Riflessi nello specchio

di Soe Mame
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** x0x1x ***
Capitolo 2: *** x0x2x ***
Capitolo 3: *** x0x3x ***
Capitolo 4: *** x0x4x ***
Capitolo 5: *** x0x5x ***
Capitolo 6: *** x0x6x ***
Capitolo 7: *** x0x7x ***
Capitolo 8: *** x0x8x ***
Capitolo 9: *** x0x9x ***
Capitolo 10: *** x1x0x ***
Capitolo 11: *** x1x1x ***
Capitolo 12: *** x1x2x ***
Capitolo 13: *** x1x3x ***
Capitolo 14: *** x1x4x ***
Capitolo 15: *** x1x5x ***



Capitolo 1
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Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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Sbattè le palpebre, assorbendo la notizia.
Quando realizzò del tutto le parole dell'altro, non potè trattenere una risata: - Congratulazioni! - esclamò, dandogli una pacca su una spalla: - E brava la nostra Gumi-chan! -
Non riuscì davvero a prendere sul serio l'occhiataccia di Gakupo. Non era credibile.
- Su, ora non fare il cugino geloso! - ridacchiò, lasciandosi andare contro lo schienale della sedia: - E' stata lei a dirmi di chiamarla così! -
- Ma da ora in poi sarà una rispettabile donna sposata. - ribattè Gakupo, impassibile: - Ragion per cui, sarebbe decisamente preferibile che tu la chiamassi Megumi-san. -
- Ah, tranquillo. - Kyte sventolò la mano, come a voler scacciare un insetto fastidioso: - Non sono un maleducato, so che dovrò chiamarla Megumi- chan! -
- Megumi-san. -
- A parte tutto, quand'è il matrimonio? -
Gakupo esitò, quasi stesse soppesando la risposta. Parlò dopo qualche secondo: - Tra tre mesi. - posò il volto su una mano, il gomito contro il tavolo, lo sguardo improvvisamente attratto dalla porta del locale.
- Ti bastano tre mesi, per arrivare? - domandò Kyte, perplesso: - Quando parti? -
- Dopodomani. - rispose l'altro, senza distogliere lo sguardo chiaro dall'entrata: - Se prenderò la nave che partirà dopodomani, farò in tempo. -.
Kyte annuì, spostando l'attenzione sulla porta: legno scuro, di forma rettangolare, con una maniglia forse d'ottone - non s'intendeva di materiali da costruzione, per lui poteva benissimo essere marmo cavo ridipinto.
Tuttavia, sembrava una comunissima porta.
"Forse lui vede cose che le persone comuni non vedono." si disse, disorientato: "Lo sai che i giapponesi sono tutti strani, con quelle cose strane che fanno loro con i loro spiriti strani...".
- Malgrado ciò... -
La voce di Gakupo lo spinse a voltarsi nella sua direzione - a giudicare da come aveva riportato l'attenzione su di lui, la porta doveva effettivamente essere una porta e non uno spirito vecchio di qualche secolo.
- ... per quanto sia lieto del fatto che Megumi possa finalmente convolare a giuste nozze... -
Impossibile non notare quanto avesse calcato sul "finalmente".
- ... questo mi crea un problema. -
Kyte aggrottò la fronte: - In che senso? -
Gakupo trasse un profondo respiro, la voce pacata: - Sarò costretto a fare un'assenza di oltre sei mesi dal mio posto di lavoro. Nessuna persona professionalmente e umanamente seria sarebbe capace di fare una cosa simile. -
- ... eh? -
Kyte sbattè le palpebre, confuso: - Ma devi presenziare al matrimonio di tua cugina! Hai sempre lavorato con costanza, non credo che i tuoi signori faranno tante storie, per una pausa- -
- Sei mesi, Kaito. - Gakupo gli mostrò una mano aperta, l'altra con l'indice alzato: - Sei mesi. Metà anno. Inammissibile, per il ruolo che ricopro. -
"Uhm, sì. Sei mesi, in effetti, sono tanti. Però..."
- Non vorrai dirmi che i signori non concedono un po' di pausa a chi lavora duramente per loro tutto l'anno? -
Gakupo alzò gli occhi al soffitto, in un'espressione che Kyte aveva imparato a riconoscere come esasperazione o, al limite, voglia irrefrenabile di fare seppuku.
- Non per sei mesi, Kaito. - la voce era decisamente meno pacata, spezzata, tenuta calma con un certo impegno: - I signori danno effettivamente delle licenze ai loro servitori. Ma di qualche giorno, una settimana, due. Gli altri possono farlo perché nessuno di loro deve imbarcarsi per Kyoto. -.
"Anche lui ha ragione..."
Affondò il mento tra le mani, con uno sbuffo: sapeva quanto Gakupo prendesse seriamente il lavoro - e qualsiasi altra cosa, in realtà - e sapeva anche quanto Gakupo tenesse alla sua famiglia in Giappone.
E, sì, in effetti, sei mesi di licenza erano difficili da ottenere.
Fece schioccare le labbra. Gli dispiaceva.
Gli sarebbe piaciuto poterlo aiutare. Ma non aveva idea di come.
- Ne hai parlato con i tuoi signori? - domandò, alzando appena il viso.
Gakupo annuì: - Sì. E potrei aver trovato una soluzione. -
Kyte si raddrizzò completamente, colto alla sprovvista: - Ossia? -
- Trovare qualcuno di fidato che possa sostituirmi per sei mesi. -.
- ... oh. - l'unica cosa che Kyte riuscì a dire.
In effetti, non sembrava una brutta idea. Sarebbe potuta funzionare. Soltanto...
- Ma... - esordì, piegando appena la testa di lato: - ... dove pensi di trovarla, questa "persona fidata"? -
Gakupo lo guardò.
- Voglio dire... - Kyte agitò le mani, come a richiamare parole che non gli venivano: - ... qualcuno di davvero fidato, che possa sostituirti del tutto senza alcun problema! -
Gakupo lo guardò.
Kyte ricambiò lo sguardo, confuso: - Chi è che conosci che sia abbastanza di buona famiglia e che conosca lingua e cultura della tua terra? -
Gakupo lo guardò.
- ... perché non rispondi...? - osò chiedere, iniziando a trovare inquietanti quegli occhi chiari piantati nei suoi.
- Dove posso trovare una persona fidata, di buona famiglia e che conosca le usanze della mia gente? - ripetè lui, pacato: - Non ne ho proprio idea, Kaito. Non ne ho davvero idea. -.
Kyte si passò una mano tra i capelli, disorientato: "Ma che sta dic- ... aspetta."
Sgranò gli occhi: - ... tu... - scandì: - ... hai intenzione... di mandare... me? -.
- L'hai dedotto dall'elenco di qualità richieste o dal fatto che sto continuando a fissarti insistentemente? -
"Gakupo che fa dell'ironia. Dev'essere molto grave."
- Ma sei pazzo? - quasi urlò Kyte, gli occhi spalancati: - Io? A fare il precettore? - si portò le mani al petto, sulla camicia: - Ma mi ci vedi conciato come te? A fare il bravo e serio precettore come te? -
- Sì. -
L'effetto fu quello di una freccia conficcata in pieno petto.
Anche perché aveva un brutto presentimento.
- ... esattamente... - esordì, riportando le mani sul tavolo, sforzando un sorriso serafico: - ... quant'è che sai di tutta questa cosa? -
- Un mese, approssimativamente. - rispose Gakupo, tranquillo: - La mia signora ha già dato l'approvazione. Ho assicurato che sei una persona seria e leale, competente nel campo delle usanze e della lingua giapponese. Sono le uniche qualità richieste. -
Come pensava.
"Dannazione."
- ... tu hai deciso tutto senza dirmi niente. - quasi gemette, praticamente spalmandosi sul tavolo: - Sei tu quello serio e professionale, cosa sono questi comportamenti irresponsabili? -
- Errato. - stavolta, Gakupo sorrise. Ma sembrava tanto una presa in giro: - Sarebbe stato irresponsabile avvisarti con un mese d'anticipo, dandoti tutto il tempo di ideare piani per dirmi di no o fuggire. -.
Lui voleva aiutare Gakupo, certo.
Ma la sua speranza era più andare a Kyoto e presenziare al suo posto - sicuramente, ci sarebbero state anche le amiche di Megumi e aveva imparato come le fanciulle giapponesi avessero un particolare fascino esotico.
- Sei crudele. - sentenziò Kyte, tornando seduto in maniera quasi composta, la voce di colpo lamentosa: - Non mi ami! Mi stai sfruttando per i tuoi comodi! -
- E' esattamente quello che sto facendo. -
- Riconosco la tua sincerità, ma questo non ti rende una persona migliore. -
- Comunque... - lo sguardo di Gakupo si fece serio, costringendolo a tacere: - ... hai bisogno di denaro, no? -
"Ahio."
- Non è un lavoro fisso... - l'espressione seria dell'altro si sciolse appena, facendosi più rassicurante: - ... ma ti garantirà vitto, alloggio e denaro per i prossimi sei mesi. Inoltre, i duchi di Mira hanno moltissimi contatti con altre famiglie aristocratiche. Se vedranno il tuo impegno e il tuo valore, potrebbero raccomandarti ad altri nobili. -.
Kyte abbassò lo sguardo: messa in quei termini, Gakupo gli stava praticamente offrendo la più grande delle occasioni su di un piatto d'argento e sputarci sopra sarebbe stato ridicolo e da masochisti.
Certo, lui non era estraneo alle corti e aveva avuto a che fare con dei - delle - nobili, ritrovarsi tra di loro non era una cosa tanto straordinaria; l'opportunità di lavorare presso di loro, invece, aveva la sua attrattiva.
O meglio, i guadagni del lavorare seriamente presso di loro avevano la loro attrattiva.
"Lavoro." scosse la testa: "Non mi piace questa parola. E' faticosa solo a pensarla.".
Tornò a guardare Gakupo. Trasse un profondo respiro: "... è giunto il momento di rimboccarsi di nuovo le maniche." si arrese.
- Come sono questi duchi di Mira, esattamente? - domandò, tra la curiosità e il timore: Gakupo non parlava troppo spesso dei suoi signori e, quando lo faceva, si limitava a poche e vaghe descrizioni positive, senza scendere nei particolari. Per quella volta, però, sarebbe dovuto andare più nel dettaglio.
Il sorriso che Gakupo gli rivolse, stavolta, sembrò sincero: - Fanno parte di uno dei rami della famiglia Diusen. -.
A Kyte quasi andò di traverso la saliva: - Dewsen? - ripeté, gli occhi spalancati: - Quei Dewsen? -
- Precisamente. - annuì Gakupo, intrecciando le dita davanti al viso: - Capisci, quindi, che si tratta di una famiglia piuttosto potente. -.
I Dewsen. Solo una delle famiglie ducali più potenti e influenti - se non la più potente e influente - dell'Inghilterra tutta.
- Non mi avevi detto che lavoravi per i duchi di Dewsen! - boccheggiò Kyte, con una punta di delusione.
- Perché non lavoro per i duchi di Diusen. - lo corresse Gakupo, tranquillissimo: - I duchi di Mira non sono i duchi di Diusen. La mia signora è una delle sorelle minori del duca Aru Diusen, null'altro. -
"Null'altro, dice." fece schioccare la lingua: "L'ho sempre detto che ha bisogno di rivedere le sue concezioni di importanza.".
- Vivono fuori città. - spiegò Gakupo, palesemente ignorandolo: - Il mio signore non è presente spesso, il più delle volte bisogna fare riferimento alla signora. E' una famiglia tranquilla, mai scossa da scandali o intrighi politici, né da parte dei signori né da parte dei servitori. -
- Cos'è, l'Eden dei comuni mortali? - Kyte ridacchiò: aveva sempre immaginato l'Eden come un posto bellissimo ma un po' noioso.
- Non avrai tempo di trovarlo noioso. - sospirò Gakupo: - La villa è grande, i giardini sono grandi e, sì... - alzò di nuovo gli occhi al soffitto, ma stavolta sembrava più divertito: - ... il numero di fanciulle è grande. -
Improvvisamente, l'idea di andare a fare il precettore presso quella famiglia aveva assunto una certa attrattiva.
- Sarebbe una cosa molto carina evitare "incidenti". - la voce di Gakupo lo colpì di nuovo come una freccia, paralizzando sia il suo corpo che la sua mente.
- Ah, ma per chi mi hai preso? - rise, lasciandosi contro lo schienale.
- Per Kaito Shion. -
- Dai, non è mai successo niente del genere! - protestò Kyte, portando i gomiti sul tavolo con una certa violenza.
- Questo non significa che non succederà mai. - fu la candida risposta dell'altro, senza fare alcuna piega.
Kyte dovette fare uno sforzo sovraumano per scacciare dalla mente l'associazione di idee "Gakupo Kamui" e "sua madre". Il risultato era disturbante.
- Il tuo compito sarà insegnare lingua e usanze giapponesi all'unica figlia dei signori. -
Kyte annuì: sapeva che l'allieva di Gakupo era una giovane fanciulla, ma si era sempre astenuto dal fare domande più approfondite - aveva come l'impressione che Gakupo non avrebbe gradito.
Ricordava solo che aveva un nome breve e inusuale.
- E' una fanciulla molto virtuosa, seppur dai modi un po' infantili. - la spiegazione di Gakupo lo portò a figurarsi la fanciulla molto virtuosa dai modi un po' infantili come una ragazza dai lunghi capelli biondi, l'abito dai colori caldi e un ventaglio che vibrava con forza davanti al viso, nascondendo una bocca che non faceva altro che emettere versi da civetta molto irritanti.
- E... - osò domandare, ancora perplesso dall'immagine poco invitante che gli aveva offerto la sua mente: - ... quanti anni avrebbe, la fanciulla...? -
- Quindici. -
"E' in età da marito."
- Ed è sposata o promessa a qualcuno? -
- No. -
Al centro del volto della fanciulla nella sua mente si materializzò un lunghissimo naso aquilino, seguito da due sopracciglia nere cespugliosissime e labbra bianche sottilissime.
"... e deve essere di una bruttura non indifferente."
Affondò il viso in un palmo, rendendosi conto dell'evidenza: fanciulla virtuosa... in età da marito e ancora non promessa. Di una famiglia così strettamente legata ad una delle più potenti d'Inghilterra, poi.
C'era soltanto una risposta: la fanciulla in questione sarebbe stata capace di allontanare qualsivoglia spasimante con un solo sguardo.
Se poi era stata capace di allontanare anche eventuali interessati unicamente al suo patrimonio, doveva essere una delle donne più brutte dell'intera isola britannica.
Improvvisamente, capì perché Gakupo non gliene avesse mai parlato e provò profonda compassione.
Al suo posto, avrebbe fatto lo stesso.
"Non c'è da stupirsi che voglia stare lontano sei mesi...".
- Stamane sono stato informato del fatto che fosse tutto sistemato. - la voce di Gakupo lo riportò con la mente al locale, strappandolo alle bizzarre figure molto poco avvenenti che ridevano svenevolmente nella sua testa.
- Sistemato...? - ripetè Kyte, sbattendo le palpebre.
- Domattina ti accompagnerò presso la villa dei duchi di Mira. Inizierai già da domani. -
- Cosa? - balbettò Kyte, agitato: - Ma... ma... - farfugliò, il sangue scorreva nelle sue vene sempre più freddo: - ... devo prepararmi! -
- Lo farai stasera. -
Sempre più freddo.
- Non so neppure come si comporta un precettore! -
- Ti spiegherò domani, in carrozza. -
Sempre più freddo.
- Non ho neppure quell'assurda divisa bianca che hai tu! -
- Casualmente, ne avevo una in più e mi sono premurato di farla restringere in modo che ti stesse. -
Si accasciò contro la sedia, ritrovandosi di colpo senza forze.
Inspirò a fondo, portandosi una mano davanti agli occhi: - ... Gakupo, questo si chiama complotto. -
- Arigatou, Kaito. Ma conoscevo già questa parola. -
"Gakupo che fa dell'ironia continua ad inquietarmi.".
Aprì due dita, sbirciando nello spiraglio: - Non ci sono proprio altre soluzioni, a questa faccenda? -
Gakupo gettò un rapido sguardo all'orologio del locale, per poi alzarsi, con tutta tranquillità: - Non andrai al matrimonio di Megumi al mio posto per cercare di far colpo su qualcuna delle sue amiche. -.
Terza freccia in pieno petto nell'arco di un'ora.

- Per favore, sono ridicolo con questa roba addosso! -
- Prenditela con la strana moda di voi inglesi. -
- Oh, Dio, con questa roba sembro te! -
- Non temere, non credo ci sarà il rischio che ci scambino. Hai i capelli troppo corti per sembrare me. -
- D'accordo. Va bene questa sottospecie di divisa, vanno bene questi stivali, va bene tutta questa roba ma... perché gli occhiali? Io ci vedo benissimo! -
- Le lenti sono di semplice vetro, non ti faranno male. -
- A maggior ragione, è inutile portarli! -
- Hanno un loro senso artistico. -
- ... -
Kyte non aveva esattamente capito come fosse finito in un completo simildivisa militare bianco immacolato, con tanto di spalline a frangia dorate e stivali neri talmente lucidi da potercisi specchiare. E un paio di occhiali.
Gli occhiali, soprattutto, lo perplimevano.
Non riusciva a collegare il momento del risveglio al momento in cui si era reso conto di trovarsi in una carrozza con Gakupo - abbigliato in modo spaventosamente simile a lui - con quella roba indosso.
Forse aveva preferito dimenticare una vestizione tanto traumatica.
Non erano abiti che gli si addicevano. Troppo seri, troppo eleganti.
Tuttavia, neppure il ruolo di precettore gli si addiceva. D'accordo, per quanto Gakupo avesse ancora un'idea alta e nobile del suo lavoro, era innegabile che ormai si fosse ridotto ad un qualcosa di facile parodia. Forse non sarebbe stato così difficile. Forse non sarebbe stato così noioso. Forse.
- Dunque... - Gakupo lo riportò alla realtà, distogliendo la sua attenzione dal modo in cui era conciato: - ... ti è chiaro il tuo ruolo? -
- Hai. - sospirò: impossibile avere ancora dubbi, date le spiegazioni per tutte e due le ore di viaggio precedenti.
- Bene. Parlando della signorina Mira... -
Kyte s'irrigidì: l'immagine che rappresenteva la "signorina Mira" riapparve nella sua mente come per magia - o ad opera di un maleficio, più probabile.
"... suvvia..." deglutì, cercando di darsi forza: "... a parte lei, tra tutte le domestiche, ce ne sarà almeno una carina!"
- Data l'età, ha ovviamente già terminato i suoi studi nelle materie più classiche, quindi non troverai un altro precettore. Tu sarai l'unico. -
"... che bello..."
- Come ti ho già accennato, il mio signore è molto spesso assente e la signorina è l'unica erede. Gli unici uomini stabilmente presenti nella magione sono i servitori e il suo precettore. -
Kyte si voltò verso Gakupo, la schiena attraversata da un brivido: - Cosa stai cercando di dirmi? -
La voce e lo sguardo dell'altro erano il ritratto della calma assoluta: - Che, qualora la signorina desiderasse andare in paese o a far visite, dovrai essere tu ad accompagnarla. -.
Silenzio.
- ... ma... - Kyte esitò, non riuscendo neppure a capire se fosse più confuso o terrorizzato: - ... non dovrebbe essere un uomo più grande e possibilmente sposato, a farle da accompagnatore? I tuoi signori lascerebbero davvero la loro preziosa figlia da sola nelle mani di un giovane poco più grande di lei? -
Gli occhi di Gakupo si fecero spaventosamente seri, quasi freddi: - Loro affidano la loro preziosa figlia ad una persona molto, molto, molto fidata. - assottigliò lo sguardo, facendolo rabbrividire: - Capisci cosa intendo, vero? -
Kyte annuì, senza neppure pensarci.
Quella cosa aveva del ridicolo.
Ma era anche l'ennesima conferma della sua idea.
"Se affidano il loro fiore appena sbocciato ad un giovane uomo non sposato, significa che il suddetto fiore appena sbocciato ha dei validi mezzi naturali per far scacciare dalla mente qualsiasi pensiero impuro. Tipo un aspetto poco gradevole. E magari un carattere in perfetto coordinato.".
- Lo stesso varrà nel caso di feste. -
Ammirevole che Gakupo gli stesse dicendo tutto ciò quando, dal finestrino della carrozza, si poteva intravedere il tetto della magione.
- Ovviamente, non dovrai rimanere con lei per tutta la durata della festa... -
"Grazie!"
- ... ma dovrai tenerla costantemente d'occhio. E potrai danzare con lei, se ti farà capire che è suo desiderio. -
"Spero paghino bene. Molto bene.".
Gettò uno sguardo fuori dal finestrino, nella disperata idea che le signorine Mira nella sua testa fossero trascinate via dal paesaggio verde che lo circondava.
Perché, a dirla tutta, il paesaggio si era fatto alquanto monotono già da svariati minuti: aveva vagamente notato la presenza di prati e di alberi, ma ormai cominciava a credere - sperare - che ci fossero strade ed edifici invisibili alla vista perché colorati di verde. Ogni cosa era verde. Non era possibile che quel posto fosse tutto prati e alberi. Era peggio dell'Eden!
La carrozza, dal canto suo, si fermò fin troppo presto.
Con un sospiro di rassegnazione, Kyte scese, dando una veloce occhiata all'imponente magione che si stagliava nel nulla verde: grigio chiaro, bordata di bianco, con molte meno finestre di quante ce ne sarebbero potute entrare. Nulla di sconvolgentemente meraviglioso, ma neppure inguardabile. L'avrebbe definita anonima.
Provò una leggera delusione nel vedere che era stato mandato un servitore uomo ad accoglierli: a quanto sembrava, avrebbe dovuto cercare le servitrici da solo.
Il fatto che ci fossero effettivamente servitrici donne fu l'unica cosa che gli impedì di scappare quando attraversò la soglia principale dell'edificio, diretto ad incontrare la duchessa di Mira e la virtuosa figlia prossima al divenire zitella.
"A proposito, come si chiama, la fanciulla?" in tutto il suo riversargli addosso informazioni, Gakupo si era dimenticato uno dei particolari più importanti.
"Beh, dovrei scoprirlo ora." si risparmiò un sentitissimo: "Evviva.".
Persino l'interno della casa era anonimo: toni del bianco e del grigio, pavimento lucido, lampadari, lampade a muro, finestre che occupavano più o meno spazio... non c'era niente di diverso da una normalissima villa aristocratica - anzi, sembrava quasi si fossero dimenticati di darle un tocco personale, di renderla in qualche modo più "viva".
Né lui né Gakupo né il servitore - forse il maggiordomo? - parlarono per tutto il tragitto, lasciando che l'eco dei loro passi risuonasse senza mescolarsi a nessun altro rumore.
Di tanto in tanto, Kyte si premurò di gettare occhiate in giro - specie se si accorgeva di porte aperte -, nella speranza di vedere qualcuna delle fantomatiche servitrici.
Alla fine del tragitto, con un certo sollievo, poté vantarsi di averne viste almeno tre: una un po' troppo matura, le altre due decisamente più giovani - anche se non aveva potuto osservarne i tratti, quindi non avrebbe saputo dire se fossero normali ragazze, bellissime ninfe o degne compari della loro piccola padrona.
- Il signor Gakupo Kamui e il signor Kyte Sheeawn. -
Il suo nome non gli era mai dispiaciuto ma, in quel momento, gli dispiacque molto.
"E' il momento, eh?" con un'alzata di occhi al soffitto, Kyte seguì Gakupo nella stanza, dove non faticò ad individuare le voluminose gonne di due donne sedute sul divano chiaro.
Notò di sfuggita la presenza di due servitori - un uomo e una donna troppo matura -, per poi imitare Gakupo nell'accomodarsi di fronte alle due signore, dall'altro lato di un tavolino basso.
La madre era la perfetta signora di quella casa: nonostante avesse lunghi capelli di un biondo chiarissimo e due grandi occhi azzurri, nonostante il suo volto chiaro facesse intendere una discreta bellezza passata, era anonima.
Non riusciva a capire come fosse possibile che una signora simile potesse avere così poca attrattiva - e il fatto che una donna fosse sposata non era mai un motivo di perdita di fascino, tutt'altro.
Ma si era soffermato anche troppo sulla signora.
Sapeva di doversi costringere a guardare la signorina.
"L'attesa porta più agonia." strinse i denti e si costrinse a guardare al fianco della donna.
Su una cosa aveva azzeccato: era bionda. Bionda piumaggio dei canarini.
Tuttavia, i suoi capelli non sembravano così lunghi: la crocchia era molto più piccola di quelle che era abituato a vedere, tenuta insieme da uno spesso nastro nero che faceva capolino dalla nuca, quasi simile ad una coppia di orecchie da gatto.
Del naso enorme, nessuna traccia; delle sopracciglia cespugliose, nessuna traccia.
Le labbra non erano sottili e neppure bianche. Sembrava quasi che le si fosse posato un petalo di rosa sulla bocca, tanto sembravano morbide e delicate.
Spiccavano sulla pelle diafana del viso, tra le ciocche bionde troppo corte per poter essere legate.
Così come spiccavano le mani piccole, le dita affusolate, su quel vestito blu scuro che gli impediva di vedere qualsiasi altra cosa, fosse anche la corporatura: a giudicare dalle mani e dal viso, però, sotto quelle tonnellate di stoffa doveva nascondersi un corpo magro e probabilmente ben proporzionato.
Quasi, almeno: la linea praticamente verticale del busto lasciava intendere come una mano fosse più che abbastanza per stringerle un seno.
Se non altro, la fanciulla sembrava indossare una tournure, piuttosto che una crinolina.
Che brava ragazza.
Si costrinse ad alzare lo sguardo, fino a quell'unico punto che non aveva ancora guardato: gli occhi.
Erano grandi, di un azzurro ben più brillante di quello scialbo della madre.
Quando la fanciulla gli rivolse un sorriso, sembrò che anche gli occhi sorridessero.
Se si fosse portato una mano allo stomaco, Kyte era sicuro che l'avrebbe ritrovata sporca di sangue: si sentiva crivellato. Colpito in pieno non da una freccia o da un pugno, ma da un intero gruppo di arcieri.
Forse doveva smetterla di farsi colpire da frecce di qualsiasi tipo.
Però una scusante, almeno per quella volta, l'aveva: si trovava al cospetto di una creatura angelic-
"No, sto davvero facendo paragoni del genere?"
Inspirò a fondo, usando tutta la sua forza per spostare l'attenzione sulla signora, o su Gakupo, che avevano preso a parlare di chissà cosa da chissà quanto.
La fanciulla aveva fatto lo stesso, rivolgendo lo sguardo alla madre. Kyte, rendendosi conto di essere tornato a guardarla, capì di essere caduto fin troppo in basso.
Anche il dolore si era spostato più in basso, in realtà, ma quello l'aveva già messo in conto.
O meglio, non l'aveva già messo in conto, perché non si aspettava che la virtuosa fanciulla fosse effettivamente l'incarnazione di quanto di più puro, angelico e meraviglioso avesse mai toccato il mondo uman-
"No, non di nuovo." si trattenne dallo schiaffarsi una mano in faccia: "... quindi questa fanciulla sarebbe nubile?".
Stavolta, riuscì a portare lo sguardo sulla più grande: "Forse... questa fanciulla ha talmente tanti spasimanti che i suoi genitori possono permettersi di fare i preziosi e aspettare l'offerta più vantaggiosa?" sbattè le palpebre, iniziando a capire: "Forse stanno aspettando che uno dei principi in persona la chieda in moglie.".
Perché era impossibile che una meraviglia del genere fosse ancora priva di marito.
Tornò a guardarla: ora i suoi occhi azzurri si erano spostati su Gakupo, il viso appena piegato di lato.
Non sapeva dire se fosse la sua pelle candida, il suo sguardo innocente o le sue labbra all'apparenza così delicate: "Però, sì... non sembra affatto strano che sia pura in ogni senso.".
Una fitta al piede.
Si voltò verso Gakupo, incontrando la sua espressione serena, del tutto in contrasto con la violenza con cui gli aveva conficcato un tacco nell'alluce: - Mia signora, oujo-sama, vi presento Kyte Sheeawn. -
Perché Gakupo si sforzasse di pronunciare bene i nomi e i cognomi anglofoni alla presenza di chiunque tranne che alla sua, Kyte doveva ancora capirlo.
Chinò la testa, ossequioso: - Onorato. -
La voce di Gakupo tornò a farsi sentire: - Loro sono la duchessa Irene di Mirror... -
"Quindi è Mirror..."
Kyte alzò la testa, lo sguardo verso la padrona di casa, sentendo il sangue ribollirgli nelle vene. E non certo per lei.
- ... e Lady Ren Mirror. -
- Len. -
Kyte trasalì: il timbro leggermente basso, il tono squillante, una mano diafana a coprire quelle labbra tanto delicate curvate in un sorriso, negli occhi azzurri una luce divertita, la ragazza aveva parlato per la prima volta da quando lui era entrato in quella stanza.
- Perdonatemi, oujo-sama. - la voce di Gakupo non sembrava eccessivamente dispiaciuta, in realtà. Sembrava più rassegnata: "Forse ha sbagliato spesso a pronunciare il suo nome...?"
- Daijoubu. - Len riportò le mani in grembo, senza smettere di sorridere: - So che ormai mi avete dato un nuovo nome, sensei! -
- Len. - la riprese la madre: - Non prenderti gioco del tuo insegnante. -
Il cipiglio severo della donna, quell'accenno di sorriso divertito sul volto di Gakupo, Kyte li vide per un istante: Len aveva gonfiato le guance e assottigliato lo sguardo, in un broncio che la rendeva terribilmente-
"Kawaii!"
Un'altra fitta al piede.
Kyte ebbe l'impressione che Gakupo sapesse leggergli nel pensiero. E che non approvasse l'uso della sua lingua per simili espressioni.
O forse si era accorto che era tornato a fissare Len.
"Ora che ci penso... no, su. Se avessi una faccia da malintenzionato, mi avrebbero già cacciato a pedate. La signora e Gakupo. Soprattutto Gakupo.".
- Bene, signor Sheeawn... - tornò a guardare la signora; stava sorridendo, ma sembrava un sorriso vuoto, come se la donna avesse un gran sonno: - Mi auguro di vedere tutte quelle qualità descritte dal signor Kamui. -
Chinò di nuovo la testa, sperando di nascondere sia il sorriso divertito che non era riuscito a trattere sia il probabile sguardo terrorizzato: - Gakupo tende spesso ad esagerare. -
"Su entrambi i lati."
- Ma spero di essere all'altezza delle sue parole più lusinghiere. -
- Sensei wa oshaberi desu... -
Rialzò la testa di scatto, il cuore rimbombò nelle orecchie in modo sinistro: Len aveva parlato di nuovo, un sussurro allegro, nascosto dietro ad una mano, ma perfettamente udibile.
- Spero tu non abbia detto nulla di sconveniente. - il tono della madre si era fatto più duro.
- Iya, okaasama. - Len abbassò la mano, rivelando un sorriso composto e innocente - ma gli occhi erano divertiti.
Per tutta la risposta, la donna guardò Gakupo, ma Kyte preferì rimanere ad osservare la più piccola: uno spettacolo decisamente migliore di una signora assonnata e il suo amico.
Incontrò gli occhi azzurri di Len: forse si era accorta di come la stesse fissando in maniera anche troppo insistente.
Forse avrebbe dovuto calmarsi.
"Evita di atteggiarti a maniaco..." trasse un profondo respiro, facendosi violenza e staccando lo sguardo da quello - incuriosito? - di lei: "O non ce la farai a starle vicino per sei mes-"
Era spacciato.
- Temo sia ora di andare. - ancora una volta, la voce di Gakupo lo distrasse, ma gli diede anche una scusa per non seguire quella voce interiore che continuava a dirgli di tornare a guardare Lady Len Mirror.

- Perché non mi hai detto che era così bella? -
Gakupo si voltò con una certa flemma, come se avesse tutto il tempo del mondo e non fosse a meno di due metri dalla carrozza su cui sarebbe dovuto ripartire di lì a pochi minuti.
- Andare in giro a dire che la mia giovane signora è di così rara bellezza sarebbe come offrirla in pasto a malintenzionati. E io ho sempre avuto il compito di proteggerla. -
Kyte portò le mani ai fianchi, una punta di irritazione nella voce: - Perché non l'hai detto a me? -
- Sei ancora stordito, noto. - la tranquillità di Gakupo non fu minimamente intaccata: - Ho detto proprio in quest'istante che ho sempre avuto il compito di proteggerla. -
A Kyte ci volle un istante per capire cosa l'altro stesse sottointendendo.
Alzò gli occhi al cielo, esasperato: - Ti ho mai detto che tu che fai dell'ironia è disturbant- aspetta... - tornò a guardarlo: - ... stordito? -
- Dalla visione della signorina. - Gakupo gli si avvicinò, quasi fino ad azzerare la distanza tra loro. Kyte fece istintivamente un passo indietro, gli occhi di colpo glaciali dell'altro piantati nei suoi.
- La maggior difficoltà nel trovare un mio sostituto era il poter trovare qualcuno di davvero fidato. Qualcuno a cui potessero lasciare Lady Ren senza bisogno di sorvegliarlo, qualcuno che potesse proteggerla e che non necessitasse di proteggerla soprattutto da lui stesso. -
Kyte trasalì quando sentì qualcosa di freddo premergli contro il collo - qualcosa che sembrava molto l'impugnatura della spada di Gakupo: - Chiunque ti conosca saprebbe che l'unico modo per tenerti tranquillo forse sarebbe cavarti gli occhi, tagliarti le mani e far sì che tu sia impossibilitato ad avere una prole. -
Kyte rabbrividì: "Non è una prospettiva molto invitante..."
- Io ho garantito per te. - disse Gakupo, gelido: - Per quanto sappia dell'inclinazione dei tuoi occhi a staccarsi e a rotolare sotto le gonne delle giovani, so che posso fidarmi di te. -
Forse si sarebbe dovuto sentire onorato, felice di una simile ammissione. E lo sarebbe stato, se non avesse avuto un'arma puntata alla gola.
- Onegai... - l'altro sospirò, la voce si abbassò ancora di più, il tono perse la sua sfumatura fredda per divenire una preghiera: - ... non sconvolgere Lady Ren. E' giovane, la sua mente lo è ancora di più. Non sei una bestia priva di intelletto, Kaito. So che non distruggerai la mia reputazione e l'innocenza della signorina solo per i tuoi capricci. Non ne saresti in grado. -
Kyte distolse lo sguardo, una sensazione sgradevole all'altezza del petto sembrava strappargli la carne, pezzo per pezzo.
Era una cosa a cui non aveva davvero pensato ma, in quel momento, se ne rese pienamente conto: Gakupo gli stava affidando una delle cose per lui più importanti in assoluto, forse anche più di una; gli stava affidando il suo lavoro, il suo stesso onore, la veridicità della sua parola.
"Distruggere tutto per un capriccio..." sospirò.
Ed evitò di fargli notare che tutta quella faccenda era stata una sua imposizione.
Scosse la testa, per scacciare l'idea dalla mente: "Se anche non fosse stato lui ad impormi di guardare ma non toccare la signorina Mirror, se da questo dipendesse comunque il suo onore, sarebbe assurdo distruggere ogni cosa solo per un piacere passeggero.".
- Io... - tornò a guardare l'altro, i pugni serrati gli mandarono fitte lungo le mani, i polsi: - ... non farò niente che lei non desideri. Ti do la mia parola. -.
L'espressione di Gakupo si ammorbidì, un accenno di sorriso, la sensazione di freddo scomparve dal suo collo.
Quando lo vide risistemarsi la spada al fianco, Kyte intuì sagacemente che, sì, doveva essere stata l'impugnatura della sua spada.
- Bene. - esordì Gakupo, la voce di nuovo pacata: - Qualora scoprissi che hai compromesso la signorina e rovinato per sempre la mia reputazione, mi premurerò io stesso di usare questa katana... - diede un leggero colpo all'impugnatura: - ... per cavarti gli occhi, tagliarti le mani e far sì che tu sia impossibilitato ad avere una prole. -
- Eh? - Kyte si sentì gelare dall'interno.
- In aggiunta, credo ti imporrei di praticare un rituale della mia terra chiamato harakiri. Ma forse tu lo conosci come seppuku. -
- ... -
- E mi premurerò di far sì che tu non abbia alcun kaishakunin. -
Il sangue scorreva nelle vene come ghiaccio liquefatto, gelandolo completamente, facendolo rabbrividire per il freddo.
Gli sfuggì una risata quasi isterica, sventolò una mano, senza smettere di ridere: - Ah, Gakupo! Sei proprio preso dal fare ironia, eh? Con quell'aria calma, poi, sembra quasi che tu stia dicendo sul serio! -
Silenzio.
- ... perché tu non stai dicendo sul serio, vero...? -
Silenzio.
- ... vero...? -
Silenzio.
- ... prenderò il tuo silenzio per un sì. -
- Signore, la carrozza è pronta. -
Kyte guardò il servitore, ricordandosi di colpo dell'esistenza di altre persone: "Tempismo perfetto.".
- Gakupo-sensei! -
"... tempismo dannatamente perfetto."
Fece qualche passo per guardare oltre la carrozza, verso l'ingresso dell'edificio. In un vorticare di stoffa blu scuro, piuttosto veloce per il quantitativo di strati di sottogonne che dovevano esserci lì sotto, Len scese le scale e, un istante dopo, le sue braccia erano attorno alla vita di Gakupo.
Kyte trasalì, colto alla sprovvista: "Ma che-"
- Non mi avete salutata per bene! - protestò Len, la voce lamentevole palesemente giocosa: - Partite per sei mesi o cercate di scappare? -
Con delicatezza, Gakupo prese i polsi della più piccola e la allontanò, mettendo diversa distanza tra di loro: - Nessuna fuga, oujo-sama. Mi auguro che, al mio ritorno, abbiate dimenticato comportamenti tanto indecenti. -.
Per tutta risposta, Len portò una mano dietro la schiena, lasciando che l'altra coprisse il suo ridacchiare.
"E' molto... espansiva."
Non era spacciato.
Era destinato a risorgere appositamente per essere spacciato di nuovo.
E la seconda volta sarebbe morto per vie molto dolorose.
- Kaito. - incontrò lo sguardo chiaro di Gakupo, stranamente tranquillo: - Non metterti nei guai. -.
Kyte annuì, cercando di sembrare convinto.
Ma lo era poco. Decisamente poco.
Quella sgradevole sensazione tornò a dilaniargli il petto, con zanne che ustionavano, che non lo facevano sanguinare solo perché quel calore atroce cauterizzava all'istante le ferite.
Quando la carrozza di Gakupo fu ormai oltre la linea dell'orizzonte, Kyte comprese di essere definitivamente condannato.
- Siamo rimasti solo noi due! -
La voce di Len era tragicamente trillante: non sarebbe stato in grado di ignorarla neppure volendo.
- Ci sono anche i vostri servitori, signorina. - Kyte non seppe chi ringraziare per il tono pacato con cui riuscì a parlare: - E vostra madre vi attende in casa. -
- Cercavo di essere poetica! -
Kyte non riuscì a non voltarsi verso di lei, perplesso: - Prego? -
Len piegò appena la testa di lato, le ciocche bionde sfiorarono la curva del collo avvolta nella stoffa blu: - Nei libri, alle partenze, qualcuno dice sempre una frase poetica. E' per dare la giusta atmosfera! -
Kyte sbattè le palpebre, incapace di rispondere.
- ... forse... - osò dire: - ... dovreste pronunciarla con un tono più basso. -
Gli occhi azzurri della ragazza si sgranarono, le labbra si schiusero appena: - Forse avete ragione. - una mano diafana andò a coprire la bocca, con suo disappunto: - Lo terrò a mente, per la prossima partenza! -.
"Non ce la farò mai."
- Signorina... - una domestica alquanto matura si era fatta avanti, chinando la testa prima a Len poi a lui: - E' probabile che il signor Sheeawn debba sistemarsi. -.
"Ah, giusto."
Da quel momento, lui aveva una camera in quella casa. Una camera nella stessa casa in cui anche Len aveva la propria.
- Vero! - trillò la ragazza, Kyte la guardò proprio quando lei si voltò verso di lui, gli occhi azzurri che brillavano: - Lasciate che vi mostri la casa, signor Sheeawn! -
Fece appena in tempo a vedere i nastri neri del suo fiocco, prima che Len quasi si lanciasse sulle scale e le salisse come se neppure toccasse terra.
"Come diamine fa...?" si chiese Kyte, avanzando piano, incerto, un gradino per volta, con molta calma: "Vola...?"
- Siete stanco, signor Sheeawn? - la voce di Len, dalla cima delle scale. E Len, in cima alle scale, che lo guardava, un po' preoccupata, un po' divertita.
"Non ce la farò mai.".

Andando più a fondo nella casa, Kyte poté constatare come i corridoi fossero tutti perfettamente identici, con lo stesso preciso numero di porte che si aprivano sul medesimo lato.
Non c'era neppure una macchia sul pavimento o sulle pareti, una tenda più corta o più lunga, un vetro incrinato o opaco, anche solo una candela più consumata di un'altra, una qualsiasi cosa che potesse distinguere le varie zone dell'edificio.
La noia per il paesaggio monotono, man mano che se ne rendeva pienamente conto, era andata trasformandosi in inquietudine: la villa dei duchi di Mirror era un labirinto. Non perché fosse intricata, ma perché era impossibile capire dove ci si trovasse.
Si era chiesto se tutto quello fosse voluto.
- Quella porta là in fondo conduce alle cucine, questa a sinistra al giardino interno, quella a destra porta sulla strada che conduce alle stalle. State attento quando salite le scale, a volte le puliscono anche fin troppo bene! -
Come se non bastasse, non era riuscito a curarsi di dove stesse andando, causa fonte di distrazione vestita di blu che gli camminava pochi passi avanti. Da dietro, aveva notato come il nastro nero sulla sua testa fosse lungo almeno fino alle ginocchia e che, sì, non doveva avere i capelli eccessivamente lunghi: era probabile che, una volta sciolti, le sfiorassero quel poco di seno che aveva.
Lo aveva trovato bizzarro: tutte le nobildonne che aveva conosciuto erano orgogliose dei loro capelli lunghissimi - ricordava bene di una giovane contessa dai capelli lunghi fino alle caviglie.
- E questa... - Len si fermò, portandolo istintivamente a bloccarsi a sua volta: - ... credo sia la vostra stanza. -
Kyte si sforzò di guardare alla sua sinistra: proprio in quell'istante, un domestico - che gli sembrava tanto il maggiordomo di prima - aprì la porta bianca più vicina, rivelandone l'interno.
E, sì, a giudicare dai suoi bagagli, quella doveva essere la sua stanza.
Che, tra pareti, pavimento, soffitto, mobilia e lenzuola, era di un originalissimo misto di bianco e grigio chiaro, una vera innovazione per quella casa.
Sentì a malapena la voce del maggiordomo dirgli qualcosa; forse era una cosa di vitale importanza senza la quale non sarebbe sopravvissuto, ma Len aveva scelto proprio quell'istante per avvicinarsi alle sue cose, piegando la testa prima da un lato, poi dall'altro, come se le stesse ispezionando.
Non che ci fosse molto da vedere: due grosse valigie scure chiuse e una spada riposta nel suo fodero bianco. Nulla di eclatante o degno di eccessiva attenzione.
- L'avete mai usata? -
- Prego? -
Era piuttosto sicuro che Len non avesse esplicitato alcun soggetto. Se avesse parlato, se ne sarebbe accorto.
La ragazza si voltò, potè vedere una luce di curiosità nei suoi occhi azzurri: - La vostra spada. -
"Ah..." Kyte deglutì.
La sua spada, certo.
"Quella di ferro, Kyte, quella di ferro."
- No. - "Che sto dicendo?" - O meglio, sì. - si corresse, sforzando un sorriso: - Ma non sono mai stato un soldato, se è questo che chiedete. -
Fu Len a sorridere per lui, per poi tornare a voltarsi verso i suoi bagagli - o, più probabilmente, verso la spada: - Mi piacerebbe impugnarne una. -
"Quella di ferro, Kyte, quella di ferro."
- Ma i miei genitori mi hanno sempre tenuta lontana da cose di questo tipo. -
- Posso comprenderli. - incredibile come la sua voce fosse così tranquilla. Forse era arrivato ad un punto in cui la sua mente si era del tutto distaccata dal suo corpo: - Potreste farvi male. -
Len sospirò, il suo tono si era fatto dispiaciuto: - Mi piacerebbe vederla sguainata. -
"Quella di ferro, Kyte, quella di ferro."
Di nuovo quegli occhi azzurri: - Potreste, qualche volta? Non vorrete tenerla sempre nel fodero, in mia presenza! -
"Dannazione."
- Temo dovrò, signorina Mirror. - chinò appena la testa, più per interrompere il contatto visivo ed evitarsi scene ridicole d'innanzi al maggiordomo e agli altri servitori presenti: - Se quella spada fosse sguainata, significherebbe che c'è un problema. -
Len non rispose.
Quando osò tornare a guardarla, Kyte si ritrovò d'innanzi quell'assurdo broncio che le aveva visto poco prima, in risposta alla madre.
Non riuscì a capire quale forza sovraumana lo stesse tenendo fermo all'ingresso della sua stessa stanza, evitandogli qualsiasi azione di cui si sarebbe pentito - ed era piuttosto sicuro che tra le cose strane che faceva Gakupo non ci fosse alcun tipo di controllo a distanza. Piuttosto sicuro. Lo era, sì.
Quando il suo sguardo cadde su una serie di merletti neri sovrapposti su una stoffa blu, Kyte si rese conto di come Len si fosse avvicinata, l'espressione tornata allegra: - Chiamatemi Len! - esclamò lei: - "Signorina Mirror" è troppo lungo da dire, non trovate? -
- Ehm... - si schiarì la voce, sperando che il suo essere praticamente paralizzato lo aiutasse: - Come desiderate, signorina... Len. -
La vide giungere i palmi diafani davanti al petto, il sorriso immutato: - Quindi posso chiamarvi "signor Kyte"? O forse dovrei dire "Kyte-sensei"? O magari... - parve pensarci un istante: - ... "Kaito-sensei"? -
Nessuno di quegli appellativi gli si sarebbe addetto anche solo per sbaglio. Persino pronunciati da Len lo facevano rabbrividire.
E il fatto che fosse Len stessa a farlo rabbrividire, seppur per motivi nettamente opposti, era un dettaglio insignificante.
- Credo che la prima possa andare. - quasi sospirò, i pugni dietro la schiena talmente serrati da sentire dolore. Ma doveva pur concentrarsi su altro.
- Allora io sarò "signorina Len" e voi "signor Kyte"! -
- Vi ringrazio per il riassunto, signorina Len. E' stato molto utile. -
Dannata ironia di Gakupo. L'aveva contagiato. Sarebbe morto!
Oh, beh, tanto era spacciato lo stesso.
- Len. - ora, la duchessa di Mirror non gli aveva detto alcunché, quando l'aveva vista; in quel momento, tuttavia, la sua mistica apparizione alle sue spalle poteva benissimo essere un dono di pietà da parte di tutto ciò che di ultraterreno esistesse: - Direi che puoi lasciare in pace il signor Sheeawn. Vai nella stanza dove studiavi con il signor Kamui e aspettalo lì. -
"... quindi vogliono davvero che inizi proprio subito subito, eh...?"
- Sì, madre. - la voce della ragazza era ancora alta, ma la sua espressione era decisamente meno allegra, l'avrebbe detta "più composta".
Non che ciò la rendesse meno bella.
Probabilmente, Lady Len Mirror sarebbe stata bellissima anche dopo essere riemersa da una palude, con i capelli biondi schiacciati lungo la fronte e le guance e pieni di rametti secchi e piante marce e con i vestiti scuri e pesanti impregnati d'acqua stagnante.
- Con permesso. -
Quindi Len portava le calze nere. E anche le sue scarpette erano nere. Intonate al nastro e al merletto della gonna, avrebbe dovuto sospettarlo.
A volte, Kyte sperava che qualche fanciulla esagerasse nella riverenza di saluto e mostrasse più del dovuto - magari non il pizzo della biancheria, sarebbero andate bene anche solo le ginocchia; sfortunatamente, non era mai successo niente del genere - tanto meno in quel momento.
Non fece neppure in tempo a chinare la testa di rimando che Len era già in fondo al corridoio. Dovette ammettere che, almeno in quel caso, forse non era stato per "merito" della velocità a cui la ragazza sembrava saper andare.
- Vi chiedo di perdonare mia figlia. - guardò la duchessa di Mirror, che scuoteva la testa con fare sconsolato: - Purtroppo, quando le viene data la parola, tende ad assumere i comportamenti di una bambina svergognata. Vi chiedo di avere pazienza e di sopportare questo suo modo di fare, nella speranza che si sbrighi a maturare come si confà ad una donna della sua età. -
Kyte si morse la lingua prima di commentare qualcosa come: - Personalmente, la trovo abbastanza matura. -. Aveva la vaga impressione che la signora non stesse parlando della stessa cosa.
Piegò un braccio sotto il petto e chinò la testa: - Non mi ha dato alcun problema, signora. -.
Non stavano parlando della stessa cosa. Ma non era necessario che qualcuno all'infuori di lui lo sapesse.
- La vostra pazienza è ammirevole. - la voce della signora si era fatta piuttosto sbrigativa, una nota di vita nel suo parlare assonnato: - Vorrei iniziaste le lezioni oggi stesso. L'ultima lezione del signor Kamui è stata cinque giorni fa e gradirei che Len non perdesse altro tempo. -
- Certamente, signora. -
- Ottimo. Allora vi pregherei di raggiungere mia figlia appena possibile. Chiamate pure un servitore, qualora non riusciate ad orientarvi nella casa. -
- Sì, signora. -
Da una parte, Kyte sentì di apprezzare la duchessa di Mirror: non era una donna che faceva pesare la propria presenza - affatto - il che faceva sì che non tendesse a trattenersi con una persona più del dovuto; dall'altra parte, Kyte capì che, con la signora che se ne andava, si avvicinava il momento di tornare con la signorina.
E lui si trovava in quella casa da meno di due ore.
"Non ce la farò mai.".

Si era preso un'ora abbondante per "prepararsi" alla lezione con la signorina Mirror.
O meglio, per "prepararsi" a reincontrare la signorina Mirror.
Nella sua mente si erano susseguite apocalittiche visioni di loro due da soli in una stanza isolata dal resto della casa, immagini che lo avevano fatto sudare freddo: non avrebbe approfittato dell'ingenua signorina, questo no, assolutamente, ma rimanere da solo con lei sarebbe stato doloroso.
Quando entrò nella famigerata stanza, gli parve che qualcuno gli avesse improvvisamente tolto dalla schiena qualcosa talmente pesante da poter spezzare il più solido dei tavoli: erano presenti due servitori, un uomo e una donna, seduti su delle poltrone in disparte.
"Non lasciano la loro figlia da sola in mano ad uno sconosciuto!" espirò, sentendo la tensione svanire tanto rapida da farlo tremare: "Grazie! Grazie!".
Con qualcun altro presente, sarebbe stato nettamente più facile controllarsi o concentrarsi su altro. Anche solo per fare una buona impressione come insegnante.
Il suo sguardo si spostò poi a ciò che aveva preferito evitare: Len.
Come previsto, lo stava aspettando.
L'aveva pensata seduta composta, davanti ad un tavolino pieno di libri aperti e fogli scritti. Per esserci, i libri e i fogli c'erano: i libri erano chiusi ed impilati, i fogli sembravano essere stati lanciati sul tavolino, senza curarsi di dove sarebbero potuti finire; la signorina, invece, era per terra.
Distesa a pancia in giù sul tappeto, stretta ad un pupazzo nero grande almeno la metà di lei, un penna in mano e un libro davanti, per la precisione.
Quando Kyte osò avvicinarsi, perplesso, notò che il libro era a rovescio e che Len stava unendo tutti i puntini sulle i; a giudicare dal pastrocchio sulla pagina accanto, era probabile che la sua intenzione fosse ridurre in quello stato tutto il libro.
Sperò ardentemente che non si trattasse del libro di giapponese.
Diede un colpo di tosse, ottenendo di far spostare l'attenzione della signorina dal libro pasticciato a lui. Non appena lo vide, lei sorrise e si rimise in piedi, pupazzo ancora tra le braccia, tranquilla come se fosse la cosa più normale del mondo unire i puntini sulle i su un libro tenuto al contrario sdraiati sul tappeto.
- La stanza è di vostro gradimento? -
Kyte annuì meccanicamente, più per cortesia che per reale interesse verso la stanza - su cui aveva comunque tentato di concentrarsi, invano.
- Vi ringrazio per l'interessamento. Vogliamo cominciare? -
- Hai! -
Trasse un profondo respiro, cercando di non far caso alle occhiate indagatorie dei due servitori - era comprensibile che lo stessero studiando, anzi, era una benedizione.
Nel notare come Len stesse sistemando il pupazzo su un'altra poltroncina, Kyte osservò meglio ciò che aveva davanti: sedia spostata per metà, tavolino con torri librarie, caos cartaceo e una lavagnetta nera a circa un metro e mezzo di distanza. Non riuscì a capire come fece ad individuare il gessetto tra due fogli, ma meglio così.
"Adesso devo solo ricordarmi come Gakupo l'ha insegnato a me."
Ecco, pensare a Gakupo - e al fatto che fosse armato - era un ottimo metodo per calmarsi.
Raggiunse la lavagnetta quando Len si sedette. Inspirò e si voltò verso di lei: - Prima di cominciare... - esordì, con quella calma di provenienza misteriosa: - ... posso farvi una domanda? -
La signorina sbattè le palpebre, stupita, per poi annuire.
- Il giapponese si parla unicamente in Giappone, un paese molto distante da qui. Non è neppure una lingua europea o delle colonie. Né ha a che fare con la Cina. Non c'è alcun motivo valido perché qualcuno, tanto più se si tratta di una fanciulla, debba imparare questa lingua. -
Era un dubbio che aveva fin da quando Gakupo gli aveva detto di fare l'insegnante di giapponese presso una famiglia aristocratica: era una lingua rarissima, poco usata, i mercanti preferivano la Cina al Giappone e, soprattutto, perché una ragazza avrebbe dovuto impararla?
Len ridacchiò, nascondendo le labbra dietro una mano: - Abbiamo i nostri motivi, signor Kyte. Non stiate a pensarci. -.
"... risposta molto esaustiva.".
- Come desiderate. - disse, poco convinto: - Perdonate la mia indiscrezione. E' che ho sempre visto fanciulle imparare il francese, piuttosto che lingue tanto rare... -
La mano rimase all'altezza della bocca, lo sguardo azzurro rivelò la risata maltrattenuta: - Ma io conosco il francese, signor Kyte! -
- Davvero? - Gakupo gli aveva detto che la signorina non aveva ovviamente più alcun precettore, ma conoscere un'altra lingua a soli quindici anni tanto alla perfezione...
- Sì! Qualche parola. -
- ... - cominciava a capire: - ... qualche? -
- ... - la mano tornò sotto il tavolo, lo sguardo azzurro si spostò altrove: - ... ne conosco di più in giapponese. -.
"Dunque la signorina sa il francese come io so il russo." e l'unica parola russa di sua conoscenza era "vodka".
- Suvvia... - il sorriso di Len era letteralmente angelico, complici anche i capelli biondi, gli occhi azzurri e la pelle candida: - So suonare il pianoforte, so cantare, so tessere, conosco la storia e la letteratura del Regno Unito, so dove si trovano gli Stati europei e le Americhe e so anche tener di conto... -
- Davvero? -
- Soltanto finché si rimane alle due cifre. -
- ... comprendo. -
- Quindi, non credo che qualcuno possa biasimarmi se pecco di conoscenze di français. Soprattutto considerando che una seconda lingua la sto studiando comunque. -
La cosa continuava a sembrargli assurda: perché preferire che la propria - unica - figlia imparasse una lingua praticamente inutilizzata piuttosto che una raffinata e ben più diffusa?
"Vogliono forse sfoggiarla ulteriormente?" come se ce ne fosse bisogno.
Di fronte all'immutato candore di Len, decise di arrendersi - per il momento.
- Avete ragione, signorina. - chinò il capo, accennando ad un sorriso: - Direi quindi di iniziare. Ditemi, con gli alfabeti... - forse era l'approccio più facile.
Forse: - ... a che livello siete? -
Len parve pensarci un istante: - Conosco hiragana e katakana e Gakupo-sensei ha iniziato ad insegnarmi i kanji. -
Sul suo volto delicato calò un'ombra di preoccupazione: - Mi ha detto che sono molti... è vero? -
"Molti..."
- Sono più di duemila, signorina. - meglio essere diretti per evitarle troppe sofferenze.
Non appena pronunciò quel numero, vide Len impallidire di colpo, gli occhi farsi sgranati, la bocca socchiudersi appena.
Un istante dopo, con uno schianto, la fanciulla si lasciò precipitare sul tavolo - e doveva anche essersi fatta male, a giudicare dal botto.
Lentamente, le mani emersero da sotto il tavolo, andando a posarsi, piano, sopra la testa.
- Non ce la farò mai. - piagnucolò.
Kyte alzò gli occhi al soffitto, capendo che stupirsi sarebbe stato inutile: "Voi non ce la farete mai, eh...?"






Note:
* Parole/frasi in giapponese o, almeno, quello che intendevo far dire
- "Hai": Sì
- "Oujo-sama": Signorina
- "Daijoubu": Va tutto bene
- "Sensei wa oshaberi desu": Il maestro è un chiacchierone
- "Iya, okaasama": No, madre
- "Onegai": Ti prego
* Harakiri/Seppuku è un cruento rituale di suicidio dei samurai. Nonostante si usino due termini, si tratta della stessa cosa - solo, "harakiri" è comune del linguaggio parlato, mentre "seppuku" del linguaggio scritto.
Il kaishakunin, senza scendere nel dettaglio, è colui che dà il "colpo di grazia" al suicida per far sì che sul suo volto non rimanga l'espressione di dolore - cosa che, in caso contrario, porterebbe ad una morte disonorevole.
* Tournure e crinolina erano due "sottogonne rigide" che le donne del XIX secolo mettevano, appunto, sotto la gonna, per darle una determinata forma.
Guardando le immagini, vi lascio immaginare il perché di tanta felicità (?) nel vedere una dama portare la tournure piuttosto che la crinolina.



C'era una volta, in quel di fine Novembre, tal Soe Mame, che si ritrovò, senza motivo alcuno, ad avere Haitoku no kioku - The lost memory (la cover di Pokota, Clear e 96Neko) in testa, sebbene non la sentisse da secoli.
Così, spinta da ciò (?), decise di fare quella cosa che si era sempre ripromessa di fare ma non aveva mai fatto: una maratona di tutte le canzoni dei VanaN'Ice, sia quelle dotate di video che quelle senza.
Così, con Haitoku no kioku nella mente, con il video di Haitoku no kioku negli occhi, con il significato di Haitoku no kioku nel cuore (?), le venne una storia su Lovelessxxx.
Che in realtà non ha poi tutto questo granché di Lovelessxxx, abbigliamento a parte, quindi potrei benissimo dire che è un po' (poco) (poco) (poco) Lovelessxxx e un po' (tanto) qualcos'altro.
Quindi, sì, è un po' Lovelessxxx, ma senza nekomimi veri e propri e senza meches. E senza una buona fetta di senso. E' vagamentissimamente ispirata, ecco. Però non c'è solo quella, ri-ecco. E'-

Salve! ^^ *spinge via introduzione inutile*
Sì, mi sono ritrovata a scrivere una fanfiction sui BanagelaN'Zana - o BanamelaN'ato, più corretto. Sì, in giappoinglese modificato viene quella cosa fAiga che è "VanaN'Ice", in italiano vengono quelle cose belle lì.
Come detto sopra, tutto iniziò con una bella cover di Haitoku no kioku - The lost memory, unita ad una lunga maratona di canzoni. Il risultato è ciò: quella che sarebbe dovuta essere un'innocente (?) minilong di sei capitoli è diventata...
... non è più una minilong, ecco. Un capitolo si è diviso in due, un altro in tre, e- *Soe è una grafomane di questa cippa.*

Giusto perché i Kagamine nell'800 non mi erano bastati, mi sono ritrovata a fare ricerche su abbigliamentousicostumicomportamento dell'epoca vittoriana.
Tutto è ripreso principalmente da due siti: Georgiana's Garden (mi sono quasi commossa nel trovare un sito tanto fornito in italiano) e Abiti Antichi.
E' tuttavia probabilissimo che abbia preso qualche brutale cantonata - non esitate a farmelo notare, nel caso! OAO

Qualche commento random.
"Sheeawn" dovrebbe essere, almeno nelle mie idee, qualcosa come l'anglicizzazione del cognome "Shion", ma penso si fosse capito. *E invece no.* OAO!
L'"Al" nominato è Big Al. U.U Il suo cognome, Dewsen, è l'anagramma di Sweden, Svezia - questo perché la sua casa di produzione è svedese. *Sì, la fantasia trabocca.*
Non credo, invece, ci sia bisogno di specificare da dove derivi il cognome "Mirror". XD

Perché "precettori"?
- E' per gli occhiali? - mi chiese qualcuno.
No. Colpa delle due Uproar of teacher and girl, alias "L'unico caso in cui riesco a prendere sul serio un Len inquietante".
Le stavo ascoltando nello stesso periodo. Non fatevi domande.
Non fatevele.

Un paio di cose che ci terrei a dire.
La prima riguarda i generi: per quanto questo capitolo-introduzione sia idiota, "Demenziale" non è l'unico genere segnato. Quindi, fateci attenzione.
E non ho dimenticato nulla, nello specchietto. Davvero.
La seconda...
... questa storia necessitava del rating r. Necessitava disperatamente del rating r. Ma io e il rating r andiamo tanto d'accordo solo quando non si tratta di scriverlo. Quindi niente innalzamento del rating a rosso, mi dispiace. U_U"

Poi.
Avrei voluto postare solo una volta conclusa la stesura di tutti i capitoli. Tuttavia, è già Febbraio, un paio di giorni fa, Pokota, Clear e 96Neko se ne sono usciti con la cover di Lovelessxxx *... e questo cosa c'entra...?* e mi è temporaneamente imploso il pc. *Ma questa è una cosa che non importa a nessuno.*
Insomma, era un segno. *No, Soe, sei solo tu che ciarli di cose senza senso, più del solito.*
Però sono al penultimo capitolo. Sono perdonata...? *No.* Ugh.

Tra l'altro, ho notato che le fanfiction su questi tre sono terribilmente poche. E questo non va affatto bene. Ho notato che ne è stata da poco postata una e so che c'è una "serie" in corso, e questo è bene. Ma rimangono poche. E questo non è bene. No.

Comunque, il POV di Kaito nuoce gravemente alla salute mentale. *Ci teneva a dirlo.*
(E, una volta tanto, non lo dipingo come un demone. *...*)

Spero che questo capitolo-introduzione vi sia stato di gradimento. ^^
Se avete consigli da darmi o critiche da muovermi, dite pure. ^^

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Capitolo 2
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Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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- Vi prego... - visti da vicino, così lucidi, quegli occhi azzurri erano ancora più belli: - ... fate piano. -
- Non temete. - prese quella mano candida stretta al petto, portandola al proprio viso. Era incredibilmente calda. Non se ne stupì affatto.
Anzi, la cosa gli diede una certa soddisfazione. Un'altra scarica lo scosse, andò a mescolarsi a quella sensazione assurda che gli stava annebbiando la mente, un insieme indefinito di trionfo, sollievo, felicità, eccitazione, aspettativa, nessuna delle quali delineata, solo gettate a caso e fusesi le une con le altre.
Len voltò il viso di lato, le guance imporporate, il respiro forzatamente controllato.
- Ho sentito parlare di voi... - sussurrò lei, la voce spezzata dall'imbarazzo: - Le vostre doti non sono un mistero. - la vide avvampare, il braccio libero andò a coprire il seno nudo, gli occhi si socchiusero tanto da sembrare chiudersi.
Era meravigliosamente adorabile.
- Ne sono lusingato. -
Non aveva esattamente idea di dove la signorina Len avesse sentito tali - fondatissime - voci - dubitava che qualche sua antica fiamma fosse andata a narrarle chissà quali prodezze; ma, del resto, non aveva idea neppure di cosa ci facessero nella stanza tutte quelle bolle di sapone fluttuanti, quindi rinunciò a pensare.
Pensare, che cosa ridicola.
Finalmente, dopo tanto soffrire, aveva Len nuda sotto di sé, non aveva bisogno di riflettere o perdere altro tempo.
L'unico pensiero che poteva osare manifestarsi nella sua mente era il fare piano.
Un altro brivido piacevole.
Del resto, sarebbe stato un vero peccato lasciare intatto un fiore tanto splendido, permettendo che avvizzisse in una landa desolata, senza coglierlo.
Ma era un fiore che non era mai stato toccato, bisognava essere delicati.
... perché stava facendo metafore simili in un momento del genere?
Forse era colpa dei petali di rosa rossi che stavano piovendo dal soffitto.
Non aveva idea del perché stessero piovendo petali di rosa rossi dal soffitto e, in effetti, la cosa era un po' strana. Era piuttosto sicuro che, in quella camera, non ci fosse nessun altro oltre loro due, quindi neanche addetti al lancio di petali.
A meno che...
"... dannazione.".

Kyte riaprì gli occhi.
Le tende della finestra erano aperte abbastanza da far entrare la luce del sole, dritta sul suo viso - e anche discretamente fastidiosa.
Kyte guardò il sole.
Il sole guardò Kyte.
Kyte guardò il sole.
Il sole guardò Kyte.
Kyte chiuse gli occhi perché il sole glieli stava friggendo.
Trasse un profondo respiro, riprese contatto con ogni parte - dolorante - del suo corpo. Una, in particolare, gli faceva più male delle altre.
Strinse i denti e si schiaffò le mani sul viso, un ringhio di frustrazione gli sfuggì dalle labbra.
Stava impazzendo.
Si trovava in quella casa da un mese e mezzo e già dalla terza notte aveva iniziato ad avere incubi: ogni volta era ad un passo dal fare sua Len - bellissima, timida e ingenua -, ma finiva sempre per svegliarsi nel momento più importante, con il corpo che gli doleva.
Fosse riuscito a farla sua anche solo una volta sarebbe andato benissimo. Forse, così, la sua sofferenza si sarebbe alleviata almeno un po'.
E invece no.
Di notte, la signorina Len gli si concedeva, ma lui, puntualmente, ne veniva allontanato; di giorno, la signorina Len passeggiava davanti a lui o al suo fianco, dolce e ignara di tutto, intoccabile.
Il fatto di dover stare a stretto contatto con lei praticamente tutto il giorno era una delle cose peggiori: per quanto potesse godere della sua presenza, della sua voce, del suo aspetto, non poteva goderne appieno, né avrebbe potuto osare sperarlo, in verità.
Forse, una parte di lui aveva accettato il fatto che la signorina non potesse essere sfiorata - figurarsi unirsi a lei - ed era per questo che gli impediva di rendere più o meno concreto il suo desiderio anche solo in sogno.
Si passò una mano tra i capelli, cercando di regolarizzare il respiro troppo veloce: un'altra giornata frustrante. Bella, ma frustrante.
Non avrebbe mai pensato di diventare un simile masochista.
Se non altro, a volte aveva modo di distogliere la mente dall'orlo della gonna della signorina: non si trattava tanto del concentrarsi sugli ideogrammi o sulla cultura di un paese dall'altra parte del mondo, quanto di eventuali uscite, soprattutto in paese.
Kyte aveva finalmente capito il vero ruolo che avrebbe dovuto ricoprire: Len, ovviamente, non andava in giro da sola con lui - solo il pensiero lo faceva rabbrividire, per più di un motivo -, ma era accompagnata da altre servitrici più grandi; lui rimaneva qualche passo indietro, la spada al fianco, a controllare che non le succedesse niente.
D'accordo, ai suoi occhi, la signorina era la fanciulla più bella che avesse mai visto, dai modi anche troppo particolari e l'aspetto di un angelo, o di un qualcosa che non apparteneva a quel mondo; tuttavia, credeva fosse il suo sguardo ad essere perso tra quei capelli biondi e quegli occhi azzurri, non che la signorina fosse unanimamente considerata una creatura di bellezza e grazia ultraterrena.
Si era sorpreso nel notare più di un uomo, di un giovane, voltarsi al suo passaggio, fosse per un'occhiata rapida o per uno sguardo più intenso. Non che tutta la popolazione maschile si fermasse ad ammirare Len, ma in un mese e mezzo aveva contato sette ragazzi e tre uomini. La cosa lo irritava.
Finché si trattava di semplici occhiate, forse anche incuriosite, Kyte fingeva di non vedere, continuava a camminare come se niente fosse, qualche passo dietro la signorina e le altre donne; quando, però, un'occhiata si faceva troppo ardita, accelerava il passo e si portava più vicino, la mano poggiata sull'impugnatura della spada, l'irritazione annidata all'altezza del petto, contenuta a stento.
Poco importava che anche lui sperasse in un qualche colpo di vento troppo forte o in improbabili strappi di vestiario. O che una delle giarrettiere cedesse e crollasse al suolo portandosi dietro tutta la calza - gli era venuto il sospetto che Len usasse i reggicalze, dato che non l'aveva mai vista perdere una sola calza.
Era successo più volte ad altre gentildame, in compenso. Ma mai a Len. Ovviamente.
E lui sarebbe dovuto essere la sua guardia del corpo.
C'era da dire che non aveva intenzione di farle del male: non avrebbe mai osato forzare Len, violarla - solo il pensiero lo disgustava -, ma non riusciva a smettere di pensare a ciò a cui stava pensando fin dal momento in cui l'aveva vista per la prima volta.
E faceva male. Non solo mentalmente. Anzi, forse la mente era la meno sofferente.
Scosse la testa.
A volte invidiava la compostezza e il sangue freddo di Gakupo: in alcuni momenti, pensava ne avesse talmente tanto da potergliene pure regalare un po'.
Quello era uno di quei momenti.

- Se... tsu... ge... tsuka. -
- Setsugekka. -
- Ma si può leggere anche Setsugetsuka. -
- Ma è più corretto Setsugekka. - "Credo."
Vide Len osservare la lavagna, lo sguardo scettico.
Non era sicuro che Len fosse più esperta di lui riguardo l'arte giapponese, ma non era neppure sicuro che stesse dicendo una stupidaggine. Quando Gakupo gliel'aveva spiegato, non si era posto il problema.
- Setsugetsuka ha un suono più carino! - esclamò Len, come se quella fosse una motivazione sensatissima.
- Perché dovete chiamare le cose con il loro nome più difficile? - domandò Kyte, sostituendo all'ultimo momento "impronunciabile" con "difficile".
Len lo guardò negli occhi. Il suo sguardo si era fatto tranquillo, forse un po' incuriosito.
- Perché è più carino. -
Kyte sospirò.
Sperava che una lezione sull'arte giapponese fosse più leggera, ma non aveva messo in conto la possibilità che la signorina si fissasse su una parola impronunciabile.
In compenso, fu felice di essere riuscito a prevedere almeno una cosa: i bordi di uno dei - aveva scoperto tanti - libri da lei martoriati era stato ricoperto di disegnini di fiocchi di neve, lune e mezzelune e fiori di tutti i tipi, tanto per far capire di aver appreso cosa significasse la parola Setsugekka.
Posò il gessetto sul tavolo, notando i pochi minuti rimasti alla lezione, per quella mattina: - Ma, in fondo, perché soffermarsi sulla sola cultura giapponese? - disse, sperando di cambiare argomento più in fretta possibile: - A volte mi viene da pensare che vi serva almeno un'infarinatura di culture degli altri popoli. -
- Voi dite? - fece Len, piegando appena la testa di lato.
Kyte annuì, desiderando che la signorina dimenticasse in fretta la sua esitazione di fronte alla pronuncia di quella parola impronunciabile: - Ho l'ardire di dirlo, sì. -
Ardire. Ardore. Pessima scelta di vocaboli.
- Ad esempio? -
- Ad esempio, potreste apprendere qualcosa sui popoli europei. Sull'Italia, ad esempio. -
- L'Italia? -
- Sì. Ad esempio, qualcosa sul periodo rinascimentale. Magari sui Borgia. Erano persone interessanti, i Borgia. -
Len rise, la mano volò rapida davanti alle labbra.
A volte, Kyte avrebbe voluto che non lo facesse: ridere apertamente doveva renderla ancora più bella.
No, d'accordo, forse era meglio che si coprisse.
- Conosco i Borgia, signor Kyte. - tolse la mano da davanti alle labbra, ancora curvate in un sorriso: - Così come conosco qualcosa della Storia dei paesi europei. Non sono così ignorante, sapete? -
- L'assenza di un altro precettore lo testimonia, signorina. -
Sperava che il tempo a disposizione per la lezione scadesse in fretta.
Dopo un paio di settimane, aveva scoperto che la signora non aveva più sentito il bisogno di farlo controllare dai domestici - che, a quanto pareva, avevano garantito sulla sua effettiva competenza.
Certo, sugli argomenti base era ferrato. Erano altre le cose che sapeva poco o affatto. Ma, del resto, era solo un insegnante provvisorio.
La cosa che più lo scuoteva era il fatto che le ore di lezione fossero ore in cui si trovava da solo con la signorina Len. Non in una stanza isolata dal resto del mondo, ma neppure davanti all'ingresso principale.
Se non altro, la porta veniva lasciata aperta.
Quel rettangolo era l'unica cosa che gli impedisse di fuggire, dare ripetute testate al muro, gettarsi dalla prima finestra disponibile o assaggiare le labbra di Len.
- Voi conoscete la famiglia di Gakupo-sensei? -
- Perché questa domanda? -
Len parve pensarci un istante, lo sguardo fisso nel suo. Poi rispose: - Mi chiedevo se la signorina Megumi fosse la sua unica cugina o se fosse la sua cugina preferita. Stare in mare per sei mesi non deve essere piacevole, per qualcuno che non è un marinaio o un pirata. Quindi la signorina Megumi deve avere un legame particolare con lui. -.
Kyte sbattè le palpebre, confuso: "Che discorso è...?"
- Non conosco tutti i parenti di Gakupo. - spiegò: - Ma conosco Gum- la signorina Megumi, sì. E' una fanciulla onesta e, sì, lei e Gakupo sono molto legati. Tuttavia... voi non fareste lo stesso? -
- Prego? -
- Si tratterebbe pur sempre del matrimonio di una vostra stretta parente. Voi non la raggiungereste anche se fosse lontana? -
Len continuò a guardarlo. Il suo sguardo si era fatto divertito.
- Signor Kyte... - esordì, pacata: - ... ho trentatré cugini, di cui un solo maschio. Vi sembra possibile che io accetti l'invito di ognuno di loro? -
Kyte deglutì, scioccato: - Cos- trentatré? - "E un solo maschio?"
- Credevo lo sapeste. La mia famiglia non è così ignota. -
Sì, sapeva che i rami dei duchi di Dewsen erano tanti. Ma non pensava così tanti.
Né che trentatré su trentaquattro discendenti fossero femmine.
- Per circa metà di loro, io sono una perfetta sconosciuta. - Len alzò le spalle: - Sprecare tempo e fatica per andare al matrimonio di persone mai viste è ridicolo. E il legame di sangue non cambia niente. Per questo mi chiedevo se Gakupo-sensei avesse una famiglia numerosa o se la signorina Megumi fosse la sua unica cugina. Tutto qui. -.
Kyte era ancora stordito. Tuttavia, cominciava pian piano a capire il motivo delle parole della ragazza: le cugine erano talmente tante che dovevano aver perso qualsiasi reale legame affettivo le une con le altre, limitandosi a semplici conoscenze o totale indifferenza.
Era triste, sotto un certo punto di vista.
- Come mai vi è venuto in mente Gakupo? - osò domandare, stupendosi della voce quasi gentile che uscì dalle sue labbra.
- La vostra pronuncia. - Len sorrise: - Ho pensato che il vostro accento inglese è molto forte. Gakupo-sensei, quando mi insegna, parla nella sua lingua madre e, ovviamente, la pronuncia è perfetta. Sarebbe da chiedere a lui se si può dire anche Setsugetsuka! -
"Ugh. Se n'è accorta."
- Potremmo... sì... -
La vide voltarsi verso l'orologio presente nella stanza, per poi tornare a guardarlo: - Che ne dite di fare una passeggiata, dopo pranzo? -
- Come desiderate. Volete andare in paese? -
Len scosse la testa: - Vorrei rimanere qui nei dintorni. -
Sentì un brivido lungo la schiena. Quella frase significava: - Voglio passeggiare in tutta tranquillità senza nessuna delle mie accompagnatrici che mi trascina in quello o in quell'altro posto quando io vorrei andare altrove, senza timore della possibilità di imbattermi in persone poco gradite e senza necessariamente dover pensare a qualcosa! - ossia: - Accompagnatemi in giro, solo voi ed io! -.
- Come desiderate. -.

- Oggi fa veramente caldo, non trovate? -
- Capita, in estate. -
- Ma oggi più del solito. Il sole è davvero forte! - Len si sventolò con il ventaglio, talmente veloce da quasi sparire alla vista: - Pensate che, una volta, per un caldo del genere, mia cugina Miki è addirittura svenuta! Anche se mia cugina Lola dice che è perché aveva stretto il corsetto più del dovuto. Ah, conoscendo mia cugina Miki, è probabile! Corsetto troppo stretto, un caldo simile... era logico che sarebbe svenuta! E' così esile, forse dovrebbe mangiare di più, come dice mia cugina Lola. -
Era bella, la voce di Len. Qualsiasi cosa dicesse, qualsiasi intonazione avesse - di rado era bassa.
Cercava di concentrarsi su quella, sul suono che produceva, lasciando che occupasse del tutto la sua mente, in modo che non lasciasse spazio a pensieri del tipo: "E' talmente vicina che, per poterla toccare, non devo neppure allungare il braccio.".
Quella era una delle poche volte in cui la signorina non indossava il suo nastro nero, quello che sembrava donarle un paio di orecchie da gatto; era quasi strano vederla senza, per quanto fosse splendida e adorabile anche con una fascia rossa dai merletti neri - tanto che sembrava più nera che rossa.
Rosso scuro e merletti neri, i colori del vestito che indossava, l'orlo merlettato della gonna ovviamente scivolava sull'erba, le mani quasi sparivano sotto la stoffa nera delle maniche. Qualche volontà divina - o demoniaca, più appropriato - aveva fatto sì che quel vestito fosse aperto sopra il petto, un quadrato di pelle candida chiuso dai nastri neri sul seno e dal collarino merlettato.
Non che si vedesse qualcosa, anzi. Del resto, era comprensibile che la signorina non fosse a proprio agio nell'esagerare con le scollature quando tutte le altre fanciulle esibivano floride colline e lei una pianura desertica.
- Voi siete mai svenuto per il caldo, signor Kyte? -
- No, signorina. -
"Ma stavo meditando di fingere uno svenimento proprio ora.".
Len si fermò.
Kyte si bloccò, sentendosi improvvisamente gelare, a dispetto di tutto quel caldo: "Non ho pensato ad alta voce, vero?"
- Voi... - la ragazza abbassò il ventaglio, lo sguardo incuriosito: - ... siete sempre così composto, signor Kyte! -
"... ah...?"
- Voi dite? - lasciò trapelare solo un po' della sua sorpresa - o l'avrebbe spaventata, probabilmente. Ma se ne compiacque: riuscire ad apparire composto quando dentro di sé sentiva l'approssimarsi dell'Apocalisse era un'ottima prova di recitazione.
Len annuì: - Guardandovi, non mi sembrate molto una persona seria e composta, sapete? -
"Ah?"
- Perché dite questo? -
- Ho visto le vostre mani. - piegò appena la testa: - Sono callose. Sembrano ruvide. E voi avete detto di non essere mai stato un soldato. Non credo voi siate un contadino o una persona di basso ceto. Non ne avete l'aria, né il vostro linguaggio e modi possono passare per quelli di un popolano. Dunque mi viene da pensare che voi siate... - le labbra sparirono dietro il ventaglio improvvisamente riaperto: - ... una persona a cui non piacciono molto le formalità. -.
Kyte sforzò un sorriso, il sangue congelato nelle vene: - Siete una brava osservatrice, signorina. -
- Affatto. - nei suoi occhi azzurri brillò una luce divertita: - Semplicemente, riconosco le persone come me. - il ventaglio si chiuse, rivelando un sorriso luminoso: - Quindi, se me lo permettete, vorrei chiamarvi soltanto Kyte. Voi potete chiamarmi solo Len. Finché non c'è nessun altro in giro, ovviamente. -.
Rimase bloccato sul posto.
In realtà, neppure lui capiva cosa stesse succedendo: forse la signorina aveva scoperto tutto. Forse aveva intuito che la sua compostezza nascondeva qualcos'altro, qualcosa che riguardava lei in prima persona. Forse si era accorta che, ogni giorno, la divorava con lo sguardo - e non sarebbe stato poi così strano. O forse non aveva capito nulla di tutto ciò. Forse aveva davvero solo capito quanto poco a suo agio si sentisse ad imitare la fermezza di Gakupo e ad usare toni ossequiosi.
- Mi concedete di farlo? -
Concedere. Altra brutta scelta di termini.
Len annuì: - Ci si sente meglio ad essere diretti, vero, Kyte? - sorrise.
- Credo di sì... Len. - era strano chiamarla per nome e basta, persino per lui. Era una cosa fin troppo intima.
"Forse ha capito tutto e ti sta incoraggiando." scacciò dalla mente quella parte di lui che gli aveva sussurrato quella cosa.
La ragazza sistemò ancora una volta l'ombrellino sopra la testa, orientandolo a seconda dei raggi del sole. Provò un paio di volte, poi vi rinunciò: - Fa veramente troppo caldo. - sospirò, la voce stanca: - Andiamo a cercare un posto all'ombra? Magari fresco. Che ne dite? -
Il suo sguardo era letteralmente speranzoso. In effetti, con tutti quegli strati di vestiti che indossava, doveva avere il decuplo del caldo che sentiva lui.
"Evitadipensareaqualsiasicosariguardiiltoglierestratidivest- dannazione."
- D'accordo, sign- Len. -
- Ah! Potremmo andare al laghetto! -
- Ottima idea. - e non le stava dando ragione per fare l'ossequioso. L'idea di vedere una distesa d'acqua fresca stava iniziando a farsi molto allettante.
- Però passiamo di qua, di là ci sono le stalle e non voglio sporcarmi il vestito. E poi, non mi piacciono molto i cavalli... -
- Davvero? - si stupì: alla maggior parte delle nobildonne che aveva conosciuto i cavalli piacevano, a chi di più a chi di meno.
- Dunque... - disse: - ... posso presumere che non siate una cavallerizza? -
Il ventaglio tornò a sventolare: - E' troppo faticoso! Non mi piace cavalcare. Preferisco stare sdraiata sull'erba. -
"Sì, sospettavo che non le piacesse cavalcare..." era così esile e delicata: "... e che fosse più tipo da stare sdraiata.".
I suoi sogni deliranti lo confermavano.

Il laghetto a qualche decina di metri dalla magione dei duchi di Mirror aveva di certo uno scopo: probabilmente, era luogo di pesca sia per eventuali servitori addetti sia per qualche pescatore - sull'altra riva, persa nell'orizzonte, perché quella riva era una proprietà privata -, forse qualcuno ci faceva dei brevi viaggi in barca, forse era usato per irrigare dei campi.
Di certo aveva più senso del famigerato giardino interno in una casa circondata da ettari di prati e alberi.
Qualunque fosse lo scopo primario - o secondario o terziario - del laghetto, comunque, in quel momento l'unico pensiero formulabile d'innanzi a quella distesa d'acqua era: "Fresco.".
A rendere il tutto ancora più attraente, una serie di alberi particolarmente frondosi ricopriva la riva ghiaiosa con la sua ombra, lasciando uno spazio libero solo per una piccola passerella di legno che collegava il terreno al nulla nell'acqua, qualche metro più avanti.
Len scattò, ritrovandosi sotto l'ombra delle foglie nel giro di un battito di ciglia, l'ombrellino e il ventaglio abbandonati lungo i fianchi, con un sospiro di sollievo.
Kyte la raggiunse con tutta la calma di cui era capace, giusto per non dare troppo l'impressione di starsi cuocendo; quando però i raggi smisero di ustionargli la testa, sostituiti da un piacevole fresco, non riuscì a trattenere un: - Finalmente. - molto sentito.
- Non c'è nessuno... -
La voce di Len non gli diede quella che avrebbe definito "una bella notizia".
- Ma ora la casa sarà un forno! - sbuffò la ragazza, chiudendo l'ombrellino e appoggiandolo al tronco più vicino: - A meno che non siano fuggiti tutti in massa nei sotterranei. - il ventaglio andò a far compagnia all'ombrello: - La prossima volta potremmo farlo anche noi! Che ne dite? -
- Fuggire nei sotterranei, dite? -
Meglio specificare. Più per autoconvincersi.
- Sì! -
- E cosa c'è di interessante, nei sotterranei? -
- Il fresco. -
- Potrebbe rivelarsi un'ottima idea. -
Aveva seguito i movimenti di Len con una certa curiosità - più del solito -, domandandosi cosa stesse facendo: l'aveva confuso soprattutto il suo aver lasciato il ventaglio vicino all'albero.
Quando poi la vide incamminarsi lungo la passerella, tornando al sole, la sua confusione aumentò.
- Sign- Len. - la vide fermarsi e voltarsi verso di lui: - ... perché state tornando al sole...? -
Sperò che non gli chiedesse di seguirla. Mai come in quel momento era stato tanto felice di starle lontano.
- Perché l'acqua è qui! - Len tornò a camminare, i tacchi che battevano sul legno, fino a fermarsi all'estremità di quella specie di piccolo ponte incompleto. Si lasciò cadere seduta, con uno sbuffo della gonna.
Si voltò di nuovo. Stavolta il suo sguardo sembrava quasi esitante: - Vi dispiace se mi prendo un po' di libertà? - domandò, la voce stranamente più bassa del solito.
- No, fate pure. -
"Qualsiasi cosa intendiate per libertà.".
Kyte la vide sorridere, senza più timore, tornando a guardare la riva opposta.
Era ancora perplesso.
"Forse in quel punto c'è più vento? Ma ha parlato solo di ac-"
Era spacciato.
Non si sarebbe mai aspettato di fare una brutta fine in una situazione del genere, ma quella era la realtà dei fatti: Len si era rialzata e aveva delle cose strane, bianche e lunghe, tra le mani; con una certa noncuranza, aveva gettato le suddette cose strane accanto a lei, rivelando altre due cose nere e lunghe, più piccole. E Kyte le aveva riconosciute: calze. Lunghe, bianche. E due giarrettiere. Merletto nero, improbabile nastro blu che stonava con il resto del vestito.
E poi Len si era alzata la gonna fino alle ginocchia, e aveva scavalcato le scarpette bianche abbandonate sulla passarella, e si era seduta sul bordo, e aveva messo entrambi i piedi in acqua, fino a metà polpaccio.
E Kyte era morto.
O meglio, ci era andato molto vicino.
Sì, decisamente, sotto quei vestiti ingombranti doveva nascondersi un corpo esile e candido. Se già le mani e quello spazio sopra il petto glielo avevano fatto sospettare, le gambe glielo avevano confermato.
E il suo viso era solo un misero assaggio della sua vera bellezza. Era un pensiero meraviglioso e inquietante al tempo stesso.
Un pensiero che durò una frazione di secondo, immediatamente schiacciato dalle varie ipotesi circa il proprio destino.
Poteva resistere stoicamente e cancellare per sempre dai propri ricordi l'immagine di quella gonna alzata, del merletto nero che lambiva le ginocchia, di quelle gambe scoperte.
Ipotesi scartata ancor prima di finire di formularla.
Poteva coprirsi gli occhi ed esclamare qualcosa come: - Copritevi! -, ma sarebbe stato fin troppo ipocrita, dato che era stato lui a dirle che poteva "prendersi delle libertà" - per quanto non sapesse cosa ciò avrebbe comportato.
Poteva fuggire urlando.
Ipotesi interessante, anche se sarebbe stato un duro colpo alla sua immagine.
Poteva affogarsi.
Altra ipotesi interessante, anche se forse avrebbe traumatizzato la signorina Len.
Tutte ipotesi spazzate via dal ringraziare chiunque avesse fatto sì che la sua giacca arrivasse a metà coscia. In caso contrario, la signorina Len sarebbe seriamente rimasta traumatizzata per tutta la vita.
Onde evitare tal disdicevole evento, Kyte capì che non c'era più tempo per pensare - il fatto di avere artigliato la corteccia di un albero con una certa foga, unito al dolore crescente sotto la cintura, poteva essere stato un indizio utile.
Poteva allontanarsi con una scusa e commettere atti di bieca lussuria con se stesso.
Tanto era spacciato comunque.
Gli occhi azzurri di Len.
Era spacciato.
- Venite? -
"..."
- No. Grazie. Rimango qui. -
Poteva dare testate all'albero fino a perdere i sensi.
Ottima idea. Perché non gli era venuta in mente subito?
Len rise, le labbra coperte dalla mano, come al solito: - Sapete, Kyte? -
- Cosa? - "Non trovate che l'altra riva sia magnifica, Len? Lo so che non si vede bene, ma tornate a cercare di vederla!"
- Siete divertente! -
"... eh?"
La sua espressione doveva essere abbastanza disorientata, visto che la ragazza aggiunse: - Dico davvero! -.
Almeno, Kyte sperò che la sua espressione fosse disorientata. Se però Len era ancora lì e non era scappata gridando aiuto, allora poteva stare molto relativamente tranquillo.
La vide chinarsi in avanti, un leggero rumore d'acqua, poi le mani bianche che andavano a bagnare i capelli biondi, sotto la fascia, sulla fronte. E notò che le ginocchia erano meno vicine di prima.
Kyte inspirò a fondo.
L'altra riva era davvero magnifica, sì.
Soprattutto, cercare di vederla si stava rivelando un passatempo incredibilmente interessante.

Non erano molte le qualità richieste ad una fanciulla per poter essere ammirata e per rendere orgogliosa la propria famiglia: essere virtuosa, aggraziata, non stupida né arrogante, conoscere le arti più femminili e saperne fare sfoggio senza superbia.
Durante il suo mese e mezzo di prig- residenza presso i duchi di Mirror, Kyte si era più volte chiesto come fosse possibile il suo non aver conosciuto prima una fanciulla tanto spaventosamente perfetta come Lady Len Mirror: viste le sue doti, la sua fama sarebbe dovuta essere immensa; invece il suo nome era sulla bocca di pochi e non si mostrava troppo spesso alle feste.
E non era stata promessa in sposa a nessuno, per quanto i pretendenti - anche ottimi partiti - non le mancassero.
Kyte era giunto alla conclusione che i duchi di Mirror stessero effettivamente conservando la loro unica figlia per richieste di matrimonio da parte di un membro della famiglia reale.
Non si sarebbe spiegato, altrimenti, il motivo per cui una fanciulla tanto bella e aggraziata, che sapeva cantare come poche e che riusciva a suonare al pianoforte anche musiche più difficili, fosse ancora priva di marito.
Eppure, il duca di Mirror non gli era parso una persona ambiziosa e calcolatrice: quando l'aveva incontrato per la prima volta, al pari della moglie, gli era sembrato un uomo normalissimo, senza nulla che spiccasse, anche se privo di quell'aria annoiata che avvolgeva perennemente la sua consorte.
A tutto questo si aggiungeva la stramba scelta di far insegnare a Len una lingua sconosciuta come il giapponese, preferendola ad un ben più sensato francese.
Kyte continuava a non capire. E, per quanto Len gli avesse concesso di chiamarla solo per nome, non poteva ancora osare chiederle direttamente il motivo del comportamento dei suoi genitori - perché sembrava che lei sapesse, che accettasse con serenità tutta quella faccenda.
L'unica spiegazione era la possibilità che uno dei principi la chiedesse in moglie.
Aveva ripensato a tutto quello mentre, dalla finestra della sala più grande, guardava gli ospiti affrettarsi ad uscire dalla casa, verso le loro carrozze: sarebbero dovuti rimanere per cena e per il dopocena, ma il cielo si era annuvolato e, visto il caldo dei giorni precedenti, non era esattamente una cosa positiva.
- Oh, speriamo riescano ad arrivare a casa prima che inizi a piovere! -
- Suvvia, la pioggia iniziale non darà alcun problema! -
- E' un peccato, però... -
- Era ovvio, non hai sentito che caldo, in questi giorni? -
- Lo sai che, quando scoppia una tempesta, la villa è isolata dal resto del mondo... -
Il vociare delle cameriere l'aveva incuriosito, portandolo a far loro alcune domande: aveva scoperto che, sì, se una tempesta rendeva difficili i viaggi, lì rendeva impossibile il percorrere il tragitto villa-paese, causa strada che si trasformava in fiume e vento che, nella zona dei prati, soffiava con infinita più violenza del normale.
Quindi i duchi di Mirror potevano ricevere ospiti solo nelle giornate di sole, o trattenerli lì per più di una notte - la tempesta poteva durare una notte, la strada non tornava agibile in poche ore.
Poi Kyte non doveva parlare di "prigionia". Prigionia con tortura. Ecco cos'era.
Quando finalmente tutte le carrozze furono oltre la linea dell'orizzonte, decise di andare a controllare Len nella stanza accanto: era piuttosto sicuro di averla vista andare lì, da sola, e voleva almeno assicurarsi che nessuno l'avesse rapita.
Certo, avrebbe potuto farlo prima della partenza degli ospiti. Ma rimanere da solo con Len, con tutti i presenti distratti dalle partenze, in una villa prossima all'isolamento, non era una cosa che ambiva.
O meglio, sì.
Ma non poteva permetterselo.
La trovò seduta in ginocchio su una poltrona, con un libro in mano. La cosa lo stupì: il libro era al dritto e non stava impugnando penne, che stesse leggendo?
Accanto a lei, sul bracciolo, stava l'enorme pupazzo che, di tanto in tanto, faceva la sua apparizione tra le sue braccia.
Kyte lo trovava un po' strano, a prescindere dal fatto che non aveva capito che razza di bestiola fosse: un gatto gigante o un orso con orecchie appuntite, con dubbie cuciture rosse che risaltavano sulla stoffa nera e delle X cucite sulla bocca e su un grosso bottone color avorio che faceva da occhio; l'altro occhio era nascosto da una benda rossa a forma di cuore. A completare il tutto, un collarino nero con una rosa blu.
Si era più volte chiesto chi fosse stato così ridicolo - o strampalato - da regalarle un pupazzo del genere. Ancora di più, perché Len se lo portasse spesso dietro.
- Sembrate perplesso. -
Solo in quel momento Kyte si rese conto di essersi soffermato a fissare il pupazzo. Portò la sua attenzione sulla ragazza, ricambiando il suo sguardo tranquillo.
Aveva messo giù il libro: su una pagina, un gruppo di gentiluomini e gentildame era stato provvisto di folti baffi e occhiali rotondi, sia uomini che donne, e posto su uno sfondo pieno di stelle, fiocchi di neve e ghirigori a caso.
"Ah, ecco. Rimira le sue opere. Mi era sembrato strano che stesse leggendo.".
- ... in effetti sì. - sperò di non sembrare troppo scortese: - Non ho mai visto giocattoli del genere. E'... particolare. Mi chiedevo dove l'aveste reperito. -
A quelle parole, Len accarezzò la testa del pupazzo, piano: - Non ne ho idea. - confessò: - Lo trovarono mentre pulivano. E' molto vecchio, probabilmente appartiene a qualche mia bisnonna. Io l'ho preso e l'ho sistemato. Mi dispiaceva lasciare che gettassero qualcosa di così soffice. - sorrise, stringendo il giocattolo a sé.
Kyte tornò a guardare il pupazzo, un sopracciglio inarcato: - Dunque siete stata voi ad usare del filo così poco intonato alla stoffa? -
- Volevo si vedessero le cuciture. - la risposta lo lasciò ancora più confuso: - Cadeva a pezzi, non aveva più una faccia. Volevo si vedessero le sue nuove parti. - la vide posare la testa sulla fronte del pupazzo.
- Ma... - sbattè le palpebre, cercando di capire: - ... se è così, allora non dovrebbe essere fragile? Vi vedo spesso in giro con quel giocattolo, non rischiate che si rompa? -
- Non è più fragile di nessun altro dei miei giocattoli. - Len sorrise: - E poi, non c'è nulla di male a giocare anche alla mia età, no? -
- No... - forse era qualcosa che non poteva capire: - ... direi di no. -
- C'è anche un altro motivo. -
Le rivolse un'occhiata interrogativa.
Len si strinse al pupazzo, il sorriso immutato: - Mi irriterebbe mostrare le mie bambole più belle. -
Kyte annuì, piano: "Beh, ognuno gestisce le proprie cose come meglio vuole..." si ritrovò a pensare.
Un bussare spostò la sua attenzione alla porta della stanza: la duchessa di Mirror stava sulla soglia, qualcosa in mano.
Gli fece un cenno, per poi rivolgersi alla figlia: - Len, è arrivata una lettera. - ecco cosa aveva con sé.
Kyte guardò la ragazza. Sentì qualcosa torcerglisi nello stomaco: quell'espressione impassibile, sul suo volto, stonava più del filo rosso sul pupazzo.
- Il solito? - il senso di straniamento aumentò, quando udì quel tono piatto.
- Direi di sì. -
- Chi? -
- Avanna. -
- Avrò impegni. -
- Come sospettavo. -
- Domani le scriverò qualcosa. -
- Basta che sia entro due mesi, Len. -
- Mi bastano due minuti. -
Quando la signora se ne andò, Kyte si sentì stordito: non sapeva se fosse per l'effettivo botta e risposta o se fosse per il tono freddo di Len.
Non riusciva a capacitarsi del fatto che quella voce fosse uscita proprio dalle labbra della ragazza: mai, in un mese e mezzo, aveva sentito il suo tono farsi meno allegro e trillante, anche nei rari casi in cui si degnava di abbassarlo.
Soprattutto, nei suoi occhi azzurri c'era sempre una luce divertita, incuriosita o giocosa: quello sguardo spento, su di lei, era quanto di più fuori posto potesse esserci.
Non riuscì a trattenersi: - Va tutto bene? -
Una scintilla di vita, uno sguardo interrogativo.
Kyte sentì la tensione scivolare via in un istante, tanto velocemente da lasciarlo scosso: quegli occhi azzurri, quelle sopracciglia alzate, quelle labbra appena schiuse erano quelle di Len.
La ragazza piegò appena la testa di lato, senza mutare espressione.
Kyte scosse la testa, sollevato: - No, niente. -
Non era decisamente una cosa di cui Len avrebbe amato parlare.
Per ora era meglio non chiedere.

Non riusciva a dormire.
Forse la colpa era della pioggia che batteva sulla finestra della sua camera come una tempesta di sassi, o del vento che, più che ululare, sembrava starsi sgolando.
Forse era colpa di quello sguardo azzurro, freddo, impresso nella sua mente, che non gli aveva mai dato tregua fin dal momento in cui si era coricato.
Non aveva mai pensato alla signorina Len come ad una bambola, lei che, da sola, riusciva a dar vita a quell'intera magione smorta; quel pomeriggio, però, era parsa quasi senza vita, una bambola di porcellana dagli occhi di vetro.
Non sapeva se sarebbe riuscito a tacere troppo a lungo: la curiosità lo stava rodendo fino a fargli male, il desiderio di non vedere mai più quell'espressione stava iniziando a farsi pressante.
Si alzò dal letto, prese la candela dal comodino e uscì dalla camera, anche solo per evitare di essere presente nel caso qualche macigno d'acqua riducesse in pezzi la finestra.
Si richiuse la porta alle spalle, indeciso su dove andare: se, da un lato, la cosa non cambiava poi molto, dall'altro sarebbe stato difficile riuscire a tornare lì.
Dopo un mese e mezzo, l'unica cosa che aveva vagamente intuito di quella casa era il fatto che fosse specchiata: in un'ala, le porte erano sulla destra, nell'altra erano a sinistra, così come tutto l'arredamento - unico suo indizio per capire almeno in che ala fosse. Guardando oltre i vetri delle finestre del corridoio, poi, poteva cercare di intuire a che piano si trovasse. Sperare in qualsiasi altra indicazione era pura utopia.
Alla fine, scelse di andare a caso, con tutti i rischi che ciò poteva comportare: al limite, avrebbe potuto impegnare la mente nel disperato tentativo di orientarsi.
L'interno della casa, a parte l'eco delle gocce-sassi sulle finestre, era silenzioso: persino quei pochi domestici del turno di notte si muovevano senza emettere alcun rumore, neppure con le scarpe.
Curioso come l'edificio non riuscisse neppure ad essere cupo, tanto era privo di qualsiasi personalità: non c'era un'atmosfera da storia dell'orrore, i corridoi di per loro non suscitavano la minima inquietudine, neppure le lucine in lontananza che si rivelavano essere le candele dei servitori davano anche solo la vaghissima idea che potessero essere qualcosa di spaventoso.
Semplicemente, i colori erano più scuri del solito e l'illuminazione ridotta portava a camminare più piano. Nient'altro.
Non seppe per quanto tempo camminò a caso, scendendo o salendo scale senza criterio, anche con il rischio di finire nelle vicinanze delle camere delle donne: di rado gli era capitato di provare l'assurda sensazione di aver fatto qualcosa per ore e che contemporaneamente fossero passati pochi secondi.
Non poteva neppure valutare il tempo trascorso in base a quanto gli si fossero congelati mani e piedi, dato che le une erano vicine alla candela e gli altri erano in delle scarpe su un tappeto spesso, rendendo difficile il loro raffreddarsi.
Unica cosa degna d'interesse era stato il vedere un giovane servitore uscire di tutta fretta da una camera da cui, poco dopo, si era affacciata una cameriera sorridente.
Kyte si era ritrovato a sospirare, divertito: erano così presi da loro da non essersi neppure accorti di lui - che non stava facendo assolutamente nulla per nascondersi.
Più volte gli sembrò di essere passato in uno stesso luogo ma, data la conformazione della casa, poteva essere vero o meno.
Se non altro, sentiva la testa un po' più leggera, i muscoli meno tesi. Un po'.
Poi successe.
All'improvviso, delle note basse s'insinuarono nei boati del vento, crebbero d'intensità fino a schiacciare il suono della pioggia battente.
Kyte rabbrividì: era una musica fatta di sole note cupe, i pochi e brevi toni alti, taglienti schegge di ghiaccio, la rendevano ancora più disturbante.
Che lui sapesse, in quella casa c'era un solo strumento capace di produrre suoni simili: il pianoforte. E, a giudicare dalla forza con cui sentiva quella musica, non doveva essere troppo lontano dalla sala.
Strinse la presa sul portacandela, decise di andare a vedere.
Non riusciva a capire perché le gambe gli tremassero, perché il cuore avesse iniziato a battere con più violenza: aveva un vago sospetto di chi potesse esserci in quella sala, non aveva motivo per cui inquietarsi. O, forse, era inquietato proprio perché aveva quel sospetto.
Seguì la musica, fino a ritrovarsi d'innanzi al grande strumento nero, completamente circondato da quelle note basse.
Il suo sospetto si rivelò fondato.
E questo lo fece tremare di nuovo.
Le dita affusolate di Len schiacciavano i tasti, le mani e le braccia rigide, le nocche sbiancate; la bocca era immobile, le labbra non erano incurvate.
Non portava nessuna vestaglia, i piedi erano nudi, i capelli sciolti.
Nel bianco della sua camicia da notte e della sua pelle, era lei a sembrare un fantasma.
Kyte non si mosse, aspettando che fosse lei a fare qualsiasi cosa. Era ovvio che si fosse accorta della sua presenza: non c'era nessun'altra candela oltre la sua, Len stava suonando al buio, prima del suo arrivo.
Quando la musica finì, a Kyte sembrò di prendere una boccata d'aria fresca dopo una lunghissima apnea. Mai come allora il suono di una tempesta gli era parso così bello.
Finalmente, Len si voltò verso di lui.
I suoi occhi azzurri erano brillanti, divertiti.
- Non riuscite a dormire? - la sua voce trillava, le guance bianche si arrossarono appena e le labbra si curvarono in un sorriso.
Quella era Len.
Se possibile, Kyte era ancora più confuso: vederla normale dopo averla vista tanto sinistra era ancora più destabilizzante.
"Possibile che l'abbia sognata...?" scacciò il pensiero: "No, nei miei sogni è nettamente diversa.".
- Temo di no. - rispose, avvicinandosi di qualche passo, illuminandola completamente.
Come sospettava, non aveva i capelli molto lunghi: le ricadevano sulle spalle, morbidi e appena ondulati, ma non sarebbero bastati a coprirle il seno.
Con una punta di sorpresa, abbassando appena lo sguardo, Kyte notò che la signorina era ancora più piatta di quanto sembrasse normalmente. Forse era un poco divertente gioco di luci, ma pareva quasi senza forme.
- Cosa state guardando? -
Trasalì. Era spacciato.
- N... non avete freddo? - domandò, cercando qualsiasi frase di circostanza in grado di salvarlo. E, nel farlo, realizzò appieno di star fissando la signorina, di fatto, in sola biancheria.
Era spacciato.
Quella musica era stata un requiem per lui.
Si voltò di scatto, puntando lo sguardo sul bellissimo e interessantissimo divano dall'altra parte della stanza. Era davvero bello! Non aveva mai visto niente di più bello ed interess-
"Rimanete lì dietro, signorina, vi scongiuro."
E ora non aveva neppure la giacca lunga fino a metà coscia. Era spacciato.
La sentì ridere. Un brivido lungo la schiena.
- No, non ho freddo. -
- Ma... così, senza nient- senza una vestaglia, un matinee, neppure delle scarpe... -
- I matinee s'indossano di mattina. - un'altra risata.
- N-non vi si annodano i capelli, a lasciarli sciolti...? -
- Mai successo! -
Doveva scappare. Forse non sarebbe riuscito a raggiungere la sua camera almeno fino al mattino, ma doveva mettere quanta più distanza possibile tra lui e la signorina.
- E se qualche servitore vi vedesse? E' sconveniente! -
- Mi avete vista solo voi. -
Bella, la candela. Forse avrebbe potuto procurarsi del dolore fisico con quella fiammella. Avrebbe tenuto occupata la mente per un po'.
- Non dovreste girare così poco vestita con degli uomini presenti. - stava impazzendo. In modo molto pesante. La cosa peggiore era che la voce aveva iniziato a tremargli: - Devo dare ragione a vostra madre, quando afferma che, a volte, assumete un comportamento impudico. Al momento siete imprensentabile, soprattutto ad occhi maschili! -
O meglio, a lui era presentabilissima, era quasi quanto di più presentabile potesse essere.
Il problema era il fatto che non fosse una cosa positiva.
- Cosa penserà di voi il vostro futuro marito, se mai saprà che altri uomini vi hanno vista così? Dovreste curare di più la vostra reputaz- -
- Io non mi sposerò. -
Si bloccò.
La sua mente si svuotò.
Eppure si sentiva terribilmente pesante.
- ... prego...? - non riuscì a voltarsi. Sentiva il suo corpo pietrificato, inchiodato al pavimento.
- Non mi sposerò. - la voce di Len era pacata, serafica, in un certo senso. Eppure, riusciva a sentire una nota che non gli piaceva affatto. Era fredda. Con orrore, capì di non volersi voltare: non era sicuro di come sarebbe stato quello sguardo azzurro.
- Che state dicendo...? - cercò di riprendere contatto con la realtà: Len gli aveva appena detto che non si sarebbe sposata.
"Che idiozia è mai questa?" almeno dei pensieri coerenti riusciva a formularli.
- Che mai nessuno mi avrà in sposa. - un fruscio, doveva essersi alzata: - Che non porterò nessuna fede al dito. Che la mia dote non ha senso di esistere. Che ogni mio spasimante sarà rifiutato. -.
Deglutì: "E' uno scherzo, vero?" strinse la presa sul portacandela: "Len ha voglia di scherzare. Non c'è altra spiegazione."
Soltanto, desiderava non lo facesse con quel tono. Si era fatto più basso. Non vuoto, ma troppo calmo.
- Queste non sono cose su cui scherzare. Tanto meno in una situazione del genere. -
- Che situazione? - una nota perplessa nella voce.
Una stretta allo stomaco. Sembrava quasi che Len stesse fingendo, che la vera Len riemergesse di tanto in tanto, solo per dirgli che, sì, era lei e stava dicendo quelle cose assurde con quel tono spaventoso.
- Perdonate la mia indiscrezione. - tacere era stupido, ormai: - Ma per quale motivo dite cose tanto ridicole? Mi rifiuto di credere che i vostri genitori vogliano rinchiudervi in un convento! -
- Fate bene, perché non è affatto loro intenzione fare una cosa del genere. -
- E allora perché? - al diavolo i toni formali: - Vi è stato detto che non potete avere figli, forse? Anche le donne che non possono averne si sposano! -
- Posso avere figli. Sì. - la voce di Len si fece un sussurro. Sembrava quasi stesse parlando più con se stessa: - Potrei averne. E potrei sposarmi, sì. Come ogni brava donna. -
Kyte tacque, incapace di dire qualsiasi cosa.
- Tuttavia, non posso. Sposarmi mi è precluso. - il tono era tornato pacato, con quella nota stonata. Ma se n'era aggiunta un'altra: vibrava appena, era bassa, quasi impercettibile.
Rimase immobile, anche se si sentì lacerare dentro: quella nota era quella catturava la gola, soffocava la voce, la rendeva roca, che faceva arrossare gli occhi e portava le guance a bagnarsi.
Len la stava trattenendo, ma era probabile che avesse almeno gli occhi lucidi.
- Sapete... - la voce della ragazza si era fatta trasognata: - ... la lettera di oggi era da parte di mia cugina Avanna. Si sposa. -
Kyte trasalì.
- Ma ho deciso che sarei andata solo al matrimonio delle cugine con cui ho scambiato almeno qualche frase durante l'ultimo anno. Mia cugina Avanna non ricordo neppure com'è fatta. E dubito lei si ricordi di me. Probabilmente, la sua servitù avrà spedito gli inviti per cortesia. - Len sospirò: - Odio avere tante parenti e conoscenti in età da marito. In questi anni, si stanno sposando tutte. Sia qui che in Giappone, pare. -
Quella precisazione gli fece gelare il sangue: "Gumi... anche lei si sposa... e Gakupo si è assentato per il suo matrimonio..."
Ricordava bene l'abbraccio di Len a Gakupo, prima che quest'ultimo partisse: lei doveva essergli affezionata, se già vederlo partire così a lungo doveva averla resa triste, sapere che si allontanava per un matrimonio...
- Perché? -
- Come? -
Kyte trasse un profondo respiro, la voce finalmente uscì ferma: - Perché questa assurdità? Perché non potete sposarvi? Cos'altro vorrebbero che faceste, i vostri genitori? -
Silenzio.
Strinse i denti, aspettando la risposta. Non riusciva a capire perché stesse tremando: rabbia? Indignazione? Sentirsi preso in giro? Paura? Forse una miscela di tutto quello?
Ma ormai aveva capito che quella casa era un luogo bizzarro. Tanto valeva smetterla di farsi le domande più basilari e cercare di capire.
- In realtà, non è che non potrei mai mai mai mai mai sposarmi! - la voce di Len era un trillo, il suo solito tono, ma Kyte aveva ormai capito che, di lì a poco, sarebbe tornata irreale: - C'è il marito di mia cugina Lily. Se dovesse succederle qualcosa, allora lui mi prenderebbe in moglie. C'era scritto nel contratto di matrimonio e lui ha accettato. Quindi, direi che potrei sposarmi solo qualora succedesse qualcosa a mia cugina Lily. -
- Perché? -
Nella sua mente si fece sempre più insistente l'ipotesi che i duchi di Mirror fossero gravemente disturbati.
"Ma possibile che nessuno faccia qualcosa per impedire questo scempio?"
- Ah... - una risatina: - E' una storia lunga! Rischierei di annoiarvi! -
- Non ho sonno e abbiamo tutto il tempo che vogliamo. - non gli importava più nulla di essere educato. Voleva sapere.
Un altro sospiro alle sue spalle. Un altro fruscio, Len doveva star camminando dietro di lui.
- Siete davvero brutale, stanotte! - sbuffò la signorina, ma il suo tono non era d'accusa, divertito, più che altro.
Kyte non fece una piega.
- Bene, partiamo dall'inizio, come ogni storia vuole! - la sentiva muoversi avanti e indietro, doveva star camminando in cerchio: - C'erano una volta, tanto tempo fa, i miei nonni materni, i duchi di Dewsen. Ebbero ben dieci figli! La cosa curiosa è che soltanto il primogenito, lo zio Al, fu un maschio, mentre le altre nove erano figlie femmine! Mia madre è l'ultimogenita! -
Sì, aveva sentito qualcosa del genere.
- Ovviamente, i dieci figli si sposarono ed ebbero figli a loro volta. Ma... incredibile! - la voce di Len si alzò per un istante, risuonò per tutta la stanza: - Successe la stessa identica cosa che era successa ai loro genitori! Lo zio Al e la zia Ann ebbero cinque figli, di cui solo il primogenito, mio cugino Oliver, è un maschio! Chissà se a fare altri figli uscirebbero altre femmine... - ridacchiò: - La cosa più assurda, però, fu un'altra: tutte le sorelle dello zio Al ebbero solo e unicamente figlie femmine! Trentatrè figlie femmine, in totale! Incredibile, vero? -
- Direi di sì... -
Stentava a crederci. Ma, a pensarci bene, in effetti, non aveva mai sentito di nessun altro giovane duca legato ai Dewsen se non Lord Oliver Dewsen.
- Diciamo che, dopo aver superato le venticinque bambine, si era ormai capito che sarebbero uscite solo femmine. - un'altra risata: - Però, sapete, guadagnare un po' di potere non è una cosa che si rifiuta. -
- Non è certo cosa di cui voi dobbiate preoccuparvi. - sentì la sua voce meno dura: - I duchi di Dewsen sono una delle famiglie inglesi più importanti in assoluto. -
- Lo siamo diventati. - qualcosa di piccolo premuto contro la schiena. Quando Kyte capì che si trattava di un polpastrello della signorina, sentì lo stomaco stringersi in una morsa.
- Ditemi, Kyte... - la voce di Len era anche troppo vicina: - ... cosa fareste, se aveste a disposizione così tante donne, un solo erede maschio e un'incredibile vicinanza con la Famiglia Reale grazie al vostro titolo di duca? -
Kyte ci pensò un attimo. Poi scosse la testa: - Non sono pratico di queste cose. - confessò: - Tuttavia... credo farei in modo di dare in sposa tutte le mie parenti ad uomini di un certo livello per poter avere una vasta rete di appoggi. -.
Una risatina. Troppo vicina.
Il polpastrello divenne una mano, appena premuta sotto le scapole: - Di un livello non eccessivamente alto, però. Altrimenti, sarebbe problematico mantenere il potere su tutti. -
Kyte tacque.
- Stranieri. Tutte le mie cugine sono state date in sposa a stranieri o a persone che hanno forti legami economici con un paese straniero. Mia cugina Avanna mi pare andrà in sposa ad un irlandese. Per questo credo abbia studiato la lingua e la cultura irlandese. -
Kyte sgranò gli occhi, iniziò a capire.
- Le sorelle di mio cugino Oliver sono le uniche sposate ad un qualche rampollo del Regno Unito. - rise: - Del resto, sono le più vicine al nostro caro cugino. Le uniche che, in caso di estrema necessità, potrebbero sostituirlo. Ma non succederà: sappiamo tutte che il nostro caro cugino arriverà molto in alto. Sappiamo che gli zii ambiscono a vederlo, come dire, al vertice. -.
Non era una novità: qualsiasi famiglia nobile, soprattutto se tanto potente, avrebbe colto al volo l'occasione di potersi legare alla Famiglia Reale. O di entrare a farne parte.
Che i duchi di Dewsen mirassero ad una cosa simile non era poi così incredibile. Sentirlo confermato da Len, però, aveva un certo impatto.
La cosa che più gli premeva, tuttavia, era un'altra.
- Dunque, così facendo, vostro cugino avrebbe l'appoggio di... beh... il mondo intero. -
- Esattamente. - un'altra mano andò a posarsi accanto alla prima: - Ognuna di noi è stata assegnata ad un determinato Paese. Le figlie delle zie più grandi hanno sposato degli europei, le altre qualcuno di altri continenti. Le cugine più piccole sono le "riserve" delle più grandi: se dovesse succedere qualcosa ad una delle nostre cugine, un'altra, con il proprio marito, prenderebbe il suo posto. Io sono la riserva di mia cugina Lily: siamo state assegnate al Giappone. -.
"Ecco perché! Ecco perché la signorina studia una lingua e una cultura così distanti!"
Per assurdo, la cosa acquisiva un suo senso.
Tuttavia, c'era ancora un tassello mancante.
- Le "riserve"... - esordì, piano: - ... devono sposare i mariti delle cugine che dovrebbero sostituire? -.
- Affatto. - delle braccia lungo la schiena, sotto le mani, gomiti contro la vita: - L'ho detto: con il proprio marito. Ognuna delle mie cugine andrà in moglie ad un uomo diverso. Loro possono sposarsi, io no. Io sarei soltanto una pezza per non perdere i contatti con il Giappone. -.
"Ridicolo." e quelle mani lo stavano distraendo. Le sentiva muoversi piano, come un leggero massaggio che, invece di rilassarlo, lo faceva irrigidire ancora di più.
- Non mi avete risposto, però. - le fece notare, accorgendosi con una certa inquietudine che la sua voce era uscita spezzata. Dannate mani morbide. E calde. E dannate dita affusolate. Tutte e dieci.
Si mossero, il cuore ebbe un sussulto violento.
"Non volevo offendervi, mani!"
Le sentì scivolare lungo i fianchi, riunirsi sulla pancia, sentì la fronte di Len premuta contro la schiena.
E si sentì prossimo alla defunzione, perché la signorina avrebbe fatto bene a non abbassare le mani neppure se ne andasse della sua stessa vita.
- Dunque non vi siete accorto. -
- ... eh? -
Non si sarebbe potuto girare neppure volendo: era paralizzato.
- ... devo essere davvero bella. -
Kyte recuperò un po' di contatto con la realtà: la voce di Len era malinconica. Strana da sentire su di lei, ma molto più naturale di quel tono inquietante.
Inspirò a fondo: - Sì. - disse, soltanto: - Lo siete. -.
La sentì sospirare, la testa si spostò appena.
Qualcosa gli disse che Len non avrebbe aggiunto altro.
Stranamente, non si sentì irritato: sentiva più una sorta di generica pesantezza, l'idea che poteva bastare così.
Per il momento.
- Ho fame. -
Quel trillo lo scosse, riuscì a ricordargli di avere Len abbracciata con la stessa delicatezza di un pugno di ferro in piena faccia. Quando si ricordò che Len era anche in sola biancheria, gli parve gli fosse arrivata una ginocchiata di ferro anche ne-
- Quindi andrò a prendermi delle banane. -
La sentì staccarsi e trotterellare via, con la sua solita velocità.
Non riuscì neppure a percepire quel freddo improvviso, perché una cascata di pensieri disparati gli aveva invaso la testa: - A-aspettate! - le corse dietro: - Non avete una candela! -
- Conosco la casa! -
- Le banane vi fanno male, a quest'ora! -
- Voglio le banane e avrò le mie banane, ora! -
- Ma non possiamo svegliare la cuoca per farvele sminuzzare! -
- Allora le mangerò intere! -
- NO! -
Era spacciato.

La tempesta si era placata alle prime luci dell'alba, per poi riprendere poche ore dopo, se possibile, con maggiore violenza.
Kyte lo sapeva con assoluta certezza perché aveva dormito poco e male.
Da un lato, le parole di Len continuavano a rimbombargli nella testa: le cose avevano assunto un loro senso, ma quella risposta mancante le rendeva inutili, senza alcun valore; non gli importava niente dei piani del duca Al di Dewsen o del motivo per cui Len dovesse imparare il giapponese, voleva capire perché le fosse negato il passo più importante nella vita di una donna, perché fosse costretta in una magione anonima senza poter avere alcun uomo al proprio fianco.
Qualunque fosse la risposta, aveva capito soltanto che Len l'aveva accettato, ma non serenamente.
Dall'altro lato, i suoi incubi si erano fatti ancora più dolorosi: ormai aveva chiaro l'aspetto della signorina con i capelli sciolti, conosceva meglio la sua corporatura e si era arreso all'idea che fosse piattissima; per questo la sua mente aveva prodotto immagini molto più vivide.
Come se non bastasse, Kyte aveva ricondotto Len alla propria camera, quella notte - e si era premurato lui stesso di triturarle le banane talmente tanto da portarla a mangiarle con un cucchiaino. Aveva seriamente rischiato la sua sanità mentale.
L'essersi pienamente reso conto di essere stato, di notte, davanti alla camera della signorina, da solo con la signorina e con la signorina in sola biancheria era stato il colpo di grazia.
Quindi Kyte aveva trascorso la notte alternando momenti di doloroso incubo a profondi quesiti circa la possibilità che il vento sradicasse il tetto della casa.
Non doveva essere stato il solo a pensarlo dato che, per tutta la mattinata, l'edificio si era riempito di voci più o meno alte, cameriere che correvano da un lato all'altro della casa e porte che sbattevano nonostante tutte le finestre chiuse.
Nel bel mezzo della lezione - o meglio, circa dieci minuti dopo l'inizio della lezione -, Len si era alzata e aveva chiuso la porta della stanza, isolando tutto quel caos oltre il legno; si sentiva ancora un forte vociare, ma molto meno irritante di prima.
Tuttavia, i buoni propositi di fare lezione svanirono dopo mezz'ora sia dalla sua mente che da quella di Len: erano le dieci del mattino ma, data l'oscurità generale e il fatto che stavano cercando di leggere e scrivere a lume di candela, sembravano almeno le dieci di sera.
Inoltre, se la confusione degli abitanti della casa giungeva ovattata, quella stanza era comunque provvista di finestre che la pioggia era ben felice di martellare.
- Per oggi, la lezione è sospesa. - si arrese Kyte, con un sospiro: - Non si può studiare in un ambiente del genere. -
- Infatti... - annuì Len.
- Questo significa che avete la mattina libera. Impiegate il vostro tempo come meglio credete. -
- Hai! -
Kyte si voltò verso la lavagna, pulendola con cura, con estrema cura, con cura maniacale, premurandosi di passare almeno trentacinque volte nello stesso punto. Sperava che la signorina sentisse l'improvviso ed impellente desiderio di andare in un'altra stanza, una qualsiasi altra stanza: sarebbe volentieri scappato lui, ma la sua mente era del tutto vuota, senza neppure una misera scusa disponibile. Fuggire sarebbe parso sospetto.
Quando osò girarsi per controllare cosa stesse facendo Len - anche solo per accertarsi che non avesse deciso di trasformare tutti i fogli ricoperti di kanji in barchette o coriandoli -, la trovò seduta in ginocchio sul divanetto poco distante, un libro in grembo, una penna in mano. Si rilassò: stava solo pasticciando un libro. Tutto nella norma.
Poi notò un particolare: Len aveva spento la propria candela, abbandonata sul tavolo pieno di fogli e libri.
Perplesso, prese la propria candela e la raggiunse, illuminando le pagine imbrattate di inchiostro: stava sottolineando tutte le frasi, ricoprendo l'intero libro di righe orizzontali.
- Sforzate la vostra vista, così. - le disse, esitante.
Len alzò la testa, guardandolo negli occhi: - Sono abituata a fare le cose al buio. - sorrise: - Se però volete farmi un po' di luce, non rifiuterò di certo! - il suo sguardo si spostò sullo spazio vuoto accanto a lei.
La stretta sul portacandela si fece quasi dolorosa. Ma non avrebbe avuto alcun motivo di rifiutare - o meglio, ne aveva uno e pure validissimo, ma era meglio che Len non lo sapesse.
Con un sospiro - più per allentare la tensione che lo stava irrigidendo che per esasperazione -, Kyte le si sedette accanto, attento a non rovinarle l'ampia gonna blu - lo stesso vestito che indossava la prima volta che l'aveva vista.
- Non potete delegare al vostro precettore temporaneo il ruolo di candela. -
- Il mio precettore temporaneo potrebbe anche rifiutarsi. -
- Il vostro precettore temporaneo sarebbe molto maleducato, se facesse una cosa del genere. -
- Allora il mio precettore temporaneo non dovrebbe neppure dirmi che non posso relegarlo a candela! -
Quel broncio. Di nuovo.
Era spacciato.
Rabbrividiva e non per il freddo. Più cercava di scacciare dalla mente la consapevolezza di essere da solo con lei in una stanza semibuia e isolata, più quella consapevolezza cercava di invadergli la mente.
Inspirò, piano, cercando di calmarsi. C'era riuscito per oltre un mese e mezzo, poteva riuscirci anche in quel momento, no?
- D'accordo, basta così. - con un rumore sordo, il libro fu chiuso.
Vide il sorriso allegro di Len. Poi lei soffiò sulla candela e l'oscurità calò nella stanza.
Era spacciato.
O, forse, il non vederla avrebbe migliorato la situazione.
Sì, doveva essere così.
- Ora siamo al buio completo. -
- Sì! - trillò Len, la vide chinarsi e posare il libro a terra: - Non è d'atmosfera? C'è chi si gode il canto degli uccellini e chi i suoni di una tempesta! In fondo, siamo al riparo, che male c'è? -
- Confesso di non essermi mai soffermato ad ascoltare i suoni della... - la voce gli morì in gola: aveva visto Len chinarsi?
Con orrore, notò la debolissima luce esterna del mattino: oscurata dalle nubi nere, ma presente. Era quella a dare un alone grigio alle cose, anche solo illuminandone un lato, un profilo, cose che poi si tingevano completamente di un bianco accecante per pochi istanti, ad ogni lampo.
Un nodo alla gola.
Doveva andarsene da lì. Alzarsi e andarsene, anche senza scuse. Doveva farlo.
Qualcosa sul petto.
Abbassò lo sguardo, incontrò quegli occhi azzurri.
- Avete paura dei tuoni? - domandò Len, la voce un sussurro.
Kyte scosse la testa, sentì i muscoli del collo tirargli: - No. No, non ne ho paura. -
- Siete pallido. - mormorò lei. Il suo tono sembrava preoccupato.
Doveva andarsene.
Sentiva la gola secca. E non riusciva a deglutire.
Vide qualcosa di candido, lo sentì posarsi su una guancia, un leggero odore d'inchiostro. Una mano, l'altra ancora ferma all'altezza del cuore.
- Sicuro di stare bene? - la voce di Len era esitante: - Non fingete di non temere i tuoni, se non è vero. -.
Coprì la mano sul viso con la propria.
Era calda, la pelle era morbida.
Voltò appena la testa, premette le labbra contro il palmo.
Andava bene così. Bastava così.
Scostò appena la bocca, incontrò lo sguardo dell'altra: - Dovremmo aprire la porta. -.
La vide piegare appena la testa di lato, le ciocche bionde le sfiorarono una spalla, negli occhi una luce incuriosita: - Perché? -
Continuava a sussurrare, come se non volesse farsi sentire neppure da lui.
- Temo che... - mormorò, a fatica. La sua voce usciva spezzata: - ... qualcuno potrebbe pensare male. -.
Pensare male.
Ciò che lui non aveva mai smesso di fare.
"Sono davvero una persona indegna."
E, guardando il viso dolce di Len, se ne convinse ancora di più.
La vide abbassare appena le palpebre, curvare le labbra in un sorriso pacato.
Sarebbe bastato davvero poco.
Era disonesta a sorridere con quelle labbra ad una spanna di distanza.
Un fruscio di stoffa.
Un altro. E un altro ancora.
E delle ginocchia premute contro i fianchi, la mano che era risalita fino alla spalla, il bordo della tournure che gli sfiorava le ginocchia; le ciocche bionde che gli accarezzavano il viso, e quelle labbra morbide sulle sue.
Troppo caldi, troppo reali per essere l'illusione di un sogno.
Non c'erano neppure petali che cadevano dal soffitto, bolle di sapone, lamenti o parole.
Afferrò il nastro nero, lo tirò fino a sentirlo cedere, lo lasciò cadere a terra. Andò alla nuca, approfondì il bacio, insinuò le dita tra i capelli sciolti.
Sentì Len trattenere il respiro, sentì le dita serrarsi sulla sua spalla, solo per un attimo; sentì poi la presa allentarsi, sentì le labbra schiuse accennare un sorriso, la sentì ricambiarlo, con meno foga, ma senza esitazione.
Liberò la mano candida sul viso, portò la propria in basso, fino a sentire la stoffa liscia della sua calza. Risalì lungo il ginocchio, scivolò sotto il merletto nero dell'orlo - la sentì scossa da un tremito.
Trina, una trina e un nastro liscio che le avvolgeva la coscia, che divideva la calza dalla porzione di gamba scoperta, più calda delle mani. Superò la giarrettiera, accarezzò la pelle nuda, le dita sfiorarono il pizzo della biancheria.
Stava andando a fuoco dall'interno, sentiva scariche ovunque. Forse era stato preso in pieno da un fulmine.
Se ne sarebbe fatto una ragione.
Strinse la stoffa della biancheria, risalì fino ad incontrare l'opposizione della gabbia di cinghie che sosteneva la tournure. La oltrepassò, la stoffa del vestito scivolava lungo il dorso della mano, il palmo, con un certo disappunto, era costretto ad accarezzare quell'odiosa corazza fredda e dura attorno al busto.
Irritante.
Gli stava precludendo qualcosa di ben più piacevole da toccare.
Alzò appena il braccio, con limitata delicatezza, per far sì che quell'ammasso di stoffa non si strappasse. Non era sicuro che, nel caso, si sarebbe trattenuto dal completare il disastro.
Afferrò una coppa del corsetto, fece scivolare le dita al di sotto. Qualcosa di soffice premeva sulle nocche.
Riprese aria qualche secondo, allibito: "Imbottitura...?"
Dunque Len era piatta con tanto di imbottitura.
Aprì del tutto la mano, accarezzò il petto, sotto la coppa, fino a sentire le dita toccare le clavicole.
Esitò: sopra, le clavicole; sotto, la curva del corsetto. In mezzo, per quanto caldo, non c'era niente.
Con una certa inquietudine, potè riconoscere come lei fosse la donna più piatta che avesse mai toccato.
Ma, del resto, qualche difetto doveva pur averlo, o sarebbe stata troppo perfetta.
Lasciò scivolare la mano verso il basso, seguendo la forma dell'odiosa corazza, verticale lungo il busto, incurvata sulla vita, verso l'interno, per poi lasciare la stoffa della biancheria a coprire la curva verso l'esterno dei fianchi, trovando il vuoto.
Esitò di nuovo: per quanto il corsetto fosse della misura giusta, i fianchi erano dritti, non completavano la curva di quell'aggeggio che le fasciava il corpo, creavano una piccola zona di vuoto tra la punta del bustino e la biancheria.
"Ma che...?"
Stentava a credere che Len fosse davvero priva di forme: non aveva seno, non aveva fianchi.
Fece scivolare la mano dietro, alla base della schiena, trattenendosi dal sospirare di sollievo nel trovare finalmente una curva.
"Almeno qualcosa l'ho trovato.".
Una violenta fitta tra le gambe gli ricordò che non c'era più tempo: non ce n'era mai stato molto, in quel momento più che mai non poteva permettersi di perdere anche un solo secondo.
Riportò la mano davanti, sotto le cinghie della tournure. Scese, accarezzò la biancheria, scivolò in bas-
...
... ora.
Per svariati anni aveva messo le mani sotto le gonne delle gentildame, ormai poteva dire con una certa sicurezza di sapere cosa aspettarsi quando le dita arrivavano in quelle zone.
La mano toccava qualcosa di morbido - e umido, possibilmente.
In quel momento, c'era un problema.
Perché la sua mano non stava toccando qualcosa di morbido.
Stava toccando qualcosa che, teoricamente, non si sarebbe dovuto trovare sotto la gonna della signorina - o meglio, sì, si sarebbe dovuto trovare, ma l'idea era che il suddetto qualcosa fosse uno solo e di sua proprietà.
Forse stava delirando.
Forse era un sogno degenerato nel più assurdo dei modi.
Scostò il viso da quello di Len, esitante.
Forse era un'imbottitura. Forse la signorina l'aveva messa appositamente per prendersi gioco di lui. Forse la signorina era una gran burlona.
A giudicare da come gli aveva artigliato la spalla e dal mugolio che aveva appena sentito, probabilmente no.
"Ma... non dovrebbe... lei non dovrebbe..."
Una secchiata di acqua gelida.
Niente seno. Niente fianchi. E-
- Len... - un pigolio. Non se ne curò.
C'era un problema, sotto quella gonna.
- ... voi... siete... una donna... vero...? -
Un altro mugolio. Forse era meglio togliere la mano da lì.
Quando lo fece, osò guardare Len negli occhi: lucidi, divertiti.
Un sorriso sulle labbra, troppo tranquillo, soprattutto in un momento in cui avrebbe dovuto arrabbiarsi, gridargli contro o anche solo mettere il broncio per le ridicole parole che aveva appena dett-
- Voi che dite? -
"..."
Deglutì.
"..."
Il sangue si gelò.
"... cazzo.".
Dei brividi lungo le braccia, molto poco piacevoli.
Afferrò le spalle di Len, la fece ricadere al suo fianco, con uno sbuffo della gonna, strappandole un'esclamazione di sorpresa.
- Perdonatemi, Len. - la voce gli uscì in un ansimo, il calore si era trasformato in gelo: - Mi sono appena ricordato di avere un impegno urgentissimo! Mi stupisce proprio che me ne sia dimenticato, tanto è importante! Perdonate i miei metodi bruschi, ma devo assolutamente essere presente tra meno di cinque secondi, è un impegno molto importante! -
Scattò in piedi, lo sguardo individuò la porta ancora chiusa - dov'era la candela? Quando se n'era liberato? - e, nel cercare di raggiungerla, sentì un dolore acuto all'altezza del ginocchio - il divanetto non era l'unico pezzo di arredamento della stanza.
Abbassò la maniglia, gettò lì un: - Impiegateilvostrotempocomecredete! - e scappò.
Quando fu abbastanza lontano - o meglio, quando si ritrovò a collassare contro un muro, senza più aria, con le gambe ridotte a cose tremanti a cui sostenersi a stento -, si portò una mano al cuore impazzito, la mente martellata da un unico pensiero.
"Cazzo. Cazzo. Cazzo. Cazzo!"
Pessima scelta di termini.





Note:
* Setsugetsuka è, ovviamente, un riferimento alla canzone omonima.
La Setsugekka è una complessa tematica artistica (di pittura e poesia) giapponese che, riassumendo in modo estremamente brutale, vede la bellezza assoluta racchiusa nella triade neve-luna-fiori (di ciliegio), sia di per loro che come simboli (delle stagioni, ad esempio).
Setsugekka significa letteralmente "neve, luna, fiori", mentre il titolo della canzone Setsugetsuka significa "fiore della luna effimera".
... tuttavia, pare che Setsugekka si possa effettivamente traslitterare Setsugetsuka - anche se i kanji di questa e del titolo della canzone sono differenti (ad eccezione di quello di "luna").
Non se sia effettivamente così o meno, ma questo è quanto. (!)
(Comunque, c'è anche una bella canzone dei Kagamine che si chiama Setsugekka. *Visto che è Len a tirare fuori il discorso, volevo dirlo. (?)*)
* Kaito e i Borgia. Un biscotto virtuale (?) cadrà dal cielo a chi indovina il riferimento.
(Colpa di Tayr Soranance Eyes che, quando le narrai la trama, fece all'incirca quelle battute.)
* Sì, l'abito che Len indossa nella scena del lago è quello di Fate: Rebirth - con la gonna opportunamente allungata come si conveniva all'epoca. *Ma tanto si scopre comunque.*
* Vorrei ricordare che la storia è ambientata nell'epoca vittoriana - il che significa che la mentalità è, ovviamente, molto diversa da quella attuale.
Ciò vale anche per il pudore - il celeberrimo pudore vittoriano, quello talmente opprimente da portare chiunque a pensare sempre a ciò che "non si sarebbe dovuto pensare", fino a trovare porno anche le gambe dei tavoli e i petti di pollo (non sono eufemismi).
In particolare, le gambe femminili nude erano viste come un tripudio di erotismo.



... mi sto tutt'ora chiedendo cosa io abbia scritto.
No, non la parte lista-della-spesa-arancione-smorto - l'avevo detto di essere incapace in scene del genere. Ma era necessaria per la trama. Ecco.
... credo che la parte iniziale del capitolo sia la più grande boiata che abbia mai scritto. *Ancora si pone domande.*
Per il resto...

Su con la vita, Kaito-nii! *O*/
Guarda, per tirarti su di morale, Len ti canterà una bellissima canzone! (Che è anche quella che ho ascoltato a ripetizione durante le pause di scrittura, il che potrebbe forse spiegare tante cose...)
Sì, immagino lo stupore di questo grandissimo colpo di scena del tutto inaspettato - per Kaito, sicuramente.
Ebbene sì, la signorina Len non è poi così tanto signorina.

A questo punto, tante (?) domande rimangono aperte (?): perché Len si spaccia per una ragazza? Perché nessuno ha avvertito Kyte? Dov'è finita la candela? (A questo vi rispondo ora: sul divano.) Ma soprattutto: perché Kyte fa sogni del genere? (Ma questa è una domanda di cui è meglio non conoscere la risposta.)

Augurandomi di non avervi fatto eccessivamente wtf?are (per l'idiozia dilagante), spero che questo capitolo vi sia stato di gradimento. ^^
Se ci sono critiche o consigli - soprattutto per ciò-che-più-di-tutto-è-palese-io-debba-migliorare -, dite pure. ^^

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Capitolo 3
*** x0x3x ***


Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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"Non può essere, non può essere, non può essere!" attraversò la stanza in poche falcate, premette le mani contro la porta, inspirando a fondo: "Ci deve essere un errore! Ho capito male! Ho sentito male! E' stata tutta un'illusione! E' un sogno finito nel delirio più completo!"
Un brivido lungo la schiena.
Si voltò e attraversò di nuovo la stanza, schiantando le mani contro il vetro della finestra: "Stavo sognando, eh? Eh? Eh? Era solo un sogno! Un incubo! Un incubo molto realistico! Non è possibile! Non può essere! Ci deve essere un errore!"
Scattò verso la parete opposta.
Un violento dolore al ginocchio gli ricordò della sedia che lui stesso aveva messo sotto la maniglia.
Soffocò un'imprecazione e corse con la mano alla parte colpita, giusto per controllare che fosse ancora intera.
Di certo la sua mente non lo era.
Dopo essere scap- essersi allontanato da quella stanza, aveva probabilmente attraversato ogni singolo corridoio della magione, con un'andatura zoppicante non proprio pacata, e con un'espressione che forse lasciava intendere un certo suo leggero turbamento.
Ne aveva avuto il sospetto quando la governante in persona gli aveva chiesto, cauta: - Vi sentite bene, signor Sheeawn? -
- Sì... cioè, no! - aveva risposto, la voce strozzata: - Io... io... io credo di non sentirmi molto bene. - aveva deglutito, cercando disperatamente di non sembrare prossimo all'isteria: - Con mio rammarico... - "No." - ... dovrò ritirarmi. Spero che la signora me lo conceda. -
"Concedere. Concedere!" un altro tremito.
- Avvertirò la signora. - la governante aveva chinato il capo: - La signorina dove si trova, ora? -
"Signorina? Signorina?" gli occhi gli avevano fatto male. Forse li aveva sgranati troppo.
- Poco fa era nella stanza dove facciamo lezione. -
L'istinto di scappare e rintanarsi nella propria camera si era fatto più violento: se fosse rimasto a vagare per la casa, le possibilità di rivedere lui- lei- Len erano decisamente alte.
E, no, per il momento non aveva alcuna intenzione di rivederl-.
Era quindi letteralmente fuggito nella propria camera, aveva controllato in ogni angolo per assicurarsi che non ci fossero intrusi di qualsiasi genere, aveva chiuso la porta a chiave e, per sicurezza, l'aveva bloccata con una sedia.
Ma non era paranoico. Era solo per ricreare un ambiente tranquillo dove calmarsi.
Si era poi tolto gli stivali - li aveva praticamente lanciati verso lidi ignoti - e, ancora vestito, si era infagottato nelle coperte, rimanendo nel letto, immobile, a riflettere sul senso della vita.
Nel giro di due minuti, Kyte si era alzato ed era andato a sedersi prima sulla sedia, poi sul pavimento, poi anche sul comodino; aveva attraversato tutta la stanza, aveva guardato dritto negli occhi il suo riflesso allo specchio - sì, il colorito terreo e gli occhi sbarrati potevano far venire qualche dubbio circa il suo star bene - e aveva ripreso a consumare il pavimento della camera.
"No, calmiamoci." espirò e si passò una mano tra i capelli, cercando di recuperare anche solo un briciolo di lucidità: "Allora, Kyte. Poniamo caso che questo non sia un sogno. E che la donna più meravigliosa, eterea e attraente che tu abbia mai visto sia davvero un-" deglutì. Doveva dirlo. O pensarlo, almeno: "... un uomo.".
Ecco, ce l'aveva fatta. Stranamente, però, non si sentì affatto meglio.
"Ti trovi in una casa in cui la dolce e bellissima milady è in realtà un maschio. Che tutti trattano come una fanciulla. Che si veste come una fanciulla.
Che si comporta come una fanciulla. Che tu stesso consideravi una fanciulla fino a stamattina!"
Scosse la testa, lasciando andare la schiena contro il muro: "Tutto ciò è ridicolo. Uno scherzo di cattivo gusto. Len stava fingendo, vero? Vero...?"
Si diceva che, per credere realmente a qualcosa, valeva più toccare con mano che vedere.
Kyte si ripromise di procurare molto dolore fisico a chiunque osasse pronunciare una simile affermazione in sua presenza.
Però non poteva continuare a negare a se stesso ciò che aveva sentito: quello di Len non era il corpo di una donna.
"E' un... un uomo. Len è un uomo."
Si sedette sul letto, le gambe incapaci di sorreggerlo ancora per molto: "... hai fatto pensieri di quel tipo su un uomo. Un uomo che ha l'aspetto di una bellissima fanciulla, ma pur sempre un uomo."
Forse era per quello che i suoi sogni s'interrompevano sempre sul più bello.
"No, dico... è un uomo! Uomo! Come me!"
Si bloccò: "... beh, forse, non proprio come me. Len è più... piccolo di me. In ogni senso." lanciò uno sguardo alla porta: "Non c'è alcun rischio che mi aggredisca. E' ridicolo pensare che possa saltarmi addosso, no? No...?"
Rabbrividì: tecnicamente, poche ore prima, non era stato lui a mettersi a cavalcioni su di lui- lei- Len.
"Aspetta, Kyte. Ti sei fatto saltare addosso da un ragazzino vestito da fanciulla...?".
Affondò il viso tra le mani: forse era un po' esaurito.
Ma lo scoprire nel momento di più alto lirismo che la fanciulla desiderata per quasi due mesi talmente tanto da star male era, in realtà, un fanciullo avrebbe messo a dura prova i nervi di chiunque.
Almeno un pomeriggio di scenate isteriche poteva consentirselo.
Era da solo, nessuno avrebbe saputo niente, la sua reputazione non sarebbe stata distrutta e calpestata e lui avrebbe avuto modo di riprendersi.
Con calma. Con molta calma.
Trasse un profondo respiro: "A parte tutto... perché nessuno mi ha detto niente? Perché neppure Len mi ha detto...?"
"Perché si supponeva che tu non facessi pensieri impuri su di lei." gli sibilò una voce crudele, orribilmente simile a quella di Gakupo.
Con un brivido, Kyte si passò una mano dietro al collo: troppe volte, quel giorno, gli era parso di sentire qualcosa di freddo premergli su quel punto. Si era limitato a posarvici un palmo, senza osare voltarsi, troppo terrorizzato all'idea di incontrare degli occhi chiari invasati e la lama di una katana a pochi millimetri da qualche punto vitale.
"Ma io non le- gli- non sono saltato addosso a Len!" protestò, quasi avesse Gakupo davanti a sé: "E' vero, nella mia mente ho fatto questo e molto altro ma, nella realtà, sono sempre rimasto al mio posto! Dico sul serio! Ho mantenuto la mia parola! Ho solo... solo..." deglutì: "... quando le- gli- ho baciato la mano di Len, avrebbe dovuto allontanarsi. Perché non- ah, giusto."
Ridicolo chiederselo, visto ciò che aveva fatto subito dopo.
"Insomma... avevo promesso che non avrei fatto niente che lei non desiderasse, no? Ecco!" improvvisamente, si sentì un po' più sollevato, quasi riuscì a respirare meglio: "Quindi non mi puoi accusare!".
Nel pensarci, ricordò le parole di Gakupo a proposito di Len: "... non credo che sarei stato in grado di sconvolgerl-. Se anche ci fossi riuscito, lui- lei- Len mi avrebbe superato senza problemi.".
Si schiaffò i palmi in faccia, recuperando man mano contatto con la realtà: "Gakupo sa che Len è un... maschio?" esitò: "Ma... se così fosse, perché non me l'ha detto...?".
Si sarebbe aspettato qualcosa come: - Astieniti dal fare pensieri impuri sulla signorina, Kaito. Sotto la sua gonna non c'è nulla che possa interessarti. -. Con tanto di ghigno. Perché lui sapeva.
"No, un attimo." alzò la testa: "... perché Gakupo dovrebbe sapere che Len è un maschio? Se Len gliel'ha detto, perché non l'ha detto anche a me?" si passò di nuovo una mano tra i capelli: "... soprattutto se aveva capito.".
Scosse la testa, per scacciare quel pensiero: "Quindi... Gakupo crede che Len sia davvero una donna...?".
Se la risposta fosse stata affermativa, questo avrebbe cambiato un po' le cose.
"E Len, invece? Se aveva capito... perché non...?"
Farglielo scoprire in quel modo era stato crudele.
"... no, un attimo." si alzò, piano, cercando stabilità sulle gambe troppo deboli: "... io ho scacciato Len.".
Quella consapevolezza lo colpì come un pugno in pieno viso: "Se non mi ha detto nulla per divertirsi alle mie spalle, allora potrà ridere della mia reazione. Ma, se non mi ha detto niente perché fermat- dalla timidezza o dal timore della mia reazione... allora..."
Forse avrebbe dovuto almeno assicurarsi che non stesse piangendo.
Rabbrividì: non era una scena a cui avrebbe voluto assistere. Soprattutto pensando che, forse, la causa era lui.
"E'... è un'ipotesi. Non so se Len sia davvero..." si arrese, con un sospiro: "Devo parlare con Len.".
Guardò la porta.
"... domani.".

Quando uno dei domestici, bussando alla sua porta, gli aveva annunciato prima il pranzo, poi il the pomeridiano e infine la cena, Kyte aveva sempre rifiutato, affermando con voce stanca di non aver fame.
Di contro, un'ora dopo il the pomeridiano, era stato costretto ad uscire dalla camera e ad intrufolarsi nelle cucine, in cerca di qualcosa da mangiare. Avrebbe potuto chiamare qualcuno e farsi portare del cibo, ma non voleva si sapesse dove fosse.
Ricordava come Len sapesse orientarsi perfettamente.
Ma non era paranoico. Stava solo ricercando la calma interiore.
Poche ore dopo il tramonto, Kyte era stato di nuovo obbligato a far visita alle cucine, riuscendo a rimediare molto di meno e molto di meno appetibile - almeno, quel pomeriggio, un paio di giovani assistenti in cucina erano state ben felici di dargli un piccolo anticipo di quella che sarebbe stata la cena.
Che ragazze graziose erano, le assistenti in cucina. Era bello avere a che fare con fanciulle timide che sembravano non aver mai visto da vicino un esemplare dell'altro sesso.
Quasi gli avevano fatto dimenticare, per pochi secondi, la bella fanciulla che aveva fissato per quasi due mesi.
Almeno, loro non avevano problemi sotto le gonne. Non ne avevano, vero...?
"Non posso mettermi a sospettare di ogni donna che vedo!" si disse, cercando di ritrovare la strada per la sua camera, la candela alzata per fare luce: "Non è che tutte hanno un problema - non che per me sia mai stato un problema, o meglio, il problema è se il problema - che per me non è un problema - ce l'ha una donna, perché il problema implicherebbe che ci sia un problema di troppo - anche se io non l'ho mai considerato un problema, finché il problema - che per me non è un problema - appartiene a me! Sarebbe un problema se iniziassi a pensare che ogni donna possa avere un potenziale problema - che per me non è un problema - di sua proprietà piuttosto che appartenente a qualcun altro! Insomma, il problema - che per me non è mai stato un problema, prima di scoprire il suo poter essere un effettivo problema presso luoghi in cui non sarebbe dovuto essere - o meglio, in cui sarebbe dovuto essere, ma non di proprietà di persone che non dovrebbero averne la proprietà, perché allora il problema - che per me non è mai stato un problema - diventa davvero un problema, perché -"
- Kyte! -
- AH! -
La candela quasi gli cadde dalle mani, ma riuscì ad impedire che volasse via: non sarebbe stato carino far finire una fiammella sul tappeto. Affatto.
Len era lì, davanti alla porta della sua camera, con i capelli sciolti e la sola camicia da notte, i piedi nudi, gli occhi sgranati e la bocca schiusa.
L- vide portarsi una mano al viso: - ... che urlo virile. -.
"L'ultima persona che può fare dell'ironia siete voi." Kyte evitò di dirlo ad alta voce, limitandosi a rimanere immobile nella sua posizione, a pochi passi dalla sua camera.
"... perché Len è qui." non aveva neppure la forza di domandarselo.
Aveva pensato di parlare con lui- lei- Len il giorno dopo, non quel giorno stesso. Tanto meno in quel momento.
- Cosa... - cercò di tenere ferma la voce: - ... cosa ci fate qui? - osò chiedere, quasi temendo la risposta.
Vide Len piegare appena la testa di lato, lo sguardo fattosi preoccupato: - Ho sentito che siete stato poco bene. Mi dispiace molto. Spero che ora vi siate ripreso! Vi vedo meglio! - sorrise.
- Ah... sì. Sì, sto... meglio. Diciamo di sì. - esitò.
"E ora cosa dovrei...?"
- Siete riuscito ad arrivare in tempo, alla fine? -
- Prego? -
Len portò una mano davanti alla bocca, forse per nascondere un sorriso troppo accentuato: - Il vostro impegno urgente. -
"Ah."
- S-sì. Sono riuscito a fare tutto. Grazie per l'interessamento. - cercò di non mostrare troppo il tremore delle mani: non gli piaceva quel riferimento a quella mattina.
Anche se era ovvio che Len l'avrebbe fatto.
Ed era anche ovvio il motivo per cui fosse lì.
- P-perché siete qui ora? - si azzardò a chiedere: - Il sole è tramontato da molto, è sconveniente farvi trovare così davanti alla camera di un uomo... -
"O meglio, lo sarebbe, se non foste anche voi..."
- Anche mettere le mani sotto gonne e corsetti è sconveniente, non trovate? -
Colpito in pieno, e con molta violenza.
- In ogni caso... - Len parlò di nuovo, con un sorriso: - ... sono venuta qui per sapere come stavate. -
- Di not- -
- E perché credo che domani, se mai ci sarà lezione, subito dopo voi starete di nuovo improvvisamente male e sarete costretto a ritirarvi di nuovo nelle vostre stanze. -
"N-no, non era la mia idea... non lo era, no..."
- Quindi direi che questo sia un buon momento per parlare. -.
Era spacciato.
Ma per tutt'altro motivo rispetto a quello che l'aveva perseguitato nelle settimane precedenti.
Len rise - forse per l'espressione sul suo volto -, lo sguardo allegro su di lui: - Vogliamo rimanere qui nel corridoio? -
- N-no. Entrate pure. -
Sapeva di aver firmato la propria condanna. Di nuovo. Ma non avrebbe potuto evitare tutto per sempre.
Fece entrare Len nella propria camera, per poi richiudersi la porta alle spalle.
Aveva sempre pensato che sarebbe stato bellissimo avere Len, molto poco vestita, nella sua camera, magari vicino al suo letto.
La realtà era decisamente diversa, sotto ogni aspetto.
Cauto, andò a posare la candela sul comodino, senza distogliere lo sguardo dalla figura bianca che camminava nelle vicinanze della finestra: la pioggia era finalmente cessata, ma il cielo era ancora annuvolato e l'unica fonte di luce era quella fiammella; eppure, era incredibile come riuscisse a risaltare nel buio.
Voleva chiedere spiegazioni. Spiegazioni su ogni cosa: perché si spacciasse per una donna, perché tutti lo trattassero come tale, perché non era stato informato.
Ma sapeva di non dover essere irruento, di dover parlare con calma, soppesare le parole e riflettere a lungo prima di dire qualsiasi cosa.
- Perché fate credere di essere una donna? -
Len si voltò verso di lui, la schiena alla finestra.
Rispose dopo qualche secondo: - Ricordate cosa vi ho detto a proposito delle ambizioni di mio zio Al? -
Kyte annuì.
- Io sono la trentaduesima nata. - spiegò: - La mia nascita è stato un imprevisto. Dopo trenta figlie femmine, ormai i loro progetti erano stati ben delineati, non ci si aspettava la nascita di un altro maschio. Sarebbe stato... - si fermò, forse in cerca della parola adatta: - ... un brutto inconveniente. -
- Ma non avrebbero dovuto avere dei sospetti proprio perché sono nate così tante femmine? - lo interruppe Kyte, sentendo una strana agitazione: - Era logico che, prima o poi, sarebbe nato un altro maschio! -
- Forse. - lo sguardo di Len non gli piacque. Era freddo, vitreo, come quello di una bambola: - Ma la mortalità infantile è molto alta. Soprattutto se si hanno avuto tanti figli. La morte di un erede maschio imprevisto sarebbe stata davvero una terribile disgrazia che nessuno avrebbe mai potuto prevedere. -
Quando comprese il reale significato di quelle parole, Kyte rabbrividì.
- Anche mia madre ha dovuto sperimentarlo sulla sua pelle. Io sono la sua prima figlia sopravvissuta. Per questo le è stato concesso di tenermi. Sarei comunque potuta tornare utile, come donna. -
Non riuscì a dire o pensare una qualsiasi cosa.
- In ogni caso, non ci sono stati casi di tragiche dipartite impreviste! - lo sguardo di Len era tornato vivo, allegro: - Se avessi avuto delle sorelle, probabilmente sarei stata io il primo caso! Quindi non temete, la mia non è una famiglia troppo disturbata! Non più delle altre famiglie nobiliari, almeno! - rise, la mano davanti alla bocca: - Certo, non posso rivelare di essere un uomo. Allora, in quel caso, sì, potrei avere un tragico incidente. -
- Ma perché? -
Non riusciva a capire cosa lo stesse spaventando di più, se ciò che Len stesse dicendo o come lo stesse dicendo. Quel sorriso, per quanto perfetto per Len, era orribile, su quelle parole.
- Ve l'ho detto: ogni cosa è finalizzata all'ascesa al potere di mio cugino Oliver. Le uniche sue eventuali sostitute sarebbero le sue sorelle. Noi cugine dobbiamo aiutarlo con gli appoggi dei nostri mariti. Aiutarlo. Nessuna opposizione. Un altro maschio sarebbe una grande opposizione. Lo sarebbe in prima persona, lo sarebbe con il rischio di portare dalla sua parte le altre cugine. Che lui lo voglia o no, la sua sola esistenza causerebbe una spaccatura. Con un altro cugino maschio, ci sono solo due scelte: far sì che non dia mai più fastidio oppure... - accarezzò appena la gonna della camicia da notte, con un sorriso: - ... far sì che aiuti il caro cugino Oliver da brava cugina dolce e virtuosa. -.
Kyte era pietrificato. Fisicamente, mentalmente. Era come se ogni cosa si fosse bloccata in quel preciso istante.
Riuscì a recuperare il controllo, a fatica: - Ma... allora non potrebbero semplicemente mandarvi in convento...? -
- E dove? Dai frati? Dovrebbero rivelare la presenza di un altro cugino maschio e vi ho già spiegato cosa succederebbe, a prescindere dalla sua volontà. Oppure dalle suore? - ridacchiò: - Nonostante il mio aspetto, rimango comunque un maschio. Vorreste davvero un giovane tra tante vergini? -
"Messa così..."
- E poi, come si spiegherebbe che una famiglia di duchi ha mandato la loro unica figlia in monastero? - gli fece notare Len.
- Se è per questo... - ricordò Kyte: - ... è strano anche che una giovane in età da marito non sia neppure stata promessa in sposa. -.
Lo sguardo di Len si spense. Il suo sorriso si fece amaro.
Un'espressione che non gli piaceva per niente.
- Tra qualche anno, i miei genitori annunceranno la mia impossibilità di fare figli. E che non mi daranno mai in sposa a nessuno, dato che sarebbe ovvio che verrei chiesta in moglie solo per la mia dote. Diranno di voler evitare i cacciatori di dote, di perdere i loro possedimenti con un divorzio pianificato. - sospirò: - Beh, del resto, non è così falso. Io non posso fare figli. - si portò una mano al ventre, la voce ridotta ad un sussurro: - In compenso, possono usarmi come sostituta di mia cugina Lily. Suo marito ha accettato di sposarla pur conscio che, nel caso dovesse succederle qualcosa, allora dovrebbe prendere me in sposa. E sa che non sono una donna. -
Alzò lo sguardo, di colpo pensieroso, la voce trasognata: - Ora che ci penso, non so neppure in quanti sappiano la verità. Per quel che ne so, ne sono a conoscenza solo le famiglie dello zio Al e di mia cugina Lily. Non so neppure quanti abitanti di questa casa lo sappiano, a parte le cameriere che mi aiutano a vestirmi. Ah, non vi preoccupate! - si affrettò ad aggiungere, forse notando la sua espressione sorpresa: - Tutte donne mature che mi hanno vista crescere! Non c'è rischio che occhi di giovani vergini vengano corrotti! - ridacchiò.
Kyte non riuscì a reagire: non sapeva se considerare tutto quello una grandissima idiozia o una cosa molto inquietante.
Gli occhi azzurri di Len tornarono a lui, velati di malinconia: - Ora capite perché non potrò mai sposarmi, Kyte? -
- ... sì. -
O triste.
- Capite anche perché i miei genitori vogliono che io sia sempre accompagnata da un uomo, anche solo per andare a fare spese in città? -
Kyte non rispose.
- ... se qualcuno... - mormorò Len, lo sguardo perso oltre il vetro della finestra: - ... cercasse di... compromettermi... scoprirebbe la verità. Ovvio che le possibilità sono basse, ma... - trasse un profondo respiro: - ... non possono permettere che qualcuno scopra la verità. Non solo sarebbe d'intralcio alle idee di mio zio, ma farebbe cadere il più grande dei disonori sulla mia intera famiglia. Sull'intero casato Dewsen. Se si scoprisse che Lady Len Mirror è un uomo che si fa passare per una donna, sarebbe la fine di ogni cosa. Non ho idea di cosa potrebbe succedere ai miei genitori. Tuttavia, per sistemare questo brutto scandalo, si potrebbe eliminare la fonte del problema oppure... - chiuse gli occhi, piano: - ... ad alcuni ricchi piacciono molto le belle fanciulle che si rivelano fanciulli. Sono disposti a pagare cifre molto alte, pur di averne. Non so quale sarebbe il destino più orribile. -.
Kyte tremò, i pugni serrati tanto da far male.
"E' tutto così... ridicolo."
Non sapeva come altro esprimersi: rivoltante? Capace solo di indignare? Contro ogni logica?
Non ne aveva idea, sapeva solo che una cosa del genere lo disgustava. O forse era l'idea che fosse la causa di quello sguardo spento a disgustarlo.
- A parte questo brutto rovescio della medaglia... - la voce di Len tornò trillante, scuotendolo dai suoi pensieri: - ... è divertente! Pensate a tutti quegli uomini che mi proclamano eterno amore e che mi definiscono la donna più bella che abbiano mai visto! - rise.
- Già... - disse, disorientato da quel cambio repentino.
In quel momento, gli occhi azzurri di Len erano di nuovo vitali, divertiti: - Anche voi avete detto di trovarmi bella! -
Kyte trasalì al ricordo: - S-sì. -
Doveva chiederlo. Ormai non poteva più esitare: - Len... -
- Sì? -
- ... perché non mi avete detto... la verità...? -
Len sbattè le palpebre, quasi non avesse capito.
Kyte inspirò, cercando di stare calmo: - ... se voi... se le vostre intenzioni... insomma, avete capito, no? -
- No. -
"Ugh."
- ... mi siete praticamente saltata addosso. - tanto valeva evitare giri di parole: - Se le vostre intenzioni erano quelle, avreste dovuto dirmi la verità! -
- Perché? -
- ... eh? -
Ora era davvero disorientato.
- Ho sentito il vostro sguardo, Kyte. Di tanto in tanto, mi sembrava di sentire sguardi alquanto sconvenienti... -
"Ugh. Se n'è accort- ... beh, era ovvio che sarebbe successo, alla fine..."
- E poi... - gli si avvicinò, sorridente: - ... non mi siete parso così dispiaciuto, stamattina. -
Indietreggiò, cercando di non sembrare eccessivamente colpevole.
- Mi siete parso dispiaciuto solo quando la vostra mano si è fatta troppo audace. -
Un brivido lungo la schiena. Non gli piaceva la piega che stava prendendo quel discorso, per quanto lui- lei- Len stesse sorridendo.
- Ditemi, Kyte... - vide Len portare le mani dietro la schiena: - ... mi avete desiderata? -
Un groppo alla gola.
Tuttavia, era conscio del fatto che negare, ormai, era decisamente inutile: - ... sì. - inspirò: - ... non immaginate quanto. - aggiunse.
Il suo sorriso rimase immutato: - E, questa mattina, mi avreste fatta vostra? -
Esitò. Poi confessò: - Sì. -
- E dunque mi avete scacciata solo perché il mio corpo non è come vi sareste aspettato? -
Sussultò.
La voce di Len si era fatta tagliente, gli occhi glaciali, sembravano fargli male, gelarlo.
- N-no... -
- Quanta convinzione nella vostra voce... - disprezzo, un disprezzo che non aveva mai sentito in quella voce: - Mi fa davvero piacere sapere di essere stata desiderata come una qualsiasi donna di strada! -
- N-non è così... - stava sudando freddo: non aveva idea di cosa fare, soprattutto perché non riusciva neppure a capire cosa stesse succedendo. Troppi cambi repentini. E troppe parole che riuscivano a fargli male come una lama.
- Non vi siete fermato di fronte al mio non avere seno, non vi siete fermato di fronte ai miei fianchi dritti, siete scappato come certe mie cugine quando vedono un topo non appena vi siete accorto che c'era un qualcosa di più! -
- T-temo sia un po' diverso a-avere a che fare con una donna senza forme e un... ehm... - perché gli sembrava che le parole si mescolassero a caso e non riuscisse a comporre una frase di senso compiuto?
- Capisco. - un sibilo tagliente: - Posso immaginare come mi abbiate desiderata. Di certo i vostri sogni non erano popolati da petali di rosa e bolle di sapone. -
- A dire la verità, i petali di rosa e le bolle di sapone c'erano. -
L'espressione sul volto di Len parve infrangersi, crollando in pezzi per lasciare il posto ad una bocca schiusa e degli occhi sgranati: - ... ah... davvero...? - fece un passo indietro.
Forse poteva approfittarne per poter parlare.
- Cosa vi aspettavate? - cercò di imprimere un briciolo di decisione nella voce: - Che proseguissi come se nulla fosse? Era ovvio che sarei rimasto scosso! -
- Tanto da evitarmi per l'intera giornata? - la voce di Len aveva recuperato tono, facendosi irosa.
- Sì! -
Di nuovo quegli occhi sgranati.
- ... insomma... non è una cosa da poco. - disse Kyte, con tono più conciliante: in realtà, non aveva idea di cosa stesse dicendo, la sua mente si rifiutava di dare segni di qualsiasi tipo.
- Perché? -
Kyte esitò: "Come spiegare...?"
A caso, mise gli indici e i medi a forbice e li incrociò: - ... credo sia un problema di incastro. -
Len aggrottò la fronte.
"... ehm..."
- Usate un po' di fantasia! - sbuffò Len, portando le mani ai fianchi: - Come credete che facciano tutti gli altri? -
- Gl-gli altri...? - farfugliò Kyte, confuso.
- Beh... - con un sospiro, Len si lasciò cadere sedut- sul bordo del letto: - ... le spose sono fanciulle vergini, gli sposi non necessariamente. Credete davvero che tutti loro siano stati nei bordelli o con qualche cameriera? -
- Ah... - "In effetti, non... ci avevo mai... pensato..."
Si sentiva un idiota.
- Si sa come funziona, no? - disse Len, alzando gli occhi al soffitto: - Finché rimane tra le mura di casa, si può fare qualsiasi cosa. Basta solo mostrarsi bravi e buoni in pubblico e andrà tutto bene. -
- Già... -
Calò il silenzio. Fin troppo pesante.
- ... dunque... - fu la voce pacata di Len ad infrangerlo, ma non ad alleggerire l'atmosfera: - ... mi avete desiderata così tanto che lo scoprire il mio corpo più simile al vostro che a quello di una qualsiasi altra fanciulla ha tramutato il vostro desiderio in disgusto? -
- Non è disgusto! - vide Len trasalire: - E' vero, sono scappato. - non era bello ammetterlo, ma era così: - Non sapevo come affrontarvi e vi ho evitato per tutta la giornata. E, sì, forse l'avrei fatto anche domani, per quanto la mia idea fosse parlarvi. Avrete avuto i vostri motivi per nascondermelo fino all'ultimo momento, fosse anche solo per prendervi gioco di me! Però... - inspirò a fondo: - ... mi dispiace averlo fatto. Sarei dovuto essere più deciso e meno vigliacco. O, almeno, avrei dovuto riprendermi più velocemente. E non avrei dovuto trattarvi così. Avrei potuto rifiutarvi. E avrei dovuto. Vi credevo una donna e, per quanto le vostre intenzioni fossero chiare, non avrei dovuto accondiscendere. Mi sono lasciato trascinare e ho sbagliato a prescindere dal vostro sesso. E, nonostante ciò, dopo ho anche avuto il coraggio di scacciarvi come se fosse stat-... stato voi a farmi il più grande dei torti. Voi avevate il vostro motivo, ma io non- -
- Kyte. -
Si bloccò.
Len stava sorridendo, un sorriso privo di qualsiasi traccia negativa: - Perché vi state scusando? -.
"... eh...?" sbattè le palpebre, confuso.
Una mano candida, tesa in alto, verso di lui.
Perplesso, si avvicinò; la mano andò a posarsi sul suo viso, leggera e calda.
- Va tutto bene. Vero? - un sorriso divertito.
Andava bene così.
- Sì. -.
Era sempre Len.
Che di solito sul suo petto ci fosse un'imbottitura, che i suoi fianchi fossero dritti, che la sua voce avesse motivo di essere di un tono più basso di quella delle sue coetanee, era sempre Len. Le sue labbra non avevano un sapore diverso da quando le credeva femminili, le sue mani non erano meno delicate.
Ovvio che nel suo corpo ci fosse una differenza. C'era una differenza sostanziale e non aveva neppure un'idea precisa del come fare.
Ma andava bene così.
- Kyte... -
Si scostò, incontrò i suoi occhi, lucidi: - La porta. -
Con grande fatica, si voltò verso l'entrata. Tornò a guardare Len, sotto di sé: - E' chiusa. -
- A chiave. -
- ... giusto. -
Con tutta la poca voglia che si potesse avere, si alzò e si costrinse ad andare alla porta, forse spinto solo dall'idea di tornare indietro il più in fretta possibile.
Mise una mano sulla maniglia, afferrò la chiave nella toppa.
Si bloccò.
"... è... diverso." inspirò, cercando di stabilizzare il respiro anche solo per quei pochi istanti: "E' diverso da ciò che pensavi, Gakupo. Len non è una donna, Len..."
Strinse la maniglia.
"Non sto distruggendo il tuo onore, vero, Gakupo? Non era... non era questo ciò che pensavamo. Non pensavo che anche Len potesse... pensare a ciò a cui pensavo io. Non è... Non sto... distruggendo la sua innocenza. Non lo sto facendo... vero?"
Inspirò.
Strinse la maniglia con ancora più forza, le nocche sbiancarono.
Ruotò la chiave.

In quelle settimane, gli era capitato di pensare a come potesse essere Lady Len Mirror mentre dormiva.
Aveva visto svariate donne dormire sul suo petto e sembravano tutte delle creature angeliche, anche quelle che, da sveglie, rasentavano l'insopportabilità; lei sarebbe dovuta essere qualcosa di ultraterreno, di sublime, di- sì, gli era capitato di pensarla mentre era ancora assonnato.
Però, sì, Len era effettivamente adorabile, con la testa sul suo petto, il respiro lento, una mano posata su un suo braccio.
L'aveva seriamente pensato, quasi intenerito, per circa due secondi.
Quando aveva osato muovere un braccio, aveva sentito un mugolio di disappunto e delle dita che si chiudevano appena. Perplesso, Kyte aveva aspettato qualche minuto, prima di provare a muovere l'altro braccio; si era ritrovato un bicipite stretto in una morsa e un mugolio stizzito.
"... credo ci sia un problema."
Presumibilmente era ancora notte: l'unica fonte di luce era sempre la fiammella della candela, ormai ridotta ad un cilindro di cera alto tre dita, e dalla finestra non sembrava entrare alcuna luce solare offuscata dalle nubi.
Quella constatazione riuscì a calmarlo un po': sarebbe stato un problema se le cameriere di Len non avessero trovato la signorina nella sua camera. E sarebbe stato un grosso problema se qualche servitore troppo zelante avesse avuto l'idea di andare ad avvisare lui dell'improvvisa sparizione della signorina.
Len doveva rientrare nella sua camera entro l'alba. Fosse stato il contrario, fossero stati nella camera di Len, Kyte non avrebbe avuto problemi a scappare senza farsi notare - ormai aveva una certa esperienza, sia di fuga dalla porta che dalla finestra. Anche se non amava molto percorrere un certo numero di metri, sospeso a chissà quanto da terra, con il solo supporto di una striscia di chissà quale materiale chissà quanto resistente.
Ora che ricordava: una volta, mentre fuggiva discretamente passando alle spalle del gentil marito cornamunito, aveva notato Gakupo proprio di fronte a quest'ultimo; si era ricordato solo in quel momento che fosse in affari con il suddetto gentil marito, ma aveva apprezzato molto il suo spudorato aver fatto finta di non vederlo. Ancor di più, aveva apprezzato la sua espressione sconvolta - mostrata liberamente solo una volta che il gentil marito si era distratto a leggere chissà quale indefinita serie numerica.
Una fitta all'altezza dello stomaco.
Per quanto, tecnicamente, non fosse venuto meno alla sua promessa, sentiva una strana sensazione molto poco piacevole. Non era così forte da stordirlo, era più come una piccola ombra discreta, ma la sua sola esistenza lo metteva a disagio.
Trasse un profondo respiro e tornò a guardare Len.
Era quasi straniante vederlo zitto e fermo. Ma non era un'immagine negativa. L'avrebbe definita "tenera", se non si fosse reso conto che quell'amorevole creatura lo stava usando come cuscino.
Sperò che non pensasse che il suo cuscino fosse troppo duro e che fosse meglio ammorbidirlo prendendolo a pugni. O che non fosse tipo da aggrapparsi al cuscino con tutti gli arti - una delle sue ginocchia era su una brutta traiettoria.
E dunque doveva rimanere immobile pure lui, anche a costo di farsi venire i crampi.
Sì, Len di Mirror, durante il sonno, era davvero una splendida visione. Solo la visione era splendida, però.

Forse era stato un trauma talmente grande da farlo svenire sul colpo, forse il rimanere immobile lo aveva portato ad assopirsi, ma stava di fatto che Kyte si era svegliato qualche indefinito tempo dopo - deducendo argutamente di essersi addormentato. Guardandosi intorno, si era accorto di essere solo: Len non era più nella stanza e non c'erano neppure i suoi vestiti.
La candela si era ormai spenta - o forse l'aveva spenta Len prima di andarsene? - e dalla finestra entrava, a fatica, una debole luce aranciata, scurita dallo spesso velo di nuvole.
Era l'alba e Len era tornato nella sua camera prima che succedesse l'irreparabile.
O almeno, a giudicare dal fatto di essere ancora vivo, era probabile che Len fosse nella propria camera. In caso contrario, quasi si sarebbe aspettato di risvegliarsi circondato da tutti gli abitanti della magione, con sguardi truci, la duchessa di Mirror in lacrime, il duca di Mirror che urlava: - Tuuuuuuu! Come hai osato compromettere la mia unica figlia? Lei era promessa in moglie al principe in persona! Esigo un matrimonio riparatore e una penale immensaaaaa! -, Len che non era mai stata un uomo ma che non solo era una donna, non solo lui l'aveva deflorata, ma l'aveva anche messa incinta di trenta gemelli - tutte femmine, quindi tutte da munire di dote da capogiro -, Gakupo che gli puntava la katana al collo e gli sibilava: - Ad ogni azione c'è una reazione e questa è la giusta reazione alla tua azione. -.
Kyte scosse la testa, per scacciare quell'immagine dalla mente.
Era assurdo occupare i pensieri con cose del genere quando aveva ancora vividi i ricordi di quella notte. Non era stato affatto come l'aveva immaginato - sia per ovvi motivi fisici, sia perché, a ben pensarci, la parte interessante non l'aveva mai davvero immaginata. Forse era dovuto al fatto che non ci fosse stata solo la "semplice" soddisfazione di avere finalmente Len: c'era stato anche un misto di curiosità e timore, il non avere idea se ciò che valeva per le donne valesse anche per gli uomini.
Non che Len fosse l'incarnazione della virilità assoluta: il suo corpo era morbido, le labbra delicate, la voce non eccessivamente bassa, sembrava davvero una donna senza forme - almeno fino ad un certo punto.
L'unica cosa che aveva messo in conto fin dall'inizio era il fatto che Len - a prescindere dal suo sesso -, non avesse mai toccato un uomo. Che poi neppure lui avesse mai toccato un uomo era un fatto trascurabile.
Se non altro, forse, almeno non si sarebbe più sentito prossimo alla defunzione ogni volta che Len entrava nel suo campo visivo.
La parte che più lo colse di sorpresa, però, fu quando lo rivide: l'ora di lezione, la solita stanza con tavolo, lavagna, poltroncine, divano e finestra, Len con uno dei suoi abiti merlettati, con il suo bizzarro pupazzo e un libro da martoriare.
Ogni cosa sembrava come sempre, ma lo era solo di facciata: ora sapeva che sotto quella stoffa pregiata si nascondeva il corpo di un ragazzo, sapeva cosa si nascondeva sotto quell'espressione allegra e si era unito a lui.
La cosa che più lo colse di sorpresa era il fatto che non trovò nulla di estraneo, che nulla sembrava fuori posto, che fosse il prima ad essere sbagliato, la vera situazione estranea, capace di metterlo a disagio. Non sapeva spiegarsene il motivo, ma stava bene, non solo per l'appagamento fisico.
- Kyte! -
Gli sembrò il primo suono forte e distinto dopo anni di rumori lontani e ovattati.
Non che fosse chissà quanto che non sentiva la voce di Len - non che quella notte avesse tenuto chissà quale profondo sermone filosofico, ma aveva pur sempre impegnato la voce in modo molto piacevole.
- Siete ancora addormentato? - ridacchiò lui, lasciando il libro sul tavolo.
- Non ho dormito, stanotte. - sospirò Kyte, raggiungendo la lavagnetta con tutta la noncuranza del mondo.
- Neanch'io ho dormito, stanotte! - rispose Len, in un trillo innocente: - Ma non per questo mi metto ad oziare! -
Kyte si guardò intorno, per accertarsi che non ci fosse nessuno a portata di orecchie. Abbassò la voce, per non farsi udire al di là della porta aperta: - Voi siete sempre pieno di energie, Len. Non credo facciate testo. -
Per tutta risposta, l'altro gonfiò le guance.
Broncio. Nessuna possibilità di risposta o di ribattere. Len di Mirror aveva ragione a prescindere.
- Direi che possiamo iniziare, allora. - fece per prendere il gessetto, quando si accorse che Len era ancora in piedi, la sedia occupata dal suo pupazzo.
- ... non... - azzardò, perplesso: - ... vi sedete...? -
Silenzio.
Sul viso del più piccolo apparve un sorriso tiratissimo: - No. Grazie. Rimango in piedi. - lo vide portare le mani dietro la schiena: - Oggi credo farò lezione in piedi. -
- ... come volete. -
Si era abituato a considerare normali le bizzarrie di Len, eppure si stupiva ogni volta che se ne presentava una nuova. O forse quello era un suo capriccio.
Gli ci volle qualche minuto per capire - e un attimo per impedirsi di ridere. Non sarebbe stato un gesto carino, decisamente.
Però, non sapeva perché, il senso di colpa era talmente piccolo da essere impercettibile.

- Quanti anni avete? -
Si fermò, stupito: "In effetti, non gliel'ho mai detto..."
Per qualche oscura ragione, era certo che Len lo sapesse.
- Ventuno. -
- Davvero? - una luce sinceramente sorpresa in quegli occhi azzurri: - Ve ne avrei dati diciotto, forse diciannove! -
Gli venne da ridere: - Ah, sì? Qualcuno me ne ha dati anche venticinque. -
- Mentiva. - Len alzò viso e spalle, con fare superiore: - Dunque noi abbiamo sette anni di differenza! -
- Sei. -
L'altro lo guardò, quasi avesse detto la peggiore delle eresie.
Kyte sorrise: - Sono sei, Len. Credetemi. -
- ... - il più piccolo portò una mano davanti al volto, per poi chiudere un dito per volta. Quando si ritrovò senza dita da abbassare, si fermò un istante.
Rapido, incastrò il manico dell'ombrellino tra spalla e collo e alzò l'altra mano, chiudendo un dito.
Lo vide sgranare gli occhi: - ... da quando tra quindici e ventuno ci sono sei numeri? - boccheggiò, incredulo.
- Credo da quando sono stati inventati. -
Sei anni di differenza.
Non molto, in realtà: tuttavia, in quel momento gli sembrava strano pensare che Len avesse quindici anni e che, dunque, ragionasse come un ragazzo - o meglio, una ragazza - di quindici anni.
Tutte le donne che aveva avuto erano della sua età, a volte anche più grandi di lui, di rado di uno o due anni in meno. Spesso storie di una notte o di una settimana, a volte di un mese se erano particolarmente interessanti.
Il giorno dopo c'erano battute maliziose, giochi di sguardi, il prendersi gioco degli altri parlando in codice, la piacevole sensazione di condividere un segreto - e il sinistro divertimento nel parlare faccia a faccia con mariti cornificati, esibendo la più candida delle facce di bronzo.
Con Len no.
O meglio, sì. C'erano state battute, condividevano ben più di un segreto, ma era diverso.
Oppure, semplicemente, non era solo quello. Ogni cosa sembrava una versione migliorata delle settimane precedenti: trascorrere il tempo in casa, all'aperto, accompagnati o da soli, l'andare in paese o l'accogliere ospiti, sembrava tutto più... neanche lui sapeva cosa, esattamente. Ma era piacevole, lo preferiva al passato.
- Secondo voi, da qui si vede il paese? -
- Forse dal tetto di casa vostra... -
- Non mi ci faranno mai andare, ora, è tutto scivoloso! -
- Vorreste arrampicarvi su un albero, allora? -
- Giusto! Non ci avevo pensato! -
- Cos- Len, stavo scherzando! Non potete arrampicarvi su un albero, tanto meno con quei vestiti ingombranti! -
- Allora li levo! -
- NO! -
Una versione migliorata che, all'apparenza, sembrava perfettamente identica alla precedente. Ma non lo era affatto.
E, cosa molto meno trascendentale e sentimentale, Kyte constatò come, effettivamente, non rischiasse di perdere l'onore ogni due secondi in presenza di Len, soprattutto se erano da soli.
Ora la dignità rischiavano di perderla entrambi, in un colpo solo.
E il colpo quasi gli era preso quando, una volta, aveva sentito un vociare di donne in avvicinamento; quando le servitrici erano apparse sulla riva del lago, avevano trovato lui e Len impegnati in una lezione speciale sulla bellezza delle nuvole e il loro saperle disegnare secondo l'antica arte giapponese del nonricordavacheidioziasifosseinventato.
Aveva ringraziato milioni di volte la vicinanza dei tronchi degli alberi in quella zona, una vera e propria barriera di legno che aveva impedito alle poverette di trovare lui e Len presi da tutto tranne che dalle nuvole.
La notte, per i primi tempi, la sua preoccupazione era stata che Len tornasse nella sua camera prima dell'alba.
Perché, no, lui non gli aveva mai permesso di entrare nella propria camera. Poteva stare fuori, al massimo rimanere sulla soglia, ma non entrare. Non importava cosa stesse succedendo: dovevano arrivare fino alla sua, di stanza. Ed era stata una sofferenza fisica quando si erano ritrovati abbracciati proprio vicino alla camera di Len: lui aveva preteso di portarlo nella sua camera, di Kyte. L'alternativa era consumare lì, nel corridoio. Ciò che aveva convinto Kyte era il fatto che Len non si sarebbe fatto problemi a rimanere davvero in corridoio.
Forse per un aiuto divino, una volta gli capitò di udire un dialogo tra due domestiche, in cui una diceva all'altra, forse assunta da poco, di non entrare nella camera della signorina: - La cosa strana è che non nasconde assolutamente nulla. La sua stanza non è affatto diversa da quella di una qualsiasi altra signorina del suo rango, te lo dico io che la pulisco ogni mattina! Soltanto, la signorina detesta che qualcuno entri nella sua camera. Soltanto noi che puliamo e le sue cameriere possono farlo! Addirittura, ho sentito che una volta ha scacciato la signora. La signora, capisci? -.
Aveva chiesto a Len perché non potessero usare la sua camera, anche per poche notti.
La risposta era stata accompagnata da un sorriso innocente: - Perché è la mia camera. Quindi la uso io. Le uniche persone che possono entrare sono quelle che fanno sì che non si crei un deserto di polvere e che mi aiutano a vestirmi. Ma, se sapessi mettermi tournure e corsetto da sola e se avessi voglia di pulire io, state certo che anche quelle persone non potrebbero più entrare. -.
Al di là di quello, con il trascorrere dei giorni, anche la sua unica preoccupazione era andata scemando: sembrava che Len sapesse sempre quando destarsi e andarsene, spesso senza neppure svegliarlo, tanto si muoveva piano.
Era anche Len a raggiungerlo, di notte.
All'inizio non tutte le notti, poi aveva iniziato a ritrovarselo nel letto ad ogni calare del sole. O anche molto dopo. Non che gli orari fossero sempre gli stessi: poteva bussare alla sua porta già alle dieci, oppure apparire alle tre di notte solo per svegliarlo con la stessa grazia e piacevolezza di un insetto molesto - o anche lanciandoglisi addosso di peso, ottenendo più di ucciderlo che di svegliarlo.
Anche se Kyte preferiva che si presentasse poco dopo il tramonto - e non solo per evitare di ritrovarsi con ameni lividi: prima Len entrava nella sua camera, più tempo avevano. Peccato fosse successo solo tre volte nell'arco di un mese - e per fortuna anche gli assalti all'alba si erano rivelati altrettanto rari.
A rincuorarlo, il fatto che non fosse solo Len a lasciare segni.
- Cosa? Perché? Quand'è successo? Volevo mettere l'abito azzurro con la scollatura! -
- Inconvenienti che capitano. Sarà per un'altra volta. -
- Per colpa vostra, dovrò mettere un abito accollato! In piena estate! Un collarino non basta a coprirlo! Devo assolutamente reperire collarini più grandi! Con molto pizzo! Ma non posso mettermi un abito accollato, è fuori questione! Quindi, mi metterò tre collarini insieme! -
- Temo sia sospetto, signorino. -
- Voi siete sospetto. -.

C'era un dovere che mancava alla lista delle cose che avrebbe dovuto fare.
Ci mise un po' a ricordargli della sua esistenza ma, quando lo fece, fu in modo decisamente rumoroso.
- Un invito dai conti di Tibirsh! Dobbiamo andare! -
A Kyte bastò seguire quegli schiamazzi tanto conosciuti per raggiungere l'ovvia fonte di tutto quel baccano: Len, con la madre e svariate servitrici, leggeva una lettera che un tempo doveva essere stata scritta su carta pregiata - ora era ridotta piuttosto male e non voleva sapere in che modo fosse stata vittima di tutto quell'entusiasmo.
"Ma perché qualsiasi cosa di carta passi sotto le mani di Len fa una brutta fine...?" Sperò che almeno i fogli con i kanji e i libri di storia giapponese fossero immuni.
- Allora do risposta affermativa. - disse la duchessa di Mirror, pacata.
- Ovvio! - esclamò Len, quasi indignato dall'idea che si potesse fare il contrario: - E devo avere un vestito nuovo! Dobbiamo andare in paese! Chiamate subito la sarta, la voglio qui per oggi pomeriggio! Fatemi trovare pronta la carrozza tra meno di un minuto! Signor Kyte, preparatevi, andiamo a fare spese! -
"... sì, direi che Len ci tiene." sospirò e annuì, evitando di sfuggita le servitrici scattate come inseguite da gente armata di forconi.
"... direi che quindici anni di educazione femminile sono difficili da ignorare." constatò, notando a malapena la duchessa di Mirror cercare di calmare il figlio, con neanche troppa convinzione, a dir la verità.
Quando furono nella carrozza - con immancabili accompagnatrici al seguito -, Kyte osò domandare: - Per cosa stiamo andando, esattamente? -.
Prima che una qualsiasi delle altre donne potesse rispondere, Len aveva esordito, quasi urlando: - Un ballo a casa dei conti di Tibirsh! Capite? -
- Uhm... all'incirca... -
Il nome non gli era nuovo, ma non faceva parte delle cerchie che aveva frequentato.
- Ci sono stata solo una volta, ma è stato davvero bellissimo! - sospirò Len, le guance arrossate, gli occhi che brillavano: - Uno dei posti più incantevoli che abbia mai visto! Hanno la sala da ballo tutta gialla! E... - si prese il viso tra le mani, lo sguardo perso: - ... la loro è la migliore torta di banane che abbia mai mangiato! -
"Ora capisco il vero motivo.".
Gli era sorto un dubbio, però: - E... perché stiamo andando in paese, se la sarta viene a casa...? -
- Futili dettagli, signor Kyte. -
- Avete ragione. -.
Appena sceso dalla carrozza, aveva preparato le braccia: lo sapeva che sarebbe finito con il portare qualcosa di pesante. Molte cose pesanti.
Soprattutto se di dubbia utilità.
Ad esempio, perché comprare un gigantesco baule nuovo? E perché gigantesco?
- Non lo trascinate, che si rovina! - aveva esclamato una delle cameriere.
"Se non altro, se qualcuno osa avvicinarsi a Len, posso sempre lanciargli questo coso. Anche se temo sarebbe l'ultima cosa che il galantuomo vedrebbe."
- Ma possiamo mettere tutto nel baule, così non portiamo troppe cose! -
- Ottima idea! -
"Ma così aumenta il peso a me!"
Le altre gite in paese erano state molto, molto, molto più pacate. "Perché la prospettiva di un ballo trasforma gli uomini da accompagnatori a bestie da soma? Len, avreste mica un vestito da prestarmi?".
Era talmente preso dall'evitare di staccarsi le braccia che fu solo quando ci fu una pausa - ossia un'occasione di liberarsi di quel coso - che si degnò di guardarsi intorno. Anche solo per capire se fosse davvero in paese o se le gentili signorine l'avessero trascinato con l'inganno chissà dove e chissà con quale oscuro fine. O qualcosa del genere.
Comunque, ad una rapida occhiata, sembrava effettivamente trovarsi in paese.
Dopo qualche istante, però, il suo sguardo andò a due uomini non troppo distanti; o meglio, lo sguardo era sceso alle pistole che tenevano alle cinture.
- C'è qualcosa di interessante? -
La sua attenzione fu distolta da un turbinio di stoffa color crema e da due occhi azzurri incuriositi.
- Stavo pensando che... - rispose Kyte, piano: - ... io non ho una pistola. -
- Oh! - Len si portò una mano alla bocca: - Ed è grave? -
- Uhm, diciamo che, se dovessi affrontare un uomo armato di pistola, io e la mia spada saremmo una barzelletta vivente. -
- In effetti... -
Kyte sospirò. Doveva munirsi di pistola da tempo, ma non aveva neppure idea di cosa dovesse fare.
"Serve una licenza? Le posso prendere tranquillamente? E, soprattutto, dove le vendono?"
Forse era distratto lui, ma non gli era parso di notare negozi di armi, in quel paese.
- Come mai non ne avete mai presa una? - domandò Len, perplesso.
Kyte si passò una mano tra i capelli, sentendosi ogni istante più stupido: - Gakupo ne ha due. Una è di scorta, dice. -
"Ho sempre pensato di usare la sua, nel caso." evitò di dirlo. Scosse la testa, irritato: "Avevi deciso di non approfittartene più, vero, Kyte...?".
- Capisco. - disse Len, come se nulla fosse.
"Chissà se ha capito davvero..." esitò. Gli dava fastidio essere considerato un parassita. Però si era reso conto che piangersi addosso era solo controproducente, in qualsiasi senso.
Delle mani leggere sulle spalle, un soffio nell'orecchio: - Continuate a guardare le armi di altri uomini, Kyte? -
Sobbalzò e guardò Len, probabilmente con un'espressione allibita. Di contro, lo sguardo dell'altro era divertito, come sempre.
- Signorina! E' ora di tornare! -
- Oh, di già? - Len si portò una mano alla guancia, dispiaciuto.
- Oh, di già. - Kyte si trattenne dall'alzare le braccia al cielo e intonare chissà quale canto di ringraziamento.

La visita in paese si rivelò ancora più inutile - almeno per Kyte - una volta tornati a casa: quando giunse la sarta, difatti, Len mostrò di avere le idee ben chiare circa il vestito che voleva.
- Ecco, vedete? - fece il più piccolo, mostrando alla donna un disegno su di un libro: - Voglio questo! Però adatto a qui! Una rivisitazione all'inglese, ecco! -
- Sì, si potrebbe... - rispose la sarta, visibilmente perplessa.
- Si deve! - puntualizzò Len, calcando sulle sillabe: - Per esempio, qui sopra si possono fare delle maniche strette e poi lasciarle larghe in basso! Sotto va bene così! Anche la scollatura, magari sollevata rispetto alle spalle! -
- Sollevata...? -
- E ci voglio anche i campanellini! Ah, e il fiocco! Per le scarpe, quei cosi sembrano scomodi, quindi mi serve qualcos'altro che ci somigli... -
Kyte sospirò, appoggiandosi alla stipite della porta, le braccia conserte: "Sì, l'educazione femminile è decisamente difficile da ignorare.". Non sapeva se trovarlo divertente o esasperante: del resto, quel vestito somigliava ad un-
- Signor Kyte! -
- S-sì? - trasalì.
- Anche voi dovreste rifarvi un po' il guardaroba! Non vorrete indossare robe vecchie, al ballo! -
- Ah... sì... giusto... - "Ecco cosa avrei potuto fare in paese. Dannato baule."
- Beh, approfittatene ora! - Len sorrise: - Fatevi fare un vestito bello come il mio! -
Esitò, improvvisamente inquieto: - ... non devo avere un abito in coordinato al vostro, vero...? -
- Assolutamente no! -
- Bene. - non potè impedirsi di trarre un sospiro di sollievo: non ci teneva a diventare un gigantesco confetto rosa.






Note:
Nessuna, stavolta. *O*


E si è infine giunti a questo Momento Topico: Kyte ha fatto sfoggio di tutta la sua virilità e compostezza (?), Len altrettanto (?), Kyte e Len si sono chiariti, hanno capito che certe cose sono meglio in pratica che in teoria (?) e, soprattutto, questo è il primo dei capitoli che sono finiti con lo scindersi.
Sì, teoricamente, questo capitolo è nato come un tutt'uno con il prossimo. u__u *Soltanto che metterlo tutto insieme sarebbe stato... ehm... un po' troppo lungo.*

Diciamo che, da questo capitolo, credo si cominci a notare che questa storia non è proprio tutta tutta tutta idiota - anche se, per ora, ci sono solo accenni.
O almeno spero si noti... °A° ._.

Parlando d'altro.
Da questo capitolo, credo - spero - si noti anche quel che intendevo con "questa storia necessitava disperatamente del rating r": dato che sono negata per quel genere, mi sono ritrovata a sorvolare e narrare parecchio - almeno un paio di scene "vere e proprie" sarebbero state ben più efficaci. .___.
Scusatemi. *china testa* Spero di essere comunque riuscita a dare l'idea del "cambio" di situazione dal prima al dopo. °A°"

Comunque.
Vista la conclusione di questa prima parte di capitolo (?), sorgono delle domande: al ballo succederà qualcosa di Incredibile? (Non sperateci.) Qual è il vestito confettoso rosa di Len? (Non è difficilissimo, in realtà. U.U) Ma soprattutto: Kyte andrà al ballo in top aderente, gonna e fiori tra i capelli o gli verranno risparmiati? (Detto ciò, penso si possa intuire quale sia il vestito confettoso rosa di Len.)
Lo so, sono quesiti indispensabili per la prosecuzione della trama. *O* *Trama?*

Spero che questo capitolo - o prima parte del - vi sia stato gradito. ^^
Per qualsiasi consiglio o critica, dite pure. ^^

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Capitolo 4
*** x0x4x ***


Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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Per qualche imperscrutabile miracolo divino, Len non sembrava un gigantesco confetto rosa.
Curiosamente, anche il risultato di aver trasformato un kimono in un abito inglese non era poi così spiacevole agli occhi.
Ciò non toglieva che Lady Len Mirror sembrasse un incrocio tra una bomboniera e una rosa. Rosa. Certo, c'erano il nero del fiocco, dei guanti e della parte superiore delle maniche, il rosso sfumato alla base della gonna e il nero e il rosso insieme sulla fascia attorno alla vita a smorzare il tutto, e forse sarebbe stato molto più poetico e galante definirla una splendida rosa rosa, ma Kyte non riusciva a togliersi dalla mente l'immagine di una bomboniera.
Lui se l'era cavata con un completo scuro e tanta gratitudine.
- Lo sapete che si dice che la villa dei conti di Tibirsh ha tredicimilanovecentoquarantatré stanze? -
- E che ci fanno con tutte quelle stanze...? -
Len alzò le spalle, le maniche tenute su per una forza trascendentale minacciarono di cadere: - Avranno molti ospiti. -
- Credo che neppure il Palazzo Reale abbia tutte quelle camere... - disse Kyte, stupendosi ogni istante di più di come il vestito rimanesse su: - Piuttosto... era proprio necessario che le maniche fossero qualche centimetro sopra la pelle...? -
L'altro gonfiò le guance: - E' la diciassettesima volta che me lo dite e la cinquantatreesima che mi viene detto in generale. Sì. Hai. La fascia e le maniche sopra reggono benissimo. -
Giusto, erano quelle a sostenere la parte superiore del vestito - ossia due lembi di stoffa sovrapposti che ricordavano vagamente un kimono. Anche se i kimono non sembravano dover scivolare giù ad ogni respiro.
- Odio le file! - sbuffò ancora Len: - Perché sono arrivati tutti ora? Sono arrivata in orario proprio perché nessuno arriva mai in orario! -
- Credevo foste arrivata in quasi anticipo perché temevate che la torta finisse... -
- Cercavo di fingermi meno materiale, signor Kyte. Ora avete rovinato tutto e nulla avrà più senso. -
- Perdonatemi. Il mio cuore è ridotto in frammenti sanguinanti dal dispiacere. -.
Quando finalmente riuscirono ad arrivare nella sala da ballo - dopo aver salutato i gentili conti Lord Tonio e Lady Prima Tibirsh -, Kyte potè constatare all'istante tre cose.
La prima era che, effettivamente, l'intera sala era gialla: pavimento, soffitto, tende, tovaglie, sedie, persino i vetri delle finestre.
"Devono essere persone piuttosto eccentriche..." si disse, notando come i vasi gialli fossero tutti pieni di rose gialle, gigli gialli e girasoli gialli.
La seconda era che, guardandosi intorno, non aveva individuato facce eccessivamente conosciute: un paio di gentiluomini che conosceva di vista, tre giovani con cui gli era capitato di scambiare qualche parola e due donne che aveva occhieggiato tempo addietro ma a cui non si era mai avvicinato.
Si sentì sollevato: non gli sarebbe affatto piaciuto incontrare sue vecchie amanti, in quel momento. Non sapeva spiegarsene esattamente il motivo, ma aveva l'impressione che si sarebbe sentito molto irritato, che sarebbe arrivato anche a far finta di non conoscerle.
La terza era che Len si era avventato sul tavolo imbandito. O meglio, su un piatto.
- Signorina Len! - lo raggiunse, sperando che i duchi di Mirror - poco dietro di lui, peraltro - non lo fustigassero pubblicamente per aver permesso che la loro adorata figliola facesse subito brutta figura davanti a tutti.
Quando Len si voltò verso di lui, lo trovò con le guance gonfie e due fette di torta in entrambe le mani. E dalla torta sul piatto mancava un'altra fetta.
"Si è mangiato una fetta in dieci secondi...?"
- Per favore, contenetevi. - sospirò, portando due dita alla tempia: - Le brave signorine non s'ingozzano in questo modo indegno. -
Len lo guardò, gli occhi sgranati. Mandò giù.
E si schiaffò in bocca l'altra fetta, con la grazia che avrebbe potuto avere lui nei confronti del baule gigante.
- Signorina, basta! Ne avete già mangiate due fette! - lo prese per le spalle e lo spinse lontano: - Lasciatene un po' anche agli altri invitati! -
"Ed evitate brutte figure anche a me."
Non seppe esattamente come, ma Len era riuscito a prendere un'altra fetta, prima di essere allontanato.
- Non è carino avventarsi sul cibo in questo modo. - sospirò Kyte, cercando di reperire un fazzoletto di qualsiasi tipo: - Non oso immaginare il primo giro di danze. I volteggi non fanno bene allo stomaco. Vorrei che evitiate spiacevoli inconvenienti. -
- Inofoffito! -
- Non parlate con la bocca piena. -
Len mandò giù e protestò: - Io non vomito! -
- Lo spero per voi... -
Per tutta risposta, l'altro fece sparire un'altra fetta.
Kyte cercò di non voltarsi, di non guardarsi intorno e di far finta che quelle risatine femminili che sentiva fossero solo frutto della sua immaginazione.
- Quella è Lady Len Mirror? -
- Sì, è proprio lei! -
- E' così bella e aggraziata anche quando trangugia cibo come una morta di fame! -
"Ma che diavolo...!?"
Forse tutto quel giallo aveva fatto impazzire qualche povera fanciulla.
- E' una creaturina curiosa, non è vero? -
- E graziosa! -
"... essere imparentata con i duchi di Dewsen evita qualsiasi malelingua, noto. Meglio così." alzò gli occhi al soffitto, sentendo la tensione allentarsi un po': "Mi chiedo soltanto come possa una persona del genere non essere famosa in tutta l'Inghilterra...".
Finalmente Len fece sparire anche l'ultima fetta in suo possesso e Kyte potè ripulirgli i guanti neri e le guance - perché, ovviamente, la bella creaturina non si era minimamente degnata di mangiare in maniera composta.
- Vi prego, evitate di fare scene. - sospirò, passandogli sulle labbra il tovagliolo giallo trovato per miracolo sul tavolo giallo: - Non è- - sentì qualcosa tirare il tovagliolo. Guardò Len, gli occhi azzurri innocenti.
Si trattenne dallo schiaffarsi una mano sul viso. Abbassò la voce, fino a renderla udibile solo a lui: - ... state trattenendo il tovagliolo con i denti...? -.
Altro sguardo innocente.
- ... state mangiando i resti di torta sul tovagliolo...? -
- Come potete sprecare una cosa simile!? -
Finalmente Len lasciò andare il tovagliolo, perfettamente ripulito. Sia lui che il tovagliolo.
- Ora su, le danze inizieranno tra poco. - disse Kyte, indeciso sulla sorte del tovagliolo: - Voi fate pure ciò che volete. Io rimarrò qui a controllare. -
Len lo guardò. Sbattè le palpebre, piano.
- Controllare me o la torta? -
- Con tutto il rispetto, credo che la torta abbia molto più bisogno di voi di essere controllata. Soprattutto da vostri assalti. -
Un ventaglio si aprì davanti al viso del più piccolo, con uno: - Tsk. - sprezzante, lasciando visibili solo gli occhi.
- Oh, Lady Len! -
Kyte guardò oltre Len, notando di sfuggita il suo voltarsi, l'attenzione verso una coppia presumibilmente sposata che si stava avvicinando, con un gran sorriso.
- Oh, visconte! - il ventaglio si chiuse, svelando un sorriso serafico: - Viscontessa, da quanto tempo! -
"... così tanto da non ricordare i loro nomi, eh, Len?" notò Kyte, impedendo alle labbra di curvarsi, divertite.
- La più bella cinesina d'Inghilterra! -
- Giapponese. - lo corresse Len, pacata.
- Cinese, giapponese... - il visconte agitò una mano, come a scacciare quelle parole: - Stessa cosa! -
Kyte dovette mordersi le labbra, sia per impedirsi di scoppiare a ridere sia per dire qualsiasi cosa in risposta: aveva la vaga impressione che Gakupo non avrebbe gradito un'affermazione simile.
Quasi si aspettava di vederlo precipitare dal soffitto, ricoperto dall'armatura da samurai, atterrare di peso davanti al visconte, la katana sguainata puntata verso di lui e gli occhi invasati.
Sarebbe stata una scena a cui avrebbe tanto voluto assistere.
"No, un attimo... perché mi sembra una scena plausibile...?"
- Se fossero la stessa cosa, non avrebbero due nomi diversi, non credete? - fece notare Len, senza smettere di sorridere.
Dopo aver salutato i visconti e un altro numero imprecisato di invitati, Kyte lo vide andare a chiacchierare con le sue coetanee, limitandosi a seguirlo con lo sguardo. Anche lui, dopo un po', senza perdere d'occhio Len, si decise almeno a salutare i suoi conoscenti. Non aveva ben chiaro come si ritrovò coinvolto in un'animata discussione sul colore dei pesci abissali, ma tant'era - in ogni caso, lui era sicurissimo che fossero blu.
- Oh, Lady Len, volete proprio dar spettacolo? -
- Perché mai? -
O aveva sviluppato un udito finissimo per captare tutto ciò che riguardasse Len, o lui e le altre ragazze si erano avvicinate. Lanciò un'occhiata di lato: non erano vicinissime, ma neppure lontane.
- Il vostro abito! - una ragazza ridacchiò, la bocca nascosta dietro il ventaglio.
- Vi basta un passo falso per fare la gioia di gran parte degli uomini presenti! - fece notare un'altra ragazza, sventolandosi.
"Len, se ve lo dicono tutti, potreste anche provare a crederci..."
- Temo di non avere qualità che possano fare la gioia di gran parte degli uomini presenti. - rispose Len, pacato, solo gli occhi visibili da dietro il ventaglio immobile: - Del resto, il vostro abito mi sembra molto più piacevole allo sguardo maschile, contessa. -.
La seconda ragazza rise, ma Kyte dovette ammettere che aveva ragione: la scollatura del suo abito era tale che le sarebbe bastato fare un respiro più profondo del normale per ritrovarsi mezza nuda. E la fanciulla era anche piuttosto formosa.
Gli venne da sorridere, ma fu bloccato da un dubbio improvviso. Spostò lo sguardo su Len: il ventaglio era fermo, le sopracciglia appena alzate, lo sguardo divertito.
"... fa un certo effetto vedervi così interessato ad altrui scollature femminili, signorino."
E anche un certo fastidio.
Non aveva idea del perché, ma il fatto che Len stesse guardando una donna - o la scollatura di una donna - con interesse lo infastidiva.
Tornò a discutere di pesci abissali, lanciando di tanto in tanto occhiate verso l'altro.
Aveva smesso di guardare scollature, ma aveva iniziato a guardare lui.
D'un tratto, lo vide chiudere il ventaglio e posarselo sulle labbra.
Baciatemi.
Kyte sgranò gli occhi: "... siete piuttosto esplicito.". Non aveva idea di come rispondere. Non aveva ventagli a portata di mano.
"Mano? Oh, giusto."
Abbassò pollice e mignolo e portò le altre dita alla guancia sinistra. No.
Len gonfiò le guance, gli occhi ridotti a fessure. Il ventaglio si aprì e si chiuse velocemente. Siete crudele.
Trattenne una risata, mostrò appena le dita della mano destra. Desiderate troppo.
Il ventaglio di Len andò ad accarezzare il palmo del suo proprietario. Vi odio.
Con un sospiro divertito, Kyte mosse le dita della mano sinistra. Ci stanno guardando.
Il ventaglio si aprì, Len lo passò dalla mano destra all'altra, sventolandolo appena. Venite qui, vi voglio parlare.
Adesso poteva lasciare le labbra incurvarsi: - Perdonatemi. Il dovere mi reclama. - si congedò dagli altri, per poi raggiungere l'adorabile milady.
- Tra poco iniziano le danze. - disse Len, riportando il ventaglio davanti al viso.
- Siete già stata invitata? - domandò Kyte, sentendo una strana sensazione di fastidio. Di nuovo.
- Sì. - rispose l'altro, tranquillo: - Ma ho rifiutato. -
Sbattè le palpebre, stupito: - Ah, sì...? Credevo vi piacessero i balli... -
- Sì, ma detesto i balli di gruppo. - confessò Len, come se nulla fosse: - I primi sono tutti balli così. Se non altro, credo mi lasceranno in pace per un po'. -
- Avete detto di avere i piedi stanchi? - come ogni brava signorina direbbe, del resto.
- No. Che mi sono cresciuti i funghi sotto le scarpe e che sto aspettando che si stacchino. -
- ... questa cosa non ha senso. -
- Il quinto ballo mi interesserebbe, invece. - lo sentì mormorare.
- Oh, bene. - lo guardò: - Deduco che, per il quinto ballo, i funghi si saranno staccati. -.
Il ventaglio si mosse piano, gli occhi di Len erano fissi nei suoi, le sopracciglia inarcate.
- ... non è così...? - azzardò Kyte.
Len non rispose, continuando a muovere piano il ventaglio, avanti e indietro, quasi impercettibilmente.
- ... c'è qualcosa che volete dirmi...? -
Iniziava a sentirsi lievemente trafitto.
Poi capì: - Volete che vi inviti? -
- La vostra perspicacia è seconda solo alla vostra capacità di perdervi in un singolo corridoio di casa mia. -
Lasciò che quelle parole gli scivolassero addosso - anche perché professarsi astuto e sagace sarebbe stato un plateale mettersi in ridicolo.
- Stasera non mi rivolgete parole molto carine. - notò.
- Neanche voi mi avete rivolto parole carine. - bofonchiò Len.
Kyte rimase interdetto: - Vi ho fatto i complimenti per il vostro vestito. -
- Avete detto solo "Siete molto graziosa, signorina Len". - gli ricordò lui: - Avreste potuto usare un po' di fantasia. Ad esempio, avreste potuto dire che... - ci pensò un istante: - ... somiglio ad un petalo di ciliegio che danza nel vento con eleganza! -
Nella sua mente si materializzò l'immagine di una serie di vaporose bomboniere rosa che fluttuavano nel vento - ma con molta eleganza, c'era da riconoscere.
- Non vi ho mai vista danzare, non so come siete durante i balli. - riuscì a dire, con voce stranamente calma.
- Allora rimediate. - la voce di Len, invece, era vellutata. Era probabile stesse cercando di non scoppiare a ridere dietro il ventaglio.
Kyte sospirò: - E dunque, signorina Len... - gli porse una mano: - ... posso avere l'onore di danzare con voi il quinto ballo? -.
Gli occhi azzurri lo scrutarono.
Dopo qualche secondo, giunse la risposta: - No. -
- Eh? - Kyte ritirò la mano, chiedendosi se avesse sentito bene: - Ma...? -
"Mi avete trapassato con lo sguardo per farmelo chiedere e ora dite di no?"
Il ventaglio si chiuse, scoprendo il sorriso - o meglio, il ghigno - dell'altro: - Sarebbe stato buffo rispondervi così. Ma credo accetterò il vostro invito. -
- Vi ringrazio, signorina. -
"Ve la farò pagare, Len. Sappiatelo.".
Le danze iniziarono qualche minuto dopo. Le prime erano effettivamente di gruppo - Kyte notò svariate fanciulle non partecipare, preferendo occhieggiare il carnet con occhi brillanti.
Quando giunse il fantomatico quinto ballo, ne comprese il motivo.
- Valzer? - fece, mentre Len gli si avvicinava.
- Sì. Valzer. - gli rispose, tranquillo: - L'altro motivo per cui mi piacciono i balli dei conti di Tibirsh. A loro piace molto il valzer. -
- Oltre che eccentrici sono anche spudorati. - ridacchiò Kyte, prendendo il più piccolo sottobraccio, accompagnandolo tra le altre coppie pronte a danzare.
Caso volle che fossero praticamente tutte giovani - o meglio, che fossero tutti i giovani che erano stati invitati, a quanto pareva. Tutti tranne le povere fanciulle che, sotto gli sguardi severi delle madri e delle accompagnatrici, erano state costrette a rifiutare di danzare un ballo tanto scandaloso.
- Avete mai danzato il valzer, Kyte? - domandò Len, la voce bassa.
- Sì. Mi è capitato. - rispose: - Spesso. -
- Sospettavo, sapete? - un sorriso divertito, mentre prendevano le posizioni.
- E voi, Len? E' la vostra prima volta? -
- Affatto. - lo sentì premersi contro di lui, più del necessario: - Anche la volta scorsa ho danzato il valzer. Con Gakupo-sensei. -
- Capisco. - una fitta all'altezza dello stomaco. Non ne capiva il motivo, ma quella risposta non gli era piaciuta.
- Spero... - disse, mentre le prime note cominciavano a risuonare: - ... sia vero che i balli vorticosi non vi creino problemi. -
- Potrei fare un'eccezione appositamente per voi. -
- Ne sono lusingato, ma non prendetevi il disturbo. -.
Dopo qualche passo, dovette riconoscere che Len, per aver ballato quella danza una sola volta, sembrava sapere bene dove mettere i piedi. Che poi avesse artigliato la sua spalla, intrecciato le dita con le sue e ridotto nettamente la distanza richiesta era un fattore trascurabile e tutt'altro che sgradito.
Quasi gli dispiaceva, tuttavia, che non avesse la stessa espressione fremente delle altre fanciulle - occhi che brillavano, guance rosse come mele, labbra appena schiuse. Solo quasi, però. Del resto, Len non era più una candida vergine che mai aveva visto un uomo svestito.
Sorvolando sul fatto che, riguardo l'ultimo particolare, per lui sarebbe stato impossibile il contrario fin dalla nascita.
Tra l'altro, neppure lui doveva avere l'aria di un giovane che si ritrova una donna tra le mani per la prima volta in tutta la sua vita.
Sempre sorvolando sui particolari.
Anche se doveva riconoscere che stringere Len a sé di fronte a decine e decine di persone - tra cui gli stessi genitori di lui - aveva il suo sinistro fascino.
Quando la danza finì, le coppie ebbero solo tre tipi di reazioni: alcune fanciulle letteralmente scapparono via, completamente imporporate; altre rimasero unite ai loro cavalieri, separandosi lentamente, molto lentamente, ma perché separarsi?, ma il ballo successivo può aspettare!; altre ancora - due o tre - salutarono i loro cavalieri e tornarono a farsi gli affari loro, lasciando i poveretti con sguardi da pesci - abissali, forse.
Nel guardarsi intorno, Kyte notò, lontani, i duchi di Mirror: "Forse è meglio che lasc-"
Abbassò lo sguardo: Len non si era mosso di un millimetro, né sembrava intenzionato a farlo.
Gli occhi nei suoi, decisi, il petto che si alzava e abbassava rapido per la danza, le labbra schiuse a far uscire il respiro veloce; le dita che stringevano la sua mano parvero lasciarlo, ma fu solo un istante, prima che, distese, andassero a combaciare con le sue, per poi tornare a stringergli la mano.
- Voglio danzare ancora. - sussurrò: - Con voi. -
Kyte si stupì, ma si riprese in fretta: - Come desiderate. Un altro ballo e basta non farà pensare mal- -
- Voglio danzare un altro valzer. -
"... oh."
- Temo che... - abbassò la voce: - ... questo farà pensare male. -
- Non se ne sono all'oscuro. -
- E come pensate di far sì che non lo sappiano? - si sentiva un idiota: sarebbe dovuto essere lui a pensarci, non Len.
- Tranquillo. - lo vide trarre un respiro profondo, i lembi del vestito minacciarono ancora una volta di cadere, ma riuscirono a lasciare visibili solo le curve del collo: - Ho un metodo infallibile. -.
Solo in quel momento Len si separò da lui, allontanandosi di un paio di passi.
Poi portò una mano al petto, sull'imbottitura del seno, e si schiantò sul pavimento.
No, non aveva ben chiaro cosa fosse successo, ma Len si era effettivamente schiantato sul pavimento. O meglio, ci si era gettato con molta poca grazia.
- Lady Len! -
- Lady Len è svenuta! -
"... perché non riesco ad essere minimamente preoccupat- nonridereKytenonridereKytenonridere!"
Più per nascondere l'accenno di risata che per reale - inesistente - preoccupazione, Kyte si fiondò al fianco della povera (?) milady svenuta (?), portando un braccio dietro la sua schiena e sollevandola appena.
- Sto... sto bene, non preoccupatevi... - sussurrò Len, muovendo appena una mano: - Devo... devo aver stretto troppo il corsetto. - l'altra mano andò a premere sul petto, un respiro più profondo degli altri: - Mi sento soffocare... -
"Cominciate a tossire e a dire di avere freddo e sarete perfetto, Len!"
- Len! - e finalmente anche i duchi di Mirror, preoccupatissimi, erano giunti.
- Dice di sentirsi soffocare. - li informò Kyte, con tono grave: - Forse ha il corsetto troppo stretto, dice. -
- Usate pure una delle nostre stanze degli ospiti! - Lady Tibirsh era apparsa al loro fianco, l'espressione ansiosa: - Non posso lasciare che Lady Len soffra per tutta la serata! -
- Accettiamo la vostra disponibilità, contessa. - disse subito la duchessa di Mirror.
Così, Kyte prese in braccio la bomboniera rosa e, seguito dai di lui genitori e dalla padrona di casa, la portò in una stanza lontana dalla confusione della sala da ballo, adagiandola sul letto.
Certo, poi era stato elegantemente sbattuto fuori dalla camera perché il compito di armeggiare con il corsetto di Len era finito per essere del duca di Mirror - visto che né la signora né la contessa sembravano sapere come funzionasse, per quanto ne indossassero uno loro stesse -, ma era stato riammesso una volta che la signorina era stata liberata dalla gabbia infernale - che era finita con il giacere sul letto, coperta dalle lenzuola.
- Riposate un po', signorina. - si raccomandò la contessa.
- Rimaniamo con te. - disse la duchessa di Mirror, il duca di Mirror che annuiva alle sue spalle.
Len sgranò gli occhi in un'espressione preoccupata: - Oh, no, madre! Non privatevi della serata solo per un mio piccolo aver perso le forze! -
- Non dire sciocchezze, Len. Non potrei mai godermi la serata sapendoti sofferente! -
- Ma non sono sofferente, madre! - sorrise, la voce aveva riassunto il suo tono naturale: - Ora sto molto meglio! Aspettate che mi riprenda e tornerò in sala! Promesso! -
- Rimarremo qui finché non ti sarai rimessa. -
- Ad essere sincera, vorrei un po' di calma, senza nessuno intorno... - Len abbassò lo sguardo, le mani giunte in grembo.
- Senza nessuno è inammissibile. - decretò la duchessa di Mirror.
- Chiamerò qualche mia cameriera per vegliarvi. - propose Lady Tibirsh.
- C'è il signor Kyte, con me! - il volto tornò su, con un grande sorriso innocente: - Non preoccupatevi, si è sempre preso cura di me! -
"Oh, signorina, che parole gentili! Meglio che non scendiate nei particolari, però."
- E quando dovrai rimettere il corsetto? -
- Posso fare da sola, madre! - Len gonfiò le guance: - Magari non lo metterò benissimo, ma ho quindici anni, so come legare quell'affare! -
"Veramente no. Sapete a malapena di che forma è."
Alla fine, la duchessa di Mirror parve arrendersi e acconsentì ad affidare Len a Kyte.
Per dimostrare di non avere assolutamente cattive intenzioni, Kyte uscì insieme ai duchi di Mirror e alla contessa, andando a posizionarsi davanti alla porta chiusa, come una semplice guardia.
Due minuti dopo era dall'altro lato della porta e stavolta la schiena che premeva contro il legno era quella di Len.
E, finalmente, il vestito potè smettere di rimanere in precario equilibrio.

- Per me sono gialli. -
Kyte alzò un sopracciglio: - ... gialli? - ripetè, piano.
- Sì, gialli. Così possono vedersi anche al buio! - Len sorrise, soddisfatto della sua teoria.
- Come possono essere di un colore chiaro se vivono così in profondità? - domandò Kyte, sollevando appena la testa: - E' molto più logico che siano scuri. Magari blu scuro! -
- Ma così non si vedrebbero! - protestò Len: - Non c'è mica luce, laggiù! Come farebbero ad individuarsi? -
- Forse con l'odore...? -
- Si possono sentire odori sott'acqua...? -
- Magari i pesci abissali possono. -
Len aggrottò la fronte, visibilmente poco convinto.
- C'è chi pensa emettano luce. - ricordò Kyte: - Tipo il signor Leon. -
- Il marchese, dite? - un sorriso divertito: - Di tanto in tanto si presenta con idee piuttosto curiose. -
- Dunque avete sentito la sua proposta di pescare pesci abissali per usarli al posto delle candele? -
- Temo mi sia sfuggito. - una mano candida andò ad accarezzargli i capelli, lenta: - Anche se io non approverei. Non ho alcuna intenzione di camminare con un pesce in una boccia. E poi, quando lo si vuole spegnere, cosa si fa? -
- Credo basti coprire la boccia con un panno molto pesante. - chiuse gli occhi, lasciandosi cullare da quella bella sensazione, delle dita affusolate di Len tra i capelli.
- Quante complicazioni... - sussurrò l'altro, il tono lasciava intuire il suo star sorridendo.
- I nobili sono tutti strani. - mormorò Kyte, accomodandosi meglio su quel petto caldo.
- Anch'io? -
- Soprattutto voi. -
- Anche voi? -
Un tuffo al cuore.
Riaprì gli occhi, un groppo alla gola.
Alzò di nuovo la testa, incontrando lo sguardo pacato di Len.
- ... c-cosa? - farfugliò, maledendo quel qualcosa che gli stava soffocando la voce.
Il sorriso dell'altro si accentuò: - Anche voi siete strano, Lord Sheeawn? -
"Ah..."
Strinse i denti, inspirando nel tentativo di far sparire quel blocco all'altezza della gola. Solo dopo qualche istante si accorse che il suo sguardo era andato alla candela spenta sul comodino, sfuggendo a quello azzurro che, lo sentiva, lo stava ancora fissando.
- ... da quanto lo sapete? - si decise a chiedere. Tanto valeva finire di farsi male in fretta. Forse dopo sarebbe riuscito a respirare di nuovo in modo decente.
- Io da un po'. - rispose Len, candido: - Anche se, quando siete arrivato, non lo sapevo. I miei genitori lo sapevano da prima. Si fidano di Gakupo- sensei ma, come dire... - tacque, forse per pensare alle parole giuste: - ... un po' di informazioni in più non dispiacciono. -
- Gakupo aveva detto loro che io...? - non riuscì a finire la frase. Gli sembrava una cosa troppo assurda per poter essere vera, qualcosa di distante, a cui non sarebbe potuto essere collegato neppure facendo la più contorta associazione di idee.
- Gakupo-sensei non si è lasciato andare a particolari approfonditi, quando ha parlato della vostra famiglia. - lo rassicurò l'altro: - Tuttavia, i miei genitori hanno ritenuto opportuno fare delle ricerche su di voi. Non mi hanno messa al corrente delle loro scoperte, però. Credo abbiano semplicemente parlato con Gakupo-sensei. Io l'ho scoperto perché ero curiosa. -
- Perché? -
In effetti, non si era mai posto il problema. Per lui, era scontato che Gakupo non dicesse nulla di troppo, riguardo la sua famiglia - e, a quanto pare, a ragione. Però non aveva considerato l'ipotesi che i duchi di Mirror potessero indagare. Per qualche oscura ragione, era certo che la parola di Gakupo sarebbe stata assoluta, qualcosa a cui credere senza alcun dubbio.
- Ricordate quando vi diedi il permesso di chiamarmi solo con il mio nome? - le dita giocarono con le ciocche dei suoi capelli, sembravano quasi portargli via, pian piano, briciole di tensione: - Ero davvero incuriosita da voi. Non siete affatto un popolano e questo è evidente. In un primo momento, ho pensato che foste un cavaliere. Però vi si rivolgevano tutti come signor Sheeawn e non come Sir Kyte... - un sospiro: - Quindi ho pensato foste un collega di Gakupo-sensei. Magari dell'alta borghesia. Però... - le dita si fermarono. La mano scese al viso: - ... mi riesce molto difficile vedervi come collega di Gakupo-sensei. E poi, no, c'era qualcos'altro. - una risata leggera: - Quindi sono andata nello studio di mio padre e ho cercato tra tutte le sue scartoffie. Magari aveva qualcosa su di voi. E l'aveva, infatti. -
"Len con dei pezzi di carta. Credo che il signore si sia accorto della sua incursione nel suo studio..."
Si lasciò di nuovo cadere su di lui, con un sospiro.
Aveva sperato di dimenticarsene per sempre.
- Cosa sapete, esattamente? - domandò, piano. Non lo guardò, chiuse gli occhi.
- So che siete uno dei figli dei baroni Sheeawn. E pare che non sia un'omonimia con quei baroni Sheeawn che vivevano a nord, non troppo distanti dal confine con la Scozia. -
- Siamo lo zimbello dell'Inghilterra fino a questo punto? - credeva avesse smesso di importargli. A giudicare da come il sangue gli si fosse congelato e da come quel groppo alla gola continuasse a mandargli fitte, non era decisamente così.
- Non esagerare con i vizi, o finirai come i baroni Shane! - recitò Len, con la voce grossa. Il suo tono tornò normale: - Ogni tanto l'ho sentito dire. La vostra fortuna è che il vostro cognome è stato "corrotto", quindi non è facile risalire alla reale origine di quel motto. Però... non è impossibile. -
Strinse un pugno. Le unghie si conficcarono nella carne, mandandogli fitte lungo il polso.
Inspirò a fondo, lasciò la testa tra il collo e la spalla di Len, un braccio andò ad avvolgergli la vita.
- Siamo talmente patetici che neppure mi hanno diseredato. - rise, ma senza alcun divertimento: - Mi sono autodiseredato. Sarebbe stato più strappalacrime se l'avesse fatto mio padre, magari in un momento di grande tensione emotiva ed eventuale pioggia scenografica, ma... era davvero troppo impegnato. E sarei decisamente più affascinante se fosse stata tutta colpa sua e dei miei fratelli, se io fossi solo la povera vittima di una famiglia di viziosi. Avrei potuto fare il bello e dannato e passare le mie giornate ad autocompatirmi per nessun motivo avvolto da un'aura oscura, ma... - sospirò: - ... di tutto questo, c'era solo l'autocompatimento. E non era affatto una cosa bella o affascinante. Patetica, più che altro. -.
Di nuovo le dita di Len tra i suoi capelli. Sentiva le sue labbra sulla fronte.
- Volete dirmi cos'è successo esattamente? -
Si sentiva intorpidito. Forse erano le carezze di Len, forse era quella voce tanto morbida, che non gli metteva alcuna fretta. Forse si stava rifiutando di ricordare.
Però non gli importava. Davvero. Se l'era ripetuto tante volte: "Non sono cose che ti riguardano più.".
Sentì un violento bruciore ad una guancia, strinse di nuovo i denti, la mente parve risvegliarsi.
"Me lo ricordo a distanza di anni, eh...?"
- ... mio padre aveva il vizio del gioco. - mormorò, piano, forzando la propria voce. Un dolore acuto gli ferì la testa come un grosso chiodo rovente conficcato nel cranio, ma andò avanti comunque: - Un brutto vizio del gioco. Tanto da coinvolgere fin da piccoli noi tre figli maschi. La cosa più ridicola è che, ben presto, anche le mie due sorelle si interessarono, finendo per convincere anche mia madre che, in fondo, non c'era nulla di male. Loro non scommettevano in modo pesante come noi, ma anche loro contribuivano a disperdere denaro con non troppa difficoltà. Diciamo che... - esitò. Poi rinunciò ad abbellire le parole: - ... mi sono sinceramente goduto ogni piacere possibile per tanti anni, senza preoccuparmi di nulla. Fino a diciassette, diciotto anni.
Talmente tanto cibo che più della metà ne andava sprecato, più soldi che vestiti, talmente tanti domestici che neppure sapevo come diamine si chiamassero e di cui tutt'ora non so neppure i nomi delle mansioni. Per me sono tutti "servitori", forse "cameriere", ma per me sono sempre state solo persone al mio, o meglio, nostro, completo servizio. E per "completo" intendo completo. - tacque, la testa gli faceva davvero male.
Ma il groppo alla gola si era allentato un po'; sentiva un vago calore, il ghiaccio stava iniziando a sciogliersi.
- Non è così strano che i giovani signori si uniscano alle loro cameriere. - commentò Len, pacato.
- Ma le cameriere erano soltanto un insipido antipasto. - mormorò: - Le prostitute, invece, erano volgari. E non c'era alcun divertimento ad avere una donna pagandola. Preferivo... altro. -
- Dunque avete visitato i talami nuziali delle corti di mezza Inghilterra? -
- Non mezza Inghilterra. E non erano tutte sposate. -
- Almeno spendevate denaro solo per i regali. -
- Io non facevo regali. -
- ... siete una persona davvero orribile. -
Aprì appena gli occhi, punto nel vivo: - A loro stava bene così. - bofonchiò.
Una risata leggera: - Posso immaginarlo... -
- Eh? -
- Niente. Proseguite pure. -
Preferì non approfondire. Non ne aveva davvero voglia. Richiuse gli occhi e riprese: - Andò così per tanti anni. Nell'ultimo periodo, però, noi altri ci eravamo accorti di come la situazione si fosse fatta disastrosa. Le mie sorelle usavano i soldi dei loro mariti e la loro pazienza aveva ormai raggiunto il limite. Anche la famiglia della moglie di uno dei miei fratelli protestò. Mia madre riuscì a smettere e cercò di forzare anche noi a fare lo stesso. Ci riuscì con uno dei miei fratelli e una delle mie sorelle, i più grandi. L'altra mia sorella fu fermata da suo marito, che fece in modo che non usasse più neppure uno scellino del suo denaro. L'altro mio fratello finì in un brutto giro e capì che sarebbe stato il caso di smetterla solo quando mia madre, mio fratello e mia sorella, dopo tanti sacrifici, riuscirono a pagare i suoi debiti. Ma questo, ovviamente, fu un brutto colpo per tutti noi. Ormai ci era rimasto davvero poco. Mia madre aveva iniziato a vendere possedimenti, abiti, opere e pezzi di arredamento. Pian piano, finì con il licenziare tutti i domestici, perché non aveva più modo di stipendiarli. Mio padre, invece, era ormai incontrollabile. Tutti i soldi guadagnati da mia madre finivano puntualmente sul tavolo da gioco. Finché la puntata non è diventata la nostra stessa casa. E, beh... - sospirò: - ... mio padre faceva schifo, nel gioco d'azzardo. -
Tacque.
Non aveva più così freddo. Ma la testa faceva talmente male da bruciargli gli occhi dietro le palpebre.
- Finì in carcere. Un tempo sapevo tutto nei dettagli, ma poi ho preferito dimenticarmelo. Mia madre è tornata presso la sua famiglia. Noi tutti ci siamo allontanati. E' stata lei a dirci di andarcene. Manteniamo ancora i contatti con lei ma, tra di noi, a malapena sappiamo dove ci troviamo. Mio padre è riuscito a farsi riaccettare da mia madre, ma non so come sia finita. Le mie sorelle e mio fratello vivono con le loro famiglie e credo vivano una vita decente grazie a loro. L'altro mio fratello si è imbarcato per il continente e chissà dov'è e cosa fa... - inspirò di nuovo. Il groppo alla gola si era allentato, ma era ancora lì: - Ormai i baroni Sheeawn non hanno più senso di essere chiamati tali. Sono al di sotto di una famiglia decaduta. Sono patetici. A volte mi è capitato di invidiare le mie sorelle: sposandosi, hanno cambiato cognome. A loro basta pronunciare il loro nome per fingere di non avere niente a che fare con i "baroni Sheeawn". Anche se, devo dire, il nome in sé non mi dispiace. Suona bene. -
Sentì pulsare nelle orecchie. La guancia tornò a bruciare di nuovo.
- E voi, Kyte? -
- Io? -
Sentì la mano di Len sulla guancia. La prese, senza pensarci. Gli dava quasi sollievo, sentirla sul viso.
- Voi come siete guarito dal vizio? Cosa avete fatto dopo tutto questo? -
Esitò.
Era il mal di testa a bruciargli gli occhi. Sì, lo era.
- ... anch'io facevo piuttosto schifo, al gioco d'azzardo. Non sempre, però. A volte vincevo. Una volta ho vinto tanto. Così ho continuato per tutta la notte. Però... la Fortuna deve aver pensato che fossi troppo arrogante e ha deciso di togliermi tutto insieme. In un colpo. - se lo ricordava. Le immagini erano talmente nitide che sembrava di starle vivendo in quel momento: - Ma ormai neppure io ero in me. "Ho vinto fino ad ora", mi dicevo: "Non posso perdere proprio adesso!". E invece sì. Ho continuato, arrivando a puntare tutto ciò che avevo con me. Si è andati oltre il denaro, sono arrivato a puntare gioielli, bottoni d'oro, vestiti... tutto. Avete presente quell'immagine ridicola del povero idiota al tavolo da gioco rimasto in mutande? Il povero idiota ero io. E "rimasto in mutande" non andrebbe inteso come modo di dire. - gli veniva da ridere. Ma non era una risata imbarazzata, quanto più isterica, umiliata: - Ho rischiato molto. Del resto, cos'è che rimane, quando non si ha più nulla? -
Len non rispose.
- Non ho idea di come facesse a sapere che fossi lì. - non riuscì a trattenere la risata. Ma non era isterica come temeva: - Me lo sono ritrovato vicino, mi ha gentilmente scansato e ha preso il mio posto. Dieci minuti dopo ero fuori, con una giacca ridicola e ridotto ad una fontana umana. Dieci minuti e dieci secondi dopo, avevo una guancia più grossa dell'altra. - sorrise. Sentiva ancora il dolore, come se lo schiaffo l'avesse ricevuto un istante prima. Ma si sentiva meglio. Gli occhi non bruciavano più, almeno.
- Chi? - domandò Len, piano, il tono incuriosito.
- L'integerrimo signor Kamui, ovviamente. - rise: - A volte penso che i giapponesi abbiano poteri strani. Spiegherebbe molte cose. -.
Strinse Len a sé, gli baciò la gola - lo sentì sospirare.
Non aveva più motivo di preoccuparsi. Andava tutto bene.
- Gakupo mi ha ospitato a casa sua per un po'. - proseguì, a bassa voce: - Io... ho cercato di fare del mio meglio per non essere un peso. Non è stato facile, per più di un motivo, ma mi sono arrangiato come meglio ho potuto. A volte mi sono fatto fregare, a volte sono riuscito a combinare qualcosa.
Nell'ultimo anno sono riuscito persino a pagare l'affitto a Gakupo! -
- Eh? -
- Mi ha offerto di stare in una delle sue case, in un'altra città. E io sono riuscito persino a pagargli l'affitto di ben tre mesi! -
- Oh... - le dita tornarono ad insinuarsi tra i suoi capelli: - Quindi siete stato in quella casa per tre mesi. -
- No, dieci. -
- ... capisco. -
Sentì le dita tirargli appena le ciocche, un invito ad alzare la testa. Aprì gli occhi e obbedì, incontrando lo sguardo azzurro dell'altro. Sembrava incuriosito.
- Conoscete da molto Gakupo-sensei? -
Ci pensò un attimo, il tempo di contare: - Dodici anni. -
Len sgranò gli occhi, visibilmente sorpreso: - Davvero? -
Kyte annuì: - Suo padre era in affari con il mio. A differenza del mio, il padre di Gakupo è una persona intelligente: riuscì a convincere mio padre che commerciare con il Giappone fosse molto più vantaggioso e originale che commerciare con la Cina. E' grazie alle loro trattative che Gakupo ed io ci siamo conosciuti. -
Sorrise. Si sentiva al tempo stesso meglio e peggio. Non aveva idea di come fosse possibile: forse una parte di lui era sollevata dall'aver rivelato tutto, compiaciuta dell'essere riuscito a ricordare tutto senza autocompatirsi o chiudersi in qualche delirio depressivo; forse un'altra parte di lui si era incupita al ricordo di come, di fatto, fosse un ridicolo e pietoso parassita.
La guancia tornò a fargli male.
Chiuse gli occhi e inspirò a fondo, cercando di recuperare un briciolo di lucidità: "Quello è autocompatirsi. Finirò per caderci di nuovo. Dovrei decisamente piantarla.".
- Dunque voi e Gakupo-sensei siete molto amici? -
La domanda di Len gli fece riportare l'attenzione su di lui: nel suo sguardo c'era ancora quella luce incuriosita.
- Mi fido di lui. - sorrise: - Sa sempre trovare una soluzione ad ogni problema e, anche se a volte è un po' noioso, so che posso contare su di lui. E poi, se gli si affida qualcosa, potete star certo che la difenderà ad ogni costo! Se fosse un oggetto materiale, gli affiderei la mia vita senza neppure starci troppo a pensare! E' uno che prende sul serio praticamente ogni cosa, sapete? Figurarsi il dover difendere qualcosa... -
Tacque: lo sguardo di Len si era fatto sorpreso, gli occhi sgranati, le labbra appena schiuse.
Poi quell'espressione si sciolse in una risata, in un ampio sorriso: - Siete davvero divertenti, sapete? -
Sbattè le palpebre, preso alla sprovvista: - Divertenti...? - ripetè, stupito.
- Sì! - Len si coprì la bocca con una mano: - Voi e Gakupo-sensei! Siete davvero divertenti! Lo siete singolarmente, ma credo che anche insieme siate molto divertenti! -
Aggrottò la fronte, confuso: - "Divertente" non è la parola che userei per descrivere Gakupo... -
"Minuzioso? Perfezionista? Pedante? Severo? Imperturbabile? Diligente? Minimamente restìo a minacciare, possibilmente con l'ausilio di armi? Uhm, ma questa non è una parola sola-"
Le labbra di Len sulle sue gli svuotarono la mente di qualsiasi pensiero.
Almeno sembrarono strappargli anche quel blocco alla gola e alleviargli il mal di testa.
Lo sentì scostarsi appena: - Mi dispiace avervi fatto ricordare cose che avreste preferito tacere. - mormorò: - Per me non sarete mai Lord Sheeawn, se non lo desiderate. -
- Non è questione di desiderare... - sussurrò Kyte: - ... è questione che non lo sono più. Non avrebbe alcun senso chiamarmi in quel modo. -
- Non lo farò, allora. - lo sentì sorridere: - Né l'avrei mai fatto, del resto, Kaito-sensei. -
- Neppure questo nome mi si addice. Anzi, mi fa più rabbrividire dell'altro. -
Lo sentì ridacchiare.
Non pensò più a nulla, nelle ore successive. Così come erano tornati di colpo, quei ricordi furono ricacciati indietro.
Rimanessero nel passato.
Ora andava tutto bene.

Negli ultimi tempi, aveva notato un fatto curioso.
O meglio, un fatto allarmante che lo aveva spaventato talmente tanto che si era stupito di ritrovarsi i capelli del loro solito nero piuttosto che bianchi come il gesso.
Ci aveva fatto caso quando aveva notato alcune giovani cameriere arrossire nel momento in cui rivolgeva loro la parola - per poi squittire non appena era, pensavano loro, fuori portata d'orecchio -, aveva avuto le sue conferme quando aveva lasciato che lo sguardo vagasse nelle profonde scollature delle dame ai ricevimenti e ai balli a cui Len aveva deciso di partecipare.
Non sentiva niente.
O meglio, sentiva una certa gratificazione, il piacere che si può provare nel guardare una cosa bella, ma il tutto finiva lì.
Non provava nessun desiderio, non aveva avuto alcun pensiero lussurioso, non aveva avuto reazioni di alcun tipo se non quel blando compiacimento.
Era stato discretamente traumatico scoprirlo.
"Sono diventato impotente!"
No, a giudicare da quello che faceva la notte con Len, impotente non lo era affatto. Fu l'unica cosa che gli impedì di autodefenestrarsi.
"Adesso mi attraggono solo ed esclusivamente gli uomini!"
No, a giudicare da come gli altri uomini non gli dessero la benché minima sensazione, poteva escludere l'ipotesi.
"... sono diventato una creatura notturna...?"
No, a giudicare da quelle occasioni in cui riusciva ad appartarsi con Len alla piena luce del giorno.
"Ma che...?"
Non riusciva a capire. Davvero.
Si sentiva disorientato - non gli era mai capitato di pensare solo ed esclusivamente alla sua amante di turno, anche se la suddetta amante stava con lui da oltre un mese.
Che poi, lui l'aveva notato per caso e aveva approfondito volontariamente.
Fino a quel momento, non aveva avuto alcun problema. E neanche dopo, a dire la verità. Era solo stordito. O forse era più stordito dal fatto che la cosa non gli importasse che dalla cosa in sé.
Stava benissimo anche senza altre persone intorno. Anzi, la sola idea di avere qualcun altro vicino lo irritava, lo irritava quasi quanto il vedere un giovane - qualsiasi fosse il suo sesso - avvicinarsi a Len, soprattutto se il giovane in questione aveva intenti palesi.
Stava bene con Len.
Ormai si era abituato alle sue stranezze, ai suoi modi di fare a volte molto discutibili, ai suoi capricci e alla sua voce capace di perforargli le orecchie.
A volte ricordava come lui fosse solo un insegnante provvisorio: prima o poi Gakupo avrebbe ripreso il suo posto e lui se ne sarebbe dovuto andare, non avrebbe più vissuto nella stessa casa di Len, non avrebbe più avuto occasioni per rivederlo così spesso.
Quell'idea lo spaventava. Sembrava il racconto di una qualche catastrofe che non sarebbe mai, mai potuta succedere, uno spauracchio per tenere buoni i bambini, un racconto che mirava solo ad incutere timore per un periodo di tempo, per poi essere dimenticato o ricordato come una storia più o meno riuscita nel suo intento di far rabbrividire.
L'idea di doversi separare da Len era qualcosa di troppo assurdo per poter essere reale. Quando si costringeva a considerarla reale, imminente, aveva paura. E la cosa si faceva ridicola.
Sì, Len l'aveva scosso, gli piaceva molto in ogni suo aspetto, ma il mondo era pieno di donne - o anche uomini, a quel punto - con caratteristiche più o meno simili.
Più ci pensava, più si sentiva male: non gli importava qualcuno che gli somigliasse.
Lui voleva rimanere lì, in quella casa monotona e priva di personalità, con i corridoi tutti uguali, con il suo ridicolo giardino interno nonostante gli ettari di terreno che circondavano la casa, con il suo laghetto che un senso poteva anche averlo, con il suo diventare una magione isolata al primo scrosciare di pioggia, gli andava bene, davvero.
Se Len fosse andato ad abitare in una catapecchia che si tiene su con due assi legno, uno sputo e tanta buona volontà, gli sarebbe andata bene pure quella.
Se, per un qualsiasi motivo, Len fosse stato cacciato di casa e costretto a vivere per strada, gli sarebbe andata bene anche la più sporca delle vie.
Se Len fosse andato ad abitare al Palazzo Reale, con tutti gli onori, non si sarebbe fatto troppi problemi neppure in quel caso, eh.
Se, tuttavia, Len si fosse trasferito perché dato in moglie a qualcuno, allora la cosa l'avrebbe irritato. Non era scrupolo di unirsi a persone sposate, non aveva mai avuto il benché minimo problema con un particolare di così poco conto. Ma la sola idea che Len andasse in sposa a qualcuno - al fantomatico marito della cugina Lily, più che altro - lo irritava fino a sentire dolore fisico.
Voleva che ogni cosa rimanesse com'era.
Che, se cambiasse, fosse soltanto per il luogo e non per tutta la realtà.
Non era solo il desiderio che continuava a provare nei confronti di Len. Quello, si era reso conto, era solo una parte. Voleva rimanere lì, in mezzo a quelle situazioni assurde, con la signorina all'apparenza tanto raffinata e nei fatti terribilmente rozza, voleva continuare ad averlo intorno, sentirlo, battibeccarci, stare con lui, qualsiasi cosa fosse-
"... merda.".

Glielo disse.
Glielo disse quando il suo respiro era ancora irregolare e spezzato, la fronte contro la sua, bagnata, il cuore che gli martellava nelle orecchie così forte da soffocare qualsiasi altro rumore.
Aveva visto i suoi occhi lucidi sgranarsi, stupiti.
E l'aveva visto sorridere, sia con le labbra che con lo sguardo.
E aveva sentito le sue braccia attorno alle spalle tirarlo a sé.

Era una giornata bella e soleggiata: nel cielo c'erano due nuvole bianche contate, gli uccellini cinguettavano non si sa dove, i cavalli nitrivano nelle stalle, le servitrici ridevano da qualche parte e Kyte si rigirava tra le dita una giarrettiera seduto sulla sedia nella sua camera.
Merletto nero, nastrino blu scuro.
C'era un profondo dilemma, circa quella giarrettiera: era più bella su della pelle candida o stava meglio sciolta e lontana da qualsiasi pelle?
Nel primo caso, significava avere una piacevole visuale; il secondo caso poteva significare una visuale ancora migliore o decisamente peggiore, come in quel momento.
Del resto, se la giarrettiera non era dove sarebbe dovuta essere, poteva sì significare che c'era una gamba nuda, ma anche che fosse tra le mani di qualche povero idiota che se la rigirava tra le dita facendosi profondi dilemmi.
Kyte era giunto a quella conclusione.
Non aveva idea del tempo impiegato a riflettere su quell'insieme di merletto e nastro, ma la conclusione non lo soddisfava appieno: non era riuscito a darsi una risposta al suo quesito principale.
Sentì la porta aprirsi, piano.
Neanche si curò di alzare lo sguardo, neppure quando la sentì richiudersi e percepì la presenza di qualcun altro nella stanza: del resto, c'era solo una persona, in tutta quella casa, che riteneva discretamente inutile bussare alla sua porta.
- Kyte. -
- Sì, Len? - fece, continuando a studiare la giarrettiera.
"Sembra che il nastro si possa sfilare..."
- E' successa una cosa davvero incresciosa. - lo sentì sospirare, il suono dei tacchi si fece più vicino, fino ad interrompersi a meno di un metro da lui.
- Ossia? -
- Temo di aver perso una delle mie giarrettiere. Non riesco più a trovarla. -
- Avete controllato bene in tutti i cassetti? - chiese, distendendo la giarrettiera sull'altra mano.
"Direi che basterebbe tirare qui di lato e dovrebbe sfilarsi facilmente..."
- Sì. Ma niente, proprio non riesco a trovarla. - Len sospirò di nuovo, il tono affranto: - Forse potrei averla persa da voi? -
- Stanotte eravate con la vostra veste da camera, non portavate alcuna giarrettiera. - gli ricordò Kyte, girando la giarrettiera sottosopra.
- Oh, vero. - con la coda dell'occhio, vide l'altro portare la mano davanti alla bocca: - In effetti, credo sia da stamattina che non la vedo... -
- E voi, in tutte queste ore, non vi siete accorto di avere una calza a terra? -
- No... - un altro sospiro affranto.
- Siete davvero distratto... - la giarrettiera tornò all'altra mano.
- Mi chiedevo se, per caso, l'aveste vista voi. -
- Mi spiace, signorina, non ho idea di dove possa essere. - avvolse la giarrettiera intorno alla mano.
- Oh. -
Sentì Len farsi più vicino.
- Ma cosa avete in mano, Kyte? -
Prese la giarrettiera per un'estremità, alzandola all'altezza del viso: - Credo sia la vostra giarrettiera, Len. -
- Oh, l'avete trovata! -
Kyte si decise finalmente ad alzare lo sguardo, notando Len sorridente, le mani giunte al petto.
- Sì. E dovete riconoscere che sono stato piuttosto rapido. - rispose, pacato.
Len annuì: - Ora sareste così gentile da rimetterla al suo posto? -
Kyte le porse la giarrettiera. Len scosse la testa: - Le cose che si prendono si rimettono al loro posto. E poi, ora, con la tournure e tutte le sottogonne, mi sarebbe davvero difficile reindossarla da sola. - la sua espressione e il suo tono si fecero così lacrimevoli che più finti non si sarebbe potuto.
- Come volete. - si arrese Kyte. Non che la cosa gli dispiacesse.
Quando Len alzò fino al ginocchio il numero imprecisato di gonne, Kyte notò che, nonostante tutto, la calza nera si era mantenuta su fino a metà stinco.
"Sia mai che cada del tutto e lo scopra per bene..."
Con un sospiro, risistemò la calza, tirandola fino a farla arrivare sopra il ginocchio, poco sotto i merletti delle gonne alzate.
- Vi sareste dovuto perlomeno sedere. - notò, avvolgendo la gamba nella giarrettiera con una mano sola, l'altra intenta a sorreggere la calza.
- Volevo stare in piedi. - fu la candida risposta.
Riuscì a tenere ferma la calza tirando le due estremità della giarrettiera, in modo che il nastro la premesse contro la gamba; liberata la mano, riuscì finalmente ad annodare quella fascia di merletti.
- L'avete messa male. - disse Len, un istante dopo, senza neppure dargli il tempo di levare la mano da dietro il ginocchio.
- Colpa vostra. - rispose Kyte, minimamente toccato: - Dovevate sedervi. E alzare di più le gonne, visto che tutta questa stoffa mi copre la visuale. -
- Alzarle ancora avrebbe mostrato più di quanto sia lecito anche solo intravedere. -
- Anche voi avete ragione. - sospirò: - Perdonatemi. -
La mano scivolò in alto, sulla coscia.
Le labbra andarono ad accarezzare il merletto nero, per poi posarsi una spanna sopra, sulla pelle nuda, quasi fino a sfiorare il pizzo bianco.
Sentì l'altro rabbrividire.
- Comunque... - si tirò indietro e tornò a guardarlo negli occhi, accorgendosi, con una certa soddisfazione, che le sue guance non erano di un colore chiaro: - ... io non ho la benché minima idea di come si indossi una giarrettiera. - confessò, con un sorriso.
Un bussare.
Come colpito in pieno da qualcosa, Kyte si rialzò velocemente e si allontanò di qualche passo, notando di sfuggita Len abbassare le gonne con tutta la calma del mondo, il viso che tornava del suo solito colorito.
- Avanti! - esclamò, sperando che, chiunque fosse, non pensasse eccessivamente male.
Quando la porta si aprì, sulla soglia apparve il maggiordomo.
Non appena vide Len, la sua espressione si fece stupita: - Oh! Dunque siete qui, signorina! -
- Sì! - in quel momento, sembrava la fanciulla più candida e pura sulla faccia della Terra.
Kyte riuscì a non ridere per chissà quale intercessione trascendentale.
- Mi cercavate? - domandò Len.
Il maggiordomo annuì: - Sì, in realtà. Cercavo sia voi che il signor Sheeawn. -
Kyte si mise sull'attenti, incuriosito: - Che succede? -
- Il signor Kamui è tornato in Inghilterra ieri mattina. - annunciò il maggiordomo: - Tra due giorni verrà qui a farvi visita. -.
"... cosa...?"
- Gakupo-sensei è tornato! - il trillo al suo fianco lo scosse, costringendolo a voltarsi verso Len: le mani giunte al petto, il volto luminoso, lo sguardo che brillava.
Incontrò i suoi occhi azzurri: - Gakupo-sensei è tornato, signor Kyte! E sarà qui tra due giorni! Non siete felice? -
"Sono... sì, lo sono..."
Annuì.
- Avrà tante cose da raccontarci! Gli faremo trovare tutto splendente e cibo ottimo, vero? -
- Certo, signorina. -
- E fategli trovare pronta la sua camera, ovviamente! -
- Naturalmente, signorina. -
- Mia madre già ne è stata informata? -
- Sì, signorina. -
- Ottimo, allora non c'è da esitare! Voglio che la casa sia perfetta per il suo ritorno! -
- Come desiderate, signorina. -
"Sono... sì..." guardò fuori dalla finestra. Ora le nuvole erano di più. Ma non ricordava quante fossero prima: "... sono felice... sì.".






Note:
* "Tredicimilanovecentoquarantatré stanze": Room 13943. Ebbene sì. *...*
* Per quanto i vittoriani fossero ossessionati dalla pudicizia e dalla castità - erano pur sempre coloro che coprivano le gambe dei tavoli perché avrebbero potuto portare a pensieri impuri -, ai balli erano concesse scollature fino a due centimetri sopra i capezzoli. E non è un eufemismo.
* "Petalo(i) di ciliegio che danza(no) nel vento con eleganza": Sakura Maichirinu -Rei-. Nonché vestito indossato da Len - seppur con qualche modifica. Ebbene sì. 2
* Il carnet (di ballo) era un libretto su cui era riportata la scaletta dei balli; accanto al nome di ciascuno di questi, le dame scrivevano i nomi dei cavalieri con cui avevano accettato di danzare. Le donne lo portavano appeso al polso - meglio non indagare sul carnet (dunque un piccolo libro) di Len.
* Tecnicamente, nell'epoca vittoriana, il valzer era uno dei balli più diffusi; tuttavia, qualche decennio prima, quando era giunto in Inghilterra per la prima volta, era stato considerato quanto di più scandaloso potesse esserci, a causa della stretta vicinanza tra il cavaliere e la dama.
Considerata la mentalità vittoriana riguardo il pudore, considerato che si trattava di un ballo in cui un uomo e una donna, abbracciati, alla fine si ritrovavano ansimanti e rossi in viso, vi lascio immaginare quale profondo significato metaforico (?) potesse assumere un giro di valzer.
Per questo motivo, in teoria, le fanciulle più giovani non danzavano il valzer. Ma Len ha mostrato di non farsi troppi problemi di galateo...
* Ballare sempre con lo stesso partner era più che sconveniente: se danzare due volte con lo/a stesso/a cavaliere/dama era ancora accettato, farlo una terza volta - o più - portava istantaneamente a far sospettare una relazione tra i due, con annessi pettegolezzi.
* Non era poi così strano&impossibile che una dama, durante/dopo un ballo, avesse un calo di pressione o svenisse. Non che fosse la norma ma, se succedeva, non era un evento incredibile. E, sì, la colpa era da imputare anche ai famigerati corsetti.
Corsetti che non era bizzarro che una donna aristocratica non sapesse indossare/togliere da sola. Anzi.




L'avevo detto che non sarebbe successo nulla di davvero rilevante, al ballo. U__U
In compenso, è successo qualcosa dopo: si è scoperto qualcosa su Kyte e, soprattutto, si è parlato di pesci abissali.
E, se pensate che la scena dei ventagli c'è soltanto perché ho trovato elenchi sul linguaggio dei ventagli e volevo assolutamente metterli in pratica, avete ragione.
(Quella del linguaggio del ventaglio è una storia lunga e complicata (?). Comunque, riassumendo in modo brutto, anche se ci sono riferimenti al 1700, quel linguaggio era in voga anche nel 1800.)

Quanto ai conti "Tibirsh" - forse qualcuno l'avrà intuito, dopo aver visto "Dewsen" -, il loro cognome è semplicemente l'anagramma di "British", in quanto la casa di produzione di Prima e Tonio ha sede nelle "British Isles" (come dice la wikia). *O*
Ah, ovviamente, è voluto il fatto che le altre ragazze trovino Len "bella&aggraziata" anche quando è palese che non lo sia. *asd*

Ebbene sì, sono già trascorsi sei mesi - come vola il tempo quando ci si diverte... -, Len si perde cose per strada, Kyte peggiora con le sue pare mentali e Gakupo è di ritorno dal Giappone. Nell'aria c'è una palese e scoppiettante allegria generale. *O*
(Ah, se qualcuno se lo stesse chiedendo: il fatto che Kyte abbia i capelli neri è per dare un po' di "realismo". Però ha i riflessi bluastri. U.U *Avrà modo di dirlo.* *Sì, sono cose importanti. (?)*)

Un piccolo appunto: se, nel primo capitolo, vi capita di trovare dei "Mira" laddove siete sicuri ci fossero dei "Miroru" non significa che avete avuto delle allucinazioni. Pare infatti che la traslitterazione giapponese di "Mirror" sia "Mira" e non "Miroru" come credevo. Grazie a Mistryss per avermelo fatto presente! ^^

Spero che questo capitolo vi sia stato di gradimento. ^^
Per qualsiasi consiglio o critica, dite pure. ^^

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Capitolo 5
*** x0x5x ***


Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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Si svegliò, intorpidito.
Per un attimo, pensò di stare ancora sognando: l'unica luce presente nella stanza era quella bianca e soffusa della luna, ma non sentiva alcuna presenza vicino a sé. Erano strano che Len se ne fosse già andato, per quanto non dovesse mancare troppo all'alba.
Sgranò gli occhi, si mise seduto.
"... ma io avevo tirato le tende. Come fa ad esserci luce...?"
Soltanto in quel momento, da quella visuale, si accorse di qualcosa davanti al letto: una figura che si rifletteva nel piccolo specchio al muro, uno specchio grande tanto quanto bastava a mostrare fino alla vita.
Non riusciva a vedere il riflesso, ma non gli ci volle molto a riconoscere la corporatura e i capelli biondi di Len e, soprattutto, la sua camicia e i suoi pantaloni.
Rimase in silenzio, limitandosi ad osservare: non sapeva se l'altro si fosse accorto di essere fissato ma, come se nulla fosse, continuava a specchiarsi, a sistemarsi la camicia - aperta, a giudicare dalla posizione del colletto - troppo grande, a tenere su i pantaloni con una mano.
"Che sta facendo...?"
Qualcosa gli diceva che non fosse stato preso dal desiderio irrefrenabile di indossare i suoi vestiti perché erano i suoi.
Non seppe esattamente dopo quanto, vide Len sussultare e voltarsi verso di lui, gli occhi spalancati, come se fosse stato colto in flagranza di chissà quale atroce reato.
- Da quanto siete sveglio? -
Kyte si stupì: il tono era sulla difensiva, come se fosse stato messo con le spalle al muro e non avesse alcuna via di fuga.
- Non saprei... - rispose, piano: - Se avete fatto qualcosa di imbarazzante, non l'ho visto. Vi ho visto solo stare davanti allo specchio e sistemarvi. - si affrettò ad aggiungere.
Len si strinse nella camicia - decisamente, non l'aveva chiusa.
- Scusatemi. - disse, un istante dopo, liberandosi della camicia e lasciando cadere i pantaloni, rimanendo con la sola biancheria. Quasi lanciò la camicia sul letto, per poi guardarsi intorno, come se stesse cercando qualcosa, un braccio a coprirsi il petto.
Kyte non riuscì a trattenere un sorriso: ogni volta che era fuori da quel letto, o anche solo quando gli capitava di starvi seduto, Len si copriva il petto, con braccia, lenzuola o indumenti che fossero. Era quasi un gesto divertente, pensando a quanto fosse radicata in lui l'educazione femminile. Al tempo stesso, era un gesto un po' inquietante.
Tornò alla realtà quando lo vide prendere la propria veste da notte.
- Non avete fatto nulla di male, eh. - gli fece notare.
Len si bloccò. Poi, proprio come aveva immaginato, si portò la veste al petto, quasi fosse indeciso se indossarla o meno. Non rispose, lo vide lanciare un'occhiata veloce allo specchio.
- Volevo... - era strano sentire quella voce così bassa, esitante, quasi non riusciva a distinguere le parole: - ... volevo solo sapere cosa si provasse ad indossare... cose come quelle. -
Kyte sbattè le palpebre.
Gli era capitato che qualche fanciulla fosse incuriosita dai capi d'abbigliamento maschili ma in quel caso...
- Aspettate! - scese dal letto e andò all'armadio - sentiva lo sguardo perplesso di Len, doveva essere davvero confuso se riusciva a percepirlo senza neanche guardarlo...
Tirò fuori una camicia e un paio di pantaloni vagamente più decenti di quelli che l'altro aveva preso - già solo il fatto che quelli fossero usciti dall'armadio e non raccattati da terra era un punto a loro favore -, gli si avvicinò e glieli porse: - Forse questi vi staranno meglio. -
Due occhi azzurri spalancati.
- ... anche se non credo siano esattamente della vostra taglia. -.
Len fissò gli indumenti che gli porgeva, immobile, senza mutare espressione da quella scioccata che aveva. Dopo qualche secondo, piano, prese la camicia, per poi indossarla una volta avergli dato le spalle, la camicia da notte lasciata sul letto.
Dopo averlo visto mettere anche i pantaloni, Kyte gli allacciò i bottoni centrali della camicia. Lo sentì irrigidirsi, lo sguardo basso, non verso le sue mani, verso un punto imprecisato a lato, come se cercasse di non guardarsi.
"Non aveva detto di volerli indossare...?"
Seppur perplesso, Kyte lo fece voltare verso lo specchio, alzandogli delicatamente il mento per fargli incontrare lo sguardo del suo riflesso.
Lo sentì tremare, per un istante.
Poi Len fece un passo avanti, verso lo specchio, lo sguardo incuriosito, esitante, spaventato.
Lentamente, vide le sue mani alzarsi, le dita passare tra i capelli, fino a raccoglierli in una piccola coda bassa. Rimase immobile, quasi neppure respirando.
"A vederlo così, sembra già più un ragazzo..." notò Kyte, sedendosi sul letto e osservando il suo riflesso: "Un ragazzo molto effemminato, ma non sembra una fanciulla e basta...".
Era incredibile come gli fosse bastato cambiare abiti e legarsi i capelli in basso piuttosto che in alto per perdere una buona fetta di femminilità.
Ma fu un pensiero rapido, fugace: gli occhi azzurri nello specchio erano terrorizzati.
- Scusatemi. -
Le mani andarono ai bottoni della camicia, il volto coperto dai capelli lasciati liberi.
Kyte rimase disorientato ancora una volta: quella voce era spezzata, tremava.
In un istante, i suoi vestiti furono sul letto, la camicia da notte sul corpo di Len, una mano già sulla maniglia.
- ... vi fanno così repulsione? -
Len si bloccò.
- Possiamo prenderne altri, eh. -
"Insomma, capisco non siano i miei abiti migliori, ma insomma..."
Una risata debole, soffocata.
Len non si voltò. La sua voce era tenuta ferma a forza: - No. I vostri vestiti vanno benissimo. Anche se, sì, non sono della mia taglia. - un respiro profondo: - Perdonatemi, devo tornare nella mia camera. A tra poche ore. -.
Un istante dopo era uscito dalla stanza, la porta richiusa.
Kyte rimase sul letto, la confusione che lasciava posto all'inquietudine.
"Forse... a voi non sta tutto così bene, eh?".

Si sentiva agitato. E irritato.
- Ah, sta iniziando a fare veramente freddo, non trovate? -
- Sì, direi di sì. -
Non era più riuscito ad addormentarsi, quella notte. Non sapeva dire se fosse stata colpa di quello che aveva intuito o di quello sguardo terrorizzato. Non lo sapeva e non voleva saperlo: l'unica cosa che voleva era che non ci fosse più quell'espressione, quella reazione spaventata, qualunque fosse il motivo.
- Forse domani dovremmo far accendere i camini...? -
- Se verrà richiesto, sì. -
Per quanto Len potesse ridere, fare i capricci o atteggiarsi in modi assurdi, c'era sempre qualcosa che lo turbava. Quel qualcosa che incupiva il suo sguardo, che ghiacciava la sua voce, che era in grado anche di farlo tremare di fronte al suo stesso riflesso.
Era triste per lui. Ed era irritato dal fatto di non poterlo aiutare.
- Kyte. -
Si bloccò: Len si era fermato e si era voltato verso di lui, lo sguardo perplesso.
- Vi vedo un po' assente. - disse, facendo ruotare appena l'ombrellino sopra la testa.
"Perdonatemi."
Avrebbe voluto dirlo. Ma quelle parole sembravano un'eco di quelle uscite dalle labbra di Len qualche ora prima.
"Se le cose non fossero così..." trasse un profondo respiro: aveva desiderato più volte che la realtà non cambiasse, che, se proprio dovesse mutare, di diverso ci fosse solo il luogo.
- Se un uomo a conoscenza della verità vi chiedesse in sposa, andrebbe bene? -
Quegli occhi azzurri sgranati.
La sua mente aveva interrotto qualsiasi contatto con la bocca.
Len parve riprendersi, le sue labbra si curvarono in un sorriso - tirato -, lasciandosi sfuggire una risata - tesa. Si voltò, coprendosi quasi del tutto con l'ombrellino: - Oh, affatto. Sarebbe un grosso problema. Significherebbe che qualcuno al di fuori di noi è a conoscenza di una cosa di cui non dovrebbe essere a conoscenza. -
- Lasciate perdere come lo sia venuto a sapere. - sentiva la mente del tutto svuotata: - Se un uomo vi chiedesse in sposa, se gli andasse bene la verità, se persino avesse contatti economici con il Giappone... non andrebbe bene? -
- E dove pensate di cercare un uomo con queste caratteristiche? - la voce di Len aveva assunto una sfumatura indefinita, quasi agitata.
- Forse non c'è bisogno di cercarlo. -
- Forse potrebbe mancargli qualcosa. -
- Direi di no. -
- Avete dimenticato un particolare importante. -
- Ossia? -
Finalmente Len si voltò, guardandolo negli occhi. Kyte rabbrividì: quel dannatissimo sguardo vitreo.
- Per anche solo osare sperare di poter chiedere la mia mano... - mormorò: - ... un uomo deve essere molto- - abbassò l'ombrello: - molto- - lo chiuse: - molto- - gli si avvicinò: - ricco. -.
Una pugnalata al cuore.
Aveva sempre creduto fosse un'espressione fin troppo romanzata, ridicolmente melodrammatica, ma quasi gli parve di sentire una lama fredda e tagliente conficcarglisi nel cuore, togliendogli il respiro, riempiendogli i polmoni di sangue.
Denaro.
Non l'aveva mai odiato tanto come in quel momento.
- Se fossi data in sposa ad un nobile decaduto, senza neppure uno scellino proprio, sarebbe ancora più assurdo e sospetto di una figlia unica spedita in monastero. -
La sua voce era tornata normale. Il suo sguardo era di nuovo vivo, per quanto non luminoso come al solito.
- ... se, per assurdo... - sussurrò Kyte, piano: - ... quell'uomo fosse così ricco da poter anche sperare in una risposta affermativa... voi sareste felice? -
Una scintilla di sorpresa in quegli occhi azzurri.
Len tacque per minuti interi, o forse per poche frazioni di secondo. Poi inspirò, piano: - Ora sono felice. E, se anche vi sposassi, cosa cambierebbe? -
- Eh? - era disorientato.
"In che senso...?"
- Dovremmo rientrare! - quella voce si era ritrasformata nel suo solito trillo, facendolo trasalire: - Gakupo-sensei arriva domani e dobbiamo fargli trovare pronta o-g-n-i c-o-s-a! Dobbiamo anche mettere i nostri vestiti migliori, insomma, non si accoglie un ospite che si è fatto sei mesi di mare con degli stracci! -
- Sì, Len. - sospirò Kyte, alzando gli occhi al cielo.
Si sentiva un po' più leggero. Forse tutto il sangue fuoriuscito era evaporato. La ferita della coltellata faceva ancora un po' male, però.
- E... - Len prese l'ombrellino con entrambe le mani, forse per tenerle impegnate: - ... sapete anche che... dopo stanotte, non potremo più vederci ogni notte? E che difficilmente ci saranno concesse ore di sole per noi due soltanto? -
Kyte annuì: - Sì. L'avevo messo in conto. -
"Come anche..."
- Vorrei tanto che la servitù si stancasse. - disse Len, alzando lo sguardo verso l'edificio a pochi passi da loro: - Che ognuno di loro si stancasse come mai in tutta la sua vita. Che andasse a dormire prestissimo e che scivolasse in un sonno pesantissimo. Fino a domani mattina. - tornò a guardarlo: - Stanotte voglio stare con voi dal tramonto. E rimandare ogni secondo di sonno alla notte di domani. -
- Non sono nessuno per impedirvelo. - doveva esserne felice. Ma l'idea che fosse l'ultima notte in cui era concesso pensare solo a loro lo turbava.
- Allora andiamo! - esclamò Len, il tono deciso e discretamente alto.
- A fare cosa? Ad aiutare i servitori? -
- No, ovviamente! Credevo di essere stata abbastanza chiara. - gonfiò appena le guance: - Però possiamo supervisionarli! E pensare a come presentarci domani! -
- Non credo sarà qualcosa che richiederà un pomeriggio intero... -
- Lo dite voi. -
- ... -
Kyte sospirò di nuovo.
"Domani..."
Era felice di rivedere Gakupo. Lo era davvero.
Ciò che non gli piaceva affatto era ciò che significava riaverlo davanti.

- Sarò in riunione con quel commerciante giapponese, tu fai il bravo e non fare troppa confusione. -
Facile dirlo.
Difficile trovare qualcosa in grado di scacciare la noia quando la maggior parte degli abitanti della casa aveva più di vent'anni - e i suoi fratelli e le sue sorelle più grandi non avevano ritenuto necessario portare il fratellino nella loro gita in città.
Annoiato tanto da sbadigliare, Kyte andò nella stanza in cui sapeva trovarsi il padre e il famigerato commerciante giapponese - quello di cui conosceva l'esistenza ma che non aveva mai visto: forse i loro discorsi sarebbero stati un briciolo più interessanti di qualsiasi altra cosa presente in quella casa - non che ci volesse molto, in effetti.
Dato che la porta principale della stanza era ovviamente chiusa, fece il giro e passò dalla secondaria, rimanendo sulla soglia e tendendo le orecchie.
- ... diecimila più ventimila, a cui si sommano cinquantamila, ma con uno sconto speciale di trentamila... -
No, d'accordo, erano discorsi disturbanti.
Sospirò, riflettendo seriamente sull'idea di andare a dormire. Poi il suo sguardo fu catturato dal mitologico "commerciante giapponese": "Allora è vero che i giapponesi hanno gli occhi sottili!" quel particolare riuscì a risvegliarlo un po'. Osò lasciare la soglia, approfittando della combinazione tavolo alto e sua bassa statura per sperare di non essere notato, per poi studiare l'uomo che stava parlando con suo padre: aveva davvero gli occhi sottilissimi, come due fessure orizzontali, e i capelli legati erano lunghi come quelli di una donna. Anche se quel signore non sembrava affatto una donna.
"Ma ci vede?" si domandò Kyte, perplesso: "... e poi, i giapponesi non hanno tutti i capelli neri? I capelli di questo signore sono castani...".
In quel momento, da quella posizione, notò un'altra cosa: sotto al tavolo c'erano tre paia di gambe. Qualcosa non tornava.
Piano, Kyte passò dietro la sedia di suo padre, per raggiungere l'altro lato del tavolo, quello da dove spuntavano le due gambe di troppo - nettamente più piccole di quelle dei due uomini, neppure toccavano il pavimento.
Quando completò il giro, riuscì a notare ciò che non aveva visto prima: un bambino forse poco più grande di lui, seduto accanto al padre, lo sguardo inespressivo fisso sui due uomini in trattativa.
Kyte sgranò gli occhi, colto di sorpresa: "Poverino! Si starà annoiando a morte! Devo salvarlo!"
In pochi passi fu accanto alla sedia del ragazzino; quando serrò una mano sul suo polso, l'altro si girò di scatto verso di lui, gli occhi spalancati.
"... ma non è un po' chiaro, per essere un giapponese...?"
- Presto! Ora che non ci stanno guardando! - sibilò Kyte, tirandolo appena.
-
N-nani...? -
- Non ti preoccupare, non sarai più costretto ad ascoltare quei vecchi! -
- Che cosa stai facendo...? -
"Ugh."
Kyte alzò lo sguardo verso il volto stupito di suo padre, percependo lo sguardo del commerciante giapponese su di sé.
Deglutì, esitante, per poi chiedere: - Perché lo costringete ad ascoltare le vostre cose noiose? -
Lo sguardo di suo padre si spostò sull'altro bambino; dalla sua espressione, sembrò quasi si fosse accorto della sua presenza solo in quel momento.
Kyte sospettò fosse esattamente così.
- Oh, cielo, povero piccolo! - sì, era decisamente così, o suo padre stava fingendo bene: - Perdonatemi, non avevo intenzione di annoiarvi con questi discorsi da adulti! -
Se non avesse avuto quell'aspetto tanto innocente e indifeso, Kyte avrebbe detto che il bambino lo stesse guardando male.
- Signor Kamui, lasciate pure libero vostro figlio! - suo padre era tornato a rivolgersi al commerciante giapponese, che, da quella posizione, Kyte non riusciva più a vedere bene.
- Non vorrei causarvi disturbo... - per qualche strano motivo, la voce dell'altro uomo non sembrava molto convinta.
- Nessun disturbo, signor Kamui! - la voce di suo padre, invece, era allegra: - Lasciatelo pure andare! -.
Il ragazzino - il polso ancora stretto nella sua mano - si voltò verso il padre, dicendo qualcosa nella sua lingua, il tono basso, esitante. L'uomo gli rispose in giapponese, a voce bassa, sicura.
Il bambino sospirò, come se si fosse arreso. Kyte capì che era il momento perfetto: lo strattonò, riuscendo a tirarlo giù dalla sedia, e fuggì dalla stanza praticamente trascinandolo.
Quando furono piuttosto lontani, in prossimità del giardino interno, Kyte si fermò, voltandosi verso il ragazzino: aveva lo sguardo sconvolto, come se avesse visto qualcosa di orripilante, e gli sembrava fosse pure impallidito. Per quanto i suoi colori fossero curiosamente chiari, non gli pareva che la sua pelle fosse così bianca, poco prima.
- Ecco! - esclamò Kyte, lasciandogli il polso e mettendo le braccia conserte, fiero del suo operato: - Ora non sarai più costretto ad ascoltare i loro discorsi noios- -
- N-non... - l'altro lo interruppe: - ... parate coshì beroce,
kudasai. - disse, scandendo bene le sillabe. Sembrava davvero stesse cercando di riprendersi da un grosso spavento.
- Eh? - Kyte piegò appena la testa di lato: - Devo parlare più piano? - gli era parso di sentire delle parole famigliari, ma non era così sicuro del significato.
L'altro annuì.
"Oh..."
- Dicevo... - esordì, parlando lentamente: - Adesso non dovrai più ascoltare i loro discorsi noiosi! Sono stati davvero crudeli a farti assistere ad un dialogo tanto noioso! -
- Non erano noioshi. - rispose il ragazzino, il colorito tornato normale, la voce pacata: - Io asisuto semupure are toratatibe di mio padore, dato che doburò purendere iru suo posuto... -
Kyte, annuì, piano: con un piccolo sforzo, riusciva a capire cosa l'altro stesse dicendo. Di certo, aveva l'accento più marcato che avesse mai udito.
Per capire il significato della frase intera, invece, gli ci volle qualche secondo: - Aspetta... - portò le mani ai fianchi, sgranando gli occhi: - ... vuoi dirmi che ti sorbisci ogni volta quei discorsi soporiferi? -
- Sorubi...? Sopuri...? -
"... forse è meglio cambiare argomento. E forse è meglio usare parole semplici."
Per quanto la sua espressione fosse tranquilla, aveva il sospetto che fosse un po' in difficoltà.
- Lascia stare. - sventolò una mano, come a scacciare il discorso precedente: - Piuttosto... - lo fissò negli occhi: - ... ma tu sei un giapponese vero? -
- ... eh? -
- Io so che i giapponesi hanno tutti i capelli nerissimi e gli occhi scuri! - esclamò Kyte, facendo un passo avanti, incuriosito: - Tu non li hai. E anche gli occhi sono più grandi di quelli di tuo padre! - osservò, notando come, per quanto avessero una forma allungata, sembrassero quelli appena socchiusi di un occidentale. Anche il colore era strano: non sapeva se fosse un grigio cenere annacquata o un celeste meno limpido del dovuto.
- Shì, sono un japonese bero. - rispose l'altro, tranquillissimo: - Boi, piutosuto. Boi ingureshi non doburesute esere biondi con ri ochi azuri? -
Kyte si sentì colpito in pieno da un freccia.
- Nnnnon tutti. - rispose, esitante: - Ci sono un sacco di inglesi con i capelli neri come me! -
- Saco? -
- E poi io gli occhi azzurri ce li ho! -
- Ciò non torie che siete un ingurese sutorano. -
- Tu sei un giapponese più strano di me. - gonfiò appena le guance: - E poi, i miei tris-tris-tris-nonni erano irlandesi! Sono giustificato! -
- Ri irurandeshi non hanno i caperi roshi? -
- ... -
"D'accordo, me la sono cercata.".
- A proposito! - si ricordò solo in quel momento di aver dimenticato una cosa importante. Gli porse la mano: - Io sono Kyte Sheeawn! -.
Il ragazzo guardò la mano per qualche secondo, come se non sapesse cosa fare. Infine la prese, per poi chinare la testa: - Kamui Gakupo. Piacere, Shion- sama. -
Kyte ridacchiò, lasciandogli la mano: - No, è "Sheeawn" e basta, non "Sheeawnsama", Kamui! -
- Shì, ro so. - rispose l'altro, tornando a guardarlo.
- Però non chiamarmi per cognome! Chiamami per nome! -
- Come borete, Kaito-sama. -
Kyte sbattè le palpebre, confuso: - Non è "Kaitosama", è "Kyte"! Perché metti "sama" ovunque? -
Stavolta la confusione apparve sul volto dell'altro, che perse per un istante la sua compostezza: - E' un... onorifico... - spiegò, piano.
- Onorifico? - Kyte piegò appena la testa di lato, incuriosito: - Voi giapponesi aggiungete "sama" alla fine dei nomi? Che vuol dire? -
Il ragazzino esitò. Poi rispose: - Curedo shi posa conshiderare come "somo". -
- Sommo...? - ripetè Kyte, lentamente. Ci pensò un istante. Era
gradevole.
- "Sommo Kyte" suona così bene! - notò, orgoglioso di quel bel suono. Sospirò, scuotendo la testa: - Però sembra che tu mi stia prendendo in giro. Quindi niente "sama". Chiamami solo per nome! E io farò lo stesso, Kamui! -
- Kamui è iru nome di famiria. -
- Eh? -
- Iru nome è Gakupo. -
Kyte sgranò gli occhi, disorientato: - E perché hai detto di chiamarti "Kamui Gakupo" se ti chiami "Gakupo Kamui"? -
Gakupo sembrava lo specchio della sua espressione: - D-da noi shi usa coshì... -
Kyte si passò una mano tra i capelli, la fronte aggrottata: - Voi giapponesi siete strani. -
- O foruse shiete boi ingureshi ado esere sutorani. - rispose l'altro, tornando impassibile.
Probabilmente era un punto sul quale non sarebbero riusciti a mettersi d'accordo.
- Quindi... - esordì, sentendo una strana curiosità: - ... voi non dite "signore"? -
- Purego? -
- Signor Quello, Signor Questo... - tentò di spiegare: - ... voi dite sempre "Sommo Quello", "Sommo Questo"? Siete davvero... uhm... - cercò una parola adatta: - ... cerimoniosi. -
- Shì che diciamo "siniore". - rispose Gakupo: - Boi saresute Kaito-san. -
- Quindi voi li mettete alla fine... - osservò Kyte, stupito: - Però... - notò un'altra cosa: - ... io mi chiamo "Kyte", non "Kaito"! -
L'altro parve trasalire. Il sorriso che fece era palesemente tirato: -
Sumimasen. Abete un nome dificire da dire. -
"A me sembra un nome normalissimo..."
- Ma tu quanti anni hai? - chiese, di punto in bianco: a forza di parlare di onorifici e simili, gli era venuto il dubbio che
forse si stesse rivolgendo in modo un po' troppo diretto ad una persona più grande di lui. Per quanto fosse di classe inferiore, era comunque più grande, forse...
- Undici. -
"Ecco, appunto."
- Io nove! - gonfiò il petto e alzò il mento, ma si sentì un po' idiota: di solito la frase era "io ho
ben nove anni!" ma, in quel momento, si era reso conto di come dirlo l'avrebbe fatto sembrare ridicolo.
"Comunque, non è poi tantissimo più grande di me." notò, cercando di non far caso all'abbondante spanna che li separava in altezza, alla faccia dei giapponesi piccolini.
- E conosci un'altra lingua già a undici anni? - si stupì, evitando di fargli notare come ciò che dicesse si riuscisse ad
intuire.
- Serube peru iru raboro di mio padore. - spiegò Gakupo: - Anche se è dificire... -
- Eh, sì... - annuì Kyte, con fare sapiente: - Immagino tu stia studiando da quando eri davvero piccolo! Ma non ti preoccupare, qualche altra decina d'anni e- -
- Ho iniziato sei meshi fa. -
- ... -
"... beh, lui è più grande! Non vale!"
- Sì, insomma, non è così difficile imparare le lingue! - annuì con vigore, cercando di autoconvincersi: - Anch'io riuscirei ad imparare la tua lingua in poco più di sei mesi! Anzi, scommetto che ci metterei sei mesi o anche meno! -
- D'acorudo. -
- Eh...? - Kyte tornò a guardare Gakupo: era il ritratto della tranquillità. Però quel sorriso, per quanto pacato, non gli piaceva affatto: - Arora bi insenierò iru japonese. Sono shicuro che riushirete ado impararo entoro sei meshi! -
- ... -
"... sono spacciato.".


Si affacciò alla finestra, cercando di vedere qualcosa sulla linea dell'orizzonte.
Niente.
Era qualcosa come la quindicesima volta che cercava di vedere anche solo un oggetto somigliante ad una carrozza percorrere la strada tra i prati che portava alla magione, ma niente.
Si passò una mano sugli occhi: aveva appurato, con un certo sollievo, di non avere occhiaie visibili da chilometri di distanza; il fatto di essere riuscito a dormire almeno un paio d'ore - o qualsiasi fosse l'arco temporale trascorso tra l'alba e le otto del mattino - gli aveva risparmiato un completo sentirsi rimbambito. Ciò non gli aveva reso più piacevole tutto il vociare che era venuto a crearsi al piano terra e al primo piano, costringendolo a fuggire a quello che sembrava il terzo piano - a giudicare dalla distanza con il terreno.
Aveva deciso di scendere - o almeno, iniziare a cercare un modo per orientarsi e dunque scendere - solo una volta individuata la carrozza che stava aspettando. Fino a quel momento, stava bene lì, da solo, nel silenzio più totale.
Si era anche ripromesso di non lasciarsi andare a pensieri spiacevoli. Quindi la sua mente era del tutto svuotata. Se non altro, sentiva la testa particolarmente leggera.
- Eccovi, finalmente! -
Kyte trasalì, ma non si voltò: era impossibile non riconoscere quel trillo.
- Vi ho cercato dappertutto! Perché vi siete rintanato qui? -
- Di sotto c'è una gran confusione. - spiegò: - E da qui si vede meglio l'arrivo di qualcuno. -.
Una risata.
- Allora rimango qui anch'io. Vi disturbo? -
- No, fate pure. - alla fine decise di voltarsi.
E rimase pietrificato.
Anche se la sua pazzia era ormai stata accertata, non credeva possibile delirare ancora di più.
Tuttavia, in quel momento, Len gli parve quanto di più splendido avesse mai visto, ancor più della prima volta che l'aveva guardato, quando ancora lo credeva una fanciulla.
E non aveva idea del perché. Oggettivamente, non c'era alcun motivo per cui dovesse avere un pensiero del genere o sentirsi anche disposto a rimanere fermo e rimirarlo per ore.
Aveva visto tanti colori sulla sua pelle, sia caldi che freddi, pastello o elaborati, graziosi vestiti rossi, ingombranti bomboniere rosa, eleganti abiti blu scuro.
Quella era la prima volta che indossava un abito completamente nero e gli donava in modo inquietante.
A riprova del peggioramento della sua follia, quel vestito non era neppure tanto complesso, anzi, era la normalità più assoluta: gonna, maniche larghe, leggera scollatura quadrata, lacci bianchi del corsetto esterno e merletti bianchi a dare un briciolo di colore. E un collarino nero, e il suo solito nastro nero a legargli i capelli.
Forse era l'insieme a tubarlo: tutto quel nero faceva risaltare il bianco della pelle, l'azzurro degli occhi e il biondo acceso dei capelli. Forse era quel contrasto a renderlo tanto gradevole alla vista.
- Cosa c'è? - Len si avvicinò, incuriosito: - Avete un'espressione sconvolta! - quel tono lamentoso falsissimo: - Faccio così orrore? -
Rabbrividì: erano stati insieme fino ad una manciata di ore prima, ma gli parve di non vederlo, toccarlo, da secoli.
- Non vi ho mai visto indossare questo abito. - notò, lasciando che lo sguardo vagasse sulla pelle scoperta sotto il collo. Forse sarebbe stata meglio una scollatura più profonda, ma era stupido pretenderla su quel petto piatto. Forse avrebbe dovuto bilanciare scoprendosi le spalle. Quello non era un abito che esigeva di coprire, tutt'altro: sembrava quasi un abbellimento destinato ad essere tolto al più presto. Probabilmente era per quello che faceva risaltare tanto chi lo indossava.
- E' per le occasioni speciali! - Len fece una piroetta, scoprendo per un attimo le scarpe nere e le calze nere: - E il ritorno di Gakupo-sensei è un'occasione speciale! -
- La più speciale da sei mesi a questa parte. - non c'era più alcun collegamento tra testa e bocca. Non aveva idea di cosa stesse dicendo.
Sentiva solo una strana irritazione all'altezza del petto.
- Beh, non potete dire che siano successe cose poi così eclatanti, in questi sei mesi! - Len ridacchiò, la mano bianca davanti alla bocca.
L'irritazione crebbe.
- Capisco... - tornò a guardare fuori dalla finestra. Ancora niente.
- ... siete geloso...? -
"Cosa?"
Riportò lo sguardo su Len, i suoi occhi sgranati, un misto di stupore e divertimento.
- Oh... - lo vide portare anche l'altra mano davanti alla bocca: - ... direi che è gelosia, sì. Anche piuttosto forte. -
"Gelosia?"
Stava per dirlo, con tono aspro, ma si bloccò. Ci pensò un istante.
"... quindi, quell'irritazione che ho sempre provato..." la cosa assumeva un certo senso.
Tornò con lo sguardo alla linea dell'orizzonte: "... perché diamine dovrei essere geloso di Gakupo?". Però l'irritazione c'era. Era lì, che gli corrodeva il petto, e non dava cenno di volersene andare.
- ... credo di sì. - disse, piano.
Guardò di nuovo Len, che non aveva cambiato espressione: - Credo ne abbia il diritto, no? - lo vide piegare appena la testa di lato: - Mettete il vostro "abito tanto speciale" solo ora e dite che in questi sei mesi non è successo nulla di eclatante. Perdonatemi se mi sento irritato. -.
Un attimo di silenzio. Poi Len rise di nuovo. Scoprì la bocca, curvata in un sorriso divertito: - Siete così divertente, Kyte! Però non intendevo certo offendervi. - portò le braccia lungo i fianchi, l'espressione si addolcì: - Tuttavia, in che occasione avrei dovuto indossare questo vestito? Non è certo un vestito adatto alle danze e neppure alle passeggiate o alle uscite. -
"In effetti..."
- Per il resto, non mi risulta siano avvenuti fatti tanto degni di essere incisi per sempre nella memoria. - si ravviò i capelli, o meglio, le ciocche sfuggite al nastro: - A meno che voi non vogliate considerarvi un evento, piuttosto che una persona. E, permettetemi di dirlo, stare con voi e indossare abiti, di qualsiasi tipo, è alquanto frustrante. -
Trasalì, improvvisamente resosi conto di un fatto: erano da soli. E difficilmente qualcuno sarebbe venuto lì a disturbarli.
La cosa che più lo agitò era il fatto di essersene reso conto quando qualcosa era apparsa sulla strada che portava alla magione.
Anche Len parve accorgersene, a giudicare da come aveva portato lo sguardo fuori dalla finestra.
"Datemi un'altra decina di minuti..." anche cinque, se li sarebbe fatti bastare.
E non gli importava niente che quello fosse un corridoio e che, per quanto fossero tutti ai piani inferiori, qualcuno poteva avere l'idea di salire, rischiando di vederli.
- Per quanto sia divertente vedervi geloso... - la mano di Len sul viso lo distolse dai suoi pensieri: - ... non dovete esserlo. -
Le labbra sulle sue, le braccia attorno al collo, una mano tra i capelli, la piccola imbottitura premuta contro il suo petto.
Rimase un attimo destabilizzato: quello non era un bacio di conforto o di scuse, non era neppure il bacio di chi sa che dovrà ridurre il numero dei loro incontri, o il bacio di chi ha già assaggiato quelle labbra più volte, per tanto tempo; era il bacio di qualcuno da solo con il proprio amante, con a disposizione tutto il tempo che desidera, un preludio impaziente, un ordine palese.
Riuscì a ricambiare solo dopo qualche istante, seppur con meno foga, ancora disorientato da quel bacio che aveva sentito solo di notte, quando non dovevano preoccuparsi di niente.
Di colpo, Len si allontanò, il respiro accellerato, le guance rosse, e s'incamminò lungo il corridoio, senza dire una parola.
Forse era stata un'allucinazione, ma gli era sembrato di vederlo passarsi le dita sulle labbra, per poi leccarle.
"... forse era per assicurarsi di non sembrare una lumaca piena di bava...?"
Dopo un rapido controllo, si rilassò appena - neppure lui era una lumaca piena di bava.
Ora rimaneva solo scendere.
"... Len è andato da questa parte, no?".

- Il tuo problema... - che strano suono avevano le consonanti. Sembravano qualcosa da masticare: - ... è che non fai nulla per goderti la vita! -
- Ah, sì? -
Gakupo continuò a dargli la schiena, neppure si degnò di alzare lo sguardo da quell'ammasso di fogli - forse un registro, a giudicare dalla mole di numeri a caso ammassati sulla carta.
- Sì! - gli si avvicinò. Non fu proprio facilissimo, sarebbe stato decisamente meglio se la stanza non si fosse messa a oscillare e a sdoppiarsi a sorpresa, ma tant'era. Lasciò cadere un pugno sul tavolo, sostenendovisi, sentendo le gambe dare brutti segni di cedimento. Eppure non era così pesante, su...
- Te ne stai tutto il tempo su quei cosi pieni di cosi a cosare cose. - bevve un altro sorso dalla bottiglia nell'altra mano. Per quanto ne mandasse giù, però, continuava ad avere sete. Era assurdo.
- Si chiama "lavoro". - disse Gakupo, la voce pacata come sempre: - Forse, un giorno, anche tu comprenderai il significato di questa parola. -
- Lo so cos'è il "lavoro"! - protestò Kyte, punto sul vivo: - Ed è una parola noiosa! A te piacciono le cose noiose! Quindi sei un persona noiosa! -
- Ti ringrazio per avermi aperto sugli occhi sulla realtà. - rispose l'altro, scrivendo cose sicuramente a caso in mezzo a file e righe di numeri.
Esitò: aveva la sensazione che Gakupo non prestasse davvero attenzione alle sue sagge parole.
Bevve un altro sorso. Stava seriamente iniziando a soffocare dal caldo.
- Guardati! - esclamò, indicando le torrette di banconote sparse per il tavolo: - Sei pieno di soldi! E cosa ci fai?
Le torrette! -
- Capita anche che li scambi con altri soldi. - gli fece notare Gakupo, serafico.
- Non è così che funziona! - protestò Kyte, appoggiandosi al tavolo - il braccio cominciava a non bastare, per sorreggersi: - Allora, adesso ti spiegherò a cosa servono i soldi! -
- Sentiamo. -
Una pausa, per dare il giusto pathos: - I soldi servono per essere spesi! -
- Oh. Non ci avevo mai pensato. -
Il tono di Gakupo non era sorpreso e colmo di gratitudine per averglielo fatto capire come aveva immaginato. Qualcosa non andava.
E la testa stava iniziando a fargli male.
- Ma non nelle cose stupide tue! - riuscì a rimanere in equilibrio sulle proprie gambe, per quanto non fosse facile: - Cose belle! -
- Ad esempio? -
- Ad esempio... - provò a pensarci, ma la testa era completamente vuota - eppure pesantissima. Bevve un altro sorso. Un pensiero arrivò: - Questo! - trillò, agitando la bottiglia.
- Il sakè è più buono. -
"Sakè?" quella parola gli sembrava famigliare, ma non riusciva a ricollegarla bene. L'unica cosa che sapeva era che doveva essere roba giapponese.
- Non è solo questo! - le gambe stavano iniziando a cedere. Da dietro, abbracciò l'altro, forse rischiando anche di soffocarlo, vista la stretta delle braccia nella zona collo. Tuttavia, Gakupo non diede segni a riguardo, quindi Kyte si sentì autorizzato ad usarlo come qualcosa a cui appoggiarsi - per quanto fosse un po' scomodo stare così curvi, visto che l'altro era seduto.
- Tu stai sempre a cosare cose di lavoro e basta! Se non ti piace l'alcool, puoi sempre cosare il tuo denaro in modo molto più... - parlare stava diventando difficile: - ... più. E meno meno. Ci sono anche le donne! -
- Ho detto che il sakè mi piace. - il tono calmo non era mutato di una nota: - E forse non ho bisogno di denaro per avere donne. -
- Eh? - sbattè le palpebre. Sentiva gli occhi bruciare: - Neppure le donne ti piacciono? -
- Non era quello che intendevo. -
La testa gli faceva male. Rinunciò a capire quella strana sequela di parole. Bevve un altro sorso. Ma il vino era finito. Posò la bottiglia sul tavolo. Sentì un tonfo. La bottiglia era sul tappeto.
"Io l'avevo messa sul tavolo..." osservò la stanza che oscillava: "Ah, giusto, sarà caduta, con tutto questo muoversi...".
Già il calore stava sparendo per lasciare il posto al freddo. Erano cambiamenti fin troppo rapidi.
Morse un orecchio dell'altro, serrando la presa sulle spalle. Niente.
- Sto per conficcarti due dita negli occhi. -
- Cattivo. -
- Fai schifo. -
- Fa freddo! -
"E dovrei anche tornare a casa..." gettò uno sguardo fuori dalla finestra: bianco. O meglio, grigio scuro, dato che la neve, di notte, non era affatto bianca scintillante come disegnavano i pittori.
"... e io dovrei fare non so quanto a piedi in mezzo alla neve...?" fissò il vetro della finestra per qualche istante. Tornò a mordicchiare l'orecchio.
- Questo non ti farà sentire meno freddo, solo più dolore tra meno di un minuto. -
- Stanotte dormo con te! -
- Neanche per sogno. -
- Ma, se dormiamo nello stesso letto, potremo riscaldarci! - gli fece notare Kyte, fiero della sua riflessione tanto arguta: - Le coperte non bastano! -
- Sono sempre bastate e basteranno anche stavolta. -
- Perché sei così crudele? - piagnucolò, lasciandogli l'orecchio: - Siamo grandi amicissimi del cuore sempre&comunque, nella buona e nella cattiva sorte, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, neppure fino a che morte non ci separi perché è una cosa che va oltre spazio e tempo, viviamo l'uno per l'altro con devozione e sacrificio, è un qualcosa che supera l'amore carnale e si avvicina all'amore spirituale, e tu mi tratti così? -
- Sì. Senza alcun rimpianto. -
- Sei una persona orribile. Ti odio. Da questo momento proverò profondo odio che scorrerà nelle mie vene come veleno al posto del sangue, proverò rancore e questa faida si tramanderà ai nostri discendenti per le prossime quarantacinque generazioni. -
- Sicuro fosse solo vino...? -
- Ah! - si staccò da lui, riuscendo a rimanere in piedi, animato da un'idea geniale: - Ora sai cosa farò? Sai cosa farò? -
- No. Illuminami. -
Kyte portò i pugni ai fianchi, allargando il più possibile il sorriso, in un ghigno di trionfo: - Ora io userò il letto della stanza degli ospiti! Hai capito? Il letto nella
tua stanza degli ospiti! E lo userò io! Tutto io! -
- Oh, no. - lo vide portarsi una mano al cuore: - Che grande dolore mi dai, tu ospite che usi la stanza degli ospiti! -
- E non verrò da te, stanotte! - proseguì, soddisfatto della propria assoluta perfidia: - Così tu morirai di freddo! E non avrai un briciolo del mio calore! Lo terrò tutto per me! Ecco! Ora vado nella
tua stanza degli ospiti, che userò io! -
- Il dolore che mi pervade mi blocca e mi impedisce di fermarti. -
"Vendetta, vendetta completa!" si lasciò andare una risata.

- Gakupo, ieri sera ho detto o fatto qualcosa di strano? -
- Hai palesato le più alte vette che la tua malvagità è in grado di raggiungere. -
- ... credo di non voler approfondire. -


Andava tutto bene.
Aveva la coscienza pulita.
Tecnicamente, aveva tenuto fede alla promessa che aveva fatto. Non aveva motivo di essere tanto agitato.
Forse aveva paura di tradirsi. Anche se era riuscito a fingere per sei mesi di avere con Len rapporti puramente insegnante-allieva, temeva di commettere un errore, di far scoprire tutta la verità, anche quella riguardante Len stesso.
Forse quello era dovuto al fatto di avere Len accanto proprio in quel momento, mentre Gakupo varcava la soglia della magione.
Un istante dopo, con un trillo, Len gli era avvinghiato alla vita: - Siete tornato! Siete tornato! -
Gli aveva detto di non essere geloso. Gliel'aveva fatto capire in modo decisamente inequivocabile. Però non riusciva a non sentire una strana sensazione negativa, nel vederli quasi abbracciati.
- Len, che modi! - la voce del duca di Mirror lo riportò alla realtà, notando i due padroni di casa salutare Gakupo e, nel mentre, incenerire il figlio con delle occhiatacce perfettamente simultanee.
A Kyte sfuggì un sorriso. Non sembrava esserci nulla di strano.
Si fece avanti: - Bentornato. - salutò anche lui, nella maniera più composta che poteva. C'erano pur sempre anche i signori, in loro presenza non si era mai lasciato troppo andare - e non era il caso di iniziare proprio in quel momento.
- Grazie... - sospirò Gakupo, allontanando appena Len.
- Sicuramente avrete tantissime cose da raccontarci! - stava trillando il più piccolo, a voce più alta del solito, ignorando completamente gli sguardi dei genitori: - Com'è andato il viaggio in mare? E' stato così lungo? Com'è il Giappone? Com'era la cerimonia? Com'è andata? -
- Len! - la voce della duchessa di Mirror era esasperata: - Il signor Kamui ha affrontato un viaggio lunghissimo, non tediarlo con le tue domande! -
- Nessun disturbo. - intervenne il diretto interessato, pacato come sempre: - Ho già riposato a sufficienza. Le domande di oujo-sama sono legittime. -
"In effetti..." notò Kyte, con una punta d'invidia: "... è reduce da tre mesi di navigazione e gli sono bastati due giorni per riprendersi come se nulla fosse? Perché lui ci riesce e io no?".
Ricordava il suo viaggio in Giappone: gli ci era voluta una settimana intera, per riprendersi.
Dopo i convenevoli di rito, i duchi di Mirror fecero la cosa che sembravano saper fare meglio: sparirono.
- Ci dovete raccontare tutto, Gakupo-sensei! - era piuttosto palese che Len si stesse sforzando di non sfrecciare verso la sala, limitandosi a camminare a velocità umana, per stare al loro passo.
- Anche voi avete molto da raccontarmi. - osservò Gakupo.
- Sì! Tante cose! - evidentemente, stavano andando davvero troppo lenti per lui: - In sala! Andiamo in sala! - ed era già almeno cinque metri più avanti.
- Sei riuscito a starle dietro? -
Kyte trasalì. Non aveva idea del perché sentisse quello strano nervosismo: - Sì. - rispose, con un sorriso che sperò sincero: - Anche se all'inizio è stato un po' strano... -
- Posso immaginare... - il sorriso di Gakupo era tanto sincero, ma anche tanto somigliante ad un ghigno accennato.
Gli ci volle qualche istante per ricordarsi in che situazione l'altro l'avesse lasciato. Mascherò l'imbarazzo con un colpo di tosse: - ... non in quel senso. -
- Ti vedo più tranquillo, però. -
"Ci credo..."
- E' stata una cotta passeggera. - spiegò, con tutta la faccia tosta che possedeva: - Anche se riconosco di averla trovata una presenza gradevole. -
"Molto gradevole."
- Mi fa piacere che non ti abbia fatto dannare. - l'espressione di Gakupo era tornata serafica come al solito: - E che tu abbia gradito stare con lei. -
Quel parlare al passato gli stava mettendo ansia. Per quanto lo sapesse, la cosa continuava ad inquietarlo.
- Quindi, con lei è andato tutto bene. -
- Sì... -
- Allora cosa c'è che non va? -
Kyte si bloccò. Lo guardò negli occhi, sentì uno strano freddo, soprattutto sul viso - doveva essere impallidito: - Scusa? -
- Non sei felice di rivedermi? -
Sì, l'espressione di Gakupo era serafica. I suoi occhi molto di meno. Non riuscì a capire cosa vi fosse, se preoccupazione, o fastidio, o rabbia, o semplice perplessità.
Sorrise, cercando di scacciare quella sensazione negativa che sentiva: - Oh, capisco. Volevi che ti saltassi addosso anch'io? Magari gettandoti le braccia al collo e baciandoti come una brava mogliettina saluta il suo adorato marito? -
L'espressione s'intaccò: - Mi sono venuti i brividi. Sappilo. -
- Addirittura! - si portò una mano alla bocca, gli occhi sgranati: - Non sapevo di farti quest'effetto tanto lussurioso! -
- Erano brividi di disgusto. -
Kyte ridacchiò. Si sentiva un po' meglio, in realtà. La sensazione negativa c'era sempre, ma si era nettamente affievolita. Non ne capiva il motivo, ma la cosa non gli dispiaceva.
- Ah... -
Un sospiro lo costrinse a guardare d'innanzi a sé: Len si era riavvicinato, una mano sul cuore, un sorriso intenerito.
- Siete così carini, insieme... - sospirò, portando anche l'altra mano al petto.
"Eh? No, aspetta, stavo scherzando, Len!"
- Mi volete davvero male, oujo-sama... - con la coda dell'occhio, notò Gakupo alzare gli occhi al soffitto. Poi tornò a guardarlo, quasi si fosse reso conto solo in quel momento di una cosa: - Aspetta... Kaito, che fine hanno fatto gli occhiali? -
"Neanche si è sforzato di pronunciare bene il mio nome in presenza di Len..."
- Sono solo per le lezioni. - sorrise, il sorriso più ampio che poteva: - Non ne ho bisogno, di solito. -
"Non avrai mica pensato che li portassi sempre, eh?"
- Oh, capisco. - anche il sorriso di Gakupo era amabile. Sembrava quasi gli stesse dicendo: "Sei completamente privo di capacità di sapersi presentare.".
- A proposito di lezioni... - l'altro tornò a rivolgersi a Len: - Kyte è stato un bravo insegnante? -
"Ugh."
Len annuì: - Sì! Non ha la vostra pronuncia perfetta, ovviamente, ma è stato davvero bravissimo! Ho imparato tantissime cose! -
Kyte tirò un sospiro di sollievo.
- Ne sono lieto, oujo-sama. -
- Quanto ci vorrà perché io parli il giapponese bene come voi e il signor Kyte? -
Kyte era commosso: "Davvero Len pensa che io sappia parlare bene il giapponese?"
Era piuttosto ovvio che non l'avesse mai sentito parlare con dei giapponesi. L'accento che aveva Gakupo da bambino, in confronto al suo, era niente.
- E' una lingua difficile... - riconobbe Gakupo, con fare confortante: - ... considerate che Kyte ci ha messo sei anni per raggiungere un livello decente! -
"Eh?"
- Non credo che la signorina volesse conoscere questi particolari. - ora sul viso sentiva caldo.
- Sei anni...? - piagnucolò Len, gli occhi spalancati.
- Eh, già... -
L'arrivo nella sala non gli era mai stato tanto gradito.
In ogni caso, era sinceramente curioso di sapere come fosse andata la cerimonia, di avere una risposta a tutte le domande poste - urlate - da Len all'arrivo di Gakupo.
Dal resoconto che udì, in realtà, sembrò non essere successo nulla di incredibile: ogni cosa era andata per il verso giusto, senza alcun contrattempo.
- Quindi, sì, Megumi si è effettivamente sposata e non è stato uno scherzo come ho temuto in un primo momento. -
Kyte trattenne a stento una risata: - Sarebbe stato comico se Gumi-chan- -
- Megumi-san. -
- -ti avesse fatto fare almeno tre mesi di nave per uno scherzo! -
Lo sguardo di Gakupo si assottigliò: - Nel caso Megumi avesse avuto questa brillante idea, l'avrei immediatamente regalata in sposa al primo di passaggio. -
- "Data" in sposa, vorrete dire. - lo corresse Len.
Gakupo scosse la testa: - Regalata. Anzi, avrei pagato il primo uomo non sposato di passaggio affinché se la sposasse. -
"... perché non percepisco questa cosa come assurda ma anzi probabilissima...?"
- Su! - rise, cercando disperatamente di non figurarsi un Gakupo stizzito che andava in giro per Kyoto trascinandosi dietro una Megumi con un grosso fiocco da pacco regalo sulla testa: - Qualcuno che l'ha chiesta in sposa c'è stato, alla fine! -
- In realtà, è stata una cosa reciproca, fin dal momento in cui lui le è caduto davanti. -
- Eh...? -
- Pare che lui stesse controllando qualcosa su un tetto, sia scivolato e sia caduto su un cumulo di fieno proprio mentre stava passando Megumi. Dicono sia stato... uhm... colpo di fulmine...? -
Len rise, la bocca nascosta dalla mano.
Il sorriso tremò sul volto di Kyte quando lui si accorse di quanto fossero freddi quegli occhi azzurri.

Posò la camicia sul tavolo, il respiro rallentato fino a quasi trattenerlo.
Gli tremavano le mani.
- Un altro giro. - disse, con quel poco di voce che gli rimaneva.
Sentì le occhiate trapassarlo, sentì quegli sguardi più derisori che stupiti lacerargli la schiena e il petto, prenderlo a schiaffi.
"Ho vinto fino a poco fa." ricordò, stringendo il pugno: "Questi ultimi sono stati solo errori. Mi sono montato troppo la testa, non sono stato abbastanza lucido. Ora recupererò tutto e me ne andrò. Ho vinto per tutta la sera,
non posso perdere ora!".
- Ah, sì? -
L'uomo davanti a lui fu scosso dalle risate, ma evitò di scoppiargli a ridere in faccia. Kyte aveva la sensazione che si fosse trattenuto molto a stento - forse per pietà.
"Ridi quanto ti pare..." si rimise seduto: "Ora mi riprenderò tutto quello che tu e i tizi che ti porti dietro mi avete preso!".
- E, giusto per curiosità, barone... - fece l'uomo, piegandosi appena verso di lui, dall'altra parte del tavolo: - ...
cosa avreste intenzione di puntare? -
- ... eh? -
D'istinto, Kyte si portò una mano al petto, abbassò lo sguardo: "Ah... sono rimasto in mutande..." letteralmente. Alzò la testa, verso la parte avversaria: tutte le sue vincite di quella sera, tutto il denaro che aveva dietro e la quasi totalità dei suoi vestiti giacevano davanti o accanto all'altro uomo.
"
Devo riprendermeli. Ma come...?"
Si guardò intorno, alla ricerca di un qualsiasi qualcuno che potesse aiutarlo: "Nessuno sarebbe disposto a farmi un prestito? Anche piccolo! Gli restituirei tutto, sì, lo farei..."
Nessuna delle facce che vide - o meglio, intravide nella leggera nebbia con cui l'alcool aveva velato i suoi occhi - gli ispirò un briciolo di fiducia.
Deglutì, un groppo alla gola.
"Io
devo riprendermi ciò che mi appartiene!" tornò a guardare il suo avversario: "Sono cose mie! Mi appartengono! Non ho nessuna intenzione di lasciarle al primo pezzente di passaggio!"
- Allora, barone? -
Kyte strinse i denti, serrò i pugni: - Qualcosa si trova. - ribattè, la voce decisa.
L'uomo, ancora una volta, sembrò cercare disperatamente di non ridergli in faccia: - Avete delle proprietà? -
- ... no. -
"Appartengono tutte a mio padre..."
Vide l'uomo e quelli che lo circondavano scambiarsi delle strane occhiate: - Avete una moglie? -
Kyte trasalì.
Dopo un attimo di incredulità, scosse la testa. Neanche riuscì a parlare.
- Beh, allora... - sentì di nuovo tutti quegli sguardi trapassarlo: - ... potete fare la vostra ultima puntata e accettare di uscire di qui nudo come un verme. -
- Davvero credete che sarebbe la mia ultima puntata? - sbattè i pugni sul tavolo, scattò in piedi; un dolore acuto gli esplose nella testa, lo costrinse a stringere i denti.
Di nuovo quelle occhiate.
- E dopo cosa puntereste, barone? - la voce dell'uomo era ormai palesemente derisoria: - Cos'altro vi rimarrebbe? -
Kyte aprì la bocca per replicare, ma non uscì alcun suono.
"... già, cos'altro mi rimarrebbe...?"
- Ma il barone ha detto di fare un altro giro! - intervenne una voce da chissà dove, di chissà chi: - Almeno un'ultima puntata deve farla! -
- Il barone è davvero un esibizionista! -
- Ma perché non accontentarlo? -
- Ehi, barone- - perché gli sembrava un insulto?: - -lo sapete che si finisce in prigione, per debiti? -
Kyte si bloccò.
- O in schiavitù! -
Gelo.
- Potete sempre rivenderlo! -
"Cosa...?"
- Ci sono sempre vendite di pezzi sotto banco... - uno degli uomini vicino al suo avversario.
- Ma così lo si potrebbe "usare" una volta soltanto... - un altro degli uomini lì vicino: - ... non ha un brutto aspetto, lo si potrebbe usare per lavori più redditizi... -
"Non staranno davvero discutendo se...?"
Sentiva freddo. Ma non perché non indossava praticamente più nulla.
- E' ubriaco... -
- Ormai... -
- Ma, in fondo, cosa ci vieta di saltare questo giro e prendercelo? -
"No, aspettate..." aprì di nuovo la bocca ma, ancora una volta, non ne uscì alcun suono. Si portò una mano al collo, sentiva le dita scosse da tremiti violenti: "Non posso andarmene... non posso andarmene... devo riprendermi tutto... solo quando mi sarò ripreso tutto potrò andarmene, non posso scappare lasciando le mie cose a questi qui! Devo riprendermele! A qualsiasi costo! E' stato solo un errore, fino ad adesso! Ora andrà meglio! Stavolta vincerò, senz'altro!"
Stavano dicendo cose ridicole, lo stavano dicendo solo per spaventarlo, per convincerlo ad andarsene, a lasciar loro le sue cose.
Era così.
- Lord Sheeawn mantiene la sua parola. - una voce pacata, bassa, che non capì come riuscì a sentire in quella baraonda. A giudicare dal silenzio assoluto che calò nella locanda, non era stato il solo ad udirla.
- Tuttavia, attualmente è evidente che sia incapace di proseguire la partita. - una mano fredda su una spalla: - Vi ha detto di voler fare un altro giro? Permettete che sia io a prendere il suo posto. -
Sapeva chi fosse ancor prima di guardarlo.
Quando lo vide davvero, al suo fianco, il volto rilassato come se non si trovasse in una locanda piena di gente molto dubbia e molto animata, sentì il gelo svanire tutto in un colpo, come spazzato via.
- Che cazzo ci fai qui? -
"E soprattutto, come cazzo faceva a sapere dov'ero?" sbattè le palpebre, cercando di metterlo meglio a fuoco. Ogni cosa tremava talmente tanto che quasi gli sembrava di vedere due Gakupo - o un Gakupo con un'ombra colorata.
L'altro gli rivolse un sorriso che definire luminoso sarebbe stato riduttivo: - Ora fuori dalle palle, Kaito. -
Un istante dopo, era sul pavimento. Era stato
spinto sul pavimento con la grazia di uno spalatore.
Quando se ne rese conto, sentì qualcosa all'altezza del petto: - Ehi! - si aggrappò al tavolo, issandosi: - Che cazzo credi di fare? -
Fastidio. Irritazione. E, se fosse riuscito a reggersi in piedi, gli avrebbe scaraventato addosso la prima sedia libera - o meno - disponibile.
La partita era iniziata. Da quanto era iniziata?
"Quanto sono rimasto a terra...?"
Guardò le carte di Gakupo. Macchie rosse e nere. Di un qualche numero.
Si strofinò gli occhi ma, quando tornò a guardare, la situazione era sempre la stessa: puntini rossi, puntini neri, un numero che sembrava molto alto o molto basso. Forse c'erano delle figure, forse erano tanti puntini che lo confondevano.
Solo in quel momento si accorse del silenzio.
Da quanto c'era? Il suo (ex) avversario aveva risposto qualcosa? Gakupo non aveva aggiunto altro? Nessuno aveva detto niente? Se sì, cosa? Se no, quand'è che avevano smesso di parlare?
"Cosa sta succedendo?"
- Avete perso, signor Cina. -
La voce dell'uomo che gli aveva rubato tutto spezzò il silenzio, ferendogli le orecchie.
Al suo fianco, Gakupo sospirò, affranto: - Che terribile errore. -
- Vero? - a giudicare dal tono, l'uomo stava ridendo: - Non avreste dovuto puntare così alto, se siete così incapace di giocare! -
- Veramente mi riferivo al modo in cui mi avete chiamato. - la voce era tranquilla, minimamente intaccata da una qualsiasi altra emozione.
- Eh? -
- Evitate soprannomi "simpatici"- - una rapida nota d'ironia: - -se rischiate di inciampare in errori tanto vergognosi. -
- Eh? - l'uomo rise, ormai incapace di trattenersi: - Signore, vi ho appena spennato come un pollo. Non cercate di distrarmi con ridicoli discorsi filosofici! -
- Non ho intenzione di sprecare fiato con qualcuno che dubito sappia la differenza tra Asia e Cina. -
- Ma che- -
- Piuttosto... - la voce si era abbassata: - ... potreste ripetere l'altra vostra affermazione? Quella prima del vostro imbarazzante errore. -
Un "Questo qui è suonato" giunse alle orecchie di Kyte, più confuso di prima: "Che diamine...?"
- Volentieri,
signore. - l'uomo calcò sulla parola, il tono sarcastico: - Avete perso. Completamente. Tutto ciò che avete puntato ora mi appartiene. E voi, vi ricordo, avete puntato una somma decisamente alta! -
Con la coda dell'occhio, Kyte lo vide sporgersi per prendere quelli che sembravano
svariati mazzi di banconote al centro del tavolo; un rumore breve, deciso, spaventosamente simile ad un "click", risuonò vicino al suo orecchio.
- Perdonatemi. - la voce di Gakupo era terribilmente pacata: - Temo di non aver sentito bene. Potreste cortesemente ripetere? -
- MA CHE- -
- Farei prima io. - stava sorridendo, amabile: - Forse riusciranno a colpirmi, ma io, prima, riuscirei a colpire voi. Quindi, perché non facciamo sì che ognuno esca da quella porta con le proprie gambe? -
- FERMI! FERMI! - la voce dell'uomo si era fatta strozzata, quel bianco che vedeva sul suo viso dovevano essere i suoi occhi completamente spalancati: - Voi siete pazzo! Completamente pazzo! -
- E voi non volete provocare un pazzo, giusto? - un sospiro: - Dunque? Potreste, per favore, ripetere ciò che avete detto poco fa? -
Silenzio.
L'atmosfera era talmente pesante che ci si sarebbe potuto nuotare dentro.
Kyte sentì le labbra tirarsi, quasi stesse per scoppiare a ridere. Ma non era felice. Era inquieto.
Aveva sentito altri "click".
- Avete vinto. - la voce dell'uomo, spezzata, si era fatta più bassa: - Ora andatevene. -
- Vi ringrazio. -.
Un istante dopo, Kyte si sentì afferrare per un braccio.
Successe tutto troppo rapidamente: un secondo dopo, inspirò a fondo, lasciando che i polmoni si riempissero dell'aria fredda della sera, scacciando l'odore e il sapore della locanda. La testa continuava a pulsargli, ma riusciva a distinguere meglio le figure. O qualcosa del genere.
"
Stavo per morire."
Quel pensiero lo schiacciò.
Gli lacerò la carne, spezzò le ossa, soffocò.
Quando il vento gli colpì il viso, si rese conto di avere le guance bagnate.
"Ah... ecco perché vedevo così male..."
Ed ecco anche cos'era quel groppo alla gola.
Portò una mano alla spalla, quasi per accertarsi di essere effettivamente ancora intero; si accorse solo in quel momento di avere addosso qualcosa di pesante, simile ad una giacca.
"Ah... ecco perché non sto morendo di freddo."
Morendo.
Stava per morire.
Davvero.
Una fitta al collo, il mal di testa esplose, una guancia pulsò.
Si portò una mano al viso, barcollò.
"Uno... schiaffo...?" l'aveva anche fatto girare, tanto era stato violento. O forse era lui ad essere troppo debole, in quel momento.
- Sei soddisfatto? -
Non c'era più nulla di pacato, di vellutato, di serafico: quella voce era una lama fredda, affilata, che lo feriva in profondità, congelandolo dall'interno.
Kyte tacque.
Inspirò di nuovo: - ... grazie. -
- Evita di ringraziarmi. - la lama fu rigirata, aprendo ancora di più le ferite: - Essere ringraziato per una cosa del genere è rivoltante. -
"Eh...?"
- Tutto questo non sarebbe mai dovuto succedere. - lo sguardo di Gakupo era furioso, come mai l'aveva visto: - Tu dovresti essere altrove, con tutti i tuoi vestiti addosso e tutti i tuoi soldi nelle tasche. Nessuno avrebbe dovuto pensare di usarti come un oggetto. Io non sarei mai dovuto venire qui. E noi non dovremmo essere qui a parlare di una cosa simile. -
Kyte abbassò lo sguardo: - Hai ragione... - ah, ora che se ne rendeva conto, gli era anche tornata la voce. Debolissima, ma c'era.
- Non darmi ragione! -
- Eh? -
Kyte rialzò gli occhi, disorientato, incontrando lo sguardo iroso dell'altro: - Cosa pensi di fare, ora? -
- Fare...? - ci pensò un istante. Non ci riuscì, la sua mente era occupata solo dal pensiero di avere delle fitte dolorose che la stavano torturando.
- Non... - sospirò, cercando di fermare i tremiti: - ... non ci penserò più. Hai rag- è vero, tutto questo non sarebbe mai dovuto succedere. E farò così. Farò finta che tutto questo non sia mai successo. Lo dimenticherò. E- -
Si sentì soffocare.
Si portò una mano al naso, per assicurarsi che non uscisse sangue - quello schiaffo sembrava essere stato più violento del precedente, il pulsare più doloroso della guancia glielo confermava. Sentiva dolore anche al naso, ad un occhio. La testa non gli dava pace.
- Incidilo nella tua mente. -
- Cosa...? -
Una mano tra i capelli, la fronte su una spalla, contro la stoffa di una camicia.
La voce che giunse alle sue orecchie non aveva più nulla di furioso: - Incidi nella tua mente ogni secondo di ciò che è successo in quel posto. Anche quando gli effetti dell'alcool svaniranno, cerca di ricordare. Se dimenticassi tutto, ti dimenticheresti anche di evitare cose simili. E soffriresti un'altra volta. E, soprattutto, finiresti con il dimenticarti che mi devi una giacca. -
- Eh? -
- Quella che hai addosso. -
- E non puoi semplicemente riprendertela? -
- Mi farebbe senso pensare che ci hai piagnucolato dentro quasi nudo. -
- Fottiti. -.


- Quindi il signor Kyte rimarrà fino alla prossima settimana? -
- Non possiamo certo cacciarlo da un giorno all'altro. -
- Vi ringrazio, mia signora. -
Kyte abbassò lo sguardo su Len, ancorato alla sua vita, intento quasi a stritolarlo.
"Una settimana... ancora una settimana."
Avrebbe voluto accarezzargli la testa, i capelli, ma si trattenne.
Quella notte non avrebbe potuto averlo per sé. Era assurdo pensarci. Ma avrebbe dovuto abituarvisi, il più in fretta possibile.
Anche se, per quella sera, per quella sola sera, maledì il fatto che Len non gli si fosse mai presentato prima con quel vestito che implorava di essere tolto: il non essere neppure riuscito ad alzargli la gonna o a scoprirgli le spalle, si era reso conto, era fonte di leggera irritazione.






Note:
* Parole in giapponese o, almeno, quello che intendevo far dire
- "Nani?": Cosa?
- "Kudasai": Per favore
- "Sumimasen": Mi dispiace, Scusatemi
* Con le spalline tirate su e la gonna lunga ma, sì, l'abito di Len è quello di Imitation Black.




C'era una volta una grafomane di nome Soe Mame. La grafomane di nome Soe Mame scrisse un capitolo che, chissà perché, non finiva più, tanto da portare la grafomane di nome Soe Mame a ribattezzarlo "Il Capitolo Eterno". Quando concluse Il Capitolo Eterno, la grafomane di nome Soe Mame capì perché Il Capitolo Eterno sembrava non finire più.
Così lo divise in tre capitoli. Pace.

Ebbene sì, questo capitolo sarebbe un tutt'uno con i prossimi due. *Urrà.* Ciò significa che, sì, Len finirà per un po' in secondo piano (?), Gakupo avrà senso di esserci (?) e Kyte continuerà a farsi viaggi mentali - che è quello che sta facendo da un po' a questa parte o che forse ha fatto fin dall'inizio. (?) *O*

Insomma, si sanno svariate cose del passato di Len e, ovviamente, l'accenno di Kyte al suo, di passato, non poteva rimanere accenno. U.U
A proposito di "passato": spero che le frasi di Gakupo bambino si capiscano. °A°
E, tranquilli, non ci sarà da sorbirsi tre interi capitoli di testo corsivato. U.U

Detto ciò, spero che questo capitolo vi sia stato di gradimento. ^^
Se ci sono consigli o critiche, dite pure. ^^

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Capitolo 6
*** x0x6x ***


Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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- Dunque hai trovato un lavoro. -
- Sì! - Kyte annuì, deciso: - Questa volta è fisso! Ed è un lavoro vero, eh! -
Anche perché "mendicare vitto e alloggio dai locandieri in cambio di pulizie della locanda dopo il pienone serale" non poteva considerarsi un lavoro effettivo.
- Mi fa piacere. - Gakupo sorrise. Ma sembrava un sorriso stanco, velato da qualcosa fin troppo somigliante alla tristezza. Più che un sorriso sincero, sembrava un sorriso amaro.
Kyte non capì: - Perché quella faccia? Guarda che mi retribuiscono bene! -
- Ho... - l'altro esitò. Poi riprese: - ... sentito qualcosa a riguardo. -
- Eh? - sbattè le palpebre: - Da chi? E perché qualcuno dovrebbe parlarne? -
No, forse l'ultima domanda era stata stupida.
"Gli Sheeawn sono sempre un argomento interessante... Ma anche qui...?"
Cambiando città, sperava di essersi liberato del peso del suo nome ma, a quanto sembrava, la sua fama si era diffusa parecchio...
- Ai nobili piace parlare. - Gakupo alzò le spalle, la voce noncurante palesemente tenuta pacata a forza: - Soprattutto se c'è aria di scandali... -
- Scandali? - abbassò il bicchiere, confuso: - Che razza di scandali...? -
Gakupo tacque.
Quella cosa non gli piaceva. E non gli piaceva neppure il fatto che avesse iniziato a fissare con insistenza un angolo del soffitto.
- Gakupo...? -
Lo vide sospirare, riportare lo sguardo su di lui. Era spaventosamente serio: -
Esattamente, di che lavoro si tratta? -
- Porto le cose. - rispose Kyte, semplice: - Faccio il messaggero, il fattorino, il portaborse... cose del genere, ecco. -
"D'accordo, non è il lavoro più nobile che esista, ma è pur sempre qualcosa che viene retribuito."
- Ti pagano bene? -
- Sì. - ci pensò: -
Credo di sì. Però abito anche nella villa dei signori, quindi vitto e alloggio sono compresi. - ci pensò ancora: - Però credo che la paga vada bene. Non è tantissimo, ma credo vada bene. -
Non aveva alcun parametro su cui basarsi: era la prima volta che aveva un lavoro effettivo, retribuito e non mendicato.
- E quant'è la paga? -
- Quattro scellini. -
- ... all'ora, immagino. -
- A settimana. -
Il bicchiere cadde sul tavolo di legno con un rumore sordo. A giudicare da come l'aveva lasciato e dai suoi occhi sgranati, Gakupo doveva essere sinceramente sorpreso.
- Ma è normale, eh! - si affrettò ad aggiungere Kyte, con un sorriso tirato: - Tantissimi lavoratori prendono molto di meno e fanno lavori molto più pesanti! Quattro scellini alla settimana per un lavoro come il mio mi sembra adeguato! -
Vide Gakupo portarsi una mano alla faccia, il respiro rallentato: - Dunque... - esordì, la voce bassa: - ... tu non prenderesti neppure una sterlina in un mese...? -
- Ma non ho problemi, eh! - Kyte sventolò una mano, sentendo una strana agitazione - forse per la reazione bizzarra dell'altro: - Casa e cibo me li danno i signori, io posso vivere benissimo con meno di una sterlina al mese! Non ci vedo nulla di strano! -
- Ho sentito che lavori per dei marchesi. -
- Sì... -
- E perché dei marchesi dovrebbero pagare un servitore solo quattro scellini alla settimana? -
Kyte esitò: "Sarà il caso di dirglielo...?"
Alla fine, decise di sì: - Beh, in realtà, il denaro è solo una parte della paga... - confessò, abbassando la voce - per quanto fossero a casa dell'altro, al secondo piano, gli sembrava quasi che qualcuno potesse udirli dalla strada, oltre le finestre.
Gakupo non disse niente. Si limitò a guardarlo, l'espressione impassibile.
- Del resto, rimane sempre l'azione principale con cui l'ho trovato, questo lavoro... -
Silenzio.
- Sì, è vero, la marchesa è una delle mie amanti. - disse Kyte, infine: - Il resto della paga è lei. E altre tre sue amiche. Anche se loro di meno. Ma capita. -
Il volto dell'altro non era minimamente mutato. Sembrava stesse ancora aspettando una risposta.
- Quindi, sarebbe davvero troppo prendere una paga altissima e, nel mentre, continuare ad essere i loro amanti. -
- E' stata la marchesa a convincerti di questo? -
Kyte sbattè le palpebre: - Beh... - esitò: - ... è stata lei a spiegarmelo, sì. Però ha ragione: sarei un approfittatore se pretendessi paga, vitto, alloggio e amanti gratuite tutto insieme! -
L'altro aveva ridotto gli occhi a fessure. Non gli piaceva quella cosa.
- Forse mi pagano meno del previsto, ma almeno ho una casa e del cibo! - annuì a se stesso: - Va bene così. Davvero! -
- Approfittatore... - Gakupo ripetè quella parola, come se non avesse sentito altro.
- Sì... -
- E non ti è venuto in mente che
forse è la gentile marchesa ad approfittarsi di te? -
- Eh? - "Ma che...?"
Gakupo si piegò appena sul tavolo, lo sguardo fisso nel suo: - Kaito, seriamente. Da quanto tempo lavori per quella gente? -
- Cinque mesi, circa... -
- E non ti sei mai reso conto di qual è
davvero il tuo lavoro? -
- Eh? -
- Tu vieni pagato per andare a letto con la marchesa e le sue compari. -
Kyte scosse la testa, deciso: - No. Questo no. Loro mi pagano per- -
- Quello che tu chiami "lavoro" loro lo chiamano "copertura". - la voce di Gakupo si abbassò ancora di più: - Forse non vieni pagato con il denaro per stare con loro, ma lo fai comunque per ricevere qualcosa in cambio. Vieni pagato con un letto tuo e del cibo. Uno scambio. Come nei commerci. -
Sentì uno strano gelo propagarsi dall'altezza del petto.
- La marchesa ti paga una miseria per un lavoro di copertura e poi si approfitta di te. Tutto a vantaggio suo. Sei tu a venderti gratuitamente, non loro. Sono loro ad avere un amante in cambio di niente. -
Scosse di nuovo la testa. Era assurdo. Ridicolo.
- Sta a te decidere cosa fare. - Gakupo tornò seduto, il volto freddo: - Se proseguire così oppure smetterla. Tuttavia, nel caso volessi proseguire, sii almeno conscio di quale sia il tuo vero compito in quella casa. -.
Non riuscì a rispondere. Il "Ti sbagli" rimase fermo in gola, bloccato da qualcosa che gli faceva male ad ogni respiro.
- Rimarrò. - mormorò, infine: - Rimarrò da loro. Almeno fino alla fine del mese. -.
Sentiva le proprie parole distanti, quasi non le avesse pronunciate lui.
Posò il bicchiere sul tavolo e si alzò, per poi andare alla finestra chiusa. In strada c'erano tre persone contate.
- Sai... - esordì, piano: - ... detta da te, ogni cosa sembra ovvia. -
La risposta dell'altro giunse come un sospiro: - Forse l'avevi capito anche tu, ma rifiutavi di accettarlo. -
- Forse. - appoggiò la fronte al vetro: - O forse mi sono solo fatto fregare. Di nuovo. -
- Questo sì. E' innegabile. -
Gli sfuggì un sorriso. Ma non era di buon umore.
- Mi piacerebbe riuscire a fare qualcosa di buono, almeno una volta. - disse, guardando negli occhi il proprio riflesso: - Guadagnare, come ogni persona normale. Avere una casa, come ogni persona normale. - distolse lo sguardo: - Mi chiedo se sia normale chiedere un lavoro e vedersi ridere in faccia perché sei un nobile. I nobili non lavorano. I nobili fanno lavorare. Un nobile che lavora è ridicolo. Un nobile decaduto che mendica lavoro è patetico. E, quando riesce a trovare qualcosa, viene puntualmente fregato. - chiuse gli occhi: - Sono sfortunato. Decisamente. -
- No, sei stupido. E' diverso. -
Riaprì gli occhi e si voltò, scoccando all'altro un'occhiata spiazzata: - Scusa? -
Gakupo ricambiò il suo sguardo, l'espressione tornata serafica come al solito: - Sei stupido, Kaito. Questo non lo puoi negare. -
Si sentì colpito da una freccia, in pieno petto.
"No, d'accordo, non sono intelligentissimo, ma insomma..."
- Piano con le offese. - sbuffò, contrariato.
- Non è un'offesa. -
Kyte aggrottò la fronte.
- Sei "stupido" nel senso che "ti stupisci". - spiegò Gakupo, appoggiando la testa a una mano, il gomito contro il tavolo: - Tu hai la tendenza a fidarti facilmente. Quando poi vieni fregato, ti stupisci. Quindi sei stupido. -
Kyte sbattè le palpebre: - ... "stupido" è un insulto. -.
L'altro non parve averlo sentito. Lo vide sospirare, un sussurro: - Sai, a volte vorrei essere stupido anch'io. -
- ... eh? -
Lo sguardo di Gakupo era verso la finestra, ma non era sicuro che la stesse guardando davvero: - Mi chiedo se essere stupidi non sia una qualità. -
- ... "stupido" è un insulto. - ripetè Kyte, confuso: "Lo regge l'alcool, non ha mai delirato per un paio di bicchieri..."
- Gli occhi degli stupidi vedono quasi sempre cose belle. - lo vide scuotere appena la testa: - Di certo, ne vedono di più degli altri. Forse è davvero una qualità. -
- ... "stupido" è un insulto. - gli sfuggì una risata: - E quindi, secondo te, io vedrei spesso cose belle? Vedermi sbattere porte in faccia, essere umiliato di continuo ed essere lo zimbello di mezza popolazione nazionale sarebbero cose belle? -
- Ho detto
quasi sempre. - gli fece notare Gakupo, pacato. Almeno, finalmente, sembrava averlo sentito.
Kyte tornò a guardare oltre il vetro.
Forse si sarebbe dovuto sentire irritato, offeso. Invece non sentiva nulla. Si sentiva solo vuoto.
- Cosa farai, dopo? - domandò Gakupo, spezzando il silenzio che era venuto a crearsi.
- Dopo la fine del mese, dici? -
- Sì. -
- Non lo so. - e chissà se mai l'avrebbe saputo.
Pensandoci meglio, in realtà, non era neppure sicuro che sarebbe rimasto presso i marchesi fino alla fine del mese.
- Non c'è bisogno che ti dica che puoi tornare qui, vero? Almeno finché non troverai un altro alloggio. -
Kyte non rispose.
Quella casa era sempre aperta. La "stanza degli ospiti" era praticamente la "sua stanza". Poteva fare avanti e indietro come meglio credeva. E non aveva mai dovuto dare nulla in cambio.
Ora cominciava a sentire un briciolo di emozione.
Rabbia, forse. Subito soffocata da qualcosa di più pesante e doloroso, qualcosa che gli capitava di sentire ogni qualvolta si rendeva conto di essere umiliato.
- Puoi lavorare per me. -
Kyte si voltò di nuovo. Stavolta lo sguardo di Gakupo era attento, fisso su di lui, l'espressione seria.
Quella sensazione si fece ancora più soffocante.
- Il tuo è il lavoro più noioso di questo mondo. - rispose, piano: - Siamo incompatibili. -
- Farmi da assistente non implica per forza che tu debba contrattare o fare i conti. -
- Ah, no? - alzò le sopracciglia, gran poco convinto: - E cosa implicherebbe? -
- Puoi sempre farmi da portaborse. -
Lo incenerì con un'occhiataccia. Se possibile, avrebbe anche preso una scopa e sparso i suoi resti per tutto il pavimento.
Gakupo ridacchiò: - Guarda che non devi venire a letto con me, per lavorare per me. -
- So che ti piacerebbe ma, a prescindere da questo, sono costretto a rifiutare. - un sorriso tirato.
- Perché? - di nuovo quell'espressione seria.
- C'è un limite. - Kyte poggiò la schiena contro la finestra. La voce usciva atona: - Stai già facendo troppo. Uso casa tua come se fosse la mia. Hai accettato di trasferirti quaggiù per allontanarmi dalla mia città, dove ormai nessuno Sheeawn avrebbe mai potuto mettere il naso fuori senza essere additato e deriso. -
- Che gran cosa. Ho sette case per tutta l'Inghilterra, non vedo sacrifici nell'abitare in una piuttosto che in un'altra. -
- Ho bisogno di una casa? Eccola, e non vuoi niente in cambio. Ho bisogno di soldi? Me li presti, e non vuoi niente in cambio. Ho bisogno di qualsiasi cosa? Ma sì, riesci a tirarla fuori, e non vuoi niente in cambio. - stava cominciando a capire. Deglutì, quella sensazione opprimente si fece ancora più pesante, quasi prossima al soffocarlo: - Ti piace sentirti tanto superiore? -
- Eh? - Gakupo sgranò gli occhi.
- Ti piace sentirti tanto superiore? - ripetè Kyte: - Sentirti bravo e buono nell'aiutare un poveraccio? Ti compiace tanto fare la carità? Spero che il tuo ego sia soddisfatto. -.
L'altro sbattè le palpebre: - ... scusa...? -
- Sarò "stupido", ma l'ho capito. - continuò Kyte, i pugni stretti: - Tu riesci a fare tutto. Io non riesco a fare niente. Tu sei un borghese arricchito. Io sono un nobile decaduto. Se c'è un problema, tu hai la soluzione, io riesco solo a scappare o a farmi travolgere. Qualsiasi cosa succeda. - inspirò, ormai stava soffocando davvero: - Avermi intorno deve essere bello, vero? Deve essere bello fare i santi e sentirsi tanto compiaciuti della propria disinteressata bontà, vero? -.
Gakupo continuava a guardarlo, gli occhi sgranati, la fronte aggrottata.
La sua voce risuonò qualche istante dopo: - Tu... - mormorò, lentamente: - ... stai paragonando... - allungò una mano verso di lui: - ...
te... - se la portò al petto: - ... a me? - sbattè le palpebre: - Ma sul serio? -
Kyte serrò le labbra: "Che vorrebbe dire...?".
Gakupo si alzò, facendo qualche passo verso di lui, l'espressione immutata: - Kaito, non puoi paragonarci. - disse, quasi confuso: - Sarebbe come mettere a confronto un albero di ciliegio e una margheritina. - un altro passo avanti: - Tu ti sei ritrovato di colpo in questa situazione e nessuno ti ha mai dato i mezzi per affrontare cose del genere. Io, in mezzo al mio lavoro, ci sono cresciuto. Non puoi paragonare i nostri modi di affrontare le cose. -
Kyte trasalì, sbattè le palpebre: - ... mi stai dando della margheritina? -
- Sì. -
Rimase in silenzio.
Non si sentiva affatto meglio. E la margheritina non c'entrava molto.
Si sentiva terribilmente stupido - inteso come insulto - e incapace; si sarebbe volentieri lasciato cadere sul pavimento, per poi rimanere lì per un tempo imprecisato, senza curarsi di nulla.
- Comunque... - riprese Gakupo, calmo: - No, Kaito. Aiutarti non mi dà alcun compiacimento. Preferirei, anzi, che tu avessi una casa tua e un lavoro stabile tuo, senza alcun problema. -
- Lo vorrei tanto anch'io. - borbottò Kyte, lo sguardo di nuovo oltre la finestra. In strada non c'era più nessuno.
- Li avrai. - disse l'altro, come se nulla fosse: - E' solo questione di tempo. -
- Certo... - non condivideva affatto tutto quell'entusiasmo.
Però non si sentiva più soffocare.
Non stava bene, ma riusciva a respirare.
- E la mia proposta è sempre valida. -
Kyte sospirò. Non aveva alcuna voglia di essere alle dipendenze di Gakupo. Gli sembrava davvero di oltrepassare il limite della decenza, a prescindere da quel che dicesse lui.
- Questo conferma il tuo reale obiettivo. - ridacchiò, più per spezzare quel tono innaturale che sentiva nella sua stessa voce che per altro.
Gakupo mise le braccia conserte, un sopracciglio inarcato: - Veramente sei tu che ti intrufoli nel mio letto. -
- Perché mi hai dato la camera più fredda della casa. - gli ricordò Kyte, incrociando le braccia a sua volta.
- Non è la più fredda della casa. E' la mia che è più calda. -
- Allora lo ammetti che ti sei preso la più calda! -
- Non è
la più calda. E' più calda. -
Se davvero fosse riuscito ad essere utile, anche solo a se stesso, sarebbe stata una gran bella cosa.
Forse era davvero solo questione di tempo.
O forse no.


- Ah... - sforzò un sorriso, sperando di non essere impallidito di colpo: - ... quindi tu assisterai...? -
- Beh, devo pur sapere a che punto siete arrivati, tu e oujo-sama. - Gakupo sorrise, amabile, e dunque inquietante: - Le possibilità sono vedere il sensei all'opera o far sostenere un esame ad oujo-sama. Scegliete pure voi. -.
Kyte lanciò un'occhiata a Len, dall'altra parte del tavolo.
Si sentiva molto idiota, davanti alla lavagna, con il gessetto in mano e degli inutilissimi occhiali sul naso, probabilmente con un'espressione da tortora.
Perché stava pensando alle tortore?
Che c'entravano le tortore, in quel momento?
"Non voglio che Gakupo mi faccia un esame." si disse, terrorizzato: "Soprattutto se di giapponese. Non voglio. Len...?" quasi sicuramente il suo sguardo stava implorando aiuto.
Incontrò quegli occhi azzurri, leggendovi la più totale tranquillità.
- Volete sostenere l'esame, signorina? - chiese, sperando che il suo tono non lasciasse trapelare l'ansia: - Vi vedo preparata. -.
Len sbattè le palpebre.
- Un esame...? - ripetè, piano, lo sguardo che andava da lui all'altro: - Volete davvero farmi sostenere un esame a sorpresa? -
- Beh... - la voce gli morì in gola, quando le sue orecchie furono raggiunte da un fruscio e i suoi occhi notarono un sinistro movimento della gonna. Aveva accavallato le gambe.
- Prima o poi avreste comunque dovuto tenerlo. - Kyte cercò disperatamente di dire qualcosa di anche solo appena sensato, ma aveva capito di avere perso in partenza.
- L'esame si può sempre fare un'altra volta. - osservò Len, pacato: - Però, se si scoprisse che il mio precettore mi ha insegnato cose sbagliate, io rischierei di studiare cose sbagliate... -
- Oujo-sama ha ragione. - intervenne Gakupo.
- Sì. Oujo-sama ha ragione. - ripetè Kyte, ironico. Alzò gli occhi al soffitto e inspirò, arrendendosi: - E va bene. Facciamo una lezione normale, come sempre. -.
Len sorrise, luminoso. E riportò le gambe una vicina all'altra.
Kyte si rivolse alla lavagna, cercando di ignorare lo sguardo di Gakupo.
Le cose le sapeva. Bastava non avventurarsi in concetti complicati.
Magari era meglio lasciar stare la grammatica e i kanji più complessi, per quel giorno.
- Abbiamo iniziato gli haiku, giusto, signorina Len? - fece, infine.
Len annuì: - Sì! Sono carini gli haiku! -.

- Tra due settimane partiamo. -
Kyte alzò lo sguardo dai bicchieri, spossato: - Partiamo? - ripetè: - Noi? -
Gakupo annuì, attraversando la stanza senza neppure guardarlo.
Kyte tornò ai bicchieri: stava cercando di metterne uno in equilibrio sull'altro ma, puntualmente, quello sopra scivolava. Forse, prima o poi, avrebbe finito con il farlo rompere.
- Per dove? - domandò, senza reale interesse.
- Kyoto. -
D'accordo, ora la cosa lo interessava.
- Kyoto? - alzò lo sguardo, gli occhi spalancati: - Intendi proprio Kyoto Kyoto? La Kyoto in Giappone? -
- Conosci altre Kyoto? - chiese Gakupo, intento ad armeggiare con un numero imprecisato di fogli su un altro tavolo.
Kyte era perplesso. Molto.
Si strofinò gli occhi. Forse erano arrossati. Di certo erano gonfi. Doveva avere delle occhiaie tremende.
- Torni dalla tua famiglia? - domandò.
- E tu vieni con me. - rispose l'altro che, ancora una volta, non lo degnò di uno sguardo.
- ... e perché... - inclinò appena la testa di lato. Pesava: - ... dovrei venire anch'io...? -
- Perché hai bisogno di cambiare aria. - fu la risposta secca che gli arrivò: - Di vedere altre persone. Di stare in un ambiente nuovo. Lontano da qui. L'Inghilterra non ti fa bene. -.
Kyte tornò a posare il viso sul tavolo, riportando l'attenzione sui bicchieri.
Proprio non volevano saperne di stare in equilibrio.


- Direi di avervi lasciata in buone mani, oujo-sama. -
A quelle parole, Kyte sentì la tensione sparire di colpo, del tutto: era sopravvissuto ad una lezione di giapponese con Gakupo come spettatore.
Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, dopo quello.
Al di là del fugace pensiero: "Sì, Gakupo, l'hai lasciata in ottime mani.".
- Mi fa piacere saperlo. - Len sorrise, le mani giunte.
- Ora è il vostro momento oujo-sama. -
Il sorriso s'incrinò sul volto di Len: - Prego...? -
- Comprendo che non abbiate studiato. - sospirò Gakupo, avvicinandoglisi: - Ma almeno i kanji più semplici dovreste conoscerli a prescindere. Sono cose che dovreste ricordare sempre. Dunque, perché non mi mostrate almeno le basi? -.
Il sorriso si era congelato: - ... ma avete già valutato il signor Kyte. - lo sguardo volò all'orologio: - Ed è tardi, non è il caso di- -
- Abbiamo ancora venti minuti abbondanti, oujo-sama. - gli fece notare Gakupo, tranquillissimo: - E, sì, il vostro insegnante è stato valutato. Ora è il vostro momento. -
- Ma avevate detto "o"! - protestò Len, gonfiando le guance: - O io o lui! -
L'altro sbattè le palpebre: - Ma non mi risulta di aver mai detto solo lui o solo voi. -
- Ci avete fatto scegliere! -
"Scegliere..."
- Chi sarebbe dovuto andare per primo. - un altro sorriso amabile: - Quindi, oujo-sama, non perdiamo altro tempo. Mostratemi ciò che sapete! -.
Kyte dovette mordersi le labbra per non scoppiare a ridere.
Gli sembrava una vendetta adorabile.
Anche se lo sguardo amorevole con cui Len guardava Gakupo sembrava star dicendo qualcosa di poco carino che comprendeva un attizzatoio, una mannaia e un sacco della spazzatura.

- Gaku-chaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaan! -
E un orecchio era partito. Il sinistro, per la precisione. Il destro faceva un po' male, ma era ancora intero.
Sentì diversi mormorii poco piacevoli, poi un turbine arancione apparve d'innanzi ai suoi occhi.
- Finalmente sei tornato! Quanto tempo è che non ti vedo in carne ed ossa? - quella ragazza - non più di diciotto anni, a giudicare dall'aspetto - aveva una voce decisamente alta. Non era acuta, ma sembrava volesse farsi sentire anche in Hokkaido. La faccia di Gakupo era un misto di tranquillità serafica e profonda disperazione.
- Quella lettera mi ha davvero colta di sorpresa, non mi aspettavo saresti tornato a breve! - proseguì la ragazza, gli occhi chiari che le brillavano: - Soprattutto considerando che sono anni che non ci vediamo! Lo zio mi aveva detto qualcosa a riguardo ed era ovvio che saresti potuto tornare da un momento all'altro, però non mi aspettavo che saresti arrivato proprio quest'anno e- ma lui è...! -
Lo sguardo della ragazza vagò prima su di lui, poi su Gakupo. Quando quest'ultimo annuì, lei si coprì la bocca con le ampie maniche del kimono arancione, gli occhi sgranati, il viso di colpo rosso: - Oh, perdonatemi! Ero così presa dal ritorno di Gaku-chan che non vi ho proprio notato! Voi siete Kaito-kun, giusto? -
- Sì... - fece, esitante: la parabola discendente da "Shion-sama" a "Kaito-kun" gliel'avrebbero dovuta spiegare.
La ragazza chinò la testa e il busto: - Sono Kamui Megumi. Piacere di conoscervi. -
- Oh... - colto alla sprovvista - per quanto se lo sarebbe dovuto aspettare -, Kyte chinò la testa: - Kyte Sheeawn, il piacere è mio. -. Ci pensò un istante: - ... o forse, per voi, sarebbe Sheeawn Kyte...? - borbottò, più a sé che a Megumi.
Entrambi tornarono su, lei sorrise, la bocca dietro la manica: - Shion è il nome di famiglia, Kaito il vostro nome proprio. Giusto? -
Kyte annuì.
- Gaku-chan mi ha parlato di voi! - sorrise Megumi, allegra, nascondendo le mani nelle maniche: - Spero che il vostro soggiorno a Kyoto sia piacevole. -
- Vi ringrazio, Kamui-san... - esitò di nuovo: "Kamui-san..."
- Chiamatemi pure Megumi! - fece lei, sventolando una mano: - Anzi, chiamatemi Gumi! -
- Megumi... - la riprese Gakupo, a bassa voce.
Gumi sorrise, candida: - Suvvia, Gaku-chan. - tornò a rivolgersi a lui: - Tutti mi chiamano Gumi. A parte il maleducato al vostro fianco. -
"Maleducato...?"
- Megumi... -
- Ma non gli prestate troppa attenzione, lo fa soltanto perché deve tenere alta la sua immagine perfettina! -
- Megumi... -
Gumi alzò le spalle, noncurante, per poi tornare con lo sguardo a lui: - Kyoto è una città splendida! Siete mai stato qui? -
- No, è la prima volta. - rispose Kyte, gli occhi che andavano da Gumi a Gakupo, da un sorriso ampio e innocente a uno sguardo molto poco rassicurante.
- Allora posso farvi da guida! - e non era una domanda: - Ci sono così tante cose da vedere! Bellezze naturali, costruzioni, cibo, soprattutto cibo, e- -
- Ehm... - diede un leggero colpo di tosse: - Potreste... ecco... parlare più piano...? -
Gumi sbattè le palpebre, apparentemente sorpresa di quella richiesta. Poi parve capire, la manica tornò davanti alla bocca: - Oh, no, ho sbagliato di nuovo! Perdonatemi, non avevo considerato che voi non sapeste troppo bene la lingua! Da quanto la studiate, se posso chiedere? -
- ... sei anni. - rispose, infine.
Il volto di Gumi parve andare a fuoco: - Scusatemi, non volevo dire che non sapete parlare il giapponese! Lo parlate benissimo, è solo che avete un accento un pochino strano, e- -
- Può bastare, Megumi. - intervenne Gakupo, la voce tenuta calma a forza.
Kyte non sapeva cosa dire.
Si sentiva stordito.
Ma leggero.
Non aveva idea del perché, ma si sentiva come se fosse in qualche modo più "libero".
Gli fu spontaneo sorridere.
- Accetto con piacere che mi facciate da guida. - disse.
Sentì su di sé gli sguardi di entrambi.
Dopo qualche secondo, Gumi ricambiò il sorriso: - E' deciso, allora! Ci sono anche tante storie che posso raccontarvi! -
- Sarò lieto di ascoltarle, allora. -
- Ne ho di tantissimi generi! Sia sulla città che sulla nostra famiglia! -
- Solitamente, in questi casi, escono racconti piuttosto imbarazzanti. -
-
Soprattutto racconti imbarazzanti! -
- Megumi... -
Gumi ridacchiò: - Non essere così serio, Gaku-chan! Ti preferivo quando eri piccolo e carino! E' perché sei sempre così serio che sei venuto su brutto e con le rughe! -
- Io non ho le rughe. -
Ed era visibilmente prossimo al gettare la cugina nella prima buca disponibile. Fosse una pozzanghera o un burrone.
- E invece sì! - Gumi socchiuse gli occhi: - E' per questo che sei vecchio e senza moglie! -
- E' per questo che nessuno ti sposerà mai. -
- Tsk. Che mi cada dal cielo, il marito. -
- Dovrà, visto che nessuna persona assennata ha mai chiesto la tua mano. Cosa che dovrebbe farti pensare, Megumi. -
- Maaaaaaaaa Kaito-kun, lo sapete che Gaku-chan, da piccolo, giocava con me e le altre cugine? -
- Capita, quando si è l'unico maschio contro quattro femmine. E avevamo quattro anni. -
"... Gumi ha la stessa età di Gakupo...?"
- Eri così carino! Tutto il contrario di ora! -
- Megumi... -
- Quindi Gaku-chan nasconde un passato torbido. - mormorò Kyte, pensieroso.
- Kaito... -
- Ebbene sì. - Gumi annuì, serissima: - E non è la sola cosa incredibile che ho da dirvi su di lui. Potrei parlarvene per ore. -
- Megumi... -
- Interessante. Sono troppo stanco per una passeggiata per Kyoto, ma non per ascoltare le vostre storie. -
- Kaito... -
- Beh, allora potrei parlarvi di quella volta in cui- -
Un sibilo glaciale sembrò tagliargli la pelle: - Una parola in più e tu- - Gakupo guardò Gumi, gli occhi invasati: - -finisci a Tokyo. -
- No, Tokyo no! - piagnucolò Gumi, improvvisamente spaventata.
- E tu- - ora gli occhi invasati se li ritrovava contro: - -torni in Inghilterra.
A nuoto. -
- Non mi piace Tokyo! -
- Ma a nuoto è faticoso! -
- Allora tacete, voi due! -
- Gaku-chan è cattivo! -
- Gaku-chan è perfido! -
- Come desiderate. -
Non aveva esattamente messo in conto di dover scattare e correre per le vie di Kyoto a meno di un'ora dal suo arrivo.
Né aveva messo in conto il colossale bernoccolo spuntato sulla sua testa quando era stato colpito da un oggetto imprecisato. Almeno non era inciampato nei propri piedi come Gumi.
Ed erano dovuti arrivare a casa a piedi. Trasportando tutti i bagagli. Anche Gumi. Aveva cercato di risparmiarle più peso possibile, ma anche lui aveva i suoi limiti.
Forse era meglio sparlare di Gakupo quando lui non era nelle vicinanze.


Contare i giorni.
Non riusciva a farlo.
Forse avrebbe dovuto, o forse sarebbe stato meglio rimanere nell'ignoranza fino alla fine.
Forse sarebbe stato meglio godersi quei giorni per ciò che erano di per loro, senza curarsi del tempo effettivo che passava.
Ma non ci riusciva. Sentiva l'ansia farsi sempre più pesante ogni giorno che passava.
Qual era la soluzione migliore? Contare i giorni, essere conscio del tempo che passava, prepararsi ed essere pronti per il momento in cui sarebbe dovuto andarsene? Oppure non fare niente, vivere in uno stato di generica ansia, aspettando che il momento in cui sarebbe dovuto andarsene apparisse dal nulla, da un momento all'altro, a sorpresa?
Contare i giorni, ovviamente. Sarebbe stato infinitamente meno doloroso, l'ansia sarebbe stata tenuta sotto controllo e, magari, la sua mente sarebbe stata capace di formulare pensieri vagamente coerenti.
Ma non riusciva a farlo. Quando ci provava, l'ansia si faceva talmente pesante da divenire insopportabile. E rinunciava.
E non aveva la minima idea del tempo che passava.
Tremò, forse non per quello che avrebbe voluto.
Artigliò la pelle scoperta della gamba e fece scivolare il vestito lungo la spalla, le dita di Len tra i capelli. Scostò il volto dal suo, scese con le labbra al collo.
La presa sui suoi capelli si fece più forte: - Non lasciate segni. - un sospiro.
Sì, lo sapeva che non doveva lasciare baci troppo visibili sulla pelle.
Anche se, teoricamente, non avrebbe dovuto neppure prima.
- Gli sguardi dei domestici e dei miei genitori non vedono mai troppo. - gli aveva detto Len: - Ma temo che Gakupo-sensei non rientri nella cerchia dei domestici né in quella dei miei genitori. -.
Sarebbe stato un problema, se lui si fosse accorto di qualcosa: tecnicamente, lui, Kyte, non aveva infranto la sua promessa, visto che Len si era mostrato più che consenziente; il problema stava nel fatto che una cosa del genere, di norma, avrebbe comportato minimo un matrimonio riparatore. Che, tuttavia, non ci sarebbe mai potuto essere.
A meno che non fosse stato reso pubblico il fatto che Lady Len fosse stata abbindolata da un poveraccio - perché, ovviamente, Lady Len è una fanciulla troppo pura e ingenua per poter anche solo pensare di avere un amante. O che il suddetto poveraccio avesse crudelmente compromesso Lady Len.
In entrambi i casi, per lui sarebbe stata la fine.
L'alternativa era rivelare la verità. Cosa che non sarebbe mai successa.
In realtà, era piuttosto sicuro che, se li avesse scoperti, Gakupo avrebbe taciuto. Con gli altri.
Non era sicuro di come avrebbe ridotto lui, piuttosto.
Forse avrebbero potuto rivelare la verità solo a lui. Forse sarebbe stato tutto più facile.
Afferrò un polso di Len, lo premette contro la porta.
Lo studio del duca di Mirror. Davvero non c'erano mai stati?
Risalì con le labbra fino all'orecchio dell'altro: - Rimanete con me, stanotte. -
Sarebbe stato tutto più facile, sì.
Nascondersi. Sì, sarebbe stato più semplice.
La cosa lo irritava.
Perché dovevano nascondersi? Perché dovevano continuare a fingersi solo precettore e allieva se non lo erano affatto? Perché gli serviva una scusa, anche la più idiota, per rimanere in quella magione tanto monotona?
'Sì, sono l'amante di Lady Len.'
Quello sarebbe stato semplice.
Un sussulto all'altezza del petto.
Sarebbe stato semplice e l'avrebbe di gran lunga preferito.
- Sono rimasta con voi questa notte. - mormorò Len, il tono divertito, il respiro irregolare.
- Nulla vi vieta di rimanere con me anche stanotte. -
Una risata leggera.
- E' bastato che io non stessi con voi la scorsa notte per farvi impazzire di desiderio fino a questo punto? - un'altra risatina, la mano di Len scese dai capelli al suo viso: - Avete davvero una pessima sopportazione dell'astinenza, sapete? -.
Gli sfuggì un sorriso.
Si scostò appena da lui, per guardarlo negli occhi. Vide il suo sguardo farsi interrogativo.
- Temo... - sussurrò: - ... non sia solo questo. E voi lo sapete. -
Quegli occhi azzurri si fecero seri: - Sapete anche perché ciò che chiedete non è possibile. - gli ricordò Len, la voce bassa.
- Sì. - e odiava una motivazione del genere: - Ma mi basterebbe anche solo continuare così. - un sospiro: - Non avete proprio bisogno di un altro domestico, vero? -
- No, mi dispiace. Siamo al completo. - lo sguardo di Len si addolcì, le labbra si curvarono in un sorriso: - Kyte, non è un addio. Il fatto che voi smettiate di abitare qui non significa che non ci rivedremo mai più. - gli diede un bacio leggero, una semplice carezza: - Ci vedremo di meno, molto di meno, ma ci rivedremo. Perché siete in ansia come se non ci dovessimo mai più rivedere? - una risata: - Siete tragico, Kyte! -.
- Di meno. - ripeté: - Molto di meno. -
Sapeva come sarebbero andate le cose.
- Sempre di meno. - mormorò: - Con il passare del tempo, finiremo con il vederci sempre di meno. Per sempre meno tempo. Finché tutto si ridurrà a saluti di convenienza. Incontrerete nuove persone, tutto cambierà. E finirete con il dimenticarv- -
Un dito sulle labbra.
Lo sguardo azzurro di Len nel suo, talmente freddo da congelarlo dall'interno.
- Vi prego. - disse lui, piatto: - Certi discorsi sono talmente stereotipati che non hanno più alcuna pretesa di serietà. Credo che anche il loro suonare vuoti e patetici favorisca il loro essere presi poco sul serio. -
"Cosa...?"
L'espressione di Len si sciolse in una più dolce: - Ma ho capito cosa intendete. E continuo a dirvi che siete troppo tragico. - un sorriso.
Il polso si liberò delicatamente dalla sua presa, sentì le sue braccia scivolare attorno alle spalle, le sentì tirarlo a sé.
- Come se per me fosse possibile fare ciò che state dicendo. - mormorò Len, facendogli posare la testa contro la spalla scoperta.
Kyte gli cinse la vita con le braccia, chiuse gli occhi.
Probabilmente Len non aveva davvero idea di quel che sarebbe potuto succedere, forse era troppo ottimista.
Però era bello sentirselo dire.
- Vi penserò ogni giorno. - le labbra di Len vicine all'orecchio: - La sensazione delle vostre spalle nel mio abbraccio... - strinse la presa: - ... prima che svanisca, vi reincontrerò. -.
Se fosse stato davvero così, forse sarebbe potuto bastare.
- Mi viene da sperare che il vostro corpo abbia poca memoria. -
Una risata leggera.
- Il vostro di sicuro ne ha molta poca. - fece Len: - Molta molta molta poca. E' per questo che una piccola astinenza vi manda in crisi. - una mano scivolò al petto: - Dovreste sottoporvi spontaneamente a qualche periodo di castità. - incontrò il suo sguardo azzurro assolutamente innocente: - Per temprarvi. - un sorriso ancor più innocente.
Con un sospiro divertito, Kyte si scostò, smettendo di bloccare Len tra lui e la porta.
- Allora direi che è il caso di tornare là fuor- -
Sentì il respiro mozzarsi per un istante, si sentì trascinato appena verso il basso; una mano di Len stringeva l'estremità del jabot che portava al collo, divenuto anche troppo simile ad un cappio. O un guinzaglio.
Quello sguardo azzurro si era fatto incredibilmente serio: - Non ho detto di iniziare a sottoporvi ora. -.

- Siete ancora sveglia? -
Gumi sorrise, affrettandosi a nascondere le labbra dietro l'ampia manica del kimono: - Già. Direi che ho fatto bene a venire qui per prendere un po' d'aria, così ho l'occasione di salutarvi! -
Kyte sbattè le palpebre, perplesso: - Potete salutarmi domattina. -
- Non con tutta la confusione che
senz'altro ci sarà. - sospirò lei, gli occhi al cielo, calcando sul "senz'altro". Tornò a guardarlo: - Posso sedermi accanto a voi? -
- Certo. -
"Perché ho l'impressione che non voglia solo salutarmi...?"
La osservò accomodarglisi vicino, sotto il portico che dava sul giardino interno della casa. Il suo sorriso non era scomparso un solo istante: - Kyoto è stata di vostro gradimento? -
- Sì! - per quanto ogni sera si ritrovasse talmente affaticato dalle "gite" da non curarsi neppure di addormentarsi sul pavimento, a prescindere del fatto che tutti loro dormissero su dei lettini a terra: - E voi siete stata un'ottima guida! -
- Ne sono lieta! -
C'era anche un'altra cosa...
- Grazie. -
Gumi inclinò appena la testa di lato: - Di cosa? -
- Per avermi accolto qui. - Kyte accennò ad un sorriso. Neppure lui avrebbe saputo dire se fosse imbarazzato o malinconico: - Anche se sono uno straniero. -
Silenzio.
Era incredibile come non si sentisse il benché minimo rumore, neppure un ipotetico vento tra le foglie degli alberi.
Forse era per quello che l'aria si era fatta così pesante.
Un colpo di tosse, malmescolato ad una risata imbarazzata, nascosta dietro la manica del kimono.
- Mio zio e il mio cugino preferito lavorano in una terra straniera, Gaku-chan ormai ci vive, come potremmo lasciare degli stranieri alla porta? - un'altra risata nervosa.
A Kyte venne da ridere: più che imbarazzata per la situazione, Gumi sembrava più a disagio all'idea di aver detto qualcosa di sbagliato, o che temesse di non aver dato una risposta esaustiva.
Quando aveva realizzato di stare andando in Giappone, all'inizio, si era preoccupato: non era sicuro che uno "straniero" come lui sarebbe stato accolto a braccia aperte - già solo il fatto che tutti i non-giapponesi venissero definiti "stranieri" a prescindere dalla loro provenienza lo aveva fatto pensare; l'idea di passare da un estremo all'altro di rifiuto non gli aveva esattamente fatto fare i salti di gioia.
Era felice di essere sbagliato.
- Vi ringrazio. - ripeté: - Voi e la vostra famiglia. -
- Di nulla... - Gumi spostò lo sguardo al giardino, le guance visibilmente rosse anche alla sola luce della luna.
Dopo un tempo imprecisato, la vide sospirare, per poi tornare a rivolgersi a lui: - Sapete, ero davvero curiosa di incontrarvi. -
- Davvero? -
Gumi annuì: - Conoscevo voi e la vostra famiglia dai racconti dello zio e dalle lettere di Gaku-chan. -
- Gaku-chan parla di me...? -
- Non si è mai prodigato in lunghi elogi o invettive nei vostri confronti, se è questo che pensate. - il sorriso tornò sereno, privo di imbarazzo: - Anzi, non si è mai dilungato troppo nel parlare di voi, a parte qualche citazione o fatto. -
- Uhm. -
Ciò poteva considerarsi una cosa positiva. Soprattutto vista la tendenza di Gakupo ad esagerare in entrambi i lati.
- Mi ero fatta una certa idea di voi ed ero curiosa di sapere se fosse vera. -
- Idea? Che idea? -
- E poi volevo incontrare il fantomatico "Kaito-kun" di per sè. -
Kyte era un po' disorientato. Aveva la sensazione che Gumi avesse volontariamente ignorato la sua domanda.
- E... - osò dire, piano: - ... quindi...? - cercò di spiegarsi meglio: - Che impressione vi ho dato? -
La ragazza giunse le mani: - Siete simpatico! E' piacevole stare in vostra compagnia! - gli occhi le brillavano: - E voi? Che impressione avete avuto di me? Gaku-chan vi ha mai parlato di me? In bene, vero? Vero? -
Cercò di riemergere da quella marea di domande: - Lo stesso vale per me. - rispose, notando il volto dell'altra assumere una tonalità più rosata: - E Gakupo mi aveva accennato qualcosa... -
"- E poi ci sarebbe quella svergognata di mia cugina Megumi. Ah, non troverà mai un marito, se continua ad essere così rozza, maleducata, irrispettosa, invadente- -"
- ... di positivo. - annuì, sperando di avere uno sguardo deciso: - Poco, ma positivo. -
Gumi ridacchiò: - Bugiardo! - cinguettò: - Quella pettegola piena di rughe non parlerebbe mai bene di me in contesti informali! -
- Ugh. -
"E allora perché me l'avete chiesto...?"
Lo sguardo dell'altra interruppe i suoi pensieri: si era fatto serio, l'espressione dolce, quasi incoraggiante. Quando lei parlò, la sua voce uscì come un sussurro: - Posso osare pregarvi di una cosa? -
"... eh?"
- S-sì... - farfugliò, confuso.
Gumi trasse un profondo respiro: - Vedete... Tutto cambia. Niente rimane com'è. Non esiste nulla che rimanga immobile per sempre. Né il mondo che ci circonda né le persone dentro loro stesse. - chiuse gli occhi: - Ogni cosa possiede un'ombra. Più o meno grande, più o meno visibile, più o meno importante. Il mio cuore ha delle ombre, così come quello di Gaku-chan, così come, ne sono sicura, anche il vostro. Ombre che tenete nascoste, che sperate nessuno noti. -
Kyte trasalì.
- Si allungano, si accorciano, diventano più grandi o più piccole. O svaniscono. O se ne creano di nuove. Sono in continuo movimento. Non possono non esserlo, visto come si trasformano gli esseri umani. - un sorriso accennato: - Finché non ne siamo fagocitati, va tutto bene. E, se anche succedesse, non sarebbe per sempre. Perché tutto cambia, in un modo o nell'altro. - inspirò: - Non che tutte le ombre siano cose orribili. A volte sono solo piccoli segreti innocenti. Tutti hanno delle piccole ombre, più o meno importanti. -
- ... credo di non seguirvi più. - confessò Kyte: era piuttosto sicuro di aver capito tutte le parole, ma gli stava venendo il dubbio circa il significato.
Gumi riaprì gli occhi, illuminati da un sorriso: - Non è così importante. - si portò una mano all'altezza del cuore: - Quello che voglio dirvi è che anche voi avete delle ombre. Forse tante, forse poche, qualunque sia la loro natura, non m'importa. Sono cose comuni a tutti gli esseri viventi, che mai potranno intaccare qualcuno, tanto meno voi stesso, finché non divengono troppo grandi. - il suo sguardo si fece quasi di preghiera: - Vorrei chiedervi una cosa: per quanto voi possiate cambiare, non cambiate mai davvero. Rimanete sempre voi stesso. E' questo ciò che vi chiedo. -
- ... s-sì. -
Scrutò Gumi, disorientato: "Qualunque cosa voi abbiate detto...".
La ragazza ridusse gli occhi a fessure: - Sappiate che, in caso contrario, lo verrò a sapere. -
- Ah... sì? -
- Sono in una posizione epistolare privilegiata con una colossale pettegola, sgarrate e
lo saprò. -
- ... d'accordo. -.
Il sorriso di Gumi si fece amabile.
Era decisamente una cosa di famiglia.


- Dirlo a Gakupo-sensei? Siete serio, Kyte? E cosa pensate di fare? Andare da lui e dirgli: "Sai, Lady Len è un maschio!"? E pensate davvero che lui ci crederebbe? Che non penserebbe che noi due ci stiamo prendendo gioco di lui? Pensate davvero che, per una cosa simile, gli basterebbero le nostre parole? E' ovvio che pretenderebbe una prova fisica! E io non ho nessuna intenzione di farmi vedere nuda da chiunque ed essere guardata come un fenomeno da baraccone! -
Quelle parole ancora gli rintronavano in testa, tanto erano state rabbiose; gli occhi gli facevano ancora male, trafitti da quello sguardo azzurro fattosi glaciale.
Len se n'era poi andato, offeso, lasciandolo da solo nel corridoio come un povero idiota.
"In effetti, non avevo pensato al fatto che una cosa simile non è credibile, solo con le parole..." si disse, vagando senza meta - o alla ricerca di scale che avrebbero potuto condurlo in qualche posto più riconoscibile tipo la sala o l'esterno: "Gakupo non ci crederebbe mai, Len ha ragione. L'unico modo per convincerlo sarebbe provarglielo..." un brivido: "... in effetti sì, ciò implicherebbe che Len si mostri senza vestiti. O che si lasci toccare."
Non aveva idea di quale ipotesi fosse peggiore. Forse la seconda, più invasiva.
"Non ci avevo pensato. Certo, sarebbe decisamente meglio se Gakupo lo sapesse, saremmo più liberi... però non posso neppure costringere Len ad umiliarsi.".
Sospirò.
Non l'aveva proposto con cattiveria, ma si sentiva lo stesso un po' in colpa. Avrebbe dovuto recuperare Len - ovunque fosse andato - e chiarirsi con lui.
I suoi pensieri s'interruppero non appena svoltò l'angolo, ritrovandosi nell'ennesimo corridoio identico a tutti gli altri - e nessuna traccia delle scale: Gakupo era davanti ad uno dei tanti candelabri a muro, un libricino in una mano, un carboncino nell'altra, lo sguardo che andava dalle candele - perfettamente uguali - alle pagine.
- Gakupo! - lo vide voltarsi verso di lui: - Cosa stai facend- - si bloccò.
Ovvio.
Guardò le candele, un sopracciglio alzato: - ... non starai pensando di vendere delle candele ai signori...? -
L'espressione dell'altro era il ritratto della tranquillità: - Purtroppo queste sono di ottima qualità. Non avrebbero alcun motivo di cambiare fornitore. Lo stesso vale per le tende. - scrisse qualcosa sul libricino.
Kyte guardò Gakupo, poi le candele; tornò all'altro: - E allora cosa staresti...? -
- Studio la concorrenza. -
- Ah... -
- Ho già preso in prestito senza permesso delle candele nella mia stanza, ma non ho ancora trovato un modo per prendere un campione di tenda. -
- ... potresti accidentalmente farle prendere fuoco, magari non troppo, e prenderne un pezzo. -
- Già pensato. - voltò pagina: - Ma la mia camera è piena di oggetti in legno. E, se le tende si rivelassero particolarmente portate a farsi bruciare, domare l'incendio sarebbe un grosso problema. Quindi devo trovare un'altra soluzione. -
Kyte annuì, non sapendo come altro rispondere.
- Anche se... - esordì, vago: - ... potresti comunque vendere loro qualcosa. Darebbe un po' di vivacità a questo posto. -
- Temo sia proprio per questo che non accetterebbero mai. - un'altra annotazione sul libricino: - Le candele, ad esempio. Sono tutte perfettamente uguali. Stessa altezza, persino stesso colore della stessa sfumatura. Credo le cambino periodicamente ogni mattino. Anche quelle non usate. E che le accendano tutte insieme. Anche nei corridoi semivuoti. -
Kyte annuì di nuovo: era praticamente impossibile non notare quella specie di ossessione nella monotonia di quella casa.
- Quindi devo finire di catalogarle entro stasera. -
- ... tutte le candele di tutta la casa...? -
- E le tende. - altra annotazione: - E i vasi. - altra annotazione: - E i paraventi. - altra annotazione.
- ... ti lascio tranquillo. - gli diede una pacca su una spalla, ben deciso ad evitare di ritrovarsi a contare candele tutte uguali fino a farle protagoniste dei propri incubi.
Fece per andarsene, quando notò un particolare: fino a quel momento si era concentrato più sul libricino, non prestando troppa attenzione agli occhi dell'altro; quando lo guardò, però, si accorse di qualcosa.
Non avrebbe saputo dire cosa fosse esattamente: non era uno sguardo vitreo, affatto, ma non era neppure concentrato, era distante ma presente al tempo stesso; non era triste o arrabbiato, ma c'era un qualcosa che non avrebbe associato ad emozioni positive.
Ma, soprattutto, aveva una strana sensazione. Non riusciva a riconoscerla - forse ansia, forse confusione, forse tristezza, forse rabbia, forse aveva solo fame -, ma neppure quella l'avrebbe associata ad un qualcosa di positivo.
- Stai bene? - domandò, d'istinto.
Gakupo annuì: - Sì. - si portò una mano agli occhi, con un sospiro: - Anche se temo di essere ancora spossato dal viaggio. Quasi sei mesi di navigazione sono decisamente troppi. -
- Non dovresti metterti a contare candele, allora. - disse Kyte, gettando un'occhiata al libricino pieno di scritte: - Faresti meglio a riposarti, quando ne hai l'occasione. -
- Dormire troppo fa stancare di più. - sentenziò l'altro, con uno dei suoi sorrisi amabili. Ma il suo sguardo era rimasto identico.
Kyte scosse la testa: - Come vuoi. Poi non dire che non ti avevo avvertito. -
- Non lo dirò. -
- Buona conta, allora! -
- Grazie... -
Si avviò lungo il corridoio, ritrovandosi a camminare più velocemente di quanto avrebbe voluto: quella sensazione non se n'era andata.
Trasse un profondo respiro, individuando le scale, poco più avanti: "Cos'è che dovrebbe agitarmi così...?" si domandò, scendendo ai piani inferiori. Il piano terra, forse il più riconoscibile di tutti grazie al suo essere provvisto di porta d'ingresso: "Perché Gakupo dovrebbe avere quell'espressione...?".
Si bloccò.
"... non avrà intuito qualcosa...?" scosse la testa, per scacciare quell'idea: "Sarebbe venuto a dirmelo direttamente. O me l'avrebbe detto ora. Lui non eviterebbe mai un discorso del genere.". Riprese a camminare: "Soprattutto perché lui pensa che Len sia una ragazza. A maggior ragione mi avrebbe parlato.". Si fermò di nuovo. Gelo.
"... non ci avrà visti...?" un brivido gli attraversò la schiena: "Se avesse scoperto tutto insieme sia che Len è un maschio sia che noi...". Scosse di nuovo la testa: "No, impossibile. Da quando è arrivato, è capitato solo una volta - meno di un'ora fa - che ci appartassimo di giorno. Ed era in una stanza chiusa. Che abbiamo controllato. E abbiamo pure tirato le tende. Se anche ci avesse scoperto, non avrebbe modo di sapere che Len è un maschio. In ogni caso, me ne avrebbe parlato.".
Riprese a camminare, vagamente più tranquillo: "Se non riguarda Len e me, allora, cosa...?".
Solo quando sentì una leggera brezza sul viso si rese conto di essere andato nel giardino interno. O meglio, di esserci quasi caduto dentro.
Gli bastò alzare lo sguardo per iniziare a chiedersi seriamente se non avesse sviluppato un qualche potere che rendeva i suoi sensi più attenti per tutto ciò che riguardava Len: su una delle panchine, appallottolata, c'era una vaporosa massa di stoffa azzurra.
E una coppetta di vetro. Con tante banane spezzettate dentro. Che, ne era sicuro, sarebbero sparite tutte nel giro di un minuto.
Con un sospiro divertito - e uno sguardo azzurro piuttosto tranquillizzato su di lui -, raggiunse Len.






Note:
* 20 scellini fanno 1 sterlina. *E fin qui...*
1 sterlina di epoca vittoriana dovrebbe valere all'incirca 360 euro di oggi. Non trovo più il sito in cui l'ho letto, argh-
4 scellini a settimana, in un mese, sono 16 scellini, ossia non arrivano a comporre una sterlina; quindi non si arriva ai 300 euro attuali, se non ai 200 circa.
Tipo. Qualcosa del genere. *Soe ha passato due ore a fare proporzioni ridicole per cavare qualcosa di vagamente plausibile. Soe aveva l'insufficienza assoluta, in matematica. Quindi è altamente probabile che abbia cannato qualcosa.*
* Gli haiku sono componimenti poetici di origine giapponese, composti di tre versi di diciassette sillabe.
* Nel caso qualcuno se lo stesse chiedendo: per quanto nelle storie ambientate nel passato si dia per scontato che Tokyo venga chiamata "Edo", essa assunse il suo nome attuale nel 1869. *E' andata a controllare e ci teneva a dirlo. (?)*
* Verso la fine dell'800, il Giappone era da poco uscito da due secoli di isolazionismo (il Sakoku) e, per quanto "affascinato" dalla cultura occidentale, nutriva comunque una certa diffidenza verso gli stranieri: essi venivano genericamente chiamati gaijin, termine un po' duro e a volte vagamente razzista.
Non che la cosa sia durata poco: la tematica al negativo è presente come "attuale" anche in svariati manga degli anni '80/'90.
(Comunque, per chi fosse interessato, la pagina in inglese è molto più esplicativa.)
* C'è una citazione diretta da una canzone. Potete provare ad indovinare, io vi do la risposta nel prossimo capitolo. *O* *Ma che...? *




Seconda parte del Capitolo Eterno, alias Il Passato Di Colui Che Si Fa Fumare Il Cervello Per Pare Mentali Nel Presente. *Olè!* *O*

E ha fatto la sua apparizione anche la plurinominata (?) Gumi, che si diletta nel filosofeggiamento - senza Kinder Cereali, però. */Fine angolo "vecchie pubblicità" + battute dubbissime*
Non sono esattamentissimamente sicura che una ragazza giapponese di fine '800 potesse comportarsi in quel modo tanto esuberante... ma, del resto, se Gakupo la descrive (affettuosamente (?)) con aggettivi poco lusinghieri e calca tanto sul fatto che sia finalmente riuscita a sposarsi, un motivo c'è. U.U
In compenso, anche Gumi dice a Gakupo cose molto carine. (?) *Ma sempre con tanto affetto. (?)* U.U Forse, anche in questo caso, un motivo c'è. *Eh? *

Parlando della storia in generale: questo, con il precedente e il successivo, avrebbe dovuto formare il "terzultimo capitolo" e io starei scrivendo il penultimo; tuttavia, casualità *eh?* ha voluto che anche il penultimo capitolo si scindesse in tre. Tuttavia, se non altro, di quello avevo previsto una possibilissima divisione. Quindi non sono rimasta scioccata. Però, percepisco la gioia scoppiettante di chi sta leggendo ciò.
(Speravate finisse presto, vero? Io stessa avevo programmato solo 6 capitoli totali... *Quindi, a quest'ora, avrebbe finito...* E invece no.)
Ora starei scrivendo quello che vorrei davvero proprio tanto fosse l'effettivo penultimo capitolo. Non mi piacerebbe dover dividere l'ultimo. No.

Una cosa (credo) più rincuorante è che il prossimo capitolo non sarà al 90% in corsivo. *O* *E ci si riavvicina, man mano, sempre di più al presente*

Detto ciò, spero che il capitolo vi sia stato di gradimento! ^^
Per qualsiasi consiglio o critica, dite pure! ^^

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Capitolo 7
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Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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- ... lustrascarpe...? -
Le facce spiazzate e/o sconvolte di Gakupo meritavano sempre: erano un misto di profondo trauma e disperato tentativo di rimanere seri, il cui risultato era un sorriso forzatissimo e gli occhi spalancati in modo quasi innaturale.
- E' un negozio di calzature vero e proprio. - spiegò Kyte, soddisfatto: - Faccio il tuttofare. Quindi anche lustrascarpe, sì. - alzò le spalle: - Mi spiace rubare il lavoro ai ragazzini, ma il denaro serve pure a me. -
- ... lustrascarpe. - sembrava aver assimilato il concetto. Era un passo avanti.
- E tutti i lavori di fatica che servono. - aggiunse Kyte: - Tipo aggiustare cose. O romperle per farle entrare nei sacchi della spazzatura. Soprattutto rompere. Sembra che io sia molto bravo a rompere. -
- Ti vedo molto appagato in questo lavoro di rottura di oggetti. E di lustrare le scarpe. -
- Più che altro, pagano decentemente! - un sospiro: - Certo, non credo di essermi mai fatto tanti lividi e cicatrici come in quel negozio, ma mi danno abbastanza da potermi comprare la cena! Ogni sera! A volte anche la colazione! -.
L'espressione di Gakupo si addolcì, perdendo il suo aspetto scioccato: - Mi fa piacere, allora. -
- Sai... - Kyte si sedette sul bordo della finestra: - ... se non compro troppe cose per cena, potrò anche pagarti l'affitto. -
Stavolta il volto dell'altro si fece stupito. Non era un qualcosa che si vedeva spesso.
- Non subito, ovviamente. Se ne riparlerà almeno tra un paio di mesi. - precisò Kyte, lasciandosi andare contro il muro laterale: - Però potrei. Soprattutto visto il prezzo che
teoricamente mi avresti fatto. -
L'espressione divenne seria: - Sai che non sei obbligato a pagare. -
- Certo che lo so. - alzò gli occhi al cielo: - Però voglio farlo. Se posso, non vedo perché no. -.
Tornò a guardare Gakupo: sembrava terribilmente serio, ma gli occhi lo tradivano. Sembrava quasi felice.
- Allora direi di poterti dare anch'io una notizia. -
- Ti sposi? -
- No, Kaito. - ora il tono era pacato, il suo solito tono tranquillo ai limiti dell'impassibile: - Semplicemente, ho trovato un impiego anch'io. -
- ... tu...? - Kyte alzò un sopracciglio: - Tu ce l'hai già, un impiego. -
- Smetterò per un po'. - rispose l'altro: - Non so per quanto tempo, esattamente. Ryuuto prenderà il mio posto, nel frattempo. -
Kyte sbattè le palpebre: - ... tuo cugino...? -
- Sì. -
- ... che ha sette anni. -
- E' ora che anche lui impari. Mio padre già lo sta istruendo. -
- Capisco... -
In realtà non capiva bene, ma non aveva intenzione di approfondire: - E perché...? -
- Mi hanno ingaggiato come precettore. -
Quasi cadde di sotto per la sorpresa: - Pre-precettore? - ripetè, affrettandosi a poggiare un piede a terra per mantenersi stabile: - Cosa? Quando? Com'è successo? Perché? Chi? -
- Le voci girano. - sospirò Gakupo, come se nulla fosse: - Una famiglia di duchi stava cercando qualcuno abbastanza esperto di lingua e cultura giapponese. Pare sia arrivato alle loro orecchie il fatto che ci fosse un nativo giapponese che viveva in zona e mi hanno contattato. Abbiamo parlato e ho accettato. -.
Kyte era rimasto senza parole: "Ma che diamine...?"
Cercò di dire qualcosa: - Ma... precettore di giapponese, dici? Cioè, dei duchi vogliono imparare il giapponese...? -
"Duchi molto originali, senza dubbio..."
- Cercavano un insegnante di giapponese per la loro figlia, sì. -
"Figli
a? Perché il giapponese ad una donna...?"
- Quindi inizio la prossima settimana. -.
Era sinceramente disorientato: Gakupo andava presso una famiglia di duchi a fare l'insegnante di giapponese.
No.
Gakupo andava a fare l'insegnante.
"...
povera fanciulla.".

Si sistemò in fretta i vestiti e corse fuori dalla stanza, sperando di avere un aspetto presentabile.
Era crollato addormentato. Ed era quasi l'ora del the.
Non sarebbe stato affatto carino non presentarsi al the perché perso nel mondo dei sogni. Non era professionale, ecco.
"Mancano ancora dieci minuti, posso arrivare in tempo senza sembrare che abbia corso per mezza casa!"
Aveva svoltato almeno tre angoli, prima di rendersi conto del fatto che, molto probabilmente, avrebbe impiegato quei dieci minuti cercando la sala.
"Allora..." alzò una mano: "... se metto la mano destra sul muro, dovrei riuscire a trovare l'uscita. Credo."
Un paio di volte aveva funzionato.
Effettivamente, seguendo il muro alla propria destra, riuscì a trovare le scale - era già una conquista.
Era sceso di un piano, quando si ricordò di un particolare: "Al piano di sotto quello in cui si trova la mia camera, mettendosi di spalle alle scale e svoltando due angoli a destra..."
Seguì quelle indicazioni venutegli alla mente, giungendo in un corridoio vagamente più riconoscib- no, non lo era affatto, ma teoricamente era lì che si trovava la stanza di Gakupo, per quel che ricordava.
Quale fosse era un altro discorso.
Camminò davanti alle porte, incerto a quale bussare: "Magari è in ritardo anche lui..." si disse, fermandosi davanti ad una camera a caso, titubante: "... se lo fosse, nessuno potrebbe guardarmi male.". Proseguì, superando due porte, il passo sempre più lento: "Aspetta, stai davvero cercando di rimediare al ritardo accumulando ulteriore ritardo?". Si fermò. Ormai era intorno alla nona o decima stanza.
"... sto cercando Gakupo." cercò di convincersi: "... era in ritardo anche lui! Sono andato a cercarlo, ecco!" riprese a camminare, cercando di fare mente locale: la stanza dell'altro non era troppo distante dall'inizio del corridoio, probabilmente era una di quelle nelle sue vicinanze.
"Se anche fosse nella sala da ore, non l'ho visto." si guardò intorno, valutando la posizione delle finestre - la camera di Gakupo non ne aveva una davanti, quindi poteva escludere quelle con quella caratteristica: "Può capitare. E poi, posso sempre mentire e dire che quegli occhiali hanno un loro senso di esister-"
Un piede scivolò appena in avanti.
Si fermò, abbassò lo sguardo: a lato di una delle soglie, sul pavimento, tra l'entrata e il tappeto, c'erano delle gocce d'acqua grandi come pollici.
"... acqua...?" Kyte s'inginocchiò, perplesso: "Cosa ci fa...?". Alzò appena lo sguardo: delle gocce identiche c'erano anche dall'altro lato della soglia.
"Ma che...?" tornò a scrutare le gocce più vicine: era acqua, decisamente.
O grappa. Ma aveva i suoi dubbi che qualcuno si fosse fatto portare casse e casse di grappa dall'Italia per poi farne cadere così tanta sul pavimento.
"La pulizia è sempre impeccabile..." si rialzò, piano, premurandosi di non scivolare: "... perché c'è dell'acqua...?" fece un passo indietro e guardò la porta: "Cosa c'è qui...?".
Ricordò, di colpo: "Ma questa non è...?". Si voltò: nessuna finestra. Tornò a guardare la porta: "... non è la camera di Gakupo...?".
Guardando meglio, qualcosa sul legno attirò la sua attenzione: quando si avvicinò, notò delle strisce bagnate, attorniate da minuscole goccioline, come se qualcosa di bagnato vi avesse sfregato contro. Erano ad uno dei lati della porta, quello opposto alla maniglia, non eccessivamente lunghe, ma neppure corte.
"Cosa...?"
Gettò uno sguardo fuori da una delle finestre del corridoio: nonostante le nuvole, c'era il sole. Faceva piuttosto freddo, quello sì, ma il sole era comunque visibile.
"... non piove... ma allora da dove...?"
Scosse la testa per riprendersi: "Tanto vale lo chieda a lui.". Alzò il pugno e bussò - sperando che quella fosse davvero la camera di Gakupo, ma era piuttosto sicuro di non aver sbagliato.
Nessuna risposta.
Bussò di nuovo, stavolta con più forza.
Nessuna risposta.
"... forse è già in sala." abbassò il pugno, ancora confuso: "... non credo stia cercando di prendere dei campioni di tenda bagnandola... e gli esperimenti li farebbe in camera, non fuori...".
Alzò lo sguardo, per controllare che non stesse piovendo dentro casa. Ormai non si sarebbe più stupito di niente. Ma il soffitto era asciutto, senza neppure delle sfumature di muffa.
Tornò a guardare fuori dalla finestra - anche se qualcosa gli diceva che i dieci minuti erano abbondantemente trascorsi e che avrebbe fatto meglio a scendere piuttosto che a perdere tempo dietro ad una manciata di gocce d'acqua.
"Non piove... le brocche d'acqua sono dentro le camere... e poi sono gocce... e quelle cose sulla porta..." erano soprattutto quelle ultime a perplimerlo: non aveva idea di cosa potesse averle causate.
Il suo sguardo vagò nel verde intorno alla magione, finché la monotonia del panorama fu spezzata. Sbattè le palpebre: "Il laghetto?" tornò a guardare la porta: "Possibile che quelle gocce vengano dal laghetto? Ma come...?" esitò: "... forse c'è caduto dentro...? Ma perché Gakupo sarebbe dovuto andare al laghetto...?" sentiva la testa iniziare a fargli male: "Ma, se ci fosse caduto dentro, non sarebbe venuto fin qui. Avrebbe chiesto ai domestici di portargli un cambio al piano terra, non sarebbe salito fin qui...".
Scosse di nuovo la testa: "Sto davvero qui a giocare al piccolo investigatore quando posso semplicemente darmi una mossa, andare dove dovrei essere e chiederglielo?".
Era decisamente impazzito, sì.
- Kyte! -
Sentì un brivido lungo la schiena: "Di quanto sono in ritardo...?".
Len gli fu accanto in un istante, lo sguardo a metà tra l'arrabbiato e l'incuriosito: - Sapete che ore sono? Siete terribilmente in ritardo! Mi avete fatta preoccupare! -
- Perdonatemi, non era mia intenzione. - almeno non sembrava propenso ad attuare su di lui chissà quale atroce vendetta: - Stavo- -
- Anche voi cercavate Gakupo-sensei? - lo anticipò Len: - Anche lui è davvero in ritardo! Come lo sapevate, se non siete sceso? -
- Ehm... - Kyte diede un colpo di tosse, cercando di assumere una certa compostezza: - In realtà, sono sceso. Non avendolo visto lì, sono venuto qui a chiamarlo. -
Lo sguardo di Len era colmo di profonda compassione. Tuttavia, finse di credergli - e Kyte gliene fu molto grato.
- Avete già bussato? -
Kyte annuì: - Ma non risponde. Credo sia già sceso. -.
Len lo guardò un istante. Poi fece qualche passo verso la porta, probabilmente per bussare lui stesso.
- Aspettate! - gli afferrò una spalla, bloccandolo.
- C-cosa c'è...? -
- C'è dell'acqua, per terra. - vide Len abbassare lo sguardo, individuando subito le gocce: - Non ho idea a cosa siano dovute, ma- -
- Ah, quindi deve averla portata qui! -
Quell'esclamazione lo spiazzò: - Prego? -
Len si voltò verso di lui, con un sorriso: - Prima ho visto Gakupo-sensei tornare dal laghetto con una tenda bagnata. Quando l'ho incrociato, mi ha detto che stava facendo degli esperimenti, ma che non avrei dovuto dirlo a nes- - si premette una mano sulle labbra, gli occhi di colpo sgranati: - Ops! Ve l'ho appena detto! -
Kyte si gelò sul posto: "Tutta quella preoccupazione per...?". Trasse un profondo respiro per riprendersi e diede una pacca sulla schiena di Len: - State tranquillo. Manterrò il segreto. -
Lo sguardo dell'altro brillò: - Vi ringrazio! - un veloce bacio sulle labbra: - Non voglio essere sgridata da Gakupo-sensei! - piagnucolò, mettendo le mani dietro la schiena.
- Non lo sarete. - cercò di rassicurarlo: - ... a meno che non facciamo ulteriore ritardo. -
- Non può dirci nulla, siamo andati a cercarlo! - protestò Len, mettendo su il suo broncio: - Che sia puntuale in prima persona, la prossima volta! -
- Anche voi avete ragione... -.

Con un sospiro, Kyte aprì la porta, giusto per evitare che Gakupo - sapeva che era lui - la sfondasse a suon di pugni e calci. O che facesse saltare la maniglia sparandole.
Sapeva che ne sarebbe stato capacissimo. E tutto perché ci aveva messo ben cinque secondi per raggiungere la porta.
Forse avrebbe potuto rispondergli, piuttosto che rimanere in silenzio. In effetti, forse aveva appena rischiato la vita.
- Perché non hai risposto? -
"Ah, ora si finge calmo e pacato."
- Vuoi un po' d'acqua? - domandò, con un ampio sorriso: - Scusami se non ti offro alcolici, ne ho solo un quarto di bottiglia e vorrei tenermela per dopo cena. -
- No. -
- Antipatico. -
Lo fece entrare, richiudendogli la porta alle spalle.
- E' vero quello che ho sentito? - chiese Gakupo, la voce ferma, arrivando subito al punto.
Kyte alzò le spalle: - Non ho idea di cosa tu senta ogni giorno. O almeno, ne ho idea, e sono quel tipo di cose che mi conciliano il sonno. -
- Quel negozio dove lavoravi ha chiuso. -
- Ah,
quella cosa! - piegò appena la testa di lato, fingendo di pensarci: - Sì, direi di sì. Ha chiuso e non riaprirà più. Colpa della concorrenza. Sembra che le calzature altrui fossero più belle e nessuno è più venuto da noi. Cose che capitano. -
- Sei senza lavoro. -
- Direi di sì. - sorrise, appoggiando la schiena al muro: - Ho ancora un po' di denaro da parte. Posso pagarti anche questo mese, credo. -
- Quando pensavi di dirmelo? -
Kyte sbattè le palpebre: sembrava quasi che Gakupo stesse cercando di incenerirlo con lo sguardo.
Non molto credibile, visto il velo di preoccupazione sul suo viso.
- Quando ti avrei rivisto! - si allontanò dalla parete e gli diede una pacca su una spalla: - Suvvia. Sembra sia tu ad aver perso il lavoro! Non sarai improvvisamente diventato attaccato all'affitto, eh? -
- Mi dispiace deluderti, ma temo tu non sia la mia principale fonte di guadagno. -
Kyte ridacchiò: - Così va già meglio. Evita di buttare giù la porta della
tua casa, la prossima volta! Non è successo nulla di irreparabile! -.
In quel momento, Gakupo non sembrava più volerlo incenerire: nel suo sguardo c'era solo preoccupazione.
- ... stai bene? - aveva abbassato la voce.
Kyte si era aspettato quella domanda. Era piuttosto sicuro che, qualsiasi cosa avesse detto, non sarebbe bastato, non sarebbe stato preso davvero sul serio. Si era chiesto come rispondere, come poter convincere l'altro che andava tutto bene, che non si sentiva più come un grosso mostro che fa scappare chiunque lo incontri e che perde pezzi ad ogni passo, che l'alcool non era più così attraente, che non si sentiva più pesante, che non aveva pianto neppure una notte, che aveva trascorso le notti dormendo - forse avrebbe potuto dirglielo proprio così, riversandogli addosso quella fiumana di frasi.
- Sì. -
Gakupo lo guardò, per un lungo istante.
Poi ogni traccia di preoccupazione scomparve dal suo volto. Non disse nulla. Soltanto, accennò ad un sorriso, forse di sollievo.
- Quindi... - esordì lui, qualche secondo dopo: - ... cosa hai intenzione di fare, ora? -
- Cercherò un altro lavoro. - rispose Kyte, lasciandosi cadere sulla prima sedia disponibile, le mani dietro la nuca: - E, se andrà male, ne cercherò un altro. Qualcosa si rimedia sempre. - ridacchiò: - Tranquillo, se verrò da te a piagnucolare non sarà certo per questo. -
- Se così fosse, mi sento autorizzato a fingere di non essere in casa. - disse Gakupo, calmo come sempre, accomodandosi su un'altra sedia: - Comunque, voglio il whiskey. So che l'alcolico che hai è whiskey. -
Kyte quasi cadde dalla sedia: - Neanche per idea! Se vuoi qualcosa, c'è solo acqua! -
- La tua incapacità di ricevere gli ospiti è veramente notevole. - sospirò Gakupo, con noncuranza.
- E comunque... - Kyte ridusse gli occhi a fessure: - ... è vino. -
- Dimostramelo. - un sibilo.
- Scordatelo. -
- Stai mentendo per tenermi lontano dal whiskey. -
- Ti direi che è rum. -
- Allora avrei la certezza che stai mentendo. -
Kyte si alzò, pancia in dentro e petto in fuori: - Avrai dell'acqua. E questo è quanto! -
Gakupo intrecciò le dita, i gomiti sul tavolo: - Maleducato. - fece, tranquillissimo.
- Invadente. -
-
Ganbatte. -
Kyte tacque. Lo sguardo dell'altro era calmo come sempre.
Andava tutto bene. Nonostante tutto, sentiva di poterlo dire davvero.
- Acqua. -
- Mh. -.


- Mi state trascurando. -
Kyte sgranò gli occhi, colto alla sprovvista: - ... eh? -.
Quello sguardo azzurro si assottigliò; la candela era stata spenta ore prima, l'unica fonte di luce era quello spiraglio di luna che sfuggiva alla tenda, eppure riusciva a vedere benissimo quegli occhi contrariati.
Sentì un fruscìo, il calore del corpo di Len venne meno. Lo vide sedersi su di lui, le cosce contro i fianchi.
Non riusciva a vedere bene la sua espressione, ma il suo tono lacrimoso era indubbiamente finto: - Non vi piaccio più? -
E certo, glielo chiedeva offrendogli quel panorama.
Il fatto di non riuscire a vederlo distintamente non era un problema. Ormai lo conosceva a memoria.
Portò una mano sul fianco dell'altro: - Temo che... - risalì fino alla vita: - ... sia piuttosto improbabile che voi smettiate di piacermi. -
- "Improbabile?" - era sicuro avesse messo il broncio: - Speravo mi diceste "impossibile". -
- Troppo stereotipato. - ridacchiò.
- Voi non vi fate problemi a parlare per stereotipi, non dovreste iniziare a farvene proprio ora. - un sospiro: - Di sicuro avete un tempismo orribile. -
Sorrise: - Mi dispiace. -
- No che non vi dispiace. - Len intrecciò le dita con quelle della sua mano libera: - Piuttosto... - esordì, il tono si era fatto più serio: - ... eravate poco partecipe. -
- ... ah? -
Un brivido. Non era una cosa carina da dire. Affatto.
- La vostra mente era altrove. - spiegò Len: - Non eravate presente. -
Kyte si rilassò un poco: "Ah... 'poco partecipe' in quel senso...".
In tal caso, l'altro aveva ragione. Doveva riconoscerlo.
Provò una fitta d'irritazione - che certi pensieri fossero in grado di rovinargli i momenti con Len era qualcosa di estremamente fastidioso.
- Perdonatemi. - sospirò, stavolta dispiaciuto sul serio: - Ho dei pensieri per la testa. -
- E' lodevole che nella vostra testa ci siano pensieri. -
- ... eh? -
- Per curiosità... - si chinò appena verso di lui: - ... cos'è che vi coinvolge tanto mentre le vostre mani e le vostre labbra cercano di rimediare alla vostra pessima memoria? -
"Già... cosa?"
Kyte si lasciò andare contro il materasso, chiudendo gli occhi: - Lo sapete. - mormorò, piano: - Le solite cose. -.
Ammetterlo suonava come una sorta di sconfitta.
Ma non riusciva a fare altrimenti. Avrebbe preferito davvero non pensare a tutte quelle cose che lo inquietavano ma, più cercava di scacciare quei pensieri, più quelli tornavano a crivellargli la mente, più dolorosi di prima.
Se avesse potuto materialmente toglierli dalla propria testa, l'avrebbe fatto senza esitazioni.
A quanto sembrava, poi, la cosa stava iniziando a peggiorare.
- Kyte, vi prego! - un sospiro esasperato: - Perché continuate a farvi del male? -
- E' quello che mi chiedo anch'io... - confessò, facendo scivolare la mano sulla schiena di Len.
- Non pensate che io vi consoli. - lo sentì stringere la presa: - Non mi ci vuole niente a rimanermene a dormire nel mio letto piuttosto che venire nel vostro. -
Gelo. Kyte riaprì gli occhi, allarmato: - Cosa? -
Una risata leggera: - Ora va meglio. - la presa sulla sua mano si allentò, la voce di Len si era fatta più pacata: - Per favore, smettetela di riempirvi la testa di pensieri negativi inutili. Fossero almeno preoccupazioni fondate... voi siete in ansia per... delle fantasie. - calcò su quelle parole, sembrava quasi incredulo.
- E' che... - esitò.
Forse non era il caso di essere tanto diretto: - ... voi non avete notato nulla di strano? -
Len sbattè le palpebre: - Strano? In che senso? -
- In generale. - spiegò Kyte: - Non avete notato nulla di strano? -
- Temo di no. - rispose l'altro, cauto: - Perché, voi avete notato qualcosa di "strano"...? -
Esitò di nuovo.
C'era effettivamente qualcosa che l'aveva colpito, che aveva contribuito ad affollare la sua mente ancora di più.
- Temo che qualcuno sospetti qualcosa. - confessò, infine: - Di noi, intendo. -
- Gakupo-sensei? -
Kyte sgranò gli occhi: - C-cosa? -
Len sospirò: - Suvvia, chi altro potrebbe essere? - piegò appena la testa di lato: - Ma cos'è che ve lo fa pensare? -
Tanto valeva dirgli tutto: - Ultimamente è strano. - disse Kyte: - Ha qualcosa di strano nello sguardo, anche se non so cosa sia. Ed è arrivato tardissimo per il the. Mezz'ora di ritardo da parte sua? Sul serio? -
- Il suo ritardo mi ha colta di sorpresa, in effetti. - confessò Len: - Chissà se è vero che si era addormentato... -
Kyte non rispose: gli sembrava semplicemente impossibile che Gakupo potesse fare così tardi. Eppure era successo. Era un qualcosa di straniante.
- Per il resto, io non ho visto niente di strano. - proseguì l'altro, il tono incuriosito: - Ritardo a parte, a me Gakupo-sensei sembra come al solito. -
- Mh. -
"... possibile che siano solo mie paranoie...?" ormai poteva anche pensare ad una possibilità del genere: "... anche perché, se ci fossero problemi, me ne avrebbe parlato." si rese conto.
Nonostante questo, per quanto potesse accettare che Gakupo non sospettasse nulla, non riusciva a capacitarsi del fatto che andasse tutto bene. C'era qualcosa di strano, davvero.
- Comunque... - la voce dell'altro lo distolse dai propri pensieri: - ... voi... - fece Len: - ... vi fate davvero problemi inesistenti. - portò una mano sul suo petto.
La ritrasse, quasi si fosse scottato.
L'altra mano lasciò la sua.
"Ancora..."
La mano si scostò dalla schiena, andando a prendere quella che l'aveva toccato, per poi riportarla sul suo petto: - Potete toccarmi, sapete? - sorrise: - Non vi mangio. -
Metafore scontate a parte.
Lo sentì irrigidirsi, lo sguardo si era fatto esitante.
"No, vero?"
Sembrava che Len non sapesse che sotto le spalle c'erano altre cose. Mai, in quei quattro mesi d'incontri, l'aveva toccato più in basso delle spalle, se non quando era vestito. Gli prendeva le mani, osava toccargli le braccia, un paio di volte aveva sfiorato probabilmente per sbaglio le ginocchia, ma nient'altro.
Forse aveva fatto dello scarnificargli la parte superiore della schiena il suo scopo nella vita - anche considerando che le unghie gli erano cresciute - o forse era troppo pigro per andare al di sotto del collo.
Qualcosa gli diceva di poter escludere la seconda ipotesi.
All'inizio aveva pensato fosse la timidezza delle prime volte o la ritrosia dovuta all'educazione femminile; ma aveva imparato che Len e la pudicizia camminavano sui lati opposti della strada, incontrandosi solo quando si trattava di coprirsi inutilmente il petto, quindi la scusa aveva finito con il reggere poco. Soprattutto dopo quattro mesi.
- Scusatemi. -
Len ritrasse di nuovo la mano, portando entrambe al petto. Lo vide abbassare lo sguardo, sentì le gambe chiudersi appena: - Non è colpa vostra. -.
"... immagino."
Aveva un sospetto circa quel suo comportamento.
Per un istante, quasi si sentì in colpa nel desiderare quel corpo morbido e tanto femminile.
Portò una mano al viso di Len: era fin troppo caldo.
- Va tutto bene. - sorrise: - So che siete timida. -.
Una risata leggera. Lo sentì rilassarsi un po'.
- Davvero pensate che io sia timida? - il suo sguardo era tornato tranquillo.
- No. - confessò Kyte, candido: - Mentivo. -
Len tornò a sdraiarsi su di lui, le labbra vicine alle sue: - Mi avrebbe inquietata il contrario. -.

- A proposito, Kaito. -
Kyte alzò lo sguardo dal bicchiere, incontrando quello di Gakupo, dall'altra parte del tavolino della locanda: - Sì? -
- Ho una
lieta notizia da darti. - aveva calcato parecchio su quel "lieta". Doveva essere davvero lieta.
- Dimmi! - esclamò, incuriosito.
- Megumi si sposa. -
Sbattè le palpebre, assorbendo la notizia.
Quando realizzò del tutto le parole dell'altro, non potè trattenere una risata: - Congratulazioni! - esclamò, dandogli una pacca su una spalla.


- Facciamo una passeggiata! -
Len letteralmente saltò su dalla sedia, il suo bizzarro pupazzo stretto tra le braccia, gli occhi che brillavano.
- Ora? - Kyte gettò uno sguardo fuori dalla finestra, esitante: per quanto si riuscisse ancora ad intravedere il sole, il cielo era quasi del tutto coperto da grandi nuvoloni grigi; se non altro, le fronde degli alberi erano quasi immobili.
- Fra poco più di mezz'ora sarà pronto il pranzo. - ricordò Gakupo, con tono gentile.
- Andiamo ora! - esclamò Len, lasciando il pupazzo sulla sedia e allontanandosi dal tavolo pieno di fogli ricoperti di kanji: - Potrebbe piovere da un momento all'altro! - fece notare, indicando le nuvole oltre il vetro: - Non possiamo aspettare dopo pranzo! Facciamo una passeggiata ora! Ora! -
"In effetti..." ammise Kyte: "... potrebbe piovere anche in questo preciso istante.".
- E sia. - si arrese Gakupo, senza neanche troppo dispiacere: - Ma, se dovesse iniziare a piovere mentre siamo fuori, rientreremo immediatamente. Anche se siamo appena usciti. -
Len gonfiò le guance: - Un po' di pioggia non ha mai fatto male a nessuno! -
- Ma il freddo sì e, con la pioggia, il risultato non è affatto gradevole. - disse l'altro, la voce pacata: - Non vorrete prendere un raffreddore? -
- Se vogliamo uscire, è meglio sbrigarsi. - intervenne Kyte, mentre il più piccolo rimaneva con il broncio: - O faranno prima a chiamarci per il pranzo che iniziare a piovere. -.
Quel giorno, Len era particolarmente in vena di capricci. Non prese l'ombrello e si rifiutò di mettere una giacca pesante - a suo dire, il suo vestito era abbastanza caldo.
Doveva avere svariati strati di indumenti, dato che quello che indossava era l'abito blu con cui Kyte l'aveva visto per la prima volta, in una stagione decisamente meno fredda.
Quando misero piede fuori casa, Kyte si stupì di come non facesse poi così eccessivamente freddo: non era un clima da desiderare di gettarsi nel lago, ma non sembrava neppure dovesse davvero piovere da un momento all'altro.
Pochi istanti dopo, Len era già svariati passi avanti.
Fu nel notarlo che Kyte si rese conto di una cosa: "Ah... siamo solo noi tre...".
Guardò Gakupo, al suo fianco: sembrava tranquillo e rilassato come sempre - anche quando, un minuto prima, gli aveva impedito con le cattive maniere di togliersi gli utilissimi occhiali. Anche quella strana luce nel suo sguardo sembrava in qualche modo essersi attenuata - non scomparsa, quello no: riusciva ad intravederla, seppur nascosta molto meglio delle altre volte.
- Cosa c'è? - era ovvio che Gakupo si sarebbe accorto di essere fissato, visto che non aveva distolto lo sguardo.
Kyte sorrise: - Non è strano? - guardò Len, più avanti: - Stare tutti e tre insieme, dico. -
- Perché dovrebbe esserlo? -
Alzò le spalle: - Forse è strano vedere te e lei insieme. Tu ci sei sempre stato, quando lei non c'era. E lei è stata con me quando tu non c'eri. Vedervi insieme fa uno strano effetto... -
- Sono giorni che ci vedi insieme. - osservò Gakupo.
- Vero. - vide Len fermarsi e voltarsi verso di loro.
Era così che era iniziato tutto?
- Forse... - sospirò: - ... la parola giusta non è "strano". -.
In un secondo, Len li aveva raggiunti, infilandosi tra di loro. Kyte lo sentì prendergli una mano, lo vide prendere quella di Gakupo.
- Non rimanete indietro! - trillò, quasi tirandoli: - Passeggiamo insieme! Tutti e tre insieme! -
"Tutti e tre...?"
- Voi andate più veloce, oujo-sama. - sorrise Gakupo.
- E voi avete le gambe più lunghe! - notò Len, facendo oscillare appena le loro braccia.
- Eh, la signorina ha ragione, Gakupo. - scherzò Kyte - per quanto fosse vero.
- Certo che ho ragione! - esclamò il più piccolo. Stavolta li tirò davvero: - Mi prendete in braccio? - fece, spostando lo sguardo prima su uno poi sull'altro.
- Insieme? - Kyte aggrottò la fronte.
- Sì! -
- Temo sia complicato prendervi in braccio nello stesso momento. - gli fece notare Gakupo.
- A meno che uno non la prenda per le braccia e l'altro per le gambe... - ridacchiò Kyte.
- Non sono un sacco! - protestò Len, Gakupo che alzava gli occhi al cielo, l'accenno di un sorriso.
- Allora facciamo così! - esordì il più piccolo: - Ci prendiamo in braccio a vicenda! Gakupo-sensei prende in braccio il signor Kyte e il signor Kyte prende in braccio me! -
- E voi prendete in braccio Gakupo? -
- Ma, se sto in braccio a voi e voi state in braccio a lui, non è fisicamente possibile! -
- Oujo-sama, per quale motivo dovrei essere io a sobbarcarmi tutto il vostro peso? -
- Perché... - Len parve pensarci un attimo: - ... siete più grande del signor Kyte! - annuì: - Il signor Kyte è molto più piccolo di voi! -
- "Molto"... - ripetè Kyte, punto nel vivo: - C'è solo una spanna di differenza. - gli fece notare: - E poi, con tutto il rispetto, se io sono "molto più piccolo" di Gakupo, voi cosa sareste? -
- Neanch'io sono così bassa! - Len gonfiò di nuovo le guance: - Anche tra me e voi c'è appena una spanna di differenza! -
- Allora voi siete "doppiamente molto più piccola". -
- Non prendetevi gioco di me! -
- Allora... - intervenne Gakupo, serafico: - ... potreste essere voi a prendere in braccio Kyte, mentre lui tiene in braccio me. -
Kyte spalancò gli occhi: - Perché dovrei essere io a tenerti in braccio...? -
- E perché no? -
- Pensate che non ci riuscirei perché sono più piccola? - Len lasciò le loro mani, per poi aggrapparsi alla vita di Gakupo. Rimase immobile per qualche istante, poi si allontanò, lo sguardo contrariato: - Siete pesante! -
- Rispetto a voi... -
"Ma non mi dite, Len."
Kyte fece appena in tempo a pensarlo, che si ritrovò le braccia di Len strette attorno alla vita. A quanto sembrava, non rimaneva fermo, stava seriamente cercando di sollevarlo.
Un istante dopo, Len era a terra.
- Siete più pesante di Gakupo-sensei! - pigolò, lo sguardo sconvolto: - Voi siete un falso magro! -
- Cosa? -
- Dunque siete basso e tozzo, Kaito-san. - uno di quei sorrisi di Gakupo che somigliavano a ghigni.
Lo sguardo di Kyte andò da lui a Len: - Questo è un complotto contro di me! E i cospiratori siete voi! -
- Stai solo cercando scuse. -
- State solo facendo scene! E ciò che dite non corrisponde assolutamente al vero! -
- Quante storie per la verità... -
- La verità è che sei tu quello tozzo e sgraziato. Solo che sei alto e non si nota! -
- Comunque la più carina sono io. -
In mezzo a quelle distese verdi disperse nel nulla, sembrava di essere le uniche tre persone esistenti, isolate dal resto del mondo, un mondo che non poteva in alcun modo venirli a disturbare, a sconvolgerli, a portare loro una qualsiasi preoccupazione.
C'erano soltanto loro, a fare ciò che volevano, senza tener conto di nient'altro e di nessun altro.
Se n'era reso conto solo in quel momento: se fosse rimasto da solo con Len e Gakupo, se anche non avesse avuto nient'altro che loro, gli sarebbe andato bene.
Se fosse rimasto tutto così, sarebbe davvero andato tutto bene.

Non sapeva come interpretare le mutazioni del cielo.
L'unica cosa che sapeva era che tutto quello gli sembrava un dono divino.
- E' molto probabile che stasera piova. - aveva detto la duchessa di Mirror, durante la colazione: - Non sappiamo esattamente quando, ma non reputo sicuro che voi partiate domani mattina. Se sarete così gentile da accettare ancora la nostra ospitalità, vi chiederei di partire dopo la pioggia. Non credo ci vorranno più di due o tre giorni per far passare questo brutto tempo. -
- Onorato dalla vostra gentilezza, mia signora. -
Era troppo incredulo per potersi commuovere. Si sentiva leggero come non lo era da settimane, la nebbia di pensieri che aveva offuscato la sua mente si era in parte diradata; si sentiva come se avesse potuto fare qualsiasi cosa, anche affrontare a viso aperto quella - momentanea - separazione.
Forse, finalmente, il concetto di "momentaneo" stava iniziando ad essere assimilato dalla sua mente.
- Sono così felice che rimaniate un altro paio di giorni! - Len sorrise, prendendogli le mani.
Kyte non riusciva a staccare lo sguardo da lui: quel vestito nero. Lo stava indossando di nuovo.
- E' per questo che avete messo il vostro abito per le grandi occasioni? - si arrischiò a chiedere.
Len annuì, gli occhi che gli brillavano: - E' un bell'evento, non credete? - gli lasciò le mani, per poi fare una piroetta, l'orlo della gonna si alzò appena a mostrare le caviglie, coperte dalle calze nere: - E poi, mi era parso che questo abito vi piacesse particolarmente. - aggiunse, il tono più basso, lo sguardo più eloquente.
"Se mi piace...?" in realtà no. Altrimenti, non si sarebbe spiegato perché l'avrebbe gradito molto di più lontano da quella pelle bianca. Magari sul pavimento.
Prese il volto di Len tra le mani e lo baciò.
Il corridoio era vuoto e non sentiva alcun rumore di passi. Poteva concedersi qualche secondo.
Evidentemente, l'altro aveva pensato lo stesso, data la foga con cui lo ricambiò e gli strinse la veste.
I famigerati passi in avvicinamento giunsero come una mosca fastidiosa vicino all'orecchio, costringendolo a separarsi da Len, non seppe neppure lui dopo quanto.
- Devo preparare le valigie. - disse Kyte, il tono neutro, mentre un paio di cameriere passavano al loro fianco.
- Già da ora? - fece Len, la voce innocente, lo sguardo in completo contrasto.
- Temo di sì. - sospirò, dandosi una veloce sistemata alla giacca: - Non che metta tutto dentro, ma almeno svuotare gli armadi e i cassetti... -
L'altro annuì, l'espressione si fece annoiata: - Sarete aiutato, vero? -
- Sì. Qualora ci fosse qualcosa da lavare o sistemare... -
"Quindi, no, se voi veniste da me non saremmo comunque soli."
Len annuì di nuovo: - Vi lascio ai vostri preparativi, allora. Credo andrò in biblioteca. -
"... poveri libri."
- Potreste approfittarne per studiare. -
- Non ci penso neppure. -
- Mh. -.
Svuotare armadi e cassetti fu meno difficile di quanto aveva pensato - fino all'ossessione - nei giorni precedenti: per quanto sentisse una punta di malinconia, in generale era di buonumore, tranquillo. Forse stava davvero meglio.
"Ed è bastato così poco...?"
Probabilmente, Len aveva ragione circa la stupidità delle sue preoccupazioni.
Dopo circa un'ora, forse poco di più, in camera si presentò anche Gakupo, per aiutarlo.
- Vi ringrazio. - fece Kyte, alla volta dei domestici: - Non credo serva altro, il resto possiamo fare da soli. -
- Come desiderate. - dopo aver chinato la testa, la servitù si congedò.
- Mi auguro non serva davvero altro. - disse Gakupo, gettando uno sguardo all'armadio aperto e vuoto: - Non vorrei mi avessi incastrato per fare i lavori più pesanti. -
- Sei venuto qui di tua spontanea volontà. - gli fece notare Kyte, impilando i vestiti piegati: - Non avrei potuto architettare un complotto ai tuoi danni. -.
Per tutta risposta, l'altro sospirò - ma sembrava più un sospiro divertito -, per poi togliersi la giacca e posarla su una sedia.
- La pistola dov'è? -
- Eh? - Kyte alzò lo sguardo, notando Gakupo intento ad osservare la sua spada, lasciata nel fodero, sul letto.
Diede un colpo di tosse, sentì le guance farsi più calde: - ... temo di non averne ancora una. -.
Silenzio.
Gli occhi di Gakupo si sgranarono, colmi di incredulità: - Stai scherzando. - non era una domanda. Era più una preghiera.
- Ehm... - riportò lo sguardo sui vestiti, ormai sistemati: - ... vuoi che ti dica che sto scherzando? Perché non sarebbe esattamente la verità... -.
Silenzio.
- ... mi stai dicendo che... - la voce di Gakupo era forzatamente controllata: - ... per sei mesi hai protetto la signorina soltanto con la spada...? -
- Suvvia, il paese è tranquillo! - esclamò Kyte, per poi spezzare l'imbarazzo con una risata: - Non stiamo parlando di Londra! In paese, basta che vedano qualcosa di appuntito per diventare remissivi come agnellini! -
- Tu sei pazzo. -
Con la coda dell'occhio, notò Gakupo schiaffarsi una mano in faccia.
Sentì le guance bollenti.
- Dai, non è successo nulla! - rise, una risata forse un po' troppo nervosa, dandogli una pacca su una spalla: - Ho protetto la signorina meglio che ho potuto! -
- Tieni. -
Una pistola apparve sotto i suoi occhi, tra le sue mani.
Alzò lo sguardo, incontrando quello esasperato di Gakupo: - A questo punto, te la regalo. -
- Non ce n'è bisogno, davvero! -
- Non puoi continuare ad andare in giro solo con la spada! - fece l'altro, il tono più alto: - E se qualcuno con una pistola avesse aggredito oujo-sama o te? E se ti avessero immobilizzato? Hai idea di cosa sarebbe successo? - alzò gli occhi al soffitto: - Avrei dovuto controllare che fossi armato per bene! Perché non l'ho fatto? Eppure avrei dovuto sospettare che tu- -
Una risata sfuggì dalle labbra di Kyte, senza che riuscisse a fermarla in tempo.
Cercò di darsi un contegno coprendosi la bocca, ma lo sguardo ancora più scioccato di Gakupo non aiutava.
- Come sei gentile a preoccuparti per me. - ridacchiò: - Vuoi che ti chiami okaasan? -
In realtà, accostare sua madre a Gakupo non era proprio una bellissima immagine, ma la faccia traumatizzata dell'altro lo ripagava completamente. Era piuttosto raro che l'altro mostrasse anche solo appena di perdere il sangue freddo ed era sempre uno spettacolo impagabile.
Per quanto avesse ragione.
- ... credo che otousama potrebbe addirmisi, quando sono con te. Sì. - sospirò Gakupo, sembrò calmarsi.
Gli faceva piacere, in un certo senso, sapere che qualcuno si preoccupasse per lui - e per Len - a tal punto.
Si rigirò la pistola tra le mani: era quella che Gakupo teneva di riserva - l'altra faceva bella mostra di sé nel fodero appeso alla cintura, sul fianco opposto a quello su cui si trovava la katana.
Soltanto...
Un bussare alla porta.
Kyte guardò in direzione dell'entrata, notando il maggiordomo sulla soglia.
- Permettete, signor Kamui? -
- Sì? - Gakupo gli diede la sua attenzione.
- Potreste venire per pochi istanti? Avrei qualcosa da domandarvi circa la strana sparizione di alcune candele nella vostra camera. -
- Certamente. -
Gli rivolse un'occhiata, con sguardo di scuse: - Perdonami un attimo. -
- Sì, fa' pure. -
Gakupo uscì dalla stanza, lasciandolo da solo.
Kyte riportò la sua attenzione alla pistola che l'altro gli aveva dato: "... il problema della sua pistola di riserva è che è perennemente scarica.".
Aprì il tamburo: come aveva immaginato, era vuoto.
"Perché dovrebbe portarsi dietro una pistola scarica?" si chiese, richiudendola e girandola di nuovo: "Forse..." ci pensò: "... magari ha anche dei proiettili di riserva!" annuì da solo alla sua brillante deduzione: "Ma certo che deve averli! Sarebbe un problema se si ritrovasse coinvolto in una sparatoria e si ritrovasse senza munizioni!".
Si guardò intorno, pensieroso: "Se io fossi un proiettile, dove mi nasconderei...?".
Non aveva mai notato rigonfiamenti nelle tasche dei pantaloni di Gakupo, quindi...
"Magari nelle tasche della giacca!" la notò sulla sedia: "Così sarebbero anche facili da prendere in fretta!".
La raggiunse e la controllò, prima dentro - magari c'erano tasche nascoste -, poi fuori.
Una tasca si rivelò vuota.
"Allora nell'altra!"
Mise la mano dentro. Le sue dita sfiorarono qualcosa di liscio, sottile.
"Eh?"
Incuriosito, Kyte prese quel qualcosa e lo tirò fuori dalla tasca.
Sbattè le palpebre, confuso: era un nastrino sottile, blu, ad occhio lungo una sessantina di centimetri.
"... cosa ci fa una cosa del genere nella tasca della giacca di Gakupo...?"
Era veramente troppo sottile per poterlo usare per legare qualcosa di pesante anche solo un chilo e non sembrava affatto una striscia di tenda presa in prestito senza permesso.
Ma, soprattutto, quel nastrino gli dava una strana sensazione di familiarità.
"Mi sembra di averlo già visto da qualche parte..."
Lo stese su un pugno, osservandolo meglio.
Del pizzo nero, attorno a quella striscia blu, quasi gli sembrava di vederlo.
Si sentì come se qualcuno l'avesse colpito allo stomaco all'improvviso, mozzandogli il respiro.
Aveva già compiuto un'azione del genere. Con un lungo e sottile nastrino blu.
Quello della giarrettiera di Len.
Le mani tremarono.
"... questo..." le sue dita si fecero deboli, la pistola quasi gli sfuggì di mano: "... questo è davvero...".
Inspirò a fondo, le gambe tremavano: "No, cerca di ragionare, Kyte. Perché il nastrino della giarrettiera di Len dovrebbe essere nella tasca della giacca di Gakupo? Forse l'ha perso e Gakupo l'ha trovato per terra...? Forse Gakupo non sapeva cosa fosse esattamente e l'ha preso comunque...?"
Sentiva freddo.
Troppo freddo.
"... ma è impossibile che il nastrino cada senza giarrettiera. Dovrebbe esserci anche quella..."
Deglutì.
Qualcosa gli stava premendo sulla gola, soffocandolo.
"... l'unico modo per averlo è... sfilarlo...?"
- Kaito? -
Quella voce rimbombò nella sua mente, come un'eco lontana e, al tempo stesso, un urlo vicino al suo orecchio: "Cosa...?"
- Che stai facendo? -
Sentì due passi.
Poi niente.
- Questo... - la voce uscì bassa, spezzata: - ... cos'è questo...? -
- Un nastro, Kaito. - il tono di Gakupo era tranquillo: - E' evidente. Stai poco bene? -
- Molto sottile... - sussurrò, la gola secca, le mani gelide: - ... davvero molto sottile... -
- Sì, Kaito. - il tono di Gakupo era troppo tranquillo: - Ne fanno anche di così sottili. -
- Sembra quasi... - una morsa violenta allo stomaco: - ... il nastrino di una giarrettiera, non trovi? -
"Non... non può davvero essere... cosa...?"
Trasalì, o forse era stato scosso da un brivido troppo forte.
Gakupo non aveva risposto.
Distolse lo sguardo dal nastrino, portandolo sul suo volto.
Era freddo. Senza alcuna emozione.
Tranne gli occhi.
Quella sensazione sinistra che aveva percepito qualche giorno prima sembrò insinuarsi sotto la sua pelle, congelandone ogni centimetro.
- Cosa intendi dire? -
Il tono era gelido.
"Non useresti questo tono se... se fosse tutto normale... eh?"
Qualcosa premette sulla sua gola, uscì dalle labbra come un accenno di risata. Sentì gli occhi bruciare.
- Questo... - le labbra tiravano, isteriche: - ... questo è il nastrino della giarrettiera di Len. - inspirò, i polmoni sembravano ricoperti di ghiaccio.
Gakupo non rispose.
La sua espressione non mutò.
Il suo sguardo si fece più affilato.
Lo vide chiudere la porta, con un colpo secco.
Trasalì.
- Tu... - Gakupo gli si avvicinò, i passi spaventosamente lenti: - ... come sai che appartiene a oujo-sama? -
"Ah..." spalancò gli occhi, fino a sentirli far male: "... non mi hai detto di no..."
- Io... - voleva tornare a guardare il nastrino.
Ma la sua testa e il suo sguardo non risposero.
Non riuscivano a staccarsi dal volto dell'altro.
- ... una volta, gliene è caduta una e io l'ho aiutato a reindossarla. - inspirò per cercare aria, non ne aveva più.
Sentiva la testa completamente svuotata.
Gli occhi di Gakupo si sgranarono, la bocca si schiuse appena.
- Come sai che Ren è un maschio? -
Una pugnalata nel cuore.
Una lama ghiacciata lo pugnalò fino a trapassargli il cuore, con un solo fendente.
Il sangue gelido gli riempì i polmoni, il petto, fino ad appesantirlo, a congelarlo, strappandogli il respiro.
- Come fai tu a sapere che Len è un maschio...? -
Le proteste di Len. Quando lui gli aveva proposto di rivelare la verità a Gakupo.
Si era arrabbiato.
Aveva rifiutato.
Sarebbero servite prove materiali.
Gakupo non poteva averlo sentito dalla bocca di Len.
Non poteva averlo sentito dalla servitù o dai signori.
Il nastrino della giarrettiera.
Impossibile da trovare per caso.
Qualcosa che si trovava sulla pelle di Len, troppo vicino al suo segreto.
Segreto che l'altro conosceva.
Schiuse le labbra, le sentiva fredde: - Cosa- -
Il cigolìo della porta.
La sua testa si mosse da sola, voltandosi di scatto verso la soglia.
Un abito nero.
La pelle sul volto di Len divenne ancora più bianca, i suoi occhi azzurri si sgranarono, le labbra si schiusero.
Dei passi verso di lui.
Una mano bianca coprì la bocca, tremava.
- Mi... -
Le braccia si strinsero attorno al petto, le mani artigliarono le spalle.
Len cadde a terra, la testa chinata, i capelli biondi coprirono parte del suo viso, la gonna sbuffò.
I denti digrignati.
- Mi ha costretta! -
Immobile.
Tutto si era fatto immobile.
Anche il suo respiro.
"... costrett...?"
Quella parola, quel grido, dilaniò, lacerò ogni cosa.
Altre grida si sovrapposero.
L'una sull'altra, sempre più disperate.
La sua mente lo torturò, gli mostrò su quella pelle bianca degli squarci rossi, vividi, gocce che scivolavano lungo la pelle dei polsi e del collo, che s'insinuavano sotto la stoffa, che si univano al rosso che aveva devastato il petto, le gambe.
I gemiti, i singhiozzi, erano veri.
Li sentiva sfuggire dalla bocca di Len.
Gli scuotevano le spalle, il corpo.
Violato.
Scagliò lo sguardo al proprio fianco, puntò la pistola.
Il braccio scontrò un altro braccio.
La canna di una pistola davanti ai suoi occhi.
Lo sguardo di Gakupo era folle.
Un gemito più violento gli ferì le orecchie, gli lacerò il cuore già torturato.
"Non può essere..."
Strinse il metallo freddo.
"Non può essere... non può davvero..."
Gli occhi di Gakupo erano spalancati, una luce insana nello sguardo, fuori di sé.
"Non può..."
Quelle mani sul corpo di Len.
"Non può..."
Quelle dita strette sulla pelle bianca, che lasciavano segni violacei, le unghie che la trafiggevano, macchiandosi di rosso vivo.
"No..."
Quello sguardo folle.
Irriconoscibile.
Non era lui.
- E' scarica. -
Kyte sgranò gli occhi.
Quella voce velenosa era tagliente e gelida come la lama che l'aveva pugnalato.
Gakupo abbassò la pistola, piano, Kyte fece lo stesso.
- Hai una spada. -
Uno stridìo.
La lama sottile della katana scintillò sotto i suoi occhi: - Prendila. -.
Non era lui.
Non poteva essere lui.
Quell'espressione tanto orribile, quella voce, non potevano appartenere a lui.
Kyte gettò la pistola e il nastro sul letto, prese la propria spada e la sguainò, per poi buttare il fodero sulle coperte.
- Dietro la casa. -
Kyte strinse i denti. Annuì.
Un altro gemito gli ferì le orecchie.
Stavolta si voltò, appena in tempo per vedere Len scappare oltre la porta.
Il rumore dei tacchi, troppo veloce, gli risuonò nella mente, smembrandola ad ogni passo.
Quando svanì, era rimasta solo la sua coscienza offuscata.
E qualcosa che gli stringeva il cuore distrutto, facendone scricchiolare i pezzi, premendoli l'uno contro l'altro, aprendo altri tagli con le punte affilate delle schegge.
"Len..."
- Andiamo. -
Qualcosa di rovente lo bruciò dall'interno.
Serrò la presa sull'elsa.
La sua coscienza si risvegliò, spaventosamente attenta.
- Sì. -
Len doveva aver visto delle lacrime rosse marchiargli la pelle.
Voleva vederle anche lui.
Non proprie.
Non sulla propria pelle.

Il suono dell'erba calpestata dagli stivali aprì uno squarcio nella sua mente.
Non si era curato dell'eventuale presenza di servitori, né della possibile presenza della padrona di casa: se anche qualcuno avesse provato a fermarli - cosa che non era comunque successa -, era sicuro che l'avrebbe spinto da parte, liberando la strada.
Soltanto una volta fuori, con l'aria fredda che gli aveva riempito i polmoni all'improvviso e schiaffeggiato la pelle scoperta, percepì un barlume di lucidità, da qualche parte tra i suoi pensieri roventi.
"Ci deve essere un errore." quel pensiero lo colpì come una freccia, rallentando il suo passo: "... Gakupo non farebbe mai una cosa simile." esitò, ormai fermo.
Strinse la presa sull'elsa, le nocche sbiancarono: "Però... che motivo avrebbe, Len, di mentire? Su una cosa simile, poi...".
Alzò lo sguardo, verso l'altro, diversi passi più avanti.
Di colpo, sentì le forze venirgli meno, i pezzi del cuore che si schiantavano contro il petto, con violenza: "E... perché Gakupo non ha negato...? Perché mi ha attaccato, se non...?".
Si portò una mano alla testa, il palmo premuto contro una tempia, le vene che pulsavano: "E' tutto un equivoco. E' tutto solo un equivoco. Gakupo non ha fatto niente, non farebbe mai niente del genere. E Len... Len..."
Chiuse gli occhi, arrendendosi all'evidenza: se Gakupo fosse stato innocente, si sarebbe difeso. E Len non aveva alcun motivo per mentire.
Quello sguardo che l'aveva inquietato nei giorni precedenti tornò a farsi strada nella sua mente con prepotenza, vivido come se l'avesse davanti.
"Significa che..." riaprì gli occhi, piano: "... sono giorni che Gakupo pianificava di...?". La mano ricadde lungo il fianco.
"Ah..." riprese a camminare, il passo deciso: "... è tutto un incubo, vero?" sfregò la manica contro il viso, prima che le guance potessero bagnarsi: "Chissà se c'è un modo per svegliarsi prima del dovuto...".
Gakupo si fermò. Si voltò verso di lui.
Il retro della casa.
Uno spiazzo di verde che si univa al cielo sulla linea dell'orizzonte.
Come tutti gli altri spiazzi di verde intorno a quella casa.
"Vorrei davvero svegliarmi e scoprire che ogni cosa è rimasta identica a come è sempre stata."
Impugnò la spada, gli occhi fissi sull'altro.
Riusciva a vedere quello sguardo insano anche a quei pochi metri di distanza.
"Vorrei davvero..."
Non c'erano più la rabbia, il dolore o la paura. Non c'era più niente, in verità.
Forse andava bene così. Per il momento.
Un suono raggiunse le sue orecchie, riportando la sua mente alla realtà: sembrava il suono di una frusta che fende l'aria, soltanto meno rapido.
Un tuffo al cuore.
Abbassò lo sguardo.
"... cazzo."
Gli era capitato di vedere quella katana all'opera.
Aveva trovato affascinante e inquietante quella lama sottile che fendeva l'aria, velocissima, insinuandosi tra gli arti e le armi degli avversari fino a raggiungere i punti vitali.
Ora non la trovava più tanto affascinante.
Guardò la propria spada: "Non siamo ad armi pari." se ne rese conto solo in quel momento: "Quella cosa fa male anche se ti sfiora!".
Avrebbe decisamente preferito continuare a sentirsi vuoto.
Quei brividi di orrore li trovava fin troppo fuori luogo.
Se non altro, aveva avuto ragione a pensare che andasse bene non provare nulla.
Strinse i denti, soffocando quei brividi, e si mise in posizione, ben deciso a non attaccare per primo: "Lui è più veloce. Lo è lui e lo è la sua spada. Allora forse posso provare a romperla...?".
Serrò la presa sull'impugnatura, i battiti che rimbombavano nelle orecchie: "La sua è tagliente, ma è sottile. Se la colpissi con forza, dovrei riuscire a romperla. Solo, il debole sarà lo stesso di una spada normale...?".
Gakupo si mosse.
Le braccia non risposero.
Intravide la lama vicino al fianco, si gettò indietro, sentì il taglio dell'aria davanti ai suoi occhi.
Si fermò su un ginocchio, contro l'erba, gli occhi sgranati.
"Un colpo dal basso?"
Si accorse di avere l'arma a terra, la sollevò, appena in tempo per vedere la lama calare su di lui.
Alzò la spada, il palmo premuto contro il debole, facendo scontrare la katana contro il piatto, il contraccolpo gli scosse le braccia.
Era ancora intera.
Kyte rimase immobile, il respiro lento, come se fosse diventato incapace di inspirare ed espirare normalmente.
Neanche si chiese perché non fosse riuscito a muoversi. Lo sapeva.
Strinse i denti: "Devo rompere quella katana!". Forse, così, sarebbe tutto finito.
Li vide.
Oltre le lame incrociate, riuscì a vedere quegli occhi chiari, velati da qualcosa di simile alla rabbia.
All'improvviso, capì: "Non voleva ferirmi al busto... questi colpi..." non poteva permettersi di tremare.
Fece leva sui piedi e spinse indietro Gakupo, rialzandosi.
Prima di dargli il tempo di fare qualsiasi cosa, fece ruotare la spada e la calò con forza contro la katana.
La lama sfuggì da sotto i suoi occhi.
La spada fendette l'aria, la punta andò a sbattere contro il terreno.
Indietreggiò di tre passi, riportando l'arma a difesa.
Per un istante, aveva sentito una leggera resistenza.
Quando guardò il volto di Gakupo, sentì una morsa allo stomaco: una linea rossa era apparsa sul suo viso, su una guancia.
L'espressione dell'altro rimase impassibile, l'unica luce di vita data dallo sguardo.
"Non posso permettergli di attaccare. Neppure un solo colpo." serrò la presa: "Sta cercando di decapitarmi.".
Gakupo teneva la lama verso l'alto.
Forse era l'occasione giusta.
Si scagliò contro di lui, la spada fendette l'aria di lato, in un arco, per poi abbattersi sulla katana.
O dove aveva calcolato esserci.
La spada andò oltre, senza incontrare ostacoli.
"Oh... no..."
Quegli occhi erano troppo vicini.
E aveva intravisto la lama sottile scivolare di nuovo vicino al suo fianco.
Un urlo gli sfuggì dalle labbra, la spada cadde nell'erba.
Le ginocchia sbatterono contro il terreno, qualcosa di caldo e viscido gli bagnò il braccio destro, un odore metallico gli invase i polmoni, gli parve di sentirlo impastargli la bocca, nauseante.
Afferrò il braccio con l'altra mano, sentendola bagnarsi.
Inspirò, cercando di scacciare quell'odore disgustoso che gli stava dando le vertigini.
Sentiva la mano destra tremare, fuori controllo.
Alzò appena la mano sinistra. Si costrinse a guardare.
Uno squarcio rosso vivo si apriva sul suo braccio, vestiti e pelle lacerati, tinti di rosso quasi fino al gomito, in strisce sottili, in un'unica striscia larga.
Faceva male.
Faceva fin troppo male.
Bruciava.
Riportò la mano a coprire la ferita.
Cercò di muovere le dita della mano destra.
Ci riuscì. Almeno non era così grave.
"La spada..." realizzò, notandola mezzo metro più in là.
Una lama apparve nella sua visuale.
"Ah..."
Alzò lo sguardo, i pezzi del cuore che battevano con violenza, facendo uscire ancora più sangue, impedendogli di muoversi. Era colpa loro. Sì, lo era.
Era per quello che aveva così freddo.
La lama si alzò, pronta a calare.
Kyte guardò gli occhi di Gakupo.
Trasalì.
Non c'era più quel qualcosa di simile alla rabbia.
Erano lucidi.
- Tu... - la sua voce era bassa, ma la sentì come se gli stesse sussurrando all'orecchio: - ... sei il secondo a morire. -.
Non pensò a nulla.
C'era solo quella lama con cui Gakupo l'aveva ferito, come aveva ferito Len.
E quella lama fendette l'aria.
- FERMO! -
La lama si bloccò.
Kyte si voltò, incredulo.
- BASTA! - Len cadde a terra, con uno sbuffo della gonna nera.
"Len...?"
Lo vide cercare di rialzarsi, a fatica: - BASTA! YAMETE! YAMETE! - urlò, la voce spezzata. Cadde di nuovo, senza essere riuscito a rialzarsi.
"Len..."
Kyte si alzò, accorgendosi solo in quel momento di quanto le sue gambe fossero instabili, la ferita che pulsava, bruciava.
Quei gemiti lo stavano uccidendo.
Quando vide quella mano bianca tendersi verso di lui, non ebbe bisogno di nessuna scusa: con poche falcate, tremanti, raggiunse Len, lasciandosi cadere davanti a lui. Prese la sua mano nella propria, portandola al viso.
- Len... - mormorò, la voce uscì soffocata: - Len... io non... non... -
"Non ci sono riuscito. Non sono riuscito a vendicare il vostro onore. Ho fallito. Perdonatemi. Perdonatemi. Perdonatemi." non riusciva a dirlo, le parole erano bloccate nella gola. Cercavano di uscire, facevano male, ma non ci riuscivano.
Sentiva gli occhi bruciare. Sentiva il braccio bagnato, viscido.
Non avrebbe voluto che Len lo vedesse, che sentisse quell'odore metallico.
Ma non poteva farci niente.
Se solo fosse riuscito...
- Voi... - la voce di Len, bassa: - ... siete così... - un respiro: - ... divertenti. -.
"... cosa...?"
Qualcosa al proprio fianco.
Spostò lo sguardo.
Gakupo.
Inginocchiato davanti a Len, come lui.
Una mano bianca nella sua, sul viso, sulla guancia non ferita, come lui.
E i suoi occhi chiari, sgranati.
Come i suoi.
Un brivido.
Tornò a guardare Len.
Svariate ciocche bionde erano sfuggite al nastro, accarezzandogli il viso, nascondendolo assieme ai ciuffi sulla fronte.
Le labbra erano curvate.
In un sorriso.
- Ma, del resto... - Len alzò il volto, negli occhi azzurri una luce divertita: - ... non potevo aspettarmi di meglio, dalle mie bambole preferite. -.
- Cosa...? - Kyte faticò ad articolare le parole, paralizzato.
Una risata leggera.
Lo sguardo di Len si spostò su Gakupo: - Il vincitore siete voi. E avete riportato solo un graffio! Davvero notevole. -
Kyte lo vide accostarsi all'altro, lo vide baciargli le labbra, la bocca schiusa.
Sentì le forze svanire.
Gakupo non reagì. Aveva gli occhi spalancati.
Len si scostò, passandosi la lingua sulle labbra: - Meritavate un premio, Gakupo. - sorrise.
- Ren... -
Quando sentì quella parola, quel nome, una morsa rovente strinse i pezzi del suo cuore.
Sembrava una supplica.
Lo era nel tono, lo era quello sguardo chiaro.
Quegli occhi azzurri si piantarono nei suoi.
Non riuscì a muoversi.
- Avete perso, ma vi siete battuto con onore. - Len gli si accostò: - Stavolta la Fortuna non era dalla vostra parte. - un sorriso: - Sarà per un'altra volta. - Quelle labbra morbide sulle sue, schiuse, una carezza, prima che si scostasse anche da lui, la lingua assaporò di nuovo quelle labbra: - Meritavate almeno un premio di consolazione, Kyte. - un altro sorriso.
Voleva parlare.
Voleva chiedergli cosa stesse succedendo.
Voleva svegliarsi.
Voleva che quell'incubo avesse fine.
Non riusciva a fare nessuna delle due cose.
Len si alzò, sistemandosi la gonna nera: - Direi che è meglio rientrare. - disse, tirando indietro una ciocca bionda: - Quella ferita va decisamente curata. Eh, Kyte? -
Voleva...
- Cosa sta succedendo? -
Len sorrise, candido.
Poi il suo sguardo si fece divertito, sinistro: - Seguitemi. -.
Il sorriso non aveva più nulla di sano.
La voce sembrava una derisione.
Kyte si alzò, piano, tremando.
Aveva freddo.
"Cosa sta succedendo, Len...?".






Note:
Nessuna. U.U




Vi avevo detto di fare attenzione ad ogni punto dello specchietto. Tipo a quel "Triangolo".
E poi, su, è una storia su quei tre.
Certo, avrei potuto evitare il Cliché Imitation Black, immancabile quando si parla di VanaN'Ice. Avrei potuto. E invece non l'ho fatto. Del resto, l'ho sempre detto di non essere troppo originale.

Avevo anche detto che era una storia su Lovelessxxx (o qualcosa di simile) e qualcos'altro. Imitation Black è uno di questi qualcos'altro. (Di certo non potevo dire al primo capitolo: - Sì, è una storia in cui Imitation Black è molto presente! *O* -, avrei fatto prima a dirvi pure il finale... U.U")
Comunque, immagino che già alla terza citazione consecutiva dell'Imitazione Nera si fosse intuito come sarebbe andato a finire. Per questo, nel capitolo precedente, ho preferito non schiaffare subito in faccia a Chiunque che si trattava proprio della dolcissima e sincerissima strofa cantata da Len nella suddetta canzone. U__U
(Per la cronaca, il pezzo in questione era: "Vi penserò ogni giorno / La sensazione delle vostre spalle nel mio abbraccio / prima che svanisca, vi reincontrerò".)
*Sì, voleva illudersi che non fosse poi così ovvissimo.*

Comunque, ci sono anche un paio di citazioni più velate ad Haitoku no kioku - The lost memory. U.U
Una è la frase sul raffreddore, leggermente modificata - sì, mi ero da poco rivista il video. *...*
La seconda è la scena di quei due che si puntano le pistole contro.
Sì, anche il fatto che Kaito e Gakupo si scannino per Len è un altro dei Cliché - con la maiuscola - dei VanaN'Ice. Ma credo si sia intuito che certi cliché non mi dispiacciono affatto.
E... spero che la zuffa sia almeno decente/comprensibile/passabile. °A°" *Sembra che Soe e i rating più alti, di qualsiasi tipo, non vadano proprio a braccetto...*

Poi.
Vi sembra che Len sia un pelino instabile di mente?
Del resto, nella stessa Lovelessxxx non sembra proprio sanissimo.
Avete intuito l'atmosfera dei prossimi capitoli.
(E per quanto possa sembrare, no, non è una cosa spuntata fuori all'improvviso. C'erano degli indizi, nei capitoli precedenti. Davvero.
Ricordatevi dell'epoca in cui siamo. E della mentalità.
In ogni caso, tutto sarà spiegato.)

Detto ciò, spero che questo capitolo vi sia stato di gradimento. ^^
Per qualsiasi consiglio o critica, dite pure. ^^

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Capitolo 8
*** x0x8x ***


Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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Auguri e figli maschi!

- Madre! Madre! -
Si fermò, con il fiatone, il cuore leggero che batteva forte.
Sua madre alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo. Un sorriso stanco apparve sulle sue labbra.
- Guardate! Come sto? -
Fece una piroetta, sentendo gli strati soffici della gonna alzarsi appena, per poi tornare ad accarezzare le gambe.
Il sorriso di sua madre si accentuò appena: - Sei bellissima, Len. -.

Quale coppia non sarebbe felice di un erede maschio?

"Con questo vestito, sono la più bella di tutte."
Con noncuranza, Len bevve il suo the, cercando di non lasciarsi sfuggire sorrisi soddisfatti nel notare le altre bambine ammirare il suo nuovo vestito.
Completamente bianco, con le maniche a sbuffo e la gonna vaporosa, con delle scarpette bianche in coordinato.
- Oh, Lady Len, sembrate un angelo! - sospirò la tata, intenerita.
Len abbassò lo sguardo, accennando ad un sorriso timido.
In cuor suo, non si sentiva affatto intimidita o imbarazzata - tutt'altro: le piacevano i complimenti, soprattutto se riguardavano la sua bellezza o i suoi vestiti. O entrambi.
Sentiva il cuore diventare più grande, più leggero, e battere più veloce, riempiendola d'orgoglio.
Udì la tata fare complimenti anche alle altre bambine. Ma era palese che stesse solo fingendo - i complimenti rivolti a lei erano senza dubbio i più sinceri.
- Allora, care. - la donna sorrise, benevola: - Cosa volete fare, da grandi? -
- Io voglio sposare un uomo bello e buono! - esclamò una bambina, con un gran sorriso.
- Io voglio diventare una brava mamma! - le fece eco un'altra, gli occhi che brillavano: - E una signora bella e rispettabile! -
- Io voglio avere i capelli lunghissimi! Così potrò acconciarli come voglio! - trillò una terza bambina, che le sembrava chiamarsi Caroline.
- Io sono già fidanzata! - s'intromise un'altra, gonfiando il petto, fiera.
Un "Oooh" ammirato si alzò dal tavolino rotondo, cosa che non fece altro che compiacerla visibilmente.
Len provò una punta d'invidia: quella ragazzina - qualunque fosse il suo nome, non ricordava - aveva le lentiggini, le guance troppo rotonde ed era più che sgraziata nei movimenti.
"Perché io non sono ancora stata promessa a nessuno?"
Socchiuse gli occhi, nascondendo le labbra e parte del viso dietro la tazzina da the, fingendo di bere.
- Come sei fortunata, Jolene! -
"Ah, Jolene." rimise la tazza sul piattino: "Non sperare mi ricordi il tuo nome.".
- Anch'io vorrei essere fidanzata... - piagnucolò la bambina al suo fianco.
- Su, su, Lady Florrie... - sorrise la tata: - Sicuramente anche voi vi fidanzerete. E sarà senz'altro con un uomo bello, gentile e ricco. -
- Lo credete davvero? - Florrie tirò sul col naso, come una bambina di due anni.
A differenza di Jolene, però, aveva un aspetto tenero. Forse avrebbe potuto ricordare il suo nome.
- Ma certo! - rispose la donna, facendo sorridere la più piccola.
- Beh... - esordì Len, pacata: - ... è ovvio che ci sposeremo tutte. Essere fidanzate o meno a quest'età è irrilevante. -
Percepì lo sguardo irritato di... aveva già dimenticato il suo nome. Jocelyn?
- Questo è certo, Lady Len. - sorrise la tata: - Voi cosa volete fare, da grande? -
- Quel che desidera qualsiasi brava signorina. - si tirò indietro una ciocca bionda, con fare vanitoso: - Sposare un uomo bello d'aspetto e d'animo, dal solido patrimonio e dargli tanti figli. -
Quel pensiero le fece battere il cuore ancora più forte.
Le sfuggì un sorriso, sentì le guance farsi più calde.
- Io ho già deciso! - trillò la prima bambina: - Voglio dodici figli! -
- Anch'io dodici! - esclamò quella al suo fianco: - Però dodici maschi e dodici femmine! -
- Come sei esagerata, Grace! - rise quella che doveva chiamarsi Caroline.
- Li farò! - disse Grace, la voce e lo sguardo decisi.
- Io non ne voglio tanti... - pigolò Florrie: - ... in famiglia siamo già in undici ed è faticoso stare dietro a tutti. Quindi mi accontenterò di dieci bambini. Sette maschi e tre femmine. -
- Io devo farne tanti. - fece Len, sorridendo all'idea: - Mia madre ha avuto soltanto me, quindi devo fare figli anche per lei! -
- Beh, le donne della vostra famiglia hanno mostrato di essere molto prolifiche. - sorrise la tata, mentre un paio di bambine squittivano: - Le vostre probabilità di avere molti figli sono davvero alte! -
Stavolta, Len era imbarazzata davvero.
Essere una moglie devota e una madre amorevole.
Era quello il sogno di ogni giovane e lei non faceva certo eccezione.
Voleva crescere in fretta, diventare la più bella tra le donne, così da essere chiesta in sposa da un uomo perfetto, abitare in una grande casa e avere intorno tanti figli e figlie.
Non aveva alcun problema per le doti, sapeva di essere ricca, avrebbe potuto fare tutte le figlie femmine che voleva - dato il fatto che, per quanto prolifiche, tutte le sue zie e sua madre stessa avevano partorito bambine, con il solo caso isolato di suo cugino Oliver.
"Voglio sposarmi con un abito giallo." aveva già deciso: "E voglio che anche mio marito sia vestito di giallo, il giorno del nostro matrimonio. E voglio tanti addobbi gialli. E tanti dolci alle banane. E i miei figli avranno culle gialle. I vestiti no. Quelli devono essere più vari, altrimenti sarebbero noiosi.".

- Avrò un fratellino! -
Len e le altre rimasero a bocca aperta; Caroline stava indicando loro sua madre, seduta sul divanetto assieme alle altre madri e alla tata, che discutevano di chissà cosa: una signora non bellissima ma di gradevole aspetto, senz'altro elegante, con una vistosa curva all'altezza della pancia.
- Che fortuna... - sussurrò Audie, lo sguardo fisso sulla donna.
- Anch'io voglio un fratellino! - esclamò Grace, portando una mano alla bocca: - Chissà se mia madre vuole farmene uno... -
- Io vorrei una sorellina! - fece Florrie.
- Quindi anche noi saremo così...? - le parole di Jocelyn attirarono l'attenzione su di lei.
Len sgranò gli occhi: "... è vero..." si portò una mano al ventre, piatto: "... anche a noi ci si gonfierà la pancia come alla mamma di Caroline?".
Coprì la mano con l'altra.
Sorrise, il cuore che le batteva forte: "Voglio diventare grande! Così potrò sposarmi! Chissà com'è avere un bambino nella pancia...".
Ci pensò un istante.
"... in effetti, da dove esce...?" aggrottò la fronte: "Forse tagliano la pancia?". Piegò appena la testa di lato: "Uhm... dovrò chiedere a mia madre.".
Lo fece, una volta tornata a casa.
Sua madre accennò ad un sorriso, le accarezzò la testa e le rispose: - Lo saprai quando sarai grande, Len. Ora non è necessario che tu lo sappia. -
Len gonfiò le guance, indispettita: odiava quella risposta. Quel "quando sarai grande" sembrava una scusa per non dirle niente - e non era la prima volta che lo sentiva, anzi.
- Ho sette anni! Sono grande! - protestò, il sorriso che non svaniva dal volto di sua madre.
- Te lo dirò quando ne avrai tredici. -
- Eh? Perché? Perché? Madre! Io sono grande già adesso! Sono adulta! -
- E' ora del bagno, Len. -
- No! Non voglio! Voglio andare a giocare con Florrie e le altre! -
- Avete giocato fino ad ora, Len. -
- Non è vero! - si fermò: - O meglio, sì, è vero. Ma voglio giocare ancora! -
Sua madre rise. Ossia, accennò ad una risata leggera, quasi impercettibile.
"Chissà come mai non ride come le altre mamme." pensò Len, perplessa: "Eppure lei è più bella di tutte loro..."
In quel momento, le venne in mente una domanda: - Madre... -
- Sì, Len? -
- Io sono bella? -
Lei la guardò, gli occhi appena più aperti del solito. Annuì, visibilmente confusa: - Certamente, Len. Si vede già da ora che diventerai una donna splendida. - - E allora... - non riusciva a capire: - ... perché bambine come Jocelyn sono già fidanzate mentre io no? -.
Sua madre non rispose.
Sembrava essersi bloccata, con quella stessa espressione.
Len sbattè le palpebre, in attesa.
Finalmente l'altra sembrò tornare in vita: - Non si chiama Jolene? -
- Quella là. -
- Che modi rudi, Len. -
- Allora? -
Sua madre sospirò, chiuse gli occhi, lentamente. Quando li riaprì, il suo sguardo era quasi vitreo: - Vedi, Len... tu puoi permetterti il meglio del meglio. Puoi farlo per la tua dote, ma anche per la tua bellezza. Quando sarai un po' più grande, saranno gli stessi giovani a farsi avanti. Solo allora vedremo chi di loro sarà più meritevole. -
Len piegò la testa di lato, poco convinta, un sopracciglio alzato.
Sua madre le accarezzò una guancia: - La piccola Lady Jolene non ha le tue stesse qualità. Probabilmente, i loro genitori hanno un qualche profondo legame di chissà quale tipo con la famiglia del futuro sposo. O forse temono che nessuno la vorrà. -
- Può succedere? - chiese Len, con una nota di timore: non era ovviamente il suo caso, ma l'idea di non essere voluta...
La donna annuì: - Capita alle donne più rozze o povere, quelle donne che non hanno proprio nulla da offrire. - di nuovo quel sorriso accennato: - Le donne che sono l'esatto contrario di ciò che sarai tu, Len. Tu non hai nulla da temere. -.
Messa sotto quella luce, la cosa aveva un suo senso.
Si sentì ancora più fiera di sé: "Non devo essere invidiosa dei fidanzati delle altre!" si disse, le labbra che si curvavano verso l'alto: "Dovrò aspettare, ma il mio sarà il migliore di tutti! E io sarò la sua degna sposa! Anzi..." ci ripensò: "... lui sarà il mio degno sposo!".

- E' questa la cosa importante. - ricapitolò la tata, seria: - Il vostro onore è strettamente collegato alla vostra virtù. E la virtù di una giovane è strettamente collegata al suo corpo. -
Len - e, ne era sicura, anche le altre - arrossì nell'udire di nuovo quel riferimento al corpo. Era una discussione imbarazzante.
- Il corpo di una giovane sposa appartiene solo al suo sposo e a nessun altro, per nessuna ragione. - ripeté la donna, forse per metterle ancora più a disagio: - Una fanciulla che si lascia trascinare dalla lussuria è una donnaccia senza onore. Ormai state diventando grandi ed è bene che sappiate che, purtroppo, molti giovani sono senza scrupoli e non si fanno alcun problema nel compromettere anche la più rispettabile delle fanciulle, solo per capriccio. -
Il cuore le batteva forte, lo sentiva nelle orecchie, le guance andavano a fuoco. Faticava a guardare la tata.
- Non rimanete mai da sole con dei giovani. Assicuratevi sempre che ci sia qualcun altro o, se proprio non è evitabile, che egli sia un uomo serio e responsabile. Non cedete alle lusinghe che vi vengono fatte. Se hanno intenzioni serie, chiederanno la vostra mano. Difendete la vostra verginità e donatela solo al vostro sposo. Badate bene, non "fidanzato". "Sposo". E' un enorme disonore commettere atti impuri prima del matrimonio. E, anche quando vi donerete completamente a lui, sarà solo per procreare. Non lasciatevi sedurre dalla lussuria soltanto perché l'uomo con cui dividerete il letto sarà il vostro sposo. -.
Nessuna osò commentare.
La tata l'aveva ripetuto due volte di fila, forse per assicurarsi che capissero bene - o per vedere chi, tra loro, sarebbe stata la prima a morire d'imbarazzo.
"Il corpo di una donna è sacro, la sua purezza è la sua verginità." Len avvampò: "Le donne rispettabili non pensano a cose lussuriose. Le donne rispettabili sono angeli che pensano solo alle cose pure della vita, ossia la famiglia. Se devono donare la verginità, è per fare figli." ripeté, tra sé e sé, il cuore che esplodeva, la pelle che andava a fuoco.
Non riusciva ad alzare lo sguardo.
Aveva da poco compiuto dieci anni, stava cominciando ad abbandonare l'infanzia per diventare una donna e sapeva che quelli erano avvertimenti a cui avrebbe dovuto dare ascolto.
Soltanto, il pensare al... a tutto ciò che era legato alla sua verginità la metteva a disagio. Terribilmente a disagio.
"Un attimo..." quell'idea la colpì all'improvviso: "Ma, io, ora... pensando al fatto che non devo pensare a... sto pensando a..."
Si portò le mani alle guance, sentendole roventi: "N-no, i-io non sono... io sono una fanciulla rispettabile! Io non penso a questo genere di cose! No! Non lo sto affatto facendo!".

- Audie! Audie! Cos'è successo? -
Len e Grace la raggiunsero: aveva gli occhi sgranati, il colorito pallido, quasi avesse visto la cosa più agghiacciante del mondo.
- Ho... ho... - Audie si coprì gli occhi, si strinse nelle spalle: - ... ho visto un amico di mio fratello in camicia! -
Len si portò le mani alla bocca, sentì le guance riscaldarsi: - I-in camicia...? - farfugliò.
Audie annuì.
- Lo sa qualcuno? - pigolò Grace, il volto rosso.
Audie scosse la testa: - N-non mi hanno vista, c-credo... -
- Vai a confessarti, presto! - esclamò Grace, scuotendola per una spalla.
Audie annuì: - S-sì... Vado subito... -
Corse via, straordinariamente veloce.
Grace rimase a guardarla mentre spariva all'orizzonte, gli occhi lucidi.
Len era senza parole: "Che... che svergognato! Andarsene in giro in camicia pur sapendo che nella casa c'erano delle donne! Che grandissimo buzzurro! Il fratello di Audie dovrebbe rivedere le sue amicizie!" scosse la testa, cercando di scacciare dalla mente qualsiasi pensiero legato alle camicie: "Un uomo in camicia... in camicia! Povera Audie! E che sporco esibizionista lussurioso!".
Si ripromise di impedire al proprio marito di andare in giro in camicia. Avrebbe sempre dovuto portare almeno il panciotto o la giacca, non ci sarebbero state scuse.

C'era un regola silenziosa secondo cui, una volta sfuggiti allo sguardo degli altri, fosse possibile fare qualsiasi cosa senza essere giudicati, nella più completa libertà.
"Entro le mura domestiche", dicevano.
Per Len, il "luogo di libertà" era la sua camera.
Non era tanto il suo essere una delle più grandi dell'intera casa, né il suo essere tanto luminosa, bianca e giallo chiarissimo, né l'avere un letto grandissimo e morbido: ciò che rendeva quella stanza speciale era lo specchio.
Uno specchio alto circa un metro e mezzo, largo abbastanza da mostrare comodamente la sua figura esile; non aveva cornici, era un semplice rettangolo a pochi passi dalla finestra.
Len non tirava mai le tende, neppure quando pioveva o il cielo era coperto: voleva vedere i raggi di luna entrare nella camera, illuminarla, per poi infrangersi sulla superficie dello specchio. Anche quando era tutto nuvoloso, sperava sempre che qualche piccola luce potesse arrivare fin lì.
Quello era il suo momento preferito: il momento in cui poteva essere libera di dire e fare ciò che voleva, di parlar male di chi le stava antipatico, di parlar bene di chi trovava simpatico, di pavoneggiarsi, di indossare quei vestiti "troppo belli" che poteva mettere di rado per evitare di rovinarli, oppure di improvvisare dialoghi con la regina o con qualche gentiluomo.
Oppure poteva osare.
O meglio, controllare. Erano "controlli" quelli che faceva.
Non le veniva gran bene farli durante il bagno, con quell'irritante camiciola e le servitrici che le torturavano i capelli.
Quindi le capitava di controllare. Magari c'era la possibilità di diventare donna prima delle altre. Magari sarebbe potuta diventare come sua cugina Lily - di cinque anni più grande, che poteva vantare un bel seno della giusta misura, grande abbastanza da essere affascinante ma non tanto da essere volgare.
Del resto, anche sua madre aveva delle belle forme. Quindi aveva tutto il diritto di controllare di essere meno piatta del giorno prima.
A volte si azzardava a controllare anche ciò di cui avrebbe dovuto dimenticare l'esistenza.
Ma ogni parte di sé era sempre uguale.
- Madre! Quand'è che sarò come voi? -
- In che senso, Len? -
Arrossì. Si portò le mani al petto, sfiorando appena la stoffa del vestito, sperando che sua madre capisse.
Evidentemente sì, perché le sue guance si fecero appena più rosse, i suoi occhi più lucidi: - Beh... tra qualche anno, Len. Ci vorrà ancora un po'. Alcune diventano donne più tardi delle altre, sai? - le accarezzò il viso, con un sorriso accennato.
"Più tardi..." si era ripetuta Len, pensierosa: "... quanto più tardi...?".
Voleva partecipare ai balli degli adulti, indossare quei vestiti elaborati che aveva visto su tante signore, voleva sposarsi e avere figli. Finché fosse rimasta così minuta, non avrebbe potuto fare niente di tutto quello - o anche solo essere presa sul serio.
Ad esempio, quando parlava con la sarta, quest'ultima finiva sempre per farle un vestito molto più semplicistico di quello che lei aveva chiesto.
Oppure, quando chiedeva delle scarpe con il tacco, le rifilavano delle scarpette con un minuscolo tacco di due centimetri.
Aveva la vaga impressione che la considerassero ancora una bimba di quattro anni, anche se non lo era più da un bel pezzo.
Il fatto che il suo dottore fosse ancora un uomo ne era la conferma. Cominciava a trovare le visite davvero imbarazzanti e sconvenienti. Tanto più che, nell'ultimo periodo, si erano intensificate, quasi a volerle fare dispetto.
- Stai crescendo, Len. - le aveva spiegato sua madre: - Sei una fase delicata e lui è il dottore che ti ha sempre seguita. -
"Sto crescendo solo quando è conveniente a loro.".
Ancora, il suo precettore era un uomo.
D'accordo, era un signore attempato e noiosissimo, quindi non era sicura valesse. E poi, anche le altre bambine, tranne Florrie, avevano un precettore uomo. Quindi, forse, quello non valeva davvero.
- Madre! Madre! Portatemi a fare compere con voi! -
Negli ultimi mesi, era riuscita a convincere sua madre a portarla in paese a fare compere. O meglio, a farle da accompagnatrice, visto che era sua madre a comprare le cose interessanti.
Era così che Len aveva potuto vedere ciò che avrebbe dovuto indossare di lì a qualche tempo - si sperava il prima possibile.
"Come sono stretti..." notò, osservando dei corpetti dalla vita particolarmente sottile. Spostò lo sguardo su quelli accanto: "Ah, ecco, questi sono già più larghi...".
Continuò ad esplorare la merce, soffermandosi su ogni cosa nuova: "Le calze da adulta... come sono lunghe..." sorrise: "Chissà se diventerò così alta anch'io? Ah!" sgranò gli occhi: "Quelle sono giarrettiere? E quelli reggicalze?" giunse le mani, soddisfatta nel ricordarsi i nomi.
Una pila bianca, all'apparenza soffice, attirò il suo sguardo: "E quelli?" si avvicinò, incuriosita: "... mutandoni...?". Inarcò un sopracciglio.
Ce n'erano decisamente di ogni tipo: a poco più di metà coscia, al ginocchio, addirittura fino alla caviglia, con più o meno pizzo, bianchi tanto da accecare o di un rosa delicato e-
"Ma questi...?" rimase a bocca aperta, allibita: "... sono aperti...?"
- Cos'hai visto, Len? - la voce pacata di sua madre la scosse dai propri pensieri.
La guardò, probabilmente doveva avere un'espressione scioccata: - Madre... questa biancheria è aperta...? -
- Oh, sì. - sua madre non mostrò il benché minimo imbarazzo.
"Ma...! Sono mutandoni aperti! Hanno un taglio lungo tutto il cavallo! D'accordo che starebbero sotto strati di gonne, ma...!"
- E' per... - la donna abbassò ancora di più la voce, avvicinandosi al suo orecchio: - ... i bisogni fisiologici. Per fare in fretta. -
Len rabbrividì al solo pensiero: "D'accordo... però..." si allontanò da quei cosi più in fretta possibile: "... con quale coraggio una donna indosserebbe dei mutandoni aperti?" sentì le guance farsi più calde: "Se non ci fosse nulla, forse magari andrebbe probabilmente pure all'incirca bene, ma con tutte quelle cose che pendono...?".
Scosse la testa, scacciando quei pensieri impuri. Si passò le mani sulle guance, sperando che la proprietaria del negozio non si fosse accorta di niente.
Tornò a guardare le sottovesti, le calze, le giarrettiere e i reggicalze, ben più interessanti e nettamente meno disturbanti.

Non riusciva a dormire.
Si era rigirata nel letto probabilmente per ore, ma non era riuscita a prendere sonno.
Forse era colpa del cambio di stagione - del resto, non c'erano più le mezze stagioni ed era noto che si stava meglio quando si stava peggio.
O forse, semplicemente, quella mattina non avrebbe dovuto scacciare la signora Tod, venuta a svegliarla, per poi presentarsi sveglia dopo pranzo.
Tuttavia, agli attacchi di pigrizia non si poteva comandare e lei si era semplicemente lasciata cullare dal torpore delle coperte.
E ora ne stava pagando le conseguenze.
Con uno sbuffo irritato, si era alzata dal letto, per poi andare a fare una passeggiata per la casa.
Era già almeno la decima volta che si avventurava per la magione in piena notte, senza candele, per non farsi vedere; per non andare a sbattere, la luce che filtrava dalle finestre nel corridoio, per quanto debole, era abbastanza.
Tra l'altro, muovendosi rapidamente e approfittando degli angoli dell'edificio, era anche possibile non farsi vedere dai servitori di ronda; Len stessa ebbe modo di constatarlo quando, appiattita contro un angolo buio, passò inosservata agli occhi di un cameriere sulla trentina - di cui non riusciva a ricordare il nome.
Inoltre, come se già il tappeto non attutisse i passi da solo, Len era scalza.
Non le era mai piaciuto indossare calze, la notte. Così come odiava farsi le trecce o mettere la cuffietta.
Fino a qualche anno prima la obbligavano, poi aveva imparato a sorridere, annuire e sfilarsi tutto una volta rimasta sola.
Però indossava la vestaglia.
Non voleva che qualche servitore uomo, giovane, la vedesse con solo la camicia da notte. Sarebbe stato terribilmente sconveniente, oltre che imbarazzante.
Non era sicura che non sarebbe scappata in preda al panico, in maniera molto poco dignitosa.
Si stiracchiò, traendo un respiro profondo: la casa, di notte, aveva un certo fascino. C'era una tranquillità molto simile a quella della sua camera, sempre a quell'ora.
Certo, sarebbe volentieri rimasta a chiacchierare con se stessa, ma il cielo era piuttosto nuvoloso e lei era poco ispirata.
Di solito, le servivano almeno tre giri della casa per riuscire a prendere sonno.
"Non c'erano neppure le banane, in cucina..." sospirò, sconfortata: "... o meglio, sono sicura ci fossero. Però la signora Smith le ha nascoste per non farmele mangiare. Lo so." gonfiò le guance, indispettita: "Perché non vuole che mangi le banane? Non mi fanno male, neppure a quest'ora! La verità è che le vuole tutte per lei, lo s-"
Si bloccò.
Aveva sentito uno strano rumore, un tonfo sordo, poco più avanti.
Deglutì.
Si strinse nella vestaglia, iniziando a sentire uno strano freddo.
"... cos'era...?" forse sarebbe dovuta tornare indietro. Fare il giro. Chiamare qualcuno.
Un altro tonfo.
Trasalì.
"Cosa...?"
Le gambe si mossero da sole, in avanti. Era pronta a scappare o urlare, se necessario. O entrambe.
Rallentò il respiro, cercando di sentire più rumori, di individuare la provenienza di quel suono; cercò con lo sguardo una qualsiasi cosa fuori posto, fosse anche una persona.
Rabbrividì al pensiero.
Poi la vide: due camere più avanti, una porta era socchiusa.
Len esitò.
"Cosa faccio...?"
Ebbe appena il tempo di chiederselo: la curiosità ebbe la meglio, muovendo le sue gambe verso la porta semiaperta.
Un altro tonfo.
Decisamente, qualsiasi cosa fosse, proveniva da dietro quella porta.
"Uno spiraglio...?"
Uno spicchio largo appena quattro dita, ma abbastanza per poter sbirciare all'interno.
Esitò di nuovo, il cuore che le batteva forte contro il petto. Appoggiò una mano al muro, avvicinando il viso allo spiraglio.
Poi le sue orecchie captarono altri suoni: "Sono... voci?"
Ma erano strane.
Non sembrava stessero parlando.
I battiti stavano iniziando a coprire quelle voci.
Accostò il viso al legno e guardò dentro la camera.
C'era qualcuno lì dentro, sì.
Due persone, una sopra l'altra.
Sul letto.
Len si sentì andare a fuoco: "Ah... possibile che...?"
Un uomo, una donna.
Le voci appartenevano a loro.
Anche i tonfi li stavano causando loro.
Quasi distrattamente, Len notò dei vestiti sparpagliati sul pavimento, sulla sedia, sul comodino.
Le lenzuola erano state gettate in fondo al letto, riusciva a vedere ogni centimetro di pelle nuda dei due amanti.
Sarebbe dovuta scappare, lo sapeva.
Fuggire e dimenticare ciò che aveva visto, anzi, fuggire e andarsi immediatamente a confessare il giorno successivo.
Ma le sue gambe non si muovevano.
Il suo intero corpo si rifiutava di muoversi.
Gli occhi erano sgranati tanto da fare male, fissi sui corpi di quell'uomo e di quella donna, forse ipnotizzati.
C'era curiosità, una curiosità che la bloccava lì, ansiosa di vedere di più, di sapere di più; c'era la pudicizia, soffocata, che le aveva vagamente suggerito di scappare, che le aveva imporporato le guance e riscaldato il corpo più del dovuto.
Lo sguardo continuava a correre lungo quei profili: lungo i pettorali dell'uomo, il seno della donna, le loro labbra, le loro braccia, i loro fianchi e-
E-
E-
Il sangue si ghiacciò nelle vene.
Le gambe tremarono.
Quello sopra era un uomo. Quella sotto era una donna.
Gli uomini erano come lui. Le donne erano come lei.
Gli uomini avevano le spalle larghe, il petto forte; le donne avevano i fianchi rotondi, il petto morbido.
Lo sapeva, le forme si intravedevano da sotto gli abiti.
E allora perché...?
"... perché quella donna non è come me...?" indietreggiò, sentì qualcosa premerle contro la gola, stringerla in una morsa, soffocandola: "... perché quell'uomo è come me...?"
Sentì qualcosa contro la schiena.
Il muro.
Scosse la testa.
"No..."
Scosse la testa.
"No..."
Si portò le mani al petto.
"No..."
Le mani tremavano.
"Non..."
Le labbra erano congelate.
"Io sono..."
Un altro tonfo.
Strinse i denti, soffocò un urlo.
Voleva urlare.
Voleva urlare.
Voleva urlare.
Voleva urlare.
Voleva urlare.
Corse via, costrinse le sue gambe, fino a sentire dolore. Quando si accorse di essere arrivata alla propria camera, vi si gettò dentro, richiudendosi la porta alle spalle con violenza - voleva sentire il suono rimbombare per i corridoi, voleva sentirla spezzarsi, voleva sentire la maniglia saltare via, voleva sentire le schegge colpire i vetri del corridoio, riempire i tappeti.
Si strappò la vestaglia di dosso, si liberò della camicia da notte e della biancheria, afferrò i lati dello specchio, guardò il riflesso azzurro dei suoi occhi.
Erano completamente spalancati, quasi folli, i denti scoperti, il respiro troppo veloce - eppure, per quanto cercasse di prendere aria, si sentiva soffocare lo stesso.
Quei corpi tornarono davanti ai suoi occhi, nitidi, come se li stesse ancora guardando.
Il corpo sinuoso della donna, quel corpo che somigliava così tanto a quello di sua madre, di sua cugina Lily.
Il corpo massiccio dell'uomo, quel corpo che somigliava così tanto a quello di suo padre.
Il corpo di donna che avrebbe avuto, sì, l'avrebbe avuto, avrebbe avuto quelle forme morbide, i fianchi rotondi e il seno, era così, perché lei era una donna.
Passò una mano sul petto, piatto.
Scese lungo la pancia, fino alle gambe.
Quel corpo bianco nello specchio non era il corpo di una giovane donna.
Quel corpo bianco nello specchio era il suo.
I polpastrelli erano ghiacciati.
Gli occhi erano rossi.
Le guance erano bagnate.
Gridò.
Gridò con tutta l'aria che aveva nei polmoni, anche a costo di soffocarsi.
Si sentì bruciare.
- Madre... -
- Sì, Len? -
- Io sono bella? -
- Certamente, Len. Si vede già da ora che diventerai una donna splendida. -

Le gambe parvero cedere, si aggrappò allo specchio con entrambe le mani.
Riprese fiato, il respiro spezzato dai singhiozzi.
- Vedi, Len... tu puoi permetterti il meglio del meglio. Puoi farlo per la tua dote, ma anche per la tua bellezza. Quando sarai un po' più grande, saranno gli stessi giovani a farsi avanti. Solo allora vedremo chi di loro sarà più meritevole. -
Strinse i denti.
Guardò il ragazzo nello specchio, lo guardò con l'odio che non aveva mai davvero provato, quasi cercando di distruggerlo con gli occhi.
Serrò la presa sullo specchio.
- Lady Len Mirror. -
Un boato risuonò nella sua testa, nella stanza, una pioggia di vetri delicati che andavano in frantumi.
Il pavimento scintillava, ricoperto di diamanti di tante forme e dimensioni, che catturavano scorci di camera, di lei, moltiplicando quella singola immagine per mille, milioni.
Lo specchio era a terra, in una miriade di pezzi.
Len inspirò, cercò aria, non riuscì a trovarla.
Vide un occhio azzurro, in un frammento.
Lo calpestò, sentì le punte conficcarsi nella pianta del piede.
Premette, incurante del dolore.
Un altro occhio azzurro.
Un braccio.
Una gamba.
Una ciocca di capelli.
Il suo corpo in mille pezzi, in milioni di pezzi, sotto i suoi piedi.
Lo calpestò, sentì qualcosa di bagnato e viscido sotto i piedi. Non se ne curò.
Calpestò.
Calpestò.
Calpestò.
"Io..."
Calpestò.
Calpestò.
"Io..."
Sentì qualcosa premergli all'interno della gola, che cercava di uscire.
Non lo trattenne.
Sentì i polmoni riempirsi, le guance tirare, una risata che riempiva la camera.
Abbassò lo sguardo, incontrò i suoi occhi in due pezzi dello specchio. Li calpestò.
"Ogni cosa..." inspirò, espirò, inspirò: "... ogni cosa era falsa."
- SIGNORINA! -
La porta si spalancò. La voce della governante, agitata.
Len alzò lo sguardo, piano.
Si scostò le ciocche bionde da davanti agli occhi, sentiva le guance tirare ancora.
- ... signorina...? - l'espressione della donna era inquietata.
Len sentì il petto, le spalle scuotersi.
Una risata leggera.
- Sono una signorina...? - piegò appena la testa di lato, la voce usciva candida: - ... quindi anche il vostro corpo è come il mio...? -
La governante non rispose.
Era impallidita.
Len sorrise: - ... lo prendo per un no. -.
- Signorina, siete completamente svestita! - la donna raccolse la vestaglia da terra, con straordinaria velocità, la scosse per liberarla di eventuali frammenti di specchio e la avvolse attorno al suo corpo, costringendola a sedersi sul letto.
Con la coda dell'occhio, Len notò il maggiordomo sulla soglia della porta, un candelabro in mano, l'espressione sconvolta.
Gettò indietro la testa, sorrise: - Forse è il vostro corpo ad essere come il mio? -
Il maggiordomo sobbalzò, evitò di guardarla.
- Signorina, siete ferita! - la governante si era chinata sui suoi piedi: - Rimanete ferma sul letto, vado a prendere dei medicamenti! E una scopa! Bisogna togliere tutti questi- -
Len le sollevò la testa con il piede, incontrando il suo sguardo allibito.
Il suo sorriso si accentuò.
La voce uscì in un sussurro: - E' tutto finto. -.
- LEN! -
Vide sua madre precipitarsi da lei; suo padre rimase sulla soglia, con il maggiordomo, la signora Tod e un altro paio di servitori.
Lo stesso sguardo, sui volti di ciascuno di loro.
"Che carini. Sono tutti qui per me."
- Andate a prendere subito dei medicamenti! -
- Sì, signora! -
- Len! Len! - le prese il viso tra le mani, negli occhi il più puro terrore. Non aveva mai visto quello sguardo, su di lei: - Cos'è successo? Ti hanno aggredita? Len! -
- Non trovate sconveniente... - mormorò: - ... che una donna guardi un uomo nudo? -
- Cosa...? - sua madre si scostò, disorientata.
Len sorrise. Non sentiva più freddo, odio, agitazione. Era come se quella risata gli avesse strappato tutto.
- Non dovreste guardarmi, madre. -
Le mani di sua madre gli lasciarono il volto.
Quegli occhi si spalancarono: - Len... -
- Ditemi la verità. - piegò la testa di lato: - Io non sarò mai come voi, vero? -
Quelle labbra si schiusero: - Len... -
- Io non potrò mai sposarmi, vero? -
Le mani di sua madre tremarono: - Len... -
Len si portò una mano al ventre: - Io non potrò mai fare figli, vero? -
Sua madre era impallidita: - Len, noi... -
- Quindi, tutto... - lo sguardo andò al suo corpo riflesso in miriadi di frammenti: - ... era finto. -
Stavolta sua madre non riuscì a dire niente.
- Le vostre parole, ciò che mi è sempre stato detto, la mia stessa esistenza... - si alzò dal letto, passò un piede sopra un frammento: - ... ogni cosa era finta. -
- Len! - suo padre intervenne: - C'è un motivo se abbiamo fatto tutto questo! -
- Ma non mi dite... - calciò il pezzo di specchio, calpestandone un altro.
- L'abbiamo fatto per proteggerti! - la voce di sua madre, doveva star piangendo - o esserci vicina.
- Che cosa carina. - si chinò a terra.
Stava cominciando a trovare irritanti le loro voci, le loro presenze nella sua camera.
La sua camera.
Sua.
Sua.
L'irritazione si trasformò in repulsione.
- Volevamo che vivessi un'infanzia normale. - confessò sua madre: - Ti avremmo detto tutto quanto saresti stata abbastanza grande da capire. -
- Grazie del pensiero. - passò le dita su alcuni pezzi: - Ora fuori di qui. -
Silenzio.
- C-cosa...? - balbettò sua madre.
- Ho detto "Ora fuori di qui". - raccolse i pezzi.
- N-non starai- -
- FUORI DI QUI! -
Le scagliò contro i pezzi dello specchio, gettò a terra la vestaglia.
- FUORI DI QUI! FUORI DI QUI! FUORI DI QUI! -
Vide suo padre afferrare sua madre e trascinarla fuori.
Per un istante, incontrò quegli occhi azzurri, lucidi.
Ma non provò niente.
Non provò assolutamente niente.
Quando la porta si richiuse, lasciandolo solo, sentì solo pace.
Silenzio.
Il cuore batteva davvero forte.
Ma non riusciva a capire cosa stesse provando, o se stesse provando qualcosa.
Si lasciò cadere sul letto.
Gli girava la testa.
Sentiva i piedi pulsare.
Ma c'era silenzio.
"Nessuno deve entrare qui." guardò il soffitto bianco, immacolato: "Nessuno.".
Era tutto lì, per terra.
Il suo corpo, la sua anima, la sua esistenza, le sue convinzioni, i suoi sogni.
Era tutto per terra, in miriadi di frammenti impossibili da ricomporre.
Tuttavia, in fondo, non era un problema.
Era tutto finto.
"... credo mi servirà uno specchio nuovo.".
Adesso voleva davvero vedersi.

Quella mattina, gli raccontarono tutto.
Tutta la verità.
Gli raccontarono dei progetti dello zio Al, di come lui desiderasse vedere suo figlio Oliver nella Famiglia Reale e di come tutte loro, sorelle e cugine, dovessero sostenerlo sposando le persone giuste.
- Prima di te, ho avuto altre quattro figlie. - confessò sua madre, lo sguardo spento: - Ma le ho perse ancor prima che potessero vivere. Tu sei stata la prima a sopravvivere e... - la voce si ridusse ad un sussurro, fino a sparire completamente. I suoi occhi non erano mutati, quasi non se ne fosse accorta, quasi si fosse arresa fin dall'inizio all'idea di non riuscire a terminare la frase.
- Al ci ha concesso di tenerti. - intervenne suo padre: - Gli abbiamo giurato che ti avremmo cresciuta come una donna e che non avremmo mai rivelato la verità. Len di Mirror sarebbe stata una delle cugine femmine di Lord Oliver Dewsen. Gli abbiamo giurato che l'avremmo aiutato come tutte le altre e che non ci saremmo mai opposti a lui. Al ha accettato. -.
Len non aveva detto niente. Non aveva voglia di parlare.
- Quindi, Len... - sua madre era riuscita a recuperare l'uso della parola, la voce bassa: - ... anche se il tuo corpo non è quello di una donna, tu sei una donna. Per questo motivo, sarai trattata come tale e ci aspettiamo che ti comporti come tale. Non mi pare tu abbia avuto problemi, in questi anni. -
"No. Certo che no.".
Si portò una mano al ventre.
Abbassò lo sguardo, sulle sue dita.
"Quindi rimarranno per sempre così...".
- Len... - la voce di sua madre si era abbassata ancora di più. Poteva fingere di non averla sentita.
Ma si era davvero stancato di stare in quella stanza.
- Voglio uno specchio nuovo nella mia camera. -.
Sua madre e suo padre trasalirono, forse sorpresi.
Suo padre annuì: - Come desideri, Len. -
- E voglio che nessuno entri nella mia camera. -
- Cosa...? - sua madre si portò una mano alle labbra: - ... Len, non... -
- Possono entrare solo le mie cameriere. - la sua voce suonava terribilmente distante: - E solo per vestirmi o lavarmi. O per cambiare le lenzuola e pulire. Voglio che qualsiasi altra persona entri nella mia camera venga licenziata all'istante. -
Vide i loro occhi sgranarsi.
- Se una delle mie cameriere entrerà nella mia camera quando non dovrà, voglio che venga licenziata. Non m'importa da quanti anni lavora per noi. -
- Len, cosa- -
- D'accordo. - suo padre interruppe sua madre, lo sguardo serio: - Come desideri, Len. -
- Bene. - si alzò: - Con permesso. -
Non attese la loro risposta. Raggiunse la porta, zoppicando, più per l'ingombro delle fasciature ai piedi che per le ferite. Lasciò la stanza. Non avevano più niente da dirsi.

- Tra poche settimane compirò tredici anni! -
- Sì, signorina. - una cascata di acqua tiepida gli piovve sulla testa, incollandogli i capelli sul viso. Si passò le mani sugli occhi, per togliere quell'intruglio profumato con cui gli avevano torturato le ciocche.
- Desiderate fare un festa? -
- Niente di particolare. - Len si lasciò andare contro il bordo della vasca, con un sospiro: - Però dite alla signora Smith che voglio una torta di banane. -
- Come sempre, signorina. -
- Ovviamente. -.
Alzò lo sguardo: la domestica che gli stava preparando gli asciugamani, proprio d'innanzi ai suoi occhi, era la più giovane di quelle presenti nella camera, probabilmente aveva circa trent'anni.
Sorrise.
- Signorina Johnson... - sapeva che era zitella. Lo sapeva benissimo.
La donna gli rivolse la sua attenzione: - Sì, signorina? -
- Secondo voi, tredici anni è l'età in cui si inizia a diventare adulti? -
L'altra annuì: - Certo, signorina. -
Il suo sorriso si allargò.
Tirò su una gamba, facendola emergere dall'acqua: - Quindi, assistere al mio bagno sarà molto più interessante, vero? -
In un istante, il volto della donna s'imporporò, gli occhi si fecero perfettamente rotondi: - Signorina! -
- Siete davvero una donnaccia, signorina Johnson! - scoppiò a ridere, la mano a coprire la bocca, portando la caviglia sul ginocchio piegato dell'altra gamba.
- Cos'è questa volgarità, signorina? - tuonò la signora Tod: - Chiedete immediatamente scusa alla signorina Johnson! -
- E perché mai? - sfoggiò lo sguardo più innocente che conosceva, la voce vellutata: - Sto per diventare una vera donna, proprio come voi. Non è vero? -
Per qualche secondo, non arrivò alcuna risposta.
Poi entrambe le donne borbottarono qualcosa di simile a: - Sì, signorina. -.
Len sorrise.
Ripensando a qualche tempo prima, a quando aveva capito di non essere una leggiadra fanciulla, gli veniva da ridere.
Ricordava di aver pianto molto, fuori dagli sguardi degli altri, di essere rimasto freddo e silenzioso d'innanzi a tutti.
In seguito, gli era stato detto che era rimasto in quello stato per oltre sette mesi.
Poi aveva scoperto il lato positivo di tutta quella faccenda.
- Voglio questo vestito! -
- Ma, Len, ne hai già uno praticamente identico... -
- Voglio questo! -
- Len... -
- Ho detto che lo voglio! Lo voglio! Lo voglio! Perché mi fate questo, madre? Perché non volete accontentarmi per una cosa così piccola? -
Una delle tante "cose così piccole".
Chissà, forse i suoi genitori avevano i sensi di colpa, quindi esaudivano qualsiasi suo desiderio di avere qualcosa.
Ciò significava che, in cambio del fingersi una leggiadra fanciulla, lui avrebbe ottenuto qualsiasi cosa desiderasse.
Tra l'altro, non che per lui fosse difficile spacciarsi per una donna: amava i vestiti, amava spettegolare, amava il canto, la danza e suonare il pianoforte; a volte, per intere settimane, dimenticava persino di essere un maschio.
Quando se n'era reso conto, aveva provato un moto di disappunto.
Così, ogni notte, davanti al suo nuovo specchio - perfettamente identico al precedente -, rievocava l'intera giornata, come tenendo un piccolo diario, parlando con il suo riflesso.
Nudo.
Voleva che quel corpo - il suo corpo - s'incidesse nella sua mente, che divenisse il più vivido dei suoi ricordi.
Non aveva idea del perché lo facesse.
Per quanto sarebbe stato più semplice dimenticarsi di essere un maschio e continuare a vivere come una femmina, sentiva il bisogno di continuare a ricordarselo.

- E' strettissimo! -
- Deve essere stretto, signorina! -
- Allentatelo! -
- No, signorina. -
- ALLENTATELO, HO DETTO! -
Insieme ai tredici anni, finalmente, arrivarono anche i vestiti che più bramava: poteva iniziare ad indossare le giarrettiere e i reggicalze da adulta, i nuovi ventagli e ombrellini avevano pizzi più elaborati e...
- Ricordatevi di indossare questo. - si raccomandò la signora Tod: - Oppure verrà un brutto effetto, sul vestito. -
Len osservò le piccole coppe del corsetto, riempite alla bell'e meglio con delle imbottiture.
- Molte donne ricorrono a queste per sembrare più floride. - aveva detto la cameriera, con fare saggio.
- Senza vestito e con questo indosso sono davvero ridicola. - aveva risposto Len, le sopracciglia inarcate, fissando il suo riflesso con aria di sufficienza: sembrava una bambolina caduta in dei vestiti fin troppo grandi per lei.
In realtà, il corsetto era perfettamente della sua misura: soltanto, tra la base e i fianchi si creava un piccolo vuoto e vedere spuntare dalle coppe della stoffa piuttosto che della pelle era destabilizzante.
- Man mano metteremo imbottiture appena più grandi. - gli aveva spiegato sua madre, pacata, le guance rosse: - Molte donne non hanno curve accentuate, non c'è nulla di strano. -.
Sì, aveva notato che alcune ragazze erano piatte quasi quanto lui.
Ma svariate altre sue coetanee, chi più chi meno, stavano già iniziando a mostrare le donne che sarebbero diventate.
Queste ultime, in particolare, erano decisamente orgogliose di ciò che iniziava a spuntare, tanto da non vietarsi alcuna scollatura durante i balli.
I balli.
Finalmente, aveva potuto iniziare a partecipare anche a quelli - seppur di privati, di amici di famiglia, per feste non eccessivamente sontuose.
Una volta lì, le fanciulle di tredici o quattordici anni si mettevano in mostra il più possibile, non tanto per volontà di attirare qualcuno, quanto più per essere ammirate.
Tuttavia, c'erano anche le fanciulle più piatte, che preferivano dei castigati vestiti completamente coperti o delle scollature che a malapena scoprivano le clavicole. Len faceva parte di quest'ultima categoria.
E provava un certo piacere nel sentirsi ricoprire di complimenti - per il vestito, per la sua bellezza angelica -, anche se era privo di forme, mentre alcune fanciulle più prosperose erano quasi del tutto ignorate.
"Ovvio." sorrise, dietro il ventaglio aperto: "Sono così volgari...".
Lo sapeva benissimo.
Si era ritrovato svariate volte a fissare le altre ragazze - o meglio, le scollature delle altre ragazze -, fingendo di scrutarle dall'alto in basso, il volto quasi del tutto nascosto dal ventaglio. Ormai avrebbe saputo elencare ogni tipo di scollatura presente tra le invitate ad un ballo.
Non che fosse una cosa premeditata: semplicemente, una fanciulla con il petto semiscoperto gli si presentava, o gli passava accanto, e il suo sguardo andava verso il basso. Cose che capitavano.
Anche se, fino a quel momento, in quei casi, aveva provato solo un misto di curiosità e soddisfazione; una sera, durante un ballo, fu ad un passo dal collassare nel bel mezzo della sala: una donna dal viso gradevole aveva attirato svariati sguardi, vista la scollatura immensa del suo abito e, soprattutto, la vergognosa grandezza dei suoi seni, quasi del tutto in mostra.
- Davvero volgarissima! - sibilò una ragazza al suo fianco, gli occhi ridotti a fessure, sventolando il ventaglio.
- Sta mettendo a disagio tutti i presenti, perché non viene allontanata? - le fece eco un'altra, incenerendo la donna con lo sguardo.
Len non commentò.
Rimase immobile, il ventaglio aperto praticamente premuto contro il viso. Si sentiva andare a fuoco dall'interno. E la biancheria era diventata terribilmente stretta.
Non che non gli fosse mai successo; soltanto, non in pubblico, non d'innanzi ad una donna e non insieme a quella sensazione di caldo soffocante.
Ringraziò più volte il fatto di stare indossando una gonna ampia.
- Lady Len, vi sentite bene? -
Len trasalì, lo sguardo andò alle due ragazze lì vicino. Annuì in fretta, senza emettere un suono. E senza abbassare lo sguardo sulle loro scollature - sapeva che, nel caso, sarebbe stramazzato al suolo. O peggio.
Fu la serata più lunga della sua vita, e non in positivo.
Una volta a casa, nella sua camera, contrariamente a quanto aveva sperato, la biancheria non smise di essere stretta e il dolore tra le gambe non si attenuò affatto.
Vi pose rimedio da solo.
Nella sua camera, poteva fare ciò che voleva ed essere sempre nel giusto.

- Madre! -
- Sì, Len? - la donna alzò lo sguardo dalla lettera che stava scrivendo.
Len sentì le guance farsi più calde: - Ecco, volevo farvi una domanda. -
- Dimmi pure. -
"Meglio essere diretta."
- Che cos'è l'amore? -
Sua madre sobbalzò, gli occhi sgranati: - Prego? -
Len deglutì, le guance sempre più calde: - E' che l'ho letto spesso nei libri... - spiegò, lo sguardo vagò altrove, nello studio: - ... e ho sentito spesso alcune ragazze parlarne... -.
Sentì un sospiro. Tornò a guardare sua madre: la sua espressione era tornata quella di sempre.
- Credo tu debba iniziare a frequentare ragazze più grandi. - disse, forse più a se stessa che a lui. Tornò a rivolgerglisi: - Vedi, Len, l'amore è... come posso spiegartelo... - ci pensò un istante. Poi sembrò trovare le parole: - L'amore è una scusa. -
Len spalancò gli occhi, colto alla sprovvista: - Una scusa? - ripeté, in un sussurro.
Sua madre annuì: - L'amore è quella scusa che viene usata per giustificare qualsiasi comportamento, soprattutto quelli più scellerati. Sono i poveri a parlare di "amore", dicono di sposare una persona che "amano", quando in realtà sono solo mossi dal desiderio e dalla curiosità, oltre che dall'idiozia. Del resto, se sono ancora poveri, è evidente che non siano in grado di gestire le proprie finanze. Loro non sposano certo qualcuno che possa aiutarli, loro sposano qualcuno che "amano"... ma non è altro che una scusa per mascherare la loro incapacità e il desiderio che provano per la loro "sposa". - un sospiro: - Davvero volgari. -.
Len sbattè le palpebre, confuso: - Ma... io ho letto di emozioni felici. - ricordò: - E anche alcune ragazze, quando dicono di essere "innamorate", sembrano davvero felici! Sono tutte rosse, hanno gli occhi lucidi, sembrano come perse in un sogno... -
La mano di sua madre sulla testa, gentile.
Il sorriso sulle sue labbra era appena accennato: - Quelle sono infatuazioni, Len. Ciò succede quando qualcuno è attratto da qualcun altro. Può succedere che, in questo caso, possa scattare una proposta di matrimonio, sì. Ma, almeno, che non la si mascheri da "amore". - scosse la testa: - L'amore non esiste. E' solo una scusa. E le infatuazioni hanno breve durata. Sono come fiamme: ardono, riscaldano ma, prima o poi, finiscono con lo spegnersi. Si può vivere una felicità momentanea, se questo può far piacere. Ma credere a quelle cose che scrivono sui libri è davvero da bambine. -.
- Capisco... - abbassò lo sguardo, dispiaciuto: aveva davvero creduto alla possibilità di poter provare le stesse emozioni delle protagoniste dei libri, di incontrare qualcuno che gli professasse "amore" e che chiedesse la sua mano.
"Forse dovrei davvero crescere." si congedò da sua madre: "Del resto, è quello che ho sempre voluto...".
Quando tornò nella propria camera, si guardò allo specchio.
"Ho quasi quattordici anni..." piegò appena la testa di lato, scrutando il proprio riflesso: "... e sono rimasta identica.".
Doveva davvero crescere. Sì.
"Crescerò. E poi..."
Guardò la sua mano sinistra.
Bianca, le dita affusolate.
La portò al viso, posò le labbra sull'anulare.
"E poi...".

- Sarei davvero felice se tu cantassi al mio matrimonio. -
Len sbattè le palpebre. Gli sfuggì una risata leggera: - Sarò lieta di accettare, allora! -
- Ottimo! - Lily si portò una mano al petto, quasi stesse sospirando di sollievo: - Hai una delle voci più belle che conosca, dovevo assolutamente averti come cantante al mio matrimonio! -
- Anche tu sai cantare molto bene! - le ricordò Len: - Potremmo cantare insieme! -
- Se me lo concederanno... - ridacchiò Lily: - E poi, la tua voce è più chiara della mia. Suona decisamente meglio, ad una cerimonia simile. -
- Mi stai lusingando troppo... - "Continua."
- Oh, affatto! - l'altra sventolò una mano, come a scacciare quelle parole: - Mi raccomando, voglio una bella canzone! -
- Ovviamente! - sorrise: - Ah, quando hai detto che è, la cerimonia...? -
- Tranquilla, ho già spedito tutti gli inviti. - fu la risposta di Lily, sulle labbra uno strano ghigno: - Non ti costringerò a ricordare una data e un orario precisi, cuginetta mia adorata. -
- Come sei gentile, cuginetta mia adorata. -
Trattenne un sospiro di sollievo: almeno non aveva la responsabilità di doversi ricordare una cosa del genere. Se se lo fosse dimenticato, avrebbe sempre potuto incolpare qualcuno - tipo le poste.
- Hai già deciso cosa indosserai? - domandò, guardando la cugina.
Il sorriso di Lily perse la sua sfumatura maliziosa, diventando più gentile: - E' un segreto. Solo la sposa e le sue cameriere possono saperlo. -
"Uffa..." gonfiò le guance, con disappunto.
All'altra sfuggì una risata leggera.
La vide posare il viso sul palmo, il gomito contro il piccolo tavolino su cui stavano prendendo il the: - E tu, Len? Cosa indosserai? -
Con tutta la calma del mondo, Len riprese la sua tazzina e bevve un piccolo sorso.
Il pathos era importante.
Posò la tazzina sul piatto.
- Un vestito giallo. -
- Perché ti faccio queste domande? -
Ridacchiarono entrambi.
Len trasse un profondo respiro. Forse era il momento di farle quella domanda.
- Com'è il tuo futuro sposo? -
A giudicare da come la sua espressione non si fosse minimamente intaccata, Lily doveva aver previsto quelle parole: - E' un brav'uomo. - rispose, pacata.
Posò sul tavolo anche l'altro gomito, spostò il mento sull'intreccio delle dita: - E' abbastanza gradevole d'aspetto e la sua attività va piuttosto bene. Non ho di che lamentarmi. -
Len annuì, quasi distrattamente.
Sentiva il cuore colpire il torace con violenza.
- Quindi, c'è la possibilità che tu parta per... -
- Osaka? Sì, anche se non in tempi brevi. -
Len abbassò lo sguardo, cominciava a sentire una strana agitazione.
- Anche tu dovrai iniziare a studiare il giapponese, ne, Len-chan? -
Gli sfuggì una risata. Aveva una pronuncia buffa.
- Sì... dovrei. - sorrise: - Anche se non in tempi brevi. - ripetè.
- Ah, mi dispiace che il mio sensei se ne sia partito per l'America... - sbuffò Lily: - Spero davvero tu riesca a trovare qualcuno di adeguato... -
- Chissà... -
Non ne era così entusiasta, in verità.
Non per la lingua di per sé.
Era...
- Lily... - alzò lo sguardo, incontrando lo sguardo attento dell'altra: - ... puoi promettermi una cosa? -
- Dipende da cosa tu vuoi che io prometta. -
Inspirò. Il cuore faceva male.
- Promettimi che farai di tutto per stare bene. -.
Silenzio.
L'espressione di Lily era sempre la stessa; soltanto i suoi occhi mostrarono una strana scintilla, non avrebbe saputo dire di che tipo.
Qualche secondo dopo, vide le sue labbra incresparsi appena: - Non sono così debole, sai? -
Tornò dritta sulla sedia, negli occhi uno strano sguardo divertito: - Non ho bisogno di promettertelo. Non ho alcuna intenzione di lasciarti il mio sposo e il mio posto, cuginetta mia adorata. -
Len sorrise. Sentiva gli occhi bruciare.
- Il contratto prevede che, "qualora Lady Lily perda la vita, suo marito debba prendere in sposa Lady Len Mirror." -
- Perché? -
- Il futuro marito di Lily ha contatti economici con il Giappone. Tu non puoi sposarti, Len, quindi l'unico modo per tenere saldo il legame economico con il Giappone è darti direttamente in sposa al marito di Lily. -
- E lui ha accettato? -
- Sì. -
- E sa- -
- Sì. -
- Capisco... -.

Alla fine del mese successivo, Lily si sarebbe sposata.
E lui avrebbe cantato per lei, per il suo sposo.
Il suo sposo. Di Lily. E di Lily soltanto.
"Io non sono un rimpiazzo..."
Guardò il proprio riflesso.
"Io non voglio essere un rimpiazzo..."
Strinse la mano sinistra.
"Sono felice per Lily. Lo sono. Sono felice che lei si sposi."
Lei.
"Starà con una persona che guarderà solo lei. Solo lei. Per sempre."
E mai lui.
"Anch'io avrò una persona che guarderà solo me. Solo me. Per sempre. Vero?".

- Oggi andiamo a trovare Miriam e la sua bambina. -
- Mia cugina Miriam ha avuto una bambina...? - fece Len, perplesso.
- Sì. Due settimane fa. - sua madre si portò una mano alla guancia: - Te l'avevo anche detto... -
- Temo di non ricordare... - tornò a dedicarsi al libro che stava leggendo.
- ... dovresti andare a prepararti, Len. -
- Non ho voglia di venire. -
- Eh? Ma è la figlia di Miriam! E' la figlia di tua cugina! -
- Ne ho altre trentadue, di cugine. -
- Len... - un sospiro rassegnato: - ... ti prego, non fare i capricci. -
- Non sto facendo i capricci. - alzò le spalle: - Semplicemente, non ho voglia di incontrare una persona di cui non ricordo neppure il viso. Fine. -.
Un paio d'ore dopo era a casa di Miriam.
Ancora non capiva come si fosse fatto convincere.
Non era il solo giunto a far visita: c'erano anche un paio di ragazze che forse erano sue cugine, più almeno altre sette giovani che dovevano essere amiche di sua cugina.
Tre di loro erano incinte.
- Com'è stato il parto? -
- Come si comporta, la notte? -
- E tuo marito cosa dice? -
- Le darete una sorellina, vero? -
Tutte stavano intorno alla neonata e alla madre.
E facevano domande.
Tante domande.
Si portò una mano alla pancia.
Lasciò la stanza, senza neanche essere notato.
Voleva tornare a casa.
- Penso proprio che presto riuscirò ad accasare mia figlia! -
- Finalmente! Non sapete quanto ho dovuto penare io per accasare la mia primogenita! Per fortuna, con la seconda è stato molto più facile! -
Le voci delle loro madri. Stavano chiacchierando proprio nella stanza accanto.
- Io sono riuscita facilmente a trovare ottimi partiti per tutte e tre le mie piccole. -
- Eh, quando si hanno contatti come i vostri, contessa... -
- E voi, duchessa? -
Sua madre rispose dopo qualche secondo, la voce apparentemente stanca, come sempre: - Stiamo valutando le proposte. -
Len socchiuse gli occhi.
- Beh, certo, voi potete permettervelo. -
- Dite la verità, state aspettando che sia uno dei principi a chiedere in moglie vostra figlia, vero? -
- Non dirò nulla. - una pausa: - Saprete tutto quando Len si sposerà. -
"Ossia mai.".
- Quel che desidera qualsiasi brava signorina: sposare un uomo bello d'aspetto e d'animo, dal solido patrimonio e dargli tanti figli. -
Nessuno deve sapere che sei un maschio.
Non puoi sposarti.
Sei un maschio.
Non puoi generare figli.
Sei una donna.
Non puoi sposarti, non puoi fare figli.
Non avrai mai niente.
Sei inutile.

Gli occhi azzurri nello specchio si fecero sfocati, le guance bagnate.
Ogni cosa sarebbe rimasta esattamente com'era.
La sua pancia e il suo petto sarebbero stati piatti per sempre.
I suoi fianchi sarebbero stati dritti per sempre.
Nessuna biancheria e nessun lenzuolo macchiati di sangue.
Sarebbe rimasto tutto esattamente com'era sempre stato.
"Perché non sono nata donna?"

- Gli ufficiali! Gli ufficiali! -
- Stanno arrivando gli ufficiali! -
Len si voltò di scatto, correndo sotto il primo portico disponibile, assieme alle cameriere che l'avevano accompagnata fino a Londra e svariate altre ragazze nei paraggi.
- Non sapevo che oggi sarebbero passati gli ufficiali! - pigolò una ragazza, visibilmente euforica.
- Neanch'io... - fece Len, gli occhi sgranati, il cuore che batteva forte.
Gli era capitato di vedere dei soldati, ovviamente.
Soltanto, vederseli sfilare davanti, a distanza tanto ravvicinata, era un altro conto.
Erano davvero alti, con la giacca rossa, i pantaloni bianchi e il cappello nero, marciavano in righe perfette - forse avevano perso un'ora solo per calcolare al centimetro la distanza di ciascuno di loro dal proprio vicino; le espressioni decise, le armi imbracciate, tutti incredibilmente giovani, più della metà terribilmente avvenenti.
Non era necessario essere compressi tra un numero imprecisato di fanciulle come lui per percepire un'ondata di batticuori, rossori e urla disumane che non potevano giungere da bocche femminili - non potevano, vero? Vero? Vero?
- Sono stupendi! -
- Sono bellissimi! -
- Sono dei scesi in terra! -
Len deglutì.
Sì, molti erano davvero belli.
Non gli sarebbe affatto dispiaciuto riuscire a parlare con uno di lor-
Una pioggia di fazzoletti cadde casualmente in prossimità degli ufficiali, oscurando per un istante il suo campo visivo. Con un moto di stizza, Len si affrettò a cercare il suo, di fazzoletto, salvo ricordarsi che...
"... non l'ho preso. Ho dimenticato il mio fazzoletto. Sono venuta a Londra e ho dimenticato il mio fazzoletto-ops-mi-è-caduto-grazie-gentile-signore- potrei-sapere-il-vostro-nome-?!".
Inspirò a fondo, mentre gli ufficiali rompevano le righe e venivano dolcemente assaltati da una valanga di gonne e sottogonne - nello stesso istante: "Calma, Len. Non tutto è perduto!"
Si tirò indietro i capelli, gonfiò il petto e rimase sul portico, la testa un po' alzata, gli occhi socchiusi con fare sicuramente molto sensuale ma non volgare, le labbra appena schiuse - dopo averci passato la lingua, per renderle lucidissime come neanche i pavimenti di casa sua.
Porse una mano alle servitrici, senza neppure guardarle: - Ventaglio. -
E il ventaglio arrivò subito.
Lo aprì e si sventolò, con ostentata nonchalance.
Già sentiva degli sguardi su di sé.
"Sono troppo bella. Lo so."
Ovvio che rimanere isolato da tutte le altre l'avrebbe fatto risaltare.
Lasciò che lo sguardo, da sotto le ciglia, vagasse sugli ufficiali, sulle loro giacche rosse; c'era una cosa di cui si poteva sempre star certi, osservando un soldato: sotto le divise c'erano dei fisici scolpiti.
Nascose le labbra dietro il ventaglio.
"Che fanciulline patetiche." ridacchiò, gettando uno sguardo alle giovani che si accalcavano: "Se vi mostrate tanto disponibili, vi useranno soltanto.".
Si lasciò andare contro una delle colonne del portico, affrettandosi a spostare lo sguardo ogni qualvolta uno degli ufficiali cercava di incrociare i suoi occhi.
Si sentiva osservato. E la cosa gli piaceva parecchio.
Sventolò il ventaglio per un altro po', beandosi di tutte quelle attenzioni - decisamente, erano più incuriositi da quella fanciulla silenziosa e in disparte, piuttosto che da un'informe massa urlante, dove tutti i volti si sovrapponevano e sfuggivano alla memoria in un secondo.
Non che fosse l'unica fanciulla sul portico, in realtà: le più timide non avevano osato farsi avanti; solo, erano palesemente oscurate da lui.
- D'accordo... - mormorò, ad un certo punto: - ... direi che può bastare. - chiuse il ventaglio, per poi rivolgersi alle sue cameriere.
- Voi due... - le indicò con il ventaglio: - Andate a fare spese da quella parte. - mostrò loro la direzione da cui erano venute: - Voi due... - si rivolse alle rimanenti: - Venite con me. - disse, semplicemente: - Proseguiamo con i nostri giri. -.
Aveva fatto pochi metri che notò, con la coda dell'occhio, un paio di uomini avvicinare le due domestiche aveva allontanato.
Gli sfuggì un sorriso soddisfatto.
"Chiederanno a loro e cercheranno di farsi presentare." riaprì il ventaglio, per poi sventolarsi: "Esattamente come previsto.".
Ridacchiò: "Ormai sto decisamente capendo come funziona la mente maschile!".
Il sorriso si congelò.
Si fermò.
Si voltò verso gli ufficiali che si era lasciato alle spalle, piano.
La folla di ragazze, allegre, gli occhi che brillavano.
Gli uomini in divisa, circondati da quelle ragazze.
Forse avrebbero giocato con loro, forse le avrebbero ignorate, forse le trovavano una scocciatura, forse avrebbero sposato qualcuna.
Il cuore sussultò con violenza.
"Io..."
- Tutto bene, signorina? Siete pallida... -
- ... sì. Va tutto bene. -
"... io dovrei essere... tra loro...?"
Strinse la stoffa del suo vestito, all'altezza del cuore.
Aveva freddo.
Terribilmente freddo.
"... io dovrei indossare quella giacca rossa... io dovrei essere tra quelle righe..."
Le gambe stavano tremando.
"Dovrei... essere tra loro..."
Non parlava della folla urlante.
Lo specchio gli aveva sempre mostrato il corpo di un ragazzo.
E, per quanto desiderasse, gli avrebbe mostrato sempre quello.
Sempre la stessa cosa.
"Io... dovrei...".

- Signorina! -
A Len quasi prese un colpo.
"C'era bisogno di urlare in quel modo, all'improvviso...?"
- Cosa... - gli occhi della signora Tod erano sbarrati, quasi avesse visto la cosa più spaventosa sulla faccia della Terra: - ... cosa avete...? - gli accarezzò la testa, il viso terreo: - ... i vostri capelli... -
- Li ho tagliati. - rispose Len, pacato. Tutta quell'agitazione gli sembrava fin troppo eccessiva.
- Ma... ma... - sentì la mano della donna accarezzargli i capelli: - I vostri bellissimi capelli... ora sono così... -
- Suvvia, non sono così corti! - scrutò il proprio riflesso: le ciocche bionde, ora, si limitavano ad accarezzargli le coppe del corsetto, senza più sfiorargli i fianchi come fino al giorno prima.
- Vado subito ad avvisare vostra madre! -
Neanche il tempo di fermarla che la signora Tod era già schizzata via dalla camera, lasciandolo da solo in balìa del corsetto mezzo slacciato.
"Esagerata..." sospirò, strofinandosi le mani sulle spalle - iniziava a sentire un po' freddo.
Quando la cameriera tornò, assieme a sua madre, dovette assistere di nuovo alla medesima scena.
- Perché l'hai fatto, Len? - fece sua madre, il tono severo.
Len piegò appena la testa di lato: - Volevo cambiare. -
- ... cambiare...? -
- Sì. -
- Oh, sciocchezze. - sua madre alzò gli occhi al soffitto: - Beh, sarà solo per poco. I capelli ricresceranno. -.
Fu come una coltellata al cuore.
Len deglutì, sentì gli occhi farsi ogni istante più sgranati, le labbra si schiusero.
"Allora... continuerò a tagliarli. Ogni volta. Ad una lunghezza diversa. Anche se ricresceranno. Sempre.".
Sempre.
Di nuovo.
Perché tutto sembrava rimanere sempre uguale?
- Sembra proprio che la signorina Len non diventerà troppo alta. - aveva detto il dottore che lo visitava: - Deve aver preso dal vostro ramo, Vostra Grazia. -.
Non che gli sembrasse di essere cresciuto, in quegli anni.
Anche se i vestiti di quando era piccolo ormai gli andavano stretti, questo era vero.
Chissà se i vestiti che indossava in quel momento, un giorno, gli sarebbero andati altrettanto stretti...
- Signorina! -
- Mh? -
- Cosa... cosa state facendo...? Quel libro è costosissimo! -
- E con ciò? -
- Lo state imbrattando! -
- No, sto colorando gli spazi delle lettere. -
- Chiamerò subito vostra madre! E anche vostro padre! Cosa sono questi comportamenti da bambina? -
I libri, per quante volte li leggesse, rimanevano sempre uguali.
Bianchi, con le lettere stampate, a volte qualche disegno.
Aveva deciso di colorarli. Di disegnarli. Di renderli diversi.
I suoi genitori l'avevano sgridato.
Aveva continuato.
Gli avevano anche dato degli schiaffi, proibito di uscire, tolto dall'armadio i suoi vestiti preferiti.
Ma lui continuava.
Alla fine, si erano arresi.
E aveva riavuto indietro tutto.
"Come se non vi conoscessi...".
- Crescerà... - sentì dire da suo padre, una sera.
- Pare rimarrà piccola... - sospirò sua madre.
- Intendevo mentalmente. -
- Anch'io. -
Anche fisicamente, però.
Non sarebbe diventato alto come gli ufficiali.
Forse anche il suo corpo sarebbe rimasto morbido come quello di una donna.
Era strano pensarci, guardandosi allo specchio, accarezzando la propria pelle: poteva spacciarsi per una donna molto, molto, molto piatta, glielo permettevano i suoi tratti delicati, le sue movenze, ogni cosa; bastava scendere, però, per trovare la prova del contrario.
Passò un dito sulla pancia, da fianco a fianco: una linea invisibile che separava la tenerezza della maternità dalla follia della lussuria.
Era bizzarro pensare che quelle cose fossero tanto vicine.
"Se non posso fare figli, allora, perché dovrei preoccuparmi di essere virtuosa?".
Non che a quattordici anni potesse pensare davvero di attirare gli sguardi degli uomini - non dei suoi coetanei, quelli erano ridicoli, sotto ogni punto di vista: o erano spocchiosi, o erano bambini, o erano brutti, o erano poveri. Sembrava non ci fosse via di mezzo.
Tuttavia, per quando sarebbe stato un po' più grande...
"Grande...".

- Cos'è? -
- Un vecchio pupazzo, signorina. Abbiamo ripulito la soffitta e la cantina, stiamo buttando via le cose più- -
- Lo voglio. -
- Prego? -
Len tese la mano verso il servitore: - Voglio quel pupazzo. Datemelo. -.
Lesse la perplessità negli occhi dell'uomo, ma il pupazzo gli venne consegnato.
Len lo portò nella propria camera, insieme al set da cucito.
Sembrava terribilmente fragile, pronto a rompersi al minimo tocco più pesante.
Lo rammendò facendo attenzione, riattaccando gli arti che pendevano, trattenuti solo da un paio di vecchi punti; gli ridiede un volto, il precedente era scomparso, lasciando la faccia liscia; aggiunse qualche particolare - un collarino, ad esempio.
Qualche ora dopo, ammirò il pupazzo finito: era nero, ma l'aveva riparato con un filo rosso, la rosa sul suo collarino era blu.
Sorrise e lo abbracciò.
Era davvero morbido.
"Sei cambiato." lo accarezzò tra le orecchie da animale: "Fai vedere a tutti il tuo nuovo aspetto!".
Non gli importava niente che i suoi genitori e i domestici lo guardassero con aria interrogativa.
Quel pupazzo era bellissimo.
Gli era bastato intravederlo tra tutte le vecchie cose ammassate per sentire il desiderio di sistemarlo.
Non sapeva perché.
Però, ora che l'aveva fatto, si sentiva felice.
Allora, forse anche il pupazzo era felice.

- Vi piace cavalcare, Lady Len? -
Len scosse la testa.
- In realtà... - confessò, seguendo la figlia della contessa a cui sua madre era andata a far visita: - ... non ho mai provato. -
- Allora questo potrebbe essere un buon momento per iniziare. - gli fece notare la ragazza - di cui proprio non riusciva a ricordare il nome, forse Edith, o qualcosa del genere.
Quando arrivarono alle stalle, Len dovette tapparsi il naso per la puzza.
- Con tutto il rispetto, credo non sia qualcosa che faccia per me. - alzò appena l'orlo della gonna, terrorizzato all'idea che potesse sporcarsi di qualsiasi roba indefinita ci fosse a terra.
Lady Edith, vestita da cavallerizza, con tanto di pantaloni - "Come fa ad indossare quei cosi...?" -, si era già diretta verso quello che ipotizzò essere il suo cavallo privato.
"Che puzza..." premette anche l'altra mano contro il naso, rinunciando a tenere la gonna sollevata.
- Con permesso, milady. - praticamente fuggì dalle stalle, inspirando una boccata d'aria fresca non appena si ritrovò all'esterno.
Non ricordava che l'aria fosse così profumata e bella da sentire nei polmoni.
Sentì, in lontananza, la risata di Lady Edith - forse per una battuta dello stalliere, forse stava ridendo di lui, non ne aveva idea e non gli importava.
"Come fa a stare in mezzo a quel fetore...?" si chiese, allibito, passandosi una mano sul viso.
Qualche minuto dopo, rimase fermo sotto il suo ombrellino, ad osservare Lady Edith cavalcare per i prati.
... e basta.
Cavalcava e basta.
"Fa tutto il cavallo, cosa ci trova di così appassionante...?" sbadigliò, coprendosi la bocca con una mano: "Se non altro, potete star certa che non tornerò. Credo che qualsiasi altro vostro invito coinciderà con un mio violento attacco di mal di pancia.".
Non che sarebbe stato difficile, se avesse rievocato il ricordo di quella puzza di sterco e fieno ammuffito.
Un nitrito nelle vicinanze lo riportò alla realtà: un giovane, probabilmente il fratello di Lady Edith, aveva a sua volta preso un cavallo.
Soltanto che quel cavallo era almeno il doppio di quello della sorella.
Nero, gigantesco, in completa opposizione alla sottospecie di pony marroncino che correva per i prati.
- Cosa c'è, signorina? - domandò la signora Audley, il tono divertito.
Probabilmente pensava stesse guardando il figlio della contessa.
Non era brutto, ma non era neppure questo trionfo di bellezza.
- Milady fa tanto l'arrogante... - sospirò: - ... ma, alla fin fine, riesce a cavalcare soltanto un ronzino. Fosse andata a cavalcare con quello... - accennò al cavallo nero con lo sguardo: - ... allora sarebbe stato diverso. -.
Gli piaceva, quel cavallo nero.
Gli trasmetteva una sensazione di forza e fierezza.
Sentì la domestica ridere.
Si voltò verso di lei, trovandola con lo sguardo divertito, le labbra ancora incurvate verso l'alto: - Ma cosa dite, signorina? - fece: - Quello è uno stallone, solo un uomo può cavalcarlo! I cavalli per le donne sono come quello che sta cavalcando milady! -
- Ah... -
Quindi c'erano cavalli per uomini e cavalli per donne.
I cavalli per uomini erano come quello nero. Quelli per le donne erano come quel pony marroncino.
Abbassò lo sguardo.
In fondo al cuore, gli sarebbe piaciuto salire sul cavallo nero.
Avrebbe potuto.
Lui sarebbe potuto salire sul cavallo nero.
Avrebbe potuto.
Gli uomini sono forti. Mandano avanti tutto e proteggono le proprie mogli e i propri figli.
Il tuo corpo è fragile.
Il tuo corpo potrebbe essere scambiato per quello di una donna.
La tua mente è quella di una donna.
Nei fatti, il tuo corpo è quello di un uomo.
Sei un uomo.
Non puoi sposarti, non puoi avere una moglie che ti dia figli.
Non puoi arruolarti, non puoi proteggere niente e nessuno.
Non avrai mai niente.
Sei inutile.

Passò una mano sugli occhi, lo specchio sparì per un istante, per poi riapparire davanti a lui.
Era un uomo, ma non gli era concesso fare ciò che facevano gli uomini.
Non si sarebbe mai potuto presentare come uomo.
Non avrebbe mai avuto il corpo sviluppato di un soldato, né anche solo la forza dei servitori che vedeva girare per la sua casa, o di suo padre.
Il suo corpo sarebbe rimasto piccolo e fragile.
Sarebbe rimasto tutto esattamente com'era sempre stato.
"Perché non sono nata da un'altra parte?"

- State benissimo, signorina! - sorrise il dottore, mentre Len si rivestiva, le guance che andavano a fuoco.
Un medico uomo.
Ogni visita gli faceva provare sempre la stessa irritazione, sempre quell'irrefrenabile voglia di andarsi a nascondere dietro il primo posto - o persona - disponibile o imprimere sul volto dell'uomo tutte e cinque le dita di una mano, magari traforandogli i timpani con uno strillo.
"Perché il fatto che io non mi possa sposare fa sì che io venga sempre umiliata in questo modo?"
Gli rivolse un'occhiata di puro disprezzo e si avviò all'ingresso della stanza, sentiva lo sguardo di sua madre puntato contro. Quando aprì la porta, trovò suo padre in piedi nel corridoio.
- Hai salutato, Len? - gli chiese, il tono gentile.
Len sbattè le palpebre. Era sicuro di avere un'espressione terribilmente annoiata.
Sibilò, senza neppure voltarsi: - A mai più rivederci, dottore. -.
- Len! - sua madre, allibita. Come se non avesse mai rivolto simili parole al medico.
Si allontanò, sentendo suo padre entrare nella stanza adibita ad ambulatorio improvvisato.
"State benissimo, signorina!" cinguettò nella sua mente, distorcendo la voce del dottore: "State crescendo davvero benissimo! Siete sanissima, non avete alcun problema!" si fermò: "Imbecille.".
Si tirò indietro le ciocche dei capelli sfuggite alla crocchia: "Mi aprite le gambe e avete la faccia tosta di chiamarmi signorina. Sto sempre crescendo benissimo, però poi non mi dite che rimarrò piccola. La prossima volta mi direte che sarò senz'altro prosperosa come mia cugina Lily?".
Un parlottio.
Proveniva dalla stanza che aveva appena lasciato. Si voltò a guardarne la porta.
"... imbecil-"
- ... problema grave... -
"... problema grave...?"
Quelle parole avevano colpito le sue orecchie, come risvegliandolo.
Si avvicinò alla porta, abbassandosi all'altezza della serratura.
"Parlano di qualcosa che riguarda me...?"
Perché non avrebbero dovuto, visto che era stato lì fino a pochi minuti prima e il medico era stato chiamato appositamente per visitare lui?
- Cosa... consigliate... far sì... Len... -
"Sì, decisamente, parlano di me."
Premette l'orecchio contro il legno della porta, rallentando il respiro, per non lasciare che i suoni vi finissero mescolati. Chiuse gli occhi, concentrandosi sulle voci delle tre persone nella stanza.
Sentì un sospiro. Non capì di chi.
- E' normale che succedano cose simili, Vostra Grazia. - il dottore: - Non l'avevate messo in conto? -
- Speravamo che l'educazione ricevuta avrebbe soffocato questi... - suo padre s'interruppe. La parola successiva fu bisbigliata, ma Len riuscì a captarla comunque: - ... bisogni. -.
"Bisogni...?" sbattè le palpebre, confuso.
- Ci chiedevamo quale potesse essere la soluzione. - la voce di sua madre, spezzata. Non sembrava stesse piangendo, forse era... imbarazzata?
- Vostre Grazie... - il medico sospirò. Forse anche il sospiro precedente era il suo.
- Secondo voi... - suo padre intervenne di colpo, il tono appena più alto, facendolo trasalire: - ... se prendessimo una ragazza soltanto come...? -
"Come...?"
- Se posso permettermi, Vostra Grazia. - di nuovo il dottore: - Prendergli una ragazza per fargli sfogare i suoi bisogni sarebbe doppiamente rischioso. -
Len avvampò.
"Cosa...?"
Deglutì, cercando di sentire il resto della conversazione, tentando disperatamente di ignorare i boati del suo cuore nelle orecchie.
- Per prima cosa, significherebbe rivelare la vera natura di vostro figlio ad un'altra persona. E cosa vi garantisce che questa persona non usi questo segreto per ricattarvi? -
- Nessuno ci ricatta. - sua madre. Un sibilo tagliente.
- Ovviamente, Vostra Grazia. - il tono del medico si era fatto più gentile, forse aveva intuito: - Ma pensateci: forse la ragazza potrebbe lasciarselo scappare con una persona che ritiene amica, con un famigliare. E se fosse una di queste persone a diffondere la notizia? O se fosse la stessa ragazza, di nascosto, ad informare qualcun altro, magari la stampa, in modo da far crollare l'intero casato Dewsen? -
Calò il silenzio.
Len strinse i pugni.
Sentiva la mente del tutto svuotata.
Sperò che qualcuno parlasse.
Finalmente, il dottore spezzò il silenzio: - Il secondo problema è quello più ovvio: la ragazza potrebbe rimanere incinta. -
- Ma non è detto che una gravidanza arrivi fino alla fine. - sua madre. Di nuovo quel tono glaciale.
- Certo. - ancora il medico: - Ma cosa vieta alla ragazza di dirvi di voler andare a far visita a qualche parente, scappare e partorire? Potrebbe nascondere il bambino. Potrebbe non informarvi della sua esistenza, affidarlo a qualcuno e rivelare la verità a questo qualcuno. -
- Avete mai pensato di fare il romanziere? - sua madre rise. Ma non era una risata bella sentire.
- No, Vostra Grazia... -
- Ottimo. Perché non avreste avuto un gran successo. -
- Irene... -
- Mi permetto di farvi notare tutti i problemi che potrebbero insorgere nel caso decidiate di prendere un'amante per vostro figlio. -
- Vi prego di perdonare mia moglie. -
- Come supponevo, un'amante è fuori questione. - sua madre non sembrava minimamente toccata. Anche se pochi minuti prima, forse, stava morendo d'imbarazzo: - Tuttavia, il problema rimane. Ed è un problema grave. Ho visto... - la sua voce tremò. Ah, eccolo, l'imbarazzo. Era tornato: - ... ho visto Len guardare troppo a lungo le cameriere più giovani e non necessariamente in viso. L'ho vista rivolgere sguardi poco pudici verso le ragazze ai balli. Mi è stato riferito che, durante il bagno, stuzzica le inservienti. -
"Ma, in questa casa, un'intera confezione di affari propri no, eh?"
Sentiva le guance bollenti.
In effetti, gli era capitato di fissare la parte superiore dei grembiuli bianchi delle servitrici più giovani. Erano gradevoli da vedere. Ed era piacevole immaginare cosa potesse creare quelle forme arrotondate.
Lo faceva anche con gli uomini, in verità.
Evidentemente, sua madre non ci aveva fatto caso.
"Ma quindi mia madre ha guardato a sua volta le cameriere, per sapere cosa io stessi guardando...?"
- Fra pochi mesi compirà quindici anni... - la voce del medico lo strappò dai propri pensieri: - E' normale che faccia queste cose. -
- Non dovrebbe esserlo, per Len. - osservò sua madre: - Lei non dovrebbe guardare le donne. Lei non dovrebbe neppure lanciare di quelle occhiate, né provocare durante il bagno. Dovrebbe essere una ragazza pudica e virtuosa! -
"Per questo mi fate visitare da un uomo, madre...?"
- E poi... - sua madre fece una pausa: - ... cosa succederebbe, se... - un'altra pausa: - ... se decidesse di... - la voce si fece un sussurro: - ... sedurre qualche cameriera...? -
- Ma le cameriere più giovani pensano che Len sia la loro padroncina! -
- Ciò non impedisce loro di obbedire a qualsiasi ordine Len impartisca loro. - sua madre sospirò: - In quel caso, scoprirebbero la verità. E saremmo al punto di partenza. -
Len sbattè le palpebre, piano: "... sapete che non ci avevo pensato, madre? Grazie del suggerimento!". Sorrise, divertito. Forse avrebbe potuto farci un pensiero.
- A questo, si aggiunge un altro problema. - stavolta era stato suo padre a parlare: - Un problema ben più evidente che, con il trascorrere del tempo, sarà sotto gli occhi di tutti. -
"Eh...?"
- Per quanto ancora potremo spacciare Len per una ragazza? - la voce di suo padre si era alzata di nuovo: - Saranno gli stessi tratti del suo viso a tradirlo! Le spalle! La voce! Per quanto si possano nascondere i fianchi e il busto, per quanto si possa imitare un corpo femminile, non si può impedire ai suoi tratti di farsi più duri, né alla sua voce di abbassarsi! -
Un sospiro. Probabilmente, era stato suo padre.
Il cuore battè ancora più forte.
Non gli piaceva.
Non gli piaceva.
Non gli piaceva.
- Mi chiedevo se... - la voce di suo padre era diventata un sussurro. Premette l'orecchio contro la porta con maggior forza, trattenne il respiro.
- ... se non dovessimo... intervenire. -
"Intervenire?"
- Intervenire, Vostra Grazia? -
Una pausa.
- ... come fanno ad alcuni cantanti. Hanno la voce bianca e il loro aspetto non è virile. Alcuni di loro, anzi, sembrano quasi delle vere donne. Inoltre, questo dovrebbe anche spegnere qualsiasi suo desiderio. -.
Sgranò gli occhi.
Fecero male.
Schiuse le labbra.
Il sangue si gelò nelle vene.
Il cuore batteva troppo forte.
Pompava ghiaccio.
Qualcosa gli strinse la gola, mozzandogli il respiro.
Le mani tremarono.
Le gambe erano troppo deboli.
"No..."
I piedi erano conficcati nel pavimento.
Il suo viso non voleva staccarsi dalla porta.
Stava soffocando.
"No... non..."
Qualcosa scivolò lungo le guance roventi.
Una mano si schiaffò sulla bocca, contro la sua volontà, soffocando un gemito.
La labbra erano ghiacciate.
La mano tremava.
"No... vi prego, non... vi prego... vi prego... vi prego..." strinse i denti, fino a sentire fitte di dolore: "Vi supplico... vi... no..."
Premette la mano contro la bocca, ancora di più.
L'altra stringeva la stoffa del vestito, all'altezza del cuore, per impedirgli di distruggergli il petto.
Ogni battito era una coltellata di ghiaccio.
"Vi prego... vi..."
- Temo che ora sia un po' tardi, Vostra Grazia. -
La voce del dottore.
"Vi prego, vi prego..."
- Per quanto vostro figlio non sia ancora un uomo, lo sviluppo è già iniziato. Per questo motivo, posso dirvi con una certa sicurezza che, così come la sua corporatura promette di rimanere piccola, Len non svilupperà tratti marcatamente maschili. E' praticamente certo che manterrà il suo aspetto androgino anche da adulto. -
"Vi prego..."
- Capisco... - il sospiro di suo padre: - Dite che è inutile? -
- Sì, mio signore. -
- Allora non sottoporrò Len ad una cosa del genere. -
Le gambe cedettero.
Len cadde in ginocchio sul pavimento, il corpo che tornava a scaldarsi, l'aria che riempieva i polmoni, le lacrime che non smettevano di cadere.
"Ah..." si strinse nelle spalle, deglutì, finalmente la gola era libera: "... ah... sono... non mi faranno niente... va tutto bene... ah...".
Si alzò.
Andò nella sua camera.
"Rimarrò così..."
Si liberò dei vestiti.
"Non mi faranno niente, rimarrò così..."
Riuscì ad allentare il corsetto, sfilandoselo.
"Non mi faranno niente, vado bene così..."
Si guardò allo specchio.
Il suo corpo.
Sarebbe rimasto così.
Integro.
Non l'avrebbero toccato.
Andava bene così.
Andava bene così.
Andava bene così.
"Se solo fossi nata donna..."
Andava bene così.
Andava bene così.
"Se solo fossi nata altrove..."
Andava bene così.
"Non mi toccheranno..." incrociò le braccia al petto: "Non mi faranno niente... rimarrò così... così..."
Guardò quegli occhi azzurri nello specchio, spalancati, spaventati.
"Anche se non sono... anche se non sono come sarei dovuta essere... anche se non sono come vogliono loro... io..."
Allungò la mano.
Sfiorò le dita del suo riflesso.
"Io... vado bene così... vero...?"
Toccò quei polpastrelli riflessi.
"Anche se non sono come dovrei... anche se non sono come vogliono... non mi toccherranno... non mi..."
Il cuore fece male.
Le labbra si schiusero.
"Io... volevano... sono così sbagliata da volermi...?"
Una fitta violenta.
"Non vado bene... quindi... volevano... mutilarmi...?"
Mutilarlo.
Ferirlo.
Farlo a pezzi.
Distruggerlo.
In frammenti.
Tanti.
Impossibili da rimettere insieme.
Affilati.
Sparsi ovunque.
"Perché...?"
Portò le mani al viso.
"Perché io...?"
Sfiorò le guance.
"Perché...?"
Gli occhi erano troppo grandi.
Non
potrò
mai
avere
niente

"Era tutto finto..."
Donna
inutile

"Io volevo solo..."
Uomo
inutile

"Volevo..."
Sempre
"Volevo soltanto..."
Ogni
cosa
rimarrà
uguale

"Io..."
Tu
rimarrai
sempre
uguale

"Io..."
Non
avrai
mai
nulla

"NON M'IMPORTA ESSERE UN UOMO O UNA DONNA!"
Le ginocchia e i pugni si schiantarono contro il pavimento.
"Voglio solo essere"
felice
"me."

Si lasciò cadere.
Sul pavimento lucido di quella casa tutta uguale, dai mobili tutti uguali, dai corridoi tutti uguali e dalle scale tutte uguali.
La casa che non sarebbe mai cambiata.
La casa di cui lei era la perfetta signora.
Eternamente immobile.
Che, immobile, vedeva vivere i suoi abitanti, a volte riflettendone la felicità, la tristezza, le emozioni.
Si limitava a guardarli, come loro guardavano lui.
Li guardava, immobile, come uno specchio.
La sua vita, i suoi sogni, le altre persone non erano altro che riflessi nello specchio.
Solo immagini che apparivano e svanivano, senza lasciare traccia visibile ad occhi esterni.
Lo specchio teneva quelle immagini dentro di sé, rivedeva quei riflessi.
Erano felici. Erano tristi.
Erano la sua vita.
Che si era frantumata in miliardi di pezzi.

Ne sentiva l'eco.
Risuonava piano nel suo petto.
Guardò il suo riflesso nello specchio.
Incontrò il suo stesso sguardo.
Sembrava stanco.
"Se mi uccidessi, diventerebbe più facile?".

Perché era successo tutto quello?
"Perché proprio io...?"
Perché non poteva avere ciò che desiderava davvero?
"Non è stata colpa mia..."
Perché gli altri l'avevano ingannato e distrutto?
"Perché...?"
Chiuse gli occhi.
"Le persone fanno le cose per stare bene."
Sentiva a malapena il freddo del pavimento.
"Le persone cercano la felicità. Non fanno cose che li fanno stare male. Quindi..."
Riaprì gli occhi.
"... quello che loro mi hanno fatto l'hanno fatto per essere felici...?"
Ricordò la storia dello zio Al.
Sì.
L'avevano fatto per il bene di qualcuno.
"Se sono felici, vuol dire che a loro piace tutto questo. Quindi, per loro, tutto questo è divertente.".
Ora aveva capito davvero.
"... quindi è questo che significa divertente...?".
Sorrise.
"Anch'io voglio divertirmi.".






Note:
* All'epoca, gli uomini portavano la camicia a diretto contatto con la pelle: di conseguenza, vedere un uomo con indosso solo la camicia era quasi equiparabile al vederlo in biancheria.
* Le donne (soprattutto inglesi) non facevano il bagno nude, ma s'immergevano nella vasca indossando una lunga camicia di stoffa leggera, la camiciola - perché non stava bene che una donna guardasse o toccasse il proprio corpo nudo. Di conseguenza, per pulirsi, si metteva l'eventuale sapone sulla stoffa e si sfregava la pelle con quella, a mo' di spugna - oppure si sfregava sulla pelle e basta, sempre stile spugna, ma senza sapone.
* Il discorso sull'amore che la signora Mirror fa a Len, per quanto estremizzato, non è poi così lontano dalla reale visione che molti nobili avevano dei "matrimoni per sentimento".
* Gli impulsi sessuali, per gli uomini, erano bisogni. Le donne, invece, non avevano impulsi sessuali. *Fine della questione.* Ovviamente era ciò che si riteneva "rispettabile" all'epoca.
* "Ne sentiva l'eco. Risuonava piano nel suo petto. [...] "Se mi uccidessi, diventerebbe più facile?"": Lovelessxxx, la strofa di Len.
[Un'eco risuona dolcemente nel petto / Se finissi con l'uccidere / diventerebbe più facile?]
(In realtà, nel testo non specifica "uccidersi", tuttavia ho visto svariate traduzioni porre la strofa in quel modo e ne ho approfittato. Allo stesso modo, ho preferito mettere "piano" piuttosto che "dolcemente".)




Ebbene sì: sono appena finiti i flashback... e tornano i flashback! *O* (E stavolta non ci sono alternanze col presente.)
Non avrete mica pensato che tutte le spiegazioni giungessero con una pacata chiacchierata amichevole? U.U
E, sì, questo, nelle mie idee, sarebbe dovuto essere il penultimo capitolo. Ovviamente, come avevo già preannunciato, è finito con lo scindersi in quat- TRE capitoli. °A°"
Quindi, sì, per i prossimi quat- TRE capitoli, il POV passa a Len - con annesse tutte le spiegazioni varie ed eventuali.

Alla fine, anche la seconda plurinominata dopo Gumi, Lily, ha fatto la sua apparizione. *O*
Non di meno, ha fatto la sua apparizione pure una citazione diretta da Lovelessxxx. Sì, giusto perché la storia è ispirata a quella, ci sono tutti questi riferimenti tanto diretti... *coff*
Se qualcuno avesse notato somiglianze tra video e storia nella scena di Len che passeggia nei corridoi bui, sbircia attraverso lo spiraglio di una porta socchiusa e vede cose... sì, anche quella è un'altra simil-citazione. *Soltanto che, qui, Len non vede Kaito e Gakupo.*
A tal proposito...
... confesso che questo è stato il capitolo per me più difficile da scrivere, in assoluto. .___.
Non scrivo spesso cose del genere (anzi), quindi non ne sono molto pratica. Spero di essere riuscita a rendere i contrasti e le emozioni di Len. .___.

Inoltre, mi pare che questo sia anche il capitolo (finora) più lungo. °^°
Scusatemi.

Se così fosse, ciò è in parte un bene (?): la prossima settimana non aggiornerò, quindi ci sta un capitolo più corposo del solito! *O* *Eh?*
Sto davvero avvisando di un ritardo nel postaggio? *Qual bizzarra sensazione... sono eoni che non faceva una cosa simile...*

Spero che questo capitolo vi sia stato di gradimento. ^^
Per qualsiasi consiglio o critica, dite pure. ^^

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Capitolo 9
*** x0x9x ***


Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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- Siamo riusciti a trovarti un precettore di giapponese! -
- Ah, sì? - Len aggrottò la fronte: - E' l'ex-precettore di Lily? -
Sua madre scosse la testa: - Con tutto il rispetto per la cara Lily, è molto meglio. - accennò ad un sorriso soddisfatto: - E' giapponese di nascita. -
- Oh... -
- Non sei felice, Len? -
- Non vedete come la mia espressione e la mia voce irradiano felicità in tutta la stanza? -
- Ottimo. -
"Veramente ero ironica..."
Sospirò, evitandosi di alzare gli occhi al soffitto: sapeva che, una volta salutato il suo primo precettore, non sarebbe stato per sempre libero dall'incombenza di libri e lingue straniere da imparare; tuttavia, sperare che non si riuscisse in alcun modo a trovare un insegnante di giapponese non gli era mai costato nulla.
Provava un discreto disappunto nel notare come le sue preghiere avessero avuto l'effetto opposto.
- Giapponese di nascita, eh? - fece, poco convinto: - E... sa qualche parola di inglese...? -
Se già studiare un'altra lingua non lo entusiasmava - ancora si chiedeva come riuscisse a spiccicare qualche frase in francese -, l'idea di dover comunicare con una persona che non sapeva niente di inglese o che parlava con un accento talmente pesante da rendere le frasi incomprensibili non lo faceva esattamente gioire.
- Da quel che ho avuto modo di sentire... - rispose sua madre: - ... sì. Decisamente, sì. -
"Almeno una cosa...".
- Sarà qui domani alle nove. -
- COSA? - Len sgranò gli occhi: - Domani? -
- Sì, Len. Domani. Alle nove. - sua madre si alzò dal tavolo: - Dunque sii puntuale. -
"Ma dovevate dirmelo la sera prima a fine cena...?".
Quando andò a dormire, Len si sentì irritato.
Riprendere a studiare, avere orari fissi, un precettore intransigente capace di sgridarlo per qualsiasi sciocchezza...
"Un giapponese di nascita..." si rigirò nel letto, infastidito: "I giapponesi sono rigidi. E severi. E poi, che diamine ci fa un giapponese in Inghilterra?".
Ricordando i disegni che aveva avuto modo di vedere nei libri e i racconti che gli erano stati fatti, provò a pensare a come potesse essere: piccolino, forse gracile, con la pelle della faccia che sembrava tirata indietro, verso la nuca, gli occhi a mandorla sottilissimi, i capelli nerissimi e la pelle gialla.
Una scintilla di curiosità: "Pelle gialla...". Forse qualcosa di positivo ci sarebbe potuto essere.
Se poi era un insegnante, sicuramente era in là con l'età. Forse era persino vecchio.
Forse era antipatico.
Forse...

- Signorina! Ma allora siete qui! -
Len alzò gli occhi dal libro, verso la cameriera entrata di corsa nella biblioteca deserta: - Sì? -
- Sono le nove e cinque, il signor Kamui è già arrivato! -
"Signor chi?" sbattè le palpebre. Poi ricordò: "Ah...".
In realtà, non l'aveva dimenticato. In realtà, si era recato in biblioteca proprio per provare a dimenticare.
- Presto, presto! - gli intimò la cameriera, la vide gettare uno sguardo esasperato alla miriade di stelline che avevano ricoperto le pagine del libro: - Non fate una brutta figura proprio il primo giorno! -
- Da quanto è arrivato? - chiuse il libro con calma, trattenendo un sorriso nel notare l'agitazione della donna.
- Cinque minuti, signorina. Ah, sei, ora. Ha suonato esattamente alle nove in punto. -
"Oh, mio Dio..." alzò gli occhi al soffitto: "D'accordo la puntualità, ma addirittura preciso fino a questo punto..."
Sarebbe stato terribile. Sicuramente.
Si prese tutto il tempo del mondo, mentre si dirigeva nella sala.
Non era stato lui a volere un precettore di giapponese. Anzi, avrebbe di gran lunga preferito che il gentile signore se ne andasse. Non vedeva perché doversi dare pena di arrivare in perfetto orario - soprattutto perché, tanto, era già in ritardo.
Il problema stava nel fatto che la cameriera l'aveva accompagnato, probabilmente per assicurarsi che non cercasse di fuggire o di impiegarci due ore per attraversare tre corridoi di media lunghezza.
Quindi, alla fine, si ritrovò nella sala prima di quanto avesse voluto.
- Oh, Len, eccoti! - le labbra di sua madre si curvarono appena: - Non hai notato l'orario, vero? -
- Perdonate... - si bloccò: - ... mi. -
"... un attimo.".
C'era un problema, in quella sala.
C'erano cinque persone, escluso lui: una era sua madre; una era una delle cameriere più anziane; due erano servitori; il restante gli era sconosciuto.
Ed era quello che, non appena aveva messo piede nella sala, si era alzato in piedi, dal divanetto su cui era seduto.
Ed era alto. Forse due metri. Forse pure l'ampiezza delle sue spalle era di due metri. Perché c'era un armadio umano sul divanetto?
Si lasciò cadere sul posto libero accanto a sua madre, sul divanetto opposto a quello di quella persona.
Sì, a vederlo più da vicino, era effettivamente umano. E lui, Len, era alto abbastanza da potergli assestare una testata sullo stomaco. Non certo per guardarlo dritto negli occhi.
Tra l'altro, che colore era, quello in quegli occhi, dietro le lenti rettangolari degli occhiali? "Azzurro? Sembra più grigio, però... grigio-azzurro...?"
Non aveva la pelle gialla. Era una pelle assolutamente normale, forse appena più pallida della norma.
E non aveva neppure i capelli nerissimi. Erano più sul castano. E lunghi. Molto lunghi. Superavano la vita ed erano lisci, dall'aspetto setoso. Len dovette giungere le mani in grembo per impedirsi di alzarsi e andare a toccarli: "... ci sono donne che farebbero follie per capelli così... così...".
Non aveva gli occhi sottili. Non aveva la faccia tirata.
E non era vecchio.
Ma, soprattutto, più di ogni altra cosa, la cosa in assoluto più importante, fondamentale, essenziale, notevole, rilevante, vitale - aveva esaurito i sinonimi - era-
"E'... molto gradevole, a vedersi.".
Cercò di tornare in sé: "No, aspetta. Deve esserci una fregatura. Questo qui non può essere il precettore. Probabilmente è il suo segretario, qualcosa del genere..."
- Len, lui è Gakupo Kamui. - la voce di sua madre lo distolse dai propri pensieri, ma non sentì il bisogno di voltarsi a guardarla: - La persona di cui ti ho parlato ieri. Ha accettato di farti da insegnante di giapponese. -
- Onorato. -
Lo vide chinare la testa.
"Ha... una bella voce..." bassa, pacata.
- Lieta di fare la vostra conoscenza, signor Kamui. - sorrise.
Probabilmente, stava irradiando felicità nella sala.
Oppure...
"... non sono arrossita, vero...?" orrido sospetto: "Il mio ventaglio. Dov'è il mio ventaglio? HO BISOGNO DEL MIO VENTAGLIO, ORA E SUBITO!".
Dov'era l'intransigente e antipatico vecchio decrepito che aspettava? Perché c'era un giovane di bell'aspetto a meno di due metri?
"Ma che-"
- ... quindi inizierete oggi stesso. -
Ah, sua madre aveva ciarlato qualcosa. Probabilmente, non capiva il problema fondamentale di tutta quella faccenda.
- Oggi? - ripeté Len, piano. Si rivolse a... no, ma era davvero il suo precettore, quello?: - Non vi crea disturbo, signor Kamui? -
Lo vide scuotere la testa: - Affatto, oujo-sama. Se desiderate iniziare oggi, allora inizieremo oggi. -
"Ma veramente io-"
- Oggiosamà? - domandò invece, confuso.
- Oujo-sama. - disse di nuovo il signor Kamui, il tono gentile: - Significa "signorina". -.
"... se spiega le cose con quella voce, possiamo iniziare anche subito. Sì. Forse il giapponese non è una lingua così brutta, da imparare. Magari è una lingua interessante."
- Capisco... - commentò, soltanto.
- Siamo d'accordo, allora. - intervenne sua madre: - E, signor Kamui, vi chiedo ancora di perdonare il ritardo di mia figlia. -
- Nessun problema, mia signora. - disse l'altro, il tono immutato: - E' colpa mia, anzi. Sono arrivato in anticipo. -
No, non era arrivato in anticipo.
"... che cos'è questa cosa che ho davanti?"
Sbattè le palpebre, accorgendosi solo in quel momento di come fosse vestito: stivali neri, pantaloni bianchi, giacca bianca, spalline dorate a frange, guanti neri, jabot, un completo che ricordava spaventosamente una versione bianca della divisa degli ufficiali.
E sotto la divisa degli ufficiali, di solito, c'era-
Lo squadrò dall'alto in basso: "Può permettersi di indossare un abito simile." sbattè le palpebre: "Ma dove l'hanno trovato?".

- Questa deve essere la vostra stanza, signor Kamui. -
In maniera del tutto disinteressata, Len si era offerto di accompagnare il signor Kamui a fare un giro della magione, per poi condurlo in quella che sarebbe stata la sua camera.
Perché, sì, proprio come il suo precedente insegnante, anche lui avrebbe abitato lì. Merito dell'avere una casa discretamente lontana dal centro abitato e con la tendenza ad isolarsi dal mondo al minimo accenno di pioggia.
"Dunque è questa la sua stanza..." memorizzò il percorso. Sempre in maniera del tutto disinteressata.
- Vi ringrazio per avermi fatto da guida, oujo-sama. -
Se non avesse avuto quel nome strano e gli occhi dal leggero taglio orientale, Len era sicuro che il signor Kamui non avrebbe avuto il benché minimo problema a spacciarsi per un nativo inglese: la parlata era fluida, la pronuncia perfetta - soltanto la lettera L sembrava vibrare di più, simile alla R, ma si notava solo facendoci attenzione.
- Di niente. - Len sorrise, capendo che era il momento di lasciare in pace il suo ospite: - Grazie a voi per aver accettato di farmi da insegnante, maestro. -
"In effetti, perché una persona simile ha accettato di fare da insegnante di giapponese...?"
- Sensei. -
Len sbattè le palpebre: - ... prego...? -
Il signor Kamui accennò ad un sorriso: - Sensei. - ripeté: - Significa "maestro". Potete chiamarmi così. -
- Oh... - si portò una mano alle labbra, cercando di memorizzare quella parola: - Quindi... sensè Kamui? -
- Kamui-sensei. Va dopo il nome. -
Sbattè di nuovo le palpebre: "... quindi il giapponese funziona al contrario?".
Tuttavia, "Kamui-sensei" non gli piaceva.
Sorrise: - Gakupo-sensei! -
Per la prima volta, l'espressione tranquilla dell'altro mutò: a giudicare dagli occhi appena più aperti, doveva averlo stupito.
- Siete... - parlò piano: - ... molto diretta, oujo-sama. -
Il sorriso di Len si accentuò: - Non mi piace essere troppo formale! E poi... - aprì un braccio, ad accennare a tutta la magione: - ... per un po', vivremo sotto lo stesso tetto! Non trovate eccessivamente esagerato essere così formali, in un caso del genere? -
L'altro rispose dopo un paio di secondi, l'espressione che tornava composta: - Se la mettete in questi termini, non posso che darvi ragione, oujo- sama. -
- Mi fa piacere. -
"Lo chiamo per nome dopo neanche un'ora. Tsk.".

Durante la prima lezione, Len non toccò penna né aprì libro: semplicemente, trascorse le due ore ascoltando Gakupo parlare, spiegargli qualcosa del Giappone - dov'era, un accenno di storia, i legami che il Paese aveva con l'Inghilterra, qualche aneddoto di vita quotidiana.
Len venne poi a sapere la parte meno carina di tutta quella faccenda: la lingua giapponese, oltre ad avere lettere diverse, non aveva un solo alfabeto; uno dei metodi di scrittura, poi, utilizzava dei simboli non per le lettere ma per le parole. Come i geroglifici.
Dunque, a conti fatti, stava cercando di imparare i geroglifici.
In realtà, probabilmente Gakupo avrebbe impiegato molto di meno a raccontargli tutte quelle cose. Il fatto era che...
- Oujo-sama? -
- S-sì? - Len sbattè le palpebre, incontrando lo sguardo dell'altro.
Non riuscì a capire se fosse perplesso o esasperato: - Mi sembrate distratta... -
- Oh... - si portò una mano alla bocca, stringendosi appena nelle spalle: - E' che... tutte queste cose, tutte insieme... faccio fatica a ricordare tutto... - abbassò lo sguardo un istante, per poi tornare a guardarlo negli occhi: - Sareste così gentile da ripetere le ultime cose che avete detto? -
Ora lo sguardo era perplesso, decisamente. Forse anche un po' stupito.
Poi quell'espressione si sciolse in un sorriso gentile e Len sentì un suono abbastanza violento all'altezza del petto.
- Naturalmente. In ogni caso, se non capite qualcosa, dovete dirmelo, oujo-sama. Non aspettate che sia io a chiedervelo. -
Len abbassò di nuovo lo sguardo: - Sì, Gakupo-sensei... - sussurrò.
Sperò davvero che i capelli che gli sfioravano le guance e il mento riuscissero a nascondere il ghign- sorriso di trionfo sulle sue labbra.
Sarebbe stato piuttosto sconveniente, altrimenti.
Ma non era colpa sua se quella voce gentile e pacata si era rivelata tanto bella da sentire - cosa poi stesse dicendo era un altro discorso.
A quella si aggiungeva pure Gakupo stesso e, a quel punto, Len riusciva ad ascoltare una parola sì e dieci no.
Alla fine della "lezione", era giunto alla conclusione che il giapponese fosse senz'altro una bellissima lingua che sarebbe stato ben entusiasta di imparare.
Senz'altro.
Il giapponese, sì.
Qualcosa del genere.

Non doveva mostrarsi eccessivamente interessato al suo precettore di giapponese fin dal primo giorno: da brava fanciulla virtuosa, non si mostrò troppo invadente, rivolgendogli la parola solo quando necessario, ascoltando composto sua madre che spiegava come Gakupo l'avrebbe anche accompagnato in paese e che, a conti fatti, era al suo completo servizio.
- Farò in modo di non darvi troppo disturbo, Gakupo-sensei. -
- Permettetemi di dubitare che voi possiate mai darmi disturbo, oujo-sama. -
Non doveva mostrarsi eccessivamente interessato al suo precettore di giapponese neppure dal secondo giorno: saluti di rito, dialoghi di circostanza, le lezioni che iniziavano ad assumere la forma di lezioni - aveva addirittura aperto un libro.
Non doveva mostrarsi eccessivamente interessato al suo precettore di giapponese né dal terzo giorno né dal quarto.
Poi giunse il quinto giorno e Len capì che aveva passato fin troppo tempo a fare la timida fanciulla ingenua dai pensieri puri che non era.
- Spero che... - posò la tazza sul piattino, piano, lo sguardo fisso nel the al suo interno: - ... qualora si presentasse l'occasione, sarete tanto gentile da accompagnarmi ad un ballo. -
- Certo, oujo-sama. Se è questo ciò che desiderate. -
Ottima risposta.
Azzardò uno sguardo rapido al suo interlocutore: Gakupo era seduto al suo fianco, senza nessun'altra fastidiosa presenza - tipo cameriere, servitori o genitori. Come sempre, il giardino interno si rivelava un luogo perfetto per prendere il the in tutta tranquillità.
C'era solo un fattore stonato in tutta quella perfezione, qualcosa che Len aveva avuto modo di notare in quei cinque giorni: riuscire a far parlare spontaneamente Gakupo era un'impresa titanica. Aveva notato che si limitava a rispondere - sempre gentile -, a parlare solo di cose che riguardavano le lezioni o "cose importanti" e dire frasi come: - Oujo-sama, è proprio necessario cerchiare tutte le vocali su quel libro? -.
Aveva capito che avrebbe dovuto estrargli le parole con la forza. O, almeno, fargli intuire che voleva fare conversazione - se era davvero al suo servizio, avrebbe dovuto fare conversazione con lui.
- Avete già debuttato? -
Trattenne un sorriso soddisfatto: evidentemente, aveva intuito.
Si tirò indietro le ciocche sfuggite alla crocchia: - Non ancora. Ma non manca molto. Ho quindici anni... - rallentò appena la parlata, calcando sulla cifra: - ... ormai sono un'adulta. E' questione di uno o due anni prima che debutti in società. - un sospiro noncurante: - Intanto, partecipo a balli privati. - stavolta guardò l'altro direttamente: - Voi avete mai partecipato a dei balli, Gakupo-sensei? -
- Sì. - fu la pacata risposta: - Anche se non molto spesso, in verità. -
- Capisco... - tornò a dedicarsi alla tazza: "Va già meglio. Decisamente meglio.". Bevve un piccolo sorso, lanciando uno sguardo veloce all'altro: i riflessi del sole prossimo al tramonto creavano uno strano effetto sui suoi capelli. Li rendevano quasi viola. Castanoviola. Non sapeva come fosse fisicamente possibile, ma i capelli di Gakupo sembravano davvero tendere al viola melanzana.
Bevve un altro sorso: "Forse è il caso di iniziare ad essere diretti.".
Tornò a guardarlo apertamente - notò che era più lento di lui a bere il the, il che era tutto dire: - Per curiosità... - accennò ad un sorriso: - ... potrei sapere quanti anni avete? -
Ovvio che tra di loro ci fosse una massiccia differenza d'età, era palese che l'altro fosse molto più grande di lui. Soltanto, avrebbe voluto sapere di quanto.
Riportò la tazzina alle labbra.
- Ventitré. -
Si soffocò col the.
Tossì, sentì la mano di Gakupo sulla schiena.
Inspirò ed espirò un numero imprecisato di volte, gli occhi sgranati: - C-cosa? - balbettò, quasi soffocandosi con un altro colpo di tosse.
Se non altro, anche l'espressione dell'altro sembrava stupita: - Ventitré. - ripeté, piano: - ... tutto bene, oujo-sama? -
- C... - posò la tazzina sul piatto, giusto per non far fare una brutta fine al the rimastovi dentro: - ... credevo ne aveste trentacinque! -
"Come sarebbe a dire ventitré?" cominciavano a fargli male gli occhi, tanto li teneva spalancati: "Secondo quale logica costui ha ventitré anni?".
- ... trentacinque...? -
Si fece attento: la voce di Gakupo non era esattamente calma e pacata. C'era una nota strana, nel suo tono, che spezzava quella seraficità. Anche la sua espressione sembrava essere più tirata.
- ... trentasei...? - fece Len, piano.
- Suvvia, non esageriamo... - la nota sempre più forte.
- Trentasette? -
- Ma perché non cinquanta? - decisamente più forte.
- Beh, cinquanta magari no... - piegò appena la testa di lato, ancora sconvolto: - ... forse quaranta... -
Sì, il sorriso di Gakupo non aveva più alcuna traccia di calma e più tirato di così non si sarebbe potuto. Anche lo sguardo era molto meno pacato. Non avrebbe saputo dire cosa fosse esattamente, ma gli sembrava avesse assottigliato gli occhi.
- Invece sono ventitré. - lo vide recuperare la sua tazzina e bere un sorso di the, con un movimento quasi meccanico. Anzi...
"... è..." capì, di colpo: "... stizzito...?".
Soffocò una risata: "Non ridere, non ridere, non ridere, nonriderenonriderenonriderenonridere-"
- E' che... - provò a scusarsi: doveva farlo. Aveva fatto una brutta figura, doveva rimediare, doveva- "Nonriderenonriderenonridere": - ... il vostro aspetto e i vostri modi sono molto maturi, per la vostra età... - sorrise, sperando di non scoppiare a ridere.
- Sì. - la voce di Gakupo era quasi atona, lapidaria: - Me lo dicono spesso. -
Len trasse un profondo respiro: "Non devo ridere. No.". Portò una mano alle labbra: - Perdonatemi. -.
Se non altro, Gakupo aveva perso la sua compostezza per qualche secondo: "Direi che è il caso di osare di più..."
- Se non sono troppo indiscreta... - esordì, calmo, riprendendo la tazzina: - ... per quale motivo vi trovate in Inghilterra? -
Lo sguardo dell'altro perse quell'ombra di stizza, tornando - quasi - pacato: - Questioni di lavoro. -
- Lavoro? - sbattè le palpebre, accennando ad un sorriso: - Non credo parliate del ruolo che rivestite in questo luogo. -
"No, non vi permetterò di rispondermi con frasi lapidarie."
Gakupo scosse appena la testa. Quando parlò, la sua voce era tornata del tutto serafica, senza incrinature: - No, infatti. La mia è una famiglia di mercanti, da molte generazioni. Mio padre ha deciso di aprire i commerci con i Paesi esteri e io ho fatto altrettanto. Per questo vivo in Inghilterra. -
Len sorrise: "Ha detto più di quanto mi aspettassi." ci pensò un attimo: "Forse ha capito che gli avrei comunque fatto altre domande.".
- E' da molto tempo che vivete in Inghilterra? - era sinceramente curioso di saperlo: a giudicare dalla parlata, dovevano essere svariati anni - oppure aveva avuto un insegnante di inglese più che competente.
- Sono venuto qui per la prima volta poco più di dodici anni fa. -
"Come pensavo, allora."
- Ma sono stabile qui da circa sette anni. -
Un pensiero improvviso colpì la mente di Len: Gakupo era tornato a parlare con il suo solito tono pacato e la sua solita espressione calma ma c'era una cosa che sembrava stonare comunque...
- Sette anni? - ripeté, piano: - Siete mai tornato in Giappone? - non sapeva perché, ma aveva iniziato a percepire uno strano peso all'altezza del petto.
Qualcosa attraversò gli occhi dell'altro - sorpresa, forse?
- Sono tornato, sì. - la risposta aveva una nota di esitazione. Eppure, bastarono quelle poche parole per sentire il petto più leggero.
- Non molte volte, in verità. - proseguì Gakupo, il tono di nuovo neutro: - Due, per la precisione. -
- E vi sono bastate? -
L'altro gli rivolse uno sguardo interrogativo.
Len sentì le guance farsi appena più calde: - Intendo... - "Che sto dicendo?": - I vostri famigliari... oppure vivete qui con loro? -
"Perché ho dato per scontato che Gakupo-sensei vivesse qui da solo?" per un istante, desiderò che Gakupo provasse uno slancio d'interesse verso qualsiasi altra cosa possibilmente non nelle sue vicinanze e smettesse di guardarlo. Sentiva le guance troppo calde.
- No, sono tutti in Giappone. - un accenno di sorriso.
"Non sembra... triste...?" Len sbattè le palpebre, ancora una volta: "... in questi casi, di solito, non c'è un po' di malinconia? Ma non sembra odii i suoi parenti..."
- Però, stare così lontani... - sussurrò, più a se stesso che a lui: - E poi, vostra moglie? -
Completamente disinteressato.
- Non ho una moglie. -
Len strinse la presa sul manico della tazzina: - Beh, la vostra promessa sposa... -
- Non ho una promessa sposa. -
- Comprendo... - dovette posare la tazzina sul piatto, giusto per impedirsi di lanciarla in aria: - Quindi non dovete occuparvi di questioni del genere. -
- Esattamente. -
La sua voce era sempre pacata. Sempre. Qualsiasi cosa dicesse.
Len, invece, trasse un profondo respiro. Doveva allontanarsi. Immediatamente. O, almeno, il più presto possibile.
Riuscì a ciarlare a vuoto per un altro paio di minuti, prima di congedarsi e andare a "riposarsi un po' nella propria camera".
Quando la porta si richiuse alle sue spalle, cacciò un urlo: - NON E' SPOSATO! NON C'E' NESSUNA! NESSUNA! E' LIBERO COME L'ARIA! -
Corse sul letto, tuffandovisi, per poi afferrare il suo pupazzo nero e guardarlo nell'occhio visibile: - E' assolutamente liberissimo! Ed è giovane! E' poco più grande di me! POCO! POCHISSIMO! - si lasciò cadere di schiena sul materasso, lanciando le scarpe chissà dove: - E' giovane, bello, libero e al mio completo servizio! - sollevò il pupazzo: - Non credi che sarebbe un terribile spreco non approfittarne? -
Doveva. Assolutamente. Sarebbe stato folle il contrario.
Strinse il pupazzo al petto, come a voler impedire che il cuore schizzasse fuori: lo sentiva battere con violenza fin da quando aveva sentito quelle parole, talmente forte da farlo rabbrividire, premendogli gli angoli della bocca per curvargli le labbra verso l'alto, tanto forte da scaldargli il petto e riempirgli le orecchie con il suo martellare.
Non era una brutta sensazione, però. Tutt'altro.
- Sono bella... - sussurrò, affondando il viso tra le orecchie del pupazzo: - ... parto molto avvantaggiata rispetto alle altre... -
"Le altre?"
Scattò seduto, il cuore sobbalzò.
Strinse le labbra e tornò a guardare il pupazzo nell'occhio: - Abbiamo un problema. -.
Lo mise seduto d'innanzi a sé, per poi sedersi a sua volta in modo più o meno composto. Quando parlò, il suo tono era serio: - In questa casa, ai balli e anche per strada, potrebbe succedere che Gakupo-sensei s'imbatta in delle donne. Dunque, in potenziali avversarie. - socchiuse gli occhi: - Dobbiamo trovare un modo per eliminare qualsiasi concorrenza. -.
Mise le braccia conserte, studiando attentamente le sue rivali, come se le avesse davanti: - Non è necessario essere alte per essere notate. - riflettè: - Tuttavia, loro possono catturare l'attenzione di un uomo semplicemente mostrando pelle. - gli occhi erano ridotti a fessurre: - Tsk. Non vi bastano un paio di seni per essere più attraenti di me. -
Riaprì del tutto gli occhi: - Inoltre, io sono una duchessa. Se io voglio qualcosa, voi dovete solo abbassare lo sguardo, volgari pezzenti. -
Questo significava anche: - Ma certo! - giunse le mani, tutto improvvisamente più chiaro: - Nessuna delle mie servitrici potrà anche solo osare toccare Gakupo-sensei! Se poi lo facesse lo stesso, beh... - si portò indietro i capelli: - ... sarebbero fanciulle incompetenti che sarebbe inutile tenere in casa, non credi? - sorrise, innocente.
Rimaneva solo un punto: - Non credo mia madre possa puntare a Gakupo-sensei... - accarezzò un orecchio del pupazzo, piano: - ... a lei piacciono più gli inglesi puri. Tutti i suoi amanti lo sono. - alzò le spalle: - Comunque, se anche ci facesse un pensiero, potrei sempre reclamarlo per me. Non può dirmi di no. -.
Battè le mani, con un sorriso: - Abbiamo risolto il problema! - trillò: - Grazie dell'aiuto! - posò un bacio sulla fronte del pupazzo.
Era come se il suo cuore si fosse fatto dieci volte più grande, e batteva forte, caldo, leggerissimo.
Era una bella sensazione.

Gakupo non aveva mai mostrato segni di attrazione nei suoi confronti.
Dunque Len doveva far sì che li mostrasse.
E, per far sì che li mostrasse, avrebbe dovuto conquistarlo.
- Mi servono dei consigli affidabili! -
Attirare l'attenzione degli uomini non era mai stato un problema, per lui. Tuttavia, stavolta non aveva intenzione di essere solo ammirato e corteggiato.
Non riusciva a capirne il motivo, ma desiderava che Gakupo guardasse solo lui. E non perché doveva controllarlo su ordine dei suoi genitori.
- Questo dovrebbe funzionare! -
Non avendo un'idea precisa di come portare a termine il suo proposito, era andato a fare ricerche nel luogo dove, per antonomasia, si svolgevano ricerche: la biblioteca. Così, dopo aver fatto razzia della stragrande maggioranza di libri a sfondo romantico, aveva cercato le pagine che più gli sarebbero potute tornare utili.
Due giorni dopo, aveva appreso abbastanza teoria da poter iniziare a mettere in pratica.
"Allora, ho tutto?" riepilogò, scrutando il corridoio, in attesa dell'arrivo di Gakupo: "Vestito migliore?" abbassò lo sguardo, sul suo abito blu, dai merletti neri: "Presente. Nastro poco stretto?" sfiorò appena la crocchia, attento a non disfarla: "Presente. Giarrettiere piuttosto che reggicalze?" non poteva controllare con mano, ma le sentiva attorno alle gambe: "Presenti. Biancheria più corta del solito?" ben due dita più corta: "Presente. Sì, sono pronta!".
Appena in tempo per intravedere Gakupo.
Scappò nella stanza, fiondandosi sulla prima sedia disponibile, lo sguardo corse alla finestra. Pochi istanti dopo, sentì l'altro entrare.
- Ohayou gozaimasu, oujo-sama. -
Len si voltò verso di lui: trasmetteva calma serafica solo guardandolo - o ascoltandolo. La trasmetteva agli altri, perlomeno.
- Ohayou gozaimasu. - ripetè, pacato. Era il momento perfetto.
Si alzò, diretto al proprio posto.
E si schiantò sul pavimento.
"... ahio."
- Oujo-sama! -
"Perfetto!" trattenne un sorriso di trionfo: "Nessuno può rimanere impassibile di fronte alla combinazione 'povera fanciulla indifesa e bisognosa d'aiuto' e 'oh, no, le mie grazie sono malauguratamente finite scoperte!'! Nessun uomo può resistere al misto di ingenua tenerezza e malizioso intravedere! Nessuno può-"
- Siete ferita, oujo-sama? -
Un attimo. Perché stava guardando Gakupo dritto negli occhi? E, soprattutto, perché era in posizione eretta, con i piedi sul pavimento, la crocchia integra e il vestito perfettamente al suo posto?
- ... no. Tutto bene. - sforzò un sorriso.
Non si era neanche reso conto che l'altro l'avesse tirato su, tanto era stato veloce a farlo. E che gli si era inginocchiato davanti, per guardarlo in viso, forse per controllare che non si fosse fatto male sul serio. Era strana la voce di Gakupo, quando era preoccupato. Sembrava quasi premurosa. Era piacevole. Non che di solito non lo fosse. Era una sfumatura diversa, piacevole in modo diverso.
Tuttavia, rimaneva il fatto che il suo piano era fallito.
"Non sarà certo un singolo fallimento a fermarmi! Riproverò un'altra volta!".
- Oujo-sama! -
- Ahio... - forse lanciarsi dal secondo gradino non era stata un'idea geniale. Era riuscito a frenare la caduta con le mani, prima che il suo naso si spiaccicasse sul pavimento, ma aveva comunque sbattuto le ginocchia e i palmi non facevano meno male.
Senza contare che...
- Oujo-sama, perdonate la mia invadenza... - di nuovo inginocchiato, di nuovo quel tono rassicurante - forse un po' incerto, stavolta -, di nuovo quello sguardo preoccupato. Se non altro, era finalmente riuscito a sentire le mani dell'altro tirarlo su, sollevandolo da sotto le braccia.
- ... ma non credete sia meglio cambiare scarpe? -
Len gonfiò appena le guance, sfregando i palmi doloranti: - Perché? -
- Credo fatichiate a camminarvi... -
- Non è vero. -
- E' da quando le indossate che non fate altro che cadere... -
- Sono cose che capitano. -
- Oujo-sama, senza contare stamattina, siete caduta nove volte. -
- Cose che capitano, ho detto. -
- In dieci minuti. -
- Mh. -
Senza contare che i dolori delle cadute precedenti erano ancora vividi.
"Come ho potuto fallire?" strinse i denti, evitando lo sguardo dell'altro: "Sarei dovuta cadere graziosamente e suscitare istinti di protezione. Inoltre, mi sarei dovuta ritrovare con i capelli sciolti e le gambe scoperte! Perché non è successo nulla di tutto questo?"
La crocchia era perfettamente integra. La gonna si era ostinata a rimanere giù. E lui aveva guadagnato tutte le giunture doloranti - riuscendo a salvare il viso non si sa come. Quello, sui libri, non c'era scritto.
"Direi che questo piano non funziona." preferiva smettere di fare tentativi prima di spaccarsi davvero qualcosa: "Devo pensare ad un piano di riserva.".
- Su, oujo-sama. - tornò a guardare Gakupo, riportato alla realtà dalla sua voce: - Andate ad indossare scarpe più comode. -
Len mise le braccia conserte.
"A questo punto, direi che non posso fare altriment-"
- AH! -
Durante quella giornata, gli era capitato diverse volte di non sentire più nulla sotto i piedi.
Soltanto, era stato per pochi istanti, subito seguiti da sensazioni discretamente dolorose.
In quel momento, erano già svariati secondi che si sentiva sollevato, qualcosa contro la schiena, qualcosa dietro le ginocchia.
- Perdonatemi. -
Len alzò lo sguardo, verso Gakupo. Era sicurissimo di avere un'espressione scioccata - i suoi occhi più spalancati del solito potevano dirsi un buon indizio.
- Non mi fido a lasciarvi camminare oltre. -
"Mi... ha... presa in braccio?"
Afferrò la stoffa della giacca bianca di Gakupo, gettando brevi occhiate qui e lì, mentre l'altro lo portava, presumibilmente, alla sua camera: "... si sta in alto, devo dire.". Si guardò intorno: i candelabri a muro erano più vicini del solito, il pavimento più lontano. Era strano e piacevole al tempo stesso.
"... mi ha presa in braccio?"
Lo realizzò del tutto solo in quel momento, quando ormai l'altro aveva salito almeno due rampe di scale.
Sentì l'intero viso andare a fuoco.
Sicuramente, il martellare del suo cuore era udibile anche al piano di sotto.
"... un uomo mi ha presa in braccio." guardò la stoffa bianca nel suo pugno: "Sto toccando un uomo." sgranò gli occhi: "Un uomo mi sta toccando." schiuse le labbra: "IL PIANO FUNZIONA!".
Era il momento perfetto, l'occasione propizia, quanto di meglio sarebbe mai potuto succedere: c'era del contatto fisico e suo preciso compito era approfittarne quanto più impunemente possibile. Doveva solo allungare le mani e gettargli le braccia al collo.
"Uhm, no, troppo spudorato."
Avrebbe potuto lasciargli la giacca, aprire il palmo e accarezzargli il petto.
"... petto...?"
Non che avesse il cuore in gola - più che altro, l'avrebbe sputato di lì a poco.
E, probabilmente, gli avrebbero preso fuoco ciglia e sopracciglia, tanto le guance ustionavano.
"S-su, non puoi fare la vergine pudica!" si trattenne dall'affondare il viso tra le mani: "Tu non hai niente di pudico, Len! Non puoi pensare e sognare quanto di più lussurioso esista e poi bloccarti non appena un uomo ti tocca sul serio!"
Cercò un briciolo di lucidità: "E' ciò che vuoi, no? Non vuoi?"
Sentì le guance raffreddarsi, la mente farsi più presente: "E' quello che voglio, sì." strinse le labbra: "Quindi non posso perdere occasioni!"
- Questa è la vostra camera, giusto, oujo-sama? -
"... per l'appunto."
Quando sentì di nuovo il pavimento sotto i piedi, si ricoprì di insulti.
"Ora basta! Non posso perdere altro tempo!"
Si voltò a guardare Gakupo. Sbattè le palpebre: - Vi ringrazio molto per il vostro aiuto. - le sbattè di nuovo: - Mi spiace avervi fatto preoccupare. - le sbattè di nuovo: - Perdonatemi se vi ho anche spinto a portarmi qui di peso. - le sbattè di nuovo: - Vogliate scusarmi. - le sbattè di nuovo.
"Sfarfalla le ciglia, Len! Sfarfalla, sfarfalla!"
- Non avete nulla di cui scusarvi, oujo-sama. - un leggero inchino, il braccio appena piegato sotto il petto: - Vogliate perdonarmi voi per aver usato metodi tanto bruschi. -
"Bruschi?"
Sbattè le palpebre: - Assolutamente. - le sbattè di nuovo: - Siete stato molto gentile. - le sbattè di nuovo.
- Uhm, oujo-sama...? - il tono esitante.
- Sì? - sbattè le palpebre.
- ... avete qualcosa in un occhio...? -
- ... -
Smise di sfarfallare le ciglia.
- No. Tutto bene. -.
"La cosa è più complicata del previsto.".
L'epressione dell'altro, nonostante un leggero velo di perplessità, tornò calma come sempre: - Allora vi lascio andare. Se ci sono dei problemi, non esitate a farmeli presenti. -
Len si coprì la bocca con una mano, nascondendo il sorriso che gli era sfuggito: - Suvvia, Gakupo-sensei! Non sono una bambina! -
E tutto divenne improvvisamente chiaro, come un fulmine in piena notte.
"Il modo in cui mi ha tirata su... il modo in cui mi ha presa in braccio... il modo con cui mi si rivolge... e... il suo essere così accondiscendente... lui..." sentì uno strano tic ad un lato della bocca: "... mi considera... una bambina?".
Strinse i pugni.
- Siete sicura non ci siano problemi, oujo-sama? -
- Sicurissima. Sì. - mise mano alla maniglia: - Vado ad indossare scarpe più comode. Vi ringrazio ancora. - entrò nella camera e si richiuse la porta alle spalle.
Con poche falcate, raggiunse lo specchio, si sciolse i capelli con un gesto stizzito.
- Non sono una bambina! - sibilò, sfilandosi le scarpe e buttandole in un angolo.
Schiaffò una mano sulla superficie riflettente, gli occhi ridotti a fessure: - Ve lo dimostrerò! E non oserete mai più pensarlo neppure per sbaglio! Vi dimostrerò che sono molto più donna di tutte le donne che avete conosciuto o anche solo intravisto! -.

Riuscire ad attirare davvero l'attenzione di Gakupo era un'impresa ancor più titanica che farlo parlare spontaneamente - in quel caso, almeno, c'erano stati dei risultati positivi.
Durante quel mese, Len aveva letto praticamente tutti i romanzi rosa della biblioteca - era arrivato anche a spiare le altre ragazze, fossero domestiche o semplici passanti, in paese, per studiarne le movenze, la parlata, qualsiasi cosa; osservazione che si era rivelata decisamente infruttuosa - la quasi totalità delle altre donne era equamente divisa tra banali, rozze e volgari.
Per potersi far notare, non poteva neppure utilizzare la sua arma "alone di mistero", visto che Gakupo viveva sotto il suo stesso tetto e l'aveva visto anche con lo sguardo vispo e strabordante voglia di fare che aveva appena alzato, durante la colazione.
Nel mentre, Len aveva perfezionato la sua mira nel tiro a bersaglio: bastava che una qualsiasi donna di età compresa tra i quindici e i trent'anni si avvicinasse a Gakupo con intenti diversi del chiedergli l'ora che lui la inceneriva con un'occhiata. Negli ultimi tempi, era diventato anche più veloce, riducendo a mucchietti di cenere - con tanto di filo di fumo che si levava dalla cima delle montagnole - qualsiasi essere di sesso femminile con scritto in fronte "concorrenza" che entrava nel suo campo visivo.
Non che il suo sensei attirasse donne come una torta di banane avrebbe potuto attirare lui, ma non era neppure qualcuno in grado di passare del tutto inosservato. Il fatto di essere discretamente alto, orientale, con i capelli color melanzana e piuttosto sopra la guardabilità media della regione potevano essere tutti motivi del suo attirare sguardi su di sé, per quanto lui non sembrasse prestarvi attenzione. Questo era contemporaneamente un fatto positivo e uno negativo: positivo perché le famigerate "concorrenti" partivano con pochissime possibilità; negativo perché la cosa valeva anche per Len.
Tuttavia, lui poteva fare ciò che le altre non avrebbero mai potuto fare: poteva avere un contatto fisico senza essere tacciato di volgarità. Ciò tornava particolarmente utile quando s'imbattevano in donne indecenti che si ostinavano a non ridursi a cenere fumante, ignorando i suoi pacifici sguardi di avvertimento; in quei casi, bastava mettersi sottobraccio al suo accompagnatore, con un sorriso angelico e la voce vellutata, miagolando qualche idiozia a caso capace di distogliere la sua attenzione dalla donnaccia che si era parata sulla sua strada.
Tutto, però, rimaneva in una situazione di stallo: se lui faceva di tutto per farsi notare-
- Oujo-sama, potreste non ricoprire il libro di frecce verso il basso? -
- Non sono verso il basso. Indicano me. -
- Ciò non toglie che siano verso il basso. -
- Allora giro il libro e faccio frecce verso l'alto, così continuano ad indicare me e voi non dovete preoccuparvi delle frecce verso il basso. -
- No, oujo-sama. Sarebbe di gran lunga preferibile lasciare i libri immacolati. -
-Gakupo si ostinava a non capire.
A volte la sua espressione e il suo tono si facevano più perplessi, esitanti - di solito, quando Len esagerava nel fare stupidaggini -, ma per il resto erano sempre calmi e gentili, senza varianti.
Era oltre un mese che lo conosceva, ormai, e aveva sempre la stessa espressione. Alle volte, gli veniva voglia di stuzzicarlo di nuovo sulla sua età, per vedere ancora quella reazione stizzita - unico caso di cambio di tono che gli avesse mai sentito.
- Uffa! - sbottò Len, nella propria camera, sotto lo sguardo del suo pupazzo seduto sul letto: - Devo fare qualcosa! Ma cosa? - guardò il giocattolo: - Tu hai qualche idea? -
Nessuna risposta.
- In effetti, è un grosso problema... - sospirò, camminando in cerchio: - Nei romanzi non ci sono di questi problemi! Lì le cose sono molto più semplici! Forse ho sbagliato da qualche parte? - aggrottò la fronte, riepilogando tutto ciò che era successo in quelle settimane: non trovò nulla da etichettare come "fallimento sicuro senza neppure provare".
- UFFA! - sbattè i piedi e si lasciò cadere sul letto, ottenendo di far finire a testa in giù il povero pupazzo per il contraccolpo delle coperte.
- Perché attiro inutili pretendenti e non riesco ad attirare l'unico che voglio? - aprì le braccia, con gesto di stizza: - Anche se, almeno, lui non sembra aver mostrato interesse per nessuna... - si portò un dito alle labbra, pensieroso: - Beh, come dargli torto? Forse potrebbe presentarsi qualche donna più d'interesse ai balli... - socchiuse gli occhi: - Questo non andrebbe affatto bene. -.
Recuperò il pupazzo, lo raddrizzò e se lo strinse al petto: - C'è qualcosa che mi sfugge, in tutto questo... - riflettè: - Uhm, hai ragione, proviamo a spostare la situazione su di me. Io attiro pretendenti. Alcuni hanno anche chiesto la mia mano. - scacciò quel pensiero: - Come li ho attirati? E dove? Non certo per strada, erano tutti nobili di alto rango. Dunque, sì, li ho attirati ai balli, non c'è altra spiegazione. - guardò il pupazzo, sentendo di essere sulla buona strada: - Rimane da chiedersi come io li abbia attirati. Come io sia riuscita ad attirare non gente comune e ignorante che guarda chiunque in maniera spudorata, ma ottimi partiti, gente con una certa cultura. Cos'è che loro hanno visto? Non credo sia solo un vestito elegante a fare la differenza. Loro sono stati attirati da una donna bella ed elegante, non da una stupida mocciosa qualsiasi che batte i piedi e piagnucola perché non le danno i dolc- - si bloccò.
Scattò seduto, il cuore che martellava.
- ... oh... -
Si portò una mano tra i capelli, il sangue si gelò: - ... mi sono sempre comportata come una mocciosa, davanti a lui! - strinse il pupazzo: - Ovvio che non mi abbia degnata di uno sguardo! Ai suoi occhi, sono solo una marmocchia che fa i capricci come una qualsiasi mocciosa di strada! -
Sentì le guance andare a fuoco: - Mi vede davvero come una poppante! -
No. Questo non andava affatto bene.
Non solo perché era stato accostato ad una popolana che puzzava di latte - e già questo era abbastanza offensivo -, ma perché, in quel modo, l'altro non l'avrebbe mai visto come una donna.
"Devo rimediare, prima che sia troppo tardi!"
Si mise in piedi, sentiva di non poter stare fermo un solo istante di più, il sangue si era sciolto, ribollliva nelle vene: - D'accordo, allora. - raggiunse lo specchio, scostando dal viso le ciocche bionde.
Accennò ad un sorriso: decisamente frivolo e ingenuo. Però gli sarebbe potuto tornare utile.
Fu nel pensarlo che il suo sorriso mutò: non tanto nelle labbra, quanto più nello sguardo. Era un sorriso soddisfatto, ma l'ingenuità era scomparsa del tutto.
Durò un attimo: quando cercò di prestarvi più attenzione, il suo sguardo tornò il solito, facendo cadere quella strana espressione.
- Uhm... - piegò appena la testa di lato: - ... non devo pensarci. Devo solo agire. -
Gli parve di vedere l'ombra di quel sorriso strano. Si coprì la bocca con una mano, sfoggiando lo sguardo più innocente che poteva: - Del resto, non devo essere io a guardare, no? -.

Era stato decisamente troppo irruento. Certe cose andavano fatte con calma, con estrema calma, portate avanti poco alla volta, in maniera quasi impercettibile.
S'impegnò durante le lezioni. Non lanciò più occhiatacce - non sempre, almeno, dato che alcune donne troppo audaci se l'erano meritate. Ridusse in maniera drastica il suo parlare con Gakupo - addirittura, arrivò a non rivolgergli la parola per tutto il tragitto in carrozza fino al paese, andata e ritorno. Durante il the, parlava di argomenti di circostanza, come il tempo o i pasticcini, o di interesse alcuno, come le lezioni. Non gli fece nessuna domanda privata, non lo prese più sottobraccio - se non rarissime volte - e iniziò a non separarsi dal suo ventaglio: lo aiutava a riempire i silenzi, sventolandolo o nascondendovi parte del volto, lasciando visibili solo gli occhi.
Oppure lo faceva malauguratamente cadere, cosa che portava Gakupo a raccoglierlo e a restituirglielo - e cosa che portava Len a guardarlo dall'alto, dato che lui rimaneva in ginocchio finché esso non tornava nelle sue mani.
- Sapete, Gakupo-sensei... - aprì il ventaglio, sventolandolo appena: - ... siete davvero un bravo cagnolino. -
Lo vide sgranare gli occhi, come non aveva mai fatto in quelle settimane. Ottimo.
- Prego? -
- Questo cade... - lasciò la presa, il ventaglio rimase a mezz'aria, trattenuto dalla cordicella attorno al polso: - ... e voi lo raccogliete. - lo riprese e riaprì, stavolta tenendolo fermo: - Vi chiedo una cosa, voi la fate. Proprio come un cagnolino addestrato. - sorrise.
Aveva notato che lo sguardo di Gakupo, in quell'ultimo periodo, si era fatto appena diverso: sembrava quasi esserci una piccola luce di curiosità.
Casualmente, proprio in concomitanza con il suo cambio di atteggiamento nei suoi confronti.
- Sono parole molto irrispettose, oujo-sama. - la sua voce era fredda, l'espressione era diventata impassibile: - Mi era parso aveste imparato l'educazione che si confa ad una donna. -
Len nascose le labbra dietro il ventaglio. Non poteva esibire quel sorriso di trionfo in cui si erano piegate.
- Curioso siate proprio voi a parlarmi così. - alzò appena il ventaglio: - Mi era parso foste immune a qualsiasi tipo di provocazione. -
Quella maschera fredda s'incrinò.
"Col-pi-to."
- Facciamo una passeggiata qui intorno, Gakupo-sensei? - guardò fuori dalla finestra, verso i prati che circondavano la magione: - Non credo abbiamo mai avuto una vera chiacchierata, noi due. - chiuse il ventaglio, sorrise, innocente.
L'espressione dell'altro era tornata glaciale. Quando parlò, la voce era atona: - Sì, oujo-sama. -.
"Temo che l'appellativo non gli sia piaciuto..." ridacchiò, senza farsi notare, mentre uscivano.
Una volta fuori, aspettò qualche minuto - il tempo di mettere discreta distanza tra loro e l'edificio -, prima di parlare: - Non vorrete tenermi il muso per un piccolo scherzo, eh, Gakupo-sensei? -
- Il vostro senso dell'umorismo è alquanto distorto. -
- Lo trovate infantile? - portò di nuovo il ventaglio davanti al viso.
Sentiva l'atmosfera non esattamente positiva, ma la cosa non lo turbava affatto. Anzi.
- Lo trovo crudele. -
Un sorriso nascosto: "E così, non lo trovate infantile, eh?".
Chiuse il ventaglio, gli accarezzò le frange dorate sulle spalle: - Vogliate perdonarmi. - sussurrò, osservando i fili intrecciarsi alle dita: - A volte, mi capita di usare termini che finiscono con il ferire le persone, anche se non è mia intenzione. - sospirò: - E' davvero difficile individuare il confine tra scherzo e offesa. Temo sia qualcosa che varia da persona a persona, fino ad un certo punto. Del resto, io sono stata appellata come "scimmia" perché mangio troppe banane. Ma non mi sono offesa. - guardò Gakupo negli occhi: non erano più freddi, ma non erano neppure calmi.
- Mi chiedo se non siate voi ad essere troppo permaloso. O se sono io a sbagliare. - sospirò di nuovo: - Parlare con qualcuno oltre i convenevoli è davvero difficile, non trovate? E io sono del tutto inesperta. - abbassò lo sguardo, lasciò scivolare le dita lungo la stoffa bianca sul braccio: - Quindi non sono mai davvero sicura di dire la cosa giusta. Voi come fate a sapere cosa dire? - tornò a guardarlo, la mano si fermò all'altezza del gomito.
L'atmosfera negativa se n'era andata. L'espressione di Gakupo era semplicemente impassibile - o forse era più corretto dire "calma con un accenno di qualcosa di indefinito nello sguardo"; Len avrebbe anche osato dire che quella cosa fosse "sospetto".
- Ritengo che il sentirsi offesi, in una certa misura, sia effettivamente un qualcosa che varia da persona a persona. - disse, piano: - Tuttavia, ritengo anche che tra l'appellativo scherzoso e l'appellativo che lede la dignità di qualcuno ci sia una certa differenza. -
- Addirittura la dignità! - Len sorrise: - Ma i cagnolini sono carini! Forse trovate intaccata la vostra compostezza nell'essere equiparato ad una palla di pelo morbida? -
Di nuovo, la sua espressione fu incrinata.
- Dubito che il vostro paragone fosse di questo tipo, oujo-sama. -
- Volevo vedere qualcos'altro. -
Gakupo sgranò gli occhi. Stavolta era palesemente disorientato: - Prego? -
- Eravate davvero buffo quando vi siete stizzito, quella volta che abbiamo parlato della vostra età. - a giudicare dalla leggera contrazione di un angolo della bocca, era decisamente suscettibile, sull'argomento: - Tuttavia, sembravate anche meno statua. -
- Statua...? -
- Siete sempre preciso, sempre composto, sempre rigido, sempre calmo, sempre gentile, sempre "sempre". - alzò gli occhi al cielo: - Volevo vedere qualcos'altro. Qualcosa che non fosse solo il sensei che mi chiama "oujo-sama". -
Dall'espressione di Gakupo, sembrava gli avesse appena detto che il cielo è verde, il prato blu e che la marmellata di fragole sui broccoli lessi ci stava una meraviglia.
Lo vide ricomporsi, anche se meno velocemente del solito: - Ciò che voi vedete è il vostro insegnante di giapponese. - stavolta, il suo sguardo era deciso: - Non mi è richiesto altro, se non quello di accompagnarvi e difendervi da eventuali pericoli. -
- Sono io a richiedervi altro. -
Colpito di nuovo. Ma non lo vide tentennare.
- Ossia? -
Len piegò la testa di lato: - Siate meno rigido. Potete anche chiamarmi per nome. -
- Non potrei mai, oujo-sama. -
"Umpf."
- Siete veramente poco equo. - sventolò il ventaglio, davanti al viso: - Io vi chiamo per nome. Sarebbe carino se anche voi faceste lo stesso. -
- Oujo-sama può chiamarmi come più desidera. Io non azzardo a fare altrettanto. -
Doveva mantenere un'espressione tranquilla. Anche se la risposta non gli era piaciuta affatto.
- Ecco cosa intendevo con "troppo rigido". Siete incatenato nel vostro ruolo. - abbassò il ventaglio, sfoderò lo sguardo più lacrimevole che poteva: - Devo pensare che mi vediate solo come una fastidiosa fonte di guadagno? -
Stavolta, Gakupo esitò, anche nello sguardo.
- Non vi vedo come una fastidiosa fonte di guadagno, se è questo ciò che temete. - rispose, parlando piano, quasi cauto: - Tuttavia, il mio ruolo è quello di vostro precettore e custode, null'altro. -
- E il mio ruolo è quello di giovane signora della casa. - ribatté Len, impedendosi di ridere: non sapeva perché, ma sentiva le labbra curvarsi verso l'alto.
- Ciò non m'impedisce certo di essere molto meno rigida di voi. - sorrise, abbassando il ventaglio: - Non nascondetevi dietro il vostro ruolo, Gakupo- sensei. La vostra sembra una scusa nel tentativo di non sembrare poco serio. -
"... in effetti, potrebbe essere...?"
Di nuovo quell'esitazione. Forse non aveva sbagliato.
- Non lo dirò a nessuno. - chiuse il ventaglio: - Promesso. - lo portò alle labbra, con un sorriso.
Per tutta risposta, Gakupo sospirò, abbassando le palpebre per un attimo. Quando tornò a guardarlo, la sua espressione era tornata quella pacata di sempre: - Per quanto io possa apparirvi troppo rigido, voi siete troppo audace. -
- Affatto. - il suo sorriso si accentuò: - Sono assolutamente tranquilla. -
Era ovvio che Gakupo non sapesse leggergli nel pensiero. Altrimenti, sarebbero sorti problemi di definizione, nel caso avesse messo in pratica quel che voleva davvero.
- A proposito di abbandonare un po' la rigidità... - riaprì il ventaglio: - Tra dieci giorni si terrà un ballo presso i conti qui vicino. - di cui non ricordava il nome: - Mi farebbe molto piacere se mi accompagnaste. -
Gakupo chinò appena la testa: - Se è questo ciò che desid- -
- "Sì, oujo-sama" andrà bene. -
Incontrò il suo sguardo, a metà tra lo stupito e quello strano sospetto. Ricambiò con un sorriso, abbassando il ventaglio: - Vi ho detto che non mi piacciono le formalità? Inoltre, mettete troppe parole in una frase. Le persone che vi ascoltano rischiano di annoiarsi. Potrebbero distrarsi. -
S'incamminò verso la casa, senza aspettare una sua risposta. Poteva bastare così, per il momento.
"Siete davvero, davvero, davvero difficile, Gakupo-sensei.".

La sua chiacchierata con Gakupo...
... non aveva sortito il benché minimo effetto.
L'unica differenza stava nel fatto che l'altro aveva iniziato a dire: - Sì, oujo-sama. -.
"Siete voi quello crudele, Gakupo-sensei." pensò, sventolando il ventaglio con una certa stizza. Da quando avevano messo piede nella grande sala da ballo, l'altro gli aveva rivolto solo brevi frasi di circostanza, per poi lasciarlo libero di andare dove volesse. Sapeva che, in ogni caso, era sempre nel suo campo visivo, ma sperava di riuscire a trattenerlo con sé per più di un minuto.
Non di meno, lì al ballo aveva effettivamente adocchiato delle ragazze piuttosto piacenti, per non dire belle. E questo non andava affatto bene.
"Sembra non ci sia modo di scuoterlo." si diresse verso le cibarie, alla ricerca di qualcosa che potesse placare almeno un po' il suo malumore: "Mi chiedo se stia facendo il finto tonto o se non capisca davvero." scrutò i piatti: "Forse... pensa che potrei far sì che venga licenziato, se non mi ricambiasse?".
Quell'idea lo fece rabbrividire. Scosse la testa: "Ridicol- banane americane?"
Si avvicinò, incuriosito dal cartellino: tante coppette piene di banane sminuzzate e, al centro, le banane intere in esposizione.
Len aggrottò la fronte: "Sono... minuscole." e lo erano anche le porzioni.
Prese una coppetta e ne assaggiò il contenuto, senza distogliere lo sguardo dalle banane lunghe appena un palmo. Fece appena in tempo ad assaporarle che già erano finite.
Dolci. E microscopiche.
Sospirò, affranto, mettendo la coppetta perfettamente ripulita tra le altre coppette usate: "Oggi non è serata.".
- Tutto bene, oujo-sama? -
Len dovette portarsi una mano al petto, per impedire al cuore di schizzare via. Si voltò, stizzito: - Mi avete spaventata! -
Occhi sgranati. Forse Gakupo non si era reso conto di essergli arrivato alle spalle in perfetto silenzio.
- Perdonatemi, oujo-sama. -
- Le avete assaggiate? - indicò le bananine. Quando l'altro fece di no con la testa, Len sospirò: - Sono buone. Ma sono piccole. Piccolissime. Non mi piacciono le banane così piccole. A me piacciono le banane grandi. -
"... perché Gakupo-sensei si è appena schiaffato una mano in faccia?"
A volte, le reazioni di Gakupo erano alquanto strane.
- Voi, Gakupo-sensei? -
- Io? - sembrava stupito.
Len annuì: - Voi. Avete trovato qualcosa di vostro interesse? -
L'altro rispose dopo un attimo, apparentemente tranquillo: - Nulla di troppo interessante, in verità. -
"..."
Len portò una mano alle labbra, nascondendovi una risata leggera.
Quando incontrò lo sguardo interrogativo dell'altro, la spostò: - Vi preferisco così. Sincero. - sorrise.
Non capì perché ma, quando lo vide aggrottare la fronte, forse per capire davvero ciò che gli aveva appena detto, sentì il cuore battere più forte.
Distolse lo sguardo. Sentiva le guance calde.
Non successe nulla di eclatante durante le ore successive - e neppure i balli erano granché coinvolgenti - ma non la trovò una serata sprecata.
- Oujo-sama, questo potrebbe piacervi? -
- Cos'è? E' carino, è giallo! -
- Pare sia un budino a base di banane americane. Di svariate banane americane. -
- Oh... -
"LO SAPEVO! SAPEVO DI NON POTERGLI ESSERE INDIFFERENTE! QUESTA E' LA PROVA SUPREMA DI QUANTO- ah, che buono...".

- Uffa, ma perché? - sentì una fitta tra le scapole, riportò le braccia avanti.
Non aveva idea di come fosse stato possibile, ma una ciocca di capelli sulla nuca, sfilatasi dalla crocchia, si era impigliata nel secondo bottone del suo vestito, sulla schiena - per quanto, in un primo momento, avesse pensato si fosse incastrata prima nel nodo del collarino, poi nel primo bottone.
Per quanto avesse tirato, aveva ottenuto solo di annodare la ciocca ancora di più nel bottone, costringendolo a sfilarlo dall'asola per disincastrare i capelli.
Il primo bottone, poi, era riuscito a richiuderlo. Il secondo era rimasto aperto. E lui non riusciva ad arrivarci.
Avrebbe potuto prendere tempo rimettendosi il collarino, ma ormai era una questione di principio.
E forse avrebbe fatto meglio a guardarsi nel suo specchio, piuttosto che nel riflesso della finestra della sala. Ma non poteva lasciarla vinta al bottone.
Tra l'altro, a forza di provare a raggiungere il secondo bottone, il primo era scivolato fuori dall'asola. Forse l'aveva allargata troppo, nei suoi tentativi di reinfilarlo.
Sentiva le spalle indolenzite, le braccia iniziavano a fargli male. E la frustrazione aumentava. Soprattutto considerando che i bottoni li sfiorava con la punta delle dita, senza davvero toccarli. Sembrava lo stessero prendendo in giro.
- Ugh, vi odio. - piagnucolò, lasciando le braccia lungo il busto, rilassandosi. Si sentiva tirare per praticamente tutta la parte superiore del corpo. Affondò il viso nelle mani: - Uffa... -
Non aveva davvero idea di come fare. "Dovrei chiedere aiut-" si bloccò.
Nel riflesso sulla finestra, alle sue spalle, c'era Gakupo.
Era stato un po' inquietante notarlo lì, immobile, non appena aveva rialzato lo sguardo.
- Ah, Gakupo-sensei! - si voltò a guardarlo: - Smettetela di spaventarmi! -
L'altro parve riscuotersi.
"... era una mia impressione...?"
Gli era sembrato di notare qualcosa di strano, nei suoi occhi. Non era sospetto, però. Era un qualcosa che non gli aveva mai visto in volto. Non era riuscito a capire cosa potesse essere, né se fosse positivo o negativo. Era strano. Solo quello.
- Perdonatemi, oujo-sama. -
- Potreste aiutarmi con questo? - si girò, indicandogli i bottoni aperti: - Non riesco a raggiungerli! -
- ... sì. -
Aveva risposto dopo un paio di secondi. E, osservandolo nel riflesso sulla finestra, vide di nuovo quella luce strana nei suoi occhi.
"Allora non l'ho immaginato..."
Continuava a non capire cosa fosse. Sapeva solo di aver avvertito un brivido lungo la schiena. E non era un brivido di paura o di freddo.
Tra l'altro, le sue cameriere non ci mettevano così tanto, ad infilare due bottoni nelle asole. Gakupo ci aveva messo almeno dieci secondi.
- Grazie! - sorrise, anche se era ancora disorientato. Recuperò il collarino e lo reindossò, senza distogliere l'attenzione dal riflesso di Gakupo: non aveva più quello sguardo, ma sembrava sovrappensiero.
Si girò del tutto verso di lui. Lo trovò con la stessa espressione di sempre.
"... eppure sono sicura che non sia stata un'impressione.".
- Avete fatto i vostri compiti, oujo-sama? -
"Ugh." - Li farò stasera. -
- Potreste provare a fare i compiti, qualche volta. -
- Ho detto che li farò stasera! -
- Per voi, "farò i compiti stasera" significa "non li farò mai". -
- Umpf. -.

Ogni tanto, capitava che, per sbaglio, facesse i compiti la sera - che facesse i compiti in generale. Era successo solo tre volte in due mesi, ma era comunque successo.
In quei casi, riusciva a strappare alle sue cameriere - e a sua madre - il permesso di andare a dormire più tardi - chissà perché, allo studio non dicevano mai di no; congedava le sue servitrici, affermando di non aver bisogno di aiuto nello svestirsi - per poi, puntualmente, passare cinque minuti ad allentarsi il corsetto per liberarsene - e si metteva a fare i compiti che gli erano stati assegnati.
Quella sera, teoricamente, avrebbe dovuto scrivere una serie di parole e frasi secondo l'alfabeto hiragana, tenendo davanti un foglio con sopra tutti quei segni tondeggianti. Una sola pagina da riempire.
Quando Len guardò l'orologio lì vicino, stiracchiandosi, notò che era mezzanotte passata. E lui aveva iniziato alle nove.
Sospirò: "Forse avrei dovuto fare meno pause. E meno lunghe." alzò le spalle: "Oh, beh. Pazienza. Chissà se in cucina c'è qualcosa di buono...".
Uscì dalla propria camera, trotterellando verso la sua meta - non che sperasse di trovarvi delle banane, ma magari qualcosa di abbastanza appetibile...
Si fermò.
Era appena passato davanti ad una delle sale più piccole, ma c'era qualcosa di strano: non era buia come sarebbe dovuta essere.
Tornò indietro, lieto di essersi tolto le scarpe e di avere i piedi coperti solo dalle calze; sbirciò nella stanza, piano, individuando subito la fonte di luce di troppo: una candela sul tavolo più grande, ricoperto di fogli. E seduto alla sedia c'era-
- Ah! -
Trasalì, quando incontrò quegli occhi chiari.
"C-come ha fatto a sentirmi...?" rimase immobile sulla soglia, ancora scosso: "Eppure sono sicura di non aver fatto rumore..."
- Oujo-sama? - vide Gakupo aggrottare la fronte, sinceramente stupito: - Cosa ci fate ancora in giro, a quest'ora? -
Len portò le mani dietro la schiena, alzò appena il viso, trionfante: - Ho fatto i compiti! -
- ... -
- ... -
- ... tornate a dormire, oujo-sama. -
- Ma è vero! - strinse i pugni e gonfiò le guance, assottigliò lo sguardo: "Io faccio i compiti e lui non mi crede. Tsk!"
- Vedremo domani mattina se è vero o meno. - fu la pacata risposta dell'altro, l'espressione di nuovo tranquilla. Lo vide tornare a dedicarsi a qualsiasi cosa stesse facendo prima di essere interrotto, smettendo di prestargli attenzione.
Da quella posizione, Len non riuscì a capire cosa fosse - vedeva solo che stava scrivendo qualcosa.
Incuriosito, entrò nella stanza e si avvicinò, per poi fermarsi dietro di lui e sbirciare da sopra la sua spalla: stava scrivendo, sì, e stava scrivendo in giapponese - con geroglifici che non erano affatto hiragana e avevano un'aria molto più inquietante; davanti a lui stavano tre quadernini aperti: uno era quello su cui stava scrivendo, ordinato, con la penna e l'inchiostro, mentre gli altri due sembravano scritti di fretta, forse con un carboncino, ed erano pieni di cancellature.
Chinò appena la testa, per vedere meglio.
Un istante dopo, Gakupo era sparito.
Anzi, si era lanciato sulla destra, girandosi verso di lui con gli occhi spalancati e i capelli stretti in una mano. Forse non era direttamente scattato in piedi solo per un lampo di lucidità.
Anche Len aveva gli occhi sgranati. E il cuore che batteva fin troppo forte, ma perché sembrava che il suo precettore avesse la fissazione di fargli prendere un colpo non appena gli fosse possibile.
Silenzio.
- ... scusatemi, oujo-sama. - gli parve quasi che quel sospiro fosse più un espirare dopo una lunga apnea.
"... no, ha davvero trattenuto il respiro...? Che diamine...?"
Gakupo tornò composto sulla sedia, le mani di nuovo sul quaderno, come se nulla fosse successo.
- Ehm... - un leggero colpo di tosse: - Gakupo-sensei... sicuro vada tutto bene...? -
- Vi prego di perdonare la mia reazione, oujo-sama. - fece l'altro, senza voltarsi: - Fatico ad impedire che succeda. -
- E perché...? -
- L'ultima donna che si è avvicinata ai miei capelli ha cercato di tagliarli per prenderseli. -
- Ah. -
"Allora è vero che certe donne farebbero follie, per quei capelli..."
- E' tardi, oujo-sama. - la voce di Gakupo lo riportò alla realtà: - Dovreste andare a dormire. -
- Anche per voi è tardi! - protestò: - Anche voi dovreste andare a dormire! -
- Non prima di aver finito qui. -
- Cosa state facendo? - aggirò la sedia, sedendosi su quella accanto, lo sguardo ai fogli e ai quadernini.
Un sospiro, forse esasperato, forse di resa, forse entrambi: - Fogli di lavoro. Trascrivo le cose da fare e quelle fatte. -
Len spostò lo sguardo su di lui, perplesso: - ... lavoro? - ripeté: - Continuate a fare il vostro primo lavoro anche se ora lavorate qui? -
Gakupo rispose dopo qualche secondo, il volto impassibile: - ... temo di sì. -
"Teme?"
Decise di rimanere in silenzio, lasciando l'altro al suo lavoro.
Si raggomitolò sulla sedia, i talloni sul sedile, le mani sulle ginocchia, lo sguardo fisso sui fogli.
Cercò di riconoscere qualche simbolo - anche se, fino a poco prima, pensava di averne avuto abbastanza di hiragana, per quella sera -, ma tutti i segni erano incomprensibili.
Quando lo sguardo scese al quaderno su cui Gakupo stava scrivendo, non potè fare a meno di notare, con una punta d'invidia e una di ammirazione, quanto fosse veloce a tracciare quei cosi difficili.
Poi i suoi occhi salirono, fino al viso.
Non c'era alcuna espressione, era semplicemente preso da ciò che stava appuntando.
Ed era anche molto vicino.
Ed erano anche da soli.
Sentì un brivido lungo la schiena, il cuore trasalì, battè più forte.
Lasciò scivolare le mani lungo le gambe, fino al sedile.
E si accostò a quel viso.
"... eh?"
Di nuovo quegli occhi nei suoi.
Ma, quella volta, non avevano nulla di stupito o di allarmato. Sembravano freddi. E anche...
- E' tardi, oujo-sama. - la voce ferma: - E' quasi l'una di notte. -
Solo in quel momento Len si rese conto che, quando si era avvicinato, Gakupo aveva voltato la testa, per poi tornare a guardarlo. L'aveva evitato.
Strinse i pugni.
Sentì il petto scaldarsi. Ma non era rabbia. Sentiva le labbra piegarsi verso l'alto.
C'era qualcosa di interessante, in tutto quello.
- Avete ragione. - sorrise. La sua voce non uscì come il suo solito trillo: era più bassa, divertita.
Rimise i piedi a terra e si alzò. Quando raggiunse la porta, si fermò e si voltò, il sorriso immutato: - Buonanotte, Gakupo-sensei. -
- Buonanotte, oujo-sama. - anche quel tono e quello sguardo erano immutati.
Len ridacchiò e tornò nella propria camera, senza riuscire a frenare quella strana ilarità: "Quanta ri-tro-si-a, Gakupo-sensei!".
Non aveva idea del perché, ma era sicuro che, alla fine, avrebbe ottenuto ciò che voleva.

Incredibile come Gakupo fosse in grado di far finta di niente.
Il giorno dopo fu tutto come al solito - se non per il fatto che Len aveva svolto i compiti. Non un accenno a quanto successo la sera prima, non uno sguardo in più o in meno, neppure un tono più freddo o distaccato. Niente.
Era tutto esattamente come al solito.
Per quel giorno, Len lasciò correre, comportandosi a sua volta come se nulla fosse successo.
Sapeva che era solo questione di tempo. E sapeva che anche Gakupo lo sapeva.
"Forse Gakupo-sensei sa che io so che lui sa? E forse sa anche che io so che lui sa che io so che lui sa che io so? E forse-"
Era solo questione di tempo, e lo sapevano entrambi.
Quel che serviva era solo un approccio più diretto. Molto più diretto.
- Cosa fate, Gakupo-sensei? -
Un sospiro: - Appunti di lavoro. -
- Come due sere fa! - Len sorrise, avvicinandosi alla sedia, dietro. Quella volta, Gakupo non scappò - evidentemente, era piuttosto fiducioso del fatto che non gli avrebbe tagliato i capelli.
- E voi, oujo-sama? - la voce priva di qualsiasi intonazione: - Come mai siete in giro a quest'ora? Avete fatto i vostri compiti? -
Len ridacchiò: - Suvvia, sensei! - posò le mani ai lati dello schienale: - Non potete pretendere che io faccia i compiti per due giorni quasi di fila! -
- E allora perché non siete a dormire, visto che sono le undici passate? -
Len sorrise.
Si chinò su di lui, gli abbracciò le spalle, le labbra andarono all'orecchio: - Perché volevo stare con voi, ovviamente. -
Era strano stargli così vicino, toccarlo in quel modo. Ed era piacevole.
- E se io non volessi stare con voi? -
Si era irrigidito. Il tono si era fatto glaciale.
Il suo sorriso si accentuò.
Le mani scesero ad accarezzargli il petto, l'imbottitura premuta contro lo schienale, le dita s'insinuarono sotto la veste, scivolarono lungo la camicia.
Un altro brivido.
Anche le labbra scesero, fino al viso: - Vorreste cacciarmi? -
Una morsa sui polsi.
Le braccia si allargarono, la presa scomparve, Gakupo era in piedi davanti a lui, lo sguardo gelido nel suo.
- Sì. -
Len inarcò le sopracciglia: - Siete irrispettoso. -
- Siete spudorata. -
- Ancora più irrispettoso. -
- Tornate nella vostra camera, oujo-sama. -
Len sospirò, sventolò una mano: - D'accordo, d'accordo. Farò la brava e tornerò nella mia camera. -.
Fece un passo, per poi lasciarsi cadere a terra, seduto, con uno sbuffo della gonna.
Rimase fermo.
- ... che avete, oujo-sama? - quella voce glaciale fu spezzata da una nota di perplessità.
- Mi si sono stancati i piedi. - rispose, il tono quasi annoiato.
- Non dite sciocchezze, oujo-sama. -
- E' vero. Mi si sono stancati i piedi. - ripeté, senza neppure guardarlo: - Credo sarò costretta a dormire qui. Sul pavimento. -
Un sospiro esasperato.
- Non comportatevi come una bambina, oujo-sama. -
- Non mi sto comportando da bambina. Sto dicendo la verità. -
- Non potete dormire sul pavimento, oujo-sama. -
A quel punto, si degnò di guardarlo: l'espressione fredda aveva lasciato il posto alla pura resa. S'impedì di sorridere.
Alzò le braccia, verso di lui: - Allora portatemi voi. -.
Sembrò quasi che Gakupo si stesse sforzando di mangiare qualcosa di disgustoso soffocando qualsiasi espressione nauseata.
Eppure, Len era certo che, nei suoi pensieri, non ci fosse la minima traccia di ribrezzo.
Dopo qualche secondo, l'altro lo raggiunse e lo prese in braccio, per poi uscire dalla stanza.
Non si lasciò cullare da quella bella sensazione di calore, ignorò il cuore che batteva troppo forte. Doveva stare attento, aspettare l'occasione giusta e approfittarne.
Capì che era il momento quando furono al primo piano, vuoto, lontani dalle scale.
Si tese verso di lui, una mano sul petto, una su una spalla, e-
- Ah! -
-si ritrovò almeno mezzo metro più in basso.
"Ha... abbassato le braccia...?" si rese conto, allibito: più che ad altezza delle spalle, ora era ad altezza gomiti.
Fu un istante: l'attimo dopo, Gakupo lo rimise al suo posto, come se pesasse pochi grammi.
"Che diamine-"
- State composta, oujo-sama. - uno dei suoi sorrisi gentili. Che non era molto gentile, in verità: - Se vi agitate troppo, potrei inavvertitamente lasciare la presa. -
No, non era molto gentile.
Len gonfiò le guance, ridusse gli occhi a fessure: "Per stavolta basta così. Non ho intenzione di precipitare da due metri di altezza perché voi siete troppo ritroso!".
Quando tornò con i piedi per terra, davanti alla sua camera, augurò la buonanotte a Gakupo in modo più distaccato che poteva.
Una volta sul letto, però, si lasciò sfuggire un sorriso: "Siete così adorabilmente difficile...".
Non sapeva perché, ma si sentiva davvero leggero.

Era ovvio che Gakupo si aspettasse un'altra mossa, da parte sua.
Decise di stare tranquillo per qualche sera, comportandosi come sempre e andando a dormire presto - ed evitando di fare i compiti, ovviamente.
Aveva l'impressione, però, che Gakupo non avrebbe abbassato la guardia. Anzi. Aveva l'impressione che, di giorno in giorno, si facesse sempre più attento ad ogni suo movimento, quasi volesse anticipare le sue mosse.
Ma lui si era comportato bene: aveva evitato di rimanere per troppo tempo da solo con lui - se non per le lezioni o l'ora del the -, aveva fatto sempre in modo che ci fosse qualcun altro; e, quelle poche volte che erano stati soli, aveva evitato qualsiasi discorso che implicasse la voce bassa.
Non aveva prestato attenzione a quanti giorni fossero trascorsi effettivamente. Sapeva solo di essersi stancato di fingersi calmo.
Aveva caldo. Aveva pensieri più vividi di quanto ne avesse mai avuti. Sentiva i vestiti fastidiosi, irritanti, che gli bruciavano la pelle, lo soffocavano. Aveva caldo, eppure il nastro che gli legava i capelli era di troppo, voleva sentirli sciolti, contro il collo e le spalle, sfiorargli la schiena. E voleva sentire quei capelli tanto lunghi accarezzargli la pelle, insieme a quelle labbra e quelle mani. Voleva che sostituissero le sue, di mani, voleva che vagassero dove loro erano state. Voleva sentire il suo respiro troppo veloce, spezzato, voleva sentire il suo respiro.
Aveva caldo, soprattutto di notte. Non vedeva il motivo per cui continuare a rimanere nella propria camera.
Uscì, senza scarpe. Non andò nella sala in cui l'aveva incontrato due volte: poche sere prima, era tornato a controllare, ma l'aveva trovata vuota. Ovvio che Gakupo non sarebbe rimasto lì. E c'era un unico posto, in tutta la magione, che avrebbe potuto sperare di provare a definire sicuro.
Len bussò alla porta.
La camera di Gakupo. Era certo che fosse ancora sveglio. Quando l'aveva visto nella sala, non gli aveva dato l'impressione di essere affaticato - era probabile che trascorresse le sere chino su quei fogli.
Quando gli fu dato il permesso di entrare, aprì la porta, per poi richiudersela alle spalle, le mani dietro la schiena, le dita ferme sulla chiave.
Esattamente come si era aspettato, Gakupo era impegnato nel suo lavoro, lo sguardo al tavolo pieno di fogli e libri, la sedia che dava le spalle alla porta, la candela posata su un mobile vicino. Quando lui si voltò a guardare chi fosse entrato, lo vide sgranare gli occhi.
S'impedì di sorridere. Aveva l'impressione che l'altro si fosse sentito improvvisamente in trappola.
- Cosa ci fate qui, oujo-sama? - tono più glaciale dei precedenti, sguardo fattosi freddo: - Tornate immediatamente nella vostra camera. -.
Nel tragitto tra le stanze, Len aveva avuto modo di pensare ad una qualsiasi scusa che potesse impedire a Gakupo di cacciarlo a calci - cosa che aveva tutta l'aria di dover succedere di lì a pochi istanti.
Sforzò il tono più lacrimoso che conosceva, finse un'espressione spaventata: - Ho paura! - tirò su col naso: - Il vento... il vento ulula troppo forte, sembra che ci siano dei mostri sotto la mia finestra! -
- Non dite sciocchezze, oujo-sama. -
- E' vero! - si strinse nelle spalle, abbassò lo sguardo: - Vi prego, posso rimanere per poco? Pochissimo! Vi prego, vi prego! Non riesco a stare nella mia camera, ho paura! -
- Andate a chiederlo ad una delle vostre cameriere. -
- Loro mi caccerebbero! - rialzò la testa, sperò di avere uno sguardo abbastanza terrorizzato: - E mi prenderebbero in giro! E mi costringerebbero a rimanere nella mia camera, con il vento che mi fa paura! - inspirò: - Vi prego, solo per poco! - espirò quasi urlando e fece scattare la chiave. Sperò davvero che la voce fosse riuscita a coprirne il suono.
Il volto di Gakupo era impassibile, quasi fosse stato scolpito nella pietra, gli occhi freddi.
Un sospiro.
Quell'espressione si sciolse, ridandogli il volto pacato che aveva sempre: - Solo cinque minuti, oujo-sama. Il tempo di calmarvi e capire che le vostre sono solo fantasie. -
Len sorrise, con falsa gratitudine: - Vi ringrazio, Gakupo-sensei... -
"Sapete quanto reali possono diventare, le fantasie, Gakupo-sensei?".
Tra l'altro, non sembrava eccessivamente in allerta. Forse era davvero riuscito a non far sentire lo scatto della chiave.
Gakupo tornò a dedicarsi a ciò che stava facendo, Len decise di aspettare almeno un minuto, la schiena contro la porta.
Poi camminò per la stanza, fermandosi di tanto in tanto a guardare qualcosa; per quanto l'idea fosse di non dare l'impressione di volersi avventare contro di lui, alla fine si era scoperto sinceramente incuriosito da ciò che c'era in quella camera: come c'era da aspettarsi, era in assoluto ordine, quasi fossero appena passate le domestiche a pulire e rassettare, eppure non potè non notare la spada nel suo fodero nero, appoggiata ad un angolo, vicino al letto. In confronto a quelle che aveva avuto modo di vedere, era davvero sottile, la guardia stretta, l'impugnatura sembrava più lunga e l'intera spada aveva una forma appena arcuata. Gli era capitato di vederla al fianco di Gakupo, ma non si era mai soffermato ad osservarla.
Giunse le mani, gli sfuggì un sorriso: - Mi piace la vostra spada! Non ne ho mai vista una simile! -
"Sarebbe bella vederla fuori dal fodero..."
- Vi ringrazio a nome suo. - la risposta di Gakupo era arrivata con qualche secondo di ritardo: - In ogni caso, sarebbe più corretto chiamarla katana. -
Len si voltò verso di lui: - Katana! - ripeté, in un trillo, per poi avvicinarglisi: - E voi state scrivendo in katakana! - indicò i fogli.
Sul volto di Gakupo apparve un'espressione disorientata. Poi lo vide scuotere la testa: - No, oujo-sama. Questi sono kanji. E temo che la katana e i katakana non siano esattamente la stessa cosa. -.
Len ridacchiò, aggirando il tavolo. Non c'erano altre sedie oltre a quella già occupata da Gakupo, ma la parte superiore del tavolo era libera; vi si sedette, ruotando appena in modo da poggiarvi anche una gamba piegata, l'altra a terra - non era sicurissimo che il tavolo non si sarebbe ribaltato. E, nel caso, non sarebbe stato carino. No, non lo sarebbe stato affatto.
- I cinque minuti sono passati, oujo-sama. -
"Siete tornato all'erta, vero?"
- Oh, vi prego! - si portò una mano alle labbra, lo sguardo più lacrimoso che poteva: - Altri due minuti! Ero già più tranquilla, me l'avete fatto tornare in mente! Siete cattivo! -
Gakupo sospirò, gli occhi al soffitto: - Che siano due minuti, però. -
- Sì... -
"Ovviamente."
Rimase immobile, limitandosi ad osservare l'altro intento a scrivere. Tracciava i segni più lentamente. Molto più lentamente.
"Sì, siete decisamente in allerta." e il tavolo sembrava reggerlo bene. Tirò su anche l'altra gamba, facendosi appena più avanti. Il tavolo rimase fermo. La sua preoccupazione più grande scomparve.
- L'altra volta eravate più veloce. -
- Prego? -
Len sorrise: - A scrivere. Ero davvero stupita di quanto foste veloce a scrivere quei cosi complicati come se nulla fosse. Ora siete molto più lento. -
Gakupo fermò la penna, alzò gli occhi: - L'idea sarebbe che anche voi impariate a scrivere così veloce, oujo-sama. -
- Ma io so scrivere. - il suo sorriso si accentuò.
- In kanji, oujo-sama. -
- Oh... - portò di nuovo la mano alle labbra: - Sarebbe bello, sì. - abbassò la mano: - Però non mi avete detto perché stasera siete più lento. -
- A me non sembra ci siano differenze dal solito. - il suo sguardo era tornato freddo, la voce atona: - E non vedo perché dovrebbe essere altrimenti. -
- Avete ragione. - sospirò, abbassando gli occhi. Quando li rialzò, Gakupo lo stava ancora guardando, impassibile.
Ricambiò con un sorriso: "Non posso più chiedervi altri minuti, veeero?"
Quello sguardo rimase immutato, gelido.
"Parrebbe proprio di no."
Fece scivolare le mani sul legno, si chinò verso di lui.
Non era potuto scappare, né aveva potuto scostarsi.
Ma aveva potuto premergli due dita sulle labbra, fermandolo a pochi centimetri da lui.
"... riconosco la vostra inventiva, Gakupo-sensei.".
- E' tardi, oujo-sama. -
"Quindi è questa, la sua pelle...?" non aveva mai potuto neppure sentire quella delle mani, sempre coperte dai guanti.
- E' ora che torniate nella vostra camera. Il vento ha smesso di soffiare. -
"E' calda..." forse anche la sua lo era.
Schiuse le labbra, catturò le falangi con i denti, ne accarezzò la pelle con la lingua.
Non aveva un qualche sapore particolare. Ma era piacevole sentirla. Tanto piacevole.
Alzò lo sguardo, verso l'altro.
Gli occhi spalancati, il colorito pallido. Sembrava sconvolto.
Le dita gli furono strappate dalle labbra, facendolo quasi cadere in avanti e costringendolo a frenarsi con le mani, per poi passarsene una sulla bocca bagnata.
Quando tornò a guardare Gakupo, notò che aveva ripreso colore. Molto colore. Anche più del solito.
L'espressione, forse, sarebbe voluta essere fredda, ma quegli occhi sgranati e quella voce incrinata da una strana nota rovinavano l'effetto: - Spudorata fino a questo punto. -
Len ridacchiò. Tornò seduto, stavolta verso di lui, le gambe davanti al busto, piegate: - E' colpa vostra. - sorrise: - Se non foste così ritroso, sarebbe tutto più semplice. -
Gli occhi erano tornati freddi: - Tornate nella vostra camera, oujo-sama. -
- Non lo farò. - piegò appena la testa di lato: - E voi lo sapete benissimo. -
- Allora vi ci porterò io. -
- Non lo farete. - raddrizzò la testa: - E voi lo sapete benissimo. -
- Cosa ve lo fa credere? -
- Non lo credo. Lo so. -
Silenzio.
Rimase a guardare Gakupo negli occhi, guardò la sua espressione impassibile.
Poi le labbra dell'altro si curvarono verso l'alto, il suo sguardo mutò: sembrava divertito, in modo quasi sinistro.
- Bene, oujo-sama. - un tono che non gli aveva mai sentito, come se fosse velenoso. Gakupo aprì le braccia, lasciandosi andare contro lo schienale: - Che ne dite di giocare a carte scoperte? -
Soddisfazione. Finalmente, sembrava aver capito.
Len sorrise, ancora quella sensazione piacevole sulla lingua: - E' ciò che avrei voluto fare fin dall'inizio. -
- E dunque, oujo-sama... - la voce dell'altro era diventata un sussurro tagliente, lo sguardo derisorio: - ... qual è il vostro obiettivo? -
"... eh?"
Non potè impedirsi di aggrottare la fronte: - ... credevo fosse... ovvio. -
"Forse non ha capito come speravo. Eppure credevo di essere stata esplicita..."
- Lo è. - lo sguardo di Gakupo era fisso nel suo: - Ma ci sono tante ovvietà. Voi a quale puntate? -
- ... -
Sbattè le palpebre. Qualcosa non tornava.
- ... eh? - stavolta non si trattenne dal dirlo.
- Avevamo detto di giocare a carte scoperte, oujo-sama. -
- Voi che carte credete io abbia? - anche solo per capire cosa stesse succedendo, se si fosse perso qualche frase.
Il sorriso di Gakupo si accentuò: - Non sono sicuro di quale sia quella esatta. - mormorò: - Non capisco in quale senso vogliate approfittarne. -
"... eh?"
- La prima possibilità implicherebbe che la vostra famiglia sia in condizioni economiche veramente disastrose. - esordì l'altro, le mani riportate sul tavolo: - Questo potrebbe spingervi ad incastrarmi in un matrimonio con voi. -
"... eh?"
- In che modo, confesso di non averne idea. - chiuse i libricini, per poi spostarli di lato, assieme ai fogli: - Potreste esigere un matrimonio riparatore sia cercando di rimanere incinta sia facendovi deflorare e poi accusarmi di avervi compromessa. -
"... eh?"
- Oppure, per motivi che a me non sovvengono, avete intenzione di infangare me, se non tutta la mia famiglia. E farlo accusandomi di avervi compromessa. - tornò contro lo schienale: - Allora, oujo-sama? A cosa mirate? -
- ... -
"Ma io, veramente, volevo soltanto..."
Scoppiò a ridere, la mano corse a coprirsi la bocca. Non era riuscito a trattenersi. Probabilmente non era una risata molto elegante, ma era prossimo al soffocarsi; dovette portarsi una mano alla pancia, iniziava a far male. Quando riuscì a riprendersi, si passò i dorsi delle mani sugli occhi umidi.
- Sul serio, Gakupo-sensei? - una risata residua: - Davvero avete pensato cose del genere? -
"E' per questo che era così in allerta?"
L'espressione dell'altro si era intaccata: per quanto sembrasse identica a prima, riusciva a vedervi un'ombra di incertezza, di confusione.
- Oh, mi dispiace distruggere la vostra autostima. - sorrise: - Ma temo che tutto il vostro patrimonio, per me, valga come un paio di scarpe consumate e incrostate di fango. -
Lo vide assottigliare lo sguardo. Sembrava sospettoso.
- E poi... - gli si avvicinò appena: - ... non illudetevi di essere così importante. - si tirò indietro una ciocca di capelli: - Tra l'altro, se davvero volessi infangare qualcuno, non mi abbasserei certo ad usare il mio corpo. -
- Se davvero è come dite... - parlava piano: - ... allora cos'è che volete? -
- Ve l'ho detto. - sorrise di nuovo: - E' ovvio. -
- Pare non lo sia, invece. -
- Sì che lo è. - allungò una mano, fino ad accarezzargli i capelli. Erano serici come sembravano: - E voi l'avete capito da tempo. Quindi perché continuare questa farsa? -
Il polso finì serrato nella mano dell'altro, per poi essere liberato solo una volta allontanato.
- Ovviamente, io vi crederò sulla parola. - Gakupo si alzò, allontanandosi di qualche passo, dandogli le spalle.
Len ne approfittò per distendere le gambe - iniziava a sentire i crampi -, per poi posare i piedi sul sedile della sedia.
- Non m'interessa che voi mi crediate o meno. - disse, tranquillo: - Ciò non toglie che il mio obiettivo non riguardi nessun altro all'infuori di me e voi. -
- Se siete così ansiosa di darvi ai piaceri lascivi, potreste benissimo prendere uno dei vostri servitori. -
- Troppo grandi. Troppo insignificanti. Troppo ignoranti. Troppo brutti. Troppo antipatici. Troppo poco interessanti. Nient'affatto voi. -
Gakupo si voltò verso di lui. Di nuovo quell'espressione quasi disgustata, ma che di disgusto non aveva niente. Era quasi sofferente.
- Adesso, lasciate che vi dica quali sono le mie fantomatiche carte. - sorrise: - Ciò che voglio non è uno qualsiasi. Ciò che voglio è una persona soltanto. E sto cercando di prendermela da tempo, per quanto lei finga di non vederlo. - alzò appena il mento: - Non m'interessa nient'altro. Né che ciò che voglio mi creda. A me interessa solo avere ciò che desidero. -
Un accenno di sorriso, più simile ad una smorfia: - Mi verrebbe da chiedervi perché vi siate intestardita con me. -
- Perché sì. E' una risposta di vostro gradimento? -
- No. -
- Non m'interessa. - piegò la testa di lato: - Del resto, anche voi desiderate me. -
Lo vide sgranare gli occhi, schiudere le labbra.
Era decisamente piacevole avere una conferma tanto palese.
- State vaneggiando, oujo-sama. -
- Se davvero voi non voleste ciò che voglio io... - mormorò: - ... non sareste rimasto ad ascoltarmi per tutto questo tempo, Gakupo-sensei. -.
Calò il silenzio.
L'espressione sconvolta di Gakupo era semplicemente meravigliosa.
- Ho chiuso la porta a chiave. - cantilenò Len, in un sussurro: - Prima. Quando sono entrata. - sorrise: - O forse ve ne siete accorto e vi sta benissimo così? -
- E' ridicolo, oujo-sama. - lo vide serrare i pugni: - Ho assecondato i vostri capricci per troppo tempo. - un sospiro: - Scendete da quel tavolo e tornate nella vostra camera. - la voce sembrava tremargli, lo sguardo somigliava a quello che gli aveva visto tempo addietro, quando-
- Forse volete i miei bottoni? -
Gakupo si bloccò: - Prego? -
- I miei bottoni. - ripetè, piano: - Mi era parso vi piacessero i bottoni del mio vestito. O forse ciò che vi piace è infilare bottoni nelle asole? -
- State scherzando con il fuoco, oujo-sama. - la voce si era abbassata, lo sguardo assottigliato: - Voi non avete idea di quello che state facendo. Andatevene, prima che- -
- Sensei wa oshaberi desu. -
Quell'espressione spiazzata.
Len sorrise. Avevano chiacchierato fin troppo.
Qualcosa lo soffocò.
Precipitò, sentì qualcosa tra le ginocchia.
Quando realizzò, il cuore rimbombò nelle orecchie, facendolo rabbrividire.
Un bacio. E la mano di Gakupo dietro la testa, per non fargli sbattere la nuca contro il tavolo, l'altra mano gli aveva immobilizzato un polso.
Non aveva previsto che si sarebbe ritrovato con le labbra schiuse e il respiro mozzato, non aveva previsto che si sarebbe ritrovato sdraiato sul tavolo con le ginocchia troppo distanti tra loro, ma non gliene importava niente.
Ricambiò il bacio, passò le dita tra quei capelli morbidi, fino ad arrivare alla nuca, lo trasse a sé.
L'altro, però, si scostò appena, permettendogli di riprendere fiato. Sentiva il viso rovente. Forse anche lui aveva quegli stessi occhi lucidi.
- C'è un limite, oujo-sama. - lo sentì sussurrare: - Oltre quel limite, non si può più tornare indietro. -
Sorrise: - Sarebbe un problema... - la mano scese ad accarezzargli la guancia: - ... se non l'avessimo già superato. -.
Una luce di sorpresa in quegli occhi chiari. Poi un sorriso strano, a metà tra l'esasperato e il divertito.
Un attimo dopo, quelle labbra erano di nuovo sulle sue.
Si sentì tirare su, seduto, la mano dell'altro che scendeva lungo il collo, sciogliendo i capelli, il collarino, sfilando i bottoni; per un istante, si sentì abbracciato, non percepì più il legno sotto di sé; capì quando si ritrovò sdraiato su una superficie molto più morbida e fredda, tanto da farlo rabbrividire più di quanto già non stesse facendo, la parte superiore del vestito finita attorno alla vita.
La sensazione della mano prima sul polpaccio, poi sulla coscia, era troppo vivida perché ci fosse della stoffa in mezzo, realizzò vagamente di non avere più una calza, la mente più concentrata sul desiderio di liberarsi del corsetto - aveva sentito l'altra mano di Gakupo accarezzarlo, anche se gli era parso quasi esitante.
Aveva caldo. Più di quanto ne avesse avuto in quei giorni. Più di quanto gli era mai capitato di provarne. E neppure le coperte fredde erano riuscite a dargli sollievo - anzi, sembravano essere diventate roventi anche loro.
Avrebbe voluto fare qualcosa, ma non sapeva cosa, non aveva idea di dove mettere le mani, le braccia che sembravano bloccate, qualcosa nel petto che voleva uscire con violenza, premendo contro la gola riarsa, lasciandosi trascinare dai sospiri, finché riuscì a infrangere le labbra, uscendo assieme alla voce.
Gakupo si scostò da lui, gli occhi di colpo sgranati.
"... ah."
Realizzò cos'era stato a farlo gemere. E realizzò anche dove si trovasse la mano dell'altro, quella che prima era sulla sua gamba.
Strinse i denti: "... ah... quello...".
- C'è... - la voce di Gakupo giunse alle sue orecchie bassa, spezzata dal respiro troppo veloce: - ... qualcosa che dovete dirmi...? -
Serrò i pugni. Inspirò, cercò di mettere insieme le parole, era troppo difficile: - Non ora. -
Quegli occhi chiari. E poi quella voce, tanto vicina: - Non ora. -.






Note:
* "Ohayou gozaimasu": "Buongiorno", formale.
* Il retro del collo, con un accenno di schiena, sono considerati, soprattutto in Giappone, molto erotici.
Diciamo che quella zona, scoperta, è un po' l'equivalente delle gambe nude per un inglese del 1800. *Eh, Len, Len, finisce sempre così... (?) *




Argh, alla fine il ritardo è più che raddoppiato! °A° *Sembrava troppo strano...*

*dà colpo di tosse e cerca di ricomporsi*
Spero abbiate passato una bella Pasqua! ^^

E dunque, dooove eravamo rimasti? Ah, sì, all'ennesimo flashback, stavolta dal punto di vista di Len. *O*
Dopo il capitolo precedente, questo è più idiota scemo delirante pirla leggero. U.U
Stavolta Len si comporta come una brava fanciulla innocente (?), fa accurate ricerche in libri altamente attendibili (??) e palesa una spiccata dote nell'arte dell'ideare piani (???); da parte sua, Gakupo ha opposto strenua resistenza (...?) ma, alla fine, ha dimostrato di avere una precisa scala di priorità. (!)

E tutto torna al Fluff.
Tipo.
Ah, il flashback dura quattro capitoli. *fugge*

Sì, dopo il capitolo precedente, forse è un po' strano trovare un capitolo idiota. Ma tornerà tutto. U.U (?)
Quel che fa meno strano è il rendersi conto che certi cliché mi piacciono. Già.
(Ah, piccola nota: la frase "Chissà perché, allo studio non dicevano mai di no" me l'ha involontariamente (?) suggerita Tayr Soranance Eyes. U.U (!))

Spero che questo capitolo vi sia stato gradito. ^^
Se avete consigli o critiche - soprattutto per quelle scene che "ci ho messo un'eternità a scriverle" -, dite pure. ^^

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Capitolo 10
*** x1x0x ***


Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

x1x0x



Guardò il proprio riflesso.
Il cielo si stava schiarendo, la linea dell'orizzonte si era ricoperta d'oro e, tra poco più di un'ora, sarebbe arrivata la cameriera per svegliarlo e aiutarlo a vestirsi.
Piegò la testa di lato, passò le dita sulla curva del collo, sul segno violaceo che spiccava sulla pelle. Gli altri baci non avevano lasciato segni tanto visibili.
Era da poco tornato in camera, per quanto avrebbe preferito tornarvi prima, quando era ancora buio: nel momento in cui aveva fatto per alzarsi dal letto, però, Gakupo l'aveva bloccato. E Len aveva dovuto dargli delle spiegazioni, raccontargli tutto.
Avrebbe volentieri rimandato quel dialogo, ma le mani dell'altro, tanto gentili per tutta la notte, anche quando si erano fatte meno delicate, quella mattina l'avevano catturato in un morsa, impedendogli di scappare fino alla fine.
Non era stato difficile, in realtà. Gli era parso di raccontare la storia di un'altra persona, una persona che conosceva solo di vista.
Gakupo non aveva fatto domande. Né prima, né durante, né dopo. Si era limitato ad ascoltare, per poi lasciarlo tornare nella sua camera, salutandolo senza parlare.
Len si sfiorò le labbra. Gli sfuggì un sorriso. Gli era piaciuto, quel saluto.
Si voltò verso il pupazzo seduto sui cuscini: - Sì, lo so... - tornò a guardare il proprio riflesso: - Dovrei mettermi qualcosa addosso, prima che vengano a svegliarmi. - accarezzò la superficie fredda. Gli occhi che lo guardavano erano davvero belli: azzurri, luminosi, come non ricordava di averli mai visti. Si chiese se non fosse colpa della luce dell'alba.
- Secondo te... - mormorò, rivolto al pupazzo: - ... è così negativo che io non sia affatto pentita? - si portò una mano al petto, il cuore che non aveva mai smesso di battere forte, caldo: - Quello che avevo di più importante l'ho donato a lui. Anche se non è mio marito. -
Guardò il suo riflesso. Quel sorriso e quello sguardo non erano mai svaniti, neppure per un istante.
- Chissà perché... - sussurrò, coprendosi il petto con un braccio: - ... cercano di tenerci lontane dal sentirci così... -
Aveva caldo. Ma non come nei giorni precedenti.

Aveva dovuto dormire - per quel che aveva potuto dormire - prono.
E, dal momento in cui si era alzato dal letto, gli era bastato fare un qualsiasi movimento diverso dal mettere un piede a pochi centimetri dall'altro per sentire delle fitte lungo la schiena, il dolore concentrato soprattutto all'altezza dei fianchi.
Quello non l'aveva previsto. Non l'aveva affatto previsto.
Se non altro, la tournure e il gran numero di sottogonne gli offrivano un morbido cuscino su cui poteva sedersi senza esibire smorfie di dolore.
Non l'aveva previsto. Non l'aveva affatto previsto.
- Per quanto tempo farà male...? -
- Domani dovreste già stare meglio, oujo-sama. -
- Dovrei? -
- Non l'avevate previsto, oujo-sama? -
- Ugh. -.
Rivedere Gakupo vestit- alla piena luce del giorno, in mezzo ad altre persone, come se nulla fosse, fu più semplice di quanto avesse pensato in un primo momento: l'altro si comportava in maniera assolutamente naturale e Len fece altrettanto, come se la sera prima fossero diligentemente andati a dormire ciascuno nel proprio letto, risvegliandosi solo quella mattina e sempre nelle rispettive camere.
Quando si ritrovarono da soli nella stanza delle lezioni, in compenso, i ricordi di ciò che era successo quella notte ritornarono nella mente con prepotenza.
Non in modo molto piacevole, in verità.
- Dunque, la lezione di oggi- -
- Non ho voglia di fare lezione. -
- L'affermare il contrario mi stupirebbe. -
Len tese le braccia verso di lui: - Prendetemi in braccio. -
- Non vi farà stare meglio. -
- E invece sì. -
- Proveremo dopo. Ora concentratevi sul libro. -
- Sapete che non ci riuscirò mai! Non in queste condizioni! -
- Non mi risulta siate stato in queste condizioni per due mesi. -.
Era strano, in un certo senso: di fronte a chiunque e durante le fantomatiche ore di lezione, Gakupo era gentile come sempre, come se non fosse davvero successo niente; quando riuscivano a rimanere da soli, quando sapevano che nessuno sarebbe giunto a dar loro fastidio, solo allora osava abbracciarlo, accarezzargli i capelli, baciargli la fronte.
Ci vollero almeno due settimane prima che Len riuscisse a fargli capire che non avrebbe avuto alcun problema a far scendere il bacio dalla fronte alle labbra.
Chiedergli di più, per il momento, era impensabile. Di giorno, almeno.
Di notte, nella sua stanza chiusa a chiave, Gakupo non si faceva alcun problema.
Non che Len fosse andato da lui, la sera successiva a quella notte: per quanto il suo cuore battesse forte, l'istinto di autoconservazione era più forte.
Tornò due sere dopo. E due sere dopo ancora. E due sere dopo ancora. Finché non divennero una sera sola. Ogni calare del sole.

- Ah... -
Sgranò gli occhi, passando le dita dove, fino a pochi giorni prima, spiccava il segno di quel bacio. La pelle era tornata candida, immacolata.
Inspirò a fondo, sforzò un sorriso: - Ne ho altri... - sfiorò le clavicole, un'altra macchia violacea, più piccola: - Anche se quello è scomparso, si può sempre rifare... -
Abbassò lo sguardo.
Il cuore tremava, gelido.
In fondo, lo sapeva.
Quello l'aveva previsto.
"Ho perso la verginità..." chiuse gli occhi: "... e sono rimasta identica a prima.".
Quando una donna perdeva la verginità, c'era una modifica nel corpo, una prova fisica di quanto successo.
Nel suo corpo non c'era alcuna differenza.
Neppure dopo una cosa tanto importante.
Era come se non fosse successo assolutamente nulla, come se fosse stato solo un sogno, un'illusione.
Quella notte.
E quelle che erano venute dopo.
Gli parve di sentirle di nuovo, quelle mani, quelle labbra. E quella voce, quegli occhi, quelle braccia.
Sorrise.
Il cuore non era più così gelido.

- La lezione di oggi sarà sui numeri. -
- Numeri? - Len abbassò lo sguardo sul foglio che Gakupo gli aveva dato: numeri, trascrizioni fonetiche - troppe, per i suoi gusti - e segnetti.
Guardò l'altro, senza alcuna espressione: - Anche i numeri si scrivono in modo diverso...? -
- Anche. - la risposta giunse tranquilla, accompagnata da un sorriso altrettanto pacato.
- E perché alcuni numeri hanno più segnetti e più trascrizioni fonetiche? -
- Sono sicuro riusciate ad arrivarci da solo, oujo-sama. - una punta di ironia. Chissà perché, da quella notte, quegli "oujo-sama" detti in privato avevano una bizzarra sfumatura.
Len socchiuse gli occhi: - Non vi bastavano almeno tre modi di scrivere diversi? Anche i numeri? -
Il sorriso di Gakupo si allargò: - Posso assicurarvi che questa è una lezione rilassante, oujo-sama. -
- Non mi fido dei vostri parametri di giudizio. -
- Dovreste, in questo caso. -
Continuava a sorridere. Pessimo segno.
Meglio fermare quell'argomento - non prometteva nulla di buono.
- Mh. - Len alzò le spalle, per poi tornare a guardare il foglio: - Oh! - un raggio di luce: - Zero si legge "Zero"! -
- Sì, si legge anche "zero". - gli confermò Gakupo, il tono tornato normale: - Second- -
- "Zero" è universale! - trillò Len, sicuro: - Si dice "zero" in tutte le lingue! Sapete che è "zero" anche in francese? - le sue approfondite conoscenze di lingue straniere stavano dando i loro frutti.
- Sì, oujo-sama. Dicevo, "zero" è una delle let- -
- Sono carine queste parole che rimangono uguali in tutte le lingue, vero? -
- Non proprio in tutte, oujo-sama. Tornando a- -
- Anche "banana" è una parola universale! - si ricordò, di colpo: - Si dice "banana" in praticamente tutte le lingue! Al limite levano la "a" alla fine o la sostituiscono, ma la banana rimane banana per tutti! - guardò Gakupo negli occhi, fremente: - Come si dice "banana" in giapponese? -
Lo vide esitare un attimo. Forse anche lui era rimasto sconvolto dall'universalità delle banane.
- ... banana. -
- Visto? Visto? Anche voi la chiamate "banana"! - ora poteva dirsi soddisfatto. E poi conosceva i segni in hiragana di "ba" e "na", avrebbe potuto tappezzare fogli interi di banane.
Che mattinata radiosa...
- Sì, oujo-sama. - Gakupo sospirò, alzando gli occhi al soffitto: - Anche per noi è "banana". -
"Uhm..."
- Tornando ai numeri- -
- E... - ridusse gli occhi a fessure, lasciando scivolare lo sguardo lungo i suoi capelli: - ... come si dice "melanzana"? -
- ... -
- ...? -
- ... perché questo improvviso moto d'interesse...? -
- Amplio i miei orizzonti. -
"Magari un giorno vi dirò che i vostri capelli mi ricordano le melanzane.".
A giudicare dalla fronte aggrottata e dagli occhi più aperti del solito, Gakupo doveva essere seriamente perplesso.
Len apprezzò molto il fatto che gli rispondesse comunque, senza fare ulteriori domande: - Nasu. -
- Nasu! - ripetè, giungendo le mani: - Certo che mettete tantissimi "na" nelle vostre parole! Banana, nasu... -
- Semplice coincidenza, oujo-sama. - un sospiro: - Tornand- -
- Banananasu! -
- Dicevo, i num- -
- Banasu! -
- Oujo-sama, per fav- -
- Bananasu! -
- Sì, oujo-sama. Ora riportate la vostra at- -
- Bananaasu! Banaenasu! -
- Oujo-sama... -
- Bananausu! Bananaosu! -
- Dovremmo- -
- Bananaisu! -
- Oggi non è giornata. -.

Mise un piede davanti all'altro. Tremò per un istante, mosse appena le braccia aperte. Riuscì a rimanere in equilibrio.
Inspirò, riprese a far uscire la voce: - I petali fluttuano dolcemente, voglio che fioriamo insieme... -
Davvero seccante.
- ... fino al momento della caduta -
Di solito non gli importava granché delle persone che sua madre invitava per prendere il the. Quando, tuttavia, quelle persone erano alcune delle sue sorelle, la cosa iniziava ad infastirlo.
- I tuoi frammenti giaceranno in questo albero... -
- Sembra che ultimamente stiano nascendo tantissimi bambini! Pensa che tutte le figlie delle mie amiche hanno partorito in questi ultimi mesi! E non ti dico quanti gemelli! Mi chiedo se non siano ricorse a qualche strano incantesimo... -
- E' davvero un peccato che Len non sia potuta venire al matrimonio dell'amica di Lola... -
- Io mi chiedo chi sarà la moglie del nostro caro Oliver! Di certo Al sceglierà in maniera estremamente accurata! -
- ... finché non sarà tutto caduto in rovina. -
Con la scusa che le care zie non lo vedevano praticamente mai, era stato costretto a prendere il the con loro.
Era riuscito a liberarsi dopo più di mezz'ora, ricordandosi improvvisamente di stare poco bene da quella mattina e di sentire l'irrefrenabile bisogno di andare a riposarsi proprio in quel preciso istante. Era tornato nel giardino interno solo quando, da una finestra, le aveva viste allontanarsi per dirigersi chissà dove, mentre svariate ragazze andavano a sparecchiare e riordinare.
- Perché quando arriverà la tua stagione preferita, ricorderò... -
Era salito sul muretto che divideva lo spazio su cui camminare dalle aiuole e si era messo in testa di percorrerlo tutto. Non era troppo lungo. Ed era abbastanza largo da far entrare comodamente tutto il piede.
- Ma se anche desiderassi fino al limite... -
Era strano.
Non avevano parlato solo di quelle cose, ovviamente. Anzi, avevano dedicato loro pochi minuti di conversazione. Eppure, quelle frasi sembravano essersi incise nella sua mente.
Non ricordava neppure come ci fossero arrivate, a quei discorsi.
Tutto quello che sapeva era che la cosa lo irritava. E che si sarebbe dovuto far venire mal di qualsiasi cosa ad ogni visita delle sue zie - come già faceva ogni qualvolta riceveva l'invito al matrimonio di Cugina Sconosciuta O Sentita Nominare Una Volta.
Era davvero irritante.
- ... è un pensiero irrealizzabile e lo s- AH! -
Ringraziò il fatto che il muro non fosse poi così alto. E che l'erba fosse relativamente morbida.
- Oujo-sama! - vide Gakupo oltre il muretto, sopra di lui: - Vi siete fatta male? -
- Vi ho mai detto di non apparire all'improvviso? - si mise seduto, cercando di valutare i danni della caduta: a giudicare da come non sentisse nessuna fitta, sembrava essere straordinariamente illeso.
- In realtà sono qui da almeno due minuti. -
- Dovevate manifestare la vostra presenza, allora. - si tirò su, spolverandosi il retro del vestito - in effetti, era un miracolo che la tournure non gli si fosse conficcata da qualche parte.
- Non volevo disturbarvi. -
Len lo guardò, stupito: - Disturbarmi? - inarcò un sopracciglio.
- Stavate cantando. -
Sbattè le palpebre, piano: - ... ah. -
Vide il suo sguardo confuso.
- ... nessuno si è mai posto il problema di interrompermi mentre canto per conto mio. - spiegò, accomodandosi sul muretto.
- Molto maleducato da parte loro. -
- Non ho mai dubitato di avere la sfortuna di conoscere molta gente molto maleducata. -
- Mi dispiace. -
- Anche a me. - piegò appena la testa di lato: - Volevate qualcosa? -
L'altro parve pensarci un istante: - No, in realtà. -.
Calò il silenzio.
Non c'era davvero nulla da dire.
Trattenne un sorriso, tornò in piedi sul muretto, il cuore che batteva forte.
- Dovreste evitare di mettere alla prova il vostro equilibrio, oujo-sama. - disse Gakupo, sedendosi sul muro: - Avete la tendenza a cadere facilmente. -
- Rimarrò ferma. Promesso. - stavolta lasciò che il sorriso gli sfuggisse. Inspirò, schiuse le labbra: - Nel momento in cui mi sono svegliato dal sogno, ho sentito il profumo dell'amato fiore... -.

- Gakupo-sensei... -
- Sì? -
- C'è una cosa che mi sono sempre chiesta, fin dal primo momento in cui vi ho incontrato. -
- Ossia? -
- Ecco... in realtà è una domanda molto privata... -
- Direi che ormai non ci sono più di questi problemi. -
- Beh- -
- E sorvolerò sul fatto che mi avete appena detto che vi sono sorte curiosità fin troppo private già dalla prima volta che mi avete visto. -
- Il vostro stupore mi stupisce. -
- Dicevate? -
- Sì, insomma... ecco... mi chiedevo se voi, la notte... dormiste con la treccia. -
- ... -
- O con due trecce. -
- ... no, oujo-sama. -
- Allora vi posso fare le trecce? -
- Iya. -
Era come se, quella notte, fosse crollata una barriera all'apparenza troppo solida. Non solo perché ciò che - teoricamente - sarebbe dovuto essere irraggiungibile era diventato concreto nelle sue mani, ma anche perché l'altro gli sembrava un po' meno rigido, meno freddo, più disposto al dialogo.
Più sincero. Più vicino.
- Gakupo. -
Lo sentì rimanere in silenzio.
- Voglio chiamarvi così. -
- Come desiderate, oujo-sam- -
- Len. -
Si tirò su, guardandolo negli occhi: - Voglio che mi chiamiate "Len". -
Un sospiro: - Sapete che non- -
Gli posò un dito sulle labbra, zittendolo. Si avvicinò, accarezzandogli il petto con il proprio: - Non credete che ora sia alquanto ridicolo continuare con tutta questa formalità? -
Gakupo rimase in silenzio. Si limitava a guardarlo, l'espressione impassibile.
Tolse il dito, sorrise: - Voglio che diciate il mio nome. Non "oujo-sama". - ridacchiò: - E' un nome corto. E' facile da dire! -
Vide una strana crepa intaccare quel volto troppo pacato.
Rimase in attesa, senza distogliere lo sguardo. Sapeva che stava per cedere.
- Ren. -
Un brivido lungo la schiena. Era bello, detto da lui, da quella voce.
- Len. - mormorò: - Si dice "Len". -
- Lo so. - gli occhi chiari di Gakupo si spostarono da tutt'altra parte.
- Allora ditelo. -
- E' ciò che ho fatto. -
- Non- - si bloccò. E capì. Di colpo.
Non riuscì a trattenere una risata, corse a nascondere la bocca dietro una mano, sentì benissimo l'occhiataccia che l'altro gli lanciò.
- Allora non avete mai detto il mio nome... - rise: - ... perché non ci riuscite? -
Lo vide socchiudere gli occhi, lo sguardo di nuovo su di lui: - Ren. -
- Si sente ancora la "r". - inspirò, per riprendersi dalla risata: - Parlate l'inglese in modo perfetto, il vostro accento è praticamente impercettibile, e faticate a dire bene il mio nome? -
- Non è carino, da parte vostra, reagire in questo mod- -
Si lasciò cadere su di lui, mozzandogli la frase.
- Va bene così. - sorrise, anticipando qualsiasi cosa lui stesse per dirgli - forse parole non molto carine, in realtà. Lo baciò, per poi posare la fronte contro la sua: - Chiamatemi così. -.
Gli piaceva il suo nome detto in quel modo.
Più lo sentiva, più gli piaceva.
Sentì le braccia dell'altro attorno alle spalle.
Il suo nome, detto in quel modo, aveva tanti significati diversi.
E gli piacevano tutti.

- Gradirei molto che voi foste il mio accompagnatore al ballo dei conti di Tibirsh. -
- Come desiderate, oujo-sama. -
- Voglio che siate il mio accompagnatore al ballo dei conti di Tibirsh. -
- Ovviamente, Ren. -
C'era un che di buffo nel modo in cui lo stesso dialogo si era svolto prima davanti a sua madre e alle servitrici, quel pomeriggio, e poi nella camera di Gakupo, nelle ore prima dell'alba.
Aveva sentito cose interessanti sui conti di Tibirsh. Tipo che sembravano apprezzare molto il valzer.
Tecnicamente, lui sapeva ballare il valzer: l'insegnante di danza aveva fatto sì che imparasse quanti più balli possibili, a prescindere dalla loro reputazione.
L'unico problema stava nel fatto che non avesse mai avuto occasione di provarlo - sempre escludendo le prove con l'insegnante di danza.
Neppure si pose il problema della possibilità che Gakupo non lo conoscesse - era sicuro che, al limite, sarebbe stato anche capace di imitare i passi dei vicini, sul momento.
Non gli sarebbe affatto dispiaciuto danzare il valzer con Gakupo.
Avrebbe significato stare stretto a lui sotto gli occhi dei suoi genitori, sbattere loro in faccia un'insinuazione fin troppo vera; al tempo stesso, avrebbe significato isolarsi dal mondo, danzare con una persona soltanto, stare stretta a lei come poteva solo quando erano da soli e poterlo fare sotto gli occhi di tutti.
Voleva andare a quel ballo. E voleva che fosse un'occasione speciale.
- Voglio questo vestito qui. -
- Oh. Deduco siate molto presa dalla cultura giapponese, Lady Len. -
- Più di quanto crediate. - sorrise.
- Ci vorrà molto tempo, Lady Len. E' un lavoro estremamente complesso... -
- Che sia prima della data che vi ho indicato. -
Ammirevole come la sarta che, da piccolo, gli aveva sempre rifilato vestiti infinitamente al di sotto delle aspettative riuscì a fargli ciò che voleva, preciso nel dettaglio.
Quando finalmente giunse la serata del ballo, si presentò davanti a Gakupo a braccia aperte, le maniche che arrivavano quasi alle caviglie.
Maniche bianche, alla cui base erano disegnati rami di ciliegio in fiore e piccoli soli rossi, come rosse erano la gonna, ricamata di fiori di altre gradazioni di rosso, e le rose che aveva infilato nel fiocco nero che gli legava i capelli; nere erano anche la fascia attorno alla vita e le scarpe. E poi c'era quella specie di scialle che sosteneva con le pieghe dei gomiti, che passava nella fascia sul busto, color muffa, con le estremità inferiori ricamate di muschio e licheni a caso.
Non aveva idea di quanti strati ci fossero. Erano più di quanti era solito indossarne e il vestito pesava un po', in verità.
Aveva anche deciso di passare mezzo dito di rosso sulle palpebre, vicino alle ciglia. Sapeva che nessuno avrebbe osato dirgli niente - e poi era leggero, non avrebbe infastidito nessuno.
Nel complesso, gli piaceva il risultato. E, a giudicare da come Gakupo sgranò gli occhi, non in senso negativo, anche lui gradì.
- Vi piace? - fece una piroetta, le braccia sempre aperte: - Ci tenevo ad indossarne uno, almeno una volta! - sorrise.
- Vi siete fatto cucire un kimono? - sembrava quasi dovesse assimilare la cosa. Lo vide avvicinarsi e accarezzargli una manica, prenderne un lembo tra pollice e indice: - Broccato? -
- Credo di sì. -
L'espressione stupita scomparve, le labbra si piegarono in un sorriso: - Vi dona molto. - abbassò la voce: - Ren. -
Il cuore trasalì: - Arigatou. -
Giunse le mani davanti al petto, abbassò lo sguardo. Non ne capiva il motivo, ma sentiva le guance troppo calde.

- Non avete messo i geta? -
- I che? -
Gakupo indicò verso il basso: - I sandali che andrebbero con il kimono. -
- Ah... - alzò le spalle, con noncuranza: - Non mi piacevano. Sembravano scomodi. Quindi ci ho messo delle scarpe normali. -
- Le scarpe occidentali con i tacchi non c'entrano molto con i kimono... -
- Futili dettagli. - si accertò che le rose non stessero sfuggendo al nastro: - Nessuno guarderà mai le mie scarpe. Piuttosto... - abbassò la voce, nascose dietro un'ampia manica le labbra curvate verso l'alto: - E' vero che quando si indossa il kimono si indossa solo il kimono? -
Lo vide sgranare appena gli occhi, come se non avesse capito: - Prego? -
- Solo il kimono. - ripetè: - Senza nient'altro sotto. -
Aveva letto quel particolare. Era piuttosto interessante, sotto un certo punto di vista.
Gli occhi di Gakupo si erano effettivamente spalancati, la voce di colpo ridotta ad un sussurro: - Voi indossate qualcosa sotto il kimono, vero? -
Len distolse lo sguardo, fingendosi pensieroso. Ovvio che indossasse il minimo indispensabile. Ma non c'era nulla di male a lasciare l'altro nel dubbio: - Oh... Non ricordo. Mi ci sono volute almeno due ore per mettere tutti questi strati, fatico proprio a ricordarmi cosa io stia esattamente indossando... -
Tornò a guardare Gakupo: era impallidito.
Dieci minuti dopo, Len gli camminava davanti, verso la carrozza, piantando i tacchi nel terreno, indeciso se arrabbiarsi o scoppiare a ridere.
- Siamo molto in ritardo, oujo-sama. -
- Non è colpa mia se ho calcolato male i tempi e c'è voluto più del previsto per indossare tutti questi strati. - abbassò la voce: - Però se siamo ulteriormente in ritardo è colpa vostra. -
- Dovevo accertarmi fosse tutto a posto. -
"Già..."
Non avrebbe mai pensato che Gakupo, seriamente, lo trascinasse nella prima stanza libera disponibile per controllare che avesse tutto.
Senza approfittarne, tra l'altro.
... no, il secondo particolare non era poi così impossibile da pensare.
Sospirò, alzando gli occhi al cielo.

Giallo.
Era tutto giallo.
Ogni cosa era gialla.
Era tutto giallo.
Giallo.
- Oujo-sama, state bene? -
E c'era la torta di banane.
Una buona torta di banane.
Una buonissima torta di banane.
C'era.
Perché poi non c'era più.
- Ne voglio ancora! -
- Oujo-sama, non vorrei risultare maleducato, ma vi farei notare che l'avete mangiata tutta voi. -
- Ne voglio ancora! Voglio un'altra torta di banane! -
- Neanche vi siete degnata di mangiare in maniera composta, oujo-sama... -
"Adottatemi!" guardò i conti Lord Tonio e Lady Prima Tibirsh, mentre Gakupo gli puliva la bocca con un tovagliolo giallo: "Sono carina. Sono adorabile. So suonare il pianoforte. So cantare. So ballare. So scrivere 'banana' in hiragana. E anche in katakana. Sono tenera!".
Gakupo gli stava dicendo qualcosa. Qualsiasi cosa fosse, non era importante: - E' giallo... - rispose, semplicemente.
- Dovrò chiedere ai signori conti se quelle nella torta fossero davvero banane... -
- Banane... -
Purtroppo l'estasi non durò a lungo: aveva scelto di indossare un abito bizzarro, che era logico avrebbe attirato l'attenzione, circondandolo di semplici curiosi, ragazze entusiaste e giovani fin troppo interessati.
Dopo un attimo di smarrimento, si allontanò con le altre dame, spiegando loro tutto ciò che sapeva a riguardo - che il vestito si chiamava "kimono", che era l'abito tradizionale giapponese, che c'erano davvero tanti strati; i curiosi si limitarono a gettare occhiate più o meno sfuggenti, alcuni gli fecero apertamente i complimenti, notò anche qualcuno tendere l'orecchio per ascoltare le sue spiegazioni sul kimono.
I giovani fin troppo interessati si dividevano in due categorie: quelli normali e quelli insistenti. Quelli normali si limitavano a chiedergli un ballo, a fargli qualche complimento - a volte un po' troppo pomposo -, ma desistevano una volta che lui lasciava intendere il suo rifiuto. Quelli insistenti si dividevano, a loro volta, in due categorie: i saggi e i tonti. In entrambi i casi, un semplice rifiuto non bastava a farli demordere, anzi, sembravano ispirati nel trovare sempre più argomenti di conversazione; i saggi, tuttavia, dovevano notare l'occhiata poco carina che li trafiggeva con intensità sempre crescente, finendo per rinunciare a lui onde evitare di ritrovarsi ad avere a che fare con il suo accompagnatore; i tonti, invece, non se ne accorgevano e, puntualmente, facevano un salto di mezzo metro quando colui che li stava incenerendo con lo sguardo appariva alle loro spalle, in assoluto silenzio, per poi farsi notare sibilando frasi di circostanza in modo alquanto velenoso. Non doveva essere carino girarsi e ritrovarsi faccia a faccia con qualcuno di quella stazza. Sempre per ricordare che i giapponesi erano piccoli e mingherlini.
- Rischiate di spaventare tutti gli invitati, così. - sorrise Len, nascondendo parte del viso dietro il ventaglio.
- Gli invitati dovrebbero avere più pudore. - fu la risposta pacata che arrivò, l'espressione impassibile: - Vi lascio libera, oujo-sama. -
Per modo di dire. Len sapeva di essere sempre nel suo campo visivo, per quanto potesse spostarsi per la sala.
Quando Gakupo si fu allontanato, lui fu sommerso da domande fin troppo esaltate, accompagnate da occhi anche troppo brillanti.
- Lui è il vostro accompagnatore, Lady Len? -
- Lui sarebbe il vostro precettore, Lady Len? -
- Parla l'inglese? -
- Parla inglese molto meglio di tanti inglesi che ho avuto la sfortuna di incontrare. - rispose, candido: - E, sì, è il mio precettore e accompagnatore. -
Si godè le espressioni delle ragazze, quei: - Come siete fortunata, Lady Len... -, trattenendosi dall'aggiungere altro.
In fondo, era più interessante tacere, sapere di avere un segreto di tale portata.
Un altro, per lo meno. Ben più piacevole.
E fu altrettanto piacevole, come a voler rendere concrete quelle parole non dette, essere raggiunto dall'altro dopo essersi allontanato dalla sala, uscendo su uno dei balconi per prendere un po' d'aria - le danze erano già iniziate, c'erano fremiti e agitazioni, aveva bisogno di sentire il fresco della sera.
- Non avete freddo? -
Non si voltò a guardarlo. Né spostò lo sguardo dalla luna, quando lo sentì al proprio fianco.
- Questi... - alzò una manica: - ... sono piuttosto pesanti, sapete? - gli scoccò una rapida occhiata, sorridendo di sfuggita, per poi tornare a guardare davanti a sé: c'erano davvero pochissime nuvole, la luna era del tutto visibile. Non era piena: le mancava uno spicchio per esserlo.
Inspirò: - Secondo voi... - sussurrò: - ... perché la luna è considerata romantica? -
Gakupo tacque un istante. Poi rispose, la voce bassa: - Credo sia perché gli amanti tendono ad incontrarsi di notte. La luna è il loro sole. Illumina, ma non tanto quanto il sole. Lascia sempre quel velo di intimità. -
Len sorrise. Ripensò a quante volte fosse stata il suo sole, davanti allo specchio nella sua camera, e a quante volte ancora lo sarebbe stato. Ripensò a quando l'aveva vista di sfuggita oltre i vetri delle finestre nei corridoi, quando andava nella stanza di Gakupo o tornava nella sua.
"In effetti..." chiuse gli occhi, piano: "... tutte le cose per me più importanti sono successe alla luce della luna.".
Curioso fosse proprio quella luna tanto amata dagli innamorati, da coloro che si ripromettevano di stare insieme per l'eternità, ad averlo sempre accompagnato.
- E' vero che la luna è uno specchio? -
- Prego? -
- L'ho sentito una volta. - riaprì gli occhi: - Ho sentito che la luna non irradia luce propria. Riflette quella del sole. Come se fosse un grande specchio. -
- Avete sentito bene. - il volto di Gakupo fu attraversato da un leggero sorriso: - E' proprio come dite. -
"Uno specchio." tornò a guardarla: "Ecco perché c'è sempre stata. Lei è uno specchio. Come me."
- Non trovate bizzarro che l'astro degli innamorati sia tanto imperfetto? -
- Imperfetto? -
- Guardatela bene. - allungò un braccio, indicando la luna: - Per quanto la si definisca pura, è ricoperta di macchie più scure. - abbassò il braccio: - La faccia che mostra alle persone è piena di macchie. Chissà com'è l'altra... Quella che non mostra mai. Il lato oscuro della luna. - guardò Gakupo, notò il suo sguardo tranquillo come sempre.
L'ombra di un sorriso tornò sulle sue labbra: - Importa davvero? -
Len alzò le spalle: - Semplice curiosità. -
"E' davvero come me.".
- Potrebbe essere definito bizzarro, sì. - riprese Gakupo, calmo: - Ma non credo che, per qualche macchia, gli incontri e le parole siano meno sincere. -
Len rabbrividì. La mente era vuota.
Ma il cuore aveva iniziato a battere forte.
- Parole? - mormorò, accennando ad un sorriso.
- Promesse. -
Sperò davvero che l'altro non sentisse quel martellare nel suo petto: - Ad esempio? -
Stavolta Gakupo sorrise davvero, ma sembrava più un sorriso ironico: - Volete davvero che giuri qualcosa sulla luna? -
Il cuore trasalì.
Il vociare che veniva da dentro l'edificio gli colpì le orecchie, rovinando fin troppo l'atmosfera.
Non perché le voci fossero troppo alte: gli ricordarono che non erano soli.
Non poteva tollerare di dover sottostare a comodi altrui, non in un momento del genere.
Portò una mano al petto: - Oh, non giurate sulla luna, sulla luna incostante che ogni mese cambia nella sua orbita circolare! -.
Silenzio.
- ... a cosa devo queste citazioni shakespeariane assolutamente a caso? -
- Non è a caso! - gonfiò le guance: - C'è la luna, c'è il balcone e voi parlate di giuramenti! E' assolutamente perfetta, in un momento del genere! -
- Ma certo, Ren. -
- Perché non mi credete? - sbuffò, mise le braccia conserte, distolse lo sguardo da lui, portandolo verso i vetri: - E io che avrei voluto danzare con voi! -
- Cosa volete danzare, oujo-sama? -
- Cosa vi fa credere che ora io voglia danzare con voi? -
- Il fatto che l'abbiate appena detto. -
Tornò a guardarlo.
Le labbra si curvarono verso l'alto: - Sono sicura che voi sappiate ballare il valzer. -
Era sempre bello vedere quegli occhi sgranati distruggere la compostezza di quell'espressione.

Non l'aveva previsto.
Non l'aveva doppiamente previsto.
E non era stato carino rendersene conto una volta prese le posizioni. O qualcosa del genere.
- Siete davvero sicuro di riuscire a ballare il valzer con il kimono...? -
- Assolutamente. - cercò di mantenere un certo contegno, sforzandosi di ignorare quella situazione assurda: - Magari non potrò fare giri ampi, ma posso danzare perfettamente! - sentiva una leggera fitta poco più in alto delle caviglie.
- Vi sconsiglio di sforzarvi di stare sulle punte... -
- Va benissimo così, davvero! -
- Tornate giù, oujo-sama... -
Sì, sarebbe stato splendido ballare il valzer con Gakupo, stretti l'uno all'altro, senza pensare a niente e a nessuno.
Riuscire a raggiungergli la spalla senza mettersi sulle punte e distendere l'altro braccio senza sentirlo tirare dolorosamente sarebbe stato un ottimo inizio.
Gakupo si chinò appena, piegando il braccio in modo da far rilassare il suo, teso.
Sentiva le guance roventi. Abbassò lo sguardo.
Di certo, stavano dando uno spettacolo alquanto comico.
- Siete ancora sicura di- -
- Hai. - rialzò lo sguardo, strinse la stoffa poco sotto la spalla dell'altro: - Non me ne importa niente degli altri. - sibilò, tra i denti.
"Che ridano di me." sentì le prime note: "Che ridano di me. Sanno che sarebbe l'ultima cosa che farebbero.".
Dopo i primi passi, quell'agitazione che sentiva, quella sensazione di essere osservato da chiunque scomparvero, come fumo scacciato dallo sventolare di una mano.
Sapeva di non star ballando un valzer perfetto, di apparire un po' goffo, di non poter imitare le altre coppie a causa della gonna più stretta, degli strati troppo pesanti: eppure andava bene così.
Stava danzando quel ballo con quella persona.
Gli importava soltanto quello.
Anche se entrambi facevano passi piccoli, non nella più comoda delle posizioni, anche se muoversi sotto tutti quegli strati lo stava affaticando prima del previsto.
Quando il ballo finì, nascose il sorriso troppo ampio dietro le maniche, le guance di nuovo calde.
Era felice.
Sentiva di esserlo. Era quello che significava essere felici?
- Danzate bene. - Gakupo lo accompagnò verso le sedie, per poi farlo sedere sulla più vicina: - E' un peccato ci siano stati dei contrattempi. -
- Va bene così. - abbassò le maniche: - Va bene così. - ripetè, stavolta senza nascondersi.
"Forse dovrei ringraziarlo...?"
Forse avrebbe dovuto.
Del resto, provava una profonda gratitudine nei suoi confronti: per quanto, nonostante tutto, fosse splendido, non ci teneva a spiccare il volo e planare sul tavolo dei dolci per un suo passo troppo ampio.
Forse avrebbe dovuto ringraziarlo per aver evitato passi larghi che promettevano di usarlo come strumento metallico per il lancio del martello.
Forse.
- Siete stanca? -
Tornò a guardarlo, rendendosi conto solo in quel momento di star respirando a bocca aperta.
Si affrettò a chiuderla, passandosi una mano sulla fronte sudata: - Non per il valzer. -
- Volete tornare a casa? - la voce di Gakupo si era fatta di una nota più bassa.
- S- -
I suoi occhi furono catturati da due domestici che sostituivano quel piatto da portata vuoto con un altro piatto da portata, pieno, dolce, biancogiallo.
- No. -.

Continuò a sbattere i piedi nel catino, fermandosi solo quando rischiò di rovesciarlo.
Sollevò un piede bagnato, muovendo pigramente le dita di quello rimasto in acqua, osservò le gocce che scorrevano sulla pelle, scendendo lungo la caviglia e la porzione di gamba scoperta, per poi svanire sotto la stoffa del kimono.
Sospirò, riportando il piede a mollo nel catino.
- State facendo un disastro, oujo-sama. - commentò Gakupo, dall'altra parte della stanza, in un angolo che la luce della luna non riusciva ad illuminare del tutto.
Per tutta risposta, Len sbattè di nuovo i piedi, conscio di aver ormai allagato tutta la parte inferiore del letto.
Si stupì di come ci fosse ancora acqua nel contenitore, più che altro.
- Ho i piedi stanchi! - si lamentò, con il tono più piagnucoloso che poteva.
- Questo non vi autorizza a rovesciare circa un litro d'acqua su coperte e lenzuola altrui. -
- Tecnicamente, queste coperte e queste lenzuola appartengono a me. -
- Siete così di buon cuore da far dormire un ospite in un letto zuppo d'acqua? -
- Il letto è grande, l'acqua sta in fondo, non è colpa mia se voi arrivate fin laggiù. - nascose la bocca dietro una mano.
In realtà, stava iniziando a sentire i piedi un po' freddi - non aveva idea di quanto tempo fosse passato da quando li aveva messi nel catino pieno d'acqua, sdraiato sul letto dell'altro.
La serata si era rivelata più stancante del previsto: non aveva ballato molto, ma l'aria si era fatta fin troppo calda e i vestiti erano fin troppo poco adatti alla situazione - oltre che pesanti.
Mettere i piedi nell'acqua, rilassarsi, era stato meraviglioso.
Non aveva idea neppure di dove avesse lanciato l'imbottitura, dopo aver abbassato il kimono fino a scoprirsi le spalle e aver allentato la fascia attorno alla vita; tra l'altro, era stato un po' strano uscire senza indossare un corsetto, ma non l'aveva affatto rimpianto.
Per un istante, aveva pensato di togliersi i fiori e sciogliersi i capelli. Poi aveva cambiato idea.
Del resto, non aveva cacciato la signora Tod e le altre cameriere, dicendo di essere troppo stanco per svestirsi e indossare la camicia da notte, senza motivo.
- La torta era davvero buonissima! -
- Sì. Ho notato che avete gradito la torta. - Gakupo riemerse dallo scorcio in ombra, lasciando le sopravvesti sulla sedia, i capelli sciolti come loro solito: - E sono sicuro che anche i conti hanno notato che avete gradito la torta. -
- Era buonissima! - si lasciò andare contro il materasso: "Chissà se sono disposti a darci la ricetta..."
Qualcosa di caldo sui piedi.
Abbassò lo sguardo, notandoli avvolti in un asciugamano chiaro, Gakupo che gli sfilava il catino per riportarlo sul mobile al suo posto.
Quando tornò, si sedette su una qualche parte asciutta e gli prese i piedi con delicatezza, asciugandoli: - Ora basta, Ren. E' tardi, dovreste dormire. -
Lo guardò dall'alto in basso.
S'impedì di sorridere: - E' tardi anche per voi. -
- Difatti la mia idea sarebbe andare a dormire tra pochi minuti. -
- Con i vestiti del ballo? -
- I vostri istinti idrofili hanno interrotto il mio cambio d'abito. -
Lo guardò di nuovo dall'alto in basso.
Tirò appena indietro la testa, piegandola per non sentire la crocchia premere contro la nuca.
- Spudorato. - sussurrò. Stavolta sorrise.
- Perché queste parole dure, oujo-sama? - il tono era di una tranquillità assoluta.
- Non ci si mostra in camicia davanti ad una fanciulla onesta. - liberò un piede, lo portò al suo petto; lasciò che la stoffa della camicia aperta scorresse vicino alla caviglia, accarezzandogli la pelle con le dita.
- Avete ragione. - sempre pacato: - Vogliate perdonarmi. -
- Non so se sarò in grado di farlo. Dovrò pensarci. -.
Vide le labbra dell'altro attraversate dall'ombra di un sorriso.
Un attimo dopo le vide, le sentì sul collo del piede, la mano attorno al tallone.
Di nuovo le guance troppo calde.
Poi l'altro portò il piede al proprio fianco e dopo un istante, con un brivido, sentì i suoi capelli accarezzargli le spalle nude.

Fissò la vetrina, gli occhi ridotti a fessure, le dita intrecciate per impedirsi di spalmarle sul vetro. Poco importava che, ormai, la visiera del bonnet picchiettasse contro la vetrina, non doveva mostrarsi eccessivamente ansioso.
- State tranquilla, oujo-sama. - il tono pacato di Gakupo, alle sue spalle, giunse alle sue orecchie quasi all'improvviso: - Non è un prodotto così raro. -
- E se non c'è? - si voltò, gli occhi sgranati: - E se c'è ma non è quello giusto? -
- Cercheremo altrove. - un accenno di sorriso: - Altrimenti possiamo sempre ordinarlo. -
Len rabbrividì: - E... - deglutì, la gola secca: - ... quanto... quanto ci vorrebbe...? -
- Dipende dalla disponibilità. -
- E... - un altro brivido di terrore: - ... e quanto potrebbe...? -
- Potrebbe arrivare il giorno dopo l'ordine, ma anche un mese dopo. -
- Un mese... - la voce uscì dalla bocca come un sospiro soffocato. Scosse la testa, il sangue fattosi ghiaccio: - Io non... io non potrei... non sono in grado... non... -
Un tintinnio.
Si girò di scatto verso la porta del negozio. Il cuore sobbalzò non appena vide le sue due domestiche. Lo sentì rimbombare nelle orecchie, colmo di speranza, non appena vide le loro braccia occupate da svariati pacchetti.
- Allora? - fece, raggiungendole in due falcate, la voce ridotta ad un sussurro.
- Nessun problema, signorina! - sorrise la più giovane: - Non solo hanno una grande scorta di zucchero, ma hanno anche quella precisa qualità che ci ha indicato la cuoca dei conti di Tibirsh! -
Il ghiaccio nelle vene si sciolse di colpo.
Il cuore era diventato più leggero, più grande, tanto da coprirgli l'intero petto: - Quindi... - inspirò a fondo: - ... la signora Smith potrà fare la torta di banane dei conti di Tibirsh? -
- Sì, signorina. -
"QUESTO E' IL GIORNO PIU' BELLO DELLA MIA VITA!".
Tornò verso la carrozza quasi saltellando, talmente leggero da potersi lasciare trascinare dal vento.
"La torta! La torta!"
- Hanno aperto davvero molti nuovi negozi, in quest'ultimo periodo! -
"La torta! La torta!"
- Eh, sì. Ci sono sempre più catene che stanno mettendo negozi un po' in ogni città... -
- Ah! - Len cambiò direzione, trotterellando davanti ad una vetrina piena di abiti: uno non gli piaceva granché - troppo essenziale, sembrava essere stato cucito all'ultimo minuto -, uno avrebbe pure avuto un'estetica particolare - con almeno cinque balze e il collo avvolto da un merletto - ma i pizzi erano blu e il vestito marrone, il che era un crimine abbastanza grave; ad attirarlo era stato un vestito completamente bianco, che gli ricordava un po' il suo vestito nero per le grandi occasioni.
- Oh, proprio uno dei nuovi negozi! - le domestiche gli si erano avvicinate - e Gakupo doveva essere con loro.
- Voglio un vestito come quello bianco. - decise Len, mettendo le braccia conserte: - Ma non uguale. Voglio modificarlo un po'. -
- Chiameremo la sarta al più presto, signorina. -
- Sì. -
- Che vestito discutibile... - commentò l'altra ragazza, osservando l'abito dai colori dubbi: - Credevo che le catene di negozi avessero più buon gusto. -
- Eh, a volte capita... -
- Torniamo a casa! - esclamò Len, riprendendo la camminata verso la carrozza: "Voglio che la signora Smith sperimenti subito!".
- Mi stupisce che aprano negozi anche nei paesi più piccoli... -
- Forse è una qualche mossa di mercato. Ho notato che non lo fanno solo i negozi di abbigliamento. Ad esempio, quando sono tornata a- -
Discorsi a caso su negozi, catene e affini. Len li trovava piuttosto noiosi: ciò che gli importava era la merce, non chi gliela vendeva - al massimo, poteva avere qualche negozio di fiducia, ma la cosa finiva lì. Non capiva tutto quell'interesse per l'espansione delle catene di questo o quello.
- Davvero? -
- Sì, ti dico! Tutti! Hanno chiuso tutti quanti! Ricordi quello all'angolo della strada principale, vicino alla panetteria? Chiuso! E quello vicino al parco? Chiuso anche quello! E- -
- Perdonatemi. -
Len si bloccò: "Gakupo...?"
Si voltò a guardare i suoi accompagnatori: Gakupo aveva effettivamente interrotto le due donne, la voce appena incrinata da un qualcosa di strano, sul viso un'espressione agitata, il colorito più pallido.
"Ma cosa...?"
- -ha chiuso? -
La più giovane annuì, piano, lo sguardo confuso: - S-sì. Sono circa due mesi, credo. -
Il volto di Gakupo perse qualsiasi colore.
"Cosa...?"
- Oujo-sama! - quando l'altro spostò l'attenzione su di lui, Len notò una luce inquietante nei suoi occhi, rabbrividì: non riusciva a credere che fosse davvero...
- Posso chiedervi una licenza? - una nota d'urgenza nella voce.
I piedi piantati al suolo, paralizzato, Len riuscì solo ad annuire, senza parlare.
- Dopo avervi riaccompagnata, ovviamente. - aggiunse Gakupo, forse più per cercare di calmarsi che per reale bisogno di dirlo.
Len annuì di nuovo.
Fu solo una volta in carrozza che riuscì a recuperare l'uso della parola: - Per quanto intendete rimanere via? -
- Spero davvero di poter tornare da voi stasera stessa. - rispose subito Gakupo, lo sguardo fisso alla maniglia della portiera.
Sentire quelle parole lo rincuorò vagamente.
"Spero..." ripetè, nella sua mente: "... è successo qualcosa di grave...?"
Doveva essere così.
Non aveva mai visto la paura in quegli occhi.

Era strano sentire la magione così silenziosa.
Forse erano tutti nell'ala opposta; qualsiasi fosse il motivo, era strano sentirla priva di rumori, con il sole ancora visibile.
Persino la punta della penna grattava sulla carta in modo quasi impercettibile.
Len sospirò, nel tentativo di alleggerire il petto troppo pesante: Gakupo era via da ore e, come se non bastasse, la torta della signora Smith non era proprio uguale a quella dei conti di Tibirsh. Certo, era buona, ma quella che aveva assaggiato qualche sera prima lo era dieci volte di più.
Smise di disegnare, le dita che avevano iniziato a tremare.
Ogni volta che chiudeva gli occhi, anche solo per sbattere le palpebre, quello sguardo gli appariva davanti, quasi fosse stato marchiato a fuoco nelle sue pupille. Il silenzio assoluto non lo aiutava a pensare ad altro.
Gakupo non gli aveva detto niente: l'unica cosa che aveva intuito era che fosse successo qualcosa di molto, molto grave, talmente tanto da poterlo spingere a non tornare a casa quella sera - e, forse, neppure le sere successive.
Ripensandoci, aveva capito che la cosa aveva a che fare con dei negozi - o meglio, con la chiusura dei negozi. Quando poi si era chiesto se fosse un qualcosa collegato al lavoro di Gakupo, si era accorto di non sapere assolutamente niente di quel che lui facesse: sapeva che era un mercante, era piuttosto sicuro che non avesse dipendenti, ma si era ritrovato a chiedersi se il famigerato negozio chiuso fosse un eventuale fornitore di materie prime o altro - anche perché non aveva la benché minima conoscenza dell'economia, andava a supposizioni, ma era conscio del fatto che ci fossero dietro miliardi di altre cose.
Rabbrividì di nuovo.
Per qualche strano motivo, aveva sempre dato per scontato che Gakupo non provasse paura. Sorpresa, confusione, ma non paura. E che, nel caso di qualcosa di imprevisto, sapesse sempre cosa fare, a prescindere.
Riprese a disegnare, un senso di vuoto all'altezza del petto.
Un rumore.
Alzò la testa, bloccandosi, gli occhi sgranati, le orecchie tese.
"La porta principale...?"
Il battito accelerato del cuore gli rese difficile sentire bene cosa stesse succedendo, dato quanto rimbombava nelle orecchie; quando udì quella voce familiare, calma, trattenne a stento un sorriso e tornò a guardare il libro, come se niente fosse.
Rialzò la testa solo quando sentì il rumore degli stivali avvicinarsi.
Nel momento in cui Gakupo apparve sulla soglia della biblioteca, tranquillo, Len smise di costringere le labbra a rimanere ferme: - E' andato tutto bene? -
- Sì. - un sospiro. Forse era persino un sospiro di sollievo.
- Posso chiedervi cos'è successo? - domandò, mentre Gakupo si avvicinava alla poltroncina su cui si era appallottolato: - Questo pomeriggio avevate un aspetto davvero orribile. -
- Perdonatemi. - lo vide fermarsi vicino al bracciolo: - Conosco uno dei lavoratori- - si bloccò. Riprese dopo un secondo: - -uno dei precedenti lavoratori in uno dei negozi che ha chiuso in una città qui vicino. -
"Conosce un lavoratore...?"
- Il negozio ha chiuso due mesi fa, ma lui non mi ha detto niente. Quindi sono andato a vedere la situazione. - il tono con cui aveva parlato era incredibilmente calmo, quasi apatico.
Len alzò lo sguardo fino ai suoi occhi: erano tornati come loro solito, sì, ma riusciva a vedere qualcos'altro, come un'ombra. Non che avesse uno sguardo preoccupato: era come a seguito di uno spavento, quando il cuore batteva forte per svariati altri minuti anche dopo essersi tranquillizzati.
"Deve aver avuto davvero paura..." gli sembrava strano. Ora che Gakupo era di nuovo al suo fianco, normale, le cose successe quel pomeriggio e quelle stesse parole gli sembravano come se le avesse viste e sentite in un sogno.
Scosse la testa, scacciando quei pensieri. Il cuore era diventato incredibilmente leggero: - Ora va tutto bene, quindi? -
Silenzio.
"Eh...?" piegò appena la testa di lato: gli era quasi parso di vedere un sorriso fugace.
- Sì. Ora va tutto bene. -
Sbattè le palpebre: "Perché quella pausa...?".
Avrebbe voluto chiederlo. Forse l'avrebbe fatto un'altra volta, però.
- Non fatemi più preoccupare così. - sussurrò, tornando al disegno.
- Perdonatemi, Ren. - dopo quel mormorio, la voce tornò normale: - Piuttosto... potrei sapere cosa state facendo? -
- Oh, è un libro che ho trovato in quello scaffale lì! - lo indicò, senza alzare la testa: - Credo sia un libro di poesie, o qualcosa del genere. Questa, ad esempio: "L'ultima lettera all'amante perduto". - si schiarì la voce: - Nel momento in cui il sole tramonta, la luna scompare nell'oscurità... -
- Non intendevo questo, oujo-sama... -
- Perché nelle storie e nelle poesie d'amore ci sono sempre il sole, la luna, le stelle, le nuvole e tutte le cose che ci sono nel cielo? Si può essere romantici anche con le cose che stanno in terra! I fiori, ad esempio. Soprattutto se sono viola e oblunghi! - per qualche strano motivo, gli tornarono in mente le melanzane. Anche se lui non si riferiva alle melanzane. Curioso come la forma e il colore fossero simili.
- Anche i fiori vengono usati spesso. - fu la risposta pacata di Gakupo: - Tuttavia, non mi stavo riferendo neppure a questo, oujo-sama. La mia perplessità era a proposito della penna che state tenendo in mano e dell'utilizzo che ne state facendo. -
Len guardò la penna. Poi guardò Gakupo: - Disegno. -
- Potreste disegnare su dei fogli puliti, piuttosto che fare cornicette di +++ sulle pagine dei libri? -
- No. -
- Sono sicuro che un giorno ci riuscirete. -.

C'era chi diceva che imparare a memoria intere frasi in un'altra lingua fosse nocivo, una perdita di tempo, un qualcosa di inutile.
Len non era dello stesso parere; sentirsi fare una domanda come: - Avete già avuto richieste, Lady Len? - e rispondere in giapponese, con espressione seria e composta, attirava su di sé sguardi d'ammirazione per cotanta saggezza e sguardi affascinati per il delicato alone di mistero che lo circondava.
- Avete già avuto richieste, Lady Len? -
- Non mangio pesce crudo con la soia. -
Tanto solo Gakupo poteva capirlo.
- Mi fa piacere che, nonostante non facciate mai i compiti, riusciate ad apprendere lo stesso. -
- Io li faccio, i compiti! - gonfiò le guance: - Ogni tanto li faccio! -.
Non aveva idea del trascorrere del tempo.
Quando si rese conto che Gakupo abitava con lui già da cinque mesi, rimase disorientato: gli sembrava fossero trascorsi anni e, allo stesso tempo, poche ore. Era una sensazione strana.
Non che la cosa gli importasse: soltanto, era rimasto sorpreso.
Se provava a ripensare al passato, anche solo ad un anno prima, i ricordi gli sembravano lontanissimi, sfocati, quasi appartenessero alla sua infanzia; quelle poche cose che gli tornavano alla mente erano solo positive, anche se non quanto i ricordi che iniziavano da cinque mesi prima.
Gli sembrava che ogni cosa si fosse trasformata in meglio, che tutte le persone fossero diventate gradevoli, che tutti i cibi fossero diventati buoni, che tutti i posti fossero diventati bellissimi, che il mondo fosse diventato semplicemente perfetto, che ogni cosa andasse nel verso giusto - e, se c'erano contrattempi, erano solo di breve durata, a cui poi sarebbe seguito qualcosa di ancora migliore rispetto a quello che si era previsto.
Era tutto perfetto.
Era tutto meravigliosamente perfetto.
Non credeva fosse possibile avere di più.
Eppure, in quel momento, i suoi propositi di sradicare mezzo giardino per cogliere le rose e farne un the, per quanto passatempo interessante, erano passati completamente in secondo piano.
Una volta tanto, non aveva pensato al fatto di essere da solo con Gakupo, in un punto poco visibile. Ammirò il fatto che l'altro avesse cominciato a prendere l'iniziativa.
- Ricordate quando mi avete detto che metto troppe parole nelle frasi? -
Len annuì, confuso: - Non che ora siate cambiato. -
Un accenno di sorriso: - Avevate ragione. -
- Certo che avevo ragione. Ho ragione anche ora. -
- Hai. Perdonatemi. -
- Perdonarvi co- -
Un sussurro all'orecchio.
E ogni cosa si fermò.
Solo quella parola continuava a muoversi, ripetendosi nella sua mente, ripetendosi, ripetendosi, ripetendosi.
Afferrò la giacca dell'altro, gli occhi che facevano male, tanto erano sgranati, lo sguardo fisso nel suo.
In un primo momento, si era sentito congelare.
Poi il suo volto, le sue mani e il suo petto erano andati a fuoco.
- L'avete fatto apposta? - sussurrò, piano: - A darmi quelle frasi da imparare a memoria? -
- Se anche fosse? -
Strinse la presa sulla stoffa.
E lo avvicinò ancora di più, quasi fino a soffocarsi, il cuore troppo grande che colpiva con violenza il suo petto.
Era tutto irreale.
Era tutto perfetto.
Era tutto meravigliosamente perfetto.
Era tanto perfetto da sembrare un'illusione costruita da lui stesso, mettendo insieme tutti i suoi desideri, fino a creare una realtà perfetta.
Eppure era vero.
Era tutto vero.
E tutto splendido.
- Lui guarda solo me... - strinse il pupazzo nero al petto, all'alba, nella sua camera: - Solo me. Solo me. E guarderà solo me. -
Era perfetto, quel mondo meraviglioso e reale.
Era tutto perfetto.
Aveva trovato qualcuno in grado di guardare solo lui.
Che avrebbe guardato solo lui.
Per sempre.
Per sempre.
Per sempre.
Per sempre.
Per sempre.
Per sempre.
Per sempre.






Note:
* "Zero": Zero, cantata solo da Len.
* Non penso ci sia bisogno di spiegare il Bananaisu. U.U
* La canzone che canta Len è Sakura Maichirinu -Rei-. [Traduzione]
* Il vestito di Len, credo spero si sia intuito, è quello Setsugetsuka. *O*
Che, per capire com'è fatto esattamente, ho dovuto guardare tutte immagini di cosplay.
Un piccolo appunto: Len dice che vuole che la serata sia una "occasione speciale" e, per quello, si fa cucire un kimono; sì, l'abito delle "grandi occasioni" è quello di Imitation Black ma, come Len stesso ha spiegato, non è adatto ai balli. XD *Non che quest'altro lo sia.* *Niente, ci teneva a specificarlo.*
* In epoca vittoriana, il trucco, se proprio proprio proprio doveva esserci, era leggerissimo; inoltre, difficilmente veniva concesso alle ragazze giovani.
Questo perché a truccarsi pesantemente erano, come si può immaginare, le prostitute.
Tuttavia, non era affatto carino fare commenti sul trucco di una donna, soprattutto se di rango molto elevato.
Quindi, sì, Len si trucca appena pur essendo giovanissimo perché sa che nessuno gli dirà niente.
In ogni caso, il trucco leggero era piuttosto tollerato.
* "Il lato oscuro della luna": Dark Side of the Moon, cantata solo da Len.
* "Oh, non giurate sulla luna, sulla luna incostante che ogni mese cambia nella sua orbita circolare!": Romeo e Giulietta, Atto II Scena II, alias "La Scena Del Balcone".
Perdonatemi, non ho resistito. *scappa*
* "L'ultima lettera all'amante perduto": Last Letter e Lost Lover. U.U *Combo*
* "Nel momento in cui il sole tramonta [...]": Taiyou ga Shizumu Koku / The Moment The Sun Goes Down, cantata solo da Gakupo.
* "[...] la luna scompare nell'oscurità": Yami ni Shou Eru Tsuki / The Moon Disappeared in the Darkness (l'ho trovata anche come My Darkness Disappears to The Moon, ma il titolo più fedele è l'altro).
* I fiori viola e oblunghi a cui si riferisce Len. (Se guardate il nome del link, capirete anche di che albero si tratta. *Forse Len è un pelino ossessionato...*)
* "+++": +++. Semplicemente. *Ecco perché l'ha scritto proprio così e non in lettere.*
Che poi come sarebbe, in lettere? "Plus Plus Plus"? "Cross Cross Cross"? "Biiiip"? Qualcosa in giapponese? *Lei la chiama "Più Più Più", ma ha il vago dubbio che non sia la lettura effettiva.*
* [Avviso: Mi sono resa conto di aver fatto confusione con i titoli nobiliari e i modi in cui rivolgersi ai duchi - semplicemente, non avevo messo i "di" (Duchi di Mirror, Conti di Tibirsh), e ho fatto chiamare Len "duchessina" piuttosto che "Lady Len Mirror" o "Lady Len". Più alcuni "Vostra Grazia" riferito ai duchi e qualche altro "Lady/Lord" alle comparse. Ora ho corretto, scusate l'errore. °A°]




Capitolo similfluffoso (?) e, soprattutto, strabordante di citazioni infilate con la grazia di un cinghiale esagitato. (?)
Perché non esistono solo le canzoni con il PV! *O*/ *Anche se fatica a ricordarsele pure lei.* *Vuole il PV di +++.*
Spero non risultino troppo invasive... °A°"

Qualche appunto sul capitolo di per sé.
Per quanto possa sembrare assurdo (anzi, proprio per questo), Gakupo riuscirebbe a dire "Supercalifragilisticexpialidocious" (perché sono in Inghilterra e lo direbbe così (?) con almeno un secolo di anticipo - dettagli (!)) ma non "Len" con la L. CoseCheCapitano. U.U
Sempre riguardo Gakupo e cose da pronunciare, in un primo momento volevo mettere qualche esempio delle famigerate "frasi fatte da imparare a memoria"; tuttavia, non volevo che il seguito fosse più ovvio di quanto già fosse.
Ah, ovviamente, tra le suddette frasi fatte non si parlava di pesce crudo e soia. Ma Len ha già mostrato di saper comporre frasi.
... forse. (?)

Infine, l'identità del (ex) lavoratore che Gakupo conosce - e che gli ha quasi fatto prendere un colpo - immagino sia piuttosto palese. U.U *Così come anche cos'è successo a Gakupo mentre era dal suddetto.*

Beh, giunti a questo punto, con ciò che è stato detto nei capitoli precedenti, non credo sia difficile intuire cosa succederà. U.U
Se poi sono riuscita a fare le cose in modo decente, la fine di questo capitolo non dovrebbe avere niente di fluffoso.

Parlando più in generale.
Questo era l'ultimo capitolo interamente scritto. Ho già iniziato il successivo, ma dubito molto di riuscire a finirlo per la prossima settimana. °A°
Per questo mi scuso già da ora dei ritardi degli ultimi (AHAHAHAH) due capitoli. *Saranno davvero gli ultimi due, poi? O il prossimo sarà un ennesimo quindicesultimo? (?)* *Ormai la questione non è "finire", è "sarà davvero il penultimo?"*
*china testa*

In ogni caso, spero che questo capitolo vi sia stato di gradimento. ^^
Se ci sono consigli o critiche, dite pure. ^^

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Capitolo 11
*** x1x1x ***


Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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Gli sembrava di vivere all'interno di un sogno, uno di quei sogni stereotipati dove c'è sempre una luce quasi accecante ed è impossibile sentirsi tristi.
Era tutto così bello da sembrare irreale, ma ogni sua emozione era tanto violenta da essere più concreta che mai.
Non ricordava di aver mai assaporato ogni minuto, che fosse l'ora del the o il provare un nuovo abito - sempre in sua compagnia, sempre, ovunque.
Ricordava di averlo desiderato, a volte, anche durante il giorno, ma i suoi continui rifiuti l'avevano spinto ad aspettare, serafico, il calare del sole; ora quelle attese si erano fatte più frementi, sentiva il bisogno di toccarlo - anche solo tenergli la mano - in ogni momento, come se temesse che potesse scappare.
Se non altro, lui aveva iniziato a cedere un po'. Un paio di mattine prima, ad esempio, avevano impiegato il tempo teoricamente destinato alla lezione in maniera molto più proficua.
C'erano sempre dei segni, sul suo corpo.
Per quanto svanissero, da qualche altra parte o in quello stesso punto, ne apparivano di nuovi.
Erano una prova concreta dei suoi ricordi più felici. Non soltanto nella loro parte fisica: per quanto le notti fossero belle, vedere quei segni spiccare sulla sua pelle gli facevano tornare alla mente chi glieli avesse procurati, fino a far vagare i pensieri anche alle cose più innocenti.
- Cosa vi siete fatta, signorina? -
Len accarezzò il segno sulla curva del collo, le labbra appena piegate in un sorriso: - Ho sbattuto. -
- E' difficile sbattere sul collo. - osservò la signora Tod: - Se poi vi è uscito un livido del genere, dev'essere stata una botta molto violenta! In un posto tanto delicato come il collo... -
- Già. - guardò il riflesso della donna, tranquillo. Lo sguardo dell'altra era sospettoso: - Sapete, signorina? -
- Cosa? -
- Io non credo che quello sia un livido. -
- E cosa credete che sia, allora? - il suo sorriso si accentuò.
- Qualcosa... - la signora Tod esitò: - ... che non va bene. -
Len non riuscì a trattenere una risata leggera: - Accusatemi. -
La donna non rispose.
Era sempre riuscito a nascondere quei segni alla signora Tod, in un modo o nell'altro - grazie alla sottoveste o al collarino - ma, ultimamente, la cosa non gli importava più di tanto.
Non aveva motivo di preoccuparsi, in fondo.
"In che modo accusereste Gakupo?" si era chiesto, guardando i suoi genitori, chissà quanto ignari della cosa: "Direste che mi ha corrotta? Ma ciò comporterebbe una verifica fisica da parte di un medico esterno. Ma non ci sarebbe nessuna prova fisica. E voi non volete che qualcun altro scopra più del dovuto, vero?" gli era sfuggito un sorriso: "Oppure lo accusereste di sodomia? Ci sarebbe un problema, però...".
Era piuttosto sicuro che almeno i suoi genitori sospettassero che avesse una relazione con un uomo.
Altrimenti si sarebbero allertati per eventuali gravidanze di troppo.
Non sapeva se i loro possibili sospetti si concentrassero davvero su Gakupo - semmai, si sarebbe stupito del contrario - ma, in ogni caso, nessuno aveva mai detto nulla.
La loro unica figlia era felice e al sicuro, non avrebbe avuto né dato problemi.
Non aveva alcun senso far scoppiare uno scandalo in cui, per la maggior parte, sarebbero stati loro - e l'intero casato Dewsen - a rimetterci.
Era felice.
Sì.
Non avrebbe avuto motivo di non esserlo.
C'era qualcuno che avrebbe guardato solo lui.
Che sarebbe stato disposto a fare qualsiasi cosa per lui.
- Ho mal di stomaco... -
- Ve l'avevo detto di non esagerare, oujo-sama. -
- Posso vomitarvi sulle scarpe? -
- No, oujo-sama. -
Che sarebbe stato disposto a fare quasi qualsiasi cosa per lui.
E, in ogni caso, non c'era niente che riuscisse ad intaccare quella realtà tanto perfetta.
Se solo fosse durata per sempre...
Se avesse avuto la conferma che lui sarebbe rimasto lì per sempre, solo per lui, soltanto per lui, insieme a lui, allora...
Quando riaprì gli occhi, il sole non era ancora sorto.
Il tavolo della camera di Gakupo era vuoto.
C'era una cosa che doveva assolutamente sapere.

Probabilmente, stava mettendo più impegno nel sistemarsi al calare del sole che non la mattina.
Si assicurava sempre che i suoi capelli fossero in perfetto stato, morbidi e pettinati, e che la sua camicia da notte fosse appena tirata fuori dall'armadio e senza una piega.
Poi usciva dalla propria camera, per andare in quella di Gakupo.
Sapeva che, di lì a poco, vestiti e capelli sarebbero state le ultime delle sue preoccupazioni; eppure, ogni volta, passava quasi mezz'ora a rimirarsi davanti allo specchio, per essere sicuro di essere perfetto.
Ogni cosa era perfetta.
E voleva essere perfetto anche lui.
Se poi fosse riuscito a sapere ciò che desiderava-
Sentì il cuore sussultare quando guardò il tavolo della camera di Gakupo.
I quadernini.
Gettò una rapida occhiata al suo fianco: l'altro dormiva, come sempre quando lui si svegliava.
Piano, scese dal letto, lo sguardo fisso sul tavolo, come per capacitarsi del fatto che quelli fossero effettivamente lì, a portata di mano.
Si sarebbe voluto rivestire in fretta, ma le mani tremavano troppo, il cuore sembrava sul punto di scoppiare; quando riuscì a rimettersi addosso quel paio di cose che aveva indossato andando lì, raggiunse il tavolo, afferrando il quadernino più vicino.
Gli sfuggì dalle dita, lo recuperò prima che potesse ricadere dove l'aveva preso.
Inspirò e lo aprì, il battito che colpiva contro il petto e assordava le orecchie.
Come sospettava. Erano cifre. Per quanto avesse ripassato i numeri giapponesi proprio per poter decifrare quelle pagine, però, non riuscì a capire esattamente quali somme ci fossero scritte.
Tuttavia, aveva capito che erano somme alte.
Molto alte.
Ed era l'unica cosa che gli importava.
Mise giù il quadernino, ne aprì un altro: i numeri rimanevano sempre altissimi.
Lesse anche il terzo quadernino, un'altra serie di cifre che avrebbero fatto impallidire anche i borghesi più arricchiti.
Quando tutti i quadernini furono di nuovo al loro posto, Len sentì qualcosa di piccolo cadergli dagli occhi.
Si toccò le guance.
Erano bagnate.
Il cuore era diventato rovente, eppure non faceva male. Era un calore piacevole, anche se gli premeva contro la gola secca.
Tirò su col naso e si asciugò gli occhi, prima di scoppiare a piangere. Non era affatto sicuro di riuscire a trattenersi oltre.
"Farei meglio a tornare in camera..."
Le gambe non rispondevano. Erano inchiodate al pavimento, sembrava quasi che, spostandole, sarebbe crollato tutto.
Inspirò di nuovo.
Qualcos'altro rotolò lungo il viso.
Faticò a rendersene conto.
Era assurdo.
Era assurdo.
Era perfetto.
Era lì, nelle sue mani, nel suo mondo, nella sua esistenza.
Quel frammento mancante, quel frammento che gli avevano sempre tolto e che lui aveva sempre desiderato, l'unico frammento che avrebbe voluto avere, anche a costo di sbarazzarsi di tutti gli altri.
Era lì.
Era così meravigliosamente perfetto da paralizzarlo.
Era come se fosse incapace di realizzarlo appieno. Come se la sua stessa mente fosse un contenitore troppo piccolo o troppo fragile.
Deglutì.
"Se..." strinse le mani ai gomiti: "Se..."
- Ren? -
Un sussulto. Si voltò.
"E' sveglio...?" mise le braccia conserte, quello sguardo, impassibile, nel suo: "Da quanto...?".
- C'è qualcosa che non va? -
Len tacque.
Forse avrebbe dovuto scuotere la testa e congedarsi.
Per un istante, pensò che sarebbe stata la cosa migliore da farsi.
Poi pensò che sarebbe stata la più stupida.
- Ero curiosa. - sorrise, il cuore troppo leggero, eppure prossimo allo spaccargli le ossa del torace: - Mi chiedevo con cosa armeggiaste ogni volta. -
Era sicuro che Gakupo avesse aggrottato la fronte: - In che senso? -
- I vostri affari vanno molto bene. - si riavvicinò al letto, per poi sedersi accanto a lui.
- Sì. Non ho mai affermato il contrario. - parlava piano. Probabilmente, era confuso.
- Intendevo che vanno davvero molto bene. - ripetè, calcando sul "davvero": - Immagino siate uno dei mercanti più ricchi d'Inghilterra. Anzi... - abbassò la voce: - ... del Giappone. -
Un brivido lungo la schiena, le braccia. Per un istante, inspirare gli fu difficile.
- Possibile. - ammise Gakupo, dopo qualche secondo. Lo vide sedersi, lo sguardo sempre impassibile.
Ma c'era qualcosa, ora che lo vedeva più da vicino.
Quella strana luce.
Quella che gli aveva visto mesi prima.
"... perché quello sguardo sospettoso?" esitò: "Dovrebbe essere... felice... no...?".
Gli accarezzò una guancia, guardandolo negli occhi: "Forse anch'io ho questo sguardo, ora?".
- C'è qualcosa che non va? - ripetè Gakupo, la voce bassa ma ferma.
"Perché questo tono?"
Sorrise: - Pensavo a tutti quei signori che cercano di darvi in sposa la loro figlia. - ridacchiò: - Siete davvero un ottimo partito. Di quelli rari. - gli si avvicinò: - Di quelli che meritano solo certi tipi di donna. Donne molto ricche. E potenti. -.
La mano tremava.
La sentiva, la vedeva.
Voleva ridere. Ridere fino a non avere più fiato, con le lacrime agli occhi e le spalle tremanti.
S'impose di rimanere fermo.
- E che sappiano far fruttare il vostro impegno sia qui che nella vostra terra. Il Giappone. - un bacio leggero: - Non sono molte le donne con tutti questi requisiti, sapete? Soprattutto, non molte famiglie sono interessate al Giappone. - un altro bacio, stavolta più profondo.
Voleva divorarlo. Voleva farsi divorare. Di nuovo.
E di nuovo ancora.
Senza più nascondere niente.
Per sempre.
Sempre.
Sempre.
Lo sentì scostarsi.
Len si bloccò.
Lui era rimasto immobile.
Non l'aveva sentito rispondere.
Tornò a guardarlo negli occhi, piano.
Ogni cosa sembrava essere rallentata.
C'era qualcosa di pesante, nel petto.
- Gakupo...? -
Una mano sulla sua.
La voce dell'altro era bassa, un sussurro: - Mio padre sarebbe davvero felice se mi sposassi. -
Len annuì: - Nessun padre potrebbe non esserlo, se il partito è perfetto. -
- Così avrei degli eredi. -
Ogni cosa si bloccò.
E divenne spaventosamente fredda.
Gli sfuggì una risata: - Alcune donne non possono fare figli. - un'altra risata: - Non si può sapere prima del matrimonio, no? -
- No. - il tono era privo di qualsiasi emozione: - Per questo, se non ci sono figli entro un certo periodo, si fanno dei controlli. E mio padre vorrebbe assicurarsi delle condizioni della mia sposa. Se necessario, anche presenziando alla visita. -
"..."
Len scosse la testa.
Faceva davvero troppo freddo.
Troppo.
Troppo.
- Non credo si farebbe scrupoli ad accusare la famiglia della mia sposa, se si presentassero stranezze. - mormorò: - Direbbe di essere stato ingannato. E farebbe qualsiasi cosa per vendicarsi. E, in alcuni casi, l'occasione di distruggere una famiglia potente gli verrebbe regalata. -.
Il sangue si era congelato; scorreva nelle vene ghiacciando ogni muscolo, ogni osso.
Il cuore si era congelato.
Il cuore si era fermato.
Faceva troppo, troppo, troppo freddo.
Scosse la testa, di nuovo.
Qualcosa di caldo su una guancia.
Prese la mano di Gakupo.
Non sapeva se strapparla dal suo viso o baciarla.
Non riuscì a decidere in tempo.
Abbassò lo sguardo, lasciando andare le lacrime.
Voleva ridere.
Ora non voleva più ridere.
Scacciò la mano di Gakupo, si coprì gli occhi.
Era troppo perfetto.
Tanto da essere irreale.
Infatti non era vero.
Non era vero.
Non era vero.
Si sentì abbracciare, sentì le labbra dell'altro sulla fronte, le dita tra i capelli, sulla nuca.
- Dimenticatevene. -
Un sussurro, quasi impercettibile.
- Dimenticatevi di tutto questo. -
"Dimenticarmene."
- Va bene così. -
"Va bene così."
- Va tutto bene. -
"Va tutto bene."
Abbassò le mani, alzò lo sguardo, fino ad incontrare i suoi occhi.
Sembravano dispiaciuti.
Sembravano davvero dispiaciuti.
Quando vide quegli occhi lucidi, quel velo di tristezza sul viso, quando si sentì baciare, piano, sentì qualcosa nel petto, nel cuore che aveva ripreso a battere.
Non aveva più freddo.
Il petto era caldo.
Le mani erano calde.
Avrebbe voluto mordergli la lingua, sentire il sapore del suo sangue.
Avrebbe voluto colpire quel viso, anche a costo di ferirsi le nocche.
"Questo non è il momento in cui il cavaliere giura alla dama di rinunciare ad ogni cosa e fuggire con lei?"
- Va tutto bene... - mormorò, scostandosi dal bacio, le labbra contro quelle dell'altro: - E' divertente anche così. -.

Non passava più mezz'ora davanti allo specchio, prima di andare da Gakupo.
Però ci teneva lo stesso a presentarsi perfetto.
- Anche se non sarà scritto... - sussurrò: - Anche se non avremo una cerimonia... - strinse il pupazzo al petto: - Anche se gli altri non ci vedranno come vorrei... - si passò una manica sulle guance bagnate.
Voleva che tutti si voltassero a guardarlo.
Voleva che i suoi vestiti e il suo aspetto attirassero gli sguardi degli altri, incatenandoli anche solo per pochi istanti.
Voleva che gli altri lo considerassero perfetto.
- Anche se lui si sposerà... - strinse i pugni: - Anche se lui avrà figli... - chiuse gli occhi: - Lui guarderà solo me, vero? -
Voleva essere invidiato, per poi ridere di loro.
Voleva essere desiderato, per poi negarsi.
- Una moglie stupida di cui non importa niente a nessuno. - riaprì le palpebre: - Che se ne sta in Giappone, lontana, come una socia in affari con cui dividere il letto un paio di volte. - inspirò: - Solo un vantaggio economico, solo una facciata per la società. Estranei che hanno un obiettivo comune. - guardò il pupazzo nell'occhio visibile: - Lui rimarrà qui. In Inghilterra. Con me. - affondò la testa nel cuscino: - Perché lui guarda solo me. E guarderà solo me. Non gli importa niente di una moglie lontana. La sposerebbe solo perché ha un gran rispetto di suo padre e non vuole contraddirlo. Ma non gli interesserebbe affatto.
Ci sono io, qui. Quindi rimarrà qui. Con me. E non se ne andrà mai. Perché io sono qui. E, per lui, esisto solo io. -.

Era capitato - poche volte, in realtà - che si accennasse a quella cosa.
Ma erano poche parole buttate a caso, battute che non facevano ridere, sussurri taglienti.
Dette da altre persone, ignare di tutto, che con le loro frasi riuscivano a riportare alla mente quel momento.
- Va tutto bene. - Len sentiva la voce di Gakupo vicino all'orecchio, la bocca tra il collo e la spalla, il petto che gli premeva contro la schiena, le braccia attorno al corsetto.
Era tutto distante.
In quei momenti, si lasciava semplicemente andare. Lasciava che ogni parola gli scivolasse addosso, come un fastidioso rumore di sottofondo, abbandonando la mente alle carezze dell'altro, lasciando che fosse lui a togliergli di dosso tutte quelle frasi odiose.
Doveva solo accettare la realtà.
Piano piano.
Era lì con lui.
Non da un'altra parte, non con un'altra persona, era con lui, accarezzava, toccava, baciava e voleva solo lui. Nessun altro.
Nessuno.
Solo lui.
Soltanto lui.

- C'è una cosa che devo annunciarvi, Ren. -
Len alzò le sopracciglia: - Annunciarmi...? - non gli era piaciuta quella parola.
Gakupo annuì, per poi sedersi sul proprio letto, senza distogliere lo sguardo dal suo: - Circa un mese fa, mi è arrivata una lettera da parte di mia cugina Megumi. -
Trasalì: - E' successo qualcosa? -
- Direi di sì. - vide le labbra curvarsi appena in un sorriso soddisfatto: - Finalmente è riuscita a trovare marito. -
"..."
- Si sposerà tra tre mesi. -
- Auguri. -
"Mh, non volevo che il tono uscisse così freddo. Pazienza.".
Gakupo tacque per un istante. Il suo sguardo si era fatto serio, subito dopo le sue parole.
- E io sarò presente. -
- Oh. - alzò le spalle: - D'accordo. Quanto intendete star via? Una sera? Una giornata intera? Due? Volete una settimana libera? - sentì qualcosa alla base dello stomaco, come unghie affilate che graffiavano.
Silenzio.
- Temo non abbiate compreso. - Gakupo parlò piano, scandendo le parole, lo sguardo freddo: - Presenzierò al matrimonio di mia cugina Megumi. -
- Hai, sensei. - fece Len, iniziando a trovare quel discorso fin troppo irritante: - E io vi ho chiesto per quanto vorreste la licenza. -
- Presenzierò al matrimonio di mia cugina Megumi. -
- Sì. - ora si stava arrabbiando: - Ho capito. -
- A Kyoto. -
Fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso.
Inspirò, piano.
Quando espirò, sentì gli occhi troppo umidi.
"Kyoto..."
- Quanto... - non gli piaceva quella voce spezzata che era appena uscita: - ... quanto è lontano, il Giappone...? -
- Molto. -
- Quanto "molto"? -
- Se prenderò la nave che partirà tra dieci giorni, sarò a Kyoto tra circa tre mesi. In tempo per il matrimonio. Rimarrò lì almeno una settimana. Per il ritorno, ci vorranno altri tre mesi. -
Una voce ferma, senza alcuna intonazione.
Neppure il suo sguardo sembrava avere la benché minima emozione.
Len si guardò le mani chiuse a pugno.
Alzò le dita della mano destra.
Uno. Due. Tre.
Alzò le dita della mano sinistra.
Uno. Due. Tre.
Osservò le due mani.
Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei.
Gli sfuggì una risata bassa. Ma non era divertito.
- Sei mesi...? -
Tornò a guardare Gakupo: - Pensate davvero che vi concederò una licenza di sei mesi? - la voce tremava troppo. Non era neppure sicuro di essere riuscito a pronunciare tutte le lettere.
Non sentiva il cuore battere troppo forte.
Non sentiva più l'irritazione.
Non sentiva niente.
Non sentiva più niente.
- Per questo motivo ho aspettato, nel dirvelo. - Gakupo sospirò: - Ne ho parlato con vostro padre e vostra madre. E' stato deciso che mi avrebbero concesso una licenza di sei mesi solo qualora fossi riuscito a trovare una soluzione alla mia assenza. -
- La soluzione alla vostra assenza è la vostra presenza. -
- Un sostituto. -
Len sbattè le palpebre. Era sicuro di avere gli occhi fin troppo sgranati, li sentiva far male.
- Prego? -
- Un sostituto. - ripetè l'altro. Per la prima volta, il suo tono vibrò appena, in modo indefinito: - Qualcuno di serio e competente che potesse farvi da precettore di giapponese. -
"Precettore..." si era quasi dimenticato che, in primo luogo, Gakupo Kamui era il suo precettore di giapponese.
- L'Inghilterra è piena di precettori di giapponese seri e competenti. - gli sfuggì un sorriso di trionfo: - Qualcuno in grado di sostituire un giapponese di nascita. Un altro giapponese, forse? Ed è così serio e competente come voi? -
"Ha perso in partenza." si aggrappò a quella consapevolezza con tutte le sue forze: "Se già è stato tanto complicato trovare lui, trovare qualcuno al suo livello è impossibile.".
- Non è giapponese di nascita. - quella frase lo bloccò: - Ma posso assicurarvi che è serio e competente. E che è perfettamente in grado di sostituirmi a dovere. -.
Silenzio.
- ... parlate come se aveste trovato un sostituto. - la voce non tremava più. Ma si era abbassata.
- Perché è così. -
- Ah. -.
Silenzio.
- Questo vuol dire che andrete via per sei mesi? -
- Sì. -
- Ah. -.
Silenzio.
Len deglutì. La gola era terribilmente secca. Un sussurro: - Questo vuol dire che andrete via da me per sei mesi? -
- Sì. -
- ... -.
Giunse le mani in grembo: - Avete deciso tutto senza dirmi niente. - mormorò, atono: - Avete deciso anche per me. -
- Non ho deciso nulla per voi, Ren. - lo sguardo di Gakupo si era fatto un po' più vivo. Ma non riuscì a capire che emozione ci fosse, né se fosse positiva o negativa: - Ho scelto unicamente per me. -
- Avete scelto di lasciarmi sola per sei mesi. -
- Credo possiate stare sei mesi senza di me. -.
Una coltellata al petto.
Schiuse le labbra, espirando di colpo.
- Sei mesi...? - sibilò, i pugni serrati: - Vorreste lasciarmi da sola per metà anno e la prendete con tutta questa leggerezza? -
- Sono sei mesi, Ren. - ripetè Gakupo, freddo: - Non sei anni. Neppure un anno. Tornerò tra sei mesi. Potete stare senza di me per sei mesi. -.
Gli parve che il coltello ancora piantato nel suo petto venisse girato, lentamente, apposta per fargli più male.
- Avete deciso anche per me. - disse, di nuovo.
Prima che l'altro potesse ribattere, sussurrò: - Avete deciso che io posso stare da sola per sei mesi. Qui, da sola, perché voi dovete andare al matrimonio di vostra cugina. -
L'espressione impassibile di Gakupo s'infranse. Lo vide sgranare gli occhi, quella nei suoi occhi, nella sua voce, era decisamente irritazione: - State vaneggiando. -
- Io starei vaneggiando? -
- Non vi rendete conto di ciò che state dicendo. -
- Oh, sì che me ne rendo conto. - si alzò dalla sedia, raggiungendo la porta: - Forse dovreste essere voi a pensare a ciò che state facendo. -
- Io sto facendo una cosa che chiunque farebbe. - la voce si era abbassata, quasi in un ringhio.
- Abbandonare la persona a cui si sono dette tante cose carine per correre ad una fanfara di una persona che non si vede da anni! - ribattè: - Siete davvero ammirevole, signor Kamui. -
- Andate a riposarvi, oujo-sama. - un sibilo: - Siete stanca. -
- Voi non avete di questi problemi, vero? - serrò la presa sulla maniglia: - In sei mesi su una nave ne avrete di tempo per dormire! - aprì la porta, uscì e se la richiuse alle spalle, facendola riecheggiare per tutto il corridoio.

- Megumi. -
Gli occhi azzurri nello specchio erano sgranati.
- Puoi sposarti. -
Strinse i pugni.
- Puoi avere figli. -
Toccò la pancia scoperta.
- Puoi continuare a sbattermi in faccia la tua felicità. -
Serrò i denti.
- Ma non ti permetterò di portarmi via anche l'unica cosa che posso avere. -
Afferrò la vestaglia.

Non era andato da lui, la notte precedente.
Durante la giornata, gli aveva rivolto solo le frasi necessarie, il tono freddo.
Gakupo aveva fatto altrettanto.
Len sapeva che sarebbe salito sulla nave nove giorni dopo, ma sarebbe partito dalla magione di lì a due giorni, per andare non aveva capito dove.
Quando entrò nella sua camera, dopo cena, lo trovò a fare i bagagli.
Esattamente come aveva previsto.
- Oujo-sama. - fece lui, impassibile, tornando a sistemare le sue scartoffie. Aveva alzato lo sguardo solo per un istante, quando lui era entrato.
- Ren. - Len fece girare la chiave nella toppa: - Chiamatemi Ren. - aggiunse, il tono gentile.
Gakupo alzò di nuovo la testa. Sospetto. Ormai aveva imparato a riconoscerlo.
- Perdonatemi per avervi urlato contro, ieri. - accennò ad un sorriso di scuse, accarezzando la testiera del letto: - Ero molto arrabbiata. -.
L'espressione dell'altro cambiò: sembrava più rilassata.
- Non preoccupatevi, Ren. - rispose, la voce tranquilla, senza più alcuna traccia di astio: - Era comprensibile. -
Len sforzò un sorriso più ampio.
Avrebbe voluto lanciargli contro il catino e la brocca.
"Siete ancora convinto di essere completamente nel giusto?"
Si sedette sul letto, osservando l'altro che faceva avanti e indietro per la camera. Rimase in silenzio, fermo.
Si era accorto come Gakupo gli lanciasse svariate occhiate, di sfuggita.
Perplesse.
Non riuscì a trattenere un sorriso soddisfatto.
Accavallò le gambe.
Stava aspettando solo una frase. Sapeva che sarebbe arrivata.
- Ren... -
- Sì? -
- Avete finalmente imparato ad indossare la vestaglia? -
Difatti era arrivata.
- Non sono così spudorata. - rispose, con un sorriso pacato.
Sciolse la cintura e fece scivolare la vestaglia lungo le spalle.
Quando riuscì a catturare lo sguardo di Gakupo, lo trovò sconvolto. Il suo sorriso si accentuò: - Non vado in giro per i corridoi nuda. -.
Probabilmente, era riuscito a catturare anche tutta l'attenzione di Gakupo.
- Siete... - era impallidito. Lo vide sospirare, gli occhi chiusi: - ... la persona più spudorata che abbia mai incontrato. -.
- E voi la più crudele. - continuò a sorridere: - E la più bugiarda. - riportò le gambe una vicina all'altra: - Io non sono spudorata. -
- Sì che lo siete. -
"Ammirevole come finga di avere autocontrollo."
- Avete opinioni bizzarre sulle persone che conoscete. -
- Ho opinioni perfettamente riscontrabili nella realtà. -
- Siete piuttosto arrogante nel pensare di avere opinioni tanto oggettive. - separò appena le ginocchia: - Del resto, avete già dimostrato di sbagliarvi. -
- Ah, sì? -
Si impose di non ridere.
- Sì. -
Gli porse un piede, alzandolo appena da terra.
Guardò l'altro. Era incredibilmente composto: immobile, la voce ferma, l'espressione seria.
"Vi offendereste se vi dicessi che siete anche un pessimo attore?" lo pensò soltanto. Ma ne ebbe la conferma quando lo vide in ginocchio, le labbra sul collo del piede, il tallone tra le mani.
Quando poi lo sentì sfiorargli la gamba, baciargli il ginocchio, non ebbe più alcun dubbio.
Prima che potesse andare oltre, lo fermò premendogli il palmo sulla fronte.
Lo vide alzare gli occhi, perplesso. A giudicare da come fossero lucidi, stava già cominciando a non ragionare più.
Si chinò verso di lui, accarezzandogli le labbra con le proprie: - Volete che rimanga qui, stanotte? -
L'altro sbattè le palpebre, come se cercasse di realizzare ciò che aveva appena detto. Poi sospirò, forse per riprendere contatto con la realtà: - Sì. -
Allontanò di più l'altro ginocchio: - E volete che rimanga qui anche domani notte? -
Quello sguardo stava iniziando a farsi sempre più confuso: - ... sì. - e quella voce più roca.
Sorrise. Tornò seduto.
Tolse la gamba dalle mani di Gakupo, portandola sopra l'altra.
Decisamente, quello sguardo era confuso.
Piegò la testa di lato: - E non volete che io rimanga qui anche la notte successiva? - sorrise: - E quella dopo? E quella dopo ancora? - tornò su: - Tuttavia, se anche rimanessi qui, sarei da sola. Perché voi sareste lontano. Su una nave. -
Quello sguardo si fece serio: - Ecco dove volevate arrivare... -
- Sto solo dicendo la verità. - gli accarezzò il collo con il piede: - Oppure no? -
Piano, Gakupo si rialzò, senza distogliere gli occhi dai suoi.
- Ne abbiamo già parlato. -
- Non abbiamo neanche cominciato. - abbassò le palpebre: - Pensate davvero che io sia felice che voi ve ne andiate per così tanto tempo? -
- Neanch'io sono felice di starvi lontano per così tanto tempo. - sospirò l'altro, alzando gli occhi al soffitto: - Ma sono felice che non sia così tanto tempo. -
- Avete concezioni molto strane. -
- Anche voi. -
- Se davvero foste così non felice come dite, non sareste felice di andarvene anche solo per pochi giorni. -
- Io non sarei felice di andarmene anche solo per pochi giorni. - lo vide appoggiarsi al muro: - Ma non posso fare altrimenti. Se voglio questo, dovrò sacrificare sei mesi con voi. -
Len strinse i denti. Di nuovo quella sensazione sgradevole all'altezza dello stomaco, più violenta: - Appunto. - sibilò: - Sei mesi di me valgono una manciata di giorni di lei? -
- Sì. -
"..."
Non sentì più nulla.
Non riuscì neppure a formulare un pensiero.
Gakupo inspirò, la voce più bassa: - Ma si tratta di cose diverse. Non posso mettere voi e Megumi sullo stesso piano. Io sono sempre con voi. Megumi è lontana. Non la vedo da mesi. Anni. E, anche quelle poche volte che l'ho rivista, non è stato per molto tempo. -
- A maggior ragione non dovrebbe importarvene! - forse avrebbe dovuto sentire rabbia. Ma non c'era neppure quella.
Lo sguardo dell'altro era cambiato. Non era triste. Era qualcosa che si avvicinava alla tristezza, con un qualcosa di diverso.
- Le siete così affezionato? - il tono uscì più velenoso di quanto volesse. Ma non gli importò.
Lo vide chiudere gli occhi. Rispose dopo pochi secondi, o forse ore dopo, la voce pacata: - Megumi è mia sorella.
- "... eh?"
- Sono i nostri padri ad essere fratelli, in realtà. - aggiunse: - Lei ed io abbiamo lo stesso sangue, anche se non lo stesso che possono avere due fratelli. Tuttavia, per me, lei è mia sorella. E, per lei, io sono suo fratello. -.
Len sbattè le palpebre.
- Mia cugina Lily è mia madre. - commentò: - Anche se sua madre è la sorella di mia madre. Questo significa che forse mia madre è mia cugina. -
Gakupo riaprì gli occhi. Quello nel suo sguardo era scettismo. Stavolta riuscì a riconoscerlo.
- Non siete divertente, Ren. -
Len sorrise: - Ah, no? Pensavo che voi lo trovaste divertente, invece. -
Una leggera sorpresa: - Perché pensate che io trovi divertente tutto questo? -
- Mi sembra ovvio. -
- Temo che le nostre percezioni di ovvietà non combacino. -
"No, infatti.".
Si accorse di stare tremando.
Non sapeva se fosse per il freddo, per la paura o per qualcos'altro.
Neppure gli importava.
Si lasciò cadere sul letto, allontanò del tutto le ginocchia.
L'espressione dell'altro non mutò.
- Rimanete. -
Troppo bassa, la voce che gli era uscita.
Vibrava troppo.
Sembrava una supplica.
Stavolta gli importò.
Ma, se avesse ottenuto di farlo rimanere, l'avrebbe supplicato ancora.
Ancora.
Ancora.
Finché Megumi fosse diventata solo un nome.
- Tornate nella vostra camera. -
Soffocò.
Strinse i pugni, cercò di inspirare, i polmoni bruciavano - gli occhi bruciavano, la gola bruciava.
Sentiva di avere qualcosa di disgustoso e pesante a ricoprirgli la pelle.
- L'ho detto. - non riusciva a parlare a voce più alta, più ferma. E neppure gli importava: - Siete un bugiardo. -
- Andare al matrimonio di una persona a cui voglio bene e stare lontano da voi per sei mesi non significa che ciò che vi ho detto non è vero. - il tono forzatamente controllato. Non aveva mai distolto gli occhi da lui.
- Rinunciare ad una persona a cui avete detto certe cose rende quelle cose false. -
- Starò via solo sei mesi. - una nota d'irritazione incrinò quel tono: - Non andrò via per sempre. Perché pensate che una separazione temporanea sia un tradimento? -
"Tradimento...?"
- Perché lo è. - la voce non tremava più.
Non aveva più alcuna intonazione, in realtà.
Gakupo si mosse, quasi di scatto.
Lo vide allontanarsi dal muro, attraversare la stanza, fino a fermarsi vicino al tavolo, distante dal letto.
Lo seguì con lo sguardo, in silenzio: la sua espressione era irritata. Sembrava stesse stringendo i denti. Quando parlò, quell'incrinazione nella voce si fece ancora più evidente: - C'è una cosa che vi sfugge. -
Len tacque.
- Non vivo in vostra funzione. -
"..."
- Sapete cosa siete per me. Ma non siete tutta la mia esistenza. Ci sono altre persone, anche se non rappresentano ciò che rappresentate voi. Persone che conosco fin dalla nascita, persone che conosco da anni. Sono anche loro parte della mia vita. Non posso costantemente mettervi davanti a loro. Non posso. E non voglio. - la voce si abbassò: - Non posso plasmare la mia vita sulla vostra. Se facessi una cosa simile, se non amassi anche me stesso, allora sarebbe giusto che io venissi distrutto. -.
"..."
C'era un muro. Un muro invisibile, ma spesso, terribilmente spesso. Forse era attaccato alle pareti, al soffitto e al pavimento, isolandolo in un rettangolo senz'aria.
C'era anche qualcosa sulla sua pelle. Forse melma. Forse fango. Qualsiasi cosa fosse, la sentiva sporcagli i capelli, i piedi, ogni singolo millimetro di pelle. Gli sembrava appiccicosa, disgustosa, pesante.
- Vi chiedo di mettere da parte il vostro egoismo, Ren. - mormorò Gakupo. Il suo tono si era fatto meno brutale. Ma il coltello nel suo petto andò più a fondo.
Si sedette sul letto, piano, accertandosi che ogni arto funzionasse, che non pesasse troppo.
Non c'era nessuna melma. Eppure, era sicuro di sì. La sentiva. Continuava a sentirla.
Era così pesante da averlo fatto smettere di tremare.
- D'accordo. -
Quando sussurrò, vide Gakupo sgranare gli occhi.
Posò le mani sulla coperta, mettendosi carponi.
Lo sguardo dell'altro mutò appena.
- Ma fa male, vero? - lo scrutò dall'alto in basso: - Anche se vi fingete tanto composto, fa male. -
Per quanto Gakupo si sforzasse di rimanere impassibile, lo vide stringere i pugni.
Sorrise: - Posso farvi stare meglio. Senza alcun coinvolgimento di altro genere. Solo stare meglio. -.
L'altro non rispose. Non si mosse.
Continuava a fissarlo, con quello sguardo strano, che somigliava alla tristezza ma non lo era.
Finalmente, spezzò quel silenzio.
- Tornate nella vostra camera, Ren. -.

Era tornato nella sua camera.
La vestaglia era da qualche parte, sul pavimento.
Anche se era uscito da quella camera, sentiva ancora quel muro. Forse era intorno a lui.
Come quel fango che lo ricopriva. E lo rendeva tanto repellente.
Guardò quegli occhi azzurri nello specchio.
Le labbra si mossero, ripeterono una sola parola, quella che aveva sentito giorni prima.
Finché non divenne solo un suono.

Durante la lezione, lo ignorò.
Lui lo lasciò fare, continuando a spiegare come se niente fosse, la voce atona, lo sguardo che non incontrava mai il suo.
L'ora del the passò in silenzio.
Aveva pensato che, vedendolo, avrebbe sentito di nuovo dolore al petto, si sarebbe sentito di nuovo disgustoso alla vista e al tatto, si sarebbe arrabbiato, avrebbe cercato di fargli cambiare idea ancora una volta.
Non sentì niente.
Quasi non si accorse della sua presenza.
Per questo si stupì quando, dopo il calare del sole, si ritrovò davanti alla sua camera.
Entrò, per poi richiudersi la porta alle spalle.
Quando Gakupo lo vide, la sua espressione si fece fredda, sospettosa.
Len fece qualche passo avanti: - Domani partirete. - le parole uscirono dalla bocca senza rendersene conto: - Non voglio trascorrere sei mesi pensando che voi siate arrabbiato con me. -.
L'altro non rispose.
Neppure Len parlò più.
Il mattino dopo si risvegliò al suo fianco, nel suo letto.
Come se non fosse successo niente.
Forse era meglio pensare così.
Forse non era davvero successo niente.

La partenza di Gakupo era prevista per quella mattina.
In un primo momento, Len aveva pensato di indossare un vestito sontuoso, uno di quelli che - così gli era stato detto - "facevano risaltare la sua bellezza".
Alla fine, indossò un abito bianco che si era fatto cucire da poco: tempo addietro, aveva visto in paese un abito simile al suo abito nero per le grandi occasioni e aveva voluto farsene cucire uno simile, con alcune modifiche.
Aveva fatto togliere il corsetto esterno, rendendolo uniforme. Aveva fatto accorciare le maniche fino a metà braccio, facendole fare a sbuffo.
Una volta completato, a guardarlo bene, non somigliava più tantissimo al suo abito nero per le grandi occasioni.
Però gli piaceva.
Dopo aver messo il collarino nero, in contrasto con tutto quel bianco, decise di non farsi la crocchia.
Tanto sarebbe rimasto lì in casa.
Si limitò a legare due ciuffi ai lati della testa - ma, di fatto, aveva i capelli sciolti.
Sentì l'occhiataccia di sua madre, ma la ignorò, sorridendo ad un Gakupo visibilmente perplesso.
Si offrì di accompagnarlo a ricontrollare la sua camera, per accertarsi di non aver dimenticato niente.
- Tornerò tra cinque giorni. - gli disse Gakupo, una volta arrivati alla stanza.
Len annuì.
- Insieme al mio sostituto. -
- Vi somiglia? -
- No. -
Grugnì, con disappunto: "Stavolta nulla mi impedirà di avere a che fare con un vecchio noioso.".
- Sono sicuro che starete bene, con lui. -
- Dubito potrò stare bene con lui come sto bene con voi. - un sussurro. Accennò ad un sorriso, l'altro sospirò.
Un istante dopo, sentì le sue mani sulle guance, le labbra sulle sue.
Non approfondì il bacio. Lasciò che rimanesse delicato, poco più di uno sfiorarsi.
Si scostò appena: - Vi penserò ogni giorno. - mormorò, un altro bacio leggero: - Vorrei tanto potervi reincontrare prima che svanisca la sensazione delle vostre spalle nel mio abbraccio. -
- Se davvero penserete a me ogni giorno, non sparirà facilmente. -
Len sorrise.
Avrebbe voluto dire qualcos'altro.
Ma sentiva che poteva bastare.

Era strano non vedere Gakupo nella magione.
Non vederlo a pranzo, all'ora del the, a cena, non dover fare lezione.
Era tornato tutto come tanti mesi prima, quando ancora non lo conosceva.
Era tornato come prima.
Era strano andare in paese senza Gakupo.
Passeggiare senza averlo al proprio fianco, senza stuzzicarlo, senza afferrare il suo braccio.
La cosa più strana, però, era pensare che quella sarebbe stata la sua normalità per i successivi sei mesi.
Quella che era stata la sua normalità prima di conoscerlo.
Era tornato come prima.
Non riuscì a dormire, nonostante le fitte che gli accoltellavano la testa.
Rigirò il cuscino, per posare la testa sul lato asciutto.
Strinse i denti, sotto le coperte gelide del proprio letto.
Non erano trascorse neppure ventiquattro ore.

Le domestiche avevano già pulito la stanza in cui faceva lezione con Gakupo.
Quando andò a vederla, quella mattina, trovò il tavolo perfettamente lucidato, la lavagna pulita, non un'ombra di gesso.
Avevano già pulito anche la camera di Gakupo.
E l'avevano chiusa a chiave.
Sarebbe stata inutilizzata per molto tempo - il precettore sostituto avrebbe alloggiato in un'altra stanza.
Len ne fu felice.
Non avrebbe sopportato che qualcun altro occupasse quella camera.
Soltanto, sarebbe voluto entrarvi.
Quando cercò di abbassare la maniglia, quella notte, non ci riuscì.
Non sapeva se chiedere la chiave alla governante. Sarebbe stato come urlare ciò che avevano più o meno cercato di tenere segreto.
Scese le scale, alla ricerca di quella stanza in cui aveva più volte cercato di rubargli un bacio.
Chiusa anche quella.
Non era molto utilizzata, era inutile tenerla aperta.
Ritornò nella sua camera.
Aprì i suoi armadi, guardò i suoi vestiti, uno per uno.
Si sfilò la camicia da notte.
La strinse tra le braccia, riportando alla mente ogni istante di ciò che succedeva ogni notte.
Accarezzò la stoffa con le labbra, lì dove era vivido il ricordo di un'altra bocca.
Lasciò che una mano ripercorresse quelle carezze sul suo corpo.
Ma i gemiti non erano gli stessi.
Non erano trascorse neppure quarantotto ore.

Tornò a letto poco dopo colazione.
Chiuse le tende.
"Sei mesi..."
Si premette i palmi contro gli occhi bagnati.
"Sei mesi..."
Tremava.
Non importava quante coperte mettesse, quanto pesanti fossero il suo vestito o la sua camicia da notte.
Si costrinse ad uscire dalla propria camera, ad impegnare la mente con qualsiasi cosa.
Si sedette al pianoforte subito dopo pranzo. All'ora di cena vennero a chiamarlo.
- E' stata una così bella giornata, Len! - sospirò sua madre: - Era proprio necessario riempire la casa con quelle musiche tanto cupe? Ce ne sono tante decisamente più allegre! -
"Ho saltato l'ora del the...".
Quella notte indossò il kimono che aveva portato al ballo dei conti di Tibirsh.
Lo lasciò aperto, si sdraiò sul letto. Chiuse gli occhi.
Era stata una bella serata.
Con la torta alle banane, e citazioni giuste al momento giusto, e vestiti sbagliati al momento sbagliato, e passi goffi, e danze impacciate.
Era stata una bella serata.
Sì, era stata una bella serata, quella di poche ore prima.

Quei segni sarebbero spariti.
Prima di sei mesi, non sarebbero riapparsi.
Non riusciva ad arrivare con la bocca al collo o al petto e non riusciva ad arrivare neppure alle cosce.
Almeno avrebbe potuto illudersi.
Sarebbero spariti e tutto sarebbe tornato esattamente come prima di conoscerlo.
Le giornate sarebbe tornate uguali a prima.
Il suo corpo sarebbe tornato uguale a prima.
Ogni cosa sarebbe tornata uguale a prima.
Quando non aveva ancora sentito parole del genere dette in quel modo tanto sincero, quando era ancora vergine, quando non aveva ancora provato tutto quello.
"Perché tutto torna come prima...?"
Per quanto potesse vivere, ogni cosa rimaneva immobile, ritornava alla sua immobilità originaria.
Forse sarebbe rimasto così per sempre, qualsiasi cosa lui cercasse di fare.
Non c'era nessun cambiamento.
Nessuno avrebbe potuto dire niente circa ciò che era successo.
Forse neppure lui. Forse neppure Gakupo.
In quei giorni, aveva pronunciato il suo nome tante volte.
Tante volte.
Tante volte.
Non s'illudeva che lui facesse altrettanto.
Sapeva che, forse sulla nave, forse ai porti, forse anche in Giappone, si sarebbe unito ad altre donne - o forse anche altri uomini.
Era un uomo. Era una necessità. Era giusto così.
Tuttavia, voleva illudersi che continuasse a pensare a lui.
Che in quelle donne, o in quegli uomini, rivedesse lui, cercasse lui.
Perché se ogni cosa intorno a lui era immobile, se non c'era alcuna prova di niente, allora non c'era alcun motivo per cui ricordarlo.
Premette una mano contro il petto, contro il cuore, per impedire che rompesse le ossa del torace.
Voleva illudersi.
Continuava a chiamare il suo nome, ancora e ancora.
Anche se ogni cosa rimane immobile, non voglio essere dimenticata.
"Anche se la mia voce appassisse, non voglio essere dimenticata.".

Perché?
Se l'era chiesto tante volte.
"Avrebbe potuto portarmi con lui. A Kyoto."
Era solo lui ad essere immobile.
Gakupo era andato in un altro Paese. Per vedere una donna che si sposava.
Anche lui si sarebbe potuto sposare.
Il suo aspetto era senz'altro cambiato da quando aveva la sua età.
Non era come lui.
"Lui... ha paura." lo realizzò quella notte: "Lui ha paura di guardare solo me. Per questo è andato via, senza portarmi con sé. Per questo mi ha detto quelle cose. Lui ha paura di unirsi a me, completamente. Lui è scappato da me.".
Non era come lui.
Gakupo poteva cambiare.
"Lui non è come me. Per questo ha paura di guardare solo me."
Guardò il suo riflesso: "Non voglio che abbia paura di me. So che era sincero, quando mi ha detto quelle cose. So che lui desidera guardare solo me, per sempre."
Non era come lui.
"Se io non posso cambiare come lui, se io non posso diventare come lui, allora sarà lui a diventare come me. Diventeremo una cosa sola. E saremo insieme per sempre."
Osservò i suoi stessi occhi: "Diventare come me."
Osservò lo specchio: "Capisco..."
Ne accarezzò la superficie: "Devo solo capire come.".

- Dunque...? -
- Il signor Kamui ha garantito che il signor Sheeawn è una persona assolutamente seria e competente. -
- Cos'ha detto, esattamente? -
Sua madre ci pensò un istante: - Ci ha rassicurato circa la sua assoluta integrità morale e il suo alto livello culturale. E ci ha garantito che parla la lingua giapponese in modo fluido e corretto, tanto che, se non fosse per i tratti, sarebbe scambiato per un nativo giapponese. -
Len annuì, piano.
"Probabilmente, è un suo collega." pensò: "Deve essere un qualche strano commerciante...".
Gli era stato detto che era inglese. Quindi non avrebbe dovuto avere gli occhi a mandorla.
Il suo dubbio era sull'età del signore in questione: trent'anni o più di sessanta?
Era un signore serio e composto o un vecchietto mezzo cieco con la gobba?
Somigliava di più al suo ex-precettore - quello generale, non quello di giapponese - o allo zio Al?
Era rigido e severo? Era antipatico?
Con tutta la calma del mondo e l'entusiasmo che strisciava sotto i tacchi, Len lasciò che la signora Tod lo aiutasse ad indossare il suo vestito blu scuro, dai merletti neri.
Il famigerato signor Sheeawn sarebbe arrivato alle dieci, insieme a Gakupo.
Nel ripensarci, sentì il cuore sussultare.
A conti fatti, erano solo cinque giorni che non lo vedeva.
Gli sembrava fossero trascorsi cinque anni.
Le dieci arrivarono in un istante - tanto da chiedersi se non si fosse effettivamente svegliato alle dieci meno dieci.
Per evitare che arrivasse in ritardo, sua madre era andata personalmente a recuperarlo dalla biblioteca in cui si era chiuso - aveva avuto il tempo di riempire di ghirigori solo una pagina.
Riuscì ad ottenere di aspettare alla finestra del corridoio, davanti alla porta della stanza in cui avrebbe incontrato il famigerato signor Sheeawn.
Mise le braccia conserte, trasse un profondo respiro, lo sguardo fisso sulla linea dell'orizzonte.
Cercava di non pensarci, di scacciare quell'idea dalla testa.
Ma quella sarebbe effettivamente stata l'ultima volta in cui avrebbe visto Gakupo, per i successivi sei mesi.
Sapeva che non avrebbe potuto salutarlo come avrebbe voluto - "Chissà se anche lui..." -, che si sarebbe dovuto mostrare composto e sorridente.
Sorrise, il sorriso più puro e innocente che sapesse fare.
"Non devo essere triste!" alzò le braccia, si stiracchiò: "Non ho alcun motivo per esserl-"
Sgranò gli occhi: qualcosa era apparso sulla strada. Una carrozza.
Sentiva il rimbombare del cuore nelle orecchie.
"Va tutto bene." chiuse gli occhi: "Va tutto bene.".
Riaprì le palpebre, osservando la carrozza percorrere la strada tra i prati, fino a fermarsi all'entrata.
Avvicinò il viso al vetro, incuriosito.
"Forse riesco a vedere..."
La portiera si aprì.
Quando rivide Gakupo, con la sua divisa bianca, inspirò, sentendo l'ansia - era ansia? - scivolare giù di colpo, sul pavimento.
"..."
Qualcun altro era sceso dalla carrozza, subito dopo Gakupo.
Dopo di lui, la portiera fu richiusa.
"..."
Len suppose che quella persona con Gakupo fosse il signor Sheeawn.
"..."
Sbattè le palpebre.
"... è..."
Sembrava vestito come Gakupo. E, da lontano, sembrava incredibilmente giovane. Forse aveva diciotto, diciannove anni.
"... di gradevole aspetto, pare.".
Forse era la lontananza.
Vide il maggiordomo fare loro cenno di seguirlo all'interno della casa.
Di corsa, Len tornò da sua madre, sedendosi composto al suo fianco.
Inspirò, passandosi le mani sulla gonna, per evitare che si formassero pieghe.
"... quello lì sarebbe davvero il signor Sheeawn...?".
Improvvisamente, la curiosità nei confronti del signor Sheeawn era aumentata.
Dopo un tempo che parve eterno, il silenzio assoluto della stanza fu spezzato dal rumore della porta che si apriva. Sulla soglia apparve il maggiordomo: - Il signor Gakupo Kamui e il signor Kyte Sheeawn. -
"Si chiama Kyte...?"
Il filo dei suoi pensieri fu rapidamente interrotto dalla comparsa di Gakupo.
Eppure, nonostante fosse lì, davanti a lui, a meno di due metri, non sentì alcuna sensazione di soffocamento, gli occhi non bruciavano, non avvertì alcuna morsa allo stomaco, le mani e le braccia non tremavano.
Si sentiva tranquillo.
Persino il sorriso che fece fu spontaneo, nient'affatto tirato.
Era bizzarro, in un certo senso.
Ma, forse, era meglio così.
Un'altra persona entrò nella stanza: era vestito esattamente come Gakupo, dalle frange dorate agli stivali neri, occhiali rettangolari compresi; per un istante, Len si chiese se non stesse davvero indossando una qualche divisa di ricambio dell'altro. Magari ristretta. Perché Kyte Sheeawn non era alto come Gakupo, non aveva la sua stazza: era più basso di una spanna abbondante, le spalle erano più strette, ma le dita coperte dai guanti scuri non sembravano affatto affusolate; non aveva una cascata di capelli chiari, la sua pelle non era pallida e, come previsto, non aveva gli occhi allungati.
E l'impressione che fosse di gradevole aspetto non era stata un'illusione data dalla distanza.
Len guardò prima lui, poi Gakupo. Poi tornò a guardare il signor Sheeawn.
"... si trovano tra di loro?" si domandò, sbattendo le palpebre: "C'è un allevamento specializzato a prescindere dalla nazionalità?" sbattè di nuovo le palpebre, nel tentativo di realizzare appieno ciò che aveva davanti: "In quasi sedici anni mi è capitato di rado di trovare uomini di bell'aspetto e ora ne incontro due a breve distanza di tempo? Che si conoscono?".
Entrambi si erano seduti sul divano davanti a quello su cui erano seduti lui e sua madre.
Solo Gakupo parlava; aveva notato il signor Sheeawn dare veloci occhiate alla stanza, per poi soffermarsi sulla padrona di casa.
E, infine, su di lui.
Aveva gli occhi azzurri. Somigliavano un po' ai suoi.
E aveva uno sguardo e un'espressione terribilmente freddi.
Len gli sorrise.
Vide il suo sguardo farsi ancora più glaciale.
"... non deve essere una persona molto socievole...".
Sentiva la voce di Gakupo, pacata e gentile come sempre.
Spostò lo sguardo su sua madre: ascoltava in assoluto silenzio - chissà quanto stava ascoltando, in realtà.
Guardò Gakupo. Niente. Non sentiva alcuna emozione negativa. Sentiva solo tranquillità.
Piegò appena la testa di lato.
Gli sembravano decenni che non sentiva la sua voce.
Era bello sentirla di nuovo.
E rivedere quello sguardo gentile, senza alcuna ombra di sospetto o irritazione.
Era davvero come se non fosse successo niente.
- Mia signora, oujo-sama... -
Len riportò la mente alla realtà. Non aveva ascoltato una sola parola di ciò che avevano detto Gakupo e sua madre.
- ... vi presento Kyte Sheeawn. -
- Onorato. -
Tornò a guardare il diretto interessato. Anche lui aveva una bella voce. Non era bassa come quella di Gakupo, aveva una nota stranamente più dolce, del tutto in contrasto con quell'espressione gelida.
- ... e Lady Ren Mirror. -
"Ren."
- Len. - sorrise, si coprì la bocca con una mano. Non era riuscito a trattenersi.
Per un attimo, pensò che un nome del genere avrebbe dovuto provocargli un'ondata di malinconia.
Invece, gli veniva da sorridere, tranquillo.
- Perdonatemi, oujo-sama. - per la prima volta in quell'incontro, Gakupo si rivolse direttamente a lui. La sua solita voce. Quella che si accompagnava a sospiri di rassegnazione ogni qualvolta non riusciva a pronunciare quell'unica L.
- Daijoubu. - riportò le mani in grembo: - So che ormai mi avete dato un nuovo nome, sensei! -
Gli parve di vedere le labbra di Gakupo curvarsi appena, verso l'alto.
Avrebbe voluto abbrac-
- Len, non prenderti gioco del tuo insegnante. -
Lanciò un'occhiataccia a sua madre: "Perché rovinate i miei viaggi mentali?".
- Bene, signor Sheeawn... -
Len ne approfittò per tornare a guardarlo: la sua espressione, il suo sguardo, erano sempre gli stessi.
Eppure c'era qualcosa che stonava.
Non riusciva a capire cosa fosse esattamente. Era un qualcosa di talmente vago da far sembrare tutto fuori posto. Forse non era così vago. Era come se avesse la risposta sotto gli occhi, ma non riusciva a capire.
Lo vide chinare la testa: - Gakupo tende spesso ad esagerare. -
Len sollevò le sopracciglia: "... lo chiama direttamente per nome? Senza alcun titolo?". Dovevano conoscersi molto bene: "Interessante..."
- Ma spero di essere all'altezza delle sue parole più lusinghiere. -
Gli sfuggì un sorriso, lo coprì con una mano: - Sensei wa oshaberi desu... -
Non era facile far parlare Gakupo. Ma, quando ci si riusciva, a volte diceva cose bizzarre.
A quanto pareva, era una caratteristica estesa.
- Spero tu non abbia detto nulla di sconveniente. -
Si bloccò, quando si rese conto di ciò che aveva appena detto. Non riuscì a trattenere un altro sorriso nel ricordare l'occasione in cui aveva pronunciato quella frase.
Abbassò la mano, ricomponendosi: - Iya, okaasama. -.
Gettò uno sguardo a Gakupo. La sua espressione si era appena incrinata.
Trattenne un altro sorriso. Non lo stava facendo apposta. Ma aveva un qualcosa di divertente.
"Oh, non credo che Gakupo-sensei si arrabbierà per una cosa tanto innocente.".
Spostò lo sguardo sul signor Sheeawn.
Lo stava fissando.
A giudicare da come i suoi occhi freddi sembrassero inchiodati su di lui, doveva starlo guardando da parecchio.
Sbattè le palpebre, confuso: "... non capisco se mi odii o se mi stia studiando. Ma perché dovrebbe odiarmi...?".
- Temo sia ora di andare. - quelle parole, pronunciate da Gakupo, gli fecero riportare l'attenzione su di lui.
Si sentiva un po' disorientato.

Gakupo stava partendo davvero.
Stavolta l'avrebbe davvero rivisto solo dopo sei mesi.
Len osservò un paio di domestici passargli davanti con due grosse valigie scure. Dovevano appartenere al signor Sheeawn.
Incuriosito, seguì i due uomini fino alla loro destinazione: sì, a quanto sembrava, quelle valigie erano del signor Sheeawn e la camera in cui i servitori erano entrati era quella che sarebbe stata del signor Sheeawn. Ritornò sui suoi passi.
- Non andare subito ad assillare il signor Kamui. - gli aveva detto sua madre, poco prima, costringendolo a rimanere seduto sul divano: - Sicuramente vorrà dare le ultime direttive al signor Sheeawn. -.
Dopo un numero imprecisato di minuti, Len era uscito dalla stanza, indeciso sul da farsi. E si era imbattuto nelle valigie del signor Sheeawn.
Gakupo stava partendo davvero.
Stavolta l'avrebbe davvero rivisto solo dopo sei mesi.
Si specchiò nel vetro della finestra, sistemandosi il fiocco nero della crocchia.
"Uh, dovrò fare lezione subito subito oggi?" piegò la testa prima da un lato poi dall'altro, cercando di capire se fosse presentabile. Sospirò, alzando gli occhi al soffitto: "Temo di sì...".
Abbassò lo sguardo, verso la carrozza ferma davanti all'ingresso.
Sbattè le palpebre.
Trotterellò verso l'uscita, un sorriso sulle labbra.
Gakupo stava partendo davvero.
Stavolta l'avrebbe davvero rivisto solo dopo sei mesi.
- Gakupo-sensei! -
Era lì, davanti alla carrozza, con altre persone.
Len scese le scale di corsa, fino a raggiungerlo, fino a stringerlo a sé.
Era davvero come sempre. Come se non fosse successo assolutamente niente.
Era felice.
- Non mi avete salutata per bene! - piagnucolò, alzando lo sguardo fino a guardarlo in volto, oltre le lenti rettangolari.
C'era una minuscola luce di sorpresa, in quegli occhi.
- Partite per sei mesi o cercate di scappare? -
Gakupo stava partendo davvero.
Gakupo era già partito cinque giorni prima.
Stavolta l'avrebbe davvero rivisto solo dopo sei mesi.
E non avrebbe più avuto paura di lui.
Sentì i polsi nelle sue mani, si sentì allontanato. Non si sarebbe aspettato nessun'altra reazione.
- Nessuna fuga, oujo-sama. - rispose Gakupo, pacato come sempre, bugiardo come gli piaceva essere: - Mi auguro che, al mio ritorno, abbiate dimenticato comportamenti tanto indecenti. -.
Non riuscì a trattenere una risata.
Nascose le labbra dietro una mano, portò l'altra dietro la schiena: "Eppure non mi siete mai parso eccessivamente contrario ai miei comportamenti indecenti...".
- Kaito. -
Riportò le mani lungo i fianchi e notò Gakupo rivolgersi al signor Sheeawn, ad un paio di metri da loro: - Non metterti nei guai. -
"Kaito?" guardò l'altro annuire piano; nei suoi occhi, per la prima volta, riuscì a scorgere qualcos'altro oltre la freddezza: indecisione, o forse il timore di qualcosa.
Len sbattè le palpebre: "... il signor Sheeawn è una persona strana.".
A giudicare dal modo confidenziale con cui gli si era rivolto Gakupo - e dal modo in cui lui stesso aveva chiamato Gakupo -, dovevano essere amici.
La conferma che il signor Sheeawn fosse una persona particolare.
"Me lo lasciate per sei mesi, Gakupo?" sventolò la mano, mentre la carrozza si allontanava.
Come cinque giorni prima.
Adesso doveva aspettare sei mesi.
Sei mesi.
Sei mesi.
- Siamo rimasti solo noi due! - trillò, portando le mani dietro la schiena.
Tanto valeva dare la giusta dose di pathos alla scena.
- Ci sono anche i vostri servitori, signorina. E vostra madre vi attende in casa. - gettò uno sguardo al signor Sheeawn, al suo fianco: aveva ancora gli occhi fissi sulla linea dell'orizzonte, freddi.
A sentirla così vicina, la sua voce aveva davvero una nota dolce, per quanto il suo tono fosse impassibile; la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato si fece sempre più forte.
- Cercavo di essere poetica! - gli fece notare. Decisamente, certa gente non aveva il senso della scenografia.
Stavolta, il signor Sheeawn si voltò verso di lui: le sopracciglia appena inarcate, lo sguardo perplesso. Quella bizzarra sensazione si affievolì.
- Prego? -
Len piegò la testa di lato: - Nei libri, alle partenze, qualcuno dice sempre una frase poetica. - spiegò: - E' per dare la giusta atmosfera! -.
Il signor Sheeawn sbattè le palpebre, la fronte aggrottata.
Quella sensazione era sparita del tutto, in un istante.
- ... forse... - parlò lui, dopo qualche secondo: - ... dovreste pronunciarla con un tono più basso. -
"Oh." sgranò gli occhi, rendendosi conto solo in quel momento di aver praticamente urlato, poco prima.
Era ovvio che il signor Sheeawn fosse confuso: non poteva starnazzare una frase solenne, rischiava di rovinare tutta la drammaticità!
- Forse avete ragione. - si portò una mano davanti alla bocca, ripetendo quelle parole tra sé e sé: - Lo terrò a mente, per la prossima partenza! -
- Signorina... -
Prima che potesse pensare qualsiasi cosa, la voce della governante gli ricordò della presenza di altre persone - e del fatto che-
- E' probabile che il signor Sheeawn debba sistemarsi. -
- Vero! - tornò a guardare l'altro - non si era neppure accorto di aver gettato un'occhiata alla donna -, incontrò il suo sguardo seriamente disorientato: - Lasciate che vi mostri la casa, signor Sheeawn! -.
Corse verso l'ingresso, rievocando il percorso da fare per raggiungere la stanza in cui aveva visto i due domestici portare quelle due valigie.
Si bloccò, non sentendo alcuna presenza accanto a sé. Si voltò e guardò in fondo alle scale: il signor Sheeawn stava salendo piano, un gradino per volta, con estrema calma.
- Siete stanco, signor Sheeawn? - domandò, indeciso se preoccuparsi o ridere.
Era buffo, in un certo senso. Strano, ma buffo.
"Me lo lasciate per sei mesi, Gakupo?" aspettò che lo raggiungesse davanti al portone: "Quindi posso giocarci un po?".

- Quella porta là in fondo conduce alle cucine, questa a sinistra al giardino interno, quella a destra porta sulla strada che conduce alle stalle. - fece i gradini a piccoli salti: - State attento quando salite le scale, a volte puliscono anche fin troppo bene! - sorrise, per poi riportare l'attenzione sul corridoio: ormai non era più troppo distante dalla meta.
Aveva mostrato la casa al signor Sheeawn, trotterellando davanti a lui - e fermandosi di tanto in tanto per assicurarsi di non esserselo perso da qualche parte; per tutto quel tempo, l'espressione dell'altro era rimasta invariata, come eternamente bloccata in un istante senza emozione.
Quella sensazione bizzarra era tornata a farsi sentire, con particolare forza.
"C'è qualcosa che stona..." e non era solo quella faccia gelida con una nota dolce nel timbro. Eppure, sentiva che quella voce fosse un indizio.
E che la soluzione fosse davanti ai suoi occhi.
Fu appena notò il maggiordomo davanti ad una porta che capì di aver ricordato bene l'intero percorso: - E questa credo sia la vostra stanza. - annunciò, fermandosi.
Quando sentì il signor Sheeawn al proprio fianco, la porta bianca si aprì, rivelando la stanza - e, cosa più interessante, le valigie che gli erano passate davanti erano ora a pochi metri da lui, del tutto incustodite.
Varcò la soglia e raggiunse i due bagagli scuri. Non sembravano nascondere cose particolari, probabilmente contenevano solo lo stretto necessario.
Si avvicinò, socchiudendo appena gli occhi: le due valigie erano pulite, tirate a lucido, eppure, negli angoli inferiori, c'erano delle abrasioni e il materiale delle maniglie stava iniziando a venire via.
"Sono di buona qualità..." piegò la testa di lato: "... ma sembra siano state usate spesso." spostò la testa dall'altro lato: "Forse viaggia molto...?" si raddrizzò: "... però..." esitò: "... il signor Sheeawn non mi sembra uno che fa lo stesso lavoro di Gakupo.".
Non sapeva perché avesse quella certezza. Soltanto, pensare al signor Sheeawn come ad un mercante era come pensare ai suoi genitori come assidui e irrefrenabili frequentatori di eventi mondani.
Una striscia bianca colpì i suoi occhi.
Quando capì cosa fosse, trasalì: - L'avete mai usata? -
- Prego? -
Si voltò a guardare il signor Sheeawn: era rimasto sulla soglia, rigido, gli occhi fissi su di lui. Sembrava una statua.
- La vostra spada. -
Non somigliava alla katana di Gakupo. Era una spada classica, come quelle che era abituato a vedere.
- No. O meglio, sì. -
"... no o sì...?" inarcò un sopracciglio.
Poi vide una cosa che bloccò qualsiasi suo pensiero: il signor Sheeawn stava sorridendo.
... o meglio, aveva curvato le labbra verso l'alto, con fatica, quasi gli angoli della bocca pesassero infiniti chili.
- Ma non sono mai stato un soldato, se è questo che chiedete. -
"Uhm, in realtà non ci avevo pensato. Però, allora, posso escludere una fetta di impieghi." il mistero sul cosa fosse Kyte Sheeawn rimaneva. In ogni senso.
Vista l'evidente difficoltà con cui stava sorridendo, sorrise al suo posto, un po' per metterlo più a suo agio, un po' per evitargli di continuare a tenere quella smorfia sofferente.
Tornò a guardare la spada. Era la seconda volta, dopo la katana di Gakupo, che si sentiva tanto incuriosito da un'arma.
- Mi piacerebbe impugnarne una. - confessò, lasciando andare un sospiro più pesante di quanto avrebbe voluto: - Ma i miei genitori mi hanno sempre tenuta lontana da cose di questo tipo. -
Gli ufficiali.
Strizzò gli occhi, quasi avesse avuto una fitta alla testa. Quando li riaprì, si rese conto di aver conficcato le unghie nei palmi.
- Posso comprenderli. Potreste farvi male. -
"Già..." sospirò: - Mi piacerebbe vederla sguainata. -
Sbattè le palpebre: "Giusto!"
Tornò a guardare l'altro: - Potreste, qualche volta? - sorrise: - Non vorrete tenerla sempre nel fodero, in mia presenza! -
"Una spada vera! Dal vivo! Vicina a me! Sguainata!"
- Temo dovrò, signorina Mirror. - le parole del signor Sheeawn erano piuttosto sgradevoli. Lo vide chinare appena la testa: - Se quella spada fosse sguainata, significherebbe che c'è un problema. -
"Ma non è vero! Potreste anche solo tenerla fuori senza usarla!"
Gli occhi dell'altro, tornato a guardarlo, erano di nuovo freddi. E sofferenti. C'era un qualcosa di strano, in quegli occhi azzurri.
Gli si avvicinò, incuriosito. Il signor Sheeawn non si mosse - più che altro, non sembrò neppure essersi accorto di lui, nonostante gli stesse davanti.
"... è..." aggrottò la fronte: "... strano.".
Si lasciò sfuggire un sorriso, proprio quando il signor Sheeawn sembrò ritornare alla realtà: - Chiamatemi Len! - esclamò: - "Signorina Mirror" è troppo lungo da dire, non trovate? -
- Ehm... -
"Ma no, signorina Mirror, non potrei mai osare chiamarvi in maniera così-"
- Come desiderate, signorina... Len. -
"... oh."
Qualcosa trasalì, nel suo petto. Curiosità. Tanta curiosità.
"Perché non si è rifiutato?" giunse i palmi davanti al petto: "Ma soprattutto... perché non ha trovato nulla di strano in una simile richiesta?"
- Quindi posso chiamarvi "signor Kyte"? - voleva vedere fino a che punto riuscisse ad arrivare: - O forse dovrei dire "Kyte-sensei"? O magari... - "Uhm, com'era che l'aveva chiamato? Ah, sì.": - ... "Kaito-sensei"? -
Vide le sue spalle rabbrividire. Forse quegli appellativi non gli erano molto graditi.
Trattenne una risata: "Ha un modo di fare glaciale, ma pare che le sue emozioni siano cristalline..."
- Credo che la prima possa andare. - sembrava stesse controllando la voce. Quegli appellativi dovevano fargli davvero uno strano effetto.
- Allora io sarò "signorina Len" e voi "signor Kyte"! -
- Vi ringrazio per il riassunto, signorina Len. E' stato molto utile. -
"Nessuna piega." cercò di guardarlo negli occhi, ma si erano fatti sfuggenti, quasi nervosi per qualcosa: "Ha accettato subito. Forse perché pensa di dovermi dire sempre di sì...?"
- Len. -
"... perché mia madre si ostina ad interrompere le mie profonde riflessioni socialmente impegnate?"
- Direi che puoi lasciare in pace il signor Sheeawn. Vai nella stanza dove studiavi con il signor Kamui e aspettalo lì. -
"Come sospettavo."
- Sì, madre. - "A proposito, ma da quanto tempo è qui?"
Si congedò dal signor Sheeawn, lasciandolo in balìa di sua madre - senz'altro avrebbero dovuto parlare di cose noiose e, ancor più senz'altro, di lui e del modo migliore di tartassarlo con i compiti.
Non ci teneva ad origliare.
Anche perché tutto quello stava assumendo una piega interessante: il signor Sheeawn era una persona strana e curiosa.
Voleva saperne di più.
Voleva sapere chi fosse quella persona a cui Gakupo parlava in modo così confidenziale, a cui aveva affidato il lavoro, e che si comportava in modo tanto bizzarro.
E voleva capire cosa ci fosse di così palesemente fuori posto nella figura di Kyte Sheeawn.






Note:
* "Se non amassi anche me stesso, allora sarebbe giusto che io venissi distrutto": citazione da Imitation Black.
["Se non amerò anche me stesso (Se non c'è amore dell'individualità) / è giusto che io venga distrutto"]
* Il vestito bianco "che somiglia tanto a quello delle occasioni speciali o forse no" è il vestito bianco angelicato (?) indossato da Len durante la sua strofa pucciosa (?) in Imitation Black.
(Kyte si prende Len in versione nera, Gakupo in versione bianca.)
* Sì, la frase che Len dice a Gakupo quando lo saluta la prima volta è un'altra versione della stessa che ha detto dirà poi a Kyte per "tranquillizzarlo" della lontananza.
Anche questa è una citazione da Imitation Black.
* "Continuava a chiamare il suo nome, ancora e ancora.", "Anche se la mia voce appassisse, non voglio essere dimenticata.": citazioni da Haitoku no Kioku - The Lost Memory.
[Chiamerò il tuo nome ancora e ancora / Anche se la mia voce appassisse, non voglio essere dimenticato] [Traduzione]
* Qualche giorno fa ho fatto un edit nelle note del capitolo precedente, lo riscrivo qui perché mi rendo conto che è difficile che sia stato notato.
[Avviso: Mi sono resa conto di aver fatto confusione con i titoli nobiliari e i modi in cui rivolgersi ai duchi - semplicemente, non avevo messo i "di" (Duchi di Mirror, Conti di Tibirsh), e ho fatto chiamare Len "duchessina" piuttosto che "Lady Len Mirror" o "Lady Len". Più alcuni "Vostra Grazia" riferito ai duchi e qualche altro "Lady/Lord" alle comparse. Ora ho corretto, scusate l'errore. °A°]




Ah, dopo essermi tanto lamentata dei capitoli che si scindevano da soli, sono arrivata a dividere un capitolo io stessa spontaneamente. *Ci sembra giusto.*
Il motivo, in realtà, è molto semplice: come si sarà notato, ormai il flashback si è ricongiunto con il primo capitolo, bene o male i retroscena sono stati quasi tutti svelati - quasi tutti - e, soprattutto, si chiude il capitolo "Gakupo". Sostanzialmente, ho voluto dividere in quel punto perché non volevo che il ruolo di Kaito fosse schiacciato a sandwich (?) nel rapporto tra Gakupo e Len - se non avessi diviso, questo capitolo si sarebbe aperto come si è aperto e si sarebbe chiuso con il ritorno di Gakupo e tutte le vicende pre-flashback; ossia, sarei finita con il rendere Kaito solo una persona di passaggio che si è "intromessa" tra Len e Gakupo.
Spero di riuscire a non farlo apparire così. °A°"
(*Soe, perché parli come se questa fosse una storia con una trama mozzafiato piena di inaspettati colpi di scena?*)
Probabilmente, dovrò cambiare il titolo in Bananantiful. *Grazie, Tayr!*

Forse l'assoluta seraficità di Len alla seconda partenza di Gakupo può lasciare perplessi.
Se ci fate caso, però, non è poi così serafico.
Del resto, dovrebbe ormai essersi notato che Len ha delle visioni un po' distorte...
E poi ha trovato qualcosa in grado di distrarlo. U.U

A tal proposito...
... non credevo che fare "scene a specchio" fosse così difficile! °A°""
E' che bisogna stare attenti a non dare per scontato che la scena già si conosca. Forse il lettore sì, ma il personaggio no. E, al tempo stesso, non annoiare troppo chi la scena già l'ha letta da un altro punto di vista. °A°
*Complimenti a chi ci riesce bene.*

Nondimeno, in generale, non è stato un capitolo facile.

Detto questo, spero che questo capitolo vi sia stato di gradimento. ^^
Se avete critiche o consigli, dite pure. ^^

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Capitolo 12
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Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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Non indossava quasi mai gli occhiali.
Len si appuntò mentalmente quel particolare: aveva visto il signor Kyte portarli solo durante le lezioni; li metteva non appena prendeva posto davanti alla lavagna e li toglieva quando finiva il tempo previsto per lo studio.
Senza occhiali, il volto del signor Kyte perdeva almeno un anno, nonché una grossa fetta di autorità: eppure, per quanto una cosa simile non fosse proprio positivissima, per un insegnante, in quei momenti Len sentiva quella bizzarra sensazione di "fuori posto" attenuarsi fino a quasi scomparire.
Era come se Kyte Sheeawn fosse completamente estraneo agli occhiali.
Quando parlava con lui, gli sembrava quasi scegliesse con cura le parole con cui rispondergli - e l'idea che pensasse di doverlo accontentare in tutto e per tutto gli sembrava ogni istante meno credibile.
I suoi occhi azzurri erano perennemente freddi, a volte fissi.
E la mattina gli era capitato di vederlo strofinarseli, di passarsi le mani tra i capelli spettinatisi durante la notte, oppure di non riuscire a trattenere uno sbadiglio, di camminare con la schiena un po' incurvata fino ad arrivare alla sala della colazione.
In quei momenti, tutto sembrava esattamente come sarebbe dovuto essere.
"... si sta sforzando di fare la persona seria?"
Tutto parve illuminarsi di colpo, come aprire all'improvviso le tende di una stanza buia a mezzogiorno.
Kyte Sheeawn non era completamente estraneo agli occhiali, era completamente estraneo alla quasi totalità di ciò che faceva: non era un insegnante, non sapeva come ci si rapportasse ad un'allieva, non aveva idea di che comportamento assumere con lui e, sopra ogni cosa, stava cercando di mostrarsi un serio ed intransigente damerino impettito agli occhi dell'intera popolazione della casa.
Len ebbe la Suprema Intuizione ben due mattine dopo averlo incontrato.
E la sua curiosità nei confronti del signor Kyte aumentò a dismisura.
"Una persona così estranea alla rigidità è tanto amica di Gakupo...?"
Era ormai palese che Kyte Sheeawn non fosse tanto devoto all'etichetta più rigida e Len aveva il vago sospetto che fosse incapace di essere davvero severo: il signor Kyte stava disperatamente cercando di imitare Gakupo; al tempo stesso, stava disperatamente cercando di imitare quello che sembrava essere un suo stretto conoscente.
E, a giudicare dai risultati, lui e tal stretto conoscente dovevano avere in comune solo l'appartenenza al genere maschile.
Il signor Kyte si stava dimostrando una persona potenzialmente molto divertente.
"La vostra è solo una fragile e trasparente maschera di vetro, signor Kyte..." sorrise: "... prima o poi, finirà con il cadere dal vostro viso e spezzarsi in tanti piccoli frammenti".
Si bloccò: "... questa frase era molto ad effetto." socchiuse gli occhi: "E' originalissima. Sicuramente non l'avrà mai usata nessuno!" li riaprì, giunse le mani: "... sono diventata una poetessa!".
I libri che leggeva davano ogni giorno di più i loro frutti.

Non che Kyte Sheeawn fosse un volgare popolano.
Non era estraneo a tutto ciò che faceva: non dava la minima impressione di essere un contadino ignorante portato di peso dalla fattoria ad una magione ducale.
Durante le lezioni, aveva potuto vedere le sue dita più da vicino: non erano le dita bianche e affusolate di un nobile, aveva visto i calli di chi ha fatto, in un passato chissà quanto lontano, dei lavori manuali.
Non aveva affatto un linguaggio basso e volgare, parlava come un nobile o un alto borghese.
Doveva essere un membro dell'alta borghesia: veniva unanimamente chiamato "Signor Sheeawn". Nessun titolo nobiliare, né di cortesia.
"Lo chiamano sempre così..." Len alzò appena lo sguardo dal foglio pieno di kanji semplici, lanciando una rapida occhiata all'uomo di fronte a lui: "Non ho mai sentito nessuno chiamarlo Sir Kyte. Non è neppure un cavaliere.".
La possibilità rimasta era che fosse un collega di Gakupo.
A Len capitò di guardare il signor Kyte mentre quest'ultimo, evidentemente, pensava di non essere visto: senza occhiali, con un'espressione a metà tra il rassegnato e il panico totale, la faccia di Kyte Sheeawn era, al tempo stesso, il ritratto della creatura indifesa e il ritratto della creatura poco intelligente.
Len scartò l'ipotesi del collega.
"Cos'è il signor Kyte? Come accidenti fanno lui e Gakupo a conoscersi e ad essere amici?"
Domande che si ripeteva spesso, ogni volta più incuriosite - soprattutto dopo aver capito che Kyte Sheeawn era un grandissimo bugiardo inconsapevole di avere la scritta "Sto mentendo" stampata in maiuscolo, grassetto e corsivo sull'intera superficie del viso.

C'era un ultimo particolare. Quello che, in realtà, era il primo particolare che aveva notato.
"E' uno di quegli uomini che può permettersi di indossare una divisa simile."
Durante le lezioni osservava le mani.
Quando gli parlava o l'altro credeva di essere da solo, gli guardava il viso.
Il resto del tempo era riservato al resto.
"Volete davvero imitare Gakupo in tutto e per tutto, signor Kyte?" sventolò piano il ventaglio, il the ormai finito.
Lo guardò negli occhi, davanti a lui, dall'altra parte del tavolino.
Lo sguardo del signor Kyte corse alle tazzine vuote: - Gradite altro? -
Len scosse la testa. Fermò il ventaglio, vi nascose dietro le labbra: "Volete davvero imitare Gakupo in tutto e per tutto, signor Kyte.".

Aveva perso il conto di quanti sguardi avessero percorso i suoi capelli, la sua pelle e i suoi vestiti.
Alcuni erano sguardi ammirati, felici di guardarlo; altri erano sguardi di chi avrebbe voluto avere ciò che lui aveva; altri ancora erano sguardi di curiosità, che si scontravano con degli sguardi infastiditi o di disprezzo; c'erano anche sguardi che, in verità, si soffermavano su di lui per pochi istanti, solo per notare la sua presenza nell'ambiente, ma non davvero interessati.
E poi c'erano gli sguardi che vedevano i suoi vestiti come un accessorio di troppo.
A volte erano come sfioramenti leggeri, quando c'era la consapevolezza di non avere alcuna possibilità, di poter solo lasciare andare la fantasia; altre volte Len poteva quasi sentire delle strette e dei morsi.
Era conscio del fatto che certe cose potessero degenerare. Quando sentiva troppo, era solito rifugiarsi nelle vicinanze di suo padre, del padrone di casa o Gakupo.
Gakupo soprattutto sembrava un ottimo deterrente.
Lo divertiva il fatto che lo stesso Gakupo l'avesse quasi guardato allo stesso modo.
Non era lo stesso identico medesimo uguale tipo di sguardo, ovviamente; che l'altro l'avesse più volte guardato come lui avrebbe potuto guardare una torta di banane dopo un mese di digiuno, però, non era un qualcosa di negabile.
Soltanto che gli sguardi di Gakupo erano discreti.
Quelli del signor Kyte no.
In un primo momento, Len non aveva capito che a guardarlo come una pila di biscotti con la gonna in pizzo fosse Kyte Sheeawn.
Poi, cercando di scoprire la provenienza di quegli sguardi, si era chiesto: "Chi mai potrà essere a lanciarmi questi sguardi poco equivocabili che sento da un numero di giorni che casualmente quasi corrisponde a quello dei giorni in cui il signor Kyte è presente in questa casa?"
In realtà, Len l'aveva capito benissimo. Soltanto, non riusciva ad accettarlo.
Non riusciva ad accettare l'idea che fosse tutto così assurdamente facile.
Si stava davvero stancando di stare nel letto da solo. Non dopo aver passato così tanti mesi in compagnia, ogni notte.
Non doveva essere un bisogno, il suo.
Ma era innegabile che lo fosse.
Tuttavia, se anche non lo fosse stato, la cosa non gli sarebbe affatto importata.
A prescindere dal suo sesso, non aveva alcuna intenzione di dividere il letto con se stesso per sei mesi.
Le occhiate che sentiva sulla pelle da parte di quegli occhi azzurri gli dicevano che neppure il signor Kyte avesse intenzione di starsene da solo.
"Mi avete lasciato un perfetto sostituto, Gakupo.".
Doveva solo far sì che il suo ospite si sentisse più a suo agio.

Il signor Kyte era più alto di lui. Di una spanna abbondante.
Quindi lui, per poterlo guardare, doveva abbassare lo sguardo.
Soltanto che il signor Kyte non aveva un gran senso dello spazio e finiva sempre per fermare lo sguardo più sotto di quanto fosse necessario - all'incirca all'altezza della scollatura del suo vestito.
Len lo capiva benissimo: anche a lui capitava di avere problemi di spazio, quando doveva parlare con una donna più alta di lui - dato che a volte erano troppo alte, il suo sguardo faceva una pausa ben prima degli occhi, curiosamente, anche nel suo caso, all'altezza della scollatura.
Non che si vedesse mai nulla di troppo affascinante, al di fuori delle sale da ballo. Però capitava che s'intravesse una piccola ombra al centro o, se si guardava dall'alto, un'ombra un po' più profonda.
Quelli erano i momenti in cui Len desiderava che le imbottiture del suo corsetto fossero naturali. Avrebbe potuto abbassarsi un po' il vestito con la scusa del caldo di quei giorni, o fare movimenti irreali e del tutto senza senso per mettersi in mostra il più possibile con l'ingenuità e il candore tipico di una rispettabile fanciulla non maritata.
E invece no.
"Spero che queste cose rendano l'idea..." Len sospirò, gettando un'occhiata alle coppe del corsetto.
La situazione era più difficile del previsto: il signor Kyte era palesemente d'accordo con la sua idea, il problema stava nel comunicargli suddetta sua idea.
"Forse potrei fare come ho fatto con Gakupo..."
- Ho chiuso a chiave la porta della vostra camera, siamo solo io e voi, è notte e i servitori sono troppo lontani, se anche urlerete nessuno potrà sentirvi! Muahahahah! -
"Uhm, no."
Aveva come la vaga impressione che il signor Kyte non avrebbe affatto reagito bene, se si fosse ritrovato in quella situazione.
Aveva anche pensato qualcosa di estremo come presentarglisi in camicia da notte; tuttavia, se le sue impressioni erano giuste, il signor Kyte avrebbe potuto gettargli addosso la propria giacca ma anche un tavolo, quindi era meglio non rischiare.
L'unica possibilità rimasta era fargli capire che aveva capito e capire se aveva capito che lui aveva capito ed era pienamente d'accordo.
O qualcosa del genere.
Così, aveva riportato alla mente ciò che aveva visto fare alle sue coetanee più smaliziate e ciò che aveva appreso dall'approfondita ricerca svolta in biblioteca ed era giunto alla conclusione che un po' d'acqua avrebbe fatto al caso suo: con la scusa del caldo, bastava gettarsi un po' d'acqua sul collo e, per magia, da lì sarebbero scese, piano piano, delle gocce estremamente sensuali che sarebbero scivolate con grazia lungo la pelle, fin dentro la scollatura, catturando lo sguardo della persona interessata e facendogli fare i pensieri più impuri di questo e dell'altro mondo.
Len ci aveva provato.
E si era ritrovato una striscia d'acqua collo-corsetto perfettamente dritta e uniforme, ottenendo un'imbottitura bagnata ad inzuppargli la parte superiore della sottoveste e essere costretto ad una dignitosa ritirata in camera sua per cambiarsi - se non altro, aveva delle imbottiture di riserva. Sarebbe stato problematico, altrimenti.
- Non so cosa fare... - strinse il pupazzo, affondando il viso tra le orecchie di stoffa: - E' talmente facile da essere impossibile! -
Non sapeva se quella frase avesse senso, ma era il riassunto di ciò che sembrava quella situazione: era ovvio che il signor Kyte sarebbe stato ben felice di prendere il posto di Gakupo, ma qualcuno o qualcosa doveva sbloccare quella situazione di stallo.
La cosa peggiore, per assurdo, era che il signor Kyte non desse l'idea di qualcuno capace di mantenere la lucidità in una situazione d'emergenza (?) del genere, né che fosse una persona capace di approfittarsi di una dolce fanciulla indifesa - lo dimostrava il fatto che, pur mangiandolo con gli occhi fino a fare indigestione, non avesse mai allungato mezzo dito, neanche quando erano completamente soli.
Quindi, sì, l'ipotesi del tavolo era la più probabile.
- Signor Kyte...? - Len aggrottò la fronte: - ... forse c'è qualcosa che posso fare senza fargli avere reazioni inconsulte... -.

Non era raro che lui e il signor Kyte facessero una passeggiata per i prati, soprattutto nello spazio di tempo tra la fine delle lezioni e l'ora di pranzo.
Era in quei momenti che lo sguardo dell'altro si faceva più glaciale e le risposte più monosillabiche.
Quella mattina faceva caldo. Terribilmente caldo. Spaventosamente caldo.
- Oggi fa veramente caldo, non trovate? - quasi slogò il polso con il ventaglio, concentrando metà delle sue energie nel mettere l'ombrellino esattamente sulla traiettoria di ogni singolo raggio di sole rovente.
"Forse non è stata un'idea così geniale... Forse faremmo meglio a rientrare..."
- Capita, in estate. -
"Capita?"
- Ma oggi più del solito. Il sole è davvero forte! - come faceva a non rendersene conto?: - Pensate che, una volta, per un caldo del genere, mia cugina Miki è addirittura svenuta! - svenire per il caldo sarebbe senz'altro stata una scena molto scenografica e carica di pathos, ma non ci teneva ad esserne protagonista: - Anche se mia cugina Lola dice che è perché aveva stretto il corsetto più del dovuto. - ricordò, di colpo: - Ah, conoscendo mia cugina Miki, è probabile! Corsetto troppo stretto, un caldo simile... era logico che sarebbe svenuta! E' così esile, forse dovrebbe mangiare di più, come dice mia cugina Lola. -
Lui non aveva il corsetto troppo stretto. E non aveva problemi nel mangiare. Però aveva caldo. Terribilmente caldo. Spaventosamente caldo.
Il signor Kyte non rispose.
Len gli rivolse un'occhiata: "Come fa a non avere caldo?"
- Voi siete mai svenuto per il caldo, signor Kyte? -
- No, signorina. -
"..."
Si fermò.
Il signor Kyte fece altrettanto. Len nascose un sorriso dietro il ventaglio, quando vide un guizzo di timore - il timore di chi viene platealmente scoperto - in quegli occhi azzurri.
"Sì, il signor Kyte è decisamente una persona interessante."
- Voi... - abbassò il ventaglio, scoprendo del tutto il viso: - ... siete sempre così composto, signor Kyte! - usò il tono più tenero e innocente del suo repertorio.
L'ombra di quel timore attraversò di nuovo lo sguardo dell'altro.
- Voi dite? -
Alle sue orecchie, quella domanda giunse come: - Davvero sono riuscito a farvi credere questa colossale panzana? -.
Il suo sorriso si accentuò appena, annuì: - Guardandovi, non mi sembrate molto una persona seria e composta, sapete? -
Stoccata.
- Perché dite questo? -
Il signor Kyte stava vacillando in maniera sempre più palese. Era da riconoscere, però, la sua capacità di continuare a fingersi una statua.
Era decisamente vero che gli occhi dicevano sempre la verità. Mai guardare altrove, quando si parla con qualcuno. Per "altrove" erano comprese anche le scollature.
"Forse..." - Ho visto le vostre mani. - "Questa è l'occasione giusta.": - Sono callose. Sembrano ruvide. E voi avete detto di non essere mai stato un soldato. - sempre più vacillante: - Non credo voi siate un contadino o una persona di basso ceto. Non ne avete l'aria, né il vostro linguaggio e modi possono passare per quelli di un popolano. - quel timore si era esteso a tutto il viso: - Dunque mi viene da pensare che voi siate... - Len riaprì il ventaglio, osservando quel volto impallidito da sopra le stecche aperte: - ... una persona a cui non piacciono molto le formalità. -.
Il sorriso più tirato che gli avesse mai visto.
Finalmente aveva capito che continuare a fingersi seri e pomposi era del tutto inutile.
Len decise di tacere sul fatto di averlo smascherato in una manciata di ore.
- Siete una brava osservatrice, signorina. -
Dietro il ventaglio, sorrise. Quel tono era rigido, ma era infinitamente più naturale di quello con cui era solito rispondergli. Gli si addiceva molto di più.
- Affatto. - rispose, pacato: - Semplicemente, riconosco le persone come me. -
No, certe formalità, a volte, non piacevano granché neppure a lui.
Soprattutto in quei casi.
Chiuse il ventaglio: - Quindi, se me lo permettete, vorrei chiamarvi soltanto Kyte. Voi potete chiamarmi solo Len. - lo vide trasalire: - Finché non c'è nessun altro in giro, ovviamente. - si affrettò ad aggiungere.
Certe cose andavano fatte con calma. Piano piano.
L'altro non rispose. Si limitava a fissarlo, l'espressione composta si era distrutta e aveva lasciato il posto ad uno sguardo confuso ed esitante.
Molto più umano della finta statua. Per un istante, si sentì come se stare con quel signor Kyte fosse molto meglio che stare con il signor Kyte serio precettore.
Fu una sensazione rapida, quasi non se ne rese conto. Rimase perplesso.
- Mi concedete di farlo? -
La voce dell'altro lo riportò alla realtà. Non che si aspettasse una risposta diversa.
Kyte non era Gakupo.
Sorrise di nuovo, annuì: - Ci si sente meglio ad essere diretti, vero, Kyte? -
Era piacevole, in effetti.
- Credo di sì... Len. -
Sì, era piacevole.
"Ormai dovrebbe aver capito..."
Un raggio di sole lo colpì ad un occhio. Con uno scatto irritato, provò a coprirlo con l'ombrellino; quando lo spostò, altri raggi apparvero da non si sa dove appositamente per torturarlo.
"Mi serve un ombrello più grande."
- Fa veramente troppo caldo. - sospirò, esasperato da quella cottura a fuoco vivo: - Andiamo a cercare un posto all'ombra? Magari fresco. Che ne dite? -
Stavolta, era sicurissimo che lo sguardo che rivolse al sig- a Kyte fosse di pura preghiera.
Che fingesse di stare morendo di caldo, almeno.
Che lo facesse per lui.
- D'accordo, sign- Len. -
"Siete una brava persona, Kyte."
- Ah! Potremmo andare al laghetto! - di colpo, si ricordò dell'esistenza di un laghetto nelle vicinanze. Forse erano stati quegli occhi azzurri e quei riflessi bluastri nei capelli neri a farglielo tornare in mente.
Però Kyte non gli dava l'idea di acqua fresca. Affatto.

- Non c'è nessuno... - Len si guardò intorno: il laghetto era deserto.
"Dove sono andati tutti? Non saranno mica...?"
- Ma ora la casa sarà un forno! - sbuffò, per poi chiudere l'ombrello e appoggiarlo al primo tronco disponibile: - A meno che non siano fuggiti tutti in massa nei sotterranei. - posò il ventaglio chiuso accanto all'ombrello: "Ah... sotterranei... fresco...".
- La prossima volta potremmo farlo anche noi! Che ne dite? - chiese, senza voltarsi: davanti a lui c'era il laghetto. Fresco. Tanto fresco.
- Fuggire nei sotterranei, dite? -
- Sì! -
- E cosa c'è di interessante, nei sotterranei? -
- Il fresco. - "Come quello che ho qui davanti."
- Potrebbe rivelarsi un'ottima idea. -
"Caldo. Lago. Acqua. Fresco. Voglio. Mio.".
Percorse tutta la passerella di legno, provando una punta di disappunto quando lasciò l'ombra degli alberi per tornare al sole: "Servirebbe una passerella più corta...".
Finalmente aveva raggiunto la sua meta.
Gli sarebbe piaciuto spogliarsi e lasciarsi galleggiare, ma c'erano due problemi: il primo era sotto gli alberi, il secondo era che liberarsi di tutti quei vestiti, da solo, implicava tanto impegno e volontà che, al momento, non aveva.
Poteva quindi giungere ad un compresso e, per correttezza, andava chiesto al primo problema.
Che avrebbe sempre potuto dirgli di no.
Ma confidava nel suo essere una brava persona.
Si voltò verso di lui: - Vi dispiace se mi prendo un po' di libertà? - chiese, il tono esitante.
- No, fate pure. -
"Siete davvero una brava persona.".
Se proprio non poteva togliersi tutto, poteva disfarsi almeno delle cose raggiungibili; si tolse le scarpe, slacciò le giarrettiere e si sfilò le calze, tirò la gonna fin sopra le ginocchia e mise le gambe in acqua.
Si lasciò andare ad un sospiro soddisfatto: aveva sempre più voglia di gettarsi, ma almeno il fresco dell'acqua riusciva ad irradiarsi in tutto il corpo partendo dalle gambe - come le piante con le radici?
Non aveva più così caldo.
Poteva persino permettersi di pensare a qualcosa di più articolato.
"Forse..." come se fino a quel momento fosse stato soffocato dal caldo, quel pensiero apparve nella sua mente, limpido (e fresco?) come l'acqua: "... i miei genitori hanno fatto ricerche sul sig- su Kyte...?".
Era assurdo pensare che si fidassero della sola parola di Gakupo, qualsiasi cosa lui avesse detto loro.
"Se io avessi dei documenti riservati, dove li terrei...?" ci pensò un istante: "... forse sono nello studio di mio padre...?" stanza in cui, teoricamente, nessuno poteva entrare, nessuno doveva entrare e di cui lui conosceva ogni singolo cassetto a doppio fondo e armadietto segreto dietro le librerie.
"Andrò a controllare." voleva sapere cosa fosse Kyte. Era diventata una questione di principio.
"Ah, in effetti, cosa sta facendo?" si voltò a guardarlo, verso la barriera di alberi: lo stava fissando con uno sguardo di profonda sofferenza e sembrava stesse cercando di pugnalarsi la mano con una corteccia.
"...?" sbattè le palpebre: "... forse anche lui sta soffrendo per il caldo, vorrebbe un po' di fresco ma non osa chiederlo...?"
- Venite? -
Vide il suo sguardo farsi più strano. Qualsiasi cosa fosse, doveva fargli davvero male.
- No. Grazie. Rimango qui. -
Sbattè di nuovo le palpebre: credeva avesse smesso con quei monosillabi così-
"Ah.".
Mosse le gambe in acqua.
Gli sfuggì una risata, corse a coprirsi la bocca con una mano: - Sapete, Kyte? -
- Cosa? -
- Siete divertente! -
La sofferenza di quello sguardo fu sostituita da una palese confusione.
- Dico davvero! - sorrise, per poi tornare a guardare davanti a sé.
Il sole stava cominciando a cuocergli la testa. Meglio bagnarla.
E, sì, anche Kyte desiderava tanto fresco, in quel momento.
"Oltre che interessante siete anche divertente. Molto.".

Suo padre non era in casa - come al solito. Quindi Len potè andare nel suo studio, tranquillo e con totale noncuranza, come se stesse entrando nella propria camera.
Si richiuse la porta alle spalle e aprì una tenda - e starnutì, perché quella era probabilmente la seconda stanza più impolverata dell'intera magione dopo lo stanzino delle scope.
Come se non bastasse, la sensazione della polvere sulle dita umide di sudore era un pelino disgustosa. Ma aveva una missione da compiere - e si era scordato il fazzoletto chissà dove, quindi non aveva alternative.
"Devono essere documenti fatti di recente..." lo sguardo andò dove sapeva esserci un armadietto segreto: "... quindi ancora non dovrebbero essere stati messi via..." portò l'attenzione sulla scrivania: "Primo cassetto troppo ovvio. Secondo altrettanto. Il quarto anche." s'inginocchiò e aprì il terzo cassetto, trovandovi un pesante libro di cose inutili - erano senz'altro cose inutili, già il fatto che il solo guardarlo gli aveva suscitato un moto di noia ne era la prova. Lo tirò fuori e lo mise a terra. Ora veniva la parte difficile.
Aprì il cassetto del tutto e infilò un braccio all'interno; quando sentì le dita raggiungere l'estremità opposta, fece pressione verso il basso.
Strinse i denti. Come previsto, quella porzione di cassetto si era aperta, scattando verso l'alto e colpendogli in pieno l'avambraccio.
Teoricamente, quella pseudotrappola per topi a sorpresa avrebbe dovuto far urlare il malcapitato e mobilitare la servitù verso lo studio. Teoricamente.
"C'è senz'altro un modo per prendere le cose qui sotto senza staccarsi un braccio, ma..." non aveva idea di quale fosse.
Ritirato il braccio e appurato che ci fosse ancora, mise la mano nel quadrato di legno aperto, per poi riuscirne con quattro fogli.
"... padre, siete troppo prevedibile.".
Si sedette sul tappeto, la schiena contro la sedia della scrivania, e lesse i risultati delle ricerche svolte su Kyte Sheeawn.
"... prima di essere assunto qui, non aveva alcun lavoro?" sbattè le palpebre, perplesso. Proseguì: "... lavori di breve durata... calzolaio?" aggrottò la fronte, sentì le labbra schiudersi: "Ma che...? Il proprietario di una locanda afferma di avergli dato una stanza e del cibo in cambio della pulizia dopo la chiusura del locale?" la bocca era diventata un cerchio perfetto.
Abbassò il foglio.
"... mi state prendendo in giro."
Prese un altro foglio, lesse fin troppo velocemente, dovette rileggere una riga: "Abita a... ma la casa non gli appartiene, il proprietario della casa è-" sgranò gli occhi: "Gakupo Kamui?".
Abbassò anche il secondo foglio.
Non aveva senso.
Dovevano essere documenti falsi, magari fatti per distogliere l'attenzione da quelli veri.
"... però non descriverebbero mai Kyte Sheeawn come..." deglutì: "... come..." trasse un profondo respiro: "... un povero mendicante." rabbrividì.
Scosse la testa: "No, non è possibile." afferrò gli altri due fogli: "Kyte non è un uomo di strada. E Gakupo, per quanto possa essere bravo a fare le cose, non può averlo trasformato in un alto borghese nel giro di una settimana. E Kyte non sa mentire. Se fosse un popolano che si finge un altolocato, sarebbe facilissimo scoprirlo." percorse con lo sguardo ogni parola di quei fogli: "E' una cosa radicata. E naturale. Lui è alto borghese. Non ha nulla a che vedere con i poveracci. Lui-"
Si bloccò.
Aveva trovato la risposta.
Chiuse gli occhi, per un istante.
Quando li riaprì, tornò a guardare quelle righe: "Genitori ancora in vita e in salute. Minore di cinque figli, terzo figlio maschio. Padre finito in prigione per debiti di gioco. Uno dei fratelli coinvolto in un brutto caso al confine con la Scozia, dove la famiglia risiedeva fino a qualche anno fa. Perdita del titolo. Famiglia disonorata."
Non aveva idea del perché sentisse quella fitta al petto. Né perché il suo cuore sembrasse stargli per rompere le ossa del torace. Né perché sentisse improvvisamente freddo.
"Sheeawn..." finì di leggere, quel nome che aveva iniziato a rimbombargli nella mente: "Non esagerare con i vizi, o finirai come i baroni Shane!" abbassò i fogli: "... i baroni Shane. I baroni Sheeawn.".
Esistevano i nobili decaduti. Lo sapeva chiunque. Ne conosceva, anche.
"Perdere il titolo così, macchiare l'onore della famiglia in modo così umiliante, fino a diventare un simbolo negativo..."
In passato, gli era capitato di ridere sui fantomatici "baroni Shane", immaginandoli come i protagonisti di comiche disavventure.
Ora non aveva più molta voglia di ridere.
Rilesse quei fogli. Li rilesse un'altra volta, uno per uno, riga per riga, parola per parola.
Kyte Sheeawn era un barone che aveva perso il suo titolo e portava un nome disonorato. Non aveva niente. Non si trattava di non avere altre proprietà oltre la propria casa, o di non avere troppi beni, o di avere cose di poco conto.
Kyte Sheeawn non aveva niente.
La divisa bianca gli apparve davanti agli occhi. La divisa bianca identica a quella di Gakupo. Talmente identica da poter essere un suo ricambio ristretto.
Len rabbrividì, nel rendersene conto. Non c'era nessun termine di paragone. Era così.
Posò i fogli sul tappeto, portò le ginocchia al petto.
Fissò le proprie scarpette bianche che spuntavano da sotto il merletto nero della gonna.
Sentiva di doversi indignare. Di dover portare quei fogli a sua madre, chiederle perché lei e suo padre avessero permesso ad una persona simile non solo di fargli da precettore ma anche di mettere piede nella loro casa.
Rabbrividì a quel pensiero.
Aveva freddo. Il che era decisamente ridicolo, visto il caldo asfissiante oltre quella finestra e la pelle ancora sudata.
Doveva indignarsi. O far finta di nulla. Avrebbe potuto far finta di nulla, come se non sapesse niente.
In fondo, era solo un precettore sostituto. Se ne sarebbe andato di lì a qualche mese. Il suo vero precettore era una persona rispettabile.
Inspirò, si passò le mani sulle guance troppo sudate, soprattutto sotto gli occhi.
"Siete una brava persona, Kyte." recuperò i fogli: "Anche se dietro di voi c'è tutto questo, qui siete il mio precettore sostituto." li rimise dove li aveva trovati: "Continuerò a comportarmi come mi sono sempre comportata con voi. Non cambierà nulla." risistemò la pseudotrappola: "Mi piace stare con voi, nonostante tutto. Siete divertente." richiuse il cassetto.
Si rialzò, uscì dalla stanza e si diresse in camera sua - necessitava di liberarsi di quella polvere appiccicosa. Era un bisogno fisico.
Sentiva la mente del tutto vuota. E quel freddo si ostinava a farlo rabbrividire. La cosa peggiore era che non sembrava un freddo proveniente dall'esterno. E non capiva perché la pelle delle guance stesse sudando così tanto.
Prima ancora di lavarsi per bene le mani, si schiaffò l'acqua del catino nella sua camera sul viso. Si passò le dita sulle palpebre chiuse. Quando le riaprì, il suo sguardo incontrò il pupazzo nero sul suo letto.
Quello che era tra le cianfrusaglie destinate ad essere buttate.
Piano, la faccia e le mani ancora bagnate, lo raggiunse e lo prese in braccio: - ... anche tu, un tempo, eri un bel pupazzo, vero? Quando sei stato creato, eri senz'altro bellissimo. Per questo la mia antenata ti ha preso con sé. - guardò le cuciture che gli aveva fatto: - Però... poi non hai avuto più nessuno che si prendesse cura di te. E ti volevano buttare via. Però... - lo accarezzò tra le orecchie, lungo la faccia rotonda: - ... però ora sei con me. E sei tornato bellissimo. E nessuno ti butterà via. Perché ci sono io, con te. - lo strinse al petto.
E capì.
- ... anche Kyte è come te, vero? - lo scostò, tornò a guardarlo nell'occhio visibile: - Non importa com'eri e perché volevano buttarti via. Ora sei qui. Ora sei con me. E andrà tutto bene. - sorrise.
Quel pupazzo se l'era preso da solo. Gakupo e Kyte gli erano stati dati dai suoi genitori. Come tutte le altre bambole quando era piccolo.
Erano per lui. E solo per lui. Non erano qualcosa che potevano usare anche gli altri, erano qualcosa che apparteneva unicamente a lui.
Anche se Gakupo e Kyte non erano effettivamente bambole.
Non avevano la pelle di porcellana. Non erano donne in miniatura con abiti stupendi che poteva prendere in braccio.
Erano loro che potevano prendere in braccio lui. Non erano donne. E non erano in miniatura.
E respiravano. Parlavano. Rispondevano. A volte lo contraddicevano pure.
Gakupo per primo. E poi Kyte, per non fargli sentire la mancanza di Gakupo.
Sorrise, strinse di nuovo il pupazzo: - Loro non sono come le altre mie bambole. Loro sono le mie bambole più belle. -.

- Ma, se è così, allora non dovrebbe essere fragile? - l'espressione di Kyte era visibilmente confusa - e visibilmente naturale: - Vi vedo spesso in giro con quel giocattolo, non rischiate che si rompa? -
Len accennò ad incurvare le labbra: - Non è più fragile di nessun altro dei miei giocattoli. - sorrise: - E poi, non c'è nulla di male a giocare anche alla mia età, no? -
- No... - il ritratto della convinzione: - ... direi di no. -
- C'è anche un altro motivo. - strinse a sé il pupazzo: - Mi irriterebbe mostrare le mie bambole più belle. -
Sapeva che, letteralmente, era impossibile. Tutti li vedevano.
Ma mostrarli agli altri come suoi lo irritava.
Sì, non si era mai fatto il benché minimo problema a mostrarsi civettuolo in presenza di Gakupo, o prendergli il braccio in ostaggio, o appiccicarsi a lui, o a distruggere visivamente tutti i giovani esemplari di sesso femminile che gli si avvicinavano; allo stesso modo, non si sarebbe fatto alcun problema a fare altrettanto con Kyte. Tuttavia, l'idea che qualcuno potesse vederli insieme lo irritava. Non per pudicizia. L'avrebbe irritato anche essere visto in momenti innocenti.
Allo stesso tempo, quasi desiderava che qualcuno lo vedesse. Anche nei momenti non innocenti. Solo per sbattere in faccia la verità a quel qualcuno.
Forse ciò che lo frenava era la possibilità che li allontanassero da lui, definitivamente. Quello l'avrebbe irritato molto. Odiava quando gli sequestravano le cose.
Voleva che le persone che guardavano troppo Gakupo e Kyte capissero di non avere la benché minima speranza; al tempo stesso, lo irritava l'idea che una di quelle persone potesse decidere di toglierglieli per vendetta.
Un bussare.
Len guardò la porta: sua madre.
Con una-
- Len, è arrivata una lettera. -
"Appunto."
- Il solito? -
- Direi di sì. -
"Che noia." - Chi? -
- Avanna. -
"Uh? Quella promessa all'irlandese?" - Avrò impegni. -
- Come sospettavo. -
- Domani le scriverò qualcosa. - "Forse."
- Basta che sia entro due mesi, Len. -
- Mi bastano due minuti. - "Così me la levo di torno."
Sua madre si congedò, silenziosa come era arrivata, con la sua noiosa, fastidiosa notizia.
"Avanna. Quella dell'irlandese." strinse i denti: "... una delle mie cugine più giovani.".
Avrebbe dovuto contare gli inviti di matrimonio che aveva ricevuto.
Il cuore sussultò. Sentì la gola secca.
A memoria, ne ricordava quasi trenta.
"... in quante siamo rimaste ancora nubili...?".
- Va tutto bene? -
"Eh?"
Si voltò: Kyte lo stava guardando, sul viso uno strano misto di preoccupazione ed esitazione. Erano espressioni che gli addicevano alla perfezione, ma perché...?
Piegò appena la testa, cercando di capire.
Quello sguardo scomparve da quegli occhi azzurri: - No, niente. - scosse la testa, un accenno di sorriso.
"... siete strano, Kyte.".

Rimise gli inviti al loro posto.
Quello di Avanna era il ventinovesimo.
Le giovani Dewsen ancora prive di marito erano solo quattro.
Due di quelle quattro erano più grandi di lui. Una era più piccola di lui.
Una aveva due anni più di lui. Un'altra aveva appena un anno in più. Anche Avanna aveva due anni più di lui. Presto, molto presto, avrebbe ricevuto un altro invito.
E sarebbero rimaste in tre.
Quanto tempo sarebbe trascorso prima che arrivasse un altro invito? Quando avrebbe visto quel pezzo di carta che gli diceva che la sua cugina quasi coetanea stava per sposarsi?
Poi tutti gli sguardi sarebbero stati su di lui.
E l'avrebbero scavalcato.
E la minore del casato Dewsen sarebbe convolata a giuste nozze.
- Purtroppo, quella che vi devo dare è una brutta notizia. - quasi gli sembrava di sentire la voce di suo padre, di vedere il suo sguardo addolorato: - La mia unica erede non può avere figli. - quasi gli sembrava di sentire un brusìo sconvolto, di sentire tutti gli occhi che lo trafiggevano, chi incredulo, chi compassionevole, chi accusatorio, come se fosse colpa sua: - E, di comune accordo, mia moglie ed io abbiamo deciso di non darla in sposa a nessuno. - gli sembrava di sentire il brusìo aumentare: - Troppi cacciatori di dote. Troppi divorzi pianificati. Nell'ultimo periodo, è quasi impossibile riuscire a contrattare buoni matrimoni. - gli sembrava di vedere suo padre sospirare, affranto: - La dote di mia figlia farebbe gola a troppe persone. Ed è ovvio che chiederebbero la sua mano solo per quella. -.
Sì.
Sarebbe andata così.
La scena sarebbe andata sicuramente così.
- Povera cara, è stata così sfortunata! -
- A quanto pare, non si può avere tutto. Bellezza, ricchezza... doveva esserci un risvolto negativo. -

Posò le mani sui tasti del pianoforte.
Sì.
Sarebbe andata così.
La scena sarebbe andata sicuramente così.
- Ma non farla sposare proprio a nessuno... -
- Lady Len, ora, oltre che l'aspetto, ha anche l'irraggiungibilità di un angelo. -

Sì-
No, forse quello era esagerato.
Gli sfuggì una risata, schiacciò le dita sui tasti a sinistra.
Si passò la mano tra i capelli, espirò, toccò un unico tasto a destra.
"Chissà cosa succederà quando, in teoria, toccherebbe a me." portò anche la mano destra a sinistra: "Chissà cosa succederà quando si sposerà la più piccola di noi..." sorrise: "Chissà cosa succederà quando si sposerà Oliver. Di certo, sarà un matrimonio splendido. Un surrogato di festa nazionale." il suo sorriso si accentuò: "Chissà cosa succederà quando saranno tutti sposati. Chissà cosa succederà quando anche l'ultima avrà avuto la sua primogenita." espirò di nuovo, sentì il sorriso sciogliersi, non sapeva neppure in cosa: "Chissà cosa succederà quando camminerò per strada e mi riconosceranno. Chissà cosa succederà quando andrò ai balli e verrò guardata con pietà. Chissà cosa succederà nei prossimi anni. Chissà se ci sarò nei prossimi anni.".
Premette le dita con più forza. Toccò di sfuggita un tasto a destra. Lo toccò di nuovo. Di nuovo. Di nuovo.
Gli ricordava un po' il rumore della pioggia contro il vetro della finestra.
In effetti, fuori sembrava stare piovendo. Parecchio.
Forse non era solo il pianoforte a ricordargli il rumore della pioggia.
Con la coda dell'occhio, notò la soglia illuminarsi.
Troppa luce perché fosse di una delle candeline discrete dei servitori del turno di notte.
Notò la luce farsi più vicina, fino ad illuminare almeno la metà dei tasti.
"Siete venuto da me?" riconobbe quella figura bianca senza neanche voltarsi: "Siete davvero una brava persona.".
Continuò a suonare. Kyte rimase immobile, silenzioso.
Premette le dita sulle ultime note. Non che stesse suonando qualcosa in particolare. Ma aveva deciso di concludere lì. Era curioso di vedere quella faccia.
Portò le mani in grembo e si voltò verso di lui, con un sorriso: le sopracciglia inarcate, le labbra appena schiuse, Kyte sembrava confuso, come se si fosse perso all'interno della magione e si fosse ritrovato di colpo davanti qualcosa che non aveva mai visto prima. Non sapeva se fosse colpa della luce della candela, ma gli sembrava fosse un po' pallido.
- Non riuscite a dormire? - la voce uscì più trillante del solito.
Kyte non rispose, l'espressione ancora disorientata - forse l'aveva stordito con quel tono?
Lo vide fare qualche passo verso di lui, riuscendo finalmente a parlare: - Temo di no. - la voce bassa, esitante.
Erano ad almeno due o tre passi di distanza; da lì, Len riuscì a vederlo bene: ammirevole come gli uomini in camicia da notte sembrassero sempre essere caduti dentro alla veste, a prescindere dalla loro stazza - almeno Gakupo aveva i capelli lunghi a smorzare l'effetto, Kyte no.
Allo stesso modo, Len riuscì a vedere bene anche la direzione del suo sguardo, decisamente non attirato dal viso. Forse si sarebbe dovuto preoccupare: persino Kyte avrebbe iniziato a porsi qualche domanda, nel vedere il suo petto piatto.
- Cosa state guardando? -
Lo vide trasalire. Soffocò una risata.
- N... non avete freddo? - anche Kyte sembrava aver soffocato qualcosa. Tipo se stesso.
Lo vide impallidire. Stavolta non poteva sbagliarsi: era bianco quanto la camicia.
Un attimo dopo, Kyte gli dava le spalle. E le nocche della mano che reggeva la candela erano sbiancate più del resto della pelle.
Lasciò andare la risata: "Siete... davvero divertente, sì.". Si girò sul sedile, dando le spalle al pianoforte, e accavallò le gambe, alzando la gonna fino a far sfiorare l'orlo e il ginocchio. Nel caso l'altro si fosse voltato.
- No, non ho freddo. - rispose, sforzando un tono pacato.
- Ma... così, senza nient- senza una vestaglia, un matinee, neppure delle scarpe... -
- I matinee s'indossano di mattina. - ridacchiò: "E poi, Kyte, almeno io indosso qualcos'altro, oltre la camicia..." era un pensiero carino. Soprattutto considerando le condizioni in cui l'altro doveva trovarsi.
- N-non vi si annodano i capelli, a lasciarli sciolti...? - sembrava quasi stesse cercando un qualsiasi pretesto per fuggire. Anzi, non "sembrava".
- Mai successo! - "Andiamo, non si sono mai annodati a Gakupo e si annodano a me?".
- E se qualche servitore vi vedesse? E' sconveniente! -
- Mi avete vista solo voi. - "E Gakupo. Ma non è necessario che voi lo sappiate.".
Era tentato dal toccargli la schiena, solo per vedere la sua reazione. Ammirevole, però, che stesse effettivamente cercando una scusa, blaterando di impresentabilità e impudicizia, e non fosse scappato all'istante senza dire niente.
Forse avrebbe potuto-
- Cosa penserà di voi il vostro futuro marito, se mai saprà che altri uomini vi hanno vista così? -
"..."
- Dovreste curare di più la vostra reputaz- -
- Io non mi sposerò. -.
Kyte tacque. Parlò solo dopo qualche secondo: - ... prego...? -
- Non mi sposerò. - semplice, diretto. La pura realtà dei fatti.
- Che state dicendo...? -
"..." - Che mai nessuno mi avrà in sposa. - si alzò, lasciando ricadere l'orlo della gonna a terra: - Che non porterò nessuna fede al dito. Che la mia dote non ha senso di esistere. Che ogni mio spasimante sarà rifiutato. - "Che ogni cosa rimarrà come è sempre stata."
Credeva che, dicendolo esplicitamente, avrebbe sentito tante pugnalate, una per ogni frase.
Ma non aveva sentito niente. Forse i pugnali non avevano trovato niente da pugnalare.
- Queste non sono cose su cui scherzare. - il tono di Kyte si era irrigidito: - Tanto meno in una situazione del genere. -
"... eh?" - Che situazione? -
- Perdonate la mia indiscrezione. - non c'era più alcuna traccia di esitazione, in quella voce. Erano strano sentirla così seria, così realmente seria: - Ma per quale motivo dite cose tanto ridicole? -
"Ridicole?" sbattè le palpebre. Poi capì: "Oh... giusto. Per lui, sono una fanciulla che i genitori non vogliono far sposare per capriccio.".
- Mi rifiuto di credere che i vostri genitori vogliano rinchiudervi in un convento! -
- Fate bene, perché non è affatto loro intenzione fare una cosa del genere. - O meglio, l'avevano proposto. Poi si erano ricordati che mettere un adolescente maschio sessualmente represso in un luogo isolato con la sola compagnia di un numero indefinito di adolescenti femmine altrettanto sessualmente represse forse non era un'idea geniale.
- E allora perché? - la voce si era alzata. No, a Kyte non piacevano affatto i toni formali: - Vi è stato detto che non potete avere figli, forse? Anche le donne che non possono averne si sposano! -
- Posso avere figli. Sì. - teoricamente, lui poteva averne: - Potrei averne. - era quello il problema: - E potrei sposarmi, sì. - se le cose fossero state diverse, avrebbe potuto prendere una qualche nobildonna in moglie e avere da lei tutti i figli che voleva: - Come ogni brava donna. - se le cose fossero state diverse, sarebbe potuta essere data in sposa a qualche nobiluomo e dargli tutti i figli che voleva: - Tuttavia, non posso. Sposarmi mi è precluso. -.
Quella. La realtà. La pura realtà dei fatti.
Poteva comprarsi intere catene di negozi ma non poteva avere un minuscolo cerchio giallo intorno al dito.
- Sapete... - mormorò: - ... la lettera di oggi era da parte di mia cugina Avanna. Si sposa. Ma ho deciso che sarei andata solo al matrimonio delle cugine con cui ho scambiato almeno qualche frase durante l'ultimo anno. -
Qualche anno prima era stato al matrimonio di una cugina di cui neanche ricordava l'esistenza. Pochi mesi dopo, sua cugina e il di lei marito erano stati ad un passo dal divorzio - salvato all'ultimo momento dalle forze congiunte di circa tre quarti dell'intera famiglia Dewsen.
A Len piaceva pensare di averle portato sfortuna. Non che lo facesse apposta. Gli capitava di maledire una sposa sconosciuta. E provava una strana soddisfazione nel vedere il suo matrimonio fallire. In realtà, quella era stata la prima - e unica - volta che era successo. E gli piaceva pensare di esserne stato la causa.
Così avrebbero imparato a costringerlo a farsi sbattere in faccia matrimoni di sconosciute.
- In questi anni si stanno sposando tutte. Sia qui che in Giappone, pare. -
Dubitava che le sue maledizioni fossero arrivate alla signorina - signora - Megumi. Sapeva che i giapponesi facevano cose strane con la magia e i talismani.
Sentì una leggera fitta allo stomaco, scacciò dalla mente il pensiero di Megumi Kamui.
- Perché? -
- Come? - la voce di Kyte lo distolse dai propri pensieri.
Era bassa, decisa: - Perché questa assurdità? Perché non potete sposarvi? Cos'altro vorrebbero che faceste, i vostri genitori? -.
Len non rispose.
"Siete una persona molto curiosa." sospirò: "Ma comprendo che, per voi, questo può sembrare assurdo. Anche se è ovvio che ci siano dei motivi, dietro." sorrise: "Anzi, più che curioso, siete un gran ficcanaso.".
- In realtà, non è che non potrei mai mai mai mai mai sposarmi! - ricordò, di colpo: - C'è il marito di mia cugina Lily. Se dovesse succederle qualcosa, allora lui mi prenderebbe in moglie. C'era scritto nel contratto di matrimonio e lui ha accettato. Quindi, direi che potrei sposarmi solo qualora succedesse qualcosa a mia cugina Lily. -
- Perché? -
"Ficcanaso ed insistente." - Ah... - ridacchiò: - E' una storia lunga! Rischierei di annoiarvi! -
- Non ho sonno e abbiamo tutto il tempo che vogliamo. -
Sospirò: "Ficcanaso, insistente e maleducato." iniziò a camminare in cerchio: - Siete davvero brutale, stanotte! - rise.
Non lo infastidiva tutta quell'attenzione. Kyte non era serio e composto. Non lo era affatto.
Per questo era interessante.
- Bene, partiamo dall'inizio, come ogni storia vuole! - gli raccontò ciò che i suoi genitori gli avevano raccontato anni prima, ciò che lui stesso aveva raccontato a Gakupo qualche mese prima. Di tanto in tanto, Kyte faceva dei commenti a voce più o meno bassa e, anche se non vedeva il suo viso, era sicuro che la sua espressione si fosse fatta sempre più perplessa man mano che il racconto proseguiva.
Perplessa e tesa.
Ma non poteva perdere l'occasione di giocare con lui mentre erano entrambi in camicia, di notte, da soli.
Gli toccò la schiena prima con un dito, poi con tutta la mano, sentendolo sempre più teso. Le mani divennero due, seguite dalle braccia. Davvero molto teso. Quasi una statua, anche se in altro senso.
- Le "riserve"... - lo sentì chiedere: - ... devono sposare i mariti delle cugine che dovrebbero sostituire? -
- Affatto. L'ho detto: con il proprio marito. Ognuna delle mie cugine andrà in moglie ad un uomo diverso. Loro possono sposarsi, io no. Io sarei soltanto una pezza per non perdere i contatti con il Giappone. -.
Gli massaggiò la schiena, piano. Ottenne solo di farlo irrigidire ancora di più. Chissà se lo stava ancora ascoltando - o se si stesse concentrando sulla sua voce per non pensare alle sue mani. Quella di Kyte, di voce, stava iniziando a tremare un po' e non per il racconto avvincente.
- Non mi avete risposto, però. -
"Come siete invadente.".
E piacevole. Era piacevole stargli così vicino, in quel modo. Avrebbe voluto che si voltasse. Avrebbe voluto che gli facesse dimenticare tutto ciò che aveva detto.
"Perché siete così ficcanaso, Kyte?" lasciò scivolare le braccia davanti al busto, stringendolo in un abbraccio, premendo la fronte contro la schiena: "Perché non capite quando non fate altro che fissare la risposta?".
- Dunque non vi siete accorto. -
- ... eh? -
"... mi chiedo cosa vediate." - ... devo essere davvero bella. -
L'angelica figlia dei duchi di Mirror, Lady Len Mirror, piccola, bionda, con la voce troppo alta e il seno troppo piccolo. Vedeva la stessa cosa che vedevano tutti. Era stupido pretendere che capisse subito - che Kyte capisse subito. Persino Gakupo era stato ingannato dall'imbottitura e dai suoi modi.
Dovette arrendersi al fatto che Kyte stesse facendo domande legittime.
Sentì un sospiro: - Sì. Lo siete. -.
Len sospirò a sua volta. Kyte non si sarebbe voltato. Né gli avrebbe detto altro.
Ma almeno una confessione era riuscito a strappargliela.
- Ho fame. - decise, di colpo: - Quindi andrò a prendermi delle banane. -
- A-aspettate! -
Si prospettava una nottata divertente.

Sì, quella notte aveva piovuto molto.
Anche quella mattina piovve molto. Ma veramente molto. Incredibilmente molto. Sentì di sfuggita che una delle cantine doveva essersi allagata. Sempre di sfuggita, sentì che una delle carrozze che i servitori avevano avuto la brillante idea di lasciare fuori era sprofondata in almeno venti centimetri di fango. E, di sfuggita, sentì che uno dei camini al terzo piano stava vomitando acqua.
Poi si era alzato e aveva chiuso la porta, perché si era stancato di sentirsi urlare nell'orecchio cose di sfuggita.
Mezz'ora dopo, Kyte dovette giungere alla conclusione che fare lezione a lume di candela - pur essendo le dieci del mattino, almeno secondo l'orologio - era inutile e controproducente.
- Per oggi, la lezione è sospesa. - Kyte sospirò: - Non si può studiare in un ambiente del genere. -
- Infatti... -
- Questo significa che avete la mattina libera. Impiegate il vostro tempo come meglio credete. -
- Hai! - spense la propria candela, prese una penna, la intinse nell'inchiostro, recuperò un libro dalla libreria e andò sul divano a sottolineare tutte le righe di testo.
Kyte sembrava essersi dato alla pulizia completa della lavagna. Con una certa attenzione. Con tutta l'attenzione.
"... oh." tornò a guardare il libro, il cuore fremette: "... vero.". Forse quella pioggia era stata provvidenziale.
Doveva solo aspettare. Era sicuro che Kyte sarebbe rimasto nella stanza. Non sapeva come potesse esserne così certo, ma era sicuro che non sarebbe andato da nessun'altra parte. E che, anzi, prima o poi gli si sarebbe avvicinato.
Evitò di sorridere quando vide le pagine rigate illuminarsi alla luce dell'altra candela.
- Sforzate la vostra vista, così. - la voce poco convinta.
"Decisamente, un'occasione perfetta." alzò la testa: - Sono abituata a fare le cose al buio. Se però volete farmi un po' di luce, non rifiuterò di certo! - con un sorriso, accennò con lo sguardo al posto al suo fianco, vuoto.
Come previsto, dopo un attimo di esitazione, Kyte sospirò - era teso, lo sentiva chiaramente - e si sedette accanto a lui, spostando la sua gonna blu. "Ah, porto anche il vestito che avevo quando l'ho incontrato..." notò: "... è decisamente un segno.".
- Non potete delegare al vostro precettore temporaneo il ruolo di candela. - disse Kyte, all'improvviso.
- Il mio precettore temporaneo potrebbe anche rifiutarsi. - lasciò che le ciocche più lunghe gli nascondessero il sorriso.
- Il vostro precettore temporaneo sarebbe molto maleducato, se facesse una cosa del genere. -
- Allora il mio precettore temporaneo non dovrebbe neppure dirmi che non posso relegarlo a candela! - gli scoccò un'occhiata, lo vide tentennare. Era come se fosse in bilico e bastasse un soffio leggero per farlo cadere.
Strinse la presa sul libro e sulla penna. Forse anche a lui sarebbe bastato un soffio leggero.
Gli scoccò un'altra occhiata: era agitato. E quella pantomima stava diventando ridicola.
- D'accordo, basta così. - chiuse il libro, con un sorriso. Poi si avvicinò alla candela in mano a Kyte e, con un soffio leggero, la spense, lasciando cadere la stanza nel buio.
Era il bello, il buio. Preferiva l'oscurità con la luce della luna, ma anche il buio andava bene. Gli ricordava cose belle.
- Ora siamo al buio completo. - il commento di Kyte era una testimonianza del suo essere tutto tranne che rilassato.
- Sì! - posò libro e penna a terra, per poi tornare su: - Non è d'atmosfera? C'è chi si gode il canto degli uccellini e chi i suoni di una tempesta! In fondo, siamo al riparo, che male c'è? -
Non erano male, i suoni di una tempesta. Il brutto tempo fuori sembrava raddoppiare la piacevolezza del calore della casa. O di qualsiasi altra cosa fosse la causa di quel calore piacevole.
- Confesso di non essermi mai soffermato ad ascoltare i suoni della... - la voce di Kyte si abbassò fino a scomparire.
Si voltò verso di lui: appena illuminato dalla debole luce filtrata dalle nuvole, la sua espressione era di puro terrore. Quando un lampo illuminò la stanza, lo vide sgranare gli occhi in modo quasi innaturale.
"... non è che...?"
Gli posò una mano sul petto, all'altezza del cuore: sembrava gli stesse martellando il palmo. Incontrò il suo sguardo atterrito: - Avete paura dei tuoni? -
Lo vide scuotere la testa quasi a scatti: - No. No, non ne ho paura. -
- Siete pallido. - sbiancato, per la precisione. In coordinato con la divisa. "... non avevo messo in conto che potesse avere paura dei tuoni.". Forse, almeno per quella mattina, aveva equivocato tutto: "... non è che è così agitato per il tempo...? Quindi anche stanotte...?". La cosa gli dava un po' di disappunto, in realtà. Anche se era innegabile che si fosse agitato ancora di più quando lo aveva abbracciato.
Gli accarezzò una guancia, iniziando a preoccuparsi davvero: - Sicuro di stare bene? - lui non era affatto sicuro che l'altro non sarebbe svenuto lì sul posto: - Non fingete di non temere i tuoni, se non è vero. -.
Qualcosa di caldo sulla mano. La mano di Kyte su quella che aveva posato sul viso.
Trasalì, sentì le guance più calde. "Cos-" assurdo che lui arrossisse. Per una cosa così semplice. Doveva essere più in astinenza di quanto credesse.
Poi Kyte si voltò appena, e baciò quella mano.
Stavolta fu il cuore a trasalire. Quello di Kyte era fuori controllo.
"... allora non c'entrano i tuoni, eh?" quella era una buona notizia.
Tutto quello era un'ottima notizia.
Quando Kyte si scostò, tornò a guardarlo negli occhi: - Dovremmo aprire la porta. - la voce roca.
- Perché? - piegò la testa. Erano solo parole a vuoto.
- Temo che... qualcuno potrebbe pensare male. - l'altro riuscì a finire la frase con grande forza di volontà. Era palese che non volesse più parlare.
Neanche Len aveva più voglia di parlare.
"Vi siete deciso a fare la prima mossa." abbassò le palpebre, sorrise.
Era come riemergere dopo una lunga apnea. Ma non si sentiva affatto rilassato. Tutt'altro.
Si alzò in ginocchio sul divano - qualsiasi cosa si trovasse sotto la gonna iniziava a non rispondere più - e si sedette sulle gambe dell'altro; salì con la mano dal cuore alla spalla e riuscì finalmente ad assaggiare quella bocca.
Come dopo una lunga apnea. Sì. E nessun rilassamento. No.
Sentì qualcosa tirargli appena i capelli e, un istante dopo, si accorse del suo nastro che scivolava a terra, le ciocche bionde che ricadevano sulle spalle.
Sentì le labbra schiudersi, una mano sulla nuca, tra i capelli, Kyte che lo tirava a sé, mozzandogli il respiro. Gli strinse la spalla, senza volerlo. Allentò la presa, gli sfuggì un sorriso: "Non avete perso tempo.".
Quindi non vedeva perché perderlo lui. Ricambiò quel bacio, mentre la mano dell'altro andava alla sua gamba, sotto la gonna, sotto il vestito, sul busto - da qualche parte, non gli importava, poteva andare ovunque volesse e poteva anche liberarlo della tournure, del corsetto e del vestito, poteva anche lasciargli tutto e fare quel che voleva lo stesso.
Forse era lui a stargli strappando le frange dalle spalle. Ma quei momenti in cui si scostavano per riprendere aria erano quasi dolorosi. Soprattutto da quando la mano era sces-
Serrò le dita sulle spalle dell'altro, non riuscì a trattenere un mugolio.
Kyte si scostò da lui. E il suo sguardo aveva qualcosa di strano. Era confuso, ma non era la sua solita confusione.
"Non potete confondervi in un altro moment-"
- Len... - era sbiancato. Di nuovo. E sembrava avesse appena ricevuto un pugno in pieno viso.
- ... voi... siete... - "...?" - ... una donna... vero...? -
"Ah. Vero." l'altro scelse proprio quel momento per toccarlo di nuovo. Non riuscì a soffocare un altro mugolio. Tuttavia, quasi si dispiacque quando Kyte tolse la mano.
Incontrò il suo sguardo: "Siete divertente, Kyte.".
Sorrise: - Voi che dite? -.
Sembrò di toccare un pezzo di pietra. E di guardare un pezzo di pietra.
Un pezzo di pietra bianco. Per i vestiti e per la pelle. Con occhi azzurri sgranati. In modo anche troppo innaturale.
Sentì qualcosa stringergli le braccia; un istante dopo, con un'esclamazione di sorpresa, si ritrovò sprofondato nel divano: - Perdonatemi Len mi sono appena ricordato di avere un impegno urgentissimo mi stupisce proprio che me ne sia dimenticato tanto è importante perdonate i miei metodi bruschi ma devo assolutamente essere presente tra meno di cinque secondi è un impegno molto importante! - una valanga di parole lo travolse, Kyte scattò in piedi, schizzò alla porta, si azzoppò nel tragitto e strillò un: - Impiegateilvostrotempocomecredete! - prima di svanire nel corridoio.
Silenzio.
Per quanto silenzio potesse concedere la tempesta lì fuori.
Len rimase immobile, così come era stato lanciato sul divano. Sbattè le palpebre. Le sbattè di nuovo.
E scoppiò a ridere, distendendosi lungo tutto il divanetto. Si coprì la faccia con le mani, sbattè i piedi su uno dei braccioli - e quasi rotolò giù.
- Kyte... - inspirò, espirò, cercò di riprendere fiato: - ... siete... scappato? - un'altra ondata di risate lo scosse, costringendolo a bloccare qualsiasi pensiero per almeno due minuti. Alla fine, si portò le mani al petto, cercando di riportare il respiro alla normalità, gli occhi bagnati: - Questo... questo era ben oltre le mie aspettative! Immaginavo che poteste fuggire ma... così... così... così... - non riuscì a trattenersi e rise di nuovo, anche se con meno forza - la pancia e le guance iniziavano a fare seriamente male.
Non aveva parole. Non ne aveva. Era solo qualcosa da incidere nella memoria dell'umanità. Era qualcosa che non necessitava di parole, diceva tutto da sola.
Len trasse un profondo respiro, calmandosi.
- Mi avete lasciata qui da sola! - scalciò in aria, gli orli della gonna e delle sottogonne ricaddero sulla vita: - Siete una persona davvero crudele! -.
Lasciò sprofondare la testa nel divano: - Per stamattina farò da sola. -.
Era sicuro che la mattina successiva non sarebbe stato affatto così.

Kyte non si mostrò per il pranzo. E neppure per il the. E neanche per la cena.
Stando alle parole del maggiordomo, il povero signor Kyte si era sentito improvvisamente male, tanto da non avere la forza di alzarsi dal letto o di mangiare: per questo era chiuso in camera da quella mattina. La governante confermava di averlo visto con "una pessima cera" - "veramente pessima", aveva poi aggiunto.
"Oh..." Len attraversò il corridoio al buio, con tutta la calma del mondo: "... chissà se domani mattina sarete abbastanza in forze da fare lezione." sospirò, plateale.
Si fermò davanti alla camera di Kyte. Era indeciso tra il bussare o l'aprire direttamente la porta. Scelse la prima opzione - non era sicuro che la seconda non avrebbe comportato un suo fuggire dalla finestra.
Nessuna risposta.
"Sta dormendo o-" una luce alla sua sinistra, sempre più vicina. Si voltò. Non riuscì a trattenere un sorriso soddisfatto, ma si affrettò a mostrare la più preoccupata delle sue espressioni.
- Kyte! -
- AH! -
Evidentemente, non si era accorto di lui. Gli era parso assorto, in effetti. Tuttavia, non si aspettava che avrebbe quasi fatto cadere la candela per lo spavento. Né uno strillo di quella portata.
Posò una mano sul viso: - Che urlo virile. - non potè astenersi dal farlo notare.
Kyte non ebbe ulteriori reazioni: era immobile, la candela stretta nel pugno, il volto di granito e gli occhi di chi aveva esagerato con le tazze di caffè.
Finalmente, dopo quella che parve un'eternità, parve recuperare l'uso della parola: - Cosa... - all'incirca: - ... cosa ci fate qui? - sforzava di tenere la voce ferma ma, leggero, si sentiva un tremolio.
Len piegò la testa di lato, riesibendo tutta la sua preoccupazione: - Ho sentito che siete stato poco bene. Mi dispiace molto. Spero che ora vi siate ripreso! - sorrise: - Vi vedo meglio! - "Vi vedo fuori dalla stanza.".
- Ah... sì. - l'immagine della convinzione: - Sì, sto... meglio. Diciamo di sì. -.
- Siete riuscito ad arrivare in tempo, alla fine? -
- Prego? -
Dovette nascondere il sorriso dietro una mano: - Il vostro impegno urgente. -
Kyte tentennò: - S-sì. Sono riuscito a fare tutto. Grazie per l'interessamento. -.
Calò il silenzio. Len attese. Non c'era motivo di sforzarsi di parlare: l'altro avrebbe fatto tutto da solo.
- P-perché siete qui ora? - balbettò infatti, un istante dopo, spezzando il silenzio: - Il sole è tramontato da molto, è sconveniente farvi trovare così davanti alla camera di un uomo... -
"Chissà se si rende conto di ciò che dice..." cominciava ad avere qualche dubbio. Ma era divertente proprio per questo.
- Anche mettere le mani sotto gonne e corsetti è sconveniente, non trovate? - dieci tazze di caffè in un unico sorso, a giudicare dall'espressione dell'altro: - In ogni caso... - riportò la mano lungo il fianco: - ... sono venuta qui per sapere come stavate. -
- Di not- -
- E perché credo che domani, se mai ci sarà lezione, subito dopo voi starete di nuovo improvvisamente male e sarete costretto a ritirarvi di nuovo nelle vostre stanze. - il suo sorriso si accentuò, la faccia di Kyte era impallidita: - Quindi direi che questo sia un buon momento per parlare. -.
Il viso dell'altro, alla luce della candela, assumeva una forma grottesca: sembrava quasi una maschera da teatro antico, tanto i tratti espressivi erano esagerati.
Len ridacchiò: "E' il caso di cambiare ambiente, ora."
- Vogliamo rimanere qui nel corridoio? -
- N-no. Entrate pure. -
Dopo un istante di esitazione, Kyte gli aprì la porta della camera, lasciandolo entrare per primo. Quando sentì la porta richiudersi alle proprie spalle - e appurato che l'altro non ne aveva approfittato per rinchiuderlo lì dentro e fuggire in America - capì che sarebbe uscito di lì solo la mattina dopo. E che, prima di farlo, avrebbe dovuto rivestirsi.
Andò alla finestra: non pioveva più, ma le nuvole erano rimaste e coprivano la luna. Era una notte decisamente buia.
- Perché fate credere di essere una donna? -
"... siete davvero diretto." sospirò: "Almeno mi evitate giri di parole." si voltò verso di lui: in piedi, a pochi passi di distanza, la candela posata sul comodino.
Lo sguardo di Kyte non era più del tutto scosso: c'era dell'altro, qualcosa che si avvicinava alla curiosità e qualcosa che non riuscì a riconoscere. Non capì neppure se fosse qualcosa di positivo o negativo.
- Ricordate cosa vi ho detto a proposito delle ambizioni di mio zio Al? -
Gli raccontò tutto. Senza cercare di abbellire le parole, senza cercare di nascondere qualcosa: la pura realtà dei fatti, così com'era.
Del resto, se Kyte era tanto diretto, non vedeva motivo per cui non esserlo anche lui.
- Ma perché? -
La curiosità andava affievolendosi, man mano che veniva soddisfatta; il terrore era scomparso quasi del tutto; quel qualcosa di indefinito sembrava star prendendo il loro posto.
Kyte ascoltava ogni suo parola, lo vedeva fare attenzione ad ogni sillaba. E lo vedeva aggrottare la fronte, schiudere le labbra, interromperlo con voce sempre più insistente: - Ma... allora non potrebbero semplicemente mandarvi in convento? - o: - Se è per questo, è strano anche che una giovane in età da marito non sia neppure stata promessa in sposa. -; vedeva il suo volto assumere una strana sfumatura, un pallore che non aveva a che fare con quello precedente; vedeva i suoi pugni serrarsi, le nocche sbiancare.
Len sorrideva - era la pura realtà, in fondo.
Kyte non sorrideva. Non aveva un'espressione seria e attenta.
- Ora capite perché non potrò mai sposarmi, Kyte? - sorrise, quella era la pura realtà.
- ... sì. - la voce era un sussurro.
Un dolore all'altezza del petto. Quegli occhi azzurri erano lucidi.
"Cosa...?" - Capite anche perché i miei genitori vogliono che io sia sempre accompagnata da un uomo, anche solo per andare a fare spese in città? -
Kyte aveva chiuso la bocca, disteso la fronte. Non distoglieva mai lo sguardo da lui.
Vide le sue spalle tremare per un istante.
Anche lui tremò. "Cosa...?".
Quello non era uno sguardo di pietà. Non aveva nulla a che fare con la pietà.
Si sentì tremare di nuovo: "Perché...?"
- ... ridicolo. -
Un sibilo.
Ma gli colpì le orecchie come un tuono.
"Cosa...?" forse Kyte neanche si era accorto di averlo detto: "... che sta...?" sentì il bisogno di sedersi. Sentiva di non avere più forza nelle gambe, di colpo.
"Ridicolo...?" ripetè, i brividi lungo le braccia: "Perché 'ridicolo'...? E' giusto che sia così. E' giusto, perché è la realtà. Non c'è altro modo." scosse appena la testa, per scacciare quel pensiero: "Kyte, Kyte... non mi stupisce siate in questo stato, se pensate cose così sciocche!"
- A parte questo brutto rovescio della medaglia... - perché la sua voce suonava così strana?: - ... è divertente! Pensate a tutti quegli uomini che mi proclamano eterno amore e che mi definiscono la donna più bella che abbiano mai visto! - rise.
Lasciò che quella risata gli svuotasse la mente.
Eppure, sentiva ancora il cuore tremare.
Guardò l'altro, l'espressione disorientata. Ora era molto più Kyte.
- Anche voi avete detto di trovarmi bella! -
- S-sì. - lo vide esitare. Un attimo, dopo, la voce era seria: - Len... -
- Sì? -
- ... perché non mi avete detto... la verità? -
"... eh?" sbattè le palpebre, perplesso: "... credete che ora vi abbia mentito...?".
Lo vide sospirare, come per controllarsi: - ... se voi... se le vostre intenzioni... insomma, avete capito, no? -
- No. -
- ... mi siete praticamente saltata addosso. - "Ah, quello." - Se le vostre intenzioni erano quelle, avreste dovuto dirmi la verità! -
-Perché? -
- ... eh? -
"Voi dite 'eh?'?" - Ho sentito il vostro sguardo, Kyte. - gli ricordò, notando quel pallore da smascherato tornargli sul viso: - Di tanto in tanto, mi sembrava di sentire sguardi alquanto sconvenienti... E poi... - si avvicinò: - ... non mi siete parso così dispiaciuto, stamattina. - lui indietreggiò: - Mi siete parso dispiaciuto solo quando la vostra mano si è fatta troppo audace. -
"Mi siete parso dispiaciuto solo quando avete scoperto che io sono un maschio dopo che mi avete divorato con gli occhi e con la mente quando mi credevate femmina.".
- Ditemi, Kyte... - portò le mani dietro la schiena: - ... mi avete desiderata? -
L'altro tacque. Rispose solo dopo qualche secondo, con un sospiro, come una liberazione: - ... sì. Non immaginate quanto. -
"Oh, lo immagino." - E, questa mattina, mi avreste fatta vostra? -
Un'altra esitazione. Un'altra risposta: - Sì. -
"Ma..."
- E dunque mi avete scacciata solo perché il mio corpo non è come vi sareste aspettato? -
Kyte trasalì. Sembrava terrorizzato, ma in modo diverso da prima: - N-no... -
- Quanta convinzione nella vostra voce... - "Del resto, se foste del tutto sincero, avreste proseguito lo stesso.": - Mi fa davvero piacere sapere di essere stata desiderata come una qualsiasi donna di strada! - quel particolare lo infastidiva. Lo infastidiva molto.
- N-non è così... -
- Non vi siete fermato di fronte al mio non avere seno, non vi siete fermato di fronte ai miei fianchi dritti, siete scappato come certe mie cugine quando vedono un topo non appena vi siete accorto che c'era un qualcosa di più! - ed era stata anche una scena alquanto comica. Non fosse che l'aveva lasciato in quello stato.
- T-temo sia un po' diverso a-avere a che fare con una donna senza forme e un... ehm... - Kyte era prossimo al perdere l'uso della parola.
- Capisco. Posso immaginare come mi abbiate desiderata. - sapeva che l'altro avrebbe ceduto comunque. Ma quel particolare lo stava davvero irritando: - Di certo i vostri sogni non erano popolati da petali di rosa e bolle di sapone. -
- A dire la verità, i petali di rosa e le bolle di sapone c'erano. -
"... ah?" indietreggiò, piano: - ... ah... davvero...? - forse non era il caso di approfondire. Avrebbe lasciato che quella confessione andasse per conto suo e avrebbe fatto finta di nulla.
- Cosa vi aspettavate? - l'altro sembrava aver ritrovato la voce: - Che proseguissi come se nulla fosse? - "Sì." - Era ovvio che sarei rimasto scosso! -
- Tanto da evitarmi per l'intera giornata? -
- Sì! -
Sgranò gli occhi: "... e lo ammettete con tutto questo candore...?"
- ... insomma... - il tono di Kyte si ammorbidì, il suo solito tono: - ... non è una cosa da poco. -
- Perché? - "Non ho quattordici braccia e settanta gambe, e neppure i fianchi spinati o le dita a lama. Dov'è il problema?".
Kyte incrociò indici e medi, a forbice, come se non avesse alcuna idea di ciò che stesse facendo: - ... credo sia un problema di incastro. -
Inarcò le sopracciglia. L'altro esitò.
- Usate un po' di fantasia! - con uno sbuffo, Len si portò le mani ai fianchi: - Come credete che facciano tutti gli altri? - "Non sapete neppure le cose più basilari, Kyte! Ma dove siete vissuto finora?"
- Gl-gli altri...? -
- Beh... - si lasciò cadere sul bordo del letto - era da prima che voleva farlo e non sapeva neppure lui perché avesse aspettato così tanto: - ... le spose sono fanciulle vergini, gli sposi non necessariamente. Credete davvero che tutti loro siano stati nei bordelli o con qualche cameriera? -
- Ah... -
Len abbassò appena le palpebre: "... davvero non lo sapevate?". Non che credesse che l'altro non fosse mai stato con qualcuno - anzi, qualcuna. Il bacio di quella mattina non era il bacio di una persona che sapeva solo che la bocca era tra il naso e il mento.
- Si sa come funziona, no? - alzò gli occhi al soffitto: - Finché rimane tra le mura di casa, si può fare qualsiasi cosa. Basta solo mostrarsi bravi e buoni in pubblico e andrà tutto bene. - sentì il cuore tremare di nuovo. Quel sibilo gli attraversò la mente di sfuggita. Lo scacciò.
- ... dunque... - esordì, piano: - ... mi avete desiderata così tanto che lo scoprire il mio corpo più simile al vostro che a quello di una qualsiasi altra fanciulla ha tramutato il vostro desiderio in disgusto? -
- Non è disgusto! -
Quasi cadde dal letto per lo spavento: Kyte aveva recuperato fin troppa voce.
- E' vero, sono scappato. - le guance si erano arrossate appena, ma il tono era deciso, gli occhi puntati nei suoi: - Non sapevo come affrontarvi e vi ho evitato per tutta la giornata. - "Ammirevole lo ammet-" - E, sì, forse l'avrei fatto anche domani, per quanto la mia idea fosse parlarvi. - "Siete davvero sinc-" - Avrete avuto i vostri motivi per nascondermelo fino all'ultimo momento, fosse anche solo per prendervi gioco di me! - "Eh?" - Però... - lo vide trarre un respiro più profondo: - ... mi dispiace averlo fatto. - "..." - Sarei dovuto essere più deciso e meno vigliacco. - "..." - O, almeno, avrei dovuto riprendermi più velocemente. - "Questo sì." - E non avrei dovuto trattarvi così. - "..." - Avrei potuto rifiutarvi. E avrei dovuto. Vi credevo una donna e, per quanto le vostre intenzioni fossero chiare, non avrei dovuto accondiscendere. Mi sono lasciato trascinare e ho sbagliato a prescindere dal vostro sesso. - "... si sta...?" - E, nonostante ciò, dopo ho anche avuto il coraggio di scacciarvi come se fosse stat-... - esitò: - ... stato voi a farmi il più grande dei torti. - "..." - Voi avevate il vostro motivo, ma io non- -
- Kyte. -
Quella fiumana di parole si fermò.
- Perché vi state scusando? - sorrise. Si sentì tremare di nuovo. Ma stavolta in modo piacevole.
Tese una mano verso di lui. Voleva accarezzargli il viso.
Kyte parve capire e si avvicinò, lasciando che la mano andasse sulla sua guancia.
- Va tutto bene. Vero? - non sapeva perché la voce fosse uscita così bassa. E neanche gli importava.
- Sì. -.

Sarebbe dovuto essere felice.
Sarebbe dovuto essere soddisfatto di quella notte, sarebbe dovuto tornare in camera sua, infilarsi nel suo letto e finire di dormire lì.
E lo era, lo fece.
Ma ad ogni passo, sempre più forte man mano che si avvicinava alla propria camera, quel sibilo gli martellava la testa, quello sguardo tornava davanti ai suoi occhi.
Ridicolo.
Chiuse la porta, si sedette sul proprio letto.
Non era pietà. Quegli occhi lucidi non erano gli occhi di chi guardava una persona con pietà, che pensava "Poverino, che sfortuna!".
Erano occhi che aveva visto troppe volte perché non sapesse riconoscerli. Non aveva voluto riconoscerli. Quegli occhi azzurri, più piccoli, più rotondi, li aveva visti per tanti anni nello specchio della sua camera.
Si era chiesto se Kyte non avesse ricordato qualcosa che, chissà quanto tempo prima, lo aveva fatto piangere.
Quella notte, però, aveva sentito la sua volontà di fargli dimenticare tutto. Non per una manciata di ore. Ogni gesto sembrava dirgli "Dimentica. Per sempre.".
Ma non era un dimenticare vuoto. Sembrava gli stesse chiedendo di dimenticare solo alcune cose. Quelle che l'avevano fatto piangere tante volte davanti allo specchio.
Quelle cose che aveva definito "ridicole", quasi fossero sbagliate.
Trasalì.
"... sbagliate...?"
La cosa ridicola era pensare che fossero sbagliate. Era giusto così.
In tutti quegli anni, tutte le - poche - persone venute a conoscenza di tutto quello erano state d'accordo, avevano approvato la scelta dei suoi genitori. Ed era anche la cosa più logica: non c'era altro modo per farlo vivere se non come una donna.
Era giusto così.
Quella era la realtà. La pura realtà.
Era circondato da persone che sapevano ciò che facevano, che vivevano tra intrighi politici di ogni genere, sapevano perfettamente come comportarsi, avevano fatto tutto quello solo per proteggerlo e per permettergli di vivere.
Era giusto così.
Era l'unico modo per salvare lui e l'intero casato, per proteggerlo dal disonore, per proteggere la sua stessa vita.
La cosa ridicola era davvero pensare che tutto ciò fosse sbagliato.
Ma Kyte non poteva capire. Non poteva sapere, non sapeva niente di come si vivesse a quei ranghi. Lui viveva in un mondo diverso.
- E' giusto così. - disse: - E' giusto così. -.
Di nuovo quegli occhi. E quelle parole.
- E' ridicolo... - abbassò lo sguardo a terra: - E' ridicolo pensare che possa essere ridicolo. Io sono felice così. Anche se non posso avere ciò che voglio.
Posso avere tutto, non posso essere triste per una cosa soltanto. - inspirò: - Va tutto bene. Va tutto bene. Siete voi che non capite. -
Perché dovrebbe essere ridicolo il fatto che fosse condannato alla solitudine e all'isolamento eterni?
Poteva vivere.
Da solo.
In un luogo isolato.
Eternamente immobile.
- Siete voi a sbagliare, Kyte. - rise: - Siete voi a sbagliare. -.
Kyte era una persona terribilmente stupida, che viveva in un mondo diverso.
Voleva tornare da lui.
Tornare da lui e chiedergli di dirgli ancora quelle cose senza senso.
Che le ripetesse, che le ripetesse così tante volte da renderle concrete, come erano concrete nel suo stupido mondo.
"Per favore, portate lì anche me.".

Quando rivide Kyte, il mattino successivo, il suo cuore esplose.
Si stupì - e tranquillizzò - quando notò l'assenza di sbuffi di fumo nel momento in cui aprì bocca per parlare.
Si era anche portato una ciocca di capelli dietro l'orecchio, giusto per assicurarsi che il fumo non stesse uscendo da lì.
La cosa più interessante stava nel fatto che, nonostante l'esplosione, il cuore fosse rimasto integro: lo sentiva schiantarsi contro il torace con talmente tanta forza e precisione che avrebbe potuto disegnarne i contorni sul petto.
Non faceva male. Era solo destabilizzante.
- ... non... vi sedete...? -
- No. Grazie. Rimango in piedi. Oggi credo farò lezione in piedi. -
Anche se non si era affatto sorpreso di quella domanda - gli era apparso piuttosto palese che l'altro non avesse davvero la minima idea di come funzionasse tra due uomini - era comunque meglio far finta di essere stata una fanciulla illibata fino alla sera prima.
Dopo quella notte, Kyte aveva definitivamente smesso di fingere - male - ciò che non era neppure di sfuggita. Assumeva un'espressione seria e composta solo quando c'erano i suoi genitori nei paraggi - al di fuori dei pasti, la cosa avveniva circa zero volte al giorno.
Aveva il viso più rilassato, parlava in modo decisamente meno formale, faceva domande stupide, a volte dava anche risposte stupide, sorrideva come un idiota per la maggior parte del tempo e non si faceva scrupoli a prendergli la mano, a baciarlo, quando erano soli.
Ogni volta, sentiva il cuore fare un salto fino all'altezza del collo, colpendogli la gola. Era sicuro che, prima o poi, l'avrebbe sputato.
Non che facessero nulla di diverso dal solito: passeggiate per i prati, qualche pomeriggio in paese, qualche debole tentativo di Kyte di fargli leggere i libri piuttosto che disegnarci sopra - quando si ricordava di essere il suo precettore di giapponese, e la cosa sembrava avvenire di rado -, qualche riposo sulla riva del lago. Eppure, era quasi come se "prima" non avessero davvero fatto tutte quelle cose, come se avessero iniziato solo in quel momento. Se provava a ripensarci, le settimane precedenti gli apparivano come il racconto di una terza persona, distante e sconosciuta.
E poi, sì, Kyte non aveva il benché minimo problema a fare di giorno, da qualche altra parte, quello che facevano la notte nella sua camera.
Fu così che scoprì la sua interessante velocità nel ricomporsi e nel fingersi del tutto rilassato qualora qualcuno si fosse avvicinato loro in certi momenti.
Non tutti quei momenti, ovviamente. Ce n'erano alcuni in cui l'unica cosa da fare era chiudersi nella prima stanza vuota o spazio nascosto disponibile e sentirsi premere una mano sulla bocca.
Quando succedeva, dopo, a Len veniva da ridere.
Forse avrebbe dovuto avere paura, essere preoccupato, ma si sentiva assolutamente tranquillo.
Non che Kyte ispirasse autorità o che altro; però, trovava rilassante stare con lui, addormentarsi abbracciato a lui o con la testa sulla sua spalla, senza alcun intento erotico, o di baciarlo all'improvviso, a volte approfondendo il bacio, a volte no, soltanto perché voleva, senza alcun sottointeso.
Per Kyte sembrava essere lo stesso. Lo abbracciava, baciava, gli accarezzava i capelli, perché lo voleva e sapeva che a lui non dispiaceva affatto.
Forse era la naturalità con cui compiva quei gesti a calmarlo a sua volta, a farlo sentire tanto rilassato.
Era lì ed era felice.
Erano gli unici due pensieri che gli sembrava avere, delle volte.

Len arricciò il naso, ridusse gli occhi a fessure: - Alla signora Smith sta bene? -
Kyte mosse appena il bicchiere, tenendolo da sopra, il liquido roteò contro le pareti di vetro: - Credo di no. - un accenno di risata: - Ma non saprei, visto che non lo sa. -
- Mi sembrava strano... -
- Il bicchiere ritornerà in cucina sano e salvo. - lo sollevò come se dovesse fare un brindisi, la voce solenne.
- E il contenuto? -
- Ovviamente no. -
- Ovviamente. - ridacchiò, portò le ginocchia al petto, le circondò con le braccia.
Prima di andare sulla riva del laghetto, avevano deciso di far visita alle cucine.
Len aveva fatto sparire un indefinito numero di biscottini al burro - banane non ce n'erano e si era premurato di aggiungerne il nome con tanto di sottolineatura alla lista della spesa che aveva notato lì vicino - mentre Kyte aveva versato qualcosa in un bicchiere.
Posò la guancia sulle ginocchia, guardò al suo fianco.
Era affascinante.
Era bellissimo.
Era giallo.
Kyte ne aveva già bevuti due sorsi quando Len si decise a domandare: - Cos'è? -
- Whiskey. -
- Whiskey? - rialzò la testa, sbattè le palpebre: - Quindi quello è whiskey? -
- Già. - un altro sorso: - Ed è anche buono. -
Len rise, nascose la bocca dietro una mano: - Non ne dubito. - "E' giallo..."
- Ne volete un po'? -
Si irrigidì.
Ci mise qualche istante nel realizzare che Kyte gli aveva davvero proposto di bere del whiskey.
Scoppiò a ridere, senza togliere la mano: - Per favore, Kyte... - lo guardò, divertito: - ... non siete affatto divertente! -
- Non stavo scherzando. -
Sentì il sorriso congelarsi sulle labbra.
Guardò quegli occhi azzurri, cercò una qualsiasi traccia di risa, di scherzo, trovò solo confusione.
Abbassò la mano, piano, riportandola sulle ginocchia.
- Kyte... - distolse lo sguardo: - ... non siete divertente. -.
L'acqua del lago scivolava avanti e indietro a qualche metro da loro.
Faceva un bel suono. Era ritmico ma, a volte, qualche pezzo era appena più intenso o appena più lieve.
- Dico davvero, Len. - la voce di Kyte si era abbassata di poco, ma non aveva perso la sua tranquillità: - Ne volete un po'? -
"..."
Tornò a guardarlo.
Ancora quell'espressione perplessa.
Ridacchiò: - Le brave fanciulle di buona famiglia non bevono alcolici. - distese le gambe, scavò dei piccoli solchi nella terra con i tacchi: - Siete una persona davvero poco per bene, se offrite del whiskey ad una fanciulla con tutta questa calma. -
Quella confusione si spezzò, lasciando il posto ad un sorriso: - Perdonatemi, Len. - gli porse il bicchiere: - I bravi eredi di buona famiglia non hanno problemi nel bere alcolici. -
"..."
- ... cosa vorreste dire? - la voce era uscita atona.
Quando incontrò lo sguardo di Kyte, vide una luce di esitazione. Ma durò solo un istante.
- Quello che ho appena detto. - il suo sorriso si accentuò: - Ne volete un po'? -
"..."
Guardò il bicchiere che gli veniva porto.
E il contenuto giallo al suo interno.
Un brivido lungo la schiena, lungo le braccia.
Voltò la testa.
- Le donne non bevono alcolici. -
Una fitta allo stomaco.
- Voi ne volete un po', Len? -
Un altro brivido.
Tornò a guardare il bicchiere.
Sentiva improvvisamente la gola secca.
"... non posso." strinse i pugni, strinse la stoffa della gonna: "Non devo.".
Inspirò.
Una scena simile, in un libro, avrebbe descritto lui come un'ingenua ragazza troppo curiosa e Kyte come un demonio che, con le sue mani ricoperte di squame di serpente nascoste sotto i guanti del colore della notte, gli offriva il frutto del peccato con un sorriso all'apparenza di puro miele, ma che in realtà era vizioso fiele.
Non sapeva se trovare più disturbante delle mani squamose o la possibilità che Kyte impersonasse un demonio consapevolmente e con successo - non con quel sorriso gentile, non con quell'espressione stupida.
E poi...
"..."
Allungò una mano. Afferrò il bicchiere.
Il cuore sobbalzò.
"Solo un sorso."
Lo portò alle labbra.
Bevve.
Si sentì incendiare dall'interno.
Scostò il bicchiere.
Il vetro era freddo, la bevanda era fredda, eppure aveva sentito un'improvvisa ondata di calore, dallo stomaco a tutto il resto del corpo, fino alle punte delle dita.
"... questa cosa non ha senso."
- Com'è? -
Riportò lo sguardo su Kyte.
"... com'è, in effetti...?"
- ... caldo. -
Una risata leggera: - Difatti l'inverno è l'ideale. -
- Ma ora fa caldo. E questo mi fa sentire ancora più caldo. - ne bevve un altro sorso. Il fuoco si fece più intenso.
- Eh? - la voce di Kyte era improvvisamente esitante: - Ehi, ora non bevetevelo tutto voi! -
Lo sentì avvicinarsi, finché non sentì una mano su un polso.
Abbassò il bicchiere e lo guardò di nuovo. Sorrise: - Avete detto "un po'". -
- Non "tutto"! -
- Guardate quanto ce n'è! Un paio di sorsi è molto meno di "un po'"! -
- Eh? -
Era buona, quella bevanda gialla.
L'unico problema stava nel fatto che ora aveva caldo sia dall'interno che dall'esterno.
"Posso bere seduta con le gambe in acqua!"
- Len? Dove state andando? Ehi... ehi! Tornate qui! Quel bicchiere è mio! -
"Solo per oggi..." un altro sorso, stavolta appena un assaggio: "... solo per oggi, io..." un altro sorso, almeno mezzo dito di whiskey.

Era bello.
Era bello ed era ridicolo.
Era felice in quel mondo tanto ridicolo.
Kyte rendeva ogni cosa semplice. Non c'era da pensare, da preoccuparsi, da ipotizzare: le cose erano così, semplici, dirette.
Era bello, quel mondo tanto stupido, tanto limpido, insieme ad una persona così stupida da stupirsi di cose ovvie.
Ma aveva la sua logica. Il suo mondo aveva troppe zone in ombra perché potesse essere compreso da una persona del genere.
Gli sarebbe piaciuto essere tanto stupido.
Smettere di pensare. E di ripensare.
E di accettare.
Sapeva che Kyte stava sbagliando. Lui non poteva comprendere la verità delle cose - era probabile non ne fosse fisicamente in grado.
Però gli piacevano quelle parole senza senso.
Gli piaceva cullarsi nell'illusione che il suo mondo non avesse senso.
Che fosse sbagliato rimanere lì per sempre, immobile e immutabile.
Che non fosse vero che il suo destino fosse legato a quell'edificio e a quei vestiti che tanto amava.
Sicuramente, Kyte era cambiato molte volte. L'aveva capito fin da quando aveva letto quei documenti nello studio di suo padre.
Era logico che non potesse capire, che desse per scontato che la stessa cosa valesse per lui.
E a Len piaceva davvero pensare di poter distruggere quell'immobilità.
L'aveva fatto, una volta.
Anni prima.
Li ricordava, quei sottili rivoli di sangue, i pezzi del suo corpo sparsi per il pavimento.
Ed era rimasto uguale a prima.
Forse avrebbe potuto distruggere di nuovo quell'immobilità.
E avrebbe rivisto la stessa identica cosa.
Ormai era diventato una cosa sola con quel mondo immobile.
Forse avrebbe fatto male.
Per questo era così bello continuare ad illudersi in quel riflesso ridicolo.

- E quel budino era davvero buonissimo! La signora Smith dovrebbe farlo più spesso! - sorrise, strinse il pupazzo a sé: - Poi... poi... - guardò il soffitto, cercando di ricordare gli avvenimenti di quella giornata.
- Ah, sì! - tornò a guardare lo specchio: - Ho scoperto che Kyte ha ventuno anni! Ventuno! - se li portava decisamente bene: - Buffo pensare abbia solo due anni in meno di Gakupo! -.
Silenzio.
"..."
- ... Gakupo. -
Lo specchio ricambiò il suo sguardo perplesso.
- ... -
Gli sembrò di svegliarsi dopo un lungo sonno.
Ma non era dispiaciuto. Né intimorito, o preoccupato.
Era solo disorientato.
- ... quanti giorni sono che non penso a Gakupo? -
"Quante settimane sono che non penso a Gakupo?".
Piegò appena la testa di lato.
- ... quante settimane mancano al vostro ritorno, Gakupo? -
"Quanti mesi mancano al vostro ritorno, Gakupo?"
Quanto tempo era trascorso dall'arrivo di Kyte?
Sbattè le palpebre.
- ... quando voi tornerete... - fissò quegli occhi azzurri: - ... Kyte dovrà andarsene? -
Gakupo sarebbe tornato da lui.
Ma Kyte se ne sarebbe andato.
Forse non l'avrebbe mai più rivisto.
Rabbrividì.
- ... non voglio che Kyte se ne vada. -
"Kyte non vuole andarsene. Anche Kyte vuole rimanere qui. Con me. Lo so."
C'erano delle parole che non gli aveva ancora detto.
Gliele diceva ogni giorno con ogni gesto, ma non le aveva ancora sentite pronunciare.
Sapeva che era questione di tempo.
Avrebbe aspettato.
- Anche Kyte vuole rimanere qui. -
Sentì le labbra tirare.
Lasciò libera la risata.
- E poi, non l'avete detto anche voi, Gakupo? - sorrise: - Non posso plasmare la mia vita sulla vostra. -
Accarezzò la testa del pupazzo.
- Kyte... - sfiorò l'orecchio di stoffa con le labbra: - Volete rimanere qui con noi? -.

Sbuffò.
"Il signor Anderson è un maleducato!" avanzò con i pugni sui fianchi, il naso all'insù: "Non si tratta così una povera fanciulla!".
Era davvero di cattivo umore.
Non poteva neppure andare a protestare da sua madre.
- Cos'ha fatto il signor Anderson di così maleducato? -
- Mi ha detto che non posso salire sul tetto perché è pericoloso! -
- ... torna a giocare con i libri, Len. -

La scena sarebbe andata all'incirca così - forse perché era già successo tempo prima.
Detestava quando non gli facevano fare ciò che voleva.
E poi si ritrovava di cattivo umore.
E niente e nessuno poteva smuoverlo da-
- Len, è arrivato un invito da parte dei conti Tibirsh. -
Sua madre, la lettera tra le sue mani, fu una sorta di apparizione angelica.

Il ballo dai conti Tibirsh.
Subito dopo la prima volta, aveva sperato per giorni di ricevere un altro invito simile; con il passare del tempo, aveva finito con il metterlo un po' da parte nella mente, ma non aveva mai abbandonato la speranza.
E, finalmente, quell'invito era arrivato.
Ci sarebbe stata quella perfetta torta di banane, ne era sicurissimo.
E ci sarebbe stato il valzer.
I conti Tibirsh erano famosi per la scaletta dei balli.
"Un valzer..."
Stavolta, non ci sarebbe stato Gakupo.
"Danzare un valzer con Kyte..."
Stavolta, si premurò di far modificare un kimono in modo da renderlo più comodo - anche se poi dovette sopportare tutti i: - Ma è così necessario che le maniche siano qualche centimetro sopra la pelle? -, frase ripetuta fino allo sfinimento da all'incirca chiunque.
Voleva danzare un valzer con Kyte.
E Kyte era più basso di Gakupo.
Potevano prendere le posizioni senza mettersi sulle punte, o piegarsi.
"Voglio che sia tutto perfetto." fece una piroetta davanti allo specchio, la gonna rosa si alzò appena, per poi ricadere a coprire le caviglie: "Il valzer che ho danzato con Gakupo voglio danzarlo con Kyte.".

E lo fece.
Niente movimenti goffi, niente vestiti pesanti, niente piedi doloranti.
In realtà, quando danzò, non si curò affatto di star finalmente facendo un valzer come si doveva.
Voleva solo continuare a danzare in eterno, in quella sala gialla, con quei fiori gialli, con quella torta biancagialla, in quel mondo tanto bello.
Danzarono un valzer, sotto gli sguardi di tutti.
Danzarono un altro valzer, fuori dagli sguardi di tutti.
Quando furono a casa, Len attraversò i corridoi che lo separavano dalla stanza di Kyte.
Voleva solo continuare a danzare in eterno, in quel mondo tanto bello.

- I nobili sono strani. -
- Anch'io? - sussurrò, le dita tra i capelli di Kyte.
- Soprattutto voi. -
Ridacchiò.
- Anche voi? -
Incontrò quegli occhi azzurri.
Sgranati.
Increduli, come quando veniva platealmente smascherato.
- ... c-cosa? -
Non riuscì ad impedire al suo sorriso di accentuarsi: - Anche voi siete strano, Lord Sheeawn? -.
Ci aveva pensato, negli ultimi tempi.
Quel mondo era così limpido e senza ombre che era un peccato lasciarne una così evidente.
- ... da quanto lo sapete? -
Voleva che Kyte gli dicesse ogni cosa. Voleva sentirlo dalla sua voce.
- Io da un po'. Anche se, quando siete arrivato, non lo sapevo. I miei genitori lo sapevano da prima. Si fidano di Gakupo-sensei ma, come dire... - cercò delle parole adatte: - ... un po' di informazioni in più non dispiacciono. -
Voleva sapere del suo passato, dei suoi cambiamenti, del suo rapporto con Gakupo, di lui.
- Io l'ho scoperto perché ero curiosa. -
- Perché? -
Il petto contro il suo corpo, sentiva il suo cuore battere più forte. Gli sembrava anche che il suo viso fosse più pallido.
Di certo, riusciva a vedere un curioso contrasto di esitazione e rassegnazione sul suo volto, nei suoi occhi.
- Ricordate quando vi diedi il permesso di chiamarmi solo con il mio nome? -
Era bello passargli le dita tra i capelli. Erano corti, riusciva a prenderne facilmente le ciocche, i movimenti erano più lenti, rilassanti.
Gli rivelò della sua curiosità, di come avesse scoperto la verità, anche dell'infamante detto che conteneva il suo cognome modificato.
Fu attento a mettere quanti più particolari possibili.
Voleva un racconto altrettanto dettagliato.
Quando finì di parlare, Kyte esaudì la sua richiesta.
Man mano che narrava, lo sentiva irrigidirsi, lo sentiva tremare.
Non sapeva perché ma, ogni volta, sentiva una fitta al cuore.
Continuò ad accarezzargli i capelli, gli baciò la fronte. Voleva che continuasse a parlare, ma non voleva che continuasse a tremare.
Ogni tanto, quando sentiva la sua voce abbassarsi troppo, lo interrompeva commentando.
Kyte gli disse le stesse cose che aveva letto in quei documenti. Ma gliele disse in modo diverso.
Si era agitato, quando aveva letto quelle cose. Ora non sapeva neppure cosa stesse provando. Qualsiasi cosa fosse, non era una bella sensazione. Non era affatto pentito di averlo spinto a raccontargli tutto. Però aveva iniziato a pensare che forse quei brividi freddi non erano tutti di Kyte.
Gli accarezzò il viso, lo sentì stringersi a sé.
Non gli piaceva il tono di voce che stava usando.
Non gli sarebbe piaciuto vederlo piangere.
- Non ho idea di come facesse a sapere che fossi lì. - una risata leggera, un po' strana: - Me lo sono ritrovato vicino, mi ha gentilmente scansato e ha preso il mio posto. -
"Eh?" - Chi? -
- L'integerrimo signor Kamui, ovviamente. -
"Oh."
Non fece in tempo a pensare a come il discorso fosse effettivamente finito su Gakupo, perché Kyte gli confermò subito che, sì, aveva abitato per quasi un anno in una casa di proprietà dell'altro.
Gakupo, che aveva salvato e aiutato Kyte.
- Conoscete da molto Gakupo-sensei? -
La risposta arrivò dopo un attimo di silenzio: - Dodici anni. - e lo colse di sorpresa.
- Davvero? - una nota appena più alta di quanto avrebbe voluto.
"Così tanto? Non pensavo si conoscessero addirittura dall'infanzia..."
I loro padri si conoscevano, erano in trattative.
E, dalle parole di Kyte, sembrava anche che fossero praticamente cresciuti insieme.
Il cuore trasalì.
- Dunque voi e Gakupo-sensei siete molto amici? -
Lo sentì battere più forte.
- Mi fido di lui. - Kyte sorrise, per la prima volta da quando aveva iniziato a raccontare, e non c'era nessuna traccia di malinconia o tristezza: - Sa sempre trovare una soluzione ad ogni problema e, anche se a volte è un po' noioso, so che posso contare su di lui. -
"Già..."
- E poi, se gli si affida qualcosa, potete star certo che la difenderà ad ogni costo! Se fosse un oggetto materiale, gli affiderei la mia vita senza neppure starci troppo a pensare! E' uno che prende sul serio praticamente ogni cosa, sapete? -
Il resto delle parole di Kyte giunse quasi indistinto.
Non aveva parlato in modo altisonante.
Non aveva posto alcuna enfasi.
Aveva davvero detto, con tutta quella naturalezza, che avrebbe affidato la sua vita a Gakupo senza alcuna esitazione.
Il cuore batteva davvero troppo forte.
Voleva baciare Kyte.
Voleva che rimanesse lì per sempre, insieme a lui, insieme a Gakupo.
- Siete davvero divertenti, sapete? -
Voleva che anche Gakupo rimanesse lì per sempre, insieme a lui, insieme a Kyte.
- Divertenti...? -
- Sì! - nascose la bocca dietro la mano libera: - Voi e Gakupo-sensei! Siete davvero divertenti! Lo siete singolarmente, ma credo che anche insieme siate molto divertenti! -
E anche loro lo volevano.
Volevano diventare una sola cosa con lui.
Diventare come lui.
Baciò Kyte.
Lui lo spronava a dimenticare le cose tristi. Ora voleva essere lui a farlo.
- Mi dispiace avervi fatto ricordare cose che avreste preferito tacere. - sussurrò sulle sue labbra: - Per me non sarete mai Lord Sheeawn, se non lo desiderate. -
Non sarebbe più stato triste.
Né lui né Kyte.
E Gakupo sarebbe stato con loro.
Loro tre, insieme, come una cosa sola.
L'ultimo ostacolo alla loro felicità erano i loro mondi.
Le loro convinzioni, la loro fiducia, i loro legami.
Sarebbero diventati come lui.
Perché lui sarebbe stato l'unica cosa eternamente integra nei loro veri mondi.
Ora aveva trovato il modo di distruggere l'ultimo ostacolo alla loro felicità.

Quelle parole, finalmente, le udì.
Chiare, limpide, come ogni cosa in quel mondo ridicolo e splendido.
Sapeva che le avrebbe sentite, prima o poi.
Era certo le avrebbe accolte con un sorriso di circostanza, senza scomporsi più del dovuto, perché già sapeva.
Quando le udì, non pensò a niente.
Desiderò solo che ogni cosa si fermasse in quel preciso momento, per sempre.

Non aveva sinceramente idea di quanto tempo fosse trascorso.
- Il signor Kamui è tornato in Inghilterra ieri mattina. Tra due giorni verrà qui a farvi visita. -
Avrebbe potuto dire, letteralmente, di essersi svegliato in una bella giornata di sole e aver scoperto che erano trascorsi sei mesi.
Sei mesi dalla separazione da Gakupo.
Sei mesi dall'incontro con Kyte.
Gakupo stava per tornare da lui.
Kyte stava per allontanarsi da lui.
- Gakupo-sensei è tornato, signor Kyte! E sarà qui tra due giorni! Non siete felice? -
Gakupo voleva tornare insieme a lui.
Kyte voleva rimanere insieme a lui.
Avrebbe riaccolto Gakupo in casa, perché lo voleva anche lui.
Avrebbe esaudito il desiderio di Kyte, perché era anche il suo.
- Voglio che la casa sia perfetta per il suo ritorno! -.






Note:
* "Bambole": Dolls, cantata solo da Len.
... che in realtà, quando lo scrissi per la prima volta, capitoli fa, non ricordavo ci fosse una canzone con questo titolo. *E' stato... uhm, particolare, riscoprirlo.*
Tra l'altro, l'immagine di Dolls nel libretto del CD vede Len sposa angsterotichorror. *Mumble.*
* Nel pianoforte, i tasti a sinistra emettono i suoni più bassi, quelli a destra i più acuti.
* Il "pigiama" maschile consisteva in una camicia da notte piuttosto larga lunga fino alle ginocchia. E basta.
* "Per favore, portate lì anche me.": Fate: Rebirth.
[Per favore, porta anche me in quel posto] [Traduzione]




Ero sicurissima di aver aggiornato a Luglio.
Potrei dire di non aver calcolato che il capitolo-a-specchio di Kaito sarebbe venuto così lungo da costringermi a dividerlo. Potrei dirlo, ma sarebbe scontato.
*nota torce e forconi in avvicinamento*
Ma il prossimo capitolo è già scritto e vi posso assicurare che finalmente il flashback finisce! *O*/ *A fine prossimo capitolo. Siamo specifici e non diamo false speranze. (!)*

Spero davvero di essere riuscita a rendere il rapporto tra Len e Kyte. °A°" Ho tagliato/riassunto tutto il tagliabile/riassumibile, spero di averlo fatto in modo decente - e che non risulti un grosso découpage mal riuscito. °A°
Spero anche di essere riuscita a far vedere la "differenza" tra Kyte e Gakupo. °A°
Comunque sì, questo capitolo era Kytecentrico, il prossimo è... ehm... ImitationBlackcentrico. (?) *Con molta insanità mentale. E deliri. Soprattutto deliri.* *Più del solito, sì.*

Due piccole note sulla scena del whiskey: il primo è che pare che le banane siano dei perfetti frutti anti-sbronza *dunque Len sarebbe completamente immune all'ubriacatura...?*; il secondo è che, in un modo assurdo&contorto, sono finita con l'infilare il Kaito demone (?) pure qui. *Questa cosa non ha senso.*

Eee, ultimissima cosa.
... pare che, dopo due anni, Natsu abbia recuperato i VanaN'Ice. Non proprio del tutto ma, un mese fa, se n'è uscita con un miniCD con due canzoni (Aya shigure e Increase, quest'ultima solo di Len - ma pare ci sia il coro di Kaito e Gakupo...?), per poi metterle nel CD che ha rilasciato qualche settimana fa (insieme a Blue Salvia, la cover con i VanaN'Ice di una canzone che aveva scritto per l'Utaite Mi-chan).
... sono rimasta colpita. Non sono ancora riuscita a sentire nessuna delle tre canzoni ma, dalla crossfade, Increase sembra puccizuccherosissima e, soprattutto, Aya shigure interessante. Sarebbe carino se ci facessero dei PV. Tipo. */fine delirio mistico*
*Avrebbe voluto inserirle come citazioni, ma né qui né nel prossimo capitolo c'era spazio materiale. Forse nell'ultim- ultimo? *Argh**

Un biscotto premio a chi è riuscito ad arrivare fin qui senza fare pause.
Evito di allungare ulteriormente questa cosa infinita. U.U"
Come sempre, spero che questo capitolo non vi abbia risucchiato tutti i sali minerali vi sia stato di gradimento. ^^
Se ci sono consigli o critiche, dite pure. ^^

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Capitolo 13
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Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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Aveva ancora due notti per essere a completa disposizione di Kyte.
Non aveva idea di quanto tempo sarebbero stati tutti e tre sotto lo stesso tetto, l'unica certezza era che lui e Kyte sarebbero stati soli per altri due giorni.
Forse fu per quello che prestò attenzione a particolari a cui, in sei mesi, non aveva mai fatto caso.
"..."
Fissò la camicia bianca gettata a terra, mentre si rimetteva la biancheria. Poco più in là giaceva un paio di pantaloni.
Avrebbe dovuto reindossare la camicia da notte e tornare nella sua camera, come ogni mattino. Sapeva che avrebbe dovuto farlo. Era la cosa più giusta e logica da fare.
"..." si chinò, raccolse la camicia. Aveva accarezzato spesso quel tessuto ma sentirla così, stoffa e basta, era strano. Forse avrebbe dovuto pensare che mancasse qualcosa, che l'effetto di straniamento fosse dovuto alla mancanza di qualcuno che la indossasse, mentre lui la toccava.
"... è una camicia da uomo."
Guardò a sinistra.
E incontrò i suoi stessi occhi.
"... vero. Kyte tiene lo specchio qui." abbassò lo sguardo, riportandolo sulla camicia bianca.
Un brivido lungo la schiena.
Doveva rivestirsi e tornare in camera sua. In quel momento. Non aveva tempo da perdere.
"... rivestirsi..." strinse la presa sulla stoffa. Trasse un profondo respiro.
Infilò un braccio in una manica.
"Solo per pochi secondi. Non lo saprà nessuno. Neppure Kyte." infilò anche l'altro braccio, le mani uscirono dalle estremità delle maniche.
Rabbrividì.
La stoffa della camicia era leggera, la sentiva accarezzargli ogni centimetro della pelle del busto, tranne per una striscia davanti, tra i bottoni che non aveva chiuso.
Guardò in basso. Passò le dita sullo scorcio di pelle visibile dalla camicia aperta. Quello stesso scorcio verticale che di solito vedeva su Kyte o Gakupo.
Un groppo alla gola. Deglutì, ma tornò su.
Alzò lo sguardo. Guardò lo specchio.
La camicia era troppo lunga, quasi gli sfiorava le ginocchia - e si gonfiava in modo assurdo nel tentativo di seguire il profilo della biancheria.
Sembrava una persona ristrettasi di colpo.
Tornò a guardare il pavimento. Individuò i pantaloni. Si chinò, infilò prima una gamba, poi l'altra. Li tirò su.
Quelli ricaddero a terra.
"..."
Li ritirò su, stavolta tenendoli con una mano. Armeggiò con la cintura, scoprendo che non c'erano abbastanza buchi per stringerla fino alla sua misura.
"... sembra scomodo camminarci..." riportò lo sguardo sullo specchio.
Una camicia. Dei pantaloni.
Sentì il cuore stretto in una morsa.
"Devo tornare nella mia camera. E' quasi l'alba.".
La tenda. Si avvicinò - la mano ferma a tenere i pantaloni - e la scostò appena, creando un sottile rettangolo di luce lunare lungo il pavimento e la parete opposta alla finestra.
"No... non è ancora l'alba..."
Non aveva scostato la tenda per vedere l'alba.
Lo sapeva anche lui.
"... devo rimettermi la camicia da notte."
Doveva aprire la mano e lasciar cadere i pantaloni. Doveva togliersi quella camicia. Doveva sbrigarsi a tornare nella sua camera.
La mano tremò.
La camicia da notte era a meno di un metro da lui.
"... ora mi rivesto, sì."
Fece un passo avanti.
E si guardò allo specchio.
"... solo uno sguardo veloce. E mi rivesto.".
Sembrava davvero una ragazzina ristrettasi di colpo, con indosso vestiti ormai troppo grandi per lei, che mai sarebbero dovuti essere sul suo corpo.
Si sistemò il colletto, che non voleva saperne di stare giù.
Forse le straccione portavano vestiti da maschio. Len non era una stracciona. Era l'illustre figlia di una delle casate ducali più potenti d'Inghilterra.
Cercò di chiudere la camicia con la mano libera.
Guardò il suo riflesso.
Gli sorrideva. Con compassione.
"... sono davvero pietosa."
Trasalì.
C'era un'ombra, alle sue spalle.
Si voltò, il cuore che martellava nelle orecchie.
Kyte. Era sveglio. E lo stava guardando.
"Da quanto-"
- Da quanto siete sveglio? -
"Mi ha vista..." doveva togliersi quei vestiti. Gli sembrava fossero improvvisamente diventati roventi.
- Non saprei... - la voce dell'altro era bassa, parlava piano, lo sguardo fisso - orribilmente fisso, doveva smetterla di fissarlo - su di lui: - Se avete fatto qualcosa di imbarazzante, non l'ho visto. Vi ho visto solo stare davanti allo specchio e sistemarvi. -
"..."
Si strinse nella camicia. Non gli sembrava più tanto rovente. Forse era stato solo un istante, ma l'improvviso bisogno di levarsi quei vestiti era diventato troppo pressante per continuare a resistere.
E le orecchie iniziavano a fargli male. Il cuore le stava assordando.
- Scusatemi. - si sfilò la camicia e lasciò cadere i pantaloni. Si sentiva ancora fissato. Si coprì il petto, voleva davvero che la smettesse di fissarlo, voleva che tornasse anche solo a far finta di dormire, voleva andarsene da quella camera, voleva averlo fatto prima, voleva non aver mai messo quei vestiti, voleva che l'altro pensasse che fosse solo un dubbio sogno, voleva che la smettesse di-
- Non avete fatto nulla di male, eh. -
Len si fermò. Aveva appena recuperato la camicia da notte.
Kyte insisteva nel fissarlo. E continuava a farlo con quella sua espressione confusa, di quando proprio non riusciva a capire anche la cosa più ovvia.
Premette la camicia da notte contro il petto. Doveva reindossarla. E andarsene. Nella sua camera.
Rivide il suo stesso sguardo, per un istante.
- Volevo... - strinse la stoffa: - ... volevo solo sapere cosa si provasse ad indossare... - "Abiti da uomo." - ... cose come quelle. -.
Voleva andarsene. Voleva tornare nella sua camera.
E allora perché continuava a rimanere lì?
- Aspettate! -
Kyte si era alzato ed era andato all'armadio.
"Che...?"
Quando vide tra le sue mani una camicia e dei pantaloni, sentì il cuore fare una capriola all'indietro e atterrare molto male.
- Forse questi vi staranno meglio. - se li vide porgere, con un gran sorriso. Un sorriso che un istante dopo sembrò di scuse: - ... anche se non credo siano esattamente della vostra taglia. -
Non le scuse che sarebbe stato giusto sentire. Non i gesti che sarebbe stato giusto fare.
Un altro brivido.
"Devo rifiutare. Devo andarmene."
Un'altra camicia bianca. Dei pantaloni scuri. Sicuramente troppo grandi per lui. Ovviamente non adatti a lui.
Non doveva indossarli. Non avrebbe avuto motivo di farlo. Non doveva.
La stoffa della camicia sotto i polpastrelli.
Si voltò, la camicia in una mano, la camicia da notte lanciata sul letto. Infilò un braccio. Un brivido, per il freddo. Per il freddo. Infilò l'altro braccio. Un brivido lungo la schiena, per il freddo. Era fredda. Appena tirata fuori dall'armadio.
Tornò a rivolgersi all'altro, prese i pantaloni, li indossò come aveva indossato gli altri. Anche quelli erano freddi. Ma almeno quella cintura aveva abbastanza buchi per la sua taglia.
Le dita di Kyte. Le vide infilare i bottoni centrali della camicia nelle asole.
Guardò il pavimento. Ora la camicia non era più solo appoggiata. Non avrebbe potuto toglierla con la stessa facilità di prima. Non ci avrebbe messo solo un attimo.
Sentì le mani di Kyte sulle spalle, si sentì voltare, sapeva benissimo in che direzione. Una mano scivolò sotto il mento. Alzò la testa. Verso lo specchio. Verso se stesso.
Un tremito.
Fece un passo avanti. Verso se stesso.
C'era una persona esile, nello specchio. Aveva una camicia bianca e dei pantaloni scuri, vestiti troppo grandi per il suo corpo.
Aveva gli occhi azzurri e dei capelli biondi che non arrivavano neppure al petto.
Vi passò le dita. Li raccolse con le mani.
Come faceva tante volte, la mattina.
Strinse le ciocche di capelli.
Le nocche sfioravano il collo.
Non come faceva tante volte, quando le mani accarezzavano solo aria.
C'era un ragazzo esile, nello specchio. Aveva una camicia bianca e dei pantaloni scuri, vestiti troppo grandi per lui.
Aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi raccolti in una coda bassa.
Nonostante quei vestiti, era il figlio di un duca.
Il primogenito maschio dei duchi di Mirror.
"... no..."
- Scusatemi. -
Doveva togliersi quei vestiti.
Non poteva più lasciarli sul suo corpo.
Non poteva.
Non poteva.
Non poteva.
Doveva scappare.
Doveva scappare da quello specchio che gli aveva mostrato una cosa simile.
Non doveva pensarci.
Doveva dimenticarlo.
Quello specchio mentiva.
Rifletteva cose sbagliate.
Sbagliate.
Sbagliate.
Sbagliate.
- ... vi fanno così repulsione? -
La voce di Kyte. Calma, gentile.
Len aveva già una mano sulla maniglia. E aveva reindossato la camicia da notte. Chissà dove aveva lanciato la camicia e i pantaloni.
- Possiamo prenderne altri, eh. -
"..."
Sforzò una risata. Non era del tutto forzata, in realtà. Era una risata che sentiva nel petto, ma dovette sforzarsi per buttarla fuori.
- No. I vostri vestiti vanno benissimo. - "Vi rendete conto di ciò che dite, Kyte?" - Anche se, sì, non sono della mia taglia. - inspirò. Sentiva la sua voce iniziare a spezzarsi: - Perdonatemi, devo tornare nella mia camera. A tra poche ore. -.
E ci riuscì, finalmente. A tornare nella sua camera.
Con il suo specchio che rifletteva solo cose vere. Che rifletteva Lady Len Mirror.
- Stanotte... - prese il suo pupazzo. Lo guardò nell'occhio visibile: - ... ho visto me stessa in uno specchio bugiardo. -.
C'era uno specchio nella sua camera. C'era uno specchio nella camera di Kyte.
Uno rifletteva il vero. Uno rifletteva il falso.
Era ovvio quale fosse quale.
Era ovvio.
Sì.

- Ah, sta iniziando a fare veramente freddo, non trovate? -
- Sì, direi di sì. -
"..."
- Forse domani dovremmo far accendere i camini...? -
- Se verrà richiesto, sì. -
"..."
Risposte lapidarie.
Lo sguardo di Kyte era pensieroso. Troppo pensieroso.
Sapeva che, ultimamente, stava pensando molto al momento in cui si sarebbero separati - anche Kyte temeva per sempre. Ma non poteva dirgli che lui avrebbe sistemato tutto. Se l'avesse fatto, dopo non sarebbe più stato in grado di fare ciò che voleva.
Eppure, quello sguardo era diverso. Ricordava di averlo già visto, alcune volte. Una, soprattutto.
Ridicolo.
- Kyte. - si fermò e si voltò verso di lui.
L'altro fece lo stesso; gli parve quasi si fosse accorto della sua presenza solo in quel momento.
- Vi vedo un po' assente. - fece appena ruotare l'ombrellino sopra la testa, lo sguardo nel suo.
Era pensieroso. Era serio. Non erano cose che stavano bene sul volto di Kyte. Il suo non era un viso fatto per quelle cose così cupe e complicate.
E stava tacendo da troppi secondi.
Fece per dire qualcosa, ma lo vide sospirare. Decise di tacere. Forse stava per parlare lu-
- Se un uomo a conoscenza della verità vi chiedesse in sposa, andrebbe bene? -
"... cosa...?"
Sentiva gli occhi fare male. Doveva averli sgranati troppo.
Sentiva il cuore fare male. Stava per rompergli le ossa del torace e i timpani.
"Sì."
Ridacchiò - era una risata strana, quella uscita dalle sue labbra. Sembravano pezzi di risata messi insieme e tenuti a stento. E c'era qualcosa davanti ai suoi occhi, una sorta di velo che rendeva opaco tutto ciò che c'era nel suo campo visivo. Si voltò, diede le spalle a Kyte, coprendosi con l'ombrellino.
- Oh, affatto. - rise: - Sarebbe un grosso problema. Significherebbe che qualcuno al di fuori di noi è a conoscenza di una cosa di cui non dovrebbe essere a conoscenza. -
- Lasciate perdere come lo sia venuto a sapere. - la voce di Kyte era spaventosamente decisa: - Se un uomo vi chiedesse in sposa, se gli andasse bene la verità, se persino avesse contatti economici con il Giappone... non andrebbe bene? -
"Sì."
- E dove pensate di cercare un uomo con queste caratteristiche? - l'ombrellino stava per cadere. Non sapeva se le dita fossero ancora abbastanza solide.
- Forse non c'è bisogno di cercarlo. -
"Sì."
- Forse potrebbe mancargli qualcosa. -
- Direi di no. -
"Sì."
- Avete dimenticato un particolare importante. -
- Ossia? -
Chiuse gli occhi. Li riaprì e si voltò verso Kyte. Un lampo di esitazione in quegli occhi azzurri. Serrò la presa sul manico dell'ombrellino.
- Per anche solo osare sperare di poter chiedere la mia mano... - "Se solo..." - ... un uomo deve essere molto- - "Se solo..." - molto- - "Se solo..." - molto- - "Se solo..." - ricco. -.
Gli parve di vedere il volto di Kyte spezzarsi in tanti pezzi minuscoli, cadendo e lasciando il posto ad un'altra faccia, molto più "sua", qualcosa che avrebbe preferito non vedere.
Aveva chiuso l'ombrellino, gli si era avvicinato. Poteva vedere benissimo quell'espressione ferita. Non c'era altro modo per definirla. Era l'espressione di una persona che soffre per una ferita fisica.
Chissà se anche lui aveva quella stessa espressione.
- Se fossi data in sposa ad un nobile decaduto, senza neppure uno scellino proprio, sarebbe ancora più assurdo e sospetto di una figlia unica spedita in monastero. -.
Kyte parve riprendersi un po'.
- ... se, per assurdo... - un sussurro, quasi non riuscì a sentirlo: - ... quell'uomo fosse così ricco da poter anche sperare in una risposta affermativa... - non poteva pensarci, non doveva pensarci: - ... voi sareste felice? -
"... eh?"
Non doveva pensarci.
Doveva usare il raziocinio, dire le cose come stavano. Non poteva illudersi in quel modo, non in quel momento.
Era stato splendido illudersi in quel mondo ridicolo. E l'avrebbe rifatto tante volte.
Ma, in quel momento, doveva rimanere ancorato alla realtà.
No, Kyte non gli aveva chiesto di sposarlo. Non gli aveva detto che l'avrebbe sposato anche conoscendo la verità, che l'avrebbe sposato e portato via da lì, che gli avrebbe dato quell'anello che quasi tutte le ragazze della sua età esibivano. Non aveva detto questo.
Kyte non poteva dire una cosa simile.
"Kyte vuole sposarmi. Ma non ha niente. Gakupo ha tutto. Ma non vuole sposarmi.".
Davvero bizzarra quella coincidenza.
Avrebbe davvero preferito che fossero invertiti.
Non poteva pensarci. Non doveva pensarci.
Non era il suo desiderio più grande che si era di nuovo frantumato tra le sue mani non appena l'aveva raggiunto.
Non era così. Non lo era.
"... sarei felice?"
Se Kyte avesse davvero potuto dire una cosa simile, se gli avesse concesso di dire quella sola, unica sillaba, cosa sarebbe successo? Cosa sarebbe cambiato? Sarebbe rimasto sempre lui, con quelle gonne splendide, in un'altra casa.
Il suo desiderio si sarebbe potuto avverare. Avrebbe avuto uno sposo. E una casa. E sarebbe stata riconosciuta come rispettabile moglie.
Avrebbe avuto la sua cerimonia nuziale.
Avrebbe avuto il suo anello.
Però...
Inspirò, piano.
- Ora sono felice. - quella era l'unica cosa di cui era davvero certo: - E, se anche vi sposassi, cosa cambierebbe? -
- Eh? -
- Dovremmo rientrare! - sorrise, vide Kyte sobbalzare. Forse l'aveva un po' preso in contropiede: - Gakupo-sensei arriva domani e dobbiamo fargli trovare pronta o-g-n-i c-o-s-a! -
Quella sarebbe stata l'ultima notte in cui gli si sarebbe potuto concedere completamente.
Tutto il resto erano parole da dimenticare.

"Sì.".



Gakupo sarebbe tornato quella mattina.
Gli era stato detto che sarebbe stato lì per le dieci e mezza.
- Il vestito nero. - disse alla signora Tod.
La vide sbattere le palpebre, visibilmente confusa: - Nero? Non è troppo cupo? -
Sorrise: - Oggi è un'occasione speciale. -.
Erano già trascorsi sei mesi.
Erano trascorsi ben sei mesi.
Da un lato, aveva desiderato passassero in fretta; dall'altro, aveva desiderato non passassero mai.
Ora che Gakupo stava tornando, lasciò che il primo lato prendesse il sopravvento.
Sentiva il cuore battere troppo forte. Sentiva terribilmente caldo.
- Avete uno sguardo molto distratto. -
Sì. Doveva essere molto distratto.
Si era persino dimenticato di indossare tutto quello che avrebbe dovuto indossare sotto le gonne.
In realtà, era capitato svariate volte, in quei sei mesi, che si dimenticasse casualmente di indossare tutto ciò che avrebbe dovuto indossare sotto le gonne.
All'inizio, Kyte era rimasto a metà tra l'incredulo e lo sconvolto. Poi aveva imparato ad apprezzare quelle sue casuali dimenticanze. Anche se, quando andavano in paese, lo costringeva ad indossare tutto.
"In effetti, dov'è Kyte?"
Guardò fuori dalla finestra, verso l'ingresso. Niente.
Controllò al piano terra e al primo piano. Niente. Niente neppure al secondo piano.
Quando giunse al terzo piano, finalmente, notò la sua figura bianca davanti ad una finestra di un corridoio deserto, lo sguardo probabilmente rivolto all'orizzonte, in attesa di quella carrozza che anche lui aspettava.
Un brivido lungo la schiena. Di lì a qualche manciata di minuti, forse avrebbe iniziato a sentire la pelle squagliarsi.
- Eccovi, finalmente! - gli si avvicinò. Ma lui non si voltò. Per qualche strana ragione, se l'era aspettato: - Vi ho cercato dappertutto! Perché vi siete rintanato qui? -
- Di sotto c'è una gran confusione. - la sua voce era bassa, quasi atona. E si ostinava a non girarsi: - E da qui si vede meglio l'arrivo di qualcuno. -
"Qualcuno." rise: - Allora rimango qui anch'io. Vi disturbo? -
- No, fate pure. -
Per la prima volta in quei minuti, Kyte si degnò di guardarlo.
E lo vide sgranare gli occhi.
"...?"
- Cosa c'è? - si fece più vicino, si accorse che l'altro era quasi impietrito: - Avete un'espressione sconvolta! Faccio così orrore? - piagnucolò.
Vide lo sguardo di Kyte scivolare sulle parti di pelle scoperta. Lo vide andare alle labbra, scendere lungo il collo - dovette trovare nel collarino una fastidiosa interruzione -, cadere nella scollatura. Dopo sei mesi, ancora guardava lì.
Trattenne una risata.
- Non vi ho mai visto indossare questo abito. - fu il sussurro che l'altro riuscì a fare. Anche lui doveva essere molto distratto.
- E' per le occasioni speciali! - fece una piroetta, premurandosi che la gonna si alzasse quanto più possibile: - E il ritorno di Gakupo-sensei è un'occasione speciale! -
- La più speciale da sei mesi a questa parte. -
"... perché quel tono funereo...?"
- Beh, non potete dire che siano successe cose così eclatanti, in questi sei mesi! - coprì il sorriso con una mano.
- Capisco... - vide il suo sguardo tornare verso l'orizzonte, il volto incredibilmente serio.
Aveva qualcosa di strano, negli occhi. Qualcosa di cupo. Ma non lo stesso che gli aveva visto nei giorni precedenti.
Era più...
- ... siete geloso...? -
Kyte si voltò di scatto verso di lui.
Quell'espressione da smascherato.
Il cuore ebbe un sussulto.
"... sul serio...?"
- Oh... - coprì la bocca anche con l'altra mano: - ... direi che è gelosia, sì. Anche piuttosto forte. -
Kyte. Geloso. Non dei bellimbusti ai balli, non degli invisibili pretendenti.
Era geloso di Gakupo.
Impedirsi di ridere era davvero difficile. Soprattutto nel vedere quel volto farsi sempre più scuro, di nuovo verso l'orizzonte.
Forse non sarebbe stata una reazione carina. Ma l'idea che Kyte fosse geloso di Gakupo era un qualcosa a metà tra l'assurdo e il meraviglioso. Si sentiva quasi lusingato.
- ... credo di sì. - confessò Kyte, alla fine, tornando a guardarlo: - Credo ne abbia il diritto, no? -
"... eh?" piegò la testa di lato.
- Mettete il vostro "abito tanto speciale" solo ora e dite che in questi sei mesi non è successo nulla di eclatante. Perdonatemi se mi sento irritato. -
"..." Non poteva più impedirsi di ridere.
Lasciò andare la risata, scoprì la bocca: - Siete così divertente, Kyte! Però non intendevo certo offendervi. -
"Siete adorabile. Però sapete essere anche tanto permaloso..." era anche questo che lo rendeva tanto divertente.
- Tuttavia, in che occasione avrei dovuto indossare questo vestito? - gli parve che l'altro se ne fosse reso conto solo in quel momento: - Non è certo un vestito adatto alle danze e neppure alle passeggiate o alle uscite. -
L'espressione di Kyte era quasi colpevole. Sembrava si stesse scusando.
- Per il resto, non mi risulta siano avvenuti fatti tanto degni di essere incisi per sempre nella memoria. - scostò le ciocche dei capelli dalle spalle. Come previsto, stava davvero iniziando ad avere troppo caldo. Stranamente, in concomitanza con le occhiate di Kyte in direzione della finestra: - A meno che voi non vogliate considerarvi un evento, piuttosto che una persona. E, permettetemi di dirlo, stare con voi e indossare abiti, di qualsiasi tipo, è alquanto frustrante. -.
Abiti. Anche in quel momento voleva togliersi quello che indossava. Avrebbe davvero voluto che Kyte glielo togliesse e che alleviasse quel caldo insopportabile.
Ma sapeva che non c'era più tempo. E sapeva anche che non sarebbe stato Kyte ad esaudire la sua richiesta.
Era stato con lui per tutta la notte, adesso doveva pensare a Gakupo.
Guardò alla finestra. Come sospettava, sulla linea dell'orizzonte era apparsa una carrozza.
"Gakupo-sensei è sempre così puntuale..."
Il tempo per essere solo di Kyte era scaduto. Gakupo era tornato.
Accarezzò una guancia di Kyte, riportò la sua attenzione su di sé - si era distratto di nuovo.
- Per quanto sia divertente vedervi geloso, non dovete esserlo. -
"Sono qui per entrambi.".
Lasciò scivolare la mano dietro il suo collo, portò lì anche l'altra, e lo baciò.
Avrebbe davvero voluto che fosse posto fine a quel caldo. Ma sapeva di dover aspettare.
Il tempo tutto per Kyte era scaduto, quella notte sapeva che sarebbe stato con Gakupo.
Voleva ricordarsi quel sapore, ora che non era mescolato ad un altro.
Ricordava anche l'altro sapore.
Pensarli insieme, sovrapposti, mescolati-
Si staccò, il caldo stava iniziando a scioglierlo - cominciava a non sentire più le gambe, gli sembrava che le guance si stessero squagliando, che il collarino si fosse attaccato alla pelle, di lì a poco le imbottiture sarebbero state prossime al soffocarlo.
Andò verso le scale, verso il portone, da Gakupo.
Sentiva le labbra bagnate.
Vi passò le dita, le assaporò con la lingua.
Voleva davvero che fosse sera.

Gakupo.
Era tornato.
I sei mesi erano davvero trascorsi.
Era esattamente come lo ricordava - aveva anche reindossato la divisa bianca, come quella di Kyte, quella che aveva sempre quando era lì con lui.
Gli stessi occhi chiari, gli stessi capelli serici, la stessa espressione pacata.
Non che in sei mesi si potesse cambiare più di tanto. Ma era felice che fosse identico a come lo ricordava.
- Siete tornato! Siete tornato! - gli stritolò la vita, affondò il viso nel petto - fin dove riusciva ad arrivare.
Forse era un minuscolo impercettibile milligrammo più magro. Sei mesi di nave avevano dato i loro risultati - più o meno.
- Len, che modi! -
"Padre, vi prego, non rovinate tutto..."
Purtroppo, entrambi i suoi genitori erano lì, a pochi passi, e non poteva salutare Gakupo come avrebbe voluto.
Per il momento.
- Bentornato. - e c'era anche Kyte, dietro di lui.
Sentì le mani di Gakupo sulle spalle, venne allontanato piano. Era davvero come lo ricordava.
- Grazie... - anche la sua voce.
Era strano e piacevole risentirla dopo sei mesi. Voleva sentirla ancora.
- Sicuramente avrete tantissime cose da raccontarci! - gli si avvicinò di nuovo, cercò il suo sguardo: - Com'è andato il viaggio in mare? E' stato così lungo? Com'è il Giappone? Com'era la cerimonia? Com'è andata? -
- Len! - sua madre, anche lei sempre pronta a rovinare dei bei momenti: - Il signor Kamui ha affrontato un viaggio lunghissimo, non tediarlo con le tue domande! -
- Nessun disturbo. - Gakupo era davvero rimasto come lo ricordava: - Ho già riposato a sufficienza. Le domande di oujo-sama sono legittime. -.
Len avrebbe voluto fare una - meritatissima - linguaccia a sua madre. Ma non sarebbe stato molto carino.
"Oujo-sama..." e poi, erano sei mesi che non sentiva quella parola.
Finalmente, dopo un tempo imprecisato, i suoi genitori li lasciarono da soli.
Lui, Gakupo e Kyte.
- Ci dovete raccontare tutto, Gakupo-sensei! - trillò, facendo loro strada verso la sala - anche se erano entrambi terribilmente lenti, avrebbe preferito davvero si sbrigassero, nei corridoi non c'era niente d'interessante.
- Anche voi avete molto da raccontarmi. - gli ricordò Gakupo, il tono gentile, come sempre.
Len annuì: - Sì! Tante cose! - forse avrebbe dovuto accelerare, magari loro avrebbero fatto lo stesso e sarebbero giunti prima: - In sala! Andiamo in sala! - fece strada, non mancava ancora molto.
Dopo un po', si fermò e si voltò.
L'aveva sospettato, ma non potè trattenersi dallo sbuffare: erano rimasti indietro.
Anzi, sembravano aver addirittura rallentato.
Stavano parlando tra di loro.
"... chissà cosa si dicono..." si avvicinò, piano - forse non si erano neanche accorti di lui.
- Volevi che ti saltassi addosso anch'io? Magari gettandoti le braccia al collo e baciandoti come una brava mogliettina saluta il suo adorato marito? - l'espressione di Kyte era di pura seraficità.
Len era ammutolito.
- Mi sono venuti i brividi. Sappilo. - Gakupo sembrava stizzito.
- Addirittura! Non sapevo di farti quest'effetto tanto lussurioso! -
- Erano brividi di disgusto. -
"..."
Facevano discorsi bizzarri, Kyte e Gakupo, quando erano soli.
Li guardò meglio: sì, in effetti, la divisa era identica. Gakupo portava gli occhiali, Kyte ne aveva fatto a meno. Per il resto, erano completamente diversi.
Eppure, a vederli insieme, il risultato non era brutto.
"... insieme..."
- Ah... - si portò una mano al petto, gli altri due si erano finalmente accorti di lui: - Siete così carini, insieme... - sospirò, entrambe le mani al cuore.
Kyte sgranò gli occhi, quasi avesse detto una cosa terribile, Gakupo alzò lo sguardo al soffitto: - Mi volete davvero male, oujo-sama... -
Era una visione gradevole, quella che li vedeva insieme sotto i suoi occhi.
"... insieme..." chissà se avrebbe mai potuto vederli come li aveva visti di notte, insieme.
Loro due, insieme a lui.
Loro due, da soli.
- A proposito di lezioni... - trasalì, la voce di Gakupo gli ricordò di averli effettivamente davanti: - Kyte è stato un bravo insegnante? -
Tendeva sempre a dimenticare il teoricamente ruolo primario di entrambi.
- Sì! - annuì, con un sorriso: - Non ha la vostra pronuncia perfetta, ovviamente, ma è stato davvero bravissimo! Ho imparato tantissime cose! -
- Ne sono lieto, oujo-sama. -
Len portò le mani dietro la schiena: - Quanto ci vorrà perché io parli il giapponese bene come voi e il signor Kyte? -
Con la coda dell'occhio, notò il diretto interessato con gli occhi luccicanti, lucidi. Forse era commosso. Poco ci mancava giungesse le mani.
- E' una lingua difficile... - disse Gakupo: - ... considerate che Kyte ci ha messo sei anni per raggiungere un livello decente! -
"... eh?"
Kyte intervenne, la faccia di colpo rossa: - Non credo che la signorina volesse conoscere questi particolari. -
- Sei anni...? - la voce gli era uscita come un pigolio.
- Eh, già... -
"... non ce la farò mai."
Era una triste consapevolezza.

Quando - finalmente - raggiunsero la sala, Gakupo raccontò loro cosa fosse successo durante quei sei mesi, tra la navigazione e il soggiorno in Giappone.
E il matrimonio di Megumi.
Era andato tutto bene. La cerimonia si era svolta senza alcun intoppo. Megumi e il suo ora marito si amavano ed erano felici.
- Sarebbe stato comico se Gumi-chan- -
- Megumi-san. -
- -ti avesse fatto fare almeno tre mesi di nave per uno scherzo! -
"Comico. Senz'altro."
Nel caso, se non avesse avuto un ottimo modo di impiegare il tempo per sei mesi, avrebbe assoldato un sicario appositamente per abbattere quella gran burlona di Megumi Kamui.
A giudicare dallo sguardo e dal tono di Gakupo, neanche lui avrebbe preso bene un'ipotesi del genere: - Nel caso Megumi avesse avuto questa brillante idea, l'avrei immediatamente regalata in sposa al primo di passaggio. -
- "Data" in sposa, vorrete dire. - fece notare, perplesso. "Forse è un modo di dire giapponese e Gakupo non si è ancora riambientato...?"
- Regalata. - ripetè lui: - Anzi, avrei pagato il primo uomo non sposato di passaggio affinché se la sposasse. -
Dopo un istante, Kyte rise, forse più per spezzare quell'atmosfera: - Su! Qualcuno che l'ha chiesta in sposa c'è stato, alla fine! -
- In realtà, è stata una cosa reciproca, fin dal momento in cui lui le è caduto davanti. -
- Eh...? -
- Pare che lui stesse controllando qualcosa su un tetto, sia scivolato e sia caduto su un cumulo di fieno proprio mentre stava passando Megumi. Dicono sia stato... uhm... colpo di fulmine? -
Len portò una mano alla bocca, rise.
Se Megumi Kamui avesse invitato anche lui, al suo matrimonio, sarebbe stato ben felice di andare.
Così avrebbe potuto vedere se fosse davvero in grado di portare sfortuna ad una sposa che odiava.

- Avanti. -
Entrò e si richiuse la porta alle spalle. Per quella volta, aveva deciso di bussare.
Era strano rientrare in quella camera. Strano e piacevole. Per fortuna, il giorno prima, la governante aveva avuto la buona idea di tenere aperte le finestre per tutte le ore di sole - in caso contrario, entrare in una stanza chiusa per sei mesi non sarebbe stata una cosa bella.
Gakupo non aveva ancora disfatto del tutto le valigie - anzi, era probabile si fosse limitato ad aprirle e a tirare fuori il minimo indispensabile.
Si era tolto la giacca e gli occhiali, in compenso.
A giudicare dalla sua espressione, non era del tutto stupito di vederlo lì. Ma un pochino lo era.
Len sorrise e fece scattare la chiave nella serratura, assicurandosi che l'altro la sentisse bene.
- Siete stanco? - chiese, le mani dietro la schiena.
- Sono stanco per quanto si possa essere stanchi a fine giornata. - lo sguardo di Gakupo andò ai guanti che si stava togliendo, la voce era tranquilla come al solito.
- Le giornate non stancano tutte allo stesso modo. - gli fece notare Len, avvicinandosi alla sedia su cui l'altro aveva posato la giacca.
- Riconosco che questa non sia stata una giornata piena. - i guanti andarono sul tavolo, le mani al jabot.
- Come no? - gonfiò le guance, con disappunto: - Mi avete rivista! - fece qualche passo, lasciò che la gonna sfiorasse il bordo del letto.
- Vedervi non mi affatica. -
- Ma senz'altro riempie la vostra giornata. - girò su se stesso, per poi lasciarsi cadere seduto sulla coperta.
- Senz'altro. - un sussurro divertito. Il jabot era andato a far compagnia ai guanti. E, ora che guardava bene, sotto al tavolo c'erano gli stivali.
- Kaito è stato davvero un bravo insegnante? - chiese Gakupo, all'improvviso, il tono noncurante.
Len annuì: - Certo! - giunse le dita davanti alla bocca: - Anche se non quanto voi, Gakupo-sensei. -
- Lui non è madrelingua. - gli parve avesse sorriso. O forse era colpa dell'effetto di luci e ombre della candela sul comodino.
- No, infatti. - portò le mani in grembo: - Voi, invece, siete tornato dalla vostra terra da poco. - uno sguardo rapido, prima di vederlo tornare alla camicia: - Vi sono mancata? -
- Secondo voi? -
- Non lo so. Non conosco i vostri pensieri. - sorrise: - Voi mi siete mancato. -
- La vostra sincerità è ammirevole. -
- Voi non ne avete altrettanta? - premette le mani sulla coperta: - Siete crudele. -
- Se ora vi dicessi che mi siete mancato... - aveva quasi finito i bottoni a disposizione: - ... pensereste che lo dica solo per contraddirvi? -
- Forse. - accavallò le gambe: - O forse no. Dovreste rispondere subito, Gakupo-sensei. Senza un'altra domanda, possibilmente. -
- Mi è mancata la vostra sfacciataggine. - un sospiro.
Con quella frase, gli era parso fin troppo sincero.
- Avete dimenticato di dire che vi sono mancata io. - il suo sorriso si accentuò: - Siete distratto! -
- Potrei non averlo dimenticato affatto. - lo vide avvicinarsi, fino ad averlo davanti, in piedi: - O forse potrei averlo detto e quello distratto sareste voi. -
- Io sono distratta. - trasse un profondo respiro, più teatrale che poteva: - Da stamattina, non sono più con la mente molto presente. Ero così felice del vostro ritorno... - riportò le mani sulla gonna: - Ho persino dimenticato delle cose. -
- Delle cose? - parve perplesso.
Len annuì: - Di indossare delle cose. - specificò, piano.
L'altro rimase in silenzio per un istante. Quando sgranò gli occhi, Len capì che aveva intuito.
- Ho detto alle mie domestiche che volevo dormire con questo vestito. - vi gettò una rapida occhiata.
- E vi hanno creduto? -
- Hanno creduto a bugie molto più ovvie. - le mani tornarono sul letto: - Quindi sono rimasta così. Da stamattina. - si alzò, passò accanto a Gakupo, sfiorandogli il braccio con il proprio, e raggiunse il comodino.
- Anche quando vi ho abbracciato. - sorrise: - Davanti a tutti. -
Portò indietro le ciocche di capelli, si chinò sulla candela e soffiò.
L'ultima cosa che vide alla luce fu quell'espressione incredula.
Quando calò il buio, si concentrò sul resto.
Si riavvicinò, con pochi passi: - Volete che vi abbracci di nuovo, Gakupo? -.

Una notte con uno.

Una notte con l'altro.


Kyte sarebbe rimasto un'altra settimana. Poi se ne sarebbe andato. Con il ritorno di Gakupo, lui non aveva più motivo di rimanere lì.
"Troverò una soluzione." era l'unica cosa che Len riusciva a pensare, quando l'altro glielo ricordava: "Quando sarà il momento, troverò una soluzione. Non temete, Kyte. Sto facendo io. Fidatevi di me.".
Non poteva dire all'uno dell'altro. E non poteva permettere che lo scoprissero. Non in quel momento.
Aveva chiesto ad entrambi di non lasciargli segni - c'era il rischio che l'altro sospettasse qualcosa, che li scoprisse.
Le prime notti, quando aveva ancora i segni lasciatigli da Kyte, era riuscito a spegnere la candela nella camera di Gakupo prima che lui li vedesse.
Aveva pensato a tutto. Anche alla scusa alla non poi così sottile accusa, accompagnata da un forte sospetto, che era sicuro sarebbe arrivata il mattino successivo a quella notte.
- E' strano, Ren... -
- Cosa? -
- Voi. -
- Io? - aveva guardato Gakupo, con tutta l'innocenza di cui era capace. Sapeva che stava per arrivare quell'osservazione.
- Il vostro corpo. - un sussurro quasi impercettibile: - Non sembra quello di qualcuno dopo sei mesi di castità. -
Per l'appunto. Era stato il momento di iniziare la recita.
Aveva distolto lo sguardo da quegli occhi chiari, voltandosi, lasciando che i capelli coprissero il viso quanto più possibile: - Siete un pervertito. - sibilò, sperando che la voce risultasse spezzata dall'imbarazzo.
- Sono realista. -
- Siete pervertito e disgustoso. - aveva incrociato le braccia davanti al petto, le mani sulle spalle: - Dovreste far finta di nulla. -
- Temo mi sia impossibile, in questo caso. -
- Non pensavo che la vostra perversione arrivasse al punto di spingermi a dire cose del genere! -
- Ren. -
Aveva stretto le labbra, solo un modo per guadagnare tempo e rendere tutto il più credibile possibile. Dopo un tempo imprecisato, aveva afferrato le coperte e se le era tirate fin sotto il mento, lo sguardo ancora al pavimento al lato del letto: - Pensavate davvero che sarei diventata asessuata solo perché voi non eravate fisicamente qui? - abbassò la voce, finse di stare affogando nell'imbarazzo: - Mi avete lasciata da sola. E ho dovuto fare da sola. E voi mi siete mancato tanto. -.
Silenzio.
- ... troppe informazioni, Ren. -
- LE AVETE CHIESTE VOI! -
Dovette risultare credibile, perché Gakupo parve convincersi.
Le notti successive le trascorse con uno o con l'altro.

- Vorrei stare con voi ogni notte. - aveva mormorato: - Ma ora rischieremmo di essere scoperti. -.


A volte si chiedeva cosa sarebbe successo se si fosse sbagliato. Se avesse scambiato l'uno per l'altro, se avesse detto il nome sbagliato.
Poi, pensandoci bene, si era reso conto che era impossibile. Non sarebbe mai stato in grado di confonderli. Erano diversi.
L'aveva notato in quei sei mesi ma, ora che trascorreva il tempo con ciascuno a distanza di qualche ora, la sua impressione era diventata certezza.
Se avesse lasciato divagare la mente, avrebbe pensato a Gakupo come una persona tranquilla, a Kyte come qualcuno di più irruento.
Invece, Kyte sembrava avere abbastanza esperienza da essere in grado di fare le cose con calma, di lasciare tempo ad ogni cosa, di riuscire a dosare il tempo senza alcuna fretta - se non in certi inevitabili casi; Gakupo sembrava una molla tenuta premuta per tutto il tempo, con conseguenze ovvie quando la si lasciava libera.
E, forse perché troppo abituato a fughe improvvise a causa di mariti più o meno a sorpresa, Kyte aveva il sonno piuttosto leggero; Gakupo, forse perché tendeva a dormire poco, riusciva ad averne uno estremamente pesante.
Cosa non meno importante, Kyte aveva i capelli corti e soffici, quelli di Gakupo non avevano fine e sembravano strati di seta. Se anche non li conoscesse, quel particolare sarebbe ampiamente bastato.
Ma lui li conosceva fin troppo bene. Aveva trascorso con loro dei momenti molto intensi.
Come quando si era risvegliato sul bordo del letto, con Kyte addormentato addosso. E aveva compreso che, se avesse fatto un solo movimento, sarebbe brutalmente scivolato sul pavimento - e avrebbe fatto male. Riuscire a far arrivare i piedi a terra era stato un momento molto intenso.
Oppure quando si era risvegliato con una strana sensazione di soffocamento e aveva trovato i capelli di Gakupo attorno al collo, senza avere idea di come ci fossero finiti e quale fosse la direzione giusta da cui tirarli - la direzione sbagliata avrebbe portato conseguenze poco carine. Riuscire a liberarsi di quel cappio di capelli era stato un momento molto intenso.
Al di là di momenti intensi, gli piaceva stare con loro. Non solo per questioni fisiche. Era davvero felice quando stava con loro. Quando erano soli, potevano trascorrere insieme anche le giornate; adesso poteva stare con entrambi contemporaneamente, ma trattandoli come avrebbe potuto trattare dei coinquilini a cui era molto affezionato. Si stupì di come i momenti solo per loro notturni, e basta, lo lasciassero con una sensazione di mancanza. Avrebbe davvero voluto stare con loro anche alla luce del sole, senza preoccuparsi di niente. Come quando erano soli.

Si avvicinò. Come sospettava, la cosa in mano a Gakupo era uno dei suoi quadernini pieni di numeri. Fino a qualche minuto prima, era sicuro che ci stesse chino solo in presenza di tavolo e sedia, ma il fatto che in quel momento l'altro stesse sul divano aveva fatto cadere la sua convinzione.
Gli si sedette vicino, sbirciò le pagine aperte. Numeri. Tanti numeri. E qualche kanji, delle annotazioni.
Gakupo lo lasciò guardare. Voltò pagina almeno dopo un minuto, quando prima le girava circa ogni venti secondi.
- C'è una domanda che vorrei farvi da un po'. - esordì Len, incuriosito.
- Ditemi. -
- Voi avete un lavoro, vero? -
- Sì. -
- E allora... - lo guardò negli occhi: - ... perché avete accettato di fare il precettore? -
Gakupo non rispose. Ma non sembrava arrabbiato o a disagio, la sua espressione era tranquilla come sempre.
- Voglio dire, voi non avete bisogno di denaro! - aggiunse Len, voltandosi del tutto nella sua direzione.
- No, direi di no. - un accenno di sorriso. Non era un sorriso felice, ma non era neppure triste. Sembrava più... rassegnato?
- Il motivo per cui ho accettato di farvi da precettore, in realtà, è legato al mio lavoro. -
- Eh? -
Stavolta il sorriso si fece quasi divertito: - Volevo distaccarmene. -
Len sbattè le palpebre, piano: - Distaccarvene...? -
- Ero troppo dipendente dal lavoro. - spiegò Gakupo, chiudendo il quadernino con un sospiro: - Speravo che, facendo altro, sarei riuscito a controllarmi. -
- E ci siete riuscito? -
Lo sguardo dietro le lenti degli occhiali scese al quadernino.
- ... capisco. -
- Temo non ci riuscirò mai. -
- A voi occorrono distrazioni molto distraenti. -
Lo guardò meglio.
C'era anche un'altra cosa...
Si inginocchiò sul divano, allungò una mano e gli sfilò gli occhiali.
Notò di sfuggita uno sguardo sorpreso, ma non fu fermato.
Len si mise gli occhiali sul naso. E gli parve che gli occhi diventassero incandescenti, sul punto di schizzare fuori dalle orbite.
- Ah! - li tolse, aprì e chiuse le palpebre velocemente, il dolore ancora vivo.
Sentì gli occhiali scivolargli dalle dita, poi la voce pacata di Gakupo: - Non dovreste mettere gli occhiali degli altri. Potrebbero farvi male. -
"Potevate dirmelo prima!"
- Siete mezzo cieco! -
Un sospiro: - Un altro motivo per cui dovrei staccarmi almeno un po' dal lavoro. Non fa bene passare le notti a leggere a lume di candela. -
- Distrazioni distraenti, vi servono parecchio! E' perché siete solo che siete mezzo cieco! -
- Oh,
oujo-sama, allora vorreste farmi credere che voi abbiate dieci decimi di vista? -
- Spudorato! -.

C'erano alcune cose che, a vederle, davano un forte senso di straniamento.
Kyte seduto in giardino con un libro aperto in mano era una di quelle.
Non era orario di lezione e il libro che stava leggendo non era di giapponese. E Kyte non gli aveva mai dato l'impressione di essere un appassionato di lettura.
- Cosa leggete? - trotterellò al suo fianco, si lasciò cadere accanto a lui.
- Un libro. - fu la sorprendente risposta dell'altro.
- Lo vedo che è un libro. - cercò di sbirciare le pagine, ma fu più difficile del previsto: era grande almeno il triplo di un libro normale e le pagine erano nettamente più piccole della copertina.
- Io credevo fosse un quaderno pentagrammato. - confessò Kyte, con tutta la calma del mondo: - E mi chiedevo se non fosse nella sezione sbagliata della biblioteca. Quando poi ho visto che si chiamava "
Canzone Eterna", mi sono incuriosito. -
- E? - non sapeva neppure che in quella casa ci fosse un libro del genere.
- E mi sono accorto che è effettivamente un libro e non un quaderno pentagrammato. - un sorriso, Kyte abbassò il libro per permettergli di controllare.
- Oh. - Len gli si accoccolò contro una spalla: - Ammirevole sappiate distinguere le parole dalle note. -
- A cosa devo questi complimenti scaturiti dal profondo del vostro cuore? -
- Continuo a non capire perché voi abbiate un libro in mano. -
Kyte gli rivolse uno sguardo interrogativo: - Io leggo. -
- Non date l'idea di essere un lettore vorace. -
- Non lo sono, infatti. - alzò le spalle: - Ma ogni tanto capita. E, se volete saperlo, mi ci sono imbattuto perché ho rimesso a posto i libri che
voi avete lasciato in giro. -
Gli parve una frecciata. La ignorò con un sorriso innocente: - Che brava donnina di casa, Kyte! - gli passò una mano tra i capelli, scompigliandoglieli.
- Len! -
- Posso leggere insieme a voi? -
Senza lasciargli il tempo di rispondere, gli tirò un braccio per fargli spazio, per poi sedersi sulle sue gambe.
Il petto dell'altro contro la schiena, lo sentì sospirare.
- Perché fate domande, se non aspettate le risposte? - gli parve avesse scosso la testa.
- Vi dispiace? - si voltò ad incontrare il suo sguardo: non c'era la benché minima, remota traccia di dispiacere.
Kyte ridacchiò: - Perché fate domande, se non aspettate le risposte? -
Si sentì scivolare in basso, fino a finire sul sedile, le gambe dell'altro piegate, contro i suoi fianchi.
- Volete leggere in silenzio o ad alta voce? - un sussurro, vicino all'orecchio.
"..."
- Prima ditemi di cosa parla questo libro. -
- Come potete pensare che un libro del genere sia sospetto? -
- Non è il libro ad essere sospetto. -.



Ma non poteva riavere tutto, per il momento.
Quelle giornate avevano al tempo stesso dimezzato e raddoppiato ciò che aveva. Tuttavia sapeva che, al momento giusto, avrebbe riottenuto tutto.
Era ciò che desideravano anche loro.

- Se vi chiedessi qual è la parte del mio corpo che preferite, voi cosa rispondereste? -
Gakupo si voltò verso di lui, piano. Non sembrava turbato o arrabbiato. In realtà, non aveva fatto una piega.
- Me lo state chiedendo? -
- E' un modo implicito di porre una domanda. - gonfiò le guance: - Quindi sì, ve lo sto chiedendo. -
Gli parve di intravedere un abbozzo di sorriso.
Forse l'aveva solo preso in giro.
Poi lo vide alzare una mano e le dita andarono a posarsi sulla sua bocca.
- Le labbra. - un sussurro.
- Ah, sì? - baciò la stoffa che ricopriva i polpastrelli: - E perché? -
- Le cose che dite le dite con queste. - ne percorse il contorno con la punta delle dita: - Che siano gentili o sfacciate. E' da qui che esce la vostra voce. -
Quell'ultima frase lasciò Len perplesso: - Quel che vi piace è la mia voce? -
- Se volete metterla così. -
- Allora dovreste dire che la parte del mio corpo che preferite è la gola. - vi portò una mano: - E' qui che si trova la voce. -
- Ma voi non mi baciate con la gola. -
Dopo un attimo di sorpresa, le labbra si curvarono in un sorriso, fino a schiudersi in una risata leggera.

- Se vi chiedessi qual è la parte del mio corpo che preferite, voi cosa rispondereste? -
Kyte aggrottò la fronte: - La parte del vostro corpo che preferisco, dite...? -
Len annuì.
L'altro parve pensarci un istante - un lungo istante. Poi fece un sorriso strano: -
Qualsiasi parte? -
Con tutta la noncuranza del mondo, Len passò le mani sulle gambe, allisciando le pieghe della gonna: - Non vi ho posto limiti. - rispose, pacato.
Vide lo sguardo di Kyte percorrere tutto il suo corpo, dalle punte del fiocco sulla nuca ai tacchi delle scarpette, come se fosse in cerca di una risposta. Alla fine, quando tornò a guardarlo, il suo viso parve illuminarsi, del tutto innocente: - I vostri occhi! -
"..."
- ... occhi? - ripetè Len, piano. Sentì le labbra tirare, lasciò che formassero quello che era sicuro fosse un ghigno: - A quante dame avete detto che amate i loro
occhi? - portò una mano al petto, sulle coppe del corsetto.
- Dico sul serio! - la voce dell'altro si era fatta lamentosa, l'espressione era un misto di incredulità e disagio: - Parlo degli occhi sulla faccia! - indicò i propri, come a voler sottolineare la questione.
Len ridacchiò, si coprì la bocca con una mano: - E avete anche una motivazione concreta per trovare nei miei occhi la parte del mio corpo che preferite o vi siete solo adagiato nello stereotipo senza pensarci? -
- Siete più crudele del solito. - Kyte posò il viso sulle mani, i gomiti contro le ginocchia, l'espressione di puro disappunto.
- Non mi avete risposto. -
Dopo qualche secondo, il volto dell'altro tornò sorridente: - Mi piace il colore! -
- ... anche voi avete gli occhi azzurri. -
- Ma non sono come i vostri! - tornò ad indicare i propri: - I vostri sono più grandi e il colore è più chiaro. E stanno bene con i capelli biondi! -
- ... capisco. - non sapeva come prendere quella risposta e quella spiegazione.
- E poi... - lo vide distendere le gambe, portare le mani a terra: - ... se vedo i vostri occhi, significa che voi state guardando me. -
Len sbattè le palpebre, seriamente confuso. Quando comprese, capì anche come prendere quella risposta, e sorrise.



Non aveva tutto, ma era felice.
Per il momento, andava bene così.
Nella notte silenziosa.
Andava bene così.
Per loro che gli avevano donato i loro cuori.
Per il momento.
Così dediti per sempre.

Un bacio sulla fronte.

Un bacio sulla guancia.


Un sospiro.

Gli occhi aperti a stento.


Le dita tra i capelli.

Le unghie conficcate nella schiena.


Avrebbe voluto...


- Non ci riuscite? -
- No... -
- Se ci sono dei vestiti, sì. -
- Se ci sono dei vestiti... è meno difficile. -

Avrebbe voluto...


- Pensate che sia come mangiare una banana! -
- Non credevo aspiraste ad essere evirato a morsi. -
- EH? -


Una cosa che desiderava con tutto se stesso.
Una cosa di cui aveva paura fino a tremare.
Aveva provato a sfiorare i loro corpi, mentre dormivano, così che non sapessero.
Avrebbe voluto fare ciò che facevano loro.
Essere come loro.
Quando lo pensava, sentiva l'intero corpo - troppo esile, troppo morbido - tremare, il cuore battere troppo forte, fino a fare male.
"... dovrei essere come loro.".



Il laghetto era deserto. Non che avesse sperato di trovarvi qualcuno: quella riva non era popolata neppure quando faceva talmente caldo da far evaporare l'acqua nei bicchieri, soltanto un idiota sarebbe andato in acqua con l'avvicinarsi del freddo.
Len non si era mai davvero accorto del laghetto: stava lì, la riva coperta dagli alberi, ogni tanto c'erano barche all'orizzonte, ogni tanto qualcuno andava lì, ma non era nulla di straordinario. Era solo una pozzanghera piuttosto grande.
In quei mesi, l'aveva rivalutato.
Ne aveva rivalutato la riva, gli alberi che lo circondavano, l'acqua, i sassi, l'aria che vi si respirava, il rumore continuo delle piccole onde generate da non si sa che cosa; aveva iniziato a dispiacergli pensare che non ci sarebbe potuto andare per un po'.
Salì sulla passerella di legno, ne raggiunse il bordo.
Non c'erano raggi che gli bruciavano i capelli e gli scottavano la pelle - e che riuscivano magicamente a trovare il seppur minuscolo scorcio nel suo ombrellino apposta per colpirlo. Non era nuvoloso, non più del solito; solo, stavano arrivando le stagioni fredde. E il leggero vento che si era alzato, scuotendogli l'orlo della gonna, ci teneva a ricordarglielo.
Si accucciò, guardò il proprio riflesso nell'acqua. Aveva voglia di riposare.
Dal ritorno di Gakupo, era la prima volta che era riuscito ad appartarsi di giorno. Con Kyte, ovviamente.
Non aveva idea di dove fossero entrambi; era probabile che almeno Kyte si fosse abbandonato al suo letto, ma lui non aveva esattamente voglia di dormire.
Voleva riposarsi, magari senza annoiarsi. Aveva cercato Gakupo, ma non l'aveva trovato né in camera né in biblioteca né dove era passato durante la ricerca; alla fine, con pochissima voglia di continuare a vagare a caso, aveva deciso di andare al laghetto.
Fece un paio di passetti in avanti.
"... potrei sdraiarmi qui?" posò una mano sulla passarella, ne tastò il legno: "... troppo duro." si voltò, guardò a riva. Gli era capitato di assopirsi sulla riva.
Ma non da solo.
Sospirò, arrendendosi alla dura realtà dei fatti: "... mi sto annoiando.".
Tanto valeva tornare in casa, magari in biblioteca. O magari no. Non aveva idea neanche lui.
Si alzò.
E qualcosa lo tirò all'altezza della vita.
- CHE- -
Nel giro di un secondo, riuscì a realizzare due cose.
La prima era che una scarpa era finita sull'orlo del vestito, ottenendo di strattonarlo giù non appena aveva provato ad alzarsi.
La seconda era che le mani che aveva portato avanti per attutire la caduta non avevano toccato il legno.
Non avevano toccato niente, in verità.
E qualcosa si era improvvisamente richiuso sopra di lui. E l'aria si era fatta troppo pesante, gli premeva su ogni millimetro di pelle, opponeva resistenza quando cercava di muoversi. Gli occhi avevano iniziato a bruciare di colpo. E aveva sentito qualcosa di gelido nel naso, nella gola, come una mano ghiacciata premuta contro la faccia.
E poi l'aria era tornata, più fredda di quanto ricordava, più bella di quanto avesse mai pensato.
Si sentì trascinare di nuovo di verso il basso, ma con meno violenza di prima, riusciva ad opporre un minimo di resistenza.
Tossì, tossì di nuovo, sentì la mano ghiacciata frantumarsi, lasciandolo respirare di nuovo.
Si passò le mani sugli occhi, schiaffò le braccia contro la superficie dell'acqua.
La passerella era a meno di un metro da lui - a meno di trenta centimetri sopra di lui.
Allungò le dita, riuscì a toccarla.
E fu di nuovo lontano.
L'acqua si richiuse sopra di lui. Scalciò, alzò la testa, riuscì a far riemergere almeno la faccia.
Serrò i denti, fissò quella linea di legno sopra i suoi occhi.
La afferrò, con solo una falange per dito.
Soffocò un gemito di dolore. Capì che di lì a poco avrebbe fatto più male.
Strinse i denti ancora di più, strizzò le palpebre e si costrinse a fare leva sulle dita di una mano, lasciò andare la presa con l'altra, la gettò in avanti, artigliò il legno, fitte da entrambe le mani, forse le dita si erano spezzate, rigirate, non ne aveva idea, ci avrebbe pensato dopo.
Gettò in avanti anche l'altra mano, gli parve che i polsi si spaccasserro, ci avrebbe pensato dopo. Premette i palmi contro la passerella, piegò le gambe e scalciò verso l'alto, i gomiti atterrarono sul legno, delle fitte alle spalle.
Aprì la bocca, inspirò una boccata d'aria. Riaprì appena gli occhi, non era ancora finita - però le dita non sembravano essersi rigirate. Fece leva sui gomiti, lasciò cadere il busto tra le braccia, il bordo della passerella lo colpì come un pugno alla pancia.
Allungò le mani, strisciò fino a riuscire a portare le ginocchia su.
E si lasciò cadere.
Ora poteva fare il conto dei danni.
Quando avrebbe smesso di tremare. Quando il cuore avrebbe smesso di battere con così tanta violenza, rimbombandogli nelle orecchie - persino nel collo.
Quando avrebbe smesso di ansimare per prendere tutta l'aria del lago. Quando avrebbe smesso di essere scosso da colpi di tosse a caso.
Riuscì a passarsi una manica sulla bocca - non aveva idea se stesse sputando acqua o sbavando, era sgradevole -, prima che il braccio ricadesse di lato. E fece pure male.
"... non dirò mai più che mi sto annoiando." non aveva voglia di altre botte di vita come quella.
- REN! -
Il suo timpano sinistro gli tolse ogni dubbio sulla possibilità che quell'urlo se lo fosse immaginato.
- Cosa c'è...? - riuscì a dire, la gola assurdamente riarsa. Non aveva voglia di girare la testa. Se qualcuno voleva parlargli, che lo raggiungesse.
Un istante dopo, Gakupo apparve nella sua visuale, sentì un braccio dietro la schiena, si ritrovò quasi seduto.
- Ren! Cos'è successo? -
Aveva gli occhi sgranati come non li aveva mai visti. Gli sembrava anche molto più pallido. E avrebbe detto che la voce gli tremasse.
Era strano vederlo così. Ma non lo trovò fuori luogo.
- Secondo voi? - si passò di nuovo la manica sulla bocca.
Ora che ci faceva caso, gli sembrava di essere più pesante. Molto più pesante. Il braccio, ad esempio, doveva pesare almeno cinque chili di più.
- Siete scivolato...? -
- Di certo non mi sono gettata. - non volontariamente, almeno.
Gli parve che il braccio che lo sosteneva fosse diventato meno rigido. Anche la voce di Gakupo aveva smesso di tremare - se mai aveva tremato: - Se riuscite a rispondere così, allora state bene. -
- Mi sono salvata da sola. Grazie. - un colpo di tosse smorzò l'effetto sarcastico che avrebbe voluto dare. "Dannata tosse.".
- Dovete cambiarvi. -
Un attimo dopo si ritrovò in alto, un braccio di Gakupo dietro la schiena, uno tra polpacci e cosce. E un fazzoletto in mano. Non aveva idea di come o da dove fosse spuntato.
- Ce la fate ad asciugarvi la faccia? -
Len lo fulminò con un'occhiataccia: - Sono quasi annegata, non sono incapace. - si passò il fazzoletto sul viso. Gli bastò sentirsi un po' asciutto per stare meglio. Gli sembrò quasi di recuperare la lucidità.
"E' un fazzoletto magico?" lo guardò. Lo guardò di nuovo.
Lo guardò ancora.
- ... Gakupo... -
- Sì? -
- Questo fazzoletto mi sembra familiare. -
- Proviene dalla vostra sala da pranzo, Ren. -
- ... perché avete un- -
- Esperimenti. -
Alzò lo sguardo, fino agli occhi dell'altro - fissi sulla magione a qualche metro da loro.
- ... esperimenti? -
- Prima di provare con le tende, ho ritenuto opportuno usare un altro tipo di stoffa di dimensioni più ridotte. -
- ... cosa? -
- Non ditelo a nessuno, però. -
Aprì la bocca per replicare, ma non ne uscì niente. Non sapeva come ribattere.
Le parole arrivarono un tempo imprecisato più tardi - non per questo, nel mentre, aveva chiuso la bocca: - E perché non dovrei dire che fate cose strane con i nostri tovaglioli? -
- Perché ora vi porterò al caldo e voi starete meglio. Altrimenti, stareste ancora sulla riva a congelarvi. -
"... non ha senso. Ma ha senso." decise di tacere.
Poi gli venne in mente un particolare.
Afferrò la giacca di Gakupo, tirò appena.
- Davanti ad un camino acceso? - domandò, la voce bassa.
- Direi di sì. -
- Il camino della vostra camera è acceso? -
Per la prima volta da quando l'aveva preso in braccio, Gakupo lo guardò: - Perché questa domanda? -
- L'avete detto voi. - allungò le mani e strizzò un lembo del vestito. Ammirevole il quantitativo di acqua che ne uscì: - Ora mi portate al caldo. E starò meglio. -
- Non era ciò che intendevo. -
- Vi dispiacerebbe? -
Sentì l'altro sospirare. Nessuna risposta.
Sorrise e si rannicchiò contro di lui.

Tastò i vestiti. Si erano asciugati - il calore del camino doveva aver aiutato molto. Si passò le dita tra i capelli. Asciutti anche quelli.
Prese il corsetto, lo guardò per qualche istante.
"... come si mette questo affare?" si voltò verso il letto. Gakupo dormiva. Non era momentaneamente in grado di aiutarlo.
Dopo un paio di tentativi a vuoto, Len riuscì a fare in modo che non cadesse all'improvviso - e sperò che il vestito fosse abbastanza stretto da tenerlo su.
Per assurdo, rimettere la tournure fu più facile.
Se avesse continuato così, nel giro di un anno avrebbe potuto fare a meno della signora Tod e delle altre.
- Ah! - ricordò, di colpo: - Siamo in ritardo per il the! -.
Non aveva esattamente idea di quanto. Sperò non si trattasse di ore - ma era impossibile: nel caso, avrebbe sentito l'intera casa sottosopra, con ogni singolo abitante che lo cercava gridando il suo nome.
Una volta rivestito, si avvicinò a Gakupo.
"... forse posso lasciarlo dormire un altro po'." si chinò su di lui e lo baciò sulla fronte, come faceva ogni mattina, per poi uscire dalla camera.
Richiuse la porta e-
Un rumore di passi.
Proprio nella direzione in cui sarebbe dovuto andare.
Avrebbe potuto fingere di essere andato lì per cercare Gakupo, in ritardo per il the. Ma qualcosa gli diceva che era meglio non farsi trovare lì, in quel momento. Tra l'altro, non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso e se qualcuno lo stesse effettivamente cercando.
Fuggì dietro l'angolo opposto, rimase fermo. Voleva sapere chi stesse arrivando, se avessero mandato qualcuno a chiamare Gakupo. Nel caso, avrebbe fatto il giro.
I passi si fermarono.
Un bussare.
"Sì, hanno mandato qualcuno a chiamare Gakupo." realizzò una cosa: "... allora hanno mandato a chiamare anche me?".
Quello sarebbe stato un problema. Soprattutto se si fossero accorti che erano spariti entrambi.
"No, un attimo." inspirò, impedendo all'agitazione di scuoterlo: "Gakupo sarebbe il mio precettore. Non è obbligatorio pensare male, se non trovano nessuno di noi due.".
Si accorse di una cosa.
Gakupo non aveva risposto. Aveva sentito bussare di nuovo. Non aveva risposto per la seconda volta. Non c'era stato nessun altro bussare.
Ma lui non aveva sentito quei passi allontanarsi.
"C'è qualcuno davanti alla stanza...?" si mise quanto più nascosto possibile, sbirciò verso il corridoio.
C'era effettivamente qualcuno, davanti alla stanza. Che però guardava in direzione di una finestra.
Kyte.
Sussultò.
"Ovvio che sarebbe venuto lui." tornò nascosto: "... se è venuto a cercarci lui, dobbiamo essere davvero in ritardo.".
Trasse un profondo respiro: "... ma, in fondo, è meglio che sia lui.".
Uscì da dietro l'angolo, a testa alta. Era ora di iniziare una piccola recita.
- Kyte! -
Probabilmente l'aveva colto di sorpresa. Quando gli fu vicino, notò che aveva di nuovo quell'espressione da colpevole colto sul fatto.
- Sapete che ore sono? - lo rimproverò, con tutta la faccia tosta di cui era in possesso: - Siete terribilmente in ritardo! Mi avete fatta preoccupare! -
- Perdonatemi, non era mia intenzione. -
"... che sia in ritardo anche lui?" il modo in cui si era scusato non lasciava spazio a troppi dubbi.
- Stavo- -
- Anche voi cercavate Gakupo-sensei? - lo interruppe Len. Non voleva lasciarlo parlare troppo - non voleva che facesse domande. Però avrebbe potuto scoprire qualcosa sulle tempistiche. Probabilmente doveva fare solo un po' di pressione: - Anche lui è davvero in ritardo! Come lo sapevate, se non siete sceso? - forse si era spinto un po' troppo in là.
- Ehm... - Kyte, però, parve in difficoltà. Forse ci aveva azzeccato.
Lo vide dare un colpo di tosse, un vano tentativo di ricomporsi: - In realtà, sono sceso. - disse, la scritta "bugiardo" parve materializzarsi sulla sua faccia, ricoprendola del tutto: - Non avendolo visto lì, sono venuto qui a chiamarlo. -
"..."
Kyte dovette capire. Entrambi decisero di non approfondire la questione.
- Avete già bussato? -
L'altro annuì: - Ma non risponde. Credo sia già sceso. -
Len lo guardò, indeciso sul da farsi: "... potrei bussare anch'io, allora.".
Si voltò e-
- Aspettate! - una mano sulla spalla lo bloccò sul posto, facendolo trasalire.
- C-cosa c'è...? -
- C'è dell'acqua, per terra. -
Gli sembrò che il cuore saltasse fino alla gola: "Acqua...?" abbassò lo sguardo. E le vide, sul pavimento, delle gocce d'acqua. Dovevano essere cadute dalla sua gonna, la parte più zuppa di tutto il vestito - molto più zuppa, visto che, prima di entrare in casa, aveva strizzato stoffe e capelli quanto più possibile apposta per non gocciolare in giro.
Non gli piaceva che ci fossero quelle gocce lì. Non significavano niente per chi non sapeva niente, ma potevano comunque essere sospette.
- Non ho idea a cosa siano dovute, ma- -
Doveva distogliere l'attenzione di Kyte da quella roba. Kyte era esattamente il tipo di persona capace di rimuginare su una cosa del genere - e forse anche giungere alla conclusione giusta.
- Ah, quindi deve averla portata qui! -
- Prego? -
Si voltò verso di lui, con il sorriso più innocente che sapesse fare: - Prima ho visto Gakupo-sensei tornare dal laghetto con una tenda bagnata. - gli aveva detto di non parlare dei fazzoletti, del resto: - Quando l'ho incrociato, mi ha detto che stava facendo degli esperimenti, ma che non avrei dovuto dirlo a nes- - si zittì, portò una mano alla bocca, sgranò gli occhi con aria colpevole: - Ops! Ve l'ho appena detto! -
Kyte spalancò gli occhi.
"... mi ha creduta, sì...?" di colpo, non ne fu molto certo. E la cosa non sarebbe stata carina.
Poi Kyte sospirò e gli diede una pacca sulla schiena: - State tranquillo. - fece: - Manterrò il segreto. -.
"Ah!" gli aveva creduto. Ottima notizia. E conferma della sua capacità di improvvisazione.
- Vi ringrazio! - lo baciò: - Non voglio essere sgridata da Gakupo-sensei! -.

Ora che ci faceva caso...
Quella giornata l'aveva trascorsa con entrambi.



- Voi, in questi giorni, avete notato qualcosa di strano? -

- ... voi non avete notato nulla di strano? -


- Comincio a pensare che Kaito possa sospettare qualcosa. -

- Temo che qualcuno sospetti qualcosa. Di noi, intendo. -
- Gakupo-sensei? -
- C-cosa? -


- Quando sono tornato, mi è parso avesse uno sguardo strano. In questi giorni, mi sembra ancora più strano. -

- Ultimamente è strano. Ha qualcosa di strano nello sguardo, anche se non so cosa sia. -


Una carezza sul viso.
"Che carine, le mie bambole paranoiche.".



Non aveva alcun motivo per preoccuparsi.
Presto i loro desideri sarebbero stati esauditi.
Il fatto che temessero che l'altro potesse scoprirli, quella luce di timore ed esitazione nei loro occhi, erano la prova di quanto volessero rimanere insieme a lui.
Gakupo aveva cercato di scappare. Ma era tornato da lui. E voleva rimanere con lui.

Kyte non voleva andarsene. Sapeva che era turbato anche solo dall'idea. E sarebbe rimasto lì con lui.


Desiderava averli lì. E loro desideravano rimanere lì.
Gliel'avevano detto. Che erano suoi, che gli appartenevano.
Era stato davvero felice di sentire quelle parole.
Ma sapeva di doverle prendere simbolicamente.
Avevano detto quelle parole perché non sapevano come altro dirlo.
Ciò che provavano per lui - e ciò che provava Len per loro - non era un'emozione effimera, non era una scusa. Non era una fiamma divampata all'improvviso e destinata a spegnersi, non era puro desiderio fisico da appagare.
Era qualcosa che prendeva ogni singola parte di lui - il cuore, la mente, il corpo, l'anima - e la rendeva necessaria per gli altri. Lo stesso valeva per lui, nei loro confronti.
Non voleva averli vicino per sempre solo per scusa.
Tuttavia, non conosceva le parole giuste per dirlo. Forse non esistevano.
Non poteva far altro che ridere e usare le parole che fingevano di avvicinarvisi.
- Aishiteru. -

- Vi amo. -


- Amo entrambi. -



Quella sera, con molta probabilità, ci sarebbe stata pioggia.
Per quel motivo, sua madre aveva proposto a Kyte di rimanere un altro paio di giorni. Qualcosa degno di essere festeggiato con l'abito delle grandi occasioni.
Tuttavia, ancor prima di scendere per la colazione, ancor prima di vedere il cielo oscurato, aveva sentito che quella sarebbe stata una splendida giornata.
Kyte doveva preparare le valigie e non aveva idea di dove fosse Gakupo. L'unica cosa che sapeva era che una giarrettiera che portava la sera prima era ora sprovvista di nastrino e che la sera prima era stato da Gakupo. Probabilmente, le due cose erano correlate.
Aveva trascorso almeno un'ora in biblioteca e aveva finito un libro - ora tutte le lettere doppie erano segnate da un cerchio.
Decise di andare alla ricerca del nastrino perduto, nel luogo in cui supponeva averlo perduto. Quando arrivò alla camera di Gakupo, però, non vi trovò nessuno.
"... sarebbe problematico se qualcuno entrasse e mi trovasse qui da sola." forse avrebbe cercato lì in seguito.
Richiuse la porta e si diresse verso la camera di Kyte. Era piuttosto sicuro che, almeno lì, ci fosse qualcuno - dubitava avessero già finito di preparare le valigie.
"... strano." si fermò davanti alla stanza.
La porta era chiusa.
"... dovrebbe esserci un via vai di gente..." si avvicinò, piano. Mise la mano sulla maniglia.
"Forse hanno finito e sta dormendo...?"
Aveva una strana sensazione. Non riusciva a capire se fosse positiva o negativa.
Sembrava quasi un senso di aspettativa.
Deglutì - non sapeva perché, ma sentiva un nodo alla gola - e abbassò la maniglia. Aprì la porta.
Kyte. Gakupo.
Pallidi. Terribilmente pallidi.
Kyte aveva qualcosa, in mano. Spiccava, blu su bianco.
Aveva ritrovato il nastrino.
I loro occhi puntati contro.
Un brivido gelido lungo la schiena.
Non sembravano neppure occhi umani.
Il cuore sussultò.
"... allora è questo, il momento.".
Soffocò un sorriso.
Coprì le labbra con una mano, si accorse di stare tremando.
"Basta solo una cosa, ora.".
Un passo, due passi verso di loro.
- Mi... - serrò le mani attorno alle spalle, si lasciò cadere in ginocchio.
Chinò la testa, digrignò i denti: - Mi ha costretta! -
Silenzio.
Un singhiozzo, un altro, un altro ancora, lasciò che gli scuotessero le spalle, che spezzassero quel silenzio - che arrivassero alle loro orecchie.
Un rumore secco.
Trasalì, il cuore tremò, alzò lo sguardo.
Gli sfuggì un gemito, per la sorpresa.
Non si era accorto delle pistole.
Gakupo e Kyte avevano delle pistole. E le stavano puntando contro l'altro.
Per lui.
"... è questo ciò che siete disposti a fare?"
Impose alle labbra di rimanere ferme. Soffocò la risata con un singhiozzo.
- E' scarica. - la voce di Gakupo fendette l'aria.
Un istante dopo, entrambi abbassarono le mani, le pistole ora rivolte verso il pavimento.
- Hai una spada. -
La lama della katana. Davanti ai suoi occhi, appena estratta dal fodero con uno stridìo.
Sottile, appena ricurva, scintillante.
- Prendila. -
Kyte si voltò verso il letto alle sue spalle. Vi buttò il nastrino e la pistola, afferrò la sua spada e la sguainò.
Quella somigliava molto di più alla sua idea di spada.
Dritta, meno sottile della katana, più resistente.
Le due spade.
Per lui.
- Dietro la casa. - quasi un ordine.
Kyte annuì.
Lasciò sfuggire un gemito, si coprì la bocca con le mani.
Si alzò di colpo e fuggì da quella camera.
Era il momento di lasciarli soli.
Scappò sul retro della casa, dietro gli alberi lì vicino.
Ansimava per la corsa, il cuore era fuori controllo.
Sentiva le labbra tirare, gli occhi troppo sgranati.
Tremava.
Riusciva a sentirlo.
Il rumore di specchi che s'infrangevano.

Era successo tutto all'improvviso.
Ciò che aveva atteso per tanto tempo era successo di colpo, lasciandolo scosso per la felicità.
Non era ancora riuscito a realizzare i loro desideri, ma sapeva di essere ad un passo dal farlo.
Kyte e Gakupo erano arrivati dietro la casa, a qualche metro da lui.
Li aveva attesi, sapeva che non avrebbe dovuto aspettare molto.
Si erano guardati per qualche istante.
Non c'era nessun rumore. Solo il suo cuore che batteva con violenza nelle orecchie.
Poi Gakupo aveva attaccato.
E il suono dell'aria tagliata era giunto fino a lui.
Posò le mani sul tronco, li osservò.
L'aria vibrava, si spezzava.
Gli sembrava che i colpi di Gakupo andassero tutti verso l'alto.
Le spade che cozzavano l'una contro l'altra, un'eco che risuonò anche tra gli alberi.
Gli sembrava che Kyte non stesse attaccando sul serio.
Per lui.
Era quello ciò che erano in grado di fare per lui.
Puntare la spada contro la persona a loro più cara.
Puntare la spada contro ciò che era il loro mondo, distruggerlo, per lui.
Non aveva bisogno di altre conferme.
La katana calò su Kyte.
Trasalì.
Un urlo lo colpì ai timpani.
Kyte cadde in ginocchio, la spada cadde tra l'erba.
La manica bianca della sua giacca si scurì.
Gakupo era a pochi passi da lui.
E aveva ancora la katana in mano.
La vide alzarsi.
"No, non ho bisogno d'altro."
E non poteva permettere che uno di loro due morisse. Neppure per mano dell'altro.
- FERMO! -
Sentì la gola spaccarsi. Forse aveva esagerato.
Uscì da dietro gli alberi, corse verso di loro.
Gakupo si era bloccato.
Ed entrambi i loro sguardi erano andati a lui.
- BASTA! -
Riuscì a non sentire la gola raschiata da unghie arroventate.
Ma cadde a terra.
"... sassi.".
Si rialzò, ma si sentì strattonato verso il basso. Ricadde. Una delle sue scarpette era finita sull'orlo della gonna.
- BASTA! - la voce vibrò di nuovo, la gola fece di nuovo male: - YAMETE! YAMETE! - si rialzò di nuovo, ma si ritrovò a terra un'altra volta. Aveva liberato la gonna, ma non le sottogonne.
Singhiozzò. Sapeva di dover fingere.
Ancora per poco.
Li guardò negli occhi, entrambi.
Allungò le mani verso di loro.
E loro, come se non avessero aspettato altro in tutta la loro vita, lo raggiunsero, s'inginocchiarono davanti a lui.
Presero le sue mani, le portarono al viso.
L'odore ferroso del sangue gli riempì i polmoni, riusciva quasi a sentirne il sapore sulla lingua, lo vedeva sulla mano sporcatasi.
Per lui.
Il suo nome, sussurrato con quelle voci spezzate.
Quegli occhi di chi era in bilico, prossimo all'essere distrutto completamente.
Era tutto perfetto.
- Voi... - sorrise: - ... siete così... - sospirò: - ... divertenti. -.
Le loro espressioni.
I loro occhi.
Tanti frammenti sparsi intorno a lui.
I loro corpi e le loro anime spaccati in una miriade di pezzi.
Ricordava quando aveva visto quell'espressione.
- Ma, del resto... - alzò il viso, mostrò loro il suo volto: - ... non potevo aspettarmi di meglio, dalle mie bambole preferite. -
Lo ricordava, tanti anni prima, nei frammenti del suo primo specchio.
Adesso, finalmente, erano davvero come lui.
- Cosa...? - la voce di Kyte. Sembrava che qualcuno gli avesse stretto il collo con violenza, cercando di soffocarlo.
Rise, piano.
"Normale siate così agitato. Stavate per morire."
Guardò Gakupo.
Non aveva detto niente. Sembrava una statua.
Len gli sorrise: - Il vincitore siete voi. - notò una riga rossa sulla sua guancia: - E avete riportato solo un graffio! Davvero notevole. - gli si avvicinò e lo baciò, lo elogiò per la sua vittoria.
Quel bacio era solo un preludio. E lo sapevano tutti e tre.
Si scostò da lui, assaggiò di nuovo il suo sapore sulle proprie labbra.
- Meritavate un premio, Gakupo. - gli sorrise. Lui non reagì. Aveva solo gli occhi spalancati in modo innaturale. Ed era bianco quanto la sua divisa.
- Ren... - riuscì a parlare. La sua voce era completamente distrutta, un rimasuglio sforzato da qualche parte della gola.
Quegli occhi erano davvero come lo erano stati i suoi. Erano davvero bellissimi.
Rivolse lo sguardo a Kyte.
Anche lui era sbiancato. C'era una luce strana, nei suoi occhi, come una fiammella tremolante sotto troppo vento.
- Avete perso, ma vi siete battuto con onore. - gli si avvicinò: - Stavolta la Fortuna non era dalla vostra parte. - gli sorrise: - Sarà per un'altra volta. - lo baciò, lo rincuorò per la sua sconfitta.
Quando si scostò, riprese dalle proprie labbra il suo sapore.
Come aveva pensato. Era bello, sentirli mischiati. Ma era ancora troppo poco.
Presto si sarebbero davvero appartenuti.
Si rialzò, stavolta ci riuscì, si risistemò la gonna.
- Direi che è meglio rientare. - scostò una ciocca dal viso, si rese conto di avere una guancia umida - di sangue, non suo: - Quella ferita va decisamente curata. Eh, Kyte? - gli scoccò un'occhiata.
Gli sembrava quasi stesse tremando.
- Cosa sta succedendo? -
"Ancora non potete capire."
Erano spaventati. Poteva comprenderli. Doveva solo rassicurarli.
Sorrise: - Seguitemi. -
Non aveva bisogno di dire altro.
Difatti li vide alzarsi, piano, gli sguardi incapaci di staccarsi da lui.
Si voltò, fece loro strada.
Sentiva i loro passi nell'erba.
Lenti.
Meccanici.
Quando arrivò all'ingresso, si fermò un istante a guardarli: Kyte aveva una mano ormai rossa stretta sulla ferita, negli occhi ancora quel lumino tremante; Gakupo guardava verso di lui, ma non era sicuro lo stesse vedendo.
Portò una mano a coprire la guancia sporca. Non era una cosa che avrebbe dovuto spiegare a qualcuno.
Sorrise ad entrambi e avanzò verso la prima saletta disponibile. Fece loro cenno di entrare. Loro, senza dire niente, obbedirono.
Gli bastò fare due passi per imbattersi in una cameriera: - Potreste chiamare il maggiordomo? - portò l'altra mano alle labbra: - Il signor Kyte e Gakupo- sensei si sono feriti mentre si allenavano con le spade. Il signor Kyte sta sanguinando molto. -
Quando la cameriera osò sbirciare al di sopra della sua spalla, nella saletta, impallidì: - Oh, Cielo! Lo chiamo subito! -. La vide fuggire.
"Ottimo. Almeno farà presto."
Tornò nella saletta. Entrambi avevano ignorato le poltroncine; Kyte si era seduto su una sedia, lo sguardo alla ferita, Gakupo si era appoggiato contro il muro, lo sguardo che forse non stava davvero guardando qualsiasi cosa di quella stanza.
Come sperato, il maggiordomo arrivò quasi subito, con tutto l'occorrente per il primo soccorso, la governante e un paio di servitori che sapevano come trattare le ferite un po' più gravi di un graffietto.
Lasciò Gakupo e Kyte a loro.
Ci avrebbero messo un po'.
Doveva prepararsi.
Stava iniziando a sentire fin troppo caldo.
Salì in camera sua.
Quando si richiuse la porta alle spalle, sentì il cuore sussultare. E il caldo divampare in ogni millimetro di pelle.
Andò al catino, si pulì la faccia. Ma non si sentì minimamente rinfrescato.
Raggiunse il pupazzo sul letto. Lo prese in braccio.
- Ora possono entrare qui. -
Sorrise.
Posò un bacio sulla sua fronte.
Aprì l'armadio e lo mise dentro.
Ogni centimetro di stoffa sulla sua pelle stava diventando insopportabile. Gli sembrava gliela stesse bruciando.
Si sciolse i capelli. Quando li sentì contro il collo, ebbe un tremito. Gettò il nastro nell'armadio.
Sciolse il collarino. Gli parve di respirare meglio. Ma non alleviò il caldo. Gettò il collarino nell'armadio.
Passò le dita sulla pelle scoperta del petto. Era piacevole. Ma non era lui a doverla toccare.
Arrivò alle imbottiture.
Le afferrò e le sfilò dal vestito. Le gettò nell'armadio.
Respirava meglio, sì. Aveva più aria. Non c'era niente a premergli contro il petto.
Eppure continuava a bruciare.
Riuscì a liberarsi del corsetto esterno, con meno delicatezza di quanto avrebbe dovuto. Gli parve anche di aver sentito un suono sinistro. Non se ne curò. Lo gettò nell'armadio. Quel ripiano iniziava ad essere un po' pieno.
Si chinò. Armeggiò con la gonna.
Riuscì a slacciare la tournure e a buttarla nell'armadio, portandosi dietro un numero indefinito di sottogonne. Probabilmente, gliene erano rimaste addosso solo un paio.
Calciò le scarpette nell'armadio.
Abbassò le maniche del vestito. Quando scoprì le spalle, si stupì di non vederle bruciate.
E, solo a quel punto, richiuse le ante.
Si era tolto quante più cose possibili.
Ma più stoffa si toglieva, più accessori si toglieva, più il caldo lo faceva arrivare a respirare meno lentamente del dovuto.
Aveva bisogno d'aria.
Voleva che qualcuno alleviasse quel caldo.
Ora non aveva più motivo di aspettare.
Dovevano aver finito.
Non aveva più alcun motivo di stare lontano da loro.
Uscì dalla camera.
Scese le scale con calma.
Non sapeva neppure lui perché. Per assurdo, non aveva alcuna fretta.
Quando raggiunse la saletta, raggiunse un'entrata secondaria, ma rimase fuori, dietro la porta.
Non doveva essere la servitù a vederlo per primo, delle persone lì dentro.
Sbirciò al suo interno.
Kyte non aveva la giacca, il suo braccio era stato pulito e fasciato.
Anche il taglio sulla guancia di Gakupo era stato pulito. Lui continuava a guardare qualcosa di indefinito.
Kyte sembrava agitato. Non aveva ancora recuperato colore.
"Comment allez-vous?" sorrise: "Avete bisogno di me, vero?" non dovevano più preoccuparsi di niente.
- Potete andare. - ordinò, senza sporgersi troppo: - Vi ringrazio per le vostre cure. -.
Lo sguardo di Kyte era volato all'istante su di lui.
Gakupo si era voltato appena nella sua direzione. I suoi occhi non erano mutati.
Il resto dei presenti, con un cenno della testa, si dileguò.
Ora poteva entrare.
Aprì del tutto la porta, fece un passo nella stanza.
Gli occhi azzurri di Kyte si spalancarono.
Quelli chiari di Gakupo rimasero immobili.
Rivolse un sorriso ad entrambi.
"Sono spaventati. Sì."
Si avvicinò.
"Vagare smarriti nell'oscurità del proprio cuore? E' questo che si dice, di solito?"
- Seguitemi. -
"Vi porrò fine con le mie mani.".
Si voltò, uscì dalla saletta. Sentì Kyte alzarsi, sentì entrambi seguirlo.
Su per le scale.
Verso la sua camera.
"Non vi lascerò andare. D'ora in poi, sarò sempre con voi...".
Era quello il loro desiderio.






Note:
* "Canzone Eterna": Eternal Song.
* "Occhi": Me / Eyes.
* "Nella notte silenziosa" / "Per loro che gli avevano donato i loro cuori" / "Così dediti per sempre": Lovelessxxx.
[Amarsi nella notte silenziosa / Per te che mi dai il tuo cuore / Dediti così per sempre]
Sembra una traduzione traballante e lo è, ma non è dal japponico, è dall'ingrish. U.U" Ho tolto il "love" per ovvi motivi. E "addicted" vuol dire sì "devoto" ma anche (e soprattutto) "dipendente".
* "Bambole paranoiche": Paranoid doll, cantata solo da Gakupo. Sì, lo so che il titolo è al singolare. U.U *Ma qui ci stava al plurale. (?)*
* "Amo entrambi.": Futari tomo daisuki da yo. La famosa (?) frase muta di Imitation Black.
* "Comment allez-vous?" / "Avete bisogno di me, vero?": Arrest Rose.
* "Vagare smarriti nell'oscurità del proprio cuore" / "Vi porrò fine con le mie mani": Setsugetsuka.
[Vago smarrito nell'oscurità del (mio) cuore / Vi porrò fine con le mie mani]
* "Non vi lascerò andare" / "Sarò sempre con voi": Arrest Rose.




Finalmente il flashback è finito! \OAO/ *alza le braccia al cielo*
Flashback che nelle mie idee sarebbe dovuto durare UN capitolo, UNO solo. E. Invece. E'. Durato. Letteralmente. Mezza. Fanfiction. Che. Diamine. Quindi sì, dal prossimo capitolo si ritorna a Kaito - lo so che ve n'eravate dimenticati. (?)

Questo capitolo era molto delirante, sì. E confesso che mi fa uno strano effetto scrivere dichiarazioni tanto esplicite. Non fosse che la scena non è esattamente romantica.
E credo che, a questo punto - ma anche parecchio prima -, sarebbe carino poter aggiungere l'avvertimento "Harmony". *Perché è un avvertimento, non un genere.*

Poi.
Se la prima "scena a specchio" di Gakupo e Kaito vi ha ricordato il video di Lovelessxxx, significa che ho fatto le cose per bene. *Ogni tanto si ricorda di Lovelessxxx. Tipo.*
Quanto alla castissima mise finale di Len, sarebbe la versione "indossata" alla fine del video di Imitation Black. *Senza calze strappate. E con la gonna lunga pure davanti. Sì, lo so, le calze strappate sono un Simbolo (?), ma qui sono ancora integre. (?)*

Dunque il prossimo sarebbe l'ultimo capitolo. *brividi* Se poi saranno gli ultimi capitoli, lo ignoro. Concettualmente, è l'ultimo. (!) *fuga di massa*
Riuscirà il Genialissimo e Assolutamente Impossibile Possa Non Funzionare piano di Len ad andare in porto? Len è diventato satiriaco? La smetterà di parlare davanti allo specchio e fare ragionamenti strani? Vivranno per sempre tutti felici e contenti?
L'unica cosa certa è che c'è un solo vestito femminile a non aver ancora fatto la sua effettiva comparsa. *E tu quel paio di straccetti li chiami "vestito"?*

Spero che questo capitolo di delirio mistico e psicopatie assortite vi sia stato gradito. ^^ *Eh?*
Come sempre, se ci sono critiche o consigli, dite pure. ^^

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Capitolo 14
*** x1x4x ***


Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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Un brivido ghiacciato.
Quella pelle bianca non spiccava sulla stoffa nera, era la stoffa nera ad essere un fastidioso ostacolo a quella pelle bianca.
Bianco tra le ciocche bionde, sul viso, scivolando sulle curve del collo, sulle spalle, lungo il petto, fino ad interrompersi su quella linea nera, troppo dritta: non c'era più il corsetto, non c'erano più le imbottiture, forse non c'erano più le sottogonne; quel vestito sembrava esserci solo per cadere a terra, forse sarebbe bastato anche un unico movimento.
Len non si stava offrendo. Era un dovere alzarsi, spingerlo contro la parete e prenderlo.
Ma il brivido che l'aveva scosso gli aveva gelato il sangue. Le vene si erano congelate, avevano ghiacciato ogni parte del corpo, tanto freddo da non riuscire a non tremare. Respirare era difficile. Il blocco di ghiaccio sul petto era davvero pesante.
Quegli occhi azzurri sembravano due pietre preziose: brillanti, innaturali, vuoti, inumani. Solo due pietre azzurre.
Sorrideva. C'era qualcosa di disturbante in quel sorriso.
- Seguitemi. -
La voce era troppo bassa. C'era una nota sinistra in quel tono. Sembrava volesse ridere, ma che si trattenesse dal farlo.
Kyte si alzò. Non pensò neppure di non farlo. Fu un gesto naturale.
Seguì quella cosa fuori dalla saletta in cui aveva condotto lui e Gakupo.
Voleva voltarsi verso Gakupo. Lo sentiva pochi passi dietro di lui. Da quando erano rientrati nella magione, non aveva mai incontrato il suo sguardo. Ma non riusciva a voltarsi. Non capiva se fossero gli occhi o tutta la testa ad essere inchiodati contro ciò che aveva davanti.
Salirono le scale. Riconobbe quella strada - non che potesse essere diversamente.
Si portò una mano alla ferita sul braccio, pulita e fasciata, ma ancora pulsante.
Sentiva un singhiozzo, in lontananza, nella sua mente. Era una voce che conosceva bene. Gli sembrava fossero passati anni da quando aveva sentito quel pianto.
- Mi ha costretta! -
E invece dovevano essere passate solo poche ore. O forse neppure un'ora.
Il blocco di ghiaccio sul suo petto si spaccò. Un pezzo particolarmente grande cadde a terra.
Kyte inspirò. Si era portato dietro una grossa porzione di cuore. Però non sentiva la camicia bagnata, sul petto. Sentiva lo squarcio pulsare, o forse era il cuore che ancora stranamente funzionava. Bizzarro ce ne fosse ancora. Era sicuro si fosse frammentato molto prima. Forse il sangue si era rappreso e aveva incollato tutti i pezzetti fino a ricreare qualcosa di somigliante ad un cuore. E ora si era spaccato di nuovo. Avrebbe davvero dovuto smetterla di rompersi.
Il cigolio di una porta che si apriva.
Conosceva quella stanza. Ma non ci era mai entrato.
La cosa si fece da parte, aprì un braccio verso l'interno. Continuava a sorridere.
Kyte entrò.
La camera di...
Fece qualche passo avanti.
Era almeno il doppio della sua camera. Davanti ai suoi occhi, sulla parete opposta, c'era una finestra più alta di lui, incorniciata da dalle lunghissime tende chiare. Era tutto chiaro, in quella stanza: non sembrava esistere altro che bianco e gradazioni di giallo.
Commode contro le pareti a sinistra della porta, due comodini ai lati del letto. Un letto almeno tre volte il suo, davvero grande, per una sola persona, tanto piccola.
Un armadio enorme sulla destra. E due sgabelli, e una sedia, e una panca. In fondo, nell'angolo, un baule. Tra l'armadio e il baule, uno specchio alto due spanne più di lui.
A terra, a ricoprire la metà sinistra della stanza, un tappeto.
Era una stanza assolutamente normale.
Non c'era nulla di strano, fuori posto o da dover nascondere.
Uno scatto.
Riuscì a voltarsi, finalmente.
Quella persona era davanti alla porta. E li guardava, l'espressione immutata. Aveva le mani dietro la schiena. All'altezza della serratura.
Quella stanza chiara ed enorme divenne improvvisamente cupa e soffocante.
Gli sembrava avessero appena chiuso a chiave la porta della sua cella.
- Adesso potete entrare! - quel sorriso si accentuò, la voce salì appena.
Kyte rabbrividì. Somigliava troppo a-
- Non rimanete lì in piedi! Accomodatevi! - lo vide prendere Gakupo per un polso, camminare verso la panca. Si fermarono, quella persona lo fece sedere.
Sedersi, sì.
Non sapeva se le gambe sarebbero riuscite a reggerlo ancora per molto.
Fece due passi, si lasciò cadere sulla sedia.
Sentiva quello sguardo su di sé. Non voleva incontrarlo.
Spostò l'attenzione su Gakupo, finalmente un'occasione per poterlo guardare.
Anche lui guardava. Davanti a sé. Fisso. L'espressione era rilassata, talmente tanto da non mostrare alcuna emozione.
Le mani erano posate sulle gambe.
Qualcosa tremò, all'altezza del petto. Gli parve che ciò che rimaneva del blocco di ghiaccio iniziasse a sciogliersi, agli angoli.
"... perché?".
Si fece forza e scostò lo sguardo da Gakupo. Quella cosa spostava i suoi occhi non umani da uno all'altro. Fu inevitabile incontrarli, pochi secondi dopo.
- Vi state ancora chiedendo cosa stia succedendo? - una risata leggera. Avrebbe preferito non sentirla. Gli dava la stessa sensazione delle unghie sulla lavagna.
"Sì. " avrebbe voluto rispondere. Ma non capiva se fosse la gola ad essere bloccata o se fossero le labbra ad essersi paralizzate.
Quella persona, però, parve comprendere: - Credevo fosse ovvio, ormai. - si avvicinò. Non voleva che si avvicinasse. Più si faceva vicina, più vedeva quanto il suo aspetto fosse uguale a quello di-
Un sospiro spezzato infranse le sue labbra. Gli occhi bruciavano.
Era inutile continuare ad ingannarsi.
Quella cosa non somigliava a Len. Era Len.
- Vi capisco. - una mano sulla guancia. Era troppo calda. E quegli occhi spaventosi troppo vicini: - Anch'io ho pianto molto. Ma andrà tutto bene. - sorrise. L'ombra di un volto conosciuto, per un istante: - Andrà tutto bene. Il nostro desiderio si è avverato. - o forse aveva sperato di vederlo: - Ora saremo insieme per sempre. -.
Gelo.
Se prima il ghiaccio si stava sciogliendo, ora era tornato fin troppo duro.
- ... insieme? - aveva la voce roca, soffocata.
- Sì. - si era chinato verso di lui.
Aveva davvero tolto le imbottiture. Il bianco del collo andava al di sotto della scollatura nera troppo tesa sulle braccia, su tutto il petto, fino allo stomaco.
Avrebbe dovuto sentire caldo. Ma voleva solo che l'altro si allontanasse.
- Insieme. Noi tre. Come avete desiderato. - un sussurro.
Non riuscì a formulare un pensiero coerente.
Voleva che si allontanasse. Non voleva che lo toccasse.
La figura nera scomparve dalla sua visuale.
Kyte si rilassò - non si era neppure accorto di aver stretto i pugni e i denti -, osò seguire quel profilo fino a che non si fermò. Davanti a Gakupo.
Un altro brivido.
Gakupo non mostrò di averlo visto. Non mostrò niente.
Avrebbe voluto urlargli di dire qualcosa, di scansare-
Il pensiero che quella persona fosse davvero Len gli fece stringere i denti di nuovo.
"Non era questo quello che volevo." si sarebbe dovuto alzare, avrebbe dovuto fare qualcosa: "Volevo rimanere con voi per sempre. Ma non così. Non così." non riusciva neppure a parlare. Provò ad aprire la bocca, ma la voce non uscì. O forse non aveva neppure schiuso le labbra.
- Ora siamo felici. Vero? -
"No."
Le gambe di Gakupo scomparvero sotto la stoffa nera della gonna. Len gli si era seduto sopra, gli aveva preso il viso tra le mani.
"No..."
L'aveva baciato.
Gli aveva aperto le labbra con le sue e aveva catturato la lingua con la propria.
Lo stava divorando vivo.
Quella cosa non aveva nulla di umano.
Aveva assunto l'aspetto di Len per far loro ancora più male. Quello non era Len. Len era da qualche parte in quella casa, non nella sua stanza.
Len non era...
Gakupo non si oppose.
Non reagì.
Non si era minimamente mosso, continuava a non muoversi, lasciava che Len lo mangiasse, che gli strappasse l'anima dal corpo a morsi.
"..."
Voleva intervenire. Correre da loro e dividerli, portare Gakupo via da quella stanza, lontano da Len.
Trovare il vero Len. Perché quello non era Len. Non poteva-
Len si staccò, il respiro troppo veloce, un sorriso sulle labbra arrossate.
- Eien ni... - sussurrava. Ma sentiva benissimo ciò che diceva. Avrebbe voluto non sentire niente. Non vedere niente.
Avrebbe voluto non aver mai cercato nelle tasche della giacca di Gakupo. Non sarebbe successo tutto quello. Sarebbe stato tutto ancora come prima.
- Shiawase desu ka? -
Gakupo non rispose. Guardava Len negli occhi soltanto perché lui gli aveva alzato la testa.
- Watashi wa shiawase desu. -
La voce era più morbida. Il sorriso si fece per un attimo sincero.
Kyte avrebbe voluto non vederlo.
Per un istante, quella cosa era stata davvero Len.
Quella cosa era Len.
Ormai non poteva più negare l'evidenza.
Gli occhi avevano smesso di bruciare. Ma le guance si erano bagnate.
Un fruscìo. Len apparve di nuovo davanti a lui. Con quel suo sguardo disumano.
- Andrà tutto bene. - lo ripetè, ancora una volta: - Presto non piangerete più. Né voi né Gakupo. - sentì il suo peso addosso: - E saremo davvero una cosa sola. Per sempre. -
Le mani sul viso. La bocca sulla sua.
Le sue mani scattarono sulle spalle nude. Voleva spingerlo via.
Non poteva. Non doveva. Doveva fermarlo. Non voleva che lo baciasse così. Non voleva che lo baciasse.
Gli ricordava troppo quella mattina di tempesta, mesi prima.
Len riuscì a soffocarlo. Non aveva più aria. Serrò la presa sulle spalle, una scarica violenta lungo il braccio ferito. Non gli importava. Voleva allontanarlo. Le mani non risposero. Rimasero immobili.
Cercò di chiudere la bocca, di spingere via Len. Non ci riuscì. Non aveva più forze. Neppure per muovere la lingua o le labbra.
Riuscì a riprendere un po' d'aria, a fatica.
Voleva che fosse tutto uno scherzo. Che Len si scostasse e ridesse come aveva sempre riso, dicendo che era tutto un grande scherzo. E forse Gakupo si sarebbe alzato, avrebbe sgridato Len per lo scherzo - lo scherzo che forse avevano architettato insieme - sfuggito di mano.
Il braccio faceva male.
Gakupo non si muoveva, lo sguardo era fisso.
Len non aveva più niente di umano.
"Svegliatemi..." chiuse gli occhi: "... svegliatemi..." li riaprì. Era ancora lì.
Finalmente, Len lo liberò.
- Sono qui. - gli accarezzò il viso. La pelle parve ustionarsi: - E voi rimarrete qui. Con me. Con noi. Ho rimediato a tutto. Ora non dovete più preoccuparvi di niente. Potremo essere felici, senza nessuno che ci dica il contrario. -
"..."
Len spostò lo sguardo alla sua sinistra.
Kyte non riuscì a non guardare in quella direzione.
Nello specchio vicino all'angolo era riflessa almeno metà della stanza.
Ed erano riflessi lui, Len e Gakupo.
- Siamo tutti qui. - un sussurro: - Insieme. -.
Len si alzò.
Ma non andò da Gakupo.
Raggiunse il letto, con pochi passi, per poi lasciarvisi cadere seduto.
Kyte sentì un briciolo di forza nelle gambe. Si alzò, piano. Barcollava. Il braccio intero faceva male, la ferita bruciava sotto la fasciatura.
"No..."
Si avvicinò a Gakupo. Voleva che parlasse. Voleva che mostrasse un qualsiasi segno di vita.
Len era impazzito. Gakupo sembrava incapace di reagire. Doveva impedire a Len di fargli qualsiasi cosa intendesse fargli.
Guardò quegli occhi azzurri folli: - Perché tutto questo? - la voce uscì, più decisa di quanto avesse pensato. Spezzata, ma non nel tono.
- Ve l'ho detto. - sorrise. Sembrava posseduto. Lo sembrava nella voce, nello sguardo, nei gesti, nel suo stesso aspetto. Se fosse stato posseduto da qualche strano spirito sarebbe stato molto più facile. E meno doloroso. Molto meno doloroso.
- Perché? - ripetè, afferrò Gakupo per un polso, senza distogliere lo sguardo: - Perché avete ingannato entrambi? Perché avete detto di amarmi, se- - - Amarvi? - aveva scandito le sillabe, in un sussurro. La sua espressione era venuta meno. Ma tornò un istante dopo, con una risata troppo acuta: - Io non ho mai detto di amarvi, Kyte. - piegò appena la testa di lato, socchiuse gli occhi: - Siete stati voi a dirmelo. -.
Vide quello sguardo posarsi anche su Gakupo.
Sentì il cuore - quel che era rimasto - venire stretto in una morsa.
- Ma ho capito lo stesso. - Len tornò dritto, lo sguardo nel suo: - Voi provate per me ciò che io provo per voi. Non so se esista una parola per definirlo ma, per dirlo, usiamo la parola "amore". Ma non è amore. - il sorriso si addolcì, divenendo orribilmente simile a quello di Len: - Non è una scusa. Non è un sentimento passeggero. Io voglio rimanere con voi per sempre. E voi volete rimanere con me per sempre. Ciò che desideriamo davvero è essere felici, insieme. - aprì le braccia: - E ora potremo esserlo! -
- Cosa state dicendo...? -
Continuava a non capire.
Non voleva capire.
Non poteva accettare una cosa simile.
- Voi mi "amate". E io vi "amo". Completamente. -
"No..."
- Non è così! -
- No? - quel sorriso tornò agghiacciante: - Entrambi avete detto di amarmi. Voi, Kyte, avete detto di voler rimanere con me per sempre. Voi, Gakupo- - lo guardò: - -avete cercato di scappare in Giappone e negare la verità a voi stesso. Ma siete tornato da me. Potete provare a scappare quanto volete, ma tornerete sempre qui. -
Kyte scosse la testa: "Non è così... non è questo quello che..."
- Tornerete da me. Ad amarmi e a farvi amare. Senza che vi basti mai. - le dita accarezzarono la pelle scoperta del petto, l'altra mano sfiorò la coperta del letto: - Per quante volte abbiate preso questo corpo, non ne siete mai stati sazi. Dunque, perché negare l'evidenza? - il suo sorriso si accentuò: - Perché ritardare la nostra felicità? E' ciò che desideriamo, tutti e tre. Quindi... -
Si lasciò cadere indietro, piegò le ginocchia, l'orlo della gonna scivolò fino alla vita. Le gambe coperte dal nero della calza. Il reggicalze nero teso sulla pelle bianca della coscia.
- Prendetevelo. Entrambi. -.
"..."
Era davvero trascorso così tanto tempo?
Gli sembravano anni dall'ultima volta che aveva abbracciato Len, che l'aveva baciato, che aveva dormito insieme a lui.
Era felice.
In quel tempo.
Forse anche il giorno prima.
Aveva baciato Len, quel mattino, nel corridoio.
Amava Len, sì.
L'aveva confessato a lui, l'aveva confessato anche a se stesso.
Fece appena forza sul braccio sano, quello che teneva stretto il polso di Gakupo, spingendolo ad alzarsi. Non sentì alcuna resistenza, Gakupo fu in piedi al suo fianco.
Guardò Len.
Lo amava. E lo desiderava. Voleva tutto di lui.
- ... siamo due persone davvero miserabili. - mormorò Kyte, rivolse un'occhiata a Gakupo. Fissava qualcosa, o forse niente.
Tornò a guardare Len.
Sforzò le labbra. Sorrise: - ... ma voglio credere di avere ancora un briciolo di dignità. -
Avanzò verso la porta.
Non lasciò Gakupo, lo sentì camminare dietro di lui.
Afferrò la chiave e la girò.
Abbassò la maniglia, uscì, insieme all'altro.
Richiuse la porta alle loro spalle.

I passi risuonavano nel corridoio vuoto.
"Dove sono tutti?" lasciò vagare lo sguardo, ma non trovò niente che non fosse inanimato.
Non sentiva nessun altro rumore di passi, nessuna porta che si apriva o chiudeva, nessun chiacchiericcio.
Non aveva idea di che ore fossero. Il cielo si era annuvolato talmente tanto da far scendere la notte troppo presto.
Gli sembrava di essere in una magione abbandonata. Perfettamente pulita, ben tenuta, irrealmente vuota, in apparenza.
Si voltò appena. Gakupo guardava davanti a sé, ma era probabile non stesse guardando lui. Il polso nella sua mano era molle. Camminava alla sua stessa velocità, forse solo perché lo stava appena tirando.
Tornò a guardare davanti. Si passò la mano libera sulle guance - strinse i denti alle fitte che gli lanciò il braccio.
"Non mi fido a lasciarlo solo." trasse un profondo respiro: "Però non sarei credibile, se piangessi. Non ora.".
Aumentò la velocità, diretto verso la propria camera.
Ci mise poco a raggiungerla - e non incontrarono nessuno neppure in quei minuti.
Quando la aprì, sentì un brivido.
Scacciò quel pensiero dalla testa, prima che potesse realizzarlo appieno.
Sì, quella stanza era piena di ricordi.
Ma doveva esserlo anche quella di Gakupo. Non poteva riportarlo lì.
Una volta entrati, si richiuse la porta alle spalle e fece accomodare l'altro sulla sedia. Andò alla finestra, aprì le tende. Non che così fosse cambiato qualcosa.
Sembrava sera, con una luce fioca diversa da quella della luna.
Un spiffero. Rabbrividì.
Quando l'avevano medicato, gli avevano tolto la giacca e l'aveva vista sparire insieme ad una cameriera. Probabilmente l'avevano portata a lavare. Del resto, aveva una manica zuppa di sangue. Anche la manica della camicia era sporca. Ma quella gliel'avevano fatta tenere, con la raccomandazione di cambiarsi al più presto. Avrebbe dovuto, in effetti. Ma non ne aveva voglia. Ormai si era asciugata, non dava più fastidio.
Scosse la testa, scacciò qualsiasi pensiero dalla mente.
Recuperò un'altra giacca dall'armadio e se la gettò sulle spalle.
- Hai freddo? - fece per chiudere l'anta, guardò Gakupo. Lui non rispose. Cercò di mantenere il tono normale: - Come vuoi. - chiuse l'armadio, andò a sedersi sul bordo del letto, davanti a lui.
"Non devo farlo pensare." forse non era stata una buona idea quella di scacciare tutti i pensieri: "... cosa dico...?"
- Sembra davvero che pioverà. - il tempo era sempre un ottimo argomento infrangisilenzio: - Non riesco neppure a capire che ore siano! Secondo te che ore sono? -
Nessuna risposta. Neppure un accenno di cambio d'espressione.
Kyte sbuffò, si chinò fino a posare sulla gamba il braccio piegato - quello sano: - Basta dire di no, eh! Non riesco a credere tu sia talmente orgoglioso da fare queste scene solo perché non sai l'orario! - non aveva idea di cosa stesse dicendo, sapeva solo che non doveva far cadere il silenzio: - Almeno hai una vaga idea se sia primo pomeriggio o pomeriggio inoltrato? O forse è ancora mattina? -
Nessuna risposta.
- Io non riesco a capire neppure questo! - sospirò: - Secondo me, potrebbe anche essere davvero sera. Non ho guardato l'orologio. Dovrei proprio farlo. Ma non ne ho qui in stanza, forse dovrei scendere di sotto? Ah, finirò per perdermi di nuovo, è assurdo come- -
- Stavo per ucciderti. -
Kyte tacque.
Lo sguardo di Gakupo era ancora fisso.
Ma le sue labbra si erano mosse. Un sussurro quasi impercettibile. In giapponese.
Decise di parlare anche lui in quella lingua: - Beh... - alzò le spalle - altra fitta: - Sì, ci sei andato vicino. - negarlo era piuttosto inutile.
- Stavo per ucciderti. - non credeva possibile potesse parlare a voce ancora più bassa: - Stavo per ucciderti. -
Un tremito.
Tutto quello era sbagliato.
- Sì, mi hai quasi ucciso. - sorrise: - Però sono qui. - allungò la mano, gli sfiorò il ginocchio: - Non mi hai ucciso. Sono vivo. Sono qui. -.
Un groppo alla gola. Deglutì, cercò di calmarsi: - Ho avuto paura, sì. - tanta: - Però, è passato. Ora siamo qui. Anch'io. -
- Stavo per ucciderti. -
Lo sentì chiaramente. Anche se la voce era soffocata.
Incontrò il suo sguardo. Lo stava guardando.
- Non puoi perdonarmi. -
L'aveva sentito.
- Non posso perché non è stata colpa tua. - strinse il pugno. Non voleva pensarci. Non voleva davvero pensare una cosa simile. Sapeva che era vero, ormai sapeva qual era la verità dei fatti, ma non voleva dire quella frase nella sua mente. Non poteva.
- Non ha importanza come tutto questo sia iniziato. - la voce si abbassò appena, di nuovo: - Ero io ad avere in mano la spada. Se Ren non mi avesse fermato, ti avrei ucciso. -.
Kyte rabbrividì. Non capì se per quel continuo rimarcare o per quel nome.
Non voleva pensare una cosa simile. Gakupo lo stava costringendo a farlo. Non poteva più opporsi: - Len ha anche mentito. - gli parve di vedere una scintilla, in quegli occhi. Ma non era una luce positiva: - Con una bugia orribile. -
- Sì. - gli parve avesse serrato i pugni: - Ma io stavo per ucciderti. L'avrei fatto davvero. Se Ren non mi avesse fermato, a quest'ora tu non saresti qui. -
Quel pensiero lo scosse. Sentirlo in modo così esplicito era più disturbante che pensarlo. Forse se n'era semplicemente reso del tutto conto.
L'urlo di Len che fermava Gakupo. Quel suo sorriso spaventoso. Quei baci freddi. La medicazione, quell'apparizione sinistra, la camera di Len. Se Gakupo non si fosse fermato, lui non avrebbe visto niente di tutto quello. Non sarebbe stato seduto sul letto, non gli avrebbe toccato il ginocchio.
Deglutì. Sospirò, udì il proprio respiro. C'era di nuovo silenzio. Non poteva permettere durasse troppo.
- Però sono qui. - la propria voce. Sapeva di star dicendo tante cose stupide ma, ora più che mai, voleva continuare a parlare: - Ti sei fermato. Non importa come. - lo anticipò, vedendo le labbra schiudersi per ribattere: - Non mi hai ucciso. Non è morto nessuno. Siamo tutti vivi. Anch'io. -.
Alzò la mano, raggiunse il suo viso.
E gli diede uno schiaffo, non troppo forte: - Quindi smettila di dire cose macabre. - sbuffò, lasciò che quella tensione improvvisa scivolasse fuori.
Un istante dopo, si sentì svuotato di qualsiasi energia. Forse la tensione se n'era andata troppo in fretta, tutta insieme.
Gakupo lo guardò, apertamente. Sembrava essersi svegliato. Non del tutto, i suoi occhi non erano del tutto svegli. Però sul suo viso c'era un'espressione.
Sembrava stupito, in qualche modo. E preoccupato. Era impossibile non vedere quell'ombra di apprensione. Ma almeno era un viso vivo.
Kyte tirò su le gambe, andò indietro sulle coperte. Iniziava a sentire la testa pesante.
- Mi aiuti a tirare su i cuscini? - chiese, arrivato alla testiera. Aveva il vago sospetto che sistemare i due cuscini del letto dietro la schiena non fosse un'operazione facile, con una sola mano disposta a fare torsioni. Non ci teneva a verificarlo di persona.
- Sì. - Gakupo si alzò - con una certa fatica, notò - e lo raggiunse, per poi recuperare i cuscini. Si muoveva piano. Ma si muoveva da solo.
Quando furono sistemati, Kyte vi si adagiò, sospirando un ringraziamento. Sentire la superficie morbida dietro la schiena, non capì come, gli alleggerì la testa.
- Stai bene? -
- Sì. Tu? -
Nessuna risposta.
I suoi occhi si erano incupiti.
"Direi che non possiamo più evitare il discorso.".
Avrebbe voluto tacere, anche solo per quel giorno. Avrebbe voluto non parlarne mai, in effetti. Ma ormai era inutile pensare di poter scappare.
- Quindi Len non era vergine. -
Vide quegli occhi chiari spalancarsi. Tornarono normali, la voce troppo bassa: - No. - un sospiro: - Affatto. -.
"..."
Era ovvio. Ma aveva sentito comunque qualcosa graffiargli il cuore - quel che rimaneva. Len non era soltanto suo. Non lo era mai stato. E non era stato lui il primo a cui si era concesso. Anche quel particolare tanto piccolo - quel legame tanto forte - era una bugia.
- Da quanto tempo? -
- ... non ricordo. - Gakupo chiuse gli occhi, piano. Quando li riaprì, il suo sguardo scivolò in basso - non per evitare di guardarlo, forse stava ripensando a qualcosa: - Mesi. Forse quattro. O cinque. - abbassò le palpebre, la voce divenne un sussurro: - Ero tranquillo. Sapevo che tu non gli avresti fatto niente.
Credevo che Len non ti avrebbe incoraggiato. O che... - si sedette sul bordo del letto. Sembrava spossato: - ... se l'avesse fatto, sarebbe stato solo per ripicca nei miei confronti. Credevo sarebbe stato capace di usarti per vendicarsi di me. -
"..."
- Pensavo che, nel caso, per te sarebbe stato solo uno svago. Come tante altre. E lui sarebbe stato soddisfatto della sua vendetta. -.
"... in effetti, perché Len non è stato uno svago come tutte le altre?" non ricordava di averci mai pensato davvero: "Non è stata la vicinanza. Sono stato a stretto contatto con qualcuna per ancora più tempo. Ma..."
- Gli ho chiesto di sposarmi. -
Gakupo tornò a guardarlo. Gli occhi erano spalancati. Stavolta sul suo volto c'era soprattutto incredulità.
Kyte accennò ad un sorriso - quando curvò le labbra, sentì una pugnalata al petto: - Non ha potuto accettare, perché non ho niente. Mi chiedo cosa sarebbe successo se fossi stato ricco... -
Gakupo fece per dire qualcosa. Ma richiuse la bocca. Strinse i denti.

- Così... è questa la risposta giusta per noi? -
Baciò la punta della lama.



Len aveva tanti difetti. Ma, se non li avesse avuti, non sarebbe stato lui.
Avrebbe davvero voluto sorbirsi tutti i suoi difetti per tutti gli anni a venire.
- Avevi ragione. - sorrise. Sentiva gli occhi bruciare, di nuovo: - Sono stupido. E anche egoista. - il bruciore venne meno: - Ero talmente preso da me da non essere capace di vedere la realtà. - abbassò lo sguardo: - Mi chiedo se avessi potuto fare qualcosa. -.
Quella cosa era Len. Il vero Len. Quello che si era sempre rifiutato di vedere.
Voleva andare da lui e abbracciarlo, sentirlo. Voleva dimenticarlo per sempre, come se non fosse mai esistito, come se tutto quello non fosse mai successo.
Voleva ricordare. Voleva dimenticare.
Il respiro si mozzò. Qualcosa di pesante addosso, attorno alle spalle. Lo sentiva tremare. E-
"..." riuscì a respirare di nuovo. Era stato lui a smettere di respirare per un attimo, di sua volontà, come se un minimo movimento avesse potuto portare chissà quale conseguenza.
Tutto quello era sbagliato.
Gakupo era quello che sapeva sempre cosa fare. Gakupo era sempre tranquillo, affrontava le situazioni con calma e lucidità. Tutto quello era sbagliato.
Portò la mano sinistra sulla sua testa. Non disse niente. Continuò a guardare davanti a sè, verso la parete opposta della camera.
Sentiva tanti blocchi all'altezza del petto. Quando piangeva, i singhiozzi riuscivano a spezzarli. Dopo aver pianto, di solito, stava meglio. Avrebbe davvero voluto piangere sul serio, nel modo più impietoso che potesse esistere, con singhiozzi, gemiti, anche urla, forse si sarebbe inventato qualcosa appositamente.
Però, se avesse pianto, sarebbe crollato.
Avrebbe pianto dopo.
Le orecchie iniziavano a fare male. Quel nome, ripetuto in quel modo, con quella voce soffocata, gli pugnalava i timpani.
Non poteva svegliarsi. Poteva solo addormentarsi. Era quella la realtà.
Voleva addormentarsi abbracciando Len, come tutte le notti. E svegliarsi, e non trovarlo più al suo fianco, notare la candela spenta, reincontrarlo poche ore dopo. Voleva di nuovo sospirare esasperato per i suoi ennesimi compiti non fatti, sorridere ai suoi capricci, rimettere a posto i libri devastati che lasciava in giro. Voleva di nuovo passeggiare con lui, andare in paese, sentirlo protestare per chissà cosa, con la voce troppo alta.
Voleva addormentarsi, e svegliarsi, e scoprire di aver dimenticato tutto, che Len era solo un ricordo lontano.
Voleva ricordarlo. Voleva dimenticarlo.
Lo cercava, lo cancellava.
C'era una traccia di Len in quelle labbra, in quelle mani. Non erano di Len né quelle labbra né quelle mani.
Voleva che gli prendessero il ricordo che Len gli aveva lasciato, voleva che lo illudessero con l'imitazione di un ricordo.

Pioveva.
Il cielo era di carbone, le gocce contro il vetro risuonavano per i corridoi. Non c'era quasi più luce; era decisamente notte. Doveva aver dormito parecchio.
Finì di abbottonare la camicia bianca. Iniziava a fare freddo. Forse avrebbe dovuto mettere qualcosa di più pesante del gilet nero. Ma non aveva voglia di vestirsi di bianco. Neppure Gakupo.
Quando l'accompagnò nella sua stanza per cambiarsi, l'unica cosa chiara che indossò fu la camicia, come lui. L'aveva visto dirigersi spedito verso l'armadio, senza guardare nient'altro. Non prestò attenzione a nulla neppure quando uscirono.
Kyte lasciò che fosse lui a parlare con i signori. In quel caso, sapeva cosa fare, cosa dire.
Qualcosa di simile al dispiacere adombrò il volto della duchessa di Mirror.
"Lo sapeva?" difficile che sapesse tutto nei particolari: "Forse sospettava che Len stesse con entrambi.". Si era anche chiesto se non l'avesse detto loro per paura, per tatto, per curiosità di vedere cosa sarebbe successo o per disinteresse. Era piuttosto sicuro fosse l'ultima ipotesi.
- Immagino non abbiate altri sostituti. - lo sguardo della signora andò a lui, per un istante.
- Immaginate bene. -
Un sospiro. Poi la donna parlò di nuovo: - Siete proprio certi di non riuscire a tornare entro l'anno? -
- Sicuri, mia signora. Non ve l'avrei comunicato in questo modo, altrimenti. -
- E' stata una cosa davvero improvvisa. -
- Purtroppo sì. - gli parve che la voce di Gakupo si fosse abbassata. O forse era lui che iniziava a sentirsi di nuovo troppo stanco. Assurdo, visto quanto aveva dormito.
Un altro sospiro. Il duca di Mirror si decise a prendere la parola: - Se le cose stanno così, non possiamo che accettare le vostre dimissioni. Mi dispiace molto. - confessò, forse era sincero: - Len mi sembrava star bene, con voi. -.
S'impedì di pensare.
- Comunque, è fuori discussione che partiate ora. - intervenne la signora: - Posso concedervi di partire domani mattina, se stanotte smetterà di piovere. Altrimenti, dovrete attendere anche un giorno. -
- Naturalmente, mia signora. -
Kyte si limitò ad annuire.
Superfluo pensare che nessuno di loro due avesse intenzione di rimanere ancora in quella magione. Ma la pioggia li aveva bloccati lì.
Quando si diressero in cucina, alla ricerca di qualcosa da mangiare - solo quando vide la mole di piatti da lavare Kyte realizzò di aver saltato sia il pranzo che la cena -, furono attorniati dalle aiutanti della cuoca, gli sguardi preoccupati.
- E' vero? Ve ne andate? -
- State male? Perché non siete scesi, oggi? -
- Potremmo avere qualcosa da mangiare, se possibile? - la voce bassa di Gakupo zittì tutte.
Qualche istante dopo, si ritrovarono entrambi seduti, davanti a formaggio, pane e frutta. Qualche ragazza si era offerta di cucinare qualcosa, o di riscaldare i piatti del giorno, ma avevano rifiutato entrambi.
Kyte aveva fame, ma non aveva davvero fame. Forse il mal di testa era dovuto anche al digiuno. Però ciascun boccone gli dava la nausea.
Cercò di distrarsi dal sapore del cibo guardandosi intorno: c'erano cinque assistenti, la signora Smith chissà dov'era; i banconi si alternavano tra perfettamente puliti e con macchie e pezzi di cibo sparsi; una pila di piatti sporchi alta mezzo braccio era sul lavello; accanto, un coltellaccio sporco di-
Sbattè le palpebre, confuso: - Fango...? -
- Ah, mi dispiace vediate tutto questo disordine! - parve ricordarsi una ragazza, mettendosi davanti ai piatti, come a volerli coprire: - Stavamo sistemando, quando voi- -
- Sì, pare sia fango. - rispose un'altra ragazza, più vicina: - Il signor Anderson l'ha trovato proprio fuori all'entrata, per terra. La signora Smith era molto arrabbiata. - abbassò lo sguardo, quasi fosse colpa sua: - E' andata a protestare dal maggiordomo. E' già successo che qualcuno prendesse qualcosa dalla cucina per riparare gli esterni, riportandolo in condizioni pietose... -
- Non c'è bisogno di dire tutto. - la interruppe una terza ragazza, infastidita.
Tornò il silenzio, spezzato solo dal rumore della pioggia.
Se non altro, Kyte era riuscito a mandare giù qualche altro boccone.
Gakupo lo riaccompagnò in stanza.
Quando arrivarono alla porta, Kyte notò qualcosa appoggiato al muro accanto all'entrata: lungo, avvolto in un panno bianco. Lo prese e guardò cosa contenesse. Trasalì.
Si affrettò ad entrare in camera, gettò lo sguardo a terra: una striscia bianca spiccava sul pavimento. Doveva essere caduta dal letto qualche ora prima.
Si chinò, prese il fodero e andò alla finestra, continuando a dare le spalle a Gakupo. Tolse il panno bianco. Non voleva che vedesse la spada. Rimise la lama nel fodero.
- Sta cominciando a fare davvero freddo, eh? - andò all'armadio, vi buttò dentro la spada: - Dovrei mettermi qualcos'altro. Ma non mi va di vestirmi di bianco. -
Gakupo taceva. Brutto segno. Doveva averla vista.
Ricordò di colpo.
Si voltò. Lo sguardo di Gakupo era dove prima c'era il fodero.
Con poche falcate, Kyte lo raggiunse, mise una gamba nel suo campo visivo. Gakupo parve tornare alla realtà. Aveva di nuovo avuto quello sguardo spento.
Quando lo guardò, Kyte sorrise, come se nulla fosse. Anche se sentiva le braccia tremare: - Il vestito rosso è troppo elegante, vero? -
Silenzio.
La risposta giunse pochi secondi dopo: - Sì. Direi di sì. -
- Magari posso metterlo domani. - portò le gambe vicine, bloccandogli la visuale: - Anche se questo mi ricorda che dovrei farmi altri vestiti rossi. Del resto, il rosso mi dona. -
- No, non ti dona. -
- Come no? - mise le braccia conserte, finse un tono offeso: - Il rosso dona sempre! E' il colore dell'amore! Il rosso è amore! -
- E sangue. -
S'irrigidì. Serrò i pugni.
Diede un colpo leggero a Gakupo, sul viso. Lo costrinse a guardarlo negli occhi.
- Ti ho detto di smetterla di dire cose macabre. - sibilò: "Pensavo fosse tutto a posto, ora...".
L'altro non rispose. Sembrava triste. Almeno c'era una qualche emozione.
- Stai bene? - un sussurro, preoccupato.
Kyte ci mise un istante a capire cosa intendesse. Annuì, accennò ad un sorriso: - Va tutto bene. -.
Forse avrebbe dovuto sentire qualche sensazione particolare, qualche timore, qualche rimorso. Ma si sentiva solo come se tutto quello - come se quella mattina - fosse un ricordo lontano, talmente distante da iniziare a sfumare nella memoria, quel momento in cui ci si iniziava a chiedere quanto di quel ricordo fosse vero e quanto ricostruito dalla fantasia.
- Vado a fare le valigie. -
Kyte annuì: - Vengo con te. -
- No. -
"Eh?" lo guardò, confuso.
Le labbra di Gakupo si curvarono appena verso l'alto. Sembrava un sorriso amaro: - Riposati. - disse, soltanto.
"..."
C'era qualcosa in quegli occhi. Una richiesta che non osava fare.
Kyte sorrise: - Puoi tornare qui. Lo sai. -.
Gakupo parve calmarsi, almeno un po'.
Tornò nella sua camera.
Kyte richiuse la porta della propria. Guardò a terra.
Il nastrino della giarrettiera.
Con la punta del piede, lo spinse sotto il letto.
Non era rimasto più niente, in quel punto. Gakupo non era più lì.
Espirò.
Gli parve che qualcosa di troppo pesante gli venisse tolto dalle spalle, gli parve di aver trattenuto il respiro per ore, tendendo i polmoni fino al limite.
Freddo.
Ora lo sentiva come se fosse un velo di ghiaccio cadutogli addosso, attraversando la pelle e avvolgendo le ossa.
Tremò. Tornò all'armadio, lo riaprì. Notò una sciarpa nera, quasi subito. La prese, richiuse l'armadio e se l'avvolse attorno al collo. Un'improvvisa ondata di caldo sciolse il ghiaccio sulle spalle e fece per scendere lungo il petto e la schiena, ma lì il gelo doveva essere troppo intenso. Rabbrividì per un istante, portò una mano alla stoffa. Vi affondò la bocca. Sentiva le labbra gelide.
Le gambe, però, non sapeva come scaldarle. Non aveva voglia di mettersi sotto le coperte. Si sentiva stanco, ma non voleva dormire ancora. Il motivo per cui si sentiva in quel modo non aveva a che vedere con la stanchezza fisica.
Camminò per la stanza. Andò alla porta, andò piano alla finestra, tornò alla porta, riandò alla finestra. Almeno non si sarebbe congelato sul posto.
La maniglia della porta cigolò.
Kyte si voltò.
La porta era chiusa. La maniglia era su.
Kyte sospirò, il battito contro le orecchie. Rivolse lo sguardo alla finestra, i vetri ricoperti di minuscole gocce di pioggia, alcune troppo pesanti che cadevano nelle altre al di sotto, lasciando una scia bagnata dietro di loro.
Un fruscìo, dietro di lui, distante, poi vicino.
Si voltò.
Ogni cosa era ferma. La porta era chiusa, la finestra era chiusa. Nessuna stoffa si muoveva.
Lasciò andare il respiro. Non si era accorto di averlo trattenuto. Tornò a guardare la finestra, vi si avvicinò. Alzò lo sguardo. Il cielo era una distesa d'inchiostro. Persino le gocce sembravano avere un colore, come se qualcuno avesse intinto la punta di un pennello in ciascuna di loro per sporcarle appena.
Forse avrebbero macchiato tutto ciò su cui sarebbero cadute. Forse l'avevano già fatto. Forse, per rimediare, sarebbe servita una pioggia colorata.
Un tonfo. E un fruscìo, un altro, un altro.
Non si voltò. Strinse la stoffa della sciarpa tra le dita.
- Cosa state guardando, Kyte? -
Sorrise. Chiuse gli occhi.
- Mi lasciate qui da sola? -
Se si fosse voltato, avrebbe visto quegli occhi azzurri fingersi offesi. Avrebbe detto la prima stupidaggine che gli sarebbe venuta in mente, e sarebbe andato da loro. Non avrebbe avuto più freddo. Le ore sarebbero passate troppo veloci. Aveva dormito tanto, forse sarebbe stato in grado di svegliarsi prima.
L'avrebbe visto dormire. Magari al suo fianco, tra le sue bracc- no, era più probabile l'avrebbe ritrovato spalmato su di sé nel modo meno elegante possibile e in posizioni per lui altamente pericolose. O forse lui si sarebbe comunque svegliato prima, se ne sarebbe andato e l'avrebbe rivisto solo alla colazione, in un bell'abito dai colori pastello. E, una volta svegliatisi per bene entrambi - cosa che non necessariamente avveniva nel giro di un'ora -, avrebbero fatto lezione.
Gli argomenti iniziavano a scarseggiare e avrebbe dovuto iniziare a scavare nella sua memoria per trovare una cosa anche piccola da cui tirare fuori qualcosa in grado di occupare due ore di studio.
Chissà cosa avrebbero preparato per pranzo. Chissà se avrebbero avuto del tempo per passeggiare. Forse sarebbero andati al lago, dietro gli alberi. Forse si sarebbero chiusi in qualche stanza. Forse sarebbero semplicemente stati nel giardino interno, seduti l'uno accanto all'altro, con la servitù che passava a pochi metri da loro.
Chissà se sarebbero andati in paese. Chissà se sarebbe arrivato un invito ad un ballo. Chissà cosa avrebbe indossato per il ballo.
La sua mano era più piccola della propria. A volte le punte delle dita erano fredde, a volte erano davvero calde. Palmo contro palmo, dita intrecciate alle sue.
Sapeva di banane. Anche se non ne aveva appena mangiate. Se gli mordeva la pelle, però, non sentiva sapore di banana. A volte gli sfiorava le labbra, a volte gli accarezzava la lingua con la propria.
- Presto non piangerete più. -
Spalancò gli occhi.
Tra le gocce sul vetro, azzurri, fissi.
Tremò.
Erano più scuri, meno rotondi.
Espirò, di nuovo.
Erano i suoi, di occhi. Non erano solo gocce di pioggia, quelle nel riflesso.
Se si fosse messo a dormire, si sarebbe risvegliato da solo, nel letto. Perché avrebbe dormito da solo, per tutta la notte. Se fosse sceso per fare colazione, avrebbe incontrato i signori, e Gakupo, forse.
Non ci sarebbe stata nessuna lezione. Non gli importava granché di cosa avrebbero preparato per pranzo. Il laghetto, la casa e il giardino non avevano alcuna attrattiva. Non ci sarebbe stato nessun ballo. Non ci sarebbe stato niente. Perché Len non era più-
Qualcosa lo colpì in pieno petto.
La figura di Len era stata strappata dai suoi pensieri.
Ma Len era ancora in quella casa.
Da qualche parte.
In quel momento.
Allentò la sciarpa. Si sentiva soffocare. Aveva l'impressione che l'intera magione si sarebbe ristretta da un momento all'altro, schiacciandolo.
Inspirò. Espirò.
Sbattè le palpebre, gli occhi non bruciavano più, la gola sembrava graffiata.
"...?"
Si avvicinò al vetro.
Nell'erba sporca d'inchiostro c'era una macchia bianca.
"..."
Non l'aveva vista apparire. Forse era lì da prima. Forse l'aveva fissata per tutto il tempo.
Bianca. Nera. Gialla.
C'erano altri colori, oltre al bianco. Riusciva a vederli in modo straordinariamente nitido.
Non vedeva altrettanto bene quella figura.
Ma aveva capito.
Si ritrovò nel corridoio, la porta sbattuta alle spalle, la falcata più ampia del dovuto.
"Cosa sto facendo?"
Voleva dimenticare. Voleva ricordare. Voleva andare lontano da quella casa. Voleva raggiungere quella figura bianca.
Forse le gambe stavano andando da sole, seguendo un percorso che avevano imparato a memoria. Ma lui non oppose alcuna resistenza.
Forse avrebbe dovuto sentirsi disorientato dal fatto che le sue gambe avessero più memoria della sua testa. Fino al giorno prima, qualcuno gliel'avrebbe fatto notare con quelle stesse parole.
Voleva ricordare. Voleva dimenticare. Voleva conservare quel ricordo lontano. Voleva cancellare quel ricordo vicino.
Aprì la porta d'ingresso.
La pioggia era fitta, eppure leggera. Sembrava nebbia. Forse era davvero solo nebbia.
Pochi istanti dopo, dovette arrendersi all'evidenza che fosse effettivamente pioggia. Non era fastidiosa, però. Non c'era neppure vento. L'unico rumore era quello della pioggia, distante, come se stesse piovendo altrove.
Avanzò. Gli stivali contro l'erba bagnata erano il suono più forte che si sentisse. Ritmico, lento.
Liberò la bocca dalla sciarpa appesantita dall'acqua.
La camicia si era attaccata alla pelle. La fasciatura sembrava più spessa, appena più pesante.
Avanzò, fin dove gli era parsa essere quella figura.
Una macchia bianca.
Si avvicinò, senza cambiare il passo. Voleva tornare indietro. Voleva andare avanti.
Strisce nere sul bianco.
Avrebbe fatto più male. Poteva ancora andarsene. Poteva ancora andare via e pensare che quelle ore non fossero mai successe, o che quei mesi fossero stati un lungo sogno.
Giallo, come il piumaggio dei canarini.
Doveva averlo sentito, ormai.
Poteva tornare indietro. Non voleva tornare indietro.
Non sapeva neanche lui perché si fosse fermato a poco più di un metro da lui, perché fosse andato lì, perché non volesse andarsene.
Non aveva pensato, quando si era buttato fuori dalla camera. Non aveva voglia di farlo, non riguardo quello. Sapeva solo di non voler tornare indietro.
Una delle lunghe strisce nere si mosse appena.
Kyte trasalì.
Solo in quel momento realizzò.
I capelli biondi erano legati in una crocchia alta, con un nastro nero lungo fino alle ginocchia, il fiocco che spuntava dalla nuca come un paio di orecchie da gatto. Attorno al collo bianco, un collarino nero.
Attorno al petto, una fascia nera, legata alla bell'e meglio sulla schiena. Una striscia nera sul bianco della pelle.
Le scarpette nere, con un accenno di tacco.
Le gambe coperte dalle calze nere fino a metà coscia. I reggicalze, tesi fino alla fascia nera sottile sui fianchi, risaltavano sotto la stoffa bagnata delle due sottogonne prima bianche, strappate all'inizio della gamba.
E strappate erano le gambe della biancheria, i bordi lacerati spiccavano sotto il tessuto fradicio.
La pioggia ricadeva sulle braccia, sulle spalle, sulla schiena, sulla pancia, sulle anche.
"Ma che...?"
I nastri neri si spostarono, una ciocca bionda lungo la guancia si scostò.
Un occhio azzurro.
Somigliava davvero tanto al suo. Non per il colore.
Le labbra rosate, ora pallide, si schiusero appena: - Io... - quella voce, bassa, esitante: - ... mi sento come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. -.
"..."
Non aveva idea di che espressione ci fosse sulla sua faccia. Era piuttosto sicuro non fosse arrabbiata. Forse era sorpresa. Forse non c'era nessuna espressione.
- Beh... - non erano state tanto le parole quanto la sincerità con cui erano state pronunciate a colpirlo: - ... avete tradito una persona, ingannato un'altra, giocato con i sentimenti di entrambe, avete mentito loro, le avete spinte l'una contro l'altra portandone una vicina all'essere uccisa... - sospirò: - ... quindi, direi che sì, avete fatto qualcosa di sbagliato. -
- Io non volevo che voi moriste! - l'occhio azzurro si spalancò, la voce si alzò all'improvviso: - Non ho mai voluto la vostra morte! Né quella di Gakupo! -
"Almeno questo..."
Per qualche strano motivo, la cosa non lo rincuorò minimamente.
- Vi ho fermati! - gli ricordò l'altro, una mano si alzò, ma rimase ferma a mezz'aria. La riportò giù un istante dopo.
Kyte rimase a guardare Len.
Era davvero Len, quello. Non aveva più quello sguardo, non parlava più con quel tono.
Il fatto che stesse parlando di ciò che era successo, però, gli dava la definitiva certezza che Len e quella cosa fossero davvero la stessa persona, che Len non fosse posseduto, che avesse pensato a tutto quello con lucidità.
- Perché? -
Non gli aveva ancora risposto in modo chiaro. Aveva un vago sospetto del significato di quelle parole inquietanti dette ore prima, ma voleva sentire una spiegazione da lui.
- Ve l'ho detto. - la voce si era riabbassata: - Non ho mai desiderato la vostra morte. - la palpebra coprì appena l'occhio: - Anche se ero certo che per voi non ci sarebbe stata più alcuna speranza. -
- Eh? -
- Non era così che doveva andare. Avevate bisogno di me. Ero rimasta solo io. Eppure voi non avete affatto bisogno di me. -
Altre frasi sconnesse. Forse sarebbe dovuto essere più chiaro lui, per primo.
Fece un passo avanti: - Intendevo, perché avete fatto tutto questo? Perché ci avete ingannato e spinti l'uno contro l'altro? -
- Perché volevo entrambi! - il tono si alzò di nuovo: - Volevo stare con voi per sempre! Ed era ciò che desideravate anche voi! E allora perché mi avete rifiutata? - la voce s'incrinò: - Dov'è che ho sbagliato? -
"... secondo lui, questa è davvero una risposta?" non gli sembrava che Len avesse evitato la domanda. La cosa lo inquietò.
- Non... - doveva essere diretto: - ... vedo il nesso tra ciò che dite e l'averci quasi fatti uccidere a vicenda. -
Lui non aveva mai avuto alcuna intenzione di fare del male a Gakupo. Gakupo, invece, era stato sul punto di-
Rabbrividì al pensiero.
Lo sguardo di Len sembrava sofferente. Ma non era sicuro fosse rimorso: - Io non posso essere come voi. - un sussurro: - Quindi dovevo rendervi come me. -
Kyte sbattè le palpebre: - ... continuo a non capire. -
- Volevo vedere fin dove sareste stati in grado di arrivare per me. - se la pioggia fosse stata più forte, non l'avrebbe sentito: - Volevo vedere quanto fossi importante per voi. -
Kyte tremò.
- Le cose per voi più importanti erano me e il vostro legame. Per me, siete stati disposti a distruggerlo. Avete distrutto il vostro mondo, lasciando in piedi solo me. Avreste dovuto ricostruire il vostro mondo attorno a me. Ma... - sembrava quasi stesse per piangere: - ... ve ne siete andati. Mi avete rifiutata. Perché? -
"... si chiede perché ce ne siamo andati dopo che lui ci ha quasi fatto uccidere a vicenda?" rimase impietrito. Soprattutto perché Len era serio.
- Direi che... - la voce uscì a fatica: - ... fare tutto ciò che avete fatto non è un'idea geniale per legare a sé due persone. -
- COS'ALTRO POTEVO FARE? - un urlo. Len si voltò del tutto verso di lui.
Un brivido lo scosse.
Quegli occhi azzurri erano sgranati. Le ciocche bionde ricadevano sul viso. La parte sinistra era rossa. Rosso scuro, tra i capelli sulla fronte, tra i capelli che puntellavano le guance. Cinque linee dai contorni incerti, un sopracciglio spezzato in cinque punti, una palpebra graffiata, la pelle lacerata.
"Cosa...?"
Sembravano unghiate. Di colpo, ricordò del tutto le mani di Len, le sue dita.
"... si è...?"
- IO NON SONO COME VOI! - Len fece un passo avanti, i pugni serrati, le nocche sbiancate: - Io sono costretta a rimanere qui per sempre! - aveva gli occhi lucidi: - Non posso sposarmi! Non posso legarmi a nessuno! Non posso neppure vivere da sola! Devo essere sempre controllata! L'unico modo che ho per rimanere in vita è rimanere qui! - riprese fiato. Abbassò lo sguardo, i capelli gli coprirono gli occhi: - E' così sbagliato volere qualcuno con me? E' così sbagliato illudersi che non ci sia nulla di sbagliato? E' così sbagliato desiderare di comportarsi del tutto come si vuole? -.
Kyte non rispose. Gli sembrava di non ricordare più come si facesse a parlare. Il gelo era tornato.
Len rialzò lo sguardo. Quelle sul viso non erano più solo gocce di pioggia. Le labbra si curvarono appena in un sorriso: - Una volta ho fatto un incubo. Ho sognato di essere scoperta. Che delle persone mi afferravano e mi strappavano i vestiti di dosso, e mi trascinavano nella piazza del paese. Che mi buttavano a terra, che mi aprivano le gambe e mi chiamavano "Milady" ridendo. Ricordo che mi tiravano i capelli. E che io ero talmente spaventata da non riuscire neppure ad urlare. - le dita andarono alla gola: - Ci provavo, ma non usciva nessun suono. Nessuno poteva sentirmi, neppure quelle persone. Mi dimenavo, ma loro presa era troppo forte. Più cercavo di liberarmi, più loro stringevano. Alla fine, non ho più cercato di liberarmi. Ricordo che piangevo. In silenzio. Non riuscivo neppure a singhiozzare. - abbassò la mano: - Poi mi sono svegliata. E mi sono resa conto che era stato solo un incubo. - sorrise: - Ero talmente felice che sono scoppiata a piangere sul serio. - giunse le mani: - Quello era solo un incubo. - il suo sorriso si fece amaro: - E qualcosa che potrebbe succedere, se facessi un errore. -.
"..."
- Quando ero con voi, non avevo nessuna paura. - riportò le braccia lungo i fianchi: - Potevo illudermi di poter essere me stessa. Voi sapevate la verità, ma mi siete rimasti vicino comunque. Mi amavate, sia che fossi "milady" sia che fossi un... - la voce si spense sull'ultima parola. Sospirò: - A me non è concesso essere me stessa. Posso solo illudermi di esserlo. Mi chiedo se sia sbagliato desiderare di volerlo essere. -.
Kyte non rispose.
Sentiva due forze opposte all'altezza del petto, che si scontravano con violenza, nel tentativo di sopraffarsi l'un l'altra. Erano talmente definite che poteva quasi sentire nitidamente il punto d'incontro.
Sarebbe voluto andare da lui, avrebbe voluto azzerare la distanza tra loro e abbracciarlo. Doveva avere la pelle gelida. Voleva passargli le dita tra i capelli bagnati, sciogliere il nastro nero e baciare quelle labbra pallide. Voleva accarezzare quella pelle fredda, fino a sentire la stoffa bagnata delle sottogonne contro il dorso della mano. Voleva slacciare i reggicalze, scoprirgli le gambe. Voleva scaldarlo anche lì, sotto la pioggia, facendogli dimenticare tutto.
Sarebbe voluto andare da lui, avrebbe voluto azzerare la distanza tra loro e colpirlo. Il sangue che aveva desiderato vedere ore prima voleva vederlo ora sulla sua pelle. Voleva colpirlo con tutta la forza che aveva, sapeva che lui non sarebbe stato in grado di difendersi o scappare. Visto che gli piaceva tanto dire di essere stato costretto, l'avrebbe costretto sul serio, facendogli più male che poteva, senza mai coprirgli la bocca solo per sentirlo urlare.
Fece un passo avanti.
Vide Len trasalire. Una luce di paura negli occhi, per un istante.
Forse il suo viso lasciava vedere entrambe le sue sensazioni. E Len non poteva essere sicuro di quale lui avrebbe scelto.
- Voi... - la voce uscì più bassa di quanto si sarebbe aspettato: - ... non fate mai i compiti. -
Len sgranò gli occhi. Sbattè le palpebre. Scosse la testa: - A volte sì. -
- E vi piacciono i vestiti. - sentì le labbra tirare appena: - E i balli. Voi amate i balli dai conti di Tibirsh. E danzare il valzer. E amate le banane, ovviamente, tanto da divorarle senza alcun decoro. E vi piace andare in paese. E fare passeggiate. E fare tanti capricci. E prendermi in giro. - lasciò che le sue labbra sorridessero: - Quello siete voi. - Len sbiancò: - Ogni volta, siete sempre stato voi. - lo vide spalancare gli occhi.
- Cosa...? -
- In quei momenti, voi eravate davvero voi. Voi stesso. Non stavate nascondendo niente. Era quello il vero Len. - ogni parola era una pugnalata al petto.
Ricordava quei momenti. Voleva tornare a quel tempo. Voleva che quelle ore precedenti non fossero mai successe.
Incontrò quello sguardo azzurro.
Gli occhi si erano arrossati.
Le mani si erano alzate, fino alla bocca. Tremavano.
Vi affondò il viso.
Un singhiozzo. Un altro, un altro ancora.
La seconda forza fu sbattuta via dalla prima. Non sarebbe mai stato in grado di fare una cosa del genere. Non ne avrebbe ottenuto alcun appagamento. Non senza impazzire. Non quando quei singhiozzi gli ferivano le orecchie e lo facevano star male più dei ricordi.
- Bugiardo. - la voce era spezzata: - Siete un bugiardo. -.
L'idea che Len stesse male gli aveva sempre fatto repulsione. Tutta quella situazione l'aveva sempre disgustato. Avrebbe voluto far sì che Len non piangesse mai più per quel motivo.
E, ogni volta...
- Perdonatemi. -
Sentiva di star sorridendo. Si era arreso all'evidenza. Poteva solo confessare.
Len alzò il viso. Lo guardò, incredulo: - ... cosa? -
- Perdonatemi. - ripetè. Non poteva più scappare. Non voleva più scappare: - E' vero, sono un bugiardo. Vi ho mentito su qualcosa di importante. E ho finto di non rendermene conto, solo per sentirmi meglio. Mi sono autoconvinto di star dicendo la verità, quando era ovvio che mi stessi solo illudendo. - inspirò: - Tutto perché avevo paura di affrontare la realtà. Ogni volta, sono fuggito. Proprio quando voi avevate più bisogno di me. -
- Cosa- -
- Vi ho detto di amarvi, ma non era vero. -
Len sgranò gli occhi.
- Nel senso... - Kyte alzò le mani davanti al petto, si affrettò a spiegare: - Amavo l'idea che avevo di voi. - abbassò le braccia: - Se vi avessi amato davvero, non sarei scappato ogni volta che avevate bisogno di aiuto. - era la seconda volta che lo diceva. Ma la vergogna e il dolore non si erano affatto attenuati.
- E poi... - sorrise, forse non era un sorriso sereno: - ... se vi avessi amato davvero, avrei capito che c'era qualcosa che non andava. Che, per voi, non ero l'unico. Che stavate pensando a cose simili. Quindi... - quello sguardo fisso: - ... perdonatemi. - il dolore aumentò: - Mi sono convinto di conoscervi. Anche se non era davvero così. - si sentì soffocare. Al tempo stesso, gli parve che qualcosa di pesante gli venisse strappato di dosso: - Però... - le gocce di pioggia parvero improvvisamente pesantissime. Visto come gli si schiantavano addosso, forse l'avrebbero buttato a terra. Sentì le labbra tirare appena: - ... mi sarebbe piaciuto conoscervi. -.
"Mi chiedo se avessi potuto evitare tutto questo. Se non fossi scappato, forse tutto questo non sarebbe successo. Forse Len sarebbe stato sincero. Forse non sarebbe arrivato fino a questo punto.".
Len lo guardava, immobile, gli occhi spalancati, la bocca schiusa. Non si era mosso neppure un attimo, forse non aveva neppure sbattuto le palpebre.
Sembrava bloccato.
Poi le sue guance sfumarono di rosso. Lo vide stringere i denti.
E la sua voce, roca, gli perforò le orecchie.
- STUPIDO! -
"E-eh?" fece un passo indietro, disorientato: "Ma che-"
- Siete uno stupido! - Len fece un passo avanti - parve conficcare un tallone nel terreno bagnato, quando posò il piede: - Stupido! Stupido! Non si può credere che possa esistere al mondo una persona tanto stupida! Se uno dovesse pensare alla stupidità, la prima cosa a cui penserebbe sareste voi! Se le parole dovessero incarnarsi, la stupidità avrebbe il vostro aspetto! Se dessero i titoli nobiliari in base alla stupidità, voi sareste l'imperatore supremo! Quando siete nato, la stupidità era in Acquario e stava andando verso i Pesci! Se si anagramma il vostro nome e il vostro cognome, esce la parola "Stupido"! Perché siete stupido! Stupido! STUPIDO! -
"Cosa..."
Len prese una boccata d'aria, il volto completamente rosso: - Perché vi state scusando? - serrò di nuovo i denti: - Perché vi state scusando...? - la voce si affievolì. Le palpebre si abbassarono appena sugli occhi bagnati.
Lo vide abbassare lo sguardo. I capelli coprirono il viso.
"... cos'è successo...?" non sapeva cosa fare: "... forse dovrei dire qualcosa...?" ma non aveva idea di cosa. Soprattutto, temeva che l'altro si sarebbe tolto una scarpa e gliel'avrebbe lanciata accertandosi che il tacco gli finisse in un occhio.
Non aveva capito perché gli avesse urlato contro fino a probabilmente spaccarsi la gola, ma non aveva l'urgenza di chiedergli il motivo.
- Sì. -
Kyte sbattè le palpebre. Gli era parso di sentire una parola.
- Sì. - Len alzò il viso. Sorrideva. Non c'era alcuna traccia di sentimenti negativi, in quel sorriso. Però stava piangendo: - Sì. - un passo avanti: - Sì. - un altro passo avanti: - Sì. -.
"... 'sì' cosa?"
Gli si era avvicinato. Con una falcata larga, sarebbe stato in grado di raggiungerlo.
Solo...
- Cosa- -
- Se potessi invertire il tempo... - un sussurro, quasi impecettibile: - ... le parole andrebbero al posto giusto. -.
"..."
- Ma non posso. - parlava piano, calmo: - Il tempo si è disperso. E non tornerà più. - si sfiorò la guancia ferita con le punte delle dita: - Kyte... - sembrava quasi una supplica: - ... allora perché continua a fare male? -.
Lo guardava negli occhi. Per la prima volta, quello che vi vide fu rimorso.
Non era sicuro fosse per ciò che aveva fatto loro. Ma c'era.
- Non lo so. - rispose, la voce uscì fin troppo pacata: - Non posso saperlo con certezza. Posso solo provare ad immaginarlo. -
- E cosa immaginate? - sembrava volesse giungere le mani. Sembrava improvvisamente smarrito in un luogo sconosciuto troppo grande e troppo buio. Lo stava pregando davvero.
Si sentì a disagio.
No, non era disagio.
Sentiva di volerlo prendere per mano e portarlo nella propria camera, e abbracciarlo, senza fare altro. Ma c'era qualcosa che lo inquietava. Sentiva che, se l'avesse fatto, avrebbe abbracciato soltanto un involucro freddo.
Non capì perché sentisse quella sensazione. Ma era ciò che gli faceva pensare Len in quel momento.
- Credo... - tuttavia, sentiva anche di non dover moderare le parole in alcun modo: - ... che, cercando di essere felice, siate finito con il ferirvi. -.
Len trasalì.
Rispose dopo qualche istante, la voce quasi soffocata: - Quindi è sbagliato desiderare di essere felici? -
- Credo sia sbag- - esitò. Non doveva moderare le parole. Ma non poteva atteggiarsi a detentore della verità. Neanche lui era più sicuro di quale fosse: - ... credo non sia questo il metodo per trovare la felicità. -
- Non lo è. - distolse lo sguardo.
- Len- - si fermò. Len stava guardando qualcosa alle sue spalle.
Si voltò.
"Cosa-?"
Gakupo era a pochi metri da loro, sotto la pioggia. Ricambiava lo sguardo di Len. Da quella distanza, Kyte non riuscì a capire se i suoi occhi avessero o meno vita. Il solo fatto che fosse lì, però, gli fece pensare di sì.
E si rese conto che quella era la prima volta, da quella mattina, in cui Gakupo reincontrava Len.
"... da quanto tempo è qui?"
Cercò il suo sguardo, ma l'altro continuava a guardare Len. Non sembrava ignorarlo. Con un moto d'inquietudine, si rese conto che forse Gakupo non riusciva a distogliere lo sguardo da lui. Si convinse che forse anche il modo in cui era conciato potesse essere un motivo.
- Sono stata brava? - Len aveva accennato ad un sorriso. Ma non era arrivato fino agli occhi: - Sono stata brava ad imitare una ragazza pura e innocente? -
- Iya. - la voce atona, inespressiva. Ancora non riusciva a vedere il suo sguardo: - Un tentativo davvero fallimentare. -
- Cattivo. - il sorriso si spense: - Ma avete ragione. Sono stata più brava ad imitare una ragazza sincera. - alzò lo sguardo, verso il cielo scuro. Abbassò appena le palpebre, la pioggia era leggera, ma c'era.
Gakupo non si mosse, né disse niente.
"Dovrei raggiungerlo...?" gli sembrava dal terreno bagnato fossero spuntate delle radici fin troppo resistenti, che si erano serrate attorno ai piedi e alle caviglie, per poi risalire fino alle ginocchia. Non era sicuro di avere abbastanza forza per provare a liberarsi. Non in quel momento, almeno.
- Kowarete iku sora. -
Kyte riportò lo sguardo su Len. Ancora guardava verso l'alto. La voce era tornata un sussurro.
- Mamorubeki mono o kowashite... - Len tornò a Gakupo. Poi da lui.
Le iridi sembravano di vetro.
- ... ne? -.
"..." voleva dire qualcosa. Qualsiasi cosa che potesse far tornare Len "Len". Non erano gli occhi freddi che l'avevano inquietato in quei mesi, quelli da cui era sempre fuggito. Era qualcosa di diverso. Quegli sguardi da bambola dagli occhi di vetro erano momentanei. Sarebbero finiti. Len sarebbe tornato il Len di sempre.
Quello-
- So che mi odiate. - la voce era tornata normale. Spaventosamente normale: - Che forse mi odiate tanto da volermi uccidere. O torturare. O torturare e poi uccidere. O uccidere e poi torturare. -
- Non ha senso... -
Un accenno di sorriso: - Potreste uccidermi e poi farmi a pezzi. -
"Lo dice così." non era calmo. Non era nervoso. Non stava scherzando. Era vuoto. Una bambola che cercava di imitare espressioni e intonazioni umane, senza riuscirci.
- Però... - portò una mano al petto, al centro della fascia nera: - ... c'è una cosa che voglio voi facciate. - "Eh?" - L'ultima cosa che vi chiedo. Anche se voi mi odiate e non avete nessuna intenzione di esaudire una mia richiesta. - la voce si abbassò appena: - Forse neanche posso osare farvi questa richiesta. Ma voglio che la esaudiate comunque. -.
Il rumore leggero della pioggia.
Gakupo non aveva risposto.
- Cosa? - era più la curiosità che spinse Kyte a parlare, anche per lui. Non lo stupiva che Len chiedesse loro qualcosa. Aveva sentito abbastanza frasi sconnesse. La cosa che più lo inquietava era che quelle frasi, nella mente di Len, avessero un senso.
Lo vide tornare a sorridere. Somigliava quasi a Len. Avrebbe voluto il contrario.
- Dimenticatemi. -.






Note:
* Parole/frasi in giapponese o, almeno, quello che intendevo far dire
- "Eien ni...": Per sempre...
- "Shiawase desu ka?": Siete felice?
- "Watashi wa shiawase desu.": Io sono felice.
* "Così... è questa la risposta giusta per noi?": Setsugetsuka.
[Così, era questa la risposta migliore per noi.]
* "Il rosso è amore" + "Sangue": Le rouge est amour e Blood, la prima cantata da Gakupo e la seconda da Kaito.
* "Pioggia colorata": Aya shigure. (In realtà, la traduzione più corretta dovrebbe essere "Acquerugiola Leggera pioggia colorata".)
* "Se potessi invertire il tempo...": Haitoku no Kioku - The Lost Memory.
* "Il tempo si è disperso." / "... allora perché continua a fare male?": Riferimento al ritornello di Haitoku no Kioku - The Lost Memory.
[Spiegami [...] / perché le lacrime stanno cadendo? / Il tempo si disperde [...] / Dov'è la ragione del dolore che non se ne va?]
* "Kowarete iku sora": Lovelessxxx. [Il cielo si sta distruggendo.]
* "Mamorubeki mono o kowashite...": Lovelessxxx. [Ho distrutto ciò che avrei dovuto proteggere...]
* Forse si può intuire il riferimento ai vestiti rossi. *Stavolta non di Len - anche se lui, il suo "vestito rosso", l'ha già indossato.*
* Gli abiti che indossano tutti e tre - ebbene sì, stavolta si sono cambiati pure gli altri due *ogni tanto capita.* *E Kaito ha la sciarpa!* - sono quelli di Haitoku no Kioku - The Lost Memory, con varie modifiche. U.U
* Nelle mie idee, questo capitolo (e il prossimo) vorrebbe essere un... ehm... uno pseudosong-chapter (...?) molto pseudo di Haitoku no Kioku - The Lost Memory. [Traduzione]
Oltre ai riferimenti espliciti già citati, ce ne sono altri più velati - e un altro vagamente esplicito, non lo segno perché gli ho dato una resa e un senso un po' diversi. U.U"




Salve.
Se stai leggendo queste note, allora avrai aperto questo capitolo - o possiedi poteri paranormali. Ma io so che, prima di aprire questo capitolo, hai guardato lo Stato della storia, giusto per vedere se l'Ultimo Capitolo fosse stato diviso o meno.
Lo Stato della storia deve averti già dato la risposta.

Comunque.
... questo è ufficialmente il penultimo capitolo! *A*/
Sì, l'Ultimo Capitolo è venuto lungo abbastanza da essere diviso in due piuttosto che in tre *temeva seriamente.*, dunque questo diventa ufficialmente il penultimo capitolo anche se sarebbe la prima parte dell'ultimo e anche se era il capitolo precedente ad essere teoricamente il penultimo che- *implode*

Dicevamo.
Si è tornati al POV di Kaito *dopo tipo mezza storia* e, come preannunciato per ogni luogo e per ogni mezzo, piove. *O* Il mirabolante trio non può resistere al richiamo dei vestiti fradici sotto la pioggia (?) e si premura di lanciarsi in mezzo ai prati, nella rain-haze (?) e rigorosamente senza ombrello, che sennò sciupava la scena. Del resto, quale miglior luogo per un regolamento di conti (...?) di un grosso rettangolo d'erba sotto litri di acqua e magari vestiti di nero e bianco - o poco vestiti di nero e bianco?
Ebbene sì, il capitolo si rifà pesantemente ad HnK-TLM *voleva provare l'ebbrezza di abbreviarlo (?)*, l'ultimo del "E' ispirato a Lovelessxxx e a qualche altra cosa" insieme ad Imitation Black. Nonché ciò da cui era partito tutto. U.U *Alla fine si torna sempre al principio. (...?)*
Non di meno, sono riuscita ad infilare una citazione pure per la nuova Aya shigure. *A*
So che ve lo state chiedendo: sì, nel prossimo capitolo saranno citate di sfuggita pure Increase e Blue salvia. Mi rendo conto che questo è uno spoilerone immenso che va a minare le fondamenta stesse della narrativa, ma ve l'ho fatto lo stesso. *...?*

Fermo restando che ogni cosa sarà spiegata - quindi, se anche col prossimo rimarranno dubbi, mi inginocchierò sui ceci -, vorrei chiarire un paio di cose in questo capitolo *che verranno riprese anche in seguito, ma sempre velatamente, quindi tanto vale lo dica ora*.
Durante la scena di Kyte e Gakupo c'è qualcuno - chissà chi - che fa robe strane con una lama citando quel tripudio di allegria che è il Fiore della Luna Effimera. Nelle fanart di Lovelessxxx - che ogni tanto mi ricordo di citarlo, così, tipo, se capita - fiocca la presenza di quell'affare laggiù.
Anche se, in quella scena, qui Len avrebbe il vestito di Imitation Black, acc-
Ora, io, guardando il PV, quell'affare non l'ho mai visto. Però è un tema ricorrente (molto ricorrente) nelle fanart, quindi ci sarà un fondo di verità (?), quindi... *C'era la svendita di Quindi e ne ho approfittato.*
Probabilissimo me lo sia perso io, o magari era prossimo al messaggio subliminale come il celebre inizio del suddetto PV.
Ho citato il celebre inizio del suddetto PV e non l'ho fatto a caso. Questa era la seconda cosa.

La cosa che più spicca di questo capitolo, però, è senz'altro il colpo di scena mozzafiato: il piano di Len è platealmente fallito.

Comunque sì, il prossimo è effettivamente l'ultimo capitolo di questa long sui VanaN'Ice, il che è tutto dire.
*sospira*
Come sempre, spero che questo miscuglio di deliri mistici, mentali e fisici - cercasi seriamente colla per il cuore di Kaito - ogni riga sempre più harmony vi sia stato gradito. ^^
Se ci sono critiche o consigli, dite pure. ^^

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Capitolo 15
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Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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- ... cosa? -
Aveva sentito Gakupo fare un paio di passi avanti. Quando guardò verso di lui, si accorse che aveva gli occhi sgranati. E che avevano un barlume di vita.
La cosa lo rincuorò un poco.
Tornò a guardare Len, l'espressione immutata.
- Voglio che dimentichiate tutto questo. - aprì un braccio: - Questi mesi. Questo luogo. Queste persone. Me. Voglio che cancelliate dalla vostra mente qualsiasi cosa vi ricordi me. -
"Cosa?"
Le braccia tornarono lungo i fianchi: - Voglio che cancelliate ogni vostro ricordo di me. Come se fossimo tornati indietro nel tempo, ad un anno fa. Come se tutto questo non fosse mai successo. Voglio che mi cancelliate dalla vostra esistenza. Voglio che cancelliate qualsiasi sentimento abbiate provato per me. Positivo o negativo. -
"..." sentiva freddo sulle guance. Doveva essere sbiancato.
- State scherzando. - non era una domanda.
Len scosse la testa: - Voglio che dimentichiate. Voglio che mi dimentichiate. Sarò solo io a ricordare. Ricorderò ogni momento. Con entrambi. Felice o triste. Anche questo istante. Ricorderò tutto. Fino alla fine. Quindi... - si avvicinò appena, solo due piccoli passi. Guardava entrambi. Poi uno, poi l'altro. Per poterli guardare negli occhi: - ... cancellate i vostri sentimenti. Siate felici. -.
"... cosa?" aveva perso il conto di quante volte l'avesse pensato. Forse ad una decina non aveva neppure fatto caso.
- Pensate davvero che basti così poco? - ribattè, la voce uscì più rabbiosa di quanto avrebbe voluto: - Che ci diciate "Dimenticatemi" e, per magia, dimentichiamo tutto? -
Una risata leggera. Come lui aveva sempre immaginato la risata sinistra di un fantasma nei racconti dell'orrore: - Sarebbe bello se fosse davvero così. - Len alzò le spalle: - Sarebbe tutto più facile. Però, potete iniziare a farlo. A non pensare più a me. Pian piano, mi dimenticherete. -
- Non credo sia possibile. - sentiva di poter parlare anche per Gakupo. Non sapeva perché, ma era sicuro di sì.
- Sì che è possibile. - quegli occhi fissi nei suoi: - Voi potete cambiare. Incontrerete altre persone. Vi legherete a qualcun altro. E i ricordi che avrete con loro finiranno per cancellare quelli che avete con me. Dopo un po', mi avrete dimenticata. Quando non ricorderete più i miei occhi e la mia voce, allora mi avrete dimenticata davvero. -
- Io ricordo tante persone che preferirei non ricordare. - disse Kyte, piano: - E le ricordo fin troppo bene. -
- Ma voi siete stupido, Kyte. -
L'aveva sentita un po' troppe volte.
- Intendevo... - trasse un profondo respiro: - Avere nuovi ricordi non significa cancellare i precedenti importanti. -
- Sono sicura che ci riuscirete. -
- Potremmo non volerlo. -
Len trasalì. Sbattè le palpebre. Ma i suoi occhi rimanevano vuoti: - Perché non dovreste volerlo? -
Kyte lanciò un'occhiata a Gakupo. Sì. Poteva rispondere anche per lui.
Tornò a guardare davanti a sé.
Sorrise. Neppure lui sapeva perché. O forse perché quella risposta era l'unica vera verità: - Perché siamo stupidi. -
- Accetto di essere accostato a te solo in questo caso. - aggiunse una voce roca alle sue spalle.
Len chiuse gli occhi. Quando li riaprì, nulla era cambiato: - A questo non c'è rimedio. -
- Temo di no. - annuì. La voce stava uscendo stranamente calma. Dentro si sentiva andare in pezzi. E c'era un cratere all'altezza del petto. E una sensazione sinistra. Troppo brutta per poter essere vera. Troppo palese per poter fuggire di nuovo.
- Voi, piuttosto. - riprese: - Perché dovreste ricordare tutto questo? -
Len tacque.
- Perché voi dovreste ricordare e noi dimenticare? Siete stupido anche voi? -
- Non accetto di essere accostata a voi, in nessun caso. - sorrise. Quel sorriso vacuo: - Ve l'ho detto prima. Se voglio vivere, posso vivere solo qui. Come ho sempre fatto. Assieme a voi, sono stata davvero felice. - la mano andò al cuore, lo sguardo si abbassò: - Quando ve ne sarete andati, io tornerò sola. Come è sempre stato. Ogni cosa tornerà alla normalità. Però io voglio ricordare quei momenti in cui sono stata felice. -.
Il sangue si ghiacciò nelle vene.
"... calmati." non poteva farsi prendere dal panico. Doveva tenere la voce calma. Non poteva essere diretto. Non avrebbe funzionato. Quel luogo enorme e buio in cui Len si era perso era la sua mente. Doveva-
"..."
- Piuttosto che ricordare i momenti con noi, perché non ne create di nuovi? -
Vide quegli occhi azzurri sgranarsi, più innaturali di prima. E le guance arrossarsi: - Mi state prendendo in giro. Vi ho detto- -
- Perché potete vivere solo qui? - continuava a guardarlo negli occhi.
- ... siete stupido. - un sospiro frustrato: - Persino un bambino scemo lo capirebbe! Se mi scoprissero- -
- Voi volete nascondervi? -
- ... eh? - confusione, sotto quel velo opaco degli occhi.
Sentiva lo sguardo di Gakupo addosso.
- Ricordate? - sorrise. Fu spontaneo: - Quando ci siamo incontrati. Volevate vedere la mia spada- - "Quella di ferro." - -sguainata. E poi avete accettato il whiskey. L'avete quasi finito, in realtà. O quando avete provato i miei vestiti. -
Len era impallidito di colpo. Aveva fatto un passo indietro. Per un istante, gli era parso che le gambe appesantite dalle calze fradicie non l'avrebbero più sostenuto.
- Quello... - parlò piano: - ... era Len. Lord Len Mirror. -
Vide quelle spalle sobbalzare. Aveva portato le braccia conserte.
- Non perché maschio. - continuò, senza distogliere lo sguardo: - Ma perché ciò che voi volete è smettere di fingere ciò che non siete. -.
Len schiuse le labbra. Ma non uscì alcun suono.
- Non so quale sia il vostro vero desiderio. - confessò: - L'unica cosa che credo di aver capito è che voi non volete continuare a fingervi Lady Len Mirror. -
Quel "credo" lo aveva aggiunto solo per non sembrare invadente. Quella era una delle poche cose per cui si sentiva davvero sicuro.
Di nuovo il rumore lieve della pioggia.
- ... devo farlo. E' giusto così. - Len rispose dopo qualche secondo. La voce era terribilmente calma. Lo sguardo era di nuovo del tutto vuoto.
- Perché? - parlò prima che l'altro potesse ribattere: - Chi è che l'ha deciso? -
- Gente che sa come funziona qui. - sibilò Len: - Non voglio essere umiliata pubblicamente e venduta come giocattolo sessuale! -
- Chi è che ha detto che finirà così? - aveva freddo. Strinse i pugni, ma non si scaldarono.
- E' ovvio! - aveva alzato la voce.
- E' ovvio soltanto in un caso. -
- Vorreste forse dirmi che ci sono altri casi in cui questo potrebbe non succedere? -
- Tutti gli altri. -
- Quali altri? -
- Quelli che potete scegliere. -
Len si bloccò. Era come se fosse diventato muto per un istante. Poi la voce uscì come se l'avesse buttata fuori con violenza: - Io non posso scegliere niente. Non mi è concesso scegliere niente. E' così e basta. In eterno. -
Continuava a ripeterlo.
"Ci crede o sta cercando di convincersi...?"
Inspirò. L'aria era davvero fredda: - Sapete... - mormorò: - ... qualche tempo fa, una persona mi disse che non esiste nulla che rimanga uguale per sempre. Né il mondo né le persone. - affondò la bocca nella sciarpa, per un istante: - Tutto cambia. E' una cosa che è così e basta. - sorrise. Len lo guardava male, dietro quel vetro degli occhi. Proseguì: - Mi ha anche detto che tutto ha un'ombra. O più ombre. Grandi o piccole che siano. - alzò lo sguardo al cielo: - Ora le nostre ombre non si vedono. Forse perché sono mescolate all'ombra delle nuvole, che è più grande di tutte le nostre insieme. - tornò a guardare Len. Era sicuro si stesse chiedendo se non fosse impazzito all'improvviso: - Però, visto che tutto cambia, anche le ombre cambiano. Possono diventare più grandi, più piccole, o sparire proprio. O possono apparirne di nuove. Possono diventare così grandi da venirne divorati. -
- Se si viene divorati, ogni cosa finisce. - lo interruppe Len: - Quindi non potrà più cambiare. -
- No. - la voce usciva calma, non aveva idea del perché, ma era quello che gli serviva: - Cappuccetto Rosso e la nonna sono uscite dalla pancia del lupo. -
- Cosa c'entrano Cappuccetto Rosso e la nonna. -
- Sono due persone che sono tornate dopo essere state divorate. - era sicurissimo di avere un sorriso idiota.
- Se non fosse arrivato il cacciatore, sarebbero rimaste lì. -
- Sì. Non sono state solo loro ad essere state salvate da qualcuno. - non avrebbe detto oltre, a riguardo. Non con quegli altri occhi puntati contro.
- E dunque? - Len aveva ancora le braccia conserte, il tono freddo.
- Dunque il solo fatto che esistiate implica che voi siate cambiato. Tante volte. -
Gli parve avesse tremato, per un istante: - Vi sbagliate. Se anche ci sono stati, sono stati cambiamenti talmente minuscoli da essere invisibili. -
- Oppure... - sussurrò: - ... siete stato voi ad ostinarvi a fermare ogni possibile cambiamento. -.
La pioggia si era fatta più intensa. Non troppo. Non era fastidiosa. Ma la sentiva con più chiarezza.
- Cosa? - un sibilo velenoso.
- Il mondo non è questa casa. - disse, fermo: - Non è neppure questa regione. Siete mai andato fino alla mia città natale? Siete mai andato in Scozia? In Galles? In Irlanda? Nel Continente? Nelle Americhe? In Giappone? - Len fece un passo indietro: - Se anche l'aveste fatto, ci sarebbe ancora da vedere. Voi studiate il giapponese, ma non sapete neanche cosa c'è ad un centinaio di chilometri da qui. - vide qualcosa tremare, nel suo sguardo: - C'è un mondo intero in cui potete andare e voi siete convinto di essere imprigionato in una casa di campagna. -
- Voi continuate a non capire che io non posso fare ciò che fate voi! -
- Perché? -
- Perché vi ostinate a fare domande stupide? - la voce era fin troppo alta.
- Perché vi ostinate a fare ciò che vi dicono gli altri piuttosto che fare ciò che desiderate? -
Non sentiva più la pioggia. Era sicuro ci fosse, ma non la sentiva.
Sembrava davvero si fosse bloccato tutto.
Poi Len scosse la testa, senza staccare lo sguardo dal suo.
Nei suoi occhi era tornato qualcosa, fin troppo visibile.
Era terrorizzato.
- E' così che volete punirmi? Smettetela. - qualcosa contro il petto: - SMETTETELA! - un leggero dolore, poi un altro sullo stomaco.
Un altro più forte, un altro più debole, più fastidioso che doloroso.
Poi Kyte gli prese i polsi - la pelle era gelida come immaginava - e gli impedì di continuare a prenderlo a pugni.
Sentì che provava a liberarsi. Ma Len non aveva questa grande forza fisica e probabilmente, in quel momento, non aveva neppure abbastanza volontà per usarla.
Un fruscìo alle sue spalle.
Gakupo apparve dietro Len. Vide le sue mani posarsi sulle spalle, per poi stringerle appena. Dopo qualche secondo, con quello che sembrava un ringhio, Len lasciò le braccia molli nella sua presa e Kyte lo liberò.
- Len. - i capelli gli coprivano gli occhi: - Non si può dimenticare a comando. E neppure imporsi di ricordare. Soprattutto... - gli posò una mano sulla testa: - ... noi tre siamo essenzialmente stupidi. -
- Per voi non ho alcun dubbio. Soprattutto per voi, Kyte. -
- Io non credo potrò dimenticare ciò che è successo. Né ciò che c'è stato di bello, né ciò che è successo oggi. Non so quando o se sarò in grado di perdonarvi. - alzò gli occhi, incontrò lo sguardo chiaro di Gakupo. Poteva parlare al plurale di nuovo. Tornò a guardare Len: - Ci avete ferito. Le ferite fisiche guariscono in fretta. - sfiorò con le dita i graffi sulla metà del volto: - Le altre, invece, tendono a metterci un po' di più. Forse non guariscono mai del tutto. -
- Avete un libro per le frasi fatte da sfoggiare ad ogni occasione? -
- Una delle poche cose di cui sono certo, però... - gli scompigliò i capelli: - ... è che, se lo si desidera, si può avere un'altra occasione. Perché ogni cosa cambia. - sospirò: - Quando quella persona me lo disse, non capii una parola. Mi chiese anche di cambiare rimanendo come sono. Credo, semplicemente... - vide degli scorci azzurri tra le ciocche bionde: - ... che ognuno può decidere di fare ciò che vuole per poter essere se stesso. E il "se stesso" delle persone cambia a seconda di ciò che si vive. E' qualcosa che si influenza a vicenda. - cominciava a sentire un leggero mal di testa: - Credo. -.
Len alzò lo sguardo. Era esitante: - State cercando di dire cose troppo complicate per voi. -.
- Devo riconoscerlo. - abbozzò un sorriso di scuse: - Però, io non credo sarete mai davvero felice con solo un ricordo che si fa sempre più lontano. -
Quello sguardo tornò spaventato.
- E non credo neppure potrete mai essere felice qui. Così. - trasse un profondo respiro: - Voi sarete felice. Sono sicuro riuscirete a trovare la vostra felicità, se lo desiderate. Fosse anche ai confini del mondo. -.
La pioggia. La sentiva di nuovo.
- Sapete di fare ragionamenti stupidi. - mormorò Len: - E vi fidate dei vostri ragionamenti stupidi. E andate avanti seguendo i vostri ragionamenti stupidi. Siete una persona orribile. -
- E voi siete sfacciato e inoppurtuno. - accennò ad un sorriso.
Len abbassò di nuovo lo sguardo.
Poi si spostò, Gakupo lo lasciò andare.
Fece qualche passo, allontanandosi da loro. Alzò appena la testa. Guardava l'orizzonte pieno di alberi, davanti alla casa. O forse stava guardando qualcosa nello specifico. Kyte non ne aveva idea, Len non disse niente. Continuava a rimanere in silenzio, dando loro le spalle.
Non sapeva se avesse iniziato a piovere più forte o se solo in quel momento avesse iniziato a prestare davvero attenzione alla pioggia. Però non aveva più così tanto freddo. Assurdo, visto che si sentiva come se si trovasse completamente immerso nel laghetto - a parte l'essere in grado di respirare.
Len si voltò.
Stavolta la parte del viso che vedeva meglio era quella lacerata.
Gli parve di vedere le sue labbra appena curvate verso l'alto: - Quando avete intenzione di partire? -
- Domani. - Gakupo anticipò la sua risposta, la voce bassa: - Se stanotte smetterà di piovere. -
Un accenno di risata: - I miei genitori ve l'hanno permesso? -
- Ho già pagato quanto potrebbe essere necessario per eventuali riparazioni alla carrozza. E dato una mancia ad una persona abbastanza coraggiosa da farci da cocchiere in mezzo al fango. -
- Notevole, Gakupo-sensei. - Len si voltò del tutto. Sorrideva. Gli occhi non erano tornati come li aveva sempre visti, ma non sembrava una bambola: - Allora... - mormorò: - ... credo sia giunto il momento di salutarci. -.
Un brivido lungo la schiena. Non per il freddo, lo sapeva.
Len gli tornò vicino, lo guardò negli occhi. Sentì una mano ghiacciata sulla guancia.
"Avrei voluto salutarlo in una situazione diversa." si chinò e lo baciò. Anche le labbra erano terribilmente fredde.
"In realtà, non avrei voluto salutarlo affatto." gli passò le dita tra i capelli bagnati. Avrebbe voluto scioglierli, ma il nastro sembrava essere diventato di pietra.
Tuttavia, andava bene. Quello era un bacio di Len. Non della cosa che aveva le sue sembianze. Almeno quello avrebbe scacciato l'altro.
Quando si scostarono, sentì un muro. Non l'avrebbe più baciato, non l'avrebbe più toccato. Era una cosa che avrebbe desiderato fare ma, al tempo stesso, qualcosa che non avrebbe mai più voluto fare.
- Siete stato bravo, per essere un precettore temporaneo non madrelingua. Molto meno nel fingervi una persona dedita alle formalità. - un sorriso: - Però, grazie a voi, ora conosco il kanji di "banana". -
- Felice di esservi stato tanto utile. -
- Anch'io sono stata felice. - il sorriso si fece malinconico, per un istante, si spense. Len inspirò, tornò a sorridere: - Addio. -.
E si allontanò da lui.
Quando lo vide andare da Gakupo, Kyte distolse lo sguardo. Chiuse gli occhi. Non perché potesse far male. Non faceva più male. Ma era una cosa che riguardava loro due.
- Non era una cosa che avevo previsto. - la voce di Gakupo. Era triste.
- Sono stata in grado di cogliervi di sorpresa. - la voce di Len, una risata leggera: - Sono stata una brava attrice! - il tono era spezzato. Li aveva visti, prima, i suoi occhi. Arrossati.
- Se aveste messo tutto questo impegno nello studio, a quest'ora sareste al livello di un madrelingua. -
- Volete dire che non sono brava? -
- Avrei potuto valutarlo meglio se avessi avuto l'occasione di vedere i vostri compiti svolti. -
- Ogni tanto li ho fatti! -
- Ogni tanto. Sì. -.
Di nuovo il rumore della pioggia. Forse, più che aumentata, stava persino diminuendo. Non riusciva a capirlo.
- Era bello avere un precettore esotico e di bell'aspetto. E poterlo sfoggiare come accompagnatore ai balli. Mi avete fatta interessare alla lingua giapponese. -
- Avevo notato, oujo-sama. - forse aveva accennato ad un sorriso, amaro.
Poi ci fu di nuovo il silenzio. Ma era un silenzio diverso da quello precedente. Un fruscìo.
Forse si sarebbe dovuto sentire a disagio, imbarazzato o ferito. Ma non provava niente di tutto quello. Non era nemmeno vuoto. Solo, non si sentì affatto colpito, in nessun modo.
Un altro fruscìo, sentì di nuovo la voce di Len: - Anche se non riuscite a separarvi dal vostro lavoro principale, siete stato un bravo insegnante. Sono stata felice di avervi come precettore. - sentì dei passi nell'erba bagnata: - Addio. -.
Kyte tornò a guardarlo.
Len li guardò entrambi. Uno, l'altro. Di nuovo entrambi. Sorrise.
Poi si voltò e s'incamminò.
Andò tra gli alberi.
E scomparve.
La pioggia continuava a cadere. Chissà quanto forte.
- Credevo fosse giusto così. - la voce di Gakupo lo fece voltare verso di lui. Il viso era inespressivo: - Che fosse giusto che Ren vivesse come una donna. Non mi sono mai posto il problema che potesse non essere del tutto felice, così. -.
Kyte sbattè le palpebre: "... a me sembrava piuttosto palese."
- Stavolta... - un tentativo di accennare un sorriso: - ... sei stato tu a parlare anche per me. Per alcune cose. Altre non le avevo comprese neanch'io. -
- Non puoi prenderti sempre il ruolo di quello che sa parlare. - gli sorrise. La stanchezza tornò, di colpo. I vestiti erano pesantissimi, zuppi d'acqua fredda. Voleva tornare al caldo. Chissà che ore erano.
- Comunque... - Gakupo parlò di nuovo. Stavolta, il tono sembrava più tranquillo: - ... non credo che quella persona intendesse ciò che hai detto, riguardo il cambiare rimanendo se stessi. -
- Eh? - "Pensavo di aver capito! Non distruggere così le mie speranze!" - Cosa, allora? -
- Niente. - un sorriso pacato. C'era.
- Non puoi iniziare un discorso del genere e poi pretendere che io non ti chieda niente! Allora? Cosa? -
- Non ha importanza, Kaito. - gli posò una mano sulla schiena: - Hai già esaudito la sua richiesta. -
- Eh? - era decisamente confuso.
- Torniamo dentro. - plateale cambio di discorso: - Sempre se non ci siamo già presi il peggiore dei raffreddori. -
"... non me lo dirà mai." si arrese: - Sì. -.
S'incamminarono verso l'entrata della magione. I loro passi risuonavano nell'erba bagnata.
- Secondo te... - mormorò, ma era sicuro che l'altro lo sentisse benissimo: - ... quanto tempo ci vorrà prima di smetterla di fare incubi? - perché sapeva li avrebbero avuti: - E prima che i fantasmi smettano di perseguitarci? -
Gakupo sospirò: - Gli incubi e i sogni non sono qualcosa che si può controllare appieno. Neanche con talismani e preghiere. Quanto ai fantasmi... - chiuse gli occhi, li riaprì un istante dopo: - ... di loro non devi avere paura. Se ne sono appena andati. -
- ... eh? -.

Era rimasto solo il vestito rosso ed era stato costretto ad indossare quello - giusto per fare una partenza in grande stile.
I vestiti della sera prima si erano asciugati con il calore del camino, miracolosamente senza prendere fuoco. Quello gli era successo almeno due volte. Non era stato bello.
Quella notte aveva smesso di piovere. La strada era ora una scia di fango fresco in cui le ruote della carrozza sprofondavano di dieci centimetri buoni.
Si aggiustò il jabot scuro, scoccò un'occhiata a Gakupo. Anche a lui era rimasto il vestito rosso. Non erano abiti uguali, ma erano molto simili. Tuttavia, i duchi di Mirror dovevano essere abituati a vederli abbigliati allo stesso modo o quasi, quindi non fecero domande né parvero stupiti - o, più probabile, a nessuno dei due importava.
I suoi bagagli e quelli di Gakupo erano già stati caricati. Il duca e la duchessa erano in cima alle scale, assieme ad un piccolo gruppo di servitori, al maggiordomo e alla governante.
Più della loro noncuranza verso il loro essere vestiti quasi allo stesso modo, Kyte rimase più perplesso dalla loro noncuranza verso l'assenza di Len. Non fecero domande, non lo nominarono.
Forse avevano capito.
Il che avrebbe implicato che avessero prestato attenzione a qualcosa.
- Vi auguriamo buon viaggio! - disse il duca: - Con la speranza di rivedervi. -
- Vi ringrazio, mio signore. - Gakupo chinò la testa, Kyte lo imitò.
- Arrivederci. - salutò la duchessa: - I nostri ringraziamenti per il vostro servizio. -
- E' stato un onore, mia signora. -
Con gli ultimi saluti, lui e Gakupo salirono sulla carrozza. Quando la porta fu chiusa, i cavalli iniziarono a camminare, la carrozza si mosse con lentezza quasi esasperante.
Kyte sospirò. Non tirò la tendina, ma non aveva voglia di guardare fuori. Rimase con lo sguardo fisso davanti a sé.
- Secondo te... - esordì: - ... quanto tempo ci metteremo? -
- Minimo il doppio del normale tempo di percorrenza. - rispose Gakupo, pacato: - Per arrivare in paese, intendo. -
Kyte annuì.
Chiuse gli occhi.
Li riaprì, piano.
- Gakupo. -
- Sì? -
- Questa è una fuga? -
- Non c'è più niente da cui fuggire. -
- Mh. -
- Però... - la voce si abbassò appena: - ... abbiamo bisogno di cambiare luogo. -
- ... sì. -.

La carrozza divenne sempre più piccola, man mano che proseguiva. Poco dopo essere diventata un punto tra il cielo e i prati, scomparve nell'orizzonte.
Il pizzo delle maniche del vestito sbatacchiò contro le mani. Len rabbrividì. Faceva davvero freddo, lassù.
"Io non sono necessaria.".
Quando li aveva visti rifiutarlo, era stato sicuro che sarebbero stati spacciati: il loro mondo si era completamente distrutto e avevano rinnegato l'unica cosa che vi era rimasta integra. Avrebbero sofferto. Perché non era rimasto più niente. Le loro vite si erano svuotate. Avevano perso di significato.
Se avevano fatto quella scelta, allora lui avrebbe posto fine alla loro sofferenza. Avrebbe posto fine alle loro vite vuote.
Ma, quando era andato da loro, non aveva trovato nessuno nella camera di Gakupo. E, quando aveva socchiuso la porta della camera di Kyte, la verità l'aveva colpito come un pugno allo stomaco.
Lui non era necessario.
Quello che stavano facendo non lo stavano facendo per lui. Stavano benissimo da soli. In quella parte di mondo che avevano ricostruito così velocemente, un luogo da cui lui era escluso.
Sorrise al ricordo: - Eravate così belli... - non aveva provato dolore. Era come se quel pugno l'avesse stordito troppo per fargli capire tutto. L'unica cosa che gli era stata chiara era che lui non era necessario e che le loro vite non erano vuote. Al contrario della sua.
Un altro brivido lungo la schiena. Il vento si era alzato ancora di più, come se lì in cima al tetto non soffiasse abbastanza.
Abbassò lo sguardo. Era in alto. Davvero davvero in alto.
- Non ho un gran equilibrio... - sorrise, riportò lo sguardo lì dov'era sparita la carrozza: - Chissà se farà male. -.
Strinse la stoffa blu.
Ormai era tutto distrutto. Il suo mondo era andato distrutto un'altra volta, stavolta per sua volontà. Non era rimasto più niente. Gli unici brandelli se n'erano appena andati.
Era tutto finito.
Era quasi tutto finito.
"Manca soltanto un'ultima cosa." alzò lo sguardo verso il cielo. Il vento stava iniziando a soffiare via le nuvole. Sorrise: "Poi sarà davvero tutto finito. Per sempre.".
Tornò a guardare davanti a sè. Sulle guance bagnate sentiva più freddo.
- Anche se ora non sono più necessaria... - un sussurro: - ... grazie... - inspirò: - ... per avermi resa la regina dei vostri mondi. Anche se è durato pochi mesi. - chiuse gli occhi: - Sono stata davvero felice. - li riaprì.
Guardò il verde così tanti metri sotto di lui.
- Ora sarà davvero tutto finito. -
Aprì le braccia.
Il vento gonfiò la gonna blu.

L'odore salmastro del mare. Riusciva a sentirlo benissimo.
"Quindi non mi sono preso il raffreddore." Kyte sospirò.
Notò Gakupo tornare verso di lui, lo raggiunse. Il rumore degli stivali contro il legno della nave riuscì a sovrastare tutto il chiacchiericcio in sottofondo. Si impose di camminare più piano e di non cercare di spaccare le assi con i tacchi.
Non era davvero il caso che scattasse in quel modo. Ancora lo inquietava l'anche solo pensare di aver accettato.
- Quando partiamo? - chiese, forse con troppa enfasi.
Ma era rimasto chiuso nella stanza di una locanda per un giorno intero e in un paio di carrozze per un tempo imprecisato, era su quella nave da almeno due ore e ne aveva già percorso l'intero perimetro almeno quattro volte.
- Tra mezz'ora. -
Seconda ottima notizia della giornata dopo la sua inaspettata resistenza nonostante l'abbigliamento diversamente adatto agli agenti atmosferici in corso.
- Hai già visto la cabina? -
Kyte annuì: - E' più piccola di quella dell'altra volta. -
- L'altra volta ho avuto più tempo per cercare una nave adeguata. - Gakupo prese a camminare, lui lo seguì: - Stavolta ho dovuto prendere la prima che salpasse per Osaka. E ho anche avuto fortuna, visto che ne parte una ogni due settimane. -
- E come hai fatto a trovare una cabina disponibile? -
- Perché i motivi che potrebbero spingere qualcuno ad andare ad Osaka sono estremamente ridotti. A prescindere dalla nave che parte una volta ogni due settimane. -
"... anche lui ha ragione."
- Hai trovato qualcosa d'interessante? -
Gakupo era stranamente in vena di chiacchiere.
O forse era felice del fatto che avesse accettato di fargli da assistente. Kyte s'impose di non ricordarselo, almeno per un po'.
- Ci sono poche donne, su questa nave. La più giovane avrà trent'anni. O forse ha meno di nove anni. Senza vie di mezzo. - sbuffò, vide l'altro accennare ad un sorriso forse divertito.
- Piuttosto... - gli tornò in mente una cosa che avrebbe voluto chiedergli da molto tempo. Non aveva più avuto modo di ripensarci ma ora gli sembrava un'ottima occasione: - Gakupo... -
- Sì? -
- Tu sai di che colore sono i pesci abissali? -
Lo vide sollevare le sopracciglia, quasi non avesse capito. Pochi secondi dopo, però, la risposta arrivò: - Non lo so con certezza. Ma credo viola. -
- Uhm. -
"Ipotesi interessant-" si bloccò.
Erano passati due marinai e un gruppetto di passeggeri.
Poi una figura nera era entrata nel suo campo visivo.
Una persona, di schiena, appoggiata al parapetto della nave.
Era più piccola di lui. Aveva un cappello da cui sfuggiva una coda bassa. Bionda. Bionda piumaggio dei canarini.
Fece qualche passo nella sua direzione.
Anche Gakupo si era fermato. Anche lui guardava quella persona.
Forse avrebbe dovuto sentire un gelo improvviso. Ma non sentì niente. Solo il cuore contro il petto. Si era ricomposto, alla fine.
- ... Len? -
Due occhi azzurri, di colpo. Sgranati.
Uno era coperto da ciuffi biondi sfuggiti alla coda, o forse messi davanti per coprire metà del viso. Sopra il naso, riusciva ad intravedere un paio di cicatrici.
Era completamente vestito di nero, le rifiniture e i bottoni dorati. Un cappello con la visiera sottile, pantaloni, stivali alti, guanti, una cintura con appesa...
"Una pistola?"
Somigliava ad una divisa militare. Forse lo era davvero.
Soltanto, era addosso a Len di Mirror.
"Cosa...?"
Len di Mirror che si trovava in quello stesso istante sulla loro stessa nave.
E, a giudicare dagli occhi spalancati e dal pallore improvviso - nonché dal fatto che fino ad un attimo prima stesse tranquillamente guardando il mare -, non era lì perché li aveva seguiti.
Gli parve si fosse appena svegliato dalla dormiveglia. Diede un colpo di tosse - forse non per schiarsi la voce -, la mano chiusa a pugno davanti alla bocca.
Quando la abbassò, il suo sguardo si era fatto esitante.
- Buon pomeriggio, signor Kyte. -
"Signor-"
Quegli occhi azzurri andarono al suo fianco: - Konnichiwa, Gakupo-san. -.
La voce vibrava appena, nervosa.
E il naso era tappato. Ora che lo guardava bene, era anche arrossato. Quasi a volergli dare conferma, Len tirò su col naso.
"..."
- Buon pomeriggio... - parlò piano, indeciso su come rivolgerglisi: - ... Lord Len- -
- Signor- - Len tacque di colpo. Tirò di nuovo su con il naso, anche le guance erano diventate rosse: - ... signor. - lo guardò negli occhi: - Va bene "signor". -.
Sentì caldo, all'altezza del petto. Era strano. O forse non lo era del tutto. Gli veniva da sorridere. Non vide perché non farlo.
- Allora, buon pomeriggio, signor Len. -
- Konnichiwa, Ren-san. -
Scoccò un'occhiata a Gakupo, con un po' di disappunto: "... in giapponese si dice allo stesso modo sia al maschile che al femminile.".
Lui aveva la stessa espressione di sempre. Il tono era tranquillo. Sembrava stesse salutando una lontana conoscenza.
Quando tornò a guardare Len, lui distolse lo sguardo, lo riportò al mare.
Kyte riprese a camminare, insieme a Gakupo.
Quel calore piacevole era ancora lì.
- Mi sembra... - mormorò, anche se non stava esattamente parlando con l'altro: - ... di essere riuscito a fare qualcosa. -.
Era una bella sensazione. Gli sembrava quasi in grado di rimediare alle volte in cui era fuggito.
Sentì lo sguardo di Gakupo su di sé.
Si voltò verso di lui.
Era uno sguardo molto insistente.
- ... cos- -
- Siamo entrambi qui. -
- ... eh? -
Gakupo continuò a camminare come se non avesse parlato, lo sguardo verso il mare. Kyte capì che non avrebbe aggiunto altro.
"Perché ai giapponesi piace tanto dire frasi a caso?" ci pensò: "... forse non è qualcosa che riguarda i giapponesi in generale." sospirò, arresosi.
- Sei spaventato? - dopo pochi metri, Gakupo parlò di nuovo. Stavolta, non ebbe bisogno di chiedergli a cosa si riferisse.
Scosse la testa, sincero: - Tu? -
- Iya. -.
Non aveva paura.
Len era cambiato.
Quello, a lui conosciuto, a lui sconosciuto, era il suo vero se stesso.
Non c'era più niente da dover nascondere.
Non c'era più niente di cui aver paura.
- Comunque. - esordì, deciso.
- Sì? -
- Per me, i pesci abissali sono blu. -
- Sarebbe troppo scontato. -.

Si strinse nella vestaglia, continuò a frugare dentro l'armadio.
"Sono sicura che- AH!" tirò fuori la sacca nera che stava cercando. Era sicuro di averne una.
Fece una falcata larga, per evitare le schegge a terra, e raggiunse il pupazzo sul letto: - Se rimanessi qui, ti butterebbero via. - lo prese per la collottola e lo mise nella sacca: - Immagino sia scomoda. Scusami, ma non ho altro modo. -.
Gattonò sul letto, raggiunse la toeletta, spostò il doppio fondo del portacipria e prese la chiave della cassaforte. Un istante dopo, un comodino era a venti centimetri dalla sua solita posizione e un numero indefinito di banconote e pochi sacchetti di monete gonfiavano la borsa.
Andò alla porta, si bloccò sulla soglia.
Serrò la presa sulla maniglia.
Non si voltò.
Mentre camminava a passo svelto per i corridoi, più silenzioso che poteva, notò come il cielo si stesse riannuvolando.
"Anche se riprendesse a piovere, non potrei rimandare.".
Doveva fare in fretta. Non solo per la pioggia.
Ancora non sentiva il suo nome urlato e la porta della sua camera l'aveva trovata chiusa. Aveva un minimo di vantaggio.
Anche se non era sicuro di riuscire a sentire qualcuno chiamarlo, con il cuore che gli assordava le orecchie in quel modo.
Raggiunse la soffitta dell'ala est. Nessuno chiudeva a chiave le soffitte. Non sapeva neppure se esistessero le chiavi delle loro soffitte. Quando entrò, notò tre cose: non veniva aperta da minimo un anno; il quantitativo di polvere era molto meno di quanto avesse previsto; il soffitto era basso, ma lui riusciva a camminare senza doversi piegare - la cosa non gli piacque eccessivamente.
Non aveva idea di dove cercare. Ma qualcosa gli diceva che i grossi bauli in un angolo potevano essere un ottimo inizio.
Vi posò la sacca vicino e ne aprì uno - niente che avesse a che fare con le soffitte era provvisto di chiave.
"E' questo!" tirò fuori una camicia: "Se l'ho trovato al primo colpo, allora sto facendo la cosa giusta!".
Frugò nel baule, cercò di raccapezzarsi.
Sapeva nel dettaglio come si vestisse un uomo. Ne aveva visti rivestirsi due tante volte. Ma doverlo fare lui-
Per la seconda volta, ricevette un aiuto superiore: trovò un completo, con tanto di scarpe e accessori, proprio sul fondo.
Lo tirò fuori: "... sembra una divisa...".
Lo guardò meglio: "...
è una divisa.". Una divisa militare.
Datata, ma in ottime condizioni.
"... gli ufficiali..."
Scosse la testa. Valutò la larghezza e la lunghezza dei pantaloni - tremò un istante: forse erano un po' grandi, ma la cintura sembrava avere abbastanza buchi.
Gettò la vestaglia a terra, cercò di capire come mettere ciascuna cosa. L'unica sua certezza era che la camicia andasse direttamente contro la pelle. Tanto valeva mettere prima quella.
Toccò poi ai pantaloni, alla giacca - era più pesante di quanto avesse pensato -, quindi infilò i guanti - molto molto meno delicati di quelli che era abituato ad indossare - e gli stivali.
Mise il cappello, tirò fuori dalla camicia la coda bassa in cui aveva legato i capelli.
Recuperò la sacca, fece qualche passo.
Trattenne un verso di disappunto.
La camicia e la giacca gli stavano alla perfezione. Anche gli stivali si calzavano bene.
I pantaloni erano fastidiosamente attaccati alle gambe.
Gli sembrava di star andando in giro con qualcosa fasciato attorno alle gambe, che ne limitava i movimenti. Quando aveva provato i vestiti di Kyte - il cuore sussultò al ricordo -, non aveva fatto troppi passi, non si era accorto della sensazione strana e fastidiosa che dessero quei cosi.
"Come fanno a camminarci...?".
Un urlo in lontananza.
Fin troppo familiare.
"... mi hanno scoperta."
Raggiungere l'ingresso sarebbe stato complicato. Forse l'avevano già sbarrato. Forse l'avrebbero accolto puntandogli contro delle spade, per non farlo passare.
"... spade...?" tornò a guardare il baule: "... se la divisa era qui, allora..." alzò lo sguardo: c'era una mensola, nascosta nell'ombra. E sulla mensola c'era quella che sembrava una grossa custodia.
La aprì, piano.
"..."
Il fodero pieno di una spada, nero. Accanto, cinque pistole. In fondo, un sacchetto pieno di proiettili.
Chiuse le dita attorno all'elsa, piano. Rimise la sacca a terra, afferrò il fodero, sfilò la spada.
Il polso protestò.
"...
pesa?".
Era sicuro che una spada fosse pesante quanto un ramo della stessa grandezza. Invece doveva pesare almeno tre o quattro chili. "Pesa.
Pesa.".
Provò a tirarla su. Riusciva a muoverla senza problemi ma, quando provò a fendere l'aria, la lama andò in tutt'altra direzione e quasi gli si conficcò in un piede.
"... per questo tutti mi hanno sempre impedito di toccare delle spade...?"
Di certo, non avrebbe potuto usarla come arma di difesa. Non in quel momento, almeno.
Rimise tutto al suo posto. Osservò le cinque cose allineate accanto.
Ne prese una.
Non era leggera come una piuma, ma gli sembrava ben più manovrabile della spada. Non era sicuro della sua mira, però.
Un altro urlo.
Non c'era davvero più tempo.
Controllò che il caricatore fosse pieno - ovviamente no, ma non aveva tempo per rimediare -, prese il sacchetto e lo infilò nella borsa - sperando di non ritrovarsi a pagare in proiettili e a caricare la pistola con le monete.
Appese la fondina con la pistola alla cintura - processo più elaborato del previsto - e uscì dalla soffitta.
Ora veniva la parte difficile.
Il cielo era di nuovo del tutto annuvolato. La pioggia sarebbe reiniziata di lì a poco.
Non avevano ancora acceso le candele: i corridoi erano bui.
I domestici avevano bisogno delle candele per vedere, le zone di luce gli avrebbero permesso di notarli prima che loro notassero lui.
Di sicuro doveva esserci un folto gruppo davanti alla sua camera; per quel piano, sarebbe dovuto passare dalla parte opposta.
Il piano più alto non fu difficile. Non incontrò nessuno.
Al piano successivo, riuscì a non farsi notare da ben due persone, nascondendosi in un angolo buio alla prima e cambiando direzione alla seconda - il bello dei piani continui.
Arrivò il piano con la sua camera. Troppo vociare. Come aveva immaginato.
Prese la direzione opposta alla sua stanza e corse. C'era davvero troppa gente. Se fosse andato piano, prima o poi qualcuno l'avrebbe scoperto. Tutte quelle voci, in compenso, potevano coprire il rumore di una corsa - e il tappeto attutiva il suono dei tacchi.
Scese le scale più in fretta che potè.
"Più facile del previst-"
Una luce lo illuminò.
Si bloccò.
Un istante, prima di riuscire a vedere il volto incredulo della signorina Johnson. La guardò negli occhi perfettamente rotondi. Lei non emise suono, anche se aveva la bocca aperta.
Non aveva urlato "al ladro". "... mi ha riconosciuta." ecco perché quell'espressione.
La aggirò e proseguì verso il piano inferiore.
"LA SIGNORINA STA FUGGENDO!"
Per l'appunto.
Si rannicchiò in un angolo buio non appena vide delle luci in lontananza, lasciò che passassero prima di tornare a camminare attaccato al muro.
Aumentò il passo, dovette nascondersi un altro paio di volte - una persino nello studio di suo padre -, fino a raggiungere il piano terra.
Quella era decisamente la parte più difficile.
Fino a quel momento, il suo vantaggio era stato il fatto che non sapessero esattamente dove lui fosse e che servisse tempo per organizzarsi - difatti non si erano minimamente organizzati e tutti andavano a caso, con l'unico indizio che fosse
sceso e nessuna garanzia che non fosse risalito.
Per questo era ovvio che la maggior parte si fosse accentrata davanti alla porta d'ingresso.
Li vedeva, nascosto dietro un angolo.
C'erano dieci uomini davanti alla porta.
Di sicuro, la signora Smith stava pattugliando la cucina e tutte le finestre del piano terra erano state sigillate - aveva provato ad aprirne qualcuna, invano - e le imposte chiuse.
Aveva visto qualcuno di guardia anche davanti alle due porte per il giardino interno.
"..." serrò i denti: "... non ho altra scelta, vero...?" strinse il manico della sacca, mise una mano sulla pistola, ma non la tirò fuori.
Trasse un profondo respiro: "... devo davvero aver avuto un incremento di pazzia.". Camminò verso la porta.
- CHI E'? - lo urlò più di una persona. Tutti i presenti si tirarono su, come a voler creare un muro umano.
Len si limitò a guardarli.
- Toglietevi. - disse, piano: - Devo passare. -.
Tanti sguardi puntati contro. Sembrava volessero trapassarlo, tanto erano intensi.
- COS- -
- Signorina? - qualcuno lo capì. Gli altri tacquero di colpo. Len continuò a guardarli. Non avrebbe abbassato lo sguardo. Non poteva.
- Len! -
"..."
Si voltò, piano.
Sua madre, le mani alla bocca, il viso sconvolto; suo padre, gli occhi fissi nei suoi, impietrito.
Non doveva farsi intaccare. Non doveva abbassare lo sguardo.
Era quello che aveva deciso.
- Len, cosa stai facendo? - sua madre abbassò piano le mani, fece un passo avanti: - Perché sei conciata così? - accennò ad un sorriso. Era ovvio che non ci credesse davvero e che non fosse abituata a farne: - Su, smettila con questa pagliacciata. Torna in camera e mettiti abiti più adatti a te. -
- Sono questi gli abiti più adatti a me. - "Anche se questi pantaloni sono scomodissimi.".
La voce era uscita fredda. Ottimo.
Vide una luce negli occhi di sua madre - terrore: - Non dire sciocchezze, Len. Se proprio vuoi, potresti indossare i miei abiti vecchi, non quelli di tuo padre... -
- I vostri sono abiti da donna. - si mise con le spalle verso il muro, per assicurarsi che nessuna delle persone davanti alla porta ne approfittasse per dargli una botta in testa.
- A-appunto. - il suo sorriso disperato si accentuò: - Quindi ti starebbero bene. -
- Non ne dubito. - la guardò negli occhi. Non poteva esitare. Sentiva una sensazione irreale, freddo e caldo al tempo stesso. E si sentiva come se fosse incapace di rimanere fermo: - Ma io sono un uomo. -.
Da una parte, il silenzio. Dall'altra, lo scrosciare della pioggia. Aveva reiniziato, alla fine.
- Len... - era una supplica: - Ti prego... -
- E' questo che vuoi? - suo padre parve ricordarsi all'improvviso di essere lì: - Gettare il disonore sull'intera famiglia? Sull'intero casato Dewsen? -
Il caldo prevalse sul freddo: - Non m'importa niente del casato Dewsen, del casato Mirror, del ducato, della Famiglia Reale, dell'Inghilterra, del Regno Unito e dei gradini scivolosi! -
- Cosa? -
- Dite ciò che volete! - strinse i pugni: - Dite che Lady Len Mirror non è più qui! Dite che è morta! - li vide trasalire: - Io non sono più Lady Len Mirror! -
- Smettila di dire sciocchezze! - sua madre intervenne: - Cosa ti è successo, Len? Perché stai dicendo queste cose senza senso? -
- Consideratele pure "senza senso" ma, se la vostra opinione è così alta, non vedo perché dovrei perdere tempo a spiegarvele! -
- Hai distrutto lo specchio della tua camera. - disse suo padre, il tono stranamente grave: - Di nuovo. E hai distrutto il tuo vestito per le grandi occasioni. -
"... mio padre è stato graziato del dono della perspicacia?"
- Hai anche gettato nel fango il tuo vestito preferito, quello blu! - riprese parola sua madre: - Perché l'hai fatto, Len? Era così sporco! -
"Ehi! Io l'ho solo buttato dal tetto, non ho calcolato la traiettoria! Era un'importante scena pregna di significato, con il vento che soffiava ovunque e la pioggia di lacrime ormai alle spalle, non sminuitemela così!"
- Len! -
- Come immaginavo, sarebbe inutile spiegarvelo. - inspirò: - L'unica cosa che può bastarvi sapere è che... - non doveva esitare: - ... sono stanco di tutto questo. E ho intenzione di porvi fine definitivamente. -
Prese la pistola, se la puntò alla tempia.
Un urlo, un vociare.
Vide gente correre giù per i gradini. Incrociò lo sguardo della signora Tod, della signorina Johnson, della signora Smith spuntata fuori da nonsisadove; il signor Anderson, il maggiordomo, la governante.
"Davvero entriamo tutti nell'ingresso...?"
- LEN! -
- Fatemi passare. -
- Non oseresti! -
- Fatemi passare. - tolse la sicura.
- LEN! -
Vide suo padre afferrare sua madre per un braccio, prima che potesse correre verso di lui. Avevano entrambi gli occhi lucidi.
Ora si era intaccato. Ma ora poteva permetterselo.
- Madre... padre... - li guardò, entrambi: - ... so perché avete fatto tutto questo. E perché volete che rimanga qui. - sorrise: - Grazie. Di tutto. -
"Siete persone così disinteressate a qualsiasi cosa che, per assurdo, non vi importa davvero dell'onore della famiglia. Il fatto che abbiate deciso di tenermi nonostante tutto lo dimostra.".
- Len... -
- Fatemi passare. Vi prego. -.
Il rumore della pioggia. Si era fatta più forte.
- ... potrebbero scoprirti. - suo padre.
- Non rimarrò qui. - l'aveva già deciso.
- ... sarà difficile. -
- Lo so. -
- No, non puoi saperlo. -
- So che sarà difficile, proprio perché non so cosa ci sarà. -
Gli era parso di sentire il rombo di un tuono.
- ... hai deciso? -
- Sì. -
- A questo prezzo? - sua madre.
- Sì. -
Suo padre e sua madre si guardarono.
Poi i loro sguardi andarono alla porta.
- Fatelo passare. -.
Gli sfuggì un sorriso. L'avevano detto insieme, con lo stesso tono. Non avevano mai detto niente insieme.
- Grazie. -
Con un ultimo sguardo a tutte quelle persone, ai suoi genitori, strinse la sacca, abbassò la pistola e si gettò fuori dal portone aperto.
Era buio.
La pioggia era violenta. Le gocce erano dei minuscoli schiaffi sul viso. Rimise la pistola nella fondina, la mano ora libera andò a premersi sul cappello. C'era vento. E, dopo qualche passo, le gambe affondarono nel fango fino a metà polpaccio.
La strada c'era. Doveva riuscire a seguirla.
Correre era fuori discussione. Avanzò a falcate ampie, il fango sembrava ogni volta volergli catturare gli stivali.
Faceva freddo. Se avesse fatto un poco più freddo, avrebbe iniziato a battere i denti.


Perché vi ostinate a fare ciò che vi dicono gli altri piuttosto che fare ciò che desiderate?
"Cos'è che desidero davvero?"

Se anche mi sposassi, cosa cambierebbe?


"Cos'è che desidero davvero?"

Ogni volta che aveva raggiunto il suo sogno, quello si era frantumato tra le sue dita.


"Cos'è che desidero davvero?"
"Cos'è che desidero davvero?"

Non m'importa essere un uomo o una donna
Voglio solo essere
me.


Perché vi ostinate a fare ciò che vi dicono gli altri piuttosto che fare ciò che desiderate?

Quello siete voi. Ogni volta, siete sempre stato voi.
In quei momenti, voi eravate davvero voi. Voi stesso. Non stavate nascondendo niente. Era quello il vero Len.


"Ero felice. Ed è tutto finito. Se ponessi fine ad ogni cosa, smetterei anche di non essere più felice.".

Si può avere un'altra occasione.


Perché vi ostinate a fare ciò che vi dicono gli altri piuttosto che fare ciò che desiderate?
"Potrei porre fine ad ogni cosa o vedere se anch'io posso avere un'altra occasione. Un'altra occasione per cui dovrò porre fine ad ogni cosa passata. E' questa l'alternativa di cui parlavate?"

Cadde nel fango.
Si tirò su, prima di soffocarsi. Si passò una mano sulla faccia, la pioggia lo aiutò a levare la fanghiglia. Era arrivato tra gli alberi.
Si era fatto tutto ancora più buio.
Il vento che ululava sembrava dover sradicare i tronchi.
Singhiozzò.
Un altro singhiozzo. Un altro ancora.
Si voltò.
La sua casa.
Se fosse tornato indietro, gli avrebbero dato dei vestiti asciutti, sarebbe stato davanti al camino acceso, tutti avrebbero fatto finta che non fosse successo niente e ogni cosa sarebbe tornata come prima.
Si voltò.
Buio.
Se fosse andato avanti, non aveva idea di cosa sarebbe successo. Forse sarebbe affogato nel fango a metà strada e non sarebbe mai arrivato in paese.
Forse sarebbe stato preso in pieno da un fulmine, da un ramo colpito da un fulmine, da Qualcosa. Forse sarebbe riuscito ad arrivare in paese e sarebbe morto di freddo lì. Forse sarebbe andato tutto bene, per poi essere derubato, rapito, violentato, torturato o ucciso.
Forse sarebbe riuscito ad ottenere ciò che voleva.
Non ne aveva idea.
Un fulmine illuminò ogni cosa, un tuono sembrò un terremoto.
Per un istante, gli alberi sembrarono tante creature ghignanti pronte a catturarlo con i loro artigli di legno. Quasi gli era parso di vedere tanti occhi rossi fissarlo.
Tremò.
Tremava da prima.
Piangeva da prima.
"Ho paura..."
Non c'era nessun altro lì.
Era solo.
Era quello che aveva scelto.
Poteva tornare indietro.
Si passò una manica bagnata sugli occhi.
Andò avanti.


Ricordava vagamente di aver riconosciuto un paio di edifici, ed un colpo di sonno improvviso a cui non era riuscito a resistere.
Si era risvegliato in quella che scoprì essere la locanda del paese - da lui sempre vista solo e soltanto dall'esterno. Stando a quanto gli raccontarono i proprietari, era stato trovato svenuto e condotto prima dal dottore, poi lì.
- Etciù! -
Aveva un brutto raffreddore, gli dissero. Come se la testa pesantissima, gli occhi che bruciavano e il naso che colava tanto da fargli credere, in un primo momento, di star perdendo litri di sangue non fossero indizi abbastanza evidenti.
Sarebbe volentieri rimasto una o due settimane arrotolato in quelle coperte, ma voleva andarsene quel giorno stesso.
I locandieri lo convinsero a rimanere almeno fino al giorno seguente, per permettere ai suoi vestiti di asciugarsi e a lui di riscaldarsi e riposarsi.
Così, si rifocillò, constatò che almeno un paio di mazzette di banconote erano diventate poltiglia e mise ad asciugare il suo pupazzo: - Hai visto? - gli sorrise: - Siamo arrivati fin qui! Ora dobbiamo solo... -
Non aveva ancora finito.
C'era un ultimo passo da compiere.
Il giorno successivo, pagò la locanda - e lasciò una mancia che fece sgranare gli occhi ad entrambi i gestori - e prese una carrozza per il molo più vicino con navi verso un certo luogo.
- Bagagli, signore? -
"Signore..."
- No, ho solo questa. - mostrò la sacca.
Si era portato dietro una coperta pesante dalla locanda - i proprietari non avevano avuto niente da ridire, lui aveva pagato il cocchiere affinché poi la riportasse loro - e, per tutto il tragitto, vi dormì raggomitolato sotto, la sacca e il cappello come cuscino e il pupazzo stretto al petto.
Ci mise qualche minuto a prendere sonno.
"Signore...".
Quando il cocchiere lo svegliò, annunciando di essere arrivati a destinazione, ringraziò, pagò e andò ad esplorare il molo, ancora rintontito. Il mal di testa era decisamente diminuito ma, anche se aveva trascorso tutto il giorno precedente nel letto, non era in forma. Almeno non doveva più soffiarsi il naso cinque volte al minuto.
Chiese in giro, finché gli venne indicata una nave.
- Quella lì! Parte tra meno di un'ora! -
- Vi ringrazio. -
Riuscì a comprare il biglietto appena in tempo e salì sulla nave.
La prima cosa che fece fu rinchiudersi nella sua cabina.
Piccola. Minuscola.
Un letto singolo, una sedia, un tavolino, una finestra rotonda, quadrato d'aria centrale per muoversi. Doveva avere il perimetro lungo dodici falcate. Sue.
Tirò fuori il pupazzo dalla sacca, lo mise sul tavolino. Gli sorrise, posò la sacca sulla sedia.
- Ci siamo. -
Anche se era circondato da cose di legno, anche se si trovava in una stanzetta minuscola, anche se sentiva i passi delle persone ovunque, anche se sentiva tutto quel vociare, faticava a credere di essere davvero lì.
Forse ancora non osava crederci.
"Uh?" solo in quel momento si accorse di un foglio ripiegato sul tavolino. Lo prese e lo aprì: una mappa. Era completamente azzurra, salvo una strisciolina verde costellata di puntini rossi più o meno grandi e-
"Kanji." ripiegò il foglio e lo mise nella tasca dei pantaloni. Magari avrebbe provato a decifrarli dopo.
- Io vado a dare un'occhiata in giro. - accarezzò la testa del pupazzo: - Tu fai il bravo e controlla che non entri nessuno! - tuttavia, per sicurezza, si premurò di chiudere la porta a chiave e di mettere la suddetta chiave nell'altra tasca dei pantaloni. Che continuavano ad essere scomodi.
"... non ho comprato vestiti nuovi." aveva solo quella divisa. Per una traversata di tre mesi.
Si sentì istantaneamente un idiota.
Con un sospiro - e uno starnuto che parve rimbombargli per tutta la testa -, salì sul ponte e si appoggiò al parapetto. C'era un po' di vento ed era sicuro che l'odore del mare impregnasse qualsiasi cosa. Lui non sentiva nessun odore. Ogni tanto, poi, il naso decideva anche di tapparsi del tutto e doveva respirare con la bocca.
"Chissà se l'aria di mare fa bene al raffreddore..." tirò su col naso: "Ugh... qual era quella pianta che andava bene? La salvia azzurra...?" era sicuro esistessero piante adatte a farlo tornare a respirare in modo decente - più che il dolore alla testa, quello che non gli dava tregua era il naso che si alternava tra il tapparsi e il colare.
- Etciù! - e gli starnuti.
Chiuse gli occhi. Gli diede un po' di sollievo. Quando li riaprì, davanti a lui c'era una distesa azzurra.
Non era come quella del lago: nel lago, in lontananza, si vedeva un'altra riva. Anche guardandosi intorno c'erano rive. Lì no. La riva era solo dietro di lui.
Davanti, l'azzurro del mare si fondeva con l'azzurro del cielo sulla linea dell'orizzonte.
Almeno, ci sarebbe stata quest'immagine poetica se il cielo non fosse stato chiazzato di nuvole bianche, grige e persino nere, ma tant'era.
"... è la prima volta che salgo su una nave per un viaggio così lungo...". Confidò nel fatto che a bordo ci fossero medici. Non era sicurissimo di non soffrire il mal di mare - non aveva mai avuto modo di sperimentare e non aveva neanche voglia di provarci.
- ... Len? -
Il cuore sobbalzò. Gli parve fosse arrivato a schiantarglisi contro la gola, per poi rituffarsi al suo posto.
Si voltò.
Sentì uno strano freddo alle guance.
Kyte.
Gakupo.
Erano lì, in piedi davanti a lui, entrambi vestiti di rosso, e lo guardavano increduli.
"... cosa ci fanno qui...?"
Una nave verso il Giappone.
"Anche loro...?"
Coprì la bocca con un pugno, tossì. Sperò di non doversi soffiare il naso.
"Cosa dovrei dire, ora...?".
Capì: "... no. Non è come prima. Non siamo come prima.".
Aveva un po' paura.
Ma provò lo stesso: - Buon pomeriggio, signor Kyte. Konnichiwa, Gakupo-san. - tirò su col naso. Dovette impedirsi di portare una mano al petto, anche se il cuore minacciava di uscirne da un momento all'altro. Sentiva le dita tremare appena.
Poi Kyte parlò: - Buon pomeriggio... - esitava. Ma, comprese, non perché non volesse parlargli: - ... Lord Len- -
"Lord."
- Signor- - si bloccò. Il suo titolo. Il suo vero titolo. Ciò che era davvero. Poteva usarlo. Lo stava facendo, lo stavano facendo.
Tirò su col naso, ancora una volta: - ... signor. - assaporò quella parola. Il suo titolo.
Guardò Kyte negli occhi: - Va bene "signor". -.
"Signore."
In quel momento, Kyte sorrise. Non era uno di quei sorrisi amari del giorno e della sera precedenti. Non era neppure uno dei suoi sorrisi luminosi.
Però aveva accettato che non fosse più come prima.
- Allora, buon promeriggio, signor Len. -
- Konnichiwa, Ren-san. -
"... Ren." guardò Gakupo. Il suo volto era tranquillo, la voce pacata. Come la prima volta che l'aveva incontrato, tanti mesi prima, quando gli si presentò in qualità di suo precettore di giapponese.
Era lì che aveva avuto inizio tutto.
Anche lui aveva accettato che ci fosse un altro inizio.
Fece un cenno con la testa ad entrambi e si voltò, tornando a guardare il mare.
Per il momento, non avevano altro da dirsi.
Li sentì andare via pochi secondi dopo.
Gli sfuggì un sorriso.
Aveva gli occhi umidi, non per il raffreddore.
Avevano accettato che fosse cambiato.
"... sono cambiato.".
Sapeva che sarebbe stato difficile. Terribilmente difficile.
Questa volta, però, non aveva intenzione di distruggere niente. Tanto meno ciò che gli era più caro.
Si lasciò cadere a terra, posò la schiena contro il parapetto e tirò fuori dalla tasca la cartina.
Individuò subito Tokyo - più perché sapeva dove fosse che con la lettura dei kanji.
Tuttavia, non era quello il puntino cerchiato: era molto più a sud, in una città che dava su un golfo.
Lesse: "... Osaka." aveva già sentito quel nome, molto tempo prima: "... Lily non era in un posto con un nome simile...?". Rabbrividì: "Allora direi che non posso rimanere lì. Non subito, almeno.".
Sapeva che né Lily né suo marito l'avrebbero mai pubblicamente smascherato. Ma, per il momento, voleva tenersi lontano da qualsiasi cosa gli ricordasse il casato Dewsen.
"Uhm, vediamo, città grandi nelle vicinanze..." i collegamenti sarebbero dovuti essere molto migliori da grande città a grande città piuttosto che verso paesini sperduti: "Oh, questa!" ne vide una grande proprio sopra Osaka, neanche troppo distante.
"Com'è che si chiama?" lesse i kanji: "... Kyoto.".






Note:
* "Cancellate i vostri sentimenti. Siate felici.": Arrest Rose.
[Cancella i sentimenti. / Sii felice.]
* "[...] riuscirete a trovare la vostra felicità [...]" / "Fosse anche ai confini del mondo.": Lovelessxxx.
[Ai confini del mondo / Sicuramente, sicuramente / Troverai la tua felicità (lett. Ci sarà la tua felicità).]
* "Fuga": Escape, cantata da Kaito e Gakupo. *Anche se si sente pure Len...*
* "Incremento": Increase, cantata solo da Len - con Kaito e Gakupo a fare il coro natalizio. (?)
* "Pioggia di lacrime": Tears Rain, cantata solo da Kaito.
* "Salvia azzurra": Blue Salvia.
* Ebbene sì, i "vestiti rossi" di Kyte e Gakupo sono quelli - un po' (tanto) modificati - di Fate: Rebirth. U.U/
* Ebbene sì 2, l'abbigliamento di Len, dopo tanti vestiti femminili più o meno colorati, è quello di Arrest Rose - senza sigaretta di cioccolato. *O*/




Stavolta sì. Stavolta non ci sono altri capitoli da dividere in 150.
Questo è ufficialmente l'ultimo capitolo. \*A*/
... è sempre strano da dire. Soprattutto per le long molto long. *respiro profondo*
Con 15 capitoli che all'inizio erano 6, ma non c'è bisogno di ricordarlo, questa sarebbe la mia seconda long più long completa *fissa la parola*, dato che la mia attualmente più lunga consta di 16 capitoli...
... molto più brevi. Quindi, in teoria e in pratica, questa... *si allontana piano piano*

*torna*
E, alla fin fine, l'effettiva citazione al PV di Lovelessxxx c'era! *O*/
Pensavate fossero solo i servitori nel(l'eterno) flashback? Invece no, Len non ha ancora imparato a non aprire le porte - soprattutto di notte.
Ammirevole, però, come ogni volta che apra una porta di notte ci trovi cose.
Come detto nel capitolo precedente, nelle mie idee quello e questo dovrebbero essere degli pseudosong-chapter molto pseudo di Haitoku no Kioku - The Lost Memory. E qui, magari, anche un po' di Lovelessxxx e Fate: Rebirth - in accezione positiva, magari. *Altro?* *Quali siano poi i risultati... >__>*

Ormai le cose sono giunte alla loro conclusione, ogni cosa è stata spiegata e risolta.
Quindi, se ci fossero ancora dubbi... °A° *Vuol dire che non sei stata capace di sistemare le cose.* ... oAo
- E le frasi di Gakupo a Kyte a cui non ha voluto dare spiegazione?
Quelle, invece, sono volutamente lasciate "avvolte nel mistero". U.U
... beh, in realtà, per una ci sono indizi nei flashback (di Kyte.), per l'altra basta ricordarsi come/perché Gakupo versasse in quelle condizioni dopo Era tutta un'imitazione, Ogni cosa sprofonda nel nero, eccetera... U__U
*E in realtà avevano capito tutti, quindi piantala di fare come se fossero Frasi Misteriose.*
Ehm, coffcoff.

Quanto al finale... cosa succederà, di lì in poi? Una volta a Kyoto, si separeranno e non si reincontreranno mai più? Faranno pace sulla nave e rimarranno in buoni rapporti? Non si parleranno mai per tre mesi? Si daranno alla threesome? Ognuno andrà per conto proprio? Tireranno su una catena di bancarelle di sushi? Ognuno può pensarla come vuole.
Quella è un'altra storia. Questa si conclude qui.
E l'unica cosa certa è che Gakupo si è effettivamente fatto nove mesi di nave.

"Un giorno, sicuramente, rinasceremo."
E' un po' il cardine delle loro canzoni, no? Spero di essere riuscita a dare un finale degno. *china testa*

E' stato alquanto particolare scrivere di loro tre. °^°
Se, bene o male, avevo una mia idea di Kaito e Len, per me Gakupo era un personaggio molto "fumoso"; la Kaito/Len è una coppia che mi piace, la Gakupo/Kaito mi era sempre stata assolutamente indifferente e la Gakupo/Len mi appariva quasi come una coppia crack (!!!). Proseguendo, mi sono fatta una mia idea di Gakupo sempre più precisa, la Gakupo/Len ha per me improvvisamente assunto un senso e ora la Gakupo/Kaito mi incuriosisce.
All'inizio, temevo molto per i capitoli Gakupo/Len e, in generale, non ero sicura di riuscire a rendere bene Gakupo e le interazioni con lui. Però, magari non avrò fatto un lavoro sublime&incomparabile *decisamente no, Soe.*, ma il risultato è stato molto al di sopra delle mie aspettative. *Quante avversative ci sono in questa frase?*
Inutile dire che la storia ha preso e se n'è andata per conto suo. Len e il suo flashback per metà storia lo dimostrano senza bisogno di aggiungere altro.
E' stato particolare, sì, in tutti i sensi positivi. *O*/

In tutto ciò, davvero GRAZIE a tutte le persone che hanno avuto la pazienza/forza di seguire questa matassa di deliri - in ogni senso, sia le psicosi allo specchio che dubbi sogni tra petali e bolle di sapone. ^^
Quindi, GRAZIE a FraZelda33, Kirakora, Mistryss e Nivees per averla inserita nelle Seguite! ^^
E GRAZIE a Roro Siad per averla messa nelle Ricordate! *O*
E GRAZIE a CrucifySorrow, Kiara_99, Suiseiseki00 e Tayr Soranance Eyes per aver deciso di metterla nelle Preferite anche se ancora in corso. *__*
Anzi, Tayr è un caso a parte, perché già conosceva tutta la trama, le è stato sottoposto ogni capitolo per la betatura spietata e le sono arrivate tante richieste lacrimose di uso/aiuto per le traduzioni. Grazie per l'aiuto! **
A tutte le persone che l'hanno inserita in una lista, vi ringrazio per la fiducia. ^^
E GRAZIE a Mistryss, Suiseiseki00 e Directionaremyaddiction per le recensioni lasciate! **
Infine, ma non meno importante, GRAZIE anche a chi ha solo letto. ^^

E' stata una storia dove ho sperimentato con cose che non avevo mai davvero scritto - su tutti, il rating fail!arancio sbiadito, l'angst integrale (?) e il triangolo distorto (?) -, quindi spero di essere riuscita a trattarli bene. ^^"
E spero anche che, giunti alla fine, la storia vi sia stata di gradimento. ^^
Come sempre, se ci sono critiche da farmi o consigli da darmi - soprattutto riguardo le cose sopracitate -, dite pure. ^^

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