The L Factor

di Ely79
(/viewuser.php?uid=61615)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Purple Dream ***
Capitolo 2: *** Twisted Rolls ***
Capitolo 3: *** Far Amal ***
Capitolo 4: *** Ocean Eye ***
Capitolo 5: *** Magic Moment ***
Capitolo 6: *** Coodle ***
Capitolo 7: *** Queen MAB ***



Capitolo 1
*** Purple Dream ***


The L factor_Cap 1
1.    Purple Dream

Brownie ricoperti di caramello salato, affogato in un frappè di gelato vaniglia, mirtilli freschi, menta e libea, guarnito con panna montata, Libea, briciole di brownie, mirtilli freschi,
foglioline di menta e topping di caramello salato.



L’incontro con Valakis aveva lasciato strascichi che Alexia non si sarebbe mai aspettata. Erano emersi poco a poco durante l’interrogatorio notturno, diffondendosi ovunque. Sentiva lo stomaco teso e gelido come un blocco di ghiaccio, le era impossibile chinarsi o voltarsi senza provare fitte lancinanti. Per non parlare delle mani che avevano perso parte della sensibilità. Nel suo organismo doveva essere in atto una furiosa battaglia tra la porcheria trangugiata in quel lurido localaccio e le sue difese immunitarie da maga. Cane e Lucas l’avevano perseguitata per tutto il tragitto continuando a domandarle come si sentiva, incrementando il suo fastidio e un nascente mal di testa. Come se non bastasse, aveva la netta sensazione che con l’intromissione dell’Anticrimine, la loro iniziativa non sarebbe passata sotto silenzio e che per l’indagine si profilassero momenti irti di incognite.
Nulla di quella giornata lasciava presagire miglioramenti entro breve.
Attraversò barcollando l’ampio pianerottolo marmoreo che separava l’ascensore dall’ingresso di casa, al decimo piano di uno dei magnifici residence che si susseguivano lungo Baharamine Boulevard, poco distante da Luminous Park. Se si fosse voltata, avrebbe potuto scorgere il profilo dell’edificio della MAB stagliarsi oltre la gabbia trasparente del vano scale, svettando sopra le prime propaggini del parco, rese dorate dal tramonto.
Chiuse la porta e vi si appoggiò pesantemente con la schiena, tentando di prendere un profondo respiro. Era un gesto che le capitava di ripetere spesso da qualche tempo, un modo come un altro per staccare la spina dal lavoro. Si impose di riuscirci anche quella sera, nonostante il mondo ondeggiasse pigramente sotto i suoi piedi, quasi che il pavimento fosse diventato acqua e lei una barchetta in balia della corrente.
Il tramonto entrava dalla grande vetrata sulla sinistra, colorando d’arancione gli arredi chiari del soggiorno e spandendo riflessi lungo le cornici dei quadri. Oltre la balaustra del balcone, Kyrador era un susseguirsi di grattacieli scintillanti e buie chiome d’alberi sullo sfondo di una sottile striscia di mare. Un’immagine da cartolina che in molti le invidiavano.
Appese la borsa al portabiti, restando a guardarla raggiungere il pavimento con un tonfo sordo un istante più tardi. Allungò la mano, cercò di curvarsi un poco in avanti, ma aveva l’impressione di avere un muro di piombo sul ventre. Persino respirare diventava difficoltoso. Guardando le dita tremare nel vuoto, le sfuggì un gemito.
«’seeeeraaaaa, dispersaaaaa!» salutò una voce ovattata da qualche parte nell’appartamento.
Non aveva bisogno di cercare nelle stanze per capire da dove arrivasse. Il corridoio era davanti a lei e le porte che vi si affacciavano erano aperte o socchiuse; solo quella alla sua destra, una grande scorrevole bianca a doppio battente, era chiusa e al di sotto lasciava filtrare una sottile lama di luce.
«Ciao, Brando» salutò svogliata, superandola.
Proprio quando stava per aggiungere la sua stanza, sancendo definitivamente la conclusione della giornata, un mezzobusto scivolò oltre la porta, richiamandola indietro con un fischio.
«Devo proprio?» domandò senza voltarsi.
Nello specchio in fondo al disimpegno vide agitarsi freneticamente una mano, accompagnata da un gran sorriso. Scrollando le spalle, tornò faticosamente sui propri passi.
Due occhi castani la seguirono nella sua incerta avanzata, accigliandosi. Il volto tondo di Brando era diviso tra i bagliori ambrati del tramonto e la luce più tenue della cucina, che creavano un bizzarro mescolio di ombre, tanto che Alexia faticò a notare le tracce di farina e altri ingredienti sparsi sulle guance e sui capelli neri.
Attraverso la stretta apertura filtrava un lieve tepore e il profumo invitante di un misterioso dolce in cottura.
«Uh, che brutta cera, Lix…» commentò preoccupato dopo averla squadrata da capo a piedi un paio di volte con aria estremamente critica.
Gli capitava di frequente di vederla tornare in condizioni pietose per via dell’alto livello di stress che doveva sopportare ogni giorno per gestire al meglio la sicurezza cittadina e non solo; ciò nonostante, in quel momento Brando le vedeva sfoggiare un aspetto decisamente livido e pesto, ben oltre la soglia di normale stanchezza cui era abituato.
«L’avresti anche tu al posto mio» sospirò cercando di sciogliere la coda di cavallo con scarsi risultati.
Aveva legato l’elastico troppo stretto, presa evidentemente dal nervosismo, e il torpore che ancora la perseguitava pareva non volerla lasciarla in pace. Con ogni probabilità avrebbe finito per tagliare il laccio, cercando di non rimetterci una paio di ciocche o, peggio, un orecchio. In quelle condizioni avrebbe potuto succedere di tutto.
L’uomo tamburellò con le dita sul legno laccato osservandola perdersi in quelle ridicole riflessioni. Il pallore, gli occhi arrossati e la scarsa stabilità gli dicevano molto più di quanto avrebbero fatto le parole, tuttavia tentò lo stesso di estorcerle un chiarimento.
«Puoi raccontare o poi dovrai ridurmi ad un roux pieno di grumi che verrà fatto scivolare indecorosamente giù dallo scarico del lavandino?»
Lei si riscosse, rivolgendogli uno sguardo torvo. Sapeva perfettamente che rivelare anche solo un’inezia dei casi della MAB poteva significare il licenziamento in tronco, qualora fosse stata accertata la fuga di notizie. Per non parlare di quel caso in particolare: proprio non poteva permettersi di proferire una singola sillaba a riguardo. C’era troppo in gioco, soprattutto la sicurezza già precaria di Carmy.
«Lascia fare a me. Ti rimetto in sesto io! Ho quel che serve in queste situazioni» decretò Brando ammiccando.
Lei afferrò la porta un attimo prima che si chiudesse, impedendogli di scomparire nella sua tana. In un altro momento avrebbe apprezzato le sue attenzioni, ma la stanchezza e gli spasmi addominali avevano deciso di tornare ad affondare i denti nel suo corpo.
«Sto bene, Brando. Ho solo bisogno di una doccia e una bella dormita, per essere di nuovo pronta all’azione domani. Tutto qui. Un’emicrania non ha mai ucciso nessuno» puntualizzò sebbene non ne fosse molto convinta.
Il cerchio alla testa cominciava ad estendersi in maniera preoccupante. Confidava che un lungo e prolungato getto bollente avrebbe dato i suoi frutti, o qualunque cosa le consentisse un poco di meritato riposo.
«Lurida stacanovista serva del sistema» rimbrottò lui, disgustato.
«Smettila. Tanto non casco nelle tue provocazioni, lo sai».
Conscio fosse la verità, il giovane si lasciò scivolare un po’ lungo l’anta, arricciando le labbra e sgranando gli occhi come un cucciolo supplichevole. Per essere più convincente inclinò la testa da un lato e si portò i pugni al mento. Sulle prime Alexia fu tentata di dargli una spinta e mandarlo lungo disteso, tuttavia vedendolo sbattere le ciglia e dondolarsi pericolosamente sulle punte dei piedi mandandole piccoli baci, non poté fare a meno di scoppiare a ridere. Brando aveva il potere di farle cedere le armi ogni volta. Se fosse stato nella sua squadra, sarebbe stato un bel guaio; per sua fortuna non era un agente, ma solo un ospite fuggito alla routine di un posto fisso, con mire nel goloso mondo della pasticceria magica.
«E va bene… hai vinto. Ma che sia qualcosa di leggero!»
Aveva fatto solo pochi passi, quando tornò indietro con uno scatto e spalancò la porta, riuscendo ad osservare la cucina il tempo sufficiente per sentire gli effetti del drink del vampiro riprendere a propagarsi fulminei in ogni angolo del suo corpo.
La sagoma tondeggiante di Brando chiuse la visuale quasi per intero. Questa volta il sorriso gioviale del coinquilino era scomparso, sostituito da un’espressione di totale disappunto. Se a nessuno era permesso ficcanasare nelle cose della MAB, ad ancor meno persone era consentito di spiare nella cucina, specialmente mentre lui creava. In quel periodo poi, era peggio del solito. Secondo Alexia, quel tipo di disturbi generava in lui alterazioni molto simili a quelle che trasformavano i maghi in EDA.
«Ti prego, dimmi che quello che vedo sui mobili non è il nostro gatto che è esploso» fece lei, indicando la miriade di chiazze scarlatte e rosate che punteggiavano la stanza da cima a fondo.
«Donna di nessuna fede» replicò Brando imbronciandosi e incrociando minaccioso le braccia sulla pettorina del grembiule. «Prince Great Mighty Azul-Gray Cloud on the North Sea di Taveja Valley sta benissimo. L’ho chiuso sulla terrazza prima di mettermi all’opera. Sai che non ammetto peli e leccatine nel mio regno».
La testa di Alexia cadde in avanti, sfinita. Brando era il solo a chiamare il suo gatto con il nome per esteso, mentre tutti – lei per prima – si limitavano a Prince o, più semplicemente, “Micio”. Non potevano farci nulla se la madre di Brando, in una delle sue più esagerate dimostrazioni di affetto e gratitudine, le aveva regalato un esemplare di Leglar Blue con un pedigree così lungo da poterci incartare l’intero palazzo della MAB, inclusi sotterranei, solo per aver accolto in casa il figlio sognatore.
«Vai a fare quella benedetta doccia, allaga tutto il bagno, infilati quel bel pigiamino con i macaron che ti ho regalato e torna di qui solo quando sarai simile a un essere umano invece di questa sottospecie di soufflé moscio da emerito principiante che ho davanti» ordinò chiudendo teatralmente la porta.
Luci e profumi dell’antro della gola svanirono, lasciandola sola nel tramonto che gettava ombre sempre più dense tra gli arredi. Sospirando, accennò un saluto militare e si diresse alla sua stanza. Ci mancava solo l’aspirante pasticcere con manie da crocerossina e ire da Classe Alfiere per concludere il tour de force di quelle ultime trentotto ore.
Non appena Alexia sparì nella sua camera, Brando fece di nuovo capolino, mordicchiandosi l’interno della guancia. Ora che la vedeva di nuovo a casa, si sentiva sollevato. Capitava che dovesse star fuori anche per più giorni, era uno degli incerti del suo lavoro alla MAB, e sebbene lui ripetesse in continuazione che non si impensieriva affatto nel non avere la benché minima idea di dove lei fosse o cosa facesse, era chiaro che si trattava di una sciocchezza. Alexia era la sua migliore amica, erano praticamente cresciuti insieme considerandosi fratello e sorella, come avrebbe potuto non stare sulle spine, non vedendola tornare? Senza contare che la buon’anima del Generale Stirling l’avrebbe tormentato in sogno per una tale mancanza nei confronti della figlia.
«Floscioflosciofloscioflosciofloscio» sbuffò tra i denti.
Ripeteva sempre quella sorta di mantra quando aveva l’impressione di trovarsi di fronte a una persona che gli ricordava il suo primo, avvilente soufflé al limone.
«Piano “L”: dolce da leccata con Libea come se piovesse, su colore da meditazione. Diamoci da fare!»
E richiuse la porta.

***

La grande vetrata scivolò di lato e Prince Great Mighty Azul-Gray Cloud on the North Sea di Taveja Valley restò a guardarla annoiato, muovendo appena una delle grandi orecchie per ascoltarne il fruscio. Negli ultimi sprazzi del crepuscolo urbano, i suoi grandi occhi smeraldini brillavano di luce propria.
«Lo zietto ti ha di nuovo messo in castigo?» domandò Alexia.
Quasi avesse capito il senso delle sue parole, l’animale emise una sorta di sospiro prima di alzarsi e avvilupparsi letteralmente attorno alla sua gamba, allungando le zampe sottili fino ad artigliare la canotta della padrona all’altezza del dolente stomaco, sulla stampa di un grosso macaron turchese con gioiosa faccina di brillantini.
I gatti di Celestis erano diretti discendenti di quelli terrestri, sebbene differissero molto dagli antenati: l’incrocio con creature indigene loro affini e la sensibilità al krylium presente sul pianeta, avevano prodotto mutazioni significative dell’anatomia. Erano creature incredibilmente flessuose, al limite del serpentino, il cui scheletro si era allungato e assottigliato tanto che le razze più piccole vantavano un’altezza alla spalla di quarantacinque centimetri. I Leglar Blue come Micio raggiungevano la ragguardevole altezza di cinquantotto centimetri per una lunghezza pari ad un metro e venti, coda esclusa.
Alexia se lo ricordava solo quando cercava di prenderlo in braccio, proprio come in quel momento. In realtà sarebbe stato più corretto dire che tentava di issarselo addosso, viste le dimensioni. Desistette dall’impresa e andò a sedersi sul divano, impegnandosi al massimo per riuscire a mettere un piede davanti all’altro senza inciampare o sbattere contro gli arredi. L’animale, indispettito dalla protratta carenza di coccole, la seguì e poggiò parte del lungo collo e la testa a cuneo sulle sue ginocchia, facendo le fusa e agitandosi tutto. La pelliccia delle zampe le solleticava le caviglie. Nel caso della razza di Micio si faceva più lunga e fine su zampe e coda, e il tenue colore grigio-azzurro gli aveva fruttato il soprannome di “Nuvole di Amaltea”.
«Pronto Soccorso Anti-cattivissima MAB in arrivo!» annunciò Brando aprendo teatralmente la porta.
La sagoma scura circonfusa di luce della cucina andò a riflettersi nella portafinestra, mostrando al Capitano Stirling l’immagine trionfale (e non troppo atletica) del suo coinquilino. Teneva le braccia al cielo e portava due enormi coppe allungate, coronate da nuvole di panna montata e foglioline di menta. Il contenuto era di un tenue colore viola, dal quale derivava il loro nome: Purple Dream. L’aveva creato tempo prima e perfezionato nel corso delle ricorrenti giornate storte sue e di Alexia, aggiungendo, togliendo e modificando la composizione.
«Devo proprio?» chiese la donna, muovendo a fatica il lungo cucchiaino nel dolce.
Pezzetti di brownie si affacciarono al vetro coperto di condensa, emergendo dalla densità del frappè.
Meno male che avevo detto “qualcosa di leggero”, gemette fra sé Alexia.
I dolci che preparava Brando erano tutto fuorché ipocalorici.
Il suono morbido del cucchiaio attirò l’attenzione del gatto, che con un sinuoso balzo si portò sullo schienale del divano, cominciando a strusciare il muso sul collo della padrona, pretendendo un assaggio.
«Se vuoi passare la serata a rimuginare su quello che è andato o non andato oggi, lasciando macerare per nulla questo ben di dio fatto dalle mie prodigiose mani, fai pure. Ma se i sensi di colpa ti trafiggeranno il pancino per tutta la notte, sappi che ti ho avvertito» sbottò franandole accanto offeso e cominciando a mangiare. «E non provare a venire a piangere dietro la mia porta, supplicando perdono e di avere un altro Purple Dream, perché non te lo farò. Parola mia!»
«Non ho mai fatto niente del genere» osservò, cercando di decidere da che parte attaccare la coppa.
Era tentata dalla sofficità della panna punteggiata di verde e guarnita con gli stessi mirtilli e i brownie celati al di sotto, per non parlare del sottile arabesco al caramello. E con le pretese del gatto che si facevano sempre più pressanti, si risolse a far sparire la panna in un paio di morsi.
«Ma potresti, quindi ti metto subito sul chi va là» ribadì Brando, che invece raccolse in un solo movimento gran parte dei componenti dell’intero manicaretto. «Non puoi proprio dirmi niente?»
«Perché insisti?» ciancicò con la posata fra le labbra.
Ormai Alexia aveva ceduto alla tentazione del Purple Dream, le sarebbe stato impossibile non finirlo semplicemente perché adorava quel dolce al cucchiaio pensato per i loro momenti di commiserazione e rinascita. Per non parlare del consumarlo indossando quel pigiama: se l’avessero vista i colleghi con quella canottiera e i pantaloncini su cui era raffigurata solo una minima parte delle prelibatezze dolciarie del repertorio dell’amico, probabilmente sarebbe diventata lo zimbello dell’Agenzia per mesi interi, ma in quei momenti le buffe faccine sorridenti che occhieggiavano tra le pieghe erano solo una benedizione.
L’uomo prese una lunga sorsata di frappè, assaporandolo ad occhi socchiusi con la lingua che si muoveva lentamente lungo il palato. Il gusto era eccellente ma mancava qualcosa per renderlo assolutamente perfetto.
«Tenevi una mano sulla pancia quando sei arrivata e, sapendo quanto sei immune alle carneficine, ho supposto ti fosse andato qualcosa di traverso. Qualcosa di gastronomico? Mica vi sarete serviti ancora a quell’orrenda rosticceria all’angolo della piazza? Prima o poi mando l’ufficio d’igiene a controllarla».
Purtroppo aveva ragione e negarlo non avrebbe avuto senso.
«Non ho mangiato nulla di strano. Piuttosto l’ho bevuto» ammise.
«Cos’era? Un cocktail?» s’informò, pulendosi le labbra col dorso della mano.
«Già. Disgustoso e illegale, per giunta» precisò, per dargli ad intendere che quello fosse il limite delle informazioni che poteva dargli senza pericolo.
«Mi stupisci. A voi della MAB non è proibito bere mentre siete in servizio?» scherzò.
«Ho dovuto farlo. Era propedeutico all’indagine».
Per qualche istante nessuno parlò. Alexia si dava dell’incosciente per quel gesto che avrebbe potuto causarle conseguenze ben peggiori, Brando pareva assorto in un conteggio o una valutazione.
«Bevi subito il frappè, Lix, ti farà bene. I mirtilli erano freschissimi e la Libea ha poteri disintossicanti e antinfiammatori. Ne ho messa una dose extra nel tuo» spiegò con una certa soddisfatta accondiscendenza dipinta sulle guance tonde.
Alexia guardò sorpresa il bicchiere, reso scivoloso dalla condensa. In effetti si sentiva già meglio: il gelo allo stomaco era diminuito, così pure la tensione addominale. Riusciva a star seduta senza avvertire troppo fastidio, diversamente da quando Cane e Lucas l’avevano accompagnata a casa poco più di un’ora prima, e sebbene le dita fossero intirizzite per il contatto con il vetro gelido, poteva notare anche una diminuzione del tremito.
La Libea era un ingrediente d’alta pasticceria che però veniva usata solo dagli stregoni, che ne potevano sfruttare i poteri nascosti. In mani prive dell’M-Code generava solo un semplice effetto glitter. Derivava dal krylium per quanto ne sapeva, ma in che modo passasse da fonte di energia magica a sostanza commestibile, le era ignoto. Quello era il campo delle velleità dolciarie di Brando.
Allungò il bicchiere verso quello dell’amico, facendoli tintinnare.
«Cosa farei senza di te?» sospirò pescando un pezzetto di brownie.
Grazie a particolari incantesimi culinari, la pasta non si inzuppava e restava morbida, assorbendo solo l’aroma dei piccoli frutti. Il caramello salato che lo ricopriva si sposava alla perfezione con lo spunto deciso del cioccolato e l’asprigno dei mirtilli, in una combinazione di diverse consistenze.
Compiaciuto, Brando abbassò lo sguardo sul proprio Purple Dream, muovendo lentamente il denso liquido violetto. Mormorò qualche parola e all’interno del vetro ci fu un breve rimescolio.
«Oh, te la caveresti comunque Lix. Sei una tosta, lo sei sempre stata. Peeeeerò,» cantilenò sistemandosi goffamente a gambe incrociate sul cuscino, «se proprio vuoi sapere come la penso…»
Conosceva fin troppo bene quel tono di voce. Sarebbe andato a parare su argomenti più spinosi della Lilith e la Chiesa di Ela. Si era fatta trascinare stupidamente su un sentiero minato, il preferito del suo amico per inciso.
«No. Non lo voglio sapere. Per favore. È stata una giornata pesante, non ti ci mettere anche tu».
«Troppo tardi. Cara mia, se non ci fosse il sottoscritto a coccolarti nei momenti bui, andresti di corsa bussare alla porta di quel “certo” tizio per farti consolare. Non t’azzardare a negarlo. E soprattutto deciditi a farlo! Mi sto scocciando di essere il tuo Signor Consolazione» soggiunse passando teatralmente una mano tra i capelli neri.
«Non dire assurdità. È un mio sottoposto! E tu non sei il mio Signor Consolazione, anche se resti il mio spacciatore di dolci ufficiale» rimbrottò, fingendo di allungare il cucchiaio verso la sua coppa.
«Alexia, ti conosco da quando portavamo entrambi il pannolino, so fin troppo bene quali siano i tuoi gusti in fatto di uomini. Li ho visti girarti attorno, arrivare e andare. Tutti quanti» puntualizzò con una smorfia eloquente, sottraendo il proprio dolce alle mire dell’amica ma finendo per stuzzicare quelle del gatto che con due rapide falcate raggiunse miagolando le spalle dell’uomo.
«Esagerato! Non ho avuto così tante relazioni» sibilò offesa, sedendosi come lui al lato opposto del divano per potergli rifilare un calcetto sul ginocchio.
Brando fece spallucce, bevendo un’altra sorsata. Decise che la menta era insufficiente e la prossima volta che avesse preparato il dolce ne avrebbe aggiunto qualche foglia anche nel frappè per conferirgli una nota più fresca, alleggerendo la pastosità del gelato alla vaniglia.
«Forse no, ma mi sono fatto un’idea piuttosto precisa del tuo uomo ideale. E dato che in quella categoria io non ci rientro neppure da lontano - per fortuna - e sono felicemente sistemato - doppia fortuna -, posso azzardare tutte le congetture che mi pare e piace. E a te, quel tizio piace. Parecchio. Vero, Prince Great Mighty Azul-Gray Cloud on the North Sea di Taveja Valley?» domandò allungando un dito sporco di panna montata alla bestiola, che tentava di raggiungere il bicchiere.
La lingua bruna e appuntita cominciò l’opera di pulizia, mentre la lunga coda setosa oscillava lenta nell’aria.
«Ma per favore… se ne parlo è solo perché al di là dei suoi modi non sempre impeccabili, è comunque un ottimo agente. Ha un curriculum di tutto rispetto» considerò distogliendo lo sguardo.
Il movimento della coda le stava facendo tornare i capogiri. E, per certi versi, le faceva venire in mente proprio l’oggetto della discussione.
Affatto scoraggiato dalla piega professionale che l’amica stava cercando di imprimere alla conversazione, Brando sistemò un cuscino dietro la schiena, dandosi un’aria saputa. Micio, dal canto suo, decise di strisciargli lungo il petto per andare ad acciambellarsi fra le sue gambe. Era buffo veder la sua testa triangolare poggiata fra le caviglie dell’uomo come un curioso monile dagli enormi occhi di smeraldo.
«Hai sempre avuto un debole per gli uomini navigati e più grandi di te che però, a differenza tua, non hanno fatto troppi passi avanti in carriera perché rigettavano gli schemi. Ti affascina il loro lato ribelle e moralmente non impeccabile, specie se sono coscienziosi e attenti».
«Anche se fosse, non è così “navigato” quanto credi» obbiettò.
«Da come lo descrivi avrà almeno quarantadue anni».
«Ne ha trentotto».
Il cucchiaino di Brando stridette sul vetro impiastricciato di panna e menta.
«Cosa? Scherzi?» esclamò sorpreso. «Ora ho capito perché i rapporti non li stili tu: come capo non sai descrivere i sottoposti, figuriamoci i casi... E quando ti imponi su quei poveretti, loro notano le tue capacità di leader, credono di esserti indispensabili, smettono di ritenerti la subdola arrampicatrice sociale votata alla grandezza del sistema che in realtà sei e si accorgono pure di quante curve sei attrezzata. Solo allora gli concedi di servirti. E se sono carini, ne fai i tuoi “uomini migliori”, coloro che si prodigano per compiacere a qualsiasi costo ogni tuo sacro ordine» aggiunse ironico, spalancando le braccia con fare teatrale.
«Mi stai dando della dominatrice, per caso?» domandò agitando in aria la posata mimando una frusta.
Brando, di tutta risposta, prese una grossa cucchiaiata di dolce e se la infilò in bocca, resistendo stoicamente alla fitta di gelo che gli attraversò la testa.
Lei faticò non poco a mandar giù il boccone, rischiando di soffocarsi mentre lo guardava serrare le palpebre e sudare freddo, letteralmente.
«Bravo, schiavo. Soffri, soffri!» lo incitò, sfoggiando l’aria più perfida che le riuscì di comporre per mascherare le risate. «Compiaci la tua signora con il tuo dolore! Mangia ancora!»
Preso dal gioco, Brando inghiottì un altro pezzo di brownie gocciolante e, dopo aver spostato il gatto, scivolò giù dal divano, inginocchiandosi di fronte all’amica. Si prostrò tendendo le braccia, bofonchiando litanie senza senso, col solo risultato di trovarsi a sputacchiare parte del proprio capolavoro sul pavimento, il mento sbrodolato di frappè e fitte lancinanti che gli martellavano la radice del naso. La farsa durò una manciata di secondi, poi scoppiarono a ridere a crepapelle e desistettero dal proseguire, trovandosi già abbastanza ridicoli.
«Fai così quando interroghi i tuoi sospettati? Gli fai gelare le cervella?» rise lui, riuscendo a mettersi seduto.
«Cervella, stomaco, polmoni, intestino… come mi sento ispirata» elencò sventolando il cucchiaino.
Micio ne seguì le evoluzioni, la testa triangolare che oscillava da un lato all’altro simile ad un metronomo. Aggiustò ben bene le zampe posteriori e con uno scatto si allungò flessuoso, arrotolandosi attorno al braccio di Alexia. Le fusa si mescolarono al suono ruvido della lunga lingua scura sul metallo.
«Ma insomma! Sei un gatto, non una sanguisuga!» protestò lei, tentando di scrollarselo di dosso senza successo.
Più la donna cercava di convincere l’animale a scendere, più sentiva la stanchezza montare. Gli sbadigli presero ad aumentare di numero, accompagnando la pesantezza delle palpebre.
«Colpa tua: l’unico padrone di questa casa è lui, non accetta che gli si usurpi impunemente il trono» replicò Brando prendendole di mano gli ultimi residui del dolce. «Su, tesoro. A nanna. Tu domani vuoi andare a lavorare, io devo ripassare tutte le mie ricette migliori e controllare che il mio kit personale sia in ordine per il concorso».
Si fermò sulla porta della cucina per prendere un profondo respiro.
«Trentasei ore. Solo trentasei ore e si comincia» annunciò cupo, posando le coppe nel lavandino.
«E… il tuo vero tesoro, ci sarà?» domandò Alexia, alzandosi a fatica dal divano, divenuto ormai troppo invitante.
Gli occhi scuri dell’amico s’intristirono per un istante, virando subito ad una sorta di arresa tenerezza.
«No. Sicuramente vedrà la puntata la sera, ma è in un brutto momento altrimenti sarebbe qui e non a Otisa».
«Vi siete sentiti?»
Appoggiato al bordo dell’acquaio, Brando annuì. Normalmente sarebbe inorridito di fronte al macello di ingredienti sparsi e stoviglie e attrezzi da lavare che ancora occupavano la cucina, però quel pensiero glielo impediva.
«Oggi pomeriggio. È in ansia per me, dice di avermi sentito molto teso. Gli ho detto che era solo una sua impressione, che doveva concentrarsi su quel che ha da fare per tornare prima, perché non voglio riempire la coppa di champagne e poi berla da solo. Insomma, che gusto ci sarebbe a non festeggiare insieme la mia somma e conclamata magnificenza?» scherzò asciugando le mani in un canovaccio.
«Guarda che ha ragione, sei teso. Me ne accorgo persino io che sono a pezzi» sbadigliò raggiungendolo e abbracciandolo da dietro. «Devi dormire anche tu o non sarai al top per la gara».
L’uomo si rigirò fra le sue braccia e la strinse, posandole un bacio sulla fronte.
«Tu ninna amme? Tì? Tì, Lix?» pigolò come quando erano piccoli e pretendevano di dormire insieme in ogni occasione.
«Scodartelo, Bado, sei grande. E grosso per giunta» sghignazzò assestandogli un pugnetto sul ventre non esattamente piatto. «Sono sopravvissuta a questi due giorni agognando una sacrosanta dormita, non voglio che diventi anche l’ultima!»


Writer's Corner
Sono in pausa da un po' e torno con questa storia che mi piace definire "a tre mani": due sono mie e la terza del creatore della serie Tales of Celestis, Carlos Olivera. Seguo da tempo le sue storie e quando si è presentata l'occasione (o l'abbiamo creata, chissà!) di realizzare uno spin-off con alcuni dei suoi personaggi e altri miei, abbiamo deciso che fosse il caso di portarla avanti. Questo è il risultato. Una storia senza pretese, se non quella di ampliare ulteriormente l'universo di Celestis attraverso un po' di dolci, pasticci e qualche sfumatura rosa. Per cui, se il mio stile vi sembra un po' strano, è solo perché mi sono attenuta a quello originale, per quanto possibile. E se qualcosa non vi è chiaro, alzate la mano e chiedete. O andate a leggere le storie di Carlos.
Buona lettura!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Twisted Rolls ***


The L Factor_Cap. 2
2.    Twisted Roll

Girelle di pasta lievitata al mostro dolce con sottile variegatura a spirale di gelatina di mosto cotto, ripiene di mandorle tritate, Libea, marmellata di frutti di bosco, briciole di zucchero grezzo e burro.
Il tutto servito con una glassa a base di latte, burro di mandorle, mandorle caramellate e mirtilli rossi.



A svegliarlo fu lo zampettare del gatto sulla sua mano e un accenno di chiarore oltre la tenda della finestra. Con immensa fatica sollevò le palpebre gonfie di sonno; non dovevano essere ancora le sei. Dopo il dolce con Alexia non era andato a letto, ma si era nuovamente rintanato in cucina per dare una pulita e studiare. Il “Grand Prix de Celest(is)e Pâtisserie” incombeva e aveva un estremo bisogno di idee nuove per riuscire a vincere la più grande gara mondiale di dolci. Aveva impiegato quasi sette anni per riuscire a superare le selezioni più spietate che dei banchi da lavoro potessero ospitare. Mesi e mesi ad affinare tecniche, manualità, gusto, senso estetico, a studiare nuove combinazioni di sapori, a rispolverare vecchie ricette per poi reinventarle daccapo. Aveva dilapidato alcune migliaia di kylis in libri, attrezzature, ingredienti particolari, corsi di specializzazione e viaggi per scoprire tutto quello che una comune – anche se blasonata - scuola di pasticceria non avrebbe mai potuto dargli.
Passò il pollice sull’anello che gli cingeva l’anulare, una fascetta d’oro bianco lavorata come fosse fatta di granelli di zucchero. Il pegno d’amore della sua dolce metà assente.
Sbadigliò stiracchiandosi, imitato dal gatto.
«Niente sentimentalismi, signor Pellegrini» ribadì. «Qui abbiamo la gara della vita da vincere e nessuno farà sconti per un po’ di sospiri e due irresistibili occhioni lucidi e imploranti amore. Dico bene, Prince Great Mighty Azul-Gray Cloud on the North Sea di Taveja Valley?»
Lui scosse la testa e prese a leccarsi una lunghissima zampa.
«Se fai così, ti infilo nella ciambella alle pere. E tu sai che potrei farlo, sottospecie di girella pelosa» minacciò, puntandogli contro l’indice.
Micio interruppe la toeletta per annusare svogliatamente il dito. Non scoprendo nulla d’interessante, riprese a lisciare le fluenti ciocche grigio-azzurre.
Brando fu colpito da un’illuminazione.
«Girella… ma sì!» sorrise agguantando l’animale e scaraventandolo sul divano.
Nel giro di un paio di minuti era già all’opera sulla colazione. Aveva deciso di preparare le Twisted Rolls. Grazie a quei dolci, Brando aveva staccato il biglietto per la finalissima a Kyrador: quattro giorni di pasticceria ad altissimi livelli, sbocciata tra le mani di appassionati desiderosi quanto lui di sfondare. In premio, un assegno da centomila kylis per avviare la propria attività, la pubblicazione di un libro, diversi contratti come testimonial per i migliori fornitori di attrezzature e ingredienti, oltre ovviamente al trofeo e alla gloria.
Scosse la testa, tornando a concentrarsi sulle girelle. Terminò di impastare la base e la mise a riposare, dopo averle applicato un gonflage. Era un incantesimo piuttosto banale, una sorta di bolla, che tratteneva l’anidride carbonica e il calore al suo interno e agiva sull’acidità della pasta, accelerandone la lievitazione.
La seconda parte della preparazione era la più complessa.
Fece ridurre alcuni mestoli di mosto in una casseruola, allungandoli con acqua e mescolandoli fino a quando raggiunsero la giusta consistenza. Aspettò che intiepidisse e li passò con un mixer a immersione.
Creare le strisce di mosto cotto era un’autentica sfida perché dovevano risultare gommose e sottili a sufficienza per poterle arrotolare insieme alla pasta, senza però che sovrastassero il gusto del ripieno. Inoltre, la gelatina doveva mantenersi umida fino al termine della cottura, senza perdere elasticità e lucentezza. E per riuscire nell’impresa, c’era un solo sistema: l’incantesimo Càigo insegnatogli dallo zio Giovanni, suo mentore. Non era certo si chiamasse davvero così, giacché lo zio aveva la brutta abitudine di storpiare le parole. Ciò nonostante, si trattava di un incantesimo talmente vecchio, perduto nella notte dei tempi, che difficilmente ne avrebbe potuto scoprire il vero nome.
Stese un paio di cucchiaiate di mostro appena frullato in uno stampo per le mattonelle di fondente, controllando che non inglobasse bolle d’aria. Prese un bel respiro, puntò pollici e mignoli sugli angoli e pronunciò il sortilegio. Il liquido emise una sottile nebbiolina che andò subito a rapprendersi sulla superficie, mentre questa vibrava come se fosse colpita da una sottile pioggerella. Col passare dei minuti, i bordi cominciarono a tremolare sempre meno, addensandosi. La striscia sarebbe stata pronta una volta che fosse stata tutta completamente immobile. Brando raddoppiò la concentrazione, mantenendo il respiro il più regolare possibile. Bastava poco a mandare a monte tutto.
«Buongiorno, sublime creatore!» strillò con voce acutissima una donna.
Il nastro di gelatina scura s’impennò e schizzò imbizzarrito verso il soffitto, mancandolo di un nulla e ricadendo miseramente sul pavimento in una chiazza molliccia e appiccicosa.
«Sei l’unica persona che preferirei non vedere di prima mattina, Feng, lo sai?» sbuffò Brando scrollando le spalle davanti all’ologramma apparso sul frigorifero.
Sullo schermo virtuale, un pallido volto a cuore ebbe un sussulto indignato.
«Cosa? Io ti chiamo per farti i miei incoraggiamenti di rito, quelli dalla comprovatissima capacità di portare fortuna, e tu mi tratti così? E io che mi preoccupo per te! Razza di ingrato… Ma sai quanto costano le chiamate da dove sto adesso?» sbottò, stringendo gli occhi a mandorla fino a renderli due fessure nere di kajal e mascara.
«Se continui così, Strega Balcocca, un patrimonio» sogghignò cominciando a pulire il pavimento con uno straccio.
Sentendosi chiamare a quel modo, la donna borbottò stizzita. Era un vecchio scherzo, che risaliva al loro primo corso di pasticceria, quando per chiarire a tutti cosa ne pensasse di lei e dei suoi dolci, l’insegnante l’aveva paragonata alla fattucchiera incapace e sfortunata di un programma contenitore per bambini.
«Maleducato-cafone-sgonfia pastarelle-re delle torte insipide-che ti si bruci il caramello» disse tutto d’un fiato.
Le labbra di Brando si curvarono in un sorriso rivolto al pavimento. Doveva ammettere che quell’improvvisata, sebbene avesse prodotto effetti disastrosi, gli era utile ad alleggerire la testa dall’ansia.
Alle sue spalle, la donna fingeva d’ignorarlo anche se lo spiava con la coda dell’occhio.
«Feng-Lin?» chiamò, sedendo sui talloni.
«Che vuoi?» sibilò.
«Grazie» sospirò riconoscente, voltandosi appena.
Compiaciuta dall’essere riuscita nel proprio intento, anche se solo in parte, Feng si rilassò. Il largo sorriso che gli rivolse era sottolineato non solo dal rossetto color ciliegia e dal finto neo sopra l’angolo sinistro della labbra, ma anche da alcune briciole che Brando riconobbe come gli ultimi resti di una pila di kourabiedes1 al pistacchio.
Ertemios dev’essere molto felice, se li ha preparati, considerò.
Il compagno di Feng era un tipo poco incline ai festeggiamenti, e solo nelle rare occasioni in cui cedeva all’allegria preparava qui dolcetti tipici. La prova arrivò quando lei ne inghiottì uno senza quasi masticarlo.
«Ma ti pare, Rotolino di Panna? Sei il nostro orgoglio!» ciancicò. «Verremo tutti alla finale, abbiamo già il biglietto. Per cui, se vedi qualche mala parata, facci sapere che veniamo a corrompere i giudici. Aditi s’è comprata un vestito che è più quello che si vede che quello che copre. Sembra una caramella incartata male. E alla squinzia là… come si chiama la sgallettata di “Cake Dream”?»
«Robin Gellar» rispose, spargendo pizzichi di Libea sulla marmellata di frutti di bosco.
«Ecco. A lei può pensarci Billy Roy: le da una ripassata col fondente e la crema al burro, e vedrai come cambia idea se ti dà contro! Ma tanto non servirà, sei troppo bravo. Guarda che lì non ne hai messi abbastanza» soggiunse indicando un punto che l’amico provvide a coprire di mandorle e zucchero grezzo.
Rimase un istante ad osservarlo aggiungere sottili veli di burro, rapita dalla velocità e dall’eleganza dei movimenti, prima di riprendere a parlare.
«Mi raccomando Brando, stai attento agli altri concorrenti».
«Hai appena detto che sono il migliore. Pensi mi aggrediranno con spatola e sac à poche?» ridacchiò.
«No, non è per quello. Le selezioni erano aperte anche ai non maghi. E sai cosa sta succedendo in giro» disse Feng, scrutandolo da sotto la fitta frangia nera. «Non farci stare in pensiero. Un trofeo non vale una vita».
Brando terminò di avvolgere la prima spirale di pasta e gelatina attorno al ripieno.
«Credi potrebbe comparire un EDA durante la gara?» domandò, fingendo domandarlo più per cortesia che per effettiva preoccupazione.
In realtà, l’opzione lo spaventava non poco. Quanto accaduto poco tempo prima al luna park l’aveva impensierito, anche se la MAB aveva urlato ai quattro venti che si era trattato di un evento occasionale, ben lungi dal ripetersi.
«Spero proprio di no ma… permetti che un pensiero ce lo faccio?»
«Senti, se succede, giuro che me la do a gambe. Promesso. Ma se è uno piccolo e debole, prima lo lavoro come una pasta lievitata e poi lo sbatto in forno. Vittoria honoris causa assicurata» sghignazzò, accigliandosi mentre posava una nuova striscia di gelatina sopra un altro panetto d’impasto.
«Fai poco lo spiritoso, Brando. Feng ha ragione» replicò torva Alexia comparendo sulla porta ancora in pigiama.
A giudicare dalle fitte pieghe della stoffa e dalle occhiaie, non aveva ancora recuperato il sonno perduto. Le sarebbero servite almeno un altro paio di buone nottate e colazioni degne di quel nome per rimettersi in sesto.
«Buongiorno, Generalissima» esclamò l’altra facendole il saluto militare.
«Ciao, Feng. Com’è Colmore Bay?» domandò sottraendo lo sgabello a Brando, che si limitò a guardarla con bonario rimprovero.
«Vecchi che perdono la dentiera ogni cinque minuti mentre passeggiano sul lungomare con badanti superfighe che potrebbero essere le pronipoti e bambinoni palestrati coltivati nel krylium in cerca di una poppata tra una sessione e l’altra. Sono molto indaffarata con le loro merendine, tu capisci» sospirò dandosi colpetti sulle spalle presumibilmente indolenzite.
Feng, Ertemios e alcuni amici di Brando avevano rilevato una caffetteria-pasticceria-tavola calda lungo il litorale di Fhirland, sull’emisfero opposto a quello di Caldesia. Colmore Bay era una località nota per i soggiorni geriatrici, che di recente viveva una seconda giovinezza grazie alla sua riscoperta come campo d’allenamento per sportivi estremi, grazie alla varietà della conformazione costiera e ai venti che la battevano pressoché quotidianamente. Brando aveva preferito declinare l’offerta di seguirli per raggiungere il suo obbiettivo e restare accanto alla persona che più amava, oltre ad Alexia e Micio.
«Pensavo facesse freddo da quelle parti, per uscire in mare» commentò la Stirling cercando di rubare una cucchiaiata di mosto liquido, ma il pasticcere allontanò rapido la terrina, lasciandola con un palmo di naso.
«Puoi giurarci: stamattina c’era la neve sulla spiaggia! Ma ci sono nuovi modelli di tuta atermica per il surf e la vela invernale che…»
«Signorine, sto lavorando per vincere un campionato del mondo! Scusate se è poco e dovrei essere io l’oggetto delle vostre discussioni!» le interruppe lamentoso Brando, disponendo le ultime girelle sulla placca da forno.
Le due si scambiarono un’occhiata virtuale.
«Quant’è nervoso… ma è in quei giorni?» finse di bisbigliare la ristoratrice.
«Può essere. Dovrei controllare in bagno» ridacchiò Alexia, succhiando un coltello sporco di burro che era riuscita a sottrarre all’amico e che aveva cosparso copiosamente di zucchero grezzo.
«Stacco la connessione?» minacciò lui, agitando un cucchiaio grondante latte e burro di mandorle.
Feng desistette, dopo tutto aveva già ottenuto ciò che voleva, ovvero dare una scossa all’amico e dopo un rapido scambio di saluti, lamentandosi dei conti della successiva bolletta, chiuse la comunicazione. Alexia, con i gomiti appoggiati al tavolo, dondolava i piedi nel vuoto e rubacchiava ingredienti qua e là, in attesa che la prima infornata di Twisted Rolls fosse pronta per la colazione.
«Stasera, partitella a gelharball?» propose più tardi, mentre infilava la giacca della divisa. «Feng-Lin ha ragione: hai bisogno di distendere i nervi e un paio di schiacciate sono quello che ci vuole».
«L’ultima volta mi hai stracciato. Non so se ho voglia di ripetere l’esperienza, anche perché domani vorrei arrivare agli studi televisivi col morale alle stelle, non sotto le suole» mugugnò Brando, chino per l’ennesima volta sulla lista degli arnesi e degli ingredienti del suo kit da pasticceria.

***

«Ti lascerò vincere con un punteggio vergognoso. Contento?» propose infilando lo spesso guantone da gioco.

A differenza dei vessel, che fungevano da apparati sostitutivi per la magia, i guantoni per gelharball erano semplici supporti di stabilizzazione. Si giocava in due: ciascun giocatore creava una sfera di energia che veniva lanciata verso il palo - in gergo tube - che l’attirava a sé, assorbendola o facendola gravitare vorticosamente attorno al proprio asse, per poi rispedirla al giocatore avversario che doveva riceverla e rispedirla indietro. Lo stesso avveniva contemporaneamente con la biglia dell’altro partecipante. Alla base del tube era fissato un congegno che calcolava i punteggi sulla base della difficoltà dei tiri e la loro forza, la velocità d’esecuzione e lo scarto di tempo tra le battute; se la sfera superava il limite delle corde gravitazionali, si annullava e venivano sottratti cinque punti a chi aveva mancato la ricezione. La vittoria era appannaggio di chi raggiungeva per primo i settanta punti. All’apparenza si trattata di un gioco relativamente semplice, simile all’antenato terrestre, il tetherball, e per questo era snobbato in favore del chandra.
Alexia e Brando però non erano mai stati particolarmente inclini a uniformarsi alla massa.
«Che magnanimità. Pensi davvero di riuscire a farmela anche stavolta?» domandò baldanzoso l’amico.
«Posso riavere il Brando isterico e depresso di stamane? È più facile essere gentile con un derelitto» lo stuzzicò.
Lui ci pensò su, la lingua fra le labbra arricciate mentre finiva di allacciare il proprio guanto, e fece segno di no.
Micio era disteso su una sdraio nell’angolo più lontano della terrazza. A differenza degli avi, non provava grande interesse per quegli oggetti tondi e luminosi, specie dopo che uno l’aveva investito a pochi giorni dal suo arrivo a casa. Preferiva seguire i movimenti dei padroni, agitandosi quando uno di loro gli arrivava troppo vicino.
«Globe one!» chiamò Alexia generando la propria sfera, di un intenso color rubino.
«Globe two!» fece eco Brando, facendone comparire una di un tenue azzurro.
«Quanto sei romantico…» commentò languida lei, riconoscendo il colore degli occhi di una certa persona.
«Sono un’anima sensibile, a differenza di te. Mostro ciò che più apprezzo della persona che amo» replicò con un’alzatina di spalle. «O volevi dire che lui era vestito così, oggi?»
«Lui chi?»
Brando passò una mano tra i capelli, scompigliandoli, e inclinò la testa verso la spalla fingendo di abbassare inesistenti occhiali, in una posa che era solo una pallida imitazione dell’originale. La donna s’irrigidì, imbronciandosi. Alludeva a una delle rare foto della sua squadra che aveva portato a casa, in particolare quella scattata per scherzo da un tecnico di laboratorio a Cane.
«Engage!» strillò indispettita, lanciando in alto la sfera.
«Permalosa» rise imitandola.
Presero a battagliare colpo su colpo. A dispetto del fisico un po’ in sovrappeso, Brando sfoderava un’agilità di tutto rispetto, che unita alla forza dei colpi spesso metteva in difficoltà l’avversaria. Dal canto suo, Alexia poteva contare su una tecnica più efficace che sfruttava per imprimere maggior velocità ed effetto ai tiri. I globi piroettavano rasenti l’asta, avvitandosi e cambiando velocità, o sparivano al suo interno per poi schizzarne fuori con traiettorie imprevedibili. I contendenti correvano da un lato all’altro della terrazza per intercettarli, intralciandosi e spintonandosi a vicenda nel tentativo di segnare il punto vincente. I sensori sul perimetro di gioco avevano indicato solo una sfera a testa andate perse, e il display segnalava quarantun punti per Brando e trentanove per Alexia. I due globi lasciavano scie colorate nell’aria del crepuscolo che si andava scurendo.
Gli sfidanti grondavano sudore, avevano il fiatone e un sorriso carico di agonistica cattiveria stampato in faccia. Nessuno dava segno di voler cedere a prescindere ai muscoli che bruciavano, dagli arti che s’indurivano o dai brividi che la brezza serale cominciava a scatenare. Il gatto si era addormentato a pancia all’aria, cullato dal fruscio crepitante delle battute.
Poi, il tube s’illuminò e restituì un’unica sfera. Capitava quando l’energia delle biglie si equivaleva: queste finivano per mescolarsi e fondersi. Brando e Alexia si buttarono all’unisono in ricezione. Il colpo strappò il guantone dalla mano dell’agente e finì dritto in faccia al pasticcere, che crollò a terra come un sacco vuoto. Il rumore della caduta svegliò di soprassalto Micio che, terrorizzato, schizzò via dalla sdraio.
«Assassinaaaaaa!» urlò Brando scalciando e premendo le mani sulla faccia.
«Non è colpa mia. E smettila di frignare, fammi vedere» disse inginocchiandosi al suo fianco.
Le occorse un bel po’ per convincerlo che non avrebbe corso alcun rischio permettendole di dare un’occhiata, tanto che Micio ebbe il tempo di calmarsi e tornare indietro, tendendo il collo già lungo prima di muovere ogni passo. Infine, decise che il pericolo era cessato e poteva tornare a poltrire sulla sdraio.
«Ho ancora il naso? Ce l’ho?» pigolò terrorizzato l’uomo.
La sola idea di aver riportato danni a uno dei suoi migliori strumenti di lavoro a poche ore dall’inizio della kermesse lo spaventava a morte, più che avere di fronte un EDA inferocito.
«Il naso sì… è un altro il problema…» balbettò Alexia sgranando gli occhi.
«Cosa? Cosa?!» incalzò, le mani che tremavano a pochi centimetri dalla faccia.
Non osava più toccarsi per paura di ciò che avrebbe potuto scoprire. E l’espressione impaurita dell’amica non faceva che accrescere il timore di essersi procurato un danno serio, che avrebbe compromesso la partecipazione al concorso. Le afferrò il braccio, supplicandola con lo sguardo di dirgli la verità.
«Beh, ecco… hai… tu hai… hai… ancora la tua faccia» concluse drammatica.
Rimase a fissarla per diversi secondi, durante i quali la mandò silenziosamente e cordialmente al diavolo.
Poteva stare tranquillo: per quanto violento, l’impatto aveva lasciato solo un lieve rossore su naso e zigomi.
«Su, diamoci una mossa o ti verrà un bel livido se non applichiamo un incantesimo lenitivo e del ghiaccio. Non ho intenzione di prestarti il mio fondotinta per farti bello domani» lo incitò aiutandolo a mettersi seduto.
«Lix?» bofonchiò tastando con attenzione il setto nasale.
«Sì?»
L’afferrò per un braccio e le diede uno strattone, facendola finire lunga distesa al suo fianco.
«Piuttosto che sfogarti sul sottoscritto, vedi di andare a letto con quel tizio. Smaltiresti anche la tua, di tensione».

***

«Manutenzione dell’accidenti» imprecò Lucas, svoltando lungo Baharamine Boulevard. «Ci toccherà fare il giro sulla sopraelevata per sperare di arrivare in ufficio in orario!»

«Non vedo quale sia il problema. Il traffico miete vittime in tutti gli strati sociali di Kyrador. E non vengano a dirmi che abbiamo il miglior sistema viario del pianeta, perché è una balla. Quindi, non possono farci nulla».
«Di un po’, ma sai con chi abbiamo a che fare?»
«Con il Direttore dell’Anticrimine Dietrich Owens e le sue tiritere sul rispetto delle regole e degli orari?» ghignò Cane, portandosi alle labbra il bicchiere di carta.
Il profumo del caffè raggiunse Lucas, facendogli gorgogliare lo stomaco nonostante avesse già fatto colazione.
«No, con Miss Mi Faccio l’Aperitivo Col Vampiro E Se Arrivo In Ritardo Di Dieci Secondi Qualche Testa Salterà» dichiarò sottovoce, parcheggiando a lato della strada.
In quelle rare occasioni in cui andavano a prendere Alexia a casa, lei non mancava di far notare mal sopportasse i ritardatari e in quel periodo, presi com’erano dall’indagine, tardare di un solo minuto negli spostamenti o nella raccolta d’informazioni poteva fare la differenza tra la soluzione del caso e un catastrofico disastro.
«Se ti sente sì, che farà saltare una testa: la tua!» rise Cane, scendendo per zittire quelle lagne di prima mattina.
Se poteva, preferiva dare l’avvio con calma alla giornata, limitando i pensieri a cose semplici e positive. E per quel giorno il meteo garantiva un bel sole e temperature piacevoli, che avrebbero aiutato a sopportare meglio le ore di attesa nell’appartamento; non aveva trovato coda nella caffetteria per poter acquistare il caffè; poteva contare su un autista dalla guida fluida e prudente che non gli aveva fatto rovesciare nemmeno una goccia; era quasi certo di staccare ad un orario decente per passare a ritirare una pila di abiti perfettamente puliti e stirati in lavanderia ed una sontuosa cena da scapolo al “Fellon Take Away”. Inoltre, quella sera sulla CKT-24 avrebbero trasmesso la prima puntata del “Grand Prix de Celest(is)e Pâtisserie”: quale modo migliore per togliersi dalla bocca l’amaro di quel che avrebbe visto, che una bella gara di torte?
Sapeva che anche il Capitano Stirling condivideva quel sistema di gestione del tempo extra-lavorativo - di tanto in tanto aveva accennato a partite di gelharball, metodi di relax, shopping, persino incontri con amiche - e non poteva nascondere che la cosa gli suscitasse un certo piacere.
Tuttavia, Pierre non sembrava intenzionato a mollare la presa e, abbassato il finestrino, continuò l’invettiva.
«È anche colpa tua! Ti avevo detto di passare tu a prenderci, invece hai preteso che facessi io lo chaffeur. Ho dovuto fare il giro più lungo, visto che tu e il Capitano abitate in parti della città lontanissime a me! Due svincoli della sopraelevata erano chiusi in entrata per lavori, abbiamo trovato un trasporto eccezionale su Kelton Road, rallentamenti vari… i pulmini delle scuole! Se avessimo fatto come dicevo…» ma Cane non stava ascoltando.
Dal grande portone vetrato era uscita la Stirling e alle sue spalle un uomo dai capelli neri e ricci che non aveva mai visto prima. Portava una borsa a tracolla dall’aria piuttosto pesante e una grossa valigetta. Non era vestito come uno della MAB o di qualche agenzia governativa, doveva trattarsi di un civile e, a giudicare dagli abiti casual non troppo ricercati, difficilmente occupava qualche ruolo di peso nell’élite cittadina. Parlavano tra loro con aria molto seria, preoccupata. Si fermarono al cancello che chiudeva il giardino dell’immenso residence e Alexia gli toccò con la punta delle dita lo zigomo destro. Lui rise facendo una smorfia dolorante.
«…e hai anche voluto fermarti a prendere un caffè! Non potevi aspettare di arrivare alla MAB?» protestò vivacemente Lucas sporgendo la testa dall’abitacolo.
«Stai zitto, Pierre» l’ammonì piantandogli la mano sulla faccia.
Le cose stavano prendendo una piega inaspettata e non voleva perdere un solo istante di ciò che stava accadendo: da dove si trovava, Cane aveva l’impressione che la Stirling e quel tizio si stesero baciando.
«Che c’è?» bofonchiò Lucas contro il suo palmo.
«Chiudi il becco e rimettiti al volante, mantellina gialla» ringhiò.
Bastò quel vago accenno a far ritrarre il collega come una lumaca nel guscio.
Cane rimase appoggiato alla portiera, studiando la scena con apparente distacco. Non poteva sapere che Brando, fronte a fronte con Alexia, si stava raccomandando vivamente circa la spesa da fare per il frigorifero di casa, in particolar modo quali scatolette acquistare per Micio, che in quel periodo dell’anno aveva bisogno di una dieta specifica per evitare che perdesse troppo pelo (preferiva evitare di trovarselo addosso o peggio, nel kit da pasticcere). Visto quanto ne osannavano lo splendore i vicini, non amava l’idea di fargli sapere che il gatto di Alexia si rimpinzasse di tugga: si trattava di una crema di ceci, fave, uova e interiora di pesce macerate con erbe aromatiche tipica della cucina di Khariya di cui la razza era originaria. Ne acquistava una marca d’importazione in una bancarella tradizionale khariyana sul piazzale dalla Magic Arena, tutt’altro che lussuosa e regale. E poi, non avevano mai detto neppure a Micio da dove arrivasse quella deliziosa pappina beige: per un Leglar Blue di alta genealogia, nato in uno degli allevamenti più prestigiosi di Amaltea, sarebbe stato un trauma.
«Solo quelle con la fascetta verde, mi raccomando. Se non ci sono, lascia perdere. Nelle altre non c’è il pesce ed è fondamentale» si raccomandò per la centesima volta.
«Brando, sono due anni che tua madre me l’ha regalato… so cosa mangia Prince» sospirò pizzicandogli entrambe le guance e tirandoselo di nuovo vicino per auguragli l’ennesimo in bocca al lupo per la prima serata di gara.
Cane non riuscì a sentire nulla del discorso tra il Capitano e il misterioso accompagnatore, tranne il saluto finale dell’uomo, che levò al cielo le mani in segno di vittoria dopo averle dato un sacchetto di carta:
«Contaci, Lix! Tornerò vincitore per festeggiare col mio tesoro!»
Lei scoppiò a ridere, una risata realmente divertita e sincera, che in ufficio avevano udito in occasioni tanto rare da poterle contare sulle dita di una mano.
Non sembra neppure la stessa persona, considerò Cane, avvertendo una strana contrazione alla bocca dello stomaco.
Buttò giù una lunga sorsata di caffè, ma la sensazione di un chiodo nelle viscere non si alleviò, anzi. Gli sembrò persino di percepire una certa acidità risalirgli in gola.
«Qualcosa non va, Cane?» domandò Alexia raggiungendo l’auto.
L’agente sfoderò un sorriso cinico sotto gli occhiali da sole.
«Tutto a posto, Capitano» rispose dopo essersi passato rapidamente la lingua sulle labbra.
Aveva bisogno di trattenere ogni singola stilla di quell’aroma se voleva mantenere la calma.
«Eccetto il traffico!» berciò Pierre dal sedile di guida e completamente nevrastenico. «Oggi è da pazzi! Andiamo?» supplicò, augurandosi che la presenza della Stirling facesse desistere il collega da eventuali rappresaglie.
«Per me?» chiese lei, indicando il grosso bicchiere di carta.
«Ha già la sua colazione, capo» rimbrottò, indicando il sacchetto che teneva in mano e dal quale arrivava il profumo delizioso delle Twisted Rolls. «Questa spetta agli umili e solitari sottoposti».
Alexia lo fissò perplessa salire in macchina senza aggiungere una parola e, soprattutto, senza aprirle la portiera come suo solito. Pareva che insieme alla cravatta avesse dimenticato la consueta, melliflua galanteria con cui la trattava nel proprio appartamento. E se per la prima si trattava di una prassi, per l’altra era un’assoluta novità.
Sento che oggi sarà una giornataccia, pensò tra sé.

1 Kourabiedes: piccoli biscotti greci al burro.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Far Amal ***


The "L" Factor_Cap. 3
3.    Far Amal

Crema al tiramisù speziata con gocce di pepe nero pralinate, liquore al cioccolato racchiuso in una cialda di Libea, il tutto ricoperto da una colata di cioccolato spruzzato di granella di caffè,
cannella e paprika, e chiuso alla base da un tappo di biscotto.


La collaborazione dell’Anticrimine funzionava a meraviglia. Le informazioni arrivavano con una certa solerzia e Railey sembrava tutt’altro che propenso a remar loro contro. Tuttavia, in due settimane non erano andati molto più in là di quando erano entrati nel covo di Valakis per quanto riguardava degli aspetti sostanziali dell’indagine.
Alexia sbuffò, allontanando in malo modo alcuni plichi che franarono frusciando sulla scrivania, mancando di un soffio il sacchetto con l’ultima girella. L’aveva conservata per la pausa del pomeriggio e certo non le andava di mangiare qualcosa che aveva spiaccicato a mo’ di frittata già dal mattino.
«Problemi?» chiese Lucas che, seduto alla propria postazione, le dava le spalle.
«Si è avviata la sessione di crittografia dati. Userò il terminale di Cane finché il mio non si sblocca. Voglio cercare tra i file catastali per scoprire se qualcosa lega le proprietà di Timur e i laboratori della Lilith che abbiamo individuato. Tu insisti con i centri trasfusionali. Da qualche parte dovranno pure sottrarre il sangue e il mercato nero non può offrire le quantità necessarie, l’ha confermato anche Valakis. Per non parlare del fatto che i maghi disposti a rifornirli di propria iniziativa non possono essere così tanti, nemmeno oltre confine».
«Giusto. Forse però è meglio usare il computer di Carmy o aspettare che il sistema si riavvii: l’ultima volta che ho dato un’occhiata al desktop di Cane sembrava ci fosse esplosa una granata! C’erano file ovunque, era impossibile trovare i link ai programmi o alle cartelle… Non so proprio come riesca a lavorare» sghignazzò.
«Non voglio impiegare connessioni che incorporino i codici identificativi di Carmy» dichiarò la Stirling, sedendo all’altra postazione e attivando lo monitor virtuale. «Seminare informazioni anche minute nella rete potrebbe metterla in pericolo più di quanto già non sia e non possiamo permetterlo. Quindi l’unica cosa che…»
La donna si zittì di colpo.
«Che…?» la sollecitò l’altro.
Silenzio. E la luce dello schermo di Cane che arrivava a velare l’angolo del suo.
«Capitano?» chiamò voltandosi e ciò che vide lo raggelò.
Una volta sbloccata la schermata con il logo della MAB in campo blu, Alexia non era stata investita dal marasma paventato da Lucas. Era apparsa un’immagine tridimensionale che l’aveva lasciata di sasso: una donna dai lunghi capelli biondi era allungata su una grande poltrona candida, la testa voltata da un lato a fingere disinteresse per l’osservatore. Le mani stringevano i braccioli di legno intarsiato, dando l’impressione che fosse lì lì per alzarsi e andarsene. Indossava una guêpière di tulle trasparente e nastri in raso nero, con slip e calze coordinate; persino le scarpe di vernice con tacchi da capogiro sfoggiavano un intreccio identico a quello che dal petto le scendeva fin sotto l’ombelico. Basse coppe a balconcino sembravano sul punto di schiudersi per mettere in mostra la piena voluttà dei seni, incorniciati dalle spalline.
Era un’immagine carica di sensualità e malizia, non priva di una certa eleganza, e che non avrebbe suscitato le obiezioni della Stirling se non avesse avuto un unico difetto: il volto. Un ovale allungato che faceva da cornice alle labbra socchiuse e agli zigomi alti, appena ombreggiati dalle lunghe ciglia. Era certa che quel viso non appartenesse alla modella di lingerie perché era il suo. Alexia stava osservando sbalordita un’abile manipolazione che aveva trasformato una pubblicità di intimo femminile in una sua conturbante, piccante alter ego.
La voce di Brando cominciò a girarle nella testa: ti piace. E tu piaci a lui, ne sono convinto. Per certe cose ho naso, fidati: quello sbava per un tuo cenno. Scommetto che ha la testa piena di fantasie su vuoi due soli in ufficio.
No, pensò irritata, Thomas fa lo stupido, ecco tutto. Con la persona e nel posto sbagliato, per giunta. Un momento… Thomas?
Aggrottò la fronte, perplessa. Pur conoscendolo da anni, non l’aveva chiamato quasi mai per nome, forse una decina di volte in tutto. L’aveva sempre considerata una forma di rispetto professionale, oltre che gerarchico. Perché ora si rivolgeva a lui a quel modo, specie considerando come si era comportato quel mattino? Era sicuramente colpa delle congetture senza senso con cui Brando la tormentava da mesi. Era normale che il suo coinquilino riversasse su di lei il suo nervosismo, soprattutto ora che la gara di pasticceria entrava nel vivo e si trovava senza la sua dolce metà a sostenerlo per motivi di lavoro, ma che arrivasse addirittura a stravolgere la sua forma mentis in nome di un qualcosa che non esisteva, era una novità che non poteva permettersi.
Sentì del liquido cadere a terra e qualcuno tossire affannosamente, nascosto dalla parete esterna del box.
«Quando avrà ripreso a respirare normalmente, vorrei una spiegazione… Agente Cane» disse Alexia senza staccare gli occhi dall’ologramma.
Chiunque avesse avuto a che fare con la Stirling anche per una manciata di minuti, avrebbe capito lontano un miglio che dietro l’apparente calma di quelle parole covava una minaccia non da poco.
Pierre deglutì a vuoto, desiderando il potere di rendersi invisibile o di mutare in un animaletto abbastanza piccolo per sgattaiolare via non visto. Odiava essere il solo membro della squadra sprovvisto di M-Code. Sarebbero bastati tre minuti, o forse solo uno, per mettersi in salvo dall’uragano che stava per scatenarsi nel piccolo ufficio.
«Spiegazione? A che proposito?» domandò infine Cane, entrando con la manica della camicia umida di caffè e ostentando una nonchalance del tutto inappropriata.
Proprio il genere di risposte che mandava su tutte le furie Alexia.
«Ecco… sarebbe il mio… turno… di fare pausa…» balbettò Lucas facendosi piccolo e indicando il corridoio.
L’altro l’afferrò per la spalla, trattenendolo lì dov’era.
«No, caro mio. Guarda bene. Manca ancora qualche minuto» e soggiunse curandosi in avanti, affinché solo lui potesse sentirlo: «Di’ pure addio al tuo segreto, Signor Balbunn o come diavolo si chiama».
La faccia di Lucas perse colore in un battito di ciglia.
Cane aveva scoperto tempo addietro la sua smodata passione per la serie animata “Diamond Princess Leila” e in particolare per il coprotagonista maschile, Balmung, del quale aveva vestito i panni in diversi raduni di cosplayer. Sfortunatamente, uno di questi si era tenuto a Jersey Beach, dove Cane amava trascorrere il proprio tempo libero. Un incontro fortuito, qualche ricerca nei blog e nei siti specializzati, e il ricatto era stato confezionato ad arte: Lucas avrebbe dovuto preparare in gran segreto il fotomontaggio – senza fare domande circa l’uso cui sarebbe stato destinato – e in cambio Cane avrebbe taciuto circa outfit, trucco e parrucco.
Ora però, le carte erano state scoperte e l’esito del tutto imprevedibile.
«Tu… a-avev-vii p-promes-sso…» balbettò.
«Anche tu, ma ti sei fatto beccare come un idiota» latrò, consapevole che il collega avesse ben poca colpa.
Non gli aveva mai detto di aver trasferito l’immagine sul suo desktop, né che spesso la lasciava aperta.
«Allora?» l’interruppe Alexia.
A quelle parole, l’agente fu costretto a lasciar perdere le invettive contro l’ignaro complice e a raddrizzarsi, per fronteggiare un emergenza ben più seria di un 9.0.
«Sono un uomo solo e mi piacciono le belle donne. È un problema?» ammise facendo spallucce.
«Sì, se hanno la mia faccia».
«Sul serio? Non avevo notato la somiglianza» commentò fingendosi sorpreso mentre si allungava verso lo schermo virtuale.
Mentiva sapendo di mentire: persino quella talpa di Perez, giù all’archivio, avrebbe riconosciuto il viso di Alexia su quel corpo da favola. Pierre aveva fatto un lavoro coi fiocchi, doveva dargliene atto. Anche perché era intimamente convinto che sotto l’uniforme, la Stirling non fosse poi così diversa dall’indossatrice.
«Dico davvero, non ci avevo fatto caso» insisté.
La faccia del superiore l’invitava a cessare all’istante la ridicola pantomima. Un invito neppure troppo velato, a giudicare dalla piega cattiva delle sue labbra e dallo sguardo truce che gli rivolse alzandosi. Sebbene fosse più bassa di lui, bastarono i pochi centimetri dei tacchi e la posa dell’agente, a far sì che i loro occhi si trovassero alla stessa altezza.
Thomas si stupiva ogni volta nel constatare quanto le iridi azzurre del Capitano potessero apparire fredde e distaccate se guardate di lontano, o turbinose e cariche di emotività se osservate da molto vicino. Notò un curioso scintillio poco sopra il labbro superiore, uno sbaffo di glitter. Qualcosa che lo rimandò alla scena di qualche ora prima, quando l’aveva vista baciare quel tizio sotto casa, causandogli fastidio allo stomaco.
Di contro, Alexia sentiva il profumo del caffè risalire dalla manica macchiata, mescolandosi alla colonia del suo sottoposto. Era un mix che gli donava: aspro e deciso, fresco e avvolgente, capace di infastidire ed elargire grandi soddisfazioni nel contempo. Esattamente al pari dell’aspetto di Cane, trascurato solo all’apparenza (a quella distanza era evidente che ciò che tutti prendevano per una barba incolta fosse invece tenuta con cura maniacale in quella guisa) o dei suoi modi, che oscillavano tra lo sbruffone e il competente passando per il sornione.
Cane piegò la testa da un lato, sospirando e assumendo l’espressione più conciliante che gli riuscì.
«Diamine, Capitano, era solo un scherzo innocente... Non era neppure finito! Vero, Pierre?» ridacchiò, ma l’altro rimase muto, non sapendo cosa dire per evitare possibili grane. «Ho detto: vero, Pierre?» e gli allungò un calcio nello stinco, dal quale ricavò solo un gemito strozzato.
«Voglio. Vederlo. Sparire. Subito» sentenziò lei, scandendo ogni parola per rimarcare il proprio disappunto.
Arreso, Thomas assestò una sonora pacca sulla spalla del collega, recuperando parte del suo tono da spaccone.
«Hai sentito? Su, genio, alzati e vai a…»
«Non lui. Tu».
«Io? Ma lo ha fatto lui!» obbiettò.
«È sul tuo computer. Lo sistemi tu. Io e Lucas andiamo da Carmy: tra un’ora dovrebbe avere appuntamento alla Chiesa. Spero solo che quel cialtrone di Valakis non sia stato così sciocco da farsi sfuggire la notizia del nostro colloquio o potrebbe aver messo in allarme Timur. Sono arrivate voci di movimenti strani tra i vampiri della zona» considerò impensierita per tornare a rivolgersi a Cane. «Mettiti bene in testa che nonostante trascorriamo molto tempo qui, non siamo a casa nostra e quelle che usiamo sono attrezzature della MAB. Esiste un codice deontologico e di gestione, che vieta tassativamente l’uso privato dei sistemi. Ogni trasgressione può essere sanzionata, anche in maniera pesante. E tu hai violato più di una norma in un colpo solo».
«Hai intenzione di farmi rapporto?» replicò a bruciapelo.
Lei non rispose, limitandosi a fissarlo pensierosa. Poi, dopo un tempo che parve infinito, scosse la testa. Non poteva permettersi di far sospendere un membro della squadra in quel momento, soprattutto uno con la sua esperienza. Non poteva, nemmeno se si comportava come un ragazzino a trentotto anni.
«Già che ci sei, dai una sistemata al desktop, mi dicono che non ci si capisce niente».
«D’accordo. Provvederò dopo essermi ripreso un caffè» sibilò rivolgendo un’occhiataccia a Lucas che, ancora visibilmente preoccupato, tentava con scarsi risultati d’infilare la giacca.
«Prendine due» suggerì gentilmente Alexia.
Thomas abbozzò un sorrisetto ironico.
«Devo fare anche il servo, Milady? Pure il signore vuole ordinare? Aspettiamo ospiti? Desiderate delle paste?» la stuzzicò, inchinandosi da perfetto cameriere sotto lo sguardo di gelido astio del Capitano.
«No. Ma appena avrai finito con il desktop, scriverai i rapporti delle ultime due settimane che non abbiamo ancora sistemato. E che siano scritti in maniera impeccabile, senza errori ortografici o grammaticali».
«Ma è roba da tirocinante!» protestò inorridito.
Era una vita che non metteva giù due righe: era sempre riuscito a rifilarle a Pierre o a Carmy.
«Vero. Tuttavia la nostra tirocinante è sotto copertura, io voglio verificare di persona l’andamento delle indagini e Lucas mi serve per le strumentazioni. Tocca a te» replicò perentoria, incrociando le braccia. «O così, o sarà la tua foto in deshabillé a girare sui nostri schermi» minacciò.
L’uomo si lasciò cadere scomposto sulla sedia, squadrandola malizioso mentre prendeva a dondolarsi.
«Sono piuttosto attraente in intimo, sa?» ribatté sbottonando la camicia fino al petto.
Lo sguardo di Alexia si assottigliò, affatto impressionata.
«Con “nostri”, intendevo quelli di tutta la MAB. E con quell’intimo» puntualizzò, additando la fotografia. «Credo che la tua virilità ne risentirebbe molto più dell’orgoglio di Lucas, qualunque sia il suo segreto».
Thomas cercò di ribattere, ma non trovò battute adatte. Si limitò ad un vago cenno di resa scrollando le spalle.
«Ottimo. Buona giornata, Cane» salutò soddisfatta la Stirling, ammutolendolo del tutto.
Forse non se n’era accorta o l’aveva fatto deliberatamente, ma nel salutarlo aveva voltato la testa e atteggiato il viso proprio come nella foto.

***

Amava la cannella. Era la spezia che più di ogni altra sapeva stimolare la sua fantasia, forse perché era la prima di cui avesse memoria. L’aveva incontrata a casa dello zio Giovanni, a Romalia. Aveva sì e no cinque anni e se ne stava a giocare tra gli scatoloni della cucina durante il trasloco, quando aveva rovesciato d’un sol colpo una decina di barattoli. Polveri in varie tonalità di marrone si erano sparse sul pavimento ai suoi piedi. Spaventato, aveva cercato di raccoglierle, finendo con l’impiastricciarsi di quelle strane miscele odorose. Ma un vasetto, in tutto quel caos, era rimasto intatto. Luccicava come una di quelle lampade fiabesche che contenevano un genio al loro interno. Un genio bruno dorato che attirò la curiosità del piccolo Brando, che si domandava perché quell’unico contenitore fosse sfuggito al suo disastro. Era certo che ci fosse una spiegazione, un motivo. Pensò che forse era più pesante degli altri e lo prese con entrambe le mani., riuscendo a sollevarlo senza sforzo. Allora ipotizzò che la risposta fosse nel contenuto e quando tolse il tappo, la fragranza intensa pigiata nel vetro lo investì, lasciandolo piacevolmente stordito. Non aveva mai sentito nulla di più squisito. Aveva intinto il dito una, due, tre volte, assaporando il pizzicore sulla lingua e il palato, aspettando che ogni alone svanisse prima di ricominciare. Quando sua madre lo trovò ancora coperto di spezie, aveva un sorriso ebete sul faccino. Un sorriso probabilmente molto simile a quello che mostrava in quel momento Robin Gellar, la quale, seduta all’altro capo del tavolo dei giudici, lasciò sfuggire un singulto carico di lussuria mentre si abbandonava mollemente sulla poltroncina. I suoi esimi colleghi sgranarono gli occhi prima su di lei, poi sullo stecco che reggevano in mano.
«Assaggiatelo… assaggiatelo…» sospirò leccandosi le labbra tra un morso e l’altro.
Thabo Mtawarire e Marcel Moriyama esitavano. La Gellar era famosa per essere piuttosto esuberante e disinibita - nell’edizione precedente del concorso aveva baciato in bocca una partecipante per dimostrarle quando poco del gusto del suo dolce restasse sul palato -, ma quella reazione era quanto di più assurdo le avessero mai visto fare.
«Robin, che ti prende?» bisbigliò allibito Moriyama.
«Dio… è un orgasmo… puro piacere… da mangiare…» gemette estasiata passandosi una mano tra i lunghi capelli rossi. «È così… così… è un godimento orale…»
Dietro le telecamere ci furono risolini, occhiate sconvolte e commenti allarmati, presumibilmente gli stessi del pubblico a casa. Un tecnico delle riprese domandò scherzosamente nel fuori onda se per la trasmissione della sera successiva dovessero cambiare l’avviso da “per tutta la famiglia” a “per soli adulti”.
Gli altri otto concorrenti fissavano Brando sbalorditi e irritati, non riuscendo ad immaginare cosa diavolo ci potesse essere di così speciale in quelle che ai loro occhi erano delle banali piramidi tronche, con giusto una spruzzata di spezie come decorazione. Nessuno, pur avendo scorto la complessità delle varie preparazioni, aveva ritenuto quei dolci all’altezza dei propri, ma di fronte ad una reazione così esagerata non sapevano che pensare.
Titubanti, gli altri due giudici si risolsero ad addentare la barretta ricoperta di cioccolato alla paprika e cannella. Sentirono scrocchiare biscotti e praline di pepe nero all’interno del ripieno al tiramisù. Gocce di liquore scuro e denso miste alla crema colarono sul mento e sulla camicia di Moriyama che non si degnò di pulirsi, preso com’era dall’estasi di sapori che gli era esplosa in bocca. Mtawarire, dopo aver divorato in tre famelici morsi il dolce, gettò lo stecco sul piatto e si allontanò ansimando dal banco, andando ad appoggiarsi a un pilastro della scenografia.
«Cosa può averci messo oltre alla Libea?» bisbigliò imbarazzata Aya Mehran alle sue vicine Kelly Simmons e Shonna Martinez, la quale scosse la testa avvolta da un largo turbante variopinto.
«Io l’ho guardato, non mi sembrava niente di così favoloso. Caffè, biscottini, cioccolato… lo farebbe anche un bambino» fece eco Otto Snejder spalleggiato da Pitt Jerkins, proprio alle spalle di Brando, e venne subito zittito da uno sguardo di biasimo di Jacques McCoy.
«Il cioccolato e la Libea ce li ho messi anch’io, chissà che succederà con i miei che hanno anche il lampone!» pigolò entusiasta Jula Antonova a Mako Ikeda, che guardava il proprio “Ikebana-na” con apprensione.
Brando si grattò la nuca, divertito e confuso. A quanto pareva l’azzardo aveva pagato più del necessario: aveva aumentato di un quarto la dose di Libea nella crema dopo aver ripensato alla chiamata che Alexia gli aveva fatto per augurargli ancora buona fortuna per la prova d’apertura della gara e per raccontargli del fotomontaggio.
«Potrebbero licenziarlo per una cosa del genere! Non ha rispetto per le gerarchie e le regole!» aveva protestato.
«Smettila di fare la zitella acida, Lix. Si sente lontano un miglio che ti ha fatto piacere» aveva commentato osservando l’immagine sul visore degli occhiali. «Però bisogna che tu gli faccia notare che sottovaluta il tuo decolleté, magari in un tête à tête. Sei molto più piena di questa ragazza».
Alexia l’aveva scaricata un attimo prima che Cane entrasse nel box. Non sapeva esattamente cosa l’avesse spinta a fare una cosa del genere, nonostante cercasse di convincersi che fosse solo per avere in mano qualcosa con cui
tenere in riga il proprio sottoposto in caso di bisogno.
«Cosa dovrei fare?!»
«Ora vienimi a dire che un completino così non ce l’hai… cassettiera bianca, secondo tiretto dal basso, angolo posteriore sinistro, sotto le maglie per il gelharball. Grigio e cipria, molto retrò e conturbante. Sta facendo i funghi là dentro ma sapevamo ti sarebbe servito prima o poi. Tiralo fuori e faglielo vedere» aveva suggerito.
Alexia aveva cambiato colore e il suo “ti odio” sibilato nel ricevitore era stato impagabile: quel completo gliel’avevano regalato lui e Julius per la sua promozione a Capitano, facendosi grasse risate quando lei aveva domandato se volevano obbligarla a indossarlo sotto la divisa.
«Dillo di nuovo e il bucato dovrai fartelo da sola, tesoro» aveva sghignazzato.
A dispetto delle parole però, si era sentito in difetto: quando aveva creato il "Far Amal", aveva pensato a tutto ciò che lo legava alla sua terra e lo rendeva felice, e non poteva negare che oltre alle spezie, alla passione per la pasticceria e agli affetti, ci fosse anche il sesso. Il fatto che Lix non avesse strangolato quel tizio era già qualcosa, ma era certo che se, avesse potuto farle avere uno di quei dolci, non si sarebbe indignata e né sarebbe uscita con il ragazzino. Certo, visti gli esiti sulla Gellar, forse non sarebbero neppure andati in missione e giustificare alla MAB il conto fuori programma di una camera d’albergo avrebbe potuto rappresentare un bel problema.
La voce cupa di Moriyama lo riscosse. Avevano terminato – con immensa fatica – d’assaggiare i dolci e si sarebbero ritirati per stabilire i vincitori della puntata e gli eliminati. Scattavano trenta minuti di tensione vertiginosa. Alcuni temevano di andarsene subito con la coda tra le gambe, Ikeda e la Mehran per primi: un dolce su stecco non era affatto facile da preparare come la gente credeva e i loro erano penosi. Anche con tutte le abilità tecniche e gli ingredienti più adatti, il risultato non poteva essere garantito fino all’ultimo secondo. Non era solo una questione di gusto e consistenze, in gioco c’erano anche viscosità, compattezza, resistenza al peso e al calore. Per certi versi era simile ad un’opera d’ingegneria. E ogni dettaglio era stato testato dai giudici.

***

La prima eliminazione del “Grand Prix de Celest(is)e Pâtisserie” colpì l’altezzoso Otto Snejer, reo d’aver presentato una granita su stecco così compatta da essere divenuta una via di mezzo tra un iceberg e un aspic di frutta e caramello assolutamente immangiabile.
«Troppo tempo nel congelatore, a una temperatura troppo bassa. Il caramello con cui l’hai glassato è diventato subito duro e grazie alla Libea che avevi aggiunto, era praticamente impossibile da mordere senza rischiare i denti. La frutta era talmente fredda che non se ne percepiva il gusto, lo stesso vale per la granita. Un lavoro pessimo» aveva decretato senza troppi preamboli Mtawarire.
Inutile dire che il “Far Amal” di Brando aveva riscosso un tale consenso da essere indicato come il dolce migliore. Cercarono d’impedire in ogni modo alla Gellar di pronunciare il verdetto, per evitare che si esibisse in una replica di quanto accaduto poco prima, ma si trattò di una precauzione inutile:
«Lavoro superlativo. La cremosità era piacevolmente inframezzata dagli elementi croccanti e dalla copertura che risultava ben aderente. La goccia di liquore avvolto nella cialda di Libea per mantenerla liquida e fresca, è stata una chicca davvero golosa. Le spezie sono state dosate con molta sapienza, mai eccessive, ottimamente amalgamante anche nei giochi di contrappunto. Il cioccolato era temperato in maniera eccellente e il biscotto morbido della base è stato un vero colpo di genio,» dichiarò, perfettamente seria, per poi concludere leccandosi vistosamente le labbra: «perché aiuta a pulire la bocca senza disperdere lo spunto erotico dell’insieme».
Pertanto, a Brando fu concesso il Bonus Vittoria, ovvero la possibilità di conoscere in anticipo il tema della gara successiva. Aveva venti ore di tempo per studiare nei minimi dettagli la sua nuova creazione. Già il pensiero correva lungo gli scaffali della sua mente, vagliando gli accostamenti migliori e più sorprendenti, quando si sentì chiamare. Era Thabo Mtawarire, l’unico la cui reazione gli aveva fatto scattare dubbi circa il “Far Amal”.
«Pellegrini? Nella Bake Room» fece lui, perentorio.
La Bake Room altro non era che un minuscolo salottino privato, un’area ad accesso limitato dove i giudici o gli ospiti delle puntate (in genere pasticceri o critici gastronomici di fama internazionale) potevano parlare  liberamente con i concorrenti che li avevano più impressionati, offrendo loro consigli o ramanzine.
«Stai più attento» tagliò corto.
«Prego?»
«Il tuo dolce è stato a dir poco sensazionale. Anzi, sessuale. Robin l’ha definito felicemente pornografico e ne era entusiasta» precisò abbassando la voce e guardandosi attorno con aria furtiva.
Pur essendo uno spazio riservato, le telecamere erano comunque presenti.
«Intende dire che ho esagerato?»
«Ecco… so di parlare a nome di Robin quando dico che potresti caricarlo ancora un po’. Ha praticamente visto la Nascita di Venere su Neos, se capisci cosa intendo. E per me e Moriyama non è stato molto… ehm… diverso. Siamo stati solo più bravi a mascherare» commentò, passando distrattamente una mano sui pantaloni.
«Capisco» replicò imbarazzato.
In realtà non era vero: non capiva dove quella specie di stringa di liquirizia volesse arrivare.
«Renditi conto che siamo in televisione. Certe “situazioni”, sono… come dire?» meditò, accostandosi al piccolo mobile bar e stappando una bottiglietta di tè freddo.
«Inopportune?»
«No. Non inopportune, non le definirei a questo modo» rispose sorseggiando la bevanda. «La gente, dopo tutto, cerca il sensazionale e con Robin che ha un orgasmo in diretta ci vanno a nozze. Per lei è tutta pubblicità».
Ma che ho combinato? si chiese, sempre meno convinto del risultato della sua creazione.
«Queste situazioni si potrebbero ritorcere contro di noi. E con noi intendo io e te» riprese torvo Mtawarire.
Il pasticcere e conduttore di programmi culinari più stimato dell’intera New Aalborg si sporse avanti, poggiando pesantemente una mano sulla spalla di Brando mentre con l’altra scostava un poco il bavero della giacca. Sotto, una spilletta era appuntata sulla fodera. Il giovane sgranò gli occhi: conosceva quel simbolo, due coppie di otto sovrapposti al centro, due più grandi e due più minuti, intervallati da quelli che sembravano sottili nastri avvitati su sé stessi. Il Fiore di Lat’chi. Ne aveva uno anche lui, nascosto nella tasca dei pantaloni. Esponendosi a quel modo, Mtawarire stava correndo un rischio enorme.
«Sì, Pellegrini, io e te siamo simili. In cucina e non solo» disse, indovinando i suoi pensieri.
«Come faceva a sapere..» balbettò, incapace di distogliere lo sguardo dal monile.
«Sono Cavaliere della Congrega. Posso accedere ai registri. Li ho controllati per scoprire se vi fossero altri sodali nella competizione» spiegò posandogli le mani sulle spalle con fare rassicurante.
Brando boccheggiò un paio di volte, fissando le scarpe come un monello colto in flagrante e indeciso sul cosa dire. Avrebbe voluto partire dagli ossequi di rito, ma la stretta alle spalle glielo impediva.
«Signor Mtawarire… Cavaliere… starò più attento» promise. «Non oserei mai metterci deliberatamente in…»
«Lo so, Pellegrini. Ne sono convinto» lo tranquillizzò, strizzandogli l’occhio. «Ora però occhio a Robin, credo voglia avere altri dei tuoi "Far Amal". Pare si senta un po’ sola, ultimamente» rise raggiungendo la porta. «Avrei solo un’altra domanda da farti».
«Dica» replicò, frastornato e indeciso se genuflettersi come si conveniva di fronte a un superiore dell’Ordine.
«Perché il pepe nero? Era perfetto nell’insieme ma non trovi sia rischioso? Potresti trovare bacche dal gusto troppo forte o rancide, e rovinare il dolce».
«Ho fatto diverse prove prima di arrivare a questa versione. Ho usato il rosa, il verde. Anche il pepe rosso di Sornitz. Nessuno aveva lo spunto giusto: troppo forte, troppo aromatico, troppo piccante. Allora ho provato a spezzettare le bacche del nero e a metterle in infusione per mezz’ora con acqua frizzante, miele e due gocce di un estratto di mia invenzione. Livello l’aromaticità e il piccante, azzerando eventuali spunti rancidi».
Mtawarire scosse il capo, sorridendo compiaciuto.
«Ragazzo, ci darai delle soddisfazioni. A noi, al pubblico e… a noi» insisté battendo la mano dove c’era la spilla.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Ocean Eye ***


The_L_Factor
4.    Ocean Eye

Pan di Spagna marezzato azzurro e bianco a base di vaniglia e alghe polverizzate, intervallato da crema vegana al pomodoro caramellato, Libea, rhum, pezzi di ananas, anice, salsa Du Lac,
ricoperto di ganache vegana alla panna di soia, alghe, cocco e cioccolato decolorato con incantesimi appositi.


«Il tema del mare può sembrare banale, ma proprio per questo motivo non va preso sotto gamba!» avvisò la Gellar mentre i concorrenti si davano da fare alle proprie postazioni. «Stupiteci!»
«Come se fosse facile…» annaspò la Martinez, mulinando le braccia in un’enorme boule.
Brando controllò il Pan di Spagna nel forno. Aveva l’impressione non stesse lievitando a sufficienza, forse per via delle alghe nell’impasto azzurro. Le aveva usate in altre preparazioni con enorme successo – tutti ricordavano quando Hannu era svenuto dall’emozione assaggiando la sua Suprême all’ananas, scoprendo che il colore dell’impasto non derivava da coloranti artificiali. Meditò se applicare subito un gonflage o aspettare ancora: le alghe non dovevano aver perso tutta l’acqua al loro interno, ma una volta eliminata quella, avrebbero rilasciato gli zuccheri e l’anidride carbonica sufficienti a raggiungere il risultato previsto. Serviva solo un po’ di pazienza.
Sorrise rimettendosi all’opera sulla crema per la farcitura e sulla terribile salsa Du Lac, spina nel fianco di qualunque pasticcere. Pur essendo chiamata “salsa”, la Du Lac era paragonabile a un miele per vischiosità; nonostante ciò non era appiccicosa e poteva essere modellata come un solido o resa volatile grazie ad appositi incantesimi. La difficoltà stava tutta nel temperaggio degli ingredienti, che andavano lavorati in maniera simile al cioccolato, ma su un piano riscaldato fino a quando, a seconda del risultato che si desiderava ottenere, la Du Lac non si rapprendeva in una massa semifluida o cominciava a levitare.
Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro, lasciando colare il preparato in un filo sottile dalla bacinella. Appena il disco fu sufficientemente largo e uniforme, afferrò la spatola e cominciò a lavorarlo, facendo piovere di tanto in tanto qualche pizzico di Libea, che veniva subito incorporata. Jerkins, nella postazione alle sue spalle, strabuzzò gli occhi costatando che pur essendo così impegnato, riusciva a mantenere attivi ben due incantesimi: uno per montare la ganache vegana di soia e l’altro per la mescolare la crema all’ananas e pomodoro caramellato.
«Attenzione alle tempistiche» l’ammonì Mtawarire, dissimulando abilmente la propria ammirazione.
Aveva notato la solitaria stella di anice attorno alla quale vorticava il secondo composto e l’indicò ai colleghi. Occorreva non poca maestria a far sì che il mulinello non la trascinasse al proprio interno, riducendola in pezzi e amalgamandola all’insieme, poiché la ricetta prevedeva restasse solo in infusione. La Gellar e Moriyama annuirono con solennità senza dire nulla. Brando rispose con un sorriso appena accennato, senza perdere il ritmo delle battute. Li aveva notati a malapena. La sua attenzione era interamente rivolta al processo creativo, tanto che quasi non si accorse dello scorrere del tempo e si ritrovò con un perfetto Pan di Spagna in uscita dal forno.
«E ora… Vallonné» sussurrò.
Subito la pasta ancora calda prese a scuotersi, quasi che minuscole mani lo spingessero dall’interno. Perse gradatamente la forma rettangolare dello stampo, sollevandosi da un lato e assottigliandosi dall’altro, incurvandosi e aprendosi in piani di differente spessore. Separò delicatamente gli strati e li lasciò raffreddare con calma, prima di iniziare a stendere con attenzione l’instabile farcitura: sarebbe bastato un nulla a far smontare la dolce nebbia. Poco alla volta il Pan di Spagna bianco-azzurro si trasformò nella realistica rappresentazione di un’onda dalla meravigliosa - quanto ingannevole – trasparenza, avvolto attorno a un nucleo di crema dorata vivido e scintillante, che attirava a sé gli sbuffi opalini della Du Lac in un vortice squisito. La lavorazione gli era riuscita talmente bene che il leggero tremolio del dolce faceva pensare si trattasse di un’immagine tridimensionale in qualche documentario scientifico.
«Salve, Ocean Eye» sorrise.

***

Degli otto dolci presentati, metà rispecchiavano appieno il tema e l’idea di originalità e innovazione richiesti dai giudici. Gli altri erano un misto di disastri e banalità, che contrariarono sia i giudici che i pasticceri, per non parlare del pubblico a casa. A vincere la sfida fu Jacques McCoy, con il Letto di Nettuno, variante di una millefoglie che impiegava al posto della pasta una particolare varietà di alghe brune, candite e rese croccanti in forno. McCoy non le aveva tagliate in rettangoli, lasciando che la sagoma naturale delle foglie generasse dinamicità nella composizione. Si aveva davvero l’impressione di guardare il giaciglio del dio del mare, dove pesciolini di fondente guizzavano fra gli strati e il grande tridente di isomalto dorato, animati da specifici sortilegi.

Brando aveva provato un’invidia spropositata: quel dolce era decisamente spettacolare e non c’era nulla che potesse convincerlo del contrario, neppure il suo secondo posto davanti a Ikeda e al suo Ao no tate1, una ciclopica torre di bignè fasciata da cascate di resina alimentare, sulla cui sommità danzava un ikuday, raro pesce tropicale dalle lunghissime pinne, realizzato in gelatina e cioccolato plastico. Quarta si era piazzata Aya Mehran, con una zuppa dolce di frutti tropicali, spezie e perle di biscotto alla Libea, guarnita di mousse de mer – una panna montata salata e schiumosa – e racchiusa in una coppa di fondente a forma di conchiglia trattata con un incantesimo idrorepellente, e denominata Culla delle Sirene che, sebbene non avesse suscitato grande impressione, era stata eseguita con grande maestria e gusto estetico.
Tuttavia, le note dolenti giunsero dagli sconfitti. La Simmons era stata penalizzata dal malfunzionamento del proprio vessel che aveva fatto letteralmente impazzire l’impasto base della sua Seablizzard, ma anche da un gran pasticcio della Martinez, rea di averle sottratto la ciotola in cui aveva preparato della crema di zenzero salato. L’altra aveva ribadito più volte che la preparazione si trovava sul proprio ripiano dell’abbattitore e di averla scambiata per l’impasto, misteriosamente scomparso, dei Macaron del Mar Helado che aveva cercato invano di preparare. Jerkins a sua volta aveva avuto problemi con la cottura del suo Tesoro degli Abissi, a causa di un guasto al forno, che gli aveva restituito una specie di pudding grumoso e sgonfio. Ma la parte peggiore era toccata a Jula Antonova: la sua riproposizione dolciaria della famosa tela Mareggiata a Saint Holonnez, minata da un’eccessiva coloritura delle crepes – alcune quasi bruciate - e da improbabili accostamenti tra uova di pesce e coulisse agrodolci di frutta, fu definita un imbarazzante tripudio di gomma insipida.
«C’è in gioco la vostra reputazione e il vostro futuro, e questo è tutto ciò che è riuscita a produrre?» chiese Moriyama, gelido. «Si rende conto che è un insulto verso di noi, i suoi colleghi, il pubblico a casa, ma soprattutto verso sé stessa? Davvero crede di non saper fare meglio di così? Perché allora non mi spiego come sia approdata alle finali. Questa è mediocrità. E forse ancor meno!»
Una stroncatura del genere avrebbe fatto vergognare persino il più borioso ed egocentrico dei pasticceri. Jula scoppiò in lacrime e presa da un moto di rabbia si avventò su Moriyama, ritenendolo il maggior responsabile della propria esclusione. Brando se la vide sfrecciare accanto col braccio sollevato in aria, proteso con una bizzarra angolazione e pronto a colpire. Ebbe la strana sensazione che il suo vessel mandasse scintille, o forse si trattava solo dei riverberi delle luci di scena. Tre uomini della sicurezza la bloccarono un istante prima che raggiungesse il giudice e la trascinarono via tra urla e strepiti. Più tardi, mentre i concorrenti lasciavano gli studi televisivi scortati dai bodyguard, alcuni giornalisti domandarono ai partecipanti dell’accaduto e se fossero al corrente di inusuali movimenti di gente armata - presumibilmente del T.M.D. - nei pressi dell’emittente.

***

Appena arrivato a casa, Brando avanzò nel soggiorno trascinando i piedi sul pavimento. Non si era mai sentito così stanco in vita sua, e solo per aver preparato una torta. Non osò guardarsi nello specchio del bagno mentre lavava i denti, sicuro di scorgervi una creatura sconvolta dagli occhi arrossati e la pelle smunta che lo ricordava vagamente. Dirigendosi verso la propria stanza, ebbe l’impressione di sentire la pelliccia serica di Micio strusciargli sulla gamba, ma avrebbe potuto benissimo trattarsi di un refolo d’aria proveniente da qualche finestra rimasta aperta. Si lasciò cadere pesantemente sul letto, trafficando con i vestiti profumati di Libea e vaniglia. Tastò alla cieca sulla scrivania in cerca del computer. Lo accese e aprì una chat riservata, contrassegnata da un cuore coronato e trovò l’altro utente in attesa.


J
USTICE&SPICE – BENTORNATO, CAMPIONE! SEI STATO FANTASTICO. E QUELLA TORTA ERA UN VERO CAPOLAVORO. MI HAI TENUTO DA PARTE UNA FETTA?

Brando si sentì sollevato e infinitamente grato per la muta comprensione. Per quanto desiderasse udire la sua voce e godersi il suo sorriso, era troppo stanco per reggere il confronto; sarebbe rimasto aggrappato al telefono per ore e se fossero ricorsi ad una videochiamata probabilmente avrebbe abbracciato l’immagine virtuale come un idiota. Aveva un bisogno disperato di dormire.

B
AKING – MI SPIACE. È VIETATO PORTAR VIA LE PREPARAZIONI DALLA GARA. UNA QUESTIONE DI “COPYRIGHT”. CHI VINCE PUBBLICHERÀ UN LIBRO CHE DEVE INCLUDERE ANCHE LE RICETTE DELLA GARA. UNA SPECIE DI TUTELA, CREDO. MA DI QUESTO CI CAPISCI DI PIÙ TU.
J
USTICE&SPICE – CHE GENTE CRUDELE PRIVARE UNA COPPIA DELLE PROPRIE GIOIE. GLI FAREMO CAUSA.
B
AKING – NE FACCIO UNA SOLO PER NOI DUE QUADO TORNI DA AMALTEA. LÌ NON CI SARANNO COPYRIGHT O GIUDICI CHE SI STRAFOGANO IMPUNEMENTE. SARÀ IL NOSTRO BANCHETTO PRIVATO.
J
USTICE&SPICE – NON DIRMELO: FALLA! E IO TI PREPARERÒ QUALCOSA DI ALTRETTANTO STUZZICANTE
B
AKING – QUELLO CHE PENSO?
J
USTICE&SPICE – DIPENDE. COSA PENSI?
B
AKING – LO SAI.
J
USTICE&SPICE – DAI, NON FARE IL DIFFICILE. COSA PENSAVI?
B
AKING – TORNERAI, MI ABBRACCERAI E MI BACERAI DICENDO CHE SONO L’UOMO DELLA TUA VITA, CHE NON PUOI VIVERE SENZA DI ME E LA PROSSIMA VOLTA CHE TI PROPORRANNO UN LAVORO IN TRASFERTA DIRAI DI NO SE NON PUOI PORTARMI IN VALIGIA.
JUSTICE&SPICE –
QUESTO È OVVIO, ANCHE SE DOVRÒ COMPRARE UNA VALIGIA NUOVA, ABBASTANZA GRANDE DA FARTI STARE COMODO. NON SEI PROPRIAMENTE TASCABILE. COMUNQUE, PENSAVO DI PRENOTARE UNA BELLA SEDUTA AL “SECRET GARDEN”, SOLO PER NOI DUE. TRATTAMENTO DI COPPIA COME AL MIO COMPLEANNO. MASSAGGI, SAUNA, RELAX E QUALCHE COCCOLA EXTRA PER IL RE DELLE TORTE DI CELESTIS. TE LO MERITI.
B
AKING – TU MI VIZI. MA FAI PURE. NE AVRÒ BISOGNO A PRESCINDERE DALL’ESITO.
J
USTICE&SPICE – COME SAREBBE “A PRESCINDERE”? TU VINCERAI!

Quelle parole fecero sorridere Brando, che però s’incupì subito dopo. Sentì un groppo salirgli alla gola, facendo una fatica immensa a trovare i tasti. Passò le mani tra i capelli per calmarsi e riprese a scrivere.

B
AKING - HO AVUTO PAURA.
J
USTICE&SPICE - PER COSA?
B
AKING - NON CREDEVO CHE FENG POTESSE ALLARMARMI FINO A QUESTO PUNTO. QUANDO HO VISTO JULA CHE STA

Ma un nuovo messaggio si accavallò al suo in tempo reale, bloccandogli dita e pensieri.

J
USTICE&SPICE - SEI PREOCCUPATO PER I DUE NON MAGHI CHE SONO RIMASTI? JERKINS E SIMMONS? PENSI CHE POTREBBE SUCCEDERE QUALCOSA NELLE PROSSIME SERATE?
B
AKING - MI SEMBRANO GENTE A POSTO, MENO INCLINE A DARE DI MATTO. MA LO STRESS È ALTISSIMO, NON NE HAI IDEA. DEVI PENSARE E MUOVERTI A UNA TALE VELOCITÀ CHE RISCHI DI PERDERTI QUALCOSA. L’ERRORE È DIETRO L’ANGOLO. E POI NON CONOSCIAMO LE CUCINE, I FORNI, LE ATTREZZATURE. I GIUDICI GIRANO MA LE TELECAMERE E I MICROFONI SONO PEGGIO, CE NE SONO OVUNQUE. È UN DELIRIO.
J
USTICE&SPICE - SONO LE TRE DEL MATTINO E SEI SVEGLISSIMO. IO PURE. DIREI CHE UN’IDEA DI COME STAI CE L’HO, ECCOME. VAI A DORMIRE, BRAN. QUANDO SEI STANCO PERDI LA VENA CREATIVA E NON PUOI PERMETTERTELO. IL TRAGUARDO CE L’HAI A PORTATA DI TAGLIAPASTA.
B
AKING – GRAZIE, SEI UN TESORO. E HAI RAGIONE, STO CROLLANDO. MI SI STANN

«Salutatevi e andate a dormire!» sbraitò Alexia, comparendo all’improvviso sulla porta.
A Brando mancò poco che venisse un infarto per lo spavento.
«Che fai qui? È la mia stanza!» protestò frastornato, accorgendosi solo in quel momento di essere saltato in piedi sul letto con la tastiera stretta al petto, e di avere indosso giusto i boxer e un calzino sceso alla caviglia.
«Muoio di sonno e anche con la porta chiusa ti sento digitare e sento tutti quegli stramaledetti alert quando arrivano i suoi messaggi. Voglio dormire!» urlò. «E fino a prova contraria la stanza è mia, come il resto dell’appartamento! Tu la occupi e basta!»
Detto ciò, uscì sbattendosi la porta alle spalle, lasciando Brando interdetto. Appena realizzò d’essere nuovamente solo, esalò un sospiro affranto. Gli sembrava d’essere tornato ai tempi in cui la sua famiglia faceva visita a quella di Alexia, loro due erano adolescenti e la signora Stirling arrivava a concludere le interminabili chiacchierate che li tenevano svegli fino a orari impossibili. La differenza stava tutta nel fatto che a Eleonor Stirling era sufficiente affacciarsi a braccia conserte sulla porta per ridurre chiunque al silenzio, senza bisogno di proferire verbo. Niente scenate, nessuna porta che faceva tremare gli stipiti, solo una consistente dose di materna autorità.
Un bip richiamò l’attenzione di Brando allo schermo.

J
USTICE&SPICE – PROBLEMI?

Aveva inviato una fila di caratteri sconclusionati, probabilmente quando si era stretto addosso la tastiera. Recuperando una posizione consona e un briciolo di dignità, Brando tornò a sedere.

B
AKING – ERA LIX. TI SALUTA TANTO. DICE CHE FACCIO CASINO E VORREBBE DORMIRE.
J
USTICE&SPICE - ERA ARRABBIATA?
B
AKING – UN POCHINO, MA LE PASSA. MEGLIO COMUNQUE CHE VADA A LETTO ANCH’IO. SOLO SOLETTO. SIGH. NEANCHE IL GATTO MI FA COMPAGNIA, QUEL TRADITORE! STARÀ DORMENDO SUL CUSCINO DI LIX, SE NON L’HA BUTTATO GIÙ. PENSAMI, COSÌ SENTIRÒ MENO LA TUA MANCANZA.
J
USTICE&SPICE – LO FARÒ. E PENSAMI ANCHE TU.
B
AKING – NON RIESCO A NON FARLO. SEI TU CHE MI HAI ISPIRATO L’OCEAN EYE, NON L’AVEVI CAPITO?
J
USTICE&SPICE – SEI IL SOLITO ROMANTICONE! MI FAI SENTIRE UNA CAROGNA PER AVERTI LASCIATO SOLO IN QUESTO MOMENTO. NON DOVEVO ACCETTARE L’INCARICO A OTISA.
B
AKING – NON L’AVEVI PREVISTO, È CAPITATO ED È IMPORTANTE PER LA TUA CARRIERA. RIUSCIRÒ A SOPPORTARE LA TUA ASSENZA O MORIRÒ INGOZZANDOMI DI PANCAKE AI MIRTILLI E MOUSSE AL CIOCCOLATO BIANCO. CI SENTIAMO DOMANI. BUONA NOTTE.
J
USTICE&SPICE – A DOMANI, AMORE. BUONA NOTTE.

***

«Niente di buono oggi? Solo porcherie di dubbia provenienza?» si lamentò Thomas, storcendo il naso.

«Senti, accontentati!» protestò Pierre litigando con l’ombrello che non voleva saperne di chiudersi.
Aveva portato qualche focaccina fredda e piuttosto stantia recuperata in un forno qualche traversa più avanti, di cui dubitava fortemente del rispetto delle normative igienico-sanitarie. Purtroppo era uno dei pochi posti dove potessero incrociare Carmy: grazie al nutrito gruppo di persone che stava perennemente in coda in attesa di essere servita, era possibile scambiare poche parole e qualche appunto scritto senza dare nell’occhio.
«Qualcosa d’interessante?»
«No. E tu, Bulmen? Mostrato la tua potente spada a qualche cattivo?» sogghignò sarcastico, mimando un fendete.
Lucas arrossì ma era troppo preso dall’incombere del pedinamento per sottostare alla provocazione.
«Carmy ha una consegna, la Stirling vuole che la segua da solo e a distanza. Prendo un paio di cose per le registrazioni e la sorveglianza. Sempre che riesca a trovarle! Questo posto sta diventando una discarica!» si lagnò raccogliendo scatole di take away e sacchetti del supermercato. «E comunque, è Balmung» soggiunse indignato.
Voltandosi a guardarlo, trovò Cane con le mani sprofondate nelle tasche, che scrutava distrattamente un quotidiano del giorno prima accanto al sacchetto delle focacce, ben lungi dal controllare l’ingresso della Chiesa di Ela sul lato opposto della strada.
«Ti farà rapporto sul serio se scopre che hai le mani dove non dovresti!» lo sgridò imitandolo.
«E dove dovrei metterle?» sbadigliò annoiato, seguitando a interrogarsi circa lo spuntino.
Lucas gli indicò il computer, ma quando smosse la tastiera per attivare le schermate di sorveglianza, si accorse che l’immagine tridimensionale del giorno prima ora stava lì.
«Dovevi farla sparire!» squittì sentendo un brivido gelido scendergli lungo la schiena.
Se al suo posto fosse tornata Alexia, la cricca di Timur li avrebbe scoperti sentendo le urla.
«Infatti. L’ho fatta sparire subito da quel computer e l’ho messa su questo. Il capo non ha detto che non potevo metterla da un’altra parte» ridacchiò massaggiandosi una spalla indolenzita.
L’aver trascorso l’ultima ora appoggiato allo stipite della porta ascoltando le registrazioni ambientali si era rivelata una pessima trovata. D’altra parte, se si fosse seduto come suo solito, avrebbe rischiato di addormentarsi.
«Quanto sei infantile!» piagnucolò Pierre, tornando a concentrarsi sulle attrezzature.
Premette il pollice sulla placchetta a chiusura di un paio di valigette e cominciò a frugare all’interno in cerca dei dispositivi di tracciamento e ascolto. Detestava quel lato di Cane, lo trovava fuori luogo in una persona della sua età ed esperienza. All’inizio l’aveva visto come un mentore, qualcuno a cui ispirarsi, salvo cambiare idea dopo un paio di giorni, quando gli elementi destabilizzanti dei suoi atteggiamenti avevano cominciato a emergere.
«So che me ne pentirò, ma… hai guardato la tv ieri sera?» gli chiese raccogliendo gli strumenti in una sacca.
«No, furbone. Mi avete piantato qui a godermi lo spettacolo di una via deserta, dove passano giusto gli invasati di Timur. E non uso sempre in maniera inappropriata le nostre baracche, so a cosa servono, anche se vi siete convinti del contrario» rampognò, massaggiandosi la faccia.
Era stanco e avvilito dalla nottata infruttuosa, e riprese a rovistare tra i prodotti del forno con aria ipercritica. Avevano davvero un aspetto penoso, assolutamente insalubre, ma doveva sforzarsi di buttar giù qualcosa per raggiungere la fine del turno, di lì ad un’ora e mezza. Sempre che il pedinamento non sfociasse in altro.
«Beh, il Capitano mi ha detto che un suo amico partecipa al programma di pasticceria e sta andando benone. Tu lo sapevi? Che ha un amico famoso, intendo. Vi conoscete da un po’ tu e lei».
Le focaccine persero d’interesse all’istante e Cane si raddrizzò, rigirandone lentamente una tra le dita. Lucas continuava a dargli le spalle mentre selezionava le cianfrusaglie più appropriate per l’occasione. Attese pazientemente che raccogliesse il suo ciarpame e si levasse dai piedi per tuffarsi in rete. Scovò in sito del “Grand Prix de Celest(is)e Pâtisserie” e cominciò a scorrere con attenzione le varie pagine.
«Ecco qui… dannazione è proprio lui» mormorò trovando la pagina dedicata ai concorrenti.
Aveva riconosciuto la scheda verso il fondo della lista. Iniziò a controllare l’anagrafica, dove campeggiava un bel primo piano dell’uomo che era certo avesse baciato Alexia. Sotto, altre fotografie lo ritraevano in una cucina mentre fingeva di litigare con un gatto gigantesco, lavorava a un qualche dolce o reggeva un trofeo di pasticceria abbigliato come un giocatore di gelharball. Se non ricordava male, anche al Capitano piaceva quel gioco, un paio di volte aveva lamentato indolenzimenti dovuti a qualche partitella.
«Vediamo un po’ che dice. Brando Pellegrini, trentun anni – come la Stirling… nato a Otisa… ah, un amalteco! Uomini e buoi dei paesi tuoi, eh? Diplomato all’Accademia di… ah, quindi è un mago… bla-bla-bla lavorato quattro anni presso la “Union Joy Sweets” di Recadi – che roba sarà? Caramelle? Cioccolatini?... corsi vari – ma dai? Di pasticceria e cake design? Non l’avrei mai detto… bla-bla-bla... gestisce diversi blog di cucina – ma che sorpresa… e campa di questo? Complimenti, una faticaccia! Trasferito a Kyrador due anni fa… solo due anni? E perché la Stirling non ne avrà parlato? Si vergogna del suo uomo? Qualcosa d’illecito da nascondere, Pellegrini? Spaccio di liquirizie? Contrabbando di confetti? Sofisticazione torte?» malignò, sentendo che quella vena di cattiveria nella voce gli trasmetteva un certo piacere. «Beh, forse non ha detto niente perché è lei quella con le palle… non mi venga a dire che un pasticcere farebbe quello che facciamo noi, mago o no. Le indagini non si improvvisano m nemmeno seguono ricette preconfezionate».
Quel tipo non gli piaceva, non lo convinceva. La Stirling non poteva trovare interessante uno con quella faccia da bambolotto, né per una cosa occasionale né tantomeno per una relazione seria. Era ridicolo. Lei aveva carattere, a volte persino troppo, e vicino ad un tipo simile avrebbe dato certamente i numeri nel giro di un paio d’ore o giù di lì. Eppure l’ipotesi che fosse un parente era altrettanto improbabile: allora perché nasconderlo?

1 Ao no tate: Blu verticale.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Magic Moment ***


The_L_Factor-Cap. 5
 5.    Magic Moment

Pane dolce speziato, ripieno di frutta secca, marmellata d’arance e finocchietto, cannella, chiodi di garofano; guarnito con scorze d’arancia candite e colorate, zucchero a velo e Libea
e servito su crema inglese (qui chiamata “crema Châtelet” dal nome del cuoco che la importò su Celestis) al caffè.

L’ospite della terza serata di gara era Vila Gyulai, ex-starlette balzata agli onori delle cronache dapprima come amante del Ministro delle Finanze Jackson Lima di New Aalborg, poi come esperta ed estimatrice dell’arte dolciaria. Conduceva ben tre programmi su un canale tematico, di cui uno a diffusione internazionale. A dispetto degli ascolti vertiginosi, molti sospettavano che il pubblico la seguisse più per il fitto mondo di pettegolezzi e allusioni che si trascinava dietro, che per le sue presunte doti gastronomiche. In effetti, in tutto l’ambiente era risaputo che fosse incapace di distinguere un uovo crudo da uno di cioccolata, e che le argute osservazioni con cui farciva i suoi interventi provenissero integralmente dalla mente di Joyce Eck, Sommo Maestro di pasticceria alla prestigiosa Accademia di Lormont e suo ennesimo amante.
Tuttavia, gli sponsor avevano fatto il diavolo a quattro perché presenziasse ad almeno una puntata, visto che i vertici del network si erano rifiutati categoricamente di averla tra i giudici ufficiali, ritenendola troppo “difficile da gestire”. La prova erano le occhiate irose dei due uomini e il sorriso forzato della Gellar mentre scortavano la discussa ospite nello studio. Al trucco si era vociferato che la Gyulai e la Gellar avessero alcuni conti in sospeso, non tanto circa storie di fidanzati rubati, quanto piuttosto di feroci e immotivate critiche della prima riguardo le produzioni della seconda, dai dolci in sé ai libri.
«Non hai più nemmeno uno di quei Far Amal dell’altro giorno?» gli aveva chiesto preoccupato McCoy, pochi minuti prima di andare in onda. «Mi dispiacerebbe che dalla nostra gara l’attenzione venisse dirottata ad una rissa in dispensa».
Di tutta risposta, Brando si era fatto una risata, dolendosi del fatto che neppure un Far Amal a massima densità di Libea avrebbe potuto qualcosa su quella tizia.
Guardò i chicchi di caffè galleggiare nel misto di latte e panna della crema Châtelet. Tracciavano scie di poco più scure, man mano che rilasciavano il loro intenso aroma.
Ripensò al Natale di quattro anni prima, passato in una baita a Radori. Loro due soli, le luci della cittadina sui Monti Farsen e una cucina attrezzata di tutto punto per sfornare leccornie ad ogni ora dei giorni di festa. Ma, soprattutto, ripensò a quanto erano stati felici quei momenti. Era stata la prima volta in cui avevano trascorso insieme intere giornate, senza mai dividersi. Era stato strano, una scoperta continua di quei dettagli che le chat o i loro brevi incontri dal vivo non potevano mettere in mostra. Gli tornarono alla mente i suoi calzini, perfettamente allineati lungo il lato corto della valigia e di come la cosa l’avesse fatto scoppiare a ridere di gusto e tenerezza quando si era reso conto che pure il resto del bagaglio era stato trattato con la medesima precisione.
Ti sei messo con un avvocato, cosa ti aspettavi? Vestiti appallottolati come la cartastraccia nel cestino? si era sentito domandare e aveva dovuto ammettere che no, non si era aspettato nulla di diverso, tranne il fatto che l’ordine riguardasse anche la scala cromatica degli indumenti, disposti dal più chiaro al più scuro in brevi arcobaleni.
Ecco, si disse, ci vorrebbe un bell’arcobaleno sul dolce.
«Bei momenti?» chiese una voce alla sua sinistra.
Sorrise alla corpulenta gorbeka, spargendo un pizzico di Libea nel liquido.
«Sì, Shonna. Si vede?»
«Nemmeno se fossi cieca potrei dire il contrario» rise lei rimestando nella casseruola dove cuoceva la marmellata. «Dovete essere molto felici».
Brando temporeggiò, controllando con le dita la consistenza del ripieno che aveva messo a riposare accanto al fornello, affinché il calore aiutasse gli ingredienti ad amalgamarsi. L’intensità dei chiodi di garofano era mitigata dalla marmellata di arance e rinfrescata dal finocchietto selvatico, che permettevano al bouquet della cannella di aprirsi invitante alle narici e al palato di chi avesse avvicinato il dolce.
«Lo siamo. E lo saremo di più quando vincerò la gara» dichiarò baldanzoso.
Si sentiva capace di scalare il mondo e sconfiggere chiunque, specie dopo che quella mattina aveva persino battuto Alexia. Per scusarsi della sveglia imprevista della notte precedente, le aveva preparato una bella colazione, ma quando lei aveva cominciato a lamentarsi di ogni suo difetto, l’aveva sfidata a dimostrarsi migliore finendo di preparare i pancake. Sapeva perfettamente che non era capace di farli - non le erano mai venuti bene nemmeno con lui ad aiutarla - ma piuttosto che ammettere l’evidenza, Alexia aveva armeggiato per venti minuti con impasto e padella, producendo solo schizzi e formelle bruciate. Era stato piacevole ascoltarla ammettere la resa e più ancora comminarle una bella penitenza. Ridacchiò tra sé, immaginandola a casa mentre la eseguiva, sicuro che il suo senso dell’onore l’avrebbe obbligata a tener fede alla parola data.
«E pensi che te lo permetterò?» ribatté Shonna, assestandogli un colpetto col cucchiaio di legno sulla testa che lo riportò nello studio televisivo.
«Potresti farlo per queste belle boullette che ti piace tanto strizzare prima di entrare qui…» suggerì affondando gli indici nelle guance, che l’avversaria aveva spesso paragonate ai dolcetti ripieni tipici di Otisa.
«Bene, bene! A quanto pare qui ci si diverte» bofonchiò Vila, comparendo al seguito dei giudici.
Quando si fermò, a cavallo tra le due postazioni, una ventata di profumo dolciastro investì i presenti, appestando l’aria e riuscendo a sovrastare quasi tutti gli aromi. Difficile dire da dove provenisse, se dalla profonda scollatura che arrivava a sfiorarle l’inguine, dalle balze esageratamente voluminose dell’abito di lamé dorato o dalla cascata di capelli verde acido che sfiorava il pavimento. Probabilmente dalla sua intera persona.
«Cosa vedo… una Châtelet al caffè!» esclamò la Gellar, spiando i fornelli e leccandosi le labbra.
Era uno dei suoi accompagnamenti preferiti, c’era il rischio che la facesse sparire prima del termine della preparazione. E lo spunto deciso del caffè l’aiutava a sopportare meglio il terrificante effluvio di Vila.
«Sì. Sto usando una varietà tardiva del caffè Mzoneg, che si coltiva sugli altopiani di Fhirland. Trovo abbia la giusta delicatezza e aromaticità. La metterò a specchio sotto il pan dolce ripieno» spiegò indicando i vari componenti ben divisi sul piano di lavoro.
«Un pan dolce?» sbottò schifata l’ospite, voltandosi verso i giudici con gli occhi viola elettrico sgranati all’inverosimile. «No, dico… lo sa dove siamo? Un banale pan dolce? A me? Gente, possiamo cacciarlo subito? Non sono qui per rompermi un dente!» sbraitò.
Affatto impensierito dalla scenata - gliene aveva viste fare di peggiori nei servizi del telegiornale o negli extra dei suoi stessi programmi -, Brando si accinse a dare delucidazioni in merito al manicaretto. Era scritto nel contratto e nelle “regole d’ingaggio” della competizione: nel momento in cui ospiti e giudici si fermavano alle postazioni di lavoro, era obbligatorio fornire i dettagli del dolce a cui si stava lavorando, senza scendere nel particolare.
«Non accadrà. Si tratta di un pan dolce molto soffice, un’antica ricetta di Radori, una cittad…» ma Vila non aveva intenzione di sentire ragioni.
«Chi se ne frega, è insignificante! Una porcheria da bassifondi! Ma lo sai con chi hai a che fare?» berciò allungando la mano per afferrare il ripieno e, presumibilmente, gettarlo a terra.
Brando non fu abbastanza rapido, a differenza di Mtawarire, che agguantò il polso della Gyulai. La sua enorme mano nera quasi inghiottiva quella della donna e a giudicare dalle sottili increspature nella pelle, doveva stringerla con parecchia forza.
«Vila, perché non aspettiamo che termini la preparazione? Pellegrini ci ha sempre stupiti, sia nelle qualificazioni che nelle scorse serate. Non lo prenderei sotto gamba» consigliò con una certa veemenza.
Lei stava per controbattere, ma Eck, dalle quinte, le fece cenno di stare al gioco e seguire il consiglio. Indispettita dal dover sottostare alle pretese altrui, Vila si liberò dalla morsa con uno strattone e un gemito rabbioso.
«Sì, sì. Tanto non cambierà niente» malignò allontanandosi sui tacchi vertiginosi.
I giudici presero un profondo respiro e, dopo aver incitato i partecipanti a continuare dando il meglio di loro in quegli ultimi quarantacinque minuti, la seguirono per le chiacchiere e i commenti di rito nella Saletta Blu, uno spazio separato dalle postazioni di gara e attrezzato come l’elegante “Café Coeur Bleu” di Kyrador.
«Speriamo che almeno lì non faccia danni o non risponderò di me. La detesto» mormorò Moryiama agli altri.
«Mettiti in coda, Marcel. Prima le donne che odiano le troie, poi voi maschietti che odiate le stronze» rimbeccò la Gellar, voltandosi per un allegro saluto alle telecamere.

***

Alexia, approfittando della pausa pubblicitaria, si alzò dal divano per prendere almeno la casacca del pigiama. Avere di nuovo la casa tutta per sé avrebbe dovuto essere una piacevole variazione rispetto alla routine degli ultimi due anni, ovvero da quando aveva offerto un letto a Brando e alle sue aspirazioni di pasticcere d’élite, ma non lo era. Maledisse a ogni passo la scommessa persa quella mattina e la penitenza imposta: trascorrere la serata in religiosa contemplazione della gara, indossando lo stramaledetto completino intimo che poltriva nel cassetto.

Guai se, arrivando a casa dopo la puntata, Brando non avesse scorto almeno qualche piega nel tessuto o piccoli segni su di lei: aveva minacciato cose turpi cui non voleva pensare.
Giunta in camera però, il riflesso nel grande specchio della cabina armadio catturò la sua attenzione. Sapeva quali dubbi e cattiverie girassero sul suo conto alla MAB, dalla taglia del suo reggiseno al colore dell’intimo, e lì le vedeva smentite una ad una. Aveva un fisico atletico eppure le curve non le mancavano; certo non poteva dirsi una pin-up né una maggiorata, ciononostante con indosso quei veli semitrasparenti, le autoreggenti di gusto un po’ retrò e un perizoma tutt’altro che risicato, sarebbe stato difficile identificarla come un membro dell’Agenzia.
Richiamò l’immagine sottratta a Cane dai suoi file personali e lo confrontò con sé stessa.
«Allora? Vogliamo parlarne? Dimmi, Cane, ti sembra che somigli abbastanza a questa tizia?» sussurrò all’ologramma, quasi che l’agente fosse lì con lei per rispondere. «Dici di sì? No, non credo. Non credo proprio. Ci sono milioni di differenze tra me e lei, alcune nemmeno le immagini, potrebbero farti scappare a gambe levate se le scoprissi. Resta il fatto che io sono meglio, sono in carne ed ossa, non una stupida ombra tridimensionale che non puoi neppure toccare» ammiccò, dandosi una pacca sul fondoschiena.
Scoppiò a ridere.
«Ma guarda un po’, signor Agente Macho e Conquistatore, non puoi proprio toccare niente della sottoscritta. Puoi solo sognare su queste imitazioni. Vero?» domandò rivolta a Micio che l’aveva seguita e si era seduto poco lontano, osservando alternativamente lei e il suo riflesso nello specchio.
Gli enormi occhi verdi sembravano interrogarsi circa quale delle due figure fosse corretto avvicinare per avere una manciata di croccantini.
Il trillo di una chiamata in entrata sul comunicatore fece dileguare il gatto e sobbalzare lei, quasi l’avessero sorpresa a commettere un atto illecito.
«Attivare solo audio» boccheggiò raddrizzandosi di scatto.
Cercò persino di risistemare i capelli, raccogliendoli velocemente sulla nuca per poi lasciarli andare: era una preoccupazione inutile.
«Devo parlarti» proruppe all’istante la voce di un uomo.
Alexia strabuzzò gli occhi nello specchio mentre un brivido l’attraversava da capo a piedi. Era Cane: l’immagine del suo tesserino identificativo corredato di foto fluttuava ad un palmo dal muro alla sua sinistra. Deglutì a vuoto, stringendosi nelle braccia e cercando qualcosa per coprirsi, salvo ricordare che lui non poteva vederla.
Ma com’è possibile? Mi controlla? si chiese, allarmata dalla coincidenza.
«Problemi? Sei nuda?» domandò lui al protrarsi del silenzio.
Bastarono quelle poche parole a riportarla alla consueta freddezza.
«Sono fuori servizio, Cane» obbiettò, detestando i rilevatori biometrici dell’appartamento, che facevano orientare la schermata verso di lei ovunque si spostasse. «Ciò significa che dovrei godere di un meritato riposo e, fatto salvo casi di estrema gravità, voi non dovreste prendervi la briga di disturbarmi».
Era ridicolo ma si sentiva a disagio nel parlare con il suo sottoposto indossando una mise così poco adatta ad una discussione civile, o presunta tale.
«Ah, capisco. Sei in intimità con l’uomo delle pastarelle» sibilò, supponendo che il tramestio in sottofondo avesse origini ben diverse. «Beh, allora non dovresti rispondere alle chiamate di lavoro quando sei… impegnata» ribatté, sottolineando con cattiveria l’ultima parola, come se alludesse a qualcosa di particolarmente sconveniente.
Razza di lingua lunga malpensante, ringrazia di non avermi davanti o altro che rapporto di biasimo… e poi, che diavolo c’entra Brando? Che gli viene in mente? Lucas non ha capito un accidente di quel che ho detto! Amico stava per amico, non per “amico”! imprecò, ringraziando il fatto che Cane fosse troppo distante per udirla telepaticamente.
Arrabbiarsi con lui era la prassi, un fondamento del loro rapporto lavorativo, anche se di recente aveva assunto connotati piuttosto insoliti. Dopo la visita a Valakis aveva l’impressione che la guardasse con altri occhi, quasi si fosse reso conto di un qualcosa che non aveva mai notato prima. O forse era lei a non essersi accorta di cosa celassero gli sberleffi e le occhiate ironiche. Proprio come aveva vaticinato Brando almeno un milione di volte.
Prese un profondo respiro e sedette sul letto accavallando le gambe. Ascoltò con soddisfazione il fruscio delle calze scure, titillando i lacci della guêpière. Le piacevano quei suoni sottili e caldi, dei sospiri morbidi. Si morse il labbro, stuzzicata da un’idea.
«Cosa sta succedendo? Che notizie avete?» gli domandò languida, inclinando la testa da un lato mentre oscillava le spalle e socchiudeva gli occhi con fare malizioso.
Dopo tutto, se Thomas poteva sbizzarrirsi alle sue spalle - nella speranza di non essere scoperto - , perché lei non poteva prendersi una sorta di rivincita giocando con la sua immagine? Il fatto che non potesse sospettare in alcun modo cosa stesse facendo la intrigava: conosceva bene le sue capacità ed era certa che avrebbe colto delle stranezze, sulle quali sarebbe rimasto a lambiccarsi chissà per quanto senza osare chiedere chiarimenti.
«Ah, sì» mugugnò Cane, perplesso dalla lentezza con cui Alexia aveva cominciato a palare.
Se Pierre non avesse gesticolato che l’“amico” era in diretta televisiva, avrebbe pensato di averli interrotti nel pieno dei preliminari.
«Carmy ci ha avvisati di un paio di retate che hanno messo in agitazione la marmaglia di Timur. Pare che l’Anticrimine abbia cominciato in anticipo i suoi interventi».
Annuendo, lei si allungò sul fianco, smuovendo ad arte le lenzuola perché anche solo un sussurro giungesse fino all’orecchio dell’altro.
«Dovevamo aspettarcelo. Non sono famosi per la loro pazienza, in certi frangenti» sospirò, risalendo con l’indice lungo la coscia.
Sollevò pian piano l’orlo della guêpière fino mettere in vista perizoma e reggicalze, accompagnando il tutto con una strizzatina d’occhi.
«Sì… v-vero?» rispose Cane titubante, spiazzato dal tono e dai suoni che accompagnavano le parole.
Non poteva immaginare, preso dalla sorveglianza notturna alla Chiesa di Ela, che il suo Capitano si fosse messo nuovamente a sedere e stesse muovendo sinuosamente le gambe nell’aria all’indirizzo del suo omologo digitale, in un sensuale, quanto inutile, invito.
«Comunque… quegli idioti sono piombati qui un’ora fa seguendo lo spacciatore che vive al piano di sotto. Ma che stai facendo? Spolveri casa? A quest’ora?»
La donna sorvolò sull’insinuazione, divertita dagli esiti della trovata. Si era lasciata cadere sulla schiena per rotolare subito sulla pancia, tornando a far fluttuare le coltri tutt’attorno mentre si sollevava sui gomiti.
«Avete avuto problemi con i loro uomini?» s’informò, lasciando cadere una spallina e continuando la pantomima.
Lo sguardo fisso della fotografia non l’abbandonava un secondo e per un attimo ebbe l’assurda impressione che attraverso quegli occhi di pixel scuri, Thomas fosse comunque in grado di vederla.
«Più o meno. Quasi arrestavano anche noi, ma è tutto sistemato. Il famiglio di Fizzwater ha recitato bene: ha combattuto con i suoi colleghi e si è fatto portar via a fatica per rendere tutto più credibile. Fingeranno di rilasciarlo domani pomeriggio e vedremo cosa succede. Carmy ha anche detto che Timur non si è lasciato impressionare più di tanto, ma pare stia cominciando a mostrare crescente interesse verso di lei».
«Molto bene. Speriamo che questo ci permetta di arrivare più vicini a quel che stiamo cercando» commentò sollevandosi con studiata calma sulle ginocchia, le mani che passavano con altrettanta lentezza fra i capelli biondi.
Dal soggiorno arrivarono esclamazioni entusiaste e un breve applauso. Alexia sobbalzò: la gara stava ricominciando, ormai i giudici stavano per annunciare gli eliminati.
«Devo andare. Domattina voglio un resoconto completo» decretò senza perdere del tutto l’impostazione maliarda che aveva tenuto per tutto il tempo.
«Copriti» le suggerì secco.
Rimase con un piede a terra e l’altro in aria, le mani ancora poggiate sul materasso nell’atto di scendere.
«Cosa?» domandò, registrando solo in un secondo momento il gemito affranto di Lucas alle parole del collega.
«Hai una voce strana. Scommetto che stai sgocciolando per tutta casa dopo aver fatto uno di quei bagni rilassanti pieni di vapore e schiuma. Avrai l’accappatoio aperto e sarai senza ciabatte, con una coppa di champagne ghiacciato in mano e quel tuo gattaccio bislungo che ti si struscia sulle caviglie. Vergognati. Qualcuno potrebbe vederti e pensare male» sogghignò aspro.
Alexia rimase interdetta, portando le mani sui fianchi. Si avvicinò con falcate lente allo schermo virtuale, ancheggiando in punta di piedi. Si fermò un istante, rivolgendo uno sguardo perfido alla foto. Inarcò la schiena, mettendo bene in mostra  il decolleté.
«E chi dovrebbe vedermi? Forse tu, Thomas?» sussurrò maliziosa, chinandosi e sfiorando con la punta del naso quella dell’uomo sulla schermata virtuale.
Per lunghissimi sitanti, un silenzio assordante invase la linea.
Che sto facendo? Che cos’ho detto!? L’ho chiamato per nome? Di nuovo? si chiese lei, raggiungendo di corsa la porta, terrorizzata dal tono usato.
C’era anche Lucas dall’altra parte e, seppur dubitasse che la chiamata fosse in viva voce, nulla vietava che qualche scampolo di conversazione fosse giunto alle sue orecchie. Avrebbe voluto sprofondare nel nucleo di Celestis.
Cos’ha detto? Se voglio… non è possibile… Ho sentito bene? Thomas? si chiese Cane all’altro capo del comunicatore, preso altrettanto alla sprovvista.
Altri applausi dal televisore e la voce di una donna che rideva sguaiata.
«D-devo andare. Tenetemi aggiornata» esclamò nervosa Alexia, provando l’impellente desiderio di fuggire in salotto a concentrarsi sulle votazioni del concorso di pasticceria.
«Certo… A domani» concluse l’altro, esitante.

***

Mako chinò la testa e scrollò le spalle. Le parole di Eck attraverso Vila erano state lapidarie: insufficiente. Non era un segreto che Eck fosse intervenuto durante gli assaggi – anche se non inquadrato dalle telecamere – e avesse stilato la propria classifica che poi la donna aveva cominciato a sciorinare spacciandola come propria, aggiungendovi il proprio tocco personale.

Il Crisantemo Bianco che per anni era valso a Mako i complimenti di amici e familiari nelle feste domestiche, alla gara si era rivelato un fiasco totale; persino la Gellar aveva dovuto ammettere di essersi aspettata molto di più da lui, che una tradizionale tortina allo zenzero e fior d’arancio, punteggiata di fragoline candite e rivestita di un velo di gelatina di panna alla Libea, che simulava i petali del fiore, fosse una proposta a dir poco fiacca.
«È impersonale, lontanissima dalle tue precedenti esecuzioni» aggiunse abbattuta.
Moryiama e Mtawarire evitarono di rigirare il coltello nella piaga, era fin troppo evidente che il giovane di New Sallot avesse enormi problemi nell’incassare la sconfitta: era diventato pallido e tremava, totalmente assente e incapace di rispondere ai commenti.
Decisero di passare oltre, annunciando il secondo eliminato, cosa che, per loro sfortuna, si rivelò persino peggiore. Si trattava di Shonna Martinez.
«Inadeguato. Anzi, no: volgare!» sbottò Vila indicando la teglia di pudding, che nonostante le sue parole si presentava quasi vuota. «Come si può presentare una simile insulsaggine ad un concorso mondiale di pasticceria? Stiamo scherzando? Volete insultarmi?»
Shonna si alzò dallo sgabello con un nuovo turbante a fiori in testa e il grembiule ancora macchiato di confettura di prugne. Nel dietro le quinte si era fatta apprezzare per gli atteggiamenti materni e affettuosi che non lesinava mai, e quell’aggressione diede fastidio a molti perché assolutamente ingiustificata.
«Avete chiesto il nostro dolce delle feste. Quello è il mio, della mia famiglia» replicò orgogliosa.
«Oh, poveretti. Che miseria… una famiglia triste e infelice, senza dubbio» ghignò Vila rivolgendosi ai giudici che rimasero muti, fissandola con biasimo.
Le telecamere inquadrarono i volti sgomenti dei partecipanti. Forse il Pudding Gorbeko non era un capolavoro assoluto se paragonato agli altri dolci, ma nessuno di loro si sarebbe mai permesso di sminuirlo a quel modo, anzi. Brando, la Simmons e la Mehran, durante la pausa, avevano spazzolato quel che restava della confettura e della meringa alla menta – nonostante fosse cruda -, elogiandone il gusto con sospiri e lunghi abbracci alla cuoca.
«Lei non ha famiglia, non sa nemmeno cosa vuol dire» ringhiò Shonna avanzando di un passo verso il palco.
Si fermò a gambe larghe ai piedi della gradinata, piantando i pugni sui fianchi tondi con fare minaccioso.
«Se avesse messo al mondo almeno un figlio, anziché aprire le gambe per fare soldi, e avesse davvero sgobbato da mattina a sera per dare un piatto caldo, un tetto e un futuro alla sua famiglia, saprebbe che non c’è affatto bisogno di festeggiare con troni di cioccolata e frutta esotica!» strillò. «Quel che serve è sentirsi a casa, con le persone amate, in un’atmosfera di gioia e unione, non certo un inutile sfoggio di ricchezza».
Dapprima Vila si mostrò impressionata da quelle parole, spalancando le palpebre sulle lenti a contatto colorate e schiudendo le labbra in una muta invocazione, salvo gettare la maschera subito dopo con un rumoroso sbadiglio.
«Resta il fatto che quella roba è scadente» rimarcò stravaccandosi sulla poltroncina.
«Shonna,» intervenne cauto Mtawarire, «ti pregherei di riflettere su quanto è stato detto. Il dolce è davvero molto buono, lo dimostra la teglia. Il suo essere scadente non riguarda nemmeno il livello di professionalità con cui è stato preparato: la marmellata è densa e saporita, lo strato di base umido e corposo e la meringa cotta alla perfezione. Quello che stiamo cercando di dire è che… sei sotto tono rispetto agli altri».
«Capiamo il tuo punto di vista, dico sul serio» si accodò Moryiama. «Arrivi da un arcipelago che negli ultimi due decenni è stato flagellato da uragani, terremoti e allagamenti. Farsi forte del poco è un’arte e più ancora un dovere. Purtroppo qui non siamo nella cucina di casa e per quanto me ne rammarichi, non lo trovo un dolce degno del miglior pasticcere di Celestis».
«Ho apprezzato il tuo enorme sforzo e l’amore che hai infuso in una preparazione così semplice. La Libea non poteva aggiungere nulla a ciò che hai realizzato e te ne sono grata. È stato un onore capire cosa si provi a far parte della tua famiglia, ma devo concordare con i miei colleghi: questo dolce non ti porterà verso la finale di domani sera. Mi dispiace, Shonna» concluse la Gellar con gli occhi lucidi.
Vila sorrise, mascherando la noia per quelle che riteneva pietose scuse.
«Quindi, Martinez, levati la palandrana e sparisci» bofonchiò stiracchiandosi con tanta foga da far emergere per intero il seno dal bordo dell’abito, per buona pace dei suoi fans e del suo avvocato, che già presagiva una chiamata dal comitato di vigilanza televisiva e dalla CKT-24 per violazione del codice etico rispetto cosa fosse ammissibile mettere in mostra in una trasmissione per famiglie.
Brando rimase a fissare Mako e Shonna che uscivano dalla sala degustazione con due atteggiamenti diversissimi: il primo camminava a spalle curve, la testa talmente china in avanti da sparire oltre le spalle; la seconda invece, avanzava sicura e a testa alta, ricevendo manifestazioni di affetto dai tecnici. Prima che raggiungessero la porta, quasi di comune accordo, lui, McCoy e la Mehran cominciarono a battere le mani. In un baleno si unirono anche gli altri partecipanti, i giudici e lo staff. Vila si astenne, preferendo osservare il riverbero dei riflettori sulle lunghissime unghie finte.
Ciascun partecipante era certo che chiunque avesse ottenuto il podio quella sera, l’avrebbe trovato molto più amaro del previsto.
Al terzo posto si classificò Pitt Jerkins, con il suo Sunny Mountain, una creme caramel multistrato, arricchita di biscotti d’avena farciti con zabaione e salsa di pomodori dolci, il tutto ricoperto di panna montata all’oro. Una visione stupefacente, con le vette coronate di spruzzi di Libea e rese luccicanti da appositi incantesimi lumeggianti. Questi ultimi avevano tenuto col fiato sospeso l’intera emittente, quando ai primi tentativi, il vessel aveva mandato in corto circuito il microfono del concorrente e alcuni attrezzi della sua cucina. Al secondo posto, Jacques McCoy con dei dolci molto simili alle Boullette, ma che lui chiamava Rolditz. Si trattava di grossi ravioli preparati con due paste diverse - frolla per la base e sfoglia per la calotta – farciti con fichi interi, more, cannella e crema di latte, fritti in olio e passati al forno per la doratura. Sopra, una colata di miele di fichi e cioccolato completava l’opera.
A pari merito al primo posto, si piazzarono Brando e Kelly Simmons. La donna aveva presentato una treccia rustica tipica dell’entroterra aleptiano, la Malachy Pie, rivisitandola in chiave dessert. Al di sotto del guscio di croccante pasta kataifi, mutuata dall’originale salato, trovava posto una deliziosa mattonella di panne cotte ai frutti di bosco, resa leggerissima con un procedimento simile alla salsa Du Lac. Sparsi a pioggia, pinoli, pistacchi, mirtilli rossi e neri e uva spina.
Nessuno, incluso Eck, aveva però saputo decidere quale fosse il migliore una volta assaggiato il Magic Moment di Brando. Il ripieno era ricco, croccante e morbido, e legava alla perfezione con la pasta speziata che costituiva  la copertura, foggiata in forma d’abete natalizio, oltre che con la Châtelet e le scorzette d’arancia cui aveva alterato il colore con un Teinturier. C’era tutto: dalle variazioni in tema di consistenze ai retrogusti, alle differenti temperature che partendo dal cuore caldo raggiungevano la delicata frescura della crema, passando per l’intenso calore della pasta, senza mai dare l’impressione che si trattasse di elementi a sé stanti.
«Mi secca dire che è buono. Io non lo servirei mai e poi mai, è così ordinario anche fatto a questa maniera, ma… vabbeh, sì, ci sai fare. Con un po’ di fortuna potresti pure piazzarti bene. Magari se gli altri propongono ancora schifezze…» ammise Vila con una smorfia.
«Voglio mostrare a tutti una cosa» disse solennemente Moryiama, zittendola.
Prese fra le dita il nido di variopinte zeste che aveva coronato il suo Magic Moment e lo mostrò alle telecamere.
«Sapete perché non l’ho mangiato? Perché è stato questo a convincermi definitivamente della grandezza di questa delizia».
Il suo commento fu sintetico ed esemplare:
«È un haiku» ma per Brando, la magia era sfumata da un pezzo.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Coodle ***


The L Factor_Cap. 6
 6.    Coodle

Sandwich di biscotti d’avena alla birra, riso soffiato e gocce di cioccolato bianco delle dimensioni di un cookie, farcito con creme fraiche all’albicocca, yogurt, riduzione di birra speziata
e una grossa cucchiaiata di gelatina di albicocche concentrata con Libea in granelli.


Micio, allungato sul divano, spazzava l’aria con la coda. Dopo i pasti non era mai molto attivo, cosa che concedeva a Brando e Alexia lunghe pause di tranquillità. L’uomo, compresso nel risicato spazio accanto al bracciolo, tentò per l’ennesima volta di bere il caffè, ma una volta potata la tazza alle labbra fu incapace di prenderne un sorso. Ormai doveva essersi raffreddato, l’aroma non gli solleticava più le narici.
«Ne hai per molto?» domandò Alexia, da qualche parte alle sue spalle.
«Non lo so. Forse» bofonchiò.
«Fattela passare, è un ordine. Stasera hai la finale, non puoi andare in onda con un muso che tocca terra».
«È che… è così ingiusto» sospirò.
Continuava a pensare all’eliminazione di Shonna, la sera prima, a quanto l’aveva trovata profondamente sbagliata. Il dolce di quella donna avrebbe meritato molta più considerazione, proprio in virtù di ciò che aveva alle spalle ed escluderlo sulla base di una presunzione di raffinatezza era qualcosa di davvero biasimevole per non dire volgare. Di certo molto aveva pesato il giudizio di Eck e la sua fanfaronaggine da Signore dei Pasticcini, ma aveva sempre ritenuto Mtawarire e gli altri più giudiziosi nelle loro critiche e soprattutto sperava vantassero un maggior peso decisionale. Il fatto che ciò non corrispondesse al vero dava ampio spazio a congetture circa il nome del presunto vincitore. I programmi tv facevano notare come i favoriti fossero la Simmons e Jerkins, in virtù del loro ruolo di svantaggiati; ipotesi avvalorata dalle loro frequenti visite in “Bake Room”, chiamati sia dai giudici che dagli ospiti. In alternativa si faceva il nome di McCoy, dato per grande favorito dalla carta stampata.
Alexia fraintese il motivo del suo abbattimento, notando il cordless far capolino da sotto le zampe del gatto.
«Ti prego, evitami i tuoi patemi da cuore infranto perché non ti ha risposto!» sbottò irritata, sedendo sul tavolinetto di cristallo con tanta foga da rischiare di mandarlo in pezzi.
Aveva indosso solo un tubino blu notte, che contrastava con il reggiseno a balconcino di un arancione sgargiante. In un altro momento, Brando le avrebbe fatto notare quanto l’accostamento fosse spaventoso, ma in un angolo remoto della mente ricordò di aver sentito qualcosa a proposito di una camicetta a fiori di quel colore.
«Ci sono quattro ore di fuso orario tra noi e Otisa, non ti viene in mente che forse, e ripeto, forse! stia lavorando? Che si trovi in riunione con qualche pezzo grosso che aveva mandato quell’enorme idiota del figlio a studiare in un signor college a Kyrador, solo che quel cretino si è fatto beccare con un sacchetto di Jellykiss durante un festino losco e ora devono capire come tirarlo fuori da una cella senza causare un incidente diplomatico? È questo che fanno gli avvocati: riunioni e tribunali, tribunali e riunioni! Lo sai».
«I Jellykiss…» ridacchiò appena Brando, lo sguardo lontano.
Una delle sue prime creazioni, quando ancora lavorava nella ditta dolciaria di famiglia. Gelatine alcoliche alla frutta che ancora impazzavano nei supermercati. Erano stati addirittura usati come “guarnizione” sul corpo del protagonista in un film comico, durante una scena dove il malcapitato si giocava il tutto per tutto per dimostrare all’amata la propria vena amatoria facendosi trovare nudo nel suo letto, ma finendo col farsi ricorrere da tutti i cani del vicinato, ingolositi dai bonbon che portava appiccicati addosso.
Vendendo che non si riscuoteva dal torpore, Alexia pensò bene di rifilargli uno scappellotto.
«Allora?» sbraitò. «Ti dai una mossa sì o no? Devi vincere la gara e levarti dai piedi come da programma, te lo ricordi o no che me l’hai promesso? Rivoglio casa mia solo per me e Micio!»
«Non c’era bisogno di picchiarmi! Ho capito» piagnucolò passandosi una mano tra i ricci neri.
«Oh, scusa… volevi un bacino perché ti senti tanto solo?» sghignazzò arricciando le labbra.
«Per favore! Non accetto queste cose da una come te» sibilò disgustato, mettendole una mano sulla faccia per allontanarla.
«Una come me?» urlò liberandosi per rivolgergli uno sguardo carico di rabbia.
«Sì. Una come te» ripeté, facendo andare su e giù l’indice con cui la stava additando.
«Ovvero?»
«Una povera agente della MAB, sola, repressa e inacidita…» attaccò con lirismo, ma un trillo l’interruppe.
Sul display virtuale videro che si trattava di una comunicazione riservata per Alexia. Un pessimo segnale.
«Fammi capire che sta succedendo» disse alzandosi e puntando dritta alla camera.

***

«Dici davvero?» domandò all’immagine del tesserino di Pierre, che la fissava inespressivo.
«Sì, Capitano. Ci stiamo già dirigendo sul posto. Se Cane non ci fa schiantare prima…» mugugnò e subito in sottofondo si udì un’imprecazione e lo strombazzare di un clacson.
Grazie alla serata finale del “Grand Prix de Celest(is)e Pâtisserie”, le strade di Kyrador ribollivano di torme di fan e scalmanati, a piedi, in auto o su pullman titanici, giunti da ogni dove per festeggiare i propri beniamini. Sfortunatamente, Carmy aveva fatto sapere loro che la nuova consegna affidatale da Timur avrebbe avuto come destinazione proprio gli studi della CKT-24, in un deposito poco distante da dove si sarebbe tenuta la gara.
Non ci voleva. Proprio stasera, pensò nervosa.
«Allertate l’Anticrimine, sono sicura che offriranno l’appoggio necessario. E sentite anche il T.M.D. Anche se dovessero negare la loro presenza dietro le quinte, è bene che siano in allerta e sappiano che stiamo conducendo delle indagini da quelle parti. Non voglio che ci intralcino» decise mentre abbottonava la camicetta di seta.
«E se dovessero far storie? Sicuramente vorranno capire cosa c’è di mezzo. È insolito che li si contatti per…»
«Dite che stiamo conducendo un’operazione congiunta sullo spaccio della Lilith. Se si ricordano quali effetti collaterali può provocare e com’era esagitata la concorrente dell’altra sera, sono sicura basterà a convincerli» disse storcendo il naso alla vista di come la fantasia floreale la facesse sembrare stranamente in sovrappeso.
«D’accordo» convenne Lucas.
«Se ci fosse altro, fatemi sapere. Sarò lì» aggiunse distrattamente, sfilando la camicia dalla testa senza sbottonarla.
«Ma non è la sua serata libera?»
«Sarò tra il pubblico in studio. Sono stata invitata alla trasmissione» spiegò seccata, infilandosi per metà nella cabina armadio in cerca di un’alternativa.
Subito però la voce di Cane riecheggiò nella stanza, facendola sobbalzare.
«Da quel bellimbusto amalteco impiastrato di Libea
«E anche se fosse?» ribatté.
«Una volta avrebbe declinato e avrebbe partecipato all’indagine, Capitano. Evidentemente questo riempicannoli ha qualcosa che la distoglie dal suo ufficio» insinuò, con tale cattiveria da lasciarla di sasso.
«Cos’è questo tono?»
«Abbiamo una consegna in un luogo sensibile e tu ti preoccupi di quello che fa la panna montata?» sbraitò, anche se parte delle parole furono inghiottite dall’ennesimo clacson e dalle suppliche di Pierre.
«Cane!» strillò, andando incontro alla videata a passo di carica, quasi si aspettasse di vederlo comparire.
«Come puoi preoccuparti per uno scarto della Limmenshau, quando di mezzo ci potrebbero essere migliaia di vite? E Carmy? Dov’è finita tutta la preoccupazione per lei?»
Alexia esitò. Non era stato l’accenno alla collega sotto copertura o alle potenziali vittime della Lilith a bloccarla, ma quel riferimento alla scuola. La Limmenshau era un’Accademia di Alta Formazione Gastronomica nota solo a chi era ben addentro al mondo della pasticceria d’alto livello. Ed era certa che sulla scheda concorrente di Brando non fosse segnalata perché non aveva mai completato il ciclo di studi finale per dedicarsi alle ricerche in proprio. Se l’avesse concluso sarebbe diventato un pasticcere professionista, escludendosi quindi dai partecipanti al concorso.
«Questo è un colpo basso. Anche per te» gli rinfacciò. «E comunque, non devo rendere conto ai miei sottoposti di ciò che riguarda il mio privato».
«Ci servi» insisté, ma era una palese bugia.
«Non è vero. Siete in grado di cavarvela benissimo. Voi e Carmy. Chiudo».
Frustrata dalla conversazione, levò la gonna e la gettò via, da qualche parte nella stanza, e sedette sul letto. Era fortemente tentata di restare a casa. Cane aveva ragione: anni addietro si sarebbe precipitata dai suoi uomini senza pensarci due volte, ora era diversa, aveva imparato a darsi delle priorità, a staccare la spina per non impazzire.
«Guarda che nuda non ti fanno entrare».
Trasalì. Brando era in piedi davanti alla cabina armadio e sorrideva comprensivo. Difficile dire se avesse sentito qualcosa. Abbassò lo sguardo sull’abito che le porgeva: un vestito corto, rosso, con le maniche ad aletta, lo scollo a cuore e una decorazione di cristalli sui fianchi.
Le strizzò l’occhio.
«Peccato. Stasera fa caldo» sbuffò grata.

***

Inutile. Nonostante la tensione del momento, la sua mente continuava a tornare all’eliminazione di Shonna. Per qualche assurdo motivo, non riusciva a concentrarsi sul test di quella sera. Si sentiva fuori posto, sbagliato, a disagio. Gli era impossibile capacitarsi del fatto che il Pudding Gorbeko, col suo carico di amarezze nascoste e difficoltà, fosse stato bollato come inadatto alla finale. Certo, forse la presentazione poteva essere migliorata, resa più accattivante, ma trovava avrebbe snaturato l’insieme. Un dolce tanto semplice, domestico, puro nella sua essenzialità meritava…
«Che diavolo sto facendo?» esclamò orripilato guardando l’impasto molliccio che aveva nella terrina.
Gettò una rapida occhiata alla postazione. Birra, farina d’avena, Libea, yogurt, albicocche. Dall’odore e dalle bollicine che costellavano la pastella, dedusse di aver mischiato la birra con l’avena. Intinse il dito e assaggiò, scoprendo una dose di zucchero appena sufficiente a spezzare l’amarognolo del luppolo. Che cosa doveva farci? Perché aveva preso quelle cose in dispensa? O gli erano state assegnate? Non riusciva a ricordare.
Il timer sopra il banco dei giudici indicava che mancavano sessantadue minuti al termine della sfida.
Fingendo di schiarirsi le idee, fece un passo indietro e spiò attorno. La Mehran muoveva sinuosa un largo coltello, spezzettando fichi secchi, cannella, mandorle e pistacchi. A Jerkins mancava solo un berretto da baseball per dare l’impressione di essere nella cucina di casa sua mentre preparava dei banali pancake alla banana. McCoy stava stendendo un panetto di pasta all’uovo che poco o nulla aveva a che spartire con un dolce. La Simmons, infine, stava litigando con la presa elettrica, nel tentativo di inserire la spina della gelatiera a due tazze.
Brando s’inginocchiò accanto a lei, le fece segno di spegnere il vessel e di aspettare un istante. Controllò l’attacco dell’elettrodomestico e si accorse che non era compatibile con la placchetta elettrica. Era capitato anche a lui, specie quando all’estero usava i suoi attrezzi, ed essendo la Simmons di Alepto, era ovvio che le fosse capitato qualcosa di analogo. Con un incantesimo modificò la distanza tra i dentini della spina e la inserì senza problemi.
«Grazie» mormorò Kelly con un gran sorriso sotto le fitte lentiggini.
Lui sospirò mesto.
«Non ho la più pallida idea di cosa sto facendo» ammise.
La donna afferrò al volo a cosa si riferisse e fece ondeggiare i lunghi boccoli rossi scuotendo la testa.
«Si vede» ridacchiò, fingendo di controllare che il cavo non si sfilasse dall’alloggiamento. «Chi userebbe la birra in un dolce per la Festa della Fondazione?»
La guardò alzarsi e rimettersi all’opera, tramortito da qualcosa che somigliava all’esplosione del Megonia. Era nei guai fino al collo. Un manicaretto per la Festa della Fondazione delle prime colonie su Celestis a base di birra, avena e albicocche? Gli aveva dato di volta il cervello?
Tornò in postazione e guardò intorno. Gli avversari lavoravano come forsennati alle creazioni. Dal banco dei giudici, Mtawarire gli teneva gli occhi incollati addosso. Nella platea scura che si stendeva oltre una cortina di luci abbaglianti, Alexia, Feng, Ertemios, Hannu, Mark, Billy Roy e Aditi, lo incitavano in silenzio. E c’erano altri, gente senza volto che tifava per lui, che agognava di potersi sedere a gustare le delizie che avrebbe preparato nel suo nuovo negozio.
Qualcosa riprese a muoversi nella sua testa.
Sì, amici. Amici che passano tempo insieme, che fanno festa, si disse agguantando le albicocche. Gente cresciuta fianco a fianco, che ha condiviso colazioni e merende, le prime sbronze, che sa farti sentire leggero, sempre in festa. Che ti vuole bene e non manca mai di fartelo sapere.
Ricominciò di buona lena a comporre la sua proposta. Ora sapeva cosa avrebbe fatto con la pastella di birra e avena: avrebbe aggiunto riso soffiato e cioccolato bianco per formare dei grandi biscotti, croccanti all’esterno e morbidi all’interno, e ad unirli, un ripieno lievemente aspro – degno delle liti dell’infanzia - che avrebbe lasciato posto ad una sorpresa dolcissima.
Sorrise, senza sapere che le telecamere rimandavano il crescere del suo ottimismo alle televisioni dell’intero globo. Versò il riso soffiato accompagnandolo con un incantesimo che impediva ai chicchi di ammollarsi nella pastella. Kelly, alla sua sinistra, gli mostrò il pollice levato e lui rispose allo stesso modo.
«Ma dov’è finito Stroad?» si domandò, notando all’improvviso l’assenza dell’ospite.

***

Kelvis Stroad, era sgattaiolato fuori dello studio con la scusa di una capatina in bagno. Sbuffava come geyser mentre caracollava sulle gambe tozze e grassocce lungo l’aiuola. Essere tra gli ideatori del “Grand Prix”, oltre che uno dei critici di settore più quotati a livello internazionale, nonché il proprietario di una catena di ristoranti di lusso, lo poneva costantemente al centro dell’attenzione. Non c’era angolo di Celestis dove potesse passare inosservato, a dispetto delle infinite precauzioni che metteva in atto per proteggere la propria privacy. E la prova era lo sguardo torvo di Cane e Lucas che, nascosti dietro una catasta di materiale di scena, l’osservavano muoversi furtivo nel cortile.
«Pensi che sia lui il destinatario?» chiese Pierre allungando cautamente il collo oltre lo spigolo.
«Vedi altri dall’aria sospetta aggirarsi qui intorno?» ribatté seccato.
Carmy? Lo vedi? domandò telepaticamente alla giovane.
Non ancora. Sono dietro il capannone dodici, lui dov’è? chiese.
Sta arrivando. È al tredici. Stai attenta, uno della Chiesa ti è venuto dietro ma l’abbiamo perso quando è entrato negli uffici della dirigenza. Usa la telepatia solo per estrema necessità, non sappiamo se è un mago.
Calò il silenzio. Ormai doveva mancare una manciata di secondi al contatto.
Oh, no! Cane! esclamò improvvisamente la voce di Carmy nella testa del collega.
Che c’è?
Non mi ha vista! Stavo per fargli un segnale ma è arrivata una guardia! Lo sta mandando indietro!
Stroad stava tornando allo studio scortato da un agente basso e tarchiato quanto lui, giustificandosi tra mille risatine, sussulti e mezze frasi sconnesse, che lasciavano intendere quanto la crisi d’astinenza stesse progredendo ad ampie falcate nel suo organismo. Se avesse dato in escandescenze in diretta, il network avrebbe avuto un’indiscutibile impennata di ascolti, ben più di quella derivata dallo pseudo-orgasmo della Gellar. Ma per la MAB avrebbe rappresentato un gigantesco buco nell’acqua.
«Dannazione. La consegna è saltata!» ringhiò Thomas appoggiandosi ad una pila di cartoni umidi. «Stupido idiota! Perché non è rimasto a ingozzarsi di ciambelle come nei film, così potevamo fare il nostro lavoro?»
«Che si fa?»
«Nulla, che vuoi fare? Non c’è modo di prendere quel tipo con le mani nel sacco».
«Io credo dovremmo…» azzardò, strizzando gli occhi nella penombra dei capannoni.
«Dovremmo? Hai qualche idea geniale?»
Forse Pierre no, ma il Capitano sì, intervenne Carmy.
Vorrei farti notare che non è qui con noi, sibilò indispettito, rimettendo la pistola nella fondina.
Sei sicuro?

***

«Immagino che vi starete chiedendo cosa succede» esordì la Gellar. «È molto semplice. Stroad, da quel galantuomo che è e tutti apprezziamo, ha ritenuto opportuno, dopo averci deliziato con i suoi spunti riguardo le scelte dei concorrenti e le sue gustose anticipazioni circa le nuove tendenze della pasticceria, defilarsi, concedendo a un super ospite davvero eccezionale di decretare non solo il vincitore ultimo, ma già la triade dei finalisti!» mentì con eleganza.
Ai vertici della CKT-24 era preso un accidente quando avevano ricevuto comunicazione dal Capitano Stirling che l’ospite di punta sarebbe divenuto il loro ospite principale nella sede dell’Agenzia, almeno per le ore successive. Per fortuna, la regia aveva avuto la prontezza sufficiente per aggiustare la situazione e i giudici, per quanto sbigottiti dalle notizie, si erano adeguati con altrettanta naturalezza.
«Signore e signori, un bell’applauso a una persona che più di molte altre potrà rivelarci non tanto le abilità tecniche o le raffinatezze estetiche dei concorrenti, quanto la profondità delle loro intenzioni e passioni!» dichiarò Mtawarire facendosi da parte per permettere a Shonna Martinez di fare il suo ingresso sul palco.
I partecipanti strabuzzarono gli occhi mentre il pubblico in sala esplodeva in un boato di sentita approvazione, vedendo il donnone avanzare in un tripudio di tessuti floreali e un turbante tempestato di pietre colorate.
«Chi meglio di una di voi potrà dire chi accederà alla finalissima?» cinguettò Robin.
Jerkins serrò la mascella non visto: aveva sempre trattato la donna con sufficienza, ritenendola solo il pittoresco parto di un arcipelago khariyano, buono solo per trascorrerci il viaggio di nozze. Sentiva di aver già detto addio alla finale: quella era una che non ammetteva simili affronti, ritenendo un buon rapporto più importante della stupefacente riuscita di un dolce.
Il primo ad essere chiamato al tavolo delle degustazioni fu Brando.
«Forza ragazzone, fai vedere come usi il tuo fattore “L”» lo incitò Shonna, vedendolo avanzare con passo incerto.
«Il mio fattore “L”?» chiese perplesso.
Lei gli scompigliò affettuosamente i capelli.
«Non c’è bisogno che te lo spieghi. Lo sai da te di cosa si tratta» disse togliendogli il piatto dalle mani e portandolo davanti alla faccia per osservare con attenzione le sua proposta. «Allora, cosa ci hai preparato?»
Per qualche strano motivo, Brando non riuscì subito a trovare le parole giuste per raccontare il dolce. Poi, notando gli sguardi che si scambiavano i giudici – sguardi di bambini curiosi davanti a un pacco misterioso – ritrovò la parola.
«Coodle. Da mangiare con gli amici».

***

Carmy, appena effettuata la consegna, si era dileguata alla volta del tempio per riferire a Timur e nel piazzale restavano solo un’auto scura con le insegne della MAB e una manciata di persone. Bloccare Stroad mentre scartava il pacchetto con la Lilith era stato questione di fortuna ma soprattutto, di un aiuto inatteso.
«Smettila o stavolta ti faccio rapporto per davvero» sbottò Alexia, abbassando l’orlo dell’abito fino alle ginocchia.
«Non ci penso neanche. Non puoi venire in ufficio vestita così?» ridacchiò additando la scollatura a cuore.
«Ti distrai già abbastanza» rimbeccò Pierre salendo sull’auto per scortare Stroud alla sala interrogatori.
Quando il sospetto e la guardia si erano trovati a pochi passi dalla porta dello studio, questa si era aperta e ne era uscita Alexia. Se non fosse stato per gli anni di servizio alle spalle, probabilmente Cane avrebbe lasciato cadere la pistola per la sorpresa: il vestito scarlatto che indossava le arrivava a stento a mezza coscia e le spalline erano state deliberatamente abbassate lungo le braccia per lasciar scoperte le spalle, messe sensualmente in evidenza dalla lunga coda di cavallo bionda che ricadeva da un lato. Con la luce soffusa che pioveva dalle alte vetrate dello studio e il suo incedere da valchiria sui tacchi altissimi, Alexia aveva totalmente assorbito l’attenzione dei presenti: approfittando della guardia che balbettava offerte d’aiuto alla signorina “sicuramente mal indirizzata da qualche steward”, Carmy si era avvicinata non vista a Stroad e gli aveva recapitato il pacco, ritirando con altrettanta rapidità il denaro.
«Come sapevi che era lui e che le cose si stavano mettendo male?» le chiese Thomas, guardano la berlina sparire.
«Ho notato che sudava come una fontana, incespicava nelle parole, fingeva di essere agitato per l’emozione della gara e lanciava occhiate disperate a tutte le uscite. Chiari sintomi di crisi d’astinenza. E tu eri troppo intento a coprire Carmy per accorgerti che Lucas mi ha mandato un messaggio sul cellulare per aggiornarmi» spiegò mostrandogli il piccolo schermo virtuale con la scritta: “S
OSPETTO ALLONTANATO DA GUARDIA. PROCEDURA?”
«Beh, se abbiamo finito, io tornerei ad appollaiarmi nel buco davanti al tempio» sbadigliò Cane stiracchiandosi.
«No, è inutile. Carmy incontrerà Timur solo domani mattina» rispose sistemando le spalline. «Rimani qui».
Lui le rivolse un’occhiata acida. Proprio non aveva voglia di vederla festeggiare o, peggio, consolare il suo bello.
«Ho di meglio da fare» tagliò corto, facendo per andarsene.
«Hai detto che Carmy era seguita. Potrebbe accadere dell’altro stasera, forse non c’era un unico destinatario o forse si trattava solo di un supervisore. C’è troppa gente in sala per star tranquilli. Dobbiamo stare all’erta e io... potrei avere bisogno di una mano» ammiccò.
Combattuto tra l’assecondarla e il girare sui tacchi, Thomas allungò la mano e le sistemò la spallina dell’abito con un sorrisetto perfido, affinché coprisse quella nera del reggiseno.
«Non si corre comodi coi tacchi alti e i vestitini sexy, eh?» rispose con un sospiro rassegnato.

***

«Da questa gara usciranno i tre finalisti che, a breve, si lanceranno nella sfida finale del “Grand Prix de Celest(is)e Pâtisserie”, che consegnerà il titolo di Sommo Pasticcere di Celestis» annunciò Marcel Moryiama con tono solenne. «Prego pertanto la nostra cara ospite di pronunciare i verdetti!»
Il brusio della platea andò scemando rapidamente. Le telecamere inquadrarono uno ad uno i cinque dolci, partendo dalla Mehran, passando sulla Simmons, Brando, McCoy e Jerkins, tornando infine sul sorriso materno di Shonna. Sfilò la pergamena dalla busta e lesse tra sé i nomi.
«Kelly Simmons» annunciò.
Dalla platea si levò un boato: la Simmons era stata, insieme a Jula Antonova e Pitt Jerkins, una delle poche concorrenti non maghe ad arrivare alle fasi finali del contest. Nonostante l’uso pressoché occasionale del vessel, molti la guardavano con malcelato timore. Si vociferava che una squadra del T.M.D. la tenesse costantemente d’occhio per evitare che sfuriate analoghe a quelle della Antonova sfociassero in qualcosa di peggio.
«La tua Coppa Blue Desert Rhymes ci ha ricordato quanto calore si può celare in una deliziosa cucchiaiata di gelato sabbioso. A prima vista ricordava davvero delle dune di sabbia, calde ed esotiche per quel tocco di spezie e ananas, che richiamava la fatica dei nostri antenati. E sotto la sorpresa, un giacimento di golosità che spalanca le porte a un gioioso futuro. Bravissima, Kelly! » si complimentò.
Nuovo silenzio. Secondi che si dilatavano nello spazio accompagnanti dal sorriso di Shonna che si rivolgeva agli ex-compagni d’avventura tesi e confusi.
«Jacques McCoy».
Altre grida di giubilo. Il paladino di Castar, l’ex direttore di banca finito a fare il pescatore per essersi opposto ai vertici societari durante una pericolosa manovra economica che avrebbe messo sul lastrico i suoi correntisti. L’intera Contea di Castar aveva mandato rappresentanti tra il pubblico, per la maggior parte gente che McCoy aveva aiutato di tasca propria, dilapidando così le proprie finanze e mandando a monte un solido matrimonio.
«Un’originale rivisitazione dei Tagliolini zucchine e carote. Chi l’avrebbe detto che un piatto tanto semplice della cucina dei nostri pranzi o cene, potesse trasformarsi in un sublime e delicatissimo dolce, con tanto di salsa d’accompagnamento? Una delizia domestica, un inganno che ci ricorda le speranze disilluse dei pionieri, che però trovarono il modo di volgere a loro favore – e con insperate soddisfazioni – ciò che li aveva condotti qui!»
Silenzio.
Un vuoto interminabile.
Luci che brillavano come piccoli soli roventi.
Brando aveva i capogiri e lo stomaco rivoltato dall’ansia. Aveva cominciato col piede sbagliato, si era ripreso, aveva incespicato di nuovo, e ora che aveva avuto modo di osservare le altre creazioni, i dubbi lo assalivano.
«Floscioflosciofloscioflosciofloscio» mormorò, certo di non aver mai provato sensazione peggiore in vita sua.
Eppure aveva lavorato tanto per acquisire sicurezza, per liberarsi di certe “vecchie maniere” che lo zio Giovanni gli aveva insegnato e che nella pasticceria contemporanea non risultavano così utili, per affinare il gusto e aguzzare l’ingegno. Perché ora, di fronte a quei curiosi, bizzarri pochi dolci, si sentiva un assoluto incapace? Forse non era così bravo come aveva creduto. In fondo, era solo un pasticcere amatoriale, non un professionista.
«Brando Pellegrini!» chiamò la voce di Shonna, irrompendo nei suoi pensieri.
Gli occorse qualche secondo per capire che le pacche e gli scossoni degli altri finalisti erano di congratulazioni e non di conforto. Era a un passo, uno solo, dal coronare il suo sogno. Gli passarono davanti tutti gli sberleffi dei compagni di scuola da ragazzo, le noiose settimane alla “Union Joy Sweets” a inventare caramelle che di artistico e sofisticato avevano ben poco, le scottature, i fallimenti degli impasti e degli incantesimi, i tagli sulle dita e il limone negli occhi, gli ingredienti che non si univano, che non entravano in sintonia, le rese finali che non combaciavano con le idee, le sconfitte nelle prime gare, i rimproveri dei maestri – ufficiali e non – che l’avevano aiutato a crescere, gli amici che l’avevano sostenuto, l’accoglienza di Alexia e poi quel sorriso, quegli occhi. L’amore. Avrebbe voluto fosse lì.
Non ascoltò una sola sillaba degli elogi per i suoi Coodle, per la magnifica unione delle feste all’aria aperta – familiari, chiassose, caserecce – e il ricordo delle vecchie merende per bambini, da cui promanava un senso di allegria, affetto e speranza d’altri tempi che il limitato uso della Libea non smorzava affatto: la testa era di nuovo partita su un binario proprio.
Devo vincere. Ormai ci sono, ce la posso fare! si disse mentre stringeva la mano ad un indispettito Jerkins e ad una Mehran in lacrime per la delusione.
«Signori, avete mezz’ora di tempo per raggiungere, pulire e riorganizzare la mise en place delle vostre postazioni! Dopo di che, daremo il via al gran finale!» strillò eccitata Robin, indicando loro i banchi da lavoro.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Queen MAB ***


The L Facrtor_Cap. 7
7.    Queen MAB

Doppio french toast al cioccolato (pane al cioccolato passato in pastella liquida contenente vino liquoroso) ripieno di crema chantilly alla vaniglia, miele amaro, cardamomo, amarene e fichi,
avvolto in due veli di pasta fillo spolverata di cannella.


Robin Gellar, Thabo Mtawarire e Marcel Moriyama si scambiarono occhiate sorprese a dir poco. Shonna scoppiò a ridere di gusto. Sebbene fossero abituati all’originalità di alcune sue uscite, non erano certi di aver capito bene cosa avesse detto. Persino la Simmons e McCoy, nelle postazioni ai lati dell’interpellato, raggelarono.
«Scusa, come hai detto che lo chiamerai?» biascicò Mtawarire, allentando la cravatta.
«Queen MAB» ripeté, mescolando rapidamente la pastella con la frusta.
Il trio boccheggiò. Nel pubblico qualche spettatore malignò sembrassero dei pesci rossi, qualcun altro chiese che portassero alla Gellar il dolce di qualche giorno prima affinché riprendesse colore.
«Con un nome così, mi auguro non vorrai farci arrestare tutti quanti… siamo brave persone! Sul serio!» tentò di scherzare la donna, allungando teatralmente il collo verso le telecamere e scandendo con le labbra il suo rispetto incondizionato per l’Agenzia.
Avevano saputo dell’arresto di Stroad per possesso di Lilith e certo nessuno di loro aveva voglia di vedere l’Agenzia piombare nello studio rivoltando i piccoli scheletri nell’armadio di ciascuno di loro.
Brando scosse la testa, gonfiando orgogliosamente il petto.
«No, al contrario. Vi garantisco che si tratta di un’ode al merito. Qualcosa che, chissà, potrebbe anche far piacere ai membri dalla MAB, visto che è ispirata a uno di loro. Anzi, a una».
In fondo glielo doveva. Aveva pensato sempre a una sola persona durante la gara (anche per i Coodle, la scelta di birra e albicocche era stata dettata dall’amore e non dall’amicizia in senso stretto), era giunto il momento di tributare un ringraziamento speciale a chi l’aveva sostenuto in silenzio. A costo di fargli male fisicamente.

***

Cane guardò Alexia, seduta al suo fianco. A quelle parole aveva roteato gli occhi spazientita. Era evidente che fosse lei la musa ispiratrice del dolce e che non ne fosse particolarmente entusiasta, anche se non aveva la benché minima idea di come delle fette di pane al cioccolato potessero ricordarla. Piuttosto si accordavano con la faccia del tizio seduto nell’angolo del palchetto dove Alexia l’aveva condotto poco prima, la sua carnagione cupa era identica a quella base. Probabilmente, si trattava di un altro amico pasticcere della coppia come gli altri stipati nel piccolo spazio sospeso quasi sul vuoto. Erano una combriccola davvero bizzarra, dai loro accenti e da alcuni ornamenti s’intuiva provenissero da zone molto diverse di Celestis, eppure quel giovane – che doveva avere solo un paio d’anni più di Alexia, vestiva in maniera del tutto diversa, elegante e austera. Non aveva l’aria di essere invischiato con i piaceri della pasticceria o della cucina in generale, se non come degustatore. Persino i suoi atteggiamenti erano meno chiassosi e irrequieti, e lasciavano trasparire un’immensa ansia.

***

Non guardò i giudici allontanarsi, intento com’era alla cottura dei french toast. Osservava concentratissimo il velo di pastella rapprendersi e colorire attorno al pane dolce e scuro, liberando il profumo del vino passito. Una nota raffinata che gli riportò alla mente le cene con Alexia e i suoi genitori, prima che il signor Stirling perdesse la vita, ai momenti in cui le loro due famiglie si frequentavano con maggior assiduità. Avrebbe voluto poter regalare alla sua amica un nuovo ricordo con accenti simili perché sapeva bene quanto lei evitasse di guardare al passato.

Mentre l’ultima fetta si cuoceva, controllò la temperatura della crema pasticcera alla vaniglia e la trovò quasi pronta a ricevere l’aggiunta di panna montata. Poco più in là, pezzi di fichi e amarene erano disposti in due ciotole separate e beatamente intenti ad amoreggiare con alcune cucchiaiate di miele amaro.
È il bello di Lix, si disse con soddisfazione. Finché non ci hai a che fare di frequente, ti lascia in bocca queste prime sensazioni succulente di una che è nata nei quartieri alti, poi però ti accorgi che sa essere alla mano, persino dolce, ma in lei c’è sempre questo fondo amaro perché anche se lo nega, pretende molto da sé. A volte troppo. E fa passare inosservato quel pizzico di non so che, che la rende speciale, e con quella considerazione, gettò alcuni pizzichi di cardamomo in polvere nelle terrine, applicando un incantesimo che rivoltasse delicatamente la frutta.
Un rumore di vetri infranti lo fece trasalire.
Jacques era impietrito davanti allo scempio: il barattolo della Libea gli era sfuggito di mano ed era caduto sui gradini che dividevano le loro postazioni. La polvere bianco-argentea si era sparsa a terra e perdeva rapidamente luminosità, segno che le sue proprietà magiche stavano svanendo a contatto con i materiali della scala. Ogni concorrente aveva avuto un barattolo in dotazione e non ne sarebbero stati forniti altri né era stato concesso loro di portarne da casa. La disperazione lo fece crollare in ginocchio e dal pubblico si levò un coro di schiamazzi indecifrabili. Ogni speranza di vittoria svaniva con il luccichio della polvere.
McCoy sentì la delusione e la frustrazione stritolarlo in una morsa. Il destino gli stava negando la vittoria.
«Tieni» disse una voce.
L’ex-banchiere alzò lo sguardo su Brando, apparso lì accanto come dal nulla ad offrirgli la propria scorta. Non capiva. La Libea perdeva le proprie caratteristiche di esaltatore del gusto e stabilizzatore degli incantesimi se veniva esposta per troppo tempo all’aria o veniva sparsa su materiali non edibili; travasarla avrebbe significato distruggere anche quella quantità e certo non potevano passarsela ogni cinque minuti, a seconda dei bisogni.
«Prendila» sbuffò Brando ficcandogli in mano l’intero contenitore.
Solo in quel momento McCoy realizzò cosa stesse facendo l’avversario. Si alzò e, tentando di recuperare l’aplomb con cui si era fatto conoscere sin dalle selezioni, fece per restituirglielo. Avrebbe reagito, in un modo o nell’altro; l’aveva già fatto per i suoi correntisti, per le loro famiglie. Ci sarebbe riuscito anche quella sera.
«No, non posso. Resterai senza e non posso permetterlo» balbettò, drizzando orgoglioso la schiena ma Brando gli voltò le spalle, superando con un saltino la scala.
«Non mi serve. Non la uso» replicò pacato, tornando alla crema chantilly che si stava mescolando alla perfezione.
Se la concentrazione non fosse stata alle stelle, Brando si sarebbe accorto del gemito di sorpresa che si era levato da pubblico e giudici, all’udire le sue parole. Era impensabile creare dolci di alto livello senza servirsi della Libea.
«Sei impazzito? Un dolce… senza Libea?» boccheggiò.
Brando gli rivolse un’espressione accondiscendente e tranquilla, che fece sorridere da un orecchio all’altro Shonna e Mtawarire per motivi diversi.
«Si può fare. Fidati» lo rassicurò. «Troppo spesso si usa la Libea per coprire gli errori. Non li fa la persona a cui mi sono ispirato per preparare la Queen MAB, figuriamoci se posso permettermi di farli io».
Dall’altra parte, oltre la seconda rampa di scale, Kelly lo fissava inebetita, il braccio con il vessel teso verso il Pan di Spagna alla nocciola che stava modellando.
«Non hai da fare? Mancano quaranta minuti» fece divertito, indicando il timer sopra le loro teste.

***

«È matto» sussurrò Aditi, con le mani scarabocchiate di henné premute sulla bocca per lo spavento.

Aveva gli occhi neri talmente dilatati dallo spavento che per un attimo Cane pensò le sarebbero rotolati fuori dalle orbite. Alexia gli fece segno di lasciar perdere e non darle corda in alcun modo.
«È un dio, l’ho sempre detto. Vero, Feng, che l’ho sempre detto?» gracchiò Ertemios, dando di gomito alla moglie che invece decretò:
«Si è bevuto il cervello, quell’accidente di amalteco!»
Di nuovo, la Stirling levò appena una mano per impedire al sottoposto di far domande. Conosceva fin troppo bene la tifoseria dell’amico per non sapere che ogni interrogativo avrebbe sollevato diatribe furiose e non era il caso che Cane si facesse coinvolgere su un terreno ignoto come quello.
«Cazzo, Brandy, fagli vedere chi ha i coglioni lì sopra!» ruggì una voce.
«Hannu!» rimbrottò Billy Roy, un tipo che vestiva da cow-boy con tanto di cappellaccio e laccio simil-frusta appesa in vita ma si atteggiava a consumato bohemien.
«Beh, che c’è? Fate tutti i carini ma per stare in pasticceria ci vogliono due palle così e lui le ha!» sbottò il biondissimo eybano, che sedeva scomposto tra la olivastra Aditi e l’amico.
«Fat’la f’nita tuti quandi» li zittì l’omone dalla vistosa barba rosso ciliegia che Alexia aveva presentato come Mark. «Brendo sha quel ch fa, molto mellio di nnoi. Shiamo qui pe shost’nirlo o mi shone shp’ratto mizza gi’rnata d volo con voi piattole frinnione pe s’ntirvi dire shimenzi shulle shue deshissione?»
Nessuno osò obbiettare. Alexia gli rivolse un cenno di ringraziamento col capo. Lui rispose sillabando muto.
«“Figurati, Mistress”?» bisbigliò sarcastico Cane, ma venne fulminato all’istante da un’occhiataccia. «Ho capito, padrona. Non dirò niente» sghignazzò con aria falsamente servile, ammutolendo subito dopo per il tacco appoggiato con una certa insistenza sul suo piede.
«Fai bene. Anche perché non ha detto “mistress” ma “mish vèz”, che sulle montagne di Amaltea vuol dire “piccola mia”. Mark è il solo a cui permetto di usare simili appellativi, visto che anni fa era uno dei collaboratori più stretti di mia madre. Chiaro, servo?» specificò torva.

***

Con McCoy fuori gioco al terzo posto, e i commenti più entusiasti mai uditi in quella manciata di puntate, la finale era quanto mai in bilico. Moriyama ammise che il compito si era rivelato più arduo del previsto.

«Da un lato abbiamo la storia, la tradizione, rivisitati in chiave moderna, con l’uso ardito di incantesimi d’incorporazione e di nuovi ingredienti come la glassa con polvere di smeraldo opale, che pure nulla tolgono al fascino antico di una preparazione come la torta di nocciole» declamò Mtawarire, levando in alto la torta di Kelly, la quale, presa dall’emozione, mancò poco che svenisse.
Vista negli schermi, la fetta sembrava uscita da un manuale di cucina, perfetta e accattivante, ma paradossalmente alla portata di qualsiasi massaia di buona volontà.
«Dall’altra abbiamo la dedizione, la ricerca, il mettersi alla prova attraverso strade mai tracciate pur poggiando i passi nel solco di scuole di tecnica e pensiero ormai abbandonate, arrivando persino a ignorare la prassi pur di raggiungere il risultato più strabiliante, imprevedibile e… profondamente eccitante» fece eco la Gellar, mostrando la Queen MAB.
La copertura croccante di pasta fillo, resa ben dorata da un apposito incantesimo, si apriva sui due strati pane al cioccolato, da cui colava seducente la crema con i suoi golosi ospiti di frutta.
«Lasciatemi dire che trovo ingiusto dover incoronare uno solo di voi due» proseguì Shonna, visibilmente provata dalla mezz’ora di discussione. «Vorrei vedervi vincere entrambi ma purtroppo è impossibile. Avete grandi doti, un cuore colmo di passione e le mani di doni. Meritate molto e sento che ve lo guadagnerete!»
Venne aperta la busta e le luci abbassate fino a lasciare in vista solo Brando e Kelly ai due lati opposti del palco.
La tensione si rapprese in quegli unici fasci di luce rendendoli come di gelatina. Brando aveva alcune briciole di pasta fillo tra i capelli, Kelly era più pallida della panna montata. Nell’aria si mescolavano gli aromi zuccherini dei dolci sfornati e già divorati, gli effluvi profumati dei giudici e della platea, il frizzo dell’etere rilasciato dalla magia.
Infine, i giudici esclamarono in coro:
«Kelly Simmons!»

***

«Posso fare le congratulazioni al mio vincitore?» echeggiò una voce nel vuoto.

Le lacrime di amarezza di Brando cessarono per un istante. Per un istante era tornato partecipe del turbinio della musica, dei coriandoli, nei volti e delle mani, poi una nuova bolla di silenzio aveva annullato ogni cosa.
Quando si volse, la folla festante si era spostata con la vincitrice, e nello spazio lasciato libero era apparso un uomo in giacca e cravatta. Gli occhi azzurri spiccavano nel volto scuro, brillanti d’emozione.
«Julius» ansimò sconvolto.
Prima lo smacco per la mancata vittoria, ora lui che compariva dal nulla. Sentì le ginocchia tremare e il cuore sbattere furioso contro le costole. Forse stava per morire.
«Ho visto la gara dal loggione. Eri magnifico. Sei magnifico!» disse l’altro andandogli incontro a braccia aperte.
Brando rimase rigido mentre si sentiva stringere affettuosamente. Sottile, appena percepibile, gli arrivò il profumo della colonia di Julius, quella che lui gli aveva regalato al suo compleanno. Un insieme di arance amare e resina, con uno spunto di cacao. Avrebbe voluto scappare, sparire in un pozzo o tra le fauci di un EDA.
«Credevo fossi bloccato a…» bofonchiò incredulo nell’abbraccio.
«A Otisa?» sogghignò divertito al suo orecchio prima di scostarsi per guardarlo negli occhi. «Ci sono cose chiamate aeroporti, sai? E altre chiamate “bugie bianche”, anche se la giurisprudenza corrente non le tollera».
Brando annuì meccanicamente. Ancora non si capacitava della sua presenza: era frastornato dalla delusione, la gola era improvvisamente rigida e secca, le orecchie assordate da un silenzio innaturale, ma più di tutto lo confondevano quelle mani calde e curate che stringevano le sue ancora impiastricciate di pastella e  amarene.
Julius sorrise, gli occhi lucidi per la commozione. Poi, vedendo che Brando non reagiva, scosse la testa.
«Sorpresa» mormorò. «Pensavi davvero che sarei rimasto là? Non mi sarei perso il tuo trionfo per niente al mondo. Lo sapevo, l’ho sempre saputo che ce l’avresti fatta, sei il migliore!»
«Ho… perso» sussurrò ma Julius scosse la testa e lo baciò con trasporto.
Solo allora il pasticcere riuscì a riscuotersi e si rese conto davvero di ciò che stava accadendo. Aveva vinto il suo personale “Grand Prix de Celest(is)e Pâtisserie”: era riuscito a raggiungere il primo gradino per arrivare a realizzare i suoi sogni. Poteva non essere il migliore per la giuria, ma ora aveva piena consapevolezza delle sue vere capacità. Julius si era fatto da parte per lasciargli libero sfogo e consentirgli di spremere ogni goccia di quella magia interiore che per anni aveva coltivato con tanta dedizione e accanimento. Aveva mentito sulla sua assenza per spingerlo a combattere con ogni mezzo, per dimostrare a tutti (e soprattutto a sé stesso) fin dove potesse arrivare senza il bisogno di spinte di alcun genere.
«Ti amo, Juls» singhiozzò abbracciandolo di nuovo, questa volta con totale partecipazione.
«Lo so, Campione. Ti amo anch’io».

***

«Julius King, avvocato specializzato in diritto internazionale, lavora dello studio legale Castillo & Perrault, dove si occupa dei rapporti tra i cittadini amaltechi e lo stato caldesiano. Ma, principalmente, il fidanzato di Brando» chiarì Alexia sottovoce. «Credo che se potesse farselo scrivere sulla carta d’identità, lo farebbe di corsa».

Cane annuì senza staccare gli occhi di dosso ai due che continuavano ad abbracciarsi e baciarsi, incuranti dei flash che si accendevano a raffica tutt’intorno. Li si vedeva in ogni schermo a disposizione nello studio di registrazione, la loro amara felicità era stordente, ben più del trionfo della Simmons, che sapeva decisamente di manovra socio-politica. Se Lucas fosse stato lì avrebbe cominciato a prenderlo in giro, facendogli notare che sin dal principio era stato in errore e, di conseguenza, avrebbe posto l’accento sul fatto che stesse invecchiando.
Devo inventarmi qualcosa per metterlo a tacere, pensò allarmato. Avrà sicuramente visto tutto.
Poi ricordò di averlo spedito alle calcagna di Stroad e che Lucas era troppo ligio al dovere per aver sottratto tempo all’indagine in favore di un programma televisivo. Sarebbe riuscito a preparare qualcosa. Ciò nonostante, il tempo era venuto meno su un altro fronte non appena Alexia, terminata la fase delle congratulazioni di rito (che sapevano molto di consolazione in questo caso), aveva dichiarato di volersene andare. Non aveva intenzione di fare le ore piccole in mezzo a quella baraonda zuccherina: aveva altre cose per la testa.
«Ora mi spiegherà un paio di cose, Agente Cane» attaccò, prendendo un tono molto formale non appena le porte dell’ascensore si chiusero. «Innanzitutto: perché quest’interesse morboso verso il mio coinquilino?»
«Coinquilino?» domandò fingendosi stupito dalla rivelazione.
«Sì. Coinquilino» ribadì aspra. «So quanto riesci ad essere ficcanaso, il cassetto forzato della scrivania di Carmy non l’ho dimenticato. Ma questa volta hai azzardato azioni inquisitorie nei confronti di una persona a me vicina».
«Io? No davvero. Sono un agente molto impegnato, casomai se lo fosse scordata» si schermì, ma la sua aria da giocherellone non attaccava con il Capitano e purtroppo lo sapeva: se non avesse trovato una scappatoia, lo scudo sarebbe andato in pezzi molto presto.
«Hai avuto delle uscite sospette in questi giorni, così ho controllato. Hai indagato sulla vita di Brando» l’accusò.
«Non parla molto della sua vita fuori dell’ufficio. Pensavamo fosse il suo ragazzo, visto che siete usciti insieme da casa sua quella mattina. Volevamo solo essere certi che fosse tutto a posto» ribatté sicuro.
«Lascia fuori Lucas da questa faccenda. È troppo per bene e intimorito da me per farti da spalla in una cosa simile. Sto parlando di te. Sei stato tu a fare quelle ricerche, da solo! Perché tanto interesse, Thomas?»
«Vede, Capitano, può succedere che…» iniziò vago.
«Smettila. Non siamo alla MAB e io non sono in servizio. E non me ne frega niente se qui intorno ci sono altre persone: parla con me, con Alexia, non col tuo superiore» ribadì spazientita, piantando le mani sui fianchi.
«Potrei distrarmi se resti in quella posizione» tentò di scherzare, indicando il decolleté in bella vista.
Tuttavia, Alexia era bel lungi dal dargli corda e insisté per avere una risposta.
«Te l’ho detto: pensavo fosse il tuo ragazzo. Ero curioso. Non si può essere curiosi?» sogghignò.
«E anche se fosse stato il mio ragazzo? Chi ti dava il diritto di comportarti così? Di darmi quelle rispostacce o di tentare di usare il mio rapporto con lui come un’arma?»
Aveva ragione e l’agente dovette dargliene atto. Erano state delle mosse veramente azzardate, persino per uno come lui. Che diavolo gli era preso? Come aveva potuto farsi prendere la mano a quel modo?
«Sto aspettando» lo incalzò, avvicinandosi ancora.
«Le indagini sulla Chiesa di Ela si fanno più pericolose ogni giorno che passa. È quasi impossibile sapere di chi ci possiamo fidare, non sappiamo se i nostri movimenti sono controllati o se il prossimo che arresteremo ci scatenerà contro chissà cosa: EDA, vampiri, tossici, svitati,... c’è qualcosa di male se ci copriamo le spalle?»
«Dimmi perché» insisté, avanzando di un altro passo.
Ormai gli era addosso, fisicamente e non solo.
Cane voltò la testa, fingendo di guardare il panorama oltre la gabbia di vetro dell’ascensore. Kyrador era una spolverata di stelle sulla terra. E lei non l’avrebbe lasciato in pace fin quando gli avesse dato ciò che voleva. Si appoggiò alla parete traslucida, osservandola con un sorriso stanco.
Vuoi proprio sapere? Davvero, Alexia? E cosa farai se parlo, se ti dico tutto? si chiese guardandola di sottecchi. Questo non è un delinquente sotto interrogatorio, sono io. Riusciremo ancora a far funzionare le cose come se nulla fosse?
Ascoltò il battere nervoso di un tacco sul pavimento di marmo e socchiuse gli occhi nel tentativo d’ignorare la ridotta lama d’aria che li divideva. Quasi indovinava le curve del suo corpo senza guardarla.
«Voglio preoccuparmi per te. Di te. E non solo perché sei il mio capo. Anzi, questo è proprio l’ultimo dei fattori, se devo dirla tutta» ammise infine. «Ti dispiace?»
Il piano terra era ancora lontanissimo, nonostante le strade si stessero animando di un fiume brulicante d’auto.
«Sì, finché ci giri attorno» mormorò Alexia. «Sai che preferisco le cose dette in faccia».
«Te l’ho appena detto, mi pare».
Alexia arricciò le labbra, dondolando il capo mentre fingeva di far fatica a ricordare.
Cane si rilassò, scivolando un poco contro il vetro. Rimase a guardarla per lunghi istanti, indeciso sul da farsi.
«Non sei obbligata a ricambiare. Non te l’ho chiesto» sussurrò.
«Lo so. Grazie per averlo chiarito».
«Però, se posso permettermi, non è dignitoso che una donna sola conviva con uno come quello».
«“Come quello”? Hai qualcosa contro i gay?»
«Ho qualcosa contro ogni maschio fisicamente dotato di attributi conviva con una donna nubile di mio interesse, senza che abbia con questa una relazione seria. Anche se dice di preferire gli uomini e fa di tutto per dimostrarlo» dichiarò, quasi si trattasse di un atto di guerra. «Io la vedo così e non cambierò idea, punto e basta» s’impuntò.
Alexia lo squadrò, sorpresa dalla rivelazione e non del tutto convinta d’averla compresa fino in fondo.
«Sei un cretino» rise assestandogli un pugno sul braccio. «Ora ti resta un solo modo per farmi digerire queste tue inutili gelosie da macho».
«Vale a dire?» domandò recuperando la consueta aria sorniona.
Lei l’afferrò per il bavero della giacca, stringendolo fin quasi a soffocarlo.
«Sto morendo di fame e tutti quei dolci mi hanno fatto venire un attacco di diabete, e per giunta questi tacchi mi stanno uccidendo! Trovami un posto qui vicino per mangiare le cose più salate dell’universo. Adesso!» sbraitò.
Nonostante la stretta, Cane scoppiò a ridere e lei lo imitò subito dopo.
«Okay, okay! Ci sarebbe il “Deb’s”, che prepara piatti tipici delle campagne di Caldesia, oppure il “Roakahuna Wetii”, che propone roba fusion su base di cucina fhirlandiana fino alle sei del mattino. Con tutto il sale che vuoi» propose con un fil di voce.
Soddisfatta, lo lasciò andare e risistemò con calma capelli e vestiti, imitata da Thomas.
«Mi rimetto al mio ospite, visto che sarà lui a pagare. E nel rimborso alla MAB farà figurare di essere solo. Stasera non avrei dovuto essere alle calcagna di certi delinquenti, perciò…»
«Davvero? Ma che peccato» sospirò ironico, passandole un braccio attorno ai fianchi. «Adoro potermi vantare con quelli dell’Ufficio Contabilità di fare il mio mestiere di notte, in costosissimi locali alla moda, in compagnia di donne meravigliose, che indossano abiti provocanti, scollati e rosso fuoco, che nessuno immaginerebbe siamo membri dell’Agenzia! Non posso proprio indicarti? Nemmeno per una porzione di patatine? Un cocktail?»
«Dacci un taglio, Cane» sibilò rifilandogli una gomitata tra le costole che l’obbligò a fermarsi mentre lei usciva dall’ascensore ancheggiando a passo di marcia.
«Cane? Come “Cane”? Che fine ha fatto l’altra parte di me?»

***

La mattina successiva la finale, Kyrador era spazzata da un violento temporale. Tuoni e lampi si alternavano tra gli scrosci di pioggia, come se fossero impegnati a grattar via le delusioni per dar spazio alla serenità.

«Mtawarire è Cavaliere degli Speziali del Lat’chi?» esclamò esterrefatto Julius, sollevandosi sui gomiti.
Brando, appoggiato ai cuscini, lasciò cadere indietro la testa.
«Te lo giuro! Quando mi ha mostrato la spilla quasi svenivo. Lui! Un Cavaliere! Ti rendi conto, Juls?»
Entrambi facevano parte di quella congregazione, una sorta di società segreta dedita allo studio e all’uso di antiche misture di spezie le cui proprietà medicamentose si sommavano a quelle più goderecce dell’esaltazione e miglioramento delle pietanze – dolci e salate. C’era qualcosa di mistico nel maneggiare quelle polveri e ritenevano che il loro incontro nelle fila degli Speziali fosse l’esempio lampante di quei occulti poteri.
«Noi siamo poco più che adepti e ti ha trattato come un suo pari! Deve tenerti in grande considerazione».
«A quanto pare» replicò, scrutando con disappunto l’improvvisa assenza di un bottone dalla casacca del pigiama.
Julius non soffriva quegli inconvenienti, abituato com’era a indossare solo i boxer, ma lui proprio non sopportava quei piccoli “orrori”, né su di sé, ne sugli altri.
«Non mi stupirei se da Recadi arrivasse una lettera dall’Ordine per insignirti di un titolo meritorio. In fondo, hai portato lustro alla confraternita, anche se solo noi membri ne siamo a conoscenza» osservò l’altro, serio. «Ci sono persone importanti tra gli affiliati, qualcuno potrebbe decidere sovvenzionare la tua attività! Insomma, hai comunque vinto trentamila kylis, ma ne servono almeno il…»
«Per ora non m’importa» l’interruppe mettendosi a sedere. «È bello svegliarsi la mattina e non sentire Lix che sbatte i tacchi sul pavimento e rischia di cadere perché il gatto le è saltato tra le gambe per giocare; e trovarsi invece un bell’uomo che tesse le tue lodi e pende letteralmente dalle tue labbra. Vorrei concentrarmi su questo, se non ti spiace» considerò, arricciando la bocca con fare eloquente.
Julius scosse la testa e l’accontentò. Percepiva ancora distintamente il suo malumore per aver mancato il primo posto di un nonnulla e non si sentiva incline al lasciarlo macerare nel fiele.
«Dici che dovremmo dare una mano a Lix? Col suo collega, intendo» gli rammentò. «Qualche buon consiglio può farle comodo, per non mandare all’aria questa grazia. Sono andati via prima che i festeggiamenti entrassero nel vivo e se le cose non…» ma dovette lasciare la frase a metà, per difendersi da una blanda cuscinata.
«Smettila di fare l’avvocato in ogni dove, Julius» l’ammonì stiracchiandosi. «Lix se la caverà benissimo. Magari anche loro si sono svegliati come noi, felici e abbracciati».
L’altro fece una smorfia, lasciandosi cadere sul fianco.
«Sì, hai ragione» dovette concordare Brando. «Lix non è tipo da cose del genere. Probabilmente l’avrà spinto giù dal letto due minuti dopo aver concluso, per riappropriarsi del suo spazio vitale. Detesta lo invadano, non importa se per un buon motivo. Persino al gatto ha insegnato a non mettere zampa sul letto».
Per qualche minuto nessuno parlò. Ridacchiarono scambiandosi occhiate quasi timide, sfiorandosi a vicenda le mani, quasi fosse la loro prima volta insieme.
«Da oggi le cose cambiano, lo sai?» dichiarò il pasticcere, prendendo per mano il fidanzato.
Julius aggrottò la fronte intrecciando le dita alle sue.
«Ne ho una vaga idea. Dovrai cercarti un lavoro oppure dovrai tornare alla Limmenshau e diventare sul serio un pasticcere titolato» e la seconda opzione avrebbe previsto il separarsi di nuovo.
«Stai con l’Imperatore Sovrano dei Pasticceri di Celestis, non certo con un cake designer qualunque» motteggiò.
«Mi tocca il ruolo dell’Imperatrice? Sai che con la gonna sto malissimo, sto meglio con la toga» scherzò l’avvocato, drappeggiandosi addosso il lenzuolo. «E poi, non sei il grande sconfitto della serata?»
«A volte accadono cose inspiegabili dopo una disfatta, o mio ViceImperatore. Si può arrivare molto in alto anche partendo dal gradino più basso» replicò sibillino.
«Se devo fare il tuo secondo, dov’è il nostro splendido maniero da cui lanciarci alla conquista del mondo?» chiese scettico, indicando col capo verso la porta della stanza, oltre la quale s’intravvedeva un brevissimo corridoio e una zona pranzo piuttosto disordinata.
Nonostante lavorasse in uno degli studi più prestigiosi di Kyrador, Julius si era potuto permettere solo un piccolo appartamento di due stanze in affitto in una zona semiperiferica, nulla a che vedere con lo sfarzoso attico della Stirling nel pieno centro. Purtroppo sapeva bene che i sogni e le speranze dilapidavano i conti in banca, non li facevano lievitare, e sentire Brando accennare a futuri scenari di ipotetiche conquiste lo preoccupava: era il momento di essere pragmatici, di affrontare la vita da un punto di vista più pratico e tangibile.
«Ho già visto un paio di posti adatti, laboratorio sotto, appartamento sopra, uno studio per te. Sognare non costa nulla e nemmeno rompere le scatole agli agenti immobiliari» confessò grattandosi la nuca.
Julius si mise a sedere al suo fianco sgranando gli occhi chiari.
«Uno studio… per me?» domandò sbalordito.
«Certo. Per te e i tuoi futuri assistenti. Insomma, mica mi sono innamorato di un avvocatuccio qualunque, no? Sei uno dei migliori legali sulla piazza e dubito resterai a lungo in quello studio, visto che non mi pare abbiano intenzione di farti diventare socio. Così, potresti avere il tuo studio personale. Il “King’s International Lawyers”, proprio sopra la mia “Rêveur Amaltea”» buttò lì, giocherellando con l’orlo dei boxer del compagno.
«Hai già scelto i nomi?» rise, sempre più confuso.
«Sì. E anche gli orari in cui faremo pausa con i miei capolavori» annunciò baciandolo.
«E come pensi di fare, senza quell’assegno faraonico?»
«Debiti. Come tutti i comuni mortali» ribatté con un’alzatina di spalle. «Trentamila kylis e alcune comparsate retribuite in tv nel prossimo anno sono una buona base per ottenere il prestito che mi occorre. Alexia l’aveva verificato tempo fa e… si era detta disposta a farmi da garante, se non fosse stato sufficiente. A patto che mi “levassi dalle palle al più presto”» rise, divertito più dall’espressione del suo lui che dal ricordo della chiacchierata.
«Mi stai davvero chiedendo di vivere insieme, Brando? Io e te?» mormorò stordito, poggiando la fronte sulla sua.
«Sì. Noi due. Sarebbe ora, dopo cinque anni. E poi, devo lasciare spazio a Lix… o dove lo metterà quel poveretto, quando litigheranno?» ridacchiò.
Conosceva fin troppo bene il carattere mascolino dell’amica ed era certo che, in caso di discussioni, la pace fra quei due sarebbe stata sancita a scapito di diverse “riorganizzazioni spaziali”.
«Sul divano come tutti, no? L’ho fatto anch’io... È da ritenersi la prassi nei litigi di coppia» lo stuzzicò Julius.
Le loro litigate si potevano contare sulle dita di una mano e l’esperto di legge doveva ammettere, suo malgrado, di essere stato sempre lui a dare il via ai battibecchi, e quindi, di aver meritato di essere scacciato dal proprio letto. O da qualunque letto Brando occupasse.
«Il divano è proprietà di Prince Great Mighty Azul-Gray Cloud on the North Sea di Taveja Valley e non lo cederà a nessuno. Piuttosto lo fa a pezzi con le unghie».
«Giusto» concordò, tornando a farsi esitante. «E… quanto pensi ci vorrà? Per… trasferirci».
«Prima è, meglio è. Comincio a sentirmi un peso per Lix. È stata fin troppo generosa e paziente, e… è già un miracolo che non mi abbia preso a pugni in quest’ultimo periodo. Ha sempre avuto un gancio sinistro notevole. Comunque, sono stufo di perdere a gelharball con una su cui non posso rivalermi in alcun modo».
L’avvocato scrollò le spalle, lasciandosi cadere sulla schiena.
«Sa che sono una schiappa e vuole umiliarmi per poi asciugare le mie lacrime? È questa la sua proposta di accordo, Signor Pellegrini?»
«Arguto, Avvocato King. Molto arguto» sospirò, imitandolo con un gran sorriso.
A quelle parole, Julius sembrò essere attraversato da una scossa e si voltò verso di lui.
«A proposito di arguzie… cos’è il fattore “L”? Te l’ha spiegato Shonna?» indagò.
Brando annuì solenne ma ammettere che si trattasse di un segreto con l’amica-nemica gli costò una Ocean Eye da fare in giornata come pattuito e mezz’ora di coccole.
“L” stava per “Lüfz”. Nel folklore gorbeko era una divinità del focolare, un folletto o spiritiello buono, preposto al nutrimento della famiglia, non solo a livello culinario ma anche affettivo e, soprattutto, mistico. Shonna gli aveva detto che osservandolo preparare i dolci durante la gara, aveva percepito chiaramente un legame tra lui, i dolci stessi e le persone a cui li dedicava, qualcosa che andava al di là della semplice abilità o delle magie gastronomiche.
«Tu sia infondere molto di più che golosità ai tuoi dolci» gli aveva detto stritolandolo in un lungo abbraccio. «Non c’è vessel o incantesimo che possa attrarre un Lüfz: o è dentro di te o non se ne fa nulla. E tu sei uno di loro! Non ti servono quei soldi, riuscirai lo stesso a rendere felice la gente».
Brando sorrise, ripensando a quelle parole mentre tentava di resistere alle moine di Julius che voleva conoscere il segreto ad ogni costo. Gli piaceva pensarla come Shonna.
Credo che cambierò il nome della pasticceria, rifletté. Penso che la chiamerò “The L Factor”.


Writer's Corner.
Ebbene, abbiamo concluso questa piccola avventura magico/dolciaria.
Prima di tutti ringrazio Carlos Olivera, che non solo mi ha lanciato la sfira di creare un nuovo personaggio basato sulle sue storie (forse ho fatto persino di più), ma soprattutto ha supervisionato l'avanzamento del racconto, facendomi presente cosa andava e cosa no, cosa avevo scordato o era rimasto sottaciuto. Poi segue il doveroso ringraziamento a Shade Owl, che sta finendo di leggere e recensire la storia, sollevando quesiti e analizzandola da profano. Ringrazio Raven Michaelis, che pur non avendo ancora lasciato commenti ha inserito "The "L" Factor" tra le sue peferite. E infine, d
evo ringraziare tutti coloro che hanno letto questi capitoli, magari nell'attesa che finisca la mia long.
Alla prossima!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2807816