The L Factor di Ely79 (/viewuser.php?uid=61615)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Purple Dream ***
Capitolo 2: *** Twisted Rolls ***
Capitolo 3: *** Far Amal ***
Capitolo 4: *** Ocean Eye ***
Capitolo 5: *** Magic Moment ***
Capitolo 6: *** Coodle ***
Capitolo 7: *** Queen MAB ***
Capitolo 1 *** Purple Dream ***
The L factor_Cap 1
1. Purple Dream
Brownie
ricoperti di caramello salato, affogato in un frappè di gelato
vaniglia, mirtilli freschi, menta e libea, guarnito con panna montata,
Libea, briciole di brownie, mirtilli freschi,
foglioline di menta e topping di caramello salato.
L’incontro
con Valakis aveva lasciato strascichi che Alexia non si sarebbe mai
aspettata. Erano emersi poco a poco durante l’interrogatorio
notturno, diffondendosi ovunque. Sentiva lo stomaco teso e gelido come
un blocco di ghiaccio, le era impossibile chinarsi o voltarsi senza
provare fitte lancinanti. Per non parlare delle mani che avevano perso
parte della sensibilità. Nel suo organismo doveva essere in atto
una furiosa battaglia tra la porcheria trangugiata in quel lurido
localaccio e le sue difese immunitarie da maga. Cane e Lucas
l’avevano perseguitata per tutto il tragitto continuando a
domandarle come si sentiva, incrementando il suo fastidio e un nascente
mal di testa. Come se non bastasse, aveva la netta sensazione che con
l’intromissione dell’Anticrimine, la loro iniziativa non
sarebbe passata sotto silenzio e che per l’indagine si
profilassero momenti irti di incognite.
Nulla di quella giornata lasciava presagire miglioramenti entro breve.
Attraversò barcollando l’ampio pianerottolo marmoreo che
separava l’ascensore dall’ingresso di casa, al decimo piano
di uno dei magnifici residence che si susseguivano lungo Baharamine
Boulevard, poco distante da Luminous Park. Se si fosse voltata, avrebbe
potuto scorgere il profilo dell’edificio della MAB stagliarsi
oltre la gabbia trasparente del vano scale, svettando sopra le prime
propaggini del parco, rese dorate dal tramonto.
Chiuse la porta e vi si appoggiò pesantemente con la schiena,
tentando di prendere un profondo respiro. Era un gesto che le capitava
di ripetere spesso da qualche tempo, un modo come un altro per staccare
la spina dal lavoro. Si impose di riuscirci anche quella sera,
nonostante il mondo ondeggiasse pigramente sotto i suoi piedi, quasi
che il pavimento fosse diventato acqua e lei una barchetta in balia
della corrente.
Il tramonto entrava dalla grande vetrata sulla sinistra, colorando
d’arancione gli arredi chiari del soggiorno e spandendo riflessi
lungo le cornici dei quadri. Oltre la balaustra del balcone, Kyrador
era un susseguirsi di grattacieli scintillanti e buie chiome
d’alberi sullo sfondo di una sottile striscia di mare.
Un’immagine da cartolina che in molti le invidiavano.
Appese la borsa al portabiti, restando a guardarla raggiungere il
pavimento con un tonfo sordo un istante più tardi.
Allungò la mano, cercò di curvarsi un poco in avanti, ma
aveva l’impressione di avere un muro di piombo sul ventre.
Persino respirare diventava difficoltoso. Guardando le dita tremare nel
vuoto, le sfuggì un gemito.
«’seeeeraaaaa, dispersaaaaa!» salutò una voce ovattata da qualche parte nell’appartamento.
Non aveva bisogno di cercare nelle stanze per capire da dove arrivasse.
Il corridoio era davanti a lei e le porte che vi si affacciavano erano
aperte o socchiuse; solo quella alla sua destra, una grande scorrevole
bianca a doppio battente, era chiusa e al di sotto lasciava filtrare
una sottile lama di luce.
«Ciao, Brando» salutò svogliata, superandola.
Proprio quando stava per aggiungere la sua stanza, sancendo
definitivamente la conclusione della giornata, un mezzobusto
scivolò oltre la porta, richiamandola indietro con un fischio.
«Devo proprio?» domandò senza voltarsi.
Nello specchio in fondo al disimpegno vide agitarsi freneticamente una
mano, accompagnata da un gran sorriso. Scrollando le spalle,
tornò faticosamente sui propri passi.
Due occhi castani la seguirono nella sua incerta avanzata,
accigliandosi. Il volto tondo di Brando era diviso tra i bagliori
ambrati del tramonto e la luce più tenue della cucina, che
creavano un bizzarro mescolio di ombre, tanto che Alexia faticò
a notare le tracce di farina e altri ingredienti sparsi sulle guance e
sui capelli neri.
Attraverso la stretta apertura filtrava un lieve tepore e il profumo invitante di un misterioso dolce in cottura.
«Uh, che brutta cera, Lix…» commentò
preoccupato dopo averla squadrata da capo a piedi un paio di volte con
aria estremamente critica.
Gli capitava di frequente di vederla tornare in condizioni pietose per
via dell’alto livello di stress che doveva sopportare ogni giorno
per gestire al meglio la sicurezza cittadina e non solo; ciò
nonostante, in quel momento Brando le vedeva sfoggiare un aspetto
decisamente livido e pesto, ben oltre la soglia di normale stanchezza
cui era abituato.
«L’avresti anche tu al posto mio» sospirò
cercando di sciogliere la coda di cavallo con scarsi risultati.
Aveva legato l’elastico troppo stretto, presa evidentemente dal
nervosismo, e il torpore che ancora la perseguitava pareva non volerla
lasciarla in pace. Con ogni probabilità avrebbe finito per
tagliare il laccio, cercando di non rimetterci una paio di ciocche o,
peggio, un orecchio. In quelle condizioni avrebbe potuto succedere di
tutto.
L’uomo tamburellò con le dita sul legno laccato
osservandola perdersi in quelle ridicole riflessioni. Il pallore, gli
occhi arrossati e la scarsa stabilità gli dicevano molto
più di quanto avrebbero fatto le parole, tuttavia tentò
lo stesso di estorcerle un chiarimento.
«Puoi raccontare o poi dovrai ridurmi ad un roux pieno di grumi
che verrà fatto scivolare indecorosamente giù dallo
scarico del lavandino?»
Lei si riscosse, rivolgendogli uno sguardo torvo. Sapeva perfettamente
che rivelare anche solo un’inezia dei casi della MAB poteva
significare il licenziamento in tronco, qualora fosse stata accertata
la fuga di notizie. Per non parlare di quel caso in particolare:
proprio non poteva permettersi di proferire una singola sillaba a
riguardo. C’era troppo in gioco, soprattutto la sicurezza
già precaria di Carmy.
«Lascia fare a me. Ti rimetto in sesto io! Ho quel che serve in queste situazioni» decretò Brando ammiccando.
Lei afferrò la porta un attimo prima che si chiudesse,
impedendogli di scomparire nella sua tana. In un altro momento avrebbe
apprezzato le sue attenzioni, ma la stanchezza e gli spasmi addominali
avevano deciso di tornare ad affondare i denti nel suo corpo.
«Sto bene, Brando. Ho solo bisogno di una doccia e una bella
dormita, per essere di nuovo pronta all’azione domani. Tutto qui.
Un’emicrania non ha mai ucciso nessuno» puntualizzò
sebbene non ne fosse molto convinta.
Il cerchio alla testa cominciava ad estendersi in maniera preoccupante.
Confidava che un lungo e prolungato getto bollente avrebbe dato i suoi
frutti, o qualunque cosa le consentisse un poco di meritato riposo.
«Lurida stacanovista serva del sistema» rimbrottò lui, disgustato.
«Smettila. Tanto non casco nelle tue provocazioni, lo sai».
Conscio fosse la verità, il giovane si lasciò scivolare
un po’ lungo l’anta, arricciando le labbra e sgranando gli
occhi come un cucciolo supplichevole. Per essere più convincente
inclinò la testa da un lato e si portò i pugni al mento.
Sulle prime Alexia fu tentata di dargli una spinta e mandarlo lungo
disteso, tuttavia vedendolo sbattere le ciglia e dondolarsi
pericolosamente sulle punte dei piedi mandandole piccoli baci, non
poté fare a meno di scoppiare a ridere. Brando aveva il potere
di farle cedere le armi ogni volta. Se fosse stato nella sua squadra,
sarebbe stato un bel guaio; per sua fortuna non era un agente, ma solo
un ospite fuggito alla routine di un posto fisso, con mire nel goloso
mondo della pasticceria magica.
«E va bene… hai vinto. Ma che sia qualcosa di leggero!»
Aveva fatto solo pochi passi, quando tornò indietro con uno
scatto e spalancò la porta, riuscendo ad osservare la cucina il
tempo sufficiente per sentire gli effetti del drink del vampiro
riprendere a propagarsi fulminei in ogni angolo del suo corpo.
La sagoma tondeggiante di Brando chiuse la visuale quasi per intero.
Questa volta il sorriso gioviale del coinquilino era scomparso,
sostituito da un’espressione di totale disappunto. Se a nessuno
era permesso ficcanasare nelle cose della MAB, ad ancor meno persone
era consentito di spiare nella cucina, specialmente mentre lui creava.
In quel periodo poi, era peggio del solito. Secondo Alexia, quel tipo
di disturbi generava in lui alterazioni molto simili a quelle che
trasformavano i maghi in EDA.
«Ti prego, dimmi che quello che vedo sui mobili non è il
nostro gatto che è esploso» fece lei, indicando la miriade
di chiazze scarlatte e rosate che punteggiavano la stanza da cima a
fondo.
«Donna di nessuna fede» replicò Brando
imbronciandosi e incrociando minaccioso le braccia sulla pettorina del
grembiule. «Prince Great Mighty Azul-Gray Cloud on the North Sea
di Taveja Valley sta benissimo. L’ho chiuso sulla terrazza prima
di mettermi all’opera. Sai che non ammetto peli e leccatine nel
mio regno».
La testa di Alexia cadde in avanti, sfinita. Brando era il solo a
chiamare il suo gatto con il nome per esteso, mentre tutti – lei
per prima – si limitavano a Prince o, più semplicemente,
“Micio”. Non potevano farci nulla se la madre di Brando, in
una delle sue più esagerate dimostrazioni di affetto e
gratitudine, le aveva regalato un esemplare di Leglar Blue con un
pedigree così lungo da poterci incartare l’intero palazzo
della MAB, inclusi sotterranei, solo per aver accolto in casa il figlio
sognatore.
«Vai a fare quella benedetta doccia, allaga tutto il bagno,
infilati quel bel pigiamino con i macaron che ti ho regalato e torna di
qui solo quando sarai simile a un essere umano invece di questa
sottospecie di soufflé moscio da emerito principiante che ho
davanti» ordinò chiudendo teatralmente la porta.
Luci e profumi dell’antro della gola svanirono, lasciandola sola
nel tramonto che gettava ombre sempre più dense tra gli arredi.
Sospirando, accennò un saluto militare e si diresse alla sua
stanza. Ci mancava solo l’aspirante pasticcere con manie da
crocerossina e ire da Classe Alfiere per concludere il tour de force di
quelle ultime trentotto ore.
Non appena Alexia sparì nella sua camera, Brando fece di nuovo
capolino, mordicchiandosi l’interno della guancia. Ora che la
vedeva di nuovo a casa, si sentiva sollevato. Capitava che dovesse star
fuori anche per più giorni, era uno degli incerti del suo lavoro
alla MAB, e sebbene lui ripetesse in continuazione che non si
impensieriva affatto nel non avere la benché minima idea di dove
lei fosse o cosa facesse, era chiaro che si trattava di una
sciocchezza. Alexia era la sua migliore amica, erano praticamente
cresciuti insieme considerandosi fratello e sorella, come avrebbe
potuto non stare sulle spine, non vedendola tornare? Senza contare che
la buon’anima del Generale Stirling l’avrebbe tormentato in
sogno per una tale mancanza nei confronti della figlia.
«Floscioflosciofloscioflosciofloscio» sbuffò tra i denti.
Ripeteva sempre quella sorta di mantra quando aveva l’impressione
di trovarsi di fronte a una persona che gli ricordava il suo primo,
avvilente soufflé al limone.
«Piano “L”: dolce da leccata con Libea come se piovesse, su colore da meditazione. Diamoci da fare!»
E richiuse la porta.
***
La grande vetrata scivolò di lato e Prince Great Mighty
Azul-Gray Cloud on the North Sea di Taveja Valley restò a
guardarla annoiato, muovendo appena una delle grandi orecchie per
ascoltarne il fruscio. Negli ultimi sprazzi del crepuscolo urbano, i
suoi grandi occhi smeraldini brillavano di luce propria.
«Lo zietto ti ha di nuovo messo in castigo?» domandò Alexia.
Quasi avesse capito il senso delle sue parole, l’animale emise
una sorta di sospiro prima di alzarsi e avvilupparsi letteralmente
attorno alla sua gamba, allungando le zampe sottili fino ad artigliare
la canotta della padrona all’altezza del dolente stomaco, sulla
stampa di un grosso macaron turchese con gioiosa faccina di brillantini.
I gatti di Celestis erano diretti discendenti di quelli terrestri,
sebbene differissero molto dagli antenati: l’incrocio con
creature indigene loro affini e la sensibilità al krylium
presente sul pianeta, avevano prodotto mutazioni significative
dell’anatomia. Erano creature incredibilmente flessuose, al
limite del serpentino, il cui scheletro si era allungato e
assottigliato tanto che le razze più piccole vantavano
un’altezza alla spalla di quarantacinque centimetri. I Leglar
Blue come Micio raggiungevano la ragguardevole altezza di cinquantotto
centimetri per una lunghezza pari ad un metro e venti, coda esclusa.
Alexia se lo ricordava solo quando cercava di prenderlo in braccio,
proprio come in quel momento. In realtà sarebbe stato più
corretto dire che tentava di issarselo addosso, viste le dimensioni.
Desistette dall’impresa e andò a sedersi sul divano,
impegnandosi al massimo per riuscire a mettere un piede davanti
all’altro senza inciampare o sbattere contro gli arredi.
L’animale, indispettito dalla protratta carenza di coccole, la
seguì e poggiò parte del lungo collo e la testa a cuneo
sulle sue ginocchia, facendo le fusa e agitandosi tutto. La pelliccia
delle zampe le solleticava le caviglie. Nel caso della razza di Micio
si faceva più lunga e fine su zampe e coda, e il tenue colore
grigio-azzurro gli aveva fruttato il soprannome di “Nuvole di
Amaltea”.
«Pronto Soccorso Anti-cattivissima MAB in arrivo!» annunciò Brando aprendo teatralmente la porta.
La sagoma scura circonfusa di luce della cucina andò a
riflettersi nella portafinestra, mostrando al Capitano Stirling
l’immagine trionfale (e non troppo atletica) del suo coinquilino.
Teneva le braccia al cielo e portava due enormi coppe allungate,
coronate da nuvole di panna montata e foglioline di menta. Il contenuto
era di un tenue colore viola, dal quale derivava il loro nome: Purple
Dream. L’aveva creato tempo prima e perfezionato nel corso delle
ricorrenti giornate storte sue e di Alexia, aggiungendo, togliendo e
modificando la composizione.
«Devo proprio?» chiese la donna, muovendo a fatica il lungo cucchiaino nel dolce.
Pezzetti di brownie si affacciarono al vetro coperto di condensa, emergendo dalla densità del frappè.
Meno male che avevo detto “qualcosa di leggero”, gemette fra sé Alexia.
I dolci che preparava Brando erano tutto fuorché ipocalorici.
Il suono morbido del cucchiaio attirò l’attenzione del
gatto, che con un sinuoso balzo si portò sullo schienale del
divano, cominciando a strusciare il muso sul collo della padrona,
pretendendo un assaggio.
«Se vuoi passare la serata a rimuginare su quello che è
andato o non andato oggi, lasciando macerare per nulla questo ben di
dio fatto dalle mie prodigiose mani, fai pure. Ma se i sensi di colpa
ti trafiggeranno il pancino per tutta la notte, sappi che ti ho
avvertito» sbottò franandole accanto offeso e cominciando
a mangiare. «E non provare a venire a piangere dietro la mia
porta, supplicando perdono e di avere un altro Purple Dream,
perché non te lo farò. Parola mia!»
«Non ho mai fatto niente del genere» osservò, cercando di decidere da che parte attaccare la coppa.
Era tentata dalla sofficità della panna punteggiata di verde e
guarnita con gli stessi mirtilli e i brownie celati al di sotto, per
non parlare del sottile arabesco al caramello. E con le pretese del
gatto che si facevano sempre più pressanti, si risolse a far
sparire la panna in un paio di morsi.
«Ma potresti, quindi ti metto subito sul chi va là»
ribadì Brando, che invece raccolse in un solo movimento gran
parte dei componenti dell’intero manicaretto. «Non puoi
proprio dirmi niente?»
«Perché insisti?» ciancicò con la posata fra le labbra.
Ormai Alexia aveva ceduto alla tentazione del Purple Dream, le sarebbe
stato impossibile non finirlo semplicemente perché adorava quel
dolce al cucchiaio pensato per i loro momenti di commiserazione e
rinascita. Per non parlare del consumarlo indossando quel pigiama: se
l’avessero vista i colleghi con quella canottiera e i
pantaloncini su cui era raffigurata solo una minima parte delle
prelibatezze dolciarie del repertorio dell’amico, probabilmente
sarebbe diventata lo zimbello dell’Agenzia per mesi interi, ma in
quei momenti le buffe faccine sorridenti che occhieggiavano tra le
pieghe erano solo una benedizione.
L’uomo prese una lunga sorsata di frappè, assaporandolo ad
occhi socchiusi con la lingua che si muoveva lentamente lungo il
palato. Il gusto era eccellente ma mancava qualcosa per renderlo
assolutamente perfetto.
«Tenevi una mano sulla pancia quando sei arrivata e, sapendo
quanto sei immune alle carneficine, ho supposto ti fosse andato
qualcosa di traverso. Qualcosa di gastronomico? Mica vi sarete serviti
ancora a quell’orrenda rosticceria all’angolo della piazza?
Prima o poi mando l’ufficio d’igiene a controllarla».
Purtroppo aveva ragione e negarlo non avrebbe avuto senso.
«Non ho mangiato nulla di strano. Piuttosto l’ho bevuto» ammise.
«Cos’era? Un cocktail?» s’informò, pulendosi le labbra col dorso della mano.
«Già. Disgustoso e illegale, per giunta»
precisò, per dargli ad intendere che quello fosse il limite
delle informazioni che poteva dargli senza pericolo.
«Mi stupisci. A voi della MAB non è proibito bere mentre siete in servizio?» scherzò.
«Ho dovuto farlo. Era propedeutico all’indagine».
Per qualche istante nessuno parlò. Alexia si dava
dell’incosciente per quel gesto che avrebbe potuto causarle
conseguenze ben peggiori, Brando pareva assorto in un conteggio o una
valutazione.
«Bevi subito il frappè, Lix, ti farà bene. I mirtilli erano freschissimi e la Libea
ha poteri disintossicanti e antinfiammatori. Ne ho messa una dose extra
nel tuo» spiegò con una certa soddisfatta accondiscendenza
dipinta sulle guance tonde.
Alexia guardò sorpresa il bicchiere, reso scivoloso dalla
condensa. In effetti si sentiva già meglio: il gelo allo stomaco
era diminuito, così pure la tensione addominale. Riusciva a star
seduta senza avvertire troppo fastidio, diversamente da quando Cane e
Lucas l’avevano accompagnata a casa poco più di
un’ora prima, e sebbene le dita fossero intirizzite per il
contatto con il vetro gelido, poteva notare anche una diminuzione del
tremito.
La Libea era un ingrediente
d’alta pasticceria che però veniva usata solo dagli
stregoni, che ne potevano sfruttare i poteri nascosti. In mani prive
dell’M-Code generava solo un semplice effetto glitter. Derivava
dal krylium per quanto ne sapeva, ma in che modo passasse da fonte di
energia magica a sostanza commestibile, le era ignoto. Quello era il
campo delle velleità dolciarie di Brando.
Allungò il bicchiere verso quello dell’amico, facendoli tintinnare.
«Cosa farei senza di te?» sospirò pescando un pezzetto di brownie.
Grazie a particolari incantesimi culinari, la pasta non si inzuppava e
restava morbida, assorbendo solo l’aroma dei piccoli frutti. Il
caramello salato che lo ricopriva si sposava alla perfezione con lo
spunto deciso del cioccolato e l’asprigno dei mirtilli, in una
combinazione di diverse consistenze.
Compiaciuto, Brando abbassò lo sguardo sul proprio Purple Dream,
muovendo lentamente il denso liquido violetto. Mormorò qualche
parola e all’interno del vetro ci fu un breve rimescolio.
«Oh, te la caveresti comunque Lix. Sei una tosta, lo sei sempre
stata. Peeeeerò,» cantilenò sistemandosi goffamente
a gambe incrociate sul cuscino, «se proprio vuoi sapere come la
penso…»
Conosceva fin troppo bene quel tono di voce. Sarebbe andato a parare su
argomenti più spinosi della Lilith e la Chiesa di Ela. Si era
fatta trascinare stupidamente su un sentiero minato, il preferito del
suo amico per inciso.
«No. Non lo voglio sapere. Per favore. È stata una giornata pesante, non ti ci mettere anche tu».
«Troppo tardi. Cara mia, se non ci fosse il sottoscritto a
coccolarti nei momenti bui, andresti di corsa bussare alla porta di
quel “certo” tizio per farti consolare. Non
t’azzardare a negarlo. E soprattutto deciditi a farlo! Mi sto
scocciando di essere il tuo Signor Consolazione» soggiunse
passando teatralmente una mano tra i capelli neri.
«Non dire assurdità. È un mio sottoposto! E tu non
sei il mio Signor Consolazione, anche se resti il mio spacciatore di
dolci ufficiale» rimbrottò, fingendo di allungare il
cucchiaio verso la sua coppa.
«Alexia, ti conosco da quando portavamo entrambi il pannolino, so
fin troppo bene quali siano i tuoi gusti in fatto di uomini. Li ho
visti girarti attorno, arrivare e andare. Tutti quanti»
puntualizzò con una smorfia eloquente, sottraendo il proprio
dolce alle mire dell’amica ma finendo per stuzzicare quelle del
gatto che con due rapide falcate raggiunse miagolando le spalle
dell’uomo.
«Esagerato! Non ho avuto così tante relazioni»
sibilò offesa, sedendosi come lui al lato opposto del divano per
potergli rifilare un calcetto sul ginocchio.
Brando fece spallucce, bevendo un’altra sorsata. Decise che la
menta era insufficiente e la prossima volta che avesse preparato il
dolce ne avrebbe aggiunto qualche foglia anche nel frappè per
conferirgli una nota più fresca, alleggerendo la
pastosità del gelato alla vaniglia.
«Forse no, ma mi sono fatto un’idea piuttosto precisa del
tuo uomo ideale. E dato che in quella categoria io non ci rientro
neppure da lontano - per fortuna - e sono felicemente sistemato -
doppia fortuna -, posso azzardare tutte le congetture che mi pare e
piace. E a te, quel tizio piace. Parecchio. Vero, Prince Great Mighty
Azul-Gray Cloud on the North Sea di Taveja Valley?»
domandò allungando un dito sporco di panna montata alla
bestiola, che tentava di raggiungere il bicchiere.
La lingua bruna e appuntita cominciò l’opera di pulizia,
mentre la lunga coda setosa oscillava lenta nell’aria.
«Ma per favore… se ne parlo è solo perché al
di là dei suoi modi non sempre impeccabili, è comunque un
ottimo agente. Ha un curriculum di tutto rispetto»
considerò distogliendo lo sguardo.
Il movimento della coda le stava facendo tornare i capogiri. E, per
certi versi, le faceva venire in mente proprio l’oggetto della
discussione.
Affatto scoraggiato dalla piega professionale che l’amica stava
cercando di imprimere alla conversazione, Brando sistemò un
cuscino dietro la schiena, dandosi un’aria saputa. Micio, dal
canto suo, decise di strisciargli lungo il petto per andare ad
acciambellarsi fra le sue gambe. Era buffo veder la sua testa
triangolare poggiata fra le caviglie dell’uomo come un curioso
monile dagli enormi occhi di smeraldo.
«Hai sempre avuto un debole per gli uomini navigati e più
grandi di te che però, a differenza tua, non hanno fatto troppi
passi avanti in carriera perché rigettavano gli schemi. Ti
affascina il loro lato ribelle e moralmente non impeccabile, specie se
sono coscienziosi e attenti».
«Anche se fosse, non è così “navigato” quanto credi» obbiettò.
«Da come lo descrivi avrà almeno quarantadue anni».
«Ne ha trentotto».
Il cucchiaino di Brando stridette sul vetro impiastricciato di panna e menta.
«Cosa? Scherzi?» esclamò sorpreso. «Ora ho
capito perché i rapporti non li stili tu: come capo non sai
descrivere i sottoposti, figuriamoci i casi... E quando ti imponi su
quei poveretti, loro notano le tue capacità di leader, credono
di esserti indispensabili, smettono di ritenerti la subdola
arrampicatrice sociale votata alla grandezza del sistema che in
realtà sei e si accorgono pure di quante curve sei attrezzata.
Solo allora gli concedi di servirti. E se sono carini, ne fai i tuoi
“uomini migliori”, coloro che si prodigano per compiacere a
qualsiasi costo ogni tuo sacro ordine» aggiunse ironico,
spalancando le braccia con fare teatrale.
«Mi stai dando della dominatrice, per caso?» domandò agitando in aria la posata mimando una frusta.
Brando, di tutta risposta, prese una grossa cucchiaiata di dolce e se
la infilò in bocca, resistendo stoicamente alla fitta di gelo
che gli attraversò la testa.
Lei faticò non poco a mandar giù il boccone, rischiando
di soffocarsi mentre lo guardava serrare le palpebre e sudare freddo,
letteralmente.
«Bravo, schiavo. Soffri, soffri!» lo incitò,
sfoggiando l’aria più perfida che le riuscì di
comporre per mascherare le risate. «Compiaci la tua signora con
il tuo dolore! Mangia ancora!»
Preso dal gioco, Brando inghiottì un altro pezzo di brownie
gocciolante e, dopo aver spostato il gatto, scivolò giù
dal divano, inginocchiandosi di fronte all’amica. Si
prostrò tendendo le braccia, bofonchiando litanie senza senso,
col solo risultato di trovarsi a sputacchiare parte del proprio
capolavoro sul pavimento, il mento sbrodolato di frappè e fitte
lancinanti che gli martellavano la radice del naso. La farsa
durò una manciata di secondi, poi scoppiarono a ridere a
crepapelle e desistettero dal proseguire, trovandosi già
abbastanza ridicoli.
«Fai così quando interroghi i tuoi sospettati? Gli fai
gelare le cervella?» rise lui, riuscendo a mettersi seduto.
«Cervella, stomaco, polmoni, intestino… come mi sento ispirata» elencò sventolando il cucchiaino.
Micio ne seguì le evoluzioni, la testa triangolare che oscillava
da un lato all’altro simile ad un metronomo. Aggiustò ben
bene le zampe posteriori e con uno scatto si allungò flessuoso,
arrotolandosi attorno al braccio di Alexia. Le fusa si mescolarono al
suono ruvido della lunga lingua scura sul metallo.
«Ma insomma! Sei un gatto, non una sanguisuga!»
protestò lei, tentando di scrollarselo di dosso senza successo.
Più la donna cercava di convincere l’animale a scendere,
più sentiva la stanchezza montare. Gli sbadigli presero ad
aumentare di numero, accompagnando la pesantezza delle palpebre.
«Colpa tua: l’unico padrone di questa casa è lui,
non accetta che gli si usurpi impunemente il trono»
replicò Brando prendendole di mano gli ultimi residui del dolce.
«Su, tesoro. A nanna. Tu domani vuoi andare a lavorare, io devo
ripassare tutte le mie ricette migliori e controllare che il mio kit
personale sia in ordine per il concorso».
Si fermò sulla porta della cucina per prendere un profondo respiro.
«Trentasei ore. Solo trentasei ore e si comincia» annunciò cupo, posando le coppe nel lavandino.
«E… il tuo vero tesoro, ci sarà?»
domandò Alexia, alzandosi a fatica dal divano, divenuto ormai
troppo invitante.
Gli occhi scuri dell’amico s’intristirono per un istante, virando subito ad una sorta di arresa tenerezza.
«No. Sicuramente vedrà la puntata la sera, ma è in
un brutto momento altrimenti sarebbe qui e non a Otisa».
«Vi siete sentiti?»
Appoggiato al bordo dell’acquaio, Brando annuì.
Normalmente sarebbe inorridito di fronte al macello di ingredienti
sparsi e stoviglie e attrezzi da lavare che ancora occupavano la
cucina, però quel pensiero glielo impediva.
«Oggi pomeriggio. È in ansia per me, dice di avermi
sentito molto teso. Gli ho detto che era solo una sua impressione, che
doveva concentrarsi su quel che ha da fare per tornare prima,
perché non voglio riempire la coppa di champagne e poi berla da
solo. Insomma, che gusto ci sarebbe a non festeggiare insieme la mia
somma e conclamata magnificenza?» scherzò asciugando le
mani in un canovaccio.
«Guarda che ha ragione, sei teso. Me ne accorgo persino io che
sono a pezzi» sbadigliò raggiungendolo e abbracciandolo da
dietro. «Devi dormire anche tu o non sarai al top per la
gara».
L’uomo si rigirò fra le sue braccia e la strinse, posandole un bacio sulla fronte.
«Tu ninna amme? Tì? Tì, Lix?» pigolò
come quando erano piccoli e pretendevano di dormire insieme in ogni
occasione.
«Scodartelo, Bado, sei
grande. E grosso per giunta» sghignazzò assestandogli un
pugnetto sul ventre non esattamente piatto. «Sono sopravvissuta a
questi due giorni agognando una sacrosanta dormita, non voglio che
diventi anche l’ultima!»
Writer's Corner
Sono in pausa da un po' e torno
con questa storia che mi piace definire "a tre mani": due sono mie e la
terza del creatore della serie Tales of Celestis,
Carlos Olivera. Seguo da tempo le sue storie e quando si è
presentata l'occasione (o l'abbiamo creata, chissà!) di
realizzare uno spin-off con alcuni dei suoi personaggi e altri miei,
abbiamo deciso che fosse il caso di portarla avanti. Questo è il
risultato. Una storia senza pretese, se non quella di ampliare
ulteriormente l'universo di Celestis attraverso un po' di dolci, pasticci e qualche sfumatura rosa. Per cui, se il mio stile vi
sembra un po' strano, è solo perché mi sono attenuta a
quello originale, per quanto possibile. E se qualcosa non vi è
chiaro, alzate la mano e chiedete. O andate a leggere le storie di
Carlos.
Buona lettura!
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Capitolo 2 *** Twisted Rolls ***
The L Factor_Cap. 2
2. Twisted Roll
Girelle
di pasta lievitata al mostro dolce con sottile variegatura a spirale di
gelatina di mosto cotto, ripiene di mandorle tritate, Libea, marmellata
di frutti di bosco, briciole di zucchero grezzo e burro.
Il tutto servito con una glassa a base di latte, burro di mandorle, mandorle caramellate e mirtilli rossi.
A svegliarlo fu lo zampettare del
gatto sulla sua mano e un accenno di chiarore oltre la tenda della
finestra. Con immensa fatica sollevò le palpebre gonfie di
sonno; non dovevano essere ancora le sei. Dopo il dolce con Alexia non
era andato a letto, ma si era nuovamente rintanato in cucina per dare
una pulita e studiare. Il “Grand Prix de Celest(is)e
Pâtisserie” incombeva e aveva un estremo bisogno di idee
nuove per riuscire a vincere la più grande gara mondiale di
dolci. Aveva impiegato quasi sette anni per riuscire a superare le
selezioni più spietate che dei banchi da lavoro potessero
ospitare. Mesi e mesi ad affinare tecniche, manualità, gusto,
senso estetico, a studiare nuove combinazioni di sapori, a rispolverare
vecchie ricette per poi reinventarle daccapo. Aveva dilapidato alcune
migliaia di kylis in libri, attrezzature, ingredienti particolari,
corsi di specializzazione e viaggi per scoprire tutto quello che una
comune – anche se blasonata - scuola di pasticceria non avrebbe
mai potuto dargli.
Passò il pollice
sull’anello che gli cingeva l’anulare, una fascetta
d’oro bianco lavorata come fosse fatta di granelli di zucchero.
Il pegno d’amore della sua dolce metà assente.
Sbadigliò stiracchiandosi, imitato dal gatto.
«Niente sentimentalismi,
signor Pellegrini» ribadì. «Qui abbiamo la gara
della vita da vincere e nessuno farà sconti per un po’ di
sospiri e due irresistibili occhioni lucidi e imploranti amore. Dico
bene, Prince Great Mighty Azul-Gray Cloud on the North Sea di Taveja
Valley?»
Lui scosse la testa e prese a leccarsi una lunghissima zampa.
«Se fai così, ti
infilo nella ciambella alle pere. E tu sai che potrei farlo,
sottospecie di girella pelosa» minacciò, puntandogli
contro l’indice.
Micio interruppe la toeletta per
annusare svogliatamente il dito. Non scoprendo nulla
d’interessante, riprese a lisciare le fluenti ciocche
grigio-azzurre.
Brando fu colpito da un’illuminazione.
«Girella… ma sì!» sorrise agguantando l’animale e scaraventandolo sul divano.
Nel giro di un paio di minuti era
già all’opera sulla colazione. Aveva deciso di preparare
le Twisted Rolls. Grazie a quei dolci, Brando aveva staccato il
biglietto per la finalissima a Kyrador: quattro giorni di pasticceria
ad altissimi livelli, sbocciata tra le mani di appassionati desiderosi
quanto lui di sfondare. In premio, un assegno da centomila kylis per
avviare la propria attività, la pubblicazione di un libro,
diversi contratti come testimonial per i migliori fornitori di
attrezzature e ingredienti, oltre ovviamente al trofeo e alla gloria.
Scosse la testa, tornando a
concentrarsi sulle girelle. Terminò di impastare la base e la
mise a riposare, dopo averle applicato un gonflage.
Era un incantesimo piuttosto banale, una sorta di bolla, che tratteneva
l’anidride carbonica e il calore al suo interno e agiva
sull’acidità della pasta, accelerandone la lievitazione.
La seconda parte della preparazione era la più complessa.
Fece ridurre alcuni mestoli di
mosto in una casseruola, allungandoli con acqua e mescolandoli fino a
quando raggiunsero la giusta consistenza. Aspettò che
intiepidisse e li passò con un mixer a immersione.
Creare le strisce di mosto cotto
era un’autentica sfida perché dovevano risultare gommose e
sottili a sufficienza per poterle arrotolare insieme alla pasta, senza
però che sovrastassero il gusto del ripieno. Inoltre, la
gelatina doveva mantenersi umida fino al termine della cottura, senza
perdere elasticità e lucentezza. E per riuscire
nell’impresa, c’era un solo sistema: l’incantesimo Càigo
insegnatogli dallo zio Giovanni, suo mentore. Non era certo si
chiamasse davvero così, giacché lo zio aveva la brutta
abitudine di storpiare le parole. Ciò nonostante, si trattava di
un incantesimo talmente vecchio, perduto nella notte dei tempi, che
difficilmente ne avrebbe potuto scoprire il vero nome.
Stese un paio di cucchiaiate di
mostro appena frullato in uno stampo per le mattonelle di fondente,
controllando che non inglobasse bolle d’aria. Prese un bel
respiro, puntò pollici e mignoli sugli angoli e pronunciò
il sortilegio. Il liquido emise una sottile nebbiolina che andò
subito a rapprendersi sulla superficie, mentre questa vibrava come se
fosse colpita da una sottile pioggerella. Col passare dei minuti, i
bordi cominciarono a tremolare sempre meno, addensandosi. La striscia
sarebbe stata pronta una volta che fosse stata tutta completamente
immobile. Brando raddoppiò la concentrazione, mantenendo il
respiro il più regolare possibile. Bastava poco a mandare a
monte tutto.
«Buongiorno, sublime creatore!» strillò con voce acutissima una donna.
Il nastro di gelatina scura
s’impennò e schizzò imbizzarrito verso il soffitto,
mancandolo di un nulla e ricadendo miseramente sul pavimento in una
chiazza molliccia e appiccicosa.
«Sei l’unica persona
che preferirei non vedere di prima mattina, Feng, lo sai?»
sbuffò Brando scrollando le spalle davanti all’ologramma
apparso sul frigorifero.
Sullo schermo virtuale, un pallido volto a cuore ebbe un sussulto indignato.
«Cosa? Io ti chiamo per
farti i miei incoraggiamenti di rito, quelli dalla comprovatissima
capacità di portare fortuna, e tu mi tratti così? E io
che mi preoccupo per te! Razza di ingrato… Ma sai quanto costano
le chiamate da dove sto adesso?» sbottò, stringendo gli
occhi a mandorla fino a renderli due fessure nere di kajal e mascara.
«Se continui così, Strega Balcocca, un patrimonio» sogghignò cominciando a pulire il pavimento con uno straccio.
Sentendosi chiamare a quel modo,
la donna borbottò stizzita. Era un vecchio scherzo, che risaliva
al loro primo corso di pasticceria, quando per chiarire a tutti cosa ne
pensasse di lei e dei suoi dolci, l’insegnante l’aveva
paragonata alla fattucchiera incapace e sfortunata di un programma
contenitore per bambini.
«Maleducato-cafone-sgonfia
pastarelle-re delle torte insipide-che ti si bruci il caramello»
disse tutto d’un fiato.
Le labbra di Brando si curvarono
in un sorriso rivolto al pavimento. Doveva ammettere che
quell’improvvisata, sebbene avesse prodotto effetti disastrosi,
gli era utile ad alleggerire la testa dall’ansia.
Alle sue spalle, la donna fingeva d’ignorarlo anche se lo spiava con la coda dell’occhio.
«Feng-Lin?» chiamò, sedendo sui talloni.
«Che vuoi?» sibilò.
«Grazie» sospirò riconoscente, voltandosi appena.
Compiaciuta dall’essere
riuscita nel proprio intento, anche se solo in parte, Feng si
rilassò. Il largo sorriso che gli rivolse era sottolineato non
solo dal rossetto color ciliegia e dal finto neo sopra l’angolo
sinistro della labbra, ma anche da alcune briciole che Brando riconobbe
come gli ultimi resti di una pila di kourabiedes1 al pistacchio.
Ertemios dev’essere molto felice, se li ha preparati, considerò.
Il compagno di Feng era un tipo
poco incline ai festeggiamenti, e solo nelle rare occasioni in cui
cedeva all’allegria preparava qui dolcetti tipici. La prova
arrivò quando lei ne inghiottì uno senza quasi masticarlo.
«Ma ti pare, Rotolino di Panna?
Sei il nostro orgoglio!» ciancicò. «Verremo tutti
alla finale, abbiamo già il biglietto. Per cui, se vedi qualche
mala parata, facci sapere che veniamo a corrompere i giudici. Aditi
s’è comprata un vestito che è più quello che
si vede che quello che copre. Sembra una caramella incartata male. E
alla squinzia là… come si chiama la sgallettata di
“Cake Dream”?»
«Robin Gellar» rispose, spargendo pizzichi di Libea sulla marmellata di frutti di bosco.
«Ecco. A lei può
pensarci Billy Roy: le da una ripassata col fondente e la crema al
burro, e vedrai come cambia idea se ti dà contro! Ma tanto non
servirà, sei troppo bravo. Guarda che lì non ne hai messi
abbastanza» soggiunse indicando un punto che l’amico
provvide a coprire di mandorle e zucchero grezzo.
Rimase un istante ad osservarlo
aggiungere sottili veli di burro, rapita dalla velocità e
dall’eleganza dei movimenti, prima di riprendere a parlare.
«Mi raccomando Brando, stai attento agli altri concorrenti».
«Hai appena detto che sono il migliore. Pensi mi aggrediranno con spatola e sac à poche?» ridacchiò.
«No, non è per
quello. Le selezioni erano aperte anche ai non maghi. E sai cosa sta
succedendo in giro» disse Feng, scrutandolo da sotto la fitta
frangia nera. «Non farci stare in pensiero. Un trofeo non vale
una vita».
Brando terminò di avvolgere la prima spirale di pasta e gelatina attorno al ripieno.
«Credi potrebbe comparire un
EDA durante la gara?» domandò, fingendo domandarlo
più per cortesia che per effettiva preoccupazione.
In realtà, l’opzione
lo spaventava non poco. Quanto accaduto poco tempo prima al luna park
l’aveva impensierito, anche se la MAB aveva urlato ai quattro
venti che si era trattato di un evento occasionale, ben lungi dal
ripetersi.
«Spero proprio di no ma… permetti che un pensiero ce lo faccio?»
«Senti, se succede, giuro
che me la do a gambe. Promesso. Ma se è uno piccolo e debole,
prima lo lavoro come una pasta lievitata e poi lo sbatto in forno.
Vittoria honoris causa assicurata» sghignazzò,
accigliandosi mentre posava una nuova striscia di gelatina sopra un
altro panetto d’impasto.
«Fai poco lo spiritoso,
Brando. Feng ha ragione» replicò torva Alexia comparendo
sulla porta ancora in pigiama.
A giudicare dalle fitte pieghe
della stoffa e dalle occhiaie, non aveva ancora recuperato il sonno
perduto. Le sarebbero servite almeno un altro paio di buone nottate e
colazioni degne di quel nome per rimettersi in sesto.
«Buongiorno, Generalissima» esclamò l’altra facendole il saluto militare.
«Ciao, Feng.
Com’è Colmore Bay?» domandò sottraendo lo
sgabello a Brando, che si limitò a guardarla con bonario
rimprovero.
«Vecchi che perdono la
dentiera ogni cinque minuti mentre passeggiano sul lungomare con
badanti superfighe che potrebbero essere le pronipoti e bambinoni
palestrati coltivati nel krylium in cerca di una poppata tra una
sessione e l’altra. Sono molto indaffarata con le loro merendine,
tu capisci» sospirò dandosi colpetti sulle spalle
presumibilmente indolenzite.
Feng, Ertemios e alcuni amici di
Brando avevano rilevato una caffetteria-pasticceria-tavola calda lungo
il litorale di Fhirland, sull’emisfero opposto a quello di
Caldesia. Colmore Bay era una località nota per i soggiorni
geriatrici, che di recente viveva una seconda giovinezza grazie alla
sua riscoperta come campo d’allenamento per sportivi estremi,
grazie alla varietà della conformazione costiera e ai venti che
la battevano pressoché quotidianamente. Brando aveva preferito
declinare l’offerta di seguirli per raggiungere il suo obbiettivo
e restare accanto alla persona che più amava, oltre ad Alexia e
Micio.
«Pensavo facesse freddo da
quelle parti, per uscire in mare» commentò la Stirling
cercando di rubare una cucchiaiata di mosto liquido, ma il pasticcere
allontanò rapido la terrina, lasciandola con un palmo di naso.
«Puoi giurarci: stamattina
c’era la neve sulla spiaggia! Ma ci sono nuovi modelli di tuta
atermica per il surf e la vela invernale che…»
«Signorine, sto lavorando
per vincere un campionato del mondo! Scusate se è poco e dovrei
essere io l’oggetto delle vostre discussioni!» le
interruppe lamentoso Brando, disponendo le ultime girelle sulla placca
da forno.
Le due si scambiarono un’occhiata virtuale.
«Quant’è nervoso… ma è in quei giorni?» finse di bisbigliare la ristoratrice.
«Può essere. Dovrei
controllare in bagno» ridacchiò Alexia, succhiando un
coltello sporco di burro che era riuscita a sottrarre all’amico e
che aveva cosparso copiosamente di zucchero grezzo.
«Stacco la connessione?» minacciò lui, agitando un cucchiaio grondante latte e burro di mandorle.
Feng desistette, dopo tutto aveva
già ottenuto ciò che voleva, ovvero dare una scossa
all’amico e dopo un rapido scambio di saluti, lamentandosi dei
conti della successiva bolletta, chiuse la comunicazione. Alexia, con i
gomiti appoggiati al tavolo, dondolava i piedi nel vuoto e rubacchiava
ingredienti qua e là, in attesa che la prima infornata di
Twisted Rolls fosse pronta per la colazione.
«Stasera, partitella a
gelharball?» propose più tardi, mentre infilava la giacca
della divisa. «Feng-Lin ha ragione: hai bisogno di distendere i
nervi e un paio di schiacciate sono quello che ci vuole».
«L’ultima volta mi hai
stracciato. Non so se ho voglia di ripetere l’esperienza, anche
perché domani vorrei arrivare agli studi televisivi col morale
alle stelle, non sotto le suole» mugugnò Brando, chino per
l’ennesima volta sulla lista degli arnesi e degli ingredienti del
suo kit da pasticceria.
***
«Ti lascerò vincere con un punteggio vergognoso. Contento?» propose infilando lo spesso guantone da gioco.
A differenza dei vessel, che
fungevano da apparati sostitutivi per la magia, i guantoni per
gelharball erano semplici supporti di stabilizzazione. Si giocava in
due: ciascun giocatore creava una sfera di energia che veniva lanciata
verso il palo - in gergo tube
- che l’attirava a sé, assorbendola o facendola gravitare
vorticosamente attorno al proprio asse, per poi rispedirla al giocatore
avversario che doveva riceverla e rispedirla indietro. Lo stesso
avveniva contemporaneamente con la biglia dell’altro
partecipante. Alla base del tube
era fissato un congegno che calcolava i punteggi sulla base della
difficoltà dei tiri e la loro forza, la velocità
d’esecuzione e lo scarto di tempo tra le battute; se la sfera
superava il limite delle corde gravitazionali, si annullava e venivano
sottratti cinque punti a chi aveva mancato la ricezione. La vittoria
era appannaggio di chi raggiungeva per primo i settanta punti.
All’apparenza si trattata di un gioco relativamente semplice,
simile all’antenato terrestre, il tetherball, e per questo era
snobbato in favore del chandra.
Alexia e Brando però non erano mai stati particolarmente inclini a uniformarsi alla massa.
«Che magnanimità.
Pensi davvero di riuscire a farmela anche stavolta?»
domandò baldanzoso l’amico.
«Posso riavere il Brando
isterico e depresso di stamane? È più facile essere
gentile con un derelitto» lo stuzzicò.
Lui ci pensò su, la lingua fra le labbra arricciate mentre finiva di allacciare il proprio guanto, e fece segno di no.
Micio era disteso su una sdraio
nell’angolo più lontano della terrazza. A differenza degli
avi, non provava grande interesse per quegli oggetti tondi e luminosi,
specie dopo che uno l’aveva investito a pochi giorni dal suo
arrivo a casa. Preferiva seguire i movimenti dei padroni, agitandosi
quando uno di loro gli arrivava troppo vicino.
«Globe one!» chiamò Alexia generando la propria sfera, di un intenso color rubino.
«Globe two!» fece eco Brando, facendone comparire una di un tenue azzurro.
«Quanto sei
romantico…» commentò languida lei, riconoscendo il
colore degli occhi di una certa persona.
«Sono un’anima
sensibile, a differenza di te. Mostro ciò che più
apprezzo della persona che amo» replicò con
un’alzatina di spalle. «O volevi dire che lui era vestito
così, oggi?»
«Lui chi?»
Brando passò una mano tra i
capelli, scompigliandoli, e inclinò la testa verso la spalla
fingendo di abbassare inesistenti occhiali, in una posa che era solo
una pallida imitazione dell’originale. La donna
s’irrigidì, imbronciandosi. Alludeva a una delle rare foto
della sua squadra che aveva portato a casa, in particolare quella
scattata per scherzo da un tecnico di laboratorio a Cane.
«Engage!» strillò indispettita, lanciando in alto la sfera.
«Permalosa» rise imitandola.
Presero a battagliare colpo su
colpo. A dispetto del fisico un po’ in sovrappeso, Brando
sfoderava un’agilità di tutto rispetto, che unita alla
forza dei colpi spesso metteva in difficoltà l’avversaria.
Dal canto suo, Alexia poteva contare su una tecnica più efficace
che sfruttava per imprimere maggior velocità ed effetto ai tiri.
I globi piroettavano rasenti l’asta, avvitandosi e cambiando
velocità, o sparivano al suo interno per poi schizzarne fuori
con traiettorie imprevedibili. I contendenti correvano da un lato
all’altro della terrazza per intercettarli, intralciandosi e
spintonandosi a vicenda nel tentativo di segnare il punto vincente. I
sensori sul perimetro di gioco avevano indicato solo una sfera a testa
andate perse, e il display segnalava quarantun punti per Brando e
trentanove per Alexia. I due globi lasciavano scie colorate
nell’aria del crepuscolo che si andava scurendo.
Gli sfidanti grondavano sudore,
avevano il fiatone e un sorriso carico di agonistica cattiveria
stampato in faccia. Nessuno dava segno di voler cedere a prescindere ai
muscoli che bruciavano, dagli arti che s’indurivano o dai brividi
che la brezza serale cominciava a scatenare. Il gatto si era
addormentato a pancia all’aria, cullato dal fruscio crepitante
delle battute.
Poi, il tube
s’illuminò e restituì un’unica sfera.
Capitava quando l’energia delle biglie si equivaleva: queste
finivano per mescolarsi e fondersi. Brando e Alexia si buttarono
all’unisono in ricezione. Il colpo strappò il guantone
dalla mano dell’agente e finì dritto in faccia al
pasticcere, che crollò a terra come un sacco vuoto. Il rumore
della caduta svegliò di soprassalto Micio che, terrorizzato,
schizzò via dalla sdraio.
«Assassinaaaaaa!» urlò Brando scalciando e premendo le mani sulla faccia.
«Non è colpa mia. E smettila di frignare, fammi vedere» disse inginocchiandosi al suo fianco.
Le occorse un bel po’ per
convincerlo che non avrebbe corso alcun rischio permettendole di dare
un’occhiata, tanto che Micio ebbe il tempo di calmarsi e tornare
indietro, tendendo il collo già lungo prima di muovere ogni
passo. Infine, decise che il pericolo era cessato e poteva tornare a
poltrire sulla sdraio.
«Ho ancora il naso? Ce l’ho?» pigolò terrorizzato l’uomo.
La sola idea di aver riportato
danni a uno dei suoi migliori strumenti di lavoro a poche ore
dall’inizio della kermesse lo spaventava a morte, più che
avere di fronte un EDA inferocito.
«Il naso sì… è un altro il problema…» balbettò Alexia sgranando gli occhi.
«Cosa? Cosa?!» incalzò, le mani che tremavano a pochi centimetri dalla faccia.
Non osava più toccarsi per
paura di ciò che avrebbe potuto scoprire. E l’espressione
impaurita dell’amica non faceva che accrescere il timore di
essersi procurato un danno serio, che avrebbe compromesso la
partecipazione al concorso. Le afferrò il braccio, supplicandola
con lo sguardo di dirgli la verità.
«Beh, ecco… hai… tu hai… hai… ancora la tua faccia» concluse drammatica.
Rimase a fissarla per diversi secondi, durante i quali la mandò silenziosamente e cordialmente al diavolo.
Poteva stare tranquillo: per quanto violento, l’impatto aveva lasciato solo un lieve rossore su naso e zigomi.
«Su, diamoci una mossa o ti
verrà un bel livido se non applichiamo un incantesimo lenitivo e
del ghiaccio. Non ho intenzione di prestarti il mio fondotinta per
farti bello domani» lo incitò aiutandolo a mettersi seduto.
«Lix?» bofonchiò tastando con attenzione il setto nasale.
«Sì?»
L’afferrò per un braccio e le diede uno strattone, facendola finire lunga distesa al suo fianco.
«Piuttosto che sfogarti sul
sottoscritto, vedi di andare a letto con quel tizio. Smaltiresti anche
la tua, di tensione».
***
«Manutenzione dell’accidenti» imprecò Lucas,
svoltando lungo Baharamine Boulevard. «Ci toccherà fare il
giro sulla sopraelevata per sperare di arrivare in ufficio in
orario!»
«Non vedo quale sia il
problema. Il traffico miete vittime in tutti gli strati sociali di
Kyrador. E non vengano a dirmi che abbiamo il miglior sistema viario
del pianeta, perché è una balla. Quindi, non possono
farci nulla».
«Di un po’, ma sai con chi abbiamo a che fare?»
«Con il Direttore
dell’Anticrimine Dietrich Owens e le sue tiritere sul rispetto
delle regole e degli orari?» ghignò Cane, portandosi alle
labbra il bicchiere di carta.
Il profumo del caffè raggiunse Lucas, facendogli gorgogliare lo stomaco nonostante avesse già fatto colazione.
«No, con Miss Mi Faccio l’Aperitivo Col Vampiro E Se Arrivo In Ritardo Di Dieci Secondi Qualche Testa Salterà» dichiarò sottovoce, parcheggiando a lato della strada.
In quelle rare occasioni in cui
andavano a prendere Alexia a casa, lei non mancava di far notare mal
sopportasse i ritardatari e in quel periodo, presi com’erano
dall’indagine, tardare di un solo minuto negli spostamenti o
nella raccolta d’informazioni poteva fare la differenza tra la
soluzione del caso e un catastrofico disastro.
«Se ti sente sì, che
farà saltare una testa: la tua!» rise Cane, scendendo per
zittire quelle lagne di prima mattina.
Se poteva, preferiva dare
l’avvio con calma alla giornata, limitando i pensieri a cose
semplici e positive. E per quel giorno il meteo garantiva un bel sole e
temperature piacevoli, che avrebbero aiutato a sopportare meglio le ore
di attesa nell’appartamento; non aveva trovato coda nella
caffetteria per poter acquistare il caffè; poteva contare su un
autista dalla guida fluida e prudente che non gli aveva fatto
rovesciare nemmeno una goccia; era quasi certo di staccare ad un orario
decente per passare a ritirare una pila di abiti perfettamente puliti e
stirati in lavanderia ed una sontuosa cena da scapolo al “Fellon
Take Away”. Inoltre, quella sera sulla CKT-24 avrebbero trasmesso
la prima puntata del “Grand Prix de Celest(is)e
Pâtisserie”: quale modo migliore per togliersi dalla bocca
l’amaro di quel che avrebbe visto, che una bella gara di torte?
Sapeva che anche il Capitano
Stirling condivideva quel sistema di gestione del tempo
extra-lavorativo - di tanto in tanto aveva accennato a partite di
gelharball, metodi di relax, shopping, persino incontri con amiche - e
non poteva nascondere che la cosa gli suscitasse un certo piacere.
Tuttavia, Pierre non sembrava intenzionato a mollare la presa e, abbassato il finestrino, continuò l’invettiva.
«È anche colpa tua!
Ti avevo detto di passare tu a prenderci, invece hai preteso che
facessi io lo chaffeur. Ho dovuto fare il giro più lungo, visto
che tu e il Capitano abitate in parti della città lontanissime a
me! Due svincoli della sopraelevata erano chiusi in entrata per lavori,
abbiamo trovato un trasporto eccezionale su Kelton Road, rallentamenti
vari… i pulmini delle scuole! Se avessimo fatto come
dicevo…» ma Cane non stava ascoltando.
Dal grande portone vetrato era
uscita la Stirling e alle sue spalle un uomo dai capelli neri e ricci
che non aveva mai visto prima. Portava una borsa a tracolla
dall’aria piuttosto pesante e una grossa valigetta. Non era
vestito come uno della MAB o di qualche agenzia governativa, doveva
trattarsi di un civile e, a giudicare dagli abiti casual non troppo
ricercati, difficilmente occupava qualche ruolo di peso
nell’élite cittadina. Parlavano tra loro con aria molto
seria, preoccupata. Si fermarono al cancello che chiudeva il giardino
dell’immenso residence e Alexia gli toccò con la punta
delle dita lo zigomo destro. Lui rise facendo una smorfia dolorante.
«…e hai anche voluto
fermarti a prendere un caffè! Non potevi aspettare di arrivare
alla MAB?» protestò vivacemente Lucas sporgendo la testa
dall’abitacolo.
«Stai zitto, Pierre» l’ammonì piantandogli la mano sulla faccia.
Le cose stavano prendendo una
piega inaspettata e non voleva perdere un solo istante di ciò
che stava accadendo: da dove si trovava, Cane aveva l’impressione
che la Stirling e quel tizio si stesero baciando.
«Che c’è?» bofonchiò Lucas contro il suo palmo.
«Chiudi il becco e rimettiti al volante, mantellina gialla» ringhiò.
Bastò quel vago accenno a far ritrarre il collega come una lumaca nel guscio.
Cane rimase appoggiato alla
portiera, studiando la scena con apparente distacco. Non poteva sapere
che Brando, fronte a fronte con Alexia, si stava raccomandando
vivamente circa la spesa da fare per il frigorifero di casa, in
particolar modo quali scatolette acquistare per Micio, che in quel
periodo dell’anno aveva bisogno di una dieta specifica per
evitare che perdesse troppo pelo (preferiva evitare di trovarselo
addosso o peggio, nel kit da pasticcere). Visto quanto ne osannavano lo
splendore i vicini, non amava l’idea di fargli sapere che il gatto di
Alexia si rimpinzasse di tugga:
si trattava di una crema di ceci, fave, uova e interiora di pesce
macerate con erbe aromatiche tipica della cucina di Khariya di cui la
razza era originaria. Ne acquistava una marca d’importazione in
una bancarella tradizionale khariyana sul piazzale dalla Magic Arena,
tutt’altro che lussuosa e regale. E poi, non avevano mai detto
neppure a Micio da dove arrivasse quella deliziosa pappina beige: per
un Leglar Blue di alta genealogia, nato in uno degli allevamenti
più prestigiosi di Amaltea, sarebbe stato un trauma.
«Solo quelle con la fascetta
verde, mi raccomando. Se non ci sono, lascia perdere. Nelle altre non
c’è il pesce ed è fondamentale» si
raccomandò per la centesima volta.
«Brando, sono due anni che
tua madre me l’ha regalato… so cosa mangia Prince»
sospirò pizzicandogli entrambe le guance e tirandoselo di nuovo
vicino per auguragli l’ennesimo in bocca al lupo per la prima
serata di gara.
Cane non riuscì a sentire
nulla del discorso tra il Capitano e il misterioso accompagnatore,
tranne il saluto finale dell’uomo, che levò al cielo le
mani in segno di vittoria dopo averle dato un sacchetto di carta:
«Contaci, Lix! Tornerò vincitore per festeggiare col mio tesoro!»
Lei scoppiò a ridere, una
risata realmente divertita e sincera, che in ufficio avevano udito in
occasioni tanto rare da poterle contare sulle dita di una mano.
Non sembra neppure la stessa persona, considerò Cane, avvertendo una strana contrazione alla bocca dello stomaco.
Buttò giù una lunga
sorsata di caffè, ma la sensazione di un chiodo nelle viscere
non si alleviò, anzi. Gli sembrò persino di percepire una
certa acidità risalirgli in gola.
«Qualcosa non va, Cane?» domandò Alexia raggiungendo l’auto.
L’agente sfoderò un sorriso cinico sotto gli occhiali da sole.
«Tutto a posto, Capitano» rispose dopo essersi passato rapidamente la lingua sulle labbra.
Aveva bisogno di trattenere ogni singola stilla di quell’aroma se voleva mantenere la calma.
«Eccetto il traffico!»
berciò Pierre dal sedile di guida e completamente nevrastenico.
«Oggi è da pazzi! Andiamo?» supplicò,
augurandosi che la presenza della Stirling facesse desistere il collega
da eventuali rappresaglie.
«Per me?» chiese lei, indicando il grosso bicchiere di carta.
«Ha già la sua
colazione, capo» rimbrottò, indicando il sacchetto che
teneva in mano e dal quale arrivava il profumo delizioso delle Twisted
Rolls. «Questa spetta agli umili e solitari sottoposti».
Alexia lo fissò perplessa
salire in macchina senza aggiungere una parola e, soprattutto, senza
aprirle la portiera come suo solito. Pareva che insieme alla cravatta
avesse dimenticato la consueta, melliflua galanteria con cui la
trattava nel proprio appartamento. E se per la prima si trattava di una
prassi, per l’altra era un’assoluta novità.
Sento che oggi sarà una giornataccia, pensò tra sé.
1 Kourabiedes: piccoli biscotti greci al burro.
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Capitolo 3 *** Far Amal ***
The "L" Factor_Cap. 3
3. Far Amal
Crema
al tiramisù speziata con gocce di pepe nero pralinate, liquore
al cioccolato racchiuso in una cialda di Libea, il tutto ricoperto da
una colata di cioccolato spruzzato di granella di caffè,
cannella e paprika, e chiuso alla base da un tappo di biscotto.
La collaborazione dell’Anticrimine funzionava a meraviglia. Le
informazioni arrivavano con una certa solerzia e Railey sembrava
tutt’altro che propenso a remar loro contro. Tuttavia, in due
settimane non erano andati molto più in là di quando
erano entrati nel covo di Valakis per quanto riguardava degli aspetti
sostanziali dell’indagine.
Alexia sbuffò, allontanando in malo modo alcuni plichi che
franarono frusciando sulla scrivania, mancando di un soffio il
sacchetto con l’ultima girella. L’aveva conservata per la
pausa del pomeriggio e certo non le andava di mangiare qualcosa che
aveva spiaccicato a mo’ di frittata già dal mattino.
«Problemi?» chiese Lucas che, seduto alla propria postazione, le dava le spalle.
«Si è avviata la sessione di crittografia dati.
Userò il terminale di Cane finché il mio non si sblocca.
Voglio cercare tra i file catastali per scoprire se qualcosa lega le
proprietà di Timur e i laboratori della Lilith che abbiamo
individuato. Tu insisti con i centri trasfusionali. Da qualche parte
dovranno pure sottrarre il sangue e il mercato nero non può
offrire le quantità necessarie, l’ha confermato anche
Valakis. Per non parlare del fatto che i maghi disposti a rifornirli di
propria iniziativa non possono essere così tanti, nemmeno oltre
confine».
«Giusto. Forse però è meglio usare il computer di
Carmy o aspettare che il sistema si riavvii: l’ultima volta che
ho dato un’occhiata al desktop di Cane sembrava ci fosse esplosa
una granata! C’erano file ovunque, era impossibile trovare i link
ai programmi o alle cartelle… Non so proprio come riesca a
lavorare» sghignazzò.
«Non voglio impiegare connessioni che incorporino i codici
identificativi di Carmy» dichiarò la Stirling, sedendo
all’altra postazione e attivando lo monitor virtuale.
«Seminare informazioni anche minute nella rete potrebbe metterla
in pericolo più di quanto già non sia e non possiamo
permetterlo. Quindi l’unica cosa che…»
La donna si zittì di colpo.
«Che…?» la sollecitò l’altro.
Silenzio. E la luce dello schermo di Cane che arrivava a velare l’angolo del suo.
«Capitano?» chiamò voltandosi e ciò che vide lo raggelò.
Una volta sbloccata la schermata con il logo della MAB in campo blu,
Alexia non era stata investita dal marasma paventato da Lucas. Era
apparsa un’immagine tridimensionale che l’aveva lasciata di
sasso: una donna dai lunghi capelli biondi era allungata su una grande
poltrona candida, la testa voltata da un lato a fingere disinteresse
per l’osservatore. Le mani stringevano i braccioli di legno
intarsiato, dando l’impressione che fosse lì lì per
alzarsi e andarsene. Indossava una guêpière di tulle
trasparente e nastri in raso nero, con slip e calze coordinate; persino
le scarpe di vernice con tacchi da capogiro sfoggiavano un intreccio
identico a quello che dal petto le scendeva fin sotto l’ombelico.
Basse coppe a balconcino sembravano sul punto di schiudersi per mettere
in mostra la piena voluttà dei seni, incorniciati dalle
spalline.
Era un’immagine carica di sensualità e malizia, non priva
di una certa eleganza, e che non avrebbe suscitato le obiezioni della
Stirling se non avesse avuto un unico difetto: il volto. Un ovale
allungato che faceva da cornice alle labbra socchiuse e agli zigomi
alti, appena ombreggiati dalle lunghe ciglia. Era certa che quel viso
non appartenesse alla modella di lingerie perché era il suo.
Alexia stava osservando sbalordita un’abile manipolazione che
aveva trasformato una pubblicità di intimo femminile in una sua
conturbante, piccante alter ego.
La voce di Brando cominciò a girarle nella testa: ti
piace. E tu piaci a lui, ne sono convinto. Per certe cose ho naso,
fidati: quello sbava per un tuo cenno. Scommetto che ha la testa piena
di fantasie su vuoi due soli in ufficio.
No, pensò irritata, Thomas fa lo stupido, ecco tutto. Con la persona e nel posto sbagliato, per giunta. Un momento… Thomas?
Aggrottò la fronte, perplessa. Pur conoscendolo da anni, non
l’aveva chiamato quasi mai per nome, forse una decina di volte in
tutto. L’aveva sempre considerata una forma di rispetto
professionale, oltre che gerarchico. Perché ora si rivolgeva a
lui a quel modo, specie considerando come si era comportato quel
mattino? Era sicuramente colpa delle congetture senza senso con cui
Brando la tormentava da mesi. Era normale che il suo coinquilino
riversasse su di lei il suo nervosismo, soprattutto ora che la gara di
pasticceria entrava nel vivo e si trovava senza la sua dolce
metà a sostenerlo per motivi di lavoro, ma che arrivasse
addirittura a stravolgere la sua forma mentis in nome di un qualcosa
che non esisteva, era una novità che non poteva permettersi.
Sentì del liquido cadere a terra e qualcuno tossire affannosamente, nascosto dalla parete esterna del box.
«Quando avrà ripreso a respirare normalmente, vorrei una
spiegazione… Agente Cane» disse Alexia senza staccare gli
occhi dall’ologramma.
Chiunque avesse avuto a che fare con la Stirling anche per una manciata
di minuti, avrebbe capito lontano un miglio che dietro
l’apparente calma di quelle parole covava una minaccia non da
poco.
Pierre deglutì a vuoto, desiderando il potere di rendersi
invisibile o di mutare in un animaletto abbastanza piccolo per
sgattaiolare via non visto. Odiava essere il solo membro della squadra
sprovvisto di M-Code. Sarebbero bastati tre minuti, o forse solo uno,
per mettersi in salvo dall’uragano che stava per scatenarsi nel
piccolo ufficio.
«Spiegazione? A che proposito?» domandò infine Cane,
entrando con la manica della camicia umida di caffè e ostentando
una nonchalance del tutto inappropriata.
Proprio il genere di risposte che mandava su tutte le furie Alexia.
«Ecco… sarebbe il mio… turno… di fare
pausa…» balbettò Lucas facendosi piccolo e
indicando il corridoio.
L’altro l’afferrò per la spalla, trattenendolo lì dov’era.
«No, caro mio. Guarda bene. Manca ancora qualche minuto» e
soggiunse curandosi in avanti, affinché solo lui potesse
sentirlo: «Di’ pure addio al tuo segreto, Signor Balbunn o
come diavolo si chiama».
La faccia di Lucas perse colore in un battito di ciglia.
Cane aveva scoperto tempo addietro la sua smodata passione per la serie
animata “Diamond Princess Leila” e in particolare per il
coprotagonista maschile, Balmung, del quale aveva vestito i panni in
diversi raduni di cosplayer. Sfortunatamente, uno di questi si era
tenuto a Jersey Beach, dove Cane amava trascorrere il proprio tempo
libero. Un incontro fortuito, qualche ricerca nei blog e nei siti
specializzati, e il ricatto era stato confezionato ad arte: Lucas
avrebbe dovuto preparare in gran segreto il fotomontaggio – senza
fare domande circa l’uso cui sarebbe stato destinato – e in
cambio Cane avrebbe taciuto circa outfit, trucco e parrucco.
Ora però, le carte erano state scoperte e l’esito del tutto imprevedibile.
«Tu… a-avev-vii p-promes-sso…» balbettò.
«Anche tu, ma ti sei fatto beccare come un idiota» latrò, consapevole che il collega avesse ben poca colpa.
Non gli aveva mai detto di aver trasferito l’immagine sul suo desktop, né che spesso la lasciava aperta.
«Allora?» l’interruppe Alexia.
A quelle parole, l’agente fu costretto a lasciar perdere le
invettive contro l’ignaro complice e a raddrizzarsi, per
fronteggiare un emergenza ben più seria di un 9.0.
«Sono un uomo solo e mi piacciono le belle donne. È un problema?» ammise facendo spallucce.
«Sì, se hanno la mia faccia».
«Sul serio? Non avevo notato la somiglianza»
commentò fingendosi sorpreso mentre si allungava verso lo
schermo virtuale.
Mentiva sapendo di mentire: persino quella talpa di Perez, giù
all’archivio, avrebbe riconosciuto il viso di Alexia su quel
corpo da favola. Pierre aveva fatto un lavoro coi fiocchi, doveva
dargliene atto. Anche perché era intimamente convinto che sotto
l’uniforme, la Stirling non fosse poi così diversa
dall’indossatrice.
«Dico davvero, non ci avevo fatto caso» insisté.
La faccia del superiore l’invitava a cessare all’istante la
ridicola pantomima. Un invito neppure troppo velato, a giudicare dalla
piega cattiva delle sue labbra e dallo sguardo truce che gli rivolse
alzandosi. Sebbene fosse più bassa di lui, bastarono i pochi
centimetri dei tacchi e la posa dell’agente, a far sì che
i loro occhi si trovassero alla stessa altezza.
Thomas si stupiva ogni volta nel constatare quanto le iridi azzurre del
Capitano potessero apparire fredde e distaccate se guardate di lontano,
o turbinose e cariche di emotività se osservate da molto vicino.
Notò un curioso scintillio poco sopra il labbro superiore, uno
sbaffo di glitter. Qualcosa che lo rimandò alla scena di qualche
ora prima, quando l’aveva vista baciare quel tizio sotto casa,
causandogli fastidio allo stomaco.
Di contro, Alexia sentiva il profumo del caffè risalire dalla
manica macchiata, mescolandosi alla colonia del suo sottoposto. Era un
mix che gli donava: aspro e deciso, fresco e avvolgente, capace di
infastidire ed elargire grandi soddisfazioni nel contempo. Esattamente
al pari dell’aspetto di Cane, trascurato solo all’apparenza
(a quella distanza era evidente che ciò che tutti prendevano per
una barba incolta fosse invece tenuta con cura maniacale in quella
guisa) o dei suoi modi, che oscillavano tra lo sbruffone e il
competente passando per il sornione.
Cane piegò la testa da un lato, sospirando e assumendo l’espressione più conciliante che gli riuscì.
«Diamine, Capitano, era solo un scherzo innocente... Non era
neppure finito! Vero, Pierre?» ridacchiò, ma l’altro
rimase muto, non sapendo cosa dire per evitare possibili grane.
«Ho detto: vero, Pierre?» e gli allungò un calcio
nello stinco, dal quale ricavò solo un gemito strozzato.
«Voglio. Vederlo. Sparire. Subito» sentenziò lei, scandendo ogni parola per rimarcare il proprio disappunto.
Arreso, Thomas assestò una sonora pacca sulla spalla del collega, recuperando parte del suo tono da spaccone.
«Hai sentito? Su, genio, alzati e vai a…»
«Non lui. Tu».
«Io? Ma lo ha fatto lui!» obbiettò.
«È sul tuo computer. Lo sistemi tu. Io e Lucas andiamo da
Carmy: tra un’ora dovrebbe avere appuntamento alla Chiesa. Spero
solo che quel cialtrone di Valakis non sia stato così sciocco da
farsi sfuggire la notizia del nostro colloquio o potrebbe aver messo in
allarme Timur. Sono arrivate voci di movimenti strani tra i vampiri
della zona» considerò impensierita per tornare a
rivolgersi a Cane. «Mettiti bene in testa che nonostante
trascorriamo molto tempo qui, non siamo a casa nostra e quelle che
usiamo sono attrezzature della MAB. Esiste un codice deontologico e di
gestione, che vieta tassativamente l’uso privato dei sistemi.
Ogni trasgressione può essere sanzionata, anche in maniera
pesante. E tu hai violato più di una norma in un colpo
solo».
«Hai intenzione di farmi rapporto?» replicò a bruciapelo.
Lei non rispose, limitandosi a fissarlo pensierosa. Poi, dopo un tempo
che parve infinito, scosse la testa. Non poteva permettersi di far
sospendere un membro della squadra in quel momento, soprattutto uno con
la sua esperienza. Non poteva, nemmeno se si comportava come un
ragazzino a trentotto anni.
«Già che ci sei, dai una sistemata al desktop, mi dicono che non ci si capisce niente».
«D’accordo. Provvederò dopo essermi ripreso un
caffè» sibilò rivolgendo un’occhiataccia a
Lucas che, ancora visibilmente preoccupato, tentava con scarsi
risultati d’infilare la giacca.
«Prendine due» suggerì gentilmente Alexia.
Thomas abbozzò un sorrisetto ironico.
«Devo fare anche il servo, Milady? Pure il signore vuole
ordinare? Aspettiamo ospiti? Desiderate delle paste?» la
stuzzicò, inchinandosi da perfetto cameriere sotto lo sguardo di
gelido astio del Capitano.
«No. Ma appena avrai finito con il desktop, scriverai i rapporti
delle ultime due settimane che non abbiamo ancora sistemato. E che
siano scritti in maniera impeccabile, senza errori ortografici o
grammaticali».
«Ma è roba da tirocinante!» protestò inorridito.
Era una vita che non metteva giù due righe: era sempre riuscito a rifilarle a Pierre o a Carmy.
«Vero. Tuttavia la nostra tirocinante è sotto copertura,
io voglio verificare di persona l’andamento delle indagini e
Lucas mi serve per le strumentazioni. Tocca a te» replicò
perentoria, incrociando le braccia. «O così, o sarà
la tua foto in deshabillé a girare sui nostri schermi»
minacciò.
L’uomo si lasciò cadere scomposto sulla sedia, squadrandola malizioso mentre prendeva a dondolarsi.
«Sono piuttosto attraente in intimo, sa?» ribatté sbottonando la camicia fino al petto.
Lo sguardo di Alexia si assottigliò, affatto impressionata.
«Con “nostri”, intendevo quelli di tutta la MAB. E
con quell’intimo» puntualizzò, additando la
fotografia. «Credo che la tua virilità ne risentirebbe
molto più dell’orgoglio di Lucas, qualunque sia il suo
segreto».
Thomas cercò di ribattere, ma non trovò battute adatte.
Si limitò ad un vago cenno di resa scrollando le spalle.
«Ottimo. Buona giornata, Cane» salutò soddisfatta la Stirling, ammutolendolo del tutto.
Forse non se n’era accorta o l’aveva fatto deliberatamente,
ma nel salutarlo aveva voltato la testa e atteggiato il viso proprio
come nella foto.
***
Amava la cannella. Era la spezia che più di ogni altra sapeva
stimolare la sua fantasia, forse perché era la prima di cui
avesse memoria. L’aveva incontrata a casa dello zio Giovanni, a
Romalia. Aveva sì e no cinque anni e se ne stava a giocare tra
gli scatoloni della cucina durante il trasloco, quando aveva rovesciato
d’un sol colpo una decina di barattoli. Polveri in varie
tonalità di marrone si erano sparse sul pavimento ai suoi piedi.
Spaventato, aveva cercato di raccoglierle, finendo con
l’impiastricciarsi di quelle strane miscele odorose. Ma un
vasetto, in tutto quel caos, era rimasto intatto. Luccicava come una di
quelle lampade fiabesche che contenevano un genio al loro interno. Un
genio bruno dorato che attirò la curiosità del piccolo
Brando, che si domandava perché quell’unico contenitore
fosse sfuggito al suo disastro. Era certo che ci fosse una spiegazione,
un motivo. Pensò che forse era più pesante degli altri e
lo prese con entrambe le mani., riuscendo a sollevarlo senza sforzo.
Allora ipotizzò che la risposta fosse nel contenuto e quando
tolse il tappo, la fragranza intensa pigiata nel vetro lo
investì, lasciandolo piacevolmente stordito. Non aveva mai
sentito nulla di più squisito. Aveva intinto il dito una, due,
tre volte, assaporando il pizzicore sulla lingua e il palato,
aspettando che ogni alone svanisse prima di ricominciare. Quando sua
madre lo trovò ancora coperto di spezie, aveva un sorriso ebete
sul faccino. Un sorriso probabilmente molto simile a quello che
mostrava in quel momento Robin Gellar, la quale, seduta all’altro
capo del tavolo dei giudici, lasciò sfuggire un singulto carico
di lussuria mentre si abbandonava mollemente sulla poltroncina. I suoi
esimi colleghi sgranarono gli occhi prima su di lei, poi sullo stecco
che reggevano in mano.
«Assaggiatelo… assaggiatelo…» sospirò leccandosi le labbra tra un morso e l’altro.
Thabo Mtawarire e Marcel Moriyama esitavano. La Gellar era famosa per
essere piuttosto esuberante e disinibita - nell’edizione
precedente del concorso aveva baciato in bocca una partecipante per
dimostrarle quando poco del gusto del suo dolce restasse sul palato -,
ma quella reazione era quanto di più assurdo le avessero mai
visto fare.
«Robin, che ti prende?» bisbigliò allibito Moriyama.
«Dio… è un orgasmo… puro piacere… da
mangiare…» gemette estasiata passandosi una mano tra i
lunghi capelli rossi. «È così…
così… è un godimento orale…»
Dietro le telecamere ci furono risolini, occhiate sconvolte e commenti
allarmati, presumibilmente gli stessi del pubblico a casa. Un tecnico
delle riprese domandò scherzosamente nel fuori onda se per la
trasmissione della sera successiva dovessero cambiare l’avviso da
“per tutta la famiglia” a “per soli adulti”.
Gli altri otto concorrenti fissavano Brando sbalorditi e irritati, non
riuscendo ad immaginare cosa diavolo ci potesse essere di così
speciale in quelle che ai loro occhi erano delle banali piramidi
tronche, con giusto una spruzzata di spezie come decorazione. Nessuno,
pur avendo scorto la complessità delle varie preparazioni, aveva
ritenuto quei dolci all’altezza dei propri, ma di fronte ad una
reazione così esagerata non sapevano che pensare.
Titubanti, gli altri due giudici si risolsero ad addentare la barretta
ricoperta di cioccolato alla paprika e cannella. Sentirono scrocchiare
biscotti e praline di pepe nero all’interno del ripieno al
tiramisù. Gocce di liquore scuro e denso miste alla crema
colarono sul mento e sulla camicia di Moriyama che non si degnò
di pulirsi, preso com’era dall’estasi di sapori che gli era
esplosa in bocca. Mtawarire, dopo aver divorato in tre famelici morsi
il dolce, gettò lo stecco sul piatto e si allontanò
ansimando dal banco, andando ad appoggiarsi a un pilastro della
scenografia.
«Cosa può averci messo oltre alla Libea?»
bisbigliò imbarazzata Aya Mehran alle sue vicine Kelly Simmons e
Shonna Martinez, la quale scosse la testa avvolta da un largo turbante
variopinto.
«Io l’ho guardato, non mi sembrava niente di così
favoloso. Caffè, biscottini, cioccolato… lo farebbe anche
un bambino» fece eco Otto Snejder spalleggiato da Pitt Jerkins,
proprio alle spalle di Brando, e venne subito zittito da uno sguardo di
biasimo di Jacques McCoy.
«Il cioccolato e la Libea
ce li ho messi anch’io, chissà che succederà con i
miei che hanno anche il lampone!» pigolò entusiasta Jula
Antonova a Mako Ikeda, che guardava il proprio “Ikebana-na”
con apprensione.
Brando si grattò la nuca, divertito e confuso. A quanto pareva
l’azzardo aveva pagato più del necessario: aveva aumentato
di un quarto la dose di Libea
nella crema dopo aver ripensato alla chiamata che Alexia gli aveva
fatto per augurargli ancora buona fortuna per la prova d’apertura
della gara e per raccontargli del fotomontaggio.
«Potrebbero licenziarlo per una cosa del genere! Non ha rispetto per le gerarchie e le regole!» aveva protestato.
«Smettila di fare la zitella acida, Lix. Si sente lontano un
miglio che ti ha fatto piacere» aveva commentato osservando
l’immagine sul visore degli occhiali. «Però bisogna
che tu gli faccia notare che sottovaluta il tuo decolleté,
magari in un tête à tête. Sei molto più piena
di questa ragazza».
Alexia l’aveva scaricata un attimo prima che Cane entrasse nel
box. Non sapeva esattamente cosa l’avesse spinta a fare una cosa
del genere, nonostante cercasse di convincersi che fosse solo per avere
in mano qualcosa con cui
tenere in riga il proprio sottoposto in caso di bisogno.
«Cosa dovrei fare?!»
«Ora vienimi a dire che un completino così non ce
l’hai… cassettiera bianca, secondo tiretto dal basso,
angolo posteriore sinistro, sotto le maglie per il gelharball. Grigio e
cipria, molto retrò e conturbante. Sta facendo i funghi
là dentro ma sapevamo ti sarebbe servito prima o poi. Tiralo
fuori e faglielo vedere» aveva suggerito.
Alexia aveva cambiato colore e il suo “ti odio” sibilato
nel ricevitore era stato impagabile: quel completo gliel’avevano
regalato lui e Julius per la sua promozione a Capitano, facendosi
grasse risate quando lei aveva domandato se volevano obbligarla a
indossarlo sotto la divisa.
«Dillo di nuovo e il bucato dovrai fartelo da sola, tesoro» aveva sghignazzato.
A dispetto delle parole però, si era sentito in difetto: quando
aveva creato il "Far Amal", aveva pensato a tutto ciò che lo
legava alla sua terra e lo rendeva felice, e non poteva negare che
oltre alle spezie, alla passione per la pasticceria e agli affetti, ci
fosse anche il sesso. Il fatto che Lix non avesse strangolato quel
tizio era già qualcosa, ma era certo che se, avesse potuto farle
avere uno di quei dolci, non si sarebbe indignata e né sarebbe
uscita con il ragazzino. Certo, visti gli esiti sulla Gellar, forse non
sarebbero neppure andati in missione e giustificare alla MAB il conto
fuori programma di una camera d’albergo avrebbe potuto
rappresentare un bel problema.
La voce cupa di Moriyama lo riscosse. Avevano terminato – con
immensa fatica – d’assaggiare i dolci e si sarebbero
ritirati per stabilire i vincitori della puntata e gli eliminati.
Scattavano trenta minuti di tensione vertiginosa. Alcuni temevano di
andarsene subito con la coda tra le gambe, Ikeda e la Mehran per primi:
un dolce su stecco non era affatto facile da preparare come la gente
credeva e i loro erano penosi. Anche con tutte le abilità
tecniche e gli ingredienti più adatti, il risultato non poteva
essere garantito fino all’ultimo secondo. Non era solo una
questione di gusto e consistenze, in gioco c’erano anche
viscosità, compattezza, resistenza al peso e al calore. Per
certi versi era simile ad un’opera d’ingegneria. E ogni
dettaglio era stato testato dai giudici.
***
La prima eliminazione del “Grand Prix de Celest(is)e
Pâtisserie” colpì l’altezzoso Otto Snejer, reo
d’aver presentato una granita su stecco così compatta da
essere divenuta una via di mezzo tra un iceberg e un aspic di frutta e
caramello assolutamente immangiabile.
«Troppo tempo nel congelatore, a una temperatura troppo bassa. Il
caramello con cui l’hai glassato è diventato subito duro e
grazie alla Libea che avevi
aggiunto, era praticamente impossibile da mordere senza rischiare i
denti. La frutta era talmente fredda che non se ne percepiva il gusto,
lo stesso vale per la granita. Un lavoro pessimo» aveva decretato
senza troppi preamboli Mtawarire.
Inutile dire che il “Far Amal” di Brando aveva riscosso un
tale consenso da essere indicato come il dolce migliore. Cercarono
d’impedire in ogni modo alla Gellar di pronunciare il verdetto,
per evitare che si esibisse in una replica di quanto accaduto poco
prima, ma si trattò di una precauzione inutile:
«Lavoro superlativo. La cremosità era piacevolmente
inframezzata dagli elementi croccanti e dalla copertura che risultava
ben aderente. La goccia di liquore avvolto nella cialda di Libea
per mantenerla liquida e fresca, è stata una chicca davvero
golosa. Le spezie sono state dosate con molta sapienza, mai eccessive,
ottimamente amalgamante anche nei giochi di contrappunto. Il cioccolato
era temperato in maniera eccellente e il biscotto morbido della base
è stato un vero colpo di genio,» dichiarò,
perfettamente seria, per poi concludere leccandosi vistosamente le
labbra: «perché aiuta a pulire la bocca senza disperdere
lo spunto erotico dell’insieme».
Pertanto, a Brando fu concesso il Bonus Vittoria, ovvero la
possibilità di conoscere in anticipo il tema della gara
successiva. Aveva venti ore di tempo per studiare nei minimi dettagli
la sua nuova creazione. Già il pensiero correva lungo gli
scaffali della sua mente, vagliando gli accostamenti migliori e
più sorprendenti, quando si sentì chiamare. Era Thabo
Mtawarire, l’unico la cui reazione gli aveva fatto scattare dubbi
circa il “Far Amal”.
«Pellegrini? Nella Bake Room» fece lui, perentorio.
La Bake Room altro non era che un minuscolo salottino privato,
un’area ad accesso limitato dove i giudici o gli ospiti delle
puntate (in genere pasticceri o critici gastronomici di fama
internazionale) potevano parlare liberamente con i concorrenti
che li avevano più impressionati, offrendo loro consigli o
ramanzine.
«Stai più attento» tagliò corto.
«Prego?»
«Il tuo dolce è stato a dir poco sensazionale. Anzi,
sessuale. Robin l’ha definito felicemente pornografico e ne era
entusiasta» precisò abbassando la voce e guardandosi
attorno con aria furtiva.
Pur essendo uno spazio riservato, le telecamere erano comunque presenti.
«Intende dire che ho esagerato?»
«Ecco… so di parlare a nome di Robin quando dico che
potresti caricarlo ancora un po’. Ha praticamente visto la
Nascita di Venere su Neos, se capisci cosa intendo. E per me e Moriyama
non è stato molto… ehm… diverso. Siamo stati solo
più bravi a mascherare» commentò, passando
distrattamente una mano sui pantaloni.
«Capisco» replicò imbarazzato.
In realtà non era vero: non capiva dove quella specie di stringa di liquirizia volesse arrivare.
«Renditi conto che siamo in televisione. Certe
“situazioni”, sono… come dire?» meditò,
accostandosi al piccolo mobile bar e stappando una bottiglietta di
tè freddo.
«Inopportune?»
«No. Non inopportune, non le definirei a questo modo»
rispose sorseggiando la bevanda. «La gente, dopo tutto, cerca il
sensazionale e con Robin che ha un orgasmo in diretta ci vanno a nozze.
Per lei è tutta pubblicità».
Ma che ho combinato? si chiese, sempre meno convinto del risultato della sua creazione.
«Queste situazioni si potrebbero ritorcere contro di noi. E con noi intendo io e te» riprese torvo Mtawarire.
Il pasticcere e conduttore di programmi culinari più stimato
dell’intera New Aalborg si sporse avanti, poggiando pesantemente
una mano sulla spalla di Brando mentre con l’altra scostava un
poco il bavero della giacca. Sotto, una spilletta era appuntata sulla
fodera. Il giovane sgranò gli occhi: conosceva quel simbolo, due
coppie di otto sovrapposti al centro, due più grandi e due
più minuti, intervallati da quelli che sembravano sottili nastri
avvitati su sé stessi. Il Fiore di Lat’chi.
Ne aveva uno anche lui, nascosto nella tasca dei pantaloni. Esponendosi
a quel modo, Mtawarire stava correndo un rischio enorme.
«Sì, Pellegrini, io e te siamo simili. In cucina e non solo» disse, indovinando i suoi pensieri.
«Come faceva a sapere..» balbettò, incapace di distogliere lo sguardo dal monile.
«Sono Cavaliere della Congrega. Posso accedere ai registri. Li ho
controllati per scoprire se vi fossero altri sodali nella
competizione» spiegò posandogli le mani sulle spalle con
fare rassicurante.
Brando boccheggiò un paio di volte, fissando le scarpe come un
monello colto in flagrante e indeciso sul cosa dire. Avrebbe voluto
partire dagli ossequi di rito, ma la stretta alle spalle glielo
impediva.
«Signor Mtawarire… Cavaliere… starò
più attento» promise. «Non oserei mai metterci
deliberatamente in…»
«Lo so, Pellegrini. Ne sono convinto» lo
tranquillizzò, strizzandogli l’occhio. «Ora
però occhio a Robin, credo voglia avere altri dei tuoi "Far
Amal". Pare si senta un po’ sola, ultimamente» rise
raggiungendo la porta. «Avrei solo un’altra domanda da
farti».
«Dica» replicò, frastornato e indeciso se
genuflettersi come si conveniva di fronte a un superiore
dell’Ordine.
«Perché il pepe nero? Era perfetto nell’insieme ma
non trovi sia rischioso? Potresti trovare bacche dal gusto troppo forte
o rancide, e rovinare il dolce».
«Ho fatto diverse prove prima di arrivare a questa versione. Ho
usato il rosa, il verde. Anche il pepe rosso di Sornitz. Nessuno aveva
lo spunto giusto: troppo forte, troppo aromatico, troppo piccante.
Allora ho provato a spezzettare le bacche del nero e a metterle in
infusione per mezz’ora con acqua frizzante, miele e due gocce di
un estratto di mia invenzione. Livello l’aromaticità e il
piccante, azzerando eventuali spunti rancidi».
Mtawarire scosse il capo, sorridendo compiaciuto.
«Ragazzo, ci darai delle soddisfazioni. A noi, al pubblico
e… a noi» insisté battendo la mano dove c’era
la spilla.
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Capitolo 4 *** Ocean Eye ***
The_L_Factor
4. Ocean Eye
Pan
di Spagna marezzato azzurro e bianco a base di vaniglia e alghe
polverizzate, intervallato da crema vegana al pomodoro caramellato,
Libea, rhum, pezzi di ananas, anice, salsa Du Lac,
ricoperto di ganache vegana alla panna di soia, alghe, cocco e cioccolato decolorato con incantesimi appositi.
«Il tema del mare può
sembrare banale, ma proprio per questo motivo non va preso sotto
gamba!» avvisò la Gellar mentre i concorrenti si davano da
fare alle proprie postazioni. «Stupiteci!»
«Come se fosse facile…» annaspò la Martinez, mulinando le braccia in un’enorme boule.
Brando controllò il Pan di
Spagna nel forno. Aveva l’impressione non stesse lievitando a
sufficienza, forse per via delle alghe nell’impasto azzurro. Le
aveva usate in altre preparazioni con enorme successo – tutti
ricordavano quando Hannu era svenuto dall’emozione assaggiando la
sua Suprême all’ananas, scoprendo che il colore dell’impasto non derivava da coloranti artificiali. Meditò se applicare subito un gonflage
o aspettare ancora: le alghe non dovevano aver perso tutta
l’acqua al loro interno, ma una volta eliminata quella, avrebbero
rilasciato gli zuccheri e l’anidride carbonica sufficienti a
raggiungere il risultato previsto. Serviva solo un po’ di
pazienza.
Sorrise rimettendosi all’opera sulla crema per la farcitura e sulla terribile salsa Du Lac, spina nel fianco di qualunque pasticcere. Pur essendo chiamata “salsa”, la Du Lac
era paragonabile a un miele per vischiosità; nonostante
ciò non era appiccicosa e poteva essere modellata come un solido
o resa volatile grazie ad appositi incantesimi. La difficoltà
stava tutta nel temperaggio degli ingredienti, che andavano lavorati in
maniera simile al cioccolato, ma su un piano riscaldato fino a quando,
a seconda del risultato che si desiderava ottenere, la Du Lac non si rapprendeva in una massa semifluida o cominciava a levitare.
Chiuse gli occhi e prese un
profondo respiro, lasciando colare il preparato in un filo sottile
dalla bacinella. Appena il disco fu sufficientemente largo e uniforme,
afferrò la spatola e cominciò a lavorarlo, facendo
piovere di tanto in tanto qualche pizzico di Libea,
che veniva subito incorporata. Jerkins, nella postazione alle sue
spalle, strabuzzò gli occhi costatando che pur essendo
così impegnato, riusciva a mantenere attivi ben due incantesimi:
uno per montare la ganache vegana di soia e l’altro per la
mescolare la crema all’ananas e pomodoro caramellato.
«Attenzione alle tempistiche» l’ammonì Mtawarire, dissimulando abilmente la propria ammirazione.
Aveva notato la solitaria stella
di anice attorno alla quale vorticava il secondo composto e
l’indicò ai colleghi. Occorreva non poca maestria a far
sì che il mulinello non la trascinasse al proprio interno,
riducendola in pezzi e amalgamandola all’insieme, poiché
la ricetta prevedeva restasse solo in infusione. La Gellar e Moriyama
annuirono con solennità senza dire nulla. Brando rispose con un
sorriso appena accennato, senza perdere il ritmo delle battute. Li
aveva notati a malapena. La sua attenzione era interamente rivolta al
processo creativo, tanto che quasi non si accorse dello scorrere del
tempo e si ritrovò con un perfetto Pan di Spagna in uscita dal
forno.
«E ora… Vallonné» sussurrò.
Subito la pasta ancora calda prese
a scuotersi, quasi che minuscole mani lo spingessero
dall’interno. Perse gradatamente la forma rettangolare dello
stampo, sollevandosi da un lato e assottigliandosi dall’altro,
incurvandosi e aprendosi in piani di differente spessore. Separò
delicatamente gli strati e li lasciò raffreddare con calma,
prima di iniziare a stendere con attenzione l’instabile
farcitura: sarebbe bastato un nulla a far smontare la dolce nebbia.
Poco alla volta il Pan di Spagna bianco-azzurro si trasformò
nella realistica rappresentazione di un’onda dalla meravigliosa -
quanto ingannevole – trasparenza, avvolto attorno a un nucleo di
crema dorata vivido e scintillante, che attirava a sé gli sbuffi
opalini della Du Lac in un
vortice squisito. La lavorazione gli era riuscita talmente bene che il
leggero tremolio del dolce faceva pensare si trattasse di
un’immagine tridimensionale in qualche documentario scientifico.
«Salve, Ocean Eye» sorrise.
***
Degli otto dolci presentati, metà rispecchiavano appieno il tema
e l’idea di originalità e innovazione richiesti dai
giudici. Gli altri erano un misto di disastri e banalità, che
contrariarono sia i giudici che i pasticceri, per non parlare del
pubblico a casa. A vincere la sfida fu Jacques McCoy, con il Letto di Nettuno,
variante di una millefoglie che impiegava al posto della pasta una
particolare varietà di alghe brune, candite e rese croccanti in
forno. McCoy non le aveva tagliate in rettangoli, lasciando che la
sagoma naturale delle foglie generasse dinamicità nella
composizione. Si aveva davvero l’impressione di guardare il
giaciglio del dio del mare, dove pesciolini di fondente guizzavano fra
gli strati e il grande tridente di isomalto dorato, animati da
specifici sortilegi.
Brando aveva provato
un’invidia spropositata: quel dolce era decisamente spettacolare
e non c’era nulla che potesse convincerlo del contrario, neppure
il suo secondo posto davanti a Ikeda e al suo Ao no tate1,
una ciclopica torre di bignè fasciata da cascate di resina
alimentare, sulla cui sommità danzava un ikuday, raro pesce
tropicale dalle lunghissime pinne, realizzato in gelatina e cioccolato
plastico. Quarta si era piazzata Aya Mehran, con una zuppa dolce di
frutti tropicali, spezie e perle di biscotto alla Libea, guarnita di mousse de mer
– una panna montata salata e schiumosa – e racchiusa in una
coppa di fondente a forma di conchiglia trattata con un incantesimo
idrorepellente, e denominata Culla delle Sirene che, sebbene non avesse suscitato grande impressione, era stata eseguita con grande maestria e gusto estetico.
Tuttavia, le note dolenti giunsero
dagli sconfitti. La Simmons era stata penalizzata dal malfunzionamento
del proprio vessel che aveva fatto letteralmente impazzire
l’impasto base della sua Seablizzard,
ma anche da un gran pasticcio della Martinez, rea di averle sottratto
la ciotola in cui aveva preparato della crema di zenzero salato.
L’altra aveva ribadito più volte che la preparazione si
trovava sul proprio ripiano dell’abbattitore e di averla
scambiata per l’impasto, misteriosamente scomparso, dei Macaron del Mar Helado che aveva cercato invano di preparare. Jerkins a sua volta aveva avuto problemi con la cottura del suo Tesoro degli Abissi,
a causa di un guasto al forno, che gli aveva restituito una specie di
pudding grumoso e sgonfio. Ma la parte peggiore era toccata a Jula
Antonova: la sua riproposizione dolciaria della famosa tela Mareggiata a Saint Holonnez,
minata da un’eccessiva coloritura delle crepes – alcune
quasi bruciate - e da improbabili accostamenti tra uova di pesce e
coulisse agrodolci di frutta, fu definita un imbarazzante tripudio di
gomma insipida.
«C’è in gioco
la vostra reputazione e il vostro futuro, e questo è tutto
ciò che è riuscita a produrre?» chiese Moriyama,
gelido. «Si rende conto che è un insulto verso di noi, i
suoi colleghi, il pubblico a casa, ma soprattutto verso sé
stessa? Davvero crede di non saper fare meglio di così?
Perché allora non mi spiego come sia approdata alle finali.
Questa è mediocrità. E forse ancor meno!»
Una stroncatura del genere avrebbe
fatto vergognare persino il più borioso ed egocentrico dei
pasticceri. Jula scoppiò in lacrime e presa da un moto di rabbia
si avventò su Moriyama, ritenendolo il maggior responsabile
della propria esclusione. Brando se la vide sfrecciare accanto col
braccio sollevato in aria, proteso con una bizzarra angolazione e
pronto a colpire. Ebbe la strana sensazione che il suo vessel mandasse
scintille, o forse si trattava solo dei riverberi delle luci di scena.
Tre uomini della sicurezza la bloccarono un istante prima che
raggiungesse il giudice e la trascinarono via tra urla e strepiti.
Più tardi, mentre i concorrenti lasciavano gli studi televisivi
scortati dai bodyguard, alcuni giornalisti domandarono ai partecipanti
dell’accaduto e se fossero al corrente di inusuali movimenti di
gente armata - presumibilmente del T.M.D. - nei pressi
dell’emittente.
***
Appena arrivato a casa, Brando avanzò nel soggiorno trascinando
i piedi sul pavimento. Non si era mai sentito così stanco in
vita sua, e solo per aver preparato una torta. Non osò guardarsi
nello specchio del bagno mentre lavava i denti, sicuro di scorgervi una
creatura sconvolta dagli occhi arrossati e la pelle smunta che lo
ricordava vagamente. Dirigendosi verso la propria stanza, ebbe
l’impressione di sentire la pelliccia serica di Micio
strusciargli sulla gamba, ma avrebbe potuto benissimo trattarsi di un
refolo d’aria proveniente da qualche finestra rimasta aperta. Si
lasciò cadere pesantemente sul letto, trafficando con i vestiti
profumati di Libea e vaniglia. Tastò alla cieca sulla scrivania
in cerca del computer. Lo accese e aprì una chat riservata,
contrassegnata da un cuore coronato e trovò l’altro utente
in attesa.
JUSTICE&SPICE – BENTORNATO, CAMPIONE! SEI STATO FANTASTICO. E QUELLA TORTA ERA UN VERO CAPOLAVORO. MI HAI TENUTO DA PARTE UNA FETTA?
Brando si sentì sollevato e
infinitamente grato per la muta comprensione. Per quanto desiderasse
udire la sua voce e godersi il suo sorriso, era troppo stanco per
reggere il confronto; sarebbe rimasto aggrappato al telefono per ore e
se fossero ricorsi ad una videochiamata probabilmente avrebbe
abbracciato l’immagine virtuale come un idiota. Aveva un bisogno
disperato di dormire.
BAKING – MI SPIACE. È VIETATO PORTAR VIA LE PREPARAZIONI DALLA GARA. UNA QUESTIONE DI “COPYRIGHT”. CHI VINCE PUBBLICHERÀ UN LIBRO CHE DEVE INCLUDERE ANCHE LE RICETTE DELLA GARA. UNA SPECIE DI TUTELA, CREDO. MA DI QUESTO CI CAPISCI DI PIÙ TU.
JUSTICE&SPICE – CHE GENTE CRUDELE… PRIVARE UNA COPPIA DELLE PROPRIE GIOIE. GLI FAREMO CAUSA.
BAKING – NE FACCIO UNA SOLO PER NOI DUE QUADO TORNI DA AMALTEA. LÌ NON CI SARANNO COPYRIGHT O GIUDICI CHE SI STRAFOGANO IMPUNEMENTE. SARÀ IL NOSTRO BANCHETTO PRIVATO.
JUSTICE&SPICE – NON DIRMELO: FALLA! E IO TI PREPARERÒ QUALCOSA DI ALTRETTANTO STUZZICANTE…
BAKING – QUELLO CHE PENSO?
JUSTICE&SPICE – DIPENDE. COSA PENSI?
BAKING – LO SAI.
JUSTICE&SPICE – DAI, NON FARE IL DIFFICILE. COSA PENSAVI?
BAKING – TORNERAI, MI ABBRACCERAI E MI BACERAI DICENDO CHE SONO L’UOMO DELLA TUA VITA, CHE
NON PUOI VIVERE SENZA DI ME E LA PROSSIMA VOLTA CHE TI PROPORRANNO UN
LAVORO IN TRASFERTA DIRAI DI NO SE NON PUOI PORTARMI IN VALIGIA.
JUSTICE&SPICE – QUESTO È OVVIO, ANCHE SE DOVRÒ COMPRARE UNA VALIGIA NUOVA, ABBASTANZA GRANDE DA FARTI STARE COMODO. NON SEI PROPRIAMENTE TASCABILE. COMUNQUE, PENSAVO DI PRENOTARE UNA BELLA SEDUTA AL “SECRET GARDEN”, SOLO PER NOI DUE. TRATTAMENTO DI COPPIA COME AL MIO COMPLEANNO. MASSAGGI, SAUNA, RELAX E QUALCHE COCCOLA EXTRA PER IL RE DELLE TORTE DI CELESTIS. TE LO MERITI.
BAKING – TU MI VIZI. MA FAI PURE. NE AVRÒ BISOGNO A PRESCINDERE DALL’ESITO.
JUSTICE&SPICE – COME SAREBBE “A PRESCINDERE”? TU VINCERAI!
Quelle parole fecero sorridere
Brando, che però s’incupì subito dopo. Sentì
un groppo salirgli alla gola, facendo una fatica immensa a trovare i
tasti. Passò le mani tra i capelli per calmarsi e riprese a
scrivere.
BAKING - HO AVUTO PAURA.
JUSTICE&SPICE - PER COSA?
BAKING - NON CREDEVO CHE FENG POTESSE ALLARMARMI FINO A QUESTO PUNTO. QUANDO HO VISTO JULA CHE STA
Ma un nuovo messaggio si accavallò al suo in tempo reale, bloccandogli dita e pensieri.
JUSTICE&SPICE - SEI PREOCCUPATO PER I DUE NON MAGHI CHE SONO RIMASTI? JERKINS E SIMMONS? PENSI CHE POTREBBE SUCCEDERE QUALCOSA NELLE PROSSIME SERATE?
BAKING - MI SEMBRANO GENTE A POSTO, MENO INCLINE A DARE DI MATTO. MA LO STRESS È ALTISSIMO, NON NE HAI IDEA. DEVI PENSARE E MUOVERTI A UNA TALE VELOCITÀ CHE RISCHI DI PERDERTI QUALCOSA. L’ERRORE È DIETRO L’ANGOLO. E POI NON CONOSCIAMO LE CUCINE, I FORNI, LE ATTREZZATURE. I GIUDICI GIRANO MA LE TELECAMERE E I MICROFONI SONO PEGGIO, CE NE SONO OVUNQUE. È UN DELIRIO.
JUSTICE&SPICE - SONO LE TRE DEL MATTINO E SEI SVEGLISSIMO. IO PURE. DIREI CHE UN’IDEA DI COME STAI CE L’HO, ECCOME. VAI A DORMIRE, BRAN. QUANDO SEI STANCO PERDI LA VENA CREATIVA E NON PUOI PERMETTERTELO. IL TRAGUARDO CE L’HAI A PORTATA DI TAGLIAPASTA.
BAKING – GRAZIE, SEI UN TESORO. E HAI RAGIONE, STO CROLLANDO. MI SI STANN
«Salutatevi e andate a dormire!» sbraitò Alexia, comparendo all’improvviso sulla porta.
A Brando mancò poco che venisse un infarto per lo spavento.
«Che fai qui? È la
mia stanza!» protestò frastornato, accorgendosi solo in
quel momento di essere saltato in piedi sul letto con la tastiera
stretta al petto, e di avere indosso giusto i boxer e un calzino sceso
alla caviglia.
«Muoio di sonno e anche con
la porta chiusa ti sento digitare e sento tutti quegli stramaledetti
alert quando arrivano i suoi messaggi. Voglio dormire!»
urlò. «E fino a prova contraria la stanza è mia,
come il resto dell’appartamento! Tu la occupi e basta!»
Detto ciò, uscì
sbattendosi la porta alle spalle, lasciando Brando interdetto. Appena
realizzò d’essere nuovamente solo, esalò un sospiro
affranto. Gli sembrava d’essere tornato ai tempi in cui la sua
famiglia faceva visita a quella di Alexia, loro due erano adolescenti e
la signora Stirling arrivava a concludere le interminabili
chiacchierate che li tenevano svegli fino a orari impossibili. La
differenza stava tutta nel fatto che a Eleonor Stirling era sufficiente
affacciarsi a braccia conserte sulla porta per ridurre chiunque al
silenzio, senza bisogno di proferire verbo. Niente scenate, nessuna
porta che faceva tremare gli stipiti, solo una consistente dose di
materna autorità.
Un bip richiamò l’attenzione di Brando allo schermo.
JUSTICE&SPICE – PROBLEMI?
Aveva inviato una fila di
caratteri sconclusionati, probabilmente quando si era stretto addosso
la tastiera. Recuperando una posizione consona e un briciolo di
dignità, Brando tornò a sedere.
BAKING – ERA LIX. TI SALUTA TANTO. DICE CHE FACCIO CASINO E VORREBBE DORMIRE.
JUSTICE&SPICE - ERA ARRABBIATA?
BAKING – UN POCHINO, MA LE PASSA. MEGLIO COMUNQUE CHE VADA A LETTO ANCH’IO. SOLO SOLETTO. SIGH. NEANCHE IL GATTO MI FA COMPAGNIA, QUEL TRADITORE! STARÀ DORMENDO SUL CUSCINO DI LIX, SE NON L’HA BUTTATO GIÙ. PENSAMI, COSÌ SENTIRÒ MENO LA TUA MANCANZA.
JUSTICE&SPICE – LO FARÒ. E PENSAMI ANCHE TU.
BAKING – NON RIESCO A NON FARLO. SEI TU CHE MI HAI ISPIRATO L’OCEAN EYE, NON L’AVEVI CAPITO?
JUSTICE&SPICE – SEI IL SOLITO ROMANTICONE! MI FAI SENTIRE UNA CAROGNA PER AVERTI LASCIATO SOLO IN QUESTO MOMENTO. NON DOVEVO ACCETTARE L’INCARICO A OTISA.
BAKING – NON L’AVEVI PREVISTO, È CAPITATO ED È IMPORTANTE PER LA TUA CARRIERA. RIUSCIRÒ A SOPPORTARE LA TUA ASSENZA O MORIRÒ INGOZZANDOMI DI PANCAKE AI MIRTILLI E MOUSSE AL CIOCCOLATO BIANCO. CI SENTIAMO DOMANI. BUONA NOTTE.
JUSTICE&SPICE – A DOMANI, AMORE. BUONA NOTTE.
***
«Niente di buono oggi? Solo porcherie di dubbia provenienza?» si lamentò Thomas, storcendo il naso.
«Senti, accontentati!» protestò Pierre litigando con l’ombrello che non voleva saperne di chiudersi.
Aveva portato qualche focaccina
fredda e piuttosto stantia recuperata in un forno qualche traversa
più avanti, di cui dubitava fortemente del rispetto delle
normative igienico-sanitarie. Purtroppo era uno dei pochi posti dove
potessero incrociare Carmy: grazie al nutrito gruppo di persone che
stava perennemente in coda in attesa di essere servita, era possibile
scambiare poche parole e qualche appunto scritto senza dare
nell’occhio.
«Qualcosa d’interessante?»
«No. E tu, Bulmen? Mostrato la tua potente spada a qualche cattivo?» sogghignò sarcastico, mimando un fendete.
Lucas arrossì ma era troppo preso dall’incombere del pedinamento per sottostare alla provocazione.
«Carmy ha una consegna, la
Stirling vuole che la segua da solo e a distanza. Prendo un paio di
cose per le registrazioni e la sorveglianza. Sempre che riesca a
trovarle! Questo posto sta diventando una discarica!» si
lagnò raccogliendo scatole di take away e sacchetti del
supermercato. «E comunque, è Balmung» soggiunse
indignato.
Voltandosi a guardarlo,
trovò Cane con le mani sprofondate nelle tasche, che scrutava
distrattamente un quotidiano del giorno prima accanto al sacchetto
delle focacce, ben lungi dal controllare l’ingresso della Chiesa
di Ela sul lato opposto della strada.
«Ti farà rapporto sul serio se scopre che hai le mani dove non dovresti!» lo sgridò imitandolo.
«E dove dovrei metterle?» sbadigliò annoiato, seguitando a interrogarsi circa lo spuntino.
Lucas gli indicò il
computer, ma quando smosse la tastiera per attivare le schermate di
sorveglianza, si accorse che l’immagine tridimensionale del
giorno prima ora stava lì.
«Dovevi farla sparire!» squittì sentendo un brivido gelido scendergli lungo la schiena.
Se al suo posto fosse tornata Alexia, la cricca di Timur li avrebbe scoperti sentendo le urla.
«Infatti. L’ho fatta
sparire subito da quel computer e l’ho messa su questo. Il capo
non ha detto che non potevo metterla da un’altra parte»
ridacchiò massaggiandosi una spalla indolenzita.
L’aver trascorso
l’ultima ora appoggiato allo stipite della porta ascoltando le
registrazioni ambientali si era rivelata una pessima trovata.
D’altra parte, se si fosse seduto come suo solito, avrebbe
rischiato di addormentarsi.
«Quanto sei infantile!» piagnucolò Pierre, tornando a concentrarsi sulle attrezzature.
Premette il pollice sulla
placchetta a chiusura di un paio di valigette e cominciò a
frugare all’interno in cerca dei dispositivi di tracciamento e
ascolto. Detestava quel lato di Cane, lo trovava fuori luogo in una
persona della sua età ed esperienza. All’inizio
l’aveva visto come un mentore, qualcuno a cui ispirarsi, salvo
cambiare idea dopo un paio di giorni, quando gli elementi
destabilizzanti dei suoi atteggiamenti avevano cominciato a emergere.
«So che me ne
pentirò, ma… hai guardato la tv ieri sera?» gli
chiese raccogliendo gli strumenti in una sacca.
«No, furbone. Mi avete
piantato qui a godermi lo spettacolo di una via deserta, dove passano
giusto gli invasati di Timur. E non uso sempre in maniera inappropriata
le nostre baracche, so a cosa servono, anche se vi siete convinti del
contrario» rampognò, massaggiandosi la faccia.
Era stanco e avvilito dalla
nottata infruttuosa, e riprese a rovistare tra i prodotti del forno con
aria ipercritica. Avevano davvero un aspetto penoso, assolutamente
insalubre, ma doveva sforzarsi di buttar giù qualcosa per
raggiungere la fine del turno, di lì ad un’ora e mezza.
Sempre che il pedinamento non sfociasse in altro.
«Beh, il Capitano mi ha
detto che un suo amico partecipa al programma di pasticceria e sta
andando benone. Tu lo sapevi? Che ha un amico famoso, intendo. Vi
conoscete da un po’ tu e lei».
Le focaccine persero
d’interesse all’istante e Cane si raddrizzò,
rigirandone lentamente una tra le dita. Lucas continuava a dargli le
spalle mentre selezionava le cianfrusaglie più appropriate per
l’occasione. Attese pazientemente che raccogliesse il suo
ciarpame e si levasse dai piedi per tuffarsi in rete. Scovò in
sito del “Grand Prix de Celest(is)e Pâtisserie” e
cominciò a scorrere con attenzione le varie pagine.
«Ecco qui… dannazione è proprio lui» mormorò trovando la pagina dedicata ai concorrenti.
Aveva riconosciuto la scheda verso
il fondo della lista. Iniziò a controllare l’anagrafica,
dove campeggiava un bel primo piano dell’uomo che era certo
avesse baciato Alexia. Sotto, altre fotografie lo ritraevano in una
cucina mentre fingeva di litigare con un gatto gigantesco, lavorava a
un qualche dolce o reggeva un trofeo di pasticceria abbigliato come un
giocatore di gelharball. Se non ricordava male, anche al Capitano
piaceva quel gioco, un paio di volte aveva lamentato indolenzimenti
dovuti a qualche partitella.
«Vediamo un po’ che
dice. Brando Pellegrini, trentun anni – come la Stirling…
nato a Otisa… ah, un amalteco! Uomini e buoi dei paesi tuoi, eh?
Diplomato all’Accademia di… ah, quindi è un
mago… bla-bla-bla lavorato quattro anni presso la “Union
Joy Sweets” di Recadi – che roba sarà? Caramelle?
Cioccolatini?... corsi vari – ma dai? Di pasticceria e cake
design? Non l’avrei mai detto… bla-bla-bla... gestisce
diversi blog di cucina – ma che sorpresa… e campa di
questo? Complimenti, una faticaccia! Trasferito a Kyrador due anni
fa… solo due anni? E perché la Stirling non ne
avrà parlato? Si vergogna del suo uomo? Qualcosa
d’illecito da nascondere, Pellegrini? Spaccio di liquirizie?
Contrabbando di confetti? Sofisticazione torte?» malignò,
sentendo che quella vena di cattiveria nella voce gli trasmetteva un
certo piacere. «Beh, forse non ha detto niente perché
è lei quella con le palle… non mi venga a dire che un
pasticcere farebbe quello che facciamo noi, mago o no. Le indagini non
si improvvisano m nemmeno seguono ricette preconfezionate».
Quel tipo non gli piaceva, non lo
convinceva. La Stirling non poteva trovare interessante uno con quella
faccia da bambolotto, né per una cosa occasionale né
tantomeno per una relazione seria. Era ridicolo. Lei aveva carattere, a
volte persino troppo, e vicino ad un tipo simile avrebbe dato
certamente i numeri nel giro di un paio d’ore o giù di
lì. Eppure l’ipotesi che fosse un parente era altrettanto
improbabile: allora perché nasconderlo?
1 Ao no tate: Blu verticale.
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Capitolo 5 *** Magic Moment ***
The_L_Factor-Cap. 5
5. Magic Moment
Pane
dolce speziato, ripieno di frutta secca, marmellata d’arance e
finocchietto, cannella, chiodi di garofano; guarnito con scorze
d’arancia candite e colorate, zucchero a velo e Libea
e
servito su crema inglese (qui chiamata “crema
Châtelet” dal nome del cuoco che la importò su
Celestis) al caffè.
L’ospite della terza serata
di gara era Vila Gyulai, ex-starlette balzata agli onori delle cronache
dapprima come amante del Ministro delle Finanze Jackson Lima di New
Aalborg, poi come esperta ed estimatrice dell’arte dolciaria.
Conduceva ben tre programmi su un canale tematico, di cui uno a
diffusione internazionale. A dispetto degli ascolti vertiginosi, molti
sospettavano che il pubblico la seguisse più per il fitto mondo
di pettegolezzi e allusioni che si trascinava dietro, che per le sue
presunte doti gastronomiche. In effetti, in tutto l’ambiente era
risaputo che fosse incapace di distinguere un uovo crudo da uno di
cioccolata, e che le argute osservazioni con cui farciva i suoi
interventi provenissero integralmente dalla mente di Joyce Eck, Sommo
Maestro di pasticceria alla prestigiosa Accademia di Lormont e suo
ennesimo amante.
Tuttavia, gli sponsor avevano
fatto il diavolo a quattro perché presenziasse ad almeno una
puntata, visto che i vertici del network si erano rifiutati
categoricamente di averla tra i giudici ufficiali, ritenendola troppo
“difficile da gestire”. La prova erano le occhiate irose
dei due uomini e il sorriso forzato della Gellar mentre scortavano la
discussa ospite nello studio. Al trucco si era vociferato che la Gyulai
e la Gellar avessero alcuni conti in sospeso, non tanto circa storie di
fidanzati rubati, quanto piuttosto di feroci e immotivate critiche
della prima riguardo le produzioni della seconda, dai dolci in
sé ai libri.
«Non hai più nemmeno uno di quei Far Amal
dell’altro giorno?» gli aveva chiesto preoccupato McCoy,
pochi minuti prima di andare in onda. «Mi dispiacerebbe che dalla
nostra gara l’attenzione venisse dirottata ad una rissa in
dispensa».
Di tutta risposta, Brando si era fatto una risata, dolendosi del fatto che neppure un Far Amal a massima densità di Libea avrebbe potuto qualcosa su quella tizia.
Guardò i chicchi di
caffè galleggiare nel misto di latte e panna della crema
Châtelet. Tracciavano scie di poco più scure, man mano che
rilasciavano il loro intenso aroma.
Ripensò al Natale di
quattro anni prima, passato in una baita a Radori. Loro due soli, le
luci della cittadina sui Monti Farsen e una cucina attrezzata di tutto
punto per sfornare leccornie ad ogni ora dei giorni di festa. Ma,
soprattutto, ripensò a quanto erano stati felici quei momenti.
Era stata la prima volta in cui avevano trascorso insieme intere
giornate, senza mai dividersi. Era stato strano, una scoperta continua
di quei dettagli che le chat o i loro brevi incontri dal vivo non
potevano mettere in mostra. Gli tornarono alla mente i suoi calzini,
perfettamente allineati lungo il lato corto della valigia e di come la
cosa l’avesse fatto scoppiare a ridere di gusto e tenerezza
quando si era reso conto che pure il resto del bagaglio era stato
trattato con la medesima precisione.
Ti sei messo con un avvocato, cosa ti aspettavi? Vestiti appallottolati come la cartastraccia nel cestino?
si era sentito domandare e aveva dovuto ammettere che no, non si era
aspettato nulla di diverso, tranne il fatto che l’ordine
riguardasse anche la scala cromatica degli indumenti, disposti dal
più chiaro al più scuro in brevi arcobaleni.
Ecco, si disse, ci vorrebbe un bell’arcobaleno sul dolce.
«Bei momenti?» chiese una voce alla sua sinistra.
Sorrise alla corpulenta gorbeka, spargendo un pizzico di Libea nel liquido.
«Sì, Shonna. Si vede?»
«Nemmeno se fossi cieca
potrei dire il contrario» rise lei rimestando nella casseruola
dove cuoceva la marmellata. «Dovete essere molto felici».
Brando temporeggiò,
controllando con le dita la consistenza del ripieno che aveva messo a
riposare accanto al fornello, affinché il calore aiutasse gli
ingredienti ad amalgamarsi. L’intensità dei chiodi di
garofano era mitigata dalla marmellata di arance e rinfrescata dal
finocchietto selvatico, che permettevano al bouquet della cannella di
aprirsi invitante alle narici e al palato di chi avesse avvicinato il
dolce.
«Lo siamo. E lo saremo di più quando vincerò la gara» dichiarò baldanzoso.
Si sentiva capace di scalare il
mondo e sconfiggere chiunque, specie dopo che quella mattina aveva
persino battuto Alexia. Per scusarsi della sveglia imprevista della
notte precedente, le aveva preparato una bella colazione, ma quando lei
aveva cominciato a lamentarsi di ogni suo difetto, l’aveva
sfidata a dimostrarsi migliore finendo di preparare i pancake. Sapeva
perfettamente che non era capace di farli - non le erano mai venuti
bene nemmeno con lui ad aiutarla - ma piuttosto che ammettere
l’evidenza, Alexia aveva armeggiato per venti minuti con impasto
e padella, producendo solo schizzi e formelle bruciate. Era stato
piacevole ascoltarla ammettere la resa e più ancora comminarle
una bella penitenza. Ridacchiò tra sé, immaginandola a
casa mentre la eseguiva, sicuro che il suo senso dell’onore
l’avrebbe obbligata a tener fede alla parola data.
«E pensi che te lo
permetterò?» ribatté Shonna, assestandogli un
colpetto col cucchiaio di legno sulla testa che lo riportò nello
studio televisivo.
«Potresti farlo per queste belle boullette
che ti piace tanto strizzare prima di entrare qui…»
suggerì affondando gli indici nelle guance, che
l’avversaria aveva spesso paragonate ai dolcetti ripieni tipici
di Otisa.
«Bene, bene! A quanto pare qui ci si diverte» bofonchiò Vila, comparendo al seguito dei giudici.
Quando si fermò, a cavallo
tra le due postazioni, una ventata di profumo dolciastro investì
i presenti, appestando l’aria e riuscendo a sovrastare quasi
tutti gli aromi. Difficile dire da dove provenisse, se dalla profonda
scollatura che arrivava a sfiorarle l’inguine, dalle balze
esageratamente voluminose dell’abito di lamé dorato o
dalla cascata di capelli verde acido che sfiorava il pavimento.
Probabilmente dalla sua intera persona.
«Cosa vedo… una
Châtelet al caffè!» esclamò la Gellar,
spiando i fornelli e leccandosi le labbra.
Era uno dei suoi accompagnamenti
preferiti, c’era il rischio che la facesse sparire prima del
termine della preparazione. E lo spunto deciso del caffè
l’aiutava a sopportare meglio il terrificante effluvio di Vila.
«Sì. Sto usando una
varietà tardiva del caffè Mzoneg, che si coltiva sugli
altopiani di Fhirland. Trovo abbia la giusta delicatezza e
aromaticità. La metterò a specchio sotto il pan dolce
ripieno» spiegò indicando i vari componenti ben divisi sul
piano di lavoro.
«Un pan dolce?»
sbottò schifata l’ospite, voltandosi verso i giudici con
gli occhi viola elettrico sgranati all’inverosimile. «No,
dico… lo sa dove siamo? Un banale pan dolce? A me? Gente,
possiamo cacciarlo subito? Non sono qui per rompermi un dente!»
sbraitò.
Affatto impensierito dalla scenata
- gliene aveva viste fare di peggiori nei servizi del telegiornale o
negli extra dei suoi stessi programmi -, Brando si accinse a dare
delucidazioni in merito al manicaretto. Era scritto nel contratto e
nelle “regole d’ingaggio” della competizione: nel
momento in cui ospiti e giudici si fermavano alle postazioni di lavoro,
era obbligatorio fornire i dettagli del dolce a cui si stava lavorando,
senza scendere nel particolare.
«Non accadrà. Si
tratta di un pan dolce molto soffice, un’antica ricetta di
Radori, una cittad…» ma Vila non aveva intenzione di
sentire ragioni.
«Chi se ne frega, è
insignificante! Una porcheria da bassifondi! Ma lo sai con chi hai a
che fare?» berciò allungando la mano per afferrare il
ripieno e, presumibilmente, gettarlo a terra.
Brando non fu abbastanza rapido, a
differenza di Mtawarire, che agguantò il polso della Gyulai. La
sua enorme mano nera quasi inghiottiva quella della donna e a giudicare
dalle sottili increspature nella pelle, doveva stringerla con parecchia
forza.
«Vila, perché non
aspettiamo che termini la preparazione? Pellegrini ci ha sempre
stupiti, sia nelle qualificazioni che nelle scorse serate. Non lo
prenderei sotto gamba» consigliò con una certa veemenza.
Lei stava per controbattere, ma
Eck, dalle quinte, le fece cenno di stare al gioco e seguire il
consiglio. Indispettita dal dover sottostare alle pretese altrui, Vila
si liberò dalla morsa con uno strattone e un gemito rabbioso.
«Sì, sì. Tanto non cambierà niente» malignò allontanandosi sui tacchi vertiginosi.
I giudici presero un profondo
respiro e, dopo aver incitato i partecipanti a continuare dando il
meglio di loro in quegli ultimi quarantacinque minuti, la seguirono per
le chiacchiere e i commenti di rito nella Saletta Blu, uno spazio
separato dalle postazioni di gara e attrezzato come l’elegante
“Café Coeur Bleu” di Kyrador.
«Speriamo che almeno
lì non faccia danni o non risponderò di me. La
detesto» mormorò Moryiama agli altri.
«Mettiti in coda, Marcel.
Prima le donne che odiano le troie, poi voi maschietti che odiate le
stronze» rimbeccò la Gellar, voltandosi per un allegro
saluto alle telecamere.
***
Alexia, approfittando della pausa pubblicitaria, si alzò dal
divano per prendere almeno la casacca del pigiama. Avere di nuovo la
casa tutta per sé avrebbe dovuto essere una piacevole variazione
rispetto alla routine degli ultimi due anni, ovvero da quando aveva
offerto un letto a Brando e alle sue aspirazioni di pasticcere
d’élite, ma non lo era. Maledisse a ogni passo la
scommessa persa quella mattina e la penitenza imposta: trascorrere la
serata in religiosa contemplazione della gara, indossando lo
stramaledetto completino intimo che poltriva nel cassetto.
Guai se, arrivando a casa dopo la
puntata, Brando non avesse scorto almeno qualche piega nel tessuto o
piccoli segni su di lei: aveva minacciato cose turpi cui non voleva
pensare.
Giunta in camera però, il
riflesso nel grande specchio della cabina armadio catturò la sua
attenzione. Sapeva quali dubbi e cattiverie girassero sul suo conto
alla MAB, dalla taglia del suo reggiseno al colore dell’intimo, e
lì le vedeva smentite una ad una. Aveva un fisico atletico
eppure le curve non le mancavano; certo non poteva dirsi una pin-up
né una maggiorata, ciononostante con indosso quei veli
semitrasparenti, le autoreggenti di gusto un po’ retrò e
un perizoma tutt’altro che risicato, sarebbe stato difficile
identificarla come un membro dell’Agenzia.
Richiamò l’immagine sottratta a Cane dai suoi file personali e lo confrontò con sé stessa.
«Allora? Vogliamo parlarne?
Dimmi, Cane, ti sembra che somigli abbastanza a questa tizia?»
sussurrò all’ologramma, quasi che l’agente fosse
lì con lei per rispondere. «Dici di sì? No, non
credo. Non credo proprio. Ci sono milioni di differenze tra me e lei,
alcune nemmeno le immagini, potrebbero farti scappare a gambe levate se
le scoprissi. Resta il fatto che io sono meglio, sono in carne ed ossa,
non una stupida ombra tridimensionale che non puoi neppure
toccare» ammiccò, dandosi una pacca sul fondoschiena.
Scoppiò a ridere.
«Ma guarda un po’, signor Agente Macho e Conquistatore,
non puoi proprio toccare niente della sottoscritta. Puoi solo sognare
su queste imitazioni. Vero?» domandò rivolta a Micio che
l’aveva seguita e si era seduto poco lontano, osservando
alternativamente lei e il suo riflesso nello specchio.
Gli enormi occhi verdi sembravano
interrogarsi circa quale delle due figure fosse corretto avvicinare per
avere una manciata di croccantini.
Il trillo di una chiamata in
entrata sul comunicatore fece dileguare il gatto e sobbalzare lei,
quasi l’avessero sorpresa a commettere un atto illecito.
«Attivare solo audio» boccheggiò raddrizzandosi di scatto.
Cercò persino di
risistemare i capelli, raccogliendoli velocemente sulla nuca per poi
lasciarli andare: era una preoccupazione inutile.
«Devo parlarti» proruppe all’istante la voce di un uomo.
Alexia strabuzzò gli occhi
nello specchio mentre un brivido l’attraversava da capo a piedi.
Era Cane: l’immagine del suo tesserino identificativo corredato
di foto fluttuava ad un palmo dal muro alla sua sinistra.
Deglutì a vuoto, stringendosi nelle braccia e cercando qualcosa
per coprirsi, salvo ricordare che lui non poteva vederla.
Ma com’è possibile? Mi controlla? si chiese, allarmata dalla coincidenza.
«Problemi? Sei nuda?» domandò lui al protrarsi del silenzio.
Bastarono quelle poche parole a riportarla alla consueta freddezza.
«Sono fuori servizio,
Cane» obbiettò, detestando i rilevatori biometrici
dell’appartamento, che facevano orientare la schermata verso di
lei ovunque si spostasse. «Ciò significa che dovrei godere
di un meritato riposo e, fatto salvo casi di estrema gravità,
voi non dovreste prendervi la briga di disturbarmi».
Era ridicolo ma si sentiva a
disagio nel parlare con il suo sottoposto indossando una mise
così poco adatta ad una discussione civile, o presunta tale.
«Ah, capisco. Sei in
intimità con l’uomo delle pastarelle» sibilò,
supponendo che il tramestio in sottofondo avesse origini ben diverse.
«Beh, allora non dovresti rispondere alle chiamate di lavoro
quando sei… impegnata» ribatté, sottolineando con
cattiveria l’ultima parola, come se alludesse a qualcosa di
particolarmente sconveniente.
Razza
di lingua lunga malpensante, ringrazia di non avermi davanti o altro
che rapporto di biasimo… e poi, che diavolo c’entra
Brando? Che gli viene in mente? Lucas non ha capito un accidente di
quel che ho detto! Amico stava per amico, non per “amico”! imprecò, ringraziando il fatto che Cane fosse troppo distante per udirla telepaticamente.
Arrabbiarsi con lui era la prassi,
un fondamento del loro rapporto lavorativo, anche se di recente aveva
assunto connotati piuttosto insoliti. Dopo la visita a Valakis aveva
l’impressione che la guardasse con altri occhi, quasi si fosse
reso conto di un qualcosa che non aveva mai notato prima. O forse era
lei a non essersi accorta di cosa celassero gli sberleffi e le occhiate
ironiche. Proprio come aveva vaticinato Brando almeno un milione di
volte.
Prese un profondo respiro e
sedette sul letto accavallando le gambe. Ascoltò con
soddisfazione il fruscio delle calze scure, titillando i lacci della
guêpière. Le piacevano quei suoni sottili e caldi, dei
sospiri morbidi. Si morse il labbro, stuzzicata da un’idea.
«Cosa sta succedendo? Che
notizie avete?» gli domandò languida, inclinando la testa
da un lato mentre oscillava le spalle e socchiudeva gli occhi con fare
malizioso.
Dopo tutto, se Thomas poteva
sbizzarrirsi alle sue spalle - nella speranza di non essere scoperto -
, perché lei non poteva prendersi una sorta di rivincita
giocando con la sua immagine? Il fatto che non potesse sospettare in
alcun modo cosa stesse facendo la intrigava: conosceva bene le sue
capacità ed era certa che avrebbe colto delle stranezze, sulle
quali sarebbe rimasto a lambiccarsi chissà per quanto senza
osare chiedere chiarimenti.
«Ah, sì» mugugnò Cane, perplesso dalla lentezza con cui Alexia aveva cominciato a palare.
Se Pierre non avesse gesticolato
che l’“amico” era in diretta televisiva, avrebbe
pensato di averli interrotti nel pieno dei preliminari.
«Carmy ci ha avvisati di un
paio di retate che hanno messo in agitazione la marmaglia di Timur.
Pare che l’Anticrimine abbia cominciato in anticipo i suoi
interventi».
Annuendo, lei si allungò
sul fianco, smuovendo ad arte le lenzuola perché anche solo un
sussurro giungesse fino all’orecchio dell’altro.
«Dovevamo aspettarcelo. Non
sono famosi per la loro pazienza, in certi frangenti»
sospirò, risalendo con l’indice lungo la coscia.
Sollevò pian piano
l’orlo della guêpière fino mettere in vista perizoma
e reggicalze, accompagnando il tutto con una strizzatina d’occhi.
«Sì… v-vero?» rispose Cane titubante, spiazzato dal tono e dai suoni che accompagnavano le parole.
Non poteva immaginare, preso dalla
sorveglianza notturna alla Chiesa di Ela, che il suo Capitano si fosse
messo nuovamente a sedere e stesse muovendo sinuosamente le gambe
nell’aria all’indirizzo del suo omologo digitale, in un
sensuale, quanto inutile, invito.
«Comunque… quegli
idioti sono piombati qui un’ora fa seguendo lo spacciatore che
vive al piano di sotto. Ma che stai facendo? Spolveri casa? A
quest’ora?»
La donna sorvolò
sull’insinuazione, divertita dagli esiti della trovata. Si era
lasciata cadere sulla schiena per rotolare subito sulla pancia,
tornando a far fluttuare le coltri tutt’attorno mentre si
sollevava sui gomiti.
«Avete avuto problemi con i
loro uomini?» s’informò, lasciando cadere una
spallina e continuando la pantomima.
Lo sguardo fisso della fotografia
non l’abbandonava un secondo e per un attimo ebbe l’assurda
impressione che attraverso quegli occhi di pixel scuri, Thomas fosse
comunque in grado di vederla.
«Più o meno. Quasi
arrestavano anche noi, ma è tutto sistemato. Il famiglio di
Fizzwater ha recitato bene: ha combattuto con i suoi colleghi e si
è fatto portar via a fatica per rendere tutto più
credibile. Fingeranno di rilasciarlo domani pomeriggio e vedremo cosa
succede. Carmy ha anche detto che Timur non si è lasciato
impressionare più di tanto, ma pare stia cominciando a mostrare
crescente interesse verso di lei».
«Molto bene. Speriamo che
questo ci permetta di arrivare più vicini a quel che stiamo
cercando» commentò sollevandosi con studiata calma sulle
ginocchia, le mani che passavano con altrettanta lentezza fra i capelli
biondi.
Dal soggiorno arrivarono
esclamazioni entusiaste e un breve applauso. Alexia sobbalzò: la
gara stava ricominciando, ormai i giudici stavano per annunciare gli
eliminati.
«Devo andare. Domattina
voglio un resoconto completo» decretò senza perdere del
tutto l’impostazione maliarda che aveva tenuto per tutto il tempo.
«Copriti» le suggerì secco.
Rimase con un piede a terra e l’altro in aria, le mani ancora poggiate sul materasso nell’atto di scendere.
«Cosa?» domandò, registrando solo in un secondo momento il gemito affranto di Lucas alle parole del collega.
«Hai una voce strana.
Scommetto che stai sgocciolando per tutta casa dopo aver fatto uno di
quei bagni rilassanti pieni di vapore e schiuma. Avrai
l’accappatoio aperto e sarai senza ciabatte, con una coppa di
champagne ghiacciato in mano e quel tuo gattaccio bislungo che ti si
struscia sulle caviglie. Vergognati. Qualcuno potrebbe vederti e
pensare male» sogghignò aspro.
Alexia rimase interdetta, portando
le mani sui fianchi. Si avvicinò con falcate lente allo schermo
virtuale, ancheggiando in punta di piedi. Si fermò un istante,
rivolgendo uno sguardo perfido alla foto. Inarcò la schiena,
mettendo bene in mostra il decolleté.
«E chi dovrebbe vedermi?
Forse tu, Thomas?» sussurrò maliziosa, chinandosi e
sfiorando con la punta del naso quella dell’uomo sulla schermata
virtuale.
Per lunghissimi sitanti, un silenzio assordante invase la linea.
Che sto facendo? Che cos’ho detto!? L’ho chiamato per nome? Di nuovo? si chiese lei, raggiungendo di corsa la porta, terrorizzata dal tono usato.
C’era anche Lucas
dall’altra parte e, seppur dubitasse che la chiamata fosse in
viva voce, nulla vietava che qualche scampolo di conversazione fosse
giunto alle sue orecchie. Avrebbe voluto sprofondare nel nucleo di
Celestis.
Cos’ha detto? Se voglio… non è possibile… Ho sentito bene? Thomas? si chiese Cane all’altro capo del comunicatore, preso altrettanto alla sprovvista.
Altri applausi dal televisore e la voce di una donna che rideva sguaiata.
«D-devo andare. Tenetemi
aggiornata» esclamò nervosa Alexia, provando
l’impellente desiderio di fuggire in salotto a concentrarsi sulle
votazioni del concorso di pasticceria.
«Certo… A domani» concluse l’altro, esitante.
***
Mako chinò la testa e scrollò le spalle. Le parole di Eck
attraverso Vila erano state lapidarie: insufficiente. Non era un
segreto che Eck fosse intervenuto durante gli assaggi – anche se
non inquadrato dalle telecamere – e avesse stilato la propria
classifica che poi la donna aveva cominciato a sciorinare spacciandola
come propria, aggiungendovi il proprio tocco personale.
Il Crisantemo Bianco che
per anni era valso a Mako i complimenti di amici e familiari nelle
feste domestiche, alla gara si era rivelato un fiasco totale; persino
la Gellar aveva dovuto ammettere di essersi aspettata molto di
più da lui, che una tradizionale tortina allo zenzero e fior
d’arancio, punteggiata di fragoline candite e rivestita di un
velo di gelatina di panna alla Libea, che simulava i petali del fiore, fosse una proposta a dir poco fiacca.
«È impersonale, lontanissima dalle tue precedenti esecuzioni» aggiunse abbattuta.
Moryiama e Mtawarire evitarono di
rigirare il coltello nella piaga, era fin troppo evidente che il
giovane di New Sallot avesse enormi problemi nell’incassare la
sconfitta: era diventato pallido e tremava, totalmente assente e
incapace di rispondere ai commenti.
Decisero di passare oltre,
annunciando il secondo eliminato, cosa che, per loro sfortuna, si
rivelò persino peggiore. Si trattava di Shonna Martinez.
«Inadeguato. Anzi, no:
volgare!» sbottò Vila indicando la teglia di pudding, che
nonostante le sue parole si presentava quasi vuota. «Come si
può presentare una simile insulsaggine ad un concorso mondiale
di pasticceria? Stiamo scherzando? Volete insultarmi?»
Shonna si alzò dallo
sgabello con un nuovo turbante a fiori in testa e il grembiule ancora
macchiato di confettura di prugne. Nel dietro le quinte si era fatta
apprezzare per gli atteggiamenti materni e affettuosi che non lesinava
mai, e quell’aggressione diede fastidio a molti perché
assolutamente ingiustificata.
«Avete chiesto il nostro dolce delle feste. Quello è il mio, della mia famiglia» replicò orgogliosa.
«Oh, poveretti. Che
miseria… una famiglia triste e infelice, senza dubbio»
ghignò Vila rivolgendosi ai giudici che rimasero muti,
fissandola con biasimo.
Le telecamere inquadrarono i volti sgomenti dei partecipanti. Forse il Pudding Gorbeko
non era un capolavoro assoluto se paragonato agli altri dolci, ma
nessuno di loro si sarebbe mai permesso di sminuirlo a quel modo, anzi.
Brando, la Simmons e la Mehran, durante la pausa, avevano spazzolato
quel che restava della confettura e della meringa alla menta –
nonostante fosse cruda -, elogiandone il gusto con sospiri e lunghi
abbracci alla cuoca.
«Lei non ha famiglia, non sa nemmeno cosa vuol dire» ringhiò Shonna avanzando di un passo verso il palco.
Si fermò a gambe larghe ai piedi della gradinata, piantando i pugni sui fianchi tondi con fare minaccioso.
«Se avesse messo al mondo
almeno un figlio, anziché aprire le gambe per fare soldi, e
avesse davvero sgobbato da mattina a sera per dare un piatto caldo, un
tetto e un futuro alla sua famiglia, saprebbe che non c’è
affatto bisogno di festeggiare con troni di cioccolata e frutta
esotica!» strillò. «Quel che serve è sentirsi
a casa, con le persone amate, in un’atmosfera di gioia e unione,
non certo un inutile sfoggio di ricchezza».
Dapprima Vila si mostrò
impressionata da quelle parole, spalancando le palpebre sulle lenti a
contatto colorate e schiudendo le labbra in una muta invocazione, salvo
gettare la maschera subito dopo con un rumoroso sbadiglio.
«Resta il fatto che quella roba è scadente» rimarcò stravaccandosi sulla poltroncina.
«Shonna,» intervenne
cauto Mtawarire, «ti pregherei di riflettere su quanto è
stato detto. Il dolce è davvero molto buono, lo dimostra la
teglia. Il suo essere scadente non riguarda nemmeno il livello di
professionalità con cui è stato preparato: la marmellata
è densa e saporita, lo strato di base umido e corposo e la
meringa cotta alla perfezione. Quello che stiamo cercando di dire
è che… sei sotto tono rispetto agli altri».
«Capiamo il tuo punto di
vista, dico sul serio» si accodò Moryiama. «Arrivi
da un arcipelago che negli ultimi due decenni è stato flagellato
da uragani, terremoti e allagamenti. Farsi forte del poco è
un’arte e più ancora un dovere. Purtroppo qui non siamo
nella cucina di casa e per quanto me ne rammarichi, non lo trovo un
dolce degno del miglior pasticcere di Celestis».
«Ho apprezzato il tuo enorme sforzo e l’amore che hai infuso in una preparazione così semplice. La Libea
non poteva aggiungere nulla a ciò che hai realizzato e te ne
sono grata. È stato un onore capire cosa si provi a far parte
della tua famiglia, ma devo concordare con i miei colleghi: questo
dolce non ti porterà verso la finale di domani sera. Mi
dispiace, Shonna» concluse la Gellar con gli occhi lucidi.
Vila sorrise, mascherando la noia per quelle che riteneva pietose scuse.
«Quindi, Martinez, levati la
palandrana e sparisci» bofonchiò stiracchiandosi con tanta
foga da far emergere per intero il seno dal bordo dell’abito, per
buona pace dei suoi fans e del suo avvocato, che già presagiva
una chiamata dal comitato di vigilanza televisiva e dalla CKT-24 per
violazione del codice etico rispetto cosa fosse ammissibile mettere in
mostra in una trasmissione per famiglie.
Brando rimase a fissare Mako e
Shonna che uscivano dalla sala degustazione con due atteggiamenti
diversissimi: il primo camminava a spalle curve, la testa talmente
china in avanti da sparire oltre le spalle; la seconda invece, avanzava
sicura e a testa alta, ricevendo manifestazioni di affetto dai tecnici.
Prima che raggiungessero la porta, quasi di comune accordo, lui, McCoy
e la Mehran cominciarono a battere le mani. In un baleno si unirono
anche gli altri partecipanti, i giudici e lo staff. Vila si astenne,
preferendo osservare il riverbero dei riflettori sulle lunghissime
unghie finte.
Ciascun partecipante era certo che
chiunque avesse ottenuto il podio quella sera, l’avrebbe trovato
molto più amaro del previsto.
Al terzo posto si classificò Pitt Jerkins, con il suo Sunny Mountain,
una creme caramel multistrato, arricchita di biscotti d’avena
farciti con zabaione e salsa di pomodori dolci, il tutto ricoperto di
panna montata all’oro. Una visione stupefacente, con le vette
coronate di spruzzi di Libea
e rese luccicanti da appositi incantesimi lumeggianti. Questi ultimi
avevano tenuto col fiato sospeso l’intera emittente, quando ai
primi tentativi, il vessel aveva mandato in corto circuito il microfono
del concorrente e alcuni attrezzi della sua cucina. Al secondo posto,
Jacques McCoy con dei dolci molto simili alle Boullette, ma che lui chiamava Rolditz.
Si trattava di grossi ravioli preparati con due paste diverse - frolla
per la base e sfoglia per la calotta – farciti con fichi interi,
more, cannella e crema di latte, fritti in olio e passati al forno per
la doratura. Sopra, una colata di miele di fichi e cioccolato
completava l’opera.
A pari merito al primo posto, si
piazzarono Brando e Kelly Simmons. La donna aveva presentato una
treccia rustica tipica dell’entroterra aleptiano, la Malachy Pie,
rivisitandola in chiave dessert. Al di sotto del guscio di croccante
pasta kataifi, mutuata dall’originale salato, trovava posto una
deliziosa mattonella di panne cotte ai frutti di bosco, resa leggerissima
con un procedimento simile alla salsa Du Lac. Sparsi a pioggia, pinoli, pistacchi, mirtilli rossi e neri e uva spina.
Nessuno, incluso Eck, aveva però saputo decidere quale fosse il migliore una volta assaggiato il Magic Moment
di Brando. Il ripieno era ricco, croccante e morbido, e legava alla
perfezione con la pasta speziata che costituiva la copertura,
foggiata in forma d’abete natalizio, oltre che con la
Châtelet e le scorzette d’arancia cui aveva alterato il
colore con un Teinturier. C’era tutto: dalle variazioni in tema
di consistenze ai retrogusti, alle differenti temperature che partendo
dal cuore caldo raggiungevano la delicata frescura della crema,
passando per l’intenso calore della pasta, senza mai dare
l’impressione che si trattasse di elementi a sé stanti.
«Mi secca dire che è
buono. Io non lo servirei mai e poi mai, è così ordinario
anche fatto a questa maniera, ma… vabbeh, sì, ci sai
fare. Con un po’ di fortuna potresti pure piazzarti bene. Magari
se gli altri propongono ancora schifezze…» ammise Vila con
una smorfia.
«Voglio mostrare a tutti una cosa» disse solennemente Moryiama, zittendola.
Prese fra le dita il nido di
variopinte zeste che aveva coronato il suo Magic Moment
e lo mostrò alle telecamere.
«Sapete perché non
l’ho mangiato? Perché è stato questo a convincermi
definitivamente della grandezza di questa delizia».
Il suo commento fu sintetico ed esemplare:
«È un haiku» ma per Brando, la magia era sfumata da un pezzo.
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Capitolo 6 *** Coodle ***
The L Factor_Cap. 6
6. Coodle
Sandwich
di biscotti d’avena alla birra, riso soffiato e gocce di
cioccolato bianco delle dimensioni di un cookie, farcito con creme
fraiche all’albicocca, yogurt, riduzione di birra speziata
e una grossa cucchiaiata di gelatina di albicocche concentrata con Libea in granelli.
Micio, allungato sul divano, spazzava l’aria con la coda. Dopo i
pasti non era mai molto attivo, cosa che concedeva a Brando e Alexia
lunghe pause di tranquillità. L’uomo, compresso nel
risicato spazio accanto al bracciolo, tentò per l’ennesima
volta di bere il caffè, ma una volta potata la tazza alle labbra
fu incapace di prenderne un sorso. Ormai doveva essersi raffreddato,
l’aroma non gli solleticava più le narici.
«Ne hai per molto?» domandò Alexia, da qualche parte alle sue spalle.
«Non lo so. Forse» bofonchiò.
«Fattela passare, è un ordine. Stasera hai la finale, non puoi andare in onda con un muso che tocca terra».
«È che… è così ingiusto» sospirò.
Continuava a pensare all’eliminazione di Shonna, la sera prima, a
quanto l’aveva trovata profondamente sbagliata. Il dolce di
quella donna avrebbe meritato molta più considerazione, proprio
in virtù di ciò che aveva alle spalle ed escluderlo sulla
base di una presunzione di raffinatezza era qualcosa di davvero
biasimevole per non dire volgare. Di certo molto aveva pesato il
giudizio di Eck e la sua fanfaronaggine da Signore dei Pasticcini, ma
aveva sempre ritenuto Mtawarire e gli altri più giudiziosi nelle
loro critiche e soprattutto sperava vantassero un maggior peso
decisionale. Il fatto che ciò non corrispondesse al vero dava
ampio spazio a congetture circa il nome del presunto vincitore. I
programmi tv facevano notare come i favoriti fossero la Simmons e
Jerkins, in virtù del loro ruolo di svantaggiati; ipotesi
avvalorata dalle loro frequenti visite in “Bake Room”,
chiamati sia dai giudici che dagli ospiti. In alternativa si faceva il
nome di McCoy, dato per grande favorito dalla carta stampata.
Alexia fraintese il motivo del suo abbattimento, notando il cordless far capolino da sotto le zampe del gatto.
«Ti prego, evitami i tuoi patemi da cuore infranto perché
non ti ha risposto!» sbottò irritata, sedendo sul
tavolinetto di cristallo con tanta foga da rischiare di mandarlo in
pezzi.
Aveva indosso solo un tubino blu notte, che contrastava con il
reggiseno a balconcino di un arancione sgargiante. In un altro momento,
Brando le avrebbe fatto notare quanto l’accostamento fosse
spaventoso, ma in un angolo remoto della mente ricordò di aver
sentito qualcosa a proposito di una camicetta a fiori di quel colore.
«Ci sono quattro ore di fuso orario tra noi e Otisa, non ti viene
in mente che forse, e ripeto, forse! stia lavorando? Che si trovi in
riunione con qualche pezzo grosso che aveva mandato quell’enorme
idiota del figlio a studiare in un signor college a Kyrador, solo che
quel cretino si è fatto beccare con un sacchetto di Jellykiss
durante un festino losco e ora devono capire come tirarlo fuori da una
cella senza causare un incidente diplomatico? È questo che fanno
gli avvocati: riunioni e tribunali, tribunali e riunioni! Lo sai».
«I Jellykiss…» ridacchiò appena Brando, lo sguardo lontano.
Una delle sue prime creazioni, quando ancora lavorava nella ditta
dolciaria di famiglia. Gelatine alcoliche alla frutta che ancora
impazzavano nei supermercati. Erano stati addirittura usati come
“guarnizione” sul corpo del protagonista in un film comico,
durante una scena dove il malcapitato si giocava il tutto per tutto per
dimostrare all’amata la propria vena amatoria facendosi trovare
nudo nel suo letto, ma finendo col farsi ricorrere da tutti i cani del
vicinato, ingolositi dai bonbon che portava appiccicati addosso.
Vendendo che non si riscuoteva dal torpore, Alexia pensò bene di rifilargli uno scappellotto.
«Allora?» sbraitò. «Ti dai una mossa sì
o no? Devi vincere la gara e levarti dai piedi come da programma, te lo
ricordi o no che me l’hai promesso? Rivoglio casa mia solo per me
e Micio!»
«Non c’era bisogno di picchiarmi! Ho capito» piagnucolò passandosi una mano tra i ricci neri.
«Oh, scusa… volevi un bacino perché ti senti tanto solo?» sghignazzò arricciando le labbra.
«Per favore! Non accetto queste cose da una come te»
sibilò disgustato, mettendole una mano sulla faccia per
allontanarla.
«Una come me?» urlò liberandosi per rivolgergli uno sguardo carico di rabbia.
«Sì. Una come te» ripeté, facendo andare su e giù l’indice con cui la stava additando.
«Ovvero?»
«Una povera agente della MAB, sola, repressa e
inacidita…» attaccò con lirismo, ma un trillo
l’interruppe.
Sul display virtuale videro che si trattava di una comunicazione riservata per Alexia. Un pessimo segnale.
«Fammi capire che sta succedendo» disse alzandosi e puntando dritta alla camera.
***
«Dici davvero?» domandò all’immagine del tesserino di Pierre, che la fissava inespressivo.
«Sì, Capitano. Ci stiamo già dirigendo sul posto.
Se Cane non ci fa schiantare prima…» mugugnò e
subito in sottofondo si udì un’imprecazione e lo
strombazzare di un clacson.
Grazie alla serata finale del “Grand Prix de Celest(is)e
Pâtisserie”, le strade di Kyrador ribollivano di torme di
fan e scalmanati, a piedi, in auto o su pullman titanici, giunti da
ogni dove per festeggiare i propri beniamini. Sfortunatamente, Carmy
aveva fatto sapere loro che la nuova consegna affidatale da Timur
avrebbe avuto come destinazione proprio gli studi della CKT-24, in un
deposito poco distante da dove si sarebbe tenuta la gara.
Non ci voleva. Proprio stasera, pensò nervosa.
«Allertate l’Anticrimine, sono sicura che offriranno
l’appoggio necessario. E sentite anche il T.M.D. Anche se
dovessero negare la loro presenza dietro le quinte, è bene che
siano in allerta e sappiano che stiamo conducendo delle indagini da
quelle parti. Non voglio che ci intralcino» decise mentre
abbottonava la camicetta di seta.
«E se dovessero far storie? Sicuramente vorranno capire cosa
c’è di mezzo. È insolito che li si contatti
per…»
«Dite che stiamo conducendo un’operazione congiunta sullo
spaccio della Lilith. Se si ricordano quali effetti collaterali
può provocare e com’era esagitata la concorrente
dell’altra sera, sono sicura basterà a convincerli»
disse storcendo il naso alla vista di come la fantasia floreale la
facesse sembrare stranamente in sovrappeso.
«D’accordo» convenne Lucas.
«Se ci fosse altro, fatemi sapere. Sarò lì»
aggiunse distrattamente, sfilando la camicia dalla testa senza
sbottonarla.
«Ma non è la sua serata libera?»
«Sarò tra il pubblico in studio. Sono stata invitata alla
trasmissione» spiegò seccata, infilandosi per metà
nella cabina armadio in cerca di un’alternativa.
Subito però la voce di Cane riecheggiò nella stanza, facendola sobbalzare.
«Da quel bellimbusto amalteco impiastrato di Libea?»
«E anche se fosse?» ribatté.
«Una volta avrebbe declinato e avrebbe partecipato all’indagine, Capitano. Evidentemente questo riempicannoli ha qualcosa che la distoglie dal suo ufficio» insinuò, con tale cattiveria da lasciarla di sasso.
«Cos’è questo tono?»
«Abbiamo una consegna in un luogo sensibile e tu ti preoccupi di
quello che fa la panna montata?» sbraitò, anche se parte
delle parole furono inghiottite dall’ennesimo clacson e dalle
suppliche di Pierre.
«Cane!» strillò, andando incontro alla videata a passo di carica, quasi si aspettasse di vederlo comparire.
«Come puoi preoccuparti per uno scarto della Limmenshau, quando
di mezzo ci potrebbero essere migliaia di vite? E Carmy?
Dov’è finita tutta la preoccupazione per lei?»
Alexia esitò. Non era stato l’accenno alla collega sotto
copertura o alle potenziali vittime della Lilith a bloccarla, ma quel
riferimento alla scuola. La Limmenshau era un’Accademia di Alta
Formazione Gastronomica nota solo a chi era ben addentro al mondo della
pasticceria d’alto livello. Ed era certa che sulla scheda
concorrente di Brando non fosse segnalata perché non aveva mai
completato il ciclo di studi finale per dedicarsi alle ricerche in
proprio. Se l’avesse concluso sarebbe diventato un pasticcere
professionista, escludendosi quindi dai partecipanti al concorso.
«Questo è un colpo basso. Anche per te» gli
rinfacciò. «E comunque, non devo rendere conto ai miei
sottoposti di ciò che riguarda il mio privato».
«Ci servi» insisté, ma era una palese bugia.
«Non è vero. Siete in grado di cavarvela benissimo. Voi e Carmy. Chiudo».
Frustrata dalla conversazione, levò la gonna e la gettò
via, da qualche parte nella stanza, e sedette sul letto. Era fortemente
tentata di restare a casa. Cane aveva ragione: anni addietro si sarebbe
precipitata dai suoi uomini senza pensarci due volte, ora era diversa,
aveva imparato a darsi delle priorità, a staccare la spina per
non impazzire.
«Guarda che nuda non ti fanno entrare».
Trasalì. Brando era in piedi davanti alla cabina armadio e
sorrideva comprensivo. Difficile dire se avesse sentito qualcosa.
Abbassò lo sguardo sull’abito che le porgeva: un vestito
corto, rosso, con le maniche ad aletta, lo scollo a cuore e una
decorazione di cristalli sui fianchi.
Le strizzò l’occhio.
«Peccato. Stasera fa caldo» sbuffò grata.
***
Inutile. Nonostante la tensione del momento, la sua mente continuava a
tornare all’eliminazione di Shonna. Per qualche assurdo motivo,
non riusciva a concentrarsi sul test di quella sera. Si sentiva fuori
posto, sbagliato, a disagio. Gli era impossibile capacitarsi del fatto
che il Pudding Gorbeko, col
suo carico di amarezze nascoste e difficoltà, fosse stato
bollato come inadatto alla finale. Certo, forse la presentazione poteva
essere migliorata, resa più accattivante, ma trovava avrebbe
snaturato l’insieme. Un dolce tanto semplice, domestico, puro
nella sua essenzialità meritava…
«Che diavolo sto facendo?» esclamò orripilato guardando l’impasto molliccio che aveva nella terrina.
Gettò una rapida occhiata alla postazione. Birra, farina d’avena, Libea,
yogurt, albicocche. Dall’odore e dalle bollicine che costellavano
la pastella, dedusse di aver mischiato la birra con l’avena.
Intinse il dito e assaggiò, scoprendo una dose di zucchero
appena sufficiente a spezzare l’amarognolo del luppolo. Che cosa
doveva farci? Perché aveva preso quelle cose in dispensa? O gli
erano state assegnate? Non riusciva a ricordare.
Il timer sopra il banco dei giudici indicava che mancavano sessantadue minuti al termine della sfida.
Fingendo di schiarirsi le idee, fece un passo indietro e spiò
attorno. La Mehran muoveva sinuosa un largo coltello, spezzettando
fichi secchi, cannella, mandorle e pistacchi. A Jerkins mancava solo un
berretto da baseball per dare l’impressione di essere nella
cucina di casa sua mentre preparava dei banali pancake alla banana.
McCoy stava stendendo un panetto di pasta all’uovo che poco o
nulla aveva a che spartire con un dolce. La Simmons, infine, stava
litigando con la presa elettrica, nel tentativo di inserire la spina
della gelatiera a due tazze.
Brando s’inginocchiò accanto a lei, le fece segno di
spegnere il vessel e di aspettare un istante. Controllò
l’attacco dell’elettrodomestico e si accorse che non era
compatibile con la placchetta elettrica. Era capitato anche a lui,
specie quando all’estero usava i suoi attrezzi, ed essendo la
Simmons di Alepto, era ovvio che le fosse capitato qualcosa di analogo.
Con un incantesimo modificò la distanza tra i dentini della
spina e la inserì senza problemi.
«Grazie» mormorò Kelly con un gran sorriso sotto le fitte lentiggini.
Lui sospirò mesto.
«Non ho la più pallida idea di cosa sto facendo» ammise.
La donna afferrò al volo a cosa si riferisse e fece ondeggiare i lunghi boccoli rossi scuotendo la testa.
«Si vede» ridacchiò, fingendo di controllare che il
cavo non si sfilasse dall’alloggiamento. «Chi userebbe la
birra in un dolce per la Festa della Fondazione?»
La guardò alzarsi e rimettersi all’opera, tramortito da
qualcosa che somigliava all’esplosione del Megonia. Era nei guai
fino al collo. Un manicaretto per la Festa della Fondazione delle prime
colonie su Celestis a base di birra, avena e albicocche? Gli aveva dato
di volta il cervello?
Tornò in postazione e guardò intorno. Gli avversari
lavoravano come forsennati alle creazioni. Dal banco dei giudici,
Mtawarire gli teneva gli occhi incollati addosso. Nella platea scura
che si stendeva oltre una cortina di luci abbaglianti, Alexia, Feng,
Ertemios, Hannu, Mark, Billy Roy e Aditi, lo incitavano in silenzio. E
c’erano altri, gente senza volto che tifava per lui, che agognava
di potersi sedere a gustare le delizie che avrebbe preparato nel suo
nuovo negozio.
Qualcosa riprese a muoversi nella sua testa.
Sì, amici. Amici che passano
tempo insieme, che fanno festa, si disse agguantando le albicocche.
Gente cresciuta fianco a fianco, che ha condiviso colazioni e merende,
le prime sbronze, che sa farti sentire leggero, sempre in festa. Che ti
vuole bene e non manca mai di fartelo sapere.
Ricominciò di buona lena a comporre la sua proposta. Ora sapeva
cosa avrebbe fatto con la pastella di birra e avena: avrebbe aggiunto
riso soffiato e cioccolato bianco per formare dei grandi biscotti,
croccanti all’esterno e morbidi all’interno, e ad unirli,
un ripieno lievemente aspro – degno delle liti
dell’infanzia - che avrebbe lasciato posto ad una sorpresa
dolcissima.
Sorrise, senza sapere che le telecamere rimandavano il crescere del suo
ottimismo alle televisioni dell’intero globo. Versò il
riso soffiato accompagnandolo con un incantesimo che impediva ai
chicchi di ammollarsi nella pastella. Kelly, alla sua sinistra, gli
mostrò il pollice levato e lui rispose allo stesso modo.
«Ma dov’è finito Stroad?» si domandò,
notando all’improvviso l’assenza dell’ospite.
***
Kelvis Stroad, era sgattaiolato fuori dello studio con la scusa di una
capatina in bagno. Sbuffava come geyser mentre caracollava sulle gambe
tozze e grassocce lungo l’aiuola. Essere tra gli ideatori del
“Grand Prix”, oltre che uno dei critici di settore
più quotati a livello internazionale, nonché il
proprietario di una catena di ristoranti di lusso, lo poneva
costantemente al centro dell’attenzione. Non c’era angolo
di Celestis dove potesse passare inosservato, a dispetto delle infinite
precauzioni che metteva in atto per proteggere la propria privacy. E la
prova era lo sguardo torvo di Cane e Lucas che, nascosti dietro una
catasta di materiale di scena, l’osservavano muoversi furtivo nel
cortile.
«Pensi che sia lui il destinatario?» chiese Pierre allungando cautamente il collo oltre lo spigolo.
«Vedi altri dall’aria sospetta aggirarsi qui intorno?» ribatté seccato.
Carmy? Lo vedi? domandò telepaticamente alla giovane.
Non ancora. Sono dietro il capannone dodici, lui dov’è? chiese.
Sta arrivando. È al tredici.
Stai attenta, uno della Chiesa ti è venuto dietro ma
l’abbiamo perso quando è entrato negli uffici della
dirigenza. Usa la telepatia solo per estrema necessità, non
sappiamo se è un mago.
Calò il silenzio. Ormai doveva mancare una manciata di secondi al contatto.
Oh, no! Cane! esclamò improvvisamente la voce di Carmy nella testa del collega.
Che c’è?
Non mi ha vista! Stavo per fargli un segnale ma è arrivata una guardia! Lo sta mandando indietro!
Stroad stava tornando allo studio scortato da un agente basso e
tarchiato quanto lui, giustificandosi tra mille risatine, sussulti e
mezze frasi sconnesse, che lasciavano intendere quanto la crisi
d’astinenza stesse progredendo ad ampie falcate nel suo
organismo. Se avesse dato in escandescenze in diretta, il network
avrebbe avuto un’indiscutibile impennata di ascolti, ben
più di quella derivata dallo pseudo-orgasmo della Gellar. Ma per
la MAB avrebbe rappresentato un gigantesco buco nell’acqua.
«Dannazione. La consegna è saltata!» ringhiò
Thomas appoggiandosi ad una pila di cartoni umidi. «Stupido
idiota! Perché non è rimasto a ingozzarsi di ciambelle
come nei film, così potevamo fare il nostro lavoro?»
«Che si fa?»
«Nulla, che vuoi fare? Non c’è modo di prendere quel tipo con le mani nel sacco».
«Io credo dovremmo…» azzardò, strizzando gli occhi nella penombra dei capannoni.
«Dovremmo? Hai qualche idea geniale?»
Forse Pierre no, ma il Capitano sì, intervenne Carmy.
Vorrei farti notare che non è qui con noi, sibilò indispettito, rimettendo la pistola nella fondina.
Sei sicuro?
***
«Immagino che vi starete chiedendo cosa succede»
esordì la Gellar. «È molto semplice. Stroad, da
quel galantuomo che è e tutti apprezziamo, ha ritenuto
opportuno, dopo averci deliziato con i suoi spunti riguardo le scelte
dei concorrenti e le sue gustose anticipazioni circa le nuove tendenze
della pasticceria, defilarsi, concedendo a un super ospite davvero
eccezionale di decretare non solo il vincitore ultimo, ma già la
triade dei finalisti!» mentì con eleganza.
Ai vertici della CKT-24 era preso un accidente quando avevano ricevuto
comunicazione dal Capitano Stirling che l’ospite di punta sarebbe
divenuto il loro ospite principale nella sede dell’Agenzia,
almeno per le ore successive. Per fortuna, la regia aveva avuto la
prontezza sufficiente per aggiustare la situazione e i giudici, per
quanto sbigottiti dalle notizie, si erano adeguati con altrettanta
naturalezza.
«Signore e signori, un bell’applauso a una persona che
più di molte altre potrà rivelarci non tanto le
abilità tecniche o le raffinatezze estetiche dei concorrenti,
quanto la profondità delle loro intenzioni e passioni!»
dichiarò Mtawarire facendosi da parte per permettere a Shonna
Martinez di fare il suo ingresso sul palco.
I partecipanti strabuzzarono gli occhi mentre il pubblico in sala
esplodeva in un boato di sentita approvazione, vedendo il donnone
avanzare in un tripudio di tessuti floreali e un turbante tempestato di
pietre colorate.
«Chi meglio di una di voi potrà dire chi accederà alla finalissima?» cinguettò Robin.
Jerkins serrò la mascella non visto: aveva sempre trattato la
donna con sufficienza, ritenendola solo il pittoresco parto di un
arcipelago khariyano, buono solo per trascorrerci il viaggio di nozze.
Sentiva di aver già detto addio alla finale: quella era una che
non ammetteva simili affronti, ritenendo un buon rapporto più
importante della stupefacente riuscita di un dolce.
Il primo ad essere chiamato al tavolo delle degustazioni fu Brando.
«Forza ragazzone, fai vedere come usi il tuo fattore
“L”» lo incitò Shonna, vedendolo avanzare con
passo incerto.
«Il mio fattore “L”?» chiese perplesso.
Lei gli scompigliò affettuosamente i capelli.
«Non c’è bisogno che te lo spieghi. Lo sai da te di
cosa si tratta» disse togliendogli il piatto dalle mani e
portandolo davanti alla faccia per osservare con attenzione le sua
proposta. «Allora, cosa ci hai preparato?»
Per qualche strano motivo, Brando non riuscì subito a trovare le
parole giuste per raccontare il dolce. Poi, notando gli sguardi che si
scambiavano i giudici – sguardi di bambini curiosi davanti a un
pacco misterioso – ritrovò la parola.
«Coodle. Da mangiare con gli amici».
***
Carmy, appena effettuata la consegna, si era dileguata alla volta del
tempio per riferire a Timur e nel piazzale restavano solo un’auto
scura con le insegne della MAB e una manciata di persone. Bloccare
Stroad mentre scartava il pacchetto con la Lilith era stato questione
di fortuna ma soprattutto, di un aiuto inatteso.
«Smettila o stavolta ti faccio rapporto per davvero»
sbottò Alexia, abbassando l’orlo dell’abito fino
alle ginocchia.
«Non ci penso neanche. Non puoi venire in ufficio vestita
così?» ridacchiò additando la scollatura a cuore.
«Ti distrai già abbastanza» rimbeccò Pierre
salendo sull’auto per scortare Stroud alla sala interrogatori.
Quando il sospetto e la guardia si erano trovati a pochi passi dalla
porta dello studio, questa si era aperta e ne era uscita Alexia. Se non
fosse stato per gli anni di servizio alle spalle, probabilmente Cane
avrebbe lasciato cadere la pistola per la sorpresa: il vestito
scarlatto che indossava le arrivava a stento a mezza coscia e le
spalline erano state deliberatamente abbassate lungo le braccia per
lasciar scoperte le spalle, messe sensualmente in evidenza dalla lunga
coda di cavallo bionda che ricadeva da un lato. Con la luce soffusa che
pioveva dalle alte vetrate dello studio e il suo incedere da valchiria
sui tacchi altissimi, Alexia aveva totalmente assorbito
l’attenzione dei presenti: approfittando della guardia che
balbettava offerte d’aiuto alla signorina “sicuramente mal
indirizzata da qualche steward”, Carmy si era avvicinata non
vista a Stroad e gli aveva recapitato il pacco, ritirando con
altrettanta rapidità il denaro.
«Come sapevi che era lui e che le cose si stavano mettendo male?» le chiese Thomas, guardano la berlina sparire.
«Ho notato che sudava come una fontana, incespicava nelle parole,
fingeva di essere agitato per l’emozione della gara e lanciava
occhiate disperate a tutte le uscite. Chiari sintomi di crisi
d’astinenza. E tu eri troppo intento a coprire Carmy per
accorgerti che Lucas mi ha mandato un messaggio sul cellulare per
aggiornarmi» spiegò mostrandogli il piccolo schermo
virtuale con la scritta: “SOSPETTO ALLONTANATO DA GUARDIA . PROCEDURA ?”
«Beh, se abbiamo finito, io tornerei ad appollaiarmi nel buco
davanti al tempio» sbadigliò Cane stiracchiandosi.
«No, è inutile. Carmy incontrerà Timur solo domani
mattina» rispose sistemando le spalline. «Rimani qui».
Lui le rivolse un’occhiata acida. Proprio non aveva voglia di vederla festeggiare o, peggio, consolare il suo bello.
«Ho di meglio da fare» tagliò corto, facendo per andarsene.
«Hai detto che Carmy era seguita. Potrebbe accadere
dell’altro stasera, forse non c’era un unico destinatario o
forse si trattava solo di un supervisore. C’è troppa gente
in sala per star tranquilli. Dobbiamo stare all’erta e io...
potrei avere bisogno di una mano» ammiccò.
Combattuto tra l’assecondarla e il girare sui tacchi, Thomas
allungò la mano e le sistemò la spallina dell’abito
con un sorrisetto perfido, affinché coprisse quella nera del
reggiseno.
«Non si corre comodi coi tacchi alti e i vestitini sexy, eh?» rispose con un sospiro rassegnato.
***
«Da questa gara usciranno i tre finalisti che, a breve, si
lanceranno nella sfida finale del “Grand Prix de Celest(is)e
Pâtisserie”, che consegnerà il titolo di Sommo
Pasticcere di Celestis» annunciò Marcel Moryiama con tono
solenne. «Prego pertanto la nostra cara ospite di pronunciare i
verdetti!»
Il brusio della platea andò scemando rapidamente. Le telecamere
inquadrarono uno ad uno i cinque dolci, partendo dalla Mehran, passando
sulla Simmons, Brando, McCoy e Jerkins, tornando infine sul sorriso
materno di Shonna. Sfilò la pergamena dalla busta e lesse tra
sé i nomi.
«Kelly Simmons» annunciò.
Dalla platea si levò un boato: la Simmons era stata, insieme a
Jula Antonova e Pitt Jerkins, una delle poche concorrenti non maghe ad
arrivare alle fasi finali del contest. Nonostante l’uso
pressoché occasionale del vessel, molti la guardavano con
malcelato timore. Si vociferava che una squadra del T.M.D. la tenesse
costantemente d’occhio per evitare che sfuriate analoghe a quelle
della Antonova sfociassero in qualcosa di peggio.
«La tua Coppa Blue Desert Rhymes
ci ha ricordato quanto calore si può celare in una deliziosa
cucchiaiata di gelato sabbioso. A prima vista ricordava davvero delle
dune di sabbia, calde ed esotiche per quel tocco di spezie e ananas,
che richiamava la fatica dei nostri antenati. E sotto la sorpresa, un
giacimento di golosità che spalanca le porte a un gioioso
futuro. Bravissima, Kelly! » si complimentò.
Nuovo silenzio. Secondi che si dilatavano nello spazio accompagnanti
dal sorriso di Shonna che si rivolgeva agli ex-compagni
d’avventura tesi e confusi.
«Jacques McCoy».
Altre grida di giubilo. Il paladino di Castar, l’ex direttore di
banca finito a fare il pescatore per essersi opposto ai vertici
societari durante una pericolosa manovra economica che avrebbe messo
sul lastrico i suoi correntisti. L’intera Contea di Castar aveva
mandato rappresentanti tra il pubblico, per la maggior parte gente che
McCoy aveva aiutato di tasca propria, dilapidando così le
proprie finanze e mandando a monte un solido matrimonio.
«Un’originale rivisitazione dei Tagliolini zucchine e carote.
Chi l’avrebbe detto che un piatto tanto semplice della cucina dei
nostri pranzi o cene, potesse trasformarsi in un sublime e
delicatissimo dolce, con tanto di salsa d’accompagnamento? Una
delizia domestica, un inganno che ci ricorda le speranze disilluse dei
pionieri, che però trovarono il modo di volgere a loro favore
– e con insperate soddisfazioni – ciò che li aveva
condotti qui!»
Silenzio.
Un vuoto interminabile.
Luci che brillavano come piccoli soli roventi.
Brando aveva i capogiri e lo stomaco rivoltato dall’ansia. Aveva
cominciato col piede sbagliato, si era ripreso, aveva incespicato di
nuovo, e ora che aveva avuto modo di osservare le altre creazioni, i
dubbi lo assalivano.
«Floscioflosciofloscioflosciofloscio» mormorò, certo di non aver mai provato sensazione peggiore in vita sua.
Eppure aveva lavorato tanto per acquisire sicurezza, per liberarsi di
certe “vecchie maniere” che lo zio Giovanni gli aveva
insegnato e che nella pasticceria contemporanea non risultavano
così utili, per affinare il gusto e aguzzare l’ingegno.
Perché ora, di fronte a quei curiosi, bizzarri pochi dolci, si
sentiva un assoluto incapace? Forse non era così bravo come
aveva creduto. In fondo, era solo un pasticcere amatoriale, non un
professionista.
«Brando Pellegrini!» chiamò la voce di Shonna, irrompendo nei suoi pensieri.
Gli occorse qualche secondo per capire che le pacche e gli scossoni
degli altri finalisti erano di congratulazioni e non di conforto. Era a
un passo, uno solo, dal coronare il suo sogno. Gli passarono davanti
tutti gli sberleffi dei compagni di scuola da ragazzo, le noiose
settimane alla “Union Joy Sweets” a inventare caramelle che
di artistico e sofisticato avevano ben poco, le scottature, i
fallimenti degli impasti e degli incantesimi, i tagli sulle dita e il
limone negli occhi, gli ingredienti che non si univano, che non
entravano in sintonia, le rese finali che non combaciavano con le idee,
le sconfitte nelle prime gare, i rimproveri dei maestri –
ufficiali e non – che l’avevano aiutato a crescere, gli
amici che l’avevano sostenuto, l’accoglienza di Alexia e
poi quel sorriso, quegli occhi. L’amore. Avrebbe voluto fosse
lì.
Non ascoltò una sola sillaba degli elogi per i suoi Coodle,
per la magnifica unione delle feste all’aria aperta –
familiari, chiassose, caserecce – e il ricordo delle vecchie
merende per bambini, da cui promanava un senso di allegria, affetto e
speranza d’altri tempi che il limitato uso della Libea non smorzava affatto: la testa era di nuovo partita su un binario proprio.
Devo vincere. Ormai ci sono, ce la posso fare! si disse mentre
stringeva la mano ad un indispettito Jerkins e ad una Mehran in lacrime
per la delusione.
«Signori, avete mezz’ora di tempo per raggiungere, pulire e
riorganizzare la mise en place delle vostre postazioni! Dopo di che,
daremo il via al gran finale!» strillò eccitata Robin,
indicando loro i banchi da lavoro.
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Capitolo 7 *** Queen MAB ***
The L Facrtor_Cap. 7
7. Queen MAB
Doppio
french toast al cioccolato (pane al cioccolato passato in pastella
liquida contenente vino liquoroso) ripieno di crema chantilly alla
vaniglia, miele amaro, cardamomo, amarene e fichi,
avvolto in due veli di pasta fillo spolverata di cannella.
Robin Gellar, Thabo Mtawarire e
Marcel Moriyama si scambiarono occhiate sorprese a dir poco. Shonna
scoppiò a ridere di gusto. Sebbene fossero abituati
all’originalità di alcune sue uscite, non erano certi di
aver capito bene cosa avesse detto. Persino la Simmons e McCoy, nelle
postazioni ai lati dell’interpellato, raggelarono.
«Scusa, come hai detto che lo chiamerai?» biascicò Mtawarire, allentando la cravatta.
«Queen MAB» ripeté, mescolando rapidamente la pastella con la frusta.
Il trio boccheggiò. Nel
pubblico qualche spettatore malignò sembrassero dei pesci rossi,
qualcun altro chiese che portassero alla Gellar il dolce di qualche
giorno prima affinché riprendesse colore.
«Con un nome così, mi
auguro non vorrai farci arrestare tutti quanti… siamo brave
persone! Sul serio!» tentò di scherzare la donna,
allungando teatralmente il collo verso le telecamere e scandendo con le
labbra il suo rispetto incondizionato per l’Agenzia.
Avevano saputo dell’arresto
di Stroad per possesso di Lilith e certo nessuno di loro aveva voglia
di vedere l’Agenzia piombare nello studio rivoltando i piccoli
scheletri nell’armadio di ciascuno di loro.
Brando scosse la testa, gonfiando orgogliosamente il petto.
«No, al contrario. Vi
garantisco che si tratta di un’ode al merito. Qualcosa che,
chissà, potrebbe anche far piacere ai membri dalla MAB, visto
che è ispirata a uno di loro. Anzi, a una».
In fondo glielo doveva. Aveva pensato sempre a una sola persona durante la gara (anche per i Coodle,
la scelta di birra e albicocche era stata dettata dall’amore e
non dall’amicizia in senso stretto), era giunto il momento di
tributare un ringraziamento speciale a chi l’aveva sostenuto in
silenzio. A costo di fargli male fisicamente.
***
Cane guardò Alexia, seduta al suo fianco. A quelle parole aveva
roteato gli occhi spazientita. Era evidente che fosse lei la musa
ispiratrice del dolce e che non ne fosse particolarmente entusiasta,
anche se non aveva la benché minima idea di come delle fette di
pane al cioccolato potessero ricordarla. Piuttosto si accordavano con
la faccia del tizio seduto nell’angolo del palchetto dove Alexia
l’aveva condotto poco prima, la sua carnagione cupa era identica
a quella base. Probabilmente, si trattava di un altro amico pasticcere
della coppia come gli altri stipati nel piccolo spazio sospeso quasi
sul vuoto. Erano una combriccola davvero bizzarra, dai loro accenti e
da alcuni ornamenti s’intuiva provenissero da zone molto diverse
di Celestis, eppure quel giovane – che doveva avere solo un paio
d’anni più di Alexia, vestiva in maniera del tutto
diversa, elegante e austera. Non aveva l’aria di essere
invischiato con i piaceri della pasticceria o della cucina in generale,
se non come degustatore. Persino i suoi atteggiamenti erano meno
chiassosi e irrequieti, e lasciavano trasparire un’immensa ansia.
***
Non guardò i giudici allontanarsi, intento com’era alla
cottura dei french toast. Osservava concentratissimo il velo di
pastella rapprendersi e colorire attorno al pane dolce e scuro,
liberando il profumo del vino passito. Una nota raffinata che gli
riportò alla mente le cene con Alexia e i suoi genitori, prima
che il signor Stirling perdesse la vita, ai momenti in cui le loro due
famiglie si frequentavano con maggior assiduità. Avrebbe voluto
poter regalare alla sua amica un nuovo ricordo con accenti simili
perché sapeva bene quanto lei evitasse di guardare al passato.
Mentre l’ultima fetta si
cuoceva, controllò la temperatura della crema pasticcera alla
vaniglia e la trovò quasi pronta a ricevere l’aggiunta di
panna montata. Poco più in là, pezzi di fichi e amarene
erano disposti in due ciotole separate e beatamente intenti ad
amoreggiare con alcune cucchiaiate di miele amaro.
È il bello di Lix, si disse con soddisfazione. Finché
non ci hai a che fare di frequente, ti lascia in bocca queste prime
sensazioni succulente di una che è nata nei quartieri alti, poi
però ti accorgi che sa essere alla mano, persino dolce, ma in
lei c’è sempre questo fondo amaro perché anche se
lo nega, pretende molto da sé. A volte troppo. E fa passare
inosservato quel pizzico di non so che, che la rende speciale, e
con quella considerazione, gettò alcuni pizzichi di cardamomo in
polvere nelle terrine, applicando un incantesimo che rivoltasse
delicatamente la frutta.
Un rumore di vetri infranti lo fece trasalire.
Jacques era impietrito davanti allo scempio: il barattolo della Libea
gli era sfuggito di mano ed era caduto sui gradini che dividevano le
loro postazioni. La polvere bianco-argentea si era sparsa a terra e
perdeva rapidamente luminosità, segno che le sue
proprietà magiche stavano svanendo a contatto con i materiali
della scala. Ogni concorrente aveva avuto un barattolo in dotazione e
non ne sarebbero stati forniti altri né era stato concesso loro
di portarne da casa. La disperazione lo fece crollare in ginocchio e
dal pubblico si levò un coro di schiamazzi indecifrabili. Ogni
speranza di vittoria svaniva con il luccichio della polvere.
McCoy sentì la delusione e la frustrazione stritolarlo in una morsa. Il destino gli stava negando la vittoria.
«Tieni» disse una voce.
L’ex-banchiere alzò
lo sguardo su Brando, apparso lì accanto come dal nulla ad
offrirgli la propria scorta. Non capiva. La Libea
perdeva le proprie caratteristiche di esaltatore del gusto e
stabilizzatore degli incantesimi se veniva esposta per troppo tempo
all’aria o veniva sparsa su materiali non edibili; travasarla
avrebbe significato distruggere anche quella quantità e certo
non potevano passarsela ogni cinque minuti, a seconda dei bisogni.
«Prendila» sbuffò Brando ficcandogli in mano l’intero contenitore.
Solo in quel momento McCoy
realizzò cosa stesse facendo l’avversario. Si alzò
e, tentando di recuperare l’aplomb con cui si era fatto conoscere
sin dalle selezioni, fece per restituirglielo. Avrebbe reagito, in un
modo o nell’altro; l’aveva già fatto per i suoi
correntisti, per le loro famiglie. Ci sarebbe riuscito anche quella
sera.
«No, non posso. Resterai
senza e non posso permetterlo» balbettò, drizzando
orgoglioso la schiena ma Brando gli voltò le spalle, superando
con un saltino la scala.
«Non mi serve. Non la
uso» replicò pacato, tornando alla crema chantilly che si
stava mescolando alla perfezione.
Se la concentrazione non fosse
stata alle stelle, Brando si sarebbe accorto del gemito di sorpresa che
si era levato da pubblico e giudici, all’udire le sue parole. Era
impensabile creare dolci di alto livello senza servirsi della Libea.
«Sei impazzito? Un dolce… senza Libea?» boccheggiò.
Brando gli rivolse
un’espressione accondiscendente e tranquilla, che fece sorridere
da un orecchio all’altro Shonna e Mtawarire per motivi diversi.
«Si può fare. Fidati» lo rassicurò. «Troppo spesso si usa la Libea per coprire gli errori. Non li fa la persona a cui mi sono ispirato per preparare la Queen MAB, figuriamoci se posso permettermi di farli io».
Dall’altra parte, oltre la
seconda rampa di scale, Kelly lo fissava inebetita, il braccio con il
vessel teso verso il Pan di Spagna alla nocciola che stava modellando.
«Non hai da fare? Mancano quaranta minuti» fece divertito, indicando il timer sopra le loro teste.
***
«È matto» sussurrò Aditi, con le mani
scarabocchiate di henné premute sulla bocca per lo spavento.
Aveva gli occhi neri talmente
dilatati dallo spavento che per un attimo Cane pensò le
sarebbero rotolati fuori dalle orbite. Alexia gli fece segno di lasciar
perdere e non darle corda in alcun modo.
«È un dio, l’ho
sempre detto. Vero, Feng, che l’ho sempre detto?»
gracchiò Ertemios, dando di gomito alla moglie che invece
decretò:
«Si è bevuto il cervello, quell’accidente di amalteco!»
Di nuovo, la Stirling levò
appena una mano per impedire al sottoposto di far domande. Conosceva
fin troppo bene la tifoseria dell’amico per non sapere che ogni
interrogativo avrebbe sollevato diatribe furiose e non era il caso che
Cane si facesse coinvolgere su un terreno ignoto come quello.
«Cazzo, Brandy, fagli vedere chi ha i coglioni lì sopra!» ruggì una voce.
«Hannu!»
rimbrottò Billy Roy, un tipo che vestiva da cow-boy con tanto di
cappellaccio e laccio simil-frusta appesa in vita ma si atteggiava a
consumato bohemien.
«Beh, che c’è?
Fate tutti i carini ma per stare in pasticceria ci vogliono due palle
così e lui le ha!» sbottò il biondissimo eybano,
che sedeva scomposto tra la olivastra Aditi e l’amico.
«Fat’la f’nita
tuti quandi» li zittì l’omone dalla vistosa barba
rosso ciliegia che Alexia aveva presentato come Mark. «Brendo sha
quel ch fa, molto mellio di nnoi. Shiamo qui pe shost’nirlo o mi
shone shp’ratto mizza gi’rnata d volo con voi piattole
frinnione pe s’ntirvi dire shimenzi shulle shue
deshissione?»
Nessuno osò obbiettare. Alexia gli rivolse un cenno di ringraziamento col capo. Lui rispose sillabando muto.
«“Figurati,
Mistress”?» bisbigliò sarcastico Cane, ma venne
fulminato all’istante da un’occhiataccia. «Ho capito,
padrona. Non dirò niente» sghignazzò con aria
falsamente servile, ammutolendo subito dopo per il tacco appoggiato con
una certa insistenza sul suo piede.
«Fai bene. Anche
perché non ha detto “mistress” ma “mish
vèz”, che sulle montagne di Amaltea vuol dire
“piccola mia”. Mark è il solo a cui permetto di
usare simili appellativi, visto che anni fa era uno dei collaboratori
più stretti di mia madre. Chiaro, servo?» specificò
torva.
***
Con McCoy fuori gioco al terzo posto, e i commenti più
entusiasti mai uditi in quella manciata di puntate, la finale era
quanto mai in bilico. Moriyama ammise che il compito si era rivelato
più arduo del previsto.
«Da un lato abbiamo la
storia, la tradizione, rivisitati in chiave moderna, con l’uso
ardito di incantesimi d’incorporazione e di nuovi ingredienti
come la glassa con polvere di smeraldo opale, che pure nulla tolgono al
fascino antico di una preparazione come la torta di nocciole»
declamò Mtawarire, levando in alto la torta di Kelly, la quale,
presa dall’emozione, mancò poco che svenisse.
Vista negli schermi, la fetta
sembrava uscita da un manuale di cucina, perfetta e accattivante, ma
paradossalmente alla portata di qualsiasi massaia di buona
volontà.
«Dall’altra abbiamo la
dedizione, la ricerca, il mettersi alla prova attraverso strade mai
tracciate pur poggiando i passi nel solco di scuole di tecnica e
pensiero ormai abbandonate, arrivando persino a ignorare la prassi pur
di raggiungere il risultato più strabiliante, imprevedibile
e… profondamente eccitante» fece eco la Gellar, mostrando
la Queen MAB.
La copertura croccante di pasta
fillo, resa ben dorata da un apposito incantesimo, si apriva sui due
strati pane al cioccolato, da cui colava seducente la crema con i suoi
golosi ospiti di frutta.
«Lasciatemi dire che trovo
ingiusto dover incoronare uno solo di voi due» proseguì
Shonna, visibilmente provata dalla mezz’ora di discussione.
«Vorrei vedervi vincere entrambi ma purtroppo è
impossibile. Avete grandi doti, un cuore colmo di passione e le mani di
doni. Meritate molto e sento che ve lo guadagnerete!»
Venne aperta la busta e le luci abbassate fino a lasciare in vista solo Brando e Kelly ai due lati opposti del palco.
La tensione si rapprese in quegli
unici fasci di luce rendendoli come di gelatina. Brando aveva alcune
briciole di pasta fillo tra i capelli, Kelly era più pallida
della panna montata. Nell’aria si mescolavano gli aromi
zuccherini dei dolci sfornati e già divorati, gli effluvi
profumati dei giudici e della platea, il frizzo dell’etere
rilasciato dalla magia.
Infine, i giudici esclamarono in coro:
«Kelly Simmons!»
***
«Posso fare le congratulazioni al mio vincitore?» echeggiò una voce nel vuoto.
Le lacrime di amarezza di Brando
cessarono per un istante. Per un istante era tornato partecipe del
turbinio della musica, dei coriandoli, nei volti e delle mani, poi una
nuova bolla di silenzio aveva annullato ogni cosa.
Quando si volse, la folla festante
si era spostata con la vincitrice, e nello spazio lasciato libero era
apparso un uomo in giacca e cravatta. Gli occhi azzurri spiccavano nel
volto scuro, brillanti d’emozione.
«Julius» ansimò sconvolto.
Prima lo smacco per la mancata
vittoria, ora lui che compariva dal nulla. Sentì le ginocchia
tremare e il cuore sbattere furioso contro le costole. Forse stava per
morire.
«Ho visto la gara dal
loggione. Eri magnifico. Sei magnifico!» disse l’altro
andandogli incontro a braccia aperte.
Brando rimase rigido mentre si
sentiva stringere affettuosamente. Sottile, appena percepibile, gli
arrivò il profumo della colonia di Julius, quella che lui gli
aveva regalato al suo compleanno. Un insieme di arance amare e resina,
con uno spunto di cacao. Avrebbe voluto scappare, sparire in un pozzo o
tra le fauci di un EDA.
«Credevo fossi bloccato a…» bofonchiò incredulo nell’abbraccio.
«A Otisa?»
sogghignò divertito al suo orecchio prima di scostarsi per
guardarlo negli occhi. «Ci sono cose chiamate aeroporti, sai? E
altre chiamate “bugie bianche”, anche se la giurisprudenza
corrente non le tollera».
Brando annuì
meccanicamente. Ancora non si capacitava della sua presenza: era
frastornato dalla delusione, la gola era improvvisamente rigida e
secca, le orecchie assordate da un silenzio innaturale, ma più
di tutto lo confondevano quelle mani calde e curate che stringevano le
sue ancora impiastricciate di pastella e amarene.
Julius sorrise, gli occhi lucidi per la commozione. Poi, vedendo che Brando non reagiva, scosse la testa.
«Sorpresa»
mormorò. «Pensavi davvero che sarei rimasto là? Non
mi sarei perso il tuo trionfo per niente al mondo. Lo sapevo,
l’ho sempre saputo che ce l’avresti fatta, sei il
migliore!»
«Ho… perso» sussurrò ma Julius scosse la testa e lo baciò con trasporto.
Solo allora il pasticcere
riuscì a riscuotersi e si rese conto davvero di ciò che
stava accadendo. Aveva vinto il suo personale “Grand Prix de
Celest(is)e Pâtisserie”: era riuscito a raggiungere il
primo gradino per arrivare a realizzare i suoi sogni. Poteva non essere
il migliore per la giuria, ma ora aveva piena consapevolezza delle sue
vere capacità. Julius si era fatto da parte per lasciargli
libero sfogo e consentirgli di spremere ogni goccia di quella magia
interiore che per anni aveva coltivato con tanta dedizione e
accanimento. Aveva mentito sulla sua assenza per spingerlo a combattere
con ogni mezzo, per dimostrare a tutti (e soprattutto a sé
stesso) fin dove potesse arrivare senza il bisogno di spinte di alcun
genere.
«Ti amo, Juls» singhiozzò abbracciandolo di nuovo, questa volta con totale partecipazione.
«Lo so, Campione. Ti amo anch’io».
***
«Julius King, avvocato specializzato in diritto internazionale,
lavora dello studio legale Castillo & Perrault, dove si occupa dei
rapporti tra i cittadini amaltechi e lo stato caldesiano. Ma,
principalmente, il fidanzato di Brando» chiarì Alexia
sottovoce. «Credo che se potesse farselo scrivere sulla carta
d’identità, lo farebbe di corsa».
Cane annuì senza staccare
gli occhi di dosso ai due che continuavano ad abbracciarsi e baciarsi,
incuranti dei flash che si accendevano a raffica tutt’intorno. Li
si vedeva in ogni schermo a disposizione nello studio di registrazione,
la loro amara felicità era stordente, ben più del trionfo
della Simmons, che sapeva decisamente di manovra socio-politica. Se
Lucas fosse stato lì avrebbe cominciato a prenderlo in giro,
facendogli notare che sin dal principio era stato in errore e, di
conseguenza, avrebbe posto l’accento sul fatto che stesse
invecchiando.
Devo inventarmi qualcosa per metterlo a tacere, pensò allarmato. Avrà sicuramente visto tutto.
Poi ricordò di averlo
spedito alle calcagna di Stroad e che Lucas era troppo ligio al dovere
per aver sottratto tempo all’indagine in favore di un programma
televisivo. Sarebbe riuscito a preparare qualcosa. Ciò
nonostante, il tempo era venuto meno su un altro fronte non appena
Alexia, terminata la fase delle congratulazioni di rito (che sapevano
molto di consolazione in questo caso), aveva dichiarato di volersene
andare. Non aveva intenzione di fare le ore piccole in mezzo a quella
baraonda zuccherina: aveva altre cose per la testa.
«Ora mi spiegherà un
paio di cose, Agente Cane» attaccò, prendendo un tono
molto formale non appena le porte dell’ascensore si chiusero.
«Innanzitutto: perché quest’interesse morboso verso
il mio coinquilino?»
«Coinquilino?» domandò fingendosi stupito dalla rivelazione.
«Sì.
Coinquilino» ribadì aspra. «So quanto riesci ad
essere ficcanaso, il cassetto forzato della scrivania di Carmy non
l’ho dimenticato. Ma questa volta hai azzardato azioni
inquisitorie nei confronti di una persona a me vicina».
«Io? No davvero. Sono un
agente molto impegnato, casomai se lo fosse scordata» si
schermì, ma la sua aria da giocherellone non attaccava con il
Capitano e purtroppo lo sapeva: se non avesse trovato una scappatoia,
lo scudo sarebbe andato in pezzi molto presto.
«Hai avuto delle uscite
sospette in questi giorni, così ho controllato. Hai indagato
sulla vita di Brando» l’accusò.
«Non parla molto della sua
vita fuori dell’ufficio. Pensavamo fosse il suo ragazzo, visto
che siete usciti insieme da casa sua quella mattina. Volevamo solo
essere certi che fosse tutto a posto» ribatté sicuro.
«Lascia fuori Lucas da
questa faccenda. È troppo per bene e intimorito da me per farti
da spalla in una cosa simile. Sto parlando di te. Sei stato tu a fare
quelle ricerche, da solo! Perché tanto interesse, Thomas?»
«Vede, Capitano, può succedere che…» iniziò vago.
«Smettila. Non siamo alla
MAB e io non sono in servizio. E non me ne frega niente se qui intorno
ci sono altre persone: parla con me, con Alexia, non col tuo
superiore» ribadì spazientita, piantando le mani sui
fianchi.
«Potrei distrarmi se resti
in quella posizione» tentò di scherzare, indicando il
decolleté in bella vista.
Tuttavia, Alexia era bel lungi dal dargli corda e insisté per avere una risposta.
«Te l’ho detto:
pensavo fosse il tuo ragazzo. Ero curioso. Non si può essere
curiosi?» sogghignò.
«E anche se fosse stato il
mio ragazzo? Chi ti dava il diritto di comportarti così? Di
darmi quelle rispostacce o di tentare di usare il mio rapporto con lui
come un’arma?»
Aveva ragione e l’agente
dovette dargliene atto. Erano state delle mosse veramente azzardate,
persino per uno come lui. Che diavolo gli era preso? Come aveva potuto
farsi prendere la mano a quel modo?
«Sto aspettando» lo incalzò, avvicinandosi ancora.
«Le indagini sulla Chiesa di
Ela si fanno più pericolose ogni giorno che passa. È
quasi impossibile sapere di chi ci possiamo fidare, non sappiamo se i
nostri movimenti sono controllati o se il prossimo che arresteremo ci
scatenerà contro chissà cosa: EDA, vampiri, tossici,
svitati,... c’è qualcosa di male se ci copriamo le
spalle?»
«Dimmi perché» insisté, avanzando di un altro passo.
Ormai gli era addosso, fisicamente e non solo.
Cane voltò la testa,
fingendo di guardare il panorama oltre la gabbia di vetro
dell’ascensore. Kyrador era una spolverata di stelle sulla terra.
E lei non l’avrebbe lasciato in pace fin quando gli avesse dato
ciò che voleva. Si appoggiò alla parete traslucida,
osservandola con un sorriso stanco.
Vuoi proprio sapere? Davvero, Alexia? E cosa farai se parlo, se ti dico tutto? si chiese guardandola di sottecchi. Questo
non è un delinquente sotto interrogatorio, sono io. Riusciremo
ancora a far funzionare le cose come se nulla fosse?
Ascoltò il battere nervoso
di un tacco sul pavimento di marmo e socchiuse gli occhi nel tentativo
d’ignorare la ridotta lama d’aria che li divideva. Quasi
indovinava le curve del suo corpo senza guardarla.
«Voglio preoccuparmi per te.
Di te. E non solo perché sei il mio capo. Anzi, questo è
proprio l’ultimo dei fattori, se devo dirla tutta» ammise
infine. «Ti dispiace?»
Il piano terra era ancora lontanissimo, nonostante le strade si stessero animando di un fiume brulicante d’auto.
«Sì, finché ci
giri attorno» mormorò Alexia. «Sai che preferisco le
cose dette in faccia».
«Te l’ho appena detto, mi pare».
Alexia arricciò le labbra, dondolando il capo mentre fingeva di far fatica a ricordare.
Cane si rilassò, scivolando un poco contro il vetro. Rimase a guardarla per lunghi istanti, indeciso sul da farsi.
«Non sei obbligata a ricambiare. Non te l’ho chiesto» sussurrò.
«Lo so. Grazie per averlo chiarito».
«Però, se posso permettermi, non è dignitoso che una donna sola conviva con uno come quello».
«“Come quello”? Hai qualcosa contro i gay?»
«Ho qualcosa contro ogni
maschio fisicamente dotato di attributi conviva con una donna nubile di
mio interesse, senza che abbia con questa una relazione seria. Anche se
dice di preferire gli uomini e fa di tutto per dimostrarlo»
dichiarò, quasi si trattasse di un atto di guerra. «Io la
vedo così e non cambierò idea, punto e basta»
s’impuntò.
Alexia lo squadrò, sorpresa dalla rivelazione e non del tutto convinta d’averla compresa fino in fondo.
«Sei un cretino» rise
assestandogli un pugno sul braccio. «Ora ti resta un solo modo
per farmi digerire queste tue inutili gelosie da macho».
«Vale a dire?» domandò recuperando la consueta aria sorniona.
Lei l’afferrò per il bavero della giacca, stringendolo fin quasi a soffocarlo.
«Sto morendo di fame e tutti
quei dolci mi hanno fatto venire un attacco di diabete, e per giunta
questi tacchi mi stanno uccidendo! Trovami un posto qui vicino per
mangiare le cose più salate dell’universo. Adesso!»
sbraitò.
Nonostante la stretta, Cane scoppiò a ridere e lei lo imitò subito dopo.
«Okay, okay! Ci sarebbe il
“Deb’s”, che prepara piatti tipici delle campagne di
Caldesia, oppure il “Roakahuna Wetii”, che propone roba
fusion su base di cucina fhirlandiana fino alle sei del mattino. Con
tutto il sale che vuoi» propose con un fil di voce.
Soddisfatta, lo lasciò andare e risistemò con calma capelli e vestiti, imitata da Thomas.
«Mi rimetto al mio ospite,
visto che sarà lui a pagare. E nel rimborso alla MAB farà
figurare di essere solo. Stasera non avrei dovuto essere alle calcagna
di certi delinquenti, perciò…»
«Davvero? Ma che
peccato» sospirò ironico, passandole un braccio attorno ai
fianchi. «Adoro potermi vantare con quelli dell’Ufficio
Contabilità di fare il mio mestiere di notte, in costosissimi
locali alla moda, in compagnia di donne meravigliose, che indossano
abiti provocanti, scollati e rosso fuoco, che nessuno immaginerebbe
siamo membri dell’Agenzia! Non posso proprio indicarti? Nemmeno
per una porzione di patatine? Un cocktail?»
«Dacci un taglio,
Cane» sibilò rifilandogli una gomitata tra le costole che
l’obbligò a fermarsi mentre lei usciva
dall’ascensore ancheggiando a passo di marcia.
«Cane? Come “Cane”? Che fine ha fatto l’altra parte di me?»
***
La mattina successiva la finale, Kyrador era spazzata da un violento
temporale. Tuoni e lampi si alternavano tra gli scrosci di pioggia,
come se fossero impegnati a grattar via le delusioni per dar spazio
alla serenità.
«Mtawarire è Cavaliere degli Speziali del Lat’chi?» esclamò esterrefatto Julius, sollevandosi sui gomiti.
Brando, appoggiato ai cuscini, lasciò cadere indietro la testa.
«Te lo giuro! Quando mi ha mostrato la spilla quasi svenivo. Lui! Un Cavaliere! Ti rendi conto, Juls?»
Entrambi facevano parte di quella
congregazione, una sorta di società segreta dedita allo studio e
all’uso di antiche misture di spezie le cui proprietà
medicamentose si sommavano a quelle più goderecce
dell’esaltazione e miglioramento delle pietanze – dolci e
salate. C’era qualcosa di mistico nel maneggiare quelle polveri e
ritenevano che il loro incontro nelle fila degli Speziali fosse
l’esempio lampante di quei occulti poteri.
«Noi siamo poco più che adepti e ti ha trattato come un suo pari! Deve tenerti in grande considerazione».
«A quanto pare»
replicò, scrutando con disappunto l’improvvisa assenza di
un bottone dalla casacca del pigiama.
Julius non soffriva quegli
inconvenienti, abituato com’era a indossare solo i boxer, ma lui
proprio non sopportava quei piccoli “orrori”, né su
di sé, ne sugli altri.
«Non mi stupirei se da
Recadi arrivasse una lettera dall’Ordine per insignirti di un
titolo meritorio. In fondo, hai portato lustro alla confraternita,
anche se solo noi membri ne siamo a conoscenza» osservò
l’altro, serio. «Ci sono persone importanti tra gli
affiliati, qualcuno potrebbe decidere sovvenzionare la tua
attività! Insomma, hai comunque vinto trentamila kylis, ma ne
servono almeno il…»
«Per ora non
m’importa» l’interruppe mettendosi a sedere.
«È bello svegliarsi la mattina e non sentire Lix che
sbatte i tacchi sul pavimento e rischia di cadere perché il
gatto le è saltato tra le gambe per giocare; e trovarsi invece
un bell’uomo che tesse le tue lodi e pende letteralmente dalle
tue labbra. Vorrei concentrarmi su questo, se non ti spiace»
considerò, arricciando la bocca con fare eloquente.
Julius scosse la testa e
l’accontentò. Percepiva ancora distintamente il suo
malumore per aver mancato il primo posto di un nonnulla e non si
sentiva incline al lasciarlo macerare nel fiele.
«Dici che dovremmo dare una
mano a Lix? Col suo collega, intendo» gli rammentò.
«Qualche buon consiglio può farle comodo, per non mandare
all’aria questa grazia. Sono andati via prima che i
festeggiamenti entrassero nel vivo e se le cose non…» ma
dovette lasciare la frase a metà, per difendersi da una blanda
cuscinata.
«Smettila di fare
l’avvocato in ogni dove, Julius» l’ammonì
stiracchiandosi. «Lix se la caverà benissimo. Magari anche
loro si sono svegliati come noi, felici e abbracciati».
L’altro fece una smorfia, lasciandosi cadere sul fianco.
«Sì, hai
ragione» dovette concordare Brando. «Lix non è tipo
da cose del genere. Probabilmente l’avrà spinto giù
dal letto due minuti dopo aver concluso, per riappropriarsi del suo
spazio vitale. Detesta lo invadano, non importa se per un buon motivo.
Persino al gatto ha insegnato a non mettere zampa sul letto».
Per qualche minuto nessuno
parlò. Ridacchiarono scambiandosi occhiate quasi timide,
sfiorandosi a vicenda le mani, quasi fosse la loro prima volta insieme.
«Da oggi le cose cambiano, lo sai?» dichiarò il pasticcere, prendendo per mano il fidanzato.
Julius aggrottò la fronte intrecciando le dita alle sue.
«Ne ho una vaga idea. Dovrai
cercarti un lavoro oppure dovrai tornare alla Limmenshau e diventare
sul serio un pasticcere titolato» e la seconda opzione avrebbe
previsto il separarsi di nuovo.
«Stai con l’Imperatore
Sovrano dei Pasticceri di Celestis, non certo con un cake designer
qualunque» motteggiò.
«Mi tocca il ruolo
dell’Imperatrice? Sai che con la gonna sto malissimo, sto meglio
con la toga» scherzò l’avvocato, drappeggiandosi
addosso il lenzuolo. «E poi, non sei il grande sconfitto della
serata?»
«A volte accadono cose
inspiegabili dopo una disfatta, o mio ViceImperatore. Si può
arrivare molto in alto anche partendo dal gradino più
basso» replicò sibillino.
«Se devo fare il tuo
secondo, dov’è il nostro splendido maniero da cui
lanciarci alla conquista del mondo?» chiese scettico, indicando
col capo verso la porta della stanza, oltre la quale
s’intravvedeva un brevissimo corridoio e una zona pranzo
piuttosto disordinata.
Nonostante lavorasse in uno degli
studi più prestigiosi di Kyrador, Julius si era potuto
permettere solo un piccolo appartamento di due stanze in affitto in una
zona semiperiferica, nulla a che vedere con lo sfarzoso attico della
Stirling nel pieno centro. Purtroppo sapeva bene che i sogni e le
speranze dilapidavano i conti in banca, non li facevano lievitare, e
sentire Brando accennare a futuri scenari di ipotetiche conquiste lo
preoccupava: era il momento di essere pragmatici, di affrontare la vita
da un punto di vista più pratico e tangibile.
«Ho già visto un paio
di posti adatti, laboratorio sotto, appartamento sopra, uno studio per
te. Sognare non costa nulla e nemmeno rompere le scatole agli agenti
immobiliari» confessò grattandosi la nuca.
Julius si mise a sedere al suo fianco sgranando gli occhi chiari.
«Uno studio… per me?» domandò sbalordito.
«Certo. Per te e i tuoi
futuri assistenti. Insomma, mica mi sono innamorato di un avvocatuccio
qualunque, no? Sei uno dei migliori legali sulla piazza e dubito
resterai a lungo in quello studio, visto che non mi pare abbiano
intenzione di farti diventare socio. Così, potresti avere il tuo
studio personale. Il “King’s International Lawyers”,
proprio sopra la mia “Rêveur Amaltea”»
buttò lì, giocherellando con l’orlo dei boxer del
compagno.
«Hai già scelto i nomi?» rise, sempre più confuso.
«Sì. E anche gli orari in cui faremo pausa con i miei capolavori» annunciò baciandolo.
«E come pensi di fare, senza quell’assegno faraonico?»
«Debiti. Come tutti i comuni
mortali» ribatté con un’alzatina di spalle.
«Trentamila kylis e alcune comparsate retribuite in tv nel
prossimo anno sono una buona base per ottenere il prestito che mi
occorre. Alexia l’aveva verificato tempo fa e… si era
detta disposta a farmi da garante, se non fosse stato sufficiente. A
patto che mi “levassi dalle palle al più
presto”» rise, divertito più dall’espressione
del suo lui che dal ricordo della chiacchierata.
«Mi stai davvero chiedendo
di vivere insieme, Brando? Io e te?» mormorò stordito,
poggiando la fronte sulla sua.
«Sì. Noi due. Sarebbe
ora, dopo cinque anni. E poi, devo lasciare spazio a Lix… o dove
lo metterà quel poveretto, quando litigheranno?»
ridacchiò.
Conosceva fin troppo bene il
carattere mascolino dell’amica ed era certo che, in caso di
discussioni, la pace fra quei due sarebbe stata sancita a scapito di
diverse “riorganizzazioni spaziali”.
«Sul divano come tutti, no?
L’ho fatto anch’io... È da ritenersi la prassi nei
litigi di coppia» lo stuzzicò Julius.
Le loro litigate si potevano
contare sulle dita di una mano e l’esperto di legge doveva
ammettere, suo malgrado, di essere stato sempre lui a dare il via ai
battibecchi, e quindi, di aver meritato di essere scacciato dal proprio
letto. O da qualunque letto Brando occupasse.
«Il divano è
proprietà di Prince Great Mighty Azul-Gray Cloud on the North
Sea di Taveja Valley e non lo cederà a nessuno. Piuttosto lo fa
a pezzi con le unghie».
«Giusto»
concordò, tornando a farsi esitante. «E… quanto
pensi ci vorrà? Per… trasferirci».
«Prima è, meglio
è. Comincio a sentirmi un peso per Lix. È stata fin
troppo generosa e paziente, e… è già un miracolo
che non mi abbia preso a pugni in quest’ultimo periodo. Ha sempre
avuto un gancio sinistro notevole. Comunque, sono stufo di perdere a
gelharball con una su cui non posso rivalermi in alcun modo».
L’avvocato scrollò le spalle, lasciandosi cadere sulla schiena.
«Sa che sono una schiappa e
vuole umiliarmi per poi asciugare le mie lacrime? È questa la
sua proposta di accordo, Signor Pellegrini?»
«Arguto, Avvocato King. Molto arguto» sospirò, imitandolo con un gran sorriso.
A quelle parole, Julius sembrò essere attraversato da una scossa e si voltò verso di lui.
«A proposito di
arguzie… cos’è il fattore “L”? Te
l’ha spiegato Shonna?» indagò.
Brando annuì solenne ma ammettere che si trattasse di un segreto con l’amica-nemica gli costò una Ocean Eye da fare in giornata come pattuito e mezz’ora di coccole.
“L” stava per
“Lüfz”. Nel folklore gorbeko era una divinità
del focolare, un folletto o spiritiello buono, preposto al nutrimento
della famiglia, non solo a livello culinario ma anche affettivo e,
soprattutto, mistico. Shonna gli aveva detto che osservandolo preparare
i dolci durante la gara, aveva percepito chiaramente un legame tra lui,
i dolci stessi e le persone a cui li dedicava, qualcosa che andava al
di là della semplice abilità o delle magie gastronomiche.
«Tu sia infondere molto di
più che golosità ai tuoi dolci» gli aveva detto
stritolandolo in un lungo abbraccio. «Non c’è vessel
o incantesimo che possa attrarre un Lüfz: o è dentro di te
o non se ne fa nulla. E tu sei uno di loro! Non ti servono quei soldi,
riuscirai lo stesso a rendere felice la gente».
Brando sorrise, ripensando a
quelle parole mentre tentava di resistere alle moine di Julius che
voleva conoscere il segreto ad ogni costo. Gli piaceva pensarla come
Shonna.
Credo che cambierò il nome della pasticceria, rifletté. Penso che la chiamerò “The L Factor”.
Writer's Corner.
Ebbene, abbiamo concluso questa piccola avventura magico/dolciaria.
Prima di tutti ringrazio Carlos Olivera,
che non solo mi ha lanciato la sfira di creare un nuovo personaggio
basato sulle sue storie (forse ho fatto persino di più), ma
soprattutto ha supervisionato l'avanzamento del racconto, facendomi
presente cosa andava e cosa no, cosa avevo scordato o era rimasto
sottaciuto. Poi segue il doveroso ringraziamento a Shade Owl, che sta finendo di leggere e recensire la storia, sollevando quesiti e analizzandola da profano. Ringrazio Raven Michaelis, che pur non avendo ancora lasciato commenti ha inserito "The "L" Factor" tra le sue peferite. E infine, devo ringraziare tutti coloro che hanno letto questi capitoli, magari nell'attesa che finisca la mia long.
Alla prossima!
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