai, no? Anzi, li hanno presi, erano due a quanto pare. Ora sono al sicuro nel Carcere ».

« Non sono stati loro » replicò Isidore glaciale, accompagnando la frase con un'eloquente espressione facciale « Craig mi ha confermato che il più vecchio risponde al nome Warren Peace, un suo collega a breve termine la cui permanenza a Novartopoli è documentata fino a domenica mattina, mentre il primo ritrovamento risale a sabato. E in ogni caso, anche se fosse, a occhio e croce sono appena evasi ».

Detto ciò si allontanò dalla finestra per ricongiungersi agli altri, seguitando « E il mio nome è Isidore, non Izzy ».

« Evasi? » intervenne Silvia « Non è possibile! Dopo la storia del fuggitivo? ».

« Da quello che ho visto questa volta hanno sfruttato il Ragnarǫk Scenario » rispose sommariamente, come se stesse parlando di nozioni di dominio pubblico. Le sue affermazioni avrebbero invece suscitato ondate di dubbi nel gruppo al capezzale delle ragazze, se i loro moti della bocca non fossero stati interrotti da un avvenimento ancora più stupefacente.

Fu Craig il primo ad accorgersene. Distratto dal soliloquio di Isidore il suo sguardo aveva vagato per la stanza da un volto all'altro, soffermandosi poi sulla macchina cuore-polmone, e lì se n'era accorto: i battiti per minuto erano aumentati a settanta.

« Che sta succedendo? ».

Dama Brianna stralunò gli occhi, e così fece anche sua figlia: sotto il loro attento controllo la crescita non si fermava, anzi si affrettava a raggiungere i valori normali. Nel frattempo Craig e Isidore si erano suddivisi l'ambulatorio per verificare la situazione, rimanendo a loro volta sorpresi. I sistemi cardiovascolari di tutti i pazienti della stanza erano entrati in fibrillazione senza alcuno stimolo esterno. Il secondo dei due esibiva una genuina espressione di sbalordimento, come raramente faceva; nel caso del primo era qualcosa di più: era meraviglia, come certificava il sorriso che andava formandosi sul suo volto.

Immediatamente tutti tornarono al giaciglio di Katie, nel mentre inoltratasi addirittura nella tachicardia. Ti prego, supplicò mentalmente Craig, vi prego, fatemi questo favore. Regalatemi un giorno felice. La paralisi estatica dei quattro durò per dodici, lunghissimi secondi. Fu solo a quel punto che, come al termine di una fiaba appassionante, la giovane dischiuse le palpebre.

Non solo lei: tutte le vittime del Dio ripresero simultaneamente coscienza. Alcuni si destarono seduti, altri non trovarono le forze psichiche per drizzare il busto; ma tutti, nessuno escluso, uscirono da quell'incubo che aveva tenuto sul filo del rasoio tutta Luminopoli.

Brianna esplose senza escalation in un pianto di gioia, abbracciando prima Katie e poi Adele, ambedue ancora in stato confusionario; Isidore agguantò con la calma più serafica il suo PSS per avvertire la redazione di Le Monde, per poi recarsi dai medici e offrire un resoconto del miracolo appena avvenuto, anche se probabilmente non si sarebbe sbilanciato nel definirlo tale. In un primo momento a Craig passò per la mente di seguirlo, ma si sentiva pervaso da un'eccitazione raramente provata in vita sua. In preda a una scarica di adrenalina abbracciò Silvia, anche lei in piena euforia.

Rimasero stretti l'uno all'altro per un tempo che nessuno dei due fu in grado di stabilire con certezza, secondo la loro percezione sito da qualche parte tra i due secondi e le due ore. Quando Craig lasciò al presa sentiva il cuore battere a mille e il respiro affannoso. Se non l'avesse chiesto ora sarebbe stato legittimato a buttarsi giù dal Pont Neuf.

« Tiandrebbediuscireacenainsiemedomanisera? ».

Silvia rimase spiazzata, in parte per la richiesta in un momento così assurdo, in parte perché le era sfuggita una parola su tre. Eppure, vuoi per la gioia del momento, vuoi per una delle altre mille direttive che governano la psiche umana… « Ma sì, perché no? ».

Sì. . Aveva detto sì. Ma sì, perché no era un sì, giusto? Decisamente. « Oh… P-per… Ottimo! Io allora… esco per… ».

Non concluse la frase, abbandonandola a metà per avviarsi alla porta, balbettando tra sé e sé. Una volta uscito si guardò attorno: un lungo corridoio privo di anima viva. Doveva trovare Isidore e raccontargli tutto, aveva un disperato bisogno della sua opinione di narcisista patologico. Sinistra o destra? Sinistra, quantomeno se si fosse perso non si sarebbe trovato a una cena elegante.

Stava anche iniziando a delirare. Che nottata.

 

 

Il cappotto di Bellocchio era ridotto davvero male, e lui non era messo molto meglio. Giaceva riverso su un fianco al limitare del tetto delle Galeries, con la spalla sinistra pesantemente ustionata e bruciature varie disseminate sui vestiti. L’esperienza all’interno di Dusclops era stata reale solo per lui, perché solo lui lo aveva costretto a ingurgitare l’intero corpo anziché solamente l’anima; di conseguenza la sfera di fuoco l’aveva infiammato in prima persona.

Provò ad alzarsi in piedi, ma riscontrò che non era in grado di issarsi sulle gambe. E quella non era nemmeno la notizia peggiore: il suo volto, orientato verso il centro della superficie, stava assistendo a una massa caliginosa che iniziava ad assumere connotati terribilmente familiari. Un tronco robusto che si confondeva nell’oscurità, salvo per lineamenti simili a un paio di occhi e una bocca socchiusa che brillavano di luce dorata, due ampie mani protese verso di lui, un terzo bulbo luminoso incastonato in una rientranza sulla fronte: Dusclops si era evoluto in Dusknoir.

Il Pokémon fluttuò nella sua direzione per qualche metro finché la sua imponente figura non arrivò a sovrastarlo completamente. Lo scrutò meditabondo, come se fosse incerto su cosa destinare a colui che aveva provato di tutto per fermarlo. La vita di quell’omuncolo era adesso a sua completa disposizione. Forse avrebbe voluto rammentarglielo, ma l’evoluzione non pareva avergli donato la parola.

« Fai di me quello che vuoi, tanto ho già vinto » lo anticipò Bellocchio, sputando ogni parola dietro l’altra con irrisione « Li ho salvati tutti. Per una volta li ho salvati tutti ».

Il terzo occhio di Dusknoir sfolgorò d’ira e la creatura si predispose a sferrare il colpo finale. Poi, sul punto di porre definitivamente fine alla vita dell’uomo, fu interrotto da una voce strascicata proveniente da dietro di lui.

« Non… ti avvicinare… a Bellocchio ».

I due si voltarono. Entrambi si erano sorprendentemente dimenticati dell’altra persona che quella notte si trovava alle Galeries Ételfay: Calem, che ora stazionava eretto, per quanto ancora leggermente barcollante a causa del balzo mentale, e puntava il dito contro Dusknoir con l’espressione di chi ha tutta l’intenzione di combattere.

« Che… che cosa… » farfugliò Bellocchio.

« Mi hai sentito? » lo incalzò il ragazzo « Non provarci nemmeno. Prima di invadere Luminopoli dovrai vedertela con me ». Contemporaneamente, avendo ripreso il pieno controllo delle facoltà motorie, strinse nella mano destra l’unica Poké Ball non vuota che aveva con sé.

« Non farlo… » Bellocchio strinse i denti, soffocando gli spasmi di dolore « Swellow non ha speranza, non può nemmeno colpirlo… ».

« Nemmeno lui può colpire Swellow ».

« Non gli servirà… Il Gelopu–– ».

« Pensi che non lo sappia? » ribatté acido Calem « Ma cosa dovrei fare, starmene qui a guardare? Se c’è una minima possibilità di fermarlo devo provarci. Devo attaccare Vivillon ».

Bellocchio inspirò ed espirò. Aveva compiuto la medesima scelta pochi minuti prima, sarebbe stato ipocrita insistere oltre. Con un cenno di assenso gli fece capire che era con lui, e il giovane annuì di rimando. La pupilla infernale di Dusknoir arse di luce per un istante. Erano pronti.

« Nessuno si muova! ».

Una vampata incandescente sfondò la porta d’ingresso al tetto dei grandi magazzini lasciando entrare una mezza dozzina di Arcanine ringhianti. Subito dopo di loro fece irruzione un plotone di poliziotti in divisa indaco con strette tra le mani pistole precauzionali, e i suoi componenti si disposero in formazione d’emergenza non appena si accorsero della silhouette ultraterrena che li stava scrutando. In poco più di qualche secondo l’intera zona fu letteralmente invasa dalle forze dell’ordine di cui tutti si erano scordati.

Tutti meno Calem.

Il ragazzo tratteneva a stento una risata sardonica. Il loro nemico, fino a un attimo prima in netto vantaggio, adesso era stato attorniato da ogni lato e se anche solo avesse provato ad alzare un dito sarebbe stato investito da scariche di fiamme roventi. Del resto non aveva pensato nemmeno per un secondo che Swellow potesse farcela, stava semplicemente temporeggiando per attendere gli agenti.

« Ehi, Bellocchio, alla fine anche io ho imparato qualcosa da te » sorrise beffardo « Ora so parlare a cascata fino a trovare una via d’uscita ».

La coppia si scambiò un sorriso complice. Che avventura bizzarra, era stata: erano entrati alle Galeries Ételfay da nemici giurati e ne erano usciti da uomini che si rispettavano vicendevolmente, che avevano compreso veramente l’uno i pensieri dell’altro. E a unirli non era stata l’atmosfera amichevole in cui erano stati immersi nei giorni precedenti grazie ai tre bambini con cui viaggiavano, no: era stato un nemico comune contro cui avevano sentito il bisogno di coalizzarsi.

« Tornando a te, Dusknoir » riprese Calem nel silenzio generale della polizia, tanto sicuro di sé da arrogarsi il diritto di parlare per loro « Ti suggerirei di sparire il prima possibile. Ritorna da dove sei venuto e non ti faremo niente ».

Bellocchio sgranò gli occhi. Un brivido gli percorse la spina dorsale da cima a fondo mentre un’assurda ipotesi prendeva forma nella sua mente. Per quando riuscì a mettere a fuoco l’intuizione era ormai totalmente certo di aver individuato l’ultima tessera del puzzle.

 

Ritorna da dove sei venuto.

Ritorna.

 

RITORNA

 

R  I  T  O

 

« Ritornare! » esclamò. I presenti lo squadrarono straniti ma lui non se ne curò, trascinandosi a fatica e dolorosamente verso il Pokémon braccato in trappola « È questo che cercavi di dirci, vero? Non volevi fare nessun rito… ngh… nessuna invasione. Non volevi far uscire qualcuno da quel mondo… Volevi ritornarci ». Cadde prono a terra per lo sforzo, ma facendo appello a ogni sua energia e al soccorso di uno degli agenti riuscì ad alzarsi in piedi.

Dusknoir non parlò, non essendone in grado; ma un cenno del suo corpo fu più che sufficiente a confermare il lampo di Bellocchio.

« Ma perché… » proseguì l’uomo tra gli spasmi « … perché non ci sei ancora tornato? Hai… ngh… Hai già il potere per… ».

In risposta la creatura allungò la mano verso di lui. D’istinto gli Arcanine digrignarono i denti minacciosamente, costringendo Bellocchio a restare dov’era. Non che gli servissero informazioni ulteriori: nel palmo tetro che aveva di fronte brillava qualcosa di celeste, qualcosa che sospettava di conoscere.

Prima che potesse metterla a fuoco Dusknoir si chinò e fece rotolare l’oggetto misterioso ai suoi piedi. « No! » gridò il giovane all’indirizzo dei mastini abbaianti che erano pronti a incenerirlo. Quindi si staccò dal suo supporto umano per avvicinarsi al bagliore. Sperava non si trattasse di quello che pensava, visti i tormenti che il suo simile aveva causato in passato; ma se davvero lo fosse stato, era una cosa che doveva fare da solo.

Ed eccolo lì, tra le sue mani: un frammento turchino che brillava nel buio. Identico in ogni aspetto a quello rinvenuto nel nido dei Beedrill, ed ebbe modo di accertarsene confrontandoli. Aggrottò la fronte, non capendo.

« Non riuscivi a tornare lì… per questo? ». Era possibile che anche come Dusclops avesse sempre avuto la possibilità di andarsene e semplicemente fosse stato trattenuto in questo mondo da quell’imperscrutabile frantume di pietra? E che si fosse evoluto solo per espellerlo dal suo corpo? Ma perché avrebbe dovuto ancorarlo all’universo in cui si trovava? Troppe, troppe domande.

« Dove l’hai preso? » lo interrogò, ma come prevedibile non ottenne alcuna replica. Dusknoir fluttuava statico lì, l’unico occhio fisso su di lui, a deriderlo perché lui sapeva, lui doveva per forza sapere il segreto che si celava dietro quelle gemme. Non sarebbe riuscito a estorcergli nulla di significativo.

« Vattene. Sei troppo debole per combattere, te lo si legge in faccia ». Colpa della pietra, forse. I Pokémon sembravano patirne l’effetto più che gli umani. « Vattene » ripeté Bellocchio con veemenza, drizzandosi definitivamente in piedi « Torna nel tuo mondo e non farti più vedere ».

Dusknoir annuì per l’ultima volta, posando lo sguardo uno per uno sulle tremanti guardie che recitavano di malavoglia il ruolo delle autorità. La bocca sita sul busto si contorse in un ghigno mentre il suo corpo assumeva un colorito violaceo.

« Debole, eh? » commentò sprezzante Calem, ridacchiando a sua volta « Bellocchio potrà essere di buon cuore, ma non hai fatto i conti con me. Mi sarai molto utile contro Astra ». Tra le espressioni attonite degli astanti scagliò la Poké Ball che aveva finto per tutto quel tempo contenere Swellow, rivelando che in realtà l’aveva furtivamente scambiata con una delle sue vuote prima di puntarla contro il suo nemico. Nessuno ebbe un tempo di reazione sufficientemente rapido per rendersi conto di cosa stesse succedendo, nemmeno lo stesso Dusknoir: la sua sagoma scintillò di un rosso sangue prima di svanire all’interno della sfera. Dopo tre secondi le molecole interne si stabilizzarono e il Pokémon Pinza, già indebolito, cessò di lottare.

« Cosa hai fatto! » sbraitò uno degli agenti in un impeto d’ira. Avrebbe voluto aggiungere qualcosa di simile a “ora non potremo più interrogarlo!”, ma si rese conto che pur essendo un’espressione accurata sarebbe suonata fin troppo bizzarra.

« Rilassati » lo acquietò un altro, probabilmente più alto in grado a giudicare dall’uniforme. « E voi due » soggiunse nei confronti di Calem e Bellocchio « ora tornerete con noi al Carcere ».

La coppia sobbalzò. Il più giovane dovette trattenersi per non assalire il suo interlocutore « Ma che state dicendo? Abbiamo appena salvato Luminopoli, se vi è sfuggito ».

« Questo è tutto da verificare » replicò glaciale l’ufficiale « Non siamo in possesso di prove che vi scagionino. Nel frattempo sarete posti in arresto preventivo ».

Bellocchio sbuffò contrariato. Calem ebbe una reazione meno contenuta e mise mano alla sua cintura, provocando il ringhio ostile degli Arcanine attorno a lui.

« Fermi! ».

Un coro di voci dubbiose e “chi è?” in stereofonia accompagnò l’entrata in scena di un altro personaggio. Il suo vestito era nero con rigature fiammanti, i suoi capelli rossi come un bosco in fiamme, il suo sguardo lucido e carismatico nonostante l’ora tarda. Al suo seguito c’era una giovane bruna, a occhio e croce la sua assistente. Nessuno dei poliziotti fiatò al suo ingresso, sbigottiti e incapaci di credere a ciò a cui stavano assistendo.

« Lasciateli liberi » ordinò imperiosamente, con l’accento di chi è certo che la propria disposizione sarà eseguita « Li avete sentiti, no? Questi sono i nostri salvatori ».

« I-intermediario Faubourg… ! Signore… Le prove… » balbettò l’ufficiale con il coraggio che trovò dalla sua posizione di garante della giustizia.

« Intermediario? » sussurrò Bellocchio a Calem.

« Un politico importante di Kalos » gli spiegò sottovoce « Non so bene neanche io cosa faccia, ma è influente ».

« Tutte le vittime note del falso Dio si sono risvegliate pochi minuti fa, quindi potrete constatare dalle loro testimonianze che la maggioranza non conoscerà nemmeno di volto questi due gentiluomini » rispose disteso Lysandre con un affabile sorriso « Se ciò non dovesse essere sufficiente, confido che troverete inequivocabili le registrazioni delle telecamere puntate sul tetto delle Galeries negli attimi precedenti il vostro arrivo ».

La guardia che per prima aveva aggredito Calem si interpose come poteva « Ma signore, l’evasio–– ».

« Smettila! » lo riprese l’ufficiale con uno schiaffo sulla guancia « Ancora rispondi all’Intermediario? ».

« Non c’è bisogno di essere violenti, signor Thorne » lo placò Lysandre « L’evasione è opera loro, ma è stata orchestrata per il nostro bene. Vi sono casi in cui il fine può giustificare i mezzi ». Detto ciò si diresse verso Calem e portò in avanti la mano fino a stringerla « Di cosa si trattava? ».

« Io… Era un Dusknoir… Signore, ha parlato di telecamere? ».

« Oh, sì, ho fatto modo di appostarne qualcuna negli edifici circostanti su consiglio di una mia conoscente » l’uomo controllò il proprio orologio da taschino « A tal proposito, dovrebbe arrivare a momenti ».

« Serena! » esclamò Bellocchio, e non si trattava solo di una realizzazione estemporanea: la sagoma della ragazza era apparsa sulla porta, trafelata per la corsa lungo le scale dell’edificio. Immediatamente corse incontro al giovane e lo abbracciò con forza, facendolo quasi sbilanciare sulle sue precarie gambe.

« Ti avevo detto di restare lontana dalle Galeries! ».

« Dopo una settimana passata con te ho imparato che ascoltarti provoca più danni che non farlo » replicò lei ilare « Alla fine ce l’hai fatta a salvare il mondo, giusto? O… Beh, insomma, ho presunto che stessi facendo quello ».

« A dire il vero il grosso l’ha fatto Calem ».

Serena rabbrividì alla sola pronuncia del nome. Come se non si fosse accorta fino a quel momento della sua presenza si girò verso destra, trovandolo accanto a Lysandre. « Ah, ci sei anche tu ».

Il ragazzo protese la mano per una stretta che avrebbe dovuto nelle sue idee sostituire l’abbraccio a Bellocchio, ma Serena si rifiutò categoricamente producendo un silenzio imbarazzante. L’adulto del trio lo ruppe dopo qualche attimo « Come facevi a sapere che le telecamere ci sarebbero state utili sul tetto? ».

« Pff, un gioco. Quando ho saputo del vostro arresto via telefonata immaginavo che la ragione per cui vi eravate fermati alle Galeries fosse ancora là. Trovato mi ha detto del tuo piano di evasione e, facendo due più due, l’unico punto da cui sareste potuti rientrare era qua sopra » glossò Serena « Sinceramente non credevo che ci sareste davvero rimasti, ma per sicurezza ho chiesto al signor Faubourg di piazzare delle telecamere per sorvegliare la zona ».

Bellocchio convenne che come deduzione era invidiabile, ma fu impossibilitato a esternare quella considerazione: un grido di euforia proveniente da un altro punto del tetto gli ricacciò il complimento tra le corde vocali.

« Fratellone! ».

Serena sgranò gli occhi in un'espressione che fondeva sorpresa, esasperazione e collera. La sorgente dell'esclamazione era appena entrata – o uscita – dall'accesso principale della zona e ora si stava dirigendo a tutta velocità verso il gruppo. In un attimo fu loro addosso: Lysandre fu costretto a scansarsi frastornato per lasciare passare una bambina iperattiva che ora stava facendo le feste a Calem come a un padre militare di ritorno da una missione in territorio estero.

« Shana! » sobbalzò Calem « Cosa diamine ci fai qui? ».

Serena, sentendosi chiamata in causa, si precipitò a dire la sua « Già, bella domanda! Ti avevo detto di restare al Centro Pokémon! Perché non ascolti mai? ». Bellocchio non trattenne un sorrisetto: quantomeno ora la sua amica sapeva cos'era essere lui ogni santo giorno da quando aveva deciso di viaggiare con quel gruppo.

« Scusa, ma c'era mio fratello in pericolo, secondo te cosa dovevo fare? » si giustificò la ragazza. Quindi tornò a colui che ancora stringeva tra le piccole braccia, il quale era visibilmente imbarazzato « È vero che sei stato tu a sconfiggere il cattivo? ».

Calem fu titubante nel rispondere, e in suo soccorso giunse Bellocchio « Verissimo, l'ho visto io. Senza di lui non sarei nemmeno vivo ».

« Wow! Aspetta che lo dica a Tierno e Trovato! Loro non ce l'hanno un fratello così, no! Saranno invidiosissimi! Mi racconti tutto? ».

Lysandre nel frattempo aveva assistito alla scena divertito, anche se non sempre con la massima attenzione – la sua mente tendeva a divagare su argomenti del tutto casuali, e questa volta il ricordo prescelto per essere rivissuto in pochi attimi era stato un pomeriggio trascorso alla casa di sua nonna, tra le chiavi inglesi del deposito attrezzi. La sua capacità di memorizzazione ed elaborazione era tuttavia tanto fuori dal comune da consentirgli simili diversioni senza perdere una battuta dei discorsi che si svolgevano, tecnica senz'altro utile affinata nelle tediose udienze al Parlamento di Luminopoli. Si avvicinò all'uomo dal cappotto marrone, lasciando che quel giovane che viaggiava con lui si godesse il suo momento di gloria mentre gli agenti di polizia si ritiravano.

« Dusknoir, quindi? Grazie al cielo, temevo si trattasse di un Darkrai ».

Bellocchio lasciò da parte Calem, Serena e Shana, focalizzandosi su quell'alto funzionario che gli aveva appena rivolto la parola con uno dei più assurdi metodi per cominciare un dialogo. « Lei… lei sapeva? ».

« Beh, in realtà non ne ero certo per evidenti ragioni: non potevo provare che le vittime avessero visitato un luogo in comune sei ore prima del ritrovamento. Però esaminandole mi ero accorto che quasi tutte erano prive di ombra. Non ho dato l'allarme solo perché uno di loro l'aveva ancora, e ciò indicava che non poteva essere un Darkrai » spiegò l'Intermediario con la calma più serafica « Ma non era nemmeno un Dusknoir, giusto? ».

« Come? ».

« Le bruciature sul suo soprabito. Così, senza occhiali, mi viene da pensare che siano causa del fuoco fatuo di un Dusclops ».

« Lei è davvero straordinario » commentò Bellocchio con sincera ammirazione. Poi, dal nulla, gli sovvenne un particolare che aveva dimenticato dopo la fortunosa evasione dal Carcere « Mi scusi, potrei chiederle un favore? ».

« Se posso fare qualcosa per il nostro salvatore, lo farò con piacere ».

« Non ho potuto fare a meno di notare che lei ha una certa influenza sulle forze dell'ordine. Nella cella con me c'era uno, di nome fa Saul… Beh, non so il cognome. Senza di lui io e Calem non ce l'avremmo fatta, staremmo ancora brancolando nel buio » il giovane parve molto imbarazzato per la richiesta « Era vicino al rilascio, non vorrei che per colpa dell'evasione che abbiamo organizzato… ».

« Ho capito » annuì con un sorriso condiscendente Lysandre « Farò sì che non debba scontare pene ulteriori. La questione del cognome mi rammenta che non ci siamo ancora presentati dovutamente, a proposito ».

« Oh, ha ragione! Il mio nome è Bellocchio ».

« Ah! » esclamò quello meravigliato « Anche lei un soprannome? ».

« Eh, una specie ».

« Il mio è Elisio » proseguì tendendogli la mano « Molto piacere ».

L'uomo ricambiò la stretta vigorosa di Faubourg. Alzò lo sguardo al cielo stellato, dove l'assenza di luna lasciava quel punto d'osservazione, rialzato e quindi protetto da buona parte dell'inquinamento luminoso della metropoli, occultato nella penombra. Ma ecco che, stagliato all'orizzonte, i primi raggi solari riflessi facevano capolino rischiarando quello spicchio del firmamento. L'alba era incombente; e, anche per loro, il peggio era ormai passato. La luce sarebbe tornata a splendere presto. Ma non così in fretta: per ancora qualche minuto, o forse solo qualche secondo, sia lui che Calem potevano godersi la loro ricompensa.

 

 

Quel martedì era trascorso splendidamente per Trovato. Serena lo aveva accompagnato al Musée Révolu d’Illumis, nei cui meandri avevano piacevolmente smarrito il senso del tempo; e ora in quel sole che tramontava dolcemente sull'orizzonte cittadino vedeva riflessi i tratti di pittori impressionisti. La vivacità di Pissarro, l'eleganza di Degas, persino la follia di Cézanne si affastellavano nelle sue tinte arancioni. A dirla tutta era stato rapito soprattutto dalla chioma bionda della sua amica, domandandosi se la scelta di spendere con lui le sue ultime ore da viaggiatore non fosse stata dettata da un ultimo desiderio implicito; in altre parole, se avesse intuito i suoi sentimenti per lei. Elucubrazioni inutili, aveva concluso.

Ma tutte le cose belle giungono al termine, e anche la sua piacevole vacanza era ormai al crepuscolo. Salutati più in basso Tierno e Shana in un addio che per sua fortuna gli aveva risparmiato le lacrime per la solitudine successiva, si stavano ora inerpicando su un altopiano periferico dell'undicesimo arrondissement, dove era sita la casa dei suoi nonni. Lì avrebbe atteso con pazienza, nel quieto vivere dei Fletchling plananti, la data della partenza definitiva. Serena ogni tanto ci aveva provato a instillargli quella domanda che tanto rifiutava di porsi da sé: perché non ti opponi? E la risposta era banale: non riusciva. Non riusciva a pensare alla sua voce che sovrastava quella della madre, o quella di Serena stessa, le due figure attorno cui era ruotata gran parte della sua giovane vita. Così come sapeva che non avrebbe mai rivelato personalmente alla ragazza di essere innamorato perché sapeva di non avere speranza, così sarebbe partito verso nuovi orizzonti perché conscio che sarebbe stato inutile protestare.

« Grazie » disse a un tratto, rivolto alla sua compagna di viaggio « Possiamo anche fermarci qui… Io… Io non… Visto che… ». Le sue difficoltà comunicative non lo aiutarono in questo frangente, facendolo risultare tutt'altro che convincente.

Serena, d'altronde, si limitò a sorridere come se ciò la divertisse. « Non devi affrontare questa cosa da solo ».

Trovato comprese e, pur sapendo di star prolungando la sua sofferenza, accettò di percorrere insieme quegli ultimi metri. La modesta magione famigliare proiettava la sua ombra sull'ingresso, conferendo al contempo frescura in quel dì afoso e un'aura malinconica al portone. Il giovane si fece coraggio e, preso un profondo respiro, bussò.

Attese meno di quanto credeva perché aprissero, e capì anche perché subito dopo: non era stato nonno o nonna ad aprire. Era stato Tierno.

Gli occhi di Trovato quasi fuoriuscirono dalle orbite per lo sconcerto. « Cosa… Tu come… ».

« SORPRESAAAAA~! » gridò il dodicenne in risposta, e alla sua voce se ne era unita una esuberante e acuta, il che segnalava la presenza di Shana. Il ragazzo fu sempre più perplesso e il suo sguardo invocò la spiegazione di Serena, chiusa in un ghigno ermetico. Doveva trovare la sua faccia la cosa più spassosa del mondo.

« Cosa, per te ti avremmo salutato in quel modo stupido? » gli domandò concitatamente Shana mostrandosi alla soglia « “Abbiamo viaggiato insieme per poco, ma è stato come un secolo”… Dai, potevi cascarci solo tu! ». Il tutto era accompagnato da risate di intermezzo che Trovato non sapeva bene se intendere come prese in giro o dichiarazioni di felicità.

« Ma quindi… No, scusate, ma io non capisco ».

« Siamo amici, no? » riprese il discorso Tierno « Non ce ne andremmo mica a spassarcela sapendo che tu sei qui tutto solo! Quindi abbiamo chiesto ai tuoi nonni, e loro hanno accettato! ».

« Hanno accettato cosa? ».

« Uff, certo che sei proprio tonto! » sbottò Shana « Staremo qui con te, no? Finché non parti! Due settimane tutti insieme a divertirci! Chissà quante cose ci saranno da fare qui a Luminopoli! Certo, non il museo però, eh… Quello no! ».

Trovato non riusciva a capacitarsi della situazione. Tornò su Serena, la cui espressione seriosa nel frattempo era arrivata a un passo dallo scoppiare. « Tu… Tu lo sapevi? ».

« Ma certo che lo sapevo! Dovevo solo tenere la sorpresa e rallentarti mentre loro ti anticipavano qui! ».

Il ragazzo avrebbe voluto dire e fare molte cose: abbracciarli uno per uno, singhiozzare fiumi di lacrime, uscire fuori e urlare la propria contentezza al cielo. Invece tutto che gli uscì dalla bocca fu un verso a metà tra una risata e un grugnito che non fece altro che metterlo in imbarazzo ulteriore, seguito da un « Io… Grazie, grazie… Io non… ».

« Oh, no! No, no, no! Ora si mette a piangere! » trasalì Shana terrorizzata « Tierno, fai qualcosa! ».

« Io? Ah, sì, uhm… Ho fame! Andiamo a mangiare! ».

« Ottima idea! Che avranno preparato i nonni di Trovato? Nonna Trovatoooo, qui c'è Trovato vero! » concordò la ragazzina, ed entrambi fuggirono in soggiorno lasciando il malcapitato sulla soglia in preda a una crisi emozionale.

Serena gli mise una mano sulle spalle, stringendolo a sé « Un giorno di questi passerò a farti visita! Bellocchio permettendo, ovviamente ».

Trovato rialzò il capo « Ah, quindi viaggerai con lui? ».

« Pare di sì. Prossima tappa Castel Vanità » soggiunse cercando di essere il più delicata possibile, anche se dopo l'ultima scoperta al giovane pareva importare poco del viaggio mancato. Del resto forse il viaggio non era neanche mai stato significativo per nessuno di loro: erano le persone con cui lo condividevano a renderlo speciale. Serena, dal canto suo, era più che felice che il suo amico ventisettenne avesse riconsiderato la sua decisione di tornare a Sinnoh, anche se non aveva voluto dirle perché.

« Comunque lui e Calem passeranno più tardi a salutarti » proseguì dopo quella riflessione estemporanea « Ora stanno da qualche parte alle Galeries, se ho ben capito Bellocchio gli ha fissato un appuntamento per parlare ».

Un appuntamento… E chi l'avrebbe mai capito veramente, quell'uomo.

 

 

I grattacieli del Flare District a ovest luccicavano di un arancio rosato attorniando in una corona crepuscolare il gigantesco cubo cavo della sede principale, che aveva iniziato a brillare di luce artificiale attraverso le piccole fessure delle finestre. Lo chiamavano il Frattale, l’ubicazione di tutti i maggiori uffici dell’associazione Flare. Troneggiava silenziosamente su Luminopoli in modo quasi innaturale, congiunto dalla linea retta dell’Avenue Vendémiaire all’Arc de Triomphe. I due punti erano a loro volta quasi allineati con le Galeries Ételfay, sul cui tetto Bellocchio stava ammirando la Ville Lumière. E poi la Torre Prisma, gli stadi e tutte le strutture note al pubblico come teatro del Primo Galà di Luminopoli. L’intera città ai suoi piedi.

La quiete frammezzata a un leggero e tiepido vento proveniente da sud-est fu interrotta dai passi di Calem, arrivato con puntualità al rendez-vous prefissato. Il suo saluto consistette in un colpo di tosse, al quale però Bellocchio non parve rispondere. Restava lì, fermo, a contemplare l’orizzonte.

« Sei arrabbiato con me? » domandò il ragazzo non comprendendo.

L’uomo in risposta rise tra sé e sé e si voltò a tre quarti per inquadrarlo con la coda dell’occhio « Perché? ».

« Ho catturato Dusknoir anziché lasciarlo andare ».

« Non sono un animalista e non sono arrabbiato ». Bellocchio gli fece segno di avvicinarsi a lui, e i due si ritrovarono fianco a fianco a poco più di un metro dal bordo dell’edificio. Le Galeries erano già fuori orario e occupate ora solo da commessi indaffarati, ma dopo averne salvati due per loro era stato serbato un occhio di riguardo.

« Strano, mi sembrava ».

« Già… Succede, quando non si conoscono le persone. Ad esempio non pensavo ti importasse la mia opinione su di te ».

« Mi hai salvato la vita ».

« E tu hai salvato la mia ». Si concesse una lunga pausa riflessiva fatta di fronti aggrottate e sopracciglia contrite prima di riprendere « Però non capisco ».

« Che cosa? ».

« Tra la Dama Cremisi e Dusknoir sono due esponenti del Mondo dei Morti a breve distanza. Le tue sfere sono come le mie, giusto? A riscrittura sinaptica? ».

Calem rimase per un attimo spiazzato dalla domanda. A un attento esame della sua memoria forse sì, aveva letto qualcosa del genere sulle istruzioni, o forse Platan ne aveva parlato in uno dei suoi corsi preparatori. « A quanto ne so ».

« Cancellano i ricordi antecedenti alla cattura. Non ho speranze di sapere qualcosa da lui. A proposito, che soprannome gli hai dato? ».

« Non do soprannomi ai miei Pokémon ».

« Peccato, dovresti ».

« Perché ti interessa tanto il Mondo dei Morti? » inquisì Calem, riportando a forza il treno del discorso sui binari originari.

Bellocchio sfilò dalla tasca del cappotto due frammenti che luccicavano di un leggero chiarore celeste. Il ragazzo li riconobbe a intuito, anche se l’esemplare che aveva visto la notte precedente era decisamente più luminoso. « Penso c’entrino questi ».

« Ne ho visto rotolare uno ieri. L’altro da dove viene? ».

« Dal nido dei Beedrill, li ha fatti impazzire. E penso che c’entri anche con la fase sadica di Shana a Rio ».

« Mi raccomando, non dirle queste cose a suo fratello, cosa mai gliene può importare ».

« Combaciano perfettamente, ma non sono complete. Saul aveva detto che in totale erano quattro » proseguì Bellocchio ignorando completamente l’ultimo commento del partner. Dopodiché le ripose con un sospiro « Oh, suppongo non abbia senso fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Tu che farai ora? ».

Il giovane avrebbe manifestamente desiderato protrarre il discorso di prima, ma fiutò che per ora era meglio lasciar perdere. « Torno ad allenarmi nei percorsi dell'est. Con un po' di lavoro Dusknoir dovrebbe potersela cavare con Astra. Tu? ».

« Riprenderò il viaggio con Serena ».

« Sì? Credevo saresti tornato nella tua regione. Come si chiama… ».

« Non con questi frammenti. Non con quello che mi ha detto Ada » Bellocchio si girò a fissare direttamente Calem, e i suoi occhi si caricarono come se fossero vecchi di centinaia di anni, stanchi e timorosi « Ho paura che potrei essere io ».

Dopo un tempo che parve un’eternità il ragazzo trovò il coraggio di ribattere, anche per allontanare quel pensiero dalla sua stessa testa « Non pensarci. Sarà meglio andare da Trovato, dobbiamo salutarlo ».

L’uomo annuì distrattamente, gettando uno sguardo al tramonto incipiente. « Inizia ad andare, poi ti raggiungo. Ho bisogno di stare un attimo da solo ». Calem restituì il cenno del capo e si allontanò verso l’uscita, lasciandolo solitario in cima alle Galeries.

La brezza calda stava gradualmente lasciando il posto a una più pungente man mano che il sole si abbassava oltre il profilo dei palazzi di Luminopoli. Bellocchio inspirò profondamente e si infuse determinazione mentre estraeva dal taschino posteriore dei pantaloni il taccuino in pelle nera che portava sempre con sé. Lo aprì alla prima pagina ormai logora, e ricalcò in alcuni punti perché l’usura dell’inchiostro non la rendesse illeggibile. Chissà da quanto aveva quel bloc-notes, non riusciva a ricordarlo.

Alzò la fronte a ponente. Tra gli alti edifici che si stagliavano sul cielo rossiccio si apriva uno spiraglio in cui la sfera di fuoco si sarebbe andata a incuneare al vespro. Non aveva scelto le Galeries a caso per l’appuntamento: da quell’angolazione, con la volta tersa e nessun accenno di nebbia, la rifrazione della luce solare avrebbe prodotto un sottile alone verdognolo appena prima di scomparire: il raggio verde. Bellocchio amava quando riusciva a scorgerlo, gli comunicava l’istante esatto in cui i fasci scintillanti irradiati dall’universo abbandonavano la sua pelle.

Ormai mancava poco. Con una seconda inspirazione pose il taccuino aperto sul primo foglio scritto di fronte a lui, accanto al sole, distendendo completamente il braccio. Era diventato bravo a prevedere il momento preciso. Tre… due… uno…

Il raggio verde apparve come previsto, sfolgorando intensamente per una frazione di secondo per poi sprofondare nell’oscurità del cosmo.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** 1x17 - Women's Day ***


Untitled 1

Breve precisazione tecnica: questo episodio, pur essendo parte della continuity generale di LKNA, non appartiene al flow principale della storia. In termini profani, è un autoconclusivo incentrato su personaggi terziari e dai toni volutamente poco seri. Esiste perché luglio 2014 era lungo due settimane di troppo. Chiamatelo 1x16.5, se vi aiuta a sentirvi meglio.

 

Su consiglio del mio avvocato, dichiaro di non aver assunto sostanze psicotrope durante la stesura del capitolo che segue.

 

 

 

 

 

 

« Il pollo ama la polla, il passero la passera, ma tutti quanti amano Ned Flanders! ».

Katie si scostò un lungo ciuffo biondo dal volto e gettò uno sguardo oltre la fenditura parietale che fungeva d’accesso al soggiorno. La piccola Ivy era assoggettata alla televisione, seguendo con pupille rapide il susseguirsi di immagini che davano vita al cartone animato. L’ormai quasi terminata puntata di oggi era incentrata a sua volta sugli show all’interno dell’universo fittizio, in una sorta di gioco di metateatro dalle battute non sempre agevoli per una bambina così piccola, tanto che Katie si domandava come facesse a divertirsi. O forse non era più così piccola, e semplicemente aveva ancora stampato nella mente il suo corpicino al battesimo, in cui tra l’altro sua sorella Silvia era stata nominata madrina.

« … e così Anne-Marie ha dovuto divorziare! Capisci, per una roba del genere! Ma io mi chiedo, non poteva semplicemente chiudere un occhio anziché impuntarsi come suo solito? E invece… Ah, ma lo dico sempre io… Piuttosto lasci il lavoro. Cioè, quando si tratta di donne in carriera gli uomini hanno ragione poi a… Insomma, ne va anche della felicità del bambino! ».

Katie scosse leggermente la testa come destatasi da un breve torpore e tornò a osservare la donna di fronte a sé. Un anno in meno di lei, ma nata a dicembre e dunque in grado di frequentare la sua stessa classe alle elementari, i loro destini non avrebbero potuto essere più diversi: assistente personale dell’Intermediario Faubourg una, commessa a tempo indeterminato delle Galeries Ételfay l’altra.

« Ma perché una dovrebbe per forza scegliere tra carriera e famiglia? Voglio dire, gli uomini fanno entrambe le cose ».

« Eh, ma noi siamo donne… Cioè, è nel nostro DNA! » replicò Bryonia risoluta sorseggiando il caffè; a sua detta il quinto quella mattina, ed erano solo le dieci e mezza.

Katie non beveva caffè preferendo le spremute, e quindi attinse a sua volta da un bicchiere sul tavolino. « Ma scusa, non è quello che hai fatto tu con Mark? ». Mark era il suo precedente marito, precedente perché ormai separato per cause mai veramente chiarite. La stessa Bryonia cambiava versione ogni volta che ne parlava.

« Ah, ma con lui è diverso, cioè… Lui pensava che… sì, vedendo me e il signor Faubourg sempre insieme… Ah, ma i maschi pensano sempre a quello, lo dico sempre io. Comunque ho fatto la mia scelta coscienziosamente, mica come quella poco di buono di Anne-Marie… Eh! ». Il fiume di parole si interruppe quando il suo occhio cadde sulla radiosveglia posta sopra il davanzale della finestra: 10:46 di mercoledì 20 marzo. « Uh! » sobbalzò « Ma è tardissimo! Ivy, tesoro, dovremmo già essere fuori! Muoviti o faremo tardi per la piscina! ».

Con scatto felino Bryonia corse a recuperare la figlia, interrompendo sul nascere un nuovo programma televisivo, e Katie si alzò per anticiparle alla porta. Proprio mentre stava per aprire udì il proprio campanello suonare, cogliendola pienamente di sorpresa: chi poteva essere di prima mattina nel suo giorno libero? Titubante aprì la porta per trovare un uomo vestito con quelli che potevano essere gli abiti di suo nonno, dai corti capelli che iniziavano a ingrigirsi e un sorriso impacciato accompagnato da un cenno della mano.

« Lei… Mi scusi, ci… ».

I vaghi rantoli di Katie furono interrotti da Bryonia che, in tutta fretta, aveva preso in braccio Ivy per non perdere tempo. Alla vista della sagoma in piedi alla soglia fu insicura su come salutarla, pur avendola incontrata più di una volta, principalmente per il suo problema nel ricordare i nomi altrui. « Oh… Ciao, Isidore, come va? Oh, che gentile, hai lasciato qui l’ascensore! Scusa se non mi trattengo ma siamo in un ritardo mostruoso… Grazie per l’ospitalità, Katie! ».

Pur non avendo la donna atteso risposta quello la salutò approssimativamente, glissando come poteva sull’errore grossolano da lei commesso sull’identità « Sì… Ciao, Rosa… ».

Alla chiusura delle porte la coppia fu di nuovo sola sul pianerottolo e l’uomo provò uno sgraziato approccio di cameratismo « Allora, Katie, come va la vita? Io sono Craig, sai, collega di Silvia… Non so se ti ha detto ».

« Per te è Katrina » replicò glaciale prima ancora di qualsiasi altra cosa. Conosceva Craig solo di nome, e dalla descrizione fatta da sua sorella non sembrava essere stato investito della confidenza necessaria per bussare a case di famiglia a orari simili e senza preannunciarsi. Se d’improvviso avesse deciso di accordare a tutti i viventi il permesso di chiamarla Katie, lui sarebbe stato tra gli ultimi a saperlo. « Che ci fai qui? ».

« Ah, beh, ecco… È imbarazzante in effetti… Il fatto è che, uhm… avrei bisogno del tuo aiuto ».

 

 

 

Episodio 1x17

Women’s Day

 

 

 

Craig appariva anche più piccolo del solito quando era seduto, anche se il termine più corretto per la sua postura sarebbe accovacciato. Stava ricurvo sulla sua tazza di tè caldo, che era in effetti l’unica bevanda con cui si mostrava di solito. « Ah, poi non ho… Tutto bene dopo il coma? » inquisì timidamente tra gli sbuffi che soffiava per freddare il liquido ambrato.

« È come aver dormito » rispose brevemente Katie, un’accurata reiterazione che aveva affinato durante l’arco della giornata precedente, quando era stata tempestata di domande a riguardo. Doveva essere anche finita su un giornale, probabilmente, visto che un cronista si era presentato sotto casa. « Perché sei qui? ».

« Mi serve il tuo aiuto ».

« Questo l’hai già detto. Sii più specifico ».

« Sì, sì, ecco… Silvia ti ha detto di stasera? ».

« A dire il vero ci siamo parlate per poco. È stata diverso tempo al Frattale, i Flare volevano assicurarsi che stesse bene dopo essere entrata in contatto con una vittima del Dio » spiegò Katie « Che succede stasera? ».

« L’ho… Beh, invitata a cena. Tua sorella… è un po’ difficile da dire, però… ».

« Ti piace » completò la donna infastidita dalla lentezza di espressione di Craig e, in minima parte, gelosa del fatto che sua sorella ricevesse sempre tutte le attenzioni. Quando qualcuno viene a chiederti aiuto per simili materie, non sentirsi l’ultima ruota del carro è difficile. « E vuoi il mio aiuto per… conquistarla? ».

« Sì, diciamo così, non sarei tanto brusco, ma… ».

« Lo sai che non ho mai avuto un ragazzo in vita mia? Non sono esattamente ferrata in materia ».

« Sì, ma è tua sorella. Meno di me non puoi saperne, o no? ».

« Diciamo così. Cosa ti fa pensare che ti aiuterò? Non siamo amici, che mi risulti » proseguì Katie contrariata. Cos’è, siccome era sua sorella doveva automaticamente fare combutta con i suoi spasimanti? E per che cosa?

La voce di Craig si fece, se possibile, più mansueta dell’ordinario « Se non mi aiuti non ho speranze! Cioè, io le donne non le capisco… Al Liceo devo chiamarla tre volte solo per avere la sua attenzione, però poi accetta l’invito al ballo… e a cena stasera. Capisci? Se faccio la mossa sbagliata rischio di giocarmela! ».

Katie sospirò con rassegnazione. Il racconto di Craig non l’aveva impietosita più di tanto, ma se si fosse rifiutata di aiutarlo quello sarebbe caduto nello sconforto di sicuro, e allora sì che non avrebbe avuto alcuna speranza. E poi un soggetto psicolabile come lui chissà a cosa sarebbe potuto arrivare per la depressione… No, se proprio si doveva suicidare non l’avrebbe avuto sulla coscienza.

« Dove vuoi portarla? » chiese stancamente.

« Sua madre mi ha prenotato un tavolo al Sushi Sans Chichis, secondo lei è il ristorante più romantico di Luminopoli ».

Katie sbuffò. Non era “secondo lei”: il ristorante più romantico di Luminopoli era esattamente lo slogan del Sushi Sans Chichis. Se anche al posto di romantico fosse andato costoso, comunque, non sarebbe stato meno veritiero: una prenotazione di mesi prima costava un occhio della testa, e se aveva capito bene l’invito di Craig era arrivato ieri. Se mai avesse avuto dubbi su chi era la figlia prediletta, erano appena scomparsi.

« Come diamine l’hai convinta a farti fare una prenotazione lì? ».

« Ah… È stata una sua idea, io neanche so che ristorante sia ».

Già, Craig era di Novartopoli. Certo che non conoscere il Sushi Sans Chichis… Pazienza, anche Henry Molaison stesso avrebbe una speranza lì. Ciò, quantomeno, semplificava il lavoro. Forse non era un’impresa tanto disperata.

« Va bene, parti da una buona base. Ora stammi bene a sentire, ti dirò quello che so per certo che piace o non piace a mia sorella ».

« Spara » assentì lui sfilando taccuino e penna a sfera dal taschino della giacca.

« Punto numero uno: detesta il cacao. Non prendere nulla che lo contenga e fermala se sta per prenderne. Punto numero due: non fare lo stupido. A Silvia non piace chi la fa ridere, piace chi è intelligente. In questo dovresti essere avvantaggiato, visto che entrambi sapete abbastanza di fisica. Fai commenti di alto livello ogni volta che puoi ».

« … ogni volta che posso… » ripeté Craig segnando a velocità superluminale tutto ciò che usciva dalla bocca della donna « Ricevuto ».

« Punto numero tre: non provare mai a prendere qualcosa dal suo piatto, nemmeno per assaggiare. Non chiederglielo nemmeno. A Silvia piace mangiare. Questa dovrebbe essere facile da seguire. Oh, però ignora questa regola se si tratta di cacao » soggiunse Katie, soffermandosi poi perché il professore finisse di annotare « Punto numero quattro: non parlare troppo. Silvia ama raccontare di sé, lasciale la parola il più possibile ».

« Ma non avevi detto che dovevo fare commenti acculturati? Come faccio senza parlare? ».

« Ehi, questo è ciò che piace o no a mia sorella. Non ho mai detto che avrebbe avuto un senso » protestò Katie « Punto numero cinque: se vedi che non ha più voglia di ciò che sta mangiando, finiscilo al posto suo. Odia fare figuracce, e non vorrà lasciare cibo e offendere lo chef ».

Craig intervenne per la seconda volta « Ma scusa, e il punto tre? E il non toccare il suo piatto? ».

« Cos’ho appena detto sul senso? ».

« Ma come faccio a ricordarmi tutto questo senza un ordine logico? Non potrò mica consultare i miei appunti durante la cena! » esclamò esasperato l’uomo, curvando la schiena anche più di prima nell’avvilimento « Sono rovinato ».

Katie lo osservò pensierosa. No, ovviamente non poteva portarsi con sé i promemoria per esaminarli. O meglio, forse una volta in tutta la sera andando alla toilette, ma sarebbe ugualmente risultato sgarbato. C’era però un’alternativa.

« E se invece fossi io a suggerirti? ».

Craig alzò la testa esitante « Come? ».

« Il proprietario attuale del Sushi Sans Chichis è un mio vecchio conoscente. Potrei convincerlo ad assumermi come cameriera questa sera, in questo modo potrei aiutarti in diretta e dirti cosa stai sbagliando ».

L’innamorato balzò in piedi ancora prima di attendere ulteriori dettagli. Senza che la diretta interessata potesse opporsi si precipitò ad abbracciarla in un impeto di felicità stranamente fuori carattere per uno come lui: per la prima volta intravedeva la possibilità del successo, e ciò aveva inibito ogni freno dettato dall’insicurezza. « Grazie, Katie, è una grande idea! ».

« Per te è Katrina! ».

 

 

Il Sushi Sans Chichis si trovava al bivio terminale di Rue de Turbigo, via trafficata del primo arrondissement. L’edificio, per quanto sobrio nella decorazione frontale – campeggiava, sotto al nome del locale, solo il già citato motto promozionale –, era di dimensioni ragguardevoli, incutendo reverenza al solo sguardo. Non era ostruito da una lunga fila come si potrebbe pensare, principalmente per il suo costo: con una cena completa per due si poteva pagare almeno un terzo delle rette universitarie di un anno intero. In effetti, tra stipendio e mance, Katie avrebbe avuto più probabilità di autofinanziarsi gli studi come cameriera al Sans Chichis che non come precaria alle Galeries.

La prima stanza in cui ci si imbatteva una volta entrati era stranamente modesta; o meglio, stranamente per chi non conoscesse le politiche del ristorante. Per buffe decisioni manageriali non era consentito accedere al salone interno prima dell’ora di cena – unico momento in cui il locale era aperto –, per garantire il massimo della sorpresa ai novizi. Un solo, stretto bancone in marmo presieduto dal proprietario e un’elegante anticamera delle dimensioni di un piccolo soggiorno domestico: finché non ti impegni a pagare, questo è ciò che riceverai.

Katie avanzò fino al freddo ripiano lastricato e attirò l’attenzione del trentenne dietro di esso. Quello, con un finto sorriso di benvenuto, si limitò a salutare « Buongiorno. Desidera prenotare un tavolo? ».

« Ma come, Arthur, non mi riconosci? ».

L’uomo strinse gli occhi come se ciò lo aiutasse a ricordare; poi, d’un lampo, identificò il volto che aveva di fronte « Katie! ».

« Proprio io! » esclamò lei ilare, reprimendo con tutta la sua forza di volontà l’impulso di correggere l’abbreviazione del suo nome.

« Ma guardati, quanto tempo è passato… Cos’è, dieci anni? ».

« Anche di più! So che alla fine sei entrato alla Normale! ».

Arthur l’aveva incontrato allo stage che aveva tenuto presso l’École Normale Supérieure, l’unica sua possibilità, saltati i finanziamenti della madre, per frequentare un istituto di livello universitario. Non era passata per un soffio, ma questa era un’altra storia. Fatto sta che quell’Arthur l’aveva perseguitata lungo tutte le due settimane con insistenti inviti a cena al Sushi Sans Chichis, al tempo di proprietà del padre. Se anche non fosse entrato nella scuola – e alla fine invece ce l’aveva fatta, pur con qualche dubbio sulla meritocrazia di tale successo –, era matematicamente certo che sarebbe finito al ristorante di famiglia.

« … e così sono finito al ristorante di famiglia! Francamente non ci avrei puntato nulla » commentò il giovane dopo uno sproloquio autoreferenziale di cui Katie non aveva seguito una parola « Allora, perché sei qui? ».

« Volevo un tavolo per… Beh, domani sera se non ti spiace… Lo so che c’è una lista, anzi, se non c’è posto lo capisco ».

« Ah, domani sera? » ripeté quello aprendo il registro delle prenotazioni con un tonfo « Beh, vedo cosa posso fare… Per due, immagino… ? ».

« Beh… » iniziò Katie abbassando il tono della voce e sbattendo le sue lunghe ciglia corvine « … questo dipende da te ».

Esistono due tipologie di geni: quelli abbastanza intelligenti da comprendere i problemi che derivano dalle loro doti, e quelli convinti che il mondo esista solo per loro. E sicuro come l’oro Arthur non apparteneva alla prima categoria. Le sue posizioni di prestigio dentro e fuori dal mondo dell’istruzione gli avevano instillato la convinzione di essere un inguaribile donnaiolo, senza accorgersi che l’oggetto del desiderio delle sue amanti si trovava più spesso nella tasca posteriore dei pantaloni che non in quella anteriore. In tre parole, era comodamente circuibile.

Come previsto il suo istinto di indomito cacciatore si manifestò in tre fasi: una risata di circostanza, l’inarcamento del sopracciglio destro e una smorfia complice. « Mi piacerebbe molto ».

Con inflessione melliflua, Katie portò avanti il suo spettacolo. « Davvero? Sicuro che non disturbo? ».

« Per niente! Ah, cioè… Tengo sempre uno o due tavoli di riserva, sai, per… gli ospiti speciali… » proseguì scrivendo un segno sull’elenco con mano tremante « Allora, domani alle nove? Ti vengo a prendere io, se mi dai l’indirizzo ».

« Oh, non serve, vengo da sola » replicò con finta ingenuità Katie « Però, uhm… Non è che stasera potrei dare uno sguardo al salone… ? Non mi sento a mio agio in posti che non conosco… ».

« Ah, questo è più difficile… Voglio dire, non pensi che disturberesti… Non che io… » domandò a spizzichi Arthur, interrompendosi a un nuovo sguardo seduttivo della donna « Beh… Potrei metterti come cameriera, ecco! Non devi servire nessuno, ovvio, però potresti aggirarti tra i tavoli ».

« Grazie mille! Allora a domani! » Katie concluse la recitazione saltellando verso l’uscita con il sorriso sulle labbra per poi svoltare immediatamente a destra; appena fu certa di essere fuori dal campo visivo dell’uomo riprese un’andatura normale e sogghignò.

Arthur non l’avrebbe mai fatta entrare quella sera se non avesse avuto la certezza di un ricambio immediato. E del resto, una cena gratis al Sans Chichis rappresentava per lei una doppia rivalsa: verso quell’allupato, a cui non avrebbe concesso nemmeno di accompagnarla di nuovo a casa; e verso sua madre, che aveva dovuto sborsare un patrimonio per qualcosa che lei avrebbe ricevuto a scrocco. In più ora poteva aiutare nella sua impresa Craig, che a confronto dello scompaginato proprietario era quasi un partner credibile per sua sorella.

Tre piccioni con una fava. Il sogghigno si tramutò in risata di soddisfazione.

Nel frattempo Arthur, non certo uno stakanovista, si era concesso una pausa nel suo ufficio personale, per fumarsi una sigaretta nell’autocompiacimento. In silenzio osservava con un sorriso sul volto le volute prodotte dal fumo grigio platino, sprofondando sulla sua sedia. Dopotutto l’aveva sempre saputo che Katie aveva un debole per lui, i segnali erano troppo evidenti per ignorarli. Fantasticò sulla notte del giorno seguente, predisponendo mentalmente tutto perché la cena fosse la migliore della vita della ragazza. Diamine, era il proprietario, avrebbe anche potuto cancellare tutte le altre prenotazioni e avere il locale tutto per loro due.

Crash.

Arthur abbassò lo sguardo con un mugugnò di domanda: uno dei suoi vasi, prima in perfetto equilibrio su uno scaffale a muro sul lato opposto della stanza, era appena capitombolato a terra andando in frantumi. Occhieggiò i cocci pregiati stancamente, non trovando in sé la voglia di raccoglierli. Chi se ne frega, disse tra sé e sé, ci penserà la colf. Che poi, come aveva fatto a cadere?

 

 

La sera era giunta stranamente presto quel dì, a Luminopoli. Ben prima del previsto il cielo terso teatro di un viavai di sporadiche nuvolette si era tinto di arancione per poi scurirsi al crepuscolo, lasciando intravedere solo gli astri più luminosi sotto l’influsso delle luci al neon della città. Katie si era presentata puntualmente alle otto e un quarto, mezz’ora prima dell’ora prefissata per l’appuntamento tra Craig e sua sorella. Arthur le aveva consegnato un’uniforme bianca e nera con un occhiolino; lì per lì non aveva capito, ma indossandola si era resa conto che quella taglia era più piccola della sua, con il risultato che la divisa le andava terribilmente stretta, mettendo in risalto le sue forme a probabile uso e consumo di quel depravato. Normalmente avrebbe reagito, ma non poteva rischiare che Arthur fosse in giro al momento di accogliere la coppia che lei aspettava, o si sarebbe reso conto di essere stato raggirato. Così allentò tutti i bottoni che riuscì ad allentare – senza slacciarne uno, la sua immagine ne avrebbe pesantemente risentito – e, alle ore 20:44 precise, uscì dalle cucine ed entrò nel salone.

Vi era transitata non molto tempo prima, ma allora aveva ancora tutte le lampade accese; e non era certo quella vista a fare la fortuna del Sushi Sans Chichis. Le cene si tenevano al contrario nel buio quasi totale, ad eccezione di singoli fari policromi che pendevano sopra ogni tavolo rischiarandolo soffusamente; ciò, unito alle quattro pareti ovattate che attutivano rimbombi ed echi all’interno della hall, rendeva ogni postazione un microcosmo a sé, dove gli amanti si sentivano isolati dal mondo e liberi di parlare l’uno con l’altro sinceramente. Questa mirabile invenzione era stata registrata due generazioni prima dai proprietari del ristorante, con il risultato che adesso era severamente vietato copiarla. Persino Katie dovette concederlo: per la poca idea del romanticismo che aveva, quella ne era la miglior rappresentazione.

Fu tanto rapita dallo scenario che quasi non si accorse di Craig e Silvia, appena entrati dall’anticamera, e per poco non se li fece soffiare; tuttavia con uno scatto degno di una centometrista si precipitò da loro, porgendo il benvenuto. Erano entrambi vestiti con abbigliamento formale: se per l’una ciò era consuetudine per le grandi occasioni, Katie aveva dovuto lottare non poco per convincere l’altro che la sua usuale giacca marrone arachide non sarebbe stata una grande idea.

« Buonasera » li salutò falsando leggermente la voce e scambiando al contempo un’occhiata complice con l’uomo « Prego, da questa parte ».

Detto ciò si scansò per lasciarli passare e, dal momento che Craig era posizionato per secondo, colse l’occasione per redarguirlo sottovoce da dietro « Tieni la schiena dritta! ». Quello scattò sull’attenti, e ora sembrava più adatto a un campo militare che a un rendez-vous.

Il tavolo a loro destinato era collocato quasi al centro della sala, e conoscendo la madre di Silvia e Katie probabilmente non era un caso. La coppia si sedette e la cameriera improvvisata porse non senza nervosismo due eleganti menù dall’involucro in pelle. Quindi, dopo un nuovo sguardo d’insieme ai due, si allontanò verso le cucine. A prima vista entrambi sembravano tesi, il che poteva significare che dopo tutto sua sorella non era del tutto indifferente nei confronti del professore. Del resto, a quanto le aveva raccontato Craig, aveva già accettato l’invito al ballo della scuola di alcuni giorni prima.

Li stava tenendo d’occhio da un po’ attraverso l’oblò incavato tra le porte lignee che separavano il salone dalla zona chef quando si accorse che qualcun altro stava facendo lo stesso con lei. Era un uomo di colore sulla trentina come lei, capelli corti e ordinati sul capo, stessa uniforme della donna – per converso, se a lei andava stretta a lui andava decisamente troppo larga –, e le sue iridi scure la stavano squadrando da un po’. Katie sentì il suo anulare destro vibrare di collera: d’accordo, sopportare quel maniaco di Arthur era un conto, ma non sarebbe certo stata mani in mano a farsi rimirare da qualsiasi cameriere bavoso. Si avvicinò lui con passo deciso e sopracciglia aggrottate.

« C’è qualche problema? » domandò irata.

Lui emise un risolino e fece un gesto incomprensibile con il braccio, come a negare « No, no, non è per… ». Quindi indicò la divisa.

« Credi che non reagirò siccome sono una donna? Non sono certo un pezzo di carne appesa dal macellaio ».

« Stai completamente fraintendendo » rispose quello, sempre con quella fastidiosa risatina di sottofondo.

« Ah, sì, certo. E suppongo mi stessi guardando perché… ? ».

« Tu non sei una cameriera regolare, dico bene? ».

« Solo perché questo vestito mi va stretto? ».

« Pensavo più alla gonna indossata al contrario » completò lui, e finalmente il sogghigno che portava stampato in volto cessò.

Katie sobbalzò abbassando lo sguardo, ed effettivamente era vero: i bottoni erano nel posto sbagliato. Come aveva fatto a non accorgersene? Ah, certo, forse perché era troppo occupata a cercare di starci dentro. « Beh » commentò cercando di mantenere un tono serio « Stai tranquillo, un’incompetente come me non ti ruberà certo il posto. Sono qui solo per stasera ».

« Non era in cima alle mie preoccupazioni » spiegò lui con calma « Sono nella tua stessa posizione. Imbucata anche tu, giusto? ».

Oh, sussultò mentalmente Katie. Tutta quella rabbia diretta a uno che in fondo era esattamente come lei. Un po’ le dispiacque per le parole che gli aveva rivolto, ma non lo diede a vedere. « Una specie, in realtà conosco il proprietario. Scusa, ma imbucato per cosa? ».

« Piacere, Kevin K » rispose sorridente l’uomo stringendole la mano. Sul momento la ragazza non capì visto che la sua domanda era tutt’altra, ma le bastò poco per collegare: Kevin K. Non era un nome che si sentiva spesso, e a buona ragione: era l’inviato di punta di Le Monde, famoso per i suoi scoop scandalistici e i reportage sotto copertura. Lo Sapevi K, di Kevin K. Come non conoscere quella rubrica?

« Ma tu sei quello che ha denunciato i ritardi di pagamento alle commesse delle Ételfay! Grazie mille, dopo quell’articolo sono finalmente riuscita ad avere i soldi per l’affitto! » esclamò avendo cura di non essere sentita e ricambiando vigorosamente la stretta « Sei qui per un altro servizio? ».

Kevin portò l’indice alla bocca – silenzio – e la accompagnò all’oblò della cucina: lì indicò un tavolo un po’ più a sinistra di quello di Craig e Silvia, al quale era seduto un uomo solitario. Katie lo osservò meglio: era di bassa statura, dal volto ovale e i capelli unticci, completamente assorto sulla sua degustazione di sashimi.

« Chi è? ».

« Risponde al nome di Saul McGill, e fino all’altro ieri era al fresco nel Carcere di Luminopoli. Dopo l’evasione hanno ripreso tutti, ma lui è stato lasciato andare » proseguì Kevin « Se stanotte ho fortuna potrei riuscire a capire perché ».

« Interessante! Beh, buona fortuna. Io devo–– ». Si interruppe. Craig e Silvia! Si era interessata tanto all’indagine del giornalista che aveva scordato la ragione per cui era lì. In preda all’ansia si precipitò nel salone per dirigersi al loro tavolo: di questo passo, dopo tutti i suoi tentativi per migliorare l’aspirante fidanzato, sarebbe finita che la cena l’avrebbe rovinata lei stessa.

I due, quantomeno, stavano parlando, il che poteva significare molto bene o molto male. Si rese conto appena arrivata al loro posto che non aveva portato un taccuino per le ordinazioni, e del resto se l’avesse preso si sarebbe accorta prima che Kevin glielo comunicasse che le tasche non erano sul lato giusto. Si sentì quasi in colpa a interrompere la conversazione, ma andava fatto. « Siete pronti per ordinare? ».

La coppia si guardò confusa, poi Silvia prese la parola « Ma… veramente abbiamo già ordinato ».

Katie sgranò gli occhi: impossibile, era stata di là tutto il tempo. Avrebbe chiesto informazioni ulteriori, qualcosa sulla linea di chi diavolo mi ha rubato l’unica cosa che devo fare stasera, ma non volle rischiare che sua sorella la riconoscesse.

Inviperita fece dietrofront e quasi sfondò le porte della cucina per poi attraversare il locale da capo a capo fino alle scale che conducevano all’ufficio di Arthur. Non le importava nulla che scoprisse che l’aveva beffato come un bambino, anzi, le avrebbe fatto immensamente piacere. Tanto qual era il caso peggiore, l’avrebbe trascinata fuori attraverso la hall? Distruggendo l’atmosfera romantica per i suoi clienti? Che lo facesse, avrebbe urlato e rovinato la sera a tutti.

« DA QUANDO IN QUA IN UN RISTORANTE LE CAMERIERE SI RUBANO I TAVOLI? » proruppe entrando a passi pesanti nello studio del proprietario. Convincente. Un solo neo nel suo ingresso ad effetto: non c’era nessuno ad assistere. Si guardò attorno: dalla soglia della porta non c’erano forme viventi in vista. Arthur non era certo tipo da lasciare il Sushi Sans Chichis incustodito.

Per sicurezza aggirò la scrivania, e il cuore le si fermò in gola. Un corpo privo di sensi era appoggiato alle gambe della poltroncina, disarticolato e pallido. Katie si chinò di scatto e si accostò alla sua bocca, verificando con sollievo che respirava ancora. Però non pareva rispondere a stimoli elementari, e in risposta a ciò una parola si materializzò nella mente della donna, una parola che avrebbe preferito dimenticare: Dio. Isidore aveva garantito che qualunque cosa fosse associata quel termine era stata debellata l’altra notte, quando lei e Adele si erano risvegliate, ma evidentemente doveva essersi sbagliato. Il Dio era ancora in giro, si era preso Arthur, e ora aveva trovato casa al Sushi Sans Chichis.

 

 

« … Beh, è finita che Faubourg ha finanziato personalmente la spedizione e, scava che ti scava, hanno recuperato i resti del cannone a gravitoni di Colress! Certo, le parti salienti sono andate bruciate negli scontri della notte, ma Ginger mi ha detto che hanno estratto un modulatore di Gauss quasi intatto! » concluse eccitata Silvia, assaporando poi un sorso di vino rosso dal calice in vetro che aveva di fronte.

Craig fece lo stesso, più per meccanismi mentali di emulazione che per sete reale. « Un modulatore funzionante? Non viola il teorema di Carnot? ».

« Vero? Ci ho pensato anch’io. Lo inviano domani a mia cugina, a Castel Vanità. Non vogliono portarlo fino al Frattale, dicono che rischiano di danneggiarlo, quindi domani andrò là e darò un’occhiata. Se riuscisse anche solo a produrre energia sufficiente per raggiungere metà del valore critico sarebbe una rivoluzione ».

« Beh, Colress era un fisico davvero valido, non mi sorprenderebbe » chiosò Craig. Per ora tutti gli argomenti di conversazione li aveva proposti lei, visto che lui si trovava in uno stato catatonico indotto dall’impaccio. Katie si era fatta vedere solo all’accoglienza per poi scomparire, che stava aspettando? Non pensava che––

« Ecco i vostri antipasti! » annunciò una voce dal lato sinistro del tavolo, precedendo di poco una cameriera, mora e più in carne di Katie, che reggeva goffamente le loro due portate. Curiosamente Craig aveva deciso di optare per la stessa pietanza di Silvia per fare buona impressione, e lei aveva finito per prendere il carpaccio di pesce misto, uno dei piatti che lui preferiva. Il professore alzò lo sguardo alla donna in uniforme riuscendo a scorgere per un istante un suo contatto visivo prolungato con Silvia che aveva un che di complice. Aveva preso il posto di Katie dalle ordinazioni in poi, e non li aveva mai lasciati un attimo, tenendoli sotto controllo anche a distanza. Un’ipotesi gli solleticò la mente, ma la respinse con risolutezza come impossibile.

L’altra cameriera, congedandosi con un sorriso, si avviò quindi alle cucine e aprì la porta dolcemente. Appena dentro qualcuno la afferrò per il colletto e la sbatté al muro, provocandole un mezzo infarto.

« Allora sei tu che mi rubi il lavoro, eh? Sei fortunata che ho altri problemi oggi, o finivi male! Quindi non farmi perdere tempo e resta lontana da quel tavolo, intesi? ».

Metà dello staff del Sushi Sans Chichis interruppe ciò che stava facendo per osservare la scena. Qualcuno accennò a una indecisa reazione, ma lo sguardo di fuoco dell’aguzzina respinse anche i pochi audaci. La cameriera cercò gli occhi di colei che l’aveva aggredita, trovando che era stata con poca sorpresa una collega. Aveva anche sospetti su quale: doveva essere quella che aveva accolto la coppia che stava servendo al momento del loro ingresso. In prima battuta tentò di giustificarsi, accorgendosi poi che la donna aveva un che di familiare. Di molto familiare.

« Katie? ».

Quella si ritrasse incredula, stringendo le palpebre nella confusione. La sua reazione istintiva sarebbe stata “per te è Katrina”, ma c’era una questione più rilevante da risolvere. « Come sai il mio nome? ».

« Sei davvero tu? Che cosa ci fai qui? ».

« Rispondi alla mia domanda! » ordinò aprendo gli occhi completamente e aumentando la forza della presa.

« Adele! Sono Adele! ».

A Katie fu necessario qualche secondo per metabolizzare la scoperta. Kevin, rimasto a debita distanza per tutta la durata del colloquio, ne approfittò per separare le contendenti.

« Tu sei… ».

Lei in risposta sfilò la spilla con cui aveva tenuto legati i capelli, svolgendo la sua corta chioma color mirtillo come normalmente la portava. Ciò convinse definitivamente l’amica: la somiglianza non lasciava dubbi.

« Oddio… Oddio, scusa per aver… Scusami! » abbozzò in un tentativo di farsi perdonare.

« Non è nulla, tranquilla, sto bene… Ma aspetta, quindi anche tu sei qui per Craig e Silvia? ».

« Che significa anche? Craig ha chiesto aiuto anche a te? » la interrogò Katie, sempre più disorientata.

« Craig! Ma no, mi ha chiesto aiuto Silvia! ».

Katie non era certa fino a un attimo prima che vi potesse essere una rivelazione più scioccante del fatto che la sua migliore amica si trovasse al Sans Chichis con lei a sua insaputa, e invece eccola là. Silvia? Chiedere aiuto? « Non ci sto capendo nulla » intervenne Kevin K, a esternare ciò che anche la donna stava pensando – e, con ogni probabilità, il resto del personale che assisteva alla scena.

« Ma te l’ho detto, no? » ricominciò Adele, stavolta all’indirizzo del giornalista « Che mi sono imbucata per dare una mano a un’amica a conquistare quell’uomo a cena. Mi stavi ascoltando, vero? ».

« Come? » sobbalzò Katie, che aveva segnato nuove vette di sbalordimento « Tu lo sapevi? E non ti è passato per la mente di dirmelo? ».

« Ehi, ehi, calma » protestò Kevin « Come dovevo sapere che vi conoscevate? ».

« Va bene, va bene, credo che serva qualche spiegazione » convenne Katie, prendendo ella stessa per prima la parola « Craig è venuto stamane a casa mia e mi ha chiesto aiuto per stasera, così ho proposto di infiltrarmi come cameriera per aiutarlo. Tu, Adele? ».

« Qualcosa di simile. Beh, per la verità tua sorella mi ha chiamato parecchio tempo fa, parlandomi di questo professore che le piaceva e chiedendomi consigli. L’ha notato verso, boh, metà dicembre, quindi direi che sono circa tre o quattro mesi che va avanti » spiegò l’amica « Il resto è più o meno come quello che hai detto tu, anche se è stata Silvia a suggerirmi di imbucarmi ».

« Ma non ha senso. Craig mi ha detto che Silvia le parlava a malapena! ».

« Certo, gliel’ho consigliato io! » esclamò Adele con orgoglio « Voglio dire, Isidore con me fa così, e lo amo di più ogni giorno! ».

Katie era senza parole. Sapeva da tempo della cotta che Adele si era presa per Isidore, l’amico di Craig, e da tempo sapeva che lui tendeva a ignorarla. Ma non certo per farsi desiderare: semplicemente Isidore era privo di qualunque emozione umana. Solo la sua compagna poteva pensare di suggerire una tattica simile, solo lei.

« Ma scusa, quindi con te e Kevin siamo in tre infiltrati di nascosto » osservò Adele con un dito sul mento, pensierosa « Questo posto non è proprio sicuro, giusto? ».

« Beh, a dire il vero io non sono entrata di nascosto. Vedi, c’è questa cosa che Art–– ».

Arthur. Il corpo collassato sulla sedia. Se ne era completamente dimenticata. Erano tutti in potenziale pericolo e lei stava a parlare dell’appuntamento.

E, nemmeno a dirlo, le luci si spensero di colpo. Mentre ancora il neonato gruppo si stava assestando dopo le ultime notizie, l’intera cucina era stata immersa nel buio scatenando il panico. A tastoni Katie, Adele e Kevin si ritrovarono, cercando di ignorare il vociare degli chef e degli altri camerieri. Seppur con qualche difficoltà legata al rumore di fondo la prima riuscì a spiegare ciò che sapeva o aveva intuito: il coma di Arthur, il ritorno del Dio e, per quanto brevemente, la sua precedente esperienza con esso.

« E quindi ora che si fa? » domandò Kevin.

« Se questo Dio è ancora in giro, di sicuro si sta muovendo approfittando del buio ». Katie gettò un’occhiata alla porta di comunicazione, constatando che pur essendo chiusa oscillava come se qualcuno l’avesse appena spinta. Nessuno era uscito per non scatenare il panico, quindi doveva trattarsi per forza del loro nemico. Al di là della soglia i fari erano ancora accesi, ma non sarebbe stato difficile aggirarli e spostarsi tra i tavoli. Se volevano sconfiggere il Dio, dovevano prima sconfiggere l’oscurità.

« Vai al quadro elettrico » intimò Katie al reporter « Dovrebbe essere da qualche parte nell’ufficio di Arthur, o lì intorno, comunque di sicuro oltre le scale in fondo. Accendi le luci del salone ». Kevin annuì con un cenno del capo e, procedendo a tentoni, si allontanò. La donna si rivolse quindi ad Adele e, con poche e concise parole, le disse di seguirla.

Le due entrarono nella hall delle cene. Nonostante il rumore prodotto dai cuochi nessuno pareva allarmato, probabilmente perché si era confuso con quello degli stessi clienti del ristorante. Vederli consumare indisturbati il cibo in una situazione simile era quasi grottesco, ma quantomeno erano tranquilli. Il che era un bene: fintanto che nessuno avesse acceso la miccia del terrore, la situazione poteva essere mantenuta sotto controllo.

« Aaaaaaaah! ».

Katie e Adele trasalirono all’unisono. Non tanto per il grido, ma per qualcosa di più preoccupante: conoscevano la voce. Il silenzio calò di colpo, vanificando l’intera considerazione precedente, e la coppia si voltò con uno scatto in direzione del tavolo di Craig e Silvia. O, per meglio dire, il tavolo di Silvia e di un corpo immobile rovesciato sul ripiano in legno.

La bionda trentenne si alzò con rapidità felina precipitandosi dal professore e scuotendolo invano, chiamando il suo nome senza capire cosa stesse accadendo, per puro istinto. Sia la sorella che la confidente in amore rimasero impalate, gli occhi sgranati, cacciagione facile per un predatore invisibile. Internamente ciascuna sperava in un miracolo, un deus ex machina in grado di salvarle da una condizione che appariva insolvibile. Tra le voci una sovrastava le altre: quella di Saul, che imprecava a un ricevente imprecisato.

« Ma non è possibile! Non anche mentre mangio, cazzo! Mentre mangio, almeno! Mentre mangio! ».

Flash!

Tutto era successo così rapidamente che nemmeno quell’improvviso colpo di scena riuscì a risultare più sconvolgente. L’onda di luce accecò i presenti per un po’, essendosi ormai abituati al buio, ma alla fine si dissolse in dettagli vividi e coloriti. Il Sushi Sans Chichis si presentò per la prima volta al pubblico completamente illuminato, lucido negli intarsi dei seggi quanto per contrasto incredibilmente povero di dettagli laddove normalmente alle perturbazioni luminose non era concesso battere. Lussuoso e rustico al contempo, e tanti saluti a due generazioni di segreti.

Grazie, Kevin, pensò Katie sollevata. Il suo capo roteò di trecentosessanta gradi in un batter di ciglia per acquisire una visione d’insieme della sala, tra cenanti spaesati e chef che iniziavano a uscire dalle cucine, rendendosi conto che la circostanza era ad almeno sei fermate di bus dall’ordinario. E le bastò poco per inquadrare, in ritirata strategica verso l’uscita ma col capo ben fisso sulle possibili vittime e minacce, il Dio.

Ovvero il non-Dio. Perché in effetti tutto sembrava meno che quello: la sagoma inondata dal bagno di luce era di un bipede umanoide simile a una donna in carne dalla pelle color pece, con goffamente indosso un lungo abito rosso che le scendeva ai piedi. Gli astanti la contemplavano con orrore, e il Pokémon a sua volta restituiva la medesima diffidenza. Nessuno osava agire per primo temendo una ritorsione dell’altro, il che era quasi un nonsenso considerate le parti: chiunque si trovasse al ristorante quella sera difficilmente poteva vantare un numero di vittime vicino a quello di Jynx.

Katie non osò chiedere se ci fosse un Allenatore tra loro: in caso di risposta negativa avrebbe comunicato alla creatura che non avevano difese, e mantenere il bluff era più sicuro. Sfortunatamente, Adele non fu dello stesso avviso.

« Ehi, c’è un Allenatore qui? » gridò a vuoto, ottenendo come temuto nessuna replica. In compenso l’uomo del tavolo cinque, in seconda linea rispetto all’ingresso del Sans Chichis, sfilò dalla tasca il cellulare in un probabile tentativo di chiamare le autorità. Senza attendere un istante Jynx mimò il gesto di un bacio e un raggio violaceo fuoriuscì dalla sua bocca, centrandolo in pieno e facendolo crollare al suolo per lo sgomento della sua amante. Tutti arretrarono nel panico, atterriti all’idea di essere i prossimi. Tutti tranne una.

« Riportalo indietro ».

Silvia era rimasta avanti rispetto alla massa, ma ciò non doveva essere abbastanza per lei: forse senza nemmeno pensare alle conseguenze mosse altri due passi verso Jynx, la quale alzò le braccia in segno di difesa. « Riportalo indietro, ho detto ».

Katie osservò la scena sbigottita, colta da una paralisi folgorante nell’attimo in cui aveva visto sua sorella sfidare il Pokémon che aveva appena riprodotto poteri del tutto uguali a quelli del Dio dei giorni scorsi. « Torna qui, Silvia » la implorò sforzandosi di non tradire la paura che covava dentro « Ti prego, torna qui ». La sua voce generò un effetto sonoro inquietante nel salone ovattato, non echeggiando pur nel silenzio completo.

Non sarebbe tornata. Non avrebbe ceduto un millimetro alla sua diretta avversaria, e Katie lo sapeva bene ancor prima di aprire bocca per la supplica. Silvia aveva chiesto aiuto ad Adele mesi prima, il che significava che al momento amava Craig almeno tanto quanto lui amava lei. E nessuno si può interporre tra due innamorati: non un Dio, non un falso Dio, e di certo non una sorella intimorita. Sarebbe morta piuttosto che arretrare.

« È ancora vivo? » domandò ad un tratto Silvia, non distogliendo per un secondo lo sguardo da Jynx.

« Come? ».

« Craig. È ancora vivo? ».

« Io… Io non lo so, non so cos’abbia… Ti prego, torna qui o farà lo stesso anche a te! ».

« Bacialo… » esclamò d’un tratto una terza voce, meno acuta e meno determinata. Katie si voltò a destra, dove Adele aveva l’espressione di chi aveva appena trovato la soluzione alla domanda da un milione di dollari. « Bacialo, Silvia! » ripeté, stavolta con più convinzione. Quella la sbirciò confusa, se non altro però retrocedendo leggermente.

« Che dici? » le domandò l’amica che le era di fianco, sussurrando per non farsi sentire dal pubblico già di per sé fonte d’imbarazzo.

« Quell’attacco somiglia a un bacio, no? Magari se ne dà uno a sua volta inverte l’effetto! ».

« Questa è la cosa più ridicola che abbia mai sentito! ».

« Ma no, invece, ha senso! È come un ritorno di fiam–– ».

« No, senti, cerchiamo di ragionare seriamente, d’accordo? » la interruppe Katie innervosita « Se ci impegniamo sono sicura che possiamo uscirne, ma non con queste assurdità ».

« Per l’amor del cielo, BACIALO! » gridò Adele, e il suo urlo sovrastò l’ultima parte del discorso che l’altra ragazza stava ancora tenendo. Seguì un trambusto rumoroso tra le due litiganti, fermento che disorientò Silvia al punto che, le mani tremanti, afferrò per la giacca il corpo inerte di Craig e premette le sue labbra su quelle fredde di lui. Una lacrima le scivolò ruvida sulla guancia, ma bruciava come una ferita aperta.

Per un lasso di tempo che parve infinito nulla accadde, ma per loro fortuna furono solo pochi secondi nel mondo reale: poi un fioco alone rosato avvolse la coppia mentre il professore, senza comprendere cosa stesse succedendo, riaprì gli occhi. Appena dopo il bagliore si condensò in un singolo nodo e si proiettò sotto forma di raggio energetico dritto contro Jynx che, sbalzata all’indietro, cadde a terra qualche metro più in là con un tonfo spento. Gli occhi sgranati di Katie rotearono da un angolo all’altro della stanza, incapaci di accettarlo: il piano più improbabile della storia aveva funzionato. Gettò uno sguardo di lato per notare che l’altro uomo che era caduto in quella notte, oltre ad Arthur ancora nel suo ufficio, si era appena ripreso. Non era un evento isolato: tutte le vittime di Jynx si erano risvegliate.

Tornò a osservare Craig e Silvia che dopo aver prolungato il bacio fino a quel momento si stavano ora scambiando un dialogo inudibile a quella distanza. Katie non cercò di avvicinarsi, e convinse Adele a fare lo stesso: dopo tutto quello che avevano passato, dopo mesi di corteggiamento convinti di non piacersi l’un l’altro, dopo aver letteralmente salvato l’intera clientela di un ristorante da una situazione apparentemente senza uscita, si meritavano un minuto di sollievo.

 

 

Convincere gli avventori ad andarsene non fu un’impresa ardua come avrebbe potuto essere: alle ragazze fu sufficiente annullare il conto che ciascuno avrebbe dovuto pagare quella sera e garantire che sarebbe stata loro registrata una prenotazione nei giorni seguenti. Arthur si fece vivo poco dopo che la prima onda di clienti ebbe lasciato il locale e spiegargli l’accaduto non fu semplice; tuttavia Katie riuscì a strappargli la realizzazione di tali promesse, se non altro perché il ristorante avrebbe visto la propria immagine sbiadirsi in caso contrario. E poi non aveva dimenticato la menzione dell’uomo di “tavoli di riserva”, come vi si era riferito quella stessa mattina.

Estenuato e confuso il proprietario si allontanò il più in fretta possibile negli uffici sul retro per regolare i nuovi posti a sedere lungo l’arco delle settimane successive, lasciando dietro di sé un esercito di cuochi e inservienti incaricati di ripulire il caos lasciato dall’emergenza odierna. Katie si diresse verso Adele che, mentre lei gestiva diplomaticamente gli interessi del Sushi Sans Chichis, era rimasta a guardia della povera Jynx, ancora K.O. dopo il bacio tra Craig e Silvia, ormai ben distanti nella loro passeggiata notturna. Nessuna delle due giovani aveva ben compreso l’accaduto, nemmeno colei che aveva proposto la soluzione, e per la verità erano decisamente sorprese che avesse funzionato. A volte, forse, è meglio non farsi troppe domande e accettare certi eventi per ciò che sono: prodigi.

« Ancora dorme? ».

« Non ha mosso un muscolo ».

« E ora che facciamo? ».

« Beh » cominciò Adele con un sospiro « Kevin ha detto che avrebbe chiamato la polizia. Credo saranno qui a momenti e la porteranno via. Secondo te la libereranno? ».

« Non penso. Che io sappia la Polizia può risalire alla Poké Ball che ha impresso la riscrittura sinaptica al Pokémon, il che vuol dire che possono individuare il proprietario. Certo, a quel punto passerà qualche guaio » concluse Katie.

Proprio in quell’istante una voce possente spezzò il meccanico tintinnio delle posate che venivano rimosse dai tavoli, seguita da un fracasso di colluttazione.

« Dove vai, eh? » tuonò derisoriamente Kevin K dall’anticamera del ristorante, facendo poi capolino attraverso la porta di tramite con un uomo basso e tozzo stretto sotto la robusta presa del suo braccio. Senza battere ciglio trascinò l’imprigionato lungo mezza hall, ignorando il persistente dimenarsi di quest’ultimo. « Ho beccato questo furbone mentre si nascondeva sotto al tavolo di là ».

Adele lo squadrò a occhi stretti, cercando di ricordare quando l’aveva già visto. Domanda di facile risoluzione: pochi minuti prima. « Ah, lui è il… Saul, giusto? ».

« Proprio lui » rispose il cronista abbassando lo sguardo sui capelli unti dell’ometto « Immagino volesse sgraffignare qualcosa dal locale, eh? ».

« Beh, buon per te » commentò Katie con un sorrisetto « Potrai fare l’articolo che volevi, giusto? ».

« Temo di avere poco tempo, purtroppo. La polizia arriverà a momenti ».

Sulle ultime parole Saul palpitò e iniziò a dibattersi con maggiore intensità « Gli sbirri no! No, vi prego! ».

« Rilassati » lo tranquillizzò Kevin con un tono paternalistico intriso di scherno « Non ti ho colto sul fatto, non ti porteranno nemmeno in centrale. Per farmi un favore dovresti perlomeno dirmi perché ti hanno liberato ieri ».

« No, no, no, voi non capite! Lasciatemi andare! » li implorò, la sua voce che soffriva di acuti improvvisi dettati dal panico. Si rivolse disperatamente al giornalista « Ti dirò quello che vuoi! Dimmi un giorno e un’ora, anzi, ti do il mio indirizzo, ma per favore, lasciami andare! ».

« Calmati due secondi, santo cielo! Cos’hai, droga in tasca? » lo sbeffeggiò Kevin. Poi a metà tra presa in giro e curiosità nelle tasche spiò davvero, ma non c’era nessuna sacchetto compromettente: solo una Poké Ball lucida tinta di un rosso metallizzato. Fin troppo lucida, in effetti: pareva nuova.

Katie impiegò due secondi netti a mettere insieme i pezzi del puzzle. L’unica preda appetibile per un ladro al Sushi Sans Chichis sarebbe stato l’incasso della serata, ma in quell’occasione non ce n’era visto che le cene erano state abbuonate. Non si era trattenuto per quello. « Tu sei il proprietario di quel Jynx, vero? ».

Lo sguardo dell’interrogato non diede adito a dubbi: teso, furioso, serrato su un volto madido di sudore. Adele e Kevin, pur non avendo imboccato il percorso mentale della donna, compresero che doveva aver indovinato.

« Io non sapevo che… Davvero! » sbraitò Saul tremante « L’avevo lasciata al mio appartamento a Reuilly perché non ho il porto! Non so nemmeno come mi abbia trovato, sta a chilometri! ». Di nuovo tentò una fuga, ma il suo custode non allentava un momento la stretta.

Kevin inarcò le sopracciglia « Un Pokémon può sempre rintracciare la sua Poké Ball. Lo sanno tutti gli Allenatori! ».

« È quello il punto: lui non è un Allenatore » puntualizzò Katie con convinzione « Avrà comprato quel Jynx, di certo non catturato. Per questo ha così paura che la polizia trovi lui o il Pokémon: tempo che scoprono che è suo e scatta l’arresto per detenzione abusiva e danno arrecato ».

Uno stinto suono di sirene giunse alle loro orecchie in un crescendo evidente. Parevano lontane, ma considerando l’insonorizzazione del ristorante in realtà potevano già essere alle porte.

« Ti prego, ti prego! » ripeté freneticamente Saul « Non mi dare alla polizia, sono appena uscito! ».

Adele si voltò verso Katie, e altrettanto fece Kevin, entrambi aspettandosi che fosse lei a compiere la decisione cruciale. La donna sogghignò e si chinò per arrivare all’altezza occhi del fuorilegge, le cui gambe erano afflosciate a terra. Aveva quasi rovinato l’appuntamento di sua sorella: meritava una punizione esemplare. Da quel punto di vista forse il carcere non era abbastanza.

« Non ti consegnerò » replicò con uno sguardo affabile, ma il suo tono fu tutt’altro che rassicurante.

 

 

Luminopoli aveva anche un altro soprannome, uno che ricorreva solo in particolari occasioni: la città degli innamorati. Le ombre dell’Île de la Cité, i suoi caldi lampioni gialli e la romantica Senna che tagliava in due la Ville Lumière brillavano di poesia sotto una falce di luna crescente. Craig e Silvia volteggiavano da una parte all’altra del Pont des Arts, le cui balaustre erano vetrina involontaria di una moltitudine di variopinti lucchetti lasciati negli anni passati da innumerevoli amanti. Ridevano, perlopiù; ogni tanto si fermavano a parlare, altre volte invece a osservare i riflessi luminosi del fiume sottostante. Ora lei gli stava indicando in lontananza la guglia della Sainte-Chapelle, senza mai cessare lo sfoggio di quel sorriso che lui adorava.

« Ehi, guarda che ho mosso » borbottò Saul con impazienza.

La bocca di Isidore si contorse a sua volta in una smorfia che da una certa distanza avrebbe potuto ricordare anch’essa un risolino. Girò le spalle alla finestra del suo attico e ai due innamorati per tornare a concentrarsi sulla scacchiera. Il suo ospite aveva portato un pedone in g4, ma si rese conto quasi subito che dalla situazione precedente era cambiato qualcos’altro. Con un sospiro di rassegnazione si posizionò compostamente sulla sedia e, gli occhi fissi sull’avversario, arretrò il suo cavallo di due caselle alla posizione originaria.

Saul lanciò un grugnito di frustrazione: il suo imbroglio non era andato a buon fine. « Potevi almeno lasciarlo dov’era, non è che tu stia perdendo ».

« Che non stia perdendo è evidente » ribatté Isidore serenamente, muovendo poi la regina in h4 « Scacco matto ».

« Ancora? » protestò l’uomo, andando a controllare effettivamente che il suo re non avesse mosse disponibili. Per la dodicesima volta non poté far altro che concordare, afflosciandosi esausto sulla seggiola. « Ma tu non dormi mai? ».

« Sonno polifasico » rispose Isidore alzandosi e dirigendosi verso l’angolo cottura « Dormo sei volte al giorno per venti minuti. Vuoi fare uno spuntino? ».

« Finalmente! Sto morendo di fame! ».

« Allora questo fa al caso tuo » Isidore aprì e chiuse rapidamente il frigorifero, tornando al tavolo con un vasetto trasparente contenente una sostanza marroncina e tre o quattro gambi di sedano.

Saul squadrò con diffidenza lo snack quale veleno a lui ignoto, soffermandosi sull’inquietante barattolino. « Che diamine sarebbe? ».

« Hummus ».

« Mi stai dando da mangiare della terra? ».

« Quello è l’humus, normodotato » lo corresse Isidore, svitando il coperchio per poi intingere lo stelo verdognolo nella salsa e morderlo rumorosamente « L’hummus è pasta di ceci e sesamo. Prego, non fare complimenti, ci penso io a sistemare i pezzi per la prossima partita ».

Saul emise un rumoroso mugugno di lamentazione e logorato si abbandonò allo schienale. Iniziava a capire perché quella donna lo avesse parcheggiato lassù anziché darlo in pasto alle autorità di Kalos.

Perché le donne sanno essere molto più spietate di quanto appaiano.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Presentazioni & 1x18 - Le nebbie di Castel Vanità ***


Untitled 1

presentazioni

Sì, sto inserendo la premessa alla storia nel diciottesimo capitolo. Che scrittore che sono, meriterei una recensione solo per questo.

Se c'è qualcuno che ha seguito più di un mio racconto – no, Ivan, tu non conti – si sarà accorto che questo è l'unico a cui non ho apposto un'introduzione. Come risultato, chiunque mi abbia conosciuto da LKNA (ovvero, ad oggi, tutti quelli con cui abbia parlato a riguardo – Ivan, per l'amor di Dio, smettila di alzare la mano –) non ha la minima idea di chi sia. Quindi piacere, Novecento, il nome viene dal film, laureando in Fisica, aspirante Dio, tanti saluti, vi rimando alla mia pagina personale.

Passando a cose più serie: fegatini. Passando ad altre cose ugualmente serie, perché scrivere la premessa proprio qui? Tralasciando l'ovvio “me ne ero scordato al momento della pubblicazione” (palle, non avevo semplicemente voglia), perché non aggiungerla all'inizio dell'1x01? Varie ragioni.

Punto primo: fegatini; l'ho già detto, ma repetita iuvant. Punto secondo: con l'1x17 termina una sorta di gigantesco pilota che ho anteposto al cuore della storia. Ora, nei miei passati discorsi con altre persone ho fatto finire la “sezione pilota” di LKNA ad almeno tredici punti diversi: in ordine sparso citiamo 1x01, 1x02, 1x03, 1x05, 1x10, 1x16. Ma stavolta sono abbastanza convinto di aver raggiunto il punto chiave: ho introdotto personaggi fondamentali, ne ho approfondito la personalità, ho sfoltito il gruppo iniziale delineando la coppia di cui seguiremo il viaggio, ho aperto qualcosa come tredici (uno per pilota) filoni narrativi, e fegatini (ndA: fegatini vale eccetera).

Quindi eccoci qui: diciottesimo capitolo, fine delle esercitazioni, ora si gioca per davvero. Via all'introduzione seria.

 

la struttura

Pochi eletti – buon Dio, Ivan, la smetti? – sanno già come funziona questa storia e cosa sia in realtà. Iniziamo con il genere: mi piace definire quello a cui appartiene LKNA come adventure fiction, nel senso di una fiction basata sulle avventure. Mi è stato fatto notare a più riprese come somigli alla serie sci-fi britannica Doctor Who, e vorrei specificare che non è un caso: essa, essendo il perfetto esempio di come intendo una adventure fiction (struttura episodica con trama a progressione orizzontale, o come piace dirla a me “autoconclusivi per finta”), è stata ed è di costante ispirazione per la stesura di LKNA.

Ciononostante vorrei chiarire un paio di questioni che sono sorte con il tempo. LKNA non è:

·         un piatto di risotto;

·         un crossover tra Pokémon e Doctor Who (non c'è alcun personaggio di Doctor Who);

·         una storia Pokémon con il Dottore come protagonista (pur essendoci alcuni tratti in comune tra alcuni Dottori recenti e Bellocchio dovuti all'essere tutti basati sull'archetipo del genio folle, Bellocchio non è il Dottore né mai lo sarà. Un simile discorso vale riguardo personaggi secondari di LKNA e compagni del Dottore);

·         una raccolta che rielabora episodi di Doctor Who in chiave Pokémon (questo dubbio è sorto per una buona ragione: il doppio opener Bellocchio chi?/La Dama Cremisi è un mio dichiarato rimaneggiamento di The Eleventh Hour, primo episodio della quinta stagione di Doctor Who);

·         un piatto di lasagne. In effetti posso dire in tutta sicurezza che LKNA non è un primo.

Ora posso passare a dire cosa LKNA è: una fan fiction ambientata in un otherverse con alcune evidenti modifiche temporali (in Pokémon X e Y Bellocchio ha una quarantina d'anni, Calem e Serena probabilmente sedici). Eccettuate queste ultime LKNA si configura come un prequel personale di Bellocchio, che qui è decisamente più giovane; la sua natura di prequel giustifica anche parzialmente alcuni cambi caratteriali nei personaggi, ma ho comunque apposto la dicitura OOC per chiarire che non seguirò le personalità del videogioco.

 

i ritmi

LKNA è divisa in tre stagioni che confluiranno tutte in questo file di EFP (quindi mi spiace, per i punti bonus delle recensioni ne avrete da aspettare): se qualcuno non ci fosse ancora arrivato dopo diciassette capitoli, il numerino 1 che avete a sinistra indica proprio la stagione in corso. Il break estivo da cui provenite se state leggendo in diretta segna l'inizio della Season 1 Part 2, e conto di pubblicare un episodio ogni due settimane senza pause fino a luglio, quando ci sarà il gran finale della prima stagione. Niente interruzioni natalizie (anzi, prevedo uno speciale a tema), né per eventuali altre storie da me pubblicate (tipo una certa Involutus che attende nel mio PC di essere completata): LKNA procede sempre e comunque.

 

ultime note

Giusto alcuni accorgimenti: esistono due segmenti di testo che spesso si troveranno nei capitoli a seguire. Uno è il previously, che dovreste avere già incontrato se avete letto i capitoli passati e la cui funzione è abbastanza ovvia: nel caso di avventure in più episodi riassumerà quanto successo in quelli precedenti. Devo comunque avvertire che non servirà da recap globale, indi non potrete leggere un capitolo e aspettarvi di capire tutto ciò che succede semplicemente scorrendo quella prefazione. Essa è pensata per rinfrescarvi la memoria, non per consentirvi di saltare impudentemente pezzi di storia.

La new addiction di questa seconda parte di stagione è il next time: all'episodio finale di ogni avventura a più parti seguirà un trafiletto di qualche riga, più o meno criptico a seconda dei casi, che anticiperà con moderazione cosa dovrete aspettarvi due settimane dopo.

Direi che questo è tutto. Vi auguro buona lettura.

 

cout << endl; (ah, no, quello è C++)

Novecento

 

 

 

 

 

 

Lisciati barba e baffi bianchi e sistemato l'elegante abito d'altri tempi, Mr. Moon prese un respiro profondo e spalancò la porta del Congresso. L'emiciclo quasi parve non accorgersene, continuando imperterrito nel caos che da un mese a questa parte ormai regnava sovrano al suo interno. Da un lato, asserragliati nel loro spicchio dell'aula, i Corsari lanciavano invettive e sfoderavano fogli di denuncia. Alle scorse elezioni, solo due anni prima, avevano riscosso un ottimo successo: non la maggioranza, ma comunque il primo partito di Kalos; mai però avrebbe immaginato che sarebbero stati una tale spina nel fianco. Accanto a loro sedevano gli ex-fedeli dei Diecipunti, piccola forza politica estremista confluita nei Corsari due mesi dopo le amministrative per far fronte proprio a lui, proprio a Mr. Moon. Non ci aveva dato troppo peso, al tempo: non diventi Presidente di Kalos e Grande Assessore di Luminopoli senza farti qualche nemico.

Poi erano venuti gli scandali, le inchieste di Le Monde, le raccomandazioni, le collusioni, le divisioni nel suo stesso partito. Facessero meno i santerellini, diceva sempre, i parlamentari privi di scheletri da nascondere si contavano sulle dita di una mano. E ora eccolo nella sua ultima marcia su quegli scalini a presiedere la Camera, stanco e inviperito. Ora si erano resi conto che era entrato, ognuno a modo suo: chi gridandogli frasi ingiuriose, chi chinando il capo senza osare incontrare il suo sguardo, chi avvicinandosi alla sua poltrona per offrirgli incoraggiamenti di circostanza.

Alle undici in punto varcò la soglia Lysandre Faubourg, suo amico di lunga data e, per molti versi, allievo fidato. Eppure, quando incrociò a distanza i suoi occhi, i ruoli gli parvero invertiti: era quasi egli stesso il bambino colto con le mani nella marmellata e l'Intermediario il padre immalinconito costretto ad assistere al suo fallimento. Glielo poteva leggere nell'espressione avvilita: il Consiglio dei Superquattro aveva revocato la fiducia al governo. Sarebbe uscito da quella Camera da disoccupato.

 

 

 

Episodio 1x18

Le nebbie di Castel Vanità

 

 

 

« Sarò breve e circonciso… ».

La speaker radiofonica non riuscì a trattenere un risolino all'incipit del discorso di Di Giovanni, che di certo non avrebbe messo in buona luce i Corsari culturalmente parlando. Silvia si unì all'ilarità prima di spegnere la radio integrata e uscire dall'autovettura. Respirò con piacere l'aria di Castel Vanità, una frescura stabile che permeava la cittadina infiltrandosi tra i cumuli di nebbia. Un brivido le percorse la schiena, ma non seppe che significato attribuirvi: poteva essere per la nostalgia di ritornare al suo paese natale, ma forse era solo perché una temperatura così bassa a marzo la coglieva del tutto impreparata.

Si incamminò lungo il viale alberato in cui aveva parcheggiato, giocando con la condensa che produceva con il fiato, e per diversi minuti non fece altro che aggirarsi per il luogo, percorrendo salite, discese e curve che avevano segnato la sua infanzia. Castel Vanità era un piccolo villaggio dell'entroterra di Kalos, quasi uno sputo di civiltà su una campagna così vasta come quella che si profilava a ovest di Luminopoli. La stessa capitale della regione era visibile in lontananza in giorni dai cieli più tersi di quello odierno, e Silvia era cresciuta sognandola. Eppure nessuna Torre Prisma per lei aveva lo stesso fascino della sua cara, vecchia casupola.

Eccola là, immersa nella foschia, solida nelle sue mura di mattoni e taciturna come sempre. Erano almeno tre anni che non la visitava e ciò le provocò nel cuore un'emozione non indifferente mentre bussava secondo il suo schema canonico. Ti-toc, ti-toc, toc-toc.

Dopo qualche istante le aprì una signora di mezza età, leggermente più alta di lei e dai capelli più tendenti al castano. Non era mai stata molto convinta del colore dato che il ceppo da cui proveniva vantava una tradizione di chiome bionde, ma aveva sempre dovuto fare i conti con la realtà: sua zia Tonya non era una da tinte.

Impiegò qualche istante a riconoscere sua nipote, ma l'accoglienza compensò abbondantemente per il lieve ritardo. « Silvia! » proruppe gioiosamente Tonya, stringendola a sé con una forza considerevole per una donna di quell'età.

« Ciao, zia! » ricambiò lei con un sorriso « Quanto tempo! ».

« Fideg, però, ti s’è alzata! ».

« Lo sai che ormai non cresco più » ribatté Silvia giocosamente. Quel fideg l’aveva colta alla sprovvista, ma aveva impiegato poco a entrare nella logica del parlato dialettale di Tonya.

« Oh… Allora vol dì che la tua zietta s’è abbassà, neh? Ciapa, vien dentro! ».

L'interno aveva un aspetto strano: per quanto, come succede a chi non vive in un posto per molto tempo, apparisse come un ambiente nuovo, era esattamente come la sua precedente inquilina se lo ricordava: rustico, senza ghirigori simili a quelli della nuova abitazione di sua madre, e tuttavia ospitale almeno tanto quello. In una parola, casa. Del resto era prevedibile che la zia non avrebbe mosso un dito per riparare ciò che non era rotto dopo esservisi trasferita. Non era la sua mentalità.

« Cum’è che la sta, poi, Brianna? Si fa mai vedé, chi ».

« Come? Ah, sta benissimo, non parla quasi più di papà. Non la vedevo così felice da prima dell'incidente. Scusa » domandò Silvia dopo essersi ripresa dallo shock di ritrovarsi, una volta di più, in luoghi che aveva frequentato assiduamente solo da bambina « per caso è arrivato il mio pacco? Quello che ti dicevo via telefono ».

« Chel dei tizi in rosso? Sun passà alle vot e mezzo » spiegò Tonya « Poi che ero già sveglia da due ore. Mai perdere le cattive abitudini! Ciapa, l'ho messo in sala da pranzo ».

Silvia si sorprese di quante cose avesse dimenticato in così pochi anni. Il tavolo da pranzo era una di esse: nascosto da un muro divisorio che celava la cucina, un tempo esattamente ogni primo dicembre si sedeva lì e, previo posizionamento di un cuscino sullo sgabello per arrivare al ripiano, redigeva la sua lettera a Babbo Natale. Non serve specificare che vedere sopra a quel mobile in legno levigato un oggetto di alta tecnologia come un modulatore di Gauss scatenava un'antitesi difficilmente trascurabile.

Lo esaminò dal tubo di vetro produttore di bosoni al puntatore di precisione, riscontrando che era messo meglio di quanto si aspettasse. Se fosse riuscita a trasportarlo al laboratorio del Frattale integro, e pur con la mole di imballaggi di cui si era munita non ne era certa, avrebbe potuto rivoluzionare la scienza.

« Cusa l’è? M’han dì de non lo tucar, li gh'eran tesi » commentò Zia Tonya.

Silvia sorrise pensando a come avrebbe fatto a spiegarlo a una persona completamente digiuna di fisica contemporanea. « Hai presente lo scorso Galà di Luminopoli? ».

« Alla radio parlavan solo de chelo. Non c’ho capì molto, ma ricordo che’l cielo l’è diventà viola ».

« Sì, beh, era collegato a questo, il modulatore di Gauss » proseguì la donna, certa che a breve non sarebbe stata in grado di andare oltre « Un oggetto tanto strano che non potrebbe nemmeno esistere. Colress l'aveva usato per un cannone a gravitoni, cioè… In pratica questo affare produce… particelle di gravità, diciamo, e ha intensificato localmente il campo gravitazionale per tirar giù la cometa Ikeya. Si credeva perduto nell'esplosione, e invece eccolo qua ».

« Oh, ‘ste nove tecnologie son troppo assurde per la tua zietta… Come chel cos, come se ciama, il tele-vison… ».

La risata di Silvia spezzò il suo momentaneo imbarazzo « Televisore, e sarebbe ora che te ne prendessi uno anche tu ».

« Fideg! » esclamò Tonya punta nell'orgoglio « Così finisco come Baer el bechèe! ».

« Chi? ».

« Baer! Non ti ricordi, ti portavo da piccola a ciapà le salcicce. Ora s’è preso uno di chegli smarfòn e non lo si vé mai ».

Apparentemente bechèe significava macellaio, altrimenti il resto non avrebbe avuto senso. Buono a sapersi. « Ora che ci penso… Non ho incontrato nessuno mentre venivo qui. Dove sono tutti? ».

« Oh, mi sa in casa, con ‘sto frecc… È tua la setiman che va avanti. Parola mia, mai visto un frecc così a marzo! Ma ormai con chele scie avvelenate ce stan a levar pure la primavera, che ci vuoi fà… ».

Silvia aggrottò la fronte e si accostò al vetro della finestra, dando una sbirciata fuori. Non un'anima viva in giro, esattamente come prima, ma ora che guardava meglio c'era qualcosa di strano. Al di là del silenzio, al di là del vuoto, qualcosa che le pareva innaturale.

«Nonna Carol! » sobbalzò a un tratto, divergendo completamente dalle sue considerazioni precedenti. Si voltò con uno scatto « Non sono passata a salutare la nonna! Cavolo, non la vedo da così tanto tempo… Ha ancora quella sua stanza a Fort de Vanitas, vero? ».

Zia Tonya abbassò lo sguardo al pavimento come a non trovare le parole, e ciò mise in allarme sua nipote come poco altro. « La nona ora vive chi… ».

« Come? Da quando? Credevo avesse detto che in quello stanzino ci sarebbe morta piuttosto che andarsene ». Silvia non nascose un pizzico di sollievo: aveva temuto il peggio all'espressione cupa della zia.

« Eh, da mardì, ormai… Io vuleo avvertirti, ti ho ciamata a casa ma non rispondei… E Brianna non c'è mai, l’è più ».

Martedì era il giorno in cui sua sorella Katie era caduta in coma vigile a Luminopoli; o meglio, era successo nella notte tra lunedì e martedì, e appena saputolo era accorsa all'ospedale per raggiungere sua madre. Non era rientrata alla sua casa di Novartopoli in quel periodo, il che spiegava perché non avesse saputo niente. Quanto a Brianna stessa, quando aveva tagliato i contatti con il passato aveva dato a sua sorella un falso numero, e ancora non aveva trovato il coraggio di dirglielo. « Ma continuo a non capire. Perché è venuta a vivere qui? ».

Tonya era in evidente difficoltà, come se avesse paura anche solo a parlare. Per quanto esortata un paio di volte dall'interlocutrice, uno spirito timoroso delle giustizie divine come il suo non riuscì a dire altro che « Sta al pian de hura ».

Il piano di sopra, tradusse mentalmente: un invito implicito a salire. Silvia accettò confusa. « Non vieni con me? ».

« L’è mej de no, in due la se spaventa » rispose lei « Starò chi sotto e accenderò il camino, che inizia a fà trò frecc anche per me ».

Un'affermazione senz'altro sibillina quella di prima, pensò la giovane: in due si spaventa? Ritornò in soggiorno e svoltò oltre l'angolo terminale del divisorio per giungere alle scale con apparente calma, ma dentro turbinava di dubbio. Non era un'ingenua: dalle parole di Zia Tonya si era fatta un'idea di quale dovesse essere la circostanza. Ma la bambina che era in lei non poteva accettarlo, e la fisica che era in lei non poteva accettarlo senza esserne prima testimone in prima persona.

In cima alla rampa stava una porta chiusa. Una volta era la camera da letto sua e dei suoi genitori, prima che si trasferissero a Luminopoli; poi lo era stata per sua zia, insediatasi dopo che la sua abitazione precedente era stata pignorata. Ora, a quanto pare, un altro inquilino si era aggiunto.

Bussò tre volte, senza rispettare il suo solito ritmo per decoro, e una voce anziana rispose dall'altra parte « Sono qui! ».

Silvia entrò timidamente. Tre o ventitré anni poco cambiava: la stanza era sempre rimasta uguale da quando lei e la famiglia l'avevano abbandonata. Nemmeno le lenzuola dei giacigli erano diverse: stesso motivo floreale, ma anziché un solo letto privo di polvere ora erano due. Notò tuttavia due altre aggiunte: alla parete destra era stato appeso uno specchio antico, e davanti a quello che una volta era il suo letto, probabilmente presa in prestito dal pianterreno, era stata posta una sedia di vimini addobbata con un cuscino sullo schienale. Sopra di essa una vecchia smilza dai capelli sparuti e bianchi sedeva pudicamente, stringendo tra le mani un elegante bastone da passeggio dal manico intagliato a formare la testa di un serpente.

La giovane alzò la mano per porgere i saluti, ma la vegliarda non fece altro che ripetere « Sono qui! » con un sorriso enigmatico in volto.

« Ciao, nonna! Come va? ».

Ancora una pausa spiacevole, un respiro rumoroso e « Ciao! Sono qui! ».

Silvia annuì comprensiva e si collocò sul vecchio materasso di sua madre con flemma, non celando la rassegnazione che covava dentro. La fisica dentro di sé era appagata, la bambina decisamente meno. Sua nonna non c'era più; o meglio, c'era con il corpo, ma non con la mente. Nemmeno guardava sua nipote, come se non si rendesse conto che era lì. Manteneva lo sguardo perso nel vuoto.

« È parecchio che non ci vediamo, eh? » cominciò, cercando come poteva di trattenere la tristezza all'interno. Questa volta non ottenne nemmeno una risposta.

Rammentò i pomeriggi al parco, quando quella meravigliosa donna le offriva sempre un gelato anche se i suoi non volevano. Rammentò le gite a Fort de Vanitas, che già a quattro anni conosceva a menadito, ma che aspettava sempre con trepidazione perché avrebbe trascorso una giornata intera con la nonna. Rammentò le cene natalizie, quando il suo regalo era sempre il più bello, e chissà poi dove li trovava i soldi, ma da piccoli non ci si pensa. Le scese una goccia di pianto, una singola goccia dall'occhio destro, come se anche i suoi sacchi lacrimali non volessero mancarle di rispetto mentre osservava quel guscio privo di sostanza.

« Ti ricordi quando ti venivamo a trovare? » le domandò con voce spezzata, prendendole la mano sinistra tra le sue e stringendola « Mi chiedevi se avevo già un ragazzo, e io ti dicevo che non mi interessavano. Beh, ne ho conosciuto uno, alla fine ».

« Ciao! » Nonna Carol si voltò nella sua direzione, facendole saltare un battito. Ma l'illusione durò poco: non era un lampo di coscienza, solo le sinapsi che reagivano per conto loro.

Silvia portò la mano gelida dell'anziana al viso per asciugarsi gli occhi umidi, sorridendo al pensiero dell'appuntamento del giorno prima. « Si chiama Craig, ieri ci siamo fidanzati. È così dolce… Ti–– ». Ti sarebbe piaciuto, avrebbe voluto continuare, ma le emozioni presero il sopravvento sulla ragione. Si immobilizzò e tacque, navigando nel fiume dei ricordi senza una meta, pronunciando parole sconnesse che per lei avevano tutto il senso del mondo. In nessun'altra occasione si era sentita così vecchia.

 

 

Scendendo le scale dopo circa un quarto d'ora di dialogo unilaterale, Silvia rammentò una cosa: non aveva detto a sua zia che Craig l'avrebbe raggiunta l'indomani per una vacanza insieme a Castel Vanità. Inizialmente pensava di utilizzare quella stessa casa, ma dal momento che ora sarebbero stati in quattro forse avrebbe fatto meglio ad affittare una camera d'albergo. Non aveva idea di come procurarsi i soldi, ma forse sua madre Dama Brianna avrebbe potuto pagare.

Tornata al piano terra, tuttavia, qualcos'altro la colpì: l'odore di miele che aveva trovato all'ingresso era ancora lì, quando si sarebbe attesa che venisse sostituito dall'acre profumo di falò ardente. Controllò il caminetto solo per confermare la sua intuizione: la legna era al suo posto, ma non era stata accesa. « Zia! » chiamò ad alta voce « Zia, dove sei? ».

Attese invano una risposta, quindi suppose che doveva essere uscita e non l'aveva avvertita per non mettere Nonna Carol in allerta. Varcò a sua volta la porta di casa, non preoccupandosi neanche di serrarla dato che non si vedeva nessuno in giro, e la pungente temperatura autunnale la fece tremare per un istante. Fece qualche passo in avanti e si guardò attorno, stringendosi nella sua giacca poco adatta a quel freddo. C'era qualcosa di davvero innaturale: non era solo deserto, era vuoto. Anche nei piccoli paeselli c'è sempre qualcuno che passeggia, qualche anziano che siede alle panchine, e invece nulla, non una sagoma in vista. E ciò non era per nulla naturale, persino per Castel Vanità.

Si aggirò nella bruma alla ricerca di qualcuno, vagando per minuti nell'isolato della vecchia scuola elementare adesso chiusa per taglio dei finanziamenti da parte del governo centrale, soffermandosi sullo spiazzo che rendeva macabramente visibile il cimitero sulla collina che dominava la città. Poi attraversò interamente lo storico Corso dei Negozi, dove da piccola la portavano a scegliere i regali di compleanno, ma anche qui un buco nell'acqua: era tutto chiuso. Si rese conto che le conoscenze che aveva assimilato quando ancora portava il cerchietto ai capelli non potevano aiutarla.

No, però, aspetta. Poteva essere deserto quanto voleva, ma lei una persona l'aveva vista: Zia Tonya. Stava in casa intirizzita, pronta per accendere il camino, ma era uscita: perché? C'era una sola cosa che poteva averla fermata: non aveva nulla per scatenare la prima fiamma. Doveva essere uscita per forza a comprare un accendino – o più facilmente, conoscendola, una scatola di zolfanelli. Doveva per forza essere passata dal tabaccaio; e il tabaccaio di Castel Vanità Silvia lo ricordava bene, perché suo nonno era un gran fumatore e ci faceva sempre una capatina.

Corse a passo sostenuto nel luogo dov'era un tempo, una larga via in pendenza, sperando che non si fosse spostato e, soprattutto, che fosse ancora aperto; e una volta tanto le sue preghiere furono esaudite. La gioia che provò intravedendo il grande cartello pensile a T e il vetro libero da serrande fu immensa, quasi paragonabile a quella di entrarvi e scoprire, con lo scampanellio della porta che risuonava ironico nel locale, che anche il proprietario era al suo posto.

« Mi scusi, per caso è passata di qui una donna? Sulla cinquantina, capelli scuri, alta più o meno come me… ? » domandò Silvia riprendendo il fiato che la nebbia le aveva rubato. L'uomo poco più grande di lei che le dava le spalle non rispose, proseguendo indaffarato a contare i soldi nel registratore di cassa.

« Mi ha sentito? ».

Quasi volesse prendersi gioco di lei, quello intensificò il computo delle banconote ignorandola completamente e canticchiando sottovoce un motivetto stonato.

Silvia vibrò per l'impazienza e alzò i toni « Sentimi bene, coso, sono già abbastanza seccata perché sono praticamente sola in questo buco, quindi se volessi dirmi cosa sta–– ».

Senza lasciarla finire, in un cambio completo d'atteggiamento, il signore si voltò di scatto e la fissò direttamente « Sei idonea ».

« Co–– Come dici? ». La donna non ebbe molto di che crucciarsi su quell'enigmatica affermazione, perché la sua attenzione fu catalizzata da una diversa questione: gli occhi stampati sulla faccia che le aveva rivolto la parola avevano le iridi rosso sangue.

« Sei idonea! » ripeté quello, stavolta più convinto e con una cadenza più da illuminazione che da enunciato.

È buffo come certe deduzioni ti colgano nei momenti meno indicati. Per esempio Silvia comprese solo in quell'istante cosa le aveva causato tanto turbamento guardando fuori dalla finestra non molto tempo prima. Faceva freddo, e apparentemente tutti gli abitanti erano asserragliati nei loro nidi a riscaldarsi di fronte a un minestrone bollente. Eppure, in un villaggio tanto arretrato da poter plausibilmente avere due, massimo tre stufe elettriche tra tutti i suoi residenti, non un solo camino sbuffava fumo. Non erano nelle loro case.

Lo squillante dlin-dlon della porta d'ingresso preannunciò l'entrata di un'altra persona, stavolta un vecchiardo in sedia a rotelle dalla bocca tremante. Silvia non si fece ingannare nemmeno per un secondo: anche i suoi occhi erano due rubini opachi, e ora che guardava meglio le palpebre non battevano mai. Notando che il tabaccaio aveva mosso qualche passo nella sua direzione si slanciò verso l'uscita, spiccando un salto per scavalcare l'invalido che aveva di fronte. Questi la afferrò per un piede con una glaciale stretta che poco o nulla aveva in comune con l'età che l'uomo dimostrava: troppo rapida e troppo, troppo forte. Alla fine, a furia di divincolarsi cercando al contempo di non ferire quel poveraccio, Silvia si liberò ritrovandosi dopo una capovolta in mezzo alla gelida strada obliqua della privativa.

Si alzò con un balzo dando un'occhiata in giro, e avrebbe potuto giurare che la nebbia si fosse infittita. Iniziò a correre in discesa confidando che sarebbe stato più facile, ma fu obbligata a fermarsi quasi immediatamente: dalla pallida foschia era emerso prima un singolo corpo con le braccia protese verso di lei, poi decine e decine di altri, tutti con iridi rosse, tutti più simili a cadaveri ambulanti che a esseri umani, annidati nella caligine come avvoltoi sospesi sopra una carogna.

Silvia invertì il senso di fuga con sconforto: non solo ora procedeva in salita, ma si stava anche allontanando dall'automobile, unica sua ancora di salvezza. La demoralizzazione comunque durò poco, almeno in quella versione: non aveva percorso nemmeno una ventina di metri quando, dal lato opposto della strada, altri uomini e donne erano sbucati dal fumo bianco con lei come bersaglio. Arretrò a passi lenti, ma fu costretta a lasciar perdere anche quel piano quando realizzò che non aveva dove andare con entrambe le vie di ritirata ostruite.

La folla di abitanti iniziò a convergere verso di lei fino a metterla letteralmente con le spalle al muro, virtualmente addossata contro la parete di un edificio e rigidamente circondata. La prima fila era accortamente occupata da quei pochi giovani che Castel Vanità poteva vantare; o meglio, quasi del tutto occupata da giovani. La sola intrusa in quella tattica era, con suo definitivo avvilimento, Zia Tonya, anch'ella ormai vittima di quell'incomprensibile morbo. Ipotizzò addirittura di usare quello che pareva un dileggio come falla per sfondare quel lato e fuggire, ma le sovvenne l'immagine del disabile novantenne che reagiva con la prontezza del fiore degli anni.

Dovette rassegnarsi: non c'era modo di salvarsi. Non si domandò nei suoi ultimi attimi cosa le avrebbero fatto una volta presa, se l'avrebbero torturata, uccisa, convertita o che altro; pensò solamente a Craig, a quanto avrebbe sofferto e al fatto che anche lui avrebbe probabilmente fatto la stessa fine per colpa sua dato che doveva raggiungerla quel giorno stesso.

Senza preavviso qualcuno o qualcosa afferrò la sua mano da dietro, e Silvia si sorprese del fatto di essere ancora capace, nonostante avesse taciuto fino ad allora, di emettere un grido di paura. Si voltò: un uomo in completo e cappotto dai cappelli sbarazzini aveva aperto dall'interno la porta della dimora dietro di lei, e ora le tirava il braccio.

« Corri ».

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** 1x19 - Dietro la porta ***


PREVIOUSLY ON LKNA

PREVIOUSLY ON LKNA: Silvia Celant, insegnante di fisica al Liceo per Allenatori di Novartopoli, ritorna a Castel Vanità, paese della sua infanzia, per recuperare un modulatore di Gauss portato alla casa di sua zia dalla fondazione Flare. La nostalgia cede il passo alla constatazione di quanto è cambiato: sua nonna mostra disturbi neurologici e, più inquietante, non c'è anima viva in giro. Indagando a riguardo Silvia compie una scoperta raccapricciante: l'intera popolazione del villaggio, zia compresa, è ora un'orda incapace di pensare e determinata a catturarla per obiettivi ignoti. Proprio quando tutto sembra perduto e la donna è con le spalle al muro, tuttavia, qualcuno le prende la mano.

 

 

 

 

 

 

« Corri! ».

L'uomo la trascinò per il braccio dentro l'abitazione e chiuse con violenza la porta dietro di sé. Silvia approfittò di quell'attimo di pausa per analizzare l'ambiente: non aveva scorto l'insegna all'esterno per ovvie ragioni, ma di primo acchito doveva trattarsi di un bar a giudicare dall'arredamento legnoso e dal soppalco largo circa metà del pianterreno. Con sua sorpresa il suo salvatore si trovava già là in alto, giuntoci dopo essersi inerpicato sulla scala a sinistra.

« Ti muovi? » le domandò dalla postazione sopraelevata « Non li ho mica fermati con una porta ».

Silvia annuì e lo raggiunse mentre quello stava bussando ermeticamente sul soffitto, percorrendolo per l'intera lunghezza del matroneo.

« Perché saliamo? » lo interrogò.

« Perché quassù arriveranno più tardi, pensa lateralmente ».

« Ma siamo in trappola ».

« Un problema alla volta » replicò lui. In quel momento uno dei suoi colpi a vuoto risuonò più sordo degli altri e, quasi in contemporanea, il branco inseguitore fece breccia nell'ingresso inferiore. L'uomo in completo sferrò un calcio ben piazzato alle assi superiori, rivelando una scaletta retrattile che conduceva oltre una botola nascosta. « Ah-ha! Beccata! » esultò prima di iniziare a scalarla.

La donna fece lo stesso, ritrovandosi con suo disappunto in bilico su un sostegno sdrucciolevole. Sdrucciolevole e ricurvo, e dall'atmosfera circostante fredda. Ci mise un po' a rendersene conto, ma erano snidati sul tetto. Fece per chiedere cosa fare dopo, ma il cappotto marrone dell'uomo svolazzava già diversi metri più in là, approfittando della vicinanza tra le case di quel rione. Silvia dovette fare appello al suo intero repertorio giovanile di ginnastica artistica per non scivolare giù, e ciononostante ci andò vicina un paio di volte.

Finalmente riprese l’inseguito, il quale nel frattempo si era arrestato al limitare di una delle sommità, peraltro una pericolosamente storta. Dopo averlo studiato attentamente comprese perché la sua silhouette gli risultava tanto familiare.

« Ehi, ma io ti conosco! Sei lo svitato di Novartopoli! ».

« Sì, grazie Silvia ». Senza dire altro sfilò la sua unica Poké Ball dalla cintura e la aprì, chiamando in causa un piccolo Fletchling svolazzante. Quindi, come se il resto fosse evidente, protese la mano alla donna per invitarla ad aggrapparsi.

« Non vorrai mica volare con quello, vero? Non ci reggerà mai! ».

« Che idiozia, ovvio che non voglio volarci! » replicò lui stringendole il braccio con un guizzo. La sua bocca si contorse in un sorriso tanto allegro da sembrare finto « Planeremo! ».

Silvia stralunò gli occhi nel terrore e abbozzò una protesta, ma prima di poter aprire la bocca si scoprì a mezz'aria, avvinghiata a un pazzo che a sua volta si reggeva alla piccola gambetta di un pettirosso grave quanto una piuma. Il loro viaggio come prevedibile durò poco visto che il Pokémon si vide incapace di sostenere oltre il loro peso e li sganciò prima del previsto. Come risultato entrambi i passeggeri capitombolarono su una strada lastricata in pietra, per loro fortuna con quasi nessuna contusione.

« Ah, beh, finalmente! » proruppe una terza voce, che Silvia identificò poi come appartenente a una bionda forse ventenne dalla corta gonna vermiglia. L'uomo parve conoscerla dal momento che sembravano condividere informazioni non dette.

« E lei? ».

« L'unica che ho trovato ancora sana. E a tal proposito… ». Si interruppe per lasciare che un rumore fino a quel momento passato inosservato fosse colto dalle loro orecchie. Suonava simile a una mandria di tori infuriati e, cosa più preoccupante, era in palese crescendo.

« Nephtys, Scacciabruma! ». Il piccolo Fletchling, con sorpresa di Silvia non ancora esausto dopo la planata, sbatté rapidamente le sue ali producendo un vento sferzante che dissipò il settore di nebbia di fronte a loro, mostrando per orrore dei superstiti che l'esercito privo di coscienza da cui erano scappati si stava ora precipitando a tremenda velocità nella loro direzione, favorito dal pendio su cui marciava.

« Sanno correre? ».

« Che centometristi. Chiunque sia il burattinaio ha un talento ».

« Credo sia l'ora del Piano B » commentò la ragazza in rosso, e a sua volta imbracciò una sfera rosso fiammante « Karen, Protezione! ».

La sagoma fuoriuscita dal lampo di luce non attese nemmeno il tempo di stabilizzarsi: una sfera rosata brillò attorno al corpicino di Ralts ed esplose in espansione fino a inglobare decine di metri di raggio e mettendo al tappeto chiunque si trovasse sul suo cammino. Quando la luminosità dell'ambiente tornò compatibile con l'occhio umano, Castel Vanità era una città di salme inerti.

 

 

 

Episodio 1x19

Dietro la porta

 

 

 

« Risponde la segreteria telefonica del numero 399009419. Il numero da lei chiamato non è al momento raggiungibile. Lasciare un messaggio dopo il segnale acustico ».

« Craig… Non venire a Castel Vanità, non è… » Silvia gettò uno sguardo alla distesa di cadaveri che la circondava, incapace di trovare le parole « Ho finito il credito, quindi non potrò richiamarti. Ti amo ». Sconsolata distolse il telefono dall'orecchio e lo squadrò vacua. Mille frasi possibili da lasciargli e aveva scelto le più vane. Figurarsi se una comunicazione tanto generica avrebbe tenuto il suo fidanzato distante; anzi, probabilmente lo avrebbe incuriosito ancor di più. Ottimo lavoro.

« Credito? » domandò la ragazza in rosso, avvicinandosi a lei dopo aver ritirato Ralts. L'uomo frattanto si era allontanato per studiare i rimasugli dell'orda che li aveva assaliti, e non sembrava intenzionato a staccarsene presto. « Ne ho sentito parlare… Sono tipo dei soldi, giusto? Il PSS ha le chiamate gratuite, se vuoi… ».

Silvia agitò in risposta il suo cellulare, un esemplare risalente almeno a una decina di anni prima. « Vecchio modello. Craig non vuole un PSS, dice che non fa per lui. Questo si appoggia a una rete diversa, quindi non posso usare il tuo ».

« Questo Craig è uno all'antica? ».

« Credo sia più perché con una paga da professore puoi permetterti poco di più, ed è troppo orgoglioso per accettare che glielo regali » rise la donna alzando gli occhi al cielo « Non è poi così male, questo, sai? Il suo neo è che addebita ogni telefonata, quindi ora non posso chiamare la polizia ».

« Posso farlo io » suggerì la ragazza, scuotendo a sua volta lo smartphone in dotazione « Chiamate gratis, no? ».

« Che modello è? ».

« 4S. L'ho preso un anno fa per il mio diciottesimo ».

« Un vero peccato. Dal 4S in giù le chiamate di emergenza sono reindirizzate in automatico alla centrale cittadina, che al momento temo ci sarà di poco aiuto » commentò Silvia desolata « A metà dello sviluppo del quinto gli è venuto in mente che forse era meglio far scegliere la destinazione, come succedeva da anni su altre marche. Quando si dice il progresso ».

« Come sai tutto ciò? ».

« Diciamo che i geni dietro quelle decisioni sono miei colleghi ».

La ragazza sorrise e le offrì una stretta di mano « Serena Williams. Quello che analizza i corpi laggiù si chiama Bellocchio ».

« Silvia Celant. Lui lo conosco, era al Liceo di Novartopoli quando fummo attaccati da Zoroark. Ma non si chiamava Warren? ».

« Quello è il suo nomignolo, quando si ricorda di quanto è ridicolo il nome che usa di solito » ribatté beffarda Serena, rimembrando l'avventura scolastica vissuta con lui, Calem e i bambini. E Ada, anche se alla fine si era rivelata proprio quella a cui davano la caccia. Non aveva mai capito cosa fosse veramente successo in quei giorni, a partire dalla provenienza della finta alunna, ma a quanto sapeva erano dilemmi condivisi dal suo compagno.

« Per caso state viaggiando insieme? » domandò Silvia « Non c'è molta gente che viene qui in vacanza ».

« Sì, da… Vediamo, era mercoledì, quindi una settimana e un giorno ».

« Però, da Novartopoli a qui in così poco tempo… Siete veloci. E da quanto vi conoscete? ».

« Da una settimana e un giorno » replicò Serena senza nascondere un divertimento interno per la risposta data « È una lunga storia, il nostro primo giorno è stato un po' particolare ».

La donna rimase sbigottita « Solo? ».

« Che significa “solo”? ».

« Vi comportate come se vi conosceste da una vita! » esclamò lei con sorpresa « Quando vi ho visti pensavo foste fidanzati, ma ripensandoci vi ho visti più come fratello e sorella, e invece… Una settimana e un giorno! ».

Proprio in quel momento Bellocchio si unì al duo. Nonostante la situazione non aveva perso nemmeno in quel caso la sua consueta verve, il che se non altro era rassicurante. « Okay, ho una buona e una cattiva notizia. E prima che scegliate, vi suggerisco di partire con la buona ».

Serena lo sollecitò « Spara ».

« Non sono morti ».

Entrambe le donne attesero impazienti un prosieguo, ma Bellocchio non pareva dell'idea. « E… ? ».

« Basta. Viste le circostanze credo che non morire si possa considerare un buon risultato » tagliò cinicamente corto « La cattiva è che sono tutti in stato di controllo sinaptico a raggio convergente ».

« E questa che lingua è? ».

« Ipnosi. E da qualche parte c'è un mega-cervello che li controlla. Per questo compiono una sola azione per volta, sono come un'unica creatura ».

« E il gran capo dove sta? ».

« Sa Dio. Mi piacerebbe chiederlo a qualcuno, ma a parte noi tre qui sono tutti burattini. O almeno, così mi è parso » soggiunse dirigendo lo sguardo a Silvia. La professoressa fissava il vuoto a bocca semiaperta, completamente inespressiva.

Serena andò in suo soccorso, cingendole le spalle con un braccio « Ehi, ehi! Tutto bene? ».

« Sì… Sì, io–– È solo che… ». Dapprima cercò di andare avanti, ma in breve tempo dovette cedere alle emozioni e si profuse in un pianto isterico « Tutti quelli che conoscevo… Tutti… ».

« Shock traumatico, può capitare. Chiama quando ti sei ripresa ».

« Bellocchio! » lo riprese Serena inacidita « Sii più comprensivo, non sono tutti abituati come te a vedere gli amici quasi-morire! ».

« Non sono abituato, è la prima volta che vedo una cosa simile in vita mia » replicò lui risoluto « Ma a maggior ragione voglio capire che sta succedendo e provare a risolverlo. Quindi, Silvia, te lo chiedo con il cuore: conosci qualcuno che non sia ancora ipnotizzato? ».

La donna fu tentata di rispondere con un secco no senza riflettere e abbandonarsi alla malinconia. Ma non era certo da lei perdere la concentrazione e lasciarsi sopraffare dai sentimenti. « Sì, io… Mia nonna, l'ultima volta che l'ho vista era ancora sana. Però è stato un po' di tempo fa, non so se… ».

« Seguivano te, quindi probabilmente è ancora a posto. Però se è così dobbiamo muoverci a raggiungerla, questi qui non staranno svenuti a lungo ».

« Sì, ma… » obiettò Silvia, riprendendosi dalla crisi precedente « Non vi sarà di nessun aiuto. È impazzita martedì scorso ».

Una lampadina si accese nel cervello di Bellocchio. Anzi, lui amava definirlo un faro massiccio con sopra incisa a grandi lettere la parola “coincidenza”. « E la nebbia da quando c'è? ».

« Che… che cosa c'entra la nebbia? ».

« Tutto. Senza la nebbia qualcuno si sarebbe accorto di una città deserta in tempo primaverile, o di zombie che fanno proseliti per strada. Quindi, di nuovo, la nebbia da quando c'è? ».

Per quanto perplessa, Silvia si sforzò di ricordare se sua zia avesse detto qualcosa a riguardo. « Vediamo… Zia Tonya ha detto… questa settimana, mi pare. Sì, questa settimana. Ma continuo a… ». Oh. In effetti, a ben pensarci, la settimana inizia di lunedì. Follia, controllo mentale e temperature fuori stagione a giorni di distanza. Un po' troppo.

« Portami da tua nonna » si impose categorico Bellocchio.

 

 

Il tragitto, per quanto breve in linea teorica, fu notevolmente rallentato da due occorrenze: una fu Bellocchio, intenzionato contro ogni logica a guidare il gruppo in prima fila, pur non conoscendo la via. La seconda era più naturale: nessuno dei tre era convinto che l'intero arsenale di morti ambulanti di Castel Vanità fosse stato esaurito in un solo attacco, né che quelli investiti dalla Protezione di Karen fossero da considerarsi fuori dai giochi.

Per la prima parte della camminata vi fu solo un rispettoso silenzio. Fu Serena a interromperlo per prima, più per un tarlo che la rodeva dall'interno che non per desiderio di fare conversazione. « Mi dispiace per i tuoi amici ».

Silvia impiegò un po' a capire che stava parlando con lei « Oh… Grazie, ma davvero, era solo… uno shock momentaneo, nulla di più. Molti di loro nemmeno li conosco ».

« Tu non vivi qui, vero? ».

« No, ormai ho casa stabile a Novartopoli… Ora, con Craig, chissà. Ci vivevo da piccola, qui, fino ai sette anni » spiegò la donna « Tu, invece, da dove vieni? ».

« Borgo Bozzetto » rispose lei orgogliosa. Poi aggiunse con una velatura di dubbio « La conosci, vero? ».

« Ovvio che la conosco! Non lavoro molto distante da lì, ricordi? » le fece notare Silvia, al che la ragazza annuì confortata. « Sai che hanno una cosa in comune? ».

« Spero non la popolazione! » propose Serena, scatenando una quieta ilarità tra le due.

Ricompostasi, Silvia passò a spiegare « Entrambe una volta erano una grotta ».

« Davvero? ».

« Beh, in epoche diverse. Non ricordo bene la vostra, ma qui lo fu fino al Cisuraliano, quando crollò a seguito di ere ed ere di piogge intense. Si parla di trecento milioni di anni fa » concluse con fierezza. Alzando lo sguardo, fino ad allora oscillante tra l'interlocutrice e le pietre incastonate per terra, chiamò Bellocchio a gran voce « Ehi, ehi, dove vai? Casa mia è quella! ».

Quello, troppo distante per rispondere senza gridare e attirare nemici, si limitò a un cenno di okay con le mani ed entrò circospetto dalla porta rimasta aperta. Le altre due lo raggiunsero poco dopo, quando lui nel frattempo aveva già perlustrato il pianterreno per accertarsi che fosse privo di pericoli.

« Nessuna marionetta avvistata » stabilì sicuro.

« Beh, allora vai » lo esortò Silvia « Io preferisco non vederla di nuovo, non so se reggerei ».

« Molto bene. Serena, avec-moi ».

« No, no, per carità! » la professoressa lo trattenne per un lembo del cappotto mentre già si era avviato « Zia Tonya ha detto che più persone la disorientano ».

« Ricevuto, ricevuto, vedrò che riesco a fare da solo » assentì Bellocchio « Ci vediamo tra poco. Se gli altri vi trovano… cercate di stare vive ».

Quelle parole provocarono uno strano rimbombo rimbalzando da una parete all'altra mentre il giovane, appoggiato il soprabito su una sedia lì vicino, si incamminava per le scale un gradino dopo l'altro. Dopo aver rispettosamente bussato senza ricevere risposta, aprì dolcemente la porta della stanza da letto per trovare un'anziana signora curva e sorridente seduta su una poltrona, con tra le mani un bastone da passeggio. In quel momento gli sovvenne che, tra tutte le preoccupazioni del caso, non aveva nemmeno pensato di domandare il suo nome. Era sorprendente come le cose più semplici gli sfuggissero dalla testa.

« Buongiorno » salutò sistemandosi su uno dei giacigli. La donna non lo degnò di uno sguardo, nemmeno non si fosse accorta di lui, ma replicò con un inatteso « Sono qui! ».

Bellocchio non era un dottore e di certo non poteva produrre una diagnosi; ma anche a un bambino sarebbe stato lampante che ottenere qualcosa da lei era un'impresa disperata. Ciononostante non accettò di arrendersi così frettolosamente all'unico appiglio che aveva per venire a capo del mistero. « Come va la vita? ».

« Ciao! Sono qui! ».

Sempre lo stesso tono disturbante. Non aveva senso insistere oltre su chiacchiere pro forma, non avrebbe cavato un ragno dal buco. Meglio provare ad andare dritto al punto. « Lei vive qui da molto, vero? ».

« Sono qui… ».

Bingo! Non c'era dubbio, l'inflessione della voce era cambiata. Poteva anche non sapersi esprimere, ma doveva comprendere ancora il linguaggio umano. « Signora, lei sa che fuori da questa stanza la città dove ha trascorso la sua intera vita è vittima di un'ipnosi collettiva? ».

La vecchia non rispose, ma ciò non significa che non reagì. Alzò tremante la mano che stringeva il bastone da passeggio e impiegò quest'ultimo per issarsi in piedi. A piccoli passi si avvicinò a Bellocchio, sempre più sospettoso. Era pazza, ma aveva anche la sua età: cosa avrebbe potuto fargli? Si sarebbe aspettato tutto meno la cosa più ovvia. La cosa che una sana di mente avrebbe fatto.

Lo abbracciò. Non disse nulla, forse perché non ne era in grado, o forse perché non c'era nulla da dire. La risposta alla tragedia fu talmente umana e talmente naturale da spiazzare completamente l'uomo. Ma c'era altro. Quello non era solo un abbraccio di conforto, era un abbraccio di sostegno. Come quello di chi sa troppo e non riesce a reggere il peso dell'informazione. Come quello a cui Bellocchio aveva imparato a rinunciare.

« Signora » le sussurrò affettuosamente « lei sa qualcosa della nebbia? ».

Il cambiamento fu così repentino da eclissare quello precedente. Con un gesto fulmineo la signora imbracciò il bastone e lo premette dritto contro il giovane, sbattendolo al muro e premendogli il collo con i denti della testa di serpente.

« Non vi avvicinate alla porta! ».

Bellocchio impugnò un segmento della verga con ambo le mani e tentò di allontanarlo, ma d'improvviso la debole vegliarda aveva sfoderato la rigidezza di un campione dei pesi massimi. « Serena… » invocò aiuto, l'unica cosa che gli rimaneva da fare « Serena! Sarebbe gradita una mano! In fretta, possibilmente! ».

« Non vi avvicinate alla porta! ».

Abbassò gli occhi sull'attaccatura tra bastone e rettile, incontrando il profilo sagomato di tre parole incise nel legno. Erano capovolte, ma riuscì comunque a leggerle: Fort de Vanitas.

« PROTEZIONE! » scandì una voce femminile fuori dalla stanza, e l'arredamento fu quasi soverchiato per ciò che seguì. L'uscio si spalancò come in preda a una violenta corrente e un bagliore folgorante fendé l'ambiente in due, tagliando proprio tra Bellocchio e la vecchia per dividerli. Serena entrò guardinga appena dopo, seguita da una Silvia più allarmata che mai.

« Nonna! » andò scattante a sincerarsi delle condizioni dell'anziana, trovandola riversa per terra, incapace di rialzarsi e in stato confusionario. « Che le hai fatto? » ruggì all'indirizzo di Bellocchio.

« Io? » protestò lui dirigendosi allo specchio sito sulla parete opposta « È lei che mi ha aggredito come ho pronunciato la parola nebbia ». Con suo sollievo il dente del serpente premuto sul collo gli aveva lasciato solo una piccola cicatrice che sanguinava appena. Si ripulì improvvidamente con la mano per evitare che il bavero della camicia si macchiasse.

« Sì, giusto, come no. Mia nonna di novant'anni che ti tiene testa. Ce la vedo proprio ».

« Abbiamo la memoria corta, vedo. Ti sei scordata dei decrepiti che ti hanno inseguita per mezza Castel Vanità? ».

« Mia nonna non era posseduta ».

« Questo non possiamo dirlo con certezza » controbatté Bellocchio « Potrebbe essere un tipo diverso di controllo. Questa ferita non si è aperta da sola ». Indicò per buona misura la propria gola, dove il taglio non si era ancora rimarginato.

« Smettetela entrambi, non arriveremo da nessuna parte litigando » intervenne Serena, frapponendosi tra i due disputanti.

« Scusa tanto, Serena, non ce l'ho con te, ma il tuo amico mi sembra tutto fuorché uno di cui fidarsi ».

« Io mi fido di lui » ribatté lei, troncando definitivamente il discorso. Si fermò qualche istante perché gli animi si placassero, poi si diresse verso Bellocchio « Hai scoperto qualcosa? ».

Quello scosse la testa in cenno negativo « Ha parlato solo di una porta. Cos'è Fort de Vanitas? ».

Silvia sbuffò mentre aiutava sua nonna, che nel frattempo aveva ripreso la sua usuale litania di sonoqui, a rimettersi sulla poltrona. Se non altro la compagnia non le stava provocando attacchi di panico, semplicemente perché non pareva accorgersi della presenza di altri. « Il castello della città. Vanitas, vanità, dovrebbe essere abbastanza ovvio. Perché? ».

« Sta scritto sul suo bastone ».

« Ovvio, l'ha preso lì. Per qualcosa come metà della sua vita ha fatto la custode del castello, fino a martedì scors–– ».

Serena inarcò le sopracciglia. L'aveva fatto di nuovo. Bellocchio aveva di nuovo palesato la totale incompetenza di tutti quelli che provavano a confrontarsi con lui. Ora che l'aveva detto controllare Fort de Vanitas era la cosa più ovvia da fare, persino offensivo a dirsi, ma prima nessuno ci avrebbe mai pensato.

« Direi che abbiamo la prossima destinazione » commentò l'uomo con un sorriso compiaciuto.

 

 

Fort de Vanitas era un castello edificato dal conte Thibaut IV, noto come Thibaut de Vanitas una volta insediato nella città, attorno ai primi anni del 1500, con uno stile architettonico di inconsapevole raccordo tra il gotico medioevale e l’umanesimo del Rinascimento. Oggi si presentava come una magione diroccata, priva dei fasti di un tempo e forse in linea con ciò che Castel Vanità era divenuta, ormai raramente considerata come un'entità separata da Luminopoli al di fuori dei suoi abitanti.

L'ingresso era consto, superato il tradizionale ponte levatoio, da un'anticamera all'aria aperta sovrastata da un massiccio arco in pietra. Da lì due porte laterali conducevano agli alloggi privati del personale, quelli che la nonna di Silvia aveva abitato per decenni, diventando quasi parte dell'edificio stesso. Mediante un portone frontale, invece, era possibile entrare all'interno.

Il primo ambiente chiuso era la cosiddetta Sala degli Stati, una stanza gotica pinnacolo dell'architettura di Fort de Vanitas. Consta di una navata principale e una di contorno sulla destra, la Sala era chiusa a guscio dall'affresco di una volta stellata. Essa era un tempo impiegata come ritrovo per l'Assemblea degli Stati di Kalos – di qui il nome –, nonché in epoche più recenti come municipio prima che il Sindaco decidesse di trasferirsi in una sede che, perlomeno, vantasse un impianto di riscaldamento elettrico.

Tutto ciò Bellocchio l'aveva letto da un opuscolo prelevato all'atrio esterno, perché non avrebbe avuto modo di dedurlo in alcun altro modo: l'intera camera era pervasa da una fitta caligine che rendeva ostico persino respirare. Con lui era rimasta solo Serena, in quanto per l'incolumità di Silvia le aveva raccomandato di aspettarli fuori.

« Questo non è normale » constatò proprio la ragazza, asciugandosi gli occhi irritati dalle goccioline d'acqua sospese.

« Nebbia al chiuso. Decisamente no ».

« E ora che si fa? Ci dividiamo e guardiamo in giro? ».

Bellocchio gironzolò un po', dando un'occhiata qua e là in cerca di indizi cui solo lui sapeva di stare dando la caccia. « La nonnina ha detto di non avvicinarmi alla porta ».

« Ne vedo parecchie qua » osservò Serena. Ne aveva contate sei: quattro sui lati, due al termine di ciascuna navata. Nessuna era più grande delle altre o apparentemente più importante, erano tutte uguali.

« Ha detto la porta. La. Come se fosse ovvio » sottolineò l'uomo. « Ma forse è solo pazza. Tuttavia » soggiunse gettando uno sguardo alla corsia primaria della Sala degli Stati « l'istinto mi dice che è quella ».

Serena non contestò, perché se avesse dovuto selezionarne una avrebbe fatto la medesima scelta. Per varie ragioni: la prima sulla lista era che l'unico suo clone apparteneva all'andito minore, e se una tale asimmetria aveva passato il vaglio del conte Thibaut doveva pur esserci una ragione. Ma a un'ispezione più accurata era qualcos'altro che aveva messo la pulce nell'orecchio al suo amico: non era del tutto chiusa. Uno spiraglio nero la separava dall'infisso, come se un custode disattento se ne fosse dimenticato, o come se fosse stata usata di recente.

I due la approcciarono gradualmente e da lati diversi, quasi si attendessero una reazione. Invece vi giunsero entrambi senza difficoltà e Bellocchio, non certo libero dal timore, la aprì con delicatezza, il che non impedì comunque ai cardini di produrre un fastidioso cigolio. Nessuno vi fece caso, comunque, perché ciò che vi si trovava dietro superava ogni aspettativa.

« Non è possibile » rimarcò Serena, e ultimamente aveva visto abbastanza da scuotere le sue certezze più radicate. Ma una grotta in un castello, quello era troppo anche per lei.

Per la verità intuì che si trattava di una grotta solo grazie al terreno dissestato e spigoloso che suonava come roccia: l'illuminazione della Sala degli Stati proveniva da due fila di finestre incavate due secoli dopo il resto della struttura, ma la foschia la filtrava quasi interamente e ciò che stava dietro la porta era imperscrutabile. La ragazza rammentò però di essere in possesso di un PSS, e attivando la sua funzione di torcia riuscì ad accertarsi che sì, quella era proprio una caverna.

« Calcarea » analizzò Bellocchio perplesso « Roccia calcarea. Ma non ha senso, le infiltrazioni l'avrebbero fatta collassare ere fa ». Per sicurezza controllò il dépliant turistico con l'aiuto della luce fornita da Serena « Qua dovrebbe esserci la tavolata del conte. Da dove salta fuori una grotta? ».

La sua compagna si strofinò le mani. L'aria era umida, però quantomeno non vi era traccia della bruma che infestava Castel Vanità. In effetti non vi era traccia di assolutamente nulla che ricordasse Castel Vanità. Una bizzarra ipotesi prese a serpeggiare nella sua mente, e per quanto ridicola Serena non riuscì a trovare una sola cosa che la rendesse meno assurda di una spelonca clandestina. Quando si voltò per proporla a Bellocchio, quello aveva già fatto avanti e indietro tre volte attraverso l'architrave della porta per assicurarsi che non fosse un trucco. « Secondo te i viaggi nel tempo esistono? ».

Il giovane non riuscì a capire, ma colse subito che non si trattava di un commento casuale « Perché? ».

« Silvia mi ha detto che tipo trecento milioni di anni fa l'intera città era una grotta. È un'idea impossibile, ma è l'unica che mi è venuta ».

Bellocchio stralunò gli occhi molto più di quanto la ragazza si sarebbe aspettata. La sua era una nota innocente pronunciata con scarsa serietà, ma lui sembrava averla presa come oro colato. In effetti probabilmente la sua mente l'aveva presa come trampolino di lancio, e ora doveva essere giunto a qualcosa di completamente diverso. Succedeva spesso, viaggiando con lui. L'uomo aprì la bocca per parlare ma fu interrotto da qualcos'altro, qualcosa che fece rabbrividire entrambi: due barlumi rossi scintillavano nell'oscurità.

La coppia trasalì. Serena alzò la torcia per fare luce, ma come si avvicinò ai lampi fiammeggianti un orripilante verso inumano la avvisò di fermarsi. Lentamente il chiarore fornito dai due punti si ampliò, rivelando una forma mostruosa che la ragazza non aveva mai visto. I suoi occhi vorticarono febbrilmente da un massiccio guscio aguzzo a un organismo celeste e flaccido dalle fattezze di una stella a cinque punte, passando poi alle disgustose fauci grondanti saliva per concludere nelle sue crude pupille vermiglie ancora irradianti. Tentò una seconda volta di puntare il bagliore del PSS per osservarla meglio, ma di nuovo la creatura emise quel richiamo ributtante, come un risucchio seguito da un battere di denti prolungato. Si girò verso Bellocchio, aspettandosi di rivedere sul suo volto il proprio stesso stato di paura.

Come prevedibile non fu così. O meglio, la differenza si giocava sulla sottile discrepanza tra paura e sgomento. Bellocchio non era spaventato, era stordito da ciò che si trovava davanti a lui.

« Che cos'è? » gli domandò tremebonda.

« Una sacca temporale ».

« Che cosa? ».

« Siamo in una sacca temporale » ripeté lui, stavolta aggiungendo la sintassi necessaria a comprendere meglio la frase.

« E che cosa sarebbe? ».

« Qualcosa che non credevo avrei mai visto » rispose l'uomo. Azzardò a muovere un passo in avanti, ma scatenò ancora la reazione di quel vomitevole essere e si arrestò. « Sapevo che teoricamente erano possibili, ma è un po' come vedere due fulmini abbattersi nello stesso punto. Anzi, mille fulmini, uno dietro l'altro ».

« Hai intenzione di dirmi che cos'è prima o poi? ».

« È un inceppo nel meccanismo del tempo. In qualche momento, centinaia di milioni di anni fa, questo luogo ha fatto un salto. Si è sdoppiato, se vogliamo » spiegò Bellocchio, evidentemente ostacolato dalla mancanza di parole utili a descrivere il processo « Da allora questo posto ha seguito una strada diversa, libero da influssi esterni, nello stesso tempo di questo universo. Mi dicevi di una grotta che poi è crollata… Beh, qui non è mai successo ».

« Una strada diversa? ».

« Come due rette parallele. Così simili, così vicine da toccarsi con un dito, ma mai in grado di farlo. Beh, fino a ora ».

Serena ingoiò a forza un grumo di saliva che le si era addensato in bocca. Ora lei era nel passato, ma anche nel presente visto che il tempo era trascorso nello stesso modo? Cercò di non pensare a quel paradosso per concentrarsi alla domanda più scottante. « E quello… quello cos'è? ».

« Lui è il rifiuto. L'orfano del nostro universo. O più semplicemente uno che ha avuto la sfortuna di trovarsi qui al momento del salto » Bellocchio le mise una mano sulla spalla, come per confortarla – di che cosa, poi? « Hai di fronte l'ultimo Omastar vivente ».

Omastar. Non aveva mai sentito quel nome in vita sua. Mai, nemmeno menzionato. « Che cos'è un Omastar? ».

« Un Pokémon vissuto in ere preistoriche. Si pensa che con il passare del tempo il suo guscio si sia ingrandito troppo per permettergli di muoversi, e che ciò abbia causato la sua estinzione ».

« È lui il cervello? Quello che ha ipnotizzato gli abitanti? ».

« È molto probabile. Credo che ci sia lui anche dietro alla nebbia. Il clima si è fatto molto più secco che al loro tempo, è probabile che senza di essa l'ambiente esterno avrebbe contaminato quello di questa grotta uccidendolo. Però non mi spiego perché » concluse il giovane, grattandosi il mento.

« Solo… ».

La coppia sobbalzò. La voce era acuta, sofferente, lenta e trascinata, e in effetti sarebbe potuta provenire da qualsiasi punto della caverna. Ma non c'era nessun altro: quelle parole dovevano per forza essere state pronunciate dalla figura a luce rossa che li fissava. Omastar, un Pokémon vissuto epoche prima dell'uomo, aveva parlato.

La quiete seguente fu dura da spezzare. Era tutto così illogico che Serena avrebbe preferito tacere in eterno, riflettere sulle implicazioni di quanto avevano scoperto. Ma Bellocchio, pur di fronte a situazioni simili, era uno che raramente rimaneva a corto di parole.

« Non erano parallele » disse enigmaticamente, quasi quelle tre parole spiegassero tutto.

« Eh? ».

« Le rette. Le linee temporali. Il nostro universo e questa sacca. Quando questa parte di grotta ha fatto il salto si è distanziata di un'infinità, ma ha tentato di ritornare a casa » proseguì Bellocchio seguendo il proprio personale filo dei pensieri « Le due rette non erano parallele, erano l'una impercettibilmente inclinata relativamente all'altra. Ci è voluta un'eternità, ma lentamente le due parti si stavano avvicinando. A un certo punto, milioni di anni dopo l'inizio della sua prigionia, questo Omastar deve aver iniziato a sentire delle voci ».

Serena cominciò a comprendere « Le voci di Castel Vanità ».

« Esatto. Prima quasi impalpabili, poi sempre più forti, man mano che la sacca confluiva. E ora siamo al punto d'incontro » concluse per poi rivolgersi direttamente al Pokémon « È così che hai imparato a parlare come noi, vero? Ascoltando e imparando. Loro non ti sentivano perché era una connessione unilaterale, ma tu sentivi loro ».

« … ». Procedeva una sillaba per volta, ma considerando il proporzionalmente piccolo arco di tempo in cui aveva imparato era già un risultato sconvolgente.

« Ma perché? » chiese Serena « Una volta che ha capito che era in contatto col nostro mondo, perché ipnotizzare le persone? ».

« Perché si sentiva solo ».

Un verso lamentoso fuoriuscì dalla bocca di Omastar, qualcosa di tanto malinconico da andare oltre il descrivibile. Il canto perduto di un essere solitario.

« L'hai sentito, no? L'ha detto anche lui » continuò Bellocchio « Voleva compagnia. Aveva passato epoche completamente da solo, riducendo le funzioni vitali al minimo. Voleva qualcuno con cui vivere. Qualcuno con cui morire ».

« Perché sono ancora in giro, allora? Presone uno non poteva semplicemente… che ne so, tenerlo qui e basta? Avrebbe avuto più senso che tenerli a vagare per la città ».

Per un attimo temette che Omastar avrebbe ripetuto il suo ripugnante richiamo caratteristico, ma non lo fece. « Paura… ».

Serena rimase impalata, incapace di reagire e sentendosi sporca come poche volte nella sua vita. Lei aveva avuto paura, ma non solo lei: tutti. Nessuno di loro avrebbe potuto sopportare di vivere con quell'abominio, nessuno avrebbe voluto. Quante volte negli ultimi minuti aveva soffocato i conati di vomito alla vista di quel mostro, e tutto ciò che lui voleva era un amico. Così umano, così inumano.

Bellocchio assunse un'espressione costernata e fece un passo in direzione del Pokémon, che stavolta glielo concesse « Mi dispiace per ciò che ti è capitato, non ne hai nessuna colpa. Ma non posso aiutarti. Devi capire che è tuo destino rimanere solo ». La voce gli bruciava mentre proferiva quel duro annuncio, perché nessuno più di lui detestava rinunciare ad aiutare qualcuno. Ma che altro avrebbe dovuto fare? Quell'essere era troppo vecchio anche solo per muoversi, e la sola aria priva della nebbia che aveva eretto lo avrebbe ucciso prima dei batteri a cui non era abituato. Era privo di speranza e lui, povero umano schiavo del suo tempo, non poteva fare nulla.

« Nonpiù… » scandì Omastar con accento per la prima volta brutale.

Quello che accadde dopo fu quasi irreale per il ritmo sostenuto in una manciata di attimi. L'aria iniziò a vibrare come una corda tesa; il Pokémon preistorico si chiuse in un silenzio di tomba dopo aver emesso in un'ultima occasione il suo risucchio e battito, e i suoi occhi si spensero; Serena fu spinta con violenza da qualcosa o qualcuno al di fuori della porta, e si rese conto che era stato Bellocchio solo quando l’anta si richiuse in preda alla corrente sottraendolo alla sua vista; sotto gli occhi della giovane la nebbia della Sala degli Stati si dissipò in un batter di ciglia, infrangendo mille e più leggi meteorologiche e lasciando che la luce del sole le baciasse la pelle.

Quando si rese conto di ciò che stava realmente accadendo Serena balzò contro l'asse di legno richiuso, facendo forza sulla maniglia per spalancarlo di nuovo, ma una forza invisibile sembrava trattenerla dall'altra parte con una verve ben maggiore di quella che il suo amico avrebbe potuto esercitare. Era il tempo stesso a negarle il ritorno. « FAMMI ENTRARE! FAMMI ENTRARE ORA! » sbraitò prima di caricare la porta con una rincorsa, fallendo però nell'intento e rimediando solo una spalla dolorante e un rinculo che la fece atterrare sul pavimento di Fort de Vanitas. Fece per rialzarsi e riprovare con l'altro lato del corpo quando una voce la fermò.

« Serena? Serena, mi senti? ».

« Sì! » esclamò la ragazza rizzandosi e provando ancora a forzare l'uscio senza successo. Sferrò un pugno isterico all'uscio, sbattendo ripetutamente gli occhi per ricacciarsi dentro le lacrime « Ti sento! ».

« Io… Io non riesco a sentirti ».

La replica affossò le speranze che aveva di rivederlo. Si inginocchiò, sfibrata per i vani sforzi di tornare nella caverna, e appoggiò la testa e le mani alla maniglia abbassandola senza successo. Esattamente come nessuno poteva udire Omastar prima, ora lui e Bellocchio non potevano udire lei.

« Spero comunque che questo messaggio ti arrivi » proseguì la voce invisibile dell'uomo, addolorata eppure satura del suo tono usuale « Le rette si sono separate di nuovo. L'incrocio è durato solo qualche giorno. Io sto bene, se ti può interessare ».

Certo che mi interessa, cretino, gli avrebbe detto se solo avesse potuto. La consapevolezza di non poterlo fare, di non poter mai più rivolgergli la parola, le aggiunse un altro peso allo stomaco.

« Non ti preoccupare per me. Io… Io troverò un altro incrocio, da qualche parte. Chissà, magari ne uscirò con la barba bianca e senza capelli ».

Quella singola pausa tra i due io diceva tutto su quanto lo stesso Bellocchio credesse alle frottole che andava raccontando. Quanto pensava che fosse stupida? Ci erano voluti trecento milioni di anni a Omastar per trovarne uno. Se mai ne fosse uscito sarebbe stato non solo senza capelli, ma anche senza un solo altro grammo di pelle avvinghiato al suo scheletro. L'immagine si materializzò nella mente di Serena peggiorando la sua condizione, quindi decise di allontanare rapidamente il pensiero.

« Vorrei che tu mi facessi un favore » disse la voce, e la modulazione lasciò intendere che quello era il termine del suo epitaffio. Un ultimo desiderio. « Fai un bel viaggio. Fallo anche per me. Ci sono così tante cose da vedere, lì. Non perderle solo perché non sono partito per Sinnoh quando avrei dovuto. E sappi che mi dispiace di non avert–– ».

La frase finale si spezzò a metà, rimanendo incompiuta. La porta si aprì proprio in quel momento, libera dalle catene del tempo, rivelando dietro di sé uno sprazzo della sala da pranzo del conte rischiarata dal sole. Serena non provò nemmeno a rialzarsi: rimase afflosciata, le mani strette alla maniglia come fossero ammanettate ad essa, lo sguardo perso nel vuoto e una smorfia di abbandono sul volto.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** 1x20 - L'orfano dell'universo ***


Untitled 1

PREVIOUSLY ON LKNA: a Castel Vanità sta succedendo qualcosa di strano. Una nebbia ha avvolto l'intera città in temperature mai così basse a marzo e tutti i suoi abitanti sono vittima di un'ipnosi collettiva. Tutti tranne due: Silvia Celant, salvata da Bellocchio e Serena, e sua nonna, chiusa in casa con problemi mentali. Interrogandola il gruppo riesce a collegare questi avvenimenti a un luogo: Fort de Vanitas, castello medioevale del villaggio. Dietro una porta nella Sala degli Stati scoprono qualcosa di straordinario: una sacca temporale, una bolla di passato che ha continuato a scorrere parallelamente al resto dell'universo, intrappolando al suo interno una grotta collassata centinaia di milioni di anni fa. Con essa un unico prigioniero: un Omastar la cui specie si è estinta da ere geologiche. C'è poco tempo per constatare altro: il temporaneo incontro tra dimensioni finisce e Bellocchio, per salvare Serena, rimane intrappolato nella sacca per sempre.

 

 

 

 

 

 

Molte cose si celano nel buio. Alcuni vi scorgono le proprie paure, convinti che vi si annidino per poi coglierli al momento giusto, impreparati, e trascinarli con sé. Per altri vi sono nuovi mondi, nuove storie dense di vita. Secondo certe religioni l'oscurità è il regno del male o di una qualche forza equivalente, poiché il male non potrebbe sopportare la propria vista alla luce. Per Bellocchio, chiuso in una caverna senza uscita e che, dopo che gli occhi di Omastar si erano spenti, era precipitato nelle tenebre, il buio era giunto a significare solo una cosa: l'oblio totale.

Non era mai stato fuori dall'universo. Neanche molto lontano dalla Terra, in effetti. Se solo ci fosse stata una finestra, da qualche parte tra le rocce, gli piaceva pensare che avrebbe potuto scorgerlo nella sua interezza, con tutte le sue stelle. Chissà che forma aveva. Lui se lo immaginava come un cervello, un grosso cervello. Pensava sempre che sarebbe stato uno spasso, per Dio. Vedere gli uomini creati a sua immagine e somiglianza conquistare un giorno l'intero mondo in cui vivono, e scoprire che aveva la forma di ciò che non avevano mai veramente compreso. Anche un bicchiere di latte e miele sarebbe stato equamente dilettevole.

E pensare che Omastar aveva vissuto lì anni e anni. Quante domande doveva essersi fatto, con un'eternità a disposizione. « Da quanto sei qui? » gli chiese. Non seppe bene da che parte parlare, ma confidò che avrebbe udito comunque.

« Sem… pre… ».

« Come sarebbe? Non sei mai uscito da qua? » lo interrogò Bellocchio sorpreso « Mai visto la luce del sole? ».

« So… le… ? ». Da come era stata pronunciata, anche questa sembrava una domanda, e a conti fatti il seguito lasciò pochi dubbi « Co… s'è… il… so… le… ? ».

« Una palla di fuoco. Brucia a milioni di chilometri nel cielo, riscaldando tutto il pianeta ».

« Pe… ri… co… lo… ? ».

Bellocchio non poté che convenire « Probabilmente sì, per te lo sarebbe. Anzi, visto che non sopporti l'aria secca ti ucciderebbe. Ma per gli uomini là fuori è vita. Non è buffo? ».

La voce di Omastar si caricò d'odio, si sarebbe detto che potesse scoppiare da un attimo all'altro « Uo… mi… ni… ma… le… ».

Il Pokémon riaccese gli occhi per la rabbia, e solo a quel punto l'uomo la notò. Non era esattamente lampante, ma sforzandosi era possibile intravederla: la cicatrice di un graffio all'altezza dell'occhio, ma leggermente più a sinistra. Plausibilmente se chi l'aveva inferta avesse mirato meglio lo avrebbe reso orbo.

La mano di Bellocchio sfiorò la sua ferita al collo, riportata durante l'acceso scambio di opinioni con la nonna di Silvia. Non riusciva a vederla direttamente, ma avendola esaminata allo specchio la ricordava abbastanza da sapere che le due erano gemelle, e l'arma che le aveva provocate era la stessa – facilmente era successo quando la vecchia aveva visto Omastar.

« Non tutti » ribatté risoluto, senza traccia di condiscendenza nella sua voce. Potevano trattare su molte cose, ma non su quello « E finché non saranno tutti ci sarà sempre speranza ».

 

 

La sala da pranzo, o meglio quella che un tempo fungeva da sala da pranzo, era tanto inerte da sembrare irreale. La polvere che si agitava come piccoli insetti stanati dalla luce solare era l'unico elemento che la distingueva da un ritratto. Anche Serena non era esente da quella situazione: erano ormai cinque minuti che la sua unica azione era respirare, incapace di pensare a cosa fare dopo.

Viaggiare? Sì, e con che fibra morale? Dopo aver assistito al sacrificio di Bellocchio per lei? Fuori discussione. D'altronde non poteva restare lì ad autocommiserarsi per sempre, anche se quest'ultima opzione le suonava come la più dolce. Non fare nulla, rimanere come una statua di cera a ricordare. E dire che Bellocchio era pure convinto che lei avrebbe fatto grandi cose. Che per lei sarebbe finita bene. Gliel'aveva detto la domenica scorsa, in una notte senza luna, dopo aver parlato di Sinnoh e di quanto lui non fosse destinato alla compagnia. Serena Williams, la Ragazza delle Fiabe, aveva detto, e le fiabe finiscono tutte bene. Quanto si era sbagliato.

O forse no. Forse non si era sbagliato. C'era un significato nascosto in quello che aveva raccontato, perché lei certo non era al massimo della felicità al tempo: aveva perso contro Violetta ed era arrabbiata perché aveva ricevuto una medaglia che non meritava. Non ci aveva pensato, ma doveva esserci qualcosa dopo, e riuscì quasi a sentire la voce dell'uomo che le parlava nella testa: le fiabe finiscono tutte bene. E se non va bene vuol dire che non è la fine.

Stava a lei farla finire bene. Perché lei era Serena Williams, la Ragazza delle Fiabe. E avrebbe salvato Bellocchio.

 

 

 

Episodio 1x20

L'orfano dell'universo

 

 

 

Tagliò la Sala degli Stati con passi decisi che echeggiavano tra le mura e uscì all'aperto, sotto l'arco di pietra da cui erano entrati. Castel Vanità scintillava in una piacevole giornata primaverile e i Fletchling avevano ripreso a cinguettare con solerzia. Serena occhieggiò alla distanza e notò che una figura correva verso di lei, vestita ancora per temperature ormai svanite e, a giudicare da come si muoveva, morsa dalla tarantola dell'allegria. La ragazza riprese a camminare nella sua direzione oltrepassando il ponte levatoio, tutto senza flettere un solo muscolo del volto, rimanendo fissa nella sua espressione decisa.

« Serena! » la chiamò Silvia non appena fu abbastanza vicina da essere sentita « È tutto finito! Le persone sono di nuovo… Tutto! Anche mia nonna è tornata normale! Ce l'avete fatta! ». Aveva le lacrime agli occhi e il fiato corto, segno che doveva aver fatto un tour del villaggio nei cinque minuti trascorsi dalla fine dell'intersezione.

« Non abbiamo fatto nulla » rispose lei impassibile « Sarebbe finita comunque ».

« Davvero? Ma che cos'era poi? ».

Il capo di Serena scattò leggermente, un riflesso dei nervi tesi e dell'adrenalina « Tu cosa insegni da Novartopoli? ».

Silvia fu disorientata dalla domanda, ma non perse il sorriso appena riguadagnato « Fisica, perché? ».

« Allora mi risparmierai parecchi minuti. Era una sacca temporale ».

« Una… » si interruppe la donna. Le sacche temporali non erano nel programma di base del Corso di Laurea in Fisica alla Regionale di Luminopoli, dato che erano viste come bizzarrie da matematici per l'astrazione che comportavano. Però ricordava che, in calce al programma, erano state inserite in Astrofisica Nucleare Relativistica 2. « Ah! » esclamò, richiamando alla mente per orgoglio quanto ricordava « Non credevo esistessero. E che c'era dentro? ».

« Un Omastar. Veniva dalla caverna che c'era qui una volta. Ricordi? Me ne hai parlato un'oretta fa » mantenne un'espressione fredda, forse ciò avrebbe suggerito a Silvia che stava trascurando qualcosa « Ora che il varco si è chiuso l'influsso è sparito ».

« Oh, per fortuna! » sospirò rincuorata. Si esibì in un largo sorriso, aspettandosi che Serena facesse lo stesso, e fu quando rimase ancora distaccata che comprese che qualcosa non andava. Prima il suo sguardo guizzò alle iridi di lei, non trovandole però di quel rosso che avrebbe implicato l'ipnosi. Poi, fulmine a ciel terso, afferrò « E Warr–– Bellocchio dov'è? ».

Finalmente se n'è accorta. « È rimasto nella sacca. Non è riuscito a fuggire in tempo ».

« Ah… ! » esclamò Silvia, messa tremendamente a disagio da quella rivelazione « Mi dispiace davvero tanto, Serena ».

Tentò di abbracciarla, ma lei respinse il gesto con noncuranza « Non è grave, non ti preoccupare. Perché ora tu mi aiuterai a riportarlo indietro ».

La giovane aggrottò la fronte, completamente spiazzata non solo dalla frase ma anche dal modo in cui era stata pronunciata. Non era una richiesta, era un ordine. « Non si può, Serena. È impossibile ». Avrebbe voluto comunicare la notizia con più tatto, ma le uscì solo un'affermazione risoluta.

« Impossibile come l'esistenza della sacca? ».

« No! Cioè–– » Silvia si trovò a incespicare nella sua stessa materia d'esperienza « È teoricamente fattibile, ma noi non potremo mai farlo ».

« Come la sacca, quindi ».

« E poi devo ricordarti che con lui c'è Omastar? » le fece notare, ignorando la chiosa precedente « Se riaprissimo la sacca metteremmo tutti di nuovo in pericolo ».

Serena serrò i denti e sibilò intimidatoria « Ti ha salvato la vita ».

« E lui ha aggredito mia nonna. Non rischierei così tanto per un uomo del genere nemmeno se potessi entrare e uscire dall'universo con uno schiocco di dita ».

La ragazza per un attimo considerò di assalirla in preda all'ira, ma non avrebbe in alcun modo giovato alla causa di Bellocchio, e attualmente non poteva permettersi di perdere tempo. « Sai, mia mamma ha una politica molto rigida sui favori. Secondo lei se qualcuno te ne fa uno hai ventiquattr'ore per renderglielo. Questo ci mette nella stessa posizione, non trovi? ».

« Ovvero? ».

« Fuori tempo ».

Silvia comprese. Certo, Bellocchio l'aveva prelevata quando era con le spalle al muro con i suoi concittadini, e questo contava. Ma aveva anche affrontato quello Zoroark a Novartopoli, individuandolo prima che nuocesse. E a ben pensarci Isidore aveva fatto il suo nome, o il suo nomignolo, mentre parlava degli avvenimenti a Luminopoli durante la crisi del Dio, quando sua sorella Katie, in coma da sei ore, si era misteriosamente ripresa insieme al resto delle vittime. Quella che allora le era parsa una fortunata coincidenza ora assumeva i connotati di un salvataggio segreto, mai divulgato per la gloria. E da come parlava anche Serena doveva avere debiti non saldati con lui.

Sospirò con rassegnazione: l'avrebbe aiutata, ma ciò non voleva dire che sapesse cosa fare. « Resta il fatto che è impossibile. Non le ho nemmeno studiate approfonditamente, le sacche temporali, come pretendi che trovi un modo per aprirle? ».

« Inizia a spiegare perché non puoi. Parlando vedi che una soluzione la trovi ». Così fa Bellocchio, pensò la giovane.

Rovistando nelle tasche della giacca che ora la stava facendo sudare come un caimano, Silvia riuscì a rinvenire una penna e un pezzo di carta, e per una volta ringraziò di essere inguaribilmente disordinata. Trovò appoggio sul corrimano in legno installato sopra il ponte levatoio per evitare che i turisti precipitassero nel fossato, e iniziò a scarabocchiare linee sul foglio. Dopo un minuto circa sollevò il risultato e, premuto tra le mani, invitò Serena a prenderne visione. Le tracce impresse sulla carta erano tre circonferenze di ragguardevoli dimensioni – tre pianeti? –, di cui le due più a destra presentavano una macchia sul fianco, nonché una serie di linee ondulate che vi si sovrapponevano verticalmente.

Silvia passò a spiegare « Queste ondine sono il tempo. Immaginalo come una membrana attraverso cui si muovono le cose, se ti può facilitare la vita ».

Il tempo. Una membrana. E dire che Serena aveva pensato all'aria… Certo che i fisici non hanno nelle corde il livello zero.

« Questi tre cerchi sono il nostro universo in punti diversi del tempo, non importa quanto distanti. In realtà sarebbe in più dimensioni, e almeno una decina arrotolate, ma–– Scusa, scusa, cerco di rimanere sul facile » la donna indicò con la penna la chiazza nera « Questa è la sacca temporale. Quando c'è un'anomalia nel tempo generata da qualcosa, avviene una sorta di backup locale. Da lì in poi l'universo si trascina dietro questa bolla. Noi non la vediamo, ma c'è, e in questo caso stava proprio sulla Terra ».

« Come una crosta dopo una ferita? ».

« Sì. Cioè, no, ma se ti può aiutare a capire il concetto pensala così. Una crosta dopo una ferita. Anche adesso che le linee temporali si sono separate è sempre lì ».

« Non hai risposto alla mia domanda, però » obiettò Serena « Perché non possiamo riaprire il varco? ».

« Perché la bolla non è strettamente lì. Vedi, qui sarebbe stato meglio se ti avessi spiegato le dimensioni » lamentò Silvia battendo la carta con il dito « È lì, ma contemporaneamente è fuori dall'universo. E non puoi andare fuori dall'universo, punto e fine ».

« E se riaprissimo la ferita? ».

« Quale ferita? ».

« Il paragone di prima, la crosta e la ferita. Hai detto che c'è stata un'anomalia temporale: che succederebbe se la ricreassimo? ».

La bocca di Silvia si chiuse a punta e gli occhi si aprirono innaturalmente mentre con il dito batteva meccanicamente sulle labbra. Ricreare un'anomalia temporale? Certo, se fosse stata proprio nel punto del varco precedente la nuova sacca sarebbe collassata in quella preesistente, e per effetto domino anche quella sarebbe poi confluita nell'universo regolare. Riaprire la ferita per togliersi la crosta… Non ci aveva proprio pensato. Tentò di giustificarlo a se stessa « Beh, ma non possiamo ».

« Per quale ragione? ».

« Non esiste un congegno “la mia prima violazione delle leggi fisiche” per crearla. Non a livello pratico, perlomeno ».

« Ho sentito un po' troppe volte le parole “non a livello pratico” oggi, non ti pare? ».

« Beh, per creare un'anomalia temporale devi strappare lo spaziotempo » rifletté ad alta voce Silvia come se stesse parlando di cosa avrebbe mangiato a pranzo « Ma per farlo hai bisogno di un campo gravitazionale del livello di un buco nero. Servirebbe un oggetto con massa spropositata, o in alternativa un… ».

Un generatore di gravitoni, senz'altro non qualcosa che trovi nel tuo supermercato-tipo. Una vera fortuna che i Flare ne avessero lasciato uno quella stessa mattina nel suo soggiorno. Non ebbe nemmeno motivo di completare la frase, perché la sua bocca mezza spalancata non lasciava adito a dubbi. Un moto di felicità si insinuò in Serena.

« Ehi, ferma, ferma! » la trattenne Silvia, recuperando un'aria più seria « Quello che vogliamo fare è perforare l'universo. Sei sicura di voler mettere a repentaglio l'intero creato per salvare il tuo amico? ».

La ragazza inarcò le sopracciglia e sogghignò. Immaginava già la critica che la sua interlocutrice stava per muovere: si conoscevano solo da una settimana e un giorno. Beh, non avrebbe avuto problemi a dirle che si sbagliava: si conoscevano già da una settimana e un giorno.

 

 

L'aveva percepito. Inizialmente non se n'era reso conto, perché terminati i dialoghi filosofici con Omastar aveva intrapreso un viaggio nei suoi ricordi. Li aveva trovati come li attendeva, ovvero terribilmente brevi. Così si era chiesto cosa quella creatura millenaria, che aveva percorso silenziosamente il cammino dell'umanità passo dopo passo, rimembrasse veramente.

« Ricordi i tuoi genitori? » gli aveva chiesto. Lui aveva negato. « Un'altra cosa che abbiamo in comune » aveva ironizzato « La morte e questo ». Chissà che cos'erano, per chi aveva vissuto milioni di anni, i propri genitori. Puntini distanti, persi nel tempo, piccoli tra i piccoli. I genitori sono tali perché ti accudiscono, perché per buona parte della tua vita rappresentano qualcuno a cui rivolgerti. Come avrebbe potuto, quell'Omastar prigioniero, non sentirsi un orfano? Che cosa pensava lui finanche della sua stessa specie? Era solo un distante passato, esattamente come per gli uomini? E peraltro, a che concetto associava la parola passato, la parola presente? Esisteva, per lui, un presente?

No, che domanda sciocca. Come un naufrago alla deriva non vede che un solo oceano, Omastar non vedeva che una sola epoca, l'epoca della cattività, senza nulla che distinguesse oltre. La vita di un uomo era come un battito di ciglia, un graffio nel tempo. La vita di tutti. Ma di nuovo, anche dei suoi genitori? Forse. Per Omastar non avevano avuto più importanza di chiunque altro, anche se non aveva osato chiederglielo.

Bellocchio aveva tentato di rispondersi da solo su cosa pensasse invece lui stesso dei suoi genitori. E arrovellandosi su quel dilemma se n'era accorto: aveva il fiatone. Era completamene fermo, non muoveva un muscolo, e aveva il fiatone.

A quel punto si era posto la domanda che avrebbe dovuto farsi ben prima: cosa respiravano gli Omastar? Ossigeno, che lui sapesse. Ma quello che gli stava di fronte non avrebbe potuto sopravvivere così a lungo con la poca aria nella sacca. Con il tempo e le risorse che andavano esaurendosi doveva essersi adattato ad altro. Umidità, forse, dato che poteva autoprodurla. Bellocchio non avrebbe avuto il tempo per evolversi. Rovesciò la testa all'indietro.

« Hai fatto male i conti » informò il Pokémon, cercando di risparmiare le energie che gli restavano « Sarò morto prima di te ». Allontanò il capo dal chiarore sanguigno degli occhi di Omastar e tornò a fissare l'oscurità. L'oblio totale non gli era mai sembrato così vicino.

 

 

Silvia trovò in uno dei mobili recintati da corde di velluto rosso della Sala degli Stati il sostegno perfetto per il modulatore di Gauss recuperato da casa. Con poca cura per la sua veneranda età lo trasferì con l'aiuto di Serena proprio di fronte alla porta incriminata in cui avrebbero dovuto riprodurre il varco.

« Esattamente il piano qual è? » domandò la ragazza « Nel dettaglio, dico ».

Pur essendo immersa in un convulso lavoro di precisione, la fisica trovò il tempo di rispondere « Un campo gravitazionale intenso curva lo spazio. Pensalo come una palla che appoggi su un pezzo di stoffa, che cosa succede? ».

« La piega con il peso ».

« Esatto. Questo è quello che faremo. Questo modulatore produce gravitoni, che sono i bosoni mediatori della gravità. Sparandoli sulla porta curveremo lo spazio in quel punto. Se ne spariamo parecchi il tessuto potrebbe non reggere più e strapparsi, il che è esattamente ciò che ci serve ».

« In che modo strappare lo spazio dovrebbe creare un'anomalia temporale? ».

« Spazio e tempo sono più simili di quanto non credi. Diamine, non insegnano più la relatività a scuola? » sbottò Silvia danzando da un capo all'altro dello strumento. Poi si concentrò su ciò che a Serena sembrava il mirino di un fucile, anche se a differenza dell'esempio appena fatto quello era mobile a trecentosessanta gradi ed era dotato di un piccolo schermo piatto « Questo puntatore rileverà a che livello siamo della curvatura. Per strappare lo spazio dovrà raggiungere l'1, il valore critico ». Dopo aver collegato il modulatore a un alimentatore elettrico portatile – altro gentile omaggio dei Flare – la donna prese un respiro profondo e si allontanò dall'opera conclusa: apparentemente per rimirare il proprio lavoro, ma dentro di lei sapeva che il motivo era un altro. E il motivo era che non si sarebbe mai attesa di arrivare così in là nella costruzione di un'arma tanto apocalittica, e quindi non aveva mai realmente pensato a cosa avrebbe fatto dopo.

« C'è qualche problema? » la interrogò Serena.

« Non ho la minima idea di cosa succederà quando raggiungeremo l'1 su quel display » spiegò mordendosi le unghie per il nervosismo « Per quanto ne so potremmo essere a un passo dalla creazione di un buco nero. Finora credevo che non sarei riuscita a farlo funzionare ».

« Ma chi sano di mente creerebbe un oggetto con un potere simile? ».

« Nessuno. Ma è proprio questo il problema: Colress non era sano di mente. Nessuno sano di mente abbatterebbe una cometa. Non so cosa pensare ».

Non stava scherzando, e non stava ingigantendo, Serena se n'era accorta. Se parlava così quel modulatore di Gauss rischiava davvero di ucciderli tutti. Non le aveva detto le probabilità, e forse nemmeno le conosceva, ma c'erano. Avrebbero strappato l'universo, e la domanda non era più come: la domanda era quanto grave sarebbe stato lo squarcio. Sarebbe stata una piccola scucitura o un foro chilometrico pronto a condannare il pianeta? Che cosa avrebbe fatto Bellocchio al suo posto?

Provo a riflettere. Bellocchio con la possibilità di salvarla e di distruggere il sistema solare, senza poter stabilire quale fosse il rischio contro la speranza. Ripensò a ciò che le aveva raccontato mentre viaggiavano lungo il Percorso 5, sulla strada per Castel Vanità, a proposito della crisi di Luminopoli. Anche lui aveva dovuto scegliere: se offrire a Dusknoir il potere di aprire un varco per il Mondo dei Morti e iniziare un'invasione, riuscendo però al contempo a liberare le anime che aveva intrappolato, oppure rinunciare a vite innocenti per difendere il mondo. Le aveva detto che si era ispirato a lei, per la decisione. Perché lei aveva attaccato, nella sua lotta in Palestra contro Violetta: aveva deciso di provare comunque a vincere nonostante la statistica fosse contro di lei. Che paragone stupido, aveva pensato. Lei non aveva nulla da perdere nella battaglia, lui eccome.

Ora capiva veramente la sua scelta. Doveva tentare, perché quando mai sarebbe riuscita a convivere con se stessa se non l'avesse fatto? « Attivalo. Se non lo facciamo vivremo per sempre con il rimorso ».

Silvia annuì. Aveva deciso da tempo che la scelta sarebbe stata della sua amica, e lei l'avrebbe seguita. Trovò buffo che fosse pronta a fidarsi di lei a tal punto dopo poche ore di conoscenza, ma a giudicare dal rapporto della ragazza con Bellocchio doveva essere qualcosa a cui lei era abituata. Si fece coraggio e premette il bottone di accensione.

Il generatore prese a ronzare e il modulatore di Gauss emise un borbottio rassicurante. Il piccolo schermo del puntatore si illuminò e su di esso comparve un numero: 0.2.

« La densità di gravitazione standard terrestre » commentò Silvia « Che Dio ci aiuti ».

Il tubo di vetro centrale brillò intensamente e il valore indicato dal mirino correlato iniziò ad aumentare: 0.21. Le due donne emisero un sospiro di sollievo alquanto bizzarro visto cosa stavano facendo: perlomeno, però, funzionava. Lo strumento amplificava il rumore prodotto di pari passo con la crescita del numero indicatore: a 0.29 somigliava a quello di una ventola da computer sotto stress.

La professoressa osservava la scena particolarmente sconvolta. Il modulatore era privo di eliche di raffreddamento proprio per la sua intrinseca violazione del teorema di Carnot, il che implicava che non disperdesse in calore l'energia prodotta dall'alimentatore. Un dubbio si insinuò nell'euforia per l'esperimento in riuscita: per quanto a lungo sarebbe riuscito a infrangere le leggi della fisica in quel modo? Colress fino a che punto era arrivato nello sviluppo della macchina? Di certo non a valori vicini a 1, o avrebbe provocato molti più danni di una cometa precipitata. Prima o poi il modulatore avrebbe iniziato a produrre calore collaterale, e in assenza di metodi di cooldown correva il serio rischio di saltare in aria.

« Ehi, che cos'è quello? » domandò Serena puntando il dito sulla porta. Nel luogo dove i gravitoni stavano venendo proiettati si era formato una specie di cerchio sospeso dal diametro di mezzo metro, al cui interno le striature nel legno erano notevolmente ingrandite.

Silvia dovette alzare la voce per rispondere a causa del baccano meccanico « A 0.4 iniziano le lenti gravitazionali! I raggi di luce riflessi convergono influenzati dalla gravità! ».

La ragazza gettò uno sguardo al display: segnava 0.52, ma il ritmo a cui aumentava si era notevolmente ridotto. « Sta rallentando! » esclamò allarmata.

« Non ti preoccupare! La scala di crescita non è lineare, è esponenziale! La distanza tra i numeri non è la stessa da 0 a 1! » la rassicurò la compagna, ma con suo orrore fu smentita. Non era solo un rallentamento fisiologico per pioli distanziati di una scala: a 0.59 si era fermata la salita, e non dava segno di voler proseguire.

Silvia sgranò gli occhi. Colress aveva seriamente messo un limite a quanti gravitoni potevano essere proiettati in un solo punto? Sarebbe stato un ottimo metodo per non rischiare di causare accidentalmente il collasso della Terra. Per sua sfortuna, o forse proprio perché lui potesse aggirare il blocco, l'unico modo che il modulatore aveva per rilevare la densità era il puntatore. Il puntatore girevole. Con un ghigno di arroganza gli diede un colpo, lasciando che ruotasse di un quarto di giro orario, puntando ora verso destra. Si attese di udire il rumore crescere, e invece rimase uguale. Anche la lente gravitazionale non dava segni di cambiamento.

Che ci fosse un limite sull'energia impiegabile dal meccanismo di produzione di bosoni? Impossibile, Colress non avrebbe mai confinato la scienza. Le venne in mente di controllare il display, leggendovi un roboante 0.36. Solo lì comprese cosa stava veramente succedendo: non c'era nessuna soglia, il modulatore era programmato per dare il massimo. La questione era un'altra: c'era un secondo campo gravitazionale amplificato nella Sala degli Stati. E non era nei pressi della porta. E nemmeno su un'altra parete, dove i gravitoni sarebbero potuti rimbalzare.

Era su Serena.

Silvia la scrutò confusa. « Che succede? » le domandò quella, notando lo sguardo fisso su di lei che era tutto fuorché tranquillizzante.

« Un campo di gravità! Proprio dove sei tu! » le spiegò, e pur con il suo usuale tono da esperta non risultò in grado di rendere meno preoccupanti tali parole « Prova a spostarti! ».

La ragazza annuì e slittò più a sinistra, allontanandosi dalla parete terminale della stanza. Silvia tornò a guardare il mirino, appurando che adesso stava rapidamente tornando a livelli normali. Ma ciò non innescò nessun conforto, anzi era la conferma della sua paura: non era solo una coincidenza che il campo fosse lì. Era Serena a produrlo. E ora si era instaurata una situazione simile al gioco del tiro alla fune: da un lato il modulatore, dall'altro la strana energia sprigionata da lei. Tiravano in direzioni opposte annullandosi a vicenda, e per questo i nuovi gravitoni sparati dallo strumento non aumentavano la densità.

« Stai producendo tu il campo! » la informò faticando ella stessa a crederci.

« Cosa? Io? Che stai dicendo? ».

« Giuro! Lo dice anche il puntatore! » gridò. Osservò attentamente Serena, cercando di capire come poteva essere che stesse emettendo una simile quantità di particelle senza sentirsi schiacciata. E indagando il suo corpo dall'alto in basso se ne avvide: un piccolo bagliore proveniva dalla tasca della minigonna.

La indicò urlandole addosso perché se ne rendesse conto, ma il rumore prodotto dal modulatore di Gauss ormai la sovrastava. Comunque il messaggio giunse a destinazione e la giovane infilò imprudente la mano nello scomparto, estraendone una piccola pietra iridescente dai riflessi rosati. Si sorprese di essersi praticamente scordata di averla lì: era il regalo aggiuntivo di Bellocchio, quello che le aveva fatto trovare sul letto insieme alla sfera di Karen. L'ultima volta che ricordava di averla tenuta in mano era stata dopo l'incrocio coi Beedrill, quando aveva scoperto che brillava al buio. Trovò curioso che si stesse attivando ora, quando i suoi ricordi di essa erano così strettamente collegati a Bellocchio; di più, coincidevano con le due occasioni che ora la spingevano a rischiare l'universo per lui.

« È QUELLA! È QUELLA CHE GENERA IL CAMPO GRAVITAZIONALE! » proruppe Silvia manovrando il mirino. Per un attimo pensò che avrebbe mandato tutto a monte se avesse continuato a tirare la fune dal lato sbagliato, ma impiegò poco a capire che poteva essere la loro salvezza. Sbagliato era la chiave. Ma se avesse iniziato a remare nel verso corretto… « Tirala nella lente! ».

« Come? ».

« Tira la pietra contro la porta! Se fondiamo le due sorgenti ce la faremo! ». Per l'eccitazione strinse tra le mani il modulatore, ritraendole però subito dopo con uno spavento. Era bollente. Quando era successo? Non lo toccava da parecchio, in effetti. Senza ventole sarebbe esploso a breve. Fortunatamente con la pietra dalla loro avrebbero concluso prima che ciò avvenisse.

Tornò sul display ed tripudiò: il numero era tornato a salire e ora segnava uno 0.61. No, aspetta, aveva letto bene? 0.61? Aveva ripreso a crescere, certo, ma con il lento ritmo tenuto prima. Non c'era stato alcun miglioramento offerto dalla nuova misteriosa fonte di gravitoni, se non il fatto che non stava più stirando il tessuto nel punto errato.

La sua amica le corse incontro, esordendo con un « Che caldo! ».

Silvia non lo sentiva, ma doveva essere perché non si era mossa da lì, abituandosi al graduale rialzo di temperatura. « Qualcosa non funziona » la avvisò, se non altro consolata dal non dover più gridare per farsi sentire « È come se non ci fosse più il secondo campo. La pietra è inerte ».

Serena si sorprese che la professoressa non ci fosse ancora arrivata. Lei non aveva capito molto dei sermoni scientifici che aveva proferito, ma sapeva come interpretare un problema simile. « Allora non era la pietra. Ero io ».

Un'espressione di perplessità accompagnò il meccanico gesto di Silvia di ruotare il mirino verso la diretta interessata « Ma che dici? Guarda tu stessa, lo schermo dice 0.2 ».

« Sì, ma guardala. Prima brillava, ora non più » le fece notare la ragazza « Ero io. Cioè, eravamo io e la pietra, insieme. Forse era alimentata da me ».

« E questo che vorrebbe dire? ».

La soluzione a Serena parve più che ovvia. Senza dire una parola di più si diresse verso la porta, venendo però arrestata dalla salda mano dell'altra donna « Lasciami andare! ».

« Ma sei pazza? Il nostro corpo può reggere a malapena un 0.22! Non riuscirai nemmeno ad avvicinarti! ».

« Prima a quanto ero? ».

Silvia aprì leggermente la bocca ritardando la risposta, non volendo incitare follie suicide.

« Allora? ».

« … 0.36 ».

« Bene, allora direi che posso reggere almeno fino a lì. Magari la pietra mi fa da schermo ».

Vi furono altri tentativi di dissuasione, compreso qualcosa relativo un'esplosione imminente, ma Serena li ignorò tout-court. Aveva fatto la sua scelta da troppo tempo per poterla ritrattare adesso. Bellocchio andava salvato, e non semplicemente se fosse stato possibile, o se il tempo l'avesse concesso: Bellocchio andava salvato e basta. O entrambi o nessuno. Questo pensiero la incoraggiò mentre affondava il primo passo oltre il modulatore di Gauss.

Avvertì una pressione al torace, come quando ti avventuri sotto il mare con un boccaglio. Ci era stata una volta sola, prendendo in prestito la maschera di Calem, intorno agli otto anni, ma la sensazione la ricordava bene. Ogni scarpata in avanti erano l'equivalente di altri metri in profondità, quanti non sapeva stabilirne. Si immaginava dieci. Intorno a lei notò che il tempo sembrava scorrere più lentamente all'esterno: i movimenti di Silvia attorno al proiettore di particelle ora sembravano quelli di uno studente universitario alle prese con un esperimento, e non quelle di chi cerca disperatamente di ritardare la fine del mondo. Man mano che proseguiva verso quel ciottolo rosa si sentiva schiacciare per terra e il tempo esterno rallentava ulteriormente. Alla fine, protendendo la mano fin dentro la lente gravitazionale che da lì quasi non si vedeva più, tanto aveva ormai inglobato il suo corpo, Serena riuscì ad afferrarla. Per Bellocchio, fu il suo ultimo pensiero. Per Bellocchio.

Quanto seguì non lo ricordò. Per lei tutto si spense in quel momento per riprendere in un certo periodo successivo, pressata contro il pavimento e capace di muoversi a stento. Il suo udito si stava riprendendo dopo essersi incomprensibilmente interrotto. Incomprensibilmente finché Serena non si voltò verso Silvia, perlomeno, perché da lì fu evidente: era stata assordata dalla detonazione del modulatore di Gauss. La scienziata riversa sulla schiena addossata contro un muro consentiva di ricostruire qualcosa di più: il modulatore era appena scoppiato, e verosimilmente proprio il botto aveva fatto rinvenire la ragazza.

I suoi occhi si mossero quindi al pugno destro che, dischiudendosi non senza fatica, rivelò la pietra ancora luccicante. Ciò rincuorò Serena più di essere ella stessa viva: ce l'aveva fatta, aveva riattivato il campo. Non si domandò nemmeno come quel sasso iridescente avesse potuto ottenere un risultato simile, perché certe occasioni meritano che anche le faccende più incomprensibili siano rinviate.

La forza che scaturì da questa certezza le consentì di issarsi sulle gambe. Silvia, rimasta ferita sull'intero lato destro del corpo, le gridò qualcosa che suonava come « Tutto bene? ».

Diciamo di sì, non mi ha bruciata. No, aspetta, la replica le era rimasta in testa. Diciamo di sì!, ripeté scandendo le sillabe per buona misura, ma con legittima sorpresa il suo urlo non le giunse all'orecchio. Tutto bene! Niente, non riusciva a sentire la propria voce. Era diventata sorda? Impossibile, aveva sentito Silvia. Era lei che non riusciva a parlare. Provò a pensare cosa avrebbe potuto causare un sintomo simile, ma per quanto ne sapeva di fisica gravitazionale poteva essere tutto. E, per la verità, non le importava. Drizzò polpacci e cosce con un guizzo, gesto che comunicava il suo stato di forma meglio di mille parole, e si precipitò verso la porta spalancandola sonoramente.

Nessuna caverna, solo la buia tavolata del conte. Non aveva funzionato. Serena fu sul punto di crollare a terra quando sentì un suono. Era flebile, cioè, lo percepiva tale perché ancora non si era ristabilita dall'ipoacusia, ma c'era. Protese l'orecchio destro, quello meno malandato poiché si trovava più lontano dal modulatore, e lo riudì. Più chiaro, più auto-esplicativo: era il rumore di qualcuno che annaspava.

Fece irruzione nella stanza brandendo il suo PSS, come lei miracolosamente intatto, a guisa di torcia, roteandolo da un angolo all'altro. Finalmente individuò la sorgente, quasi piangendo per la felicità. Era Bellocchio, disteso per terra e nell'atto curioso di riprendere aria. Gli corse incontro prima ancora che lui si accorgesse di un intruso, gettandoglisi al collo e abbracciandolo. Non riusciva a capire per cosa fosse più contenta: perché il suo amico era salvo, o perché era stata lei a salvarlo. Ma era contenta, e tanto bastava.

« Serena! » sobbalzò con diverso ritardo l'uomo. Il suo tono, come usciva dalla bocca tra un colpo di tosse e l'altro, era di genuina sorpresa, quasi non si fosse nemmeno reso conto dell'avvenimento straordinario appena verificatosi. Guardando i raggi di luce che penetravano nell'ambiente mise a fuoco l'evento: era rientrato nel suo universo. Era a Castel Vanità. « Che è successo? ».

Sei vivo!, cercò di urlare la giovane, ricordandosi poi che era affetta da mutismo. Non se n'era preoccupata molto perché aveva supposto fosse un effetto temporaneo, come la questione dell'udito, ma mentre quello lentamente stava tornando la sua gola non faceva progressi. In un altro momento sarebbe stata colta dal terrore di non poter mai più parlare, ma ora non aveva letteralmente il tempo di preoccuparsene.

« Abbiamo prodotto una seconda sacca strappando l'universo. Ora è collassata su quella in cui ti trovavi tu, che ha fatto lo stesso ». Silvia aveva attraversato barcollante la porta della Sala degli Stati per appoggiarsi a una delle sedie. Si reggeva un braccio con l'altro, ma non sembrava in grave pericolo « Serena è entrata dentro un campo gravitazionale critico per aiutarti. Sei proprio fortunato, con qualsiasi altra amica non saresti mai uscito di lì ».

« Oh, santo cielo! » esclamò Bellocchio, che pur non essendo un fisico era comunque dotato di una perspicacia fuori dal comune. Strinse Serena a sé più forte di quanto lei avesse fatto negli attimi precedenti « Tutto bene? ».

La ragazza tentò la strada del mimo: dopo essersi liberata aprì la bocca e indicò con un dito il suo profondo interno. Non posso parlare.

Silvia le si avvicinò e, inginocchiatasi con un lamento a denti stretti, la esaminò con occhio medico « Il tuo organismo ha subito uno shock. Penso che la pietra ti abbia parzialmente protetto, il che spiegherebbe la mancanza di ferite da esplosione, ma non ti ha impedito del tutto di subire gli effetti di quel tipo di gravità. Tempo qualche giorno e ti… Che cos'hai? ».

Serena si stava cimentando da qualche secondo in un altro tentativo di comunicazione. Le sue labbra sembravano disegnare in sequenza o-a-a, il tutto accompagnato da ampi gesti delle braccia.

« Omastar! » comprese Bellocchio scattando in piedi. Il Pokémon era tornato alla sua vecchia casa dopo oltre trecento milioni di anni, trovandola decisamente cambiata: il marmo aveva sostituito le rocce calcaree, il legno le prominenti stalagmiti e, più importante di tutto, l'umidità aveva lasciato il passo a un'atmosfera secca. La creatura gemeva tristemente, sentendo la sua ora farsi più vicina a ogni secondo che passava, lo sguardo acquoso fisso sulla poca luce che penetrava attraverso l'entrata.

« So… le… ».

Silvia si ritrasse spaventata, e forse era un bene che non fosse in piena forma o si sarebbe scagliata sul responsabile di tutti quei danni al suo villaggio natale. Bellocchio invece si avvicinò, lo sguardo addolorato di chi assiste a una vita agli sgoccioli.

« Vuoi vederlo? » gli domandò dolcemente « Morirai comunque. Vuoi sentirlo almeno una volta sulla tua pelle? ».

« Co… me… ? ».

« Ti ci porto io in braccio. Un ultimo viaggio. Dopo aver attraversato il tempo intero non avrai mica paura, giusto? ».

Nulla accompagnò il tragitto finale di Omastar. Non il cinguettio dei Fletchling, non la voce di Silvia, quella degli abitanti di Castel Vanità né tantomeno quella di Serena. Fu come se l'universo avesse voluto concedere un addio silenzioso al suo orfano, il povero bambino prigioniero del destino più crudele possibile. Quando Bellocchio lo adagiò per terra esitò, pensando a quanto terribile sapeva essere il tempo: capace di costringere qualcuno a vivere tanto a lungo da accogliere la propria fine con gioia. Avrebbe preferito tenerlo con sé, dove nessuno poteva farlo soffrire, piuttosto che restituirlo a quel padre indegno.

Ma era quello che voleva Omastar. Tutte quelle epoche, quel dolore, testimone fantasma degli atti più atroci dell'umanità e delle sue meraviglie più grandiose. Per lui non poteva esserci nulla di meglio. Quella sfera di fuoco tanto ossequiata ora non era altro che tepore su di lui, garantendogli una dipartita piacevole.

« Gra… zie… » mormorò per la prima volta felice. Subito dopo la morte lo prese con sé, quasi il tempo non potesse sopportare che colui contro cui si era così accanito lo avesse dominato nei suoi ultimi momenti al punto di andarsene con un sorriso. Tutti i tre presenti piansero sinceramente, persino Silvia, che pure aveva covato rancore verso di lui, ma non piansero di amarezza. Certo, tristi lo erano, ma con una punta di gioia condivisa: l'essere più solitario dell'esistenza non aveva dovuto perire da solo.

« C'è un cimitero, qua? » domandò Bellocchio senza voltarsi.

Silvia si asciugò le lacrime dalle guance « Sì, sulla collina a ovest ».

 

 

Un tramonto sarebbe stato decisamente più adatto, ma Bellocchio non aveva voluto attendere. Serena aveva insistito per dare almeno modo a Silvia di medicare le sue ferite, ma lei aveva sostenuto che non ve n'era bisogno. Tra la morte di Omastar e la sepoltura era così trascorso solo quanto necessario per recuperare una pala dalla casa di sua zia e per raggiungere il camposanto, dopodiché l'uomo aveva immediatamente iniziato a scavare. Non si era fermato un istante, nemmeno per detergersi dal sudore, nonostante il sole brillasse a picco sopra di loro, nonostante la fame, nonostante fosse debilitato per la mancanza d'aria nella sacca temporale. Era compito suo, aveva detto. A l'una e mezza, quasi in contemporanea ai due rintocchi del campanile della chiesa vicino a loro, il sepolcro era concluso.

Non era nulla di eroico, solo un cumulo di terra e un fiore reciso da un prato poco distante. Ma Bellocchio recitò quella che a suo dire era una poesia che la gente di Sinnoh dedicava alle anime che dovevano compiere il viaggio verso l'aldilà: di nome faceva “Oltre il cielo” ed era molto lunga, ma lui dimostrò di conoscerla a menadito. E con quelle parole così musicali, così pregne di significato e ornate da una interpretazione commovente, quel piccolo cimitero di periferia divenne la zona più romantica di Kalos.

Concluse stringendo tra le mani un pezzo del guscio di Omastar, frantumatosi dopo essere caduto quando era venuto meno il sostegno vitale che lo reggeva sulla schiena. Lo infilò in una tasca interna della giacca e si avvicinò a Serena. Aveva notato che durante la lirica non gli aveva staccato gli occhi di dosso, ma in certi punti gli era sembrato che fosse semplicemente ansiosa di parlargli. « Devi dirmi qualcosa? ».

La ragazza reagì sorpresa, puntando l'indice alla gola. « Non ti preoccupare » rispose lui con un gesto della mano « So leggere le labbra ».

Figurati se non sapeva anche leggere le labbra. Quando mi hai dato l'addio dalla sacca hai detto che ti dispiaceva di qualcosa, spiegò, che cos'era?

Bellocchio sorrise e la abbracciò senza preavviso, cogliendola di nuovo spaesata. Non l'aveva mai fatto prima, non di sua spontanea volontà. Serena si concentrò per non arrossire d’imbarazzo.

« Mi dispiaceva di non averti detto grazie » le sussurrò « Grazie per il viaggio. Beh, e ora grazie per avermi salvato la vita ». La giovane non seppe cosa rispondere, ma non riuscendo l'uomo a vederle la faccia non avrebbe comunque avuto senso farlo.

Quando si separarono Silvia li aveva raggiunti. Lei, Serena lo sapeva bene, non avrebbe mai ringraziato, anche se ne aveva ben donde. E non si sarebbe scusata per averlo giudicato male. Era troppo orgogliosa, e nemmeno le circostanze di quel giorno potevano farla capitolare. O potevano?

« Che cos'è Sinnoh? » domandò. Come prevedibile, commentò a mente Serena alzando gli occhi al cielo azzurro.

Il volto di Bellocchio si illuminò, anche se lui lo diede poco a vedere « È da dove vengo io. Una regione lontana ».

« Wow! » Silvia aveva sentito a scuola, ovviamente, di luoghi oltre Kalos; ma fino ad allora non c'era mai stata, né aveva conosciuto qualcuno che l'avesse fatto. Trovarsi ora davanti a qualcuno che addirittura ci aveva vissuto risvegliò il suo istinto da scienziata catalogatrice « E com'è? ».

« Dovresti vederla con i tuoi occhi per capire. È un'isola solitaria nel mare, amena e ostile al tempo stesso. Suppongo dipenda da dove la guardi » sospirò l'uomo « Ah, ma non farmi parlare, che potrei andare avanti ore sul Monte Corona e su Giubilopoli. Ci ho vissuto anni, sai? Piuttosto, di chi è la macchina che sta venendo verso di noi? ».

Silvia sussultò quando, giratasi, riconobbe la modesta utilitaria rossa che stava gironzolando là attorno. Con il cuore a mille si precipitò giù per la collina, rischiando più di incespicare e ritrovarsi con l'osso del collo rotto, raggiungendo la vettura proprio mentre il suo autista era appena uscito.

« Craig! » esultò stringendolo a sé. Avrebbe voluto fargli di peggio, ma il pudore la trattenne in presenza degli altri due che la osservavano dalla cima, attraverso le lapidi. « Cosa ci fai qui? ».

« Mi hai lasciato un messaggio dicendo che non dovevo venire qui ».

« E tu ovviamente sei venuto. Per questo ti amo » concluse Silvia. L'amato la cinse ulteriormente, ma lei rispose con un gemito e lo lasciò andare.

« Che hai? » chiese Craig, e notando che teneva il braccio sinistro lungo il corpo la scostò leggermente per scoprire le escoriazioni che aveva riportato « Ma stai sanguinando! ».

« Sto bene, tranquillo. È una lunga storia ».

« Sì, ma santo cielo, hai bruciature ovunque! ».

« Un incidente con il modulatore di Gauss. Beh, un'esplosione più che un incidente ».

Craig aggrottò la fronte « Il modulatore di Gauss? Che hai fatto per farlo esplodere? ».

« Fa parte della lunga storia. Te la racconto a pranzo » spiegò la giovane « Piuttosto dovrò inventarmi qualcosa da dire a Ginger. Contava su di me, ma ormai si è salvato solo il generatore di gravitoni, che senza sapere il meccanismo che inibiva il teorema di Carnot è inservibile ».

« E che fine farà ora che è andato? ».

« Beh, non credo che potremo buttarlo nel cassonetto. La cosa migliore credo sia spostarlo alla Cripta. Chissà, magari un giorno qualcuno riuscirà a farlo funzionare ».

« Pare che la rivoluzione della fisica dovrà aspettare » convenne Craig sconsolato « Chi è quello dietro di te che plana giù dal cimitero? ».

Plana? Silvia guardò nella direzione indicata dal suo fidanzato e notò una sagoma stagliata contro il sole della tarda ora di punta che scendeva aggrappata a una seconda figura, un puntino nel cielo. Prima ancora che atterrasse dolcemente sul prato in cui si trovavano, la donna seppe già di chi si trattava. « Anche lui parte della lunga storia. Ti ricordi di Warren Peace? ».

« Craig! » proruppe l'uomo in completo non appena sopraggiunto, mentre richiamava la sua Nephtys nella sfera « Craig Vesely! Craig Harry Vesely! Che sorpresa? ».

A quel punto si accavallarono più voci. Da un lato ci fu il professore, il quale obiettò che Warren Peace era solo un nomignolo e il suo vero nome era, per quanto era dato sapere, Bellocchio. Non avendo mai comunicato alla sua ragazza di essere a conoscenza di ciò – ed essendosi sempre riferito a lui parlando con altri mediante lo pseudonimo per apparire meno ridicolo –, era naturale che lei avesse usato il nome che pensava gli sarebbe suonato più familiare.

Tutto questo fu però eclissato dalla squillante voce di Silvia, che domandò « Harry? ».

« È il mio secondo nome. Craig Henry Vesely. Gli ho già spiegato che è Henry, ma non mi sta a sentire » chiarì lui leggermente infastidito. Non aveva mai amato quella parte di sé, e ove possibile cercava di non farla presente a nessun altro, ma Bellocchio doveva aver sbirciato nei dati che aveva fornito al Liceo di Novartopoli.

« Beh, Harry suona molto meglio di Craig! Craig non ti si addice proprio per niente, Harry. Har-ry. Sì, penso che inizierò a chiamarti così » annunciò Silvia, scatenando una risata in tutti meno che nel diretto interessato.

Frattanto Serena aveva sostato vicino alla tomba di Omastar, incapace di parlare e per buona parte di sentire i discorsi che avvenivano alcuni metri sotto. Ma da ciò che vedeva il suo amico sembrava tornato quello di prima, e ciò non poteva che renderla festante. In certi giorni la psiche umana arriva persino a trascurare certi elementi, certe illogicità che verrebbero colte e analizzate in ore più buie.

Per esempio non fece caso al fatto che, tra tutte le emozioni che un luogo può imprimere nel cuore di qualcuno che ci ha vissuto anni, Bellocchio aveva descritto Sinnoh con le stesse parole usate con lei nella notte senza luna dei Jardins Parterre.

 

 

 

 

 

 

NEXT TIME: 1x21 C'è qualcosa di peculiare nel modo che i Flare hanno di affrontare le emergenze. Per esempio, se un programma rileva un'anomalia spaziotemporale di 21 dael nel bel mezzo di Luminopoli, la soluzione naturale sarebbe inviare gli uomini più vicini per una ricognizione. I Flare no: i Flare contattano un uomo che in quel momento si trova a una ventina di fermate di metropolitana, e gli ordinano di radunare la sua squadra composta da membri sparsi a ore di volo di distanza. Forse è perché la Seconda Unità annovera i migliori scienziati di Kalos, o forse perché stavolta è in gioco la salvezza della regione intera. E ricordate: ogni cosa ha un inizio e una fine.

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** 1x21 - Ultimo piano ***


Untitled 1

Ross passò pigramente la mano sopra la testa rasata e sospinse indietro la sedia girevole dal computer. Controllò l'orologio in basso a destra sul desktop: 12.43. Erano ufficialmente due ore e undici minuti che cercava di venire a capo dell'errore segnalato dal compilatore. Quando Kibwe gli aveva affidato il compito prima di partire con sua sorella alla volta di Petroglifari, un giorno secco prima, gli aveva assicurato che non era un problema complesso. “Roba da un quarto d'ora al massimo”, aveva detto. “Basta ricontrollare il codice”, aveva detto. “Non serve essere un informatico”, aveva detto. “Ma vai a quel paese”, gli avrebbe detto Ross ora. Biologia e informatica non potrebbero essere campi più distanti.

Un fischio rapido risuonò nel piccolo ufficio. Normalmente in casi simili Ross avrebbe allungato la mano per spegnere le casse del PC e tornare al suo lavoro. Una cosa lo fermò quel giorno: aveva già fatto la stessa cosa verso le dieci, dopo una notifica del client di posta, e dunque le casse erano già spente. Non erano state loro a produrre il rumore, era stato il beeper del computer. Il che poteva significare due cose soltanto: un virus rilevato o una notifica dai piani alti. Sconsolato Ross si riportò vicino alla scrivania e controllò l'origine dell'avviso. Ovviamente, per l'infallibile legge di Murphy, era il caso peggiore: una notifica dai piani alti.

Prima ancora di leggerla l'uomo seppe che non l'avrebbe mai decifrata, e così fu: il messaggio consisteva di una tripletta di coordinate accompagnate da un generico “21 dael”, per lui aramaico antico. Ovviamente il comunicato era diretto a sua sorella, proprietaria del computer che ora stava usando e ingegnere di punta dell'intera struttura. Non aveva altra scelta che chiamare Xaros.

Mentre riavviava l'impianto audio l'applicazione di trasmissione interna squillò un paio di volte prima della solerte risposta di una voce femminile in fibrillazione « Hai letto? ».

« Temo di doverti deludere, non sono Xaad ».

La voce sospirò rassegnata « Xaldyn. Di nuovo ».

Ross fece roteare la sua sedia con un sorriso « Che cosa significa quella minestra di lettere? ».

« Preferirei parlare con Xaad ».

« Xaad è a Petroglifari con Kibwe » replicò lui senza battere ciglio, poi aggiunse caustico « Ti resta solo il fratello stupido ».

« Lo sai che non lo penso, ma non è il tuo campo ».

« Su questo direi che concordiamo, quindi che ne dici di tradurmi il messaggio di modo che possa riferirlo a Xaad? ».

Si udì un suono simile a un verso di resa « Le coordinate puntano a una zona di Luminopoli ».

« Nientemeno! » esclamò Ross « E quel blaterare sui ventun dael? ».

« Il dael è l'unità di misura della curvatura spaziotemporale. Normalmente un valore superiore a 5 o inferiore a -5 è considerato critico ».

L'uomo si incupì d'un tratto. Biologo o fisico, era perfettamente in grado di cogliere la gravità della situazione. « Devo riportare qui Xaad? ».

« Convoca anche Terence. Anzi, raduna l'intera vostra unità e dirigetevi là appena possibile. Buona fortuna » concluse Xaros chiudendo la telecomunicazione. Ross rimase per un attimo interdetto, ma fu poco più che un baleno: immediatamente scivolò lungo il tavolo ligneo e sfilò dalla tasca dell'uniforme il suo PSS. Anche partendo ora e volando alla massima velocità consentita, sua sorella non sarebbe stata lì prima di tre ore e mezzo.

Si alzò per sporgersi dalla finestra per respirare aria fresca. Il grandioso complesso del Frattale, sede centrale della fondazione, troneggiava sul Flare District in quella giornata ventosa.

 

 

 

Episodio 1x21

Ultimo piano

 

 

 

Le Crésus Hotel, pinnacolo dell'architettura alberghiera di Kalos! Sei piani di sfarzo assoluto! La sua forma ricurva che ricorda un Krumiro gigante, le sue finestre celesti che luccicano delle lampade interne di fronte al tramonto di Illumis, le palme importate che lo circondano! Signore e signori, ecco a voi l'hotel più costoso della città!

Qui con noi per questa avventura odierna abbiamo…

… il brillante astronomo Sandy: smilzo, sessant'anni, forse novanta, ma la mente sveglia di un adolescente!

« Ciao a tutti! ».

… direttamente dal sud-est asiatico il superlativo matematico Terence! Cinquant'anni, forse quaranta, ma ne dimostra almeno venti in più!

« … ».

… il quarantenne mago dell'informatica e armadio a due ante Kibwe! Anche per oggi non mi ha menato, signore e signori, ma ciò non vuol dire che non siamo vicini al successo!

« Spegni quell'affare ».

… il nostro fedele biologo Ross! Per la verità dovremmo chiamarlo Xaldyn, ma nessuno ci fa molto caso, tanto lui e sua sorella non vogliono! Sapete, dicono che un tempo su quella pelata che ostenta campeggiasse una folta chioma rossa…

« Devi proprio farlo ogni volta? I tuoi spettatori ormai ci conoscono a memoria ».

… e ultima, ma non per importanza, la nostra big boss! Colei che afferma di avere trentaquattro anni, ma solo perché vuole passare per quella che la sa lunga, perché non ci crede nessuno che sia tanto vecchia! La nostra ingegnera Xaad, ma lei preferisce…

« … chiamarsi Ginger » completò con spiritosa rassegnazione la donna « Sai, dovresti cambiare almeno qualche parola ogni tanto ».

« … e infine ecco a voi me, il vostro ormai noto ventenne meccanico Etan! È tutto con le presentazioni, linea a–– ». Etan si interruppe e ruotò lo schermo della sua videocamera portatile per capire cosa lo avesse fermato mentre arretrava con l'aggeggio in mano. Con un misto di euforia e terrore scoprì che era andato a sbattere dritto contro il possente fisico color cenere di Kibwe.

« Non ti avevo detto ti spegnere? ».

« E su, non puoi fare queste storie ogni volta » lo riprese Ross « Sai che Etan non riesce a tenere a freno la sua passione di cameraman ».

Kibwe scrollò le spalle « Va bene, ma un giorno di questi quel coso si ritrova sotto una scarpa. E anche la videocamera non farà una bella fine ».

« Se avete finito di ripetere la solita scenata sarebbe ora di entrare » li informò Ginger sistemandosi la coda ai capelli rossicci.

« Team Ginger per la vittoria! » tuonò Etan alzando il pugno. Kibwe gli scoccò uno sguardo di fuoco.

Le altre quattro teste annuirono e lei e suo fratello Ross, alla guida della squadra, scivolarono oltre le porte scorrevoli del Le Crésus Hotel. L'interno era, con poca sorpresa, quanto di più lussuoso avessero visto: in sei non riuscirono a individuare un solo pezzo d'arredamento che non fosse in marmo, velluto o legno pregiato. Senza perdersi in inutili pause d'ammirazione Ginger si diresse con passo deciso verso la reception sita sul lato destro, attirando l'attenzione di un usciere alto e asciutto. Visti le loro appariscenti uniformi non ci sarebbe stato bisogno di specificare chi fossero, ma dirlo la riempiva d'orgoglio.

« Seconda Unità, inviata su richiesta della fondazione Flare. Il mio nome in codice è Xaad ».

« Beh, ovvio che lei è Xaad » rispose lui con un sorriso sornione.

« Che intende? ».

« Il mio collega mi aveva avvertito del suo arrivo » chiarì rovistando sulla sezione coperta del bancone per poi estrarne un piccolo foglio con sopra scarabocchiato lo pseudonimo di Ginger « Vede? Ingegner Xaad, Ufficiale Flare, ID8281, Seconda Unità, Ispezione generale dei locali pubblici ».

« Ah, hanno avvisato del mio arrivo? ».

« Lei ha avvisato del suo arrivo. Beh, ha avvisato il mio collega del turno di mattina, che poi ha avvisato me. La facevo più vecchia, sa? Beh, meno giovane ».

« Io non ho avvisato proprio nessuno » replicò con convinzione Ginger, anche se in cuor suo era alquanto confusa.

« Oh. Beh, allora qualcuno avrà fatto le sue veci » concluse con tranquillità il commesso « Prego, se mi mostra il badge l'hotel è suo ».

Poco più in là, gli altri membri dello squadrone si erano riuniti in consultazione per stabilire il da farsi con la livrea bianca da ufficiale di Ross che, identica a quella di Ginger, spiccava nell’amalgama rosso fiammante dei gregari. Terence aveva rilevato che l'anomalia di quella mattina era ancora presente e intonsa, fissa sui 21 dael.

« Puoi rintracciarne le coordinate? » domandò Sandy.

« No, uomo-scimmia. Tutto quello che riesco a dire è che il quadrante satellitare è questo ».

Ross sospirò internamente. Non trascorreva giorno senza che Sandy e Terence litigassero come due bambini su chi aveva ragione. Peraltro Sandy cercava sempre di evitare il discorso, ma Terence si ostinava a far presente a ogni occasione di dialogo che lui era un creazionista, che gli oranghi esistono ancora, che la Terra non ha più di seimila anni e via discorrendo. Avevano provato a chiedere il trasferimento dell'asiatico in qualche altra unità, ma volenti o nolenti non c'era un matematico alla sua altezza nella fondazione Flare. Lui, del resto, aveva progettato il rubricatore di curvatura portatile che rappresentava la loro migliore speranza di stanare l'alterazione spaziotemporale. Per la verità l'aveva assemblato Etan, ma lui era troppo occupato a registrare videolog con la sua cinepresa per reggere anche quello strumento.

« Abbiamo il via libera » annunciò Ginger ritornando vittoriosa dalla reception « Ora ci serve un piano d'azione ».

« Il risultato di questa intensa adunata tattica è che non possiamo dire con certezza dove sia l'anomalia » la aggiornò Ross « Potrebbe essere ovunque nell'albergo ».

« Allora possiamo dividerci » propose Kibwe con la consueta, calda voce serafica « Ognuno per sé e chi la trova per primo avvisa gli altri ».

Etan si inserì non appena quello ebbe finito « Fermi, mi sembra una pessima idea. Terence ha un sistema per scovarla, può impostare il nostro apparecchio perché restituisca la densità gravitazionale locale ».

« Posso? » si sorprese il matematico.

« Dovrei saperlo, l'ho costruito io. Quando sarai sufficientemente vicino all'anomalia te ne accorgerai ».

« Io e Ross abbiamo i visori in dotazione agli Ufficiali » espose Ginger « Non hanno grande utilità, ma possono isolare le lunghezze d'onda della luce. 21 dael sono abbastanza perché i fotoni ad alta energia convergano, quindi in linea teorica dovremmo accorgerci di qualcosa ».

« Tre metodi di localizzazione con sei di noi » il sorriso senile di Sandy s'illuminò « Direi che è facile ».

E invece non lo fu. Anche se fu chiaro subito a tutti che era necessario dividersi in coppie, non si può dire che tale separazione fu pacifica. L'unico caposaldo era che Ginger, Ross e Terence dovevano restare separati, e quest'ultimo non doveva finire con Sandy o avrebbero litigato tutto il tempo. Ginger scelse fin da subito lo stesso Sandy, anche se per la verità era in ottimi rapporti con tutti. Tra Kibwe ed Etan si scatenò quindi una lotta per non essere assegnati a Terence, e sorprendentemente stavolta il secondo ebbe la meglio, se non altro perché lo stesso Terence si rifiutava categoricamente di lavorare con uno che blaterava di videolog ogni minuto. In definitiva i gruppi furono i seguenti: Ginger e Sandy, Ross ed Etan, Terence e Kibwe.

 

 

A quanto pareva nel Le Crésus le rampe di scale erano tre, separate e ciascuna con un ascensore autonomo. Se Ginger aveva capito bene, quella in cui lei e Sandy si erano diretti corrispondeva alla sezione sinistra dell'albergo, camere da 121 a 199 per il primo piano, da 221 a 299 per il secondo e così via. Collettivamente i due avevano deciso di percorrere l'edificio a piedi, cosa che non sembrava pesare alle pur vecchie gambe del suo compagno. Il problema di Ginger non era tanto la fatica, comunque, quanto i gradini in sé: era già inciampata due volte a causa della ridotta visibilità che le causava il visore da Ufficiale, che trasformava i variegati ambienti dell'hotel in uno sfumato impasto arancione.

« Vedi nulla? ».

Al terzo piede in fallo, spazientita, lo rimosse e sbottò « Macché, questo coso è inutile, è come cercare un batterio con una lente d'ingrandimento. Con un vetro colorato davanti ». Dopo aver riposto lo strumento si sentì decisamente più libera e ritrovò anche il suo usuale tono allegro « Buffo, non trovi? Ogni tanto, quando pensi di essere già arrivata… Bam! Un'anomalia mai riscontrata e sei al punto di partenza ».

« Arrivata? » le domandò Sandy perplesso.

« Sì, nel senso… Quando sei al pinnacolo dei Flare, il migliore nel tuo campo… Capita di sentirsi arrivati. Di credersi all'ultimo stadio evolutivo. Di convincersi di aver finito la scienza da studiare ».

Le labbra del vecchio s’incresparono bonariamente « Non penso correrò mai un rischio simile ».

Ginger restituì il sorriso, esprimendo però non cordialità ma sorpresa. « Non ti è mai successo? Di guardare le altre persone dall'alto in basso? Pensando che sai più di loro, che loro sono… » si interruppe. Sapeva dove stava per arrivare, e non voleva ammettere a se stessa di essere quel tipo di scienziata « Non sto dicendo che sia giusto, eh, ma… mai? ».

« No. Ma ognuno ha le sue convinzioni, chi sono io per giudicarti? ».

« E tu? Tu che convinzioni hai? ».

« Io sono convinto… » Sandy si arrestò una volta raggiunto il secondo piano, in parte per approntarsi alla perlustrazione e in parte per radunare i propri pensieri « … sono convinto che ogni persona che incontro sappia qualcosa che io non so ».

La coppia si incamminò lungo il lussuoso corridoio che terminava con una finestra su Luminopoli. Ginger, che ora limitava l'uso del visore agli sguardi d'insieme, osservò quell'anziano astronomo così gentile, e pensò che veniva proprio da un'altra epoca. Un'epoca in cui la scienza era una gioia, e non un pretesto del ceto medio per scagliarsi contro lo spreco di fondi pubblici. « Sei più unico che raro, Sandy. Magari ne avessimo di scienziati come te, su al Frattale, anziché bambini arroganti tipo me e Ross ».

I due fecero dietrofront una volta raggiunto il limite dell'androne. « Ti tratti così male… ».

« Ma è così. Guardaci, ci chiamano geni una volta e ci montiamo la testa… E non siamo in grado di scovare 21 dael in un hotel » commentò amara Ginger « Siamo confinati al nostro piccolo orticello ».

« Il mondo ha bisogno di esperti tanto quanto di tuttofare. Come se ci fosse differenza, poi. Un tuttofare è semplicemente un esperto con… » Sandy si interruppe distratto, poi riprese come ricaduto dalle nuvole « … l'occhio attento ». Aumentò il passo verso la tromba delle scale, e dopo qualche istante Ginger comprese perché: una donna era comparsa. Comparsa è il termine esatto: non c'era quando erano passati di lì qualche minuto prima, e non si erano uditi né passi né porte che si chiudevano. Eppure eccola lì, addossata al muro e con l'orecchio premuto su di esso, astratta dal mondo.

« L'occhio attento » ripeté Sandy, poi rivolse la parola al curioso personaggio « Buongiorno, signorina ».

Silenzio. Il lungo abito viola della ragazza non si mosse di un centimetro, era come se appartenesse a un piano parallelo.

« Ahem, buongiorno » la salutò nuovamente Sandy dopo essersi schiarito la voce « Mi chiedevo se lei–– ».

« Ssssh » lo zittì lei « Non parlarmi, se lo fai non riesco a sentire l’ascensore. Te l’ho già detto, no? ».

« L'asc… ».

Ginger sgusciò oltre il suo amico e l'enigmatica figura e premette fulminea il pulsante per la chiamata. Era il momento di sapere se Sandy aveva ragione, se davvero quella donna poteva saperne più di loro.

« Che fai? » la interrogò lui.

La cabina, ferma solo un piano sopra, effettuò una rapida discesa e le porte si disserrarono con un dlin-dlon di fronte a loro. Dopo aver gettato uno sguardo per sommi capi all'interno Ginger imbracciò il suo visore e se lo mise sugli occhi.

« Ma tu guarda, davvero interessante ».

 

 

Ross non aveva parlato molto durante l'ispezione dell'albergo. Se n'era rimasto a litigare con lo spettroscissore da vista che in teoria avrebbe dovuto aiutarlo a scovare l'anomalia e in pratica era solo d'impiccio. Ciononostante persisteva nel metterlo: dopotutto se gliel'avevano dato ci sarà stata una ragione. E poi non era tipo da mettere in discussione le decisioni di sua sorella su materie che le competevano. O su materie che non le competevano, se è per quello. Comunque Etan pensò che stava venendo fuori un vlog proprio scarso, e pensò di escogitare un modo per farlo parlare.

« Ehi, Ross, non trovi che sia singolare? In due anni di Team Ginger non ci siamo mai ritrovati da soli ».

« Era troppo bello per durare, eh? ».

« Oh, non mettertici anche tu » si lamentò Etan « Ho già Kibwe a prendermi in giro costantemente ».

« Sai cos'ho io di diverso da Kibwe? » Ross lo fissò con uno sguardo di fuoco squadrandolo dall'alto in basso, il che era un risultato non male considerando che la loro altezza era uguale « Non ho testimoni ».

Il giovane meccanico deglutì rumorosamente, annuendo pavido. Poi Ross scoppiò in una risata che aveva trattenuto fin troppo, e anche Etan si rasserenò « Sei proprio un bravo attore. Potresti fare l'ospite ricorrente dei miei vlog. L'opinionista, magari. No, no, ci sono, quello degli aneddoti strani ».

« Potrei davvero farlo » convenne l'uomo « Sapessi quanti ne ho da raccontare. Ero un gioielliere ai tempi dell'università. I gioiellieri sono un po' come i baristi, dei confidenti gratuiti ».

« Eri un gioielliere? Cos'è, i lavori part-time una volta erano così? Perché io prima che i Flare mi pagassero gli studi dovevo servire al banco in discoteca il sabato sera ».

Un sorriso nostalgico segnava ora il volto di Ross « Non era un lavoro qualunque. Mio zio aveva una gioielleria a Temperopoli… ».

« Aspetta, aspetta, sistemo il fuoco della videocamera » lo interruppe immediatamente Etan, intendo a maneggiare il suo devoto giocattolo « Questa va dritta nella mia collezione privata ».

« Mettila su YouTube e ti serviranno testimoni sul serio. Comunque… dicevo? Ah, già, nel primo anno chiesi a mio zio di assumermi come commesso il pomeriggio, quando non avevo i corsi. Non mi piaceva l'idea di spillare soldi a mio padre ».

« E quanto ci sei stato? ».

« Tre mesi e mezzo, fino all'incidente dell'anello ».

La parola incidente risvegliò qualcosa nel cuore meccanico di Etan. Qualcosa che c'entrava con il suo istinto da reporter d'assalto quando reggeva salda una cinepresa, ma anche con quel desiderio sadico degli uomini di conoscere le disgrazie altrui. Così proruppe elettrizzato « Racconta! ».

« E' meno eccitante di quanto credi » lo frenò Ross « Un bel giorno mi assentai due secondi contati per regolare l'aria condizionata e di ritorno al bancone tutti i gioielli erano spariti ».

Beh, era stato breve. Non avrebbe certo tirato su un intero videolog da questo, ma forse poteva salvare ancora qualcosa. « Rubati? ».

Ross puntualizzò stizzito « Ho detto due secondi contati. Si erano letteralmente volatilizzati. L'unico rimasto era questo anello qua ». Alzò la mano sinistra, al cui anulare era adagiata una coroncina dorata con incastonato un lapislazzuli di ragguardevoli dimensioni. Mentre Etan lo inquadrava con la telecamera rifletté sul fatto che non l'aveva mai notato, eppure da come ne parlava lo aveva addosso da una vita. « Perché lo tieni ancora? ».

« Perché il mio motto di vita è che ogni cosa ha un inizio e una fine. Lo tengo come monito, per ricordarmi che un giorno scoprirò come ha fatto un'oreficeria intera a svanire nell'etere » spiegò il biologo con una punta di solennità nella voce, che tuttavia sfumò molto in fretta « Quando tornò lo zio mancò poco che mi incenerisse, sosteneva che mi avevano rubato l'intero negozio sotto al naso. Avrei dovuto lavorare una vita per ripagarlo, così usai i soldi dei tre stipendi ricevuti per trasferirmi a Luminopoli e seguire qui l'università. Poi i Flare mi scoprirono e beh, voilà ».

« Sei assunto » comunicò categorico Etan.

« Sono stato assunto. I tempi verbali, nuovo Spielberg ».

« No, no. Sei assunto per i vlog, intendevo ».

« Di bene in meglio » si rallegrò ironicamente Ross, togliendosi poi il visore dal volto per lanciarlo al cameraman « Questo coso è del tutto inutile, le mura mi impediscono di vedere oltre il mio naso ». Solo allora si accorse che aveva il fiato corto per tutte le scale che aveva fatto, e di certo tutta la narrazione non lo aveva aiutato. « Che ne dici di prendere l'ascensore? Sono un po' stanco ».

« Beh, il materiale ce l'ho, direi che può andare. Se quello che stiamo cercando fosse sulle scale ce ne saremmo accorti, del resto » convenne Etan. Poi si arrestò, fissando un punto non precisato nel corridoio del piano « E tu che ci fai qui? ».

« Con chi parli? ».

« Io… Io credevo di aver visto… Niente, penso di essere stanco anch'io ».

« Di certo il tuo braccio non può essere felice di scarrozzare sempre la videocamera, giusto? » evidenziò Ross mentre chiamava l'ascensore « Oppure stai delirando, insomma, è anche quella un'ipotesi ».

L'entrata dell'abitacolo si aprì con uno scampanio elettronico e i due vi si posizionarono. In quel momento pensarono la medesima cosa: se nel Le Crésus persino gli ascensori avevano le dimensioni di un piccolo salotto, non c'era da sorprendersi se fosse definito “il più costoso di Luminopoli”.

« Il prossimo è il quarto, giusto? » disse Etan cercando conferme. Ross fissava il quadro dei tasti come perso, tanto che il meccanico arrivò a ipotizzare che non ne avesse mai visto uno. « Che hai? ».

« Etan, quanti piani ci sono in questo albergo? ».

Era una domanda atipica di per sé, ma il tono con cui era stata posta la rendeva decisamente ansiogena. « Sei più il pianterreno, perché? ».

« Perché qui c'è un bottone numero sette ».

Etan si sporse oltre il busto dell'uomo per verificare la stranezza, e non ebbe altro da fare che dargli ragione. Era isolato sopra agli altri, ma era in tutto e per tutto identico a quelli che lo precedevano, e pareva avere la stessa età a giudicare dall'usura. « Forse è il solarium? ».

« Sì… » rispose Ross poco convinto, sfiorandolo delicatamente con l'indice destro « … forse ».

Un pulsante impossibile. Come avrebbe potuto resistere? Senza nemmeno chiedersi se fosse un'idea raccomandabile lo spinse con decisione.

Nulla. Non sapeva bene cosa si fosse aspettato, in effetti. Di sfondare il tetto e volteggiare tra le nuvole come Willy Wonka? Che scherzi gioca la mente, a volte. Probabilmente era un avanzo progettuale, il residuo di un piano mai ultimato. Lo ricacciò negli anfratti della memoria e tornò a concentrarsi su ciò a cui davano la caccia.

Poi l'ascensore iniziò a precipitare.

 

 

Ginger riuscì a mettere insieme un pensiero coerente solo quando cessò di tossire come un'ossessa e fu in grado di prendere un respiro profondo. La riflessione risultante fu che la tosse che la affliggeva era causata dal fumo grigio circostante, e dunque quella del respiro profondo non era stata un'idea poi così brillante. Poco male, altro tossire non l'avrebbe uccisa. Il fumo? Beh, quello era un altro discorso.

Cercò di mettere a fuoco la situazione, che però appariva abbastanza annebbiata. Per tutto quel fumo, immaginava. Aprì gli occhi a forza: quelli non furono molto felici di entrare in contatto diretto con le esalazioni, ma quantomeno riuscì a inquadrare una porta. Che ci faceva una porta in un ascensore?

Arrancò fino al limitare della stanza in cui si trovava e abbassò la maniglia. La porta non si aprì per diverse buone ragioni, la prima delle quali era che non si trattava di una maniglia, bensì di un pomello. Con sua meraviglia trionfò nel radunare le risorse mentali necessarie per compiere l'atto di girarlo, sprofondando oltre la soglia e atterrando dritta su un morbida moquette di velluto rosso.

Impiegò successivamente un minuto netto per le seguenti azioni: disintossicarsi dal fumo, controllare la cintura per verificare di avere ancora con sé tutti i Pokémon, ripulirsi l'uniforme fiammante, chiudere la porta con un urto violento, contestualizzare il luogo in cui era finita.

Tanto per cominciare non aveva nulla a che fare con il Le Crésus Hotel se non per una cosa: pareva proprio un hotel. O meglio pareva il corridoio di un hotel: luci calde, nessuna finestra, una sfilza di porte, angoli da ambo i lati, decorazioni fiorentine sulle pareti e sul rivestimento del pavimento. Tuttavia c'erano un paio di cose che non tornavano: nessuna delle presunte camere era numerata e non c'era anima viva in giro.

Ecco, preferì non aver pensato quell'ultima parte, perché come la sua testa arrivò a “giro” le giunsero alle orecchie rumori tumultuosi di persone che, credeva, stavano correndo e annaspando. Mise rapidamente mano alle Poké Ball e volse lo sguardo all'incrocio terminale sul suo lato sinistro, da dove i suoni parevano provenire. A occhio e croce dovevano essere venti o trenta, forse di più.

Sotto i suoi vigili occhi sbucarono dall'angolo due figure che, notandola, accelerarono il passo come possibile. Uno era un corpulento palestrato, l'altro un ometto dagli occhi a mandorla. Come le furono addosso senza che lei avesse mosso un dito Kibwe aprì la bocca, vibrante come la donna non l'aveva mai visto nella sua pace imperturbabile. Lui e Ginger ingaggiarono uno scambio di battute serrato, quasi facendo a gara a chi diceva cosa gli era successo prima dell'altro.

« Sei piani ».

« Sette pulsanti ».

« Ascensore in caduta ».

« Stanzetta ».

« Due ore di attesa ».

No. No, quella parte Ginger non l'aveva nello schedario. « Come? ».

« Sono due ore che siamo qui » chiarì Kibwe « Sapevo che io e Terence avremmo concluso prima, ma non così tanto ».

« Non siamo neanche arrivati in hotel da due ore. A meno che io non abbia dormito nel fumo per quel tempo, nel qual caso sono già morta ».

« Fumo? ».

« C'era del fumo nella mia stanza. Cioè, nel mio ascensore » si corresse Ginger, salvo poi ricordarsi che gli ascensori non hanno porte « No, cioè, prima ero… ».

Terence intervenne con il suo consueto pragmatismo « Hai letto la targa? ».

« La… targa? ».

« Sul retro della porta » spiegò Terence impaziente « Dietro ogni porta c'è una targa che dice il significato della stanza ».

« Ma di che diamine stai–– ».

« La mia era la Camera delle Occorrenze » raccontò Kibwe, e il fatto che il suo tono fosse tornato affabile come sempre rassicurò un po' Ginger « Ci ho trovato una chiave, il resto era tutto bianco. Non apre nulla che abbia provato ».

« Io avevo la Camera delle Certezze Vane » proseguì Terence « Dentro c'era una lavagna con una sola linea orizzontale orientata etichettata “causa-effetto”. La tua? ».

« Io… Io non ho visto nessuna targa. Penso per via del fumo » richiamò alla mente Ginger. Poco male, pensò, avrebbe potuto controllare ora: la storia delle targhe la intrigava alquanto. Che cosa potevano simboleggiare tutte quelle esalazioni caliginose? Fu un'attesa breve: bastò un secondo dopo essersi voltata per capire che non l'avrebbe mai saputo. La porta era svanita.

« Tutto bene? » domandò Kibwe, vedendola spaesata.

« Sì… Cioè, no, era qui. Era qui, ne sono assolutamente certa » farneticò Ginger. Non aveva mosso un passo da quando ne era uscita, dove era andata a finire?

Anche qui il tempo per domandarselo fu poco: d'un tratto una voce iniziò a rimbombare nel corridoio, agghiacciando tutti i membri della Seconda Unità. Non aveva un timbro usuale, di quelli che senti al mercato: era la voce di un pazzo che declamava parole senza senso.

« Troppo a lungo! Troppo a lungo! ».

Ginger e Kibwe misero entrambi mano alle Poké Ball mentre Terence si nascondeva dietro le loro sagome. Il suono si intensificò fino a farsi assordante sinché due figure non sbucarono da uno dei due androni perpendicolari visibili: uno era un quarantenne calvo, l'altro un adolescente che si dimenava nella stretta del primo. Gli altri tre corsero loro incontro angustiati, perché ciò che avevano sotto gli occhi era un Etan delirante che cercava di sfuggire a Ross.

Terence fu il più rapido a parlare « Che gli prende? Ci sentiranno tutti! ».

« Tutti chi? » fu la pulita obiezione di Kibwe.

« Tutti quelli dell'albergo! ».

Ginger scorse l'espressione del suo amico informatico e comprese che, pur a ore di distanza, entrambi erano giunti alla medesima, ovvia conclusione: non erano più nel Le Crésus. Frattanto Etan non si era fermato, continuando nella sua nenia. « Non combacia! Troppo a lungo! ».

« Datemi una mano invece di stare lì a fare nulla! » sbraitò Ross « Tenetelo fermo! ».

Per fortuna il possente fisico di Kibwe fu più che sufficiente a contenere quello smilzo del giovane meccanico, risolvendo almeno uno dei problemi. Sulle grida c'era poco da fare, anche se era abbastanza evidente che se avesse potuto il suo aguzzino gli avrebbe di buon grado spezzato il collo.

« Santo cielo, grazie! » esclamò Ross riprendendo fiato « È un quarto d'ora che va avanti così, non so che gli sia preso ».

« Non combacia, non combacia! » strepitava Etan nel frattempo, quasi con le lacrime agli occhi dalla foga che ci metteva. Ginger non poté trattenere un moto di pietà: qualsiasi cosa significasse quel non combacia, per lui doveva essere la cosa più essenziale al mondo. E quanto doveva essere frustante il fatto che nessuno riuscisse a coglierlo.

« Non si può farlo stare zitto? » protestò Terence, e di nuovo il greve sguardo di Kibwe tornò a farsi sentire.

« Sta male, non lo vedi? » lo redarguì Ginger per poi mettere le mani intorno alla testa di Etan con fare materno « Ascolta, mi vedi? Mi riconosci? ».

« Non combacia, non combacia! ».

« Ascoltami, Etan, ho bisogno che tu ti calmi. So che è importante quello che dici, ma non riesco a capirlo. Che cosa non combacia? ».

Il fatto che qualcuno finalmente si interessasse a lui rassettò parzialmente la mente confusa del ragazzo, la cui espressione ora ricordava più una bertuccia spaventata che un folle « Te… ».

« Io? » domandò perplessa

« Tem… po… ».

« Tempo… » ripeté Ginger sovrappensiero « Non combacia il tempo? ».

Etan non rispose, ma i suoi occhi si accesero di felicità. Alla fine qualcuno aveva afferrato.

« Non combacia il tempo, d'accordo. Ma che vuol dire? ».

Terence controllò il suo orologio analogico da polso, sorprendendosi poi nell'aver dato retta a uno che evidentemente non c'era più con la testa « Due ore, non è cambiato nulla. Stiamo davvero ascoltando quello lì? ».

« Due ore, ma certo! » esclamò Ginger in un'illuminazione estemporanea. Estrasse dalla tasca dell'uniforme il suo PSS deteriorato, di cui ormai non si preoccupava nemmeno più dal momento che l'avrebbe rimpiazzato a breve con un 5S, e lesse l'ora « A me segna le sei e ventitré. A te, Terence? ».

« Non è possibile » ribatté l'uomo « Sono le otto e mezzo ».

« Controlla il tuo rubricatore di curvatura ».

Terence respinse la proposta con convinzione « Sono qui da due ore, credi che non ci abbia pensato? Si è rotto quando siamo caduti con l'ascensore ».

« Non siamo mai caduti. In primo luogo ci avrebbero sentiti, e in secondo luogo nessuno di noi si è svegliato in ascensore ».

« E saremmo già morti sfracellati » soggiunse Ross per inserirsi nella conversazione.

Ginger annuì « Cosa ti fa pensare che sia rotto? ».

« Segna 30 dael ovunque vada » glossò Terence « Il che è impossibile, perché con uno schiacciamento spaziale simile saremmo tutti a provarci l'aureola ».

« Non se lo schiacciamento è nel tempo » ghignò la donna, e tale affermazione riuscì a zittire persino il petulante asiatico.

« Nel tempo? » questionò suo fratello « Che vuol dire? ».

« Siamo in una regione di compressione temporale. Qui il tempo scorre più velocemente che nell'hotel, a Luminopoli, e in qualunque altro posto che possiamo conoscere o intravedere » annunciò Ginger « Signori, benvenuti al vostro primo viaggio in un universo parallelo ».

Giusto a quel punto, mentre gli altri assorbivano la notizia, a lei sovvenne un punto che aveva trascurato. Li teneva tutti a vista in quel momento, ed erano troppo pochi. Kibwe, Etan, Ross, Terence: ne mancava uno.

« Dov'è Sandy? ».

« Non era con te? » le restituì la domanda Ross. Gli altri non le avevano nemmeno prestato attenzione, impegnati com'erano a squadrare l'ambiente con occhio scientifico, ma lui aveva imparato da tempo a non lasciarsi sorprendere da sua sorella.

« Beh, non nella stanza » rispose Ginger. E anche se lo fosse stato, ora è bello che soffocato dal fumo, completò mentalmente rammentando la scomparsa della porta.

In quell'istante Etan le si avvicinò all'orecchio per sussurrarle « L'ha preso lui… ». Con un cenno del capo indicava qualcuno del gruppo, qualcuno che Ginger constatò essere…

« Chi, Ross? ».

« Io? » reclamò risentito il biologo « Siamo stati insieme tutto il tempo! Come avrei fatto a prenderlo senza che tu te ne accorgessi? ».

« No… » Etan si batté la mano sulla fronte « No, scusa! Scusa, ho sbagliato di nuovo. È tutto così ingarbugliato… ».

Un pensiero attraversò la psiche di Ginger, un'intuizione su qual era veramente la plausibile origine di tutto quel caos. « Etan » lo interrogò « da che camera vieni, tu? ».

Il meccanico emise un risolino divertito e incespicò nel discorso un paio di volte a causa di ciò, ma riuscì infine a dirlo alla donna « La Camera del Futuro ».

La donna non reagì. La Camera del Futuro? Che sciocchezza. Un universo parallelo è una cosa, ben diverso è parlare di vedere ciò che sarà in anticipo. E poi che cosa avrebbe dovuto voler dire? Che suo fratello avrebbe preso Sandy? Che senso aveva tutto quello sragionare? Ginger fu riportata alla realtà qualche minuto dopo dalla voce di Kibwe.

« Siamo in un universo parallelo, giusto? ».

« Non vedo altre possibilità. Evidentemente l'anomalia conduceva qui ».

« E secondo te siamo soli, giusto? ».

« Beh » esitò Ginger, sovrapponendo poi spezzoni di subordinate mentre meditava « La mia teoria attuale è che l'anomalia fosse collegata agli ascensori. Visto che erano tre e li abbiamo presi noi… e che io sappia i wormhole sono parecchio instabili… il che vuol dire che sono probabilmente collassati con il nostro passaggio… direi che è plausibile dire che non c'è nessun altro, sì ».

Kibwe non mutò tono nemmeno per la frase che seguì, il che fu anche più inquietante di ciò che stava comunicando « E allora di chi è la mela? ».

Ross, fino a quel momento occupato a rassicurare Etan, inarcò le sopracciglia « Quale mela? ».

« Quella vicino alla porta » continuò, indicando un oggetto poco lontano da loro.

Ginger vi si avvicinò guardinga, attendendosi che in realtà fosse un ordigno nucleare travestito da mela. Invece anche al tatto pareva proprio una mela: rossa, morsa su un lato, priva di picciolo, alquanto recente a giudicare dall'assenza di sfumature arancioni sulla parte rosicchiata. Per il colore doveva essere passata inosservata sulla moquette per tutto quel tempo.

L’ingegnera trasalì d'un tratto: dalla porta accanto a dove si trovava era appena trapelato un grido. Non riuscì a identificarne bene la natura, ma di una cosa era certa: era inequivocabilmente un grido umano. Arretrò, mettendo mano alla cintura per la terza volta da quando l'ascensore era precipitato. Per quando si fu ricongiunta con il resto della Seconda Unità il flebile suono era diventato un fracasso di scarpe, invettive e spari.

In tutto ciò non c'è da sorprendersi se Etan fu in grado si svicolare indisturbato dalla sorveglianza di Ross per avvicinarsi alla giovane. « Addio, Ginger » le sussurrò compiaciuto mentre un uomo apriva la porta con una spallata e, senza proferire una sola parola, puntava una pistola verso di lei e premeva il grilletto.

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** 1x22 - La suite di mezzanotte ***


Untitled 1

PREVIOUSLY ON LKNA: la Seconda Unità Flare viene inviata al Le Crésus Hotel di Luminopoli per fare luce su un'anomalia spaziotemporale. Di essa fanno parte: Ross, biologo, e sua sorella Ginger, ingegnera, leader del gruppo; Kibwe, possente informatico; Terence, presuntuoso matematico; Sandy, anziano astronomo; Etan, giovane meccanico.

Nell'albergo scoprono qualcosa di sorprendente: tutti i tre ascensori sono collegati a ciò che stanno cercando e possiedono un pulsante in eccesso che, quando premuto, li catapulta in un bizzarro dedalo di corridoi in cui ogni porta ha un significato diverso. Al momento del ritrovo Sandy è disperso, ma prima di poter iniziare delle ricerche succede qualcosa di inatteso: da una delle porte esce un ignoto individuo. Che spara a Ginger.

 

 

 

 

 

 

Un fiotto di un liquido gelido impattò Ginger in pieno volto, paralizzandola dal freddo mentre emetteva lamenti inconsulti. Kibwe e Ross scattarono verso l'individuo bloccandolo a terra senza grandi difficoltà vista la sua forma non propriamente atletica. Quello iniziò a sparare invettive sconclusionate, dimenandosi con un moto che pareva più quello di una palla da bowling che non quello di un essere umano. Etan batté di nuovo la mano sul volto « No, no, ho sbagliato di nuovo! Devo sviluppare un sistema! ».

Terence si fece incontro alla donna con solerzia, per la verità più per conoscere la natura dell'agente chimico che le era stato irrorato e i suoi effetti sulla pelle umana che per soccorrerla. « Che cos'era? Acido nitrico, o veleno di Durant? O di Beedrill? Ti senti sfrigolare? Quanto stimeresti sia il tempo di vita che ti rimane? ».

« Non mi avrete, rettiliani! Vi farò evaporare uno ad uno! ».

« È… » Ginger si asciugò sconcertata la faccia con la mano, passando poi a fiutarne l'odore per sicurezza. Non poteva credere a ciò che era successo. « … acqua. Quello squilibrato mi ha appena spruzzata con una pisola d'acqua ».

 

 

 

Episodio 1x22

La suite di mezzanotte

 

 

 

« Posso spezzargli il collo? » imbeccò Kibwe.

« Non sono sicuro che ce l'abbia » rispose distaccato Ross, come se stesse parlando di una cavia da laboratorio « Guardate, il corpo e la testa sembrano un tutt'uno. Dovremmo portarlo al Frattale per le analisi ». In effetti, in quell'ammasso di carne che si contorceva sotto le loro strette, il capo poggiava dritto sulle spalle senza alcuna protuberanza a fare da tramite.

« Lasciatemi andare, rettiliani! Potrete uccidere me, ma non ucciderete mai la nostra libertà! ».

« Chissà, uccidere te potrebbe essere un miglioramento » commentò Ginger inginocchiandosi con il volto ancora paonazzo per la temperatura del fluido « Perché mi hai spruzzata? ».

« Perché non sei ancora evaporata? » domandò lui di rimando, perlomeno cessando di divincolarsi.

« Per quale ragione dovrei esserlo? ».

« I rettiliani odiano l'acqua » replicò l'uomo con persuasione.

Niente da fare, più indagava nelle sue azioni meno esse avevano senso. Era meglio cominciare dal principio « Come ti chiami? ».

« Gant Nomarch. Barista di Rio Acquerello e membro di una lunga schiera di combattenti per la salvezza della razza umana » declamò con fare militare « Sarò primo martire con onore ».

« Molto bene, Gant. Vorresti gentilmente dirci come diamine sei arrivato qui? ».

« Non ve l'aspettavate, eh? Con tutte le vostre guardie… » li derise tronfio Gant « Ma noi sulla Rete sapevamo già tutto, ah, se lo sapevamo! Il Le Crésus era il luogo in cui si sarebbe tenuto il summit segreto dei Rothschild. Ci siamo organizzati per pagare in venti una stanza da due, in questo modo ci siamo infiltrati nel vostro quartier generale. E ovviamente avevamo previsto che non sarebbe stato su un piano ufficiale, anche se mettere addirittura un pulsante negli ascensori… Siete più stupidi di quanto mi aspettassi, lo ammetto ».

Qualcosa però non tornava. Quando era entrata nella cabina della sezione sinistra, Ginger aveva visto attraverso il suo visore che i fotoni convergevano verso il tasto numero sette. L'anomalia era una sola come preventivato, ma i wormholes per accedervi erano tre, uno per ascensore, attivati dai tre bottoni extra. Volse lo sguardo a Terence, l'unico che in assenza di Sandy avrebbe potuto chiarirle i passaggi successivi. « I varchi spaziotemporali non collassano al passaggio di materia? ».

« O quello o un buco nero istantaneo. Anzi, su tre passaggi ci è andata bene, le probabilità erano circa una su… ».

Ginger trascurò il successivo sermone sulle variabili aleatorie per l'inferenza statistica e tornò a Gant « Non puoi aver usato un ascensore ».

« Ah-ha! » esclamò lui trionfante « E qui vi abbiamo fregati! Vi dimenticate che esiste anche un montacarichi! Ma al popolo della Rete non la si fa! La sappiamo lunga su voi rettiliani, anzi, preparatevi a evaporare tra qualche istante! TUTTI A CA–– ». Gant cadde riverso all'indietro, stordito da un manrovescio ben piazzato di Kibwe.

« Grazie » disse Ginger, e il silenzio calò nuovamente sul corridoio dopo la fine della lezione tenuta da Terence. « Ora, se nessun altro ha intenzione di spararmi, non sarebbe male tornare a Sandy. No, no, aspetta! » si interruppe, andando incontro a Etan che pareva assorto in un innaturale torpore « Tu mi hai detto addio! Perché mi hai detto addio? ».

Ross le si affiancò, cingendole le spalle con un braccio per calmarla « Su, non penserai mica che quello sappia ciò che dice, vero? ».

Sì, forse lo pensava. Perché troppe cose non le piacevano in quel frangente. Tanto per cominciare il fatto che Etan fosse stato nella Camera del Futuro, o almeno così sosteneva: cosa ci aveva visto? Perché ne era uscito così ammattito? Ah, ma si sentiva? Stava persino dando retta all'assurda idea che delle stanze di un finto hotel deserto potessero predire il futuro. E poi il finto hotel deserto, che ci faceva in un universo parallelo un finto hotel deserto? No, non erano troppe le cose che non le piacevano, era una sola: il non capire.

« La porta blu ».

Tutti si voltarono verso Etan. Il sorriso dissennato che aveva mantenuto fino a quel momento aveva lasciato il passo a un piglio contrito, e teneva il pollice ermeticamente alzato. « Come? » lo interpellò Ross.

« Ho sviluppato un sistema. Prima faticavo a mettere in ordine le immagini nella mia testa, ma ho sviluppato un sistema » spiegò il giovane meccanico « Quello che vedo è il mio futuro. Quindi se io numero ciò che faccio mentre lo faccio, automaticamente anche quello che vedo nella mente sarà ordinato. E a quanto pare il numero uno sono io che dico “la porta blu” ».

Ginger non credeva all'idea della Camera del Futuro – o ci credeva e non lo ammetteva al se stessa –, ma ammise interiormente che quello era un metodo degno di un genio, o lo sarebbe stato se tutta quella montagna di grullerie fosse stata vera. Un sistema di ordine mentale le avrebbe fatto comodo proprio ora, effettivamente, dato che vagava da un pensiero all'altro come una pernice.

« Bene, e che cos'è la porta blu? » domandò Ross, che ormai era l'unico a dialogare con Etan.

« La porta più importante di tutte. La sua porta. La porta che non può lasciare ».

« Sua di chi? ».

Etan fece una pausa, e Ginger intuì che doveva star controllando i numeri sulle dita. L'occhio le si posò sulla sua mano, che ora teneva alzati pollice e indice. « Non posso ancora dirlo. Ma Sandy si trova lì, e io posso portarvici ».

Ross sbuffò sarcastico « Perché dovremmo fidarci di te? Non sei stato molto attendibile ultimamente ».

« Perché altrimenti Kalos brucerà di nuovo ».

Normalmente la locuzione chiave in quella frase sarebbe stata di nuovo, perché nessuno di loro ricordava che Kalos fosse bruciata in un passato recente. Ma a Ginger fece più effetto la prima parte, Kalos brucerà, per una ragione molto semplice: il fuoco porta fumo. Che cos'era davvero la sua camera? C'era davvero un fondo di verità in quel nonsenso perpetuo?

« Va bene » dichiarò la donna ad un tratto « Andremo con te. Kibwe, tu resta dietro di lui nel caso impazzisse di nuovo ».

Etan alzò con uno scatto il braccio destro, che ora brandiva un tre segnato con pollice, indice e medio. « No, no, lui no. Dobbiamo essere solo io e voi due » espose accennando con il naso a Ross e lei.

Era completamente fuori di testa. Credeva sul serio che sarebbero stati così stupidi? Chissà che aveva visto in quella Camera del Futuro Manicomio. Forse loro due che lo assassinavano, e intendeva anticiparli? Per quello le aveva detto addio, si era sbagliato sul tempismo? Stavano andando dritti in una trappola, anche un idiota se ne sarebbe accorto. Perché mai avrebbero accettato?

« Io ci sto » assentì Ross con un ghigno.

Ah, beh, giusto. Perché se le cose stavano così, allora Sandy era qualificabile come ostaggio. E se volevano riaverlo dovevano stare alle regole del terrorista.

 

 

« Fermi! » esclamò Etan arrestandosi di colpo, e Ginger riconsiderò seriamente la scelta di non aver portato Kibwe con sé. Quel ventenne non pareva minimamente accorgersi della tensione che accompagnava ogni parola che pronunciava, anche se così in basso come appena l'avevano rincontrato ancora non era tornato.

« Cosa c'è ancora? » gli ringhiò Ross.

« Ho scordato la videocamera davanti alla mia stanza » spiegò candidamente mentre, foglietto alla mano estratto dal taccuino integrato nell'uniforme Flare, scarabocchiava qualcosa. « Meglio che mi segni come raggiungerla, finché ho la mappa del labirinto qui dentro » si batté sulla tempia l'indice della mano aperta, salda su un cinque stabile « Ehi, Ginger, me lo terresti tu? ».

L'ingegnera inspirò profondamente cercando di trattenersi dal mollargli uno schiaffo e infilò il pezzo di carta in tasca. Ross si dimostrò meno paziente di lei « Allora, manca molto? State andando come lumache ».

Etan gettò uno sguardo al lungo corridoio in cui si trovavano, forse quello più esteso che avessero incontrato fino a quel momento. Procedeva per ancora qualche centinaio di metri per svoltare a sinistra. « La via è una sola, puoi andare avanti se ti va ».

Ross annuì con un cenno e accelerò il passo, staccandoli ben presto di un buon tratto. Etan si rivolse a Ginger, abbassando la voce come chi rivela un segreto « Lo sai in che camera è stato? ».

« Dovrei? » replicò lei scrollando le spalle.

« La Camera dei Rimpianti » proseguì il meccanico « Era dritta vicino alla mia. Non vuoi sapere cosa ci ha visto? ».

« Credevo vedessi solo il tuo futuro ».

« Ma tu vuoi saperlo? ».

Ginger aggrottò la fronte e le sue sopracciglia si arcuarono in segno di ostilità « No ». Le sue pupille vibrarono per la stizza, e fu allora che se ne accorse: per un attimo, fugace nella coda dell'occhio, era apparsa una figura che li stava indiscutibilmente seguendo.

Fu molto vicina a perdere il controllo di se stessa, ma si appellò a tutta l'esperienza che aveva per mantenere la calma. Voltarsi e controllare di nuovo era fuori discussione, o Etan e l'inseguitore, molto facilmente in combutta, si sarebbero accorti della sua diffidenza. Decise di far finta di niente e di simulare rabbia verso il tentativo dell'ex-amico di violare la privacy di suo fratello – cosa che le riuscì stranamente facile – come scusa per raggiungerlo.

Ross, una volta a debita distanza da loro due, aveva interrotto l'andatura spedita per riprendere quella dinoccolata che teneva usualmente, quindi non fu complicato per Ginger colmare la distanza.

« Qualcuno ci segue » gli sussurrò, avendo cura di non apparire sospettabile mentre lo faceva.

« Te ne sei accorta » constatò allietato lui. Ginger suppose che avrebbe voluto aggiungere “alla fine”, ma che non aveva avuto il coraggio di dirglielo in faccia.

« Quando arriveremo da Sandy, ricordiamoci che Etan è nostro nemico » proseguì la donna « Non so cosa gli sia successo, ma non è più in sé ».

« Beh, non credo dovremo aspettare molto » commentò mordace Ross fermandosi. Sua sorella fece lo stesso: erano giunti alla fine dell'interminabile corridoio. Oltre la svolta a sinistra c'era solo una piccola rientranza nella parete che ospitava una porta color blu oltremare, immacolata e priva di polvere quasi venisse ripulita ogni giorno. Etan giunse poco dopo con un sorriso in volto « Eccoci qui ».

« Cosa c'è dietro quella porta? » lo interrogò Ginger.

« Sarebbe un po' difficile da spiegare » rispose il meccanico, le cui mani ora segnavano un sette « Perché non la apri? ».

« Perché non sono stupida ».

« Non parlavo con te » ribatté Etan sprezzante « Solo Ross può aprirla ».

« Che idiozia » borbottò tra sé e sé Ginger dirigendosi rabbiosa verso l'asse di legno dipinto. Girò il pomello con forza e tirò, ma la porta pareva opporre essa stessa resistenza. Suo fratello le si avvicinò, perplesso quanto lei, ma con sorpresa di entrambi sotto la sua mano sciupata i cardini girarono come appena oliati.

La donna sporse il capo oltre la soglia, notando la canonica targa sul retro dell'uscio che portava inciso a chiare lettere “notte fonda”. Dietro si trovava una suite che forse rivaleggiava in lusso quelle del Le Crésus Hotel limitatamente all’arredamento e alle dimensioni, ma le stracciava sul contenuto: il pavimento era infatti letteralmente tappezzato di gioielli di ogni tipo, da corone ad anelli a milioni e milioni di monete. E la cosa più straordinaria era che quella ricchezza sconfinata non saltava all’occhio per prima: al centro della stanza vorticava un ampio turbine bidimensionale dalle tinte notturne al cui interno luccicavano piccole sorgenti luminose che parevano proprio astri nel cielo. Senza rifletterci molto, chiunque si fosse trovato al suo cospetto l’avrebbe definito un passaggio tra le dimensioni.

E all'angolo in fondo a destra della sala, riverso sulla schiena, stava il corpo inanimato di Sandy. Ginger, incurante del maelstrom stellato al centro, si gettò sull'astronomo e lo scosse isterica. Con sua gioia l'uomo dischiuse gli occhi, pur con fatica, e si destò dallo stato di svenimento in cui si trovava.

« Che… » balbettò « … Dov'è l'ascensore? ».

« Va tutto bene, ti spiegherò dopo. Riesci a stare in piedi? ».

« Io… Io spero di sì, io… ».

Con moderata fatica e l'aiuto della compagna Sandy riuscì infine a issarsi sulle gambe, ma fu abbastanza evidente che per il momento era meglio sorreggerlo dall'esterno. « Ross, vieni a darmi una mano » chiamò Ginger. Le sue parole rimbombarono nella suite senza risposta « Ross, mi senti? ».

« Credo che non possa più sentirti » la informò Etan. Ginger si voltò con il cuore in gola, aspettandosi che il meccanico lo avesse sgozzato senza che lei se ne accorgesse. Invece la situazione era molto diversa da come se l'aspettava: quello che aveva etichettato come nemico era ancora fermo appena oltre la porta blu, e suo fratello era invece avanzato di alcuni passi verso il turbinio, ora quasi sul punto di accarezzarlo.

« Ross » ripeté la donna, ma questa volta era più una domanda che un'invocazione.

« Credo dovresti dare ascolto al tuo amico, dopotutto è stato nella Camera del Futuro. È solo il secondo ad esserci stato, se avessi una fortuna simile cercherei di sfruttarla » suggerì Ross dando le spalle al vortice per rivolgersi direttamente a Etan « Dimmi, com'era il Futuro dopo il mio ritorno? ».

Ginger non riusciva a capire. La voce era di suo fratello, il corpo era di suo fratello, l’accento anche, ma il modo di parlare era del tutto diverso. Era come sentire un imitatore, un imitatore davvero capace che metteva in bocca a Ross parole non sue.

« Etan, aiutami a portare Sandy » intimò categorica, e il giovane obbedì. O meglio, di primo impatto parve obbedienza; in realtà Etan eseguiva solo le azioni che vedeva nella mente nell'ordine stabilito dalla Camera. Le sue mani ora segnavano un nove, il che voleva dire che mancava al più una scena numerata. Mentre conducevano l'astronomo alla soglia, Ginger non poté fare a meno di chiedersi se quel dieci in arrivo non fosse la sua morte e l'addio che il meccanico aveva pronunciato in anticipo.

« Non ve ne andrete di già, vero? » domandò con finto dispiacere l'Imitatore.

« No » replicò lei vibrante. Per fortuna quantomeno ora Sandy riusciva a rimanere eretto autonomamente, dandole la possibilità di concentrarsi sul caso più impellente « Riporteremo indietro anche Ross ».

« Temo che questo sia impossibile. Perché vedi, io invece voglio proprio restare ».

« Io chi? ».

« Come sarebbe io chi? » protestò risentito « Sono tuo fratello! ».

Ginger ringhiò interiormente al pensiero che oltre a fingersi la persona a cui più teneva al mondo la stesse pure prendendo in giro « Non giocare con me. Non sai nemmeno il suo vero nome ».

« Mi stai sfidando? » ridacchiò quello « Il suo nome è Dylan, di lavoro fa il biologo. È stato nella Camera dei Rimpianti, e so cosa ci ha visto ».

« Suo, fa, è, ha » ghignò astiosa Ginger « Quindi te lo richiedo: chi sta parlando al posto di Ross? E ti avverto che non ti darò una terza chance ».

L'Imitatore batté sarcasticamente le mani « Congratulazioni, non sei cambiata di una virgola. Ma il mio nome dovresti averlo già letto sulla targa ».

« Cosa, notte fonda? ».

« Oh! » esclamò l'Imitatore battendosi il palmo destro sulla fronte « Giusto, per voi non si traduce. Il mio nome è Hoopa, ricordi? ».

Ginger spalancò gli occhi « Hoopa? Quello delle fiabe? Evelyn e il tesoro di Hoopa? ».

« Cos'è questa sorpresa? Non abbiamo già avuto un dialogo simile? ».

« Non mi risulta » rispose lei scuotendo la testa « Non ricordo nemmeno di averti incontrato ».

« Forse non eri tu. O forse sì. Ma in fondo che ne so io dello span di memoria umano » commentò Hoopa solcando con una mano la calvizie di Ross « Immagino allora tu non sappia nemmeno dove ci troviamo ».

« Non nel nostro universo. A parte questo, illuminami ».

« Nella mia prigione. Ho avuto un carceriere alquanto risentito, l'ultima volta che ci siamo visti mi ha tolto forma fisica, decimato le facoltà, chiuso in questo stanzino e costruito attorno un bel labirinto » spiegò con una punta di tristezza Hoopa, lasciando però che essa scomparisse poco dopo « Ma io riesco a vedere ciò che c'è oltre ».

La mano destra di Ross schioccò le dita e le pareti divennero invisibili. Non solo loro, ma l'intera struttura alberghiera in cui erano finiti mediante i varchi del Le Crésus ora pareva non esistere più. Intorno alle tre persone nella Camera Notte Fonda ora si stagliava solo un orizzonte buio da ogni lato, un campo sterrato di tanto in tanto interrotto da montagne violacee cupamente rischiarate. Le sole luci, almeno fin dove gli occhi degli astanti riuscivano a distinguerle, erano conste di nutrite orde di Rotom e più raramente di Litwick, oppure occasionalmente dagli sguardi foschi di Gengar che si accendevano crudeli. Una inquietante sinfonia di spettri che vagavano senza una meta.

« Che… Che cos'è? » domandò incredula Ginger, sorpresa di trovarsi per la prima volta senza parole.

« Il Mondo dei Morti » rispose gelido Hoopa « Un intero universo costruito con l'unico scopo di recludermici dentro ».

Finalmente a Ginger fu chiaro cosa non tornava nel suo modo di parlare: era pieno di sé. Suo fratello si era sempre sapientemente mosso nell'umiltà, il suo ospite indesiderato invece si riteneva la creatura più importante del creato. Bastava il solo modo in cui raccontava del mondo il cui obiettivo era contenerlo per rendersene conto. Ma lei era abbastanza furba da capire che poteva ritorcergli contro questa debolezza: tutti gli arroganti detestano essere messi in discussione. « Questa è una prigione? L'ente sovrano del Mondo dei Morti ha paura di una porticina? ».

« Il mio carceriere era alquanto furbo. In effetti sarebbe stato un buon numero due, se solo non avesse avuto quella fissazione del non uccidere per divertimento » sospirò Hoopa, e a Ginger parve cogliere una sorta di rammarico nelle sue parole, anche se più probabilmente era derisione « La Porta Blu può essere attraversata solo da chi ha forma fisica, cosa che non ha nessuno spettro rinchiuso qua dentro e che non ho più io. E finché non esco dalla Camera non posso riacquistarne una ».

« Un ciclo senza via d'uscita. E la situazione in che modo sarebbe cambiata? ».

Hoopa alzò il braccio di Ross a indicare il vortice stellato « Ci ho messo un intero anno a costruire questo. Tira a indovinare cos'è ».

La bocca di Ginger si increspò per un attimo « Un wormhole. Proprio come quelli da cui siamo entrati, anche se questo è più… ».

« … spettacolare? Un tempo producevo queste meraviglie nel giro di minuti. Sbucavo nei caveau delle banche, o nelle ville dei ricchi, arraffavo qualche cianfrusaglia da aggiungere alla mia collezione e svanivo prima ancora che le guardie finissero il loro caffè » ricordò Hoopa con sentore nostalgico « Ora che i miei poteri sono ridotti a un rivolo questo è già un successo. Punta al vostro pianeta, anche se le coordinate sono alquanto sommarie ».

« E c'è una ragione particolare per cui non l'hai ancora usato? » domandò Ginger. Aveva deciso di tenere i toni alti per rispondere ai suoi, e così il dialogo si era lentamente trasformato in un botta e risposta di impliciti insulti.

« I wormholes trasportano materia da un punto all'altro dell'universo. Materia, capisci? » ringhiò Hoopa, che per la prima volta sembrò perdere le staffe « Sono tre anni che sono qui, due che ho davanti a me la migliore via di fuga immaginabile, e non posso usarla perché non ho più un corpo ».

Gli occhi di Ginger si velarono di terrore. Aveva presunto che Hoopa fosse uno sprovveduto, ma ora aveva la prova che non era così: il suo piano era pensato per non spendere nemmeno un millesimo di energia non necessaria. Nessuna frivolezza: gli serviva un corpo, e lui aveva atteso due anni perché qualcuno capitasse in un varco spaziotemporale per caso e trovasse la via alla Porta Blu. Ed eccoli lì, Seconda Unità Flare, un manipolo di topini ebeti in cerca di formaggio che si erano cacciati dritti nella bocca del gatto. Cercò di rimanere ferma nella voce, anche se dentro tremava « Perché hai scelto Ross? ».

« Questione di spleen. Lo ricordavo da un incontro di parecchio tempo fa – decenni, in effetti –, in una gioielleria del vostro mondo, durante uno dei miei giri di raccolta. E poi, beh, non trovi che abbia una mente niente male? Voglio dire, spleen » sogghignò « Sai, è buffo. Ricordo tutti i volti che incontro, ma ciò che dicono… Quello sì che è un problema che dovrei risolvere. Ma questa mente qua sembra molto precisa in quel senso, ci completeremo sul lungo periodo ».

A Ginger l’ultima parte del discorso era sfuggita, perché la sua mente si era incastrata sulla parola gioielleria. L'incidente dell'anello, comprese. La ragione per cui suo fratello era fuggito da Temperopoli. Il fatto che il responsabile del più grande trauma nella vita di Ross stesse ora usando il suo corpo come una marionetta le fece ribollire il sangue ancora di più « E cosa pensi di fare una volta nel nostro universo? Non mi risulta che Ross abbia posizioni di rilievo ».

« Non sei stata attenta, vero? È questa stanza a drenare i miei poteri. Una volta che ne sarò fuori nulla mi impedirà di riacquistarli » spiegò Hoopa « Per il mio carceriere ciò non sarebbe stato possibile, ma aveva fatto male i suoi conti ».

« Uno che ti conosceva tanto bene da rinchiuderti qua non sapeva che potevi aprire varchi all'esterno della Camera per portarci qui? Non ti aspetterai che ci creda, vero? ».

« Che tu ci creda o no è irrilevante, perché ovviamente non li ho aperti io quei varchi ».

Ginger sgranò gli occhi. Che diamine voleva dire “non li ho aperti io”? E chi altro sarebbe dovuto essere?

« Oh. Oh, oh, oh! » Hoopa sghignazzò rumorosamente « Non l'hai ancora capito, vero? Non sai chi è stato! E invece il tuo fratello stupido sì… Ah, l'ironia! Ma non ero sempre io a dirti che ogni cosa ha un inizio e una fine? ».

Lo stava facendo di nuovo, la stava prendendo in giro imitando suo fratello. Il pugno di Ginger si strinse e fu pronta a caricarlo, ma Etan la trattenne per un braccio e fece cenno di no. Cos'è, non era ancora il momento per lei di morire?

« Molto bene, amici miei, credo sia giunto il momento dell'addio » annunciò Hoopa. Il turbine del cosmo intensificò la velocità rotazionale e iniziò a ingrandirsi fino a raggiungere il diametro dell'intero ambiente. Un feroce vento iniziò a spirare, generando una corrente che investiva i presenti facendo mulinare loro i capelli. « Buona fortuna a chi di voi tornerà indietro! ».

Doveva fare qualcosa. Non poteva lasciare che quell'usurpatore se ne andasse a far baldoria a Kalos indisturbato, e ciò a prescindere dal fatto che avesse usato il corpo di suo fratello per raggiungere lo scopo. Ma avrebbe dovuto pensare e agire in fretta, perché da un momento Hoopa sarebbe entrato nella breccia spaziotemporale facendola collassare, fuggendo verso il loro mondo.

Facendola… collassare? Certo! I wormholes sono cammini instabili, quello di fronte a lei sarebbe collassato appena il suo avversario l'avesse attraversato. Ma se fosse riuscita ad anticiparlo avrebbe mandato il suo piano in fumo, e nulla avrebbe impedito ai suoi compagni di terminare il lavoro. Lei sarebbe sprofondata in chissà quale angolo della Terra in chissà quale epoca, destinata a esaurire i suoi giorni lontana dagli altri. Era questo il suo destino. Si voltò verso Sandy, che era ancora troppo rintronato per salutarla, e quindi in direzione di Etan in cerca del commiato promesso.

E lo vide ripetere « Addio, Ginger. È stato un piacere conoscerti » appena prima di correre e gettarsi nel gorgo cosparso di stelle con entrambe le mani aperte nel numero dieci.

Non ebbe nemmeno il tempo di gridargli di non farlo, che lei avrebbe potuto sostituirlo, e di certo non sarebbe servito a nulla: era quello che aveva visto fin dall'inizio nella Camera del Futuro. Non lei che si sacrificava, bensì lui stesso. Per tutto quel tempo l'aveva visto come un nemico, mentre lui fin dall'inizio sapeva che avrebbe dovuto immolarsi per salvare lei. E non ci fu tempo nemmeno per piangerlo, perché proprio ora, sotto i suoi occhi, la via di fuga per quel mostro si stava tramutando in un buco nero.

« NO, NO, NO! » imprecò gridando Hoopa « NON PUÒ FINIRE COSÌ! ».

Ginger cercò di fuggire verso l'uscita, ma si trovò le gambe paralizzate; e non era il terrore, era un blocco vero e proprio. Solo allora si rese conto che Hoopa doveva averla immobilizzata prevedendo la sua mossa successiva, ma non si era preoccupato di Etan ritenendolo troppo pazzo dopo aver visto il futuro per poterci arrivare. A breve la metamorfosi sarebbe stata completa e lei, incapace di vincere la forza di gravità, sarebbe precipitata verso la singolarità. Sarebbe morta ai confini della fisica, il che doveva essere una fine d'onore per lei. Neanche male, dopotutto.

« Chiedo scusa in anticipo » le sussurrò nell'orecchio qualcuno.

Due braccia possenti la afferrarono all'altezza dello stomaco e la sollevarono come fosse di gommapiuma. Con la coda dell'occhio scorse il volto scuro di Kibwe immediatamente dietro, e comprese che l'informatico la stava trasportando di peso oltre la Porta Blu dopo averla seguita per tutto il percorso d'andata. Non appena oltrepassata la soglia tornò in grado di muovere i suoi arti e il suo dimenarsi convinse l'amico a lasciarla andare. Insieme a lui c'era anche Terence, con ai piedi un inerte Gant ancora svenuto, nonché un Sandy finalmente lucido.

« Dobbiamo andare via! » esclamò Ginger rizzandosi in piedi « C'è un buco nero là dentro! ».

« AIUTATEMI! » gridò una voce dall'interno della stanza, che la donna identificò presto come Hoopa che, nel corpo di suo fratello, ormai riusciva a muoversi a malapena per via del flusso d'aria che convergeva nel wormhole « NON CE LA FACCIO! ».

Kibwe fece per accorrere in suo soccorso, ma Ginger lo trattenne « Non è Ross! È qualcuno che ha preso il suo corpo! ».

« No, vi prego, io sono Ross! » esclamò lui proiettandosi in avanti e afferrando il pomello per poi rimanere in librazione avvinghiato a esso « Vi prego, aiutatemi! Se n'è andato dalla mia testa, lo sento! ».

Kibwe si rivolse a Ginger con un'espressione interrogativa, e fu ovvio a tutti che toccava a lei decidere. Lei provò a guardare suo fratello negli occhi, cercando di scorgervi una traccia, una certezza che fosse o non fosse lui, ma scoprì che in tutto quegli anni l'aveva guardato talmente poco da non saper distinguere i due casi.

« Ginger! » la implorò Ross con voce spezzata « Ginger, ti prego, sono io! Non puoi lasciarmi qui! ».

La donna guardò oltre la soglia, dove il buco nero ormai stava per iniziare la sua inesorabile marcia che l'avrebbe portato a inghiottire l'intero labirinto. Non aveva tempo per fargli domande, né sarebbe servito a qualcosa, perché Hoopa aveva mostrato di condividere i suoi ricordi. Eppure il modo di parlare sembrava così suo, come quando a Temperopoli giocavano a calcio nei prati dietro casa loro…

« Che cos'hai visto nella Camera dei Rimpianti? ».

Lo sguardo di suo fratello si vuotò per un istante, sorpreso che lei sapesse la camera in cui si era svegliato. Avrebbe esitato se la circostanza l'avesse permesso, ma ora come ora doveva parlare in fretta. E dire ciò che nessuno dei due, pur sapendolo a diversi gradi di sicurezza, voleva sentirsi dire. « Ho visto me… che diventavo ingegnere al posto tuo ».

Le sue corde vocali avevano tremato nell'articolare quella frase. L'aveva sempre saputo, Ginger, che quello era il suo rimpianto. Non aveva potuto perché suo padre aveva scelto lei, anche se quella era la sua passione, anche se lui sarebbe stato dieci volte meglio, anche se lei avrebbe preferito diventare una storica. E lì Ginger comprese: quello era Ross, non c'era dubbio. Ed era questa la cosa grave, perché Hoopa, astuto com'era, doveva aver intuito che lei avrebbe salvato Ross. E se si fosse nascosto dentro di lui, restituendogli la coscienza per il tempo necessario a fuggire dalla Camera Notte Fonda? Avrebbe reso futile il sacrificio di Etan. Quello era Ross, e lei, tra le lacrime e il cuore che bruciava, avrebbe dovuto lasciarlo là.

« Mi dispiace » si scusò sottovoce, trattenendo un pianto che minacciava di esplodere sul suo volto; poi si diresse a Kibwe, Terence e Sandy con la più dolorosa bugia che mai dovette proferire « Non è lui. Ross voleva diventare chimico ».

I tre annuirono con serietà e, dopo che il primo si fu caricato sulle spalle Gant, iniziarono a scampare svoltando nell'interminabile corridoio valicato poco prima. Kibwe, pur dovendo trainare il doppio del peso, non perdeva minimamente terreno rispetto ai restanti corridori, anzi alla lunga si mostrò il più in forma del gruppo, persino dopo che dovette sobbarcarsi uno stremato Sandy. Giunti al bivio terminale, tuttavia, ciascuno di loro aveva il fiatone, e fu palese che senza un rigido piano in testa ben presto l'oscurità, che già aveva fagocitato la sezione iniziale dell'andito, li avrebbe raggiunti. Il problema è che nessuno aveva idea di dove andare.

« Da che parte siamo venuti? » domandò nervosamente Kibwe.

« Che importanza ha? » proruppe Terence piegato sulle ginocchia dallo sforzo « Dove stiamo correndo? Non abbiamo nessun posto dove andare! ».

« Servirebbe un altro varco » constatò aspro Sandy « Ma le speranze di trovarne uno sarebbero basse anche se non stessimo andando a caso ».

Ginger non poteva che concordare. Quelli da cui loro cinque e Gant erano passati dovevano essere ora collassati, e anche se non lo fossero stati non vi era modo di rintracciarli. Ma non poteva finire così, non aveva senso. Perché Etan si sarebbe sacrificato solo per lasciarli poi a morire là sotto?

Poi realizzò. Senza rifletterci infilò la mano in tasca per estrarne un piccolo foglio di carta. Gliel’aveva dato il meccanico sulla strada per la stanza di Hoopa, dicendole che era dove la sua telecamera era rimasta. Ma non era vero: vi aveva disegnato sopra una mappa che conduceva a una porta, ma la porta non era la Camera del Futuro.

Era la Camera delle Occorrenze.

« Seguitemi! » esclamò senza fornire ulteriori spiegazioni prima di scattare verso destra. Attraversarono dunque il labirinto mentre questo veniva lentamente fagocitato, svolta dopo svolta, senza fermarsi nemmeno per controllare se il percorso fosse giusto. Alla fine, all’ultima sterzata necessaria, Ginger alzò lo sguardo con un groppo alla gola e il fiato mozzato, avvertendo un guizzo gioioso del cuore: sopra una delle porte campeggiava ironica un’insegna verde smeraldo con un omino stilizzato in posizione da corsa. Quella era la Camera delle Occorrenze, e stava loro offrendo l’occorrenza che più sentivano in quell’istante: un’uscita.

Ginger non era una donna egoista, e in condizioni normali avrebbe aspettato che gli altri attraversassero tutti la soglia prima di compiere ella stessa il balzo. Ma aveva appena perso una parte di sé, e quel che era peggio se l’era tolta volontariamente, quindi girò il pomello e si tuffò senza riflettere dall’altro lato. Non si era fermata nemmeno a pensare cosa ci fosse dall’altra parte, e forse aveva fatto bene, perché difficilmente ci sarebbe arrivata: uno dei lunghi corridoi del Le Crésus Hotel.

Crederci era difficile, ma era esattamente quello. Di più, era la sezione sinistra dell’albergo, quella da cui lei e Sandy erano passati al settimo piano, e lei era appena fuoriuscita dall’ascensore. Uno dietro l’altro i suoi compagni seguirono il suo stesso percorso, forzandola a scansarsi per non rischiare di essere la base di una pila umana. Aveva un suo senso logico: l’uscita era stata modellata sulla sua occorrenza e l’aveva riportata al punto di partenza. Ma non poteva essere.

« Cosa diamine… » borbottò Terence massaggiandosi gli occhi mentre alle sue orecchie giungeva un rumorio dagli altri piani.

« Sembra proprio l’hotel » commentò Sandy sorpreso « Quanto tempo sarà trascorso? ».

« Beh, vediamo » si affrettò a rispondere Terence, più per dimostrare la sua abilità nei calcoli che non per aiutare « Considerando una compressione temporale di 30 dael e la permanenza stimata… Complessivamente due minuti e mezzo da quando io e Kibwe siamo arrivati lì. Mezzo minuto dal vostro punto di vista, dato che ci avete messo un po’ di più, ma… Sistemiamo gli orologi alle 18:23 e dovremmo esserci ».

« No » replicò stentorea la calda voce di Kibwe. Si era trattata tuttavia di una breve pausa tra un respiro e l’altro, in debito com’era di fiato dopo aver trasportato almeno un quintale di peso tra Sandy e Gant. Quest’ultimo giaceva ora a terra ancora svenuto, completamente ignaro di quanto fosse successo.

« Come? ».

« Siamo arrivati qui al tramonto, ma guarda la luce » gli fece notare. Ed effettivamente dalla portafinestra che si apriva in fondo al corridoio appariva tutto fuorché le tinte rosse del crepuscolo. Era l’ora di punta, una fresca giornata d’inizio aprile, e Luminopoli brillava di fibrillazione. Terence rimase attonito, ma non così qualcun altro.

« È una CTC » proferì Sandy battendosi una mano in fronte.

Nessun altro del gruppo colse di cosa stesse parlando, e l’astronomo se ne accorse in fretta « CTC, closed timelike curve. Una curva spaziotemporale chiusa di tipo tempo ».

« Parla chiaro » lo esortò acidamente Terence, indispettito dal non riuscire a capire l’argomento, proprio lui che si autodefiniva il migliore scienziato della sua generazione.

« Siamo entrati in una linea chiusa. Seguite il mio ragionamento » iniziò a spiegare nel dettaglio, disegnando nell’aria il suo schema mentale « Alle 12.43 rileviamo un’anomalia di 21 dael. Verso le sei e venti arriviamo noi e, con la complicità del qui presente combattente della libertà, entriamo nei varchi corrispondenti, facendoli collassare dietro di noi. Poi, alla fine di tutto, attraversiamo l’uscita e ci troviamo qua, alle 12.43, da passaggi che prima non esistevano. Abbiamo creato noi i tunnel spaziotemporali. Stavamo a tutti gli effetti inseguendo noi stessi ».

Terence imbracciò il suo rubricatore di curvatura portatile, constatando che effettivamente segnava 21 dael in direzione del muro di fronte: con suo sbigottimento tutto validava l'ipotesi di Sandy.

Contemporaneamente la porta di una delle camere del piano si aprì e una donna di forse venticinque anni ne uscì. Indossava un lungo e bizzarro abito violaceo, uno che poteva essere considerato adatto solo da due categorie di persone, daltonici e hippies, sfortunatamente indistinguibili a occhio nudo. La ragazza non parve minimamente sorpresa dal fatto che cinque individui fossero riversi a terra, né che tre di loro avessero la medesima uniforme fiammante; invece si avvicinò alla pulsantiera dell'ascensore e adagiò l'orecchio contro di essa.

I membri della Seconda Unità rimasero a dir poco interdetti. Dopo qualche istante Terence decise di rompere il silenzio « Mi scusi, che sta facendo? ».

La fanciulla gli rivolse un'occhiata rapida e borbottò una frase masticata « Ascolto il rumore che fa l'ascensore. Non lo sentite? ». Poi prima ancora di attendere una replica alzò le spalle e, sguardo perso nel vuoto, rientrò nella sua stanza.

Sandy comprese l'esatto istante successivo, ricordando dove e quando aveva già visto quella peculiare figura: tra sei ore in quel punto preciso, intenta a zittirlo. La realizzazione seguente lo scioccò anche di più, perché in quell'occasione lei aveva affermato che lui l'avesse già chiesto quel giorno stesso. Il che significava che, straordinario come poteva suonare, lei lo aveva scambiato per Terence.

« Io non gli somiglio a fatto! » proruppe ad alta voce, ma quell'apparente esclamazione sconnessa cadde nel nulla in quanto nessuno dei suoi amici fu in grado di trovarvi significato.

Kibwe parlò subito dopo, riprendendo il discorso interrotto poco prima « Quindi noi eravamo causa ed effetto? ».

« Sì. Oggi ci siamo spinti più in là di chiunque altro nel violare i paradigmi della fisica » commentò con una punta di soddisfazione l'astronomo, per poi rendersi conto che da quando erano rientrati non aveva ancora sentito una delle voci del gruppo. « Mica male, eh, Ginger? » domandò ironico.

Non ottenne risposta. Ginger non si era ancora rialzata, preferendo rimanere seduta mani a terra a sorreggere un busto stanco, immersa in un mutismo totale. Che importava della fisica? Non riusciva a capacitarsi che i suoi compagni fossero in uno stato di inequivocabile buonumore dopo tutto quello che era successo. Forse era passato troppo poco tempo per mettere insieme tutti i pezzi. Forse non avevano capito.

Forse non avevano capito che Etan e Ross erano appena morti. E che era stata lei, aprendo la Camera delle Occorrenze e generando quei tunnel iperspaziali che li avevano condotti all'ultimo piano, a ucciderli.

 

 

Il programma di Sandy aveva un suo senso, dopotutto, e del resto era un bene dato che era l'unico ad aver realmente compreso le implicazioni della CTC. Prima di uscire avevano svegliato Gant, raccontandogli che era già trascorso un giorno e il suo gruppo di svitati se n’era andato non trovandolo – anche se in realtà non erano neppure ancora arrivati –, e avevano fatto scrivere a Ginger il foglio che avevano poi consegnato all'uomo della reception. In esso la donna avvisava che sarebbe rientrata nel pomeriggio: la sua sé del futuro avrebbe così avuto campo libero proprio come era stato per lei, che a sua volta doveva ringraziare la sé del passato in un ciclo infinito. Un po' contorto, ma la logica c'era: per facilitarsi la comprensione Kibwe aveva pensato di chiamare “Unità Pomeridiana” le loro controparti giunte a Luminopoli più tardi.

L'istruzione successiva era aspettare le sei e venti per tornare a casa. Ginger aveva fortemente protestato, perché non voleva restare nei paraggi del Le Crésus un minuto di più, ma anche qui Sandy era stato categorico: le loro due automobili erano state lasciate parcheggiate dall'Unità Pomeridiana prima di avventurarsi nell'hotel da cui, dal punto di vista di chi non viaggiava nel tempo, non sarebbero mai usciti, dato che sarebbero semplicemente tornati indietro a mezzogiorno. Di conseguenza loro, l'Unità Mattutina, avrebbero potuto recuperarle dopo le sei e venti per rientrare.

Per ingannare l'attesa avevano pranzato, anche se per il loro orologio biologico era in realtà una cena, e si erano poi appostati in un parchetto isolato per riposare. Lì erano tutti caduti preda del sonno molto presto, in quanto dal punto di vista dell'organismo era sera inoltrata, mentre nel mondo reale il sole calava gradualmente verso ovest. Ginger razionalizzava quella situazione pressoché unica come un cambio di fuso orario, come quelli che avvengono dopo un lungo viaggio in aereo.

Comunque su lei non sembrava avere effetto. La panchina era troppo scomoda, le urla dei bambini erano troppo forti, faceva troppo freddo, si diceva, ma erano tutte idiozie. La verità è che ogni volta che provava a chiudere le palpebre si materializzava nel buio la terrificante immagine di Ross che implorava aiuto e lei che, sulla base di nulla più che una congettura, si rifiutava e lo uccideva.

« Vuoi del diazepam? » le propose una voce proveniente da dietro. Con sua sorpresa, però, non erano né Sandy né Kibwe, i due che si aspettava sarebbero venuti a consolarla: era Terence.

« Diazepam? ».

L'uomo, i capelli ingrigiti ancora scompigliati da un vento che si era alzato qualche ora prima, le si sedette vicino « L'ha offerto l'uomo-scimmia a tutti. Non penso quei due dormirebbero senza, con quello che hanno passato ».

Ginger si voltò, osservando che alcuni metri più in là l'astronomo e l'informatico erano rovesciati sullo schienale della loro panchina ben verniciata, macchia rosso fiammante nel verde che li circondava, assopiti come ghiri. « A me mentre si abbuffavano non sembravano così turbati » commentò aspra.

« Sanno nasconderlo bene. Tu non sai il loro passato, vero? » la interrogò l'uomo « Faccio sempre ricerche sui miei compagni ».

« E perché tu non stai dormendo? » ribatté Ginger « Allergico al diazepam? ».

« A dire il vero ne ho prese due compresse » rispose con noncuranza Terence « Ma Kibwe mi ha chiesto di analizzare la chiave che ha trovato nella Camera delle Occorrenze ».

« E… ? ».

Il matematico alzò il braccio destro, mostrando il rubricatore di curvatura, e le punte dei suoi occhi si incresparono in un sorriso amaro « L'ha costruito Etan ».

Ginger scoprì così con sua ampia sorpresa che anche quell'individuo così apparentemente avulso dall'empatia, così inafferrabile nell'ostilità che mostrava, aveva un lato umano. Anche Terence non stava sempre bene, per quanto non lo facesse mai sapere al mondo.

« Hai trovato qualcosa? » domandò per inerzia.

« È inerte. Una chiave come tante altre. Chissà perché era lì » l'uomo infilò la mano in tasca e, cavato l'artefatto, lo passò alla donna con un lancio arcuato.

Ginger la afferrò e passò in esame « La Camera delle Occorrenze cambia aspetto a seconda di chi la apre. Immagino che a Kibwe prima o poi tornerà utile ».

« O forse a qualcun altro » suggerì Terence « Siamo ancora una squadra, dopotutto ».

Sì, una squadra mutilata. Ginger alzò l'enigmatico oggetto al cielo, osservandolo da varie angolazioni, e quando lo pose di traverso ai raggi del sole morente il suo cuore quasi si fermò. Indubbiamente fino a quel momento aveva ravvisato somiglianze con una chiave d'albergo, specie per la parte in metallo che sembrava attendere solo di essere incisa con un numero di stanza. Ma ora, alla luce del tramonto, il numero di stanza era comparso. 306, per essere precisi.

« Lo vedi anche tu? » chiese tremante a Terence.

« Io… Sì, ma non è possibile… ».

Vero, non lo era nemmeno per Ginger, ma facilmente non per le stesse ragioni. Quello che la inquietava era che quella chiave veniva dall'altro universo, dai corridoi fittizi del labirinto orchestrato per Hoopa. Ma le camere di quel luogo non avevano numeri, avevano nomi. Se quella invece era la 306, di cosa era la 306? Era possibile che fosse del…

« Che ore sono? » proruppe d'un tratto, e senza attendere risposta – cosa di cui non necessitava – controllò l'orologio da polso: 17:56, o sei meno cinque. La ragione le suggeriva di desistere, ma la ignorò e si alzò con un balzo, localizzando in un secondo l'uscita del parco.

« Che vuoi fare? » la questionò preoccupato Terence.

« Questa è una chiave del Le Crésus ».

« Ma non… Non vorrai mica andare adesso, vero? ».

« Non ho scelta. È attiva ora, non so per quanto tempo lo resterà » replicò asciuttamente Ginger « Se Kibwe l'ha trovata nella Camera delle Occorrenze vuol dire che ci serve, non posso rischiare di perdere il treno ».

Terence si drizzò in piedi a sua volta e protestò vigorosamente « L'Unità Pomeridiana sarà lì a momenti! Non puoi andare, incontreresti te stessa! ».

« Io posso fare quello che voglio ».

 

 

Ginger quasi sfondò le porte scorrevoli dell'albergo per la velocità a cui le attraversò, dando loro a malapena il tempo di aprirsi. Con un gesto rapido sventolò il badge identificativo al commesso della reception, il quale rimase alquanto confuso dal fatto che lei provenisse da fuori. La donna controllò l'orologio: 18.14. La sua controparte pomeridiana era già entrata: da quel momento in poi doveva prestare massima attenzione, o avrebbe rischiato di produrre un paradosso temporale.

La camera 306 era al terzo piano della sezione destra. Non era quella di sua competenza, il che era in un certo senso una brutta notizia perché non poteva ricostruire i movimenti di chi doveva evitare, non conoscendoli. Usare le scale principali era fuori discussione, men che meno l'ascensore; per fortuna vi era una rampa ausiliaria che seguiva direttamente il tragitto della cabina, e come Flare autorizzata all'ispezione generale poteva utilizzarla.

Scivolò circospetta oltre la porta in un antro fiocamente illuminato e polveroso. A questo punto sarebbe stato più saggio attendere cinque minuti perché la Seconda Seconda Unità sparisse per sempre da questo universo, ma aveva già deciso che non poteva aspettare. Proseguì dunque scalino dopo scalino fino al piano prescelto, la cui uscita si affacciava direttamente accanto all'ascensore. Diede una rapida occhiata attorno a sé prima di attraversarla, ma non c'era traccia di chiunque fosse stato assegnato a quella partizione dell'hotel.

Quel livello era esattamente speculare a quello in cui lei e Sandy si erano avventurati, con la sola differenza che il lungo corridoio si trovava a sinistra anziché a destra. Non c'era tempo da perdere: si diresse subito verso di esso, sperando con tutto il cuore di non aver sbagliato la deduzione proprio quando doveva assolutamente aver indovinato.

« Sei assunto ».

« Sono stato assunto. I tempi verbali, nuovo Spielberg ».

« No, no. Sei assunto per i vlog, intendevo ».

Ginger trasalì e si voltò con un guizzo. Per sua fortuna aveva un orecchio perfetto o non si sarebbe accorta che due persone, parlando serenamente tra di loro, avevano quasi raggiunto quel piano mediante la tromba di scale primaria. E non due persone qualunque, ma Etan e Ross.

« Di bene in meglio. Questo coso è del tutto inutile, le mura mi impediscono di vedere oltre il mio naso ».

La determinazione della donna svanì in un colpo al cuore più crudele di tutti quelli che aveva subito in quel maledetto giorno, uno che le inumidì gli occhi con una singola sferzata e le fece traballare le gambe. Peggio di assistere a due morti, peggio di averle provocate: ora stava per essere testimone dell'istante in cui suo fratello e uno dei suoi migliori amici si sarebbero consegnati alla falce del Sinistro Mietitore. E pur avendo nelle mani la facoltà di impedirlo non poteva farlo senza distruggere il corso naturale del tempo.

« Che ne dici di prendere l'ascensore? Sono un po' stanco ».

Il timbro giocoso di Ross le lacerò i sentimenti. Si nascose dietro la rientranza di una delle porte e sporse imprudentemente il capo per poterli vedere un'ultima volta, nelle loro eleganti uniformi. Ancora qualche istante e se ne sarebbero andati per sempre dalla sua vita.

« Beh, il materiale ce l'ho, direi che può andare. Se quello che stiamo cercando fosse sulle scale ce ne saremmo accorti, del resto ».

D'un tratto Etan si girò verso di lei, mandandole il battito del cuore in orbita più di quanto rivederli avesse fatto. D'istinto si addossò alla sporgenza dietro a cui si trovava e tappò la bocca per non rivelare la sua presenza. Dentro di lei non sapeva nemmeno cosa sperare: di non avere alterato il corso naturale della storia o di averlo fatto, salvandoli dal gramo destino che si parava di fronte a loro.

« E tu che ci fai qui? ».

L'aveva riconosciuta. Ginger si sentì sprofondare.

« Con chi parli? ».

« Io… Io credevo di aver visto… Niente, penso di essere stanco anch'io ».

« Di certo il tuo braccio non può essere felice di scarrozzare sempre la videocamera, giusto? Oppure stai delirando, insomma, è anche quella un'ipotesi ».

Udì le porte dell'ascensore aprirsi al suono di un campanello e i due entrare come da programma. Ginger si asciugò le lacrime che le rigavano il viso: tutto ciò doveva essere sempre successo, anche per i suoi Etan e Ross. Senza saperlo suo fratello l'aveva salvata anche nell'ultimo attimo prima di dirle addio inconsciamente. E ora riusciva quasi a immaginarli mentre premevano come lei il settimo pulsante e precipitavano nelle camere a loro adibite nel Mondo dei Morti. Un nome adatto, a pensarci bene.

« Mi dispiace » bisbigliò all'etere, confidando che da qualche parte le due povere vittime l'avrebbero sentita e compresa nelle scelte che aveva dovuto compiere. La loro ultima avventura si era conclusa esattamente com’era iniziata. Ogni cosa ha un inizio e una fine, diceva sempre Ross. Ma non sempre in quest’ordine.

Però non era ancora finita: c’era ancora la Chiave. Ginger la sfilò dalla tasca della divisa bianca, notando che il numero 306 era ancora al suo posto. Ricercò la stanza corrispondente, individuandola dopo poco nell’andito deserto che aveva imboccato, la luce arancione che filtrava dalla portafinestra in fondo. Infilò con mano tremante la sua piccola amica metallica nella toppa, e il suo respiro si troncò per l’emozione alla scoperta che girava. Aprì lentamente la porta, e ciò che vide dopo la lasciò scioccata, un sentimento che non sapeva di poter provare ancora dopo una giornata come quella.

Dietro c’era fumo. Lo stesso fumo in cui si era risvegliata dopo la caduta dell’ascensore, fumo che ora a mente lucida somigliava più a foschia. Il destino le stava dando per caso un’occasione di far luce su uno dei molti dubbi che le erano stati instillati in quelle poche ore? Aprì completamente l’uscio e ne scrutò il retro, trovando la targa in ottone che si aspettava, ma non la risoluzione del mistero che altrettanto attendeva.

Camera del Ricordo Più Felice, campeggiava a chiare lettere. Ginger si trovò più incerta di prima: il suo ricordo più felice era un banco di nebbia?

 

 

 

 

 

 

NEXT TIME: 1x23 Cosa accomuna un Pyroar, un Chandelure e un Solrock? Cosa sarebbero disposti a fare quattro individui che non si conoscono pur di mettere le mani su un antico tesoro dal valore inestimabile? E nel nome del buon senso, che cosa ci fanno Bellocchio e Serena a una festa nel lussuoso Palais Chaydeuvre, dove nemmeno il Presidente Moon potrebbe entrare senza invito? Se la vostra risposta è “cercano guai”, sappiate che avete sbagliato: una volta tanto sono stati i guai a cercare loro.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** 1x23 - Il colore dell'oro ***


Untitled 1

Mi chiamo Serena Williams, ho diciannove anni e sono un’Allenatrice di Pokémon. Ho aspettato nove anni per poterlo diventare, ma alla fine ce l’ho fatta, e voglio partecipare alla prossima edizione dell’Esame della Lega Pokémon per dimostrare che me lo merito. Normalmente non tengo un diario, ma Bellocchio ha detto che è un buon modo per passare il tempo. Sospetto sia quello che scrive sempre nel suo taccuino.

Di tempo ne ho avuto: è una settimana che sono ferma a Castel Vanità. Silvia e Craig ci hanno ospitati per ringraziarci di avergli salvato la vita, i famigliari e quant’altro, così abbiamo deciso di prenderci una pausa. Bellocchio è sempre stato fuori in questi giorni, ad allenare la sua Fletchling che ora è diventata una bellissima Fletchinder. Io ho provato a fare lo stesso: ho rinunciato ad affrontare subito Lem, ma ciò non vuol dire che non debba affrettarmi se voglio arrivare puntuale a marzo con le Medaglie necessarie. Però né Karen né Uno hanno intenzione di evolversi. Uno è il mio Bulbasaur, a proposito. Inizia a farmi male la mano.

Mi è sembrato di sentire il mio nome venire da fuori, immagino che Bellocchio mi stia chiamando. Oggi è il giorno della partenza: ci si rimette in viaggio, prossima fermata Altoripoli. Lì voglio affrontare Lino, il Capopalestra, per provare a vincere la mia prima Medaglia. Ci sarebbe anche quella di Novartopoli, ma non la conto perché avevo perso.

Silvia ha detto che è lunga, potrebbero volerci parecchi giorni di cammino dato che è in una zona montuosa. Ma oggi c’è bel tempo, sono sveglia e fresca e ci siamo riforniti di viveri. Cosa potrebbe andare storto?

 

 

 

Episodio 1x23

Il colore dell’oro

 

 

 

« Senti, Bellocchio, volevo parlarti di una cosa importante. So che sei schivo a riguardo, ma il tuo cappotto è sostanzialmente come la borsa di Mary Poppins, giusto? ».

« Ho solo un ottimo impiego dello spazio. Anni di Tetris aiutano ».

« E allora perché non hai UN OMBRELLO Là DENTRO? » inveì Serena cercando di farsi sentire sopra la pioggia che scrosciava rumorosamente. Il temporale li aveva sorpresi nel bel mezzo di un impervio sentiero boschivo, a un paio d’ore da Castel Vanità e facilmente da qualsiasi altro stralcio di civiltà. Con il passare dei minuti le gocce si erano sempre più infittite, al punto che ora si paravano tende semiopache dritte davanti ai suoi occhi che le impedivano di vedere qualcosa oltre i dieci centimetri di distanza. Come se non bastasse il suo cappello si era infradiciato e ora grondava acqua da ogni lato.

« I preparativi non sono il mio forte. Sono più uno che improvvisa ».

Facile per lui, con quel coso starei calda anch’io, pensò Serena. « E cosa suggerisci di fare ora? ».

« Beh, vedo parecchi alberi. Potremmo rip–– ». Bellocchio fu interrotto dall’assordante rombo di un tuono che fece tremare le ossa ai due « Ripensandoci potrebbe non essere una buona idea ».

« N-non mi pare una buona idea sta-a-atchoo! ».

« Oh, andiamo, che anticorpi avete al giorno d’oggi? » l’uomo si voltò con tono sarcastico, ma la sua espressione mutò in un batter di ciglia quando vide dietro la sagoma della ragazza due luci giallognole stagliate nell’acquazzone. D’istinto si gettò verso di lei e la spostò senza convenevoli quel che bastò per porla fuori dalla traiettoria di un’automobile che era sopraggiunta quasi dal nulla. La vettura comunque si era accorta, pur con un po’ di ritardo, del rischio che stava correndo, e si era fermata appena prima della posizione precedente di Serena. Il risultato fu una frenata sul viottolo fangoso che schizzò dritto sul cappotto di Bellocchio.

Mentre quest’ultimo lamentava la rovina irrimediabile del suo soprabito, dalla porta anteriore sinistra uscì una donna di probabilmente mezza età, o forse un pochino più vecchia, che aveva aperto un piccolo ombrello di fortuna che doveva aver visto tempi migliori.

« Oh mio Dio, state tutti bene? » sobbalzò non appena vide lo stato della coppia di viaggiatori « Mi dispiace tanto, con il parabrezza appannato non vi ho praticamente visti! ».

Serena si coprì con la mano a visiera gli occhi per evitare che l’acqua piovana la accecasse, e riuscì a malapena a scorgere un pixie cut castano in controluce « Stiamo bene… Credo ».

« I miei vestiti la pensano diversamente ».

« Sta’ zitto, Bellocchio, quelli sono i vestiti di mio padre ».

Frattanto l’autista si avvicinò a loro, mostrando un paio di occhi gentili raggrinzati dalle rughe dell’età « Volete un passaggio? Mi sembrate alquanto malconci ».

 

 

Il tergicristalli spazzava avanti e indietro a massima intensità, ma ciò non stava affatto migliorando la visibilità esterna. Forse per questo la donna era rimasta in seconda marcia nonostante per la velocità sostenuta potesse passare alla terza. Serena, a cui Bellocchio aveva lasciato la postazione anteriore vicino alla guidatrice, si sforzava di aiutare quest’ultima per mettere meglio a fuoco la strada con i suoi più giovani occhi, ma il nubifragio era troppo denso anche per lei.

Dopo un minuto e mezzo di imbarazzante silenzio, la ragazza trovò giusto fare la prima mossa « Non ci siamo presentati. Io sono Serena, il mio amico B–– ».

« Warren » la interruppe lui con uno sguardo fulmineo « Warren Peace ».

« Charlotte » rispose la donna con un sorriso « Come la torta ».

« Oh, sì, la conosco bene. Mia mamma mi ha insegnato come cucinare la charlotte alle fragole, anche se non mi viene ancora bene » raccontò Serena incrociando le braccia per il freddo.

Bellocchio si intromise nuovamente « Dove sta andando? Stare in macchina con questo tempo non è il massimo della sicurezza ». La sua amica avrebbe giurato di aver udito un “con lei alla guida” pronunciato sottovoce.

« Sono stata invitata a una festa al Palais Chaydeuvre da nientepopodimeno che il barone De Loménie. Vi sto portando là, spero vi ospiteranno finché non smette ».

« Ah, è molto gentile, ma non credo che–– ».

« È inutile cercare scuse, giovanotto, siamo già arrivati » annunciò Charlotte, ma i due passeggeri se ne sarebbero accorti comunque per la sterzata a destra che ne seguì. Serena comprese perché Bellocchio si fosse lamentato: la donna aveva appena stretto la curva, infrangendo la prima regola per non cappottarsi impartita da qualsiasi autoscuola legale. Lentamente dalla cortina infinita di pioggia emerse un massiccio cancello di ferro; o almeno pareva di ferro, perché appena i fari del veicolo lo illuminarono fu chiaro che in effetti il suo colore era uno sfarzoso oro brillante solo parzialmente sbiadito dalle intemperie. L’automobile si arrestò di fronte a esso, senza che nessuno dall’altra parte accennasse a presentarsi per aprire.

« E ora? » domandò Serena.

« E ora » ripeté Charlotte lanciando dietro di sé qualcosa di molto piccolo che luccicò per un breve istante « l’uomo va fuori ad aprire ».

Bellocchio afferrò al volo quella che scoprì essere una piccola ma sofisticata chiave che, intuì, doveva aprire l’inferriata. Sbuffando dischiuse la portiera, lasciando le due donne sole nell’abitacolo.

« De Loménie le ha dato la chiave di casa sua? » questionò dubbiosa Serena.

« Era nella busta d’invito. A quanto pare è una festa molto riservata, o forse sapevano che avrebbe piovuto » replicò Charlotte con un risolino « Sai qual è la cosa più strana? ».

« Che abbia invitato qualcuno nella villa? » propose la ragazza « Che io sappia nemmeno Mr. Moon ci è mai stato ». Un altro tuono rimbombò all’esterno, echeggiando ovattato tra i vetri dell’automobile.

Charlotte fece cenno di no con l’indice « È che io De Loménie non lo conosco proprio ».

Serena flesse un sopracciglio disorientata. Avrebbe voluto saperne di più, ma notò che il cancello elettrico si era aperto e in quel momento rientrò Bellocchio, fradicio più di prima. « Ormai questo cappotto è uno straccio ».

L’autista mise in moto ed entrò nell’ampio spiazzo lastricato che separava il Palais Chaydeuvre dal percorso da cui provenivano. L’edificio in sé era amalgamato nel grigiore della giornata, ma Serena sapeva bene che quell’abitazione era anche nota come la Reggia Aurea. Con un cielo diverso avrebbe potuto ammirare i riflessi luccicanti degli ornamenti laminati d’oro; ma con un cielo diverso non sarebbero nemmeno arrivati fino a lì.

Charlotte parcheggiò di fronte all’ingresso principale, dove altre tre vetture giunte prima di lei si stavano tenendo compagnia. Quasi in corrispondenza dello spegnimento del motore il portone centrale si aprì, rivelando un fasto di luci all’interno contro cui si stagliava la sagoma di un uomo sulla sessantina d’anni vestito di tutto punto. Quando oltre all’invitata attesa comparvero anche i suoi ospiti si sarebbe potuto scorgere un velo di disappunto sul volto.

I tre si affrettarono a ripararsi sotto la grondaia del Palais, raggiungendo poi quello che da una certa distanza in poi appariva inequivocabilmente come il maggiordomo della villa.

« Buonasera, il mio nome è Laurent » si presentò « E voi siete… ? ».

« Charlotte Rouvière. Sono stata invitata dal barone » spiegò la donna sfilando dalla tasca della giacca una busta: era spiegazzata e umidiccia, ma su di essa era chiaramente visibile il timbro della famiglia De Loménie. Insieme ad essa esibì anche la carta d’identità per certificare che si trattava proprio di lei.

« E voialtri? ».

« Loro sono Warren e Serena » chiarì Charlotte, che evidentemente doveva avere una ferrea memoria per ricordare i loro nomi dopo averli sentiti una volta sola « Sono miei ospiti ».

« Ah, temo che lei non possa… » incominciò Laurent.

« Non hanno dove andare e vien giù che Dio la manda » lo interruppe la donna con un sorriso benevolo « Senza di loro non entro ».

Il capo della servitù inspirò cercando di ritrovare la calma interiore, poi assentì con rassegnazione « Come desidera. Tuttavia devo comunque verificare i loro documenti ».

A Serena s’incastrò un groppo in gola. Per lei non c’era problema, ma sapeva fin troppo bene che il suo compagno di viaggio non ne aveva assolutamente uno, men che meno uno rilasciato da Kalos. Tremante rovistò nella borsa per mostrare la sua carta d’identità, ma quello che vide rialzando il capo la lasciò basita: nel tempo che aveva impiegato a trovare la sua, Bellocchio aveva già superato i controlli con nonchalance.

Il primo ambiente che si presentò alla ragazza una volta entrata era già uno spettacolo assoluto: un fastoso corridoio letteralmente tappezzato d’oro terminante con un ampio arco oltre il quale una vetrata immacolata lasciava intravedere il giardino privato del Palais. Ai lati, davanti a una doppia schiera di specchi, erano state installate fiere statue di Houndoom dallo sguardo alto. Di fronte a queste ultime si trovavano una fila per lato di tavoli finemente imbanditi e ricolmi di raffinatezze a perdita d’occhio. Nonostante il sole all’esterno fosse ostruito dalle nuvole, l’interno era dotato di un’illuminazione quasi accecante fornita da un gigantesco candelabro attorniato da un plotone di cloni minori, tutti dalla forma di Chandelure che a Serena ricordavano l’inquietante presenza della Fiamma Cremisi alla Maison Darbois. Completava l’atmosfera un vetusto grammofono che, confinato in un angolino, riproduceva le melodiose note di una resa swing di Don’t Stop Me Now.

Paradossalmente quell’atrio era anche troppo sontuoso per chi ne stava godendo. Oltre a lei, Charlotte, Bellocchio e il maggiordomo Laurent c’erano solo altri tre invitati, e nessun cuoco o simili a gestire il rinfresco. Si affrettò a raggiungere il suo amico, che nel frattempo era impegnato con il caposervizio e aveva un’espressione che, tra le tante, ancora non aveva individuato sul suo volto: autentico fastidio.

« Posso esserle utile in qualcosa, signor Peace? ».

« No, ma ho la sensazione che ciò non la fermerà ».

« Temo che le tartine alle olive siano terminate, come le ho già detto » ribadì costernato Laurent « Può interessarle la storia di questa reggia? È alquanto interessante ».

« Oh, sì, la prego, mi dica tutto » commentò sarcastico Bellocchio appoggiando la guancia sul palmo della mano con sguardo remissivo.

« Con piacere. La prima menzione del Palais Chaydeuvre si ha nel 1475, in una carta ritrovata a Port Tempères, oggi nota come Temperopoli. Ai tempi ovviamente non aveva questo nome, e si trattava di nulla più di un modesto castello. Fu solo due secoli dopo che… ».

Ripensandoci, quello non era il momento buono per disturbarlo. Serena fece dietrofront senza dare nell’occhio e tornò ai rimanenti ospiti della serata. Charlotte non parlava con nessuno, ma non volle importunarla ancora dopo che era stata così gentile a portarli con sé. C’era poi un uomo probabilmente dell’età di Bellocchio che, almeno da quando lei era entrata, era fisso alla postazione delle ostriche assaporandole come se le avesse sognate tutta la vita. Non sembrava molto raccomandabile, quindi Serena vagliò il successivo: un signore di probabilmente quarant’anni, sicuramente dalle sembianze più proletarie del gruppo, che se ne stava accuratamente in disparte. Lui doveva essere timido, meglio non mandarlo nel panico.

Rimaneva solo una giovane donna, peraltro non molto distante da lei, che stava sorseggiando champagne assaporando campioni di sushi. Tra i tre ignoti sembrava la più normale, se non altro. Serena le si avvicinò, dapprima fingendo di essere anche lei interessata a un plateau contenente un assortimento di strisce di pesce crudo dai colori variegati, poi salutandola direttamente. « Ciao! ».

« Ah, ciao! » restituì lei con un sorriso. Nessuna risposta arcigna, che fortuna.

« Io mi chiamo Serena. Buono il… uhm, sashimi? » le domandò, leggendo al contempo la targa corrispondente. Le poteva piacere cucinare ma non certo quello, che d’altronde nemmeno era cotto.

« Marja. Non mi lamento, ma a essere onesta il mio preferito è il tekkamaki ».

« Che nome strano. Che cos’è? ».

La donna indicò un piatto sito poco lontano « Riso e tonno con alga secca ».

« Bello… Sai, non ho mai mangiato nulla di simile a questo » spiegò Serena « Costa troppo perché mia madre possa prenderlo. Il barone dev’essere proprio uno spendaccione per offrirne gratis così tanto in una volta, eh? ».

« Suppongo di sì ».

« Che significa “supponi”? Non ti ha invitata lui? ».

« Sì, sì, l’invito è suo » precisò rapidamente Marja « Ma io non l’ho mai visto in vita mia. Proprio non lo conosco ».

Serena storse il naso mentre la sua interlocutrice si allontanava. La prima volta poteva essere stata una coincidenza, ma che due commensali su quattro non avessero incontrato il padrone di casa era a dir poco sospetto. Chi ospiterebbe in una residenza persone con cui non ha nulla a che fare, specie con argenteria esposta in bella vista che avrebbe fatto gola a tutti? Era meglio parlarne con Bellocchio. Si voltò verso di lui, che non si era mosso di un centimetro e aveva gli occhi alzati al soffitto dalla noia.

« … e solo allora assunse il nome, mantenuto tutt’ora, di Palais Chaydeuvre, proprio in onore del granduca Chaydeuvre ».

« Questa storia la racconta a tutti, per caso? ».

« Beh, signor Peace, è d’uopo che i convitati siano acculturati su dove si trovano ».

« E quanti ne sopravvivono? ».

Laurent si irrigidì, perdendo nell’arco di un istante tutta la cordialità che aveva sfoderato fino ad allora « Faccio solo il mio lavoro, signore ».

Bellocchio non parve accorgersi della freddezza del maggiordomo e proseguì imperterrito con il suo scherno implicito. « Quindi la pagano per questo! Un motivo in più per odiare il barone. E non è che non fosse facile prima ».

L’uomo gli lanciò un’occhiata gelida e si diresse altrove borbottando qualcosa di inudibile. Contemporaneamente Serena, approfittando della fine della loro conversazione, si fece incontro al suo amico. « Oggi sei un po’ nervoso, o sbaglio? ».

« Non reggo gli aristocratici. Un mucchio di fanatici pretenziosi a cui interessa solo mantenere il loro status sociale » commentò Bellocchio aspro « Non si sono nemmeno accorti del mio documento falso ».

« Ah! » esclamò la ragazza « Ecco come hai fatto! ».

Quasi si aspettasse la richiesta successiva, il giovane estrasse dalla tasca dei pantaloni una carta d’identità plastificata su cui spiccava una sua fototessera accompagnata dall’ormai frequente pseudonimo di Warren Peace. Stando a quel pezzo di plastica lavorava come professore di attività avventurose presso il Liceo per Allenatori di Novartopoli.

« Dove l’hai presa? ».

« Fatta da me con alcuni aggeggi trovati nel vecchio appartamento di Saul McGill. Ho un alto potenziale cinese ».

« E una certa dose di pregiudizi, a quanto vedo. Deplorevole » appuntò beffarda Serena.

« Non sono pregiudizi » ribatté Bellocchio alzando l’indice per correggerla « Sono anni e anni di esperienza. Preferirei nascere pazzo che re ».

« Scelta facile, visto che sei già uno dei due. Comunque abbiamo un problema » lo informò tagliando corto « Credo che nessuno qui a parte Laurent conosca De Loménie ».

« Nessuno vuole conoscere misantropi, non vedo la cosa strana ».

« Sì, ma allora perché li ha invita–– » Serena fu interrotta di nuovo dal dito del giovane, che ora premeva sulle sue labbra per silenziarla. Il suo detentore invece stava protendendo il capo come se volesse sentire qualcosa che non riusciva a sentire.

No, non sentire. Stava annusando. D’un tratto i suoi occhi brillarono di tensione « Qualcosa brucia ». Immediatamente scattò verso la porta opposta all’uscita della villa, pronto ad addentrarsi nei suoi meandri. Serena, in tutto il tempo extra trascorso a Castel Vanità, aveva imparato a conoscerlo tanto bene che non aveva dovuto nemmeno aspettare che lui partisse per correre anche lei.

Appena oltrepassato l’atrio che ospitava la festa, Bellocchio individuò il primo portone per il cortile centrale e vi si gettò senza rifletterci. All’esterno batteva ancora la pioggia, ma perlomeno sembrava essere calata dal momento che ora buona parte della reggia era visibile. Ed eccola là: una colonna di fumo prontamente dissipata dall’acquazzone stava sorgendo da una finestra posta al terzo piano.

Non perse tempo nemmeno a spiegare agli altri invitati: l’uomo e la sua amica appena dietro si misero subito alla ricerca della rampa di scale più vicina, trovandola con un senso dell’orientamento invidiabile. Il labirinto di corridoi fu più semplice del previsto per gran parte del tragitto, ma con sconforto dei soccorritori alla fine arrivò ciò che avevano temuto di trovare fin dall’inizio: un bivio.

« Aristocratici! » inveì Bellocchio « Mai vivere in un cottage, vero? ».

« Dividiamoci, vai a destra ».

« No, ora il cortile è alla nostra sinistra. Quindi anche la finestra da cui usciva il fumo, quindi anche la camera. È inutile dividerci ».

« Oh, fai come vuoi, vado io a destra allora » decise Serena paziente per poi slanciarsi nel verso prescelto.

Il percorso proseguì ancora qualche minuto, ma giunse un punto in cui non riuscì a proseguire per via dell’eccessivo fumo nero provocato dall’incendio in corso. Se fosse stata più previdente si sarebbe portata un fazzoletto per coprirsi naso e bocca, ma non le era passato minimamente per la testa e qui Fletchinder sarebbe tornato alquanto utile. Non aveva tempo per tornare indietro e ritrovare Bellocchio – anche se le sarebbe piaciuto comunicargli che aveva avuto ragione lei –, quindi decise, nonostante il terrore delle fiamme le facesse tremare le gambe, di trattenere il respiro e inoltrarsi nella nube nero pece.

Pessima idea. Se ne rese conto non molti metri dopo, quando il calore si fece insopportabile, la visuale impenetrabile e le ginocchia cedettero. In poco tempo dovette anche inspirare, tossendo fortemente per la quantità di esalazioni che le avevano arroventato i polmoni. Solo lì realizzò che si era completamente scordata di un fattore rilevante: era un’Allenatrice.

« Karen! » esclamò tra un tentativo di ritardare il soffocamento e l’altro « Usa Protezione per filtrare l’aria! ».

La barriera sferica rosa prodotta da Ralts appena quest’ultimo fu in grado spazzò via le molecole caliginose per un raggio di due metri intorno a sé, purificando almeno in via provvisoria l’ambiente. Serena si asciugò le lacrime dagli occhi e alzò il capo: all’interno del campo di forza era cristallino, ma appena fuori era ancora tutto immerso nell’oscurità e scorgere qualcosa era impossibile. Lei e Karen avanzarono ulteriormente fino a trovarsi di fronte al capolinea: una porta ormai divelta dalle vampate attraverso cui lunghe lingue rosseggianti minacciavano di invadere il resto della villa.

Serena scambiò un’occhiata complice con Karen, chiedendole implicitamente di ampliare la Protezione, ma dopo un istante la stessa creatura emise un mormorio di sconforto, senza aver esteso la barriera di un centimetro. È troppo forte, comprese la ragazza, e lei è troppo debole. Di certo non poteva arrendersi in quel modo, ma il suo unico altro Pokémon era un Bulbasaur che non le era di nessun aiuto.

« Ehi, fermo! ».

Una voce giunse alle orecchie della giovane da dietro di sé, oltre la cappa buia e densa. A giudicare da ciò che seguì, due persone battibeccavano su come comportarsi con due timbri quasi agli antipodi: uno vigoroso e fresco, l’altro più anziano ma sorprendentemente tagliente.

« Mi lasci andare, so cosa sto facendo! ».

« Soffocherai prima di arrivare dall’altra parte! ».

Serena pensò di arretrare per giungere in loro soccorso, ma non ve ne fu bisogno: dalla cortina fuoriuscì Laurent, il maggiordomo con cui Bellocchio aveva parlato al piano di sotto, attraversando come burro la barriera per sua fortuna ormai a malapena sufficiente per tenere il fumo a debita distanza.

« Carabaffe, esci fuori! » gridò lanciando una Poké Ball di una colorazione diversa dall’usuale, scura a tinte gialle e rosse. Il lampo derivato svelò la sagoma di un Pokémon che Serena non aveva ancora visto, ma che le ricordava molto da vicino uno Squirtle. In effetti la forma generale era quella della tartaruga che aveva visto nelle mani di Shana a Luminopoli, ma la coda e le orecchie erano rivestite di pelo bianco e l’aspetto era più aggressivo. Doveva essere un’evoluzione, ipotizzò.

« Idropompa! » ordinò Laurent, al che il non-Squirtle rispose aprendo la bocca e scagliando un getto d’acqua di inaudita potenza che consumò il muro di fuoco in momenti. Successivamente il Pokémon proseguì passo a passo, inoltrandosi nella camera vittima dell’incendio per domarlo.

« Cavatappi, usa Scacciabruma! » proruppe contemporaneamente una voce femminile dalle retrovie, preannunciando l’intervento di un Gligar che spazzò via i residui tossici delle fiammate. Marja, la proprietaria a giudicare dalla sfera ancora nella mano sinistra, le sfrecciò accanto mentre Karen annullava la tecnica per poi essere richiamata; tallonarono a ruota Charlotte e i rimanenti due invitati. Quando toccò a Serena oltrepassare la porta la combinazione di acqua e vento aveva reso il locale agibile, rivelandolo per ciò che era: una camera da letto. Era facilmente intuibile dal cadavere di un baldacchino collassato su se stesso, nonché da un armadio ormai ridotto a cenere.

« È incredibile » osservò l’ospite maschio più giovane, quello che nella mente della ragazza era l’appassionato di ostriche. Da quando era entrata l’aveva visto impegnato ad analizzare le bruciature sui tramezzi con l’aria di chi la sa lunga « Con questa umidità un disastro simile. È per forza artificiale ».

Serena rabbrividì. Chiunque fosse quell’uomo aveva appena proclamato senza mezzi termini che lì, nella residenza in cui si trovavano, era stato appiccato un incendio doloso. « C’era nessuno qua dentro? » domandò preoccupata.

Nessuno rispose, probabilmente perché nessuno lo sapeva, o perché chi lo sapeva non aveva intenzione di parlare. Ma a nessuno sfuggì che quello che seguì non fu un silenzio: a impedirgli di esserlo era il singhiozzare sommesso e disperato di Laurent.

 

 

La via presa da Bellocchio lo aveva condotto in un corridoio unilaterale senza alcuna porta sui lati, solo parzialmente rischiarato da qualche lampada apposta al muro. Non vi era traccia di fumo né dell’odore di esso, dunque si trattava senz’altro della strada sbagliata, ma aveva deciso di proseguire per due motivi: il primo, piuttosto ovvio, era che ormai non poteva essere più di alcun aiuto. Per quanto avesse corso la strada si era avvolta su se stessa, e come risultato era rimasto fuori dai giochi troppo a lungo. O Serena aveva spento l’incendio o era morta. Naturalmente non considerava nemmeno quell’opzione.

Il secondo motivo era che un androne privo di scopo era a dir poco sospetto. Non c’era nulla che ne giustificasse l’esistenza, e non poteva essere inteso come un segreto dal momento che non era protetto o nascosto alla vista. Era un luogo senza senso, e niente attirava Bellocchio quanto qualcosa che non avesse senso, perché in tutta la sua vita non aveva ancora trovato nulla che semplicemente esistesse senza proposito.

Ed eccolo là, il traguardo. Anzi, eccola: una piccola porticina alla fine del tragitto, premio per i temerari. Il legno di cui era costituita era stato tinto di bianco per meglio intonarsi alle tarsie che la ornavano luccicando nell’ombra. Vi erano incisi stemmi di nobili casate, e poco più sopra due spade incrociate sopra cui levitava una corona baciata da un sole sorridente. Aleggiava un silenzio surreale che non si sarebbe trovato nemmeno nella più rigida delle chiese.

Girarsi e andarsene era fuori discussione; non rimaneva che decidere se bussare o meno. Ma a pensarci bene bussare non era nel suo stile. Data l’assenza di maniglie non poté far altro che appoggiare i palmi alla porta e spingere delicatamente. I cardini produssero un leggero cigolio mentre dischiudevano meccanicamente i battenti come uno scrigno. E uno scrigno era definibile, perché al suo interno c’era un vero e proprio tesoro.

Bellocchio non riusciva a ricordare di aver mai visto una stanza tanto lussuosa. Il che in effetti non era molto indicativo, ma era altrettanto certo di non averne mai preso nota. Praticamente ogni singolo oggetto, dagli scaffali ai rivestimenti delle pareti passando per tappeti e tende, era di colore oro o rosso intenso. La temperatura era decisamente più alta che nel resto della villa nonostante nulla ardesse, probabilmente per via dei tessuti che trattenevano il calore, uno stratagemma ben noto anche in tempi antichi e impiegato soprattutto nelle camere dei reali. Il che significava che quella disposizione di mobili non era fuori posto, dato che il vero arredo principe era un letto a baldacchino sito dal lato opposto all’entrata, addossato al muro e rigorosamente con i drappi calati a occultarne il cuore.

Ma non fu ciò ad attrarre Bellocchio; fu la constatazione che da dentro qualcuno stava respirando pesantemente.

« Scusi, non… ». Fece per indietreggiare quando il suo sguardo cadde sugli scaffali che ospitavano giochi da tavolo, bambole e altri giocattoli stipati su mensole colme. Non era la camera di un reale, era la camera di una bambina.

« Tutto bene? » domandò tornando ad avanzare verso il letto. Dall’altro lato qualcuno tirò le spesse tende verso di sé, come per proteggersi. « Non voglio farti nulla, voglio solo sapere se stai bene ».

« Vai via! » lamentò una voce spezzata dalla paura, vibrante e nervosa. Il timbro era decisamente quello di una fanciulla, forse sui sei-sette anni « Papà ha detto di non parlare con gli invitati! ».

Papà. Se un uomo si era riferito agli ospiti come invitati non poteva che essere colui che li aveva invitati in prima persona. C’era solo un’opzione su chi si nascondesse dentro al baldacchino: una baronessina.

« Come mai? » incalzò Bellocchio curioso, prestando attenzione affinché la domanda non suonasse come un interrogatorio.

Seguì una breve pausa. « Ha detto che non sono brave persone ».

Senti senti, quindi non solo i commensali non conoscevano il barone, ma lui nemmeno si fidava di loro. La faccenda assumeva connotati sempre più bizzarri man mano che nuovi risvolti salivano a galla.

« Io non sono un invitato, non ho ricevuto nessuna lettera da tuo padre » rispose il giovane con un sorriso che non camuffava una certa soddisfazione per il cavillo individuato « Quindi tecnicamente puoi parlarmi. Comunque se non vuoi me ne vado ».

A quel punto, dopo un’altra interruzione più prolungata, i drappi frontali del baldacchino si aprirono come un sipario, scostati da una piccola e timida mano. Adagio fece capolino un piccolo volto circondato da lunghi capelli biondi e lisci come appena piastrati, poi il resto del busto mingherlino coperto da una candida camicia da notte. La bambina sembrava starci dentro grossolanamente, era decisamente troppo larga per lei.

« Ciao » la salutò dolcemente « Come ti chiami? ».

Lei esitò, ma il fatto che Bellocchio si trovasse a distanza di sicurezza dovette rasserenarla « Joanne ».

« Che bel nome, Joanne. Quanti anni hai? ».

« Sette e mezzo » rispose con fierezza.

« Caspita, sei grande allora! » si congratulò l’uomo, suscitando intelligentemente nella bambina un moto di orgoglio « E come mai ti sei nascosta nel letto? ».

« Ho sentito dei rumori dalla stanza di papà… ».

« La stanza di papà… Scusa, posso avvicinarmi? » chiese Bellocchio garbatamente. Joanne ci rifletté, poi fece cenno di no con la testa. Non è il caso di insistere, stabilì l’uomo. « E dov’è la stanza di papà? ».

La baronessina alzò il braccio destro per indicare dritto contro la parete alla sinistra di Bellocchio, il quale fu così perforato dalla realizzazione: non aveva perso il senso dell’orientamento e sapeva bene dove si trovava, anche se avrebbe decisamente preferito il contrario. Il muro puntato da Joanne era disposto sulla sponda del giardino interno, e date le dimensioni del corridoio di partenza non poteva esserci più di un ambiente a separarla da esso. Il che significava che la camera da letto del barone nonché padre di famiglia stava andando a fuoco in quel preciso momento.

Il suo primo istinto fu di uscire di corsa per provare a fare qualcosa, ma aveva deciso a mente lucida che era già in ritardo quando si era trovato alla porta e non poteva rischiare di far preoccupare Joanne. Lui non era uno psicologo, anche se un paio di volte si era improvvisato tale, e se davvero tutto era andato per il peggio – cosa di cui non aveva alcuna certezza e che, per la verità, rifiutava di accettare – non spettava a lui comunicarlo. La sua prima preoccupazione era evitare che altre voci filtrassero, impedire che il mondo crudele penetrasse nello scrigno.

Si guardò attorno con rapidità fulminea, individuando con gioia un oggetto che prima gli era sfuggito: una vecchia radio domestica in legno, di quelle ingombranti che avevano ancora la manopola mobile. Senza chiedere nemmeno il permesso vi piombò sopra, accendendola e regolando la frequenza fino a trovare una canzone sufficientemente alta da coprire eventuali voci esterne. La priorità era essere veloci, quindi non si pose problemi quando dallo speaker iniziarono a essere diffuse le note di Don’t Go Breaking My Heart.

« … Uuh, I gave you my key… » canticchiò tornando a guardare Joanne. Aveva infranto il patto di non avanzare, ma lei non sembrava esserne stata turbata tanto quanto confusa.

« Perché hai acceso? ».

« Oh, mi piace sempre ascoltare un po’ di musica quando parlo con le bambine grandi. E poi è Elton! » esclamò Bellocchio. Improvvisò un balletto che probabilmente avrebbe fatto diventare Serena paonazza dall’imbarazzo, ma nella piccola generò solo un riso gioviale. Con un balzo l’uomo fu a una delle scaffalature, a rovistare tra i giochi di società. Tutti vecchi, tutti così datati… « Hah! » proruppe d’un tratto, a ritmo con la canzone di sottofondo « Cluedo, che bello. Ci hai mai giocato? ».

« Soltanto da sola. Papà non gioca mai con me » spiegò Joanne con tacito sconforto.

« Ma sai come si gioca, vero? ».

« C’è uno che è morto e gli altri devono scoprire chi è stato a ucciderlo, vero? ».

Bellocchio annuì e si avvicinò alla bambina, inginocchiandosi perché i loro occhi fossero alla stessa altezza « Stiamo giocando a Cluedo, di là. La versione per persone vecchie, giochiamo in tutta la villa. Per questo hai sentito quei rumori ».

Gli occhi di Joanne si illuminarono « Posso giocare anche io? ».

« Ah, ma vedi, non ci sono bambine in Cluedo, vero? ».

« Io non sono una bambina! » protestò ad alta voce, battendo i pugni sul materasso.

« Non vorrai disubbidire al tuo papà, vero? Io non sono un invitato, ma gli altri sì! ».

Di fronte a quelle parole la paura della fanciulla tornò a prevalere sulla determinazione, e trepidamente si ritirò al di là delle tende rosseggianti. Lo sguardo malinconico alla notizia di non poter partecipare lasciò in Bellocchio un terribile senso di vuoto non solo per aver deluso le sue aspettative, ma perché la realtà era molto peggiore. Avrebbe voluto farla divertire almeno in quel momento, sapendo che avrebbe avuto di che piangere più tardi se Serena non fosse riuscita a fermare l’incendio in tempo. Invece la lasciò lì e, dopo un commiato di cortesia, uscì dalla stanza con la morte nel cuore. Percorse l’androne a ritroso e, quasi per uno scherzo del destino, incrociò la sua amica che proveniva dalla direzione che aveva scelto al bivio. Negli istanti precedenti a quando si era accorta di lui aveva tenuto un’andatura simile alla sua, il che non prometteva nulla di buono.

« Bellocchio! » esclamò sollevata di vederlo. « È… è… » balbettò poi, incapace di trovare le parole « … assurdo, hanno… Qualcuno ha ucciso il barone De Loménie! Era una cosa terribile, c’erano fiamme alte metri, io… ».

L’uomo non indagò oltre, perché aveva già intuito tutto nella camera di Joanne, e i dettagli preferiva scoprirli in una condizione meno deprimente di quella in cui versava. Appoggiò una mano sulla spalla sinistra di Serena, a metà tra paternalismo e necessità di sostegno « Raduna tutti, cuochi e quant’altro compresi. Vado a rimettermi il cappotto ».

« … Eh? Perché? ».

« Perché ho freddo » rispose senza nemmeno una punta di ironia. La ragazza non l’aveva mai sentito pronunciare una frase tanto normale, tanto comune, tanto non da lui. Se si comportava così qualcosa doveva averlo turbato. E non poteva essere semplicemente l’idea di un omicidio, quella era cosa d’altri. Altri non abituati, altri che non affrontavano gli spettri delle case infestate con il sorriso sulle labbra, altri che non salvavano Luminopoli come fosse ordinaria amministrazione.

« Che cos’hai trovato andando a sinistra? » lo interpellò mentre si allontanava in direzione delle scale. Non si aspettava che rispondesse subito, e infatti non lo fece, ma impiegò molto più di quanto avrebbe stimato.

« Un’orfana ».

 

 

Laurent consultò l’orologio da taschino di ottone: mezzogiorno era trascorso da sei minuti circa. Originariamente a quell’ora sarebbe dovuto entrare il barone De Loménie per occuparsi degli invitati rinfrancati dal buffet, ma ora non avrebbe mai varcato l’ingresso del salone. Si erano spostati lì dal corridoio di benvenuto, principalmente perché in quanto hall centrale del Palais Chaydeuvre essa era dotata di divani confortevoli. Tre degli ospiti vi si erano accomodati, mentre il più giovane di loro stava gironzolando attorno al tavolino da caffè semiopaco che era posto di fronte. Erano stati riuniti su richiesta della signorina Williams, che aveva fatto il possibile per spiegare cosa stesse accadendo.

O meglio, cosa stesse accadendo lo sapevano tutti: era stato appena commesso un omicidio. Il vero dubbio era cosa fosse saltato in mente a Peace, non presente fino a quel momento. Laurent lo aveva trovato insopportabile fin da subito, ma costringerli là dentro e addirittura bloccare a forza qualsiasi tentativo di convocare le autorità era da pazzi. Meglio per lui che avesse una motivazione valida supportata da qualcosa di tangibile, o si sarebbe ritrovato in svantaggio numerico molto presto visti gli umori non ottimi dei convocati.

Finalmente il professore degnò gli altri della sua presenza, entrando di filata con il cappotto svolazzante dietro di sé. Professore in cosa, poi? Nemmeno aveva controllato. Il maggiordomo sobbalzò quando comprese che, pur mantenendo una traiettoria sostanzialmente dritta, l’uomo stava impercettibilmente deviando verso di lui.

« Non avevo chiesto tutti qui? ».

Laurent fu per rispondere a tono, ma la sua amica in rosso intervenne in anticipo « Siamo tutti qui. Il resto dello staff era stato dispensato per la giornata, apparentemente ».

Peace gettò un’occhiata glaciale al caposervizio, il quale non ruppe il contatto visivo nemmeno per un secondo. « Solo lei per servirci? » domandò con una certa dose di sarcasmo che nulla fece per nascondere. Come a dire: tutto qua?

« Già. Strano, vero? Ho perseverato anch’io sul fatto che gli invitati fossero fin pochi » replicò caustico « Magari il barone aveva previsto sarebbero giunti ospiti indesiderati ».

L’uomo annuì ambiguamente, poi si diresse verso il giovane che orbitava al tavolo. « Dimmi il tuo nome e il tuo lavoro ».

Quello emise un risolino di sorpresa « Come, scusa? ».

« Hai sentito benissimo ».

« Perché dovrei dirtelo? ».

« Perché sono molto, molto nervoso, e preferirei non dover passare allo stadio successivo ».

Serena gli venne incontro rimproverandolo, ma il minacciato alzò la mano con un sorriso di sfida per fermarla. Perché non fare il suo gioco, dopotutto? « Mi chiamo Santiago. Sono addetto alle pubbliche relazioni in un’impresa di Giubilopoli ».

« Ma davvero, anche tu di Sinnoh? E vieni qua solo per una lettera? ».

Senza ottenere né attendere una risposta Bellocchio passò velenosamente in rassegna gli occupanti del sofà, che risposero uno a uno. La prima fu Marja, che a quanto pare era attualmente disoccupata; toccò quindi all’altro ignoto del gruppo, il quale si presentò come Kayden – Santiago non esitò a rinominarlo Gayden, una cosa che apparentemente trovava da rotolarsi a terra dalle risate –, proprietario di un chiosco a Luminopoli che vendeva una specialità locale nota come Pan di Lumi; infine fu il turno di Charlotte, che spiegò essere un’infermiera impegnata saltuariamente all’Hôpital Regional Leveinard.

« Bugiarda » commentò Bellocchio senza battere ciglio. L’imperturbabilità con cui aveva pronunciato quella parola contrastava particolarmente con il suo significato. Gli astanti puntarono gli occhi sul duo ora intento in un confronto serrato.

« Come dice? ».

« Sono segni di manette quelli che cerca di nascondere. Non penserà che abbia creduto alla storiella della paura di cambiare marcia, vero? » spiegò Bellocchio incrociando le braccia « Il suo piede continuava a spostarsi involontariamente sulla frizione. Lei cambia marcia costantemente, e non l’ha fatto in nostra presenza perché il polso le faceva male e ci saremmo accorti delle ferite ».

« Oh, ma certo! » esclamò Serena battendo la mano sulla fronte « Ecco dove avevo visto quella faccia! Bel–– Warren, era in televisione, non ricordi? L’evasa durante la fuga di massa dal Carcere di Luminopoli che si era finta una mendicante per ingannare la polizia! ».

« Davvero? » domandò lui perplesso.

« Come sarebbe a… Abbiamo seguito insieme il servizio! ».

« È raro che ricordi una faccia, Shana ».

« Serena ».

« E anche coi nomi posso migliorare » Bellocchio tornò a guardare Charlotte « Ora direi che ci deve una risposta. Perché ci ha presi con sé venendo qua? ».

Si sarebbe atteso che la donna negasse, ragion per cui la frase che seguì lo lasciò interdetto. « Per prendervi come ostaggi, ovviamente ».

Laurent stralunò gli occhi, Santiago sorrise sbalordito, Marja e Kayden sussultarono all’unisono e si distanziarono da quella gentile signora di mezza età che qualcuno doveva aver rimpiazzato con una sociopatica mentre erano deconcentrati.

« Ostaggi? » la interrogò Bellocchio « E per che cosa le saremmo serviti? ».

« Beh, non potevo sapere chi fossero gli altri invitati. Mi serviva qualcuno che sembrasse abbastanza debole da poter minacciare De Loménie se non avesse scelto me per il tesoro, e quando ho visto due sfigati nella pioggia ho colto la palla al balzo ».

Il tesoro. No, non aveva sentito male. Il disinteresse con cui Charlotte citava quei temi come fossero di dominio pubblico lasciò l’uomo interdetto. « Tesoro? ».

« Le nostre lettere contenevano tutte la promessa di un tesoro. Il barone avrebbe scelto uno di noi quattro, chi fosse stato più meritevole a suo giudizio. Ovviamente ora dubito potrà adempiere ».

« E lei ci aveva portati per minacciarlo? ».

« Credevo avessimo chiarito questo punto ».

« Beh, le è andata male » affermò Bellocchio con una smorfia che poteva essere interpretata solo come un ghigno soppresso. Con mano fulminea sfilò dalla tasca un documento in pelle nera con all’interno un badge identificativo « John Green, agente sotto copertura della Polizia Internazionale. La signorina in rosso è la mia assistente, Josephine Scarlett ».

Gli astanti si unirono in un sobbalzo simultaneo, con il solo Santiago a reagire con un sorrisetto sghembo, e Serena per poco non soffocò nella sua stessa saliva alla notizia. Il suo amico aveva falsificato un badge dell’Interpol senza dirglielo? E ora stava trascinando anche lei dentro la sua ragnatela di bugie!

« E nel caso se lo stesse chiedendo, sì, ho registrato tutto » soggiunse senza trattenere oltre l’espressione di chi era conscio di aver vinto su tutta la linea. Charlotte ora respirava a ritmi inauditi, cercando di arginare il terrore all’idea di essersi consegnata nelle braccia delle autorità per pura alterigia.

« Immagino che ora dovrai chiamare le autorità, giusto? » suggerì Santiago ironicamente.

« Ben detto. Nel frattempo mi trovo costretto a dovervi trattenere qua. Appena arriveranno i rinforzi mi seguirete in Centrale. Ogni cosa che direte potrà essere usata contro di voi in un tribunale. Avvocato, interrogatorio e via discorrendo ».

Seguì un’altra imprecazione sommessa di Charlotte. Marja si alzò con titubanza, in una via di mezzo tra imbarazzo personale e assoluta intenzione di imbarazzare altri. « Ehm… Se dovremo restare qui io dovrei… Prendere delle cose in macchina ».

Bellocchio dapprima si grattò la testa, non comprendendo come ciò avesse una relazione con… beh, qualsiasi cosa stesse avendo luogo in quel momento. Forse l’idea di un omicidio l’aveva scioccata a tal punto che ora non rispondeva delle sue parole? Solo più tardi afferrò il reale significato della frase della donna. « … Oh! Ah, sì, certo… Signorina Scarlett, la accompagni ».

Lo sguardo fulminante di Serena lo perforò mentre questa gli si avvicinava per chiedere spiegazioni sotto forma di bisbiglio. « Sei pazzo? Che cosa faccio se scappa? ».

« Non scapperà, ha troppa paura » affermò con certezza il giovane a voce bassa. Poi per buona misura si rivolse anche alla diretta interessata « Non faccia scherzi, signorina. La informo che la mia assistente sa essere meno misericordiosa di quanto appare ».

La ragazza provò di nuovo a lanciare una delle sue occhiate di fuoco, ma stavolta il suo amico non si fece cogliere di sorpresa ed evitò ogni contatto visivo. Lei e Marja si allontanarono dunque verso l’uscita del salone e svoltarono a destra per tornare al corridoio d’ingresso.

« Scusa, signor Peace… o Green… ».

A parlare era stato Kayden, per la prima volta di sua iniziativa. Bellocchio gli offrì la propria attenzione « Green va bene ».

« È una bella fortuna che tu sia qui. È casuale? ».

« Oh, beh, stavo seguendo Charlotte, ovviamente. Non mi aspettavo vi fosse un omicidio ».

« E non trovi strano che se ne sia verificato uno proprio con lei qui? Che bisogno c’è di trattenere anche noi quando è ovvio cos’è successo? ».

« Ehi, paninaro, non ci provare » lo fermò categoricamente Charlotte « Sarò anche una truffatrice, ma non ho mai ucciso nessuno ».

« Hai detto di voler prendere in ostaggio il signor Green! ».

« Non saltiamo a conclusioni affrettate » li sedò Bellocchio, per l’occasione anche moderatore delle discussioni « Al momento può essere stato chiunque di voi, non c’è nulla che faccia pendere l’ago della–– ».

Si interruppe: un urlo proveniente dall’esterno squarciò la quiete echeggiando tra le mura. L’uomo si gettò alla finestra e coprì con le mani la zona intorno agli occhi di modo che il riflesso delle luci interne non prendesse il sopravvento. Era successo ciò che la sua amica aveva immaginato e che lui non aveva ascoltato: Marja stava scappando.

« FERMATI SUBITO! » sbraitò Serena da fuori partendo al suo inseguimento sotto la pioggia. Bellocchio la raggiunse appena dopo, avendo avuto più strada da attraversare ma con il vantaggio di essere abituato alla corsa. La cappa grigia del cielo stava ancora rilasciando il suo incessante acquazzone sulla zona, e nessuno dei tre era munito di ombrello, lasciando che le gocce infradiciassero i capelli e i vestiti. Era una gara che la fuggitiva non poteva vincere per ovvie ragioni di costituzione, e lo sapeva bene anche lei.

Comunque nessuno di loro ebbe modo di dimostrarlo sul campo: quando Marja fu a due passi dal cancello, ai suoi piedi apparvero quattro puntini rossi che iniziarono a seguirla.

Bellocchio sgranò gli occhi nel terrore. « FERMATI! » gridò, ripetendo ciò che aveva detto Serena, ma con un tono sufficientemente ansiogeno da causare nella donna un dubbio, il quale a sua volta si tramutò in deciso ripensamento e conseguente frenata sul posto quando notò le luci danzanti ai suoi piedi. Sia lei che i suoi inseguitori avevano capito che cosa significavano: da qualche parte, nascosti tra gli alberi, almeno quattro cecchini stavano puntando i loro fucili usando i laser per mirare.

« NON SONO STATA IO! LO GIURO! SONO SCAPPATA PER PAURA! » esclamò Marja atterrita.

Bellocchio cercò di avanzare nella sua direzione, e altrettanto fece Serena, ma entrambi si ritrovarono due puntatori a testa a prendersi cura di loro. Era evidente che quei tiratori avevano il compito di impedire agli invitati di uscire dal Palais Chaydeuvre, e l’unico che poteva trarne vantaggio era l’assassino. Di più, ora non avrebbe potuto chiamare nessuna autorità senza rischiare di fare impallinare tutti. Erano ostaggi veri e propri.

Ostaggi, certo. Charlotte aveva detto di volerli prendere come ostaggi! Però era sembrata disperata all’idea che lui fosse dell’Interpol, atteggiamento certo non tipico di chi possiede un asso nella manica di quel genere. Che fosse Marja la responsabile, e avesse simulato un tentativo di fuga solo per rivelare i cecchini e impedire l’arrivo della polizia? Santiago però non era sembrato prendere molto sul serio l’idea che la P.I. arrivasse, quasi fosse certo del contrario. E Kayden aveva cercato subito di discolparsi…

No, non c’era tempo per queste elucubrazioni, non ora. Adesso la priorità era portare tutti in salvo da quella situazione spinosa. « Non importa, Marja » proclamò a voce alta ma senza esclamazioni di sorta, come un ufficiale che impartisce ordini « Ora torna indietro ».

« MI UCCIDERANNO! » insorse lei, non ritirandosi di un centimetro, paralizzata dalla paura.

« Ti hanno puntata solo quando hai cercato di fuggire. Vogliono solo che resti dentro. Torna indietro, Marja ».

La pioggia continuava a cadere impietosa, tutti respiravano affannosamente e per trenta secondi netti la tensione fu palpabile come mai prima. Poi la donna annuì delicatamente e, pur senza voltarsi per orrore di essere stilettata alle spalle, indietreggiò fino a raggiungerli. I mirini laser si spensero uno alla volta, abbandonando il fango per terra a se stesso.

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** 1x24 - Otto piccoli indiani ***


Untitled 1

PREVIOUSLY ON LKNA: Bellocchio e Serena, sorpresi da un acquazzone nel mezzo del Percorso 7, accettano un passaggio da Charlotte, signora di mezza età diretta a una festa organizzata dal barone De Loménie al Palais Chaydeuvre, una lussuosa villa immersa nel verde. Lì, oltre al maggiordomo Laurent, li attendono altri tre ospiti: Marja, Santiago e Kayden. Durante il rinfresco organizzato scoppia un incendio nella camera da letto del barone, il quale ne rimane tristemente vittima; mentre Serena e gli altri se ne occupano, Bellocchio fa la conoscenza di Joanne, figlia del padrone di casa, e per nasconderle l’atroce verità mente riguardo alla situazione attuale.

Ritrovati nell’atrio i due protagonisti apprendono che l’intenzione di De Loménie era eleggere il più fidato degli invitati a beneficiario di un non meglio precisato tesoro, nonché l’agghiacciante verità che Charlotte li ha portati con sé solo come eventuali ostaggi. Marja vorrebbe a quel punto andarsene, ma nel momento in cui mette piede fuori dalla residenza compie una tremenda scoperta: Palais Chaydeuvre è circondato da cecchini che minacciano di abbattere chiunque tenti una fuga. Sono chiusi dentro.

 

 

 

 

 

 

Santiago, scompostamente accomodato su una sedia di legno con un polpaccio sul ginocchio opposto, non aveva perso il suo sgradevole sorriso per tutto il dialogo. Bellocchio, appoggiato sulla scrivania retrostante, iniziava dopo due minuti soltanto a pentirsi di aver iniziato l’interrogatorio con quell’arrogante individuo. Con un sospiro si guardò attorno distratto, scrutando il nobile studio privato di De Loménie che avevano scelto come confessionale per l’ottimale caratteristica di non essere dotato di finestre che i tiratori all’esterno potessero sfruttare in un raptus omicida.

Serena era appoggiata alla parete dietro il banco mentre Laurent, che aveva chiesto di poter presenziare, stazionava accanto a una fila di scaffali contenenti un’estensiva raccolta di francobolli. Bellocchio era stato restio a farlo assistere, ma a ben rifletterci gli avrebbe fatto comodo qualcuno che riassumesse la situazione agli altri ospiti mentre lui ragionava con Serena per immedesimarsi nel ruolo di agente. E poi era una figura di cui tutti si fidavano, cosa che – nonostante il falso badge avesse rotto il ghiaccio – non poteva dire di se stesso.

« Parliamo della tua attività a Sinnoh, che ne dici? » propose dopo un breve intermezzo meditativo « Vengo da lì, conviene che tu non racconti balle ».

« Vieni da Sinnoh e non ha un PokéKron? ».

« Tra me e la tecnologia c’è un amore non corrisposto, un giorno penso potrei anche arrivare a torturare uno smartphone. Preferisco la vecchia carta » spiegò mostrando il suo fedele taccuino stretto tra le mani.

« Potrei offendermi, considerato che la PokéKron S.p.A. è la società per cui lavoro ».

« E da quando la PokéKron S.p.A. è messa tanto bene da permettersi un PR? ».

« Ah, ecco, noi preferiamo il termine comunicatore d’impresa » lo corresse Santiago puntiglioso « PR è un po’ dispregiativo ».

Bellocchio lo ignorò, anzi rincarò la dose « Quindi sei un PR. Com’è che non ho mai sentito parlare di te? Santiago Barbosa, non si scorda facilmente ».

« Noi comunicatori d’impresa non saliamo mai alla ribalta. Sono molto più famoso nei locali di Giubilopoli, per dire » soggiunse ammiccando.

« Oh, grandioso. PR e ladykiller ».

« Una delle due l’hai detta bene, se non altro ».

« Ne sei sicuro? » disse l’uomo d’un tratto con un tono marcatamente diverso « Perché io credo che tu non sia né l’uno né l’altro ».

« Solo perché non hai mai sentito parlare di me? ».

« No. Perché vedi, la storia del PR se devo essere sincero regge bene. È la seconda parte quella problematica » Bellocchio si chinò a fissarlo con aria severa « Dici di essere un donnaiolo, ma in tutto questo tempo non hai guardato Serena nemmeno una volta. In effetti mi sei sembrato molto più concentrato su di me. Direi quasi che… ».

Santiago alzò le mani in segno di resa e sfoggiò ancora il suo irritante ghigno altezzoso « Mi hai beccato. Non posso farci niente, sei così carino… ».

Bellocchio, innervosito non dalle avances ma dall’idea che quel viziato avesse pensato di prendersi gioco di lui, gli diede le spalle e si appoggiò alla scrivania del barone « Qual è il tuo vero nome? ».

« Adrien James ».

Oh, certo, ovviamente uno come lui doveva avere anche un secondo nome. « E saresti così gentile da spiegarmi il vantaggio di fingersi un giubilopolese? ».

« Se devo essere sincero ho pensato anche io che la copertura fosse spazzatura » commentò Adrien in franchezza « Un PR è una maschera poco credibile. Ma avevamo De Loménie da parecchio tempo nei nostri radar per sospetto contrabbando, e quando ha mandato una lettera oltreoceano abbiamo praticamente dovuto intercettarla. Da lì a mandare qualcuno in borghese per investigare il passo è stato breve ».

Se ci fosse un’espressione capace di spiegare cosa attraversò la mente di Bellocchio nell’istante successivo, sicuramente non apparterrebbe alla letteratura. Il modo in cui il Santiago impostore aveva parlato, i termini che aveva usato, il fatto che avesse operato in campo neutro, fuori dalle giurisdizioni regionali, con degli indefiniti “loro”: tutti i filamenti conducevano alla medesima lampadina. Anche il nome, Adrien James, era una coppia fin troppo musicale per essere vera. Come uno pseudonimo, o…

… un codename.

Si voltò di scatto con due molle al posto degli occhi per come stavano fuoriuscendo dalle orbite, alzando il braccio e pronto a pronunciare qualcosa sulla linea di « Aspetta un attimo, tu sei… ? », ma quello sfrontato dai capelli castani lo aveva già anticipato: sventolava un badge identificativo identico a quello mostrato da Bellocchio agli invitati, ma a sua differenza decisamente autentico.

« Sì » annunciò Adrien compiaciuto « Sono della polizia internazionale ».

 

 

 

Episodio 1x24

Otto piccoli indiani

 

 

 

« Okay, ho finito! ».

Versi di varia natura accompagnarono la riunione del team di investigazione attorno al tavolo a cui Serena aveva lavorato per gli ultimi dieci minuti, catalogando ogni sospetto interrogato quella mattina mediante le informazioni fornite. Bellocchio fu l’unico a rimanere in disparte, prevalentemente perché non era stato d’accordo con la decisione di includere Adrien nella squadra. A parte lui erano stati tutti favorevoli, semplicemente perché sarebbe stato folle estromettere l’unica autorità conclamata.

« Ecco la situazione: escludendo Adrien, la prima che abbiamo sentito è Marja, che ha affermato di essere un’ex-soldatessa disoccupata. Poi abbiamo Kayden, che cogestisce lo stand del Pan di Lumi. E infine Charlotte, che è stata rilasciata solo una settimana fa dal Carcere di Luminopoli dopo la grazia concessa da Faubourg a lei e al suo complice ».

« E non dimentichiamo l’uomo impersonato dal signor Adrien! » aggiunse Laurent.

« Vero, Santiago. Adrien, cosa sai di lui? ».

« Solo ciò che ho detto a voi » spiegò l’agente alzando le spalle « PR, womanizer, a quanto ho capito si comportava più o meno come me quando fingevo ».

« E questi sono tutti i sospetti » ricapitolò Serena appoggiandosi allo schienale della sedia. Il fatto che fosse la postazione di un uomo morto non sembrava turbarla minimamente. « Che cosa li collega? ».

« A tutti loro servono soldi. Marja non ha alcuna forma di reddito fisso, l’attività di Kayden versa in cattive acque, Charlotte si è vista confiscare i suoi averi all’arresto. E Santiago, beh, girare i locali famosi di Luminopoli ha un costo » concluse Adrien dopo aver accompagnato le parole con gestualità inconsapevoli della mano « Tutti volevano e vogliono quel tesoro ».

« Okay, questo vuol dire che il barone aveva fatto… delle ricerche, suppongo? ».

« Avrebbe solo senso. Se vuoi dare un tesoro a qualcuno vuoi assicurarti che sia la persona giusta, no? ».

Qualche metro più in là Bellocchio emise uno sbuffo. O meglio, più che uno sbuffo era un incrocio tra quello e una risata strozzata. Di qualsiasi natura fosse, Adrien lo prese come un attacco personale. « Che c’è, il mio ragionamento ti fa ridere? » gli domandò con atteggiamento polemico.

« Come? No, prego, gaymanizer, continua pure ».

« Sei passato all’omofobia? Perché quel continuo razzismo implicito per il nome Santiago credevo bastasse a delinearti ». Che nervoso gli provocava. Non avrebbe dovuto permettergli di restare nello studio con loro, questo era certo. D’altronde non era un invitato, e che un assassino si affidasse alla fortuna di trovarne uno in macchina per giungere sul luogo del futuro delitto era impossibile. Era scontroso, bugiardo, ma non un omicida, e in una condizione come quella in cui si trovavano serviva tutto l’aiuto possibile, anche a un poliziotto.

« Oh, no, io non sono omofobo. Odio solo te » ribatté Bellocchio.

« Dovresti ringraziare che sono un professionista e penso al mio lavoro, o ti avrei già arrestato per aver impersonato un pubblico ufficiale ».

« Oh, sì, vorrei proprio vederti. Perché con la grande autorità ricevuta dall’Interpol non mandi qualcuno a vedersela con i cecchini là fuori? ».

Adrien inspirò profondamente in un tentativo di non perdere la pazienza, cercando di concentrarsi su un mantra che aveva sviluppato durante i suoi anni di addestramento e servizio. « Non so come funzioni in Sbruffolandia, ma credo tu non abbia messo a fuoco la situazione. Siamo ostaggi di tiratori al soldo di qualcuno che non si è fatto problemi a far fuori un uomo per estorcergli la posizione del tesoro. Potrebbero ucciderci in ogni momento ».

« E allora perché non l’hanno già fatto? ».

L’agente sembrò sul punto di controbattere, ma si interruppe. Solo ora si rendeva conto che non aveva una risposta. La parte peggiore fu sentire quel Warren scandire ad alta voce ciò che la sua mente aveva processato: « Se hanno già il tesoro perché non ci piantano un proiettile in testa e vengono a prenderselo? ».

Serena si intromise, almeno parzialmente mossa dall’intento di calmare gli spiriti « Dici che non sanno dove sia? ».

« Dico che De Loménie potrebbe essere stato più coraggioso di quanto non credessero. E dico che ora gli serviamo per capire dove l’abbia nascosto. Quindi la nostra morte non è una questione primaria, al momento ».

« Oh, questo è sollevante! » esclamò sarcasticamente Adrien « E allora parla, in cima alla tua lista cosa c’è? ».

Serena non poté esimersi dal pensare che Bellocchio stesse aspettando solo quella domanda, se non altro per quel “finalmente” pronunciato sottovoce. Doveva essersi preparato quel discorso da un po’ di tempo – o doveva averlo fatto molto in fretta –, perché aveva un ordine mentale invidiabile.

« Punto primo: nessuna di queste persone ha mai incontrato De Loménie prima d’ora, eppure li ha invitati qua. Questo è curioso. Punto secondo: nessuna di queste persone è moralmente integra. Persino Kayden ha ammesso di essere ricorso a metodi poco onesti per finanziare il chiosco nei mesi passati. Eppure il barone ha scelto proprio loro. Questo è curioso ».

Fece una pausa, aggirando la scrivania fino a giungere alla porta della stanza. Quindi si voltò a guardare negli occhi Serena, Laurent e Adrien uno alla volta. « E punto terzo, tutti loro sono Allenatori in possesso di Pokémon di tipo Fuoco, quindi tutti loro potrebbero aver commesso il delitto. Questo è curioso ».

La sua amica alzò lo sguardo pensierosa « In effetti quella parte è strana. Perché sarebbero tutti venuti qui con Pokémon di Fuoco? Per l’assassino è stato un vantaggio niente male ».

« Beh, immagino per via delle siepi del giardino ».

Bellocchio e Serena aprirono si girarono di scatto all’unisono verso il maggiordomo, che aveva pronunciato quelle parole come fossero un dato ripetuto mille e più volte. « Le cosa? ».

 

 

« Certo che sapevo delle siepi. Tutti noi penso sapessimo, lo diceva la lettera ».

Rieccoli nel salone. Sempre le stesse persone, sempre gli stessi discorsi. Era trascorsa giusto l’ora necessaria per gli interrogatori, e ciononostante avevano concluso poco o nulla. A quanto pare tutti concordavano con Marja: le siepi, qualsiasi cosa fossero, erano un concetto di dominio pubblico – anche per Adrien. Se c’è qualcosa peggiore di non capire qualcosa, pensò Bellocchio, è non capirla mentre altri la capiscono perfettamente.

« Potrei leggerla? » propose dopo una sosta ponderata « La lettera, dico ».

« Oh, dunque, certo… » annuì la donna, andando poi a frugare tra le tasche della sua giacca. Data la temperatura dell’ambiente in quel momento Bellocchio si sorprendeva che qualcuno potesse sopravvivere senza un soprabito più pesante, e lui non era certo freddoloso dopo aver vissuto mesi tra le gelide baite di Nevepoli. « Eccola! » esclamò Marja, porgendogli una busta consumata aperta con poca cura. L’uomo esaminò il foglio di carta in essa contenuto, scritto con grafia signorile e ordinata.

 

 

Gentile signorina van der Tas,

 

il mio nome è Étienne De Loménie e sono barone di Kalos. Lei non mi conosce, né è necessario che lo faccia.

Con la presente la invito a un rinfresco che si terrà in data 5 aprile 20-- alla mia residenza personale, il Palais Chaydeuvre in prossimità di Castel Vanità.

Essendo venuto recentemente in possesso di un’antica fortuna lasciata dai miei avi, ho preso la decisione di condividerla con un’altra persona poiché, sommata alle mie finanze attuali, risulterebbe eccessiva persino per me.

Anche altri ospiti saranno presenti in sua compagnia: consegnerò la ragguardevole somma a chi riterrò più meritevole. Le raccomando di portare con sé Pokémon di Fuoco, giacché potrebbero tornarle utili per le siepi in giardino.

 

Distinti saluti e buona fortuna,

E. D. L.

 

 

Leggerla non fu per nulla illuminante come si sarebbe atteso. Fondamentalmente elencava solo aspetti della vicenda che aveva già dedotto da solo o mediante i suoi dialoghi con i sospettati: nessuno conosceva il barone, tutti sono stati attratti dal tesoro e con ogni probabilità De Loménie era morto come spiacevole esito di una minaccia. Vi era però un dettaglio interessante: i Pokémon di tipo Fuoco erano esplicitamente nominati insieme alle siepi. Non si era trattata di una coincidenza, l’assassino sapeva che non sarebbe stato possibile rintracciarlo per il metodo di uccisione. E questo restringeva eccome il campo.

« Ed erano tutte così? » domandò a livello generale, senza selezionare nessuno in particolare.

I quattro indiziati, che di fatto adesso erano ridotti a tre per lo scagionamento di Adrien, fecero unanimemente cenno di sì con la testa. Quest’ultimo, di cui avevano deciso di comune accordo di rivelare l’identità ai restanti ospiti, soggiunse « Quella per Santiago era leggermente diversa all’inizio, specificava dove fosse la regione di Kalos. Per il resto era come quella lì ».

Altro punto curioso, se le parole dell’agente erano vere nessuna delle missive si era preoccupata di spiegare la natura delle siepi. Che fossero tanto famose da non necessitare delucidazioni? E in tal caso, possibile che qualcosa di tanto rilevante al tesoro fosse stato sotto il naso del mondo per tutto quel tempo? « Queste… siepi che cosa sarebbero? ».

Nessuno parlò per un tempo che parve eterno, e solo lì Bellocchio comprese: gli altri avevano ragionato esattamente come lui. Tutti avevano supposto che le siepi fossero note e non avevano chiesto, e di fatto nessuno sapeva nulla di esse se non che esistevano ed erano menzionate negli inviti. Se la sua conclusione era corretta, c’era un solo uomo là dentro in grado di aiutarli.

« Mi segua, signor Peace » disse Laurent a metà tra un’offerta e un ordine, sottolineando le parole con l’indice destro. Bellocchio assentì, borbottando sottovoce perché non l’aveva chiamato Green come da consenso. Avevano deciso di mantenere la farsa della sua identità di agente dell’Interpol, ma se avesse continuato a non impiegare il suo falso nome in codice non sarebbe durata a lungo.

In effetti, pur avendo precisato il destinatario, finì che l’intero gruppo andò dietro al maggiordomo. Questi li condusse al piano superiore, dove un ampio androne si affacciava mediante una serie di vetrate decorative sul maestoso giardino privato del Palais. Le siepi, inequivocabili nella loro perfezione matematica, erano quattro composizioni geometriche disposte quali angoli di un quadrilatero tagliato verticalmente e orizzontalmente da due sentieri da passeggiata perpendicolari. Erano inoltre presenti, ai vertici superiori e inferiori del parco, una coppia di statue di Pokémon che nessuno di loro aveva mai visto, una bianca e l’altra nera. Aveva cessato di piovere, ma il cielo era ancora carico di dense nubi grigiastre che certo non promettevano un sole da spaccare le pietre.

« Questo giardino fu costruito nel primo Novecento dal più noto avo del barone De Loménie, il granduca Chaydeuvre. Egli voleva essere in grado di vantarsi delle più belle siepi di Kalos, desiderando che anche chi volava sopra il suo maniero potesse ammirarne la grandiosità » narrò Laurent con la stessa flemma da professore universitario con cui aveva presentato le origini della villa al rinfresco « Purtroppo l’architetto Abatangelo, suo carissimo amico e incaricato di progettarle, morì senza completare l’opera, e la quarta composizione non fu mai ultimata per suo volere ultimo ».

« La quarta? » mormorò perplessa Charlotte.

Bellocchio analizzò le opere oggetto del discorso. Tre di esse erano di fattura decisamente più pregiata, e in due riusciva a riconoscere una forma definita: un Chandelure analogo alla Dama Cremisi e un Solrock. La siepe in basso a destra non gli diceva niente, ma dal momento che somigliava molto a un volto leonesco suppose dovesse trattarsi di qualche Pokémon di Kalos che ancora non aveva incontrato.

Altrettanto non poteva dire della quarta composizione. Anche se era possibile che corrispondesse a creature esistenti – un Bronzor o un Cryogonal, ad esempio –, l’impressione era proprio quella descritta da Laurent: un lavoro incompiuto, al momento nulla più di un labirinto imperfetto.

« Quando il granduca morì senza lasciare eredi diretti la proprietà del Palais passò alla Regione finché non fosse stato rintracciato il parente più prossimo, ma le straordinarie ricchezze di Chaydeuvre non furono mai rinvenute ».

« E nacque la leggenda di un tesoro nascosto » completò Serena.

Il caposervizio annuì a congratularsi con lei per la perspicacia « La stella di fuoco, lo chiamavano. Dal momento che il granduca aveva mostrato in vita una passione per i Pokémon di Fuoco molti iniziarono a pensare che la locazione del tesoro fosse da collegare a essi. Del resto è facile notare come le siepi complete rappresentino Pokémon di quella cerchia o affini a essa ».

Il ragionamento era logico, rifletté Bellocchio, ed era proprio per quello che non funzionava: raramente gli esseri umani seguono la logica. Quelle siepi non erano solo una testimonianza delle preferenze di un granduca, erano un vero e proprio enigma. E più di quello, erano la loro unica pista plausibile per trovare il tesoro di Chaydeuvre.

« Posso vederle più da vicino? ».

 

 

La giacca di Charlotte, per quanto autunnale, non l’aveva per nulla preparata al vento sferzante che aveva iniziato a spirare dopo il temporale – e pur avendo unanimemente optato per sfruttare un altro po’ il rinfresco prima di uscire, l’energia supplementare non pareva bastare. Nell’aria aveva iniziato a circolare odore d’ozono e sopra di lei i batuffoli di nuvole grigie slittavano ad alta velocità l’uno sull’altro, mutando di forma al battere di ciglio. Si trovava di fronte a una delle due sculture, quella la cui composizione in bronzo l’aveva tinta di un colore prossimo al nero – di converso l’altra, sita proprio davanti al retro del Palais Chaydeuvre, era tinta di un bianco marmoreo. Si era fermata al limitare settentrionale del giardino, separata dal mondo esterno mediante un’invalicabile cortina verdeggiante.

« È una bella statua, vero? Così realistica. Starei ore a guardarla, non trova? ».

Charlotte fu colta di sorpresa dalla voce giovanile dell’altra donna presente tra gli invitati. Il suo nome le pareva fosse Marja, ma non poteva esserne certa.

« Non mi piacciono molto le statue » rispose per inerzia « Troppo statiche. Le trovo noiose ».

« Non si direbbe, dato che da quando siamo usciti non fa che guardarla ».

« La statua è irrilevante. Questo è solo il posto più lontano dalla villa che posso raggiungere senza che un cecchino mi faccia saltare la testa ».

Marja rabbrividì, scossa dall’immagine di un proiettile che le trapassava il cranio. L’essersi ritrovata con tutti quei puntatori addosso le aveva lasciato una ferita psicologica difficilmente rimarginabile in qualche ora. Decise di allontanarsi il prima possibile da quell’argomento « Però è bella, come statua. È Zekrom, un Pokémon leggendario del folklore di una regione lontana ». Appena dopo precisò « Santiago l’ha chiesto al maggiordomo ».

« Vuoi dire Adrien ».

« Giusto, giusto. Sa, non mi sono ancora abituata a–– ».

Charlotte si voltò con uno scatto verso di lei, interrompendola. Sapeva benissimo che le rivolgeva la parola mossa da pietà, ed era meglio per entrambe che impiegassero meglio il loro tempo dato che sarebbero potute morire da un istante all’altro. « Non sei obbligata a fare conversazione ».

« Che cosa le fa pensare che io–– ».

Nuovamente la fermò prima che potesse concludere « Sono una galeotta, una truffatrice. Non mi sorprende che nessun altro mi abbia rivolto la parola dopo che l’avete scoperto ».

A quel punto si sarebbe aspettata che Marja, indignata, se ne andasse verso gli invitati civili. Invece la sua reazione fu l’esatto opposto: le parlò con tono candido e disponibile, anche se si avvertiva nelle sue sfumature quasi un intento di conversione « Lei è un essere umano. E poi io ero nell’esercito, ho combattuto. Ho ucciso. Crede di aver fatto di peggio? ».

« Ma ne sei uscita » evidenziò « Vuol dire che hai trovato nuovi valori ».

« Crede che ne sia uscita per mia volontà? ».

« Non è così? ». Charlotte emise un risolino sarcastico. Probabilmente ora le avrebbe raccontato di come era stata costretta ad andarsene per i metodi disumani che venivano usati. I soldati sanno essere stranamente prevedibili, pensò.

La giovane donna si irrigidì, punta nel vivo « No. Mi hanno riformata dopo che disubbidii agli ordini di un mio superiore durante un intervento per una protesta. I contestatori erano violenti e io per non uscirne ferita scappai ». La sua bocca esibì un sorriso sghembo, quasi autocommiserante « Un soldato codardo. Come crede mi abbiano trattato i miei cari amici commilitoni? ».

« Due reiette, allora » commentò Charlotte, e decise che forse poteva anche sopportare la sua compagnia. In fondo anche la fuga tentata poco prima aveva più senso ora: era una sua abitudine, un riflesso istintivo. « Scappare non è un disonore, Marja. Soltanto chi scappa sopravvive alla guerra ».

 

 

Poco lontano, Serena si stava dirigendo verso la quarta siepe, più simile in effetti a un labirinto che a una decorazione. Bellocchio aveva deciso di dedicarsi a essa in quanto era quella più enigmatica dato che non rappresentava nulla di manifesto, e se c’era una chiave possibile per il tesoro non poteva che trovarsi lì. Per la natura della struttura faticò a rintracciare il suo amico, ma alla fine lo scorse infilato in un cespuglio cui era giunto attraverso una piccola apertura tra gli arbusti. Era immobile, probabilmente intento a meditare.

« Ehi, ci sono novità? A nome di tutti ci stanno crescendo i ghiaccioli nel naso ».

L’uomo non mosse il capo di un millimetro, quasi avesse un vincolo al collo che lo incatenava ai frutici. La sua voce era frustrata, segno che la situazione era tutt’altro che sotto controllo. « Non rispondono a nessuno dei Pokémon a nostra disposizione, nonostante abbiamo un esemplare per ciascuno di quelli rappresentati dalle siepi. Non reagiscono in modo anomalo a piccoli incendi controllati, qualsiasi sia la tecnica da cui sono generati. Non hanno nulla di strano nei rami o nelle foglie. La loro disposizione non coincide con nessun allineamento o evento astronomico rilevante. Ciò che quei tre dannati Pokémon hanno in comune è imparare Giornodisole, che credo sia una gigantesca beffa nei nostri confronti visto il tempo che ci tocca oggi ».

Bellocchio non era nuovo ai lunghi discorsi, ma c’era qualcosa di diverso nel modo in cui l’aveva pronunciato stavolta. Se non fosse stato assurdo si sarebbe detto che quelle parole lo avessero sfibrato.

« Che cos’hai? ».

« Che vuoi dire? ».

Serena non voleva suonare critica, perché non lo era. La sua era la domanda di chi voleva comprendere perché sinceramente non ci riusciva. « Sei così scontroso. Prima te la prendi con gli aristocratici, poi con Adrien, ora con la vegetazione. Sembri trattare tutti come analfabeti ».

« Non volevo offenderti » si scusò lui, ma a entrambi fu chiaro che quella richiesta di perdono era tutto fuorché convinta.

« Non me, gli altri. Di solito ti diverti a fare qualsiasi cosa, oggi invece sembri un vecchio da casa di riposo. Ti ho visto più solare quando stavi per morire con Omastar ».

Bellocchio abbassò gli occhi per un istante, poi uscì dalla siepe con un’espressione austera in volto. La sua amica l’aveva già vista una volta, una settimana prima o giù di lì, quando a Luminopoli aveva dovuto soccorrere la giovanissima vittima del Dio. Non l’aveva mai inquadrata bene, ma qualcosa le diceva che presto ne avrebbe saputo il significato.

« Joanne ».

« Serena » lo corresse nuovamente « Devi decisamente migliorare con i nomi ».

Lui negò con la testa « È la bambina di cui ti parlavo, quella che ho trovato alla fine del bivio. La figlia del barone ». Osservò il giardino a trecentosessanta gradi, soffermandosi prima su Adrien e Kayden che passeggiavano impegnati in qualche discussione, poi su Marja e Charlotte che, immobili alla statua nera, ricambiarono l’occhiata. « Uno di loro oggi le ha rovinato la vita per sempre. E se c’è un verme che distrugge una bambina per ingordigia noi non ci divertiamo, Serena. Noi lo troviamo e gli facciamo passare l’inferno ».

Serena annuì, mostrando di comprendere perfettamente ciò che pensava; poi si sfregò le mani per il freddo e si scostò dagli occhi i capelli smossi dal vento, ancora umidi per la pioggia subita in mattinata. Alla salute certo non avrebbe fatto bene, tutto quel freddo, e infatti starnutì poco dopo.

In quel momento Bellocchio cambiò completamente piglio: indietreggiò spensieratamente e si appoggiò al rigido cespo in cui prima si era infilato. Quando parlò il suo timbro si era fatto più acuto, più simile al solito « Adesso mi dica, signorina Scarlett. Cosa le suggerisce il suo intuito riguardo al maggior indiziato tra i presenti? ».

La ragazza sorrise, afferrando che il suo compagno di viaggio cercava di alleggerire la tensione per sollevarle il morale. Decise di stare al gioco, confidando che entrambi avessero dedotto la medesima cosa « Beh, signor Green, pur dal mio infimo parere di donna, ritengo che sia poco saggio appiccare un fuoco se non si ha la certezza di poterlo spegnere ».

Lo sguardo che si scambiarono successivamente confermò che erano sulla stessa lunghezza d’onda. Erano in otto al momento al Palais Chaydeuvre, ed escludendo la figlia e loro due restavano cinque persone capaci di uccidere il padrone di casa. Ma di queste solo uno, una volta scatenato l’incendio, aveva un Pokémon in grado di evitare che esso si spandesse in tutta la villa: il proprietario di Carabaffe il Wartortle. Ovvero Jourdain Laurent.

 

 

Un sonnolento silenzio era calato sul Palais Chaydeuvre una volta sopraggiunte le tenebre. Dato che preparare una cena per tutti gli ospiti sarebbe risultato fin troppo ostico si era deciso di ultimare invece il rinfresco, abbondante più che a sufficienza per ricoprire il ruolo di pasto completo. Laurent si era poi occupato personalmente di ciascuno degli invitati, assicurandosi che si trovassero a proprio agio nelle camere a loro destinate. Era trascorso da diverse ore il momento in cui, terminati i servigi per la famiglia De Loménie, anche lui usava ritirarsi nella sua stanza. Invece si aggirava nell’ala sudovest della residenza con una candela ardente nella mano destra, incapace di dormire.

Avendo cura di produrre poca eco con i suoi passi scese una rampa di scale a chiocciola che conduceva ai sotterranei della villa. Lì, in un groviglio di corridoi privi di luce, si districò fino a raggiungere una porta che raramente aveva frequentato prima di allora: lo studio segreto del barone. Vi entrò con la massima attenzione, trovandolo esattamente come era stato lasciato: una scrivania con tre sedie da un lato e la poltrona del padrone dall’altro, tristi carte di un defunto sparpagliate sul ripiano – residui delle missive inviate proprio a coloro tra i quali si celava l’assassino – e tutto intorno scaffali, mille e più mensole che ospitavano la grandiosa collezione di francobolli che da sempre era il vanto degli avi del signor De Loménie.

Si adagiò alla postazione centrale, appoggiò il cero e rispettivo piattino e fissò gli occhi di fronte a sé, quasi stesse ascoltando il suo datore di lavoro come altre volte aveva fatto. Poi, senza preavviso, parlò a voce alta.

« Lieto che non abbia messo in disordine, signor Peace ».

Una seconda figura emerse dall’oscurità alla sua destra, lasciando che la luce della candela rischiarasse il suo volto: un uomo in completo marrone dai capelli arruffati e lo sguardo corrugato.

« È più attento di quanto dà a vedere » mormorò Bellocchio.

Laurent accettò il complimento senza scomporsi. Si aspettava che sarebbe stato lì, anche se era rimasto sorpreso dal fatto che fosse giunto nel luogo prima di lui. Come se già avesse saputo dove si sarebbe diretto. « Dov’è la signorina Williams? ».

« Ma non così attento ».

Il maggiordomo sobbalzò: la porta dietro di sé si era aperta nuovamente. Pensava di essersi assicurato di non avere nessuno alle costole, ma evidentemente la ragazza lo aveva seguito senza che se ne accorgesse visto che ora stava isolando lo studio, richiudendo senza un cigolio e spegnendo la torcia del PSS.

« Non c’è nessun altro » annunciò.

« Bene. Siediti pure, non siamo ancora entrati nel vivo ».

Serena prese posto alla sinistra di Laurent, che comunque non aveva ancora distolto lo sguardo dal trono del barone.

« Lei sospetta di me, vero? » interpellò Bellocchio. Questi non rispose, e con la coda dell’occhio si accorse che lo fissava enigmaticamente. « Ne avete parlato con il signor Adrien? ».

« Stamattina sospettavamo di te » disse finalmente. Il suo tono era imperscrutabile, privo di sfumature che tradissero ciò che pensava. Era davvero bravo.

« Ora non più? ».

« Questo dipende da te. Come mai avevi un Wartortle? Non fraintendermi, te ne sono grato. Senza di te avremmo avuto parecchi problemi con quel fuoco ».

L’uomo sorrise involontariamente all’idea che proprio Carabaffe avesse inoculato la pulce nell’orecchio. « Sospettate di me per questo? ».

« Risponda alla mia domanda. Wartortle, perché? ».

Il capo di Laurent si girò infine verso il giovane con cui parlava, accompagnando il gesto con un sospiro « Lei non sa la storia di Chaydeuvre, vero? ».

« Se intende raccontarmela prometto che stavolta ascolterò ».

Come desidera, pensò il servitore con ironia, e la sua mimica di presunzione fu un riflesso spontaneo. « La mia famiglia ha servito gli abitanti del Palais per generazioni, anche prima che il granduca Chaydeuvre gli desse il suo nome, quindi alcune leggende che circolavano nella servitù mi sono state tramandate per via orale. La più famosa è quella che riguarda gli ultimi mesi del granduca ».

Bellocchio si mostrò decisamente più interessato dell’occasione precedente, sistemandosi sulla sedia e sostenendo il mento con il palmo della mano.

« A quanto pare all’età di quarantotto anni, verso la fine della sua vita, egli cadde nella paranoia. Era convinto che qualcuno gli desse la caccia, si svegliava di notte gridando di uomini privi di volto e altre fantasticherie. Tutti pensavano che fosse impazzito, ovviamente. Poi, un giorno, nella sua stanza scoppiò un incendio ».

Serena sussultò. Cosa? Cercò gli occhi del suo compagno, trovando anche lui in trepidazione. Perché nessuno di loro due era venuto a sapere una notizia così importante prima? Questo significava che c’era molto, molto di più di quanto avessero sospettato dietro l’omicidio del barone De Loménie. Poteva persino trattarsi di una vendetta generazionale.

« Anche il caposervizio, un mio lontano parente, perse la vita nel tentativo di salvarlo. Da quel momento è tradizione che ciascuno di noi porti sempre con sé un Pokémon di tipo Acqua per far fronte all’evenienza ». Laurent fece una pausa per recuperare fiato, apparentemente non rendendosi conto di ciò che le sue parole avevano scatenato, poi concluse « Ma mi creda, signor Peace, che mai avrei pensato di dovervi fare davvero ricorso ».

A quel punto Serena si sarebbe aspettata di tutto. Che Bellocchio aggredisse il maggiordomo, che uscisse senza dire una parola. Ma mai che, con calma assoluta, riprendesse esattamente quelle che erano le sue intenzioni originarie.

« Mi ha convinto. Comunque non ce n’era bisogno, so già che non è stato lei a uccidere il barone ».

La sua amica inseguì nelle sue iridi qualcosa che la aiutasse a capire cosa stesse accadendo. Che Laurent fosse il colpevole non era stato il loro comune punto d’arrivo? Ma quel barlume di emozionalità che per un istante l’aveva colpito ora era svanito, trasformandolo di nuovo in un codice inaccessibile.

« Davvero? » reagì scettico l’interessato.

« Davvero » ripeté Bellocchio con un lieve sorriso « Sono stato nella camera di Joanne. L’arredamento non era niente male, ma era tutto vecchio. E la camicia da notte che indossava era troppo lunga per lei, come se fosse stata comprata usata o in saldo ».

Laurent si passò la mano dalla fronte al mento, asciugandosi il sudore. Ogni aspetto della sua gestualità implicava due parole: santo cielo.

« De Loménie non era più tanto ricco, ho ragione? ».

L’uomo confermò con rassegnazione, ben conscio che, come si suol dire, era stato colto in flagrante. « Voleva mantenere un’aura di dignità, credeva che il cognome che portava meritasse il lusso. Ma non poteva nemmeno permettersi uno staff decente. Non è stato dispensato nessuno per questo raduno, ci sono sempre stato solo io. Da almeno tre anni si rifiutava di accettare la situazione ».

« Anche a scapito di sua figlia ». Serena percepì nelle parole di Bellocchio di nuovo quello sdegno, quasi una traduzione dell’espressione severa notata nel giardino. Solo allora comprese perché si fosse mostrato tanto ostile nei confronti degli aristocratici: troppo orgoglio. Troppo malriposto senso dell’onore.

« Quella povera bambina vuole solo giocare con altri della sua età, ma il barone ha insistito perché vivesse come una baronessa ».

A quel punto la conseguenza susseguente parve ovvia a tutti, chiara destinazione del percorso mentale seguito. « Non c’è nessun tesoro, vero? ».

« Signor Peace, non prendiamoci in giro. Se anche uno sperperatore come il granduca avesse lasciato un qualche tipo di tesoro, di sicuro il barone De Loménie non l’avrebbe mai condiviso con nessuno vista la sua situazione economica ».

Bellocchio si alzò in piedi, iniziando a passeggiare per lo studio per sgranchirsi le gambe, sfiorando i raccoglitori impolverati e le pile di buste sulle scaffalature a muro « È la conclusione a cui sono giunto. Il problema è che c’è una grossa falla logica in questo ragionamento. Perché il barone avrebbe invitato quei quattro alla villa se non era in possesso di nessun tesoro? ».

« Tre » disse Serena.

« Come? ».

« Gli invitati sono tre ».

L’uomo aggrondò le ciglia, poi ridacchiò disorientato « No, no, sono quattr–– Dunque… Marja, Charlotte, Adrien e Kayden. Quattro, no? ».

« Oh » la ragazza parve rendersi conto solo ora del conto errato. Il fatto che la cosa l’avesse sorpresa era di per sé motivo di preoccupazione. « … E allora perché ha spedito solo tre lettere? ».

« Che cosa stai dicendo, Serena? ».

« Guarda i francobolli sulla scrivania. Ne sono stati usati solo tre ».

Bellocchio si precipitò sul tavolo, esaminando il foglio di bolli da cui effettivamente mancavano solo tre gommati. Subito si abbassò a terra e passò al setaccio il pavimento, e anche il cestino per fortuna semivuoto, ma l’impossibile fu confermato: non c’era traccia di un quarto. Quando si rialzò, il suo aspetto fu più eloquente di qualsiasi parola avrebbe potuto pronunciare.

« Ma non è possibile! » protestò Laurent a gran voce « Ho controllato personalmente, tutti gli invitati avevano la loro lettera! ».

Serena sgranò gli occhi alla realizzazione, e così fece il maggiordomo di fronte all’evidenza. Ma fu il terzo tra loro a trovare il coraggio di affermarlo.

« Allora vuol dire che qualcuno ha falsificato la sua ».

 

 

Joanne si svegliò di soprassalto. Le capitava spesso, specie nelle notti calde come quella, di avere sogni disturbati e destarsi in preda al panico. Ma questa volta era diverso, questa volta non stava sognando nulla. Il suo respiro, in compenso, era rapido e nervoso, e si sentiva paralizzata nel letto a baldacchino. Non riusciva a vedere al di là delle tende a causa del buio, ma era certa che la sua porta si fosse aperta.

« C’è nessuno? » tartagliò nel terrore, non trovando il coraggio alzarsi. Nessuna risposta. Per un breve, rassicurante istante pensò di essersi immaginata tutto. Oppure stava ancora sognando, le era già successo una volta. In ogni caso, nulla di cui preoccuparsi.

Poi udì la porta chiudersi.

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** 1x25 - La stella di fuoco ***


Untitled 1

PREVIOUSLY ON LKNA: nella prosecuzione delle indagini sull’omicidio del barone De Loménie, Bellocchio e Serena scoprono che Santiago, il cui vero nome è Adrien James, è un esponente della Polizia Internazionale. Non è l’unica rivelazione della giornata: il tesoro oggetto della contesa, denominato nelle leggende “stella di fuoco”, pare essere legato alle siepi del giardino privato del Palais, tutte raffiguranti Pokémon di tipo Fuoco a parte una.

Attraverso una conversazione con il maggiordomo Laurent emergono altre agghiaccianti verità: anche il granduca Chaydeuvre è perito in un incendio decenni fa, e soprattutto De Loménie versava all’insaputa di chiunque in condizioni economiche non brillanti, il che significa che se avesse casualmente rinvenuto una somma di denaro non l’avrebbe condivisa con nessuno. Non c’è nessun tesoro.

Riflettendo sulle implicazioni di ciò, Serena fa notare che i francobolli usati per spedire gli inviti sono tre, contro quattro ospiti riscontrati in possesso della lettera. Uno di loro deve averla falsificata, e proprio in quel momento qualcuno entra nella camera della piccola Joanne, figlia del barone.

 

 

 

 

 

 

La Sala Lettura, nome di fantasia assegnato da Marja a un ambiente senza nome, era un boudoir allocato al primo piano del Palais Chaydeuvre, uno studio circondato da scaffali zeppi di libri e periodici di ogni genere. La donna, però, l’aveva scelto per tre fondamentali ragioni. Numero uno: era praticamente insonorizzato, quindi nessuno l’avrebbe sentita confabulare con Charlotte nel cuore della notte. Numero due: era caldo e confortevole, e dato l’innaturale gelo che perdurava all’esterno faceva assai comodo. Numero tre: era posizionato in fondo a un corridoio, quindi nessuno le avrebbe disturbate accidentalmente. L’unico problema che poteva sorgere era il fatto che non fosse strettamente isolato: una porticina lo connetteva a un androne buio che conduceva chissà dove. A parte quello era perfetto per conversazioni notturne.

Il loro dialogo di fronte alla statua di Zekrom le aveva avvicinate più di quanto si sarebbero attese, il che si era aggiunto ad affinità pregresse: entrambe non riuscivano a dormire e, dopo che il maggiordomo aveva liberato la zona, entrambe avevano lasciato le loro camere e ora sorseggiavano da flûte cristallini lo champagne avanzato dal rinfresco.

« Perciò, vedi… Come… I ricchi non sono un buon partito, ecco. Penseranno sempre che ami i suoi soldi e non lui » concluse il discorso la più giovane delle due, avvinando il vetro mentre parlava. L’aveva sempre visto fare a sua madre, quindi a qualcosa doveva servire.

« Chissenefrega, intanto hai i soldi! » esclamò Charlotte, e le risate che seguirono sovrastarono per un breve tempo il pianoforte che la faceva da padrone nella stanza.

Avevano sostato in precedenza all’ingresso per una breve tappa, il tempo per prelevare bottiglia, bicchieri e grammofono per aggiungere un sottofondo musicale. Il suono classico che risuonava accogliente nella sala fungeva come ottima distrazione dalla finestra con le tende tirate al di là della quale i cecchini attendevano solo un passo falso del più sprovveduto del gruppo. Eppure, forse per l’alcool o per l’accattivante discussione, nessuna delle due vi aveva pensato nemmeno un momento da quando si trovava in quella stanza.

« Non si può togliere questo piano? È sempre uguale! ».

« Figurati se so come si usa un giradischi! » reagì Marja sghignazzando.

« Oh, è facile… In pratica… prendi il disco e–– ».

La spiegazione di Charlotte fu bruscamente interrotta: la sopraccitata porta dalla destinazione ignota si spalancò con un colpo secco e ne fuoriuscì un uomo. Né l’una né l’altra donna inquadrarono però la sua identità: la loro attenzione fu decisamente focalizzata sulla pistola che questi stringeva nella mano destra.

« NON MUOVETEVI O SPARO! ».

 

 

 

Episodio 1x25

La stella di fuoco

 

 

 

« Due più tre… Cinque! Uno, due… No, Viale dei Giardini no! ».

Joanne vagliò la sua pila arruffata di cartemonete fac-simile e assemblò i 500 P per l’imposta di transito sul terreno, spostando solo successivamente la pedina corrispondente. « Ti odio ».

Kayden ridacchiò divertito dal lamento scherzoso della bambina. « Va bene, tocca a me » annunciò allungando il braccio per prendere i dadi.

Di colpo l’uscio della camera si spalancò con un rombo e un ben noto individuo in completo marrone si gettò sull’uomo atterrandolo, scomponendo nel processo la plancia di gioco su cui il match di Monopoli si stava svolgendo. Una ragazza bionda seguì a ruota e si diresse verso Joanne, circondandola con le braccia e prendendola da parte contro la parete, quasi a porsi a scudo tra i due partecipanti. L’ultimo a entrare fu il maggiordomo Laurent, rimasto indietro in quanto non più in grado di correre come nel fiore degli anni.

« NO, CHE STATE FACENDO? » protestò la baronessina a gran voce « Avete rovinato tutto! ».

Cosa?, pensò Bellocchio voltandosi verso di lei. L’attimo di distrazione seguente bastò a Kayden per sferrargli un pugno allo zigomo destro e ribaltarlo, liberandosi così dal blocco. « Si può sapere che ti prende? » gli domandò con veemenza.

« Credo che abbiamo commesso un grosso errore » commentò Serena dopo un breve silenzio, una volta che ebbe analizzato due volte la scena in cui si erano intromessi.

Joanne, approfittando del momento di sconcerto, la aggirò e si trascinò al tabellone verde acqua rovesciato, con casette rosse e carte Probabilità e Imprevisti sparpagliate sul pavimento. Bellocchio si liberò dalla pressione del suo oppressore e, incontrando gli occhi della piccola, li vide sul punto di piangere.

« State… giocando? ».

« Stavamo giocando » precisò Kayden « prima che qualcuno ci interrompesse! ».

Laurent si avvicinò a Joanne per consolarla, prendendola da parte e sedendosi sul letto a baldacchino. Contemporaneamente Bellocchio scattò in piedi, per nulla pronto a desistere dopo le ultime scoperte. « Ah, davvero? E come sapeva di questa stanza? ».

« Ho visto te e la signorina Scarlett venire da qua dopo l'incendio, volevo sapere cosa c'era ».

Il finto agente dell’Interpol a quel punto parve a corto di argomentazioni, e forse aveva per il ritmo concitato degli eventi dimenticato perché si trovavano lì prima di tutto. In suo aiuto giunse Serena « Bellocchio, i francobolli ».

« Bellocchio? » Kayden aggrottò la fronte « Ora hai tre nomi diversi? ».

« Giusto! » esclamò l’interessato, ignorando l’interpellanza « Kayden, mi dia la sua lettera. Busta inclusa ».

La reazione dell’uomo fu esitante, ma certo non poteva tirarsi indietro. Sfilò dalla tasca posteriore l’oggetto della disputa, in condizioni non perfette ma senz’altro leggibile. Dopo una rapida disamina Bellocchio trovò ciò che cercava. O per meglio dire non trovò quello che cercava.

« Nessuna affrancatura. È falsa ».

Lo sguardo di Kayden raggelò e le sue mani iniziarono a strofinarsi l’una contro l’altra per il nervosismo. Il suo interrogatore colse quella sfumatura e lanciò un’occhiata a Serena per dirle ti tenersi pronta se avesse azzardato una fuga.

Invece non vi fu nessun tentativo, nessuno scatto. « C'è una spiegazione, glielo garantisco ».

« Ora mi dà del lei? ».

« Il punto è–– ».

Bellocchio senza preavviso si portò l’indice alla bocca « Sssh ».

« Il–– ».

« Sssh! » ripeté più aggressivo, estendendo stavolta il gesto a tutti i presenti. A piccoli passi iniziò ad aggirarsi nell’ambiente, girando la testa a scatti e facendo roteare le pupille in cerca di qualcosa. Anche Serena se ne accorse a quel punto, e iniziò a seguire la posizione dell’amico.

Un sibilo. Tra le mura risuonava una specie di disturbo acustico, un rumore statico impercettibile. Dopo un’analisi mentale l’uomo stabilì che proveniva dalla sezione sinistra della stanza, e un’altra perizia consecutiva ne determinò l’altezza.

Era la radio. Vi si avvicinò per sicurezza, ma i dubbi erano calati molto prima: era decisamente quell’apparecchio a produrre il suono. C’era solo un problema con questa teoria, ovvero che la manopola era impostata su spento.

« Cos’è? » chiese Serena corrucciata.

« Strano. È un'interferenza, come se qualcuno stesse telefonando da qua ».

Non era l’unica opzione, però. La corrente indotta poteva essere prodotta da qualsiasi segnale fosse trasmesso nelle vicinanze. Un cellulare, un messaggio, oppure… ?

D’un tratto la porta si aprì nuovamente con un fracasso infernale e Adrien, il piede ancora alzato dopo averle sferrato un calcio, la varcò con un balzo. Prima che chiunque potesse parlare levò il braccio di fronte a sé, rivelando stretta tra le dita una pistola semiautomatica USP .45 pronta a fare fuoco.

 

 

« NON MUOVETEVI O SPARO! ».

Il corridoio cui la porticina della Sala Lettura dava accesso non era altro che un collegamento che faceva capolino a breve distanza dalla camera della figlia del barone. Dopo l’immotivato raptus ostile di Adrien, tutto il gruppo lo aveva inseguito proprio attraverso lo stretto andito per terminare l’itinerario esattamente nell’ambiente dove Marja e Charlotte stavano parlottando rilassate.

Adrien trascinò Kayden al centro del salotto mentre quest’ultimo cercava invano di prendere parola. Le due donne scattarono in piedi e si allontanarono rapidamente dalle loro poltrone, addossandosi al muro nel terrore: sotto i loro occhi l’agente stava ora puntando un revolver alla nuca dell’uomo dopo averlo costretto a voltarsi e ad alzare le mani. Bellocchio entrò in quel momento dalla porta e si fiondò in avanti, ma Adrien gli rivolse contro l’arma e lo minacciò stridente « Nemmeno tu ».

Serena e Laurent, spossati per la prima corsa nella camera di Joanne, giunsero poco dopo con il fiatone per assistere alla scena; la bambina invece era rimasta sul suo letto per ordine dell’anziano caposervizio. Escludendo lei, ogni attuale residente del Palais Chaydeuvre si trovava nella medesima stanza.

« Santo cielo, Adrien, che cosa fai? » gli domandò Marja.

Lui la ignorò freddamente, portando tutta la sua attenzione a Kayden. Si compiaceva immensamente nel vederlo tremare come una foglia dopo che lo aveva strascicato per mezza villa in cerca degli altri invitati. Tutti dovevano vedere quel ripugnante criminale implorare pietà. « Dimmi dov'è il tesoro ».

« Lasciami parla–– ».

« BASTA! DIMMI DOV'É! » gli sbraitò. Ne aveva abbastanza dei suoi tentativi di discolpa, e non era mai stato un uomo paziente.

« Per favore, Adrien, ascoltami! Non c'è nessun tesoro! » lo invocò Bellocchio, cercando di farlo ragionare. Aveva perso il filo degli avvenimenti, ma era evidente che quel poliziotto in erba sospettava di Kayden e i nervi lo stavano tradendo.

« Davvero credi al maggiordomo? ».

Quelle parole fin troppo precise instillarono un dubbio atroce nella mente del giovane. Sì, Laurent gli aveva detto del tesoro, ma solo in presenza sua e di Serena. Se Adrien lo sapeva, allora c’era una sola ipotesi che collimasse con l’interferenza alla radio.

« Da quanto mi hai messo addosso la microspia? ».

« Da abbastanza per sapere che non ti chiami né Warren né John » ribatté quello con un sorriso, mentre non muoveva di un centimetro la canna della USP dal cranio del luminopolese « Rispondimi, Bellocchio o qualunque sia il tuo vero nome: se non c'è un tesoro perché De Loménie ci ha convocati qui? ».

L’uomo tentennò. Non poteva contrattaccare in nessun modo perché aveva ragione, e lui stesso l’aveva notato: quella storia non aveva il minimo senso. « Non lo so ».

« Allora direi che hai fallito. Ora, se non ti spiace, si fa a modo mio ».

« Tu non capisci! » protestò Kayden, ma la sua voce andò a sbattere contro il solido muro mentale eretto dal suo aguzzino.

« Ho guidato io il gruppo di ritorno dalla camera del barone dopo l’incendio, e non ho visto nessuno uscire dall'altro corridoio. Quindi di certo non puoi averlo visto tu, quindi la storiella di come hai scoperto la camera della bambina cade miseramente. Hai studiato la vita dei membri della famiglia e pianificato il loro omicidio, e per questo sarai arrestato. Ma prima rispondi » Adrien fece una pausa dopo l’esposizione, quindi ripeté « Dov'è il tesoro? ».

« Io non stavo cercando di uccidere nessuno! ».

« RISPONDI! ».

Bellocchio non era più certo nemmeno di che tasti andare a toccare, il che per uno come lui era una novità. Se voleva avere speranze doveva prima capire il suo avversario. « Cosa speri di ottenere in questo modo, Adrien? Non è così che agisce l'Interpol! ».

« Chissenefrega dell'Interpol, ci sono cose più importanti nella mia vita! » replicò risoluto l’agente, il suo capo che scattava tra i suoi due interlocutori ignorando gli altri astanti, i quali non facevano molto per farsi notare « Mia madre sta morendo, e non ho alcun modo di pagare le sue cure senza quei soldi. Credi che mi importi qualcosa della vita di un assassino? ».

La madre. Ora si ragionava, ora poteva fare qualcosa di più. Bellocchio alzò le mani in un invito alla calma, comprendendo che ciò che serviva a quel ragazzo confuso era ragionare. « Ascolta, io so di ciò che parlo, ho letto le memorie di Chaydeuvre. Non ha mai lasciato nessun tesoro! Spendeva tutto, era sempre sul lastrico! Questa storia è nata solo dai suoi servitori, non c'è nulla di vero! ».

Seguì un silenzio che avrebbe potuto essere di appena qualche secondo, ma a chiunque stesse partecipando alla scena parve infinito. Solitamente quelle interruzioni erano segno di un’opinione che veniva riconsiderata. Ma non quella volta: Adrien riprese con un tono ancora più gelido e spazientito del precedente « Dieci secondi. Parla o ti ammazzo ».

Tutti sobbalzarono colti dal panico, e persino lo stesso uomo che a breve avrebbe ricevuto una pallottola nella tempia sembrava essersi arreso. Come poteva anche solo pensare che uno che non reagiva sapesse qualcosa?

« E cosa pensi di ottenere uccidendolo? » lo interrogò Bellocchio, l’unico che ancora sperava di poter fare qualcosa.

« Giustizia, come minimo. Non pensare di essere l'unico a cui importa della bambina. Cinque secondi ».

« Questa non è giustizia! ».

« Davvero, Bellocchio? E la tua idea di giustizia qual è? Lasciare che questo assassino viva, se la cavi al processo e se la spassi con il suo tesoro estorto al barone? ». La contestazione irruente del poliziotto fece perdere definitivamente le speranze anche all’ultimo dei combattenti nella stanza. Forse poteva convincere un civile dubbioso a non sparare, ma non un soggetto addestrato e, più di ogni altra cosa, convinto fino all’osso di avere ragione. Le persone più pericolose sono quelle convinte di essere degli eroi.

« IO NON SO DOVE SIA IL TESORO! » gridò Kayden in un ultimo, disperato tentativo di salvarsi.

« Tempo scaduto » rispose asciutto Adrien, premendo il grilletto senza remore.

Ma il suo indice andò a vuoto. Perplesso abbassò lo sguardo e sgranò gli occhi sbalordito: il suo revolver era scomparso proprio sotto al suo naso. Anche gli spettatori rimanenti furono attoniti di fronte all’evento e iniziarono una silenziosa ricerca dell’arma con i loro sguardi. Il primo a ritrovarla però fu Bellocchio, in quanto a differenza degli altri sapeva dove indagare: non nei luoghi, ma nei volti.

La pistola non era semplicemente stata sottratta, era svanita. E ora era ricomparsa fluttuante sopra la bianca e candida sagoma di un piccolo Ralts, avvolta da un alone rosato.

« Perché in questi momenti tutti si scordano di essere Allenatori? » domandò Serena con falsa modestia, la Poké Ball ancora stretta in mano dopo aver invocato Karen in loro aiuto ordinandole di teletrasportare lì l’arma. L’intuizione le era venuta in mente stranamente tardi, ma quantomeno prima che il danno fosse irreparabile.

Adrien a quel punto si scagliò su Kayden a palmi aperti, pronto a strangolarlo, ma Bellocchio fu pronto a rispondere e lo caricò in corsa sospingendolo da un lato prima che raggiungesse il bersaglio. Il poliziotto, sapendo ormai di non avere nulla da perdere, cercò di sferrare un pugno all’uomo in completo, ma quest’ultimo lo bloccò facilmente e se ne liberò lasciandolo ruzzolare a terra.

« È UN ASSASSINO! » lamentò esasperato il giovane. Tutti gli si erano schierati contro nonostante lui fosse il paladino dell’onestà, e ciò andava oltre la sua comprensione.

« E TU LO STAVI PER DIVENTARE! » ribatté Bellocchio soffermandosi dopo per riprendere fiato dopo la successione concitata degli ultimi eventi. Laurent fu il più sbigottito dalla brutalità dello sfogo, perché nonostante tutto quell’individuo aveva sempre mantenuto i nervi saldi. « Non sfidarmi, Adrien James. So essere un uomo molto peggiore di quello che hai conosciuto finora ».

Il suo sguardo andò alla cintura, e sul passante notò infine la microspia magnetica che, durante il loro dialogo serrato nello studio degli interrogatori, l’agente doveva avergli apposto a sua insaputa. Mentre gettava a terra la cimice e la schiacciava con la suola, Adrien era steso al suolo in lacrime.

« Ti prego… Io voglio solo che mia madre non muoia… ».

« Sei un impiegato pubblico, comportati come tale ».

« Ci tiene ostaggi! E tu lo difendi! ».

« Non abbiamo le prove. Sapeva dov'era la camera di Joanne, ma ci stava solo giocando ».

Le ultime parole scioccarono Adrien, che aveva tagliato il collegamento ben prima che i tre facessero irruzione nella camera della baronessina. Cionondimeno il turbamento durò una manciata di secondi, al termine dei quali obiettò « E chi altro potrebbe essere stato? La sua lettera era un falso! ».

Bellocchio esitò, nuovamente catturato nel colossale dubbio già emerso prima. « Io… Io non lo so, non… ».

… Oppure sì? Forse il solo problema era che non ci aveva riflettuto abbastanza. Come un geologo non aveva ancora scavato a sufficienza per rinvenire il prezioso minerale. L’incongruenza si era palesata in svariate occasioni: De Loménie non avrebbe mai diviso con nessuno un tesoro se ne avesse avuto uno, e non c’erano dubbi a riguardo; eppure li aveva invitati lì, e anche questo era indiscutibile. Avrebbe dovuto focalizzarsi su ciò molto, molto prima, anziché trascurare la problematica bollandola come marginale. Eccola, ora la soluzione era ovvia davanti ai suoi occhi.

A passi lenti Bellocchio si avvicinò a Kayden, perforandolo con un’occhiata mentre quello non fiatava. Si chinò davanti a lui e di colpo, senza che nessuno se lo aspettasse, gli assestò un violento schiaffo sulla guancia destra. Laurent provò a intervenire, fermato però da Serena che, pur non comprendendo la situazione, era certa che il suo amico avesse avuto le sue buone ragioni. O meglio, certa non era il vocabolo più adatto. Lo sperava, più che altro.

« Lei mi disgusta » gli sussurrò l’uomo sottovoce, con un tono pregno di repulsione senza riserve « Poteva finirla in qualunque momento, e l'ha protratta per soldi. Sua figlia non la merita ». I loro sguardi si incrociarono scambiandosi informazioni silenziose; dopodiché Bellocchio si alzò in piedi adirato.

« Sapevo che non mi avrebbe sparato, gli serviva troppo il tesoro. Io so capire le persone ».

« Adrien aveva premuto il grilletto. Stare barricato come un eremita nel Palais ha fatto male anche a lei, barone ».

Serena trasalì. Si sarebbe chiesta se avesse sentito bene, ma il suo udito era perfetto. « Barone? ». Mentre gli altri palesavano un’uguale reazione, il maggiordomo accanto a lei chinò il capo.

« Sì. Kayden è Étienne De Loménie ».

Un silenzio etereo calò sulla stanza. L’indiziato, che ora aveva su di sé gli occhi di tutti, si issò sulle gambe accettando la sua condizione: era il momento della sincerità. Le susseguenti parole avrebbero provocato un putiferio.

« Sì, è vero. Sono io ».

Chiunque altro si sarebbe concesso un minuto per assimilare la rivelazione, ma essendoci arrivato già da un minuto o più Bellocchio non ne sentì il bisogno. Del resto, lasciarsi sconvolgere non era decisamente cosa da lui. « Direi che adesso può anche dirci cosa sono veramente i cecchini ».

« Fulmisguardi degli Espurr del Percorso 6. Jourdain mi ha aiutato a catturarli e addestrarli per l'occasione ».

Laurent annuì, e nel gesto si notava una punta di vergogna. Serena comprese che Jourdain doveva essere il suo nome, esattamente come il suo datore di lavoro lo avrebbe chiamato. Kayden era davvero il barone. Questo avrebbe spiegato perché nessuno degli ospiti lo conoscesse di persona: era stato necessario da parte sua selezionare gli eleggibili tra completi estranei per potersi amalgamare efficacemente tra loro.

E ciononostante non riusciva a crederci. « Ma… Perché… ! Perché si è finto un invitato? ». Più cercava di capirci qualcosa, più trovava incongrua la circostanza.

« Pensaci bene » la sollecitò direttamente Bellocchio « Se escludiamo lui gli invitati erano un PR dalla vita sregolata, una truffatrice e una soldatessa priva di morale e disoccupata. Tutta gente che avrebbe fatto di tutto per i soldi ».

La ragazza mantenne le sue perplessità, ma un’altra persona non fu altrettanto torpida a cogliere l’inferenza del giovane: Charlotte. « Voleva che fossimo noi a trovare il tesoro! ».

« Scusate, mi sono persa… » intervenne Marja « La lettera diceva che l'aveva già trovato, no? ».

De Loménie negò con il capo « Non ho la minima idea di dove sia. In effetti non sapevo nemmeno se esistesse. La mia speranza era che fingendomi morto vi sareste attivati per cercarlo, considerato quanto vi serviva ».

« E perché non l'ha cercato direttamente lei? ».

« Crede che non ci abbia provato? Ho passato sei mesi a setacciare da cima a fondo questa villa, cercando di capire cosa volessero da me quelle siepi ».

« Lei è pazzo » dichiarò senza alcuna insicurezza Adrien, rimessosi in sesto dopo la colluttazione anteriore « Quando si è ritrovato senza nulla in mano la sua prima idea è stata riunire dei poco di buono sperando che loro riuscissero dove lei aveva fallito? ».

« Ero disperato. Volevo solo un futuro migliore per Joanne ».

« No, no, non ci provi. Non provi a giustificare la sua INGORDIGIA » lo assalì Bellocchio in uno scatto d’ira, facendolo arretrare nello scombussolo « nel nome di sua figlia! ». L’accesso rabbioso atterrì anche tutti i presenti nella Sala Lettura, che non osarono interromperlo per paura di rimanerne vittime a loro volta. « Lei non ha capito assolutamente nulla del granduca Chaydeuvre, come tutta la sua famiglia. Lui era il migliore dei vostri ».

« C-che cosa significa? ».

« Vada da Joanne, signor De Loménie. Le racconti come si è finto morto nel nome del denaro. Le dica che non la merita. Le dica che nonostante tutto le vuole bene, anziché nascondersi dietro la maschera di Kayden per giocare a Monopoli. E dopo che l'avrà fatto la copra per bene e la porti nel giardino. Solo allora, forse, le dirò dove si trova il tesoro ».

Il respiro pesante del barone echeggiò nell’ambiente al ritmo dei suoi passi mentre si dirigeva verso la porta da cui poco prima era entrato sotto copertura, ostaggio di Adrien James in pericolo di vita. Laurent si offrì di accompagnarlo, ma lui alzò la mano a intendere che era una cosa che doveva fare da solo. Per la prima volta in vita sua si era reso conto di aver sbagliato, e ora aveva l’obbligo di rimediare.

Serena si accostò a Bellocchio, assicurandosi di essere fuori dal rischio di un’eventuale aggressione nervosa. « Credevo non ci fosse nessun tesoro » osservò dubbiosa.

L’uomo, anziché ignorarla o trattarla con presunzione, inaspettatamente le rivolse uno dei suoi sorrisi sornioni, di quelli che gli si stampavano sulla faccia quando risolveva un enigma. « Oh, Serena… Davvero non l'hai ancora capito? ».

 

 

Le nuvole che avevano ottenebrato il cielo durante la giornata si erano finalmente dissipate dopo il calar del sole, cedendo spazio a un limpido firmamento stellato di mezzanotte. Bellocchio, recuperato il suo cappotto, si trovava nel cortile retrostante del Palais Chaydeuvre, e più precisamente sulla via centrale che tagliava il labirinto che fungeva da quarta composizione botanica. Strisciava avanti e indietro sullo sterrato umido, quale rapace a caccia del suo bottino. Serena, infreddolita, era appoggiata a una delle siepi che delimitavano il dedalo di foglie a osservarlo. Quando finalmente il suo amico si riportò in posizione eretta, prendendo a colpire con il tacco della scarpa il suolo, pensò di rompere il silenzio che le era stato richiesto per facilitare il pensiero e porre la domanda che teneva per sé da un po’.

Sfortunatamente fu anticipata da Étienne De Loménie, che si era appena accostato al cespuglio dall’esterno « Ho fatto! E ora? ».

Bellocchio non si voltò nemmeno verso di lui, continuando a lavorare in quella che sembrava un’operazione centralizzante « Com'è andata? ».

« Lei non… ». Si interruppe e rivolse uno sguardo in lontananza alla figlia, alla quale aveva raccomandato per sicurezza di aspettarlo non molto distante. Anche se non voleva ammetterlo a se stesso, temeva che certe azioni recenti di cui si vergognava venissero a galla nel dialogo. « Non ha capito perché ne facessi una questione importante. Pensava stessimo... giocando ».

L’uomo spartì un risolino appagato con Serena, la quale notò che non pareva più furibondo come prima. « Come ho detto, non la merita. Ora perché voi due non ci raggiungete qui al centro? ».

« ... Raggiungervi? Nel senso... ».

« Ha capito benissimo. Non vi preoccupate, non potremmo iniziare senza di voi ».

Il barone si allontanò verso Joanne, indirizzandosi poi nella direzione dell’ingresso del labirinto. Serena trovò finalmente il tempo di parlare al suo compagno di viaggio, per quanto farlo mentre il suo obiettivo si muoveva costantemente fosse cervellotico. Quantomeno la sua iperattività si manifestava nuovamente, il che la confortava in un certo senso. « Senti... ».

« E tutto è pronto! Scusa, dicevi? ».

 « Hai parlato delle memorie di Chaydeuvre prima, ad Adrien ».

« Sì, l'ho fatto. Non te l'avevo detto? » la interpellò Bellocchio. Quando la ragazza reagì con un’efficiente espressione che sostituiva adeguatamente un “tu che dici?”, il giovane si batté la mano sulla fronte « Mi sono confuso, ne avevo solo parlato a voce alta tra me e me! Ho letto il contenuto delle buste primo giorno mentre aspettavo che tu e Laurent arrivaste allo studio privato ».

« Mi sono persa a buste ».

« Vediamo… Hai presente che il granduca faceva collezione di francobolli, no? ».

Serena espose un cenno affermativo « Ho visto i raccoglitori ».

« Tra i collezionisti c'è questa usanza di spedire a se stessi delle buste con francobolli annullati nel giorno stesso dell'emissione. Buste primo giorno, appunto ».

« Ma perché... Ah, ho capito! Come quelli che il giorno d'uscita del PSS 5 sono andati a mezzanotte ai negozi! ».

« Esatto! » enfatizzò Bellocchio incoraggiante, salvo poi ritrattare « No, aspetta, non c'entra niente, però se ti aiuta a capire il concetto… ».

« Ma non capisco cosa c'entri con le memorie ».

« Il valore collezionistico è dato solo dalla busta, ciò che c'è dentro è irrilevante. Nello specifico Chaydeuvre scriveva delle memorie e se le spediva per poi custodirle e rileggersele di tanto in tanto ».

« E non poteva semplicemente... Tenere un diario? ».

L’uomo ci ragionò, convenendo poi gestualmente che aveva ragione « Sono aristocratici, devono sempre fare le cose in grande ».

« E che cos'hai letto nelle lettere? ».

Bellocchio si rabbuiò d’un tratto, eppure pressoché senza soluzione di continuità « Chaydeuvre era un uomo molto solo. I suoi soldi l'avevano costretto all'isolamento per non dover avere a che fare con dei profittatori. Negli ultimi mesi della sua vita arrivò a considerarli un peso e fu determinato a liberarsene ».

« E quindi li nascose dando origine al tesoro ».

« Eh, quasi ». Prima di articolare meglio quella risposta bizzarra, il giovane sogguardò De Loménie e Joanne, i quali erano appena sopraggiunti dalla sezione inferiore della struttura arborea. Immediatamente andò loro incontro, con tutta l’aria di voler affrettare i tempi « Oh, siete stati veloci! ».

« Conosciamo bene il labirinto, ce la portavo quando era ancora piccolina » spiegò il barone.

« Ci sarà tempo per parlare dopo, non si preoccupi » troncò velocemente Bellocchio, che non pareva molto interessato a storie di vita passata. Sospinse la coppia con precisione millimetrica lungo la stradicciola, fino a dichiararsi soddisfatto della loro collocazione corrente « Prego, sì, così, in questo punto esatto! ». Sbirciò in un baleno l’orologio da polso, non cessando le raccomandazioni « Non vi azzardate a muovervi! ».

« Dove sono gli altri? ».

De Loménie si rivolse a colei che, nella sua mente, ancora identificava come signorina Scarlett « Alla statua di Reshiram ».

« Poco male, sono vicini quanto basta » commentò sibillino Bellocchio « Raccontavo a Serena della sorte del suo avo Chaydeuvre, sicuramente la conosce ».

Étienne si sorprese e in qualche misura irritò per quelle parole « Ho letto prima e più di lei ciò che ha scritto ».

« Ma non con adeguata attenzione, o non avrebbe avuto bisogno di organizzare questa pantomima. Il granduca ha detto nella sua ultima lettera tutto ciò che serve sapere ».

« L'ho analizzata parola per parola in cerca di un indizio, signor Peace ».

« Allora continui con me. Molti anni fa, in questa villa, viveva un uomo disperato, solo e oppresso dalla stessa fortuna che aveva fatto tanta fatica per racimolare. Cosa avrebbe potuto fare? ». Il barone tacque, totalmente incapace di trovare una risposta appropriata. « Non si preoccupi, sono certo che sua figlia saprà rispondere subito » lo tranquillizzò con velata ironia Bellocchio. Quindi si inginocchiò fino a raggiungere il livello della bambina e, con voce bassa e dolce, le disse « Hai sognato di farlo tante volte, vero? Quando volevi giocare con altri bambini, cosa avresti fatto? ».

Joanne inizialmente non parlò, titubante e anche decisamente a disagio in quella situazione. Non aveva mai detto nulla di simile nemmeno a suo padre. « Volevo scappare e andare al parco » dichiarò infine, e la sua faccia arrossì.

« Scappare e andare al parco. Ecco dove sono finiti i geni del granduca » sorrise Bellocchio con sincerità. Una volta alzatosi in piedi aprì le braccia e alzò il capo al cielo « È proprio quello che fece Chaydeuvre, non è così? Inscenò la sua morte con tanto di cospirazione allegata per liberarsi del fardello che il suo nome gli imponeva... e fuggì, andando a vivere altrove ».

« Non c'è nulla di simile nella lettera » obiettò De Loménie.

« Ed è per questo che lei non l'ha mai scoperto. Leggere tra le righe non è un privilegio esteso a tutti ».

Per quanto l’idea fosse assurda, il barone non poteva negare di aver egli stesso appena finto un decesso, e che quindi così improbabile non era. Decise dunque di ignorare almeno temporaneamente l’irrazionalità di ciò, o avrebbe dovuto ammettere che egli stesso aveva mancato di ragionevolezza. « E lei sostiene che abbia nascosto un tesoro prima di... fuggire? ».

« Se lo immagini, il povero Chaydeuvre prima di partire. Non capisce proprio cosa desiderasse, vero? » lo provocò l’uomo, solo parzialmente stupito dal fatto che un esponente di una categoria a lui tanto invisa riuscisse a essere così ottuso « Voleva conoscere qualcun altro. Voleva non trascorrere il resto della sua vita da solo. Se lo immagini mentre si promette di ritornare solo con un amico, o una moglie, o una figlia. Da vincitore, da uomo rinnovato ».

« Dove vuole andare a parare? ».

« Chaydeuvre aveva capito che essere ricchi è inutile se non puoi condividerlo con qualcuno. E nascose il suo tesoro di modo da non poterlo riottenere da sconfitto ». Lanciò una scorsa complice a Joanne, alzando e abbassando le sopracciglia « Che ne direbbe un meccanismo automatico? ».

« Un cosa? ».

« A me sarebbe piaciuto così! Una piattaforma, per esempio. Un pulsante che non si attiva finché non c'è un peso sufficiente a fare pressione su di esso. Un peso superiore a quello del granduca, dando vita a un congegno attivabile solo se fosse riuscito a tornare con qualcuno ».

Il bersaglio dei suoi occhi fu questa volta Serena, che comprese in un guizzo d’intuizione il frutto del suo ragionamento. Istintivamente aprì la bocca come per scoppiare a ridere di meraviglia, ma non emise un suono così da non rovinare l’atmosfera.

Bellocchio aggirò il barone e la baronessina fino a trovarsi a un ridottissimo distacco dietro di loro, mettendo le mani sulle rispettive spalle in una sorta di abbraccio indulgente « Ma ovviamente doveva prendere precauzioni, non poteva rischiare che venisse azionato per sbaglio. Personalmente avrei inserito una clausola di tempo. Non fare nulla finché il bottone non è premuto per… ». Controllò una seconda volta l’orologio « Sì, tre minuti e mezzo sarebbero stati sufficienti ».

Il terreno su cui i due nobili poggiavano i piedi si abbassò con uno scatto, mandandoli in subbuglio per quanto fu inatteso. Guardando in basso scoprirono che un rettangolo di pietra su cui erano rimasti per tutto il tempo, sospinti dall’investigatore improvvisato, era appena sprofondato di alcuni centimetri.

Contemporaneamente un sibilo giunse alle loro orecchie, ma fu rapidamente obnubilato da un maestoso boato che assordò tutti. Una sorgente luminosa si accese sopra le teste dei presenti rischiarando lo sterrato, e quando si ripresero dallo spavento e alzarono gli occhi al cielo per poco non vennero anche accecati: una prestigiosa conformazione a raggiera brillava sotto le stelle, spargendo scintille auree sulla villa. Frattanto altri missili filiformi decollavano dai lati del giardino e subentravano a quello appena dissoltosi, esplodendo a loro volta in un tripudio di lampi e sconquasso.

Erano fuochi d’artificio. Il congegno innescato dalla piattaforma aveva attivato dei lanciatori meccanici assopiti per un secolo che ora scatenavano uno spettacolo indescrivibile. Marja, Charlotte e Adrien raggiunsero in quel momento il centro della siepe, o meglio l’altezza corrispondente del parco all’esterno del dedalo, ma Serena fece loro segno di non parlare mentre ammirava la rappresentazione pirotecnica.

Bellocchio tornò in posizione frontale rispetto a De Loménie. Joanne si turava le orecchie a ogni botto e non faceva che stringersi alla gamba del padre, ma allo stesso tempo ammirava il concerto di luci imprimendone ogni istante nella memoria; il barone, dal canto suo, stringeva a sé la bambina prendendola sottobraccio in un atto protettivo. Nessuno dei due aveva mai visto nulla di simile, asserragliati com’erano stati tutta la vita, chi volente e chi nolente, nell’antica residenza di famiglia.

Il giovane si allontanò per lasciarli da soli e si diresse dagli altri tre invitati, che definire perplessi sarebbe stato minimizzare.

« Che cosa… » farfugliò a stento Marja, rapita da quell’eccezionale armonia.

« La stella di fuoco » spiegò lui compiaciuto. Non aveva indovinato fino all’ultimo la vera natura del segreto delle quattro siepi, e quando l’aveva svelato si era sorpreso egli stesso di come il nome tramandato nella tradizione dei maggiordomi fosse singolarmente fedele alla realtà. « Il leggendario tesoro di Chaydeuvre ».

Adrien non trovò nulla che valesse la pena dire in quella circostanza, arrendendosi alla magnificenza delle rose chimiche stagliate nella notte; altrettanto non si può dire di Charlotte, la cui vena amareggiata era facilmente leggibile nell’espressione del volto. « Era tutto qua? » commentò disillusa.

« Ah, gli uomini! Convinti che l'unico tesoro sia quello che luccica d'oro! Il granduca vi ha lasciato qualcosa di ben più prezioso » proclamò Bellocchio con tono solenne, voltandosi verso Serena che ricambiò lo sguardo « Vi ha lasciato un ricordo ».

La ragazza annuì senza parlare, limitandosi a un autentico sorriso. Capiva bene le intenzioni di Chaydeuvre: fin dall’inizio aveva pianificato di tornare per ammirare i fuochi d’artificio con chiunque avesse legato nel suo viaggio. Del resto un ricordo ha valore solo se condiviso; altrimenti, come un pregiato anello lasciato in un cassetto, si impolvera e perde la vivacità che lo rendeva speciale fino a diventare insignificante.

 

 

Gli pneumatici varcarono il cancello spalancato e rilucente d’oro del Palais Chaydeuvre e, solcando il fango rinsecchito dal sole mattutino delle nove e un quarto, l’automobile svoltò a sinistra stringendo la curva e prese a sfrecciare sull’asfalto in direzione di Luminopoli. A guidarla era Marja, che stava incidentalmente seguendo la medesima rotta di Charlotte dopo un saluto emozionante tenutosi poco prima nello spiazzo antistante la villa.

De Loménie li aveva accolti per il resto della notte e ora, il giorno successivo, era tempo di andare. Dopo le due donne giungeva ora il turno di Adrien, già nell’abitacolo della sua vettura. Bellocchio gli si avvicinò, parlandogli attraverso il finestrino calato. Sapeva più o meno cosa dire, ma per qualche ragione le formule per esprimere il concetto continuavano a incastrarglisi in gola. « Tutto bene? ».

« Adesso sì ».

« E per tua madre... ? ».

« Étienne mi ha offerto gentilmente parte dei suoi soldi per pagarle le cure ». Il giovane era parso quasi scosso nel pronunciare la frase; una rarità stante che, ignorando la crisi finale, aveva sempre mantenuto un modo di porsi disinteressato.

A Bellocchio, invece, quelle parole avevano solo instillato altro scetticismo: poteva essere che avesse sovrastimato la dolina finanziaria del barone, ma era particolarmente convinto che non potesse permettersi di elargire somme per anche nobili cause. Ma non avrebbe osato turbare l’equilibrio di un’atmosfera così pacifica nemmeno se ne avesse avuto la certezza.

« Tutto sommato è stato un piacere conoscerti » commentò Adrien. Si strinsero rispettosamente la mano, dopodiché l’agente avviò il motore e proseguì superando lo slargo della magione. Nonostante fosse appena uscito da forse la sua notte peggiore dai tempi del granduca e a scapito della volta turchina che lo sovrastava, il Palais appariva avvolto da un velo di malinconia. Era trascorso meno di un giorno, eppure quei cinque inquilini forzati avevano costruito legami già incredibilmente saldi. Chissà dove li avrebbe condotti ora, la vita. Chissà se si sarebbero mai incontrati di nuovo.

Bellocchio si voltò verso il portone d’ingresso, avvistando Serena che si intratteneva piacevolmente con il maggiordomo Laurent. Frattanto un’altra figura gli stava venendo incontro: proprio il padrone di casa, il fu Kayden che pareva quasi inadatto agli abiti signorili che ora indossava.

« Non avete una macchina, voi? » domandò il barone, affiancandosi all’uomo in cappotto. La temperatura era gradevole, un netto miglioramento rispetto alla pioggia torrenziale che si lasciavano alle spalle.

« Solo le care vecchie gambe ».

« La ragazza mi ha detto che andate ad Altoripoli. Viaggio da Allenatori? ».

« Lei sì, io... non ne sono ancora sicuro ». Il giovane ripensò ai due frammenti celesti che teneva costantemente in tasca, e a quanto terribilmente poco sapesse a riguardo. Era per loro che viaggiava, eppure finora non aveva fatto nulla per indagare sulla loro natura. « Adrien mi ha detto che lei finanzierà... le cure, ho capito bene? ».

« È il minimo che possa fare per sdebitarmi con lui. L'ho quasi trasformato in un assassino ».

« Credevo che lei non avesse… ».

De Loménie gli si approssimò, visibilmente eccitato sottopelle, e sussurrò all’orecchio « Ho usato i soldi che adibivo al mantenimento del Palais Chaydeuvre. Io e Joanne ce ne andremo presto di qui ».

Bellocchio se ne rallegrò oltremisura, non fosse altro perché egli stesso credeva fosse la scelta migliore. « Davvero? ».

« Ho pensato molto a quello che ha fatto il mio antenato, ed è la cosa migliore. Soprattutto per Joanne ». Il barone si scostò tornando alla posizione precedente, segno che il grande segreto era terminato « Ma non gliel'ho ancora detto. Voglio che sia una sorpresa ».

E così, alla fine, anche un aristocratico poteva imparare dai propri errori. Forse Serena aveva ragione, forse i suoi erano sempre stati solo pregiudizi.

E a proposito di Serena, ecco che trotterellava verso di lui pronta a ripartire. L’uomo strinse la mano anche a De Loménie, e suscitato dal gesto gli tornò in mente il commiato di Adrien udito un minuto prima, che si applicava perfettamente anche in quella situazione: tutto sommato è stato un piacere conoscerti.

« Siete sicuri che non possa fare altro per voi? C'è il nuovo PSS in uscita, magari... ».

« Non se ne parla neanche, Étienne » lo arrestò la ragazza senza dubitare un istante.

« Allora non posso fare altro che augurarvi buon viaggio. A buona speranza, am-- ».

« FERMI! ».

Il grido echeggiato nel piazzale era tanto acuto quanto dolce in un bizzarro contrasto melodico. Tutti posarono lo sguardo sulla villa, da dove un corpo mingherlino in camicia da notte era appena uscito. La sua corsa era scomposta e terminò con il fiatone, ma Joanne fu eccezionalmente veloce per la sua età.

« Credevo che stessi dormendo! » esclamò il barone.

La figlia tuttavia lo ignorò completamente, dichiarando a gran voce le sue intenzioni « Voglio venire con voi! ».

Gli occhi di Serena divennero due molle per quello che ritenne una sorta di esilarante contrattempo. Il padre non fu dello stesso avviso, sottintendendo un filo di sfiducia senza esplicitarlo « Tesoro, che dici? ».

« Voglio viaggiare insieme a loro, papà! Voglio vedere il mondo! » ribadì lei inamovibile, indirizzando poi le sue preghiere a Bellocchio nella speranza che almeno lui si dimostrasse, secondo la sua visione delle cose, raziocinante « Per favore... ».

L’uomo si abbassò fino a che i loro sguardi non si incrociarono parallelamente al terreno e disse l’ultima cosa che ci si sarebbe aspettati rispondesse. « Certamente ».

Sia la sua amica che De Loménie gli lanciarono un’occhiataccia severa, ma quegli fece cenno di aspettare a giudicarlo e proseguì il discorso « Ma vedi, andare in giro con me è pericoloso. È pieno di fantasmi e Pokémon con pungiglioni. Non è adatto a una bambina ».

« Io non sono una bambina! Ho sette anni e mezzo! ».

« Tra dieci anni » suggerì Bellocchio « Tra dieci anni viaggeremo insieme. Affare fatto? ». Joanne s’imbronciò, ma era più una finzione che non un capriccio vero e proprio. In fondo era intelligente, e per quanto non accettasse le ragioni le capiva. « Su, vedrai che ti divertirai anche con tuo padre ».

« Sì, come no ».

Il giovane le scompigliò i capelli, si alzò in piedi e si esibì in una specie di saluto militare eseguito con due sole dita al posto dell’intera mano, quasi in un intento demistificatore. « A buona speranza, signor barone ».

Detto ciò iniziò a camminare verso l’uscita del Palais Chaydeuvre. Serena si accodò senza pensarci due volte, più che mai desiderosa di ripartire dopo la breve pausa che si erano controvoglia concessi. Era un tiepido venerdì di aprile e Altoripoli distava ancora qualche giorno di tragitto, oltre l’aggrovigliata Grotta Trait d’Union.

Étienne De Loménie attese che i due varcassero l’inferriata subito diligentemente richiusa da Jourdain. Solo quando fu certo di essere solo con sua figlia, sotto un sole mite che proiettava ombre oblunghe verso sudovest, si girò verso di lei e le bisbigliò « Ho una sorpresa per te, sai? ».

 

 

« Tra l'altro ho sentito che nella grotta c'è un certo... Oregon il Loudred, se ho capito bene ».

« Mphh… Oregon? ».

« Non c'è nulla di divertente, dicono sia pericoloso. Speriamo di non incontrarlo ».

« Serena, ormai mi conosci. Ovviamente lo incontreremo ».

Bellocchio terminò l’usuale pratica di appunto degli avvenimenti e ripose il suo taccuino nella giacca. I due percorrevano un tracciato del Percorso 7 che fiancheggiava parallelamente il fiume Cher, corso d’acqua che li avrebbe accompagnati per tutto il tragitto. Alla loro sinistra si estendevano vasti prati fioriti smossi da una lieve brezza d’aprile. Nonostante quest’ultima perdurava un caldo inusuale e Serena avvertì il bisogno di togliersi la giubba scarlatta che aveva adottato per i giorni meno ameni, come quelle poche ore nella nebbia a Castel Vanità. Mentre se la stava sfilando scorse alla distanza un edificio troneggiante edificato proprio sul torrente, e aguzzò la vista per inquadrarlo meglio.

« Ehi, quello laggiù è un castello? ».

« Per carità! » rispose il suo amico, ancora chiuso nel cappotto nonostante la temperatura, e la ragazza ridacchiò. Effettivamente di circoli altolocati ne avevano avuto abbastanza, almeno per ora.

Bellocchio d’un tratto si arrestò, iniziando a guardarsi intorno per assicurarsi di essere solo e scrutando dietro di sé fino a individuare il Palais Chaydeuvre.

« Cosa c’è? » lo interrogò Serena, imitandone la frenata per non sorpassarlo.

« Volevo aspettare di essere lontano » rispose lui, estraendo poi dalle tasche interne del soprabito un involucro cartaceo ingiallito. Le sue dita si muovevano delicate su di esso, cercando il più possibile di non rovinarla.

« Cos’è? ».

« L'ho trovata nel doppiofondo di un cassetto dello studio privato del barone. È una busta primo giorno ».

« Come mai l'ha tolta dai raccoglitori? ».

« Non ci è mai stata. Sulla busta sono state lasciate istruzioni su dove lasciarla, raccomandandosi di non aprirla, il che significa che non è stata messa lì direttamente da Chaydeuvre. E inoltre la data dell'annullamento è posteriore a quella dell'ultima lettera di circa tre anni ».

« Vuoi dire… ? ».

« Sì. Questa busta è stata spedita dal granduca quando aveva già fatto sparire le sue tracce » spiegò l’uomo, senza aggiungere l’ovvia conclusione: quella tra le sue mani era la vera missiva finale del nobile. « Probabilmente aveva istruito il Laurent del tempo perché sapesse che era lui ».

Serena lo canzonò sorniona « Quindi hai rubato un cimelio ».

« Beh, non penso che quella cima di De Loménie l'avrebbe trovata, in ogni caso » ribatté stando al gioco, ma la festosità svanì presto in un’aura di compostezza impenetrabile. « Secondo te ce l'ha fatta? ».

« A fare cosa? ».

« A trovare qualcuno. Non sei curiosa di sapere che vita abbia avuto dopo quella decisione tanto difficile? ». Bellocchio si rigirò la busta tra i palmi, studiandola come un artefatto alieno. « Queste sono le sue ultime memorie. Potremmo scoprirlo » suggerì con voce suadente, fissando l’adolescente dritta negli occhi « Che ne dici, diamo una sbirciata? ».

La quiete fu interminabile. Serena gli restituì lo sguardo intenso e prese prudentemente in mano la lettera. La esaminò centimetro per centimetro, soppesando ogni aspetto della loro incredibile possibilità. Il sigillo era intatto, segno che nessuno nella storia dell’umanità aveva ancora letto le parole che si nascondevano dietro quel fine involto friabile. Avrebbero potuto accedere a una conoscenza unica, essere i soli depositari del segreto di uno dei più influenti abitanti della Kalos del passato.

Con un passo di danza si voltò e lanciò in aria l’epistola, lasciando che dopo uno svolazzo controvento si depositasse nell’acqua del Cher. Bellocchio sorrise, e Serena ebbe la conferma che la sua ultima azione era quella che lui aveva desiderato anche prima di porle la domanda. Nessuno ebbe bisogno di spiegare all’altro la decisione comune; ripresero a camminare verso ovest, abbandonando alle spalle un passato ignoto che, trascinato via dalla corrente, si liquefaceva fino a divenire illeggibile.

 

 

 

 

Caro Geoffrey,

ho ordinato espressamente che tu non apra questa busta, ma mi rinfranca sperare che un giorno, credendomi ormai morto, tu trovi nel lutto la forza di rompere la tua infinita e mai sufficientemente ringraziata devozione di caposervizio e infranga il divieto.

 

Non tornerò più alla villa di mio padre. So che avevo promesso il contrario, e spero capirai che anche per me è doloroso sapere che non ti rivedrò. Il minimo che possa fare è spiegarti le ragioni di questa mia infelice decisione.

 

Dopo aver cambiato il mio nome in William Grundy per celare la mia identità mi sono inoltrato nelle montagne di Kalos e ho trovato casa in un meraviglioso villaggio di nome Flusselles. Qui ho incontrato Meriam, mia moglie da quando siamo convolati a nozze lo scorso giugno. Voglio che tu sappia che stiamo vivendo una vita serafica e soddisfacente. Ho trovato impiego in una piccola manifattura tessile locale, e la mia retribuzione, ancorché misera raffrontata alle ricchezze di cui disponevo come granduca, è più che sufficiente per mantenerci in maniera dignitosa.

 

Malauguratamente, la mia amata Meriam soffre di una bronchite cronica di lunga data che le rende ostili le regioni dal clima secco. Provo spesso nostalgia della mia vecchia villa, ma non posso rischiare che mia moglie soffra di crisi respiratorie per causa mia. Pertanto ho a malincuore preso la decisione di non fare ritorno. Spero che mi capirai, e sarai felice quanto lo sono io.

 

Sei stato un meraviglioso caposervizio e un leale amico, e te ne sarò grato in eterno. Spero di rincontrarti nel Regno dei Cieli.

 

 

I miei saluti,

Ludovic Chaydeuvre

 

 

P.S. La pietra incompleta è al sicuro nella mia cassaforte qui a Flusselles. Non ti angustiare, ne avrò massima cura come tu hai fatto in mia vece in questi anni.

 

 

 

 

 

 

NEXT TIME Lo chiamano “l’astronauta del Solway”. È il nome dato a una figura comparsa in una fotografia scattata cinquant'anni fa da Jim Templeton, in cui dietro sua figlia fa capolino l’inquietante sagoma di una tuta spaziale. Templeton dichiarò al tempo che non c’era nessun altro nella piana oltre alla sua famiglia, e da allora l’opinione generale degli esperti è che si sia trattato di un semplice caso di sovraesposizione.

Ma gli esperti si sbagliano.

 

 

Looker’s New Adventures ritorna con lo speciale di Natale il 25 dicembre 2014!

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Christmas Special 2014 - A Spaceman Came Travelling ***


Untitled 1

E come promesso, e contro tutti gli ostacoli che si sono parati davanti durante la stesura, ecco qua lo speciale di Natale. Ho lavorato più di quanto mi sarei aspettato per scriverlo, principalmente perché è venuto fuori davvero lungo, ma alla fine ce l’ho fatta a consegnarvelo in tempo. Prendetelo come un mio regalo personale per questa festa. Voi, per esempio, potreste regalarmi una recensione! In fondo, a Natale non siamo tutti più buoni? A Natale puoi… fare quello che… No? No, okay, era solo un’idea. Anche un cacciavite sonico va bene uguale.

Sigla, prego!

 

 

Episodio 1x25.5

A Spaceman Came Travelling

 

 

Ormai chi mi segue da un po’ sa già che Doctor Who è la mia fonte di ispirazione primaria per lo stile, dunque questo speciale segue la tradizione di quella serie: un episodio di lunghezza superiore a quella regolare a tema natalizio. “Ma aspetta”, riesco già a sentire, “LKNA si svolge in primavera! Non fai che ricordarcelo!”. Beh, aspettate e leggete. Che impazienti, oh.

Avendo ormai varcato da due giorni l’anniversario dell’inizio di questo folle esperimento avevo pensato di pubblicare lo speciale il 23, ma ho optato per la scelta più convenzionale una volta tanto. Avendo dodici mesi al bilancio posso dire che uno dei principali vantaggi è avere accumulato un grande deposito di idee utilizzabili, da dove ho attinto tra le altre cose la trama per quanto state per leggere. Mentre agli inizi avevo un campione molto limitato ed ero quasi obbligato nelle scelte di episodi, adesso ho opzioni decisamente più numerose. Questo significa che, sperabilmente, anche la qualità degli intrecci aumenterà man mano che proseguiamo in questo viaggio.

Colgo a proposito l’occasione per delineare i piani per il 2015 incombente: LKNA ritorna il 12 gennaio 2015, e il primo capitolo sarà usato per riassestarsi. (E darvi modo di tornare tutti dalle vacanze. Magari le fate lunghe! Che ne so, io?). Tuttavia ho in programma, in qualche momento tra il 6 e il 12, di pubblicare il primo miniepisodio, ovvero un trafiletto di breve lunghezza che avrà il compito di esporre qualche concetto interessante e fare worldbuilding. Potrei pubblicarne altri – ne ho almeno un secondo in programma –, ma tenete a mente che in futuro dovrebbero essere editi il lunedì buco (come sapete pubblico ogni due settimane). Non tutti i lunedì buchi ovviamente, anzi saranno casi saltuari, ma ogni tanto potrei farvi una sorpresa.

Dal 26 gennaio, invece, inizierà finalmente la pubblicazione di un progetto sempre relativo a LKNA che ho scritto per buona parte durante questo novembre. Senza anticipare troppo, si tratta di un’avventura lunga sei episodi (quindi inizia in inverno e finisce in primavera!) e sarà un game-changer enorme per il futuro di tutta la storia. E ovviamente non mancherà l’appuntamento estivo con il gran finale della prima stagione! Segnatevi il 2015, sarà l’anno di LKNA.

Qualche piccola nota locale: questo speciale è uscito fuori parecchio lungo. Non come in “un po’ più del sedicesimo”, come in “oltre tre episodi regolari”. L’ho diviso in due parti separate da tre asterischi, ma anche così la seconda dura quanto due dei miei soliti capitoli. Ci sono vari cliffhanger possibili, quindi se desiderate potete interrompere quando volete e riprendere dopo. Diciamo che è un test per i lettori: se riuscite ad arrivare vivi alla fine di questa storia nemmeno Guerra e pace vi farà mai più paura! Evviva!

Dal momento che ho sorprendentemente finito le cose da dire, non mi resta che augurarvi un felice Natale 2014! E se qualcuno sta leggendo questa storia fuori stagione, sono grossi cavoli suoi!

 

Il sempre simpatico,

Novecento

 

 

 

 

 

Jamie si infilò sotto le pesanti coperte del suo letto e ripose cautamente il libro che stava leggendo sul comodino. Era una pubblicazione allegata alla rivista LIFE, di cui suo padre aveva fatto collezione prima che chiudesse i battenti. Il nome era “The greatest unsolved mysteries of all time”, che sempre suo padre aveva tradotto come i più grandi misteri irrisolti della storia. Era scritta in inglese, e con il livello linguistico di appena tre anni di insegnamento non riusciva a capire praticamente nulla al di fuori dei “the”, ma le figure lo intrigavano e sfogliava avidamente quelle pagine quasi ogni sera.

Normalmente restava sveglio al punto che sua madre doveva recarsi personalmente in camera sua per ragguagliarlo sull’orario, ma non quella notte. Quelle notte erano solo le ventuno e già stava per coricarsi, perché era la vigilia di Natale. E anche i bambini sanno che il sonno è un po’ come viaggiare nel tempo: senza accorgersene sarebbe già stato domani, e avrebbe potuto scartare i suoi regali. Quell’anno aveva chiesto un videogioco, avendo cura che fosse Babbo Natale a recapitarlo; non che non si fidasse dei suoi genitori, ma gli adulti proprio non capiscono nulla di videogiochi.

Dopo uno sguardo fuori dalla finestra, attraverso le cui tende tirate era possibile intravedere l’albero allestito a festa nel giardino, Jamie allungò la mano al cavo della sua lampada e la spense. Solo un’altra dormita a Natale.

Naturalmente, come spesso succede, il desiderio di assopirsi invalida qualsiasi torpore uno possa avere. Jamie si girò e rigirò nel suo giaciglio in cerca della posizione ottimale, ma vuoi per la temperatura sotto le lenzuola o per l’ansia dell’attesa, si ritrovò supino a guardare il soffitto. Che esasperazione!, pensò il bambino in linguaggio prettamente meno raffinato mentre osservava l’effetto che la luce filtrata dai drappi semitrasparenti produceva sopra la sua testa. Era un gioco luminoso curioso da guardare, il che lo esasperò ulteriormente: con qualcosa di tanto avvincente nella sua stanza come avrebbe potuto chiudere gli occhi e dormire?

La risposta era: non avrebbe dormito. E non tanto per i bagliori sulle pareti, quanto perché quegli stessi bagliori erano stati appena offuscati da una sagoma d’ombra che li aveva coperti per un istante per poi sparire. Il fiato di Jamie si mozzò di colpo: qualcuno era passato davanti alla sua finestra.

Il problema del sonno svanì completamente dalla sua mente, sostituito dal battito iperattivo del suo cuore e dal suo respiro affannoso. Portò la trapunta fin sopra il capo in preda al panico, e sebbene ci fossero mille spiegazioni razionali non riuscì a impugnarle. Per lui c’era solo una interpretazione: un mostro. Ma che mostro aspetterebbe la notte di Natale per colpire? C’era il Grinch, ma lui non faceva veramente paura. E poi era diventato buon––

La porta. Si era appena aperta la porta della camera. Lo sentiva benissimo, qualcuno stava entrando. Aveva i passi felpati, ma nella sua condizione di allerta era impossibile non udirlo. Jamie si tappò la bocca con il palmo della mano per evitare di fare rumore, ma il tremore da sotto le coperte rivelava la sua posizione. Era solo questione di secondi: il suono dei tacchi sul pavimento di legno si stava intensificando, segno che l’intruso ormai gli era quasi addosso. Il piccolo iniziò a piangere sommessamente, sottomesso dal terrore più puro.

Dov’erano mamma e papà? Perché non erano lì a salvarlo? L’ultima frase che giunse alle sue orecchie fu pronunciata da una voce inquietante e per nulla familiare, tanto vicina da risultare assordante nonostante fosse stata appena sussurrata.

« So che sei sveglio ».

 

 

Attenzione. Rilevata anomalia nei motori centrali. Attenzione. Rilevata anomalia nei motori centrali. Attenzione. Rilevata anomalia––

Clipse percorse il corridoio dell’aeronave a passo scattante, seguito a ruota da uno dei suoi fidati Houndoom. Il velivolo subì uno scossone verso sinistra, ma l’aitante uomo non ne risentì e proseguì la marcia fino alla porta terminale. Al di là di essa c’era la sala macchine, un comparto dalle tubature a labirinto a stento navigabile e fiocamente illuminato solo da fanali di emergenza affissi alle mura ricurve.

« SO CHE SEI QUA DENTRO! » chiamò con un ringhio animalesco « VIENI FUORI! ».

Una figura in camicia aperta sul collo e jeans sbucò da un angolo con completa nonchalance « Ah, Clipse! Prego, si unisca alla festa! ». Quindi scomparve di nuovo al di là dello spigolo in quello che sembrava un intenso lavoro di precisione.

Quegli, senza dargli il fianco nemmeno una volta, gli girò attorno fino a guardarlo direttamente, senza barriere metalliche a separarli. Era leggermente più basso di lui, trent’anni al massimo, capelli corti scompigliati di un nero tendente al castano e armeggiava con la sezione interna del quadro comandi su cui era concentrato. Clipse ritenne la situazione tanto surreale da non sapere come reagire: erano stati in volo a centinaia di metri dal suolo per ormai un’oretta e aveva svolto un meticoloso controllo prima di decollare. Eppure quello strano individuo doveva essere per forza salito a terra, era impossibile che l’avesse abbordato mentre l’aeromobile fluttuava nell’aria.

« Come sai il mio nome? ».

« Tutti sanno il nome di chi quest’estate ha cercato di creare un nuovo universo » replicò il giovane senza battere ciglio o rivolgergli la più rapida occhiata « Bel piano, ma ho dubbi sulla base scientifica ».

« E tu cosa saresti? ».

« Mi chiamo Bellocchio, sono un essere umano, e… fatto! » esclamò lui staccandosi finalmente dal pannello con un sorriso soddisfatto.

« Fatto? ».

« Oh, anche lei? Abbiamo finito insieme, allora! ».

Clipse digrignò i denti innervosito. Non capiva cosa stesse succedendo, ma quell’omuncolo si stava chiaramente prendendo gioco di lui.

« Oh, era solo una battuta, andiamo! Che io sappia a lei piace farne di ben peggiori » commentò Bellocchio appoggiandosi con la spalla alle condutture che ora avevano iniziato a vibrare pericolosamente. « Se le interessa, ho solo depressurizzato le cabine tensoriali dei Bongustai ».

« Che cosa? » l’uomo sgranò gli occhi sgomento « Vuoi dire–– ».

« Sì, temo proprio che il suo piano per cancellare il Natale sia saltato » concluse lui incurante « Oh, e questa baracca non volerà ancora a lungo. Forse vuole trovarsi una scialuppa di salvataggio ».

« E forse tu vuoi trovarti una bara » gli fece il verso Clipse sibilante, stendendo la mano di fronte a sé « Houndoom, Fuocobomba! ».

Bellocchio mise mano alla cintura e strinse tra le mani la sua unica Mega Ball, abbassandosi al tempo stesso per schivare la sfera incandescente scagliata dal Pokémon Buio. Subodorò solo in un secondo momento che non fosse stata un’idea così indovinata: l’attacco andò a incidere direttamente sulla parete retrostante, e la temperatura da esso raggiunta fu tale da fondere l’acciaio e aprire un foro nel telaio della stanza.

E la cosa peggiore era che tale stanza era direttamente affacciata sul nulla. La spaccatura prodotta dal mastino infernale era stata tanto profonda da perforare il doppio strato, e ora non c’era niente a separare l’interno del velivolo dal cielo che stavano attraversando. Bellocchio lasciò andare la presa dalla Ball per cercare di afferrare qualcosa a cui reggersi, ma la differenza di pressione ebbe la meglio e il suo corpo fu risucchiato nell’oscurità debolmente rischiarata dalle luci della metropoli soggiacente.

Clipse, per sua fortuna, ebbe una destrezza maggiore del suo avversario e si aggrappò al tubo più prossimo a lui, richiamando Houndoom appena dopo; quindi, avvalendosi della sua considerevole forza fisica, scalò orizzontalmente l’ambiente fino a chiudere dietro di sé la porta, isolando rozzamente la breccia che si era aperta nell’aeromobile.

Purtroppo, per quanto Bellocchio fosse ora condannato a sfracellarsi a terra – evento che, data l’antipatia in lui suscitata fin da subito dall’estraneo, non lo impensieriva minimamente –, quel ficcanaso era comunque riuscito a sabotarlo irrimediabilmente. Si affrettò a riportarsi nell’abitacolo di pilotaggio, uno spazioso vano sito sul ventre dell’apparecchio il cui ornamento principale era un vasto schermo utile a visualizzare gli ordini di movimento impartiti. Clipse digitò sulla tastiera una serie di codici per impostare un atterraggio immediato poco fuori città. Quindi, vista l’assenza di nuvole in quella notte di vigilia, pensò di dare uno sguardo a come il suo nuovo nemico se la stesse cavando.

Si affacciò quindi al vetro rinforzato a destra, posto dal lato della fessura, ed essendo calato di quota riuscì a scorgere la silhouette in controluce di quel poveraccio che precipitava incapace di reagire. Gli avrebbe fatto pena, se non si fosse sentito tanto insensibile alle emozioni quel giorno.

Poi, dal nulla, vide accendersi un barlume celeste a non lunga distanza dal corpo in caduta libera. Strinse gli occhi per riuscire a comprenderne la natura, ma non aveva la minima idea di cosa potesse essere. Sembrava un altro oggetto che precipitava più o meno alla velocità di Bellocchio, come se fossero partiti insieme, ma di dimensioni molto minori di quest’ultimo. Forse…

… una sfera. E non una qualunque, era la Mega Ball che aveva preso in mano all’ultimo momento nel tentativo di difendersi. Doveva avere un segnale luminoso incorporato, ma perché qualcuno avrebbe dovuto implementarlo? Nell’impossibile eventualità in cui si fosse trovato a volar giù in orario notturno e avesse voluto rintracciarla? Era l’opera di un pazzo. Non l’avrebbe mai presa. Non l’avrebbe mai presa.

E invece l’aveva appena presa. Era ormai quasi troppo in basso per essere discernibile, e Clipse fu costretto a premersi contro il limitare del cristallo a parete per continuare a godere di una visuale discreta. L’ultimo scorcio che giunse alla sua retina fu il Pokémon fuoriuscito dalla Ball, uno Yanmega sfolgorante, che si poneva sotto il suo padrone dopo averne eguagliato la velocità e lentamente la diminuiva fino ad annullare la caduta. Ora, quasi indistinguibili per quanto erano scesi, i due stavano sfrecciando incolumi sulla città mentre lui, Clipse, aveva fallito lo schema preparato per mesi.

« LA COSA SI FA INTRIGANTE! » esclamò Bellocchio con eccitazione mentre, individuato un territorio adatto, approntava l’atterraggio su Giubilopoli.

 

 

 

PARTE PRIMA – Vostok 1

 

 

 

Il traffico era immobile, sbigottito di fronte a ciò che si stava verificando sopra le teste degli autisti. Le luci di posizione di un velivolo di qualche sorta segnalavano che stava calando innaturalmente di quota, indice di una probabile avaria. Per quanto perplesso dall’ipnosi in cui gli umani cadevano di fronte a una sciagura, Primo non perse l’occasione: diede gas con la manopola del motorino e iniziò a sfrecciare tra le vetture ferme. Non sapeva bene dove andare, ma aveva individuato la zona approssimata.

« Ehi, rallenta! » proruppe un ragazzo saldamente collocato sulla zona posteriore del sedile unico « Non siamo in una gara! ».

« Non aspetterò certo che Laura arrivi prima! ».

« Ma non ha nemmeno un mezzo di trasporto! ».

« Lascia perdere, Lunick » tagliò corto Primo incanalandosi in una traversa obliqua di Jubilife Road. La velocità aumentò ulteriormente per l’assenza di macchine fino a quando il traguardo non fu visibile: Babylon Place, un piazzale isolato e deserto rischiarato da una combinazione di insegne pubblicitarie e lampioni giallastri. Il centro dello slargo era ingombrato da una fontana inerte cinta da un reticolato metallico che vi impediva l’accesso, installato per far fronte all’inciviltà dei visitatori che si improvvisavano regolarmente bagnanti. Per sopperire alla scarsa grazia della recinzione la scaturigine era stata circondata di cespugli verdeggianti, che tuttavia data la stagione erano ora secchi e spogli.

Primo scese dalla monta e controllò di non aver lasciato cadere nulla dalle tasche durante l’itinerario, felice di appurare che Styler e macchina fotografica erano ancora al loro posto. Lunick gli si affiancò, aggiustandosi la fascia scarlatta sulla fronte.

« Sei sicuro che arriverà qui? » indagò dubbioso quest’ultimo.

« Come si vede che non sai la fisica. Se ti lanci da un aereo con una certa velocità v orizzontale mantieni quella velocità mentre cadi ».

Lunick lo squadrò a metà tra il divertito e l’annoiato. Primo aveva quindici anni contro i suoi diciassette, cosa voleva saperne di materie che tutti e due avevano studiato a malapena?

E invece, con sua sorpresa, aveva ragione: alzando gli occhi al firmamento intravide una sagoma in discesa a spirale, e udì un ronzio persistente che andava intensificandosi. Con il passare del tempo i tratti di Yanmega si definivano e il brusio incrementava in volume, finché l’abnorme libellula non atterrò al pelo dell’acqua. Da essa discese un uomo dai capelli spettinati e il volto pallido, probabilmente per le basse temperature che aveva incontrato nella discesa.

« Bentornato tra noi, Bellocchio ».

« Mister Ranger! » lo salutò il giovane con una stretta di mano, richiamando poi il suo Pokémon « Sempre al servizio della giustizia? ».

Lunick rispose con un sorriso affermativo. Si era unito alla Federazione Ranger di Sinnoh solo da un anno, spinto da una vocazione tardiva, e obiettivamente si era mostrato portato per quel tipo di lavoro: in breve tempo aveva scalato i gradi fino a raggiungere il sesto, con la recente promozione dopo gli avvenimenti di Alamos. I Ranger erano dei protettori, una sorta di via di mezzo tra la Polizia Internazionale e le guardie forestali, e ciò l’aveva ispirato fin da subito.

Era solo poco dopo che aveva fatto la conoscenza di Bellocchio, a seguito di una delle sue prime ricognizioni espanse nel settore settentrionale della regione. Se l’era vista brutta, come spesso per la verità gli capitava, e quel bizzarro individuo l’aveva tratto fuori dai guai con una destrezza innata. Da quel momento i loro incontri si erano infittiti e aveva avuto modo di apprezzarne lo spiccato talento per le azioni temerarie – un po’ come le sue, solo decisamente più rischiose. Però non l’aveva mai visto gettarsi da un’aeronave dopo averla sabotata, e sospettava non sarebbe mai più successo.

« Era ancora Clipse? » domandò cercando invano con lo sguardo il velivolo.

Bellocchio annuì « Un giorno mi spiegherete perché l’avete lasciato andare ».

L’intero loro dialogo era stato inframmezzato da lampi di luce bianca quasi ininterrotti. I due sapevano già da dove provenivano, ma si voltarono ugualmente a vedere Primo che, fotocamera tra le dita, stava praticamente giostrando un intero servizio fotografico. Il ragazzo restituì uno sguardo compiaciuto « Intrigante, dico bene? ».

« Sì, sì, quello che vuoi » replicò Lunick cercando di non badarvi. Ormai ci aveva fatto l’abitudine: ogni volta che voleva incontrare Bellocchio trovava Primo intento a scattare istantanee, richiedere firme sulle suddette o implorare interviste. In un certo senso lo comprendeva, non negava di farlo. Il coraggio scatena ammirazione, ed era ovvio che qualcuno di fronte alle gesta dell’uomo ne diventasse un ammiratore. Ma con Primo si raggiungevano livelli esorbitanti: chiunque menzionasse l’argomento era destinato a subire i suoi interminabili sproloqui, e guai a paragonare il grande Bellocchio con qualsiasi altra persona al mondo! Anche il rendimento del quindicenne come Ranger era calato, principalmente perché trascorreva gran parte del tempo a rintracciare gli incessanti spostamenti del suo idolo. Ora Lunick sperava solo che non arrivasse quell’altra

« BELLY! ».

Speranza vana. I tre si voltarono verso una delle vie che si dipartivano da Babylon Place, da cui stava giungendo in tutta fretta una ragazza dell’età di Primo dai capelli castani agghindati in due code simmetriche. La cosa che però scioccò maggiormente il gruppo erano gli abiti: era vestita esattamente come Bellocchio, in jeans e camicia, visibilmente intirizzita dal clima. A corredare tutto ci pensava un piccolo Yanma che librava dietro di lei; chiaramente un riferimento a Sheila, la Yanmega dell’impersonato.

« Ma come ti sei vestita? ».

« Sta’ zitto, Lunick, non capisci niente » ribatté secca Laura sfoggiando un’agenda in pelle dall’aria recente « Ehi, Belly, me lo autografi il mio nuovo taccuino? Guarda, è proprio come il tuo! ».

L’uomo si grattò la testa perplesso « Ma è… nero. Non si vedrà nulla ».

« Oh, giusto! Che stupida! Scusa, scusa, ti sei offeso? ».

Primo si intromise con uno sbuffo sbeffeggiatore « È inutile che insisti, tanto il suo fan numero uno sono io! ».

« Sì, come no. Non hai nemmeno un suo capello ». Bellocchio sobbalzò a occhi spalancati, augurandosi di aver sentito male. E invece no, aveva detto capello con una p sola.

« Ah, sì? E chi c’era qua prima di tutti ad aspettarlo? ».

Di lì prese un battibecco difficile da seguire, prevalentemente per il fatto che ciascuno dei contendenti cambiava argomento a metà di ogni frase. Lunick, ormai allenato a fingere che non esistessero e soprattutto che non avessero sul serio quindici anni, si rivolse all’altra persona sana presente nella piazza. « Non hai freddo senza giacca? ».

« Sono abituato a queste temperature. Anzi, non sarebbe male un po’ di neve » rimarcò Bellocchio « Però in futuro non mi dispiacerebbe qualcosa di più elegante, sai? Un cappotto, per esempio ».

« Non ti ci vedo proprio » ridacchiò il ragazzo all’idea. Considerando quanto correva quell’uomo su base regolare, era pronto a scommettere che un soprabito tanto lungo gli sarebbe rimasto impigliato in un ramo al primo tentativo. « Che fai stanotte? ».

« Beh, è quasi Natale… Immagino mi aspetti un clip show ».

L’espressione di Lunick si fece sorpresa « Non hai nulla in programma? Perché non vieni con noi al Dipartimento? ».

La proposta riuscì a separare temporaneamente i due litiganti. « Sì, ottima idea! » concordò Primo eccitato « Così ci racconti com’è andata con Clipse! ».

« E poi mangiamo il panettone buttando via i canditi! Intrigante! ».

« Avec moi! ».

« Intrigante! » ribadì Laura categorica.

« AVEC MOI! ».

Lunick osservò sconsolato la ripresa di quello che più che un nuovo diverbio era solo il proseguimento del medesimo bisticcio in corso da mesi. « Il mio ufficio è insonorizzato » propose a Bellocchio, sottintendendo che in qualche modo avrebbe escogitato uno stratagemma per lasciare quei due fuori.

« No, ma perché… Sono così carini da vedere » commentò lui. Non aveva mai nascosto che avere adulatori tanto affezionati lo onorasse.

« Avec moi l’avrà detto due volte in croce, non conta come catchphrase! ».

 

 

Il Dipartimento Ranger di Giubilopoli, un massiccio edificio posto non lontano da Babylon Place nel centro della città, fin dalle ghirlande avvolte attorno alle quattro colonne che sorvegliavano l’ingresso trasmetteva una sensazione festiva. Una volta sorpassato lo spoglio bancone di ricevimento questa impressione si acuiva: al centro di un ambiente comunemente noto come Sala di Smistamento, un’estesa stanza quadrata che forniva accesso ai corridoi principali della struttura, si ergeva uno smisurato albero di Natale addobbato con ornamenti di pregio, con un tocco di neve finta a completare l’opera. Sui pavimenti di marmo transitavano decine e decine di persone ogni minuto, tutte in fibrillazione per la celebrazione imminente. Era come osservare un centro commerciale negli ultimi giorni di dicembre, solo senza la litania musicale diffusa in stereofonia.

Negli androni veri e propri del Dipartimento l’aria d’allegria calava sensibilmente, ma gli animi erano stati rinfrancati a sufficienza dal grande pino per sopportare anche il grigiore di quei locali. Ciò si ripercuoteva anche sulle zone adibite agli studi privati, lunghi tunnel smunti in cui ogni tanto qualcuno sostava per poi scivolare sbrigativamente oltre una delle porte.

« Da quando hai un ufficio? ». Bellocchio sfiorò una delle sedie in pelle poste dal suo lato della scrivania mentre, dritto in piedi, osservava un quadro appeso al muro. Era una rappresentazione molto realistica del Faro Panorama di Arenipoli. Gli sarebbe piaciuto visitare più spesso quel posto, ma dopo la storia dei delfini ne aveva suo malgrado un pessimo ricordo.

« Viene assegnato ai Ranger di sesto grado » spiegò Lunick sprofondando nella sua poltrona girevole. Si sospinse con le gambe ed effettuò una rotazione completa, lanciando occhiate in fila a computer, archivi, calendario, fotografie, telefono cablato, finestra e di nuovo computer. Non utilizzava regolarmente nemmeno la metà di quelle cose. « Dovrò compilare un rapporto per Clipse, sai? ».

« È un modo per farmi sentire in colpa? ».

Il ragazzo sogghignò, tirando quindi a sé la tastiera quasi intatta per il ridotto impiego che ne faceva. « Dunque, andiamo con ordine. Cos’erano esattamente i Bongustai? ».

La risposta fu interrotta sul nascere dall’ingresso di una donna nello studio. Aveva i capelli biondi agghindati a formare una coppia di spirali che le ricadevano lungo le braccia, e indossava un’uniforme violacea per nulla natalizia. Il suo nome era Arianna, ma ai suoi colleghi era meglio nota come Aria.

« Lunick, Nevia ci vuole tutti nella Magnezone » annunciò sporgendosi con mezzo busto oltre la porta. Per un po’ non disse altro, ma il peso della seconda presenza nella stanza si fece infine troppo greve per essere ignorato, e la Ranger fu costretta a riconoscerla con un sospiro « Ciao, Bellocchio ».

Lui reagì agitando la mano ironicamente. Lunick non aveva mai capito perché Aria non lo sopportasse, né era molto interessato a saperlo. « Alla Vigilia? » protestò.

« Io riferisco e basta ». La donna doveva essere scontenta quanto lui per dover lavorare quella notte e se ne andò senza proferire alcun’altra parola. L’ambiente sembrava essersi raggelato dopo la sua visita, proprio quello che serviva in un luogo gioioso come il Dipartimento.

Lunick si passò le mani sul volto spossato. Chi gliel’aveva fatto fare di salire di grado? Avrebbe dovuto rifiutare cortesemente e attenersi alle sue perlustrazioni a Sabbiafine. « Tornerò appena posso. Purtroppo non posso contestare gli ordini dei Leader ».

« E allora che te ne fai di un ufficio? » obiettò Bellocchio. Dopodiché alzò il pollice all’insù in cenno di assenso « Aspetto qui ».

 

 

L’Aula Magnezone, così chiamata per l’insolita forma del tavolo centrale che ricordava molto tale Pokémon visto dall’alto, era in trepidazione. A capo del banco c’era Nevia, donna corpulenta nota per il suo pugno di ferro, impegnata a trafficare con un portatile mentre dietro di lei uno schermo blu con un avviso di segnale assente preannunciava una proiezione di diapositive virtuali. Dal momento che era considerata l’autorità massima del Dipartimento di Giubilopoli vederla a un meeting non era mai una buona notizia, ma Lunick avrebbe potuto intuirlo anche senza di lei: dovunque posasse lo sguardo schiere di Ranger andavano avanti e indietro per l’intera lunghezza della stanza, intrattenendo dialoghi inudibili che tuttavia trasudavano tensione. Il colore preponderante era lo spento beige delle sedie e delle pareti, il che senz’altro non contribuiva a rasserenare l’atmosfera.

Il ragazzo si guardò attorno fino a individuare il familiare ciuffo turchese rialzato della sua amica Solana. Le si avvicinò, trovando con piacere che il posto vicino a lei era libero – del resto non aveva mai riscontrato entrambi i lati occupati, come se implicitamente i suoi colleghi sapessero che tale posizione era sua di diritto.

« Che succede? » le domandò una volta accomodatosi, poggiando i gomiti sul ripiano.

Lei rispose con voce irrequieta « Non lo so, ma a quanto pare è una riunione congiunta ».

Lunick aveva sentito quelle parole solo un paio di volte, sempre in via strettamente teorica. Se ricordava bene una riunione congiunta avveniva quando tutti i Dipartimenti della Federazione tenevano un’assemblea in simultanea che comprendeva in genere solo gli alti gradi. Ciò solitamente implicava due cose: una notevole rilevanza del soggetto trattato e un coinvolgimento preliminare dell’intera Sinnoh.

Il ragazzo avvertì una pacca sulla spalla, e fu solo allora che si accorse che gli era passato davanti Furio, un altro dei neopromossi e suo amico di vecchia data, il quale si era seduto poco dietro di lui. In quell’istante le luci del soffitto si affievolirono e lo spazio al termine della sala fu occupato da una schermata nera. I presenti si zittirono gradualmente in un clima ansioso e Nevia salì in cattedra. Lunick la trovò più nervosa del consueto, il che era eccezionale.

« Prima di tutto vorrei augurare a tutti voi un felice Natale e uno splendido anno nuovo ».

Un risolino furbo si diffuse nei Ranger, e la Leader fulminò tutti con uno sguardo perforante, di quelli tipici della sua persona. Il giovane comprese perché era parsa tanto agitata: proferire qualcosa di amichevole come un augurio per lei doveva essere stata una sofferenza.

« La ragione per cui vi ho convocati qui si può riassumere in questa foto ».

Alle sue spalle la diapositiva vuota cedette il passo a una istantanea dall’aspetto datato, di quelle scattate con macchine antiquate nei primi anni della moda tanto popolare ai giorni correnti. Rappresentava in primo piano una bambina di probabilmente cinque anni dal folto caschetto, anche se il sesso era intuibile solo dal vestito femminile a fiori che indossava. Lunick penso che come composizione non era affatto brutta, con la piana erbosa e il cielo azzurro; un peccato per l’individuo in costume che spuntava da dietro.

« Gergalmente è nota come l’astronauta del Solway, facile intuire perché » spiegò Nevia. Un puntatore laser comparso tra le sue mani evidenziò la figura biancastra, decisamente un uomo in tuta spaziale. « È stata scattata quarantanove anni fa da Jim Templeton, il quale ha dichiarato che non c’era nessuno lì in giro oltre a lui, sua figlia e sua moglie ».

Un leggero brusio e qualche colpo di tosse seguirono, ma in generale la reazione primaria fu un silenzio disinteressato. Era senz’altro un mistero affascinante, forse qualcosa da offrire agli ufologi per distrarsi, ma casi ambigui erano frequenti nelle vecchie fotografie. C’era stata la cosa del fantasma di Freddy Jackson, ad esempio. Li aveva chiamati lì solo per quello?

« Ovviamente non vi ho chiamati qui per questo » precisò Nevia, e Lunick iniziò a sospettare che fosse in grado di leggere i suoi pensieri. « La ragione di questa riunione congiunta è che nelle ultime due ore abbiamo registrato quarantatré avvistamenti in tutta Sinnoh dell’astronauta del Solway ».

Questa volta la risposta fu ben diversa: numerose sedie si raddrizzarono di colpo e il bisbiglio si intensificò al punto che alcuni dei dialoghi in corso erano intellegibili anche a una certa distanza. Lo schermo sul fondo iniziò a mostrare una slideshow accelerata al ritmo di un fotogramma al secondo. Quadretti di famiglie riunite per le rispettive cene natalizie, monumenti della regione, panorami notturni… Tutti inquinati da una singola sagoma argentea posizionata nei luoghi più disparati, senza alcun criterio che sembrasse assimilare uno scatto all’altro. Le posizioni assunte erano le più varia, ma l’uniforme priva di dettagli era la stessa. Era l’astronauta del Solway.

Nevia fu impassibile di fronte al subbuglio prodotto, ma si leggeva una certa soddisfazione nei suoi occhi. Era una situazione raccapricciante, ma quantomeno nessuno ora la guardava più con sufficienza. « Di questi, sette casi sono all’interno della giurisdizione di Giubilopoli. Sette fotografie che ritraggono creature che non sembrano esistere ».

Sette casi denunciati, rettificò a mente Lunick. Quanta gente nel fervore della vigilia si preoccupa di figure bizzarre che appaiono sui loro display digitali? I più avrebbero dato la colpa all’apparecchiatura, eventualmente rimandando all’indomani gli accertamenti. Sette, ma sicuramente i riscontri reali erano molti di più.

« Passerei la parola al professor Rodrick Hastings, che potrà dirvi di più per quanto riguarda il lato scientifico » comunicò Nevia facendosi da parte. Al suo posto si pose un uomo anziano, probabilmente sui cinquantacinque anni, dalla canizie avanzata e la folta barba bianca ben curata. Si appoggiava a un bastone da passeggio – anche se era discutibile che ne avesse un reale bisogno – e i suoi abiti erano a dir poco stravaganti, abitudine tanto radicata da avergli fruttato la non comprovata fama di daltonico. Si trattava del direttore della sezione scientifica del Dipartimento, dove era noto con il fantasioso nomignolo di Frenesio per i suoi modi frettolosi.

L’uomo si schiarì la voce, parlando poi con un timbro singolarmente energico per l’età « Abbiamo effettuato analisi spettrometriche su ventuno delle immagini, le rimanenti sono ancora in corso ». La diapositiva retrostante rimase la medesima come soggetto – era ferma su una delle istantanee in cui era apparsa la misteriosa figura –, ma i colori mutarono rendendosi più simili a un negativo come schema. In termini tecnici sarebbe stata definita una mappa spettrometrica. « Assumendo sorgenti tradizionali di illuminazione possiamo notare come l’astronauta, o gli astronauti, non sembrino interagire con la luce circostante. Il che significa, sono convinto, che non sono realmente lì ».

Pur non potendo vantare le nozioni ottiche di Hastings, Lunick era giunto alla medesima conclusione per altri mezzi: a meno che quegli individui non fossero impossibilmente agili era assurdo ipotizzare che nessuno avesse avuto una collisione con essi mentre non erano visibili.

« Dunque la mia richiesta è che veniamo in possesso delle macchine fotografiche incriminate per esaminarle. Ritengo che si possa supporre che il problema siano queste ultime, nonché–– ».

« Mi scusi se la interrompo, professor Hartnell, ma non vorrei che perdesse tempo a esporre conclusioni errate ».

Gli astanti si voltarono all’unisono verso il fondo dell’aula. Lo spazio intorno a colui che aveva parlato si liberò poiché i Ranger che gli stavano vicino si erano appena ritratti stizziti.

« Hastings » lo corresse il professore « Lei chi è? ».

La reazione di Nevia fu decisamente meno pacata, richiamando l’interessato con un sibilo « Bellocchio ».

L’uomo si alzò con l’atteggiamento di chi viene interrogato alla lavagna, con la differenza che lui voleva essere chiamato. Tutti i partecipanti alla riunione iniziarono a discorrere sottovoce indirizzandogli malizie, e Lunick se lo aspettava: lui, Primo e Laura erano praticamente le uniche persone del Dipartimento di Giubilopoli ad apprezzarlo. Qualcuno era invidioso delle sue doti, ma i più lo ritenevano semplicemente un arrogante montato.

« Chiedo venia, non sono granché con i nomi ».

« Questa è una riunione riservata ai Ranger di grado superiore al quinto » ringhiò Nevia.

La risposta di Bellocchio fu quella di uno che si tratteneva per rispetto dal ridere in faccia alla donna « Sì, beh, non si offenda, ma i vostri divieti tendo a vederli più come consigli ».

« Lei crede che le mie conclusioni siano errate? » lo interpellò Hastings risentito.

« Beh, non la metterei giù così pesante… ».

« Sono state le sue esatte parole! ».

« Va bene, va bene, Dottor Stranamore, come dice lei! Il punto è che il problema non sono le fotocamere, gli astronauti esistono davvero ». Di fronte a centinaia di occhi allibiti il giovane sfoggiò un piccolo apparecchio fotografico e vi armeggiò brevemente prima di porgerlo al professore. Lunick, pur lontano com’era, lo riconobbe: era la macchina di Primo.

« Che cos’è? » domandò Nevia alzandosi sulle punte per riuscire a intravedere il piccolo display.

« Un’altra foto dell’astronauta » commentò Hastings incuriosito « Dove l’ha scattata? ».

« Due minuti fa in questa stanza ».

Vi fu un trasalimento collettivo. In un singolo istante decine di sedie arretrarono di scatto, strisciando sul pavimento in un frastuono assordante. La Leader dovette compiere un immenso sforzo per richiamare tutti all’ordine e invitarli alla calma, ma al contempo comprese che, suo malgrado, aveva perso.

E anche Hastings lo capì perfettamente. « Va bene, è evidente che ne sa più di me » sospirò « Parli pure ».

« Ora sì che la cosa si fa intrigante! » sorrise Bellocchio radioso. Stava aspettando quel lasciapassare da molto tempo, o almeno così lasciava intendere dato che come fu sul portatile di Nevia seppe immediatamente cosa fare. Si riportò indietro alla fotografia a colori naturali, quindi proseguì a ritroso lungo tutte le istantanee mostrate nella slideshow. « Guardatele bene. Hanno tutte una cosa in comune ».

Lunick lo osservò con meraviglia: quei fotogrammi erano slittati rapidissimi sulla parete poco prima, eppure l’uomo era riuscito a memorizzarli quanto bastava per asserire che avevano una cosa in comune. Qualcosa che lui nemmeno alla velocità ridotta a cui andavano al momento riusciva a identificare.

« Sono notturne? » suggerì il professore.

« Sono perfette. Quarantatré foto notturne, di cui tre in vie affollate, e non c’è nemmeno una figura sfocata ».

« Non è così complicato fare foto decenti » ribatté Nevia scettica.

« E qui viene il passo numero due ». Bellocchio arrestò la sequenza sulla fotografia di un interno: un albero di Natale sfavillante come soggetto, affiancato dall’ormai familiare ma non per questo meno inquietante astronauta. Il ragionamento successivo uscì dalla bocca dell’uomo a una sveltezza inconcepibile, eppure fu tanto chiaro da non richiedere nemmeno una ripetizione. « Guardate il livello dei dettagli, si possono quasi contare gli aghi. Potrebbe essere solo alta qualità, ma le lampadine decorative dell’albero quasi non rischiarano, segno che l’obiettivo ha catturato poca luce. Perché? Perché questa fotografia è stata scattata con tempo di esposizione molto basso, esattamente come tutte le altre quarantadue, e per questo non ci sono segni di movimento. Ho provato a scattare fotografie a vari tempi di esposizione e l’astronauta è divenuto visibile solo a meno del trecentesimo di secondo, mentre l’occhio umano medio campiona circa duecento frame al secondo. Professor Hartnell, l’astronauta del Solway esiste, e la sola ragione per cui non lo vediamo in questa stanza in questo preciso momento è che diventa opaco alla luce a intervalli regolari troppo brevi perché noi possiamo accorgercene ».

Nessuno fiatò. Persino i più accaniti detrattori di quell’uomo erano in un stato assente, strabiliati sia dalla deduzione che dalle sue implicazioni. Perché il sunto era terribile, a ben pensarci: a Sinnoh abitavano degli inquilini fantasma che, per qualche ragione, si erano resi visibili alle fotocamere nella vigilia di Natale. Poche cose avrebbero potuto rendere quel silenzio più irreale; ma una di queste sarebbe stata lo squillo di un telefono.

Che fu esattamente ciò che avvenne. Lo snervante trillo artificioso del landline posto sul bordo del tavolo Magnezone echeggiò nella stanza per almeno due cicli completi nell’imbarazzo collettivo, fino a che Nevia non prese la decisione di rispondere.

« Sì… Me…? Sì, passamelo… Leader Nevia, mi dica… » esitò, conscia di avere catalizzato l’attenzione generale. La cornetta era probabilmente di ottima fattura, poiché nessun suono filtrò per essere sentito nella lunga pausa che seguì e che vide il volto della donna contorcersi di un’espressione scompaginata. « Ne è sicuro? ».

A quel punto l’interlocutore dall’altro capo del filo doveva aver riattaccato, lasciando la Leader in una preoccupante condizione di catalessi.

« Tutto bene? » la interrogò Hastings, turbato dalla sua smorfia vacua.

« Era un uomo » cominciò a spiegare Nevia incredula « Diceva di sapere qualcosa di molto importante sugli astronauti ».

Fu allora che tutti gli occhi dei Ranger si diressero dritti su Bellocchio. Non vi fu una parola per spiegarne la ragione, ma il giovane comprese fin troppo bene e restituì uno sguardo determinato. La sua esposizione precedente lo aveva qualificato come il più esperto nell’ambito, il che era bizzarro considerato che ne sapeva quanto loro. Ma le sue capacità deduttive avevano fatto la differenza, elevandolo come persona più indicata per affrontare la crisi; e la naturale conseguenza era che, per quella notte, lui era ufficiosamente al servizio della Federazione. Senza busta paga.

 

 

« It’s more than a feeling, when I hear that old song they used to play… ».

La voce di Brad Delp seguì un breve riff di chitarra riprodotto dagli speaker del cellulare. Bellocchio lo afferrò con un guizzo dalla cintura del ragazzo che aveva davanti e premette il tasto di risposta dopo aver lanciato un’occhiata al chiamante. « Professor Hartnell! ».

Hastings, mugugnò tra sé e sé lo scienziato, riconoscendo a sua volta immediatamente il timbro di chi gli parlava « Perché ha risposto lei? ».

« Primo è impegnato a guidare ».

Il traffico era moderato lungo Foster Avenue, viale a due corsie per lato dove il motorino del suddetto tentava invano di farsi strada tra .le vetture che sfrecciavano sull’asfalto. Ogni sforzo era finora andato a vuoto, con risultanti imprecazioni di Primo che non poteva muoversi agilmente come avrebbe voluto poiché Laura, insistendo per accompagnarli, l’aveva costretto a montare il sidecar. Bellocchio sedeva dietro di lui da ormai mezz’ora abbondante, alla ricerca dell’indirizzo dato a Nevia dall’ignoto che, secondo la mappa di Giubilopoli, doveva trovarsi da qualche parte nella periferia della città. All’inizio erano andati a rilento per un ingorgo in Stonemill Boulevard, poi faustamente la situazione era migliorata.

« Credevo che sareste andati in volo! ».

« Sì, come no, con questo freddo! Allora, che novità? ».

« Dopo una ricerca minuziosa posso dire con discreta certezza che l’unico astronauta che abbiamo qui dentro è nell’Aula Magnezone » espose Hastings con precisione mentale invidiabile « Ci ho condotto alcuni esperimenti e ho scoperto una cosa che sarebbe bene sapeste ».

« Pendo dalle sue labbra ».

« Non sono semplicemente invisibili, non esistono! ».

Bellocchio sospirò « Non avevamo già affrontato quel punto, professore? ».

« No, non ha capito… Non è che diventano visibili, iniziano a esistere! Cioè, se vogliamo potrebbe trattarsi di un sofisticato tipo di teletrasporto, ma–– ».

« Parole chiare e semplici, Doctor Feelgood ».

Il professore cercò di far buon viso a cattivo gioco di fronte ai continui nomignoli che gli venivano assegnati, ma il suo tono soffrì comunque del risentimento inespresso « L’astronauta che abbiamo nel Dipartimento appare e scompare fisicamente! Non è solo una questione ottica, svanisce proprio! Per cui non lo possiamo portare fuori, non abbiamo abbastanza tempo per imprimergli anche solo una piccola forza! ».

« Avete provato a porvi esattamente dove si trova il corpo? ».

« Anche supponendo di muoversi in tempi dell’ordine dei millisecondi, la sovrapposizione di stati indurrebbe una repulsione atomica tale da disintegrare i due corpi ».

« Questa però non faceva ridere. Avrebbe potuto dire “le tombe non fanno per me” » ironizzò il giovane « Quali sono le buone notizie? ».

« Chi ha detto che ce ne sono? ».

« Mi sembra fin troppo felice per uno che viene da un fallimento ». Lo scooter tagliò in quel momento la strada a un furgoncino che godeva di precedenza, sfiorando una disastrosa collisione e guadagnando un sonoro clacson da parte del camionista. « Ehi, Primo, guarda la strada! ».

Il ragazzo protestò, incolpando Laura con un cenno del capo « Mi agita davanti il taccuino! ».

L’uomo tornò con la testa al telefonino « Dicevamo? ».

« Ho estrapolato il periodo di presenza dell’astronauta. Sto mettendo a punto un trasmettitore per isolare i fotogrammi e avere una visione continua ».

« Fingerò di aver capito tutto. Primo, quanto manca? ».

« Un minuto e mezzo » lo informò prontamente lui « Venti secondi se sgancio il sidecar e lascio qui Laura ».

« Arrivederci, professor Hartnell! » lo salutò Bellocchio giocondo, e sapendo che Hastings in quel momento lo stava per maledire in dieci lingue riagganciò rapidamente.

Il motorino, avendo imboccato una traversa dopo l’incidente sfiorato, saettava ora su una via pressoché deserta battuta occasionalmente da pullman altrettanto desolati. Si arrestarono di fronte a un basso edificio, una piccola rivendita di abeti norvegesi. Le luci interne erano quasi completamente spente, al contrario dell’insegna al neon che campeggiava sul frontone: Green Fir Shop & Delivery. L’ingresso era preceduto da un giardino ricolmo di alberi esposti e, vista la data, praticamente dichiarabili come invenduti.

« Che buco » commentò Laura guardandosi attorno. Non c’era anima viva in giro e il clima era pungente, due differenze tipiche dei sobborghi rispetto alle grandi metropoli. « Sicuri che sia qui? ».

Bellocchio controllò il recapito che si era segnato su un piccolo foglio di carta: 25-bis di Tinsel Road. Non c’erano dubbi, il posto era quello. « Certo che un po’ di neve non guasterebbe ».

Avanzarono facendosi strada nel labirinto di aghifoglie fino alla porta d’ingresso, su cui era stato affisso un cartello che riportava l’avviso “OPEN 24/7 ALL DECEMBER”. L’uomo controllò l’orologio da polso: dieci e sei post meridiem. « Primo ».

« Sì? ».

« Resta qua fuori ».

Il ragazzo si vide lanciata tra le mani la sua stessa fotocamera. « Cosa? » protestò energicamente. Mesi e mesi ad aspettare di vivere un’avventura con il suo idolo e doveva fare da vedetta?

« Hanno telefonato senza che nulla sugli astronauti venisse divulgato, chiedendo esplicitamente di Nevia. Potrebbe con alta probabilità essere una trappola, nel qual caso vorrei sapere se qui in giro ci sono i nostri apicoltori ».

Primo effettuò uno scatto di prova, osservandolo stizzito sul display digitale « Non c’è nulla ».

« Fanne più spesso che puoi, e ricorda che potresti non indovinare subito il momento in cui appaiono ».

Laura sovrastò il susseguente sbuffo con la sua domanda « Hai un piano? ».

« E tu saresti la mia fan numero uno? » la riprese Bellocchio per alleggerire la tensione « Certo che non ho un piano ». Suonò al campanello, e quasi subito rispose un clack della porta controllata da impulsi elettrici che sbloccò il lucchetto e consentì ai due di entrare.

L’interno produceva un bizzarro contrasto tra l’assenza quasi totale di luci – giusto qualche fanale triste a rischiarare quanto bastava per non incespicare – e i gioiosi contenuti della stanza: se fuori l’esposizione era riservata agli alberi, dentro spettava alle decorazioni farla da padrone. Dovunque erano disseminati tavoli con recipienti cristallini zeppi di bagatelle natalizie color cremisi acceso; appese dal soffitto pendevano sobrie ghirlande ricoperte di lampadine a cui erano appese stelle dorate da porre in cima agli abeti; e poi scaffali su scaffali di pupazzi di neve, tormente fittizie incapsulate in globi di vetro, calze traboccanti di dolciumi. La cosa più impensabile era che nonostante tutto l’atmosfera rimaneva cupa e gelida, anche per l’assenza di caloriferi funzionanti. L’allegria accalappiata in una gabbia di solitudine.

« C’è nessuno? » chiamò Bellocchio in una direzione generale.

La risposta giunse parimenti da una fonte imprecisata, nonché parzialmente assorbita dalle pareti « Nel retrobottega! ».

« Bel servizio clienti » commentò sottovoce Laura.

Mediante una porticina seminascosta accedettero al secondo locale che componeva l’edificio, ancor più deprimente del primo in quanto univa alla temperatura ostile un’assenza totale di addobbi effervescenti. Qui le sorgenti luminose erano addirittura solo due: un piccolo lume da tavolo affisso a un’angusta scrivania, e il pallore dello schermo del computer che su quest’ultima poggiava. Tutto intorno, per quel poco che si intravedeva, schedari e mobili a cassetti fagocitavano la maggior percentuale dello spazio disponibile.

Seduto al ripiano in legno stava un omuncolo sulla quarantina dal naso a punta, i capelli unticci e un sottile strato di peluria facciale ricresciuto probabilmente dopo la rasatura mattutina. Indossava un giaccone pesante per combattere l’inverno che lo faceva apparire più corpulento di quanto fosse in realtà.

« Buongiorno? ».

« Oh, scusate! » esclamò mortificato l’individuo alzandosi. Era basso, dell’altezza di Laura più o meno. Strinse la mano di Bellocchio con il piglio dell’imbonitore baldanzoso « Fox Duchovny. Mi spiace per il freddo, il riscaldamento ogni tanto salta. Siete qui per un albero oppure per delle decorazioni? ».

Senza dire una parola Laura sfilò dalla tasca il suo tesserino da Ranger. L’uomo lo fissò inebetito per qualche istante, per poi riflettere e comprendere l’equivoco. « Oh, voi siete… ».

« Ci siamo presentati appena possibile ».

Fox li squadrò dalla testa ai piedi « Avete cambiato uniforme? La ricordavo… ».

Bellocchio e Laura si guardarono a vicenda, rendendosi conto solo allora che avevano ancora indosso vestiti identici. « Divisa da ufficio » improvvisò il giovane.

Il proprietario annuì, sfregandosi le mani per scaldarsi « Capisco… Prego, prego, accomodatevi… Non c’è dove sedersi, mi spiace ».

« Mi piace stare in piedi. Ha detto di sapere qualcosa sugli astronauti ».

« Ah, lo sapevo! » proruppe esultante Fox « Lo sapevo che anche voi ve n’eravate accorti stavolta ».

Bellocchio lo scrutò come si scruta un abile giocatore di poker, di cui peraltro lui nemmeno conosceva le regole. L’importante ora era capire quanto fosse informato sulla faccenda. « Che cosa sa esattamente di loro? ».

« Di sicuro, solo che sono invisibili e per qualche ragione le fotocamere li catturano. Ma non è questa la cosa importante, so che lo sapete anche voi ».

Un rapido sguardo d’intesa con Laura bastò ai due per decidere di non divulgare quella che loro sapevano essere la verità, ovvero il periodo di esistenza: meglio lasciare coperte le carte migliori, almeno per il momento. Bellocchio prese a passeggiare, portandosi a una bacheca in sughero sospesa tramite una coppia di chiodi al muro. Su di essa erano stati fissati calendari, poster, copertine e volantini di argomenti ufologici. Doveva essere un bell’appassionato. « Ci dica ».

« Ho scoperto il legame con il Codice Arguzia ».

« Cosa sarebbe il Codice Arguzia? » lo interpellò Laura, che nel frattempo gironzolava dal lato opposto della stanza.

Fox li osservò stupefatto « Non… Non sapete? È su tutti i forum ».

« Mai sentito ».

« Circa un’ora fa è comparso un disegno nella neve del Percorso 217. Su Internet girano le foto ». Iniziò a manovrare con il mouse, intervallando qualche click a molto scorrimento fino a rinvenire l’indirizzo che cercava. « Ecco, venite a vedere. Questo è il Codice Arguzia ».

Il duo sopraggiunse al computer, dove il browser aveva caricato una fotografia di discreta nitidezza: un piano obliquo di uno spiazzo innevato. Una sezione della distesa bianca presentava delle tracce, una sorta di matrice a quadrati incavati nell’uniforme candore. Non c’era dubbio che fosse intenzionale, erano figure troppo rispettose della geometria per essersi formate casualmente con le impronte.

« Qualcuno si sarà divertito » suppose Laura.

« No, è binario, come il messaggio di Arecibo! Uno appiattito, zero sollevato! Quello è un codice! ».

Bellocchio esaminò l’immagine stringendo gli occhi, considerando che come opzione era plausibile. « E che cosa dice? ».

Fox si voltò a guardarlo « Il binario è solo il mezzo per veicolarlo. Per capire cosa dica serve decrittare il codice secondario ». Indicò vagamente il monitor con una punta di orgoglio « Ho un programma in Assembly che ci sta lavorando. Va per tentativi con vari metodi e varie chiavi, e verifica se sufficienti parole sensate sono state trovate ».

« E questo cosa c’entra con gli astronauti? ».

« Beh, perché… Aspettate… ». Riprese a lavorare alacremente sulla tastiera, e questa volta il risultato fu un file in formato WebM che rappresentava una lenta sequenza di frame tinti di rosso. « Ecco qua. Questa è la registrazione di una webcam a infrarossi montata su una baita, risale a un’oretta fa ».

« Non si vede niente » obiettò Laura cinica, che vi scorgeva solo un ammasso indistinguibile di pixel.

« Guardate… Ecco! » esclamò Fox. Questa volta la Ranger sussultò visibilmente, e Bellocchio con lei: sotto il loro sguardo attento una forza inesplicabile stava appianando la neve un centimetro per volta, ripresa in qualità non ottimale ma sufficiente a non lasciare adito a dubbi. « Visto? Ci sta lavorando qualcuno, ci sono anche le impronte, ma non si vede nessuno. Non possono che essere gli astronauti ».

Il giovane assistette all’evento con un’incredulità non da lui. Un conto era convincersi che qualcuno fosse in grado di esistere a un tasso inferiore alla visione umana, ben altro era trovarsi di fronte una prova schiacciante di tale congettura.

In quegli attimi un avviso sonoro fu riprodotto dalle casse. Fox fu l’unico a farci caso per una semplice ragione: lui aveva impostato la condizione per cui quel suono dovesse avvertirlo. Cambiò finestra con una rapida combinazione di tasti, fissando poi estatico il programma da lui scritto per decifrare l’enigma del Percorso 217. « C’è un risultato… » mormorò paralizzato dall’emozione.

« AIUTO! ».

La voce di Primo arrivò come un fulmine a ciel sereno alle orecchie del gruppo. Bellocchio riprese subito il controllo e scattò verso l’uscita, tagliando con Laura al seguito le esposizioni natalizie del negozio. All’esterno, con suo orrore, il ragazzo giaceva a terra privo di conoscenza con la fotocamera stretta tra le dita, quasi fosse caduto nel difenderla. Gliela strappò dalla mano rapidamente, terrorizzato all’idea di cosa ci avrebbe trovato dentro.

E le sue paure si realizzarono: l’ultima fotografia scattata presentava cinque astronauti a un passo dal Ranger. « Sono qui ».

Laura trasalì. Il giovane si alzò in piedi con il respiro a mille, cercando di mantenere il sangue freddo necessario per affrontare la situazione, e premette a ripetizione il tasto dello scatto per provare ad avere una visione in tempo reale della situazione. Dopo dieci istantanee a vuoto ne trovò un’altra utile, e quest’ultima mostrava che le raccapriccianti sagome argentee li avevano appena circondati bloccando ogni via di fuga dal giardino.

Il proprietario li raggiunse confuso ed eccitato in quel momento, trovando però la coppia molto più cupa e all’erta. « Che… Che succede? ».

« Fox, ho bisogno che tu risponda a questa domanda pensandoci bene ». Bellocchio strinse i denti, rendendosi conto solo ora di una questione capillare che non aveva considerato « Perché hai chiamato la Federazione per raccontarci degli astronauti? Perché non la polizia? ».

« Io–– ». L’uomo esitò, trovando con suo stupore di non sapere la ragione. Perché non aveva invocato le autorità competenti e si era rivolto a delle guardie forestali? Un quesito così sciocco da metterlo in crisi.

« Ti hanno già preso » spiegò Bellocchio, e la rivelazione sconvolse sia il diretto interessato che Laura. Dai pochi fotogrammi di cui disponeva gli astronauti erano immobili, e si chiese se non li stessero deridendo a loro insaputa. « Ti controllano. Volevano che chiamassi i Ranger ».

« Io… No, no… Perché… » balbettò lui, rifiutandosi di credere a una verità tanto orribile. « Io sono Fox Duchovny! ».

« Sì, sì che lo sei » ribatté categorico il giovane afferrandogli le spalle. « Tu sei Fox Duchovny! Hai appena decrittato il Codice Arguzia, ricordi? ».

« Sì… Ho decrittato… ». Le sue parole si facevano sempre più incerte, come se stesse perdendo autocoscienza.

« Ho bisogno di sapere il risultato, Fox. Cosa diceva il Codice? ».

« Ja… » Fox fu colto da uno spasmo di dolore e si inginocchiò sofferente.

« Devo saperlo! ».

« JAMIE ANDRONICA! ».

Il quarantenne stramazzò a terra disarticolato esalando il suo ultimo respiro, e i suoi occhi si spensero senza nemmeno concedergli un ultimo pianto liberatorio. Bellocchio arretrò terrificato e finì per scontrarsi con le spalle di Laura che aveva seguito specularmente i suoi movimenti.

La cosa peggiore non era nemmeno che stessero per essere uccisi dagli astronauti nello stesso crudele e incomprensibile modo con cui avevano assassinato il povero Fox dopo averlo usato per i loro ignoti scopi. La cosa peggiore era che, dal momento che non riuscivano a vederli, non avevano alcuna speranza di difendersi.

 

 

Click. Click. Click.

Lunick premeva meccanicamente il pulsante della macchina fotografica da un tempo che già non riusciva più a quantificare. Ogni volta lanciava un’occhiata rapida al piccolo schermo, verificava che la sagoma in tuta spaziale fosse ancora al suo posto e rialzava la testa.

Lo avevano lasciato nell’Aula Magnezone a tenerlo d’occhio, dal momento che erano impossibilitati a spostarlo e certo non potevano rischiare che se ne andasse in giro per il Dipartimento. Comunque non si era mosso, ed era questo a inquietare di più il ragazzo: la sua presenza lo metteva a disagio, come se lo stesse scrutando. Non sapeva che ore fossero, ma pregava che il suo turno finisse presto. Click. Click. Click.

La porta della stanza si aprì e fece il suo chiassoso ingresso il professor Hastings. Portava addosso un apparecchio tanto rudimentale quanto stravagante a vedersi: un paio di occhiali all’apparenza regolari cablati a un blocco di comandi allacciato alla parte alta del busto. A ben guardare all’interno di quest’ultimo era stato scavato uno scomparto che al momento era vuoto.

« Presto, dammi la fotocamera! » esclamò lo scienziato con tono concitato.

Lunick, anche per l’apatia indotta dal ripetere lo stesso movimento per quelle che gli erano sembrate ore, reagì con reattività limitata, ma riuscì comunque a passare di mano l’oggetto sentendosi istantaneamente più leggero. Hastings lo infilò nella cavità succitata e ultimò alcuni collegamenti prima di dichiarare vittoria. « Ci siamo! Finalmente ti ho in pugno, Solway ».

« Che… che cosa sarebbe, professore? » domandò il Ranger strofinandosi gli occhi e sgranchendosi le gambe.

« Guarda tu stesso ». Con un guizzo si sfilò la coppia di lenti e la appoggiò sul naso di Lunick, il quale non poteva capacitarsi di ciò che stava vedendo. Erano cristalli comuni, privi di correzione ottica, ma attraverso di essi riusciva a vedere l’astronauta continuativamente.

« Ma… ma è impossibile! » farfugliò sbalordito « Come ha fatto? ».

Hastings si riappropriò degli occhiali e iniziò a spiegare infervorato « Prima abbiamo estrapolato il periodo di esistenza, giusto? Con l’aiuto dei miei assistenti ho assemblato un congegno che scatta automaticamente foto durante quell’intervallo e le invia a questi display che ho inserito nella montatura! ».

« Ah! Cioè vediamo soltanto gli istanti in cui gli astronauti esistono, giusto? ».

« Esattamente! Per il fenomeno di persistenza retinica vediamo i frame come un movimento fluido, anche perché la frequenza di campionamento supera quella dell’occhio umano » soggiunse l’uomo « Come dovrei chiamare questo affare? ».

Lunick ci rifletté, divertito dal fatto che ora riuscisse addirittura a pensare a cose tanto frivole « Che ne dice di Astrolenti? ».

« … Astrolenti! Si, fa molto Star Trek! » commentò Hastings, girando attorno alla figura che ora riusciva a scorgere nitidamente sul fondo dell’Aula. Sul suo volto si dipinse un sorriso trionfante.

Che però svanì com’era comparso. Il professore fu colto da una stretta al cuore e aggirò la sagoma a lui familiare per condursi contro la parete, dove una finestra si affacciava sullo skyline della città. Premette le mani contro il vetro per poi farle ricadere lungo i fianchi, e sferrò un calcio al muro per la rabbia. Si era illuso che il peggio fosse passato, per una volta aveva osato farlo.

E invece con l’ausilio delle Astrolenti ora contemplava la tremenda verità: erano ovunque. Davanti al Dipartimento, alle porte di ogni casa, a sorvegliare ogni viottolo, a contare le macchine che circolavano, a scortare passanti ignari. Immobili, in attesa di un segnale.

Giubilopoli era invasa dagli astronauti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

* * *

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spero che Hartnell abbia ragione.

Bellocchio effettuò una mezza piroetta, trovandosi rivolto verso la via antistante il Green Fir Shop, e scagliò la fotocamera di Primo in quella direzione. Come aveva sperato la traiettoria dell’apparecchio incrociò uno degli astronauti e, sfruttando la sovrapposizione di stati di cui il professore aveva parlato, scatenò un’esplosione che coinvolse anche gli aguzzini circostanti. Approfittando del loro auspicabile stordimento, l’uomo si chinò e caricò sulle spalle il corpo inerte del ragazzo; quindi scattò verso l’esterno seguito da Laura, riuscendo a pervenire alla carreggiata.

« SHEILA! » gridò gettando in aria con la mano libera una Mega Ball, e prontamente il coleottero rispose alla chiamata fuoriuscendo librante dal lampo rosso. Il giovane vi salì in groppa dopo avervi deposto il suo bagaglio organico, tendendo poi il braccio verso la Ranger.

Non riuscivano a vedere i loro nemici, e cosa più terrificante non ne conoscevano la velocità; ma supposero che Laura li avesse anticipati e Yanmega decollò alla volta di Giubilopoli appena avvertì il trio ben saldo sul dorso. L’aria che respiravano fu presto gelida per l’alta quota e Tinsel Road non divenne che una striscia grigia nella piana di periferia, ma non negli occhi di Bellocchio. Dentro di lui era ancora viva l’immagine di Fox che si accasciava esanime, e la coscienza che Primo era caduto vittima degli stessi nemici. E la conseguenza che, chissà quanto in fretta, sarebbe andato incontro allo stesso destino.

 

 

 

PARTE SECONDA – Per aspera ad astra

 

 

 

« È pieno, ti dico! Non c’è un angolo che non abbia un astronauta! ».

L’ufficio era quello di Lunick, eppure se qualcuno fosse entrato in quel momento avrebbe avuto un’impressione ben diversa: quella dello studio di un professore dalla folta barba che stava conversando piacevolmente con uno dei suoi allievi. L’effetto sarebbe stato accentuato dal fatto che il Ranger, troppo nervoso per degustare i piaceri di un cuscino morbido, aveva ceduto la sedia girevole all’anziano signore.

« No, no, qualcuno se ne sarebbe accorto ».

« L’hai visto anche tu! » contestò Hastings « Hai usato le Astrolenti! ».

« Le Astrolenti non funzionano, allora! ». Lunick si interruppe, stupito dal limite che nella sua hýbris aveva appena valicato: negare una realtà che aveva assodato egli stesso perché cozzava con le sue convinzioni. Corresse il tiro « No, scusi, scusi, io… Non è possibile! Avremmo più foto! ».

« Quarantatré foto in due ore. Saremmo dovuti arrivarci anche prima ».

« Ma non possiamo starcene con le mani in mano! Dobbiamo combattere! ».

Hastings scosse la testa. Qualcuno l’avrebbe additato come pessimista, ma non ci sarebbe stato nulla di più lontano dalla verità: lui era semplicemente una mente scientifica, e come tale era intrinsecamente concreta. « Non si può combattere contro numeri di quel genere ».

« Contattiamo gli altri Dipartimenti! ».

« Ci sono più astronauti a Giubilopoli che Ranger in tutta Sinnoh. Lascia perdere, Lunick. Possiamo solo sperare che se ne vadano così come sono venuti ».

Lasciar perdere. No, non era da lui. Non era di quelli che davanti a un incendio chiamano i vigili del fuoco, e neppure di quelli che aspettano che si spenga o che venga a piovere. Lui davanti a un incendio si sarebbe gettato tra le fiamme. E ora che aveva il più grande rogo dai tempi della prima apparizione di Clipse doveva semplicemente augurarsi che non divampasse oltre i confini? Loro non conoscevano le debolezze gli astronauti, ciò era innegabile: li avevano appena incontrati. Ma perché avrebbero dovuto assumere che gli astronauti conoscessero le loro? Tutto ciò che si erano mostrati capaci di fare era stare fermi e guardare.

La porta dell’ufficio si spalancò e una Solana trafelata fece ingresso con il fiatone. « Eccoti! » esclamò « Credevo fossi in Magnezone! ».

« Ci siamo spostati qui » spiegò lui spaesato « Che succede? ».

La giovane sembro faticare nel trovare le parole, o forse semplicemente era fiaccata da quella che doveva essere stata una lunga corsa. « Hanno portato Primo nel reparto ospedaliero ».

 

 

Lunick galoppava a perdifiato lungo il pallido corridoio dell’edificio che lo avrebbe presto condotto alla destinazione prevista. Solana lo affiancava come poteva, e nonostante il fatto che il suo amico avesse mostrato fin dall’infanzia una predisposizione alla corsa riusciva comunque a stargli dietro sospinta dall’urgenza.

L’ultima volta che avevano sentito il nome di Primo era stato dalla bocca di Furio, il quale li aveva informati che avrebbe accompagnato Bellocchio a Tinsel Road per seguire la pista della telefonata. Se ora necessitava di assistenza medica era in gioco ancora di più della preziosissima vita di un quindicenne: a meno che il suo accompagnatore non lo avesse coinvolto in un qualche caso secondario – e Lunick si sentiva di escluderlo, perché quell’uomo aveva ben chiare le sue priorità quando serviva –, il pericolo probabilmente incontrato doveva essere collegato ai loro misteriosi avversari in tuta. E se la sua deduzione era corretta, ovvero avevano fatto il primo passo, allora la guerra era iniziata.

Finalmente raggiunsero il banco informazioni del reparto, dove una donna di mezza età dai capelli ricci era barricata dietro una lastra di vetro.

« Cerchiamo Primo Barondess » si impose il giovane, a cui la premura aveva rimosso ogni arzigogolo prescritto dalla cortesia.

« Sì, è arrivato… Giusto adesso, in effetti » rispose lei attraverso la sagoma bucherellata all’altezza della bocca, che faceva apparire il suo timbro quasi innaturale « Ma si trova in terapia intensiva, non può visitarlo ».

Solana si lasciò andare a un’espressione di angoscia, Lunick si ridusse a imprecare interiormente mentre si passava la mano sul volto sudato. Terapia intensiva implicava pessime, pessime notizie.

« Ah, ci siete anche voi! ».

I due si voltarono: dalla loro destra, sbucata da uno degli androni in cui si biforcava la strada oltre il bancone, una nota Ranger dai capelli biondi si era loro fatta incontro. « Ciao, Aria » la salutò Solana, solo moderatamente sorpresa « Anche tu qui per… ? ».

« Primo, sì. Ho insistito dicendo che Savino dirige il reparto, ma dicono che non fa differenza ». Savino era il fratello di Arianna, nonché appunto autorità incaricata di gestire la sezione ospedaliera del Dipartimento di Giubilopoli. Se nemmeno sua sorella era riuscita a entrare non c’erano alcune speranze.

Lunick, che nel frattempo si era chiuso in un silenzio meditativo, rammentò di colpo un fatto che aveva tralasciato. « Laura, Laura era con Bellocchio e Primo! Come sta? ».

« Ah, è in sala d’attesa. Solo Primo ha riportato ferite, gli altri due sono usciti indenni » lo informò la giovane. Il ragazzo la ringraziò con garbo ritrovato e si avviò nella stanza indicata, le idee mai così chiare. Lo sapevo, pensò, lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo. Se lo ripeté mille volte nel tragitto, senza mai distrarsi. Erano stati quei bastardi, avevano agito. Cos’hai da dire ora, Frenesio?

La sala d’attesa era di un clinico colore bianco, discretamente mantenuta per merito delle sovvenzioni della Circoscrizione. Attorno a due pilastri portanti erano distribuite file di seggiole opache; tutte ben tenute, eccezion fatta per una visibilmente fracassata. Su un’altra di esse aveva preso posto una piccola teenager tremante con una pesante coperta addosso.

« Laura! » esclamò il giovane precipitandosi da lei. La abbracciò, trovandola infreddolita e nel costante bisogno di forzare l’aria attraverso il naso otturato. Glielo aveva detto, lui, che con quel vestito era troppo leggera… « Che vi è successo? ».

« Era… Ci aspettavano. C’era questo tizio, Fox, e lui… Lo controllavano, a quanto ho capito. Bellocchio diceva che Primo avrebbe fatto la stessa fine… ». La ragazza scoppiò in un gemito ininterrotto. Lunick cercò di consolarla come poteva, optando per cessare qualunque pretesa avesse di capire di più: era confusa e spaventata, e turbarla era la peggiore idea che potesse venirgli in mente.

Udì dei passi provenienti da ambo i lati del locale. Da uno giunse Solana, che subito si fece incontro a Laura per sostituire il suo amico nell’arduo compito di consolarla. Dall’altro, invece, arrivò un ventiquattrenne dalla chioma paglierina, una coppia di lenti sottili sugli occhi e un’espressione austera che stonava decisamente con l’età. « Buongiorno a tutti » declamò con un tono professionale viziato dai rapporti di simpatia che intratteneva con i presenti.

« Savino! » sobbalzò Lunick, che forse mai era stato così felice di vederlo come ora « Come sta Primo? ».

Quello eluse la domanda e si accostò a una Laura ancora lacrimante, accarezzandole dolcemente il capo « Ho chiesto ai miei amici migliori di fare ricerche su questo Jamie Andronica. Se ha la minima rilevanza lo sapranno molto presto ».

« Jamie Andronica? » ripeté curiosa Solana.

« Un indizio lasciato da Fox Duchovny prima di… ». Si fermò trascinando l’ultima preposizione, evitando di aggravare la circostanza « Lunick, puoi venire di là un secondo? ».

Il Ranger annuì silenziosamente e lo seguì ubbidiente nel corridoio da cui era venuto, ma dentro di sé ebbe un tuffo al cuore: se voleva comunicargli qualcosa che non poteva essere detto di fronte a Laura, con buona probabilità non sarebbe piaciuto nemmeno a lui.

« È stato molto avventato chiedermi di Primo davanti a lei » lo rimproverò Savino sottovoce, ma con un’inflessione marcatamente severa.

« Scusami, hai ragione ».

« Ancora non sappiamo che cos’abbia. Però Emma mi ha informato che mentre conducevano esami su di lui per capire cosa non andasse… ». Si portò le mani alla bocca, facendosi coraggio per proseguire « … è scomparso per un istante ».

Il fiato di Lunick si mozzò. « No… ».

« Le ho detto di notificarmi immediatamente se risuccedesse, e di cronometrare quanto tempo trascorre tra una sparizione e l’altra. Non voglio allarmarti senza avere dati certi ».

Missione fallita, pensò lui. Era più che ovvia cosa stesse accadendo: gli avevano impresso un periodo di esistenza. Stava diventando uno di loro. « Frenesio ha sviluppato degli occhiali per vederli continuativamente. È pieno là fuori, Savino. Giubilopoli è piena di astronauti » spiegò con il battito cardiaco in sovreccitazione « Credi che anche loro prima fossero… ? ».

« Come ho detto, niente allarmismi. Ma stiamo attenti » troncò subito il direttore di reparto. Iniziò ad allontanarsi, e quello fu il segnale definitivo che confermò i sospetti di Lunick: non voleva parlarne. Anche lui, in fondo, non poteva sopportare l’idea.

« Comunque dovresti far riparare la sedia rotta ».

« È successo cinque minuti fa, dammi il tempo ».

« Come “cinque minuti fa”? Chi è stato? ».

Il giovane biondo si voltò, rivolgendogli un’occhiata critica che lo perforò « Prova a immaginare ».

(« Fatemi passare! » gridò Bellocchio dal profondo della gola, spingendo contro Furio che lo stava trattenendo a forza per impedirgli di andare oltre. Laura, che lo aveva seguito, era adesso arretrata di qualche passo per non essere coinvolta nella colluttazione.

« Non puoi entrare in terapia intensiva » replicò categorico Savino, immobile sul lato opposto della barricata quale baluardo secondario.

« SOLO IO SO COSA GLI È SUCCESSO! ».

« ALLORA PARLA! ».

La furia del fratello di Arianna, sempre così pacato, fu come una campana che riportò tutti alla realtà. Furio non dovette più nemmeno esercitare alcuna forza: il suo oppositore era paralizzato. E non dalla dimostrazione di collera, ma dal fatto che di fronte a quell’esortazione si scoprì incapace di rispondere. Lui non sapeva veramente cosa fosse successo a Primo.

« Già, immaginavo » commentò Savino inflessibile « Notizia dell’ultim’ora, mio caro: non puoi sempre aiutare tutti ». Un infermiere gli sussurrò qualcosa e, nell’attimo successivo, i due si stavano allontanando a passi rapidi verso gli ambulatori.

Bellocchio strinse i pugni, sentendoli mai tanto deboli. « IO POSSO FARE QUELLO CHE VOGLIO! » sbraitò sferrando un calcio di violenza inaudita a una delle seggiole lattee accanto a lui, sfondandola di netto. Furio si preparò a dover sopportare un’altra carica, ma non si verificò nulla del genere: l’uomo si limitò ad inoltrarsi nella direzione opposta, nascondendo il volto.)

« Dove si trova ora? » domandò Lunick.

« E cosa ne so? » ribatté Savino sferzante, procedendo con andatura marciata « Ad affossare qualche altro dirigibile, immagino. Che gli importa di noi quaggiù? ».

 

 

Dal fratello alla sorella, Lunick si imbatté in Arianna mentre percorreva una delle ben tenute gallerie delle zone alte del Dipartimento. Era di fronte a una porta, spalle al muro e braccia conserte come una guardiana.

« Che ci fai qui? » le domandò.

« Il tuo amico psicopatico è dentro. Non vuole essere disturbato, ma di certo non lo lascio solo con l’astronauta ».

Il Ranger gongolò alla conferma di aver avuto ragione. Quale sarebbe dovuto essere il posto più adatto per Bellocchio in quel momento, se non l’unica stanza veramente pericolosa dell’edificio? Ovviamente si doveva essere recato all’Aula Magnezone. « Vai pure, resto qui io ».

« Meglio di no » sbuffò « Potrebbe servirti il mio aiuto, è anche più fuori del solito ».

Il ragazzo assentì ed entrò, non prima di averle fatto un’importante raccomandazione: lui ora avrebbe chiuso l’anta, e lei avrebbe dovuto aprire solo se avesse sentito lui in persona chiederlo. Arianna non contestò, e come d’accordo lo barricò in quella ormai nota sede di riunioni.

Era quasi intatta rispetto a come l’aveva lasciata dopo il meeting organizzato da Nevia. Due soltanto erano le differenze principali: alcuni oggetti, tra cui il telefono con tanto di cavo a spirale, erano sparpagliati intorno alla presumibile posizione dell’astronauta; e ovviamente c’era il suo uomo, accovacciato su uno dei seggi con indosso le Astrolenti di Hastings.

« È ancora lì? » mormorò Lunick per iniziare una conversazione.

« Ne ho ucciso uno a Tinsel Road tirandogli una macchina fotografica, ma non funziona più. Penso si spostino quanto basta per collidere mentre esistono, quindi ora gli oggetti rimbalzano ». Le parole si trascinavano, quasi avesse le labbra anestetizzate e si dovesse impegnare per parlare.

« Vuoi raccontarmi cos’è successo? ».

« No ».

« Va bene ». No, in realtà non andava bene, nulla di tutto ciò andava affatto bene. Supponendo che le figure che apparivano nelle fotografie fossero entità diverse, il fatto che fossero migliorate su base di quanto accaduto a una di loro significava che erano dotate di un una coscienza comune, una sorta di hivemind. Ma non aveva il cuore di dirlo, specie visto che Bellocchio sembrava avere avuto un esaurimento nervoso su piccola scala. « Hai visto fuori dalla finestra? » gli chiese sedendosi vicino a lui. Non ottenne risposta, il suo amico continuava a fissare davanti a sé. « Hastings dice che sono più di tutti i Ranger a Sinnoh ».

« Altre belle notizie? ».

A quel punto Lunick ebbe uno scatto di collera che normalmente non manifestava. Se c’era una cosa che non riusciva a sopportare era l’assoluta mancanza di costruttività insita nei comportamenti passivo-aggressivi. « Esattamente cosa speri di ottenere con questo atteggiamento? Pensi di essere d’aiuto? Perché abbiamo un’invasione per le mani, e di certo non ci serve uno che resta in una stanza a piangere ».

« Cosa ne sai, tu, di come mi sento? ».

« Non lo so, ma so che il Bellocchio che conosco io non si fa prendere dal momento. Questo non è il momento di piangere, è il momento di reagire ».

« Non ti pare che abbia già fatto abbastanza? Hai visto com’è finito Primo ».

« Oh, sì, eccolo che parte » lo provocò, assumendo di proposito un tono antipaticamente sarcastico. Era davvero stufo. « “Metto le persone in pericolo!”. No, Bellocchio, non sei tu che metti le persone in pericolo, gli astronauti mettono le persone in pericolo! Clipse mette le persone in pericolo! ».

« Avrei potuto rifiutarmi di portarlo. Il tuo tentativo di giustificarmi non toglie che sia colpa mia ».

Lunick a quel punto non ci pensò su un secondo: portò indietro il braccio e caricò un violento pugno che centrò in pieno la guancia dell’uomo, facendolo ruzzolare giù dalla sedia. Quello si rialzò barcollante, rimuovendo le Astrolenti per evitare di danneggiarle. « Ma cosa fai? ».

« Se davvero è colpa tua, allora te lo meriti ». Gliene sferrò un altro, e poi un altro ancora, ma al terzo colpo Bellocchio lo schivò, per poi prenderlo per le spalle e sbatterlo contro il tavolo. Quindi fece pressione sul suo torace, mantenendolo schiacciato sul ripiano gelido.

« Cosa c’è, eh? Pensi di non meritarlo? È colpa tua, hai detto. Incassa e taci ».

« Penso di non essere l’unico » ringhiò il giovane con istinto animalesco, le vene delle tempie che pulsavano come martellate « Solo in questo Dipartimento ci sono almeno ventitré persone a cui dovresti tirarne ».

« Certo! Tutti fanno errori e si piangono addosso! Ma tu, tu sei sempre stato l’unico che si rifiutava. Sei sempre stato l’unico che anziché convincersi di aver sbagliato si dava da fare per rimediare fin da subito! » esclamò Lunick con voce sicura. Si era già ripetuto nella testa quelle frasi almeno tre volte dal primo manrovescio assestato, ben conscio del percorso mentale che era stato intenzionato a seguire. « Quindi rispondi, Bellocchio. È –– COLPA –– TUA? ».

« NO! » ruggì lui, finalmente convinto di quell’affermazione, e rilasciò il Ranger dalla presa. Recuperò con un balzo le Astrolenti e, spalancata la porta dell’Aula Magnezone, le lanciò a un’Arianna più che mai confusa. « Tieni d’occhio l’astronauta » le intimò, poi si avviò nella direzione opposta a passi decisi, senza attendere una replica.

Lunick si fiondò all’esterno e, incrociando l’occhiata perforante della collega, si scusò con il labiale. Questo, comprensibilmente, non fece che inasprirla « Dove cavolo andate? ».

Bellocchio rispose ormai già distante, ma il volume della sua voce regolare era più che sufficiente per essere udito chiaramente « A far visita a Hartnell! ».

 

 

Hastings si trovava stranamente a suo agio nel Laboratorio Informatico del Dipartimento. Rimpallava da un calcolatore all’altro a osservare il lavoro di quei brillanti giovani che battevano le dita sulle tastiere, fornendo consigli qua e là. Ponderando, attendendo risultati in cui sperava, pur non sapendone la rilevanza.

« Professore, ci sono! » esultò un ragazzo paffuto tra le prime file. L’anziano signore fu lì in un secondo a scrutare il monitor LCD, annuendo soddisfatto. Finalmente un risultato.

« Chiama Lunick » sentenziò con l’aria di chi sottintende impazienza. Certo non si può dire che tale fretta non stesse per essere appagata: nell’istante successivo fece capolino dall’uscio della sala il Ranger anelato. « Ah, hai fatto presto. Ben fatto » si complimentò ironicamente con il suo allievo, premiandolo con una pacca sulla spalla.

Sfortunatamente un’altra figura tristemente familiare in camicia e jeans penetrò appena dopo nel suo santuario, lasciando nel professore l’amaro in bocca. « Stavo per chiedere di voi » li ragguagliò, anche se voi era una larga sovrastima del numero di persone desiderate « Abbiamo trovato qualcosa su questo Jamie Andronica. Costantino, mandamelo sulla lavagna ».

Quell’ibrido tra un sottoposto e uno studente che si trovava al computer eseguì diligente. Ciò a cui Hastings amava riferirsi con lavagna, comunque, non era che un telone atto a ospitare ciò che fuoriusciva dall’obiettivo di un proiettore appeso al centro del soffitto. Bellocchio e Lunick si affiancarono allo scienziato a osservare il risultato della ricerca: la pagina di un social network che, troppo recente per essere indicizzata nei motori di ricerca, riportava la richiesta di aiuto di una donna di mezza età che denunciava la scomparsa di un bambino a Nevepoli. Jamie Andronica, con tanto di foto allegata.

« Tutto qua? » inquisì Lunick dubbioso.

« Beh, dipende » replicò il professore « Non mi è mai stato detto da dove provenisse questo nome ».

« Un codice binario tracciato sulla neve del Percorso 217. Secondo Fox era opera degli astronauti » spiegò concisamente Bellocchio, che trovava l’intera schermata affascinante a giudicare da come la squadrava.

« Beh, forse questo Fox aveva bevuto un bicchiere di troppo, eh? ».

Il giovane scoccò a Hastings un’occhiata fulminante « Duchovny ha sacrificato i suoi ultimi momenti di vita per fornirmi questa informazione ».

Lunick intervenne rapidamente per cercare di stemperare la tensione « Va bene, è un bambino scomparso. Terribile, ma cosa c’entra? ».

Il capo di Bellocchio si abbassò verso il pingue addetto al calcolatore « Quando è scomparso? ».

« Oggi. Non molto tempo fa, in effetti. La notizia risale alle sette e mezza » rispose Costantino dopo un controllo accurato dell’orario di pubblicazione.

« Lo stesso periodo in cui sono pervenute le prime fotografie degli astronauti ».

« Ci stavo pensando » gli fece eco Lunick « ma non capisco il nesso ».

« Forse… » sembrò proporre Hastings, ma la sua vena ispirata terminò molto presto e la frase rimase incompiuta.

Bellocchio esaminò ancora più a fondo la lavagna, quasi vi stesse cercando un indizio. Invece non era così: come spesso capita a molti aveva bisogno di scaricare le percezioni visive per concentrarsi su ciò che i suoi occhi non potevano scorgere.

« È il caso zero ».

Lunick faticò a seguire il percorso mentale « Come? ».

« Sì… Sì. Non avrebbero mai scritto un nome a caso, dev’essere stato il primo. Qualsiasi cosa vogliano gli astronauti ha a che fare con questo Jamie ».

« Okay, mi sta bene come pista » condivise il Ranger, che del resto non aveva idee migliori « Ma… che facciamo? ».

Il giovane si concesse un’altra pausa per decidere, conscio che spettava di nuovo a lui prendere la decisione più ardua. Il suo amico lo aveva aggiornato circa la situazione critica di Primo, e lui stesso aveva constatato che Giubilopoli e forse l’intera Sinnoh era già una grande gabbia di ostaggi in attesa di essere giustiziati. Il tempo scarseggiava, e serviva un cambio di rotta drastico.

« Andiamo al Percorso 217 ».

 

 

Il rotore dell’elicottero produceva un rumore simile a quello di una mitragliatrice automatica da trincea, e il volume in effetti era molto simile. Furio, rinchiuso nella cabina di pilotaggio, doveva prestare la massima attenzione a non distrarsi in quanto nel Dipartimento non erano riusciti a trovare un altro volontario che a due ore dal Natale si imbarcasse in una missione non retribuita, e dunque l’aeromobile era sprovvisto di un secondo aviatore.

Nell’abitacolo passeggeri erano presenti, oltre a Bellocchio e Lunick, anche Arianna e Solana, convinte dal loro amico a partecipare in quanto il loro era “un gruppo indivisibile”, per usare le sue parole. Nonostante fossero in volo ormai da diverso tempo non avevano dialogato granché, ciascuno immerso nei propri pensieri o troppo teso per parlare. Per spezzare una lancia in favore del viaggio, però, la vista che si ammirava dai finestrini era magnifica: il veicolo stava solcando una valle innevata cinta dalle code della catena del Monte Corona, e tra non molto sarebbe giunto a destinazione. Non nevicava neppure in una delle zone più note per tale fenomeno atmosferico a Sinnoh, il che abbassava le speranze di poter ammirare qualche fiocco in quell’anno che Bellocchio aveva nutrito fino ad allora.

Quest’ultimo si prese qualche minuto per mettere gli altri al corrente degli avvenimenti di Tinsel Road, dettagliando maggiormente la questione del Codice Arguzia rispetto a come l’aveva accennata a Lunick. Prima di partire avevano raccomandato a Hastings di produrre quante più Astrolenti poteva in vista di un loro possibile fallimento, di modo che il Dipartimento potesse almeno sperare di opporre resistenza alla conquista.

« Però davvero non capisco » commentò Solana « Cosa c’entra il bambino? ».

« Immagino sia il loro bersaglio. Vista la combinazione di eventi potrei iniziare a supporre che sia stato il primo a incontrare gli astronauti » rifletté Bellocchio. In realtà per l’intero volo aveva cercato di venire a capo di quell’enigma, ma non era nemmeno andato vicino a identificare il bandolo della matassa. Tutto ciò che aveva in mano erano ipotesi derivate dall’unico punto fermo che i loro nemici fossero interessati a Jamie, quale che fosse il motivo.

Arianna rise tra sé e sé. « Un bambino alla vigilia di Natale… C’è ampio spazio per metafore. Immagino che nel Percorso 217 troveremo una capanna ».

« Beh, c’era quella canzone natalizia » rammentò Lunick, intonando poi una melodia che doveva anche essere stata piacevole prima di passare per le sue corde vocali « A spaceman came travelling on his ship from afar… ‘Twas light years of time since his mission did start… ».

« Gli anni luce sono misure di spazio, non ti tempo ».

« Sempre l’anima della festa, vero, Bellocchio? ».

Uno scossone fece vacillare lo stanzino in cui si trovavano. « E questo cos’era? » bofonchiò Solana scombussolata.

La voce di Furio risuonò dall’abitacolo frontale. « Turbolenza aerea. Inoltre la soave voce di Lunick mi ha distratto » soggiunse scatenando risate collettive nel gruppo.

« Dove siamo? » gli chiese Arianna.

« Quasi arrivati, siamo vicini alle coordinate del Codice… Però… ». Un nuovo sussulto, stavolta più violento, proiettò violentemente i passeggeri verso sinistra.

Bellocchio lo ritenne un avvertimento inequivocabile e si sganciò dal sedile per alzarsi. Quindi si sporse oltre i poggiatesta opposti per intravedere il vetro anteriore del velivolo. « Da dove vengono fuori quelle nuvole? ».

Furio dovette ammettere che, focalizzato com’era sul restare in quota, non le aveva notate. Era stata una vigilia dal limpido cielo di novilunio, eppure improvvisamente si erano materializzate dense nubi color pece che oscuravano le stelle. Un nuovo moto improvviso dell’aeromobile lo costrinse a rimettere mano alla cloche, facendolo inveire « Ci saremmo quasi ma… Le correnti sono diventate fortissime, non ha senso! ».

Vero, non ne aveva. Era come se qualcuno volesse impedirgli di andare dove volevano, come se… No, era impossibile. Bellocchio credeva a molte cose, ma all’animismo non era ancora arrivato. D’improvviso un fulmine lampeggiò sopra le loro teste, seguito dal poderoso rombo di un tuono; e l’uomo ebbe un tuffo al cuore quando, alzando la testa, incontrò una macchia scura circolare che si apriva nel cumulonembo che li sovrastava. Furio se ne accorse appena dopo, incredulo « Che cos’è? ».

« Un tornado invisibile ».

I tre Ranger dietro di loro sobbalzarono alla pronuncia delle ultime tre parole e si precipitarono tutti sul lato frontale dell’elicottero per verificare di persona, incuranti delle scosse continue.

« Non esiste nulla di simile a un tornado invisibile! » protestò Arianna, che pur non essendo una meteorologa non poteva accettare un concetto del genere.

« Sì, esistono » ribatté Bellocchio senza distogliere gli occhi dall’incredibile fenomeno atmosferico « Non sempre l’aria che muovono è visibile. Furio, possiamo girarci intorno? ».

Quello ridacchiò, ma più per nascondere la paura che lo atterriva « Non è quello il problema. Questo coso non è sulla strada per arrivarci, questo coso è esattamente dove volevamo arrivare ».

Il giovane arretrò sbigottito. Aveva rifiutato quell’eventualità radicalmente, ma adesso non aveva altre spiegazioni: in qualche modo gli astronauti li stavano ostacolando. Non credeva avessero il potere di produrre un uragano, eppure non poteva essere altrimenti: un evento tanto raro in una notte piatta come quella doveva essere artificiale. Chiunque fosse Jamie Andronica e qualsiasi ruolo avesse, non volevano che lo scoprissero.

« E ora che si fa? » fu la neutra domanda di Solana.

« Ce ne andiamo » rispose categorico il pilota « Non possiamo avvicinarci più di così, perderei il controllo sul rotore ».

« Avvicinati ».

I quattro si voltarono verso Bellocchio, che ora teneva d’occhio la situazione dalla finestra della cabina dei viaggiatori.

« Come? » lo interpellò Furio. D’accordo, quell’uomo era pazzo, ma non a tali livelli o Lunick non l’avrebbe mai portato con sé.

« Hai sentito. Avvicinati al tornado ».

« Per caso stai avendo una crisi mistica? Perché quello che suggerisci è un ottimo metodo per incontrare il tuo creatore ».

Bellocchio in risposta dischiuse la porta dell’aeromobile a una velocità tale che nessuno dei presenti, pur avendo il tempo per farsi prendere dal panico, riuscì a fermarlo prima che finisse ciò che doveva fare. Con un guizzo della mano aprì la Mega Ball, rilasciando Yanmega all’esterno. Nell’esatto istante successivo Arianna lo caricò con una forza considerevole e barricò nuovamente lo sportello, aggredendolo « COSA TI SALTA IN MENTE? ».

« Sinnoh è invasa, e nel momento in cui gli astronauti decideranno di attaccare saremo tutti spacciati. La nostra unica speranza è fare ciò che loro non vogliono che facciamo ».

« Lunick, occupatene tu o giuro che non esce vivo di qua ».

Il Ranger rispose alla chiamata, ancora incerto sul lato da cui schierarsi. « Che dici, Bellocchio? ».

« Quanti tornado invisibili ricordi in questa regione da quando sei nato? » lo interrogò l’uomo. Di fronte al prevedibile silenzio del suo interlocutore, proseguì con risolutezza « Non è naturale, l’hanno messo loro. Siamo sulla pista giusta ».

« Va bene, diciamo che hai ragione. Qual è il tuo piano? ».

« Sheila genererà una corrente opposta che localmente neutralizzerà quella prodotta dall’uragano. A quel punto mi getterò al suo interno per capire cosa c’è dentro ».

« Non funzionerà mai » replicò sprezzante Arianna « Quello Yanmega non manterrà mai abbastanza a lungo l’intensità giusta. La calma durerà un secondo scarso, poi saremo sbalzati via ».

« Non ho mai detto che avrei garantito la vostra o la mia sopravvivenza ».

« COSA? ».

« Ascoltami, per favore » la implorò Bellocchio, cercando di fare appello alla poca razionalità non appannata dall’insofferenza nei suoi confronti « Qual è l’alternativa? Pensi di riuscire a combattere contro un esercito che nemmeno riesci a vedere? ». Era una causa persa in partenza, e lo sapeva. Non poteva convincere nessuno a rischiare la propria vita, nemmeno di fronte a una situazione tanto critica. Glielo leggeva negli occhi.

Poi, d’un tratto, l’elicottero iniziò a muoversi verso il tornado. Arianna si voltò, trovando che Furio stava accelerando verso il punto dove Sheila aveva iniziato a vibrare vorticosamente per contrastare il vortice. « Che cosa fai? ».

« Ha ragione, Aria. Ricordati Alamos, abbiamo rischiato tanto quanto adesso » rispose freddo il pilota, tenendo lo sguardo fisso avanti a sé « Manterrò il controllo, ne sono capace ».

« Grazie » disse Bellocchio, riportandosi a osservare il suo caro Pokémon che lavorava per lui. Quante ne avevano passate insieme, con lui fin dall’inizio, e ora eccoli lì per quella che avrebbe potuto essere la loro ultima avventura. Aveva sempre pensato che avrebbero formato un duo inseparabile, o che sarebbe toccato a lui lasciarla indietro, ma mai l’inverso. La corrente che respingeva l’elicottero andava attenuandosi, e il Ranger alla guida riduceva la distanza dalla parete turbinante invisibile metro dopo metro con la massima cautela. C’erano quasi.

« Inizio a girarmi » annunciò Furio con voce tremante, e impresse all’aeromobile un momento angolare sufficiente per torcersi di novanta gradi, esponendo la fiancata al vento impetuoso. Se esistevano delle leggi della fisica le stavano sfidando in prima persona, un fatto che ispirava esaltazione e soggezione insieme.

Ora o mai più. Bellocchio si fece coraggio e aprì nuovamente lo sportello, sporgendo leggermente fuori la testa e lasciando che la frescura furiosa gli scompigliasse i capelli. Controllò un’ultima volta il suo orologio e chiuse gli occhi per concentrarsi sulla circolazione dell’aria, approntandosi per quando fosse stata annullata.

Tre… due… uno… Il movimento delle pale era quasi assordante, ma riuscì comunque a comunicare un ultimo saluto. « Ehi, Lunick! ».

Il Ranger gli si approssimò per sentire meglio, anche se sapeva cosa stava per dire. « La cosa si fa intrigante, giusto? ».

« No » controbatté quello sornione « Buon Natale! ». Senza neppure gustarsi il volto sorpreso dell’amico si gettò dove sapeva essere il tornado, rimanendo visibile finché l’elicottero fu in quella posizione. Poi Sheila rinunciò a lottare contro la forza della natura e fu sbalzata via, e altrettanto si può dire dell’elicottero che riavvertì tutta d’un colpo la possente imponenza della tempesta.

Furio combatté con ogni sua facoltà per riportarsi in una posizione adatta al volo, ma fu inutile: il velivolo capitombolò privo di controllo nel cielo offuscato, e con esso i suoi occupanti, e infine si schiantò contro una delle pareti rocciose che attorniavano il Percorso 217. Vi fu una poderosa esplosione e le lingue di fuoco si levarono alte sulla neve giacente. Non vi fu un grido o un lamento; solo la grezza quiete delle vette imbiancate ad accompagnare l’incendio, e una fine pellicola di ghiaccio quale coperchio al sepolcro comune dei quattro amici. Le campane di Nevepoli suonarono a festa per celebrare la mezzanotte natalizia, e nessuno lecitamente considerò che potessero inconsapevolmente rendere omaggio a un manipolo di eroi.

 

 

Costantino si sistemò le cuffie isolanti sulle orecchie, e d’improvviso fu la pace. Fino ad appena prima aveva dovuto sopportare il rintronamento provocato dai continui click della fotocamera allacciata all’altezza dello sterno, e ci era quasi uscito di senno. Capiva che erano la sua garanzia di sopravvivenza – se le Astrolenti avessero smesso di funzionare non sarebbe più riuscito a vedere l’astronauta –, ma erano anche la promessa assicurata di un posto al manicomio entro la fine del suo turno di guardia.

In altri giorni non sarebbe stato solo nell’Aula Magnezone a tenere d’occhio l’intruso. Sicuramente uno tra Ilario e Luana gli avrebbe tenuto compagnia, parlando di come quello strano figuro somigliasse tanto a Samus Aran. Cosa che poi non era vera, ma era il genere di idee che sarebbero venute in testa a Luana. Invece eccolo da solo.

E quell’astronauta, santo cielo, quell’astronauta. Non riusciva a credere che fosse vivo, non aveva mosso un muscolo per tutta la giornata, era una statua. Chissà cosa celava, sotto la sua tuta spaziale sfavillante. L’ipotesi che fosse vuota non era nemmeno la più terrificante per chi aveva visto Odissea nello spazio. Avrebbe potuto essere come il monolite, che in realtà si trasformava in un wormhole. O almeno lui aveva capito così, con quel film non c’era da essere certi di nulla.

Ricapitolando: gli astronauti non potevano essere stati sempre lì, perché in primo luogo le foto sarebbero pervenute prima al Dipartimento, e in secondo luogo qualcuno prima o poi ci sarebbe andato a sbattere. Dunque avevano fatto una comparsa momentanea quarantanove anni prima con Templeton e ora, vigilia di Natale, erano tornati e avevano invaso Sinnoh.

Ma se vantavano già una distribuzione tanto capillare, cosa aspettavano? Un loro passo falso? Un comando? E qual era il loro scopo? Tralasciando, ovviamente, l’assurdità che ci fossero centinaia di astronauti esattamente uguali e dai muscoli di ferro sparsi per la regione. Che a ben pensarci non era affatto da trascurare: non solo nessun uomo, ma nessuna civiltà moderatamente realistica avrebbe un tale grado di precisione.

Meglio non pensarci, già il silenzio e il calore dei padiglioni sulle orecchie lo stavano portando sull’orlo della pazzia. Cercò di resistere, ma alla fine la sensazione di pressione si fece troppo forte e decise di togliere le cuffie. Mille volte meglio sentire gli scatti di una macchina che il suo stesso pulsare del sangue.

Però non sentì nessuno dei due: nell’Aula Magnezone vigeva una quiete assoluta. Abbassò lo sguardo, constatando che la macchina aveva smesso di funzionare. Sul display lampeggiava una spia in pixel disposti a formare il simbolo di una batteria rossa. Era scarica.

Però sugli occhiali era ancora impressa l’immagine dell’astronauta che aveva ricevuto l’ordine di sorvegliare. Il Ranger dapprima non comprese, poi rammentò la spiegazione che il professor Frenesio aveva tenuto a riguardo: le lenti mostravano sempre l’ultima fotografia scattata. Non se n’era accorto solo perché, per una malaugurata coincidenza, sia lui che il suo oppositore avevano l’abitudine di rimanere immobili a fissare il vuoto.

Prima che potesse prendere decisioni Costantino avvertì un bruciore all’interno del cranio, come se le sue stesse giunture sinaptiche stessero sfrigolando, e perse conoscenza collassando sul pavimento.

 

 

Bellocchio si destò con un sussulto. Si trovava supino, immerso nell’oscurità quasi completa su un soffice manto di neve fresca. Il cielo era tornato limpido, segno che doveva essere trascorso del tempo da quando si era lanciato nel tornado – ultimo suo ricordo cosciente. A ben vedere anche i dintorni non ricordavano affatto il Percorso 217, principalmente per l’assenza dei lampioni che consentivano di attraversarlo anche nelle ore notturne. D’istinto cercò la Mega Ball di Sheila, trovandola salda alla cintura. La esaminò rapidamente attivando la trasparenza della semisfera superiore, e scoprì che, nessuna idea sul come, la Yanmega era tornata all’interno.

Rotolò su un fianco emettendo un gemito di dolore. Non credeva possibile che fosse imputabile alla caduta, altrimenti avrebbe senz’altro avuto qualcosa di rotto. No, il suo atterraggio era stato ammortizzato dalla quiete nell’occhio del ciclone, questo lo rammentava. Le fitte che provava alla schiena erano diverse, come se…

Alzò il capo, colto da un dubbio atroce, e trovò ciò che si aspettava: una lunga traccia nella copertura candida del terreno che si confondeva nelle tenebre, andando avanti per chissà quanto. Qualcuno lo aveva trascinato lì.

Si alzò in piedi, ripulendosi il volto dai gelidi fiocchi di neve. La temperatura era bassa anche per lui, e mai aveva desiderato un cappotto come allora. Dunque si trovava lì perché un estraneo ce lo aveva trasportato di peso, occupandosi anche di Sheila già che c’era; la ragione, qualunque fosse, doveva ricercarsi nell’unica fonte di luce in quella zona. Bellocchio sogghignò tra sé e sé, riportando alla mente quella frase pronunciata da Arianna in elicottero. “Un bambino alla vigilia di Natale… C’è ampio spazio per metafore. Immagino che nel Percorso 217 troveremo una capanna”. Chissà come stavano, lei e tutti gli altri. Li aveva intravisti mentre turbinavano via con il loro elicottero, e sperava di tutto cuore che fossero sopravvissuti, o li avrebbe avuti sulla coscienza in eterno. Comunque la Ranger sarebbe stata soddisfatta se avesse saputo che la sua mezza boutade non era andata lontano dalla realtà: davanti ai suoi occhi, immersa nel nulla più assoluto, c’era una baita.

Mentre vi si avvicinava stupefatto, l’uomo la osservò più attentamente. C’era una sola stanza illuminata, e quella era appunto la sorgente che lo aveva condotto forzatamente lì. Per il resto, la struttura sembrava abbandonata da anni: sul tetto spiovente si era accumulato oltre un metro di neve e i ghiaccioli pendenti dalle grondaie ormai erano tanto lunghi che avrebbero potuto essere riciclati come recinzione naturale. La porta cigolò appena sfiorata, in totale assenza di chiavi, e Bellocchio comprese che non solo era stato condotto lì: era atteso. Non sapeva quale fosse la natura degli astronauti, ma ora aveva la certezza di non averla mai nemmeno lambita con le sue teorie.

Con il cuore che batteva a mille avanzò nel corridoio buio, non togliendosi nemmeno per un secondo dalla testa che ogni cosa che scorgeva, dalle venature del legno alle ante spalancate, gli apparisse sbagliata. Era come contemplare i quadri surrealisti del Novecento, quelli che trasmettevano con una sola visione l’idea che ciò che in essi era rappresentato fosse inerentemente fuori luogo. Quello chalet comunicava lo stesso smarrimento, amplificato dal fatto di poterlo esplorare in tre dimensioni.

La stanza illuminata, cui si accedeva proprio dall’anticamera che seguiva l’ingresso, era in realtà una rustica camera da letto, e la luce proveniva da una lampada da comodino. Al suo interno vigeva un tepore decisamente più confortevole diffuso da una stufa elettrica, unico elemento tecnologico in un mobilio che pareva aver viaggiato vent’anni avanti nel tempo per arrivare nel presente. Bellocchio si interessò al comò, su cui era impilata una fila di volumi in ordine sparso. Accarezzò quello più in alto, evidentemente l’ultimo a essere letto, e ne scandì a mente il titolo: The greatest unsolved mysteries of all time.

Un’ipotesi iniziò a insinuarsi nell’elenco che aveva ormai quasi completamente scartato dopo gli ultimi sviluppi. Un’ipotesi sulla serie di eventi scorrelati che si era verificata in quella vigilia di Natale, e che lasciava solo un punto dubbio nel compito di mettere ordine nel caos.

E quando i suoi occhi si posarono sul giaciglio, e sulla raccapricciante figura palpitante appollaiata sopra, non ebbe più alcun dubbio.

 

 

Hastings strinse l’ultima vite e si abbandonò soddisfatto sullo schienale della poltrona girevole. Aveva fabbricato ben diciassette Astrolenti nell’ultima ora, raccattando pezzi per tutto il Dipartimento. Il Laboratorio Informatico per l’occasione era divenuto il suo secondo studio personale, e doveva ammettere che il battito ininterrotto alle tastiere conciliava la sua produttività. Sarebbe potuto restare lì tutta la notte.

Dall’esterno la melodia festosa del campanile che confinava con quel lato dell’edificio penetrò attraverso i doppi vetri facendo vibrare l’aria. Il professore si voltò con un sorriso, sapendone bene il significato. « Un felice Natale a tutti, signori! » esclamò con un tono quasi ironico, ricevendo auguri di ritorno dal drappello di stoici lavoratori che gli tenevano compagnia. Li contemplò con uno sguardo omnicomprensivo, sorprendendosi di quanto in là fosse arrivato. Solo qualche anno prima insegnava alla Scuola per Allenatori di Giubilopoli, costantemente alle prese con studenti svogliati che non volevano saperne di impegnarsi nelle materie scientifiche; e ora eccolo circondato da entusiasti disposti a trascorrere lì la vigilia a programmare. Davvero un felice Natale.

« Ah, sarà anche ora di dare il cambio al povero Costantino nella Magnezone » soggiunse poi, dando uno sguardo all’elenco stilato sul suo computer « Dunque… Marina, vai tu? ».

« Certamente, do giusto un make run » rispose una vivace ragazza dai capelli color castagna. Digitò gli ultimi comandi necessari e, un’aria soddisfatta in volto, raccolse i suoi effetti personali e rivolse un saluto generale prima di uscire.

È un’ottima alunna, rifletté Hastings. Volenterosa, certo, e questo conta, ma aveva anche un innato talento nel ragionare per nessi logici, e ciò per diventare programmatrice era fondamentale. Avrebbe potuto essere una sua degna erede. « Direi che tra mezz’oretta chiudiamo e tutti dalle nostre famiglie » annunciò l’uomo, dopodiché si mise al lavoro per il diciottesimo apparecchio; tuttavia fu interrotto dopo qualche minuto da una chiamata al landline sulla scrivania.

Tirò su la cornetta con un guizzo e parlò con involontario tono meccanico « Laboratorio Informatico F63-2 ».

« Rodrick, confermami che non sei in vivavoce ».

Il professore riconobbe la voce dall’altro capo del telefono: era Savino. E il suo atteggiamento concitato non prometteva nulla di buono. « Lo confermo ».

« Costantino è appena arrivato in ambulatorio, stesse condizioni di Primo ». Hastings si portò la mano alla bocca per soffocare un sussulto vocale. Sapeva benissimo cosa ciò implicasse. « L’astronauta è libero e attivo. Dobbiamo evacuare il Dipartimento il prima possibile, e ci servono le tue lenti ».

« Ma è impossibile! Tutto il tuo reparto–– ».

« Di quello me ne occupo io, abbiamo piani di emergenza per queste circostanze. Preoccupati solo di salvare i tuoi assistenti e di portare con te le lenti, me le consegnerai all’esterno ». Savino non attese nemmeno una risposta, riagganciando la cornetta appena dopo le sue ultime parole.

In un rapido gesto del braccio l’uomo afferrò un paio di Astrolenti e se lo allacciò addosso. L’istante successivo fu quanto più vicino fosse mai andato a un infarto: attraverso il filtro dei fondi di bottiglia che aveva appoggiati sul naso una sagoma argentea era apparsa nell’angolo in fondo a destra della stanza. L’astronauta era nel laboratorio.

Questa volta il suo autocontrollo venne meno e gli sfuggì un urlo che allertò i presenti. Nessuno di loro poteva vedere, ma tutti erano sufficientemente intelligenti da leggere tra le righe e scattarono in piedi praticamente all’unisono.

« Uscite tutti dal Dipartimento. Ora » intimò Hastings cercando di riprendere il dominio dei suoi sensi. I suoi alunni non se lo fecero ripetere due volte e presero a correre scompostamente verso la porta, lasciando in tempo utile lo studio. Quando fu certo che quest’ultimo fosse deserto anche il professore si approntò per andarsene: non potendo portare con sé tutte le Astrolenti se ne infilò due o tre nelle tasche dei suoi indumenti e, senza distogliere un attimo lo sguardo dalla tuta spaziale immobile, si mosse orizzontalmente per uscire.

Appena fuori, però, trasalì nuovamente: in fondo al corridoio era presente un altro astronauta. Cercò di valutare qualsiasi altra opzione, ma era improbabile che l’immagine fosse stata impressa sull’obiettivo della fotocamera e ancor meno che la creatura avesse attraversato la parete. L’unica spiegazione possibile era che non fosse più soltanto uno a trovarsi nell’edificio. Erano tutti attivi.

Arretrò di qualche passo, ma in risposta l’avversario avanzò nella sua direzione. Con il cuore in gola Hastings provò a ipotizzare qualche metodo difensivo, ma era completamente inerme in quel momento. Nel laboratorio forse avrebbe trovato qualche Poké Ball di ricambio, di quelle lasciate per le emergenze, ma era pronto a scommettere che la figura statica di prima non fosse più tanto statica.

D’un tratto un lampo di luce attraversò lo spazio soprastante dell’androne e andò a centrare in pieno l’astronauta. Per un attimo l’uomo fu accecato; quando la sua visione tornò allo standard vide che la tuta giaceva al suolo inerme e il suo utente, ammesso che ce ne fosse uno, era morto.

« Professore, si muova! ».

Hastings si voltò, trovando dietro di sé due familiari code alte rette da una coppia di bande scarlatte e un abbigliamento pressoché identico a quello di Bellocchio. « Laura! » straripò entusiasta « Tu… Come sapevi che ne avevo uno davanti? ».

« O quello o stava fissando il vuoto terrorizzato. Sono stata a Tinsel Road, ricorda? ».

« Lieto che ti sia rimessa » si congratulò, porgendole poi un esemplare di Astrolenti « Mettile, così riuscirai a vederli ».

« Sì, va bene, ma in fretta! » lo incitò lei, e dopo aver indossato con scarsa perizia l’apparecchio iniziò a trascinarlo per un braccio.

Il professore la seguì in prima battuta, ma dopo qualche passo gli sovvenne un aspetto fondamentale che aveva tralasciato. « Ferma! Marina è andata alla Magnezone per dare il cambio a Costantino, dobbiamo recuperarla! ».

Laura annuì con pacata stizza, e insieme a Pachirisu cambiarono direzione in un batter d’occhio percorrendo l’androne in senso opposto. Per buona sorte l’Aula non era molto distante dal Laboratorio Informatico, e il fatto che il fabbricato si fosse svuotato per passaparola agevolò l’andatura rapida. La costruzione era priva di altoparlanti in grado di avvertire tutti in simultanea, un difetto evidenziato da molti nel corso della sua esistenza, ma bisognava riconoscere che Savino e probabilmente Nevia avevano svolto un egregio lavoro per sgomberare i locali in breve tempo.

Il problema, in effetti, non era tanto la sede Ranger quanto ciò che c’era fuori. Se tutti gli astronauti erano attivi – ipotesi confermata dal fatto che almeno un secondo avesse fatto breccia nel Dipartimento – allora Giubilopoli e forse tutta Sinnoh erano in procinto di essere messe a ferro e fuoco. E lui era in possesso di sole diciassette paia di Astrolenti.

« NO! » esclamò Laura, che con il suo Pokémon lo precedeva in virtù della giovinezza. Appena svoltato l’ultimo angolo prima della destinazione si era precipitata oltre esso, e una volta raggiuntala Hastings comprese il motivo: il corpo di Marina giaceva scompaginato a terra di fronte all’ingresso della stanza a cui l’aveva inviata, e poco più in là una delle diaboliche creature stazionava troneggiante a osservarli.

« Cheep, usa Fulmine! » strepitò a pugni chiusi la ragazza, e Pachirisu rilasciò una scarica elettrica. Anziché sortire l’effetto ammirato in precedenza, però, la scossa s’infranse contro il palmo aperto dell’astronauta senza ottenere altri risultati.

« L’hivemind » realizzò a voce alta il professore « Imparano l’uno dall’altro ». Lunick gliene aveva parlato prima di partire, ma solo ora ne afferrava le terribili implicazioni: non avrebbero mai potuto sconfiggerli. C’erano decine di migliaia di loro, e ogni volta che avessero trovato un metodo per abbatterne uno i restanti sarebbero divenuti sostanzialmente immuni.

Laura sembrò voler insistere sugli attacchi diretti, quasi non avesse assimilato l’ultima scoperta, ma Hastings la costrinse a lasciare la povera Marina sul pavimento e a ritirarsi. Non potevano fare nulla per aiutarla, a stento speravano di salvarsi loro.

Appena giratisi anche quell’illusione iniziò a dissiparsi lentamente come sabbia nell’acqua: tre astronauti bloccavano l’unica altra via di fuga. Rodrick arretrò fin dove poté, ma ambedue i lati del corridoio erano al momento ostruiti. In un disperato tentativo di ritardare la loro inevitabile sorte aprì la porta dell’Aula Magnezone e vi si sprangò dentro. Nel giro di pochi secondi l’anta fu divelta da una forza spaventosa e le quattro figure entrarono, ultimando l’obiettivo di chiudere le prede in una via senza uscita.

Lo scienziato e la Ranger si trovavano dall’altro lato del tavolo centrale, ormai consci di non poter sopravvivere. La questione più frustrante era che quegli individui erano lenti, e sarebbero riusciti tranquillamente a sfuggirgli se avessero avuto dove andare. Invece ora dovevano attendere la loro fine consci di essere a tanto così dalla salvezza. Forse il modo peggiore per morire, o qualsiasi cosa succedesse dopo che gli astronauti disponevano delle loro vittime.

Poi, dal nulla, un fulgore abbagliante rischiarò l’aula sorgendo sopra il banco delle riunioni. Gradualmente iniziò ad assumere i connotati di una sfera splendente, ma non era nemmeno la cosa più assurda: Hastings avrebbe giurato che all’interno ci fosse qualcuno. I loro avversari dovevano essere sorpresi tanto quanto loro, perché rimasero paralizzati a osservare ciò che stava avvenendo.

La luce si spense, come risucchiata in una singolarità, lasciando che l’illuminazione tornasse a essere privilegio esclusivo delle lampade al neon sul soffitto; in compenso quattro sagome umane erano appena comparse sul tavolo, incredule tanto quanto gli altri presenti per ciò che era successo.

Erano Lunick, Solana, Arianna e Furio.

 

 

« So che sei sveglio ».

Jamie aprì gli occhi. Aveva paura, molta paura, e ancora tremava sdraiato sotto le coperte, ma la sua percezione non era ancora stata del tutto intorbidata. Quella non era la voce di un mostro, era una voce umana. La voce di un maschio, anche se ben diversa da quella di suo padre.

« Ora accendo la luce, va bene? ».

Attraverso le lenzuola vide la luminosità aumentare fino a rendere visibile l’ombra dell’intruso proiettata su di esse. Facendosi coraggio decise di uscire da sotto la trapunta, e lentamente la sua testa esitante fece capolino.

Si fermò di colpo. Vicino al suo letto non c’era nessuno che conoscesse, nonostante inizialmente avesse supposto si trattasse dello zio, magari per una sorpresa di Natale. Invece era presente solo un uomo in camicia azzurrina che lo guardava con un sorriso.

« Ciao, Jamie ».

Il bambino ricacciò il capo al sicuro sotto la fodera imbottita. Come faceva a sapere il suo nome se non l’aveva mai visto prima? E soprattutto, com’era entrato in casa sua senza che mamma e papà se ne accorgessero? Forse avrebbe dovuto urlare. Sì, questo li avrebbe svegliati.

« No, no, no, vieni fuori! Non ti faccio nulla! ».

« Chi sei? » gli chiese Jamie senza muovere un muscolo, il respiro rumoroso e rapido.

« Mi chiamo Bellocchio ».

« Non ti conosco! » ribatté lui veemente « Vattene, o chiamo i miei genitori! ».

La voce dell’uomo parve rattristarsi nel rispondere a quell’affermazione. « Non ci sono i tuoi genitori ».

Jamie sobbalzò. Perché mai avrebbero dovuto assentarsi la notte della vigilia? « Non è vero ».

« Credimi, ho controllato. Ci siamo solo noi due, qui. Per favore, vieni fuori ».

« NO! » gridò con tutta la forza che aveva in corpo. Questo sicuramente sarebbe servito a farli accorrere. Del resto non poteva fare altro: mamma gli aveva detto di chiamare il 113 se fosse stato in pericolo, ma non aveva un telefono a portata di mano.

Per un po’ vi fu silenzio, e Jamie pensò di aver spaventato l’estraneo. Invece la sua voce ritornò poco dopo, per quanto leggermente meno forte « Ora sono in fondo alla stanza. Se anche volessi prenderti potresti tornare sotto le coperte prima che io ti raggiunga. Ora puoi uscire, per favore? ».

Il bambino esitò, ma il fatto che il suo urlo non avesse destato nessuno significava che davvero al momento erano soli in casa, e quindi non se ne sarebbe andato facilmente. Gradualmente riappoggiò la testa sul cuscino fino a far fuoriuscire gli occhi. L’intruso era seduto in un angolo della sua camera, su uno scanno in vimini che normalmente utilizzava per i vestiti, e leggeva un libro a lui ben noto dalla copertina nera e il titolo in rosso.

« Ehi, quello è mio! » protestò vivacemente.

« The greatest unsolved mysteries of all time » sillabò Bellocchio sfogliandolo « È molto interessante, ma è inglese. Sei sicuro di capirlo? ».

No, ovviamente. Perlopiù guardava le figure. Ogni tanto suo padre gliene traduceva estratti, ma in linea di massima non aveva idea di cosa quelle lettere significassero. Però, come spesso fanno i più piccoli, decise di bluffare per sentirsi grande « Sono bravo per la mia età ».

L’uomo sorrise come se avesse colto la frottola. Si alzò in piedi, e Jamie scattò impercettibilmente all’indietro costringendolo a precisare « Te lo sto solo restituendo ». Delicatamente lo ripose sopra la pila « Sai, anche a me piace crederlo ».

« Che cosa? ».

« Di essere bravo per la mia età » disse prima di tornare al suo posto e sedersi a gambe incrociate.

Il bambino iniziava a perdere ogni speranza di vederlo andar via, quindi tanto valeva cercare di capirne di più. « Che cosa vuoi da me? Ho pochi soldi nel salvadanaio ».

Bellocchio si incurvò, appoggiando i gomiti sulle cosce « Vorrei che tu rispondessi a una domanda, ma ho bisogno che ti impegni per farlo. Da quanto tempo sei qui? ».

Che richiesta bizzarra: era lì da dopo cena. O almeno, lo credeva. A ben pensarci non ricordava nemmeno se ci fosse stata, una cena. La prima immagine nella sua testa era lui stesso che leggeva quel libro. Non aveva il minimo senso: per quale ragione non sapeva rispondere? « Non… non lo so… ».

« Va tutto bene, va tutto bene. Nemmeno io me lo ricordo ».

« Ma perché? ».

La bocca del giovane si distorse in una smorfia obliqua. Si guardò le mani, strofinandosele l’una nell’altra. « Stai sognando, Jamie ».

Il bambino sgranò gli occhi e rimase paralizzato, le labbra dischiuse alla ricerca di qualcosa da dire. Sapeva, certo, che era possibile divenire coscienti durante un sogno, e di poterlo comandare una volta compiuta tale realizzazione. Però aveva sempre creduto che dovesse rendersene conto da solo, e non che un altro membro della visione glielo comunicasse. « Sto sognando te? ».

« No, non mi stai sognando. Sono vero anch’io ».

« Che… Che vuol dire? ».

Bellocchio si portò nuovamente in posizione eretta e si avvicinò alla finestra, osservando l’albero di Natale ricoperto di lampadine variopinte. « C’è un Pokémon di nome Shedinja. Molto tempo fa erano numerosi, ora praticamente estinti. Ma c’è stata un’era in cui ogni volta che andavi a dormire rischiavi di essere attaccato da uno di loro e di non svegliarti più ». Si appoggiò con la fronte al gelido vetro, appannandolo con il suo fiato « Il loro metodo di nutrimento naturale sono i sogni. Si allacciano a una creatura dormiente e ne divorano gli incubi, uno alla volta, finché non la riducono a un vegetale. Ti sei mai chiesto cosa sognino i Pokémon? ».

A dire il vero, mai, pensò Jamie, ma l’uomo non sembrava voler essere interrotto.

« Beh, i loro incubi sono meno terribili dei nostri. Con il tempo gli Shedinja si sono evoluti preferendo loro come fonte di cibo. Gli incubi dei Pokémon per loro ondeggiano tra uno spuntino e un pasto completo, quelli umani sono un pranzo natalizio » aggiunse spontaneamente per rimanere in tema « Il che è, col senno di poi, la nostra più grande fortuna ».

« Perché mi stai dicendo queste cose? ».

Bellocchio pareva estatico e sembrò non curarsi nelle domande del bambino. « Gli Shedinja non si limitano a mangiare i sogni, quello lo fanno in tanti. Gli Shedinja al contempo visualizzano i sogni. Li rendono reali. Nel caso dei Pokémon ciò non è grave, nel caso degli umani… ». Si fermò, quasi si aspettasse una replica, e questa sensazione fu rafforzata dal prosieguo « Beh? ».

« Cosa? ».

« Ti ho risposto. Per questo ti sto dicendo queste cose ».

Jamie comprese di colpo, rabbrividendo per l’orrore. Quello sproloquio adesso aveva un senso preciso, una ragion d’essere. « Io ho… ? ».

Il cenno triste del giovane confermò i suoi timori « Qualcuno ti ha rapito e portato in una baita, e ora hai uno Shedinja che si nutre dei tuoi incubi. Ho usato il mio Yanmega per agganciarmi psichicamente al tuo sogno ».

« Ma non c’è nessuno Shedinja qui! ».

« Questo posto non è reale. Dove ti trovi fisicamente non c’è nessun albero di Natale alla finestra, e nulla nel circondario. Gli Shedinja sono furbi, quello che ti ha preso di mira ha prodotto un limbo basato su casa tua e ti ci ha messo dentro mentre assorbe i tuoi tormenti. Non puoi svegliarti se pensi di essere già sveglio, no? ».

« Ma io… ». La lamentela del ragazzino fu dapprima incerta, poi sempre più convinta in un tentativo di confutare la rivelazione « Io non sto avendo incubi! ».

« No, certo, non sei tu a vederli. Siamo noi nel mondo reale ». Bellocchio si allontanò dalla finestra tornando al mobile da notte su cui erano impilati i volumi, controparti oniriche dei loro corrispettivi reali. Tutti erano correlati a misteri di stampo ufologico, e tutti li aveva rinvenuti anche nella capanna reale, segno che qualcuno li aveva portati lì. Lo scenario architettato dal Pokémon Cambiapelle doveva invece averli inclusi come vademecum: un’organizzazione perfetta. « L’astronauta del Solway, il messaggio di Arecibo. Tutto nella tua testa, frutto delle tue letture, sognato e manifestato da Shedinja. Non puoi saperlo, ma hai causato un bel tumulto da noi ».

Il bambino non capiva molto delle parole complesse udite, ma una cosa gli era giunta chiara e semplice: era colpa sua. In qualche modo i suoi incubi avevano alimentato qualcosa che si era mostrato nella vita reale, e Shedinja, qualsiasi genere di Pokémon fosse, c’entrava con questo. Si premette le mani sulla testa, come chi è afflitto da una terribile emicrania, e fu solo quando l’uomo si sedette sul letto per cercare di calmarlo che diede sfogo alle sue emozioni e scoppiò a piangere. « Mamma e papà stanno bene? ».

« Ti stanno cercando incessantemente ».

« Come faccio a svegliarmi? ».

« Non puoi. Te l’ho detto, Shedinja non si fermerà finché non avrà finito con te ». Bellocchio si alzò in piedi, prendendo un respiro profondo e sfoggiando un sorriso amaro « È a questo che servo io. Sheila, inizia pure ».

Un rumore ostinato cominciò a echeggiare nella stanza, e ad ascoltarlo attentamente sembrava provenire da fuori. « Che succede? ».

« Sto trasferendo la connessione di Shedinja a me. Ora sarà il mio sonno ad alimentarlo, il che vuol dire che questo posto scomparirà ».

Tutto intorno Jamie non credeva ai suoi occhi: lentamente il mondo stava venendo inghiottito dall’oscurità. La camera che si era convinto essere la sua, e solo ora si accorgeva non somigliarle per niente… E poi la neve, il suo materasso, e ora le sue stesse gambe. Era una sensazione strana, era come quando andava al mare e si immergeva nell’acqua, sentendosi più leggero. Era così assurdo pensare che aveva trascorso chissà quanto tempo in quel sogno senza ricordarlo, e che ora stesse per svanire.

« Cercherò di concentrarmi sul tuo ritorno a casa, in questo modo Shedinja lo realizzerà » lo informò Bellocchio, rivolgendogli un ultimo sguardo solare « Dopodiché… ».

Dopodiché avrebbe trattenuto i suoi incubi per impedire che il Pokémon li avverasse, il che lo avrebbe probabilmente costretto a riviverli. Shedinja lo avrebbe consumato fino a quando non avesse succhiato l’ultimo respiro cosciente, dopodiché lo avrebbe lasciato immobile e privo di un’anima a morire per disidratazione. Chissà se era stato quello il suo destino fin dall’inizio, se chi lo aveva trascinato alla baita aveva pianificato tutto perché si svolgesse in quel modo. Un peccato morire senza saperlo.

« Buon Natale, Jamie » augurò appena prima che il dolore peggiore della sua vita lo stritolasse mentre si dissolveva nell’oblio. Aveva sempre avuto una propensione alla teatralità.

Buio, buio e ancora buio. Il terrore fu la prima emozione che provò una volta che Shedinja ebbe il controllo della sua mente. Davanti ai suoi occhi la sua breve esistenza iniziò a riavvolgersi come il nastro di una videocassetta, soffermandosi sui suoi istanti più terribili, e Bellocchio dovette profondersi in uno sforzo immane per non lasciarli fuggire verso il suo nemico in un disperato tentativo di salvare l’umanità dallo sperimentarli essa stessa. A lui non sarebbe spettato nessun purgatorio, nessun letto confortevole da assaporare mentre altri pativano gli effetti dei suoi incubi. Lui avrebbe dovuto affrontarli in prima persona. Si sentì precipitare nel vuoto, e quello fu l’inizio dell’inferno.

Vide Fox Duchovny, il timido gestore del Green Fir Shop, dilaniato interiormente dagli astronauti, e avvertì ogni fibra dei suoi muscoli strapparsi mentre entrava dentro di lui. Vide la crisi di Alamos e la sofferenza di tutti coloro che vi erano stati coinvolti. Vide il rogo di Evopoli e l’esplosione del museo, vide la Grande Nube Estiva propagarsi dalla punta della Torre Memoria. Vide il giardino segreto delle Rovine Flemminia putrefarsi e vide l’esercito di Cyrus marciare alle porte di Rupepoli.

Vide la prima morte a cui avesse mai assistito, quella di un innocente studente della Scuola per Allenatori. E poi una carrellata di volti, di luoghi, di suoni, ognuno più funesto dell’altro, ognuno tinto di una viola malinconia che aveva rimosso. Attimi che credeva di aver dimenticato e nemmeno era certo di aver vissuto, lontani nel tempo.

E tutto si concluse di nuovo con il buio. Con una sola, terrificante immagine: una coppia di lampi celesti che gli scrutavano l’anima, come due occhi appartenenti a un ignoto.

 

 

I quattro Ranger sembravano confusi quanto gli altri astanti di essere comparsi sul tavolo dell’Aula Magnezone, soprattutto perché il loro ultimo ricordo era l’esplosione del loro elicottero. Si guardarono l’un l’altro negli occhi, e ciascuno comprese poco alla volta che nessuno del suo gruppo aveva fatto alcunché. Si erano salvati, questo era indubbio, ma le idee sul come scarseggiavano. Un vero deus ex machina.

« E voi… da dove saltate fuori? ».

Lunick si accorse in quel momento della presenza di Laura e Hastings, il quale aveva proferito la domanda. « Non ne abbiamo idea » ribatté dopo una istantanea consultazione con i suoi compari. Esaminò la situazione: entrambi indossavano delle Astrolenti ed erano asserragliati dietro al mobile sopra cui si trovavano. Questo poteva significare soltanto una cosa: astronauti. « Dove sono? ».

Il professore alzò tremante il braccio e indicò l’ingresso della stanza, tuttavia integrò il gesto con una spiegazione che alleviò il nervosismo dei Ranger « Però sono… fermi ».

L’espressione sul volto del giovane si fece perplessa. L’anziano insegnante gli lanciò al volo uno degli apparecchi che aveva portato con sé dal Laboratorio Informatico, e una volta messo in funzione anche lui poté constatare che le tute spaziali erano immobili. Di più, le loro posizioni erano bizzarre, come fossero stati paralizzati di colpo.

Lunick balzò giù dal ripiano e cautamente si avvicinò alle figure, osservandole da più angolazioni. Lo stesso fecero i suoi amici, riforniti con le ultime Astrolenti di cui il professore era in possesso. « Prima si muovevano? ».

« Si erano attivati, sì ».

Furio si diresse alle finestre della sala. Davanti al Dipartimento si era assembrata una discreta folla di persone, ma anche lì gli astronauti che erano in procinto di attorniarli erano nulla più che statue invisibili all’occhio umano. « Allora direi che si sono scaricati ».

Laura tirò un sospiro di sollievo, sprofondando a terra per la stanchezza provocata dallo stress. Hastings si diresse al telefono fisso che si trovava poco lontano con l’intenzione di avvertire Savino: conoscendolo era rimasto fedele al suo reparto, e nel migliore dei casi avrebbe potuto spiegare la sosta collettiva, anche se ne dubitava.

Per quanto riguarda Arianna, lei si stava ancora arrovellando su come fossero sopravvissuti. « Qualcuno di voi ha usato un Teletrasporto? ».

« Teletrasporto ha una destinazione casuale » fece notare Solana « Che siamo finiti proprio qui con tutta Sinnoh a disposizione è contro ogni statistica ». Oltre a ciò, proseguì silenziosamente la ragazza, c’era anche lo scarso tempo di reazione a loro disposizione, e l’oggettiva difficoltà di azione che avrebbero incontrato dal momento che il loro velivolo era in rotazione. Quello doveva essere stato un intervento esterno.

« Sono spariti! » esclamò Furio d’un tratto attirando l’attenzione dei colleghi « Guardate! ».

Lo sguardo di Lunick rimbalzò fra i tre astronauti nella Magnezone e l’esercito a Giubilopoli, e la constatazione che tutti fossero letteralmente svaniti nell’aria lo colpì come un dardo alle spalle. Gettò un’occhiata a Hastings, che aveva abbandonato i propositi della telefonata alla segnalazione del Ranger, a chiedergli come fosse possibile.

« Potrebbero aver cambiato periodo di esistenza » ipotizzò il professore.

Per quanto non del tutto certa delle sue azioni, Arianna si avvicinò alla posizione prima occupata dai loro avversari e vi passò in mezzo il palmo della mano. « No, non ci sono più » confermò dopo aver verificato per due o tre volte per maggiore sicurezza « Sono proprio andati ».

« Ma questo non ha il minimo–– ».

L’asserzione dello scienziato fu troncata anzitempo da un rombo che fece vibrare i cuori di tutti. Le sei persone nell’aula si precipitarono ai vetri premendo i volti contro di essi. Le loro orecchie stavano chiaramente percependo un suono simile al fragore di un tuono, ma decisamente più prolungato, e le reazioni delle masse per le strade confermarono che non se lo stavano immaginando. Quindi, nel cielo dalle tinte corvine in cui le stelle si perdevano per l’inquinamento luminoso della metropoli, uno spettacolo insieme stupefacente e raccapricciante si manifestò: due abbacinanti luci azzurre di natura impossibile da comprendere. Sembrò quasi che il firmamento stesso fosse stato squarciato rivelando ciò che si celava dietro, ma era una teoria fin troppo assurda per essere accettabile.

L’evento ebbe una durata di qualche secondo a malapena, ma incise così profondamente i sentimenti di chi lo vide che i Ranger rimasero estatici anche molto dopo che si fu concluso. Forse anche per questo solo uno di loro, fortunatamente il più indicato, si accorse di un altro avvenimento verificatosi in concomitanza con il teatro scintillante: Bellocchio era comparso disteso sul prato antistante il Dipartimento, riverso nella penombra e per questo non notato nemmeno da chi si trovava lì personalmente.

Lunick si precipitò fuori dalla stanza, venendo trattenuto da un’altra felice sorpresa: Marina si era risvegliata; il che significava che anche Primo e, magari, quel Fox tanto menzionato si erano ripresi, e con loro tutte le vittime degli astronauti. Ciò sarebbe stato sufficiente a farlo tripudiare, ma in quel momento aveva altro per la testa, e discese di corsa le scale dell’edificio fino a ritrovarsi fuori. Immediatamente fu assalito da svariati suoi colleghi che si erano chiesti che fine avesse fatto, ma li ignorò e corse dove aveva intravisto l’uomo. Questi si stava risvegliando alquanto disorientato, e si guardava le mani come se fosse sorpreso di averle ancora.

« Bellocchio! » proruppe andandogli incontro. Appena fu sufficientemente vicino comprese che non si reggeva affatto bene in piedi, e pertanto si offrì spontaneamente come bastone organico.

Il giovane impiegò qualche istante ad assimilare l’origine della voce; dopodiché si voltò ancora traballante e sorrise gioioso « Sei vivo! ».

« Stavo per dirlo a te! » esclamò il Ranger con un sogghigno.

« Come… Come avete fatto? » domandò lui felicemente sconcertato « Vi ho visti davvero male dopo essere saltato ».

« Anche noi, credimi. L’elicottero credo sia esploso, ma per qualche ragione siamo stati teletrasportati qua ».

Bellocchio strinse gli occhi e li stirò con indice e pollice, cercando di riprendersi dal giramento di testa che provava in quel momento. Da come lo descriveva sembrava un altro effetto dei sogni avverati da Shedinja, ma non poteva essere stato lui a desiderare la loro sopravvivenza dato che in quel momento stava praticando free falling nel tornado. Forse, invece, era stato il subconscio di Jamie a salvarli. Forse la sua innocenza era stata troppo impenetrabile, persino per un Pokémon crudele come quello a cui era soggiogato.

« E tu da dove vieni, invece? » gli domandò Lunick « Gli astronauti sono scomparsi, qualcosa mi dice che c’entri anche tu ».

« Beh, è una lunga storia ». Il giovane compì uno sforzo per issarsi sulle proprie gambe, poggiando quasi subito i palmi sulle ginocchia come per rimettere. « Ma credo sia finita ».

Credo era la parola esatta: aveva tutto fuorché certezze in quella circostanza. Tanto per cominciare, come aveva fatto lui a sopravvivere? Quel parassita avrebbe dovuto fagocitarlo, e invece l’aveva lasciato andare. Avrebbe amato rifletterci, ma in quel momento un misto di nausea e gioia glielo impediva.

Poi davanti ai suoi occhi notò qualcosa, un pezzo di carta che si librava come volesse giocare. Atterrò dopo qualche secondo, ma subito fu seguito da un suo gemello, e poi da un altro ancora. Bellocchio alzò gli occhi al cielo meravigliato, e finalmente fu in grado di rimanere in posizione eretta mentre constatava cosa stesse accadendo: una sua ultima richiesta doveva essere stata involontariamente esaudita da Shedinja. Il suo sogno finale, un sussulto del subconscio analogo a quando Jamie aveva salvato i Ranger, solo molto meno nobile – ma del resto gli adulti raramente sanno esserlo.

Nevicava.

 

 

Attraverso i fiocchi candidi che si paracadutavano dalle nuvole Giubilopoli si confondeva in un’unica massa fumosa di luci e colori. L’unico edificio che emergeva era la torre delle trasmissioni di Giubilo TV, lampeggiante di tonalità turchine come al solito; il resto era troppo flebile o generico per essere riconosciuto, specie per la riflessione dei quattro lampioni sulla copertura del Dipartimento che il bianco dei batuffoli produceva. Bellocchio si era portato una sedia fin sul tetto e si era seduto lì, tazza di cioccolata in mano, a contemplare il panorama notturno.

« Nemmeno con la neve hai freddo? ».

L’uomo sorrise. Si aspettava che Lunick lo avrebbe raggiunto prima o poi, anche se pensava che si sarebbe trattenuto un po’ di più alla festa improvvisata da Hastings. Con la coda dell’occhio lo notò al suo fianco, innalzato fiero nelle intemperie. « Un giorno mi prenderò un cappotto. È il mio primo Natale qui, sii comprensivo ».

« Già, a volte me ne scordo. Sembra di conoscerti da una vita, eppure non è nemmeno un anno ». Il nemmeno un anno più strano della mia vita, soggiunse mentalmente. « Quanto hai intenzione di stare con noi? ».

« Oh, per sempre. Non vi libererete mai di me » ridacchiò lui; tuttavia nel modo in cui aveva pronunciato quella frase c’era un che di sincero. Forse dopotutto nemmeno a lui dispiaceva la compagnia di amici, per quanto il rapporto di amore e odio che intratteneva con la Federazione potesse essere annoverabile come amicizia.

« Una storia pazzesca, comunque » osservò il ragazzo. Bellocchio gli aveva raccontato tutto mentre erano rientrati nella sede, un po’ barcollante nel fisico ma insolitamente lucido nel parlare. « Mi ha ricordato i finali delle storie di terza mano. “Era tutto un sogno!”, e giù di nuovo a dormire mentre scorrono i titoli di coda ».

« Avete imprigionato Shedinja? ».

Lunick notò nella sua voce un’inflessione cupa, nonostante fino a un attimo prima apparisse libero da ogni pensiero. Quella era la parte più curiosa del racconto: lo avevano trovato nel prato poco dopo il suo amico, e solo in seguito gli era stato chiaro il suo ruolo capillare nella crisi degli astronauti. Non sembrava nemmeno essere vivo, ma Bellocchio aveva insistito sul fatto che fosse una mascherata. Muoiono solo quando non si nutrono, e questo si è appena fatto una scorpacciata, aveva detto. « Come hai chiesto tu, sotto costante sorveglianza. Ma non ho capito perché ».

L’uomo scrutò l’orizzonte pensieroso e sorseggiò il bollente liquido che ristagnava nella tazza « Non sono Pokémon che si trovano in natura, non più. Rilasciarlo scriteriatamente comprometterebbe l’ecosistema e rischierebbe di causare un secondo incidente. E poi c’è altro che non mi convince su come questa faccenda si è svolta ».

« Del tipo? ».

« Qualcuno mi ha trascinato a quella baita. Qualcuno ha rapito Jamie e lo ha sottomesso a quel Pokémon, qualcuno che doveva esserne in previo possesso ».

(Brando, pur nella sua prolungata esperienza di Ranger, la trovava comunque una creatura alquanto bizzarra. Per quanto rinchiusa nella cella di contenimento allestita, quell’inquietante aureola sulla testa lo disturbava a voler minimizzare. Non gli avevano detto molto: solo le procedure di limitazione da attuare, che peraltro erano riassumibili in “non aprire la prigione per alcuna ragione”. Finché era all’interno delle quattro pareti di vetro isolante non poteva fargli nulla.

Però c’era quel foro.)

« Gli Shedinja non sono in grado di reggere gli incubi di un umano, vanno in overdose, quindi qualcuno deve averlo allenato ».

(Era un Pokémon antico, ritenuto estinto, ma forse era solo perché tutti gli esemplari non mostravano segni di vita. Erano alla stregua di creature inorganiche, la scorza di un Nincada che per ragioni ignote aveva sviluppato un’autonomia. Dentro non poteva che essere vuoto, era il risultato della muta che accompagnava l’evoluzione. Eppure Brando moriva dalla voglia di sapere cosa ci fosse all’interno, era più forte di lui.

Girò intorno alla cella fino a portarsi dietro al detenuto, dove era situata una fessura che perforava l’esoscheletro – senza dubbio uno svantaggio dal punto di vista difensivo, ma dal momento che dalle scansioni non erano stati rilevati organi interni a ben pensarci doveva essere irrilevante. Una sbirciata non avrebbe guastato, giusto?)

« E qualcuno ha scelto Jamie, sapendo che i suoi interessi avrebbero determinato un certo tipo di incubi. Si è persino preso il disturbo di portare i suoi libri lì, immagino perché Shedinja li usasse come riferimento ».

(La chiave elettronica legata al collo del corpo esanime di Brando iniziò a fluttuare sospinta da una forza invisibile fino a condursi al lettore automatizzato. La scansione del codice di sorveglianza durò poco più di mezzo minuto, al termine del quale una delle lastre cristalline slittò di lato come indirizzato da un impulso di corrente.)

« Qualcuno ha orchestrato tutto ciò che è successo in questa vigilia, e quel qualcuno è sicuramente il proprietario del vostro prigioniero. È vitale che non fugga ».

« Ma perché avrebbe dovuto? » domandò Lunick confuso « Un piano così complesso per qualcosa su cui non aveva diretto controllo, visto che Jamie ha salvato me e gli altri ».

Bellocchio annuì, ondeggiando il capo secondo il moto dei fiocchi di neve. Quello era il vero mistero, in fondo: perché?

 

 

(Fuggire da un covo di sprovveduti in festa fu per Shedinja poco più che una bazzecola. Avvalendosi dell’oscurità della notte iniziò ad aggirarsi per i viottoli innevati di Giubilopoli fino a giungere al luogo d’incontro prefissato, la desolata Babylon Place. Lì lo attendeva il suo padrone, lontano dai lampioni e immerso nell’ombra.

« Hai fatto un ottimo lavoro » si congratulò l’uomo appena furono sufficientemente vicini « Finalmente lo abbiamo trovato ».

Iniziarono a incamminarsi lungo una delle strade che dipartivano dalla piazza, l’uno a passo lento e cadenzato, l’altro ondeggiante a mezz’aria. « Non è stata colpa tua, nessuno avrebbe potuto sopportare quell’ultimo incubo. Francamente non mi aspettavo avrebbe opposto una tale resistenza, ma va bene così ».

Il padrone, del resto, poteva considerarsi molto più che soddisfatto: non solo aveva raggiunto il suo obiettivo, ma aveva potuto analizzare il comportamento del suo nemico gratuitamente. E si era persino fatto due risate quando, collegato alla CCTV del Dipartimento, aveva osservato quello sciocco Ranger cadere vittima degli impulsi psichici del suo Shedinja senza nemmeno rendersene conto.

Era tutt’altro che finita, comunque, anzi, la parte davvero affascinante del suo piano iniziava solo ora. Ma avrebbe iniziato a lavorarci solo una volta rientrato a Kalos; prima di allora lo attendeva solo un comodo viaggio in aereo. Davvero un felice Natale.)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Looker’s New Adventures ritorna il 12 gennaio 2015 con 1x26 – “F.L.A.R.E.”!

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** M1x01 - Registered ***


Untitled 1

Come promesso, eccoci qui con i minisodes! All’inglese, perché minisodio proprio non mi piaceva.

Per chi non avesse letto lo speciale di Natale A Spaceman Came Travelling: primo, siete dei barboni, andate a recuperare. Secondo, i minisodes non sono altro che trafiletti alquanto brevi che fungeranno da intermezzo tra un capitolo e l’altro. Con l’eccezione del presente M1x01, edito di mercoledì per ragioni di forza maggiore, i minisodes dovrebbero cadere nel lunedì in cui normalmente non pubblico. Non in tutti: per le idee che si stanno formando nella mia mente è facile che si configureranno come tramiti tra un’avventura e l’altra, per introdurle o, come in questo caso, per espandere il mondo di LKNA. Non sono obbligatori, ma sono tanto brevi e tanto rilassanti che sarebbe un peccato non leggerli. Inoltre sono obbligatori.

Lo stile potrebbe variare: come noterete questo in particolare ne utilizza uno diverso da quello canonico con cui ho scritto gli scorsi ventisei (venticinque e mezzo) capitoli. Altri saranno meno caratteristici, con la costante attenzione a porre il contenuto in prima linea e solo in seguito stabilire il criterio di scrittura che più gli è congruo

 

Inaugurando il ventunesimo anno che può fregiarsi della mia esistenza,

Novecento

 

 

 

 

 

 

Minisode 1x01

Registered

 

 

 

A: Rodrick Hastings <r.hastings@fedr.sn>

Da: Samuel Y. Oak <oak.sy@info.silph.kn>

Oggetto: RE: promozionale 3.1

Allegato/i: promo.docx; promo.zip

ho apportato qualche edit nelle righe finali e ho rimosso come concordato le menzioni del termine pokémon sostituendolo con creatura (un passo per volta, forse la dicitura la introdurremo in futuro). ho paura che la parte sul codice sinaptico sia ingarbugliata, ma come dici tu al massimo se ne occuperà il marketing. se nessun altro a obiezioni per me possiamo passarlo ad Aleister per la grafica

---

Samuel Y. Oak

 

 

 

- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

 

 

 

>>concept.png

 

 

Poké Ball®. Un nuovo modo di vivere l’allenamento.

 

 

Che cos’è Poké Ball®?

Poké Ball® è la risposta alle necessità degli Allenatori odierni. Poké Ball® è la naturale evoluzione delle ormai insufficienti Sfere di Cattura. Dimenticate il vecchio modo di vivere il vostro hobby: Poké Ball® è il futuro.

 

Chi sviluppa Poké Ball®?

Poké Ball® è una collaborazione tra i massimi esperti di Sinnoh e Kanto-Johto. Esimi esponenti del mondo della scienza quali i proff. Rowan e Oak sono stati assunti in qualità di sviluppatori primari, e molte prestigiose aziende come la Devon Corporation hanno finanziato il progetto di ricerca per l’innovativa tecnologia alla base di Poké Ball®.

 

A cosa serve Poké Ball®?

Poké Ball® trae ispirazione dalla modellizzazione tradizionale delle Sfere di Cattura, ponendosi tuttavia come obiettivo una completa automatizzazione del processo; inoltre mira a risolvere annosi problemi che si sono presentati negli scorsi anni. Essenzialmente, Poké Ball® è un nuovo strumento di cattura.

 

Quali sono le differenze tra Poké Ball® e le Sfere di Cattura?

La prima importante novità consiste nella tecnologia utilizzata per lo stoccaggio. Le Sfere di Cattura sono imperniate su una conversione in energia della creatura desiderata, il che può dare origine a problemi di contenimento nel caso di obiettivi particolarmente voluminosi. Niente di tutto ciò accadrà con Poké Ball®: le creature che vengono a contatto con essa sono istantaneamente indotte in una matrice di dati, il che significa che ognuna di esse occupa rigorosamente lo stesso spazio delle altre.

 

Questo sistema non è pericoloso?

Assolutamente no: innumerevoli test sono stati effettuati e tutti hanno fornito esiti più che positivi. In più, grazie all’innovativo meccanismo di riscrittura sinaptica, non dovrete più preoccuparvi di fughe o insubordinazioni nei notoriamente difficoltosi primi giorni di convivenza.

 

Cos’è la riscrittura sinaptica?

Si tratta di un sistema brevettato dalla Silph Corporation, che vi ha lavorato per decenni per risolvere i crescenti incidenti relativi alla disubbidienza delle creature catturate. Rimuovendo con precisione chirurgica i loro ricordi attivi Poké Ball® riesce a ridurne la refrattarietà nel 95% dei casi, garantendo una soddisfacente esperienza a ogni Allenatore.

 

La mia creatura non rischierà di dimenticare tecniche o nozioni naturali?

Per nulla, poiché la riscrittura agisce solo sui ricordi attivi. Tutte le memorie passive, come la famiglia o le tecniche apprese da una data specie, saranno conservate da creature catturate con Poké Ball®.

 

E cosa succederebbe se mi rubassero una creatura? Per esempio se la catturassero con un’altra Sfera di Cattura o con Poké Ball®?

Durante la cattura Poké Ball® imprime alla creatura il codice sinaptico del proprietario. Dal momento che le Sfere di Cattura non ne sono in grado, una creatura catturata con Poké Ball® contenuta in un’altra Sfera manterrebbe fedeltà al possessore originario di Poké Ball®. Per quanto riguarda un ladro provvisto di Poké Ball®, Poké Ball® è in grado di leggere il codice sinaptico di una creatura e, nel caso non corrisponda al proprio, produce un raggio repulsivo che impedisce la cattura. In altre parole, furti da Poké Ball® a Poké Ball® sono impossibili.

Non rispondiamo, tuttavia, di eventuali furti da Sfere di Cattura per mano di Poké Ball®. Un’altra ragione per comprare Poké Ball®!

 

Che altri vantaggi si hanno rispetto alle Sfere di Cattura?

Le dimensioni di Poké Ball® sono decisamente inferiori: solo 6.35 cm di diametro per una circonferenza di meno di 20 cm; inoltre, mediante la pressione di un comodo pulsante frontale, Poké Ball® è in grado di comprimersi fino a raggiungere un ottavo del suo volume normale, e con il medesimo comando può essere ripristinata alla sua forma originaria – un grande risparmio di spazio! Per merito della lega di zinco impiegata il peso è di soli 157 g, oltre la metà rispetto alle Sfere di Cattura. Infine il tasso di successo è stato incrementato del 30%: risparmierete una Poké Ball® ogni tre.

 

>>specifiche_2.png

 

C’è altro all’orizzonte?

Eccome! Abbiamo in progetto di rilasciare altre tre edizioni di Poké Ball®: Mega Ball®, Super Ball® e Ultra Ball®. Inoltre stiamo lavorando con importanti informatici delle Regioni coinvolte per offrirvi un prodotto assolutamente all’avanguardia: un sistema di stoccaggio virtuale per le vostre creature. L’uscita è prevista per l’anno prossimo: tenetevi aggiornati!

 

>>logoEX.jpg

 

 

Poké Ball®.

In vendita nei migliori Pokémon Market al prezzo di lancio di 200 P.

 

 

 

- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** 1x26 - F. L. A. R. E. ***


Untitled 1

L’ufficio era alquanto spoglio per trovarsi ai cosiddetti piani alti del Frattale. Centralmente era occupato da una scrivania in legno con due sedie grigie ai lati lunghi opposti; le pareti pallide erano sguarnite, fatta eccezione per una finestra oscurata da una tenda bluastra; la moquette color topo era tanto pulita da apparire innaturale. Lo stesso ripiano di lavoro era sostanzialmente vuoto: una targa angolata riportava la scritta “Xamber” incisa sopra a indicarne la titolare, mentre sulla sinistra si trovavano un paio di penne e un portadocumenti in vetro.

Ginger, appena arrivata, si accomodò di fronte a una trentenne dai capelli turchini in sgargiante uniforme tendente all’arancione vivo. Il suo nome in codice era appunto Xamber, ma non amava essere chiamata così dalle persone con cui era in confidenza – una sensazione che l’altra donna conosceva bene. Pertanto, così come una si presentava come Ginger anziché Xaad, l’altra assumeva lo pseudonimo di Martynia, Caposcienziata Flare.

« Come va? » le chiese quest’ultima.

« Un po’ stanca. L’uscita dei P5S è difficile da coordinare, ieri notte sono andata a letto alle due ».

« Potevi chiedere una pausa per il lutto. Sono certo che ti sarebbe stata concessa volentieri… ».

« No, no, lui non l’avrebbe fatto. Non con un evento simile alle porte ». Ginger si passò le mani sul volto. Quattro giorni, tanto era passato da quando Etan e suo fratello Ross – anzi, Dylan – erano morti nella suite Notte Fonda. Qualsiasi altra persona si sarebbe fatta soggiogare dal dolore, ma non lei. Aveva sempre saputo di essere forte nelle avversità, e ora ne aveva la prova. « Perché mi hai chiamato? ».

Martynia la osservò rattristata. La sua sottoposta si fingeva forte, ma gli occhi lucidi la tradivano e sarebbe bastata una parola di più per farla crollare. Perciò, essendo prima di tutto sua amica, lasciò perdere l’argomento. « Avrei bisogno che mi sostituissi nell’organizzazione dei Reparti 2 e 7. Per oggi, ovvio ».

« Sì, non c’è problema. Come mai? ».

La Caposcienziata sbuffò « Dovrò tenere il discorso introduttivo ai visitatori ».

« Credevo spettasse a Xaros ».

Quasi fosse stata evocata, in quel momento un rumore di passi echeggiò nel corridoio fuori dalla porta. Attraverso l’apertura le due notarono una donna snella dalla chioma di un verde tanto acceso da apparire finto, come fosse una parrucca. Impercettibilmente la fronte scattò nella loro direzione e la Direttrice rivolse un’occhiata alla stanza, mostrando sotto la palpebra sinistra una vistosa occhiaia. La sosta non durò che qualche secondo prima che Xaros riprendesse a camminare, ma per Ginger fu uno dei momenti più inquietanti che avesse vissuto. Qualcosa nella sua superiore trasudava intransigenza, ma non riusciva a raccapezzarsi su cosa fosse.

« Al momento è molto impegnata » spiegò Martynia. Poi abbassò il tono di voce, e per sicurezza parlò solo quando fu certa che nessuno stesse origliando « Hanno rubato qualcosa dalla Cripta ».

Quell’altra sobbalzò incredula « Ma… Non è possibile, dovrebbe essere impenetrabile ». Gli occhi della Caposcienziata le fecero capire che anche lei aveva reagito allo stesso modo alla notizia, ed era una risposta perfettamente naturale: nessuno esterno ai Flare era mai entrato nella Cripta. « Che cos’è stato rubato? ».

« Un generatore sperimentale di radiazioni sinaptiche su larga scala ».

Ginger rimase per un secondo scombussolata. Sapeva bene cos’era: l’ultimo progetto di Etan prima che si sacrificasse per lei al Le Crésus Hotel. Fino a quel momento anche i più alti esperti del Frattale si erano dovuti arrendere all’impossibilità di controllare le radiazioni sinaptiche al di fuori del piccolo rapporto delle Poké Ball, dove il loro scopo era resettare i Pokémon perché non nutrissero rancore nei confronti dell’Allenatore che li aveva catturati. Ma il suo amico si era intestardito, secondo lui era possibile collimarle anche su distanze maggiori. Dopo la sua morte nessuno si era offerto di proseguire il lavoro – principalmente per incapacità –, e la sua resa incompleta era stata trasferita alla Cripta.

La domanda però era un’altra: perché un ladro, tra tutte le tecnologie di alto grado presenti lì dentro, avrebbe rubato proprio quella?

 

 

 

Episodio 1x26

F. L. A. R. E.

 

 

 

Il massiccio cubo cavo che prendeva il nome di Frattale, sede centrale della fondazione Flare, era in fibrillazione. Era infatti sabato 7 aprile, data per cui era stata fissata l’uscita globale del nuovo PSS 5S, o P5S com’era stato spiritosamente ribattezzato, un apparentemente essenziale passo in avanti dall’ormai vetusto PSS 5. Per promuovere un evento di tale portata era stata organizzata una visita libera degli studi dell’edificio – uffici dirigenziali esclusi –, le cui centinaia di lavoratori sarebbero state per un giorno a disposizione di chi avesse voluto sapere di più sul modus operandi dell’associazione. Ciò aveva richiamato soprattutto due categorie di persone: appassionati di scienza, per i quali conoscere i dispendiosi laboratori del Frattale era un’occasione unica; e fanatici degli smartphone, sedotti dalla possibilità offerta di acquistare il nuovo modello in anteprima rispetto al rilascio sincronico a mezzanotte di quel giorno. C’erano da ultimo alcuni giornalisti allettati dall’idea di poter strappare qualche domanda a un vociferato invitato speciale: Lysandre Faubourg.

« Tuo nonno è stato davvero bravo a trovare i biglietti, Trovy! » esclamò Tierno accomodandosi alla collocazione assegnata. Un folto schieramento di sedie era stato disposto nella hall sotterranea della struttura, illuminata mediante gli ampi lucernari vetrati sul soffitto, e vista la folla che si era presentata c’era solo da ringraziare che i posti fossero numerati.

« Certo che avrebbe potuto anche accompagnarci, eh… » sbottò Shana mentre cercava una postura ottimale. Durante uno dei suoi tentativi fu urtata dalla sua vicina, una donna grassoccia di mezza età che debordava dal perimetro della sua seggiola. « Ehi, lei stia attenta! ».

« Oh, perfetto, pure i bambinetti viziati. Scommetto che tuo papà ti prende tutti i PSS » replicò lei caustica.

La ragazzina fu sul punto di dare in escandescenze, ma Trovato accanto a lei la trattenne « Su, su, Shana, non metterti a litigare di nuovo ».

« È quella che rompe! ».

« Ssssh, guardate! Sta per iniziare! » li avvertì Tierno puntando il dito davanti a sé. In fondo alla sala era stato allestito un sobrio palchetto dotato di una coppia di alte casse acustiche. Da quest’ultime iniziò a spandersi l’audio di un filmato proiettato su uno schermo soprastante: un annunciatore dalla voce profonda che scandiva le parole « Fondazione per il Libero Apprendimento e la Ricerca Elaborativa! ». Ad accompagnare il suono cinque lettere massicce avevano monopolizzato la visione, ardenti contro una cornice nera:

 

 

F. L. A. R. E.

 

 

Sull’assito salì una donna in abito scarlatto con in mano un microfono. « Buongiorno a tutti » salutò il pubblico, e quello rispose con un vigoroso applauso di benvenuto « Il mio nome è Xamber e sono Caposcienziata della Fondazione. È un piacere per me accogliervi all’Open Day e spero che trascorrerete una piacevole giornata! ».

« Io non vedo niente! » bisbigliò con piglio di protesta Shana.

« Come sapete tutti voi appartenete al turno delle nove e mezzo, ovvero siete i primi in visita oggi al Frattale. Beati voi! ». Questa battuta scatenò un’ilarità collettiva, anche se l’unico a ridere dei tre piccoli fu Tierno. « Questo tour si concluderà più o meno a mezzogiorno, quando in anteprima assoluta potrete acquistare i nuovi P5S direttamente al negozio qui al pianterreno ».

« Ascolta e basta! » esclamò Trovato in direzione della sua amica, conscio che intorno a loro si stavano raggruppando sciami di occhiate di disapprovazione.

« Le idee originali per questo evento erano di avere il nostro fondatore, il signor Faubourg, narrare le vicende che hanno portato alla nascita di questo impianto » proseguì Xamber senza mai perdere il sorriso « Sfortunatamente impegni di politica lo hanno trattenuto, di conseguenza spetterà a me cercare di non farne rimpiangere l’abilità oratoria. Spero di non annoiarvi! ».

Il discorso che seguì fu una storia dettagliata di come i Flare erano nati. Tutto era cominciato un anno prima, ai tempi del Primo Galà di Luminopoli, per il quale il suo organizzatore Gaubert Colress aveva acquistato un ampio terreno appena fuori da Luminopoli. Quello spiazzo era poi diventato il Distretto, un quartiere modernizzato adibito ai soli partecipanti al torneo; quando questo si era concluso disastrosamente con l’arresto di Colress anche l’area era stata sequestrata. Il piano iniziale era stato di popolarla rendendola a tutti gli effetti parte della città, ma gli alti costi di mantenimento avevano allontanato ogni potenziale residente e, esasperati dalla situazione, i membri del Grande Assessorato avevano messo all’asta l’intera proprietà per una base irrisoria.

Qui entrò in gioco Faubourg, ai tempi puramente un membro di spicco del Congresso. La sua idea fu tanto semplice quanto geniale: trasformare il Distretto in una centrale del sapere. Svariati edifici furono riorganizzati da cima a fondo per trasformarli in laboratori all’avanguardia, con il Frattale, poderoso complesso di 27 piani, destinato a diventarne il centro coordinativo; i rimanenti furono offerti come abitazioni gratuite per gli scienziati di spicco di Kalos e fuori che avessero desiderato lavorare nella neonata Fondazione per il Libero Apprendimento e la Ricerca Elaborativa.

In questo modo Faubourg conseguì un doppio esito: da un lato i Flare si lanciarono nel campo dell’innovazione tecnologica, producendo oggetti che divennero presto di uso comune – il PSS principe tra i principi – e diventando la prima società della regione per fatturato; dall’altro la sua fama crebbe a tal punto che, considerato un alfiere della cultura, fu eletto per il prestigioso ruolo di Intermediario. Tutto ciò nell’esiguo tempo di meno di un anno solare.

« E con ciò si conclude la nostra retrospettiva storica » annunciò Xamber « Vi rammento che i piani 26 e 27 sono privati e dunque non accessibili come parte di questo tour, e vi auguro una piacevole permanenza! ».

 

 

« Pertanto, con l’introduzione del campo complesso, ogni polinomio di n-esimo grado ha altrettante radici calcolabili. E con ciò si conclude questa lezione, spero abbiate imparato qualcosa di nuovo! ».

Un battimano uniforme si levò dal pubblico della lezione dimostrativa, in cui tra gli altri figurava un Tierno piacevolmente soddisfatto. Terence Tao era considerato il più grande matematico di Kalos da molti esperti nel settore, lui stesso incluso, e quell’occasione era speciale per due ragioni: in primis raramente una persona estranea al mondo della scienza poteva sentirlo parlare, e in secondo luogo era ancor meno frequente vederlo alle prese con concetti basilari di analisi, adatti a chiunque potesse contare su un’infarinatura generale fornita da un’istruzione liceale. In alcuni punti si era lasciato un po’ andare, menzionando tensori e altri termini astrusi, ma tutto sommato era riuscito a mantenere un livello comprensibile anche a un bambino intelligente come Tierno.

L’aula, un locale di considerevoli dimensioni dalle tinte metalliche, iniziò a svuotarsi man mano che coloro che avevano assistito si disperdevano in direzione dell’uscita. Anche il ragazzo si accodò, e mentre si allontanava notò di sfuggita che alla cattedra era in corso un dialogo animato tra il matematico e uno degli ospiti. A ben guardare quello che aveva etichettato come ospite era in realtà un individuo ben noto, un Allenatore in giacca indaco dalla condotta travolgente: Calem.

« Perché lo vuole sapere? ».

« Affari miei » ribatté il ragazzo categorico « Lo conosce, vero? So che è nella sua unità ».

« Tu… I componenti delle unità sono segreti! ».

« Diciamo che veniva spesso a vantarsi dei suoi compagnucci a Borgo Bozzetto. Vorrei sapere qual è il suo ufficio, ho qualcosa da dirgli ».

Terence lo squadrò truce, impiegando un tono più severo del precedente « Vattene. O giuro che chiamo la sicurezza e ti faccio sbattere fuori ».

« Oh, non lo difenda, mi creda, non se lo merita. Non lo voglio mica picchiare, eh! ».

Nell’atmosfera di tensione che si era venuta a creare si intromise Kibwe, un erculeo uomo dalla carnagione color cioccolato che aveva assistito il suo collega nella gestione della presentazione sul computer. Le sue parole furono dure e gelide, effetto enfatizzato dalla sua usuale voce grave « Etan è morto ».

Si venne a creare una quiete imbarazzante e Terence chinò la testa in un gesto di mestizia. Solo in quel momento Tierno si accorse che l’aula era deserta: gli unici rimasti erano i due membri della Fondazione, lui e Calem. Il suo amico pareva essere stato turbato dalla notizia e ora parlava a scatti. « Che… Che vuol–– ».

« Martedì scorso, l’ho visto io. Ora vattene ».

L’Allenatore aveva l’espressione di chi ha appena scoperto che Babbo Natale non esiste. Arretrò di qualche passo, poi uscì dalla stanza visibilmente scosso. Tierno, praticamente invisibile a tutti fino ad allora, lo inseguì all’esterno, nello spazioso corridoio dell’undicesimo piano del Frattale. « Calem! » lo chiamò urlando, e quello arrestò la sua andatura sostenuta.

« Anche tu qui » sbuffò acido. In un certo senso avrebbe dovuto aspettarselo: il karma lo stava ripagando per tutti gli anni di malanimo che aveva trascorso. Commetteva un passo falso risultante in una figura barbina? Poteva star certo che un suo conoscente avrebbe presenziato al fatto. Di più, uno dei tre marmocchi. Di più, quello paffuto.

« Che ci fai a Luminopoli? ».

Il ragazzo sfoggiò un biglietto cartaceo spiegazzato che aveva custodito in tasca « Secondo te? ». Il prosieguo non fu necessario: prendeva parte all’opportunità di visitare la sede dei Flare.

Questo, però, non rispondeva alla domanda di Tierno: il fratello di Shana non era un appassionato di scienza né di smartphone di ultima generazione. Comunque quell’interrogativo passava, per la verità, in secondo piano rispetto a un altro. « Che è successo con Tao? ».

« Nulla che ti riguardi » replicò Calem glaciale, iniziando ad allontanarsi verso la rampa di scale non lontana.

« L’Etan di cui parlavate era… il nostro Etan? De Freitas? ».

L’Allenatore si fermò lasciando cadere le braccia lungo i fianchi e si addossò alla parete sulla destra come se fosse spossato. « Sì ».

Tierno ebbe un tuffo al cuore, anche se non sapeva spiegarsi il motivo. L’aveva sentito nominare giusto qualche volta dagli adolescenti al parco vicino casa, non era certo una presenza influente nella sua vita. Eppure l’idea che fosse morto, come uno dei Flare aveva reso molto chiaro, la avvertiva come sbagliata. « Perché hai chiesto di lui? ».

Calem, per una delle rare volte da quando era nato, si trattenne. Perché, nonostante l’astio che provava per Etan, in famiglia gli avevano insegnato a rispettare i defunti, e non era tipo da lasciarsi trasportare tanto facilmente nelle questioni delicate. Ma alla fine il suo istinto ebbe la meglio e si sfogò « Perché volevo tirargli un pugno in faccia ».

Questa è proprio una risposta da Calem, pensò Tierno, e il responso lo soddisfece per due fondamentali ragioni: la prima era che, dato il personaggio con cui aveva a che fare, era un’eventualità realistica; la seconda era che, dal momento che il Flare District non era normalmente accessibile dai cittadini non coinvolti nella Fondazione, era alquanto plausibile che il suo amico avesse dovuto attendere un evento come quello odierno per compiere un gesto come quello descritto. A quel punto la domanda si era trasformata: « Perché? ».

« Perché mi sono fidato di lui ».

« Non ho capito ».

« Già, non capisci mai, vero? Devi sempre farmi dire tutto! » esclamò Calem in un raptus di collera « Un anno prima di me Etan ebbe il mio stesso problema, troppi pretendenti al Colle degli Inizi, e se ne uscì con l’idea di chiudere sua sorella gemella nella sua stanza per prendere il Pokémon ».

« E ti ha suggerito di farlo con Serena… ». Tierno finalmente comprese non solo cosa stesse succedendo, ma anche perché l’Allenatore fosse tanto restio a parlarne: aveva ancora in mente il loro scambio in una delle sue prime notti di viaggio, quando ancora erano in compagnia di Serena e Bellocchio. Era un argomento di cui evidentemente si vergognava, e che solo ora iniziava ad affrontare di petto.

« Ma che bravo! Ti daranno il Nobel se migliori a questo ritmo » si congratulò sarcasticamente il ragazzo, riprendendo a camminare nella direzione opposta. Nella sua visione pragmatica delle cose la morte di Etan aveva significato essere umiliato da Tierno un’altra volta e aver buttato i soldi per il biglietto del Frattale, di cui non poteva importargli di meno. Si voltò, puntando il dito contro il dodicenne « Non dire niente a nessuno di quello che ti ho detto ».

« Nemmeno a Shana? ».

« Soprattutto non a Shana ».

« Non vuoi che sappia che suo fratello ha un cuore? ».

Calem gli lanciò un’occhiata di fuoco « Ricorda che ho ancora un pugno in faccia da tirare ».

« Non dico niente, non dico niente » si affrettò ad annuire Tierno alzando le mani. Tuttavia, mentre il suo amico se ne andava per la sua strada, non poté fare a meno di ridacchiare sotto i baffi. Non era certo per quello che non voleva che altri lo sapessero, sarebbe stato fin troppo stereotipato per uno come lui. La verità era un’altra, e non serviva che gli fosse rivelata. Semplicemente Calem aveva commesso un errore considerato imperdonabile dalla loro società: cambiare idea.

 

 

Undici e mezza. Shana nell’ultima ora e qualcosa aveva visitato il laboratorio di biologia, il museo di Pokémon preistorici, le bacheche dei geodi e persino il negozio di souvenir, ma non c’era stato niente da fare: la coda alle postazioni videoludiche allestite al quattordicesimo piano, in cui era possibile provare in anteprima alcuni titoli prodotti dalla Fondazione stessa, non accennava a diminuire. Il più gettonato era un gioco in cui un ragazzo biondo brandiva una lunga spada magica per affrontare dei Pokémon inventati, c’era sempre un assembramento corazzato lì attorno. Così la ragazza, senza più idee su cosa fare e disperando di poter provare alcunché nella mezz’ora rimanente, si era rannicchiata in un angolo a fare ciò che tutti i bambini fanno quando non ottengono ciò che vogliono: imbronciarsi.

La sua espressione offesa fu notata da una delle addette alla guida dell’esposizione, una giovane ragazza mora dai lineamenti dolci che ricordavano quelli di una madre in erba. Si avvicinò a Shana con un sorriso in volto, e quest’ultima notò la targhetta “Jenny” affissa all’occhiello della sua uniforme. « Cosa c’è che non va, piccola? Hai perso i tuoi genitori? ».

« No… È che volevo giocare, ma non ce la farò mai con quella fila… ».

La donna ci pensò su per un attimo, poi un ghigno furbo le si dipinse sul volto. « Vieni con me ».

Avendo cura di non essere notata da nessun altro la condusse lungo il perimetro della stanza fino a una piccola serie di tre scalini seminascosti dalle postazioni delle console. All’insaputa di chiunque c’era un secondo ambiente, decisamente più piccolo di quello principale: uno stanzino fiocamente illuminato che ospitava apparecchiature impolverate e un singolo, solitario processore che ronzava debolmente.

« Stiamo sviluppando uno strategico a turni in cui puoi combattere con i Pokémon. Ti va di provarlo? ».

Il volto di Shana si illuminò gioioso « Sì! ».

Jenny, gratificata da quell’espressione di felicità, si sedette al PC e, lanciato il terminale, prese a digitare comandi preliminari. « Due secondi ancora… Ecco fatto! » annunciò dopo un minuto o poco più, dislocandosi a sinistra per svelare lo schermo. Si era aperta una finestra che ospitava un emulatore rudimentale « Questa è una demo che rilasceremo tra un mese. Su, puoi giocarci! ».

Shana non se lo fece ripetere due volte e, dopo aver ringraziato sbrigativamente la gentile esponente del personale Flare, si fiondò sul computer per studiare i comandi del gioco.

« Io torno di là. Mantieni il segreto! » si raccomandò Jenny prima di sparire oltre il collegamento al locale primario, ma la ragazzina ormai era tanto assorta da non sentire.

Per un po’ rimase immobile sulla schermata iniziale, un semplice logo con quello che doveva essere il working title, Pokémon Versione Rossa. La grafica era alquanto elementare, ma doveva essere parte di un qualche desiderio di riallacciarsi alla tradizione di venti anni prima, quando, Calem raccontava, i videogiochi erano tutti fatti in quel modo.

Dopo vari tentativi Shana individuò che la Z sulla tastiera era il comando principale, e navigò fino a trovarsi in medias res su una raffigurazione stilizzata di un Percorso. Non sembrava essere ispirato a nessuno della sua regione, e probabilmente se anche lo fosse stato non sarebbe riuscito a capirlo: passasse lo stile essenziale, ma era difficile anche solo capire a quali pixel corrispondesse cosa! Mentre camminava nei panni di un omino stilizzato la bambina comprese che quelli che aveva etichettato come quadratini scuri erano in realtà erba, e passeggiandoci all’interno fu infine interrotta da una transizione che la catapultò in una lotta Pokémon.

Il suo avversario era per questa tornata un Rattata, mentre come alleato aveva ricevuto un Bulbasaur. Ma io volevo Fennekino, lamentò mentalmente Shana. Il menù ora aveva quattro opzioni: LOTTA, ZAINO, PKMN (quest’ultimo scritto in una grafia oltremodo complessa, a scacchiera si sarebbe detto) e FUGA. Selezionando la prima apriva un set di quattro mosse, di cui però solo due erano utilizzabili: Azione e Ruggito. La ragazza attaccò con la scelta più ovvia, riducendo la barra salute del nemico di quasi metà, ed esultò internamente. Il miglior gioco del mondo!

Rattata reagì con un Colpocoda, totalmente privo di effetti visibili e per di più dotato di un’animazione ridicola. Shana emise un sottile risolino e si preparò a colpire nuovamente, quando tra le voci ovattate che provenivano dalla folla nell’altra stanza distinse un suono, uno che non sentiva più da settimane. Strinse gli occhi per un istante e provò a concentrarsi sul gioco, ma ora che se n’era accorta si era fatto strada pervasivo nella sua mente.

Il battito. Quella pulsazione infernale che aveva udito a Rio Acquerello durante la battaglia con Serena era tornata, ancora più forte, e ora le bombardava il cranio. Si strinse le tempie tra i palmi delle mani in un tentativo poco ragionato di allontanare il dolore e appoggiò i gomiti sul tavolo, stremata. Perché? Trovato aveva detto che era colpa della pietra dei Beedrill. Perché allora lo sentiva così chiaramente? E ora due lettere, due singole lettere che le rimbombavano nella testa, due lettere senza significato che le provocavano un dolore straziante.

« Ehi, tutto bene? ».

Si voltò. Dietro di lei si trovava un uomo di colore vestito di un’anonima camicia a motivo scozzese. Era alto poco più di suo fratello, ma doveva essere almeno dieci anni più vecchio. Shana iniziò a sudare freddo, e non tanto per l’idea di trovarsi senza sorveglianza con uno sconosciuto; era più perché Jenny le aveva raccomandato di non far trapelare nulla sulla demo, ed era alquanto difficile se colui a cui doveva celarlo si trovava a due passi dal monitor.

« Sto… Sto benissimo! Questo… questo è… ».

« Calma, calma, mi sembri un po’ scossa. Che ne dici di dirmi il tuo nome? ».

« Shana… ».

« Nate » si presentò lui gioviale « A giudicare dall’aspetto direi che è un nuovo gioco ».

« Sì, ma… » la ragazza si sentì alle strette e fu incapace di mentire oltre, optando invece per un approccio di discolpa « La donna mi aveva detto che doveva restare un segreto! ».

« Beh, non lo so… Se lo dicessi ai loro concorrenti mi pagherebbero bene… ». Shana andò nel panico, appagando lo spirito buontempone di Nate che se la stava ridendo silenziosamente « Facciamo così, io mantengo il tuo segreto se tu mantieni il mio ».

« Che segreto? ».

« Non mi chiamo veramente Nate ».

« E come si chiama? ».

L’uomo le si avvicinò, sussurrandole all’orecchio « Kevin K. Sono un giornalista, scrivo per Le Monde ».

Nella memoria della bambina, Le Monde era il quotidiano che sua madre leggeva nelle ore serali prima di cenare con la famiglia. Non aveva mai sbirciato al suo interno, ma era sufficientemente certa che si parlasse solo di lavoro e verdure. Cose noiose, insomma. Cose da adulti. « Cosa ci fa qua? ».

« Indago » rispose Kevin con una strizzata sorniona dell’occhio destro « Ma non posso dirti di più, o dopo dovrei ucciderti ». Risa tra sé e sé mentre la sua interlocutrice, che evidentemente non era avvezza a personalità gioconde come lui, aveva un’espressione a dir poco terrorizzata dipinta sulla faccia. Si accomiatò gentilmente dopo essersi assicurato che si fosse ripresa – l’aveva trovata mentre attraversava un qualche giramento di testa – e lasciò la stanza per sbucare in un affollato corridoio del Frattale. Alla sua sinistra sfilavano le finestre che si affacciavano sul Flare District, lasciando intravedere le smisurate campagne che i grattacieli di Luminopoli precludevano alla gente comune. Silenziosamente si diresse verso la tromba delle scale e proseguì la sua scalata dell’edificio, giungendo al piano di sopra in un androne decisamente meno frequentato, per usare un eufemismo.

Non aveva potuto svelarlo a Shana, o avrebbe messo nei guai entrambi, ma la ragione per cui si trovava lì era un nome: Xaros, lo pseudonimo della misteriosa amministratrice della Fondazione. Voci di corridoio sostenevano che la sua vera identità intrattenesse legami con personaggi altolocati, forse che godesse addirittura di un’ambigua influenza sullo scenario governativo di Kalos. E se queste chiacchiere si fossero dimostrate fondate avrebbero potuto provocare uno scandalo senza precedenti nel divisorio infrangibile che fin dalla nascita dei Flare li aveva tenuti separati dai mortali. Del resto anche il suo fondatore, Faubourg, era stato chiaro: nessuno della Fondazione doveva intromettersi nella politica per evitare conflitti d’interesse, e soprattutto per questo aveva lasciato il ruolo di suo amministratore.

Questo era forse il caso più interessante che Kevin avesse ricevuto nei suoi cinque anni di reporter scandalistico. Era assorto in esso a tal punto, in effetti, che nemmeno si accorse di essere seguito finché qualcuno o qualcosa non lo colpì duramente alla nuca, facendolo svenire.

 

 

Trovato bussò timidamente alla porta. Dall’altra parte una voce che pareva moderatamente sorpresa rispose « Avanti! », convincendolo a vincere la sua proverbiale insicurezza ed entrare.

Dietro si celava un angusto stanzino di forse una decina di metri in lunghezza per cinque in larghezza. Per buona parte era occupato da una scaffalatura a parete ricolma di scatole di cartoni che contenevano dozzine di cavi ciascuna; davanti a quest’ultima trovava posto una lunga scrivania bicromatica in bianco e nero su cui poggiava, se così si può dire, una triade di triadi: tre sequenze identiche di una stampante voluminosa, un minitower color pece e un’accoppiata di schermo e tastiera. Due soltanto erano le persone che si trovavano in quel piccolo laboratorio: un armadio a due ante chino alla postazione centrale e un vecchio smilzo in piedi dietro di lui. I loro vestiari fiammanti erano praticamente indistinguibili, con la sola eccezione costituita dal papillon indossato dal secondo che rimpiazzava la cravatta d’ordinanza.

« Beh, questa sì che è una sorpresa » commentò a braccia conserte il più anziano « Come mai qui, piccolo? ».

Trovato si guardò attorno osservando l’ambiente. Il muro di fronte a lui era completamente disadorno, salvo per una finestra incavata e parzialmente coperta da una tenda veneziana che lasciava intravedere il sole splendente di quella giornata. Pur essendo ristretto era uno spazio davvero accogliente, un netto miglioramento dal grigio corridoio da cui proveniva. « Questa sarebbe la zona degli informatici, ma… Tutte le porte a parte questa sono chiuse ».

« Informatici, la razza più schiva dell’universo. Vieni, entra » lo invitò lo stesso di prima, sistemandosi il cravattino più per un tic meccanico che non per reale necessità. Con un cenno rapido della mano indicò prima sé e poi l’uomo al computer, che non aveva smesso di lavorare un istante da quando il giovane ospite era entrato. « Sandy io, Kibwe lui » annunciò, e il corpulento individuo replicò con un grugnito di approvazione.

« Trov–– » Trovato si interruppe, scoprendosi tanto abituato al suo nomignolo da usarlo ormai con chiunque. Almeno di fronte a luminari di caratura tale da essere ammessi nei Flare doveva mostrarsi un minimo più professionale. « Trevor » si presentò, ritenendo alquanto bizzarro che il suo nome di battesimo gli suonasse tanto strano.

Sandy gli strinse la mano « Appassionato di computer, quindi? ».

« Sì, ma non è che… Voglio dire, non sono granché ».

L’uomo si accomodò sulla poltrona girevole di sinistra e incrociò le gambe « Ah, non dirlo mai. Anche il più grande informatico di Kalos ha qualcosa da imparare da te, ne sono certo ». Kibwe brontolò nuovamente, sentendosi chiamato in causa – il che denotava, se non altro, una certa pienezza di sé. « Kibwe dice “sì” » commentò Sandy ironico, suscitando in Trovato una risata spontanea.

« Vuoi sapere cosa sta facendo? » gli domandò quindi lo scienziato. Il ragazzo annuì, cercando di reprimere l’eccitazione che gli aveva spedito il cuore in tachicardia. « Dai, Kibwe, parla con il nostro piccolo ospite. Se siete sempre così ostili verso chi si interessa alla vostra materia vi estinguerete prima di accorgervene ».

L’uomo sospirò rassegnato e compì un mezzo giro sulla sua poltrona da ufficio. I suoi occhi erano larghi e irrorati di sangue, due caratteristiche frequenti in chi trascorre molto del suo tempo davanti a un monitor. « Un programma di correzione automatica. Quando scriviamo eseguibili capita di commettere errori che il compilatore non riconosce perché sono logici, non di sintassi. Cose come una divisione tra interi, dure da tracciare se non sai il risultato atteso. Così ho avuto l’idea di un’entità senziente specializzata in questo lavoro ».

« Come “senziente”? » sobbalzò Trovato « Cioè, non possiamo creare l’intelligenza ».

Kibwe agitò il dito e gli rivolse uno sguardo condiscendente, di quelli che sovente gli adulti riservano ai bambini troppo inesperti « Ti ricordo che ci è già riuscito una volta. Porygon non è altro che un codice che ha sviluppato una coscienza autonoma. L’algoritmo su cui mi baso per il Progetto Upgrade è il suo ».

« Oh, è… Davvero interessante ».

Sandy, poco lontano da loro due, si concesse una composta risata « Pensa che sono tre giorni che cerco di convincerlo a lasciar perdere ».

« Perché? » domandò il ragazzo.

« Individuare gli errori umani è compito degli umani. Se continuiamo su questa strada cosa ci distinguerà da ciò che noi stessi abbiamo creato? ».

Trovato convenne che era un’obiezione ben espressa, come ci si sarebbe attesi da uno che aveva tutta l’aria di essere un veterano della Fondazione. Sarebbe stato facile per Sandy proporre la solita paternale – “l’uomo non deve giocare a fare Dio” e simili –, ma sarebbe stato anche terribilmente ovvio. Però, forse per l’atmosfera amichevole che si era venuta a creare, anche lui aveva qualcosa da dire in merito. « La capacità di sbagliare ».

La bocca di Sandy si distese in un sorriso stupefatto. Seguì un istante di silenzio, poi lo scienziato si profuse in un applauso sentito. Proprio non aveva pensato a una risposta del genere. « Che ti dicevo, Kibwe? Tutti possiamo imparare da tutti. E tu ti definivi “non un granché”? ».

Il ragazzo si sentì pervaso da un senso di orgoglio, ma più di tutto di speranza. Aveva sempre pensato all’ambiente scientifico come a un covo di elitari asserragliati nelle loro torri d’avorio, anche purtroppo per alcuni suoi sfortunati incontri con arroganti il cui unico obiettivo era distinguersi dalla maggioranza, persino a costo di contraddirsi. E invece, proprio all’interno della roccaforte del sapere privato, aveva trovato una persona come Sandy in grado di riconoscere i meriti di un bambino.

 

 

Kevin si svegliò in un locale fortemente irraggiato, faticando per qualche secondo a mettere a fuoco. Quando le immagini giunsero nitide alle sue cornee poté verificare che era stato condotto privo di coscienza in quello che sembrava uno studio medico di forma cubica. Emise uno sbuffo, constatando che era legato a un letto clinico per mezzo di quattro solidi lacci disposti a varie altezze del corpo. Sopra di lui, insieme a una lampada al neon che contribuiva al suo accecamento, era stata impiantata una qualche tipologia di macchinario dall’uso ignoto.

« Due lettere… Due lettere… ».

Udì una porta aprirsi e un rintocco di passi diffondersi tra gli apparecchi disseminati nella sala. Presto la nuova arrivata, sempre intenta a canticchiare una ripetitiva litania – “due lettere” –, gli fu addosso: una donna dai capelli verdastri dal fisico statuario, anche se poteva essere in effetti una combinazione della prospettiva da cui la scorgeva e della ridotta funzionalità dei suoi occhi sottoposti a una tortura luminosa costante. « Kevin Cunning, nome di penna Kevin K, giornalista di Le Monde, presentatosi come Nate Bisson alla biglietteria del Frattale » dichiarò la sua aguzzina con inflessione gelida.

« Chi sei? » la interrogò Kevin tra uno spasmo e l’altro, pur sapendo di non essere nella posizione di fare domande. E in fondo, pur senza averne la certezza, poteva immaginarlo: Xaros.

La donna, comunque, non rispose, preferendo recarsi ad armeggiare con una console dei comandi situata non molto lontano. « Non devo nemmeno chiamare mio fratello per un pesce piccolo come te ».

Fratello, si appuntò Kevin a mente. Quella non poteva essere Xaros, dato che aveva appena riconosciuto l’esistenza di un’autorità superiore nella gerarchia del Frattale. Ammesso che si trovasse ancora al Frattale, o che ciò che si diceva su Xaros fosse la verità. Forse non era nemmeno lei la guida fattuale della Fondazione.

In quel momento la luce sopra la sua testa si intensificò e avvertì un lampo accompagnato da un sibilo attraversarlo da capo a piedi. Non gli provocò dolore, ma doveva sicuramente aver sortito un effetto di qualche genere, perché immediatamente dopo il macchinario si spense. « Che cos’era? ».

« Scansione esterna in tre dimensioni. Ci servirà per produrre un tuo sosia inorganico. Due lettere… ». Un meccanismo rotante si avviò e quello che il giornalista aveva ora denominato scanner fu sostituito da un impianto diverso: liscio, lucido, e apparentemente privo di utilità.

« E a che cosa vi serve? ».

La donna si voltò verso di lui, e Kevin ebbe modo di vedere direttamente i suoi occhi, in precedenza celati da due ciocche di capelli che scendevano dalla fronte. Erano occhi obbedienti, focalizzati e imperturbabili. Occhi da soldato.

L’apparecchiatura a guscio si dischiuse lentamente, rivelando che quella intravista dall’uomo non era altro che la rivestitura della reale strumentazione: una catena di lame automatizzate e sincronizzate che ora si stava calando direttamente su di lui.

« Per simulare l’incidente » replicò la donna con disarmante tranquillità, ma la sua voce fu coperta dall’urlo straziante di Kevin.

 

 

 

 

 

 

NEXT TIME: 1x27 Ho incontrato Bellocchio un martedì di marzo. Il giorno dopo ha avverato il mio desiderio, sono diventata un’Allenatrice e abbiamo iniziato a viaggiare. Forse viaggiare non è la parola giusta, però; abbiamo iniziato a correre. Correre e correre, senza mai fermarci, senza guardare ciò che lasciavamo indietro. Correre è un’attività molto pericolosa. Tutto il sangue va alle gambe, il cervello rimane a secco, e lentamente dimentichi.

Quando ho incontrato Bellocchio un martedì di marzo avevo molte domande. Qual è il suo nome? Da dove viene? Cosa ha fatto nel suo passato di tanto temibile per la Fiamma Cremisi? Dopo un po’ ho semplicemente smesso di chiederle. Credevo che non avrei mai avuto una risposta.

Poi è venuta Altoripoli, l’ultimo tramonto e il nuovo sole. Ora so qual è il grande segreto che mi aveva tenuto nascosto per tutto quel tempo. E penso che nulla sarà più come prima.

Kalos Will Burn

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** M1x02 - Tempo ***


Untitled 1

Minisode 1x02

Tempo

 

 

 

Un cielo denso di stelle brillava sopra le irte cime di Kalos Costiera, e spirava una brezza caritatevole che rinfrancava una notte fin troppo afosa per essere solo primavera. Stormi di Taillow transitavano di tanto in tanto, approfittando degli ultimi momenti in cui la luce solare, riflessa dall’atmosfera nelle scure tinte dell’imbrunire, avrebbe loro fornito un chiarore grazie al quale orientarsi.

Serena scaricò la legna per il fuoco recuperata nei dintorni e lanciò un’occhiata a Nephtys, che con un cinguettio solerte la incendiò con una scintilla ottenendo un grazioso falò serale. Indugiò per qualche istante assorta in contemplazione, identificando nelle fiammelle danzanti sagome note. Accendeva un fuoco quasi ogni notte, ma amava sempre osservarlo per un minuto o più a lavoro compiuto. Un po’ per rimirare le sue sorprendenti doti nell’ambito, un po’ perché a sole tramontato non c’era mai molto da fare che esulasse da cena e sonno.

Rivolse uno sguardo distratto all’ingresso della Grotta Trait d’Union, il loro casello di passaggio per abbandonare il settore pianeggiante della regione. Vi erano giunti nonostante qualche peripezia lungo il Percorso 7, dopo che quella stessa mattina avevano lasciato il Palais Chaydeuvre e il barone De Loménie. Sarebbero potuti entrare anche subito in quel labirinto roccioso, ma avevano convenuto che era meglio attendere il giorno successivo in quanto entrambi, per quanto l’adrenalina costantemente in circolo ne limitasse gli effetti, iniziavano a patire stanchezza per la loro recente vita sregolata.

« Tutto bene? » domandò. Bellocchio, oggetto dell’interrogazione, era rapito da un po’ di tempo dallo schermo del PSS che gli aveva prestato. Dapprima aveva assunto fosse solo una delle pause che si concedeva, ma a guardarlo meglio i suoi occhi apparivano diversi adesso. Più tristi, perfino. « Ehi, qualcosa non va? » reiterò avvicinandoglisi, prendendo apposto accanto a lui su un masso solitario.

Il giovane, però, non era intenzionato a rispondere. Serena sbirciò sullo schermo, notando che si trovava sul sito web di Le Monde. La notizia che doveva averlo turbato riportava la foto di un relitto aereo abbattuto in una vallata. Il titolo dell’articolo confermò la sua prima impressione: “Ritrovato l’ufo di Novartopoli, era un aeromobile”.

« È con quella che sono arrivato qui ».

La ragazza comprese in un lampo: era la sua aeronave, quella da cui era piovuto il suo amico nella notte della Maison Darbois. Si era fatto un gran parlare del suo avvistamento, un bolide nella volta celeste – gli ufologi si erano scatenati –, ma a quanto pareva le ricerche si erano appena concluse con un nulla di fatto, perlomeno dal punto di vista dei teorici del complotto.

« Non sapevo ci fossi così attaccato… Non ne hai più parlato, credevo… ».

« Hanno ritrovato un corpo » la interruppe Bellocchio, che non aveva mosso un muscolo del collo, quasi fosse stato di legno « Era Clipse ».

Serena si portò una mano alla bocca, anche se in realtà non poteva essere tanto sconvolta dal momento che non lo conosceva. Era più una reazione rituale. « Chi era? ».

« Un mio vecchio nemico… » spiegò l’uomo, trascinando ogni sillaba fuori dalla gola con la forza. Si alzò in piedi, coprendosi il volto in un gesto che avrebbe ricordato chi si asciugava le lacrime dagli occhi, se non fosse che la sua compagna di viaggio non lo aveva mai visto piangere. « O almeno credo » soggiunse ermetico. Poi si girò e iniziò ad allontanarsi con andatura incerta, le gambe che oscillavano a ogni passo, trasportando controvoglia il peso del corpo.

La ragazza non si mosse. Era uno di quei momenti in cui era meglio lasciare sole le persone, lasciare che risolvessero da sole i loro problemi interiori. Lasciare che piangessero, perché il tempo prima o poi fa i conti con tutti, anche con chi cerca di sfuggirgli. E del resto Serena sapeva che Bellocchio non avrebbe mai pianto di fronte a lei.

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** 1x27 - Sabbie oscure ***


Untitled 1

Una sala circolare, sorprendentemente moderna per essere sita in cima alla torre più alta del Ligue Château d’Examen, la sede ufficiale della Lega Pokémon. Una sola finestra continua, uno squarcio vetrato nelle pareti che circondavano l’ambiente, da cui era visibile la monumentale maestosità della regione di Kalos. Solo quattro poltrone, di cui quella sul centrosinistra vuota in quanto Narciso si trovava già a Luminopoli, segno che difficilmente chi frequentava quella stanza riceveva ospiti degni di sedere.

Timeus, già vestito della sua armatura per la apparizioni pubbliche, si sistemò con un clangore metallico e annunciò « Cinque minuti ».

Ginger annuì e prese un respiro profondo. Lei e ciò che rimaneva della Seconda Unità dopo l’incidente del settimo piano – Sandy, Terence e Kibwe – erano costretti a restare in piedi. Non che valesse la pena mettersi comodi per il poco tempo a loro disposizione: tra poco più di quattro ore avrebbe avuto luogo la nomina di Lysandre Faubourg a nuovo Presidente e Grande Assessore, e ovviamente non sarebbero potuti mancare i suoi quattro influenti sponsor. Tutto lasciava intuire che fossero sul piede di partenza per la capitale: Lilia indossava i suoi classici abiti tribali, Malva il suo completo vagamente reminiscente del suo passato nei Flare e Timeus, come detto, pareva un cavaliere della Tavola Rotonda.

« Siamo convinti che qualcosa stia agendo fuori dal nostro controllo a Kalos ».

« Sii più specifica, Xaad » la esortò Malva, che in assenza di Narciso occupava di fatto la postazione centrale.

« Nella notte tra ieri e oggi è stato confermato un furto massiccio di zinco dal Deposito Primario di Romantopoli. Si parla di tonnellate ».

« Ne siamo a conoscenza, sì. Le autorità stanno già indagando ».

« Come sapete lo zinco è un materiale chiave nella fabbrica di Poké Ball, essendo parte della lega di metalli che le compongono. Noi crediamo che–– ».

« Risparmia gli inutili tecnicismi e parlate di cose serie » la interruppe Lilia con aria annoiata mentre giocherellava con uno dei corni che usava come pendenti della sua collana.

Timeus la seguì, sfoggiando tuttavia un tono più velatamente derisorio « Se ho ben capito le vostre convinzioni sono motivate solo da… Un furto? Di un materiale facilmente rivendibile? ».

Ginger reagì infastidita dalla sufficienza con cui si rivolgevano a lei. Non avevano la sua cultura scientifica, il minimo che dovevano fare era non mettere in discussione i fatti. « Dov’è la sua stella, signore? ».

L’uomo esitò, passandosi involontariamente la mano sul capo « Come? ».

« La stella decorativa che porta sempre sulla fronte, proprio dove ora si sta toccando ».

Con riluttanza e dopo aver provato a temporeggiare, Timeus abbozzò un pretesto « … L’ho persa da qualche parte nel mio–– ».

« Per caso oltre a oro era fatta anche di zinco? » incalzò Ginger con sguardo di sfida « Perché lo zinco è frequente nelle leghe d'oro ».

Di fronte alla titubanza di un Superquattro tutti i membri della Seconda Unità trepidarono interiormente, inorgogliti dall’intraprendenza del loro leader. « Anche la mia fede nuziale è sparita da un giorno all’altro » intervenne Sandy « e non la tolgo mai dal dito ».

« Non ricordo di averle dato la parola » lo ammonì Timeus, incapace però di celare la difficoltà in cui si trovava nel confronto.

Terence, sospinto dal fuoco del momento, obiettò in difesa del suo amico – seppur probabilmente per spirito di difesa del territorio « Ma ha ragione. Non sono casi isolati, ovunque stanno–– ».

« Xaad, tieni a bada la tua Unità o sarò costretta a espellervi in blocco » intimò Malva irrigidita sulla sua poltrona.

Ginger obbedì, ma in cuor suo sapeva che anche lei stessa avrebbe agito nel medesimo modo, e anche i suoi colleghi ne erano al corrente. Dopo averli riportati all’ordine riprese « Per quanto i metodi siano bruschi, non ritratto nulla di ciò che hanno detto ».

« Oh, andiamo, qual è la vostra tesi? » la interpellò Lilia « Che qualcuno stia andando in giro a rubare zinco? Per cosa, poi? »

In risposta l’ingegnera seppe precisamente cosa fare: mostrarsi sicura di sé. Che l’avesse fatto o meno, aveva compreso benissimo che l’avrebbero allontanata a momenti. « Un generatore sperimentale di radiazioni sinaptiche è stato rubato qualche giorno fa dalla Cripta. Non penso sia un caso visto che lo zinco–– ».

« Basta così, Xaad. Invito te e i tuoi colleghi a lasciare questa stanza ».

« Malva, almeno tu–– ».

« Ora. O dovrò chiamare la sicurezza ».

Con i nervi a fior di pelle Ginger uscì dalla sede di ricevimento insieme alla Seconda Unità e venne scortata all’esterno dell’edificio. Era una bella giornata primaverile, dal cielo terso in cui un tiepido sole delle tre di pomeriggio splendeva sulle sfavillanti vetrate del Ligue Château. Aleggiava un silenzio sovrannaturale, spezzato solo dal fruscio dei fiori nel prato antistante.

« E ora che facciamo? » le chiese Kibwe a nome di tutti « Senza l’approvazione dei Superquattro abbiamo le mani legate ».

Vero, non avrebbero mai potuto indagare a fondo quanto avrebbero voluto. Ma Ginger non era certo una da arrendersi al primo rifiuto. Aveva già tenuto in conto che quegli individui ormai ossessionati più dalla politica che non dal loro reale ruolo di protettori di Kalos ed esaminatori di Allenatori avrebbero potuto negarle l’appoggio, e aveva già ideato un piano di riserva.

Si sarebbe rivolta all’unica autorità in tutta la regione in grado di annullare una sentenza della Lega Pokémon.

 

 

 

Episodio 1x27

Sabbie oscure

 

 

 

« Giù! ».

Bellocchio e Serena si gettarono oltre l’uscita della caverna per scansarsi subito da lati opposti. Nell’istante seguente un’orda informe di Zubat fuoriuscì dall’apertura e sviò verso l’alto con versi striduli. L’uomo si alzò, spolverandosi il cappotto e studiando l’ambiente circostante. Si trovavano su un terreno roccioso, facilmente la fiancata del Monte Trait d’Union da cui provenivano.

« Questa non è Altoripoli » constatò Serena sistemandosi il cappello in testa. Teoricamente sarebbero dovuti sbucare ai piani alti della città prescelta, ma a giudicare dalla ripida fiancata che stava di fronte a loro prima di un’infinita distesa marina avevano sbagliato strada.

« Beh, quindi dopotutto dovevo andare a destra » commentò Bellocchio. Volse lo sguardo a est, sporgendosi sul precipizio quel che bastava perché la sua visione periferica migliorasse. A breve distanza, nell’oscurità vespertina in cui versavano, brillava una cittadina inerpicata su un pendio in maniera quasi irrealistica, un muro verticale di edifici multicolore. Ai suoi piedi i flutti spumeggiavano su spiagge che parevano stranamente vivaci per essere le sette di sera inoltrate. « Ah, eccola là ».

« Era necessario tirare un sasso a quello Zubat, vero? ».

« Puntava la mia cravatta! ».

Serena tossicchiò, indicando con cenni del capo la schiera di un centinaio di pipistrelli ostili che, prodotta un’elica in cielo, avevano ora virato proprio nella loro direzione. « Stanno tornando ».

Bellocchio la guardò negli occhi e un ampio sorriso da birba gli si dipinse sul volto « Sai cosa fare ».

Annuirono in simultanea e il giovane con un gesto collaudato della mano chiamò in campo Nephtys, la sua fedele Fletchinder. Quindi porse la mano alla ragazza, che in risposta alzò le sopracciglia eccitata e dichiarò « La cosa si fa intrigante ».

Non appena i due palmi si strinsero Bellocchio si aggrappò al volatile e insieme si gettarono nel precipizio. L’uccello dischiuse le ali fino a somigliare a un deltaplano e il gruppo iniziò a discendere gradualmente in direzione delle spiagge di Altoripoli. Gli Zubat retrostanti mancarono il bersaglio di un soffio e, appena prima di schiantarsi a terra, deviarono nuovamente facendo ritorno nella caverna.

« WOOOOOOOOO! » esclamò Serena guardando dietro di sé, poi scoppiò in una risata liberatoria « ALLA FACCIA VOSTRA! ». Anche quella volta era finita bene, anche se doveva ammettere che con Oregon il Loudred se l’erano vista brutta. La Grotta Trait d’Union era una tappa obbligata per i nuovi Allenatori che volessero accedere alla sezione costiera di Kalos, dal momento che affrontare l’impervio deserto del Percorso 13 non era consigliabile per chi come lei era alle prime armi – anche se con Bellocchio sicuramente ne sarebbe uscita viva. Di certo non si era attesa che fosse così difficile attraversarla: erano giunti all’ingresso venerdì notte e ne erano usciti solo ora, tarda domenica.

Finalmente la planata si concluse. Serena pregò fino all’ultimo che Nephtys avesse migliorato le doti di atterraggio morbido, ma fu una speranza vana e il Pokémon catapultò i suoi due ospiti dritti contro la rena. La ragazza si rialzò dopo un momento di iniziale stordimento, sputando la sabbia che le era finita in bocca.

« Tutto bene? » domandò in una direzione generica, udendo in risposta Bellocchio ridere istericamente come lei aveva fatto qualche minuto prima e Fletchinder rientrare nella sua Poké Ball. Osservò l’ambiente circostante: per colpa delle correnti d’aria erano atterrati al confine della città, in una spiaggia libera completamente buia. Era difficoltoso persino distinguere il mare in quell’amalgama scuro, ma alla fine la rassicurante figura del soprabito del suo amico che svolazzava al vento divenne visibile. Entrambi erano messi discretamente, il che dopo ciò che avevano passato era considerabile un successo.

« Certo che la bava di Axew è appiccicosa forte » si lamentò Bellocchio, osservando che tutti i suoi vestiti erano stati impiastrati di granelli rimasti attaccati alla sostanza collosa che li ricopriva.

« Ehi, sembrava davvero che avesse qualcosa incastrato in bocca. Cercavo di aiutare ». Serena cercò di scrostare almeno parte del viscidume dalla gonna con scarso successo « Credo ci servirà una lavanderia ».

« O un inceneritore. Senti anche tu questa canzone? ».

Protendendo l’orecchio, in effetti, la ragazza riuscì ad avvertire una melodia soul che veniva diffusa da una cassa da qualche parte.

« Sunshine she’s here, you can take a break… ».

A giudicare da ciò che sentiva la sorgente doveva essere in movimento, anche se stabilire se si stesse avvicinando o allontanando era più complicato. D’un tratto una voce dall’accento marcato proveniente dalla loro sinistra sovrastò la musica. « AOOOOOOOH! È arrivato il Pirata! ».

E alla fine eccola emergere dalle tenebre, l’impianto stereo assordante: una nave. Cioè, non era veramente una nave, anche se l’intenzione doveva essere quella di assomigliarvi: ciò che aveva attirato la loro attenzione era un piccolo veicolo elettrico somigliante a un furgoncino ma decorato come un’imbarcazione corsara del Settecento. L’accuratezza storica era sorprendente, dalla polena al finto timone posteriore, e più avanzava verso di loro più dettagli emergevano, come il fatto che la porzione dorsale fosse occupata da quello che pareva proprio un refrigeratore, o che sulle fiancate fosse appeso un catalogo di frutta e prezzi. Quando la vettura si accostò a Bellocchio questi notò che il guidatore, immedesimato bene nel personaggio, era un uomo sulla cinquantina dai capelli ricci brizzolati raccolti in una coda, nonché dotato di baffi e pizzetto del medesimo colore.

« With the air, like I don’t care baby by the way… ».

« Aoh! È arrivato il Pirata » ripeté con più calma, diretto al potenziale cliente « Vuoi un watermelon? ». Fece una pausa e Bellocchio provò a parlare, ma fu subito interrotto da quello che, muovendosi a tempo, canticchiò « WaterWatermelon? ». Doveva piacergli proprio come suonava.

« Questa dev’essere una di quelle situazioni in cui la gente pensa che io abbia soldi con me ».

« Che ci fai qui, coso? Ti perderai il Giuramento ».

Serena in quel momento rammentò: era il giorno del giuramento del nuovo Presidente! Ne aveva parlato con sua madre via PSS qualche giorno prima, poco dopo essere usciti dal Palais Chaydeuvre. Per la verità era stata l’adulta a tenere il discorso, cosa che la ragazza aveva volentieri concesso temendo che, se avesse avuto campo libero, sicuramente sarebbe finita per raccontarle di ciò che era successo nella villa. Le aveva tenuto nascosti, durante le sue telefonate saltuarie, i pericoli che aveva corso da quando aveva incontrato Bellocchio. Non avrebbe ottenuto nulla più di dieci chiamate perse al giorno se avesse rivelato che ciclicamente rischiava di non uscire viva dal guaio del momento.

« Oh, è una lunga storia » abbozzò il suo amico mentre rispondeva all’estraneo.

« Ehi, raccontagli di come sei planato giù! » gli suggerì ad alta voce per oltrepassare il furgoncino che si era frapposto tra loro due « Con me a Borgo Bozzetto ha funzionato! ».

Il Pirata si rese conto solo in quel momento della presenza di Serena. Con il tono di chi lavora nel settore e quindi la sa lunga mormorò ammiccante « Ah, te la spassi con la signorina, eh? Nulla da obiettare ».

Bellocchio non colse nessun riferimento improprio, rispondendo impassibile « Beh, ci stavamo divertendo. Credo ».

« Capisco. Se dopo aveste fame o altro, non lo so… Mi trovate alla prima spiaggia in quella direzione, al banco della frutta ».

« Ricevuto, Barbagrigia ».

Serena sgranò gli occhi, realizzando solo a quel punto che il suo amico per qualche ragione stava congedando un individuo provvisto di veicolo motorizzato. Cosa si aspettava da lei, che camminasse ancora dopo aver corso negli ultimi venti minuti per i meandri della Grotta Trait d’Union? « No, no, sta zitto! » intervenne, quindi si appoggiò al volante della finta nave immobilizzandolo ed esibì all’indirizzo del Pirata un sorriso imbonitore che non avrebbe ingannato nemmeno un barboncino. « Abbiamo bisogno di un passaggio ».

 

 

La Costa Nera”, questo il nome del lido privato, era poco meno di una discoteca a cielo aperto. Strutturalmente era divisa in due sezioni distinte: la zona più vicina alla terraferma, sita a due passi dal pendio inorganico su cui sorgeva Altoripoli, era disseminata di impianti per servizi di vario genere, tutti modellati per assomigliare a certe palafitte caraibiche di Unima. Era la porzione propria del Resort Riva Nera, dove venivano serviti cocktail e un disc jockey dalle cuffie abnormi stava presentando un gioco a premi il cui vincitore sarebbe partito per una vacanza a Ceneride. In uno spazio al centro era stato allestito uno schermo dalle ragguardevoli dimensioni che al momento giaceva spento, in attesa della sua grande occasione.

L’altra fetta, quella più prossima al mare e dove Serena e Bellocchio si trovavano al momento, era l’epitome della minima entropia. Dovunque si posasse l’occhio si incappava in ragazzi ubriachi impegnati in ciò che loro definivano pogare – qualsiasi cosa fosse –, oppure eccitati all’idea di un bagno di mezzanotte nonostante fossero solo le sette e un quarto. La quantità di persone era tale da chiedersi legittimamente da dove provenissero, dato che non c’era nessuna possibilità che una città come Altoripoli avesse un’età media così bassa. Scoprirlo per via diretta era reso impossibile dall’assordante musica, o meglio un frastuono elettronico prodotto da un set di casse alte due metri che a ogni basso fuori dalla norma facevano tremare il suolo.

« Questa è una diretta politica, vero? » domandò sarcastico Bellocchio. Riusciva a malapena a sentire la sua stessa voce anche urlando, ragion per cui pregò che la sua amica fosse tanto esperta nella lettura delle labbra quanto lui.

« Sì! Moon è caduto, quindi Faubourg prende il suo posto ».

« E c’è una ragione particolare per il rave party? ».

Serena ridacchiò interiormente. Al Palais Chaydeuvre non gliel’aveva fatta pesare con la faccenda dell’omicidio a cui badare, ma ora poteva punzecchiare in tutta libertà la scontrosità del suo amico. « Oh, non essere così misantropo! Neanche a me piace, ma mica vado in giro a lamentarmi ».

« Adolescenti. Ogni scusa è buona per–– ». La geremiade di Bellocchio fu troncata dalla collisione con una ragazza che gli era salita sulle spalle in un tentativo di mosh. L’uomo se la scrollò di dosso, poi le rivolse un’occhiata di fuoco « Rifallo. Provaci, su ».

« Oh, ma sta’ sciallo, ci stiamo solo divertendo! » esclamò grossomodo lei prima di andarsene gridando versi inconsulti.

« Il prossimo lo sciallo tanto forte che si ritroverà a Nevepoli ». Serena sogghignò, stavolta senza nascondersi, al che il suo compagno di viaggio le puntò il dito contro « Ehi, non ti azzardare, non è divertente ».

« Non sono d’accordo ».

Bellocchio sospirò con un’espressione in volto simile a un Herdier bastonato « Vado al banco della frutta. Barbagrigia non sarà granché, ma è il massimo della normalità a cui posso aspirare qui ».

« Va bene, dai, ci vediamo per il Giuramento! » concordò Serena salutandolo a mano alzata. Il giovane fece lo stesso e, districandosi nel labirinto di avvinazzati e luci stroboscopiche, raggiunse infine uno stand in legno a forma di capanna dal cui bancone pendevano caschi di banane e ananas appesi per le corone. Al suo interno il loro Pirata, in canotta nera, intagliava mezze noci di cocco per trasformarle in recipienti decorativi. La frutta pareva essere gratuita, probabilmente pagata dalla spiaggia.

« Oh, ehilà! Sai, non ti ho ancora chiesto il tuo nome! » esclamò l’uomo alzando per un breve attimo la testa dal suo lavoro.

« Bellocchio ».

« Ah, un nickname! Beh, Belloccio ti si addice effettivamente. Non in quel senso, eh… » chiarì in fretta il Pirata, ritenendola una precisazione importante. Bellocchio cercò di correggerlo, ma quello riprese a parlare senza concedersi un secondo di silenzio « Tu puoi chiamarmi Cornelius Woodward IV. Com’è andata con la signorina? ».

« È voluta venire qui. Non so quanto voglia stare, spero che almeno dopo la diretta ce ne andiamo ».

Cornelius assunse nuovamente il suo tipico tono da uomo vissuto « Ah, neanche a me piace questo posto, ma pagano bene. Ma vai tranquillo, che, cioè… Con le donne si sa, va così. Fai un favorino ogni tanto, e poi la notte… ».

« Come mai sono tutti qui? » domandò Bellocchio indicando sommariamente la mandria che pestava i piedi sulla sabbia, e riuscendo così a concludere l’intero ciclo di innuendo senza coglierne nemmeno uno.

« Patriottismo ».

Il giovane annuì con marcato sarcasmo « Lo vedo ».

« Oh, si stanno solo divertendo ora… Ma vedrai, tra poco inizia il Giuramento ».

« Come funziona, poi? Come mai c’è questo giuramento? ».

« Ah, poco attento alla politica? Non ti biasimo » commentò Cornelius, deponendo per la prima volta la noce di cocco sul ripiano sotto di sé « In pratica Mr. Moon è stato costretto a dimettersi, e i Superquattro hanno scelto Faubourg come successore ».

« E Mr. Moon era… ? ».

« Il presidente precedente, ovviamente. È per quello che Faubourg deve giurare, stasera ».

Bellocchio effettuò uno svelto riepilogo a suo beneficio. Per quello che aveva annotato nel mezzo mese di permanenza a Kalos, la regione aveva due centri di potere bilanciati: il Congresso, governato dal Presidente, e il Consiglio dei Superquattro, e il mediatore tra le parti era colui che ricopriva il ruolo di Intermediario. L’attuale leader di maggioranza Moon – che aveva l’epiteto di mister, per qualche ragione – era stato travolto dagli scandali fino alla destituzione, e i Superquattro avevano scelto Lysandre Faubourg, ora Intermediario, per sostituirlo, cosa che avrebbe fatto a momenti giurando fedeltà alla Regione. C’erano alcuni punti da sistemare, ma quantomeno come mappa mentale aveva senso.

« Comunque ti ho capito, sai » lo avvertì Cornelius con convinzione, distraendolo dalle sue riflessioni « Ti ho visto, con la signorina, mentre facevate il Saluto… Io e te stiamo sulla stessa lunghezza d’onda. Quando c’era lui questi drogati andavano nei campi… ».

Di colpo la musica assordante cessò, provocando un’istantanea sordità nei presenti, e anche le luci si spensero. Si accese invece il grande schermo predisposto nella spiaggia, sul quale comparve in alta qualità lo stemma statale, un pentagono tricromatico accompagnato da una melodia che fu impossibile ascoltare per il contraccolpo alle trombe di Eustachio; il logo si scompose poi nelle parole “Regione Amministrativa di Kalos” prima di svanire del tutto. Seguirono circa trenta secondi di sfondo nero a tinta unita in cui fu possibile recuperare quantomeno parte delle facoltà uditive.

Inizialmente Bellocchio pensò a un ritardo nella sincronizzazione tra le città, ma comprese la reale ragione della pausa quando, dal nulla, due frasi che parevano strofe comparvero sul display.

 

Ho incontrato te

su questo grande pianeta

 

Un attimo e c’è

prezioso incontro di vita

 

Date le circostanze ciò che seguì lasciò l’uomo sbalordito: tutti, inclusi gli sbandati che non più di due minuti prima si inebriavano dei fumi dell’alcool come se dovessero morire quella notte stessa, tutti loro avevano portato la mano al cuore e stavano cantando in coro un’armonia dolce, quasi una ninna nanna. Rimase in estasi a osservare quella coralità inaspettata prima di voltarsi verso Cornelius in cerca di risposte. Lui non si era unito agli altri, impegnato a controllare con noia per nulla mascherata quello che pareva un P5S, di quelli usciti da poco.

« Che cos’è? ».

« Il loro “inno” » ribatté con una smorfia contrariata « Miracolo ».

« E perché tu non canti? ».

« L’unico vero inno è Andrò con te, non questa canzoncina da femmine ».

Il giovane lo guardò con sufficienza e pietà, tornando poi alla folla che non si era scomposta nemmeno un po’, anzi sembrava più determinata di come aveva iniziato.

 

Pensa al mondo che nascerà

quanti sogni e desideri

 

Costruiamo un futuro che

rifletta il possibile!

 

Rintracciò Serena, che cantava con convinzione quei versi come fossero suoi. C’era un che di grottesco in quel tipo di orgoglio patriottico, questo era certo. Alcuni di loro sembravano mossi più dalla nostalgia per i tempi in cui da bambini erano obbligati alla devozione che non da reale persuasione. Eppure non poteva trattarsi solo di abitudine, o avrebbe significato che ogni singola persona che aveva messo piede nella spiaggia, e forse in tutta Kalos, avesse una capacità di applicazione fuori dal comune. No, c’era davvero chi credeva nella sua regione, nella sua casa: bastava vedere la sua amica. Non era solo ipocrisia, c’era vera fierezza per le proprie origini là in mezzo, e non era necessario essere estremisti come Cornelius per dimostrarlo.

 

 

« Giuro fedeltà alla Bandiera di Kalos, e alla Repubblica che essa rappresenta: una Regione indivisibile, con libertà e giustizia per tutti ».

Un lungo applauso seguì la frase conclusiva del Giuramento pronunciato da un Lysandre che, nonostante le occasioni molto diverse, era identico alla controparte che aveva parlato con loro alle Galeries. Il pentagono di Kalos ricomparve sullo schermo, il quale poi si spense con un lampo brusco. Vi fu qualche attimo di silenzio, poi intervenne nuovamente la fastidiosa voce del DJ ad annunciare che la festa sarebbe proseguita “fino all’alba”. Il palpito elettronico che a stento si qualificava come musica riprese a battere dalle casse mentre Bellocchio, congedato il caro Pirata, si riuniva con Serena.

« Allora, come ti è sembrato? » gli domandò, non fu ben chiaro se per genuina curiosità o sapendo già che reazioni una simile dimostrazione di unità tendesse a suscitare.

« Beh, direi… Istruttivo ».

« Non facciamo così schifo, dopotutto ».

Bellocchio annuì distrattamente mentre con la coda dell’occhio notava un addensamento di persone intorno alla televisione. Sembrava esserci fibrillazione, ragion per cui sia lui che la sua amica furono al centro del dialogo in un batter d’occhio.

Serena si rivolse a uno degli uomini che discutevano animatamente, mentre un altro gruppo era celato dal display al plasma e parevano gente meno incline al parlare « Che succede? ».

« Nulla di che, non ti preoccupare. Lo schermo si è spento all’improvviso, teoricamente doveva andare in onda lo speciale di approfondimento de L’Avvocato dopo la diretta ».

Senza nemmeno attendere altre conferme delle sue supposizioni Bellocchio si fece avanti presso il team impegnato sul retro dello schermo. A quanto pare dovevano esserci problemi con i cavi, dato che avevano divelto la copertura a uno scomparto che ne includeva diversi. Con un gesto rapido mostrò il suo falso documento da insegnante. « Warren Peace, professore di Elettrotecnica e Cablature. Fatemi dare un’occhiata ».

La sua carta d’identità fu esaminata da colui che, a giudicare dal vestiario e dalla cassa degli attrezzi che reggeva con il braccio, doveva essere l’elettricista designato. Sarebbe stato sorprendente se fosse giunto così in fretta quando il malfunzionamento si era verificato solo un paio di minuti prima, ragion per cui era probabile che fosse stato ripartito d’ufficio per garantire la continuità della diretta.

« Qui dice professore di attività avventurose ».

« Energia elettrica, la più grande avventura a portata di mano. Non fatelo a casa » soggiunse Bellocchio, analizzando a mani nude il circuito all’interno dello scomparto « Oh, guarda, questo sembra proprio un’elica ».

« Sei sicuro di sapere che stai facendo? ».

Il giovane lo ignorò, andando a frugare tra i suoi strumenti per estrarne un oggetto dalla forma rettangolare dal bordo di un arancione brillante. « Oh, un multimetro! Ora si fa sul serio » commentò. Lo collegò nelle cavità apposite e, applicata un leggero voltaggio, lesse il valore sul monitor monocolore « Questo è buffo ».

« Cosa? » lo esortò l’elettricista.

« La resistenza sta calando stabilmente, deve avere innescato un cortocircuito. È come se qualcosa la stesse abbassando dall’esterno ». La realizzazione colpì Bellocchio come un macigno « Avete staccato la corrente, vero? ».

Il volto del presunto esperto impallidì, rendendo superflua ogni risposta.

« VIA! ».

L’avvertimento giunse appena in tempo: lo schermo fu teatro di una parziale esplosione, cui si accodarono in pochi secondi quelle delle casse, dei forni e di qualsiasi oggetto collegato alla corrente nel raggio di svariati metri. Non vi fu modo di domandarsi le ragioni di ciò, perché le scintille risultanti trovarono terreno fertile nelle strutture in legno sparse per la spiaggia, che presero fuoco con spaventosa velocità. Sotto un cielo stellato privo dell’ormai tramontata luna, il lido La Costa Nera si trasformò nell’inferno in terra.

Bellocchio e Serena si ricongiunsero per la seconda volta da quando erano usciti dalla Grotta Trait d’Union, miracolosamente illesi anche ora. Altrettanto non si poteva dire di gran parte del gruppo che si era riunito alla televisione guasta, rimasto ferito da schegge, o del personale coinvolto negli incendi susseguenti. Sapendo di essere probabilmente i più indicati per ciò che avevano in mente fino all’arrivo dei vigili del fuoco, decisero di fare ciò che riusciva loro meglio: aiutare gli altri.

Una volta divisi, Bellocchio inviò a sua volta Nephtys a occuparsi dei casi più disperati dal momento che non pativa le temperature, mentre lui trasse in salvo principalmente coloro che erano rimasti contusi nel caos della fuga della mandria di giovani che prima occupavano il posto. Fortunatamente trovarsi in riva al mare fu un grosso vantaggio, in quanto utile sia come zona sicura sia per trattare le ustioni riportate da alcuni. Non tutti, però, avevano avuto la fortuna di ritrovarselo a due passi!

« AIUTO! ».

La voce familiare giunse all’orecchio dell’uomo solo dopo un largo tempo dalla sua prima iterazione, ma per fortuna non troppo in ritardo per poter agire. L’origine era Cornelius, il cui stand aveva ceduto quasi istantaneamente a causa del frigorifero interno che era deflagrato. Ciò aveva avuto anche l’effetto di ritardare la sua ritirata a causa di una brutta escoriazione al ginocchio, il che gli aveva impedito di scansarsi da un traliccio che gli era franato sulle gambe bloccandolo definitivamente.

Bellocchio provò a sollevarlo, ma era ben oltre le capacità dei suoi muscoli. Provò a forzare in risposta alle ripetute implorazioni di Cornelius, finché d’un tratto il pezzo di legno ardente divenne leggero come aria. Sbigottito si guardò attorno notando Karen, la piccola Ralts che con i suoi poteri psichici lo stava aiutando, affiancata da una Serena quasi irriconoscibile per la quantità di polvere scura che le imbrattava il volto.

« Proprio quando servivi! » esclamò lui.

« Ho imparato da te ».

Insieme trascinarono fuori dalla capanna il pirata, la cui coda si era sciolta lasciando la capigliatura inabissata nella sabbia. Per loro fortuna in quel momento sopraggiunse un plotone di pompieri in completo ignifugo, che schierarono subito una colonna di Clawitzer pronti a usare i loro Idropulsar per spegnere le fiamme. Contemporaneamente anche le ambulanze per i soccorsi arrivarono sul posto, e Serena tirò un sospiro di sollievo, sollevata dal poter finalmente riposarsi. Il suo amico sembrava pensarla allo stesso modo, e fu solo nel guardarlo che si rese conto che entrambi i loro vestiti erano ridotti a stracci sporchi.

Gli si avvicinò, trovandolo in una mescolanza perfetta di perplessità e turbamento. « È incredibile. Cos’aveva quel televisore? ».

« Nulla di ordinario » replicò convinto, perso nella contemplazione delle sabbie oscure del bagnasciuga notturno.

 

 

Altoripoli era un borgo morfologicamente unico. Essendo stata costruita su una scogliera, aveva la forma di una nicchia nel mozzafiato paesaggio rurale della costa occidentale di Kalos. I modesti palazzi che davano alloggio ai locali erano ammassati gli uni sugli altri in una sorta di grande scalata al cielo di cui costituivano i gradini singoli. Tale scelta urbanistica era stata applicata per massimizzare la superficie abitabile, che su un piano parallelo al mare su cui si affacciava sarebbe ammontata a poco più di un rione di una grande città.

La casa di Cornelius era una delle più alte, quasi al livello della caverna da cui provenivano Serena e Bellocchio. Aveva deciso di ospitarli lì la notte come ringraziamento per il marginale atto di avergli salvato la vita. Loro avevano provato a opporsi, affermando che sarebbero comodamente stati nel Centro Pokémon, ma lui aveva insistito e alla fine si erano arresi. Il padrone di casa aveva allestito per loro il soggiorno, abbassando il divano-letto per trasformarlo in un giaciglio a due piazze. Si era anche offerto di lavare i loro abiti nella lavatrice e aveva persino proposto loro i suoi. Ovviamente non possedeva vestiti femminili, di conseguenza Serena si era dovuta arrangiare, ma era dotato di un guardaroba stranamente elegante per uno che di lavoro guidava un finto vascello travestito da corsaro: sia lei che Bellocchio avevano optato per un completo scuro a camicia bianca – quello della ragazza aveva una componente nostalgica insita in sé, dato che per trovare qualcosa della sua taglia erano stati costretti a curiosare nella gioventù di Cornelius. Il suo compagno di viaggio, apparentemente ormai incapace di sopravvivere senza una cravatta e un cappotto, ne aveva prelevata un’accoppiata nera. Il loro ospite aveva provato a porgere loro da mangiare, ma il frigorifero si era danneggiato mentre era via – tra l’altro, considerando che lo stesso tipo di elettrodomestico era responsabile della combustione del banco della frutta, si sarebbe detto che stessero cospirando in gran segreto.

Comunque, Serena si era scoperta incapace di dormire. Aveva imputato il fatto al costante transito di treni a due passi dall’appartamento, i quali producevano un rumore assordante che certo non conciliava il sonno. Ma dentro di sé sapeva che non poteva essere solo quello, perché chi è stanco prima o poi cede; invece lei aveva riposato sporadicamente, per mezz’ora al massimo, e ora si trovava sul piccolo terrazzo dell’abitazione, a poco prima delle sei di mattina, infreddolita e insonne, ad ammirare l’oceano. L’alba si stava avvicinando e il primo chiarore solare rischiarava le sparute nuvole all’orizzonte. Sospirò.

« Quello era un gran sospiro. Riprendi fiato ». Bellocchio si affiancò a lei, abbigliato con la nuova tenuta che aveva ricevuto e che doveva piacergli parecchio. Serena non disse nulla, limitandosi a un sorriso di circostanza e stimolando il suo amico a perseverare « Vuoi che parliamo? ».

La ragazza a quel punto si sentì obbligata a rispondere, ma fece trapelare nell’intonazione che avrebbe preferito non essere disturbata « Non è niente, tranquillo. Mi manca un po’ casa ».

« È normale ».

Figurarsi. Serena in qualche modo sapeva che avrebbe ribattuto così. Avrebbe dovuto aggredirlo verbalmente per averla sminuita in quel modo, ma sentiva anche che non era in sé al momento ed era una cosa di cui si sarebbe pentita l’istante dopo averla detta. Meglio sforzarsi di mantenersi amichevole. « No… Cioè, immagino di sì, ma… Io ho sempre voluto partire. Ho aspettato nove anni sognando di viaggiare per Kalos, e ora che lo sto facendo ho nostalgia di Borgo Bozzetto ».

Bellocchio si appoggiò alla balaustra in ferro, unendosi a lei nell’estasi indotta dalla distesa marina. « Non saresti normale se non ti mancasse casa ».

« E a te? Ti manca mai casa? ».

« Con me è complicato ». Serena notò che si era concesso una pausa prima di ribattere, e ne fece un’altra prima di proseguire « Ma tutti si sentono soli la notte. È scientifico, sai? Il cervello è stanco, l’amigdala è più ricettiva e siamo più emozionali. Non hai dormito bene, vero? ».

« No ».

« Neanche io. Ogni volta che stavo per addormentarmi mi sentivo strano. Come se… ».

« … qualcuno mi osservasse » completò la ragazza. Si guardarono preoccupati, venendo destati dalle campane intente ad annunciare che le sei in punto erano scoccate. Un altro treno percorse senza fermarsi i binari che tagliavano la cittadina.

« Cos’è quello? » domandò Serena, alzandosi e indicando il promontorio più distante a nord. Sulla sua vetta si era accesa una strana luce dalle tinte arancioni e dall’intensità cospicua dato che nonostante la lontananza risultava intempestiva alle pupille.

« Sembra fuoco. Che città c’è là? ».

« Non ne ho idea. Controllo online se ci sono notizie » replicò risoluta lei. Quindi afferrò il PSS e vi smanettò per suppergiù un minuto, presentando infine l’esito della ricerca « Trovato. Incendio massiccio a Petalonia, origini ancora incerte ».

« Se n’è acceso un altro ».

« Come? ». Era vero: adesso una seconda macchia si era illuminata in una zona decisamente più prossima ad Altoripoli. Proprio mentre Serena se ne sincerava una terza comparve, stavolta verso Petroglifari a sud. « Che sta succedendo? ».

Bellocchio le tolse il PSS di mano, scorrendo le notizie fino a trovare ciò che cercava: un livestream di stampo radiofonico degli avvenimenti. Lo avviò impaziente e la voce profonda di un giornalista sul campo si diffuse nel balcone, portando tutto meno che buone novità.

« ––nche nel montano. Sì, è sicuro ora affermare che non c’è nessuno schema, città di tutta Kalos ne segnalano di nuovi proprio ora. Quello che è certo è che una simile ondata di incendi non si era mai verificata. Le cause sono ignote ma sembrerebbe qualcosa di programmato ». Il racconto si fermò un attimo, probabilmente per il doppio effetto di una doverosa ripresa di fiato e di aggiornamenti in tempo reale che giungevano nello studio. « I Superquattro non hanno ancora parlato, mentre si presume che il neopresidente potrebbe presto intervenire per chiarire le cose. Le autorità... consigliano di spegnere qualsiasi strumento collegato alla corrente, perché proprio non si capisce come… Ripetiamo, spegnere ogni strumento collegato alla corrente! ».

Con lo sguardo corrugato, Bellocchio restituì lo smartphone alla sua proprietaria e infilò le mani nelle tasche. Solo in quel momento dovette rendersi conto che il cappotto non era quello che usava di solito, e che facilmente non aveva ancora trasferito tutto dal vecchio al nuovo, perché rientrò di tutta fretta all’interno. Dapprincipio Serena non vi fece caso, salvo poi udire una lamentela provenire dal salotto.

« Dov’è, dov’è… ! ».

In realtà non si trattava del salotto, bensì della cucina adiacente dove, per ragioni di design alquanto discutibili, si trovava anche la lavatrice. Bellocchio si trovava lì, occupato a frugare tra gli scomparti dei suoi vestiti precedenti.

« L’hai fermata? ».

« Si era fermata da sola e non ha lavato nulla. Rotta, probabilmente » borbottò lui alzandosi in piedi e cominciando a riflettere. Di colpo sembrò capire qualcosa di fondamentale, tanto che si rigò il volto con le unghie per punirsi. « No, no, no! » imprecò.

« Cosa c’è? ».

« C’è che è in spiaggia! » sbottò criptico l’uomo. Senza ulteriori spiegazioni chiamo Nephtys e si gettò dal ballatoio esterno, iniziando a planare sul borgo marittimo. Serena non comprese minimamente cosa fosse accaduto, ma fin da subito fu certa di una cosa: doveva seguirlo, perché da come si era comportato doveva essere estremamente agitato e non poteva lasciarlo da solo. Accelerò verso l’uscita e aprì la porta quando le parve di avvertire qualcosa o qualcuno muoversi dietro di lei. Avevano svegliato Cornelius parlando a volume di voce troppo alto?

Si voltò, ma il soggiorno era vuoto come lo aveva trovato. Probabilmente è stato qualcuno al piano di sopra, ipotizzò mentre chiudeva con poca cura del rumore prodotto e si avviava giù per le scale.

 

 

Il fatto che Bellocchio indossasse un completo scuro non aiutò i primi minuti della ricerca di Serena. Nonostante le prime luci del mattino rischiarassero già la spiaggia, infatti, essa rimaneva comunque largamente immersa nelle tenebre. Era inoltre da precisare che l’uomo non si trovava nel luogo più ovvio, ovvero La Costa Nera. Per fortuna lo schiacciasassi con il compito di appiattire la sabbia era passato durante la notte, quindi le orme imprese sui granuli erano poche. La ragazza individuò quasi subito quelle del suo amico, ma altrettanto immediatamente realizzò che ritrovarlo sarebbe stata un’impresa: le impronte andavano avanti e indietro senza alcuna logica, come se chi le aveva lasciate fosse impazzito e avesse iniziato a percorrere non solo il lido in cui era stato, ma anche quelli limitrofi, in cerca di quel qualcosa che aveva perso. Ma piuttosto che pensare a un Bellocchio privo di lucidità o peggio fuori di sé, Serena preferì zittire la sua mente.

Alla fine, dopo dieci minuti di ricognizione febbrile, lo scovò. Era seduto curvo sulla battigia in un’altra partizione privata del litorale di Altoripoli, meditabondo mentre si gingillava assente con la sabbia. La sua espressione era di una depressione contagiosa, propria di chi ha perso la verve di vivere.

« Tutto bene? » gli domandò con riservatezza, temendo che la assalisse in un attacco di psicastenia.

Bellocchio indugiò. Il suo respiro era rapido e il suo cuore batteva tanto forte che, nel silenzio dell’alba, era quasi possibile sentirlo rimbombare. Finalmente decise di guardare la sua bionda compagna negli occhi, e quest’ultima notò che in poco più di un quarto d’ora apparivano invecchiati di dieci anni.

« Tra dodici ore non avrò la minima idea di chi tu sia ».

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** 1x28 - L'ultimo tramonto ***


Untitled 1

PREVIOUSLY ON LKNA: Bellocchio e Serena giungono ad Altoripoli, dove è in corso una festa in spiaggia per il giuramento del nuovo presidente Lysandre Faubourg. Per cause ignote diversi apparecchi hanno un malfunzionamento, scatenando un incendio in cui i due aiutano Cornelius, venditore di frutta schiacciato da un traliccio. Ospitati a casa sua per ringraziamento scoprono che l’intera Kalos è vittima di roghi simili; solo in quel momento Bellocchio sembra accorgersi di aver perso qualcosa in spiaggia e si getta freneticamente alla sua ricerca. Quando Serena lo raggiunge lui pronuncia una strana, enigmatica frase.

« Tra dodici ore non avrò la minima idea di chi tu sia ».

 

 

 

 

 

 

« Le ho già detto chi sono. Ora mi faccia entrare ».

Certe persone si potevano sentire intimidite dagli imperiosi cancelli del Palais de Saint-Honoré, da più di centotrent’anni residenza ufficiale del Presidente di Kalos e Grande Assessore di Luminopoli. Ginger lo affrontava a testa alta e schiena dritta, persino nel pietoso stato in cui era ridotta se raffrontata alla guardia che da dieci minuti le negava l’accesso, un monumentale ispanico che non fosse per il colore della pelle le avrebbe ricordato molto il suo collega Kibwe.

« L’appartenenza alla fondazione Flare non le garantisce un accesso gratuito, men che meno se il Presidente non c’è. Se ne vada o dovrò avvertire le autorità di competenza ».

La donna alzò gli occhi al cielo. Sapeva benissimo perché la trattava con tanta ostilità: la sua uniforme bianca era sgualcita, i suoi capelli spettinati e il trucco disfatto. D’altronde sfidava chiunque a uscire meglio di così da una notte all’addiaccio ai piedi del Palais per reclamare un’udienza. Al suo arrivo a Luminopoli la sera prima avevano già chiuso i battenti, ma si trattava di un colloquio troppo urgente e la sua reazione istintiva era stata un accampamento tenace.

« Quando arriverà il Presidente? ».

« Non sono autorizzato a dirglielo ».

« È molto utile, a quanto vedo ».

Un uomo di passaggio, probabilmente attirato dal diverbio in corso, si intromise nel dialogo « Scusate, c’è qualche problema? ».

Il buttafuori reagì impulsivamente, sentendosi attaccato da due fronti « Se ne stia fuori, signore. E lei, Xaad o quello che è, credo che un neopresidente abbia di meglio da fare il suo primo giorno che stare a sentirla ».

« Se permette decido io cosa voglio fare il mio primo giorno ».

Sia Ginger che la guardia tacquero di colpo, storditi, rivolgendo la loro attenzione al terzo arrivato. Era vestito in abiti senz’altro distinti, ma fin troppo sgargianti e atipici per un luogo austero come Saint-Honoré, in genere frequentato unicamente da pinguini in business suit. Eppure nonostante il timbro di voce più mansueto di quello categorico con cui demoliva gli esigui detrattori in televisione, non c’era dubbio che quel soggetto fosse Lysandre Faubourg, da poco più di dodici ore nuovo Presidente della Regione.

« Mi… Mi scusi, non l’avevo… » farfugliò il gorilla « Sono mortificato! Questa donna ha cercato di entrare in sua assenza! ».

Lysandre si voltò verso Ginger e, riscontrato che doveva essere membro della sua associazione, domandò con il suo usuale sorriso carismatico « Chi sei? ».

« Xaad, Ufficiale Flare e leader della Seconda Unità ».

« Ah, certamente, Xaad! Xaros mi ha parlato di te. Condoglianze per tuo fratello, è stata una perdita terribile per la fondazione ».

Ginger provò al tempo stesso rammarico al ricordo dei brutti avvenimenti del Le Crésus Hotel e onore all’idea che il suo capo sapesse ciò che era accaduto. « La ringrazio, signore ».

Lysandre annuì come a ribadire la sua partecipazione al dolore; poi, quasi volesse sbeffeggiare la guardia, proseguì « La prego, non stiamo qui a infreddolirci. Posso accompagnarla nel mio ufficio? ».

 

 

Quando Ginger rientrò nell’elegante studio privato del Presidente, il cui arredamento principe era un magnifico candelabro che si rifletteva nello specchio dietro la scrivania – quasi l’architetto avesse voluto farlo ammirare contemporaneamente da due angolazioni per esaltarne la finezza –, non poté che sentirsi a disagio. Lysandre le aveva concesso di usare il suo bagno per rimettersi in sesto e nel frattempo aveva ordinato personalmente la colazione ora artisticamente disposta su un vassoio appoggiato al suo tavolo. Se si fosse trattato di chiunque altro la donna avrebbe pensato che sarebbero seguite delle avances, ma l’uomo che le stava davanti doveva essere l’unico in tutta Kalos da cui non se le sarebbe attese.

« Prego, siediti. Avevi detto croissant e caffè, giusto? ».

Ginger annuì e sorrise per quanto trovava bizzarra la situazione « Grazie mille, signore. È troppo gentile ».

« Non esiste qualcosa come troppo gentile. Serviti pure ».

« A dire il vero volevo parlarle di una questione urgente ».

« Perché non fare entrambe le cose? ».

L’ingegnera era sempre più sorpresa. Non aveva mai incontrato Faubourg di persona, avendolo intravisto solo una volta alla propria nomina a Ufficiale – nella quale occasione, pressato dai suoi compiti di Intermediario, non aveva potuto trattenersi. Gliel’avevano descritto come un individuo eccentrico, ma mai si sarebbe immaginata fino a quale punto quell’affermazione fosse veritiera.

Dapprima si sedette e sorseggiò il caffè con un po’ di resistenza, poi addentò il cornetto realizzando la fame tremenda che l’attanagliava. Divorò il cibo in un batter d’occhio, abbozzando poi un tentativo di scuse per il comportamento inappropriato.

Lysandre la fermò sul nascere alzando la mano « All’affamato spetta il pane che si spreca nella tua casa. Parla pure ».

« Ieri sono stata al Consiglio dei Superquattro ».

Il presidente ridacchiò, quasi immaginasse l’ovvio seguito – il che era più che logico, considerando la sua esperienza con tale organo istituzionale. « Non ti han fatto parlare, vero? ».

« No ».

« Beh, non ti preoccupare, non sono come loro ».

La sensazione di disagio di Ginger si acuì. Non si era fatta problemi ad attaccare i Superquattro, che non erano cariche meno importanti di quella che aveva davanti, ma per qualche ragione l’idea di esporre le sue idee stravaganti a Faubourg la imbarazzava. Ciononostante decise di raccontare tutto: del furto di zinco, della scomparsa dei gioielli e, per ultimo, della sua vaga ipotesi esplicativa.

« … Lo zinco è un catalizzatore sinaptico, per questo è parte della lega che compone le Poké Ball. Ma oltre a sapere che hanno rubato un generatore di quel tipo non so dire. Lo so che è poco, ma… » concluse al termine di un prolungato discorso, non trovando parole per continuare.

L’uomo meditò per un minuto buono, poi pronunciò il suo verdetto « Fai quello che devi ».

« Davvero? » si sorprese sinceramente la donna. Si sarebbe attesa un contrasto sulla plausibilità di tutto ciò, non certo un via libera simile.

« Ignora i Superquattro, hai la mia autorizzazione. Mandali da me se persistono ».

« Io… Io non so che dire, signore. La ringrazio infinitamente ».

Lysandre assunse d’improvviso un’espressione preoccupata, si alzò dalla scrivania e si avvicinò alla finestra. Guardò all’esterno pensieroso, scrutando la via antistante. « Non hai dormito stanotte, vero? ».

Ginger rimase perplessa dalla domanda. Ma doveva rispondere: in fondo era il Presidente di Kalos a porla, per di più dopo averle fatto un enorme favore. « No… Ma immagino fosse per il freddo, no? ».

« Forse » disse l’uomo, marcatamente poco convinto. Si passò la mano sugli occhi con un gesto quasi buffo, come se stesse controllando se tutte le dita fossero ancora al loro posto; poi si voltò verso Ginger, che solo allora si accorse di due vistose occhiaie che scavavano il suo viso « Non ho dormito nemmeno io. E anche Xaros, e parecchie persone che conosco. Tutti abbiamo la sensazione che Kalos stia per entrare nella sua ora più nera. E tutti sentiamo una litania ».

L'Ufficiale Flare rabbrividì. Non tanto all'idea che ci fosse una sorta di collegamento onirico tra varie personalità della regione, quanto per il fatto che temeva di sapere quale fosse la litania, e soprattutto la raggelava l'ipotesi che anche lei l'avesse udita. Un paio di volte negli scorsi giorni le era parso di sentire una voce. Accadeva nei momenti più impensabili, quando si concedeva attimi di distrazione. E quella voce ripeteva sempre la stessa cosa, quattro sillabe prive di senso. « Le due lettere, signore? ».

Di colpo Lysandre parve affaticato. Si diresse nuovamente alla scrivania, appoggiandovisi con entrambe le braccia e annuendo rabbuiato « Buona fortuna, Xaad ».

 

 

 

Episodio 1x28

L’ultimo tramonto

 

 

 

« Tra dodici ore non avrò la minima idea di chi tu sia ».

Serena non distolse lo sguardo dal suo amico anche dopo che lui ebbe ripreso a fissare il mare tinto di rosa. Non ricordava in tempi recenti un momento in cui si fosse sentita tanto spaesata, tanto bisognosa di sapere di più.

« Cosa? » domandò. Bellocchio tacque, estraniatosi dal mondo esterno, ma lei non era disposta ad accettarlo. Non ora. « Ehi, rispondimi. Non puoi dirmi una cosa simile e poi nulla ».

Il giovane perdurò il silenzio, ma non perché fosse sua intenzione. La verità è che non aveva mai rivelato a nessuno il suo segreto prima d’ora, o quantomeno credeva di non averlo fatto. Nel vero senso della locuzione non sapeva cosa dire.

« Descrivimi un tramonto ».

« Eh? ».

« Descrivimi un tramonto » ripeté lui con il tono più serio che riusciva a imprimere alla propria voce. Poi aggiunse « Per favore ».

Era una richiesta tanto pazza che Serena decise di fare ciò che normalmente si fa con i pazzi: dare loro corda. « Beh, è quando il sole va oltre l’orizzonte… ».

« No, no, non il fenomeno fisico! » esclamò Bellocchio scocciato « Descrivimelo esteticamente ».

« Uhm… Il cielo si fa… Rosso, direi, o arancione… E le nuvole… ». Si interruppe irritata. Non ci stava a fare la bambina a cui insegnare le basi. Non avrebbe preso parte a nessuno dei suoi giochetti finché non avesse detto tutta la verità. « Perché perdiamo tempo così? ».

« Perché io non so com’è fatto un tramonto. Io non saprò mai com’è fatto un tramonto ».

Sempre meno senso. « Non hai mai visto un tramonto? ».

« Ne ho visti parecchi, come tutti. Ma… Ecco, è difficile da spiegare ». Bellocchio fece una pausa per riordinare le parole che gli frullavano in testa. Non c’era un modo per dirlo, se ne rendeva conto solo ora, quindi c’era solo una via per non risultare paternalistico: spiegarlo esattamente come lo veniva a sapere lui ogni giorno. Tornò a guardarla direttamente e si fece coraggio « Serena, non ho la minima idea del perché, ma io a ogni tramonto perdo completamente la memoria ».

Le reazioni che si susseguirono nel giro di un istante nella mente della ragazza sono difficili da elencare ordinariamente. Dapprima pensò che fosse uno scherzo, uno scherzo di pessimo gusto perpetrato ai suoi danni. Ma quegli occhi, quei tristi occhi… Non li aveva mai visti così sinceri. Non stava scherzando né mentendo. Forse per la prima volta da quando si erano incontrati era stato completamente onesto con lei. E ciononostante era impossibile.

« Ma… Ma non è vero, tu… Tu sai chi sono io! ». Appena dopo la protesta si fermò, colta da un dubbio. Che avesse… finto? Improvvisato continuamente? « … Lo sai, vero? ».

Il breve silenzio che precedette la sua risposta le fece cadere il mondo addosso, ma le parole negarono l’eventualità. « Sì, lo so. So che sei bionda, che ti ho incontrata a Borgo Bozzetto, che ti ho salvata dai Beedrill, che tu mi hai salvato da Omastar ». Una smorfia amara segnò il volto di Bellocchio « Ma non è che lo so, io ci credo. Io credo a tutte queste cose, così come credo che quando il sole tramonta il cielo diventa rosso. Non ho modo di saperle ».

« Ma le ricordi! Se le ricordi vuol dire che sono dentro di te, no? Se no vuol dire che ogni… ». Che ogni giorno qualcuno te le dice, stava per dire, ritenendola una possibilità assurda. Ma c’era qualcosa, qualcosa che si era spesso chiesta sul suo compagno di viaggio, che così assumeva un senso sconvolgente.

« Ho letto tutto sul mio taccuino. Come credo di aver fatto il giorno prima, e il giorno prima ancora e via così ».

Serena ammutolì incredula. Tutte le volte che l’aveva visto scrivere aveva pensato fosse un diario, o un altro elemento della sua infinita stravaganza, ma mai un promemoria. « Ogni giorno dopo il tramonto leggi la tua intera storia? ».

« Beh, non dimentico proprio tutto. Per esempio so come camminare. In generale non scordo come parlare o come fare le cose. So che devo mangiare e bere o morirò, e so più o meno cosa devo mangiare. Mi rendo conto di essere un uomo ». Da come parlava era evidente il suo intento: addolcire la pillola. E non a Serena, ma a se stesso. Forse ogni giorno doveva convincersi che la sua condizione non era la peggiore possibile, perché chi avrebbe accettato di vivere se avesse affrontato una realtà simile? Non lei, probabilmente. Il suo amico aveva una determinazione persino superiore a quella già dimostrata, un caso praticamente impareggiabile. « Il taccuino le chiama conoscenze pregresse, è come se mi ricordassi ciò che serve per sopravvivere. Oltre lì, buio totale ».

Il modo in cui ne parlava, come se fosse una cosa naturale, era l'aspetto più sorprendente: se davvero scordava tutto al tramonto questa per lui era tecnicamente la prima volta. D’altronde, che motivo avrebbe avuto per mentire, scartando l’assurdità di una burla irrealizzabilmente complessa?

« Ma non ci metti ore? Non ti ho mai visto durante un tramonto, ma qualche minuto dopo sì ».

« La seconda cosa che scopro è che so leggere molto velocemente. Cioè, la seconda cosa che ho scoperto oggi ».

« E la prima? ».

« Il mio nome. Cioè, i miei due nomi, quello vero e Bellocchio ».

Serena iniziava solo ora a riprendersi dallo shock della prima di quella caterva di rivelazioni e rimase assorta un attimo ad ammirare l’alba ormai definitivamente compiuta. Non poteva permettersi di esitare, di chiedersi come fosse possibile: se Bellocchio le aveva detto la verità voleva dire che, consciamente o meno, necessitava del suo aiuto.

« Da quanto va avanti? ».

« Il taccuino non lo dice. Si ferma al mio soggiorno a Sinnoh iniziato due anni fa ».

« Due anni… E per due anni tu hai segnato tutto ciò che vivevi? Tutte le nostre avventure le hai scritte lì? ».

« A quanto pare… ». Lo sguardo di Bellocchio appariva tutto meno che sollevato dal fatto di aver detto tutto a qualcuno. E anche la sua amica lo avvertiva: c’era qualcosa che ancora non aveva capito.

Poi ci arrivò. La colpì come una pugnalata, una testata improvvisa dritta sulla fronte. Ora sapeva la verità, compresa la parte che non le era stata ancora rivelata.

« Hai perso il taccuino ».

Il giovane fece un cenno afflitto di conferma. Adesso era chiaro, adesso era palese perché avesse deciso di dirglielo. Adesso la prima frase pronunciata in quella sede acquisiva un’interpretazione, un contesto vero e proprio.

« Beh, e allora che aspetti? » proruppe alzandosi in piedi e invitandolo a fare lo stesso « Iniziamo a cercarlo, no? ».

« L’ho già cercato mentre tu non c’eri, ma non ce n’è traccia in tutta la spiaggia ».

« Sì, ma forse non… ». Si arrestò, sorpresa di se stessa: non poteva stare seriamente per dire che il suo amico, la persona più intelligente che conoscesse, avesse peccato di superficialità nella ricerca di un oggetto di tale importanza. Aveva risolto l’enigma del Palais Chaydeuvre, che andava a pensare? « … Era buio! Ora c’è il sole, possiamo… ».

« Lascia perdere, Serena, non c’è. È meglio che inizi a scriverne uno nuovo, anche se ne ricordo forse metà ».

La ragazza faticava a crederci. Si stava arrendendo? « Questo non è il Bellocchio che conosco io! ».

« Beh, io nemmeno conosco il Bellocchio che conosci tu, giusto? » replicò adirato il giovane.

Così non andava, non doveva metterla su quel piano o avrebbe solo alimentato il suo istinto di autocommiserazione. Doveva far leva su qualcosa che lo spingesse a reagire. « Il Bellocchio che conosco io ha salvato Luminopoli da un Dusknoir. Ha salvato me dai Beedrill rischiando la vita. Ha affrontato da solo uno Zoroark e gli elicotteri del governo insieme ».

« Sì, ma non sono stato io. Hai idea di che cosa significa svegliarsi in un corpo che non senti appartenerti? Qualche uomo strano ha fatto azioni a mio nome, non certo io. E ora, se non ti spiace, devo trovare un nuovo taccuino, e il me passato non mi ha nemmeno lasciato dei soldi ».

Non era stato lui. Serena comprese: non si sentiva se stesso. Le sue azioni passate non contavano perché dal suo punto di vista non le aveva compiute. Chissà quante crisi aveva avuto in quei due anni o più, quante volte aveva dubitato, e nemmeno poteva ricordare di aver mai tremato di fronte alla sua amnesia cronica. Per la prima volta nel dialogo riuscì a percepire l’estrema solitudine che doveva affliggerlo costantemente e che aveva sapientemente celato fino ad allora. Ma non poteva lasciarlo a se stesso, lo doveva al vecchio Bellocchio. Lo doveva al Bellocchio che ora non riusciva a vedere, ma che doveva essere ancora lì.

« E Cornelius? ».

« Come? ».

« Chi l’ha salvato dall’incendio? ».

Serena lo vide incespicare nella risposta, e sorrise appagata quando fu costretto ad ammettere l’evidenza. « … Noi ».

« No, io sono arrivata dopo. Chi ha rischiato la sua vita per soccorrerlo? ».

Il giovane stava disperatamente dando la caccia a una risposta che avvalorasse la sua tesi, anche se visibilmente non ce n’erano. « È stato un caso » mugugnò, quasi vergognandosi egli stesso di essere giunto a una reazione così scontata come negare la realtà.

Ora serviva una terapia d’urto, qualcosa che gli desse il colpo di grazia scrollandogli di dosso l’alone rinunciatario. « È evidente che non ricordi più chi è Bellocchio, quindi al momento dovrò sostituirti io. Che cosa direbbe Bellocchio in questa situazione? ». Serena si fermò a pensare guardandosi attorno, poi ebbe un’illuminazione e puntò il dito sul suo amico a indicare un eureka gestuale « Direbbe che la spiaggia è pulita ».

« E con ciò? ».

« C’è stata una festa e un incendio, sicuramente ci dovevano essere rifiuti. Invece è pulita ».

Bellocchio esitò, poi i suoi ingranaggi mentali iniziarono finalmente a girare. Si alzò in piedi, apparendo persino ringiovanito « Per caso il mio me passato ti dava delle medaglie? ».

« Mai ».

« Dovrei cominciare! » esclamò, ripassando la conclusione del ragionamento: se la spiaggia era pulita significava che qualcuno era passato a raccogliere i rifiuti prima di far passare lo schiacciasassi. E non poteva che averli portati in un posto. « Dov’è la discarica? ».

Serena sorrise, felice che Bellocchio, il suo Bellocchio fosse tornato. « Ti sembro un topo? Chiediamo a qualcuno! ».

L’uomo si fece nuovamente serio d’un tratto, ribattendo categorico « No ».

« Come? » chiese sbigottita la ragazza. Che voleva dire no? Eppure sembrava quello di prima, finalmente. Che si fosse solo illusa?

« Voglio fare questa cosa da solo » spiegò lui, cercando di risultare quanto meno ostile riusciva. Sapendo che sarebbero giunte immediate proteste le anticipò, prevedendone la tipologia « Sei una grande amica, la persona a cui tengo di più, ma questa è una cosa mia. Sono sempre stato da solo quando leggevo il taccuino, e voglio che resti così ».

Da un lato Serena sapeva che non poteva abbandonarlo. Ma dall’altro a parlare non era la versione rinunciataria del suo compagno di viaggio. Era completamente in sé, ed entrambi erano ben consci della ragione per cui non voleva essere visto: nessuno vuole avere testimoni nel suo momento di massima vulnerabilità. Doveva lasciargli spazio, avere fiducia in lui e non preoccuparsi di una possibile crisi. « Promettimi di avvertirmi quando lo troverai ».

Bellocchio sorrise e sfilò una penna dal cappotto, iniziando ad annotare il patto sulla propria mano sinistra « Adesso se anche non lo trovassi sarai l’unica persona di cui mi ricorderò ».

« Buona fortuna ».

L’uomo in nero ricambiò con uno sguardo incisivo, poi si diresse a passo sostenuto verso la reception del resort per informarsi sulla raccolta di scarti di Altoripoli. Controllò lestamente l’orologio da polso: sei e mezzo del mattino. Iniziavano le sue ultime dodici ore.

 

 

Serena trovò la porta della sua dimora temporanea ancora aperta quando rientrò, e la chiuse sperando che nessuno avesse portato via qualcosa per causa sua. Il soggiorno si era infreddolito poiché aveva lasciato la portafinestra del terrazzo spalancata, ma la cosa non la sfiorava minimamente: da quando aveva finito di parlare con Bellocchio si era sentita stravolta, del tutto ripudiata dalla precedente insonnia. Si sarebbe volentieri concessa di riposare, ma il suo amico avrebbe potuto fare ritorno da un momento all’altro, e trovandosi nella sua ora peggiore non poteva lasciare che rimanesse solo. Si sdraiò sul letto e iniziò a guardare il soffitto, senza curarsi della gelida brezza ancora non riscaldata dal sole. Tanto non aveva intenzione di dormire, pensò. Avrebbe rilassato un po’ gli occhi. Questo poteva permetterselo.

Dong…

Dong…

DONG!

Destata dal frastuono di campane proveniente da fuori Serena spalancò le palpebre. C’era qualcosa che non andava: l’illuminazione era più elevata e i raggi entravano da un’angolazione diversa.

Più di qualcosa che non andava: c’erano persone per casa. Si alzò seduta sul materasso cercando di metterle a fuoco, verificando che si trattava di due uomini che trasportavano un ponderoso cubo argenteo. Indossavano abiti da lavoro consistenti di pantaloni grigi e maglie bianche su cui era riportato un logo che somigliava a una bolla scarlatta. L’intero scenario le appariva surreale, era quasi come se…

« Ti sei svegliata! Scusa per il casino, stanno portando via la lavatrice rotta ».

… fosse un’ora diversa del giorno. Si era addormentata. Serena controllò dietro di sé, dove poco davanti a Cornelius che le aveva dato il buongiorno era appoggiata una sveglia da mensola. Erano le nove del mattino, il che significava che erano trascorse due ore. Due ore di pennichella, e tanti saluti all’autocontrollo.

« La… lavatrice? ».

« Sì, stamattina ho visto che si era rotta, così ho chiamato l’assistenza e ora me la stanno ritirando. Rientra nella garanzia ».

Ora la ragazza riusciva a ricordare meglio, rammentando il problema riscontrato con i vestiti suoi e del suo compagno notturno. Ciò, a catena, le riportò alla mente proprio lui. Chissà quanta strada aveva fatto in centoventi minuti, forse aveva persino concluso la ricerca. « Bellocchio si è visto? » domandò.

« No. Stavo per chiedere a te dove fosse ».

Uno dei due tecnici, i quali nel frattempo avevano ultimato il faticoso trasporto della lavabiancheria guasta all’uscita, si presentò con un fitto modulo precompilato. « Noi abbiamo finito, dovrebbe ricevere un rimpiazzo nel giro di una settimana. Servirebbe una sua firma… qua, qua e qua ».

« Subito, prendo una penna » annuì Cornelius, poi si rivolse a Serena ancora sotto l’influsso del torpore da risveglio « Fai pure colazione, dovrei avere dei cereali in alto a destra in cucina, ma niente latte ».

La giovane si diresse nel lato designato dell’appartamento con andatura dinoccolata, sapendo fin da subito che non aveva per nulla fame. Invece esaminò gli scomparti del frigorifero fino a rinvenire un cartone di succo etichettato come gusto tropicale, senza ulteriori specifiche. Lo versò pigramente mentre udiva la porta di casa serrarsi, segno che gli operai se n’erano andati, e gettò uno sguardo al buco lasciato sotto il lavello, dove ora erano visibili le tubature. Sorseggiò il liquido, trovandolo terribilmente caldo e rammentando solo allora che il refrigeratore era stato trovato difettoso la sera prima.

« Dovresti far riparare anche il frigo, sai? » comunicò ad alta voce per farsi sentire nella sala limitrofa.

« Ho chiamato, ma hanno detto che potranno passare solo nel pomeriggio. Hanno ricevuto parecchie telefonate stanotte ».

Serena aggrottò la fronte e sporse il capo nel soggiorno. Cornelius si era disteso sul letto senza nemmeno richiuderlo nella sua forma di divano e aveva acceso la televisione su Kalosmattina. L’uomo si rese presto conto di essere osservato e ricambiò lo sguardo « Ah, vuoi vedere la TV? Tra una mezz'oretta vado a lavorare ed è tutta tua ».

« Puoi passare un attimo sul TG? ».

Quello eseguì controvoglia e sullo schermo comparve lo studio celeste in cui era registrato il notiziario delle nove. Visto l’orario esso era ovviamente appena cominciato, e più precisamente si era appena concluso il primo servizio. Serena si posizionò dietro il comodino longilineo dietro al giaciglio per avere una visuale migliore.

« E non solo gli incendi hanno turbato molti sonni stanotte. In tutta la regione sono stati riscontrati malfunzionamenti a ogni tipo di elettrodomestico, particolarmente nei grandi centri abitati. Ci colleghiamo con il nostro inviato da Luminopoli ».

La raffinata anchorwoman scomparve lasciando il posto a una ripresa sul campo: un giornalista basso e grassottello, alquanto somigliante a Tierno per certi versi, stagliato di fronte a un edificio dalle prominenti ciminiere, facilmente una fabbrica. Vi fu un attimo di silenzio dovuto al ritardo di diretta, poi iniziò a parlare « Sì, mi trovo proprio ora davanti allo stabilimento centrale della Dive, la principale produttrice di lavatrici di Kalos, con il responsabile delle relazioni esterne dell’azienda ».

L’inquadratura si allargò fino a mostrare il PR appena nominato, abbigliato in stile trasandato salvo per una fine spilla appuntata al petto. Il reporter non perse tempo e instradò subito l’intervista « Ci sono state lamentele provenienti da ogni città di malfunzionamenti dei vostri prodotti, cosa sa dirci? ».

« Beh, per cominciare farei notare che lavatrici di ogni marca hanno riportato lo stesso tipo di danno, quindi non si tratta di un difetto di fabbrica ». Il cronista tentò di riprendere la parola, ma fu prontamente fermato « In ogni caso stiamo provvedendo a sostituire gli apparecchi sotto garanzia con modelli operanti. Chiediamo solo pazienza perché il volume di richieste è tale che prima di sei ore dalla chiamata difficilmente potremo soddisfare la vostra ».

Il resto della conversazione si dipanò senza spunti culminanti, vertendo sugli ignoti motivi dei guasti, ma Serena non ascoltò concentrandosi sulla clip dell’addetto alle pubbliche relazioni. Dove l’aveva già vista?

Certo! Sulle maglie dei tecnici venuti per le riparazioni! « La tua lavatrice era una Dive? » chiese a Cornelius.

L’uomo sfoggiava un’espressione annoiata, quasi irritata dal telegiornale « Certo, bellezza. Solo il meglio per un pirata ».

« Ha detto sei ore… » rifletté a voce alta la ragazza « Perché qui sono venuti così presto? ».

« Beh, immagino… Di essere stato uno dei primi a chiamare, non so ».

Forse, pensò Serena, o forse loro non erano della Dive. Era un’idea assurda, ma quanto più razionale era il fatto comprovato che in tutta Kalos gli elettrodomestici si stessero rompendo in sincronia? Fece un salto sul balcone per inquadrare il pianterreno: poco distante dall’ingresso la coppia aveva giusto ultimato le procedure di carico della lavabiancheria sul loro furgonato e ora si accingevano a partire. Con un guizzo si ripresentò da Cornelius, srotolando fuori le parole dalla bocca senza sprecare un secondo.

« Hai mica una bicicletta da prestarmi? ».

 

 

Sacchetti stagni, scatole di legno, confezioni cartonate, scarti organici, residui stradali e Wingull in cerca di cibo che schiamazzavano. La quantità di spazzatura solida urbana accumulata nella discarica produceva un fetore che avrebbe provocato uno svenimento in chiunque meno quelli che la visitavano nella speranza di trovare tra gli avanzi altrui le proprie necessità. Bellocchio rovistava in una pila di rifiuti cartacei a schiena curva, con movenze altalenanti simili a quelle di una belva randagia. Rinvenne quello che doveva essere un volume scolastico a giudicare dallo spessore, e lo esaminò: trattava di storia antica, anche se il titolo era illeggibile. Tutte quelle memorie, tutti quei ricordi impressi su carta per l’eternità… E lui si sarebbe scordato la sua identità nel giro di mezza giornata.

D’un tratto il silenzio etereo che aleggiava fu interrotto da un rumore secco che lo fece voltare di scatto. Dietro di lui un senzatetto alzò le mani in segno di scusa. Bellocchio lo scrutò con occhi ferali, quasi inumani per come guizzavano: era un mendicante robusto e alto più di due metri. Dalle rughe che gli solcavano il volto pareva assai attempato, ma si sa che dopo una certa età azzardare numeri diventa problematico.

« Scusa, capo. Non volevo spaventarti » gli disse. Il giovane lo ignorò, tornando a frugare nell’immondizia. « Sei vestito bene per trovarti qui ».

Non poteva dire di no: colui che gli aveva rivolto la parola indossava stracci vecchi di decenni. Lui, con l’abito scuro ed elegante preso in prestito da Cornelius, appariva come un pesce fuor d’acqua. « Sto cercando una cosa che ho perso ».

« Le cose si perdono. Lascia perdere, capo, non la troverai mai ».

L’anima della festa, pensò l’uomo prima di ribattere « Devo trovarla per forza ».

Il vagabondo si approcciò a lui, tendendogli la mano guantata sorprendentemente nitida per uno che si aggirava per la discarica di Altoripoli. « Mi chiamo Azrael ».

« Bellocchio » si presentò l’altro ricambiando il gesto di cameratismo.

« Davvero? ».

Il giovane ci rifletté per bene prima di rispondere, perché era una domanda che, forse intesa come una battuta, era in realtà spinosa al momento. « Non lo so » disse infine. Poi, colto da un dubbio, soggiunse « Tu per caso mi conosci? ».

« Non ti ho mai visto prima di oggi ».

« Allora siamo in due ». Bellocchio si allontanò barcollante verso un altro cumulo, infilandovi le mani tremanti. Le chiuse nel lerciume digrignando i denti e iniziò a prendere a calci il pattume, un colpo dopo l’altro, con una violenza tanto improvvisa quanto inaudita, demolendo il mucchio. Scoppiò in un pianto isterico e si rannicchiò tra i fondi di alimenti senza curarsi nemmeno di quanto fosse salutare. Perché a lui? Perché era dovuto toccare a lui? Che cosa aveva fatto per meritarsi un destino tanto ignobile come dimenticare chi era a ogni tramonto? Come poteva verificarsi un fatto simile?

Azrael gli venne incontro preoccupato. « Ehi, capo, tutto bene? ».

« VATTENE! » gridò quello tra le lacrime che gli rigavano le guance. Non gli importava più nemmeno della ricerca, voleva restare da solo e basta.

« Dimmi che cosa stai cercando, posso aiutarti a trovarla » propose una volta vinta una certa dose di titubanza.

 Bellocchio, sul punto di soffocare tra i singhiozzi, mormorò « Un taccuino ».

« Un… taccuino? » ripeté Azrael stranito « Già un altro oggi mi ha chiesto di un taccuino ».

Il giovane frenò il pianto come riuscì e alzò la testa « Davvero? ».

« Un’ora fa circa. Diceva che gli serviva assolutamente. Gli ho dato una mano e alla fine ne abbiamo trovato uno nero in pelle… ».

Alzatosi in piedi, Bellocchio si asciugò gli occhi umidi, riprendendosi nel frattempo dallo sgomento. Un taccuino nero di pelle era la perfetta descrizione del suo. Se si trovava nella discarica adibita ai rifiuti urbani, l’unica alternativa era che qualcun altro avesse perso un clone del suo bloc-notes nello stesso giorno. Poco credibile.

« Chi era? ».

« Si chiamava… Logan Kashlinsky, mi pare… Era sulla trentina, vestito di tutto–– ».

L’uomo gli scosse le braccia per la sovreccitazione, in un cambio d’umore tanto repentino da risultare angosciante « Ti ha detto dove andava? ».

« No » spiegò Azrael rammaricato, appena prima che un ricordo degno di nota gli sovvenisse « Però ha detto che era della radio. Probabilmente è andato all’Antenna ».

« L’Antenna? ».

Il senzatetto indicò un edificio in lontananza, uno dei pochi della cittadina ad avere uno stile architettonico moderno. Si trovava ai piani elevati di Altoripoli, il che spiegava come mai fosse visibile anche da lì. « C’entra qualcosa con la radio, anche se non so bene. Magari lo trovi là ».

Lì Bellocchio si esibì in quello che Azrael avrebbe definito come un sorriso interiore: la sua bocca rimase inerte e mai nella conversazione ne aveva mostrato uno, ma l’euforia che muoveva ora ogni suo passo era palpabile. « … Grazie! Grazie, grazie mille! » esclamò prima di andarsene.

Il poderoso mendicante lo frenò con un braccio per trattenerlo, così da potergli porre una domanda che aveva voluto fargli fin da quando era collassato sui rifiuti. « Sicuro di stare bene? ».

Si guardarono per un po’, ma Bellocchio non pronunciò alcuna risposta. Attese solo che la stretta si allentasse appena per sfuggirgli e inseguire la nuova pista con rinnovata fiducia, il cappotto nero sfarfallante al vento.

 

 

Il furgonato dei presunti tecnici, terminato il giro di segnalazioni, si stava ora inoltrando in una stradicciola sterrata dopo essere giunto nella sezione disabitata di Altoripoli. Gli abitanti del paese le chiamavano le Fondamenta: un quartiere ormai spopolato per via del processo di inurbamento, sito al limitare del borgo. Serena aveva seguito la vettura in bicicletta e non avendo nemmeno mangiato a colazione ora si sentiva spossata, ma non pensò nemmeno per un istante di desistere.

Per sua fortuna il camioncino le facilitò le cose fermandosi di fronte a un magazzino di legno smantellato e deserto, probabilmente solo casa di piccoli insetti. La ragazza svoltò l’angolo per nascondersi dietro la parete prima che gli uomini scendessero dal loro veicolo, così da non farsi scoprire, e protese l’orecchio. Per quanto non potesse vedere nulla di quanto stesse accadendo, a giudicare dai rumori prodotti dovevano stare scaricando le lavatrici recuperate dai cittadini in quel deposito, e la cosa più disturbante è che non avevano ancora pronunciato una sola parola. In effetti, a ben pensarci, non li aveva notati impegnati in nessun vaniloquio leggero nemmeno a casa di Cornelius. Che fossero degli insospettabili stakanovisti?

Il processo di sgombero si concluse dopo un quarto d’ora di quiete assordante, cui seguì il suono meccanico dell’avvio di un motore e la sterzata degli pneumatici sul terreno. Serena cercò di capirci qualcosa, ma a ripeterselo aveva anche meno senso: quei due avevano raccattato per conto della Dive gli elettrodomestici guasti e li avevano deposti lì. L’unica possibilità era una discarica abusiva.

Quando entrò nell’edificio anche quest’ultima idea svanì, sostituita da un’altra incombente domanda. Il tetto era stato squarciato da anni di intemperie e le finestre erano rotte o assenti, il che significava che l’interno era ben illuminato. Ma di lavatrici neanche l’ombra.

La giovane compì due volte un giro completo su se stessa, ma non c’era alcun dubbio, era vuoto. Prima ancora di chiedersi come fosse possibile, al suo udito in allerta da prima giunse uno strano ronzio. Non erano Beedrill, e in effetti difficilmente si trattava di qualcosa di organico; sembrava più una ventola. Si chinò a livello del pavimento e chiuse gli occhi per localizzarlo meglio, e alla fine individuò la sorgente: l’angolo in fondo a sinistra. Essendo vuoto e avendo le pareti troppo spesse per un doppio fondo, restava una sola ipotesi plausibile: Serena batté i pugni sul pavimento e avvertì l’eco cadere vuota. Furono necessari solo pochi attimi per svelare quella che era a tutti gli effetti una botola.

Sotto di essa, celato all’occhio poco avveduto, si trovava un cunicolo a sezione quadrata di due metri per lato su cui giaceva un nastro trasportatore in funzione che produceva il brusio traditore. Per quanto inizialmente insicura, la ragazza ci salì sopra vinta dalla curiosità, e attraverso un viaggio con graduali variazioni di inclinazione giunse a muoversi parallela al terreno. Infine la galleria terminò, svelando oltre essa un’altra sorpresa della giornata: un’ampia stanza sotterranea percorsa a mezz’aria dal tapis roulant sospeso su cui si trovava.

L’ambiente era di forma cubica, delle dimensioni approssimative di un cortile scolastico; dovunque sul pavimento in cemento erano sparse scatole impolverate contenenti pezzi di ricambio di ogni sorta, nonché oggetti che per tipologia parevano reliquie di un trasferimento. In effetti l’intera zona somigliava all’interno di un camion per traslochi, salvo per due elementi fuori posto: il piano scorrevole su cui si trovava Serena e una singola porta posizionata sul lato opposto su cui campeggiava ermetico il numero trentuno.

Si tuffò giù, garantendosi un atterraggio parzialmente soffice grazie ai cartoni accatastati su un fianco, e dalla nuova posizione ribassata riuscì a scorgere il proseguimento del nastro su cui aveva viaggiato: al di là del varco d’uscita esso iniziava progressivamente a risalire, seguitando nel suo itinerario. Era ovvio, a questo punto, che i due tecnici dovevano avervi piazzato sopra le lavatrici guaste, le quali erano ora impegnate in un tragitto clandestino nel quartiere. Ma perché?

La ragazza esaminò una pila di scartoffie informalmente abbandonata in un cantuccio, ma se quello che vi era scritto era linguaggio umano lei non era in grado di decifrarlo. Lì vicino le saltò all’occhio il case di un computer fisso scollegato. Lo analizzò premendo un paio di volte il pulsante di accensione, ma come ipotizzabile non reagì minimamente allo stimolo.

« I visitatori sono pregati di non toccare le proprietà della Dive Corporation ».

Serena trasalì: una voce monotòna aveva appena pronunciato quelle parole da dietro di lei. Ma c’era qualcosa di ancor più sconvolgente: lei conosceva quella voce. Si voltò incredula, verificando che non si era sbagliata: dritta sulle gambe come un’atleta in posa, sua madre le aveva appena parlato. Sua madre. La giovane rimase senza parole, incapace di formulare un concetto anche solo nella sua testa. Impossibile, le ronzava, impossibile.

Poi comprese, o almeno pensò di farlo. « … Bellocchio? ».

« Indicare la natura dell’affermazione ».

La risposta e soprattutto il timbro di pronuncia incrementarono i dubbi di Serena, ma ormai non aveva senso tirarsi indietro. Il suo amico si era già travestito una volta in quel modo e, accantonando l’idea che sua madre avesse fatto chilometri di strada per spaventarla, quella era la spiegazione più probabile. « Tu sei… Bellocchio? » ripeté.

« Negativo. I visitatori sono pregati di allontanarsi dalle proprietà della Dive Corporation ».

Proprietà della Dive Corporation… Doveva trattarsi del PC. Serena si fece lentamente da parte, cominciando a girarle intorno senza osare avvicinarsi di un centimetro. Aveva detto Dive Corporation, il che significava che quel locale era davvero di proprietà della Dive e i due uomini non erano truffatori. O almeno, ciò avrebbe dedotto se non avesse significato fidarsi di sua madre. Che non poteva essere lì.

« Chi o cosa sei? ».

La donna replicò meccanicamente sciorinando una formula con fedeltà decisamente inumana « Guida Interattiva dello Stabilimento “L” di Altoripoli, proprietà intellettuale e fattuale della Dive Corporation. Giselle in breve ».

« Questo risponde a chi » osservò Serena cercando di controllare la paura che l’attanagliava « Cosa sei? ».

« Sono un’interfaccia olografica con l’obiettivo di assistere i visitatori nell’orientamento ».

« Okay ». No, non era okay. Aveva appena detto che era un… robot? No, olografica, quindi un ologramma. Non riuscì a credere a ciò che stava per chiedere. « Giselle… perché hai l’aspetto di mia madre? ».

« Il cervello dei visitatori è scandito quando entrano nello Stabilimento e una figura di fiducia ne è estrapolata per favorire il massimo comfort durante il tour ».

« Risultato non propriamente raggiunto ». Al vocabolo massimo era stata dedicata un’inflessione diversa, che non faceva altro che rendere il modo di parlare di Giselle meno realistico. Quindi, in poche parole, le avevano letto in testa e avevano tirato fuori la faccia di sua madre per applicarla alla guida turistica. Sicuramente era una violazione dei diritti di qualcosa, non poteva essere legale.

« I visitatori sono pregati di esporre la natura della loro visita ».

« Io… » Serena tentennò. Doveva muoversi con cautela: c’era un’alta probabilità che la sua presenza non fosse autorizzata. « Sono qui per caso. Anzi, se possibile vorrei uscire ».

L’interfaccia assunse un volto annoiato, che però anziché convogliare una sensazione di umanità appariva solo inquietante « Sfortunatamente non esistono uscite dirette dalla cella di ricevimento periferico. La via di accesso più vicina è la scala primaria ».

« Okay… Puoi portarmici? ».

« Certamente. Tempo stimato di arrivo: venti minuti. I visitatori sono pregati di seguirmi oltre il Link 31 ».

Per la prima volta Giselle iniziò a camminare con movenze singolarmente fluide, quasi migliori di quelle del modello che impersonava. Rendendosi conto che il Link 31 doveva essere la porta che aveva visto prima, e verso cui la donna si stava dirigendo, Serena le si accostò per il terrore di essere lasciata indietro senza via di fuga. Il risultato era alquanto imbarazzante: lei affiancata a qualcuno che nemmeno esisteva come quando passeggiava con sua madre. E sarebbe dovuta resistere venti minuti!

« Non puoi almeno cambiare aspetto? » propose speranzosa.

« Negativo ».

« E figurati ».

 

 

« Nessun Logan Kashlinsky risulta lavorare qui » confermò Garrett dopo aver trascorso gli ultimi due minuti a effettuare ricerche nel database dell’Antenna, peraltro costretto a usare la tastiera con una mano sola dal momento che l’altra era ferma sul naso per velare il fetore diffuso da colui che gli stava di fronte. Quell’uomo era un’antitesi vivente: indossava abiti adatti per entrare a Palais Brongniart, ma il tanfo di cui era impregnato erano tali da suggerire che provenisse da una immondezzaio o un posto simile.

« Ne è sicuro? È importante ».

Il maleodorante individuo si sporse oltre il banco delle informazioni per dare uno sguardo allo schermo del computer. Garrett recedette nauseato, sforzandosi di trattenere il respiro. « Ho controllato due volte per sicurezza. Penso l’abbiano informata male ». Quindi, rendendosi conto che senza una sua esortazione non se ne sarebbe mai liberato, aggiunse « La invito ad andare, ci sono altre persone in coda ».

Bellocchio annuì, producendo con la bocca qualcosa a metà tra uno sbuffo e un sospiro. Anche solo arrivare alla segreteria era stata un’impresa, dato che il complesso dell’Antenna era poco meno di un labirinto e si era perso già due volte – e di certo la totale assenza di indicazioni leggibili non giocava a suo favore. Sulla via di ritorno per il pianterreno, o almeno quella che sperava essere tale, i pensieri che gli affollavano la testa erano tuttavia altri.

L'inesistenza di Logan Kashlinsky apriva due scenari possibili: o aveva mentito Azrael o aveva mentito Logan Kashlinsky. Ma Azrael non avrebbe avuto alcun motivo per dargli un nome falso, cosa gliene sarebbe venuto in tasca? Quindi il mendace doveva essere quel Logan. Questo, però, non aveva alcun senso: ciò che sapeva di lui era che cercava un taccuino che doveva aver perso nella discarica in circostanze oscure. Perché non usare il suo vero nome?

Ah, sentirlo, parlava proprio lui che adoperava pseudonimi di pseudonimi. Però c’era un’altra possibilità che avrebbe conferito più senso alle sue azioni: che stesse cercando proprio il taccuino di Bellocchio? Ciò avrebbe implicato che lui conoscesse Logan a qualche livello, il che era del tutto plausibile considerando la sua memoria pericolante. Che complicazione.

E nel frattempo si era perso. Sovrappensiero com’era avrebbe dovuto aspettarselo, ma era troppo sovrappensiero anche per considerare quell’eventualità. La sua posizione attuale era una piattaforma longilinea separata da due dei quattro corpi principali dell’Antenna, le cui pareti vetrate rendevano visibile la grande Croce Centrale che fungeva anche da pianoterra all’aperto. Bellocchio procedette fino a ritrovarsi in uno stretto e opprimente corridoio grigio, denso da ambo i lati di porte anonime. Di facciata doveva trattarsi di una zona uffici, ma nessun rumore proveniva dai supposti studi. Dovevano essere lavoratori alquanto taciturni.

D’un tratto un cigolio annunciò che un’anta in fondo era stata aperta. L’uomo si guardò attorno istintivamente, ma nessuno si era unito a lui nell’androne, e di certo era difficile che qualcuno avesse percorso il suo medesimo tratto per poi entrare in una delle stanze. Si diresse verso il rumore, localizzandone la probabile sorgente in un portone metallico fortemente diverso dai suoi soci per dimensioni e peso. Aprendolo, Bellocchio si ritrovò davanti a una rampa di scale. Era del tutto normale, ma c’era qualcosa in essa che lo turbava profondamente.

Comunque non ebbe modo di mettere a fuoco cosa fosse: qualcuno gli sferrò un violento colpo alla testa, tramortendolo.

 

 

I passi di Serena generavano una piacevole melodia mentre cadevano sulla grata che fungeva da piattaforma sopra un reticolo di tubature color bronzo. Da ormai quasi tutti i venti minuti previsti seguiva Giselle in un andito largo a malapena per loro due e dalla manutenzione di opinabile qualità. Come se non bastasse un brusio persistente le fischiava nelle orecchie, qualcosa di simile ad attrezzature in perenne attività; un’opzione considerabile se non fosse rimasto perfettamente costante in intensità per l’intero tragitto. Come quel luogo potesse essere parte di un itinerario turistico eludeva la sua comprensione.

Gli occhi le caddero su una delle pareti scalcinate contro cui strisciava da un po’: qualche promessa cabarettistica in vena di scherzi aveva scarabocchiato termini ingiuriosi in uno svolazzo. Poco sotto era apposta anche un’enigmatica frase:

 

IL PIANETA NERO è REALE

 

Serena si rivolse a Giselle, facendo appello a tutta la sua concentrazione per non chiamarla mamma come effetto collaterale del suo aspetto. Le era già sfuggito una volta poco prima, e come risultato aveva taciuto subito dopo soverchiata dall’imbarazzo. « Che cos’è il pianeta nero? ».

L’interfaccia olografica arrestò temporaneamente la marcia per dare un’occhiata al muro imbrattato « Opera di visitatori poco cortesi. Sarà immediatamente notificata al personale perché sia rimossa ».

« Sì, ma io ho chiesto cos’è il pianeta nero ».

Giselle riprese a camminare « Un riferimento alla filastrocca ».

« Quale filastrocca? ».

« Il pianeta nero il vecchio sormonterà / Nel tempo del lungo confronto / Il buio su entrambi i mondi calerà / Nel tempo dell’ultimo tramonto ». Il testo era di per sé un’accozzaglia di luoghi comuni presi in prestito da altri scrittori che sarebbe forse andata bene per qualche storiella adolescenziale, ma enunciata dalle meccaniche corde vocali della guida assunse una sfumatura incombente.

« Com’è che non l’ho mai sentita? ».

« La filastrocca è divenuta popolare nella generazione di trent’anni fa, quando furono ritrovate le Profezie Perdute. Per accedere ai file pubblici del cloud dire “uno” ».

« Ancora non mi hai risposto. Cos’è il pianeta nero? ».

« Siamo arrivati ».

Senza accorgersene le due erano giunte a un’altra stanza connessa direttamente al corridoio da cui provenivano e questa volta di forma più prossima a un parallelepipedo. Dovunque erano ravvisabili scatoloni della medesima fattura di quelli che affollavano la cella di riferimento periferico, ma in proporzione molti di più date le dimensioni più strette dell’ambiente. Direttamente di fronte si trovava la porta d’uscita, gentilmente segnalata da una lampada d’emergenza appesa al telaio.

« Oltre quella soglia si trova l'Antenna, il maggiore studio radiofonico e televisivo di Kalos. La Dive Corporation spera che la visita sia stata di vostro gradimento e vi augura una buona giornata ».

Una infrastruttura della Dive si trovava al di sotto di una sede pubblica di produzione? Strano era dir poco. Prima di poter riflettere oltre Serena si accorse di un suono che aveva sostituito, o più facilmente stava sovrastando, il ronzio precedente: definirlo era difficile, ma pareva una collisione di oggetti metallici. Solo allora la ragazza si avvide di una seconda porta: era defilata sul lato destro, immersa tra i cartoni nemmeno avesse voluto nascondersi. Come poteva non averla notata prima?

« Cos’è quella? ».

« La Dive Corporation spera che la visita sia stata di vostro gradimento e vi augura una buona giornata ». Giselle indicò perentoriamente l’uscio principale, e la tenacia del suo sorriso non fece che aumentare il senso di disagio che procurava.

Serena si avvicinò sospettosa alla sua nuova scoperta, rilevando che il suono giungeva più carico alle sue orecchie di conseguenza: l’origine si trovava per forza lì. Finalmente si decise a dischiudere l’anta, rivelando ciò che si celava dietro: un’altra, vasta stanza, forse più voluminosa di quella in cui si era ritrovata attraverso l’ingresso segreto del magazzino abbandonato. E in effetti c’era qualcosa che le collegava: anche lì era presente un nastro trasportatore. A differenza della sezione intravista prima, tuttavia, qui ne convergevano diversi, ognuno facente capolino da una fessura a sé, e tutti riversavano il loro contenuto in un recipiente ora stracolmo di elettrodomestici di ogni tipo.

« Oh mio Dio » mormorò la giovane sconvolta mentre Giselle la raggiungeva a passi lenti. Forni, tagliaerba, aeratori: una pletora di oggetti di uso comune pienamente illuminati dalle vigorose luci al neon incastonate nello sporco soffitto. Modelli molto discordi, ma accomunati da marche tra le più famose della regione. Alzò gli occhi ai tapis roulant e notò che proprio da uno di essi era appena caduta una lavatrice, che a sua volta era rimbalzata su una di quelle in cima alla pila. Una che le ricordava qualcosa.

Era la lavatrice di Cornelius. Non c’era dubbio: non solo l’esemplare combaciava, ma anche i segni che aveva trascurato e che ciononostante si erano impressi nel suo subconscio, così da essere riconoscibili una volta rivisti. Il lungo graffio anteriore visibile anche da lì, per esempio. Ora che ci pensava, Bellocchio…

… aveva controllato lì dentro? Certo, sviste simili non erano da lui, ma in quel momento era tutto fuorché lucido. Vale la pena tentare, pensò mentre, completamente incurante di Giselle, scalava una serie di piattaforme per giungere al deposito. I nastri nel frattempo si erano tutti fermati, segno che gli approvvigionamenti si erano almeno per ora conclusi, lasciandole campo libero. Si gettò sull’oggetto prescelto, spalancandone l’oblò frontale e frugando all’interno. Il cuore iniziò a batterle a mille quando, oltre ogni aspettativa, scoprì che il cestello d’acciaio per gli abiti era perforato: una spaccatura si era aperta tra esso e l’intelaiatura, nulla di enorme ma quanto bastava perché ci passasse una mano.

Ed eccolo lì, adagiato sul fondo della vasca: il famigerato taccuino di Bellocchio! Quasi si ferì il dorso nell’operazione di salvataggio, ma alla fine lo riportò alla luce. A prima vista pareva intatto, probabilmente mai raggiunto da sufficiente acqua per superare lo strato di pelle. Lo svolse febbrilmente, ripromettendosi di non leggere nulla dei fatti privati del suo amico e di accertarsi solo che l’inchiostro non fosse sbiadito. E quando sulla prima pagina verificò che un eloquente “non smettere di leggere” campeggiava intatto, la ragazza esplose in un boato interiore di gioia. Si estraniò completamente dal mondo per un istante, ridendo soddisfatta: ora avrebbe potuto riconsegnarglielo e tutto sarebbe finito per il meglio. E in quell’unico, breve istante, non si rese conto che qualcosa si era appena sollevato dal cumulo di elettrodomestici.

Serena fu molto, molto fortunata: nel moto di festa che la colse si scostò di quei centimetri sufficienti per non finire congelata da un raggio ghiacciato. Quello che realizzò appena dopo la colse completamente alla sprovvista: un frigorifero aveva preso vita. Un frigorifero che ora la puntava avvolto da un alone violaceo, con il bagliore interno acceso e due fari che parevano occhi alieni sullo sportello. La ragazza mise mano alla cintura per prepararsi a un secondo attacco e con la coda dell’occhio scorse la sua guida turistica, che non aveva battuto ciglio.

« Giselle… ? » balbettò cercando di soffocare la paura.

« La Dive Corporation spera che la visita sia stata di vostro gradimento e vi augura una buona giornata ». Giselle d’improvviso aveva cambiato il suo timbro vocale, apparendo ora molto più umana di prima.

Il respiro della ragazza si appesantì quando si accorse di una cosa che avrebbe dovuto notare ben prima. « La Dive non produce frigoriferi… ».

« Affermazione esatta ».

Le era stato sotto il naso per tutto il tempo: la Dive Corporation vendeva solo lavatrici, e lì dentro c’era molto altro. Quella struttura sotterranea non poteva essere la loro. Il frigorifero si alzò in aria e altre due coppie di barlumi iniziarono a brillare sepolti sotto la catasta.

« Speriamo che apprezzerete l'organizzazione dell'invasione » annunciò Giselle compiaciuta.

L’invasione? La questione era di colpo diventata più grave di quanto fosse lecito aspettarsi. C’era solo una cosa da fare ora. « Devo trovare Bellocchio ».

Serena scansò un altro attacco della creatura, stavolta notando che aveva proteso un vero e proprio arto per scagliarlo. Con un balzo si ritrovò giù dal recipiente e, schizzando accanto all’interfaccia, la udì commentare « Oh, non ti preoccupare, ormai sarà già nostro ».

Una volta varcata la porta primaria a cui era stata indirizzata qualche minuto prima dovette solo percorrere una rapida scalinata prima di trovarsi all’aperto. Come configurazione avrebbe azzardato che la zona dove era giunta avesse la forma di una croce: ciò perché si trattava di una piazza quadrata ai cui angoli erano posti altrettanti edifici, probabilmente quattro sezioni dell'Antenna. Lei proveniva proprio da uno di essi, anche se la sua era un’entrata etichettata dall’esterno come utilizzabile solo da addetti ai lavori. Il suo piano era stato di rintracciare Bellocchio e spiegargli la situazione, con il bonus di restituirgli il suo blocco delle memorie, ma ora non era più praticabile.

Era il tramonto. Era stata nei sotterranei forse mezz’ora in tutto da quando vi si era inoltrata quella mattina, come poteva essere il tramonto? Non avrebbe mai reperito il suo amico in tempo!

La cosa peggiore non era nemmeno quella, bensì un fatto molto più banale: lo spiazzo era colmo di gente. Un andirivieni continuo di individui, coppie che parlavano e solitari al telefono, a due passi da un cimitero di elettrodomestici pronti, a quanto pare, a resuscitare e per nulla restii a uccidere. Prima ancora di Bellocchio i civili avevano la precedenza: doveva mandarli via il prima possibile.

« SCAPPATE! » gridò correndo verso il centro per essere più visibile e udibile « NON RESTATE QUI, VI PRENDERANNO! ». Si rese quasi subito conto di essere soltanto ridicola, ma non aveva in mente altre idee. Se non avevano intenzione di ascoltarla, le rimaneva solo l’opzione di guidare la fuga, sperando che se anche non avessero reagito subito avrebbero avuto chiaro cosa fare nel momento in cui il nemico si fosse rivelato. « ANDATEVENE! » si sgolò, cominciando a correre via dalla piazza a velocità che mai aveva sfiorato prima, sospinta dal puro terrore. Tenne lo sguardo a terra senza nemmeno controllare di essere seguita, e ciò ebbe l’ovvio effetto collaterale di mandarla in collisione con qualcuno che resistette al colpo, facendola ruzzolare a terra. Quando alzò la testa, però, si rese conto che non si era trattato di un urto qualsiasi. Era appena andata a sbattere contro Giselle.

Ma è un ologramma! Come fa a essere solido? « Tu… Tu sei… » farfugliò.

« Vi sono quasi ventimila abitanti ad Altoripoli, e quasi ognuno di loro ha donato almeno uno degli utensili che stanno per prendere vita ».

La ragazza ascoltò quelle parole incredula. Quello non era un sistema automatizzato, quella era un’entità cosciente. E parlava a nome di qualcuno, anche se non era chiaro di chi. « … Li avete guastati voi? ».

« Il primo punto debole di voi umani » la donna sorrise appagata, stendendo un braccio. Sul palmo della mano si materializzò come magicamente la riconoscibile sagoma di un P5S « Non sapete resistere alle novità ».

« Cosa… ? ».

« Emette onde magnetiche superconduttive che producono cortocircuiti nel raggio di un chilometro. Ne bastano pochi strategicamente piazzati per raccogliere migliaia di forni guasti ».

Serena, pur agghiacciata, incominciò ad afferrare il letale piano progettato dall’ignota società di cui Giselle faceva parte. In qualche modo si erano infiltrati nella produzione del P5S dotandolo della funzione che a loro serviva, poi avevano atteso che si diffondesse quel tanto che serviva a loro per mettere fuori uso larga parte degli elettrodomestici della popolazione. A quel punto erano intervenuti loro, fingendosi tecnici delle principali industrie del settore per ritirarli. Nessuno contesta il piatto quando il servizio è veloce, e di conseguenza non avevano incontrato intralci.

« Ed ecco qua le nostre anime! » comunicò Giselle a gran voce. La ragazza che le stava di fronte, in un crescendo di sgomento, osservò la piazza: la folla che in quel momento si trovava alla Croce ora marciava in direzione della porta da cui lei era uscita, dritta tra le fauci del lupo.

« Che cosa fanno? » domandò confusa.

« Oh, stupida Serena, cerca di ragionare. I corpi non possono animarsi senza delle menti, giusto? » la schernì la donna, parlandole in tono falsamente condiscendente. Quindi con un gesto comprensivo indicò tutta la fiumana intorno a sé « Ora le hai davanti! ».

« Li avete ipnotizzati? ».

Giselle sbuffò irritata « No, non ipnotizzati! Serena, rifletti! Tutti quei giovani in spiaggia, da dove credevi che venissero fuori? ». Quando vide la sua interlocutrice mettere insieme i pezzi, solo allora si ritenne soddisfatta dal livello di terrore che aveva originato in lei « Erano dei nostri, infiltrati che aspettavano questo momento ». Quasi volessero palesare il fatto, le persone stesse appena prima di entrare nello stabilimento divenivano eteree per un attimo, assumendo la loro vera forma: un piccolo corpo arancione avvolto da scariche elettriche.

Erano dei Rotom. Tutti gli esaltati alla festa, a due passi da loro: tutti Rotom. Serena rammentò le leggende su quei Pokémon, di come fossero stati ingegnerizzati in una terra lontana perché fossero in grado di entrare negli apparecchi alimentati a corrente. Il cerchio si chiudeva.

« Avete raccolto tutti gli elettrodomestici perché ci entrassero dentro… per invaderci? ».

« Finalmente ci sei arrivata, iniziavo a disperare! Se avessi saputo fin da subito che eri così lenta mi sarei risparmiata tutti quegli anni a tenerti d'occhio ».

Un’assordante esplosione demolì una fiancata dell’edificio sotto il quale era stata operata la raccolta, rivelando al suo interno una vera armata pronta a librarsi in aria e attaccare Altoripoli. E così a Luminopoli, a Novartopoli, ovunque i P5S si erano diffusi e gli incendi avevano funto da avvisaglia. La più grande invasione mai registrata dalla Repubblica.

Serena fissò negli occhi Giselle, invocando rimasugli del coraggio che Bellocchio l’aveva aiutata a coltivare dentro di lei durante il viaggio e che ora era stato sradicato quasi interamente. « Chi sei? ».

« Perlomeno non hai creduto alla storiella della scansione cerebrale. Su, non sono in molti a poter imitare tua madre » ghignò, manifestamente contenta della richiesta. Avrebbe voluto dirglielo nel primo momento in cui l’aveva incontrata nella cella di raccolta, ma si era imposta di trattenersi fino all’ultimo. E adesso, di fronte alla fine imminente dell’umanità, ecco che le si avvicinava all’orecchio per sussurrarglielo.

« E se ti dicessi… Maison Darbois? ».

Il terrore in Serena svanì del tutto, scavalcato da un’emozione ben più assoluta quale il panico. Strinse il taccuino per ritardare il crollo totale dei nervi mentre sotto ai suoi occhi atterriti la rassicurante figura di sua madre, come in un incubo, si tramutava in uno dei suoi ricordi peggiori: un Chandelure dalle vampate cromatiche che scintillavano scarlatte. In quel preciso istante il raggio verde del sole morente ufficializzò il passaggio dell’astro oltre l’orizzonte. Dovunque fosse Bellocchio aveva appena perso la memoria per sempre, la milizia dei Rotom imperversava su Altoripoli e su ogni città della regione, e la Fiamma Cremisi era tornata.

« Benvenuta all’ultimo tramonto di Kalos ».

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** 1x29 - Kalos brucia ***


Untitled 1

PREVIOUSLY ON LKNA: un incendio durante una festa in spiaggia è il primo segnale di una serie di eventi analoghi che si verificano nell’intera Kalos. Di fronte alla scomparsa del suo taccuino, Bellocchio è costretto a rivelare a Serena il suo grande segreto: per cause misteriose a ogni tramonto perde del tutto la memoria e ha bisogno dei suoi appunti per imparare tutto di nuovo. Durante le investigazioni successive l’uomo si ritrova all’Antenna, il più importante studio radiofonico e televisivo della regione, dove viene tramortito da ignoti.

Anche la sua amica, alla reciproca insaputa, si trova nello stesso posto: dopo aver seguito una pista riguardante elettrodomestici guasti scopre che è tutto parte di un piano ordito da un’organizzazione per invadere Kalos mediante i nuovi P5S, dotati di un generatore in grado di innescare un cortocircuito negli apparecchi elettrici. Questi ultimi sono ammassati in siti di raccolta sparsi sull’intero territorio regionale, pronti per diventare i gusci di un esercito di Rotom.

E la cosa peggiore è che a guidare tutto ciò è una vecchia conoscenza di Serena, il suo incubo ricorrente: la Fiamma Cremisi.

 

 

 

 

 

 

Il Superquattro Timeus Wikstrom spense per la quinta volta la sigaretta strofinandola contro il posacenere vitreo appoggiato sulla sua scrivania. Il suo rapporto con il fumo era alquanto peculiare: si era ripromesso di smettere, e intendeva tener fede, ma ogni volta che appena si annoiava il suo pollice slittava quasi inconsciamente sull’accendino. Quando se ne rendeva conto lo allontanava disgustato dalla sua debolezza, e così sprecava interi pacchetti. Soldi spesi e nient’altro, era la benedizione delle industrie del settore.

Sapendo che se non avesse trovato qualcosa da fare al più presto ci sarebbe ricascato – e strano a dirsi negli uffici del Ligue Château d’Examen non accadeva granché – afferrò con un guizzo la radiolina portatile che teneva verticale sul ripiano e la accese, lasciando che la frequenza 90.6 diffondesse un tango uruguagio. Un programma musicale! Timeus sperò che la fortuna avesse finalmente iniziato a girare, ma sperò per poco tempo: la melodia iniziò a dissolversi mentre la voce di un annunciatore riempiva la stanza.

« … E questo era Ramón Raquello e la sua orchestra con La cumparsita! Prima di passare al prossimo pezzo un ragguaglio in diretta da Luminopoli: diversi testimoni confermano che un ampio numero di persone sta marciando silenziosamente sullo Champ-de-Mars in direzione della Tour Prismatique. Si ipotizza che sia un flash mob in sostegno del neopresidente Faubourg, vittima ieri delle dure parole di Sauterelle, segretario dei Corsari, che lo ha definito “un incompetente e un ebete”. Torniamo ora alla musica in questo afoso pomeriggio con un successo che non passa mai di moda: Stardust di Hoagy Carmichael! ».

Musica degli anni venti. Sarebbe stata proprio bene con una sigaretta, e per impedirsi di cedere Timeus si impose di non rilassarsi. Come previsto Faubourg si era rivelato un successo popolare, in grado di far riappassionare una grande fetta di delusi alla politica. Forse troppo popolare? Lilia aveva espresso obiezioni sulla sua scelta come rimpiazzo per Moon, ma non si erano trovati altri candidati plausibili. Comunque Faubourg era controllabile, bastava solo non dargli l’impressione che la loro stretta si stesse allentando. La Lega Pokémon era più di un organo, era un’istituzione, e uno così abituato a visitarla come Lysandre certo lo capiva.

Il dolce accento di Charmichael fu nuovamente interrotto dallo speaker, che stavolta esibiva però un tono decisamente più concitato di prima. « Signori radioascoltatori, sembra incredibile, ma pare che i partecipanti al flash mob cui abbiamo accennato prima si siano appena volatilizzati! ».

Il Superquattro si drizzò sulla sedia e appoggiò i gomiti sul tavolo. Volatilizzati?

« Diamo subito la linea a Carl Phillips da Luminopoli! Carl, mi senti? ». Un brusio di sottofondo annunciò che ora il microfono da cui stavano trasmettendo si trovava all’aperto, in un luogo affollato, e anche la voce che vi parlava era cambiata. « Sì, mi trovo in diretta dallo Champ-de-Mars, e posso confermare che, saranno… qualche centinaio di persone, sono svanite nel nulla mentre camminavano! Non c’è–– ».

Un assordante boato fece tremare l’impianto di riproduzione della radiolina di Timeus, che in quel momento non ebbe più remore: attivò l’interfono che lo metteva in contatto con i suoi colleghi e sbraitò « Accendete la televisione! ».

« Signori radioascoltatori… la base della Tour Prismatique è appena esplosa! L’edificio pare non aver riportato danni strutturali, ora il fumo avvolge… Un momento! È incredibile, sono visibili due luci! Potrebbero essere occhi, o… ».

Un grido lancinante si levò e il collegamento si interruppe di colpo, lasciando il conduttore dello show musicale senza parole. Timeus spense la radiolina, notando proprio in quel momento un’ombra che era appena passata davanti alla sua finestra. Esitò un secondo, poi si diresse verso di essa e sbirciò all’esterno: il sole era appena tramontato del tutto, cedendo il passo al crepuscolo. Probabilmente era stato un Pokémon di tipo Volante ad oscurarne temporaneamente le ultime luci.

« Troviamoci subito nella sala riunioni! » intimò Narciso attraverso il sistema telefonico interno.

Il cavaliere fece dietrofront, dirigendosi a passi rapidi verso l’uscita, e fu in quel momento che il vetro dietro di sé andò in frantumi con un clangore fragoroso. L’ufficio si riempì delle domande poste a distanza dagli altri Allenatori, che avevano udito dalle stanze private lo strepito. Le loro voci furono tuttavia sovrastate da un suono raccapricciante: un ronzio veemente.

Voltatosi, Timeus trovò al posto della vetrata che prima ornava la camera un ventilatore fluttuante dotato di un paio di pupille dorate, spiccante contro il cielo imbrunito; dietro di lui altre due sagome si affacciarono all’apertura, fissandolo dritto in volto. L’uomo balzò all’interfono e ruggì con quanta forza aveva, sperando che il suo messaggio anticipasse il nemico. « CI ATTACCANO! ».

Queste furono le ultime parole del Superquattro Timeus Wikstrom.

 

 

 

Episodio 1x29

Kalos brucia

 

 

 

« ORA! ».

Serena intravide per pura casualità la sfera violacea che le sfrecciò vicino sorpassandola da sinistra e andando a investire in pieno la Fiamma Cremisi. Quest’ultima rinculò all’indietro, e qualcuno dovette approfittarne: una volpe dalle tinte gialle e un collare bianco spinato al collo saettò verso il bersaglio appena colpito dalla distanza e lo caricò con un Fulmindenti. Mentre lo spettro cercava di capire cosa stesse succedendo una donna di una trentina d’anni dai folti ricci rossi si affiancò alla ragazza, la quale nutriva lo stesso stupore del suo temuto avversario. Non la conosceva nemmeno di volto, ma le aveva appena salvato la vita.

« Chiunque tu sia, non ti muovere. Fai un solo passo verso chiunque di noi e Faraday ti paralizzerà. Sei un Chandelure, non potrai mai essere più veloce di un Jolteon ».

Di fronte a Serena la situazione si era per un qualche impossibile miracolo ribaltata: ora non era più lei quella sotto scacco. La Fiamma Cremisi probabilmente giunse alla medesima conclusione, perché dopo un verso che avrebbe ricordato un digrigno di denti si dissolse nell’aria.

La donna richiamò il suo Pokémon con la calma più assoluta, e solo dopo parve accordare l’esistenza all’altra persona che si trovava alla Croce, ancora scombussolata per gli avvenimenti. « Tutto bene? ».

« Sì… ».

« Mi chiamo Ginger, se mai volessi ringraziarmi ».

Ringraziare. Sì, quella effettivamente sarebbe stata una discreta idea, dato che senza di lei se la sarebbe vista davvero brutta. « Grazie… » balbettò a bocca aperta « Tu… sei una Flare? ».

« Ufficiale, ingegnera e leader della Seconda Unità. Tu invece ce l'hai un nome? »,

« … Serena ».

« Bene, Serena. Ti suggerirei di trovarti un riparo al più presto, questa sarà una lunga notte » dichiarò lei con freddezza. Sfilò dalla tasca del suo completo bianco a rifiniture scarlatte uno smartphone e se lo portò all’orecchio, iniziando dopo poco a parlare a quelli che, si poteva intuire, erano i suoi colleghi. « Qui Ginger. L'intera Kalos è sotto attacco, mettetevi subito in salvo. Questo gruppo stava all'Antenna, dovreste avere il tempo ». Si interruppe, facilmente per ascoltare ciò che qualcuno aveva da dire; quindi rispose « Troppi per poterli contare. Migliaia di sicuro. Era tutto troppo organizzato, di sicuro c'è qualcuno che li controlla ». Da come parlava l’ipotesi più verosimile era che si fossero appostati in zone strategiche ad Altoripoli, anche se le ragioni per scegliere un centro abitato terziario al posto di altri più rilevanti non erano desumibili.

« La Fiamma Cremisi » la informò Serena per chiarirle il dubbio appena espresso. Con il senno di poi non era un’espressione autodefinita, e dal momento che Ginger le rivolse uno sguardo degno di una malata di Alzheimer si sentì in dovere di precisare « Il Chandelure che hai visto. È lei ad aver organizzato tutto ».

L’Ufficiale abbassò il suo telefono per focalizzarsi meglio sul dialogo che stava sostenendo di persona « Come lo sai? ».

« Ci conosciamo, più o meno. Quello è un P5S? ».

« Sì ».

« Io non lo terrei così tranquillamente » commentò Serena « La Fiamma ha detto che producono onde superconduzionali, o una cosa simile. Sono state quelle a guastare gli elettrodomestici ».

Ginger la guardò con un’espressione la cui descrizione più prossima era orrore. Come se avesse realizzato una cosa fondamentale riportò il microfono alle labbra con urgenza. « Distruggete il vostro PSS appena chiudo la trasmissione. Ci vediamo al Settore 1 come pianificato » istruì i suoi inudibili compagni a velocità ragguardevole; dopodiché chiamò nuovamente in campo il suo Jolteon e gli ordinò di fulminare l’apparecchio. Prima ancora che fosse possibile obiettare il P5S appena rilasciato era una spoglia carbonizzata.

« Perché l’hai fatto? » le domandò Serena.

« Se hanno manomesso questi affari potrebbero anche aver installato una cimice. Non so se hai notato, ma siamo in guerra, non possiamo permetterci rischi » replicò con distacco osservando, dalla posizione privilegiata offerta dal rilievo su cui era costruita l’Antenna, la città di Altoripoli che bruciava sotto la furia dei Pokémon. Doveva essere così in tutta Kalos: migliaia di fulgori color carminio, devastazione perpetua e morti, troppe morti. « Ora scusa, devo trovare un modo per arrivare alla spiaggia. Con i Rotom che pattugliano la zona aerea non potrò certo volarci ».

Serena intuì che il Settore 1 di prima doveva essere proprio la spiaggia, codificata nell’eventualità che davvero qualcuno stesse intercettando la conversazione. Si alzò finalmente in piedi, non senza avvertire i suoi muscoli tremare per un istante « So io come arrivarci. Se raggiungi le Fondamenta puoi scendere senza problemi per la collina. Lì è disabitato, non ci saranno Rotom ».

« Per arrivarci dovrei passare per l'arteria principale di Altoripoli ».

« No. Sotto all'Antenna c'è un passaggio coperto che porta direttamente là ».

Il capo di Ginger si girò verso di lei, attratto dall’informazione. Affrontare da sola quell’esercito sarebbe stato un suicidio, quindi ogni scorciatoia era benaccetta. « Portamici ».

Obbedire per la ragazza non fu complicato, specie in fatto di localizzazione: l’esplosione aveva aperto una vasta breccia nella sala di raccolta dove erano precedentemente custoditi gli elettrodomestici in attesa di possessione, la quale era come visto sita a breve distanza dalla porta da cui era uscita. L’interno adesso era taciturno e buio, e non vi era traccia di interruttori per le lampade; fortuna volle però che Faraday, ovvero il nome che l’ingegnera aveva dato al suo fedele Jolteon, fosse in grado di produrre un Flash. Il ronzio che aveva accompagnato il primo viaggio di Serena era cessato – quasi certamente si era trattato fin dall’inizio del nastro trasportatore che procedeva appaiato –, e tutto ciò che si parava loro davanti adesso era un lungo corridoio sperabilmente deserto.

« È una fortuna che non abbiano ancora attaccato l'Antenna, o tanti saluti al tunnel ».

Ginger annuì completamente focalizzata sulla sua missione « Sì, giusto. Ora trovati un riparo ».

« Come, scusa? Io vengo con te! ».

« Perché mai dovresti? ».

« Senza di me non sapresti nemmeno di questo posto » obiettò. Roba da matti, adesso voleva pure che se ne stesse con le mani in mano mentre il suo peggior nemico infieriva su tutto ciò a cui teneva?

« Ascolta… Serena, giusto? Questo non è un gioco, d'accordo? C'è in ballo la salvezza di Kalos ».

La giovane non tremò, sussultò o altro. Rimase perfettamente stabile nelle sue convinzioni, e ribatté con un tono che addirittura quasi sconfinava nell’intimidatorio « Kalos è anche la mia regione, cara Ufficiale, e ci abitano anche la mia famiglia e i miei amici. Non sottovalutare ciò che arriverei a fare per proteggerla ».

Gli occhi scuri di Ginger la scrutarono severamente, non sapendo neanche loro cosa cercavano. Forse un segno di debolezza, un’esitazione di cui avvalersi per fermarla. O forse proprio la conferma della loro assenza. « Solo fino alle Fondamenta. Non voglio civili quando useremo l'Arma ».

« L’Arma? ».

« Siamo i difensori di Kalos, Serena, ovviamente abbiamo un'arma » sorrise la donna, iniziando a incamminarsi per il lungo traforo che le avrebbe condotte al quartiere abbandonato dalla cittadina « Ma non aspettarti che ti dica cos'è ».

« Mi sembra giusto ».

Nei successivi dieci minuti di camminata la giovane tentò più volte di rompere la spiacevole quiete che si era venuta a creare. Il primo esperimento fu chiedere come mai, tra tutti i grandi centri abitati di Kalos, lei e la sua Unità avessero deciso di indagare proprio ad Altoripoli. La risposta fu una disquisizione su qualcosa che suonava come “densità sospetta di segnalazioni”, che in qualche modo li aveva condotti lì.

Serena quasi desistette, ma per fortuna il secondo sforzo andò a buon fine, grazie anche alla domanda di natura più basilare: perché gli elettrodomestici? Lei sapeva che i Rotom potevano muoversi a piacimento al loro interno, ma una ragione per pianificare l’intera conquista su questa proprietà non l’aveva ancora trovata. Ginger fornì da questo punto di vista una lucida analisi da generale militare: i Rotom diventano più micidiali e resistenti quando abitano un apparecchio, e quindi era solo naturale che avessero voluto sfruttare i loro punti forti.

« Ma secondo te perché ci invadono? » domandò dunque la ragazza.

« Per dominare la regione ».

« È un po' semplicistico, non credi? Ci dev'essere qualcos'altro ».

« Suppongo di sì. Non mi piace mettermi nell'ottica del nemico, rende solo le decisioni più difficili ».

I ragionamenti della mente di Serena proseguirono, innescati dal dialogo stimolante. Finora aveva dato per scontato che la Fiamma Cremisi avesse un piano, ma non si era mai posta il problema di quale fosse. « E perché aspettare proprio ora per attuare tutto? ».

« Gli serviva una release su larga scala in cui mettere i superconduttori, e una spia che si infiltrasse nel team di produzione ».

« Beh, il 5 è uscito da poco e ha avuto più visibilità ».

« Credo che la seconda parte sia quella che ha dato problemi ».

Per una persona normale quel punto del progetto avrebbe richiesto il maggiore dispendio di energia, ma non certo per coloro contro cui stavano combattendo. « Quei ragazzi, quelle persone… Erano Rotom. Non dev'essere un problema andare in incognito per qualcuno che può trasformarsi in chiunque ».

« La linea dei PSS è prodotta dalla fondazione Flare, dove i controlli d'identità sono su base quotidiana » spiegò Ginger, e il suo carattere si rabbuiò sensibilmente « Il che rende le cose ancora più gravi, perché vuol dire che hanno almeno una talpa tra di noi ».

D’un tratto Serena realizzò, e contemporaneamente capì anche perché l’ingegnera fosse costantemente guardinga, come un gatto in una scatola. « Dici che–– ».

« Spero di no » taglio corto lei, facendo intendere che non voleva approfondire l’argomento.

Dici che potrebbero essercene anche nella tua Unità?” era la frase che la ragazza aveva tentato di esprimere, e Ginger lo sapeva benissimo. Semplicemente allontanava quel pensiero il più possibile, e per buone ragioni: chi avrebbe potuto concentrarsi sulla salvezza della regione con il dubbio di avere un traditore tra i propri colleghi a tartassarla?

Del resto anche Serena rifiutava di prendere coscienza della probabile situazione di Bellocchio. A sole tramontato, con il suo taccuino in mano a lei, ora si trovava sperduto senza memoria di qualsiasi genere sotto al fuoco incrociato della più grande invasione di Kalos dai tempi delle Grandi Guerre. La ragione diceva che era già morto, ma il cuore non poteva accettarlo. Non lui. Mai lui. Sicuramente era in prima linea a combattere al grido delle sue reminiscenze di poco senso. “I tosaerba si ribellano!”, avrebbe detto, “Di nuovo!”.

Mentre era assorta nelle sue riflessioni si ritrovò un braccio orizzontale davanti al busto. Si voltò verso sinistra: Ginger si era fermata sul posto, con l’indice della mano sinistra sulla bocca per dire di non fiatare.

Che cosa?, la interrogò con una combinazione di labiale e cenni degli arti. Quella non rispose, ma dovette ricevere un qualche tipo di conferma dal momento che la sua espressione trasudava terrore da ogni poro. Poi anche Serena riuscì a sentire: un trambusto metallico che echeggiava nel corridoio, come di qualcosa che si muoveva sulla grata che fingeva da pavimento. O tante cose. In lontananza avvistò un bagliore giallo nell’oscurità della galleria che si accese e si spense in un frammento di tempo, ed ebbe un tuffo al cuore.

« Ci hanno trovati » osservò, ormai certa che tacere non avrebbe giovato loro in alcun modo. Jolteon rivelava comunque la loro posizione, e senza Flash non avrebbero potuto intravedere i loro assalitori. Mise mano alla cintura e lanciò la sfera di Karen, che le ritornò in mano non appena il piccolo Ralts fu in campo. Teoricamente aveva a disposizione anche Uno, ovvero Bulbasaur, ma era meglio sfruttare i poteri psichici per tenere a distanza i nemici.

Faraday balzò all’indietro all’ordine di Ginger per coprire il lato opposto. « Che facciamo? ».

« Torniamo all’Antenna. Qui siamo topi in trappola ».

« Temo che non sia un’opzione viabile » commentò desolata la donna notando che anche nell’altra direzione stavano avanzando dei Rotom. Erano leggermente più lontani, ma sarebbero giunti lì in meno di un minuto. « Direi di difendere la postazione ».

« Gliela cederei volentieri, a dire la verità ».

« Se hai altre idee sono curiosa di sentirle ».

« Ehi, non sono io l’Ufficiale! » protestò la ragazza prima di accovacciarsi accanto a Karen per darle disposizioni « Appena cercano di saltarti addosso usa Protezione, con un po’ di fortuna li mandiamo uno addosso all’altro ». Il fracasso aumentava secondo per secondo e ora quasi assordava le due. Era una situazione senza speranza.

Solo allora si accorse che un’altra luce si era illuminata. Non era facile accorgersene, critica com’era la circostanza, ma dopo gli avvenimenti di Castel Vanità Serena aveva chiesto alla rinsavita nonna di Silvia di trasformarla in una spilla che potesse indossare sempre, come un portafortuna. E proprio quando aveva bisogno di fortuna più che in ogni momento della sua vita, la pietra rosa appuntata all’occhiello della sua giacca nera aveva iniziato a brillare. L’intensità era paragonabile a quell’altra volta, quando si era ripromessa di soccorrere il suo amico intrappolato fuori dall’universo.

Ciò che fece dopo non lo seppe spiegare. Non ebbe idea del perché, sapeva solo che era una cosa che sentiva di fare: si gettò su Ginger e la costrinse a scansarsi. L’esatto attimo seguente il soffitto del cunicolo crollò alzando una nuvola di polvere e aprendo un varco verso l’esterno che colse di sorpresa tutti, Rotom compresi. La furia della battaglia che imperversava all’esterno penetrò brutalmente nella loro gabbia isolata, ma non fu nemmeno la cosa più disorientante: d’improvviso Serena avvertì una sensazione difficilmente esprimibile, analoga a quando si crea corrente in una stanza, ma a un livello spirituale. Era come se il mondo per lei fosse tornato ad esistere, come se fino a quel momento non fosse stata sincronizzata. I loro avversari sembrarono patire questo effetto anche peggio, dato che gli esponenti che erano intravedibili caddero a terra sofferenti.

Si drizzò sulle gambe e aiutò la Flare a fare lo stesso, constatando che sia loro che i loro Pokémon erano miracolosamente salvi. Subito si precipitò a esaminare il foro prodotto sul soffitto, giungendo alla conclusione che qualcosa doveva avere sfondato il terreno dall’esterno: sopra di loro Altoripoli era teatro di un concerto di esplosioni e fiamme che divampavano. Come fosse possibile che la pietra l’avesse previsto era un altro discorso: le due occasioni in cui si era attivata erano nettamente diverse, senza nulla che le unisse.

O quasi nulla: l’acuto verso di un volatile preannunciò il volo rapido di un Fletchinder che fu visibile per un lampo.

Il cuore di Serena andò in tachicardia e, senza pensarci due volte, spiccò un balzo e si aggrappò a uno degli spuntoni del lastricato ancora agganciati alla strada spaccata. Una volta issatasi al livello superiore aiutò Ginger a fare lo stesso, mentre i loro due Pokémon ebbero vita più facile. Lo scenario circostante era semplicemente definibile come apocalittico: erano sbucate in una larga via centrale la cui temperatura media, nonostante l’ora tarda, doveva essere di almeno quaranta gradi. Tutt’intorno le abitazioni bruciavano, continuamente bersaglio dei bombardamenti aerei scagliati dagli invasori. La carreggiata doveva avere ospitato scontri assai intensi, poiché era disseminata di bidoni dell’immondizia, macchine disposte a barricata e raggelanti chiazze di sangue annerito. Non vi era traccia di residenti in giro; probabilmente tutti morti, fuggiti o asserragliati negli scantinati dei pochi fortunati che potevano vantarne. Tuttavia l’aspetto più tremendo era senz’altro il cielo. Dovevano essere circa le otto di sera, e di conseguenza il firmamento avrebbe dovuto mostrare tinte violacee: invece era arancione. Le nubi che precludevano le stelle sembravano ardere esse stesse, rischiarate dalle vampate che salivano dagli edifici. Non era solo quella zona di Altoripoli a bruciare: l’intera città era l’Armageddon.

Immediatamente cercò l’uccello di fuoco che aveva intravisto, individuandolo proprio mentre il tuono di un Rotom lo centrava in pieno, facendolo precipitare esausto. E con orrore della ragazza il corpo inerte di Nephtys, piombato al suolo con brutalità madornale, ruzzolò proprio accanto a quello altrettanto immobile di Bellocchio.

Serena accorse sul posto dove l'uomo era caduto, verificando che se non altro il sangue all'interno delle vene del suo polso scorreva ancora – nonostante una vistosa ferita appena sopra di esso che gli aveva lacerato la manica del cappotto – ed era solamente svenuto. Ciò in teoria l'avrebbe tranquillizzata, ma in pratica non fece altro che spronarla ancora di più. Perché la vendetta è uno stimolo potente, sufficiente a scatenare una guerra; ma il desiderio di difendere un amico è in grado di sterminare interi popoli. Alzò gli occhi al cielo, osservando i gruppi di Rotom che fluttuavano sopra di lei, e Ralts le si avvicinò come se presentisse che era il suo momento.

Lei non era un'Ufficiale. Non aveva anni di esperienza alle spalle. Non sapeva che cosa quella Ginger avrebbe fatto, se avrebbe atteso rinforzi o agito, e non sapeva che cosa fosse l'Arma. Non era quello il suo campo, lei non era parte dei “difensori di Kalos”, né aveva interesse a esserlo.

E non si sarebbe profusa in monologhi inutili, buoni per le telecamere o per guadagnarle una promozione. Lei era una persona normale, e avrebbe fatto solo ciò che si era ripromessa fin da quando aveva visto quelle macchine demoniache solcare i cieli di Altoripoli: salvare Bellocchio.

« KAREN, USA PSICHICO! ».

Il Pokémon rispose alla chiamata della sua Allenatrice e il suo casco color bottiglia brillò di un fulgore abbagliante. Dapprima, per un gelido istante, parve che ogni sorgente d'aria si fosse esaurita, e la via in cui si trovavano rimase sospesa nel tempo; poi la spilla di Serena esplose in una luce rosata, e altrettanto fece Ralts producendo un'onda d'urto che si espanse per metri e metri quasi istantaneamente, polverizzando ogni Rotom che trovò sul suo cammino. In quel lampo di energia un insignificante rione di Altoripoli fu libero. Una vittoria irrilevante su scala regionale, ma tutto ciò che veramente serviva a una determinata diciannovenne dai capelli dorati che aveva deciso di ribellarsi.

La ragazza gongolò, ma fu l'unica cosa che le fu concesso fare: le gambe le si fecero molli, e presto le sue membra cedettero a una stanchezza sopraggiunta tutta d'un tratto per sollevarla dall'ingrato compito che si era caricata sulle spalle.

 

 

Serena aprì gli occhi. Si trovava sotto le coperte di un letto morbido come non ne vedeva dalla breve sosta al Palais Chaydeuvre, dentro una stanza scura rischiarata soltanto da una lampada gialla alla sua sinistra. L’atmosfera era quieta, senza traccia della battaglia che costituiva l’ultima immagine impressa nei suoi occhi, ma probabilmente era solo opera di pareti ben insonorizzate. Il mobilio era spartano, con l’unico accenno di tecnologia nella conformazione di un televisore solitario in un angolo.

Spostò leggermente la testa notando un’ombra proiettata sulle sue federe estive: Bellocchio era appostato su una sedia accanto al materasso e guardava di fronte a sé perso nel vuoto, l’esteso sfregio sul braccio celato alla lampada. La ragazza cercò di mettersi seduta, ma appena fece forza sulle sue braccia quest’ultime tremarono per lo sforzo e il corpo ricadde all’indietro sul cuscino. L’uomo passò a osservarla, ma pareva quasi che lo sguardo non la afferrasse, che le passasse attraverso. La vedeva come una sconosciuta, non come un’amica fidata.

« Che ore sono? » domandò lei.

Bellocchio occhieggiò l’orologio da polso, avendo cura di non illuminare l’impressionante cicatrice lasciata dal fulmine « Otto a mezzanotte ».

« Ho dormito così tanto? » sobbalzò Serena incredula. Il sole era tramontato verso le otto di sera, il che significava che era rimasta in quel letto per quattro ore nette.

« Solo una mezz'oretta, dopo che sei svenuta ti abbiamo portata in questa casa. Non siamo molto lontani, ma per ora non hanno ancora bussato alla porta ».

Solo una mezz’oretta? Con la coda dell’occhio la giovane scorse sul comò più vicino a lei, accuratamente piegata, la giacca nera che aveva preso in prestito da Cornelius. Allungò il braccio e la portò sul suo petto, esaminandone gli scomparti interni fino a scovare finalmente il suo PSS.

Secondo lo smartphone erano le 11:43. Dapprima pensò che fosse buffo il fatto che fosse dieci minuti in ritardo, poi controllò meglio: 11:43 A.M. Non dieci minuti, dodici ore.

« Tutto bene? ».

« Sì… Sì, è solo… » biascicò Serena turbata. Decise di cambiare argomento, difficilmente ne sarebbe venuta a capo. « Dov'è Ginger? ».

« Al piano di sotto. Mi ha spiegato un po' la situazione, con i P5S e tutto il resto ».

A rifletterci in background rammentò della sensazione di scombussolamento quando il cunicolo che stavano attraversando era parzialmente crollato, un contraccolpo tanto forte da lasciare intontiti gli stessi Rotom. Era possibile che tra il mondo esterno e l’infrastruttura della Fiamma vi fosse una sorta di scarto temporale? E che la brusca creazione di un collegamento tra i due punti avesse riassestato i flussi, scuotendo chi si trovava in quello sbagliato? Non riusciva a pensare come potesse succedere, ma non era certo una fisica. Chissà se Silvia avrebbe potuto aiutarla.

In tutto ciò si rese conto che non si era ancora posta la domanda principale. « Sei stato tu ad aprirci la strada dal tunnel sottoterra? ».

« Sì, ho ordinato a Fletchinder di attaccare il terreno. È l'ultima cosa che ho fatto prima che mi fulminassero ».

« Come sapevi che eravamo lì? ».

Bellocchio infilò la mano nel suo cappotto corvino e ne levò un frammento cilestrino fosforescente. Quello dei Beedrill o di Dusknoir, distinguerli era praticamente impossibile. « Ha iniziato a brillare. Non sapevo perché dovessi farlo, sentivo solo di dovere ».

Serena capiva benissimo cosa intendeva: anche lei aveva provato la medesima sensazione dall’altro lato. Dopo gli avvenimenti di Castel Vanità aveva avuto la certezza che la sua pietra e quelle schegge fossero analoghe, con la sola differenza che quella di sua proprietà era integra. Ora aveva anche un’altra conferma: brillavano quando ne avevano bisogno, quando pensavano l’una all’altro. Arrovellarsi sul motivo era inutile, di certo non avrebbero avuto un’intuizione dal nulla.

Guardò nuovamente il PSS e fu colta dallo sconforto alla vista delle dozzine di chiamate perse che aveva ricevuto dall’inizio dell’invasione. Sua madre, suo nonno, Trovato, persino una di Calem. Chissà se stavano bene.

« E Nephtys come sta? » chiese ad un tratto, forse solo per tenere viva la conversazione e non dover sopportare il silenzio. L’ultima volta che l’aveva vista era nelle stesse condizioni del suo padrone, del resto.

« Nephtys? ».

« Sì, Fletchinder. La chiami così, no? ».

Gli occhi smarriti di Bellocchio la riportarono di colpo alla cruda realtà, facendole comprendere che non poteva più rimandare il problema. L’aveva sepolto nel subconscio, ma era certa che sarebbe ritornato, e sicuramente anche lo era anche l’uomo.

« Tu cosa sai di te? ».

Il giovane ripose il coccio e dallo stesso posto sfilò stavolta un foglio rettangolare leggermente consumato ai lati. « Quello che c'è scritto qui ».

Dall’aspetto Serena ipotizzò in un primo momento che Bellocchio, come misura di sicurezza, si fosse trascritto le informazioni essenziali in caso di fallimento nel ritrovamento del suo libretto d'appunti. Sarebbe stata in fondo la cosa sensata da fare, e forse proprio per questo la trovava improbabile: l’individuo che aveva incontrato in spiaggia all’alba era tutto fuorché raziocinante. « Cos'è? ».

« Il primo ricordo che ho è di essermi trovato in una sala buia con un uomo » spiegò lui.

« Un uomo? ».

« Un vecchio. Penso mi conoscesse, perché mi ha spiegato chi ero scrivendomi i punti importanti su questo foglio nel caso dovessi perdere di nuovo la memoria. E mi ha detto di cercare una Serena, facendomi notare che avevo quel nome segnato sul palmo della mano ». Si fermò, quasi avesse esaurito le cose da dire, poi concluse « Immagino sia tu ».

La ragazza a sua volta tornò a frugare nella giacca, irrequieta poiché nella sua mente si faceva strada l’idea di averlo perso, ma infine rinvenne con sommo sollievo il bloc-notes nero che aveva custodito con cura.

« Questo è il tuo taccuino. Ci hai scritto tutte le tue memorie per due anni, se mi hai detto la verità ». Si sporse per consegnarglielo, gemendo per un dolore risultante alla schiena ma impegnandosi per non darlo a vedere « Non ti preoccupare, non ho sbirciato ».

Il comportamento di Bellocchio verso l’oggetto fu simile a quello che avrebbe avuto una scimmia scoprendo un artefatto umano: lo studiò da ogni angolazione, avendo quasi paura a sfiorarlo prima di stringerlo definitivamente tra le dita.

« Aspetta » disse d’un tratto « Prima che inizi a leggere ho bisogno di sapere una cosa ».

« Dimmi ».

« Che cosa sono? Perché mi succede questa… ». Si interruppe e inspirò profondamente, come chi cerca di soffocare le lacrime per ricacciarle dentro « Alla gente non capita, no? ».

Serena lo guardò con compassione, profondamente rattristata dalla crisi che stava sperimentando. Perché lei sapeva che la stessa cosa gli era successa quella mattina e lui no, e questa era la vera dimensione della sua tragedia. Aveva ripensato al dialogo che aveva tenuto in quell’occasione mille volte in quel – per lei – poco tempo che era trascorso. Aveva elaborato cosa avrebbe dovuto dirgli davanti al sole che sorgeva, e ora poteva rimediare.

« No. E non so perché ti succeda. Ma so cosa sei » gli rispose. Poi protese la mano nella sua direzione invitandolo a fare lo stesso, e quando lo fece la prese nella sua in segno di sostegno « Sei il mio amico. Sei sempre tu, anche se ancora non lo ricordi. E posso aspettare che tu lo faccia ».

Si guardarono vicendevolmente a lungo e finalmente sul volto di entrambi si dipinse un sorriso liberatorio. Serena si scoprì più in forze e riuscì a drizzare la schiena per sedersi. Forse a fiaccarla era stato solo il peso di non avergli detto quelle parole quando avrebbe dovuto. Alzatosi, Bellocchio si avviò verso le scale che conducevano al piano di sotto, rigirandosi tra le mani il taccuino ritornato al suo legittimo detentore. « Beh, penso che mi dedicherò un po' alla lettura » commentò disteso. Sicuramente fingeva, e probabilmente aveva sempre finto. « Chissà se sono bravo ».

« Ah, aspett–– ».

Tunk. Il rumore echeggiò nella mente dell’uomo dopo essere passato dalle sue orecchie, facendolo trasalire. Si voltò: Serena era caduta a terra, le gambe ancora infilate sotto le coperte, come se fosse svenuta mentre era sul punto di alzarsi dal letto. Dietro di lei fluttuava un esserino di piccole dimensioni dal corpo di plasma arancione a forma di parafulmine, che iniziò a sghignazzare malizioso appena certo di essere osservato. Il televisore al suo fianco lampeggiò di un turchino soprannaturale prima di spegnersi nuovamente, e Bellocchio comprese che quel Rotom era rimasto nascosto al suo interno per tutto il tempo.

« CE N’É UNO QUA! » gridò senza perderlo di vista. Ginger doveva essere stata allertata in precedenza dal suono, perché in quell’esatto istante sbucò dalla porta della camera affiancata dal suo Faraday. Il Pokémon nemico rientrò nello schermo catodico in un attimo, azione a cui Jolteon rispose scagliando un poderoso Tuono che frisse l’apparecchio illuminandone il monitor per un secondo. L’impianto audio di quest’ultimo emise un urlo folle di dolore che annunciò la fine del bersaglio.

Bellocchio non attese un minuto di più per eventuali conferme e si precipitò su Serena, raddrizzandola e riponendola nuovamente sul materasso. « Tutto bene? » le domandò, ma lo stato di panico in cui versava tradiva la sua previa conoscenza della risposta.

« La… » incespicò la ragazza tra una fitta sofferente e l’altra, cercando di tenere a bada gli spasimi « Fiamma… ».

Il giovane attese che continuasse, ma le sue condizioni peggioravano esponenzialmente. Qualsiasi cosa le avesse fatto quel Rotom era grave, e molto. « Serena! ».

« La Fiamma… Cremisi… ».

Forse quelle parole avevano un senso, ma per lui erano poco meno che inintelligibili. « Cosa? ».

« Leggi il taccuino… » sussurrò con un filo di voce, e questa fu l’ultima frase che Serena trovò la forza di pronunciare prima di svenire. Ginger spostò di forza l’uomo curvo sopra di lei e le aprì le palpebre a forza, controllando le pupille con fare clinico.

« Veleno » dichiarò risoluta « Deve avere usato Tossina ».

« Cosa facciamo? ».

« Scappiamo. Se quel Rotom era lì ci hanno trovati ».

Bellocchio la prese per le spalle e la girò a forza, con una violenza che – anche se non poteva saperlo con certezza – percepiva come non sua. « Per lei! » sbraitò.

La donna non si scompose per nulla, anzi lo squadrò con severità e intolleranza « Serve un antidoto, che di certo non troveremo qui. Ora riprendi il controllo di te stesso e prendila, dobbiamo andare ».

« DOVE! ».

« NON LO SO! » ribatté innervosita Ginger scendendo frettolosamente le scale. Bellocchio recuperò con la massima efficienza gli effetti personali suoi e di Serena prima di caricarsela sulle spalle e fare lo stesso. Il gruppo uscì in tutta fretta dall’abitazione e scrutò l’ambiente circostante: nessun nemico nei paraggi. Sapevano tuttavia che non potevano abbassare la guardia nemmeno per un istante, e avevano ragione: un plotone di Rotom incapsulati in elettrodomestici di indistinguibile natura si stagliava contro il cielo insanguinato e stava convergendo rapidamente verso di loro. Erano troppo veloci per poter fuggire a piedi: senza un miracolo sarebbero stati costretti ad affrontarli. E comunque ne sarebbe stato necessario un altro per sopravvivere.

« Salite! ».

Ginger abbassò gli occhi disorientata e vide di fronte a sé l’ultima cosa che si sarebbe aspettata: un veicolo elettrico a forma di nave pirata stava sfrecciando lungo la strada e si era appena fermato davanti a loro, guidato da un cinquantenne con un vestiario e un’acconciatura che gli sarebbe stata a pennello vent’anni prima. Fu tanto sbalordita dalla mole di assurdità che non riuscì nemmeno a muoversi.

« Allora, vi sbrigate? Belloccio, almeno tu! ».

Belloccio. Per quanto sbagliato somigliava al suo nome, e il diretto interessato afferrò che doveva essere uno dei tanti la cui conoscenza percorreva un verso unilaterale a causa della sua condizione. Senza pensarci troppo su balzò a bordo e depose Serena al centro del largo sedile posteriore, più compresso per la presenza del refrigeratore ormai inutilizzabile; Ginger, per quanto titubante, non poté sottrarsi all’evidenza che non c’era altra alternativa e lo emulò. Il guidatore premette l’acceleratore e riprese a guidare in dirittura longilinea sulla strada.

« Com’è che ti chiamavi? » domandò Bellocchio.

« Cornelius Woodward IV ».

« Buono! » esclamò, segnandosi mentalmente di fare caso a ogni menzione di quel nome nel taccuino che si accingeva a esaminare. Prima, però, si rivolse alla donna che viaggiava con lui « Occupati di Serena ».

« Io? ».

« Ho altro da fare ».

« ALTRO? ».

« Ci metterò poco! » la rassicurò, al contempo provando a tranquillizzare se stesso « Sono veloce a leggere, a quanto pare! ».

Ginger sospirò, cercando di non farsi soggiogare dalla tensione, e vagliò lo stato di salute della bionda ragazza: il veleno stava circolando nel corpo da qualche minuto, e non gliene sarebbero rimasti molti altri da vivere di questo passo. D’un tratto realizzò dove si trovava: visto il cartellone dei prezzi non poteva che essere un rivenditore di frutta. Con un po’ di speranza aveva la soluzione.

Si alzò in piedi e si sporse oltre il sedile accanto a quello adibito al conducente « Ehi, Cornelius! ».

« Starei guidando per salvarci la vita! » ribatté lui effettuando una sterzata che per poco non fece ribaltare l’ingegnera.

« Ce l’hai una Baccapesca? ».

« Ti sembra il momento per le voglie, donna? ».

« RISPONDI E BASTA! » proruppe con aggressività, anche se facilmente quella sfumatura implicita si sarebbe confusa nell’incessante tono di voce elevato che era costretta a mantenere per farsi sentire.

« Forse me n’è rimasta una, non ne ho idea! Sono quelle che vendono di più! ».

« Una basterà! Dov’è? ».

Cornelius staccò per un istante la mano dal volante, indicando col pollice dietro di sé « Se c’è, nel frigo! Ma non possiamo prenderla finché non ci ferm–– TENETEVI! ». Una nuova virata, stavolta più brusca, consentì al veicolo di evitare per un soffio una Verdebufera che s’infranse sull’asfalto. Ginger alzò lo sguardo: i Rotom erano giunti sopra di loro.

« Hai finito? » interrogò esasperata Bellocchio, ancora assorto sui suoi preziosi fogli.

« Un minuto! ».

Questi in un minuto ci bruciano, pensò mentre, stretta tra le mani una Mega Ball, chiamava Faraday sul sedile anteriore per passeggeri e gli ordinava di salire sul tettuccio della vettura a guisa di cannone. I suoi attacchi elettrici avrebbero avuto efficacia ridotta contro avversari dello stesso tipo, ma Assorbivolt lo rendeva immune ai fulmini dei Rotom e li avrebbe costretti a ricorrere a tecniche derivate dagli apparecchi che abitavano e con cui non avevano né la familiarità né l’esperienza necessaria per una mira ottimale. E poi l’inquilino del televisore non aveva apprezzato quel Tuono.

Mentre teneva d’occhio il terreno di scontro si accorse con orrore di una cosa: si stava inclinando. Guardò in avanti, verificando che effettivamente la nave stava risalendo Altoripoli. « Che stai facendo? » protestò animosamente.

« Cerco di arrivare alla Trait d’Union! Qua fuori siamo una preda troppo facile! ».

« No, che idea stupida, santo cielo! In salita siamo più lenti, ci prenderanno subito! Vai alla spiaggia! ».

« Alla spiaggia? » sobbalzò Cornelius « Ma sei fuori? Perché non ci consegniamo direttamente? ».

« FALLO E BASTA, CI STANNO ADDOSSO! ».

L’inversione a U che seguì costrinse Ginger ad agganciarsi a uno dei sostegni della capote con un braccio e a fungere da cintura di sicurezza umana per Serena con l’altro. Immediatamente la tendenza della velocità si invertì, iniziando ad accelerare vertiginosamente. L’effetto collaterale, tuttavia, era che adesso la porzione degli inseguitori rimasta nelle retrovie stava franando direttamente incontro all’automobile.

« Bellocchio? » sibilò l’Ufficiale sull’orlo di una crisi di nervi « Ci se–– ».

« FINITO! » esclamò lui serrando il taccuino soddisfatto. Quando levò gli occhi davanti a sé, però, si senti tutto meno che appagato: un Rotom Lavaggio stava per piombare dritto in fronte alla vettura per la combinata velocità dei due oggetti, ed era ormai ben al di qua dello spazio necessario per una manovra evasiva.

Un affilato raggio scarlatto proveniente dall’interno dell'abitacolo, più o meno dello spessore di un laser, lo centrò in pieno senza preavviso imprimendogli apparentemente un momento angolare sufficiente per farlo ruzzolare di lato. Per quanto incredibile potesse sembrare, quell’ostacolo che era parso la sanzione del capolinea era appena slittato accanto a loro liberando la carreggiata che rimaneva da percorrere.

Bellocchio si girò a destra, vedendo la rappresentante dei Flare che teneva ancora il braccio teso in avanti, le dita avvinghiate intorno alla sfera di Jolteon. Lei gli restituì lo sguardo, intuendo i suoi dubbi. « Meccanismo di richiamo ».

« Cosa diamine era quel coso? » incalzò Cornelius impressionato.

« Ho detto alla Mega Ball che stavo richiamando Faraday, invece l’ho puntata contro un Pokémon non mio » spiegò lei aggrottando la fronte « Dato che non ha riconosciuto il mio codice sinaptico ha prodotto un impulso repulsivo ». Conscia che nessuno dei due avrebbe comunque colto appieno per ragioni diverse, tralasciò l’argomento e si rivolse all’uomo in cappotto, che nel frattempo si stava sincerando della condizione di Serena. « Non le rimane molto tempo ».

« Cosa le serve? ».

« Una Baccapesca per la detossificazione. Potremmo averne una nel frigo qua dietro, ma dobbiamo fermarci per prenderla ».

« Accendi la radio ».

Ginger strabuzzò le pupille « Come? ».

« Ho bisogno di sapere quanto è disperata la situazione, pare che sia stimolato dall’adrenalina ».

« E questo cos–– ».

« Stando a quanto ho letto ho salvato giusto due settimane fa Luminopoli da un Dusknoir, e l’ho fatto solo dopo aver praticamente perso » replicò inflessibile Bellocchio, riponendo il bloc-notes nella tasca interna del suo soprabito « Puoi garantirmi di avere un piano migliore di quello che mi sono suggerito io stesso? ».

L’ingegnera aveva i suoi dubbi, ma pur di mettere a tacere quel diverbio fu Cornelius a premere il tasto di avvio dell’impianto radiofonico. Immediatamente dalle casse disposte ai quattro angoli sotto al tettuccio iniziò a diffondersi un’inquietante voce rauca. Il timbro era prettamente androgino, ma con una impercettibile inflessione femminile, ed era praticamente inudibile tra il persistente brusio dell’aria e il frastuono dello scontro che si stava protraendo lungo l’intera arteria principale della cittadina

« La regione di Kalos è sottomessa al pianeta nero, arrendetevi e deponete le armi. La regione di Kalos è sottomessa al pianeta nero, arrendetevi e deponete le armi. La regione di Kalos è sottomessa al pianeta nero, arrendetevi e deponete le armi ».

« Che è questa roba? » proruppe incollerito Cornelius, proseguendo con una sonora imprecazione « Perché trasmettiamo ‘sto schifo? ».

« Non siamo noi, sono loro » ribatté Ginger incupita « Mi chiedevo perché non avessero distrutto l’Antenna… Ne avevano ancora bisogno. I Rotom controllano ogni trasmissione ».

« Sanno parlare? ».

« Uno di loro sì, l’ho visto io ». Una Vampata scagliata dall’alto per poco non pose fine alla corsa della nave, costringendo il suo guidatore a iniziare a zigzagare di lì in poi per evitare esplosioni successive sul loro cammino e rischiando a ogni istante di cappottare per l’assurda velocità che avevano raggiunto durante la discesa. « Iniziano a prendere le misure! Tra un po’ saremo belli che andati! ».

« Ora sì che è la situazione disperata » commentò con un sorriso sulle labbra Bellocchio. Gettò un’occhiata a Serena come per ricordarsi per chi stava combattendo e si alzò in piedi.

Cornelius, che saltuariamente gettava occhiate allo specchietto retrovisore per sorvegliare gli avvenimenti, sgranò gli occhi sbigottito. Per poco non perse il controllo del veicolo, e ciononostante non rinunciò a guardare. « Non… Non puoi… ».

« … Continua a guidare » gli intimò Ginger, che cercava di non pensare a ciò che aveva appena visto fare al terzo passeggero.

« Sì, ma sta… sta davvero… ? ».

L’uomo era appena salito sul refrigeratore, reggendosi a malapena in bilico senza scivolare, a un inciampo dalla morte garantita per assalto di centinaia di Rotom. E non fu nemmeno la cosa più assurda: sprezzante del pericolo si avvinghiò alla maniglia della ghiacciaia e spiccò un balzo che lo portò a essere aggrappato come un rimorchio al retro della nave. Né Ginger né Cornelius avevano mai assistito a un gesto tanto rischioso come quello, e considerando che erano inseguiti da un esercito aereo non ne avrebbero mai più visto uno simile. E tutto solo per salvare la ragazza.

« ALLORA, COM’É FATTA QUESTA BACCAPESCA? » gridò Bellocchio aprendo il congelatore. Per fortuna all’interno ne era rimasta giusto una manciata, o sarebbe stato decisamente impossibile trovarla in quella circostanza.

L’ingegnera Flare faticò un attimo a riprendersi dallo shock, ma vi riuscì in tempo per fornire l’informazione « Rosa! Con delle foglie ».

Il giovane aumentò la pressione del gomito destro sulla parete interna del frigorifero mentre con l’intero braccio sinistro era occupato a tenere aperto lo sportello a conchiglia. Distinguere i colori con la poca luce che filtrava era un’impresa, ma in suo soccorso giunse il bagliore accecante prodotto da uno dei tuoni che Faraday emetteva dal padiglione dell’auto. Con un misto di gioia e sconforto trovò che, per quanto un frutto con tali fattezze fosse presente, si trovava a una distanza maggiore di quella che il suo avambraccio poteva coprire. Per prenderla avrebbe dovuto rinunciare a ciò che lo teneva ancorato al veicolo.

Ma per Serena questo e altro. Con uno scatto afferrò la bacca, e contemporaneamente perse l’aderenza alla carrozzeria e iniziò a fluttuare piedi all’aria come un aquilone, assicurato solo con la mano sinistra all’instabile battente verticale.

« Mio Dio! » trasalì Ginger, protendendosi subito in direzione dell’uomo per cercare di stringere il suo braccio libero e riportarlo a bordo. Intorno a loro le tecniche si facevano più fitte, segno che il miglioramento di precisione era globale ed esponenziale nel plotone di Rotom.

« Prendi! » strepitò lui.

La donna agguantò al volo la Baccapesca avendo cura di danneggiarla il meno possibile. Inizialmente pensò di somministrarla subito alla ragazza, ma la priorità ora era salvare la vita di Bellocchio; dunque si voltò dal lato opposto e quasi la infilò a forza tra le dita di Cornelius. E in quel momento testimoniò insieme a lui un’orrenda realizzazione: la strada che avevano percorso per tutto quel tempo stava per finire. Dritto davanti a loro si trovava un salto potenzialmente fatale se fossero proseguiti.

« Che cosa facciamo? » domandò tornando a guardare il deltaplano umano.

« Di’ a Cornelius––di sterzare appena prima! ».

Ginger fece per riferire, ma l’autista aveva sentito perfettamente e ribatté « Ci ribalteremo! ».

« È QUELLO IL PIANO! ».

Lo sguardo dell’ingegnera cercò quello di Bellocchio in cerca di chiarimenti, ma per quando l’ebbe agganciato tutto le era già ampiamente chiaro: l’unico modo per uscirne era simulare la loro morte. Dovevano gettarsi fuori appena prima della curva.

« Prendi tu Serena » le disse l’uomo con il tono di chi sta dichiarando assoluta fiducia. E probabilmente era così: se era arrivato a tali vette per procurarsi in tempo la Baccapesca, consegnare la vita di colei a cui era destinata nelle sue mani era un atto di credito autodefinito.

Anche Cornelius dovette comprendere il piano, perché con la voce in fibrillazione gridò « TRE… DUE… UNO… ».

Per Bellocchio fu sufficiente lasciarsi andare al momento corretto e sfruttare il principio d’inerzia; gli altri due, in particolare Ginger che doveva trasportare due volte il peso – ferrata com’era nella fisica non fu però un problema calcolare il diagramma delle forze in gioco –, nonché Faraday ancora sul tetto, ebbero vita meno facile, ma tutti riuscirono a tuffarsi prima che la macchina partisse per la tangente e a trovare un punto di ombra in cui nascondersi. La linea di fuoco di ogni Rotom di Altoripoli seguì il tracciato delle ruote fino alla collisione della fedele vettura elettrica con un edificio, dove fu bombardata da ogni tipo di attacco fino all’inevitabile conflagrazione. La colonna di fumo risultante si alzò per decine e decine di metri, offuscando il rossore delle nuvole. L’inseguimento terminò in questo modo, con entrambe le parti persuase di aver trionfato sull’altra nonostante la guerra fosse tutt’altro che conclusa.

 

 

Buio. Le fiamme non giungevano fino alla spiaggia per assenza di materiale combustibile, rendendola una zona franca e fresca se paragonata al resto di Altoripoli. A meridione e settentrione focolari brillavano nelle tenebre a distanze infinitesime, sottolineando il totale successo dei Rotom su larga scala. Petroglifari, non lontana in linea d’aria e posizionata all’estremità sudoccidentale della stella a cinque punte che era Kalos, appariva ora come una terrificante torcia puntata al cielo.

Oltre il dislivello che aveva costretto la nave di Cornelius a fermarsi si trovava una singola carrozzabile che fungeva da divario tra il paese e il mare. Bellocchio era stato catapultato contro il tronco di una palma abbrustolita e, un po’ per il dolore che ne era seguito e un po’ per attendere che la frotta di spettri si disperdesse, era rimasto alla sua ombra per qualche minuto. Poi si era rapidamente diretto verso il lido di fronte, certo che se i suoi compagni di sventura fossero stati ancora vivi si sarebbero riuniti lì.

L’oscurità certo non aiutò la ricerca, e neppure il fatto che fosse impossibilitato a urlare – o meglio, avrebbe potuto, ma un falò sarebbe stato più pratico se il suo scopo fosse stato farsi localizzare in tre secondi. Alla fine si palesò ai suoi occhi una sagoma a stento distinguibile che barcollava, come lui del resto, venendogli incontro.

« Chi sei? » domandò ansimante. L’effetto combinato di nausea per l’elevata velocità raggiunta e di shock per l’arresto improvviso non gli aveva fatto per niente bene.

« Bellocchio? ».

« No, io sono Bellocchio. Tu dalla voce sembri Ginger ». Ridacchiò tra sé e sé: stando alle sue annotazioni era solito fare battute di quel genere, e dopotutto le trovava moderatamente spassose. I loro corpi si scontrarono a causa della visione ridotta di entrambi e furono costretti a sorreggersi a vicenda per non cadere vittima degli effetti collaterali della fuga. Però tutti e due sorridevano lievemente: l’avevano scampata.

« Dov’è Serena? ».

L’ingegnera si rannuvolò, dimenticando il breve attimo di ilarità che aveva vissuto « Di qua ».

Lo condusse a quella che era a tanto così da sembrare la salma della ragazza. Era stesa sulla sabbia, diligentemente tenuta sotto sorveglianza da Jolteon, sicuramente quello messo meglio del gruppo. Bellocchio crollò sulle ginocchia e prese delicatamente tra le mani il capo da cui dipartiva una ondeggiante chioma paglierina. Aveva le lacrime agli occhi, ma non sapeva se fosse per tristezza o apprensione.

« Le ho bagnato la faccia, ha la febbre alta. Le rimane qualche minuto al massimo ».

L’uomo batté i pugni sul terreno, lasciando che sprofondassero tra i granelli e deluso che non potesse nemmeno autoinfliggersi dolore per sfogarsi « Dove diamine è finito Cornelius? ».

« Sono finito qua! ».

Bellocchio alzò la testa: poco lontano da lui, vacillante come loro, un cinquantenne brizzolato avanzava a pugno alzato. Non poteva esserne certo, ma credeva di non essere mai stato così contento di vedere un pirata. Si alzò per andargli incontro e quello scoppiò in una risata contagiosa.

« Ce l’abbiamo fatta… » dichiarò con tono liberatorio. Le sue dita si dischiusero, mostrando la Baccapesca ancora intatta « Ce l’abbiamo FATTA! ».

Il giovane si sentì pervaso da un’incredibile euforia e si appoggiò per un istante sulle sue spalle, abbandonandosi all’idea di avere conseguito una vera vittoria. Non perse però di vista l’urgenza della situazione e, pur continuando a gioire a bocca spalancata, si fece da parte per consentire la somministrazione.

E da quell’angolazione vide Cornelius stringere nuovamente il frutto tra i muscoli del suo pugno e spremerlo fino a renderlo inservibile.

La compiacenza di Bellocchio lasciò il passo a un’espressione di terrore e sgomento. Fece un passo indietro, poi un altro ancora, senza distogliere per un attimo lo sguardo dal pirata, il cui sorriso era ora diventato un sogghigno malefico e spaventoso.

« Cosa hai fatto… » mormorò sconvolto, gli occhi persi e la mascella semichiusa.

Faraday fece un balzo in avanti e prese a ringhiare vigorosamente. Ginger gli si affiancò a proteggere il suo amico « È un Rotom ».

« No… Non è un Rotom, è molto peggio » realizzò Bellocchio. Era stato cieco, completamente cieco. Non aveva dubitato in nessun momento della straordinaria coincidenza che un individuo conosciuto così poco da non trovarsi nemmeno nella trascrizione delle sue memorie si fosse casualmente presentato alla porta del loro nascondiglio per salvarli. Era ovvio che qualcuno doveva esserglisi sostituito, approfittando del volto noto, e non riusciva a capacitarsi di non essersene accorto. « È la Dama Cremisi ».

« La Dama Cremisi? ».

« Ci siamo già incontrati, ricordi? All'Antenna, sotto forma di Chandelure, con la mia cara Serena ancora viva. Ah, bei tempi » la sbeffeggiò il finto Cornelius prima di rivolgersi a Bellocchio, gettando frattanto al suolo i rimasugli della bacca « E tu, vecchio mio, puoi anche chiamarmi Fiamma. Non vedo perché non usare il mio vero nome, specie visto che io conosco il tuo ».

« Fare ciò significherebbe rispettarti ». Il disgusto dell’uomo era palpabile, quasi spiazzante per il suo comportamento precedente.

« Oh, non sono stata io ad avvelenarla, ricordi? Ho solo suggerito alle truppe di usare un occhio di riguardo per voi ». La Fiamma alzò le mani a imitare chi si arrende con atteggiamento sarcastico « Va bene, va bene, ammetto di essermi voluta divertire un po' nel darvi la speranza di sopravvivere. È una vendetta legittima dopo che mi hai umiliato alla Maison Darbois, non trovi? ».

Bellocchio la squadrò con ferocia « Non credere che avrò pietà di te dopo che avrò fermato quest'invasione ».

« Oh, la fermerai? ».

« Su, è finita, non far finta di non vederlo! L'ho letto sul taccuino. Gli spettri hanno paura di me, non devo fare altro che dire il mio nome per farli fuggire. Spero che tu ti sia divertita, perché per me sarà un piacere farti passare l'inferno ». Del resto doveva saperlo bene: era così che l'aveva cacciata dalla villa di Borgo Bozzetto.

La Fiamma ghignò divertita e gli si avvicinò, abbassando contemporaneamente la voce e risultando quasi inudibile sotto il latro di Jolteon. « E se ti dicessi che questi Rotom non ti conoscono? ».

« Idiozie » rispose il giovane raggelato, ma l’aveva detto più per se stesso che per il suo avversario.

« Te lo garantisco! Quando gli ho parlato di te non avevano idea di chi fossi. Per ogni spettro che ho incontrato tu eri praticamente una leggenda, immagina la mia faccia! Beh, in effetti puoi. Noi Chandelure non siamo molto espressivi ».

« Dovrei credere che mentre assemblavi il tuo esercito casualmente hai trovato gli unici fantasmi che non mi conoscono? ».

« Assemblavo? » inquisì la Fiamma con qualcosa che si avvicinava al sincero smarrimento.

« Assemblavi. A meno che tu non voglia convincermi che sono volontari ».

« Credo ci sia un fraintendimento, vecchio mio. L'esercito non sono stata mica io ad assemblarlo ». La reazione di Bellocchio dovette appagarla ancora più che averlo ingannato sotto le sembianze di Cornelius: assistere allo spaesamento di quell’arrogante esserino non aveva prezzo. « Non avrai pensato che l'invasione fosse opera mia. E che ragione avrei di guidarne una? » gli chiese sghignazzante « C'è qualcun altro all'opera, qualcuno di molto più potente di me ».

« … Chi? ».

« Fine della conversazione. Uccideteli pure ».

Le dita della mano del pirata schioccarono mentre si girava e, dopo aver pazientemente atteso l’ordine, cinque Rotom dagli occhi luccicanti si sollevarono dalla sabbia circondandoli a pentagono, pronti a colpire. Una nube di piccole scintille avvolse Faraday mentre si preparava a dare il massimo, ma da solo non avrebbe avuto alcuna speranza nemmeno con la sua velocità. Bellocchio accarezzò la sua cintura, rammentando però quasi subito che Nephtys era esausta dopo l’ultimo scontro e non aveva avuto modo di curarla. Le sue pupille scattarono a sinistra per sincerarsi delle condizioni di Serena, ma c’era poco che potesse fare.

« Oh, ma non preoccupatevi della ragazza, ormai è più di là che di qua. O dovrei dire più da noi? » li derise la Fiamma Cremisi, voltandosi a guardare la coppia per l’ultima volta con un paio di crudeli occhi color rosso fuoco « Vedi, vecchio mio, il punto forte degli spettri è che non muoiono. Kalos non ha mai avuto alcuna possibilità ».

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** 1x30 - Il nuovo sole ***


Untitled 1

PREVIOUSLY ON LKNA: l’invasione è iniziata e Serena deve reggere insieme le fila degli alleati per fare fronte alla crisi di Kalos. Quando un Rotom la avvelena lasciandola in fin di vita, l’Ufficiale dei Flare Ginger deve coalizzarsi con un Bellocchio finalmente rientrato in possesso del suo taccuino per salvarla. In loro soccorso giunge anche il fruttivendolo Cornelius con la sua vettura elettrica, ma proprio al termine di un adrenalinico inseguimento viene rivelata la verità: la Fiamma Cremisi ha preso il posto del pirata. Dopo aver ridotto in brandelli la Baccapesca necessaria per curare Serena, lo spettro ordina a cinque Rotom di terminare definitivamente il team di salvataggio della regione, la cui unica difesa è un singolo Jolteon.

 

 

 

 

 

 

Episodio 1x30

Il nuovo sole

 

 

 

« Voi spettri potete pure non morire, ma non immaginate quanto spero che sentiate dolore » sussurrò una voce eccezionalmente profonda, e quello fu il segnale che diede inizio all’inferno.

Il Rotom Calore che minacciava Bellocchio dritto di fronte a lui esplose in un fragore assordante, costringendo l’uomo ad abbassarsi per scansare i frammenti d’acciaio che si riversarono intorno. Contemporaneamente il compare alla sua destra fu bersagliato da una Vortexpalla che lo spedì di lato ruzzolante. Gli altri tre spettri furono centrati in pieno da altrettanti attacchi provenienti dall’esterno del cerchio che avevano formato intorno ai minacciati, chi disintegrandosi sull’istante, chi alzando bandierina bianca di fronte a una paralisi improvvisa, chi perdendo conoscenza per una violenta percossa. Presto la Fiamma Cremisi fu attorniata da un Klefki, un Noivern e un Heliolisk, e appena dopo anche Jolteon si unì al gruppo, ma la creatura scomparve in una nuvola di fumo senza dar modo a nessuno di colpirla o estorcerle risposte.

« Tutto a posto? » domandò emergendo dall’ombra un possente figuro imbracciante un’arma che pareva davvero gravosa da portare.

Bellocchio lo esaminò. Doveva essere di etnia esotica a giudicare dal colore della pelle, e largo almeno due volte lui per la massa muscolare che aveva plasmato in palestra. « Credo… Credo di sì ».

« Non parlavo con te » replicò quello secco, aggirandolo « Ginger, tutto bene? ».

La donna, quasi irriconoscibile per quelle che erano le condizioni in cui versava, aveva un palmo premuto sul braccio opposto e stringeva i denti per soffocare gli spasmi di dolore. « Una delle schegge mi ha presa ».

Una seconda sagoma divenne visibile alla luce delle stelle, un volto dai lineamenti asiatici che si avventò sull’Ufficiale con un kit medico nella mano sinistra. Iniziò a frugarvi all’interno, ma Ginger lo fermò immediatamente « No, no, non me! La ragazza! ».

Solo a quel punto Bellocchio, che nella concitazione generale si era distratto, rammentò della salute critica di Serena. Si inginocchiò di fianco a lei, esaminandola, ma ormai il suo respiro era flebile e la pelle sbiancata. Terence quasi trascinò via l’uomo con una forza insospettabile per uno della sua statura, intimandogli, con un lessico moderatamente meno gentile, di “togliersi di mezzo”. Poi gettò uno sguardo d’insieme al corpo della ragazza « Veleno? ».

« Sì » confermò Ginger « Tossina di Rotom. Puoi fare qualcosa? ».

« Ma non scherziamo » ribatté lui e, con un gesto rapido del braccio, le somministrò attraverso una piccola siringa una dose di una sostanza cristallina « Deve ancora nascere il Pokémon in grado di battermi ».

Con movenze da autentico dottore, anche se abbastanza chiaramente quello era solo un secondo lavoro, Terence si alzò in piedi e lasciò che la paziente si riprendesse autonomamente. Bellocchio le tornò accanto, stringendole la mano gelida come per proteggerla. Mentre i Flare si ritiravano in consultazione gli parve di essere solo loro due su quella morbida sabbia, con il timido sottofondo delle onde marine a cullarli. Lentamente Serena aprì gli occhi e, quasi dovesse espellere gli agenti tossici dal suo corpo, tossì violentemente dritto nella sua faccia. Ma a lui non importò minimamente: nemmeno conosceva veramente quella ragazza, eppure sentiva di esserle affezionato.

« Tutto bene? » le domandò. Rise tra sé e sé: che modo stupido di iniziare una conversazione.

Serena batté un paio di volte le palpebre, poi si girò su se stessa e fece forza sulle braccia per issarsi sulle ginocchia. « Credo di sì… Che è successo? ».

Bellocchio esitò, ma si convinse che appoggiare una mano sulla sua spalla era un atto che poteva fare e lo eseguì, seppur con un meccanicismo che lo faceva assomigliare più a un dispositivo automatizzato. « Un Rotom ti ha avvelenata ».

« Sì, questo lo ricordo… Credo » soggiunse a fatica, cadendo all’indietro e trovandosi seduta. Si voltò verso il suo amico « Dove siamo? ».

« Su una spiaggia » rispose l’uomo, lasciando scivolare la mano sulla renella e rendendosi quasi immediatamente conto che era una spiegazione un po’ vaga. Provò ad abbozzare un riassunto, ma realizzò che per descrivere l’inseguimento e l’inganno della Dama avrebbe impiegato fin troppo. « È una lunga storia ».

Frattanto Serena aveva riacquistato una discreta lucidità, il che le permise di focalizzarsi su ciò che aveva lasciato in sospeso in quella cameretta di Altoripoli. « Hai letto il taccuino? ».

La replica tardò ad arrivare, il che non fece che incrementare la tensione della ragazza. « Sì ».

« E… ? ».

« Non è stato illuminante come pensavo ». Bellocchio non osò guardare negli occhi Serena, continuando a evitarli e provando a concentrarsi sui focolari che ardevano sui promontori in lontananza « Non so ancora chi o cosa sono. Devo solo credere a quello che c’è scritto, ma non dice nulla su di me ».

La sua compagna non si era attesa un’incertezza simile, ma a posteriori avrebbe dovuto: non lo aveva letto appena dopo il tramonto, quando le sue memorie erano vuote e pronte per essere ricolmate con ciò che vi era scritto. Si era già fatto un’idea di chi fosse in quelle ore che erano trascorse, e aspettarsi che ora dei blandi pezzi di carta potessero modificare tali sicurezze era folle. Forse al prossimo crepuscolo avrebbe riavuto il suo amico, ammettendo che non morissero prima per mano dei Rotom.

« Ma non importa » disse Bellocchio d’un tratto. Finalmente i loro sguardi si incontrarono, le iridi dell’uno riflesse in quelle dell’altra. Per un attimo ipotizzò di abbracciarla, ma cancellò subito l’idea. Chissà che tipo di rapporto avevano avuto, lei e il sé del passato, dal suo punto di vista sarebbe potuto essere un affronto. Sapeva così poco, persino ora. « L’importante è che tu stia bene ».

Dopo essersi rimessi in sesto, e avendo appurato che effettivamente Serena aveva smaltito i sintomi della Tossina, tornarono dal gruppo di scienziati. Questi, a cui oltre ai due nuovi arrivati si era unito un terzo individuo, dall’aria più attempata, erano indaffarati in una procedura febbrile di montaggio. La sezione assemblata al momento aveva circa la forma di un treppiede, e nuovi pezzi venivano gradualmente aggiunti da una cassetta adagiata sulla sabbia.

Ginger si accorse di loro quasi istantaneamente, rivolgendosi alla ragazza come si parla a una degente appena dimessa « Tutto okay? Non vuoi sdraiarti? ».

« Sto bene, grazie » rispose lei educatamente.

« Questi sono i membri della mia Unità » annunciò la donna indicando il novero affaccendato. Proseguì poi nel presentarli singolarmente: Kibwe il colosso, Terence l’infermiere improvvisato e Sandy il terzo, in assenza di una definizione migliore. Dopodiché aggiunse « Vi suggerirei di deporre subito ogni oggetto in acciaio in vostro possesso ».

Bellocchio aprì il cappotto a mostrare che era, per così dire, pulito, anche se non ne capiva la necessità « Che fate? ».

« Montiamo l’Arma. Non abbiamo molto tempo prima che si rendano conto che non siamo morti, quindi affrettiamo i tempi ».

« L’Arma? ».

« Ah! » esclamò Serena, rammentando in quel momento dell’argomento sfiorato al suo primo incontro con l’Ufficiale. Si rivolse al suo amico per chiarificare « Sì, hanno un’arma che dovrebbe fermare l’invasione ».

« Ottimo! Di che tipo? ».

Ginger indicò il fucile che Kibwe aveva utilizzato poco prima per distruggere uno dei Rotom, ora abbandonato al suolo accanto al trio « È un modello rudimentale di cannone a compressione, provoca il collasso su se stesso di ogni apparecchio metallico ». Quindi mosse l’indice poco più in là, in direzione dei suoi colleghi che, nel frattempo, non si erano interrotti un secondo nemmeno per respirare « Quello è un catalizzatore. Una sorta di lente divergente, se vogliamo. Espanderà l’effetto a tutta Kalos, detonando ogni Rotom sul suo cammino. Addio invasori ».

« È geniale! ».

« È un suicidio ».

Le rispettive reazioni di Serena e Bellocchio si erano rivelate tanto diametralmente opposte che sarebbero risultate comiche, se non vi fosse stata una posta straordinariamente alta in gioco. « Come? » domandò la ragazza, perplessa.

L’uomo indicò la ferita al braccio di Ginger, provvisoriamente fasciata con una garza pallida da Terence « Quello. Un milione di volte quello. Ogni persona tenuta sotto ostaggio da un Rotom finirà per essere ferita ».

« È necessario » stabilì risolutamente la donna. C’era qualcosa nel suo sguardo, tuttavia, che lasciava intuire di più. In un certo senso sembrava essere sollevata dal fatto che l’obiezione fosse stata mossa su quell’aspetto, come se ci fosse qualcos’altro di ben peggiore che ancora era riuscita a celare.

E a Bellocchio non sfuggì. « Un momento, hai detto… Hai detto di posare ogni cosa in acciaio… » ragionò, e la verità gli giunse come una sfilettata « Quel cannone non fa distinzione, vero? ».

Ginger chinò il capo senza proferire una parola. Serena sgranò gli occhi: poteva non essere una scienziata, ma le implicazioni di un difetto simile sarebbero state ovvie a chiunque. « Vuoi dire… ? ».

« Ogni casa ha almeno un utensile in acciaio. E questo senza parlare di tutti i ponti, o della Tour Prismatique. Attiva quel cannone e Kalos cadrà in un futuro post-apocalittico senza passare dal via. Centinaia di migliaia di morti, come minimo ». Il silenzio che seguì fece imbestialire l’uomo, portandolo ad avventarsi sul tripode che i tre Flare stavano costruendo tacitamente come automi obbedienti « Ci sentite? State per diventare gli artefici della distruzione di questa regione! ».

Kibwe si fermò, alzandosi in piedi con il sangue che gli ribolliva nelle vene. « Credi di esserci arrivato per primo? Sappiamo tutti quello che succederà, ma non abbiamo scelta. O questo, o i Rotom ci uccideranno tutti ».

« Io » si impose Bellocchio categorico, voltandosi verso la leader dell’Unità « Io. Io sono la vostra scelta, io posso fermare l’invasione senza versare una goccia di sangue ».

« Come? ».

« Farò una cosa intelligente ».

Ginger lo squadrò. Ne aveva passate tante con lui in quelle poche ore in cui si erano conosciuti, aveva perfino dovuto sopportare la sua totale mancanza di cooperazione per buona parte dell’inseguimento, ma questa era la prima volta in cui fosse seriamente sul punto di perdere la pazienza. « Non hai la minima idea di cosa fare ».

« Beh, questa non è esattamente un’atmosfera creativa, giusto? » protestò lui con un piglio polemico che tradiva un’isteria malcelata sotto un manto di destrezza. Si premette ambo le mani sulle tempie in un tentativo di forzare i suoi processi di raziocinio.

« Credi che non abbia valutato tutte le opzioni possibili? Questa è l’unica ».

La donna si arrestò dopo quell’ultima parola, trafitta da parallelismi che avrebbe preferito non notare. Quella frase sarebbe stata applicabile fin troppo bene alla decisione che aveva preso al settimo piano del Le Crésus Hotel, quando aveva lasciato che suo fratello cadesse nel buco nero per evitare che Hoopa potesse fuggire. Si stava comportando nello stesso modo: tanti, troppi Ross innocenti sarebbero stati sacrificati nel nome del bene superiore. Allontanò quel pensiero come poté, ma ormai aveva preso coscienza di una questione che aveva negato in precedenza: ciò che era successo nel Mondo dei Morti non era stato un caso o un’eccezione. Lei era esattamente conforme alle sue azioni.

« No, no, non può essere » rifiutò Bellocchio recisamente dopo aver rimuginato per la verità più di quanto si sarebbe atteso « C’è sempre… È come dice il taccuino, c’è qualcosa che non ho considerato ».

Serena non aveva prestato molta attenzione al discorso, in completa onestà. La menzione dell’Arma l’aveva riportata al suo primo dialogo con Ginger, e da lì la sua mente aveva vagato rimembrando i folli avvenimenti della giornata appena trascorsa. Ora, però, di fronte alla menzione fatta dall’uomo di qualcosa che gli sfuggiva, le era tornato in mente un interrogativo che si era posta e che aveva accantonato nei meandri della mente, come spesso aveva fatto durante il suo viaggio. Chissà, vale la pena tentare, pensò prendendo per le spalle il suo amico e girandolo a forza fino a guardarlo negli occhi. « I Rotom hanno aspettato adesso per attaccare, ma avrebbero potuto controllare gli elettrodomestici in ogni momento ».

Una quiete irreale cadde sul lido, infranta solo dal rumore delle onde. Bellocchio rimase a fissare il vuoto per un tempo interminabile. Poi si avvicinò alla ragazza e, dopo averle baciato il capo, arretrò e si esibì nel gesto più assurdo di quella nottata: scoppiò a ridere. Non rabbiosamente o umoristicamente, bensì nella prassi assolutamente genuina di chi esulta. Prolungò la risata a lungo, quasi volesse assaporarla da più punti di vista. « Oh, Serena, ti meriteresti… Anzi! » cominciò, poi si batté la mano sulla fronte e aprì il suo soprabito per scrutare tra le tasche interne. Sotto gli sguardi sconcertati dei Flare sfilò una piccola circonferenza argentea saldata a un nastro tricolore che riportava incisa l’effigie di un tennista su fondo del color dell’oro. Nello scombussolamento generale adagiò la medaglia al collo della bionda compagna di viaggio, avendo cura che fosse orientata nel verso corretto. Tutto senza cessare per un istante di sghignazzare come un ubriaco.

La ragazza la esaminò e un tanfo terribile giunse alle sue narici. « Sembra venire da una discarica ».

« Potrebbe benissimo essere! » convenne l’uomo. Solo allora rivolse un’occhiata anche agli altri, trovandoli più dubbiosi di quanto si sarebbe aspettato. « Beh? ».

« “Beh” dovrei dirlo io » ribatté Ginger.

Il fatto che nessuno avesse colto il filo del suo ragionamento sorprese Bellocchio più di quanto avrebbe dovuto. « Non avete capito? I Rotom hanno aspettato per poter disattivare i forni e altro, ma per quale ragione? ».

« Beh, immagino perché… » arrancò l’Ufficiale « Perché gli servivano guasti, o… o spenti ».

« Oh, andiamo, esatto! » la incoraggiò come si fa con un bambino poco sveglio « Non ricordi quello che è successo al Rotom nel televisore? ».

Ginger esitò, immersa nelle sue riflessioni, ma alla fine la rivelazione le giunse pura e semplice come aveva fatto con Bellocchio, irradiando il suo volto di un’allegria inconsulta. « Corrente indotta! Oh, siete dei geni! » proruppe, osservata dai suoi colleghi come un elemento chimico combustibile da maneggiare con cautela.

« Vi spiace spiegare anche a noi? » si fece avanti Kibwe.

« Ho fulminato uno dei Rotom mentre era all’interno di un televisore. Credevo di averlo colpito, ma effettivamente è impossibile! Ho generato una corrente indotta per elettromagnetismo, capite? » strepitò l’ingegnera « Ho riacceso il televisore! ».

« E allora? ».

« E allora ci basta riaccendere gli elettrodomestici che abitano per fermarli in blocco! ».

Terence storse il naso. Comprendeva abbastanza la teoria dietro quel ragionamento: i Rotom non erano in grado di abitare apparecchiature in cui circolava corrente. Il problema era che non vedeva come ciò potesse essere d’aiuto. « Sì, ma non è che… Non sono esattamente attaccati a una spina ».

« Ma non ci serve… » mormorò d’un tratto la mansueta voce di Sandy dietro di lui. L’astronomo schioccò le dita, illuminato « Basta generare un’onda di induzione! Però ci vuole tempo per sviluppare un sistema simile, una settimana almeno ».

« Non ce n’è bisogno, non capisci? Qualcuno l’ha già fatto per noi! » lo scosse Bellocchio, che pareva morso da una tarantola. Lui e Serena avevano trascorso l’intero tempo in cui si era svolto il dialogo a battere ripetutamente il cinque da varie angolazioni, nemmeno l’invasione fosse già stata sventata.

« Chi, la ragazza? » sbottò Terence.

Ginger si accostò a lui e indicò con le dita il cielo infiammato sopra Altoripoli « Loro! Il piano dei Rotom è stato usare onde magnetiche superconduttive con i P5S per guastare gli elettrodomestici! L’esatto meccanismo che ci serve è già montato dentro quei modelli! ».

« Già, un vero peccato che abbiamo dovuto distruggere i nostri » commentò Kibwe « Dove lo troviamo? ».

Nella calma seguente si fece strada un mugugno di natura indefinibile, qualcosa sito a metà tra una richiesta di perdono e una proposta. L’origine fu presto localizzata nell’arcigna sagoma di Terence, che stava estraendo dalla tasca qualcosa di simile a un sottile mattoncino bianco. Ignorando le imprecazioni brontolate del gorilla accanto a lui, il matematico esibì il proprio P5S tracciando con inflessione tremante un abbozzo di scuse « Era… Costava troppo, non è che potessi… ».

« Tu hai rischiato di farci beccare per–– » ruggì Kibwe artigliando il socio e sollevandolo a dieci centimetri da terra. Ginger beneficiò dell’occasione per strappare di mano alla vittima lo smartphone ed esaminarlo. Quando verificò che era intatto il suo battito cardiaco si elevò a razzo e nell’eccitazione abbracciò uno a uno tutti i presenti, comportamento del tutto inusuale per una come lei. Non avrebbe commesso due volte lo stesso errore: questa volta avrebbe salvato tutti. Avrebbe salvato Ross, per così dire.

« Sì, però aspettate » obiettò Sandy a giro di affetto terminato « Quegli affari che raggio avranno, qualche centinaio di metri? Il catalizzatore non funziona con oscillazioni di tipo elettromagnetico. Non possiamo estendere il campo d’azione ».

« No, assolutamente » concordò l’ingegnera « Ma sai cosa può farlo? ». Puntò il dito in lontananza, dove tra le nubi ardenti si stagliava la sagoma inconfondibile di quattro edifici sormontati da uno slanciato pennone: l’Antenna. Sandy comprese: le radioonde sono propagazioni nello spettro elettromagnetico, e proprio nella città in cui si trovavano era stata costruito il più grande studio radiofonico della regione. « Un singolo segnale amplificato dal radiotrasmettitore primario dell’Antenna per raggiungere tutta Kalos. Milioni di elettrodomestici che si accendono nella regione per un istante ».

« Come un secondo sole » concluse Bellocchio.

Kibwe lasciò da parte il suo battibecco con Terence e si riunì alla discussione « E quindi il piano è… Ci infiltriamo all’Antenna e facciamo una magia scientifica per interfacciare il P5S al radiotrasmettitore? ». Da come aveva pronunciato quelle parole sembrava considerarla un’idea dissennata, e probabilmente era così, eppure ciò che aggiunse fu « Ci sto ».

« C’è un problema, però » fece notare Ginger rivolgendosi a Bellocchio « Abbiamo sentito le trasmissioni sulla macchina di Cornelius. L’Antenna è occupata dai Rotom ».

L’uomo ci rifletté, poi stabilì perentorio « Farò da diversivo ».

Serena sorrise, perché in qualche modo si era attesa una replica simile. L’Ufficiale Flare fu decisamente meno entusiasta « Quanto tempo avremo? ».

« Qualche minuto, immagino ». Dipende da quanto si divertiranno prima di decidere che posso morire, soggiunse mentalmente.

« Qualche minuto per un cablaggio simile? » protestò Terence incredulo « Ci vorrebbero ore! ».

Bellocchio gli lanciò un’occhiata beffarda, e si sarebbe detto che quell’increspatura ai lati della bocca mentre proferiva la frase successiva fosse un ghigno. « Beh, allora è una fortuna che voi siate i migliori scienziati di Kalos, giusto? ».

 

 

Era rimasto solo nell’ombra. Il team con l’ingrato compito di salvare la regione si era allontanato verso la collina, con l’obiettivo di imboccare una via alternativa per giungere all’Antenna. Bellocchio aveva abbandonato il luogo del loro ritrovo per evitare che un’eventuale pattuglia inviata dalla rediviva Dama Cremisi potesse scovarlo, e ora si trovava sulla battigia di una costa isolata, forse persino all’esterno di Altoripoli. Stando alle sue memorie era un degno improvvisatore, e probabilmente per questo se n’era uscito con la storia del diversivo come se avesse realmente avuto un piano.

Fatto stava che non era così. Non aveva idea di come distrarre un singolo Rotom, figurarsi costringerli a evacuare l’edificio che serviva a Serena e gli altri. Aveva vagliato svariate ipotesi, tra cui impiegare un qualche impianto acustico per attirare l’attenzione dei suoi nemici; ma ammesso che fosse venuto in possesso di casse stereofoniche non disattivate dalle onde superconduttive, nel momento in cui le avesse accese sicuramente lo avrebbero rintracciato. Doveva dare ai suoi amici tutto il tempo che poteva, e quello non era certo il modo migliore.

« La paura… ».

Bellocchio scattò in piedi in un sussulto, portando le dita alla sua cintura in difesa, e si voltò verso la macchia verde che spalleggiava quel tratto di litorale. Da uno dei cespugli che si confondevano nell’amalgama uniforme era emersa una figura che definire inquietante sarebbe riduttivo: un individuo anziano di notevole statura. I suoi connotati si impastavano nell’oscurità, ma due sfaccettature erano ben distinguibili: i lunghi capelli argentati e un berretto di lana a coprire il capo.

« La paura di un uomo è poca cosa, vero? ».

« Chi sei? » gli domandò Bellocchio scrutandolo. Nessuno dei due stava facendo passi avanti, come due statue nella sabbia.

« La paura di tanti… Quello è il vero potere ».

Il giovane portò la mano in avanti, stringendo la Poké Ball di Nephtys. « Rispondi ».

A quel punto il vecchio inviò segnali contrastanti: da un lato iniziò a camminare con ritmo quasi minaccioso verso l’uomo di fronte a lui; dall’altro però finalmente offrì qualche informazione ulteriore. « Non mi riconosci? Sono stato io a salvarti quando hai dimenticato tutto. Ti ho detto io chi eri ».

Bellocchio lo esaminò spaesato. Ora che si era avvicinato riusciva a discernerne meglio la fisionomia, ed effettivamente la prima immagine nella sua mente riguardava uno con le sue fattezze che lo indottrinava sulla sua identità in uno stanzino dell’Antenna. Se davvero era lui, però, allora aveva tutto fuorché da stare calmo: c’erano molte domande che doveva porgli, e non se la sarebbe cavata senza fornire spiegazioni esaurienti. « Come facevi a saperlo? ».

« È meglio che tu vada » ribatté lui asciutto, indicando in lontananza la sagoma incombente del maggiore studio radiotelevisivo di Kalos « Hanno bisogno di te ».

« Smettila di cambiare discorso ».

« Vuoi davvero stare qui a parlarne quando il mondo sta finendo? » lo interrogò il vecchio con una perentorietà quasi impropria per il suo sguardo stanco « Vai ad aiutarli ».

Bellocchio, tuttavia, si mostrò ancor più inamovibile di lui. Non gli era sfuggita la sua conoscenza della missione dei Flare, il che implicava che li avesse spiati; semplicemente non gli importava. Lui ora voleva delle risposte, anzi, le pretendeva. Con un guizzo premette il pulsante sulla sfera che teneva tra le dita, richiamando in campo la svolazzante silhouette di un Fletchinder rimesso in sesto da Terence Tao in precedenza. « Ultimo avvertimento ».

« Stanotte. Alle due di notte ci ritroviamo alla Costa Nera e ti spiego tutto. Non puoi permetterti di perdere tempo ora, e lo sai benissimo ». Il vecchio lo squadrò, notando nel suo interlocutore un lampo di indecisione che, seppur per un breve istante, aveva attraversato i suoi occhi. « Serena è quasi morta per te. Glielo devi ».

Quell’ultima argomentazione fu ciò che realmente lo persuase. Più del senso di giustizia, più della vendetta verso la Dama Cremisi, sopra ogni cosa fu convinto dalla certezza di essere in debito. E non in un’altra vita, una di quelle che apparentemente aveva vissuto, ma in quella di cui era responsabile in prima persona. Con un sospiro, senza nemmeno porsi il problema di come quell’individuo sapesse di Serena e delle sue vicende, fece cenno a Nephtys di arretrare, pur senza richiamarla in quanto non aveva del tutto abbassato la guardia. « Tanto non ho idee » disse tra sé e sé « Ho solo un Pokémon, non so che fare per creare un diversivo ».

« Hai guardato nella tasca? » suggerì il vecchio senza battere ciglio.

Bellocchio infilò le sue mani negli scomparti corrispondenti, ma li trovò vuoti come si attendeva. Tuttavia mentre frugava invano si rese conto, per la prima volta da quando si era ritrovato addosso il cappotto nero, che esso non si muoveva correttamente. Provava come la sensazione che ci fosse qualcosa al suo interno, un supporto rigido.

Una tasca interna, intuì esaminando il foderato del soprabito. La sua consistente imbottitura gliel’aveva celata fino a quel momento, ma eccola: sul lato sinistro, chiusa da un bottone. Da dentro estrasse un sottile mattoncino bianco dotato di una coppia di pulsanti dorsali e uno schermo cristallino sul fronte. In cima, appena sotto il fine microfono longilineo, campeggiava la scritta Player Search System 5S.

« Questo da dove–– » cominciò, ma la sua domanda cadde nel vuoto: il suo interlocutore si era volatilizzato mentre era distratto dal ritrovamento. Si guardò attorno, avanzando qualche passo verso il gruppo di arbusti da cui l’aveva visto emergere poco prima, ma non c’era traccia di anima viva nel circondario.

Non aveva idea di quale fosse l’origine di quel P5S, e mentre lo riponeva provò a vagliare ogni congettura che gli passava per la testa. Non poteva escludere che appartenesse alla sua esistenza precedente all’ultimo tramonto, ma ne dubitava pur non avendo essenzialmente il diritto di farlo: come avrebbe messo le mani su un prodotto estremamente costoso che per di più era in vendita solo da qualche giorno? No, qualcuno doveva averglielo messo, o averglielo consegnato. È difficile ricostruire i fatti quando una concreta porzione del tuo ultimo giorno è assente persino dal bloc notes che dovrebbe soccorrerti.

Solo ora, nella solitudine indotta, i dubbi che aveva soffocato avevano il coraggio di tormentarlo nuovamente. Non aveva scoperto nulla, solo descrizioni di ciò che era, e per quanto l’avesse minimizzato con Serena il fatto lo angosciava. Si rivolse a Nephtys, che restituì innocente lo sguardo. « Tu lo sai, vero? Ti ricordi chi sono » mormorò asciugandosi gli occhi umidi « E io no ».

Prese tra le mani il suo taccuino ed ebbe l’istinto di strapparlo, trattenendosi solo all’ultimo. Non lo aveva aiutato, aveva solo peggiorato la situazione. Ne fece scorrere febbrilmente le pagine, tanto rapide da leggere quanto inutili nel momento del bisogno.

Poi, del tutto casualmente, si accorse di un aspetto di cui non si era avveduto in prima analisi: un compartimento portadocumenti. Si trattava di una piccola sezione sul fondo dell’agenda che si apriva a fisarmonica, atta appunto a contenere fogli e simili. Nonostante secondo le informazioni di Serena fosse in possesso di quelle note da due anni, quella caratteristica doveva essere rimasta un segreto a lui per molto tempo visto che ospitava solo due pezzi di carta.

Il primo era una fotografia che rappresentava un astronauta in una stanza ben illuminata, probabilmente legata a un’avventura vissuta nel suo primo Natale di cui aveva letto. Il secondo, invece, sembrava a occhio e croce la stampa di una e-mail e relativo allegato di cui non aveva trovato menzione nelle memorie. Esaminò con cura il lungo testo accluso, soffermandosi sul titolo impresso con audacia dallo scrittore.

 

Poké Ball®. Un nuovo modo di vivere l’allenamento.

 

Lo scorse avidamente con la sua ormai certa propensione alla lettura, muovendosi di paragrafo in paragrafo con agilità animalesca. Non era nulla più di uno spot, la pubblicità di quelle che al tempo erano le innovative Poké Ball in dirittura d’arrivo.

Ma per Bellocchio fu altro. Occhieggiò Nephtys e un ampio sorriso gli tagliò il volto. Adesso sapeva cosa fare. Adesso sapeva chi era.

 

 

Accedere all’Antenna fu meno ostico di quanto chiunque della squadra si sarebbe atteso. Una volta risaliti attraverso le buie vie di confine fino alle Fondamenta, i cinque si erano calati all’interno del magazzino abbandonato, nell’infrastruttura organizzata dai Rotom per il loro piano. Lì, anziché attraversare il Link 31 come aveva fatto Serena – si sarebbero ritrovati in tal caso al pianterreno del loro bersaglio, facilmente la zona più sorvegliata –, non erano scesi dal nastro trasportatore ora immobile procedendo sul piano rialzato. Nella galleria dove la mattina precedente erano transitate le lavatrici avevano trovato una grata, e diveltala si erano introdotti nel condotto di aerazione.

Da allora non avevano fatto altro che districarsi strisciando tra dedali di pareti metalliche, cercando di produrre il minor rumore possibile e di non respirare troppo la spessa patina di polvere in cui nuotavano. Per loro fortuna il PSS di Serena era dotato di un GPS, il che permetteva loro di stabilire la posizione relativa rispetto all’obiettivo – tecnicamente anche il P5S di Terence, ma dubbi persistevano sulla possibilità che esso fosse intercettabile.

« Dove siamo? » domandò sottovoce Ginger a tal proposito.

« Sempre terzo edificio » la ragguagliò la proprietaria. Sempre perché almeno da dieci minuti forniva la medesima risposta, cercando di confrontare la mappa satellitare con quella dell’Antenna per capire dove andare. « Però… »,

« Però? » ringhiò Terence.

« Ecco, potremmo essere andati nel verso sbagliato ».

Il matematico grugnì rumorosamente, sempre nei limiti della loro politica del bisbiglio « Non sai usare una bussola? ».

« È difficile da leggere! ».

« Oh, sì, come la quota, giusto? ».

Serena inspirò, sforzandosi di far buon viso a cattivo gioco nel nome della circostanza critica. Aveva provato come minimo tre volte a spiegargli che la precisione altimetrica del GPS non consentiva di districarsi su misure di scala tanto ridotta come le dimensioni degli edifici in cui si erano infiltrati, e di conseguenza non poteva stabilire a che piano si trovassero. Ma era inutile, quel burbero scienziato non voleva saperne.

« Ho trovato qualcosa! ».

Il volto ovale di Kibwe fece capolino da un angolo oltre il quale si era spinto in avanscoperta, facendo cenno agli altri di seguirlo. Ginger e Serena lo raggiunsero con andatura spedita; Terence e Sandy viceversa si attardarono, coinvolti in un battibecco dopo che il primo aveva intimato al secondo di “smetterla di muoversi come una scimmia proboscidea”.

La via imboccata da Kibwe era fondamentalmente un vicolo cieco, ma i canali di circolazione dell’aria vantano l’esclusiva proprietà di beneficiare dei vicoli ciechi, dal momento che sarebbero un assurdo architettonico se non terminassero con una griglia. Attraverso quella a cui erano arrivati era possibile scorgere un’ampia stanza a forma di croce zeppa di console di comando a muro e sedie girevoli. Quattro Rotom la sorvegliavano, ma ciò non era di rilevanza per gli intrusi: loro non volevano accedervi, volevano individuarne il nome per risalire alla propria posizione nella struttura.

« Lo Studio Più, il centro di coordinamento radiofonico » lo identificò in un lampo Ginger « Non siamo lontani ».

Serena colse un tenue cenno nei propri confronti e slittò rapidamente sull’applicazione che mostrava la mappa dell’Antenna. « Sesto piano » annunciò « Siamo vicini al ponte per il secondo edificio ».

Esattamente mentre pronunciava tali parole il PSS tra le sue mani iniziò a vibrare. In uno spasmo dettato dalla sorpresa lanciò uno sguardo allo schermo: era una chiamata in arrivo. Il numero era visibile, ma esterno alla sua rubrica dal momento che non corrispondeva a nessun nome memorizzato. La ragazza alzò gli occhi prima verso Ginger e poi verso Kibwe, alla ricerca di un input su come comportarsi, ma nessuno dei due le fornì alcun aiuto. Che li avessero localizzati? Ma in tal caso perché telefonare? Perché non ucciderli? O magari era il contrario, magari volevano stanarli mediante la risposta alla chiamata.

« … Pronto? » sussurrò Serena, portando lo smartphone all’orecchio dopo essersi allontanata dalla grata per celarsi ai Rotom nella stanza di sotto.

Ginger non fu in grado di udire la risposta, ma chiunque fosse dall’altro capo doveva essere qualcuno di importante, perché la giovane era appena sbiancata. « Io chi? » fu il proseguimento del segmento di conversazione che poteva udire, e dopo poco si aggiunse un’ulteriore domanda « Come sei riuscito a chiamarmi? ».

La pausa susseguente fu al contrario inusitatamente prolungata, un duraturo monologo del telefonante in cui ben poche parole erano indovinabili nel fiume letterario che si stava rovesciando attraverso l’apparecchio nell’echeggiante condotto d’aria. L’espressione di Serena si fece dura e appesantita, come fosse invecchiata di anni nel giro di pochi istanti. « Ma così ti… Non posso fartelo fare » ribatté categorica all’ignota proposta perpetrata, e la replica dovette soffocarla ulteriormente dal momento che parve sul punto di piangere « Perché lo stai dicendo a me? ».

Quella fu l’ultima frase del dialogo. La ragazza abbassò il cellulare e lo osservò persa, il ritmo respiratorio che si intensificava. Poi, dopo una quiete densa di tensione, si rivolse all’Ufficiale Flare « Studio Più, hai detto? ». Ginger annuì, e ricevuta la conferma le passò il PSS con un basso lancio arcuato « Andate alla trasmittente ».

« E tu cosa fai? ».

« Una cosa che non posso dirvi ».

Kibwe, visibilmente irritato, abbozzò una protesta severa, ma Ginger lo interruppe prima che potesse parlare. Poteva anche apparire una classica donna di potere, di quelle fredde che non si fanno problemi a pestare piedi sul loro cammino – e nel subconscio amava pensare di esserlo ella stessa –, ma era perfettamente capace di interpretare le reazioni umane. Ma forse più di ogni altra cosa, avevano un solo conoscente comune che in una situazione simile avrebbe raccomandato di non divulgare il suo piano a nessuno. « Era lui, vero? » interrogò l’Allenatrice, e quando la risposta fu un segno affermativo indicò a sua volta a Kibwe di seguirla. « Terry, Sandy, con me » richiamò i due rimasti in disparte, rivolgendosi poi un’ultima volta alla sua alleata in quel momento di crisi « Fai ciò che devi ».

Serena, presto nuovamente sola come non si era sentita dalla sua breve meditazione sul terrazzo di Cornelius, si riaffacciò alla griglia quadrettata, consolata dal fatto che nessuno dei Rotom si fosse accorto di ciò che si era svolto qualche metro sopra le loro teste. E tra l’altro le teste nemmeno le hanno, pensò tra sé e sé mentre sfilava dalla cintura la Poké Ball contenente il Bulbasaur che Trovato le aveva ceduto al laboratorio di Platan. « Va bene, Uno, ora ho un lavoro anche per te. Pronto col Sonnifero » bisbigliò.

È buffo come singole locuzioni abbiano il potere di convincere o dissuadere da un’idea. Quando aveva chiesto “Perché lo stai dicendo a me?”, al telefono, si sarebbe attesa mille e più parole, o probabilmente un’allusione al loro reciproco affiatamento. Ma solo Bellocchio, il suo Bellocchio, quello che era scomparso due tramonti fa – quello che credeva scomparso –, avrebbe potuto rispondere nel modo con cui aveva effettivamente risposto. Solo lui avrebbe detto “Regola numero uno, giusto?”.

 

 

Dovunque si trovassero ora quegli estranei che avevano salvato Bellocchio e compagnia, la Fiamma Cremisi aveva dato la priorità alla loro cattura. Non erano alla spiaggia, questo era certo: si era recata con un plotone di Rotom sul posto solo per trovarlo vuoto, e il gruppo era stato sufficientemente furbo da cancellare le impronte dalla sabbia. Ora, nella sua naturale forma di Chandelure, il Pokémon fluttuava sopra i cieli di Altoripoli, adottando una visuale più ampia mentre i suoi sottoposti scandagliavano la città in fiamme. E fu lì che lo udì.

« Prova, prova, prova! Bellocchio a Dama Cremisi, ripeto, Bellocchio a Dama Cremisi! Mi sente? ».

Quella voce irritante le giunse stridula, facendole scalpitare un metaforico sangue nelle arterie « Bellocchio? ».

« Che attenta ascoltatrice! ».

Le modalità attraverso le quali l’uomo stava comunicando con lei erano oscure: il volume a cui parlava era decisamente alto – abbastanza perché un essere umano incapace di volare si facesse sentire a quella quota –, il che le impediva di primo acchito di individuarne la fonte. Proveniva dal borgo ai suoi piedi, questo era certo, ma era sapientemente dissimulata. « Dove sei… ».

« Non ti sei accorta della flagrante falla nel vostro progetto d’invasione? ».

In quel momento si accorse di una peculiarità che prima non aveva notato: un segnale statico che accompagnava gli intervalli tra una provocazione e l’altra. Parlava attraverso un allestimento acustico posizionato da qualche parte di sotto. I Rotom erano in fibrillazione, vagando disordinatamente nella zona aerea radente il terreno, e la Fiamma comprese che quello era esattamente il piano del suo avversario: voleva arruffare le file. « DOVE SEI! ».

« Nessuno butta i televisori! ».

Le parole di Bellocchio tintinnarono nel suo cervello di Chandelure. Per quanto si sforzasse, il modo in cui ciò costituisse una “flagrante falla” sfuggiva alla sua comprensione. « Che stai dicendo? ».

« Ti parlo da un meraviglioso impianto stereo a cinque canali in una elegante casa di Altoripoli. Non sapevo come trovarti, e questo mi è sembrato il modo migliore! ».

La Fiamma socchiuse gli occhi in un ghigno perverso « Grazie dell’informazione ».

« Dovere, signora. Che dici, vieni a vedere Breaking Bad con me? ».

« Perché vedi, c’è qualcosa che non sai sul Mondo dei Morti, da dove vengo io: è fondamentalmente buio ». Ridi finche puoi, pensò mentre riapriva gli occhi ardenti « Il che vuol dire che sono molto brava a distinguere i suoni! ».

Localizzata l’origine nella zona meridionale di Altoripoli si slanciò nella sua direzione, giungendo divampante su un piccolo condominio miracolosamente intatto. Fino a quel momento, se non altro, perché repentinamente scatenò su di esso il folgorante potere di una Fuocobomba mai tanto sentita come allora. Un’assordante deflagrazione seguì e una densa colonna di fumo nero si levò dall’edificio. Il timido rumore tremolante degli altoparlanti si interruppe, evidenza del fatto che non aveva mancato il bersaglio, e la mittente non trattenne un’esultazione. Mai mettersi contro la Fiamma––

« Cavolo, che esplosione! Dritta nelle mie trombe di Eustachio! ».

Chandelure si voltò incredula, faticando a mascherare un ringhio di nervosismo « Come… ? ».

« Avrei probabilmente dovuto menzionare il fatto che non ero esattamente lì, stavo solo usando le casse. Sono in onda sul primo canale, se ti interessa! ».

« COSA? ».

« Ti ho detto il punto debole, no? Non avete requisito i televisori. Mi sono introdotto in ogni schermo di Altoripoli, e tu non hai modo di rintracciarmi ».

« I televisori sono spenti, Bellocchio » ribatté la Fiamma, riacquisendo quantomeno una frazione dell’autocontrollo perso « Se sei tu che li accendi vuol dire che ti trovi nei paraggi ».

« Ben arguito, ben arguito. Ma qui viene la parte che preferisco, vedi… Sai cosa sto usando per accenderli? ».

« Le mani? ».

« Il P5S! » esclamò Bellocchio. La sua antagonista non aveva mai immaginato che un Chandelure potesse rabbrividire, ma negli attimi successivi ebbe la prova che ciò era possibile. « Bella sorpresa, vero? Abbassando l’intensità dell’onda superconduttiva montata da voi posso riattivare gli apparecchi che voglio ».

Il silenzio che derivò da quella rivelazione fu stupefacente per tutti, poiché era forse il primo reale istante di quiete da quando l’invasione era cominciata. I bombardamenti erano cessati e gli stessi soldati dell’esercito assistevano con sbalordimento a ciò che stava avvenendo. « Che c’è, non parli? Ah, scusa, non ti ho ringraziato! ».

La Fiamma Cremisi tacque ancora per poco, perché poi si profuse in una risata che tradiva tuttavia un velo di isterismo « Il fatto che usi il P5S non ti aiuta minimamente, Bellocchio! Ricorda che noi lo abbiamo programmato, e so benissimo che il suo raggio di azione è di un chilometro scarso! Dovrei essere io a ringraziarti, mi hai appena confermato la regione in cui ti trovi! ».

« Kalos, credo! » la sbeffeggiò lui « Però, ecco, credo che tu abbia trascurato un piccolo dettaglio ».

« Cioè? ».

« LE ONDE POSSONO ESSERE AMPLIFICATE! ».

Bellocchio, chiuso in una camera priva di finestre, provò a immaginare l’espressione della Fiamma in quel momento. E qualunque fosse sarebbe stata pienamente giustificata: quell’ultima frase le era giunta in polifonia da tutta Altoripoli. Ogni casa della cittadina stava trasmettendo il suo messaggio. « Sorpresa? » la canzonò parlando nel microfono del P5S « Dovresti sapere che ogni televisore ha un’antenna, no? Ogni volta che l’onda di induzione ne colpisce uno lo rende contemporaneamente un ripetitore che la invia ad altri. Effetto ragnatela, si può dire? ».

Chandelure sentì bruciare dentro di sé il disonore, una sensazione che aveva provato solo alla Maison Darbois nel corso della sua vita. E la circostanza era molto simile: non solo la stava sconfiggendo, ma lo stava facendo prostrandola.

« Beh, che hai intenzione di fare? Bombardare tutta la città? ».

« FORSE È QUELLO CHE FARÒ! » ruggì con tutta l’energia che aveva in corpo « A tutti i Rotom, priorità massima: aprite il fuoco. Voglio che ogni casa che produce questa voce ributtante venga rasa al suolo! ». I boati provocati dalle detonazioni si moltiplicarono, trasformando l’intera collina su cui Altoripoli era costruita in un massiccio campo di battaglia, ancor più critico della situazione già non idilliaca che lo precedeva. Eppure, nonostante il trambusto continuo che avrebbe assordato chiunque, riusciva ancora a udire un verso mai così indisponente: Bellocchio sghignazzava.

« CHE COSA RIDI? LI UCCIDERÒ TUTTI! ».

« Credi davvero che chi è ancora vivo se ne stia in casa? » controbatté lui, per nulla intimidito da quella dimostrazione di forza « Rido perché sei come me ».

« Cosa? ».

« Ho passato le ultime cinque ore a chiedermi che cosa fossi, ma finalmente ci sono arrivato. IO –– SONO ––».

Si interruppe, e la Fiamma pensò per un istante che uno degli attacchi che le milizie scagliavano al suolo lo avesse colto. La sue speranze furono però infrante in un battito di ciglia. « … un Pokémon! ».

Quella frase stordì Chandelure. Non aveva seguito sempre i suoi ragionamenti in quegli ultimi minuti, ma quell’assurdità era troppo anche per uno come lui.

« Un Pokémon che viene catturato! » proseguì Bellocchio, e dal suo nascondiglio prese tra le mani l’opuscolo pubblicitario trovato nel suo taccuino. Si era ritenuto un caso unico, e ciò l’aveva quasi stroncato, ma ora sapeva di non esserlo. I Pokémon erano sottoposti a riscrittura sinaptica, perdendo effettivamente i ricordi attivi alla cattura. Aveva cercato di trovare un paragone, e l’aveva sempre avuto sotto al naso. « Ogni giorno ricomincio da zero, imparando di nuovo la mia storia e mantenendo le memorie pregresse. E vivo alla giornata, senza preoccuparmi di ciò che sono stato e di ciò che sarò » spiegò alla sua avversaria, ma non c’era traccia di tristezza nelle sue parole. In fondo, se Nephtys riusciva a conviverci perché non avrebbe dovuto farlo lui? « Sono un Pokémon, e va bene così! ».

« Che cosa stai blaterando? ».

« Allora, cara la mia Dama » riprese l’uomo con tono di sfida « Sei pronta a vedere la tua invasione crollare come un castello di carte? Kalos non cadrà ».

La Fiamma ridacchiò, genuinamente divertita da quello che doveva essere evidentemente un bluff, oppure pazzia indotta. « E chi lo impedirà? ».

« Io, ovviamente ».

Ovviamente, ripeté tra sé e sé lo spettro. Nonostante le persistenti esplosioni la voce di quell’arrogante individuo non sembrava calare di intensità, il che significava che non avevano distrutto che una frazione degli impianti stereo di Altoripoli. « Un uomo in cappotto contro un esercito di Rotom. Immagino farai molto da solo ».

« Da solo? ».

Un suono si fece strada nell’aria. Era qualcosa di meccanico, innaturale, eppure stranamente familiare. La Fiamma Cremisi si voltò, cercando di capire che cosa fosse, e uno spettacolo maestoso si parò di fronte ai suoi occhi: un’inferriata di fasci di luce scarlatta diretti al cielo aveva circondato i quattro edifici dell’Antenna come una gabbia. Erano estremamente fitti, si sarebbe detto migliaia. « E questo cosa sarebbe? ».

« Te l’ho detto, sei come me: hai mancato la questione più ovvia. Come faccio a essere in onda? ».

Chandelure raggelò, un fatto inusuale per un candeliere. Adesso, a disfatta, iniziava a percepire uno a uno tutti gli errori che aveva commesso, come tanti guerrieri in riga che la deridevano. « Che… ».

« I miei amici sono al lavoro proprio all’Antenna. Serena si è occupata di mandarmi in televisione mentre una squadra scelta di scienziati Flare sta preparando la vostra disfatta » spiegò Bellocchio, avvicinando la bocca al P5S per assicurarsi di essere ben udito « Un lampo di corrente indotta che fulminerà tutti i Rotom in simultanea. Un nuovo sole ». Si concesse una pausa per assaporare il momento, poi soggiunse sprezzante « E tu per stanarmi hai chiamato tutti i tuoi soldatini, compresi quelli a guardia dell’edificio ».

« INTERROMPETE I BOMBARDAMENTI! » ordinò la Fiamma in preda al panico « TORNATE SUBITO ALL’ANTENNA! DISTRUGGETELA SE NECESSARIO! ».

« È tutto inutile ».

Per quanto detestasse accettare che avesse ragione, in quel caso non poteva contestare: tutti i Rotom che si scagliavano contro quella prigione rosseggiante rimbalzavano all’indietro, e neppure gli attacchi erano in grado di scalfirla. « CHE COS’HAI FATTO? ».

« Raggi repulsivi di Poké Ball. Lanciati al cielo che vi respingono, perché non riconoscono il vostro codice sinaptico. Sono pura energia, non potete infrangerli in alcun modo ». Bellocchio ripensò a Ginger, ora sperabilmente impegnata a fare la sua parte. In fondo l’idea era sua, anche se forse non lo sapeva: era stata lei a utilizzare la stessa tecnica per salvarli dalla collisione con un Rotom durante l’inseguimento con il finto Cornelius. Anche il suo caro spettro era con lui sotto le sembianze di Cornelius il pirata, avrebbe dovuto capire al volo.

E in effetti la diretta interessata aveva compreso il metodo, ma non l’applicazione: erano troppi. « Non avresti potuto attivarne così tanti senza essere notato. Tu non… ».

« Serena aveva anche un altro compito oltre a mandarmi in diretta televisiva, mia cara. Mentre giocavamo con te a nascondino un altro messaggio veniva inviato dall’Antenna. Un messaggio di raccolta per tutti gli altoripolesi, una chiamata alle armi ».

Chandelure ammutolì. Proprio sotto al suo naso aveva radunato i cittadini istruendoli perché difendessero l’Antenna? No. No, era impossibile. « Le televisioni erano tutte–– ».

« Via radio, Dama » la corresse il giovane « Ho usato lo stesso meccanismo in parallelo, ma molto più silenziosamente. Non te ne sei accorta, vero? Troppo impegnata a darmi la caccia per renderti conto che Kalos insorgeva contro di voi ». A rifletterci si poteva trovare anche un significato più mondano a ciò che si era verificato: la televisione aveva in generale soppiantato la radio in ogni casa, ma nel momento di crisi era stata la seconda a salvare la regione. Interessante, come sviluppo. Anzi, intrigante.

 

 

« Contatto! » esclamò Terence arretrando dopo aver attivato l’interruttore del commutatore di segnale « Inverti la corrente! ».

Kibwe, nonostante la sua mole non gli garantisse una particolare agilità, ribaltò la coppia di cavi infilati nel processore amministrativo con sorprendente rapidità. « Fatto! ».

« Sandy, cosa dice il multimetro? » domandò Ginger, gli occhi fissi sul display del P5S. La Cabina di Controllo, anfratto inerpicato sulla sommità del secondo edificio dell’Antenna, era stato abbandonato dai Rotom di pattuglia da un tempo relativamente breve, e ora loro quattro erano gli unici esseri viventi a risiedervi.

« Parametri in regola! ».

La donna inspirò profondamente e rilesse un’ultima volta la stringa di comando che aveva digitato dieci minuti prima e ricontrollato almeno venti volte, dopodiché la inviò con una singola pressione sul touch screen. Arretrò per osservare il lavoro nell’insieme, e altrettanto fecero i suoi colleghi. « O la va o la spacca » commentò, e per un attimo non accadde nulla.

Poi il nuovo sole si accese. Un lampo di luce bianca celò alla vista abbagliata dei presenti persino le inferriate fiammanti che avevano circondato la struttura. Nessuno di loro poté ammirare lo spettacolo allestito, ma a chi si fosse trovato sufficientemente in alto sarebbe apparsa una circonferenza luminosa che si estendeva lentamente su tutta la regione. Nessun ferito, al contrario di ciò che la loro Arma avrebbe provocato. Solo una vittoria indiscutibile, una che raramente era possibile sperimentare nel mondo reale. Pareva uscita da una storia di fantasia, una di quelle in cui gli eroi miracolosamente perdurano contro ogni avversità e trionfano sulle forze del male, lasciando che la pace si riappropri del mondo.

 

 

Serena, asserragliata qualche piano più in basso nel deserto Studio Più, era rimasta accecata dal fulgore dipanatosi e ancora la sua visione era inquinata da macchie multicolore sulle retine. Oltre a ciò provava anche una sensazione che aveva conosciuto solo in un giovedì nebbioso a Castel Vanità: era mezza sorda. La causa le fu presto chiara: dall’esterno provenivano grida inconsulte da parte dei Rotom fulminati all’interno degli elettrodomestici, ma già nella stanza in cui si trovava lei erano presenti i quattro spettri addormentati che avevano subito nel sonno l’influenza dell’Antenna. Come avevano previsto quei Pokémon non erano in grado di abitare apparecchi attivi, e la corrente indotta al loro interno era stata sufficiente per ucciderli di dolore. Esattamente ciò che era successo al loro commilitone nel televisore quando Jolteon lo aveva attaccato.

Si affacciò alla finestra, premendo le mani contro il vetro mentre le ultime luci prodotte dai rimasugli dell’esercito appassivano fino a spegnersi in un singolo fotone. La gabbia rossa intorno alla costruzione fece lo stesso, e mentre un fastidioso odoraccio di filamenti bruciati inaspriva la sala la quiete calò nuovamente. Quasi.

 

Ho incontrato te

su questo grande pianeta

 

Un attimo e c’è

prezioso incontro di vita

 

Serena stentava a crederci, eppure era sotto i suoi stessi occhi: stavano cantando. Non solo i solerti paladini della regione che erano accorsi per proteggere l’Antenna, ma tutta Altoripoli stava intonando Miracolo.

 

Miracolo è già

d’eterna immensità

 

Trovo te, trovi me

ha dell’incredibile!

 

Una lacrima scese dalle palpebre della ragazza rigandole la guancia. Man mano che i versi proseguivano sempre più voci si univano al coro, e a questo punto aveva pochi dubbi: cantavano ovunque, non solo lì. Avevano vinto. Non solo Bellocchio, non solo lei, non solo la Seconda Unità: avevano vinto tutti. Kalos era uscita indenne e compatta dalla sua ora più buia. E ora, giustamente, celebrava.

 

 

La Fiamma Cremisi si accasciò sull’asfalto, esausta. Intorno a lei, sotto le vampate di un fuoco ormai prossimo all’estinzione, dozzine di carcasse di Rotom popolavano la strada in cui era riversa. Anche lei, presto, non sarebbe stata altro che un candeliere in disuso. Lo sentiva.

 

Nel tempo di

questa vita mia

incontro la tua…

 

Un miracolo è già!

 

Alzò lo sguardo, intravedendo un uomo in cappotto nero con la manica sinistra lacerata che avanzava verso di lei. La sua andatura era lenta e cadenzata, a ritmo con l’orrendo inno che i sopravvissuti stavano cantando e in contrasto con il passo svelto che aveva esibito alla Maison Darbois. Il volto segnato dalla battaglia però non lasciava adito a dubbi: era Bellocchio.

« Come… » mormorò senza trovare le forze per affrontarlo a testa alta « Com’è possibile che non ti abbiano trovato… ».

« Non te l’ho detto? Sono molto bravo a travestirmi » replicò il giovane, ma pur trattandosi di una frase inerentemente canzonatoria il suo tono non trasudava il minimo divertimento. La squadrò dall’alto in basso, appurando che almeno in apparenza sembrava inerme. « Vorresti uccidermi? ».

« Dovrei, vero? » ribatté la Fiamma caricando ogni parola di un risentimento inaudito. Per un attimo parve volesse attaccare, poi rinunciò. « Non servirebbe ».

« Perché? ».

 

Nel tempo di

questa vita mia

incontro la tua…

 

Un miracolo è già!

 

Finalmente la sgradevole melodia si concluse, concedendo allo spettro la pietà che si osserva per lo sconfitto. « Li hai uccisi tutti. Centinaia di migliaia di Rotom sono morti ».

« Volevano invadere Kalos ».

« Oh, per favore, quanto sei stupido! » proruppe la Fiamma sdegnosa « Pensi che avessero una scelta? ». In un guizzo di vitalità soggiunse « Non avevano idea di cosa stessero facendo. Hai sterminato degli innocenti ».

Bellocchio la osservò. Per un attimo l’ipotesi che avesse ragione lo sfiorò, ma la scacciò rapidamente dalla mente. « Stai mentendo ».

La successiva risata di Chandelure fu un misto di boria e tormento. « A che pro? Il mio tempo è quasi scaduto ».

L’uomo la esaminò più attentamente. Il suo respiro era debole, e ogni parola che articolava sembrava pugnalarla per la fatica che vi profondeva. Eppure il nuovo sole non avrebbe dovuto avere alcun effetto su di lei. « Cosa dici? ».

« Credi che mi perdonerà? » lo interrogò, ma lo sbuffo sarcastico che seguì confermò che non era altro che una domanda retorica « Sono spacciata, Bellocchio ».

La rassegnazione dell’ultima frase era completa, e lo evidenziava il fatto che avesse impiegato per la prima volta quel nome. « Chi non ti perdonerà? ».

« No, no, non sono pronta! » gridò lei angosciata, conscia che se fosse stata in grado di piangere probabilmente ora l’avrebbe fatto « Non sono ancora pronta! ».

Bellocchio si affrettò a chinarsi accanto a lei. Era incerto su cosa dire, perciò decise di affidarsi all’istinto mentre si chiarificava cosa stesse avvenendo: qualcuno la stava uccidendo. « Io ti posso salvare, lo giuro. Ma devi dirmi chi. Chi c’è a capo di tutto questo? ».

« Bellocchio… Vecchio mio… » lamentò con un filo di voce la Fiamma Cremisi, guardandolo dritto nelle pupille. La sua espressione si impregnò di disprezzo nel giro di un istante, e con le energie rimanenti sibilò « Morirei piuttosto che aiutarti ».

La bocca dell’uomo si socchiuse. Avrebbe voluto parlare, ma lei non glielo avrebbe permesso. Le ultime parole prima della fine sarebbero state sue. E furono le più spietate che proferì mai, sature di tutto il rancore che provava nei suoi confronti. Che aveva sempre provato nei suoi confronti.

« Ti odio » sussurrò. I suoi bracci color pegola si ammorbidirono e caddero a terra con un tonfo, lasciando che le ormai smorzate lingue di fuoco su di essi si spegnessero. Trascorse qualche secondo soltanto prima che la medesima sorte spettasse alla perenne vampa cromatica incastonata nel globo di vetro che aveva funto da cranio per la Fiamma.

Vedi, vecchio mio, il punto forte degli spettri è che non muoiono”, aveva detto nemmeno un’ora prima. Quanto si era sbagliata.

 

 

Le onde del mare erano rilassanti. Lo schema metodico con cui si riversavano sulla sabbia oscura della spiaggia, protraendosi e poi ritirandosi timidamente all’interno del flutto successivo, era quasi l’emblema della ciclicità dell’universo.

Bellocchio stirò obliquamente la bocca in una smorfia, passandosi la mano sul tessuto del nuovo cappotto scuro che indossava – avendo sostituito quello precedente, monco della manica sinistra. Che discorso sgraziato, che discorso scientifico. Anche nella mente di uno come lui, con esperienza pressoché nulla di ciò che potesse o meno definirsi poetico, un ragionamento simile strideva sgradevole. Lui amava il mare perché ora, rimirando l’indistinguibile orizzonte perso nella flebile luce offerta dal cosmo, poteva quasi perdersi immaginando impossibili avventure. L’oceano lo commuoveva, in un certo senso. Gli faceva sperimentare una sensazione che il suo taccuino avrebbe definito malinconia. No, che lui avrebbe definito malinconia.

Si inoltrò tra i fini granuli che scivolavano sotto i suoi pesanti passi, lanciando un’occhiata al devoto orologio da polso. Tre minuti alle due di notte, e per proprietà transitiva all’incontro con il misterioso individuo. Quando aveva concordato con lui l’orario aveva tante domande da chiedere, ma ora non era più certo di volere le risposte. Non gli interessavano, sapeva chi era. Sapeva cosa era.

D’un tratto udì un rumore provenire da poco distante, e nell’istante che seguì scorse una silhouette che si muoveva ondeggiante tra le ombre. In una mossa fulminea sfilò il P5S usato per ingannare la Dama – di cui ormai si era illegittimamente appropriato – e ne attivò l’applicazione per renderlo una precaria torcia. Il fascio prodotto dal flash primario andò a incontrare la sagoma affusolata di una donna in bianco dai capelli ricci e rossi, la quale d’istinto alzò un braccio per coprirsi gli occhi.

« Anche tu qui » disse abbassando lo smartphone dopo aver disattivato l’illuminazione. Pur essendo sostanzialmente buio, l’irradiazione fornita dal firmamento era sufficiente a distinguere i connotati generici una volta identificati.

« A quanto pare… » commentò Ginger con un sorriso sbilenco « Aspetto qualcuno ».

Ma pensa, fu la prima reazione di Bellocchio alla notizia. Immediatamente dopo, tuttavia, quelle parole innescarono quel grande faro di nome coincidenza nella testa del giovane. Un secondo “ma pensa” gli ronzò nella testa, tuttavia questa volta la sorpresa aveva ceduto il passo al sospetto. « Per caso un vecchio alto dai capelli lunghi? ».

L’espressione sul volto della donna legittimò la sua diffidenza « Come lo sai? ».

« Perché sono qui per la stessa ragione ».

Ginger lo squadrò con uno sguardo interrogativo. Stava dicendo che erano lì perché invitati dalla stessa persona? Non ne vedeva la ragione. L’unica eventualità plausibile è che volesse parlare loro in contemporanea, ma allora non capiva i motivi di quell’atmosfera di segretezza. I suoi occhi si posarono sull’apparecchio avviluppato tra le dita del suo interlocutore. « Quello è un P5S? ».

Bellocchio lo osservò a sua volta, come volesse essere certo dell’oggetto del dialogo. « Sì ».

« Dammi qua ».

Per come lo afferrò si sarebbe detto che glielo avrebbe strappato di mano se il suo possessore non avesse acconsentito all’istante. Estrasse dalla tasca un cacciavite dalla base arancione e si lasciò cadere sulla sabbia, iniziando ad armeggiare con lo scomparto posteriore del telefono fino a rimuoverlo.

Bellocchio le si sedette accanto, tornando a contemplare il panorama in cui si era immerso in attesa dell’incontro prefissato. Anche i pochi, deboli incendi residui che aveva notato in precedenza adesso erano stati definitivamente spenti, sancendo la fine della lunga invasione. La quiete che ora regnava sovrana sarebbe stata impensabile solo qualche ora prima, eppure adesso sembrava talmente inscalfibile da apparire eterna. L’avevano considerata ovvia, scontata per molto tempo, eppure non era così. Persino l’immutabile ciclo delle onde può trasformarsi in un maremoto inarrestabile.

« Lo conoscevi prima? L’uomo, dico ».

Ginger scosse il capo, senza tuttavia distrarsi dal suo lavoro « Prima di oggi l’avevo visto una volta sola. Appena uscita dall’Antenna si è avvicinato e mi ha detto che aveva qualcosa di importante da dirmi. Però non poteva dirla subito, e avrei dovuto incontrarlo ora ».

L’uomo annuì sovrappensiero. In un certo senso una parte di sé si aspettava una replica simile, perché quella situazione era quasi totalmente analoga a come lui era venuto in contatto con il loro comune amico. Adesso era assolutamente convinto che non si trattasse di casualità.

« Sai che cos’è? » domandò la donna d’un tratto, agitandogli sotto il naso un microscopico cilindro metallico che doveva avere sradicato dall’interno del cellulare.

« Non un biscotto, immagino ».

« È un diodo di polarizzazione, quello che innescava le onde superconduttive. Kibwe ha analizzato il P5S di Terry e ha scoperto che, rimuovendo questo, è in tutto e per tutto uno smartphone regolare ». Impresse una traiettoria arcuata all’oggetto, facendolo atterrare dritto tra le mani di Bellocchio mentre lei con destrezza ricollocava il giravite nella tasca interna della sua uniforme imbrattata « Come nuovo ».

L’uomo esaminò il risultato con meraviglia « Grazie… Certo che ci sai fare, con la tecnologia ».

« Buttare sette anni su ingegneria ha qualche vantaggio » sorrise lei. In quell’istante si accorse che il giovane la stava osservando insistentemente da qualche minuto, come se stesse cercando qualcosa nella sua persona senza riuscire a trovarla. La sua espressione mutò impercettibilmente verso un crescente imbarazzo « Che c’è? ».

« Nulla, è che… Mi sembra di averti già vista, la tua faccia mi ricorda qualcosa. Il che è strano, per me » soggiunse alla fine della frase, pur sapendo che tale appendice avrebbe comunicato poco a orecchie diverse dalle sue.

Ginger ricambiò lo sguardo indagatore, poiché come spesso succede certi particolari si evidenziano solo dopo essere stati menzionati. Anche a lei pareva di aver già incrociato quel volto, quei lineamenti. « Ora che mi ci–– » cominciò, poi si interruppe colta da un’illuminazione « Borgo Bozzetto! ».

Il giovane la scrutò disorientato, ma nel frattempo l’ingegnera aveva già messo mano alla cintura per recuperare una Mega Ball celeste usurata dal tempo, a prima vista simile a quella di Faraday. Con un guizzo la lanciò in aria, lasciando che una sagoma luminosa ne fuoriuscisse per adagiarsi sulla morbida sabbia con le sei sottili zampe da insetto. I suoi occhi compositi erano tinti di sfumature scarlatte e le lunghe ali da libellula vibravano debolmente, producendo un lieve ronzio di sottofondo.

Bellocchio ammutolì, e mentre osservava quella figura tanto familiare intuì ciò che Ginger aveva compreso appena prima: lei era l’Allenatrice in bianco. Colei che aveva incontrato nel paesello di Serena in quel fatidico ventun marzo, colei con cui aveva effettuato lo scambio da cui aveva guadagnato Karen. E di fronte a lei ora si trovava Sheila, la sua fedele Yanmega dei tempi andati.

« Quanto tempo! » esclamò ricolmo di gioia correndo incontro al Pokémon per abbracciarlo. Che lui sapesse i coleotteri non erano soliti fare le fusa, ma il verso che la sua vecchia amica stava emettendo era tanto simile da potersi considerare l’eccezione alla regola. Mentre ancora la stringeva a sé con la coda dell’occhio si rivolse a Ginger, che non aveva distolto gli occhi da loro due. « Come ve la passate? ».

« Oh, bene. Anche se ho sempre avuto l’impressione che avesse uno spirito avventuroso. Ora che ti conosco capisco anche perché » rispose lei. Gli angoli della sua bocca si incresparono in un sorriso triste. Non c’era alcun dubbio che quella coppia avesse un affiatamento fuori dal comune, era sufficiente osservarli per coglierlo al volo. Non era in grado di definire l’emozione che provava in quel momento, ma si sarebbe detto quasi senso di colpa per avere inconsapevolmente sciolto una simile amicizia. « Se vuoi puoi riaverla ».

« No, no » rigettò rapidamente l’uomo « Abbiamo fatto il nostro tempo. Ce la siamo spassata. Ma è giusto che ognuno vada per la sua strada ». Lui ormai aveva Nephtys che poteva svolgere egregiamente il ruolo di gallinaceo svolazzante; ma soprattutto, anche se difficilmente lo avrebbe ammesso con piena coscienza, Sheila avrebbe condotto una vita più sana senza di lui. Dopotutto l’ultima volta la poveretta aveva dovuto incassare le fiamme di un Houndoom per proteggerlo, nonché trasportarlo fino a terra. Di certo non era una buona influenza. La sua mente vagò, tornando agli avvenimenti di quell’equinozio di primavera. « Quindi sei stata tu a darmi Ralts ».

« In persona ».

Bellocchio si alzò in piedi, non riuscendo più a sopportare il dolore alle rotule che la sua postura corrente gli provocava. Non era uno sedentario, questo era assodato. « Che cos’era la pietra che mi hai dato? ».

« La pietra? ».

« Con Ralts mi hai offerto anche una pietra rosa. Ha anche… delle tinte arcobaleno » rammentò l’uomo dopo una breve pausa.

« Ah, giusto… » annuì Ginger, tornando col pensiero al tempo di cui stavano discutendo « Non ho idea di cosa fosse. Quello là mi ha suggerito di offrirtela ».

« Quello là? ».

« Ralts non era mio » chiarificò la donna. « Ero al Borgo per dei rilevamenti e quell’uomo mi ha avvicinata. Il vecchio dai capelli lunghi di cui parlavamo » aggiunse poi « È lì che l’ho incontrato per la prima e unica volta fino a oggi. Mi ha regalato Pokémon e pietra, poi ti ha indicato mentre passavi per una delle strade e mi ha detto di offrirli a te per uno scambio. Onestamente non sapevo cosa pensare, credevo fosse una specie di regolamento di conti. Alla fine non ci avrei perso niente, quindi ho accettato ».

Bellocchio sussultò. La vicenda assumeva connotati sempre più foschi a ogni parola a riguardo che veniva proferita: chiunque fosse quell’individuo aveva indirettamente procurato a Serena l’enigmatica gemma che aveva loro salvato la vita in due distinte occasioni – e stando alle parole di Saul McGill, anch’essa come i frammenti di cui lui era in possesso doveva essere collegata alla Meridiana di Fluxopoli. Inoltre, anche se non poteva esserne certo, sospettava che sempre l’ignoto benefattore avesse introdotto il P5S nella tasca del suo cappotto perché lo trovasse e potesse salvare Kalos.

Cosa ancor più preoccupante, il vecchio sapeva chi era. Era stata la prima faccia che aveva visto dopo il tramonto, ed era stato lui a passargli le informazioni di base per sopravvivere finché non avesse ritrovato Serena. E, dulcis in fundo, aveva per qualche ragione arrangiato l’incontro con Ginger che si stava svolgendo, dato che ormai poteva asserire con pochi dubbi che non si sarebbe presentato all’appuntamento. Aveva giocato un ruolo determinante nella sua vita recente, e non aveva idea di chi fosse.

L’ingegnera parve quasi leggere i suoi pensieri, poiché dal basso verso l’alto gli domandò « Quindi non lo conoscevi? ».

« Non lo so » rispose lui mangiucchiandosi l’unghia del pollice « È una lunga storia ».

« Come quella del nome? » gli domandò lei con un tono sottilmente canzonatorio.

« Il nome? ».

« Quando il pirata e i Rotom ci minacciavano hai detto qualcosa sul tuo nome, su come li avrebbe fermati » spiegò Ginger.

L’uomo comprese e assentì con un cenno del capo. « Bellocchio non è il mio vero nome » disse, e ignorando l’espressione da “ma non mi dire” della sua interlocutrice proseguì « Quello vero è legato a un avvenimento importante che coinvolse tempo fa tutti gli spettri che ho incontrato finora. Di solito mi basta rivelarglielo per farli fuggire terrorizzati ».

« Che avvenimento? ».

Bellocchio indugiò. « Non posso dirtelo » rispose, ma in realtà era un’evidente bugia. La realtà era che non ne aveva idea, perché sul taccuino non era scritto. Era una delle prime notizie fornite da esso, ma nessuna giustificazione era data. « Ma è stato qualcosa di brutto, di molto brutto. Mi odiano. La Dama Cremisi… ».

Si interruppe nuovamente. Le sue ultime, rappresentative parole prima di morire erano state ti odio. Pronunciate con uno spregio, un rancore tale che forse lui stesso non voleva sapere cosa gli avesse guadagnato una tale reputazione negativa. Qualsiasi cosa avesse fatto, l’idea che bastasse identificarsi come l’autore – senza tra l’altro provvedere prove tangibili – per metterla in fuga lo faceva rabbrividire.

E oltre a tutto ciò, adesso che la sua vecchia avversaria aveva lasciato il loro mondo non avrebbe mai saputo perché avesse tenuto sotto controllo Serena dalla Maison Darbois. Anche se, considerando che aveva preferito perire che farsi aiutare da lui, difficilmente glielo avrebbe estorto in qualunque caso. Però non era stata una sua idea, di questo era sicuro: qualcun altro l’aveva messa lì. Forse lo stesso che l’aveva assassinata qualche ora prima.

« Are you hanging up a stocking on your wall… ».

La suoneria del PSS di Ginger – o meglio del suo sostituto rimediato tra le riserve rimaste invendute – risultò rintronante nella quiete che aveva regnato fino all’istante prima, ma l’ingegnera fu svelta abbastanza da arrestare la canzone al primo verso e rispondere. La telefonata non durò a lungo, limitandosi perlopiù a scambi rapidi di monosillabi tra le persone coinvolte; tuttavia Bellocchio intercettò più di un termine scientifico a lui ignoto, segno che dall’altro capo si trovava probabilmente il resto della Seconda Unità.

Al termine del breve dialogo la donna tardò a reagire, contemplando il mare tenebroso quasi fosse l’ultima volta in cui avrebbe potuto farlo. Dopodiché, senza aprir bocca, scattò in piedi e iniziò ad allontanarsi verso la collina di Altoripoli.

Bellocchio le si accodò, cercando di carpirne informazioni « Che succede? ».

« Novità sulle lettere ».

Le parole risuonarono vuote nella testa del giovane, certo di non aver udito o letto nulla che potesse darvi un significato. Era però da tener conto che la sua mente era impossibilitata a lavorare al meglio a causa degli alti ritmi di cammino dell’Ufficiale. « Le lettere? ».

« Non le conosci? » domandò Ginger sorpresa, rallentando il passo perché il suo amico potesse raggiungerla « Da qualche giorno diverse persone a Kalos sognano due lettere. Nessuno ricorda il sogno in sé, ma tutti sanno di averle in testa. Ad Altoripoli c’era una concentrazione anomala di segnalazioni a riguardo, per questo siamo venuti qui ». Tra una frase e l’altra controllava febbrilmente il PSS, accertandosi che non vi fossero novità « Sandy ha scoperto da dove venivano ».

« Ovvero? ».

« Radiazioni sinaptiche, esattamente come quelle prodotte dalle Poké Ball. Lo sappiamo perché da quando hai organizzato la gabbia attorno all’Antenna si sono intensificate. Secondo Sandy alcuni riescono ad avvertirle anche da svegli ».

Bellocchio ricordò l’opuscolo che aveva trovato nel taccuino: le Poké Ball utilizzavano radiazioni sinaptiche per rabbonire i Pokémon ostili alla cattura. Se in seguito a una loro attivazione massiccia gli effetti si erano intensificati, la spiegazione logica era una sola. « Le Ball hanno funto da amplificatore ».

« Esatto » confermò Ginger « Ora ne basteranno tre sufficientemente lontane per triangolare il segnale e risalire alla fonte ».

« E che lettere sono? ».

« Due consonanti, L e K. Non chiedermi perché quelle, però ». La donna iniziava a patire lo sforzo che compiva per sollevare i piedi dopo che si infossavano nella sabbia, ma anziché frenare lo colse come stimolo per aumentare la velocità. Dopo qualche metro, nondimeno, fu indotta a fermarsi: al suo fianco non c’era più nessuno.

Si voltò, trovando che l’uomo accanto a lei fino ad allora si era impalato al suolo, scrutando l’aria come se avesse intravisto un fantasma. « Tutto bene? » gli domandò avvicinandosi, approfittando per riprendere fiato.

Bellocchio era in completa trance. Quelle due lettere… Le conosceva bene, davvero troppo bene. Le aveva viste due volte in quella giornata. In un’occasione sul foglio che il vecchio gli aveva fornito appena svegliatosi all’interno dell’Antenna, quello provvisorio; nella seconda proprio nel suo blocco delle memorie. Sulla prima pagina.

« LK è il mio nome ».

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** 1x31 - Il pianeta nero ***


Untitled 1

PREVIOUSLY ON LKNA: i Rotom sono stati fermati. La regione di Kalos è stata salvata. Bellocchio ha riacquistato la sua naturale confidenza. La Fiamma Cremisi è morta. La battaglia è vinta, ma non la guerra: un silenzioso burattinaio muove i fili dei principali artefici del trionfo, e nulla è come sembra. Tutto ha un inizio e una fine, ma la fine non è ancora giunta.

 

 

 

 

 

 

Emma si accarezzò delicatamente la rotonda pancia gravida che da ormai quattro mesi le affliggeva la schiena. I suoi occhi balenarono da una fessura all’altra della parete rocciosa che sorreggeva figurativamente la strumentazione. Gli spigolosi contorni della pietra furono per un istante offuscati dal fiato che si condensava appena fuoriuscito dalla bocca, ma ormai era giunta a conoscerli tanto bene che non faceva alcuna differenza.

Aveva freddo, più di altri giorni. La caverna in linea di massima non era un luogo temperato, ma la sensazione che provava in quel momento era diversa. Era come se una stufa si fosse spenta, come se una sorgente di calore fosse stata recisa. Dal momento che, eccettuato il generatore a caduta perpetua che avevano assemblato all’inizio della loro permanenza, le uniche caldaie erano gli esseri umani che vivevano con lei, quando udì i passi di suo marito non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che le sue mani erano sporche di sangue.

Erano in quattro, all’inizio di quell’inferno. Dopo la morte di Fred, avvenuta con certezza per uno di loro, Pierre non aveva quasi chiuso occhio per lo stato di allerta in cui era precipitato. Sospettava di Alex, ma Emma non aveva voluto credere che la sua anima gemella si fosse macchiata di un atto simile. Poi erano venute le minacce notturne, i deliri, il folle desiderio di andarsene a ogni costo. Alla fine aveva dovuto trattenere a forza le lacrime mentre, presa coscienza del fatto di aver sposato un mostro, aveva accordato al suo collega il permesso di ucciderlo. Aveva dato per scontato che, ben piazzato com’era, Pierre non avrebbe riscontrato problemi nel compiere ciò che andava fatto. Ma aveva sottovalutato quanto un pazzo come Alex potesse aggrapparsi alla vita.

« Quanto manca? ».

Emma avvertì le proprie forze lasciarla alla realizzazione che l’uomo che un tempo l’aveva tanto amata ora le si stesse rivolgendo come si parla a un macellaio. « Poco » singhiozzò, abbassando lo sguardo all’incubatrice umana in cui il suo futuro figlio riposava placido. C’era uno specchio da bagno appoggiato sulla scrivania, un’idea di Pierre per accertarsi di non essere colti alla sprovvista, ma lei non aveva il coraggio di guardarlo. Voleva ricordare Alex per colui che era, non per ciò in cui si era trasformato.

« Entra nello Scissore ».

« Per favore–– ».

« Non mi servi cosciente » la interruppe secco in una ben poco velata minaccia « Mi basti viva ».

« Logan morirà. Morirò io, e lui con me. Non riuscirai mai a stabilizzarlo » Emma tentò di mantenere un tono professionale, sperando che ciò potesse convincere suo marito che lei fosse nel giusto « E lo sai anche tu ».

« Morirà comunque quando le provviste finiranno ».

« No. No, se noi potessimo–– ».

« Io non morirò qui! » ruggì Alex in un impeto d’ira « Non dopo tutto quello che ho fatto! Ho ancora troppo da dare alla scienza, non posso! ».

« Basta, basta, basta! » esclamò Emma tra le lacrime, stringendosi al ripiano su cui si appoggiava per non collassare definitivamente « Il Pianeta Nero è finito! Siamo rimasti solo noi! Ed è di tuo figlio che parliamo! ».

« IO SONO IL PIANETA NERO! » sbraitò lo scienziato con voce gutturale. Emma non era più nemmeno certa che fosse lui a parlare. Era l’istinto di sopravvivenza, o forse un disturbo mentale, ma non certo il logico cervello che era sempre stato il vanto del suo uomo.

« Ricordati che ti ho amato » mormorò dopo un lungo silenzio, e quello fu l’ultimo pensiero che le attraversò la mente prima di essere stordita per non risvegliarsi più.

 

 

« LK è il mio nome ».

Ginger indagò negli occhi dell’uomo alla ricerca di un lampo che tradisse una spiritosaggine fuori luogo, ma non ne trovò traccia. « Ma… LK non è un nome, sono due lettere ».

« Dimmi qualcosa che non sappia già » ribatté asciutto Bellocchio, riprendendo a falciare la sabbia con i piedi « Stavamo camminando, giusto? ».

La donna gli si accodò, non interrompendo tuttavia neppure per un istante le sue ponderazioni interiori. « Ma non… Non ha senso… ».

« Ascolta » si impose il giovane arrestandosi nuovamente, più che deciso a chiarire la questione prima che si protraesse troppo a lungo « Non posso spiegartelo ora, ma non ho la minima certezza che sia il mio nome. Fatto sta che non ha importanza, perché è un nome collegato a me, e perché a quanto pare tutta Kalos lo sogna di notte. Abbiamo altre priorità ».

Ginger annuì, e parallelamente il PSS nella sua mano emise un cinguettio improvviso. Con uno sguardo rapido l’ingegnera verificò che si trattava di un messaggio inviato da Terence, e una volta lettolo la sua voce assunse un tono febbricitante. « Hanno localizzato il segnale. Percorso 8 ».

« Avverto Serena » stabilì immediatamente Bellocchio.

La sua proposta andò incontro al consenso indiscusso dell’Ufficiale Flare, ben conscia che visto l’attacco su larga scala perpetrato quella notte avrebbe avuto bisogno di tutto l’aiuto possibile. « Raggiungo i miei. Ci vediamo all’imbocco tra un quarto d’ora ».

 

 

L’edificio che ospitava l’appartamento di Cornelius, per la sua posizione privilegiata in cima alla collina, era stato uno dei pochi a sopravvivere alla falange di Rotom destinata ad Altoripoli. Il tetto non era stato incendiato, le mura non erano state abbattute e nessuna esplosione ne aveva minato le fondamenta. In mezzo a molti profughi che avevano affollato i Centri Pokémon, Serena era stata una delle poche a poter vantare un giaciglio proprio. Bellocchio le aveva telefonato dalla spiaggia, ma doveva essere immersa nel sonno dal momento che non aveva risposto.

Così, mentre girava la toppa con il fiato corto per la corsa dal lido all’abitazione, l’uomo vagliò le possibilità per destarla che risultassero meno inopportune, avendone scartate circa un terzo quando la serratura scattò. Una volta dentro i suoi occhi non faticarono nell’adattarsi all’oscurità, dal momento che l’unica luce durante il viaggio era stata il fioco bagliore dei lampioni cittadini. Ebbe quindi modo di constatare che la sua cernita si era rivelata superflua: Serena non era lì.

Si aggirò per l’alloggio alla sua ricerca, avendo cura di non svegliare il proprietario, ma della sua amica non c’era traccia. Il divano-letto era sfatto, le lenzuola primaverili sgualcite e tirate da un lato, ma nessuno si trovava sotto o sopra di esse. Bellocchio rammentò dell’insonnia che la ragazza aveva accusato la notte prima, memore delle informazioni fornite da Ginger sui sogni infelici di svariati abitanti di Kalos. Se l’influenza delle lettere si era amplificata come sosteneva, forse Serena non riuscendo a dormire si era recata a fare due passi. Provò a telefonarle di nuovo, ma questa volta fu sufficiente un singolo squillo.

Una vibrazione si insinuò nella stanza, il suono di un oggetto che tremava in una tasca. Gli occhi del giovane balzarono sulla giacca nera della ragazza, nel cui scomparto esteriore destro il PSS di lei riceveva inutilmente la chiamata. Sull’indumento, penzolante da un lato, la cintura con le sfere di Ralts e Bulbasaur.

Serena non era uscita. Era stata rapita.

 

 

 

Episodio 1x31

Il pianeta nero

 

 

 

La stazione di Altoripoli non si poteva definire all’avanguardia. Sostanzialmente era consta di un’unica struttura fatiscente, dalle decorazioni applicate qualche secolo prima e ormai in larga parte scrostate. La Seconda Unità Flare era appostata sotto la copertura in cemento che si protendeva dal basso edificio a ridosso dei binari adagiati sulla ghisa, all’interno della quale chiazze verdognole di piante parassite si confondevano nella luce gialliccia dei lampioni. Sandy, in piedi sul ciglio della piattaforma, osservava in lontananza le linee metalliche su cui scorrevano i treni convergere secondo le regole prospettiche; non molto lontano Kibwe esaminava con poca attenzione gli orari segnalati su un manifesto a muro; Ginger e Terence erano posizionati accanto a lui e da qualche minuto confabulavano animatamente.

« Quindi di base la triangolazione è ottimizzata » concluse il matematico al termine di una lunga delucidazione. Nella mano destra protratta in avanti reggeva una Poké Ball dalla copertura scarlatta rimossa, particolare che ne rivelava la configurazione interna.

« Gran bel lavoro » si congratulò l’ingegnera.

Sandy, udita l’ultima frase dalla distanza, aggiunse con un mezzo sorriso « Kibwe ha incapsulato al volo una derivata di MyBall per migliorare l’efficienza computazionale ».

« Non perdi mai tempo per dare il merito ad altri, vero? » ribatté Terence asciutto.

« Ho solo virtualizzato uno dei metodi per correggerlo » precisò con modestia Kibwe. Di fatto gli era stato sufficiente impiegare l’estrapolazione di Richardson per fare scalare l’errore di troncamento. Questioni da secondo anno di studi, ma nella classe madre non era presente un metodo simile in quanto, comprensibilmente, una Poké Ball non è pensata per rintracciare radiazioni sinaptiche.

« Perfetto » commentò Ginger. « Perfetto, ora… » cercò di proseguire, ma fu interrotta da un rumore di passi secchi sul terreno. Al lume del fanale issato su uno dei pali si rivelò la sagoma slanciata di Bellocchio, ancora parzialmente immersa nell’ombra. Forse anche per questo il suo sguardo appariva più cupo del solito, quasi chiuso ermeticamente nel buio.

« Ci hai messo più di quanto pensassi! » fece notare l’Ufficiale, e quelle parole le rammentarono la ragione per cui l’uomo si era assentato in primo luogo « Dov’è Serena? ».

« L’hanno presa ».

Il silenzio che seguì sarebbe parso a prima vista imbarazzante, ma era in realtà alquanto diverso. Nessuno dei presenti provava disagio, semplicemente non avevano idea di come reagire di fronte a un’affermazione tanto improvvisa e stratificata. Esternare il proprio dispiacere? Chiedere chiarimenti? Ogni risposta sembrava trascurare una sfaccettatura della situazione risultando inadeguata. Alla fine fu Ginger a prendere le redini, come spesso soleva fare.

« Terry… Fai strada » borbottò sconvolta, facendo cenno agli altri di andarsene e rintracciare il segnale – un’imposizione a cui i suoi sottoposti obbedirono con gratitudine. Mentre gli scienziati scivolavano nel lido antistante la stazione e si dirigevano a sud, lei e il suo amico, se così si poteva definire, si ritrovarono soli accanto alle taciturne rotaie. « Che vuol dire? ».

« Non è da Cornelius » spiegò Bellocchio.

« Potrebbe essere uscita… ».

« Le Poké Ball e il PSS erano ancora lì ». La sua voce usciva rapida e concisa dalla bocca, sottraendo ben poco spazio al cullante crepitio delle onde. Nel mese che aveva trascorso con la ragazza non l’aveva mai vista senza. Le sue labbra si dischiusero per un istante, ma qualsiasi frase volesse pronunciare non vide mai la luce e, non una parola proferita, si allontanò verso la spiaggia.

Ginger si accodò, fallendo nell’individuare i suoi colleghi nell’oscurità. Non potevano averli distanziati di molto, quindi probabilmente erano solo stacanovisticamente taciturni. Considerando che Sandy e Terry erano a pochi metri, si poteva considerare un mezzo miracolo. « Ma chi l’ha presa? ».

« L’hai sentita, la Dama Cremisi » replicò Bellocchio « Parlava di qualcun altro all’opera, qualcuno di più potente ».

« Teorie? ».

« Zero. Chiunque fosse ha ucciso la Dama a distanza, e non conosco nessuno in grado di farlo ».

« Perché dai per scontato di conoscerlo? » chiese Ginger.

Il giovane corrucciò lo sguardo « Perché sta trasmettendo il mio nome ». I suoi occhi vagarono nello spazio circostante: avevano varcato i confini di Altoripoli e ora si stavano inoltrando nella costa del Percorso 8. Alla sinistra, celata nella muraglia litoranea, probabilmente doveva trovarsi l’uscita della Trait d’Union da cui era transitato per giungere alla città. Era trascorso poco più di un giorno, ma un giorno era più di quanto lui fosse in grado di ricordare.

« E poi ha rapito Serena ».

Bellocchio scosse il capo, riprendendo contatto con la realtà. « Cioè? ».

« Non è una persona importante » articolò Ginger « Se hanno scelto lei è facile che l’abbiano fatto per arrivare a te ».

« Vuoi dire che… ».

« … potrebbe essere una trappola, sì ».

L’uomo deglutì nervosamente. Non ci aveva pensato, o forse l’aveva fatto e rimosso, ma in tal caso Serena sarebbe stata rapita per colpa sua. « No, no, che idea… Avevano accesso facile alla casa di Cornelius, perché non prendere me direttamente? ».

« Non sto dicendo di sapere la verità » lo avvertì la donna « Ma non abbassare la guardia ».

In quel momento i restanti membri dell’Unità tornarono visibili per una combinazione di occhi abituati alla scarsa illuminazione e riduzione della distanza tra i due gruppi. Terence guidava la spedizione con la testa china sulla Poké Ball, e dal momento che non sembrava rallentare non avevano ancora raggiunto il loro obiettivo.

Bellocchio aveva un’ipotesi sul perché Serena fosse stata presa: la sua amica era più importante di quanto sembrasse. In fin dei conti la Dama Cremisi l’aveva tenuta sotto osservazione per conto di qualcuno, anche se non ne sapeva il motivo. « Non lo so ».

« Come? » domandò Ginger colta alla sprovvista.

« Mi hai chiesto come possa avere un nome di sole due lettere, e la risposta è che non lo so. È il nome collegato a ciò che ho fatto agli spettri, ed è tutto ciò che so a riguardo ».

L’ingegnera ridacchiò tra sé e sé « Ma scusa, non conosci l’origine del tuo stesso nome? ».

« È difficile da spiegare ».

« Con te è sempre difficile, vero? ».

Seguì qualche minuto di tranquillità che lasciò l’uomo a ponderare. Non c’era cattiveria nelle parole dell’Ufficiale, anzi, era una inconsapevolmente lucida analisi sulla sua condizione attuale. Con lui nulla era mai facile, ma nemmeno per lui.

Le sue riflessioni furono interrotte da Terence, che andò loro incontro dopo averli preceduti fino a quel momento. « Capolinea ».

« Che significa? » lo interpellò Ginger.

« Significa che ci siamo. Il massimo della traccia sinaptica è qua ».

La donna si scostò i capelli rossi dal volto. Afferrò con la mano destra il PSS, attivandone il flash perché fungesse da torcia, e studiò con esso l’ambiente. Il settore in cui si erano fermati non aveva nulla di particolare a distinguerlo dal resto del Percorso: ogni aspetto, dalla scogliera alla sabbia all’oceano stesso, era analogo a ciò che si sarebbe rinvenuto dieci metri indietro o avanti. « Ma qui non c’è nulla ».

« Non posso migliorare i risultati senza incorrere in problemi di round-off. Siamo al limite di risoluzione » la informò Kibwe, ricongiuntosi al gruppo insieme a Sandy.

« Scusate, che cosa stiamo cercando? » intervenne Bellocchio. La sua ingerenza gli fruttò un’occhiataccia da parte di Kibwe e Terence, che a quanto pare mostravano poca clemenza per chi non era al loro livello di esperienza.

« L’origine del segnale, direi, tipo un’antenna. Considerato la zona possiamo sperare al massimo in una grotta, però » glossò Ginger perplessa « Terry, sei proprio convinto che questo sia il massimo? ».

Il matematico si apprestò a reagire risentito per essere stato messo in discussione, ma Sandy lo anticipò deviando il discorso « Possiamo usare le foto satellitari e perlustrare la zona dall’alto ».

« Chiama Sheila ».

La donna si voltò verso Bellocchio, che non sembrava essere minimamente intimidito dalle attitudini ostili dei suoi colleghi e aveva pronunciato quelle parole con la massima sicurezza. « Chi? ».

« La mia Yanmega, falla uscire ».

Ginger la ritenne una richiesta quantomeno curiosa, ma concluse che non aveva ragione di negargliela e rilasciò il Pokémon. Il giovane vi si avvicinò e sussurrò qualcosa con un filo di voce prima di rialzarsi e allontanarsi nuovamente. Il coleottero si levò in volo e, stabilizzatosi, sembrò fermarsi per fluttuare senza scopo nell’aria.

D’improvviso l’ingegnera avvertì un attacco di nausea senza che nulla lo avesse preannunciato. Istintivamente arretrò di un passo, ma appoggiò il piede in maniera scorretta e scivolò sulla sabbia, salvandosi da una brutta caduta solo grazie al pronto intervento di Bellocchio che la afferrò tra le braccia. Quest’ultimo con la coda dell’occhio notò che anche gli altri membri dei Flare stavano patendo effetti simili. « Non muovetevi » consigliò « Peggiora solo le cose ».

« Che… che cos’è? » balbettò Terence innervosito.

« Supersuono. Sheila sta usando onde supersoniche per mappare l’area senza usare la luce » spiegò l’Allenatore con un sorriso. In quell’istante Yanmega si profuse in un verso d’avviso e il ritmo del suo battito d’ali aumentò mentre si dirigeva lentamente verso un punto della cinta rocciosa.

« E ora? » domandò l’Ufficiale.

« Ha trovato qualcosa ». Bellocchio prese in mano il proprio PSS e, dopo esserlo rigirato tra le dita, ne attivò l’illuminazione posteriore e si avviò verso la sua vecchia amica. Per sua fortuna nella parete non mancavano appigli viabili per una scalata e, senza molti patemi e rimediando solo una debole sfregatura al palmo sinistro, giunse all’altezza desiderata.

« Che cosa c’è? » gli gridò da terra Ginger.

L’uomo si concesse qualche istante per analizzare il luogo individuato: si trattava di una piccola insenatura nella muraglia, larga appena qualche metro quadro. Era fondamentalmente spoglia, salvo per un’apertura nella pietra alta un paio di metri che assorbiva tutta la luce che vi entrava. Un’antenna o una grotta, aveva teorizzato la scienziata poco prima. Beh, di certo quella non era un’antenna.

 

 

Trasportare i Flare non fu un problema per Yanmega, il che fu una fortuna poiché, fatta eccezione per Kibwe, difficilmente sarebbero riusciti a ricalcare il percorso di Bellocchio. La fedele compagna di avventure dell’uomo si avvicendò poi con un Pokémon più adatto all’ambiente in cui stavano per inoltrarsi: Faraday, il Jolteon di Ginger, utile in quanto poteva vantare un Flash di notevole brillanza.

La caverna che avevano rinvenuto all’interno della scogliera era infatti priva di illuminazione, il che rendeva impossibile stimarne le dimensioni; tuttavia, a giudicare dal periodo di ritorno dell’eco, si parlava di almeno decine di chilometri di lunghezza. Le temperature non erano ostili, in linea con l’esterno se si eccettuavano le correnti d’aria all’ingresso, e almeno per il momento nessuno era stato attaccato da Pokémon selvatici di sorta. Per i primi metri il gruppo si era dovuto calare con attenzione lungo una fiancata scoscesa, ritrovandosi in uno stretto corridoio ciottoloso. Qui si erano imbattuti nella prima bizzarria del luogo: un grumo di protuberanze cristalline color latte di impressionanti dimensioni che connettevano terreno e soffitto della cava. Nessuno dei presenti era un geologo, di conseguenza la loro natura non era stata identificata, ma Sandy aveva stabilito che doveva trattarsi di un minerale a reticolo esagonale.

La serie di colonne oblique proseguiva per l’intera lunghezza dell’androne naturale, al termine del quale il collo di bottiglia si apriva in un mastodontico secondo ambiente. Se prima il bagliore di Faraday si perdeva in lontananza, qui non incrociava nulla che non fosse il terreno sotto i piedi: la stanza era estesa in ogni direzione ed era impossibile anche solo scorgerne i confini, persino al massimo dello sforzo della volpe. Fino a quel momento la spedizione era avanzata seguendo indicazioni forzate, adesso nulla raccomandava la direzione da scegliere.

« Fate attenzione a dove mettete i piedi » si raccomandò Ginger. Le sue pupille saettavano da un punto all’altro delle tenebre indefinite, cercando in vano un appiglio orientativo. « Quando si dice più grande all’interno ».

« Qua dentro prenderà la rete? » mugugnò Kibwe tra sé e sé.

« Posso verificare » ribatté prontamente Sandy, imbracciando il suo PSS « Connessione discreta, direi ».

« Puoi cercare qualcosa su grotte nei paraggi? ».

Ginger si intromise nel dialogo « Non ti torna qualcosa? ».

L’informatico indicò con un cenno del capo l’ampia zona vuota che sovrastava le loro teste « Non vediamo il soffitto. Qua sopra dovrebbe esserci la Trait d’Union, ma se così fosse dovremmo vedere una parete ».

L’Ufficiale annuì, comprendendo i dubbi del suo collega, e si rivolse a Terence « Il segnale com’è? ».

L’uomo si era per la verità scordato del compito che gli era stato assegnato in quella missione. Abbassò gli occhi sulla Poké Ball in dotazione, dapprima pigramente, poi con un’espressione che sconfinava nello stupore. La scosse leggermente con un lieve imbarazzo, quindi confermò la lettura dei dati « Kaputt ».

Ginger inarcò le sopracciglia « Come? ».

« Non rilevo nulla. La sfera è del tutto muta ».

« Forse il segnale è schermato qua dentro » propose Sandy senza distogliere lo sguardo dal display dello smartphone.

« O forse è troppo forte » ipotizzò Bellocchio.

« Se stesse saturando il ricevitore lo sentiremmo » rispose Ginger scettica « Quel segnale invia le lettere dritte al nostro cervello ».

« Allora forse qualcos’altro lo sta coprendo ».

« Lascia la scienza agli scienziati, Archimede » lo zittì sprezzante Terence, il quale diresse poi la propria attenzione al suo compagno astronomo « Uomo-scimmia, allora? ».

« Escludendo la Trait d’Union e qualche notizia di frane, non trovo nulla che riguardi questo posto ».

« Una caverna di queste dimensioni e nessuno la conosce? » commentò l’Ufficiale, sospettosa più di prima.

« C’è sempre qualcosa da imparare. Scusa, potresti dire a Faraday di affievolirsi un attimo? Leggere questo schermo non è facile ». Sandy portò la mano libera alla fronte per coprire la forte illuminazione del Pokémon elettrico e arretrò di qualche passo. Effettuò un quarto di giro con l’intenzione di usare la sua stessa ombra per coprire l’eccesso di luce, ma incespicò sul suo piede e si ritrovò a perdere l’equilibrio. Solo in quel momento l’anziano uomo di cultura si rese conto di trovarsi sul ciglio di un precipizio.

Bellocchio fu il primo a realizzare l’imminente pericolo e il primo a scattare verso il Flare per aiutarlo, afferrandolo per l’avambraccio destro. Fortunatamente il suo istinto sembrava abituato a questo genere di reazioni, poiché si posizionò automaticamente con il busto all’indietro, così da equilibrare le forze in gioco e rimanere in bilico attorno al perno che erano le sue suole. Un istante più tardi giunsero in soccorso anche gli altri membri del gruppo, ma l’atletica muscolatura di Kibwe fu più che sufficiente per riportare tutti e due sul solido appoggio del terreno roccioso della caverna. L’ambiente si riempì dei respiri pesanti di tutte le persone coinvolte, in particolare di colui che aveva rischiato di lasciarci la pelle.

« Oh, mio Dio… » esclamò Sandy tra un annaspo e l’altro « Non so cosa sia… Un giramento di testa… ».

Bellocchio annuì, cogliendo quelle parole come la convalida dei suoi sospetti. « Mi spiace, dev’essere stato un residuo del Supersuono ».

« Ho… » balbettò l’anziano scrutandosi i palmi delle mani. Li chiuse in sincronia, quasi per assicurarsi di esserne in grado « Mi dev’essere caduto il PSS lì dentro… Mi spiace… ».

Kibwe gli andò incontro e si chinò accanto a lui con un duplice obiettivo: rassicurarlo sul fatto che non fosse colpa sua e allontanarlo al contempo in più possibile dallo strapiombo. Ginger, di converso, si mosse a piccoli passi in direzione del baratro con la massima cautela fino a sporgersi appena con gli occhi. « È bello profondo. Devi ringraziare i riflessi di Bellocchio, o saresti già morto ».

« No, non ancora » ribatté il salvatore della situazione, deglutendo dopo aver trascorso diverso tempo a recuperare fiato. Si ripulì sommariamente della polvere calcarea che era finita sul cappotto, passando poi a esaminare eventuali contusioni sotto il tessuto « Non abbiamo ancora sentito l’eco ».

Tutti gli astanti, eccezion fatta per la vittima ancora stordita, strabuzzarono gli occhi. Tra una cosa e l’altra almeno mezzo minuto era volato via dalla crisi momentanea, eppure non avevano ancora udito il ritorno del rumore che il PSS sfracellato contro la roccia avrebbe dovuto provocare.

« Due chilometri e mezzo » deliberò Terence convinto « Minimo ».

Sandy rabbrividì al pensiero del rischio che aveva corso. Ancora non si era udito nulla, quindi in un altro universo avrebbe vissuto quel tempo gridando invano mentre precipitava giù nella voragine. « Come hai fatto il calcolo così fretta? ».

« Il problema del pozzo era frequente nelle esercitazioni di Fisica I » spiegò il matematico, ma tutto ciò che ricevette in risposta furono sguardi confusi. « Quello del sasso che–– ».

« Scusate, possiamo fare un passo indietro? » lo arrestò Kibwe « Due chilometri e mezzo. Come può essere che nessuno sappia nulla? ».

« Probabilmente nello stesso modo in cui nessuno di noi ha notato quel cavo ».

Ginger, e la sua squadra con lei, rivolsero un’occhiata turbata a Bellocchio, seguendone poi lo sguardo fino a un angolo di terreno a malapena rischiarato poiché coperto dall’ombra proiettata da un rilievo roccioso. Era un flebile riflesso giallo acceso che sarebbe sfuggito a un occhio disattento, ma con la dovuta applicazione rivelava proprio ciò che pareva un filo elettrico.

L’ingegnera lo approcciò con cautela, prima con un esame esterno e poi accarezzandolo. Quest’ultima azione, nella temperatura moderatamente fredda dell’antro, le procurò una piacevole sensazione di tepore ai polpastrelli. « Passa corrente » dichiarò.

« Ma per favore » bofonchiò Terence, che in una curiosa reazione mentale aveva contrapposto alle crescenti meraviglie a cui stava assistendo un rigido blocco sulla fiducia; in parole povere, non credeva più a nulla.

« Ti dico che è così ».

Lo scettico studioso rifiutò l’invito susseguente a verificare di persona, ma altrettanto non fece Kibwe. Questi lo sfiorò a sua volta e non poté negare che l’impressione dell’Ufficiale era corretta: emetteva calore, quindi veicolava cariche elettriche.

Terence, tuttavia, non pensò nemmeno per un attimo di rinunciare ai suoi commenti derisori. « In una grotta? Voglio proprio vedere la presa a cui è attaccato ».

« Ottima proposta » convenne Ginger « Segui il cavo da quella parte, noi andiamo di qua. Non dovrebbe essere difficile riunirci, abbiamo una guida ».

« Cosa? ».

« No, hai ragione, non torneresti vivo » ritrattò la donna in un secondo momento « Kibwe, vai con lui ».

« Oh, grandioso, il baby-sitter! Cosa sono, un bambino? » protestò indispettito il matematico.

« Non vuoi veramente che risponda » ribatté Ginger. Il suo sottoposto cercò di lamentarsi ulteriormente, ma lei si impose categorica « Non mando qualcuno da solo a esplorare. Vai ».

Con uno sbuffo la coppia iniziò ad allontanarsi nel verso indicato, dopo aver richiesto l’intervento dell’Heliolisk di Terence per provvedere all’illuminazione. L’altro gruppo, costituito da Bellocchio, Ginger e Sandy, si incamminò in senso opposto, non perdendo mai di vista la filaccia conduttrice che fungeva da loro ancora di salvezza.

Proprio l’ultimo dei tre fu il primo a spezzare il silenzio che era calato dopo la separazione « Tao però ha ragione. Che cosa sta generando l’elettricità? ».

« Una patata molto grande. Ci stiamo facendo la domanda sbagliata » replicò Bellocchio. Nel mentre si chinò sulle ginocchia, proseguendo a un passo che si sarebbe definito d’anatra per le movenze che assumeva mentre esaminava il cavo. In effetti esaminare era un termine vagamente riduttivo: si sarebbe detto che lo stesse annusando.

« “A cosa serve un cavo in una grotta?” » propose Ginger.

« No, no, nemmeno. Vedete, un cavo non è esattamente una formazione naturale. Chiunque l’abbia messo era a conoscenza di una caverna che non compare sulle mappe e non l’ha detto a nessuno ».

« È come vivere un episodio di Lost » fece notare Sandy.

« Non molto incoraggiante. Anche se devo ammettere che il finale, con la morte nel laboratorio chimico… ». Il giovane cessò la sua meticolosa ispezione e alzò gli occhi di fronte a sé. Per quanto non l’avesse prodotto, le parole successive furono implicitamente precedute da un fischio di sorpresa « Ma guarda. Questo non è qualcosa che trovi nella tua caverna-tipo ». I suoi occhi dovevano essere più acuti delle altre due paia che lo accompagnavano, dal momento che Ginger fu indotta a richiedere a Faraday una concentrazione maggiore della luce nel luogo desiderato; una volta compiuto l’ordine il ritrovamento fu visibile a tutti.

Era per molti versi affine a un bunker d’acciaio di un centinaio di metri quadri, salvo il fatto che sembrava aver sopportato una guerra nucleare: le pareti erano squarciate da ampie ferite che offrivano stralci di ombre dell’arredamento interno, che non pareva passarsela molto meglio. Ciò lasciava intuire che probabilmente doveva trattarsi di ben più sottili lamiere, certo non un impianto atto a reggere grossi impatti. La posizione morfologica nella spelonca era quantomeno peculiare: la caverna andava a convergere in una nicchia nella direzione del fortino e, all’immediata destra di quest’ultimo, il soffitto roccioso era forato da un’apertura che proseguiva per chissà quante centinaia di metri sopra di loro.

Il cavo confluiva all’interno attraverso il telaio sbrindellato, quindi doveva essere stato impiantato dopo l’evento che aveva ridotto la piccola costruzione in quelle condizioni. Teoricamente sarebbe stato facile seguire il suo percorso per entrare, ma Bellocchio non era tipo da violare una proprietà privata e decise di provare dalla porta principale ancora integra.

« Toc toc » accompagnò a voce il gesto di bussare, senza ottenere risposta. « Che cosa disse il pupazzo di neve al suo amico? » riprovò, e quando il secondo tentativo andò a vuoto decise di provare ad abbassare la gelida maniglia. Non seppe se esserne sorpreso o meno, ma non era chiusa a chiave.

« C’è qualcuno dentro? » gli domandò Ginger qualche passo dietro di lui.

L’uomo utilizzò la torcia del P5S per sbirciare l’ambiente, poi ribatté « Tecnicamente ora ci sono io ».

Lo spazio racchiuso dalle quattro mura era desolato e, più di ogni altra cosa, ristretto. Sulla sinistra era allineato un trio di processori analogici altri suppergiù due metri, seguiti poi da una enigmatica cabina semidistrutta; un quadro elettrico a destra preludeva invece a un modesto cucinotto corredato di frigorifero disattivo che occupava circa metà della lunghezza della parete. Al centro della stanza era collocato un tavolo da pranzo su cui qualcuno aveva abbandonato una pagnotta ammuffita, un calice vuoto e una pila di fondine; sotto di esso erano ammucchiate decine di scatoloni di cartone privi di contenuto.

« Volevi Lost? » commentò beffardo Bellocchio « Ecco la tua stazione DHARMA ».

Ginger e Sandy si fecero strada nella desolazione di quel posto. A giudicare dallo stato di gran parte del mobilio in qualche momento quel palco doveva avere ospitato un’esplosione, ma lo stato di ordine generale suggeriva che qualcuno vi fosse sopravvissuto. A conti fatti molti aspetti, non ultima la polvere assente nel resto della caverna, denotavano una presenza umana in tempi non troppo lontani.

« È un laboratorio » concluse l’ingegnera stupefatta.

« Chi costruirebbe un laboratorio in una grotta? » domandò il suo collega tastando l’ambiente.

Bellocchio si abbassò al livello del refrigeratore, scrutandone i lineamenti smussati. « Qualcuno che non vuole fare sapere a cosa sta lavorando » ipotizzò. Aprì la macchina delicatamente, richiudendola in fretta non appena il nauseabondo odore di cibo marcio lasciò la sua gabbia.

« È in rovina… Che cosa sarà successo? ».

Mentre Ginger esternava le sue considerazioni, Sandy si avvicinò al compartimento di controllo della corrente, analizzandolo da più angolazioni. Un set di cavi era stato rimosso a forza da esso e ad alimentarlo era adesso il solo filo che avevano rinvenuto vicino al baratro. Con mano tremante spostò l’interruttore principale del contatore su ON, e in risposta la lampada al neon appesa al soffitto si accese in un bagliore che, quantunque non scintillante, rendeva il Flash di Jolteon superfluo. « E luce fu ».

Bellocchio, allarmato, si voltò con uno scatto « Che hai fatto? ».

« Una supposizione su dove andasse a finire l’elettricità del nostro cavo. Vorrei sapere che generatore usano ».

Ginger si accorse in quel momento di una seconda struttura che prima non aveva notato: un massiccio abitacolo chiuso posizionato all’esterno del laboratorio, verso l’angolo in fondo a sinistra. Dal loro punto di provenienza era celato dalle mura delimitanti della struttura, il che spiegava perché non l’avessero rilevato prima. Dalla forma e il cartello affisso sulla porta pareva proprio… « … un bagno chimico? ».

Bellocchio emise un risolino di non chiara natura « Chiunque lavorasse qui non se ne andava spesso ».

« Non vedo letti » obiettò Sandy.

« Non ho detto “mai” ».

Davanti alla lamiera posteriore, nonché alla restante parte della laterale destra, trovava posto una scrivania angolare da lavoro. Su di essa erano disposti senza un criterio uno specchio da bagno e due schermi per PC a tubo catodico, nonché scartoffie e cartoncini numerati ricolmi di documenti. I rispettivi processori erano riposti al di sotto del piano, ma uno di essi era stato smontato e diverse componenti mancavano all’appello.

Bellocchio si sedette di fronte al computer funzionante e, con un fazzoletto sfilato dal cappotto, ripulì il cinescopio coperto di polvere. Era più di un decennio che quel modello di monitor era stato soppiantato da cristalli liquidi e plasma, quindi i casi erano due: o chi l’aveva installato in quel luogo aveva una passione per il vintage, oppure quel bunker non vedeva esseri umani da parecchio. « Provo ad accendere » annunciò abbassando la schiena « Ve lo dico nel caso mi esplodesse in faccia ».

La grama eventualità non si verificò: premuto il pulsante la ventola della CPU iniziò a roteare senza problemi; in compenso il chiarore prodotto dalla lampada sul soffitto iniziò a tremolare. Ginger se ne avvide quasi subito e, intuendo che l’energia convogliata dal cavo non doveva essere sufficiente per alimentare sia la luce che il calcolatore, ordinò a Faraday di sopperire con la sua elettricità.

Mentre il Pokémon eseguiva e l’illuminazione ritornava alla normalità, la donna si avvicinò ai fascicoli che un precedente inquilino non aveva avuto cura di archiviare meglio. Il primo dossier su cui le cadde l’occhio esponeva i risultati pubblicati l’11 febbraio 2003 relativi alla Wilkinson Microwave Anisotropy Probe, sonda spaziale lanciata due anni prima in orbita al secondo punto di Lagrange per studiare le anisotropie della radiazione cosmica di fondo. Particolare attenzione era riservata alla macchia fredda nella costellazione dell’Eridano, e numerose annotazioni più o meno comprensibili erano segnate in pennarello rosso. Distrattamente rivolse uno sguardo al PC, la cui interfaccia grafica lasciava intuire che il sistema operativo fosse Windows 95. Bellocchio esaminava una a una le cartelle del disco rigido in cerca di qualche indizio.

D’un tratto la porta dietro di loro si spalancò con un fragore, facendo sobbalzare tutti i presenti: il giovane impegnato sulla tastiera mise mano alla cintura e Jolteon balzò ringhiante sull’attenti. Non si trattava tuttavia di estranei: erano solo Kibwe e Terence, nonché l’Heliolisk del secondo che approntava un attacco.

Ginger, a cui poco era mancato perché la cogliesse un infarto, abbassò la mano dal petto « Che cosa vi salta in mente? ».

Il matematico apparve poco velatamente imbarazzato per l’entrata in scena tutt’altro che ortodossa. Con un cenno indicò alla sua lucertola di limitarsi al Flash, il quale peraltro con la potenza che Jolteon forniva non era poi così utile. « Noi… Abbiamo visto la luce accesa, credevamo vi avessero catturati ».

« Conclusione logica » ribatté sarcastica la donna « Cosa avete trovato dall’altra parte? ».

« Ah, giusto » annuì l’uomo, anche se per la verità nella concitazione del momento si era dimenticato di quel punto « Beh, non so bene come spiegarlo, c’è un tubo ».

Sandy aggrottò la fronte « Un tubo? ».

« Un solido cavo chiuso a sezione costante ».

« So cos’è un tubo ».

Terence fu a tanto così dal replicare “e allora che cosa chiedi a fare?”, ma Kibwe ebbe il buon senso di prevaricarlo per non perdere tempo « Era in plastica, sottile. Dentro aveva un liquido trasparente, penso fosse acqua ».

« Tutto qui? » lo interrogò Ginger perplessa « Non era collegato a nulla? ».

« Beh, non è facile da spiegare… Il tubo era verticale. C’erano due fori naturali nel soffitto e nel terreno e il tubo entrava da uno e usciva dall’altro. Al suo interno per un attimo ci è sembrato di veder cadere un piccolo oggetto, un cubetto ».

« C’era una scatola metallica lì vicino, da lì partiva il cavo » aggiunse il suo compagno di esplorazione.

« Un trasformatore » comprese l’ingegnera in un lampo « Quel tubo produceva o trasmetteva l’energia elettrica ».

« L’abbiamo pensato, ma nessuno di noi due sa granché di elettrotecnica » spiegò Kibwe.

« Video! ».

L’esclamazione entusiastica di Bellocchio disturbò l’elevata tecnicità dei dialoghi tra i Flare, i quali si riunirono davanti al computer a cui aveva lavorato fino a quel momento. « Cosa? » lo interpellò Ginger.

« C’è una cartella con tre video. L’anno di creazione è il 2004, a distanza di qualche mese l’uno dall’altro ».

« Beh, vediamoli. Non si sa mai ».

Ricevuto il benestare dell’Ufficiale, il giovane si allungò verso le casse posizionate ai lati del monitor e le accese. Quindi selezionò il primo file, denominato 2004-02-28-01.avi, e lo avviò.

 

 

« … Ma piantala, Alex, sto cercando di lavorare! ».

Il volto barbuto di un maschio caucasico sulla quarantina compare sullo schermo, gli occhi azzurri puntati in alto a sinistra e la mano intenta a organizzare qualcosa dietro l’obiettivo. « No, Pierre, io sto cercando di lavorare. Tu stai rollando una sigaretta » commenta sarcastico. La qualità video non è delle migliori.

Il fastidioso suono successivo è quello di una sedia che viene trascinata senza essere sollevata dal pavimento. « Ancora con i blob? Non hai di meglio da fare? ».

« Sono “vog”, non “blob”. E vedrai che tempo qualche anno li faranno tutti » ribatte Alex « Emma, tu ci sei? ».

Una voce femminile risponde da un punto imprecisato « Quando vuoi! ».

 

 

« Vog? » ripeté Terence, che si poteva quantomeno dire spiazzato dalla scelta della terminologia.

« Video blog » chiarì Kibwe, ricavando dalla pillola di cultura un’occhiataccia del suo compare « Erano gli Anni Zero, non pretendere ».

 

 

Finalmente le guance del blogger liberano spazio mentre quest’ultimo si allontana, rivelando l’ambientazione: un ristretto laboratorio stipato di apparecchiature di natura indecifrabile – il bunker ancora integro! Tre figure coetanee si delineano in fila ordinata davanti alla videocamera: al centro Alex, primo piano fino a quel momento; a sinistra Pierre, dai lineamenti sudamericani e un notevole cespuglio di dreadlocks color pece che cadono sulla schiena; a destra Emma, dolce bionda dai capelli raccolti in una coda di cavallo. La sua vita è cinta da Alex, probabilmente sono fidanzati o sposati.

« Va bene… allora… Vog del Pianeta Nero numero 0/1 » comincia Alex. Quelli che paiono i suoi colleghi ridacchiano mentre pronuncia quelle parole.

 

 

Ginger scambiò con Bellocchio uno sguardo che non necessitava di parole, dopodiché sobbalzò « Pianeta Nero? ».

« Qualcosa non va? » le chiese Sandy.

« No, è solo che… Durante l’invasione i Rotom dall’Antenna trasmettevano qualcosa che parlava del Pianeta Nero ».

« “La regione di Kalos è sottomessa al pianeta nero, arrendetevi e deponete le armi” » recitò l’uomo in cappotto, il quale aveva ben impresso nella memoria quasi ogni singolo istante dell’adrenalinico inseguimento di Altoripoli.

« Vi spiace? » li redarguì Kibwe irritato « Starei cercando di seguire ».

« Oh, pardon » si scusò Bellocchio, e con un gesto fulmineo premette la barra spaziatrice per sospendere la riproduzione « Hanno detto qualcosa di importante? ».

« Solo i nomi completi. Alexander Kashlinsky, Pierre Mardones, Emma… qualcosa, non ho sentito. A quanto pare manca all’appello un certo Fred » relazionò l’informatico. Poi, appena prima di dare il via libera per la ripresa, soggiunse « Ah, e sono tutti cosmologi ».

« A quanto pare hai compagnia, Sandy » commentò Ginger ironica.

 

 

« Vediamo… Dunque, me l’ero preparata… » Alex farfuglia, poi un lampo d’illuminazione lo coglie « Come potete notare abbiamo allestito questo laboratorio in uno spazio ristretto. Per la ricerca abbiamo preferito un luogo isolato per non rischiare che gli esperimenti condotti danneggino la popolazione. Ci troviamo al momento in una piccola grotta nel Percorso 8, a sud di Relifac-le-Haut ».

 

 

Terence ridacchiò alla menzione della parola piccola, che ritenne alquanto esilarante visto il contesto in cui si trovavano. Kibwe non dovette essere dello stesso avviso mentre sottovoce lo minacciava « Stai rischiando molto grosso ».

 

 

« Dunque… Devo dire altro? » domanda l’uomo a Emma.

« Il flusso oscuro… ».

« Giusto! Scusa, è l’emozione » esclama Alex battendosi la mano sul capo « Lo scopo del Pianeta Nero è indagare appunto sul fenomeno astronomico noto come flusso oscuro. Se la nostra teoria è corretta–– ».

Pierre colpisce la nuca del suo amico con uno schiaffo umoristico « Ma per favore, non vorrai mica dire tutto di nuovo! ».

« Beh, è un vog, dovrò pur… ».

« Se vogliono possono leggersi la documentazione, andiamo! » esclama lo scienziato « Perché non ci dici qualcosa di interessante? Per esempio, spiega perché ci chiamiamo Pianeta Nero ».

« Oh… ». Alex sorride, probabilmente quella domanda lo rende orgoglioso « C’è una quartina, nelle Profezie Perdute di Maelmhaedhoc, che dice… “Il pianeta nero il vecchio sormonterà nel tempo dell’ultimo confronto”. Parla di un mondo nuovo, e visto ciò che cerchiamo mi è sembrato adatt–– ».

 

 

Il video si interruppe senza preavviso troncando la frase. Bellocchio esaminò per qualche secondo la situazione del file, ma non fu difficile verificare che il tempo di durata era concluso. « Finisce qui ».

« Non un granché con l’editing, vero? Avrebbero dovuto prendere qualche lezione da–– » Terence fu sul punto di fare il nome di Etan De Freitas, ma la coscienza della sua morte al Le Crésus Hotel lo frenò rattristandolo. Era trascorsa una sola settimana, ma parevano epoche.

Bellocchio percepì che qualcosa non andava e decise, una volta tanto, di fare un favore al matematico e cambiare argomento « Ha parlato di… flusso oscuro? ».

In quel momento gli occhi dei suoi collaboratori si diressero verso Sandy, ben consci che era il più indicato a parlarne. L’anziano studioso si concesse un attimo di silenzio per riordinare le idee, quindi iniziò a raccontare con una passione rara « Con poche eccezioni, le altre galassie si stanno allontanando dalla nostra per via dell’espansione dell’universo. Trascinate dall’eco del Big Bang accelerano e accelerano, sfuggendo al nostro occhio senza alcuna promessa di fare ritorno ». Drizzò il dito e lo puntò al soffitto, ma era facile immaginare che in realtà la sua mente stesse andando al firmamento stellato « C’è una regione del cielo, tra le costellazioni del Centauro e della Vela, in cui le galassie vanno più veloci. In questo momento qualcosa le porta con sé più rapidamente di altre, 900 chilometri l’ora più o meno, sottraendocele ». A quel punto ripose la mano lungo il corpo « Lo chiamiamo flusso oscuro ».

« Che cos’è? » domandò Bellocchio affascinato.

« Nessuno lo sa. L’universo è pieno di misteri… » ponderò l’astronomo con un sorriso rammaricato.

« Il Pianeta Nero aveva un’ipotesi » disse Ginger, catturando l’attenzione dell’uomo nel giro di un istante. Durante il suo ispirato monologo l’Ufficiale era ritornata ai dossier che aveva esaminato poco prima, sfogliandoli alla luce delle informazioni fornite da Alexander Kashlinsky, rinvenendo un documento alquanto interessante che ora porgeva a Sandy. « Che ne pensi? ».

Quello scorse febbrilmente le righe, seguì i grafici a dispersione e valutò i risultati. Quindi, stupefatto, alzò gli occhi « Un universo gemello? ».

Ginger annuì, espandendo il concetto per gli altri tre astanti che avevano trabalzato all’unisono « Era la loro teoria. Un universo parallelo il cui campo gravitazionale tracima nel nostro e porta via con sé ammassi stellari. Ha senso, in fondo si suppone che la gravità sia in grado di attraversare le dimensioni iperspaziali ».

« Era questo che ricercavano? » inquisì Bellocchio « Un universo parallelo? ».

« L’ultimo sogno umano. C’è chi perde la vita sugli esopianeti, loro puntavano più in alto ».

Sandy avvertiva le dita vibrare incontrollatamente. « Fai partire il prossimo video ».

Bellocchio assentì, scorgendo nelle sue pupille l’emozione di un dotto che si trova di fronte a un orizzonte completamente nuovo. « 5 maggio 2004, tre mesi dopo » annunciò « Beh, a pensarci bene due ».

 

 

Un nuovo volto ingombra buona parte della visuale: bianco, con un sottile strato di capelli biondi sul capo. In una voce maschile dal marcato accento annuncia « ‘Kay, dovremmo esserci! ».

L’inquadratura questa volta è mobile, manovrata presumibilmente dall’uomo appena scomparso; sosta dopo qualche istante di instabilità a mezz’aria, riprendendo con un leggero tremolio una donna seduta davanti a una spartana torta condita da un numero imprecisato di candeline.

« Tanti auguri a te! » cantano Alex, Pierre e il cineoperatore, e un cambio di campo evidenzia che la festeggiata è Emma. Lei è la più cambiata del quadretto: i capelli ora sono sciolti sulle spalle, qualche ruga da stress segna le gote e, fatto più immediato, è incinta.

 

 

Il capo di Kibwe scattò investigativo sulla figura di Emma « Quella è una fede? ».

« Quale? » domandò Sandy.

L’omone indicò la mano della donna, la quale stava in quel momento soffiando l’unica candelina presente sul gâteau « All’anulare ».

« Oh, pare di sì. Si saranno sposati tra un vlog e l’altro ».

« Impossibile » negò Terence risoluto « Guarda la pancia, sarà il quinto o sesto mese. Doveva essere già incinta prima ».

« Potrebbe essere stata incinta da prima del matrimonio » fece notare Sandy.

Il suo interlocutore lo scrutò come se avesse appena insultato sua madre, la bocca semichiusa che a stento conteneva l’incredulità per una mossa tanto audace. « I rapporti prematrimoniali sono peccato! ».

 

 

Ora la videocamera quasi accarezza la pancia gestante di Emma, che la allontana con una risata. « Smettila! E se poi le radiazioni fanno male a Logan? ».

« Non possono fargli più male del suo nome » commenta Pierre poco distante, e l’obiettivo si sposta su di lui « Logan Kashlinsky. Quasi avrei sperato che fosse femmina, per salvarla da un destino simile ».

« Logan è anche un nome femminile » fa notare Alex, che sta abbracciando sua moglie da dietro.

 

 

« Logan Kashlinsky… ».

« Qualcosa non va, Bellocchio? » si interessò Ginger, trovandolo immerso in una riflessione all’apparenza molto importante.

L’uomo le restituì lo sguardo, e le sue labbra si serrarono prima di riaprirsi per parlare « LK ».

Per i Flare, Ufficiale compresa, quella rivelazione fu come cadere dalle nuvole. Avevano riposto la loro missione originaria in un anfratto tanto remoto del cervello che il modo in cui era stata sradicata nuovamente fuori li aveva lasciati ammutoliti. « È una… coincidenza… » contestò Kibwe, ma il suo tono trasudava tutto fuorché sicurezza.

« Credere nelle coincidenze non mi ha mai portato da nessuna parte ».

« Cos’altro può essere? Perché starebbero trasmettendo le iniziali del bambino? » obiettò Sandy, e senz’altro quella era un’opposizione valida.

Ma non era la questione su cui sia Ginger che Bellocchio si stavano arrovellando in quel momento. Solo loro due infatti sapevano che LK era anche il nome presente sul taccuino, il nome che il giovane aveva assunto fosse il suo. Era forse possibile che lui fosse Logan Kashlinsky?

 

 

Alex ora è in un vis-à-vis con il cineoperatore. Lui è di converso quasi uguale a com’era nella precedente registrazione, a parte la barba rasata che paradossalmente gli conferisce un’aria familiare. Regge in mano un bicchiere di plastica, ma non è chiaro cosa stia bevendo. È il primo vero piano ravvicinato della strumentazione, in questo caso una sorta di cabina composta di pezzi assemblati con un criterio difficilmente deducibile.

« Sì, ho lasciato perdere i vog per un po’. Troppo preso dal lavoro… Quando ho dato uno sguardo all’unico ripreso, poi, ho visto che un pezzo non era stato registrato perché la videocamera era scarica. Ma ora sono convinto che sia il momento migliore per riprendere ».

 

 

« Questo spiega perché il vlog precedente si sia fermato all’improvviso » commentò Sandy.

Terence provò a cogliere l’occasione al volo per provocarlo, ma Kibwe ne previde le azioni e lo avvisò insieme al suo compagno di lavoro « Se non state zitti fate una brutta fine ».

 

 

« Questo… » spiega Alex accarezzando la cabina « Lo chiamiamo Scissore, è il nostro pezzo forte. Due mesi e mezzo per costruirlo, due anni per teorizzarlo ».

« Che poi non vuol dire nulla » commenta Fred, mai palesatosi nuovamente dopo il suo fugace cameo all’inizio « Il nome ce lo siamo inventati da ubriachi ».

L’altro scienziato, però, non sembra nemmeno curarsi della presenza del suo amico. Probabilmente il suo drink ha un tasso alcolico non irrilevante, perché sembra parlare più con se stesso che con ipotetici spettatori. « Il potere di attraversare gli universi… Se il flusso oscuro è ciò che pensiamo, questo prova che l’interazione tra universi fratelli è possibile mediante la gravità. La curvatura spaziale ».

L’inquadratura ora è sostanzialmente immobile, come se il regista fosse in catalessi. « Lo Scissore… Con quello e ciò che ho trovato… Potremmo… ».

Alex beve l’ultimo sorso del bicchiere, che sembra colpirlo come una pallottola. Fa un cenno disarticolato verso Fred e borbotta di spegnere prima di appoggiare la testa al macchinario e addormentarsi di colpo.

 

 

« E cala il sipario. Restate sintonizzati per la terza puntata » ridacchiò Bellocchio, mettendosi subito all’opera per inizializzare il terzo e ultimo filmato, nonostante il processore fosse quello che era per l’anno a cui risaliva.

Ginger, approfittando dell’intervallo, si avvicinò alla cabina in rovina che aveva in precedenza notato vicino al trio di calcolatori analogici. « Questo dev’essere lo Scissore ».

Terence iniziò a camminare avanti e indietro sul posto « Non se la passa troppo bene ».

« No, infatti ». La donna esaminò i componenti che ancora si reggevano all’ossatura, studiandone le zone bruciate disposte a cerchio. Se c’era stata un’esplosione, facilmente non era avvenuta lontano dal punto su cui poggiava i piedi. « Il prossimo video di quando è? ».

« 19 luglio » rispose Bellocchio « Altri due mesi dopo ».

 

 

L’unica sorgente d’illuminazione è fornita da una lampada da scrivania. Alex è solo: pur con la ridotta luce si nota che la barba gli è ricresciuta e i capelli ora sono decisamente meno ordinati delle scorse due volte. Il suo fiato si condensa mentre ancora fuoriesce dalla bocca, segno che la temperatura si è abbassata. Si passa la mano sul volto, evidenziando un paio di occhiaie che lo affliggono.

« Chiedo scusa per l’assenza, abbiamo… L’energia… Abbiamo costruito un generatore a caduta perpetua, dovrebbe reggere » mugugna. Le idee sembrano affollarglisi in testa.

 

 

« Cos’è un generatore a caduta perpetua? » chiese Sandy.

« Probabilmente il tubo trovato da Terry e Kibwe » fu la conclusione ragionata di Ginger « Non ho mai sentito di niente con questo nome, però ».

Dalla sedia su cui era appollaiato Bellocchio fece cenno con la mano di acquietarsi, indicando che il cosmologo sul monitor aveva ripreso a parlare.

 

 

« Avevamo in programma il primo esperimento con lo Scissore, il giorno dopo lo scorso vog. L’abbiamo avviato con la massima cautela, usando come cavia la mia Chansey, ma… Non so, qualcosa è andato storto, e ora ci troviamo qui ».

Il suo braccio scatta verso la lampada e la punta dietro di sé, rivelando che il laboratorio è ora nelle condizioni in cui è stato rinvenuto dai Flare: pareti sconquassate, macchinari semidistrutti e la sconfinata caverna a circondarlo. Tuttavia, a guardare meglio, lo stato non è così rovinoso come quello attuale. « Dal nulla ci siamo ritrovati in questa grotta. È enorme, non capisco come… Abbiamo esplorato un po’, ma non sembra esserci via d’uscita. È… ».

 

 

L’atmosfera nel bunker era decisamente più tetra che durante la proiezione dei due precedenti diari su video, simile a certe osterie nelle tarde ore notturne. Perfino Kibwe, solitamente rigido nell’impedire agli altri di interrompere i momenti salienti, era tanto impressionato dalle ultime scoperte che non aveva la forza di arginare alcunché.

« Non ha senso… » farfugliò Ginger.

« Invece ne ha. Nessuno avrebbe costruito un laboratorio in una caverna tanto inospitale, e infatti non lo fecero » desunse Bellocchio « È apparsa solo dopo ».

« No, invece! » l’ingegnera Flare batté energicamente le mani sulla scrivania guardando in faccia l’uomo, pur da una visuale quasi perpendicolare « Ha detto che non c’è nessuna via d’uscita. Da dove siamo entrati noi? ».

« Vero » convenne quello alzandosi in piedi per dirigersi a lenti passi verso lo Scissore.

« Mi sono perso un passaggio? Nessuno si chiede come quell’affare li abbia portati qua? » indagò Terence confuso.

Bellocchio avrebbe quasi voluto prendere a pugni quel macchinario per come, viscido e inafferrabile, sfuggiva alla loro comprensione. « Che cosa sei… ».

 

 

« Lo Scissore… » riprende Alex, pur con frequenti pause per riordinare i pensieri « Il suo scopo è modificare il DNA, ristrutturare le sequenze nucleotidiche… Causare una mutazione controllata… ». Fatica a parlare, forse perché è decisamente più lucido della registrazione precedente e i fumi dell’alcool non possono più sciogliergli le parole. « Se riuscissimo a farlo funzionare, potremmo fornire a un organismo la possibilità di interagire con i gravitoni. Farli convergere e divergere, curvare lo spazio… ».

 

 

Ginger in un lampo intuì, per la prima volta con certezza assoluta, che cosa stava succedendo. « Vuole aprire varchi nello spaziotempo! ».

Bellocchio si voltò verso di lei, che ora era la più vicina allo schermo « Che vuol dire? ».

« Immagina una sfera appoggiata su una maglietta » illustrò lei dopo una breve interruzione « Cosa succede? ».

« La piega ». L’uomo non dovette faticare a concepire la risposta, perché Serena gli aveva riferito un simile discorso tenuto da Silvia a Castel Vanità. Sapeva dove voleva arrivare.

« E, se sufficientemente pesante, la strappa. Questo è ciò che fa lo Scissore » continuò Ginger « Riscrive il DNA di un uomo per offrirgli la possibilità di manipolare i gravitoni e strappare lo spaziotempo. Forza un’evoluzione. Introduce un nuovo stadio umano ».

« Ma perché? ».

« Perché aprire varchi spaziotemporali era il loro piano fin dall’inizio » disse l’Ufficiale, tornando a osservare un Kashlinsky sempre meno raziocinante « Volevano indagare sulla possibilità di un universo parallelo: lo Scissore è il loro mezzo per arrivarci ».

« È impossibile » intervenne Sandy categorico « Non esiste un modo per realizzare un esperimento del genere. Non abbiamo nemmeno la certezza che i gravitoni esistano, figurarsi se sappiamo come manipolarli ».

 

 

L’uomo si stringe le tempie. Poi, con un gesto lento e quasi macchinoso, fruga in una cassetta fuori dall’inquadratura. « Abbiamo rinvenuto un oggetto. Credo di averlo avuto con me per tutta la vita, ma non so come. Genera un campo naturale di convergenza di gravitoni, il che l’ha reso la base ideale per lo Scissore ». Ritrae la mano aperta e la mostra all’obiettivo. Sul palmo si trova una scheggia cristallina dalle tinte celesti che pare brillare di luce propria.

 

 

I Flare, comprensibilmente, non capirono cosa avesse quell’oggetto di speciale, e non mostrarono alcuna reazione al di fuori dello smarrimento; ma Bellocchio avvertì le proprie forze sgretolarsi in un terribile istante.

Era un Frammento. Stesse dimensioni, stessa tonalità di blu, stesso comportamento della coppia che aveva ritrovato a Kalos. A Castel Vanità Serena gli aveva raccontato di come, mentre cercavano di accedere alla grotta di Omastar, Silvia avesse constatato che la sua pietra curvava lo spazio. Convergenza di gravitoni: era quel frammento a consentire allo Scissore di funzionare.

 

 

Alex ride tra sé e sé « È buffo, perché se lo Scissore funzionasse potremmo aprire un passaggio e andarcene da questo posto… Ma non basta, ho capito cosa ho sbagliato ». Con delicatezza ripone la scheggia luminosa dove l’ha presa « Un DNA già formato è troppo solido, troppo impostato. Ma se riuscissi a… a usarne uno grezzo, ancora malleabile, potrei guidarne lo sviluppo ».

Di colpo alza il capo e punta dritto nella videocamera. Il suo sguardo annaspa nella disperazione, la sua bocca è distorta in una smorfia. « Logan sarebbe perfetto ».

 

 

La voce di Kibwe, l’unico a trovare la forza di parlare dopo quella frase, tradiva tutto l’orrore che l’informatico provava in quel momento « Mio Dio… ».

Le altre reazioni furono assolutamente mute: Ginger arretrò agghiacciata, Sandy fu colto da un conato di vomito, Terence andò in iperventilazione. Bellocchio, dopo il colpo al cuore subito dalla presenza del Frammento, si trovò ad avvertire puro raccapriccio.

Kashlinsky voleva usare suo figlio. Il fatto che non fosse ancora nato lo rendeva geneticamente più plasmabile di chiunque altro si trovasse nell’antro ai tempi, e la parentela non doveva angosciarlo minimamente. Era disposto a impiegare la sua prole ancora nella placenta come cavia da laboratorio pur di fuggire. Era un mostro.

 

 

Lo scienziato distoglie gli occhi, come spaventato dalla sua stessa immagine riflessa. « Non me lo permetteranno, Fred e Pierre… E poi Emma… » mormora afflitto, e una lacrima gli scivola sulla guancia destra. Per un istante sembra ripensarci, poi la sua voce assume un timbro demoniaco « Ma non mi importa. Li costringerò, se necessario. Io non morirò qui. Io me ne andrò vivo ».

 

 

Il silenzio calò nel laboratorio. Non un silenzio pacifico, bensì uno di quelli che accrescono il tormento con ogni secondo in più di durata. Normalmente avvengono perché nessuno sa cosa dire, e altrettanto normalmente qualcuno decide di pronunciare le prime parole che gli passano per la testa pur di non dover sopportare oltre una quiete così straziante. Nel nostro caso quel qualcuno fu Sandy « … E ora? ».

Ginger si rivolse a Bellocchio, il quale nel frattempo era tornato alla postazione di controllo della scrivania « C’era altro di interessante nel PC? ».

L’uomo fissò insistentemente il monitor; dopodiché sfilò dalla tasca del cappotto il suo taccuino in pelle nera e una penna a sfera, iniziando ad aggirarsi per l’ambiente a lunghi passi, quasi stesse danzando. « Propongo un sommario ».

« Cosa? » domandò l’ingegnera, ma per quanto quella frase fosse enigmatica ne ricavò che la risposta al suo precedente dubbio era “no”.

Bellocchio aprì il blocco all’ultima pagina e, di pari passo con il suo discorso, trascriveva parola per parola sul foglio bianco. « Il Pianeta Nero era un gruppo di quattro persone che volevano accedere a un altro universo, giusto? Hanno costruito quell’affare per farcela » sottolineò indicando lo Scissore. Da come la sua mano destra si muoveva rapida pareva stesse disegnando uno schizzo del macchinario « Poi l’hanno attivato, c’è stata una discreta esplosione e per qualche ragione la piccola cavernetta in cui avevano costruito il laboratorio è diventata un antro colossale. Come mai? ».

Ginger fu incerta sulla natura dell’ultima richiesta – era retorica o si aspettava realmente una sua replica? Sarebbero potute essere entrambe allo stesso tempo, in effetti. « Non lo so? ».

« Kashlinsky esce di testa perché vuole andarsene e decide di usare suo figlio non ancora nato, e non sappiamo come sia finita. Ma una cosa la sappiamo di certo, vero? » proseguì il giovane. Nessuna risposta neanche stavolta, ma dalle parole successive fu chiaro che nella presente occasione se ne sarebbe attesa una « C’è un’uscita ora. Qualcosa è cambiato tra il 2004 e oggi ».

« E qua fuori qualcuno trasmette le iniziali del figlio » aggiunse Kibwe.

Bellocchio schioccò le dita come un insegnante fiero del proprio alunno, annotando il punto che non aveva menzionato. « Questo è lo spirito! ».

« E c’è il tubo, il… generatore a caduta perpetua » rammentò Sandy « Non sappiamo ancora come funzioni ».

L’uomo smise di volteggiare per la stanza e occhieggiò Ginger con l’espressione di chi ha raggiunto il proprio scopo « Direi che abbiamo la prossima tappa ».

« Concordo » annuì la donna, convenendo che difficilmente avrebbero trovato altro di interessante in quel bunker; cosa più importante, il suo spirito ingegneristico la spingeva a cercare di capire come un’apparecchiatura così semplice potesse generare energia, per quanto a malapena sufficiente per una lampada al neon.

Con una serie di cenni istruì il gruppo di mettersi in cammino e seguire il cavo. Provò poi a impartire i medesimi ordini a voce, ma il rumore di un corpo caduto al suolo la anticipò sovrastandola. Con la coda dell’occhio lei e il resto dei Flare si resero conto che Sandy era inciampato e ora si trovava riverso a terra. Di nuovo.

« Ma allora è un vizio! » esclamò Terence « Guarda dove metti i piedi! ».

« Il discepolo dell’amore » commentò Ginger con un sarcasmo rancoroso, andando incontro al suo amico per sincerarsi delle sue condizioni. La caduta era per sua fortuna stata attutita da uno scatolone sul pavimento, e nessun arto sembrava essersi rotto. « Tutto bene? ».

« Scusate, io… Mi è girata la testa… ». L’astronomo provò a issarsi sulle gambe, ma quasi subito capitombolò nuovamente al suolo.

La sua Ufficiale iniziò a porre domande di natura medica, ma fu quasi immediatamente interrotta da Bellocchio, balzato sull’attenti alle ultime parole pronunciate dalla vittima. « Come “girata la testa”? ».

« L’aria è viziata, probabilmente è quello » suppose Ginger.

« No… Ha detto la stessa cosa quando stava per cadere nel baratro. Anche lì un giramento di testa ».

Sandy aggrottò la fronte, passandosi la mano sugli occhi per obbligarsi a mantenere la lucidità nonostante avvertisse il proprio capo vorticare a scatti. « Avevi detto che era colpa del Supersuono… ».

« Il Supersuono non mantiene i suoi effetti tanto a lungo » controbatté risoluto il giovane. Poi, dal nulla, si assestò un colpo in fronte per punirsi « Il segnale, il segnale! Sono stato un idiota! ».

« Cosa? » chiese Ginger.

« C’è qualcos’altro in questa caverna, qualcosa che ha sostituito le due lettere che vengono trasmesse a Kalos. Non so cosa sia, ma c’entra con i capogiri di Sandy ».

« Abbiamo già controllato, ricordi? » gli ricordò Terence « La sfera è muta ».

« No, no, è cieca! » lo corresse l’uomo con ritmo concitato « Stai cercando di vedere la luce di una torcia a mezzogiorno! ».

L’ingegnera lo squadrò con occhio indagatore, cercando di scorgere il filo che connetteva i suoi pensieri. « E cosa suggerisci di fare? ».

« Cosa facciamo se siamo accecati, socchiudiamo gli occhi… » rifletté Bellocchio ad alta voce. Con un guizzo puntò l’indice verso Terence « Presumo ci sarà un modo per ridurre l’angolo di ricezione ».

« Ah, io… » biascicò tentennante il matematico. Detestava ammettere una lacuna, ma in quel momento non c’era un’alternativa in grado di salvargli faccia, e questo lo convinse a rivolgersi a Kibwe « C’è? ».

Uomo di poche parole, l’interpellato non rispose e si limitò a prendere tra le mani la Poké Ball scoperchiata ed estrarre un connettore dall’uniforme fiammeggiante. Si recò al computer del laboratorio nella sua proverbiale incomunicabilità e collegò la sfera al calcolatore interno tramite l’uscita USB. Trascorsero minuti di autentica tensione mentre il Flare manipolava le impostazioni dal terminale, tempo in cui Sandy garantì di essersi rimesso e riuscì a raggiungere nuovamente la posizione eretta. Alla fine l’informatico decise di aver ottenuto un risultato accettabile e, imprimendo una traiettoria arcuata all’oggetto, lo fece atterrare precisamente sui palmi di Terence.

« E… ? » lo esortò Ginger, notando che la lettura stava richiedendo più del solito.

Lo scienziato, dal canto suo, aveva impressa negli occhi un’espressione di sconvolgimento totale. « Sono… » balbettò, trovando alla fine il coraggio di ammetterlo « Sono onde complesse. Non le so leggere ».

« Lascia ingegnerizzare agli ingegneri » canticchiò la donna prendendo in custodia la Ball. A differenza del suo sottoposto parve riconoscere immediatamente i segnali mostrati dal display, e forse proprio per questo faticò ancor più di lui a esporre l’esito della modifica. Nel primo tentativo inciampò sulle sue stesse parole e non disse nulla, il secondo andò a miglior fine « Sono pacchetti sinaptici ».

Bellocchio non comprese cosa significasse, ma ciò non si poteva dire dei suoi colleghi che annuirono in coro. Sandy, in particolare, parve tanto turbato quanto lei « Vuoi dire… ? ».

« Sinusoidi sovrapposte. Il fit dei parametri… Non può… ». La morte si dipinse sul pallido volto di Ginger mentre realizzava cosa stava accadendo « Queste sono perturbazioni sinaptiche generate da una Poké Ball ».

In questa occasione il giovane ebbe decisamente meno dubbi: parlava della caverna. Avevano fatto ciò che lui aveva suggerito, ovvero abbassare la soglia di rilevamento dei segnali, e ciò che avevano trovato era che loro cinque stavano nuotando in un oceano di onde sinaptiche. Le implicazioni? Su quello non aveva indizi, ma una preoccupante idea stava prendendo forma nella sua testa: dall’opuscolo trovato nel taccuino sapeva che una delle caratteristiche delle Ball era la riscrittura sinaptica, ovvero la capacità di cancellare le memorie attive dei Pokémon per renderli più docili, non dissimilmente da ciò che capitava a lui ogni tramonto. Ora cominciava a sospettare che lo stesso stesse per accadere ai suoi compagni in quella stanza.

« Impossibile » negò con fermezza Sandy « La lunghezza d’onda di quelle radiazioni è paragonabile alle molecole d’aria, non farebbero mezzo millimetro di strada fuori da una sfera ».

Ginger concordò, ma quasi subito pervenne anche alla soluzione dell’arcano. Erano giorni che l’aveva sotto al naso, sarebbe stato impossibile per lei non vederla. « Il generatore sperimentale rubato dalla Cripta! Il suo scopo è esattamente collimarle per distanze maggiori! ».

« Ma non funzionava! » ribatté l’astronomo « Etan è morto prima di finirlo! ».

« Qualcuno deve aver proseguito il suo lavoro ».

« Ginger, niente panico » disse Kibwe, provando ad appellarsi al suo buon senso per tranquillizzarla « C’è una ragione per cui la Poké Ball è fatta così: le onde sinaptiche da sole non bastano a fare danni sufficienti, devono essere catalizzate. E poi il cervello dei Pokémon è molto meno complesso di quello umano ».

Una quiete atipica accompagnò le riflessioni della donna. La rassicurazione del suo amico, per quanto finalizzata al bene, aveva al contrario innescato una lenta ma ineluttabile lettura della realtà per ciò che era. « I cristalli bianchi… » scandì lentamente, come in trance. Poi la raccapricciante ipotesi acquisì maggiore fondamento ad analizzarla, e ciò conferì all’Ufficiale maggiore convinzione mentre riprendeva il suo dialogo bilaterale con Sandy « I cristalli all’ingresso della caverna. Avevi parlato di reticolo esagonale, giusto? Qual è una sostanza con quella struttura? ».

Il Flare titubò per qualche istante prima di fornire la risposta « … Zinco ».

Ginger annuì « Siamo in una cava di zinco, il materiale base per l’interno delle sfere di cattura. Il catalizzatore ». Si concesse un bizzarro sorriso, una presa in giro verso se stessa per non esserci arrivata prima « Una Poké Ball naturale. Stiamo venendo riscritti ».

Bellocchio vide la propria teoria confermata. In quel momento nei loro cervelli era in corso una minuta operazione chirurgica atta a privarli dei loro ricordi e, cosa più allarmante, a condizionarli all’obbedienza verso il proprietario. Un codice veniva stampato nella mente, e a tale codice sarebbero stati devoti per tutta la vita. Quando si trattava dei Pokémon tutti erano favorevoli, ma la sola idea che la stessa specie che aveva inventato quel meccanismo ne cadesse preda era sufficiente a far ricredere anche il più convinto dei progressisti.

« Io… No, io sto bene… » protestò debolmente Terence.

« Come ha detto Kibwe, il cervello umano oppone maggiore resistenza. Le prime memorie a essere cancellate sono le più irrilevanti ». Ginger cercò di mantenere il più possibile la calma. Era una mente scientifica, e come tale doveva seguire il metodo galileiano: il tentativo di falsificazione. « Bellocchio, cos’hai mangiato ieri mattina per colazione? ».

« Credimi, non sono la persona più adatta a cui chiederlo. Ho una memoria fuori dal comune ».

« Va bene » accondiscese la donna, conscia di non avere tempo da perdere « Sandy, rispondimi tu. Che cos’hai mangiato ieri mattina a colazione? ».

L’anziano si aggiustò i corti capelli argentei in un tic nervoso mentre prendeva atto del fatto che, pur sforzandosi, non riusciva minimamente a rispondere. « Non lo so… ».

Uno su tre. L’ingegnera si augurava di essere smentita, ma era fin troppo sicura di aver ragione per sperarci assennatamente. « Terry? ».

Terence reagì analogamente al suo collega, preciso fino al tono di risposta. « Non ci ho… fatto caso… ».

Due su tre. Ginger non dovette nemmeno chiedere al terzo: Kibwe ammise immediatamente la sconfitta con una scossa del capo. La donna inspirò profondamente, accettando la criticità della situazione. A breve non sarebbero nemmeno riusciti a camminare: il loro cervello era impegnato a guerreggiare e sempre meno materia grigia restava cosciente, soccombendo all’influsso esterno. I Pokémon erano fortunati, per loro il processo durava tre secondi appena, ma loro avrebbero avvertito ogni singola regione mentale sfuggire al loro controllo fino al reset completo. Rivolse uno sguardo a Bellocchio, come a cercare un suo commento.

« È questo che è successo ai Rotom? » domandò lui « La Dama diceva che non sapevano cosa stavano facendo ».

« È probabile ».

Sandy si strinse le mani per soffocare il tremolio incessante delle sue braccia, consapevole di essere quello che aveva mostrato di opporre meno resistenza e dunque colui che era destinato ad arrendersi per primo. « Cosa facciamo ora? ».

Ginger tacque e si morse il labbro. Era di nuovo quella circostanza, quella che l’aveva perseguitata per tutta la settimana. Ma stavolta non avrebbe commesso lo stesso errore, aveva avuto troppo tempo per ragionarci.

« Ce ne andiamo ».

Fu come un colpo dritto alla nuca. Tutti si sarebbero aspettati delle direttive di condotta, un discorso d’incoraggiamento, ma mai una rinuncia. « Cosa? » esclamò Kibwe. Le andò incontro per far valere le proprie ragioni nonostante barcollasse visibilmente « Qualcuno ha organizzato l’esercito, ora abbiamo le prove! Non possiamo abbandonare Kalos a se stessa! ».

« Non permetterò un altro Crésus Hotel. Avrei dovuto portarvi fuori di lì quando potevo. Ci mettiamo in salvo e organizziamo un piano d’azione serio ».

« Non avremo il tempo. Prima che ci organizziamo noi l’avranno già fatto loro » insorse l’informatico. Con un’aggressività inusitata diresse la propria invettiva a Bellocchio, posizionato a qualche metro di distanza « Tu non dici nulla? Giochi a fare il salvatore della regione solo quando hai qualcuno a coprirti le spalle? ».

Il giovane inclinò la testa di lato. « Non posso annullare la decisione di un vostro superiore » dichiarò, e mentre si affiancava a Ginger quest’ultima lo ringraziò con lo sguardo. Lui fece tuttavia un cenno che implicava un rifiuto, come volesse dirle di aspettare a esprimere riconoscenza. « Ma io non sono un Flare » proseguì « Io rimarrò qui e andrò a fondo nella faccenda. Se qualcuno vuole unirsi a me non mi opporrò ».

L’Ufficiale si sentì quasi tradita da quelle frasi. Lo scrutò severa « Farai la fine di quei Rotom ».

« Come ho detto, ho una memoria fuori dal comune ».

« Non sarà solo la memoria a essere colpita, onde catalizzate da una tale quantità di zinco avranno effetti molto più profondi. La tua percezione, il tuo raziocinio, le tue capacità motorie. Sarai una marionetta ».

Bellocchio la osservò, sinceramente sbalordito da tanta ingenuità. « Se anche non avessi alcuna possibilità di uscirne vivo… Credi che lascerei Serena da sola? » le chiese, e rise per un attimo prima di ricadere nella completa austerità « Lei non si è mai arresa quando io avevo bisogno di aiuto. Ho un debito nei suoi confronti ». Gli occhi dei due si incontrarono, fiammeggianti di sfida, prima che l’uomo parlasse anche agli altri membri dell’Unità « Allora, qualcuno vuole venire? ».

Kibwe non mostrò alcuna esitazione nel tagliare il laboratorio e schierarsi contro la leader della squadra. Terence fu meno convinto, se non altro perché le prospettive di trionfo non erano eclatanti, ma forse anche per pressione del suo pari alla fine si allineò con Bellocchio. I due attesero che il loro terzo collaboratore li seguisse.

Ma ciò non avvenne. Sandy rimase immobile e sgomento dalla parte dell’Ufficiale. « Sandy, cosa aspetti? » lo chiamò Kibwe, ancor più sorpreso di non ricevere risposta. Aveva ipotizzato che Terence avrebbe opposto resistenza, ma non lui « È questo che Ross avrebbe fatto? ».

« Non usare il suo nome in tua difesa » ringhiò Ginger, aizzata dalla menzione del suo defunto fratello.

Bellocchio contemplò la scena potendo quasi tastare la tensione e decise di agire personalmente. Si avvicinò a Sandy e lo guardò dritto nelle pupille, sussurrando come a un confessionale « Hai paura? ».

Come sovente accade è difficile per un essere umano ammettere le proprie debolezze. Ma quell’essere umano in particolare era molto umile, e tentennò meno di altri « Sì ».

Il giovane gli sorrise « Bene. Perché quei Rotom non avevano paura. Non l’hanno avuta nemmeno per un istante. Erano pronti a morire ». Si guardò attorno, offrendo particolare attenzione all’ingegnera che più si contrapponeva alla sua scelta « Aggrappatevi a questo quando sentirete la vostra coscienza sfuggirvi. Rimorsi, fobie, dolori passati, le emozioni che vi tengono svegli la notte. Provarle significa che state ancora combattendo ».

Sandy non manifestò alcun segno di aver cambiato idea, anche se non era stato realmente certo fin dall’inizio. Ginger si inasprì « Nessun Pokémon è mai resistito alla riscrittura. Potete lottare, ma non vincere ».

Bellocchio le si avvicinò per un confronto diretto, fermandosi a qualche centimetro dal suo volto « A volte non serve vincere. A volta basta ritardare la sconfitta per salvare più vite possibile ».

« Parli come se fossi più dotato di noi, come se la sapessi lunga, ma non sai nulla. Il tuo cervello non funziona al meglio sotto azione delle radiazioni, e come ti ho spiegato la tua percezione è abbattuta ». La donna indicò con la punta del naso i due subordinati che le avevano voltato le spalle « Con me sono venuti Terence, Kibwe e Sandy. Più te facciamo cinque ».

« E…? » la sollecitò l’uomo, fallendo nel vedere dove volesse arrivare.

« Ci sono sei persone in questa stanza ».

Le palpebre di Bellocchio si distesero, tramutando una comunicazione di ostilità in una di smarrimento. Il suo collo roteò lentamente grado per grado, passando in rassegna ogni angolo del bunker. I componenti della Seconda Unità erano sempre stati abbastanza compatti, e una combinazione di concentrazione sui vlog e azione delle radiazioni sinaptiche gli avevano impedito di scorgere la verità. Era presente un sesto individuo, nascosto nell’ombra, addossato al primo dei processori analogici all’ingresso. Vestito esattamente come un Flare, e ciò gli aveva dato modo di mimetizzarsi a occhi annebbiati. Per qualche ragione non ne distingueva i connotati nonostante riuscisse a vederlo, come se la sua mente fosse incapace di registrarne l’esistenza al di là di una sagoma rosseggiante sul muro grigio topo. Anche gli altri presenti si accorsero in quel momento di cosa stava succedendo e si unirono a Bellocchio nella reazione.

« Da quanto lo sai? » domandò a Ginger senza distogliere gli occhi dall’intruso.

« Da quando i miei si sono divisi. Prima probabilmente non eravamo abbastanza freschi per distinguerlo dagli altri vestiti uguali ».

Il giovane si fece coraggio e provò a intavolare un dialogo « Chi sei? ».

In risposta nel volto sfumato del clandestino si dipinse un sorriso maligno. D’un tratto un vento impetuoso iniziò a soffiare nella sua direzione, come se un vortice si fosse aperto dove si trovava, e le correnti crebbero al punto che le già instabili gambe degli altri cinque dovettero cercare appoggio nel tavolo da pranzo al centro del laboratorio. Jolteon scattò ai piedi della sua padrona abbandonando il quadro elettrico, e come risultato l’ambiente ricadde nell’oscurità totale per mancanza di adeguata corrente. Sotto i loro sguardi attoniti la sagoma prima umana della creatura sbiadì per ricomporsi, in un lampo di luce, in una forma ben diversa: un candeliere.

« No… » farfugliò Ginger incredula « No, ti ho vista morire! ».

« Non è la Dama Cremisi » la corresse Bellocchio, deglutendo a forza « Guarda le sue fiamme ».

È vero, il colore delle lamelle di fuoco che scaturivano dai quattro piccoli bracci del Pokémon era un viola spento anziché il chermes della loro vecchia conoscenza, ma ciò non rendeva la situazione meno critica: quando a trasformazione completata le raffiche si placarono, un Chandelure dalle iridi pulsanti li studiava taciturno.

Terence, nella posizione più distante dall’avversario, pensò di arretrare ulteriormente, salvo rendersi conto che un altro Pokémon Attiranime era comparso alle loro spalle, e un terzo li sorvegliava accanto al computer che avevano utilizzato prima. Erano in trappola.

Bellocchio sviscerò la circostanza: ogni via di fuga era indiscutibilmente preclusa. L’unica cosa che poteva fare era ciò in cui era esperto: cavarsela a chiacchiere. « Sapete parlare? ».

Il Primo Chandelure, ovvero la locuzione con cui identificava quello che era andato in avanscoperta camuffato da Flare, rispose « ». Il suo tono era molto differente da quello della Dama, più mascolino e soprattutto notevolmente più vuoto. Non aveva il carisma della sua nemesi, questo era certo.

« Che cosa volete da noi? ».

« Non vi abbiamo concesso domande » lo zittì imperiosamente il Pokémon « Voi ora ci seguirete ».

« Dove? ».

« Non vi abbiamo concesso domande ». Questa volta aveva parlato il Secondo Chandelure, ovvero quello che li arginava da dietro.

Bellocchio proseguì frattanto il proprio percorso mentale. Sicuramente quel trio era vittima delle radiazioni sinaptiche, esattamente come lo erano stati i Rotom. E i Rotom li avevano voluti morti a ogni costo, senza porsi scrupoli. Se anche per il momento questi compari non avessero pianificato di ucciderli, di certo tra i loro obiettivi a lungo termine non figurava liberarli vivi.

Inoltre, e non era un dettaglio poco rilevante, loro cinque non avevano tutto il tempo del mondo. Anzi, ogni secondo che sprecavano era un passo verso l’oblio, e non potevano permettersi di giocare a fare i prigionieri. Non aveva scelta.

« Mi dispiace, ragazzi » si scusò con i suoi amici in uniforme « Siete troppo lontani ».

Ciò che seguì si verificò nell’arco di pochissimi attimi: un rumore di risucchio schioccò echeggiando nella caverna, e sotto gli occhi attoniti dei Flare Bellocchio, Ginger e Jolteon scomparvero completamente alla vista. Il Terzo Chandelure, forse rispondendo a un istinto basilare o ipotizzando che si fossero resi invisibili, scagliò una Marchiatura che attraversò il punto in cui la triade si trovava appena prima finendo per incendiare lo Scissore retrostante.

« NO! Devono restare vivi! » sbraitò il Primo Chandelure, realizzando poco dopo con suo sollievo che dovunque fossero i due prigionieri non erano più lì. Con vista di fuoco si rivolse ringhiante ai tre rimanenti « Dove sono andati? ».

Inizialmente nessuno mostrò la fibra morale necessaria per rispondere. Rendendosi però conto che il silenzio non avrebbe giovato a nessuno, Kibwe si fece coraggio e si caricò sulle spalle il ruolo di portavoce della Seconda Unità « Non lo so ». Le fiamme sui bracci del Primo Chandelure vibrarono innervosite, e l’uomo cercò di palesare che non stava mentendo « Davvero, davvero, non lo so ».

Il suo interlocutore non fiatò, scambiandosi occhiate con i suoi soci in una silenziosa riunione deliberativa. Dopo un minuto che parve un’eternità il Secondo Chandelure li ammonì « Non provate a rifarlo ».

« Non ho nemmeno idea di cosa–– ».

« Voi ci seguirete ».

Preso in considerazione il tono con cui l’ultima frase era stata proferita, Kibwe comprese che se qualcuno di loro avesse esternato una parola di troppo li avrebbero freddati tutti, e annuì. Il Primo Chandelure cominciò a fare strada dirigendosi verso l’uscita e invitandoli a seguirli; poi, come ricordatosi di un particolare, si voltò e espresse l’unico ordine che i tre scienziati avessero udito capace di far loro accapponare la pelle in sincronia.

« Vi comporterete con riguardo quando sarete al cospetto di Hoopa ».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’avventura di Altoripoli si avvia alla conclusione! Non perdete la sesta e ultima parte: 1x32 – “Il teatro degli spettri”!

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** 1x32 - Il teatro degli spettri ***


Untitled 1

Episodio 1x32

Il teatro degli spettri

 

 

PREVIOUSLY ON LKNA: Serena è stata rapita. Seguendo l’unica pista a loro disposizione, una trasmissione sinaptica contenente il nome di Bellocchio, quest’ultimo giunge insieme a Ginger e alla sua squadra presso una caverna. Molti aspetti non quadrano: è troppo ampia per la sua posizione geografica, il segnale ricercato si perde al suo interno e pare essere stata abitata in passato da qualcuno che vi ha costruito un laboratorio.

Mediante una serie di video-diari scoprono che tale struttura era di proprietà del Pianeta Nero, un quartetto di scienziati dediti a costruire una macchina, lo Scissore, capace di donare alla cavia il potere di aprire varchi spaziotemporali. La storia si conclude in tragedia: dopo essere rimasto misteriosamente chiuso nella caverna, Alexander Kashlinsky, leader de facto del Pianeta Nero, pensa di sacrificare suo figlio Logan alla scienza pur di fuggire.

La notizia non è nemmeno la più agghiacciante: il gruppo di Bellocchio scopre infatti che l’antro in cui si trovano non è altro che una grande Poké Ball naturale che qualcuno sta sfruttando per rilasciare onde sinaptiche che minacciano di assoggettare le loro menti. Ginger vorrebbe andarsene e pianificare le mosse successive, ma tre Chandelure li prendono in ostaggio prima che possa agire. La situazione si fa critica: il tempo cosciente a disposizione si assottiglia, Bellocchio e Ginger scompaiono senza preavviso lasciando i tre Flare rimanenti alla mercé dei Pokémon, e questi rivelano di essere al servizio nientemeno che di Hoopa, vecchia conoscenza della Seconda Unità.

La possibilità di un lieto fine si allontana, e qualcuno inizia a capire che sacrifici andranno compiuti per conquistarlo.

 

 

 

 

 

 

« Rialzatevi immediatamente! ».

Kibwe si precipitò in soccorso di Sandy, che ormai non era praticamente più in grado di reggersi in piedi da solo, ignorando l’occhiataccia rivoltagli dal Secondo Chandelure. In realtà sarebbe potuto essere chiunque degli aguzzini che li accompagnavano nella scarpinata, ma il modo di comportarsi era simile a quello di colui che avevano identificato come Secondo Chandelure nel laboratorio, e peraltro la numerazione non era veramente importante. In fondo quel trio era quasi sicuramente già caduto preda della riscrittura sinaptica, dunque di fatto erano assimilabili a un solo ente.

Questo, inoltre, era ciò che dava a Kibwe il coraggio di aiutare Sandy nel momento di difficoltà in barba alle loro imposizioni. La menzione di Hoopa aveva scosso le fila dei Flare soprattutto perché portava con sé numerose domande: com’era sopravvissuto al buco nero? Com’era arrivato nel loro universo dal Mondo dei Morti? Se era lui la mente dietro l’invasione dei Rotom, com’era riuscito ad assemblare un esercito in così poco tempo? Ma un dubbio non c’era mai stato: quei candelieri animati lo temevano. Lo rispettavano. E se uno dei suoi ordini era stato di tenerli vivi, come si era evinto da una frase pronunciata dal Primo Chandelure, allora sarebbero arrivati da lui vivi. E lui poteva permettersi anche di infrangere le disposizioni di servi timorosi del loro padrone e fungere da stampella umana per il suo amico.

Era trascorso ormai diverso tempo, forse un quarto d’ora in mancanza di riferimenti esatti, da quando il gruppo aveva abbandonato il laboratorio scortato dai Pokémon. Fu allora che i tre prigionieri si resero conto del fatto che erano arrivati al capolinea: si trovavano di fronte a un’alta parete rocciosa rischiarata dalle fiamme violacee che in assenza di Faraday erano l’unica sorgente di luce.

Gli Attiranime iniziarono a consultarsi in privato, il che diede a Terence modo di confrontarsi sottovoce con i suoi colleghi, e più specificatamente con Kibwe. « Cosa pensi di fare quando saremo davanti a Hoopa? Usare… ? ».

« Prepara il tuo PSS » gli sussurrò lui, avendo cura di non essere udito « E poi fai come ti dico ».

« Non parlate! Non parlate! » si impose il Terzo Chandelure, il quale nel frattempo aveva concluso la confabulazione tattica con gli altri due. La sua figura fluttuò avanti di qualche metro, venendo quasi a contatto con il muro « Dio, abbiamo obbedito! ».

Dopo qualche secondo di quiete un lampo si accese sulla pietra, una sorta di incisione che fu visibile per non più di un istante. Dopodiché essa fu sostituita da una circonferenza color giallo acceso del raggio di svariati metri, al cui interno le tinte scure della caverna si confondevano in un magnifico turbinio fino a scomparire. In uno spettacolo senza pari un gorgo impastato si era aperto davanti ai tre Flare, un varco del tutto simile a quello della suite Notte Fonda. Indubbiamente era opera di Hoopa, e Kibwe pensò di comprendere perché li avessero portati fino a lì: un passaggio di quelle dimensioni richiedeva una parete sufficientemente verticale per posizionarsi al meglio.

« Entrate » intimò il Secondo Chandelure. L’informatico fin dall’inizio l’aveva visto come il meno strisciante, quello che si sarebbe posto meno problemi a ucciderli se avesse avuto una valida ragione per farlo. Meglio non dargliela, pensò allora mentre, sempre sorreggendo Sandy, si fece coraggio e si inoltrò nel maelstrom indaco.

Passarvi attraverso fu una sensazione pressoché unica, poiché non avvertì una netta divisione tra il precedente e il susseguente, come se avesse valicato una banale porta. Non ebbe tuttavia alcun dubbio sul fatto di essersi mosso: se prima il buio era avvolgente al punto da farlo sentire una fiaccola in un campo sterminato, ora si era spostato in un luogo la cui luminosità lo accecava in un bianco permeante.

 

 

 

PARTE PRIMA – Nadir

 

 

 

Quando Ginger poggiò i piedi per terra il mondo intorno a sé girava vorticosamente come il cestello di una lavatrice. Poco coscienziosamente pensò di fare qualche passo in avanti, ma ciò che ottenne fu solo barcollare visibilmente con andatura dinoccolata. Dapprima pensò di trovarsi in un breve sprazzo di coscienza dopo essere stata definitivamente riscritta dalle onde sinaptiche, e solo dopo rammentò l’ultimo suo ricordo, prigioniera con gli altri dei tre Chandelure. Di essi non c’era traccia nell’ambiente in cui si trovava ora, quindi c’era una sola possibile spiegazione: si era teletrasportata.

Di lì i suoi pensieri si esibirono in voli pindarici da un argomento all’altro. Se i suoi atomi erano stati veramente separati e ricomposti altrove, la domanda successiva era perché l’avessero fatto, dato che non ricordava di aver alcun Pokémon in grado di usare Teletrasporto. Contemporaneamente a queste elucubrazioni i suoi occhi iniziarono a mettere a fuoco il circondario, senza molti dubbi la stessa caverna da cui era partita – ma in un punto diverso –, e constatò che la luce che vedeva proveniva da Faraday, il suo Jolteon, che quindi aveva viaggiato con lei.

« Siamo ancora vivi! Questa giornata può definirsi un successo! ».

Udire quella voce innervosì la donna più della dislocazione: era stato lui. Chi se non Bellocchio avrebbe potuto concepire un’idea così malsana? Appena riacquisite abilità motorie accettabili si avventò su di lui da dietro, scaraventandolo contro il duro suolo roccioso dell’antro.

« CHE COSA TI SALTA IN MENTE? » gli ruggì nell’orecchio mentre quello ancora cercava di capire cosa l’avesse colpito. Sentiva che avrebbe vomitato da un momento all’altro, ma tanto meglio se fosse capitato sulla faccia di quell’arrogante.

« Calma, calma… ».

Il tono di voce dell’uomo era lucido, così come anche la sua mente, perché a differenza di lei aveva potuto anticipare il momento del teletrasporto e approntarsi, mentre lei era stata colta di sorpresa. Ciò la fece imbestialire ulteriormente « GLI ALTRI SONO ANCORA LÀ! ».

« Ho chiesto scusa, io–– ».

« LI AMMAZZERANNO! PENSERANNO CHE CI STIANO COPRENDO E LI AMMAZZERANNO! ».

« Ringrazia che ho evitato lo stesso destino a noi! » esclamò il giovane.

Ginger fu sul punto di sferrargli un pugno di rara violenza, ma un nuovo attacco di nausea prese il sopravvento e il suo corpo cadde di lato in preda ai giramenti di testa. Avrebbe rimesso a breve, ne era certa.

« Non muoverti, peggiorerà solo la situazione ».

Nella fatica che profondeva per reprimere il voltastomaco causato dal teletrasporto, l’Ufficiale trovò comunque la forza di parlare « Con cosa ci hai portati qui? ».

Bellocchio, frattanto drizzatosi in posizione seduta, mostrò fugacemente una delle Poké Ball agganciate alla sua cintura « Karen, la Ralts di Serena. L’ho presa in prestito nel caso potesse servirle, ma a quanto pare è servita più a noi ».

« Allora riportaci indietro ».

« Se anche potessi, a che pro? ».

A che pro? Oh, che domanda pungente. Forse per provare ad aiutarli? Non lasciarli da soli nelle mani dei Chandelure? Aveva sempre pensato, o sperato, che l’insensibilità di quell’individuo fosse figlia di un pessimo senso dell’umorismo, ma ora si faceva strada in lei l’ipotesi che non avesse mai finto.

Comunque su una cosa aveva ragione: non poteva tornare al punto di partenza. Il meccanismo di Teletrasporto era casuale, sarebbero potuti riapparire dovunque. In effetti il solo fatto che si trovassero ancora nella grotta del Pianeta Nero era un miracolo, dato che il raggio d’azione medio della tecnica era di chilometri.

In quel momento, inaspettatamente, una allarmante considerazione le fendé il cervello. « Quel Ralts sa dissipare i residui particellari, vero? ».

« I che? ».

« Residui particellari. Quando ti teletrasporti le tue particelle in volo sfiorano le altre lasciando un tracciato visibile. Si può usare per seguirti ».

« Mettiamolo tra i forse ».

« Oh, perfetto » inveì sottovoce Ginger. L’unica nota positiva era che ancora non li avevano trovati, quindi c’era una possibilità che i Chandelure o il loro leader non sapessero farlo.

Bellocchio esaminò per la prima volta con attenzione il luogo in cui erano ricomparsi. Le dimensioni, un chilometro cubo o giù di lì, erano decisamente minori dell’atrio roccioso in cui il laboratorio di Kashlinsky era stato costruito. Le pareti erano di conseguenza discretamente alte, ma non vi era traccia delle proporzioni ciclopiche in cui si erano imbattuti nel primo ambiente. Un’altra rilevante differenza era che non c’era alcuna traccia di uscite.

O meglio, quasi. « Ehi, Ginger, vieni a vedere » la chiamò Bellocchio incuriosito mentre, capo alzato al soffitto, osservava stupito un’ampia spaccatura nella roccia che si perdeva sopra di loro. Un baratro all’inverso, si sarebbe detto. « Un bel buco ».

La donna concordò. Con un cenno indicò a Jolteon di porvisi sotto per illuminarlo, ma anche un Flash relativamente ravvicinato si perdeva nelle ombre di quella cavità. « Mi chiedo dove porti ».

« In alto ».

Le parole del giovane, scandite con ironia, indussero un tenue risolino amaro in Ginger. « Mi ricordi Ross. Certe volte vorrei avere la vostra capacità di fregarvene del contesto in cui scherzate ».

« La mia era un’osservazione legittima » contestò Bellocchio. Quindi, mentre i suoi occhi si abbassavano per tornare ad analizzare l’ambiente limitrofo, una sorta di imprecazione a versi uscì dalla sua bocca. « Scusa per il PSS ».

« Eh? ».

L’uomo puntò l’indice su un punto del terreno, dove frammenti di uno smartphone erano sparsi dopo uno schianto all’apparenza alquanto violento. « Dev’essere successo col teletrasporto ».

Ginger ne fu onestamente sorpresa, perché avrebbe giurato di avere ancora il suo stipato nella tasca dell’uniforme a giudicare dalla pressione che esercitava sul suo fianco. Quando andò con la mano a indagare all’interno verificò che effettivamente era così. Disorientata sfilò il cellulare bianco come il latte e lo mostrò a Bellocchio, che fece lo stesso con il suo che lei aveva personalmente ripulito dal diodo di polarizzazione. Se entrambi i loro PSS erano nei rispettivi palmi, di chi era quello frantumato al suolo?

La risposta calò sull’ingegnera come una spada dal cielo. « Ti sei sbagliato, quel buco non va in alto ».

« Cosa? ».

« Quello è il PSS di Sandy ».

Bellocchio fu scioccato non tanto per la rivelazione, quanto per essersi temporaneamente dimenticato dell’incidente dello strapiombo. Che la riscrittura si stesse facendo strada anche tra le sue sinapsi ora? Controllò l’oggetto più da vicino, ma con la caduta che aveva fatto era irrecuperabile. « È caduto qui? Quindi ci troviamo sotto al pianterreno ».

« Teletrasporto non punta mai in basso » obiettò Ginger « No, no, non ricordi cosa diceva Kashlinsky? Parlava del generatore a caduta perpetua, il tubo! ».

« Continuo a non capire ».

La Flare esitò, cercando di fare ordine mentale prima di spiegare un concetto tanto astratto rispetto alla realtà quotidiana. « Questa caverna è in quattro dimensioni ». L’uomo cercò di protestare, ma lei lo fermò prima che potesse « È così! È più grande all’interno, molto più grande! Uno spazio simile è possibile solo perché la grotta è ripiegata su se stessa! ». Indicò il PSS sbriciolato « Non è semplicemente caduto verticalmente, si è mosso in più direzioni! E lo stesso il tubo del generatore, ecco come funziona! Al Pianeta è bastato trovare dei fori che si connettessero ad anello! Il cubetto che scorre al suo interno è entrato in un loop gravitazionale e frenato dall’acqua produce energia termica che viene convertita in elettricità! ».

Bellocchio si sforzò di non perdere il filo, anche se il sermone scientifico pronunciato in dieci secondi netti gli complicava decisamente il compito « Stai dicendo che il cubetto è destinato a precipitare in eterno? ».

« Generatore a caduta perpetua, dopotutto. È come camminare sulla superficie di una sfera, non ci sono limiti ma percorrendo abbastanza strada torneremmo al punto di partenza. Curvatura spaziotemporale ». Questo spiegava anche perché non avessero lasciato la caverna con il Teletrasporto: il suo movimento era ancorato alle tre dimensioni spaziali, quindi non poteva abbandonare quella grotta esattamente come non poteva fuggire dall’universo stesso. « Solo una cosa non torna: com’è possibile? Voglio dire, sicuramente c’entra lo Scissore ».

Un luogo inspiegabilmente apparso dalle dimensioni impossibili, con forte curvatura spaziotemporale rilevata. Bellocchio frugò nel labirinto della memoria alla ricerca di un analogo di quella situazione tanto familiare, ma non fu necessario ispezionare a lungo. Era successo due giovedì prima, in un giorno nebbioso a Castel Vanità.

La Sala degli Stati del castello. L’antro di Omastar risalente all’alba della vita sulla Terra. Ora gli era chiaro: lo Scissore ai tempi del Pianeta Nero aveva riaperto una sacca temporale, un universo a bolla nato da un inceppo nel meccanismo del tempo. La caverna in cui si trovavano doveva essere vecchia di milioni di anni, quando una biforcazione anomala l’aveva congelata in un globo fuori dal cosmo mentre quella vera, probabilmente, era franata prima ancora che gli esseri umani sapessero parlare. La cicatrice era poi stata strappata nuovamente quando lo Scissore, alimentato da uno dei frammenti celesti, aveva concentrato i gravitoni intorno a sé, spedendo l’intero laboratorio fuori sincronia rispetto alla linea temporale del loro universo.

Tuttavia due cose non tornavano. Numero uno: perché in tempi lontani bolle temporali erano nate così ravvicinate? La probabilità che una si verificasse spontaneamente era già di per sé concretamente nulla. Numero due: secondo quanto riportava Kashlinsky nei vlog non erano presenti vie di fuga dalla caverna, quindi la bolla era intatta quando ci erano entrati. Dunque perché ora l’uscita esisteva?

Bellocchio si voltò verso Ginger, cogliendola mentre traballava instabile sulla roccia sottostante. « Ehi, ehi, tutto a posto? Sdraiati » le disse affrettandosi per aiutarla. La donna si rifiutò, ma quantomeno giunsero al compromesso di mantenerla seduta perché non si sforzasse troppo. Nessuno dei due aveva idea di quanto tempo mancasse alla riscrittura completa, ma non doveva essere molto.

« Are you hanging up a stocking on your wall… ».

Si avvertì una quasi umoristica dissonanza musicale quando gli speaker del PSS dell’Ufficiale diffusero nell’ambiente il glam rock natalizio degli Slade. La coppia di solitari prigionieri della caverna si guardò negli occhi disorientata, e probabilmente avrebbero riso se non fossero stati tanto vicini alla morte psichica: qualcuno telefonava all’ingegnera.

 

 

Kibwe l’aveva visitata una sola volta, con i suoi compagni del liceo in gita scolastica. Ricordava l’eleganza della scalinata marmorea, il calore delle luci dorate, i maestosi affreschi del foyer; ma più di ogni altra cosa aveva impressa nella memoria la spettacolarità del teatro, le sue tinte gialle e vermiglie, i ricchi ornamenti scolpiti, i fastosi drappi che fungevano da sipario, la moltitudine di poltrone vellutate e il dipinto di Chagall sulla cupola che avviluppava il lampadario. Perciò realizzò immediatamente che il luogo dove il portale attraversato nell’antro lo aveva condotto era precisamente l’Opéra Régional.

L’edificio era scomparso misteriosamente dopo il Primo Galà di Luminopoli, parallelamente alla finale al Jardin d’Éden. Visti gli eventi assurdi che si erano verificati in quell’occasione – cielo viola in primis – si era pensato a un effetto collaterale, e nonostante le ricerche non fossero mai state formalmente interrotte nessuno sperava più in un suo ritrovamento. L’organizzatore del Secondo Galà, Franz Hanlov, stava proprio in quel periodo ristrutturando l’Opéra Pirouette per accogliere un maggior numero di spettatori, a riprova della scarsa fiducia in un possibile recupero, e invece eccola davanti a sé. Probabilmente avevano abbandonato la caverna, visto che almeno personalmente l’informatico non avvertiva più l’influsso delle radiazioni. E tutto ciò non era nemmeno l’aspetto più stupefacente.

Era pieno di spettri. I tre Flare, fuoriusciti sul palcoscenico dal varco, potevano ammirare l’intera sala gremita di ogni specie di Pokémon fantasma immaginabile, dai Gengar ai Trevenant passando per i Chandelure a cui il loro trio di aguzzini si era ricongiunto. Sulla tribuna d’onore, il balconcino centrale al livello più alto, circondato da Doublade, Golurk e montagne di gioielli, sedeva su un trono una creatura dall’aspetto demoniaco. Era alta probabilmente mezzo metro, dalle sfumature rosee su un corpo grigio spento e le iridi color chartreuse; il suo capo era deformato da una coppia di corna e molto nelle sue sembianze ricordava certi geni apparsi nelle fiabe.

Al loro arrivo i Flare erano stati accolti da un confabulare intenso da parte dei lugubri spettatori; ma, nel momento in cui quello che pareva il loro sovrano aveva conciliato la presenza del trio, i suoi sottoposti avevano taciuto rispettosamente. E ora quel bizzarro individuo li stava scrutando, per poi dar loro ricevimento con una stridula voce che sarebbe suonata ridicola in chiunque altro, ma non in lui. « Benvenuti! ».

Kibwe rivolse una rapida occhiata a Terence, che annuì silenziosamente per informarlo di aver svolto il suo compito.

 

 

Ginger si portò il dito alla bocca per chiedere al suo amico di non parlare mentre, non una parola proferita, disattivava il microfono del suo PSS. Quando fu certa di non poter essere udita dall’altra parte chiarì « Sono in comunicazione ».

Bellocchio in realtà l’aveva intuito fin dal primo istante anche senza necessità di spiegazione: i suoi colleghi avevano telefonato per consentirle, dovunque fosse, di seguire il dialogo che stavano intrattenendo con un ignoto. « Di chi era quella voce? ».

« Di chiunque sia, i miei sono con lui o lei in questo momento ».

L’uomo annuì cupo, ascoltando la conversazione emanata in vivavoce dallo smartphone. Di una cosa era sufficientemente certo: non era umana.

 

 

« Avete impiegato più di quanto mi aspettassi per arrivare qui ».

Kibwe scrutò perplesso l’individuo sprofondato sul suo trono giocherellare con un anello dal discreto diametro. « Ci aspettavi? ».

« Ovviamente vi aspettavo! ». Il Pokémon si dissipò nell’aria per ricomporsi poco distante tra loro, fluttuante sulla platea in cui si era formato un vuoto circolare privo delle ingerenze dell’oceano di fantasmi « Va meglio, vero? Ho rivestito questa struttura di zinco. Pensatela come una gabbia di Faraday, nessuna radiazione sinaptica può entrare o uscire di qui ».

L’unico disposto ad assumersi l’ingrato compito di conversare con quell’essere raccapricciante, Kibwe, trasse due conclusioni da quelle parole: la prima era che si trovavano ancora nella stessa caverna, la quale doveva vantare dimensioni ragguardevoli se poteva contenere il teatro dell’Opéra Régional; la seconda fu meno immediata, poiché dovette rammentare un argomento che aveva udito l’ultima volta nella sala riunioni del Ligue Château d’Examen. « I furti di zinco degli ultimi giorni… Sei stato tu ».

« Ben detto ».

La conferma del suo interlocutore innescò nell’informatico una lunga serie di deduzioni: se sapeva come funzionavano le onde di riscrittura sicuramente era lui a produrle, e allo stesso modo era responsabile delle lettere trasmesse alla regione. Quindi lui aveva sottratto il generatore dalla Cripta, lui aveva ordinato ai Rotom di attaccare Kalos, lui era il segreto fautore di ognuno dei terribili avvenimenti delle ultime ventiquattr’ore e più. Erano giunti lì per svolgere una missione, e la missione era la ricerca del mostro che ora stava loro davanti. L’uomo dietro le quinte, appropriatamente. « Chi sei? ».

« Credevo che l’aveste già intuito » lo canzonò lo spirito in un timbro tanto deviato quanto suadente « Il mio nome è Hoopa, e sono il Dio degli Spettri ».

I tre Flare in un senso si erano attesi la risposta, eppure era difficile credere che la voce terrificante che aveva parlato con loro nel Mondo dei Morti per mezzo di Ross appartenesse a quel piccolo demone. E Dio degli Spettri? In qualunque modo fosse fuggito dal labirinto doveva essersi dato da fare.

« Vi vedo un po’ disorientati » denotò il Pokémon con un risolino « Forse siete in ansia per la vostra amica? ».

Se prima il gruppo era turbato ora era davvero confuso: amica? Hoopa schioccò le dita e nello spazio accanto a lui si compose un’ellisse turbinante. Dopo qualche secondo fu chiaro che il fantasma aveva aperto una finestra verso un punto diverso della caverna, perché nel disordine divenne visibile una ragazza in abito scuro incatenata a un freddo muro di roccia. Era incosciente, facilmente svenuta o addormentata, ma perlomeno non pareva ferita in modo grave. La Seconda Unità la riconobbe all’istante, ma fu solo Sandy a rammentarne il nome. « Serena! ».

 

 

Bellocchio sobbalzò, gettandosi sul PSS alla menzione del nome della sua compagna di viaggio. Non poteva vedere, ma dal tono dell’astronomo poteva intuire che non era un’esclamazione di terrore, bensì di sollievo. Non era morta, doveva averla vista. Mai aveva tanto desiderato che qualcuno dicesse di più, e invece seguì un silenzio che tese ogni corda del suo animo. Si voltò verso Ginger aspettandosi, se non di trovarla in fibrillazione come lui, quantomeno di vedere un sorriso fare capolino sul volto. Invece ciò che si presentò ai suoi occhi era una donna in preda a un attacco di convulsioni.

Immediatamente si precipitò dietro di lei per sorreggerla, temendo che perdesse conoscenza da un momento all’altro. « Cosa c’è? ».

« Hoopa… » farfugliò lei. Gli occhi erano vitrei, la sudorazione aumentata e le pupille vibravano sensibilmente. Non era effetto delle radiazioni, era qualcos’altro, anche se il giovane non era in grado di stabilire cosa.

« Sì, è quello che ha detto ».

Ginger si passò la mano sul volto, riprendendo parzialmente il controllo di sé « Una settimana fa io e gli altri siamo andati al Crésus Hotel per indagare. Siamo finiti in un posto, il Mondo dei Morti… E c’era lui… Ha ucciso mio fratello… ». No, dentro di sé l’ingegnera sapeva che non era vero. Hoopa poteva aver collaborato, ma chi aveva deciso di non salvare Ross dal buco nero era stata lei. Si ravviò i capelli nervosamente, cercando di reprimere quel pensiero ricorrente « E uno dei miei, Etan… Lui si è sacrificato perché quel mostro non tornasse, ed è stato inutile… ».

Era quello a farla soffrire di più. Molti martiri erano stati necessari in quel giorno buio perché l’umanità fosse salva, ed era stato vano, perché Hoopa era tornato in piena forma proprio davanti ai loro occhi. Ginger non voleva piangere, eppure le sue guance furono presto rigate da lacrime di rabbia.

Bellocchio la osservò addolorato. Comprendeva i sentimenti della sua amica, e senza dubbio appellarsi alla sofferenza era il modo migliore per sconfiggere la riscrittura sinaptica, ma non così. Doveva calmarsi assolutamente, o sarebbe stata schiacciata dal peso del suo passato. E non poteva permettersi di impazzire, non ora.

 

 

« Vedo che almeno uno di voi si è risvegliato » commentò Hoopa soddisfatto, scrutando il più anziano del trio che aveva reagito per primo.

« Perché l’hai rapita? » gli domandò Sandy.

« Per distrarvi ».

Kibwe esibì una smorfia scettica sul volto « Per distrarre noi? ».

« Vi ho tenuti d’occhio mentre sventavate l’invasione dei miei Rotom, e vi ho visti in compagnia di quella ragazza. Ho pensato che sarebbe stata un’ottima esca per tenervi impegnati ».

L’uomo comprese il ragionamento del loro avversario: non era per Bellocchio che aveva preso Serena, era per loro. Avrebbe potuto anche sequestrare Ginger, la bionda gli doveva semplicemente essere parsa più facile da ottenere. « Perché ci volevi impegnati? ».

« Per sottrarvi il catalizzatore » sorrise maliziosamente Hoopa. Con un altro schiocco di dita il varco precedente si richiuse e al suo posto comparve un treppiede sormontato da una sorta di mortaio cavo. Kibwe stralunò gli occhi alla vista del macchinario: era proprio il catalizzatore, o l’Arma come spesso vi si erano riferiti nelle ore tese dell’invasione. Era stato il loro piano principale fino a quando Bellocchio non aveva avuto l’intuizione del nuovo sole: far divergere con quell’oggetto le onde del cannone a compressione e detonare tutti i Rotom. L’avevano lasciato al Pokémon Center prima di partire verso il Percorso 8. E a quel punto l’informatico intuì: il rapimento era stato un diversivo per distrarli dal suo furto.

Hoopa colse l’impercettibile variazione nell’atteggiamento dei Flare e sorrise beffardo « Oh, ora iniziate a capire, vero? ».

« A cosa ti serve? » lo interpellò Terence.

« Non avete fatto caso alle due lettere che vengono trasmesse da tempo? ».

L’asiatico aggrottò la fronte « LK? Che cosa c’entra? ».

« Sono onde sinaptiche anche quelle, l’unica differenza è che le stiamo trasmettendo all’esterno. Non avete notato che sono estremamente deboli? Sono avvertite prevalentemente in sogno, nello stato di minima coscienza. Era un test per verificare la potenza delle emissioni ». Ognuna di quelle parole fu un ulteriore coltello nello stomaco di ciascuno degli scienziati, perché il filo del piano si dipanava finalmente davanti ai loro sguardi attoniti. « Il vostro catalizzatore può intensificare i fenomeni di perturbazione non elettromagnetici. Con esso il raggio di azione si estenderà all’intera regione ».

« E potrà riscrivere Kalos… » completò Sandy orripilato, giungendo per primo all’ovvio compimento. Con il catalizzatore avrebbe potuto estendere ciò che li aveva quasi stroncati nella caverna a un raggio decisamente maggiore. Tutti gli abitanti sarebbero stati riscritti usando proprio il loro asso nella manica. « L’invasione dei Rotom… L’hai organizzata solo per stanarci, vero? ».

« Rubare dalla Cripta un generatore sperimentale è stato un gioco, ma accedere ai piani alti dove tenevate il catalizzatore è praticamente impossibile. L’unico modo che avevo per ottenerlo era costringervi a portarlo fuori, per questo ho pianificato una situazione tanto critica che vi costringesse a usarlo ».

 

 

Per Ginger, che si era appena ripresa dallo shock della rivelazione di Hoopa, questo fu un altro colpo al cuore. Stentava perfino a crederci: li aveva raggirati. Un evento di portata paragonabile solo alle Grandi Guerre era stato orchestrato con l’unico scopo di mettere le mani su un artefatto Flare. Nessuna intenzione di dominare Kalos, sapeva benissimo che avevano un modo per fermarlo. Aveva giocato con loro come si fa con le pedine del backgammon.

Dal PSS il Pokémon riprese a parlare « Ovviamente mi serviva qualcuno di immune al cannone a compressione, visto che tutti i Rotom sarebbero esplosi, per questo ho incaricato il Chandelure che avete incontrato di recuperare il catalizzatore. Quando ve ne siete usciti con il piano alternativo la sua utilità è venuta meno. L’ho uccisa per mostrare a voi che non era finita, per assicurarmi che non ve ne tornaste al Frattale con il mio obiettivo ».

Bellocchio si sentì pervadere dalla collera. Non credeva che sarebbe potuto succedere, ma provava pena per la Dama Cremisi. Aveva creduto che fosse morta per aver fallito il suo compito, e invece era molto peggio: era morta perché non era stato necessario svolgerlo. Era stata sacrificata per proseguire il piano.

 

 

« Ma perché? » obiettò Kibwe energicamente « Cosa ne trai se Kalos passa ai tuoi ordini? ».

« Non hai ancora capito? So che avete visto i video di mio padre, dovreste esserci arrivati ».

Questo. Fu questo il momento in cui tutti i presenti, compresi i due che assistevano indirettamente alla conversazione, si allinearono perfettamente in un’espressione di sgomento. E ciononostante nessuno accettò la possibilità di buon grado, perché era la cosa più assurda immaginabile. Hoopa era Logan Kashlinsky?

« Quel bastardo uccise mia madre nel tentativo di salvarsi. Se ne fregò dei rischi della manipolazione genetica trasformandomi in ciò che sono ora, una deformità » proseguì lo spirito con un ringhio soffocato tra i denti « Io sarei potuto essere come voi, e invece sono stato immolato sull’altare della scienza. Lo sventrai con le mie stesse mani, scaricandolo ai margini della Galassia come la spazzatura che era ».

Sandy fu il più impressionato dal racconto consegnato con una ferocia sbalorditiva alle sue orecchie. Tutto acquisiva un senso maggiore in quell’ottica: la capacità di quell’individuo di produrre wormholes, evidentemente elargitagli dallo Scissore, e la scelta di usare proprio le lettere L e K come test per la propagazione sinaptica esterna. Ma nonostante ciò accettarlo era difficile, perché significava che Hoopa non era un Pokémon. Era stato un umano, o più precisamente un feto, prima di essere crudelmente mutato in un mostro. Da un cosmologo, per di più, un suo potenziale collega. « Mi dispiace » disse con un filo di voce, ma le sue parole dovevano suonare spente a chi aveva visto la propria vita distrutta prima ancora di nascere.

« Ah, e sapete la cosa migliore? Lo Scissore funzionò. Acquisii il potere di aprire varchi nello spaziotempo. E quando andai alla ricerca dell’universo gemello, quello per cui ero stato mutilato della mia umanità… Non trovai nulla ». Hoopa si infervorò « Ho vagato nel freddo nel cosmo, ai confini della conoscenza, e ho trovato il vuoto. Il flusso oscuro era un errore di misurazione. La stupidità di mio padre mi ha rovinato, la sua incapacità di pensare razionalmente. Perciò, vedete, non trovate che questo mondo sarebbe un posto migliore se tutti chiedessero prima a me? ».

« Non li renderai più saggi, li trasformerai solo in soldatini obbedienti » ribatté secco Terence.

« Ciò che farò a voi è esattamente ciò che voi fate ai vostri Pokémon. Ditemi, Flare, vi sembra ancora così umano adesso che il trattamento vi riguarda direttamente? ».

A quel punto anche il matematico tacque. Sandy e Kibwe abbassarono il capo nella vergogna, incapaci di dare torto al loro interlocutore. Hoopa non si fermò, quasi volesse di proposito espellere quelle tossine cerebrali dal suo corpo « Ho progettato per anni la mia vendetta, usando questa caverna come base d’azione. Facendomi un nome, entrando nelle leggende come Dio degli Spettri. Poi due settimane fa qualcosa è cambiato, e di colpo la caverna si è ritrovata un’uscita accessibile al mondo ».

 

 

Bellocchio corrugò il volto in un’espressione di curiosità. Di colpo la caverna si è ritrovata un’uscita erano parole che evocavano una possibilità che non gli era venuta in mente.

« Ho dovuto affrettare i tempi, introducendomi nella Cripta per rubare il generatore e manomettendo la prima serie dei P5S. Visto il poco tempo converrete che ho svolto un buon lavoro ».

Questa volta toccò a Ginger rimanere stranita da ciò che Hoopa sosteneva « Ma come ha fatto? Infiltrarsi nei Flare è impossibile ».

« Beh, poter creare varchi spaziali gli dà un certo vantaggio intrinseco » le fece notare il suo alleato.

« Per la Cripta, sì, ma inserire i diodi in un’intera partita di PSS richiede presenza prolungata ».

Di nuovo la conversazione in corso dall’altro capo del filo conquistò l’attenzione della spelonca, ora con il timbro profondo di Kibwe « Perché ci hai detto tutto questo? ».

« Ah, questa è un’ottima domanda. Senza mezzi termini, avevo bisogno che manteneste aperto il collegamento telefonico con i vostri due soci dispersi abbastanza a lungo per rintracciarli attraverso i segnali di ricezione, e rivelarvi informazioni private era il modo migliore per garantirlo ».

Ginger e Bellocchio rimasero immobili, congelati dall’ultima frase. Lo sapeva, sapeva benissimo che lo stavano ascoltando. L’aveva sempre saputo e aveva tratto vantaggio dalla situazione. Hoopa parlò nuovamente, diretto però proprio a loro « Permettetemi di riformulare: presto avrete compagnia ».

L’ingegnera si gettò sul PSS e chiuse il collegamento senza pensarci due volte, ma ormai era troppo tardi: un trio di Chandelure, forse gli stessi che li avevano sorpresi nel laboratorio di Kashlinsky, si materializzò a triangolo a una distanza di una decina di metri tra loro. Jolteon balzò prontamente vicino alla sua padrona, che recuperato lo smartphone si ricongiunse a sua volta a Bellocchio. « Usa il Teletrasporto ».

« Potremmo finire da Hoopa ».

« Voi ci seguirete » stabilì categorico uno degli spettri che li avevano accerchiati, con uno schema comunicativo che somigliava vagamente a quello del Secondo Chandelure.

« Potremmo anche finire murati, la mossa è inaffidabile in quattro dimensioni, USALO! ».

Bellocchio ritenne la morte incipiente un’argomentazione sufficientemente persuasiva. Il Secondo Chandelure rilasciò una tecnica che poteva essere uno Psichico atto a piegarli senza ucciderli, ma Karen dentro la Poké Ball di Serena lo anticipò di quanto bastò per svanire nell’aria evitando il colpo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

* * *

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una volta materializzatisi in un diverso ambiente, essendosi entrambi preparati al teletrasporto, Bellocchio e Ginger si sarebbero attesi di conservare un certo grado di lucidità. Ciò fu vero per un secondo netto; dopodiché entrambi furono colti da brutali giramenti di testa e debilitazione motoria, al punto che dopo un passo ciascuno caddero riversi sul manto roccioso sottostante. Vigeva un freddo glaciale e nemmeno il Flash di Jolteon poteva rimediare a ciò, dal momento che gran parte dell’energia prodotta confluiva nella luce piuttosto che nel calore. Forse la temperatura non era nemmeno realmente più bassa rispetto alla media della caverna, e si trattava semplicemente di una sensazione da loro avvertita.

Bellocchio si trascinò in avanti con le braccia, incapace di migliorare la sua postura per quanto provasse « Che… sta… succedendo? ».

« Onde sinaptiche. Sono… dobbiamo essere vicinissimi alla fonte… » biascicò la donna, che ormai faticava perfino a parlare. La frase successiva uscì dalla bocca frammista a spasmi di dolore « Manca poco ».

Il suo compagno di sventura sgranò gli occhi per il terrore. L’oblio totale, la sua fobia più profonda… Stava per succedere, ben prima del tramonto e senza alcuna promessa di sopravvivenza. Osservò la sua mano destra, le sue dita ossute che tremavano, e le avvertì esterne al suo corpo, non sue, come se non fosse più in grado di controllarle. Non gli appartenevano più. « Cosa… facciamo? ».

« Nulla » rispose secca Ginger, spostandosi supina con i ricci a fungere da cuscino. Faraday le si accostò con la sua luce, immune alla loro fiacchezza perché le radiazioni sinaptiche erano programmate per non agire su chi aveva già un codice sinaptico impresso; in altre parole, nessun pericolo per i Pokémon già catturati. Nella sua testa penetrava nulla più che rumore di fondo, distraente ma non debilitante « Abbiamo perso, abbiamo iniziato già sconfitti. Lascia che ti prenda ».

Il pugno di Bellocchio si strinse in un tentativo di sottomettere le lacrime che minacciavano di sopraggiungere. Non poteva finire lì. C’era troppo che non sapeva. Che cos’aveva fatto alla Dama Cremisi e agli spettri perché lo detestassero? Perché i Rotom non lo conoscevano? Perché dimenticava ogni cosa al calar del sole?

Solo allora, appena prima di svanire, si rese conto di quanto era egoista. Lui che nel taccuino evidenziava la sua natura eroica, si stava preoccupando soltanto di se stesso. Esattamente come Alexander Kashlinsky, colui che indirettamente aveva causato tutto quello. E Serena? E il resto della Seconda Unità? Doveva fare appello alla parte migliore di sé, in qualsiasi frazione fosse ancora scampata alla riscrittura. E prima di tutti gli altri, prima ancora di sé, doveva salvare Ginger.

E sapeva benissimo qual era l’unico modo per ritardare il trionfo delle onde sinaptiche, perché lui stesso l’aveva detto appena prima che il trio di Chandelure li sorprendesse nel laboratorio: aggrapparsi alle emozioni più forti. La paura di andarsene gli aveva restituito almeno il raziocinio necessario per pianificare la mossa successiva, ma il panico era inadatto a lungo termine. Troppo volatile, troppo deleterio. Ma a che cos’altro avrebbe potuto fare ricorso?

Rotolò di centottanta gradi sulla vita per rivolgersi nella direzione dell’ingegnera, facendo intendere – se mai qualche dubbio fosse stato possibile – che il quesito era rivolto a lei.

« Ti sei mai pentita di qualcosa? ».

 

 

 

PARTE SECONDA – L’inizio e la fine

 

 

 

Ginger sorrise. Che domande, tutti si pentono di qualcosa, è parte integrante della vita. Per non farlo bisognerebbe essere esenti da errori, oppure privi di alcun senso di autocritica. D’istinto pensò di parlare di Ross, ma riconsiderò subito l’ipotesi. Le dispiaceva aver dovuto lasciarlo nel labirinto di Hoopa, ma l’avrebbe rifatto anche ora, pur sapendo che il loro nemico era sopravvissuto. Era stato un tentativo valido, e non aveva rimorsi, o almeno faceva il possibile per convincersene. « La scuola ».

« La scuola… » ripeté Bellocchio con tono ironico. Avrebbe detto che un’Ufficiale Flare si fosse macchiata di colpe posteriori alla sua infanzia.

« Non volevo iscrivermi a ingegneria » spiegò lei, ben conscia dell’assurdità dal momento che era la migliore della regione nel campo « Volevo diventare una storica. Scrivere saggi, indagare sulla mitologia di Kalos ».

« E perché non l’hai fatto? ».

« Mio padre aveva già deciso senza chiedere ». La ragione più vecchia del mondo, pensò. Avvertiva la sua testa appesantirsi, ma non seppe dire se fossero le sue sinapsi in procinto di cedere oppure ordinaria stanchezza « Io a ingegneria, Ross a biologia ».

« Ross era tuo fratello? ».

« Sì, lui… Lui voleva essere ingegnere. Era il suo grande rimpianto ». Ginger inspirò profondamente, colpita nel profondo dalle sue stesse parole. Quel rammarico era stato l’argomento del loro ultimo dialogo. Riprese rapidamente a parlare per non dovercisi soffermare con la mente, voltandosi verso il suo interlocutore « E tu? Tu ti sei mai pentito di qualcosa? ».

Bellocchio ci pensò su, ma in realtà non fu difficile dato che ciò che lo emozionava doveva strettamente appartenere al suo ultimo giorno di vita, l’unico sperimentato in prima persona. « Penso di essere stato io ad aprire l’uscita della caverna. Qualche settimana fa ho incontrato una sacca temporale e l’ho distrutta. Beh, Serena l’ha fatto, in realtà… Ma l’ha fatto per me, per salvarmi ». L’ultima parte l’aveva pronunciata con insolita vivacità, ma già i vocaboli successivi tornarono a essere trascinati « Credo che abbia portato al collasso anche della sacca di Hoopa. Se ha affrettato i tempi è colpa mia ».

La donna avrebbe voluto saperne di più, ma scoprì di non avere la forza per indagare e si limitò a recitare « Il pentimento è l’innocenza dei peccatori ».

Vi fu un breve silenzio, poi entrambi scoppiarono in una fragorosa risata. Sembrava uno dei proverbi scritti sul retro delle carte dei cioccolatini. « Che diamine vuol dire? ».

« Non ne ho la minima idea » ribatté Ginger. Tuttavia l’ilarità, per quanto rinfrescante, non ebbe vita lunga « Però mi manca ».

Bellocchio la scrutò negli occhi, comprendendo che parlava di Ross. Non serviva dire altro: mi manca era un’espressione così poetica nella sua semplicità che non necessitava di arzigogoli. Lui non l’aveva mai sperimentata nelle uniche ore di coscienza che ricordava, quindi non sapeva quanto potesse fare male, e non avrebbe mai voluto che la sua amica indugiasse su quel dolore. Ma doveva, perché prima di ogni altra cosa doveva salvarla dalle radiazioni. Era stata ferita da uno sparo e lui doveva estrarre il proiettile: sul momento avrebbe sofferto, ma sperabilmente non sarebbe morta. « L’ha ucciso Hoopa? ».

« Sì. Ha fatto di peggio, in realtà, ne ha preso il corpo. L’ha portato con sé in un buco nero in formazione ».

« Perché l’ha fatto? ».

« È una lunga storia. Quando l’abbiamo incontrato non era messo molto bene, era imprigionato nel Mondo dei Morti ».

L’espressione di Bellocchio mutò in autentica sorpresa. Aveva fatto personalmente un gran parlare di quel luogo, ma non aveva mai avuto nemmeno la certezza empirica che esistesse. « Ci sei stata? Com’era? ».

« Buio. Poche luci in un orizzonte violaceo. Ah, ma io l’ho visto per mezzo minuto, la maggior parte del tempo sono stata in un labirinto ».

« Labirinto? ».

Ginger raccontò ciò che seguì con un distacco che contrastava visibilmente con quanto gli avvenimenti l’avevano coinvolta. Spiegò quel che era successo al Le Crésus Hotel, dai varchi dimensionali alla suite Notte Fonda. La parte che riguardava il loop temporale chiuso si rivelò singolarmente problematica, ma la donna pensò di essere riuscita a esporla in maniera moderatamente convincente. « Solo che non so come abbia fatto a scappare » concluse al termine della lunga esegesi « Quel posto è stato distrutto grazie a Etan ».

Bellocchio ci pensò su « Certo che è strano ».

L’Ufficiale trovò stranamente divertente quel commento. Lei stessa faticava a capire cosa fosse realmente successo, eppure lui parlava di una cosa strana. Una sola. « Quale parte? ».

« Lo avete ucciso. Beh, quasi ucciso. Spedito in un buco nero ».

« E… ? ».

« E parlando con i tuoi soci non ne ha fatto menzione ».

Ginger si voltò verso l’uomo, e in quel momento ai suoi occhi apparve qualcosa di cui prima non si era avveduta: un’apertura nella roccia. Il muro dietro Bellocchio era fratturato in una galleria dalla sezione rassomigliante un mezzo ovale. Jolteon percepì l’interesse della padrona e diresse il proprio Flash in quella direzione, ma persino l’intenso bagliore si perdeva nelle profondità del cunicolo. Doveva essere davvero lungo. « Da quanto è lì? ».

Bellocchio seguì il suo sguardo fino all’aspetto che aveva attirato la sua attenzione. Era sorpreso quanto lei di scorgere qualcosa di simile lì, ma a differenza della donna aveva una risposta valida al quesito. « Da sempre. Le onde sinaptiche ci impedivano di vederla ».

La Flare intuì la parte sottintesa, ovvero che il dialogo che avevano sostenuto negli scorsi minuti aveva risvegliato zone del cervello succubi della riscrittura, riportando le loro capacità percettive a un livello sufficiente per notare la breccia. « Che cosa ci sarà oltre? ».

« Non lo so » ribatté l’uomo avanzando di qualche passo. Ginger provò a fare lo stesso, ma avvertì subito le gambe cedere e barcollò per qualche metro prima di chinarsi con le mani sulle ginocchia, come se stesse per rimettere.

« Ehi, respira! » esclamò Bellocchio accorrendo in suo soccorso « Emozioni, ricordi? Le onde stanno continuando a colpirti. Non distrarti ».

Lei ci provava, eccome se ci provava, ma era del tutto inutile. Sbatté le palpebre un paio di volte per provare a riprendere l’autocontrollo, e fu allora che un luccichio proveniente dal pavimento la abbagliò per un istante. Abbassò ancora la schiena per esaminarne la sorgente, rimanendone stupita: tra le sue gambe si trovava un cinturino argenteo da polso abbandonato a terra. Ornamenti fiammanti ne lustravano l’orlatura e alcuni pulsanti erano visibili su un lato. Lo raccolse delicatamente, constatando che la concentrazione derivante dalle silenziose indagini che svolgeva su di esso sembrava restituirle freddezza.

« Che cos’è? » domandò Bellocchio.

« Un Anello ».

« A me pare più un bracciale ».

« No, Anello con la A maiuscola » spiegò Ginger « Un progetto dei laboratori della Divisione Flare ospitata a Tecnologie Applicate, al Liceo per Allenatori di Novartopoli ».

« E cosa ci fa qui? ».

« Non credo Hoopa lo abbia regolarmente acquistato ».

Anche l’ultima beta dei P5S proveniva dal Liceo. Fu un pensiero fugace, persistito un secondo, ma bastò a far comprendere all’Ufficiale com’erano andate le cose. Hoopa non aveva avuto bisogno di infiltrarsi nel Frattale: fino a qualche settimana prima ogni progetto era stato in carico alla succursale di Novartopoli, ultima tappa prima della produzione su larga scala. Gli era bastato modificare il prototipo mentre era lì, magari verso la fine del lavoro, quando gli accertamenti principali erano stati già effettuati, e probabilmente nella stessa occasione aveva sottratto quell’Anello.

« A cosa serve? » domandò Bellocchio indicando con un cenno l’armilla metallica.

« Individua una buca di potenziale nei paraggi e ci si teletrasporta ». Lo sguardo perplesso del giovane spinse la donna ad approfondire la descrizione « Buca di potenziale significa un punto in cui l’energia potenziale ha un minimo. Gravità, elettricità, magnetismo, temperatura, la combinazione di essi ha il risultato minore dell’area analizzata. Puoi pensarla come il luogo più calmo in una tempesta. Lo scopo dell’Anello è trasportare un Flare nel luogo più sicuro da una situazione di pericolo ».

« E cosa servirebbe a Hoopa? Lui ha già i varchi dimensionali ».

« Perché forse non gli interessava la parte del teletrasporto. Forse voleva solo trovare il punto di quiete energetica ». Ginger si portò la mano al mento, iniziando a riflettere ad alta voce mentre spostava nervosamente il peso del corpo da un piede all’altro e viceversa « Questa caverna è piegata su se stessa, giusto? Una sfera tridimensionale è curva ai bordi, quindi la zona più piatta sarebbe il centro ».

« Non sono certo di stare seguendo ».

« Questa caverna è curvata dalla gravità. La zona con minimo potenziale non può che essere il polo dell’ipersfera. Siamo al centro della grotta ».

« Ma perché Hoopa cercava il centro? ».

« Perché se volessi irradiare un’area in maniera uniforme metteresti una lampadina nel centro, non sul bordo… ». L’ultima vocale fu trascinata, come se Ginger fosse stata distratta da qualcosa durante la pronuncia. Con uno scatto si girò verso Bellocchio dopo avergli rivolto le spalle in meditazione fino a quel momento « Credo che oltre quell’uscita si trovi il nostro generatore sinaptico ».

L’uomo a sua volta osservò la galleria che si perdeva nelle tenebre. Quella versione dei fatti spiegava perché avvertissero le radiazioni tanto intensamente: dove loro si erano teletrasportati per caso, Hoopa era giunto con l’ausilio dell’Anello. Il demone aveva posizionato il congegno sottratto dalla Cripta nel centro dell’antro, trasformando quest’ultimo in una enorme Poké Ball, e andandosene aveva lasciato lì il bracciale per pigrizia o per errore. « Che facciamo? ».

Seguì un breve silenzio, quanto bastò a Ginger per decidere di infilarsi l’Anello al polso con invidiabile sicurezza « Dovrebbe funzionare ancora ».

« A che pro? Non farebbe che portarti qui ».

« Dimentichi che io sono la migliore ingegnera dei Flare. Calcolo I e II, primo e secondo anno » controbatté con un sorriso la donna, estraendo dall’uniforme il cacciavite arancione che aveva già usato in spiaggia. Con un gesto rapido delle dita iniziò ad armeggiare con la fascia metallica « Se sostituisco l’incognita con la sua inversa posso trovare il massimo di potenziale e teletrasportarmi lì ».

Bellocchio aggrottò la fronte. Poteva non essere un fisico, ma aveva compreso abbastanza della situazione per capire quale fosse il massimo di potenziale. « Così non finiresti al bordo della curvatura? ».

« No, perché c’è un luogo con più energia di quello. Un luogo in cui lo spaziotempo è stato strappato più e più volte, e che sappiamo essere popolato da spettri carichi come l’aria in un temporale ».

« Il covo di Hoopa ».

Ginger annuì in assenso, avvertendo però al contempo lo sguardo pesante dell’uomo che lo giudicava. Non ebbe nemmeno il coraggio di guardarlo negli occhi « Non posso lasciare i miei da soli ».

« No, non puoi » concordò Bellocchio. Era esattamente come lui con Serena: non c’era altro da dire che non posso. « Ma cosa pensi di fare quando sarai lì? ».

La donna che si sarebbe attesa maggiore resistenza da parte sua; ma in fondo era stato lui a opporsi alla decisione di andarsene dalla caverna che lei aveva preso, quindi non avrebbe dovuto sorprendersi. Finì rapidamente il lavoro con il bracciale e lo agganciò al polso, asciugandosi poi un rivolo di sudore che le colava dalla testa, sintomo della sua lotta interiore alla riscrittura. « Dopo ciò che è successo nel Mondo dei Morti ho richiesto personalmente un sistema di difesa per tutta l’Unità » spiegò indicando la cintura che indossava in vita. L’aggancio metallico era celato da uno stemma decorativo della Fondazione Flare, e proprio su quello puntava il dito dell’ingegnera « Qua dentro c’è un propulsore deflagrante. È in grado di emettere un raggio al plasma che connette questa cintura a un’altra. In pratica è come tendere una fune elettrica all’improvviso, solo molto più letale ».

« Vuoi usarlo contro Hoopa? ».

« Lo induco a posizionarsi in linea d’aria tra me e uno dei miei, attivo il propulsore e boom. Saluti, Dio degli Spettri ».

L’uomo che le stava di fronte espose un cenno di approvazione « Ti servirà un diversivo ».

« Dubito che tu possa fornirmelo » rispose Ginger con tono condiscendente.

« Dirò che sono LK, come al solito ».

« Hoopa non ti conosce ».

« E come lo sai? ».

« I Rotom erano stati riscritti con il suo codice » spiegò la donna mentre riponeva il cacciavite nelle tasche della sua divisa, dopo essersi quasi scordata di averlo ancora per le mani « Sapevano ciò che sapeva lui, erano collegati mentalmente. Se non ti conoscevano loro, di certo non ti conosce lui ».

Bellocchio comprese il ragionamento. Senza proferire una parola spostò lievemente il capo, orientandosi nella direzione della galleria a pochi passi da loro. Solo a guardarla la vista gli si annebbiava.

A Ginger non sfuggì quel pur impercettibile gesto. « No » stabilì categorica, con il piglio della carica di Ufficiale che ricopriva « Non se ne parla ».

« È l’unica alternativa ».

Alla Flare parve di stare parlando con un sordo. Le loro sinapsi avevano quasi definitivamente ceduto già in quella stanza poco prima, e ora lui voleva avanzare ancora? « Stai sragionando! Cosa pensi di fare una volta là? ».

« Abbiamo stabilito che c’è il generatore: troverò un modo per disattivarlo. Non sono il miglior ingegnere dei Flare, ma me la cavo ».

« Verrai riscritto prima ancora di vederlo! ».

Bellocchio proseguì come se lei non avesse parlato, ignorando l’obiezione come si fa con un bambino che cerca di immischiarsi in affari non suoi « Poi chiamerò il tuo PSS e li distrarrò con la mia parlantina. Cavarmela a chiacchiere, la mia specialità ».

« Non mi stai nemmeno ascoltando! Sappiamo già che sanno rintracciare la chiamata ».

« Il segnale si confonderà tra le onde sinaptiche. Senti, credi che non sappia che è un suicidio? Ma non abbiamo alternativa, non puoi imbrogliare Hoopa da sola ».

« IO POSSO FARE QUELLO CHE VOGLIO! ».

Dopo quello sfogo liberatorio calò il silenzio. Ginger si sforzò di respirare a ritmi regolari per calmare il suo battito cardiaco. Il suo interlocutore la fissò nei suoi occhi marroni che vibravano nervosamente. Nessuno dei due disse nulla, eppure entrambi compresero che non erano diversi come si sarebbe potuto dire. Entrambi erano abituati a prendere decisioni più grandi di loro, ed entrambi sapevano cosa significava avere il destino di molti caricato sulle spalle.

La donna diede il proprio consenso con un tenue movimento della testa e un mormorato « Buona fortuna ». Bellocchio lo intese per quello che era, ovvero un lasciapassare reciproco ad agire come meglio credevano per sconfiggere il loro comune nemico. Si allontanò di qualche passo; l’ingegnera premette uno dei pulsanti dell’Anello, e nell’istante successivo il suo corpo scomparve in un lampo di luce e il secco suono di uno strappo. L’uomo si concesse qualche secondo per fare sua quella nuova, agonizzante realizzazione: adesso era solo.

Anzi, per la verità non lo era. Non sapeva se imputarlo a disattenzione per via della riscrittura in corso oppure se fosse stato intenzionale, ma Ginger aveva lasciato con lui Faraday, il suo Jolteon, l’unico in grado di fornire luce in quell’oceano di oscurità. Umano e Pokémon si rivolsero per un po’ sguardi interrogativi, nessuno certo del ruolo dell’altro. Alla fine il primo sussurrò « Fai strada ».

Si inoltrarono dunque nel cunicolo. Alla volpe elettrica la crescente influenza delle onde sinaptiche poteva fare il solletico, ma Bellocchio la avvertiva raddoppiata a ogni passo che muoveva attraverso il tunnel. Barcollio era adesso un’effettiva sottostima della gravità delle sue condizioni: le sue gambe perdevano rigidità appena svaporava un granulo dell’infinita concentrazione che stava versando nel processo di camminata, ogni punto di riferimento vorticava a velocità nauseante davanti ai suoi occhi, e persino le poche memorie accumulate nelle ore di coscienza che vantava stavano svanendo, sottraendosi alla sua presa come bolle d’acqua nel mare. Non trascorse molto tempo prima che il giovane, dopo un estremo tentativo di rimanere eretto, collassasse al suolo con la guancia destra premuta contro la pietra.

Jolteon accorse in suo soccorso, cercando invano di scuoterlo con pressioni del capo, ma Bellocchio non era più in grado di muoversi. Era come Ginger aveva predetto, le sue facoltà motorie erano state abbattute. Qualche minuto ancora e anche la mente avrebbe alzato bandiera bianca, e forse non aspettava altro. La fine di ogni cosa, l’oblio totale.

Poi, accanto a Faraday, un’altra figura volpina si materializzò, prendendo forma dalle tenebre che la avvolgevano. A differenza del Pokémon della Flare quello era antropomorfo, alto e dotato di una coppia di perforanti pupille celesti che gli scrutavano l’anima. Il respiro dell’uomo si fece più rapido mentre comprendeva, non senza sbigottimento, che era uno Zoroark. Anzi, non uno Zoroark qualunque: il Fuggitivo. Quello che aveva impersonato Ada Delaware.

Era un’allucinazione, di questo ne era certo. Nei suoi ultimi attimi di coscienza, il suo cervello stava scegliendo di mostrargli lei. Ma perché? Per deriderlo? Perché quella Zoroark aveva sempre saputo qual era il suo segreto. Sapeva cose che lui stesso non sapeva di sé, e gli aveva lasciato indizi criptici nel loro tempo insieme anziché spiegarlo chiaramente. « Perché non parli? » gli sbraitò addosso, nella folle illusione che una sua proiezione mentale potesse rivelargli cose che non conosceva. Non aveva mai parlato, anche se avrebbe dovuto. Lo aveva torturato con spiragli di verità in una nube di bugie. E anche ora, a poco dalla sua fine, non cessava di vituperarlo.

O forse proprio per questo la sua memoria aveva rievocato quella sagoma, una sagoma che nemmeno era certo fosse accurata dal momento che apparteneva a un passato che non era in grado di ricordare direttamente. Per rammentargli che aveva troppo da scoprire, troppo che ancora non sapeva. Troppo che la nuvola menzognera gli teneva nascosto. Non poteva arrendersi ora.

Bellocchio fece forza sulle braccia, aiutato da Jolteon che spingeva con tutta la forza che era in grado di esercitare. Zoroark scomparve così com’era arrivato, ritornando nei recessi della sua mente mentre stoicamente quel giovane che aveva subito più di quanto chiunque avrebbe sopportato accettava ancora la sua condizione, e nuovamente si rimetteva in piedi dopo essere stato annientato. Riprese a camminare a passi profondi e instabili, ma convinto questa volta di potercela fare. Affondo dopo affondo guadagnava metri sul tragitto ancora da compiere, stringendo i pugni senza deconcentrarsi. E finalmente, dopo aver pregustato il trionfo su quel piccolo individuo, il cunicolo giunse al termine e ammise la sua sconfitta.

L’ambiente sito dietro di esso era alquanto spoglio per essere il centro emblematico e pratico della millenaria caverna in cui si trovavano. Solo un oggetto si trovava nella piccola grotta interna: una sorta di cannone rigonfio privo della laminatura esteriore, con i circuiti interni esposti similmente allo Scissore. Era stranamente silenzioso, ma le vibrazioni che emetteva chiarivano che doveva proprio trattarsi del generatore che cercava.

E, dal capo opposto alla bocca che produceva le perturbazioni sinaptiche che avevano minacciato di troncare anzitempo il cammino di Bellocchio, trovava posto in uno scomparto apposito l’ultima cosa in cui il giovane in cappotto si sarebbe atteso di imbattersi: una Poké Ball.

 

 

Durante la telefonata, nessuno dei colleghi di Ginger aveva esplicitamente menzionato il luogo in cui erano stati condotti; di conseguenza per lei ricomparire nell’Opéra Régional fu uno shock non indifferente, uno che preluse all’intera serie di deduzioni che gli altri membri della Seconda Unità avevano già compiuto a suo tempo – la scomparsa della struttura durante il Primo Galà di Luminopoli e quant’altro. Simultaneamente, però, avvertì una sensazione di leggerezza pervaderla appena mise piede sul palcoscenico. In un primo momento la imputò al trovarsi finalmente in un luogo che richiamava la società evoluta che aveva lasciato al di là dell’ingresso della caverna; ma presto rammentò ciò che aveva sentito riguardo alla copertura di zinco apposta da Hoopa, e comprese che la ritrovata vitalità mentale era dovuta semplicemente all’assenza locale di onde sinaptiche impegnate a riscriverla. Quello era lo stato naturale del suo cervello, eppure le sembrava di trovarsi sotto effetto di sostanze nootrope.

Gli spettri parlottanti che infestavano il teatro un tempo ospitante le più grandi rappresentazioni della storia di Kalos impiegarono qualche attimo per accorgersi della sua presenza. Il primo a notarla fu un demone dalle tinte grigie e rosate, a cui Ginger diresse il primo sguardo. I suoi occhi caddero poi accanto al trono metallico su cui era asserragliato, dove i tre membri della sua squadra erano imprigionati da pesanti catene e sorvegliati da un piccolo contingente di Trevenant. Il gruppo ricambiò la sbirciata, e in particolare Sandy indicò con un cenno rapido del capo la sua cintura e, indirettamente, il propulsore deflagrante al suo interno. Ginger annuì a sua volta, giungendo così al tacito accordo che lui sarebbe stato il ricevente del raggio.

Frattanto il genio si era presentato di fronte alla donna con un volo spiraleggiante, e ogni altro fantasma nell’ambiente era rispettosamente ammutolito. La creatura doveva conoscerla, perché la prima parola che pronunciò fu « Xaad ».

« Ginger » lo corresse, simulando freddezza anche se ribolliva dentro. Non aveva avuto modo di vederlo nella sua forma fisica, ma riconosceva la voce udita durante la comunicazione a distanza: quello era Hoopa. E ovviamente lui la conosceva, perché su di lei si era basato il piano per snidare il catalizzatore che ora giaceva accanto alla sua postazione privilegiata in tribuna d’onore.

« È una piacevole sorpresa trovarti qui. Posso chiederti come ci hai raggiunti? ».

L’ingegnera seppe immediatamente di non poter rivelare l’origine dell’Anello, altrimenti il suo oppositore avrebbe facilmente concluso che Bellocchio era al generatore. Fortunatamente, proprio come dopo aver nuotato in un fluido viscoso quale l’acqua si avverte un’insolita agilità, così le sue capacità intellettive avevano beneficiato della riacquistata libertà. Indicò il bracciale al polso simulando indifferenza « Dotazione base degli Ufficiali ».

« Capisco » annuì l’individuo deforme che aveva di fronte « Spero non proverai rancore nei miei confronti, ma devo chiederti di rimuoverlo. Non vorrei che te ne andassi sul più bello ».

Ginger decise che, considerata l’entità dell’avversario, era meglio non sfidarlo su argomenti così triviali. Con un gesto euritmico delle dita sganciò l’attacco dello strumento e lo lasciò cadere al suolo.

« Bene, molto bene. Collaborare è sempre la via migliore. Sono lieto che tu abbia deciso di consegnarti ».

« Non sono qui per consegnarmi ».

« E perché sei qui? ». La domanda cadde nel vuoto quando la donna si rifiutò di rispondere, una decisione che parve deludere Hoopa più che irritarlo. « Vedi, è esattamente questo il problema di voi umani. L’orgoglio. Mio padre non voleva ammettere di essersi sbagliato, e questo mi ha portato dove sono adesso. Avrebbe potuto accettare il suo fallimento e andarsene, e ora avrei una mamma e un papà con cui vivere felice ».

« Tu sei umano quanto noi » ribatté Ginger con convinzione.

Il demone reagì con un accesso d’ira fuori dal comune, arrestandosi a un centimetro di distanza dal bersaglio dopo uno scatto che era sembrato anticipare un’aggressione furiosa. Il fetore di pelle putrefatta emanato dalla sua bocca investì forzatamente la Flare mentre ringhiava « Non ti azzardare. Non osare paragonarmi a una specie che ha fatto dell’autocelebrazione il suo stile di vita personale ». Hoopa si voltò immediatamente dal lato opposto, quasi non sopportasse di essere visto mentre era adirato « Dov’è l’altro? ».

« Ho riconosciuto il tuo trono. Era di Timeus Wikstrom, il Superquattro. L’hai ucciso, vero? ». La scienziata occhieggiò il seggio ornamentale posizionato sulla tribuna d’onore e ripensò al volto severo dell’uomo che usava accomodarvisi. Non erano mai stati in ottimi rapporti, men che meno dopo il diverbio precedente all’attacco dei Rotom, eppure l’idea di non rivederlo più era un colpo basso. « Per odiare la nostra specie hai molto in comune con essa. Del resto abbiamo preso molto da te » considerò con una punta di intenzione di scherno. Era sempre così, nelle leggende di Kalos: avvenimenti reali che vengono distorti dai fumi della tradizione orale e diventano storie della buonanotte. « Sapevi che appari in molte fiabe? Da piccola mi piaceva Evelyn e il tesoro di Hoopa. Se siamo quello che siamo di certo c’entri anche tu ».

« Dov’è l’altro! ».

« Credo che tu sia abbastanza intelligente da capire che non te lo dirò ».

« La fratellanza umana » bofonchiò Hoopa in tono derisorio « La frottola che vi raccontate per sentirvi al sicuro. Eppure il vostro governo non fa che temere il suo popolo ».

Ginger inarcò un sopracciglio « Non ti facevo così qualunquista ».

« Davvero? E cosa mi dici dei limiti imposti al numero di Allenatori annuali? Cosa mi dici delle regole per le iterazioni delle sfide nelle Palestre? ».

« Non c’entra nulla ».

Lo spirito rivolse nuovamente lo sguardo alla sua interlocutrice, gli occhi infiammati dall’ultima affermazione che aveva proferito. « Ricordi quando sono iniziate le Guerre di Kalos? Quando il popolo si è reso conto di non dover sottostare a una famiglia reale che non era in grado di sconfiggerli con l’esercito di cui disponeva. Quando ha deciso di poter dettare le sue leggi. Il governo vi limita perché sa che nel profondo lo stesso seme marcio che scatenò l’inferno in Terra ancora giace sepolto, minacciando di germogliare. E cos’hai da dire del trattamento riservato ai Pokémon, ridotti ad animali da compagnia lobotomizzati e carte da gioco per i facoltosi? Ipocriti. Vi fingete loro amici, ma al contempo li riscrivete per paura che vi si rivoltino contro. C’era un tempo in cui il rapporto tra umani e Pokémon era fondato sul reciproco rispetto, ma quel tempo si è esaurito da molto. Ho studiato a lungo la specie a cui avrei potuto appartenere se mio padre fosse stato un uomo migliore, e ho decretato che è meglio così, perché l’umanità è guasta. Ha eluso la selezione naturale grazie all’ausilio di tecnologia autoprodotta, ha sfidato la natura che le ha concesso di proliferare e ha abusato della sua ospitalità. Siete in ritardo per l’estinzione, e io sono la vostra sveglia. Quando il catalizzatore sarà in funzione non ci sarà più ipocrisia, orgoglio, sfiducia o tentativi maldestri di controllo ».

La stanza era sempre stata gremita di spettri fino all’orlo, ma quella fu la prima volta in cui ciò fu sensibilmente percepibile: un’esultazione nelle più varie forme discernibili si levò unanime dalle gradinate, un’acclamazione tanto viscerale da far sprofondare Ginger nel terrore. Hoopa si assegnò una breve pausa per riprendere fiato; poi, più persuasiva che mai, la sua voce tornò a vibrare nell’aria in una forma molto più sottile e minacciosa « Alla luce di ciò, forse vuoi riconsiderare la tua risposta. Dov’è l’altro? ».

L’ingegnera ingoiò a forza un grumo di saliva, cercando di mantenere la calma di fronte al più grande terrore che avesse mai provato. Non sapeva nemmeno se le parole sarebbero riuscite a uscire dalla sua gola o se sarebbero rimaste incastrate. Ma per sua fortuna non ebbe bisogno di fornire alcuna risposta.

« Presente all’appello! ».

Hoopa sussultò, arretrando di qualche metro. Si sforzò di mascherare lo stupore che per un istante gli aveva segnato il volto: qualcuno aveva parlato, ma non aveva idea di chi fosse stato. I componenti della Seconda Unità furono sorpresi per un diverso motivo: la voce era certamente quella di Bellocchio, ma appariva filtrata da una sorta di meccanismo di comunicazione, come una cassa acustica.

« Oh, non perdere tempo a cercarmi. Non sono lì, sto telefonando al PSS di Ginger. È già la seconda volta in qualche ora che risolvo le cose attraverso impianti audio, sto diventando ripetitivo ».

La donna stralunò gli occhi quando comprese perché quelle parole le erano sembrate tanto udibili: erano diffuse in vivavoce dal suo apparecchio! Lo sfilò dalla tasca dell’uniforme, e il volume incrementò notevolmente non essendo più soffocato dal tessuto. In quel modo Bellocchio poteva parlare al loro carceriere, ma lui non poteva torcergli un capello. Ingegnoso.

« Allora, Koopa Troopa… Posso chiamarti Koopa Troopa, vero? Che ne dici, parliamo un po’? ».

« Prego, ho tutto il tempo del mondo » rimarcò Hoopa con una poco velata ironia.

Il timbro dell’uomo subì un cambiamento, passando dalla giocosità a una più seria attitudine di sfida « Ah, spero non pensi di fregarmi così facilmente, l’ho imparato il trucchetto della localizzazione mediante il segnale emesso dall’antenna. Vuoi sapere qual è la mia contromossa? ».

« Attendiamo ansiosi ».

Ginger provò a indovinare cosa avesse escogitato quel pazzo, ma non avrebbe mai immaginato che avrebbe riagganciato. E invece fu così: il rumore statico di fondo si interruppe e la telefonata terminò com’era iniziata, senza il minimo preavviso.

Poi quella voce briosa tornò a riempire l’Opéra, con tuttavia la novità di provenire da un punto diverso di essa. « Come va la stereofonia? ».

Un brontolio insistente di spiriti ricoprì gli attimi successivi, annegando nel trambusto bianco anche un commento inudibile di Hoopa stesso che aveva compreso per primo cos’era avvenuto. Presto gli altri presenti giunsero alla medesima conclusione: ora il giovane parlava da una sorgente prossima ai tre Flare incatenati sulla balconata di maggior rilievo, e più in particolare da Terence.

« Un altro telefono… » furono le uniche parole del Dio degli Spettri, che faticava a non lasciar trasparire la meraviglia dell’idea.

« Altri due, grazie a Kibwe e Terry, intercambiabili a piacere. Hai fatto l’errore di svelare che avete bisogno di tempo per rintracciare il segnale. A intervalli regolari mi basterà cambiare il ricevente della chiamata. Trovami ora ».

Terence brontolò per il nomignolo che riteneva utilizzabile solo dalla sua Ufficiale. Kibwe aggrottò la fronte « Come hai i nostri numeri? ».

La risposta giunse proprio dal suo di PSS, a dimostrare la veridicità delle affermazioni che Bellocchio proferiva « Ah, sì, avrei dovuto specificarlo. Quello che ha in mano Ginger non è il suo PSS, è il mio. Ho fatto lo scambio mentre parlavamo del pentimento e altri vaniloqui ». Fece una pausa, rivolgendosi poi direttamente alla donna « Mi perdonerai di essermi approfittato della tua esperienza di pre-morte, ho pensato mi sarebbe tornato utile. Cerco sempre di guardare al futuro ».

« Basta che me lo riporti intero ».

« Capisco… » Hoopa parve divertito dalla situazione, come se fosse sempre stato pronto a un confronto più impegnativo « Tu devi essere quello sveglio del gruppo. Finalmente ».

« Tu sembri quello sveglio del tuo » osservò Bellocchio restituendo il complimento « La Dama Cremisi era molto meno calma quando le ho tirato uno scherzo simile ».

« Ovviamente ».

« Un peccato che tu manchi del suo carisma ».

Lo spirito rise di gusto e iniziò a librarsi in aria, ascendendo fino a metà dell’altezza del teatro. « Non posso individuarti, ottimo lavoro. Cosa vogliamo fare? ».

Di nuovo l’origine della voce si spostò, rientrando nello smartphone nelle mani di Ginger « Pensavo di parlare, te l’ho detto. Sai, ho seguito il tuo discorso sulla razza umana con molto interesse. Posso dire la mia? Ginger nel frattempo può, non so, giocare al tiro alla fune per ingannare il tempo. Farò in fretta, prometto ».

Tiro alla fune. A chiunque altro sarebbe parso soltanto uno dei suoi classici non sequitur, ma la donna vi intravide chiaramente un riferimento alla sua descrizione del raggio al plasma prodotto dalla cintura. La stava invitando a prepararsi all’attacco senza che nessuno dei suoi nemici se ne accorgesse. Doveva concederglielo, era bravo.

« Perché hai ragione, Hoopa, hai ragione davvero. Gli umani sono degeneri. Ipocriti, orgogliosi. Disarmonici con la natura. Si fanno strada nel giorno a scapito di ogni altro essere vivente, e vivono la notte nel terrore della vendetta di coloro che calpestano. In un mondo ideale sarebbero già estinti ». Bellocchio adesso parlava di nuovo dal PSS di Kibwe, e il suo tono era divenuto decisamente più serio e appassionato. « Ma sai cosa fanno? Imparano. Imparano dai propri errori, imparano il mondo che li circonda. Oggi sanno più di ieri e meno di domani. E questa è una cosa che tu non capirai mai perché, chiuso nella tua roccaforte di zinco e ombra, non hai imparato nulla. Cammini su questa Terra da anni, e tutto ciò che sei riuscito a fare è stato odiare, odiare e odiare. Se gli umani sono marci, tu sei la malerba che li soffoca prima che fioriscano ».

« Gli umani vivono qui da molto più di me, e ancora si detestano a vicenda e commettono gli stessi errori di un tempo. Come fai a sostenere che imparano? ».

« Le pecore nere esistono ovunque! » obiettò il giovane « Ma non li hai sentiti cantare quando l’invasione dei Rotom è terminata? Come fai tu a sostenere che la loro esistenza è priva di importanza quando sono capaci di questo? ».

Hoopa scosse la testa, producendo un cupo tintinnio negli anelli appesi alle sue corna « Essere felici di essere ancora vivi non rende migliore nessuno. La sopravvivenza è lo scopo a oltranza di ogni specie, e le celebrazioni al raggiungimento di un obiettivo non sono né poetiche né glorificanti ».

« Ma se la sopravvivenza è lo scopo di ogni specie, perché solo la razza umana deve assumerla come colpa? ».

« Perché la razza umana ne ha fatto l’unica ragione di vita. Da quando aprono gli occhi al mattino a quando li chiudono la sera, l’unico pensiero che ronza nella testa degli uomini è tornare indenni a casa. Qualsiasi miglioramento è completamente casuale. Se fosse loro data l’opportunità di consegnare chiunque alla forca pur di ricevere in cambio un’ora in più di vita, accetterebbero senza alcun rimorso ».

Ginger iniziò lentamente a spostarsi sul palcoscenico per meglio allinearsi con la sfuggente silhouette del demone e la cintura di Sandy, essendosi accorta che Bellocchio con sapienza aveva gradualmente esonerato il suo PSS da perno della conversazione, focalizzando l’attenzione sui suoi colleghi e consentendole di muoversi indisturbata. Ciononostante sudava freddo e boccheggiava ogni volta che l’uomo cambiava canale di comunicazione, nel terrore che qualcuno scoprisse le sue macchinazioni.

« Ma non l’hanno fatto. Un esercito di Pokémon li ha appena ridotti in ginocchio, eppure li hanno perdonati. Perché la razza umana è cresciuta e ha imparato a non generalizzare, che è più di quanto si possa dire di te ».

« I Pokémon sono già oppressi. Gli umani li considerano alla stregua di oggetti, strumenti per il loro volere. Nemmeno per un istante sfiora la mente dei più l’idea che forse le loro vite e quelle delle creature che schiavizzano potrebbero avere lo stesso valore. Riscrivere sinapticamente i Pokémon è uso comune, ma basta minacciarvi di sottoporvi allo stesso trattamento per vedervi sbiancare di terrore ».

« E tu in che modo sei diverso? ».

Il tenue sorriso superbo di Hoopa svanì come d’incanto in un’espressione muta e infastidita. Ginger, ormai quasi giunta dove intendeva posizionarsi, trasalì in un atroce senso di spaesamento. Che cosa stava facendo? L’idea di farlo parlare era stata così perfetta da sembrare concepita da qualcuno più raziocinante di Bellocchio, perché buttare tutto al vento alterandolo?

« Terence, attiva l’ologramma dell’Holovox » ordinò l’uomo al matematico a cui ora si stava appoggiando per parlare. Quello eseguì e l’esile figura del giovane in completo, privo dell’usuale soprabito, fu proiettata in sfumature celesti sopra di lui. In mano reggeva una Poké Ball bene in vista. « La riconosci, Hoopa? Lo so che la riconosci. È la Poké Ball di tuo padre, Alexander Kashlinsky, la Poké Ball in cui teneva la sua Chansey. L’ho trovata agganciata al generatore sperimentale che hai rubato alla Cripta, quello con cui tieni sotto scacco Kalos ».

Lo spirito ebbe un guizzo di vitalità, convinto di aver scovato un errore commesso dal suo avversario, ma questi lo frenò prima ancora che esultasse « Non pensare di cercarmi lì, me ne sono già andato da parecchio. Senza questa il generatore non può funzionare, quindi puoi dire addio alla conversione dell’umanità. Guardami, Hoopa. Guardami. Da quanto tempo Chansey si trova qui dentro? Da quanto tempo non la fai uscire? ».

Mai quel demone era parso così piccolo agli occhi di chiunque sedesse nell’Opéra come in quel momento in cui, denti stretti e sguardo basso, non osava nemmeno rispondere delle sue azioni.

« Non sai nemmeno che aspetto abbia, vero? Non l’hai mai liberata. La stai usando come base per il codice sinaptico che imprimi. Tutto il tuo teatro popolato di spettri che ti chiamano Dio è stato riscritto sulla base di quella Poké Ball, e loro ti obbediscono perché l’impronta genetica di tuo padre permane in te ». Bellocchio non ebbe bisogno di gesti di alcun tipo per canalizzare il compatimento che provava in quell’istante: le parole e l’inflessione con cui le enunciava erano più che sufficienti. « Tutto il tuo grande piano di purificazione della razza umana nasce dall’utilizzo di un Pokémon come strumento. Ciò che speri di eradicare vive già dentro di te ».

« Mi avete contaminato… ». Hoopa si guardò le mani e i bracciali rosa che portava ai polsi. Per un attimo sembrò stesse per piangere, poi alzò la testa con convinzione « Grazie, chiunque tu sia. Grazie. Ti benedico. Mi hai aperto gli occhi ».

Ginger lo osservò con una punta di misericordia. Forse stava iniziando persino a capire i suoi errori, a rileggere le sue azioni in una nuova chiave interpretativa.

Che speranza vana. « Credevo che fossi intelligente, invece sei distratto come tutti gli altri » sibilò con un tono che faceva accapponare la pelle per il raccapriccio che induceva. Un sogghigno diabolico accompagnò le parole seguenti « So dove sei ».

Bellocchio trasalì, rendendosi conto del macroscopico passo falso commesso: era rimasto per troppo tempo collegato al PSS di Terence. Il suo nemico aveva avuto tutto il tempo per localizzarlo, e aveva finto di proposito una catarsi emotiva per sviare la sua attenzione e fargli abbassare la guardia. Era lo stesso trucco con cui l’aveva trovato la prima volta, e lui c’era cascato di nuovo.

L’ologramma si spense quando la connessione fu tagliata dal chiamante in un vano tentativo di salvarsi. Ginger, che aveva intuito l’imbroglio parallelamente al suo amico, portò la mano alla cintura senza pensarci due volte e scattò verso la posizione prescelta. « SANDY! ».

Lo scienziato reagì appena vide la sua Ufficiale allineata con il bersaglio. In un istante un flusso giallo acceso connesse la coppia di bottoni centrali ai lati opposti, dirigendosi precisamente sull’obiettivo prefissato. L’ingegnera esultò internamente per essere riuscita a lanciare l’attacco, ma la gioia fu di breve durata: un duo di Aegislash in Forma Scudo comparve vorticante attorno al demone per stabilizzarsi proprio sulla traiettoria del raggio. L’energia si infranse sulle barriere da loro erette, dissipandosi in una pioggia di scintille prodotte dai rispettivi clipei. Il silenzio susseguente fu più eloquente di ogni parola possibile nell’affermare con certezza assoluta che il loro tentativo era fallito. Avevano perso.

Hoopa sghignazzò sonoramente, la sua voce ora pregna di sfumature deviate che la astraevano da qualsiasi altra udibile al mondo. « Credevi davvero che sarebbe stato così facile? Ogni celebrità ha le sue guardie del corpo » commentò sarcastico mentre i Pokémon Spadareali svanivano nuovamente nell’aria – anzi, più facilmente erano solo tornati invisibili per continuare a proteggere il loro padrone senza oscurarlo. Nello stesso momento Ginger si rese conto di non essere più sola sul palcoscenico: un Golurk era comparso non molto lontano da lei, affiancato da un ben noto uomo elegantemente abbigliato.

La Statuanimata, che doveva essere stata incaricata di recuperarlo dal suo nascondiglio mediante teletrasporto, sferrò un pugno poderoso in pancia a Bellocchio, piegandolo in due dal dolore e costringendolo a mollare la presa della Poké Ball che teneva in mano. Quest’ultima rotolò giù per la breve scalinata che conduceva alla platea, dove Hoopa la recuperò attirandola fluttuante fino a lui. Solo allora il golem che lo aveva servito ritornò in tribuna, avendo terminato il suo compito, e l’Ufficiale Flare poté soccorrere il suo amico.

« E tu… » disse lo spirito rosato rivolto al giovane, simulando delusione « Andiamo, un discorso ritrito per farmi cambiare idea? Che fiasco ».

Ginger scosse la vittima per assicurarsi che fosse lucida, ma la risposta positiva a quel quesito fu l’unica buona notizia: il colpo sferrato da Golurk, per quanto non avesse provocato danni seri, doveva aver provocato un discreto dolore nel corpo del destinatario. Con la coda dell’occhio la donna notò che un Chandelure si era appena materializzato nel parterre con il generatore, collocandolo nel corridoio centrale; altri due suoi gemelli si presentarono a loro volta con il catalizzatore Flare, e insieme assemblarono gli apparecchi per formarne uno nuovo, un mortaio a onde sinaptiche pronto a far fuoco sull’intera Kalos e oltre.

« Fine dei giochi » recitò Hoopa recandosi personalmente al cannone per applicare la Poké Ball prelevata da Bellocchio nello scomparto apposito. Uno scatto metallico silenziò l’insistente vociare degli spettri in balconata. Gettò un’occhiata fugace ai tre membri della Seconda Unità ancora imprigionati e decretò « Portateli qui. Li voglio insieme ».

I Chandelure obbedirono anche quest’ultimo ordine, e fu allora che gli unici esseri umani presenti nel teatro divennero le stelle assolute della scena. Ginger si affrettò a riunirsi ai suoi colleghi, ora liberi da catene e spaesati sul palcoscenico. Molte parole di conforto furono espresse, ma in fondo non ve n’era un reale bisogno. Il sollievo di essersi ricongiunti, per qualche assurdo miracolo emozionale, superava l’orrore di trovarsi al capolinea.

« Spero siate lieti di essere cavie per un futuro migliore » annunciò solennemente il demone « Ora che il catalizzatore amplifica l’intensità delle onde, la riscrittura impiegherà due o tre secondi al massimo. Saprete com’è essere un Pokémon che viene privato della libertà ».

L’Ufficiale Flare avvertì sulle proprie spalle non più il peso della sorte umana, ma quantomeno la dignità di essa. Non l’avrebbe mai piegata, non gli avrebbe mai concesso la soddisfazione di andarsene china. Inspirò profondamente e si alzò in piedi, affrontando il pericolo come aveva sempre fatto, a viso aperto. Per un istante il suo sguardo incrociò quello dei suoi compari, coloro che aveva cercato di salvare e che invece erano stati trascinati con lei sul fondo dell’abisso. « Mi dispiace… » sussurrò, e non era solo a loro che chiedeva perdono. E nemmeno alla specie che presto si sarebbe estinta. Chiedeva perdono a Ross e a Etan, che avevano inutilmente dato la vita per evitare che succedesse ciò che stava per succedere. E a Bellocchio, a Serena, a tutti coloro che avevano provato di tutto nel tentativo di fermare il loro avversario. Corrugò la fronte e scrutò i Chandelure che erano rimasti al generatore in veste di operatori.

« Niente ultime parole? Una preghiera? » inquisì con ironia Hoopa, e come si aspettava nessuno osò ribattere. « Peccato » glissò con noncuranza, ordinando poi al trio retrostante « Ora ».

Si udì un secco clac seguito da un fastidioso ronzio quando il cannone entrò in funzione. Fu un’esecuzione sorprendentemente silenziosa: nessun grido di dolore, nessun clamore, nessun corpo martoriato che rovinava al suolo. I volti del gruppo si spensero senza che qualcuno al di fuori di loro se ne accorgesse. Anticlimatico, si sarebbe detto.

Ma a Hoopa andava bene così. Si voltò soddisfatto verso i Chandelure che attendevano ulteriori istruzioni. « Portatelo in superficie » intimò « È ora di diventare Dio degli Uomini ».

Non vi fu reazione. L’atmosfera parve quasi surreale per il modo in cui quei Pokémon lo fissavano vacui, persi, come non fossero in loro. « Mi avete sentito? ».

Ancora nulla. E nel silenzio etereo dell’Opéra Régional una voce si insinuò, un suono sommesso, quasi celato, eppure perfettamente udibile per la quiete che aleggiava. Era una risata. La risata di quello sveglio.

« È buffo. Solo qualche ora ho detto la stessa cosa alla Dama Cremisi » disse Bellocchio. Il suo tono era stranamente naturale, stranamente vivace e stranamente derisorio. « Io sono già un Pokémon ».

Ginger osservò il suo amico ed esaminò le proprie mani come un primate. Non sarebbero state di alcun aiuto per provare di essere sopravvissuta alla riscrittura, ma la sua mente glielo garantiva, e anche Hoopa non ebbe alcun dubbio: non aveva avuto effetto. I suoi occhi rimbalzarono increduli su ciascuno di coloro che sarebbero dovuti essere i suoi primi schiavi umani, constatando che invece si trovava di fronte cinque superstiti. « Cosa… Voi non siete… ? ».

« No ». Bellocchio parlava con certezza granitica, per nulla sorpreso di ciò che si era verificato.

« Perché? ».

« Perché hai commesso l’errore comune nei geni di credere che nessuno sia al tuo livello ».

Il fatto che quell’omuncolo capisse più di lui della situazione mandava Hoopa su tutte le furie, ma in uno sforzo disumano questi mantenne la compostezza « Spiegati ».

« Oh, andiamo! Credi che fosse quella la mia idea? Che ti avrei affrontato faccia a faccia e ti avrei parlato fino a farti desistere? » lo affrontò provocatoriamente il giovane « Sarò anche bravo a cavarmela a chiacchiere, ma non vivo nel mondo dei sogni ».

« Ma questo non cambia niente! Ci hai provato e hai fallito! Io ho vinto! ».

« Sapevo benissimo che non ti avrei convinto a cambiare idea con qualche buona parola. Sei irrecuperabile ».

Hoopa si sforzava di dare un senso al caos logico di quelle parole, ma ogni tentativo falliva sistematicamente. « Hai sprecato di proposito il tuo tempo? ».

Bellocchio rise di gusto alla sola idea e si alzò in piedi, avanzando fino a superare Ginger « Ti ho rassicurato. Ti ho fatto credere di essere in vantaggio, esattamente come hai fatto tu quando hai raccontato la tua storia via telefono per stanare me e Ginger. E mentre giocavo con te e ti convincevo di avere il controllo della situazione, tu non ti accorgevi della falla nel tuo piano ».

« Falla? ».

« La Poké Ball di Chansey è la base del generatore. Ha impresso il codice sinaptico di tuo padre, che è il tuo per eredità, ed è a quello che i tuoi spettri rispondono ».

« E allora? ».

« E allora non ti è passato per la mente nemmeno un secondo di controllare che ci fosse davvero Chansey dentro? ».

Hoopa sgranò gli occhi e si congelò sul posto, a bocca semichiusa, mentre l’errore commesso gli appariva evidente. Bellocchio sembrò rallentare si proposito quando sfilò dalla cintura una sfera dalla copertura sbiadita, come se volesse sottolineare con il suo gesto cadenzato i moti mentali del demone.

« Questa è la Poké Ball di Alexander Kashinsky ».

« Cosa? » sobbalzò la creatura, voltandosi immediatamente verso il generatore ancora attivo « E che Ball è quella che ho messo? ».

« Quella della mia Nephtys, con impresso il mio codice sinaptico. Ti ringrazio per aver rivestito questo teatro di zinco, perché le onde sinaptiche sono rimbalzate per l’intero ambiente. Tutti gli spettri al momento obbediscono a me ».

Il silenzio dei Chandelure, il loro sguardo vuoto… Hoopa esaminò l’emiciclo del teatro, rendendosi conto solo ora che tutti gli spettatori condividevano la stessa espressione. D’istinto scattò verso il perturbatore sinaptico, ma il suo trio di guardiani si oppose fermamente a comprovare che non gli obbedivano più. Tutto ciò non aveva senso. « Ma io sono ancora… ».

« … te stesso? » azzardò Bellocchio sogghignante « La sfera di tuo padre era un vecchio modello, nelle nuove le onde prodotte sono programmate per non influenzare gli umani. E nel tuo genoma c’è ancora traccia di quello che eri ». La sua inflessione si rabbuiò e le sopracciglia si aggrottarono, caricando le sue parole di un’ira antica « Non te la caverai con così poco, non perderai la lucidità. Dovrai assistere cosciente all’estinzione della tua religione ».

« STAI ZITTO! » sbraitò Hoopa, scagliando una rancorosa Palla Ombra all’uomo. Un Aegislash comparve istantaneamente sulla traiettoria dell’attacco e lo incassò con un sussulto, e solo allora il demone comprese realmente la portata della sua sconfitta. Non solo aveva perso tutto, ma quel tutto era stato appena acquisito dal suo peggiore antagonista. « Il mio mondo… ».

Ginger osservò meravigliata la scena, realizzando che il suo amico non aveva lasciato nulla al caso. Aveva orchestrato l’intero programma fin dall’inizio, come un giocatore di scacchi professionista.

« Ora ti mostrerò il tuo errore più grande » dichiarò Bellocchio « Ricordi il flusso oscuro? ».

« Cosa c’entra? ».

« C’entra » ribatté lui con decisione « Una massiccia attrazione gravitazionale verso un punto del cosmo ».

« Non c’era nulla ».

« Non ancora! » esclamò l’uomo, riuscendo nell’impresa di frenare le obiezioni del demone. « La gravità è in grado di agire attraverso le dimensioni ultraspaziali. Teoria delle stringhe ».

« Non tenere lezioni a me. Mio padre era uno scienziato, sapeva benissimo queste cose e aveva pensato che fosse l’influsso di un altro universo » illustrò Hoopa, collerico all’idea che quell’arrogante intendesse insegnargli la sua vita « Ma si era sbagliato! ».

« Sì, si era sbagliato » convenne Bellocchio « Ha dimenticato di considerare la dimensione più importante. Il tempo ».

L’unico a non scuotersi nelle file dei Flare fu Kibwe, poiché non era sufficientemente versato nell’argomento per capire quanto quell’idea tanto semplice fosse fondamentale, e quanto fossero stati stupidi a non accorgersene. Uno che probabilmente aveva studiato un decimo di loro li aveva appena umiliati.

« Il tempo? » ripeté Hoopa con scetticismo.

« L’influsso gravitazionale era presente, ma tu non sei riuscito ad aprire un varco verso l’altro universo perché ancora non esisteva. In un futuro sarebbe nato, e la sua impronta sarebbe risalita lungo il tempo relativo del nostro cosmo per dare origine al flusso oscuro ».

« Bella teoria ».

« Non è una teoria. Adesso ho capito perché gli spettri tremano al mio nome, perché la Dama Cremisi mi odiava. Vuoi sapere qual era l’universo nascosto che tuo padre stava cercando? » gli chiese Bellocchio, certo di avere la verità in pugno « Il Mondo dei Morti ».

Ginger osservò il giovane stupefatta « Vuoi dire… ? ».

Lui rispose con un cenno affermativo del capo « Il Mondo dei Morti non è ancora nato. Ma manca poco ».

« Il Mondo dei Morti è una storiella » respinse Hoopa seccamente.

« In questo teatro ci sono migliaia di spettri pronti a eseguire i miei ordini, dotati di un’energia collettiva più che sufficiente a perforare lo spaziotempo. È finita, Logan ».

I fantasmi inerti che popolavano l’Opéra iniziarono a brillare di mille bagliori violacei. Hoopa alzò ringhiante gli occhi verso la cupola sul soffitto, dove i dettagli del maestoso dipinto di Chagall andavano deformandosi in una nebbia impenetrabile. Si udì un rumore simile a un rombo di tuono, ma potenzialmente ancor più fragoroso, e uno squarcio segnato da un turbinio bluastro si aprì nello spazio.

« Che stai facendo? Fermati! Fermati subito! » implorò lo spirito.

« Ti esilio insieme agli spettri che ti hanno servito. Siete banditi da questo universo. I tuoi compari ne stanno aprendo uno nuovo, un territorio inesplorato in cui tu e loro trascorrerete la vostra esistenza. Qualche vostro discendente imparerà a fuggire, sicuramente, e tornerà qui. Ma non voi ».

« No, fermo! Ricorda che ho ancora la vostra amica! ».

Ma anche quell’ultima arma cadde inutilizzabile quando la bionda Serena emerse, condotta da uno dei suoi fedeli Chandelure, da dietro le spalle dell’uomo. Ginger le corse incontro per sincerarsi delle sue condizioni di salute, ma sembrava soltanto stremata dal periodo di prigionia proprio come i suoi colleghi. Il Pokémon che l’aveva trasportata lì sotto quieto ordine del suo nuovo padrone si involò poi verso il varco levato in aria, e altrettanto fecero tutti gli altri spettri presenti. Un forte vento spirava dalla caverna verso l’universo gemello appena creato, come se quest’ultimo stesse aspirando selettivamente nuovi abitanti.

Bellocchio rammentò i racconti dell’ingegnera sul luogo che aveva visitato una settimana prima, e fu quasi amareggiato di non dover nemmeno dover pensare a una condanna appropriata dato che già la conosceva. « Quanto a te, Logan, ti confino in una singola stanza al termine di un labirinto, privo di poteri e forma corporea. Tu che hai da sempre potuto viaggiare in ogni luogo non lascerai mai il poco spazio che ti concedo. Questa è la mia punizione ». Si interruppe, poi abbassò il volume della voce « Ginger ».

La donna alzò gli occhi verso di lui, e ciò che vide la angustiò. L’uomo che le stava davanti non era quello che conosceva, era una sua controparte assai più raccapricciante. Freddo, stringato, inespressivo. La intimoriva più di Hoopa stesso. « Sì? ».

« Vuoi che mi fermi? ».

La scienziata aggrottò la fronte. Voleva interpretarla come una richiesta, ma per come era stata pronunciata somigliava molto di più a una minaccia. « Non capisco ».

« Qui è dove tutto comincia. Se ora spedisco lì Hoopa, la te del passato lo troverà nell’indagine al Crésus Hotel e Ross morirà. Vuoi che mi fermi? ».

Solo allora Ginger comprese la verità: le vicende dell’albergo appartenevano al futuro di quel mostro, non al suo passato. Non era mai fuggito dalla suite Notte Fonda perché Etan e suo fratello si erano sacrificati per impedirlo, e quegli avvenimenti erano posteriori all’invasione dei Rotom. Ciò spiegava, se non altro, alcuni frammenti bizzarri di frasi di quell’Hoopa. Il fatto che le morti dei suoi amici e parenti non fossero state vane la rinfrancò per un attimo, ma ben presto l’angoscia della decisione che doveva prendere le sovvenne.

Poteva cambiare gli eventi. Un suo no avrebbe modificato la conformazione del labirinto, o privato definitivamente il demone dei suoi poteri, e Ross sarebbe sopravvissuto. Avrebbe potuto riabbracciarlo, avrebbero potuto vagare di nuovo per le vie di Temperopoli.

Ma lei non era stupida, era la migliore ingegnera di Kalos. Sapeva bene che, se avesse salvato Ross, lei non avrebbe mai saputo dell’esistenza del Mondo dei Morti, non avrebbe potuto suggerirla a Bellocchio e quest’ultimo non si sarebbe ritrovato a farle quella domanda. Paradosso temporale. Il passato è immutabile, e anche colui che le aveva posto la domanda ne era a conoscenza per certo. Non era per quello che glielo chiedeva, bensì perché con quell’azione stava uccidendo suo fratello, e non sarebbe stato corretto non avvertirla.

Certe volte non si ha scelta, anche se piace pensare di averla. Certe volte il Tempo ha già scelto per te. « Fai ciò che devi ».

Hoopa si sentì mancare. Davanti alla coscienza della fine dei propri sogni persino quell’individuo sempre raffinato dimenticò tutto il suo aplomb e, per la prima volta da quando l’avevano incontrato, implorò. « No! No, no! Ti darò tutto quello che vuoi! Io sono un Dio! ».

Bellocchio lo squadrò truce. La voce uscì rauca e cruda dalla gola, la bocca aperta a malapena « Ricordami ».

« C-cosa? ».

« Quando sarai dall’altra parte, condannato all’eterna reclusione nel Mondo dei Morti… Ricordami, e ricorda che io sarò ancora qui ».

Il panico pervase l’animo della creatura, un terrore che non aveva mai provato in vita sua. « … Chi sei? ».

« Sono gli occhi accesi nel buio. Sono l’ombra che ti perseguita nella notte. Sono il terrore che ti arde nel cuore in ogni istante della tua misera vita ». L’uomo era posizionato più in basso rispetto al suo interlocutore, eppure sembrava parlare dall’alto di una torre, tale era il livello della sua imponenza. Non era più nemmeno una persona qualunque, sembrava vestire i panni di un re. Con ferocia inumana ringhiò le parole che sapeva di dover dire, poiché gli spettri che aveva incontrato lo temevano in quanto associavano quello pseudonimo a chi li aveva espulsi dall’universo. « Il mio nome è LK, e se tu sei un Dio… Io sono il tuo incubo ».

Quella fu l’ultima frase udita da Hoopa. Gli Aegislash che invisibili si erano posti a protezione del giovane si levarono in volo e presero il loro precedente leader con sé, trascinandolo contro la sua volontà nel vortice che si chiuse subito dopo. L’Opéra Régional era priva di spettri per la prima volta da un anno.

Ma nessuno osò parlare. Non un membro dei Flare e certamente non Serena, che non aveva mai avuto tanta paura da quando la Fiamma Cremisi era stata debellata dalla Maison Darbois. E non aveva avuto paura di Hoopa, lui era un nemico come tanti. Ciò che l’aveva atterrita era stato Bellocchio, che per un breve istante aveva visto persino più spietato di colui che aveva bandito nel Mondo dei Morti.

 

 

Uno stormo di Taillow si stagliava contro una delle sparute nuvole rossastre che popolavano il cielo; anziché essere il prodotto della devastazione, però, il colore era questa volta fornito dal tramonto incipiente. Il sole che si inoltrava verso l’orizzonte oceanico segnava la fine della prima giornata della Kalos liberata, glorificata per l’occasione da una limpida volta tersa. Una moderata brezza spirava verso sud, sospingendo in un moto oscillante le palme schierate sul lungomare. I profili degli edifici di Altoripoli tradivano la tragedia appena verificatasi, ma facendo ricorso a ogni istante di luce a disposizione gli abitanti della cittadina avevano già cominciato a porre rimedio con l’aiuto dei propri Pokémon.

La Seconda Unità Flare era uscita all’alba dalla grotta di Hoopa nonostante vi avesse trascorso meno di un’ora. Ginger aveva affermato di sapere perché, avendo osservato un effetto non troppo dissimile al Le Crésus Hotel: la forte curvatura spaziale, residuo della precedente sacca temporale, aveva compresso il loro tempo relativo; in termini profani, all’interno della caverna esso era defluito più rapidamente, portandoli dritti alla mattina.

Il resto del giorno per il team di scienziati si era composto di compilazione di rapporti e rilevamenti statistici per assicurarsi che il peggio fosse passato. Le prove raccolte, comprensive del PC di Kashlinsky e del generatore manomesso, erano state riposte in una coppia di pesanti trolley da viaggio. E adesso i cinque stavano aspettando il loro treno alla stazione della cittadina, preparandosi al ritorno a Luminopoli. Ne avrebbero avute di cose da raccontare.

Bellocchio concluse il giro dei saluti minori con un abbraccio a Sandy. Kibwe gli aveva rivolto uno sguardo privo di emozioni, Terence invece era parso lievemente infastidito dalla sola stretta di mano. Quando spettò a Ginger spendere un arrivederci per il suo nuovo amico, la donna gli porse il P5S che qualche ora prima l’uomo gli aveva affidato « Ricontrollato come mi hai chiesto. È pulito, a mio parere. Puoi sempre far verificare a qualcun altro ».

« Penso di potermi fidare della migliore ingegnera di Kalos » osservò lui riponendolo nella tasca del cappotto insieme all’Anello, il quale gli era stato regalato come souvenir in gratitudine per averli salvati. Quando aveva riportato Serena a casa di Cornelius perché si riposasse aveva ripreso possesso degli abiti che aveva prelevato da Borgo Bozzetto, asciugatisi durante la notte. Li avvertiva più comodi, ma forse era solo suggestione.

« Sei sicuro di non voler collaborare con i Flare? Uno come te ci farebbe comodo ».

« Sono più un tuttofare che un esperto » ribatté il giovane scuotendo il capo « Sarei un pesce fuor d’acqua ».

« Al mondo servono anche tuttofare » disse Ginger con una punta di ironia. Al suo fianco Sandy si sentì onorato dal fatto che l’Ufficiale stesse citando la frase che lui le aveva rivolto una settimana prima, mentre indagavano nei meandri di un ben noto albergo.

« Temo di dover comunque rifiutare. Ho altri impegni ».

« Oh, sentilo… » lo canzonò la donna « L’uomo impegnato! Che cosa farai ora? ».

Bellocchio si guardò attorno, contemplando i danni lasciati dai Rotom. « Mi tratterrò un po’ qui. Posso dare una mano a… ricostruire. E poi… » la sua mano si espresse in un gesto che sembrava imitare un aeroplano in decollo « Verso nuove avventure ».

Solo allora i due si resero conto del silenzio che aleggiava in quei minuti. Nessun brusio se non il lento farsi e disfarsi delle onde marine e il lieve cullare del vento. Sembrava che Altoripoli fosse una città deserta, persino i colleghi di Ginger a stento davano cenni di esistenza. « Perché viaggi? ».

Che bella domanda, pensò l’uomo. Per molte ragioni. Per ritrovare Ada Delaware, che credeva per qualche ragione connessa al suo ignoto passato a Kalos. Per scoprire la ragione per cui tra poco meno di mezz’ora avrebbe perso la memoria. Per indagare sul significato di quei frammenti celesti. Forse, anche se con la morte della Dama Cremisi le speranze si affievolivano, anche per salvare Serena da chi l’aveva tenuta d’occhio. Come riassumere quel caos nella sua testa? « Perché… è l’unico modo che ho per cercare le cose ».

Bellocchio tacque dopo quella frase, quasi stesse pensando a come proseguire; alla fine, non trovando altro da dire, porse la mano alla donna per stringere la sua. Lei osservò le sue falangi come un artefatto alieno, dopodiché senza alcun preavviso lo strinse in un abbraccio. « Spero che trovi quello che cerchi » gli sussurrò con un filo di voce per poi staccarsi e ricomporsi i ricci vermigli di fronte alle espressioni attonite dei Flare, i quali non l’avevano mai vista così incline alle manifestazioni emotive.

Mentre il ricevente versava ancora in uno stato di shock inusuale, l’ingegnera frugò nell’uniforme bianca per estrarne un biglietto da visita color indaco. « Se magari vorrai prenderti una pausa… vieni a trovarmi al Frattale. Sarai il benvenuto » gli disse, dopodiché mentre gli porgeva il cartoncino soggiunse « E Serena. Anche lei, ovviamente ».

Bellocchio lo intascò senza nemmeno darvi una sbirciata, e sorridendo si congedò « Alla prossima ».  Dopo quelle parole girò sui suoi tacchi e si incamminò verso l’uscita della stazione. Il treno si sarebbe presentato solo tra mezz’ora, ma nessuna delle due parti aveva l’intenzione di prolungare quell’addio. Perché anche se nessuno voleva ammetterlo, se pure si fossero rivisti difficilmente sarebbe stato per più di un caffè in memoria dei tempi andati. La vita di un viaggiatore raramente fa retromarcia.

 

 

« Ti voglio bene. Ci sentiamo ».

Serena terminò la telefonata e ripose il PSS nella borsa appoggiata sul divano dopo aver letto sulla sua schermata l’orario attuale, sette e mezza del pomeriggio. Udire nuovamente la voce di sua madre e scoprire che era illesa l’aveva rinfrancata, restituendole al contempo una parte della nostalgia di casa che aveva provato appena prima dell’invasione. Osservò le pallide orlature delle tende che coprivano la portafinestra dell’appartamento di Cornelius, quindi iniziò a passeggiare per il soggiorno fino a giungere alla credenza.

Aveva dormito per quasi metà giornata, una reazione parzialmente giustificabile visto che in buona sostanza aveva trascorso la notte insonne; le restanti ore di luce le aveva trascorse in pigiama, decidendo solo sul tardi di vestirsi. A quel punto era fondamentalmente inutile, ma sperava di poter finalmente visitare l’Altoripoli notturna senza incappare in Rotom assassini o rave party per le elezioni. Scrutò il suo riflesso sull’armadietto cristallino, ricollocando il cappello che portava in testa. Per un attimo pensò che non sarebbe stata male con capelli più corti, ma respinse immediatamente l’idea con una sghignazzata interiore.

La porta dell’alloggio si aprì in quel momento alcuni metri dietro di lei. Specchiato nel vetro scorse un uomo dal lungo cappotto marrone, le mani infilate nelle tasche del completo sottostante, il volto quasi inespressivo. Era Bellocchio, in un certo senso il suo Bellocchio, ma qualcosa era diverso in lui, come se in quel momento la sua mente stesse vagando altrove.

« Dovresti prepararti per il tramonto ».

« Manca ancora una decina di minuti. Ho già trascritto tutto » rispose lui. Le parole scivolavano come foglie sospinte dal vento, mai così morbide « Volevo salutarti finché ancora ricordo ciò che è successo oggi ».

Serena si voltò e lo studiò con un sorriso triste che le marchiava le labbra. Il suo amico pareva rilassato, ma dentro doveva essere tutt’altro che quello. « Dopo non lo ricorderai? ».

« Sarà un racconto del taccuino. Come la Maison Darbois o la crisi di Dusknoir ». L’aria si era fatta densa e pesante. Voleva chiederle qualcosa, ma non trovava il coraggio per farlo. Alla fine se lo impose a forza, perché a breve sarebbe calato il sole e il tempo in cui avrebbe potuto porle quella domanda si riduceva. Doveva essere lui, non il sé dell’indomani. « Vuoi continuare a viaggiare con me? ».

Serena attese per rispondere, un indugio che per Bellocchio fu come una serie interminabile di colpi nel torace. « Qual è il tuo nome? » lo interrogò lei a sua volta « Il tuo vero nome. Quello con cui chiami te stesso quando sei da solo ».

Il giovane non seppe cosa dire. Non comprese se fosse una prova di fiducia oppure una richiesta scorrelata. La sua capacità di leggere le persone era prossima allo zero in quel momento. « Non lo so. Non ci ho pensato. Non capisco nemmeno cosa voglia dire, a essere onesto ».

« Quando hai rinchiuso Hoopa nel vortice hai menzionato LK ».

Bellocchio esitò, sedendosi sul sofà come se la richiesta l’avesse consumato. La ragazza gli si appostò vicino, ed entrambi mantennero lo sguardo fisso sulla televisione spenta di fronte. « Non era il mio nome, a quanto pare, erano solo le iniziali di Logan Kashlinsky ».

« Hoopa » annuì Serena a chiarire l’implicita conclusione della frase « Ginger è passata qualche ora fa e mi ha spiegato cos’è successo con lui, la sua storia ».

« Gli spettri del Mondo dei Morti mi ricordano con quel nome perché io gli ho detto di farlo. I varchi da quell’universo al nostro non rispettano sempre il tempo come scorre qui, alcuni sono apparsi nel passato. Molti fantasmi provenienti da lì abitavano la Terra da prima che io li esiliassi ».

La sua amica si sforzò di seguire il filo logico, ma qualcosa le sfuggiva sistematicamente « Cioè, loro sapevano ciò che avevi fatto… Da prima che tu lo facessi? ».

« Tecnicamente per loro era già successo ».

« Però tu gli hai dato quel nome perché già lo conoscevi da loro. L’informazione da dove–– ».

« Paradosso della predestinazione » rispose al volo Bellocchio. Il suo tono lasciava intendere che lui stesso fosse divertito da ciò che diceva, che forse non avesse nemmeno la certezza delle sue ipotesi « Il tempo è immutabile, ciò che è successo doveva succedere ».

Serena sorrise « Sembri essere molto ferrato in queste cose. Ma non mi hai ancora risposto: come ti chiami quando sei da solo? ».

« Ti ho detto che… » cominciò l’uomo, ma si interruppe prima di finire. Finalmente ci era arrivato, quella richiesta non aveva alcuno scopo. Era un test. « … Regola numero uno? » propose incerto, e lo sguardo della ragazza gli confermò che aveva visto giusto. Si scambiarono un’occhiata complice mentre Bellocchio prendeva coscienza del fatto che quella che aveva appena fornito era anche la risposta alla sua domanda, il dubbio sul fatto che lei volesse ancora seguirlo nel viaggio: niente domande stupide. Certo che l’avrebbe fatto.

Finalmente il giovane poteva ritenersi realmente felice dopo l’incubo trascorso in quella città. « Oh, prima che me ne scordi: 235-562244 » disse poi tutto d’un fiato « Forse vuoi segnartelo ».

« Cos’è? ».

« Il mio numero, ho rimediato un P5S ».

« Ma guardalo, finalmente al passo coi tempi! » lo schernì Serena.

« Lo ritengo un premio per aver salvato la regione » commentò l’altro alzandosi in piedi con la sua consueta vivacità. Era quasi sera, eppure pareva fresco come di primo mattino « Contavo di trattenermi una settimana, sai, per aiutare le persone a riprendersi. Kalos in rovina non dev’essere un bello spettacolo ».

« Meglio, avrò tempo di andare alla la Palestra di Altoripoli ».

« Ben detto, mai rinunciare a qualche minuto sulla cyclette ». Bellocchio riacquistò poi una sembianza semiseria, quasi non volesse credere alla piega che le circostanze avevano preso « Davvero non hai problemi a viaggiare con me? ».

« La mia unica richiesta è che tu mi faccia uscire viva. E so che memoria o meno non potrai mai mantenerla, quindi cosa cambia? ». La ragazza ridacchiò, quindi indicò il balcone con un dito « Cornelius è fuori, se vuoi dirgli due parole. L’ho già avvertito che ci trasferiremo al Centro Pokémon per non disturbarlo ancora ».

Bellocchio annuì e si diresse verso la cucina limitrofa, utilizzando poi la portafinestra per accedere al balcone. Il sole ormai quasi sfiorava l’orizzonte, aveva giusto il tempo per uno svelto commiato prima di ritirarsi in un luogo appartato in attesa della sua morte metaforica. Cornelius occupava scomposto una sedia in legno sul centro del poggiolo, impegnato a passarsi tra le dita uno spesso sigaro che diffondeva un odore acre nell’ambiente.

« Ah, il Belloccio » lo accolse il padrone di casa, lo sguardo fisso sulla rinfrancante distesa marina.

« Sono passato a salutare » spiegò l’uomo porgendogli la mano per una stretta.

« Sì, la ragazza mi ha detto che andrete al Centro. Riconosco di non essere stato un campione di privacy, vi capisco se volete stare più appartati ». Cornelius impiegò qualche istante a capire la ragione del braccio proteso del suo interlocutore, e quando ci arrivò si infilò lestamente in bocca il cilindro di tabacco per ricambiare il gesto « Comunque tranquillo, non le dirò nulla della rossa. Ciò che accade nella giungla… ».

« La rossa? ».

« Da qui si vede la stazione. Non ho visto granché nel dettaglio, ma non mi sembrava male ».

Bellocchio intuì che il pirata si stava riferendo all’abbraccio con Ginger avvenuto non molto tempo prima. Con un sorriso si affacciò alla balaustra del terrazzino, verificando che effettivamente la fermata ferroviaria di Altoripoli era chiaramente visibile da quel punto. La Seconda Unità ancora attendeva nella speranza che i proverbiali ritardi sulle tabelle orarie fossero stati galvanizzati dall’apocalisse sventata. « Non credo la rivedrò ».

« Figurati. Come ti ho detto il nickname ti si addice, Belloccio. Non in quel senso, eh… ».

« Quando ti ci metti sei duro di testa » commentò il giovane, svagato all’idea che dopo tutto quel tempo ancora il venditore di frutta non avesse imparato il suo pseudonimo correttamente. Ciò per concatenamento di idee gli riportò ancora alla mente la donna che stava per lasciare la città. Non ci aveva riflettuto granché, ma “Ginger” difficilmente era la sua identità all’anagrafe, altrimenti visti i capelli rossi si sarebbe trattato di una coincidenza unica. « Non so nemmeno il suo nome ».

« Beh, è ovvio, è una dei piani alti dei Flare, non possono dirlo! » ribatté Cornelius come se stesse affermando la questione più scontata del mondo. « Sicurezza e cose così, ma… » proseguì, e abbassò il tono della voce « … sai tenere un segreto? ».

« Del tipo? ».

« L’alias che usano come protezione segue un codice. Me l’ha spiegato una di quelle con cui ho… ». Il pirata non terminò l’asserzione, ma lo lasciò intuire a gesti e seguitò « È facile, davvero. Il suo qual è? ».

« Ginger ».

« No, impossibile. Hanno tutti una X nel nickname ».

Un soprannome nel soprannome. Bellocchio pensò che non aveva mai sentito pronunciare da Ginger qualcosa di simile. Non solo non sapeva il suo nome, non sapeva nemmeno il suo vero pseudonimo, e tanti saluti alla storia della fiducia.

Poi un’illuminazione lo folgorò: il biglietto da visita. Se era un identificatore per estranei non poteva fare riferimento al suo appellativo amichevole. Lo estrasse dalla tasca e ne consultò con un’occhiata i dati forniti, pervenendo infine a ciò che cercava « Xaad ».

« Perfetto. Per formarlo tutto ciò che fanno è prendere il nome proprio, tanto è un’informazione inutile… Poi lo anagrammano e aggiungono una X da qualche parte. Di solito all’inizio ».  Cornelius assaporò un’altra boccata del sigaro, crogiolandosi nel suo gusto speziato « È un vecchio codice in uso fin dai tempi del Regime Monarchico. Quindi per esempio, nel tuo caso sarebbe… ».

Non fu un lampo istantaneo. Fu come se le sinapsi del cervello di Bellocchio si stessero risvegliando una a una, forse danneggiate dall’esperienza della caverna, eppure finalmente in grado di collegare i dati che aveva raccolto.

I capelli rossi.

La professione nel campo della scienza applicata.

I dubbi sugli studi, la volontà di diventare una storica annientata dal padre.

E ora l’anagramma inconfutabile. Non riusciva a crederci, ma non c’era un indizio fuori posto. La schiva ragazza impersonata da Zoroark non era che una versione più giovane dell’Ufficiale Flare. Ginger era Ada Delaware.

Cornelius disse qualcosa che la mente dell’uomo non registrò, facilmente un’inquisizione sulla sua apparente catalessi, ma lui era preso da tutt’altro. Perché lei? Perché quel Pokémon avrebbe dovuto imitarla? Che rapporto aveva con lei? Troppe domande, troppi quesiti che ronzavano nella mente. C’era solo una persona che, Bellocchio sperava, potesse chiarirgli i dubbi.

In quel momento il fischio del treno in arrivo trivellò le sue orecchie.

La reazione che seguì fu puramente istintiva. Ripetendo la mossa compiuta due notti prima il giovane afferrò la Poké Ball di Nephtys e, una volta che la sua fedele compagna di avventure fu fuoriuscita, si aggrappò alle sue piccole zampe da Fletchinder e si lanciò in planata sulla cittadina. Vide la stazione avvicinarsi sempre di più mentre già la Seconda Unità era scomparsa dentro uno dei vagoni.

Ma avrebbe vinto quella corsa contro il tempo. La prima volta, al Liceo, se l’era fatta sfuggire, aveva messo insieme i pezzi troppo tardi ed era stato superficiale. Ma ora avrebbe saputo, non avrebbe accettato un’altra sconfitta. Il suo passato a Kalos era interconnesso con quella donna, ne era certo.

Il secondo stridio prodotto dal convoglio giunse quando Bellocchio era a pochi metri dalla stazione, in grado già di sentire il rumore delle ruote sui binari. In un ultimo, disperato tentativo di non fallire costrinse Fletchinder a scendere in picchiata, facendo compiere al trasportato un pericoloso atterraggio di spalla sul cemento.

Quando l’uomo si riprese dallo schianto era già troppo tardi: l’ultima carrozza aveva appena superato la soglia della piattaforma e già si addentrava nell’entroterra di Kalos, diretta a Luminopoli. Una sensazione di vuoto lo assalì, la realizzazione definitiva di aver perso di nuovo. Non importava che avesse salvato la regione, perché Ada gli era di nuovo sfuggita.

E rammentò subito che anche quell’emozione non sarebbe durata a lungo: era il tramonto. Con un doppio atto fulmineo richiamò Nephtys e imbracciò il taccuino aprendolo davanti ai suoi occhi, la scritta “non smettere di leggere” bene in vista. Si orientò verso ovest, dove a breve i fasci luminosi sarebbero stati inghiottiti dall’oceano. Nella foga dell’inseguimento se n’era quasi scordato. Aveva rischiato non poco.

Esiste un fenomeno ottico dovuto alla rifrazione noto come raggio verde, osservabile solo in giornate particolarmente limpide. Appena prima che il sole scompaia sotto l’orizzonte un ultimo sprazzo dalle tonalità verdognole appare visibile per un frammento di tempo, un battito di ciglia. Quando le nuvole non inquinavano la volta celeste, era l’ultima cosa che gli occhi di Bellocchio imprimevano nella memoria prima che quest’ultima venisse cancellata.

Quel giorno il raggio verde era visibile. E quel giorno, mentre gli lampeggiava riflesso nelle sue pupille marroni, una meditazione volatile quanto atroce gli sforacchiò la mente come un proiettile.

Non aveva trascritto la scoperta dell’identità di Ginger. Non l’avrebbe ricordata.

 

 

 

 

 

 

NEXT TIME: 1x33 Linus Stromberg, amichevolmente noto come Lino, è uno dei più popolari Capipalestra della regione di Kalos, arrampicatore amatoriale e scoglio da superare per Serena che ambisce a conquistare la Medaglia Rupe di Altoripoli. Ma i fantasmi dello scontro con Violetta, su cui non è a conoscenza di aver virtualmente trionfato, potrebbero giocare un brutto scherzo alla ragazza nel momento più importante, e anche la sfida potrebbe non svolgersi come si sarebbe aspettata.

Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** M1x03 - Postumi ***


Untitled 1

Minisode 1x03

Postumi

 

 

 

Il pregiato orologio a pendolo ticchettava metodicamente sul davanzale del camino. Erano quasi le undici di mattina e un tiepido sole rischiarava lo studio privato del Presidente di Kalos, filtrando attraverso un sottile drappo paglierino che fungeva da tenda. Ginger sedeva sulla sedia centrale di fronte alla scrivania da lavoro, dietro alla quale un Faubourg in abbigliamento insolitamente convenzionale la stava osservando da alcuni minuti.

Tale era il tempo in cui il silenzio aveva regnato nell’ufficio dopo che la donna aveva terminato un esauriente rapporto sugli avvenimenti di Altoripoli. Per quanto non strettamente rilevante per l’invasione dei Rotom, argomento della discussione, aveva raccontato anche quanto era successo con Hoopa, avendo cura di omettere dettagli riguardo a universi paralleli e simili. Certe informazioni sarebbero state meglio non divulgate. La versione fornita da lei e concordata con il resto della Seconda Unità era che il demone si era semplicemente suicidato. E ovviamente nessuna menzione della sua parentela con Kashlinsky, o del Pianeta Nero in generale.

Lysandre appoggiò le mani sul tavolo, giocherellando con i suoi indici. Prese un profondo respiro, controllando sull’orologio da polso l’ora precisa in vista del discorso che a breve avrebbe dovuto pronunciare alla Regione. Si passò le dita sugli occhi « Sei sicura? ».

« Ci ho pensato a lungo. Sia io che i miei colleghi crediamo sia la scelta migliore ».

« Non c’è nulla di male nell’arrogarsi i meriti di qualcosa. Specie se quel qualcosa è aver salvato Kalos ».

« Non sarebbe saggio attirare l’attenzione su un’Ufficiale Flare, signor Presidente » rispose educatamente Ginger, sbirciando poi dalla finestra sita alla sua destra. Un vocio indistinto vibrava attraverso gli infissi, segno che fuori dall’edificio il pubblico per la conferenza iniziava a radunarsi.

La scelta di cui parlavano era semplice: l’ingegnera non voleva che fosse divulgato il suo ruolo nella vittoria contro i Rotom, né quello dei suoi amici. Non sarebbero passati alla storia come i difensori dell’umanità, nessuno avrebbe saputo di ciò che avevano passato e dei sacrifici che avevano compiuto. Non potevano rischiare che il nome di Xaad salisse alla ribalta, o la sicurezza interna del Frattale sarebbe stata minata.

Lysandre, pur non condividendo la decisione, la rispettò come un vero politico. « Sono felice che la Fondazione sia in mano a persone come te » le sorrise.

Il pendolo batté in quel momento le undici in punto, annunciandole con altrettanti rintocchi. L’uomo si alzò in piedi e, dopo aver dato un’ultima occhiata ai fogli sparsi sul banco, optò per non portarli con sé sulla balconata. Aveva fiducia sufficiente nelle sue capacità oratorie.

Ginger fece per andarsene anche lei, ma Faubourg la fermò con un calmo gesto del braccio « Ti chiederei di rimanere qui, se non ti spiace. Non vorrei che i giornalisti ti vedessero lasciare il Palais, comprometterebbe la vostra disposizione di segretezza ».

« Ah » sussultò la donna, poi annuì arrendevole « Come desidera, signore. Buona fortuna per il discorso ».

 

 

Persino quando il Presidente Faubourg apparve dalla terrazza del Palais de Saint-Honoré per annunciarsi al pubblico, venendo accolto con un infiammante applauso, Fiorenzo Vittadini non riuscì a capacitarsi di trovarsi realmente lì. Era stata necessaria l’indisposizione concomitante dei tre reporter principali di JT Soleil, notiziario principale di Kalos 2, perché lui fosse scelto per presenziare a quell’evento. La questione paradossale era che, pur essendo lui appassionato di politica, era consuetamente destinato a tutt’altro. Servizi di leghe minori perlopiù, l’ultimo prima dell’invasione si era incentrato sui guasti alle lavatrici Dive. Probabilmente ritenevano che la sua bassa statura e la sua forma fisica deficitaria non lo rendessero sufficientemente fotogenico per quel ruolo.

Ma gliel’avrebbe fatta vedere, eccome. Avrebbe dimostrato che la politica non è solo estetica ma anche sostanza, e nessuno aveva più sostanza di lui. Aveva già svolto un’introduzione da manuale all’imminente panegirico, quindi lo scoglio più grande era stato già superato. « Stai riprendendo? » domandò sottovoce al cameraman che lo affiancava, il quale annuì silenziosamente.

Dall’alto del poggiolo Lysandre ammirò la folla riunitasi nel cortile interno del palazzo e, quando le acclamazioni si acquietarono, si schiarì la voce per parlare.

« Miei concittadini, è con dolore che mi rivolgo a voi quest’oggi. È ben compreso che usciamo solo ora da una crisi senza precedente, un attacco dritto al cuore della Repubblica. Mai nella storia di Kalos si ha resoconto di una battaglia tanto sanguinosa dai tempi in cui le Grandi Guerre devastavano i nostri territori. Le mie condoglianze vanno a ogni singola famiglia delle vittime, e possano le loro anime riposare in pace ». Operò una pausa strategica, studiata a tavolino per aumentare l’impatto dei concetti e la conseguente gravitas. Nessuno ancora batteva le mani, ma c’era tempo: in fondo era il miglior oratore di Kalos. « Case sono andate perdute, interi quartieri rasi al suolo, la nostra economia spezzata e la nostra convinzione indebolita. Sarebbe reazione comune arrendersi, scivolare nell’autocommiserazione. E proprio per questo io oggi mi appello a voi, miei concittadini: non lasciate che tutto ciò vi affligga. Non lasciate che le ombre che si sono insidiate nella nostra regione possano affermare di aver trovato avversari arrendevoli. Non lasciate che quei Rotom trionfino. Ricordate il Primo Galà di Luminopoli, ricordate gli anni della Dittatura d’Oltreoceano, ricordate la tragedia della S.S. Cussler affondata al largo di Petroglifari. Abbiamo sempre affrontato gli ostacoli a testa alta ed è sempre stato tale atteggiamento a consentirci di uscirne illesi. Supereremo anche quest’ultimo trauma ».

Questa volta un tenue applauso si levò dalla fiumana di persone. Lysandre sorrise impercettibilmente. Proprio come aveva previsto si stavano gradualmente lasciando coinvolgere dall’argomento. « A tal fine annuncio con effetto immediato un programma di rilancio dal nome di Credo In Kalos. Duecento miliardi dalla gestione emergenze saranno stanziati per retribuire ogni volontario che intenda prendere parte alla ricostruzione e alla rimessa in moto della nostra regione. Non saranno effettuate alcune selezioni su titoli di studio o esperienza pratica, chiunque voglia proporsi per l’assunzione è benaccetto purché fisicamente in grado di contribuire. C’è chi, cinico, sosterrà che è folle da parte mia non attuare altre valutazioni, ma io credo che nel momento del bisogno tutti saranno pronti a fare la propria parte e a mettersi a disposizione degli esperti. Perché io credo in Kalos. Io credo in Kalos! ».

Il consenso si trasformò ora in un’ovazione corale, un elogio univoco che l’intera platea gli rivolgeva.

« Vi ringrazio, vi ringrazio. Concedetemi altri cinque minuti prima di correre ad arruolarvi » scherzò l’uomo, provocando al contempo risate e ulteriori applausi « Come sapete negli scontri dei giorni scorsi ha perso la vita un rispettato membro del Consiglio dei Superquattro, Timeus Argus Wikstrom. Conseguentemente saranno indette entro una settimana elezioni per trovare un suo degno erede. Non avrà tuttavia luogo campagna elettorale, poiché ritengo che in un periodo di tale sofferenza per la mia popolazione non sia accettabile tenere propaganda politica ».

L’esteso uditorio perse il senso del contegno, iniziando a intonare canti in suo onore. Faubourg aveva anticipato anche questo: nessuna popolo sa resistere a quel tipo di demagogia su cui Sauterelle e i Corsari avevano costruito la propria fortuna politica. Osteggia i malcostumi della casta governante e tutti saranno disposti a tralasciare i tuoi.

« È noto inoltre che il ruolo di Intermediario è ancora vacante dopo la mia recente promozione a Presidente. Sappiate che sto vagliando attentamente alla ricerca di un candidato che possa ricoprire adeguatamente ruolo, e nel frattempo continuerò personalmente a svolgerne le mansioni in aggiunta ai miei doveri come massima carica istituzionale ».

La massa eruttò in grida indistinte di approvazione. Fiorenzo Vittadini si asciugò lacrime di commozione che gli inumidivano gli occhi, fiero di aver assistito a un simile episodio di unità regionale. Tutti gli anni di insoddisfazione nel lavoro, di prese in giro da parte dei colleghi, di potenzialità inespresse erano valsi quei pochi minuti di gloria in cui aveva ammirato il Presidente arringare la sua gente. Arringare lui.

« Vi ringrazio. Che Dio vi benedica, e che Dio benedica la Repubblica di Kalos ».

Ritorna all'indice


Capitolo 37
*** 1x33 - Seconde opportunità ***


Untitled 1

Serena sospinse di lato la pila di scartoffie che aveva accatastato sulla scrivania della piccola stanza a lei riservata nell’affollato Centro Pokémon. In cima, spillata al fascicolo per una più facile identificazione di quest’ultimo, si distingueva la colorita fotografia di Linus Stromberg in abbigliamento da arrampicata sportiva, prelavata da un servizio fotografico commissionato da Vie Moderne.

Si era meticolosamente documentata su ogni aspetto che riguardava la sua imminente sfida con il Capopalestra di Altoripoli: la specializzazione nel tipo Roccia, le tattiche più frequenti, il rapporto con i novizi. Aveva anche studiato a menadito il regolamento delle battaglie ufficiali sotto la giurisdizione diretta della Lega Pokémon, scoprendo ad esempio che per chi partecipava alla Lega per la prima volta e deteneva meno di due Medaglie il Paragrafo 21, Comma 2 prevedeva un handicap sugli strumenti tenuti dai Pokémon. Lei non sapeva utilizzarli, e per la verità ne possedeva due o tre appena che fossero adatti allo scopo, ma la consolava sapere che il suo avversario non avrebbe potuto avvalersene.

Dopo la sfida contro Violetta aveva deciso di prestare particolare attenzione alle Abilità, ciò che l’aveva tradita in quell’occasione e per poco non le aveva bruciato l’unica sconfitta a disposizione di chi, come lei, intendeva partecipare all’edizione di quell’anno dell’Esame indetto dalla Lega. Non poteva permettersi di perdere contro Stromberg, o sarebbe stata costretta a sei vittorie di fila in condizioni di massimo stress.

Il campanile della cittadina diffuse nell’aria i rintocchi delle dieci del mattino. Serena inspirò profondamente e strinse tra le dita la cintura con agganciate le sfere di Karen e Uno, ossia Ralts e Bulbasaur. I suoi unici Pokémon al momento, e quindi anche i gareggianti obbligati.

 

 

 

Episodio 1x33

Seconde opportunità

 

 

 

Era una limpida domenica primaverile ad Altoripoli, di quelle in cui il cielo è appena velato da un semiopaco manto di nubi candide. Nonostante la rovina portata dai Rotom  la modesta città non aveva perso la sua vivacità: non molti edifici erano ancora anneriti dalle ceneri, di conseguenza le viuzze che si inerpicavano sulla collina brillavano di nuovo dei dinamici colori sfoggiati dalle pareti degli stabili.

Erano trascorsi cinque giorni dall’invasione, un lasso di tempo sufficiente perché il piano di ripresa imbastito dal Presidente Faubourg iniziasse a mostrare i suoi primi frutti. Dovunque si guardasse l’occhio cadeva su lavoratori intenti al restauro delle abitazioni danneggiate, con il fedele aiuto di un colossale spiegamento di Pokémon sull’intera regione. Bellocchio doveva essere da qualche parte là in giro, intento ad aiutare con il suo solito piglio ottimistico. Si era offerto di presenziare all’incontro, ma lei riteneva di avere un debito con se stessa dopo gli avvenimenti della Palestra di Novartopoli, e parte del saldo era trovare il coraggio di farcela da sola. Quantomeno quella proposta aveva confermato che il suo amico non era cambiato, così come non era mutato il loro rapporto dopo la scoperta della sua perdita cronica di memoria. Tutto come prima, e ciò non poteva renderla più felice.

Mentre scalava i misurati pendii del borgo, Serena pensò che non sentiva poi così tanto la mancanza della visuale sopraelevata che si ammirava dal terrazzo di Cornelius. Forse era più spettacolare, ma perdeva il sapore del contatto umano diretto: il profumo delle panetterie, i dialoghi sui tavolini all’aperto dei bar riguardo l’imminente voto per sostituire il compianto Timeus Wikstrom al Consiglio dei Superquattro. L’unico punto realmente a favore del balcone era la spettacolare distesa oceanica, di cui poteva solo raramente ammirare scorci muovendosi tra le stradicciole. A compensare ciò una piacevole calura cullava l’ambiente, e la ragazza meditò che non sarebbe stato male in quel momento avere un Pokémon d’Acqua. Poter rinfrescarsi quando le aggradava… Trovato le aveva raccontato una volta, due o tre mesi prima, che certi esemplari di quel tipo avevano anche un’Abilità chiamata Assorbacqua che li corroborava quando si bagnavano. Forza e freschezza, il massimo del comfort.

Linus Stromberg, più sovente noto come Lino, era un rocciatore a livello dilettantistico quando non era impegnato ad accogliere sfidanti per la Medaglia Rupe. Era considerato uno dei Capipalestra più indicati per gli esordienti a causa del suo mite temperamento, ma ciò non doveva indurre a rilassarsi: era comunque un valutatore severo e un esperto Allenatore. In accordo con il suo hobby, la sua Palestra era incavata in una grotta posizionata alcune decine di metri più in basso rispetto all’uscita della Trait d’Union che Serena e Bellocchio avrebbero dovuto imboccare quando invece erano fuoriusciti troppo a sud. Da un certo punto di vista l’aspetto era più spartano dell’edificio di Violetta: solo il logo della Lega affisso sopra l’ingresso e due colonne esagonali a delimitare quest’ultimo. Entrare in una caverna non fu per la ragazza un compito agevole per via dell’angoscia che la prigionia di Hoopa le aveva lasciato, ma la determinazione di conquistarsi lealmente una Medaglia ebbe la meglio su accenni di disturbo post-traumatico.

Al di là dell’adito si trovava un breve corridoio roccioso rischiarato da fioche lampade appese in angoli strategici. La temperatura era notevolmente calata rispetto al mite clima esterno, e Serena già rimpiangeva di non aver portato con sé la sua fedele giubba scarlatta. Man mano che avanzava un rumore prima impercettibile si intensificava di volume, qualcosa di simile a un acquario in lontananza.

Una volta giunta al termine dell’androne la vera e propria Palestra si spalancò ai suoi occhi: si trattava di una ciclopica spelonca che si estendeva probabilmente per centinaia di metri in altezza. La ragazza poggiava i piedi su uno spiazzo dissestato che preludeva al campo di battaglia su cui avrebbe a breve combattuto. Al termine di quest’ultimo un baratro lo divideva dalla massiccia cascata che aveva prodotto il suono udito prima. L’atmosfera era tesa, ma probabilmente era solo la sua emozione per trovarsi nuovamente in quel tipo di struttura, pronta per la sfida. Si guardò attorno, notando sul lato destro una scrivania a muro non dissimile da quella del laboratorio del Pianeta Nero; accanto a essa un giovane stava scrutando la massa d’acqua corrente. E non era Lino.

Serena gli si avvicinò titubante, trovando solo dopo un po’ l’audacia di parlare « Mi scusi? ».

L’uomo si accorse della sua presenza e le rivolse uno sguardo di sufficienza « Frammenti di una felicità perduta nel presente. Sfocati e sciolti nell’aria, spezzati ma aderenti ».

« Come? ». La ragazza lo scrutò: probabilmente non era molto più vecchio di lei e portava un corto caschetto biondo che ben si intonava alla sua pelle opalescente. Era il volto però a non convincerla, le ricordava troppo da vicino qualcuno che non riusciva a rammentare.

« Non mi aspetto che tu capisca. Perché sei qui? ».

« Cerco il Capopalestra » rispose lei. Inizialmente il suo tono l’aveva intimidita, ma quasi subito aveva deciso di reagire senza flettere un muscolo.

« Ce l’hai davanti » ribatté il ragazzo con fierezza « Christian Black ».

« Non… Non dovrebbe essere Linus Stromberg? ».

Christian parve trattenere una grassa risata « Non lo sai? Linus ha deciso di candidarsi come Superquattro a queste elezioni. Almeno finché non è noto l’esito lo sostituisco io ».

Finalmente Serena comprese chi le riportava in mente quell’individuo: Calem. Aveva lo stesso piglio presuntuoso, la stessa espressione condiscendente. Non seppe se essere rallegrata o infuriata all’idea che sarebbe stato lui il suo avversario. « Vorrei sfidare la Palestra ».

« Beh, questo è ovvio. Serve una carta d’identità » recitò il giovane a macchinetta, afferrando poi quella di Serena con poca perizia « Borgo Bozzetto, bene. Questa è la tua prima Palestra? ».

« No. Ho già la medaglia di Novartopoli » proseguì la ragazza anticipando il quesito successivo.

« Ancora nella classe Principianti, quindi. Quanti Pokémon hai a disposizione? ».

« Due ».

« Due anch’io, allora » dedusse il biondino asettico. Con un passo si apprestò a voltarsi per dirigersi al PC dietro di lui, fermandosi solo per fornire le ultime direttive « Valido la registrazione e seleziono le Ball. Intanto vai pure alla postazione ».

Nel cammino verso le linee di delimitazione che segnavano il campo, Serena fu colta da un misto di solitudine e crescente preoccupazione. Doveva già sopportare l’ansia da prestazione, e questo cambio di programma si presentava al momento meno opportuno. Si era documentata alla perfezione su Lino, ma di questo nuovo arrivato non sapeva nulla. Tante ore di studio buttate al vento. E ora avvertiva anche la sua usuale fitta alla mano sinistra, quel dolore ricorrente che l’assaliva quando era tesa.

« Ci siamo » annunciò Christian dopo qualche minuto di indaffaramento, portandosi poi al rettangolo apposito sul lato opposto. Eccezion fatta per la cascata una quiete totale era calata sull’ambiente, lasciando che i due si studiassero circondati da massi sparsi intorno al campo. Quel Capopalestra improvvisato non avrebbe lanciato nessun conto alla rovescia, per Serena era ovvio. E così fu « Cominciamo! ».

La sfidante non ebbe alcun dubbio: per quanto Uno godesse di un vantaggio sul tipo era anche decisamente inesperto, quindi la scelta ricadde su Karen che uscì dalla Poké Ball come previsto. La prima sorpresa della giornata avvenne a quel punto: dalla sfera di Christian spuntò fuori un vivace ranocchio celeste. Un Froakie. Un Pokémon d’Acqua.

« Ehi! » protestò animatamente « Questa è una Palestra di tipo Roccia! ».

« Quando Lino la gestisce, certo. Ma io non sono Lino ».

« Ma non puoi! ».

Il ragazzo fece spallucce « La specializzazione della Palestra è a discrezione del Capopalestra. In quanto pupillo di Narciso sono bravo con i Pokémon Acqua, usare un tipo diverso sarebbe penalizzante per me ».

Serena soffocò l’istinto che le suggeriva di malmenarlo. Stava barando. O meglio, no, stava solo sfruttando un buco legislativo. Era convenzione che ogni cambiamento nelle qualifiche di una Palestra fosse comunicato in anticipo, e lui stava ignorando senza ripensamenti una lunga tradizione a Kalos. Ma d’altronde da uno che proveniva dalla scuola di quell’insopportabile Superquattro di nome Narciso non poteva aspettarsi altro. Sicuramente un raccomandato.

Se ne sarebbe volentieri andata, ma certamente quella serpe l’avrebbe registrato come forfait, e addio all’unica sconfitta concessa. Per di più, anche se lui probabilmente non lo sapeva, quella scelta la favoriva ugualmente. Si era allenata sulle tecniche Erba, e per sua fortuna l’Acqua la temeva tanto quanto la Roccia. Voleva giocare sporco? Che lo facesse, avrebbe reso la sua vittoria più saporita.

Appena prima che potesse dichiarare un attacco, tuttavia, giunse il secondo fatto inatteso: Christian protese la mano in avanti e richiamò Froakie senza nemmeno annunciarlo. La ragazza fu sul punto di aggredirlo, convinta che la stesse prendendo in giro « Che cosa stai facendo ora? ».

Con un rapido gioco di prestigio la sfera che il biondo stringeva fu sostituita da un’Esca Ball, la quale rivelò un Mantyke che balzò fluttuante sull’arena. Serena non ne aveva mai visto uno di persona, ma l’aveva sentito nominare in una circostanza che ora non rammentava. Sembrava comunque un esemplare comune, tranne per una fascia azzurrina avvolta intorno all’aletta sinistra. « Sostituisco il mio Pokémon ».

« Ma… ».

« Il regolamento prevede che i Pokémon siano sostituibili a discrezione dell’Allenatore. Il tuo Ralts punta sulle tecniche speciali, che Mantyke regge molto meglio di Froakie » espose Christian senza perdere il suo irritante sorriso « Hai intenzione di protestare per tutta la partita? ».

Giurisprudenza, ha studiato, pensò Serena, altroché. Ma aveva dimenticato un passaggio importante della teoria dell’allenamento: mai avvicendare Pokémon in una condizione di parità. Adesso aveva perso tempismo nell’azione e aveva svelato la sua intera squadra. E il cambio non importava, perché la mossa da lei precedentemente approntata rimaneva valida: Fogliamagica avrebbe avuto un effetto superefficace anche sulla nuova arrivata. « Vai, Karen! » gridò senza nemmeno la necessità di nominare l’attacco: la sua compagna intuì alla perfezione e scagliò un turbinio di fronde che colpirono infallibilmente la manta.

Questa, tuttavia, ne uscì sostanzialmente incolume come il Capopalestra aveva predetto. « Mantyke è in parte Volante, ciò neutralizza la tua mossa Erba » spiegò con derivato sconforto di Serena, ordinando poi con voce possente « Usa Idropulsar! ».

« Teletrasporto! ».

Secondo una tattica già provata nella preparazione Ralts scomparve alla prima avvisaglia di un’offensiva nemica, ma il Pokémon Aquilone reagì fulmineo e localizzò l’oppositore abbastanza presto da deviare il flusso d’acqua nella sua direzione. Karen fu colpita in pieno e cadde a terra sotto dove era ricomparsa, sul lato sinistro del campo.

Serena sgranò gli occhi e iniziò impercettibilmente a vibrare di nervosismo. Non era possibile che Mantyke si fosse mosso tanto in fretta. Le sfide in Palestra non consentivano la consultazione del Pokédex, ma ne era certa: non poteva esserne capace. Ci doveva essere un trucco.

E a quel punto comprese. Il nastro turchino che avvolgeva la pinna… « Hai dato al tuo Pokémon una Stolascelta! ».

« Hai buon occhio. Non certo un cieco che legge il braille ».

La ragazza ringhiò internamente. Stolascelta vincolava l’utilizzatore a una sola tecnica, ma era un inconveniente di poco conto se lo rendeva tanto rapido da tenere il passo di un Teletrasporto. « Non puoi! Il Paragrafo 21… ».

« … Comma 2 vieta gli strumenti contro i novizi in possesso di una Medaglia o meno » recitò Christian come uno studente che ha studiato a memoria il programma « Lo so. Ma dimentichi che ogni regola dal Paragrafo 17 è parte delle disposizioni emendabili. Un Capopalestra può negarle se ritiene che il novizio ne gioverebbe ».

Imbrogliava. Imbrogliava platealmente. Chissà se si era spinto su per la gerarchia della Lega a forza di cavilli burocratici. Ma non gliel’avrebbe data vinta, no: aveva commesso un altro errore. Se lui poteva ritirare il suo Pokémon, allora anche lei era abilitata a farlo. « Karen, rientra! ».

Ralts si dissolse in un raggio cremisi, venendo poi rimpiazzato da un Bulbasaur fuoriuscito dall’altra Poké Ball della contendente. Christian applaudì la mossa, seppur con una leggera vena sarcastica che non si sprecò a camuffare « Approfitti del fatto che Stolascelta ha bloccato Mantyke su Idropulsar. Che ti avevo detto? Ti giova ». Ripetendo il gioco di mani di prima scambiò nuovamente le sfere e Froakie tornò sull’arena che aveva abbandonato qualche minuto prima. Serena scrutò il ranocchio alla ricerca di un oggetto tenuto, ma questi sembrava esserne privo.

Adesso era il momento. Il breve incontro tra Ralts e Mantyke era stato utile per studiare le rispettive strategie, ma ora si faceva sul serio. E nessuno dei due si sarebbe trattenuto o avrebbe giocato con l’altro.

« Giornodisole! ».

« Geloraggio! ».

Froakie mostrò maggiore celerità nel generare la tecnica, ma il tempo necessario per raggiungere il bersaglio fu vitale: il bulbo di Uno originò una sfera luminosa che si elevò nella caverna rischiarandola come una splendente stella incendiata. Serena sorrise, conscia che a quel punto la tattica che aveva approntato per Lino era stata innescata: aveva attivato l’Abilità del suo Pokémon, Clorofilla. E infatti quello, fortificato dalla luce solare, acquistò una lestezza tale che riuscì a scansarsi e osservare compiaciuto l’attacco sciogliersi sul terreno.

Adesso la sfidante era in vantaggio: le velocità degli oppositori erano paragonabili, Bulbasaur era uscito illeso e godeva di pochi ma fondamentali attimi di vantaggio. « Usa Foglielama! » ordinò la sua padrona, e il turbinio verdeggiante colse Froakie mentre ancora si stava riorganizzando dopo l’azione precedente, centrandolo in pieno. Serena non trattenne un’esultanza, ma non poté fare a meno di notare che Christian conservava ancora quel provocatorio sorriso sul volto.

E per buone ragioni: la Schiumorana non aveva patito il colpo nemmeno lontanamente quanto avrebbe dovuto. L’Erba debilitava l’Acqua, eppure non si sarebbe detto da come si era scrollato di dosso l’offensiva. Quando il sogghigno del Capopalestra si trasformò in una risata di scherno, la ragazza lo fulminò con lo sguardo « Che cosa c’è, ora? ».

« Ti è familiare il concetto di Abilità? ».

Ti è familiare il concetto di Abilità? All’involontaria ripresa delle stesse parole usate da Violetta, Serena perse molta della sua spavalderia « Certo ».

« L’Abilità di Froakie è Mutatipo. Ogni volta che usa una mossa si mimetizza in essa, acquisendone il tipo. Ciò rende al contempo più forte l’attacco e più imprevedibile lui ».

La ragazza comprese: adesso quel ranocchio era di tipo Ghiaccio, e il Ghiaccio non temeva particolarmente l’Erba. Mentre la realizzazione le giungeva fiaccante, Christian fu galvanizzato e il suo Froakie scagliò immediatamente un secondo Geloraggio che, complice una momentanea disattenzione dell’obiettivo, focalizzò quest’ultimo pienamente. Il grido di dolore lanciato da Bulbasaur fece tornare la sua proprietaria in sé « Coraggio, Uno, non perdere la concentrazione! ».

L’anfibio proiettò un terzo flusso gelido, ma questa volta il Pokémon Seme reagì con prontezza schivandolo con la velocità assicuratagli da Clorofilla. Seguì una successione serrata di Geloraggi lanciati con precisione millimetrica, e Bulbasaur si ritrovò a zigzagare per l’intero campo in un tentativo di ritardare l’inevitabile.

Serena si sentì terribilmente impotente. Per quanto un solo attacco avesse ferito il suo amico, tanto era bastato a renderlo decisamente più debole. Lo vedeva arrancare facendo appello a ogni forza residua, ma prima o poi avrebbe commesso un passo falso dettato dalla poca lucidità. La luce solare che aveva generato a inizio battaglia avrebbe favorito una Sintesi che l’avrebbe rivitalizzato, ma Froakie non concedeva loro nemmeno l’istante di tregua necessario per attuarla.

E non poteva neppure rispondere al fuoco: si era allenata quasi esclusivamente sulle tecniche d’Erba, e Mutatipo aveva scompigliato i suoi piani. Senza considerare che, anche qualora avesse trovato un’alternativa a Foglielama, al suo avversario sarebbe bastato cambiare mossa per vanificare i suoi sforzi. Non poteva attaccare. Non poteva attaccare.

Le parole le vorticarono nella testa fino a che non arrivò alla folgorazione che le serviva. No, non poteva attaccare. Ma poteva difendere.

« Uno, fermati e usa Amnesia! ».

Bulbasaur obbedì, arrestandosi sul posto e lasciando che il Geloraggio di Froakie, mirato poco più avanti per tenere il suo ritmo di corsa, si frantumasse al suolo. Piccole bolle dalle tinte arancioni lo circondarono, dondolando elegantemente nell’aria prima di dissiparsi. Il suo avversario approfittò del momento di stasi per attaccare con successo, ma quando la tecnica colse il Pokémon fu a malapena sufficiente a solleticarlo.

« Così! Usala ancora! » esclamò Serena a pugno chiuso, gongolando nel vedere il Capopalestra per la prima volta in difficoltà. Amnesia aveva incrementato la resistenza speciale del suo compagno, e i Geloraggi adesso non potevano danneggiarlo significativamente. « Perfetto, e adesso Sintesi! » ordinò poi, lasciando che il piccolo rettile si ricaricasse usando l’energia solare « Allora, Christian? Ti fai fermare da così poco? ».

Il ragazzo strinse tra le dita i suoi ciuffi biondi e digrignò i denti esacerbato « Credi di aver già vinto? Ho molte altre cartucce nel mio fucile! Froakie, usa Rimbalzo! ». La Schiumorana si abbassò quasi al livello del terreno prima di spiccare un salto di forse oltre dieci metri, svanendo nell’accecamento provocato da Giornodisole.

« Cartucce nel fucile. Che poeta » ridacchiò sarcastica la sfidante.

« Io non riderei, sai? Rimbalzo è un attacco fisico, la tua Amnesia non ridurrà il danno stavolta! ».

« Oh, lo so benissimo. Ma Rimbalzo è anche un’altra cosa » motteggiò la giovane « Di tipo Volante. Uno, usa Naturforza! ».

Christian sgranò gli occhi incredulo. L’aveva raggirato, e lui si era comportato esattamente come lei aveva pianificato. Mutatipo avrebbe armonizzato Froakie alla sua mossa, rendendolo di tipo Volante, e Naturforza, traendo la propria energia dall’arena stessa, avrebbe assunto il tipo Roccia dettato dalla caverna. Superefficace. Entrambe le tecniche sarebbero andate a segno. Distruzione mutua assicurata.

Il Capopalestra fu costretto ad assistere alla scena senza poter reagire. La sagoma del ranocchio in caduta libera ricomparve stagliata contro il finto sole mentre l’attacco di Bulbasaur, convertito in Gemmoforza, veniva sprigionato verso l’alto. Da lì fu una questione di attimi: entrambe le parti si mossero troppo velocemente per essere viste e in un baleno un fragoroso boato assordò i presenti. Una nube di polvere si levò dal punto d’impatto precludendo alla vista buona parte del campo. Rimbalzo doveva essere andato a segno visto il rumore, ma quando la nube di pulviscolo iniziò a diradarsi l’anfibio a terra indicò che anche Naturforza aveva svolto il suo dovere. Presto anche l’altro contendente divenne visibile: entrambi erano accasciati a terra, entrambi colpiti duramente da ciò a cui erano deboli, eppure entrambi non completamente esausti. Apparivano quasi incapaci di muoversi, ma erano vigili.

Christian strinse i denti. Nessuno dei due era messo bene, ma Bulbasaur godeva di un vantaggio: Sintesi. Lui poteva riprendersi, Froakie no. Non poteva permettergli di farlo, o avrebbe perso quel round. E visto che il suo combattente non sembrava in condizione di produrre un Geloraggio, tantomeno di ricorrere a una mossa fisica come Rimbalzo, rimaneva una sola alternativa. « Usa Lancio! ».

Serena si drizzò come un manico di scopa. Sotto i suoi occhi il ranocchio infilò la zampa sotto il collare schiumoso e ne sfilò un pendente a forma di goccia. Acqua Mistica, celata per tutto quel tempo, mai impiegata perché ricorrere a mosse d’Acqua sarebbe stato fuori luogo per il suo avversario. Se avesse colpito Uno sarebbe stata più che sufficiente a mandarlo al tappeto. La reazione della ragazza fu più istintiva che ragionata « Presto, Resistenza! ».

Lo strumento lasciò in quel momento la stretta della Schiumorana per dirigersi verso il suo bersaglio. Bulbasaur si accovacciò all’istante e fu centrato in piena fronte dal proiettile, che tuttavia fu sbalzato via con un sussulto del ricevitore. Per quanto con un briciolo di vitalità, la tecnica difensiva gli aveva permesso di reggere.

La sfidante trattenne un’esultanza per la sola ragione che non era ancora finita. I suoi occhi andarono al soffitto della caverna, dove la sfera prodotta da Giornodisole andava affievolendosi. Sarebbe durata ancora poco, quindi doveva fare in fretta. Un’occhiata rapida a Froakie bastò a capire che non riusciva a rialzarsi dall’attuale posizione inginocchiata, e per quanto spossato sarebbe stata necessaria una tecnica di potenza non indifferente per finirlo. « Uno, usa Solarraggio! ».

Christian trasalì, Serena non si deconcentrò per un’istante. Bulbasaur era stato violentemente ferito da Rimbalzo, forse anche paralizzato, e il solo issarsi sulle piccole zampe lo fece tremare. Ma doveva farcela. Poteva farcela. La sua padrona lo incitò a mente, forse addirittura convinta che servisse. Coraggio. Coraggio, ripeté tra sé e sé mentre il suo amico radunava le sue forze.

Ma non fu sufficiente. Dopo un ultimo sforzo il Pokémon cadde a terra incapace di proseguire, e Serena fu obbligata a ritirarlo nella Ball mentre il sole artificiale si spegneva e sull’antro calavano nuovamente le tenebre. Con i nervi a fior di pelle lanciò in campo Karen, parzialmente rinvigorita dal breve riposo ma comunque limitata dal suo stadio evolutivo. La ragazza si sarebbe attesa di vedere dall’altro lato la sinuosa sagoma di Mantyke, eppure l’anfibio era ancora al suo posto. « Non hai intenzione di richiamarlo? » domandò corrucciata.

« Il fatto che Froakie sia debole non vuol dire che sia inutile » ribatté sprezzante Christian « Non ha speranze di vincere, ma è sacrificabile per sfiancare Ralts. Credo che sopravvaluti il tuo piccoletto ».

Serena increspò le sopracciglia disgustata. La prima frase era stata quasi troppo gentile per il personaggio, e infatti con la seconda e la terza si era ampiamente rifatto. « Nessun Pokémon è sacrificabile. Per la cronaca, Karen è una lei » lo corresse adirata « E credo che sia tu a non doverla sottovalutare, perché hai dimenticato qual è stata la tua ultima mossa ». La sua ira era tale che non lasciò nemmeno al suo avversario il tempo di comprendere il suo errore e gridò a pieni polmoni « Karen, usa Assorbibacio! ».

Il Capopalestra pensò che fosse una decisione peculiare, e quando ne afferrò il senso ormai era troppo tardi. L’ultima mossa di Froakie era stata Lancio, tipo Buio, e per via di Mutatipo ora anche il Pokémon stesso l’aveva acquisito. Il che lo rendeva vulnerabile al Folletto, una delle specialità di Ralts. Prima ancora che potesse rispondere la Schiumorana giaceva inerme a terra, definitivamente stordita. Erano pari: uno a uno, e lo scontro decisivo era alle porte.

Per quando Mantyke giunse sull’arena, però, Serena aveva già elucubrato abbastanza per capire che aveva perso. Era come Violetta aveva detto: Ralts era troppo fragile per reggere uno scontro diretto. Credeva di essere migliorata, di essersi preparata, e invece aveva di nuovo peccato di superbia. Ma esattamente come allora non intendeva darsi per vinta. Le chance erano nulle, ma arrendersi non era da lei. Si fece coraggio.

« Fogliamagica! ».

« Idropulsar! ».

Come nella prima iterazione l’attacco di Karen scalfì appena la pelle della manta, che nel frattempo aveva già caricato e scagliato il suo getto d’acqua. Ralts fu investito in pieno, svanendo sommerso dalla massa liquida senza nemmeno provare un Teletrasporto, perché si era già rivelato inutile. La sua proprietaria si attese di ritrovarlo steso in acque chete, umido e vinto.

Ma non fu così. Con sconvolgimento di tutti i partecipanti, Karen in primis, il piccolo Pokémon Sensazione era rimasto vigorosamente in piedi. Si sarebbe detto che la tecnica l’avesse mancato da come pareva illeso, ma tutti avevano assistito al contrario. Serena non riuscì a capacitarsi di cosa fosse successo, rimanendo immobile con gli occhi sgranati. Christian invece realizzò l’accaduto relativamente presto, con una voce che trasudava stupore « Traccia… ».

« Cosa? ».

« Il tuo Ralts ha Traccia come Abilità, vero? ».

La ragazza lo osservò perplessa. Lei l’aveva scoperto negli studi in previsione di quel giorno fatidico, ma non l’aveva mai detto nel corso della battaglia. « Sì, come fai a saperlo? ».

« Perché si è appena attivata, furbona. Ha copiato Mutatipo da Froakie ».

In quel momento la bionda competitrice afferrò appieno il significato delle parole dell’Allenatore, e in parallelo anche come si era svolta la faccenda. Quando Karen era scesa in campo Traccia aveva imitato l’Abilità del suo avversario corrente, ovvero Froakie. Quando aveva usato Fogliamagica Mutatipo era stata innescata, e il nuovo tipo Erba aveva resistito a Idropulsar. Ora Mantyke era vincolato a quella mossa che lei non soffriva. Era di nuovo in partita.

E un’altra realizzazione la colse a quel punto, una che la rinvigorì all’istante: contro Violetta aveva vinto. Aveva ripassato la sfida decine di volte, al punto da impararla a memoria, eppure non le era mai passato per l’anticamera del cervello che quella caratteristica che aveva ritenuto inutile, Traccia, potesse consentirle di ritorcere l’Abilità del suo nemico contro di lui. Ora invece le appariva chiarissimo: Karen tre settimane prima aveva copiato Insettocchi, e quindi aveva sempre saputo qual era il vero Vivillon tra le copie prodotte da Doppioteam. Se avesse attaccato avrebbe vinto, e per questo Violetta si era arresa. Le aveva mentito per non farle montare la testa.

Christian, silenzioso a digrignare i denti fino ad allora, si convinse che non aveva nulla da temere: poteva sfinire quell’esserino a furia di Idropulsar. Era pur sempre il settimo Pokémon più debole conosciuto e non aveva modo di rivitalizzarsi autonomamente. « Mantyke, v–– ».

« Karen, Attaccalite! » proruppe Serena con un ritrovato sorriso.

Il Pokémon Aquilone cercò di obbedire al Capopalestra, ma non riuscì a sferrare l’attacco. Fu come soffocato, incapace di generarlo nella bocca. « Cosa? ».

« Stolascelta può anche esserti utile per essere più veloce, ma devi pagarne il prezzo » spiegò la ragazza soddisfatta « Non puoi cambiare mossa. Attaccalite impedisce di usare la stessa due volte di fila, quindi non puoi toccarmi ».

« Non posso finché non attacchi di nuovo » la corresse Christian, ben conscio del funzionamento della tecnica e dei suoi tempi di reset « Ricorda il Paragrafo 2, Comma 24. Norme sullo stallo: se non attacchi in tre minuti hai perso ».

Serena annuì. Conosceva benissimo il regolamento. E non avrebbe avuto bisogno di quei tre minuti, perché ormai sapeva cosa fare. Prima il nervosismo aveva annebbiato il suo raziocinio, troppo concentrata com’era sul non perdere, ma ora vedeva chiara la strategia di vittoria. E non c’era nulla che il suo avversario potesse fare per fermarla. « Karen, usa Baratto! ».

Una coppia di flussi energetici color erba connesse in versi opposti i due Pokémon in campo. Quasi contemporaneamente l’Idropulsar di Mantyke tornò in funzione, proiettato dritto contro Ralts e sommergendolo. Christian si concesse una breve esultanza, ma fu quasi immediata la realizzazione che il suo nemico non stava indietreggiando di un millimetro. Di più, stava assimilando il colpo.

« Sorpreso? » domandò la sfidante in tono provocatorio « Baratto scambia l’Abilità con il bersaglio. Possiamo dire con moderata certezza che il tuo Mantyke aveva Assorbacqua? ».

« INTERROMPI SUBITO L’ATTACCO! » ordinò il ragazzo a pugni stretti, e all’istante il getto fu tranciato alla fonte cadendo sul suolo pietroso. Assorbacqua rinvigoriva l’utilizzatore quando era colpito da mosse di tipo Acqua, quindi tutto ciò che aveva fatto era stato avvantaggiare Ralts. Non solo, per via di Stolascelta non poteva nemmeno cambiare mossa. Era inerme. « Come sapevi che Abilità aveva? ».

Il ghigno di Serena fu eloquente nel mostrare il suo stato d’animo. Aveva ricordato dove aveva visto Mantyke prima: era nella lista di Pokémon che Trovato gli aveva mostrato parlandogli di quell’Abilità. « Merito di un amico » commentò criptica « Ma grazie per la ricarica gratuita ». Assaporò il puro risentimento provato dal Capopalestra come la fragranza del primo giorno di primavera, poi si rivolse alla sua Karen « Allora, la chiudiamo? Prepara Laccioerboso ».

« Mi chiedevo quanto ci avresti messo a capire che era più efficace di Fogliamagica per il peso di Mantyke ».

« Chiedo venia, ero distratta ».

« Sai, è irritante essere sconfitto da un’Allenatrice imbarazzante come te » disse il giovane amareggiato « Stai attaccando un Acqua-Volante. Non dovresti usare l’Erba, dovresti usare lo Psico o il Folletto che sono i tipi di Ralts. L’efficacia è la stessa ».

« È irritante essere stata quasi sconfitta da un Allenatore imbarazzante come te » ribatté Serena secca « Perché hai dimenticato che Baratto funziona in entrambe le direzioni, quindi Mutatipo è passato a te. Dimmi, qual è l’ultima mossa che hai usato? ».

Proprio mentre un duo di viticci fluorescenti spezzava la continuità della roccia come germogli nel cemento, Christian ebbe l’epifania più significativa della sua vita: non aveva semplicemente perso, era stato superato. Aveva trascurato la sua stessa Abilità, e il fatto che in congiunzione con Idropulsar avesse cancellato il tipo Volante dal suo Pokémon Aquilone. E l’entusiasmo di Serena non fece che rendere ancora più duro il momento in cui la manta, stritolata dai rampicanti, cadde tramortita a terra impossibilitata a continuare lo scontro, sancendo la sua sconfitta. Nonostante gli strumenti usati, nonostante si fosse mosso ai limiti del regolamentare per prevalere, aveva perso.

Serena, sita dal lato opposto dell’arena, si piegò sulle ginocchia e scoppiò in una quieta risata. In un colpo solo aveva guadagnato due Medaglie e si era liberata di quel peso opprimente che la resa di Violetta le aveva caricato sulle spalle. Adesso sì che era un’Allenatrice.

Dopo aver richiamato Karen si avvicinò al sostituto Capopalestra a passi lenti, quasi signorili nella natura. Quello la osservò con uno sguardo dapprima abbattuto, poi illuminato da un guizzo intuitivo « Sei stata davvero brava. Sarebbe bello se cominciassimo ad allenarci insieme, sono sicuro che impareremmo qualcosa l’uno dall’altra ».

La ragazza gli rivolse un’occhiata di fuoco. Mentiva, e non era nemmeno bravo a farlo. Sicuramente era così che era entrato nelle grazie di Narciso: facendosi amici i più talentuosi, vivendo sotto le loro ali protettive e aggrappandosi a loro mentre spiccavano il volo verso i piani alti degli ordinamenti degli Allenatori. « La mia Medaglia, grazie ».

Sbigottito e mortificato – probabilmente non era abituato a ricevere un rifiuto così deciso –, Christian frugò nella tasca della sua giacca per estrarne una spilla dalla forma simile a una parete di mattoni, un premio adeguato alla Palestra di Linus Stromberg. Protese la mano per porgerla alla vincitrice, recitando con tono afflitto « Questa è la Medaglia Rupe. Adesso che possiedi due Medaglie risulti regolarmente iscritta alle qualificazioni per l’Esame della Lega Pokémon di Kalos. Congratulazioni ».

La ragazza sorrise e la strinse tra le dita orgogliosa. Avrebbe voluto dire molte cose a quell’arrogante, ma un incipiente sermone fu troncato dal suono inconfondibile di una notifica del PSS. Quando l’ebbe recuperato dalla borsa scoprì che si trattava di un lapidario quando enigmatico messaggio di Bellocchio.

Costa Nera a mezzogiorno”.

 

 

Quando Serena arrivò alla spiaggia designata, sotto un cielo limpido e un sole accecante alto sulla cupola turchina, il suo amico doveva essere lì già da diverso tempo. Una scia di orme marcate nella sabbia conduceva alle sue scarpe affossate nei granelli. Entrambe le sue mani erano infilate nelle tasche frontali dei pantaloni, il volto era proteso all’orizzonte color indaco, e una brezza marittima sollevava appena il suo cappotto. Lo aveva indosso nonostante il caldo, ma non sarebbe stato lui se avesse ragionato come loro comuni mortali.

Appena la ragazza gli fu sufficientemente vicino, l’uomo parlò senza muovere il capo « Com’è andata? ».

« Ho vinto! » rispose Serena con gioia. Bellocchio si voltò verso di lei quando bastava perché un insolitamente arcuato sorriso di congratulazioni divenisse visibile. Era felice per lei, su questo non c’era dubbio. « Sono uscita da poco, però. Come sapevi che per mezzogiorno avrei finito? ».

« Perché ero certo che ce l’avresti fatta in breve, ed ero certo che avresti vinto ».

« Per fortuna che uno di noi due lo era » commentò la ragazza con pungente autoironia « Ah, sai che avevo vinto pure con Violetta? ».

« Sul serio? ».

Serena annuì allegra « Questione di abilità ». Sul momento rise tra sé e sé per quella freddura tanto ingegnosa, ma a ben pensarci era terribile. Meglio dimenticarla. « Perché siamo qui? ».

Il giovane estrasse la mano destra dalla rispettiva tasca, stringendo tra le mani una Poké Ball fortemente danneggiata. Numerosi graffi le segnavano la copertura, e in alcuni punti pareva addirittura di intravedere della ruggine.

« Cos’è? ».

« La sfera che contiene la Chansey di Kashlinsky. Quella che alimentava il generatore sinaptico di Hoopa ».

« Quella con cui hai fatto il giochetto per batterlo » rammentò l’Allenatrice « Cosa ne facciamo? ».

« La liberiamo. Ha passato anni dentro la Ball, è anche ora che si faccia una camminata. Tu sei d’accordo? ».

« Sei tu l’incubo degli dei ».

Bellocchio emise uno sbuffo divertito alla punzecchiatura dell’amica e premette il pulsante centrale della sfera. Di lì ciò che seguì fu confuso: il flash di apertura lo accecò per una frazione di secondo, ma in quel brevissimo istante una serie interminabile di migliaia e migliaia di figure danzarono nella mente del giovane. Riuscì a distinguere soltanto alcune immagini, fotografie di un film sconclusionato: un vortice blu, una donna bionda che lo baciava, una cabina metallica e poco altro. Senza alcuna transizione ritornò alla realtà, non prima però che un’ultima istantanea gli infiammasse le retine: il cosmo. Un angolo remoto dell’universo, buio e al contempo denso di stelle che come gemme lo decoravano.

Serena afferrò il suo amico per le spalle per evitare che cadesse dopo averlo visto sobbalzare all’indietro « Ehi, che hai? ».

Bellocchio sbatté le palpebre più volte. Solo ora si rendeva conto che quelle diapositive non erano state mute: le sue orecchie palpitavano, investite da suoni inconsulti che pareva aver avvertito solo lui. Impiegò qualche momento per riportare la sua soglia uditiva a un livello accettabilmente basso. « Ho visto… È stato strano, è come se… » farfugliò. Osservò la Poké Ball ora aperta e vuota come se avesse scorto un fantasma al suo interno « Ho visto i ricordi di Kashlinsky ».

Serena sussultò « Cosa? ».

« Dev’essere stato il generatore » proseguì l’uomo ancora sconcertato « Mentre estraeva il codice sinaptico per produrre le radiazioni deve averlo rinforzato ».

« Le ha impresse dentro la Poké Ball ».

« Può essere. Quando l’ho aperta mi saranno arrivate in faccia ».

La ragazza esaminò a fondo il suo volto con preoccupazione. Per quanto ne stesse parlando con la più assoluta naturalezza era evidente che ciò che aveva provato per quella scheggia temporale era stato tutt’altro che banale. Se davvero erano le memorie di quello scienziato di cui le aveva raccontato, doveva aver rivissuto avvenimenti cupi. La caduta del Pianeta Nero, la progressiva follia del suo leader, il proprio assassinio… « Tu stai bene? ».

« Sì… Sì, sono andate. È stato un attimo » la rassicurò Bellocchio. Rivolse il proprio sguardo al paffuto corpo di Chansey, che fino a quel momento li aveva scrutati incuriosita, e si accorse che anche lei ora lo fissava negli occhi. La sua espressione era strana, delicata, come se stesse cercando di comunicargli qualcosa. Ma dovette rinunciare e, senza emettere neppure un verso di ringraziamento o attendere la conferma della sua liberazione, si allontanò verso nord a goffi passi.

A Serena la scena, e in particolare la dinoccolata andatura del Pokémon Uovo, erano parse quasi comiche. « Mi hai chiamato qui per questo? ».

« No. Cornelius oggi mi ha telefonato, ha detto che durante la notte si è svegliato e il suo armadio brillava. Termine esatto usato da lui ». L’uomo mise da parte la Poké Ball dopo averla richiusa e con la mano rimanente mostrò un altro oggetto: un piccolo coccio traslucido, parte di una gemma opalescente. « Ha trovato questo nella tasca della giacca che hai indossato durante l’invasione ».

Serena sobbalzò, riconoscendolo immediatamente « È uno dei frammenti! ».

Il suo amico assentì a confermare il riconoscimento visivo « Secondo Saul erano quattro in tutto, quindi ne manca uno ».

« Ma… » esitò la ragazza grattandosi la fronte. Il primo l’avevano rinvenuto nel nido dei Beedrill, il secondo era giunto a loro per mano di Dusknoir. « E questo come ci è arrivato lì? ».

« Era quello che volevo chiedere a te ».

Domanda legittima, sotto un certo punto di vista: il soprabito l’aveva preso in prestito lei. « Io non ne ho idea ».

« Lo immaginavo » commentò il giovane « Sospetto che qualcuno l’abbia messo lì mentre eri prigioniera nella caverna ».

« Hoopa? ».

« Forse ».

« Ma perché nella mia? ».

Bellocchio abbassò gli occhi alla rena in cui affondavano i suoi piedi, seguendo i granelli che scivolavano nella depressione locale del terreno. Che cosa stava facendo della sua vita? Serena era la sua migliore amica, aveva più volte rischiato la vita per lui. E come la stava ripagando? Celandole informazioni che avrebbero potuto salvarla in un giorno lontano. Non più. « Sapevo che avevi vinto con Violetta ».

La ragazza gli rivolse uno sguardo disorientato. Era abituata ai cambi di discorso di quello strano individuo, ma non così improvvisi e seri.

« Sono andato a parlarle quel giorno e mi ha confermato che avevi vinto ».

« Ma… Perché non me l’hai detto? ».

Bellocchio inspirò profondamente. Avrebbe voluto affermare che non lo sapeva, ma lo sapeva benissimo. « Perché è quello che faccio, mento continuamente. Fingo di ricordare tutto della mia vita, fingo di riconoscere il tuo volto quando mi parli dopo il tramonto. Mento da talmente tanto tempo che ormai è un’abitudine. È come respirare, non ci faccio nemmeno caso ».

« Per una Palestra… Ma dai–– ».

« La Dama Cremisi ti stava tenendo d’occhio. L’ho capito da quando ci ho parlato la prima volta. Mentre viaggiavo con te l’ho sempre saputo ».

La bocca di Serena rimase semichiusa, interrotta da una frase che l’aveva paralizzata. L’aveva tenuta d’occhio. Era una combinazione di parole banale, eppure la sua mente non riusciva a recepirla. « Me? Perché? ».

« Non lo so. Considerando che è morta non lo saprò mai » considerò l’uomo chinando nuovamente il capo « Ti capisco se hai cambiato idea, se non vuoi continuare a viaggiare con me. Avresti ragione ».

Eccolo di nuovo. Stava avendo gli stessi ripensamenti che già le aveva esposto poco prima di quel pacifico tramonto nell’appartamento di Cornelius. Serena credeva di aver messo a tacere gli irragionevoli sensi di colpa del suo amico già allora, ma assumere ciò nei confronti di chi ogni giorno non ricordava il precedente era stato con il senno di poi un delirio. E ripetere le stesse cose difficilmente avrebbe funzionato di nuovo.

Per un po’ la ragazza faticò a trovare una risposta apprezzabile. Poi una bizzarra concomitanza di intuizione e buona sorte la favorì, donandole i vocaboli giusti da pronunciare « Hai letto del nostro primo incontro? ».

« Certo ».

« Quella notte ti feci credere di essere un’Allenatrice. Tu ne eri convinto e io non dissi nulla, perché mi piaceva che almeno qualcuno lo credesse. Perciò, vedi, tecnicamente ti ho mentito prima io » concluse con un sorriso, imitandone poi il tono di voce mentre riprendeva ironicamente la frase da lui usata poco prima « Ti capisco se hai cambiato idea, avresti ragione ».

Bellocchio rise a sua volta. Niente da fare, era proprio decisa a proseguire con lui. E in fondo che autorità era per arrogarsi il diritto di impedirglielo? Entrambi tornarono a contemplare l’oceano. Udirono solo ora il dolce suono delle onde che si frangevano sulla battigia, come se le loro orecchie fossero state liberate soltanto in quel momento. Il loro moto armonico era tanto poetico che interromperlo sarebbe stato un crimine, ma come al solito a qualcuno spettava il fardello.

« Allora, andiamo a mangiare? La battaglia mi ha messo fame ».

Senza nemmeno attendere risposta, la bionda Allenatrice si incamminò in salita per uscire dalla spiaggia e tornare nella zona urbana di Altoripoli. Il suo amico la osservò nel tragitto per qualche secondo prima di obiettare « Ma è solo mezzogiorno ».

« Magari questa volta non dovremo cucinare tutto in cinque minuti! » replicò lei ad alta voce, rifiutandosi giocosamente di degnarlo di uno sguardo.

Bellocchio esitò prima di seguirla, dispiaciuto di dover abbandonare un paesaggio così memorabile come lo scintillante litorale di mezzodì. Ma in fondo, ancor più che mentire, questo era ciò che faceva: lasciava tutto indietro. Laddove altri si sarebbero legittimamente crogiolati per qualche giorno nell’idea di aver salvato Kalos, loro proseguivano come se nulla fosse successo.

Quella era la loro vita, adesso. Mai fermi, sempre pronti a inoltrarsi in nuove avventure. C’era chi li avrebbe criticati, ma anche quella era la forza di loro due: nessuno aveva la minima intenzione di mancare l’appuntamento con le meraviglie che li attendevano. Da qualche parte cuori tra i ghiacci attendevano di essere sgelati, pietre indemoniate giacevano silenti, uomini senza volto ordivano schemi, ombre tendevano agguati agli indifesi e cancelli per l’inferno bramavano l’apertura. E loro sarebbero stati lì.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

brutte notizie

LKNA chiude.

Bene, ora che vi ho spaventati posso dire che non è vero: non chiudo nulla (finché il mio sistema cardiocircolatorio non collasserà per colpa di Geometria I). Per chi ha letto questo capitolo in differita non ci sarà stata alcuna sorpresa, dato che nel menù a tendina sotto il titolo avrà visto un rimanente numero imprecisato di altri episodi (a quattro cifre, se vado avanti di questo passo). Quindi ci sono soltanto una decina di persone che potrei o non potrei aver scioccato con l’annuncio di cui sopra.

Perché ho esordito così? Perché ho effettivamente brutte notizie da comunicare (altrimenti il titoletto sarebbe sprecato), e ho pensato che dandone prima una falsa e tragica avrei indorato la pillola. È stata una pessima idea, ma ormai ho scritto queste righe e sono troppo pigro per ricomporle.

Chi ha seguito in diretta (i famosi dieci) sa che ho pubblicato l’1x32 con un ritardo di una settimana a mezza, ritardo dovuto al fatto che banalmente non lo avevo ancora finito. Avevo affermato nel lontano dicembre 2014 che questo sarebbe stato l’anno di LKNA: grande arco di Altoripoli e finale della prima stagione. Posso dire di aver mantenuto almeno una delle due promesse, che in termini statistici non è un risultato da buttare. Questo per introdurre la vera sconfortante novella: niente finale di stagione a luglio.

È stata una decisione sofferta: nel corso dell’anno e mezzo di vita di LKNA sono quasi sempre riuscito a mantenere il ritmo di due capitoli al mese (minisodes a parte) e a tener fede alle scadenze annunciate. Tale presa di posizione deriva dunque da due considerazioni principali: la prima è che, per quanto questa storia mi appassioni, non posso nemmeno lontanamente pensare di metterla davanti ai miei doveri universitari, per la banale ragione che uno dei due campi ha vaghe speranze di mantenermi un giorno e l’altro no (a meno che tutte le proprietà intellettuali che ho violato con plagi sistematici non mi concedano licenza gratuita di lucro). La seconda è che, per rimanere in pari con termini autoimpostimi, avrei dovuto scrivere qualcosa come un capitolo alla settimana o portarmi LKNA dietro durante la sessione estiva di esami. La terza è che, in fin dei conti, conviene anche ai miei lettori che io abbia il tempo per pianificare attentamente le storie che intendo presentare loro, e non ha senso affrettarle per qualcosa di tanto etereo come la puntualità.

Quindi quali sono i piani di LKNA nell’immediato futuro? Maggio sarà di pausa: lo userò per respirare e preparare ciò che verrà in seguito. Durante giugno e luglio avverrà la pubblicazione della penultima avventura del primo gruppo, tre capitoli incorniciati da due minisodes pubblicati con la solita cadenza quindicinale. Il finale di stagione slitterà ahimè a settembre, quando sarà edito, eccezionalmente, un episodio a settimana anziché due. Per ciò che verrà dopo, beh, dovrete aspettare per scoprirlo.

E ricordate che tutto ha un inizio a una fine. Ma non sempre la fine viene presto.

 

Un mortificato ma stranamente a suo agio,

Novecento

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2352093