Revolution - The Twelve

di Tikal
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Desiderio ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Ritardi ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Il labirinto ***



Capitolo 1
*** Prologo - Desiderio ***




Prologo
Desiderio

 

 
Il cielo era limpido, quella mattina.
Sembrava che le nuvole si fossero finalmente ritirate, nascondendosi dall’altro capo del mondo per lasciare spazio al sole che splendeva nel cielo, tingendolo delle sfumature più delicate di rosa e di azzurro mentre sorgeva.
Ogni cosa era calma, statica, immobile.
Come se quella non fosse stata la realtà, ma solamente un dipinto che un pittore aveva fatto, rendendo la sua opera talmente bella da sembrare vera.
Le onde si abbattevano placide sulla spiaggia, scoprendo le conchiglie e i piccoli tesori del mare che i bambini si divertono spesso a cercare.
Era tutto tranquillo, come se la natura stesse racimolando le forze prima di scatenare una tempesta.
Il silenzio che regnava sulla spiaggia venne improvvisamente interrotto dal grido di un gabbiano mentre si tuffava in picchiata verso la superficie increspata del mare; due occhi grigi e penetranti rimasero ad osservarlo per tutto il tempo, ammirando quelle ali candide e magnifiche mentre fendevano l’aria come una lama, osservandolo precipitare verso le onde e fermarsi un istante prima dell’impatto, per poi riprendere quota e tornare a volare alto nel cielo, stringendo nel becco un piccolo pesce.
Il gabbiano volò via, scomparendo alla vista di quegli occhi grigi e profondi, che fino a quel momento erano rimasti silenziosi ad osservarlo in silenzio.
La ragazza si portò le gambe al petto, stringendole con le braccia, quasi stesse soffrendo il freddo. 
Dentro di lei sentiva farsi sempre più grande il desiderio di essere come quel gabbiano, di poter essere libera di sorvolare quell’infinita distesa di acqua, volare via da quel mondo assurdo e violento che si nascondeva dietro un bel sorriso e delle maniere dolci e gentili.
Sentiva quel desiderio farsi strada nel suo petto con prepotenza, cercando di uscire e rivelarsi al mondo, e questo le faceva male.
In fondo perché mai lei, la ragazza più bella, più intelligente e più desiderata di tutto l’Impero, doveva desiderare di poter scappare via, di lasciare per sempre quel mondo fatto di pizzi e merletti, di sorrisi dolci e baciamano, di balli e di ricevimenti, solo per rincominciare una nuova vita altrove, dove magari avrebbe sofferto e avrebbe conosciuto la morte e il dolore?
A questo quella ragazza non aveva una soluzione; lei desiderava semplicemente sentirsi libera, dai vincoli di quell’assurdo voto di fedeltà fatto in un momento di disperazione, dai vincoli che la intrappolavano lì, come una rete gettata in mare da un pescatore e dentro la quale lei ci era irrimediabilmente finita. 
Libera, come quel gabbiano che sorvolava il mare, cercando di raggiungere il sole.
Libera, come le onde che si infrangevano sugli scogli o sulla battigia.
Libera, come quel vascello che aveva visto tempo prima approdare vicino alla costa, quella nave non battente la bandiera viola e oro di Crono, quel vascello misterioso su cui i suoi pensieri spesso si soffermavano di nascosto da tutti, nell’ombra silenziosa della notte, mentre il Sole non è altro che un semplice ricordo.
Ma lei, una delle ragazze più conosciute e desiderate di tutto l’Impero, non poteva essere libera, non finché il suo nome avesse continuato a aleggiare sul suo capo, come una condanna a morte. 
E quindi, lei lasciava che quel desiderio la consumasse dentro, un incendio che bruciava e distruggeva ogni cosa, senza lasciare sopravvissuti al suo passaggio.
Eppure, era certa di una cosa: in ogni rete, in ogni catena, in ogni legame, c’è qualcosa – un anello debole, un filo troppo sottile, un nodo poco stretto, un maglio della rete troppo largo – a cui bisogna stare molto attenti.
Perché basta poco perché anche i vincoli più forti possano spezzarsi.
 
 
 
 
 
 
 



ANGOLO AUTRICE
 
Hola! :3
Emh… che dire?
È da aprile che non pubblico in questo fandom, quindi sono un pochino nervosa “^^
Leo: *Sottovoce* Già, l’ultima volta hai solo ucciso tutti e lasciato in vita solamente Hazel e Jason. E tutto con una sola OS! Mi chiedo perché mai tu sia nervosa.
Hope: *Ignora Leo* Comunque sia, per chi ancora non mi conoscesse sono Hope.
*Saluta con la mano*
Quindi un grosso saluto a tutti coloro che ancora non hanno avuto la (s)fortuna di conoscermi.
Leo: Sai che che gliene importa ai lettori!
Hope: *Fulmina Leo*
Per chi invece mi conosce già… un saluto lo stesso e un grosso grazie per essere ancora qui a sopportarmi ^^
Leo: *Palmface* Poi mi domando perché Caleb e Johanna se ne sono andati.
Hope: Discuteremo della mia esigua sanità mentale più tardi, Leo.
Leo: Io tengo solo alla tua salute!
Hope: Aww come sei tenero! :3
Caleb: Una parola: PIANTATELA!
Hope: sempre a rovinare i momenti più belli -.-
Comunque…
Questa storia, come si può capire dall’introduzione, è un’AU.
Tuttavia è un’AU leggermente emh… diversa dal solito.
Innanzi tutto, in questo universo, non esistono dei, semidei, mostri, giganti e divinità primordiali che cercano di impossessarsi del mondo; sono tutti mortali, da Zeus al Minotauro.
E fin qui, tutto normale, giusto?
Ecco, è qui che iniziano le differenze con le altre AU.
L’ambientazione storica è cambiata, non è ai giorni nostri, né tanto meno nel futuro: la storia è ambientata nel passato, nel periodo tra il 1500 e il 1600.
In questa fic, Crono ha preso il comando dell’Impero, spodestando il comando di Zeus e degli altri dei – che in questo caso sono semplici umani, ognuno dei quali governava su una parte dell’Impero – uccidendoli e impossessandosi delle loro terre (almeno, Crono crede di averli uccisi tutti u.u) e ha instaurato un regime totalitario, uccidendo o imprigionando chiunque si opponga a lui.
Okay, come spiegazione fa un po’ schifo, ma giuro che più avanti si capirà meglio tutto.
Johanna: lo spero; questa spiegazione mi ha fatto venire il mal di testa.
Hope: Anche tu qui!? Aiutatemi, per favore ç__ç
*Tossisce come la Umbridge*
Comunque, passando al prologo. Sinceramente non so nemmeno io cos’ho scritto, e devo dire che… bho, questo prologo non è per niente dei miei migliori, ma sinceramente non sapevo cos’altro inventarmi per introdurre… vediamo se avete indovinato chi! Tanto non è poi questo così grande mistero
Allora, spero che la storia vi piaccia e vi interessi, perché ne accadranno delle belle ;)
Ho ricontrollato il testo più volte, ma se ci fosse qualche errore non esitate a farmelo notare in modo che possa correggere.
Il prossimo capitolo arriverà nei prossimi giorni, dopo di che aggiornerò una volta a settimana, probabilmente di venerdì.
Umh, non so cos’altro dire, quindi è meglio scappare.
Per qualsiasi cosa non fosse chiare non esitate a chiedere!
*Fa ciao con la mano e scompare nell’ombra*
Caleb: Ma non era Nico che poteva viaggiare nell’ombra? E poi tu mica eri figlia di Ecate? O.o
Hope: *Apparendo sul ponte dell’Argo II con Leo* Io può! u.u
 
Hope & Leo, Caleb & Johanna
Ps: Mi domando per quale strano motivo io continui a informare le persone in altre storie D:
Se tra di voi c’è qualcuno che seguisse la mia storia ‘Hope will never die’ – anche se lo dubito fortemente “^^ – non sono morta, e nemmeno Elisa lo è. Purtroppo però tra gli esami e una cosa e un’altra non sono riuscita ad aggiornare con il capitolo sette che sta aspettando da quasi due mesi di essere concluso, ma posterò il nuovo capitolo entro il fine settimana si spera.
Detto questo vi lascio veramente e me ne vado :3
    
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Ritardi ***


Capitolo 1
Ritardi
 
«Si può sapere dove eravate finita? Tra poco inizia la cerimonia e voi non potete affatto mancare».
«Scusa Silena, ero spiaggia, non mi sono accorta del tempo che passava…».
«Non vi dovete scusare con me, signorina,» sul viso della serva di aprì un sorriso carico di tenerezza, ma che scomparve quasi subito. «fosse per me, tutto ciò si potrebbe benissimo lasciare alle ortiche.» Sentenziò la serva mentre acconciava i capelli biondi della sua padrona; le sue labbra erano strette in una linea dura, proprio come le parole appena pronunciate.
Il cuore della ragazza dagli occhi grigi iniziò a battere più velocemente mentre si girava verso la ragazza, ancora intenta a cercare di sistemarle i capelli biondi con lo sguardo fisso a terra. «Come hai detto, Silena?» Domandò, cercando di guardare negli occhi l’altra ragazza.
Doveva ammettere che Silena era la ragazza più bella che lei avesse mai visto; non a caso sua madre, prima di venire uccisa, era considerata la donna più avvenente di tutto l’Impero.
In quel momento Silena, anche se vestita di stracci, portava onore alla madre Afrodite: capelli scuri, neri come inchiostro, lasciati sciolti sulla schiena, occhi caleidoscopici, il cui colore cambiava all’improvviso, passando dall’azzurro del cielo al marrone della terra senza che nessuno non ne rimanesse affascinato, pelle chiara, diafana e delicata che la rendeva simile ad una bambola di fine porcellana, fisico dolce e delicato, curve giuste al posto giusto.
In poche parole, Silena Bauregard era bellissima.
Peccato solo che la sua condizione di serva, costretta a sottostare al volere della sua padrona, non le permettesse di essere nient’altro che un oggetto nelle mani degli uomini.
Lei lo sapeva, Silena non era la prima costretta da Crono a vendersi a degli uomini d’alto rango in cerca di una notte di avventure, eppure non aveva mai fatto nulla per impedirlo.
«Non ho detto nulla, mia signora» mentì la ragazza, fissando una ciocca di capelli biondi della sua padrona che lei ancora teneva tra le dita.
«Sì che lo hai fatto, hai detto che…» Non finì mai la frase. Il suono delle campane distolse l’attenzione della ragazza dagli occhi grigi da Silena, che sospirò, ringraziando mentalmente per quell’interruzione.       
«Siamo in ritardo per la cerimonia!» Esclamò la bionda, alzandosi di scatto dalla sedia su cui era seduta. «Non me lo perdoneranno mai, andiamo!» Il volto della ragazza era una maschera di preoccupazione mentre si precipitava giù per le scale ancora scalza; la meticolosa ed elegante acconciatura che Silena fino a pochi istanti prima si era impegnata a intrecciare con i suoi capelli biondi si era ora trasformata in una semplice treccia sfatta, che scendeva sulla sua spalla destra mentre correva.
«Muoviti Silena!» Gridò la bionda, già arrivata alla fine delle scale, alla sua serva, rimasta impietrita davanti alla porta.
Silena si riscosse, seguendo di corsa la sua padrona fuori dalla porta e trovandola già seduta in carrozza e pronta a partire.
Senza dire nulla, la serva si accomodò sul seggiolino di fianco al cocchiere, spazzolandosi il grembiule e cercando di sistemarsi alla bell’e meglio i capelli con le mani. Non poteva fare a meno di tentare di apparire più presentabile possibile, nonostante fosse solamente una serva venduta per un pugno di monete a una delle persone più vicine agli ufficiali dell’Impero e nessuno si accorgesse mai di lei.
Si spostò distrattamente una ciocca di capelli corvini dal viso e sorrise al cocchiere, un brillante giovanotto dalla pelle color dell’ebano che di nome le pareva facesse Charles, e lui lo ricambiò dolcemente, prima di partire.
 
*
 
Per quanto assurdo potesse sembrare, erano riuscite ad arrivare in tempo per ascoltare la fine del discorso e non far notare il ritardo; appena finita l’investitura era bastato confondersi tra la folla di persone che si dirigevano alla piazza per poi distaccarsi e seguire il gruppo più piccolo formato dai nobili che si dirigeva verso il palazzo di Mr. Chase, dove l’uomo aveva dato ordine di preparare una grande festa in onore dei nuovi attendenti di Crono.
Nemmeno a dirlo, la ragazza perse quasi subito di vista la sua serva, scomparsa come al solito con qualche uomo d’alto rango stregato dalla sua bellezza.
I suoi occhi grigi vagavano sul mare di gente che danzava nella sala, cercando qualcosa di cui nemmeno lei conosceva l’esistenza e soffermandosi si tanto in tanto su un volto in particolare tra la folla, salvo poi spostare quello sguardo tempestoso su un altro volto e dimenticarlo subito dopo.
Osservava tutto ciò che accadeva: una coppia che danzava sognante al centro della pista, un uomo già ubriaco che importunava delle giovani dame, un piccolo gruppo di persone strette attorno a un giovanotto dai capelli biondi come il grano, una donna che parlava civettuola con una sua amica, discutendo probabilmente dell’ultimo gossip che aveva invaso l’Impero. E di tutto ciò, lei era spettatrice al di sopra di tutto e di tutti, passiva e distaccata.
E quindi se ne stava lì, seduta rigida e composta ai margini della sala, ad osservare quella gente che non conosceva danzare e divertirsi sotto i suoi occhi, rifiutando categoricamente ogni gentiluomo che le si avvicinava per chiederle un ballo.
«Mi dispiace, ma il mio cavaliere arriverà a momenti.» Rispondeva meccanicamente a chiunque le si avvicinasse, senza mai degnarsi di osservare i suoi pretendenti.
Sotto i suoi occhi passavano uomini e ragazzi, davanti a lei si inchinavano lord e generali, ma senza che nessuno fosse mai capace di farle puntare lo sguardo su di sé.  
Poi, all’improvviso, ma poteva essere accaduto tutto nella sua testa, ogni cosa si fermò.
Nessuno fiatava; tutti i presenti sembravano come congelati mentre, nel più religioso silenzio che in quella sala avesse mai potuto aver luogo, decine di occhi si voltarono ad osservare il nuovo venuto.
Solo un paio di occhi grigio tempesta non si posarono a scrutare il proprietario dei passi che rompevano l’innaturale silenzio che improvvisamente regnava in quella sala;
solo una testa ricoperta di boccoli biondi non si voltò verso il giovane che si faceva strada lentamente, quasi divertito, tra la folla che si apriva al suo passaggio.
La ragazza si limitò ad aggrottare le sopracciglia in modo buffo, quasi scocciata che improvvisamente tutti si fossero fermati, ma continuò a tenere lo sguardo fisso davanti a sé, come se si fosse aspettata che da un momento all’altro tutti tornassero alle loro occupazioni.
«Scusatemi, signorina, mi permettete?» I passi si fermarono di colpo, lasciando che l’unico suono che risuonasse nella sala fosse la voce limpida e calda del nuovo venuto.
«Ce ne avete messo di tempo» rispose la ragazza afferrando la mano tesa di fronte a sé. Il giovane sorrise mentre un lampo di malizia passava nei suoi occhi. Furono la prima cosa di cui si accorse: erano verdi; verdi come il mare che spesso si perdeva ad osservare per ore intere, verdi come la speranza che custodiva segretamente e che ogni giorno accudiva come un seme raro.
«Spero di potermi far perdonare del ritardo con questo ballo» scherzò il ragazzo, conducendola verso la pista, dove tutti ancora restavano immobili ad osservare quella strana coppia.
«Allora,» gridò, spazientito da tutto quel silenzio. «questa è una festa, giusto? Cos’è tutto questo silenzio?» Fu un attimo, e tutto tornò come era pochi istanti prima che entrasse. Le persone tornarono a ballare, la musica e le chiacchere riempirono di nuovo l’aria, come se quello strano ragazzo non fosse mai arrivato.
«Siete un buon ballerino» sussurrò la ragazza al giovane mentre lui la faceva volteggiare sulla pista. Lui sorrise dolcemente, afferrandola per la vita. «Ho avuto dei buoni maestri.» Rispose schivo. «E, di grazia, dove avreste imparato a ballare?» Domandò la ragazza.
«Se ve lo state chiedendo, non ho imparato a corte, poco ma sicuro» un ombra passò sul viso del giovane e, così come vi era apparsa, sparì. «Non tutti abbiamo avuto il privilegio di vivere in luoghi del genere».
La ragazza rise, afferrando la mano di lui e stringendola piano. «Questo è vero,» iniziò. «ma non credo voi siate una persona che vive in condizioni disagiate come il resto della popolazione» una muta esclamazione di sorpresa apparve sul volto del ragazzo. «Oh, credetemi, Crono e i suoi ufficiali non vogliono che si sappia in giro, ma io conosco la verità: il popolo sta male, soffre la fame. Ogni giorno, persino in questo stesso momento, da qualche parte nell’Impero centinaia di persone stanno perdendo la vita, sia a causa della fame e delle malattie, che a causa delle nostre stesse armi!» Gli occhi grigi si accesero di rabbia mentre le parole uscivano dalle sue labbra veloci e inesorabili, dure come una condanna a morte.
«Shh…» Le sussurrò il ragazzo all’orecchio, posandole gentilmente un dito sulle labbra rosse, facendole segno di non parlare di nuovo. «Non mi sembra il luogo migliore per discuterne, non credete? Non penso che a loro,» con un lieve cenno del capo indicò il gruppo di uomini ad un lato della sala, presi da un’accesa conversazione e tutti indossanti uniformi dell’esercito di Crono. «possa piacere ciò che mi stavate dicendo».  
Mentre parlava, la ragazza sentì qualcosa pungerle il fianco; gettò uno sguardo alla mano del ragazzo, ora pericolosamente vicino, e non poté fare a meno di notare lo scintillio della lama di un pugnale.
Sussultò, cercando di liberarsi, e il pugnale si avvicinò ancora di più alla sua pelle. Era in trappola.
«Andiamo» la punzecchiò il ragazzo, poggiando una mano sulle sue spalle, come per proteggerla.
Senza dare troppo nell’occhio salirono le scale, diretti alla grande balconata sul mare.
«Si può sapere dove ti eri cacciata?» Una voce familiare proveniente dalle loro spalle la face fermare di colpo, mentre nella sua mente centinaia di maledizioni iniziavano a prendere forma. «Padre!» Esordì, girandosi verso il suo interlocutore. L’uomo davanti a lei la fissava spazientito, facendo passare lo sguardo dalla figlia al ragazzo di fianco a lei.
«Io… stavo… stavo-» balbettò lei, presa in contropiede.
«Mi voleva mostrare il bellissimo panorama che si gode dalla balconata». La interruppe il ragazzo.
L’uomo aggrottò le sopracciglia, confuso. «Avete un’aria famigliare, signor…»
«Andersen. Sono Andrew Andersen, piacere di conoscervi». Il ragazzo si inchinò leggermente, senza mai smettere di fissare negli occhi l’uomo di fronte a sé. Il suo sguardo era carico di furbizia e divertimento, ma il suo interlocutore non sembrò accorgersene.
«Ci siamo mai incontrati, signor Andersen?» Domandò l’uomo, portandosi una mano al mento e grattandosi pensieroso la barba curata.
«Non riesco a riportare alla mente l’episodio in cui ci dobbiamo essere incontrati, ma mi pare di avervi già visto da qualche parte». Si interruppe un attimo, continuando a fissare l’uomo negli occhi. «Sapete, il mio lavoro si svolge principalmente per mare, è molto probabile che ci siamo incontrati in qualche porto dell’Impero.» La giovane sussultò a quelle parole. I pezzi stavano andando pian piano incastrandosi l’un l’altro.  
«Adesso però, se mi vuole scusare, continuerei la mia visita». Congedò l’uomo dai capelli biondi con una stretta di mano fugace e si girò, tornando a puntare il coltello nel fianco della ragazza senza farsi notare.    
«Sbrigatevi» le ordinò gelido. «Finché vi vedranno in mia compagnia la vostra vita è in pericolo.» Un brivido freddo percorse la schiena della bionda, che si limitò ad annuire. «Quindi sarà meglio per voi scomparire al più presto dalle scene». Concluse in un sussurro soffocato il giovane.
Se era colui che credeva, la sua vita e quella di tutti gli invitati era in grave pericolo. Non che le importasse poi così tanto che un attendente di Crono morisse, ma lì vi erano anche persone innocenti, che non meritavano di morire.
«Da questa parte» sussurrò sottovoce, indicando con un cenno del capo una porta di legno scuro davanti a loro.
Strinse i pugni, cercando di non mostrare quanto fosse nervosa, e spalancò la porta.
Odiava quella stanza con tutta sé stessa. Era lì che venivano conservati i bottini di guerra, gli oggetti sottratti agli sconfitti; non monete d’oro, forzieri di diamanti e metalli preziosi, quello no: quel genere di bottino veniva conservato da Crono nel suo palazzo. E nemmeno i prigionieri, quelli di solito venivano giustiziati o ridotti in schiavitù.
Come Silena, si ritrovò a pensare la ragazza con un brivido.
Il ragazzo si allontanò, riponendo il coltello al suo posto, e lasciò vagare lo sguardo su quei cimeli; accarezzò tristemente una spada di bronzo, appartenuta ad un pirata ucciso anni prima, mentre i suoi occhi si accendevano di rabbia.
Ricordava il proprietario di quella spada, un nobile pirata, forse uno dei più grandi che avessero mai solcato i sette mari: era stato proprio lui ad accoglierlo quando non aveva niente, dopo essere scappato in seguito alla morte dei suoi genitori; aveva ancora vivide e impresse nella sua memoria le immagini di quella terribile sera, quando quegli uomini con le spade e le pistole avevano fatto irruzione in casa sua.
Strizzò gli occhi, scacciando quei ricordi dalla sua mente, e ritornò a fissare la ragazza davanti a sé.
Era in piedi, nella stessa posizione dove l’aveva lasciata poco prima, e stringeva i pugni. Lo fissava astiosa e curiosa allo stesso tempo, mentre nei suoi occhi grigi era in atto una tempesta.
Non ne aveva mai visti, di occhi così.
Quando l’aveva vista, la prima volta, seduta in un angolo della sala ad osservare i presenti danzare e divertirsi, aveva pensato fosse semplicemente una ragazza di corte, la dama di compagnia di qualche importante signora. Eppure ne era rimasto affascinato: quel portamento altero e orgoglioso, quegli occhi tempestosi che sembravano riuscire a vedere anche dentro al cuore delle persone; era sempre stata la prima cosa che osservava in una persona, gli occhi.
Quando incontrava qualcuno per la prima volta non poteva fare a meno di fissarlo intensamente negli occhi, per cercare di capire con chi avesse a che fare.  
Gli occhi dicono tutto ciò che tu hai bisogno di sapere su qualcuno, glielo aveva insegnato suo padre da piccolo. Ma allora perché, quando il suo sguardo si specchiò in quello della ragazza, l’unica cosa che riuscì a vedere furono i suoi occhi verdi riflessi nei suoi?
«Perché mi avete portato qui?» Domandò la ragazza, stringendo i pugni. Lui non le rispose, si limitò a voltarsi di nuovo, dandole le spalle.
«Chiudi la porta.» Mormorò cupo, il tono di voce ridotto ad un sussurro.
La ragazza trasalì. «Che cosa?» Domandò cauta, sperando di aver capito male.
Le dita del ragazzo passarono sulla lama della spada, ripercorrendone di nuovo il filo con nostalgia. «Ho detto di chiudere la porta,» ripeté lievemente irritato. «ora.» aggiunse, quasi ringhiando.
La bionda non se lo fece ripetere; trepidante, chiuse la porta della stanza, lasciando fuori il rumore della festa al piano di sotto.
«Allora, cosa stavate dicendo poco fa, signorina…?»
«Chase,» rispose la ragazza, alzando il mento con aria di sfida. «il mio nome è Annabeth Chase.»
Il sorriso strafottente dell’altro si trasformò in una smorfia per poco più di un breve istante, scomparendo così come era venuto, non troppo in fretta però perché la ragazza non si accorgesse di ciò che il suo nome avesse scaturito in quel giovane. «Vorrei dire che è un piacere conoscere il vostro nome, signorina Chase, ma purtroppo non è così» disse il giovane, anche se quel sorriso sghembo dipinto sul suo volto dava alle sue parole un tono decisamente inquietante.  
«E, di grazia, perché mai il mio nome non vi va a genio?» Domandò Annabeth.
Il sorriso del ragazzo si notò anche nella penombra della stanza. «Cara Annabeth, non credo siano questi gli affari di cui volevo occuparmi. E non credo affatto che una storia di sangue e di guerra possa interessare ad una ragazza come voi.»  
In altre condizioni, Annabeth non avrebbe esitato a fare del sarcasmo, ma l’essere rinchiusa in una stanza con un ragazzo dalla discutibile sanità mentale e diversi oggetti che potevano essere utilizzati come arma a portata di mano non rientrava affatto nelle condizioni normali in cui si sarebbe potuta permettere un battuta.
Vedendo che la ragazza non rispondeva, il giovane riprese la parola: «Comunque sia, cosa stavate dicendo poco fa, Annabeth?»
La ragazza strinse i pugni, conficcandosi le unghie nella carne. Era ciò che aveva sempre temuto, il dover scegliere tra la sua famiglia e l’opportunità di cambiare, in meglio forse, la sua vita.
Suo padre aveva fatto delle scelte, sbagliate, questo era vero, ma – seppur lei non ne condividesse gli ideali – era pur sempre suo padre. Quel ragazzo rappresentava la faccia opposta della medaglia, rappresentava quella scintilla di speranza che non l’aveva mai abbandonata, nemmeno nei primi giorni di prigionia, quando suo padre ancora faticava a riconoscerla come figlia. Era ciò che da mesi sperava, quel desiderio proibito di libertà che fino ad allora si era limitata ad accarezzare timidamente nei suoi pensieri.
E adesso quel desiderio proibito era lì, davanti a lei, rappresentato da quel misterioso ragazzo dagli occhi verdi che aspettava una risposta, quella risposta che la divideva dal frutto dolce e vietato della libertà.
Poteva veramente tradire suo padre? Poteva veramente farlo, rivelare a quel ragazzo le pietose condizioni in cui versava il popolo?
Annabeth chiuse gli occhi, ponderando la pericolosità di ciò che stava per dire.
«L’Impero è malato, Crono fatica a tenere insieme tutti i pezzi a causa delle ribellioni, e lui stesso non è più l’uomo di un tempo» Le parole uscirono veloci dalle sue labbra, mentre il peso sul petto di Annabeth iniziava a scomparire. Era da tempo che sperava di dar voce a quei pensieri, anche se non si era mai immaginata di farlo in quel modo, in una stanza che sapeva di muffa, di sconfitta e di libertà rubata.
«Spiegati meglio.» Disse il ragazzo, incrociando le braccia al petto e puntando i suoi occhi verdi in quelli grigi dell’altra. La ragazza sostenne il suo sguardo, lo sguardo di chi, dopo mesi, iniziava ad intravedere una scintilla di speranza. Annabeth lo conosceva bene, quello sguardo, era lo stesso che vedeva ogni mattina allo specchio da alcuni mesi.
«Non sono propriamente sulla lista di persone che Crono riceve più volentieri, anzi, e da che sono qui l’avrò visto meno di una decina di volte. Ma ogni volta appare in pubblico sempre di meno, solo per il minimo indispensabile, e sembra sempre più malato.» Il ragazzo aggrottò la fronte a quelle parole. «In che senso malato?» domandò.
«Se ne accorgerebbe anche un idiota che Crono sta invecchiando e che non ha più la forza di un tempo» borbottò acida Annabeth.
L’altro aprì la bocca per risponderle, ma fu interrotto da un grido, proveniente dalla sala di sotto.
«Che è successo?» domandò Annabeth, guardando il ragazzo dirigersi verso la porta ed uscire sul pianerottolo per sbirciare di sotto. «Niente di buono.» Disse lui, voltandosi, con una sfumatura di irritata nella voce.
I suoi occhi si scurirono mentre parlava, la mascella contratta e i pugni tesi per cercare di trattenere la rabbia: «Mi hanno scoperto» sussurrò, non abbastanza piano perché la ragazza non lo sentisse.
«Cosa? Chi vi ha scoperto?» Annabeth stessa si sorprese della preoccupazione di cui era colma la sua voce.
«Dammi del tu, Annabeth» Il sorriso malandrino tornò ad impossessarsi per un istante delle labbra del giovane, scomparendo subito dopo.
«L’ho visto salire da questa parte!» Gridò una voce dalle scale.
La ragazza sussultò; quella era la voce di suo padre. E se Frederick Chase arrivava a interrompere una festa per intraprendere una caccia all’uomo per il palazzo il motivo poteva essere solo uno.
«Perseus Jackson
Un altro sorriso si aprì sul volto del giovane all’udire il nome pronunciato da Annabeth.
«Sono felice di sapere che conosci il mio nome» Disse lui, afferrando una spada. «Ma purtroppo credo che anche tuo padre lo conosca, quindi ti consiglio di prepararti a combattere al più presto».
 
 
Angolo Autrice

Salve gente! Vi ricordate di me?
No, non sono morta! Lo so che molti di voi lo speravano
Sappiate che sono in ansia come pochi, visto che sono praticamente due mesi e mezzo che non scrivo un angolo autrice, quindi non vi assicuro nulla. 
Lo so, lo so, vi avevo detto “Il capitolo arriverà nei prossimi giorni”, ecco, questo dovrebbe dimostrarvi che non ci si deve mai fidare di me, visto che tra la scuola, il giornalino, la nuova classe (perché tra tutte dovevano smistare proprio la mia, uffi), l’oratorio, una pila di libri da leggere, qualche idea veramente strana da buttare giù e la scoperta dei manga (qualcuno che legge Hunter x Hunter, One Piece o l’attacco dei titani? Vi prego, ditemi di sì. Amo quei manga *-*) mi sono ritrovata praticamente sommersa dalle cose da fare – credetemi, la terza superiore mi sta uccidendo – e non ho potuto continuare nessuna delle mie storie già iniziate.
Aniway, ecco a voi il primo effettivo capitolo di questa fan fiction! Sinceramente? Non mi convince molto; mi sembra tutto troppo affrettato, ma volevo far incontrare Percy e Annabeth presto e l’investitura di qualche ufficiale di Crono mi sembrava un bell’espediente. Comunque state tranquilli, anche se Annabeth in questo capitolo non sembra la solita, combattiva e irascibile ragazza, presto ritroverà il suo smacco; d’altronde, ve lo assicuro, non sarà la solita storia d’amore travagliata con sullo sfondo delle situazioni piratesche, anzi: non vedo l’ora di iniziare a scrivere di battaglie e sangue so che ve lo state chiedendo, e la risposta è sì, sono sadica e mi diverto molto. Le storie d’amore comunque ci saranno, ma voglio evitare di dargli quell’esasperazione assurda che si trova solo nei romanzi Harmony e, a parte qualche coppia già decisa, molte sono un mistero.
Per quanto riguarda Silena e Charlie – perché il ragazzo che le sorride è Beckendorf – devo fare un appunto: nessuno dei due ha mai combattuto contro Crono in qualche eventuale ribellione, ma sono stati imprigionati e ridotti in schiavitù, perché considerati poco pericolosi rispetto a altri rivoltosi e perché i loro genitori si sono battuti contro Crono.
Ho in mente un bel piano per loro due, un piano che comprende anche una OS missing moment di questa fan fiction. *Risata malefica*
Come al solito, se c’è qualche svista/errore, ditemelo che provvederò a correggere!
Ringrazio infinitamente le tre persone che hanno inserito la storia tra le preferite, quella che ricorda, le quattro persone che seguono e le due che hanno recensito <3
Scappo a leggere One Piece, prima che le note si allunghino ancora di più :’)
Tikal (sì, ho cambiato nick :3) 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Il labirinto ***


Capitolo 2
Il labirinto
 
Fino a quel momento della sua vita, Perseus Jackson, da tutti comunemente soprannominato Percy – anche se, doveva ammetterlo, quando mai si era visto un pirata chiamato Percy? –, non avrebbe mai e poi mai pensato di finire, un giorno, in una situazione simile a quella in cui si trovava in quel momento.
Quando gli uomini di Mr. Chase – che, vestiti con gli abiti da festa, sembravano tutto, meno che minacciosi – avevano fatto irruzione nella stanza, non avevano trovato altro che decine di trofei di guerra ricoperti di polvere; e il merito era tutto di Annabeth.
Doveva ammetterlo, quella ragazza era geniale: se non fosse stato per lei, probabilmente si sarebbe gettato a combattere contro i soldati nonostante non avesse nessuno a guardargli le spalle; Annabeth lo aveva convinto a non farlo, trovando una seconda opzione quando non sembrava essercene nemmeno una.
Percy aumentò la stretta sull’elsa della spada che aveva preso dalla stanza, aggrottando la fronte. Le doveva la vita – perché era certo che, se lei non ci fosse stata, sarebbe morto – e, anche se era un pirata, un criminale, era abituato a tenere fede alle promesse; e, quella, era una muta promessa che si erano fatti nel momento in cui la ragazza dai capelli biondi gli aveva afferrato il polso, indicandogli con lo sguardo una vecchia libreria ricolma di cianfrusaglie insignificanti. Come la ragazza sapesse che dietro gli scaffali ci fosse un passaggio segreto era un’altra storia, ma per il momento Percy preferiva concentrarsi sulla fuga.
Accanto a sé, il pirata sentì Annabeth trattenere il respiro quando degli uomini passarono accanto alla libreria, le loro voci che rimbombavano nella stanza.
«Dove sono finiti?!» ringhiò una voce agli altri soldati.
«Padre…» mormorò la ragazza, come se l’uomo potesse sentirla.
«Shh…» disse Percy, posandole una mano sulle labbra. «Non posso permettermi che mi scoprano qui» la ragazza annuì, liberandosi della mano dell’altro. «So benissimo quali sarebbero le conseguenze, Perseus, non serve che tu me lo ripeta».  
Il silenzio calò tra loro due, interrotto soltanto dal suono degli stivali dei soldati dall’altro lato della sala; nascosti lì dentro, proprio a pochi metri da coloro che avrebbero potuto ucciderli se li avessero scoperti, persino il respiro più silenzioso sembrava pesante quanto il suono del martello di un fabbro su un’incudine: il minimo movimento azzardato poteva farli scoprire. Un brivido percorse la schiena del pirata, mentre l’adrenalina iniziava a fare effetto, pompando più velocemente il sangue nelle vene. Amava sentirsi così, sull’orlo del precipizio, in bilico tra la vita e la morte, quando anche un solo passo falso ti può costare la testa.
All’improvviso, un giovane si rivolse a Mr. Chase, e Percy sentì chiaramente la ragazza irrigidirsi al suo fianco. «Signore, credo che non sia più qui» disse, seguito da alcune imprecazioni da parte dell’uomo.
«Certo che tuo padre è veramente una persona fine» ironizzò Percy con un ghigno. La bionda gli scoccò un’occhiata di fuoco, senza replicare.
«Ci conviene andarcene, o ci troveranno» suggerì sottovoce Annabeth, stringendo il polso del pirata. Lui annuì, il volto improvvisamente serio. «Se accadesse, sarebbe un vero guaio, almeno per me.» Percy si voltò, accendendo con dei fiammiferi una vecchia torcia trovata appesa al muro e indicando con un cenno del capo il corridoio immerso nell’ombra che si apriva davanti a loro. «Sei tu a conoscere questo posto, quindi prego, fai pure strada».
 
«Dove stiamo andando?» domandò il ragazzo, incamminandosi dietro ad Annabeth. Quella sorrise, anche se nella penombra del loro nascondiglio il suo volto sembrò trasformarsi in un ghigno. «Ho vissuto in questo palazzo per più di dieci anni, abbastanza per conoscere benissimo quasi ogni angolo di questo posto, pirata».
«Vorrei sapere perché hai deciso di parlarmi allora, se mi disprezzi così tanto» rispose il ragazzo, senza mai smettere di osservarla.
Annabeth sembrò ignorarlo, continuando a camminare senza mai voltarsi. Le fiamme della torcia gettavano delle strane ombre sulla sua schiena. «Anni fa, ho sentito dire che tra le file di Crono vi fosse un architetto, il più grande mai conosciuto; il suo nome era Dedalo» la ragazza fece una pausa, come aspettandosi chissà quale reazione dal compagno all’udire quel nome, ma Percy si limitò ad osservarla stranito. «Si dice che Dedalo», riprese allora la giovane, «fosse un sottoposto di Minosse, uno dei Governatori delle Isole fedeli a Crono. Quando questi venne in visita al vecchio Minosse, egli gli mostrò le grandi capacità del suo architetto, che Crono volle subito per sé, per poter costruire un palazzo degno della sua grandezza. Dedalo mise al servizio di Crono tutta la sua intelligenza e conoscenza per creare un palazzo talmente meraviglioso da poter fare invidia a quello di un Dio» Annabeth fece una pausa, lasciando che per alcuni istanti nello stretto corridoio si udisse soltanto il suono dei loro passi sulla pietra fredda. «Dedalo costruì il palazzo partendo da quello precedente, un tempo dimora di Zeus, e preparò i progetti basandosi su di esso. Ma, sapendo che, completata l’opera, l’Imperatore si sarebbe quasi sicuramente sbarazzato di lui, integrò nel suo progetto una rete intricata di cunicoli e corridoi sotterranei che collegava diverse stanze del palazzo ad alcuni luoghi poco fuori dalle mura della città, in modo da poter scappare al minimo segno di pericolo». 
«Eppure non riesco a capire» borbottò Percy, scostandosi delle ragnatele dal viso. «Se Dedalo ha progettato questa gigantesca rete di cunicoli, perché nessuno ha pensato di venirci a cercare qui? Insomma, non credo che possa passare inosservata una cosa del genere».
Un altro ghigno si formò sulle labbra della ragazza. «Dedalo era un genio. Come ho già detto, costruì il palazzo di Crono partendo da quello di Zeus, dove era già presente una rete di cunicoli sotterranei da usare in caso di fuga – Annabeth si lasciò andare ad un piccolo risolino – E’ strano, quando Zeus venne sconfitto da Crono né lui né la sua famiglia fecero niente per cercare di scappare, almeno stando a quanto dicono i libri» la ragazza si fermò un secondo, il volto contratto in un’espressione pensierosa. «Comunque sia, Dedalo riuscì a creare questo labirinto sotto al palazzo reale senza essere scoperto; inoltre, i progetti originali, dove viene mostrata anche la rete di cunicoli, andarono perduti decenni fa, quindi nessuno è a conoscenza di questo passaggio. Puoi stare tranquillo che non ti troveranno».
 
Continuarono a camminare per quelle che sembrarono ore, mentre sopra le loro teste il palazzo si agitava, svegliandosi dal torpore in cui era caduto durante il ricevimento. Passi frettolosi di servi nelle cucine, pezzi di discorsi pieni di terrore, frasi sussurrate all’orecchio dalle dame di corte risuonavano in tutto il palazzo, mentre i soldati rovistavano in ogni stanza, alla ricerca del fuggitivo.
Percy e Annabeth camminavano in silenzio, consci che anche il benché minimo rumore avrebbe potuto farli scoprire, e allora le conseguenze per entrambi non sarebbero state affatto piacevoli.
Annabeth l’aveva vista, l’esecuzione di un pirata, e non una soltanto: la prima volta, con gli occhi di quella che all’epoca era poco più che una quindicenne, in una piazza gremita di gente, durante un pomeriggio afoso, aveva guardato il boia incappucciato preparare con macabra maestria la corda che poco avrebbe passato attorno al collo di quello che, presumibilmente, doveva essere stato un uomo, ridotto a un ammasso di ossa e stracci dopo i mesi passati in prigionia, torturato e deriso dai soldati, lasciato sempre a poco meno di un passo dalla morte, che, in quel momento, camminava al suo fianco, nel lungo ed estenuante cammino verso il patibolo.
Aveva osservato, con lo sguardo scuro, mordendosi le labbra fino a sentire sulla lingua il metallico sapore del sangue, mentre nei suoi occhi iniziavano a soffiare i venti di tempesta, la botola aprirsi sotto i piedi del condannato, lasciandolo a penzolare nel vuoto finché i lamenti smisero di uscire dalla sua bocca semiaperta e la luce svanì dai suoi occhi; e anche allora, il suo corpo scheletrico venne lasciato lì, nella piazza, alla mercé degli corvi e degli avvoltoi, come monito a chiunque – lo vide ogni giorno, per più di un mese, quando apriva la finestra della sua stanza dopo essersi svegliata, finché un mattino non si alzò dal letto e non scoprì che era stato portato via: c’era in programma un’altra esecuzione, per quel pomeriggio.
Aveva osservato silenziosa, Annabeth, il volto morente di quegli uomini già morti prima che il fiato lasciasse i loro polmoni, mentre i loro occhi senza vita e le loro voci che si spegnevano lentamente si imprimevano a fuoco nei suoi occhi, affianco agli sguardi divertiti e alle volte disgustati degli altri spettatori, finché non era diventato uno spettacolo comune anche per lei. Eppure, ancora ricordava il volto di quell’uomo, visto cogli occhi di una quindicenne, congelato in quell’ultimo istante di paura e di dolore – alla fine, davanti alla morte, ogni uomo sente il orrore avvolgergli il cuore, e il terrore di fare i conti con ciò che si è fatto diventa improvvisamente reale.
La ricordava ancora, la sensazione di gelo che aveva sentito attraversarle le ossa, e non aveva intenzione di provarla di nuovo, non adesso, così vicina alla libertà. Inspirò profondamente, cercando di scacciare dalla mente il volto di quell’uomo, e proseguì, stando ben attenta a dove metteva i piedi.
 
Camminavano da quelle che sembravano ore: un passo dopo l’altro in quelle buie gallerie di pietra umida, alla ricerca di una strada che potesse salvarli, in mezzo ai topi e alle ragnatele, soltanto la flebile fiamma della torcia di Percy a illuminargli di poco la via; persino le voci che fino a poco prima – o forse si trattavano di ore? – li avevano accompagnati sembravano svanite, lasciandoli soli nel loro silenzio, rotto solo dallo squittio dei ratti e dai loro passi sul pavimento di pietra.
Procedevano lentamente, una mano posata sulla parete alla loro sinistra, mentre centinaia di occhietti rossi si voltavano ad osservare il loro passaggio, le fiamme della torcia che gettavano strane ombre, simili a orribili mostri, sulle pareti.
Per Percy, incapace di aspettare e senza più l’adrenalina di prima nelle vene, quella situazione era diventata insopportabile, ancora peggio della tortura – magari era quello il piano di Annabeth, farlo vagare in quelle macabre gallerie finché la morte non sarebbe stata l’univa valida alternativa alla noia. In fondo, non sapeva niente di lei, ed era la figlia dell’uomo che gli dava la caccia da anni, come poteva fidarsi di lei?
Percy scosse il capo, posando lo sguardo, di nascosto, senza farsi notare, sul volto di Annabeth, di fronte a lui: il volto corrucciato e preoccupato, gli occhi scuri che vagavano veloci davanti a lei, scrutando il buio davanti a lei, i capelli, che già al ballo le ricadevano in una treccia scomposta sulla spalle, ridotti a un groviglio opaco di ragnatele, i vestiti sporchi e strappati – nemmeno lei sembrava avere la benché minima idea di dove stessero andando, ma si era limitata a ordinargli di tenere sempre la sinistra, per un motivo a lui sconosciuto –; di sicuro, se avessero voluto ucciderlo, lo avrebbero fatto in modo più plateale possibile, non in un labirinto di cunicoli umidi e infestati dai topi, con la figlia del Contrammiraglio Frederick Chase.
Quando era entrato nella sala, con gli occhi di tutti i presenti puntati addosso, lo sguardo di Annabeth era stato il solo a non posarsi su lui, e Percy se ne era accorto, come se una scossa gli avesse attraversato all’improvviso la spina dorsale. Si era avvicinato, tendendole la mano per invitarla a ballare, e solo allora lei lo aveva degnato di uno sguardo, osservandolo con un finto rimprovero negli occhi, come se fosse realmente in ritardo. Era difficile non restare colpito da uno sguardo del genere, e nemmeno il pirata era riuscito a rimanere immune da quegli occhi grigi, eppure, quando quelle parole erano uscite dalla bocca di Annabeth, la sua mano era scattata al pugnale sotto la giacca – aveva pur sempre una missione da compiere, in fondo.
«Sei sicura di dove stiamo andando?» le domandò ad un certo punto, dopo un’infinita serie di passi. Le fiamme della torcia iniziavano a tremare, diventando sempre più flebili.
Annabeth si girò di scatto, un uragano negli occhi grigi. «Perché, tu sì, pirata?» sibilò, incrociando gli occhi di Percy.
Si scrutarono a lungo, l’uno con l’altra, studiandosi attentamente, alla ricerca di qualcosa che nessuno dei due conosceva, finché Percy non abbassò lo sguardo, ammettendo la sconfitta. «No» sussurrò con un filo di voce.
Un sorriso di vittoria si aprì sul volto della bionda. «Bene, allora, ti chiedo gentilmente di lasciarmi lavorare» commentò acida. «Tirerò fuori entrambi di qui, non ti preoccupare.» Annabeth si voltò di nuovo, ritornando a studiare la parete della galleria, alla ricerca di una via di fuga.
«Scusami, sai, di solito non affido la mia vita nelle mani di ragazze sconosciute e figlie dell’uomo che mi dà la caccia» commentò sarcastico Percy, rivolto alla sua schiena. «Vorrei soltanto capire qualcosa di più. È la mia vita, quella nelle tue mani, voglio capire se posso fidarmi a lasciartela».
Quando si girò, la rabbia negli occhi di Annabeth sembrava essersi affievolita un poco, ma bastò un’occhiata al compagno perché tornasse a splendere nel suo sguardo. «Ti sto salvando la vita, Perseus» ringhiò, afferrandogli il colletto della camicia e avvicinando i loro volti. Si squadrarono a lungo di nuovo, il verde del mare in collisione con il cielo in tempesta. «Questo ti deve bastare», disse Annabeth, lasciandogli il colletto con uno strattone e voltandosi di nuovo, i passi che risuonavano lenti sulla pietra.
 
*
 
«Signore, non c’è nessuna traccia del ricercato» la voce del soldato arrivò alle orecchie di Frederick Chase lontana, come se uno specchio d’acqua li dividesse. Alzò lo sguardo dal rapporto sulla sua scrivania, un paio di piccoli occhiali rotondi poggiati sulla punta del naso: davanti a lui, un ragazzo biondo aspettava silenziosamente gli ordini. Non doveva avere più di venticinque anni, gli occhi azzurri che splendevano di determinazione – la stessa che, in passato, era vivida negli occhi del Contrammiraglio, dopo essersi arruolato –, i capelli biondi spettinati e una brutta cicatrice che gli sfigurava la parte sinistra del volto; indossava ancora l’uniforme della festa, con la quale era stato nominato Commodoro.
«Oh, Commodoro Castellan. Non si sa niente nemmeno di lei?» domandò il Contrammiraglio Chase con tono stanco.
«No Signore, nessuna notizia di sua figlia» rispose freddo il giovane, evitando di guardare il volto del suo superiore.
«Lei non è mia figlia» affermò tetro l’uomo, prendendo in mano un vecchio rapporto. «Non più, almeno, e tu lo sai molto bene, quindi evita di chiamarla così» i suoi occhi erano ricolmi di tristezza, mentre voltava lo s guardo verso la finestra che dava sul porto della città, dove il Sole si tuffava nel mare, tingendolo di rosso. «Vada pure, Commodoro», lo congedò con aria stanca, tornando a guardarlo in volto.  
«Mi scusi, Signore» disse il Commodoro, uscendo dallo studio accompagnato dal rumore dei suoi passi sul pavimento. Lo sguardo di Frederick Chase non si staccò dalla sua schiena finché le porte del suo studio non si chiusero dietro di lui.
«E’ così giovane…» mormorò il Contrammiraglio, passandosi una mano sul volto ormai stanco, mentre in cielo la Luna iniziava a fare capolino.
 
*
 
Le stelle erano già apparse nel cielo da ore, quando finalmente Silena chiuse gli occhi, stremata. Si trascinò a fatica verso il suo piccolo giaciglio, negli appartamenti dei servi, il corpo dolorante e ricoperto di lividi violacei. Era stata una lunga notte, fatta di dolore e di grida, ma non diversa da ogni altra, da quando era entrata in quel mondo cupo e grigio; un labirinto di terrore e di sofferenza, da cui non le era dato di uscire, non finché avrebbe continuato a indossare le vesti stracciate degli schiavi.
Aveva perso la cognizione del tempo, ormai, da quando era arrivata a Olimpia, la capitale del regno di Crono; i giorni si susseguivano lenti, scanditi soltanto dai gemiti e dalle grida di dolore: il giorno non era altro che un conto alla rovescia prima della notte, quando il suo corpo sarebbe stato di nuovo violato da mani rozze e violente, e altri lividi sarebbero apparsi sulla sua pelle diafana, troppo presto perché gli altri potessero guarire.
E allora, dopo che gli uomini la usavano a loro piacimento, ogni notte, Silena sgusciava via dai loro letti sfatti e tornava silenziosa al suo giaciglio, il sorriso che era costretta a tenere macchiato di lacrime amare e mute, gli occhi spenti di chi, ormai, la speranza l’ha perduta del tutto. 
La prima volta era stato orribile; si ricordava il dolore e il terrore che il suo aguzzino le aveva fatto provare, mentre con le sue mani la accarezzava, la toccava, marchiava il suo corpo con le sue unghie e i denti, insinuandosi dentro di lei con prepotenza. All’epoca, Silena, diciassette anni fatti da poco e il viso di una bambola di porcellana, era stata terrorizzata, ma, col tempo, ciò che accadeva la notte era diventata una cosa comune, alla quale cercava di non farci caso; non al dolore, quello però no, non ci sarebbe mai riuscita.
Lacrime silenziose bagnarono il cuscino, mentre le sue dita percorrevano delicate il suo corpo violato,  attorno a lei, le altre serve, soprattutto giovani, da bambine a donne di qualche anno più grandi di lei, dormivano, o cercavano di farlo, per dimenticare, almeno per qualche ora, l’orrore in cui vivevano.
«Silena…» la vocina acuta di Rose, una minuta ragazzina dai crespi capelli biondi, la riportò alla realtà. Silena voltò lo sguardo, trovandola accanto al suo letto, gli occhi arrossati e le guancie rigate di lacrime.
«Hey, Rose» sussurrò, asciugandosi le lacrime sulla manica del vestito e accarezzandole il volto con una mano. «Cosa succede, piccola?» domandò, nel tono più dolce che riuscisse a trovare.
«Non riesco a dormire, ho fatto un brutto sogno» rispose la bambina, tirando su col naso e stropicciandosi gli occhi.
Un velo di tristezza passò negli occhi della maggiore mentre si metteva a fatica a sedere sul letto. Rose non aveva ancora capito la fortuna di riuscire a sognare, in quel posto, anche se si trattava di incubi. «Che ne dici di venire qui e raccontarmi cos’hai sognato?» un sorriso tirato si aprì sul suo volto stanco, mentre la piccola si arrampicava accanto a lei.
«Ho sognato le ombre, Silena» iniziò Rose, tirando su col naso. «Venivano da me di notte, mentre dormivo… prendevano la mamma e il papà, e li portavano via da me…» un piccolo singhiozzo le uscì dalle labbra.
«Hey, hey, è tutto okay, Rose», mormorò Silena, abbracciandola e stringendola forte tra le sue braccia.
«Io non voglio che accada, non di nuovo…» singhiozzò la piccola, piangendo sulla sua spalla.
«Lo so, piccola» disse Silena, cercando le parole adatte per confortarla. «Ma era un brutto sogno, no? Adesso siamo qui, e ci sono io, quindi non ti devi preoccupare. Ti proteggerò io da quelle brutte ombre, e allora non ti accadrà nulla.» Rose alzò lo sguardo, gli occhi arrossati di lacrime. «Sul serio? Promesso?» domandò.
«Promesso, guarda» Silena le porse il mignolo, aspettando che lei lo afferrasse.
La bambina la guardò, asciugandosi il volto dalle lacrime, e poi le afferrò il mignolo col suo, suggellando quel piccolo patto.
«Grazie Silena» disse, sorridendo timidamente. La mora, in risposta, sorrise, abbracciandola di nuovo. «Adesso che ne dici se andiamo a dormire, eh?» domandò, sdraiandosi di nuovo sul suo lettino, abbracciata a Rose.
«Nel covo dei pirati c'è poco da scherzare chi non si arruola finisce in fondo al mare… Finanche i più convinti, finanche i più decisi a denti stretti si sono tutti arresi.... Tu invece sei la sola che va così sicura sul trampolino di Capitan Uncino... Ma dimmi come fai a non aver paura o sei incosciente oppure sai che è un sogno che non dura!...» la voce di Silena riempì la stanza, mentre le parole di quella vecchia canzone, ricordo dei tempi felici prima di arrivare ad Olimpia, le uscivano delicate dalle labbra.
«Come sei brava a raccontare ad inventarti quelle avventure sembrano vere... che fantasia che hai!... Continua il tuo racconto, mi sembra di vederti al punto giusto lui arriverà a salvarti... Tutte le tue avventure son belle da sognare però nei sogni non ti puoi rifugiare.... Non vedi il tempo corre e non lo puoi fermare diventi grande e ti vogliono cambiare.» non lo avrebbe mai ammesso, ma un tempo, Silena avrebbe voluto incontrarlo, un pirata, e vivere mille avventure con lui, come quelle di cui aveva sentito parlare da piccola, in uno dei pochi ricordi che le rimanevano di sua madre.
«E questo ti spaventa, i grandi sono strani fanno paura più dei pescecani. Ma proprio adesso, ti vuoi fermare non ti interessa di far vedere se e proprio vero che non ti arrendi mai!» ma poi era cresciuta, la guerra era arrivata e si era portata via le storie e i sorrisi, portando con sé lacrime e lividi, e trascinandola in quel labirinto di dolore. Rose invece era ancora piccola, un giorno sarebbe riuscita a vedere di nuovo il cielo senza le lacrime di paura e avrebbe camminato di nuovo senza le catene; di quello Silena ne era sicura, e avrebbe fatto di tutto pur di tenere fede a quella promessa.
«Nel covo dei pirati c'è poco da scherzare...»
 
 
Angolo Autrice
Hola a todos!
Lo so, sono passati, quanto, sei mesi? Eppure eccomi di nuovo qui, a rompervi le scatole con questa storia ^^
Che dire? Avevo degli appunti di questo capitolo ancora da gennaio, ma un po’ per la scuola, un po’ per la vita sociale che anche se è quasi inesistente c’è, un po’ perché non avevo voglia e avevo iniziato Doctor Who, ho rimesso mano a questa storia soltanto in questi giorni.
Quindi, qualche cosuccia in merito a questo capitolo:
  • Annabeth e Percy stanno attraversando il labirinto di Dedalo, che in questo caso è una rete di cunicoli sotterranei sotto il palazzo di Crono. Tenetelo d’occhio, perché tornerà di nuovo, in futuro
  • La canzone di Silena è ‘Nel covo dei pirati’, di Bennato. Perché ultimamente sono in vena di Bennato, quindi sì.
  • Rose è un mio OC, che manterrà comunque un ruolo marginale nella storia. È una bimba di nove/dieci anni a metà tra Rose Tyler e River Song la cui storia verrà comunque svelata più avanti
  • Luke è Commodoro, Frederick Chase è Contrammiraglio. Per la gerarchia delle istituzioni militari mi sono rifatta sia a quella OnePieciana che a quella Americana, anche se più alla prima. Comunque, il ruolo di Contrammiraglio è più alto. E sì, Luke è il biondo del capitolo precedente che parla con dei suoi amici.
  • Ogni isola dell’Impero ha dei Governatori, come delle specie di provincie, ma di questo parlerò più avanti
Credo di aver detto tutto, ma per qualsiasi cosa chiedete pure ^^
Un grazie a tutti coloro che hanno inserito questa storia tra le preferite/ricordate/seguite e a coloro che recensiscono, vi adoro, e scusate il ritardo!
Scappo che sono in ritardo, alla prossima tra qualche mese
Tikal
 
 

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