Dal primo momento

di GretaHorses
(/viewuser.php?uid=377144)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


                                                               CAPITOLO 1

 

 

 

Infossai il viso nei palmi delle mani come se servisse a nascondermi da tutto ciò che ero, da tutto ciò che avevo fatto. Delle lacrime cominciarono a sgorgarmi dagli occhi prepotentemente nonostante ci misi tutta la forza di volontà possibile ed immaginabile per non farle uscire, non volevo mostrarmi così a lui. “Ti prego...”, fui in grado di pronunciare. Tolsi le mani dal mio volto per poterlo vedere meglio, dentro di me pensai: 'Per favore: parla, dì qualcosa e non guardarmi come se fossi la cosa peggiore che ti sia capitata'. Nel frattempo da alcuni alberi caddero delle foglie multicolori, fragili quanto me in quel momento. L'autunno era alle porte e non faceva sconti a nessuno, eccezion fatta per le piante sempreverdi. Le cose, anziché andare meglio, peggioravano inesorabilmente e tutto sembrava appassire come la natura in quella stagione. Spostai lo sguardo a terra fissando per alcuni secondi la ghiaia, dopodiché lo riposai su di lui. Capire i suoi sentimenti non era mai stato il mio forte, ma i suoi stati d'animo riuscivo a captarli subito. Era arrabbiato, deluso ed amareggiato. Probabilmente non mi avrebbe parlato per un bel po', ma questo non lo potevo sapere perché per quanto mi sforzassi risultava sempre imprevedibile. “Fai sempre di testa tua, non te n'è mai fregato dell'opinione degli altri”. “Scusami! Che potevo fare? Non è facile come credi. Faccio fatica persino io ad accettarlo”. Serrò la mascella per poi incrociare le braccia al petto. “Certe cose avevo il diritto di saperle prima che prendessi una decisione da sola”. Non capivo come riuscisse a mantenere un tono pacato nonostante si stesse parlando di una cosa estremamente delicata e seria. “Avevo paura che te ne saresti andato”. Sul suo viso si estese un sorriso amaro. “Brava, ci sei riuscita”. Scosse il capo guardandomi inorridito e si voltò per andarsene. Lo afferrai impulsivamente per un braccio, dicendogli quasi istericamente: “Ti prego, non lasciarmi sola. Non adesso, ho bisogno di te più che mai”. Mi rivolse un'ultima occhiata carica di delusione e con uno strattone riuscì a liberarsi. “Non ho intenzione di prendermi la responsabilità di qualcosa che non ho mai voluto”. Mi diede le spalle definitivamente inviandosi lungo il viale incorniciato da alberi variopinti, ma pur sempre morenti e Dio solo sa il dolore che provai nel vederlo allontanarsi da me per la seconda volta.

 

 

Fisso la neve cadere lenta fuori dalla finestra della mia stanza, ho cambiato sistemazione l'anno scorso ed ora la mia camera dà sul giardino e sulla strada. Ho posizionato una poltrona paffuta di fronte ad essa per poter osservare meglio il quartiere quando mi sento più annoiata del solito, mi piace passare il tempo a guardare le persone indaffarate con le loro vite così vicine eppure così distanti dalla mia. Sorseggio un po' di infuso al karkadè bollente sempre con lo sguardo scrupoloso intento ad analizzare ogni minimo dettaglio: gli alberi ossuti, il manto bianco sull'erbetta scolorita, le luci calde provenienti dalle case dei vicini. Siamo in febbraio e mai come quest'anno ho visto così tanta neve nel giro di un paio di mesi. Inizio veramente a pensare che i miei sentimenti vadano a stagioni: in primavera c'è una rinascita, d'estate esplodono, d'autunno muoiono lentamente fino ad arrivare all'inverno in cui sono completamente ibernati. Forse è per questo che continua a nevicare, è una landa ghiacciata sia fuori che dentro di me. Freddo, ma così freddo che mi si gelano le ossa pur essendo rinchiusa in casa con i termosifoni accesi. Mando giù l'ultimo goccio di infuso e poso la tazza ai miei piedi, dopodiché li alzo raggomitolandomi sotto al plaid. La dovrei smettere di isolarmi e rifiutare ogni persona che sia intenzionata a darmi aiuto. Infondo sono io la prima a voler rimanere sola, ma quando lo sono, e veramente tanto, non voglio più esserlo. Egoista. Sono un'egoista, penso solo a me stessa quando ora come ora dovrei mettere davanti di me ben altre priorità. Nella mia testa ronza ancora il ricordo di poco fa, perché ci ripenso? Ultimamente vivo solamente di passato e nulla di presente. Il futuro l'ho già tolto dalle opzioni perché con questo mi sono vista sgretolare tutti i sogni e le aspettative per il domani. Serro le palpebre trattenendo le lacrime, non merito di soffrire così. Non ho fatto niente di male, quella sera eravamo in due. Mi poso una mano all'altezza della fronte come per nascondermi da qualcuno anche se so bene che in questo momento nessuno mi sta osservando, ormai è diventato un gesto consueto perché mi viene da piangere nei luoghi più svariati ed odio esser vista mentre lo faccio. Improvvisamente sento la porta aprirsi, perciò rapidamente mi asciugo il viso con il dorso della mano e torno a fissare il paesaggio come prima. “Vilu, che hai combinato?”. Dalla voce limpida capisco che è Angie, non mi volto nemmeno a guardarla. “Nulla, zia”. Prende un profondo sospiro. Zia, posso capire quanto sia difficile trattare con me ultimamente, ma non posso farci niente. “Allora perché Diego è sceso dalle scale arrabbiato?”. Perché tanto non cambierà mai le cose e per quanto mi stia vicino non riesco ad essere ciò che lui vuole io sia, non riesco a schiodarmi da questa situazione. “Non lo so, si arrabbia spesso con me senza motivo”. Posso sentirla venire verso di me, si accuccia e raccoglie la tazza ai piedi della poltrona. Poggia una mano sulla mia spalla e con tono dolce dice: “Delle volte bisogna imparare ad amare ciò che ci fa bene”. Scuoto il capo. “Non sto affatto bene, né con lui né con nessun altro”. In verità ci sarebbe una persona con cui sono sicura di star bene, ma per lei non esisto più. Mi dà una leggera carezza, mi sento uno schifo a non degnarmi nemmeno di guardare in faccia chi prova ad aiutarmi, ma non ce la faccio. Nel frattempo i bambini della casa di fronte stanno uscendo vestiti come palombari per giocare con delle slitte. “Hai mai pensato che potrebbe essere la chiave per uscire da questo brutto periodo? Se ti concedessi a qualcuno che realmente ci tiene a te e che...”. La interrompo con un rapido gesto della mano. “Posso cavarmela benissimo da sola, non ho bisogno di lui né di chiunque altro”. Ho bisogno di te più che mai. Rimuovo velocemente questa frase dalla mia mente e continuo a fissare i vicini intenti a creare una pista adatta per passarci sopra con lo slittino. “Mi piange il cuore vederti ridotta in questo modo, il brutto è che noi vediamo ciò che ti sta accadendo e tu non fai nulla perché non vuoi essere aiutata”. A corto di risposte, mi esce solo: “Smettetela con questa storia tutti quanti, vi prego. Per favore, esci dalla mia camera che voglio starmene da sola”. Senza vederla in volto so per certo che ha un'espressione sconfitta, come sempre del resto quando mi rivolge la parola. Si allontana verso l'uscita e prima di andarsene mi dice: “Sappi che se cambi idea, io ci sarò sempre per te”, dopodiché chiude la porta. Mi ripetono tutti le stesse cose: ci saranno sempre per me, la mia felicità è la cosa più importante, non devo lasciarmi sopraffare dal dolore...sembra si siano messi d'accordo in gruppo su cosa dirmi. Come faccio a non sentirmi egoista, però? Mi cercano e tentano in tutti i modi di farmi sorridere, ma realmente io non vado in cerca di nessuno di loro e preferisco starmene da sola immersa fino al collo nei ricordi. Diego è la persona che mi fa stare più in pena nonostante tutto, mi è stato vicino fin da subito ed ha saputo muoversi meglio di me in questa situazione. Mi ha aiutata ad affrontare Angie e papà, tenta sempre di risollevarmi il morale e mi segue ovunque vada. Peccato che ogni tanto tocchi l'argomento sentimenti e puntualmente so che dovrò spezzargli il cuore per l'ennesima volta, come è successo poco fa. Prova sempre a convincermi che una vita accanto a lui sarebbe la scelta più giusta da fare, che mi saprebbe dare qualunque cosa io voglia e che andrebbe in capo al mondo pur di rendermi felice. Saperlo innamorato di me, mi fa star male perfino più di lui. Non voglio farlo soffrire, ma è lui stesso a venirmi incontro in continuazione e non riesco a separarmene definitivamente per il suo bene. Più mi starà accanto e più starà male, non c'è niente che possa fare per cambiare ciò che provo. Nessun altro ha mai occupato per intero il mio cuore come lui, io amo solo lui.

 

 

Raggiunta la cucina mi appoggio affannosamente al tavolo da pranzo per prendere fiato, ho fatto solo una rampa di scale e qualche metro eppure mi sembra di aver corso la maratona di New York. Come se non bastasse, cerco di mantenere la calma e non andare in iperventilazione. Appena ho sentito le mani sudare freddo e la testa girarmi come se fossi sospesa nel vuoto, l'ho colto come un segnale e sono corsa, per modo di dire, giù da basso a prendere un paio di gocce di tranquillante. Dopo essermi ricomposta anche se non del tutto, mi trascino fino ad un mobiletto che sovrasta il frigorifero ed apro la portiera tastando al suo interno perché troppo alto. Afferro una piccola scatoletta e la porto davanti al viso, c'è scritto 'Antidepressivo'. Non mi serve, non ora. La rimetto dov'era e continuo a cercare, mi ritrovo una boccetta fra le mani: 'Valium', roba troppo pesante in questa circostanza. Andava bene fino a qualche mese fa, infatti dovevo prenderlo ogni tanto, però ora non fa proprio al caso mio. Lo rinfilo dentro e continuo a tastare ogni farmaco mi capiti sotto mano, ecco che sento una confezione ruvida tanto familiare. Tolgo la mano dal mobile e lo guardo, sì è il mio tranquillante. Estraggo la boccetta e svito il tappo, poi immergo il contagocce. “Smettila di prendere quello schifo, non ti fa bene”. E' papà. Non so cosa ci stia facendo qua, ma non lo calcolo nemmeno e continuo con ciò che stavo facendo. Apro la bocca e faccio scendere una piccola dose, quella consigliata dal medico, dopodiché richiudo il tutto e lo ripongo dov'era. “Cos'è questa storia che rispondere è diventato un optional?”. Mi volto in sua direzione, mi sta fissando a braccia conserte. “Sono stufa che mi diciate sempre cosa devo o non devo fare, sembra che lo sappiate solo voi. Mi sono informata ed è stato il medico a prescrivermi questo tranquillante leggero e le dosi da immettere, per cui se non sapete è meglio che non parlate. Poi sai benissimo che soffro di attacchi d'ansia fin da quando sono piccola, mi sorprende che tu dica certe cose”. Si posa una mano sulla fronte e la massaggia. “Vediamo quello che ti sta succedendo ed abbiamo notato che in questi ultimi giorni ne stai abusando troppo, non fa bene nel tuo stato. Sai quali potrebbero essere le conseguenze?”. Nel frattempo suona il campanello, ma lo sentiamo a distanza perché troppo impegnati a discutere. “Lo so, papà, lo so. Il bimbo sta bene, io sto bene: lo ha detto la ginecologa. Faccio visite praticamente sempre e ti posso assicurare che stiamo bene entrambi, non c'è motivo che vi preoccupiate così tanto. Non sono più una bambina, smettetela”. Abbassa lo sguardo. “Per me sei ancora piccola ed è così strano vedere una bambina alle prese con cose più grandi di lei e non di poco, infondo hai solo diciotto anni. Eri una bambina, la mia bambina, prima che decidessi di diventare adulta tutto su un colpo da sola”. Serro le palpebre e respiro a fondo, faccio per parlare quando Angie entra nella stanza. “Scusate, ho interrotto qualcosa?”. Scuotiamo il capo entrambi, sul viso di lei si estende uno dei sorrisi più convincenti possibili. “C'è Maxi”. Aggrotto la fronte. “Maxi? Strano, mi avvisa sempre quando passa a trovarmi e di solito la domenica non lo fa mai”. Mi dirigo in soggiorno trovando un Maxi infreddolito nell'entrata, indossa un giaccone blu imbottito, una sciarpa che gli copre la bocca ed un capello di lana. L'unico lembo di pelle scoperto va dal naso agli occhi, quest'anno l'inverno ci sta giustiziando. “Hey! Che ci fai qui?”. Fingo entusiasmo. Nonostante uno dei miei migliori amici sia venuto a casa mia, fingo entusiasmo. Sono una stronza. “Sono passato a vedere come stai”. Si scosta a sciarpa dalle labbra e mi sorride. Ormai posso dire di conoscerlo quasi come il palmo delle mia mano e quello non è un sorriso spontaneo, nasconde qualcosa. Non è venuto qua per vedere come sto. “Che cosa bella avere tutte queste persone che ti stanno accanto, vero Vilu?”. Zia prova in continuazione a farmi cambiare idea con queste uscite, ma la sapete una cosa? Non funziona per niente. “Già”, rispondo risolutamente non guardandola. Continuo a fissare il mio amico intento a togliersi gli indumenti invernali con gli occhi ridotti a due fessure, sono troppo sospettosa? No. Il Maxi che conosco avrebbe avvertito e non si sognerebbe mai di venire nel weekend per una semplice visita. A questo punto mi chiedo cosa abbia da dirmi, c'entrerà Nata? Ultimamente le cose fra loro vanno di male in peggio ed è principalmente per questo che abbiamo legato molto, il 'duo melanconico' ci chiama ironicamente Cami. Potrebbe voler riferirmi qualcosa su di lui. Deglutisco, alzo leggermente la manica del maglione ed afferro l'elastico che ho infilato nel polso. Non so a quanto possa servire questa stronzata, ma c'è scritto in quello stupido libro. Lo allungo e poi lo rilascio facendomi male come previsto. Ho il polso tutto rosso perché, dopo che Angie se n'è andata via dalla camera, ho continuato a fare questa cosa per diversi minuti in quanto continuavo a pensarci. Funziona così: se ci ricaschi, elasticata. Il capitolo in proposito era intitolato 'Scacciare il dolore con altro dolore' e già dal nome è una puttanata, c'è scritto addirittura che otto persone su dieci lo trovano un esercizio valido. Preferirei dire inutile, come il libro in cui è inserito del resto. Perché mi ostino a farlo allora? Infondo spero mi distragga. E perché continuo a leggere le scemenze che mi presta Fran? Non lo so. “Tutto bene?”, mi domanda. “Sì, Maxi”. Corruga la fronte. “Sei strana”. Mi volto all'indietro, zia non c'è più. “Tu lo sei”. Distoglie lo sguardo. “Andiamo in camera mia”. Raggiungiamo le scale arrivando al piano di sopra, dopodiché percorriamo tutto il corridoio fino al termine ed a sinistra apro la porta della mia stanza. Vi entriamo e la richiudo alle nostre spalle. E' molto diversa da quella vecchia: le pareti sono bianche, il pavimento in legno e le tende azzurre. Il letto è al centro, a sinistra c'è l'armadio che avevo prima ed una scrivania in ciliegio e a destra la poltrona color cioccolato che dà sulla strada. Niente bagnetto, ma in compenso ho una finestra che mi assicura una vista quantomeno decente rispetto alla precedente. L'unica cosa che mancava all'altra per renderla perfetta, oltre a togliere quel rosa confetto irritante dai muri. Mi siedo sul letto a gambe incrociate, il pancione rende il tutto più complicato e azioni ordinarie si trasformano in sfide. Lui si accomoda di fronte a me nella stessa posizione dopo essersi tolto gli scarponi lasciandoli accanto all'entrata. Ci guardiamo per attimi che sembrano infiniti, la prima a rompere il silenzio sono io. “So che non sei venuto qua per vedere come sto”. Sospira. “Ero sicuro che l'avresti capito”. Giocherello con le dita delle mani osservandole. “E allora cosa ti ha spinto da me?”. Alzo lo sguardo, si fissa le caviglie. C'entra Nata di sicuro, non temporeggerebbe così tanto se non fosse per parlare di lei. “Ho due notizie...”. Torna a guardarmi, questa volta dritto negli occhi. “...brutte. Con quale vuoi che cominci?”. Scrollo le spalle. “Oddio, se sono tutte e due brutte non vedo dove sia la differenza”. Si morde il labbro inferiore. “Diciamo che una è brutta per me e l'altra per te”. Sento lo stomaco chiudersi. Brutta notizia, io, lui. Cos'altro può essere se non questo? “Comincia con la tua”. Che codarda. Tolto il dente, via il dolore no? Sono una sciocca, aspetto a prendermi la batosta alla fine. Giusto per starci un 'pochino' peggio, eh? Il mio secondo nome è masochismo. “I nostri sospetti sono veri a quanto pare, Nata sta assieme a Tomas”. Spalanco la bocca. “Cosa?”. “Hai sentito bene, stanno insieme da un bel po' ormai. Speravo con tutto me stesso ci sbagliassimo ed invece era tutto vero, sono veramente a terra”. “Ti capisco, so come ci si sente”. Eccome se lo so. “Ora tocca alla tua...”. Alzo la manica ed allungo l'elastico. “...Leon è tornato con Raquel”. Lo mollo, dolore. “Che stai facendo?”, chiede confuso. “Niente”. Riabbasso la parte di maglione rapidamente. “Ah”. Sbatto le palpebre in modo convulsivo ed i miei respiri sono intervallati da inspirazioni rumorose dal naso, classico comportamento di chi sta per scoppiare a piangere. Grazie al mio autocontrollo, so già che non verserò una lacrima. Finché Maxi non se ne andrà. “Chi te l'ha detto?”. Chissà perché quanto incappiamo su questo argomento la mia voce sembra un sussurro misto lamento. Già, chissà perché. “Broad”. Annuisco col capo come se accettassi la cosa, come se me ne fossi fatta una ragione. Sto cercando di convincere me stessa, più che altro. “Fossi Raquel mi sentirei presa per il culo”. “Perché?”. “Perché è un tira e molla continuo da parte di lui, fossi in lei l'avrei già mandato a cagare da un pezzo. Insomma, in totale l'ha mollata due volte da marzo e lei appena torna si prostra ai suoi piedi. E' da pazzi come cosa, no? Capisco l'essere presi da una persona, ma se ti lascia e ti riprende ad ogni pisciata di cane io qualche domanda comincerei a farmela”. Fisso il copriletto bordeaux. “E' innamorata”. Scoppio in una risata amara e debole. “Quale ragazza non si innamorerebbe di uno come lui?”. “Una cosa è essere innamorati, un'altra è esser stupidi”. Trovo il coraggio di guardarlo in viso. “Purtroppo tante volte è le stessa cosa”. Abbozzo un sorriso. “Bene, ora a scuola il 'triangolo tormentato' darà altro di cui parlare”. Sono sarcastica ovviamente, che se ne parli fra i corridoi mi irrita e non poco. Alza l'indice, poi precisa: “Quadrato, vorrai dire”. “Che?”. “E Diego dove lo mettiamo?”. Roteo gli occhi. “Cosa c'entra Diego adesso?”. Assume un'espressione come per dire: 'E' palese, come fai a non capirlo?'. “Dimmi che cosa c'entra!”. “Beh, è risaputo che voi due sembra stiate assieme”. Mi porto una mano al viso con fare esasperato chiudendo le a palpebre e cercando di trattenermi dal non cominciare ad imprecare come un camionista, come qualcuno che non ne può più di sentire il solito disco rotto. “Ancora? Io e lui siamo solo amici, niente di più!”. “Lo so, ma vi comportate...”. “Amici. Cosa non ti è chiaro in questa parola? E' come con te, Maxi!”. Ridacchia. “Mi lusinga, ma non credo sia proprio la stessa cosa. Io non c'ero la sera in cui hai detto a tuo padre di essere incinta e nemmeno alla tua prima visita ginecologica, la vostra non è amicizia”. Incrocio le braccia sotto al petto poggiandole sopra il ventre rigonfio. “Okay, ammetto che lui senta qualcosa di più nei miei confronti. Però io non provo lo stesso, capisci? Vorrei, ma non è possibile. Per quanto Diego possa piacermi come persona, manca quel qualcosa per farmi dire: 'Oh cavolo, credo di essermi innamorata'. E' un caro ragazzo, dolce e premuroso però non ci riesco ed è sempre stato così con lui”. Inarca un sopracciglio. “Non ti piace abbastanza perché non è il tuo tipo oppure perché ti ostini a fare paragoni?”. Mi mordo l'interno della guancia per non darmi l'ennesima elasticata. “Non è decisamente il mio genere...”.”...e sei ancora ossessionata da Leon, certo”. Il suo sguardo continua a cercare il mio che, al contrario, fugge da una parte all'altra della stanza. “Vilu, io ti voglio bene e questo discorso credo sia la centesima volta che te lo faccio. Domanda di base: sei conscia sì o no che lui sia uno stronzo?”. Mi raggomitolo su me stessa guardandomi le ginocchia e lentamente scuoto il capo. “Lui non è così veramente”. “Come immaginavo. Ti ha trattata di merda, però: questo come lo giustifichi?”. Inizio a dondolare leggermente avanti e indietro. “Preferirei non parlarne...”. Sbuffa. “Devo ricordarti l'episodio al 'Movida'? O quello al parco? Oppure, se vuoi, quello della festa di Natale? Facciamo il primo al quale, tra l'altro, ho assistito”. “Per favore!”, gli urlo con la poca voce che riesco a trovare. “Maxi, ti prego. Non mi va di ricordare da sola, figurarsi tramite la bocca di qualcuno”. Mi accarezza la spalla. “Tranquilla, non l'avrei mai fatto perché so come sei. Era solo per farti capire che tutto questo non è giusto, non ti fa bene”. Alzo la testa per fissarlo intensamente, mi pento già in anticipo di ciò che sto per dire. “Con Nata non è tanto diverso, la inseguivi testardamente nonostante la vostra storia fosse terminata e lei non ti volesse più”. Signore e signori, ecco a voi il premio 'Peggiore amica dell'anno': Violetta Castillo. “In parte hai ragione, ma la tua situazione è decisamente più intricata e delicata. Qui non si tratta solo della vostra storia, c'è di mezzo un bambino, Raquel e anche Diego e la mossa sbagliata può far crollare un castello di carte già fragile per conto suo, perché il casino in cui vi siete messi è tutt'altro che stabile”. Per fortuna non se l'è presa, quelli che mi circondano hanno imparato a non badare alle mie risposte acide. Ed ha ragione. Mi scoccia ammetterlo, ma è così. Strizzo gli occhi umidi, non posso piangere. “E' colpa mia se lui è diventato così”, mugolo. “Cosa dici mai? Non è colpa tua, semmai è lui che deve farsi un esame di coscienza!”. Col fiato corto per i singhiozzi, riesco a dire: “Se non fosse stato per questo stupido bambino mi parlerebbe ancora!”. Mi posa le mani sulle spalle come per tranquillizzarmi. “Il bambino cos'ha fatto di male? E' una creatura innocente, come fai a non amarlo?”. Stringo un pugno e lo poso sul pancione. “Ma io lo amo da morire, è solo che a volte lo detesto perché se non fosse per la gravidanza magari io e lui...”. “Tu e lui cosa, Vilu? Quando gliel'hai detto era già ritornato con Raquel, non gli sarebbe importato comunque sennò sarebbe venuto da te”. Una coltellata nello stomaco farebbe molto meno male, ma si sa che la verità è dura da accettare tanto più se a dirtela è il tuo migliore amico. La prima lacrima inizia a rigarmi il volto e deglutisco. “Lo so che è difficile, lo so. Chi meglio di me sa cosa si prova ad essere indesiderati e sostituiti? Il punto è che la mia è una cosa che si protrae da pochi mesi, ma tu è da anni che non stai più assieme a lui. Ed è comprensibile che ciò che è successo quest'estate ti abbia illusa e non poco, ma è ora di andare avanti e porre come primo pensiero il bene del bambino”. Annuisco senza smettere di fissare le lacrime che s'infrangono sul copriletto. “Non ho la minima idea del motivo per cui ti abbia cercata quella sera, ritorno di fiamma? O, so che è brutto da dire, voglia di farsi qualcuna? Sta di fatto che sono passati sei mesi da quel giorno e farsene una ragione sarebbe la decisione migliore. Hai provato in un sacco di modi a cercare di farlo avvicinare anche solo come padre, ma se non vuole averci a che fare non puoi di certo costringerlo. E' lui che ha sbagliato, non tu. Ha tagliato persino i ponti con tutti noi perché sa bene che siamo dalla tua parte e lo reputiamo un cretino, perché questo è: un cretino”. Praticamente sta parlando da solo, dal mio canto non riesco a formulare una semplice argomentazione in quanto non riesco a smettere di piangere con il viso infossato nei palmi. A corto di parole, mi abbraccia accarezzandomi la nuca. “Passerà, passerà...”, mi sussurra dolcemente nell'orecchio. Poso la fronte contro la sua spalla e alzo il capo per guardarlo in volto. “Ti voglio bene”. Una frase del genere detta da me ultimamente è un evento più unico che raro, accenna un sorriso. “Anch'io. Non sai quanto, amica mia”. Mi stringe più forte fra le sue braccia per alcuni secondi, poi si allontana per tornare seduto come prima. Mi asciugo il viso con la manica del maglione e tiro su col naso. “Parliamo di altro, come procede la scrittura della canzone?”. “Be-bene...”. Ho buttato giù solo quattro righe e non scherzo, la mia creatività è stata soppressa nell'ultimo periodo. Non ho voglia di disegnare, scrivere, comporre. Mi hanno costretta a partecipare a questa 'battaglia di band' perché convinti che mi avrebbe distratta, niente di più falso. Anzi, se possibile è pure peggio. Adesso ai problemi che mi tormentano da mesi si è aggiunta l'ansia per questo concorso perché non sono per niente ispirata, per cui è un peso ulteriore assieme agli altri. “Perfetto, io ho quasi finito la seconda strofa! Non vedo l'ora che queste due settimane passino rapidamente e poi da mercoledì cominceranno le prove ufficiali, non sei contenta?”. Sorrido falsamente e, con finta eccitazione, rispondo: “Certo! Sarà fantastico, se posso sapere: la stanza per le prove a scuola ospiterà una sola band per volta, vero?”. Dimmi che è così, dimmi che è così. “Beh, certo”. Grazie al cielo. “Senti, dopodomani ci vediamo per la stesura finale? Confrontiamo le nostre idee e valutiamo quale sia la migliore, così da arrivare almeno col testo alle prove”. Oh, no. Cosa gli posso portare? Non riesco a scrivere nemmeno una sillaba. “Ovvio, sempre a casa mia?”. Perché non riesco a dirgli di no? Ah, giusto: perché mento spudoratamente a tutti in continuazione. “Sì, non voglio che ti affatichi per venire da me”. “Grazie”. “Di niente, ora devo andare. Mi sono dilungato anche troppo, ho detto a mamma che sarei rimasto da te per poco!”. Mi lascia un bacio sulla fronte e si alza dal letto, va verso l'uscita e si rimette gli scarponi. Invece io lo osservo zitta, parlare è diventata una cosa superflua. Posso benissimo comunicare con lo sguardo, l'espressione o semplicemente con i miei silenzi. Posa la mano sulla maniglia ed apre la porta. “Ci vediamo domani, stammi bene”. Lo saluto con un cenno del capo ed alzando leggermente un angolo della bocca screpolata, dopodiché se ne va chiudendo il tutto dietro a sé. Senza rendermene conto, sto ancora fissando l'uscio rapita dalle venature del legno. Distolgo lo sguardo ed inizio a guardarmi intorno, vorrei si fosse trattenuto di più. Sono sola, di nuovo. La stanza è diventata improvvisamente troppo grande nonostante le sue dimensioni reali siano relativamente piccole ed il vuoto s'impossessa di me ancora. Poso una mano tremante sul mio ventre ed inizio ad accarezzarlo, poi subito la ritraggo. Lo stomaco ricomincia a contorcersi facendo un male tremendo, la gola s'insecchisce ed ogni tentativo di deglutire un po' di saliva per inumidirla risulta doloroso. Decido allora di stendermi a pancia in su e chiudere le palpebre, constato che gli occhi si stanno inumidendo per la seconda volta. Digrigno i denti ansimando, non la smetto ti torturarmi il polso con quel maledetto elastico.

 

 

Quella sera l'ultima cosa che volevo era festeggiare in un locale. Musica troppo alta, luci confusionarie e soprattutto gente ovunque. Almeno non era una studentesca, per cui c'era meno probabilità di incontrare persone della mia scuola. Non mi restava altro che seguire i miei amici per tutta la serata nell'attesa che finisse al più presto e fingendo che tutto andasse bene. Niente andava bene. Mi ero vestita svogliatamente con un paio di leggings ed una felpa enorme, fondamentale per nascondere il mio segreto. Lo sapevano in pochi, solo in tre. “E' meraviglioso qui!”, esclamò Cami entusiasta. Il posto in sé non era male, l'unico problema consisteva nel fatto che era zeppo di ragazzi più grandi di noi. Dei 'piccoli' diciottenni in mezzo a persone che avevano finito gli studi, alcune anche da parecchio. “Il 'Movida' è il club più figo di tutti, ve l'avevo detto”, confermò Broad. Ci trovavamo nei pressi del piano bar a sorseggiare qualche drink, tutt'intorno era una gran confusione. “Vilu, sicura che non vuoi bere qualcosa? Pago io”. “No, Fran. Tranquilla, sono a posto”. Mi rivolse un'espressione accigliata per poi continuare a bere dal suo bicchiere. “Non sei più tu, perché non bevi?”, insistette Maxi. “Perché non ho voglia, smettetela!”. “Scusami...”. Le loro chiacchiere si fecero sempre più distanti, mi guardai attorno annoiata. Chi me l'aveva fatto fare? Non sapevo nemmeno se fosse salutare stare là. Paralizzata. Rimasi letteralmente paralizzata. Lo vidi fra la folta folla a ballare con due bionde, mi morsi il labbro inferiore con talmente tanto vigore da far uscire sangue. Improvvisamente si arrestò di colpo, le altre continuarono a strusciarsi contro al suo corpo immobile mentre i suoi occhi incrociarono i miei. Non mi azzardai a distogliere lo sguardo e nemmeno lui sembrava volerlo fare. Una delle ragazze catturò la sua attenzione strizzandogli una guancia, cosa che lo fece voltare e dimenticarsi di me che nel frattempo avevo abbandonato il suo campo visivo. “...e tu, Vilu, lo sai?”. Mi girai di scatto verso Marco e corrugai la fronte. “Cosa?”. “Se tu sai il motivo per cui Diego non è venuto”. Feci le spallucce. “Impegni personali”. “Violetta, cos'hai?”, chiese Nata. “Io? Niente”. “Come niente? Sembra tu abbia visto un fantasma!”. Più o meno era la stessa cosa. Che fosse stata solo un'invenzione malata della mia mente? Poteva benissimo essere dal momento che non ero nuova ad allucinazioni. “Mai stata meglio in vita mia”. Mi rivolsero tutti un'espressione poco convinta, dovevo imparare a mentire in modo migliore. “Comunque credo sia molto bello il fatto che...hey, Vargas! Qual buon vento!”. Allora era tutto vero, lui c'era veramente. Si trovava poco distante da noi, si voltò indietro confuso. “Hey, Ponce! Ciao ragazzi...”. Era chiaramente a disagio. “Non ci avevi visto?”. “No, se me ne fossi reso conto sarei venuto a salutarvi”, rispose sommariamente. Una fitta allo stomaco mi travolse, lui sapeva che ero qui. Mi aveva vista ed era ovvio che fossi là con i miei amici, lui sapeva. Mi guardò per una frazione di secondo, per poi tornare a parlare con Marco. “Ah, ti fermi con noi?”. “Non posso, sono qua assieme ai miei amici. Non so se hai presente, quelli di classe mia”. “Sì, più o meno”. Tutti erano posizionati in avanti rispetto a me che invece mi tenevo a debita distanza da lui. “I fighetti di architettura, capito”, commentò sarcasticamente Camilla. “Che?”, rispose sorridendo. Mi imposi di non osservarlo troppo fallendo, il suo sorriso continuava a restare una delle cose più belle che avessi mai visto. “E' risaputo che voi della sezione C siate i più fighi ed in vista della scuola”, spiegò Francesca. “Beh, gra...”. Non fece in tempo a finire la frase che un ragazzo poco più basso di lui agguantò il suo braccio sorprendendolo. L'avevo visto più volte assieme a lui per i corridoi, aveva i capelli neri tirati su col gel, era abbronzato ed aveva gli occhi blu zaffiro. “Hey, Leon! Torni di là con noi?”. Il suo amico ci squadrò inarcando un sopracciglio. “Sì, Cris. Mi sono fermato solamente a parlare con dei vecchi compagni di classe”. 'Vecchi compagni di classe'. Per fortuna fino a poco tempo prima ci reputava amici. “Certo, certo. C'è Pablo che è spolpo stasera e adesso chi guida?”. “Aveva promesso che sarebbe stato lui a guidare questa volta”. “Eh, infatti. Non è che potresti farlo tu?”. Sembrava si fossero dimenticati della nostra presenza, posai lo sguardo sugli altri: avevano tutti una faccia corrucciata. “Non ho voglia, Cris”. 'Cris' roteò gli occhi. “Dai, è da un pezzo che non lo fai. L'ultima volta ci è toccato trascinarti di peso in macchina perché non ti reggevi in piedi, faccelo un piccolo favore!”. Abbassai il capo infastidita e strinsi i pugni. E così aveva cominciato di nuovo ad ubriacarsi di brutto? La cosa non mi piaceva. “E va bene, dì a Pablo che è un coglione però! Tanto domattina non si ricorderà niente”. “Quando mai noi ci ricordiamo cos'abbiamo fatto la sera prima?”. Scoppiarono a ridere mentre i miei amici si scambiarono occhiate stranite. “Vieni?”. “Aspetta un secondo che finisco di parlare con loro, dopo vi raggiungo”. “Okay, amico”. Gli diede una pacca sulla spalla e sparì fra la gente. “C'è anche Andrès?”, domandò Maxi. “No, non è potuto venire perché doveva uscire con Emma”. Lo disse con tono seccato, come se per lui fosse una cosa stupida. “E la tua ragazza dove l'hai lasciata?”. Iniziai ad innervosirmi. “Boh”. “Cosa significa 'boh'?!”, esclamò Nata. Scrollò le spalle con noncuranza. “Sarà in centro con le sue amiche, cosa volete che vi dica?”. “Insomma, state insieme! Dovresti sapere dove si trova”. “Mica siamo vincolati da un patto di sangue, eh? Avrò il diritto di uscire con la mia compagnia!”. I loro volti erano alquanto scioccati. “Nessuno lo mette in dubbio, Leon. Nata sta dicendo solamente che dovresti saperlo, non che devi uscire solo con lei”, chiarì Broadway. “Ci mancherebbe solo che non possa uscire con i miei amici, sarebbe il colmo! Comunque Kel è comprensiva, sa che ho bisogno di uscire con i ragazzi ogni weekend”. “Fammi capire: tu ti smerdi ogni sabato sera e lei non ti dice nulla?”, chiese Cami. Sbuffò rumorosamente per poi liquidarci con: “Ma i cazzi vostri? Ciao e buona serata” non lasciandoci nemmeno il tempo di rispondere. Mi ero trattenuta fin troppo, alzai i tacchi per dirigermi rapidamente verso l'uscita. “Vilu, dove vai?”, mi gridò dietro Fran. Finsi di non sentirla, non appena fui fuori inspirai a pieni polmoni aria fresca e raggiunsi un luogo abbastanza quieto ed appartato. Mi veniva da piangere, ma non potevo farlo. Quello non era il Leon che conoscevo, gli assomigliava solo fisicamente. Era tutta colpa mia, solo colpa mia se si era allontanato bruscamente anche da loro. “Non badare a lui, è solo un cretino”. Mi voltai, era Maxi seguito dagli altri. “Appunto. Fregatene, tu vali molto di più”, aggiunse Natalia. Scossi il capo sconsolata. “Non mi spiego questo suo cambiamento, però. Okay, dalla terza si è un po' staccato però quest'estate usciva con noi ogni tanto”, constatò Marco. Tutti loro non sapevano. “Già. Ora frequenta solo i fighetti con centinaia di likes alle foto di Facebook, se ne frega di tutto e si comporta da stronzo. Ammiro la pazienza di quella povera ragazza, come fa a reggere uno così superficiale?”, disse Broad. “Quando stava con Vilu non si comportava così, ma nemmeno dopo la loro rottura. Cosa l'ha spinto a cambiare così tanto nel giro di così poco tempo?”. Anche Camilla si unì al discorso. I miei migliori amici di sempre all'oscuro di tutto da più di un mese, ero una brutta persona? Avevo solo paura, nient'altro. “E' sempre stato molto riservato, non potremmo saperlo comunque”, ammise Francesca. “Beh, ma dev'essere successo qualcosa di grosso per aver tagliato nettamente i ponti. E non credi che sapremmo cosa gli abbiamo fatto per farlo allontanare?”, puntualizzò Massimiliano. “Beh, effettivamente”. “E' colpa mia se si è distanziato”, sbottai interrompendo le loro ipotesi e confondendoli ancora di più. “Cosa dici? E' da più un anno e mezzo che non state assieme, dopo che vi siete lasciati ha continuato comunque ad esserci amico”, ribattette Nata. “No, non è per quello”. Erano tutti seri in volto, quasi spaventati. “Quindi tu sai il motivo?”, domandò Marco. “Sì”. Gli occhi mi si inumidirono ed iniziai a respirare irregolarmente, deglutii. I loro sguardi erano tutti puntati su di me, ansiosi di avere un responso. “Sono incinta...”. Espressioni sconvolte, mai si sarebbero aspettati una cosa del genere tanto meno da me. “...e il padre è Leon”. Liberato il nodo alla gola, scoppiai in lacrime di fronte a loro che mi si pararono attorno rincuorandomi, accarezzandomi, abbracciandomi. Ripeterono un'infinità di volte che sarebbe andato tutto bene e che non avevo nulla di cui preoccuparmi. Non sapevano cosa mi sarebbe aspettato nei mesi successivi.

 

 

Ci sono cose alle quali non si può sopravvivere: perdite, incubi o mancanze. Poi ci sono le notti nelle quali ti svegli madida di sudore e spaventata, poi cerchi di tornare a dormire ed il dolore ti fa compagnia finché non richiudi gli occhi. Magari ti riaddormenti, ma al risveglio hai quella sensazione costante di vuoto e malessere. Viene tolto qualcosa ogni volta che accade, scavandoti dentro fino a non lasciarvici più nulla. E nessuno si accorge che non ci sei più. Questa notte non ho fatto eccezione, il sonno è stato interrotto bruscamente dall'ennesimo brutto sogno. Ultimamente non dormo mai. Cerco spesso di distrarmi con le più svariate cose: leggendo, usando il pc o ripassando le materie per la mattinata imminente. Mi sono eliminata da tutti i social network per non essere rintracciata, tranne da Facebook anche se non ci entro mai e sono sempre offline. Chiunque abbia provato a contattarmi insistentemente, l'ho bloccato all'istante. Non volevo e non voglio tuttora avere a che fare con nessuno se non di persona. E' da un sacco di tempo che non pubblico qualcosa sulla mia bacheca. Non so perché, ma dopo ben due mesi di silenzio decido di accederci. Quattro richieste di amicizia, sette messaggi e quarantasei notifiche. Clicco sull'icona delle notifiche solo per richiuderla subito, tanto non ho la minima voglia di guardarle tutte perché sono troppe. Quelle recenti, però, attirano la mia attenzione. Sono stata taggata in una foto da Federico, il ragazzo di Cami, la quale è stata commentata da diversi miei ex compagni. La apro e mi trovo di fronte ad un immagine della gita di seconda con “Mi mancate, classe!” come didascalia. Il magone torna a farsi sentire prepotentemente, voglio tornare ad essere felice come quel giorno. Tutti uniti e sorridenti, ma non è loro che sto guardando. I miei occhi non si staccano dalla me sedicenne seduta sulle sue gambe, mentre lui tiene il mento poggiato mia spalla. Le mani intrecciate in corrispondenza del mio ventre, non posso fare a meno di abbassare lo sguardo ed osservare quant'è enorme ora. Perché l'ha fatto? Poteva anche fare a meno di taggarmi, se non l'avessi vista starei di sicuro meglio. Non che prima fossi un fiore, ma almeno non ci stavo pensando. Il mio cervello mi suggerisce di colpirmi il polso con l'elastico, ma per una volta non l'ascolto e scorro con il cursore in basso per leggere i commenti. La maggior parte scrive cose tipo: “Ragazzi, mancate troppo!”, “Eravamo la classe più bella” o una semplice faccina triste. Quella attuale non è per niente paragonabile, mi sono portata dietro dal biennio solo Diego e Ludmilla. Non ho molti amici a parte loro, parlo spesso e volentieri con Alex ed una ragazza di nome Gery. Sono veramente simpatici, ma nulla di più perché il nostro rapporto si limita alle mura scolastiche. Mi imbatto in un commento, il suo commento. “Potevi scegliere una foto migliore”. Chiudo le palpebre e sospiro, guardo quando l'ha scritto: ieri pomeriggio. Scuoto il capo con gli angoli della bocca abbassati e continuo a leggere. “Perché, Leon?”, scrive Broad. “Perché sono venuto male”. Non è affatto vero, è venuto perfettamente come sempre. “Ma non è vero!!!”, questa è Nata. “Se ve lo dico, significa che è così”. Inizio a tremare leggermente, perché mi tratta così? Nonostante stia parlando con altri, è come se mi stesse trattando di merda. E quando mai non lo fa? Dio solo sa quanto mi fa soffrire la sua indifferenza. “Eh vabbè, Leon! Era tanto per pubblicare una foto in cui eravamo tutti assieme per ricordare i vecchi tempi, poco m'importa se ti va bene come sei uscito oppure no”. Federico giustamente ci tiene a precisare lo scopo del suo post, anche se avrei preferito non mi mettesse in mezzo. “Okay...”. “Da quant'è che sei così mestruato, Vargas?”, chiede Diego. “Non ti rispondo perché infondo provo un minimo di rispetto nei tuoi confronti”. “Io no e sai a cosa mi riferisco”. “Ragazzi...”, interviene Camilla. “Casal, i cazzi tuoi non te li sai proprio fare. Né prima, né adesso. Smettila di intrometterti nella mia vita e pensa per la tua”. “Sennò cosa mi fai? Non mi sto intromettendo nella vita di nessuno, sto dicendo solamente la verità. Tu non sei una persona che merita rispetto, mi sorprende che non te ne renda conto”. “Smettetela, vi prego!”, è di nuovo Cami. “Alla prossima provocazione ti spacco la faccia e sai che potrei farlo”. “Basta!”, spunta anche Ludmilla. Loro però sembrano ignorare gli implori degli altri. “Quando non sai che dire ricorri alla violenza, bello”. “Avrei molte cose da dire, non sai quante...”. “E allora dille!”. “Leon, non starlo a sentire. Lascia perdere, non ne vale la pena”. Mi mordo il labbro inferiore, questo commento appartiene al profilo di Raquel Marquez. “Hai bisogno di un avvocato difensore?”. “Smettila, dimostri solo immaturità con i tuoi commenti e sì, devi farti gli affari tuoi. Ti ha fatto qualcosa di male direttamente? No. Sbaglio o ti stai improvvisando anche tu avvocato difensore di qualcun altro? Evita di giudicare, sei solamente ridicolo”. Quel qualcuno sono io, si sta riferendo a me. Sento una fitta allo stomaco e mi porto una mano alla bocca semiaperta, incredula. “Pensi che me ne possa sbattere di ciò che dice, Kel? Non scomodarti, non voglio che litighi a causa di certi soggetti. Se la persona è niente, l'offesa è zero”. Finalmente torna Federico a calmare le acque: “Le cose son due: o la finite o la finite. Non voglio litigi sotto a questo post, chiaro?”. “Mi arrivano troppe notifiche, cazzo!”. Maxi è sempre il solito. “A chi lo dici, sto impazzendo”, conferma Marco. Fran commenta “Anch'io!” con delle emoticon che ridono e con questo si conclude la discussione. Rimango impietrita ad osservare lo schermo, non riesco a credere a ciò che ho appena letto. Sposto il cursore sopra il suo nome e mi appare il riassunto del suo account: come immagine del profilo ha una foto sua assieme a due suoi amici ad una festa e come copertina una con Raquel in cui lei sorride e lui è serio con gli occhiali da sole. Poi lo sguardo casca sulla scritta 'Aggiungi agli amici' e sospiro, mi ha rimosso diversi mesi fa ed ora non posso praticamente vedere nulla perché condivide ciò che pubblica solo con i suoi amici. Scosto la freccia per non guardare oltre, tanto non potrei comunque aprire nessuna della sue immagini o leggere alcun suo stato. Serro le palpebre, alzo la manica e mi colpisco il polso con l'elastico. La riabbasso, riapro gli occhi e clicco su 'rimuovi tag' accanto al mio nome. Togliendomi ho l'impressione di estraniarmi dal mio passato, allontanarmi da lui più di quanto non lo sono già. Anche se so che è impossibile.

 

 

ANGOLO DELL'AUTRICE

Hey hey hey! Vi sono mancata? Ditemi di sì *fa il labbruccio* L'attesa finalmente è finita e se siete arrivati fin qua significa che avete terminato di leggere il primo capitolo del sequel di 'Indovina perché ti odio'. Cosa ne pensate? Mi odiate tanto o che altro? Diciamo che con questo ho dato libero sfogo all'autrice sadica che è in me. Come avete ben visto, Leon fisicamente non è presente però è some un fantasma che aleggia nella vita di Violetta. I ricordi sono e saranno molto importanti per capire come si è arrivati ad una situazione così disastrosa, perché, diciamocelo, è disastrosa. Ho adottato uno stile un po' diverso e vi dico già che i capitoli non narreranno solo una giornata, magari in alcuni futuri troncherò una scena clou proprio nel finale per lasciarvi in sospeso. Insomma, vedrete! Spero sia di vostro gradimento e che mi diate un parere lasciandomi una recensione, sapete quanto conta per me la vostra opinione.

Un bacio e stay tuned (quanto mi mancava!),

Gre

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

 

 

 

Scostavo la sabbia da sotto i piedi, le davo calcetti e la rigiravo fissando quei movimenti ripetitivi annoiata. Non mi piacevano le feste e nemmeno il mare in estate, cosa ci poteva essere, dunque, di peggio di un party sulla spiaggia? Mi voltai verso il gazebo sotto il quale stavano avvenendo i festeggiamenti, rimpiansi la solita grigliata di Ferragosto fatta da papà. Della musica latina riecheggiava nell'aria e le luci stroboscopiche si riflettevano nella distesa d'acqua creando mille giochi di colori, tutti loro sembravano divertirsi ed io me n'ero andata proprio sul più bello o meglio, così aveva detto Cami. Non me n'ero propriamente andata, diciamo che avevo voluto assentarmi per un po' e stanziarmi in un posto più calmo. Preferivo cento volte stare in riva al mare ad osservare la luna e le stelle, soprattutto quelle cadenti. Anche se alla lunga cominciavo ad annoiarmi perché alla fine il cielo era sempre lo stesso ed il massimo dell'intrattenimento era giocherellare con la sabbia con le dita dei piedi. I miei migliori amici erano decisamente dei festaioli ed ogni scusa era buona per far baldoria, mentre io ero quella più mite del gruppo che si limitava a seguirli come un cagnolino per poi fossilizzarsi in qualunque cosa ci si potesse poggiare il sedere. Tornai a guardare il mare di fronte a me e feci qualche passo in avanti andandoci dentro bagnandomi fino alle caviglie, era tiepido. Mi portai le mani ai fianchi fissando l'orizzonte, quell'estate era di sicuro la più calda che avessi mai vissuto. Persino con degli shorts cortissimi ed una canottiera pativo le pene dell'inferno, non vedevo l'ora che arrivasse l'inverno che era senz'ombra di dubbio la mia stagione preferita. “Figo l'effetto che le luci fanno nell'acqua”. Conoscevo molto bene quella voce, fin troppo bene. “Già”. “Come mai tutta sola?”. Mi voltai verso di lui. Era vestito con una camicia rossa a fiori bianchi e delle bermuda blu, sorseggiava un cocktail giallo acceso. “Mi annoiavo”, risposi come se fosse ovvio. Scoppiò a ridere scuotendo il capo. “Giusto, l'allergia alle feste”. Gli sorrisi. “Bravo, vedo che te lo ricordi”. Mi porse il bicchiere cilindrico. “Ne vuoi un po'?”. “Che cos'è?”. “Un cocktail”. Inarcai un sopracciglio. “Questo l'avevo capito, cos'ha dentro?”. “Vodka e frutto della passione”. Lo afferrai e ne diedi un assaggio, subito sentii l'alcool bruciarmi la gola però poco dopo rimase solamente il gusto del frutto della passione in bocca. “Buono”. Glielo ridiedi indietro. “Sicura che non vuoi finirlo te?”. “Sicura”. Posai gli occhi sui miei piedi sott'acqua, ero un po' a disagio. Nonostante fosse passato un sacco di tempo dalla nostra rottura e ci frequentassimo saltuariamente assieme alla compagnia, parlare con lui da sola risultava sempre imbarazzante. “Fra un mese si ricomincia. Siamo già in quinta, come passa il tempo”. Alzai il capo per fissare la luna piena. “Mi sembra solo ieri il primo giorno di liceo”. Cercai di non pensare al nostro primo incontro, ai nostri occhi che s'incrociavano. Fallii. “Già”. Armandomi di non so quale coraggio, mi girai e gli chiesi: “Come va con Raquel?”. Scrollò le spalle. “Non stiamo più insieme da un mese”. Non stava più con lei? Dentro di me stavo saltando di gioia, ricordavo ancora quanto ci stetti male quando lo scoprii. “Mi dispiace”. Sospirò distogliendo lo sguardo dal mio viso per guardare di fronte a sé. “Cosa ci vuoi fare? La vita è così”. Volevo domandargli il motivo, ma sarei sembrata troppo invadente. Riservato com'era, si sarebbe rifiutato di sicuro. Non osavamo osservarci più del dovuto, stavamo fissando la notte a mezzo metro di distanza. “Adesso vado, ti va di venire con me?”. Mi morsi il labbro esitante sul da farsi. No, non dovevo illudermi. Mi aveva chiesto solamente di raggiungere la festa in compagnia, di certo dopo si sarebbe allontano con Andrès o qualcuno dei ragazzi lasciandomi con le altre. Raquel l'avrà mollata per ben altri motivi, io non c'entravo. No, Vilu: non illuderti. “Preferisco rimanere qua ancora un po'”. “Come vuoi”. Se ne andò silenziosamente, non fece il minimo rumore. Come sempre, del resto, quando si allontanava da me. Una fitta allo stomaco m'investì, vidi la sua schiena confondersi fra le altre. Che avessi perso un'occasione? Provai rimorso, perché ero così stupida? Certo, non dovevo farmi strane idee, però infondo cos'avevo da perdere? Mi voltai verso il mare, poi verso il party e così altre tre volte. Poi corsi in direzione del gazebo.

 

 

Fisso incantata le lancette dei secondi ruotare nel quadrante dell'orologio, il tempo sembra dilatarsi quando sono qua dentro. Ho l'impulso di torturarmi il polso, ma non posso in questo momento. Di tutti i ricordi di lui che dovevo ripescare nella mia mente, proprio questo? Masochista. Per cui mi sfrego le mani, gesto che fin da piccola indica il mio stato di irrequietudine. Sposto lo sguardo sul soffitto bianco sopra di me, cerco di concentrarmi sul mio battito cardiaco. Delle volte vorrei non sentirlo più, ma poi penso ad Enrique e mi faccio schifo per aver anche solo concepito un'idea simile. E' un pensiero egoista viste le circostanze. Ma quando mai non agisco da egoista? Chiudo le palpebre ed improvvisamente sento una canzone latina, le onde del mare ed odoro la salsedine. Gli occhi si inumidiscono e serro la mascella, li riapro di scatto e vengo riportata alla realtà. Non c'è nessuna spiaggia, nessuna festa e nemmeno lui. Forse è meglio così, ma una parte di me, quella più piccola e rumorosa, urla per poter tornare indietro. Non si può, ma lo farei per correggere tutti gli errori che ho commesso e so che sono tanti. Quella sera no. Non la cancellerei. “Senta signorina Castillo, ho molta difficoltà a fare il mio lavoro se lei non collabora. E' da un mese che viene qua e le uniche informazioni che ho riportate nel suo fascicolo sono quelle datomi da suo padre. Perché non parla?”. Perché non sono qui di mia spontanea volontà, forse? “Semplicemente perché non c'è nulla da dire”. Quando le parlo fisso sempre il soffitto, mai il suo viso. La donna sospira, probabilmente per il mio essere indisponente. Un fruscio di carte, cosa starà facendo? Non ho voglia di guardare, sembrerebbe che mi interessi qualcosa quando invece non è così. “Qui c'è scritto: non ascolta più nessuno, si è chiusa in sé stessa, non esce più di casa, perdita di interesse per qualsiasi cosa, risposte sempre meno frequenti alle domande, insonnia, depressione. Quindi ce ne sarebbero di argomenti da trattare”. Scoppio in una risata amara che invade tutta la stanza. “Lo trova divertente?”. Scuoto il capo. “Lei non sa cosa sia la depressione se ha riportato questo in quel maledetto fascicolo”. “Però i sintomi ci sono tutti”. Inizio ad innervosirmi, ma non voglio dargliela vinta. Non la degnerò di un'occhiata. “So cosa significhi essere depressi, so cosa voglia dire camminare in mezzo ai matti. Io lo so, lei no. E se è per questo non è nemmeno una vera psicologa, sennò non si troverebbe qui”. Alla quarta seduta finalmente ho avuto il coraggio di sputarle tutta la verità addosso ed è strano perché ultimamente io e verità stoniamo nella stessa frase. “Solo perché sono un complemento scolastico facoltativo, non significa che non sappia fare il mio lavoro come si deve. La laurea che è appesa al muro è mia, mica di qualcun altro!”. L'ho punta nell'orgoglio e si capisce dal tono di voce leggermente più alto, ma di certo non si scompone. Non sgarra mai, come fa? Fossi lei avrei mandato fuori dalla studio una studentessa che mi si rivolge così. “Io e gli psicologhi non siamo mai andati d'accordo”, sentenzio. E forse è per questo che ce l'ho tanto con la dottoressa Izco. Siccome non ci sono mai andata di sana pianta, non vedo il motivo di aprirmi con una sconosciuta. E' innaturale per una come me. “Perché mai? Sono qui solamente per cercare di risolvere i suoi problemi”. Sospiro. “Lo so, lo so. E' solo che non sono qui perché voglio io, ma perché mi hanno costretta ed è sempre stato così”. “L'avevo capito da quando mi è toccato venire a prenderla in classe per la seconda seduta”. Ricordo ancora la figuraccia: la psicologa della scuola che entra nella classe per trascinarmi nel suo studio, non è una scena molto bella a cui assistere. Soprattutto perché da quel momento in poi tutti sanno che devo andare da una strizzacervelli, anche se credo non siano stati molto lontani dall'immaginarlo. “Il punto è che se lei è qui significa che lì fuori qualcuno ci tiene e non vuole perderla un'altra volta, cerchi di vederlo come un gesto d'amore. Loro le voglio bene e desiderano il meglio per lei, non lo dia per scontato”. Avvolgo le braccia attorno alle ginocchia, intanto sento il rumore di una penna sfregarsi contro della carta. Sta scrivendo. “Lo dicono tutti, ma non voglio far pena a nessuno e devono ancora comprenderlo. Più si comporteranno così e più mi allontanerò da loro, è matematico”. Ci mette un po' prima di continuare, penso perché sia impegnata a riportare ciò che dico anche se non so cosa ci sia d'importante nelle mie parole. “Perché non cerca di vederla diversamente? Loro non vogliono farlo per pietà, ma le offrono un aiuto sincero”. Eppure non mi sembra così difficile comprendere la motivazione, pure lei che vive in funzione degli altri non ci riesce. “Che aiuto potrebbero darmi? Non è una cosa solida, materiale, fattibile. No, non lo è. E' una cosa astratta, come potrebbero aiutarmi? Qui non si tratta di un fatto accaduto, di un trauma da smaltire o di qualsiasi cosa definita e reale. Non sono fisici i sentimenti, si tratta di ciò che provo”. Mi rendo conto di averlo detto in modo esasperato, ma infondo è tutto ciò che vorrei avessero capito fin da subito. La dottoressa sta annotando in fretta e furia, lo so anche se non la vedo. Il soffitto dal suo canto è sempre immobile ed impassibile, in contrasto con lo stato febbrile della donna la quale sarà sicuramente felicissima di non buttare via un'altra ora senza far niente. Intanto nel corridoio suona la campana, è ricreazione. Lo sguardo ricade sull'orologio e mi sembra pure di sentire il rumore della lancetta. Tic, tac, tic, tac. Un'altra mezzora di questa tortura. Un vociare ammortizzato arriva alle mie orecchie, tutti si stanno prendendo la loro meritata pausa dalla mattinata scolastica. Vorrei essere là fuori, almeno potrei chiacchierare con qualche mio amico e non starei qua stesa su questo lettino a guardare per aria come una scema. “E lei cosa prova?”. Tutto ad un tratto i rumori diventano distanti tanto da non sentir più la gente, la bocca dello stomaco si chiude ed è come se mi stessero annodando la gola. Prendo un respiro profondo e strizzo le palpebre, dopodiché, per la prima volta, mi volto per vederla in faccia. I capelli rossicci, corti e sbarazzini, gli occhiali abbassati sulla punta del naso adunco e le rughe agli angoli degli occhi e sulla fronte. “Dolore”. Poi torno a fissare lo stesso punto di prima silenziosamente. Sì, è questo ciò che veramente sento. Non è amore, felicità, tristezza, odio, delusione. E' dolore tutto ciò che riesco a provare dentro. Quando di notte rimango sveglia assieme ad esso e viene tolta una parte di me ogni volta, è come se una mano entrasse in me e strappasse qualcosa lacerando la carne e tutto ciò che vi è attorno. Riesco quasi a sentirlo fisicamente. Le gambe tremano debolmente e le tengo ferme bloccandole, ho bisogno di quell'elastico. Sostanzialmente non serve a nulla, ma mi dà l'illusione di potermi scordare della ragione per cui sto male per una frazione di secondo. “A cosa è dovuto questo dolore?”. Contraggo il viso in una smorfia, le mie sopracciglia quasi si toccano. “O meglio, a chi?”. Inizio ad inspirare ed espirare sempre più velocemente, lo sapevo che era una brutta idea venire qui. “E' per il padre del bimbo, giusto?”. Stringo i pugni e mi metto seduta, dopodiché poggio i piedi a lato della sdraio e mi alzo in piedi. “Dove pensa di andare, signorina Castillo?”. “Via di qui”, sbotto. La psicologa mi fissa incredula da dietro la scrivania, tiene ancora la penna stretta a mezz'aria. “Non può abbandonare una seduta a metà!”. Incrocio le braccia appena sopra al ventre rigonfio. “C'è qualche regola che lo vieta?”, chiedo acida. Non osa fiatare, ha la bocca semiaperta e gli occhi spalancati. “Perfetto, alla settimana prossima”. Le do le spalle e raggiungo la porta, poso la mano sulla maniglia e la apro. Appena sono in corridoio la richiudo poggiandomici con la schiena e prendendo una bella boccata d'aria, è un via vai continuo di persone. Le stesse sensazioni di poco fa m'investono e sento l'ossigeno venir meno. Due occhi verdi mi stanno scrutando poco distante da dove mi trovo. Mi fissano e cercano i miei che invece scappano appena s'incontrano. Pongo fine al tutto voltandomi dalla parte opposta e dirigendomi verso la mia aula rapidamente sotto gli sguardi inquisitori di tutta la scuola. Lo sapevo che era una brutta idea venire qui.

 

 

Ero agguantata ai bordi del lavandino col capo rivolto verso il basso. Non poteva essere. Alzai lo sguardo e mi trovai davanti al mio riflesso: una ragazza più bassa della metà di esso, coi capelli tenuti assieme in modo disordinato e gli occhi stanchi. Una cosa del genere non credevo sarebbe potuta capitare ad una come me. Staccai una mano e l'allungai all'interno di esso rigirandovi tutti i quattro test per rivederne i risultati ancora incredula: tre positivi ed uno negativo. Un tremolio mi attraversò il corpo e rabbrividii nonostante fossi vestita abbondantemente. Cosa potevo fare? Come dovevo dirlo? Pensai subito all'aborto. Era veramente l'unica soluzione? Chi ero io per porre fine ad una vita che doveva ancora iniziare? Uscii dal bagnetto e mi sedetti sul letto a peso morto. Una responsabilità così grossa non potevo prendermela, era appena cominciato il mio ultimo anno di scuola ed avrei avuto gli esami. L'università? I miei sogni? Quell'incognita chiamata futuro che tanto mi spaventava? Volevo solamente vivere la mia vita al massimo ed avevo programmato tutto nella mia testa, quello mi avrebbe solamente scombussolato i piani. No, non potevo. Mi ero imposta di far di tutto per inseguire i miei obiettivi e di superare ogni ostacolo mi si fosse parato dinnanzi, quello era un enorme ostacolo. Mi guardai attorno osservando bene la mia stanza dalle pareti rosa: era da bambina. Infondo io cos'ero? Tutto meno che un'adulta. Lo si vedeva dalle piccole cose: nonostante la maggiore età ero ancora troppo giovane per vivere un'esperienza che dovrebbe spettare ad una persona decisamente più grande. La situazione stonava con l'ambiente circostante appartenente ad un'adolescente qualsiasi, infatti mi sentivo tale. Non ero pronta per definirmi una donna, anche se pensandoci bene non mi ero mai posta il problema. Se quello comportava esser grandi, non avevo per niente voglia di crescere. Qualcuno bussò alla porta debolmente, già dal tocco delicato capii di chi si trattasse. “Chi è?”. “Ludmilla”. “Entra pure”. Entrò e chiuse il tutto dietro a sé, sapeva quanto ci tenessi alla privacy. Poi mi raggiunse e si accomodò al mio fianco seria in volto. “Perché mi hai chiamata?”. Con lo sguardo fisso altrove risposi: “Avevo bisogno di parlare con qualcuno”. “Di che cosa? Mi devo preoccupare?”. Più passavano i secondi, più divenivo agitata. “Dipende da come la prendi”. Finalmente trovai il coraggio di guardarla in faccia, aveva un'espressione corrucciata. “E' difficile da dire così su due piedi anche perché è una cosa fresca, scoperta da poco”. Sfregai le mani fra loro, dopodiché le asciugai sulla stoffa dei pantaloni. Sudavo freddo. “Sono successe cose quest'estate o meglio, una cosa...”. Fissai le mie Converse rosse come se stessi parlando con loro anziché con lei. Scarpe da ragazzina. “Non so se ti ricordi di Ferragosto”. “Certo, la festa”. Mi schiarii la voce. “Ecco, non sono stata male quella sera e non l'ho passata nella mia stanza”. Alzai lo sguardo per poterla vedere negli occhi, era confusa. “E allora dove sei stata? Ti abbiamo cercata ovunque”. Un magone s'insinuò fra le corde vocali e la bocca, facendo uscire sempre più a fatica le parole. “Ero con Leon”. Un sorrisetto dato dal nervosismo si estese nel mio viso ed iniziai a sbattere le palpebre rapidamente. “Suppongo quindi che lui non si fosse allontanato perché doveva andare da sua madre urgentemente”. “Esatto”. “Dov'eravate?”. Portai una ciocca dietro l'orecchio imbarazzata, perché provavo vergogna di ciò? Lud era una delle mie migliori amiche, non avevo nessun motivo di essere pudica. “Sempre lungo la spiaggia, circa un chilometro a nord della festa e del residence”. Aveva la bocca semiaperta e scosse leggermente il capo. “Non capisco, che ci facevi con lui?”. Mi misi a guardare un punto indefinito di fronte a me, ecco: era arrivata ufficialmente la parte peggiore da dire a parole. “Abbiamo parlato e dopo...”. Mi morsi la lingua, come potevo formulare la frase? Non volevo che che suonasse volgare, ma nemmeno che non si capisse. “Dopo cosa?”. Buttai fuori dell'aria per poi riempirmi i polmoni nuovamente. “Abbiamo...”. Posai i palmi sul letto e cominciai a far ciondolare le gambe. “Avete?”. Chiusi gli occhi, poi gli riaprii. “Lo abbiamo fatto”. Mi voltai di scatto per vederla in viso. “Lo avete fatto cos...oh”. Annuii sommessamente. “Ma spiegami: sulla sabbia? Non vi ha dato fastidio?”. Scoppiai in una risata. “Io ti sto dicendo che ho fatto sesso col mio ex che poco prima stava con un'altra e ti preoccupi della sabbia?”. “Giusto, perdonami”. Tornai a fissare il pavimento, poi la riguardai. “Comunque eravamo in una cabina di quelle per cambiarsi”. Mi sorrise, però poi si fece di nuovo seriosa. “Non mi hai chiamata per questo, vero?”. Negai con la testa e l'atmosfera che si era un po' alleviata tornò a farsi pesante. “Come mai non l'hai detto a nessuno a distanza di un mese?”. Sospirai, mi sembrava di avere un macigno nel petto. “Non è andata come speravo”. Non osò ribattere, per cui continuai. “Abbiamo avuto una discussione il giorno dopo e credo sia ancora arrabbiato con me”. “Sì, mi ricordo e mi avevi accennato qualcosa. Ora i conti tornano, prima non aveva molto senso perché non capivo che motivo lo spingesse a prendersela tanto per una cosa così futile. Insomma, vi eravate mollati da un anno e mezzo e quella scenata era del tutto fuori luogo”. Chinai il capo e lo strinsi con le mani. “C'è stato un altro periodo, in verità, in cui credevo sarebbe tornato”. Sgranò gli occhi. “Ah sì? Quando?”. “Verso Natale, ha ricominciato a scrivermi dicendo che gli mancavo e voleva che fossimo amici. Ovviamente ho acconsentito perché ero disposta ad accettare qualsiasi cosa pur di averlo in qualche modo nella mia vita. Infatti ha ripreso ad uscire con la nostra compagnia più frequentemente ed eravamo abbastanza in buoni rapporti, poi ha smesso di cercarmi e sono venuta a sapere che si era messo con un'altra”. “Vi siete scritti per un bel po'”, constatò. “Un paio mesi”. Mi grattai la nuca. “Comunque non erano cose importanti, discorsi che farei anche con Maxi o Diego”. Aggrottò la fronte, poi chiese: “Sono confusa, che c'entra tutto questo? Cosa devi dirmi? Immagino c'entri lui”. Deglutii, ecco che ritornammo al motivo per cui l'avevo pregata di venire da me più in fretta che potesse. Dovevo dirlo a qualcuno. “E' da un po' che mi sento strana. Sono sempre stanca, ho giramenti di testa e spesso mi viene da vomitare. Il ciclo doveva arrivarmi alla fine di agosto ed ha tardato più di due settimane. Oggi ho fatto il test e...”. Feci una pausa per riprendermi. “...sono incinta”. Rimase col fiato sospeso, dopodiché di slancio mi abbracciò. Con voce ovattata, disse: “Lui lo sa?”. Scossi il capo, non aggiunse altro. Per questo avevo scelto lei: avevo la certezza che non avrebbe detto parole di troppo, non mi avrebbe fatto la ramanzina sui contraccettivi o bombardato di domande su cos'ero intenzionata a fare. Perché non ne avevo la più pallida idea e che avrei potuto rispondere? Con lei era sempre così: le dicevi cosa non andava e ti stringeva a sé silenziosamente, sapeva che detestavo le frasi fatte e le cose superflue. Parlare a volte era di troppo. La consolazione migliore erano gli abbracci sinceri e lei me li sapeva dare. Ecco perché, nonostante tutto, preferivo Ludmilla a tanti altri.

 

 

Esco dal bagnetto e attraverso la mia ex camera per poi arrivare in corridoio. Quel giorno ero combattuta perché non sapevo se tenere il bambino oppure no, ma speranzosa nel fatto che lui sarebbe tornato da me non appena gliene avessi parlato. Niente di più sbagliato. Mi ero solamente illusa, le sue parole mi avevano illusa. Credo che nella natura umana ci sia una propensione particolare all'illusione, sembra quasi che ci piaccia fantasticare su cose che probabilmente non accadranno. L'altra faccia della medaglia, però, è il dolore conseguente. Perché continuiamo a farlo se ci fa soffrire? Forse proviamo una strana sorta di piacere in questo circolo vizioso? Entro nella mia stanza e trovo papà ed Angie seduti sul mio letto. Mi fermo sulla soglia e li squadro sospettosa. “Che ci fate voi qui?”. Papà congiunge le mani e le porta appena sotto il mento. “Ti stavamo aspettando”. Corrugo la fronte e chiudo la porta dietro a me. “Che volete ancora da me?”. “Vilu, essere scontrosa non serve a niente”, dice zia. Serro le palpebre e la mascella, incrocio le braccia appena sopra il ventre. “Per favore, andate subito al punto: cosa volete esattamente?”. Riapro gli occhi, per poi ridurli a due fessure. “Se avete intenzione di farmi altri discorsi sul lasciarmi dietro il passato e concentrarmi sul presente, sappiate che ho afferrato il concetto e che sono stufa di sentirmi ripetere la solita tiritera”. “Anche se non sono per niente convinto che tu abbia afferrato quel concetto, io ed Angie non siamo venuti a parlarti di questo”. Allora perché sono qui? Improvvisamente estrae un foglio ripiegato dalla tasca dei jeans, lo apre ed ha tutta l'aria di essere un depliant. “Dato che con la psicologa sembri non fare alcun progresso, ci siamo informati online ed abbiamo scoperto che fanno degli incontri con uno specialista in cui puoi sfogarti liberamente di fronte a persone col tuo stesso problema”. Vuole che vada a parlare dei miei problemi di fronte a dei perfetti sconosciuti? A malapena lo faccio con le persone a me vicine, figurarsi con loro. Faccio per ribattere indignata, ma continua: “E' un'opportunità per confrontarti con chi vede tutto nero come te e scoprire che lì fuori c'è qualcuno messo peggio, magari in questo modo inizierai a vedere le cose sotto un'ottica diversa. Qui nel volantino ci sono tutte le informazioni, abbiamo già telefonato e ci hanno detto che ci sono altri posti disponibili. Manca solo il tuo consenso che sono convinto non avremo, ma, come per la psicologa, devi andarci se vuoi uscirne”. Scuoto il capo con vigore. “Farò anche fatica ad afferrare il concetto di dimenticare il passato, ma voi faticate a capire che non c'è niente da cui uscire. E' un problema frutto della vostra mente! Certo, sto male, ma non voglio l'aiuto di nessuno perché so gestire la cosa. E grazie per avermi dato della depressa alla strizzacervelli, sapete? Grazie tante”. Li vedo scambiarsi un'occhiata sconsolata, dopodiché zia afferra la mano di papà per stringergliela. “E' difficile per te, ma è difficile pure per noi. Non c'è cosa peggiore di stare a guardare da lontano impotente quando vorresti fare qualsiasi cosa pur di rivedere il sorriso sul volto di una persona che ami. Per favore, Vilu: va' a quegli incontri, sei anche libera di non parlare e di ascoltare semplicemente gli altri. Fallo per noi, per il bambino, ma soprattutto per te stessa. Mia sorella sarebbe molto fiera di te se lo facessi, so che se fosse qui ti starebbe dicendo le nostre stesse cose”. Mamma. Penso spesso a lei, ogni martedì vado al cimitero per andarla a trovare ma non mi sono mai chiesta cosa mi direbbe in questa situazione. Che avessero ragione? Mamma vorrebbe che andassi da una figura professionale per farmi aiutare? In che modo, però, potrebbe? Non sono un oggetto o una macchina che può essere riparata, non funzionerò mai bene e come vogliono loro. Si tratta di ciò che provo. Tentar non nuoce, però: mal che vada smetto di andarci. “Dove vengono svolti quest'incontri?”. Nessuna risposta. Papà fissa il depliant, mentre Angie le sue scarpe. “Avete intenzione di dirmelo sì o no?”. Lui alza lo sguardo, tentenna. “Al...al...centro psichiatrico Rosalba Martinez”. Un forte senso di nausea m'investe come se avessi una carcassa sotto al naso, mi tengo in piedi poggiandomi con una mano al muro. “Vilu, lo so che non...”. “No, voi non sapete!”, urlo in maniera disumana facendoli spaventare. “Dicono tutti di sapere, ma se non l'avete provato sulla vostra pelle non potete!”. Per quanto cerchi di trattenerle, delle lacrime iniziano a scivolare lungo il mio viso. “Come non siete in grado di distinguere la depressione vera da tutto questo! Andatevene dalla mia stanza, subito!”. “Non volevamo di certo...”. “Fuori!”, stronco subito zia. Tornano in piedi per dirigersi verso l'uscita, mi scosto per farli passare. Aprono la porta ed escono, ma Angie torna indietro sbucando solo con la testa. “Non so cosa si provi, non so cosa voglia dire, ma ti prego: pensaci. Ricorda a quello che ti ho detto poco fa, ricordati di Maria”. Poi se ne va definitivamente chiudendosi l'uscio alle spalle. Mi asciugo le lacrime rafferme con il palmo della mano per poi andarmi a sedere sul letto, sopra la coperta c'è ancora posato il volantino. Lo afferro per guardarlo meglio, lo sfoglio e leggo alcune delle informazioni riportate pensosa. Si chiamano gruppi di ascolto e si riuniscono ogni settimana nel settore B. Lo stomaco si contorce alla parola 'settore' perché il centro è diviso in questi, appunto. Ero nello G, poi spostata nello D. Più si procede con le lettere dell'alfabeto, più i pazienti sono gravi. Arrivano fino alla lettera I, questo faceva di me parte della cerchia dei ricoverati più critici a causa soprattutto delle allucinazioni. Quando sparirono, mi trasferirono 'promuovendomi' di settore. Se nello G camminavo fra i matti, nello D vivevo con i depressi. Osservo ancora il depliant rigirandomelo fra le mani, ripenso a mamma, Angie, papà, nonna, tutti. Posso farlo per loro, ma per me stessa? Strappo il foglio e poggio i resti sopra il comodino. No, rivedere quelle mura non mi farebbe di certo bene ed adesso devo pensare solo al bimbo, al mio Enrique. Non voglio aggravare una situazione già brutta di per sé, il piccolo merita molto più di tutto questo. Ed io devo comportarmi da brava madre.

 

 

Poso la penna e mi passo le mani sul viso, poi prendo un respiro profondo. Concentrarsi è la cosa più difficile. Una volta mi piaceva studiare, ora è solamente un peso. Come può importarmi della seconda guerra mondiale se nel frattempo devo pensare a come crescere mio figlio? E' proprio in questi momenti che sento di più la collisione fra i miei due mondi: Violetta ragazzina e Violetta adulta. Non riesco a farli andare d'accordo, sono uno scontro continuo e ciò comporta un conflitto interiore costantemente. Ci sono volte in cui mi manca tremendamente la vita leggera e spensierata in cui la preoccupazione più grande poteva essere il compito di matematica, ma pensandoci bene: quando mai ho avuto una vita leggera e spensierata? Dio ha fatto un lavoro strano con me, ho bruciato troppe tappe riducendomi a ciò che sono ora. Una ragazza madre con complessi esistenziali che non sa cosa vuole da sé stessa e dalla propria esistenza. La gravidanza ha messo in discussione tutto: sogni, piani futuri, certezze. Nulla è com'era prima che scoprissi di aspettare un bambino, persino le persone sembrano cambiate. Non mi riferisco solamente a lui, intendo anche i miei amici e la mia famiglia. Alcuni legami sembrano essersi rafforzati, altri si stanno lentamente deteriorando. Ed io guardo il tutto esternamente senza far nulla per recuperarli, mi odio per questo a volte. Con Francesca non capisco cosa stia passando, ci sono momenti buoni ed altri no. Sento che sto perdendo la mia migliore amica. Dovrebbe arrivare fra non molto, le ho chiesto se potesse venire da me per darle indietro il libro che mi aveva prestato. In verità voglio solo capire a che punto arriveremo perché non c'è stata una vera e propria divisione netta fra noi, è un distanziamento che sta avvenendo gradualmente e se possibile è pure peggio. Lei fa finta di niente, io pure e quando siamo in compagnia sembra non ci siano problemi fra me e lei. Io lo so che ci sono, anche se non abbiamo litigato. Solo una volta abbiamo avuto una discussione a causa di Ludmilla, credeva la preferissi a lei. Il brutto è che in un certo senso è così. Non fraintendiamo: sono persone talmente diverse da essere incomparabili. Per certe cose prediligo Lud per il semplice fatto che è di poche parole e mai come in questo periodo le parole per me sono una cosa di troppo, sono sicura che lei non dirà mai la cosa sbagliata perché alcuni commenti se li tiene per sé. Fran non è così. Lei parla troppo e tante, troppe volte non esita a sputare quello che pensa anche a costo di ferirti o infastidirti. Ha i suoi pro ovviamente: hai la certezza che sarà sincera con te in ogni caso, ma purtroppo tante volte non è la verità che vuoi sentirti dire. Entrambe hanno espresso il loro parere sull'argomento. Francesca ha detto che mi sto intestardendo troppo su qualcosa di inutile e che anziché voltar pagina dovrei cambiare completamente libro, mentre Ludmilla ha cercato di farmi comprendere che soffrire così tanto è sbagliato e che forse dovrei focalizzarmi sul presente e su ciò che mi permette di andare avanti. Il concetto di per sé è sempre lo stesso, ma è il modo in cui è espresso a fare la differenza. Sobbalzo quando sento il telefono squillare, lo prendo in mano e leggo il nome sullo schermo: Diego. Non sono certa se voler rispondere o no, ci penso un po' e di getto premo sul tasto verde. “Pronto?”. “Oh, grazie al cielo! Temevo non mi volessi sentire”. Gelo. Non mi azzardo a dire nulla. “Senti, mi spiace per oggi. Sono stato un cretino ad evitarti, se ti consola sappi che sono stato male il triplo”. Sospiro. Le sue attenzioni forse sono una delle poche cose che mi aiutano realmente, probabilmente senza di lui sarei già scivolata nel baratro. “Lo sai che sei importante nonostante tutto”, ammetto quasi in un sussurro. “Lo so, Vilu. Il rimorso mi stava mangiando vivo, non ho potuto non chiamarti per porgerti le mie scuse. Scusa ancora, sai che l'ultima cosa che voglio è farti soffrire. La tua felicità, che ti piaccia o no, è una delle cose più importanti per me ed un giorno tornerai ad essere felice. Immagino già il tuo sorriso risplendere alla faccia di tutti, la tua risata tormentare quelli che hanno fatto in modo che la gioia sparisse dalla tua vita. Forse non è solo immaginazione, so già che diverrà realtà tutto questo”. Involontariamente sorrido e sono contenta che non possa vedermi in questo momento, m'imbarazzerebbe troppo. “Se mi dici queste cose come posso non perdonarti? Scusami per ieri invece, forse ho sbagliato a dosare il peso delle parole”. Togliamo il 'forse'. Ovviamente la punta di orgoglio non stenta a farsi sentire. “Non è vero, sono io che dico sempre cose sbagliate nel momento sbagliato”. Vero, ma probabilmente è il caso di non dirglielo. “Sì, ma a volte reagisco troppo male”. 'A volte' ergo sempre. Orgoglio che non se ne vuole andare. “Tranquilla, sto bene. Cambiando discorso, che fai?”. Osservo sconsolata il libro di testo aperto e l'esercizio appena cominciato anche se in teoria dovrei averlo finito da ore. “Compiti”. “Ah, a proposito: complimenti per la borsa di studio, te la sei meritata!”. Lascio cadere il braccio libero a penzoloni e mi mordo il labbro. “Oh grazie, ma sai già che non la userò”. C'è un attimo di silenzio, dopodiché risponde: “Secondo me sbagli a rinunciare”. Scuoto il capo. “Non c'è niente che mi spinga a farlo ora come ora”. “Il tuo sogno? Non ti sembra abbastanza? Sei sempre in tempo per cambiare idea”. Non so perché, ma gli occhi mi s'inumidiscono. Non è mai bello vedere i propri sogni sgretolarsi di giorno in giorno per lasciare spazio ad una vita che non desideri, ma sei costretto a vivere. “Ho già preso una decisione, niente e nessuno potrà farmi cambiare idea”. Sento un rumore strano, sembra si sia alzato bruscamente. E' agitato. “Perché non far conciliare le cose? Potrei aiutarti: tu vai all'università, io lavoro per il mantenimento. Tanto un anno o due di stop non fanno male, potrò proseguire gli studi più tardi”. “Diego, non permetterei mai che tu sia quello a rinunciare, devi vivere la tua vita senza curarti di ciò che ho intenzione di fare. Voglio essere una madre presente, non posso abbandonarlo prima ancora che compia un anno per inseguire qualcosa che forse non si realizzerà mai. Ha bisogno di una guida, dev'essere la mia priorità ed il mio unico pensiero. Sarò la mamma che non ho mai avuto”. “E' questo quello che vuoi veramente?”. Mi blocco a fissare il vuoto. “No, ma è la cosa più giusta da fare”. Il suo respiro che dapprima era irregolare, ora torna normale. “Potresti essere entrambe le cose, sai?”. Mi porto una mano alla fronte per massaggiarla. “Dovevo decidere fra la ragazzina inesperta che insegue i propri sogni e l'adulta che deve crescere un figlio da sola. Ho già fatto la mia scelta”. Qualcuno bussa alla porta, per cui mi volto in direzione di essa. “Scusami, ma adesso devo andare”. Riattacco ed è come se un peso mi si levasse dallo stomaco, parlarne mi opprime. “Chi è?”. Chiedo sempre di chi si tratta prima di dare il permesso di entrare, tante volte non voglio vedere nessuno. “Francesca”. Poso il cellulare sulla scrivania e mi alzo in piedi. “Avanti”. L'uscio si apre scoprendo una Francesca vestita con una felpa azzurra e degli skinny jeans grigio chiaro. “Ciao”, mi saluta freddamente con la mano. “Ciao”. Chiude la porta e si guarda attorno a imbarazzata. Una delle conseguenze peggiori di quando i rapporti si rovinano è il disagio quando ti trovi sola con quella persona. “Ce l'hai il libro?”, domanda probabilmente non sapendo cos'altro dirmi. “Oh, certo”. Raggiungo il mio comodino, mi siedo sul letto ed apro il cassetto. Allungo la mano per estrarre il libro e noto che non ho ancora buttato via i frammenti del volantino, lo stomaco inizia a contorcersi. Mi faccio forza, deglutisco e lo tiro fuori. “Eccolo”, annuncio porgendoglielo. Lo prende, l'osserva per alcuni secondi dopodiché mi chiede: “E' stato utile in qualche modo?”. Scrollo le spalle. “Cioè?”. Ecco. Questo gesto sarebbe andato bene se di fronte avessi avessi avuto Ludmilla, lei preferisce le parole ai gesti o le espressioni. “Sono arrivata al capitolo sei”. Inarca un sopracciglio. “I capitoli sono ventisette”. Faccio un sorrisetto palesemente forzato. “Non è il mio genere di lettura”. Alzo la manica, tolgo l'elastico in gomma e lo getto assieme ai brandelli di depliant. “Questa cosa non è servita ad un cazzo”. Incespica, poi fa un passo in avanti e si accomoda accanto a me. “Con mamma ha funzionato per dimenticare papà”. Abbasso la parte del maglione e scuoto il capo. “Non siamo tutti uguali”. Sento la sua presenza così vicina eppure così distante. Anche se amo e comunico con i silenzi, quello che c'è fra noi è orribile. Una volta non eravamo così. “Tua madre doveva avere molta forza di volontà, cosa che io non ho. Sono una persona arrendevole ed all'apparenza apatica, ma sotto ad un strato d'insicurezza, sbagli e paura troverai me. Ho un brutto carattere? Lo so. Mi comporto come se non m'importasse anche quando non è così ed a volte tratto male le persone anche se non lo vorrei. Non ti biasimo se non vorrai più avere a che fare con me, ma mi manchi Fran. Anche se non ti ascolto mai e faccio di testa mia, sappi che i tuoi consigli mi confortano. E' come se in questo momento fra di noi si sia creato un muro e sì, ci sto male perché in questo periodo più che mai ho bisogno della mia migliore amica. Mi mancano i pomeriggi di bellezza che reputavo tanto stupidi, ma che ora rimpiango. Le bollette salate del telefono fisso per colpa delle nostre lunghe telefonate, i pigiama party, i film sul divano di casa mia, le nostre conversazioni idiote su WhatsApp, l'averti come ospite a cena almeno una volta a settimana, scroccare un passaggio in macchina a tuo fratello, ingozzarsi come animali da macello all'Happy Hour. Tutto mi manca da impazzire. Certo, siamo entrambe cresciute e probabilmente la maggior di quelle cose non le farò più, ma il solo ricordo mi fa star bene e male al tempo stesso. Bene perché sono pur sempre belle esperienze, male perché il rapporto che avevamo non so dove sia finito. Ci tengo a precisare anche che se sono amica di Ludmilla, non significa che non lo sia anche per te. Quando abbiamo discusso anche tu passavi molto più tempo con Camilla, ma non te l'ho mai fatto pesare perché credevo capissi che potessimo coltivare altre amicizie all'infuori della nostra. Il bene che ti voglio non è mai diminuito e neanche se mi scaricassi del tutto lo farebbe, sai perché? Perché sono una che non dimentica. Sì, quello che voi tutti passate sempre per difetto in questo caso aiuta. Aiuta perché ripensando a ciò che abbiamo passato, mi ha spinto a chiamarti qui con una scusa ed a tentare di salvare l'ennesimo rapporto che va in frantumi. Sai meglio di chiunque altro che non sono il genere di persona brava ad esternare ciò che prova a parole, per cui questo si può dire che sia uno dei più grandi sforzi che avessi mai fatto. Quindi, per favore, non darlo per scontato”. Alzo lo sguardo per incrociare i suoi occhi che sono lucidi. Le ho fatto questo lungo discorso a testa bassa, ma l'importante è che sia riuscita a dirlo. Molla il libro facendolo cadere a terra e mi abbraccia, il pancione è ingombrante però è il gesto che conta. “Non sai quanto mi sei mancata e quanto mi sia costato comportarmi in modo freddo con te. Ho anche pianto spesso per questo, pensa te che cretina”. Ci stacchiamo. “Stai parlando con una che piange la bellezza di cinque o sei volte al giorno, non sentirti cretina”. Ridacchia. “Non sto qui a chiederti i motivi dei tuoi pianti, è meglio così”. “Tranquilla, non ho problemi a dirlo. A te, poi. Diciamo che la maggior parte sono pianti generali, ecco”. “Generali?”. Aggrotta la fronte. “Sì, la situazione nel complesso. Io, il bambino, papà, la scuola, Angie, l'università, mamma, tu, Diego e...”. Mi si forma un nodo nella gola. “...e tante altre cose”. Abbozzo un sorriso sperando di essere il più convincente possibile. “Capisco, mi spiace. Alla fine hai risolto il mistero della rosa bianca?”. Ora sorrido veramente, finalmente un argomento che non sia pesante da gestire. “No e ti assicuro che mi sono scervellata”. “Un ammiratore di tua madre?”. Nego con la testa. “Nonostante mamma avesse una voce da mozzare il fiato cantava solo ogni tanto nei locali, restava sempre un'operaia di un'impresa tessile”. “Ciò non le impedisce di avere fan”. Annuisco. “Anche questo è vero”. E' da qualche mese che ogni tanto trovo una rosa bianca sulla lapide di mamma, ma non si sa l'identità di chi la posa. Ho provato a chiedere al guardiano del cimitero e neanche lui ha la più pallida idea di chi sia, non so se trovare la cosa carina o inquietante. “Parteciperai alla 'battaglia di band'?”. Roteo gli occhi. “Sì”. “Non sei contenta?”. Sospiro. “Vuoi la verità? Per niente”. “Ti piaceva così tanto cantare e comporre”, constata. Congiungo le mani e le porto all'altezza del mento, sembro mio padre. “E' una cosa da ragazzini”. E' confusa. “Ragazzini?”. “Sì, persone che hanno tempo da perdere ed io non ne ho ora come ora”. Uso un tono freddo e distaccato, quanto mi costa dire certe cose. Fingersi adulta diviene difficile quando l'adolescente che è in me grida e prende a pugni la parte matura per poter venir fuori. “Senti, Francesca: ti andrebbe di fermarti a cena?”. Mi sorprendo di ciò che ho appena detto, solitamente non invito nessuno a trattenersi da me. Il suo viso ancora perplesso per il discorso precedente s'intenerisce. “Vorrei, ma non posso. Ho già un impegno stasera, ma se vuoi passo da te uno di questi giorni. Okay?”. Annuisco sorridendo falsamente. “Ora devo andare, ci vediamo a scuola”. Mi avvolge con un braccio il collo e mi lascia un bacio sulla guancia, dopodiché si accuccia per raccogliere il libro e si dirige verso l'uscita. Apre la porta, ma improvvisamente si blocca. Si volta all'indietro e mi dice: “Il dolore è una dote per un animo duro”. Le sopracciglia quasi si toccano da quanto corrucciata è la mia espressione. “E' una frase de 'Il Signore degli Anelli' di Tolkien”. “Ecco perché era così familiare, ma aspetta: che c'entra?”. Alza un angolo della bocca ed esce dalla stanza. “Lascia stare, a domani”. E chiude il tutto dietro a sé. 'Il dolore è una dote per un animo duro'. Analizzo per bene la frase concentrandomi su un punto indefinito. Questo significa che è convinta che sia una persona dura nonostante tutto, nonostante tutti mi vedano come una depressa instabile in grado di far nulla. Lei mi stima e crede che il dolore che provo sia una cosa che mi rende forte al momento stesso. Devo ringraziarla, devo riuscire a trattenerla ancora. Mi alzo dal letto e, più velocemente che posso, esco e scendo dalle scale. Papà alza lo sguardo dal quotidiano che era intento a leggere seduto su una poltrona ed inarca un sopracciglio. “E' già andata?”. “Sì”. Serro le palpebre e fisso l'ingresso rattristata. Volevo dirle grazie per tutto, questa è stata la prima volta in cui ho voluto fare qualcosa per gli altri anziché comportarmi da egoista. Perché non l'ho capito subito? Sono un disastro. Mi guardo attorno rapidamente e decido di tornarmene in camera, anche se è casa mia sento che non è un posto per me. M'isolerò di nuovo nella mia parte di mondo: a ripensare a tutti i miei sbagli, ad odiarmi per l'ennesima volta.

 

 

ANGOLO DELL'AUTRICE

Stavo pensando...e se mettessi 'Greta's Corner' al posto di 'Angolo dell'autrice'? E' molto più cazzuto e 'intimo', no? 'Angolo dell'autrice' mi sembra una cosa formale e obsoleta. Anyway, tralasciando i miei pensieri profondi, siamo arrivati pure al secondo. Lo so, lo so...pecca di Leonetta. Dovete solo aver pazienza, già dal prossimo ci sarà qualcosina e perché si parlino dovrete aspettare ancora qualche capitolo. Mi piace definirli 'capitoli di transizione' perché in questi primi vi ho dato le nozioni necessarie per saper orientarvi nella storia e capirvi meglio. Spero che ora abbiate le idee un po' più chiare, ma più andremo avanti e più comprenderete tutto. Oh, stavo giusto per dimenticare una cosa importantissima: le ventotto recensioni, grazie. E' stato sbalorditivo vedere il numero crescere a vista d'occhio e, vi dirò, sono veramente felice che questa storia vi stia già a cuore! Sappiate che io ci metto tutta la passione possibile ed immaginabile, anima e corpo e vedere che tutto questo è apprezzato mi rende orgogliosa di me stessa. La fanfic precedente era partita in sordina e mano a mano il numero di lettori è aumentato sempre più, mentre questa è partita proprio col botto. Sarà perché voi tutti siete affezionati a quelle due teste dure :')

Che ne pensate, invece, di questo nuovo capitolo? Che idea vi siete fatti finora? Ho notato con dispiacere (seppur giustificato) che molti hanno linciato Leon. Non volete prima sapere che è successo? Sono la prima a dire che si sta comportando male, ma in quanto autrice non vi posso far altro che consigliare di analizzare tutto per bene e vedere cosa ci sia sotto. Secondo voi, perché fa così? Si diverte ad ubriacarsi ogni sera? Ama Raquel veramente? Ho inoltre affrontato il conflitto interiore di Violetta che vuole fingersi adulta quando la parte adolescenziale di lei non se ne vuole andare, ho toccato anche l'argomento sogni infranti e vi posso assicurare che è una delle cose peggiori che vi possano capitare. E niente, mi sono dilungata troppo mannaggia a me! Ditemi cosa ne pensate lasciando un commento, voglio sentire i vostri pareri e le vostre teorie u.u

Grazie per tutto: le recensioni e l'aver messo nei preferiti e nelle seguite in così tanti fin da subito!

Stay tuned,

Gre :3

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3

 

 

 

Eravamo diretti verso l'aula magna dal nostro coordinatore di classe, il professor Milton. Camminavo fra Diego e Ludmilla silenziosamente, tanto a far caciara ci stavano pensando gli altri. Arrivammo di fronte al portone già spalancato e l'insegnante si voltò per poterci dire un'ultima cosa prima di entrare: “Ragazzi, cercate di tenere un comportamento decoroso. Non mi va di fare il poliziotto e starvi ad osservare per tutta l'assemblea, quindi comportatevi bene. Sia mai che mi tocchi riprendere qualcuno davanti a tutta la scuola, è vergognoso sia per voi che per me. Sono stato chiaro?”. Annuimmo e qualcuno osò dire qualche 'Sì' flebilmente. Si poteva dire tutto della terza B, tranne che fosse una classe casinista. Eravamo abbastanza tranquilli salvo alcuni ed i prof. riuscivano a fare il loro lavoro senza chissà quali impedimenti, tutt'altra cosa rispetto alla precedente. L'uomo si girò e ci addentrammo nella stanza già occupata in gran parte, ma rimanevano liberi diversi posti. Mi guardai attorno e scorsi la figura di Fran, per cui senza pensarci due volte andai a sedermi accanto a lei lasciando gli altri due in balia di loro stessi. “Ciao Fran!”. Alzò lo sguardo e mi sorrise. “Hey, sei arrivata!”. “Ma siete tutti qua voi della D?”. Scosse il capo. “Ma va! Siamo tutti sparpagliati in giro, figurarsi se rispettiamo l'ordine fra classi”. Scoppiammo a ridere. “Okay, allora sto tranquilla perché ho abbandonato la mia per sedermi qua”. “Sì, cosa vuoi che sia”, rispose ridacchiando. “Violetta, è occupato per caso?”. Mi voltai verso la voce proveniente alla mia sinistra: era Alex, un mio compagno, mentre indicava la sedia accanto alla mia. “Sì, mi spiace”. Scrollò le spalle. “Fa niente”. Poi se ne andò seguito da Gery, una sua amica. “Tieni il posto a Leon?”. Annuii. “Stamattina gli ho promesso che se fossi arrivata prima io in aula magna gli avrei tenuto il posto”. Nel frattempo arrivò Marco con Cami per accomodarsi a destra di Francesca, i quali mi salutarono animatamente. “Eravamo andati da Maxi e Broad dall'altra parte della stanza, sono tutti assieme quelli di grafica”, spiega il suo ragazzo. Anche se mi aveva detto che erano tutti sparpagliati, notai che i miei amici erano radunati con le loro nuove classi infatti ero l'intrusa fra loro tre. Camilla ridusse gli occhi a due fessure scrutando attorno a sé pensierosa. “Chi manca ancora?”. “La terza C”, dissi prontamente. “La E è arrivata?”. “Stai chiedendo di Fede indirettamente?”, domandò maliziosa Fran. Cami, dal suo canto, arrossì e le diede una pacca sul braccio. “Ma cosa! Smettila, ho chiesto solo per curiosità”. “Sì, certo”. “La E è arrivata da un pezzo, comunque”, placò gli animi Marco. Non riuscivo a seguire appieno i loro discorsi, ero più concentrata a guardarmi attorno freneticamente nella speranza di vederlo sbucare da qualche parte insieme alla sua sezione. Effettivamente mancavano solo loro, secondo me era per via del loro comportamento perché ogni volta che c'era un evento scolastico arrivavano per ultimi a causa dei discorsi lunghi ed inutili dei loro professori. Inutili perché tanto loro facevano baldoria lo stesso, avvertimento o non avvertimento. Finalmente spuntò Casal dall'entrata seguito dai suoi studenti. Mi costava ammetterlo, ma in quella classe sembrava si fossero radunati i più belli della scuola. Passarono nel corridoio in mezzo uno dopo l'altro, ma non individuai subito il mio ragazzo. Poi lo intravidi e cercai di fargli segno sorridendo, ma il tutto svanì quando lo vidi intento a parlare con una ragazza alta e mora tanto da non degnarsi di guardare altrove. Abbassai il braccio seria, si sedette fra un ragazzo castano e lei continuando a chiacchierare. Non riuscivo a smettere di fissarli, ma non ci eravamo messi d'accordo per sederci vicini? “Chi è quella?”, chiese Francesca confusa. “Non ne ho idea”. “Beh, è carina”. Inutile dire che Marco si prese una bella occhiataccia. “Credo sia sua amica, la vedo spesso con lui ed altri suoi compagni”, disse Camilla. Improvvisamente un rumore fastidioso ci perforò un timpano, odio quando picchiettano col dito sui microfoni. Ci girammo tutti verso un uomo barbuto sulla sessantina che iniziò a salutarci ed a presentarsi, ma non l'ascoltai come stavano facendo i miei amici. Guardai ancora in loro in direzione, non si stavano più parlando. Allora fissai lei intensamente, era seduta a gambe accavallate e teneva le braccia incrociate sotto al petto prosperoso. Con una mano si scostò i lunghi capelli corvini lasciandoli ricadere dietro a sé, dopodiché ruotò il capo ed incrociò il mio sguardo. Un brivido mi percorse la schiena come se mi stessero passando un cubetto di ghiaccio lungo di essa, rimasi ibernata sul posto. Labbra rosee appena schiuse a forma di cuore, colorito marmoreo e perfetto. Ciglia lunghe e sopracciglia ben curate, trucco nella giusta quantità. Ma, soprattutto, occhi magnetici, grigi e freddi capaci di rapirti e gelarti in una frazione di secondo.

 

 

Distolgo lo sguardo deglutendo, fisso il pavimento. Aspetto alcuni secondi prima di rialzare il capo, con la coda dell'occhio vedo che ha raggiunto le macchinette. Non dovevo guardarla così intensamente, mi fa lo stesso effetto da sempre. Congiungo le mani e scruto l'ambiente circostante sentendomi terribilmente a disagio, gli studenti che passano non riescono a fare a meno di lanciare un'occhiata a me, ma soprattutto al mio pancione prominente. Non è bello essere incinta all'ultimo anno di superiori e tanto meno frequentare gli orari scolastici regolarmente come una normale liceale. Sono tutto fuorché normale. Se gli altri non si trattengono dall'osservarmi con curiosità, io non posso non guardare lei. E' poggiata con una spalla al distributore automatico e con un mano giocherella con le punte dei suoi lunghi capelli, con l'altra stringe una mela rossa. Cosa starà facendo? Porta dei jeans a vita alta dentro ai quali è inserita una camicetta rosa antico svolazzante e pomposa, ai piedi ha mocassini scamosciati. Si volta ancora verso di me e prontamente fingo di essere intenta a far altro, sbircio: adesso sbuffa ed estrae una moneta dalla tasca, seleziona un numero ed aspetta che le venga dato il prodotto ed il resto. Una bottiglietta d'acqua. Dovevo immaginarlo, è vegana. C'è qualcosa che le manca per essere più perfetta di così? La prima cosa che ho pensato quando l'ho vista è stato che lei sia tutto ciò che le bambine sognano di essere da grandi: bellissime, alte, magre con le curve al posto giusto ed intelligenti. Come potevo non essere infastidita quando ho scoperto che era amica di lui? Sapevo che non c'era nulla fra loro, ma ugualmente mi scocciava vederli parlare, ridere, scherzare. Forse perché lei possedeva tutto ciò che non avevo mai avuto: famiglia perfetta, soldi, bellezza disarmante e l'ammirazione di tutti. Invidia per lei e gelosia accecante sapendola sua amica. Passavo ore intere nel suo profilo scoprendo molte cose sul suo conto: vegana, pratica yoga e palestra, fa dei servizi fotografici come modella ed è volontaria presso un rifugio di senzatetto. Raquel Marquez è la figlia che ogni genitore vorrebbe. Si sposta a lato accanto al davanzale della finestra poggiandovi la bottiglietta, dà un morso alla mela. Perché è ancora lì e non se n'è andata? Starle a meno di cinque metri di distanza mi disturba. Mentre mangia, prende il suo cellulare che, manco a dirlo, è un iPhone e si distrae con esso. Non è il genere di persona che passa la ricreazione sola, proprio no. E' sempre circondata da gente, non posso fare a meno di guardarmi attorno e notare che nessuno è seduto nei miei pressi. Classico. Improvvisamente due ragazzi le vanno incontro, uno tenta di spaventarla e l'altro le ruba l'acqua. Distolgo lo sguardo, un nodo alla gola. Mi giro, ora lei sorride e tratta su come avere indietro la bottiglia mentre lui ha le braccia avvolte attorno al suo ventre, schiena contro petto. Mi mordo il labbro, fuoriesce sangue e rimpiango di aver lasciato a casa l'elastico. Non riesco a sentire cosa dicono fra la caciara per fortuna. Una risata, però, mi tormenta. Una loro risata. Perché sono qui? Voglio andarmene, ma non posso. Ho un accordo. “Scusa il ritardo!”. Sobbalzo, è Diego. “No, tranquillo”, rispondo flebilmente. Si siede di fronte a me in modo da poter essere faccia a faccia, è sorridente ed apparentemente euforico. Però i miei occhi non riescono a staccarsi dal quadretto poco lontano da noi. Si volta all'indietro, per poi dire: “E scusa anche se nel frattempo hai assistito a brutte scene”. Torno a guardarlo in viso e scuoto il capo. “Fa niente, sul serio”. La mia voce è troppo debole per far risultare l'affermazione vera, così continuo: “Allora, cosa dovevi dirmi di tanto importante?”. Abbozzo un sorriso cercando di essere convincente, la sua espressione seria svanisce per lasciar spazio ad una entusiasta. “Sono stato convocato nell'ufficio di mio padre, me l'aveva già detto stamattina di andarvi perché aveva una grande notizia da darmi riguardo l'università”. Spalanco la bocca piacevolmente sorpresa e vi porto una mano. “C'è un'altissima probabilità che mi ammettano, praticamente un posto è già mio!”. Allarga le braccia e mi esce un gridolino acuto, l'abbraccio di slancio. “Che bello, Diego! Sono così felice per te”. “Grazie, Vilu”. Ho il volto infossato nella sua spalla, alzo la testa sempre stretta a lui e la gioia sparisce. I miei occhi incastrati con i suoi. Ci fissiamo e serra la mascella, è ancora avvinghiato a lei. Fermi per istanti che mi paiono infiniti, il respiro affannoso. Non riesco a smettere di guardarlo. Gli altri due continuano a parlare, lui ha il capo ruotato in mia direzione. Un brivido mi percorre la schiena e lo stomaco inizia a dolermi, m'irrigidisco però non mi muovo d'un ciglio. “Hey, potresti anche smetterla di stritolarmi adesso”, dice Diego ridacchiando. Mi riporta alla realtà, è come cascare al suolo e farsi male il triplo. Mi stacco e sfrego le mani fredde come ghiaccioli, nervosismo. “Che c'è? Non sei più contenta?”. “No!”, urlo. “Sono felicissima, è una gran bella notizia”. Inarco leggermente gli angoli della bocca. “Okay. Scusami, ma sembrava avessi visto un fantasma!”. Perché tutti usano quest'espressione? Forse lui lo è veramente. Un fantasma che continua ad aleggiare nella mia vita e quando lo vedo sbianco. Sì, dev'essere per forza così. “Credimi, sono veramente contenta”. I miei occhi si spostano dal suo volto, lui le sta avvolgendo un braccio attorno alla spalla per imboccare il corridoio ed andare presumibilmente nella loro classe. Mi mordo l'interno della guancia. Si è appena voltato all'indietro guardandomi, per guardare me. Si rigira subito, ma questo basta a mandarmi in tilt completamente. “Oh, Vilu! Mi ascolti?”. Scuoto la testa, Diego mi osserva teso. “Sì?”. Sbuffa e si passa una mano sul viso esasperato. “Cos'hai?”. “Non ce la faccio più”, sbotta. Nel frattempo suona la campana, però non le prestiamo attenzione. Faccio per ribattere, ma mi precede. “Lo so che non devo parlarne, lo so. E' solo che è tremendamente difficile vedere che nonostante tutto preferisci lui a me”. “Ma se non ho fatto nulla!”. Sospira ed abbassa lo sguardo. “Credi che non abbia visto come lo guardi? Neanche se m'inginocchiassi davanti a te con un mazzo di rose riuscirei ad avere lo stesso sguardo che riceve lui quando non fa nulla”. Eccola, una sensazione tanto familiare: senso di colpa. Per tutto ciò che sto per ribadirgli, per tutte le volte che lo faccio soffrire. “Diego...”. “Quando ti guardo negli occhi sai cosa vedo?”. Avvicina la faccia alla mia, deglutisco. Non eravamo mai arrivati ad una tale vicinanza. “Cosa?”. Il naso a pochi centimetri dal mio, il suo respiro s'infrange sulle mie labbra serrate. “Lui”. E' come se mi estirpassero l'aria dai polmoni prosciugandoli, come posso rispondere? Semplicemente non posso. Do una rapida occhiata attorno, è quasi vuoto. Mi faccio avanti e premo la bocca contro la sua, il suo sapore m'invade. Ho gli occhi chiusi, i suoi palmi mi avvolgono il viso. Forse è questo ciò che serve per uscire da questo brutto periodo, devo imparare ad amare ciò che mi fa bene. “Ti amo”. Ma non è lui che l'ha detto, come potrebbe parlare mentre lo sto baciando? “Ti amo”. Lui. Non è il profumo di tabacco e vaniglia, non è il suo tocco sulla mia pelle, non sono i suoi smeraldi. Spalanco le palpebre e lo spingo via lasciandolo attonito. “Scusami, non so che mi sia preso”. Mi alzo in piedi e mi allontano. “Hey, Vilu non...”. “Non sapevo cosa stessi facendo!”. “Ho capito, ma...”. “No! Devi stare lontano da me, più mi starai distante e meglio sarà per te”. Si tira su e mi si mette di fronte. “Sai che non è così, non riuscirò mai a separarmi da te”. “Pensa a te stesso per una buona volta! Pensa al tuo bene!”. Mi accarezza una guancia. “Sto bene solo se ci sei tu”. Gli levo la mano facendola cadere a penzoloni. “Non è vero. Tu stai soffrendo a causa mia, apri gli occhi e renditi conto di che stronza hai davanti!”, gli urlo contro. “No, non lo sei”. “Ti ho baciato essendo a conoscenza dei tuoi sentimenti nei miei confronti, sii realista”. Silenzio. “L'ho fatto nonostante mi aspettassi già cosa avrei provato”. “E cos'hai provato?”. La sua espressione è affranta, ma come biasimarlo? “Nulla”. Gli do le spalle per potermi dirigere in aula, siamo già in ritardo. Poi, però, mi volto all'indietro per potergli dire: “Finiamola qua, Diego. E' meglio così per entrambi”. E me ne vado lasciandolo solo e sofferente, ma delle volte bisogna ferire per poter far capire.

 

 

Posai il capo contro una porta in legno stanca, guardai il cellulare: meno un quarto le sei e nessuna chiamata. Sbuffai e mi presi la testa fra le mani esausta, era un'ora e mezza che stavo aspettando. Già ci ero passata sopra la mattina, tanto che l'avevo invitato io qua però ora stava veramente esagerando. Non l'avevo praticamente mai visto durante la giornata e sembrava quasi mi volesse evitare, era proprio il colmo! Proprio oggi, no. Osservai ancora il display: venticinque gennaio. Rabbrividii e mi rannicchiai su me stessa, faceva freddo ed ero seduta nel gradino di un ingresso. Era con lei. Sicuro che era con lei. Amici di qua, amici di là. Ovviamente di lui mi fidavo, ma delle altre come potevo? Soprattutto se si trattava di ragazze che sembravano un ibrido fra una modella ed un'attrice hollywoodiana. Passavano molto tempo assieme fra ricerche, uscite in compagnia, ore in classe. Ero gelosa marcia. Sì, proprio tanto. Mi parlava spesso di lei e quando lo faceva mi arrabbiavo anche se non lo davo a vedere per non sembrare ossessiva, infondo un po' lo ero. Ogni suo atteggiamento strano mi faceva entrare in paranoia e lo collegavo subito a lei. Non feci eccezione. Un rumore di passi, mi voltai a sinistra. Eccolo. Sorridente, col fiatone ed irreparabilmente in ritardo. “Hey, amore scusa ma...”. “Scusa un cazzo!”. Si bloccò di colpo e sgranò gli occhi. “Che hai detto?”. Mi alzai di scatto ponendomi di fronte a lui. “Scusa un cazzo”.“Non l'ho fatto apposta ad arrivare in ritardo”. Scoppiai letteralmente, dopo un tempo a me infinito passato ad aspettare al freddo era il minimo che potesse accadere. “Eri con lei, vero?”. Aggrottò la fronte. “Lei chi?”. “Chi secondo te?”, gli urlai contro. “Ma cosa stai dicendo?”. Alzò il tono pure lui. “Chi vuoi che sia? La tua amica!”. “Raquel?”. “Sì!”. Si mise a ridermi in faccia, trovava la cosa divertente? Io neanche un po'. “Cosa c'entra? Dovresti smetterla di...”. “Come 'che c'entra'? C'entra eccome! Eri con lei!”. “Ma...”. “Non dire altro! Buon anniversario”. Mi accucciai e raccolsi la mia borsa, poi quando mi rialzai vidi bene il suo volto: la mascella serrata, lo sguardo imperturbabile. “Sai qual è la cosa ironica? Ho ritardato proprio per questo”. Assunsi un'espressione confusa. “Cosa...”. La frase mi si mozzò in gola quando lo vidi dirigersi a passo spedito verso la sua auto poco distante, aprì la portiera e con violenza scaraventò a terra dei fiori. Afferrò una scultura in creta gettando pure quella e facendola andare in frantumi. La stessa sorte toccò ad un cesto dal quale uscirono diverse pietanze e delle bottiglie. Il rumore assordante del vetro che si ruppe. Ed io guardavo la scena attonita e spaventata. Ansimando si voltò all'indietro lanciandomi un'occhiata carica di delusione. “Leon, aspetta...”. “Goditelo da sola”. Gli corsi incontro, ma lui rapidamente entrò in macchina per metterla in moto. Battei forte sul finestrino, ma partì a tutta velocità. Fissai il retro dell'automobile finché non sparì dal mio campo visivo, smarrita. Come avevo potuto comportarmi così da stupida? Perché avevo messo le mie supposizioni sopra alla mia fiducia? Al tutto si aggiungeva la preoccupazione smisurata per la sua tendenza a premere sull'acceleratore quand'era alterato, rischiava veramente di ammazzarsi. Mi misi le mani fra i capelli disperata. Cos'avevo combinato?

 

 

Inserisco le chiavi nella serratura ed apro la porta, poi la chiudo. Mi scrollo la neve di dosso e mi tolgo tutti gli indumenti invernali per poi riporli nell'attaccapanni. Mi sfrego le mani infreddolita, mi avvicino al termosifone e le avvicino ad esso. “Già di ritorno?”. Papà. Non mi volto all'indietro, fisso piuttosto il muro di fronte a me. “Maxi arriverà fra poco”. “Okay”. Silenzio, ultimamente ci parliamo solo se strettamente necessario. A volte ci sto male per questo, mi manca il mio rapporto con lui. Poi ripenso alla situazione attuale e torno nella mia posizione, non sarò di certo io a cedere. Credo se ne sia andato, meglio così. Sospiro. Hanno inventato di tutto, la scienza è un progresso continuo...allora perché devono ancora costruire una macchina del tempo? Tornerei indietro per rimediare a tutti i miei sbagli, alla mia avventatezza. Io, lui e tutto tornerebbe ad essere perfetto. Fitta di dolore, ancora. Poso una mano sopra al pancione e scuoto il capo inclinandolo verso il pavimento. Rimango ancora immobile, poi decido di salire le scale ed andare in camera. Voglio stendermi, sono troppo affaticata. Sembra stupido, ma anche uscire di casa mi strema. Arrivata al piano di sopra, percorro tutto il corridoio ed entro nella mia stanza. Prendo una boccata d'aria e mi dirigo verso il letto per buttarmici a pancia in su. Fisso il soffitto immersa nel silenzio. Come ho potuto baciarlo? Sono una sciocca. Ora ho peggiorato la situazione e, mi scoccia ammetterlo, ho bisogno di lui. Diego è una delle poche persone che mi riesce a strappare un sorriso in una vita ormai diventata cupa e grigia, infondo volevo vedere se con tutto questo qualcosa fosse cambiato in me ed iniziassi a provare qualcosa nei suoi confronti. Nulla è cambiato. Perché ogni volta che mi viene incontro, mi aiuta, mi dice tutte quelle cose vorrei che al suo posto ci fosse lui? Voglio odiarlo, riuscire a fare a meno di lui, ma mi manca come l'aria. E' strano, vero? La persona per la quale piangi tutte le notti è l'unica che potrebbe consolarti. Nessuno capirebbe, nessuno capisce. Mi trattano come se avessi qualche problema, ma perché non comprendono che mi serve solo una cosa per star meglio? Da quando se n'è andato niente sembra aver senso, la mia vita ha perso senso. La rottura non l'ho mai superata. E sono passati due anni. Sono tornata in una campana di vetro: nessuno mi sente, mi ascolta. Ruoto il capo a destra, afferro il cellulare e vi collego gli auricolari. Me li metto alle orecchie, chiudo gli occhi ed accendo la musica. E' come se l'avessi accanto. Mi lascio trasportare dalla melodia, mi pare di avere le sue mani che mi sfiorano. Le sue labbra sulle mie, il suo petto contro il mio. Lui sopra di me, il suo profumo, la sua voce. Il respiro si fa pesante, serro ancora di più le palpebre. Ci stiamo mischiando la pelle, le anime, le ossa. Ci stiamo amando. Improvvisamente sento il materasso abbassarsi a lato, apro gli occhi di scatto e mi volto a sinistra. Metto in pausa la canzone. “Cosa ci fai qui?”. Papà è seduto al mio fianco, le mani congiunte nella sua posa caratteristica. “Se vuoi entrare, devi bussare”. Non mi sta nemmeno guardando, fissa di fronte a sé. Cos'ha? “Non mi hai sentito, ho provato a bussare”. Mi sento un po' in colpa. Stavo ascoltando la musica ad alto volume, è vero. Dal mio canto continuo però a cercare il suo sguardo, ma continua ad essere concentrato da tutt'altra parte. “So che suona strano, ma io lo so”. Rivolge il capo verso il pavimento. “Lo sai?”. Prende un grosso respiro e si volta finalmente verso me. “So cosa provi”. Mi metto goffamente seduta e lo scruto confusa. “So cosa significhi soffrire per una persona che non hai più, che se n'è andata dalla tua vita. Lo so meglio di chiunque altro, Vilu”. Un pugno allo stomaco: mamma. “Almeno lei ti amava”. “Perché lui non ti ha amata?”. Secondo colpo incassato. “Non sono più sicura di niente ultimamente”. Posa una mano sopra la mia. “Il vuoto, la vita che sembra perdere colore, la sofferenza: comprendo tutto. Delle volte bisogna crescere forti anche se è difficoltoso, ma siamo obbligati. Chi meglio di te lo sa? Il tempo passa inesorabilmente anche quando sembra impossibile e sono conscio che si fa presto a dire che andando avanti le cose si sistemeranno, anche se si fa molta fatica a convincersi di ciò. Ma è la verità: il tempo guarisce le ferite. Sì, si può pure tornare ad amare anche se in modo diverso ed io ne sono la prova vivente”. Mi rannicchio come una bambina, anche se ormai non lo sono proprio. “Sarà, ma è tremendamente arduo per una come me. Almeno non eri costretto a vederla assieme ad un altro...”. “Credimi se ti dico che avrei mille volte preferito vederla accanto ad un altro”. Abbassa la testa e, indugiando, lo accolgo fra le mie braccia. Mi stringe forte, il pancione non è più d'ingombro. Con la voce ovattata perché ho il viso infossato nel suo petto, dico: “Manca tanto anche a me”. Mi accarezza i capelli con delicatezza, poi vi posa un bacio. “Oggi sei andata a trovarla?”. Annuisco. “Brava, sono fiero di te”. Da quant'è che non sentivo queste parole, da troppo. “Hai trovato un'altra rosa bianca?”. Mi stacco per poterlo guardare in volto. “No, è sempre la stessa della settimana scorsa”. “E' strano”. “Molto”. Tutto ad un tratto cambia espressione, diventa curiosa. “A proposito: come si chiama questa famosa ragazza che sta con Leon?”. “E chi l'ha detto che c'è di mezzo un'altra?”. “Tu indirettamente”. Giusto. Merda. “Una di scuola nostra, si chiama Raquel Marquez”. Aggrotta la fronte. “Che c'è?”. “Ah, niente. Questo nome l'ho già sentito...”. Come potrebbe? E' una diciottenne del liceo artistico, è quasi impossibile. Sgrana gli occhi e si sbatte una mano sulla fronte. “...ho capito chi è! E' figlia di Miguel Marquez!”. Sono più perplessa di prima. “Sarebbe?”. “Il dirigente dell'azienda per cui lavoro: la 'Marquez Enterprise'”. “Cosa?”. “Sì, è una delle più grandi imprese edili argentine. Sono sparse in tutto il paese, ma il centro è qua nella capitale”. Questo spiega la sua ricchezza ed il fatto che studi architettura. S'infila una mano nella tasca dei jeans, estrae il portafogli e fruga per alcuni secondi, dopodiché mi passa un foglio ripiegato. Lo apro e vi trovo un'immagine grande al centro di un uomo sulla cinquantina dai capelli corvini con qualche sprazzo di grigio. Le braccia incrociate, barba leggera e curata, l'espressione seria e gli occhi ghiaccio puntati verso chi legge il volantino. 'Marquez Enterprise: per una grande abitazione ci vuole un grande imprenditore'. Devo ammettere che nonostante l'età quell'uomo è davvero di bell'aspetto. “E' sposato con Mireya Lopes, un ex modella brasiliana”. E adesso si spiega il fisico e la bellezza della figlia, anche il padre non scherza. “E' andata piuttosto male a questa Raquel”, commento sarcastica. Papà ridacchia, la prima volta che lo vedo sorridere a qualcosa uscito dalla mia bocca dopo mesi. “Proprio”. “Ma quindi tu l'hai visto di persona?”. Scuote il capo. “No, figurati! Lavoro in cantiere, Vilu. Il suo ufficio è quello più in alto di tutti”. “Se ha così tanti soldi, perché mandarla in una scuola pubblica?”. Fa le spallucce. “Non ne ho idea”. Sentiamo il rumore sordo del campanello proveniente dal piano di sotto. “E' Maxi di sicuro”. “Vado io, te lo mando su”. Si alza dal letto, ma l'afferro per un braccio. Si volta e gli sorrido timidamente. “Grazie, papà”. E' stupito, subito mi osserva incerto dopodiché mi dà un bacio sulla fronte e risponde: “Di niente, bambina mia”. Va verso la porta ed esce lasciandola aperta, tanto fra un po' arriverà il mio amico. Come ho fatto a non rendermi conto che forse l'unica persona che potesse capire il mio dolore fosse papà? L'avevo così vicino eppure così distante. Stringo ancora fra le mani il depliant della Marquez Enterprise perciò lo poggio sul comodino. Oh, cavolo. Ora che ci penso non ho continuato la canzone. Sono nella merda. Un lieve battito contro il legno, mi giro di scatto. “Buonsalve giovinotta”. Inutile dire che rido, riesce spesso a mettermi di buon umore. “Maxi, ti prego”. “Pronta per lavorare sodo?”. Mi gratto la nuca. “Mmh sì?”. Si accomoda di fronte a me con un sorriso a trentadue denti, si vede che ci sta mettendo anima e corpo per questo progetto. Beh, non poteva scegliersi compagna peggiore. “Come va?”. “Il solito, te?”. Scrolla le spalle. “A parte il fatto che ha smesso di nevicare, non ho nulla di esaltante da dirti. Ah, forse ne ho una: Lola ha partorito, vuoi un cucciolo di cane?”. Nego con la testa. “Per quanto siano carini i cagnolini, papà non mi lascerà mai tenerne uno, però grazie lo stesso”. Batte le mani con fare entusiasta, odio non aver fatto praticamente nulla per una cosa a cui lui sembra tenere molto. Solo ora mi sono resa conto che questa 'Battaglia di band' lo eccita parecchio, sarà anche perché tiene la sua mente impegnata così da non pensare ai suoi problemi. Chissà. “Mostrami cos'hai fatto, allora!”. “Prima voglio vedere il tuo”, affermo prontamente. “Okay”. Si toglie lo zaino, lo apre ed estrae un quaderno. Lo sfoglia e sorride di fronte alla pagina della sua canzone, detesto pensare che spegnerò quel bagliore nei suoi occhi. “Tieni, dimmi cosa ne pensi”. Lo prendo e comincio a leggere quanto scritto, devo ammettere che non è male. “Oh, bella questa parte: 'Lei era la persona dei miei sogni ed ora è solo un demone dei miei incubi'”. Arrossisce imbarazzato, leggere una canzone composta da una persona è come scavargli dentro e scoprire cosa c'è. “In conclusione posso dirti che mi piace e mi ci rivedo molto, inoltre con l'inglese te la cavi piuttosto bene. Non hai dato un titolo?”. “No, devo ancora pensarci. Avevo pensato di rapparla, dato che sono più portato per quel genere”. “Sì, si potrebbe fare. Io canto normalmente e tu rappi, dovrebbe venir fuori una figata”. Si riprende il quaderno, poi domanda: “E la tua canzone?”. Sul mio viso si estende il classico sorrisetto di chi si trova a disagio. “Posso confessarti una cosa, Maxi?”. “Certo”. Abbasso lo sguardo. “Ho scritto quattro righe di numero...”. Corruga la fronte. “Come?”. “Non ho scritto un cazzo in pratica! Solo due frasi in croce”. Non sembra arrabbiato, per niente. “Fammele vedere”. Scuoto il capo. “No, fanno cagare!”. “Ti ho detto fammele vedere, dopo valuto se fanno cagare o no come dici”. Sbuffo, mi alzo dal letto e prendo un fascicoletto in carta riciclata dalla scrivania. Glielo lancio, l'afferra al volo e torno a sedermi. “Mmh, vediamo...”. Gira le pagine velocemente. “E' questa?”. Mi fa vedere la canzone e, a malincuore, dico di sì. “'Rescue me', salvami”. “Potresti non leggerla ad alta voce per favore?”. “Tanto sono quattro righe!”. “Sì, ma...”. “Lo so, sto trovando difficoltà a respirare e sto annegando nel mio stesso sonno. E sento l'odio infrangersi su di me, perciò salvami”. “Fa schifo, lo so...”, dico. E' ancora intento a fissare la pagina, poi la mette di fianco al suo quaderno e le guarda entrambe alternatamente. “Non fa schifo, per niente”. Roteo gli occhi. “Ma se sono solo delle parole buttate giù alla cazzo di cane”. Si porta una mano al mento con fare pensoso, cos'ha in mente? “Cosa c'è?”. Torna a posare lo sguardo su di me e mi sorride esaltato. “Ho avuto una grandissima idea: fondiamo i testi!”. “Che?”. “L'argomento su è giù è sempre quello. Usiamo la tua strofa come ritornello, aggiungiamo qualche acuto e 'oh, oh, oh' di qua e di là ed il gioco è fatto”. La situazione è talmente paradossale da farmi quasi ridere. “Questo significa che il mio non far niente è stato produttivo in qualche assurdo modo?”. Scoppia in una risata. “A quanto pare sì! Adesso ci lavoriamo, andiamo alla scrivania?”. “Mmh, certo”. Ci alziamo dal letto, ma mi fermo un secondo per guardare se ho messaggi sul cellulare nella speranza che Diego mi abbia scritto. Sblocco ed entro su WhatsApp: nulla. Decido allora di fare il primo passo, vado fra i contatti e scorro velocemente alla ricerca del suo. Quando improvvisamente m'imbatto sul suo numero e non posso fare a meno di leggere lo stato: 'If I could be with you tonight, I would sing you to sleep. Never let them take the light behind your eyes. I failed and lost this fight, never fade in the dark. Just remember you will always burn as bright'. 'Se potessi essere con te stasera, canterei per farti dormire. Non lasciare mai che prendano la luce dietro ai tuoi occhi. Ho fallito e perso questa battaglia, non svanire mai nell'oscurità. Solo ricordati che sarai sempre il fuoco più luminoso'. Guardo quando l'ha messo: ieri. Avevo messo una frase della stessa canzone, 'The light behind your eyes' dei My Chemical Romance, proprio l'altro ieri ossia un giorno precedente al suo. Avevo scritto: 'Sometimes we must grow stronger and you can't be stronger in the dark' che significa 'Delle volte dobbiamo crescere forti e non possiamo essere forti nell'oscurità'. E' una fatalità? E se non lo è, che significa?

 

 

ANGOLO DELL'AUTRICE

Ciao ragazzi, come state? Io bene, dai u.u Scusate il ritardo di un giorno, ma sono impegnatissima ultimamente e ieri sono stata via tutto il giorno da una mia amica. Terzo capitolo. Bene, bene...che ve ne pare? Ora le cose dovrebbero esservi molto più chiare e stiamo entrando sempre più nel vivo della storia, infatti questo è un mix di 'capitolo di transizione' ed uno che racconta i fatti veri e propri. Avete captato qualche segnale? Ho aperto una gran parentesi sul personaggio di Raquel e scommetto che ora vi sta il triplo sulle palle. Violetta era eccessivamente gelosa, cosa pensate del suo comportamento? A Leon andava a genio? Abbiamo anche assistito al riavvicinamento fra Vilu e suo padre, trovo che sia una scena molto tenera. E il bacio a Diego? Aiuto. Beh, è stato un capitolo pieno! Non aspetto altro che i vostri pareri e le vostre teorie u.u

Grazie per le recensioni alle quali, scusate se non ho risposto, risponderò domani! Grazie anche per aver messo la mia storia fra i preferite, le seguite e le ricordate!

Un bacione,

Gre

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4

 

 

 

Sistemai gli ultimi dettagli e sorrisi soddisfatta di fronte a ciò che avevo preparato. Okay, non era propriamente il massimo però era il pensiero che contava. Attaccai al muro con del nastro adesivo un cartellone che avevo fatto appositamente per l'occasione. ' 25. 01. 2014 - 25. 01. 2015. Un anno di noi, ti amo'. Tagliai già a fette la torta al cioccolato, la sua preferita, cucinata con molti sacrifici ed altrettanti tentativi. Non ero di certo una cuoca, infatti nelle ciotole avevo versato caramelle gommose, patatine e stuzzichini vari ed avevo ordinato delle pizze le quali erano arrivate poco prima. La caratteristica dominante non era il romanticismo, ma era da tutto il pomeriggio che ci lavoravo. Posai sopra al tavolino la lettera scritta per lui ed un pacchetto. Ecco, forse il regalo era la cosa più 'seria' perché avevo speso la maggior parte dei miei risparmi per poterlo comprare. Ogni mattina passavo davanti ad una gioielleria ed ero rimasta particolarmente colpita da quei tipi di gioielli che si completano fra loro, ma sono staccati ed una parte la devi donare alla persona amata. Finalmente, dopo aver messo da parte un bel po' di soldi, ero riuscita a prenderne uno. Al collo, infatti, stavo portando la parte del cuore con su scritto 'For' e nella confezione era racchiusa l'altra con 'Ever' sotto forma di ciondolo che poteva applicare dovunque volesse. La cosa che più mi aveva affascinata era la parola fatta coi diamanti, mi piaceva da matti e quindi doveva essere mio. O meglio, nostro. Ero agitata, sarebbe arrivato di lì a poco. Per fortuna Lucia mi aveva prestato le chiavi di casa così da poter preparare la sorpresa per suo figlio. Niente più musi lunghi, con questo mi avrebbe di sicuro perdonata. Mi sedetti sul divano impaziente, non vedevo l'ora che arrivasse così avrei avuto modo di risolvere il casino che avevo combinato. Odiavo litigare con lui, ma nell'ultimo periodo le liti erano sempre più frequenti. Colpa del mio nervosismo costante dovuto alla gelosia ed al suo carattere irascibile alla minima provocazione, ma il massimo di tempo che riuscivamo a stare l'uno senza l'altro era di poche ore. Erano passati due giorni dal nostro anniversario. La mia mancanza di fiducia era una cosa che lo faceva imbestialire, ma di lui mi fidavo! Era delle tipe che gli ronzavano attorno che non ci riuscivo, perché non mancavano di certo le gatte morte che lo trattavano come fosse Dio sceso in Terra. Però lui non dava loro molta corda, con Raquel era diverso: aveva preso a cuore quella ragazza per motivi a me ignoti e sembrava veramente divertirsi in sua compagnia. Non capivo cos'avessero in comune quei due, sinceramente. Ma poco m'importava, ero là per lui e per festeggiare il nostro amore. Non dovevo lasciarmi distrarre da fattori esterni: solo io e lui, il resto non doveva contare. Un rumore proveniente dall'esterno, presi un profondo respiro lasciandomi sfuggire un sorriso. “...le avevo chiesto solo se potessi andare i bagno, ma quella prof. crede di sicuro che vada a bucarmi o a fumare chiuso nei cessi. Oppure mi ha preso per il pusher della scuola, opzione che non escludo!”. Una risata femminile e cristallina. Sentii la chiave nella serratura girarsi e la porta si aprì scoprendo il mio ragazzo e lei. “Vilu, che ci fai qui?”. Si guardò attorno squadrando ogni angolo della stanza decorata con il cartellone, il cibo ed un festone sgualcito. L'espressione di Raquel si tinse d'imbarazzo ed io diventai paonazza. Che ci faceva qua lei? Perché l'aveva portata a casa sua? La rabbia m'investì e raccolsi rapidamente la mia borsa e mi diressi verso l'uscita a falcate, mi fermò per un braccio e mi dimenai. “Lasciami!”, urlai quasi in un lamento. Con uno strattone mi liberai e corsi rapidamente nel corridoio per poi prendere le scale, dai passi frenetici che sentivo dietro di me dedussi che mi stava inseguendo. Raggiunsi un pianerottolo e feci per continuare a scendere, ma mi raggiunse bloccandomi per i polsi. “Non è come sembra!”, disse col fiato corto. “Non è come sembra? Mi stai prendendo per il culo, Leon?”. Scosse il capo. “Dobbiamo lavorare in coppia ad un progetto per modellistica”. Scoppiai a ridere amaramente. “Perché ridi?”, chiese confuso. Il mio volto tornò serio e serrai la mascella. “Il progetto di modellistica, l'uscita con la compagnia, il cinema, le feste studentesche. Hai sempre qualcosa di meglio da fare, vero? E guarda caso, lei c'è sempre”. Allentò per un secondo la presa, ne approfittai per svincolarmi. “Goditelo da solo...”. Lanciai un'occhiata alle scale, dopodiché riposai lo sguardo su di lui. “...anche se non lo sei”. Lo schivai per andarmene, quando raggiunsi il piano terra sentii la sua voce gridarmi dall'alto di tornare indietro. Per un secondo mi fermai ad ascoltare i suoi implori esitante, poi posai la mano sulla maniglia e me ne andai.

 

 

Osservo la fiumana di studenti uscire dall'ingresso della scuola, finalmente liberi da una pesante mattinata. Io no, devo fermarmi per le prove per la 'Battaglia di band' questo pomeriggio. Sono veramente stanca ed ho paura di vederlo. Per i corridoi gireranno alcuni dei partecipanti e non è che siamo in molti, per cui ho più probabilità di incrociarlo. Se non lo vedo, soffro. Se lo vedo, sto peggio. Sono la contraddizione che cammina. Rabbrividisco nonostante sia ben coperta da uno spesso strato di indumenti invernali, mi sento una scema per quello che sto per fare perché mi sto comportando per l'ennesima volta da egoista. Voglio il bene di qualcuno, ma allo stesso tempo voglio il mio anche a costo di farlo star male. Mi faccio schifo. Ecco, lo vedo spuntare fra la folla e gli faccio segno. Aggrotta la fronte e mi viene incontro, oggi non mi ha parlato come previsto. “Che ci fai qui? Non hai le prove?”. Mi sfrego le mani contro le braccia battendo i denti. “Io...io volevo parlare con te”. Mi osserva perplesso, poi sospira. “Senti, se è per ieri...”. “No, Diego, non è per ieri”. “Allora cosa vuoi dirmi?”, chiede. Esito, sono una brutta persona. “Non riesco a fare a meno di te”. Il suo viso s'illumina. “Frena, non in quel senso. E' un momento difficile e chi, meglio di te, lo sa? Le persone che ho al mio fianco non sono molte, ma sono al contempo quelle più importanti a livello umano e fra queste ci sei tu. Mi fai sentire bene, sei una botta di positività ed ho bisogno di rimanere forte o altrimenti crollerò ancora”. Mi fissa in silenzio per secondi che mi paiono ore, deglutisco in attesa di una risposta. “Non permetterò che tu crolli a pezzi perché se mai accadrà, chi potrà rimetterti in sesto? Anche se volessi, non ci riuscirei”. “Perché dici questo?”, domando allibita dal suo strano responso. “Noi tutti stiamo cercando di non farti cadere e rompere in mille pezzi anche se è difficile”. Fa una breve pausa. “Lo sappiamo benissimo che c'è solo una persona che potrebbe aiutarti e che quella non sono io”. Lo stomaco si chiude, perché lo tira in ballo? Si è forse reso conto che non sono realmente depressa? “Ma...”. “Forse è meglio che manteniamo le distanze, che dici?”. Abbasso lo sguardo tristemente, vorrei solo sparire e volatilizzarmi in questo preciso istante. Mi sto comportando da incoerente ed a quanto pare pure lui vuole starmi lontano per evitare altre, inevitabili delusioni. Sono una delusione. La sua mano si posa sulla mia guancia ed alzo il capo incrociando i suoi occhi tristi quasi come i miei, il bagliore malinconico dietro alle sue iridi. Riesco a vedere il vero Diego. Appoggio la mia mano sopra la sua ed alzo un angolo della bocca, fatica a lasciarmi sola. Mi lascia un bacio sul cappello di lana e chiudo le palpebre, godendomi uno dei pochi gesti fisici d'affetto che ricevo. Si stacca e si morde il labbro inferiore pensieroso. “A che ora ti passo a prendere domani?”. Butto fuori tutta l'aria in eccesso sollevata e toglie il palmo dalla mia gote. “La visita è a meno un quarto le quattro del pomeriggio”, rispondo flebilmente. “Quindi dobbiamo partire mezz'oretta prima come minimo, sarò puntuale”. Gli sorrido riconoscente, non capisco come abbia potuto essere in grado di perdonarmi. Come riesca a lasciar passare ogni mio sbaglio. “Adesso è meglio che torni dentro, qua fuori ti gelerai e basta”. Annuisco e lo avvolgo fra le mie braccia, mi stringe forte e quasi mi manca il respiro. Però è tutto ciò che mi serve, un po' di forza altrui perché contando solo sulla mia sarebbe impossibile andare avanti. “Grazie”, sussurro. Quando sciolgo l'abbraccio, ricambia finalmente il sorriso e mi dice: “Ora devo andare. A domani, Vilu”. “A domani”. Ci diamo un bacio sulla guancia a vicenda e lo osservo dirigersi verso la sua auto grigia, poi il mio sguardo cade sull'ingresso. La sua figura immobile a braccia conserte, i suoi occhi s'incastonano coi miei. Si volta all'indietro ed entra sbattendo la porta. Cosa gli prende?

 

 

La brezza calda s'infrangeva forte contro il mio esile corpo mentre correvo, seppur con qualche limite, sulla sabbia. La distesa marittima brillava sotto la luna piena sempre più alta. Che stavo facendo? Una pazzia. Ma infondo che avevo da perdere? Nulla. Mi arrestai e mi girai all'indietro, la festa era sempre più distante fino a ridursi ad un ammasso di luci dal quale proveniva la musica ammortizzata. Poi proseguii ed eccola là: una figura nera ed accovacciata appena sopra una dunetta, proprio quella dunetta. Dove ci eravamo baciati e promessi di stare l'uno accanto all'altro al tramonto, esattamente il giorno in cui ci siamo detti che ci amavamo. Il rumore delle onde nascondeva quello dei miei passi, più mi avvicinavo e più nitida diveniva l'immagine. Era seduto con le ginocchia al petto mentre fissava il mare di fronte a sé con lo sguardo verso l'orizzonte, chissà a cosa stava pensando. Lo raggiunsi mantenendomi sempre a debita lontananza, mi fermai ad osservarlo per alcuni secondi indecisa dopodiché mi sedetti accanto. “Sapevo saresti stata l'unica che avrebbe potuto trovarmi”. Mi voltai per guardarlo, gli occhi intenti a scrutare altrove. “Questo perché sapevo saresti venuto qui”. Abbassò il capo, perché si stava comportando in modo così strano? Fino a poco fa era tutta un'altra persona. “Senti: è da un po' che voglio dirti una cosa, ma forse è troppo tardi o sono troppo cretino ad illudermi di potertela dire”. “Dimmi”, risposi decisa. Congiunse le mani e, finalmente, mi guardò in volto. Le labbra tese, gli occhi lucidi. Deglutii ansiosa, una parte di me voleva il responso, l'altra lo temeva. “Mi manchi”. Mi si mozzò il respiro. “E no, non come Natale. Mi manca tutto di te: il tuo sorriso, la tua risata, le tue brutte figure, i tuoi baci. Non riesco a smettere di pensarti neanche un secondo”. Volevo rispondere seppur senza parole, ma non feci in tempo. La sua bocca premette contro la mia facendomi leggermente indietreggiare, allacciai le braccia attorno al suo collo e mi stendetti sulla sabbia. Lui sopra, intento a baciarmi con una tenacia che solo poche volte aveva usato. Anche a me mancava, troppo. E quello che stava accadendo mi stava mandando in estasi, ogni volta che lo vedevo morivo dalla voglia di baciarlo, toccarlo, sentirlo ancora mio. Posai le mani sulle sue larghe spalle facendole scivolare lungo le clavicole arrivando al petto e, presa dalla foga, iniziai a sbottonargli la camicia. Si staccò e si specchiò nelle mie iridi nocciola e dopo molto tempo sentii quella connessione che mi faceva rabbrividire. “Sicura di volerlo fare?”, domandò ridendo. La sua risata: non c'era nulla di più bello al mondo. Annuii e ripresi a baciarlo con passione, l'adrenalina mi scorreva lungo le vene facendole quasi bruciare. Mai mi ero sentita così viva. Insinuai le dita nei suoi capelli ormai spettinati, ma a lui non sembrava importare. Avvolse le sue braccia attorno al mio busto e si alzò in piedi tenendomi stretta a lui senza dividere le sue labbra dalle mie, con un balzetto attorcigliai quindi le gambe attorno alla sua vita. Mi sembrava di essere tornata bambina, ero avvolta a lui come facevo con papà. Tolse la sua bocca, senza fiato, e disse: “Saresti disposta a fare una follia?”. Posai la mia fronte sulla sua e sorrisi come non facevo da mesi. “Con te? Sempre”. “Mi spiace chiederti di scendere, bimba”. Mi lasciò un leggero bacio sulla punta del naso e tornai coi piedi per terra, mi strinse la mano ed arrossii. Quanto mi era mancato quel soprannome. “Seguimi”. Si mise a correre e lo seguii, pur faticando a stargli dietro. Scoppiammo a ridere mentre correvamo nella spiaggia, sembravamo una coppia di quei film fiabeschi. Improvvisamente si arrestò facendomi fermare, eravamo di fronte a delle cabine lignee. “Che hai intenzione di fare?”, chiesi confusa. “Aspetta e vedrai”. Mi lasciò ed andò verso di una e cominciò a prenderla a spallate. “Sei pazzo?”. Diede l'ultima, la più forte, e la porta si aprì. “Dovresti saperlo”. Mi afferrò per un braccio e mi attirò a sé, il cuore rischiava di perforarmi il petto da quanto forte batteva. Indietreggiò ed io avanzai guidata da lui, sarei stata disposta a fare tutto ciò che voleva. Entrammo dentro la cabina e chiuse la porta, il buio era diventato sovrano. Rapidamente si staccò lasciandomi disorientata, che gioco stava giocando? Girai su me stessa cercandolo, quando sentii le sue mani posarsi sui miei fianchi facendomi fare dei passi all'indietro. La schiena contro la parete, ero intrappolata dal suo corpo. Strinse i lembi della mia canottiera e me la tolse con un rapido gesto, rabbrividii. Il suo respiro caldo contro il mio viso, le sue labbra s'impossessarono ancora delle mie prepotentemente. Posai le mani sul suo petto e continuai a sbottonargli la camicia lentamente, non era di certo facile non vedendo. Scese dalla bocca al collo gradualmente, lasciandomi baci ovunque. Gemetti e rimossi il suo indumento del tutto lasciandolo a torso nudo. Spostò le mani dietro la mia schiena e slacciò il gancetto del reggiseno, abbassò le spalline delicatamente e lo rimosse. “E' brutto il fatto che non riesca a vederti”, sussurrai. Avvicinò le sue labbra al mio orecchio. “Non serve che ti veda per sapere che sei perfetta”. I suoi palmi mi accarezzarono dolcemente le spalle, il seno, il ventre. Feci scendere i miei ed agguantai il bordo dei suoi bermuda abbassandoglieli, tutto ad un tratto mi prese il viso. “Ti amo, non ti biasimo se ora come ora non provi lo stesso perché sono una brutta persona”. Scossi il capo. “No, non lo sei. Sono io quella che ha commesso più sbagli fra me e te, non ho mai smesso di amarti”. Mi lasciò un bacio a fior di labbra e sorrisi anche se non poteva vederlo, ma ero sicura che lo sapesse. Passò ai miei shorts che fecero la stessa fine dei suoi pantaloni, sentii il suo membro premere contro la mia coscia. “Sai? Mi è più facile dirti le cose al buio, i tuoi occhi mi hanno bloccato un milione di volte”. Diedi una carezza sulla sua guancia e dissi: “Per me vale la stessa cosa”. “Non immagino la mia vita senza di te”. “Io nemmeno”. Senza neanche il tempo di rendermene conto mi sfilò gli slip. “Hey, ma così non vale!”, urlai ridendo. “Potevi essere più veloce, cara”. Rapidamente levai anche i suoi boxer, quasi per orgoglio, ridacchiando, nel buio non era stato facile. Mi baciò ancora una volta, un bacio più tenero del precedente. Fino a qualche ora prima non avrei creduto fosse possibile ed invece ero qui: io, lui e del resto non m'interessava. Con un balzo allacciai le gambe attorno alla sua vita e le braccia al suo collo, mi schiacciò ancor di più contro il legno. Ero pronta ad amarlo dopo troppo tempo separata da lui, dal suo corpo, dal suo profumo. Improvvisamente lo sentii entrare in me e rimasi senza fiato, avevo dimenticato cosa si provasse ormai. Feci scivolare le mani sulla sua schiena, un'altra spinta e vi conficcai le unghie. I movimenti divennero sempre più rapidi ed iniziai a tremare, come sempre del resto quand'ero in preda all'eccitazione. Il respiro era affannoso e mi uscivano dei gemiti, anche lui faceva dei versi gutturali. Mi lasciava baci ovunque ed io inarcavo il capo all'indietro per permetterglielo, andammo avanti per chissà quanto tempo. Forse minuti, ore. Perdevo sempre il senso del tempo assieme a lui e mi sentivo finalmente colma di vita. Ad un certo punto, dopo essersi insinuato in modo sempre più debole, si fermò e si accasciò al mio corpo quasi accoccolandovisi. Aveva il fiatone e sentivo il suo cuore battere all'impazzata come il mio, la sua testa poggiata nel mio incavo. I ruoli si erano invertiti. Uscì da dentro me e tornai a posare i piedi a terra, ma rimanemmo comunque abbracciati in silenzio. “Non capisco come tu faccia ad amarmi ancora nonostante tutto”. Sorrisi fra me e me e lo strinsi ancora di più. “Perché potrebbe capitarmi davanti chiunque, ma io sceglierei sempre te”.

 

 

Le prove mie e di Maxi sono finite da circa un'oretta e mezza, eravamo i quarti e penultimi ad usufruire della stanza. La sua band era l'ultima. La scuola ha dato a disposizione questa sala un'ora a testa, che poi sarebbe l'aula magna, a massimo cinque concorrenti in gara che non avessero già un luogo in cui provare. Per fortuna siamo stati scelti perché né io né Maxi abbiamo un garage o qualsiasi altro posto da sfruttare. Papà esce adesso da lavoro, per cui passerà a prendermi fra circa venti minuti. Non vedo l'ora di andarmene di qui, la scuola è vuota. Le esercitazioni sono terminate per tutti ed ognuno è tornato a casa propria, tranne me ovviamente. Sprizzo gioia da tutti i pori. E per fortuna che la bidella ha visto che ci sono ancora, sennò mi avrebbe chiusa dentro. Seduta nella panchina, sto ripassando alcune materie di studio per il giorno dopo. Annoiata, chiudo il libro di filosofia e sbuffo. Potrei lavorare un po' alla canzone dal momento che ha fatto praticamente tutto il mio amico, devo mettere del mio oltre alla voce. Rovisto all'interno dello zaino in cerca del quadernetto che uso per scrivere e comporre, ormai inutilizzato da mesi se non fosse per questa 'Battaglia di band'. Cerco scrupolosamente, ma non sembra essere da nessuna parte. Mi sbatto una mano sulla fronte, l'aula magna! L'ho dimenticato nelle sedie infondo, ricordo di averlo poggiato 'per un attimo' e che dopo parlando con Maxi me ne sono totalmente scordata. Rimetto il libro nello zaino, lo chiudo e me lo metto in spalla. Ultimamente ho la testa fra le nuvole, ho poca memoria per le piccole cose. Finisco il corridoio, svolto a destra e proseguo fino ad arrivare in atrio. Lo attraverso fino a raggiungere la porta spalancata della stanza prove e vi entro silenziosamente. E' strano vedere la scuola così quieta. Individuo subito il quaderno e raggiungo la sedia dove è posato per poi afferrarlo quasi trionfante. Un rumore di corda pizzicata. Mi volto di scatto di fronte a me: lui è ancora qui. Spalanco gli occhi in preda all'ansia, non si è accorto della mia presenza perché è posizionato di profilo rispetto a me. Lo stomaco mi si attorciglia anche se tento di mettere a freno questa maledetta sensazione. Perché mi fa quest'effetto? Inizia a fare alcuni accordi con la chitarra, non voglio andarmene. Masochismo puro. Mi tolgo lo zaino, lo poso delicatamente a terra e mi siedo abbassandomi più che posso in modo che non mi veda. Ricomincia a suonare perché sbaglia, la frustrazione nel suo viso. La melodia è familiare. Improvvisamente suona un cellulare, sobbalzo e per fortuna non è il mio. Sbuffa, lo afferra e guarda lo schermo. Rimane alcuni secondi fermo a fissarlo senza rispondere, dopodiché riattacca e lo lancia sopra al ripiano dov'era poggiato. “Perché non mi lasciano stare?”. Si lamenta con tono aspro e scocciato. Riprende a suonare e, finalmente, la prima parte gli viene. Io questa canzone la conosco. Rimango incantata nel vederlo incurvato ed intento a suonare con passione, sarà una valvola di sfogo? Sembra nervoso. Il suo ciuffo castano, la sua barbetta incolta che da un anno a questa parte è caratteristica nel suo volto, le palpebre chiuse immaginando mondi a me sconosciuti.

I dreamed I was missing (Ho sognato che mi stavo perdendo)
You were so scared (Tu eri così spaventata)
But no one would listen (Ma nessuno riusciva a sentire)
Cause no one else cared (Perché non importava a nessun altro)
Ecco dove l'avevo sentita! E' 'Leave out all the rest' dei Linkin Park.
After my dreaming (Dopo il mio sogno)
I woke with this fear (Mi sono svegliato con questa paura:)
What am I leaving (Cosa sto lasciando)
when I'm done here? (quando avrò finito qui?)
Sento la pelle d'oca e mi sfrego le mani contro le braccia anche se sono conscia che qui dentro non fa freddo. Il magone s'insinua nella parte bassa della gola torturandomi. Che ci faccio ancora qui?
So if you're asking me (Quindi se me lo stai chiedendo)
I want you to know... (Voglio che tu sappia...)

When my time comes (Quando arriverà il mio tempo)
Forget the wrong that I've done (Dimentica tutti gli sbagli che ho fatto)
Help me leave behind some (Aiutami a lasciare dietro alcune)
Reasons to be missed (Ragioni che potrebbero mancarmi)
And don't resent me (E non avercela con me)
And when you're feeling empty (E quando ti sentirai vuota)
Keep me in your memory (Mantienimi fra i tuoi ricordi)
Leave out all the rest (Lascia fuori tutto il resto)
Leave out all the rest (Lascia fuori tutto il resto)
Gli occhi mi si velano di lacrime, il respiro affannoso. Perché sta cantando tutto questo? Mi fa stare tremendamente male.
Don't be afraid (Non avere paura)
I've taking my beating (Ho preso i miei battiti)
I've shared what I' made (Ho condiviso quello che ho fatto)

I'm strong on the surface (Sono forte in superficie)
Not all the way through (Non lo sono dentro di me)
I've never been perfect (Non so mai stato perfetto)
But neither have you (Ma nemmeno tu)
Stringo forte il quaderno. Non ho un appiglio, sono impotente. Ha ancora le palpebre serrate, non ha visto che sono qui. Che lo sto ascoltando.
So if you're asking me (Quindi se me lo stai chiedendo)
I want you to know... (Voglio che tu sappia...)

When my time comes (Quando arriverà il mio tempo)
Forget the wrong that ive done (Dimentica tutti gli sbagli che ho fatto)
Help me leave behind some (Aiutami a lasciare indietro alcune)
Reasons to be missed (Ragioni che potrebbero mancarmi)
And don't resent me (E non avercela con me)
And when you're feeling empty (E quando ti sentirai vuota)
Keep me in your memory (Mantienimi fra i tuoi ricordi)
Leave out all the rest (Lascia fuori tutto il resto)
Leave out all the rest (Lascia fuori tutto il resto)
Chissà a cosa sta pensando, a chi sta pensando. Una piccola parte di me spera che sia io quella a cui si sta riferendo, ma forse sta solamente cantando questa canzone perché gli va.
Forgetting (Dimenticando)
All the hurt inside (Tutto il dolore dentro)
You've learned to hide so well (Che hai imparato a nascondere così bene)
Pretending (Fingendo)
Someone else can come and save me from myself (Che qualcun altro possa venire e salvarmi da me stesso)
I can't be who you are (Non posso essere ciò che sei tu)
Eppure un po' sembra...
When my time comes (Quando arriverà il mio tempo)
Forget the wrong that I've done (Dimentica tutti gli sbagli che ho fatto)
Help me leave behind some (Aiutami a lasciare dietro alcune)
Reasons to be missed (Ragioni che potrebbero mancarmi)
And don't resent me (E non avercela con me)
And when you're feeling empty (E quando ti sentirai vuota)
Keep me in your memory (Mantienimi fra i tuoi ricordi)
Leave out all the rest (Lascia fuori tutto il resto)
Leave out all the rest (Lascia fuori tutto il resto)

Forgetting (Dimenticando)
All the hurt inside (Tutto il dolore dentro)
You've learned to hide so well (Che hai imparato a nascondere così bene)
Pretending (Fingendo)
Someone else can come and save me from myself (Che qualcun altro possa venire e salvarmi da me stesso)
I can't be who you are (Non posso essere ciò che sei tu)

I can't be who you are (Non posso essere ciò che sei tu)

Le sue ultime note riecheggiano nella stanza vuota fatta eccezione per la mia presenza. Ho gli occhi gonfi e la bocca dello stomaco chiusa, devo andarmene di qui. Mi alzo di fretta, faccio per raccogliere lo zaino, ma cade rovinosamente a terra assieme al quaderno facendo un fracasso. Mi volto verso di lui, guarda in mia direzione confuso. Mi ha scoperta. Raccolgo il tutto più velocemente che posso e mi precipito, seppur con non poche difficoltà dovute al pancione, fuori dall'aula magna. Perché l'ho fatto?

 

 

Sono così stanca stasera, a cena non ho praticamente fiatato. A parte il fatto che raramente parlo con loro durante i pasti, ma hanno capito che questa volta era perché ero stanca e non per il mio essere indisponente. E poi c'è la storia delle prove e di lui a rendermi pensierosa, per non parlare poi del ricordo che mi ha torturata mentre ero seduta nelle panchine e tentavo di ripassare. Devastante. Se possibile i ricordi belli sono peggiori di quelli brutti, ti sbattono in faccia com'eri felice un tempo facendoti sentire uno schifo. Esco da un blog di aforismi depressi che proprio non aiutano ed annoiata entro su Facebook. Da quando ho visto la foto della gita non ho più osato entrarci, ma ora lo faccio di nuova presa, forse, da un'altra botta di masochismo. Da quel giorno ho: una richiesta di amicizia, zero messaggi e cinque notifiche. Molto bene, almeno non sono molte. Apro le notifiche: tutti inviti a giochi inutili che mi fanno salire il crimine ogni volta che li vedo. Non voglio giocare a Farmville, basta! Dopodiché sposto il cursore sulle richieste e clicco. Un brivido mi attraversa il corpo e strizzo gli occhi per realizzare se è tutto vero. 'Leon Vargas vuole stringere amicizia con te'. Osservo attonita lo schermo, è incredibile come una cosa così futile possa mandarti in tilt completamente. Che faccio? Accetto o rifiuto? Potrei rifiutare per ripicca, infondo se sono stata di merda in questi mesi è in gran parte causa sua per quanto mi ostini ad affermare il contrario con gli altri. Se accetto, invece, potrei vedere cosa condivide il che avrebbe dei pro e dei contro: pro, potrei sapere cosa combina senza chiederlo agli altri e sembrare ancora in fissa con lui; contro, sarei costretta a vedere la faccia di Raquel. Infondo, però, la sua faccia la vedo sempre anche a scuola per cui non trovo la differenza se ci sto male comunque. Accetto. 'Amici. Scrivi nel diario di Leon!'. Senti Facebook, vai a cagare! Però, ora che ci penso, sono tentata di guardarlo. Clicco sul suo nome e mi si apre il suo profilo: immagine di copertina lui in moto, del profilo...lui e Raquel. Partiamo già bene. Scorro giù, l'ultima cosa che ha pubblicato risale a due ore fa. E' una canzone, per la precisione 'Hurricane' dei Thirty Seconds to Mars. La mia canzone preferita. Come didascalia ha messo 'The love we had, the love we had, we hade to let it go' ossia 'L'amore che avevamo, l'amore che avevamo, abbiamo dovuto lasciarlo andare'. Ci sono dei commenti e, sono proprio una curiosona del cavolo, decido di leggerli. E' Andrès: “Amico, che succede?”. “Niente, è solo una canzone che mi piace”. “Mmh”. “Lascia stare...”. “E' ancora per tu sai chi?”. “Ti scrivo in chat”. Aggrotto la fronte, 'tu sai chi'. 'Ti scrivo in chat'. Ho sempre detestato quando la gente stronca il tutto, insomma fate vedere anche a me. Che strano, però. Vado in giù,c'è la sua nuova immagine di copertina con lui in moto e manco a dirlo supera il centinaio di likes. Ora la sua immagine del profilo con Raquel, sono nella sua auto: lui sorridente con la mano sul volante e gli inseparabili Ray Ban a goccia, lei con la bocca a papera ed il braccio attorno alle sue spalle. Sento l'istinto di prenderla per i capelli e sbatterle il volto sul cruscotto. In quella macchina ci sono salita io per prima, l'ho scelta assieme a lui e abbiamo avuto mille avventure là dentro. Espiro dell'aria per non prendere a pugni lo schermo. Leggo i commenti e trattengo i conati di vomito, tutti che dicono cose come “Bellissimi”, “Cuccioli” o “La coppia perfetta”. Lei ringrazia tutti dispensando cuori a manetta, lui si limita a mettere 'mi piace'. Continuo credendo di trovare cose meno irritanti ed ecco che trovo un post di lei: “Ti amo scemo” con un cuore. Serro le palpebre, poi le riapro per guardare la sua risposta: “Ahahah” con una faccina che manda un bacio. Sarà da stronzi, ma trattengo una risata pure io. Un'altra foto di lei, inizia a stancarmi. “Un motivo in più per andare in palestra” e la foto di lui seduto su un materassino con lei avvinghiata da dietro. Non resisto a non vedere cosa le commenta: “Ahahah” con un cuore. Okay, ho capito che ad ogni cosa risponde con una risata. Scendo ancora di più, lui non pubblica molto. Principalmente viene taggato in eventi o in foto delle studentesche oppure dai suoi amici. Senza rendermene conto sono arrivata ai post di gennaio, un mese fa, e in questo periodo ha scritto diversi stati. “Non ce la faccio più”. Non stava più con Raquel, sarà per quello. Un altro ancora: “L'amore è una merda”. Scorro in basso: “A certe persone quando le vedo vorrei solo spaccargli il muso”. Mmh, l'indole irascibile rimane sempre. “Se non piango non significa che non ci stia male”. Scriveva cose decisamente molto ambigue, ovviamente collego il tutto alla sua attuale ragazza. “Basta! Domani mi rovino il fegato, tanto peggio di così”. Certo che si lamentano del mio pessimismo, ma lui non è che sia tanto meglio. “Vorrei solo smettere di pensare”. Ma ci stava veramente così per la rottu...improvvisamente rimango bloccata. La bocca semiaperta e gli occhi sgranati di fronte ad una frase che mi s'imprime in modo indelebile nella mente: “Perché potrebbe capitarmi davanti chiunque, ma io sceglierei sempre te”.

 

 

ANGOLO DELL'AUTRICE

Hola chiquitos! Mi scuso per l'imperdonabile ritardo, ma chi mi segue al di fuori della storia sa che ho avuto problemi col salvataggio ed ho perso una gran parte del capitolo in settimana. E dopo bestemmie ed imprecazioni varie eccomi qua. Beh, adesso non potete darmi della cattiva eh? Perché vi ho dato materiale su cui sclerare. Ah, stavo dimenticando! Se volete essere partecipi al dolore eccovi le due canzoni 'importanti' per il capitolo: https://www.youtube.com/watch?v=MoHm3CIoClE&hd=1 ('Leave out all the rest' dei Linkin Park, questa però è una cover acustica che si adattava perfettamente) e https://www.youtube.com/watch?v=mdJDPepGOAM&hd=1 ('Hurricane' dei Mars, mia canzone preferita forevva). Ora passiamo al capitolo: pareri? Cosa ne pensate ora di Leon? L'episodio è cominciato male e dopo è stato tutto un crescendo. Uhm...la scena hot *coff coff* è descritta bene? Ho sempre paura di fare questo tipo di descrizioni perché temo che vengano fuori uno schifo. Insomma, sappiatemi dire! u.u Credete che lui ami veramente Raquel? Scusate, ma morivo dal ridere nello scrivere i suoi commenti! “Ahahah” ad un 'Ti amo' la trovo una cosa epica :') E comunque è 'tratto' da una storia vera (della sottoscritta), 'Sei bellissima' risposta: 'Ahahah'. A proposito, consiglio: non fatelo mai LOL Ho risposto alla maggior parte delle recensioni *si massaggia le mani* dopocena risponderò a tutte le altre (ho lasciato indietro quelle più lunghe perché voglio rispondervi per bene e accuratamente u.u). Bene, ringrazio chi commenta la storia, chi la mette fra i preferiti e le seguite!

Un bacione enorme e stay tuned (novità, molte novità in arrivo),

Gre :3

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5

 

 

 

Tutt'intorno era un via vai di studenti, era l'ultimo giorno prima delle vacanze di Natale e la scuola era in festa. I più festaioli si erano riuniti in aula magna la quale era stata allestita a mo' di discoteca, i più responsabili a fare la security in varie parti dell'edificio, i metallari in aula 27 ad ascoltare una band deathcore, gli appassionati di rap in aula 3 ad assistere all'esibizione di un rapper. Poi, infine, c'erano quelli annoiati dal tutto che girovagavano per i corridoi senza un preciso scopo. Io ero fra questi, solo che uno scopo ce l'avevo. Lo stavo rincorrendo. Mi facevo spazio fra la gente sgomitando, spingendo, ma lui camminava a passo spedito. Finalmente arrivammo in una zona meno trafficata, accelerai l'andatura anche se era un po' critico il discorso. “Leon!”. S'irrigidì sul posto, lo raggiunsi. “Cosa vuoi ancora?”, rispose freddamente. Un nodo alla gola. “Mi spiace, non credevo che...”. “Non credevi cosa, Violetta? Se non fossi andata a spifferare tutto in giro non sarei in questa situazione di merda!”. Si voltò di scatto e lo vidi in volto: era rosso dalla rabbia, la vena pulsante nel collo. “Io non ho spifferato proprio un bel niente! Le voci girano più velocemente di quanto credi, sai?”. Incrociò le braccia al petto. “E chi le ha divulgate? Spiegami perché gente con cui non ho mai parlato in vita mia viene a chiedermi come mai ti ho abbandonata incinta oppure perché sto con Raquel se sono andato a letto con te!”. Presa da chissà quale istinto, gli gridai contro: “Se ti fossi preso la responsabilità fin da subito non sarei in questa situazione di merda!”. Utilizzai le sue stesse parole volutamente, anche se nonostante tutto mi costava rivolgermi male a lui. In questo modo non avrei ottenuto proprio nulla. “Sta compromettendo la mia vita!”. Notai che ogni tanto mentre parlava guardava aldilà di me, ma non capivo perché lo facesse. “Anche la mia se è per questo!”. “Non mi hai chiesto un parere!”. “Questo perché immaginavo già la tua risposta e speravo che tornassi!”. Mi resi conto di ciò che avevo appena detto e rimasi col fiato mozzato. Lui, dal suo canto, era immobile, confuso, ma ogni tanto continuava a fissare un punto a me sconosciuto. “Non riesco a credere che ogni cosa di ciò che mi hai detto quella sera fosse falso”. Deglutì, spostò lo sguardo da me al corridoio e viceversa. Cosa gli stava prendendo? “Per me sei un capitolo chiuso, Violetta. Non puoi costringermi a prendermi la responsabilità di una cosa che non ho mai voluto e soprattutto...”. Fece una pausa, altra occhiata altrove. “...ad amarti”. Una pugnalata al petto avrebbe fatto meno male di questo. Aveva appena detto che non potevo forzarlo ad amarmi, ciò significava che non provava lo stesso per me. Non ero lontana dall'immaginarlo, ma sentirselo dire era come ricevere una bastonata in pieno viso. “Leon ascoltami: non ho detto che devi amare me, devi amare lui!”. Indicai tremante il mio ventre. No Vilu, non piangere. Non in quel momento, non davanti a lui. “Non sarei di troppo?”. Assunse un'espressione sarcastica e ridacchiò. “Ma cosa stai dicendo? Lui ha bisogno di te”. “Ce la può fare benissimo senza di me, un padre ce l'ha già!”. Mi urlò contro con una rabbia tale che quasi mi fece paura. “Hai ragione, lui non ha bisogno di te. Diego mi è stato vicino in tutti questi mesi e di certo lo ama più di te che non ci sei mai stato. Amare per te è un optional, giusto? E' sempre stato così, non capirai mai”. Decisi di andarmene e mi voltai, non volevo più sentire un'altra parola uscire dalla sua bocca. Erano passati quasi due anni dal nostro ultimo addio, quattro mesi da quella maledetta sera. Ma se non me ne doveva importare più nulla, perché faceva così male? Mi allontanai a falcate con il capo chino, quando lo alzai incrociai due occhi ghiaccio fissi su di me. Non ce la facevo più, distolsi lo sguardo e m'infiltrai fra la gente per non vedere più nulla. Ma lei gli stava andando incontro.

 

 

Sistemo alcune cose all'interno dell'armadietto, vi ho riposto il giubbotto ed ora stavo mettendo a posto il casino che c'è dentro. Tutta colpa di Lud che è disordinata come poche. Ogni singolo giorno in cui mi trovo qua, mi ritorna in mente quell'episodio. Avevamo discusso proprio qui. Ormai non posso mettere piede da nessuna parte, ovunque ho ricordi di lui. In camera mi ricordo di quando dormivamo assieme, in atrio dei baci che mi lasciava ogni mattino da quando avevamo cambiato classe, della risate nell'aula di pittoriche, di quando mi offriva la merenda al bar. Come faccio a non pensarci se la sua mancanza si fa sentire dappertutto? I ricordi brutti, ma soprattutto quelli belli. Scuoto il capo come se servisse a rimuovere i pensieri e chiudo l'anta col lucchetto. Mi volto e vedo Ludmilla venire verso di me, cammina silenziosamente e nemmeno mi guarda in faccia. “Ciao Lud! Tutto bene?”, chiedo fingendo entusiasmo sperando di coinvolgerla. “Sì, sì”. Arriva di fronte all'armadietto e rovista in tasca in cerca delle chiavi, aggrotto la fronte nell'osservarla indaffarata. Perché si comporta così? “Eppure credevo fossero qui...”, bisbiglia fra sé e sé. Si toglie lo zaino, si accuccia a terra ed apre la cerniera, poi comincia a frugare. “Hai studiato fisica per oggi?”. “Abbastanza”. Non mi degna nemmeno di una minima considerazione. Mi tratta in questo modo da settimane ormai e la cosa comincia a stancarmi, quindi esausta sbotto: “Senti, sono stufa! Risolvo con delle persone ed ora sei tu quella a trattarmi di merda. E' da un po' che ti vedo strana, dimmi che cos'hai!”. Si blocca, dopodiché finalmente posa lo sguardo su di me. “Non capiresti”. Incrocio le braccia appena sopra il pancione. “Se non ci provi, non lo saprai mai”. Ultimamente ha sempre l'espressione triste, stremata. Vorrei sapere cosa le passa per cercare di aiutarla in qualche modo o, almeno, starle accanto. La mia mente vola subito a Marisol, sua sorella, e spero con tutto il cuore che il peggio non stia tornando a seguire la mia amica come un'ombra. Le porgo una mano, la fissa esitante per alcuni secondi per poi afferrarla e tirarsi su. “Allora mi dici cosa ti sta succedendo?”. Cerco di usare il tono più dolce possibile, mi pento della rabbia con cui le ho urlato quelle cose. Soprattutto se di mezzo c'è la piccola Sol che ora tanto piccola non lo è più. “E' complicato, non l'ho detto a nessuno in questi mesi e probabilmente tu sei la meno indicata”. Che ha detto? Perché mai non dovrei essere adatta? Sono alquanto confusa. “Non prenderla male, è solo che...non lo so, ciò che mi sta accadendo non l'avevo mai provato e mi fa star bene e male allo stesso momento”. Subito rimango scombussolata dalle sue parole, ma dopo un po' di riflessione tutto mi pare chiaro. “Non è che per caso ti sei innamorata?”, domando con mezzo sorrisetto. Sgrana gli occhi, colpita e affondata. “Dai, chi è?”. Nega col capo. “Chi te lo dice che...”. “L'ho capito e basta”. Sospira sconfitta, è la prima volta che prova qualcosa che non sia solo attrazione fisica per un ragazzo. Chiunque lui sia. “Ma non posso dirtelo...”. “Perché? Sei mia amica, puoi dirmi tutto”. Si passa una mano fra i capelli biondi nervosa, perché non posso saperlo? “Dimmi qualcosa di lui almeno”. “No! Se te lo dicessi, capiresti”. “Quindi questo significa che lo conosco”. E' allarmata ed inizia a guardarsi attorno freneticamente. “Mica glielo andrei a dire, Lud”. “Non è questo il punto...”. Ammetto che la cosa inizia un pochino ad innervosirmi, detesto quando le persone fanno le misteriose e la menano per le lunghe. “E allora qual'è?”, esclamo scocciata. Si mordicchia il labbro inferiore visibilmente preoccupata, non comprendo il motivo di...oh. Fa che non intenda lui, non voglio rivivere eventi spiacevoli di nuovo. Una contesa per un ragazzo è l'ultima cosa che vorrei aggiungere alla lista dei problemi. Fa che... “Sai? E' tremendamente difficile la situazione in cui mi trovo. Soffrire come un cane per uno che non corrisponde, è la prima volta che chi mi piace non s'interessa a me...”. Ti prego, dimmi che è Maxi oppure Broadway o anche il bidello se necessario. “...e so per certo che il suo cuore batte per un'altra e mi sento una cretina a continuare ad andargli dietro dopo tutti questi anni”. Cristo, no. “E' solo che...essendoti amica, lo vivo come un amore proibito”. No, no, no. Non può piacerci lui contemporaneamente, non ancora. “E sentirsi la ruota di scorta è spiacevole, stargli sempre accanto nel bene e nel male ed essere conscia che lui mi usi come valvola di sfogo mi fa soffrire, tanto”. Corrugo leggermente la fronte, valvola di sfogo? Da quando? “E lo so che è innamorato di te, ho cercato di farmene una ragione anche se mi è impossibile. Ogni volta che lo respingi corre da me affranto, piange sulla mia spalla ed io devo consolarlo con la certezza che non sarà mai mio”. Tiro un sospiro di sollievo e, involontariamente, sorrido sollevata. “Ah, ma quindi intendi Diego?”. “Trovi la cosa divertente? Perché sorridi?”, risponde stizzita. Mi rendo conto della figura da cretina che mi sono appena fatta, per cui torno seria e scuoto la testa. “Ma no! Avevo solo capito male, lascia stare”. Faccio un gesto con la mano come per liquidare il discorso, adesso quella perplessa è lei. Le ci vuole poco per far chiarezza e spalanca la bocca. “Ma non avrai mica pensato...come fai anche solo a credere che mi piaccia Leon?”. Alzo le mani sulla difensiva. “Scusa, ma da come avevi introdotto l'argomento sembrava e poi è già successa una cosa simile in passato”. Rotea gli occhi. “Ti devo rispiegare per la miliardesima volta tutto? Non era amore, paragonato a quello che sento per Diego è niente”. Annuisco sentendomi una stupida, non dovevo dubitare della sua lealtà. “Scusa, ho sbagliato...”. “Tranquilla, è normale che colleghi tutto a lui”. Fa le spallucce. “Ora ti capisco e comprendo anche il tuo dolore nel vederlo con un'altra”. Abbassa lo sguardo, non ho ragione di avere dei sensi di colpa però mi vengono. Probabilmente perché ripenso al bacio dell'altro giorno, dato per puro egoismo. Ero già a conoscenza dei miei sentimenti per lui, non era necessario. Non lo amo. “Credimi se ti dico che per me Diego è importante, ma non sotto quel punto di vista. E' un mio caro amico, ma nulla di più. Sono disposta anche a rifiutare il suo passaggio per la visita di oggi se ti fa stare meglio”. Torna a guardarmi e finalmente mi sorride dopo un periodo in cui si comportava come se le desse fastidio la mia presenza. “Grazie, sei una vera amica. Apprezzo il gesto, ma voglio che tu ci vada. Non è bello tirare un bidone all'ultimo”. Poso una mano sulla sua spalla. “Sicura?”. “Certo”. Mi abbraccia e la stringo forte a me, ritagliandomi un secondo di felicità nella mia vita grigia. Fran, papà, Angie, ora Lud. E mi sembra che tutto stia ritrovando un equilibrio in questa realtà sconquassata.

 

 

Mi stiracchiai e sorrisi fra me e me, mi guardai intorno felice che fosse finalmente cominciata una nuova giornata. Guardai l'ora nello schermo del cellulare: le sette e un quarto del mattino. Non ero mai stata una mattiniera, ma mi ero svegliata naturalmente. Chissà perché. Mi misi seduta nel letto, avevo solo una canottiera indosso e la biancheria sotto. Morivo dalla voglia di rivederlo. Avrei voluto tanto si fermasse a dormire da me, ma ognuno aveva la propria camera e non volevo destare sospetti. Dopo aver fatto l'amore, eravamo usciti dalla cabina ed eravamo corsi in mare a farci un bagno di mezzanotte senza vestiti. Avevo riso un sacco, quella era proprio il genere di pazzia che avrei fatto solo con lui. I suoi baci, poi. Non riuscivamo a tenere le nostre labbra distanti per più di alcuni minuti. Sentii la porta bussare e sobbalzai, chi poteva essere a quell'ora? Dentro di me, una parte gridava perché speranzosa fosse lui. “Chi è?”, chiesi alzandomi in piedi ed avvicinandomi alla porta. “Diego”. Aggrottai la fronte e l'aprii, davanti di me trovai un Diego con dei pantaloni del pigiama ed a petto nudo. “Che ci fai qui?”. Scrollò le spalle. “Volevo vedere se eri già sveglia, ti dirò: in verità ci speravo poco”. Scoppiai a ridere e gli diedi una pacca sul braccio. “Dai, scemo!”. “Vieni a fare colazione di là? Marco è già da un'ora che guarda la tv in salotto, gli altri dormono tutti come sassi. Ci sono andati giù pesante ieri sera, per fortuna l'appartamento di Maxi è poco distante dalla spiaggia”. Mi grattai la nuca. “Va bene, ma aspetta un secondo: devo prepararmi prima di andare in cucina”. “Va bene”. Improvvisamente spostò lo sguardo all'interno della mia stanza e sgranò gli occhi. “Brutta stronza, guarda che posticino ti ha assegnato Maxi. Posso entrare?”. “Certo”, risposi ridacchiando e chiusi la porta. “Anche la vetrata con vista sul mare? Beh, vergognati”. Lo raggiunsi di fronte alla finestra dal quale, lo ammettevo, si vedeva un panorama niente male. “Dimmi: quant'è che hai pagato Maxi per tutto questo? Non dirmi che l'hai ricompensato in natura!”. “Cosa?”, strillai. Gli diedi una spinta che lo fece andare addosso al comodino, mi portai una mano alla bocca. Prevedevo vendetta. Infatti mi caricò sulla sua schiena per poi gettarmi nel materasso mentre imploravo pietà. Stava per punirmi col peggiore dei miei punti deboli: il solletico. “Ultime parole?”, domandò. “Non farmi del male”. Feci il labbruccio, ma non servì tanto che non feci in tempo a fermarlo che era già sopra me con le dita a stuzzicare le parti dove lo soffrivo di più. La mia risata invase la stanza e la sua si mischiò alla mia, stavo letteralmente morendo. Un altro busso ci fece spaventare, senza pensare risposi: “Avanti” col fiatone. “Buongiorno bim...”. Leon rimase fermo all'entrata sbigottito, la sua bocca schiusa a fissare la scena. In mano teneva una busta in plastica, inarcò un sopracciglio. “Leon, non farti strane idee!”, gridai. Feci pressione sul petto di Diego in modo da farlo spostare, così mi alzai. “Come potrei? Infondo ti ho solo trovata nella tua stanza con lui mentre siete mezzi nudi e l'uno sopra l'altro”, commentò sarcastico. Gli corsi incontro, che situazione imbarazzante. “Guarda che è solamente passato a vedere se...”. “Sì, certo. 'Forse è il caso di non dormire assieme stanotte', sei ridicola”. Uscì dalla camera e lo seguii disperatamente, perché non capiva che era tutta un'invenzione della sua mente? Ci aveva scoperti nel momento sbagliato. “Ti prego”. Lo afferrai per un braccio cercando di fermarlo, si voltò per guardarmi in viso. “Smettila con questa pagliacciata, sospettavo ci fosse qualcosa fra voi da mesi e mesi”. Scossi il capo con vigore. “Non c'è assolutamente niente, devi credermi”. La sua espressione era amareggiata, non potevo sopportare che tutto si rovinasse per colpa di una simile stronzata. “Adesso mollami e lasciami stare!”, mi sibilò contro. “No, non ti lascio. Non finché tu non avrai capito che è solamente un'incomprensione”. Con uno strattone si liberò, era incazzato nero. “Posso non aver tanta materia grigia quanto la tua, ma non sono stupido okay? Non menarmela come vuoi tu solo perché ti fa comodo, non puoi tenere un piede in due staffe!”. Ma cosa diceva? Stava travasando ogni singola cosa. “E' meglio finirla sul nascere, qualsiasi cosa sia cominciata”. Mi diede le spalle e ricominciò ad incamminarsi lungo il corridoio delle camere da letto, probabilmente tutti avevano sentito la discussione anche se poco m'importava. “Pensa a ciò che è successo, pensa a noi”. Si arrestò e, senza nemmeno guardarmi, rispose: “Non ha importanza”. Gli occhi cominciarono a pizzicarmi. “Come? 'Non ha importanza'?”. Fece cadere la borsa a terra. “No, è stata una notte come le altre”. Veramente lo pensava? No, non poteva essere. “E quando hai detto di amarmi? Che ti mancavo? Era tutto falso?”. Speravo con tutto il mio cuore che negasse, che capisse finalmente e che tornasse indietro per baciarmi e porre fine a questa stupidaggine. Invece lui rimaneva fermo lì, immobile, le spalle rivolte verso me. Ruotò il capo quanto basta per riuscire a lanciarmi un ultimo sguardo. “Sono un gran bugiardo, dovresti saperlo. Ho mentito come mio solito”. Se ne andò nella sua stanza sbattendo forte la porta, raggiunsi la busta e guardai al suo interno: c'erano due croissant in un involucro di nylon trasparente ed una bottiglietta di latte al cacao. Sul fondo scorsi un biglietto e lo lessi: 'Con la speranza che ogni tuo giorno sia un buon giorno. Leon'. Una fitta allo stomaco m'investì e per l'ennesima volta mi sentì un fallimento.

 

 

“Lo guardi, signorina. E' proprio un bell'ometto, cominciamo ad avere un'immagine nitida del piccolo”. Sorrido guardando lo schermo dov'è proiettata l'ecografia del mio Enrique, inizia ad avere delle sembianze di un neonato. Chissà cosa si prova a stringerlo fra le braccia. “E' bellissimo”, commento quasi commossa. Improvvisamente entra nella stanza un'infermiera dalla chioma color biondo cenere, la quale saluta tutti in modo cordiale. “I controlli consueti delle urine, dell'emocromo e via dicendo sono tutti regolari, lei è in salute ed il bimbo pure. Inoltre, siccome sta al sesto mese, l'abbiamo sottoposta a nuovi esami: abbiamo controllato la sua pressione sanguigna, le dimensioni del suo utero ed abbiamo verificato la presenza di glucosio ed albumina nelle urine. La gravidanza sembra filare liscia, fortunatamente”. L'ecografista toglie il trasduttore dal mio ventre e lo posa sul macchinario. “Perfetto, grazie mille della sua efficienza Belinda”. “Di nulla, dottor. Walz”. Appoggia la cartella con le mie informazioni sopra ad un ripiano ed esce. L'uomo prende una salvietta di carta e me la passa sul pancione così da togliermi la gelatina utilizzata per questo procedimento. “Vilu, vado un attimo in bagno”. Mi volto verso Diego e, sorridendo, rispondo: “Va bene”. “Cercherò di metterci meno tempo possibile”. Annuisco per poi seguirlo con lo sguardo mentre anche lui abbandona la stanza. Il dottore, finito di pulirmi, si alza dalla sedia accanto al mio lettino ed inizia ad annotare alcune cose sul fascicolo sopra il tavolo. “Allora, su di giri per la nascita del bimbo?”. Abbasso la felpa e congiungo le mani posandole proprio sopra il ventre ormai abbondantemente gonfio. “Sono molto nervosa. Da una parte non vedo l'ora di vederlo palpabilmente, dall'altra ho paura dei cambiamenti che subirà la mia vita dopo la sua nascita e, beh, ovviamente anche del parto”. Ridacchia e continua a scrivere con gli occhiali abbassati fin sulla punta del naso a patata. “Sono timori normali e più che giustificati vista la sua giovane età. E, dica, il padre del piccolo è agitato? Sembra molto felice”. Sgrano gli occhi e scoppio in una fragorosa risata. Diego il padre? Il dottor. Walz ha pensato questo finora? “Ho detto qualcosa di sbagliato?”. Riprendo fiato per poi dire: “Beh, sì. Diego non è il padre del bambino”. “Oh, capisco. Brutta storia. Allora è il fidanzato attuale? Ne ho viste molte di storie del genere in cui il padre naturale abbandona la ragazza e ad accudire l'indifesa creatura è un bravo ragazzo che prende la coraggiosa decisione di assumersene la responsabilità”. Chiude la cartella e si gira verso di me, osservandomi. “Non stiamo insieme”. E' alquanto confuso e non lo biasimo. “Il fratello?”. “Nemmeno”. Allarga le braccia al corto d'ipotesi. “Cos'è, dunque?”. “Un amico”, rispondo con disinvoltura. Si sistema gli occhiali spingendoli con l'indice fino allo spazio fra le due sopracciglia folte. “Un amico che l'ha presa molto a cuore a quanto pare, starle accanto è una scelta ammirabile”. “Lo so”, commento sommariamente. Ci sono molte, troppe cose che rendono onore a Diego. Ed ho i sensi di colpa anche solo per avergli permesso di portarmi fino a qui perché penso a Lud ed ai sentimenti che prova per lui sentendomi quasi sporca dentro. Mi sembra di usarlo, anche se realmente non è così. Infondo è lui che si offre per aiutarmi, non gli ho mai chiesto nulla e credo che neanche lo farò. Ad esempio sabato ho una visita per la prescrizione di tranquillanti e sostanze esterne da ingerire che non attacchino il feto, ma non glielo dirò. Sarebbe il primo a mettersi a disposizione e non voglio illuderlo più di quanto lo abbia fatto già anche involontariamente, però lo faccio soprattutto per la mia amica. Devo cominciare a prendere un po' le distanze, per far star meglio sia lui che lei. Se annego, non posso trascinare tutti con me. E' sbagliato. Non è corretto. Se non divento indipendente, prima o poi tutti quelli che mi stanno accanto come un'ombra finiranno per soffrire i miei problemi anche perché di questo passo non sarò mai felice. Già il bambino è costretto da affogare con me, loro non lo meritano. E nemmeno Enrique se è per questo, ma questa è un'altra storia. “E il vero padre che fine ha fatto? Sempre che non le rechi fastidio la mia domanda, può anche non rispondere”. Sospirai e mi rannicchiai con le ginocchia avvolte fra le braccia. “Non è un argomento che mi sta particolarmente a cuore, ma non ho problemi a dire che il vero padre se ne frega sia di me che di suo figlio. Un po' come la situazione che lei mi ha illustrato prima, solo che non ho un nuovo ragazzo ed è molto più complicato di quanto immagina viste come si sono messe le cose”. L'uomo mi guarda tristemente, si toglie gli occhiali e se li infila nel taschino del camice. Si mette in piedi, viene verso il lettino e mi prende una mano. Che sta facendo? “Signorina, non so molto di lei se non quello che è riportato nelle cartelle cliniche. So quello che c'è da sapere. Lei è forte, molto più di quello che immagina. Tante volte si è forti e non si è nemmeno consci di esserlo, lei rientra in questa categoria. La situazione in cui si trova mi addolora molto, ma non può continuare a fissarsi su un solo punto: deve andare avanti per il bene suo e di Enrique. Faccia scelte coscienziose, mi raccomando”. Abbozzo un sorriso, è la prima volta che una figura professionale mi dice queste cose. Gli stringo la mano per poi sussurrare: “Grazie, lo terrò a mente”. L'ecografista si dirige verso il tavolo, raccoglie il mio fascicolo e se lo sistema sottobraccio. Spegne il macchinario e va verso l'uscita. “Mi scusi, posso aspettare Diego finché non torna qua?”. “Certamente”. Si guarda l'orologio da polso. “La prossima visita ecografica è tra un'ora, faccia con comodo”. “Grazie ancora”. Mi sorride formando delle rughe nel volto vecchio e scavato ed esce dalla stanza pure lui. Ora sono sola. Cerco di ammazzare la noia guardandomi attorno e soffermandomi su dei dettagli, il mio amico sembra essersi perso. L'occhio cade nell'orologio appeso al muro, sono esattamente dieci minuti e passa che è via. Dove si sarà cacciato? Mi alzo e, senza scarpe, raggiungo la porta. Poso la mano sulla maniglia e la apro, fuori è tutto un altro mondo. Un via vai di infermieri, ginecologi, dottori e pazienti donne perché questo è il reparto ginecologia. Lancio un'occhiata a destra, poi a sinistra, ma di Diego nessuna traccia. Decido allora di fare un passo avanti ed uscire, il mio sguardo balza sul cestino appena esterno alla sala. Una busta da lettere ancora chiusa è l'unica cosa che vi è dentro. Incuriosita, allungo la mano e l'afferro. Me la rigiro fra le mani riducendo gli occhi a due fessure, è una calligrafia apparentemente familiare. Porto una mano alla bocca quando leggo: 'Per Violetta, sperando che tu possa capire'.

 

 

ANGOLO DELL'AUTRICE

Hey, hey! Ma quanto mi state maledicendo perché ho stroncato il capitolo proprio sul più bello? Vi avevo già avvertiti che ad un certo punto della storia avrei cominciato a fare così ergo uomo avvisato, mezzo salvato (?). Okay, non c'entra nulla lo so. Allora cosa ne pensate del capitolo? Abbiamo scoperto un bel po' cose. Intanto avete avuto modo di 'assistere' al famoso dialogo della trama ed avete capitolo il motivo per cui Leon si era arrabbiato. Quelle occhiate altrove, le avete notate? Cosa significano secondo voi? Stava guardando qualcosa o qualcuno? Oh, oh. Ma qui abbiamo una Ludmilla innamorata! Scusate, ma io adoro la Diemilla. La cosa ironica è che lei è friendzonata da Diego che a sua volta è friendzonato da Violetta. Peggio di 'Inception'. Altro ricordo: il famoso litigio dopo la notte d'amore. Credete che ciò che le ha detto sia vero? Ha sbagliato a reagire in quel modo? La famosa visita: tutto sembra andar bene ed il piccolo è in salute. Ma...sbaglio o quella lì fuori è una lettera? E sulla busta c'è su scritto che è indirizzata a lei. Chi ce l'avrà messa nel cestino? Diego dove sarà finito? Tutte ottime domande che verranno risposte nel prossimo capitolo, sono sadica LOL

Alle recensioni del capitolo precedente risponderò stasera perché, udite udite, devo fare i compiti, ma soprattutto muoio dalla voglia di pubblicare il capitolo! :')

Ringrazio chi recensisce la storia e chi la mette fra i preferiti, le seguite e le ricordate. Grazie del vostro sostegno.

Un bacio e stay tuned,

Gre :3

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6

 

 

 

Cara Violetta,

non comincerei mai una lettera in modo così formale, ma mi hanno insegnato in terza elementare come se ne struttura una perciò inizio così. In verità non saprei neanche quale sia il principio di ciò che sto per scriverti, ormai ho perso le certezze in qualsiasi cosa. Non so più niente. Cercherò di farti capire, sperando che tu ci riesca e che trovi la forza di perdonarmi. Ti ho già detto che sono l'uomo peggiore che possa esistere? Ecco, te lo ripeto. Ero il peggiore un tempo, lo sono e lo sarò ancora. Il fatto è che ci sono momenti in cui mi rifiuto di ragionare e tu lo sai bene, scaccio via ogni pensiero per lasciar spazio all'impulsività. Ha i suoi lati positivi, ma anche quelli negativi. Ho sbagliato e lo ammetto dopo troppo tempo. Avevi ragione tu: il termine della nostra relazione non doveva influire in alcun modo nella vita del bambino, si poteva trovar benissimo un punto d'incontro. Ma io cocciuto ho voluto mettere le questioni personali di fronte al suo bene ed il tutto è andato a suo discapito. Avrei dovuto essere presente e mi spiace per non esserlo stato, ma credimi se ti dico che ho pensato a questa storia in continuazione. Era come un fantasma che mi seguiva ovunque, i sensi di colpa mi torturavano. Forse perché, in quella piccola creatura, mi ci rivedo. Mi sono reso conto che fino ad ora ho assunto lo stesso comportamento di mio padre: l'uomo che ho tanto odiato e che continuo a detestare. Responsabilità. La menata che ti ho rifilato per mesi, ma non era solo quello. Certo, mi spaventa l'idea di avere un figlio, ho paura di fermarmi in questo mondo che corre per stabilirmi. Non sono fatto per le cose statiche, le cose non vanno meglio se resto. Almeno credo. Tu sei diversa, sei migliore in tutto. Le mie lacune sono i tuoi punti di forza: tu sai aspettare, sei in grado di sopportare pesi più grandi di te, sei paziente, estremamente buona pure con chi non se lo merita, emotiva. Non posso essere ciò che sei tu. Sono un freddo, testardo, impaziente, impulsivo calcolatore. Come potresti volere nella tua vita uno come me? Pensavo che se me ne fossi andato saresti stata meglio ed avresti affrontato la cosa in modo migliore grazie alle splendide persone di cui ti circondi. I tuoi messaggi li leggevo, sai? Dal primo all'ultimo. E' solo che mi scrivevi tutte quelle cose e poi quando t'incrociavo in corridoio eri un'altra. Ridevi, scherzavi con altre persone. Cosa significava? Bugie su bugie? Non lo so nemmeno ora. Ti chiederai, dunque, il motivo di questa lettera se dimostro di essere ancora diffidente. Ci rifletto da un po' sinceramente, ho quest'idea abbozzata nella mente da tempo. Ero e sono tutt'ora mentre scrivo indeciso sul dartela, ma cosa mi costa provare? Certo, potresti non perdonarmi, vietarmi di vedere il bimbo, non lo so: ma voglio tentare. Desidero essere un buon padre per Enrique. Sì, ho letto pure l'sms del nome. Se tu me lo permetterai, ovviamente. Non ti biasimo se non vorrai più avere a che fare con me e privarmi di vederlo, rispetterò la tua scelta come è giusto che sia. Vorrei instaurare con te un rapporto quantomeno civile, basta litigi per bambinate. Ora non ha più importanza chi ha torto e chi ha ragione, l'unica cosa che conta è nostro figlio. Wow, suona così strano. Non so se capirai le mie ragioni, non so nemmeno se mi perdonerai. Te l'ho già detto: non so più nulla. Mi conosci bene, sai meglio di chiunque altro che sto facendo uno sforzo enorme per due motivi principali: non ho mai scritto una lettera a mano in vita mia e fatico ad ammettere i miei errori. Quindi, per favore, non darlo per scontato anche se hai tutto il diritto di farne a meno.

Sperando in una tua risposta,

Leon

 

 

Stringo la lettera contro il petto con gli occhi fuori dalle orbite. Ogni tanto rileggo qualche frase per esserne sicura, ma da come parla sembra essere proprio lui. Subito ho pensato ad uno scherzo, ovviamente di pessimo gusto. La calligrafia però è la sua, il modo di esprimersi, i contenuti. Ci sono cose che nessuno sa all'infuori di noi. Un brivido mi attraversa il corpo come fosse una scarica elettrica, è una sensazione strana che non provo da mesi: agitazione. Decido di mettermi seduta nel lettino come se servisse a calmarmi e mi metto a rivedere alcuni passaggi attentamente. Quindi non era solo questione di responsabilità. Si sentiva inadatto a fare il padre, ma soprattutto ad affiancarmi. Come può anche solo concepire che stia meglio senza di lui? Mi sono ridotta ad una figura umana vuota internamente. Tutto va male da quando lui non c'è più, non capisco come possa pensarlo. Forse non lo vede? Probabile, non sbandiero mai nulla ai quattro venti. Improvvisamente arresto i miei ragionamenti sulle motivazioni che lo hanno spinto a rifiutare di crescere il bimbo per pensare alla cosa più strana: cosa ci faceva nel cestino appena fuori dalla stanza delle ecografie? Non è un caso che l'abbia ritrovata proprio in questo momento, rimango col fiato mozzato. Lui è stato qui molto probabilmente, sennò come si spiegherebbe la lettera a nome suo? Sì, però perché l'ha buttata via? Si è forse pentito all'ultimo? Sono talmente tanti interrogativi che sembrano premere contro la scatola cranica. Ho compreso tutto ciò che è scritto, l'unica cosa che mi turba è come ci sia arrivata qua. Potrebbe aver mandato qualcuno, ma lui non è il tipo che fa fare il lavoro sporco agli altri anche se c'è sempre una prima volta. Anche se fosse, non si spiegherebbe la faccenda del cestino. Mi sto preoccupando più di come ci è riuscito che su cosa vi è riportato e sul perdonarlo o meno. La porta si apre facendomi sobbalzare, mi pare quasi di essere stata scoperta con le mani nel sacco. In teoria non avrei dovuto leggerla dato che è stata gettata. “Dove sei stato?”, sbotto contro Diego. Il mio sguardo cade nell'orologio appeso al muro, quasi mezz'ora di ritardo. E per fortuna che ci avrebbe messo meno tempo possibile. “In bagno”, risponde con finta nonchalance. Nasconde qualcosa. “Mmh...in bagno? Devi aver trovato molte persone”. Sul suo viso si estende un sorrisetto alquanto a disagio, ora ne ho la prova. “Sai com'è, siamo nel reparto ginecologia”. Che c'entra? Il fatto che farnetichi è un segno inconfutabile che sta mentendo. Tutto ad un tratto mi osserva allarmato e si avvicina rapidamente, che gli prende? E' inquietante. “Che stai leggendo?”. Ha gli occhi puntati sulla lettera che stringo fra le mani, la levo dal suo campo visivo prima che possa leggervi qualcosa. “Non sono affari che ti riguardano”. “Certo, che mi riguardano”. Allunga il braccio per cercare di afferrarla, ma la nascondo dietro la schiena. “Che vuoi?”, esclamo stizzita dal suo comportamento insistente. “Non voglio permetterti di fare cazzate, ecco cosa voglio!”. Mi blocco. Inarco un sopracciglio e socchiudo le palpebre assumendo uno sguardo inquisitore, alzo l'avambraccio a mezz'aria e pongo una mano fra me e lui. “Tu come fai a saperlo?”. “Ehm...non so, in verità”. Avanzo come una predatrice fa con la sua preda, faccio pressione col palmo contro il suo petto costringendolo ad indietreggiare. “Lo sai benissimo invece. Parla!”, gli grido contro. Adesso è con la schiena contro il muro, spaventato. “Vilu, veramente non...”. “Parli di tua spontanea volontà o vuoi che ti costringa?”. Poggio un pugno sulla sua guancia come per minacciarlo. In realtà non combinerei un bel niente, ma il nervosismo del momento mi porta ad agire in questo modo. “Va bene, ti dirò tutto quello che è successo! Basta che togli la mano dalla mia faccia e mi lasci respirare”. Aspetto alcuni secondi squadrandolo con la mascella serrata, dopodiché mi allontano in modo da lasciar spazio fra noi. “Dimmi”, gli ordino incrociando le braccia sopra il pancione. Si morde il labbro e si gratta la nuca. “Prima promettimi che non ti arrabbierai con me”. Alzo leggermente il capo come per conferire superiorità alla mia figura e rispondo: “Non ti prometto proprio un bel niente, adesso falla finita e parla”. Deglutisce, poi sospira. “In buona fede, posso assicurarti che il mio intento era davvero andare al bagno. Appena uscito, però, ho incontrato Leon che è venuto fin qui per darti, appunto, quella lettera. Ovviamente mi sono infuriato perché trovo ipocrita da parte sua presentarsi dopo sei mesi di schifo con una letterina che neanche i bambini delle elementari, per cui l'ho gettata nel cestino più vicino e l'ho invitato ad andarsene. Ci siamo spostati in modo che dalla sala non si sentisse nulla per discuterne, ha iniziato ad inalberarsi dicendo che voleva vederti e che non desiderava parlare col tuo segretario. Allora giustamente ho ribattuto dicendo che so meglio di lui quello che hai passato in questi mesi a causa sua, di certo non hai bisogno di altri problemi oltre a quelli che già hai. Poi, vabbè, abbiamo litigato finché non se n'è andato e probabilmente è stato meglio così. Credimi, l'ho fatto per il tuo bene”. Rimango attonita il tempo giusto per metabolizzare le parole, forse troppo. Infatti inizia a preoccuparsi della mia reazione, sono muta e col capo chino. Alzo la testa e con molta pacatezza dico: “Tu non puoi sapere cosa è bene per me”. Fa per parlare, ma lo interrompo con un gesto della mano. “Tu non puoi nemmeno sapere cosa è bene per il bimbo. Io ho passato i mesi di schifo, non tu. Certo, sei quello che mi è stato più vicino di tutti e ti sarò sempre debitrice per ciò. Questo però non ti autorizza a prendere decisioni per me, sono stufa che mi diciate cosa devo o non devo fare. Non sono tue, di papà, di Angie: sono mie! Non me ne frega niente di ciò che pensi a riguardo, se credi sia ipocrisia buon per te. Evidentemente non l'hai letta la lettera. E se per te fare una cazzata significa cercare di far riavvicinare mio figlio col suo vero padre, pensalo pure tanto non la cosa non mi tange. Io la madre, lui il padre ed a me le scelte riguardanti la mia vita”. Il suo volto si tinge di rosso dalla rabbia. “Tu non lo fai per Enrique, lo fai per te stessa!”, urla. “Del bambino ti interessa relativamente, a te è sempre interessato solo lui!”. Sono rimasta calma per troppo, se non la pianta esploderò. “E mi fa incazzare il fatto che tu insegua uno che non ha fatto altro che illuderti! Ci hai pensato? E se volesse farlo di nuovo?”. Sta giocando con il fuoco, la parola sbagliata potrebbe farmi scattare. “Perché continui a pendere dalle sue labbra? Non gliene frega di nessuno all'infuori di sé stesso, pensa solo ai suoi interessi. Infondo te l'ha detto anche lui, no? Tutto ciò che avevate per lui non ha avuto importanza!”. Come questo. “Quello che avevamo quando stavamo insieme era vero!”. Il mio grido disumano invade la stanza lasciando Diego stupito e con la bocca semiaperta. “Credi sia egoismo sacrificare il proprio sonno per aiutare la madre? Pensi che cercare di difendere chi ama da tutto e tutti sia sinonimo di pensare solamente a sé stessi? E' da ipocriti rimetterci la faccia in nome di un amico? Di tutte le cose che potessi fare, giudicarlo è quella peggiore. Sarei disposta a tollerare il tuo pensiero sulla faccenda Enrique, ma mettere bocca su qualcosa che non sai mi sembra inappropriato!”. Sono persino senza fiato da quanta voce ci ho messo nel dire queste cose. E' ancora attonito, immobile come una statua d'ottone. In questi mesi le rispostacce non sono state una novità, ma non sono mai stata irata a tal punto. Nonostante tutto trovo estremamente fastidioso che si prema sulla sua vita privata, sul suo passato, su cose che nessuno sa. All'infuori di me. “Senti, Vilu...”. Rizzo il braccio sinistro e lo punto verso la porta. “Fuori”. La voce graffiata a causa delle grida precedenti, bassa, autoritaria. “Ma chi ti porterà...”. “Mi arrangio con papà, vattene”. Mi rivolge un'occhiata implorante e scuoto il capo delusa, è un colpo davvero basso. Raccoglie le sue cose da sopra il tavolo e cammina a testa bassa verso l'uscita, prima di andarsene si volta all'indietro per l'ultima volta. “Ti auguro il meglio...”. Posa la mano sulla maniglia e la apre. “...anche se c'è sempre di mezzo lui”. Esce lasciandomi sola, ma stranamente non ho la rabbia che ribolle ancora dentro. Non m'importa, ho altro a cui pensare. Torno al lettino e riprendo in mano la lettera, chiudo le palpebre e la porto al naso: tabacco e vaniglia. “Leon”, sussurro.

 

 

Camminavo a passo spedito lungo il viale alberato. Anche se la primavera era alle porte, non vi era nessun accenno. La natura preferiva rimanere morta che rinascere. “Vilu! Smettila di fare la bambina e torna indietro!”. Mi fermai e mi voltai, ero stufa. Di tutto, di questa storia, di lei, persino di lui. “La bambina? Stai scherzando, spero!”. Mi raggiunse col fiatone, per la prima volta era lui a faticare a starmi dietro. “Ti stai facendo problemi dove non ci dovrebbero essere, perché non mi ascolti mai?”. La rabbia m'investì. Non lo ascoltavo mai? Io ci provavo, ma erano i fatti a parlare chiaro. “E tu non mi degni neanche della metà della considerazione che riservi a lei!”. Aggrottò la fronte, poi scoppiò a ridere. Detestavo quando faceva così: nelle situazioni peggiori se la rideva. “Ti ho sempre messa su un piedistallo e per una volta che declino un tuo invito, mi tratti di merda! Non ho detto che non ci voglio venire, ti ho solamente chiesto di spostare la data!”. Scossi il capo stizzita. “Chissà perché, tu hai sempre di meglio da fare!”. Chiuse le palpebre per poi lanciare un'occhiata verso l'alto, poi tornò a guardare me. “Smettila di dire cazzate! Chi ti è stato vicino quand'eri ammalata? Chi ha fatto i salti mortali per venire a casa tua quando ti sentivi sola? Chi ti ha accompagnata dovunque tu volessi perché ne avevi bisogno? Chi ti ha portata in vacanza negli States?”, mi gridò contro. L'incazzatura era tale da sputare parole intrise di veleno. “Non te l'ha chiesto nessuno!”. S'irrigidì e serrò la mascella, dopodiché incrociò le braccia al petto. “Di tutte le cose che potevi dirmi, questa te la potevi risparmiare. E' molto brutto sentirsi dire che non me l'ha chiesto nessuno, quando ho fatto tutto questo solo per farti sentire bene”. Il suo tono tornò calmo, maledettamente pacato. Ed io morii dentro perché mi resi conto di ciò che gli avevo appena detto. “Scusami, non...”. “Finiscila, è sempre così con te: dici le cose, ferisci e te ne rendi conto dopo. Sono stanco, inizio a credere veramente che le pensi”. Cristo, che casino. “No! Credimi, è solo che per una volta che sono io a chiederti di venire con me da qualche parte speravo in un tuo sì. E sentirmi dire no perché devi andare ad una sua premiazione, beh, mi ha infastidita”. Si passò le mani nel viso come quando lo si fa per lavarselo il mattino. “So che per lei è importante, è un premio che le verrà dato dal sindaco e ci tiene che sia presente. Non ho rifiutato il tuo invito perché m'interessa solo lei, l'ho fatto perché non è una cosa di tutti i giorni ed è mia amica”. Sospirò affranto. “Sono stanco, Violetta...”. L'osservai col labbro inferiore tremante. “Di cosa?”. “Di tutto questo. E' diventata una situazione insostenibile: ti arrabbi per ogni cosa, litighiamo e finiamo col non parlarci. Poi magari facciamo pace, ma poco dopo riprende il solito ciclo. Ti rendi conto che è da un mese che non facciamo l'amore? Che discutiamo e basta? Sono stufo e non ce la faccio più”. Feci per ribattere, ma mi fermò posandomi un dito sulle labbra. “E prima che tu mi accusi di dirti questo per Raquel, ci tengo a precisare che ti sbagli. Stai rovinando tutto tu con la tua gelosia morbosa”. Sentii gli occhi inumidirsi, il respiro frammentato. “Lei non aiuta, però”. Toglie la mano e la lascia cadere a penzoloni lungo il fianco. “Nemmeno la tua gelosia ed il tuo continuo diffidare del mio amore per te”. No, non stava per accadere ciò che credevo. No, per favore. “Forse è meglio che ognuno se ne stia per conto suo e pensi un po' a sé stesso”. Il mio volto si tramutò in una smorfia, la smorfia tipica di chi sta per scoppiare in lacrime. “Mi stai dicendo che è finita, Leon?”. Abbassò lo sguardo e disse con voce flebile: “E in quale altro modo dovrebbe finire?”. Cercai di afferrargli la mano per trattenerlo, ma la ritrasse. “No”, mormorò. Tirò su col naso, ma molto probabilmente era solo una mia impressione visto che aveva il capo chino. “Resta...”. “Fidati, è la cosa giusta da fare: una pausa da questo disastro”. Si ostinava a non guardarmi negli occhi, non poteva finire così. Tremai e lo stomaco iniziò a dolermi, come sempre del resto quando succedeva qualcosa di spiacevole. Avevo commesso molti sbagli e solo ora me ne stavo rendendo conto, avevo il brutto vizio di urlare cose che magari non pensavo, ma che potevano ferire e molto. E nell'ultimo mese ne avevo dette fin troppe. “Non posso perderti”, mugolai. Finalmente alzò la testa: l'espressione tirata, gli occhi lucidi, le labbra serrate. “Devo andare”. Un tono mai sentito, sembrava in procinto di piangere. Si voltò di spalle per tornare indietro e lo osservai allontanarmi da me impotente. Ed intanto una parte di me stava morendo.

 

 

“Vilu, ci sei?”. Mi risveglio brutalmente dai ricordi, stare seduta nella panchina di questo maledetto viale non aiuta. “Sì, scusami”. Fran mi osserva preoccupata, la mano ancora a mezz'aria mentre stringe il cucchiaino per mangiare il gelato. “Qualcosa non va?”. Sospiro e chino il capo. “Diciamo che in questo posto ho solo brutti ricordi”. Mi accarezza il braccio, ma non mi giro. La rottura, quando gli ho detto di aspettare Enrique. Cose che mi piacerebbe saper dimenticare. “Cavolo, scusami”. La guardo ed abbozzo un sorriso palesemente forzato. “Fa niente”. Mangia un boccone. “Smettila di dire alla gente che non fa niente, dì la verità”. Fisso un punto indefinito di fronte a me. “La verità? Mi manca da morire”. “E' da tanto che gli stai dietro ormai”, commenta con la bocca piena. Inarco un sopracciglio, l'oggetto del mio interesse ora è un albero ossuto con un spruzzatina di neve. Grazie al cielo sta iniziando a sciogliersi. “Quattro anni e cinque mesi, quasi sei”. Mi volto, ha gli occhi sgranati. “Ti ricordi il giorno in cui ha iniziato a piacerti?”. Scrollo le spalle. “I primi giorni di scuola del primo anno, non è difficile fare i conti”. Si lecca le labbra e getta la coppetta nel cestino accanto. “Ma come è iniziato tutto?”, chiede. “L'ho visto e basta”. “No, come è iniziata fra di voi”. Ci penso un po', poi comincio a raccontare: “Beh, devo ammettere che se è nato qualcosa fra noi è in gran parte merito del professor Galindo. Quanto mi manca, adoravo come insegnava! Ricordi quando ci aveva fatto fare il progetto in coppie?”. Annuisce. “Ecco, con quel pretesto mi ha parlato per la prima volta. Ricordo che all'inizio mi faceva venire un nervoso ogni volta, poi quando sono andata a casa sua mi ha trattata diversamente. Probabilmente perché non eravamo in pubblico e non doveva dimostrare niente a nessuno. Il primo bacio è stato...strano”. “Strano?”, domanda ridacchiando. “Sì, era appena dopo la studentesca al Damn Night in camera sua. Ero sotto i fumi dell'alcool per cui è stato particolare, improvviso. Gli ho urlato che lo odiavo, mi ha guardata e si è alzato dal letto di scatto, poi mi ha chiusa contro il muro e baciata. Dopo abbiamo dormito insieme e mi sono risvegliata appoggiata sul suo petto. Quella sera era il quattordici gennaio duemilaquattordici”. Senza rendermene conto sto ancora guardando il vuoto, mi riesce meglio parlare del passato in questo modo. “Dovresti vederti in questo momento”. Sposto lo sguardo sulla mia migliore amica. “Come?”. “Stai sorridendo e ti brillano gli occhi”. Arrossisco ed abbasso la testa. In questi mesi non si è fatto altro che dire e pensare a tutti episodi negativi legati a lui, ma quelli positivi? Quelli che ancora adesso a distanza di anni mi riscaldano l'anima? Mi aggrappo a quelli, a volte, per andare avanti. “Eravate bellissimi”. “Già, eravamo”. Avvolgo le mani alle ginocchia. “Supererai anche questo in qualche modo”. Mmh, sarebbe un'ottima idea se non considerassimo la questione della lettera di ieri. Oggi non l'ho detto a nessuno, nemmeno a Lud. Che mi prende? Non lo so, forse temo che gli altri abbiano la stessa reazione di Diego. Lo vivo come un segreto. “In qualche modo”, ripeto le sue ultime parole come per concordare con questa affermazione. Sto mentendo per l'ennesima volta. Sul suo viso si estende un enorme sorriso ed allarga le braccia, mi slancio per abbracciarla. Vorrei essere sincera con lei, ma chissà cosa mi direbbe con la sua schiettezza. No, meglio meditarci per bene e da sola. “Sei forte, Vilu, ricordatelo sempre”. Aumento la stretta come per ringraziarla, questo è un tipo di contatto che uso per comunicare a gesti. Ci stacchiamo e mi osserva. “Sai? Chi ha dovuto affrontare enormi sfide ho probabilmente storie molte più affascinanti da raccontare”. Le punto l'indice contro. “Ah, questa non è tua: è una citazione di Jared Leto”. Scoppia a ridere ed alza le mani in segno di resa. “Okay, mi hai scoperta. Se li ascolto, è per colpa tua”. “Felice di averti finalmente influenzata coi miei gusti, almeno non ascolti più quella...beh, 'musica'”. Mimo il gesto delle virgolette con le dita. “Hey!”. Mi dà un leggera pacca sul braccio. “Se ti racconto balle, non va bene. Se ti dico la verità, non va bene lo stesso. Che cosa devo fare?”. Incrocia le braccia. “Vuoi sapere, dopo anni di amicizia, il tuo più grande difetto?”. Con gli angoli della bocca abbassati annuisco. “Non so mai se prenderti sul serio o se è una presa per il culo. Mi spiego: quando fai battute sei talmente seria che quasi ci credo. Ah, e fai anche commenti troppo offensivi a volte”. “Fran adesso ti sto per rivelare una cosa straordinaria, senza precedenti: è sarcasmo”. Assume un'espressione come per dire 'Grazie al cazzo' e risponde: “Lo so, è che non tutti siamo in grado di capirlo”. Roteo gli occhi. “Leon lo capiva e se lo capiva Leon, sono in grado di farlo tutti”. La mia amica s'irrigidisce tutto ad un tratto, anch'io effettivamente sono stupita. “L'hai nominato”. No, l'avevo fatto anche ieri in sala ecografie dopo aver rivisto la lettera. Ma ero sola, nessuno mi aveva sentita. “Ehm...è quello il suo nome”, mi difendo in qualche modo. “Non intendo questo, tu non lo nominavi da mesi e...è successo qualcosa, Vilu?”. Cavolo, ha capito che c'è qualcosa di diverso in me. Sennò non avrei parlato della nostra storia con trasporto, non lo nominerei, non lo tirerei in ballo. Era un argomento che non toccavo neanche per sbaglio a meno che a farlo non fossero gli altri. Non so se l'ho perdonato. Non so nemmeno se ci sia qualcosa da perdonare o meglio, c'è però non ho mai provato rancore nei suoi confronti. Semmai provo rimorso per ciò che ho fatto precedentemente a tutto questo, non avrei dovuto dubitare di lui. Mai. “No”. Tono secco, freddo, deciso. A mentire così bene ho imparato con gli anni, ma soprattutto da lui. “Se ci fosse anche solo qualcosa di positivo, non credi che avrei fatto a meno di ripensare ad un ricordo brutto prima?”. E questa da dov'è venuta? Mi sorprendo ogni giorno di più di quanto sto affinando quest'abilità. “Vero, scusa se non ti ho creduto”. No, Fran: non dirmi così. Mi fa sentire in colpa quando formula certe frasi. 'Scusa se non ti ho creduto'. Beh, scusa se ti mento a tutto spiano quando si tratta di lui. Ma non lo dirò. “Tranquilla”. Tiro fuori il cellulare dalla tasca e guardo l'ora: meno dieci le cinque. L'autobus che mi riporta a casa sarà nella fermata qui vicina fra poco. “Il bus sta per arrivare, devo andare”. Mi alzo in piedi, afferro il giubbotto per i bordi e me lo sistemo. Si tira su anche lei e mi riabbraccia. “Ci vediamo domani”. Ci dividiamo e la saluto con la mano per poi avviarmi lungo il viale alberato, questa volta non più sconfitta. Finito di percorrerlo, svolto a destra e proseguo per una trentina di metri finché non arrivo sotto al palo con l'insegna 'Fermata'. Il centro è caotico. Lo frequento raramente per questo: macchine ovunque, bus, smog, schiamazzi. No, non fa decisamente per me. Oggi ci sono venuta solo per fare un giro con Fran e quando mi ha proposto di andare nel famoso viale che collega ai giardini pubblici, mi è venuto un forte conato di vomito. Detesto quel posto. L'occhio cade sulla tabella oraria: cinque minuti ed il catorcio sarà qua per fortuna. Sono felice di non prendere più il bus per andare a scuola, ci pensa papà a portarmi prima di recarsi a lavoro. E' un gesto molto bello da parte sua. Alzo lo sguardo dagli orari e noto che sta per arrivare una corriera diretta alla parte opposta in cui abito. L'officina. Il mezzo si ferma facendo salire un po' di persone, mi guardo attorno e senza pensarci due volte salgo anch'io. Non so se mi pentirò di tutto questo.

 

 

Papà crede che sia ancora con Fran, oggi ho detto troppo bugie. In verità non sono nemmeno sicura di ciò che sto per fare, è una follia. Perché passo una vita intera a seguire la ragione ed ogni tanto combino cazzate istintivamente? So solo che è una mia caratteristica fin da piccola. Ed ora eccomi qua, in una parte sconosciuta di Buenos Aires per fare una cosa che magari non servirà a nulla. Cammino lungo un marciapiede a disagio per gli sguardi incuriositi che mi lanciano i passanti, che c'è? Non avete mai visto una ragazza madre? Se la cosa vi scandalizza così tanto nel ventunesimo secolo, sintonizzatevi su Mtv che di certe cose ne fa pure un programma che personalmente trovo squallido. Non sopporto chi sbandiera queste cose, non lo farei mai. Spero di star andando per il verso giusto perché questo posto lo conosco per sentito dire, non ci sono mai stata realmente. A bordo strada c'è accatastata della neve, ormai è sporca, molliccia e trasparente. Guardo in alto: nuvoloni grigi, chissà che anziché nevicare piova. Amo l'inverno, ma non ne posso più di tutta questa neve. E' bellissimo guardarla, camminarvici, ma comporta non pochi disagi a livello di trasporti ed organizzazione pubblica. Soprattutto se si considera il fatto che qui a Buenos Aires è un evento più unico che raro. Rabbrividisco per il freddo, scorgo in lontananza un gruppo di auto. Sono quasi arrivata. Più mi avvicino e più mi muovo lentamente, come se ci fosse una sostanza sotto la suola delle mie scarpe che mi vuol tenere inchiodata all'asfalto. Il cuore inizia a battere irregolarmente, mancano solo una ventina di metri. Raggiungo l'area antistante sovrastata da un gazebo in cui vi sono automobili senza fanali, finestrini o portiere, pezzi di moto, camioncini, il mio sguardo balena tutt'intorno curioso. C'è di tutto qui. Arrivo sulla soglia, sembra l'entrata di un garage solo molto più grande. Un odore penetrante di olio e benzina m'invade le narici, all'interno vi sono auto col cofano aperto, altre nelle piattaforme elevatrici, ripiani pieni di strumenti da lavoro. Un uomo sulla cinquantina è seduto in una scrivania ad annotare alcune cose di fronte a, presumibilmente, un cliente. Sicuramente gli starà facendo il prezzo della riparazione, il respiro viene meno quando noto delle Converse nere sgualcite che spuntano da sotto una macchina. Con un movimento rapido, il carrello con le ruote scivola al di fuori scoprendo la sua figura stesa su di esso. Poggia una chiave inglese a terra e si alza in piedi tossendo, afferra un panno sfilacciato dal tetto e se lo passa fra le mani nere. Improvvisamente si volta verso di me e rimane immobile nell'osservarmi, lo stomaco mi formicola. Abbozzo un sorriso ed alzo la mano in un gesto di saluto, lui con la bocca semiaperta contraccambia. Sposta lo sguardo sull'orologio appeso al muro, dopodiché, finalmente, mi viene incontro. Sono agitata. Troppo agitata. Dopo mesi risentirò la sua voce, dopo mesi mi riparlerà. “Hey”. Non lo vedevo così da vicino da un sacco di tempo. Il Leon di tre anni fa non esiste più, adesso di fronte a me c'è un uomo. La barba incolta, i capelli pettinati alla bell'e meglio, leggere rughe attorno agli occhi. Se non fosse per il pancione, non vedrei nessun cambiamento in me mentre lui è l'esempio lampante di come gli anni siano passati velocemente. Venti, in dicembre ventuno. Mi sembra impossibile. “Ciao”. Abbasso il capo, un po' imbarazzata. “Ti dispiace aspettare un secondo? Ho appena finito il mio turno, mi devo cambiare e lavare le mani”. Torno a riguardarlo, mi sorride. Mi sta sorridendo. Avevo dimenticato quanto fossero perfetti i suoi denti bianchi, quanto amassi le labbra che li incorniciano. E dentro di me sono un tripudio di arcobaleni. “No, tranquillo”. “Leon! Hai finito con la Toyota?”. Ci voltiamo di scatto verso l'uomo, a questo punto credo sia il proprietario dell'officina. Gli risponde facendo il pollice all''insù ed il meccanico annuisce. “Arrivo subito”, mi dice. Si gira all'indietro, getta il panno sul cofano e raggiunge una porta rossa per entrarvici. Il cliente di prima mi passa accanto per uscire e mi scosto poggiandomi con la spalla al muro. “Signorina, le serve qualcosa?”. Scuoto la testa. “Ah, è qui per il mio aiutante. Dovevo immaginarlo che non fosse per me”, ridacchia fra sé. Torna a scrivere, mentre io continuo ad osservarmi intorno. Infilo la mano in tasca ed estraggo il cellulare: sono le cinque e mezza, chissà quanto sarà preoccupato papà. Mentre sono assorta nei miei pensieri fissando lo schermo, sento sbattere la porta. Alzo lo sguardo prontamente, si sta chiudendo la giacca in pelle mentre cammina a passo spedito. “A lunedì, Martìn”. “A lunedì”. Appena arriva accanto a me, mi esorta con un cenno del capo ad andare così lo seguo. Attraversiamo silenziosamente il gazebo, si passa una mano fra i capelli. Non so nemmeno dove stiamo andando. “Ci fermiamo al bar qua vicino?”. Indica un edificio non molto grande ed all'apparenza calmo. “Okay”. “Bene”. “Forte”. Ne segue un silenzio imbarazzante che si protrae per diversi secondi, poi si volta per dirigersi verso il locale. Facciamo la nostra entrata ed il barista lo saluta, ci facciamo strada fra i tavoli fino ad accomodarci in uno. Sospiro, non riesco nemmeno ad incrociare i suoi occhi. Sono tremendamente a disagio ora che siamo seduti un di fronte all'altro. Respiro dal naso e non dalla bocca, altrimenti trapelerebbe troppo la mia agitazione. “Come va?”. Mi sforzo di guardarlo, sta giocherellando con il portasalviette e vi sta prestando tutta la sua attenzione. Almeno non sono l'unica ad essere impacciata. “Solito, te?”. Scrolla le spalle, il suo classico movimento. “Solito”. Posa i gomiti a bordo del tavolo e lascia stare l'oggetto. “Con Diego tutto bene?”, chiede. Inarco un sopracciglio. “Non stiamo insieme”. “Ah”. “E te con...Raquel?”. Fa un sorriso che pare tirato. “Non c'è male”. “Desiderate ordinare qualcosa?”. Sia lodato il cameriere. “Tu cosa vorresti?”, mi chiede. “Sono a posto”. “Bene, due succhi di mirtillo”. “Okay, le vostre ordinazioni arriveranno fra poco”. Appena il ragazzo si allontana dico: “Certo che il vizio di ordinare per me anche quando non voglio niente è rimasto”. Ridacchia e rimango incantata nel vederlo ridere. “Che c'è?”. “Il succo al mirtillo è il tuo preferito”. Arrossisco ed abbasso lo sguardo, dopodiché lo rialzo e gli sorrido. “Perché sei venuta?”. Il cuore riprende a martellarmi, è arrivato il momento di dirgli il motivo per cui l'ho cercato sul posto di lavoro. Per qui sono qui. “Ehm...”. Le sue labbra schiuse dalle quali s'intravedono gli incisivi, è una caratteristica della sua espressione perplessa. Potrei osservarlo per ore. “...ho trovato la tua lettera”. Sbatte le palpebre velocemente e chiude la bocca, è senza parole. “L'ho trovata in un cestino, dopo ho visto Diego e mi sono fatta raccontare tutto”. Forse se parlo riuscirò a strappargli qualcosa. “L'ho riletta più volte e se sono qui significa che la mia decisione l'ho già presa”. Mi fissa serio, ma dopo poco sul suo viso si estende un sorriso. “Pensavo non l'avresti trovata”. “Ecco i vostri succhi, sono quattro pesos”. Faccio per prendere i soldi dalla tasca, ma Leon ha già estratto il portafogli e pagato. Roteo gli occhi, questa mania di ordinare per gli altri e pure pagare. “Grazie”. “Grazie a te”. “Guarda che i soldi ce li avevo, potevo benis...”. “Tranquilla, è il minimo”. Mi liquida con un rapido gesto di una mano. Faccio per aprire la mia bottiglietta in vetro, ma mi precede e me la versa dopodiché fa lo stesso con il suo. “Com'è andata la visita?”, domanda sorseggiando un po' del contenuto. “Bene, il bimbo è in salute e sembra stia crescendo senza problemi. Domani ho una visita fuori città per la prescrizione di farmaci leggeri per gli attacchi di ansia e di panico”. Bevo del succo. “Ti accompagno”. Rimango bloccata con la mano a mezz'aria. “Sempre se vuoi”, aggiunge. Poggio il bicchiere ed incespicando rispondo: “Be-beh, avrai di meglio da fare il sabato pomeriggio”. Scuote il capo. “Pablo e Cristobal se ne faranno una ragione”. “E Raquel?”. Che cazzo di domanda è? Sono una cretina. “Sopravviverà”. Senza volerlo alzo un angolo della bocca. “Mi sembra un modo per recuperare il tempo perso con Enrique”. “E' a un'ora e mezza di auto...”. “La mia Volvo ci sa arrivare”. “Avevi risparmiato molto per quella macchina”, commento. “Cristo, sì! Era di seconda mano, ma chissene! Volevo un Volvo e me la sono presa”. “A me piaceva di più la Bmw grigia però”. Sbuffa. “Perché tutti ce l'avete con questa Bmw? Che palle, oh! Secondo me la Volvo sta una spanna sopra. Sono entrambe buone auto, ma a mio modesto parere la Bmw è peggiorata negli ultimi anni in quanto a qualità. E poi è ovvio che tu, guardando solamente l'estetica, dica di preferirla alla Volvo, ma l'aspetto conta relativamente nella scelta”. Mando giù l'ultimo sorso e mi passo il dorso della mano sulle labbra. “Scusami se non so un cazzo di macchine”. Allarga le braccia e guarda in alto. “Oh, finalmente dopo anni l'hai ammesso!”. “Ma smettila!”, gli grido ridendo. Finisce anche lui il succo. “Quindi domani devo portarti?”, chiede sorridendo. “Va bene, passa per le tre del pomeriggio”. Annuisce e s'infila il portafogli nella tasca dei pantaloni, mentre io sblocco lo schermo del telefono. Sono quasi le sei, ho tre chiamate perse da papà e quattro da Angie ed un messaggio da quest'ultima: 'Vilu dove sei? Ho telefonato a Francesca e mi ha detto che non sei con lei! Dove sei finita?'. “Merda”, sussurro. “Che c'è?”. “Ah, niente è solo che dovrei essere a casa da un pezzo”. Si allunga in avanti per poter leggere ciò che sto scrivendo a zia. “Non so nemmeno se da queste parti passa qualche bus che porti al mio quartiere, mi farò venire a prendere. Non oso pensare alla che sgridata mi faranno...”, dico con gli occhi fissi sul display. “Che problema c'è? Ti do un passaggio”. Alzo lo sguardo e fa le spallucce. “Non voglio che ritardi a causa mia, sia mai che Lucia s'incazzi”. “Guarda che non abito con mia madre da quasi un anno”. Ah, quindi abita da solo? Questo non lo sapevo. “Beh, lo stesso! Non scomodarti, tranquillo”. “Ma figurati! Sono di strada”. L'osservo per un paio di secondi pensierosa, poi accetto. “Okay, ora dico ad Angie che ho trovato un passaggio”. Inviato il messaggio rimetto il cellulare in tasca. “Andiamo?”. “Sì”, rispondo. Ci alziamo dal tavolo e ci dirigiamo verso l'uscita, arrivati fuori andiamo incontro alla famosa Volvo nera parcheggiata lungo il marciapiede proprio di fronte al bar. Mi apre la portiera e mi siedo dentro, poi la richiude ed entra dalla parte opposta mettendosi al volante. La mette in moto, ci allacciamo le cinture e partiamo. Era da un secolo che non mettevo piede nella sua macchina, niente sembra cambiato al suo interno. E' tutto estremamente a posto e curato come del resto ogni sua cosa, persino gli oggetti accatastati sopra la sua scrivania della sua stanza seguivano un ordine. Credo sia l'unico ragazzo non disordinato che abbia mai conosciuto. I cd sono rigorosamente in pila sotto all'autoradio, mi sfugge un sorriso nel leggere i nomi delle band che ascolta. Lancio un'occhiata allo specchietto retrovisore con vari oggetti penzolanti: un profumatore per ambienti al muschio bianco, una triade e...non ci posso credere, un souvenir di Chicago. “Che stai guardando?”. “Oh, niente”. Mi volto verso di lui, è completamente assorto nella guida. Quando è concentrato gli si formano le sue adorabili fossette, ora intravedibili attraverso la barba. Ci fermiamo ad un semaforo e si gira verso di me, rapidamente fingo di star guardando fuori dal finestrino. Ma chi voglio prendere in giro? Mi ha vista mentre lo stavo fissando come un'ebete! Aspetto che questo momento imbarazzante finisca quando sento che preme sull'acceleratore per ripartire. Sono passati dieci minuti, ne mancano altrettanti di questo disagio. Decido di prendere di nuovo il telefonino e mettermi a giocare a Fruit Ninja, nonostante la chiacchierata precedente la freddezza nel nostro rapporto resta. E' ovvio, no? Mesi e mesi a non parlarsi ed è questo il risultato. Però una cosa l'ho ottenuta, domani mi accompagnerà alla visita per dimostrare di essere un padre presente e mi pare sia un gran traguardo visto come eravamo messi. Tutto ad un tratto si ferma ed io, credendo di essere all'ennesimo semaforo, continuo ad affettar frutta mettendoci pure impegno. “Ehm...non vorrei dire, ma siamo arrivati”. Metto in pausa la partita e distolgo lo sguardo dallo schermo al finestrino. Il giardino di casa mia. Una parte di me vuole scendere al più presto, l'altra rimanere dentro per sempre evitando di prendersi una sonora ramanzina. Sono già passati dieci minuti da quando ho controllato l'ora? Mi prende proprio quello stupido giochetto. “Giusto”. Assumo un'espressione dolorante. “Perché hai quella faccia?”. “Mi diranno un sacco di parole”. Si dà una sistemata al ciuffo riflettendosi sullo specchietto, allora un po' del vecchio Leon vive ancora. “Non dare loro retta come sai fare solo tu”. Aggrotto la fronte, ma non faccio in tempo a chiedere a cosa si riferisca che sento urlare il mio nome dall'uscio. “Oh, cazzo...”. “Faresti meglio ad andare”, mi intima. “Vero”. Apro la portiera ed esco, prima di chiuderla lo ringrazio per il passaggio e se ne va. Fisso per un po' l'auto allontanarsi, poi mi volto per avviarmi nel vialetto a testa bassa. Quando arrivo davanti la porta trovo l'accesso sbarrato con papà paonazzo ed Angie dietro ad assistere alla scena preoccupata in viso. “Ehm...”. “Non credi che tu ci debba delle spiegazioni?”. Mi mordo il labbro inferiore, sono nella merda. “Papà, senti io...”. “Come hai potuto essere così irresponsabile? Perché non hai avvertito nessuno che avresti tardato?”. “Se mi lascias...”. “Ma soprattutto che ci facevi con lui?”, mi grida contro più forte di prima. Ed io mi sento raggelare il sangue nelle vene. Proprio quello che temevo: stanno avendo la stessa reazione di Diego.

 

 

ANGOLO DELL'AUTRICE

Ciao belli come state? E dopo ben sei capitoli di sofferenza, ecco un piccolo spiraglio di luce. Siete contente? Finalmente si sono parlati ed, anche se è una conversazione un po' freddina, a tratti abbiamo visto qualche sprazzo dei vecchi Violetta e Leon. Ma andiamo con ordine! Avete avuto modo di leggere il testo della lettera e di vedere la reazione di Vilu contro Diego. Secondo voi ha esagerato? E' giustificata la sua rabbia? E' stufa del fatto che tutti credano di sapere cosa sia meglio per lei, credete che avrà una reazione simile con German ed Angie? Nel mezzo c'è un momento fra migliori amiche molto bello, serve per mostrare il rapporto che si sta lentamente ricucendo e la concezione di Leon che cambia progressivamente. La nostra protagonista prende una decisione avventata, lei è fatta così: sta sempre lontana dalle cazzate ed agendo d'impulso ne combina una. Però non è tanto una stronzata come abbiamo potuto ben vedere. Come vi è parso il loro incontro nel presente? Avete sclerato? Che ve lo chiedo a fare, lo so che è così u.u

Ditemi cosa ne pensate lasciando una recensione! Ringrazio chi mi supporta, chi legge la storia e la mette fra le preferite e le seguite.

Beh, che dire? E' ovvio che nel prossimo capitolo ci saranno novità!

Stay tuned obiously,

Gre :3

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7

 

 

 

“Quindi se ho capito bene lui si sarebbe scusato con una lettera dopo sei mesi di assenza?”. Papà si arresta improvvisamente in mezzo al soggiorno dopo un lungo avanti indietro, il viso visibilmente alterato e le braccia conserte. “Sì”. Inarca un sopracciglio squadrandomi da capo a piedi, non vacillo e sono impassibile. Come del resto ho fatto quando ho raccontato tutta la storia. Priva di emozioni anche se in realtà dentro sono un tumulto. “Posso leggere questa famosa lettera? Dev'essere un Shakespeare dei giorni nostri per essere riuscito a farsi perdonare”. Roteo gli occhi per la battuta a dir poco squallida e poso la schiena contro lo schienale del divano noncurante della richiesta che mi è appena stata fatta. Non leggerà nemmeno cosa c'è scritto nella busta, quella lettera è mia e l'ha scritta per me. Ci sono cose che so solo io, quindi non permetterò a nessuno di sfiorarla nemmeno con lo sguardo. “Allora? Violetta, sto cercando di portar pazienza...”. Mi guardo volutamente le mani, dopodiché ripongo l'attenzione su papà che aspetta un mio responso ansioso. “No”. Sbuffa e torna a camminare. “Cosa ci sarà mai di così importante?”, dice frustrato. “Niente che ti debba interessare”, rispondo secca. “Vilu...”. Ogni tanto Angie al mio fianco mi riprende nominandomi sommessamente, probabilmente quando crede che stia esagerando con le parole e troppe volte lo faccio. “Spiegami semplicemente perché dovrei dare fiducia ed affidarti alla persona che per un pelo non ti ha fatto rivivere l'inferno che hai vissuto da piccola! No, questa volta non ti permetterò di accusarci del fatto che 'non possiamo capire'. Posso capire eccome, Vilu. La paura di perderti ancora mi segue un'ombra e chi te lo dice che non lo rifaccia di nuovo? Come lo ha fatto una volta, potrebbe benissimo farlo un'altra. Non riuscirei a sopportarlo, non potrei! Dammi almeno una ragione che non sia solo il bambino”. Le sue iridi lucide, imploranti. Mi volto verso zia, mi sta osservando con espressione tesa. Chino il capo e forse adesso è arrivato il momento di mostrare loro la mia parte emotiva, quanto la questione mi tocchi realmente nel profondo. “Non ho pretese da lui, non voglio nulla. So solo che anche solo vederlo mi fa stare bene, parlargli mi fa risentire la Violetta di una volta, il suo sorriso è come se m'iniettasse forza. Avete anche voi quella persona per la quale state bene e male allo stesso tempo? Nel dolore che provavo per lui c'era qualcosa di diverso da tutti gli altri: una strana sorta di piacere. No, non perché mi piacesse soffrire. Forse semplicemente perché del suo ricordo non posso farne a meno, di lui non posso farne a meno. Sto peggio se gli sono distante, se non mi considera, se non mi guarda. E so che è brutto ciò che sto per dire, ma potrebbe essermi accanto fisicamente senza fiatare e la sua presenza mi farebbe star meglio di tutte le vostre messe assieme”. All'ultima frase la mia voce s'incrina, a nessuno avevo mai detto questo. Mi poso una mano sulla fronte, perché ho gli occhi umidi? “Vorrei solo che lo capiste, scusate”. Mi alzo dal divano e salgo le scale più in fretta che posso, attraverso il corridoio e mi chiudo in camera. Che mi prende? Probabilmente sono solo stanca che tutti dicano di capire, ma che poi nessuno capisca. Papà non farebbe tornare in vita mamma se potesse per riaverla accanto? Sono esempi completamente diversi, ma la sostanza è la stessa. Raggiungo il letto e mi ci butto a peso morto, sento qualcosa che mi ammacca il sedere. Infastidita, infilo la mano nella tasca dei pantaloni posteriore ed estraggo il cellulare. La spia dei messaggi lampeggia. Chi rompe? Non è proprio il momento. Apro WhatsApp: gruppo della classe, non m'interessa ciò che hanno da dire francamente. Gruppo dei miei amici, leggerò più tardi quando sarò dell'umore. Fran che mi chiede dove sono e che cosa succede, risponderò quando la voglia arriverà. Leon. Sgrano gli occhi ed avvicino il telefono a pochi centimetri dal viso come i vecchietti per accertarmi che non abbia le visioni, è veramente lui. Con un rapido movimento mi metto seduta, sono veloce solo per le cose che m'interessano. “Com'è andata? Si sono arrabbiati molto? Per domani tutto apposto? Chiamami appena puoi”. Alzo la testa e, vedendo il mio riflesso sulla finestra, noto che sto sorridendo. Distolgo subito lo sguardo imbarazzata perfino del mio sorriso. Vado sulla rubrica e digito il suo nome: 'lui', forse dovrei cambiarlo. Premo sul suo contatto ed esito per un secondo di fronte al simbolo della cornetta, chiamo o non chiamo? Chiamo. Sospiro e mi rannicchio con le ginocchia contro il pancione agitata. Qualsiasi cosa connessa a lui mi rende irrequieta, euforica a tratti. La linea è libera, quel 'tu tu tu' ripetuto un sacco di volte aumenta l'ansia. Che sia impegnato? Magari non vuole semplicemente rispondere. “Pronto?”. La voce affannosa come se avesse corso. “Pronto?”. Parla cretina, parla. “Violetta lo so che sei te, l'ho letto nello schermo”. Bingo. “Ehm...scusa, non ti sento molto bene...”. Perché mento a destra e a manca, ma quando devo farlo con lui si nota palesemente che è una bugia? “Mmh, okay. Scusa se non ho risposto subito, ma stavo lavando il bagno”. “Giusto, ora devi pensare anche alla faccende domestiche”. Dai rumori di sottofondo deduco che si stia sedendo. “Mi tocca, era comodo quando se ne occupava mamma”. Avvolgo un braccio attorno alle gambe. “Dev'essere difficile andare a scuola, studiare, lavorare e tenere a posto la casa tutto insieme”. “Difficile, ma non impossibile. Se vuoi riesci a trovare il tempo per tutto”. Fa una breve pausa, poi chiede: “Cambiando discorso, com'è andata con German?”. Contraggo il viso in un'espressione stizzita al solo pensiero. “Lasciamo perdere”. “Dai, dimmi!”. “Non credo tu lo voglia sapere”, confesso. Ridacchia anche se non in modo schernevole o divertito, sembra quasi rassegnazione. “Mica mi offendo”. Scuoto la testa. “Non è per ques...”. “Senti, lo so che tutti ce l'hanno con me. Nessuno escluso, fai prima a contare chi non ha qualcosa contro”. “Io no”, ribatto prontamente. Che cazzo ho detto? Il silenzio cala ed avverto il disagio precedente impossessarsi della telefonata, cerco di salvare la conversazione. “Comunque non m'interessa ciò che diranno, domani vengo e basta”. Ride, ma di gusto adesso. “Così ti voglio, decisa e sfrontata!”. “Ogni tanto tiro fuori il mio lato cazzuto”. “Il rispetto prima di tutto, poi viene il resto”. Roteo gli occhi. “Non sei nuovo a questo tipo di discorsi”. “Questo perché sono fermamente convinto di ciò che dico”. “Me lo ripetevi sempre”. “Perché eri la persona che ne aveva più bisogno”. Qualcuno bussa alla porta e sobbalzo, mi sento come se mi avessero scoperta fare a chissà quale reato. “A quanto pare sono desiderata dal padrone di casa”. “Vilu?”, mi chiama papà da fuori. “Ricevuto, fra un po' ti avrei salutata comunque perché il water non si pulisce da solo”. Scoppio in una risata, mi erano mancate le sue battute. “Okay. Buono sturamento, a domani”. “E chi te lo dice che ho il cesso intasato? Bah, tu e le tue conclusioni! A domani, Violetta”. Riattacco e poso il cellulare sopra il comodino, un altro busso. “Entra”. L'uscio si apre scoprendo la figura di papà seguito da Angie a braccia conserte poco dietro lui. Incrocio le gambe e li osservo con aria interrogativa, che ci fanno qui? Che vogliono ora? Non sono in vena di litigi. “Siamo venuti a dirti che dopo che te ne sei andata ne abbiamo discusso, cercando di metterci nei tuoi panni e provare a venirti incontro”. Dunque? “E abbiamo capito che ormai non sei più una bambina. Hai un figlio in grembo, fra un mese compirai diciannove anni e fra tre Enrique sarà fra noi. Sei...”, indugia per poi continuare: “...un'adulta ormai”. Lancia un'occhiata a zia, dopodiché torna a me. “Il nostro giudizio ha sempre più poca valenza nelle tue decisioni e, forse, così dev'essere. Sappi solo che ogni cosa che facciamo, diciamo, pensiamo è spinta dall'amore che proviamo per te, dal desiderio di vederti felice. E se...lui riesce in qualche assurdo modo a farti star bene, non ci resta altro che accettare la tua scelta e farci da parte”. Corrugo la fronte e li osservo per alcuni secondi confusa. Che gioco stanno giocando? Finalmente hanno deciso di lasciarmi piena libertà? Non ne potevo più del fatto che tutti credessero cosa fosse meglio per me. Io lo so, voi no. “Non dici nulla?”. Scuoto il capo. “E' solo che non capisco come mai diciate questo ora, cosa volete precisamente?”. Angie si fa avanti e supera papà per poi sedersi infondo al letto. “Sei proprio uguale a Maria”, dice ridacchiando. Abbasso lo sguardo, mamma. “Non ci credi finché non vedi, scettica e cocciuta come poche. Hey, guardami”. Mi sforzo di guardarla anche se mi pare che la forza di gravità spinga la mia testa verso il basso prepotentemente. “Non vogliamo niente, solamente che tu sia felice. Ci hai detto che Leon ti fa star bene, ben venga! Vorrà dire che domani alla visita ci andrai con lui anziché con noi, siamo disposti ad accettarlo solo per te. Riconquistare la nostra fiducia sarà alquanto difficile, ma se dimostrerà di tenere al bambino seriamente sarò la prima a scusarmi personalmente di fronte a te. Va bene?”. Sono piacevolmente sorpresa, lei mi sorride mentre lui è ancora serio. Ne deduco che quest'idea è stata sfornata da zia e che papà è ancora perplesso a riguardo. Abbozzo un sorriso e mormoro: “Grazie”. “Non ringraziarci, tanto sappiamo benissimo che l'avresti fatto lo stesso”, commenta accarezzandomi il braccio. “Touché”. Scoppiamo a ridere, mentre lui si mostra inflessibile. So che non è d'accordo ed in un certo senso lo capisco, ma non può impedirmi di riavvicinare Enrique al suo padre naturale. Diego forse aveva ragione in parte, lo faccio anche un po' per me e non so se provarne vergogna o meno. “Eri con lui al telefono prima?”, mi chiede. “Vado di sotto”, sentenzia papà quasi seccato. Punto l'occhio sull'uscio, ma se n'è già andato. “Lo infastidisce tanto, vero?”. “Oh, tantissimo! Ha paura possa ferirti un'altra volta”. Sospiro. “Se si comporterà bene si ricrederà, stai tranquilla”. “Lo spero. Comunque sì, prima era lui”. “E cosa vi siete detti?”, domanda quasi euforica. “Calma, Angie! Sei peggio di Fran fra poco”, dico ridendo. “Niente di che, voleva sapere come l'avevate presa e se era tutto apposto per domani”. Annuisce. “Mmh, buon segno dai”. “Cioè?”. “S'interessa, significa che fare il padre gli importa. Speriamo non sia una cosa passeggera”. “Già, speriamo”. Si alza in piedi e si dirige verso la porta. “Sarà meglio che raggiunga German, non è dell'umore oggi”. La saluto con un cenno della mano e chiude il tutto dietro a sé. Sorrido fra me, ho il via libera da parte della mia famiglia. Afferro prontamente il telefono e, ad una rapidità che non sapevo nemmeno di possedere, digito: “Per domani tutto okay, hanno acconsentito!” ed aggiungo un emoji sorridente con le guanciotte rosse. Mando il messaggio e solo dopo averlo inviato spalanco la bocca, cosa ho fatto? Sembra che m'importi fin troppo. Improvvisamente compare la scritta 'online' e lo stomaco inizia a formicolarmi, sono agitata più del primo giorno se possibile. Speriamo risponda. 'Sta scrivendo'. Oddio! Sta scrivendo, sta scriv...come sono ridotta male, oh. “Hey, sono contento che tu non debba ricorrere ai tuoi elaborati piani per venire di nascosto” con faccina che ride. “Pft stupido, a che ora passi?”, rispondo. Oh no, ci ho messo una velocità imbarazzante. Per fortuna replica poco dopo: “Offensiva. Comunque mi raccomando sii pronta per le tre e mezza in fondo alla via, meglio evitare di venire proprio di fronte a casa tua. Sai com'è...”. “Ricevuto: puntuale alle tre e mezza in fondo alla via”. “Brava! Ci vediamo domani, buonanotte per dopo”. E rimango col respiro mozzato per una cosa veramente stupida: non riesco a smettere di fissare quell'emoticon che manda un bacio.

 

 

Oggi è stata una giornata abbastanza leggera a livello di materie scolastiche, per fortuna non chiudo la settimana in modo pesante. Stiamo parlando dell'esame di maturità e sto già abbozzando dei saggi brevi per tenermi allenata, non vedo l'ora che tutto questo finisca. Strano, no? La ragazza che adorava tanto andare a scuola, ora la detesta più che mai. Il problema non sono i compiti, lo studio, i professori: è la gente. Non ne posso più di essere vista come un fenomeno da baraccone o, peggio, una troia. Perché sono incinta del ragazzo di un'altra, quindi questo fa di me una poco di buono secondo la loro logica. Se solo andassero a fondo nelle cose e scoprissero cosa c'è dietro. Loro non considerano il fatto che Leon sia il mio ex, è secondario. Io sono una specie di sfascia famiglie per loro quando, beh, la sfascia famiglie è un'altra. Nonostante riconosca il fatto che effettivamente sia perfetta, non riesco a reggerla per niente. In più mi tocca vederla sempre alle assemblee in quanto è rappresentante d'istituto in carica, ricordo che avevo votato la lista due apposta per andarle contro sebbene le sue proposte fossero nettamente migliori. A mio parere ha vinto solamente per i soldi perché, dal momento che la scuola ha i fondi limitati, ha promesso un sacco di attività e progetti fighi che sono stati realizzati grazie ai bonifici di suo padre e ovviamente tutti erano a conoscenza dello status di Raquel. Sapevo che aveva molto denaro, ma non credevo così tanto fino a quando papà non mi ha detto di chi è figlia. La 'Battaglia di band' è un'idea sua, uno dei tanti motivi per cui non volevo parteciparvici. Mi sembra quasi di tradire la mia etica facendo parte di iniziative promosse da lei. Delle voci sostengono che giri per le prove per monitorare come si stia svolgendo questa gara, ringrazio ogni divinità che non sia passata da me e Maxi anche se non credo lo farebbe mai. Come se non bastasse hanno chiesto ai concorrenti di fermarsi dopo le lezioni lunedì pomeriggio per creare cartelloni, volantini e decorazioni varie. Sono sicura che la vedrò in quella circostanza e la cosa non mi piace. Un rombo d'auto mi distrae dai miei pensieri, mi volto e vedo la Volvo nera avanzare lungo la via. Mi alzo in piedi e mi sistemo la borsa nella spalla, quelli che indosso sono gli abiti premaman più decenti che abbia trovato sotto ad un giubbotto enorme. Spero di non figurare come una stracciona, ma questo genere di vestiti non è che siano il massimo dell'eleganza. La macchina si ferma proprio di fronte a me, faccio un passo in avanti ed apro la portiera. Ha una mano posata sul volante mentre l'altra poggiata sul freno, si gira verso di me: ha i suoi inseparabili Ray Ban, la giacca in pelle nera e dei jeans blu scuro. “Pensi di salire o vuoi stare qua tutto il giorno?”. Ancora una volta, l'ho fatto di nuovo. Sono rimasta ferma come un'ebete a fissarlo. “Oh, certo...”, rispondo flebilmente. Mi siedo e chiudo lo sportello imbarazzata come non mai, mi allaccio la cintura silenziosamente. “Comunque ciao”. Mette in moto l'automobile e partiamo. “Ciao”. “Oggi non ti ho vista a scuola”, dice. “Perché mi cercavi?”. “Ehm...cosa? No, era solo per dire”. Mi gratto la nuca e mi metto a guardare fuori dal finestrino, detesto sentirmi così tanto a disagio con la persona che al contempo mi fa stare meglio di tutte. “Per favore, puoi accendere l'autoradio? Ci dovrebbe essere già il mio mp3 collegato”. “Va bene”. Premo sul tasto d'accensione e s'illumina il display. “Puoi aprire direttamente una playlist”. “Crei delle playlist?”. “Ordino le canzoni in base all'umore che ho quando le ascolto”. “Maniaco dell'ordine”, commento ironica. “Dovresti saperlo”. Seleziono la scritta 'playlist' e ne appaiono diverse, scelgo direttamente la prima. Aggrotto la fronte: 'Iridiscent', 'Hospital for souls', 'Hurricane', 'My december', 'The ghost of you', 'The light behind your eyes'. Tutte canzoni tristi, depresse. “No, non quella. Scegline un'altra”, mi ordina prontamente. “Okay”. Esco e opto per la seconda, premo su una traccia a caso: 'In the end' dei Linkin Park. “E questa playlist cosa dovrebbe trasmetterti?”. Con la coda dell'occhio vedo la sua mano allungarsi per alzare il volume, poi la riposa sul volante. “Rabbia”. E fa pressione sull'acceleratore, sarà un viaggio molto lungo.

 

 

Ci parliamo di rado, due o tre parole proprio per il minimo indispensabile. Leon non è mai stato il massimo della loquacità, ma almeno con me parlava abbastanza. Ora l'imbarazzo regna sovrano. I miei passatempi sono stati principalmente: Fruit Ninja, contare quante macchine rosse incontravo ed indovinarne la provenienza dalle targhe. Entusiasmante, no? Abbassa il volume per la quarta volta nel giro di cinque minuti, poi lo rialza di nuovo. Mi faccio coraggio e, finalmente, chiedo: “Che c'è?”. “Ah, nulla”, mi liquida. Improvvisamente sento un rumore strano, la musica s'interrompe e l'auto si ferma. Sgrano gli occhi e mi volto di scatto verso di lui. “Dimmi che hai spento tu l'auto”. “Ho spento io l'auto”. “Veramente?”. “No”, sbotta lanciandomi un'occhiataccia. Gira disperatamente la chiave nella toppa, la tira fuori e la reinserisce continuando invano. Alcune automobili ci suonano col clacson, effettivamente siamo bloccati in mezzo alla strada. Inizia a battere la mano sul cruscotto, preme sull'acceleratore, riprova con la chiave. “Porca troia! Cazzo, parti! Parti!”, urla. “Non urlare così! Sono già in ansia di mio”. Cavolo, è vero. Già sono agitata, in più questo si mette ad imprecare peggiorando la situazione. “Urlo quanto voglio!”. Apre la portiera e la sbatte rabbiosamente, è proprio arrabbiato. Sobbalzo quando sento il mio sportello aprirsi, lo guardo allarmata. “Scendi che la sposto a bordo strada”. Mi slaccio la cintura, esco e solo ora mi rendo conto di quanto siamo nella merda: attorno praticamente c'è il nulla. L'ansia sale. Tiro fuori dalla tasca il cellulare, siamo a quasi a tre quarti d'ora dal luogo in cui dobbiamo andare. No. Intanto spinge la macchina da dietro impiegando tutta la forza che ha in corpo, lo aiuterei, ma le mie condizioni mi limitano. Dopo alcuni minuti finalmente la sposta del tutto, per fortuna ci siamo tolti almeno un problema. Si dirige verso il cofano e lo apre per capire cos'è andato storto, l'osservo mentre si destreggia in modo esperto nell'analisi scrupolosa. Non ho tempo, però, di contemplare quant'è bello, ho paura piuttosto di non riuscire ad arrivare in tempo alla visita. Batto il piede contro l'asfalto nervosa, speriamo non sia nulla di grave e che si possa riparare. Lui saprà di sicuro cosa fare, no? Non lavora presso un'officina? Alza il capo e si sfrega le mani per pulire lo sporco, poi lo richiude. “Allora?”, domando. “Allora abbiamo un problema”. “Ma va?”. “Bocchette dell'aria del motore, riparabilissimo”, sentenzia scrollando le spalle mentre io manco so di cosa stia parlando. “E quindi?”. “Le bocchette sfiatano e l'auto si spegne, semplice”. E' aramaico per me, le bocchette sfiatano? Mi fa quasi ridere. “Sei in grado di sistemarle?”. “Certo...”. Faccio per sospirare di sollievo, quando continua: “...se avessi l'attrezzatura”. Mi metto le mani nei capelli, siamo fregati. “E la visita?”. “Temo che dovrai annullarla”. No, devo trovare una soluzione assolutamente. Non possiamo starcene qua in autostrada come dei cretini. “E se chiamassimo un carro attrezzi?”. Corruga la fronte. “Un carro attrezzi? Dalla città? Ma se ti ho detto che posso ripararla”. “Che c'entra? Prima la ripariamo, meglio è!”. Si avvicina a me minaccioso. “No, io riparo la mia macchina!”. Calca la parola 'mia' ed indica sé stesso con l'indice. “Beh, se vuoi a due chilometri da qui c'è un'area con un benzinaio e un motel. Puoi andare a vedere se hanno qualcosa, visto che ci tieni ad arrangiarti! Ma te la fai a piedi da solo, sia chiaro!”. Alza lo sguardo verso il cielo e poi ritorna a me. “Ma proprio non sai niente? Oggi c'è lo sciopero dei benzinai, perché secondo te ieri ho fatto il pieno?”. “Un motivo in più per chiamare il carro attrezzi!”, sbotto. “Quale concetto del 'io riparo la mia macchina' non ti è chiaro?”, grida. “Porca vacca, adesso basta! Ho una visita fra meno di un'ora, non possiamo aspettare in eterno!”. “E perché quanto pensi di aspettare per il carro attrezzi? Hai voglia che arrivi fin qui, minimo il doppio del tempo ci mette!”. Stringo i pugni dall'incazzatura, adesso stavo davvero raggiungendo il limite. “Ma che te ne frega di chi la ripara o no? La smetti di essere così orgoglioso?”. “Cosa c'entra questo adesso? Ti ho appena detto che se lo riparo io o il carro attrezzi non cambia nulla perché tanto alla visita non ci arrivi lo stesso! Perché non ascolti mai le persone? Sei sempre stata così!”. Incrocio le braccia sopra il pancione stizzita. “Il tuo ego grande come un'intera galassia: parliamone! Non ammetti mai quando sbagli, vuoi sempre avere ragione e non si può mai toccare ciò che è tuo!”. Rotea gli occhi. “Vuoi mettere il mio orgoglio con la tua cocciutaggine e il tuo fregartene di ciò che ti viene detto? Fai di testa tua e te ne sbatti altamente di quello che ti dicono le persone, trai sempre conclusioni affrettate senza cercare di capire e fai andare quel forno nei momenti meno inopportuni!”. Fa una breve pausa, poi dice: “Ed è per questo che fra noi è finita!”. Un pugno allo stomaco, ma il nervosismo è tale da attutire il colpo e ribattere: “Ah, adesso è tutta colpa mia? Non ero io quello che passava più tempo con una sconosciuta che con la sua ragazza!”. “Dimmi quando mai ti ho fatto dubitare del mio amore per te!”. Piomba su di noi il silenzio, in questa circostanza questa frase ha un effetto paralizzante. 'Il mio amore per te'. “Non era facile, sai? 'Violetta merita di più di uno come te', 'Sei troppo stronzo per lei'. Come facevo a sentirmi all'altezza se c'erano costantemente persone a ricordarmi che non lo ero?”. Lo fisso per alcuni secondi seria, questa parte del nostro rapporto non la conoscevo. Nella lettera mi aveva detto di non sentirsi adatto ad affiancarmi, quindi è una sensazione che si porta dentro da quando mi ha conosciuta? E c'era pure gente a dirglielo? Lo supero ed inizio ad incamminarmi. “Dove pensi di andare? Non mi pare il caso viste le tue condizioni”. Mi volto all'indietro e rispondo: “Al motel visto che a quanto pare dovremo aspettare fino a domani quando aprirà il benzinaio per ripararla”. “No, al motel no!”, esclama. “Riesci a non darmi contro almeno in una cosa?”, urlo esasperata. “Piuttosto dormiamo in macchina, non la lascio qua!”. Sbuffo e gli do le spalle per proseguire. “Stai ferma!”. Mi raggiunge e mi afferra per il braccio. Rabbrividisco al contatto, ma non lo do a vedere. “Mi lasci? In macchina ci dormi tu, non io!”. “No, tu resti qua”. “No, io vado al motel”. “Tu resti”. “Io vado”. Rimaniamo immobili, lui con la mascella serrata ed io con gli occhi ridotti a due fessure. Con uno strattone mi libero e lo pungolo col dito contro il petto. “Lo hai detto tu no? Non sono nelle condizioni adatte, ciò significa che non posso dormire nei sedili scomodi di un auto. Grazie tante, ma preferisco un letto per quanto squallido possa essere quello di un motel!”. Mi rigiro e continuo a camminare, noncurante del fatto che non gli ho lasciato nemmeno il tempo di rispondere. “Non ti permetterò di far cazzate!”. Accelera il passo fino ad essermi affianco. “Dove vai tu, vado io”. Gli lancio un'occhiataccia dopodiché torno a guardare in avanti, in questo momento vorrei prenderlo a sediate in testa.

 

 

Dopo aver cenato in un desolato autogrill, finalmente siamo nella sottospecie di hall del motel per scegliere le nostre camere. Camere. Sì, la situazione non è migliorata col passare delle ore. Ho dovuto telefonare per disdire la visita e rassicurare un miliardo di volte papà che ha avuto in continuazione la tentazione di venirmi a prendere, ma non l'ha fatto perché sono riuscita a trovare un buco in extremis per domani per cui la visita la farò lo stesso. Quando abbiamo mangiato c'era un silenzio imbarazzante, ma non come quello del principio. Questo è il classico taciturnismo post litigata. Quello che persiste anche ora. Raggiungiamo il bancone con un uomo sulla cinquantina che, tra parentesi, m'inquieta un sacco. “Siamo qui per le camere”, dico prima che possa farlo lui e noto il suo sguardo stizzito nell'averlo preceduto. “Mmh...”. Si volta, afferra un mazzetto di chiavi e ce lo porge. “Avrete la stanza 27, terzo piano”. “Forse non ha capito bene, ho detto camere”, preciso. “Oh, credevo foste in coppia”. “No!”, esclamiamo all'unisono ed il signore ci guarda confuso. “Ma non vi converrebbe prenderne una sola anziché due? E' uno spreco di denaro”. “Appunto, provi a dirglielo. Non ragiona, è peggio di un mulo quando si punta su qualcosa”. Adesso l'occhiataccia se la becca lui. “No, voglio camere separate”. “Certo, finché a pagare sono io!”. “Non voglio dormire con te”. “Nemmeno io se è per questo, ma non mi va di buttare soldi! Non ne capisci il valore finché non te li guadagni da solo”. “Ehm...ragazzi?”. Per un momento ci siamo dimenticati della presenza dell'uomo che ci sta osservando in imbarazzo. “Ci scusi, mi dia le chiavi della camera”. Allunga la mano per prenderle, ma lo blocco per il polso. “C'è la possibilità di averne una con due letti singoli?”, chiedo. “No, mi spiace. Tutte matrimoniali”. Mentre sono intenta a guardare il receptionist, Leon mi prende sul tempo ed afferra le chiavi. “Hey! No, io non...”. “Tu verrai e basta perché lo dico io!”. Mi prende per il braccio e mi trascina verso le scale sotto lo sguardo stranito dell'altro. “No!”. “Non spendo soldi in più per le tue bambinate, muoviti!”. Seccata mi libero e proseguo lungo i gradini da sola, gliel'ho data vinta. Non è possibile. Arrivata al terzo piano, svolto a destra dove c'è una targhetta con su scritto 'Stanze 25-30' e percorro il corridoio finché trovo la stanza. Lo aspetto perché, ovviamente, le chiavi ce le ha lui. Appena mi raggiunge, le infila nella serratura e la apre. Vi entro ed ammetto che non è male come pensavo, è piuttosto decente. Accende la luce e chiude l'uscio mentre mi accomodo sul letto togliendomi le scarpe. “Guarda che vado in bagno”, dice. Non lo calcolo di striscio, per cui sbuffa e sento sbattere la porta del bagnetto. Almeno ce n'è uno per camera, ovviamente mi ero informata già questo pomeriggio sulla cosa. Suona il cellulare, lo estraggo dalla tasca e guardo lo schermo: è papà. Agitata mi alzo in piedi e mi dirigo verso la finestra che dà sullo 'splendido' panorama dell'autostrada, poi premo sul tasto 'Rispondi'. “Pronto?”. “Hey, Vilu! Va tutto bene?”. Scuoto il capo con mezzo sorriso. “Più o meno come neanche un'ora fa, me l'hai già chiesto”. Una risata dall'altro capo della linea, sembra che il suo nervosismo di ieri sia passato. “Scusami se sono assiduo, ma voglio essere sicuro che tu stia bene. E' la prima notte che passi fuori casa da quando...beh, da quando c'è Enrique”. Sarà anche iperprotettivo, rompiscatole, ma è pur sempre mio papà e come si preoccupa lui di me non lo fa nessuno. “Tranquillo, andrà tutto bene”. “Speriamo, mi raccomando stai attenta”. Assumo un'espressione perplessa. “Attenta?”. “Quando dormi con lui non succede mai niente di buono”. “Papà!”, grido sconvolta. Non è il tipo che fa questo genere di allusioni. “Scusa ancora, ma lo dovevo dire. Adesso dormirai?”. “Sicuro, è stata una giornata stancante”. “Fai bene. Buonanotte e sogni d'oro, paperotta”. “Buonanotte anche a te, ti voglio bene”. Riattacco e sorrido fra me, anche se mi fa imbestialire spesso quell'uomo è una delle persone migliori che abbia nella mia vita. Ritorno a sedermi e poso il telefono sopra il comodino, dopodiché mi distendo. Improvvisamente sento il bagno aprirsi, mi volto e sgrano gli occhi. Leon è in mutande e regge in una mano i suoi vestiti. “A-a-aspetta, ma che fai? Rivestiti subito!”. Non mi caga. Bene, sta conducendo il mio stesso gioco che originale! Mi soffermo per alcuni secondi a guardare il suo fisico che è da mesi che non...stop. Sono arrabbiata con lui. “Mi hai sentito? Rivestiti!”. Deposita gli abiti ordinatamente sopra una sedia in legno ormai marcio, si siede nel letto per poi stendersi come me. “Non lo vedi? Io dormo vestita!”. Mi sta mandando sull'orlo dell'esasperazione, ora è sistemato sul fianco e mi dà di schiena. “Certo che sei duro di comprendonio!”. Tutto ad un tratto si volta ed innalza il capo tenendosi poggiato coi gomiti al materasso. “Ricordi che detesto dormire con indumenti indosso? Ringrazia che abbia le mutande perché di solito manco metto quelle”. “Questo lo so, ma...”. “Non mi pare ti abbia mai recato fastidio”, dice inarcando un sopracciglio. Touché. Mi odio per questo. Vista la mia mancata risposta, torna com'era posizionato prima. Decido di spegnere la luce per porre fine a questo siparietto che magari visto da fuori può sembrare divertente, ma per me non lo è. Col buio è tutto migliore, non vedo niente e forse è meglio così. M'infilo sotto le coperte e poco dopo lo fa anche lui, cerco di socchiudere le palpebre per far sì che io dorma. Sento tirare e spalanco gli occhi: la piaga delle lenzuola. Le afferro per i bordi e le porto verso di me, prontamente lui replica. “Potresti non prenderti tutte le lenzuola? Sai com'è, siamo in febbraio”. “Potresti non essere così stronza? Sai com'è, è da tutto il giorno che continui”. Che testa di genitale maschile. “Ma io ancora mi chiedo come abbia fatto a sopportarti un anno!”. “Pft, a chi lo dici! Dovevo essere proprio stupido all'epoca”. “Se ti consola sappi che lo sei ancora”. “Ha parlato Miss Simpatia”. “Più di te questo è poco, ma sicuro”. “Fammi un piacere, ficcati un calzino in bocca e muci”. “Sai dove te lo metto il calzino?”. “Basta, adesso dormo. Non ne posso più di sentire la tua voce irritante!”. “Meglio. Prima ci addormentiamo, prima viene mattino, prima sarà finito tutto questo”. “Buona idea”. E dopo questo botta e risposta, mi rannicchio nella speranza di prender sonno al più presto.

 

 

La realtà è sfocata, i rumori ovattati. Il mondo è tinto di colori spenti e sbiaditi, sposto lo sguardo vitreo sulle mie mani bianche e venose poggiate su un volante. Poi torno a guardare fuori dal parabrezza: una strada lunga, desolata, circondata da arbusti secchi e morti. Arido e freddo, il luogo in cui torno spesso ogni notte. Ho la bocca semiaperta e la mente confusa, inizio a tremare convulsamente ed allungo il braccio verso il cruscotto tastandolo. Cosa sto cercando? So solo che ne ho tremendamente bisogno, mi manca quasi il respiro ed il mio sangue urla per averlo. Sto male, troppo male tanto da volermi sgolare o prendermi a pugni. Aldilà del mio stato di irrequietudine interiore, del mostro che mi sta mangiando dentro affondando i suoi denti affilati nella carne, da fuori non esterno nulla. Ho solamente gli occhi persi, un'espressione vacua e continuo a tremare. Sembrerebbe dal freddo, in realtà sono in preda a degli spasmi. “Mamma”. Una voce mai sentita, lontana tanto da riuscire a malapena a sentirla. “Mamma”. Continuo la ricerca di quella cosa sempre più in preda all'ansia, non riesco a trovarla. “Mamma”. Mi convinco che sicuramente sia una voce nella mia testa, perciò non le presto attenzione. Pillole, ecco ciò che voglio. Pillole. Improvvisamente mi porto le mani alle orecchie e chino il capo perché tutto ad un tratto i rumori sono diventati amplificati. “Mamma!”. Spalanco le palpebre e mi volto verso il sedile del passeggero: un bimbo sui cinque anni castano con dei grandi occhi verdi mi sta fissando preoccupato. Il volto del piccolo s'illumina di una luce gialla e, spaventato, indica qualcosa dietro di me: “Mamma!”. Mi volto di scatto e vedo dei fanali venire contro di noi dal buio, il rombo di un auto in corsa mi trafora il timpano e dopo non vedo più nulla.

 

 

Mi sveglio urlando e premendo il viso contro il cuscino, mi sgolo fino a sentire male alla faringe. Inizio a battere un pugno contro il materasso, non riesco a smettere di gridare. Annegare i miei demoni è impossibile, con gli anni hanno imparato a nuotare. Una mano mi afferra per il polso e mi trascina, mi dimeno. “No, lasciami!”. Mi prende per l'altro e mi fa ruotare in modo da essere di fronte a lui, sono bloccata dalla sua morsa. “Lasciami”, mugolo. “Basta, Vilu! Basta, non è reale”. Singhiozzo e tremo tutta, sento il suo braccio avvolgermi attorno alla schiena ed attirarmi a sé. Il mio pancione preme contro il suo ventre, poggio la testa sul suo petto. Mi passa la mano fra i capelli silenziosamente, sto continuando a piangere. “Shh, era solo un brutto sogno”. Il respiro è ancora frammentato, irregolare. “Calma, adesso ci sono io con te”, sussurra. Finalmente il battito cardiaco comincia a tornare normale, fino a poco fa stava per risalirmi in gola. Gli altri non sono mai stati in grado di gestire i miei incubi, potevano starmi accanto quanto volevano ma alla fine ad addormentarsi erano sempre loro mentre io non ero in grado di richiudere occhio. I brutti sogni capitavano anche quando dormivo con Leon ogni tanto, ma solo con lui riuscivo a riprender sonno. “Vuoi che ti canti la ninna nanna di mia madre? Ricordo che ti piaceva”. Annuisco e mi accoccolo. Sospira e comincia: “Nella notte oscura senza stelle nel ciel, io lo so che hai paura, prova a fidarti di me. Se non sai dove andar allora prendimi la mano, inizieremo a cantar e a scappare lontano. Buonanotte mio amor, buonanotte mio amor, non pensare al dolor che ci son io con te. Buonanotte mio amor, buonanotte mio amor, non pensare al dolor che ci son io con te. Buonanotte mio amor, buonanotte mio amor, non pensare al dolor che ci son io con te”. Le palpebre iniziano lentamente a chiudersi ed ogni parte del corpo si sta intorpidendo. Quando sono ancora in uno stato di dormiveglia, sento che mi lascia un bacio sulla fronte e mormora: “Buonanotte, bimba”.

 

 

ANGOLO DELL'AUTRICE

Wei wei weeei! Beh, che dire? Questo è un capitolone! Angie e German (anche se un po' meno) decidono di lasciare libero arbitrio a Vilu, c'è la telefonata con Leon, il viaggio, il motel e la notte. Ammetto che mi sono divertita un sacco a scrivere la parte del loro litigio, quando si lanciano fracciatine ed offendono sono uno spettacolo e sembra per un secondo di rivivere i primi capitoli di 'Indovina perché ti odio'. L'incubo è inquietante così come un altro che avevo trattato qualche mese fa e, modestamente, adoro le cose macabre se non si era capito. Eh beh, la parte in cui cerca di farla riaddormentare è bellissima perché la conosce benissimo e sa come agire. Oggi ho deciso di non dilungarmi troppo, lascio a voi i commenti e i giudizi! Alle recensioni risponderò stasera perché devo studiare e così avrò modo di concentrarmi solo su quelle dopo cena anziché rimandare lo studio a tardi. Ringrazio chi recensisce e mette la storia fra le seguite, preferite e ricordate.

Grazie per il vostro supporto!

Un bacione e indovinate? Stay tuned.

Gre :3

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8

 

 

 

Apro gli occhi lentamente, un raggio di luce mi abbaglia il viso. Strizzo le palpebre, sbadiglio e mi stiracchio. Mi sento strana, quindi abbasso lo sguardo e noto il suo braccio avvolto attorno al mio ventre ed arrossisco. Il suo corpo è poggiato contro la mia schiena, il suo volto infossato nei miei capelli, il suo respiro nel mio collo. Mi sfugge un sorriso e, timidamente, allungo la mano quasi tremante verso la sua. Lentamente la poso e la faccio aderire, al contatto emette un sospiro beato sebbene sia immerso nel mondo dei sogni. E' sempre stato un coccolone anche se è restio ad ammetterlo. Ricordo ancora quando guardavamo la televisione a casa sua e si distendeva nel divano poggiando la testa sulle mie gambe, poi pretendeva che gli accarezzassi i capelli e finiva ogni volta con lui che ronfava mentre continuavo a vedere il film da sola. D'inverno aveva sempre freddo e ti credo, dormiva in mutande o anche senza! Dovevo ogni volta aggrapparmi come un koala alla sua schiena perché altrimenti lui 'non riusciva a conciliare il sonno'. Al risveglio, inoltre, le solite carezze sul capo erano più che gradite e se me le dimenticavo lo capivo appena ci alzavamo dal letto dal suo atteggiamento indisponente ed acido. Mi manca tutto questo. Anche quando mi rispondeva male in autobus solo perché non aveva chiuso occhio la notte, quando assaggiava cos'avevo nel piatto senza il mio permesso, quando si lamentava ogni due per tre e cercava disperatamente scuse per fare pausa mentre facevamo i compiti. Eravamo incasinati, battibeccavamo ogni giorno per cazzate, ma eravamo felici. O meglio, io lo ero. Un verso gutturale, riapro gli occhi che, senza rendermene conto, ho richiuso. Si sta muovendo lentamente, è in procinto di svegliarsi. Lo conosco bene: verso, movimenti e poi spalanca le palpebre di scatto, mai gradualmente come faccio io ad esempio. Sento il suo corpo irrigidirsi improvvisamente, ecco: ora è sveglio. “Ma cosa...”, sussurra. Alzo lo sguardo ed incrocio i suoi occhi ancora assonnati, ha il collo allungato sopra di me. “Buongiorno”, dico mentre mi osserva come se avesse visto un fantasma. “Oh, buongiorno...”. Aggrotto la fronte, è una situazione alquanto strana e disagevole: io poggiata su un fianco, lui proteso verso me che mi scruta come se avessi del vomito spiaccicato in faccia. “Che hai da guardare?”. Rapidamente scompare dal mio campo visivo e si stacca dal mio corpo. “Sei sveglia da tanto?”. “Bah, cinque minuti”, rispondo senza nemmeno girarmi. “Oh, allora scusami”. “E di cosa?”. Mi metto seduta passandomi le mani nel viso. “Se mi sono avvinghiato, stanotte avevo...”. “...freddo, lo so”, concludo la frase prima che possa farlo. Mi volto verso di lui, è steso con le coperte che gli lasciano scoperta la parte superiore del busto. Abbozza un sorriso e lo fisso ricambiando imbarazzata, se non fosse per il pancione mi sembrerebbe di essere tornata a due anni e mezzo fa. L'occhio cade sulla clavicola destra, solo adesso noto che ha un tatuaggio che ricordo non avesse. E' una scritta in corsivo, con molte grazie e designa una frase. “Nessuno si salva da solo”, leggo ad alta voce. “Quando l'hai fatto?”. Si mette pure lui a sedere e si gratta la nuca. “Qualche mese fa”. “Perché?”, chiedo curiosa. “Perché mi andava”. “No, intendevo dire: perché questa frase?”. “Perché mi piaceva”, risponde dopo un po' di secondi scrollando le spalle. “Ah”. “Già”. Abbasso la testa. “Comunque grazie per stanotte”. La mia voce è talmente flebile da sembrare un soffio d'aria. “Ehm...di niente, tranquilla”. Avverto le molle del materasso scricchiolare, significa che si è messo in piedi. Lo guardo cercando di non farmi notare, si sta dirigendo verso la sedia dove sono riposti i vestiti. Improvvisamente suona un cellulare, dalla suoneria deduco sia il suo. Rovista fra la tasca dei suoi pantaloni e lo estrae, fissa lo schermo titubante per poi rispondere. “Hey”. La sua espressione pare quasi scocciata. “Sì, lo so”. Annuisce e lo frappone fra il collo e la spalla mentre s'infila i jeans. “Certo...no, magari per le sette”. Si alza la zip ed allaccia la cintura. “Ho da fare”. Riprende il telefono con la mano. “Le solite cose”. Rotea gli occhi. “No, ma ti pare?”. Allunga il braccio per afferrare la camicia, ma subito lo ritrae. “Il punto è che sai già cosa ne penso”. Annuisce. “E va bene, dai”. Tamburella le dita sullo schienale. “Davvero? Me lo mostrerai”. Ora sorride, chissà con chi sta parlando. “Ma va là, ti andrà bene di sicuro!”. Ridacchia, la voglia di scoprire chi è in linea è tanta. Anche perché nella mia mente c'è solo un nome: Raquel. Mi sembrava tutto troppo perfetto, questo è il classico scivolone che mi fa ritornare alla realtà. “Okay, allora a stasera. Ciao, scema”. Riattacca e lo posa sopra il comodino, poi ritorna dov'era per indossare la camicia silenziosamente. Era lei. Sicuro che era lei. “Chi era?”, faccio la finta tonta. “Ah, era Kel”. Lo sapevo. “E che voleva?”. Inizia ad abbottonarsela, fa le spallucce con fare indifferente. “Cose”. Inarco un sopracciglio, ma che razza di risposta è? Detesto quando svia i discorsi a suo piacimento. “Che vuol dire?”. Sbuffa mentre si sistema il colletto. “Perché insistere tanto? T'interessa in qualche modo?”. “No!”, sbotto rapidamente con gli occhi sgranati. “Cioè, volevo dire...pff, figurati”. Apre la porta del bagnetto lasciandola aperta, lo intravedo mentre si dà un'aggiustatina di fronte allo specchio. Passano gli anni, i giorni, i mesi, ma il culto di sé stesso non passa mai. “Vieni a fare colazione in autogrill?”, domanda con la sguardo fisso nel suo riflesso. Scrollo le coperte di dosso e mi metto le scarpe, ecco uno dei grandi vantaggi del dormire vestiti. “Ovvio, ti ricordo che devo mangiare per due”. “Come se non lo facessi anche prima”, commenta di rimando. Spalanco la bocca stupita, questo è un vero e proprio affronto che merita un responso degno del mio sarcasmo. “Certo, perché sono io quella che ha mangiato tre BigMac, due frozen yoghurt con gli Smarties ed altrettante porzioni di patatine in neanche mezz'ora”. “Quel giorno avevo fame!”. “Fame? Questo è essere una discarica, non avere fame!”. Mi metto in piedi e passo i palmi sugli abiti stropicciati. “Puoi ricordarmi chi ha detto: 'Non voglio prendere una maxi pizza se la mangiamo in due, ne voglio una solo per me'?”. “Sì però alla fine ne abbiamo presa solo una e chi se l'è mangiata quasi tutta?”. “Non rigirare le cose come vuoi te”. “Sei un bambino obeso senza speranza”. Esce dal bagno con un sorrisetto canzonatorio, so che infondo ancora si diverte a prendermi in giro ed a subire dei contrattacchi a sua volta. Non c'è gusto a offendere se la persona in questione non risponde ed io lo faccio sempre, ciò rende la cosa eccitante. “Veramente tu stai dando dell'obeso a me?”. Sposto lo sguardo su me stessa e, cavoli, questo è un punto a suo favore. Devo rimediare. “Vogliamo elencare le cause della mia temporanea obesità?”. “Opera dello Spirito Santo?”. Incrocio le braccia all'altezza del seno. “Non direi proprio”. “Secondo me è stata la cicogna”. “Beh, effettivamente c'è un uccello di mezzo”. “Touché”. Scoppio in una fragorosa risata tanto da poggiarmi al comodino per non perdere l'equilibrio, dal suo canto lui in un primo momento rimane serio dopodiché si lascia andare. Appena mi riprendo, asciugo le lacrime e chiedo: “Quindi questo significa che ho vinto?”. Mi punta l'indice contro. “La battaglia, Castillo, ma non la guerra”. “Quale onore sentire l'ammissione della vostra sconfitta, Vargas”. “Vabbè, puoi vincere solo buttandoti su argomenti sconci”. “Ma cosa!”, grido. “Io pervertita? Ricordi cosa ti è successo quella volta durante ginnas...”. “Non continuare”, mi ferma con un gesto della mano. “Lo ricordo bene ed era colpa tua”. “Involontariamente”. “Non ha importanza, voglio dimenticare”. “Fai bene con la figura di merda che ti sei fatto davanti a tutta la classe”. “Infatti”. Si siede sul materasso per mettersi anche lui le scarpe, attraverso la stanza per andare dal suo lato del letto che, tra l'altro, è più vicino all'uscita. Mentre lo sto raggiungendo, a terra accanto alla sedia noto un mazzetto di chiavi: probabilmente gli sarà scivolato quando ha afferrato di fretta i pantaloni. Mi accuccio e lo raccolgo, ai miei occhi balza subito la metà di un cuore con su scritto 'Ever' con diamanti incastonati. Il respiro mozzato, è la parte mancante di quello che ancora conservo gelosamente in un portagioie. Il regalo del nostro anniversario. Tutto ad un tratto mi viene tolto dalle mani, alzo il capo e vedo che se l'è infilato in tasca. “Che c'è?”, domanda scontroso. Ho un'espressione intontita. “Ah, nulla...”. “Io vado giù, tu fai quello che vuoi”. Ed esce lasciandomi con mille interrogativi e più confusa di prima.

 

 

“Signorina Castillo, è il suo turno”. Mi alzo e vado verso l'entrata seguita da Leon, entro nella stanza e mi siedo su una sedia paffuta color vermiglio. La porta si chiude dietro di me, ha fatto pure lui il suo ingresso. Dietro la scrivania c'è il dottor Schwarz, si può dire una delle figure professionali che mi conosce più di tutti. E' specializzato nella terapia dei disturbi psichici e di tanto in tanto torno da lui per farmi prescrivere i farmaci più adatti a me e alla situazione che sto attraversando. E' un uomo dalla carnagione olivastra, panciuto e con un gran naso a patata che sostiene un paio di occhiali tondi. Ha pochi capelli bianchi solo ai lati, mentre sopra la testa è completamente pelato. Appena mi vede mi sorride e congiunge le mani le cui dita sembrano dei salsicciotti, ho sempre pensato che incarnasse l'aspetto del nonno che non ho mai avuto. “Adesso che sei entrata ti chiamo Vilu. Sai com'è, da fuori devo sembrare professionale”. Mi fa l'occhiolino e sorrido, intanto sento Leon sedersi al mio fianco. Solo ora mi rendo conto di quanto imbarazzante sia la cosa, dovrò parlare dei miei problemi mentali di fronte al mio ex ragazzo e non mi allieta in alcun modo l'idea. Per carità, è a conoscenza di tutto ciò che ho passato, ma non mi va molto a genio che sappia cosa sto passando ora. E per giunta a causa sua in parte, non credo ci voglia una scienza per arrivarci. Come ho fatto ad essere così tonta da accettare il suo invito? Sentirà tutto. “Allora, le cose vanno meglio? Il padre che ti ha abband...”. Gli lancio un'occhiataccia, sposta lo sguardo alla mia destra ed intuisce subito che il famoso padre di cui si è tanto parlato per mesi è proprio qui. “Oh, mi scusi. Lei è il padre, giusto?”. Annuisce e gli porge la mano, strana reazione da parte sua. Il dottore la stringe cordialmente e gli sorride. “Leon”. “Dottor Friedrich Schwarz”. Poi torna a rivolgersi a me. “Gli attacchi come vanno?”. Titubante guardo lui, poi furtivamente Leon. Osserva annoiato un portapenne con dentro delle paperelle che galleggiano in un liquido blu picchiettandovi con l'indice per farle muovere. Non gliene frega niente o sta fingendo? “Mmh...insomma”. “Cosa intendi dire?”. Si sistema gli occhiali per vedermi meglio. “Nel senso che nell'ultimo periodo sono stati molto più frequenti e papà mi ha accusato di abusare troppo dei medicinali”. Con la coda dell'occhio noto che non giocherella più, si è bloccato. “Quante gocce prendi al giorno?”. “Minimo una decina di gocce a volta”. “Quante volte?”. Mi sfrego le mani nervosa, sento degli smeraldi puntati contro. “Dipende dal colore della giornata”. L'uomo afferra una penna ed inizia ad annotare delle informazioni su un bloc notes. “Colore?”. Annuisco. “Sembra una cosa stupida, vero?”. “No, era solo per chiedere. Vorrei che tu mi spiegassi, semplicemente”. Mi guardo le nocche sporgenti e le tasto. “E' forse una delle poche cose che ho fatto di quanto mi ha indicato la psicologa della scuola. Devo dare un colore alle giornate che passo in base all'umore, sembra una bambinata e forse lo è: tutti gli psicologi ti trattano come se fossi un bambino con qualche ritardo”. “E come hai classificato le tue giornate?”. Parlare è dannatamente difficile sapendo che lui mi ascolta, mi sta scrutando, avverto la sua attenzione su di me e sulle mie parole. “Beh, visto come andavano le cose ne ho riconosciute quattro principalmente: quelle grige, in cui provo l'apatia più totale, le nere sono quelle in cui mi sento uno straccio per qualsiasi cosa, poi ci sono quelle blu nelle quali provo dolore sia fisico che psicologico ed infine ci sono le giornate rosse in cui se non mi alzassi dal letto sarebbe meglio perché sono nervosa ed irascibile”. Un rumore di penna che si sfrega contro la carta, sta riportando ciò che dico. “Non hai colori riguardanti giornate positive?”. Scuoto la testa. “Io non ho giornate positive”. “Tornando al motivo originario per cui sei qui, quante dosi di psicofarmaci prendi di giornata in giornata?”. Mi mordicchio il labbro riflettendo per alcuni secondi, poi rispondo sempre col capo chino: “Nelle grige una volta, ma sporadicamente perché non sono soggetta a sbalzi umorali. Nelle nere un paio così come per le rosse, nelle blu a volte anche tre”. Sospira, poi posa il tutto e ritorna ad osservarmi. “Con la psicologa come ti stai trovando?”. “Male, non riesco ad aprirmi”. Si gratta il collo con un dito. “Mmh...ti dà qualche esercizio da fare oltre a questa cosa del colore?”. Scrollo le spalle. “Le solite cose da psicologi: scrivi tutto ciò che pensi in un quaderno, concentrati sugli aspetti positivi della tua vita, sfoga i tuoi sentimenti con qualche hobby, cerca di tenere la mente impegnata circondandoti di persone per pensare ai problemi il meno possibile...consigli che si danno ai depressi, insomma”. Corruga la fronte. “Quindi ti hanno presentata come depressa?”. “Sì”. “E secondo te lo sei?”. Batto il piede a terra, Leon è troppo silenzioso. Mi sembra di mettermi a nudo di fronte a lui dopo moltissimo tempo, sono vulnerabile sotto al suo sguardo attento. “No, so cosa significhi esserlo e non è minimamente paragonabile a questo”. Posa la testa sulla mano stretta in un pugno. “Cosa significa essere depressi per te?”. Fisso il legno della scrivania di fronte a me, odio questo tipo di domande. “Vivere pare quasi una punizione, maledici il giorno in cui sei nato e ti consola il fatto che ogni ora che passa ti avvicini alla fine della tua esistenza. Adesso ho più ragioni che mi trattengono qui: il bimbo, la mia famiglia, gli amici. Non rinuncerei mai alla mia vita per quanto brutta possa essere, non posso farlo perché ho acquisito più responsabilità negli anni. Ecco perché non sono depressa”. Incrocia le braccia con fare pensoso, cosa sta tramando? Poi si volta verso Leon e mi sale il cuore in gola. “Lei cosa ne pensa?”. “Io?”, chiede sorpreso. “Sì, lei”. “Ehm...uhm...”. Ruoto la testa in sua direzione, ha le labbra tenute all'indentro e gli si è formata la sua caratteristica fossetta. E' a disagio e lo posso capire, perché il dottor Shwarz sta facendo questo? “Beh, Violetta è una persona...fragile ed in quanto tale è più predisposta a scoraggiarsi di fronte ad ogni minimo ostacolo e possiede poca autostima. Penso di essere l'unico, ma io le credo: il suo atteggiamento tende a sembrare depresso anche quando non lo è. E' fatta così, perché cambiarla? Certo, di sicuro a German viene un colpo al cuore ogni volta che si comporta in questa maniera, ma penso sia normale. Non vedo perché provare a modificare questo tratto del suo carattere, invece di tentare invano di correggerla bisognerebbe starle accanto e cercare di farla sentire a proprio agio nel mondo. Trovo controproducente forzarla ad essere una che non è, si peggiora la situazione e basta perché è contrario alla sua volontà. Violetta ha solo bisogno di essere capita anche se sono il primo ad ammettere che sia arduo, ma una volta compreso il suo modo di essere diventa di facile lettura. Va benissimo così com'è, non ha senso trasformarla in un'altra”. Sorrido timidamente e mi giro dalla parte opposta per non esser vista, lui ha capito che stanno tutti sbagliando con me. Lui sa che non sono depressa, crede a ciò che dico. “Interessante...”. Torna a me. “Che facciamo, Vilu? In quanto terapista ti consiglio vivamente di ridurre le dosi perché sono leggermente di più di quelle che ti ho prescritto la volta scorsa”. Strappa il foglio per le ricette e comincia a scrivere. “Ad ogni modo, i tranquillanti te li prescrivo lo stesso, ma mi raccomando vacci piano”. “Okay”. Mi passa la prescrizione medica e l'afferro. “Ultima cosa e poi non ti torturo più: com'è andata la visita?”, domanda sorridendo. Adoro il dottor Schwarz, mi ha vista praticamente crescere e racconto più cose a lui che alla psicologa. Effettivamente è un terapista per disturbi psicologici, quindi giù di lì una cosa simile. “Molto bene, il bambino è in perfetta salute”. “Ah, è un maschietto? Ricordo che l'ultima volta che ci siamo visti l'avresti scoperto di lì a poco”. “Sì, è un maschietto”. Involontariamente poso la mano sopra al pancione e lo accarezzo quasi fiera del mio bimbo. “Si chiamerà Enrique”. “Che bel nome!”. “Ed ho portato le ecografie come promesso”. Poggio la borsa sulle ginocchia, la dischiudo ed estraggo una busta gialla per poi porgergliela. “E brava la piccola Vilu che ormai tanto piccola non è!”. La apre e tira fuori le varie ecografie, noto che Leon sta allungando il collo per vederle. Perché mi manca il respiro? “Ma che bel feto!”, esclama il dottore con la sua enfasi facendomi scoppiare a ridere. Riesco a scorgere pure lui sorridere. “Posso guardarle anch'io?”. Deglutisco ed, alzando un angolo della bocca, rispondo: “Certamente”. L'uomo gliele passa e lui inizia ad osservarle, sposta la sedia più accanto a me ed arrossisco senza nemmeno rendermene conto. Alzo lo sguardo e noto che Friedrich scuote il capo sorridente, effettivamente ho quasi diciannove anni e mi emoziono per cose che neanche una dodicenne. “Guarda, ha il tuo stesso nasino all'insù”, commenta indicando il naso di Enrique. “Già, spero prenda i tuoi occhi”. “Perché mai?”, chiede senza togliere l'attenzione dal bambino. “Sono belli, hanno un colore stupendo”. “Sono meglio i tuoi”. “Perché? Sono banali”. Passa ad un'altra ecografia. “No, sono più espressivi”. Dopo aver dato un'ultima rapida occhiata ad entrambe, le reinserisce dentro e mi ridà la busta. “Grazie”, dico mentre le rimetto dov'erano assieme alla ricetta per i tranquillanti. “Grazie a te per avermele mostrate”. I nostri occhi s'incrociano e mi perdo in un dolce mare color smeraldo con la mano ancora a mezz'aria. “Sai che non lo faccio mai, ma devo chiederti di andare visto che il mio compito l'ho svolto ed è già tanto che abbia trovato un buco per darti la ricetta. Fra poco ho una visita vera e propria”. Ritorno alla realtà e mi volto verso il dottore. “Oh, certo. Grazie mille per essere riuscito a trovare del tempo”. “Figurati, è sempre un piacere aiutarti”. Mi alzo in piedi e Leon mi segue a ruota, mi dirigo verso la porta. “Grazie ancora ed arrivederci”. “Arrivederci, ragazzi”. Il primo ad uscire è lui, io prima di farlo mi volto verso l'uomo che dice quasi in un bisbiglio per non farsi sentire al di fuori della stanza: “Mi sa che dovrai trovare un colore diverso per dipingere le tue giornate d'ora in poi”.

 

 

“What's the worst that I could say? Things are better if I stay! So long and good night, so long and good night!”. Più che cantare, sto urlando come un animale, ma non importa perché ho un tricheco proprio al mio fianco. “Well, if you carry on this way, things are better if I stay! So long and good night, so long and good night!”, continua. Tamburello le dita al ritmo della musica sulla coscia e continuo a ridere come una demente. “Can you hear me? Are you near me? Can we pretend? To leave and then we'll meet again when both our cars collide!”. Riprendiamo il ritornello assieme: “What's the worst that I could say? Thing are better if I stay! So long and goodnight, so long and goodnight! Well, if you carry on this way, thing are better if I stay! So long and goodnight, so long and goodnight!”. Finita la canzone batto le mani sotto lo sguardo divertito di Leon. “'Helena' dei My Chem è sempre bella da cantare a squarciagola”, dico. “Diamo il meglio di noi con questa”. “Esatto”. “Mi era mancato il karaoke in macchina”, ammette ridacchiando. “Anche a me dal momento che papà ha uno spirito d'intraprendenza pari a quello di un bradipo e poi non ascoltiamo lo stesso tipo di musica, per ciò”. “Pure con Raquel vale lo stesso, a lei piace la musica soul americana tipo Whitney Houston, Aretha Franklin o Tina Turner. Come faccio a cantare una loro canzone? Sputo entrambi i polmoni alla fine!”. “Ti vedrei bene alla 'Battaglia di band' con 'I will always love you'”. Ci fermiamo ad un semaforo, siamo a Buenos Aires inoltrata. Ruota il capo verso di me con un sopracciglio inarcato. “Se mi vuoi vedere steso e privo di sensi addosso alle prime file”. Sorrido scuotendo il capo. “Seriamente, che porterai?”. “Una canzone”. Rimette in moto l'auto e ripartiamo. “Ma dai? Credevo avresti portato un'esibizione circense”. “Non riesci proprio a non fare battute sarcastiche su di me”. “Questo perché tu mi riempi di risposte vaghe”. Rotea gli occhi. “E va bene, porterò una canzone scritta e composta da me. E' abbastanza esaustiva come risposta?”. “Per niente. Di che parla?”. “Non te lo dico”. “Perché?”, domando implorante. “E la tua di che parla? Sentiamo”. “Non te lo dico”. “Vedi?”. Sbuffo e poso lo sguardo sul finestrino, non manca molto al mio quartiere. “Domani ti fermerai dopo scuola per quella cosa dei cartelloni?”, mi chiede. “Certo, te?”. “Sì, pure io”. “Ti fermi a mangiare al bar della scuola?”. “No, mangio qualcosa alla 'Trattoria degli artisti' coi ragazzi. Perché?”. “Ah, niente...”. Porto le mani verso le ventole dell'aria calda per scaldarmele. “Tu dove mangerai?”. Faccio le spallucce. “Al bar con Maxi probabilmente”. “Ah, quindi non c'è il tuo amico?”. Increspo la fronte. “Amico?”. “Il simpaticissimo Dieguito, no?”. “No, perché?”. “Peccato, ci tenevo tanto a vederlo”, commenta beffardo. “Mi sto sforzando di crederti, sul serio”. Svolta ed entra nella via in cui abito, avanza per poi fermarsi di fronte al cancello di casa mia. Fisso la porta un po' intimorita, ma poi ricordo le parole di Angie: le vita è mia e sono mie pure le scelte riguardanti essa. “Grazie per tutto: il passaggio, la compagnia, il pagamento del motel”. Ridacchia e mi sorride. “Figurati! Grazie a te invece, infondo mi sono divertito”. Mi slaccio la cintura e poggio la mano sulla maniglia. “Anch'io e scusami per gli screzi, sono stata un po' troppo cocciuta ed offensiva”. “Ed io troppo fermo sulla mia posizione”. “Pace?”. “Pace”. Apro la portiera ed esco dall'auto. “Ci si vede”. “A domani”. Chiudo lo sportello e faccio per suonare il campanello, quando abbassa il finestrino e mi ferma: “Vilu?”. Mi volto all'indietro. “Sì?”. “Ti voglio bene”. Rimango stupita in un primo momento, poi rispondo: “Anch'io, Leon”. Sul suo viso si estende uno dei suoi bellissimi sorrisi e riparte, mentre io sono un uragano di sentimenti.

 

 

Ho appena finito di fare la doccia e sono seduta sulla scrivania col pc acceso, siccome ho finito tutti i compiti m'intrattengo su Internet prima di andare a dormire. Clicco sull'ennesima gif di coppie che si amano felici e la osservo, dovrei aggiornare i miei passatempi perché questi divengono ogni giorno sempre meno interessanti. Sobbalzo quando sento un trillo, proviene da Facebook. Apro la finestra relativa e guardo in basso: Diego mi ha scritto un messaggio in chat. “Ti prego, smettila di ignorarmi. Parlami, offendimi pure se ti va, ma dimmi qualcosa!”. E' da quando è avvenuta la litigata in ospedale che non gli parlo ed ignoro i suoi tentativi di contatto. Il punto è che non riesco ancora a capacitarmi di ciò che ha fatto, è stato davvero un colpo basso. Sapeva che Leon è importante per me, sapeva che desideravo avvicinare Enrique al suo vero padre. Sapeva ed ha fatto una grandissima cazzata per quanto mi riguarda. Ne arriva un altro: “So che lo guarderai e che non mi calcoli di proposito, per favore Vilu...”. Fisso per alcuni secondi lo schermo, dopodiché di getto scrivo: “Ho risposto, contento?”. Mi risponde subito dopo. “Ora sì”. “Felice per te”. “Possiamo parlare?”. Roteo gli occhi. “Non ho tempo, né voglia”. “Lo so di aver sbagliato”. “E allora perché perseveri?”. Detesto trattarlo così, ma dopo quello che ha fatto non ho altra scelta. “Perché voglio che tu mi perdoni”. “La fai troppo facile”. “E' facile in verità”. “No, non lo è”. Il responso ci mette un po' ad arrivare, cosa sta digitando? La storia della sua vita? “Lui l'hai perdonato subito però. Io agisco per il tuo bene e non sono degno del tuo perdono, lui ti ha lasciata sola con un bimbo in grembo per mesi e se lo merita giustamente”. “Non è la stessa cosa”. “No, ma se mi lasciassi spiegare...”. “E allora spiega, dai”. “Virtualmente è tutto troppo fraintendibile”. “Allora saluti”. “No, ti prego! E se te ne parlassi domani?”. “Mmh...”. “Non ti costringo a perdonarmi, voglio solamente che tu mi ascolti per una manciata di minuti. Poi sei libera d'ignorarmi, ma prima devi almeno sentire ciò che ho da dire”. Sospiro pensosa, dovrei farlo? La piccola parte di me che tiene ancora molto a lui sta lottando per venir fuori. “Va bene”, l'osservo alcuni secondi per poi inviarlo. “Grazie”. Ma invece di rispondere, chiudo la chat. Ogni cosa che faccio è fonte di dubbi continui, non riesco mai ad essere completamente sicura delle azioni che compio. Che si sia veramente pentito? Devo stargli lontana per la questione Ludmilla? Non lo so. Non voglio nemmeno pensarci, domani ho tempo a sufficienza per farmi tutte le pare mentali del mondo. Scuoto il capo come per levare ogni brutta riflessione dalla mia mente ed aggiorno la home sperando di distrarmi in qualche modo. Riduco gli occhi a due fessure, Leon ha pubblicato un video di gente che cade a terra con didascalia: “Sono una cattiva persona se rido?”. E' sempre il solito deficiente, ricordo ancora quando mi taggava in filmati idioti nonostante non lo volessi e vi scriveva sempre “Guardalo, fa morire!”. Metto 'mi piace' e commento: “Certo! Andrai all'inferno, figlio di satana”. Wow, è la mia prima interazione su Facebook dopo mesi e mesi. Improvvisamente mi rendo conto che c'è qualcosa di strano nel suo profilo, diverso. Sposto il cursore sopra il suo nome e clicco per aprire il suo account: rimango piacevolmente sorpresa nel constatare che ha cambiato immagine del profilo ed ha rimesso la foto precedente con il suo amico, mentre per la copertina rimane ancora quella con la moto. Nessuna traccia di Raquel. Ed io sono felice per così poco.

 

 

ANGOLO DELL'AUTRICE

Hey ragazzini calvi (?) come state? Alors, partiamo con ordine: mi scuso per il vergognoso ritardo e per il pessimo angolo dell'autrice che farò, prevedo il futuro. Come ben sa chi mi segue e contatta al di fuori da Efp, ho venduto l'anima alla scuola ultimamente e sono costantemente impegnata fra studio, compiti, attività extra. Ah, oggi credo mi sia pure andata male la verifica di fisica porco il lama! Comunque, vogliamo fare un commento serio? No, perché io potrei divagare ore ed ore a parlare della mia vita sebbene non abbia niente d'interessante. Cominciamo dal momento che tutti gli shippatori doc amano leggere: il risveglio. Come lo avete trovato? Ve lo sareste aspettato un Leon così 'viziato' ai tempi in cui stava con Vilu? Inoltre è sempre bello rivedere i Leonetta prendersi in giro a vicenda! Mmh, ma cos'è quel portachiavi? Non sarà mica il regalo di Violetta? La domanda ora sorge spontanea: perché lo tiene ancora? Troncone successivo: la visita dal terapista. Che ne pensate? Le parole di Leon vi hanno colpiti? Ultime due scene: come abbiamo visto, riprendono le loro vecchie abitudini e sembrano pure divertirsi un mondo. Perché non tornano insieme? So che mi porrete questa domanda per molti altri capitoli e pure che la voglia di prenderli a botte entrambi sarà tanta u.u
Diego implora il perdono di Violetta che in un primo momento rifiuta e si dimostra fredda, poi accetta di ascoltare le sue ragioni. Ha fatto bene secondo voi? Oh, ma qui qualcuno ha cambiato immagine del profilo e tolto Miss Perfezione dalla scena (per il soprannome di Raquel credits to ChibiRoby lol). E' casuale oppure no la cosa? Aspetto con ansia i vostri pareri e vorrei aprire una parentesi sulle venti bellissime recensioni del capitolo precedente! Sbaglio o più Leontta c'è e più fioccano recensioni? u.u Mi spiace per il fatto che sono lenta come l'anno della fame a rispondere ed adesso mi metto seriamente a rispondere a quelle che riesco perché devo finire di studiare, ma se portate pazienza arriveranno tutte. Vi ho già detto che ho venduto l'anima alla scuola? No, perché qui il diavolo ha da invidiare alla scuola per questo! Grazie mille per il vostro supporto, siete in moltissimi a seguire la storia e mi rendete veramente felice. Pensate che a volte mi rallegrate persino la giornata, cari che siete :3

Alla prossima e stay tuuuuned,

Gre ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9

 

Scendo dall'auto e saluto papà con la mano. Una nuova settimana è cominciata, altri tre mesi e mezzo di questa tortura. Chiudo la portiera e mi sistemo lo zaino sulle spalle, osservo l'ingresso della scuola di fronte a me con le labbra contratte. Il rumore della macchina che si allontana mi distoglie dai miei pensieri, decido di farmi forza e dirigermi verso la grande porta in vetro. “Vilu”. Mi fermo per voltarmi verso la voce che mi sta chiamando. “Lud”. Mi si avvicina, come sempre è impeccabile: treccia a lato del collo, cappotto blu lungo dal cappuccio col pelo e trucco curato nel minimo dettaglio. Sposto lo sguardo su di me che invece indosso una giacca larga ed impermeabile che sembra piuttosto un sacco della spazzatura, ho i capelli raccolti in un distratto chignonne e delle Converse basse dal nero ormai sbiadito. Tre anni di amicizia con Lud non mi hanno toccata dal punto di vista estetico. “Come stai?”, chiede. “Più grossa di ieri, te?”. Ridacchia per poi rispondere: “Tutto piatto, la mia vita è ferma come acqua stagnante”. I miei occhi cadono sul cancello e noto Fran e Camilla intente a parlare, incrocio lo sguardo della mia migliore amica che si rigira subito. Siamo alle solite, non è possibile andare avanti così. Posso capire tutto ed essere amica di entrambe separatamente, ma Ludmilla non è un mostro. Sono conscia di quanto insopportabile fosse i primi due anni, ma se sono riuscita io a perdonarla perché non loro? Cami mi sembra abbastanza neutrale sulla questione, mentre Francesca invece pare non la regga. “Vieni con me un secondo?”. “Mmh sì, certo”. Parto per raggiungerle, mentre l'altra mi segue. “Buongiorno”, dico. Si voltano al nostro arrivo alquanto sorprese, evidentemente non se lo sarebbero aspettate. “Ciao Vilu, ciao...Ludmila”. “Ciao a tutte!”, esclama Camilla sempre di buon umore. Non so come faccia il lunedì mattina, la trovo una cosa contro natura. Contraccambiamo i saluti e ci fissiamo in imbarazzo, in questi mesi mi sono abituata a vederle divise e mai tutte insieme. Mi metto per un secondo a guardarmi attorno e vedo una Volvo nera parcheggiare poco distante, quella Volvo nera. Schiudo le labbra, la portiera si apre scoprendo la sua figura: oggi si è rasato la barba, ha intorno pure il giubbotto che metteva anni fa. Lo fisso incantata, in quest'istante ho l'illusione che una macchina del tempo mi abbia catapultata all'indietro. Si sistema il ciuffo e sospiro, il momento viene magicamente rovinato dalla comparsa di Raquel la quale esce dallo sportello opposto. Dovevo immaginarlo perché vengono ogni mattina assieme, perché una piccola parte di me era convinta del contrario? Sono un'idiota. E' tutto cambiato: il nostro rapporto, le nostre vite, il nostro atteggiamento. Ciò che è successo sabato e domenica è stata un oasi in mezzo ad un deserto arido ed angusto, sono tornata alla realtà vedendoli. Lui sta con lei ed io sono solo una cretina. Perché non ha mai un capello fuori posto? La cosa mi frustra assai. Labbra rosse, occhi contornati di nero che valorizzano il colore paralizzante degli occhi, un capello a bombetta stile Charlie Chaplin, un doppiopetto sfiancato stretto alla vita da una fascia vermiglio, pantaloni stretti grigio scuro e stivaletti neri con un po' di tacco. Mi costa ammetterlo, ma si veste bene. “Cazzo, ha stile la ragazza”. Lancio un'occhiataccia a Lud anche se infondo penso lo stesso. “Vilu, non credo che sia il caso...”, commenta Fran. Non le ascolto, continuo a guardare la scena. “Anch'io. Violetta, basta”, Cami mi tira per un braccio ed a quel punto mi volto. “Perché vuoi farti del male da sola?”, domanda Francesca. “Ma...”. “Me lo chiedo spesso anch'io”, sentenzia Ludmilla incrociando le braccia al petto. “Non è ques...”. “Devi andare avanti, Vilu”. Le altre annuiscono all'affermazione di Camilla. Perché continuano ad interrompermi? Volevo dire loro che ci parliamo ancora, ma non mi lasciano il tempo di proferire parola. “Sì, ma le cose...”. “Ci siamo noi con te, tranquilla”. “Ho capito, ma...”. “Non dire nulla, stai tranquilla”. Ma cosa? Con la coda dell'occhio guardo a destra e vedo che stanno venendo verso il grande cancello spalancato che permette di accedere nella zona antistante l'ingresso. Ci passano accanto e mi giro incrociando il suo sguardo, fa un cenno col capo e dice: “Ciao Violetta, ciao ragazze”. “Ciao, Leon”, rispondo alzando timidamente la mano mentre alle ragazze esce un “Ciao” alquanto confuso. Lei non mi saluta, non mi degna di considerazione e procede dritta per la sua strada a testa alta. Una cosa, però, la fa, una cosa che si poteva benissimo risparmiare: appena ci oltrepassa, prende sottobraccio Leon e lo attira a sé mentre proseguono salendo le scale. Voglio farle mangiare quel cappellino, ora. Adesso. In questo preciso istante. Le mie amiche non sembrano aver notato il suo gesto, piuttosto sono sorprese del fatto che ci abbia salutate, ma soprattutto me. “Oh, wow. Oh...ci siamo perse qualcosa?”, domanda Cami. “Stavo per dirvelo, ma non mi fate parlare”. “Ma quand'è successo?”. Fran è preoccupata per me, lo so. Glielo leggo nell'espressione. “Venerdì”. “Sono passati tre giorni e non ci hai detto nulla, brutta mascalzona!”. “Cami, non mi pare il caso di scherzare”. “E cosa dobbiamo fare, Fran? Metterla in croce?”. “No, ma vorrei capire il perché”. Dal suo canto Ludmilla osserva in silenzio ciò che accade, lei lo sa. Diego di sicuro le avrà raccontato tutto. “Abbiamo discusso dell'argomento e risolto, tutto qui”. “Tutto qui? Davvero, Vilu? Tutto qui?”. “Ehm...”. “Devo ricordarti ciò che è successo in questi mesi? Oh...aspetta, l'altro giorno mi avevi detto che tuo padre era preoccupato perché non eri tornata subito a casa per andare da Maxi. Questo significa che tu...”. “Sì, ero con lui”. Inarca un sopracciglio. “Perché non hai pensato di dirmelo?”. “Indovina?”. Rimane in silenzio, ha capito molto probabilmente. “Pensavo fossimo amiche”, incrocia le braccia stizzita. “Oh Cristo, Francesca! Non te l'ha detto perché sapeva come avresti reagito alla storia della lettera, non l'ha fatto per escluderti dalla sua vita”, interviene Lud leggermente innervosita. “Quale lettera? Aspetta...lei sa ed io no?”. Mi sbatto una mano sulla fronte, sembra stiamo attraversando le crisi di amicizia delle elementari della serie 'Sei mia amica e non sua, gne gne gne'. “No, lo so perché me l'ha raccontato...ehm, Diego”. Il suo tono diventa acuto quando pronuncia quel nome e mi sfugge mezzo sorriso che subito svanisce al pensiero di cosa potrebbe averle fatto passare. Sicuramente avrà rigirato i fatti a suo piacimento facendo passare Leon per un ipocrita bastardo e lui come il salvatore che però è stato incolpato ingiustamente. “E lui cosa c'entra?”. Noto che fatica a rispondere, perciò lo faccio io: “Diciamo che è entrato in affari che non gli riguardano ossia ha voluto ostacolare il riavvicinamento di Leon al bambino. Infondo sono l'unica che può aver voce in capitolo, per cui abbiamo litigato”. “E la lettera?”. “E' una lettera che mi ha scritto Leon”. “Ah, però”.  Faccio le spallucce e contraggo la bocca in un sorrisetto innaturale. Camilla agita le mani e scuote il capo attirando la nostra attenzione. “Momento, momento, momento: devo riordinare i fatti nel mio cervello perché è un casino assurdo”. Aggrotto la fronte mentre Francesca e Ludmilla scoppiano a ridere. “Tu...”, mi punta il dito contro facendomi indietreggiare. “...stavi con lui”, indica la Volvo nera. “Vi siete lasciati e giuro che fino a qua ci sono. Poi lui si è messo con la Marquez però l'ha mollata, avete...ehm, copulato e sei rimasta incinta. Correggimi se sbaglio, eh?”. “Fino a qui ci sei”. “Benissimo, è ritornato con la Marquez e poi...non mi ricordo se l'ha piantata di nuovo o se stanno insieme da quella volta là”. Nego con la testa. “L'ha mollata prima di Natale e ci è tornato qualche settimana fa”. “O-o-okay ed adesso avete fatto pace, ma è ancora assieme a lei. Perché?”. “Che ne so, si è riavvicinato ad Enrique mica a me”. Abbasso lo sguardo imbarazzata, un po' mi ero illusa che provasse qualcosa per me ieri. Sarà per il portachiavi, il 'ti voglio bene', le sue coccole durante la notte perché sì, mi ha coccolata. In realtà lui è ancora impegnato ed io sono una bambina ad aver anche solo riposto una minima speranza in un noi per un secondo. “Lo trovo strano, però...”. “Strano in che senso?”, chiedo subito di getto. “Boh, insomma...Leon non è il genere di ragazzo che fa queste cazzate, no?”. La guardiamo tutte stranite. “Nel senso che stare con una ragazza ed essere 'amico' al contempo della propria ex, non è un po' strano? Di solito quando una relazione termina se ne sbatte della sua ex”. “Cosa c'entra? Con me era rimasto amico”, dice Ludmilla ed effettivamente ha ragione. “Sì, ma la storia che ha avuto con te e quella con Vilu non sono minimamente paragonabili. Che poi voi due manco stavate insieme, loro sono durati un anno”.“Beh, ma in questo caso c'è di mezzo Enrique”, puntualizzo. “E' vero, ma...boh, mi sembra comunque strana come cosa. Sarò sospettosa io, ma non mi convince. Secondo me non è solo per il bambino”. La campana suona e ci distrae dal discorso, ci sistemiamo gli zaini e ci dirigiamo verso l'entrata. “Voi in che classe siete?, domanda Fran. “In venti, voi?”. E' così strano vedere lei e Lud parlarsi, talmente tanto che quasi mi commuovo. “Ventisei”. “Beh dai, siete nel nostro stesso ramo”. “Già, casomai alla ricreazione passiamo da voi. Mi annoio a stare in classe sinceramente”. Finite le scale, varchiamo la porta e c'immergiamo nell'atrio affollato. Cerco di farmi spazio fra la gente, ma per sbaglio vado addosso ad un ragazzo. “Guarda dove cammini, balena!”, mi urla contro alimentando le risate sguaiate del suo gruppo di amichetti. “Cos'hai detto?”. Mi volto all'indietro di scatto e vedo Leon poco distante venirci incontro a braccia conserte. “Io? Ehm...che poteva fare un po' più di attenzione”, risponde deglutendo e solo accanto a Leon mi rendo conto di quanto gracile sia. “No, tu l'hai insultata che è diverso. In che classe sei?”. “Mmh, seconda”. Anche i ragazzini attorno sono spaventati, eppure non si sta ponendo in modo violento anzi, è solo il tono ad essere minaccioso. “Come immaginavo...lo sai in che classe è lei?”. Scuote il capo con vigore. “No? E' in quinta e sai cosa vuol dire? Che devi portarle rispetto. Cos'è? Avete appena finito di bere il latte dal biberon e già vi sentite padroni di giudicare persone che non conoscete? Faresti meglio ad abbassare la cresta, ragazzino, se non vuoi che finisca male”. Ecco, adesso dovrebbero avere paura. E non scherzo. “Ehm...va bene”. Cerca di defilarsi, ma lo afferra per un braccio. Intanto gli altri se la sono già svignata, quando si dice vera amicizia. “Non ho ancora finito con te, signorino”. “Cosa vuoi ancora?”, mugola con voce flebile. “Le scuse sarebbero il minimo, sai? O la tua mammina non ti ha insegnato le buone maniere? A quanto pare è così dal momento che ti rivolgi in modo arrogante nei confronti degli altri”. Mi guarda con gli occhi fuori dalle orbite e, balbettante, dice: “S-scu-scusa”. “No, non mi piace: dillo meglio”. “Scu-scusami se ti ho offesa, non lo farò più”. Torna a fissare Leon col fiato corto. “Co-così va bene?”. “Mmh...sì, dai”. Lo molla ed il ragazzino tira un sospiro di sollievo. “Ma in futuro vedi di stare attento a come tratti le persone se non vuoi che ti spiattellino un bel pugno in faccia perché con questo te lo saresti meritato”. “Ehm...sì, grazie de-del consiglio”. “Ed ora va', corri in classe che se ti becchi una nota farai arrabbiare la tua mammina”. Non se lo fa ripetere due volte, si è già inviato lungo il corridoio rapidamente. Ringrazio il cielo che l'atrio si è progressivamente sfoltito dalla gente, ruoto il capo per guardarlo in volto. “Grazie”. Sorrido timidamente quasi imbarazzata dalla situazione. “Prego, ma la prossima volta tira fuori le palle che non è detto che ci sia sempre io nei paraggi”. “Lo farò”, rispondo ridacchiando. “In che aula sei?”. “Venti”. “Oh, io ventuno. Beh, andiamo”. Ci incamminiamo e svoltiamo a destra nel ramo della scuola in cui ci sono le aule dalla venti alla ventotto. “Cos'hai alla prima ora?”. “Matematica”. “Cristo, se non ti sbrighi Casal s'incazzerà”. Fa le spallucce. “Ha altro per cui arrabbiarsi con la classe che mi ritrovo”. “Cioè?”. Ci fermiamo nei pressi della mia classe e poggio una mano sulla maniglia. “Nel senso che ci sono soggetti molto più scalmanati di me e lo so che suona strano, ma è così”. Scoppio a ridere per poi salutarlo con l'altra. “Buona lezione”. “Anche a te, cos'hai?”. “Chimica dei materiali”. Mimo il gesto di spararmi in testa facendolo sorridere. “Ciao”. “Ciao”. Apro la porta e la richiudo alle spalle, per fortuna la professoressa non capisce ancora come si utilizzi il tablet così perdiamo minimo cinque minuti a lezione. Tutti i miei compagni si voltano verso di me, Lud mi ha tenuto il posto accanto a lei e mi dirigo verso il banco. Diego non lo degno di considerazione nonostante sia poco distante e fortunatamente c'è proprio lei a dividerci. Poggio lo zaino e mi siedo, poi congiungo le mani e poggio i gomiti a bordo del tavolo. “Che hai?”, mi bisbiglia. “Cosa? Io? Niente”. “Come niente? Fra un po' ti si sfalda la faccia da quanto stai sorridendo”. Involontariamente mi tasto il viso e, cavoli, è vero. Per cui mi ricompongo e divento seria. “Mi dici che è successo?”. “Ehm...Leon”. “Che avete combinato ancora?”. Mi osserva con sguardo di rimprovero. “Ma cosa? Niente! Che malfidente che sei, oh. E poi cosa vorresti dire con quel 'ancora'?”. Assume un'espressione come per dire 'Dovresti saperlo'. Poi lei non sa manco della visita e del motel, come potrebbe dubitare per una sola lettera? “Tutti a rimarcare quel fatto, è successo solo una volta”. “Aspetto solo il momento in cui partorirai e ti metterà incinta di nuovo”, commenta sarcastica. “Ma Lud!”, le do una sberla sul braccio. “No, ma è vero. Volete intraprendere un rapporto civile solo ed esclusivamente per il bambino? Perfetto, vedremo cosa accadrà quando nascerà e sarai ancora disponibile sul mercato”. “Ma...”. “Io vi ho già individuati: siete quel tipo di persone che possono stare distanti mesi o anni, ma appena si ritrovano rischiano una gravidanza”. Ridacchio anche se in fondo da ridere c'è ben poco. “Perché? Mi ha solamente accompagnata in classe”. Spalanca la bocca e schiocca le dita. “Vedi? E' proprio questo che intendevo. Lui accompagna tutte in classe, vero?”. “Non significa niente, alla prima ora è in ventuno per cui era di strada”. Inarca il sopracciglio. “La quinta c è in aula quattordici”. “Ma cosa dici?”. “Sì, se vuoi ho l'orario scaricato in pdf sul cellulare. Vuoi controllare?”. “No, no, ti credo”. “...Castillo e Ferro, sareste così generose da renderci partecipi alla vostra conversazione?”. Ci voltiamo verso la cattedra, la prof ci sta scrutando con gli occhiali abbassati. “Scusi, ci siamo distratte”, giustifico. “Bene, andate a pagina centosette”. Apro la cartella, estraggo il libro e lo sfoglio. Faccio per girarmi verso Ludmilla, ma incrocio lo sguardo di Diego che scuote leggermente il capo. Ho come l'impressione che non voglia più parlarmi.


Immergo una patatina fritta nel ketchup e la porto alla bocca, la mastico per bene e mando giù. “Oggi quanta gente ci sarà all'incirca?”. Maxi dà un morso al suo panino, poi risponde: “Non siamo tutti, all'incirca una quindicina di persone”. Annuisco e sorseggio un po' di Coca Cola dalla lattina. “Hai pensato ad un nome per il gruppo? Sai che dobbiamo trovarci un nome, vero?”. In un primo momento corrugo la fronte, poi sorrido. “Eh, giusto!”. “Non lo sapevi, vero?”. “No, infatti”. Scoppia a ridere, poi tutto ad un tratto si sporge in avanti sopra il tavolino e mi fa cenno di avvicinarmi. “Mi sono informato e sono riuscito a spillare informazioni sugli altri concorrenti”, bisbiglia. “E chi se ne frega?”. “Come chi se ne frega? E' un modo per conoscere le mosse degli avversari”. Roteo gli occhi. “E' una battaglia di band da quattro soldi non gli Mtv Music Awards, poco me ne frega di ciò che fanno gli altri”. “Vorrai vincere, no?”. Scrollo le spalle. “Sinceramente? Non m'importa molto vincere o perdere, l'importante è cantare”. Divora l'ultimo pezzo e si passa il dorso della mano sulle labbra per levarne le briciole. “Giusta filosofia, ma io gioco per vincere”. “Non cambierai mai”. “Appunto. Vuoi sapere, dunque, come stanno messi gli altri? Ovviamente so poco, qualche informazione generale del tipo il giudizio sommario che mi ha dato questa persona che le ha sentite tutte”. Intingo un'altra patatina e la mangio. “Va bene, se proprio ci tieni”. Il suo volto s'illumina e da questo capisco che è ciò che vuole dirmi da quando mi ha vista, ma si è trattenuto finora. “Siamo dieci band, ha detto che un paio sono buone a livello di sound, ma con un testo infimo. Un gruppo farà rock, ma non sembra essere di qualità. Poi c'è il duo di rapper che si dice abbiano un tema veramente figo, ma il ritmo troppo lineare. Poi ha detto che ce ne sono due che non gli sono piaciute per niente e non riesce a trovare qualcosa di positivo, un'altra che farà metal e mi ha avvertito sul fatto che saranno degli avversari temibili. Quelli che però possono andarci seriamente contro sono i Mindblowing, hanno un pezzo pazzesco a quanto pare”. Finisco di raschiare il fondo del portasalse per poi chiedere: “I Mindblowing sarebbero?”. “Ehm...”. Si sistema il cappellino in testa, poi continua: “...la band di Leon”. Rimango per un secondo in silenzio, dovevo aspettarmelo infondo come musicista è veramente bravo. “Sai una cosa? Francamente battermi contro Leon non mi attira molto come idea”. Poso la vaschetta vuota accanto alla ciotola. “E' per quello che penso io?”. Lui è l'unico che sa cosa è successo nel weekend e sì, il suo discorsetto bello lungo per telefono me lo sono dovuto sorbire. Capisco la loro preoccupazione, ma dovrebbero smetterla. So quello che faccio. Credo. “Vilu, fai sul serio?”. Sbuffo esasperata. “Maxi lo so, lo so. Mi piace ancora, e allora? Non dovrebbe interessarvi dal momento che non vi costringo ad apprezzarlo”. Scuote il capo. “Non è questo il punto, ti capisco benissimo sotto questa prospettiva. Dico solo che, a mio parere, dovresti andarci piano con i pensieri o rischia di finire come il penultimo Natale”. Abbasso lo sguardo. “Se ti scrive non significa che voglia tornare insieme a te, se ti parla non vuol dire che provi lo stesso. Per carità, magari è anche così, ma è meglio tenere i piedi per terra e non farsi strane idee. Poi ha pure la ragazza, meglio non illudersi più del dovuto. Ti parlo da amico che sta vivendo una situazione simile alla tua”. “E con Nata, invece?”, chiedo per sviare il discorso anche se realmente m'interessa. “Con Nata? L'altro giorno mi ha scritto”. “Che ha detto?”. “Mi ha scritto solo per sapere una cosa sugli orari della mia classe, niente di che”. “Ah”. “Ero tentato di non risponderle, ma alla fine non ho resistito”. “E avete parlato di altro?”. Nega con la testa rattristito. “La conversazione è praticamente morta sul nascere. Messaggio suo, risposta, grazie, prego e visualizzato. Le gioie della vita, eh? Quel maledetto visualizzato”. Termino pure la Coca con un ultimo sorso. “Ah, da me c'era l'ultimo accesso”. “Brutta storia”. “Già”. “La tecnologia è bella, ma a volte vorresti non arrivasse a farti vedere certe cose”. Annuisco sommessamente. “Che poi scrivevo poemi omerici pieni di metafore, similitudini e quant'altro e manco si degnava di rispondere”. “Ti sei data alla poesia insomma”, dice ridacchiando. “Scrivo poesie da anni ormai, dovresti saperlo”. “Lo so, infatti. E' solo che ultimamente la tua ispirazione è andata a farsi un bel viaggetto”. “Davo il meglio nei messaggi senza risposta”. “Tipo?”. “Oddio, non ricordo bene. Mi pare ce ne fosse uno con su scritto: 'Mi sento un fuoco congelato ogni volta che ti vedo, un tumulto che non sprigiona emozioni' o una cosa del genere. Vabbè, lascia stare. Sono conscia che faccia schifo, dimentica ciò che ho detto”. Sgrana gli occhi e sul suo viso si estende un sorriso a trentadue denti. “Sei ubriaco?”. “No, ma è perfetto”. “Eh? Cosa è perfetto?”. Si alza dalla sedia di scatto e mi abbraccia. “Ma tu sei un genio!”. “Ehm...molte grazie, ma per cosa?”. Si stacca e mi stringe il volto fra le mani. “Frozen fire”. “Cos'è? Un nuovo tipo di frozen yoghurt?”. “No, il nome del nostro gruppo”. Levo le sue mani delicatamente e l'osservo confusa. “Veramente vorresti chiamare il gruppo così?”. “Certo che sì, non suona bene?”. “Frozen fire”, ripeto a bassa voce. “Frozen fire”. Più lo dico, più alzo il tono. “Frozen fire”. Guardo il mio amico e gli do una pacca sulla spalla. “Sai che ti dico? Mi piace”. E forse solo ora mi sento parte integrante di questo progetto.


Varchiamo la soglia dell'aula magna e tutti si voltano a vedere me e Maxi fare la nostra entrata, incrocio lo sguardo di Leon ed arrossisco immediatamente. Accanto a lui Cristobal e Pablo, i suoi compagni di classe, c'è un altro ragazzo nella sua band, ma non è potuto venire. Poi tutt'intorno ci sono altre persone: alcune facce conosciute, altre mai viste in vita mia. Li raggiungiamo, sono disposti a cerchio in modo da parlarsi ed osservarsi tutti in volto. “Ciao”, li salutiamo e contraccambiano. “Vi stavamo aspettando per decidere i vari compiti da svolgere”, esordisce un ragazzo magro e rosso probabilmente di quarta posto al centro di noi. Mi sembra di averlo già notato in giro per i corridoi, sarà per il suo colore di capelli che attira particolarmente l'attenzione. “Beh, innanzitutto che dite di presentarci?”, ci invita. “Partendo da...”. Punta l'indice contro una ragazza bassa, bionda ed un po' in carne. “...te. Si fa il giro in senso antiorario. Ready, set, go!”. “Melanie”. “Joacquin, detto Joaco”. Alto e possente, non l'ho mai incontrato. “Ruben”. Un ragazzetto piccolo ed esile, forse di terza. “Linda”. Mi pare un viso familiare, è castana e porta degli occhiali spessi. “Cecilia”. Carina e dai capelli cenerini, anche lei mi è nuova. “Rosa”. Voce graffiante e capelli scuri, è in quinta D e lo so bene. “Hugo”. E chi è? Di media altezza, biondo ed occhi azzurri. Il classico belloccio di turno. “Mariahelena, ma preferisco mi chiamiate Helena”. Sbaglio o è nella classe di architettura? Potrei benissimo sbagliarmi. “Cristobal, ma chiamatemi Cris se vi va”. “Leon”. Non so perché, ma quando pronuncia il suo nome mi sfugge mezzo sorriso. Devo controllarmi. “Pablo, ma chiamatemi pure il vostro futuro fidanzato se vi va”. Inutile dire che solleva una risata generale e solo ora mi soffermo sul fatto che quei tre siano veramente dei bei ragazzi e comprendo perché chiamino la quinta c 'la classe dei fighetti di architettura'. “Massimiliano, ma per tutti sono Maxi”. E' arrivato il mio turno, sento tutta l'attenzione puntata su di me ed il disagio sale. “Uhm...Violetta”. “Bene, ora che vi siete presentati tutti lo faccio anch'io: sono Facundo, per gli amici Facu e di sicuro vi starete chiedendo perché parlo come se fossi una specie di 'leader'. Diciamo che Raquel non potrà supervisionare i lavori causa impegni, per ciò ha relegato a me il compito dal momento che partecipo alla gara e la conosco molto bene”. Non l'ha assegnato a Leon? Che strano. E' il suo ragazzo, perché affidarlo ad un altro? “Qualche domanda?”. Si guarda attorno, mentre senza volerlo i miei occhi cadono su Leon che mi sta fissando. Distolgo lo sguardo imbarazzata, ritorno a lui e mi sta ancora osservando. Credo di essere una specie di pomodoro gigante visto anche il fisico attuale. “Direi, allora, di cominciare a decidere chi fa cosa”. Congiunge le mani. “I lavori cosiddetti pesanti li abbiamo già svolti grazie ai nostri machi qua a fianco”. Trattengo una risata. “Per pesanti intendo lo spostamento del pianoforte e di tutti gli altri strumenti e del banco della giuria. Ora sono rimaste le cose più 'leggere' ossia la creazioni di cartelloni per pubblicizzare l'evento in giro per la scuola e non, decorazioni per gli strumenti e la stanza e la disposizione delle sedie. Ricordo, inoltre, che l'aula magna potrà essere utilizzabile solo mercoledì pomeriggio per le prove e verrà vietato l'accesso negli altri giorni in quanto sarà in fase di allestimento”. Fa una breve pausa per vedere se ci sono quesiti, poi continua: “Cominciamo dal lavoro meno pesante di tutti: i cartelloni. Mmh...direi che l'ideale sarebbe farlo fare a Violetta, no?”. Per un secondo mi domando il motivo, poi mi ricordo che sono incinta ed è un bell'impedimento. Perché sono venuta? Potevo starmene a casa, tanto qui non posso rendermi abbastanza utile. I cartelloni? Madonna, sono la cosa più stupida di tutte ed era l'ultima che volevo fare. “Ovviamente qualcuno la aiuterà, insomma. Facciamo che quattro creano i cartelloni e lavorano a coppie così possiamo farne di più, ci state?”. Annuiamo tutti. “Bene, lascio a voi la scelta. A chi piacerebbe lavorare con Violetta?”. Mi volto verso Maxi credendo che stesse per alzare la mano, ma qualcuno lo precede. “Io”. Guardo in direzione della sua voce pietrificata. “Okay, quindi la prima coppia: Leon e Violetta. La seconda?”. Due ragazze agitano il braccio, probabilmente sono amiche. “Linda e Cecilia. Perfetto, voi potete già cominciare mentre decidiamo per gli altri. I materiali necessari sono lì infondo su quei due tavoloni portati appositamente da un'aula di pittoriche, buon lavoro”. Mi avvio verso dove indicato e mi affianca, cammino a testa bassa imbarazzata poi, improvvisamente, trovo il coraggio. “Perché hai voluto fare i cartelloni con me?”. Fa le spallucce. “Ho spostato pianoforti, batterie, chitarre e bassi, non avevo voglia di salire sulle scale o spostare altra roba”. “Giusto”. Arriviamo sul tavolo e do un'occhiata sommaria al materiale a disposizione: abbiamo quattro fogli grandi di colori diversi, una scatola con pennarelli e matite, una riga da cinquanta centimetri, due squadrette e dei rapidograph. “Okay, chi fa la scritta?”, chiedo. “Del lettering che abbiamo fatto in seconda non ricordo nulla”. “Neanch'io”. Contemporaneamente ruotiamo il capo per guardarci in faccia, abbiamo entrambi un'espressione stranita. Ci fissiamo per alcuni secondi seri, poi scoppiamo a ridere. “Ma si può lavorare in tre?”. “Non credo”. “Cavolo, avrei chiamato Maxi. Fa grafica, giusto?”. “Sì”. “Beh, in caso vado a farmi sostituire”. “Ma no, tu sei bravo a fare le scritte in stile street art”. Inarca un sopracciglio. “Tu dici?”. “Sì, ricordo la scritta che mi avevi fatto sul casco”. Distoglie lo sguardo ed afferra una matita. “Ehm...sì, giusto. Adesso lavoriamo”. “Mmh...okay, come organizziamo le informazioni sul cartellone?”. Annuisce. “Bella domanda, cosa dobbiamo scrivere?”. Ci penso un po', poi dico: “Credo il luogo, il giorno...forse anche l'ora...”. Poggia i gomiti sul bordo del tavolo e posa una mano sulla fronte. “Oh, ma io e te non sappiamo un cazzo”. “Credevo che ne sapessi più di me”, ribatto ridacchiando. “Io credevo il contrario, sei sempre stata tu quella intelligente”. “Ragazzi, ci sono problemi?”. Ci giriamo a sinistra, è Facundo. “No, no”, lo liquida Leon. “In verità sì, cosa dobbiamo scrivere?”. “Beh, il titolo innanzitutto ossia: 'Battaglia di band'. Poi una breve presentazione di due righe e il giorno, l'ora, il nome dell'istituto e della stanza in cui si svolgerà. Tra le informazioni aggiuntive dovete mettere la via della scuola ed il numero di telefono”. “Grazie mille”. “Di niente”, e passa alla coppia nel tavolone accanto. “Perché gli hai detto che avevamo un problema?”. “Non ringraziarmi, tranquillo. Ho solo risolto il nostro dubbio, infondo”. Rotea gli occhi. “Che hai contro l'essere aiutato?”. “Mi piace arrangiarmi e poi Facundo mi sta sulle palle”. Aggrotto la fronte. “Perché? Sembra a posto”. “E' vegano”. “Cosa c'entra?”. Sospira. “Non lo so, frequenta quei giri strani di vegani naif in contatto con la natura e l'essenza del mondo. Non voglio tentare di capire cosa passi per la loro testa, già ci ho rinunciato con Raquel”. Non so se essere felice del fatto che stia parlando male di 'Kel' oppure no. “Sarà, ma non ci trovo nulla di male”. Allarga le braccia per poi indicarlo. “Guardalo, è bianco cadaverico, ha gli occhi enormi ed un fisico di un biafra. Cristo, sembra uscito da un cartone animato di Tim Burton! Non dirmi che non t'inquieta neanche un po'”. L'osservo per alcuni secondi, poi torno a Leon. “Okay, un po' sì lo ammetto”. “E poi con quella voce nasale e l'erre moscia”. “Sì, ho capito però adesso basta”, lo interrompo ridendo. Prendo anch'io una matita, decido di cambiare discorso: “Ci dividiamo i compiti?”. “Va bene”. Allungo la mano per raccogliere le squadrette, ma mi batte sul tempo. “Hey!”. “Queste le prendo io”. “Perché?”, esclamo stizzita. “Perché queste in mano tua sono un pericolo pubblico”. Gli do una sberla sul braccio e solo ora mi rendo conto di quanto mi mancasse questo gesto. “Vedo che nonostante gli anni la tua indole da kick boxer non se n'è andata”. “Infatti, quindi sarà meglio che me le ridia”. Cerco di riprendermele, ma da autentico stronzo qual'è le erge verso l'alto in modo che non ci arrivi. “Sei una pippa in geometriche, smettila!”, mi canzona ridacchiando. Provo a saltare, ma è maledettamente difficile. “Ti sarai staccata un centimetro e mezzo da terra, puoi fare di meglio”. I miei saltelli sono inutili quando un paio d'infradito in Groenlandia perciò mi avvicino minacciosa col dito puntato sul suo petto. “Voglio dividere il foglio”. “Sono più bravo io”, sibila. E solo ora mi rendo conto di essere veramente vicina al suo viso e rimango immobile a fissarlo negli occhi. “Vilu!”. Scuoto la testa e mi volto all'indietro, Maxi mi sta chiamando. “Sì?”. “Vieni qua un secondo”. “Ah!”, urla sguaiato Leon. “Con te faccio i conti più tardi”. Mimo il gesto del 'ti tengo d'occhio' mentre mi allontano. “Ho le gambe che tremano”, mi sfotte rendendo la sua voce effeminata. Scuoto il capo ridendo, per poi dargli le spalle per andare verso il mio migliore amico. Lo raggiungo, sta creando e sistemando dei fiori di cartapesta sopra il bancone dei giurati. “Che c'è?”, domando. Finisce di posarne uno color lilla, poi alza la testa per guardarmi. “Come che c'è?”. Lo squadro confusa. “Vilu, stai attenta a quello che fai”. “Perché? Che ho fatto?”. Si avvicina per sussurrare: “Qui intorno è pieno di amici di Raquel”. “E allora?”, rispondo scrollando le spalle. “Li vedi Cristobal e Pablo là in fondo? Gli amici di Leon? Ecco, continuano a fissare voi due così come Helena che è anche lei quinta architettura e Facundo”. “Perché mai dovrebbero guardare noi?”, chiedo sorridendo. “Non lo so, seconde te? State flirtando davanti a tutti”. “Ma cosa? Io non sto flirtando”, sento avvamparmi le guance mentre lo dico. “Sul serio, Vilu? Tu continui a starnazzare mentre lui cerca ogni scusa plausibile per stuzzicarti, per non parlare poi di come vi guardate”. Mi mordicchio l'unghia del pollice imbarazzata. “Ti sto solamente consigliando di non dare troppo nell'occhio, non vorrei mai venissero fuori casini”. “Ricevuto”. Poi torno alla mia postazione con Leon che sta già cominciando a sezionare il secondo cartellone. Infame. “Che voleva?”. “Ah niente, una cosa per la canzone”. “Capisco”. Non stacca lo sguardo dal lavoro, è veramente concentrato in ciò che sta facendo. Finito di tracciare una linea, posa la matita e dice: “Ho avuto un'idea mentre facevo la divisione: ho lasciato appositamente uno spazio libero per te così puoi disegnarci qualcosa dal momento che è la cosa che ti valorizza di più. Siccome abbiamo quattro cartelloni direi di fare uno strumento musicale diverso per ciascuno così da avere la chitarra, il piano, la batteria ed il basso. Quindi ricapitolando: io divisione e scritte, tu disegni e ghirigori”. Annuisco compiaciuta. “Mi piace. Beh, iniziamo a lavorare allora!”. Prendo una sedia, mi ci siedo e comincio ad abbozzare una chitarra nel primo già pronto. Lui invece lavora in piedi, è sempre stato così fin dal biennio. Non riesce a star seduto quando deve utilizzare squadrette, righe o compassi. “Quindi io sono la mente e tu il braccio, come quella volta del progetto per Galindo”. “Non è vero, i bozzetti li avevo fatti io!”. “Sì, ma l'idea di chi era scusa?”. Sbuffo. “Nessuna risposta, questo fa di me quello intelligente”. “No, fa di te quello che blatera a vanvera”, sbotto. Sento dei passi venire verso di noi, ma non schiodo l'attenzione da ciò che sto facendo. “Hey, Vilu”. Una voce familiare, molto familiare. Con la coda dell'occhio vedo che a Leon scivola la squadra, sbaglia a far la linea e dalla forza con cui pressa la matita spacca la punta. “Diego”. Alzo il capo e lo guardo in faccia. “Vado a vedere se hanno una gomma ed un temperino”. Leon si mette in piedi bruscamente allontanandosi rapidamente. “Che ci fai qui?”. Sospira profondamente. “Ho cambiato idea, devo parlarti”. “Proprio adesso?”. “Sì”. Nego con la testa. “Mi spiace, ma non posso. Possiamo rimandare a domani?”. Mi fissa silenziosamente. “Non è per cattiveria, devo davvero finire quattro cartelloni in un solo pomeriggio”. “Va bene, quando?”. “Alla ricreazione”. Mi fa un mezzo sorrisetto e mi saluta con la mano. “Okay, a domani allora”. “A domani”. L'osservo mentre si dirige verso l'uscita, poi quando scompare torno a disegnare. Poco dopo torna Leon con un temperino ed una gomma e comincia a cancellare l'errore. “Dici che riusciamo a finirli per oggi?”. “Sì”, risponde freddamente. Fa la punta alla matita e torna a lavorare in religioso silenzio e mi sa che da adesso ci parleremo solo per il stretto necessario.


Ho la testa fra le nuvole, com'è possibile dimenticarsi lo zaino nella stanzetta accanto all'aula magna? A quanto pare quell'area sarà adibita all'attesa delle band che devono esibirsi. Abbiamo lasciato le nostre cose prima di andare a pranzare ed io da fottutissimo genio me ne sono totalmente scordata. Ciò significa che appena finito il lavoro dei cartelloni ho aiutato a sistemare e sono andata via direttamente e solo uscendo fuori dalla scuola mi sono resa conto che c'era qualcosa che non andava: faceva più freddo del solito. Sono proprio senza speranza. Prima di entrare in aula magna mi blocco sulla soglia: sento una melodia familiare al pianoforte. Faccio capolino all'interno e noto che è proprio Leon ad essere intento a suonare. Mi pare di rivivere la scena di pochi giorni fa, lui che suona ed io lo fisso. Perché si ferma sempre dopo che tutti se ne sono andati? S'interrompe tutto ad un tratto, chiude gli occhi e comincia di nuovo a far scivolare le dita nei tasti ripartendo dall'inizio. Hurricane. Presa di chissà cosa, entro nella stanza ed attraverso il corridoio fra i due gruppi di sedie e lo raggiungo. Sta ancora suonando l'intro mentre ormai sono di fronte a lui, mi poggio sulla coda del pianoforte e prendo un bel respiro.
No matter how many times
that you told me you wanted to leave.

Spalanca le palpebre e mi fissa stranito, è di sicuro sorpreso nel vedermi cantargli davanti.
No matter how many breaths
that you took, you still couldn't breathe.
No matter how many nights
that you lied wide awake
to the sound of the poison rain.
Where did you go?
Where did you go?
Where did you go?

Faccio per cantare il pezzo successivo, ma mi precede.
As days go by, the night's on fire
E mi sfugge un sorriso, quando attacchiamo il ritornello assieme:
Tell me would you kill to save a life?
Tell me would you kill to prove you're right?
Crash, crash.
Burn, let it all burn.
This hurricane's chasing us alla underground.

Lascio cantare lui, mi fa l'occhiolino ed arrossisco.
No matter how many deaths
that I die, I will never forget.
No matter how many lies
that I live, I will never regret.
There is a fire inside of this heart
and a riot about to explode into flames.
Where is your God?
Where is your God?
Where is your God?

Mi fa cenno col capo di continuare, giro intorno al piano e mi siedo accanto. Siamo vicinissimi, le nostre spalle si toccano così come i nostri fianchi. Per un secondo mi soffermo a guardare con che trasporto e passione suona, poi sento che è ora di proseguire.
Do you really want?
Do you really want me?
Do you really want me dead
or alive to torture for my sins?
Do you really want?
Do you really want me?
Do you really want me dead
or alive to live a lie?

Poso il capo sull'incavo del suo collo probabilmente presa dal momento.
Tell me would you kill to save a life?
Tell me would you kill to prove you're right?

Crash, crash.
Burn, let it all burn.
This hurricane's chasing us all underground.

Quando le nostre voci si mescolano mi sembra pura magia, sento che con lui posso fare qualsiasi cosa. Essere me stessa chiunque io sia.
The promises we made were not enough.
The prayers we have prayed were like a drug.
The secrets that we sold were never known.

Si unisce a me e lo cantiamo a gran voce:
The love we had, the love we had,
we have to let it go
.
L'eco rimbomba in tutta l'aula magna, mi rialzo in piedi e torno di fronte a lui. Mi sorride ed io faccio lo stesso, portandomi una mano al petto prima di continuare.
Tell me would you kill to save a life?
Tell me would you kill to prove you're right?
Crash, crash.
Burn, let it all burn.
This hurricane's chasing us all underground.

Inizio a muovermi al ritmo della canzone mentre è lui a cantare.
Oh, oh, oh
This hurricane...
Oh, oh, oh
This hurricane...
Oh, oh, oh
This hurricane...
On, oh, oh

Ed ecco che arriva la mia parte. Non so di preciso il motivo, ma quando devo dire queste parole mi viene quasi da urlargliele contro. Per tutto quello che ho passato, per quanto sono ancora innamorata di lui.
Do you really want?
Do you really want me?
Do you really want me dead
or alive to torture for my sins?
Do you really want?
Do you really want me?
Do you really want me dead
or alive to live a lie?

Sposta l'attenzione sulla tastiera in quanto sta eseguendo la rapida sequenza finale, non appena la finisce alza la testa e mi osserva con le labbra schiuse. Effettivamente pure io stento a credere a ciò che è appena successo: sono entrata ed abbiamo cantato, ma senza averlo mai fatto realmente assieme. E' una cosa che mi è venuta da dentro, dettata dal cuore. Non servono parole, ci stiamo solamente fissando in silenzio coi respiri affannosi eppure è come se stessimo comunicando. “Leon, che sta succedendo?”. Ci voltiamo di scatto in direzione della porta: Raquel è posata contro lo stipite a braccia conserte.


ANGOLO DELL'AUTRICE
Hey zucchine, come state? Io male, ho la febbre. Che ve ne pare del nuovo capitolo? E' di vostro gradimento? Beh, visti i fatti credo proprio di sì! E' cominciata una nuova settimana e nella scena iniziale abbiamo potuto vedere cosa ne pensano gli amici di Vilu sul riavvicinamento fra lei e Leon. Molti non lo vedono di buon occhio ed in un certo senso è comprensibile, ma sbaglio o l'ha difesa in pubblico? Sembra di tornare ad 'Indovina perché ti odio', vero? Nel secondo blocco ho voluto dare un po' di spazio all'amicizia con Maxi che, tra l'altro, è l'unico a conoscenza della storia della visita. Dopo una breve discussione i due trovano un nome per la band o meglio, Violetta lo trovo inconsapevolmente u.u
Abbiamo poi il fatidico lavoro in aula magna: siete rimaste sorprese dall'intraprendenza di Leon? Non sono bellissimi quando flirtano e manco se ne rendono conto? Arriva improvvisamente Diego che, dopo vari ripensamenti, decide di raggiungerla per dirle finalmente la sua versione, ma la trova in compagnia di Leon che si dimostra più sprezzante di prima nei suoi confronti. La conversazione è rimandata al giorno seguente, chissà cosa le dirà. Infine abbiamo i nostri Leonetta che cantano assieme la canzone preferita di lei con trasporto e sentimento, ma Raquel ha visto tutto. Cosa succederà? Da questo capitolo in poi le tensioni fra 'il quadrato tormentato' saranno molte e questo è solo l'inizio.
Ringrazio chi recensisce la storia, chi la mette nei preferiti e nelle seguite! Siete la mia gioia aw :3
Un bacione e stay tuned,
Gre

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10

 

 

 

Passa per il corridoio fra le sedie e si avvicina a passo deciso verso di noi, tengo il capo chino imbarazzata ed al contempo spaventata. Non so di preciso cosa mi faccia paura di lei, so solo che quando mi guarda è come se mi passassero una lastra di ghiaccio contro la schiena. Freddo. Il tacchettio s'interrompe, si è fermata. Alzo lo sguardo e mi rendo conto di non averla mai vista da così vicino, sembra quasi surreale averla qui. L'ho sempre etichettata come una creatura superiore alle altre, perfetta a tal punto da risultare insopportabile ed ora che la osservo meglio non posso far altro che confermare. Ha una pelle trasparente, ma non è quel pallido malato che possiedo ad esempio io. No, lei è bianca e liscia quasi da parer fatta di porcellana. Persino in questo momento che è arrabbiata con Leon non si scompone, rimane mono espressiva come se fosse finta. “Allora?”. Posso sentirmi più inferiore di così? Persino la sua voce è migliore: la sua è femminile e cristallina, mentre la mia sembra piuttosto quella di un camionista rozzo e volgare. “Saresti così gentile da degnarmi di una misera motivazione?”. Per lei è come se neanche esistessi, non sono nemmeno nella stanza. L'attenzione è focalizzata su di lui che invece di rispondere temporeggia. “Sai già come la penso”. Questa frase l'ho già sentita. Oh, certo! Quando era al telefono, appunto, con lei ieri mattina dopo che ci eravamo svegliati in motel. “So quello che mi dici, non quello che ti passa per la testa”, commenta acida. “Quello che ti dico corrisponde a quello che penso”. Una fitta allo stomaco mi arriva quando si volta per un secondo verso di me. “Non credo, sai?”. Si alza in piedi e le si para di fronte, con gli scarponcini con poco tacco riesce ad essere più bassa di lui massimo cinque centimetri. Mi sento pure pigmea. “Non stavamo facendo mica niente di male!”, dice ridacchiando. Si posa una mano sulla fronte in modo da coprire il viso e sospira nervosa, dal suo modo di espellere l'aria capisco che è alterata, ma per il resto non trapela nessuna emozione. “Non m’interessa ciò che hai da dire”. Leon allarga le braccia sorridendo. “Kel, non capisci che è tutto un malinteso?”. “Ah, quindi è un malinteso l'averti trovato qua con lei?”. Il modo in cui calca l'ultima parola mi fa venire un brivido. “Vedo che non ci siamo: è un malinteso ciò che stai pensando in questo momento, noi non abbiamo fatto niente”. Scuote la testa. “Perché è una cosa da tutti i giorni mettersi a canterellare allegramente come in un lungometraggio Disney”. Fa per ribattere, ma lo precede: “Leon, ho portato pazienza più di quanto tu possa immaginare. Sono stata disposta ad accettare lei ed il fatto che fosse incinta senza fartelo pesare, adesso hai deciso di prenderti la responsabilità del bambino e ti sono venuta incontro. Il punto è che sono stufa di rincorrerti e lasciare che sia tu a decidere l'andamento delle cose. No, grazie: una volta tanto vorrei scegliere io. Ti sono sempre stata vicina anche prima che ci mettessimo assieme, la mia spalla si ricorda ancora dei tuoi pianti e ti ho ascoltato ore intere e continuo a farlo. Sei tu a dirlo, no? Mi hai scelta perché ti so ascoltare senza andarti contro, approvo ciò che fai nonostante tutto. Certo, è così, però mi sono stancata di essere quella che subisce e deve tacere. Adesso dovresti essere tu quello a venirmi incontro, non voglio più far passi verso di te mentre ti allontani portandomi dove ti pare e piace”. Un silenzio imbarazzante cade fra noi, li fisso mentre si guardano negli occhi senza dir nulla. Avanza verso di lei, sono a pochi centimetri di distanza e sono certa che fra poco avrò un mancamento. “Fidati di me”. Deglutisce e si passa una mano fra i lunghi capelli. “Ci sto provando, ma non ci riesco”. Si morde il labbro e inclina la testa all’indietro sospirando, poi si volta verso di me mozzandomi il fiato. Ho praticamente assistito alla scena quasi da esterna finora. “Non è vero, Violetta? Non stavamo facendo niente di male io e te, no?”. Schiudo le labbra impietrita, quello inferiore trema. Mi sforzo di parlare, ma non mi esce nulla. Come quando mi rivolge la parola uno sconosciuto, quando mi trovo di fronte a qualcosa che mi terrorizza. Inarca le sopracciglia e con l’espressione quasi mi esorta a dir qualcosa, qualsiasi cosa. Raquel sbuffa ed incrocia le braccia all’altezza del petto iniziando a scuotere il capo. “E’ solo molto timida”. “A chi la dai a bere?”. “Violetta, ti prego, spiegale che fra di noi non c’è niente”. M’implora con lo sguardo, ma non ho nemmeno la capacità di schiodarmi dal pavimento. A quest’ora, se fossi in me, sarei già scappata via di corsa, il più lontano possibile da tutto e da tutti. Da lei e da lui. “Lo sapevo”. Si gira di scatto e si avvia a falcate verso l’uscita, lui la osserva dopodiché serra le palpebre. Le riapre subito dopo: posa l’attenzione su di me, su di lei mentre se ne sta andando, poi ancora su di me, su di lei. Poi decide di rincorrerla ed ho capito a malincuore quale sia la sua scelta.

 

 

Sono stesa sul letto a fissare il soffitto illuminato solamente dalla luce lunare che filtra attraverso le tende. Non ho sonno. Ho sempre trovato difficoltà ad addormentarmi, ma dalla notte in cui ho dormito con lui mi è ancora più arduo. E’ difficile riabituarsi alla vuota, grigia realtà se si è provato ancora una volta il paradiso. Ogni tanto spero di sentire un ticchettio proveniente dalla finestra e che sia lui in giardino mentre cerca di chiamarmi lanciando una sassolino per attirare la mia attenzione. Sogno troppo ad occhi aperti, quasi più che da dormiente. Per forza, sono tutti incubi! Almeno da sveglia sono conscia di ciò che sto pensando e posso scegliere a mio piacimento su cosa fantasticare, in questi ultimi giorni mi sono fatta un sacco di film mentali che mi hanno fatto render conto di quanto muoia dalla voglia di baciarlo, dormire con lui, coccolarlo le domeniche mattina, farmi fare il solletico, andare a cena fuori, guardare Mtv assieme criticandolo in continuazione, ascoltare i suoi audio vocali idioti. Adesso però a fare tutte queste cose c’è un’altra persona e quella non sono io. Maledetta quella volta che ho scelto l’artistico, che sono stata messa in classe con lui, che l’ho conosciuto. ‘Se ti scrive non significa che voglia tornare insieme a te, se ti parla non vuol dire che provi lo stesso’. Mi porto le mani al volto, lo tasto ed è umido. Era da giorni che non piangevo. Allungo il braccio sopra il comodino ed accendo l’abat-jour, mi metto seduta e tiro su il naso. Mi alzo in piedi e mi dirigo verso…no, aspetta. Vilu, che fai? Fermati, non farlo. Non lo fai da mesi, torna a dormire o a provarci almeno. E’ troppo tardi. Apro le ante dell’armadio, mi piego leggermente per afferrare le maniglie e tirare il primo cassetto. Tasto sotto alla biancheria: calzini, mutande, reggiseni, canotte. Dopo alcuni secondi di ricerca, finalmente la trovo. Richiudo il tutto, mi volto all’indietro e faccio il percorso inverso. Arrivata nei pressi del letto mi siedo a terra lentamente ed infilo le mani sotto di esso: eccolo. Trascino il baule fuori e l’osservo: è molto polveroso ed il colore verde scuro si è ormai sbiadito col tempo, per il resto non sembra cambiato di nulla dall’ultima volta che l’ho toccato. Infilo la chiave nella serratura e la giro, poso i palmi ai lati della parte superiore e la apro. Mi mordo il labbro ed involontariamente sorrido: c’è tutto ciò che ho tenuto. Mi hanno costretta a rimuovere quelle cose dalla mia stanza perché credevano mi facessero solo male, non sanno che in realtà non li ho buttati via come ho detto loro. I miei occhi scrutano ogni oggetto conservato gelosamente, decido di afferrarne alcuni per guardarli da vicino. Innanzitutto c’è il famoso casco, uno dei migliori regali che mi abbia fatto. Lo rigiro fra le mani fino ad incontrare la scritta in stile graffiti ‘L’s girl’ e la fisso per alcuni secondi malinconica, dopodiché lo poggio sul pavimento passando ad altro. Una cornice, era la foto che tenevo sopra il comodino. Punto l’indice contro il vetrino e lo passo delicatamente in corrispondenza dell’immagine sottostante: era non molti mesi prima della rottura, ma i problemi dovevano ancora cominciare a farsi sentire. Eravamo al matrimonio di Angie e papà, di conseguenza stavamo assieme da otto mesi. Avevo indosso un abito blu scuro privo di spalline e lungo, mentre lui una giacca nera, pantaloni del medesimo colore ed una camicia bianca. Ovviamente era da escludere che si presentasse alla cerimonia con una cravatta nonostante Lucia ci avesse provato in un’infinità di modi a fargliela mettere. Ricordo ancora quando scattarono quella foto: eravamo nel giardino del ristorante in cui stavamo pranzando e ci eravamo allontanati in un posto tranquillo e lontano da occhi indiscreti perché lui aveva bisogno di ‘aria’, con quest’espressione intendeva dire che aveva bisogno di fumare e probabilmente non voleva dirlo ad alta voce in mezzo ad una tavolata gremita di miei parenti. Improvvisamente, mentre eravamo intenti del chiacchierare del più e del meno, sbucò fuori il fotografo che avevano ingaggiato per l’occasione e scoppiai a ridere nel vederlo gettare via la sigaretta con la velocità di un ghepardo, l’uomo era venuto da noi per immortalarci però naturalmente ero contraria. Un conto erano le fotografie a tradimento, un altro quelle in cui dovevo mettermi in posa per forza risultando un’ebete. Dopo un pesante insistere, Leon riuscii a convincermi e finalmente venne scattata quella benedetta foto. Il suo braccio avvolto attorno alla mia vita, il mio sorriso timido e la testa poggiata sulla sua spalla. Com’eravamo belli, soprattutto lui. Basta. Metto la cornice accanto al casco, mi sono dilungata troppo ad osservarla. Prendo in mano una scatola ottagonale bordeaux, sposto il gancetto con l’unghia ed automaticamente si apre. Parte la melodia de ‘Il lago dei cigni’ ed una piccola ballerina dal tutù bianco inizia a volteggiare graziosamente: il carillon di mamma. Ai piedi di quest’ultima c’è una catenina con la metà del cuore con la scritta ‘For’ incastonata di diamanti, un bracciale con incisa una ‘L’ che mi ero fatta fare ad una fiera ed un paio di orecchini che mi aveva regalato per Natale. Sospiro ed apro un cassettino, all’interno vi sono tutti i bigliettini. Sì, i bigliettini che era solito lasciarmi soprattutto quando si svegliava per primo la mattina. Rovisto fra la moltitudine di pezzetti di carta e ne prendo uno a caso: ‘Sono rimasto cinque minuti a guardarti mentre dormivi, eri così bella…poi mi sono ricordato dei calci che mi hai tirato stanotte e ti avrei presa a cuscinate in faccia. Sono uscito a prenderti qualcosa per colazione dal fornaio, se ti svegli prima che arrivi aspettami in salotto e guardati qualcosa alla tv. Mamma è in cucina se dovessi aver bisogno di qualcosa. Baci, Leon’. Scuoto il capo sorridendo, adoravo quando mi lasciava questi messaggi. ‘Buongiorno bimba, ma quanto russi? Di solito non lo fai, non dirmi che hai il raffreddore! In tal caso grazie per avermelo passato, anche se non l’ho ancora manifestato so che ormai i tuoi virus sono i miei virus. Quando si dice sacrifici per amore. Mi trovi sul divano, se mi sono riaddormentato svegliami. Leon’. Ridacchio, ma poi tutto ad un tratto l’allegria svanisce per far spazio alla serietà più totale. Leggerò l’ultimo, solo l’ultimo. Giuro. Li rimescolo sotto ai miei polpastrelli e ne estraggo uno d’istinto: ‘Ti aspettavi la classica critica di rito, eh? Ebbene oggi non ho critiche da farti, mi commuovo perfino io. No, seriamente: stanotte è stato bellissimo, davvero. Non ho nemmeno parole per descriverlo. So solo dirti che ti amo tanto, ma talmente tanto che difficilmente è immaginabile. Mi trovi di là, ti ho preparato l’occorrente per la colazione sopra il tavolo per quando ti sveglierai. Leon’. Un nodo alla gola, sapevo che il carillon era la cosa peggiore. Ripongo i tre biglietti dentro e lo chiudo repentinamente interrompendo bruscamente il motivetto musicale. Chi me l’ha fatto fare? ‘Ti amo tanto, ma talmente tanto che difficilmente è immaginabile’. Sento che fra poco vomiterò, lo stomaco inizia a dolermi come sempre quando si tratta di lui. Raccolgo tutti gli oggetti dal pavimento e li rimetto dentro alla bell’e meglio, non posso andare oltre. Tutto ad un tratto il mio palmo incontra una cosa morbida: aggrotto la fronte, la stringo fra le mani e la tiro fuori. Una sua camicia. La porto a pochi centimetri dal viso, il suo profumo è quasi svanito per via del tempo però lo sento. Eccome se lo sento. Rimango alcuni secondi a fissarla, poi ho un’idea. Chiudo il baule, lo faccio scivolare dove si trovava prima, mi alzo in piedi e metto la chiave nel cassetto del comodino per comodità. Prendo l’indumento, mi stendo sopra il letto e m’infilo sotto le coperte. Allungo il braccio per spegnere l’abat-jour e la mia stanza sprofonda nel buio come in principio, adesso so come addormentarmi. Stringo contro il mio corpo la camicia ed affondo il viso su di essa, inspiro profondamente cercando di catturare ciò che ne resta. Un po’ come nella realtà, se non fosse per Enrique non mi resterebbe niente. Delle lacrime iniziano a rigarmi il volto e s’infrangono contro la stoffa che le assorbe, poi lentamente gli arti s’intorpidiscono e le palpebre iniziano a socchiudersi. La lucidità viene meno, il pianto s’interrompe e cado in un sonno profondo.

 

 

Apro l’anta dell’armadietto svogliatamente, appena è suonata la campanella della ricreazione mi sono dileguata silenziosamente allontanandomi dalla classe. Voglio solo stare sola, niente di più. Estraggo un libro di testo per l’ora successiva e richiudo il tutto col lucchetto. Ora devo solamente decidere un luogo tranquillo dove passare questi quindici minuti senza che nessuno mi noti. “Hey, tutto bene?”. Mi volto spaventata, chi è il cretino che mi ha fatto perdere vent’anni di vita? “Diego”. Sorride timidamente. “Il mio nome lo so, tu come stai?”. Scrollo le spalle. “Bene, non lo vedi?”. Inarca un sopracciglio. “Oh, benissimo. Hai la faccia di una che ha appena mangiato uno yoghurt andato a male”. Incrocio le braccia sopra il pancione. “Perché sei venuto qua?”, domando. “A vedere come stai, innanzitutto. Sia mai che ti trovi in bilico su un davanzale di una finestra, ultimamente bisogna vigilarti”. “Simpatico”. “Lo so, seriamente: come stai?”. Sospiro. “E se ti rispondessi in piedi?”. “Ti direi di fare meno la sarcastica e di dirmi cosa ti passa per la testa”. Scuoto il capo. “Tante cose”. Si posa un dito sul mento e corruccia la fronte con fare pensoso. “Mmh…tante cose, dici? Per caso tutte queste cose cominciano per ‘L’ e finiscono con ‘-eon’?”. Roteo gli occhi. “Non solo”. “Ah, giusto! Ce ne sono altre che cominciano per ‘V’ e finiscono con ‘-argas’”. Sbuffo nascondendo mezzo sorriso. “A me puoi dirlo, lo sai vero?”. Annuisco. “Tranquillo, è solo che questo riavvicinamento non è che mi stia facendo molto bene...”. “...perché c’è di mezzo la nuova ragazza”. “Giusto”, ammetto. “Vilu, ma tu cosa vorresti da lui? Rispondi sinceramente”. Mi mordo il labbro inferiore. “Che sia un buon padre per Enrique”. Emette un rumore fastidioso tipo quello che fanno i pulsanti dei giudici nei talent show quando vengono premuti. “Risposta errata, non sei sincera”. “Sì che lo sono”. “Guardami negli occhi…”. Si avvicina a me e si ferma a qualche centimetro di distanza dal mio viso. “…e dimmi: ‘Voglio che Leon sia solo il padre del bambino, nulla di più. Non lo amo e non provo nient’altro per lui’. Dai, ora ripetilo”. Deglutisco. “Voglio che Leon sia solo il padre del bambino, nulla di più. Non lo amo e non provo nient’altro per lui…”. Improvvisamente parte una palpebra e dopo pochi secondi non riesco più a smettere di batterle entrambe. “Ecco, vedi? Quando menti batti le palpebre”. “Guarda che so mentire ed anche bene”.  “Questo non lo metto in dubbio, ma dipende su cosa o, meglio, chi menti”. Mi passo una mano fra i capelli. “Okay, forse mi piace ancora un pochino”. “Un pochino?”, chiede palesemente poco convinto. “Un pochino, sì”. “Qual è il suo cibo preferito?”. Assumo un’espressione confusa. “Che significa?”. “Niente, rispondi e basta”. “Pizza ai peperoni, ma che c’entra?”. Si posa con la spalla all’anta dell’armadietto. “Ed il suo film preferito?”. “Matrix, l’abbiamo visto tipo cento volte”. “La sua bibita preferita?”. “Birra”. “Che sigarette fuma?”. “Marlboro”. “Di che tipo?”. “Rosse”. “Profumo?”. “Alla vaniglia”. Ridacchia mentre io sono più disorientata di prima. “Mi dici il perché?”. “Insomma, sai praticamente tutto di lui ed affermi che ti piace ‘un pochino’”. “Ho una buona memoria”, ribatto. “Testiamo la tua buona memoria, allora: quando compio gli anni? Questa la dovresti sapere, non bisogna avere un Q.I. sopra la media per ricordarselo”. Sgrano gli occhi allarmata e solo in questo momento mi rendo conto di non avere idea di quando sia il suo compleanno. Mi guardo attorno furtivamente come se i muri e gli armadietti possano darmi una risposta, certo. “Non te lo ricordi?”. “Sì che me lo ricordo”, rispondo facendogli la linguaccia. “E allora dimmelo”. “Ehm…maggio…”. “In verità hai toppato di un mese, è in giugno”. Annuisco. “Lo sapevo, cosa credi? Volevo vedere se eri attento”. “Sì, certo. Il giorno?”. “Eh, aspetta un secondo. Mica vuoi tutto e subito, no?”. Dà un’occhiata all’orologio da polso. “Abbiamo altri sette minuti, ce la puoi fare”. “Ehm undi…”. Nega con la testa. “…dicia…”. “No”. “…venti…”. “Ci sei quasi”. “…ventisette!”, esclamo. “Beh, brava”. “Ho indovinato?”, domando speranzosa. “No, è il ventiquattro”. Mi esce un urlo gutturale di frustrazione. “Questo non fa altro che provare la mia teoria”. Abbasso lo sguardo sconfitta, ha proprio ragione lui. A chi la do a bere? Nemmeno io sono convinta di ciò che penso, figurarsi chi mi conosce bene. “Perché non ammetti che lo ami e basta? Sarebbe tutto più facile. L’avevo capito fin da subito che non volevi solo un rapporto civile con lui, ma altro. Ed ecco il secondo motivo per cui sono venuto qua: volevo chiarire alcune cose con te. So di aver sbagliato ad agire in quel modo e sapevo anche a cosa sarei potuto andare in contro, ma l’ho fatto comunque e sai perché? Perché ho pensato al tuo bene. Come stai adesso? Bene? Non mi pare proprio ed era questo che volevo evitare, che tu stessi male per uno che non ti vuole. Queste parole ti faranno male, ma passerà. Ti deve passare perché non è possibile che a distanza di anni tu stia ancora dietro alla solita persona, fa male sia a te che agli altri che ti vedono in questo stato. Non lo capisci che puoi essere felice anche senza di lui? Vilu: sei una bellissima ragazza, intelligente, simpatica e di sicuro farai strada nella vita. Perché impantanarsi in una situazione? Perché fissarsi su una persona che, lasciatelo dire, non ti merita? Davvero, non lo capisco. Ci sto provando, ma non ci riesco”. Valuto bene il responso da dare, per cui rimango immobile per alcuni secondi a pensare. No, non sono arrabbiata. In un certo senso, ora come ora, lo comprendo e capisco le sue ragioni, ma cambiare i propri sentimenti è qualcosa di impossibile almeno per me. “Non si sceglie chi amare, tu dovresti saperlo bene”. Mi osserva silenziosamente serio in volto, poi dice: “Hai ragione, scusa. Lo so che sono tuo amico, ma voglio sapere una cosa. Devo mettermi il cuore in pace e sapere una volta per tutte cos’ha lui che io non ho”. Aggrotto la fronte. Non mi aveva mai chiesto nulla del genere e mi trovo veramente impreparata a questo tipo di quesito. “Siete due persone diverse, non siete paragonabili”. “Allora riformulo la domanda: cos’ha lui che fa sì che tu lo ami?”. Inclino il capo verso il basso, tutti hanno dato sempre per scontato il mio incondizionato amore per lui. Ma cosa fa sì che io lo ami? Non mi ero mai soffermata su quest’aspetto. Alzo la testa e fisso un punto indefinito, poi comincio: “Di preciso non lo so cos’abbia in più degli altri: è senza dubbio bellissimo, ma al mondo ce ne sono altri di migliori di aspetto fisico. Non ha per niente un bel carattere, infatti ci litigavo in media una volta al giorno. E’ irascibile, cocciuto, orgoglioso, stronzo, pieno di sé, detestabilmente riservato, ma lo amo. Forse perché le qualità che cercavo in persone diverse e che ritenevo fondamentali, le ho trovate racchiuse in lui: protettivo come un padre, leale come un fratello, comprensivo come un amico e passionale come un amante. Avevo tutto ciò che potessi desiderare, mi sapeva dare qualunque cosa volessi. Ed io l’ho perso…”. Mi accarezza il braccio e mi disincanto tutto d’un colpo. “Non è colpa tua”. “Sì che lo è”. “No, invece”. “In parte, allora”. Toglie la mano ed infila entrambe nella tasca della felpa nera. “Se non ti volessi veramente bene non te lo direi e, lo sai, mi costa un sacco. Sto cercando di tenere a freno i miei sentimenti e provando a darti pareri il più oggettivi possibile. E’ inutile che ti autocolpevolizzi, la colpa sarà pure di entrambi, ma quello che si è comportato più male è lui. Magari non durante la vostra rottura, ma successivamente. Quindi, per favore, non affibbiarti demeriti che non hai, ha sbagliato prevalentemente lui. E, te lo dico col cuore in mano, adesso che si è fatto avanti per Enrique non devi in alcun modo illuderti, altrimenti farai solamente piovere sul bagnato. Aggiungerai dispiaceri ad altri dispiaceri. Come ti senti quando lo vedi con lei?”. Bum, un pugno nello stomaco. Ormai il pronome ‘lei’ è un sostitutivo del suo nome, appena lo sento automaticamente penso a Raquel. “Vorrei solamente accucciarmi accanto ad un water e vomitare”. “Fanno talmente schifo?”, chiede con mezzo sorriso. Effettivamente è una reazione alquanto buffa. “No, cioè sì. Mi spiego: fin da piccola quando qualcosa mi dà altamente fastidio, mi fa venire automaticamente la nausea”. “Che strano, in pratica vomiti sempre”. “Spiritoso”. E finalmente mi sfugge una risata spontanea. “Però sì, vomitavo spesso adesso che ci penso”. “Lo sapevo”, ridacchia. “Allora è tutto a posto fra noi? Amici come prima?”. Mi porge una mano e la guardo per un breve lasso di tempo, poi l’afferro e la scuoto. “Amici come prima”, ripeto sorridendo. Controlla di nuovo l’ora, poi si rivolge a me: “Manca poco alla fine dell’intervallo, passi con me alle macchinette e dopo andiamo in classe?”. “Certo”. Riprendo il libro di testo e ci inviamo lungo il corridoio sotto gli sguardi indagatori degli studenti circostanti, si domanderanno perché sia tornata a parlare con Diego dopo giorni in cui ci evitavamo come la peste. Sento che il ‘quadrato tormentato’ darà materiale su cui spifferare e la cosa non mi piace. “Violetta”. Improvvisamente m’irrigidisco e mi blocco sul posto, mi volto lentamente in direzione della voce, ahimè, troppo familiare. Fa qualche passo verso di noi, squadra rapidamente il mio amico, poi torna a me. “Leon”. “Dov’eri?”, domanda. “Agli armadietti…”, lancio una veloce occhiata alla mia destra. “…con Diego”. “Ah”, risponde sistemandosi le maniche della camicia a quadri blu e bianca. Assomiglia moltissimo a quella di stanotte, la bocca dello stomaco di chiude. “Senti, ti stavo cercando perché volevo chiederti una cosa riguardo la ‘Battaglia di ba-”. “Abbiamo poco tempo ormai, devo accompagnarlo alle macchinette e poi dobbiamo andare subito in classe. Abbiamo Milton, sia mai che ci metta una nota”, lo liquido. “Ah”. Ma sa solo dire ‘ah’? “Leon, andiamo?”. Mi pareva che questa situazione scomoda fosse incompleta, ecco che alle sue spalle spunta lei. Raquel. Si gira verso di lei, la quale si posiziona al suo fianco proprio frontalmente rispetto a me e Diego. “Oh, certo”. La freddezza è talmente tanta da gelare le ossa, il distacco fra noi quattro è palpabile. Scruto sommessamente attorno e noto che alcuni si sono fermati ad osservare. No. Merda. “Volevi chiedere loro qualcosa?”. Posa una mano sulla sua spalla e gli sorride e, per quanto possa sembrare vero, so che sta fingendo di essere naturale. “Niente”. Sposta lo sguardo su Diego, poi si sofferma su di me serrando la mascella. “Proprio un bel niente”. Avvolge il braccio attorno alle esili spalle della sua ragazza e se ne va senza aggiungere altro. Sono praticamente diventata una statua, fisso le due figure allontanarsi da me col cuore in gola. Mi sa che fra poco lo vomiterò, il cuore. “Hey, hey Vilu”. Do uno scossone al capo per ritornare alla realtà. “Sì?”. “Le macchinette”, mi suggerisce con un sorrisetto tirato. “Ah sì, giusto”. Stringo il libro al petto facendomi quasi male dalla forza con cui lo presso, in questo modo posso rimanere attaccata a questo mondo e non viaggiare con la mente. Proseguo al fianco di Diego, nessuno dei due osa proferire parola. E’ il primo a liquidarmi quando gli pare e piace, mi scarica in aula magna per correre dietro alla sua fidanzata, tante volte non ha voluto nemmeno provare ad ascoltarmi, ma quando lo faccio io con lui se la prende. Cosa vuole da me? Perché non se ne sta con la sua ‘Kel’ e basta? Voglio che mi stia lontano, ma al contempo rimpiango il fatto di averlo mandato via e spinto fra le braccia di lei. Mentre ora sono qua che cammino accanto a qualcuno che vorrei fosse un altro, a qualcuno che è semplicemente un amico. Ho una tale confusione in testa che non so più cosa sia giusto fare e cosa no.

 

 

Cammino in religioso silenzio fra la ghiaia e le lapidi col capo chino, fra le mani stringo un mazzo di gigli bianchi. Ogni settimana mi reco qua, vengo a trovare una delle persone più importanti della mia vita nonostante non sia più con me. E chi l’ha detto che qualcuno per essere fondamentale debba per forza essere presente? Lo so bene. Finito di attraversare la zona principale, salgo delle scalette e mi dirigo verso una piccola area ricoperta da un po’ di vegetazione dove è sepolta mamma. Attraverso un colonnato e mi ritrovo in quella sottospecie di giardino, alzo la testa e corruccio la fronte. C’è una persona accucciata a terra, do un’occhiata sommaria attorno e mi rendo conto che è proprio nei pressi della tomba in cui devo andare. Spalanco gli occhi, che sia il famoso ammiratore segreto? Proseguo e più mi avvicino, più questa figura maschile diventa familiare. Le spalle larghe, il giubbotto in pelle, quella pettinatura. Avanzo fino ad arrivare a meno di un metro e riduco gli occhi a due fessure, mi sistemo lateralmente rispetto a lui. Lo stomaco inizia a contorcersi ed il fiato viene meno, mi mordo forte un labbro. “Allora sei tu…”, dico quasi in un sussurro. Si volta di scatto verso di me, le lucide iridi verdi puntate contro il mio viso. Sposto lo sguardo alla lapide: c’è una rosa bianca nuova, mentre in una mano tiene quella vecchia. Ci fissiamo silenziosamente, dopodiché lentamente mi metto a ginocchioni pure io e poso i miei fiori levando i precedenti. I nostri corpi sono vicinissimi, ma non si sfiorano. Nessuno si degna di aprir bocca se non per respirare, le nuvole di condensa davanti a noi ci danno la prova di quanto sia freddo. “Perché?”. Continuo a guardare di fronte a me, non sono nemmeno girata verso di lui. Lo sento sospirare, si alza un po’ di vento perché i cipressi cominciano ad ondeggiare sinuosamente. “Non ti ho mai lasciata sola sotto questo punto di vista, era un modo per farti capire che c’ero e ci sono sempre stato”. Si mette in piedi, l’osservo e mi porge la mano. L’afferro e mi tiro su, pulisco le ginocchia coi palmi. “Non so se ringraziarti o…”. “No, non ringraziarmi”. Assumo un’espressione confusa. “Che c’è?”, chiede. Scuoto il capo ed allargo le braccia. “Non capisco: all’entrata non ti sei degnato di salutarmi, mi hai evitato neanche avessi la lebbra. Poi mi vieni a parlare alla ricreazione e te la prendi pure se ho altro da fare, adesso ti trovo qua. La tua ragazza non vuole che ci vediamo, le dai retta e poi mi cerchi. Davvero, non riesco a comprenderti, Leon”. “Raquel non mi ha vietato di vederti”, ribatte prontamente. “Allora potevi anche salutarmi stamattina invece di passare dritto senza guardarmi in faccia”. Non risponde, faccio retromarcia avviandomi verso l’uscita. A falcate raggiungo il colonnato quando mi sento strattonare un braccio, ruoto la testa fino ad incontrare il suo sguardo ed improvvisamente mi blocco. “Sarebbe meglio ci evitassimo”. Serra la mascella, poi domanda: “Perché dovremmo evitarci?”. “Alla tua ragazza non sta bene”. Ridacchia, trova veramente divertente tutto ciò? Perché a me non sta piacendo per niente questa situazione. “Non vedo il motivo di stare lontani se non c’è nulla fra di noi”. Mi si mozza il respiro e deglutisco, poi continua: “Perché non c’è nulla fra di noi, no?”. Evito i suoi occhi più che posso, ma la sua mano attorno al mio polso è come una morsa ed il cuore sta per scoppiarmi nel petto. “Violetta, guardami”. Sento alcune sue dita posarsi delicatamente sulla mia guancia e spostarmi il viso in modo che sia costretta a guardarlo. “Provi qualcosa per me?”. Come ieri in aula magna, non sono in grado di proferire parola. Ho la gola secca e più cerco di mandare giù la saliva e più non ci riesco. Poi, inaspettatamente, mi esce qualcosa: “No”. Mi osserva accigliato e tutto ad un tratto avanza verso di me costringendomi ad indietreggiare, finisco con la schiena contro una colonna. Posa l’avambraccio su di essa e mi chiude lo spazio col suo corpo, il mio pancione contro il suo ventre. Allunga il volto verso il mio, la respirazione si fa sempre più frammentata. I nostri nasi sono separati da pochi millimetri, mi specchio finalmente dopo mesi in quei smeraldi che tanto mi smuovono dentro. “…nemmeno così?”. L’attenzione si sposta sulle labbra, sono tentata di affondare le mani nei suoi soffici capelli ed avventarmi su di esse. “…no”, sbotto battendo le palpebre convulsivamente. Faccio pressione contro il suo petto per allontanarlo e scappo rapidamente il più lontano possibile da lui.

 

 

ANGOLO DELL’AUTRICE

Hey ragazzuoli! Come procede? Come, io? Così e così! Mi spiace per aver tardato così tanto, ma se avete letto l’avviso sapete cos’è successo. Grazie di cuore per le recensioni lasciate, appunto, all’avviso, il vostro appoggio è una cosa stupenda. Ma hey, che ne pensate del tanto bramato capitolo? Vi dirò, vorrei fosse venuto meglio! A me non soddisfa molto, voi che ne dite? Grazie mille per i commenti che mi lasciate, risponderò a tutti appena riesco a ritagliarmi del tempo perché la scuola mi sta tenendo occupatissima ultimamente e la situazione familiare, purtroppo, non aiuta. Ma quanti siete a seguire questa storia? Oddio, troppi. L’altro giorno ho provato a guardare e mi sono quasi commossa. Ma siete dolcissimi aw *w*

Le novità non sono finite e la storia è appena entrata nel vivo, cosa accadrà nel capitolo undici?

Sapete qual è la risposta? Aspettate e leggete lol

Stay tuned (mi è mancato dirlo, troppo!),

Gre :3

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


CAPITOLO 11
 
 
 
Scorro col dito lungo lo schermo del cellulare con gli occhi ridotti a due fessure e la spalla poggiata contro il muro, sono sempre più presa da ciò che sto leggendo. Osservo la datazione di un post: sette settembre duemilaundici. Wow, ho curiosato molto in profondità nel suo profilo e pure fatto scoperte molto, ma molto interessanti: ha frequentato elementari e medie in una scuola privata ed ha avuto due o tre ragazzi che paiono quel genere di tipi con la puzza sotto il naso a cui i soldi escono perfino dalle orecchie. Inoltre, informazione eccezionale, in teoria ha avuto un flirt con Cristobal Pèrez in seconda, il ‘grandissimo’ amico di Leon. Erano entrambi nella sezione A nel biennio ed ho visto che c’è stato un periodo in cui mettevano spesso foto insieme e lui le scriveva cuori dappertutto, c’era qualcosa sotto? Potrebbe essere, anche se non ci sono foto esplicite che lo provino. Oppure lui era perso di lei, ma il sentimento non era corrisposto. Opzione che non escludo e molto più probabile, infatti era sempre lui a riempirla di moine e non il contrario. Certo è che quest’amicizia fra Cris e Leon non mi piace per niente, anche quel Pablo non mi convince. Magari sono io troppo sospettosa, ma nonostante tutto voglio che sia circondato da persone sincere e quelle hanno tutta l’aria di non esserlo. “Ciao Vilu”. Alzo il capo ed incrocio lo sguardo di Broadway. “Hey Broad”. “Non ti vedo più molto spesso dalle nostre parti”, constata. Scrollo le spalle. “Ultimamente ho tanti pensieri per la testa”. Mi sorride calorosamente. “Nemmeno per un festicciola tranquilla in casa?”. Scuoto la testa. “Non mi posso permettere questo genere di cose”. “Infatti, che ho detto? Una festicciola in casa senza alcol, né altro. Come ai vecchi tempi, ricordi?”. Sollevo leggermente gli angoli della bocca. “I vecchi tempi”, ripeto annuendo. “Non ti mancano a volte?”. Sospiro, continua: “Io, te, Maxi, Fran, Leon, Marco, Fede, Cami e Nata eravamo la compagnia perfetta, avevo veramente trovato un posto in cui stavo bene”. “Niente dura per sempre”, commento rattristita. “Solo mi spiace, mi spiace che sia colpa mia e di..”, mi mordo il labbro inferiore. “…Leon”. “Non siete stati solo voi, la colpa è stata di tutti”. Fa una risata amara e si guarda attorno. “Non lo trovi ridicolo tutto questo?”. Aggrotto la fronte. “Ridicolo in che senso?”. “Ridicolo nel senso che ormai tutto è andato a pezzi a causa di alcune stupide discrepanze che potevano essere risolte nel momento in cui sono nate”. “Non puoi costringere una persona a tollerare un’altra, Broad. Ti giuro che io ci ho provato per la compagnia, ci ho provato davvero. Sono durata più di un anno, ma in certe situazioni è impossibile sopportare la presenza di chi ti sta praticamente calpestando il cuore”, dico col magone. “Vilu, ma infatti io non biasimo te”. Mi accarezza il braccio per infondermi forza. “La tua situazione è completamente diversa e la posso anche capire, mi sto riferendo agli altri. Marco non può vedere Fede per un motivo che, francamente, devo ancora scoprire, Nata e Maxi si sono lasciati per una stronzata, Cami e Fran si rifiutano di guardare in faccia Natalia perché si sono schierate dalla parte di Massimiliano e badano bene di non parlarsi quando sono in compagnia dei propri ragazzi perché non si sopportano fra loro. Poi, ovviamente, ci siete tu e Leon che fate una storia a parte ed io, nel mezzo, che cerco di mantenere i rapporti con tutti anche se mi è estremamente difficile. Ho tentato un sacco di volte di ricucire la vecchia compagnia, ma a nessuno sembra importare ed anche se ad alcuni importa, non verrebbero mai ad una rimpatriata perché implicherebbe la presenza di un membro che detestano. Io, davvero, non so più che fare, mi sono arreso già da un bel pezzo”. “E’ difficile far tornare le cose come prima. E’ come quando ti cade un vaso a terra: puoi recuperare tutti i pezzi e rimetterli assieme, ma non è più lo stesso. Le crepe sono visibili anche se hai utilizzato il miglior saldante ed alla prima oscillazione sarà pronto a riandare in frantumi”. “E’ vero, ma se dopo averlo rimesso in sesto fai attenzione e trovi un equilibrio, il vaso non rischierà di rompersi un’altra volta”. Effettivamente non ci avevo mai pensato: equilibrio. Le cose possono davvero tornare come prima? Sono sempre stata molto categorica sull’argomento. Un rapporto va salvato quando è in procinto di deteriorarsi e c’è ancora qualcosa di salvabile, ma quando è ormai rovinato c’è ben poco da fare. E se ci si riavvicina? Si può guardare negli occhi quella persona e finire di pensare al dolore che ti ha procurato? Metto in tasca il telefono ed il mio sguardo si posa oltre la figura di Broadway dall’altra parte dell’atrio dove ci sono Cristobal e Pablo in compagnia di Leon e Raquel. Mi sfrego i palmi delle mani nervosa e la nausea mi assale. Sono l’uno di fronte all’altro, lei gli punta il dito contro ridendo e lui ha un mezzo sorriso. Lo pungola al petto per poi avvolgergli il collo col braccio e posare la testa sulla sua spalla, poi si staccano sorridenti e lo tiene per mano. “Vilu, cos…”. Anche Broad si volta all’indietro in direzione del siparietto poco distante da noi. “…oh”. Poi torna a guardarmi e chiede: “Vuoi sapere una cosa?”. Distolgo l’attenzione dalla coppietta felice e mi sento nettamente meglio. “Dimmi”. “Anche se può far male?”. Annuisco. “Tanto peggio di così”. “Lui è quello a cui importa meno della compagnia”. Lo fisso seria. “Non mi sorprende, l’avevo capito”.  “Era già difficile farlo venire dopo la vostra, ehm…”. Mi lancia un’occhiata come per domandarmi il permesso di dirlo. “…rottura, ma in qualche modo riuscivo a convincerlo. Però da quest’estate non c’è stato più verso, rifiutava categoricamente ogni invito giustificandosi affermando che aveva altri impegni così ho smesso di cercarlo”. Fa un pausa, poi continua: “Mi spiace che sia cambiato così tanto, era veramente un buon amico ed una bella persona, pure un invidiabile musicista”. “Infondo lo è ancora”, dichiaro. Torniamo entrambi ad osservare la scena. “Nel profondo del profondo del profondo”, bisbiglia. “Mi sono perso qualcosa?”. Ci giriamo in direzione di una voce molto familiare: Maxi. “Hey fratello, come stai?”. I due si scambiano un saluto strano e scoppiano in una risata. “Bene, dai. Sono stanco morto, hai visto che occhiaie allucinanti? Beh, sempre meno di quelle di Vilu s’intende”. “Non mi sei mancato per niente”, rispondo sarcastica. “Oggi è il giorno dei contrari, non lo sapevi?”. Scuoto vigorosamente il capo. “Se ti aspetti che dica il contrario sei fuori strada, lo useresti a tuo vantaggio. Ormai ti conosco bene, stronzetto”. “Hey, ma cos’è questa storia che usi dei diminutivi rivolgendoti a me?”. “Beh, sempre meglio di stronzo”, ribatto. “Ma stronzo fa più macho”. “Tu hai seriamente qualcosa che non va dentro quella testolina”. “Lo vedi? Fa apposta”, si lamenta rivolgendosi a Broadway che nel mentre ridacchia. “Sarà perché sei solo tre centimetri più alto di me?”. So di aver toccato un tasto dolente, infatti si gonfia subito d’orgoglio. “Sì, ma resto comunque quello più alto e poi sono nato in gennaio e tu in marzo, quindi sei più piccola”. “Mi diverti quando la prendi così tanto sul personale, Maxi”. “Mi provochi, mammina?”. “Oh Gesù”. Roteo gli occhi, quanto è irritante quando mi chiama ‘mammina’. Involontariamente torno a concentrarmi sulla parte opposta della stanza. Le voci dei miei amici sono distanti, sono focalizzata solo su loro due. Improvvisamente Leon si volta verso di noi ed incrociamo gli occhi, noto che la sua mano lentamente scioglie la presa da quella di Raquel. “…ed è una bomba ad orologeria! Vero, Vilu?”. “Che?”, domando disorientata. “Il pezzo è una bomba ad orologeria”, ripete. “Il pezzo?”. Inarca entrambe le sopracciglia. “Io, te, Battaglia di Band, sabato. Ci sei?”. “Oh sì”, mugugno. “Vedi, Broad, la mia collega qui presente sta prendendo la competizione poco seriamente”. “Scusami, non stavo ascoltando!”, sbotto. “Trovo particolarmente azzeccato il nome dei Mindblowing”. “E cosa c’entrano adesso i Mindblowing?”. “Niente, solo che ‘mindblowing’ significa ‘stupefacente’ e deriva dall’espressione ‘blow your mind’ che tradotta sarebbe ‘stupire, far impazzire’”. “Vai a cagare, te lo dico col cuore”. Si mette a ridere e, dopo essersi ripreso, dice: “Perché non gli parli e basta?”. “Ti pare il momento adatto per andargli a parlare? Mi sorprende che tu mi dia un consiglio del genere”. “L’altro giorno non vi siete fatti molti problemi, eh?”. Broad agita le braccia fra me e Maxi per attirare l’attenzione. “Adesso mi sa che sono io ad essermi perso qualcosa”. “Leon ha deciso di prendersi la responsabilità del bimbo”, risponde il mio migliore amico. “Co-co-cosa? Che? Quando?”. “Una settimana fa ormai”. “Ma stiamo scherzando?”, esclama con gli occhi fuori dalle orbite. “Potevi dirmi qualcosa, tu!”, indica Maxi. Fa il segno di cucirsi la bocca e sorride. “Non sbandiero gli affari di Vilu ai quattro venti”. “Ma sei il mio migliore amico!”. “Lo so, ma sono anche il suo migliore amico”. “Ed anche quello di Cami e Fran”, aggiunge Broadway. “Che ci posso fare?”, fa le spallucce. “Massimiliano Ponte, uomo più desiderato dell’anno”, sentenzio ironica. “Non serviva che lo specificassi, già lo sapevo”. “Beh, Vilu, calma. Capisco che le tendenze di Maxi possano sembrare ambigue, ma a me piacciono le donne”. “Prima mi gasate con la storia che sono il vostro migliore amico e neanche un secondo dopo mi smontate subito dandomi dell’omosessuale, grazie tante”. “Come se ci fosse qualcosa di male nell’esserlo”, puntualizzo. “Non ho detto questo, rispetto gli omosessuali perché credo che non si ami ciò che sta in mezzo le gambe, ma le persone. Però l’idea di fare cose strane con un uomo mi dà i brividi, posso?”. E’ estremamente buffo perché si ostina a prendere tutto a livello personale, è uno spasso punzecchiarlo. “E comunque nella confusione devo ancora capire cos’è successo tra te e Leon”. “Niente, abbiamo deciso d’intraprendere un rapporto civile per il bene di Enrique”. “Civile? Non ti ha nemmeno salutato”, osserva. Effettivamente Broad ha ragione, ma questa è un’altra storia. Neanche se mi spingessero davanti a lui lo saluterei ora come ora, dominerebbe l’imbarazzo dovuto a ciò che è successo ieri al cimitero. “Maxi ti devo raccontare una cosa”. “Cioè? Cos’è quella faccia da funerale?”. “Facciamo che te la racconto dopo in pausa pranzo”. “Grazie per avermi incluso!”, enfatizza il Broadway. “E’ una cosa sulla Battaglia di Band, non credo t’interessi”. “Beh, allora puoi dirmelo ades…”. “Ho detto che te lo dico in pausa pranzo, ora devo andare in classe”. Raccolgo lo zaino da terra e me lo sistemo cautamente nelle spalle. “Sei strana, Vilu. Qualcosa non va?”. Annuisco sommessamente. “Sto bene, Broad. Ci vediamo alla ricreazione in caso”. Attraverso l’atrio rapidamente, faccio per imboccare il corridoio laterale, ma vado addosso ad una persona e le faccio cadere rovinosamente a terra dei fogli. Si china per raccoglierli, dopodiché alza il capo fulminandomi. Iridi glaciali. Raquel. “Cazzo, li avevo messi a posto ieri sera…”, mormora. Li accatasta in qualche modo e si rimette in piedi, perché sono bloccata? Vorrei scusarmi, ma da un lato non voglio farlo. “Esiste la comunicazione verbale, sai? L’hanno inventata gli uomini primitivi ed ah, esistono pure le scuse”. “Scu…”. Una piccola parola, una sola, dilla. Dilla. “Che c’è? Ti hanno mozzato la lingua?”. Rotea gli occhi e sbuffa. “Ma sei in grado di parlare o…”. “Che succede?”. No. “Succede che la tua amica mi è precipitata addosso facendo cadere tutte le pratiche per la Battaglia di Band ed i progetti per la Settimana delle Arti”. La affianca e le posa una mano sulla spalla. Potrei vomitare loro in faccia. “Sono sicuro che non l’abbia fatto di proposito”. “Sì, però adesso chi passa altre due ore e mezza a risistemare e catalogare tutte le carte? Credi che fare la rappresentante d’istituto sia facile, eh?”. Per la prima volta sento il suo tono di voce alterato, scocciato. Lo sta fissando intensamente con i lineamenti tirati. “Kel, calmati. Il tempo lo troverai, ne sono certo”. Socchiude le palpebre e toglie la sua mano dalla spalla. “Il tempo lo trovo? Come scusa? Sono sempre impegnata e giro a destra e manca per far funzionare tutte le attività scolastiche ed extra, mi faccio il culo ogni santo giorno facendo una miriade di telefonate ed andando da contribuenti esterni e tratto con mio padre per avere dei finanziamenti. In più devo stare dietro allo studio, agli esami di fine anno, al rifugio dei senza tetto, alla palestra. E tu hai il coraggio di dirmi che il tempo lo trovo?”, gli grida contro. Intanto alcune persone si sono fermate e, cavoli, si sta riproponendo il copione di ieri a ricreazione solo che adesso stiamo attirando molto di più l’attenzione degli studenti circostanti. “Porca vacca, Raquel! Io lavoro, devo pagare l’affitto e tutte le spese economiche, vado in palestra e devo studiare eppure non sollevo una questione di stato se mi tocca fermarmi di più a lavorare per stare al passo con le tempistiche o se qualcuno in officina rompe la macchina dopo che gliel’ho appena riparata . Abbozzi e ricominci tutto da capo, punto. E se riesco a trovare il tempo per trattenermi di più per degli extra, ma soprattutto perché devo, ce la puoi fare benissimo anche tu che hai solo da sistemare dei stupidi fogli”. Lo osserva per qualche secondo in silenzio ed il suo volto si fa serio, stringe il pacco di quasi tre dita. “Ah sì? Bene, visto che sei così bravo…”. Gli pressa le carte contro il petto costringendolo ad afferrarle per non farle cadere. “…sistemamele tu per domani mattina dal momento che devo mostrarle al preside Marotti”. Se ne va lungo il corridoio a passo spedito lasciandoci entrambi attoniti. Sento il suo sguardo addosso per cui schiodo gli occhi fissi sul pavimento, la gente ha cominciato a riprendere a camminare probabilmente perché il peggio è passato. “Certo che sei una cosa incredibile”. “Che c’è?”, chiedo ingenuamente. “Potevi anche chiederle scusa e magari finiva là”. “Mi ha messo ansia, capiscimi”, ribatto prontamente. “Tanto ormai sono abituato a litigare con la gente per conto tuo”. “Cosa?”, domando accigliata. “Nulla, lascia stare”. “Se vuoi posso aiutarti”. Nega con la testa. “Tranquilla, mi arrangio”. Inclina il capo di lato, poi aggiunge: “C’è qualcosa che potresti fare, invece”. “Tipo?”. “Mettimi la mano in tasca”. Arrossisco tutto su un colpo ed inizia a formicolarmi lo stomaco e solo ora mi balena in mente ciò che è successo al cimitero. “Cosa de-devo fare?”. “Prendere le chia…”. Scoppia in una sguaiata risata. “L’abitudine di pensar male ad ogni cosa che dico non è passata, eh?”. “Ma? Cosa?”, fingo di non aver inteso qualcos’altro. “Sì, certo. E ti pare che vengo a farti proposte indecenti nel bel mezzo di un corridoio?”. “Sì, cioè no…cioè io…”. “Senti, tieni un secondo questi”, dice ridacchiando. Mi passa il plico di carte e lo trattengo finché non estrae un mazzetto di chiavi dalla tasca destra anteriore, poi se lo riprende. “Mi accompagni un secondo? Così sono meno incasinato”. “Uh, okay”. Lo seguo affiancandolo, svoltiamo a sinistra passando di fronte alle macchinette, giriamo a destra per poi dirigerci verso dove avevamo gli armadietti in seconda. No. Io e lui qui proprio no, troppi ricordi. Dovevano proprio assegnarli qua alla quinta c? Ci avviciniamo ad uno di essi e si volta verso di me. “Lo so, rompo ancora: tieni un attimo”. Li afferro mentre lui infila la chiave aprendo l’armadietto, glieli porgo e li mette dentro. “Con chi lo condividi?”. “L’armadietto? Con Cris”. Chiude l’anta ed il lucchetto, poi si rimette in tasca il mazzetto. “E tu?”. “Ludmilla”. “Credevo con Diego”. “Ed io credevo lo condividessi con Raquel”. Sorrido falsamente e lui fa altrettanto, poi guarda l’ora nel telefono. “Mancano tre minuti al suono della campanella”, riferisce. Tutto ad un tratto mi esce: “Comunque per ieri…”. “Che c’è?”, sbotta quasi allarmato. “Niente, volevo solo ringraziarti”. “Figurati, per quello che costa una rosa”. “Non è la rosa, è il gesto”. Mi fissa in silenzio. “E per dopo…”, aggiungo. Per la prima volta dopo anni vedo le sue goti tingersi di rosso, era un evento più unico che raro anche quando stavamo assieme. “Era solo per essere certo del fatto che non t’interessassi”. “Infatti è così”, dico sbattendo le palpebre. “Perché nemmeno io t’interesso, giusto?”. “No, per niente”. “Come fa la tua ragazza ad essere convinta del contrario?”, ridacchio forzatamente. “Non saprei, è così palese che non c’è nulla fra noi”. Le nostre voci si uniscono in una specie di risata isterica che s’interrompe bruscamente coi nostri sguardi che balzano tutt’intorno evitando d’incontrarsi. Siamo passati dal parlarci quasi normalmente al disagio più totale, perché ho menzionato quello che è successo al cimitero? Stupida. “Vilu è da un quarto d’ora che ti cer…”, mi giro di scatto all’indietro. “Che state facendo?”, domanda Diego scandendo parola per parola. “Mi ha aiutato a portare delle carte”, risponde repentinamente Leon. Incrocia le braccia all’altezza del petto squadrandoci. “E adesso stavamo chiacchierando di…”. “…fiori”, termino la frase al posto suo. “Fiori”, ripete poco convinto. “Sì, non vedo dove stia il problema”, controbatte acido. “Niente, solo mi pare…”. Osserva prima lui, poi me. “…strano”. “Dieguito fra poco suona…ah”. “Sì, Lud”. La mia amica inarca un sopracciglio confusa e si arriccia una ciocca bionda con le dita. “Che ci fate voi due imbucati in questo luogo nascosto e dimenticato da Dio?”. “Parlavano di fiori”, replica Diego. “Che? Fiori?”. “Sì, fiori”. Si sofferma su di me dubbiosa, chi vogliamo prendere in giro? Chi cavolo si metterebbe a parlare di fiori dal nulla? Le mie preghiere vengono esaudite col suono della campana delle lezioni, l’unica salvatrice dai momenti di estremo imbarazzo. Mi avvio rapidamente verso la classe affiancando Ludmilla, mentre Diego cammina più avanti rispetto a noi. “Si può sapere che fate?”, sussurra al mio orecchio. “Ma niente”. Scuote il capo. “Cos’hai?”, chiedo frustrata. “Fai intendere una cosa e poi ne fai un’altra”. “Mi stai venendo a fare la morale? Ma che vuoi?”. “Non capisci”. Sospira e raggiunge il nostro amico lasciandomi arretrata. Che ho fatto di male?
 
 
“Dunque è lui il misterioso uomo della rosa bianca”. Annuisco mentre do un morso al panino. “In un certo senso me l’aspettavo”, commenta masticando la piadina. “Cioè?”. “Beh, chi altro poteva essere?”. Effettivamente non ha tutti i torti, c’era una cerchia ristretta di possibili sospettati e lui era quello più plausibile. “Insomma è Leon, che storie”. “Già, Leon”. Si lecca le labbra per poi passarvi delicatamente un tovagliolo sopra. “E in più Raquel gli ha fatto una sfuriata davanti a tutti”. Mi porto una mano alla fronte. “Non ricordarmelo, solo a ripensarci rivivo il disagio”. Tamburella i polpastrelli contro il bordo del tavolo pensieroso. “Si è arrabbiata così tanto per un plico di fogli?”. “Sì, li aveva riordinati e deve farli vedere al preside domattina”. Scuote il capo con mezzo sorriso. “Che c’è?”. “E tu davvero credi che sia andata su tutte le furie solamente per quello?”. “Beh, sì”, ammetto. “Non credo proprio, è una reazione esagerata”. “Lei è tutta esagerata”, sbotto. “Non intendo dire questo, credo che ci sia ben altro sotto alla sua incazzatura”. “Del tipo?”. “Tu”. Mi soffermo per un secondo a pensare ed infondo ha ragione: ho notato che il suo stato di alterazione è salito alle stelle quando lui si è intromesso nella conversazione. “Trovo ridicolo che pensi che fra me e lui ci sia ancora qualcosa”. Finisce di mandare giù un boccone, poi dice: “Non lo trovo poi così tanto ridicolo”. Mangia un altro pezzo, poi continua: “Che tu sia ancora cotta a puntino di lui è palese agli occhi di chiunque, perfino chi non ti conosce lo noterebbe. Lui è il tuo ex e, questo suo comportamento strano nei tuoi confronti, rende ambigua la vostra relazione. I sospetti di Raquel non sono poi così tanto infondati, se uno sconosciuto vi guardasse crederebbe di sicuro che ci sia del tenero fra voi”. Termino il panino ingoiando l’ultima parte e rispondo: “Sulla parte che riguarda me sono disposta a dartene atto, ma per quanto riguarda lui…non so, ha detto che non prova nulla per me anche oggi”. Solleva entrambe le sopracciglia. “E tu gli credi? Credi al bugiardo per eccellenza?”. “Non so più cosa pensare”, infilo le mani nei cappelli e stringo fra di esse la testa. “Senti, non voglio illuderti in quanto ti voglio un casino di bene: non dico che ti ami, ma gli piaci e si vede. Ce ne siamo resi conto tutti l’altro giorno, il modo in cui ti guarda…pagherei oro perché Nata mi guardasse in quel modo”. Nell’ultima frase gli s’incrina la voce. Povero Maxi. “E stamattina ti ho detto di andare là e parlargli perché trovo assurdo che una ragazza di diciotto anni ed uno di venti si facciano problemi che neanche i ragazzini delle medie. Ho notato che lanciava delle occhiate verso di noi di tanto in tanto, ma di certo l’oggetto del suo interesse non ero io e nemmeno Broad. Ed il vostro quasi bacio? Ci pensi se gli avessi detto di sì alla sua domanda o l’avessi baciato senza dir nulla cosa ne sarebbe conseguito? T’invito a pensare di meno con quella testolina ed a seguire quel pazzo nel petto che molte volte ti fa compiere sciocchezze delle quali te ne pentirai fino alla fine dei tempi, ma spesso previene dei rimpianti e tutti quei maledetti ‘se’ che ti tortureranno dopo aver dato solo retta alla ragione”. Faccio per parlare, ma mi precede: “Sai? Prima di ciò che mi hai raccontato non avrei mai creduto di poterla pensare in questo modo. Ti ho sempre messa in guardia e rimembrato il fatto che stia insieme ad un’altra, ma sono sempre più convinto che lasciarvi sia stata la peggiore cazzata che abbiate potuto fare. E’ strano da spiegare: voi siete quel tipo di persone che possono stare distanti anni o continenti, ma appena si rivedranno s'innamoreranno più di prima. Non credo proprio che il tuo sia un amore a senso unico come professi spesso, l’interesse è reciproco ed è evidente”. Frase ed esempi diversi, ma stesso concetto della battuta che aveva fatto Lud l’altro giorno. Sarà vero? Leon prova ancora qualcosa per me, ma lo reprime per orgoglio? “Cosa ti blocca di preciso?”, chiede. “Lei”. Riduce gli occhi a due fessure. “Certo, ma non solo. Fidati, l’ho capito. So già che pure senza di lei troveresti un blocco, vero? Quello che hai con tutte le persone a cui tieni particolarmente”. “Semplicemente perché temo che ciò che provo per quella determinata persona non sia lo stesso mio. Ad esempio: reputi qualcuno il tuo migliore amico, ma lui ti vede come un banale amico. Sembra una stupidaggine, ma è una bruttissima sensazione. Ho avuto paura fin da piccola della sfera affettiva e ne ho tutt’ora, non mi scopro mai più del dovuto”. “Ecco, era proprio questo che volevo”, accartoccia l’alluminio in cui era avvolta la piadina. “Sei terrorizzata dal fatto che Leon non ti ami”. Sorseggio un po’ di acqua da una bottiglietta. “Un po’ sì”, ammetto a malincuore. “Posso?”, indica la mia acqua. “Sì”. La prende e ne beve un po’ del contenuto. “Non so quanto valga il mio consiglio, ti esorto a stare attenta ovviamente, ma sfrutta al meglio le occasioni che la vita ti offre. Pensaci bene, sorellina”. Sorrido intenerita, ogni tanto mi chiama ‘sorellina’ perché avendo solo un fratello, mi dice spesso che sono come la sorella che non ha mai avuto. Da quando ho iniziato ad aprirmi con la gente ho legato subito con lui, ma dopo la rottura con Leon è come se il nostro rapporto si sia solidificato. E’ vero, lui per molti è il fantomatico ‘migliore amico’ perché è una bellissima persona, ma una volta mi ha confessato che, se ricevesse diverse chiamate nel cuore della notte da me, Fran e Cami e dovesse decidere da chi precipitarsi, sceglierebbe me. Sarà che sono la più fragile, la più problematica, non lo so. Ma lui si sente in dovere di essermi vicino nonostante tutto. “Grazie mille, fratellino”. Ci alziamo in piedi e gettiamo le cartacce, poi mi volto verso di lui. “Maxi?”. “Sì?”. Lo stringo forte fra le mie braccia affondando il viso nell’incavo del suo collo. “Ti voglio bene”. Mi accarezza la schiena dolcemente. “Anch’io, Vilu”.
 
 
Abbiamo appena finito le prove e stiamo sistemando le nostre cose. Ammetto di essere davvero soddisfatta del pezzo, a parte qualche piccolo aspetto migliorabile è veramente  buono come risultato. E dire che non credevo neanche un po’ a questo progetto. Improvvisamente la porta dell’aula magna si apre ed alzo lo sguardo dai quaderni che sono intenta a sistemare e mi si chiude la bocca dello stomaco per l’emozione. Sono arrivati i Mindblowing. “Ciao a tutti”, esordisce Pablo. “Ciao”, ricambia Maxi confuso per poi aggiungere: “Stavamo andando via, tranquilli”. Finalmente vedo il quarto membro della band: un ragazzo alto, biondiccio e coi capelli sparati. Non ho idea di come si chiami, ma l’ho visto spesso in giro per i corridoi. Torno a ciò che stavo facendo, finisco di mettere il tutto dentro lo zaino e chiudo la cerniera. Sento una presenza accanto, quindi ruoto il capo verso di essa. E’ in piedi e si sistema il ciuffo con una mano. “Come sta andando?”, mi domanda. “Molto bene, voi?”. “Non c’è male”, risponde facendo le spallucce. Poi si dirige verso i suoi amici che nel frattempo stanno armeggiando gli strumenti, afferra un chitarra elettrica ed inizia ad accordarla. Lo fisso quasi incantata, per provarla suona una melodia familiare e, senza volerlo, canticchio: “These are the eyes and the lies of the taken…”. Si volta di scatto verso di me sorridendo. “Lo sapevo che l’avresti riconosciuta!”. “E chi non riconoscerebbe una canzone del genere?”. Mi fa cenno con la testa di raggiungerlo, subito tentenno però infine vado dove indicatomi. “Base”, ordina agli amici. Parte la musica e comincia a suonare di fronte a me, evito i suoi occhi imbarazzata. “Vai”, mi esorta quando arriva il momento di cominciare la canzone.
These are the eyes and the lies of the taken
These are their hearts but their hearts don’t beat like ours
Trovo finalmente il coraggio di guardarlo in volto intensamente per poi continuare.
They burn ‘cause they are all afraid
For every one of us, there’s an army of them
But you’ll never fight alone
‘Cause I wanted you to know

Lascio cantare lui accennandoglielo.
That the world is ugly
But you’re beautiful to me
Well are you thinking of me now? (now)

Decide di farmi proseguire, respiro a fondo ed intono la nuova strofa.
These are the nights and the lights that we fade in
These are the words but the words aren’t coming out
They burn ‘cause they are hard to say
For every failing sun, there’s a morning after
Though I’m empty when you go
I just wanted you to know

Posa l’attenzione sulla chitarra, poi su me scavandomi dentro con quelle iridi smeraldo.
That the world is ugly
But you’re beautiful to me
Are you thinking of me
Like I’m thinking of you?
I would say I’m sorry, though
Though I really need to go
I just wanted you to know

I wanted you to know
I wanted you to know
I’m thinking of you every night, every day

Le nostre voci si uniscono in una cosa sola ed inizio a muovermi leggermente a ritmo della musica.
These are the eyes and the lies of the taken
These are their hearts but their hearts don’t beat like ours
They burn ‘cause they are all afraid
When mine beats twice as hard

‘Cause the world is ugly
But you’re beautiful to me
Are you thinking of me
Like I’m thinking of you?
I would say I’m sorry, though
Though I really need to go
I just wanted you to know
That the world is ugly (I just wanted you to know)
But you’re beautiful to me (I just wanted you to know)
Are you thinking of me?

Si avvicina lentamente facendomi rabbrividire, ci distanziano solamente il pancione e  lo strumento musicale. E canta fissandomi negli occhi:
Stop your crying, helpless feeling
Dry your eyes and start believing
There’s one thing they’ll never take from you.

Rimaniamo alcuni secondi a specchiarci l’uno nell’altro, poi improvvisamente sentiamo un applauso. Mi giro col sorriso stampato in faccia nella convinzione che sia Maxi, ma l’espressione allegra svanisce subito alla vista di Raquel che ci applaude falsamente. “Mi è piaciuta più di quella dell’altro giorno”, dice sarcastica. “Avete davvero molto talento, perché non unire le band?”. “Kel…”, mormora Leon. “Se stai zitto mi fai un enorme favore”. Mi lancia un’occhiata di fuoco, poi aggiunge: “Ero passata per vedere come stava procedendo il vostro lavoro, ma a quanto pare è più bello canticchiare canzoncine con le proprie amichette che provare per la gara di sabato”. “Perché travisi sempre tutto? Stavano andando via, abbiamo cominciato ad abbozzare questa canzone e lei la conosceva, punto”. Guardo allarmata il mio migliore amico che mi mima il gesto di filarsela. “Ti sta attaccata come una sanguisuga, la giustifichi ancora?”. “Giustificare? Che? Per cosa, poi?”, le grida contro. Mi avvicino a Maxi, raccolgo il mio zaino e me lo metto in spalla. “Io vad…”. Leon m’intravede ed annuisce. Non so perché, ma sento di dover avere una sorta di permesso per uscire. Così seguo il mio amico verso la porta, voltandomi spesso all’indietro mentre i due continuano a litigare. E, nonostante tutto, non riesco a godere della situazione. Creo solo casini nelle vite della gente.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Hey bricconcelli! Sono tornata con un nuovo capitolo, cosa ne pensate? Ah, per la serie ‘soffriamo insieme’ questo è il link della canzone, ‘The world is ugly’ dei My Chemical Romance: https://www.youtube.com/watch?v=isTpQxfdMCU e questa è la traduzione più attendibile, anche se alcune parole non le trovo particolarmente azzeccate: http://lyricstranslate.com/it/world-ugly-world-ugly-il-mondo-e-brutto.html .
Questo ‘angolo dell’autrice’ sarà un po’ corto perché dopo la pubblicazione devo aiutare mamma ad addobbare la casa per Natale e fare i compiti, che strazio. Non mi va molto a genio il Natale. Grazie mille a chi mi dimostra quotidianamente affetto per questa fanfic, chi la recensisce, chi la mette fra i preferiti, le seguite e le ricordate.
Per quanto riguarda l’argomento recensioni mi sento una mega stronza a non trovare un pezzettino di tempo per rispondere a tutte e mi do il voltastomaco da sola. Cercherò di fare meglio che posso, a scuola ultimamente siamo pieni. Giustamente le verifiche e interrogazioni vanno accatastate tutte assieme, non staccate. Professori comprensivi, già.
Un besito e stay tuned,
Gre :3

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


 
CAPITOLO 12
 
 
 
Infilo la chiave nella toppa, la giro ed apro la porta d’ingresso. Papà alle mie spalle la richiude, mi levo gli indumenti invernali di dosso per metterli nell’attaccapanni subito a lato e poso lo zaino ai piedi di esso. “Paperotta!”. Alzo lo sguardo e sorrido spontaneamente: c’è nonna seduta sul divano assieme ad Angie, sopra il tavolino c’è un vassoio con delle tazzine. “Abbiamo aspettato che arrivaste, fa tanto freddo?”, chiede gentilmente zia. “Come sempre, qualche lineetta sopra gli zero gradi”. Raggiungo il salotto per poi chinarmi verso nonna che mi stringe in un abbraccio. “Ciao nonna”, la mia voce è ovattata perché ho il viso affondato nel suo golfino azzurro. “Ciao Vilu”. Torno dritta e mi volto pure verso Angie. “Ciao anche a te”. “Ciao”. Mi accomodo fra loro due, subito dopo arriva papà a sedersi sulla sua amata poltrona. “Che avete preparato di buono?”, domanda. “Niente di che, noi abbiamo già bevuto il caffè e ne abbiamo preparato anche per te e per Vilu c'è una bella tazzona di the al limone”. Allungo le mani verso la mia tazza personale ormai da anni, è bianca e presenta dei pois di molti colori diversi. Me l’aveva regalata Broadway per il mio sedicesimo compleanno, che gran festa era stata. Avevamo festeggiato in un luna park con la scusa del ‘sentirsi bimbi dentro’, ricordo come se fosse ieri la giostra che saliva e scendeva a velocità della luce ed arrivavi al punto in cui ti trovavi a testa in giù. Quanta paura, per me che sono una fifona poi. Ero praticamente in braccio a Leon e tenevo le palpebre serrate ed il volto infossato nel suo petto perché quelle sbarre di sicurezza non me ne davano molta. Perché ogni cosa, piccola o grande che sia, attraverso un’associazione di ricordi mi porta a lui? La devo smettere. “…fare, Vilu?”. Ritorno al mondo dei comuni mortali ed osservo confusa zia. “Cosa?”. “Ti ho chiesto cos’hai intenzione di fare, non è che vorresti ti prepari qualcos’altro?”. “Ehm…cosa? No, perché?”. “Niente, eri assorta a fissare la tazza”. Me la porto alla bocca e sorseggio un po’ del contenuto, è bollente anche se non eccessivamente. E’ sopportabile. “Allora, a quando il lieto evento?”. Papà lancia un’occhiataccia a nonna, è evidente il fatto che debba ancora accettare del tutto la mia gravidanza. Non lo biasimo, penso sia l’incubo di ogni padre con una figlia adolescente. “Fra tre mesi”, rispondo. “Uh, ma quest’anno non hai gli esami?”. Annuisco. “E come farai?”, chiede preoccupata. “Enrique nascerà circa a fine maggio e gli esami sono a fine giugno, inizio luglio. Ce la posso fare se consideri il fatto che mi sto organizzando già da ora, in qualche modo ci riuscirò”. “Se hai bisogno di qualcuno che ti guardi il bambino quando sarai sotto esame, ti do la mia disponibilità. Ne sarei felicissima, Vilu”, dice dolcemente posando una mano sopra la mia. “Grazie”. “Anche perché anche il paparino sarà sotto esame nello stesso periodo”. “Papà…”. Angie inarca un sopracciglio e lo guarda con disappunto. “Cos’ho detto?”. “Lo sai benissimo, German”. “Sarebbe quel bel ragazzino dai capelli scurissimi?”, domanda nonna. Come si vede che non è stata messa al corrente filo per segno della situazione già complicata di per sé. “No, lui è un amico”. “Quindi di chi si tratta?”. Faccio per parlare, ma mi precede papà: “E chi vuoi che sia? Quell’altro”. Mando giù un altro sorso. “‘Quell’altro’ ha un nome”, puntualizzo. “Chi ha fatto soffrire la mia bambina non è degno di essere nominato”. Roteo gli occhi. “Ancora con questa storia? Se l’ho accettato io che sono quella che ha sofferto, dovresti farlo anche tu”. “Sai che ciò che ti fa star male, mi ferisce il quadruplo?”, si indica il petto in corrispondenza del cuore. “Cazzate”. Finisco il the e poso la tazza sul tavolino. “Il linguaggio, per favore”, mi riprende puntualmente zia. “Sciocchezzuole”, ribatto ironica. “Pensa ciò che vuoi, ma questo concetto la capirai fra non molto”. Ripone la tazzina vuota sul vassoio e si alza in piedi, poi va verso la cucina. “Avevi ragione e sei passata dalla parte del torto”. “Cose che capitano, zia”. Incrocia le braccia al petto. “Non dovrebbero capitare. Sai quanto tuo padre sia contrario al fatto che Leon sia tornato nella tua vita, magari se assumessi un atteggiamento diverso cambierebbe la sua opinione”. “Ecco come si chiamava! Sapevo fosse il nome di qualche animale, ma proprio mi sfuggiva il leone”, esclama nonna Angelica strappandomi un risata soffocata nell’istante in cui Angie mi sgrida con lo sguardo. “Che c’è? Era divertente”, mi giustifico. “Queste tensioni fra te e German non fanno bene all’equilibrio della famiglia ed al bambino che porti in grembo, dovresti passare la tua gravidanza e crescere il piccolo in un clima sereno. Ecco perché non trovo divertente la cosa”. “Ridi muso lungo, sei sempre stata troppo seria e matura fin da piccola”. “Mamma, non è questo il punto…”. “Lo so, lo so. E’ una questione delicata e lo comprendo, veramente. Però perché non dare ascolto a Vilu? Pretendete che si comporti da donna matura e responsabile e, quando è il momento in cui deve farlo, la surclassate e la trattate come fosse un bambina delle elementari. Credo, anzi ne sono certa, che abbia fatto una scelta ben meditata e se ha deciso che il ragazzo sia meritevole di essere un padre, bisogna solamente accettarlo perché è una decisione che spetta a lei. E poi se si è pentito, un motivo ci sarà”. Quando pronuncia l’ultima frase mi lancia un’occhiata e fa un mezzo sorrisetto, che significa? “Io le credo, solo che German è il più scettico a riguardo ed infondo lo capisco. Per questo cerco di fare da mediatrice di entrambe le parti, voglio solamente che il bimbo cresca in un ambiente tranquillo”. Ruoto la mano col palmo all’insù e stringo quella di nonna che la sovrasta. Una su mille che capisce, grazie. “E’ quello che vogliamo tutti. Sono sicura che se lasciaste risolvere a Vilu le sue questioni senza intromettervi per tutto, le cose sarebbero migliori. E’ ovvio che un consiglio ci stia, ma senza esagerare o sfociare nell’imporre qualcosa”. “Infatti le abbiamo dato libero arbitrio sulle sue decisioni, cosa credi?”, sbotta zia indispettita. “Sì, ma vedo che tuo marito continua a far commenti acidi sulla questione”. “E’ normale, deve ancora metabolizzare il ritorno di Leon”. “E allora deve cercare di metabolizzarlo da solo o con te, non di fronte a lei”. “Questo lo so, ma diamogli tempo”. “Certo, ognuno ne ha bisogno, però nel frattempo evitate di tormentare la mia nipotina preferita”. Mi schiocca un bacio sulla guancia facendomi sorridere, sciolgo la stretta e mi metto in piedi. “Vado in camera a studiare, passa più spesso nonna”, la saluto con un altro abbraccio. Dopodiché torno all’ingresso e raccolgo lo zaino da terra, lo metto in spalla e salgo le scale. Percorro tutto il corridoio fino in fondo ed entro nella mia stanza lanciando esso senza guardare dove. Chiudo la porta, poi raggiungo il letto e mi ci stendo stanca morta. Ogni attività, anche la più banale, risulta estenuante a livelli estremi nel mio stato. Inizio a socchiudere le palpebre stanca, stasera posso anche fare a meno della cena visto che il fatto che abbia sonno sia un’occasione più unica che rara da prendere al volo. Le serro del tutto e sospiro beata, quando improvvisamente lo squillo del cellulare interrompe il rilassamento. Chi sarà mai a rompere? Mi metto seduta e lo estraggo dalla tasca, leggo la schermata: Diego. Per un secondo sono tentata di non rispondere, ma poi da buona amica decido di premere sul simbolo della cornetta verde. “Pronto?”. “Ciao Vilu”. Aggrotto la fronte confusa. “Il motivo di questa chiamata?”. Sono stata troppo schietta? Oh no, che stronza. Non dovevo. “Vedo che vai subito al sodo, eh?”, ridacchia. Almeno non se l’è presa, per fortuna mi conosce bene e sa che talvolta sbotto male anche se non vorrei. “E’ una chiamata di scuse. L’ennesima chiamata di scuse, per la precisione. So che ultimamente te ne faccio centomila, ma delle volte non mi controllo e…”. “Ti staresti scusando per cosa?”, chiedo ancora più perplessa di prima. Questo ragazzo si sente in colpa anche solo se starnutisco in classe e si dimentica di dirmi ‘Salute’, dovrebbe smetterla di essere così autopunitivo. “Per averti trattata un po’ male oggi a scuola, soprattutto nelle prime tre ore di lezione”. Mi gratto la fronte. “Ah, ora ricordo. Beh, credevo fossi stanco, non me la sono presa per niente”. “Davvero?”. Sento un barlume di speranza nel suo tono di voce. “Ovvio, pure io tante volte sono scontrosa per questo”. “Questo è vero”, ammette ridendo. “Dunque perché mi hai tratta ‘un po’ male’?”. “Niente, lascia perdere”. “Sicuro?”. “Certo, è tutto passato”, mi liquida. Ed io puntualmente penso che il suo stato d’animo sia stato compromesso da Leon. “Senti, posso chiederti una cosa?”. “Dimmi”. “Non è che domani ti andrebbe di venire con me al ‘Crazy Horse’? So che molto probabilmente dirai no perché ti stanca molto uscire e perché quest’evento lo fanno pure la sera, ma è un nuovo locale aperto da un amico di papà e volevo chiederti se saresti disposta a venire all’inaugurazione. Stiamo lì quanto vuoi, giuro! Quando sei stanca, basta che me lo dici e ti riporto a casa”. Fisso l’uscio di fronte a me pensierosa. “Non saprei…quando comincia?”. “Alle otto di sera”. “Neanche tanto tardi”, osservo. “Vabbè, se non vuoi venire fa niente. Non mi arrabbio mica, eh?”. “No, invece voglio venire”. “Davvero?”, domanda incredulo. “Certo, sarà divertente: cibo gratis”. “Lo sapevo che saresti venuta solo per quello”. “Noto con piacere che sei perspicace”. Giocherello col bordo del copriletto. “E ci saranno anche le pizzette”. “Un motivo in più per non pentirmi di questa scelta”. Rifletto su un aspetto, poi continuo: “Piccola domanda: non mi dovrò vestire elegante?”. “Oddio, non penso”. “Perché non so se mia hai vista, non sto dentro a nulla o in caso contrario sembrerei un salame. A malapena riesco a trovare vestiti normali che mi stiano, figurarsi quelli formali”. “Un abbigliamento casual andrà più che bene, non è mica un locale di lusso”. “Perfetto”. “Aspetta un secondo…”. Riesco ad udire lui che allontana il cellulare e la sua voce distante dire: “Eh? No, sono al telef…ma adesso? Che palle”. Riporta il telefono all’orecchio per tornare a me: “Scusami, ma papà rompe perché lo aiuti a sistemare delle carte in ufficio. Vai a capirlo te, allora ci vediamo domani?”. “Certo”. “Passo a prenderti alle sette e mezza, allora”. “Okay”. “Ciao Vilu”. “Ciao Diego”. Riattacco e lo poso sul comodino, mi rendo solo ora conto di non avere la minima voglia di andare a quell’evento. Perché ho accettato? Poteva andarci Lud al posto mio, se lo sarebbe meritato di più. Sarà perché nonostante tutto la vecchia Violetta che è restia a dire di no agli amici non se ne vuole andare, quanto vorrei sopprimerla completamente. Sarebbe tutto più facile senza quella parte di me o, almeno, vorrei riuscire a scordarmi di Leon. La speranza inizia a venire meno: a volte mi pare ci siano segnali da parte sua, altre che non gliene freghi assolutamente nulla. Secondo Maxi, Cami e Lud gli piaccio ancora, ma cosa posso fare? Non saprei proprio da dove cominciare. Forse sono solo opinioni non fondate di amici che vedono le cose in un solo verso, dovrei smetterla di creare disastri nella sua vita. Quel che è certo è che devo fare chiarezza con una persona e lo sforzo che mi costerà non sarà poco.
 
Cammino lungo un marciapiede privo di cartacce e spazzatura sentendomi molto a disagio, a lato di esso ci sono delle alte siepi da cui s’intravedono delle ville. Fra le foglie scorgo qualche piscina o dei gazebi enormi, questo posto non fa per me. Sento che se sfiorassi anche solo la vegetazione, suonerebbe un allarme. Rileggo il fogliettino che stringo fra le mani per rivedere l’indirizzo, voglio essere certa di suonare al campanello dell’abitazione giusta. Oggi ho evitato le zone affollate a scuola per non vederlo, quest’idea mi è ronzata per la testa tutto il giorno ed ora eccomi qua. Nessun auto parcheggiata a bordo strada come i comuni mortali, le ruberebbero di sicuro. Arrivo di fronte ad un cancello enorme, involontariamente spalanco la bocca di fronte a quella che sembra una casa uscita dai libri di storia dell'arte: porticato con colonne in granito screziato, fontana ad ordini sovrapposti al centro del giardino con dei putti musicanti, finestre ad edicola e rivestimento in marmo immacolato. E’ proprio come uno di quei palazzi dei signori rinascimentali della penisola italica, un'architettura del genere sarebbe il sogno proibito di ogni amante dell’arte. Scuoto il capo per risvegliarmi da questo sogno paradisiaco e punto lo sguardo verso la cassetta della posta intarsiata in una roccia con le scritte in oro: ‘Residenza Marquez’. Sotto vi è il campanello nel quale sono riportati i nomi nel medesimo materiale: Miguel Marquez, Mireya Lopes, Victor Marquez, Raquel Marquez, Miguel Jr. Marquez. Deglutisco e poggio l’indice sul bottone, serro le palpebre e lo premo. Aspetto alcuni secondi, poi sento una voce provenire dagli autoparlanti: “Residenza Marquez, chi è al cancello?”. Aggrotto la fronte, ma quanti convenevoli. “Violetta Castillo”, pronuncio flebilmente sentendomi quasi inadeguata a tutto questo. “Sarebbe?”. Panico. Chi sono io? Praticamente nessuno per questa famiglia. Non sono nemmeno degna di entrare, ovvio che non vi fanno accedere cani e porci.  “Una compagna di scuola di sua figlia”. “Ah, conosce la signorina Raquel? Prego”. Un rumore fastidioso di ferraglia mi riempie le orecchie, il cancello si sta aprendo. Proseguo lungo un viale fatto di sassolini bianchi che porta dritto all’ingresso, tutt’intorno è ricoperto da erbetta verde curata da un giardiniere lì presente, la fontana è spenta probabilmente perché altrimenti l’acqua si ghiaccerebbe. Salgo delle scalette e raggiungo il porticato, è tutto così raffinato e classico. Mi fermo davanti al portale a due ante in attesa che si apra, mi guardo attorno sommariamente e sgrano gli occhi alla vista di due videocamere puntate su di me. Avevo ragione sulla storia degli allarmi. Improvvisamente un forte suono mi fa sobbalzare, mi ritrovo di fronte ad una donna sulla sessantina con i capelli raccolti in uno chignonne e con una traversa legata alla vita. “Violetta Castillo?”, domanda. Annuisco e mi fa cenno di entrare, sorrido imbarazzata e faccio il mio ingresso. Osservo meravigliata l’enorme atrio: il pavimento è rivestito da grandi piastrelle di granito, davanti a me due rampe di scale dai versi opposti salgono in una direzione arcuata convergendo nello stesso punto al piano di sopra. Ci sono due arcate per entrambe le pareti laterali, odo in lontananza una sinfonia di Bach. Mi volto a destra e mi porto una mano in corrispondenza del cuore spaventata: vi è una cornice di dimensioni giganti contenente il fotogramma della famiglia Marquez al completo. Al centro c’è Miguel, il padre, seduto con le mani congiunte su una sedia mentre ai suoi piedi c’è un bambino sui sei anni dai capelli corvini e gli occhi azzurro zaffiro. A sinistra dell’uomo c’è Mireya con una mano poggiata sulla spalla del marito mostrante la fede nunziale, è vestita impeccabilmente ed ha la lunghissima chioma biondo cenere quasi da sembrar platino. Sul retro della sedia c’è un ragazzo alto, magro e con la stessa tinta di capelli del padre e del fratello. A destra vi è, infine, Raquel con una mano sullo schienale e l’altra ricadente lungo il corpo longilineo. Sono tutti seri ed hanno lo sguardo fisso in avanti, ma che razza di ritratto di famiglia è? Noi solitamente ci fotografiamo in eventi come Natale, pic nic o partite. Noto un dettaglio che, seppur banale, mi colpisce molto: tutti i membri hanno i capelli scuri fatta eccezione per la madre, ma gli unici ad avere gli occhi grigi e glaciali sono Miguel e la figlia, gli altri hanno acquistato il blu intenso dalla donna. Le altre occhiate mi paiono quasi dolci, mentre quelle di quei due mi fanno correre un brivido lungo la schiena. “Comunque la signorina Raquel non è mia figlia”, mi dice la signora anziana facendomi distogliere l’attenzione da ciò che stavo analizzando. “Ehm…ora l’ho capito”, rispondo a disagio. Tutto l’ambiente mi rende nervosa. “E’ figlia della signora”. “Ma ti rivolgi alla gente sempre così?”, chiedo scandalizzata. “Oh, scusi intendevo dire: ma si rivolge alla gente sempre così?”. Si toglie gli occhiali e li pulisce sulla traversa. “Non si scusi, lei è autorizzata a darmi del ‘tu’, ma io sono obbligata a darle del ‘lei’”. Inarco un sopracciglio. “Guardi, signora: può benissimo darmi del ‘tu’, mi mette in soggezione tutta questa formalità”. Sgrana gli occhi manco avessi bestemmiato. “Sta scherzando? Vuole che ci rimetta il posto di lavoro? Devo trattare gli ospiti dignitosamente quando mettono piede all’interno della villa”. Okay, mi pare ridicolo tutto ciò. Però non forzerò più il discorso, ho capito che non ci si può far niente se sono ordinanze date dai ‘piani alti’. “Lavora da tanto qui?”. Scruta furtivamente attorno per poi affermare: “Saranno esattamente ventiquattro anni in aprile”. “Ventiquattro anni d’inferno”, mormoro fra me. “Cosa?”. “Oh, nulla”. “Ma…”, sto per domandare qualcos’altro, ma m’interrompo. “…scusi, le sto ponendo troppi quesiti”. “Lei può farmi domande, sono io che non devo porne”. Sembra di parlare con una serva, mamma mia. “Lei cosa fa di preciso?”. “Sono l’addetta a quest’area della casa, mi occupo del ricevimento degli ospiti e di tenere sistemata l’entrata”. “Ah”. Noto che fa per aprire la bocca, ma si zittisce simultaneamente. “Voleva qualcosa?”. Scuote vigorosamente il capo. “No, non devo domandare nulla”. Ridacchio mentre è impassibile di fronte a me. “Si figuri, chieda pure ciò che vuole”. Indica il pacione che s’intravede da sotto il giaccone. “Di quanti mesi è?”. Riesco a scorgere un lieve sorriso, ma è una cosa di pochi secondi. “Sei”. “Sarà felice il suo fidanzato”. Ironico detto proprio in questa casa. “Ehm…non ce l’ho, ma il padre è felice”. “Sarebbe?”. “Leon Varg…”, mi mordo la lingua prima che possa finire la frase. Chissà cosa penserebbero di lui, il ragazzo di Raquel, se fossero al corrente del fatto che ha messo incinta un’altra. “Leon?”. Ormai quel che fatto è fatto. “Vargas”. Fa le spallucce. “Mai sentito nominare”. Aggrotto la fronte stupita, mai sentito nominare? Probabilmente non divulgano gli aspetti della loro sfera privata ai dipendenti domestici. “Inizialmente credevo fosse qua per il signorino Victor, ma poi ha detto che è una compagna di Raquel ed è molto strano. Non porta molte amiche qui”. Chissà perché la cosa non mi stupisce. “Victor sarebbe?”. “Il ragazzo alto e secco dietro lo schienale della sedia, è il fratello maggiore di Raquel”. Mi volto verso la grande foto e lo individuo subito, quindi quello è Victor. Sto scoprendo molte cose interessanti. “Giselda”. Scatta improvvisamente appena viene nominata, minuti di conversazione con questa donna e non le ho chiesto nemmeno il nome. Giselda. Alzo lo sguardo verso il piano di sopra e vi è Raquel poggiata sul parapetto che dà sull’atrio. “Sì, signorina Raquel?”. Inizia ad avanzare lentamente giù per una rampa di scale e l’unico suon udibile nella stanza è un tacchettio che riecheggia assieme alla musica in lontananza. Da quando è comparsa, è calato il gelo. Arrivata poco distante da noi, si dirige in nostra direzione e mi sfrego le mani per il nervosismo. Si ferma ad un paio di metri da me, mi guarda senza mostrare alcuna emozione e poi punta lo sguardo su Giselda. “L’ospite ha ancora gli indumenti invernali addosso”. L’espressione dell’anziana pare mortificata. “Me ne sono totalmente scordata, perdoni la mia sbadataggine”. Sospira come se fosse una cosa che la scocciasse. “Farò finta di non aver visto nulla e non riferirò niente a mio padre”. China la testa in segno di sottomissione, ma siamo nel Medioevo? “Gliene sono grata, signorina”. “Lasciaci da sole”, ordina e, repentinamente, la domestica abbandona la stanza. Raquel la osserva mentre se ne va, poi si gira verso di me squadrandomi da capo a piedi. “Direi di smetterla con i convenevoli ed andare subito al sodo: che vuoi?”, chiede seccamente. Inspiro a fondo per trovare la forza di dire finalmente qualcosa, mi sono già preparata mentalmente dei discorsi. “Fare chiarezza una volta per tutte”. Mi fissa perplessa. “Cioè? Se sei venuta a parlarmi di quello stron…”. “Anche, ma soprattutto di me. Ci tenevo a farti sapere che per me tutto questo non è una competizione, non sto bene se so che tu e lui litigate a causa mia. Mi sento terribilmente in colpa e volevo scusarmi per aver creato scompiglio fra voi nell’ultimo periodo, tutto qua”. Chiude le palpebre e serra la mascella, poi le riapre di scatto. “Ma proprio non ti entra in testa che non è solo l’ultimo periodo?”, alza la voce e mi punta un dito contro. “Tu porti scompiglio sempre, sempre!”. Alzo le mani a mezz’aria. “Non è mia intenzione, a te non entra in testa questo”. Incrocia le braccia al petto. “Dovrei crederti? Dovrei credere a quella che è andata a letto il mio ragazzo?”. “Non eravate assieme quando è successo!”, grido. “Cosa c’entra? Ci eravamo lasciati da poco! Hai idea di quanto sia stato umiliante per me? Non credi che mi vergogni a stare assieme ad un ragazzo che ha messo incinta un’altra?”. “Tu parli di umiliazione?”. Adesso non mi ferma nessuno, al diavolo i discorsi pacifici programmati. “Mi hanno lanciato merda addosso praticamente tutta la vita, sono stata presa in giro in ogni maniera possibile e mi hanno sempre esclusa. Mi sono innamorata, mea culpa. Sono rimasta incinta, sono vista male per questo ed ho inseguito una persona che ha fatto solamente a brandelli il mio cuore, la stessa che mi ha abbandonata con un bimbo in grembo, che ha scelto te più e più volte ed hai accanto tutti i giorni. Hai vinto, Raquel. Hai ancora qualche altro dubbio sul fatto che ti ami? Sì? Beh, perché io non ce ne ho”. Rimane immobile come una delle statue che adornano l’ambiente circostante con le labbra schiuse, è alquanto sorpresa dalle mie parole. “Il punto è che deve ancora dirmelo”, ammette sommessamente. “So che è un ragazzo complesso ed ha difficoltà ad esporre ciò che sente, ma sono passati mesi ormai e nemmeno un misero ‘Ti amo’…”. Abbassa lo sguardo, poi chiede: “A te l’ha mai detto?”. Il cuore sbatte violentemente contro la gabbia toracica, a me l’ha detto dopo alcune settimane di frequentazione ed il giorno stesso in cui ci siamo messi insieme. A lei non l’ha mai detto. “No”, pronuncio. Si porta una mano al petto con un mezzo sorriso. “Allora non sono solo io”. Sì, sei solo tu. “Non avrei mai pensato di dirlo, ma…”. Annuisce. “…grazie, Castillo”. “Prego”, rispondo. “Adesso posso andare”. “Di già? Non vuoi vedere un po’ la casa?”. “No, non ho tempo. Stasera devo uscire”. “Ah, okay. Allora ti apro il cancello, buona fortuna per dopodomani”. “Ehm…grazie”. “Giselda!”, urla. Dopo circa trenta secondi la donna si precipita al nostro cospetto. “Apri la porta all’ospite”, intima per poi voltarsi e varcare l’arco per andare in un’altra stanza probabilmente a comandare l’apertura del cancello da un pannello. La signora si avvicina al portone, allunga il braccio, ma la fermo. “Ho le mani, posso usarle”. Mi sorride veramente questa volta ed è probabilmente molto più grata a me con questo piccolo gesto che a Raquel per non aver fatto la spia con suo padre. Apro un’anta ed esco, poi saluto con un gesto Giselda. Povera donna, costretta a fare da serva ad una famiglia di ricconi. Scendo le gradinate e ritorno nel sentiero coi sassolini ripensando a quanto è appena successo: sono stata, straordinariamente, nella residenza di una delle famiglie più potenti di Baires se non dell’Argentina intera, ho affrontato Raquel ed ho rinunciato al ragazzo che amo. Direi che è stata una giornata piena.
 
 
Siamo seduti al bancone su delle sedie a forma di barile, questo locale è a tema Far West. Spulcio da circa mezzora gli spuntini posati poco distante da me, sono come una droga. “Ma quanto mangi?”, chiede ridendo. Scrollo le spalle e con mezzo sorrisetto rispondo: “Guarda che devo mangiare per due”. Annuisce. “Ah, sì. Giusto, capisco”, e continua a mangiare una pizzetta. Ammetto che alla mia frase mi sarei aspettata una battuta alla quale avrei a mia volta ribattuto in maniera ancora più sarcastica. Purtroppo non è Leon. “Bello, però”. “Bello cosa?”, chiedo confusa. “Uscire con te, insomma...è successo raramente”, dice col volto tinto d’imbarazzo. Sgrano gli occhi e continuo a fissare la ciotolina di fronte a me con i mini pretzel, ne sto ingurgitando a quantità industriali solo per tenere occupata la bocca e parlare il meno possibile. Sarà che sono tremendamente a disagio e solo ora mi rendo conto che è stata la mezzora più lunga della mia vita, per quanto tutt’intorno sia un cantare e vociare mi sto annoiando a morte. “Figo”. Signori e signore, ecco a voi Violetta Castillo: vincitrice del premio risposta inappropriata dell’anno. “Già”. Cavolo, ho finito pure i salatini. Allungo la mano ed afferro i crostini al burro e salmone e li porto accanto a me, alzo lo sguardo e noto che il barista vestito da cowboy mi sta fissando non poco male per cui rapidamente li faccio scivolare distanti. “Cos’hai fatto nel weekend?”. “Sono andata ad una visita, la solito solfa”, ammetto con disinvoltura. “Una visita? Non me ne avevi parlato”. Sgrano gli occhi allarmata. Quanto sono stupida da uno a me stessa? Non l’avevo detto apposta perché non volevo mi accompagnasse come sempre, adesso capirà subito che c’è qualcosa sotto. “Ehm…no? Strano, mi pareva di sì”. Corruccia la fronte. “Non me l’hai nemmeno accennato per sbaglio”. “Uhm…”. Si volta del tutto verso di me e si mette a braccia incrociate. “Chi ti ha accompagnata, Violetta?”. “Co-cosa? Papà, ma che domande!”. Cerco di trattenermi, ma tutto ad un tratto inizio a sbattere rapidamente le palpebre. “Bugia. Chi ti ha accompagnata?”. “Te l’ho detto, papà”. Non si vogliono arrestare, sembro in procinto di piangere. “Lo ripeto un’ultima volta e questa volta smettila di trattarmi come un fesso: chi ti ha accompagnata?”, chiede alzando il tono di voce. Mi guardo attorno, poi sospiro e dico: “Lui”. Inspira ed espira profondamente tanto da sentire il rumore dell’aria fuoriuscire. “Ma è stato solo per la storia della responsabilità di pad…dove stai andando?”. Torno coi piedi a terra e lo inseguo in mezzo alla folla mentre si dirige verso l’uscita. “Diego, ascoltami”. Niente, prosegue dritto per la sua strada finché non ci troviamo fuori lungo il marciapiede. “Cazzo, mi vuoi ascoltare?”, grido afferrandolo per il braccio. “Che vuoi?”, sbotta con tanta acidità come quella di Raquel questo pomeriggio. “Non fraintendere, io e lui siamo sol…”. “Smettila di rigirarmela come vuoi te!”. Scuoto il capo. “Io ti ho tenuto all’oscuro solo per…”. “Basta, basta, basta!”, si libera dalla mia presa. “Non ce la faccio più ad andare avanti così, avevi ragione tu quella volta: è meglio evitarci”. Non so perché, ma gli occhi iniziano a velarsi di lacrime. Sarà l’ansia, la sua ira contro di me, la delusione che provo per me stessa. “Ma che hai capito? Non vole…”. “Ti prego, smettila. Non ti sembra abbia subito abbastanza? Quello torna da un giorno e già ti affidi completamente a lui, mentre io ti ho aiutata sempre e preferisci non dirmi nulla”. Le prime lacrime iniziano a rigarmi il viso, il mascara sta colando. “E per favore, non fingere di star pure male per le tue bugie che è da sei mesi che non la smetti di mentire a tutti noi”. Mi esce un singhiozzo e mi passo la mano tremante sulle guance sporcandola di nero. “Diego…”. “Non c’è altro da dire: ha vinto lui, anche questa volta”. Avanza verso l’automobile ed apre la portiera. “Aspetta, che fai?”. Vi entra e la richiude, mi si mozza il fiato e corro verso di essa. Cerco di aprire uno sportello però è chiuso, quindi batto sul finestrino continuando a piangere. “Ti prego apri, non abbandonarmi qui in mezzo a…”, non faccio in tempo a finire la frase che parte a tutta velocità lasciandomi sola in un posto colmo di gente sconosciuta. Mi copro la faccia coi palmi e dei fiumi inarrestabili fluiscono dagli occhi, faccio scivolare una mano lungo il corpo e la infilo dentro la tasca dei pantaloni. Un brivido di freddo mi investe, ho dimenticato il giubbotto dentro il locale. Estraggo il cellulare e lo porto a pochi centimetri dal volto perché le lacrime non mi permettono di vedere nitidamente. Compongo di getto un numero che conosco molto bene, un numero che so a memoria. Suona libero, non sono in grado di porre fine a questo pianto. Maledetti ormoni. “Pronto?”. Non rispondo, piuttosto emetto una specie di lamento. “Oh, Violetta: cosa succede? Mi fai preoccupare, perché piangi?”. Il respiro è frammentato, ma cerco di parlare: “Mi ha ab-abbandonata su un ma-marciapiede”. “Chi?”, domanda subito dopo. “Diego”. “Dove sei?”. Mi esce un gemito. “In via Cordoba, davanti al nu-nuovo locale”. Fa una breve pausa, poi dice: “Mettiti in un posto tranquillo e caldo che vengo a prenderti, tu aspettami lì che parto immediatamente”, poi riattacca.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao gionvincelli! Come procede? Tutto bene? Spero di sì! Eccoci con un nuovo capitolo. Lo so, lo so: vi starete lamentando per la Leonetta assente, ma credetemi che questo passo è necessario e vi assicuro che ne varrà la pena. Abbiamo assistito al dialogo fra Violetta e Raquel, voi avete appoggiato ciò che ha fatto Vilu? Le fa onore come gesto? Oddeus, vi ho troncato il capitolo proprio sul più bello! Chi sarà la persona con la quale è al telefono? Leon? Maxi? Qualcun altro? Sbizzarritevi con le ipotesi! Ho deciso che, per comodità, risponderò alla moltitudine di recensioni durante le vacanze natalizie ergo fra non molto, così potrò metterci precisione, calma e non avere il fiato sul collo. Quanto desidero queste vacanze, quanto! Ah, off topic: lunedì 22 è il mio compleanno, fatemi gli auguri u.u
Grazie mille a tutti voi per l’appoggio, i commenti, per contattarmi su Twitter e per mettere la storia fra i preferiti e le seguite. Ho visto anche che qualcuno ha segnalato entrambe le fanfiction all’amministrazione per inserirle nelle scelte, ma siete pazzi? Vi adoro! *w*
Un bacione enorme e stay tuned (quante novità nel tredici, quante),
Gre :3

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


CAPITOLO 13
 
 
 
Tremante mi dirigo verso un piccolo divanetto a due posti in pelle nera, alle mie spalle sento la porta chiudersi. “Siediti se vuoi”, mi invita. Non me lo faccio ripetere due volte e mi butto a peso morto all’indietro posando la nuca contro lo schienale, mi sfrego le mani per riscaldarmele e vi soffio per avvolgerle d’aria calda. Nel frattempo si toglie la giacca e la getta sopra al tavolo disordinatamente, strano per uno come lui. Viene verso di me e si siede accanto senza però permettere che i nostri corpi si sfiorino. “Hai bisogno di altri fazzoletti?”. Scuoto il capo. “Perfetto perché li ho finiti”. Mi sfugge mezzo sorriso che puntualmente nascondo. “Hey, smettila di fare così”, dice dolcemente. Mi volto verso di lui, è poggiato coi gomiti alle ginocchia e sorregge la testa con le mani congiunte mentre mi osserva. “Ha ragione, è questo il punto. Sono una stronza bugiarda, mi sorprende che nessun altro me l’abbia sputato in faccia finora”. Aggrotta la fronte come se non approvasse. “Sai benissimo che non è vero”. “Invece è vero!”, ribatto in tono infantile come i bambini. Sento gli occhi pizzicarmi ancora, la quarta crisi di pianto è in arrivo. “Davvero, finiscila di dire cazzate”. “Non sono cazzate”, tiro su col naso. “No, eh? Ora basta piangere”. “Che ci posso fare se ho la lacrima facile?”, domando in un lamento. “Questo lo so, però non ha senso torturarti per una persona del genere”. “Ma lui ha detto solo cose vere, ecco perché fa così male. Se non avessi…”. “…se non avessi niente, Violetta”, sbotta. “Ciò che ha fatto è ingiustificabile. E’ da coglioni lasciare una ragazza incinta in un marciapiede di sera, chiunque lo capirebbe”. Mi passo le dita appena sotto le narici per poi singhiozzare. “E adesso smettila di piangere che sembri un orsetto lavatore”. Alzo lo sguardo e gli sorrido timidamente, questa volta non l’ometto. “Grazie, sai?”. Scrolla le spalle, il suo classico movimento. “Che c’è? Gli orsetti lavatori sono carini”. “Rubano il cibo agli umani”, puntualizzo. “E non è un po’ come fai tu?”. Roteo gli occhi mentre ridacchia beffardo. “Puoi prendere qualcosa per tenere a freno gli ormoni in gravidanza? Sai com’è, sei più emotiva del solito e non vorrei mai che scoppiassi in lacrime per ogni cosa”. “Certo che sei stronzo, oh. Nemmeno quando piango riesci a non prendermi in giro”. Sospira. “Sai che è il mio metodo, cerco di sviare per non far pensare alla persona che sta male il motivo per cui sta piangendo”. Annuisco. “Lo so bene”. “I pianti altrui mi mettono in imbarazzo”, confessa. “Capisco, pure a me succede lo stesso”. “Lo sapevo già”. “Anch’io”. Ci fissiamo per alcuni secondi per poi posare l’attenzione su altro in preda al disagio. Sono certa di avere il viso della stessa tonalità del tappetto ossia rosso vermiglio. “Ehm…senti, vorresti bere qualcosa di caldo?”, chiede incespicando. “Uhm, okay”. Si mette in piedi e mi concedo il lusso di guardarlo rapidamente, non voglio che capisca che m’interessi più del dovuto. Ho fatto una rinuncia oggi pomeriggio e questa rinuncia lo riguarda. “Tu intanto vai a lavarti il viso con dell’acqua fresca, basta che tiri la porta scorrevole e vai nella prima stanza che vedi in quella sottospecie di corridoio. E’ talmente piccolo da non poter essere definito tale”. Con cautela mi alzo anch’io e mi tolgo il giubbotto, faccio per piegarlo quando improvvisamente cerca di afferrarlo facendo scontrare per sbaglio la sua mano con la mia e la ritrae prontamente facendola ricadere lungo il corpo. “Lo metto assieme al mio sul tavolo”. “Ma non vuoi che…”. “Non importa”. Glielo lascio prendere, poi mi dà le spalle per poterlo posare dove indicato.  Ero talmente abituata a fingere di essere una persona ordinata anche quando non lo ero che ormai mi viene spontaneo in sua presenza non lasciar nulla fuori posto e piegare tutti gli indumenti. Chissà a cos’è dovuta questa sua mania per l’ordine e la precisione, caratteristiche a me sconosciute. “Sicuro di non volerli, chessò, appendere da qualche parte o piegarli?”. Raggiunge la dispensa e la apre, risponde mentre è immerso nella ricerca di qualcosa. “Fa niente, davvero”. Confusa vado verso la porta, la faccio scorrere ed entro nel famoso ‘corridoio’. Effettivamente ha ragione a dire che non ha molto senso chiamarlo così, ma in che altro modo potrei definirlo? Faccio qualche passo per poi entrare in un bagnetto dotato di doccia, water, lavabo ed una piccola finestrella sulla sommità della parete di fondo. Mi sistemo di fronte allo specchio e scruto impassibile la figura riflessa: acconciatura rovinata, occhi gonfi e trucco colato fino alla fine delle guance. Aveva proprio ragione, sembro un procione. Apro il rubinetto e faccio scorrere l’acqua, poi mi risciacquo più e più volte la faccia per eliminare ogni residuo del make up. Con le palpebre serrate allungo le braccia e prendo un asciugamano per poi tamponarlo delicatamente sul volto, finito il procedimento lo ripoggio dov’era. Torno ad osservare me stessa, ora sono completamente struccata e non so se sia molto meglio rispetto a prima. Odio farmi vedere senza trucco, è come mostrare la parte più fragile e nascosta di me che cerco in tutti i modi di reprimere e solo pochi eletti ne sono a conoscenza. Tra questi c’è pure lui, comunque. Mancano solamente i capelli, dunque sciolgo la coda e li faccio ricadere lungo le spalle. Do un’occhiata attorno assicurandomi che nessuno mi veda ed apro il mobiletto sopra il lavandino dal quale fuoriesce un intenso profumo di dopobarba. All’interno vi sono cose tipiche da bagno rigorosamente posizionate secondo una scansione ben precisa: collutorio, schiuma da barba, rasoi, shampoo e balsami di riserva, cotton fioc. Cerco fra i vari ripiani, finché non trovo finalmente una spazzola. La prendo, ma quando faccio per usarla rimango completamente paralizzata. Deglutisco e la porto vicino al viso, è così familiare. La rigiro sbalordita: è in plastica blu elettrico e si restringe leggermente al centro del manico. E’ la mia spazzola. Ora si spiega perché non ero più riuscita a trovarla, devo averla accidentalmente dimenticata a casa sua quando stavamo ancora assieme. Mi mordo il labbro inferiore, poi afferro le ciocche e ve la passo. Appena termino di lisciarmi la chioma castana, la rimetto subito al suo posto provando a far sembrare che non sia stata minimamente spostata. Mi guardo un’ultima volta allo specchio, dopdiché esco silenziosamente. Arrivata nel corridoio, mi volto a destra e noto che c’è un’altra stanza con la porta, anch’essa scorrevole, leggermente scostata. Suppongo sia la sua camera. Mi sporgo leggermente sull’uscio che dà sul soggiorno per vedere se è ancora impegnato a fare altro. Fischietta mentre sta mettendo un pentolino sul fuoco, sopra il tavolo vi è una confezione d’infusi e le giacche sono sparite. Lo sapevo che non avrebbe resistito per molto. Sgattaiolo verso la sua stanza e prima di accedervi faccio un respiro profondo, poi faccio scivolare anche quel poco che vi resta per lasciare un varco. Avanzo osservandomi attentamente attorno cercando d’incamerare ogni singolo particolare: è grande abbastanza per contenere un letto matrimoniale, due comodini, un armadio ed alcuni oggetti. Presenta anche un terrazzino, credo sia fondamentale per lui in quanto in questo modo è libero di uscire a fumare quando gli pare e piace. Raggiungo il letto e mi ci siedo delicatamente, passo un palmo facendolo strofinare contro la stoffa liscia del copriletto verde scuro. Alzo lo sguardo: di fronte a me c’è la sua chitarra posata su un cavalletto, spontaneamente ruoto il capo verso l’armadio e noto sorridendo che non si è smentito riguardo la tastiera. Sempre sopra di esso la mette, anche se questa volta in casa non c’è nessuno che possa toccargliela. Tutto ad un tratto qualcosa attira la mia attenzione: il cassetto del comodino che ho vicino è chiuso male e da esso penzola qualcosa. Ancora una volta mi guardo attorno furtiva per poi afferrare la maniglia e tirarla. Mi si mozza il fiato. Inizio a tremare mentre allungo la mano verso una collana, era quello l’oggetto che penzolava. Gliel’avevo regalata per il suo compleanno: è in argento placcato e fatta come se avesse delle squame. Ricordo che la indossava sempre e ne ero felice per tutto quello che mi era costata. Sgrano gli occhi alla vista del suo bracciale preferito, quello donatogli da Moises, lo afferro e scorro lungo tutti i ciondoli fino ad arrivare alla ‘V’. Un pugno nello stomaco. Lo poso accanto alla collana non appena capisco che c’è dell’altro, rovisto fra delle carte e trovo la lettera del nostro anniversario. Avete presente quella sensazione orribile come se dei denti aguzzi stessero facendo a brandelli il cuore? Ecco, lo stesso sta accadendo in questo momento. Passo i polpastrelli lungo il bordo seghettato dell’apertura della busta, questo significa che l’ha letta e chissà quante volte. Scorgo una cosa colorata sottostante, alzo tutto ciò che vi è sopra e spalanco la bocca. Sento gli occhi velarsi di lacrime e sì, ho il pianto facile. Stringo fra le mani una fotografia mia. Vi sono raffigurata. Sbatto le palpebre più volte per convincermi che sia reale, ma sono proprio io. Eravamo allo zoo quando me l’aveva scattata e ricordo che per trascinarlo lì avevo dovuto combattere dure battaglie e per battaglie intendo la contrattazione del ‘sesso settimanale’. Nell’immagine come sfondo c’è della vegetazione verde ed ho i capelli raccolti in uno chignonne alla bell’e meglio, gli occhiali da sole a specchio e sorrido tenendo una mano alzata in segno di saluto. Guardo il retro. E’ stata sviluppata il sedici luglio duemilaquindici, pochi mesi dopo la nostra rottura e presenta delle annotazioni scritte in penna: ‘Zoo, Baires. Ventiquattro giugno duemilaquattordici’ in corsivo, mentre in basso con una dimensione nettamente più piccola ‘T.A.’. Corrugo la fronte, che sarebbe a dire ‘T.A.’? Basita, ripongo la foto sopra la superficie del comodino. Provo a vedere se conserva qualcos’altro, quando sento dei passi in lontananza. Raggruppo velocemente tutti gli oggetti e li rimetto dentro a casaccio, per poi richiudere simultaneamente il cassetto. Mi metto di scatto in piedi e mi posiziono dinnanzi la chitarra fingendo di essere interessata ad essa. “Hey, Viole…che stai facendo qui?”. Mi volto verso l’uscio e sorrido in maniera a dir poco innaturale. “Ehm, niente. Ho trovato la porta semiaperta e mi sono messa a curiosare un po’ nella tua stanza. Noto con piacere che hai tenuto ‘Stacy’”. Sposta lo sguardo sullo strumento musicale e sembra essere sollevato. Perché, Leon? E’ evidente che tu abbia qualcosa da nascondere e che sia proprio ciò che ho visto, perché occultarlo? Perché tenere oggetti del nostro passato per poi ignorarmi e ferirmi nel presente? Veramente fatico a capirlo. Lui è quel tipo di persona che puntualmente ti fa soffrire come un cane, ma quando ci sei assieme niente sembra importare e dimentichi tutto il male che ti ha fatto in favore dei bei ricordi che hai con lui. Mi chiedono come faccia a non odiarlo, semplice: quando lo guardo, non vedo lo stronzo che mi ha abbandonata incinta di lui per sei mesi e si è messo nel frattempo con un’altra. Vedo solamente il Leon diciasettenne che mi ha fatto perdere la testa, il ragazzo che mi ha fatto scoprire l’amore così giovane. Che significa tutto questo? Lo stato, la canzone, il portachiavi, la spazzola ed ora il comodino. Prova ancora qualcosa per me? Un fremito di eccitazione mi attraversa il corpo ed improvvisamente divento colma d’imbarazzo come pochi minuti fa sul divano, mi pare di essere ritornata ai primi anni di liceo in cui mi vergognavo di qualsiasi cosa comprendesse lui. “E’ tale e quale a una volta, no?”. Sobbalzo impaurita, sono stata talmente concentrata nelle mie riflessioni che non mi sono nemmeno resa conto che ora è al mio fianco. “Già”. “Comunque se vuoi l’infuso è pronto”, annuncia. La stanza cala in un silenzio imbarazzante, queste lunghe pause fra una risposta e l’altra non fanno altro che aumentare il divario che c’è fra noi. Annuisco e, grazie al cielo, lo prende come un responso valido, dunque s’incammina verso l’uscita ed io lo seguo a ruota. Arriviamo in soggiorno e mi indica di accomodarmi al tavolo in vetro, sposto una sedia e mi ci siedo. Davanti a me è posata una tazzona con all’interno un liquido bollente, la porto più vicina a me in modo da inspirarne profondamente il profumo. “E’ ai frutti rossi”, dice mentre mi si siede di fronte con una tazzina stretta fra le dita. “Uh, grazie. Mi piace molto e te? Non lo bevi?”. Mi mordo la lingua non appena realizzo di aver detto la cazzata dell’anno. “Giusto, le fragole”. Inarca le sopracciglia e sorseggia quello che suppongo sia caffè nero. Non mette mai lo zucchero e non è necessario che assaggi, lo so e basta. Manda giù un po’ del contenuto, poi la poggia. “Allergia, vedo che ti ricordi”. “Come dimenticarlo? Ho rischiato di farti andare in shock anafilattico con la crostata alla marmellata di fragole”. Sgrana gli occhi come se provasse dolore al solo ricordo. “Pensavo di morire quella sera, a malapena riuscivo a respirare”. Bevo un po’ d’infuso, poi dico: “E’ stata l’ora e mezza più brutta della mia vita”. Alza leggermente un angolo della bocca. “I sensi di colpa conseguenti al crimine”. Sbuffo. “Manco sapevo fossi allergico, sennò non avrei mai comprato una crostata alla marmellata di fragole”. “Certo, come no”, ridacchia. “Come no, cosa? E’ anche colpa tua, dovevi capirlo che c’erano dentro fragole”. “Grazie mille, l’ho capito quando ho dato un morso ad una fetta. Come faccio a capirlo se non le vedo fisicamente?”. Finisce tutto il caffè, era molto meno rispetto alla mia bevanda. “Non so, voi allergici magari sviluppate qualche recettore speciale che vi fa capire cosa mangiare e cosa no”, ribatto. “Ovvio, noi poveri sfigati allergici siamo tipo Robocop. Cosa mi tocca sentire?”, commenta ironico. “Tutto questo per non ammettere che l’hai fatto di proposito per avere il mio patrimoniale”. Gli do un calcio sotto al tavolo colpendolo sullo stinco. “La vuoi piantare? Sono seria. Ero davvero spaventata, avevo una maledetta paura di perderti”. Tutto ad un tratto l’espressione divertita sparisce e mi osserva confuso. “Cioè, ehm…volevo dire…”. “Anch’io”, risponde. “Anche tu cosa?”, domando. “Anch’io ho avuto paura di perderti in passato. Però non ‘perderti’ nel senso di non averti più, ‘perderti’ nel senso di…”. Abbassa il capo. “…insomma, mi riferisco ai problemi che hai avuto, la depressione e tutto il resto. Non appena notavo un accenno di tristezza nel tuo volto, cercavo subito di rimediare facendoti svagare e pregando che non stessi ricadendo nel buco nero in cui sei finita più volte. Ed ho ancora paura, Vilu, solo che sento che se accadesse adesso, sarebbe colpa mia. Non potrei accettarlo, ecco un altro dei motivi per cui sono tornato”. Termino l’infuso e poggio la tazzona. “Torn…”. “Sì, tornato”, rimarca l’ultima parola. Fisso le mie gambe attraverso la lastra di vetro del tavolo, quindi lui è ‘tornato’. “Metto queste sul lavabo”. Allunga il braccio per prendere la tazza e le ripone nell’acquaio poco distante da noi assieme alla sua. Torno in piedi e curioso l’ambiente circostante, noto una scrivania accanto al divano e ne vado appresso. Sopra di essa vi è poggiato un modellino di un edificio ancora in fase di costruzione, probabilmente lo sta ultimando per poi consegnarlo alla sua professoressa di modellistica. Ai lati vi sono un blocco per gli schizzi, la tavola con il progetto ed alcuni strumenti da lavoro. “Stiamo progettando una concessionaria”. “Oh, forte”. Poso l’attenzione su dei disegni appesi con delle puntine in una bacheca in sughero proprio di fronte a me, sono contenta che non abbia abbandonato il suo lato creativo perché è molto talentuoso nelle arti figurative nonostante abbia scelto architettura. Che strane forme ha realizzato, inclino la testa a lato e riduco gli occhi a due fessure concentrandomi su uno in particolare. Vi è uno sfondo dai colori surreali ed inquietanti e due ammassi di figure grigie accatastati alle estremità opposte in basso. Suppongo che tutte queste siano persone, esse trattengono i due personaggi centrali che sono come sospesi in aria. La sagoma nera sembra essere maschile perché più possente, mentre quella bianca femminile. Entrambi hanno il braccio allungato verso l’altro e cercano di toccarsi le mani invano perché bloccati dagli altri. Eppure manca così poco perché si sfiorino, un piccolo sforzo basterebbe per farli incontrare. “Cos’è?”, chiedo spontaneamente senza schiodare lo sguardo. “Quello? Niente di che. Disegni figurati, ma astratti”. Do una rapida occhiata attorno e noto che le sue creazioni non hanno un senso logico apparente, ciò comporta che dietro ad ogni cosa vi siano altri significati di non immediata comprensione. Inoltre il ragazzo in nero e la ragazza in bianco sono un tema molto ricorrente, quasi fossero i protagonisti di una storia narrata attraverso le immagini. “Sono molto belli e…strani”. Ruoto il capo in sua direzione, mi ritrovo a pochi centimetri dal suo viso. Mi osserva insistentemente le labbra ed il mio respiro si fa pesante, mi faccio coraggio e mi metto frontale rispetto a lui. Ora mi fissa dritto negli occhi, posa la mano sulla mia guancia delicatamente facendomi rabbrividire. No. Cosa sto per fare? Non posso. E’ impegnato, non devo cadere in una debolezza. Lui però forse prova ancora qualcosa per me e solo in questo modo posso sapere se è vero oppure no. Ma che dico? Non devo farlo. Il panico s’impossessa di me quando il suo volto inizia ad avvicinarsi sempre di più al mio ed io, da grandissima idiota, serro le palpebre in attesa di sentire la sua bocca premere contro la mia. La vicinanza diventa sempre meno, sento le punte dei nostri nasi sfiorarsi. Un suono di un telefono. Sobbalzo e ritorno alla realtà, mi stacco repentinamente imbarazzata ed estraggo il cellulare dalla tasca. E’ papà, oh. Premo sul tasto con la cornetta verde  e lo porto all’orecchio spaventata dalla reazione che potrebbe avere. “Uhm, pronto?”. “Vilu, dove sei?”. Dalla voce sembra più preoccupato che arrabbiato, meglio così. “Al locale, dove vuoi che sia?”, rispondo con nonchalance. “Avevi detto che ti saresti fermata per poco”, ribatte irritato. “Ho trovato da fare, scusa”. “Avevi detto che saresti arrivata per le nove e qualcosa e sono già le dieci passate”. Roteo gli occhi e Leon accenna un sorriso vedendomi scocciata dall’insistenza di papà. “Papà…”. “Vieni a casa. Adesso”. “Ma pa…”. “Subito”. Sbuffo. “E va bene”. Riattacco e lo rimetto dov’era. “Cosa c’è?”, domanda. Faccio le spallucce. “Devo andare a casa…subito”, calco volutamente l’ultima parola facendolo ridacchiare. “Peccato”. Aggrotto la fronte. “Peccato?”. “Beh…”. La suoneria parte di nuovo ed ora chi è a rompere? Riafferro rabbiosamente il telefono e guardo il display: Diego. Deglutisco e gli lancio uno sguardo allarmato, si sporge verso di me per poter leggere. “Chi è?”. “Diego”. “Non rispondere”, sbotta. “Magari vuole dir…”. “Ho detto che non devi rispondergli”. “Ma…”. “No”. Me lo strappa dalle mani e mette giù al posto mio. “Hey!”. “Temporeggi come non so cosa”. Incrocio le braccia sopra al pancione. “Almeno potevi lasciare che suonasse anziché mettere giù in questo modo, già mi ha detto che sono stro…”. “Ci risiamo”. Si passa una mano sulla fronte spazientito. “Riesci a non fartene una colpa per una volta?”. “Se non gli avessi detto di me e te alla visita, non sarebbe finita così male”. Ecco, ora gliel’ho detto. Avevo spiegato a grandi linee il motivo dell’ira di Diego. “Ah”. Mi mordicchio il labbro inferiore. “E’ geloso di te”. Annuisce. “Capisco, ma non ha motivo di cui essere geloso, vero? Cioè quello che è successo poco fa è stato un momen…”. “Beh, forse un po’ sì”, mi esce. Rimaniamo a specchiarci l’uno nell’altro per alcuni istanti, ma nessuno osa fiatare. Aspetto ancora un po’, per poi dire: “Dove hai messo il giubbotto?”. “E' appeso sull’attaccapanni lì infondo”. Lo indica, si trova proprio accanto all’entrata. Vado fino a là, lo prendo ed inizio ad indossarlo. E’ ora di andare a casa. Sì, è decisamente ora di uscire di qui. Non ho fatto altro che peggiorare la situazione, ho fatto una rinuncia e devo rispettarla. Perché è così difficile? Finito di abbottonarmi, mi raggiunge e si mette anche lui la sua giacca in pelle per poi aprire la porta. Non si azzarda a spendere una parola neanche se pagato, pare pensieroso. Sarà un viaggio molto freddo.
 
 
Poso lo zaino a terra ed infilo le chiavi nell’armadietto, lo apro e vi appendo il giubbotto al gancetto. Papà ieri sera mi ha fatto un bel cazziatone, ma credo che la maggior parte del suo nervosismo fosse dovuto al fatto che a portarmi a casa è stato Leon e non Diego. Allora sono partite ventimila domande a raffica, in quanto era bramoso di sapere cos’era accaduto per filo e per segno. Gli ho fatto credere che all’apertura vi fosse anche Leon e che ci fossimo trattenuti a chiacchierare al bancone, mentre Diego doveva rientrare presto urgentemente. E sì, ancora una volta mi sono dimostrata molto abile nell’arte del mentire. Potrei impartire lezioni se mi dovesse andar male nella vita. Chiudo l’anta ed il lucchetto, poi rimetto la chiave in tasca. “Buongiorno”. Mi volto di scatto verso questa voce familiare, mi ha fatto prendere un bello spavento. “Oh, sei tu”. “Sì, sono io”, ripete ridacchiando. Dove trova la forza di essere di buon umore di prima mattina? Inconcepibile. “Scusa, credevo fossi…”. “…Diego. Lo so, lo so”. C’è qualcosa che non sa di me? Finisce un sacco di frasi al posto mio, dovrei metterlo alla prova un giorno di questi. “Domani è il grande giorno”, annuncia. “Non sembri per niente entusiasmato dal modo in cui l’hai detto”. Fa le spallucce. “Mi hanno praticamente costretto”. “Ti capisco, se non fosse stato per Maxi, non avrei partecipato”. “Ed io se non fosse stato per i ragazzi”. Mi sfugge mezzo sorriso, credevo si fosse iscritto di sua spontanea volontà. “Il tema però sta venendo bene, lo ammetto”. Annuisco. “Pure noi stiamo facendo un lavoro niente male”. Posa la spalla contro l’acciaio degli armadietti ed incrocia le braccia. “Dimmi qualcosa sulla vostra canzone”. “No”, rispondo di getto. “Perché no? Ti ho chiesto di dirmi ‘qualcosa’, non di svelarmi i contenuti”. Ci penso un po’ su, poi acconsento. “Solo se tu, però, mi dici prima il titolo della vostra”. Sgrana gli occhi. “Il titolo? Ma sei seria?”. “Ovvio, questo o niente. Lo dicono tutti, no? Mai giudicare un libro dalla copertina ergo il titolo non dice nulla sulla canzone in sé, non si può commentarla in base a quello”. Dall’espressione pare convinto della mia argomentazione, potevo studiare giurisprudenza. “Okay, si chiama ‘Always Attract’. Contenta?”. ‘Always attract’. “Non vedi le stelle filanti e gli unicorni danzanti tutt’intorno? E’ scontato che sia contenta”, dico sarcastica. “Tu cosa vuoi sapere della nostra?”. “Mmh…che sentimento esprime?”. Scuoto vigorosamente il capo. “Questo no, eh? E’ troppo da chiedere”. Inarca un sopracciglio. “ Senti, bellezza, tu mi ha chiesto il titolo, non so se ho reso l’idea. Ti sembra poco?”. Sospiro sconfitta. “E va bene, trasmette...ehm, rabbia, delusione e disperazione. Almeno, credo sia così”. “Forti come tematiche”. “Già”. Improvvisamente alle sue spalle scorgo una figura venirci incontro e vado nel pallone. Diego si sta avvicinando a noi, vuole parlarmi me lo sento. Leon deve ancora rendersene conto e spero cambi strada, ma pare proprio stia venendo qua. “Vilu”. Lo fisso impassibile ed immobile, non trovo nemmeno la forza di salutarlo. Mi sento maledettamente in colpa per il mio comportamento da stronza, ma al contempo ho maturato l’idea che si sia comportato da coglione ieri sera. Leon si volta all’indietro trovandosi proprio faccia a faccia con l’altro, posso notare la sua mascella serrarsi. “Non credo voglia rivolgerti la parola, sai?”. “Cosa ne sai te? Devi sempre essere in mezzo su tutto?”, sbotta irritato. “Purtroppo sì, in questo caso ci sono fin troppo in mezzo”. Lo ignora e punta lo sguardo verso di me quasi implorandomi. Mi fa male vederlo così distrutto, ma ha sbagliato. Ed io non so davvero che dire. “Smettila, tanto non vuole sentire le tue ragioni anche perché non credo ce ne siano per un’azione del genere”. Lo spagnolo gli lancia un’occhiata di fuoco, posso vedere le sue goti tingersi di rosso in pochi secondi. “Ah, vieni a farmi la morale proprio tu? E’ ridicolo, tu sei ridicolo. La lascio sola per una sera e ti scagli contro di me, ma se tu l’abbandoni per sei mesi nessuno può dirti nulla!”. Cala tutto ad un tratto il silenzio, i due continuano a guardarsi intensamente senza però aggiungere nulla. Quando improvvisamente Leon, il quale era fin troppo calmo, spinge con forza Diego contro gli armadietti afferrandolo per il colletto della felpa. Il rumore metallico rimbomba ancora nella mia testa violentemente, ho la bocca spalancata ed il cuore in gola. “Leon, calmati!”, grido. “No, non mi calmo!”. Nemmeno mi degna di considerazione, la sua attenzione è tutta concentrata sul viso dell’altro che suppongo non veda l’ora di martoriare. “Tu non ti devi permettere, è chiaro? Non mi conosci, non sai chi sono, non sai un cazzo. E’ sempre stato un tuo difetto, sai? Parli solo per dare aria a quella latrina che chiami bocca!”. Inizio a tremare leggermente, ho paura adesso. E’ tutta colpa mia se si è arrivato a tanto, sono io la causa di tutto. “Non mi pento di ciò che ho detto. Mi diverte il fatto che il bue dia del cornuto all’asino”, ribatte flebilmente con un sorrisetto beffardo. “Ah, dunque lo trovi…”. Lo pressa ancora più forte facendo un altro gran frastuono. “…divertente, eh?”. “Leon: ti prego, basta”, ma m’ignora. “E’ inutile che lo preghi, Vilu. Tanto sai benissimo com’è fatto il tuo adorato amichetto, non sa mai tenere le mani in tasca…”, fa una pausa per poi dire quasi in uno sputo di veleno: “…soprattutto se qualcuno offende la sua mammina”. Mi si chiude la bocca dello stomaco: il grattacielo, Moises, il suo passato. Questo non lo doveva dire, mi sento arrabbiata al posto suo. Adesso è un uomo morto, sicuro. Leon ci mette un po’ per incassare col capo chino, dopodiché, da una situazione di pacatezza, sferra un pugno dritto nel volto di Diego facendolo cadere a terra. E’ quel che si merita in un certo senso. Non faccio in tempo a realizzare ciò che è successo che si sta piegando su di lui per punirlo ancora, sono certa che voglia finirlo in ogni maniera possibile. Gli occhi mi si velano di lacrime. “Basta, Leon, basta! Abbiamo capito, smettila!”. Inizia a prenderlo a pugni, per fortuna passano di là Cris e Pablo che, allarmati, corrono verso di noi capendo subito ciò che sta accadendo. Afferrano entrambi un braccio ciascuno e cercano di staccarlo a fatica, ma alla fine ci riescono. Nel frattempo arriva pure Ludmilla che si porta una mano alla bocca, mi lancia un’occhiata scioccata per poi chinarsi verso il suo amico e cercare di reggerlo in piedi. Tutti sono in azione: due tengono fermo Leon, Lud sostiene Diego. Io invece sono ancora scossa e paralizzata. “Giuro che se ti rivolgi ancora così a me, ti ammazzo!”, urla braccato dai due amici. Poso lo sguardo su Diego: ha lo zigomo arrossato ed un rivolo di sangue che cola dalla narice, ma niente di grave. O meglio, l’hanno fermato prima che potesse procurargli qualcosa di grave. “Non ho alcun motivo per rispettarti, stronzo!”. “Nemmeno io!”, ringhia cercando di dimenarsi, ma è bloccato. So che muore dalla voglia di spiattellargli un altro gancio destro. “Qualcuno mi spiega succede?”. Ci giriamo in direzione della voce, mancava solo lei. Il respiro si fa pesante, non vorrei che pensasse che non stia portando a termine ciò che ho promesso. “Leon?”. Mi passa accanto per raggiungerlo e gli si piazza dinnanzi. “Allora?”. “Stiamo cercando di capirlo anche noi”, spiega Cris. Con uno strattone riesce finalmente a liberarsi, ma, invece di rispondere, squadra tutti con odio. Quando i nostri occhi s’incontrano, noto che i lineamenti si rilassano e pare quasi voglia scusarsi con me. Poi improvvisamente si volta di scatto all’indietro per inviarsi lungo il corridoio rabbiosamente, Cristobal e Pablo dal loro canto lo inseguono mentre Raquel mi lancia una frecciata e se ne va da tutt’altra parte con le braccia conserte sotto il seno. Diego si tasta il viso per sentire se c’è qualcosa di rotto, ma è tutto a posto. “Vado in bagno a risciacquarmi”. Solo adesso che il suo rivale se n’è andato si concede il lusso di mostrare la sfumatura dolorante nel suo tono. “Ti accompagno!”. “Se proprio vuoi”, dice massaggiandosi la mascella. “Lud, aspetta”, la trattengo per un braccio. Una fitta allo stomaco m’investe non appena carpisco l’espressione quasi disgustata dal mio tocco. Cos’ho fatto? Non è mica colpa mia se Diego ha fatto il coglione e, dirò, secondo me è già tanto che non lo abbia picchiato a sangue. “Non mi toccare”. “Ma? Cosa…”. “Credevo fossimo amiche”. Sgrano gli occhi sorpresa, non ho fatto nulla per mettere in discussione la nostra amicizia. Mi osserva carica di delusione, prende a braccetto il suo amico e si allontana da me lasciandomi sola. Ed ancora una volta ho contro tutto il mondo.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Hey bestioline! Come va? Spero bien! Avete passato bene le festività natalizie? Btw, io le odio ma dettagli. Che ne pensate del capitolo? Vi è piaciuto? Spero di sì. *incrocia le dita* Adesso non venitemi ad accusare che ci sia poca Leonetta che ho dedicato un capitolo intero a loro! Ah, ma dunque nel prossimo ci sarà la Battaglia di band? Chissà cosa succederà. *coff coff* Voglio complimentarmi con chi aveva optato per Leon il capitolo scorso, bravi perché avete indovinato anche se a mio parere era palese fosse lui. E niente, non voglio dilungarmi più di tanto! Grazie mille per il sostegno e l’amore che dimostrate sempre per le mie storie, grazie di cuore. Risponderò con calma a tutti dal momento che ora sono in vacanza e sono passati i ‘giorni di fuoco’ in cui ero impegnata da mattina a sera.
Un besito e stay tuned (troppe novità nel prossimo),
Gre :3

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


CAPITOLO 14
 
 
 
La scuola è in fermento, i corridoi sono un via vai di persone di tutte le età accorse a vederci ed è quasi impossibile cercare di spostarsi in mezzo a questa confusione. Per una giornata sono sospese le lezioni regolari in favore di quest’evento, solo ora mi rendo di conto di quanto le cose siano state fatte in grande: l’aula magna è gremita di spettatori, tanto che molti sono costretti a stare in piedi nonostante abbiano aggiunto altri posti a sedere per necessità. Mi allontano dal varco che dà sulla sala per rientrare nel dietro le quinte, Maxi è seduto su un pouf poco distante da me intento a fare degli esercizi di rilassamento per scaricare la tensione che, col passare dei minuti, si accumula sempre di più. Mi costa ammetterlo, ma pure io sono tesa come la corda di un violino soprattutto dopo aver visto tutta quella gente come pubblico. Tutti i concorrenti che ci circondano sono agitati, lo si carpisce dai loro volti carichi di nervosismo ed ansia. Chissà come saranno i loro pezzi, sono molto curiosa di sentire il lavoro degli altri svolto in contemporanea al nostro in queste settimane. C’è chi canticchia per smorzare il momento e scaldare la voce, chi riflette in un angolo come il mio migliore amico, chi chiacchiera con gli altri partecipanti e chi, come me, non fa altro che andare avanti indietro e studiare l’ambiente. M’incammino verso la porta d'uscita perché sento il bisogno fisico di andare ai servizi, bagnarmi i polsi e la fronte con dell’acqua gelida e prendere una pastiglia per l’ansia. Afferro la mia borsa posata su un pouf verde accanto a quello blu in cui è seduto Maxi, faccio per proseguire, ma quest’ultimo mi ferma: “Dove stai andando?”. “A prendere un tranquillante, sia mai che mi venga un attacco di panico proprio mentre dobbiamo esibirci”, rispondo prontamente. Mi rivolge un sorriso timido che contraccambio, poi mi decido ad uscire. Appena fuori dallo stanzino fin troppo stretto per i miei gusti, inspiro a pieni polmoni una bocconata d’aria per poi inviarmi verso il bagno. Passo accanto ad un muro pieno di aule, quando improvvisamente sento delle voci provenire da un uscio leggermente aperto. Sarà per questo che la conversazione arriva dritta al mio orecchio e rapisce la mia attenzione, infatti mi fermo e mi metto in ascolto. Sono in due e sono entrambe voci familiari. “…e credimi, non è stato facile. Infondo, però, che potevo fare? Non potevo più andare avanti in quel modo”. Sobbalzo non appena riconosco a chi appartiene. Un tono deciso con qualche sfumatura roca: Leon. Cosa ci fa all’interno di un'aula vuota? Perché non aspettare dietro le quinte come tutti? Sarà una riunione speciale per parlare in privato della band? “Lo immagino. E adesso cosa pensi di fare? Quel che è fatto, è fatto. Non puoi più tornare indietro”. Mi pare di conoscerla, ma proprio mi sfugge di chi sia. Sarà che non la sento da tanto questa voce, eppure sono certa di aver interagito con questa persona in passato. “Non ne ho idea. Un modo lo troverò, stanne certo”. “Ma tutti i suoi amici sono contro di te”, obietta l’altro. Aggrotto la fronte confusa e mi avvicino un po’ di più per ascoltare meglio. “Secondo te non lo so?”. “Devo crederti quando dici che lo farai? Perché non è la prima volta che la lasci dicendo di farlo e poi improvvisamente ritorni da lei”. “Credimi, questa volta nulla mi farà cambiare idea, Andrès”. Ecco chi è: Andrès. E' da talmente tanto tempo che non ci parlo che probabilmente per questo non sono riuscita a riconoscerlo. “Sono contento che alla fine tu abbia scelto il meglio per te ed anche per lei, ovviamente. Ha sofferto tanto a causa tua, questo è quello che mi ha detto Broadway”. Mi si blocca il respiro, stanno parlando di me? Broadway non potrebbe sapere della sofferenza di Raquel. “Lo so bene, per questo sento di non meritarla ancora. Però ci proverò, proverò ad essere una persona migliore anche se sono cosciente di essere un enorme stronzo quando mi ci metto. Infondo basta solo esserle accanto per far sì che io cambi, è strano ma è lei a rendermi una persona migliore”. Alzo leggermente un angolo della bocca, me lo diceva spesso quando stavamo assieme. Quand'era con me si sentiva in dovere di essere una persona migliore. “Sempre detto che ti comportavi meglio quando stavi con lei”, ridacchia l’amico. “Credi che non sappia anche questo? Non sono per le frasi fatte, ma è proprio vero che ‘ti rendi conto di amare una persona quando questa non ti appartiene più’. Ho capito solo dopo che tutto quello che ho sempre cercato in una donna, l’avevo già trovato in lei. Certo, ha i suoi difetti ed alcuni veramente grossi, ma per me è perfetta così”. Poggio una mano contro il muro per essere sicura di non cadere a terra da un momento all’altro. ‘Ti rendi conto di amare una persona quando questa non ti appartiene più’. Significa che quando ci siamo lasciati ha capito di amarmi, quelle della spiaggia non erano bugie come avevo cercato di convincermi in questi mesi. Vorrei spalancare la porta, entrarvi ed urlargli che anche lui per me è perfetto e che pure io non ho mai smesso di amarlo e sperare in noi per nemmeno un secondo da dopo la nostra rottura. Però no, non riesco a farlo o, meglio, non voglio che scopra che abbia origliato la conversazione con Andrès. “Le parlerai, dunque?”.  La bocca dello stomaco mi si chiude in attesa del suo responso. “Certo, ma voglio farlo nel momento più opportuno”. Decido di aver sentito abbastanza, l’ultima cosa che desidero è che mi sorprenda appena fuori dalla stanza. Perciò continuo a camminare lungo il corridoio per fare ciò per cui ho abbandonato Maxi dietro le quinte. Arrivata nei pressi dei bagni, vi entro e mi precipito accanto ad un lavabo. Mi aggrappo ai bordi di esso, faccio scorrere dell’acqua fresca e v’immergo i polsi per poi passarmi le mani umide sulla fronte e lungo il collo. Ho bisogno di smorzare la tensione prima dell’esibizione che avverrà fra non molto. Afferro delle salviette e mi asciugo per bene, dopodiché estraggo dalla borsa la confezione di pastiglie per prevenire gli attacchi d’ansia e ne imbocco una posizionandola sotto la lingua per poterla far sciogliere. Mi ricompongo e torno fuori respirando a fondo, i corridoi sono quasi vuoti perché tutti ormai sono nella sala in cui si terrà l’evento. Intravedo poco distante una chioma dorata lunga e boccolosa: Ludmilla. “Lud!”. Si volta all’indietro, ma si rigira subito non appena vede che sono stata io a chiamarla. Inizia ad inviarsi speditamente, ma la inseguo urlandole: “Aspetta!”. Si blocca rigidamente senza nemmeno degnarsi di mostrare un cenno di risposta, la raggiungo e mi pongo di fronte a lei che mi fissa impassibile. “Perché?”, chiedo. Sospira e cerca di evitare il mio sguardo in tutti i modi, cosa le ho fatto di male? Davvero, non mi spiego questo suo atteggiamento distaccato nei miei confronti. Non mi pare di averle fatto nessun torto o averle recato danno anche solo per sbaglio. “Non ho voglia di parlarne, tantomeno con te”. Aggrotto la fronte. “Invece dobbiamo parlarne eccome, solo così posso capire cosa ti prende. Non voglio perderti per una stronzata e nemmeno sapere di preciso il motivo del tuo astio improvviso nei miei confronti”. Si arrotola una ciocca con l’indice pensierosa sul da farsi, chiarirsi o non chiarirsi? “Tu c’entri sempre, anche indirettamente…tu sei sempre presente ed io vivo nella tua ombra da anni. Ecco, l’ho detto ed adesso sentiti libera di odiarmi quanto vuoi”, sputa rapidamente. La osservo per alcuni secondi per metabolizzare bene ciò che ha confessato, poi scuoto il capo. “Ma io non potrei mai odiarti”. Accenna mezzo sorriso che fa scomparire subito in un istante. “Il fatto è che…”. “…Diego”, termino al posto suo. Annuisce e deglutisce. “Sai bene come la penso, no? Veramente, non provo nulla se non stima ed affetto nei suoi confronti”. “Io ti credo, è che…”, le si spezza voce. “…scusa, sono solo un’idiota che s’illude per tutto”. Si posa una mano davanti al viso come per nascondersi, come se si vergognasse della sua vulnerabilità in questo campo. “E’ successo qualcosa che non so?”, domando preoccupata. Si passa i polpastrelli lungo i bordi degli occhi, perché ci sta così male? Cosa le hanno o, meglio, ha fatto? “Nulla d’importante”. “No, se ti fa soffrire eccome se è importante”, ribatto. “Veramente non…”. “Senti, non voglio che tu sia forzata a parlarmene anche se non te la senti. Dico solo che non ti giudicherò in ogni caso, qualsiasi cosa tu stia per dire, okay? Sei una delle persone più importanti per me, Lud, e se hai bisogno, cercherò di aiutarti”. Alza la testa e finalmente i nostri occhi s’incrociano, è davvero triste. E’ quasi un ossimoro vederla così piccola e malinconica in un clima così energico e festoso tutt’intorno. “E’ successo qualcosa fra te e lui?”. Mi fa cenno di sì. Bene, vorrà dire che le caverò fuori le parole di bocca. “Che genere di cosa?”. Fa le spallucce. “Bacio?”. Distoglie subito lo sguardo imbarazzata. Perfetto, ho indovinato. “Ma c’è dell’altro, giusto?”. Si morde il labbro inferiore, incredibile come si possa comunicare senza fiatare solo grazie all’espressività ed ai gesti. “Lo devo proprio chiedere, Lud?”. Ho capito fin troppo bene cos’è capitato, più la conversazione si dilunga e più sono convinta di ciò. Nega repentinamente agitando l’indice, mi afferra per un polso e mi trascina in un angolo appartato. “Bene, ora ne ho la conferma”, ridacchio. “Basta che non parli ad alta voce, okay?”. “Okay”. “E comunque sì, è successo”. “Quando?”. Sono quasi euforica, l’idea che qualcosa si possa concretizzare fra loro due mi rende felice e sollevata al contempo. “L’altro ieri, è venuto da me arrabbiatissimo per sfogarsi dopo aver discusso con te nel nuovo locale. Mentre mi raccontava animatamente l’accaduto, sentivo di essere in procinto di esplodere da un momento all’altro. Non ce la facevo più, capisci? Mi ha confessato pochi giorni prima di volerti dimenticare, poi si presenta a casa mia per esplicarmi tutti i problemi della sua vita sentimentale. Volevo solamente urlargli in faccia di smetterla di prendermi in giro e cercarmi quando gli fa comodo, io non sono una ruota di scorta. Non voglio essere un ruota di scorta. Tra una cosa e l’altra, ho sbottato male ed abbiamo finito per litigare. Mentre ci urlavamo contro mi è uscito che l’amavo e che non sopportavo di essere trattata come una pezza da piede e, in modo alquanto confusionario ed aggiungerei pure violento, ci siamo ritrovati a baciarci e…il resto è intuibile, credo”. Inarca un sopracciglio, per poi continuare: “Perché mi guardi così?”. Non appena mi viene posto questo quesito mi rendo conto di avere la bocca spalancata e di sbattere le palpebre in continuazione, perciò opto per ricompormi. “Insomma, ti ha sconvolto così tanto? L’avevi capito, no? Od avevi capito altro?”. No, avevo capito benissimo. C’è solo una cosa che continua a fluttuarmi nella mente e non se ne vuole andare nonostante cerchi invano di rimuoverla. Una ‘parola’, in verità. “Violento?”, ripeto con voce stridula. Finalmente, dopo molta freddezza, scoppia in una fragorosa risata, la quale rimbomba in tutto il corridoio. “Sempre a pensare male, vero?”. Contraccambio con un enorme sorriso, la tensione che c’era fino ad un paio di minuti fa pare scomparsa. “Dunque perché ce l’avevi così tanto con me? Per questo?”. Nega, per poi dire: “No, cioè sì. Anche un po’ per quello, ma soprattutto per il fatto che dopo quello che è successo fra noi si fosse fiondato subito da te il giorno successivo”. Ah, ora comprendo le motivazioni del suo ‘odio’. Sono certa che le cose dettemi ieri fossero commenti a caldo, perché il ‘pensavo fossi mia amica’ non ha praticamente senso dal momento che non ho fatto nulla di male. Lui semmai, io ho solo vissuto la mia vita senza rompere a nessuno. Diego è suo sotto quel punto di vista, glielo lascio più che volentieri. Ho altro a cui pensare. “Beh, sappi che non ho assolutamente intenzione di rubartelo o cose simili”. Annuisce. “Lo so, sono stata una cretina. Perdonami, se puoi”. Le accarezzo il braccio per infonderle affetto, sicurezza. “Ma io non sono assolutamente arrabbiata con te, non c’è nulla da perdonare. Capisco, probabilmente fossi stata al posto tuo avrei reagito nella stessa maniera”. Sospira profondamente, per poi abbracciarmi con trasporto. Ho il viso affondato nei suoi capelli dorati che profumano leggermente di lavanda, mi sono sempre chiesta quali prodotti usi per avere un aspetto così perfetto. Si stacca per potermi guardare bene in faccia. “Vilu, mai come ora mi sento di dirti una cosa che mi porto dentro da tempo: sei la mia migliore amica”. E’ bellissimo quando una persona, specie come Lud, confessa cose di questo genere. C’è pure Fran nella mia vita, ovviamente, ma cosa c’è di male nell’avere due migliori amiche? “Anche tu lo sei”. “Dov’eri finita?”. Una voce irata ed alquanto preoccupata ci fa voltare di scatto, è Maxi. “Oh, sono andata in bagno ed ho incontrato…”. “Sì, ma è da venti minuti che mi hai piantato nel dietro le quinte da solo! Muoviamoci che la gara sta per cominciare, è questione di un paio di minuti”. Mi afferra per il polso per trascinarmi con sé, lancio un’occhiata combattuta a Ludmilla facendo le spallucce. Per tutta risposta mi sorride e mi rivolge un pollice all'insù come per augurarmi in bocca al lupo, so già che sarà fra quella folta schiera di pubblico a tifare per noi.
 
 
“Sono tutti bravi”, commenta Maxi nervoso mordicchiandosi l’unghia dell’indice. “E per fortuna che tutti dovevano avere canzoni di merda tranne i Mindblowing, eh?”. “Non è il momento, Vilu”, mi liquida. Mi sono vista costretta a dare pure a lui una pastiglia per l’ansia perché era molto più agitato di me, ma non sembra calmarlo in alcun modo. Speriamo faccia effetto al più presto, sia mai che mi crolli sul palco. Una mano mi sfiora la spalla e sobbalzo, mi volto e deglutisco rumorosamente. “Oh…hey”, saluto timidamente. “Come ti senti?”, chiede seriamente. “Uhm…bene?”. Inarca entrambe le sopracciglia per niente convinto. “Okay, molto tesa”. “Si vede”, ammette ridacchiando. “Come fai a non essere minimamente toccato dalla cosa?”. Scrolla le spalle. “Mal che vada perdiamo un premio consistente in centocinquanta pesos ed una statuetta in oro tarocco”. “Beh insomma, centocinquanta pesos sono pur sempre centocinquanta pesos”, replico. “Sì, ma se li vincerete voi, avrete settantacinque pesos a testa. Nella nostra band siamo in quattro, sai che guadagno”. “Sarà, ma sono comunque utili”. “Ragioni come mia madre”, mi canzona. “A proposito di tua madre: è qua per vederti?”. Scuote il capo. “Come no? Cielo, Leon, è tua mamma!”. Rotea gli occhi scocciato dal mio puntuale ribattere su ogni cosa dica o faccia. “Non siamo agli Mtv Music Awards, non gli ho manco raccontato di questa ‘Battaglia di band’. Scommetto che la tua famiglia sia qua, no?”. Annuisco. “Papà e zia Angie. Che c’è? Perché ridi?”, domando. “Sempre con questa mania di portarti dietro il mondo”. “Scusami tanto se ci tenevano ad esserci”, rispondo facendo la finta offesa. “…non è ancora finita! Sono ancora due i concorrenti in gara questa mattinata e, con le loro esibizioni, possono stravolgere la sommaria idea che si sono fatti i giudici finora”. La voce del presentatore di quest’evento, Facundo, ci cattura l’attenzione facendoci voltare di fronte a noi dove si vede parte della sala ed il palco. “E’ ora”, sentenzia Maxi inspirando ed espirando per mantenere la calma. “E’ arrivato il turno di due grandi amici che hanno formato questa band o, meglio, duo apposta per l’occasione. Sono sicuro che nonostante la giovane esperienza ci stupiranno nelle note della loro canzone ‘Rescue me’, facciamo un applauso ai Frozen Fire!”. Sospiro e mi sfrego le mani nervosamente, il mio migliore amico si è già avviato fuori quindi opto per seguirlo. Vengo bloccata per un braccio, mi giro incrociando il suo sguardo e mi dice: “Buona fortuna”. “Grazie”, rispondo sorridendo di rimando. Mi lascia e faccio pure io il mio ingresso in aula magna sotto le occhiate penetranti di tutti i presenti, ma non ho il coraggio di voltarmi a guardarli perciò procedo a testa bassa salendo sul palco. Mi posiziono al centro di esso di fronte al microfono ed alla sinistra di Maxi, finalmente trovo la forza di alzare il capo e sento tutta la pressione addosso. Centinaia di occhi inquisitori mi scrutano incuriositi, la maggior parte si sofferma sul pancione prominente. L’istinto di correre e scappare è tanto, ma ormai sono qua e non posso lasciare il mio partner solo. Osservo rapidamente dietro di me ed i musicisti che fanno da accompagnamento si stanno sistemando ai loro posti, torno a fissare un punto indefinito sulla parete di fondo. In questo modo ho meno probabilità di andare in crisi. La base parte e devo praticamente attaccare subito, non siamo più alle prove e la cosa mi spaventa alquanto.
I know, I’m finding it hard to breathe
and I’ve been drowning in my own sleep.
I feel a hate crashing over me,
so rescue me.
Oh, oh, oh, oh.
So rescue me.
Mi rendo conto da sola di esser parsa molto titubante nelle prime due frasi, la voce quasi tremolante. Almeno mi sono ripresa, mi volto istintivamente verso il mio amico per guardarlo rappare.
Everybody need to drive before we break out like hives,
gotta learn to put this shit we call pride to the side.
I ain’t no player, without you I’m not okay.
Viva la Vida, now she wanna give me Coldplay.
Oh, once you find you can’t keep it
you broke my heart in a million tiny little pieces.
And I would splurge on you, never put hurt on you
talkin’ to your girlfriends, tryna find dirt on you.
Damn, is this what we have come to?
When he was cheating, I was the person you’d run to
guess it’s for another time, this is what I’ve come to find.
Should’ve seen it coming, but Stevie Wonder, love is blind.
Nell’ultima frase ruota verso di me e ci osserviamo mentre canto il secondo ritornello:
I know, I’m finding it hard to breathe
and I’ve been drowning in my own sleep.
And I feel a hate crashing over me,
so rescue me.
Oh, oh, oh, oh.
So rescue me.
Rimuoviamo entrambi i microfoni dall’asta e ci poniamo uno di fronte all’altro e, finalmente, inizio a muovermi a ritmo della musica mentre lui procede con la sua strofa.
She used to be the person of my dreams
and now she’s just a demon of my nightmares.
I know this shit ain’t what it seems.
Hey, hey, you ain’t leaving, I’ll be right here.
Shorty just rescue me, I know you especially
the way I always felt with you, thinking that true telepathy.
Like the age and their games, we used to be binding.
Who would have thought when you left,
the right would become the wrong thing?
La sintonia che c’è fra me e Maxi è unica ed ora che abbiamo preso confidenza col palco è come se attorno a noi ci sia una cortina che ci separa dai presenti.
I know, I’m finding it hard to breathe
and I’ve been drowning in my own sleep.
And I feel a hate crashing over me,
so rescue me.
Improvvisamente mentre prolungo l’ultima parola, mi volto verso il pubblico per poi lanciare uno sguardo al varco che collega al dietro le quinte. Leon è poggiato allo stipite della porta a braccia conserte intento a fissarmi, la sua vista mi fa imboccare una gran dose di fiato ed urlare con tutta la potenza risiedente nelle mie corde vocali:
So rescue me.
Dalla sala si leva un boato ed una serie di applausi mentre io sono ancora piegata ed intenta a gridare con forza, poi continuo:
And I’ve been drowning in my own sleep
and I feel a hate crashing over me,
so rescue me.
Oh, oh, oh.
Oh, rescue me.
Torno a guardare dritto davanti a me e, col poco fiato che mi rimane, pronuncio:
So rescue me.
Tutt’intorno è un tripudio, io e Maxi ci scambiamo un'occhiata soddisfatta col fiatone. Si avvicina e mi sussurra all’orecchio: “Ce l’abbiamo fatta alla fine”. Per tutta risposta gli rivolgo un sorriso radioso, ma stranamente spontaneo mentre la folla ancora ci applaude entusiasta. Facundo ci raggiunge sopra il palco e si mette fra noi due poggiandomi una mano sulla spalla, poi fa segno al pubblico di quietarsi. “Wow, mi sa che questi daranno un bel filo da torcere al resto dei partecipanti. Che dite?”. Riesco ad udire delle urla di consenso, siamo veramente piaciuti. Siamo arrivati alla gente, chissà quanto sarà fiero di me papà e pure mamma che veglia su di me da lassù. Ce l’ho fatta. Stare di fronte a tutte queste persone non mi fa più paura, anzi mi fa star bene. “Grazie, ragazzi!”. Ci indica dove poter scendere dal palco e c’inviamo tornando nel dietro le quinte. Gli altri concorrenti ci danno amichevoli pacche e dispensano complimenti a destra e a manca, non riesco ancora a credere che questo sia successo. Nonostante abbia ricevuto molti apprezzamenti e sia circondata dalla confusione più totale, i miei occhi cercano maniacalmente una persona: lui. Ora è il suo turno, ora tocca a lui rompere i culi a tutti i presenti. Sono sicura che abbia portato un pezzo dall’alto tasso rock e farà crollare i muri, devo per forza augurargli buona fortuna come ha fatto con me. Mentre continuo a ruotare su me stessa nella sua ricerca, improvvisamente mi blocco non appena me lo ritrovo dinnanzi. “Siete stati molto bravi”, dice. “Grazie mille, sono certa che anche voi farete un’esibizione coi controcazzi”. Sorride timidamente, le sue goti si tingono leggermente di rosso ed è un evento più unico che raro. “Hai una voce pazzesca, senti io…”. “…possibili vincitori, eh? Non avete ancora sentito tutto, manca una band la cui formazione risale ad un bel po’ di tempo fa. Sono esperti, talentuosi e molto irriverenti. Sono i Mindblowing, gente! Che ci delizieranno con un pezzo chiamato ‘Always attract’. Un applauso!”. “Leon, muoviti!”, lo esorta Cris che sta per uscire. Sbuffa, poi torna a guardarmi. “Buona fortuna”, dico dolcemente. “Grazie, bimba”, risponde alzando un angolo della bocca e lasciandomi un bacio sulla guancia. Il cuore inizia a martellarmi nella cassa toracica mentre l’osservo allontanarsi e scomparire per fare il suo ingresso in aula magna. Col fiato ancora più corto di quando ho finito di cantare, raggiungo il varco per potermi gustare l’esibizione. Mi ha chiamata ‘bimba’, mi ha baciata sulla guancia. Sono sicura che il mio colorito sia quello di una prugna dall’emozione. Si sistemano nella loro postazione coi rispettivi strumenti musicali e noto che Leon afferra una chitarra acustica anziché una elettrica, cosa devo aspettarmi? Si avvicina al microfono e si schiarisce la voce, per poi pizzicare le corde con delicatezza dando vita ad una melodia lenta ed armoniosa. Non l'avrei mai detto. E’ concentrato a fissare i propri movimenti, poi, quando arriva il momento di cantare, alza lo sguardo di fronte a sé.
If it hurts this much,
then it must be love.
And it's a lottery,
I can't wait to draw your name.
Oh, I'm trying to get to you,
but time isn't on my side.
The truth's the worst I could do,
and I guess that I have lied.
 
Keeping me awake,
it's been like this now for days.
My heart is out at sea,
my head all over the place.
I'm losing sense of time,
and everything tastes the same.
I'll be home in a day,
I fear that's a month too late.
Ho praticamente un sorriso da ebete mentre lo fisso incantata. Il modo in cui accarezza la chitarra, la sua voce ruvida a tratti. Penso di amarlo più di sempre quando canta.
That night I slept
on your side of the bed so
it was ready when you got home.
We're like noughts and crosses in that
opposites always attract.
Contrariamente a me, lui continua a guardare davanti con sicurezza. Il testo mi ricorda un sacco di cose, mi fa pensare alla nostra storia. Che l’avesse scritta per me? Vorrei tentare di non illudermi, ma dopo ciò che ho origliato oggi mi è praticamente impossibile.
You've taken me to the top,
and let me fall back south.
You've had me at the top of the pile,
and then had me kissing the ground.
We've heard and seen it all,
no one's talked us out.
The problems that have come
haven't yet torn us down.
 
Am I keeping you awake?
If I am then just say:
you can make your own decisions,
you can make your own mistakes.
I'll live and let die
all the promises you made,
but if you lie another time,
it'll be a lie that's too late.
 
That night I slept
on your side of the bed so,
it was ready when you got home.
We're like noughts and crosses in that
opposites always attract.
Dà il via ad una parte strumentale che gli altri membri del gruppo proseguono, poi ad un tratto lascia tutti a bocca aperta perché si allontana dal centro del palco per dirigersi verso le scalette e scendere da esso. Cosa gli passa per la testa? E’ pazzo? Lo vedo venire verso il dietro le quinte, perché ha abbandonato i suoi compagni? Anche loro sembrano confusi, ma continuano nonostante tutto a suonare. Arrivato di fronte a me si ferma, lascia penzolare la chitarra appesa al suo collo con la cinghia e mi porge una mano. Sgrano gli occhi e scuoto il capo, cosa vuole fare? Vedendomi indisposta, l’afferra comunque e mi trascina con sé sopra il palco. Un mormorio consistente si alza dal pubblico, non ho la più pallida idea di cos’abbia intenzione di fare e non credo sia approvato dal regolamento. Mi bisbiglia all’orecchio mentre raggiungiamo la sua postazione precedente: “Ora riprendo a cantare, tu ascolta ciò che dico e, quando avrai impresso una manciata di frasi, unisciti a me”. Rettifico: adesso gli spettatori sono tornati a farmi paura ed anche tanta. Molta più di prima. Perciò mi volto verso di lui cercando di scordare dove sia e cosa stia facendo, pizzica ancora delicatamente le corde per poi cantare:
And you always have your way,
for now it's too soon for you to say
will we be always, always?
And you always have your way,
for now it's too soon for you to say
will we be always, always?
La musica inizia ad animarsi e gli altri membri a suonare con più energia, ora ho immagazzinato bene le parole. La canzone raggiunge il suo culmine perché tutti gli strumenti sono un tripudio. Io e Leon siamo affrontati e condividiamo lo stesso microfono, mi fa un piccolo cenno col capo per indicarmi che è ora di unire le nostre voci:
And you always have your way,
for now it's too soon for you to say
will we be always, always?
And you always have your way,
for now it's too soon for you to say
will we be always, always, always?
And you always have your way,
for now it's too soon for you to say
will we be always, always?
Come nella mia esibizione, il pubblico esplode e posso udire qualche grida di approvazione non appena l’accompagnamento rallenta. Dal mio canto, continuo a fissarlo sorridente e lui fa lo stesso, poi si gira verso la gente e mi avvolge un braccio attorno alle spalle avvicinandomi a sé. Lui continua:
You had your way,
you had your way,
you had your way.
La melodia prosegue mentre noi siamo fermi davanti alla sala gremita di persone, non appena essa si arresta succede l’impensabile: tutti i presenti si alzano in piedi uno alla volta per applaudire dando forma ad una vera e propria standing ovation. Involontariamente mi metto a ridere, forse dalla felicità, e Leon notandolo fa lo stesso. “Ma è incredibile!”, esclama Facundo salendo sul palco e raggiungendoci. Non appena gli spettatori lo vedono, tornano a sedersi per poter ascoltare. “Pazzesco, davvero! Non mi sarei mai aspettato un riscontro del genere. Beh, sono certo che la giuria avrà non pochi problemi nel decretare un vincitore. Ringraziamo i Mindblowing e la special guest Violetta Castillo, a questo punto!”. Si leva una leggera risata e ci dirigiamo verso il backstage. Arrivati dentro si ripropone lo stesso copione di prima ossia tutti ci accolgono con esclamazioni ed apprezzamenti. Mentre gli altri sono intenti a parlarne con i partecipanti, in mezzo alla caciara decido di voltarmi verso Leon e chiedergli: “Cosa significa tutto questo?”. Per alcuni secondi aspetto la risposta, ma mi osserva in silenzio. Poi in modo irruento si fionda sulle mie labbra costringendomi a poggiarmi con la schiena al muro, d’istinto ricambio con passione e circondo le braccia attorno alla sua schiena conficcandovi le unghie. Quanto l’avevo aspettato questo bacio, quanto avevo aspettato questo momento. Le nostre labbra si schiudono permettendo alle nostre lingue d’incontrarsi ed avvolgersi fra loro insaziabilmente come se non desiderassero altro che questo da chissà quanto tempo. Faccio salire le mani fino al suo capo ed incastro le dita sui suoi capelli com’ero solita fare sempre quando ci baciavamo in questa maniera, mentre lui fa scivolare le sue appena sopra il mio sedere. Ad un certo punto mi rendo conto che il fiato inizia a venire meno, per cui delicatamente mi stacco e mi specchio nelle sue splendide iridi verdi poggiando la mia fronte contro la sua noncuranti delle persone che ci sono attorno. “Ti amo”, dice col respiro affannoso. “Non ho mai smesso di farlo”. Sorrido con gli occhi lucidi dalla commozione e lo abbraccio forte, il mio ventre prosperoso preme contro il suo addome. “Anch’io”, rispondo nascondendo il viso nell’incavo del suo collo ed odorando il suo profumo.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
‘Chi non muore, si rivede’ starete sicuramente pensando di me in questo momento. Infatti eccomi tornata con un nuovo, nuovissimo capitolo che si può definire la fine delle vostre sofferenze. Ebbene sì, l’avete aspettato tanto ed ora è arrivato. Beh, innanzitutto voglio scusarmi per l’assurdo ritardo e precisare che oltre ad aver perso il capitolo due giorni prima della pubblicazione ancora ad inizio gennaio, successivamente ho avuto problemi in famiglia e mi hanno pure ritirato il portatile. Se la sfiga avesse un nome, penso sarebbe il mio. Mi scuso per non aver risposto alle recensioni e se il capitolo non sia all’altezza delle aspettative perché ci sono alcune parti che mi lasciano ancora perplessa dopo la rilettura. Bah, voi che ne pensate? Va bene? Aspetto con ansia di sapere i vostri pareri anche se dubito me li darete dopo che vi ho fatto penare così tanto per questo maledetto capitolo quattordici lol
Ringrazio tutti voi e chi mi ha contattata durante questo lungo travaglio, siete molto simpi e vi voglio bene lol
Inoltre ci tengo a fare il solito ringraziamento a chi segue, mette fra i preferiti e recensisce la storia. Ogni tanto, quando sono giù di morale, leggo le recensioni per sentirmi meglio perché mi fanno sentire apprezzata e capire che forse sono capace di fare qualcosa di buono nella mia vita.
Grazie.
Alla prossima e STAY TUNED,
Gre *sparge cuori*
P.S. Qui sotto vi lascio i link delle canzoni presenti nel capitolo, entrambe della band inglese You Me At Six (adoro) e le rispettive traduzione se v’interessassero.
Rescue me: https://www.youtube.com/watch?v=Kfxs2L0a778
Traduzione di ‘Rescue me’: http://testitradotti.wikitesti.com/2011/04/09/rescue-me-testo-traduzione-e-video-del-singolo-degli-you-me-at-six/
Always Attract: https://www.youtube.com/watch?v=95KuzIMwxZY
Traduzioen ‘Always Attract’: http://testitradotti.wikitesti.com/2012/12/29/always-attract-testro-traduzione-e-video-dei-you-me-at-six/
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2806734