Pietra

di kenjina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. ***
Capitolo 2: *** 02. ***
Capitolo 3: *** 03. ***
Capitolo 4: *** 04. ***
Capitolo 5: *** 05. ***
Capitolo 6: *** 06. ***
Capitolo 7: *** 07. ***
Capitolo 8: *** 08. ***
Capitolo 9: *** 09. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 17: *** 17. ***
Capitolo 18: *** 18. ***
Capitolo 19: *** 19. ***
Capitolo 20: *** 20. ***
Capitolo 21: *** 21. ***
Capitolo 22: *** 22. ***
Capitolo 23: *** 23. ***
Capitolo 24: *** 24. ***
Capitolo 25: *** 25. ***



Capitolo 1
*** 01. ***


Pietra

-  sequel di Betulla -

 

Salve a tutti, popolo di Arda!

Come promesso e minacciato, sono tornata a scrivere della Terra di Mezzo e dei suoi splendidi personaggi.

Mi ripeterò, ma eccomi qui, umile e devota ammiratrice del Professore, che ha sempre avuto la brutta abitudine di far morire i miei personaggi preferiti – cosa per cui sono qui, a scrivere di loro.

Prima di tutto vorrei dirvi che non è necessario aver letto prima Betulla, ma consiglierei comunque a tutti di farlo, perché alcuni personaggi e avvenimenti narrati in Pietra sono direttamente legati a quella; ma ho cercato di essere esaustiva e chiara anche per coloro che non hanno letto la precedente fan fiction e che non ne hanno intenzione.

Ad ogni modo, sono disponibile per chiarimenti.

Come avevo fatto per Betulla, mi sono riletta libri, Appendici e contro-Appendici, scritta date e nomi per non fare disastri, e così via. Lo spunto per questa storia è nato da quel poco che il Professore scrive di Gondor dopo la Guerra dell’Anello, e dal profondo amore che ho sempre nutrito per Thorin Scudodiquercia. Ho fatto due più due, ed è nata questa cosa.

Ri-citandomi, spero di non fare un completo disastro.

A fine capitolo troverete ulteriori spiegazioni a domande che, sicuramente, vi sorgeranno spontanee.

Ultima cosa, ma non meno importante: gli aggiornamenti. Ho scritto i primi cinque capitoli, che devo rivedere per bene e capire se posso o meno tagliare, aggiungere, modificare, e sono parecchio lunghi, come il primo. Spero di mantenere un buon ritmo di un capitolo ogni due settimane. Ma come per Betulla, state pur certi che la finirò. :)

Buona lettura!

 

 

 

01.

15 Marzo 3019 T. E.

 

C’era un caldo pazzesco, quel giorno. Il sole era tramontato da un paio d’ore e le tenebre stavano ricoprendo Erebor, illuminata solo dagli incendi e dalle fiaccole degli eserciti combattenti. Il manipolo di Esterling era instancabile e continuava ad attaccare regolarmente le schiere difensive della città dei Nani; tutti i bambini e le donne di Dale erano stati fatti rifugiare all’interno della Montagna Solitaria, e i suoni della battaglia giungevano ovattati e terribili alle loro orecchie; avevano fatto in tempo a scappare grazie alla presenza del fiume ben controllato, e fino a quel momento invalicabile; gli Esterling avevano tentato prima con catapulte rudimentali ma efficaci, abbattendo alcune torri di vedetta; poi si erano fatti avanti gli arcieri, posizionati su una collina non poco distante dalla riva, lanciando una pioggia di dardi infiammati sulla città. L’incubo del fuoco tornò a tormentare gli abitanti dopo qualche centinaio di anni, memoria di un Drago che aveva ridotto in cenere metà degli edifici e ucciso altrettanti cittadini. La battaglia si era poi spostata ai piedi di Erebor, i giganti Nani di pietra che vigilavano sugli eserciti e parevano un monito contro chiunque osasse profanare quella casa.

C’era un caldo pazzesco, eppure molti degli Uomini tremavano per la paura, gocce fredde di sudore che bagnavano il viso e la schiena. Gran parte di quell’esercito non era formato da milizie addestrate, ma da pescatori e mercanti che brandivano zappe e archi, piuttosto che spade e scudi. Eppure il loro re, coraggioso come i suoi predecessori e non meno valoroso, continuava ad incitarli per non perdersi nella disperazione. Molti sarebbero morti, quel giorno, ma sarebbero usciti vittoriosi se nessuno di loro avesse mollato.

I Nani che combattevano al fianco degli Uomini, d’altra parte, avevano i piedi ben saldi al terreno, stringendo asce e i denti in attesa che il Nemico si facesse sotto nello scontro corpo a corpo. Non avrebbero mai creduto che la mano di Sauron si sarebbe estesa fin sopra il profondo Nord, ma notizie inquietanti provenienti da Sud raccontavano della presenza del Male, tornata ad infestare la vecchia roccaforte di Dol Guldur. Avevano, quindi, avuto il tempo di armarsi e preparare il comitato di benvenuto alle porte della loro città, per evitare che il Nemico osasse anche solo mettere gli occhi sulla loro Erebor.

Thorin Scudodiquercia, questo, non lo avrebbe mai permesso, finché il sangue di Durin gli fosse scorso nelle vene.

«Non riusciremo a resistere per molto.» disse Brand, asciugandosi la fronte con la manica della camicia che fuoriusciva dall’armatura. «Loro sono troppi e ben armati; noi siamo pochi e già sfiniti!»

«Parla per te, Uomo!» esclamò Dwalin, sputando per terra. «Quei maledetti non lasceranno il campo di battaglia vivi, finché i Nani saranno in piedi. E ti assicuro che siamo solidi quanto le rocce di questa montagna!»

Brand sembrò rilassarsi a quelle parole, ma gli ennesimi canti di guerra del Nemico e il suono dei tamburi gli fecero tremare le vene ai polsi.

«Che cantino pure!» esclamò Fili, nipote del Re dei Nani. «Voglio vedere come canteranno di dolore appena li trafiggerò con le mie lame!»

Il fratello, armato di arco, mirò all’Uomo nero che batteva ritmicamente un pezzo di legno contro la percussione. I canti s’interruppero bruscamente, quando quello cadde a terra senza vita, con una freccia in gola.

«Ora non cantano più!» fece Kili, con un ghigno.

«Bel lavoro, scellerato.» lo rimbeccò lo zio, quando vide l’esercito nemico avanzare con più forza e rabbia di prima. «Ce li troveremo addosso in un istante, ora. Serrate i ranghi e preparatevi allo scontro!» concluse Thorin, gridando gli ordini ai suoi Nani e agli Uomini.

«Arcieri in prima fila, presto!» aggiunse Brand.

La nuova ondata si abbatté su di loro qualche minuto più tardi, e continuarono a combattere fino al sorgere del sole, quando gli Esterling si ritirarono verso i loro accampamenti, aspettando il momento più opportuno per attaccare nuovamente.

La battaglia proseguì per i successivi due giorni; Uomini e Nani erano esausti e, nonostante le parole di incoraggiamento, non riuscivano a vederne la fine. Gli Esterling sembravano moltiplicarsi giorno dopo giorno, quando nuovi arrivi rimpiazzavano i caduti; loro, invece, diminuivano a vista d’occhio, e nessuno giungeva in loro aiuto. Gli Elfi Silvani avevano i loro grattacapi da risolvere; e comunque Thorin non sperava certo che Thranduil decidesse di sacrificare la sua gente per salvarli – non lo aveva fatto in passato, non vedeva come avrebbe potuto farlo ora.

L’alleanza arretrò visibilmente, e fu allora che il Re degli Uomini cadde, trafitto al petto da una spada nemica. Thorin gridò il suo nome, lanciandosi contro l’assassino e uccidendolo con la sua furia rabbiosa. Si voltò verso il cadavere dell’Uomo e si chinò per sincerarsi che fosse ancora vivo. Ma ormai non vi era più aria nei suoi polmoni, ma solo sangue.

«Zio, presto! Dobbiamo rifugiarci nella montagna!» gridò Kili, cercando di ridestare il Re.

Ma Thorin non voleva muoversi dal suo posto. Si alzò per fronteggiare le orde di Esterling che avanzavano verso di lui, perché non avrebbe permesso che il Nemico si facesse beffe del corpo straziato del capo degli Uomini, che tanto valorosamente aveva combattuto al suo fianco e dato segno di una profonda amicizia.

«Zio, per Durin! Ordina la ritirata!»

Thorin strinse l’ascia in una mano e la sua spada Orcrist nell’altra, digrignando i denti. «Non mi nasconderò come un codardo, e nessuno di noi lo farà!»

Kili e Fili si scambiarono un’occhiata perplessa e preoccupata, ma non osarono ribattere al volere del Re. Conoscevano bene loro zio e sapevano anche che il suo orgoglio era ben più grande del tesoro di Erebor. Gli si affiancarono, dunque, e combatterono insieme per difendere la loro casa e il corpo di Brand.

Ma anch’essi, dopo poco tempo, vennero sopraffatti dalla forza nemica, e i due fratelli non videro in tempo che Thorin fosse caduto sulle ginocchia, gravemente ferito al fianco. La collera e la paura che potesse morire li colse, come tanti anni fa durante la Battaglia dei Cinque Eserciti, e troppo preoccupati per la sua sorte non si accorsero dei due Uomini neri che erano pronti ad uccidere anche loro.

 Thorin tentò di metterli in guardia, ma si sentì improvvisamente debole e nessun suono fuoriuscì dalle sue labbra. Riuscì a malapena a vedere la figura sfuocata di un Nano – o presunto tale – che si frapponeva tra loro e gli Uomini dell’Est. Lo vide agitare la sua ascia con vigore, finché non decapitò i nemici e si voltò verso di lui. Scorse solo i contorni di un volto insanguinato, poi il buio.

Il comando fu preso dall’anziano e saggio Balin, che ordinò a Nani e Uomini di rifugiarsi dietro le porte di Erebor. L’assedio durò per altri dieci, infiniti e sfiancanti giorni, fin quando le voci della sconfitta di Sauron iniziarono a circolare tra gli Esterling; furono momenti di agonia, in cui Nani e Uomini sprecarono tutte le loro energie per difendere l’unica entrata che li separava dalla morte. Nessuno, al di fuori dei legittimi proprietari e dei loro alleati, riuscì a varcare le porte di Erebor. Fu così che, vedendo l’esercito dell’Est entrare nel panico e nella disperazione, i Nani e gli Uomini fecero l’ultimo sforzo, uscirono dai confini della montagna e spazzarono via gli ultimi residui del Nemico, che scappò verso le proprie terre.

Thorin, reggendosi con un braccio sulle spalle dei nipoti, camminò sotto la luce dell’alba e guardò la desolazione della valle ai piedi della montagna. L’odore acre della battaglia, intrisa di fumi e del ferro del sangue, quasi lo nauseò. Quanti coraggiosi soldati erano morti, mentre lui poteva ancora camminare sulle sue gambe, anche se ancora malferme! Vide i volti di giovani ragazzi con gli occhi spalancati dal terrore della morte, teste tagliate e calpestate, lame spezzate. E si chiese se ci sarebbe mai stata una fine a quegli orrori.

«Mio signore.»

Il Nano si voltò verso il figlio del defunto Brand, Bard II, e il nuovo Re di Dale. Era provato profondamente da quella battaglia, ma non vi erano gravi ferite fisiche. Il dolore che gli lesse negli occhi, infatti, proveniva dal cuore, straziato dalla morte del padre. Thorin spostò una mano dal braccio di Fili a quello del ragazzo, sull’orlo delle lacrime. Bard cadde ai suoi piedi e pianse finché non ebbe più forze. Pianse per la rabbia e la gioia contemporaneamente. Ma quanto avevano dovuto sacrificare per quella vittoria!

«Fatti forza, ragazzo.» gli disse. «Tuo padre fu un valoroso Uomo; mi aspetto che anche tu lo sia e renda onore al suo nome. Sei un Re, ora.»

I giorni successivi trascorsero lenti; tutti coloro che potevano ancora stare in piedi, furono costretti a lavorare per sgomberare i cadaveri. Gli Esterling vennero impilati l’uno sull’altro, e dati alle fiamme; centinaia di fosse, invece, furono scavate per gli Uomini e i Nani di Dale, e i funerali vennero celebrati quando anche l’ultimo dei caduti venne tumulato.

Thorin tenne un lungo discorso, che li commosse tutti. Ma vi era ancora la forza dei Durin nelle sue parole e nel suo sangue, e promise che insieme avrebbero ricostruito tutto ciò che era andato distrutto. Poiché l’amicizia tra Nani e Uomini era più salda che mai, e si sarebbero rialzati insieme dopo quella brutta caduta.

 

 

7 Aprile 3019 T. E.

 

Le cime dei colli innevati brillavano sotto il tenue sole primaverile. Un vento fresco soffiava da nord, incanalandosi all’interno del cerchio di rilievi e soffiando attraverso i corridoi della Capitale. L’esercito del loro Re, Dáin II Piediferro, era appena rientrato in città, dopo i funerali di Brand e le cerimonie di vittoria ad Erebor. Avevano combattuto valorosamente al fianco dei loro cugini della Montagna Solitaria, ma purtroppo alcuni di essi non avevano fatto ritorno sulle proprie salde gambe.

Le alte pareti in pietra della città erano state tempestivamente tappezzate di decorazioni in ferro e oro, bassirilievi che raccontavano i momenti salienti della battaglia – dall’assedio alla vittoria, e le numerose torce sospese sulle loro teste riflettevano su di essi, creando incredibili giochi di luce. La città dei Colli Ferrosi non era maestosa e luminosa come Erebor, piuttosto era grigia e tetra per il ferro contenuto nelle montagne; ma quel giorno era speciale, e persino Re Thorin avrebbe dovuto capitolare alla maestosità di quel luogo. La grande rampa che girava in ampi cerchi concentrici scendendo vertiginosamente fino alla grande piazza, e su cui si affacciavano le gallerie delle abitazioni, le botteghe e gli ingressi alle miniere e alle fucine, era affollatissima e chiassosa. Neanche durante i giorni di mercato e di fiera c’era così tanta ressa.

Tra una gomitata e l’altra, una giovane tentò di farsi spazio tra la calca di Nani accorsi per salutare i guerrieri e per piangere i caduti. Il fratello minore, troppo piccolo per partire in guerra, le teneva saldamente la mano, timoroso di perdersi tra tutta quella gente.

«Ancora un piccolo sforzo, Trión, siamo quasi arrivati.» gli disse, rincuorandolo. Si affacciarono un attimo, per rendersi conto a che altezza fossero e quando mancasse alla piazza dove si erano riuniti i soldati, e videro che erano davvero vicini; ancora una decina di piedi e sarebbero giunti. Gli occhi del piccolo nano si fecero grandi per l’emozione. Non vedeva l’ora di riabbracciare il padre e i loro fratelli, che da troppo tempo non facevano ritorno a casa. Ma Trán, la ragazza, aveva il brutto presentimento che non avrebbe ritrovato tutti i membri della sua famiglia. Il suo pessimismo era rinomato, tra i pochi che la conoscevano, e anche quando le possibilità che qualcosa potesse andare storto erano veramente poche, lei riusciva a vedere nero.

Quando finalmente superarono il muro di Nani, si guardò frettolosamente intorno, nella speranza di riconoscere il viso di uno dei suoi fratelli, o del padre. Vagabondarono per parecchi minuti, prima di intravvedere il maggiore, Tarón, e gli saltò sulle spalle, mentre l’altro gli si era attaccato ad una gamba.

«Piccole pesti! Finalmente ci ritroviamo!» esclamò il soldato, abbracciandoli entrambi. «Káir, Káel! Venite qui!»

Gli altri due fratelli si unirono all’abbraccio di gruppo e Trán si sentì così rincuorata di averli tutti lì, con lei, che pianse per la gioia. Eppure, mancava ancora una persona per completare quel quadro di felicità, qualcuno di ben più importante per tutti loro. Quando il padre si fece avanti, Trán rimase senza parole per il dolore e il sollievo, contemporaneamente. Il vecchio Nano apparì stanco e con vistose cicatrici fresche sulle braccia e sul viso; ma ciò che le strinse la bocca dello stomaco fu una benda nera che gli copriva l’occhio sinistro.

«Padre!» esclamarono i figli minori.

«Cosa ti è accaduto?» gli domandò Trán, accarezzandogli il viso segnato dalla stanchezza e dai ricordi di guerra.

L’uomo sorrise, scuotendo il capo. «Niente, piccola mia. Ho solo fatto il mio dovere.»

«Ha salvato la vita al Re di Erebor e ai suoi nipoti.» le sussurrò Káir, fiero. «Ma non vuole che si venga a sapere.»

«Ma, padre! Sei un eroe di guerra, tutti devono saperlo! Verrai premiato per ciò che hai fatto!» esclamò Trán, felice e stupita. I fratelli non poterono resistere alla tentazione di sognare montagne d’oro come ricompensa.

Ma il padre scosse il capo. «No, non voglio ringraziamenti e onori. Chiunque altro lo avrebbe fatto al mio posto, figli miei.» replicò lui. «Ora andiamo a casa, sono affamato e fiacco.»

Tarón si rianimò al pensiero del cibo. «A proposito, cosa c’è per cena?»

«Ho preparato una zuppa di ceci e carote.»

Il più piccolo storse il naso. «La cucina da quando siete partiti, non ne posso più.»

«Beh, conosciamo tutti le inesistenti doti culinarie della nostra sorellina; devi ringraziare di non essere morto di fame.» commentò Káel. «A proposito, quanti maschi hai picchiato, mentre eravamo via?»

«Potresti essere il primo, se non la smetti.» fu la pungente replica della gemella, che gli assestò un poderoso pugno su un braccio. Se non fosse stato per l’armatura che ancora indossava, il giovane Nano si sarebbe ritrovato con un altro livido violaceo.

Il fratello l’avvicinò con un braccio sulle spalle e la baciò tra i capelli rossi. «Anche tu mi sei mancata. Non i tuoi gesti d’affetto, però.»

Trán ridacchiò, abbracciandolo forte. Tra tutti loro, Káel era quello che più le era mancato, e per un ovvia ragione: erano nati a distanza di pochi minuti l’uno dall’altra ed erano coloro che si sostenevano a vicenda, in ogni situazione. I Colli Ferrosi non avevano mai conosciuto una coppia di amici più veri e sinceri dei due.

La ritrovata famiglia avviò lentamente verso la propria abitazione. Si trovava piuttosto in alto, rispetto alla piazza centrale, su cui invece troneggiava l’ingresso verso la residenza reale. Era una casa abbastanza grande, scavata dalle abile mani del loro bis-nonno, e a discapito di quanto si potesse dire sui Nani e la loro concezione di ordine, era pulita e spaziosa; il motivo era piuttosto ovvio, se si guardava il loro albero genealogico: il sangue Elfico che gli scorreva nelle vene, infatti, pur non essendo prevalente da tre generazioni, aveva comunque lasciato il segno – anche nei rapporti con il resto dei Nani.

La giovane non si sentiva così felice e leggera da quando le notizie di quel lontano nemico erano giunte ad oscurare i loro animi. Si fermò a guardare la sua famiglia, seduta intorno al tavolo della cucina, che sorseggiava quella zuppa non troppo appetitosa, lasciandosi sfuggire un luminoso sorriso.

Il resto divenne improvvisamente solo uno sbiadito ricordo.

 

 

8 Maggio 3019 T. E.

 

Vi erano notti in cui, quando chiudeva gli occhi e si lasciava abbandonare tra le braccia del sonno, riviveva i momenti salienti della giornata appena trascorsa: le riunioni con il Re e gli alleati, le discussioni con i propri soldati, le decisioni quotidiane di un Sovrintendente e Signore di una delle più belle città della Terra di Mezzo.

Vi erano notti in cui, invece, non sognava – o così gli pareva la mattina seguente, poiché non ricordava neppure un frammento di immagini. A volte sentiva solo la sensazione piacevole o meno di un sonno tranquillo o agitato, ma niente che potesse aiutarlo a rammentare ciò che aveva immaginato.

E infine vi erano notti come quelle, in cui ricordava perfettamente cosa aveva sognato; notti in cui quegli stessi sogni parevano talmente realistici da lasciarlo senza fiato, sudato e tremante per l’angoscia. Poiché erano passati parecchi mesi dall’accaduto di Amon Hen, quando il germe del Male che si era insinuato in lui aveva preso il sopravvento e lo aveva portato ad aggredire Frodo, nel vano tentativo di impossessarsi dell’Unico Anello; ma la sua mente e il cuore faticavano a lasciarsi alle spalle quel passato che invece tornava a tormentarlo sovente.

Boromir osservò la volta a crociera in pietra di quella stanza che non era la sua, e sospirò pesantemente. Neppure in quel periodo di pace, giunto dopo tanta sofferenza e tante morti, il pensiero del Flagello di Isildur lo lasciava in pace. Eppure non lo sorprendeva affatto: quella, del resto, era la punizione che si era meritato per il suo deplorevole comportamento. Rivivere quei momenti, la paura e la tentazione che quel piccolo ed apparentemente insignificante oggetto gli aveva provocato, era il minimo che potesse sopportare. Qualcuno glielo aveva anticipato, tempo addietro:Non dimenticherai, ma convivrai con i sensi di colpa, tanto che diverranno una scomoda abitudine. Non so se svaniranno una volta che tutto sarà sistemato, se mai dovesse accadere, ma so solo che il tempo non cancella, bensì cicatrizza. Una ferita può non dolerti più da anni, ma le tracce rimangono e ti porteranno inesorabilmente a ricordare. Devi solo trovare la forza di convivere con essi.”

Abbassò lo sguardo sulla figura minuta che gli dava le spalle e dormiva accanto a lui, accovacciata in posizione fetale. Quella stessa persona che lo aveva messo in guardia dai sensi di colpa quando ancora lui era preda del terrore di quelle voci che continuavano ad annebbiargli la mente. Boromir spostò il braccio che teneva sotto la testa, per andare a stringere la donna che gli aveva ridato la vita – letteralmente e moralmente. Brethil si mosse nel sonno, accovacciandosi istintivamente contro il suo petto, ma non si svegliò. A differenza sua, dormiva sempre così profondamente da fare invidia. Solo poche volte si era svegliata di soprassalto, rivivendo la morte di una delle sue persone più importanti, colui che per lei era stato un secondo padre e che il destino aveva voluto se ne andasse tra le sue braccia, davanti ai suoi occhi traumatizzati. Era quasi tragicomico che entrambi soffrissero di incubi come spauriti bambini dopo un racconto spaventoso prima di andare a dormire.

Boromir inspirò profondamente il suo profumo, e si chiese, come spesso accadeva nelle ultime settimane, come avesse potuto trovare una donna come lei, dopo ciò che aveva fatto. Poiché Brethil era stata un dono dei Valar ed era capitata a lui, proprio a lui. Mai, in quarant’anni di vita spesa a combattere e ad asciugare la sua spada dal sangue del Nemico, avrebbe pensato di trovare qualcuno che potesse capirlo più della sua defunta madre o addirittura di se stesso; né che avrebbe amato qualcuno al di fuori della propria famiglia e dei suoi amici. Era sempre stato il migliore nel combattimento, nelle strategie di guerra, nell’incoraggiare i suoi uomini; ma non era mai stato bravo nel campo sentimentale. Cosa poteva saperne dell’amore un Uomo le cui mani erano incallite dall’impugnatura della spada e che passava più tempo a difendere la propria terra? Eppure eccolo lì, ad imbucarsi ogni notte in quella stanza per ricercare il calore di quell’abbraccio che parecchie volte lo aveva confortato. Parlavano a lungo in quegli incontri fugaci, poiché durante il giorno non avevano molto tempo da trascorrere insieme, privatamente. Del resto, lei era la Prima Guardia del Re, e in quanto tale doveva stargli accanto in ogni momento della giornata.

Fece scivolare lo sguardo dalla donna alla finestra di fronte e ciò che vide lo turbò e animò nel contempo. I Campi del Pelennor si stagliavano a perdita d’occhio e in quella cornice di pietre che gli permetteva di osservare il territorio vide i grandi cumuli tombali che, ormai, sorgevano ogni poche centinaia di metri l’uno dall’altro, memorie della grande battaglia combattuta solo qualche mese prima alle porte della città. Accanto ad essi, tuttavia, l’agricoltura stava restituendo i frutti di quella terra martoriata e innaffiata dal sangue di Uomini e Orchi, e il barlume di un futuro più roseo gli scaldò il cuore. Stavano lavorando duramente, giorno dopo giorno, per risollevare le perdite di Gondor, e quelli erano i primi, buoni risultati. Sapeva che sarebbero passati altri numerosi mesi per cicatrizzare tutte le ferite inferte dal Nemico, ma confidava nel suo Re e nei suoi Uomini; e l’Ithilien, che era in mano del fratello e dei Raminghi, aiutati anche da alcuni elfi di Bosco Atro tra cui Legolas, stava già riacquistando quell’aspetto immacolato di un tempo, e addirittura più incantevole, che Faramir tanto amava.

Minas Tirith, d’altro canto, era stata suturata dalle ferite delle catapulte e del fuoco che aveva distrutto mura, edifici e tetti, e ora appariva più bella che mai; per le strade erano udibili musiche e canti, insieme al profumo dei fiori che impregnava l’aria ora pulita e non più fuligginosa. Stendardi con l’Albero Bianco e la corona alata con le sette stelle adornavano gli angoli della città, agitandosi placidi al vento dell’Ovest, proveniente dalle montagne. Boromir non ricordava di aver mai visto la sua patria così splendente e ricca di voglia di vivere.

Quando i primi raggi di sole penetrarono nella stanza, l’Uomo capì che fosse giunta l’ora di tornare ai suoi alloggi e prepararsi per la giornata.

Appena si mosse, Brethil si voltò verso di lui, gli occhi grigi che lo osservavano assonnati. «È già ora di alzarsi?»

«Sì, Éomer e dama Éowyn partiranno tra poche ore.»

La donna si stropicciò le palpebre, sbadigliando e stiracchiandosi. Si mise a sedere, guardando l’Uomo che recuperava la casacca blu e la infilava sopra la maglia color panna.

«Ci vedremo tra poco a colazione. Verrai, sì?» Lei annuì, e lui sorrise. «Molto bene. A dopo, dunque.»

Quando Boromir lasciò la stanza, dopo un fugace bacio sulle labbra, Brethil lo seguì con lo sguardo dalla finestra, e sorrise. Fece scivolare via il sonno sciacquandosi la faccia con acqua fredda e si svegliò di colpo, sentendosi improvvisamente meglio. S’infilò la cotta di maglia che teneva sotto la camicia, e poi la tonaca blu con i pantaloni. Ogni volta che si mirava allo specchio così vestita, non poteva frenare il moto di fierezza che provava nel servire il Re - Aragorn non avrebbe potuto farle regalo migliore. Poi osservava i quattro profondi graffi cicatrizzati che le deturpavano il viso e si ricordava che non tutto ciò che aveva fatto in passato fosse degno di essere ricordato.

Legò in vita la cintura su cui pendeva la sua lhang, Celeboglinn, e fermò il mantello sulla spalla sinistra, con la vecchia spilla a forma di stella, memoria del suo passato di Dùnadan. S’incamminò poi verso la mensa dei soldati, che si trovava al Terzo Cerchio della città, dove era solita fermarsi per fare colazione. Non sarebbe mai andata laggiù se non fosse stato per Aragorn. Era schiva come la Raminga di un tempo, ma egli amava raggiungere i suoi uomini e discorrere con loro nella tranquillità della mattinata, senza corone né titoli. E i soldati sembravano gradire l’umiltà del loro nuovo Re, perché lo sentivano davvero parte di loro.

Incrociò il sovrano a pochi metri dall’ingresso del suo alloggio, nel Quinto Livello, e Aragorn la salutò con un sorriso. «Dimmi, amica mia, quante volte ti ho chiesto di lasciare da parte il tuo ruolo almeno durante l’ora della colazione?»

«Hai ben detto, mi hai chiesto, e io non sono tenuta a rispondere.» Brethil gli si affiancò e camminarono insieme, come ogni mattina. «Il Re sta francamente diventando ripetitivo, mio signore

Aragorn si finse affranto. «Oh, dovrò porre rimedio, dunque. Ebbene, in qualità di Re il mio diventa un ordine, e non una richiesta. Da domani voglio che sia semplicemente Brethil, non la Prima Guardia Reale. Almeno durante la colazione.»

La donna alzò gli occhi al cielo, lasciandosi sfuggire un sorriso. «E sta anche diventando capriccioso, per giunta.»

«Potrei farti tagliare la lingua per questo, ne sei consapevole?»

Si scambiarono un’occhiata divertita e proseguirono la loro lenta discesa della città, in parte ancora addormentata, ma che si stava risvegliando lentamente con i primi rumori di carri e mercanti che sistemavano la merce sui banchetti stradali. Chiunque poteva riconoscere il Re in quell’Uomo quasi anonimo, ed esso salutava chiunque ricambiasse il suo sguardo con un rispettoso inchino del capo. Poiché era lui che doveva inginocchiarsi davanti al suo popolo che così strenuamente aveva resistito agli attacchi del Male, e non viceversa.

Alla mensa trovarono il Sovrintendente, Legolas e Gimli, che discorrevano con i figli di Elrond, in procinto di partire con il Re di Rohan. Salutarono i due nuovi arrivati con sorrisi ed inchini del capo, e Brethil prese posto tra i gemelli.

«Buondì, thêl.» fece Elladan, l’unico dei due che amava chiamarla sorella. «Dormito bene?»

Brethil spostò lo sguardo da Boromir, intento a parlare con Aragorn, e si impose di non arrossire. Per quanto lei e l’Uomo non avessero ancora consumato, il solo pensare che avessero speso insieme l’ennesima notte la imbarazzava tremendamente. Soprattutto se Elrohir sorrideva sornione e si divertiva a prendersi gioco di lei.

«Suvvia, amici miei, non tormentatela oltre.» s’intromise Legolas, anch’esso divertito, eppure incuriosito dalla reazione della donna. Per quanto avesse trattato con gli Uomini, in passato e nel presente, non si sarebbe mai abituato alle loro emozioni. E trovava che quello strano fenomeno per cui il viso diventava rosso per l’imbarazzo, o la rabbia, fosse altamente adorabile.

Brethil riacquistò un poco della dignità di cui andava fiera, e si rizzò sulla sedia. «Ti ringrazio per l’aiuto, mastro Elfo, ma conosco parecchi modi per far smettere questi due. E sono tutti poco ortodossi.» aggiunse, sfiorando l’elsa della sua spada.

I gemelli risero, e il sole parve illuminare la grande stanza.

«E così l’allieva vuole superare i maestri?» domandò Elladan, colpito da tanta audacia.

L’altro si alzò, una mano all’altezza del cuore. «Ebbene, amica mia, ora non possiamo accontentare la tua sete di vendetta, poiché nostro padre ci attende. Ma al nostro ritorno avremo modo di chiudere la faccenda.»

Gimli accese la pipa e sbuffò il fumo con entusiasmo. «Un duello tra due Mezzelfi e la Ragazzina? Legolas, ricordami di svegliarmi per tempo, quel giorno. Non voglio perdermelo assolutamente!»

La Dúnadan rise, ringraziando mentalmente il Nano per non aver fatto commenti sessisti, come quelli che soleva udire in casi del genere. Chiunque, infatti, avrebbe detto che il duello sarebbe stato impari.

Finirono la loro colazione continuando a chiacchierare e a scherzare, come se i brutti momenti di qualche mese prima non fossero mai esistiti. Ognuno di loro, finalmente, poteva godersi la meritata pace e le liete giornate come quelle.

Poi il momento dei saluti giunse, e Brethil si ritrovò avvolta in un alone di malinconia che le serrò il cuore.

«Ci rivedremo presto, thêl, ne sono sicuro.»

«Staremo via solo per qualche tempo, poi faremo ritorno a Minas Tirith. Non possiamo certo pensare di lasciarti!»

Brethil sospirò di sollievo. «La notizia mi rallegra, davvero. Ma mi mancherete.»

Elrohir l’abbracciò e le diede un dolce bacio tra i capelli corti e scuri. «Ci mancherai anche tu, ma sarà per poco. Promesso.»

Lei annuì e il viso si distese, sereno.

«Sai, fratello, sono felice.» confessò seriamente Elladan. «Finalmente la nostra Brethil si è ricordata come si sorride.»

Brethil non si era mai resa conto di quanto difficile fosse stato sorridere in quegli ultimi due anni della sua vita. Aveva persino temuto di essersi dimenticata come fare. Ma gli avvenimenti funesti che l’avevano debilitata, erano stati accompagnati anche da persone splendide come loro, lo Hobbit e Boromir, cosicché era stato più facile risalire a galla da quel mare di dolore e problemi che la stavano soffocando.

E non fu mai così felice di avere quella consapevolezza.

Quando Éomer e la sua scorta lasciarono la Città di Pietra, Aragorn e Brethil si recarono al Primo Livello, per controllare che i lavori alle mura proseguissero per il verso giusto; l’Elessar diede appuntamento al suo Sovrintendente nella Sala del Trono, poiché importanti decisioni attendevano l’attenzione del Re, e desiderava che anche lui fosse presente e lo consigliasse.

Nel frattempo, Boromir rimase con Legolas e Gimli, che osservavano gli Hobbit guardarsi intorno senza sapere esattamente come occupare il loro tempo. Così, l’Uomo mantenne fede ad una promessa fatta a Frodo qualche settimana prima, quando avevano discusso a lungo e avevano chiarito il loro passato.

«Se voialtri vi state chiedendo cosa fare e dove andare, potrei avere qualche risposta per voi. Da troppo tempo vi avevo promesso di spendere del tempo con voi, ma gli impegni mi hanno tenuto lontano dal piacere.»

Frodo gli sorrise grato, e Merry e Pipino gli saltarono al collo per l’entusiasmo di averlo come guida per la più grande e maestosa città che i loro piedi pelosi avessero mai calpestato. L’unico che parve diffidente fu Sam, ma Boromir sapeva che per riacquistare la sua fiducia avrebbe dovuto lavorare sodo. E non era poi neanche tanto sicuro di riuscirci.

«E dimmi, amico mio, cosa vorresti mostrarci?» domandò il Portatore. Le profonde occhiaie di stanchezza e preoccupazione erano sparite dai suoi occhi, ma le fatiche che aveva dovuto sopportare durante il suo periglioso viaggio erano ancora ben visibili: era magro e non riusciva a prendere peso, nonostante mangiasse come si confà ad un Hobbit che si rispetti – soprattutto se Baggins. Il suo più fido amico Sam continuava a portargli cibo, e talvolta si intrufolava nelle cucine per preparare qualcosa di sostanzioso con lei sue mani; ma spesso e volentieri erano Meriadoc e Peregrino a mangiare la porzione di Frodo, mandando il buon giardiniere su tutte le furie.

Eppure, neanche Sam poteva negare che Frodo, in quegli ultimi tempi, fosse più rilassato. Durante la sera, dopo cena, si allontanava spesso con Boromir, per chiacchierare a lungo su chissà quali temi; il giardiniere non poteva accettare un comportamento simile, poiché temeva che l’Uomo potesse aggredire il suo padrone ancora una volta. Ma doveva ammettere che in Boromir non vi era più traccia di quell’ombra che, nell’ultimo periodo del viaggio insieme, lo aveva trasformato in un mostro.

«Vi farò percorrere le strade della mia infanzia. Vi mostrerò dove sono cresciuto, dove sono caduto, dove ho imparato a leggere e a scrivere, dove vinsi il mio primo duello. E poi passeremo al ring di allenamento, accanto all’armeria. Che ne dite di un po’ di pratica, come ai vecchi tempi? Non vorrei che vi arrugginiste.»

I cugini si scambiarono un’occhiata eccitata, e sguainarono le loro piccole spade. «Preparati all’umiliazione!» gridarono in coro, facendoli ridere tutti.

«Sai, Boromir, dovresti seriamente fare attenzione.» lo ammonì Frodo. «Stai osando sfidare uno scudiero di Rohan e un cavaliere di Gondor.»

«Ah!» esclamò Gimli. «Lo Hobbit ha ragione, potresti ritrovarti accidentalmente punto da quegli aghi che agitano come se fossero delle spade!»

«Messer Nano, ne avremo anche per te, sappilo.» disse Pipino, ritirando la sua lucente arma. «Ti taglierò personalmente la barba, con questo coltellaccio!»

Quello si portò istintivamente la mano al mento, borbottando qualcosa. Avrebbe venduto cara la pelle, prima che qualcuno gli tagliasse via la barba. Non solo era simbolo del suo rango tra i Nani, ma gli aveva salvato anche la vita un bel paio di volte.

E poi, la barba gli donava.

 

*

 

Capitolo iniziale in cui succede tutto e niente. Dal prossimo si comincia veramente. Spero che quello che ho in mente sia di vostro gradimento. Ero molto indecisa se iniziare a pubblicarla, perché ho in mente a grandi linee cosa succederà, ma ho ancora numerosi buchi da colmare. Speriamo bene!

Veniamo alle risposte di domande che probabilmente vi siete posti – o che per lo meno, io mi sarei posta. :D

Anche se il libro è vecchio di 76 anni e in teoria non dovrebbe essere una novità, vi avverto che quello che sto per scrivere nelle note è uno SPOILER con i fiocchi, se qualcuno di voi non ha letto Lo Hobbit o le Appendici de Il Signore degli Anelli. Quindi, vi ho avvertiti, occhio. ;)

Come avrete capito, sia Thorin Scudodiquercia che Dáin II Piediferro non muoiono rispettivamente nella Battaglia dei Cinque Eserciti e durante la Guerra dell’Anello (e di conseguenza neppure Fili e Kili). Su Thorin e i nipoti non credo che ci sia bisogno di spiegazioni – li ho resuscitati per lo stesso motivo per cui anche Boromir è ancora sulle sue gambe; per quanto riguarda Dáin ho una ragione ben più pratica: avrei potuto seguire le linee guida del Professore, cioè lasciarlo morente alle porte di Erebor, ma il suo successore sarebbe suo figlio, Thorin III Elminpietra; a mio modesto parere, avere due Thorin sulla stessa scena potrebbe creare troppa confusione, in futuro. Ad ogni modo, è una What if? e tutto è lecito – o quasi. :P

Oh, dimenticavo: ho preso un’altra piccola libertà riguardo la velocità di invecchiamento dei Nani. Nel 3019 Thorin dovrebbe avere la bellezza di 273 anni, un età paragonabile a circa 100 anni umani, dopo una veloce proporzione. Ma io lo voglio giovane e baldanzoso come nel libro e nel film, a parte qualche capello bianco in più, quindi facciamo finta che la durata media di vita per un Nano sia un po’ (molto) più lunga; rimangono mortali, ma invecchiano molto più lentamente rispetto a ciò che il Professore ha scritto.

Ci si legge tra circa due settimane – o, a meno che non avvenga qualche miracolo, anche prima. :)

 

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Capitolo 2
*** 02. ***


Buona domenica, miei cari lettori e lettrici!

So bene di avervi detto che avrei aggiornato dopo due settimane, ma a quanto pare è avvenuto il miracolo che vi avevo accennato, quindi eccomi qua. Solo... non prendetela a vizio. :P

Prima di tutto vorrei ringraziare infinitamente chi ha letto il primo capitolo di questa nuova avventura, chi l’ha già inserita tra preferiti, seguite e ricordate e chi, soprattutto, ha commentato.

È una gioia immensa ritrovare utenti di Betulla anche qui, davvero. Sapere che volete continuare a seguire le gesta di Brethil&Co mi rende felicissima!

Inoltre vorrei aggiungere una precisazione che, nel precedente capitolo, ho dimenticato di fare: riguarda la descrizione dei Colli Ferrosi. Non si trova molto su questo posto, quindi bisogna andare ad immaginazione. Nelle mie lunghe ricerche ho trovato il forum di un gioco di ruolo; la descrizione mi è piaciuta, e ho pensato di prendere libero spunto da quella. Tutti i meriti, quindi, vanno all’autore del post.

Ora, torniamo a noi. Dopo la premessa iniziale, dove abbiamo fatto un salto prima ad Erebor, poi nel regno di Dáin ed infine a Minas Tirith, ora si torna alla Montagna Solitaria, e ci rimarremo un po’.

Brethil e Boromir torneranno prossimamente, promesso.

Vi lascio alla lettura del nuovo capitolo – che ha subito mooolti tagli, aggiunte, e chi più ne ha più ne metta. Inizialmente era lungo 12 pagine, ma mi stavo addormentando io stessa nel rileggerlo. Ho dovuto lavorarci sopra per un po’, ma credo che ora sia leggibile.

Almeno, spero. ;)

Buona lettura!
Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

02.

24 Giugno 3019 T. E.

 

Il suono metallico e possente del martello che batteva il ferro sull’incudine risuonava incessantemente da ore, nella fucina ormai deserta. I lavoratori avevano abbandonato le proprie postazioni qualche ora prima, al suono dell’ultima campana che precedeva la fine del turno di lavoro. L’ora della cena era passata da parecchio e il forno esalava fumi e un calore asfissiante, ma il fabbro non pareva accorgersene. Era talmente assorto e con così innumerevoli anni di lavoro alle spalle, che quella per lui era una boccata d’aria fresca; amava il suono del ferro incandescente battuto, lo sfriggere dello stesso quando veniva immerso nell’acqua per essere temprato, l’odore pungente del metallo fuso; ed era unicamente in quei momenti, infatti, che poteva tornare ad essere un Nano privo di preoccupazioni e doveri. Aveva più di 250 anni di battaglie, decisioni e rancori, che l’avevano fatto invecchiare più in fretta del previsto.

D’altronde, un discendente di Durin non poteva aspirare ad altro, di quei tempi. Ma nonostante qualche capello bianco in più, rimaneva il solito burbero Nano di sempre.

Eppure, nonostante i tempi bui che la sua gente, e lui per primo, avevano trascorso, era stato prima un Principe, e successivamente Re, amato e giusto. Aveva guidato il suo esercito in innumerevoli battaglie contro Orchi e Mannari, rischiando seriamente di morire nella Battaglia dei Cinque Eserciti, se non fosse stato per i suoi nipoti; aveva recuperato il tesoro che apparteneva di diritto al popolo dei Nani della Montagna Solitaria, e con esso anche la gemma più preziosa tra tutte, simbolo della famiglia Reale – l’Archepietra; aveva guidato la ricostruzione della loro città, in modo che risorgesse più splendente che mai; poi la Guerra dell’Anello era giunta fin sopra il lontano Nord, solo qualche mese prima, quando i Nani si erano opposti a Sauron ed esso aveva inviato loro un esercito di Esterling. Dopo tre, estenuanti giorni di combattimento, Nani e Uomini di Dale avevano dovuto ripiegare verso Erebor, assediati per giorni, finché fioche ma eccitate notizie di una vittoria a Sud giunsero a rallegrare i loro animi e ad incupire quelli del Nemico.

Ora Erebor era il Regno Nanico più ricco della Terra di Mezzo, a cui molti tra Uomini, Nani ed addirittura Elfi si rivolgevano per il commercio, o semplicemente per visitare quel fasto fatto di pietra e gemme preziose. E Thorin, essendo un Nano ed in quanto tale profondamente orgoglioso del suo operato e del suo popolo, non poteva che gioirne.

Si passò un braccio sulla fronte sporca e sudata, e sospirò di soddisfazione nel guardare il risultato del suo lavoro: il nuovo paio di asce che stava fabbricando per Fili e Kili era quasi concluso: erano incredibilmente leggere, grazie al rivestimento di mithril che le rendeva maneggevoli, indistruttibili e letali; mancavano solo qualche finitura nelle decorazioni e i manici che avrebbe saldato nei giorni successivi.

Si avvicinò alla porta della fucina dopo aver ritirato gli attrezzi, infilò la sudicia camicia un tempo bianca ma ora sporca dalle ceneri, e si diresse verso le sue stanze, per un bagno rigenerante prima della cena. Non aveva pensato al cibo fino ad allora, e si rese conto di quanto fosse affamato.

Ad attenderlo all’ingresso trovò uno dei suoi più cari amici e consiglieri, Balin, che lo salutò con un inchino e un sorriso. «Vedo che anche oggi ti sei dato da fare. Trascorri più tempo rinchiuso lì dentro, piuttosto che nella Sala del Trono, mio Re.»

Thorin fece una smorfia ironica. «Sai bene quanto non mi piaccia stare con le mani in mano.»

«Ebbene, non sarò certo io a trascinarti lontano dalla fucina tirandoti per un orecchio!» Balin strizzò un occhio, porgendogli una pergamena. «Ma forse c’è qualcuno, là fuori, che avrà il potere di osare ben oltre.»

L’altro si voltò per guardare l’anziano Nano, che aveva ora tutta la sua attenzione. Prese il rotolo di carta ancora chiuso ed osservò con interesse la cera che lo sigillava: era un albero incorniciato da sette stelle, con una corona alata in alto.

Era lo stemma di Gondor.

Cosa avrebbe potuto volere il Re degli Uomini dell’Ovest da lui?

Aprì il documento frettolosamente, rischiando di strapparlo a causa delle sue rudi mani. Ciò che lesse lo stupì incredibilmente, e un profondo senso di orgoglio lo invase, facendolo sorridere. «Pare che i nostri servigi architettonici siano richiesti al Sud, mio caro amico.»

«Ciò che avevo immaginato. E dimmi, come risponderà il Re?»

Thorin arrotolò la lettera, stringendo la carta con ardore; e Balin, nel notare il guizzo di entusiasmo negli occhi chiari dell’altro, capì l’implicita risposta.

Il giorno dopo mandò a chiamare i suoi compagni più vicini nella Sala Grande, dove preferiva tenere le riunioni e gli incontri con gli emissari esteri. E al momento della decisione, la gioia della notizia non tardò a coinvolgere chiunque, soprattutto i più giovani.

«Andremo a Minas Tirith?» esclamò Kili, balzando davanti allo zio come un bambino eccitato davanti al suo regalo di compleanno. «Hai sentito, Fili? Andremo finalmente a Gondor!»

«Evviva il Re! Evviva lo zio!» gridò il fratello entusiasta, abbracciandolo. Nonostante fossero passati parecchi anni da quando quei due erano giovani ed esuberanti, e ora fossero adulti, ancora faticavano a comportarsi come tali.

«Partiremo tra un mese.» Thorin si alzò dal suo seggio, posando le mani sul pesante tavolo in pietra e sedando gli animi accesi dei nipoti con voce decisa. «E non sarà un viaggio di piacere. Gli Uomini di Gondor richiedono il nostro lavoro per ricostruire le mura del Rammas Echor, il Cancello di Minas Tirith e una città intera, Osgiliath; e noi glielo daremo al giusto prezzo. Esigo il massimo delle vostre capacità, nessuno escluso.»

«E non ti deluderemo certo.» Fu Dwalin a parlare, i piedi ben saldati a terra come la pietra su cui stava.

Thorin annuì in cenno di assenso, e continuò. «Tu e Balin richiamerete quanti più Nani di talento possibile, in forze e volenterosi; conto sul vostro buon metro di giudizio. Ori, voglio che ti occupi della catalogazione del materiale di cui abbiamo bisogno e dei mezzi di trasporto dalle cave fino a Gondor; e spedisci due aquile: una al Re, chiedendo Uomini per aiutarci; credo che abbiano collezionato numerosi prigionieri dopo la Guerra che potrebbero fare al caso nostro; una ai Nani dei Colli Ferrosi, per invitarli ad unirsi a noi. E incarica nuovi minatori affinché vadano a Khazad-dûm e si uniscano all’estrazione del mithril.» I tre si chinarono e si allontanarono per iniziare ad eseguire i loro compiti. «Quanto a voi due, occupatevi dell’armamentario. Saremo lenti, durante il viaggio, e la strada verso Sud è lunga ed ancora pericolosa; organizzate una scorta per gli operai e il materiale.»

I due fratelli imitarono gli altri tre, chinando il capo e dirigendosi verso la Sala dell’Addestramento, per arruolare nuovi soldati.

Thorin si sedette, stringendo i braccioli del seggio con eccitazione. Dopo la Guerra dell’Anello, i Nani avevano dovuto ricostruire parte del maestoso portale d’ingresso, andato distrutto a causa delle catapulte. Ma era stato un lavoro che aveva richiesto poco più di due mesi, grazie alla celerità e alla bravura della sua gente. Era da tanto che gli Uomini non chiedevano un aiuto così ingente ai Nani, e fu ben felice che lo avessero fatto in quel frangente. Aveva trascorso troppo tempo senza lavorare al di fuori dei confini di Erebor e finalmente aveva la possibilità di sentirsi nuovamente utile. Prima di essere un Re, infatti, era soprattutto un fabbro, e solo quando lavorava i metalli si sentiva realmente vivo.

Non c’era nient’altro che potesse farlo sentire così – neanche i tesori di famiglia che tanto amava.

Trascorsero poco più di due giorni prima che Erebor ricevette risposta dai vicini ed alleati Nani, e meno di due settimane alla visita di un piccolo gruppo di emissari. Dáin II Piediferro inviò tre dei suoi, incaricati di mettere a punto i compiti degli uni e degli altri, e di dividere spese e materiali. Uno di essi era Rulin, il più importante carpentiere dei Colli Ferrosi, che giunse con due dei suoi migliori apprendisti, Uren e Ulfgar, fratelli. I tre oltrepassarono l’imponente ingresso di Erebor e camminarono su un lungo ponte che dava sul vuoto – per quello che potevano vedere affacciandosi alla balaustra; da quel nero buio spuntavano colonne di pietra larghe quanto dieci Troll di caverna, che salivano fino alle alte volte trapuntate di fiaccole. Nonostante Rulin avesse visto le bellezze di Moria nei suoi periodi di gloria, quello era uno spettacolo che lo lasciò attonito – sebbene la sua vista fosse dimezzata da una benda che gli copriva l’occhio sinistro. Raggiunse la Sala del Trono dopo un lunghissimo corridoio largo e arioso, che s’insinuava verso il cuore della Montagna Solitaria.

Thorin lo accolse caldamente nella sua dimora, alzandosi nel momento in cui le porte si aprirono per far entrare gli ospiti; ma si accorse subito che ci fosse qualcosa in quel Nano che stonava eppure risultava familiare; era più alto della norma e ben tarchiato, ma sul suo viso, deturpato da quella benda, non vi era traccia di barba, a differenza degli altri due che, essendo pur giovani, facevano concorrenza al nipote Kili; inoltre le orecchie che spuntavano dai lunghi e folti capelli ramati parevano a punta, come quelli degli Hobbit.

O peggio, degli Elfi.

E così, mentre sedeva sul trono adornato dell’Archepietra, simbolo della casata dei Durin, Thorin studiò il Nano che gli stava di fronte, a pochi gradini di distanza.

«E ho personalmente ridisegnato il Palazzo del Governatore di Dale dopo l’ultima apparizione del Drago. Gli Uomini paiono ancora molto felici di ciò che feci costruire ben settantotto anni fa.» stava dicendo il carpentiere, mal celando il suo orgoglio.

«Non ne dubito. Conosco l’edificio di cui parli e ricordo con quale maestria ogni concio venne tagliato e decorato. Ma se la memoria non m’inganna, esse mi parvero... diverse, a tratti così delicate che mi sorse il dubbio fossero di fattura Nanica.»

«Posso garantire che ogni pietra fu lavorata dalle mani callose dei miei carpentieri; ma i vostri occhi sono ben attenti, mio signore. Ho lavorato a lungo con e per gli Elfi di Bosco Atro e di Forraspaccata*, poiché una parte del sangue della mia famiglia proviene da lì.»

Un mormorio di disagio e sorpresa si sollevò per la sala, e Thorin strinse gli occhi, una mano che carezzava distrattamente la barba lunga ed intrecciata. Un Nano con sangue Elfico nelle vene era un pensiero così blasfemo da far rivoltare lo stomaco anche al più pacifico. Era ridicolo anche solo pronunciarlo a mezza voce!

Ma il Re si sforzò di nascondere il suo sconcerto sotto la consueta maschera di indifferenza, e zittì i presenti con il gesto di una sola mano. Solo chi lo conosceva bene poteva dire quanto fosse ripugnato da quella novità, ben visibile dalle rughe contrite che gli si formarono nel mezzo della fronte. «Ecco spiegato il tuo aspetto e il tuo stile architettonico, dunque. Ti prego, raccontami un po’ della tua storia, poiché durante queste lunghe Ere pochi sono stati i Nani che si siano uniti ad Elfi.»

Rulin non si fece intimorire da quello sguardo indagatore e dai bisbigli che continuava a sentire. «La mia famiglia ha una lunga tradizione di carpenteria, e siamo conosciuti in numerose città, fin nella lontana Brea. Mio tris-nonno Rurik si recò a Forraspaccata in giovane età, poiché anche gli Elfi erano a conoscenza della sua bravura, e avevano richiesto l’aiuto del suo cantiere. Quando giunse alla Casa di Elrond, egli incontrò un’Elfa e si innamorò. Il suo nome è Ainariël, dai luminosi capelli rossi, ed era incuriosita dalle maniere di mio trisnonno, che benché provasse a comportarsi gentilmente, risultava grezzo e divertente ai suoi occhi. Ed egli fu così fortunato che, quando tornò a casa, l’aveva al suo fianco come moglie.» Rulin alzò il mento, fiero delle sue origini. «Capisco che vi sentiate offesi per questa notizia, perché sono ben consapevole dei rapporti tra Nani ed Elfi; in particolare con la tua famiglia, Thorin Scudodiquercia. Ma i tempi stanno lentamente cambiando, e mi è giunta voce che Gimli, figlio di Glóin, venga chiamato “Amico degli Elfi”, a causa di una profonda amicizia con il principe Legolas e una devota ammirazione per Dama Galadriel.»

«Suo padre sarà ben lieto della notizia, allora.» mormorò a denti stretti Dwalin, infastidito.

Thorin fece finta di ignorare il sarcasmo dell’amico, ma non si preoccupò che l’ospite potesse averlo sentito. «Sei l’unico mezzosangue esistente o ci sono altri simili a te?»

Il disprezzo nella sua voce nel pronunciare quell’appellativo fece ribollire il sangue nelle vene di Rulin, ma il suo lato Elfico e pacato gli suggerì di lasciar perdere qualsiasi tentativo di scontro da parte del Re. «Sono l’unico, insieme ai miei figli. Ma non preoccuparti, mio signore, non è una malattia contagiosa.»

Il Re abbozzò un sorriso privo di divertimento. «Ebbene, come hai ben detto, i rapporti tra la nostra gente e gli Elfi non sono mai stati dei migliori, né credo lo saranno mai, nonostante qualche sporadico avvenimento come questi di cui hai parlato. Ad ogni modo, qualunque siano le tue origini, sei il benvenuto ad Erebor e tra le fila dei nostri operai. Tu e i tuoi apprendisti verrete scortati alle vostre stanze, e vi attendo per la cena. Sarei ben felice se vi uniste a noi.»

I tre annuirono e, dopo averlo salutato con rispetto, Thorin abbandonò l’espressione di falsa cordialità che aveva costruito in quei minuti di conversazione. «Un’unione come quella dovrebbe essere bandita e punita con l’esilio.»

«Non essere troppo duro, amico mio. Quel Nano ha ben detto: i tempi stanno cambiando.»

Dwalin, sconcertato da quelle parole, quasi sputò la birra che aveva iniziato a sorseggiare. «Nano? Hai davvero il coraggio di chiamarlo Nano? Non insultare la nostra gente, fratello. Tu ed io siamo Nani, fin dall’inizio dei tempi. Non quel ridicolo omuncolo più alto della media e senza un filo di barba. Nano!» aggiunse, in un borbottio, riprendendo a bere, come che il sorseggiare birra potesse fargli dimenticare quell’affronto.

Balin non replicò, poiché sapeva di essere in minoranza. E, comunque, le sue ragioni non sarebbero state ascoltate. Anche lui era stato profondamente adirato con gli Elfi, poiché se essi si fossero trovati al loro posto, vittime di un Drago infuriato, loro non avrebbero voltato le spalle nel momento del bisogno. Ma gli anni avevano portato anche saggezza, e aveva capito che serbare rancore fosse solo una perdita di tempo.

E gli faceva perdere i capelli.

 

17 Luglio 3019 T. E.

 

Non ricordava di aver mai lasciato la porta di casa per andare all’avventura. Gli unici luoghi che aveva visitato nella sua giovane vita erano stati quelli circondati dal cerchio di colli che davano il nome alla sua città; mai aveva oltrepassato i loro confini, neppure in compagnia della sua famiglia.

Eppure eccola lì, due giorni dopo l’arrivo del messaggio del padre che dava indicazioni ai figli su come e quando raggiungerlo nell’antico Regno dei Nani a nord di Dale. Trán aveva sempre sognato la Montagna Solitaria, che pareva imponente solo osservandola da così lontano; ma mai avrebbe immaginato di trovarsi ai suoi piedi e sentirsi la formica più insignificante. Perché quella era veramente una montagna, veramente solitaria, ed era enorme. Trán alzò il naso verso l’alto, ma non riuscì a vederne la fine, poiché un banco di nuvole la nascondeva. Per quanto poteva saperne lei, quella vetta avrebbe potuto raggiungere il cielo.

«Davanti a te, i Guardiani di Erebor!» esclamò Káel, non appena passarono una collina e l’ingresso della Città dei Nani fu visibile. Nessuno di loro fiatò per parecchi minuti, inebetiti ed affascinati da quei giganti di pietra che vegliavano silenziosi e temibili sulle porte di Erebor. E per quanto quella vista non fu una novità per i fratelli, che parecchie battaglie avevano combattuto proprio davanti a quelle statue, ogni volta che vi posavano lo sguardo non riuscivano a trattenere un brivido di eccitazione. Quello era il Regno del Re Sotto la Montagna, il più potente tra i Reami dei Nani, e quel portale dava solo l’idea delle meraviglie che si nascondevano dietro di esso.

Scesero dai loro stanchi pony e preferirono compiere l’ultimo tratto del loro viaggio a piedi. I segni della battaglia, tuttavia, erano evidenti man mano che si avvicinavano, e l’eccitazione ed il clamore dei fratelli scemò velocemente; la loro memoria era ancora intrisa del sangue che avevano visto versare, della morte che quasi li aveva presi, dell’orrore delle battaglie.

Trán questo non poteva capirlo, ma lo immaginava. Avrebbe voluto essere al loro fianco, a combattere con loro; non perché amasse l’arte della guerra, né perché desiderava morire. Ma perché amava il suo popolo e la sua terra, e sarebbe morta per difenderla, anche se era una donna e anche se non sapeva maneggiare al meglio una spada.

Abbandonarono i pony, liberandoli dei loro pochi averi, e sorpassarono l’entrata di Erebor con gli occhi spalancati nel vano tentativo di assorbire il più piccolo dettaglio di quello spettacolo. Vennero salutati con un cenno del capo da tutti i Nani che incontrarono lungo il percorso; molti di essi, infatti, stavano terminando gli ultimi lavori all’ingresso, per riportarlo agli antichi splendori.

Ma ciò che Trán aveva visto fuori, fu nulla comparato a quello che vide dopo. Le labbra le si schiusero per la meraviglia e sentì chiaramente il cuore perdere qualche battito nel posare gli occhi sull’immenso spazio che le si aprì davanti. Il vuoto assoluto regnava in quella montagna, ma percorribile da una intricata rete di passerelle, ponti, scale e piattaforme; e una foresta di pilastri intagliati in ogni loro angolo in forme rette e regolari, aperture di edifici scavati lungo le pareti della roccia, e luce. Tanta luce, per essere sotto terra. Trán non aveva mai visto tanta bellezza in un unico battito di ciglia, e la commosse.

Il gemello le strinse un braccio, sorridente. «È magnifica, vero?» L’unica risposta che ottenne fu un cenno di assenso con il capo. Poche volte la sorella era rimasta senza parole, poiché voleva sempre avere l’ultima. Per lui, e i loro fratelli, dunque, quello era un giorno memorabile.

«Abbiamo idea di dove dovremmo dirigerci?» domandò Káir, mentre attraversavano l’ennesimo ponte.

Il più piccolo della famiglia si avvicinò al parapetto placcato d’oro per sbirciare il vuoto, ma Trán lo prese per mano, allontanandolo.

«Dobbiamo andare al quinto livello sotto terra, prendere il primo corridoio sulla destra e cercare le abitazioni degli ospiti.» fece il maggiore.

«Uh, sembra facile a dirsi.» commentò Káel.

Trán sospirò, in un misto di meraviglia e rassegnazione. «Eppure mi sembra difficile, guardando la vastità di questo posto. Ho la netta sensazione che ci perderemo.»

«Ecco, signori miei, un’altra dimostrazione del pessimismo di Trán!» esclamò teatrale il gemello.

«Non sono pessimista, sono realista.»

«Definisci realista, sorellina.»

«Una persona che sta realmente per picchiarti, fratellino.»

Gli altri scoppiarono a ridere, e lei con loro.

«Bah, comunque non conterei sul senso dell’orientamento di nostro fratello.» continuò Káir, che si beccò uno scappellotto dal diretto interessato. «Dicevo solo che magari sarebbe saggio chiedere informazioni, no?»

L’orgoglio di Tarón fu messo a dura prova. «Solo se necessario. E sono sicuro che non vi sarà bisogno di chiedere aiuto a chicchessia.»

Percorsero poca strada prima di rendersi conto che, effettivamente, si erano persi.

«Dicevi?» domandò Káel, con un bel sorriso ironico sulle labbra.

«Oh, per l’amor di Mahal, smettila e portami rispetto, una buona volta!» si lagnò il maggiore.

«Lo farei, davvero... se tu mi dessi un solo valido motivo per farlo!»

Trán riuscì a contare fino a tre, prima che i due fratelli iniziassero a darsele di santa ragione, e fu costretta a separarli aiutata da Káir, non senza qualche difficoltà. «Neppure un bambino è così infantile come voi.»

I due chinarono il capo, guardandosi in cagnesco. Da quando la loro madre era morta, spettava a Trán prendere quella posizione vacante, e ci riusciva anche bene, a dirla tutta. Era sempre stata ferma nelle sue sgridate, e non voleva assolutamente che qualcuno dei suoi fratelli arrivasse alle mani per risolvere i problemi. Dovevano stare uniti, perché erano soli in quel mondo. Eppure Káel e Tarón erano due teste calde, insieme, e non perdevano occasione di punzecchiarsi.

«Per Durin, che succede qui?» domandò una voce estranea. Si voltarono tutti e cinque, arrossendo per l’imbarazzo di essere stati colti in fallo da un Nano.

Tarón si sistemò la casacca, facendo un passo avanti. «Discutevamo sulla direzione da prendere.»

«Ci siamo persi, in realtà.» aggiunse Káir, che si lasciò scivolare addosso il grugnito di disappunto del fratello maggiore.

Il Nano, che portava un buffo cappello con due punte rivolte verso il basso sui lati, parve sorridere. «Oh, novelli visitatori di Erebor, benvenuti! Permettetemi di presentarmi: io sono Bofur, al vostro servizio!» disse, inchinandosi profondamente. I ragazzi si presentarono uno dopo l’altro e il Nano sorrise apertamente. «Dove siete diretti, se posso chiedere?»

«Cerchiamo nostro padre.» fece Káel. «Egli è il carpentiere ufficiale di Re Dáin.»

Gli occhi vispi dell’altro Nano si fecero incuriositi. «Oh, ho sentito parlare di lui. Ma questa, ragazzi miei, non è esattamente la strada che dovreste imboccare. Di qui si va alle officine e alle fucine.»

Trán si fece attenta tutta d’un tratto e osservò l’imboccatura del corridoio, anche quando Bofur si mosse per accompagnarli lungo la giusta via. Durante il percorso, il Nano indicò loro alcuni punti interessanti della città da prendere come riferimento per non perdersi più. «E lì, proprio in quello sperone di roccia, c’è la mia bottega di giocattoli.»

«Sei un giocattolaio?» domandò Trión.

«Oh, sì. Costruisco giocattoli con la stessa velocità con cui i minatori estraggono l’oro!» Il più piccolo sorrise vispamente, e Bofur ridacchiò. «D’accordo, uno di questi giorni ti ci porterò. Ma ora non posso, mio fratello mi attende per il pranzo. Seguite quel ponte e il corridoio poco più avanti; non vi sarà difficile trovare la vostra abitazione. I carpentieri vivono insieme in una grande sala coperta d’oro e argento.»

Dopo averlo ringraziato innumerevoli volte, l’allegra compagnia si diresse verso la loro temporanea abitazione e non poterono frenare lo stupore di fronte all’ennesima meraviglia architettonica. Il soffitto della stanza era così alto e così riccamente rivestito che credevano fosse quella la Sala del Trono. Piccoli alloggi spuntavano come funghi in quel grande spazio, e fu in uno di questi che trovarono il padre. Uren e Ulfgar, che conoscevano bene i figli del loro maestro, li salutarono con caldi abbracci, e dopo aver posato le proprie cose nei rispettivi giacigli, si riunirono tutti per il pranzo. Discussero a lungo di quella città mastodontica, del lavoro che avrebbero dovuto compiere nella terra degli Uomini e del Re di Erebor. I figli furono parecchio dispiaciuti nel sentire i racconti del padre sulle malelingue che riusciva ad udire nelle bocche di tutti, soprattutto tra i potenti, ma non ci badarono più di tanto. Erano abituati a quel genere di comportamento, e anzi, si sarebbero sorpresi se fosse accaduto il contrario.

Il pomeriggio trascorse lentamente, perché Rulin doveva occuparsi del suo compito insieme agli apprendisti che avrebbero lavorato con lui ad Osgiliath, mentre i figli furono liberi di girovagare liberamente, a condizione di non allontanarsi troppo e di non rischiare di perdersi. Ovviamente, nessuno di loro disse dei problemi che avevano trovato al loro arrivo.

Trán era in compagnia del gemello e di Trión, che era decisissimo ad andare a trovare Bofur il giocattolaio, ma nel momento in cui riconobbe il corridoio che portava alla fucina, si allontanò velocemente senza che gli altri due se ne accorgessero. Aveva sempre sentito parlare della vastità di quelle officine, calde come l’alito di un drago, sede degli operati migliori di tutta la Terra di Mezzo. Così, sola in quel lungo corridoio, camminò fino ad un vicolo cieco, su cui si apriva una pesante porta in ferro. Lesse l’insegna in rune naniche e sorrise. Entrò con cautela, stringendo gli occhi che si fecero immediatamente secchi a contatto con l’aria arida della ferriera. Non vi era nessuno, a quell’ora della sera, ma poté comunque udire un unico martello sbattere ritmicamente contro l’incudine. Scese una ripida scala e si guardò intorno con curiosità. Il forte odore del carbone e del ferro fuso era così piacevole, alle sue narici, che inspirò profondamente. Appena raggiunse il livello più basso della forgia, camminò tra i tavoli in pietra, dove un innumerevole quantità di attrezzi e armi era stata abbandonata in attesa del giorno successivo. Cercò la sorgente del rumore che aveva accompagnato i suoi passi fino a quel momento, ma si accorse che, chiunque stesse lavorando lì, aveva smesso.

«Ti sei persa, mia signora?»

Trán soffocò un gemito di sorpresa e si voltò alle sue spalle, per incontrare un paio di profondi occhi azzurri, resi ancora più chiari dalla sporcizia del carbone su quel viso severo e bello. Scosse il capo ed abbassò lo sguardo, timidamente. «Al contrario, sono venuta di proposito. Chiedo perdono se ti ho disturbato.»

«Nessun disturbo; ma non è usuale trovare qualcuno che girovaga per questo posto, a quest’ora della sera. Soprattutto se si parla di una giovane Nana che rischia di sporcarsi gli abiti puliti.»

«Sono abiti già sporchi, hanno visto una settimana di viaggio.» Arrossì nello stesso istante in cui si rese conto delle sue parole. Chissà che odore terribile doveva avere, per Mahal!

«Una settimana di viaggio? E da dove provieni, se mi è permesso saperlo?»

Trán parve sospettosa del Nano; era imponente, dallo sguardo severo e avanti con gli anni. Ma si ricordò delle sue buone maniere, e rispose ugualmente. «Dai Colli Ferrosi, mio signore. Sono giunta stamane, con i miei fratelli.»

Senza accorgersene avevano iniziato a passeggiare, diretti verso un’altra uscita, a tre livelli di differenza da dove era entrata. Ma non se ne curò, perché il Nano al suo fianco sembrava affabile e sicuramente le avrebbe mostrato il modo per ritrovare la via. Non era la tipica persona che amava passeggiare con perfetti sconosciuti, ma il suo istinto le diceva di fidarsi – almeno una volta. Come non avrebbe potuto fidarsi, d’altronde, di quegli occhi azzurri?

«Avete parenti qui?»

«Nostro padre è carpentiere al servizio di Re Dáin.»

«Il mezzo Nano?»

Trán non si fece sfuggire il tono sorpreso e quasi sdegnato nella sua voce profonda. Così tornò seria. «No, il Nano, come me e te.»

L’altro udì il cambiamento di umore della giovane, ma non si fece intimorire. «Eppure, con sangue Elfico.»

«Sì, ma pur sempre un Nano, nato da Nani, tra i Nani.» rispose, con orgoglio. Non le piaceva quando qualcuno insinuava cattiverie sul loro conto, soprattutto su quello del suo buon padre, solo per la presenza di un Elfa nel loro albero genealogico. Lo trovava ridicolo, e irritante, anche se sarebbe dovuta essere abituata.

«Hai già incontrato il Re Thorin?» le domandò lo sconosciuto, che aprì la porta della forgia. Un’aria fresca li accarezzò entrambi, e sospirarono di sollievo.

«No, e non credo che lo incontreremo.» Trán non riuscì a nascondere il fastidio nelle sue parole. «E non credo che voglia farlo.» Quello le domandò il motivo solo con un’occhiata incuriosita. «I miei fratelli mi hanno parlato di una personalità altera e regale, incredibilmente valorosa in battaglia e di animo buono. Ma da quando sono giunta, credo che abbiano preso un abbaglio. Ci odia, e senza motivo. Mio padre mi ha detto di aver visto il disprezzo nei suoi occhi quando si presentò, e di aver udito molte offese provenire dalle bocche dei suoi consiglieri.»

«Credo che abbia a che vedere con il vostro albero genealogico.»

«Sì, ma non riesco a capire perché ci si ostini ad accusare noi per qualcosa che fece il Re di Bosco Atro tanti anni fa. Io non ero che una ragazzina, all’epoca.»

Il Nano inspirò profondamente, nel tentativo di pensare e trovare le parole adatte per parlare. Ma, forse, stava solo cercando di ritrovare la calma che i brutti ricordi gli avevano fatto passare. «Re Thorin ha tanti buoni motivi per odiare gli Elfi e i loro discendenti. Non lo biasimerei per questo.» Si sentì trafitto da quello sguardo offeso e ferito, e si affrettò a rimediare. «Ma sono sicuro che non ha niente contro la tua famiglia, in particolare.»

Si scrutarono qualche secondo e la Nana sospirò, lasciando cadere il discorso. Quando Trán si accorse che l’avesse riportata all’ingresso del corridoio da cui era giunta, lo ringraziò, sebbene non gli avesse esplicitamente chiesto di riportarla a casa.

«È stato un piacere discorrere con te, figlia di Rulin. Ma ora devo andare.»

La Nana sentì le guance andarle in fiamme nel momento in cui lui, con gentilezza, le prese una mano e se la portò all’altezza delle labbra, per baciarne fugacemente il dorso. E lei non riuscì a distogliere lo sguardo dal suo, che non aveva smesso di osservarla neppure durante l’inchino.

«Il piacere è stato mio.»

Le labbra dello sconosciuto si piegarono in quello che parve un sorriso e si allontanò. Fu solo allora che Trán ragionò sul fatto che non conoscesse il suo nome. Ma quando decise di domandarglielo, quello era già sparito. Tornò sui suoi passi, per raggiungere Káel e Trión, e si rese conto di sorridere come un’adolescente quando il gemello, vedendola, le chiese il perché di tanta felicità.

Trán non rispose, ma il suo sorriso si allargò ulteriormente.

 

 

19 Luglio 3019 T. E.

 

«Sai, sorellina, dovresti seriamente prendere lezioni di cucina, invece della scherma.»

Trán sollevò uno sguardo ferito sul gemello, che annusava con perplessità la zuppa di ceci che aveva preparato per pranzo. Non fu una sorpresa, però, notare che anche il resto dei fratelli era parecchio restio ad assaggiarne anche solo un cucchiaio. «Non l’ho avvelenata; anche se, col senno di poi, avrei voluto farlo.»

Káir scosse il capo. «Oh, no, lo sappiamo bene. È proprio questo il tuo talento!»

«Sapete, potreste prepararlo voi il pranzo, di quando in quando.» ribatté seccata la Nana, sedendosi a tavola e assaggiando la sua zuppa. Effettivamente, lo doveva ammettere, dava il voltastomaco. Dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per non lasciarsi sfuggire una smorfia, mentre mandava giù il primo sorso.

Káel la osservò attentamente. «Dimmi, Káir, ti sembra che stia diventando verde?»

«No, ma sono sicuro che in qualche secondo rigetterà tutto.»

«Avanti, ragazzi, mangiate e non fate storie.» li rimbeccò il padre. «Non può essere così... terribile.» aggiunse, dopo averne ingoiato un cucchiaio.

Trán alzò le braccia al cielo, arrendendosi. «D’accordo, basta così. Sfamatevi a pane e carne cruda, perché io non cucinerò più per voi.»

Si ritirò nella sua stanza, lasciandosi alle spalle le lamentele della sua famiglia, e vi rimase qualche minuto per calmarsi. Sapeva bene di non essere una buona padrona di casa, né che aveva ereditato la bravura culinaria della madre. Ce la stava mettendo davvero tutta per prendere il suo posto, ma più sentiva di sforzarsi, più il risultato era disastroso. E si sentiva un’incapace.

Prese un fodero che teneva sotto il letto e si diresse verso le fucine. Vi era tornata per le due sere precedenti, inconsciamente sperando di ritrovare quel Nano sconosciuto che non faceva altro se non tornarle alla mente; ma lui non si era fatto vivo, così quando quella sera tornò lì fu solo per affilare la spada che suo padre le aveva regalato parecchi anni prima. Come i fratelli amavano ricordarle, era una pessimista nata e aveva la brutta sensazione che avrebbe avuto bisogno di una lama più affilata di quella, durante il lungo viaggio che li attendeva verso Gondor.

Così prese posto ad un rullo, premette i piedi sulla pedaliera e vi passò sopra prima un lato e poi l’altro della spada. Il suono del metallo che sfregava contro la pietra la fece rabbrividire, e nel silenzio della sera risuonò tre volte più forte nella grande e alta sala delle fornaci.

Non si accorse della presenza alle sue spalle che rimase ad osservarla per parecchi minuti, prima di farsi avanti.

«Una spada non è un giocattolo per una ragazzina.»

Trán si morsicò la lingua pur di non gridare; ma il balzo che quella voce le provocò, le fece cadere l’arma dalle mani. Imprecò a denti stretti e quello le riservò un’occhiata di rimprovero. Possibile che dovesse sempre comparirle alle spalle?

Il Nano si chinò a raccoglierla e la esaminò con curiosità. «È di ottima fattura, maneggevole e resistente. A quale dei tuoi fratelli l’hai rubata?»

Trán divenne rossa. «È mia, non l’ho rubata a nessuno.»

Gli occhi azzurri dello sconosciuto sgranarono impercettibilmente. Quella ragazzina, ora, aveva tutta la sua attenzione. «Tua? Mi vuoi dire che sai come usarla?»

«Certo.»

Lui parve compiaciuto da quel tono orgoglioso e le restituì l’arma. «Spero che la stia affilando solo per mero vezzo, e che non ne avrai bisogno.»

«Lo spero anche io, mio signore.» mormorò lei, arrossendo ancor di più. «Anche perché, detto in tutta franchezza, ho solo duellato con i miei fratelli. Non ho molta esperienza e non so cosa farei se mi trovassi in pericolo.»

«Se mai dovesse succedere, sono sicuro che i tuoi fratelli ti difenderanno a dovere.»

Titubante e in imbarazzo nel sentire ancora quegli occhi cristallini su di sé, Trán riprese ad affilare il metallo. Quello, d’altra parte, rimase in silenzio con le braccia conserte sul petto.

«Dove sei stato in questi giorni?» gli domandò, incuriosita. Sapeva di non avere alcun diritto di chiederglielo; del resto, non si conoscevano che da pochi minuti, se sommava il loro primo incontro. Ma non poté fermarsi dal domandare.

Lui sembrò ponderare la risposta. «Ho avuto alcuni compiti da assolvere, e che mi hanno tenuto lontano dal piacere della forgia. La partenza è vicina e bisogna prepararsi.»

«E cosa ha da fare un semplice fabbro fino a tarda notte?»

«Un semplice fabbro?» ripeté il Nano. Si ritrovò a ridere prima ancora che se ne accorgesse. «Mia signora, c’è sempre qualcosa da fare.» le disse, quando si rese conto che la sua ilarità non venne condivisa.

Trán parve perplessa da quella risposta, e soprattutto da quell’atteggiamento. Strinse gli occhi, sospettosa. «L’altra volta non ho ben capito il tuo nome.»

«Questo perché non l’ho detto. E mi pare che neanche tu lo abbia fatto.»

Si morsicò le labbra, rendendosi conto della sua maleducazione. «Ebbene, io sono Trán, figlia di Rulin.»

Voleva dare un nome a quel volto altero, incorniciato da lunghi capelli neri striati di bianco in qualche ciocca, e una barba folta e ritirata in una piccola treccia. C’era qualcosa di regale, in quel Nano anonimo; qualcosa che la portava a chinare il capo quando lui la guardava con intensità, ad annuire ad ogni parola che quella voce bassa ma potente pronunciava. E aveva due grossi anelli alle dita, per non parlare dei fermagli sulle punte delle trecce, in oro e piccole gemme scintillanti. Qualcosa che difficilmente un semplice fabbro avrebbe potuto permettersi.

Ma la presentazione che tanto stava attendendo non giunse.

Qualcuno arrivò velocemente ad interromperli, e il Nano si voltò verso il nuovo arrivato, che era più basso e dai capelli e la barba candidi come la neve. Parve sorpreso nel vedere una femmina in sua compagnia, così si chinò gentilmente. «Perdonate l’intrusione. Mia signora, permettimi di presentarmi: Balin, al tuo servizio.»

Lei ricambiò la cortesia e ascoltò ciò che aveva da dire al suo amico.

«Dáin richiede la tua presenza; tuo cugino vorrebbe discutere sul prezzo da trattare con gli Uomini, alla fine dell’operato.»

Trán dovette far trascorrere qualche secondo prima di ricollegare il suo Re con la parola cugino. Guardò il Nano con cui aveva parlato e sgranò gli occhi. Ci mancò poco che la spada le cadesse nuovamente di mano. E capì il perché di quella segretezza nel confidarle il suo nome; il perché della risata quando lo aveva apostrofato come un fabbro qualunque; e soprattutto, perché avesse difeso il Re di Erebor come il migliore dei suoi sudditi.

Lui era il Re di Erebor.

Quel Nano altero e dai lineamenti eleganti che aveva di fronte era Thorin Scudodiquercia, Re Sotto la Montagna. E lei si sentì un’incredibile stupida per non averlo capito prima, e terribilmente ferita. Strinse i denti e fissò con astio il Re dei Nani, mentre parlava con Balin. Non solo era lui la fonte delle preoccupazioni del padre, e colui che alimentava l’odio verso gli Elfi, ma si era preso gioco di lei, nascondendo la sua identità e ascoltando ciò che aveva da dire contro di lui senza cambiare espressione del viso. E dire che aveva creduto fosse un Nano così a modo e gentile, tanto da chiacchierare con lei e mostrarle la via di casa!

Quando Thorin si voltò per congedarsi e chiederle scusa per non essersi presentato prima a dovere, lei si era già allontanata. Fece solo in tempo a vedere la porta della fucina richiudersi alle sue spalle con un colpo secco.

 

*Forraspaccata, Gran Burrone per chi non fosse familiare con questo nome.

 

*

 

Bene, immagino che tutti abbiate indovinato chi fosse il misterioso Nano prima della fine del capitolo. Mi sono chiesta se Trán non lo abbia scoperto troppo presto, ma leggendo i prossimi capitoli mi sono detta che sì, è meglio che lo abbia scoperto prima della partenza. Il perché lo capirete. :)

Spero vivamente che i brevi momenti con la famiglia di (mezzi) Nani vi piacciano... personalmente trovo Káel e Káir adorabili rompipalle. Sarà dura per Trán riuscire a non ammazzarli entro la fine della storia. ;)

Inoltre, ecco cosa gli Uomini di Gondor vogliono dai Nani, e come le vicende di Thorin, Gondor e la famiglia di Rulin si intrecceranno. Nelle Appendici si dice che Gimli abbia richiamato parte della sua gente per riforgiare i cancelli di Minas Tirith in mithril e per aiutare gli Uomini a ricostruire ciò che la guerra aveva distrutto – non Osgiliath, però, quella è una mia idea – diventando poi signore delle Caverne Scintillanti di Aglarond. Spero che questa mia variante vi soddisfi. :)

A presto, e grazie in anticipo a tutti coloro che leggeranno!

Marta.

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Capitolo 3
*** 03. ***


Salve a tutti, miei cari lettori e lettrici!

Dopo l’ennesimo taglia e cuci dei capitoli successivi, ne ho ricavato uno in più di lunghezza ragionevole, che vede l’inizio del viaggio dei Nani verso sud.

Ci sarà un po’ di movimento, lungo la strada, quindi... asce alla mano!

Grazie davvero a tutti coloro che stanno seguendo questa follia, siete una gioia. :)

Buona lettura,

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

03.

24 Luglio 3019 T. E.

 

C’era un incredibile via vai di Nani che entravano ed uscivano da Erebor, quel giorno. Il dì della partenza verso Gondor era finalmente giunto, insieme alla gioia e all’entusiasmo incontenibile di chiunque si fosse apprestato a partire con il Re. Lavorare per gli Uomini era un’occasione importante, che suggellava per l’ennesima volta la stima che legava le due razze. Nonostante ci fossero stati screzi in passato, come Thorin ben ricordava, Gondor era un regno che meritava il suo rispetto. E la richiesta era giunta da un Nano della sua casa, figlio di un suo caro amico e parente, e non poteva rimanere inascoltata. Inoltre, non lasciava Erebor nelle mani di un sottoposto qualsiasi, ma era ben consapevole che Dís, sua sorella, avrebbe fatto un ottimo lavoro mentre era in viaggio.

Sul suo pony nero, affiancato da Balin e Dwalin, Thorin guidava la comitiva di Nani proveniente da Moria e dai Colli Ferrosi e che lo avrebbe seguito fino ad Osgiliath, e successivamente a Minas Tirith. Non tutti, infatti, avrebbero lavorato nella città decaduta, ma alcuni, lui compreso, avrebbero dato i loro servigi direttamente al Re Elessar nella Capitale. Parte del ferro e del mithril, con gli attrezzi, partivano con loro, ma il viaggio sarebbe stato lungo e per niente facile: la prima tappa sarebbe stata l’attraversamento della Via Silvana di Bosco Atro affinché raggiungessero l’Anduin e salissero sulle imbarcazioni messe a disposizione dagli Elfi Silvani; e poiché il figlio di Re Thranduil faceva parte di quella Compagnia che stava tentando di rimettere in sesto Gondor, i Nani avevano il pieno permesso per attraversare il Reame Boscoso. Da lì alle Cascate di Rauros avrebbero impiegato poco più di una settimana di viaggio; poi avrebbero trascinato il materiale giù per i colli di Amon Hen seguendo il lungo fiume e sperando che i sentieri non fossero troppo accidentati; l’ultimo tratto del viaggio avrebbe visto il gruppo di Nani dividersi: alcuni avrebbero seguito il materiale sulle zattere che i prigionieri di Gondor avrebbero costruito per loro in quei giorni, mentre la scorta del Re avrebbe proseguito verso Osgiliath, lungo la sponda Est del fiume. Lì, dopo circa tre settimane di viaggio, avrebbero incontrato il Sovrintendente di Gondor e Signore della Città, che lo attendeva con Gimli, l’Amico degli Elfi.

Thorin storse il naso al pensiero di quell’appellativo e lanciò una rapida occhiata a Rulin che, affiancato da quelli che dovevano essere i figli, teneva per le briglie il pony di famiglia, su cui sedeva la ragazzetta con cui aveva parlato solo qualche giorno addietro. Non lo avrebbe mai ammesso a voce alta, ma aveva trovato piacevole discorrere con lei, sebbene fosse stato per pochi minuti e, soprattutto, gli avesse detto indirettamente che fosse un’arrogante spocchioso. Aveva un temperamento acceso, proprio come il suo, e solo sua sorella Dís avrebbe potuto competere. Ma si erano lasciati malamente, quella sera alle officine. Non era quello il modo in cui avrebbe dovuto scoprire chi fosse in realtà – anche se non riusciva a trovarne uno alternativo.

Ma non si soffermò ad osservare quell’insolita famiglia, poiché suo cugino Dáin II Piediferro, un affabile chiacchierone, gli si affiancò per sommergerlo di domande e notizie sui loro parenti.

«E nonostante tutto, mio figlio è stato in grado di respingere quei brutti Orchi con la forza bruta della sua sola ascia!» stava dicendo il Signore dei Colli Ferrosi. «Più passano i giorni e più mi sento soddisfatto del nome che scelsi per lui alla sua nascita. Thorin III, non poteva essere più appropriato!»

Il Re Sotto la Montagna sorrise. «Avrà anche il mio nome, ma il suo coraggio e la sua bravura sono frutto del tuo operato.»

«Oh, dici bene, e questo lo so.» Dáin gonfiò il petto, orgoglioso. «Ma dimmi, cugino mio, quando avrò il piacere di conoscere tuo figlio? Stai diventando vecchio, ormai, non hai intenzione di reclamare un erede prima che sia troppo tardi?»

«Il mio erede è mio nipote Fili. Non ho intenzione di sposarmi e di mettere su famiglia.»

«E come potrebbe, del resto? Uno scorbutico come nostro zio non potrebbe avvicinare neppure la Nana più sorda e cieca della Terra di Mezzo!» esclamò Kili, che si beccò uno scappellotto dal diretto interessato.

Fili lo osservò bonariamente. «Te lo sei meritato, fratello, non fare quella faccia.»

«Solo per aver detto ciò che pensano tutti?»

Balin scambiò un’occhiata ironica con Dwalin, che incrociò le braccia in attesa della tempesta.

Thorin, infatti, corrugò la fronte e strinse gli occhi chiari – segno che il limite della pazienza era quasi superato. «Ah, sì? E dimmi, cosa dicono tutti?»

«Bel colpo, Kili. Ora che dirai? Che ha più probabilità un Orco di sposare un’Elfa, piuttosto che lui una donna?»

L’arciere scoppiò a ridere nel momento in cui Thorin si sfogò anche sull’altro nipote. I cinque Nani lo osservarono spronare il suo pony, per allontanarsi dal gruppo e trovare un po’ di silenzio. Non era adirato per le parole dei due giovani, poiché conosceva la loro lingua lunga e priva di inibizioni; né si preoccupò che lo avessero deriso di fronte a numerose ed importanti personalità. Ciò che lo faceva infuriare era proprio l’argomento.

Le donne.

Il matrimonio.

Fin da quando era giovane il padre aveva trascorso anni della sua vita a sprecare il fiato, per cercare di convincerlo a prender moglie e a dare alla luce un erede. Era il nipote del Re, del resto, e non sarebbe stato difficile trovare una Nana che volesse diventare sua moglie. Ma a lui non importava. Lui voleva fare il fabbro, voleva difendere il suo popolo e pensare di governarlo saggiamente, un giorno. Le donne erano una distrazione, e portavano solo problemi.

Inoltre non aveva mai incontrato alcuna femmina che fosse degna di essere sua moglie: non solo non erano appetibili fisicamente, così simili ai maschi per modi e aspetto, ma mancavano persino di carattere. A cosa gli serviva una donna al fianco, se questa preferiva essere la sua ombra, invece che sostenerlo come si confà ad una futura regina? Un Nano amava una sola volta nella vita, e sarebbe stato per sempre. E lui non voleva sprecare la sua unica occasione con una compagna qualunque.

Cavalcò accanto a Rulin, che camminava vicino alla ragazza dai capelli rossi sul pony, affiancato dai figli incredibilmente alti per essere dei Nani, e il carpentiere lo salutò con inchino.

«Mio signore, buon giorno.»

«E speriamo lo sia, ne avremo bisogno.»

Rulin abbozzò un sorriso. «Permettimi di presentarti i miei figli: lui è il maggiore, Tarón, e il piccolo sulle sue spalle è Trión; egli è Káir, mentre loro sono i gemelli, Trán e Káel. Sono tutti ottimi fabbri e combattenti, anche la ragazza – essendo cresciuta tra uomini. I miei figli hanno combattuto con me per difendere Erebor, e il maggiore mi accompagnò anche durante la Battaglia dei Cinque Eserciti.» disse il carpentiere, con orgoglio.

Thorin appuntò mentalmente quell’informazione, poiché ricordava di aver intravisto un paio di teste rosse tra i Nani, tanto tempo addietro; ma nonostante la notizia, rimaneva il fatto che avessero il tanto odiato sangue Elfico nelle vene, ed era un dato di fatto che non poteva ignorare.

«Figli miei, egli è il Re di Erebor, sire Thorin Scudodiquercia. Dovremmo ringraziarlo adeguatamente per l’ospitalità che ci ha riservato durante queste settimane.»

Non gli sfuggì il disinteresse della femmina, che preferiva giocare con le briglie del suo destriero, piuttosto che spostare l’attenzione su di lui. Thorin chinò lievemente il capo, privo della corona, e venne imitato dai ragazzi, che parvero entusiasti di incontrarlo personalmente. Káir avrebbe voluto dirgli che avrebbe dovuto ringraziare l’uomo che aveva di fronte per il solo fatto che potesse ancora camminare sulle sue gambe, ma il padre capì i suoi pensieri e lo ammonì con un’occhiata severa.

«Ogni amico e suddito di Re Dáin è benvenuto nel mio regno, soprattutto se ha combattuto valorosamente per difendere il nostro popolo.» disse Thorin.

Trán tenne ostinatamente lo sguardo ovunque tranne che su di lui. Si sentiva umiliata per ciò che le aveva tenuto nascosto, e adirata per quello che il padre le diceva sul suo conto. Neanche il Re in persona avrebbe potuto prendersi il lusso di infangare il buon nome della sua famiglia. Neanche si rese conto di parlare. «Io non chiamerei ospitalità l’essere insultato per il sangue che ti scorre nelle vene, padre.» disse infatti, come se il Re non fosse che a pochi piedi da loro – e come se avesse scordato la sua gentilezza di qualche giorno prima.

«Trán...» la rimbeccò il gemello, tirandole un colpo alla gamba per zittirla.

Thorin rizzò la schiena, punto nell’orgoglio da quel tono calmo ma evidentemente ostile. Sapeva bene a cosa si stesse riferendo la ragazzina, poiché lei stessa glielo aveva fatto presente indirettamente, ma fece finta di niente. «Qualcuno della mia gente vi ha arrecato offesa?»

«Abbiamo l’udito fine, se capisci cosa intendo, mio signore.»

«Dunque vi porgo le mie più sentite scuse, a nome di chiunque vi abbia oltraggiato.» Il Nano notò le nocche della giovane sbiancare per la stretta delle sue delicate mani sulle briglie, così come un colorito acceso le imporporò le guance. Ma non era certo l’imbarazzo che ricordava di averle visto in viso quando l’aveva salutata, bensì rabbia.

Nonostante questo, però, continuò a rimanere calma. Rise, senza ironia. «Non sforzarti di fingere dispiacere, mio signore. Sarai un bravo combattente e un ottimo fabbro, ma la recitazione non è un’arte che fa per te.»

Il padre arrossì per l’audacia della figlia, e borbottò qualcosa in segno di scusa. Ma anche egli, a quanto pareva, non era un bravo attore, poiché ciò che lei aveva espresso a voce alta era anche il suo pensiero.

E Thorin, questo, lo aveva capito bene, e non lo accettò. «Mi occuperò personalmente di sistemare l’ordine e le buone maniere nel caso qualcuno o qualcosa dovesse infastidire te e la tua famiglia; ma non osare mai più insultare il mio nome e il mio onore, ragazza.»

Balin, che aveva udito la conversazione a distanza, si accorse dello sforzo che il suo amico stava facendo pur di non sbottare in qualche esclamazione poco signoresca e regale. Era sicuro che qualche decennio prima sarebbe esploso senza riguardi, forte del suo orgoglio Nanico; ma anche Thorin era cresciuto e diventato più saggio di un tempo. Eppure, temette, quella ragazzina stava giocando con il fuoco. E questa volta non si trattava di un Drago rosso seduto sul suo tesoro.

«Finché tu o chiunque altro non insulterà il nostro, ovviamente. E ti ringrazio, messer Nano, ma io e la mia famiglia sappiamo difenderci meglio di quanto non creda. Lo facciamo da tre generazioni, ormai.»

Messer Nano?

Thorin inspirò pesantemente, infastidito oltre modo. Aveva tentato di essere cortese, nei limiti dei suoi pregiudizi e ricordando la timidezza che gli aveva mostrato durante i loro incontri, ma quella ragazzina senza neanche un filo di barba e dalle ridicole orecchie appuntite aveva apertamente calpestato il suo ego.

«Mio signore, ti chiedo di scusare l’audacia di mia sorella.» s’intromise Tarón, chinandosi e lanciandole un’occhiata di rimprovero. «È una ragazza impulsiva e permalosa, non voleva certo offenderti. Inoltre, siamo abituati a determinati commenti riguardo la nostra famiglia e, detto in tutta sincerità, non ci recano offesa da tempo. Ci siamo abituati.»

Il Re tirò le briglie del pony, facendolo girare per allontanarsi. Annuì, senza aggiungere altro, deciso a non sprecare ulteriori parole con quella femmina dal sangue diluito, e accelerò il passo del pony, seguito da Balin, che le rivolse un mesto e timido sorriso, a cui lei non rispose.

«Ma che ti è saltato in mente?» esclamò il maggiore dei fratelli.

Lei si strinse nelle spalle. «Ho solo detto ciò che penso. E non mi pare di essere stata scortese. Potevi evitare di baciargli i piedi in quel modo, Tarón; possiedi anche tu una dignità.»

«È esattamente questo il motivo, abbiamo una dignità.» replicò il Nano. «E neanche io voglio che venga calpestata; non dalle cattiverie, né dai battibecchi. Impara ad essere superiore a chi ti insulta, Trán. È la migliore arma che hai e che abbiamo.»

Káel, nonostante tutto, ridacchiò. «Per la barba di Durin, non hai ancora imparato a pensare prima di dare fiato alla bocca, sorella!»

I nipoti del Re, che avevano anch’essi origliato qualche parola della discussione e incuriositi da tanto temperamento, si accostarono i giovani Nani nel momento in cui il padre si allontanò per parlare con uno dei suoi allievi.

«Buon giorno, mastri Nani. Signorina. Io sono Kili...»

«... e io Fili.»

«Al vostro servizio!» terminarono in coro.

I figli di Rulin si presentarono uno dopo l’altro, tranne Trán che, come sempre, parve sospettosa. Il gemello parlò per lei. «Lei è Trán, nostra sorella. Ed è la pecora nera del gruppo, visto che è l’unica femmina della famiglia – oltre che è pessima nei rapporti sociali, ma questo lo avrete notato anche voi.»

Fili ammiccò, osservandola con curiosità. Un paio di fossette gli si formarono sulle guance barbute. «Mi pare che avessi un ottimo uso della parola, qualche minuto fa, dama Trán.»

«Non sono molto aperta con gli sconosciuti, chiedo perdono.»

Quella risposta per poco non fece cappottare Kili dal suo pony; il fratello sogghignò. «E dimmi, come puoi avere amici se chiunque, all’inizio, è uno sconosciuto?»

Lei rimase in silenzio per qualche secondo, poi abbassò lo sguardo, in difficoltà. «Non ho molti amici. Ho solo i miei fratelli.»

Il tono di sconfitta con cui parlò, ben lungi da quello calmo eppure battagliero di poco prima, lasciò i due nipoti del Re quasi sconcertati.

«Non essere così melodrammatica, sorellina.» disse Káir, per minimizzare. «Hai un brutto caratteraccio, ma nessuno ti può biasimare per questo.» Gli altri risero, e così anche Fili e Kili nel vederle un sorriso in viso.

«Non mi pare di avervi mai visti in questi giorni.» disse il Nano biondo, mentre il gruppo si metteva in marcia.

«E non passereste inosservati, con il colore dei vostri capelli e la vostra altezza.»

«Dovete aver preso sicuramente da vostra madre.»

«A proposito, è di razza Elfica anche lei?»

Rimasero in apnea sommersi da tutte quelle parole. Ma i due non parevano prendersi gioco di loro, e anzi, sembravano sinceramente interessati di fare la loro conoscenza. A differenza dello zio, Kili e Fili erano troppo giovani per poter capire il dolore del tradimento e dell’abbandono di quella razza che avrebbe dovuto essergli amica, cosicché i loro pregiudizi nei confronti delle Orecchie a Punta era fondato solo sui racconti dei Nani più anziani.

«Ebbene, siamo giunti solo nell’ultima settimana prima della partenza e non abbiamo avuto molto tempo per passeggiare attraverso i corridoi di un palazzo enorme e che ci è sconosciuto.» disse Tarón. «Erebor è molto diversa dai Colli Ferrosi e purtroppo non abbiamo avuto una guida adatta.»

«Questo perché non ci siamo incontrati prima!» esclamò Kili, pimpante. «La prossima volta che soggiornerete nella nostra casa, sarei ben felice di mostrarvi le bellezze di Erebor.»

«E io verrò con voi.» aggiunse Fili. «Non mi fiderei del senso dell’orientamento di mio fratello; dopo tutti questi anni riesce ancora a perdere la strada verso la sua stanza.»

«Il più delle volte è per causa della troppa birra.» precisò l’altro.

Trán, nonostante tutto, non poté fermare un sorriso. Il suo fratello più stretto annuì. «Ebbene, saremo lieti di visitare Erebor con entrambi. E di ricambiare il favore, se doveste farci visita ai Colli Ferrosi.»

I due parvero soddisfatti della risposta e l’allegria gli si allargò vistosamente sulle labbra.

Kili schioccò la lingua. «Allora, cosa dicevamo a proposito dei vostri capelli?»

«Mi pare che Tauriel, l’Elfo femmina che incontrammo a Bosco Atro, avesse i capelli rossi; magari è una vostra lontana parente. Ricordo bene, Kili?»

Il moro parve arrossire, stupendo tutti. Mormorò qualcosa in segno di assenso, ma evitò con abilità l’argomento, che a quanto pareva gli era particolarmente spinoso.

«Ah! Purtroppo non hai indovinato, messer Kili.» fece il minore dei fratelli, Trión. «Mia madre non aveva i capelli rossi, bensì una nostra lontana nonna. E non era un Elfo.»

Non ci fu bisogno di spiegazioni per quel modo di parlare al passato della madre; era evidente che avesse abbandonato la Terra di Mezzo troppo presto.

«E avete sempre vissuto ai Colli Ferrosi?»

«Sì, sempre.» Quella volta fu la ragazza a rispondere. «E sempre tra i Nani, se la cosa vi stupisce.»

«Oh, la cosa non ci stupisce affatto.» si affrettò a dire Fili, ben capendo il tono irritato della giovane. «Siete Nani, del resto. No?»

Káel sorrise, fieramente. «A tutti gli effetti, mastro Fili!»

Ed era vero. Nonostante fossero leggermente più alti della media e più simili a giovani Uomini, non avevano mai messo in dubbio le loro origini. Erano nati da due Nani, avevano vissuto con la loro razza, e sarebbero morti tra loro – a discapito di ciò che Thorin Scudodiquercia o chi per lui insinuava sul loro conto e su quello dei loro avi.

«Vi dispiace se cavalchiamo con voi per il resto della giornata?» domandò Kili. «Mi pare di avervi visti in battaglia, ad Erebor.»

«E ci piace discorrere con qualche viso nuovo, ogni tanto.»

Trán guardò i fratelli in una tacita richiesta di aiuto, poiché i nipoti del Re si stavano rivolgendo a lei, in realtà, come se sapessero che avrebbero dovuto chiedere il suo permesso per rimanere. Ma nessun appoggio giunse da quei mascalzoni dei suoi consanguinei. Lanciò un’ultima, veloce occhiata al Re di Erebor, che cavalcava ritto e fiero più avanti, in testa ai suoi uomini e affiancato dai compagni più stretti. Si ritrovò a stringere le labbra, indecisa; ma non poteva negare che quei due giovani Nani che avevano deciso di intavolare una discussione con loro fossero decisamente più affabili del Re. Che fine avesse fatto il Nano cortese con cui aveva parlato, però, non seppe dirlo.

Così si rivolse con un timido sorriso e annuì. «Ci farebbe piacere, invece.»

E lo diceva sul serio.

 

 

5 Agosto 3019 T. E.

 

La brezza del fiume che sorgeva nelle Montagne Grigie li fece respirare nuovamente, dopo aver percorso l’Antica Via Silvana. La foresta di Thranduil non appariva più tetra come un tempo, avevano notato con sollievo i Nani che l’avevano attraversata parecchi anni prima, quando erano diretti alla riconquista di Erebor; il Re degli Elfi, aiutato dalle forze di Lórien, aveva allontanato e sconfitto il male, ed erano giunte voci che quell’immensa vastità di alberi avesse preso il nuovo nome di Eryn Lasgalen, Bosco di Foglieverdi. Ma i Nani non erano famosi per riuscire ad apprezzare la vegetazione, soprattutto se i proprietari erano gli Elfi; fu quindi un sollievo abbandonare la foresta e trovarsi in aperta campagna. L’antica strada, costruita dai loro avi per scopi commerciali tantissimi anni addietro, proseguiva verso il vecchio passaggio sull’Anduin; un tempo lì vi era un ponte in pietra, che permetteva un comodo attraversamento del letto del fiume, e che faceva proseguire la via verso il Passo Alto. Ora non rimaneva che un semplice guado e qualche pietra in rovina.

Ad attenderli vi erano un gruppo di Elfi, che si era reso disponibile a costruire delle resistenti e confortevoli imbarcazioni per discendere il fiume con facilità. Nessuno di loro era un amante delle barche, ma era il metodo più veloce e sicuro che avessero a disposizione per raggiungere Gondor. Sarebbe stato un viaggio di una settimana, al massimo, fino al raggiungimento delle Cascate di Rauros, e nel frattempo avrebbero trovato il modo di riposarsi dopo la prima tappa di marcia.

Molti di loro non avevano mai navigato un fiume, quindi fu un’esperienza interessante, e a tratti spaventosa, per la maggior parte. Soprattutto quando i flutti prendevano un po’ di velocità per qualche ripido pendio, e loro imprecavano antichi insulti in Khuzdul, pregando Mahal che li facesse arrivare a destinazione sani e salvi.

La terza notte di viaggio si accamparono lungo la sponda occidentale dell’Anduin. Il Bosco di Lórien era visibile anche nella notte: una macchia nera che si estendeva fino alle pendici delle Montagne Nebbiose. L’idea di avere il Regno Elfico più potente della Terra di Mezzo a portata di vista li rassicurò e li inquietò contemporaneamente; ma era la lontana sagoma di Dol Guldur, visibile sotto i raggi lunari dall’altra parte del fiume, a turbarli di più. Il Male aveva abbandonato quelle terre, ormai, ma i ricordi dell’oscurità che regnava sovrana solo qualche mese prima era ancora accesa nei loro animi. Quella notte, Thorin ordinò di raddoppiare il turno di guardia, e molti si trovarono ad essere d’accordo con la sua cautela.

Trán, in particolare, continuava a guardarsi intorno, stando attenta al benché minimo ed estraneo movimento. Il gemello seguitava a dirle che fosse paranoica e che attirasse la sfortuna su di sé, ma lei non vi badò più di tanto. Per fortuna, Fili e Kili erano di tutt’altro avviso e, dopo aver cenato in compagnia dello zio e dei loro compagni, si avvicinarono ai loro nuovi amici, per chiacchierare un po’ prima di dormire. In quei giorni non avevano trascorso parecchio tempo insieme, poiché viaggiavano su imbarcazioni diverse; ma ogni volta che si presentava l’occasione, i due fratelli amavano unirsi a loro, sotto lo sguardo perplesso e parecchio infastidito di Thorin.

Il Re non aveva più avuto occasione di parlare con la ragazzina, poiché questa faceva di tutto per evitarlo: sfuggiva il suo sguardo, si allontanava quando lui provava ad avvicinarsi con la scusa di parlare ai nipoti; e le poche volte che scambiavano due parole non era certo per chiacchierare civilmente. Così Thorin aveva deciso che non avrebbe sprecato ulteriore tempo né fiato, dietro a quella nanerottola insolente. Ciò che più gli dava sui nervi era il fatto che Fili e Kili, d’altra parte, la trovassero estremamente piacevole. Cosa ci fosse di piacevole in una impertinente dal sangue macchiato ancora non riusciva a capirlo. L’unica cosa di vagamente interessante, suo malgrado, era l’aspetto. Perché, nonostante non fosse una comune Nana e la sua bellezza non potesse essere calibrata per le regole della sua razza, Trán era seducente quanto il suo infinito orgoglio.

Cacciò via quei pensieri, e riuscì a sdraiarsi e a prendere sonno solo quando i nipoti tornarono nei giacigli accanto al suo. Sembravano allegri e spensierati, e ciò gli mise ancor di più malumore.

Dall’altra parte dell’accampamento, Trán rimase sveglia ad osservare il cielo e le stelle. Non lo aveva mai fatto, prima di allora; ma da quando si era messa in viaggio per quell’avventura, ogni notte non faceva altro. Si perdeva nella vastità del cielo, ricamato di puntini luminosi, e il suo divertimento maggiore era riuscire a riconoscere qualche forma familiare tra quelle stelle.

«Sorellina, perché non dormi? Dev’essere tardi.» le sussurrò Káel, che sonnecchiava a pancia in giù, accanto a lei.

«Sono irrequieta.» mormorò. «E il cielo aiuta a calmarmi.»

Il fratello si voltò sulla schiena, e la osservò. «Vuoi dirmi cosa ti turba?»

Si strinse nelle spalle, non sapendo cosa rispondere. C’erano parecchie cose che la stavano impensierendo, ultimamente. Soprattutto la fastidiosa sensazione di essere spiati. E poi, anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, c’era la presenza ingombrante del Re di Erebor, che continuava ad importunarla anche durante il sonno. Sentiva la sua voce che pareva gentile e sinceramente interessata a lei; ma poi tramutava improvvisamente, e allora iniziava ad insultare lei e la sua famiglia. Le mattine seguenti, ovviamente, non riusciva a guardarlo in viso senza la voglia di dargli un pugno.

«Non è niente in particolare, davvero.»

«Sei una pessima bugiarda.» Káel ridacchiò, allungando una mano ed accarezzandola. «Vieni qui, tra le mie braccia. Qualunque cosa ti turbi, riuscirò a scacciarla via.»

Trán sorrise, e si stava per muovere quando entrambi si misero sull’attenti. Udirono indistintamente un fruscio e quello che pareva il rumore di parecchi piedi che pestavano il terreno, sulla riva opposta. Káel appiattì un orecchio sul pavimento di foglie e rimase in ascolto, mentre la Nana aguzzava la vista e osservava attentamente la sponda orientale.

«Sono parecchi, ma non troppi. Dovremmo riuscire a contrastarli facilmente.» disse Káel.

Lei annuì. «Dici che sono Orchi?»

«No, sono più leggeri. Sono Uomini.»

Un movimento alla loro sinistra li fece sussultare. Ma si trattava di Káir, che si era svegliato per il loro continuo chiacchiericcio e pareva parecchio irritato. «Ragazzi, stavo sognando! Che avete da pettegolare?»

Trán non gli rispose, rivolgendosi al gemello. «Bisogna avvertire i Re, ci pensi tu? Io sveglio nostro padre.»

Káel era già corso verso le tende reali e poco dopo tutto l’accampamento si ritrovò in subbuglio e sotto attacco. Un paio di frecce infuocate avevano attraversato il fiume e ora l’erba sotto i loro piedi bruciava. Molti corsero alla riva, per raccogliere acqua e spegnere l’incendio, mentre gli altri si armavano per la difesa. Purtroppo, tra loro, c’erano pochi arcieri, cosicché dovettero ritirarsi dalla sponda verso l’interno, per cercare protezione dalle lunghe gittate degli archi nemici.

Trán prese per mano il fratello minore, non prima di aver assicurato la sua spada alla destra. Ringraziò mentalmente il suo pessimismo, che le aveva permesso di portarsi l’arma in viaggio, e si allontanò dalla tenda, vicino agli altri Nani. La luna venne oscurata da un banco di nuvole, e per un attimo l’unica fonte di luce erano le fiammelle dell’incendio. Non videro, quindi, le zattere cariche di Uomini che, silenziosamente, si avvicinarono alla riva. Quando se ne accorsero era, ovviamente, troppo tardi.

La Nana si raggelò sul posto nel vedere la battaglia improvvisa infuriare tutto intorno a lei. I fratelli le gridarono di allontanarsi e di non compiere sciocchezze, ma lei era terrorizzata e non riuscì a muoversi. Non si era mai trovata nel bel mezzo di un combattimento e guardò la sua spada con sconcerto. Non aveva la minima idea di come muovere il braccio, perché in quel momento era convinta di non averne uno. Tutte le ore spese ad allenarsi con i fratelli parvero svanire nel buio della notte, perché dimenticò ogni singolo insegnamento.

Si guardò intorno e riconobbe il padre, poco distante, che nonostante la vista dimezzata sembrava un giovane guerriero nel pieno delle forze; vide i fratelli che lo circondavano come le migliori guardie del Re; e Kili, che dava libero sfogo alle sue precise frecce, mentre Fili combatteva poco più in là con due spade. Tra loro sbucava l’imponente figura di Thorin, che brandiva la leggendaria Orcrist nella mano destra e si difendeva con il suo famoso scudo di quercia con l’altra. Trán rimase a guardarlo, mentre uccideva con facilità assurda tre Uomini uno dopo l’altro, e si riscosse solo quando udì Trión strillare. Un Uomo, dal viso coperto, si stava dirigendo verso di loro, con una spada già insanguinata pronta a colpirli. Trán non riuscì a muoversi, paralizzata dal terrore; e sarebbero stati entrambi uccisi se non fosse che lo stesso assalitore cadde colpito da una freccia sul petto.

Poco dopo i corni degli Elfi, giunti in loro soccorso, risuonarono per la campagna. I Nani si sorpresero di quell’aiuto inaspettato, e combatterono insieme contro il comune nemico, che venne sconfitto ora con facilità. L’incendio venne spento e la luna tornò a brillare sopra le loro teste. Ci fu silenzio per parecchi minuti; Nani ed Elfi rimasero ad osservarsi, i primi increduli e imbarazzati nell’aver avuto bisogno del loro aiuto per sbarazzarsi degli aggressori. Ma un Elfo biondo e altero si fece avanti, insieme ad altri due che molto gli somigliavano. Guardò Thorin, che mosse solo qualche passo verso di loro e puntò la spada contro il terreno, ma non la ritirò.

«Inaspettato giunge il vostro arrivo.» disse il Nano, sollevando il mento.

L’Elfo portò una mano al petto. «E con un buon tempismo, aggiungerei, Thorin Scudodiquercia, Re Sotto la Montagna.»

«Gli Elfi sembrano sempre conoscere il mio nome, ma non mi pare di averti mai incontrato.»

«Io sono Haldir, Capitano dei Galadhrim e Protettore dei confini del Reame di Lothlórien. E loro sono i miei fratelli, Rúmil e Orophin.» fece l’Elfo. «Dama Galadriel ci aveva informati che sareste passati per questa via, e che avremmo dovuto prestarvi soccorso.»

Un brusio di sgomento si sollevò per il campo, ma nessuno osò chiedere come quella fattucchiera che sapeva leggere la mente potesse prevedere un evento simile.

L’unico che non si fece intimidire fu proprio Thorin, che sedò ogni chiacchiericcio. «Non avevamo bisogno dell’aiuto degli Elfi, Capitano dei Galadhrim. Avremmo potuto difenderci anche senza il vostro aiuto.»

Haldir gli si avvicinò fino a farlo sentire basso come un fungo, e lo osservò intensamente. «Bada a come utilizzi la tua lingua, Thorin figlio di Thráin. Poiché in futuro dovrai renderne conto e pagherai le conseguenze del tuo orgoglio e della tua testardaggine. E anzi, qualcosa mi dice che stai già subendo i risultati del tuo comportamento.» Lasciandolo perplesso con quell’enigma, l’Elfo lo sorpassò, fermandosi su un cadavere.

Dwalin, che lo teneva come trofeo con un piede sul busto, lo fece girare tirandogli un calcio e rivelandone lo stemma sulla sua armatura.

«Uomini di Rhûn. Credevo che gli Esterling si fossero arresi.» fece Dáin, sorpreso.

«Ci sono ancora forze del Male in azione, nel lontano Est.» fu la risposta di Haldir, che guardò verso quella direzione. «Dol Guldur è stata disinfestata con le nostre mani, ma il Male proviene da ben più lontano. Si sposterà velocemente a Sud, ora che sa che il Re degli Uomini lo regna e sta ancora cercando di risollevarne le sorti. Dovrete parlare con l’Elessar appena ne avrete la possibilità. Gondor non è ancora al sicuro.»

Thorin, che aveva rimuginato sulle parole dell’Elfo fino a quel momento, si voltò. Dall’espressione del suo viso sembrava volesse fronteggiarlo, ma chinò il capo. «Sai per caso se il fiume fino alle Cascate sia pericoloso?»

«Dovrete stare attenti, sì. Ora che sanno che siete in marcia, rallentati da ciò che trasportate e non equipaggiati per un vero scontro, potrebbero attaccarvi ovunque, in qualsiasi momento. Accampatevi il più lontano possibile dalla riva, durante la notte, o se potete evitate di fermarvi. Le barche che vi trasportano sono buone abbastanza anche per dormirci sopra.» Poi spostò lo sguardo sui figli di Rulin, che si sentirono chiamati in causa dai suoi occhi chiari ed arrossirono. «Hai occhi e orecchie fini, tra la tua gente, Re Thorin. Fanne buon uso.»

Il Nano guardò il gruppo di fratelli e fermò lo sguardo su Trán, che abbassò il suo con la scusa di accarezzare i capelli al piccolo Trión. Strinse le labbra, ma annuì. «Ebbene, seguiremo il tuo consiglio. E a nome di tutti, ti ringrazio per il vostro aiuto.»

Haldir chinò il capo. «Non è usanza degli Elfi di Lórien prestare soccorso a coloro che tanto ci odiano; ma abbiamo avuto prova di Nani che sanno andare oltre le divergenze ed i vecchi rancori. Quindi non ringraziarci, poiché è questo ciò che fanno gli amici nel momento del bisogno.»

Thorin avrebbe voluto ribattere, ma Balin lo interruppe con una mano sul braccio. «Sappiate che il sentimento è reciproco.» disse, con un profondo inchino, tanto che la barba bianca toccò per terra.

Il Capitano degli Galadhrim sparì tra gli alberi con i suoi simili poco dopo, e il silenzio tornò a regnare sovrano.

Il Re Sotto la Montagna non dovette gridare troppo forte per farsi sentire da tutti. «Qualche ferito?» Il brusio di qualcuno che parlava di lievi escoriazioni fu interrotto nuovamente dalla sua voce. «Oin, occupati di curare chi ne ha bisogno.» Quello annuì, inchinandosi e correndo a prendere il necessario. Il Re continuò. «Chi di voi è stato il primo a dare l’allarme?»

Trán e Káel persero più di un battito nel sentirsi chiamati nuovamente in causa. Il fratello la prese per mano e mosse qualche passo verso il Nano, che li osservò con impassibilità.

Thorin fece scivolare lo sguardo su di lei, che non osava guardarlo, come sempre. «Ebbene, vi sono grato a nome di tutti per la vostra acutezza. A quanto pare, avere sangue Elfico nelle vene può essere un vantaggio.»

Fu solo in quel momento che Trán alzò gli occhi sul Nano. Egli notò la mascella contrita, ma fu soddisfatto di aver richiamato finalmente la sua attenzione. «Da questo momento in poi, se mio cugino Dáin lo permetterà, voglio che almeno uno di voi e dei vostri fratelli stia di guardia durante la notte e durante il viaggio. Ovviamente, se accetterete, non dimenticherò il vostro servizio.» Vide nell’espressione della ragazza il desiderio di ribattere seccamente, ma ebbe la buona decenza di tacere; non parlava facilmente con una persona, e non lo avrebbe fatto con un pubblico di Nani in religioso silenzio.

«Posso iniziare da subito, sire Thorin.» disse Káel, portandosi una mano al petto, mentre anche gli altri suoi fratelli gli si affiancavano. «Sarebbe un onore per la mia famiglia.»

Thorin si voltò verso il cugino, che annuì. «Molto bene. Gli altri tornino a dormire.»

Trán scostò lo sguardo altrove quando notò il Re avvicinarsi a lei, le mani giunte dietro la schiena.

Thorin si fermò a pochi passi di distanza, osservando il fiume, che ora pareva una minaccia. «Hai visto bene ad affilarla prima di partire.» le disse, rivolgendo lo sguardo sulla spada e prendendola gentilmente dalle sue mani. La osservò sotto la luce della luna e lei arrossì per le parole che le rivolse poco dopo. «Hai fatto un buon lavoro; ma è inutilizzata, a quanto pare.»

«Se il motivo di questa discussione è prenderti gioco di me per le mie scarse qualità combattive, allora...»

«Ti sei spaventata, è normale. Non ti biasimo per questo, le donne non sono fatte per la guerra. Volevo ringraziarti, invece.» la interruppe bruscamente il Nano, mentre il volto gli si induriva per l’insolenza di quella ragazzetta. «Volevo ringraziarti per aver salvato le vite dei miei uomini, anche se lo hai fatto senza l’uso di un’arma.» Gliela restituì e lei la riprese, con malcelata stizza.

«Lo hai già fatto poco prima, e a nome di tutti. È sufficiente.»

Thorin aggrottò la fronte e la bloccò per un braccio quando lei fece per ritirarsi. «Ti ho offesa così tanto da parlarmi come se non avessi di fronte un sovrano, ragazzina?» le domandò, gli occhi chiari in fiamme per la rabbia. «Non ti permetto di rivolgerti a me con questo tono.»

«Tu non sei il mio re.» scandì lei, a denti stretti. «E se per offesa, mio signore, intendi aver nascosto la propria identità per sapere cosa una Nana discendente di un Elfo avesse da dire di te, e considerare la mia famiglia una disgrazia che ogni tanto potrebbe tornare utile durante le ronde notturne... ebbene, sì, mi hai profondamente offesa, sire Thorin. E dovrai fare molto più di un ringraziamento per riguadagnare la mia stima, se ciò ti interessa. Ora, gradirei andare a dormire.» disse, riferendosi chiaramente alla mano che la teneva ancora saldamente stretta per un braccio.

«Nella mia posizione chiunque avrebbe agito ugualmente. Un re deve usare ogni mezzo per scovare i propri nemici.»

«Nemici? Parli di nemici quando la mia famiglia ha rischiato di morire più d’una volta pur di combattere al tuo fianco? E solo Mahal sa che lo farebbe ancora ed ancora, nonostante il tuo disprezzo!» Trán si divincolò dalla sua presa, ma solo perché lui glielo permise. «Sì, sono offesa con te, Re di Erebor; e fintanto che continuerai con la tua arroganza e la tua cecità, allora la mia opinione su di te non cambierà. Con permesso, mi ritiro.»

Thorin la osservò allontanarsi a passo spedito, spinta da una terribile voglia di correre e scappare lontano da lui. Sospirò con pesantezza, avvicinandosi alla riva del fiume e scavalcando un cadavere, osservando il cielo. Era stato meschino ad usare la ragazza per sentire con le proprie orecchie il parere della sua famiglia su di lui, eppure quei limitati momenti in cui avevano chiacchierato era stato sinceramente incuriosito da lei. Aveva lasciato da parte ciò che rappresentava e l’aveva dimenticato per quei pochi minuti, assorbito dalla sua nuova conoscenza; poiché non erano molte le donne di carattere che aveva incontrato, e quella ragazzetta sembrava averne abbastanza per un esercito.

Ma era impertinente, e non sapeva mostrare rispetto neppure ad un Re. Se lei si sentiva offesa, lui era oltremodo oltraggiato dal suo comportamento.

Tornò alla sua branda, silenzioso e pensieroso, tanto da non sentire i nipoti che si stavano vantando del numero di nemici abbattuti. Si sdraiò dando loro le spalle, fissando il buio.

Quella notte nessuno riuscì a chiudere occhio.

 

 

*

 

Quanti scommettono che o Trán o Thorin non giungeranno alla fine della storia illesi, per mano dell’altro? :D

E dunque, si delinea anche la figura del pericolo che minaccia Gondor, ma... non è certo tutto qui. Ovviamente, perché sono sadica. Mwahah!

Ne approfitto per utilizzare questo spazietto per informarvi dell’esistenza di un fan-movie in fase di pre-produzione sulla caduta di Gondolin (per chi non sapesse di cosa sto parlando, leggete il Silmarillion. (; Ma leggetelo a prescindere. XD). Il film s’intitola Storm Over Gondolin (informazioni su http://www.stormovergondolin.com/, dentro troverete anche collegamenti a twitter e facebook), e signori e signore, io faccio parte del team. :) Sono una dei conceptual designer, e mi sono già messa a lavoro. Vi chiedo la cortesia di far girare la voce, perché necessitiamo di fan e di supporto (morale e non).

Grazie mille!

Un caro abbraccio,

Marta.

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Capitolo 4
*** 04. ***


Buon pomeriggio a tutti!

Prima di lasciarvi al nuovo capitolo, vorrei fare un piccolo appunto che riguarda ciò che leggerete, per evitare fraintendimenti e perplessità.

La prima parte si sposterà nuovamente a Gondor, perché avevo voglia di scribacchiare qualcosa sui nostri Uomini preferiti e di non lasciare tutta la scena ai Nani. E dato che li volevo fuori dalle mura di Minas Tirith, anche per introdurre un altro paio di personaggi che saranno una spina nel fianco, ho avuto un’idea.

L’appunto è questo: la foresta Drúadana è stata donata da Aragorn ai suoi abitanti durante il cammino delle spoglie di Théoden verso Rohan, liquidati con una frase veloce e di passaggio.

Citando il libro: “Senza fretta e con serenità traversarono l'Anórien, e giunsero al Bosco Grigio presso Amon Dîn; e là udirono come dei tamburi rullare sulle colline, pur senza vedere alcun essere vivente. Allora Aragorn fece squillare le trombe e gli araldi gridarono: «Mirate, il Re Elessar è venuto! La Foresta di Drúedan egli dona a Ghân-buri-Ghân ed alla sua gente; che appartenga loro per sempre, e che nessun mortale vi entri senza il loro permesso!». Allora i tamburi rullarono a lungo, e poi tacquero.”

Dato che il cammino verso Edoras, da Minas Tirith, cioè la Grande Via Ovest, circonda la foresta e non vi entra direttamente, ho pensato di cambiare un pochino gli avvenimenti – e di posticipare la donazione di qualche settimana.

E intanto i Nani proseguono la discesa verso Sud... buona lettura!

 

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

04.

6 Agosto 3019 T. E.

 

 

Alzò gli occhi al cielo e sospirò accaldata, accarezzando il manto bruno di Nerian, il suo cavallo di Rohan. L’aria afosa dell’estate non pareva soffiare via, anche a causa di quel velo leggero di nubi che manteneva la calura su di loro. Non indossava la pesante divisa che Aragorn le aveva regalato, ma i suoi soliti abiti di Dúnadan, più leggeri e confortevoli per una galoppata verso la foresta Drúedana, dove sperava di ritrovare un po’ di frescura. Aveva accolto la decisione del suo Re con entusiasmo, poiché i Woses, o Uomini Selvaggi, avevano accompagnato i Rohirrim durante la Guerra dell’Anello, affinché portassero l’aiuto necessario a Gondor, ed Aragorn aveva deciso di dare loro la riconoscenza dovuta. Con lui, oltre lei e Boromir, vi erano anche il Secondo Capitano e la sua Prima Lancia, rispettivamente Ecthirion e Mardil, due cavalieri fidati e devoti al loro Re e al loro Sovrintendente. Legolas e Gimli chiudevano il gruppo, insieme ad un piccolo manipolo di soldati.

Si fermarono sul limitare della foresta di pini, e l’Elessar parlò. «Miei fedeli compagni, che oggi mi seguite nel regno di Ghân-buri-Ghân, vi chiedo di lasciar indietro le dicerie su questi Uomini, poiché essi sono nostri amici e hanno combattuto per secoli il Male che gli Orchi hanno portato. Essi sono pochi e molto cauti; conoscono questa foresta meglio di chiunque altro, ma non ci attaccheranno se non gli daremo ragione per farlo. Siamo qui per ringraziarli del loro aiuto e per dare loro la pace che meritano. Procediamo dunque con cautela e serenità, ma vi consiglio di mantenere le bocche chiuse.»

Gimli grugnì. «Odio le foreste e ciò che c’è dentro.»

Si mossero poco dopo, spronando i loro cavalli ad un’andatura lenta. I loro zoccoli sembravano leggeri a contatto con gli aghi dei pini, ed il profumo delle conifere le inebriò i sensi. Brethil chiuse gli occhi per qualche secondo, riappacificando i tumulti e i turbamenti del suo animo con la tranquillità del bosco, e non si accorse di Boromir, che cavalcava al suo fianco, intento a scrutarla con la coda dell’occhio e un lieve sorriso sulle labbra. Il Sovrintendente era felice nel vederla rilassata, poiché temeva che la vita di città, la vita di corte, non fosse ciò che si aspettava. Gli uomini che li seguivano alle loro spalle erano un esempio vivente di quanto l’ambiente maschile di Minas Tirith potesse essere troppo angusto per una donna. Ma lì, circondata dalla natura e dal silenzio, Brethil sembrava a casa, e per un attimo dimenticò chi fosse e quale ruolo ricoprisse.

Legolas, che aveva avuto la medesima idea, però riaprì gli occhi e tese le orecchie. Non si erano addentrati troppo in profondità tra gli alberi, ma lo percepì quasi subito. Dapprima fu un rumore irrilevante per gli umani, che si confondeva con il cinguettio di qualche uccello e il fruscio del vento tra i rami; ma poi quel tamburellare ritmico si fece più sicuro e forte, e anche i soldati iniziarono ad udirlo, allarmandosi.

Gimli sussultò. «Che diavoleria è questa? Mi sembra di essere tornato a Moria, con quei dannati tamburi. Solo che qui è tutto troppo... verde.» Marcò bene il disprezzo sull’ultima parola.

«Questo, amico mio, è il loro modo di comunicare a distanza.» fece Boromir, rallentando l’andatura ed affiancandosi ai due. «Si sono accorti della nostra presenza e stanno decidendo come comportarsi. Sono molto schivi.»

«Non mi pare un buon segno.» mormorò il Nano, stringendo la presa sulla sua ascia.

«Sai, potresti essere scambiato per uno di loro, a ben vedere.» fece Legolas, che aveva catturato con lo sguardo un ometto basso e tarchiato, dai corti e neri capelli e gli occhi piccoli ed incassati che li controllavano attentamente. Era nascosto dietro un cespuglio, poco più avanti, e teneva tra le mani un arco, con una freccia incoccata. «Sono brutti e diffidenti come te.»

Boromir trattenne a stento una risata, e Brethil scosse mestamente il capo, sorridendo. I tamburi si fecero più chiari e il rullio terminò quando Aragorn, in testa al gruppo, si fermò in una piccola radura baciata dai tenui raggi del sole che filtravano attraverso il velo di nuvole. Davanti a lui stava un Uomo, basso e tozzo dalla scompigliata barba scura, e Brethil spalancò gli occhi grigi nel constatare che fosse praticamente nudo, tranne che per una gonnella fatta di erba e foglie.

Aragorn smontò da cavallo, imitato dagli altri, e si chinò con una mano sul petto. Tutti furono ben consapevoli di essere circondati dagli Uomini Selvaggi, poiché il rullo dei tamburi pareva giungere da ogni direzione, sebbene nessuno riuscì a vederli.

Gimli tirò una gomitata all’Elfo. «Dovrai pormi delle scuse sincere per avermi paragonato ad uno di quelli, oppure te le strapperò dalla bocca a suon di calci.» Legolas, in risposta, sorrise.

«Io conoscere te.» fece la voce gutturale del Drúedan, che incrociò le braccia grasse al petto villoso. «Tu Re di Uomini.»

Aragorn annuì. «E tu sei Ghân-buri-Ghân, il capo dei Drúedain, immagino.»

«Aye. Perché tu qui con soldati?»

«Essi sono i miei più fidati amici, e giungiamo da Minas Tirith per omaggiare te e la tua gente per l’aiuto che deste qualche mese fa. Se non fosse stato per voi, le éored di Rohan non sarebbero giunte in tempo e illese per difendere le nostre mura.»

«Voi sconfitto gorgûn. Noi odiare gorgûn

Brethil corrugò la fronte e Boromir, al suo fianco, le sussurrò la traduzione. «Orchetti. Li detestano con tutto il cuore.»

«È vero.» Continuò Aragorn, la cui espressione si distese, serena. «Ma con Rohan è giunto anche il vostro desiderio di essere lasciati in pace e di vivere in questa foresta in tranquillità. Ebbene io, Re Elessar, dono la Foresta di Drúedan a te e alla tua gente, affinché appartenga a voi e voi soltanto. Nessun mortale potrà entrarvi senza il vostro permesso. E vi prometto che farò tutto ciò che è in mio potere per tenere lontano i gorgûn da questi confini.»

Il viso calloso di Ghân si tramutò in una smorfia, che ricordava vagamente un sorriso, e si chinò profondamente. «Noi non avere amici, ma rispettare te e tuo popolo.» disse, in uno stentato Linguaggio Corrente. «Tu nemico di gorgûn, tu alleato. E io ringraziare te per dono, Re di Uomini. Tu non bisognare di permesso. Tu essere benvenuto in mia foresta.» I tamburi rullarono a lungo, finché quello sparì tra la vegetazione dopo un ultimo inchino, e con esso anche quella musica inquietante.

Gimli si guardò intorno, girandosi su se stesso per assicurarsi di essere nuovamente soli. Poi, poggiando un braccio sull’ascia, brontolò. «Beh, possiamo andarcene ora, no?»

Non capì se l’occhiata di Aragorn fu di rimprovero o di divertimento, ma non gli importò. Prima si allontanavano da quell’ammasso di erba e tronchi, prima avrebbe dimenticato il rumore dei tamburi – che era sicuro, avrebbe infastidito i suoi sogni per le notti successive.

«In realtà, vorrei fermarmi qualche tempo nel Bosco Grigio.» fu la tranquilla replica dell’Elfo.

Il Nano sbuffò. «E dimmi, cosa c’è di così diverso ed interessante in un altro bosco del tutto simile a questo? Dopo che ne hai visto uno, li hai visti tutti.»

Ridacchiando, montarono a cavallo e procedettero lungo la direzione opposta dalla quale erano giunti. Il Bosco Grigio era proprio sul limitare degli alberi dei Drúedain, e Boromir tornò indietro negli anni, quando era un ragazzo e spendeva interi pomeriggi con il fratello tra quegli alberi di pini, per cacciare o semplicemente per sdraiarsi e raccontarsi antiche storie e leggende. Pensò che gli sarebbe piaciuto riprendere quelle attività rilassanti con Brethil, per allontanarsi dalla realtà e spendere un po’ del loro tempo insieme. Ma sapeva anche che i compiti e i doveri che attendevano entrambi, una volta tornati a Minas Tirith, difficilmente gli avrebbero permesso tanto lusso. Così assecondò il desiderio di Legolas, approfittando di quella mattinata di tranquillità.

«Verrai con noi?» domandò al suo Re e amico.

Aragorn annuì. «Sì, ho bisogno di trascorrere qualche ora con i miei vecchi compagni. Mancano cinque importanti membri della Compagnia, ma mi accontenterò di voi tre.» aggiunse, ridendo.

«Miei signori.» li richiamò Ecthirion, visibilmente in disaccordo. «Suggerirei di tornare alla Cittadella il prima possibile. Abbiamo molto su cui discutere. Ed è quasi ora di pranzo, non abbiamo cibo con noi.»

«A quello posso rimediare io.»

Gli Uomini si voltarono verso Brethil, che aveva parlato. Lei alzò le sopracciglia, domandando tacitamente quale fosse il problema, e i suoi amici sorrisero.

«Non andrai a caccia, se è quello che stai pensando.» replicò duramente Ecthirion, che pareva godere nel contrastarla in qualsiasi cosa che dicesse o facesse.

Brethil ghignò. «Se la vista del sangue di un coniglio ti spaventa, o non sai accendere un fuoco per cucinare, non preoccuparti. Ho una vita di esperienza alle spalle.»

Il Secondo Capitano di Gondor strinse gli occhi chiari e i pugni, le cui nocche sbiancarono visibilmente. Fece per replicare, ma Boromir s’intromise. «Avremo l’intera giornata di domani per discutere, amico mio. Noi tutti necessitiamo di una pausa, e oggi mi sembra l’occasione perfetta.»

«Ebbene, con il dovuto rispetto, non starò qui a farmi insultare da una donna, né rinuncerò ad un comodo pranzo ad un tavolo, piuttosto che su un tappeto di foglie. Con permesso, sire, io tornerei in città.»

Il Re chinò il capo. «Mi rattrista non avere la tua presenza, ma sei libero di andare e di portare con te chiunque voglia seguirti. Non ho bisogno della scorta, questi alberi sono ben sorvegliati.»

Indispettito dal comportamento del suo sovrano, che pareva accettare qualsiasi stranezza da parte di quei suoi compagni stranieri, chinò a sua volta il capo, e si allontanò con Mardil e il manipolo di soldati al loro seguito.

«Grazie ai Valar, che ci hanno liberato.» mormorò Brethil, tra i denti.

«Non mi piace quel tipo.»

Boromir sospirò. «La tua schiettezza non smetterà di sorprendermi, Gimli. Ma nonostante possa sembrare una persona dura, egli è un bravo combattente e morirebbe per il suo signore.»

«Preferirebbe vedere me morta, oserei dire.»

«Brethil...»

La donna non aggiunse altro, spronando al trotto il suo Nerian per allontanarsi dal gruppo, ma sia Boromir che Aragorn sapevano cosa le stesse passando per la testa ora. Così come erano ben consci del cattivo sangue che scorreva tra i due. Ecthirion era l’emblema del soldato che non accettava una donna tra i suoi ranghi; che questa, poi, coprisse una posizione più alta della sua e dovesse sottostare ai suoi ordini, ancora non riusciva a concepirlo. La detestava, e non faceva niente per nasconderlo.

Così rimasero solo loro, vecchi compagni di avventure, e cavalcarono lentamente tra gli alberi. Una leggera corrente rinfrescò i loro visi ed inspirarono a pieni polmoni il profumo della foresta. Si fermarono una mezzora dopo, legando i cavalli su un tronco caduto da tempo e preparando un piccolo cerchio di pietre per accendere il fuoco. Brethil e Legolas presero il loro arco e si addentrarono tra gli alberi, alla ricerca di qualcosa di commestibile da mangiare, mentre gli altri tre cercavano legna da ardere.

Non dovettero attendere troppo prima di trovare qualcosa. La donna si appiattì contro un tronco appena notò un movimento tra i cespugli; Legolas, più avanti, fece lo stesso. Quello, l’avevano capito entrambi, doveva essere un animale che li avrebbe sfamati abbondantemente tutti e cinque. Un paio di corna sbucarono dalla vegetazione e riconobbero un capriolo, ignaro della loro presenza ed intento a ruminare un po’ di erba. Scoccarono le frecce nello stesso momento, e l’animale cadde su un fianco. L’Elfo lo prese con facilità e se lo caricò in spalla, mentre lei toglieva fuori un pugnale, pronta a scuoiarlo.

«Contiamo di sfamare un esercito, per caso?» domandò Gimli, quando li vide tornare con l’abbondante selvaggina.

Legolas sorrise. «No, ma conosco il tuo stomaco e so per certo che non ha fondo. Non so come faremo a farlo bastare per tutti.»

«Ah! Tanto tu non mangi, la tua porzione sarà la mia.»

Brethil scorticò l’animale, cercando di ricordarsi quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che l’aveva fatto. Vivere in città l’aveva abituata a troppi agi, ma non avrebbe mai dimenticato come prepararsi un pasto con le proprie mani. Boromir non riuscì a toglierle gli occhi di dosso, tornando indietro nel tempo, quando avevano vissuto insieme all’aperto e lei cucinava per lui, ancora indebolito per le ferite inferte dagli Uruk-hai. Sembravano trascorsi secoli, da quei giorni.

Il capriolo venne tagliato in diverse parti e Boromir si preoccupò di infilzarle in qualche sottile stecca di legno.

«Come ai vecchi tempi.» fece Aragorn, accendendo il fuoco con pochi e decisi colpi di pietra focaia.

Brethil gli si inginocchiò accanto, aggiungendo delle foglie secche per alimentarlo, e sorrise, inspirando l’odore del fumo. «Sì, come ai vecchi tempi.»

Così, seduti attorno al fuoco, cucinarono il proprio pranzo e si persero in chiacchierate spensierate, come non facevano da tempo. Il ricordo della guerra venne scacciato, così come i pensieri e i problemi che riguardavano il Regno, vennero dimenticati per qualche ora. A discapito delle paure del Nano, si scoprirono parecchio affamati, e del capriolo non rimase che la testa e le ossa. Persino l’Elfo lo trovò gustoso.

«Certamente è meglio del lembas.» borbottò Gimli, che si era acceso la pipa, insieme ad Aragorn. Riposarono contro i tronchi degli alberi, fumando in silenzio, mentre il piccolo falò scemava lentamente per mancanza di alimentazione.

Brethil, sdraiata sul tappeto di foglie, piegò una gamba e chiuse gli occhi, concentrandosi sui rumori della foresta. Per un periodo di tempo che non seppe calcolare, fu come se il suo animo fosse ben lontano da lì. Rivide anni e anni spesi a vivere tra la natura, a difesa delle terre a Nord della Terra di Mezzo, quando dovevano muovere l’accampamento ogni notte per non lasciare tracce visibili, quando dormiva poche ore perché doveva montare la guardia, o quando non dormiva affatto perché il Nemico era nei paraggi. C’erano giorni in cui mangiavano abbondantemente perché riuscivano a catturare qualche cervo o un cinghiale; altre in cui dovevano dividersi qualche smilzo coniglio, troppo sfortunato da trovarsi nel luogo e nel momento sbagliato.

Non si accorse di un movimento alla sua sinistra, né che Aragorn, Legolas e Gimli si fossero allontanati suoi loro destrieri per lasciarli in pace. Boromir le si sdraiò accanto, di fianco, il capo mollemente appoggiato sul palmo di una mano. La osservò per minuti interi, ricacciando indietro il desiderio di accarezzarla e quindi di svegliarla da quel momento di pace che era riuscita a ritagliarsi. Ma poi lei aprì gli occhi grigi, che trovarono subito i suoi, e gli sorrise; qualsiasi contegno si fosse dato durante tutta quella giornata, sparì in quell’esatto istante, e si chinò per baciarla.

E come ogni volta che le sue labbra incontravano le sue e percepiva le dita di lei addentrarsi tra i capelli, Boromir si sentiva l’uomo più vivo di tutta la terra. Baciò le lunghe cicatrici, ricordo di un passato fatto di scelte difficili e dolorose, e la sentì ridacchiare per il contatto della barba sulla pelle delicata.

«Se dama Brethil vuole ridere, allora l’accontenterò subito.» le sussurrò, solennemente. Brethil non capì cosa intendesse finché non avvertì le mani di lui solleticarle i fianchi. Cercò di divincolarsi da quel diavolo di Uomo che la stava facendo lacrimare per l’ilarità, ma sfortunatamente per lei non ci riuscì. Era parecchio che non si divertivano così, insieme e da soli; quando lui s’intrufolava nella sua stanza per addormentarsi con lei, solitamente erano troppo stanchi per lasciarsi andare a comportamenti fanciulleschi come quelli – e non avevano alcuna intenzione di svegliare mezza cerchia con le loro risate. Ma Boromir era più che felice di vederle il sorriso sulle labbra, in quell’espressione di felicità così rara in quel viso serio e dilaniato dalle preoccupazioni e non. E se qualche mese prima le avessero detto che finalmente si sarebbe ricordata come ridere, avrebbe sì riso, ma per la ridicolosità del pensiero.

Il suono di qualcuno che si schiariva la gola con qualche colpo di tosse, li riportò alla realtà, e videro Gimli, in sella con Legolas, che voltava loro la faccia – ma Brethil avrebbe scommesso tutto l’oro del mondo che fosse rosso per l’imbarazzo, peggio del suo sangue.

«È ora di tornare, purtroppo.» fece Aragorn, che sorrideva serenamente alla vista dei due. Lui, più di tutti, aveva temuto per l’umore della sua cara amica, e sapere che al suo fianco Boromir riusciva a farla tornare una ragazza spensierata, non poteva che calmarlo.

Boromir fu il primo ad alzarsi, porgendole una mano per aiutarla. Lei l’accettò riluttante, sentendosi ancora inadeguata a quelle forme di gentilezza che non le si addicevano e che lui continuava a mostrarle. Non era certo una damigella che non era capace di rimettersi in piedi senza l’aiuto di un uomo perché rischiava di inciampare sui propri vestiti, lei!

Si rimisero a cavallo, diretti verso Minas Tirith, e il sole aveva già iniziato ad increspare il cielo di sfumature rosse e arancioni. Brethil si chiese quando a lungo avrebbe dovuto aspettare, prima di trascorrere un’altra giornata come quella.

 

 

8 Agosto 3019 T. E.

 

I giorni e le notti successive all’attacco trascorsero tranquillamente, sebbene il timore di un’altra sorpresa li fece dormire poco e male. Nonostante gli screzi, era stato deciso di seguire il consiglio degli Elfi e di accamparsi lontano dalle rive dell’Anduin, mentre a turno i figli di Rulin montavano la guardia, attenti al minimo rumore che esulasse dal russare di tutti quei Nani.

Quella mattina, Káel era stato incaricato di viaggiare con la scorta dei Re, e per la sua gioia Fili e Kili gli stettero accanto tutto il giorno, dandosi il cambio ai remi. Era tremendamente noioso starsene seduti su quella barca dondolante, e fortuna che fosse grande abbastanza da potersi alzare per sgranchirsi le gambe.

«Siete mai stati in questa parte della Terra di Mezzo?» domandò il Nano ai due fratelli.

Fili scosse il capo. «Mai spinti più a sud degli Ered Luin e di Imladris, che io ricordi.»

«Siete stati nella Valle Nascosta?»

«Oh, sì. Rimanemmo lì un paio di settimane. E non fu così male, a dir la verità.» fece Kili.

«Non fu male?» esclamò Dwalin, seduto poco più avanti, mentre remava con vigore. «Non avrei resistito un giorno di più a mangiare quelle dannatissime foglie che gli Elfi si ostinano a chiamare cibo

Káel rise di cuore. «Gli Elfi mangiano erba? Sul serio?»

«E cosa ti aspettavi? Che mangiassero tacchini arrosto?» replicò Dwalin. «Non sia mai che si rovinino il palato delicato.»

Il Re Sotto la Montagna, che aveva taciuto fino a quel momento con la mente rivolta altrove, parlò con curiosità. «Dimmi, non sai cosa è comune trovare sulle tavole dei tuoi avi, ragazzo?»

Il giovane si strinse nelle spalle. «Non ho mai avuto contatti con degli Elfi, prima dell’altra notte. Né mi sono mai chiesto cosa mangino. Per quanto ne so, per me potrebbero anche vivere d’aria.»

Kili e Fili scoppiarono a ridere, battendogli delle forti pacche sulle spalle, che rischiarono di cappottarlo in acqua. Persino Thorin si ritrovò a sorridere. Tra tutti i componenti di quella strana famiglia, Káel era quello che più gli andasse a genio: gli ricordava i suoi nipoti, in qualche oscuro modo. Era vitale, voglioso di lavorare e di difendere la sua famiglia. E soprattutto, rispettoso nei suoi confronti, a differenza della gemella. E anche ora, nonostante lo avesse provocato volutamente, aveva replicato con tranquillità, chiudendo qualsiasi possibile disputa con una risata.

Thorin, in piedi accanto a Dwalin, gli si avvicinò cautamente, incrociando le mani dietro la schiena e osservandolo con la coda dell’occhio.

«Vedi niente all’orizzonte?» gli domandò, indicando la riva orientale con lo sguardo.

Quello scosse il capo. «No, la vegetazione è fitta. Ma ho la sensazione che si stiano spostando con noi, anche se più lentamente.»

«Credi che vogliano attaccarci di nuovo, zio?» domandò Kili, che si sporse sulla balaustra, nella vana speranza di captare qualche movimento tra gli alberi.

«Non lo so. È probabile che la voce del nostro aiuto a Gondor si sia sparsa e non vogliano permetterci di raggiungere gli Uomini. Ma se avessero voluto lo avrebbero già fatto.»

Káel annuì. «Volevano solo farci sapere che loro sono lì, da qualche parte.»

«Qualcosa si muove, a Est di queste terre.» disse seriamente Balin, sospirando e lisciandosi la lunga barba bianca. «Mi domando se arriveremo in tempo per avvisare Gondor del pericolo.»

«E io mi chiedo cosa troveremo una volta giunti.» replicò Thorin. «Le forze di Mordor si sono scagliate con più forza lì, che altrove. Gondor sarà sguarnita di difese.»

«Lo sono anche gli Esterling.» fece Dáin, che sedeva più avanti, ma aveva ascoltato la conversazione. «O devo ricordarvi cosa abbiamo fatto a quelle dannate chiappe, solo qualche mese fa?»  

«In ogni caso, ci sono guerrieri tra noi.» fece Fili, orgogliosamente. «Se Gondor avrà bisogno di un aiuto militare, allora giungiamo nel momento migliore.»

«Spero non ce ne sia bisogno.» rispose Thorin. «Sono stanco della guerra.»

«La vecchiaia si fa sentire, infine.» sussurrò Kili al fratello. Si ammutolì quando percepì lo sguardo penetrante dello zio e chinò il capo. Fu seriamente intimorito dal pensiero che potesse afferrarlo per la collottola e buttarlo in acqua senza troppi pensieri.

Il viaggio proseguì in silenzio, interrotto di quando in quando dalle voci dei più giovani. Si fermarono per una pausa a mezzodì, e tutti si ritrovarono affamati.

Káel rimase in compagnia dei nipoti del Re, in attesa che qualcuno preparasse il pranzo; quando Trán gli si avvicinò con una ciotola fumante e gliela porse, riconsiderò la sua fame. La prese, titubante, e l’annusò.

«L’ha preparata nostro padre, se è di quello che ti stai preoccupando.» sbottò lei.

«Ecco spiegato il buon profumo!» Stando attento a non versare il suo pranzo, la fermò per un braccio, ridente. «Suvvia, non offenderti! Non è mai stato un segreto che tu sei una pessima cuoca. Ma sei una brava sorella, in fondo.»

«E tu un orribile fratello.»

Káel le baciò sonoramente una guancia, sapendo per certo che non lo pensasse sul serio.

«Sei davvero così incapace in cucina?» domandò Kili, con curiosità. «Ciò non è onorevole, per una donna.»

Lei aprì e chiuse la bocca più volte, diventando paonazza dall’imbarazzo. Nessuno, oltre la sua famiglia, era a conoscenza delle sue terribili abilità culinarie, e il fatto che fossero i nipoti del Re di Erebor a prendersi gioco di lei, le fece venir voglia di sparire immediatamente. Per non parlare del fatto che persino Thorin, sebbene facesse finta di non udirli, sembrava ridersela sotto i baffi con soddisfazione.

«Io so cucinare.» borbottò lei, incrociando le braccia al petto, indispettita. «Sono gli altri che non sanno apprezzare il mio cibo.» Quasi non fece in tempo a finire la frase, che il resto dei fratelli era scoppiato a ridere fino alle lacrime. Trán non poté far altro che alzare gli occhi al cielo, tirare un pugno amorevole sulla spalla del fratello più vicino, che rantolò dal dolore per la mezzora successiva, e ritirarsi in disparte.

«Oh, andiamo, amico.» fece Fili, ancora ridente, rivolgendosi a Káel. «Non vorrai farci credere che quel pugno ti abbia davvero fatto male?»

«Fossi in te non mi giocherei le fortune che hai in tasca.» replicò il Nano, massaggiandosi la parte lesa. «La mia adorata sorellina possiede la mano più pesante che abbia mai incontrato. Non saprà cucinare, ma sa come dare pugni... è un maschiaccio, delle volte!»

«Ti ho sentito, fratello. Ne vuoi un altro?» gli gridò la ragazza.

Fili e Kili ridacchiarono di fronte alla sfrontatezza della giovane Nana, ma soprattutto per il rapporto che c’era tra quei due. Nonostante i diverbi e quei gesti d’affetto, era palese quanto si amassero.

«Voi due ci assomigliate molto.» fece il maggiore.

«Ah, sì?» Kili sembrò perplesso. «Io, però, non mi rivedo nella parte della femmina.»

Fili scosse il capo, stringendogli un braccio intorno al collo. «Idiota!»

E mentre gli eredi al trono di Erebor si azzuffavano, rotolando come cani per terra, Thorin fu accarezzato dal desiderio di alzarsi, afferrarli per le orecchie e farli volare giù per il fiume. Ma decise di riposare un poco i suoi nervi, così lasciò che quei due si ammazzassero da soli e fare il lavoro per lui. I Nani consumarono il proprio pranzo allegramente, poiché la luce del sole dava loro la vaga sensazione di essere al sicuro dal nemico. Se qualcuno avesse voluto attaccarli, lo avrebbero scorto più facilmente e non li avrebbero certo presi alla sprovvista. Anche il più stolto dei nemici avrebbe evitato di dare la possibilità a dei Nani di attrezzarsi per un attacco. Ripartirono poco dopo, cancellando ogni traccia della loro sosta, e il pomeriggio trascorse placidamente sulle acque dell’Anduin. Thorin non aveva mai disceso il fiume così a sud, ma dal conteggio dei giorni trascorsi in acqua, il giorno dopo avrebbero dovuto sorpassare gli Argonath e raggiungere il Nen Hithoel, il lago che precedeva le Cascate di Rauros. Da quel punto in poi avrebbero proseguito a piedi – o, per chi li aveva caricati sulle barche, in groppa ai pony.

La sera calò velocemente, anche a causa delle nuvole che oscurarono la limpidezza del cielo, e Thorin si ritrovò irrequieto fino a tarda notte. Non sapeva cosa lo stesse impensierendo, ma non riuscì ad addormentarsi. Si mise a sedere sul suo giaciglio, osservando la quiete intorno a sé. I suoi compagni sembravano non curarsi delle sue preoccupazioni, e russavano bellamente alla faccia della sua stanchezza. Si mise in piedi, sgranchendosi le gambe, e camminando attraverso gli alberi e la folta vegetazione, diretto verso la riva. Sapeva di trovare una delle nuove sentinelle dal sangue mescolato, e avrebbe chiesto a lui di tranquillizzare le sue preoccupazioni. Solo, non si aspettava che toccasse a lei montare la guardia.

Trán lo udì arrivare, ma non ebbe il coraggio di voltarsi. In qualche strano modo, lo aveva riconosciuto dalla cadenza dei suoi passi. Ad ogni modo, non vi badò troppo. C’era qualcosa, quella sera, che la stava allarmando, proprio come la notte dell’attacco.

Thorin le si fermò accanto, le braccia incrociate dietro la schiena, mentre ne osservava il profilo con la coda dell’occhio. Sembrava profondamente intenta a scrutare ed ascoltare, ma aveva ben capito che stesse anche fingendo di non averlo notato. Lo ignorava, e a quanto pare era il suo passatempo preferito.

«Sono ancora lì, vero?» le sussurrò, spostando ora lo sguardo verso la riva opposta.

Lei annuì. «Sì, ma non si muovono. Sembrano osservarci.»

Thorin inspirò pesantemente. Avrebbe tanto voluto capire che mossa stessero giocando quei disgraziati. Ma soprattutto avrebbe voluto fargli capire che non aveva alcuna intenzione di perdere tempo, scherzando con loro. La sua attenzione si focalizzò nuovamente sulla Nana, che aveva mosso qualche passo verso l’acqua e ora corrugava la fronte, con perplessità. «C’è qualche problema? Si muovono?» le domandò, affiancandola e tentando di vedere ciò che lei riusciva.

Ma Trán non gli rispose, quasi non lo sentì. Perché i suoi sensi, ora, erano focalizzati su un arciere, nascosto dietro un cespuglio, che aveva incoccato una freccia e mirava verso di loro. Con l’assenza della luce lunare pensava che nessuno lo avrebbe visto; ma Trán, invece, lo aveva scorto, eccome. Prima ancora che quello potesse scoccare, spintonò via il Re, che per lo stupore barcollò e cadde rovinosamente sul pavimento di foglie secche e sulla terra. Non capì cosa fosse successo, ma ogni intenzione di sfogare la propria ira nei confronti di quel gesto improvviso ed impudente svanì nel momento in cui la vide inginocchiata, mentre si stringeva un braccio insanguinato con una mano.

L’afferrò per quello sano e la trascinò via, tra gli alberi, portando entrambi al sicuro da qualsiasi freccia. Trán non aveva emesso un lamento, ma poté dire dall’espressione dei suoi occhi che stesse soffrendo parecchio. Thorin si chinò su di lei, esaminando la ferita e poi la punta della freccia, che a prima occhiata non sembrava avvelenata. Senza una parola, l’afferrò per la vita e l’aiutò a raggiungere l’accampamento, dove svegliò Oin con un colpo del piede, affinché la medicasse al più presto. Pochi minuti dopo gran parte dei Nani si ritrovò sull’attenti, temendo che gli Esterling potessero aver attraversato il fiume una volta ancora.

Si avvicinò a Dwalin, che stringeva in mano la sua ascia. «Che è successo?»

Thorin gli indicò la ragazza con un cenno del capo. «Era di guardia e a quanto pare un arciere aveva voglia di giocare al tiro al bersaglio.»

«È ferita.» constatò l’amico, notando il cerchio preoccupato di persone che la circondò. Thorin sospirò pesantemente, avvicinandosi anch’esso. La combriccola si fece da parte appena si accorse di lui, che se ne stava in piedi con le braccia incrociate al petto e uno sguardo furioso in viso.

«Sei per caso impazzita da voler giocare a fare l’eroina?» la riprese.

Trán non si aspettava di certo un ringraziamento, ma quello era troppo anche per l’arroganza di quel Nano. «Scusami tanto se mi sono presa una freccia al tuo posto, mio signore!» sbottò lei, rossa per l’affronto. Dovette morsicarsi la lingua con forza pur di non scoppiare in lacrime, sia per il dolore che per l’offesa. Ori era premuroso e delicato, ma accidenti, quanto bruciava!

Thorin si accorse dei suoi occhi lucidi, nonostante le tenui fiamme dei falò. Così strinse le labbra, e tentò una via più pacifica. Del resto, quell’ingrata gli aveva salvato la vita. «Quella freccia avrebbe potuto ucciderti.»

«E di grazia, al grande Thorin Scudodiquercia cosa potrebbe mai importare della mia incolumità?» domandò lei, con malcelato sarcasmo, non volendo credere che lui fosse davvero preoccupato per la sua sorte.

«Sei sotto la mia protezione.»

«No, sono sotto la protezione del mio Re, sire Dáin II Piediferro, e della mia famiglia.»

«Trán, basta così.» la rimproverò il padre.

Thorin quasi gli troncò le parole in gola. «Dal momento in cui tu e i tuoi fratelli siete a mia disposizione per la difesa del mio popolo, è mio compito difenderti.» Sentì molteplici occhi su di sé e sospirò pesantemente. «E ti ringrazio.»

La Nana sbatté più volte le palpebre, e tentennò. Voltò lo sguardo altrove, quando parlò. «Non c’è alcun bisogno di farlo. E comunque quella freccia non avrebbe ucciso né te, né me; ti ho solo evitato una seccatura.»

Thorin si passò stancamente una mano sul volto, sfiorando la lunga treccia della barba nera. «Sei talmente orgogliosa e testarda da non saper accettare neppure dei ringraziamenti, Trán dei Colli Ferrosi?»

Con uno colpetto al fianco, Káel le intimò di scusarsi. Trán alzò gli occhi al cielo, ma si rese conto di essere stata nuovamente impertinente, e senza motivo, così chinò il capo. «Chiedo perdono, mio signore.»

Il suo sguardo era duro, ma il tono con cui parlò era ben diverso. «Allora smettila, e accetta i miei ringraziamenti. Non lo faccio spesso.» Non seppe il perché, ma si pentì di aver detto quelle parole nel momento in cui la Nana tornò ad osservarlo, stupita e apparentemente in imbarazzo. Si sentì scavare l’anima da quegli occhi chiari, e fu una sensazione che non gli piacque. Si schiarì la gola, spostando lo sguardo su Oin. «La ferita?»

Quello scosse il capo. «Niente di grave, mio signore. È profonda, ma non si infetterà. Ti rimarrà solo una brutta cicatrice come ricordo, ragazza mia.» le disse in tono rassicurante. La vista dell’ago per i punti, però, non le parve così confortante.

«Una cicatrice, ma un grande onore.» disse Balin, che comparve al fianco del suo Re e le sorrise, strizzandole un occhio. «Per quanto letale o meno quel colpo fosse, hai messo comunque la vita di Thorin prima della tua.»

Trán parlò prima ancora di rendersene conto. «Ciò che la mia famiglia mi ha insegnato mi dice che lo farei ancora una volta, se necessario.»

Spiò la reazione di Thorin, che inspirò nuovamente con pesantezza. «No, non lo rifarai, perché se mai dovessi metterti in pericolo ancora una volta, ti punirò personalmente. Non voglio altre seccature che possano rallentare il viaggio.»

Sebbene quelle parole fossero dure e non mostravano alcun segno di riconoscenza, per una volta, Trán decise di non offendersi, poiché vide un’ombra di gratitudine sotto quell’espressione dura. Ma non durò molto, perché le voltò le spalle e tornò al suo giaciglio, con il chiaro intento di provare a dormire. Non ebbe molto successo, però. Continuava a rivedere il movimento improvviso di quella Nana mentre lo spingeva quasi con facilità, aiutata dalla sorpresa, e l’immagine sofferente di lei mentre stringeva il braccio ferito. Probabilmente aveva ragione a dire che quella freccia non lo avrebbe ucciso, magari non lo avrebbe neppure colpito; ma fu quel gesto che lo impensierì. La Nana aveva seriamente rischiato la vita; per quanto poteva saperne, il dardo avrebbe potuto essere avvelenato, e nessuno di loro possedeva le doti per curarla. E lui non sopportava l’idea che una femmina lo avesse salvato da un pericolo senza pensarci due volte. Quello stesso Elfo in miniatura che continuava ad affrontarlo a viso aperto, senza peli sulla lingua. Sentì l’ego andargli nuovamente in frantumi, e sempre a causa sua; ma quella volta non riuscì ad adirarsi.

 

Un’ora dopo l’alba, si rimisero in movimento, per l’ultima parte del loro viaggio lungo il fiume. Erano stanchi di quel movimento ondulatorio che faceva passar loro ogni appetito e gli lasciava la sgradevole sensazione di essere ancora in acqua anche quando si sdraiavano sulla terraferma. I Nani non erano nati per essere marinai, bensì per avere la salda pietra sotto ai piedi, e in quei giorni ne ebbero la conferma.

«Mi sento lo stomaco molle come un budino.» borbottò Dwalin, più irritato che mai. «Non voglio vedere acqua per i prossimi cent’anni.»

«Beh, questo è un male.» commentò Balin, sembrando serio. Thorin lo osservò con la coda dell’occhio e poté scorgere il divertimento nei suoi occhi. «È un male per il tuo igiene, e soprattutto per il mio naso. Anzi, dovresti seriamente prendere in considerazione l’ipotesi di fare un bagno. Puzzi come un maiale!»

I fratelli si guardarono per qualche secondo, impassibili. Poi scoppiarono a ridere.

Trán, che sedeva poco più indietro accanto ad Oin, incaricato di disinfettarle la ferita quando questa riprendeva a sanguinare, si dovette mordere un labbro pur di non ridere con loro.

«E comunque, non scherzavo.» aggiunse Balin. «Alla prossima sosta, se non lo farai tu, provvederò personalmente alla tua igiene. E sappi che non sarò delicato.»

«Che c’è, vuoi anche lavarmi il fondoschiena come faceva nostra madre quando eravamo neonati?»

L’inquietante immagine di un piccolo e tatuato Dwalin a sedere all’aria, sotto le amorevoli cure della madre, disgustò un po’ tutti, e non fecero niente per nasconderlo.

Balin ridacchiò. «Suvvia, fratello, modera la tua lingua. C’è una signorina, con noi!»

Molti di loro si voltarono verso Trán, che arrossì e chinò il capo. «Non badate a me, davvero.»

Dwalin simulò un’esclamazione divertita in un grugnito. «Mi ero quasi scordato della tua presenza, ragazza. Figurati se bado a te.»

Non seppe dire se fosse un bene o un male, ma considerato il fatto ch’era circondata da alcuni Nani che avrebbero preferito spaccare le pietre con le unghie piuttosto che avvicinarsi a qualcuno che avesse sangue Elfico, poté dire che la sua discrezione fu ben accetta.

I mormorii ed i battibecchi si smorzarono immediatamente, quando due imponenti sagome iniziarono a fare capolino tra gli alberi, in lontananza. E appena virarono a sinistra e il fiume proseguì dritto fino a perdita d’occhio, li videro in tutto il suo splendore. Gli Argonath si ergevano fieri e maestosi davanti a loro, un braccio disteso in avanti per intimare l’alt a chiunque osasse attraversare quegli invisibili confini. Persino loro, Nani che conoscevano bene come scolpire la roccia in imponenti colonne e sculture, rimasero senza parole di fronte a quello spettacolo.

«Gli Argonath, o le colonne dei Re.» disse solennemente Thorin, che si alzò con reverenza.

Trán, distogliendo per un momento lo sguardo dalle statue per spostarlo su di lui, pensò che fosse imponente come gli Uomini che rappresentavano; inoltre, non conosceva la storia di quei giganteschi monumenti, né ne aveva mai sentito parlare. Fu ben felice, quindi, di sentirlo mentre la raccontava ai suoi nipoti e a chiunque avesse voglia di ascoltarlo.

«Anticamente, segnavano il confine settentrionale di Gondor, quando ancora Rohan non esisteva. Rappresentano Isildur ed il figlio Anárion, che incutono timore al nemico e gli intimano di non oltrepassarli, poiché le difese di Gondor alle loro spalle li annienterebbero. Fu Rómendacil II ad ordinarne la costruzione, dopo la vittoria contro gli Esterling. Sono in piedi da secoli, e resistono alle guerre, proprio come i regni che difendono. E speriamo che coloro che ci stanno seguendo, rimangano indietro con essi.»

«I Nani all’ingresso di Erebor sono più maestosi.» fece Kili, poco convincente; ma, tenendo il naso all’insù per osservare quei giganti di pietra, si rese conto di non dire propriamente la verità.

«Altroché se sono maestosi, fratellino.» mormorò Fili, sorridendo. «Chissà che vista dev’esserci, lassù.»

«Vi dovrebbe essere un punto panoramico, non troppo lontano dal luogo dove attraccheremo.» fece Balin.

«Se ti riferisci al Seggio della Vista, è esattamente dal nostro lato del fiume.» disse Thorin. «Ma non perderei tempo sui colli di Amon Hen, a meno che non si faccia troppo tardi per trovare un accampamento migliore.»

Dáin sbuffò il fumo della pipa, senza che l’allontanasse dalle labbra. «Sarebbe saggio, invece, fermarsi lì. Avremmo una vista migliore, e quindi una migliore difesa, in caso di attacco.»

«Non lo faranno, stanotte. Il lago è una lunga attraversata, e se avessero voluto attaccarci per bene lo avrebbero già fatto quando il fiume era più stretto. Conto di lasciare i colli prima del tramonto.»

Ma Thorin aveva fatto male i propri calcoli, poiché raggiunsero la piccola area d’attracco sul lato occidentale del lago proprio quando il sole aveva iniziato la sua discesa sull’orizzonte. I colli di Amon Hen non erano troppo estesi, sulla carta, ma erano ricoperti da una fitta vegetazione di alberi, radici e cespugli, e difficilmente sarebbero riusciti a trasportare le barche, ciò che contenevano e i pony fino all’uscita prima del tramonto. Il Re, così, dovette arrendersi all’evidenza, e acconsentì ad accamparsi lì, dove si erano fermati. Nessuno di loro poteva sapere che in quello stesso luogo, solo qualche mese prima, la Compagnia dell’Anello si era materialmente sciolta, che alcuni di essi avevano combattuto contro un numeroso manipolo di Uruk-hai e qualcuno aveva seriamente rischiato di morire nell’impresa. Solo i discendenti di Ainariël parvero percepire il sangue che intingeva quella porzione di terra.

Thorin e Dwalin andarono in esplorazione, alla ricerca del Seggio della Vista, e quando lo raggiunsero rimasero lì, in silenzio, ad osservare quella parte di Terra di Mezzo che nessuno di loro aveva mai veduto.

«Rohan è davanti ai nostri occhi.»

Il Nano tatuato si poggiò sull’ascia, abbozzando un sorriso. «E chi l’avrebbe mai detto che saremmo giunti fin qui, un giorno?» Sentì una mano stringersi sulla spalla e vide l’amico sereno come non lo era da tempo.

«Sono felice che tu sia con me.» mormorò il Re. Fili e Kili giunsero in quel momento, ridenti e stanchi per la corsa, e Thorin ringraziò Mahal che anche loro fossero con lui.

«Ehi, guarda fratellino.» fece il maggiore dei due in un sorriso, circondando il collo dell’altro e abbracciandolo. «Guarda che meraviglia!»

E lo era sul serio.

La vasta valle dell’Entalluvio si perdeva a vista d’occhio, dondolando su numerose colline e tagliata da corsi d’acqua che parevano fili di ragnatele sotto la luce del tramonto; e la cresta dei Monti Bianchi, che ne segnava i confini a Sud, era ora una sagoma lontana e scura. I due fratelli si sedettero sul bordo più alto del cerchio di pietre, lasciando l’imponente seggio per lo zio. Thorin vi prese posto, rilassandosi e chiudendo gli occhi. Tornò con la mente alla sua amata Erebor, al trono incastonato dall’Archepietra che lo aveva accolto innumerevoli volte. Quella punta di nostalgia di casa stava iniziando ad impensierirlo, e non erano ancora giunti a destinazione. Aveva dovuto attendere infiniti anni prima di riprendersi ciò che gli spettava, aveva rischiato di morire per farlo, e in confronto alla sua lunga vita, non erano che passati pochi decenni da quando Erebor era tornata ad essere la sua casa. Il pensiero di averla lasciata alle spalle, ancora una volta, gli procurò più dolore di quanto s’immaginasse. Ma quello era un viaggio che avrebbe dovuto percorrere.

Lui voleva farlo.

Erebor non sarebbe andata da nessuna parte, nel frattempo.

 

 

*

 

Un grazie a chiunque si è fermato a leggere. :)

A presto!

Marta.

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Capitolo 5
*** 05. ***


Hej hej!

Aggiorno con qualche anticipo rispetto alla tabella di marcia che mi ero prefissata, perché ho scritto l’undicesimo capitolo, la scorsa notte, e ne sono più che soddisfatta.

Perché sì, io mi gaso quando scrivo di complotti e strategie di guerra nella Terra di Mezzo, più che di romanticismo!

Sapeste... eheheh.

Quindi, per festeggiare, eccovi il quinto – che, ad essere onesta, è uno di quelli che, invece, non mi piace più di tanto. A voi l’ardua sentenza!

Cheers!

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

05.

 

25 Agosto 3019 T. E.

 

L’aria fresca proveniente dal fiume che, placidamente, scorreva alla loro sinistra, era piacevole sulla pelle accaldata per l’ennesima giornata di viaggio. Si erano fermati da un paio d’ore ma, nonostante la stanchezza, nessuno aveva ancora intenzione di dormire. Il pericolo degli Esterling sembrava passato e l’eccitazione del vicino confine di Gondor, che avrebbero passato il giorno dopo, non li faceva riposare; un’aria gioiosa aleggiava nell’accampamento dei Nani. Attorno ai numerosi falò, molti chiacchieravano e ridevano, altri bevevano birra a fiumi e, un po’ alticci, iniziavano a cantare.

L’unico che non pareva divertirsi poi tanto era Dwalin, che lanciò irritato il suo boccale di birra, ormai vuoto. Era la quarta volta di fila che perdeva una partita ai dadi e aveva già detto addio ad un terzo delle monete che teneva nel suo personale sacchetto.

Balin, d’altro canto, si sfregò le mani, incassando la posta. «Avanti, fratello, dovresti essere felice che ti abbia alleggerito le tasche di qualche grammo!»

L’altro grugnì qualcosa in risposta, si alzò e andò a sedersi accanto al suo migliore amico. Thorin fumava silenziosamente la pipa, osservando con poco interesse ciò che gli accadeva intorno.

«Dove sono finiti quei due rompiscatole dei tuoi nipoti? C’è troppa calma, qui intorno.» fece Dwalin, stendendo le gambe e accendendosi la pipa a sua volta.

Thorin sbuffò il fumo, spostando lo sguardo poco più avanti, in un altro cerchio di persone. L’amico seguì lo sguardo del Re.

«Pare che si siano sinceramente affezionati a loro. Neanche tu sei riuscito a fermarli.»

«Non sono cieco, e quello che vedo non mi piace. Mi irrita oltremodo che spendano così tanto tempo con loro, piuttosto che stare al mio fianco.» La voce del Re era risentita e un po’ invidiosa; quei due giovanotti erano tutta la famiglia che gli rimaneva, insieme alla madre, e non avrebbe permesso che gli venisse portata via senza che lui facesse qualcosa per impedirlo. Eppure quell’allegra combriccola stava dando dimostrazione di coraggio e rispetto, e non poteva più aggrapparsi al fatto che il sangue Elfico scorresse nelle loro vene per discreditarli, poiché pochi dei suoi compagni gli avrebbero dato l’appoggio necessario.

«Qualche settimana fa avrei preferito tagliarmi la lingua, prima di dire una cosa simile, ma... mi piacciono.» fece Dwalin, stupendo se stesso e l’amico. «Beh, almeno i due chiamati Káel e Káir.»

Thorin non rispose, continuando ad osservare i nipoti e i Nani dai capelli rossi. Fili e Kili li raggiunsero poco dopo, ridenti, felici e un po’ brilli.

«Zio, questa dovresti davvero sentirla!» esclamò Kili, sedendosi con un tonfo accanto al Re. «Avanti, Fili, canta per il Re!»

Quando il diretto interessato, ubriaco dalla testa ai piedi, iniziò a cantare di un Troll che abbracciava una roccia scambiandola per suo padre, neppure Dwalin riuscì a trattenere le risate. Thorin si passò una mano sul viso, non sapendo bene se ridere o tirargli la prima cosa che gli capitasse sotto tiro per farlo star zitto – e dire che quello fosse il suo primo erede al trono!

Quando Fili terminò con le ultime strofe, chiunque era scoppiato a ridere e anche chi non aveva udito la performance del Nano, si unì all’ilarità.

Fili si chinò, ringraziando per gli applausi e barcollando nel tentativo di rimanere in piedi. «Grazie, compagni miei! Grazie! Ma parte del merito va anche ai miei amici dai buffi capelli rossi, senza i quali non avrei potuto comporre gran parte di questa splendida canzone – e che sono anche più ubriachi di me, a ben vedere.»

Un brusio si sollevò velocemente, ma nessuno osò dir male di loro. Era grazie a loro, infatti, che gli Esterling non li avevano colti di sorpresa nel sonno e che il Re Sotto la Montagna era vivo; e Thorin stesso aveva raccomandato a chiunque di tenere a freno la lingua e di mantenere per sé i commenti maligni sul conto della famiglia; eppure il Re si stava rendendo conto che, da quando i nipoti avevano messo gli occhi addosso a quel gruppo, e in particolar modo alla ragazza, e li avessero presentati ai loro amici più cari, quelli che lui si ostinava a chiamare Mezzi-Nani stavano acquistando favori e simpatie, giorno dopo giorno. Persino il timido Ori, dopo il giorno della ferita al braccio, trovava il coraggio di avvicinarli e parlargli. E più i suoi Nani si divertivano in loro compagnia, più il suo umore sprofondava sotto terra.

E la situazione lo stava irritando ed incuriosendo più di quanto avesse voluto.

«Zio, c’è qualche problema?» domandò Kili, notando lo sguardo ostile del Re, perso in chissà quali tormentati pensieri.

Thorin si voltò verso il nipote e abbozzò un sorriso, per rassicurarlo. «Vorrei che tu e tuo fratello cavalcaste con me, domani. Voglio attraversare i confini di Gondor al fianco dei miei nipoti. E non voglio nessun Nano dai capelli rossi con noi, sono stato chiaro?»

L’arciere annuì, senza controbattere, poiché sapeva che non avrebbe ottenuto niente con l’ostinazione. Eppure continuava a non capire il comportamento dello zio. Aveva tentato più volte di comprendere il perché odiasse tanto la razza Elfica, e non poteva certo biasimarlo se ripensava a come il Re di Bosco Atro si fosse comportato nei loro confronti, nel momento del bisogno. Ma trovava inutile e infantile riversare il proprio risentimento su qualcuno che neanche aveva mai messo piede nella terra degli Elfi, prima di allora. Ovviamente, quel pensiero fece bene a tenerlo per sé.

Teneva cara la vita e il suo collo, per vederselo staccare a suon di ascia dallo zio.

 

Il giorno dopo si misero in marcia di buona lena, qualche ora dopo il sorgere del sole. I canti dei Nani proseguirono, raccontando di Uomini e di quelle terre così lontane ed affascinanti. Trán non era mai stata così distante da casa e per un attimo, quando scorse l’affluente dell’Anduin che separava Rohan da Gondor, si voltò oltre le sue spalle, guardando nella direzione in cui ci sarebbe dovuta essere la sua casa. Sospirò e sorrise, tornando ad osservare le belle praterie di Rohan, che si stagliavano a perdita d’occhio. Aveva sempre sognato di vedere il mondo fuori le mura dei Colli Ferrosi, ed ora eccola lì, in viaggio da parecchie settimane, diretta verso il lontano Reame degli Uomini. Avrebbe voluto spronare il suo pony e andare al galoppo, sfiorando l’erba alta e gialla con la mano e godendo appieno del vento fresco che le soffiava tra i capelli intrecciati.

Come se il gemello le avesse letto la mente, diede una pesante pacca sul posteriore del pony che cavalcavano entrambi, e questo iniziò a galoppare; sordi ai rimproveri di Rulin e del maggiore dei figli, risero come facevano da bambini. Presto molti Nani vennero incuriositi da quel gran baccano e Fili e Kili, senza perdere tempo, si unirono ai due, dimentichi degli avvertimenti dello zio.

«Offro una pinta di birra a chi arriva per primo al fiume! Al mio via, pronti?» gridò Fili.

Ma gli altri tre, udendo un tale premio, spronarono immediatamente i loro pony e quello, preso alla sprovvista, si vide subito indietro. Neanche la voce autoritaria di Thorin servì a fermarli, poiché ormai erano già lontani.

«Lascia che si divertano.» fece Balin, sorridendo bonario nel guardare le sagome dei quattro diventare sempre più piccole. «Non vedevo i tuoi nipoti divertirsi così tanto da quando messer Bilbo lasciò la nostra casa.»

L’altro sospirò pesantemente, contrariato. «Sono adulti, al servizio del Re e miei eredi. Devono dimostrare maturità.»

«E sanno farlo quando è necessario, Thorin. Non dimenticare il loro valore, se per una volta loro si dimenticano dei loro compiti per svagarsi un poco. Dovresti farlo anche tu, sai?»

Dwalin scoppiò a ridere. «Fratello, questa era buona... anzi, ottima! Solo la tua fervida immaginazione potrebbe pensare a Thorin, sul suo pony, che ride e galoppa come un ragazzino!»

Thorin alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo e ritrovandosi suo malgrado a ridere al solo pensiero. Il volto serio si distese un poco, al ricordo di quando, tanto tempo addietro, era anche più indisciplinato dei suoi nipoti messi insieme. Ma la sua giovinezza era stata stroncata sul periodo più bello, poiché la guerra gliel’aveva strappata senza esitazioni. Aveva dovuto abbandonare i giochi da ragazzo troppo presto, per acquisire la fermezza e la serietà che non lo avrebbero più abbandonato in futuro.

Che ne era rimasto di quel giovane Nano pieno di vita e desideroso di avventure, Balin se lo era sempre domandato; eppure, era sicuro che fosse ancora lì, nascosto sotto quella corazza di testardaggine, orgoglio e serietà che ormai lo distinguevano. Doveva solo trovare qualcosa, o qualcuno, che lo aiutasse a ritrovare quella parte di sé che aveva dimenticato.

Centinaia di piedi più avanti, i quattro gareggianti avevano quasi raggiunto il confine. Purtroppo per i gemelli, il cui pony doveva sopportare il peso di entrambi, videro la vittoria svanire dopo pochi secondi, e i nipoti del Re raggiunsero per primi l’acqua fredda del fiume. Ovviamente iniziò la disputa su chi fosse arrivato davanti e chi no. La decisione di Trán di prendere le difese del minore non fu saggia, perché Fili, sentendosi tradito, la sollevò di peso dal pony con incredibile facilità, e il chiaro intento di farle saggiare la temperatura dell’acqua; e con sua somma sorpresa ed indignazione, Kili e il fratello non fecero niente per salvarla.

Quando Thorin e il suo seguito giunse al confine, qualche decina di minuti più tardi, si fermò per osservarli e rimproverarli con lo sguardo. «Risalite in sella e non stancate i vostri pony inutilmente. Davanti a noi abbiamo ancora più di una settimana di viaggio.»

Trán non ricordava di aver riso così tanto da parecchio tempo. Era difficile per lei crearsi nuove amicizie, perché era spesso taciturna e scontrosa contro chi non conosceva. Eppure Fili e Kili avevano fatto, e stavano facendo, di tutto pur di entrare nelle sue grazie; ormai, per loro, essere suoi amici era diventata una questione personale e non si sarebbero arresi tanto facilmente.

Tamponò i lunghi capelli rossi e intrecciati con l’orlo della gonna, ma anch’essa era bagnata e l’unica cosa che ottenne fu un sonoro starnuto, al quale ne seguirono altri.

«Non dirmi che ti sei presa un raffreddore?» domandò Kili, divertito eppure preoccupato.

«Tu, ingrato! Avresti dovuto difendermi!» lo rimbeccò lei.

Fili rise, battendole compassionevoli pacche sulle spalla. «Sei proprio un fuscello, ragazza!»

Lei gli restituì un’occhiataccia, ma si era divertita e sperò con tutto il cuore che momenti come quelli non fossero unici; inoltre, non sarebbero stati un paio di starnuti a metterla di malumore, quanto l’occhiata dura del Re Sotto la Montagna, che pareva volerla incenerire con la forza del solo sguardo.

Ma Thorin, in realtà, non era adirato con lei. Balin aveva ragione nel fargli notare quanto i nipoti fossero lieti in compagnia di quei Nani dai capelli rossi, e forse sarebbe dovuto essergli ed esserle grato. Inoltre, ricordava il sorriso sulle labbra della ragazza, ed era qualcosa che sembrava molto raro in quel viso. Si avvicinò, con l’incredibile intento di sincerarsi delle sue condizioni di salute, dopo l’ennesimo starnuto, e di darle qualcosa con cui asciugarsi; ma il fratello lo aveva preceduto. La vide accettare con un sorriso radioso la sua tunica color ruggine, ma la sua ilarità svanì quando incontrò il suo sguardo. Rimasero ad osservarsi in silenzio, finché fu Thorin che, spronato il pony, affiancò i nipoti ancora ridenti, per raccontare loro antiche storie sugli Uomini di quelle terre e allontanare i suoi pensieri dagli intrusi che si stavano intrufolando tra le loro vite.

 

 

9 Settembre 3019 T. E.

 

Boromir sarebbe partito in poche ore per Osgiliath, dove un carico di attrezzi e mithril provenienti da Erebor e Moria era in arrivo in pochi giorni, insieme ad un cospicuo numero di lavoratori e, soprattutto, alla scorta del Re Sotto la Montagna. Sotto consiglio di Gimli, Boromir aveva spedito delle aquile nel profondo Nord, per richiedere l’aiuto e il fine lavoro dei Nani di Erebor e dei Colli Ferrosi nella ricostruzione della vecchia città distrutta, e Thorin era atteso finalmente in città.

«Quando tornerai?»

L’Uomo si avvicinò alla sua donna, una mano che accarezzava automaticamente il Corno di Gondor che lei aveva fatto riparare. «Un paio di settimane. Dopo che avrò accolto i Nani rimarrò in città per controllare che l’inizio dei lavori proceda nel migliore dei modi. Non dirmi che ti mancherò?» le domandò, con un guizzo di divertimento negli occhi, che si spense nel momento in cui lei gli disse che no, non le sarebbe mancato.

«Non avrò tempo di sentire la tua mancanza.» Brethil si alzò dalla panca in pietra su cui sedeva, fermandosi a pochi passi da lui. «Il Re mi darà parecchio lavoro per mantenere la mia mente occupata e lontana da Osgiliath, con tante interessanti ed avvincenti riunioni col Consiglio. Inoltre, dovrò probabilmente accompagnarlo in qualche battuta di caccia agli Orchi, il che mi terrà lontana da brutti pensieri.»

Boromir drizzò le spalle. «Ebbene, saremo in due ad avere del lavoro da compiere. Neanche tu, brutto pensiero, mi mancherai. Ho vissuto più di quarant’anni senza la tua presenza, sopravvivrò una manciata di giorni.»

La donna rise di quell’orgoglio mascolino ferito, rifugiandosi tra le sue braccia. Erano in un giardino nascosto alla vista dei curiosi, cosicché potessero lasciarsi andare a dimostrazioni d’affetto senza che nessuno li vedesse. Alzò lo sguardo su di lui, che pareva contrariato, e si alzò sulle punte dei piedi per baciargli lievemente le labbra. «Non ti dirò che invidierò persino i Nani più bassi che ti incontreranno e che discorreranno con te, poiché il tuo egocentrismo potrebbe lasciarmi senza fiato.»

Il Sovrintendente sembrò gradire quella frase e ammiccò. «Avrei in mente qualcos’altro per toglierti il respiro, in realtà.» E così dicendo la strinse con possessività, riappropriandosi di quella piccola e tagliente lingua con un bacio prepotente.

E sì che rimasero senza fiato entrambi.

Boromir le carezzò il viso sfregiato, il tocco lieve e ancora imbranato di chi aveva brandito armi per una vita e invece non aveva mai osato sfiorare una donna. Lei gli strinse la mano nella sua, e sorrise.

«Torna presto, mi raccomando. Minas Tirith e il Re hanno bisogno del suo Sovrintendente.»

«E il capo della Guardia Reale no?»

Lo spinse via, ridendo all’incredibile faccia tosta dell’Uomo.

Aspettò che se ne andasse a consumare un pasto caldo prima della partenza, qualche minuto più tardi, per riflettere su quelli che sarebbero stati i giorni successivi; un senso di disagio la fece sospirare profondamente. Nonostante vivesse a Minas Tirith da qualche mese e Gondor fosse realmente la sua casa, ancora non riusciva a sentirsi tranquilla e a suo agio. Tutte le amicizie che si era creata e che aveva consolidato nelle settimane precedenti la fine della Guerra, erano ora partite verso le proprie dimore: Elladan e Elrohir avevano fatto ritorno a Imladris dopo il matrimonio di Aragorn ed Arwen, e poco dopo la scorta funebre di Re Théoden era partita da Gondor, insieme ad Éomer, Gandalf e gli Hobbit. Ora persino Boromir la lasciava lì, in quella grande città di pietra, e infagottata in quella bella divisa che il Re le aveva donato. Fu solo per la consapevolezza che il Ramingo sarebbe stato al suo fianco gran parte del giorno a rincuorarla e a non farla cadere nello sconforto totale. Non le importava quali fossero le chiacchiere che sentiva sul suo conto – una Prima Guardia del Re donna! – ma si stava stancando delle occhiate che i soldati più anziani le riservavano. Aveva dato più volte prova del suo valore in battaglia, e allora perché temevano che non sapesse fare il suo lavoro?

Decise di raggiungere gli altri nella Sala Grande, dopo che fu passata nella sua stanza per prendere Celeboglinn e appenderla al fianco; al tavolo trovò Boromir, Gimli e Legolas, che avevano quasi finito di mangiare una bistecca arrosto e qualche fetta di pane imburrata, ed erano già pronti per partire, e il Re, che la salutò con un caloroso sorriso. Brethil scambiò uno sguardo con il Sovrintendente, ma non si sorrisero né fecero nient’altro che potesse far partire ulteriori dicerie sul suo e sul loro conto. Solo Aragorn e la stramba coppia di amici era testimone del forte sentimento che li univa, e ciò bastava per il momento. Avrebbero voluto sposarsi presto, ma prima vi erano questioni ben più importanti di cui occuparsi, rispetto ad una cerimonia matrimoniale.

Come, per esempio, sedare il primo focolare di rivolta tra le dell’Harad, nel Sud. Nonostante la sconfitta di Sauron, gli Haradrim non sembravano volersi arrendere; ma di questa questione Aragorn si sarebbe occupato in quelle settimane, dopo che la delegazione del Re dei Nani fosse giunta a Minas Tirith tra qualche giorno. Anche Éomer lo avrebbe presto raggiunto nuovamente a Gondor per discutere di un’eventuale azione preventiva. Perché Rohan avrebbe sempre risposto alle richieste di aiuto del suo vicino ed alleato.

«Aragorn, prima di recarmi alle stalle avrei bisogno di parlarti. È giunta l’ora di partire.» disse Boromir, che si alzò.

«Ancora non capisco cosa sia tutta questa fretta.» borbottò Gimli. «La mia gente non arriverà prima di dopo domani sera, e io rischio seriamente di soffocarmi, continuando ad ingoiare pezzi di pane senza masticarli per la fretta di terminare questo pranzo in tempo!»

«Rischi di soffocarti ogni volta che mangi, Nano. Qualcuno avrebbe dovuto insegnarti che dovresti anche respirare, tra un boccone e l’altro.»

«E tu dovresti imparare a mangiare, invece, Orecchie a Punta. Continuando di questo passo finirai per diventare scarno peggio di quella creatura immonda che si chiamava Gollum.»

Brethil s’oscurò in viso nel sentire quel nome, e non fece caso all’occhiataccia che Aragorn riservò all’amico. Quello divenne rosso come quando beveva un po’ troppo e, rendendosi conto della gaffe, borbottò qualche scusa anche quando si ficcò un morso di mela tra i denti.

Tra un colpo di tosse e l’altro, il Sovrintendente guadagnò nuovamente l’attenzione del suo sovrano e amico. «Aragorn.»

Il Re annuì. «Andiamo fuori e camminiamo un poco insieme, Boromir.»

I due lasciarono momentaneamente la Sala e si avviarono verso il giardino, dove l’Alberello Bianco era in fiore, finché il più giovane dei due prese parola.

«Vorrei chiederti un favore prima di partire, se posso.»

«Sei un amico, Boromir, uno dei migliori che abbia mai avuto in tutta la mia lunga vita. Chiedi, e vedrò cosa posso fare per te.»

«Ebbene, è la prima volta che lascio Minas Tirith da quando tu sei giunto a Gondor, e con te Brethil.»

Aragorn sorrise, capendo bene dove l’altro volesse arrivare. «Boromir, non vorrai chiedermi di badare a lei, quando dovrebbe essere il contrario, spero?» gli domandò, divertito.

L’altro, che apparentemente si sentì letto come un libro aperto, voltò lo sguardo dalla parte opposta, trovando più interessante fissare il movimento di una bandiera piuttosto che guardare negli occhi il compagno. «Mi chiedevo se potessi starle accanto, invece. E non solo come Re e Guardia Reale. Nonostante stia cercando di farla sentire a suo agio, nella nostra bella capitale, posso percepire ancora parte della sua inadeguatezza. E non sono uno stupido, sento cosa alcuni dei nostri Uomini dicono sul suo conto.»

«Non devi preoccuparti delle malelingue, Boromir, poiché verranno messe a tacere quando dimostrerà ancora una volta il suo valore e il significato della divisa che indossa.» Aragorn sorrise, stringendogli un braccio con affetto. «Quanto al fatto di starle accanto... l’ho persa per più di un anno, non credi che ora voglia trascorrere quanto più tempo mi sia possibile con lei? Brethil è parte integrante della mia famiglia, così come lo sei tu e il resto della Compagnia. E ora avrà anche la vicinanza di una donna che sarà ben felice di discorrere con lei. Sia Brethil che Arwen hanno bisogno di una presenza femminile, in tutta questa mascolinità.»

Boromir si rilassò all’idea che la donna potesse stringere amicizia con la Regina – anche se l’idea gli riusciva difficile da immaginare. «Grazie, Aragorn. Ti prometto che mi impegnerò fino alle mie ultime forze per ripagarti di tutto questo. Osgiliath risplenderà come un tempo e sarà lo specchio del tuo reame.»

«Ne sono sicuro. Però non farlo per me, ma per te stesso e per il nostro popolo.»

I due si abbracciarono con forza; poi Boromir mandò a chiamare Gimli e Legolas, che lo seguirono fino alle stalle per preparare i cavalli e partire verso la città sul fiume. Il Nano era quantomeno euforico di rivedere suo padre e il Re, e ormai contava le ore che lo separavano dal suo lavoro preferito. L’artigiano.

«Vedrai, Elfo! Vedrai la maestria dei Nani nel lavorare la pietra e i metalli!»

Legolas sorrise. «Spero di poterlo fare, mastro Gimli. A meno che i tuoi consanguinei non mi strappino via gli occhi temendo che possa rubarvi il segreto del mestiere. Se la memoria non mi inganna, la tua famiglia ebbe qualche screzio con la mia, tanti anni fa.»

«Sciocchezze!» esclamò l’altro. «Neanche conoscendo tutte le tecniche che ci tramandiamo dalla notte dei tempi, un Elfo potrebbe essere in grado di emulare l’operato di un Nano!»

L’altro si voltò verso l’Uomo, fingendosi turbato. «Temo che Osgiliath sarà invasa da così tanto orgoglio e testardaggine che le pietre di quella città difficilmente crolleranno di nuovo.»

«E spero che così sia, Legolas. Il mio cuore non reggerebbe l’ennesima disfatta di quella città, e nemmeno il mio popolo.»

I tre montarono i propri cavalli, e Gimli si chiese cosa avrebbero pensato i suoi parenti se lo avessero visto galoppare insieme ad un Orecchie a Punta. Ma quel pensiero svanì velocemente quando un problema ben più urgente gli occupò la mente: reggersi all’Elfo per non cadere.

Boromir lanciò un’ultima occhiata verso il cancello che portava al Secondo Cerchio, e vide Brethil in piedi sull’uscio. Si fissarono per secondi interminabili, lasciandosi scappare un lieve sorriso. Ma nonostante non fossero quel tipo di coppia che si lasciava andare ad effusioni in pubblico, e che soprattutto non poteva permettersi tanto lusso, bastavano pochi sguardi, pochi gesti come quelli per capirsi. Sarebbero trascorse due settimane e forse più senza che potessero godere della presenza dell’altro, ma nessuno dei due stava partendo in guerra.

E ciò era confortante.

L’Uomo spronò il suo destriero e Legolas lo seguì immediatamente. Sparirono dietro un angolo dopo qualche metro e Brethil tornò ai suoi doveri.

 

 

10 Settembre 3019 T. E.

 

Raggiunsero nel tardo pomeriggio quella parte dell’Anduin che si allargava, per far spazio all’isola di Cair Andros. Essa era un punto strategico importantissimo, per Gondor, e il ponte naturale più utilizzato per attraversare il fiume e raggiungere gli avamposti dell’Ithilien sulla sponda orientale. Le torri di vedetta, che circondavano l’isola, culminavano in alte guglie, la cui cima sventolava il vessillo del Re Elessar. Al passaggio della carovana di Nani, gli Uomini fecero squillare le trombe e gli araldi, per dar loro il benvenuto, e i loro animi si rasserenarono; lì, all’ombra delle minacciose vette di Mordor, che non erano mai state così vicine da quando avevano calpestato la terra di Gondor, i Nani si accamparono per la notte, mentre il sole spariva proprio dietro la catena montuosa che barricava il regno del caduto Sauron.

Trán rabbrividì nel guardare le sagome scure di quelle cime che nascondevano gli orrori più grandi che la sua mente potesse immaginare. Fu scossa dalla mano rassicurante del fratello minore, che la strinse con affetto e la condusse dalla sua famiglia. Poiché l’ora non era tarda, dopo aver acceso i fuochi per riscaldarsi, molti Nani ne approfittarono per darsi una rinfrescata e rilassarsi un poco nelle acque limpide del fiume. Trán si avvicinò alla riva, saggiando la temperatura dell’acqua con un dito. Al suo fianco Káel e Káir erano già in calzoni e tunica intima, dandosi spintoni per decidere chi dei due sarebbe dovuto entrare prima. E visto che entrambi parevano molto cavallereschi da lasciare l’onore all’altro, ci pensarono Fili e Kili a decidere per loro. Con un bel calcio ciascuno, finirono dritti in acqua, maledicendoli in Khuzdul mentre quelli si sbellicavano dalle risate. Trán non fece in tempo ad avvertire i nipoti del Re di un altro pericolo alle loro spalle, che Dwalin li afferrò per la collottola e gli fece raggiungere gli altri due pochi istanti dopo.

Il burbero Nano lanciò un’occhiata incuriosita alla ragazza, che era caduta sulle ginocchia dalle troppe risate, e scosse il capo. «Cosa c’è, ne vuoi anche tu?» Il suo viso si distorse in quello che poteva essere un sorriso, quando si accorse che la giovane Nana impallidì e scosse veementemente il capo. Temeva davvero che potesse lanciarla in acqua come un sasso qualunque? Così, in un borbottio, s’affrettò ad aggiungere un “Stavo scherzando, sciocca ragazza.”

Trán si lasciò scappare un sorriso. Sapeva quanto poco l’avesse amata quel Nano, sin dall’inizio del viaggio. Lui e il suo migliore amico non potevano essere più simili, per certi versi – e il disprezzo verso gli Elfi lo condividevano entrambi. Ma da quando Trán aveva compiuto quel coraggioso gesto per salvare l’incolumità di Thorin – e distruggere contemporaneamente il suo ego – Dwalin aveva abbassato l’ascia di guerra; e se prima si limitava ad ignorarla e a borbottare qualche improperio diretto a lei o alla sua famiglia, ora pareva addirittura che le rivolgesse la parola. Per quel poco che sapeva e aveva potuto vedere di lui, Trán era sicura che fosse un privilegio alquanto unico.

Rimase seduta sulla riva, con quell’alto e temibile Nano in piedi a qualche passo di distanza, mentre osservavano quei quattro disgraziati che tentavano in tutti modi di affogarsi l’uno con l’altro.

«Quelli dovrebbero ricostruire una città.» brontolò Dwalin, scuotendo mestamente il capo, riferendosi al loro comportamento infantile.

«E gli Uomini ci osservano.» aggiunse Trán, aguzzando la vista e scorgendo le sentinelle attirate dal loro baccano.

Dwalin incrociò le braccia al petto, sbuffando. «Non ci vuole certo il tuo udito e la tua vista per capire cosa stanno dicendo. Se il buongiorno si vede dal mattino...» Non si aspettava certo che le sue parole potessero farla ridere ancora una volta e corrugò la fronte, perplesso. L’ultima cosa che voleva era di fare il simpatico, poiché era davvero preoccupato per la reputazione rispettosa dei Nani e che quei quattro contribuivano giorno dopo giorno a far crollare. Si voltò per incontrare lo sguardo severo di Thorin, più a sud rispetto a loro, e alzò le spalle, per fargli capire che quella ragazzina un po’ matta lo era sul serio.

«Trán, dai! Vieni a nuotare con noi!» esclamò Kili, agitando un braccio prima di sparire sott’acqua per mano di Káel.

Lei scosse il capo e si strinse le gambe al petto, arrossendo. Non aveva nessuna intenzione di rimanere in sottoveste con tutti quei maschi e rischiare la vita per le sue scarse capacità di nuotatrice.

«Trán! Allora?»

«Non so nuotare.» mormorò colma di vergogna, più a se stessa che a loro – e che, ovviamente, non la udirono e le gridarono di parlare a voce più alta. Lo ripeté un paio di volte, finché perse la pazienza e sbottò. «Mahal! Ma ublûr zârm! Mim ra khigirâlh dhargîthmênu!*»

Molti Nani ammutolirono e lei, che odiava essere al centro dell’attenzione – soprattutto se aveva appena gridato al mondo di non saper nuotare – nascose il viso tra le ginocchia, per celare tutto l’imbarazzo che stava provando. Coloro che avevano imparato a conoscerla come la ragazza calma e paziente, rimasero parecchio colpiti dal suo tono – e soprattutto, dal fatto che avesse parlato in Khuzdul. I quattro disgraziati, ovviamente, avevano ripreso a ridere, tralasciando il piccolo particolare che li avesse insultati chiamandoli piccoli e puzzolenti troll. Persino Thorin, che si stava riposando seduto contro una roccia, accanto a Balin, non poté fare a meno di sogghignare.

Kili nuotò vicino alla riva, sorridendole sornione. «Ti insegno io. Sarò un ottimo maestro.»

La voce della ragazza giunse ovattata, nascosta com’era tra gambe e braccia. «Scordatelo.»

«Perché no? Non ti fidi di me?» Il Nano capì al volo la risposta nel vedere lo sguardo eloquente che gli regalò.

«Ho trascorso fin troppo tempo galleggiando su una barca, e mi è bastato per capire che l’acqua alta non mi piace e che non sono un pesce.»

«Parole sante.» brontolò Dwalin. Abbassò lo sguardo sulla Nana, umiliata davanti a decine di orecchie ed occhi, e fu quasi tentato di batterle una manona sulla testa indiavolata, in un inspiegabile gesto di compassione. Ma sbuffò e preferì allontanarsi alla volta di Thorin, e lì rimase finché non si fece notte e cenarono.

La famiglia di Rulin si ritirò attorno al loro piccolo focolare, e mangiarono la carne di coniglio avanzata da pranzo. Era diventata un po’ stopposa, ma nessuno si lamentò. Del resto, non c’era più gusto nell’incolpare la loro sorella, dato che manteneva sempre le sue promesse e non avrebbe più cucinato per loro.

«Trán.»

La ragazza abbassò lo sguardo sul gemello, che dopo la cena si era sdraiato sulle sue gambe ed era intento ad osservare il cielo stellato.

«Secondo te nostra madre è da qualche parte, lassù?»

Gli altri fratelli, che stavano chiacchierando tra una boccata di fumo e l’altra, fecero calare il silenzio. Il loro lutto era ancora forte e neanche gli anni avrebbero potuto cancellare il dolore che provavano nel sapere che non l’avrebbero più rivista. Rulin chinò il capo, chiudendo il suo unico occhio sano e riportando alla mente i tempi della sua gioventù, quando l’aveva incontrata per la prima volta ed aveva capito che sarebbe stata lei l’unica Nana che avrebbe mai amato.

«No, non lo credo.» Trán si lasciò scivolare le occhiate dei fratelli, che la guardavano come se avesse detto una blasfemia. Il minore, in particolare, aveva abbassato con delusione lo sguardo dalle stelle a lei, come se l’immagine che si era creato della madre, lassù tra gli astri del cielo, si fosse sgretolata come un castello di sabbia. «Lei riposa qui.» gli disse, portando una mano alla sinistra del suo petto, mentre l’altra gli accarezzava i lunghi capelli rossi. «È nel tuo cuore, nel mio e in quello di chiunque l’abbia amata.»

Káel le strinse la mano. «Sto iniziando a dimenticare il suo viso. E anche il suono della sua voce.»

Una stretta di dolore le fece mancare il respiro e si morsicò un labbro, pur di non piangere. Anche lei, in cuor suo, aveva iniziato a non vederla più. L’immagine di quel volto sereno ed amabile sbiadiva di giorno in giorno, e lei non poteva fare niente per impedirlo. Si sentiva in colpa, per questo, chiedendosi se non l’avesse guardata abbastanza quando ancora ne aveva la possibilità.

Káel si rese conto di aver parlato troppo e di aver riportato a galla qualcosa che stavano cercando di seppellire tutti, e si diede mentalmente dello stupido. Così, aggiunse in tono più leggero: «Ma ricordo bene la pesantezza della sua mano... tu, sorellina mia, me la rimembri ogni volta.» Lei ridacchiò, senza riuscire a fermare qualche lacrima che Káel si affrettò ad asciugare. «Scusami, non volevo rattristarti.»

Trán si chinò per baciargli la fronte e lo abbracciò con tutte le forze che aveva. Gli altri sorrisero e ripresero a chiacchierare.

Un’ora dopo i Nani iniziarono a preparare i giacigli per la notte, ma lei non aveva sonno. Continuava a guardare le stelle, ripensando alle parole di Káel. Attese che le chiacchiere chiassose venissero presto rimpiazzate dal russare dei Nani addormentati, e si alzò per allontanarsi un poco e rimanere sola con i suoi pensieri. Il fiume scorreva poco lontano, ma abbastanza distante da non udire più i concerti dei loro nasi. Si chinò sulla riva, osservando il suo riflesso sull’acqua calma dell’Anduin. Accarezzò la pelle del volto, sperando di ritrovare nei suoi lineamenti qualche ricordo della madre, ben sapendo che di suo aveva solo il colore degli occhi e nient’altro. Sobbalzò quando accanto al suo viso ne vide un altro, ben più inaspettato di un Orco.

Thorin si fermò accanto a lei, in piedi nella sua consueta postura da altezzoso Re, con le mani dietro la schiena. «È così difficile farti dormire?»

Lei si alzò, chinando il capo e scuotendo il tessuto della gonna, sporco di terra. «Potrei farti la stessa domanda, sire Thorin.» Quando finalmente decise di guardarlo, lui pareva assorto nei suoi pensieri, mentre osservava il cielo stellato. Nonostante la tenue luce della luna e le ombre marcate sul suo volto, Thorin le apparve bello e regale, più del solito; e forse, si disse, perché la sua espressione non aveva niente di quel rancore e quel disprezzo che solitamente gli increspava fronte e labbra. Il Re di Erebor sembrava sereno e lei si sentì un’emerita idiota. Volle, però, saltare a piè pari il motivo.

«Cosa ti turba?»

Quella domanda giunse inaspettata quanto la sua visita. «Il passato.»

Thorin la osservò con curiosità. Era esattamente quella la risposta che avrebbe dato ad una simile domanda qualche anno prima. Il passato era ciò che lo aveva turbato per tutta la vita, ciò che gli aveva permesso di diventare il Nano che era quel giorno; la paura di ricadere negli errori di suo nonno, il timore di non riuscire a reclamare ciò che era di sua proprietà e di non restituire al suo popolo una vita migliore, nella loro casa. Il passato lo aveva fatto invecchiare più velocemente del previsto, ma ormai era parte di sé ed era riuscito a superarlo egregiamente. Avrebbe voluto dirglielo, per rasserenarla; ma trovava ancora strano parlare con lei, e lasciarsi andare a confidenze non era esattamente il motivo per cui si era avvicinato. Non era neanche pronto a farlo, in realtà; non ancora.

«Molte volte è quello il suo compito, turbare. La maturità di una persona sta nel riuscire a superarlo, qualsiasi sia il proprio passato.»

«Allora sono ben lungi dall’essere matura.»

«Su quello non ho dubbi.» Sorrise provocatorio nel vedere l’espressione oltraggiata della ragazza. Guardò il fiume, pensieroso. «E così non sai nuotare... hai paura dell’acqua?»

Trán arrossì furiosamente e si affrettò a dargli le spalle, indispettita. «Non ho paura dell’acqua.» disse, a denti stretti. «Ho paura di non riuscire a respirare.»

«Hai mai provato?» La vide scuotere il capo dopo qualche secondo di titubanza. «Un passo per superare il tuo passato è affrontare le tue paure.» Stette in silenzio qualche secondo, indeciso se continuare. «Vorresti provarci?»

Trán credette di non aver udito bene. Così si voltò a guardarlo, sollevando le sopracciglia in una tacita domanda. Come, prego?

Il Nano si schiarì la gola, improvvisamente secca. «Mi chiedevo, se avessi qualcuno pronto a sorreggerti, vorresti imparare a nuotare?» Incatenò i suoi occhi chiari in quelli di lei, sgranati per la sorpresa, e notò che stesse trattenendo il fiato. Era quello l’effetto che le faceva? Paura? Ribrezzo? Sarebbe presto scoppiata a ridere per quel suo inaspettato slancio di gentilezza o gli avrebbe risposto con la sua estrema e pungente calma?

«Non...» Trán s’inumidì le labbra, impacciata. Si maledì mentalmente per la momentanea imbecillità. «Non credo che Kili sarebbe un buon maestro, mio signore. Con il rispetto e l’affetto che provo per tuo nipote, s’intenda.» Trán fu quasi più sorpresa di lui nel rendersi conto delle sue parole. Provava davvero affetto per Kili, e di conseguenza per il fratello? Lei, che non aveva mai avuto legami di amicizia al di fuori della sua famiglia, poteva davvero voler bene a quei due scalmanati eredi al trono di Erebor? E loro? Loro cosa provavano per lei?

Thorin non riuscì a nascondere un sospiro. Se fosse di sollievo o di irritazione, lei non seppe dirlo. «Per una volta ci troviamo d’accordo.» Osservò il fiume e poi, nervosamente, il lontano accampamento addormentato. «Infatti, mi domandavo, dato che nessuno di noi due riesce a dormire...» Si schiarì ancora una volta la gola. Perché era dannatamente così secca?

«Ora?» chiese lei, sorpresa, capendo la sconclusionata domanda del Nano. «Tu? A me?»

Non seppe cosa lo trattenne dal riderle in faccia, così come non seppe dire se fosse più penosa la sua non-formulata domanda, o la serie confusa della Nana. «Ecco, non tenterei di affogarti, come farebbe mio nipote.»

Trán ridacchiò, senza ironia. «Mi riesce difficile crederlo, sire Thorin, visto il cattivo sangue che scorre tra noi.»

Lui alzò gli occhi al cielo. «Cercavo solo di essere cortese.»

Le sue parole vennero quasi troncate da quelle della Nana. «Non credo sia una buona idea.»

Thorin inspirò pesantemente, iniziando a pentirsi di quel patetico tentativo di approccio. Insomma, persino Dwalin era riuscito a scambiarci due parole, perché a lui risultava così difficile e lei era così restìa?

«Insomma, sarei una pessima allieva.»

La osservò chinare vergognosamente lo sguardo e si ritrovò inspiegabilmente a sorridere. «Questo vorrei che lo decidessi da solo. Ma se non vuoi, sei libera di non farlo.»

Trán si mordicchiò l’interno di una guancia, indecisa e, soprattutto, presa in contropiede. Non riusciva a capire da dove saltasse fuori quella proposta, né volle indagare oltre. Forse si stava rendendo conto che i loro diverbi non avevano ragione di esistere; forse stava lasciando in un angolo il suo orgoglio e la sua arroganza per mostrarle il vero volto del Re di Erebor; o forse era un modo come un altro per prendersi gioco di lei, facendosi forte delle sue debolezze – e magari voleva affogarla sul serio. Si convinse che fosse proprio quest’ultimo il motivo di tanta gentilezza, ma la sua voce tradì i suoi pensieri nel momento in cui lui stava per allontanarsi e lasciar perdere.

«Vorrei imparare.»

Thorin fermò i suoi passi e socchiuse le labbra, sorpreso. Annuì con lentezza, studiando quel viso ancora riluttante, ma incuriosito. Con un gentile gesto della mano le indicò una sporgenza rocciosa, dove si sarebbe potuta spogliare di stivali e abito, e rimanere nella sua tunica intima. Era consapevole che, se anche si fosse spogliata accanto a lui, Thorin avrebbe fatto di tutto pur di non metterla in imbarazzo; perché anche ora che lei si stava dirigendo a passo tremante verso il suo spogliatoio naturale, lui le dava le spalle. Lo sbirciò qualche secondo, mentre si toglieva la pesante giacca blu, ma decise di non guardare oltre, sentendo le guance andare a fuoco nel vederlo sfilarsi anche la maglia dello stesso colore. Trán si poggiò contro la fredda parete della roccia e respirò profondamente, cercando di riordinare le idee e gli avvenimenti degli ultimi dieci minuti. Forse non si era mai alzata dal suo giaciglio e stava sognando ad occhi aperti. O doveva considerarlo un incubo?

Capì che fosse tutto vero quando sfiorò la superficie dell’acqua con un piede e rabbrividì in un istante. Se non fosse morta per affogamento, ci avrebbe pensato la temperatura gelida a fare il suo sporco lavoro. Percepì qualche piccola increspatura data dai movimenti di Thorin, che evidentemente era già entrato in acqua e ora la stava attendendo. Trán prese un respiro profondo e sperò di riuscire a muovere più di due passi senza perdere l’uso delle gambe. Oltre al fatto che, prima di lasciarsi andare, controllava che il piede non sprofondasse nel vuoto e che l’acqua non raggiungesse livelli preoccupanti per il suo naso. Quando sbucò dal suo nascondiglio e vide il Nano che si rinfrescava il viso, Trán percepì tutto il sangue fluirle al viso. Prima di quelle settimane, non aveva mai visto un altro Nano vestito solo dei suoi indumenti intimi, a meno che non si trattasse dei fratelli; e quando i Nani si erano fatti il bagno fregandosene allegramente della presenza di poche femmine, lei aveva fatto di tutto pur di non guardare; ma Thorin... lui era tutta un’altra storia. La tunica aderiva come una seconda pelle alla linea marcata dei suoi muscoli, un fisico ben diverso da quello della maggior parte dei Nani, e fu solo allora che si rese conto che anche lei avrebbe lasciato ben poco all’immaginazione, in pochi istanti. Si fermò ad osservarlo e fu tentata dal tornare indietro e scappare accanto al fuoco; ma prima che potesse muovere un muscolo, Thorin l’aveva già scorta e la esortò ad avvicinarsi. Trán si strinse le braccia al petto, sia per il freddo che per nascondere la curva dei seni; egli, di rimando, scosse il capo.

«Non è mia intenzione metterti a disagio.» le disse, tenendo gli occhi fissi sui suoi e porgendole una mano. «Sei pronta?»

Trán scosse il capo, ma accettò timidamente la mano di lui. Sentì l’altra che le si poggiò su un fianco e nonostante il freddo dell’acqua e la presenza dei loro leggeri indumenti, poté chiaramente percepire il calore del suo corpo prestante contro le sue spalle.

«Chiudi gli occhi e non pensare; ti sostengo.» le mormorò, sollevandola sul pelo dell’acqua per schiena e gambe. La sentì irrigidirsi e trattenere il respiro, e s’impose di non sorridere. «Rilassati, non ti succederà niente. Immagina di essere sul tuo letto.»

«Il mio letto non è così bagnato.»

«Immagino che tua madre non dicesse lo stesso quando eri piccola.»

Accusò l’occhiataccia con un ghigno e lei inspirò profondamente, sentendosi ridicola come mai in vita sua. Ma seguì il consiglio del Nano, e poco dopo la sentì rilassarsi tra le sue braccia. La sensazione dell’acqua che le lambiva il corpo era piacevole, decisamente piacevole. Si fece guidare con lentezza sulla superficie del fiume calmo e Thorin si perse qualche istante ad osservarla meglio: lì, con gli occhi chiusi e il viso disteso e sereno, la trovò bella. E non che non fosse stato un pensiero che non gli avesse accarezzato la mente più volte, in quelle settimane, anzi; aveva cacciato via quei pensieri ogni momento che lei gli rispondeva con audacia, ma si era reso conto che anche quando lei era sul limite di perdere la pazienza fosse attraente. Perché Trán, figlia di Rulin, che tanto somigliava ad un giovane Elfo cresciuto troppo poco, era fiera ed orgogliosa come lui, e questo era un tratto del suo carattere che lo mandava in bestia e lo affascinava, non certo senza una vena di timore.

Sorrise sinceramente quando scostò con lentezza le mani da quel corpo che ora galleggiava senza rendersene conto. «Apri gli occhi e guardami.»

Lei lo fece senza obiettare, ma le venne un colpo quando vide le braccia robuste incrociate sul petto, e non sotto di lei a sorreggerla. Per lo spavento rischiò di sprofondare sott’acqua, se non fosse stato per lui che la sorresse in tempo. Trán gli si aggrappò alla tunica, rilassandosi nel sentire nuovamente il terreno melmoso sotto i piedi, e rise e si vergognò contemporaneamente. Mosse un passo indietro, rabbrividendo per il freddo e per il contatto con quel corpo imponente. «Da quanto non mi sorreggevi più?»

«Hai sentito differenza quando l’ho fatto?»

Trán lo rimproverò con lo sguardo per averle risposto con un’altra domanda. «No, non me ne sono accorta.»

«Bene; allora ricominciamo.»

La Nana annuì prima ancora che se ne rendesse conto. E la loro notte galleggiò placidamente sul fiume per l’ora successiva.

 

 

 

*Mahal! Non so nuotare! Voi piccoli e puzzolenti troll!

 

 

*

E dunque Thorin si improvvisa bagnino... ma non lasciatevi ingannare, quei due sono ancora ben lungi dal trovare una tregua. :P

Un grazie a chiunque si è fermato a leggere, a preferire, ricordare, seguire... e commentare. :)

A presto!

Marta.

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Capitolo 6
*** 06. ***


Buon pomeriggio, miei adorati lettori e carissime lettrici!

Molti incontri, tanto per citare il romanzo, ci saranno in questo capitolo. Ma le presentazioni non finiranno qui. :)

Un gigante grazie a tutti coloro che leggono, commentano, preferiscono, seguono e ricordano. :)

Buona lettura!

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

06.

 

12 Settembre 3019 T. E.

 

La carovana di viaggiatori era ormai visibile anche ad occhio umano. Si muovevano con calma, ma i loro pesanti piedi e gli zoccoli dei pony sollevavano ugualmente un gran polverone. In prima linea cavalcava il Re, affiancato dai suoi migliori amici e dai nipoti. Nonostante fossero passati parecchi anni per la vita di un Nano, e neanche un battito di ciglia per un Elfo come lui, Legolas notò che Thorin non fosse cambiato poi tanto dall’ultima volta che si erano visti. Non aveva perso quel suo portamento regale e dignitoso che lo avevano contraddistinto in quella combriccola di Nani che era piombata a Bosco Atro, e se ben ricordava, non lo aveva perso neppure quando lo aveva minacciato con il suo arco.

Legolas sorrise, per nulla preoccupato dall’inevitabile scontro con il Nano. Sapeva che non sarebbe stato felice di rivederlo, neppure dopo tutto quel tempo; esso era infatti capace di serbare rancore fino alla fine dei suoi giorni, ma aveva letto anche una profonda saggezza in quegli occhi chiari e stanchi, e sperò con tutto il cuore che gli risparmiasse i suoi modi burberi e arroganti.

Raggiunse Gimli e Boromir, saltando da una rovina all’altra con agilità e leggerezza, e li trovò in quella che doveva essere stata una delle piazze principali della città, dove una fontana rotonda in disuso ne segnava il centro.

«Allora? Sono vicini? Stanno arrivando?» domandò Gimli, stringendo la sua ascia tra le mani callose e reprimendo a stento il suo entusiasmo.

«La tua attesa verrà presto ripagata, amico mio. Giungeranno in città in meno di un’ora. Thorin guida il gruppo, e tuo padre gli è accanto, insieme a Dáin II.»

Gli occhi del Nano brillarono di contentezza e rise, come non faceva da tempo. Rimasero in attesa, finché Legolas montò nuovamente il suo bianco cavallo, affiancando Boromir sul proprio, mentre Gimli rimase con i piedi ben saldi a terra. I tre si mossero verso l’entrata nord, al Cancello di Condir, seguiti dai soldati incaricati di tenere alto lo stendardo di Gondor, e andando incontro ai loro ospiti. Quando i cancelli si aprirono, il suono delle trombe li accolse e così i canti degli Uomini che diedero loro il benvenuto nella loro vecchia capitale. Boromir si ritrovò a respirare profondamente, orgoglioso.

Thorin fu il primo a smontare dal suo pony e si chinò davanti a lui, credendolo il Re di Gondor. Ma egli sorrise e, smontato anch’esso, si chinò a sua volta.

«Sono io che devo inchinarmi ad un Re, sire Thorin.» disse l’Uomo, portandosi una mano sul cuore. «Benvenuto a Gondor, nella bella Osgiliath. Io sono Boromir, figlio di Denethor II, Sovrintendente di Gondor, Capitano della Torre Bianca e di Gondor, e Signore di questa città.»

Il Nano alzò lo sguardo sull’Uomo. «Ebbene, sei regale quanto un re, Boromir, figlio di Denethor II, poiché sebbene non abbia una corona in testa, credevo di avere Re Elessar dinnanzi ai miei occhi. Ed egli deve riporre grande fiducia in te, a ben vedere dai titoli che seguono il tuo nome.»

«Il Re avrebbe voluto accogliervi qui, con me, ma lo incontrerete a Minas Tirith. Le difese dei confini lo tengono occupato. Purtroppo anche mio fratello, Principe dell’Ithilien, non è potuto essere presente, ma sarà felice di guidarti tra gli alberi della sua foresta domattina, se lo desideri.»

Thorin annuì, e spostò lo sguardo verso il Nano dalla barba ramata, ancora in ginocchio ai piedi del suo sovrano. «Gimli, figlio di Glóin, fierezza della nostra stirpe! Vieni qui e abbraccia un vecchio amico.»

Il padre si fece avanti e osservò con orgoglio il figlio, che ricambiava il gesto d’affetto del Re. «Ebbene, partisti quasi nove mesi addietro, e rieccoti qui, sulle tue gambe! Che Durin ti benedica, figlio mio!»

I due risero, commossi dopo la lunga lontananza e consapevoli entrambi dei pericoli che avevano corso durante quel periodo. Poi, Gimli si voltò verso Legolas e, puntellando l’ascia sul terreno, lo indicò ai Nani. «Mi rincresce doverlo ammetterlo, padre, ma queste corte gambe non camminerebbero più se non fosse stato anche per i miei compagni di viaggio. La mia ascia ha saggiato molto sangue nemico, ma anche l’archetto di quest’Elfo si è dato da fare.»

I suoi amici e parenti spostarono lo sguardo scettico su Legolas che, sceso anch’esso da cavallo, si portò una mano alle labbra, al petto ed infine verso loro, nel tipico saluto Elfico. Sopportò con deferenza lo sguardo pesante del Re dei Nani, che non diede il tempo a Gimli di terminare le presentazioni.

«Legolas, figlio di Thranduil, Principe di Bosco Atro. Come dimenticarti.» disse, mal celando il sarcasmo. «Mi stupisce che sia arrivato fino in fondo alla missione, Elfo, giacché credevo fosse abitudine della tua razza voltare le spalle agli amici al minimo segno di pericolo.»

Quello sorrise pacatamente, ripensando che, con il temperamento di qualche anno prima gli avrebbe risposto con una freccia puntata su quel naso grande e aquilino che il Nano si ritrovava in mezzo alla faccia. «E io sono felice di averti sorpreso, sire Thorin. Mi rincresce solo che la tua memoria rimanga ostinatamente ferma sul passato.»

«La mia memoria funziona perfettamente.» sbottò il Re.

«Non lo metto in dubbio, ma a quanto pare neppure gli anni ti hanno portato la saggezza che dovresti avere.»

Thorin mosse un passo verso l’Elfo, stringendo un pugno. «Non mi farò insultare dal figlio di un codardo.»

«Signori, per favore.» fece Balin, sollevando le mani in segno di resa. «Siamo in tempo di pace, non roviniamoci questo momento con vecchi asti, che superammo a tempo debito; tu e Re Thranduil chiariste molto tempo fa il rapporto tra le nostre razze. E hai forse già dimenticato del nostro fortuito incontro durante il viaggio, Thorin?»

Passarono secondi di tensione, dettati dagli sguardi impenetrabili dei due contendenti. Poi Gimli, resosi conto dell’aria pesante che era improvvisamente calata tra loro come le nuvole che solevano provenire da Mordor, tentò di salvare la situazione. «E comunque, vorrei far presente che qualsiasi cosa l’Elfo vi dirà sul numero di nemici che uccise, non credetegli. A meno che non sia io a vincere.»

«Chiaro!» rise Legolas, che gli batté una mano sulla spalla. Il cielo tornò limpido e tutti, Boromir compreso, tornarono a respirare regolarmente.

«Vogliate seguirmi verso il banchetto di benvenuto, signori miei.» fece il Sovrintendente, muovendo una mano verso la piazza, dove gli Uomini avevano apparecchiato un lungo tavolo ricco di carni arrosto, patate e frutta. La sola vista e il solo odore di quel ben di dio fece brontolare gli stomaci dei Nani, che si scoprirono improvvisamente affamati.

Prima di sedersi a tavola, Thorin terminò le presentazioni e prese posto accanto al Signore della Città. Il sole era alto nel cielo quando iniziarono a banchettare. Discussero molto sulla guerra che avevano dovuto combattere solo pochi mesi prima, e si scambiarono i racconti delle battaglie che li avevano visti protagonisti, da una parte e dall’altra. Thorin, udendo ciò che era accaduto alla Città Bianca, ringraziò il lavoro dei Nani per la solidità della roccia e della montagna su cui si erano rifugiati, per non aver subito la stessa sorte.

Ma gli animi erano lieti e rilassati, ora che erano giunti a Gondor dopo il lungo viaggio, cosicché i dialoghi si spostarono su racconti più sereni. E qualcuno di loro cantò anche, dopo qualche coppa di buon vino in più. Boromir brindò ai Nani e alla loro gentilezza, ringraziandoli più volte per essere accorsi in loro aiuto. E Thorin alzò a sua volta il calice, poiché l’amicizia tra Nani e Uomini era ben salda e il loro onore gli ordinava di rispondere alle richieste del loro giusto Re, così come era sicuro avrebbero fatto anch’essi nel momento del bisogno. Non ci fu bisogno di lanciare l’ennesima occhiata di disprezzo all’Elfo, per fargli intendere che era quello il modo in cui gli alleati si comportavano solitamente.

Terminato il pranzo, Boromir lasciò i suoi ospiti a riposare, poiché erano stanchi. Solo Gimli e Legolas, strattonato dall’amico, rimasero in compagnia di Balin e del padre. Kili, d’altronde, conoscendo l’abilità degli Elfi con l’arco e le frecce e ricordandosi quella del figlio di Thranduil, gli domandò se un giorno avessero potuto allenarsi insieme.

«Sai che lo zio ti ucciderà, per questo?» gli domandò il fratello.

L’altro annuì, con un sorrisino divertito sulle labbra. «Oh, sì. Ma per quel momento sarò allenato abbastanza bene da sapermi difendere. Giusto, Elfo?»

«Ma certo, mastro Nano. E anzi, ti costruirò un arco se ti dimostrerai all’altezza dei miei insegnamenti.»

Fili ridacchiò. «Ora è sicuro: se rimpiazzerai il suo arco, lo zio ti ammazzerà, ti riporterà dalla terra dei morti e ti ammazzerà di nuovo, solo per il gusto di farlo.»

 

Thorin, nella sua lunga vita, non aveva mai visto una tale bellezza architettonica per mano di Uomini. Nonostante fosse in completa rovina, riuscì a percepire la maestosità di quegli archi distrutti, di quelle torri crollate, di quelle pietre spaccate un tempo finemente lavorate. Sfiorò la superficie di un muro e ne assorbì l’energia e la sua storia: raccontava di musica, di orgoglio, di battaglie combattute fino all’ultimo Uomo. Thorin sentì il peso di quell’incarico sulle spalle e il desiderio di riportare quella città ai suoi fasti originali, o addirittura oltre, si fece pressante e si sentì pervadere dall’adrenalina. Solo l’attesa prima di una battaglia e la sensazione di stringere l’ascia tra le mani, equivaleva a quella del martello che batteva sull’incudine, poiché lavorare la pietra e i metalli, per un Nano, era motivo di orgoglio, era qualcosa scritto nel suo sangue dal momento della sua nascita.

Camminò ancora un poco, osservando le rovine al chiaro di luna e scorgendo la bianca sagoma di Minas Tirith che sorgeva dal Mindolluin. Avrebbe dovuto attendere un paio di giorni prima di raggiungere la Capitale di Gondor e, guardando la Città di Pietra che pareva maestosa anche da una grande distanza, si sentì fremere di eccitazione. Non ne aveva mai parlato con nessuno, ma da quando aveva letto e immaginato la grande città degli Uomini, aveva sperato di poterla visitare, un giorno. Purtroppo, o per fortuna, gli affari del Nord lo avevano tenuto lontano dal suo desiderio.

Thorin tornò in direzione dell’accampamento. Gli Uomini avevano sistemato il suo letto e quello dei suoi amici in quella che un tempo doveva essere l’armeria; dell’edificio rimanevano solo quattro mura e qualche colonna al suo interno, ma il primo piano era crollato tempo addietro, e così il tetto – che era stato rimpiazzato da una tenda sfoggiante lo stemma di Gondor. Così, mani dietro la schiena e viso pensoso, attraversò Osgiliath, ma si fermò a metà strada quando scorse la famiglia dai capelli rossi; erano seduti su alcuni capitelli rovesciati sul lastricato in rovina, e si accorse che fossero in compagnia. Si fermò a pochi passi di distanza, nascosto dietro una colonna, sentendo la rabbia e la voglia di rivalsa insinuarsi nel suo cuore, non appena si rese conto di chi fosse l’altro.

Legolas era calmo e sereno, e nonostante Thorin fosse sicuro che l’avesse sentito arrivare, non fece niente per fargli capire di averlo scorto. Continuava a parlare con i Nani, e trovò strano che stessero usando la lingua corrente per conversare, invece che l’Elfico. D’altronde, avrebbero dovuto conoscere la lingua dei loro avi.

«Sì, ebbi la fortuna di incontrare la vostra lontana parente. Ainariël la Gemma Rossa, viene chiamata. Venne nel regno di mio padre qualche tempo fa, e soggiornò da noi per parecchi mesi. Le somigli molto, dama Trán.» aggiunse l’Elfo.

Nonostante la fioca luce notturna, Thorin la vide arrossire.

«Temo che il mio sangue si sia mischiato troppe volte, per aver ereditato i suoi lineamenti.» fece lei in risposta. «Ma non ho mai avuto l’onore di conoscerla, quindi non posso dirti se menti o no.»

«In tal caso fidati di me, non mento.»

La Nana sorrise, e nessuno parlò per parecchi minuti. Rimasero in silenzio, così Thorin, che non avrebbe potuto muoversi senza essere scoperto finché uno dei due non avesse ripreso a parlare. Poi finalmente Legolas spezzò il silenzio, ma il Re decise di restare, giacché l’argomento della discussione si fece interessante.

«Come ben sapete, Nani ed Elfi non sono due razze nate per andare d’accordo; eppure la Gemma Rossa e il vostro lontano parente si innamorarono, si sposarono e crebbero una famiglia insieme. Potete ben immaginare cosa ne derivò, tra Elfi e Nani. Le malelingue non si risparmiarono certo, e dovettero sopportare offese di ogni tipo. Immagino che, nonostante il tempo, ciò non sia cambiato.»

Fu sempre Trán a prendere parola, con sommo stupore di Thorin; aveva ben capito che fosse poco loquace in presenza di persone che non conosceva bene; ma quello che aveva davanti era un Elfo, era ovvio che lo considerasse parte della famiglia.

Lei scosse il capo, sorridendo tristemente. «Le tre generazioni che seguirono quell’unione hanno dovuto sopportare ben peggio, credo. Il frutto di un amore simile è blasfemia, e delle volte pare che sia colpa mia, dei miei fratelli e di mio padre se gli Elfi – beh, se tuo padre non si presentò in battaglia quando noi ne necessitavamo – e addirittura, avete tentato di appropriarvi del tesoro di Erebor. Sire Thorin è un Nano e in quanto tale orgoglioso e possessivo nei confronti delle sue ricchezze. Raramente i Nani chiedono aiuto in battaglia, quindi puoi ben capire cosa significò per lui rivolgersi a voi. La vostra risposta negativa incrinò il suo orgoglio e ancora oggi ne pagate le conseguenze. In più, Erebor e ciò che vi era dentro gli fu tolto ingiustamente, e quando si vide non uno, bensì due eserciti che la reclamavano, andò giustamente su tutte le furie.»

«Le scelte di un capo a volte sono dolorose e difficili, mio padre questo lo sa bene. E anche quella volta ponderò a lungo la sua decisione, prima di agire. Non fu per il risentimento di non aver ricevuto i gioielli che commissionò a Re Thráin, che pagò ma che non vide mai; la sua decisione giunse perché capì che neanche il suo esercito avrebbe potuto fermare il Drago – sarebbe stata una carneficina, e preferì evitarla. Ma l’azione di uno non deve implicare necessariamente quelle degli altri. È ciò che i Nani non comprendono ancora.»

«O non vogliono comprendere. Non vi è peggior sordo di chi non vuol udire, purtroppo.» replicò Káel.

La gemella si strinse le gambe al petto, poggiando il mento sulle ginocchia. «Io non biasimo sire Thorin per il suo rancore, né posso obbligare lui e la sua gente ad accettare il mio sangue Elfico. Vorrei solo essere rispettata, così come la mia famiglia rispetta loro. E poi, anche se siamo più alti della norma e non abbiamo l’aspetto di un Nano purosangue, è a questa razza che apparteniamo. Sono nata dentro il ventre di una montagna da due Nani, ho lavorato il ferro, mio padre e i miei fratelli hanno combattuto davanti alle porte di Erebor. Cosa c’è che non fa di me una Nana? Con tutto il rispetto per la tua razza, beninteso.»

Legolas rise. «Nessuna offesa. E detto tra noi, sono felice per te che non somigli ad una Nana, Trán. O si farebbe fatica a distinguerti da un maschio.» aggiunse a voce bassa, per non farsi udire dall’ospite indesiderato che origliava a pochi piedi di distanza. I fratelli risero, e con loro anche lei.

Thorin non riuscì a decifrare ciò che provò nel sentirla parlare così di lui, come se lo conoscesse da una vita; poiché nonostante il loro rapporto fosse ambiguo e sul filo di una lama, non si erano mai fermati a parlare di ciò che avevano dovuto vivere nel passato. Eppure rifletté sulle sue parole e le trovò sagge, inadatte ad una bocca così giovane – e soprattutto, terribilmente veritiere. Come aveva fatto una Nana-per-metà a capire il dolore e l’affronto che lo avevano colpito in quegli anni a causa degli Elfi? Cosa poteva saperne, lei, dell’orgoglio Nanico e dell’amore per il proprio tesoro che gli era stato portato via senza motivo e con un incredibile spargimento di sangue e sofferenza?

«Come avete fatto?» domandò Káir, curioso. «Intendo, come avete fatto tu e il Nano a diventare così amici?»

L’Elfo sorrise, ripensando a tutti i pericoli e le gioie che avevano condiviso insieme – e i bisticci infiniti. «Avevamo un motivo per combattere la stessa guerra. Arriva un momento, nella tua vita, in cui capisci che devi mettere da parte tutti i rancori e l’orgoglio che ti hanno avvelenato l’anima, se vuoi compiere qualcosa di buono. Non nego che sia stato difficile convivere, nei mesi passati, anzi! Ma dovevamo guardarci le spalle in ogni istante, o farci forza nel dolore. Il tempo è la risposta per ottenere la fiducia dell’altro.»

Thorin sospirò pesantemente. Neanche il tempo gli avrebbe fatto cambiare idea sugli Elfi, di quello ne era sicuro. Nonostante avesse firmato una tregua con il padre di quel damerino dalle orecchie a punta, la sua opinione sarebbe rimasta tale e quale finché sarebbe morto.

«Ti hanno mai detto che spiare è per le comari di paese, mio Re?» domandò Dwalin, che nonostante avesse parlato a bassa voce, fu udito chiaramente dai conversanti.

Thorin lanciò un’occhiata verso il gruppo, che guardava sospettoso nella sua direzione. Maledì a denti stretti il tempismo dell’amico e, preso per un braccio, lo trascinò lontano.

«Non spiavo. Ho udito il mio nome e ho pensato che fosse bene capire perché lo avessero fatto.»

L’occhiata dell’amico non sembrò convinta, ma Thorin non aggiunse altro in sua difesa. Poiché non vi era alcun motivo di difendersi.

«Ebbene,» fece Dwalin. «stavano complottando con l’Elfo per toglierti di torno, o si lamentavano del buio delle montagne paragonato alle verdi foreste?»

Thorin, raggiunto il suo giaciglio, si sedette pesantemente, poggiando gli avambracci sulle ginocchia. Fili e Kili erano già profondamente addormentati sulle brande accanto alla sua e russavano come se non ci fosse stato un domani. «Discutevano sul da farsi, niente di interessante, infine.», mentì.

Si sdraiò, dopo aver tolto la pesante giacca imbottita di una sottile cotta di maglia e gli stivali; osservò il movimento placido della tenda sopra la sua testa, e lo stemma di quel Regno gli parve più brillante che mai sotto la luce della luna.

Ripensò alle parole della ragazza, ancora irritato e incredulo per ciò che aveva udito. Ma in cuor suo, in un angolo remoto del suo cuore, sentì un flebile fastidio che gli stava bruciando l’anima lentamente e discretamente; poiché capì di cosa si trattasse e si ritrovò a stringere i pugni con forza. L’aveva sentita parlare in sua difesa, pronta a capire i motivi che lo avevano portato a detestare incontrollabilmente gli Elfi e la loro stirpe; eppure mai, durante quel lungo viaggio, aveva dato prova di comprensione nei suoi confronti; anzi! E mentre quasi tutti coloro della sua ristretta cerchia di amici avevano accettato il fatto che fossero con loro, lui era rimasto ostinatamente distante da qualsiasi forma di dialogo; l’unico di quel gruppo con cui aveva scambiato volentieri più di due parole, senza insultarsi, era il gemello della ragazza. Neanche dopo quella notte spesa a galleggiare sull’Anduin, a stretto contatto l’uno con l’altra, era servita ad avvicinarli; col senno di poi si era chiesto se non fosse stato stupido ed avventato, da parte sua. Voleva solo togliersi quel peso che sentiva nei suoi confronti, per averlo protetto.

Aveva capito perché lei fosse così restia e distante nei suoi confronti, e ciò non poteva che mandargli in ebollizione il sangue nelle vene.

Lei attendeva delle scuse, e lui e il suo orgoglio non erano pronti a dargliele.

Si girò su un fianco, chiudendo gli occhi e tentando di prendere sonno; eppure, la sola idea che potesse provare gelosia per non aver ricevuto la giusta considerazione gli impedì di dormire per parecchio. Non che ne necessitasse come l’aria per respirare; non aveva bisogno della comprensione di una persona che non aveva vissuto gli orrori e il dolore che invece lui e la sua gente avevano dovuto patire. Ma lui era il Re ed esigeva rispetto.

Kili, poco distante, russò con più forza. Subito dopo si udì un tonfo e, appena si voltò per capire cosa fosse successo, trovò il nipote a terra, ancora rintronato dal sonno, mentre l’altro si rimetteva a letto.

«Scusa zio, dovevo farlo. Ha svegliato persino me!» fece Fili,  dopo uno sbadiglio. «Buona notte.»

Thorin non nascose un sorriso. «Bada a non fare la stessa fine. Dormi b–»

Non fece in tempo a finire la frase, che Kili era già saltato sulla branda del fratello, per fargliela pagare. Ogni possibilità di trovare riposo, quella notte, sembrava ormai lontana.

Quando finalmente riuscì ad addormentarsi in un sonno senza sogni, mancavano ormai poche ore all’alba.

 

 

13 Settembre 3019 T. E.

 

I lavori iniziarono presto. C’era talmente tanto da compiere che Dáin II, guardandosi intorno, quasi non seppe neppure da dove cominciare. Osgiliath era un mucchio di rovine, e sebbene gli Uomini avessero dato inizio ai lavori mentre loro erano ancora in viaggio, era consapevole che i prossimi mesi sarebbero stati sfiancanti. Ma la mole dell’incarico non lo spaventava certo, e anzi: lo eccitava oltremodo.

Così, affiancato da Dwalin, che non aspettava altro, svegliò tutti i suoi lavoratori a suon di calci e secchiate d’acqua. Presto l’accampamento fu sommerso da un brusio di lamenti in Khuzdul, troppo poco eleganti per essere tradotti.

«Avanti, Nani dei Colli Ferrosi e della Montagna Solitaria! Fate colazione, prendete energie e poi al lavoro!» gridò, salito su una pietra che usò come piedistallo. «Voglio che metà di voi si rechi all’imbocco del fiume a Sud, per aiutare gli Uomini nel trasporto della pietra; impilate il materiale fuori le mura. L’altra metà con me, prepariamo le officine di lavoro. Rulin, voglio che tu, i tuoi apprendisti e i tuoi figli Tarón e Káir facciate un giro di ricognizione, prendiate rilievi e iniziate a disegnare il progetto. Mi aspetto grandi cose da voi.»

Il Nano si inchinò al cospetto del suo Re, drizzando poi orgogliosamente la schiena. «Non ti deluderemo, sire Dáin. Non lo abbiamo mai fatto.»

L’altro gli diede una poderosa pacca sulla spalla e sorrise. «Lo so bene, amico mio. Al lavoro, dunque!»

Thorin, che stava in piedi poco distante con le braccia conserte, lanciò una rapida occhiata ai figli del carpentiere, fieri del loro padre e dell’alta considerazione che Dáin avesse di lui. Spostò immediatamente la sua attenzione verso gli Uomini, quando si accorse che un paio di occhi azzurri lo osservavano con soddisfazione; con quello sguardo, il primo che gli rivolgeva dopo tanti giorni, Trán sembrava volergli dire: hai visto dove è in grado di arrivare un Nano-per-metà?

Si sedettero al banchetto allestito il giorno precedente, e fecero colazione con abbondante frutta, pane, burro e marmellate. Alla vista dei funghi, Kili sorrise.

«Ah, se solo Bilbo fosse qui! Tutto questo gli sarebbe piaciuto.»

«Meglio che non ci sia lo Hobbit, invece.» replicò Dwalin, addentando una mela. «O Bombur, se capite cosa intendo.»

Fili e Kili scoppiarono a ridere, e così tutti coloro che conoscevano il loro grasso amico.

Thorin si voltò verso Gimli. «Così anche tu hai avuto il piacere di conoscere la razza degli Hobbit?»

«Oh, sì. Quei piccoli mascalzoni!» Il Nano dalla barba ramata si lasciò sfuggire un sorriso. «Merry e Pipino sono tremendi quando si tratta di cibo. Non so questo Bilbo di cui parlate, ma vi assicuro che mangiano per un intero esercito.»

«Posso assicurarti, mio caro amico, che il Bilbo di cui si discute – almeno quando era più giovane – fu in grado di svuotare l’intera dispensa da solo, quando s’intrufolò nel regno di mio padre.» fece Legolas. «Anche se sono sicuro che non fu così avaro da mangiare da solo.»

Thorin sentì addosso lo sguardo dell’Elfo, che sorrideva come se sapesse. Scosse il capo, ripensando a quei giorni che gli parevano così lontani. Se non fosse stato grazie a quello Hobbit che aveva la capacità di comparire e sparire nel giro di un battito di ciglia, loro sarebbero probabilmente morti. E, a quanto pare, era stato proprio per opera di quella piccola gente che la Terra di Mezzo ora era salva dal pericolo del Male.

«E dove sono questi Hobbit di cui parlate?» domandò Kili. «Mi piacerebbe conoscerne altri.»

Boromir sospirò, con un po’ di rammarico. «Ahimè, sono tornati verso la loro bella e lontana terra. Solo i Valar sanno quanto quei piccoletti mi manchino!»

«Capisco cosa provi in questo momento, messer Boromir.» fece il Re Sotto la Montagna. «Perché è esattamente ciò che sento anche io. Mi vergogno di quello che dissi allo Hobbit la prima volta che lo incontrai, e anche le successive. Lo sminuii, perché non credevo nelle sue capacità. Ma mi sorprese in più di un’occasione, e capii che la vera forza non sta nella portata del braccio, ma in quella della mente e del cuore. Se tutti gli Hobbit della Contea sono come coloro che abbiamo avuto la fortuna di incontrare, allora la Terra di Mezzo dovrebbe esserne invasa.»

Boromir annuì con un sorriso e decise che, prima di partire con la scorta di Thorin verso il fratello, avrebbe scritto un messaggio ai suoi vecchi e lontani amici.

E mentre il Re e i suoi più stretti compagni si preparavano per la visita di piacere alla foresta di Faramir, Legolas si avvicinò silenziosamente a Trán. Si accorse di lui solo quando se lo trovò seduto accanto, mentre lei era intenta a ricucire una maglia del fratello.

«Vorresti venire con me e Gimli nell’Ithilien? O i tuoi doveri ti chiamano?»

«Io, Káel e Trión andremo a Minas Tirith, non lavoreremo qui. Ma ti ringrazio, messer Legolas, non posso comunque unirmi a voi.»

«Perché no?»

«Perché solo le persone importanti sono state invitate.» Trán si strinse nelle spalle. «E che io sappia, non sono né la dama di corte, né la nipote del Re.»

«Non ti reputi importante? Mi deludi, figlia di Rulin. Egli è il carpentiere di fiducia di Re Dáin II.»

Lei ridacchiò, scuotendo il capo. «Non sarei ben accetta comunque. Re Thorin non ne sarebbe felice.»

«Non puoi saperlo. I suoi nipoti, comunque, lo sarebbero. E anche io.»

Trán guardò con sospetto l’Elfo, ma non fece in tempo ad aggiungere altro, poiché i fratelli più esuberanti che avesse mai incontrato le balzarono davanti, rischiando di farla pungere con l’ago per lo spavento.

«Dunque, sei pronta per la gita?» chiesero in coro.

La Nana scambiò un’occhiata con Legolas, che rise.

«Devo prima chiedere il permesso a mio padre.»

Fili le strizzò un occhio. «Il tuo vecchio è sistemato, Kili ha appena finito di parlarci. Allora, cosa rispondi?»

Rulin, che aveva osservato la scena dalla sua postazione di lavoro, sorrise alla figlia e le fece cenno di andare e divertirsi un po’. Era preoccupato per l’umore instabile della sua bambina, che era diventata taciturna e scortese dopo la morte della madre; ma aveva anche notato che l’amicizia che stava nascendo tra lei e i nipoti di Re Thorin le stava giovando al viso, che era tornato quello spensierato di un tempo.

«D’accordo, mi avete convinta. Verrò con voi.» si arrese, infine, alzando le braccia al cielo. «Ma ad una condizione. Káel ci accompagnerà, e anche Trión; non posso lasciarlo solo.»

«E sia! Ci stanno già aspettando.» disse Fili. «Ora, prendi le tue cose e vieni con noi. Si parte tra mezzora.»

Trán non seppe definire con esattezza a quali cose si stessero riferendo, ma afferrò la sua piccola sacca a tracolla e ci infilò un paio di mele e la borraccia d’acqua. Li seguì verso l’accampamento dello zio, dove trovarono il gemello e il fratellino, Gimli e Boromir in compagnia del Re, Balin e Dwalin. Quest’ultimo non badò troppo alla presenza della ragazza, sebbene non gli disturbasse più come all’inizio, dopo l’inconveniente della freccia; ma il fratello, invece, parve ben felice di averla tra loro e la salutò con un caloroso sorriso.

Thorin non interruppe la discussione intavolata con i suoi amici, ma fissò insistentemente la ragazza. Trán gli concesse solo qualche secondo del suo sguardo, per poi riversare la sua attenzione su Trión. Detestava essere ignorato, soprattutto da qualcuno che invece aveva la sua piena attenzione; si avvicinò a Kili, le mani intrecciate dietro la schiena, e abbassò lo sguardo sul nipote quando gli fu accanto. «Esattamente, cosa ci fa lei qui?»

«Viene con noi. Insieme ai fratelli.»

La candida risposta del ragazzo lo fece sospirare. «Mi era parso di capirlo. Allora, perché è qui?»

Kili riconobbe quel tono di voce irritato e temette per la sua incolumità quando gli rispose. «Perché io e Fili glielo abbiamo domandato. E anche l’Elfo. Spero non sia un problema, zio. Pensavo che le cose andassero meglio tra voi, dopo che... beh, vi ho visti l’altra notte... in acqua, mezzi nu–»

A quelle ultime parole, Thorin lo fulminò con i soli occhi e Kili avrebbe preferito rimangiarsi la lingua pur di non aver parlato; neppure Smaug sarebbe stato in grado di incenerirlo così. «Kili, devo ricordarti cosa dissi a te e a tuo fratello riguardo gli Elfi? E in particolar modo quell’Elfo

«Sì, che sono persone di cui non ci si può fidare e che dobbiamo girargli alla larga.» ripeté il giovane Nano. «Ma zio, Legolas è diverso da quello che incontrammo anni fa. È cambiato, così come lo sei tu e lo sono io.»

«Gli Elfi non cambiano. Hanno un’eternità per farlo, ma non cambiano.» scandì bene l’altro. «Non mi ripeterò una seconda volta: non voglio che tu e tuo fratello lo frequentiate.»

«E... Trán? I suoi fratelli? Loro possiamo frequentarli?»

Thorin sospirò. La osservò con la coda dell’occhio mentre chiacchierava con un impacciato Gimli. «Mi ricordo dei fratelli in battaglia, sono abili combattenti e meritano il mio rispetto. E anche lei, nonostante tutto.» aggiunse, in un borbottio. Kili sorrise gioioso e Thorin non poté che scuotere il capo.

Quando il nipote si allontanò, Balin prese il suo posto. «Non posso credere che lo abbia detto sul serio.» lo rimproverò. «Nonostante tutto? Thorin, devi davvero spiegarmi quale sia il problema.»

«Il problema, amico mio, è che non mi piace il suo atteggiamento. Non mi porta il necessario rispetto, e lei non avrà il mio. E nonostante si sia rivelata utile durante il viaggio da Erebor, ella è infima perché mi sta rubando ciò che amo di più.»

«A parte l’orgoglio, non mi pare stia rubando alcunché. Suvvia, non fare lo sciocco, mio Re. Non perderai mai Fili e Kili per colpa di un’innocente ragazza, anzi: più tu impedirai loro di stare in sua compagnia, più loro s’intestardiranno. Allora sì che rischieresti di perderli.» Balin gli sorrise, stringendo una mano sulla spalla contratta del Nano. «Ma dimmi, amico mio, poiché credo di aver perso qualche passaggio: cosa ha visto Kili, la notte scorsa?»

Thorin alzò gli occhi al cielo e non rispose, preferendo allontanarsi da quelle domande scomode e cacciando indietro lo strano imbarazzo che iniziava a provare nell’essere stato scoperto. Era stato davvero avventato ad offrirle il suo aiuto, quella notte; era stato spinto da una debolezza che non provava da tempo, quella che lo spingeva a preoccuparsi delle persone a lui care; quella che lo rendeva uno zio affettuoso e desideroso di insegnare ai suoi nipoti tutto ciò che sapeva. Ma lei cos’era? Non certo una nipote, né una lontana parente. Era solo un’estranea; una scorbutica e permalosa estranea. Voleva cercare di riparare qualsiasi cosa si fosse incrinato tra loro, e non sapeva neppure lui il perché. Ma non aveva funzionato e, si promise mentalmente, di non infilarsi più in situazioni ambigue come quella.

Quella ragazzina non meritava le sue attenzioni.

 

 

*

E finalmente in Nani sono giunti a Gondor! Ora iniziano le danze, ho tante sorprese in serbo per loro – e per voi. ;)

Grazie a chiunque si sia fermato... siete la mia gioia. :)

Alla prossima settimana!

Marta.

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Capitolo 7
*** 07. ***


Buon sabato a tutti!

Aggiorno con un po’ più di anticipo perché questa è come la seconda parte del capitolo precedente, e non volevo lasciar trascorrere troppo tempo tra l’uno e l’altro.

A memoria credo che sia leggermente più corto degli altri – e questo perché in realtà era un unico capitolo con il sesto, ma ho preferito dividerli per non farvi leggere un mattone e ho ingrassato un po’ questo. :)

Spero vi piaccia – piacerà un po’ meno ai Nani, che si ritroveranno nell’ennesima dannata foresta. ;)

Grazie a tutti coloro che leggono, commentano, preferiscono, seguono e ricordano. :)

Buona lettura!

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

07.

 

13 Settembre 3019 T. E.

 

Boromir salì in groppa al suo cavallo e attese che anche gli ospiti che lo avrebbero seguito facessero altrettanto. Era felice all’idea di rivedere Faramir dopo parecchi mesi, così come era incuriosito dal lavoro che il fratello e gli Elfi stessero facendo in quella sua bella terra. Avrebbe voluto che al suo fianco ci fosse anche Brethil, che visitassero insieme le verdi foreste della sua regione; invece, al suo posto vi trovò Legolas e Gimli, e quasi gli venne da ridere.

«Che c’è di così divertente?» gli domandò il Nano, scettico.

Lui scosse il capo. «Sono felice che siate qui con me. Ma dovreste vedere gli occhi di chi vi sta guardando ora.»

Gimli osservò le occhiate della sua stirpe e si rese conto che l’essersi seduto sullo stesso destriero di Orecchie a Punta non si fosse rivelata un’ottima mossa. «Beh, intanto quello che è in bilico su uno stallone cavalcato da un Elfo sono io, ragazzo. Mi sembra tutto fuorché divertente. Vai e capisci l’umorismo di Gondor!»

«Non è che soffri di vertigini, messer Gimli?» domandò Fili, con un sorriso birichino in volto. «Nel caso, il segreto è il non guardare in basso.»

«E se l’Elfo dovesse correre troppo da farti sbalzare dalla sella, afferrati ai suoi capelli.» proseguì Fili.

Legolas si voltò, le labbra arricciate bonariamente verso l’alto. «Oppure posso afferrarlo io per la barba, giacché il Nano è abituato a salvataggi simili.»

Gimli divenne più rosso dei suoi capelli e di quelli dei gemelli, maledicendolo in Khuzdul e promettendogli di tagliargli la lingua a suon di ascia se non avesse smesso di metterlo in imbarazzo.

In quell’aria gioiosa e lieta, si recarono alle barche, che avrebbero percorso un breve tratto dell’Anduin verso sud, affinché raggiungessero celermente le colline degli Emyn Arnen, dove sire Faramir risiedeva con i Raminghi dell’Ithilien. Lì, avrebbero soggiornato una notte e due giorni, per poi spostarsi finalmente verso Minas Tirith.

«Non sono mai salita su una barca così grande.» ammise con timidezza Trán, osservando il grande veliero in legno che mostrava fieramente le vele spiegate al vento. «In realtà, non ero mai salita su una barca fino ad un mese fa.»

Gli Uomini sul ponte li salutarono con gioia e abbassarono la passerella che gli avrebbe permesso di salire a bordo, con cavalli e pony al seguito.

«Oh, noi invece abbiamo grande esperienza di fiumi e rapide, vero fratello?» domandò Kili.

«Certo, e chi se lo scorda! Non capita tutti i giorni di rotolare dentro delle botti di vino vuote, giù per le cascate e le rapide!»

Legolas, che li udì, si voltò verso di loro. «Ci coglieste tutti di sorpresa, quella volta. Lo Hobbit ebbe una grande idea, altrimenti sareste ancora nostri prigionieri. Ma fortunatamente siete coriacei, e ne usciste illesi.»

Thorin grugnì al ricordo di quella fuga rocambolesca messa in piedi dal loro scassinatore. «Se per illesi intendi il non riuscire a muovere gli arti per la settimana successiva, dovresti rivedere il tuo vocabolario.»

L’Elfo, in risposta, rise.

«Ricordate il povero Bombur? Era così esausto che lo trovammo svenuto nel suo tino.»

Kili annuì. «Sì, e ricordo anche che, essendo gli unici ancora in forze, fu nostro il compito di trascinarlo di peso sulla spiaggia.»

«Non ho mai sentito parole peggiori uscire dalla tua bocca come quelle che dissi quel giorno, zio.» rise l’altro.

Thorin si lasciò scappare un sorriso di divertimento e i suoi occhi brillarono per un istante. Trán, che se ne accorse, pensò che avrebbe dovuto farlo più spesso. Ma vide bene di tenere i suoi pensieri per sé.

Scesero dai loro destrieri, che fecero riposare all’interno della stiva dove erano state preparate le stalle; poi tornarono in superficie, affacciandosi al parapetto per godere lo spettacolo di quelle terre che avevano sognato da tanto tempo.

Un Uomo vestito di bianco, con il simbolo della casa di Gondor in blu, si avvicinò alla compagnia, seguito da altri quattro, e dopo un lieve inchino si presentò. «Benvenuti a bordo del veliero di Osgiliath. Io sono Beregond, un tempo soldato della Terza Compagnia della Cittadella di Minas Tirith, e ora Capitano della Bianca Compagnia di Faramir, Principe dell’Ithilien e Signore degli Emyn Arnen. Loro sono Elegost, Anborn, Damrod e Mablung, e anche loro fanno parte dei Dúnedain di questa regione. Vi condurremo personalmente alla dimora dei nostri signori. Sentitevi liberi di fare ciò che più vi aggrada durante questo breve viaggio sul fiume, e se necessitate di qualsiasi cosa sono al vostro servizio.»

Boromir abbracciò l’amico, che era stato allontanato da Minas Tirith per ordine del Re per aver ucciso due Guardiani dei Luoghi Proibiti; egli, così facendo, aveva contribuito a salvare la vita di suo fratello, e non lo avrebbe ringraziato mai abbastanza per ciò che fece e rischiò quel giorno.

Il veliero si mosse poco dopo, spostandosi placidamente sulle acque calme dell’Anduin, che in quella zona proseguiva verso il mare con lentezza. Più volte Legolas aveva allungato lo sguardo verso sud, cogliendo il suono dei gabbiani in lontananza e il profumo della salsedine, che lo richiamavano come una falena verso la luce. I Nani più anziani decisero di rimanere con i tre membri della Compagnia dell’Anello e Beregond, per discutere di come i lavori stessero procedendo in quella parte di Gondor; i più giovani, invece, rimasero a prua, spensierati e divertiti, per guardare i pesci che saltavano sul pelo dell’acqua o a mirare la Bianca Città di Minas Tirith che si faceva sempre più vicina.

«Non dovreste stare lì, è pericoloso.» fece Trán, osservando Fili e Kili seduti a cavalcioni sulla polena.

«Dai, raggiungici, ti aiuto.» le disse il secondo, tendendole una mano. Ma lei non cambiò idea e rimase saldamente ferma dov’era; non aveva alcuna intenzione di suicidarsi cadendo in acqua – e la lezione di Thorin non l’avrebbe certo aiutata in un momento di panico. Ovviamente, l’impavido ed incosciente gemello li raggiunse poco dopo, lasciandola in tensione finché non tornò con i piedi per terra; e dovette trattenere con forza il piccolo Trión, che altrimenti sarebbe volato giù con il fratello.

Il viaggio durò poco più di un’ora. La distanza che dovevano coprire non era tanta, ma il vento soffiava poco e la nave procedeva lentamente, tanto che una ventina di uomini avevano dovuto iniziare a remare, cantando e dandosi il ritmo. Giunsero ad Harlond, il porto di Minas Tirith, epicentro di un’altra grande battaglia durante la Guerra dell’Anello; Gimli e Legolas raccontarono al resto dei Nani di come loro, il Re e i loro Uomini avessero conquistato i velieri nemici prima che questi raggiungessero la Città di Pietra. Parevano trascorsi anni, invece si trattava solo di pochi mesi.

I marinai di Harlond accolsero i nuovi arrivati, che scesero dal veliero nuovamente in groppa ai loro destrieri. Boromir e Beregond aprivano la colonna della fila, seguiti da Legolas, Gimli, Thorin e il resto dei suoi compagni; i Raminghi, silenziosi e avvolti nei loro mantelli, chiudevano la coda in fondo al gruppo. Cavalcarono per qualche miglio, finché non raggiunsero le pendici delle colline. Imboccarono un sentiero largo e non troppo ripido, che si snodava in piccoli tornanti, facilmente praticabile anche a cavallo. Così si ritrovarono immersi nella foresta degli Emyn Arnen, e la civiltà umana fu presto dimenticata alle loro spalle. Di quando in quando i resti di qualche rovina facevano mostra di sé nelle piccole radure, ricordi di vecchi avamposti militari ormai in disuso. Beregond raccontò loro che alcuni di essi sarebbero stati ricostruiti, soprattutto lungo i confini e sulle vette, dove sorgeva la casa dei suoi signori. Presto si accorsero di non essere soli, tra quegli alberi, e il suono melodioso di canti Elfici giunse alle loro orecchie.

«Sono i canti della mia terra.» disse Legolas con un po’ di nostalgia, osservando tra i tronchi e scovando alcune piattaforme in legno nascoste tra le fronde verdi, su cui alcuni della sua specie li osservavano incuriositi.

L’umore di Thorin scese sotto terra – oh, avrebbe pagato oro e pietre preziose pur di trovarsi davvero sotto terra, in quel momento! Non gli piaceva l’idea di essere nuovamente circondato da Elfi in una foresta; conservava troppi brutti ricordi di un’esperienza simile. Per fortuna quel labirinto di alberi non era così oscuro come il maledetto Bosco Atro, sicché il respiro non gli mancò mai.

Il percorso attraverso il sentiero battuto secoli prima proseguiva lentamente e senza soste, ma non durò molto. Smontarono a qualche centinaia di piedi prima dell’accampamento dei Raminghi, poiché se avessero avanzato più in alto non avrebbero trovato posto per i loro cavalli e pony. Il sentiero divenne lastricato dopo che ebbero attraversato un arco di rami e foglie, ingresso della residenza dei Signori dell’Ithilien. Dopo qualche passo si ritrovarono in una radura ben curata, ornata di fontane e fiori, su cui si affacciava la modesta casa del loro Signore. Sui gradini d’ingresso di quest’ultima li attendevano i Principi dell’Ithilien, che camminarono verso gli ospiti e si chinarono al loro cospetto; così fecero i Dúnedain schierati in due file ordinate.

La fragile bellezza della Bianca Dama dell’Ithilien, Éowyn, era sbocciata nuovamente dopo l’oscurità che aveva visto e l’aveva appassita; ella ora pareva un fiore in primavera, vestita di un candido abito e i biondi capelli intrecciati di fiori profumati. Esile, eppure forte come nessun’altra donna, era ritta e dignitosa accanto al marito, e tutti notarono la sottile lama che le pendeva da un fianco. I Nani ne rimasero incantati e fecero la conoscenza di colei che sconfisse il Re Stregone di Angmar.

«Benvenuti, mie cari amici. Aspettavamo con impazienza il vostro arrivo, e finalmente eccovi qui.» esordì Faramir, bello e sorridente nel suo completo bianco e blu. «Ho fatto preparare dei letti per voi, e se necessitate di un bagno caldo non dovete far altro che chiedere. I miei uomini sono a vostra disposizione.»

Thorin osservò prima lui poi il fratello, che lo scrutava con fierezza, e si stupì di quanto quei due si somigliassero. «Ti ringrazio della tua ospitalità, mio signore. È il nostro secondo giorno a Gondor e, nonostante siamo ben lontani dalla nostra patria, è come sentirsi ancora a casa.»

«Ne sono felice, Thorin figlio di Thràin. È un onore per noi. Ma ora, se siete d’accordo, potete recarvi ai vostri alloggi, posare i vostri averi, e raggiungermi qui in una mezzora. Pranzeremo insieme e mi racconterete del lungo viaggio che avete dovuto affrontare. Dopo, vi porterò a visitare le nostre colline, che stanno ritrovando parte dello splendore di un tempo grazie soprattutto all’aiuto degli Elfi Silvani di Bosco Atro.» E così dicendo, spostò lo sguardo su Legolas, che sorrise e chinò il capo.

«Fantastico, siamo circondati da Elfi anche qui.» mormorò indispettito Dwalin; Thorin lo zittì con un colpo di tosse.

«Mia moglie Éowyn sarà felice di scortarvi ai vostri alloggi.» proseguì Faramir, rivolgendo un sorriso alla donna che amava.

Così, i Nani seguirono la splendida Dama Bianca, lasciandosi momentaneamente alle spalle i fratelli di Gondor, Gimli e Legolas. Éowyn li condusse verso il retro della loro abitazione e, sorpresa!, davanti a loro si aprì una terrazza su Gondor e il Grande Fiume, che pareva un nastro argenteo sotto la luce delle undici. Alcune robuste tende erano state montate sul belvedere, tutte rigorosamente bianche.

«Temo che non amiate dormire sugli alberi.» fece la donna, guadagnandosi l’approvazione di tutti. «Stiamo ancora costruendo l’ala per gli ospiti, quindi riposerete qui, se per voi non è un problema.»

Thorin scosse il capo. «Abbiamo dormito in situazioni ben peggiori, mia signora.»

«Molto bene, allora. Ma mi è giunta voce che ci siano una signora e un giovanotto, tra voi.»

La Nana arrossì. «Signorina, dama Éowyn.»

La bella di Rohan sorrise, e le porse una mano. «Per voi due ho preparato un letto separato. Si trova in una camera poco lontano dalla mia, e avrai anche la comodità di un bagno.»

«Tutto ciò è profondamente ingiusto!» si lagnò Fili. «Perché lei ha una stanza e un bagno tutto suo?»

Éowyn rise, chinandosi verso il Nano biondo e accarezzandogli una guancia. Quello divenne immediatamente paonazzo dall’imbarazzo. «Perché ella è una signorina, e come tale bisogna trattarla. Non vorrai farla dormire all’aperto, mastro Nano?»

«Beh, non sarebbe la prima volta.» ribatté infastidito Káel.

«E inoltre c’è un Re tra noi. Non merita forse il medesimo trattamento?» proseguì Kili, incrociando le braccia, e trattenendo a stento una risata. Poco dopo si beccò l’ennesimo colpo sulla nuca dallo zio.

«Dormirei perfettamente senza una tenda sopra la testa, mia signora. Perdona le lagne di mio nipote.» fece, con un inchino, e obbligando anche Kili ad inchinarsi con lui, afferrandogli un orecchio.

Le due donne risero, e così anche il resto della compagnia. Poi Éowyn si rivolse alla Nana e al fratello minore, e le porse una mano. «Ora, se volete seguirmi vi mostrerò la stanza.»

Trán annuì e accettò riluttante la mano della donna. Erano trascorsi parecchi anni senza che una figura femminile le mostrasse un gesto simile. Esattamente da quando la madre se n’era andata. Il calore che ne conseguì la fece rilassare, e con il cuore leggero stette al passo della Bianca Dama. Quando vide la sua camera per quella notte pensò che il fratello, Fili e Kili sarebbero stati ancora più scontenti: era ampia e arieggiata, con una grande finestra che si affacciava sullo stesso panorama che aveva ammirato solo qualche minuto prima; il letto era decisamente ampio per la statura di un Nano, e vi era una vasca dalla parte opposta, che attendeva solo di essere riempita di acqua calda. Si appuntò mentalmente che, prima della cena, si sarebbe rilassata un poco.

Éowyn la lasciò dopo averle ricordato di rivolgersi a lei per qualsiasi motivo; ma non ebbe tempo di godere di quel silenzio e quella pace, poiché la porta si spalancò ancora una volta, e Káel e i fratelli saltarono sul suo letto, rischiando di sfondarlo.

«Oh, ma guarda che posto! Possiamo dormire qui?»

«Ci sarebbe spazio per tutta la comitiva.»

«Ovviamente la vasca sarebbe per il Re.»

«E il letto per i nipoti e il loro amico.»

Trán incrociò le braccia al petto e li osservò indispettita e divertita. «Sapete che non è cortese entrare senza preavviso nella camera di una donna?»

Káel sorrise innocentemente. «Ma tu non sei una donna, sorellina. Sei un maschiaccio.»

La ragazza divenne paonazza, lanciandosi contro il fratello e picchiandolo come si confà ad una Nana – e, inutile dirlo, dando prova delle parole del ragazzo; Fili e Kili si unirono alla ressa, sentendosi doverosi di intervenire per difendere e aiutare la donzella in pericolo – che tanto in pericolo non era, in realtà.

Mezzora passò velocemente e i tempi dei giochi finirono. Il quartetto si recò alla piazza dove avevano fatto la conoscenza dei Signori dell’Ithilien e si accorsero di essere gli ultimi del gruppo. Thorin ebbe la mezza idea di rimproverarli, ma li vide sorridenti e spensierati, e ogni paternale gli morì in gola. Nonostante non approvasse quei comportamenti talvolta troppo infantili, per la loro età, vederli felici era una gioia per il suo cuore. E persino la Nana era incredibilmente euforica, ma ciò gli bastò per irritarlo nuovamente.

Vennero condotti all’interno della residenza padronale, in una grande sala per le riunioni. Lì pranzarono abbondantemente, con la cacciagione fresca di mattinata, ma furono costretti anche a mandar giù le verdi insalate preparate dagli Elfi. “L’erba è per le capre, non per i Nani!”, continuavano a borbottare. Faramir fu molto curioso di sapere del loro viaggio e della situazione al Nord, avido di conoscenza come sempre era stato; non osò, però, chiedere di raccontargli della venuta di Smaug e di ciò che successe dopo alle loro genti, poiché poteva solo immaginare il dolore che il solo ricordo avrebbe potuto causare. Dopo che lo stomaco fu pieno, i fratelli di Gondor li richiamarono, dando inizio alla visita delle rovine. Le fondamenta e qualche muro in pietra erano stati mantenuti, mentre ciò che era crollato era stato ricostruito in legno dalle sapienti mani degli Elfi. Ma, come gli venne spiegato, l’intero accampamento si sviluppava sugli alberi, con i classici flet elfici, piattaforme in legno più o meno grandi che ospitavano abitazioni e magazzini.

«Durante la Guerra queste colline brulicavano di Orchi.» stava spiegando Faramir, con dolore. «La desolazione che lasciarono, insieme alla terra bagnata di sangue, fu difficile da lavare via.»

«Mi sembra che stiate facendo un ottimo lavoro, invece.» dovette ammettere suo malgrado Thorin, guardandosi intorno. Detestava gli Elfi con tutto il suo cuore, ma un occhio critico non poteva sorvolare sulla loro abilità nel trasformare qualsiasi oggetto e luogo in qualcosa di bello e vivibile.

«Spero che possiate ammirare questo stesso luogo in primavera, quando i fiori saranno sbocciati e tutto profumerà e sarà più rigoglioso di ora. Ricordo che da ragazzi, quando le navi salpavano per la sponda opposta, io e Boromir cavalcavamo fin qui e passavamo intere giornate sdraiati sull’erba fresca o a cacciare. È uno dei luoghi della mia infanzia che preferisco.»

Boromir sorrise e il pensiero volò ad Aragorn, che aveva donato l’Ithilien al fratello, un regalo che per lui significava la sua anima stessa.

Si fermarono di fronte ai tumuli di guerra, dove riposavano alcuni tra i più valorosi soldati morti in battaglia nei mesi precedenti. Tra essi spiccava un nome che forse per i Nani non indicava niente, ma per Boromir e soprattutto per Brethil ed Aragorn significava tutto. Era stato spostato dai Campi del Pelennor, laddove era caduto, alla pace di quei colli del tutto simili a quelli che l’avevano visto crescere.

Qui riposa Halbarad, Dúnedain del Nord, fedele amico e compagno.”

«Ahimè, egli fu un Uomo degno del rispetto di chiunque.» fece Legolas, tristemente. «Fu il migliore amico di Re Elessar e della sua Prima Guardia, ed essi lo piangono ancora.»

Elegost, il Ramingo che li aveva seguiti silenziosamente, si fece avanti. «Fu una guida quando Aragorn era lontano. Ed ebbe l’onorevole compito di alzare lo stendardo del Re in battaglia. Cadde per salvare la vita di una cara persona.»

Boromir chiuse gli occhi e tentò di allontanare il dolore che aveva provato nell’aver visto Brethil distrutta da quella pesante perdita. Si era ridotta ad un corpo fatto di carne e poco spirito, che parlava poco e rimuginava troppo, addossandosi colpe che non esistevano e commiserandosi fino all’esasperazione. Solo la voglia di vendetta e la sua presenza accanto, avevano risvegliato la donna di cui si era innamorato.

«Riposi in pace e in gloria.» fece Thorin, inchinandosi davanti alla tomba e imitato dagli altri.

La comitiva proseguì, ora scendendo verso il fianco Est. Non molto in lontananza videro i monti di Mordor e un brivido li scosse. Sebbene il grande Male fosse sparito per sempre, quella terra sarebbe sempre stata intrisa di cattiveria, e neanche i millenni sarebbero riusciti a ripulirla.

Thorin si fermò ad osservare la sagoma del Monte Fato oltre la scura catena montuosa, dal quale fuoriuscivano solo fiochi fumi scuri. Non riusciva ad immaginare che coraggio e che forza avessero dovuto avere due piccoli Hobbit per attraversare quelle terre maledette e gettare l’Anello del Potere nella lava del vulcano. La vista di quella cima gli ricordò di quando scorse la sagoma della Montagna Solitaria, durante il lungo viaggio dalla Contea. Rivedere la sua casa dopo così tanti anni era stato come tornare a respirare dopo una lunga apnea; una reazione completamente opposta a quello che probabilmente avevano avuto i Mezzuomini vedendo quel monte avvicinarsi e farsi via via più grande. Quello era un luogo da cui scappare, non da raggiungere.

Quando riprese a camminare notò di essere finito in coda al gruppo. Si avviò per recuperarli e notò che anche la Nana avesse rallentato il passo. Probabilmente gli stessi suoi pensieri le avevano attraversato la mente. La affiancò in silenzio, osservandola per qualche tempo. «Se non conoscessi il coraggio degli Hobbit, dubiterei che siano stati loro a salvarci da Sauron.»

Era talmente assorta in quella verde vista di alberi e fiori che non lo aveva neppure sentito arrivare alle sue spalle, nonostante i suoi pesanti stivali schiacciassero rumorosamente qualsiasi cosa incontrassero. Trán non si aspettava che qualcuno le rivolgesse la parola senza prima annunciarsi; men che meno, si aspettava di trovare lui che tentava di conversare con lei. Quando lo percepì al suo fianco, che evitava di guardarla negli occhi parendo più interessato a dove metteva i piedi, Trán ebbe un inspiegabile tuffo al cuore, e non volle indagare sui motivi. Si rifiutò di dare la colpa al fascino misterioso del Nano, perché lei non si faceva incantare dalla mera fisicità di qualcuno; non da due occhi chiari eppure caldi come quelli, né da una voce bassa e roca come la sua. Ci voleva ben altro per affascinarla, e Thorin Scudodiquercia era tutto fuorché il Nano dei suoi sogni.

Almeno, era quello che continuava a ripetersi mentalmente per convincersene.

«Io non lo conosco, né riesco ad immaginarlo.» disse lei, ritornando al discorso. «Ho letto e udito tante di quelle orribili storie su Mordor che ho i brividi solo a ricordarle.»

«Non esattamente il genere di racconti adatto ad una femmina.»

«Sono nata in un ambiente maschile e non credo nelle fiabe. La realtà è ben altra cosa.»

Thorin, suo malgrado, si trovò d’accordo con lei. Si schiarì la gola, secca come la notte in riva al fiume. «Tu e tuo fratello non avete del lavoro da compiere?»

«Non mi troverei qui se il dovere mi chiamasse, mio signore.»

Camminarono uno affianco all’altra ancora per qualche minuto, senza parlare; ma fu nuovamente il Re a prendere parola. Nonostante si fosse detto di non badare a lei, c’era qualcosa che continuava ad attrarlo, e nonostante ciò lo infastidisse oltremodo, non riusciva neppure a controllarlo. Anche per questo la detestava, perché sentiva che ogni suo sforzo risultasse vano in sua presenza. Lo debilitava, e lui non poteva permettersi, di sentirsi debole, né lo voleva. «La foresta è di tuo gradimento?»

Trán esitò un attimo, prima di rispondere, ponderando le parole. «Molto, mio signore; ma non mi sentirò a mai a casa, a differenza di quando sono circondata dalle pietre di una montagna.» Si voltò a guardarlo, non riuscendo a resistere. Sorrise, con aria furba. «Era questo che volevi sentirmi dire, mio signore?» Si accorse troppo tardi di aver parlato senza prima pensare, come spesso le capitava. Avevano avuto una delle poche conversazioni civili dopo la partenza da Erebor, e aveva rovinato tutto solo a causa del suo dannato e sarcastico orgoglio, che quasi faceva concorrenza a quello del Nano. Socchiuse le labbra per scusarsi, ma il Re fu più lesto.

Thorin assottigliò gli occhi chiari; la rabbia che aveva lasciato in un angolo ora riprendeva ad ardere e si diede mentalmente dello stupido. Non ci sarebbe stato modo, né in quella vita né in un’altra, di poter conversare con lei senza che gli mancasse di rispetto. «No, mi attendevo una risposta sincera ad una semplice domanda. Ma a quanto pare hai più sangue di Elfo di quanto mi aspettassi.»

I buoni propositi che si era prefissata svanirono velocemente quando udì quelle parole e risentì mentalmente ciò che lui aveva detto solamente quella mattina e che aveva tentato di dimenticare con tutte le forze. Credeva che, dopo l’incidente della freccia e la tranquilla nottata a nuotare, le cose fossero cambiate tra loro, eppure apparentemente non era mutato niente. Le sue labbra e i suoi occhi sorrisero con troppa enfasi, per nascondere gli occhi lucidi per l’affronto. «Ma certamente, a noi meticci piace mentire. Ora, se non ti dispiace gradirei lasciarti; non vorrei che una creatura infima come me possa influenzarti negativamente, sire Thorin.»

Il Nano fermò i suoi passi, incredulo e schiaffeggiato da quel tono di voce stizzito e ferito, chiedendosi cosa diamine fosse successo in quei secondi. Lei ne approfittò per raggiungere il fratellino, che prese per mano per ritrovare un po’ di calma perduta.

Thorin si ritrovò a stringere i pugni con forza senza quasi accorgersene. Mai, mai nella sua lunga vita aveva incontrato una persona – una femmina – che osasse rispondergli e tenergli testa con così tanto orgoglio e così tanta calma. Solo Dwalin, Balin e Gandalf avevano il coraggio e l’autorità per farlo, i primi in quanto suoi migliori amici, il terzo in quanto saggio; chiunque altro sarebbe stato punito severamente per la propria impudenza.

Ma lei?

Lei non sembrava preoccuparsi delle conseguenze che le sue parole potevano avere. Quella ragazzina lo fronteggiava come faceva con il fratello, e questo non poteva accettarlo. Così come non poteva e non doveva trovarlo intrigante.

«Mi dispiace dirtelo, ma questa volta te la sei cercata.» gli disse Dwalin, quando lo raggiunse.

L’espressione di Thorin passò dallo stupore all’ira. «Io? Lei mi ha mancato di rispetto, per l’ennesima volta. E sarebbe colpa mia

«La ragazza ha carattere.» mormorò Dwalin, come se si vergognasse delle sue parole. «E per questo ti somiglia più di quanto non creda, Thorin. Ha solo l’udito è più fine del tuo.»

«Me ne sono accorto.» borbottò il Re. «Le farei tagliare la lingua, se solo fosse mia suddita.»

«Ah, non lo faresti.» Dwalin ghignò. «C’è finalmente una donna che è capace di metterti in riga, non lo permetterei.»

Thorin mandò gentilmente a quel paese l’amico e riprese a camminare, improvvisamente infastidito dall’aria umida della foresta, da quel profumo di fiori ed erba fresca, dagli insetti che gli ronzavano intorno, dalle voci degli Elfi che cantavano da qualche parte, nascosti tra gli alberi. Non vedeva l’ora di uscire da quell’infernale ammasso di piante, e maledì gli Uomini che avevano deciso di vivere lì come la razza che tanto odiava. Ma si rese conto che i Raminghi non avessero colpe, né tantomeno la foresta che li accoglieva; era colpa del suo umore nero se persino il suo stesso respiro lo stava irritando.

Doveva ammetterlo, le sue erano state parole velenose e la fortuna non lo aveva certo protetto, cosicché quella mattina lei lo aveva udito; chiamarla infima era stato forse un’esagerazione, ma temeva davvero che i nipoti potessero allontanarsi da lui, anche se persino il suo dannato egoismo si rendeva conto che il pensiero fosse alquanto infondato. Ma non si sarebbe scusato, men che meno si sarebbe rimangiato ciò che aveva insinuato sugli Elfi: non solo erano dei codardi, ma erano anche abiti mentitori. Finché lei non avesse mostrato un po’ più di riguardo nei suoi confronti, allora anche lui si sarebbe comportato di conseguenza.

Il pomeriggio trascorse troppo lentamente per i suoi gusti. Non prestava più attenzione a  quello che lo circondava, né alle parole dei due fratelli di Gondor mentre gli raccontavano la storia di quel posto. Tutto ciò che la sua immaginazione riusciva a pensare era un modo per farla pagare alla ragazza – e tutte le idee che gli venivano in mente non erano propriamente ortodosse.

Si ritrovò nella residenza dei Signori dell’Ithilien prima ancora che potesse rendersene conto, e tirò un sospiro di sollievo nel vedere che la Nana si allontanò verso la sua stanza. Fecero i turni per farsi un bagno ristoratore prima della cena, e sperò che la sensazione dell’acqua calda e profumata sulla pelle lo aiutasse a rilassare muscoli e mente; ma non ebbe l’effetto sperato, poiché l’unica cosa a cui riusciva a pensare era la sagoma di quella ragazzetta intirizzita che gli si avvicinava in acqua, imbarazzata ed infreddolita. Perché non poteva sempre essere così accomodante e vulnerabile? Gli avrebbe risparmiato parecchio nervoso.

Ma forse non l’avrebbe trovata così interessante.

La cena fu servita un’ora più tardi nella medesima stanza del pranzo, e per loro sfortuna dovettero accettare nuovamente le deliziose insalate degli Elfi; per fortuna i Raminghi avevano cacciato due bei cinghiali, cosicché il loro stomaco gioì e si riempì fino a scoppiare. I Nani erano sempre stati dei grandi compagni di bevute e mangiate, e l’aria si rallegrò velocemente, tra qualche boccale di vino e di birra. L’unica persona che pareva contare i minuti che la separavano verso una buona dormita era Trán, che non osò alzare lo sguardo dal piatto per paura di incontrare un paio di occhi azzurri e laceranti e permettergli così di vedere la tristezza che lui stesso le aveva causato. Ma ogni schiamazzo venne interrotto nel momento in cui Faramir si alzò dal suo posto e sollevò un calice al cielo.

Boromir osservò il fratello con curiosità, chiedendosi a cosa volesse brindare.

«Miei cari ospiti, come già feci questa mattina, vorrei rinnovare la grande gioia nell’avervi qui, nella mia bella terra; mi rincresce di aver scoperto la compagnia dei Nani solo ora, ma meglio tardi che mai.» Quelli applaudirono e brindarono alla sua salute, ma il Capitano dei Raminghi li zittì ancora una volta, sorridendo come se fosse la felicità in persona. «Vorrei inoltre condividere con voi una notizia che ho appreso solo qualche giorno fa, e che ho atteso con trepidazione di annunciare, poiché volevo che anche mio fratello fosse presente.» Al suo fianco, Éowyn arrossì ed accettò la mano del marito per sollevarsi e brindare con loro. «Mia moglie, la splendida Dama di Rohan, aspetta il nostro primogenito.»

L’espressione di Boromir fu impagabile, e il fratello scoppiò a ridere per la gioia. I Nani e i Raminghi, d’altro canto, esplosero in ovazioni e canti, brindando anche alla salute della donna e del loro futuro figlio.

«Sto per diventare zio?» domandò il Sovrintendente, scioccato. «Sto per avere un nipote?»

«Tecnicamente tra circa sette mesi, mio caro fratellone.»

Si abbracciarono con forza, ridendo. Boromir si congratulò con entrambi, baciando il dorso della mano della donna e alzando anch’egli il calice al cielo. «A mio nipote! Che nasca e cresca forte come i suoi genitori!»

Thorin spostò lo sguardo su Fili e Kili. Conosceva la gioia che provava Boromir in quel momento, poiché egli stesso l’aveva provata per ben due volte quando aveva scoperto che Dís fosse incinta. Aveva imparato ad amarli come se fossero stati figli suoi, e dopo la morte prematura del loro padre un poco lo erano diventati sul serio. Chiunque avrebbe potuto notare il modo in cui i suoi lineamenti severi si addolcissero ogni volta i suoi occhi si posavano sui suoi giovani eredi, di quanto la loro incolumità gli stesse a cuore e di quanto i loro modi chiassosi e allegri lo allietassero a sua volta, sebbene non lo desse a vedere molto spesso.

La festa continuò fino a tardi e i due fratelli di Gondor si allontanarono solo qualche minuto, per chiacchierare sulla novità della giornata.

«Non potevi darmi una notizia migliore, Faramir.» gli confessò il Sovrintendente, passandogli un braccio sulle spalle. «Sono orgoglioso di te, fratellino.»

«Grazie, Boromir. Avrei solo voluto che nostro padre provasse la gioia di diventare nonno.» Sospirò, ma allontanò i cattivi ricordi con una piccola provocazione. «Ma dimmi, sono il minore tra i due e sono il primo ad essersi sposato e il primo ad avere prole. Cosa stai aspettando?»

L’altro scosse il capo, conscio che si sarebbe dovuto aspettare una domanda simile. «Non è il momento adatto per mettere su famiglia.»

«No, dici? Siamo in tempo di pace, Boromir. Quando sarebbe il momento migliore?»

Si fermarono su una terrazza, osservando la foresta dei colli davanti a loro. Il pensiero di Boromir volò a Minas Tirith, dove Brethil probabilmente stava già riposando in vista della nuova e stancante giornata. L’immagine di una famiglia con lei era fin troppo bella per essere vera e gli pareva solo un sogno lontano. Era vero, la pace regnava su Gondor, anche se giungevano notizie inquietanti da Est; ma lui doveva occuparsi di Osgiliath e lei non aveva intenzione di diventare madre e lasciare il suo posto accanto ad Aragorn – di questo era più che certo. «Ci sono ancora troppi intoppi tra me e Brethil.»

«Vi amate, Boromir. Non ho mai visto una coppia più unita di voi. A cosa ti riferisci?»

«Siamo due soldati, io e lei.» mormorò. «Ci siamo promessi di sposarci, un giorno non troppo lontano. Ma i nostri impegni ci stanno tenendo distanti, così come distante mi sembra quel momento.» Poi sorrise. «Ma non oscuriamo la lieta notizia con i miei timori, fratellino. Dobbiamo festeggiare... sarai padre.»

Faramir rise, mentre tornavano al banchetto. «E che i Valar mi aiutino!»

 

 

*

Lo chiameremo Zio Boromir, infine! Ayeee!

E Thorin e Trán si ostinano a comportarsi come bambini. Io ve lo dico, occhio che tra poco i due scoppiano. ;)

Alla prossima settimana! Si va a Minas Tirith, finalmente!

Un abbraccio!

E buona domenica!

Marta.

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Capitolo 8
*** 08. ***


Ehilà, lettori e lettrici!

Sono reduce da una settimana sfiancante, ma è quasi finita. *_*

Ho anche trovato il tempo di finire di scrivere il quindicesimo capitolo (oh, se solo sapeste...) e mi sono resa conto che questo racconto sarà un po’ più lungo di Betulla.

Forse arriverò ad una ventina di capitoli... credo. :P

Intanto vi lascio all’ottavo! Finalmente si giunge a Minas Tirith... altri ed interessanti incontri sulla via! :)

Grazie mille a tutti coloro che leggono e seguono questa cosa - e siete tanti!

Vi adoro.

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

08.

14 Settembre 3019 T. E.

 

Richiuse la porta alle sue spalle con un tonfo, così forte che fece tremare i cardini e la sua dama di compagnia Rainiel, che l’attendeva in camera. Era l’unica ragazza che le era stata accanto, da quando era giunta a Minas Tirith, tanti mesi addietro. Ricordava ancora il suo viso chino mentre la petulante Ioreth le blaterava ordini per darle una sistemata e farla sentire a suo agio.

«Mia signora Brethil, sei di cattivo umore. Anche oggi.» constatò la giovanetta, che prese la spada che la donna le porgeva e la riponeva con cura sulla cassapanca. Non aveva ancora perso l’abitudine di aggiungere quella scomoda formalità davanti al suo nome.

La Prima Guardia del Re si massaggiò le tempie con i polpastrelli, stanca. Si lasciò cadere sulla poltrona e piegò il capo all’indietro, osservando la volta a crociera in pietra. «No, sono di pessimo umore.»

«Me ne vuoi parlare mentre mi preoccupo di farti rilassare?»

L’altra scosse il capo. «Non sarà un bagno a farmi calmare, amica mia. Ma ti ringrazio.»

«Vuoi che me ne vada?»

«No!»

Rainiel sobbalzò per quella risposta improvvisa e più alta di un’ottava.

Brethil si passò una mano sulla fronte, abbassando il tono di voce. «No, ti prego, rimani. Sei l’unica persona che mi tenga realmente compagnia, da quando tutti sono partiti.»

La domestica si sedette sul bordo del letto, intrecciando le mani sul grembo. «Anche a me mancano i Mezzuomini. Sai, uno di loro veniva spesso a trovarmi. Meriadoc, si chiama. Mi raccontava tante di quelle storie sulla sua bella Conta!»

Si ritrovò ad annuire, senza però condividere appieno i suoi pensieri. Non erano solo gli Hobbit ad aver lasciato un vuoto nel suo cuore; certo, Pipino era diventato un grande amico e le mancava ascoltarlo ridere e scherzare, nonostante la Guerra fosse alle porte. Ma quel buco nero lo avevano lasciato anche i gemelli di Elrond, che avevano l’incredibile capacità di rischiararle la giornata peggiore, come quella; le avevano promesso di tornare, ma l’ora della loro decisione stava giungendo e avrebbero capito presto se avrebbero seguito la loro stirpe fino alle Terre Immortali, o se rimanere lì, con gli Uomini.

Le mancavano i Raminghi, la loro vita avventurosa, il profumo della foresta, i suoi suoni.

E lui.

Le mancava Halbarad.

Non si sarebbe mai abituata all’idea che se ne fosse andato per sempre; così come non si sarebbe mai perdonata il fatto di non aver capito che l’uomo del suo ultimo, terribile sogno premonitore fosse lui.

Avrebbe potuto salvarlo.

Avrebbe potuto tirargli un calcio per scostarlo da quell’ascia mortale.

Avrebbe preferito ritrovarsela lei conficcata sul petto, almeno non avrebbe dovuto patire tutte quelle pene per la sua perdita; almeno lui sarebbe stato al suo posto, il giusto posto per la sua amicizia e la sua devozione nei confronti di Aragorn.

Lui avrebbe dovuto indossare la divisa della Prima Guardia del Re, non lei.

E poi c’era quella opprimente sensazione che la stava torturando, che continuava a stringere la presa impedendole di respirare liberamente. Ma era una sensazione che doveva scacciare al più presto, per prendere coscienza di ciò che era diventata. Perché se avesse dato libero sfogo alle sue paure, a ciò che desiderava realmente, allora avrebbe ferito il cuore di molti – il suo in primo luogo.

«Il Sovrintendente non passerà per una visita, quando i Nani verranno qui, oggi?»

Brethil si risvegliò dai suoi pensieri al solo suono di quell’appellativo, e sentì chiaramente le guance diventare rosse, nonostante se lo fosse impedita. «No, i suoi impegni gli impongono di tornare ad Osgiliath. Non tornerà tanto presto.»

«Vorresti raggiungerlo, ma non puoi.»

Scosse la testa, sospirando. «No, non posso. E devo farmene una ragione. Mi annoierei comunque, lì; non ci sarebbe niente da fare se non guardare un gruppo di Nani che ricostruisce una città.»

«Sembra entusiasmante, invece!»

Brethil rise. «Credo che ne avrai abbastanza di Nani per i prossimi mesi, amica mia.»

Le campane di mezzodì rintoccarono in quel momento, interrompendo la pausa delle due donne e riportandole alla vita reale. Rainiel avrebbe dovuto raggiungere le cucine per l’imminente pranzo, mentre l’altra avrebbe dovuto dare il benvenuto ai nuovi arrivati. Si preparò velocemente, assicurandosi la cintura con la spada sulla vita, stringendo la spilla al mantello e prendendo un bel respiro prima di raggiungere il Palazzo Reale. Lanciò un’occhiata dal parapetto del Sesto Cerchio e riuscì a scorgere il gruppo di ospiti giungere dal Cancello Sud, ormai a metà strada dalla città.

Se Boromir avesse potuto vedere Minas Tirith quel giorno ne sarebbe andato orgoglioso: bandiere a festa, fiori profumati e musica si spandevano per tutti i livelli, e l’aria di rilassatezza e gaiezza per l’arrivo dei Nani era palpabile anche chiudendo gli occhi. Del resto, quella comitiva giunta dal lontano Nord aveva il compito di riportare le loro case agli splendori iniziali; per non parlare del loro lavoro più grande che avrebbero dovuto compiere e che consisteva nel nuovo cancello d’ingresso alla città, abbattuto dall’enorme ariete degli Orchi e ora sostituito da uno momentaneo in legno.

«E dobbiamo accogliere non uno, bensì due Re.» stava dicendo Aragorn, una volta che lo raggiunse nella Sala del Trono, dove attendeva la moglie.

«Tre galli in un pollaio, dunque.»

Il Dúnadan rise di cuore. «Fintanto che ognuno governa il proprio regno, non vi è nulla da temere.»

«Temo per il collo di Legolas, invece. Sempre che abbia superato questi giorni.» fece Brethil. «Fortuna che Elladan ed Elrohir non saranno presenti, altrimenti la carneficina sarebbe stata assicurata.»

«E per quanto concerne il mio collo?» domandò la Regina, apparendo silenziosamente, con un bellissimo sorriso divertito sulle labbra. Indossava un abito verde, tempestato di piccole gemme bianche e brillanti come i suoi occhi, così come di gemme erano intrecciati i lunghi capelli neri. Prese sotto braccio il marito e si sorrisero.

Brethil si chinò. «Mia signora. Il mio lavoro è quello di proteggerti; puoi star certa che stanotte e quelle successive dormirai con il capo ancora attaccato al corpo, mia Regina.»

Le due donne si scambiarono un sorriso, sebbene la figlia di Aeglos fosse ancora riluttante a parlare confidenzialmente con Arwen, che era così bella e così eterea da darle l’impressione di non avere il diritto neppure di guardarla in viso. Aragorn si era innamorato, ed aveva spostato, certamente la creatura più bella che la Terra di Mezzo avesse mai partorito.

Le trombe di benvenuto suonarono e Brethil si mosse verso l’ingresso, seguita a poca distanza dai regnanti e da una piccola scorta di soldati. Aggirarono un grande tavolo rotondo, su cui Rainiel e altre domestiche erano intente a curare gli ultimi dettagli, e si diressero verso l’ingresso della Sala del Trono.

 

 

Thorin, Dáin e i loro compagni più stretti erano senza parole, nel camminare per le vie di Minas Tirith. Quando si erano trovati all’ingresso della città si erano dovuti fermare qualche minuto, il naso rivolto all’insù per capacitarsi della magnificenza e della grandezza di quella capitale – e la vertiginosa Torre di Ecthelion, che si stagliava contro il cielo limpido.

E ora Gimli e Legolas li stavano conducendo su, sempre più su, attraverso quelle strade lastricate e ripide. Uomini e donne si fermavano sull’uscio di casa, interrompendo i loro compiti per salutare i nuovi arrivati con fiori e lodi. Per i Nani quella città era uno spettacolo di bellezza; sebbene non fosse una miniera e la luce del sole la facesse risplendere di bianco, quella era un’opera in pietra mastodontica – e ciò li sorprese molto, poiché mani di Uomini, e non di Nani, l’avevano costruita. Gli edifici abilmente progettati e realizzati si arrampicavano lungo il fianco del Mindolluin con grazia, in uno stile elegante e tipicamente Umano, ma che suggeriva la forza che quella stessa città aveva dovuto mostrare per sopravvivere alle guerre più sanguinose.

Durante il viaggio di ritorno dagli Emyn Arnen, Boromir aveva raccontato loro parte della storia della Città di Pietra, e loro lo avevano ascoltato affascinati – non solo per il racconto in sé, ma anche per le sue parole intrise di amore e fierezza.

«In principio fu Minas Anor, Torre del Sole Calante,» aveva detto, ricordando ciò che aveva imparato sui libri e i racconti del defunto padre, durante la sua gioventù. «... e venne edificata dai Númenóreani esiliati nella Seconda Era, nell’anno 3320 per proteggere la Capitale di allora, Osgiliath. Era bella e potente, sfacciatamente rivolta verso il male di Mordor, che tanto ha tentato di debilitarla. Il Nimloth, l’Albero Bianco giunto dal Reame di Númenor, crebbe qui, simbolo della Stirpe dei Re; appassì quando questa si estinse; eppure un figlio germogliò dopo il ritorno del Re, e ora cresce rigoglioso nella corte della Cittadella. Minas Anor divenne Minas Tirith, Torre di Guardia, e venne trasformata nella Capitale di Gondor solo quando il sovrano Tarondor, nel 1690, spostò la residenza dei Re da Osgiliath, che scarnita di molte difese fu soggetta a numerosi attacchi – e da allora, purtroppo, cadde in rovina, come avete avuto la possibilità di vedere.»

E aveva continuato con epici racconti di battaglie che l’avevano insanguinata, ma mai fatta cadere in ginocchio. Thorin riconobbe se stesso in quell’Uomo orgoglioso del suo popolo e del suo operato, e non poté evitarsi di sorridere e chiudere gli occhi, immaginando la grandezza della città nei suoi periodi di gloria e di dolore, proprio come la sua tanto amata Erebor.

Fecero una breve tappa al Sesto Cerchio, dove i nobili tra i Nani avrebbero alloggiato, e raggiunsero finalmente la Cittadella; alcuni di loro fischiarono nel trovarsi ai piedi della Torre Bianca.

«Ho l’orribile sensazione di essere basso.» fece Kili.

«Fratello, tu sei basso. Sei un Nano, lo hai dimenticato o sei in crisi d’identità?»

«È troppo alta anche per un Elfo, giovani Nani.» fu il commento di Legolas. I due, nonostante tutto, si sentirono sollevati. «E quello che vedete è l’Albero Bianco, di cui Boromir vi ha raccontato, e che Re Elessar trovò qualche tempo fa in germoglio.»

I Nani si avvicinarono alla pianta, profumata e rigogliosa. Non avevano mai visto un albero come quello, bianco come le pietre della città, da cui sembrava nascere, apparentemente esile ma emanante una forza incredibile. La forza del Re.

La loro attenzione fu catturata poco dopo dal cigolio di un pesante portone che si apriva.

Quando la porta della Sala del Trono si spalancò e comparve la Prima Guardia del Re, seguita da un gruppo di soldati che si schierò a formare un corridoio umano, i Nani rimasero immobili e interdetti per una bella manciata di secondi. Non solo il cavaliere che si fece avanti non era un uomo, nonostante avesse corti capelli neri e delle orribili cicatrici sul viso; era vestita con la ricca divisa blu e argentata di Gondor, la stella dei Raminghi del Nord in bella vista sulla spalla sinistra, eppure possedeva una spada di evidenti fatture elfiche sul fianco. Ciò che quella donna rappresentava era un miscuglio di storie e popoli che li lasciò sinceramente stupiti.

«Benvenuti a Minas Tirith. Il mio nome è Brethil, figlia di Aeglos, Dúnadan del Nord, e sono la Prima Guardia del Re. Egli vi attende con la Regina.»

Dwalin fu il primo ad esprimere il pensiero di tutti ad alta voce. «Una femmina? Il Capitano della Guardia Reale è una femmina? È per caso uno scherzo?»

«Mai stata più seria di così, mastro Nano. E posso assicurarti che questa è vera quanto le vostre.» disse Brethil, indicando con gli occhi grigi prima la sua spada e poi le loro armi. «Di cui, a proposito, farete a meno per oggi.»

Thorin lanciò un’occhiata alle spalle di Legolas e notò i due lunghi pugnali e l’arco con la faretra piena. «Perché io dovrei privarmi della mia ascia e della mia spada, quando lui è armato? Il Re si fida più degli Elfi piuttosto che dei suoi ospiti?»

Brethil, che aveva già rivolto le spalle ai Nani, tornò sui suoi passi, fermandosi di fronte a colui che aveva parlato. Nonostante la donna fosse più esile anche se più alta del Nano, parve crescere in fierezza e regalità. «A meno che tu non voglia usare la tua ascia come forchetta, ti consiglio di lasciare l’armamentario sull’ingresso; così come farà anche l’Elfo.» Il suo volto poi si distese. «Non è per sicurezza, né per una questione di fiducia. Sia io che lui sappiamo bene che nessuno di voi tenterebbe di fare qualcosa di azzardato. Semplicemente, il pranzo è pronto.»

Thorin girò lo sguardo su Kili, che gli aveva tirato una manica per attirare l’attenzione. «Sai, zio? Sto seriamente iniziando ad amare gli Uomini e i loro banchetti.»

«E anche le Prime Guardie del Re, se sono tutte così.» replicò Fili, ridacchiando.

Legolas gli si affiancò, ignorando il grugnito contrariato di Thorin. «Misura le tue parole con lei, mastro Nano; ho visto Uomini umiliati per molto meno.»

L’altro non sembrò preoccuparsi. «Ah, mi piacciono battagliere!»

«Ti piace perdere, dunque?» domandò Brethil. Nonostante il tono serio, le sue labbra si piegarono in un sorriso.

Quello non si scoraggiò, alzando il mento. «Affatto, poiché sono un buon guerriero e gentiluomo, e difficilmente vengo sconfitto. Ma se giovasse al tuo umore, allora sarei pronto a cederti la vittoria.»

«Non essere così generoso, perché io non lo sarò.» replicò lei. «Uno di questi giorni ci incontreremo nell’arena di allenamento, e allora vedremo se le battagliere ti piaceranno ancora.»

«Sembri molto sicura di te, mia signora.» commentò Thorin. «Ho allenato personalmente mio nipote, ma se la tua spada affonda e taglia come la tua lingua, allora rischia seriamente l’umiliazione.» Era profondamente colpito dal temperamento della donna. Non aveva mai sentito, nella sua lunga vita, di una femmina che facesse parte dell’esercito – e addirittura fosse la Guardia del Re in persona! – tranne l’Elfo Tauriel, di cui ricordava bene il suono dei pugnali e il sibilo delle frecce. Ma le voci sull’Elessar parlavano di un Uomo giusto e ponderato, il ché gli faceva pensare che la sua bizzarra scelta fosse più che imparziale.

«Sembra interessante... qualcuno vuole scommettere sul Capitano?» chiese Kili, che si beccò un amorevole scappellotto dal fratello.

Brethil interruppe i loro discorsi poco dopo, quando si ritrovarono nell’imponente Sala del Trono, in cui i sovrani sedevano in loro attesa. «Signori, il Re Elessar e la Regina Arwen Undómiel.» disse, inchinandosi su un ginocchio al loro cospetto e imitata dagli altri.

Nessuno di loro, neppure i più giovani, osarono parlare di fronte alla bellezza dei due – e della Regina in particolare. Poiché, sebbene la Stella del Vespro appartenesse a quella razza che tanto odiavano, non potevano negare la sua grazia e il suo splendore.

Nonostante Aragorn non indossasse il completo migliore e avesse preferito lasciare la corona nei suoi alloggi, Thorin riconobbe in lui i Re di un tempo, altero e regale nella sua grande saggezza. Anche lui, come quell’Uomo, aveva preferito evitare di indossare l’ornamento che lo indicava come regnante; e capì che entrambi non ne avessero bisogno. Erano stati Re prima ancora dell’ufficializzazione, guidando il loro popolo da parecchi anni prima. Lo guardò mentre gli veniva incontro, sereno e sorridente.

«Benvenuti nella mia casa, amici miei, che ora è anche la vostra. Possano i vostri giorni qui essere ricordati lietamente.»

Thorin annuì, rialzandosi. «E lo saranno, mio signore, perché quel poco che ho avuto la possibilità di vedere, mi fa anche ben sperare.»

Aragorn sorrise e chinò il capo ogni qualvolta uno di loro si presentava. Quando anche l’ultimo dei Nani terminò con il consueto “al tuo servizio” , indicò loro il pranzo. «Prego, accomodatevi a tavola e discorriamo un po’ del vostro lungo viaggio e della Montagna Solitaria, se vi aggrada. Sono curioso di sentire la vostra storia, piuttosto che leggerla tra le pagine di un libro.»

La scelta del tavolo rotondo non passò inosservata ai due sovrani Nanici: non vi era un seggio più grande dell’altro, né la possibilità di sentirsi più o meno importanti a seconda del posto che si sceglieva. Chiunque, al cospetto del Re di Gondor, era considerato un suo pari; lui stesso chiese loro di chiamarlo semplicemente Aragorn, poiché quello era il nome che gli avevano dato alla nascita e le formalità non erano ben accette tra i suoi amici.

Thorin prese posto accanto a Dáin e Dwalin, stando ben lontano dall’Elfo, che invece si sedette al fianco di Gimli e della donna con le cicatrici in viso. Osservò i commensali e quasi si stupì nel rendersi conto che la mezza Nana e i suoi fratelli, che avevano gironzolato tra i suoi piedi per così tanto tempo nelle ultime settimane, non fossero presenti.

Il pranzo fu ovviamente ricco di prelibatezze, e per parecchi minuti nessuno parlò, troppo occupati a masticare e ingoiare carni arrosto e patate.

«Non mangiavo un maiale così saporito da quando il mio cuoco morì, dieci anni fa.» commentò Dáin, dopo aver svuotato la coppa di vino in pochi sorsi.

«Neppure Bombur saprebbe fare di meglio.» continuò Fili, annuendo.

Kili rise. «Beh, saprebbe come finirlo.»

«Non sfidarmi, ci riesco benissimo anche io!»

Brethil osservò i due e le parve di vedere Merry e Pipino che cianciavano allegramente di cibo e birra. Si ritrovò a sorridere senza quasi rendersene conto, mentre il senso di nostalgia sembrava alleviarsi lievemente.

«Il Sovrintendente ci ha informati che ci sono ancora problemi con gli Esterling. Noi stessi abbiamo subito un paio di attacchi, durante il viaggio.» disse Thorin, riportando l’attenzione su lidi ben più seri. «Credevo che si fossero arresi e dichiarati neutrali.»

«Purtroppo non tutti hanno deciso di sottostare al mio volere. Alcuni di loro stanno insorgendo, e sebbene la guerra abbia indebolito anche loro, temo che possano ricreare un esercito velocemente e attaccarci nel prossimo futuro. Presto giungeranno Imrahil di Dol Amroth, Dervorin della Valle del Ringló e Duinhir di Morthond, per discutere di un possibile viaggio verso la terra di Rhûn. E anche Re Éomer di Rohan si unirà nuovamente a noi, appena potrà permettersi di allontanarsi dal suo regno.»

Brethil, nell’udire quei nomi e le riunioni che ne sarebbero conseguite, sentì lo stomaco stringersi, ma evitò accuratamente di farne parola con Aragorn.

«Beh.» fece Gimli, rilassandosi sulla sua sedia. «Se sono Uomini saggi, decideranno di stare entro i loro confini. Altrimenti, se hanno dimenticato quando tagliente sia la mia ascia, sono pronto a rinfrescargli la memoria.»

«E se dovessero portare con sé un olifante, sarò felice di lasciarlo a te per pareggiare i conti.» aggiunse Legolas.

«Ah! Poco ma sicuro, Elfo. Riuscirei ad abbatterlo da solo con la forza delle mie sole mani, non come facesti tu, che ti prendesti i meriti sulle fatiche degli altri!»

Il resto dei Nani apparve stupito dall’amichevole scambio di battute tra i due, anche se Thorin, più che sorpreso, sembrava inorridito. Eppure Gimli e Legolas parevano legati da una sincera amicizia, e non riuscì a capacitarsi di come potesse essere accaduto. Il figlio di Glóin, che si agitava accanto a lui con disappunto, sapeva bene cosa la sua gente avesse dovuto vivere negli anni passati, senza l’aiuto che gli Elfi gli avevano negato; così come sapeva che suo padre era stato catturato e reso prigioniero proprio dall’Elfo che aveva accanto; tuttavia eccolo lì, a scherzare e a discorrere come è abitudine fare con un vecchio amico. Avrebbe dovuto parlare con il Nano a quattrocchi, per comprendere appieno le sue motivazioni; ma non era tanto sicuro di volerlo fare, né di capirlo.

Prima dell’ennesima portata di carne, che stava rallegrando gli stomaci di tutti, la conversazione volse velocemente sul lavoro che i Nani avrebbero dovuto compiere nelle settimane seguenti. Aragorn aveva messo a loro disposizione numerosi edifici da utilizzare come officine, fucine e botteghe, oltre un considerevole numero di alloggi, sparsi sui i vari cerchi, per il resto dei lavoratori – che tuttavia erano di gran lunga inferiori di numero rispetto a coloro che stavano già lavorando ad Osgiliath. Thorin si appuntò mentalmente che, dopo aver dato le direttive, si sarebbe recato subito alla forgia, la sua seconda casa.

«Sentitevi liberi di usare qualsiasi cosa come più vi aggrada, per lavorare meglio e sentirvi a vostro agio. Siete miei ospiti, ora, e come tali vi considero anche miei cittadini.» stava dicendo Aragorn.

«Pessima mossa, mio signore.» commentò Dwalin, con un lieve accenno di sorriso. «Mai dire ad un Nano di fare come se fosse a casa sua; siamo fin troppo in grado di prendere le tue parole alla lettera.»

L’Uomo rise. «Ebbene, fintanto che lavorerete per me, fate pure!»

Il pranzo si concluse qualche tempo dopo, con le chiacchiere che scemavano e la voglia di iniziare a lavorare che li pervase. Con un inchino, i Nani si congedarono. Dáin e Glóin si diressero insieme verso le stalle, per sellare i loro pony e tornare ad Osgiliath, dove avrebbero principalmente prestato il loro aiuto e la loro guida, e Gimli si offrì di accompagnarli; Thorin, Dwalin e Balin, seguiti dai fratelli Fili e Kili, andarono con loro, poiché avevano intenzione di dare un’occhiata al maestoso ingresso della città, per capire cosa e come avrebbero dovuto progettare. Brethil fu congedata per il pomeriggio, e si ritrovò in compagnia di Legolas; rimasero seduti all’ombra di un albero, in uno dei tanti giardini curati e profumati della città, al Quinto Cerchio.

Guardò l’Elfo con la coda dell’occhio, che osservava impensierito ed immobile il cielo tra le fronde dell’albero. Si chiese se stesse dormendo, poiché sapeva che coloro della sua razza non abbassavano le palpebre durante il sonno. E si domandò quanto ancora lui e il Nano si sarebbero fermati a Gondor.

Ma il Principe di Bosco Atro era decisamente sveglio e si voltò. «Il Male ha lasciato queste terre. Boromir è vivo, seppur lontano da casa. Aragorn ti ha onorato di un posto al suo fianco. Eppure il tuo animo è ancora colmo di cattivi pensieri. Dimmi, Brethil, se c’è qualcosa che posso fare per alleviare il peso che porti sulle spalle.»

Lei scosse il capo. «Ti ringrazio, amico mio, ma non c’è modo di aiutarmi, perché ciò che voglio non potrà tornare; e, in realtà, non so esattamente cosa voglio.»

Legolas la osservò profondamente e le parve che i suoi occhi azzurri divenissero più luminosi mentre le scrutava lo spirito. L’Elfo capì dove fosse il suo problema, ma non glielo disse; lei avrebbe dovuto fare chiarezza con se stessa e con le persone che amava. «Vorrei presentarti un’amica.» le disse, invece. Notò il guizzo di curiosità attraversarle gli occhi grigi, ma anche la perplessità incresparle la fronte e le cicatrici.

Brethil accettò una mano che lui le porse, per alzarsi e seguirlo. Non parlarono per il resto della passeggiata, mentre attraversavano con calma i vari livelli della città. Minas Tirith non ricordava l’ultima volta in cui i Nani l’avevano presa d’assalto, ed era quasi comico vederli girare e scansare gli alti Uomini di Gondor tra una strada e l’altra, imprecando in Khuzdul contro le loro gambe lunghe. Giunsero al Secondo Cerchio e si diressero alla bottega del fabbro. Brethil notò subito testa rossa sbucare dall’edificio, e Legolas la richiamò.

Un Nano, eppure tremendamente alto per i loro standard, si voltò al nome di Káel e rimase sorpreso nel vedere l’Elfo accompagnato da una donna in divisa. «Legolas, buon pomeriggio! Qual buon vento ti porta qui?»

«Sto cercando tua sorella. Sapresti dirmi dove posso trovarla?»

L’altro annuì, distogliendo lo sguardo dalle cicatrici della donna non appena si accorse di un paio di occhi grigi che lo stavano incenerendo. «Ma certo; è con Trión, terza porta a destra come entri.»

Legolas le fece strada e lei lo seguì, senza una parola. L’aria dentro quell’edificio si era fatta improvvisamente afosa. Dal corridoio che scendeva vertiginosamente proveniva un calore infernale, segno che le fucine fossero già al lavoro. Fortunatamente la stanza dove trovarono la sorella di Káel era provvista di un oculo sul soffitto, che faceva scorrere una piacevole corrente d’aria, e Brethil tornò a respirare. Seduta ad un grande tavolo, colmo di attrezzi per lavorare il ferro, stava una Nana – o quello che Brethil credette fosse – intenta ad intagliare dei minuscoli dettagli decorativi sulla superficie di un pugnale. Un’incudine e un martello, con un secchio colmo d’acqua, erano posizionati accanto al suo tavolo, e Brethil si stupì all’idea che quell’arma potesse essere stata forgiata da lei. Un Nano più piccolo, ma con la statura di un giovane Hobbit, sedeva in silenzio dall’altra parte del tavolo, intento ad osservare il minuzioso lavoro della sorella.

«Trán, perdona il disturbo.» fece Legolas, catturando l’attenzione della Nana.

«Nessun problema, entra e accomodati.» rispose lei, lanciando una veloce occhiata all’estranea. «Come posso aiutarti?»

L’Elfo sorrise e le indicò la donna. «Permettimi di presentarti il Capitano della Guardia Reale.»

La Dúnadan si fece avanti, non capendo ancora il motivo di quella visita. «Brethil figlia di Aeglos, al tuo servizio.»

«Trán figlia di Rulin al tuo, mia signora.» replicò la Nana, alzandosi e chinandosi.

Quando Brethil si voltò per chiedere spiegazioni a Legolas, l’Elfo era già sparito. Sospirò profondamente, tornando ad osservare la Nana, in piedi e in attesa che lei parlasse. Come se sapesse cosa dire, poi. Posò gli occhi sulla lama, momentaneamente dimenticata, e decise salvare quel silenzio imbarazzante con un banale “È opera tua?”.

«Sì, ho terminato di forgiarlo prima di pranzo.»

Brethil credette che continuasse a parlare, conoscendo la fierezza dei Nani riguardo le loro opere; ma la giovanetta non sembrava molto loquace. «Posso vederlo?»

«Ti fanno male? Come le hai fatte?» domandò il più piccolo, prima che la sorella rispondesse; nel frattempo si era avvicinato alla donna e, tirandole la manica della divisa, l’aveva costretta ad abbassarsi, per sfiorarle una cicatrice.

«Trión!» esclamò la sorella, portandolo via. «Non si chiedono queste cose.»

Brethil scosse il capo. «No, non mi fanno male. Almeno, non fisicamente.» disse, sorridendo al bambino. «Mi portano solo brutti ricordi.»

«Anche io ho una cicatrice!» esclamò lui, pieno di orgoglio nel mostrarle un lungo taglio sulla gamba sinistra. «Sono caduto tra gli attrezzi di lavoro di mio padre, ma sono sopravvissuto!»

«Oh, allora sei un ometto forte.»

Trán si rilassò, vedendo la gentilezza comparire in quel viso duro e deturpato.

Il fratello, d’altro canto, già l’adorava, e sorrise allegramente quando la donna gli scompigliò i capelli già lunghi. «Hai ucciso molti Orchi cattivi?» le domandò.

«Non ci sono Orchi buoni. Ma sì, la mia spada ne ha incontrati parecchi. Più di quanti ne volessi.»

«Un giorno anche io combatterò, come te e i miei fratelli!»

Brethil sorrise, scuotendo la testa. «Mi auguro per te che nel futuro non ci sia bisogno di soldati a difendere le città dagli Orchi. Ma sei coraggioso, questo è onorevole.» Alzò lo sguardo sull’altra ragazza, che era ancora in piedi intenta a guardarli. «Erebor o Colli Ferrosi?»

«La seconda.»

La Dúnadan strinse le labbra, sinceramente impacciata. Non riusciva a comprendere il motivo di quella visita inaspettata, e stava per togliere il disturbo. Ma fu fermata dalla Nana chiamata Trán.

«Puoi rimanere, se vuoi. Trión sembra gradire la tua compagnia.» le disse, le dita intrecciate nervosamente tra loro. «E una presenza femminile, qui, farebbe piacere anche a me, in realtà.»

Brethil ci pensò un poco, ma capitolò subito. Anche lei aveva bisogno di qualcuno con cui parlare, qualcuno che le facesse dimenticare per qualche istante i brutti pensieri e i doveri che aveva. Così si avvicinò al tavolo di lavoro, osservando da vicino l’operato della ragazza.

«È... è un regalo.» mormorò la Nana. «Per un paio di amici che ho incontrato lungo la strada. Probabilmente li hai conosciuti. Sono i nipoti del Re di Erebor.»

«Certo, li ho incontrati.» Brethil sorrise, prendendo posto sull’unica sedia libera da attrezzi. «Ho promesso a messer Fili che gli avrei mostrato quanto affilata sia la mia spada. Quindi, per favore, fai un buon lavoro con la sua. Ne avrà bisogno.»

Le due si scambiarono un’occhiata divertita e, prima che potesse rendersene conto, Trán era scoppiata a ridere. Non le riusciva difficile immaginare la sfacciataggine del maggiore dei fratelli, né l’eventuale umiliazione che avrebbe potuto subire da quella determinata e altera combattente.

Trán esaminò incuriosita la spada della donna. «Ho due pugnali di simile fattura. Me li inviò una mia lontana ava, da Rivendell. Ma non ho mai imparato ad usarli nella maniera corretta. Se vuoi... se vuoi, dopo, posso mostrarteli.»

«Ne sarei felice. E potresti chiedere a Legolas di allenarti. Gli Elfi Silvani non combattono solo con l’arco, ma i pugnali sono proseguimento naturale delle loro mani. Sarebbe un ottimo insegnante.»

L’idea che Legolas potesse spendere il suo tempo insegnandole a combattere la fece fremere di entusiasmo. Crescendo in un ambiente prettamente maschile aveva imparato a difendersi e ad attaccare con l’ascia e la spada, ma né l’uno e né l’altra arma erano di suo gradimento – e il suo orgoglio attribuiva le sue scarse doti proprio a questo motivo. Ma quei pugnali che la lontana parente le aveva regalato, tanti anni addietro, le erano sempre piaciuti.

«Lo farò, ti ringrazio. Tu come sei riuscita a diventare... beh, a diventare quello che sei? La Guardia del Re, per Mahal!»

Brethil non rispose subito, tornando indietro nel tempo di parecchi anni, quando ancora era una ragazzetta e il padre l’aveva portata al cospetto di Aragorn, per farle pronunciare il giuramento e ricevere la tanto amata spilla argentata a forma di stella.

 

Se con la vita o con la morte

posso servire te e la Stella di Arnor, allora io,

Brethil figlia di Aeglos, Dúnadan del Nord, lo farò.

Offro la mia spada, il mio arco e la mia vita

al servizio del perduto Númenor,

per difendere le terre che ci appartengono

e gli amici che richiedono il mio sostegno;

e giuro su ciò che di più caro ho al mondo

di servire i miei compagni con lealtà, devozione e fiducia,

da questo momento fino al giorno della mia morte.”

 

Con lealtà e fiducia, ripeté mentalmente.

Quasi le scappò da ridere, beffeggiandosi per ciò che aveva commesso liberando Gollum, calpestando i suoi doveri e la stima dei suoi compagni, mentendo, scappando come una codarda e nascondendosi sotto un cappuccio grigio. Quando aveva pronunciato quelle frasi era più che convinta che mai, e poi mai, in nome del suo onore sarebbe venuta a meno della sua parola, perché credeva ciecamente in ciò che stava diventando.

Invece, era riuscita a sorprendere anche se stessa.

«Mia signora Brethil?»

Sbatté le palpebre velocemente, riprendendosi dai suoi pensieri e tornando alla realtà. «Servo il mio Re da quando ho memoria. Facevo... e faccio ancora parte dei Raminghi del Nord.»

Trán strabuzzò gli occhi. «Sei una discendente di Númenor?»

L’altra annuì, e improvvisamente la Nana capì da dove provenisse l’aura di alterigia e regalità che aveva subito notato. Era più che sicura che persino con degli stracci vecchi non avrebbe perso la fierezza del suo sguardo. Poi si ricordò della tomba che avevano incontrato nel cammino per gli Emyn Arnen e delle parole di Legolas. «Conoscevi un certo Halbarad?» Si pentì immediatamente di aver posto quella domanda, perché gli occhi della donna saettarono su di lei con un dolore talmente intenso che la lasciò senza fiato. «Scusa, sono stata una sciocca.»

Brethil si alzò, muovendo distrattamente qualche passo e osservandosi intorno, senza realmente vedere. «Fu il mio mentore e un secondo padre. Non sarei qui se non fosse stato per lui.»

Trán non capì se si riferisse al suo posto accanto al Re, o se invece volesse intendere qualcos’altro di più concreto. Il Ramingo Elegost aveva detto che Halbarad fosse caduto per salvare la vita di una cara persona; che si trattasse di lei? Non ebbe il cuore di chiederglielo.

Fu quando il Capitano si voltò per rassicurarla con un lieve sorriso, che capì quanto stesse ancora soffrendo, nonostante riuscisse a nascondere il dolore con maestria. E la voglia, la tremenda voglia di darle sostegno si impossessò di lei, come mai le era accaduto, poiché meglio di chiunque altro conosceva e capiva quella sensazione asfissiante che stringeva il cuore. Il lutto era il nemico peggiore da sconfiggere, e non era neanche sicura che esistesse un metodo per farlo. Non aveva mai stretto amicizia con una femmina, poiché le poche che aveva incontrato ai Colli Ferrosi vedevano bene di girare il più possibile lontano da lei e dalla sua famiglia. Ma quella donna... Brethil poteva meritarsi la sua fiducia e la sua amicizia, lo sentiva.

Così si alzò, senza pensarci troppo, e fece la prima cosa che le venne in mente.

L’abbracciò.

 

 

*

Ebbene, finalmente gli incontri che più attendevo: Brethil e i Nani, e Brethil e La Nana; entrambi avvenimenti parecchio importanti, soprattutto per le due donzelle.

Ho voluto dedicare un capitolo intero alla memoria di Halbarad, che come sapete (e in caso contrario, ora vi sarà chiaro) amo profondamente.

Nel prossimo capitolo ci sarà un punto di svolta nel rapporto tra Trán e Thorin, che in questo non hanno interagito.

E tenetevi forte, perché le cose, per Gondor, precipiteranno presto. Oh, yeah. ;)

Alla settimana prossima!

E un grazie in anticipo a chiunque leggerà, commenterà – insomma, a voi. :)

Marta.

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Capitolo 9
*** 09. ***


Buon salve a tutti!

Con immensa gioia posso affermare di aver concluso il sedicesimo capitolo, che fino ad ora è stato quello più complicato e corposo – ma non certo l’ultimo.

La bella notizia è che, se sono riuscita a scrivere quello, posso portare a termine tutto. XD

Vi lascio alla lettura del nono, nel frattempo – in cui due Nani di nostra conoscenza se le canteranno di santa ragione (di nuovo e forse una volta per tutte!), una donna a caso ha ancora crisi esistenziali e qualcuno si diletta in spionaggio. :P

Grazie di cuore a tutti coloro che mi seguono!

Un caro saluto,

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

09.

15 Settembre 3019 T. E.

 

Anche quella giornata si prospettava luminosa e tiepida, e Trán sorrise mentre si dirigeva all’officina con il fratello. Le era sempre piaciuta la luce del sole, e amava stare all’aria aperta piuttosto che circondata dalle mura tenebrose della sua città. Ciò giovava molto sul suo umore, perché sentiva l’allegria e la voglia di lavorare impossessarsi di lei, ma le faceva guadagnare anche profonde occhiate di stupore e astio da parte dei suoi consanguinei. Quale Nano, infatti, riusciva a sentirsi a suo agio alla luce del sole?

Káel, che camminava al suo fianco con una mano tra la sua, questo lo sapeva bene, e non perdeva occasione per approfittarne e stuzzicarla. Così la trascinò di corsa per la strada tortuosa che portava al Secondo Cerchio e risero come facevano da bambini, quando non avevano alcun brutto pensiero per la testa, ma solo la voglia di divertirsi. Ogni gaiezza sparì nel momento in cui raggiunsero la fucina, poiché si ritrovarono al cospetto del Nano che più di tutti sembrava quello meno incline al baccano.

Thorin, privo del suo regale abbigliamento per lasciar spazio alla comodità di una camicia blu rimboccata sui gomiti, si voltò ad osservarli, interrompendo il suo lavoro all’incudine.

«Mio signore, buon giorno.» fece Káel, chinando il capo in segno di saluto. «Sei mattiniero; sei qui da molto?»

«C’è parecchio da fare per portare a termine il lavoro che ci è stato richiesto. E poltrire sulla comodità di un letto non ci è permesso.» replicò lui. Si accorse troppo tardi di aver parlato con durezza, così sospirò. «In ogni modo, questo è il luogo che preferisco in una città, è facile trovarmi qui durante tutto il giorno, piuttosto che altrove.»

Káel sorrise e annuì, mentre la sorella gli si accostava. Trán salutò il Nano con deferenza, e cacciò malamente il rossore che le scaldò le guance nello scorgere la linea muscolosa del suo corpo sotto quella sottile camicia; ricordava ancora bene ciò che aveva scorto qualche notte prima.

Lui non parve accorgersene. «Se mi è permesso chiederlo, cosa ti porta qui, signorina Trán?» le domandò, più freddamente di quanto avesse desiderato; il ricordo del loro ultimo litigio era ancora troppo ardente nella sua memoria.

Si inumidì le labbra e schiarì la gola prima di parlare. «Come hai ben detto, c’è molto lavoro da fare.»

«Il tuo compito non è di badare al minore del tuoi fratelli?»

«Non sono la sua bambinaia, sa occuparsi di se stesso.» replicò Trán. «L’ho lasciato in compagnia di alcuni bambini.»

«Ed esattamente, di cosa ti occupi?»

Trán incrociò le braccia, stanca di quelle non troppo velate insinuazioni sulle sue capacità di fabbro. «Lavoro il ferro come mio fratello, sire. Mi pare che mio padre vi avesse informato della cosa, durante le presentazioni, e che tu stesso lo avessi visto con i tuoi occhi. Sei stupito perché forse ad Erebor le donne si preoccupano solo della casa e della famiglia?»

Thorin scosse il capo. «Al contrario, lavorano i gioielli, invece. Ma non si occupano di corazze e armi.»

«Felice di stupirti, mio signore.» Trán non gli diede la possibilità di insultare il suo onore e il suo orgoglio per l’ennesima volta. Si rivolse verso il corridoio che portava alla sua postazione di lavoro, ma ci ripensò prima di muovere un passo; si voltò verso il Nano e sorrise, gentilmente. «Mi ripeterò ancora una volta, giacché mi pare che non ti sia chiaro: io sono una Nana come te, e come tale mi comporto. Buona giornata e buon lavoro.»

Quel tono tipico di una madre che spiegava per l’ennesima volta al figlio di non rubare la marmellata, non gli piacque per niente, eppure quella volta non riuscì ad adirarsi, perché non gli era sfuggito il tremolio nella voce, tipico di chi è talmente nervoso da essere sull’orlo delle lacrime. Rimase fermo ad osservarla mentre si allontanava verso la forgia e si ritirava i capelli in un’unica treccia, per evitare che le scivolassero sugli occhi mentre lavorava. Come poteva, una ragazzetta come quella, trovare la forza di alzare e sbattere il martello per tutta la giornata? E come poteva tenergli testa con così tanto ardore e avere ancora la lingua in bocca?

Avrebbe dovuto tagliargliela sul serio.

Balin, che fino a quel momento era stato in silenzio in un angolo, mentre fingeva di leggere i disegni del cancello, si fece avanti. Un sorriso sornione gli increspò gli occhi vispi e le labbra nascoste dalla folta barba bianca. «Pare che abbia davvero trovato pane per i tuoi denti, figliolo. Non capita molto spesso che qualcuno ti lasci senza parole.»

«Non capiterà un’altra volta, te lo assicuro.»

«Io non ne sarei tanto certo.»

«E cosa te lo fa pensare?»

L’anziano Nano gli restituì un’occhiata bonaria. «È una donna. Loro sanno sempre come lasciarci senza parole.»

Thorin scosse il capo. «Neppure la Regina di Gondor in persona saprebbe come prendermi nuovamente alla sprovvista.»

Káel, che non aveva ancora raggiunto la sorella, si attardò qualche istante, incerto se parlare o meno. «Sai, credo che tu le piaccia, mio signore.»

Thorin per poco non si pestò un dito con il martello per la sorpresa di quelle parole, e si fece scappare un’esclamazione poco elegante in Khuzdul. «Di grazia, cosa vorresti dire?»

Káel rise. «Non fraintendermi, non in quel senso. Ma non ho mai visto mia sorella fronteggiare qualcuno con così tanto ardore. Solitamente la sua miglior arma è l’indifferenza.»

«E direi che funziona.» mormorò a denti stretti il Nano. «Dovrei esserne lusingato?»

«Oh, beh, è il suo modo di dimostrarti stima.»

«Un modo alquanto discutibile, direi.»

«Non era così, quando nostra madre era ancora in vita.» mormorò il ragazzo, in un sospiro affranto.

Thorin poggiò l’attrezzo e incrociò le braccia. «Come accadde?»

«Nostro padre e nostro fratello maggiore partirono con Re Dáin per aiutarvi durante la Guerra dei Cinque Eserciti. Nostra madre era già ammalata da tempo, e non sopportò le notizie terribili che giunsero da quel fronte. Si diceva che tu fossi morto, e con te molti altri. La guerra non ha portato via solo soldati, ma anche chi aspettava a casa.»

«Ho rischiato di morire, quel giorno, sì. E anche i miei nipoti.»

«Lo so bene.» mormorò il ragazzo, ripensando al gesto del padre. «Comunque, Trán si ritrovò ad essere la sola donna della famiglia e doveva fare forza a se stessa e a noi, soprattutto al più piccolo, fino al ritorno di nostro padre e di nostro fratello. È da quel giorno che tenta di seguire le orme di nostra madre, ed è da quel giorno che continua a non sentirsi all’altezza.»

«Non può pretendere di rimpiazzarla.» notò Thorin, che ora capiva un po’ più quel carattere duro e orgoglioso.

«Lei si sente inutile, in realtà.» continuò Káel.

Thorin non amava quella discussione, ma era fin troppo incuriosito da quella Nana per chiedergli di cambiare argomento o di andare ad occuparsi dei suoi compiti. Così, invece che rimproverarlo per la sua perdita di tempo e ordinargli di mettersi al lavoro, si ritrovò a domandargli spiegazioni con il solo movimento di un sopracciglio, che si arcuò vistosamente sulla fronte.

«È dovuta diventare adulta prima del tempo, per badare alla famiglia, e questo l’ha portata a rendersi conto che lei è dovrebbe essere vista come un dono, poiché come ben sappiamo le donne sono poche tra i Nani; ma nessuno vorrebbe sposarla e farle dare alla luce dei figli, poiché essi non saranno mai purosangue. Lei questo non riesce a sopportarlo. È anche per questo che cova un enorme risentimento.»

«È arrabbiata perché è ancora zitella?» domandò Dwalin, che era rimasto in disparte e in silenzio fino a quel momento.

«No, mastro Dwalin, è arrabbiata perché nonostante lei faccia di tutto per sentirsi parte dei Nani, c’è chi ancora la ostacola e la fa sentire una nullità.»

Káel non lo aveva guardato, ma Thorin ebbe la strana sensazione che quelle parole fossero rivolte in parte a lui. «Forse, prima, dovrebbe imparare a frenare la lingua. Potrebbe ricevere più attenzioni di quanto si possa aspettare.» borbottò il Re, tornando a lavorare.

Káel sorrise a quelle parole, e si congedò.

Balin, d’altro canto, gli si avvicinò per mostrargli il progetto, capendo che la discussione fosse terminata. Qualsiasi femmina e Nana venne accantonata in un remoto angolo della sua mente, e Thorin si dedicò a ciò che più gli riusciva nella sua vita – essere un Nano e fare ciò per cui era nato.

Káel la trovò intenta ad asciugarsi gli occhi dalle lacrime e quando la raggiunse, preoccupato, le chiese perché stesse piangendo. Diede la colpa all’improvviso contatto con l’aria calda del ferro fuso, ma lui ovviamente non le credette, e l’abbracciò con forza.

«Vuoi che gli rompa il muso?»

Trán si ritrovò a ridacchiare tra le lacrime.

Oh, sì. E magari anche qualche osso, dato che si prendeva il disturbo di farle un favore.

Non parlò subito, cercando conforto tra le braccia invitanti del fratello. Avrebbe voluto rovesciare qualsiasi cosa le capitasse sotto mano, gridare la sua frustrazione, maledire quel Nano borioso e spaccargli la fronte a suon di martellate. Non sopportava più quel comportamento odioso nei suoi confronti, non riusciva più ad ingoiare quei rospi che, giorno dopo giorno, diventavano sempre più grandi. Si era detta che avrebbe sopportato in silenzio, senza mai dargli la soddisfazione di vederla arrabbiata per quegli affronti; si era imposta di rimanere calma anche quando la rabbia prendeva il sopravvento, perché non le piaceva mostrare la parte peggiore di sé – ed era più che sicura che prima o poi avrebbe dato di matto. Ed ora eccola lì, in lacrime per colpa di un dannatissimo Nano che aveva creduto essere gentile e diverso, ma che invece la detestava con tutto il cuore, senza un particolare motivo.

Perché il suo diluito sangue elfico non era una ragione valida per dubitare di lei e mostrare tutto quel dispregio.

«Ebbene?»

Trán scosse il capo, allontanandosi dal fratello e mettendosi al lavoro. «A meno che non voglia ritrovarti esiliato dall’altra parte di Arda, faresti bene a tenere le tue minacce per te.» gli disse senza guardarlo, mentre si tirava su le maniche della camicia. «Anche se vorrei davvero tirargli qualcosa in testa.»

Káel le sorrise, dandole un amorevole pizzicotto sulla guancia. «Non curarti delle sue parole. Sai bene che tu vali molto più di quello che crede. E anche lui ne è consapevole.»

Lei sospirò. «È solo che... che sono stanca di sentirmi addosso il peso di qualcosa di cui non ho colpa. E se solo sapesse cosa fece nostro padre per salvare la sua cara vita!»

«Sono d’accordo anche io su questo, e sicuramente ci porterebbe più rispetto e considerazione. Ma dobbiamo attenerci alla scelta di nostro padre, se desidera mantenere il segreto.»

Lavorarono in silenzio per i successivi minuti, il crepitio delle fiamme nella fucina e il martellante battere del ferro contro il ferro come gli unici suoni che gli facevano compagnia. Quello era sempre stato il luogo e il momento più adatto per lasciarsi alle spalle i brutti pensieri, per buttarsi sul lavoro. Ma dopo quell’ennesima umiliazione, il cervello di Trán stava facendo di tutto, fuorché concentrarsi e rilassarsi.

Si fermò, asciugandosi il sudore dalla fronte e osservando intensamente il fratello. «Secondo te tua sorella è debole?» La sincera risata del fratello le solleticò le orecchie, innervosendola un poco. «Cosa c’è, anche tu ti prendi gioco di me, ora?»

«Trán, mia dolce ed ingenua Trán!» esclamò Káel. «Mia sorella è la persona più forte che abbia mai incontrato, dopo nostra madre. Perché nonostante le avversità che la vita ci ha riservato, ella viene colpita ma non si piega.» L’espressione del fratello si addolcì. «Sei come il ferro che lavoriamo: duro e resistente se preso a freddo, ma tenero e malleabile se riscaldato. Non considerare questa parte di te una debolezza, perché non lo è.»

La ragazza rimuginò su quelle parole, e riprese a battere il martello. «Sai, dopo la mamma non ho più avuto figure di riferimento. Forse, ora, ne ho trovata una.»

Káel gonfiò il petto, orgoglioso. «Me?» chiese, anche se sapeva bene che non si stesse riferendo a lui. Schivò all’ultimo momento il primo attrezzo che la mano di lei trovò nelle vicinanze, e rise.

 

 

Erano poche le cose che riuscivano ad irritarla oltre misura. La sua natura era sempre stata calma e fredda, abituata a razionalizzare qualsiasi situazione, anche la più critica. Solo il temperamento battagliero di Boromir, così simile al suo, a volte riusciva a farle perdere la pazienza; ma solitamente si imponeva di prendere un respiro profondo e attendere qualche secondo, prima di rispondere a tono per evitare di dire o fare qualche sciocchezza.

Era riflessiva e silenziosa, Aragorn lo sapeva bene. Ma non gli era sfuggito lo sguardo insofferente che si appropriò di quegli occhi grigi, ora assottigliati per la stizza. Una pattuglia di soldati era appena rientrata da un’esplorazione lungo i confini con l’Harad, ed erano stati attaccati da alcuni Sudroni, che stavano raccogliendo nuove forze contro Gondor. Erano in riunione da ore, affinché si decidesse come agire nei loro confronti, ma la loro discussione verteva su lidi ben più distanti dal pericolo di Haradrim ed Esterling. Il Re aveva fatto l’errore di chiedere consiglio alla sua Prima Guardia, in vece del Sovrintendente, e il passo da lì al putiferio era stato breve.

Il Secondo Capitano Generale Ecthirion, si alzò dalla sua sedia, per prendere voce. «Con il dovuto rispetto, mio sire, ma non vedo come la parola di una donna possa essere equiparata a quella del Sovrintendente.» La sua Prima Lancia, rientrata il giorno prima da un lungo quanto misterioso viaggio, annuì, perfettamente d’accordo. Brethil non sapeva se detestava più l’arroganza di Ecthirion, o quel verme dalla pelle olivastra che gli stava accanto. Era stata così bene durante la sua assenza, perché era rientrato così presto?

Aragorn non sembrò scomporsi di fronte a quel tono stizzito. «Ella è astuta e, come vi dissi, un’amica di vecchia data che ha saputo darmi consigli nel momento del bisogno. Che cosa ti preoccupa, amico mio?»

«Mi preoccupa la sua posizione, mio signore. E la mia, ad essere onesti.» replicò l’Uomo. «Poiché dacché io sappia, se il Sovrintendente è assente, allora è il Secondo Capitano di Gondor, suo uomo di fiducia, a parlare per lui.» Alzò il mento, sfidando la Dúnadan. «Non solo non si era mai vista una donna tra le fila dell’esercito, ma essa ricopre anche un alto ruolo; e in questo caso, solo nel momento in cui i due siano sposati, allora potrebbe esserne la delegata. Ma, fino a prova contraria, mi risulta che il nostro Sovrintendente sia libero come l’aria.»

«E vorrei ben vedere, sposarsi con una sfregiata la cui dote è inesistente.» sussurrò Mardil, udito distintamente da Brethil, che strinse con forza i pugni. Se non fosse stato per i guanti, era più che sicura che si sarebbe lacerata i palmi delle mani con le unghie.

«Metti in discussione le mie decisioni?»

Ecthirion annuì, senza paura. «Sarebbe disonorevole scoprire che ha raggiunto quella posizione solo per amicizia e per essere la soddisfazione di una notte del Capitano.»

Brethil, sentendo quelle parole, si alzò di scatto, rischiando di capottare la sedia. Ma Imrahil di Dol Amroth, che era giunto in mattinata insieme al figlio maggiore Elphir, si alzò a sua volta, in difesa della donna, che stimava come una sua pari. «Permettimi di replicare, Ecthirion, poiché ho conosciuto dama Brethil prima di te e ho potuto vedere con i miei stessi occhi di cosa sia capace. Ella è sì una donna, e all’inizio persino io ero scettico nell’udire che potesse portare le armi come un uomo. Ma salvò la vita di mio nipote Boromir, combatté valorosamente per il defunto Re Théoden tra le fila dei Rohirrim, si batté per Gondor insieme a noi nella Battaglia del Pelennor, e non da ultimo, il Re la conosce da quando era una bambina. Non discutiamo quindi la sua scelta di averla nominata Prima Guardia, perché è palese che meriti quella divisa, forse anche più di qualcuno di noi. Ma soprattutto, non osate spargere fango nel buon nome del nostro Sovrano e del Sovrintendente; solo l’averlo pensato è disonorevole

Brethil scambiò uno sguardo carico d’affetto all’uomo dall’altra parte del tavolo, e lui annuì. Credeva fermamente in quello che aveva appena detto, anche a discapito di farsi dei nemici tra i membri del Consiglio di Gondor.

Con una mano sul braccio dell’amica, Aragorn le intimò di sedersi e di calmarsi, e lei non si rifiutò.

Il Secondo Capitano sembrò aver perso le parole; ricevere una ramanzina con i fiocchi dal vecchio e saggio Principe di Dol Amroth, davanti agli occhi del Re, per difendere una donna era un duro colpo per il suo orgoglio, sicché anch’esso tornò a sedersi, scuro in viso. Guardò ostinatamente la Dúnadan, che ricambiava l’odio con gli occhi ridotti ad una fessura; poi sospirò. «Ebbene, non discuterò più sulle nostre divergenze sessiste, mie signori. Ma rimango dell’opinione che dama Brethil non possa parlare in vece del Sovrintendente. Il suo compito è quello di proteggerti, mio Re, non di consigliarti. Cosa per cui io e il Principe Imrahil siamo presenti, oggi.»

Aragorn annuì, ma in cuor suo non lo perdonò facilmente per le parole che aveva pronunciato con così tanto risentimento. «Allora, permettimi di chiedere consiglio alla mia Prima Guardia, in vece solo ed esclusivamente sua. Brethil?»

La donna spostò lo sguardo sull’Elessar, che ora aspettava solo una sua risposta. Si schiarì la gola, alzandosi nuovamente. Imrahil, guardandola, fu intimamente fiero di lei, perché nonostante tutto non aveva perso la sua dignità.

«Le terre di Rhûn sono lontane da Gondor, non sono una minaccia rilevante per il momento. Ma abbiamo ricevuto notizie dai Nani che si stanno muovendo verso Sud, e sono stati attaccati.» disse Brethil, mantenendo la voce ferma che avrebbe tremato di rabbia se non fosse stato per il suo autocontrollo. «I Nani possono inviare informatori per controllare la situazione a Nord-Est, se glielo chiediamo, cosicché possiamo capire se e quando intervenire. In ogni caso, per un viaggio così lungo, è necessaria preparazione, e il mio consiglio è di attendere Re Éomer e gli altri Dignitari e di rafforzare le difese a Cair Andros. Ciò che mi preoccupa sono i confini meridionali e l’Harad. Gli Orchi saranno anche tornati a Mordor, ma la popolazione dei Sudroni è sopravvissuta ed è restìa a sottostare al tuo volere, mio signore. I nostri villaggi sono ancora indeboliti dalla guerra e hanno bisogno di protezione. Motivo per cui appoggio l’idea del Principe Imrahil, affinché si invii una spedizione più numerosa entro la fine della settimana.» Si voltò verso Ecthirion, sfidandolo, nonostante continuò a rivolgersi al Re. «E posso cavalcare in prima fila, se mi dai il permesso, mio signore.»

Aragorn si lasciò sfuggire un sorriso di puro divertimento. «Ebbene, il tuo posto sarebbe accanto al mio, Brethil figlia di Aeglos. Ma so bene che tenerti rinchiusa tra le mura della città non sia il massimo delle tue aspettative. Quindi partirai tra tre giorni, sotto il comando di Imrahil, che potrà scegliere una schiera altri di cento uomini, se non vuole partire da solo con i suoi.»

Il Principe di Dol Amroth si inchinò per ringraziarlo, e così fece anche Brethil.

«Verrei con voi, miei cari amici, ma Re Éomer giungerà in questi giorni e non posso fargli trovare la Sala del Trono priva del suo Re e del suo Sovrintendente.»

Imrahil sorrise. «Lo so bene, mio signore. Alla prossima volta.»

Ecthirion, però, non fu felice della notizia. «Mio signore...» balbettò, rimasto senza parole per essere stato così facilmente escluso dai giochi.

«Tu rimarrai in città, perché è qui che ho bisogno di te. Non considerarla una punizione, bensì un momento di riflessione per ciò che hai detto.» Aragorn terminò quella infinita riunione con quelle parole, e si alzò senza attendere risposta. Diede un rassicurante sguardo all’amica, ancora furibonda ma ora più rilassata per il nuovo compito che le spettava.

Il Re la congedò fino all’ora di pranzo, dandole appuntamento alla mensa dei soldati, e lei lasciò immediatamente quel salone diventato troppo stretto per i suoi gusti. Non badò al Secondo Capitano e alla sua Prima Lancia, che la osservarono con risentimento finché non fu sparita alla loro vista. Si diresse velocemente al Secondo Cerchio, per cercare la sola persona con cui avrebbe voluto parlare – anche se ancora non riusciva a capire perché volesse proprio lei. Non la conosceva che da mezza giornata, eppure Trán sembrava l’unica che potesse ascoltarla e capirla, in qualche modo.

Così raggiunse le fucine, dove trovò Thorin che lavorava alacremente accanto ai suoi nipoti, Balin e Dwalin. I cinque alzarono la testa quando si accorsero dell’inaspettata visita, e la salutarono allegramente.

«Dama Brethil, quale piacere vederti quaggiù!» fece Fili, inchinandosi quasi fino a sfiorare il pavimento con il naso. «Mi chiedevo quando ti avremmo potuto rivedere, ed eccoti qui!»

Lei li salutò forse un po’ troppo freddamente, mentre nelle sue orecchie ronzavano ancora quelle parole velenose. Guardò il Re dei Nani e chinò il capo. «Mio signore, scusa se disturbo il lavoro, ma sto cercando... un’amica

Thorin sollevò un sopracciglio, chiedendosi perché lo domandasse a lui. Ma Fili fu lesto a precederlo, e si offrì di andare a cercare Trán nell’altra ala dell’edificio.

«Sembri nervosa. Giornata pesante?» fece Thorin, tornando a laminare un sottile pezzo di ferro, parte di chissà quale rivestimento.

La donna sospirò, passandosi una mano sulla fronte per il sudore. C’era un caldo pazzesco lì dentro, ed era arrivata da pochi minuti. «Riunioni con i Capitani. Immagino sappia a cosa mi riferisco.»

Kili guardò prima l’uno e poi l’altra. «A cosa ti riferisci?»

«A lunghe chiacchierate che servono a risolvere il nulla, coronate da stupidi pregiudizi sulle donne e le armi.» biascicò Brethil, a denti stretti.

Fili tornò in quel momento, scuotendo il capo. «Pare che si sia allontanata con il fratello per portare del carbone. Puoi aspettarla qui, se vuoi.»

«Ti ringrazio, messer Fili, ma non vi disturberò oltre. Scusate ancora.»

Aveva voltato loro le spalle e si stava già dirigendo verso l’uscita, quando il Nano biondo la fermò. Si girò a guardarlo, incuriosita.

«Ecco, mia signora, abbiamo ancora un duello in sospeso, e l’ora di pranzo si avvicina. Tu sei adirata, e noi siamo stanchi. Dato che abbiamo quasi finito il lavoro prima della pausa, che ne dici se ci sfidiamo un poco, così puoi scaricare tutta la tensione che hai?»

Lei soppesò quelle parole qualche secondo. «Sarebbe impari. Sei stanco

Dwalin quasi tossì per la sorpresa e l’ironia di quella risposta.

«A-ha. Stanco mentalmente di fare lo stesso lavoro da questa mattina. E zio, non incenerirmi con lo sguardo, non siamo dei mostri come te!» esclamò, alzando le braccia al cielo per difendersi. «E per inciso, dama Brethil, i Nani non si stancano così facilmente nel fisico.»

«Sì, ricordo che mastro Gimli avesse detto e ripetuto qualcosa a riguardo.» mormorò la donna, con un lieve e sincero sorriso. «E sia, se sire Thorin ti permette di lasciare il tuo posto per qualche tempo.»

Il maggiore dei due fratelli pregò lo zio con l’espressione più malandrina e tenera che conoscesse, e quello, sebbene non volesse capitolare, si arrese. «Ebbene, è quasi ora di pranzo, mezz’ora di lavoro in meno non cambierà ciò che non hai fatto per tutta la mattinata. Vai, prima che cambi idea.»

«Posso andare anche io?» chiese Kili, entusiasta del duello.

Thorin scambiò un’occhiata di rassegnazione con la giovane donna e lasciò cadere il suo operato sul tavolo. «D’accordo, andremo tutti. Ma alle tre lavorerete come schiavi finché non vi darò il permesso di andarvene. Sono stato sufficientemente chiaro?»

«Cristallino, signore!» risposero in coro i fratelli.

Brethil annuì. «Ci vediamo all’arena, raggiungimi appena puoi. Però prima devo cambiarmi d’abito.»

«Ti fai elegante per me, mia signora?» domandò Fili, civettuolo.

Lei ghignò, andandosene. «Ad un funerale bisogna essere eleganti, mastro Nano.»

Quello scoppiò a ridere. «Quella donna mi ha rubato il cuore!»

«E il Sovrintendente te lo staccherà a morsi, se continuerai ad importunarla.» fece Gimli, giungendo in quel momento con Legolas.

«Perché?» Un silenzio imbarazzante fece capire loro la risposta. «Oh... vuoi dire che tra lei e il Capitano Boromir...»

L’Elfo s’intromise, maledicendo la brutta attitudine dei Nani nel fare pettegolezzi. «Sono molto amici, e lui è molto possessivo. Mai, mai farlo ingelosire. Lo dico per la tua incolumità.» Trattenne a stento le risa quando si accorse di essere apparso più serio del previsto e che Fili fosse sbiancato.

«E dimmi, Elfo, a te cosa importa dell’incolumità di mio nipote?» domandò aspramente Thorin, sorpassandolo con un’occhiata gelida.

«Oh, è solo che il fanciullino è facilmente impressionabile alla vista del sangue.» replicò Gimli, per sedare qualsiasi nuovo litigio e concludendo tutto con una risata. Balin apprezzò il gesto e gli fece un occhiolino di rassicurazione.

Raggiunsero il campo di allenamento un quarto d’ora dopo, che era ben distante dalla loro officina. Il caldo di quella mattinata di settembre si stava facendo sentire, ma per persone abituate come loro all’afa delle fucine, i raggi del sole non erano che un vago pizzicore alla pelle. Trovarono Brethil in attesa all’ingresso del ring, e stentarono a riconoscerla, se non fosse stato per le vistose cicatrici: aveva abbandonato la divisa della Guardia Reale e ora vestiva come la donna di un tempo che pareva tanto lontano. E mentre gli spettatori prendevano posto sulla terra battuta del ring, a pochi passi dai duellanti, i due si studiarono qualche istante.

Fili estrasse le sue lame dai foderi sulla schiena, osservandole alla luce del sole. Erano molto larghe rispetto alla lunghezza, visibilmente rudi, come tutte le armi Naniche, ma letali – soprattutto nelle sue mani. «Guardale, lucenti ed affilate come appena forgiate! Hanno fatto visita dal fabbro proprio oggi.»

Brethil ghignò. «La mia spada non vede fabbro da quando è nata, mastro Nano.» fece, estraendo Celeboglinn, che sembrò vibrare nell’aria come il suo nome.

Fili, che era incuriosito dalla strana forma di quella spada, la osservò e scosse il capo. «Mi dispiace dirti che quello stuzzicadenti vedrà tempi migliori, dopo aver incrociato i miei ferri.»

«Ammiro il tuo ottimismo, mastro Nano! Ma ora basta parlare, siamo qui per combattere.»

«E io non l’ho dimenticato, mia signora. In guardia!»

Brethil strinse con entrambe le mani la sua elegante spada, posizionandola in verticale lungo il suo busto, in posizione di attesa. Il suono del ferro contro ferro risuonò poco dopo, le loro armi che cozzarono con forza l’una contro l’altra. Fili bloccò con entrambe le lame un affondo della donna, che piegò indietro di qualche passo. Attesero qualche secondo prima di muoversi nuovamente. Brethil attaccò nuovamente, facendo perno sul piede destro e girandosi, per colpirlo di lato. Ma il colpo non andò a buon fine, perché il Nano era caparbio, soprattutto dopo aver capito che non ci sarebbe dovuto andare troppo leggero, nonostante fosse una donna – perché lei non lo era affatto. Fili ghignò, decisamente divertito dal temperamento e dalla bravura della Dúnadan, e decise di fare lui la prima mossa.

Era stanco di difendere.

Mosse velocemente le due lame tra le mani, bloccandola con una spada, e tentando di colpirla di piatto con l’altra. Brethil schivò il colpo solo grazie alla prontezza di riflessi, che le ordinò di saltare all’indietro poco dopo che il braccio di Fili era già sceso per colpirla. La donna si trovò in difficoltà numerose volte; nonostante fosse ben allenata, aveva sulle spalle probabilmente un quarto degli anni del Nano che aveva di fronte, molto più esperto di lei in battaglia.

Ma non si fece scoraggiare. Non lo aveva fatto con Boromir, né tantomeno in guerra. E non lo avrebbe fatto con un Nano con delle buffe treccine nei baffi!

L’attaccò con forza, usando il lungo manico della spada come bastone e picchiandolo sul polso del ragazzo. La lama gli saltò dalle mani, più per la sorpresa che per l’effettivo dolore, e lei la calciò lontano.

«Prima il duello era sbilanciato. Due spade contro una?» fece Brethil, quasi scandalizzata.

Persino Dwalin si ritrovò a sorridere di quell’affronto. Thorin, d’altro canto, trovò alquanto imbarazzante che una femmina avesse quasi disarmato suo nipote ed erede al trono, e preferì fumarci sopra piuttosto che pensare alle conseguenze.

«Fratello, mica ti servirà una mano?» domandò Kili.

«Tranquillo, mi bastano le mie per menarti appena finisco!»

«Appena ti finisce, vorrai ben dire!»

Brethil sorrise genuinamente a quello scambio di battute, ma tornò a concentrarsi nel vedere la determinazione negli occhi azzurri del Nano. Era più duro della pietra! Fili, infatti, non sopportò l’idea di perdere contro una donna davanti allo zio, che tante ore aveva speso per allenarlo adeguatamente; l’idea di dare un dispiacere così grande a quel suo sconfinato orgoglio, oltre al proprio, gli diede la forza di attaccare con più tenacia di prima, e Brethil si trovò in seria difficoltà.

Con l’ennesimo e duro affondo, Fili allungò una gamba dietro il ginocchio di lei, facendola cadere e saltandole addosso. Brethil si ritrovò così sdraiata con una spada puntata alla gola, respirando velocemente per la stanchezza e l’adrenalina.

«A questo punto, dovresti essere morta.» le disse, sorridendo trionfante.

Brethil annuì. «Sì, anche tu.»

Lo sguardo eloquente gli fece abbassare gli occhi sul pugnale che lei aveva estratto velocemente e che ora gli puntava contro l’addome. Il Nano si tirò su con una risata, spolverandosi i pantaloni e porgendole una mano per rialzarsi.

«Per Mahal, non faticavo così tanto in un duello da tempo immemore!» esclamò, stiracchiandosi e recuperando poi l’altra spada che giaceva per terra.

«Buon per te che non esci sconfitto.» fece Thorin, comunque impressionato dallo stile di combattimento della donna. Nessuno di loro avrebbe scommesso su quella femmina vestita poveramente di grigio e non certo in carne.

Brethil e Fili si strinsero amichevolmente una mano.

«Credo che verrò ad allenarmi qui con te qualche altra volta, dama Brethil. Se tu lo vorrai, ovviamente.»

«Ne sarei onorata, mastro Nano. Sarà un piacere rivederti sporco di polvere.»

Camminarono insieme verso la mensa, discutendo di quell’incontro e dei loro addestramenti.

«E così sei una discendente di Númenor?» le domandò Balin, che le procedeva accanto, con le mani intrecciate la schiena.

Lei annuì.

Thorin sbuffò un po’ di fumo, osservandola. «E dove hai imparato a combattere così, se mi è permesso domandartelo?»

«Mio padre fu il primo maestro che ebbi. Ma furono Aragorn e il suo migliore amico che continuarono il suo lavoro quando morì. Poi conobbi due Elfi che si unirono alla nostra causa, e loro mi influenzarono con il loro stile e mi insegnarono a tirare con l’arco.»

«Ecco spiegato quel tuo strano modo di combattere.» fece Fili, le mani sui fianchi e un bel sorriso sotto i baffi intrecciati. «Posso vedere la tua spada, per favore? Non ne ho mai viste di simili.» Accettò la lama che lei gli porgeva, e se la rigirò tra le mani con curiosità.

«È una lhang, tipicamente Elfica, di Lothlórien. Si chiama Celeboglinn.» gli spiegò. «Un regalo di Aragorn.»

«È leggera!» esclamò il nipote di Thorin, afferrandola con due mani e tentando di muoverla senza uccidere nessuno. «Ed è più complicata di quanto pensassi. Ha il manico quasi più lungo della lama.»

«Si tratta solo di abitudine.» disse Brethil, rimettendola nel fodero. «E di scala. Con il dovuto rispetto, messer Fili, ma è troppo lunga per uno come te.»

«E anche se fosse corta, saresti comunque imbranato.» constatò Kili, divertito, che schivò abilmente un pugno del fratello.

Raggiunsero la mensa militare poco dopo. Aragorn non si presentò, quel giorno, ma Brethil non se ne stupì. Probabilmente stava ancora discutendo con i Capitani. Intravvide Trán, poco lontano dal tavolo su cui presero posto, e la salutò con un cenno del capo e un lieve sorriso. Avevano parlato tanto, il pomeriggio precedente, e si era stupita nell’essersi accorta che la sera fosse scesa velocemente, senza che se ne accorgesse.

Legolas si sedette di fronte alla donna, ma non mangiò che poco cibo, come sempre. Gimli, al suo fianco, scosse il capo. «Vorrei davvero sapere che razza di stomaco avete voi Elfi. Ammesso che ne abbiate uno.»

«Le leggende dicono che vivano d’aria.» fece Kili, ricordando le parole di Káel. «E potrei anche crederlo, visto che ho ancora bene in mente che razza di cibo ci servirono a Imladris.»

«Cibo.» ripeté Dwalin, disgustato al solo ricordo di quella roba verde ed insapore. «Quella robaccia non la mangiano neanche le capre, te lo dico io.»

Legolas rise. «Che visione distorta avete, del mio popolo.»

«È ciò che siete.» fece Thorin, purtroppo per lui non troppo distante dall’Elfo e con visuale diretta sulla Nana. La vide ridere con i fratelli, mentre chiacchieravano con un altro paio di Nani abbastanza coraggioso da avvicinarli, e si ritrovò a stringere i pugni senza neanche accorgersene. Fu solo la voce dell’Orecchie a Punta a riportarlo sulla terra.

«–Aragorn mi ha chiesto di accompagnarti, insieme al Nano.» stava dicendo alla donna.

«Partite? Per dove?» domandò Fili, incuriosito e intimamente dispiaciuto che la ragazza li lasciasse per chissà quanto tempo.

Brethil non rispose subito al Nano. «Perché? Crede che non me la possa cavare da sola?»

«Non essere cattiva, amica mia. È solo preoccupato per te.»

«Sarei con il Principe Imrahil, che sa ben comportarsi in mia presenza.»

«Che c’è, ragazzina, non vuoi che veniamo?» domandò burberamente Gimli.

Scuotendo il capo, Brethil si rese conto di aver dato l’impressione sbagliata ai due. «No, tutt’altro. Sono felice di sapere che sarete con me. Ma non voglio che Aragorn creda che non sappia difendermi da chi non mi apprezza.»

«Lo fa perché ti vuole bene. E Boromir farebbe lo stesso.» azzardò Legolas.

«Boromir non è qui, e non glielo permetterei comunque.» Un lampo le attraversò la mente e capì. «Quando partì per Osgiliath chiese udienza privata ad Aragorn. È stato lui. È stato lui a dirgli di tenermi d’occhio.»

Thorin sollevò un sopracciglio. Poteva un’amicizia sfociare nella paranoia? Lui non ne era certo. Era d’accordo sul proteggere le donne tra i Nani, e di conseguenza anche quelle degli Uomini. Ma aveva la sensazione che ci fosse davvero qualcosa tra i due che andasse ben oltre – e lui non era neanche un esperto in materia.

«Non biasimarlo, Brethil.»

«Oh, no, non lo farò.» rispose lei, con un’espressione che prometteva una vendetta saporita.

Fili si sporse a guardarla. «Sai, mia signora, mi stai inquietando. E non mi hai ancora detto perché e dove partirete.»

Fu Legolas a parlare, poiché l’amica era persa nei suoi cupi pensieri. «Andremo a Sud, a portare difese ai villaggi sotto attacco dei Sudroni.»

«La mia ascia freme alla sola idea.» esclamò Gimli.

Balin gli riservò un’occhiata severa. «Non ne hai abbastanza della guerra, figliolo? Non si dovrebbe gioire di andare in battaglia.»

«Gioiremo quando il Nemico verrà distrutto una volta per tutte. Nessuno di noi ama la guerra.» mormorò Brethil, abbassando lo sguardo sul suo piatto. Un viso familiare si materializzò davanti ai suoi occhi e il ricordo le strinse lo stomaco. «Ti porta via tutto ciò che hai di più prezioso.»

Thorin strinse i denti, ripensando a cosa avesse perso lui a causa della guerra. Prima suo nonno, poi suo padre, suo fratello, suo cognato. La sua casa e la pace. Capiva alla perfezione le parole della donna. «Se mai doveste aver bisogno anche della nostra ascia, mia signora, dì a Re Elessar che i Nani di Erebor non si tireranno indietro.»

Lei si voltò verso Thorin e annuì. «Ti ringrazio, figlio di Thráin. Ma spero che non ve ne sarà il bisogno.»

Sentì una mano tozza e ruvida stringere la sua e trovò Fili che le sorrideva, rassicurante. «Niente di prezioso ti verrà portato via, mia signora. Te lo prometto in nome della mia buona madre.»

La Dúnadan sentì il cuore scaldarsi e le venne in mente Pipino, quando per rassicurarla la prendeva per mano e le raccontava qualche lontana favola per distrarle la mente dalle preoccupazioni. Senza neanche pensarci ricambiò il gesto con un sorriso, e le sembrò di tornare indietro nel tempo, quando le cose andavano male, ma forse meglio.

 

 

Aveva terminato il turno da parecchio, ormai, ma il Re non sembrava volerla lasciare andare. Stavano camminando lungo la chiglia di pietra che si affacciava sul Pelennor, ed Aragorn era più che deciso a capire cosa preoccupasse la sua compagna più fidata. Incrociò le braccia, osservandola con attenzione come faceva sempre quando qualcosa non lo convinceva abbastanza. «Dunque, accetti la mia decisione ma non sei d’accordo. Legolas e Gimli non ti piacciono come compagni d’armi?»

Lei scosse il capo. «Sai benissimo che non è quello il motivo, Aragorn.»

«Allora aiutami a capire.» La sentì inspirare pesantemente.

«Tu e Boromir dovete smetterla di comportarvi così. Sono cresciuta da tempo, Aragorn. E credevo di avertene dato prova in più di una occasione.»

L’uomo sospirò, finalmente capendo il motivo di tanta stizza. «Ebbene, Boromir mi ha chiesto di badare a te, e lo avrei fatto anche senza il suo consiglio, credimi. Ma dimmi, amica mia, è davvero così seccante, per te, sapere che c’è qualcuno che si preoccupa per il tuo umore?» Aragorn sorrise nel vederla in difficoltà. «Non voglio fare il padre, Brethil, poiché ne avesti già uno, e bravo abbastanza da saper crescere una donna come te. Ma anche se tu non parli, io ti osservo. E ciò che vedo mi rattrista, perché so che non sei felice. Darti il permesso di andare in spedizione con Imrahil è un modo per tenerti occupata dai cattivi pensieri, ma hai bisogno di qualcuno accanto quando non sarai concentrata sulle strategie di difesa. Capisci cosa intendo?»

Brethil chinò il capo, rassegnata. «Sì, capisco perfettamente, Aragorn, e di questo ti ringrazio. È solo che... è solo che non voglio che tu pensi che non sia felice. Lo sono, credimi. Devo solo abituarmi ancora a questa nuova vita così diversa dalla precedente.»

Il Ramingo scoppiò a ridere, stringendole una mano sulla spalla. «Parli tu che sei diventata un soldato a tutti gli effetti. Ma a chi pensa a me, ora che ho una corona sul capo?»

Lei sorrise. «Aragorn, tu eri Re prima ancora dell’incoronazione ufficiale, e lo sai bene. Lo sei sempre stato, è ciò per cui sei nato.»

«E tu per starmi accanto e darci forza a vicenda.» Le diede un leggero bacio sulla fronte. «Anche a me manca Boromir, ma tu più di tutti stai soffrendo la sua lontananza.»

«Credevo che sarei riuscita a gestire meglio la situazione.» mormorò.

«Allora permettimi di aiutarti.»

Gli occhi grigi di lei incontrarono quelli di lui, e abbozzò un sorriso. «E sia. Ma ti prego, quando tornerà non dirgli della mia debolezza. Non sopporterei il suo ghigno trionfante e quel suo maledetto “te lo avevo detto”. Non voglio che sappia cosa mi provochi la sua distanza.»

«Perché no?»

«Perché anche io ho un orgoglio da difendere. E non voglio scadere nella pateticità.»

Aragorn rise. «Mia cara amica, sei ben lungi dall’essere patetica.»

«No.» Brethil arrossì, alzando gli occhi al cielo. «Lo amo, ma forse è la stessa cosa.»

Rimasero in silenzio ancora per qualche tempo, finché il Re decise di tornare dalla sua adorata moglie. Brethil, così, si diresse verso la sua stanza, un cerchio più in basso; ma non vi arrivò subito, poiché qualcosa attirò la sua attenzione. Corrugò la fronte nel riconoscere prima la testa bionda ed intrecciata di Fili, e quella bruna del fratello che gli stava accanto. Erano accovacciati dietro un muro e parevano molto indaffarati a guardare qualcosa di apparentemente interessante.

«Signori, posso sapere co–»

Fili e Kili balzarono per la sorpresa, raggelandosi sul posto per il timore che lo zio, a pochi passi da lì, potesse accorgersi di loro. Così non le diedero il tempo di finire la frase e la invitarono gentilmente a tacere saltandole addosso e tappandole la bocca. Si nascosero dietro un carro e rimasero in ascolto.

Brethil osservò i due spiati con perplessità. «Quella è Trán. Ed è con sire Thorin.»

«Perspicace, mia signora.» sussurrò Fili, ridacchiando.

«Ebbene, sareste così cortesi da spiegarmi esattamente cosa state facendo?»

«Non è ovvio?» Kili si abbassò di colpo nel vedere lo zio voltarsi verso la loro direzione e trattennero il fiato. Ma non udirono i passi pesanti del Nano, così tirarono un sospiro di sollievo. «Se ci scopre possiamo dire addio al nostro bel collo.»

«Sono ancora in attesa di una risposta, signori.»

I fratelli si scambiarono un’occhiata imbarazzata. Fu il maggiore a soddisfare la sua richiesta. «Ecco, stiamo portando avanti una ricerca di interesse accademico.»

«Una ricerca.» ripeté Brethil, ovviamente poco convinta. «E questa ricerca prevede il pedinamento di vostro zio, o di Trán?»

«Di entrambi nello stesso momento, possibilmente.» precisò Kili.

La donna parve confusa, ma ogni domanda venne rimandata nel momento in cui la voce di Trán giunse chiaramente alle loro orecchie. Ed era furiosa.

«Non ho chiesto io che mi riaccompagnassi a casa, conosco la strada, messer Thorin.» stava dicendo, con voce avvelenata. «E mi hai già fatto capire in parecchi modi che la mia presenza non sia di tuo gradimento. Quindi prego, non perdere ulteriore tempo con una mezzosangue come me e lasciami sola.»

I tre spioni si ritrovarono a bocca aperta. Ma mai quanto il Re dei Nani, oltremodo oltraggiato da un comportamento tanto irrispettoso.

«Tuo padre non ha forse avuto il modo di insegnarti l’educazione, ragazzina?» tuonò Thorin, sovrastandola con la voce e l’altezza. «O forse era troppo occupato a civettare con gli Elfi, mentre tu crescevi?»

Il suono dello schiaffo fu così forte che Brethil credette lo avesse dato a lei personalmente.

«Credo che il collo lo perderà lei.» mormorò Kili, preoccupato. «Peccato, mi stava simpatica.»

Fili gli tirò una gomitata. «Visto la sua mano pesante, non mi stupirei se a perderlo fosse lo zio.»

Gli effetti che quel gesto comportarono furono più dolorosi dello schiaffo stesso. Thorin si portò una mano alla guancia offesa, su cui sentiva solo un leggero formicolio. Era il suo orgoglio ad essere stato ferito. Nessuno, nella sua vita, aveva mai osato schiaffeggiarlo – tranne suo padre, quando era ancora molto giovane e non capiva cosa fosse la disciplina. In altre occasioni non avrebbe lasciato passare che qualche secondo per la sorpresa, prima di ricambiare il gesto dieci volte più forte. Ma quella che aveva davanti era una femmina, della peggior specie – ma pur sempre una femmina. E le donne andavano protette e amate, non picchiate. E ora aveva anche gli occhi lucidi. Avrebbe dovuto punirla per la sua insolenza, ma la sola idea di alzare le mani su di lei gli diede la nausea.

«Mio padre!» esclamò Trán. «Lo stesso Nano che continui ad affrontare con insulti e spregevolezza, ti salvò la vita solo qualche mese fa! È questa la gratitudine che gli mostri? Ha perso un occhio per evitare che tu perdessi la vita e ora non riceve altro che insulti da te e dai tuoi compagni!»

Gli istinti bellicosi che lo avevano mosso fino a quel momento, svanirono in un battito di ciglia. Thorin spalancò gli occhi chiari, mentre l’immagine sfuocata di quel Nano più alto della norma e con il viso insanguinato gli tornò alla mente. Abbassò il braccio, lasciandolo ricadere lungo il fianco, e osservò la ragazza con attenzione. «Chi mi dice che non stia mentendo?»

«Potresti domandarlo a lui, ma dubito che gli crederesti. Del resto, sappiamo mentire bene come gli Elfi.»

Thorin non dubitò delle sue parole. Quella ragazzina aveva la brutta abitudine di parlare con sincerità lasciando da parte il tatto e il rispetto, ma non era una bugiarda. Così chinò mestamente il capo.  «Perché nessuno della tua famiglia me ne ha mai parlato?»

«Mio padre non ha bisogno di essere ricoperto dei tuoi onori. È sempre stato umile e ciò che rischiò per te lo fece per puro dovere. Ricordati, Thorin Re Sotto la Montagna, che un uomo è meritevole di rispetto a prescindere dalla sua razza.» Trán notò il cambiamento nello sguardo del Nano, ma non si fece intenerire. Aveva abbastanza esperienza per capire quando poteva permettersi il lusso di capitolare di fronte al dispiacere, e quello non era il momento. Gli avrebbe fatto patire per bene tutte quelle settimane di astio, prima di deporre l’ascia di guerra. «Ora, se permetti, vorrei andare a dormire, sono stanca. Non scomodarti ad accompagnarmi, conosco la strada. Buona notte.»

Kili si lasciò scappare un fischio di stupore, ma neanche lo scappellotto del fratello e la gomitata di Brethil poterono impedire a Thorin di voltarsi nuovamente verso la loro direzione.

Quella volta, però, nessuno dei tre l’avrebbe scampata.

 

 

*

Io ve l’avevo detto che saremmo arrivati al fattaccio. Era anche ora, direi!

E adesso? ;)

Pregate per le anime degli eredi di Durin e della Dúnadan, ne avranno bisogno, temo!

Alla settimana prossima,

Marta. :)

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Capitolo 10
*** 10. ***


Buon pomeriggio!

Prima di lasciarvi subito al nuovo capitolo, vorrei spendere due parole per ringraziare tutti coloro che mi seguono, e che commentano con passione questa storia.

Non ho davvero parole per esprimere quanta gioia e orgoglio mi diano le vostre recensioni, così articolate e profonde.

Mi danno l’impressione che tutte le migliaia di parole di ogni capitolo non siano spese inutilmente, e di questo vi ringrazio infinitamente!

Grazie per essere sempre presenti e per trovare un po’ di tempo per “Pietra”. Ve ne sono davvero grata.

Un caro saluto e buona lettura,

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

10.

 

16 Settembre 3019 T. E.

 

Boromir non aveva mai visto un cantiere più grande di quello in tutta la sua vita. Aveva posato gli occhi su eserciti sconfinati di Uomini, Elfi, Orchi, di cadaveri sul campo di battaglia; ma mai uno di Nani che spostavano, sollevavano, montavano e scolpivano pietre come se fosse pane quotidiano. Facevano un gran baccano, cantavano ed imprecavano nella loro antica lingua quando qualcosa andava nel verso sbagliato, ma erano grandi lavoratori, e si fermavano solo per mangiare un boccone e riiniziare subito dopo, con più vigore di prima. Erano trascorsi solo pochi giorni dal loro arrivo, ma Osgiliath stava già cambiando aspetto: era stata ripulita dai detriti, per lasciar spazio alle officine a cielo aperto e alle imponenti impalcature di legno; la città che un tempo risuonava di musica e poesia, ora era scandita dal ritmico martellare contro le pietre. Rise, non certo senza una buona dose di divertimento, nel vedere alcuni dei suoi Uomini prendere ordini dai burberi Nani, per aiutarli nel loro lavoro; orgogliosi carpentieri di Gondor sottomessi al volere di un gruppo di ometti bassi la metà.

Chissà cosa avrebbe pensato suo padre se avesse visto una scena simile? Ne sarebbe stato divertito come lui, o indignato?

Non seppe darsi una risposta, poiché non era più sicuro di conoscere l’uomo che lo aveva cresciuto. Non nell’ultimo periodo della sua vita. Le parole di Faramir gli tornarono alla mente, e la dolorosa consapevolezza che non avesse vissuto abbastanza da condividere con lui la gioia di un nipote lo colpì come un pugno sullo stomaco. Così come avrebbe voluto la sua benedizione il giorno che avrebbe sposato Brethil, se mai fosse giunto; sapeva che Denethor dava la sua fiducia molto raramente, poiché era schivo e diffidente, ma era sicuro che Brethil avesse fatto breccia nella sua mente, e che gli sarebbe piaciuta l’idea che diventasse la moglie del suo primogenito. Almeno, Boromir preferiva immaginare così.

Camminava accanto a Dáin che, ad ogni nuovo edificio che passavano, gli spiegava pazientemente quale sarebbe stato il loro intervento, e come si immaginava l’opera completa. Boromir non aveva mai lavorato di fantasia in tutta la sua vita, poiché credeva solo in ciò che poteva toccare e vedere con i suoi occhi: ma l’ardore e la maestria con cui il Nano gli descriveva la città, come se fosse già ricostruita, gli dava la percezione di poterla mirare proprio in quell’istante.

«Per prima cosa ho stabilito che i resti degli edifici ancora in buone condizioni vengano sbiancati e riportati al loro colore originario.» gli stava dicendo, sfiorando un concio ancora annerito. «Il tempo e le intemperie hanno sporcato le pietre di una patina grigia che andrà via solo dopo qualche giorno di sfregatura. Usiamo delle spugne in ferro e un particolare pulente costituito da acqua, sale e aceto - qualche volta ci aggiungiamo persino del limone. Non ha un odore gradevole, ma dopo la prima pioggia verrà lavato via. Fu mio pro-pro-pro-zio Lóin, fratello di Óin*, ad inventarlo. Se chiedi ad un Elfo, probabilmente ti dirà che invece furono loro a farlo, ma suvvia: venderebbero la propria madre pur di prendersene i meriti. I Nani sono i veri padroni dei segreti di come si tratta una pietra, non certo loro.»

Boromir scosse mentalmente il capo, non riuscendo a capire dove quel Nano prendesse tutto quel fiato per parlare, né il motivo per cui continuasse a punzecchiare gli Elfi in quel modo. «Sono impressionato, devo ammetterlo.» fece, fermandosi e guardandosi intorno. «Gimli ha sempre osannato il vostro lavoro, e delle volte pensavo esagerasse; ma dovevo saggiarlo sulla mia pelle per capire appieno le sue parole.»

Dáin ridacchiò sotto i lunghi baffi intrecciati. «Gimli, come tutti i Nani, è orgoglioso del suo popolo, e nessuno di noi userà mai parole sufficienti per descrivere la nostra vita e il nostro lavoro. Non mi meraviglio, quindi, se dici che abbia esagerato. Ma come vedi, figliolo, l’esagerazione non è esattamente la realtà.» E iniziò a raccontargli di come i suoi antenati avessero scavato la bellezza dei Colli Ferrosi, e di come la sua città somigliasse strutturalmente alla sua tanto adorata Capitale Bianca. Boromir dovette ammettere di essere incuriosito, ma l’idea di una Minas Tirith interrata sotto centinaia di metri di pietra non gli piacque.

«Avete finestre e terrazze?» gli domandò. Ricordava che, durante l’infinito viaggio a Moria, avesse visto solo uno spiraglio di luce provenire dall’alto**, e non riusciva a concepire una vita senza l’aria fresca del vento sul viso.

«Oh, sì, le abbiamo. Non molte, a dire la verità; sono per lo più di vedetta e sono accessibili solo ai guardiani. Ma il cerchio dei colli permette un luogo riparato e protetto, cosicché chiunque voglia uscire all’aria aperta possa farlo senza dover rischiare di essere attaccato da qualche imprudente. Erebor, invece, ha solo un terrazzo, e si affaccia sull’ingresso. Molto bello ed imponente, non c’è che dire.»

«Mi piacerebbe visitare il Nord e i vostri regni.» Boromir pensò che avrebbe potuto farlo, un giorno, accompagnato da Brethil che conosceva quelle terre meglio delle sue tasche. Ma quello era l’ennesimo sogno che sarebbe rimasto tale per parecchi anni.

«Beh, ragazzo mio. Le porte della mia città sono sempre aperte per te e il tuo popolo.» gli disse, allegramente. «Ma inviami un’aquila prima di partire; odio farmi trovare impreparato di fronte alla visita di un amico.»

Boromir sorrise e annuì. Continuarono il loro sopralluogo con calma, mentre il cantiere attorno a loro si animava sempre di più. Un soldato di Gondor giunse di corsa, per avvisarlo di due ospiti inaspettati.

Dáin ridacchiò. «Ah, parli della mia paura più grande, ed eccola qui! Fortuna che non sono il padrone di casa.»

Il Signore di Osgiliath sembrò perplesso; non aspettava certo visite durante quel soggiorno. Sapeva che Éomer avrebbe raggiunto Minas Tirith in quel periodo, ma dubitava che fosse passato per salutarlo. Seguì il soldato, lasciando indietro Dáin al suo lavoro, e si chiese chi potesse volere la sua attenzione, finché non svoltò un angolo e vide un paio di cavalli bruni accettare con gioia le carezze dei propri cavalieri. Boromir spalancò gli occhi per la sorpresa e li accolse con un abbraccio e un gioviale sorriso.

«Che mi venga un colpo, non vi aspettavo certo così presto!» esclamò. Elladan ed Elrohir ricambiarono il saluto con affetto e risero.

«Avevamo promesso alla nostra thêl che saremmo tornati in tempi ragionevoli.»

«E noi manteniamo sempre la parola data.»

Boromir non si sentì così sollevato da tempo: sapeva quanto Brethil amasse i figli di Elrond e aveva dovuto sopportare la tristezza del suo viso quando erano partiti. Sapere che fossero tornati e che il sorriso sarebbe comparso nuovamente su quelle belle labbra non poté che farlo gioire. «E sarà più che felice di rivedervi, ne sono sicuro. Ma ella non è qui, si trova a Minas Tirith con il Re.»

Elladan annuì. «Lo sappiamo bene. Volevamo solo assicurarci che il nostro vecchio amico di Gondor stesse bene, e con lui la sua città.»

«Non sono mai stato meglio. E Osgiliath si riprende velocemente, come potete vedere.»

L’espressione di Elrohir nel guardarsi intorno, circondato di Nani, fu impagabile. «Devi essere proprio un Uomo coraggioso, Boromir, per sopportare tutta questa testardaggine.»

«Ti ricordo gentilmente che sei in minoranza qui, messer Mezzelfo. Quindi pondera bene le tue parole.» fece la voce di Dáin, che infine si era avvicinato, spinto dalla sua sconfinata curiosità.

L’altro sorrise, senza timore né la benché minima voglia di litigare. «Ebbene, non siamo qui per riaccendere vecchi asti, mio buon Nano.» E il fratello gli diede man forte. «Perché, invece, non ci mostri cosa state facendo, Re dei Colli Ferrosi?»

Boromir alzò gli occhi al cielo, sforzandosi di non ridere, poiché quei due erano anche peggio di Merry e Pipino quando si trattava di mettere in mezzo qualcuno. E quale modo migliore vi era, se non adulare un Nano osannando le fatiche dei suoi lavori? Dáin, ovviamente, ne era ben consapevole tanto quanto era vanitoso; così s’inchinò profondamente e riprese a parlare, e parlare ancora. L’Uomo scambiò un’occhiata divertita con i gemelli, e tutti e tre seguirono il Nano, ormai perduto nel suo monologo.

Si fermarono ad un tavolo, su cui Rulin e i suoi figli prendevano alcune decisioni e disegnavano il progetto. Dáin fece le presentazioni, orgoglioso dei suoi lavoratori migliori. «Egli è Rulin, il miglior carpentiere che i Colli Ferrosi abbiano visto. La sua famiglia ha una lunga tradizione alle spalle. E loro sono due dei suoi figli, Tarón e Káir.»

I gemelli li osservarono con curiosità, mentre quelli li accoglievano con un inchino, ed Elladan gli si avvicinò. Poi lo riconobbe e il suo viso si fece ancor più luminoso. «Rulin, discendente di Ainariël, ma certo! È da parecchio che non vieni a trovarci ad Imladris.»

Quello, che aveva capito subito chi avesse di fronte, annuì. «La guerra e la mia famiglia mi hanno tenuto lontano dai vostri confini, mio signore Elladan... o dovrei dire Elrohir?»

I gemelli risero, ed Elrohir, che era alle spalle del fratello, si affrettò a rassicurarlo di aver detto bene al primo tentativo.

«E preferisco che lavori unicamente per me, che per chiunque altro.» aggiunse Dáin, senza nascondere la sua possessività nei confronti del Nano.

«Sei molto fortunato ad averlo tra la tua gente.» fece Elrohir. «Egli non solo è un abile carpentiere ed artista, ma possiede un’infinita saggezza e una buona dose di coraggio.»

I figli del Nano osservarono il padre con orgoglio, e sebbene non sapessero chi fossero quei due Elfi, accolsero con fierezza le loro parole.

«Ne sono ben consapevole. Ecco perché ne sono geloso, figlio di Elrond.» Il Nano riprese a camminare e, con un cenno del capo, si congedarono, dirigendosi verso Glóin che trasportava pietre da una parte all’altra.

Káir li osservò finché non sparirono alla vista, e si voltò sconvolto verso Rulin. «Figlio di Elrond? Quelli erano i principi di Forraspaccata?»

Il Nano sorrise. «E i Mezzelfi più amabili che abbia mai conosciuto. Potranno dirvi molto sulla nostra antenata, se lo volete. Ma ora torniamo a lavoro, abbiamo ancora molto da fare prima che la giornata termini.»

 

 

A non molte leghe di distanza, nella Città Bianca, qualcuno aveva l’umore a terra, quella mattina. E lei, che più di lui avrebbe dovuto risentirne, sembrava così felice e spensierata che per un attimo si chiese se non avesse sognato tutto. Guardò i nipoti, che lavoravano a testa china accanto a lui, i segni della sgridata che avevano dovuto subire la notte prima ancora visibili nei loro occhi, e si convinse che no, non aveva sognato nulla. Lui e Trán avevano discusso pesantemente, lo ricordava bene. Il sapore amaro di quello schiaffo bruciava ancora il suo ego e non l’avrebbe perdonata facilmente; oltre al fatto che trovava profondamente ingiusto che lei fosse di buon umore, mentre lui continuava a rivivere mentalmente quel diverbio e, soprattutto, la scoperta che aveva fatto su suo padre.

Ora era a quota due Nani-per-metà ad avergli salvato la vita, e non si sarebbe stupito se avesse scoperto che anche gli altri fratelli avessero fatto altrettanto. Non solo doveva ringraziare lei, per quella dannata freccia che le aveva lasciato una brutta cicatrice sul braccio, ma ora avrebbe dovuto esprimere la sua profonda gratitudine anche al padre. Ricordava bene quando era caduto sulle proprie ginocchia, incapace di difendersi a causa della debolezza data dal troppo sangue perso; non era grave quanto le ferite riportate durante la Battaglia dei Cinque Eserciti, in cui aveva seriamente rischiato di morire ed era dovuto rimanere bloccato su un letto per i tre mesi seguenti, ma nonostante la sua caparbietà nel voler continuare a combattere, non era riuscito ad alzare il braccio con lo scudo; e se non fosse stato per quella sagoma che si era frapposta tra lui e il suo assalitore, Thorin non sarebbe stato lì, quel giorno.

Si passò una mano sulla fronte, interrompendo il suo lavoro all’incudine per qualche istante. Era tremendamente irritato. Poteva sentire chiaramente la sua risata, anche se erano distanti ben tre stanze; l’unica cosa che avrebbe voluto fare in quel momento era di raggiungerla e zittirla in qualche modo – e che fosse il più duro possibile. Ma ciò che più lo rendeva irrequieto, e quindi particolarmente suscettibile all’ira, era il fatto che non riuscisse a togliersi dalla mente l’immagine di lei che gli sorrideva con imbarazzo, gli occhi azzurri che parevano zaffiri brillanti sotto la luce del sole, che a volte lo sfidavano, a volte lo evitavano, e quei capelli rossi e indiavolati, sciolti e mossi che parevano soffici alla sola vista. Quei pochi e brevi momenti che erano riusciti a ritagliare senza litigare sembravano lontani anni luce, e si chiese perché ne sentisse la mancanza.

Era anche per questo che la detestava. Perché continuava a pensare a lei, a quanto fosse graziosa e solare, eppure orgogliosa e testarda quanto lui; e a quanto avrebbe voluto provare nuovamente la piacevole sensazione di ricevere un sorriso sincero, solo per sé. Da quando lo stoico Thorin Scudodiquercia, Re Sotto la Montagna, perdeva tempo a fantasticare su una donna? Proprio lui, che deprecava il matrimonio e il cui unico amore era rivolto alla sua Erebor e al suo popolo!

Il soggetto dei suoi pensieri, d’altro canto, non poteva essere più felice. E non solo perché si era tolta un peso dallo stomaco confessando la verità sul gesto di suo padre, ma perché lo schiaffo che aveva dato al Re di Erebor era stata una liberazione. Quel Nano aveva provato la sua pazienza più volte e, come aveva temuto ed atteso, il limite era stato superato, e lei aveva agito di conseguenza. Thorin avrebbe potuto continuare ad insultarla all’infinito, ma non avrebbe mai accettato ingiurie sul conto di suo padre, o di un solo singolo fratello. Conosceva bene cosa fosse l’onore e la dignità, e non gli avrebbe permesso di calpestarli entrambi.

E poi, quel giorno era bello perché la notte precedente si era confidata per la prima volta con qualcuno che non fosse uno dei suoi fratelli. Dopo il litigio con il Re, infatti, Brethil le era corsa dietro, spiegandole come avesse visto la scena – e non per sua scelta, si era affrettata a dire. Così avevano camminato insieme verso la sua momentanea residenza, e si era sfogata di tutta la rabbia e le paure che la stavano consumando. Brethil era un’ottima ascoltatrice, e quando finì si dimostrò anche una buona confidente. Era una donna ancora misteriosa, per lei, ma era palese che avesse dovuto affrontare numerose avversità per diventare la persona che era, e le sue parole l’avevano aiutata ritrovare la calma che la contraddistingueva. E quel giorno avrebbero pranzato insieme. Chi l’avrebbe mai detto che potesse essere in grado di stringere amicizia? Con un’Umana, tra l’altro!

Al rintocco della campana che segnava mezzodì, Trán si affrettò a finire il suo lavoro. Brethil, d’altra parte, era già giunta alle fucine. Quando entrò nella sala principale incontrò subito lo sguardo di Thorin; egli sembrò indurirsi e tornò al suo lavoro, limitandosi a salutarla con un breve cenno del capo. La donna si era scusata per il comportamento poco signorile della notte prima, perché essere beccata a spiare non era certo il migliore dei modi per conquistare il suo rispetto. Ma Thorin non era realmente adirato con lei, e sapeva che era stata invischiata nelle trame di quei curiosi dei nipoti. Fili e Kili non alzarono il volto dalla loro postazione, ma Brethil notò con un certo divertimento che, nonostante la bella sgridata che si erano presi proprio dallo zio accanto a loro, stavano cercando di nascondere un sorrisino.

Thorin non era stupido, e ovviamente li aveva notati. «Andate alla mensa senza di me, voi due. Così potrete ridere quando volete senza che io sia tentato dall’idea di accompagnarvici a calci.»

I due annuirono all’istante e, quando passarono accanto a Brethil per prendere la via d’uscita, le strizzarono un occhiolino. La donna scosse mestamente il capo, ma non se ne andò. Incrociò le braccia, poggiandosi contro il bordo di un tavolo in legno.

«Per quanto mi riguarda, io non ho visto niente.» disse, guardando ovunque, tranne che il Nano. Thorin annuì e le fu grato. «Ma permettimi di dirti che te lo sei meritato.»

Il Nano sospirò pesantemente, perché rispettava la donna che aveva di fronte e non aveva intenzione di litigare anche con lei. Incrociò le braccia al petto, nella paziente attesa di una spiegazione. «Su quali basi lo affermi?»

«Conosco i pregiudizi, di qualsiasi natura essi siano, mio signore. Ho dovuto subire di peggio, e lo sto provando nuovamente sulla mia pelle in questo ultimo periodo.» Brethil si decise ad osservarlo, i suoi occhi grigi che si addolcirono un poco. «Io e Trán siamo simili, mio signore: possiamo accusare gli insulti di chiunque senza battere ciglio, però la famiglia è sacra. Ma soprattutto, il disprezzo di chi ammiriamo è doppiamente doloroso, e quello è difficile da sopportare.»

Trán giunse in quel momento, interrompendo la loro conversazione. Non degnò il Nano di uno sguardo, ma sorrise gioviale alla sua nuova ed unica amica. «Buon giorno, mia signora! Sono felice che sia venuta.»

«Nessuna formalità, ti prego. Andiamo?»

Brethil e Thorin si scambiarono un’ultima occhiata che parlava per sé, e le due donne lo lasciarono solo, a rimuginare su quelle parole che gli avevano accarezzato le orecchie e ora la mente.

Le due raggiunsero velocemente Fili e Kili, e camminarono insieme verso la mensa dei soldati. L’imbarazzo per ciò a cui avevano assistito la notte precedente fu spezzato da Trán, che fece finta di non sapere e iniziò a domandare a Brethil cosa avesse fatto quella mattina.

Lei sorrise, senza divertimento. «Ho intavolato una piacevole discussione con il Secondo Capitano di Gondor.»

«È un Uomo affabile?» domandò ingenuamente Kili.

«Puoi dirmelo tu tra qualche istante.» replicò la donna, il cui viso s’indurì visibilmente nel vedere Ecthirion e Mardil camminare nella direzione opposta. Si guardarono in cagnesco, eppure gli Uomini si fermarono.

Fu il primo a parlare, come sempre. «Miei gentili ospiti, vedo che la donna di casa sta compiendo il suo dovere e fa gli onori scortandovi a pranzo. Non è forse questo il tuo compito, dama Brethil? La prossima mossa quale sarà? Servirai ai tavoli?»

«Se solo potessi farlo, ti consiglierei caldamente di non presentarti; potrei accidentalmente far cadere troppo pepe sul tuo piatto. E il Re non ha bisogno di un Generale a corto di fiato, giacché il tuo lo usi molto per dare aria alla bocca.»

I Nani rimasero scioccati, non aspettandosi certo un così duro scambio di parole. Ma non avrebbero potuto immaginare altro, conoscendo la tempra della donna – del resto, era diventata la Prima Guardia del Re, e un motivo ci sarebbe pur dovuto essere.

Ecthirion divenne paonazzo per l’ennesimo affronto e si allontanò a passo spedito, borbottando vendetta; Mardil lo seguì senza fiatare, ma si voltò per lanciarle un ultimo ghigno. Brethil sospirò di sollievo nel vederli andarsene. Si voltò verso i Nani e sorrise; il velo di ira era sparito dal suo viso. «Scusate le mie parole, ma le intendevo tutte.»

Fu allora che Fili e Kili scoppiarono a ridere, e Trán li seguì molto presto. Il biondo la applaudì. «Mia signora, sei davvero la donna più incredibile che abbia mai conosciuto. E scusa le mie parole, ma le intendo tutte.» aggiunse, parafrasandola.

Lei rise. «Ne sono onorata, mastro Fili. Ma ora andiamo, ho fame.»

Legolas e Gimli erano già seduti, in attesa che i loro amici li raggiungessero, e Trán sentì lo stomaco contorcersi inspiegabilmente. Ciò che la sua amica disse poco dopo non l’aiutò di certo.

«Aragorn arriverà tra poco.» fece Brethil, salutandoli con un gesto del capo. «E Dama Arwen lo accompagnerà.»

Gimli arrossì. Si sentiva sempre a disagio quando doveva pranzare allo stesso tavolo della Regina, nonostante quella non fosse certo la prima volta – il rutto libero, infatti, non era consentito in presenza della Stella del Vespro. Ma era Trán quella più sorpresa e spaventata: non solo temeva che Thorin potesse sedersi con loro, ma l’idea che anche i sovrani di Gondor  avrebbero presenziato al pranzo era troppo per lei. Non poteva crederci.

Trán tirò una manica di Brethil, attirando la sua attenzione. «Quando dici Aragorn e Dama Arwen, intendi...»

La donna sorrise, notando il suo disagio, e le indicò due persone alle sue spalle. La Nana seguì il suo sguardo e sbiancò. Neppure al cospetto del suo Re aveva provato tanto imbarazzo: era sporca di carbone, puzzava di ferro e indossava l’abito peggiore che potesse avere; per non parlare dei suoi capelli, le cui trecce erano sfatte e pareva appena alzata dal letto, mentre i due che aveva di fronte erano talmente belli e solari, pur indossando abiti di comune fattura, che lei si sentì una miserabile. Sobbalzò sulla sedia e si affrettò a chinare il capo e la schiena, ricordando le buone maniere. «M-miei signori.»

Brethil parlò per lei, visto che la Nana non riusciva farlo. «Ella è Trán, figlia di Rulin, dei Colli Ferrosi.»

La Stella del Vespro sorrise, avvicinandola e chinandosi, per alzarle il mento con un dito affusolato. «Mae govannen, mellonamin.» le disse, spedendole un brivido lungo la schiena. Aveva la voce più melodiosa che avesse mai udito. «O forse dovrei dire: Idmi, bâhinhuh!»

Trán arrossì. Non conosceva l’Elfico, se non qualche sporadica parola, e ringraziò la sua accortezza per averle tradotto ciò che le aveva detto. «Grazie, mia signora. È un onore per me, essere qui.»

«Ed è un onore per noi ospitare te e la tua famiglia.» fece Aragorn.

Arwen raddrizzò la schiena, continuando ad osservarla. «Il tuo volto mi riporta alla mente una persona che conobbi molto tempo fa.»

Vedendo che la Nana aveva perso l’uso della parola, Legolas decise di darle una mano d’aiuto. «Ella è discendente di terzo grado di Ainariël la Gemma Rossa, mia signora. E suo padre, e il padre di suo padre, ha lavorato presso il regno del tuo, tanti anni fa.»

Trán chinò il capo, ringraziando mentalmente sia Brethil che l’Elfo per aver parlato al suo posto. Thorin, che era giunto con Dwalin, Balin, Káel e Trión, appena in tempo per godersi lo spettacolo della ragazzina a corto di parole, incrociò le braccia, a metà tra il sarcasmo e l’irritazione. Perché mostrava tutto quel rispetto per due sovrani che non erano i suoi, mentre con lui non si era mai abbassata a tanto?

Nell’udire quelle parole, Arwen sorrise più apertamente. «Ora capisco, mi ricordo di lei. Ahimè, ha lasciato queste terre tanto tempo fa.»

Gli occhi di Trán cercarono quelli della Regina, sentendo uno strano senso di malessere nel profondo del cuore; non aveva mai pensato di ricercare le sue origini scavando nel passato, ma il pensiero che la donna che aveva dato inizio alla sua stirpe avesse abbandonato Arda, privandola della curiosità e della conoscenza, la debilitò. «È... è morta?»

«No.» Arwen le accarezzò una guancia. «Partì per le Terre Immortali quando il suo amato morì. E voi siete i suo fratelli, immagino.» aggiunse, guardando oltre le sue spalle.

Káel prese per mano il minore e si avvicinò inchinandosi. «Káel e Trión, figli di Rulin, al vostro servizio, miei signori.»

«La vostra famiglia sta dando un grande aiuto al nostro popolo e alle nostre città, figli di Rulin.» disse Aragorn, allargando le braccia. «Sedete e pranzate con noi. Sarete affamati.» I gemelli si scambiarono un’occhiata entusiasta e presero posto allo stesso tavolo dei sovrani di Gondor, ancora increduli. Thorin si sedette sull’unica sedia libera rimasta, di fronte alla Nana, e lo fece con grande disappunto; non aveva voglia di dover sopportare il suono della sua voce o la vista dei suoi capelli rossi, né intendeva trovare assolutamente deliziosa la tonalità fin troppo rosea di quelle guance lisce e solitamente pallide, quando la Regina le rivolgeva la parola. Così spostò l’attenzione ai suoi amici, ed intavolò discussione con loro.

Il tranquillo pranzo fu però interrotto bruscamente da una delle guardie di vedetta all’ingresso della città. «Mio signore, mio Re! È appena arrivato un messo dal Guado sul Poros. È sfinito, ma dice che è della massima urgenza.»

Aragorn e Brethil si alzarono contemporaneamente, lasciando la tavola con delle scuse, prima di sparire alla vista. Legolas e Gimli li seguirono, lasciando la Regina di Gondor sola, in compagnia di un gruppo di Nani che si osservarono tra loro, senza sapere esattamente cosa dire o fare – o se dire e fare qualcosa, in realtà. Proseguirono il pasto in silenzio e fu Thorin, poco più tardi, a spezzare l’aria di imbarazzo e nervosismo, dopo aver schiarito la gola. «Mia signora, gradite che vi riaccompagniamo alla Cittadella, prima di tornare al lavoro?»

Arwen sorrise e annuì. «Mi farebbe piacere, sire Thorin. E vorrei sapere di più su Erebor, se vi andasse di parlarmene.»

Egli si alzò e le porse il braccio; pur essendo nettamente più basso di lei, Thorin era comunque più alto di un comune Nano, e la Regina accettò il galante gesto posandovi sopra una mano. Lasciarono l’edificio tutti insieme, ma Trán non si sentì di seguire quel gruppo di persone importanti; oltre al fatto che, vedere Thorin comportarsi così gentilmente con un Elfo, le fece ribollire il sangue dalla rabbia. Lui, che tanto disprezzava quella razza, si era tramutato improvvisamente nell’impeccabile sovrano che sapeva come trattare una dama di corte. E ne fu gelosa, perché sapeva che non l’avrebbe mai provato sulla sua pelle. Il perché lo volesse, poi, era un mistero.

Si fece immediatamente da parte quando sentì gli zoccoli di qualche cavallo, sul lastricato alle sue spalle. Aragorn e la sua scorta era su uno di essi, e reggeva a stento il corpo apparentemente senza vita di qualcuno.

«Largo! Fate largo al Re!» gridava Brethil, che apriva il gruppo di cavalieri, mentre lanciava al trotto Nerian. Thorin e gli altri osservarono con costernazione la scena, chiedendosi cosa stesse succedendo e chi fosse il moribondo.

«Gimli, quali notizie?» domandò il Re dei Nani a quello, che sedeva come sempre alle spalle di Legolas sullo stesso cavallo.

«Pare che ci siano problemi a Sud; quel poveretto ha cavalcato senza fermarsi per mangiare e bere, pur di giungere qui in tempo. Sarà un miracolo se passerà la notte.»

Legolas li tranquillizzò. «Egli è in buone mani, ora. Aragorn saprà come farlo riprendere; le sue mani sono quelle di un guaritore.»

 

 

Anche quella notte Trán non riusciva a dormire. Da quando aveva lasciato i Colli Ferrosi, quella stava diventando una scomoda abitudine. Aveva persino chiesto consiglio a Legolas su qualche tisana, non riuscendo a parlare con Brethil, probabilmente troppo indaffarata con le notizie che erano giunte quel giorno. Ma l’Elfo non era stato di grande aiuto: anche lui aveva ben altro di cui occuparsi, quella giornata, e con un sorriso enigmatico le aveva detto che non ci fosse infuso migliore di un riordino dei suoi pensieri e dei suoi demoni. Trán aveva sospirato, senza capire, e ora si ritrovava nuovamente tra le strade deserte di Minas Tirith, al quarto livello, poco lontano dalla sua momentanea abitazione. Si fermò lungo una balaustra, che dava a strapiombo sugli altri tre cerchi della città, e rimase ad osservare, incantata. Alla sua destra l’imponente mole della pietra viva che componeva la caratteristica chiglia, la impressionava e l’affascinava. Si chiese che vista ci potesse essere lassù, ma era anche consapevole che non sarebbe potuta arrivarci da sola; lì vi erano gli edifici più importanti della città e sicuramente le guardie non le avrebbero permesso di passare.

Sbuffò nuovamente, sperando che il sonno la cogliesse all’improvviso e le desse un po’ di riposo, ma la sua mente non aveva intenzione di dormire. Si domandò quali fossero le notizie urgenti giunte a Gondor, e se ci fosse da preoccuparsi. Non aveva alcuna intenzione di essere nuovamente spinta in un’altra guerra, che tra le altre cose non sarebbe stata neppure la loro. Era partita per stare accanto alla sua famiglia e per vivere un’avventura al di fuori dei Colli Ferrosi, non per rischiare di perdere tutto nuovamente. Anche se non capiva molto come gli Esterling, che si erano rivelati una minaccia durante il loro viaggio, potessero creare problemi al Sud di Gondor.

Cacciò via quei pensieri, perché non era pratica della geografia di quella parte della Terra di Mezzo; e si ricordò del suo pessimismo, che spesso la portava a vedere oltre e a trarre le conclusioni sbagliate. Per quanto potesse saperne, quel messaggero avrebbe potuto portare un trattato di pace e tutto sarebbe concluso prima ancora di iniziare. E se quelle erano le sue preoccupazioni che aveva tentato di riordinare, perché continuava a sentirsi più sveglia che mai?

Lì, poggiata con le braccia e il mento sul parapetto in pietra, non si accorse di qualcuno, sul cerchio superiore, che la osservava immobile, indeciso se raggiungerla oppure se tornare ai suoi alloggi. Ma era chiaro che entrambi soffrissero d’insonnia, quella era l’ennesima prova; e forse era un altro segno di come avrebbe dovuto cogliere l’occasione al balzo e tentare di avvicinarla ancora una volta, forse l’ultima. Il ricordo di quello schiaffo era ancora fresco, certo, ma quel gesto e le parole della donna Umana lo avevano fatto pensare per il resto della giornata. Possibile che quella Nana lo stimasse sul serio? Possibile che il suo comportamento fosse solo dettato dalla delusione?

Thorin prese un profondo respiro, prima di incamminarsi verso delle scale nascoste tra le mura e incassate tra due edifici, evitandosi di percorrere l’intera lunghezza del quinto cerchio per scendere al quarto. Il silenzio delle strade fece quasi rimbombare il suo passo pesante sulla pietra, e lei si voltò di scatto, intimorita. Si rilassò quando lo riconobbe, ma gli voltò le spalle. Attese che lui dicesse o facesse qualcosa, ma era evidente che non avesse voglia di fare la prima mossa – né lei aveva intenzione di mostrarsi debole e desiderosa di scambiare due parole. Così si mosse, senza fiatare, decisa a tornare alla sua stanza.

«Aspetta, non andare. Gradirei parlarti.»

Trán sentì distintamente il proprio cuore accelerare in modo preoccupante. Da quando quel Nano aveva acquistato quel potere su di lei?

Esattamente da quando lo incontrasti quel giorno ad Erebor; sei stata solo troppo cieca e adirata per volerlo ammettere prima.

Decise di non muovere ulteriori passi, ma continuò a voltargli le spalle, in attesa. Lo sentì sospirare con pesantezza.

«Hai intenzione di darmi le spalle per molto ancora?» la rimproverò, la voce bassa e vibrante che pareva un grido in tutto quel silenzio. «Vorrei guardare in viso il mio interlocutore, se possibile.»

E io gradirei non farlo, al contrario. «Ebbene?» domandò, voltandosi ed incrociando le braccia, stando ben attenta a non intercettare quello sguardo penetrante.

Thorin deglutì, prima di parlare, e lei si chiese dove fosse finito il Re fiero e bello che, con gentilezza e calma, prendeva la mano della Regina di Gondor senza battere ciglio.

«Alla luce di quanto è accaduto ieri notte – e i giorni precedenti, io... vorrei chiederti una tregua.»

Trán credette di aver udito male. «Come, prego?»

«Hai sentito bene, non mi ripeterò.» Sostenne con freddezza lo sguardo prima perplesso, poi indignato di lei, chiedendosi come avrebbe reagito a quella assurda richiesta.

«Una tregua? La chiedi a me?» La Nana rise, senza ironia. «Ho letto e udito così tante storie sul coraggioso e prode Thorin Scudodiquercia che ha rischiato la sua vita per riconquistare il suo regno, che ha sacrificato tutto pur di dare una casa al suo popolo dopo l’arrivo del drago. L’immagine di quel Re in esilio che avrei voluto conoscere e che ho imparato ad ammirare è ancora qui, da qualche parte nella mia testa; me l’hai mostrata un paio di volte, ma sta svanendo, sostituita da un orgoglioso ed arrogante Re che mi detesta senza motivo. Se vuoi che ti veda per ciò che realmente sei, e che credo tu sia, spetta a te darmi una tregua, non viceversa. E magari, anche delle scuse.»

«Io non ti detesto.» replicò duramente il Re, quasi senza rendersene conto e come se non avesse udito altro che quelle poche parole; come se non avesse udito che lei lo ammirava sul serio, in fondo. No, lui non la detestava; almeno, non nel profondo e vero senso del termine. Odiava il fatto che non provasse il minimo riguardo nei suoi confronti, come se non si rendesse conto di avere un sovrano davanti agli occhi, eppure per questo l’interessava; odiava che avesse sangue Elfico, eppure con tutte le sue forze gli aveva dimostrato di essere una fiera Nana da capo a piedi; odiava rendersi conto che la sua mente volava troppo spesso a lei, anche quando avrebbe dovuto concentrarsi sui suoi doveri.

In quel senso la odiava.

La odiava perché non riusciva a farlo sul serio.

La vide arrossire al chiaro di luna e si chiese se avesse detto o fatto qualcosa di inappropriato, senza accorgersene. Comprese troppo tardi di aver formulato il suo ultimo pensiero a voce alta quando lei ripeté le sue parole, incredula.

«Mi odi perché... perché non riesci ad odiarmi?» Trán si poggiò contro il parapetto in pietra, cercando un sostegno per sostituire momentaneamente quello debole delle ginocchia, che parvero cedere sotto quelle parole. Cosa avrebbe dovuto significare? «Mio signore? È così che hai detto?»

Thorin si passò una mano sul viso stanco. «In realtà, non so neppure io che cosa ho detto e cosa ho pensato.» borbottò, a disagio. Da quando non aveva più il controllo della sua stessa lingua? «Quello che so – e che sto tentando di dire in modo alquanto penoso, è che mi dispiace. Meriti delle scuse e ti chiedo di perdonarmi per le orribili cose che ho detto di te e della tua famiglia, ieri come in passato. Forse avrei potuto evitare di subire la miseria della mia gente se gli Elfi ci avessero aiutato nel momento del bisogno; e credimi, ho covato così tanto risentimento nei confronti di quella razza che ne avanzerebbe per le prossime future ere. Ma mi rendo conto che tu, i tuoi fratelli, e tuo padre, non avete colpa. Mi avete dimostrato caparbiamente di appartenere solo ai Nani, e lo avete fatto nel migliore dei modi. Per questo motivo ti chiedo scusa. Ma se non vuoi perdonare il mio comportamento, lo capisco e lo accetterò.»

Trán si rese conto di essere in apnea solo quando sentì l’urgente grido dei suoi polmoni che cercavano aria. Non poteva credere di aver udito quelle parole, provenienti proprio da quelle labbra che tanto l’avevano disprezzata. Lo vide sostenere il suo sguardo per qualche istante prima di abbassarlo per il senso di colpa, orgoglioso e fiero nonostante quella sua personale sconfitta – perché ne era sicura, per Thorin Scudodiquercia chiedere perdono equivaleva ad una sconfitta.

«Lo dici solo perché ti senti in debito nei confronti di mio padre?» riuscì a chiedere.

«No, lo dico perché è quello che credo.»

La Nana annuì, prendendo coscienza di quelle parole. «Anche io credo in quello che ho detto, mio signore. E vorrei chiederti scusa a mia volta, per il mio comportamento... infantile. A volte l’orgoglio mi rende cieca. E... sì, ti ammiro, e vorrei davvero conoscerti, mio signore. Perciò...» Si fece coraggio per muovere qualche passo verso di lui, che la osservò ora con curiosità. Sollevò l’orlo della gonna, inchinandosi in una riverenza lenta e rispettosa. «Il mio nome è Trán, figlia di Rulin, dei Colli Ferrosi. È un piacere fare la tua conoscenza.»

Fece passare qualche istante di sorpresa, prima che abbozzasse un sorriso, capendo cosa stesse facendo. Avevano cominciato con il piede sbagliato, e quello era un buon momento per tentare di cancellare il passato e rifare tutto dall’inizio. Le prese una mano con gentilezza, chinandosi. «Thorin, figlio di Thráin, Re Sotto la Montagna, al tuo servizio. Il piacere è mio.» E così dicendo le accarezzò il dorso con le labbra, in un bacio casto e lento. Trán sperò profondamente che non percepisse il battito impazzito del suo cuore.

La riaccompagnò alla sua stanza con le mani intrecciate dietro la schiena e rimase fermo, davanti alla porta ormai chiusa, senza sapere bene a cosa pensare. Eppure quella notte, dopo molte in bianco, entrambi presero sonno facilmente appena poggiarono la testa sul cuscino, poiché i demoni che stavano combattendo erano stati parzialmente e finalmente sconfitti.

 

 

 

 

*

*Non mi riferisco all’Óin figlio di Gróin, che fece parte della compagnia di Thorin, ma di Óin figlio di Glóin; Lóin, invece, è un Nano di mia invenzione.

** Boromir si riferisce ovviamente alla stanza in cui trovano la Tomba di Balin e il cadavere di Ori; ovviamente nella mia storia loro non sono morti, quindi facciamo finta che la Compagnia dell’Anello abbia sì trovato il libro di Ori, ma che i Nani fossero riusciti a mettersi in salvo per tempo.

Qualche idea su ciò che ha da raccontare il messo – sempre che sopravviva? Le acque cominciano ad agitarsi – wohoho! Mentre sembrano calmarsi per due testoni di nostra conoscenza. ;)

Alla settimana prossima,

Marta. :)

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Capitolo 11
*** 11. ***


Buon pomeriggio!

Devo ancora riprendermi dallo shock eccitante del nuovo trailer de Lo HobbitThe Desolation of Smaug.

Da quel troll di Thranduil.

Da Legolas che combatte con Orcrist.

Dalla voce di Smaug.

Da Thorin che inizia a perdere il senno.

Da Balin che gli rifila un rimprovero con i fiocchi.

Da Bilbo che trova il suo coraggio.

Da TUTTO, insomma.

Quindi torno nel mio antro, a riguardarmelo per la millesima volta, sperando che qualche anima pia pubblichi su youtube la colonna sonora – perché devo averla. <3

Buona lettura e grazie, GRAZIE a tutti voi che mi seguite e mi sostenete!

Marta.

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

11.

 

17 Settembre 3019 T. E.

 

Poggiata contro il muro e con le braccia incrociate, Brethil chiuse stancamente gli occhi, mentre Ioreth si prendeva cura del messo. Era molto debole, stanco per la lunga cavalcata, e aveva iniziato a delirare.

La vecchia guaritrice, che tanti mesi addietro si era presa cura di lei quando era giunta più o meno in quelle condizioni a Minas Tirith, si mise le mani sui fianchi, stringendo le labbra. «Se non fosse stato per le mani del Re, che i Valar lo proteggano!, sarebbe già morto da ore.» disse, scuotendo il capo. «Mi chiedo perché dobbiate tutti farmi venire un colpo presentandovi moribondi alle mie porte: fermarsi cinque minuti per rifocillarsi, durante un viaggio, non è certo un vezzo, ma il necessario per sopravvivere. Mia zia Loreth diceva sempre che–»

Brethil aveva smesso di ascoltarla dopo la prima frase, come sempre. Quella donna aveva la brutta abitudine di parlare quasi senza riprendere fiato; ma non fu a causa dell’imminente mal di testa che fece finta di non averla di fronte, piuttosto per le parole sconclusionate del messaggero. Gli si avvicinò, chinandosi per ascoltarlo meglio, e alzò una mano per zittire la donna. Ioreth borbottò qualcosa contro l’insolenza dei giovani ed uscì dalla stanza, continuando a sbottare finché non sparì.

«Poros... la mia famiglia... pericolo... Harad! Harad!»

Brethil strinse le labbra, calmando l’Uomo quando tentò di mettersi a sedere con rinnovata forza. «Calmo, ora; sei al sicuro.» gli sussurrò, spostando i capelli scuri dalla fronte sudata. «Qual è il tuo nome?»

«Arthor... credo.»

«Bene, Arthor, voglio che beva un po’ d’acqua e ti rilassi.» Gli avvicinò un bicchiere e lo aiutò a bere; ma non vi era acqua, bensì un intruglio altamente fortificante che Aragorn aveva preparato qualche ora prima e che lo avrebbe aiutato a riprendersi velocemente; posizionò meglio i cuscini dietro la sua schiena e lo fece sdraiare su quelli, raddrizzandogli la schiena. «Va meglio?»

Quello annuì, con una smorfia dopo il primo sorso. «È disgustoso.»

«Ti aiuterà a ritrovare le forze perdute.» Brethil lo costrinse a finire la brodaglia, poi si drizzò nuovamente e lo osservò con intensità. «Ora, riesci a rispondere a qualche domanda?» Attese un cenno affermativo prima di riprendere. «C’è un pericolo dall’Harad per il Guado sul Poros? È questo che volevi dire, prima?»

«La mia famiglia... morirà se–»

«Arthor, non posso proteggere la tua famiglia se non mi dici esattamente come stiano le cose al Sud. Parla chiaro.» Sentì uno sguardo provenire dalla finestra e spostò velocemente l’attenzione alla bifora; non vide nessuno.

L’Uomo sospirò con fatica, la voce che tremava, mentre parlava come se ripetesse un messaggio imparato a memoria. «Un esercito si muove dall’Harad. Ora sta attraversando l’Harondon... giungerà al Guado in tre settimane, probabilmente.»

Brethil s’inumidì le labbra, secche per la tensione. Dunque, qualcosa si stava muovendo sul serio, a Sud. Gli Haradrim erano riusciti a riunire un altro esercito in così poco tempo? Dovevano essere davvero numerosi, se avevano intenzione di attaccare Gondor. «Quanti?»

«Ci-cinquemila. Forse di più.»

La donna sbiancò e strinse i denti, con forza. L’esercito di Minas Tirith era dimezzato, dopo la Guerra dell’Anello, e faticavano ancora a ripristinarlo. Giungevano a malapena a duemila lance, duemila e cinquecento contando i soldati di Faramir, e forse un paio di migliaia sommando quelli disponibili da Dol Amroth, dal Ringló e da Morthond. «Ne sei sicuro? Come lo sai? Li hai visti?»

«Io... lui lo ha–» Il capo di Arthor vacillò per qualche istante, prima di crollare su una spalla.

Brethil credette si fosse addormentato e strinse i denti con contrarietà, poiché non aveva potuto concludere la frase. Chi era il lui a cui si riferiva?

La brutta sensazione di qualcuno che li spiava si fece più forte e scorse un’ombra sparire dietro la finestra; estrasse Celeboglinn e con agilità saltò la bifora, atterrando sui giardini delle Case di Guarigione. Si diede all’inseguimento di quel mantello blu che svolazzava sulle spalle della spia, ma era agile e più veloce di lei, e svanì velocemente tra gli edifici.

Rinfoderò la spada e digrignò i denti, con più rabbia. Quando si voltò e vide Mardil, il suo umore scese sotto terra.

«Buon giorno. C’è qualche problema, mia signora?» le domandò, mellifluo.

«Hai visto qualcuno scappare? Indossa un mantello blu.» fu la sua replica, senza sprecarsi in cerimoniosi saluti.

Mardil scosse il capo, affranto. «Qualche ladruncolo, forse?»

La donna lo sorpassò senza una parola, tornando alle Case di Guarigione. Udì lo strillo di Ioreth, che nel frattempo era rientrata nella stanza del malato e si copriva le labbra con le mani. Brethil accorse in un istante e capì il motivo di tanto sgomento: Arthor non si era addormentato, era stato ucciso da un piccolissimo e silenzioso dardo che lo aveva colpito sul collo. Brethil non lo sfiorò, ma lo annusò e si accorse che fosse avvelenato. Guardò nuovamente verso la finestra, poiché la direzione della sua provenienza era esattamente quella, e corse da Aragorn, per riferirgli l’accaduto. Lo trovò con Legolas e Gimli, Imrahil, il figlio e i nuovi arrivati Dervorin e Duinhir; Ecthirion chiudeva il cerchio dei consiglieri. Aragorn alzò lo sguardo su di lei  bastò una sua occhiata per comprendere che qualcosa andasse storto.

«Il messo è morto, mio signore. È stato ucciso da un dardo avvelenato.» disse, senza troppi giri di parole. «Prima di morire mi ha detto che c’è un esercito proveniente dall’Harad che conta cinquemila teste, o più, e che si sta muovendo proprio ora nell’Harondon.»

Il Re non parlò, assimilando la notizia, mentre Ecthirion si alzò e le andò incontro. «È morto, dici? Ed è successo sotto il tuo naso?» esclamò, irato. «Se non riesci a proteggere un povero moribondo nella quiete delle Case, come credi di salvare la vita del nostro Re, donna?»

Con un gesto secco, Brethil si liberò dalla presa ferrea del soldato, che l’aveva afferrata per le spalle per scuoterla. Si trovò a disagio nel rendersi conto che quelle parole avessero un fondo di verità, e con umiltà si ritrovò a spiegare l’accaduto. «Se il Re vuole mettere in discussione le mie capacità, accetterò ogni sentenza. Ma c’è un altro problema: qualcuno che non voleva che parlasse si aggira tra le nostre strade, e dobbiamo trovarlo.»

«Non spetta a te dare ordini, ragazzina sfregiata.» sibilò Ecthirion.

Aragorn si alzò dal suo posto e li fece tacere entrambi. Quell’espressione seria e preoccupata non compariva sul suo viso da parecchi mesi. «Basta così, voi due. Brethil, non ho intenzione di punirti per ciò che è successo, poiché non ne hai colpa. Metterei la mia vita e quella di mia moglie nelle tue mani, lo sai bene. E hai ragione, qualcuno si è introdotto per non far parlare il messaggero, ma urge di più la situazione a Sud. Se ciò che egli ha detto è vero, e cioè che cinquemila lance stanno marciando verso Gondor, allora dobbiamo prepararci allo scontro e dobbiamo farlo prima che giungano alle nostre porte.» I due litiganti annuirono, e così anche gli altri. «Come stabilito, domani, Imrahil, partirai con i tuoi cento uomini, ma voglio organizzare la difesa ai confini meridionali. Abbiamo tempo per farlo, ma dobbiamo muoverci in fretta.»

Le ore successive vennero spese per disporre le strategie da usare: Aragorn ordinò che l’Anduin venisse sorvegliato costantemente e che ogni imbarcazione venisse controllata prima di attraversare Pelargir o Harlond; era probabile, infatti, che anche i Corsari mettessero a disposizione le loro barche per raggiungere più velocemente Gondor. Mille soldati sarebbero partiti per accamparsi nell’Ithilien del Sud, lungo la Via di Harad, e avrebbero costruito nel cammino delle torri di vedetta simili ai fuochi di segnalazione di Gondor, affinché altri mille Uomini fossero pronti a partire in caso di necessità; Aragorn non poteva permettersi di lasciare Minas Tirith svuotata di difese, soprattutto se vi era anche la minaccia degli Esterling dall’Est. Imrahil mise a disposizione i cinquecento Uomini, che aveva portato con sé e che erano accampati non molto lontano dal fiume Erui, a sud di Minas Tirith, e Dervorin e Duinhir spedirono delle aquile affinché parte del loro esercito si muovesse per presidiare i porti.

Gimli si fece avanti, ergendosi fiero. «Se Aragorn ha bisogno delle asce dei Nani, basta una tua parola, ed essi risponderanno.»

«Lo so, mio amico, e apprezzò la buona volontà del tuo popolo. Ma li ho chiamati qui per lavorare, non per metterli in pericolo in una battaglia che non è la loro.»

«È anche una nostra battaglia, Aragorn.» fece Legolas. «Se Gondor viene colpita, anche gli altri popoli liberi lo saranno. Gli Elfi che vivono con sire Faramir possono facilmente venire con noi, domani.»

Il Re soppesò le parole dei due. «Ebbene, preferisco tenere Thorin e i suoi valorosi Nani in città; potranno continuare a lavorare in pace, e saranno in grado di combattere in caso che le nostre difese cadano. Per quanto riguarda gli Elfi, sarei felice se alcuni di loro vi scortassero a Sud. Dei buoni arcieri sono sempre ben accetti in un esercito.» I due si chinarono alla volontà del sovrano.

Brethil e Imrahil lasciarono la Sala, Legolas e Gimli che li seguivano a pochi passi di distanza, dirigendosi verso i propri Uomini per impartire i primi ordini e disporre la preparazione della partenza. La donna si spaventò quando si rese conto che sarebbe stata lei a comandare i soldati di Minas Tirith. Aragorn aveva così tanta fiducia in lei da darle un compito così grande? Sarebbe stata in grado di prendere il comando di un battaglione così numeroso di uomini? E soprattutto, avrebbe ricevuto il rispetto che si dava a qualsiasi comandante o l’avrebbero surclassata solo perché donna?

Imrahil le sorrise, con fare paterno, indovinando i suoi pensieri. «Ragazza mia, hai sentito le sue parole: hai la sua vita e quella della Stella del Vespro nelle tue mani; non è forse quello compito più gravoso di comandare mille uomini?» Chinò il capo prima di salutarla e lasciarla con quelle parole confortanti. Legolas e Gimli le si affiancarono e scesero verso l’armeria.

Era l’ora di pranzo, ma nessuno dei tre aveva intenzione di mangiare. Incontrarono i Nani lungo la strada, diretti alla mensa, e Thorin s’informò sulle notizie del messaggero. La donna raccontò loro e velocemente cosa fosse successo, chiedendo di tenere gli occhi aperti nei confronti di qualsiasi losca figura girasse per le strade, e sembrarono preoccupati. Non si accorse di Legolas che si allontanò qualche istante.

«Quindi non sarà solo una spedizione di controllo.» notò Balin. «State andando in battaglia.»

Brethil annuì e Thorin contemplò la freddezza ostentata della donna, sebbene potesse chiaramente vedere il suo nervosismo dalla linea contratta della mascella e dalle sopracciglia crucciate. «Credi che raggiungeranno Minas Tirith?»

«Se lo faranno, allora le nostre difese saranno cadute e non voglio pensare a quest’eventualità.» Sentiva lo sguardo preoccupato di Trán e capì cosa stesse pensando in quel momento, poiché anch’ella aveva le stesse inquietudini: si erano trovate da poco e già dovevano salutarsi – e magari dirsi addio. «Ma farò tutto ciò che è in mio potere per bloccarli e tornare a casa, nel modo più sicuro possibile.»

Fili si fece avanti, prendendole una mano e stringendogliela con affetto. «Ci conto, dama Brethil. Altrimenti non avrò più la miglior compagna di allenamenti di sempre.» Lei abbozzò un sorriso stanco.

«Andiamo, ragazza.» disse Gimli. «Abbiamo un esercito da convocare, e poche ore prima della partenza.»

Ella lo guardò con sufficienza. «Dovrebbe confortarmi?»

«Sì, se pensi che non sarai sola.» Legolas le sorrise e le fece cenno di guardare avanti.

Brethil seguì il suo sguardo e lasciò che lo stupore prima, e la felicità poi, si facesse strada sul suo volto. «Melloneamin!» esclamò, facendosi scivolare quella corazza fredda che da sempre la distingueva, per correre incontro ai due gemelli di Imladris, che l’accolsero tra le loro braccia dopo tanti mesi di lontananza.

«Lle maa quel, thêl.*» le sussurrò Elladan, baciandola tra i capelli corti e neri.

«Di tutte le persone che mi aspettavo di vedere, voi eravate gli ultimi! Sono così felice di riavervi qui.»

Elrohir rise. «E noi siamo felici di averti resa felice. Abbiamo contato i giorni che ci separavano dal nostro prossimo incontro.»

«E ora abbiamo intenzione di non andarcene più.» proseguì il fratello.

I Nani osservavano la scena ammutoliti, ricordando di aver visto di sfuggita quei due volti in passato. Dwalin, come sempre, espresse i loro pensieri a voce alta. «Grandioso... altri Elfi.»

«Tranquillo, messer Nano, non vi disturberemo subito. Abbiamo una donzella da accompagnare, e a quanto pare la nostra gente da radunare.» Elrohir si rivolse a Brethil, ora più serio. «Ho inviato una richiesta d’aiuto con il mio cavallo verso gli Elfi dell’Ithilien; viaggerà più velocemente senza il suo cavaliere. Ci incontreranno lungo la via.»

Brethil annuì, parlando poi ai loro ospiti. «Vi chiedo di scusarmi, miei signori, ma mi devo congedare. Spero di rivedervi prima della partenza.»

«Saremo alle porte della città per augurarvi buona fortuna.» disse Thorin, chinando il capo e salutandola.

Quello strano assortimento di amici lasciò i Nani, ora molto inquieti. Nessuno di loro aveva pensato all’eventualità di una nuova guerra, quando avevano intrapreso quel viaggio. E Thorin si domandò quanto la sua gente fosse in pericolo. Sebbene l’attenzione dell’esercito di Gondor fosse rivolta verso sud, verso gli Haradrim, lui non aveva dimenticato la minaccia degli Esterling, ed Osgiliath era il primo avamposto che avrebbero assalito in caso di attacco. Lì, dove la maggior parte del suo popolo e di quello di suo cugino lavorava alacremente – e non certo preparato per una battaglia.

«So cosa stai pensando, ragazzo mio.» fece Balin, mentre avevano ripreso a camminare verso il tanto desiderato pranzo. «Dovremmo scambiare due parole con il Re.»

«Sì, domani, appena l’esercitò partirà, gli chiederò udienza. Non sarò tranquillo finché non saprò la nostra gente al sicuro. Molti di loro sono solo fabbri, artigiani e carpentieri; e la scorta militare che partì con noi non è sufficiente per un numero troppo elevato di assalitori.»

Trán rimase ferma dov’era, incapace di muovere un muscolo, mentre guardava la schiena dritta della donna sparire tra le strade della Città Bianca. Se stava davvero partendo in guerra, quante probabilità c’erano che potesse tornare indietro? Proprio ora che aveva scoperto il significato di amicizia, proprio ora che avrebbe voluto raccontarle di Thorin e del tanto agognato chiarimento della notte precedente. Non avrebbe sopportato di perderla, ora che l’aveva trovata; non avrebbe sopportato anche quel lutto.

Káel la richiamò. «Sorellina, se non ci affrettiamo non troveremo più niente da mangiare.»

«Mi è passata la fame. Scusami, torno un attimo nella mia stanza.» E prima ancora che il fratello potesse ribattere, era corsa per la direzione opposta. La consapevolezza che sarebbe tornata a casa sola, ancora una volta, la fece scoppiare in lacrime.

Thorin si accorse della sua assenza solo quando si sedettero a tavola. Dopo la loro ultima discussione, non aveva ben chiarito con se stesso come avrebbe dovuto comportarsi nei suoi confronti; lui era uno che difficilmente dimenticava il passato e covava risentimento per tutta la vita, ma era pronto a mettere una pietra sopra gli spiacevoli momenti che avevano condiviso. Quando era giunto all’officina, dopo il sopralluogo con Balin al Cancello, l’aveva scorta con il fratello, mentre laminavano insieme e scherzavano, gioviali più del solito. Lei si era sentita osservata e aveva incontrato il suo sguardo; non avrebbe dimenticato il calore che sentì nel vederla sorridere timidamente, solo per lui. Non avevano avuto la possibilità di scambiare due parole, quel giorno, e sperava di poter recuperare il tempo perduto proprio a pranzo; ma, a quanto pare, ella non era presente.

Osservò Káel, che sedette non troppo lontano con il fratello minore di cui non ricordava il nome, e i nipoti lo persuasero ad unirsi alla loro tavola senza troppi complimenti. Nessuno dei Nani sembrò obiettare, poiché avevano imparato ad apprezzarlo e perché, soprattutto, erano stati informati dell’eroico gesto del padre, anche se il ragazzo ne fosse ancora all’oscuro.

«Temo che non sarò di compagnia, miei signori.» stava dicendo, affranto. «Sono preoccupato per mia sorella, e voi avrete importanti questioni da discutere, immagino.»

Balin sorrise. «Mangia con noi, ragazzo. Lasceremo da parte le discussioni di guerra per un’oretta e cercheremo di rilassarci tutti, che ne dici?»

«Che problemi ha tua sorella?» domandò Dwalin, il solito tono burbero che non fece trasparire alcunché; se Thorin non lo avesse conosciuto come le sue tasche, avrebbe detto che si fosse sinceramente affezionato a quella ragazzetta.

Ma Káel voleva seguire il consiglio dell’anziano Nano dalla barba bianca, e mentì. «Non ha appetito, oggi, non vorrei che si deperisse.» Fece finta di non accorgersi dello sguardo ammonitore del Re, che aveva capito la sua menzogna, ma non fece niente per smascherarlo.

Kili si sporse sul tavolo, per guardarlo meglio. «Non ha fame?» domandò, scioccato. «Questo non è accettabile. Fratello, sai che ti dico? Che dopo andiamo a farle una bella visita.»

«Io pensavo più a mangiarmi la sua porzione, ma se proprio insisti...»

 

 

Ci volle l’intero pomeriggio e buona parte della sera per riunire l’esercito fuori le mura della città. Brethil radunò ottocento tra i migliori uomini e ora che li osservava dal camminamento lungo le mura perimetrali del primo cerchio, si sentì mancare il fiato. Erano un numero irrisorio rispetto a quello stimato del nemico, ma per lei erano infiniti; e mancavano ancora gli uomini di Imrahil, che si sarebbero uniti a loro il giorno dopo. Il Principe di Dol Amroth aveva mostrato una grande fiducia nelle sue abilità di comandante, ma lei aveva ancora molti dubbi e numerose paure; non era nata per comandare un esercito, ma per farne parte. In quel momento, più che mai, avrebbe voluto la presenza di un abile oratore e trascinatore come Boromir. Fu pensando a lui che si rese conto che avrebbe potuto non vederlo più, senza avere nemmeno la possibilità di salutarlo.

Fece scorrere lo sguardo sul Pelennor, raggiungendo l’agglomerato in rovine di Osgiliath, e si chiese come stesse e cosa facesse. Elladan ed Elrohir le avevano confidato di essersi fermati da lui, il giorno prima di giungere a Minas Tirith, e che lo avevano trovato in forma. Non riuscì a trattenere un sorriso nell’immaginarselo mentre camminava tra il cantiere, al settimo cielo nel vedere la sua città prediletta, di cui era Signore, prendere lentamente nuova vita. Sperò solo di vivere abbastanza da poter godere di quello spettacolo con lui, al suo fianco.

Si diresse con i figli di Elrond alla Cittadella, dove Aragorn e le alte cariche presenti l’attendevano per la cena e per rifinire gli ultimi dettagli prima della partenza. Gli Uomini erano già seduti attorno al tavolo, intenti a sorseggiare del buon vino in attesa della prima portata; sentì subito addosso il penetrante ed invidioso sguardo del Secondo Capitano Generale e della sua Prima Lancia, ma non vi badò più di tanto. Sentiva di essersi meritata quella posizione, per quanto ne fosse spaventata, e non avrebbe permesso a nessuno dei due di rovinare il suo stato. Essi, per fortuna, si limitarono a parlare con gli occhi, piuttosto che con le parole, e lasciarono perdere ogni tipo di litigio; per quanto non approvassero ciò che vedevano, sapevano entrambi che quello non fosse un buon momento per lasciarsi trasportare dagli asti. Così cenarono tranquillamente, discutendo un’ultima volta dei piani di difesa e brindando alla salute di chi sarebbe partito e chi, invece, sarebbe rimasto.

La Prima Guardia del Re fu l’ultima a lasciare la Sala, restando solo in compagnia di Aragorn. Seduti l’uno accanto all’altra, finirono il vino in silenzio. Non vi era poi molto su cui discutere, ormai. Lei sarebbe partita e avrebbe tentato in tutti i modi di mantenere alto l’onore di Gondor e di renderlo fiero, questo lui lo sapeva bene. Ma era preoccupato, e non poté non nasconderglielo.

«Non credevo di mandarti alla guerra, quando ti affidai questo incarico.» ammise, con rimpianto. «Boromir non ne sarà contento.»

«E io non credevo che fossi un uomo che piange sul latte versato, Aragorn.» Brethil scosse il capo. «Non mi pento di ciò che ti chiesi qualche giorno fa, e sono felice che tu abbia accettato. Ma anche conoscendo la realtà dei fatti, mi sarei proposta per partire, a prescindere da Boromir. Magari non come comandante delle armate, ecco.»

«Hai paura?»

La donna si lasciò sfuggire un sospiro. «Tremendamente. Ma non della guerra, poiché ormai ne ho viste tante nella mia vita. Ho paura di deludere te, Boromir e... e la memoria di Halbarad.»

Il Re sorrise, stringendole una mano tra le sue. «Halbarad sarebbe fiero della donna che sei diventata, amica mia. E credimi, lo sono anche io. Anche quando credevo di averti persa e che mi avessi deluso, tu che più di tutti avevo amato come una sorella e una figlia, mi hai dato prova che fossi in errore. Neanche tra mille anni sarai in grado di deludermi, Brethil figlia di Aeglos.»

Non riuscì a trattenere le lacrime, la donna, e lui si alzò per abbracciarla.

«Tornerai a casa, vedrai. Lo sento

«Che i Valar ti ascoltino, Estel!» Ci vollero parecchi minuti prima che lei si riprendesse da quel momento di sconforto. Si asciugò le lacrime, maledicendo la sua debolezza, e cercò di farsi forza. «Devo salutare i Nani, prima di domani.»

«Ti sei affezionata alla femmina, ho notato.»

Brethil sorrise e annuì. «È una donna forte, anche se deve ancora capirlo.»

«Come lo sei tu.» Aragorn le diede un bacio sulla fronte. «Vai, ora. E non piangere. Ci rivedremo presto, amica mia.»

Con un cenno del capo, Brethil lasciò la Cittadella e si diresse al quarto cerchio, alla locanda dove sapeva che i Nani si erano riuniti in attesa che giungesse a salutarli. Non era affollata, quella notte, poiché la maggior parte dei clienti erano soldati che il giorno dopo sarebbero partiti con lei. Li trovò attorno ad un lungo tavolo ricoperto di boccali di birra, ma nessuno di loro era alticcio. La fecero accomodare con un profondo inchino e notò che ci fossero proprio tutti: dai nobili partendo da Thorin, a Legolas e Gimli, e anche ai fratelli dai capelli rossi. Guardò Trán e notò subito gli occhi arrossati. Le si sedette accanto, sull’unico posto vuoto, e le strinse una mano.

Fu il Re dei Nani a parlare per primo, alzandosi dalla sua sedia e osservandola con intensità. «Ammetto di essere stato stupito quando ti vidi per la prima volta, mia signora. Le donne non sono famose per essere parte dell’esercito, né tra i Nani né tra gli Uomini, a quanto so. Ma ho visto come combatti, con la spada e con la lingua, e comprendo il perché sia arrivata ad essere ciò che sei. È alla tua forza e alla tua fierezza che voglio brindare. E che Mahal ti protegga.»

I Nani sollevarono i calici e ripeterono le ultime parole del Re con enfasi.

La donna sentì le guance imporporarsi e li ringraziò più volte. «Non sono brava nei discorsi, poiché preferisco agire più che parlare. Ma lasciate che vi dica questo: Gondor è fortunato ad avere amici come voi, e anche io lo sono – anche se abbiamo speso poco tempo insieme. Se mai un giorno dovessimo ritrovarci, sarò ben felice di condividere con voi il mio tempo.»

«E sono sicuro che ci ritroveremo.» fece Balin, sorridendo.

Dwalin annuì. «Aye. Ho intenzione di farti mangiare la polvere, ragazza. Solitamente non sfiderei mai una donna a duello, ma tu sei di un’altra specie.»

Con un respiro profondo, Brethil si sentì fiera di se stessa per quelle parole. Per una volta, persino coloro che erano conosciuti per essere dei maschilisti, che preferivano proteggere le donne piuttosto che combatterle, le avevano dato prova di maturità e l’avevano considerata una loro pari. E di questo gli fu eternamente grata.

«Attento che non sia lei a farti mangiare la polvere, mastro Dwalin.» ridacchiò Fili, che ricordava perfettamente la pressione di quel pugnale contro lo stomaco.

«Ah! Non paragonarmi a te, ragazzino. Il fiato di un drago si gelerà quando mi farò sconfiggere a duello.» replicò il Nano tatuato, facendoli ridere tutti.

La chiacchierata si rallegrò, e inevitabilmente vollero sapere chi fossero i due gemelli Elfi che avevano visto quella mattina.

«Essi sono i figli di Elrond, fratelli della Regina di Gondor. Qualche giorno fa vi parlai di due Elfi che mi allenarono ed influenzarono il mio stile di combattimento. Ebbene, Elladan ed Elrohir sono stati i miei maestri.»

«Ora capisco perché il loro volto mi è sembrato familiare.» fece Thorin, torvo. «Li vidi a Rivendell, durante il nostro viaggio verso Erebor.»

Lei annuì. «All’epoca non ero neanche nata; se foste passati venti o trent’anni fa non li avreste visti. Si unirono ai Raminghi del Nord quando Aragorn crebbe e divenne un buon capo; sapevano da quando era giunto alla Valle Nascosta che egli fosse l’erede al trono di Gondor, e che avrebbe difeso strenuamente i confini del Nord prima di reclamare ciò che gli spettava di diritto.»

«Raccontaci un po’ della tua vita, per favore.» chiese Kili, incuriosito. «Sembra che abbia vissuto numerose avventure, per essere così giovane.»

Lei ridacchiò «Non vi è niente di così entusiasmante, nella mia vita, come affrontare Smaug il Magnifico.»

«Quello fu tutto fuorché entusiasmante, credimi.» borbottò Thorin.

«E per fortuna Bard l’Arciere fece il lavoro al posto nostro.» aggiunse Kili, che si beccò un ceffone dallo zio.

«Molti morirono quel giorno, a causa del risveglio del drago. Non riderei sulla loro memoria.»

Il Nano tenne il capo abbassato e arrossì. Brethil salvò la situazione spostando l’argomento della discussione su altri lidi. «Nella mia vita ho compiuto molti gesti di cui non vado fiera, e di cui ancora porto i segni.» Tutti guardarono le sue cicatrici, sperando che ne raccontasse la storia. Ma non lo fece; non era pronta per loro come lo era stata per Boromir ed Aragorn, a suo tempo. «Ho vissuto lungo i confini della Contea, per difendere la pace di quelle terre lontane ed immacolate; ho prestato servizio sotto Re Thranduil di Bosco Atro, e per Re Théoden di Rohan, tra i Rohirrim. Ma prima di tutto sono stata una Dúnadan, nata a Dale tanti anni fa. E questo significa non avere un luogo da poter chiamare davvero casa; significa combattere per la propria sopravvivenza ogni giorno; e significa lealtà verso i propri compagni. So che alcuni di voi hanno dovuto vivere una situazione simile, anche se per circostanze diverse e per un periodo di tempo ben più lungo del mio. E so che siete stati messi alla prova più volte, prima di raggiungere i vostri scopi. Anche io fui messa alla prova, nel modo peggiore che potessi immaginare; credetti di essere perduta, ma... ritrovai la via.» Il suo sguardo si addolcì nel ripensare a Boromir e a come si conobbero, entrambi distrutti nell’animo. «Incontrai una persona, che avrete sicuramente conosciuto ad Osgiliath, quando avevo perso tutto – la mia dignità, la mia famiglia, il mio ruolo... e la fiducia di Aragorn, e di chi mi amava come una figlia. Ci aiutammo a vicenda, per curare le ferite del corpo e della mente; fu difficile per entrambi, perché l’oscurità che dovemmo affrontare fu pericolosa e dura. Ma è soprattutto grazie al suo sostegno se ho riparato i miei errori e ora mi trovo qui. È questa l’avventura più grande della mia vita: l’aver percorso questa parte della mia esistenza con lui, pentendomi e sistemando ciò che avevo distrutto.»

«La persona di cui parli è Boromir?» domandò Thorin, che in cuor suo aveva indovinato la risposta.

Brethil annuì e Fili sgranò gli occhi. «Allora tu e lui... voi siete... Mahal!»

La donna arrossì furiosamente, un evento che molti non potevano vantarsi di aver visto.

Kili puntò un dito contro Legolas. «Ci hai mentito! Ci avevi detto che fossero solo amici!»

«È un Elfo della peggior specie.» fece Gimli. «È capace di dirti di aver abbattuto un Olifante da solo, questo qui.»

«Infatti, è così!» replicò l’altro, in una risata.

Brethil però sembrò confusa, oltre che imbarazzata, e incrociò le braccia al petto. «Da quando i Nani si occupano della mia vita sentimentale?»

Il minore dei nipoti del Re colse al balzo l’occasione di metterla a disagio, poiché aveva capito che fosse cosa molto complicata. «Da quando mio fratello ha deciso di farne parte.» asserì, mentre l’altro gli saltava addosso per zittirlo. «Lo ami?»

Brethil ebbe un flashback, e rivide il caro Merry che le poneva la medesima domanda, quando era stata lasciata indietro da Aragorn e Boromir e lei meditava vendetta alle Case di Guarigione. Corrugò la fronte. «Tuo–fratello?»

«Ma no... il Sovrintendente!»

Risero all’evidente rossore sulle guance della donna, che scosse il capo. «Non so di cosa stiate parlando.»

«E tu sei una pessima bugiarda.» sussurrò Legolas, strizzandole un occhio.

Nel caos creatosi, da cui Brethil non vedeva via di scampo, Balin si rivolse alla Nana, che non aveva aperto bocca da quando si erano riuniti. «Ragazza, sei tremendamente silenziosa, oggi.»

«Beh, più del solito.» aggiunse Dwalin, in un borbottio, udendo il fratello. «Non che la cosa mi dispiaccia, ecco.»

Trán sembrò risvegliarsi dai suoi pensieri e chinò il capo nel sentire addosso anche lo sguardo serio di Thorin. «Non è niente, messer Balin. Sono solo un po’ stanca.»

«Lo sei da questa mattina, allora.» fece la voce bassa del Re, con eloquenza.

Trán ricambiò lo sguardo triste per qualche istante, prima di spostarlo su Brethil, ormai rossa come i suoi capelli. E Thorin comprese la sua preoccupazione.

Così si alzò, ponendo fine alla tortura della donna, e intimando a tutti di lasciarla riposare in vista del lungo viaggio che l’attendeva il giorno dopo. Brethil lo ringraziò con un cenno del capo e si ritrovò abbracciata da tutti i presenti – tranne che dal Re e dal suo migliore amico, che si limitarono ad un rispettoso inchino: nessuno dei due, infatti, pensò che fosse il caso di congedarsi con un baciamano. Non con una come lei.

Brethil augurò loro la buona notte, con la speranza di rivederli presto, e lasciò l’edificio, seguita solo da Trán, che non attendeva altro se non rimanere da sola con lei, prima dei saluti. La guardia reale non fece in tempo a muovere qualche passo, che subito la Nana le si fiondò tra le braccia, dando sfogo a tutte le lacrime che aveva trattenuto in quelle ore. Brethil la strinse con affetto, chiedendosi come fosse nato quel legame in così poco tempo; ma non se ne curò. Voleva bene alla Nana e non voleva che soffrisse per causa sua. Si chinò, per guardarla dritta negli occhi, e le asciugò le lacrime con le dita. «Trán dei Colli Ferrosi, sei una delle persone più forti che abbia mai conosciuto. Sii coraggiosa anche per me e aspetta il mio ritorno.»

«Mi prometti che non ti attenderò invano?»

Brethil sospirò. «No, non posso. Ma farò tutto ciò in mio potere per mantenere la parola.»

«Non voglio che parta. Non ora che ti ho trovata.»

La donna non aveva parole per rispondere. Neanche lei voleva partire, ma doveva farlo. Per se stessa, per il suo Re, per il suo popolo. Trán, forse, questo non lo avrebbe capito, né pretendeva che lo facesse. Così portò una mano alla spalla sinistra, dove il mantello si chiudeva e la spilla dei Raminghi brillava all’altezza del cuore; l’aprì e gliela consegnò nel palmo di una mano, che richiuse con le sue. «Questa è il simbolo di ciò che sono, è il simbolo di quel giuramento che feci anni addietro quando diventai Dúnadan al servizio di Aragorn. È uno degli oggetti a me più cari, e lo do a te, affinché lo custodisca fino al mio ritorno.»

Trán accarezzò la spilla con riverenza e sorrise con le lacrime agli occhi. «Sei sicura di non volerla tenere?»

«È in mani sicure, ora. E meritevoli.»

La Nana, così, afferrò una treccia e la sciolse, recuperando la clip dorata che la teneva ferma. Intrecciò una corta ciocca di capelli della donna con mani tremanti, chiudendo la piccola treccia con il suo fermaglio. «Nella cultura Nanica, intrecciare i capelli di qualcuno è simbolo di un profondo legame. Può essere quello che unisce due fratelli, come le trecce che ho io e che mi ha fatto Káel; o quello tra amici, o amanti. I tuoi capelli sono corti e non posso fare di meglio, ma... ti dono questo fermaglio e questa treccia in ricordo della nostra amicizia.»

Brethil non aveva una profonda conoscenza della loro cultura, ma sapeva che i capelli e la barba, per un Nano, fossero motivo di orgoglio; così sorrise ed annuì, abbracciandola un’ultima volta, prima di salutarsi definitivamente. Quell’arrivederci aveva l’amaro retrogusto di un addio, ma nessuna delle due lo volle ammettere a voce alta.

 

 

18 Settembre 3019 T. E.

 

Era passata un’ora dall’alba, e Minas Tirith affollava le strade della città, lanciando fiori e petali a Brethil e al Principe di Dol Amroth, scortati dal Re, mentre scendevano a cavallo lungo la Strada dei Lanternieri verso Grande Cancello. Qui, i Nani di Erebor e i tre dei Colli Ferrosi, attendevano il loro passaggio e si chinarono al loro cospetto, quando li sorpassarono. Aragorn e la Regina si fermarono all’ingresso della città, mentre gli altri proseguirono verso l’esercito, già sui propri destrieri e in attesa di ordini.

Brethil, in sella a Nerian, prese un respiro profondo. Sapeva che prima della partenza avrebbe dovuto incitare i suoi uomini a non arrendersi e a dare il meglio delle loro possibilità; ma lei non era famosa per i suoi discorsi, né in privato né tantomeno davanti a metà Gondor. Mosse il cavallo verso la schiera di soldati, che attendevano in silenzio una sua parola e scambiò un’occhiata con Aragorn, che le sorrise per incoraggiarla. Alzò il mento, e finalmente parlò.

«Uomini di Gondor!» gridò, con voce tremante, all’inizio, ma forte e chiara. «Troppo poco tempo è passato dall’inizio della pace; troppo poco abbiamo potuto godere delle nostre case e della nostra famiglia. Ancora una volta, siamo chiamati a difendere il nostro popolo e le nostre città; ancora una volta, per riprenderci ciò che è nostro di diritto: la tranquillità e le nostre vite!» Estrasse Celeboglinn, che brillò alla luce del sole, e l’alzò al cielo. «Cavalcate con me, combattete con me, morite con me! Per la libertà! Per Gondor!»

Un coro di “Per Gondor!”, ripetuto tre volte, fece vibrare le vene ai polsi di chiunque; persino i Nani si ritrovarono ad applaudire e gridare a quelle parole cariche di coraggio e fierezza. Contemporaneamente il potente suono del corno di Boromir, che sapeva della loro partenza, ma non avrebbe fatto in tempo a raggiungerli, si udì da Osgiliath, e risuonò in ogni angolo del regno; l’Uomo era sulla torre più alta della città, una delle poche sopravvissute agli attacchi degli Orchi e dei Nazgûl, e osservava la lontana sagoma dell’esercito ai piedi di Minas Tirith. Aragorn avrebbe tanto voluto che il suo Sovrintendente fosse presente, per essere orgoglioso di lei almeno la metà di quanto lo era lui. Davanti ai suoi occhi non vi era più la taciturna Dúnadan che preferiva stare nell’ombra, piuttosto che farsi notare: davanti ai suoi occhi, Brethil era diventata un soldato alla pari del miglior comandante, ed era sicuro che non lo avrebbe deluso.

«E meno male che non fosse brava con i discorsi.» notò Fili, sghignazzando col fratello.

La donna li guardò per un’ultima volta, con gli occhi lucidi, mentre le trombe squillavano e gli stendardi sbattevano al vento. Chinò il capo ai suoi amici che rimanevano a Minas Tirith; poi fece muovere Nerian e, affiancata da Imrahil e il figlio, Legolas e Gimli, e i gemelli di Elrond, si mise in marcia, verso Sud; l’esercito si mosse alle loro spalle, e il pubblico giunto per salutarli fece mestamente ritorno alle proprie attività. Trán rimase lì, come il giorno precedente, a guardare forse per l’ultima volta la sagoma della donna; strinse la spilla che le aveva donato e pregò Mahal che potesse restituirgliela presto. Avvertì una presenza a pochi passi da lei, ma non si curò di chi fosse finché non avvertì una presa gentile ma ferma sulla spalla.

Quello era il modo di Thorin di darle forza e di farle capire che sarebbe andato tutto bene – anche se lui non ne era tanto sicuro. Lanciò un’ultima occhiata verso l’esercito e le parole che la donna gli aveva sussurrato solo qualche ora prima di partire gli tornarono alla mente; non era sicuro del loro significato, ma avrebbe mantenuto la sua promessa.

“Tieni un occhio aperto su di lei e proteggila al mio posto; non solo dal nemico, ma anche da se stessa. La solitudine, a volte, è peggio della morte medesima.”

 

 

 

 

*

 

*Lle maa quel, thêl: sembri in ottima forma, sorella!

Ebbene, non so voi, ma gli addii mi mettono tristezza.

La tranquillità è ufficialmente finita, io vi ho avvertiti. Ora si comincia sul serio!

Si accettano scommesse su cosa accadrà, d’ora in avanti! :)

Grazie in anticipo a chiunque passerà di qui, silenziosi e non.

Vi adoro.

Marta.

 

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Capitolo 12
*** 12. ***


Buondì e felice sabato!

Chiedo perdono per il lieve ritardo nell’aggiornare, ma ho ripreso in mano la tesi dopo le meritate vacanze estive e ora sono sommersa di roba fino al collo.

A proposito: volontari per aiutarmi a fare un plastico di studio? :D

Questo capitolo è leggermente più corto dei precedenti... ma c’è parecchia sostanza!

Grazie a tutti voi che continuate a seguirmi!

Siete una gggioia.

Un abbraccio,

Marta.

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

12.

 

18 Settembre 3019 T. E.

 

Con la partenza della donna, Ecthirion si sentì finalmente meno oppresso e più libero di muoversi nella Cittadella, senza il timore di incontrare quel volto sfregiato che tanto detestava. Era profondamente offeso con il suo Re, che lo aveva messo con troppa facilità in un angolo, mentre consegnava l’esercito della Città a quella ragazzina; ma lo amava, e lo avrebbe servito fino alla morte, indipendentemente dai suoi favoritismi. Egli aveva riportato la tanto agognata pace, e sperò solo che la sfregiata non rovinasse tutto.

Ma ora aveva un problema ben più grosso da risolvere, e stava per dare di matto – giacché la sua pazienza non andava famosa per essere illimitata.

«Mardil!» tuonò per l’ennesima volta, uscendo dagli alloggi della sua Prima Lancia e guardandosi intorno, nella speranza di trovarlo. Alcuni paggi sobbalzarono nel trovarsi quell’imponente soldato furente, che pareva volesse strozzare qualsiasi cosa si muovesse e respirasse, se non avesse trovato il suo sottoposto. «Mardil, razza di canaglia! Dove sei finito?» gridò, senza vederlo. Si rivolse ad un ragazzetto di guardia e lo afferrò per il bavero del mantello. «Lo hai visto, questa mattina?»

Il giovane scosse il capo, balbettando un diniego, ed Ecthirion lo lasciò andare malamente. Avevano udienza con il Re, quel giorno, poiché pareva che i Nani fossero preoccupati per la loro sicurezza e avevano bisogno di avere chiara la situazione sul fronte di Osgiliath; ma la sua Prima Lancia era dispersa, come spesso succedeva inspiegabilmente in quell’ultimo periodo, e nessuno pareva averlo veduto. «Che Mandos se lo prenda!» mormorò, a denti stretti, mentre si dirigeva a grandi passi verso la Sala del Trono, sperando intensamente di scoprirlo lì.

Ma così non fu e vi trovò unicamente il Re e i suoi ospiti. L’Elessar lo salutò con un cenno del capo. «Sei solo.»

Ecthirion chinò il volto. «Chiedo perdono, mio signore, ma Mardil è... irreperibile.»

«Sta male?»

L’Uomo sospirò, il nervosismo palpabile nel suo sguardo. «Non saprei, mio signore. Non riesco a trovarlo.»

Aragorn strinse gli occhi, mentre si accarezzava pensieroso la barba. «Accomodati al mio fianco, amico mio; sono sicuro che Mardil si farà vivo.» Ecthirion fece come gli venne detto, una punta di soddisfazione nel sedersi sul posto che sarebbe spettato al Sovrintendente o, meglio ancora, alla sfregiata.

Thorin, che stava parlando ma che era stato interrotto dall’arrivo del soldato, riprese. «Ciò che mi preoccupa, e che ci preoccupa, è conoscere la situazione ad Est. Gli Esterling non staranno con le mani in mano, poiché noi stessi abbiamo saggiato sulla nostra pelle le loro intenzioni bellicose. Osgiliath, lo sai meglio di me, sarebbe il primo punto vulnerabile.»

«Capisco i tuoi timori, Thorin.» fece il Re. «E ho un occhio rivolto verso quella parte, così come verso Sud. Le vedette da Cair Andros non hanno avvistato niente, per il momento e se qualcosa si stesse davvero muovendo, Osgiliath sarebbe messa in guardia per tempo, così come la tua gente.»

«E se dovessero attaccare?» domandò Dwalin. «Come sono le difese?»

«Cinquecento uomini pattugliano la città. E altri duecento accorrerebbero dall’Ithilien. In ogni caso, Minas Tirith non è sguarnita, ora che Brethil e Imrahil sono partiti. Abbiamo ancora un migliaio di soldati, pronti ad accorrere in una situazione di emergenza. Quanti guerrieri avete tra i Nani?»

Thorin guardò Fili che, insieme al fratello, si era occupato di reclutarli. «Un centinaio scarso, mio signore. Non ci aspettavamo di incontrare così tanti pericoli, lungo il cammino.»

«Ma sono ben preparati, e in forze.» aggiunse Kili.

Il Dúnadan annuì. «Ho inviato un messaggero al Sovrintendente per spiegargli la situazione; egli è un buon Capitano, saprà come organizzare la sicurezza dei più deboli nelle prime fasi. Gli ho espressamente chiesto di portare tutti coloro che non sono in grado di combattere nella sicurezza del Rammas Echor, se dovesse esserci il bisogno di evacuare la città.»

«E speriamo tutti che non ve ne sia.» concluse Balin, con un sospiro.

Aragorn accolse le sue parole con un cenno di assenso del capo. Non aveva sottovalutato il pericolo degli Esterling, seppure la sua attenzione ora fosse rivolta a Sud; sperò solo che il nemico, qualora avesse avuto intenzioni belliche, rivedesse le sue priorità e vivesse quel momento di pace come loro – anche se si rendeva conto che fosse una speranza sciocca. «Ciò che non capisco è perché gli Esterling dovrebbero attaccarci. Avevamo sancito un regime di neutralità, con la fine della guerra.»

«È chiaro che ci sia qualcosa che li spinge a farlo.» commentò Ecthirion. «O qualcuno.»

Ci fu qualche secondo di silenzio, scandito solo dai loro ragionamenti. Poi Aragorn prese nuovamente parola. «Parlai personalmente con il loro Comandante e non aveva intenzione di ribellarsi. Voi, Nani del Nord, e noi abbiamo inferto loro profonde ferite, che hanno ben chiarito quali sia il nostro potenziale e il nostro valore.»

Thorin si accarezzò la barba. «E se questo loro Comandante fosse morto? Se fosse stato rimpiazzato da qualcuno più bellicoso di lui?»

«È un’opzione probabile.» notò Aragorn. «E quale occasione migliore, se non quella di dichiararci guerra quando i principali portatori della loro sconfitta sono riuniti nello stesso regno?»

Il Re dei Nani pareva voler aggiungere qualcosa, ma per il momento preferì tenere per sé i suoi pensieri.

«E per quanto riguarda i Sudroni, mio signore? Sono loro alleati?» domandò Ecthirion, che ora riusciva a vedere un po’ più chiaramente quello schema che, prima, pareva insensato.

«Probabile.» fece una voce, dall’altra parte della sala. Mardil si avvicinò con un sorriso sghembo sulle labbra; si chinò e chiese perdono per il suo ritardo. «Mi sono attardato un po’ troppo con i miei uomini; sono preoccupati, mio Re.»

Ecthirion gli riservò un’occhiata truce, e si appuntò mentalmente di fargli una bella lavata di capo, dopo il Consiglio. Non permetteva che il suo uomo più fidato gli facesse fare ignobili figure davanti al suo Re e ai suoi ospiti, apparendo come un Generale che non fosse capace di mantenere a bada i suoi sottoposti.

Aragorn sospirò, rattristato della notizia. «Capisco le loro preoccupazioni, ma per ora non possiamo fare molto, se non attendere.»

Thorin osservò il nuovo arrivato e non gli piacque; e anche Dwalin sembrava dello stesso avviso. Per puro dovere controllò il colore del mantello dell’Uomo, ricordando l’avvertimento di Brethil, ma notò che fosse nero e non blu, tipico delle divise dei Gondoriani. Le parole di Aragorn lo avevano fatto pensare, e la sua mente ormai abituata alle guerre e ai piani di difesa, gli permise di arrivare ad una conclusione con una certa velocità: se l’intenzione degli Esterling fosse realmente quella di colpire in una sola volta sia Nani che Uomini, allora c’era qualcosa che non tornava ai suoi conti. Gli Esterling parevano averli seguiti dall’inizio del viaggio, poiché le loro terre si trovavano ben più lontano dell’Anduin, all’interno del regno di Rhûn; era probabile, dunque, che conoscessero da tempo la loro necessità di scendere verso Gondor; ciò che lo impensierì fu il fatto che nessuno dei suoi Nani, né quelli di Dáin, fosse a conoscenza del loro compito, al di fuori dei costruttori e dei fabbri – a cui fu chiesto e ordinato di non parlarne con nessuno prima della partenza. Dunque, gli Esterling dovevano averlo saputo in altra maniera.

«In ogni modo, amici miei, domani Éomer Re del Mark giungerà a Minas Tirith, cosicché i nostri animi siano sollevati dalla presenza del nostro più vicino e caro alleato.»

Thorin fu riportato alla realtà dalle parole del Re degli Uomini. Aveva bisogno di parlargli ancora. E privatamente. La riunione fu sciolta e mormorò a Balin e Dwalin di allontanarsi senza di lui. «Vi raggiungo più tardi, devo discutere un’ultima cosa con il Re.»

Aragorn, che lo aveva udito, gli fece cenno di parlare, ma Thorin scosse il capo. Scoccò un’occhiataccia ad Ecthirion e Mardil, prima di parlare. «Vorrei farlo in privato, se possibile.»

Il Secondo Capitano alzò gli occhi al cielo e si trascinò dietro la sua Prima Lancia, iniziando la lunga filippica che si era preparato mentalmente. E quando la sala fu svuotata da qualsiasi orecchio indiscreto, Thorin spiegò all’Uomo quali fossero le sue preoccupazioni, e a quali conclusioni fosse giunto.

«Quindi, se ben ho capito–» fece Aragorn, lentamente. «–credi che la notizia del vostro viaggio sia partita da qui. Eppure anche io sono stato accorto nel rivelarlo ai miei uomini: solo la cerchia ristretta dei miei consiglieri ne era a conoscenza.»

«Mi dispiace, sire Aragorn, ma non trovo ulteriore spiegazione; soprattutto se penso alla figura che ha ucciso il tuo messo, solo qualche giorno fa.»

«Ammetto che il tuo pensiero abbia senso.» Il Ramingo sospirò poggiando i gomiti sul tavolo. In momenti come quelli sentiva la mancanza di una presenza come Gandalf, che riusciva a vedere ben lungi da loro; ma lo Stregone era ormai lontano dagli affari degli Uomini, e lui poteva fidarsi dell’istinto di un Nano come Thorin, poiché essi erano diffidenti e quindi doppiamente attenti. «Di chi dovrei sospettare, amico mio?»

Thorin non sapeva rispondere, anche se i due Uomini di poco prima continuavano a piacergli poco. «Non posso darti un’opinione, perché non conosco il valore dei tuoi. Voglio solo metterti in guardia.»

«E io starò attento. Grazie per avermene parlato, Thorin.»

Il Nano annuì e lo salutò dopo un breve inchino. Quando uscì dall’edificio, notò che il cielo leggermente annuvolato della mattina si fosse tramutato in una cappa scura che minacciava di piovere da un momento all’altro. Il pensiero volò all’esercito in marcia, e si dispiacque per loro e per l’acqua che li avrebbe inzuppati ed infreddoliti già dal primo giorno. Sperò che il detto di sua sorella – viaggio bagnato, viaggio fortunato – fosse veritiero, almeno quella volta.

Si diresse senza fretta alle fucine, spendendo qualche minuto in più a studiare l’architettura di quella mastodontica città. Nonostante fosse interamente in pietra, e la sagoma del Mindolluin, che la tagliava in due con quella lama di nuda roccia, fosse impressionante, Minas Tirith aleggiava in un’aura di eleganza e leggerezza da lasciarlo senza fiato. Non riusciva a trovare descrizione migliore, se non una via di mezzo tra la durezza di una città Nanica come Erebor e la grazia di una Elfica come Imladris. Non sentì le occhiate di curiosità e di reverenza che gli Uomini gli lanciavano, mentre passeggiava per le vie della città, preso com’era nel saziare i suoi occhi e i suoi sensi con la vista di quella perla bianca. Avrebbe dovuto chiedere a Ori di regalargli qualche suo disegno, prima di partire, poiché voleva serbare il ricordo della Capitale di Gondor non solo nel cuore, ma anche negli occhi.

Raggiunse la sua seconda casa con sollievo; fuori si era alzato un venticello fresco, che stava trasportando velocemente le nuvole verso sud, e il calore della fucina gli parve quanto mai piacevole. Si chiese quanto potesse essere saggio mettersi in viaggio verso Erebor durante l’inverno, visto che prevedeva la fine dei lavori a Minas Tirith in tre mesi al massimo, o se fosse meglio attendere l’arrivo della primavera e ripartire con Dáin. Ma non si trattenne troppo su quelle fantasie: i lavori non erano che iniziati, e si prevedevano problemi all’orizzonte; la sua Erebor avrebbe dovuto attendere, forse, più dello stretto necessario.

Andò verso l’area dove lui e i suoi lavoravano, credendo di trovare qualcuno; ma era ormai ora di pranzo e le fucine erano già deserte; tornò sui suoi passi per raggiungerli, quando udì il suono di qualcuno che, invece, sembrava non curarsi della fame. Entrò nell’ala riservata ai figli di Rulin, e fu lì che la vide, mentre batteva con forza il martello sull’incudine. Stava lavorando tutta la mattina, senza un attimo di tregua, e poté dirlo sia dalle condizioni pessime in cui verteva, sia perché aveva quasi completato buona parte del suo lavoro – che avrebbe dovuto finire il giorno dopo, a ritmi umani. Notò che avesse i capelli sciolti dalle trecce che solitamente le incorniciavano il viso, e si chiese il motivo. Le si avvicinò, non curandosi di farlo con discrezione, poiché non lo avrebbe sentito neppure se avesse saltato alle sue spalle. Era talmente concentrata e persa nei suoi pensieri che si accorse di lui solo quando le bloccò il braccio, alto sopra la testa, pronto a battere incessantemente. Sostenne il suo sguardo sorpreso senza muovere un muscolo, e le prese l’arnese dalla mano. Lei non oppose resistenza; non ne aveva la forza.

Notò gli occhi arrossati, così come le guance, e sentì un vago istinto di protezione nei suoi confronti. «Hai pianto. Perché?»

Trán abbassò lo sguardo sulla mano grande di lui, ancora stretta intorno al polso, ma lui non parve accorgersene, o curarsene. Non l’avrebbe liberata finché non avesse ricevuto una risposta soddisfacente e si fosse assicurato che stesse bene.

«Non è ovvio, mio signore?»

Strinse la presa sul polso, senza accorgersene. «Thorin.»

«Co–come, prego?»

«È Thorin. Nessun mio signore da oggi. Non sono il tuo Re, come adori ricordarmi.» Non seppe dire perché avesse detto così, perché in quel momento, perché proprio a lei. Ma vedere la reazione sul viso della ragazzina gli provocò un inaspettato piacere – o forse, neanche tanto inaspettato. Arrossì, più di quanto già non fosse per il pianto, e la trovò assolutamente deliziosa. La consapevolezza di esercitare un certo fascino su di lei, che fosse in grado di metterla in imbarazzo e che mostrava un chiaro disagio nei suoi confronti, a discapito dei battibecchi passati, gli fece dimenticare per qualche momento che anche lei avesse una sorta di influenza su di lui; in quel momento era il freddo e stoico Thorin, il Re di Erebor, che sentiva di avere in pugno l’emotività di una femmina indomabile, e che si aggrappava con tutte le sue forze per non mostrarsi debole e... patetico, come già aveva dato prova in passato. E la sua mente tornò indietro di parecchie settimane, fino al giorno del loro primo incontro, quando lei era diventata paonazza nel vederlo chinarsi per baciarle la mano. Aveva desiderato di rivedere quell’espressione così tanto, in quegli ultimi giorni. «Perché hai pianto?» le domandò, ancora una volta.

Trán rabbrividì nel sentire i polpastrelli callosi del Nano sfregare quasi impercettibilmente contro la pelle nuda del suo braccio. «È per Brethil, mio–Thorin.» Si morsicò un labbro nel rendersi conto che quel mio Thorin potesse essere mal interpretato, così si affrettò ad aggiungere: «Temo per la sua vita.»

«Non dovresti, è una donna che conosce i pericoli di una battaglia, e a quanto pare ne ha viste parecchie.»

«Sì, ma–» Chinò il capo, sentendo l’urgente bisogno di piangere nuovamente. «–ho sentito quanto grande sia l’esercito del nemico e quanto piccolo sia quello di Gondor. Non c’è speranza.»

«Può darsi.» Thorin non si pentì di quelle due parole, neppure quando lei lo osservò con orrore. «Ma ella non è sola; giungeranno altri aiuti e riusciranno a contrastare l’armata nemica. Anche durante la Guerra dell’Anello Gondor aveva la metà delle truppe di Sauron, eppure vinse. Perché tutta questa tristezza per una persona che conosci appena?»

Trán si era posta la stessa domanda più e più volte, in quegli ultimi giorni, e non era riuscita a trovare una risposta plausibile. «Non lo so, se devo essere sincera. È che... non ho mai avuto una presenza femminile nella mia vita, al di fuori di mia madre, e lei... lei ci ha lasciati troppo presto.»

«Rivedi lei in Brethil.»

La Nana si ritrovò a fissare gli occhi azzurri del Re, che aveva finalmente trovato una risposta per lei. Sì, Brethil era come la madre: combattiva, orgogliosa, testarda, sofferente ma mai debole – almeno, non davanti agli altri. Aveva sempre sognato di diventare come lei e continuava a faticare nel tentativo; ma temeva che non ci sarebbe mai riuscita. Annuì, lentamente, assimilando quella consapevolezza che le fece ancora più male: perché Brethil le ricordava la madre, e allora avrebbe sofferto doppiamente se non fosse tornata a casa. Sarebbe stato come perderla due volte, e lei non lo avrebbe sopportato.

Mise la mano in una tasca dell’abito e gli mostrò la spilla della donna. «Me l’ha donata per custodirla fino al suo ritorno; io le ho intrecciato i capelli... beh, per modo di dire, sono troppo corti.» aggiunse, ridacchiando con gli occhi lucidi.

Thorin represse l’istinto di allungare la mano libera per prenderle una ciocca dei suoi e osservarne le sfumature ramate. In compenso, la liberò dalla sua stretta e mosse un passo indietro. «Dovresti dare una sistemata ai tuoi. E riposarti. Hai un aspetto orribile.»

Bugiardo.

Ghignò nel vedere le labbra di lei aprirsi in un moto di sorpresa e indignazione.

«E tu dovresti seriamente imparare le buone maniere nei riguardi di una donna, Thorin.»

«Avrei qualche cosa da ridire a proposito delle tue.»

Trán si morsicò la lingua pur di non ribattere, perché ora lo vide sereno e capì che l’avesse provocata per farle tornare il suo solito spirito e lasciare da parte la tristezza. Alzò il mento, ostentando sdegno. «Mi adeguo alle circostanze.»

Il Re sorrise più apertamente. «Dico sul serio, dopo pranzo andrai a riposarti. È un ordine; non mi ripeterò.»

In risposta, lei alzò gli occhi al cielo e si inchinò. Il sarcasmo si sprecava. Asciugò le lacrime con il dorso della mano e sospirò con pesantezza.

Thorin le indicò la porta con un cenno del capo. «Andiamo a pranzo, ora.» E così dicendo, le porse un braccio. Era un gesto del tutto normale per lui, nei confronti di una donna, ma per lei risultava così tanto estraneo da farla arrossire; soprattutto se il Nano che si mostrava così gentile fosse lui, e con un rapporto burrascoso come il loro, per giunta. Eppure, l’idea di essere scortata a pranzo sotto braccio dal Re di Erebor, come la Stella del Vespro solo il giorno prima, le fece saltare più di qualche battito cardiaco. Pensava che tanta gentilezza fosse riservata solo alle donne importanti e della corte, non ad un fabbro come lei.

Tenne gli occhi bassi e accettò il gesto; lo sentì irrigidirsi mentre la sua mano si poggiava delicatamente sul braccio muscoloso, ma non poté biasimarlo: probabilmente per lui era già tanto mostrarle quella galanteria che non le si addiceva; ma non ci badò più di tanto quando si accorse che entrambi si fossero rilassati, e procedettero per le strade di Minas Tirith, sotto gli sguardi incuriositi dei passanti.

«Mio sign­–Thorin

Il Nano si voltò di un quarto, osservandola con indiscrezione con la coda dell’occhio. Lei non parve accorgersi del suo sguardo, mentre continuava in ciò che sapeva fare meglio: ignorarlo.

«Vorrei, comunque, farti presente che, come hai giustamente ricordato poco prima, non sei il mio Re; quindi, non prendo ordini da te.» Fu solo allora che lei si voltò, per sorridergli con divertimento e una buona dose di imbarazzo.

Nonostante il tono saccente, per una volta Thorin non riuscì a trattenere una sommessa risata. Quella ragazza sarebbe morta dopo Mahal stesso, pur di avere l’ultima parola!

Il loro arrivo, ovviamente, non passò inosservato e, se Thorin mise su la sua impassibile espressione a difesa da quelle occhiate sbarrate ed incredule – e alcune anche ammiccanti – al contrario Trán sentì il sangue fluirle direttamente verso le guance e strinse il braccio del Nano.

La accompagnò al tavolo dei fratelli e Káel parve sorpreso, seppur sollevato.

«Mio signore, sei riuscito in quello in cui ho fallito.» gli disse, chinandosi e accarezzando il viso della sorella con amore. «Neppure io ho avuto successo nel trascinarla fuori dalla fucina; come hai fatto?»

Thorin scambiò una veloce occhiata con la ragazza e si schiarì la gola. «La persuasione ha numerosi lati, ragazzo. Io mi limito a quelli meno ortodossi.»

Il giovane Nano rise. «Allora, d’ora in poi sarò ben felice di lasciarla alla tua forza persuasiva, quando mi risulterà troppo ostico farla ragionare.»

«Sai, fratello, io sono qui, proprio davanti a te, se l’avessi scordato.» Si sciolse nel sentire il sonoro bacio che lui le schioccò sulla guancia.

Il Re abbozzò un sorriso, che nascose chinando il capo e augurando loro un buon pranzo. «Siete i benvenuti al nostro tavolo, se lo gradite.»

Trán decise che lo avrebbe ucciso seduta stante: aveva guardato lei ed unicamente lei mentre pronunciava quelle parole, e non poteva permettergli di farla sentire così... così... leggera; non se fino all’altro giorno si azzuffavano a parole, non se lui era il Re di Erebor e lei la misera figlia di un carpentiere che non sapeva maneggiare neppure le armi che realizzava. Almeno, pensò con sollievo, le risparmiò il baciamano di fronte a mezza mensa. Ciò che, invece, non riuscì ad evitare fu il terzo grado del fratello, quanto mai interessato alla novità del giorno.

Thorin non si trovò certo in una situazione migliore; non solo dovette sopportare i sorrisini bonari di Balin, che gli parlava più con gli occhi che con la lingua, ma né i nipoti né il suo migliore amico furono più caritatevoli nei confronti dei suoi poveri nervi.

«Ebbene.» fece Dwalin, poggiando il boccale di birra dopo averne sorseggiato un po’. «Lo schiaffo vi ha rinsaviti entrambi?»

Gli occhi di Thorin divennero una fessura. «E di grazia, tu come sai di–» Capì al volo quando vide i nipoti nel tentativo fallimentare di nascondere i loro sghignazzi. Si passò una mano sul viso. «Chi altri lo sa?»

«Solo noi, rilassati ragazzo mio.» disse Balin, distendendosi in un sorriso. «Piuttosto, dovrei fare i complimenti sia a te che alla ragazza. Conoscendo la vostra testardaggine, avrei scommesso che questa solfa sarebbe andata avanti almeno per il resto della nostra esistenza.»

«Ecco perché noi abbiamo vinto, mastro Balin.» disse Fili, gonfiando il petto, mentre il fratello muoveva una mano in attesa della vincita. «A proposito di scommesse.»

Thorin non riusciva a credere a ciò che stava vedendo. «Avete scommesso su me e la ragazza?»

«Oh, sì zio.» ammise Kili, strizzando un occhio. «Abbiamo temuto il peggio, l’altra notte, ma tutto è bene ciò che finisce con il denaro.»

Con suo grande stupore persino Dwalin dovette mollare qualche moneta, e quello si strinse nelle spalle nel sentire l’occhiataccia dell’amico che lo avrebbe perforato da parte a parte se avesse potuto.

Fili si sistemò sulla sedia, schiarendosi la voce un paio di volte prima di parlare. «Ora, a proposito di affari...» disse, solennemente, sfregandosi le mani. «... scommetto che entro il ritorno ad Erebor, fratello mio, dovremo chiamare la bella Trán melhekhinh.» Neppure l’espressione sgomenta dello zio gli impedì di sorridere candidamente, come se avesse appena espresso l’ovvietà a nome di tutti.

Thorin lasciò scivolare l’attenzione sulla Nana, che pareva in difficoltà come lui, e anche lei lo cercò con lo sguardo, quasi a chiedergli aiuto. Ripensò a quanto fosse stato piacevole accompagnarla per le strade di Minas Tirith, seppure la distanza che avevano percorso non fosse sufficiente per godere appieno della sua compagnia. Aveva mantenuto lo sguardo fermo sull’orizzonte, senza mostrare un particolare interesse alla dama che lo teneva per il braccio, ma ciò che si era svegliato dentro di sé lo aveva debilitato. Aveva provato la medesima sensazione la notte sul fiume, quando aveva potuto avvertire il calore di quella pelle intirizzita sotto la leggera tunica, e aveva dovuto fare ricorso a tutto il suo autocontrollo pur di non cedere alla tentazione di stringerla tra le braccia e sentirla ancora più vicina. E non era stato per mera attrazione fisica, perché era ben conscio del fatto che avrebbe mentito a se stesso: era quel suo carattere fiero che la portava a disubbidirgli e a farle dire cose che avrebbe fatto meglio a non pronunciare, ad affascinarlo inesorabilmente; più di una volta aveva dovuto combattere l’incredibile impulso di zittire quel suo fiume di parole e improperi con le sue labbra, più che con altre severe parole.

Per la prima volta in quelle settimane, e nella sua intera vita, si rese conto, non senza un certo timore, che non ci sarebbe stata donna migliore per portare quell’appellativo che il nipote aveva pronunciato con tanta ingenuità.

Melhekhinh.

La signora del Re.

Che pensiero sciocco, il suo.

Doveva occuparsi di quell’imponente cancello di Minas Tirith, in vista di una possibile guerra, non indugiare in futili fantasie che non avrebbero portato altro che problemi; soprattutto se fino all’altro giorno non avessero fatto altro che uccidersi con lo sguardo e duellare con le parole. Con che coraggio avrebbe potuto... corteggiarla?

Per Mahal, l’aveva pensato sul serio?

Era così assorto nei suoi pensieri, che non si accorse dei suoi compagni sghignazzare.

«Che vi ho detto?» fece Fili, sottovoce. «Ci sta riflettendo sopra!»

 

 

 

Il temporale imperversava da ore e il cielo plumbeo non faceva presagire miglioramenti entro la fine della giornata. La sentinella sbuffò, grattandosi il naso e ringraziando l’armatura e l’elmo che lo proteggeva dalla pioggia. Non aveva intenzione di prendersi un altro malanno, dopo l’ultimo che lo aveva tenuto fermo in un letto per più di una settimana. Quella volta aveva dovuto provvedere da solo alla sua salute, poiché lì, a Cair Andros, non era ammesso portarsi dietro la famiglia; e anzi, a portargli il cibo e le medicine era toccato al più giovane dei soldati, ancora nella fase di gavetta, ed era stato un disastro. Era imbranato e chiedeva perdono per ogni minima cosa, tanto da irritare anche un Uomo paziente e solitamente calmo come lui. Ma si era affezionato al giovanotto, e ora si era ritrovato a fargli da spalla durante le nottate di guardia, mentre trascorrevano il tempo parlando di trucchi del mestiere e di vecchie battaglie.

Lo intravvide poco distante dall’ingresso della torre, inzuppato fradicio nel suo completo da soldato semplice, e chinò il capo appena colse il suo sguardo. Era un bravo ragazzo, dopo tutto, voglioso di imparare, anche se la strada era ancora lunga. Ma egli era un buon padre e sapeva come prendersi cura dei più giovani.

Sorrise nel pensare ai suoi piccoli ometti di quattro e sei anni, e al nuovo piccolo in arrivo. La sua adorata moglie continuava a dire che quella volta avrebbero avuto una bella femminuccia e lui sperava che così fosse. Aveva bisogno anche di una bambolina da viziare, non solo di due ragazzi che imparassero a diventare uomini forti e coraggiosi.

Per fortuna il suo mese a Cair Andros sarebbe terminato in pochi giorni, cosicché avrebbe potuto fare ritorno a Minas Tirith e riabbracciare la sua famiglia, che lo attendeva ormai da troppo tempo.

«Ci mancava solo la foschia, ora.» borbottò qualcuno.

Guardò verso la pianura che si stendeva davanti a loro, oltre il fiume, verso Est, ma si accorse che non fosse più visibile. Non solo la pioggia continuava a precipitare torrenzialmente, ma ora anche la nebbia avrebbe aggiunto umidità alle sue povere ossa.

«Vieni, amico mio, ho acceso un fuoco al riparo, nella torre.»

«Mi sto congelando persino l’anima, stanotte.»

Il soldato fu tentato di unirsi al gruppo di commilitoni, ma rimase fermo dov’era, gli occhi scuri puntati verso quel mare di nebbia, che velocemente coprì anche il corso d’acqua che scorreva poco lontano dalla sua posizione. Non gli era mai piaciuto quel tipo di eventi; gli metteva i brividi e gli ricordava l’agguato degli Orchi ad Osgiliath, che silenziosi avevano trovato uno scudo nella foschia per raggiungere la sponda opposta ed attaccarli di sorpresa.

Quasi non riuscì a finire il pensiero, che un grido soffocato raggiunse le sue orecchie, così come il clangore del ferro contro altro ferro, che in quel silenzio irreale parve un boato. E tutto ciò a cui poté pensare fu di correre.

Non ricordava di aver corso così tanto in vita sua, né che il suo fiato e le sue gambe potessero permettergli una velocità simile. Salì i gradini della torre di vedetta tre alla volta, sulla cui cima pendeva la campana dell’allarme; rischiò di inciampare e di rompersi l’osso del collo più di una volta, ma non se ne curò. L’adrenalina e la paura che in quel momento gli stavano dando la forza di muoversi superò di gran lunga ogni caduta.

Quando raggiunse la cima della torre, lo vide. Il corpo del giovanotto, che tanto gli si era affezionato, era senza vita e con una freccia conficcata precisamente nel collo; e capì di essere giunto troppo tardi. Indugiò troppo su quel cadavere dagli occhi spalancati dal terrore e sulla pozza di sangue scuro che riusciva a scorgere nonostante l’oscurità.

Ma non fece in tempo a muovere la mano verso la corda della campana, che sentì qualcosa bruciare e bagnargli la gola. Prima di cadere accanto al ragazzo, il suo ultimo pensiero volò al calore del focolare familiare, di cui purtroppo non avrebbe potuto più godere.

E sperò vivamente che il suo ultimo figlio fosse una femminuccia.

Alle sue spalle un Esterling ghignava, sotto l’elmo nero, e ripuliva dal sangue la lama del suo pugnale sul mantello del caduto, e tornò indietro, scendendo le scale a chiocciola della torre.

Fu un attacco silenzioso e letale.

Al resto dei soldati toccò la stessa sorte dei due, e nessun allarme partì dall’isola in mezzo al Grande Fiume.

L’esercito di Esterling, che aveva atteso in silenzio fino a quel momento, capì che fosse finalmente giunta l’ora di marciare verso Osgiliath. Azdor, il loro Comandante, sollevò la testa di un soldato di Gondor, deridendolo dietro il tessuto e l’elmo che lasciava visibili solo gli occhi neri, e i suoi uomini risposero, battendo le spade e le lance contro gli scudi.

Tutto andava secondo i piani, e sperò che la parte più difficile di quella spedizione – e che fortunatamente non li vedeva protagonisti – andasse a buon fine. Ma ciò che contava, per il momento, era il sapore della vendetta servito su un gigante piatto fatto di pietre e rovine.

Osgiliath sarebbe stata la colossale tomba per Uomini e Nani, e su questo ci avrebbe potuto scommettere la vita.

 

 

 

 

*

 

Ebbene, i pezzi del puzzle iniziano a ricomporsi e a creare un quadro più nitido; immagino abbiate capito, ormai, cosa sta succedendo.

Tempi bui giungono nuovamente su Gondor!

E tenete a mente Azdor, sarà una bella spina nel fianco, in futuro.

Niente Brethil, in questo capitolo, ma non temete... tornerà presto.

In compenso, Thorin inizia ad arrovellarsi le cervella – un applauso a Fili per averlo iniziato, suvvia!

A presto! *^*

Marta.

 

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Capitolo 13
*** 13. ***


Buon sabato a tutti, miei cari lettori e adorate lettrici!

Dopo la chiusura a sorpresa del capitolo precedente, vi avverto che questo capitolo sarà un po’ più tranquillo. Perché voglio tenervi ancora sulle spine, solo un altro poco. 0:)

Ci sarà il ritorno in scena di un grande personaggio. <3

E... non vi dico altro, altrimenti spoilero troppo e la sorpresa svanisce.

Chiedo, invece, scusa se non ho ancora risposto alle recensioni, ma il plastico che sto facendo mi sta prendendo tutta la giornata e quando ho cinque minuti liberi mi metto a disegnare – benedetta sia la mia nuova tavoletta grafica!

Prometto che oggi mi ritaglio una mezzora e rispondo per bene a tutte, perché ve lo meritate! *^*

Un abbraccio e buona lettura!
Marta

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

13.

19 Settembre 3019 T. E.

 

 

Il cielo si era schiarito, dopo la tempesta del giorno prima, e Trán si sentì un po’ meglio. Il timore per la sicurezza della sua nuova amica non sarebbe passato finché non l’avesse rivista sana e salva, e il giorno prima le nuvole scure sopra le loro teste non avevano certo aiutato il suo umore e il suo pessimismo. Ma ora, la vista di qualche timido raggio di sole che baciava le bianche pietre di Minas Tirith la fecero ben sperare e con rinnovata energia, dopo il lungo riposo del pomeriggio precedente, si preparò per andare a lavorare. La notte scorsa aveva saltato la cena, poiché si era risvegliata troppo tardi e le cucine avevano già chiuso; ma Káel, da bravo e premuroso fratello quale era, le aveva fatto il favore e il piacere di portarle qualche avanzo in camera, ammettendo che non fosse solo la sua porzione, ma anche quella di Fili e Kili. La notizia, dopo quella giornata lunga e stancante, l’aveva fatta quasi piangere per la commozione.

Ripensare al poco cibo che aveva ingurgitato solo qualche ora prima le fece brontolare lo stomaco per la fame e si affrettò nel vestirsi, prima che giungesse in ritardo anche per la colazione. I fratelli erano già pronti e la salutarono con un sorriso solare e un abbraccio.

«Come stai, sorella?» chiese Káel, che teneva sulle spalle Trión.

«Sto meglio, ma non bene.» fu la sua criptica risposta.

«Vedrai, oggi sarà una grande giornata.» le disse, entusiasta. «Ho sentito voci che parlano dell’arrivo dei cavalieri di Rohan!»

Lei si crucciò. «Non mi pare una buona notizia. Se il Re di Gondor richiede anche l’aiuto di Rohan, allora la situazione è peggiore di quanto pensassimo.»

«Mahal, Trán! Invecchierai più velocemente di una farfalla, continuando con il tuo catastrofismo!» la rimproverò il fratello. «Si dice che il Re di Gondor sia molto amico con quello di Rohan. Magari è una visita di cortesia tra amici, cosa ne sappiamo?»

«Appunto, non lo sappiamo. E io sono realista, come sempre.»

Il gemello alzò gli occhi al cielo, ma non sprecò altro fiato per ribattere. Quando Trán si metteva in testa qualcosa, andarle contro sarebbe stato come scavare la Montagna Solitaria con le unghie.

Arrivarono alla porta della mensa, e Káel fece scendere il fratellino dalle spalle, sconfitto. «Sei un caso perso e deprimente.» Il pugno che gli arrivò alla spalla poco dopo sentì di meritarselo tutto e si massaggiò la parte lesa tra un borbottio e l’altro.

La solitudine che li accolse fu immensamente inquietante. Da quando l’esercito era partito, quella grande locanda per i soldati, solitamente chiassosa e affollata, era stranamente quieta. Non solo vi erano pochi Uomini, rispetto all’usuale numero, ma anche i Nani che importavano sembravano spariti. Trán ne cercò uno in particolare, rabbrividendo inconsciamente nel ripensare al braccio intrecciato al suo, ma con dispiacere notò che né Thorin né i suoi più stretti amici fossero nei paraggi.

«Devo ammetterlo, questa calma mi mette i brividi.» sussurrò il gemello.

Si sedettero accanto ad un paio di Nani con cui avevano scambiato qualche parola i giorni precedenti, e Trán mangiò con così tanto appetito che, ne era sicura, presto le sarebbe arrivato un bel mal di stomaco per non aver masticato metà del cibo nella foga. Neppure quando raggiunsero le fucine videro traccia del Re, né degli altri. Imponendosi di non aggiungere altra tristezza a quella che già aveva, Trán si concentrò sul suo lavoro, ormai quasi terminato dopo il grande sforzo del giorno prima.

«Finalmente domani sarà domenica e da questo pomeriggio possiamo rilassarci un poco.» fece Káel, asciugandosi la fronte imperlata dal sudore con la camicia, buttandola poi su una sedia lì vicino. «Ho bisogno di un po’ di riposo!»

La Nana sorrise, birichina. «Non mi dirai che sei stanco?»

Quello parve indignato. «Stanco? Io? Non dire stupidaggini, sorella!» Ridacchiò. «È che vorrei spendere un po’ del mio tempo lontano dall’incudine, sai... c’è una città che aspetta di essere esplorata, al di fuori di queste quattro mura. E una locanda che vende una birra niente male.»

«Potremmo andare a visitarla insieme, dopo.» suggerì lei. «La città, intendo, non la locanda!» si affrettò a dire, vedendo gli occhioni sorpresi e malandrini del fratello.

Káel, ripresosi, ammiccò. «Oppure potresti chiedere a qualcuno di portarti a passeggio sotto braccio.» Ringraziò la sua prontezza di riflessi, quando evitò un martello che gli volò ad una spanna dalla testa. Se l’avesse beccato in fronte era più che sicuro che ne avrebbe risentito per il resto dei suoi giorni. «Come siamo suscettibili!»

«Smettila subito! N–non riiniziare.» Il tentativo di apparire seria ed imperativa fu reso vano dal rossore nelle guance; il che contribuì a far capottare dalle risate il fratello, mentre Trión guardava prima l’uno poi l’altra, senza capire.

«Dovresti vedere la tua faccia, sorellina!»

«Non c’è nulla che non vada nella mia faccia.» borbottò, tornando al lavoro con il chiaro intento di lasciarlo perdere. Si sarebbe stancato prima o poi di–

«Oh, sire Thorin questo lo sa bene.»

No, a quanto pare aveva intenzione di continuare. «Káel!»

Il loro amorevole diverbio fu interrotto dalle trombe cittadine, le stesse che avevano udito quando erano giunti, una settimana prima. Bastò un solo sguardo per dimenticarsi dei loro compiti e correre verso la strada principale, dove già una numerosa folla ne accalcava i lati; si fecero spazio tra le lunghe gambe dei Gondoriani giusto in tempo per vedere un cavaliere dal fiero portamento in testa ad un’altra decina. I soldati erano belli, e biondi per la maggior parte, e indossavano degli splendidi elmi che terminavano in quella che pareva la coda di un cavallo, e i destrieri erano lucenti e in forze, bardati di verde; guardarono il vessillo che il Valente reggeva con orgoglio e non impiegarono molto a capire di chi si trattasse, nonostante la loro scarsa conoscenza dell’araldica degli Uomini.

I Signori dei Cavalli erano infine giunti.

Trán capì così il perché dell’assenza di Thorin. Del resto, egli era il Re Sotto la Montagna, ospite del Re di Gondor, e come tale avrebbe dovuto accogliere i nuovi arrivati.

Sospirò pesantemente, nel rendersi conto che con molta probabilità non avrebbe visto i suoi adorabili nipoti neppure per pranzo.

E nemmeno lui.

 

 

 

Thorin osservò l’Uomo che parlava con Aragorn, senza nascondere la sua meraviglia. Éomer era giovane, troppo giovane per essere un Re; eppure aveva visto immediatamente la sua determinazione e il forte carattere dietro quegli occhi affilati e penetranti. Appena giunto, aveva lasciato il suo elmo ad uno dei soldati e lui ed Aragorn si erano abbracciati con vigore, come vecchi amici di lunga data che non si vedevano da troppo tempo.

«Giungi con un ottimo tempismo, amico mio.» gli aveva detto Aragorn, senza nascondere la preoccupazione nelle sue parole, ma felice di averlo nuovamente nella sua città.

«Aggiornami su tutto.»

E Aragorn l’aveva fatto, con dovizia di dettagli e una certa dose di preoccupazione. Ora, seduti attorno al tavolo della Sala Grande, Éomer aveva assimilato ciò che aveva da conoscere e faceva il punto della situazione con i suoi due uomini più fidati, Elfhelm, Maresciallo del Mark dell’Est, e il vecchio Erkenbrand, ora Maresciallo dell’Ovestfalda; con loro, oltre i Nani di Thorin, erano presenti anche Ecthirion e Mardil, e la Regina Arwen che stava in piedi accanto al marito, una mano amorevolmente poggiata sulla spalla dell’Uomo.

«La mia scorta conta cento Rohirrim; ma se darai l’ordine di accendere i fuochi di Amon Dîn, altri mille sono pronti a raggiungermi in meno di una settimana.»

«Accendere i fuochi di segnalazione?» domandò Mardil, sollevando le sopracciglia quasi crucciato. «Sire Éomer, non siamo in regime di guerra. Perché allarmare la popolazione?»

«Lo saremo presto, Mardil.» replicò Aragorn, prima ancora che l’altro potesse farlo. Non gli sfuggì, infatti, l’occhiata fredda dell’amico verso la Prima Lancia, e temette che il suo temperamento acceso potesse fargli dire qualcosa di spiacevole. «Infatti, la popolazione ha già fiutato il pericolo. Ti ricordo che ieri un migliaio di soldati ha lasciato le mura di Minas Tirith e non è certo passato inosservato.»

Éomer e Thorin ghignarono all’evidente sarcasmo di Aragorn, ma Mardil non parve farci caso.

«Io direi di agire in modo più silenzioso, se mi è permesso dirlo, sire.» continuò, alzandosi e camminando verso il suo Re. «Se il nemico fosse in agguato, starebbe studiando i nostri movimenti, e i fuochi di segnalazione sarebbero un’ottima dichiarazione di paura e fretta.»

Ecthirion seguì i suoi passi con scetticismo, chiedendosi che fine avesse fatto la sua silenziosa Prima Lancia, che interveniva durante le riunioni solo quando interpellata.

«Noi abbiamo fretta.» replicò Éomer.

Quello non parve sentirlo; e se lo udì, non se ne curò. «Usiamo le aquile per convocare i Rohirrim, invece. O un messaggero.» Sorrise, mellifluo. «Questa volta la donna è lontana, e saremo sicuri che arriverà sano e salvo a destinazione, senza che qualcuno lo ammazzi.»

Tra tutti i presenti, solo il Secondo Capitano abbozzò un sorriso alla battuta, che si spense immediatamente com’era giunto nel vedere le altre espressioni serie.

Aragorn sentì chiaramente il fastidio montargli il sangue e si costrinse di stringere con forza i braccioli della sua sedia pur di non sbottare. Era stanco di quelle insinuazioni sul conto di Brethil, e ringraziò il cielo che Boromir non fosse presente in quelle ultime settimane, altrimenti era sicuro che avrebbe dovuto far ripulire i pavimenti dal sangue. Arwen, accanto a lui, gli impose di calmarsi con una lieve carezza sulla schiena e i muscoli tesi del Re si rilassarono un poco.

«I fuochi di segnalazione verranno accesi in caso di imminente pericolo.» fece Aragorn, con lentezza, scambiando un’occhiata con Éomer. «Se dovessimo necessitare anche dei tuoi Rohirrim, ti chiederò di inviare uno dei tuoi uomini – se me lo permetterai. I vostri cavalli sono i più veloci che si possano desiderare, del resto.»

Il Re del Mark annuì. «Consideralo fatto.»

Thorin osservò con insistenza Mardil mentre tornava al suo posto e la sensazione di fastidio nel guardare quell’uomo dalla pelle ambrata tornò più forte che mai. C’era qualcosa di estraneo in lui, eppure qualcosa di tremendamente familiare. Che cosa fosse, però, non riuscì a capirlo. L’Uomo si sentì osservato e ricambiò il gesto con quello che doveva essere un sorriso di cortesia, ma ai suoi occhi parve più un ghigno.

«Hakhakh hodh.*» borbottò Dwalin, la cui attenzione era anch’essa rivolta al soldato.

Thorin non rispose all’insulto, ma sostenne lo sguardo della Prima Lancia, perdendo parte del pacifico discorso degli Uomini, finché fu riportato alla realtà da Éomer, che gli rivolgeva la parola. «Chiedo perdono, mio signore, ero sovrappensiero. Dicevi?»

«Mi chiedevo se siete mai stati a Rohan, prima del vostro lungo viaggio. Messer Gimli mi raccontò che abbiate girato in lungo e in largo la Terra di Mezzo, parecchi anni fa.»

«È vero; eravamo senza una casa, dopo l’arrivo del drago, e ne trovammo una negli Ered Luin, nel Nord-Ovest. Ma no, non mi sono mai spinto più a sud dell’Isen, né della foresta di Fangorn, fino a pochi giorni fa. I miei affari mi hanno tenuto ad Ovest, dove ho lavorato molto spesso per gli Uomini. Lo stesso vale per i miei compagni.»

«Allora sarei felice di avervi come ospiti nelle Caverne Scintillanti, al Fosso di Helm, che il vostro amico Gimli tanto ama.» Éomer sogghignò, accarezzandosi la corta barba. «In realtà, ho un’idea che mi solletica la mente da parecchio, ormai. Magari questa sarà la volta buona che la metterò in atto.» A nessuno di loro, però, fu dato sapere cosa avesse per la mente quella sua bella testa bionda e sperarono di vivere a lungo per poterlo scoprire.

Fu nuovamente Mardil ad interrompere la discussione, facendo roteare gli occhi a molti. «Se la riunione di benvenuto è conclusa, miei signori, io vi lascerei. Ho delle urgenti faccende da sbrigare prima di pranzo.»

«Ah, sì?» domandò criptico Ecthirion, che a quanto pareva ne era all’oscuro. «E che faccende così urgenti hai da sbrigare, mi domando?»

La Prima Lancia non gli rispose e si chinò appena Aragorn gli diede il permesso di allontanarsi; il Secondo Capitano lo seguì, deciso a scoprire il motivo di tanta stranezza e parecchio infastidito dalle libertà che si stava prendendo negli ultimi tempi.

Éomer osservò Mardil con circospezione, fin quando liberò la Sala dalla sua scomoda presenza, e aggrottò la fronte. «Da quando ti circondi di uomini come quello?»

L’altro seguì il suo sguardo. «È un po’ ambiguo, lo ammetto; ma è un ottimo e fidato soldato.»

L’Uomo di Rohan non parve condividere il pensiero. «La sua vista mi riporta alla mente quel Vermilinguo che avvelenò la mente di mio zio – pace all’anima sua. Conosco i personaggi come lui e ti dirò in tutta franchezza che non mi piace.»

Dwalin si lasciò sfuggire un borbottio di assenso. «Felice di sapere che non sono il solo. Penso la medesima cosa da quando l’ho visto.»

Thorin, spinto da quelle confessioni, non impiegò molto per confidare i suoi timori al Re. «Quando ieri ti ho consigliato di tenere gli occhi aperti suoi tuoi uomini, mi riferivo principalmente a lui, e al suo capitano. E ora ne sono anche più convinto, visto che il mio pensiero pare essere condiviso da altri.»

«E anche da me, mio Re.» Arwen, che era stata silenziosa per tutta la durata dell’incontro e aveva studiato i presenti e ciò che udiva, per la prima volta prese parola. «Da tempo la luce degli Eldar mi ha indebolita, ma condivido i timori dei nostri ospiti e percepisco un’ombra tra le mura di questa città.»

Aragorn sospirò, ormai con le spalle al muro. Annuì impercettibilmente. «Starò attento ad entrambi; ma sono sicuro che vi sbagliate: essi danno sempre l’impressione errata, agli stranieri.»

«Metti in dubbio anche il mio istinto?» domandò la moglie, stringendo le dita affusolate sulla spalla.

Lui le prese la mano con gentilezza e la baciò. «Non dubito di te, né di nessun’altra persona presente qui, oggi. Vorrei solo poter ragionare lucidamente.»

Arwen sorrise. «Allora potrai farlo dopo un abbondante e ristoratore pasto. Immagino che Re Éomer e i suoi consiglieri siano stanchi e affamati, dopo il lungo viaggio.»

Il Re di Gondor colse il ghigno di approvazione dell’amico e si alzò. «Miei buoni amici, siete invitati a pranzo nella riservatezza della nostra casa. Vi attenderemo tra un’ora.»

Gli ospiti chinarono il capo, grati per l’offerta, e Arwen si avvicinò silenziosamente ai Nani. Quando Dwalin se la trovò alle spalle non riuscì a nascondere la sorpresa e arrossì furiosamente per essersi lasciato scappare un’esclamazione poco signorile in Khuzdul; Fili e Kili, d’altronde, si chinarono così tanto da far sfiorare le punte dei capelli al pavimento.

«Mia signora.» fece Thorin.

Lei sorrise gioviale. «Sarei felice se riusciste ad invitare anche la giovane Nana che vi accompagna. Ho trovato piacevole discorrere con lei e ora che dama Brethil non è più in città, avrei bisogno di una presenza femminile per compensare tutta questa mascolinità. E immagino che ne necessiti anche lei.»

Balin ridacchiò, ma il suo Re non fu dello stesso avviso. Non sapeva se fosse pronto per guardarla nuovamente negli occhi, dopo lo scherzo che la sua mente gli aveva giocato. Guardò Fili, la causa di quei dannati pensieri, felice oltremodo di offrirsi volontario per portarle personalmente l’invito; Kili, ovviamente, lo seguì di corsa, e lui si ritrovò ad alzare gli occhi al cielo sotto le palpebre chiuse.

I due fratelli la trovarono in procinto di chiudere la pesante porta della fucina, ormai deserta. Era sola, notarono immediatamente.

«Ehilà!» cantilenò il più giovane, ridendo nel vederla saltare per lo spavento di non averli sentiti arrivare. E sì che erano giunti accompagnati da un bel fracasso, ma evidentemente i pensieri della Nana erano anche più chiassosi di loro.

«Buon giorno a voi.» disse lei, con una mano sul cuore nel vano tentativo di calmarlo. «Siete arrivati un po’ tardi per lavorare. A meno che non vogliate svolgere i vostri compiti il sabato pomeriggio.»

«Giammai!» esclamò Fili, con gli occhi azzurri quasi fuori dalle orbite. «Siamo qui in veste di portavoce.»

«Da parte della bella dama Arwen.»

«Che desidera averti accanto per pranzo, tra un’ora.»

«Saremo presenti tutti.»

«Anche il Re di Rohan!»

«Verremo a prenderti puntuali... o lo farà qualcuno, se noi non fossimo reperibili.»

«Sai com’è, dobbiamo prepararci anche noi e Kili in particolare è più vanitoso di una femmina.»

«Parla quello che spende più di un’ora intrecciandosi anche i peli delle gambe.»

Trán non riuscì a trattenere le risate, sommersa da quella ondata di parole che quasi la lasciò senza fiato. Ma non le sfuggì il motivo della loro visita e rimase interdetta per qualche secondo, prima di riuscire a blaterare qualcosa di sensato. «La Regina–me? Dite sul serio?»

«Mai stati più seri di così.»

«Ed è tutto dire.»

Trán mormorò solo un oh di assenso, incapace di proseguire oltre. I fratelli la salutarono con un sorriso talmente luminoso, che avrebbe fatto concorrenza al Sole stesso, e lei corse verso la sua abitazione, maledicendosi durante tutto il tragitto per non essersi portata abiti che rasentassero la soglia della decenza. Non che a casa, nei lontani Colli Ferrosi, avesse abiti degni di un pranzo in compagnia di una Regina dalla bellezza indescrivibile. Guardò disperata la sua piccola sacca di averi e riversò il contenuto sulla branda, su cui si lasciò cadere mentre studiava i pochi vestiti appallottolati.

Mahal, lei non apparteneva a quella congrega di persone! E non riusciva a capire perché dama Arwen volesse la sua compagnia, invece di quella delle sue ancelle – sicuramente più belle e loquaci di lei. Quasi scoppiò a ridere istericamente: era più che sicura che non sarebbe riuscita a spiccicare una sola frase senza inciampare sulle sue parole. Non con la Regina, né con il marito, neppure con i nipoti del Re di Erebor, e–

Thorin.

Spalancò gli occhi, rendendosi conto solo in quel momento che, se Fili e Kili avessero preso parte al pranzo, allora anche lui sarebbe stato presente. E allora non solo avrebbe fatto una figuraccia di fronte ai regnanti di Gondor, ma anche davanti ai suoi occhi. E lei, che aveva sempre ostentato una certa sicurezza nel rispondere alle sue provocazioni, non poteva permettergli di scoprire quel suo lato di debolezza che tentava sempre di nascondere, stando ben lontana da contatti sociali che esulassero dal suo cerchio familiare.

Si lasciò cadere sul letto e si prese la testa tra le mani, non sapendo come uscire da quella ridicola situazione. E perché Káel era dovuto sparire con Trión proprio quel giorno, lasciandola sola e senza supporto morale? Quella era senza ombra di dubbio la peggior giornata di sempre da quando si era messa in viaggio. Avrebbe preferito cento volte riprendersi quella dannata freccia sul braccio, piuttosto che mettersi in ridicolo di fronte alle più alte personalità della Terra di Mezzo.

 

 

 

Non seppe bene neppure lui come si ritrovò di fronte a quella porta di legno, con una mano chiusa a pugno sollevata a mezz’aria per bussarci contro le nocche. I nipoti, ovviamente, ne avevano la piena responsabilità e, prima di sparire per prepararsi per il pranzo – cosa dovessero preparare, poi, rimase un mistero – gli avevano detto che la Nana aspettava un cavaliere tra meno di un’ora, che potesse scortarla sana e salva a tavola. Aveva sperato che Balin si offrisse come volontario, o addirittura Dwalin, che in più di una occasione aveva mostrato di provare qualcosa simile all’affetto per la ragazza; invece niente di ciò che aveva auspicato accadde e la responsabilità era caduta chiaramente su di lui. E anzi, quello che avrebbe dovuto essere il suo migliore amico, aveva allegramente rigirato il coltello nella piaga, uscendosene con un “È tuo dovere accompagnarla, Thorin, visto che ormai dovresti averci fatto l’abitudine.”

Maledicendo lo spirito di patate del guerriero, bussò alla porta, con un sonoro sospiro, e attese pazientemente che qualcuno si accorgesse della sua presenza. Ma dopo una buona manciata di secondi, non udendo alcun suono provenire dall’interno, bussò ancora una volta, più forte, mentre la pazienza scemava con il passare del tempo.

«Arrivo, per Mahal!» udì la dolce e irritata voce della Nana, che scendeva rumorosamente le scale. «Voi due siete i Nani più–Oh!»

Thorin sollevò un sopracciglio, curioso di sapere quale gentile epiteto avesse in serbo per i nipoti; ma lei si era zittita nello stesso istante in cui, dopo aver aperto la porta, aveva realizzato chi si trovasse sull’ingresso di casa: perché, decisamente, quello non era né Fili né tantomeno Kili, pensò Trán, arrossendo fino alla punta dei piedi. Lo trovò bello, nel suo miglior completo regale, blu e argento, che tanto si intonava con il colore dei suoi occhi.

«Ti prego, non interrompere la frase per me.» la punzecchiò, con un ghigno. «Siete i Nani più–?»

«Irritanti.»

«Irritanti?»

«Sì, è quello che avrei detto.»

Thorin si accigliò. «Quindi deduco che ora sia rivolto a me. Sono irritante, per caso?»

La vide deglutire, mentre torturava il pomello della porta come se ne avesse colpa. «Oltremodo, mio signore.»

Lui si lasciò scappare un sospiro. «Tu devi sempre dire a voce alta ciò che pensi?»

«Se non erro, l’ultima volta che una cosa simile è successa, non ero esattamente io quella che parlava.» Trán trovò la forza di sorridere trionfante, vedendolo sbattere velocemente le ciglia, a disagio.

Thorin si schiarì la gola, notando solo in quel momento l’abito che le fasciava con grazia il corpo. Era di un verde sbiadito, che aveva visto troppi lavaggi per una sola vita, ma s’intonava con il contrasto di quei capelli rossi, ora sapientemente intrecciati. Aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per mostrarsi appetibile, nonostante la mancanza di materia prima, e suo malgrado la trovò adorabile, anche senza l’eleganza di una donna di corte. «Sei... diversa.»

La Nana corrugò la fronte. «Grazie... credo.» fu la sua incerta risposta, stringendo le labbra pur di non scoppiare in una risata. O a piangere.

«Sì, bene, credo che sia ora di andare.» tagliò corto Thorin, porgendole il braccio senza troppe cerimonie e deciso a porre fine a quell’assurdo teatrino. Lui voleva essere gentile e farle un complimento, e lei come sempre aveva rovinato tutto – anche se non era totalmente sicuro che quel diversa lo fosse realmente, un complimento.

Quel gesto ebbe il potere di farle ricadere addosso tutto il nervosismo dell’ora precedente e si ricordò il perché Thorin fosse alla sua porta, vestito così elegantemente.

«C’è qualche problema?» le domandò, appena iniziarono a camminare verso la Cittadella. «Sembri tesa.»

«Oh, sto per andare a pranzo con il Re di Gondor e il Re di Rohan, e la Regina ha chiesto espressamente di me. Tutto nella normalità, insomma.»

Thorin fece passare qualche secondo di silenzio. «E il Re di Erebor?» Con suo sommo piacere la vide arrossire.

«Lui si è preso la malsana abitudine di accompagnarmi ovunque a braccetto.»

Il Nano non seppe se considerare quelle parole un bene o un male. Forse non gradiva la sua compagnia, né un prolungato contatto fisico; o forse la innervosiva il semplice fatto che lei fosse così sfortunata (o fortunata?) da avere le attenzioni del Re Sotto la Montagna. Evitò di porle ulteriori domande, visto che poteva chiaramente percepire il suo nervosismo nella presa ferrea di quella mano troppo piccola rispetto alla sua, ma che gli avrebbe lasciato sicuramente qualche ricordo nel braccio stritolato con così tanta ed impensabile forza. Il gemello non mentiva certo quando parlava della sua mano pesante – e la sua guancia, questo, lo ricordava bene.

Raggiunsero in silenzio la Cittadella e lei buttò parecchie volte lo sguardo verso il panorama mozzafiato che tante volte, in quei giorni, aveva solo potuto immaginare, ma che non fece in tempo a godere. Thorin si appuntò mentalmente che l’avrebbe accompagnata sulla chiglia naturale di pietra, dopo aver mangiato – se lei avesse voluto. Raggiunsero la grande sala da pranzo, già animata da qualche commensale; videro Aragorn e la Stella del Vespro intenti a chiacchierare amabilmente con Éomer, e anche Balin e Dwalin erano già arrivati. Appena avvertì lo sguardo dei presenti rivolgersi verso di loro, Trán strinse il braccio di Thorin, se possibile di più, e questa volta con entrambe le mani.

«Rilassati.» le mormorò con fare rassicurante, mentre si avvicinavano al tavolo. «Sarai all’altezza di superare un paio d’ore, ne sono sicuro.»

Trán si morsicò un labbro nel vedere il lieve sorriso del Nano, che nel frattempo le aveva spostato la sedia accanto alla Regina per farla accomodare. Lui prese posto accanto a Dwalin, proprio di fronte a lei nella grande tavola tondeggiante, e non riuscì a distogliere lo sguardo finché anche lui la scrutò dietro una coppa di vino.

Arwen la salutò in Elfico e Trán sperò che non continuasse a farlo, perché non avrebbe saputo come spiegarle che, nonostante le sue origini, non sapesse niente di quella lingua.

«Sono lieta che abbia accettato l’invito. Mi piacerebbe discorrere con te su Ainariël, se lo desideri.»

Trán chinò il capo, prendendo un respiro profondo prima di parlare. «Ne sarei onorata, mia signora. Mi incuriosisce molto conoscere la sua storia.»

Il pranzo iniziò quando anche i nipoti di Thorin e i due uomini di Éomer giunsero a chiudere il cerchio, e Trán non ricordò di aver mangiato così bene e così abbondantemente in tutta la sua vita. Era così che si viziavano, i nobili? Con fiumi di vino rosso dall’odore pungente che l’avrebbe ubriacata solo ad annusarlo, e carne e patate in tutte le salse?

Per sua fortuna, Arwen raccontò a lungo della sua ava e ne fu affascinata per la prima volta da quando ne aveva scoperto l’esistenza: le disse che fosse una donna impetuosa, soprattutto in giovane età, e che aveva lasciato il Lindon dove era nata, per trasferirsi ad Imladris e diventare una curatrice alla corte di suo padre, finché non conobbe il Nano che la fece innamorare e lo seguì fino ai lontani Colli Ferrosi. Trán si chiese come potesse esistere un amore così profondo da portare un essere immortale come lei ad innamorarsi di qualcuno così diverso, che sarebbe stato solo uno sbiadito ricordo dopo qualche centinaio di anni; ma capì che dovesse essere sconfinato, soprattutto se pensava alla donna che aveva accanto, che aveva rinunciato ad una vita immortale pur di stare vicino al suo amato. In fondo, non era come rischiare la propria vita, o darla direttamente, per salvare l’altra metà?

Si rese conto troppo tardi dei suoi pensieri, e si affrettò ad aggiungere mentalmente che ciò che fece per Thorin non implicava un sentimento così forte per quel testardo ed orgoglioso che... la stava osservando con troppa insistenza. A nessuno dei Nani presenti sfuggì l’innumerevole scambio di sguardi che o Thorin o Trán lanciavano dall’altra parte del tavolo, quando l’uno o l’altra fossero distratti e non potevano accorgersene. E non passò inosservato neppure agli occhi attenti della Regina, che sorrise e si chinò sulla Nana per sussurrarle qualcosa.

Trán affogò il viso dietro la coppa di idromele, nascondendo il suo imbarazzo. E che Mahal fulminasse la Mezz’Elfa che le sedeva accanto per ciò che le aveva detto! «Temo che–che abbia frainteso, mia signora.» mormorò, sentendo le guance andarle a fuoco. «La nostra razza dimenticherà come scalfire una roccia, quando io e... e... sire Thorin saremo... promessisposi.» Pronunciò le ultime due parole con così tanta fretta e vergogna, che la Regina la capì a stento.

Arwen parve sorpresa, guardando ancora una volta il Re dei Nani, ora nuovamente concentrato su ciò che Éomer diceva. «Allora sto iniziando a perdere le mie capacità di giudizio, giacché avrei creduto il contrario.»

Trán non volle indagare oltre sui motivi che l’avevano spinta a credere tanta ridicolosità. Il solo pensiero era assurdo, sopra ogni dire. E, anzi!, non solo i Nani non avrebbero più saputo fare il loro lavoro, ma lei avrebbe addirittura imparato a cucinare. Del resto, era più probabile una catastrofe simile, prima che lei diventasse sul serio Regina di Erebor.

Regina di Erebor!

Il solo pensiero aveva il potere di farla scoppiare a ridere, ma non certo per il divertimento.

Si rese conto che qualcuno le avesse rivolto la parola solo perché si accorse di un improvviso silenzio; e peggio ancora, dieci paia di occhi erano puntati su di lei, in attesa di una risposta che tardava ad arrivare. Lei, che trovava difficile parlare con un solo sconosciuto, avrebbe dovuto farlo nel più completo silenzio di fronte a così tante persone? Che Mahal fulminasse anche loro, dov’erano Legolas e Brethil che parlavano al suo posto, quando l’imbarazzo diventava troppo da sopportare e non riusciva ad aprire bocca?

Istintivamente spostò lo sguardo su Thorin, che le accennò con un lieve gesto del capo Éomer; a quanto pareva, era stato proprio lui a rivolgerle la parola.

«Co–» Trán inspirò e si schiarì la gola, ormai secca nonostante avesse bevuto tutto il contenuto del suo bicchiere in un unico sorso. «Come, prego?»

Éomer, Uomo bello e carismatico, ripeté con gentilezza. «Dicevo che ho alcune spade da far affilare e da lucidare, armi di mia proprietà e di alcuni dei miei soldati; dato che sire Thorin e i suoi sono occupati con la realizzazione del cancello, il tuo Re mi ha consigliato di chiederti il favore di farlo al suo posto; a quanto pare tiene in alta considerazione il tuo lavoro, pur essendo una fanciulla, e voglio fidarmi di lui.»

Prima di rispondergli, o almeno di tentare di formulare una risposta, Trán si chiese quanto tempo sarebbe ancora passato prima che il suo viso esplodesse, una volta per tutte, a causa del sangue che lo stava imporporando troppo spesso in quelle ultime ore. Tentata di replicare una volta per tutte che no, Thorin non era il suo Re, e che non ci fosse nulla di sbagliato in una donna che lavorava il ferro, si ritrovò invece a contemplare la musicalità di quelle parole e del loro significato. Davvero il Nano la considerava un buon fabbro, tanto da affidarle le armi dei Rohirrim, invece che occuparsene personalmente? «Io ne sarei... onorata, mio signore.»

Il Re di Rohan la ringraziò, ma la speranza che le attenzioni vertessero altrove svanì nel momento in cui le chiese come mai avesse intrapreso un mestiere duro come quello del fabbro.

Trán strinse le labbra e le mani, intrecciate sul grembo ed intente a torturare il tessuto del suo abito. «Con il dovuto rispetto, sire, ma... una Nana è in grado di alzare un martello come un Nano.» deglutì prima di proseguire, ora un po’ più spiccata, giacché era stato il suo orgoglio femminile ad essere stato scalfitto. «Provengo da una famiglia in cui le donne hanno sempre lavorato: mia madre mi insegnò il mestiere, così come lo insegnò a mio fratello, e prima di lei mia nonna.»

«Non volevo recarti offesa.» Éomer si accarezzò distrattamente la barba. «Pensavo solo che dovrò seriamente cambiare la mia opinione sulle femmine; dopo mia sorella e Brethil, eccone un’altra che pare essere in grado di cantarle persino a messer Gimli!»

Dwalin soffocò una risata con un colpo di tosse. «Non mi riesce difficile immaginarlo.»

Trán lo ringraziò con un’occhiata e tornò a respirare normalmente solo quando la conversazione si spostò verso altri lidi. Ma non riuscì a distogliere lo sguardo da quello di Thorin; vedeva male, o quelle labbra sottili erano lievemente piegate verso l’alto?

Non si sentì più sollevata quando il pranzo finì, come aveva intimamente sperato, poiché Fili e Kili la sommersero immediatamente di domande, per sapere cosa la Regina le avesse raccontato di così tanto interessante.

«Dovresti ringraziare che tuo fratello non ti abbia veduta, oggi.» ridacchiò Kili. «Eri più imbarazzata di un verme!»

«Sono sicura che provvederete a raccontargli ogni dettaglio appena lo vedrete.» borbottò lei, incrociando le braccia al petto.

«A proposito, Káel dove è?» domandò l’altro, perplesso. «Sapervi separati mi sorprende quanto vedere te con un abito elegante.»

Ignorò volutamente l’ultima parte della frase. «È andato con due ragazzi alla locanda, e si è portato dietro anche Trión. Temo che voglia festeggiare l’arrivo del fine settimana.»

«Allora, credo che ci uniremo molto presto a lui.» decretò Fili, il cui tono birichino non prometteva niente di buono.

Per sua fortuna, o forse per la ragione opposta, fu salvata dall’ultima persona che avrebbe voluto affrontare. Thorin le si affiancò, le mani incrociate dietro la schiena, e il solito cipiglio severo a mascherargli l’impassibile e bel volto. «Farete bene a comportarvi in maniera impeccabile, oggi come qualsiasi altro giorno. Non voglio trovarmi costretto a raccogliervi ubriachi, stanotte. Sono stato chiaro?»

I nipoti incurvarono la schiena sotto lo sguardo pesante dello zio, e ripeterono in coro un sì, signore che più appassito di così non sarebbe potuto essere. Thorin li osservò mentre si allontanarono, in compagnia di Balin e Dwalin che videro bene di non aspettarlo; sospirò, esasperato dal comportamento dei suoi più fedeli amici, e tornò a concentrarsi sulla ragazza che aveva accanto. Nonostante fosse visibilmente a disagio, notò che con lui non osasse abbassare né il capo né lo sguardo, e si sentì fremere – se fosse rabbia o piacere non seppe dirlo.

Lasciarono la sala da pranzo in silenzio, ma senza braccia intrecciate di alcun genere. Dopo ciò che dama Arwen aveva insinuato sul loro conto, Trán non aveva intenzione di dare ulteriore adito ad altre dicerie simili e preferì mantenere le distanze. Thorin ne fu infastidito, ma non obiettò.

«Ti ringrazio, per prima.» mormorò Trán, mentre osservava i Campi del Pelennor, che lentamente si facevano spazio oltre le mura della Cittadella mentre vi si avvicinava.

Thorin non parve capire. «Per quando?»

«Per quello che hai detto sul mio lavoro.»

«Ho detto il vero. Non saprai come maneggiare una spada, ma sai come riportarla a nuovo.» Thorin sorrise con una punta di malizia, pensando a ciò che stava per dire. «Dovresti invece ringraziarmi per non aver espresso questo pensiero a voce alta, invece. Ero molto tentato.»

La vide alzare gli occhi al cielo e ridacchiò sommessamente. Da quando avevano messo la pietra sopra ciò che avevano passato, trovava incredibilmente divertente punzecchiarla e vedere che lei, nonostante tutto, stesse al gioco. Era incredibilmente piacevole. «Perché prima farfugliavi?»

Trán si fermò, sporgendosi sulla balaustra in pietra per osservare la città sotto i suoi piedi. Evitò di guardarlo. «Mi succede quando non sono a mio agio, mi pare ovvio.»

Non vide il sorriso di sollievo sul viso del Nano. «Non mi sembri a corto di parole, ora. Vuol dire che sei a tuo agio?»

Rimase piacevolmente sorpreso dalla risposta che ricevette, parafrasando la sua. «Tu sei... diverso

Thorin spostò lo sguardo verso la visuale mozzafiato di Gondor e inspirò a pieni polmoni l’aria del sud. Stava imparando ad adorare quel piccolo angolo di tranquillità della Cittadella, con il vento che lì sferzava con più forza e la maestosità di Minas Tirith a portata d’occhio. Gli ricordava la terrazza di Erebor, che si affacciava sulla valle e guardava alla distrutta Dale; e se si voltava, dando le spalle all’aria aperta, avrebbe potuto godere della grandiosità del suo Regno, con le imponenti colonne scolpite nella roccia e i baratri senza fine che la rendevano unica e pericolosa.

Rimasero lì, in silenzio, a godere di quella pace di un sabato pomeriggio; lei seduta sulla panca in corrispondenza di una feritoia, lui in piedi con le mani poggiate sulla levigata pietra del parapetto. Stettero immobili per quelle che parvero ore, senza il coraggio di interrompere il silenzio e i suoni ovattati della vita che, molti metri più in basso, continuava il suo corso; non vi era comunque necessità di parlare, poiché i loro occhi, che si incontravano di quando in quando, comunicavano molto più della lingua.

Quando il vento si fece troppo sferzante, allora Thorin si mosse, porgendole una mano per aiutarla a rimettersi in piedi. Chinò il viso, la Nana, poiché quello che vide nelle iridi azzurre del Re le fece mancare il respiro. Tentò di sciogliere la gentile, ma salda presa della sua mano in quella grande di lui, ma Thorin non glielo permise, non quella volta. Con fermezza, ma stando ben attento a non farle del male, la costrinse ad intrecciare il braccio intorno al suo. Non gli interessava cosa avrebbero potuto dire gli altri Nani nel vederli così, né il pensiero delle battutacce dei suoi amici gli sfiorò la mente. Tutto quello che voleva, in quel momento, era sentire la vicinanza di quella ragazzetta che, in un modo o nell’altro, aveva attirato la sua attenzione e acceso un calore nel suo animo che non credeva di poter provare, se non per la sua famiglia e i suoi più stretti amici.

Vide il timore in quegli occhi grandi, spalancati per lo stupore della sua vicinanza, per quel gesto che pareva affettuoso. Eppure, se Thorin non fosse stato così cieco, avrebbe capito quel quella reazione era sì di paura, ma non nei suoi confronti. Trán era spaventata, terrorizzata a ben vedere. Ma per quello che il suo cuore e la sua mente le stavano facendo provare. Aveva odiato quel Nano con tutte le forze, poiché era quello lo scopo – farsi detestare con quel suo insopportabile comportamento; aveva tentato di cacciare via l’immagine che si era creata di un Re valoroso e giusto, che aveva sacrificato gli anni della sua vita con il duro lavoro e le battaglie per recuperare ciò che era perduto, perché il Thorin che aveva conosciuto era tutto fuorché degno di rispetto. Ci aveva tentato, ma aveva fallito. E sentiva che le sue difese, che aveva eretto con tanta fatica, stavano lentamente crollando e lei non doveva, non voleva soffrire.

Che cosa avrebbe potuto darle, del resto?

Camminarono verso la locanda, dove erano sicuri di trovare il resto dei loro amici e parenti, e continuarono a stare in silenzio. Ma a differenza di ciò che avevano temuto entrambi, non ci fu imbarazzo né disagio, e si fecero scivolare addosso le occhiate incuriosite e ammirate di molti Uomini e qualche Nano che li osservarono, chinando il capo al loro passaggio, come si confà ad un Re e alla sua Regina.

Proseguirono lentamente tra le vie di Minas Tirith, per un’abbondante mezzora che parve solo pochi minuti, e quando finalmente, o purtroppo, giunsero alla porta della locanda, dal quale proveniva un gran baccano e tante risate, Thorin si portò alle labbra il dorso della mano della Nana e Trán non riuscì a fermare un sospiro.

Quando entrarono nella locanda, i loro compagni colsero al volo le due sagome e ammutolirono per qualche istante. Poi il rutto di qualcuno ruppe il silenzio, e ripresero a ridere come dei matti.

Trán scambiò un’occhiata perplessa con il suo accompagnatore, che accennò alla porta. «Siamo ancora in tempo per scappare.» E come se i nipoti lo avessero sentito, gli si fiondarono contro con un boccale di birra, che gli ficcarono in mano senza troppe cerimonie, rischiando di versarne metà sulla sua bella e pulita tunica.

Trán ridacchiò, preparandosi al peggio. «Troppo tardi.»

 

 

 

 

*

 

*Hakhakh (cane) Hodh (faccia); quindi faccia da cane.

Non ho voluto avvertirvi dell’infinito fluff presente in questo capitolo, volevo farvi una sorpresa! ;)

Alla settimana prossima! *^*

Un forte abbraccio,

Marta.

 

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Capitolo 14
*** 14. ***


E rieccoci dopo una lunga settimana!

Tenetevi pronti per questo nuovo capitolo... sarà scoppiettante. E torna la cara Brethil.

(A proposito di lei, sto seriamente prendendo in considerazione di scrivere un prequel sulla sua vita da Raminga, prima del tradimento e dell’incontro con Boromir. Vedremo, quando finirò questa, se l’ispirazione continuerà a bussare alla mia porta!)

Un abbraccio e buona lettura!
Marta

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

14.

20 Settembre 3019 T. E.

 

 

Si svegliò con incredibile energia, quella placida mattina di domenica. Dopo la snervante giornata precedente, quel giorno avrebbe potuto rilassarsi senza la preoccupazione di dover partecipare a pranzi pomposi e dare il braccio ad avvenenti Nani che, di punto in bianco, avevano deciso di farle dire addio alla poca lucidità di cui disponeva. Sentì il cuore accelerare i battiti nel ripensare al pomeriggio speso con Thorin: era stato così surreale e gradevole che credette di averlo sognato. Si era sentita per la prima volta in vita sua il soggetto delle attenzioni di qualcuno e ne era rimasta piacevolmente scioccata.

Si affrettò a scuotere la testa, scacciando via qualsiasi frivolo pensiero e tornando con i piedi per terra. Non aveva niente su cui fantasticare, poiché la realtà era ben lontana dai suoi sogni. Thorin stava solo cercando di dimostrare la sua gratitudine e quelli che lui le aveva mostrato erano il frutto degli insegnamenti di corte che probabilmente sua madre gli aveva inculcato fin da piccolo.

Nient’altro.

Rabbrividì quando toccò il pavimento freddo con le punte dei piedi nudi e, silenziosamente, si diresse verso il bagno per sciacquarsi la faccia e prepararsi per la mattinata. Káel russava ancora profondamente, e sapeva che non si sarebbe svegliato prima di mezzodì, dopo la nottata brava che aveva trascorso con Fili e Kili. Sorrise nel ripensare alla serata che aveva trascorso in allegria e spensieratezza, dopo la silenziosa e calmante passeggiata in compagnia di Thorin. Si era vista circondata da quegli inaspettati amici di bevute e, sebbene non avesse ingurgitato litri di birra da farla barcollare, si era ritrovata a ridere e a scherzare senza inibizioni. Persino l’impassibile Thorin si era lasciato andare ai canti e ad alcuni divertenti aneddoti sui nipoti e su Dwalin, e le era parso che il suo viso fosse ringiovanito di parecchi anni, nel vederlo così sorridente e lieto. Che fosse realmente quello il vero aspetto del Re di Erebor?

Scosse nuovamente il capo. Doveva imporsi una calmata e smettere di pensare a lui. Non era appropriato e se ne convinse quando l’acqua fredda che si versò sul viso la svegliò di colpo, lavando via ogni pensiero. Si vestì velocemente e tastò la consistenza delle trecce, che avevano resistito alla notte dal giorno precedente. Quando uscì di casa fu sorpresa di vedere già qualche Uomo sbrigare le proprie faccende, nonostante fosse presto. Camminò verso la forgia, dove avrebbe terminato i regali per Fili e Kili durante il suo giorno libero. Non si era mai sentita così serena nel pensare a due estranei alla sua famiglia, e sapere che anche Káel e Káir avessero stretto amicizia con loro non poteva che renderla ancora più felice.

Come immaginava, le fucine erano deserte e si diresse verso la sua postazione. Aprì il baule che conteneva i due pugnali quasi completati: le mancava solo di impreziosire i manici con delle piccole pietre preziose e finire di intagliare le rune sulle lame. Così si mise all’opera, estremamente concentrata sul suo operato e rilassata come solo poteva esserlo mentre lavorava.

Ma Trán non era sola e avrebbe dovuto immaginarlo. Lui stesso, del resto, aveva affermato che preferiva passare la maggior parte del suo tempo tra il calore della fucina, piuttosto che in qualunque altro luogo. Così si fermò appena il suono ritmico di un martello che batteva il metallo le giunse alle orecchie. Sentì distintamente il cuore battere all’unisono con quei colpi, poiché immaginò di chi si trattasse e si diede della stupida per non aver prima controllato le altre aree e accertarsi che fosse davvero l’unica presente. Non seppe bene cosa fare, se ignorare il fatto che non fosse sola o se avvicinarsi alla fonte del rumore. E prima ancora che potesse rendersene conto, stava già camminando verso l’ala riservata al Re. Aprì lentamente la pesante porta in legno, stando attenta che i cardini non cigolassero, e sbirciò all’interno. Lo trovò quasi subito, sudato e concentrato fino a corrugare la fronte nello sforzo.

Ed era vergognosamente a petto nudo.

Trán represse a stento un’esclamazione di sorpresa, tappandosi la bocca con entrambe le mani. Non era molto distante da lei, ma anche se lo fosse stato i suoi occhi avrebbero comunque potuto ammirare quel petto statuario e ricoperto dalla peluria scura, i lineamenti dei muscoli delle braccia, che si tendevano ad ogni movimento, e la pelle lucida per l’affaticamento. Si morsicò un labbro quando sentì il rossore salirle al viso e quel fastidioso formicolio di piacere, come ogni volta che lui si facesse troppo vicino, o la osservasse con quei suoi penetranti occhi azzurri.

Fu quando non udì più il ritmico martellare sull’incudine, che si accorse dello sguardo di lui verso la porta. Era sicura che non potesse vederla, poiché era in penombra, ma sentì ugualmente l’effetto di quell’occhiata indagatrice e ora guardinga. Richiuse velocemente la porta, ed altrettanto velocemente corse verso la sua postazione. Si poggiò con la schiena contro il legno dell’ingresso, cercando di riprendere fiato e sperando che lui non l’avesse seguita. Capì che il suo desiderio non fu esaudito quando sentì mancare il sostegno della porta dalle sue spalle e Thorin se la ritrovò addosso prima ancora di realizzare chi fosse.

«Tu–» mormorò, mentre quella si allontanava di qualche passo e abbassava il capo, sforzandosi di non guardarlo neppure in viso. «Cosa stavi facendo? E cosa fai qui di domenica?»

Trán strinse le labbra e i pugni, imponendosi di mantenere la calma e non far tremare la voce. «Risponderò al–alle tue domande se... se ti rivesti. Per favore.» Si rese conto troppo tardi che quelle ultime due parole parvero più una supplica.

Il Nano sembrò ricordarsi solo in quel momento di essere mezzo nudo di fronte a lei e sbiancò. Per sua fortuna lei non sembrò accorgersene, poiché mantenne ostinatamente lo sguardo sulle punte dei piedi, in quel momento di gran lunga più interessanti dello spettacolo che aveva di fronte. Si allontanò per recuperare la maglia da lavoro e quando tornò la vide seduta su uno sgabello, con una mano sul cuore, nel vano tentativo di riprendersi dallo spavento – o da qualsiasi cosa l’avesse turbata. Si schiarì la voce, per avvisarla della sua presenza, e lei scattò in piedi.

«Ti chiedo scusa se... ecco, se stavo spiando.» iniziò, incespicando ad ogni parola. «Sì, insomma, non volevo... cioè, volevo vedere chi fosse, perché... credevo di–di...»

«Trán. Non è successo niente.»

La Nana alzò gli occhi su di lui, che nel frattempo le si era avvicinato silenziosamente e ora sorrideva quasi divertito del suo imbarazzo.

Ricordava male, o quella era la prima volta in cui la chiamava per nome senza alcun tipo di formalità?

«Anche io credevo di essere solo, altrimenti avrei indossato qualcosa di più... consono.»

Trán riuscì a trovare il coraggio di scherzare. «Direi che avresti indossato qualcosa, che fosse consono o meno.»

Lui rise piano. «Ad ogni modo, sto ancora aspettando la tua risposta... posso chiederti cosa stai facendo?»

Sperava che evitasse di domandarglielo, ma si rendeva perfettamente conto che fosse una fantasia vana. Non sapeva come avrebbe potuto prendere il fatto che stesse forgiando due pugnali per i nipoti; ebbe la spiacevole sensazione che lui non avrebbe approvato. «Ecco, stavo... terminando un lavoro.»

«Di domenica mattina?» Thorin si avvicinò al suo piano, osservando le due armi e prendendone una tra le mani, rigirandosela mentre la studiava con il tatto e lo sguardo. «Non mi sembrano armi dei Rohirrim.» disse, quasi più a se stesso che a lei. «E sono estremamente belli.» ammise dopo qualche istante di silenzio. Colse un paio di rune appena incise sul metallo e la guardò negli occhi, incuriosito. «Fi– come?»

«Fili.» mormorò lei, senza pensarci.

«E suppongo che questo sia per Kili.»

Trán deglutì a fatica, mentre annuiva, perché non aveva percepito niente in quel tono affermativo. Non disappunto, né apprezzamento.

«Stai forgiando due pugnali per i miei nipoti?» Ad un altro cenno affermativo, l’espressione di Thorin si ammorbidì. «Devi amarli davvero tanto, allora.»

«Io... credo di sì. Insomma, hanno il mio pieno rispetto e gli sono riconoscente per l’amicizia che mi stanno offrendo; non mi era mai successo prima. Anche se ho notato una certa coalizione con mio fratello per deridermi.»

«Sei un facile bersaglio.»

«Oh, felice di saperlo.»

Thorin si ritrovò a sorridere, poggiando i pugnali e alzandole il mento con un dito, per incontrare il suo sguardo. «Sono fortunati ad avere un’amica come te, giacché a quanto pare la tua amicizia è cosa rara.» Indugiò un po’ troppo l’attenzione su quelle labbra carnose e leggermente aperte per la sorpresa, ma si allontanò, scacciando il desiderio di fare un’idiozia e distruggere tutto ciò che avevano costruito insieme con tanta fatica.

«Noi cosa siamo?»

Quella semplice domanda ebbe il potere di fermare i suoi passi. Si voltò un poco, senza guardarla. «Noi?»

Trán annuì, inumidendosi le labbra. «Sì... anche noi siamo amici, in fondo?»

«Tu lo vorresti?» domandò il Nano, dopo una breve esitazione.

«Questa non è una risposta, spero te ne renda conto.» mormorò, incrociando le braccia al petto.

«Trán, è ciò che vorresti – la mia amicizia?» replicò lui, avvicinandosi nuovamente di un passo.

La risposta che si diede mentalmente la colpì come un’onda sulla roccia.

No, lei non voleva la sua amicizia.

Almeno, non solo quella.

E l’aveva inconsciamente desiderato dal primo momento in cui l’aveva visto, quando ancora non sapeva chi fosse e del ruolo che ricoprisse. Ma c’erano così tanti motivi per farle rimangiare ogni speranza e desiderio, che era assurdo anche solo pensarlo. Lui era la nobiltà per eccellenza, un sovrano, e come tale aveva dei doveri nei confronti del suo popolo: come per esempio, scegliere la degna moglie che avrebbe potuto dargli degli altrettanto degni eredi, e lei non aveva né il primo né il secondo requisito. Non era di sangue reale, neanche lontanamente, e men che meno il popolo avrebbe accettato il suo albero genealogico, che avrebbe macchiato la pura linea di Durin con i rimasugli del suo sangue Elfico. E poi, sposare Thorin avrebbe significato anche diventare la sua Regina e non sarebbe stata in grado di fare neanche quello. Lei era solo un semplice fabbro con la lingua troppo lunga e i sogni spezzati dal suo pessimismo.

No, lei non voleva unicamente la sua amicizia, ma si sarebbe imposta di accettare solo quella che lui le avrebbe dato – se così avesse deciso. «Sì, la vorrei tanto. Ma non so quanto tu abbia in considerazione il mio rispetto.»

Thorin aveva notato la sua esitazione prima di parlare, ma nascose l’amarezza e scosse il capo. «Credi che se non ti rispettassi, avrei perso il mio tempo con te, ieri? Credi che sarei qui, ora?»

«Credo che entrambi ci siamo feriti a vicenda e nonostante la tua cortesia temo che tu possa ancora serbare rancore.»

Sciocca ragazzina.

Se solo avesse saputo cosa si stava combattendo dentro di lui in quel momento, in quei giorni, per causa sua! Lui rispettava la sua animosità, che tanto lo aveva mandato in bestia in passato, e anche le sue origini, perché ciò che aveva dovuto sopportare l’avevano forgiata nella donna che era diventata; la rispettava, perché nonostante tutto, lei continuava a portare fieramente il nome della sua famiglia.

Quella Nana non solo aveva il suo rispetto, ma stava rubando anche il suo cuore senza che lui potesse fare niente per impedirglielo. Suo malgrado, Thorin, Re Sotto la Montagna, si era addentrato in un luogo che non aveva mai calpestato, troppo occupato a riprendersi Erebor, a riportarla ai vecchi fasti e a difenderla con il suo stesso sangue, più interessato a fondere il metallo per creare armi piuttosto che darsi pena per le poche donne che avevano incrociato la sua strada.

Le prese le mani tra le sue, stringendogliele con gentilezza. «Sei testarda, fin troppo sincera e più dura del mithril che lavoriamo. E, sebbene il nostro passato non sia stato dei migliori, hai la mia stima, Trán dei Colli Ferrosi. L’hai sempre avuta.» aggiunse, abbassando la voce il tanto da farla rabbrividire. Si portò le mani alle labbra, baciandole entrambe con leggerezza e mantenendo fermo lo sguardo su quello di lei, che sorrise e arrossì contemporaneamente. «Ti prometto che tra qualche anno rideremo dei nostri litigi, poiché hai anche la mia amicizia.»

Il sorriso luminoso che si formò sulle labbra della ragazza raggiunse anche i suoi occhi chiari, e dopo tanto tempo sentì finalmente che le cose andassero per il verso giusto, anche se non bene.

Ma prima che potesse fare o dire qualcosa, quel momento idilliaco giunto inaspettato venne interrotto da un altrettanto inatteso e penetrante suono, che vibrò tra le mura della fucina e li fece rabbrividire. Era potente, proveniente da lontano, anche se pareva giungesse da pochi piedi di distanza, e risuonò per tre volte. Così corsero fuori, Thorin che la teneva saldamente per una mano, nella speranza di capire cosa stesse succedendo. Raggiunsero quasi senza fiato la Cittadella, dove un numeroso gruppo di soldati si affacciava per osservare in direzione di Osgiliath, e rimasero anche senza parole. Trán si ritrovò a stringergli con più forza la mano, e lui ricambiò per infonderle coraggio.

Thorin scorse Aragorn ed Éomer mentre passavano accanto all’Albero Bianco e si scambiarono un’occhiata preoccupata. La situazione era peggiore di quanto credessero.

 

 

 

L’esercito si era accampato a metà strada tra i Campi del Pelennor e il fiume Erui, che avrebbero raggiunto in un’altra giornata di viaggio. Avrebbero attraversato il guado del fiume, per proseguire lungo la strada che portava a Sud, verso Pelargir, da cui si sarebbero spostati sulla sponda orientale dell’Anduin per raggiungere il passaggio sul Poros e unirsi alle esigue difese già presenti sul campo. Nonostante le poche possibilità di riuscita di quella spedizione suicida, il morale tra i soldati era ancora alto. Il pericolo della battaglia era lontano, per il momento, e non vi era bisogno di incupire gli animi con silenzi e facce torve; quindi cantavano, di quando in quando, ridevano e chiacchieravano sia durante gli spostamenti, che durante le soste.

Brethil non conosceva la geografia di quella parte di Gondor, sebbene avesse studiato a lungo le mappe che Boromir, a suo tempo, le aveva mostrato; così Imrahil aveva raccontato loro la storia di quelle terre solitamente tranquille nell’entroterra; e raccontò di Dol Amroth, la sua patria sul mare, che tanto amava e difendeva. Legolas sentì più volte l’impulso di rivolgere lo sguardo verso Sud, verso quella distesa immensa di acqua che tanto bramava; se si fosse concentrato avrebbe anche potuto percepire il profumo della salsedine portata dal vento e la musicalità dei gabbiani; sperò vivamente di non riuscire a scorgerlo in lontananza, perché altrimenti il suo desiderio di raggiungerlo si sarebbe fatto insostenibile.

L’accampamento si stava velocemente svegliando ed era quieto, tranne per qualche soldato che, dopo la veloce colazione, approfittava del tempo prima della partenza per allenarsi e faceva cozzare la propria lama contro quella di qualcun altro. Tra questi, anche Brethil, Elladan ed Elrohir avevano deciso di spendere la mezzora prima dell’inizio della nuova giornata così, giacché avevano un conto in sospeso e nessuno dei tre l’aveva dimenticato.

Gimli, ricordandosi della disputa, si sedette comodamente su una pietra, gambe incrociate e la lunga pipa tra le labbra. «E mi raccomando, ragazza: non andarci piano.»

«E tu non spendere fiato in ovvietà, messer Gimli.» replicò lei, estraendo Celeboglinn e impugnandola saldamente con entrambe le mani. I gemelli fecero altrettanto, sorridendo e mettendosi in posizione di attacco.

«Allora, thêl, qual è la posta in gioco?»

«L’onore è più che sufficiente.»

«Mi sta bene. Dimostra di non aver dimenticato le nostre lezioni, e nessuno lo perderà.» fece Elrohir.

Il fratello proseguì. «Ma se dovessimo sconfiggerti, ti sottoporremmo ad allenamenti intensivi.»

Brethil sorrise. «I vostri allenamenti sono sempre intensivi.»

«Allora? Volete iniziare o no?» esclamò Gimli, già sull’orlo di perdere la pazienza.

Legolas gli si sedette accanto, incuriosito. «Non credi che sia una sfida impari?»

«Ripetilo a voce più alta e ti ritroverai la lingua tagliata di netto, Elfo.» replicò il Nano. «Non che la cosa mi dispiacerebbe, sia chiaro.»

L’altro sorrise. «Oh, ma io intendevo per i figli di Elrond, non certo per Brethil.»

I due amici si scambiarono un’occhiata e risero, godendosi lo spettacolo – perché quando Brethil e i gemelli di Rivendell duellavano, era assicurato. E infatti ecco alcuni soldati che, attirati da quel combattimento a tre, e soprattutto stupiti nel riconoscere la Prima Guardia tra essi – si avvicinarono per curiosare e puntare qualche scommessa – nessuno, ovviamente, spese un soldo sulla donna; nessuno, tranne Imrahil, che contava di farsi un bel gruzzolo di monete entro la fine della giornata. Eppure tutti dovettero ricredersi appena videro la Dúnadan tenere abilmente testa ai due Mezz’Elfi, che non stavano facendo niente per favorirla, e anzi, le avrebbero lasciato numerosi lividi come ricordo di quella serata. In quella che pareva più una danza, piuttosto che un combattimento, c’era eleganza, forza e determinazione; e i due fratelli furono piacevolmente sorpresi di vedere che la loro allieva prediletta non avesse perso lo smalto, nonostante la loro lunga assenza.

Brethil parò entrambe le lame dei due, e facendo perno sul piede sinistro si diede la spinta necessaria per farli arretrare e contemporaneamente muovere Celeboglinn, affinché le bloccasse verso il terreno; con un rapido calcio al polso disarmò Elrohir, che si allontanò di un passo per lasciare che il fratello completasse l’opera. Così, rimasti solo in due, Brethil ed Elladan aumentarono l’intensità dello scontro. Le loro leggere ma taglienti spade sembravano musica ogni volta che cozzavano l’una contro l’altra e brillavano sotto la luce infuocata dell’alba. Proseguirono ad attaccare e difendere con la medesima energia, e se l’uno arretrava di poco, l’altra lo seguiva qualche minuto dopo. Vi era una sottile linea di differenza tra i due, poiché anni di allenamenti insieme li avevano forgiati; ma Brethil non si fece intimorire dalla sua inesperienza, comparata a millenni di vita, così come non si era arresa di fronte alla tenacia e alla prestanza fisica del Nano Fili. Aveva già disarmato Elrohir, avrebbe ripetuto la mossa anche con Elladan.

Ma non ci furono vinti, né vincitori in quel duello, poiché vennero interrotti da un’eco lontana che riconobbero subito. Il Corno di Gondor risuonò tre volte e Brethil credette di non avere più i polmoni, poiché non riuscì a respirare. Ricordava ancora la potenza di quello strumento di musica e di guerra, suonato per la vittoria o per la richiesta di soccorso. Ed era più che sicura che quella volta fosse l’ultimo motivo il caso più plausibile.

Scambiò una rapida occhiata con Imrahil, confuso e preoccupato quanto lei: perché se Boromir suonava il Corno di Gondor, allora Osgiliath doveva avere grossi problemi. E la consapevolezza che non avrebbe potuto scoprire niente, né correre al galoppo per andare a sincerarsi della situazione, la fece cadere nello sconforto. Perché Boromir chiedeva aiuto? Erano forse sotto attacco? Osgiliath non aveva una difesa adeguata, con i lavori dei Nani in corso!

«Thêl, uuma dela, mellonamin

«Come faccio a non preoccuparmi?» mormorò lei, che ora rivolgeva lo sguardo verso il fiume, verso Nord, dove sapeva ci fosse la città distrutta. Strinse con forza la mano di Elladan sulla sua spalla, per cercare conforto, e ringraziò i Valar che lui ed Elrohir fossero con lei, per infonderle la calma e la forza che solo loro sapevano darle.

Imrahil tentò di sedare gli animi turbati. «Per quanto possiamo saperne, Re Éomer potrebbe essere giunto in città e Boromir potrebbe aver deciso di dargli il benvenuto così. Non allarmiamoci e concentriamoci sul nostro compito, mia signora.»

La donna annuì, ancora poco convinta e con un brutto presentimento. Ordinò all’esercito di mettersi in piedi e di salire a cavallo, per rimettersi presto in viaggio, e proseguirono una decina di minuti più tardi, con i cuori pesanti e ora poca voglia di cantare. 

 

 

Erano tre notti che non riusciva a dormire; trascorreva le lunghe e apparentemente infinite ore di buio a rigirarsi tra le lenzuola, irrequieto. La sua mente non aveva intenzione di trovare riposo, con i pensieri costantemente rivolti verso l’esercito in marcia al Sud. Sarebbe dovuto partire al suo posto, come Sovrintendente e Capitano della Torre Bianca; e invece era lei a capo di quel numeroso gruppo di soldati, lei stava andando a rischiare la vita ancora una volta. Sapeva che non avrebbe avuto il diritto di accusarla, né di impedirle di partire – anche se, se fosse stato presente al momento della decisione, non avrebbe certo mantenuto la lingua in silenzio e né avrebbe accettato la scelta con leggerezza.

Lui, il guerriero migliore di Gondor, dopo il suo Re, era confinato a fare la guardia a dei Nani, piuttosto che andare a combattere per il suo popolo e il suo sovrano. Se solo la notizia fosse giunta con più largo anticipo, avrebbe galoppato più veloce che potesse pur di raggiungere Minas Tirith in tempo e partire con lei. Se le fosse stato accanto avrebbe potuto proteggerla, avrebbe potuto tenerla d’occhio.

Avrebbe potuto rivederla, un’ultima volta.

Boromir si passò stancamente la mano sul viso, sbadigliando rumorosamente e mettendosi a sedere sul grande e vuoto letto. Gli mancava avere la sua presenza minuta accanto, poterla stringere tra le braccia e addormentarsi con il naso ad un palmo tra i suoi capelli neri e disordinati, inspirandone il profumo ad ogni respiro. E sapere che, quando sarebbe rientrato nella Capitale, in cinque giorni, non l’avrebbe trovata ad attenderlo, gli serrò lo stomaco.

Si mise in piedi, afferrando una tunica blu e infilandosela, per uscire dalla sua stanza – una delle poche che avesse ancora un soffitto e fosse priva di spifferi. L’innaturale calma notturna lo avvolse, e camminò lentamente per le strade deserte e disordinate dai lavori; poteva solo udire, di quando in quando, il potente russare di qualche soldato e soprattutto quello dei Nani. Si avvicinò alla cinta muraria, una delle prime parti della città ad essere stata rimessa in sesto; alcune porzioni erano state ricostruite provvisoriamente in legno, in attesa che le pietre venissero lavorate e sagomate a dovere prima di essere posizionate. Vi passeggiò sopra, salutando con un breve cenno del capo le sentinelle che incontrava. Si fermò a guardare la chiara sagoma di Minas Tirith, che sembrava illuminarsi sotto i raggi lunari; e lì rimase finché il cielo non iniziò a tingersi di rosso.

«Mio signore, buon giorno. L’ennesima notte insonne?»

Boromir si voltò verso Dáin, che pareva incredibilmente sveglio nonostante fosse una domenica e avrebbero iniziato a lavorare più tardi del solito.

«Buon giorno a te, sire Dáin.» lo salutò. «Troppe preoccupazioni mi impediscono di dormire, questi giorni. E tu come mai sei già in piedi, se mi è permesso domandarlo?»

Il Nano corrugò la fronte, guardando verso Est. «Ho un brutto presentimento, ragazzo mio. E i Nani hanno fiuto, per certe cose.»

«Ahimè, neppure io sono tranquillo.» L’Uomo sospirò. «Ma temo che sia dovuto alle cattive notizie che sono giunte da qualche giorno, più che per il mio senso di preveggenza alquanto scarso.»

Dáin rimase stranamente in silenzio, aggrappando i tozzi pollici sulla pesante cintura in oro che gli accerchiava la vita robusta. Pareva avere la mente molto lontano da dove si trovava e Boromir iniziò a chiedersi se non dovesse inquietarsi anche per lui. In quei lunghi giorni, in cui aveva avuto la possibilità di conoscerlo, Dáin si era mostrato come un Nano chiacchierone, che amava il suono della sua voce quasi quanto l’oro e le pietre preziose; saperlo impensierito e muto come un pesce, non fece altro che accrescere i suoi timori.

Entrambi si voltarono immediatamente quando le campane d’allarme risvegliarono la città. Corsero verso le guardie, e quando giunsero al termine delle mura sulla parte occidentale, lo videro. L’esercito dell’Est avanzava speditamente verso di loro e più il sole saliva, più esso illuminava nuovi elmi. Boromir rimase impietrito nel constatare l’incredibile numero di soldati che si muoveva all’unisono; e appena si accorsero che fossero stati avvistati, essi iniziarono ad intonare canti di guerra e a battere le armi contro gli scudi. Erano stati silenziosi ed invisibili fino a quel momento; ora dovevano incutere terrore.

«Esterling! Arrivano gli Esterling!» gridò un soldato, continuando a suonare ininterrottamente la campana.

In quei brevi istanti, Boromir si ritrovò chiedersi come fosse possibile che alcuna notizia fosse giunta da Cair Andros. Se qualsiasi esercito, e per giunta così grande, fosse passato anche a parecchie leghe di distanza, le vedette dell’isola sul fiume l’avrebbero avvistato e Osgiliath si sarebbe preparata alla difesa. E invece eccolo lì, comparso dal nulla e pronto alla battaglia.

«Mio signore! Cosa comandi?» chiese un altro, raggiungendolo.

Boromir lasciò da parte la sorpresa e riacquistò il sangue freddo a cui era abituato in simili occasioni. Ora Brethil era lontana, e sebbene il suo cuore fosse tormentato da quella consapevolezza, si impose di occuparsi della sicurezza dei Nani e dei suoi Uomini.

E della sua Osgiliath.

Sarebbe morto prima di rivedere la città di cui era diventato il Signore nuovamente nelle mani nemiche.

«Voglio tutti gli arcieri di cui disponiamo sulla riva opposta, lungo le mura e sulle torri. Non devono assolutamente prendere l’ala orientale della città, né il controllo del fiume.» Poi si rivolse verso Dáin. «E voglio da questa parte dell’Anduin i Nani che non siano in grado di combattere; che si preparino a partire verso Minas Tirith, se la situazione dovesse degenerare.» Il Nano annuì con un cenno del capo, e corse velocemente a dare le prime direttive.

Boromir si diresse sul provvisorio ponte in legno che sostituiva quello in pietra ormai in disuso, e raggiunse la sponda orientale del fiume. Lì i soldati correvano da una parte all’altra, allarmati per l’improvvisa e inaspettata comparsa del nemico; molti erano ancora assonnati, mentre s’infilavano in tutta fretta l’armatura, e si domandò quanto quell’esiguo numero a difesa della città avrebbe potuto resistere ad un attacco. La risposta che si diede non fu confortante e l’unica soluzione che non avrebbe previsto una carneficina sarebbe stata la ritirata, ma non volle pensarci.

Non si sarebbe comportato da codardo, non lui.

Sarebbe rimasto a guardia della sua città finché avesse avuto aria nei polmoni e sangue nelle vene.

I canti di guerra degli Esterling si fecero man mano sempre più chiari e forti; portavano con sé numerosi mûmakil armati di lame affilate lungo le enormi zanne, e che trasportavano decine di Uomini sul dorso. Boromir si sentì cadere in un déjà-vu terribile; il ricordo della guerra appena terminata era nuovamente di fronte ai suoi occhi. Erano tanti, troppi e ben organizzati; mentre loro erano pochi, spauriti e senza difese adeguate. Se la Guerra dell’Anello era stata vinta sul filo della lama, e sacrificando così tanti soldati, cosa ne sarebbe stato di loro e dei loro sforzi per risanare la pace?

Con sommo orrore, un’altra sentinella di guardia sulle mura dell’Osgiliath occidentale suonò nuovamente la campana, e videro l’altra metà dell’esercito di Esterling, che aveva attraversato il fiume su Cair Andros e aveva tutte le intenzioni di accerchiarli e assediarli.

Pareva che, ovunque guardasse, non vi fosse soluzione a quell’imminente scontro; e più cercava di immaginare i possibili scenari che avrebbero potuto vivere, e più tutti finivano in tragedia.

Osservò le espressioni dei suoi Uomini, mentre l’esercito degli Esterling si faceva sempre più vicino e distinto anche ad occhio umano: li vide sorpresi e spaventati. Nessuno di loro si aspettava di tornare alle armi dopo così poco tempo di agognata pace. La rinascita di Osgiliath avrebbe dovuto significare anche la ripresa di Gondor e la forza di quel regno che tanto amavano; ma ancora una volta erano richiamati a difenderlo, e la speranza di un futuro senza più guerre tornò ad essere sbiadita e sciocca.

Così prese uno stendardo e, salita la rovina più alta, lo alzò al cielo, come aveva fatto molte altre volte in passato. Ricordi di battaglie e vittorie si affollarono nella sua mente e con voce possente gridò ai suoi soldati. «Uomini di Gondor e Nani del Nord! Ascoltate il Signore di questa città!»

I guerrieri e i Nani si voltarono verso la sua figura, imponente anche se così in alto e distante.

Boromir li osservò tutti con un lungo sguardo e riprese a parlare con vigore e coraggio. «L’ultima volta che queste terre furono calpestate dal Nemico tutto ci pareva perduto. Vedevamo l’ombra avanzare inesorabilmente e così la speranza di una vittoria affievolirsi, ora dopo ora. Abbiamo dovuto seppellire troppi soldati, amici e parenti e il nostro cuore ancora li piange, e continuerà a farlo finché il giorno della nostra morte giungerà. Ma vincemmo e ci risollevammo. Questo giorno sarà lungo e ancora una volta oscuro. Ma non permetteremo che altri nostri cari muoiano per mano degli invasori che osano interrompere la nostra quiete e la nostra voglia di vivere! Osgiliath sta risorgendo come una fenice dalle sue ceneri e nessuno, nessuno potrà impedirci di vederla rinascere!»

Uomini e Nani si ritrovarono a gridare il suo nome e ad esultare parole di conforto e coraggio.

«Siamo soli, in questo momento. Gli aiuti di Gondor, e così quelli di Rohan, giungeranno quando il Nemico avrà già circondato le nostre mura. Forse sarebbe saggio scappare e lasciare la città in mano nemica; e lo dico a tutti coloro che non possono combattere, o che temono la morte: siete liberi di andare e di mettervi in salvo; così come i nostri cari ospiti Nani non devono stare al nostro fianco, se essi non desiderano essere coinvolti nelle nostre battaglia. Ma io chiedo a voi tutti di restare: resisteremo, attenderemo gli alleati e nel frattempo combatteremo degnamente. E lo faremo per i nostri figli, per la nostra bella terra, per il nostro orgoglioso popolo. Per Gondor!»

«Per Gondor!» replicarono i soldati e i Nani ai suoi piedi, e un moto di orgoglio lo fece fremere.

Forse la vittoria non era così impossibile. Forse c’era ancora speranza, finché essa avesse continuato ad ardere nei loro animi. O forse sarebbero morti davvero quel giorno, ma di una morte gloriosa e degna.

 Portò il Corno di Gondor alle labbra e vi suonò tre volte. Gioia e fiducia giunsero nei cuori di tutta Osgiliath, timore in quelli dei nemici, i cui canti si affievolirono intimiditi.

Quella fu anche una non troppo velata richiesta di aiuto a Minas Tirith e a tutti coloro che avessero udito il suo richiamo. Avevano davvero bisogno di sostegno, in quel momento. Non avrebbero superato la notte se fossero rimasti abbandonati a se stessi. Ma Aragorn questo non lo avrebbe permesso, lo sapeva bene.

Si fidava di lui, del suo Re.

Dáin, che si era riunito a Glóin e Óin, trovò con lo sguardo Rulin e i suoi figli, già con le asce alla mano e gli elmi in testa.

«Mio signore!» fece il carpentiere, chinandosi. «Qualsiasi ordine ci darai, noi saremo onorati di eseguirlo.»

«Cercate di restare vivi, è il mio unico ordine.» replicò il Re. «Occupatevi dei più deboli, devono essere pronti a lasciare la città il prima possibile. Gli Esterling sono anche da questa parte del fiume e ci circonderanno in poche ore. Dovete fare in fretta: il tempo stringe e quelle dannate gambe lunghe sono veloci. Óin, Óri, voi andrete con loro.»

Rulin annuì. «Mizùl! Mukhuh Mahal bakhuz murukhzu.*»

Dáin osservò i due allontanarsi verso i loro compiti e chinò il capo. «Buona fortuna anche a voi, amici miei. E che Mahal vi protegga.» mormorò, dirigendosi dai suoi soldati.

Trascorsero tre ore, e gli Esterling giunsero a poche, pochissime leghe di distanza dalle mura della città. Un buon numero di Nani, incapaci di combattere, aveva già imboccato la via verso Minas Tirith il più veloce possibile, ed erano guidati da Óin, sebbene la maggior parte avessero declinato l’offerta di allontanarsi, per combattere come si confà ad un Nano; Rulin e i suoi figli avevano deciso di rimanere al fianco del proprio Re, per difenderlo con la vita. La devozione di Rulin nei suoi confronti convinse Dáin ad onorarlo a dovere, semmai avessero superato quell’ennesima battaglia insieme e illesi.

Boromir osservò l’esercito ad Est del fiume e riconobbe quello che doveva essere il capitano dell’armata: era un paio di passi più avanti rispetto alla linea dei suoi uomini, e indossava un’armatura lucente e decorata da scaglie dorate.

Azdor, come se si sentisse osservato, alzò il mento, cercando quel paio di occhi che aveva percepito; e lo vide lì, nuovamente sulla torre più alta di quella città distrutta, per scrutare la loro grandezza. Con un ghigno sollevò la lancia e la puntò verso la direzione dell’Uomo di Gondor.

Il Sovrintendente sentì il sangue ribollirgli dalla rabbia e si appuntò mentalmente una nota.

Voleva la sua testa. E sarebbe stata sua.

 

 

*

*Buona fortuna! Che il Martello di Mahal ti protegga.

Ebbene, vi eravate dimenticati degli Esterling? Io no. :P

E la tranquillità a cui vi avevo abituato crolla immediatamente. Mwahaha!

Ne vedrete delle belle... forse. ;)

Grazie a tutti i lettori!

Alla settimana prossima.

Con affetto,

Marta.

 

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Capitolo 15
*** 15. ***


Buon sabato!

Vi lascio alla lettura, perché urgenti testi in svedese mi attendono per essere tradotti! Anche se ammetto che la prima parte di questo capitolo mi impensierisce parecchio. :/

Ringrazio, come sempre, i fedeli lettori e lettrici che continuano a seguirmi (o iniziano l’avventura or ora).

Grazie!

Un abbraccio e buona lettura!
Marta

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

15.

20 Settembre 3019 T. E.

 

 

Thorin osservò con ansia i fuochi di Amon Dîn divampare contro il cielo azzurro e osservò la cresta della catena montuosa, finché non intravvide un bagliore di luce tra le vette innevate. Sospirò con pesantezza, sperando che quel sistema di comunicazione fosse veloce ed efficace, poiché il loro tempo pareva accorciarsi sempre più celermente. Aragorn ed Éomer avevano organizzato un nuovo esercito con i soldati rimanenti in città, e il Re dei Rohirrim assicurò tutti loro che i suoi soldati sarebbero arrivati entro tre giorni, cavalcando velocemente ma senza stancare troppo i propri destrieri. Avevano intenzione di marciare in prima fila sulla vecchia capitale per cacciare gli invasori, ma erano comunque in minoranza. La loro speranza era quella di ritorcere loro la propria tattica e accerchiarli a loro volta: la difesa sarebbe giunta dalla città stessa, dal Sud e presto anche da Ovest. Neanche lui riusciva a pensare ad una tattica migliore, in effetti.

Il Nano si passò una mano in viso. Tre giorni, per attendere l’arrivo dei Rohirrim, erano tanti e chissà in che condizioni sarebbero giunti. L’unica notizia che lo aveva rasserenato un poco fu quella che gli diede Trán, che aveva sforzato la vista per dirgli con gioia di un buon numero di Nani che stava scappando da Osgiliath, per mettersi in salvo tra le mura della bianca città degli Uomini. Sperò solo che Minas Tirith non rimanesse sguarnita del tutto di difese, anche se era altamente improbabile che qualcuno osasse attaccare i suoi robusti confini. Il Rammas Echor era ben protetto e nuovamente funzionante. Avrebbero avuto almeno una settimana di protezione prima che qualcuno tentasse di oltrepassarlo con la forza.

Aragorn, che era imbardato della sua migliore corazza Gondoriana, gli si avvicinò prima di lasciare la città.

«Mio signore, permettimi di scendere in battaglia con te.» disse ad Aragorn, porgendogli la sua ascia in segno di profonda alleanza. «Laggiù ci sono anche i miei Nani, oltre ai tuoi Uomini. È mio dovere difenderli.» Dwalin e Balin, con i nipoti, lo imitarono, ma il Re degli Uomini scosse il capo.

«Amici miei, apprezzo molto la vostra offerta e ne serberò memoria per sempre. Ma nel momento in cui vi ho invitati qui, nel mio Regno, mi sono anche preso la responsabilità di proteggervi; e giacché vi sono numerosi vostri uomini in pericolo, entro i confini delle mie terre, non posso permettervi di accompagnarmi. Ma vorrei che facciate comunque una cosa per me.» L’Uomo posò una mano sulla spalla di Thorin, che annuì solennemente, in attesa. «Lascio la protezione della mia città nelle vostre mani e in quelle della mia Regina. Tu, Thorin Re Sotto la Montagna, sarai responsabile della difesa e gli Uomini che rimarranno qui obbediranno a te e te soltanto.»

Il Nano gonfiò il petto di orgoglio e si chinò profondamente. «Sarà un onore per me, Aragorn figlio di Arathorn; e ti prometto su tutto ciò di più caro che proteggerò la tua gente come se fosse la mia.»

Il Ramingo lo abbracciò, cogliendolo di sorpresa. «Avrei voluto trascorrere il mio tempo con voi diversamente; spero di poterci rivedere tutti, alla fine di ogni cosa.»

Non vi furono parate, né feste per i due Re che partivano verso l’ennesima battaglia; dovevano muoversi in fretta per raggiungere il campo di combattimento. L’intera città era caduta in un terribile mutismo e osservava in silenzio il suo sovrano allontanarsi sui Campi del Pelennor. Arwen salutò suo marito dalla vetta della cittadella, poggiata sulla punta estrema della chiglia di pietra mentre cantava un antico poema elfico che raccontava di speranza.

Il primo ordine di Thorin fu quello di proseguire il lavoro alle fucine, per velocizzare la costruzione del Grande Cancello. «Per il momento noi siamo ancora al sicuro; utilizziamo il tempo che abbiamo per migliorare l’unico punto debole della città.»

«Fantastico: il giorno di riposo ce lo possiamo scordare.» mormorò con tono melodrammatico Káel alla sorella, per tranquillizzarla un poco.

I Nani si diressero di gran carriera alle fucine e lavorarono duramente fino a tarda notte; tra loro persino Trán, che strinse i denti nonostante la stanchezza e le parole del fratello che la esortava a ritirarsi per dormire.

«Finché avrò forze, allora non mi tirerò indietro, Káel. Un braccio in più può fare la differenza, e per poco che sia il mio contributo, io voglio darlo.»

Non si accorse di Thorin, alle sue spalle, che aveva udito la determinazione delle sue parole e sorrise, fiero della sua tempra. «A quanto pare le armi dei Rohirrim dovranno attendere.» le disse, facendola sobbalzare.

Lei si asciugò il sudore dalla fronte con la manica della camicia. Stava soffocando dal caldo e il bicchiere di acqua fresca che il Re di Erebor le stava porgendo fu ben accetto. Gli sorrise grata e bevve, assetata.

Káel parve confuso. «Quali armi dei Rohirrim?»

«Eri troppo ubriaco, ieri sera, per ascoltarmi e ricordarti ciò che ti dissi.» lo rimbeccò la sorella. «Re Éomer mi ha affidato il compito di dar lustro alle armi della sua scorta.»

Gli occhi dell’altro sgranarono, ma sorrise, abbracciandola e baciandola sonoramente su una guancia. «La mia famiglia è la migliore che ci sia.» decretò il giovane Nano. «Mio padre è il miglior carpentiere che il mondo Nanico abbia mai conosciuto. Mia madre la sua eroina che ha cresciuto ben cinque figli come noi. E mia sorella è il fabbro di fiducia di un Re degli Uomini. Ah!»

Trán divenne più rossa dei suoi capelli, ma ridacchiò tra le lacrime. Perché sì, la sua famiglia era davvero la migliore che esistesse in tutta la Terra di Mezzo. E lo avrebbe gridato al mondo e a chiunque avesse osato contraddirla, se avesse avuto sufficiente fiato in gola.

Thorin chinò il capo. «Non mi scuserò mai abbastanza per ciò che pensai e dissi sulla vostra famiglia. Ma sono felice di avervi incontrato e di avermi fatto cambiare idea. Non è qualcosa che succede spesso.»

La Nana annuì. «Riuscire a far cambiare idea al Re di Erebor è quasi come insegnarmi a cucinare.»

«Il ché è tutto dire.» aggiunse Kili, ridendo, che aveva origliato la discussione e aveva colto la palla al balzo per infilarsi.

Fili, ovviamente, non si tirò da parte. «Praticamente un caso disperato.»

«Disperato dovrei esserlo io, che ho dovuto ingurgitare la peggior specie di cibo in tutti questi anni!» esclamò Káel, inorridito. «Non oso immaginare in che condizioni verta il mio stomaco.»

«Ah beh, sicuramente è abituato a mangiare di tutto. Quindi è più forte del mithril, amico!» Kili gli strizzò un occhio, mentre Trán s’imbestialiva e Thorin si allontanava per nasconderle l’ennesimo ghigno di divertimento e non imbarazzarla più di quanto non fosse.

«Suvvia, ragazzi. Lasciate la fanciulla in pace, per la barba di Durin!» Balin sorrise bonariamente alla Nana, che lo ringraziò con lo sguardo per l’unico aiuto che aveva ricevuto.

Trán si sentì decisamente meglio, dopo quello scambio di battute. L’ansia che aveva accumulato quel giorno sarebbe bastata per un’intera vita, e come sempre suo fratello – e ora anche i nipoti del Re – erano riusciti ad alleviare il suo pessimismo; persino Thorin sembrava più rilassato, per il suo stupore.

Proseguirono il lavoro per un’altra ora, finché tutti non furono distrutti abbastanza e affamati come delle bestie a digiuno da giorni. Purtroppo si era fatto troppo tardi e le cucine della mensa erano già chiuse da un pezzo.

«Dove è finito Bombur, quando più ne abbiamo bisogno?» si lagnò Dwalin, e con lui anche il suo stomaco, che brontolò rumorosamente per sottolineare il suo disappunto.

Balin ridacchiò. «Credo che potremo arrangiare qualcosa per cena anche senza l’aiuto di un cuoco provetto.»

«E senza il mio.» borbottò Trán.

«Ah, ma quello era ovvio, sorellina.»

La Nana saltò sulle spalle del fratello con l’intento di picchiarlo, ma lui se la sistemò come un sacco di patate e, incurante dei pugni che lei gli tirava alla schiena, iniziò a correre e a ridere, come facevano da piccoli, dimenticando per un attimo della guerra alle porte, né preoccupandosi dell’ora tarda.

«Thorin, perché non li riprendi come fai con noi?» domandò il minore dei nipoti, sentendosi in difetto. «Insomma, è come se sentissi già la pesantezza della tua mano sulla nuca, al solo immaginare me e Fili che ci mettiamo a fare tutto questo baccano, nel bel mezzo di una notte silenziosa e di una città che non è la nostra.»

Ma lo zio non ebbe il cuore di fermare la loro gioia. Era una tale rarità vedere il sorriso in quel viso femminile per farlo sparire con un rimprovero; e le loro risa stavano allietando anche i loro animi, il ché era un bene in vista dei tempi bui che avrebbero dovuto affrontare molto presto. Così Thorin passò un braccio sulla spalla del nipote, mentre camminavano verso i loro alloggi. «Loro non sono gli eredi al trono di nessun regno. Non hanno un titolo da difendere e da onorare.»

«Ma uno di loro due potrebbe diventare una Regina, un giorno.» Kili ghignò. «E non mi riferisco al maschio.»

Thorin lo fulminò con il solo sguardo e sentì le orecchie andargli a fuoco al solo pensiero.

«Che ne sappiamo?» continuò Fili, con fare casuale. «Magari il figlio di Re Dáin, che guarda un po’ il caso si chiama come lo zio, potrebbe innamorarsi di lei, la bella figlia del grande carpentiere dei Colli Ferrosi.»

«Oppure uno di noi due, fratello. Dovremmo giocarcela a duello, però.»

«Non sarebbe valido, Kili, sono nettamente più bravo di te.»

Ma Thorin non stava più ascoltando l’assurdo dibattito dei nipoti. La sola idea che qualcuno potesse seriamente corteggiare Trán lo colpì come un pugno sullo stomaco e gli lasciò un retrogusto amaro per il resto della nottata. Ella era bella e dal forte carattere – forse anche troppo, delle volte; e non dubitava che, così come fosse riuscita a catturare la sua attenzione, anche qualcun altro dotato di occhio critico avrebbe potuto notarla a sua volta. Il solo pensiero gli fece rivoltare la bile.

Non si accorse dei nipoti che seguirono i gemelli, con il chiaro intento di intrufolarsi nelle cucine chiuse e recuperare qualcosa di commestibile per una cena veloce.

Mentre Balin apparecchiava il tavolo nella loro personale sala comune, notò il suo sguardo crucciato, e Dwalin, seduto accanto al caminetto acceso con la pipa tra le labbra, borbottò qualcosa contro la cattiva influenza della femmina.

Così, essendo ben lontani da orecchie indiscrete, l’anziano Nano parlò. «Cosa ti affligge, ragazzo mio? E ti prego, non parliamo della guerra, poiché ne abbiamo discusso in lungo e in largo per tutta la giornata, e sappiamo entrambi che non è ciò a cui mi riferisco ora.»

Thorin sospirò ma non rispose subito, da una parte maledicendo l’acutezza del suo saggio compagno, dall’altra ringraziandolo per avergli dato una spalla su cui sfogare i suoi pensieri. Accese anche la sua pipa, inspirando una profonda boccata di fumo per pulire i suoi pensieri.

«Si tratta della ragazza e di ciò che hanno detto i tuoi nipoti, vero?»

Il Re si ritrovò ad annuire prima ancora che potesse rendersene conto. «È strano, Balin.»

L’altro si accarezzò la barba, attendendo che proseguisse. Ma vedendo che tentennava ancora una volta, decise di dargli una mano d’aiuto. «Se ti riferisci al fatto che stiamo discutendo – o almeno, tentando di discutere – di una femmina dopo tutti questi anni, sì, convengo che sia molto strano.»

Thorin si fece scappare una bassa risata. «Ammetto che sia un terreno che non conosco molto bene.»

«Non è questo il problema, poiché sei bravo sufficientemente per riuscire a calcarlo con le tue sole gambe. Ma dimmi, realmente cosa ti preoccupa?»

Il Re s’inumidì le labbra, mentre cercava le parole adatte per continuare. «Sento che la situazione mi stia sfuggendo di mano. E io odio non avere il controllo delle cose.»

«Sei sicuro di non averlo?» Balin sorrise. «Io credo, invece, che tu abbia pieno controllo delle tue capacità. E lo noto dal modo in cui ti comporti, e dal modo in cui i tuoi comportamenti influiscano su di lei. Ciò che è interessante, ragazzo mio, è che anche lei ha il pieno potere su di te. È ciò che ti confonde e ti spaventa.»

«Non sono spaventato.» replicò indignato l’altro.

«Lo sei, invece; perché non è tua abitudine dover affrontare qualcuno che riesce a zittirti con poche parole, per esempio.»

Thorin spostò lo sguardo verso le fiamme che ardevano tra la legna annerita. «Cosa dovrei fare?»

«La domanda non è cosa dovresti fare, ma cosa vorresti.» L’anziano Nano gli strinse amichevolmente una mano sul braccio. «Dimmi, ragazzo mio, ti ha turbato maggiormente l’idea di lei al tuo fianco come sovrana di Erebor, o quella di lei come la regina del mondo di qualcun altro?»

«Entrambe le cose, in realtà.» Si stupì della facilità con cui aveva trovato una risposta. Si passò una mano sul viso, accarezzandosi la barba intrecciata, fino a sfiorare la clip in oro che la fermava in punta. «Non ho mai preso in considerazione l’idea di sposarmi, Balin, questo lo sappiamo entrambi. La mia vita mi ha costretto ad occuparmi di problemi ben più grossi, rispetto alla preoccupazione di prendere moglie e dare al mondo degli eredi; soprattutto ora che ne ho ben due, e degni come se fossero figli miei. Ma ora che abbiamo Erebor, che la Guerra dell’Anello è passata e abbiamo ricostruito una vita di prosperità nella nostra montagna... lei demolisce le mie convinzioni. E improvvisamente l’idea che un giorno tornerà ai Colli Ferrosi con la sua famiglia e magari troverà un marito... mi irrita oltremodo.»

Dwalin s’infilò per la prima volta in quel discorso. «Mahal, che mi scenda un colpo se questa non è gelosia.»

«Non sono geloso!» s’inalberò Thorin, rendendosi conto di quanto falso risultasse quel tentativo di difendersi. «Sono solo confuso da ciò che voglio.»

Il fratello ridacchiò, mentre il diretto interessato stringeva il becco della pipa tra i denti. «Ebbene, questa si chiama davvero gelosia. E se non la doserai nella maniera corretta, Thorin, potrebbe ritorcertisi contro.»

Dopo un lungo silenzio, il Re mormorò: «Come?»

«Facendoti dire o fare cose di cui ti pentiresti; e facendoti crogiolare nell’incertezza e nel tormento.»

«Allora dovrei allontanarla, in modo che ciò non accada.» Egli stesso sentì che ogni parola di quella frase fu come una stilettata al cuore. Come avrebbe potuto farlo, se la sola idea di averla lontana lo faceva ammattire?

«Thorin: è esattamente questo ciò a cui mi riferisco. Non rischiare di rovinare ciò che avete costruito con fatica solo perché sei talmente ottuso da non voler ammettere ciò che provi.»

Il Nano sospirò con pesantezza. «E allora, voi che siete i miei più fidati amici e consiglieri, cosa mi suggerite di fare?»

Balin e Dwalin si scambiarono un’occhiata, ma il maggiore dei fratelli sorrise caldamente. «Fai chiarezza con te stesso e parlane con lei.»

«Così sarai sicuro che si spaventerà e scapperà via, risparmiandoti tanti problemi.» aggiunse Dwalin, con un ghigno.

Thorin scosse il capo. Ecco, quella era l’ultima cosa che avrebbe voluto fare.

Parlarle.

Di cosa, poi? Aveva già trovato immensa difficoltà a parlare della loro amicizia; non voleva immaginare cosa potesse essere discutere di... qualsiasi cosa provasse.

Quando i più giovani tornarono con le braccia straripanti di cibo, Thorin non osò guardarla in viso e si concentrò sui nipoti. «E quella roba da dove spunta?»

Fili ghignò. «Zio, dovremo portarti a fare un giro per le cucine di Minas Tirith. Che posto suggestivo e profumato!»

«Abbiamo trovato un Uomo che si occupa della dispensa, Targon è il suo nome.» spiegò Kili, prima che venissero accusati di furto. «È stato così gentile da riempirci le mani, appena ha saputo che il Re di Erebor e i suoi sottoposti morivano di fame, dopo una lunga e pesante giornata come quella appena trascorsa.»

Thorin sbuffò, non riuscendo a nascondere il divertimento, mentre quelli sorridevano innocentemente come dei bambini. Sarebbero potute passare Ere, eppure quei due non sarebbero mai cambiati. «Ebbene, prepariamo qualcosa da mettere sotto i denti. Il Re sta davvero morendo di fame.» decretò.

«State pure comodi lì, miei signori.» disse Káel, appena vide lui e Dwalin alzarsi dalla loro poltrona. «Lasciate che prepari la cena per la nobiltà di Erebor.»

Il fratello di Balin si risedette con un tonfo. «Beh.» disse. «Spero proprio che non somigli a tua sorella, allora.» Nascose la sua risata con un paio di colpi di tosse, appena sentì gli occhi indignati della Nana, che incrociò le braccia e si sedette impettita, le guance gonfie e rosse per l’ennesimo sbuffo.

A discapito del comune sangue che condividevano, Káel era un ottimo cuoco, oltre che un buon fabbro e combattente; e ricevette i complimenti di tutti appena si sedettero intorno al tavolo e divorarono la cena, senza preoccuparsi di etichette e buone maniere. L’aria che respirarono in quel frangente fu rilassata e paciosa, poiché tutti loro avevano bisogno di lasciare da una parte i loro timori. Il giorno dopo si sarebbero svegliati presto e avrebbero ripreso a lavorare alacremente per concludere il prima possibile i lavori al Grande Cancello. Ora come ora non avrebbero potuto fare altro e non vi era motivo per tormentarsi con le preoccupazioni.

Trán si occupò di sparecchiare e di sciacquare i piatti, e rifiutò l’aiuto di chiunque volesse darle una mano; del resto non aveva cucinato, che le lasciassero almeno riordinare il caos che avevano fatto. Gli altri si sedettero allora attorno al fuoco, per due chiacchierare in tranquillità. Thorin, però, non fu molto partecipe, gli occhi chiari nuovamente persi sul caminetto e la mente lontana chissà dove. Nemmeno si rese subito conto di uno sguardo fisso su di sé per l’ora successiva; ma quando si voltò per osservare uno dei soggetti dei suoi pensieri, la trovò profondamente addormentata sulle gambe del fratello, il viso rivolto verso la sua direzione, e non riuscì a frenare un sorriso. Era così tenera e indifesa, che quasi stentò a riconoscere in lei la Nana battagliera che lo aveva colpito sin da subito. Notò Dwalin e Káel parlottare e vide il suo amico che, con un po’ di impaccio, si avvicinò alla ragazza per sollevarla con attenzione dalle gambe di Káel, ormai intorpidite. Godette appieno della comicità di quella scena: il burbero Dwalin, che a stento ammetteva persino a se stesso di provare un minimo di simpatia per quella stramba famiglia e per la ragazza, si era trovato costretto a trasportarla per ben due cerchi della città e metterla a letto. Thorin si chiese se fosse pesante e rise tra sé e sé ad immaginare la reazione indignata della ragazza se avesse chiesto una cosa simile.

 

 

 

Boromir odiava aspettare. Tutta la tensione che cercava di cacciare lontano dalla mente, continuava ad affacciarsi in quelle ore di assoluto nulla, e si stava spazientendo. Gli Esterling, infatti, si erano fermati non troppo distanti dalle mura della città, lontano dalla portata degli archi, ma abbastanza vicino da poterli distinguere nitidamente l’uno dall’altro. Avevano puntellato le loro tende arancioni e dorate tutt’attorno Osgiliath e lì erano rimasti, cantando di guerra e morte nella loro strana ed aspra lingua, ma senza muovere un muscolo verso le lance e le spade che portavano con sé, per iniziare un attacco. Il Comandante degli Esterling più volte si era rivolto verso di lui, sfidandolo con lo sguardo, con i gesti, con il suo atteggiamento sfrontato; e lui aveva sentito l’urgenza di portare la mano all’elsa della spada, corrergli incontro e fargli pagare tutto il nervoso che gli stava regalando gratuitamente.

La sera era calata con estrema lentezza e con essa un nuovo banco di nuvole che minacciavano l’ennesimo temporale. Si stava stancando anche di quel brutto tempo, il Sovrintendente. L’unico pensiero che lo tratteneva dal sbottare ad ogni parola era la consapevolezza che Aragorn avesse risposto alla sua richiesta di aiuto in tempi strabiliatemene brevi. Il giovane Nano dai capelli rossi, di nome Káir, gli aveva detto di un grande esercito in movimento da Minas Tirith, e persino lui era riuscito a scorgerlo, nonostante la poca visibilità per la mancanza di luce e per la leggera foschia che si era alzata. Probabilmente li avrebbero raggiunti tardi, in quella notte, e Boromir temeva di aver capito cosa gli Esterling stessero aspettando: infatti, non avrebbero permesso all’esercito del Re di Gondor di coglierli di sorpresa prima che potessero muoversi, e il loro intento era quello di attendere la venuta delle tenebre per muoversi con più facilità senza essere visti e colpiti dalle frecce degli arcieri. Essi erano infatti abili interpreti del mutamento del tempo meteorologico e Boromir si chiese se il loro tempismo fosse dovuto alla fortuna o alle loro previsioni.

Quando la notte giunse, accompagnata da una leggera pioggia, gli Esterling fecero la loro prima mossa, e Boromir pregò che Aragorn galoppasse più in fretta. Non avrebbero resistito a lungo, nonostante i Nani che erano rimasti ad Osgiliath avevano tutte le buone intenzioni di scaricare la loro rabbia sul Nemico. Nell’oscurità la luce di alcune fiammelle si fece importante, ma nessuno di loro, Uomo o Nano, riuscì a capire cosa stesse succedendo. Solo i figli di Rulin, grazie al loro sangue Elfico, riuscirono a scorgere le sagome degli arcieri che bagnavano le punte delle frecce prima nella pece e poi nel fuoco.

«Dardi infuocati! Al riparo!» gridò Tarón, mentre la pioggia di acqua venne mischiata a quella delle frecce; alcune non causarono danni, poiché andarono a collidere contro la solida pietra delle rovine, ma altre si conficcarono nel legno delle impalcature, dei tavoli di lavoro, delle baracche costruite in poco tempo come officine e temporanee residenze. E i Nani, che videro i loro giorni di lavoro buttati alle fiamme, strinsero con rabbia le loro asce e gridarono i peggiori insulti in Khuzdul.

Azdor gioì malignamente nel sentire la collera e l’odio provenire da quelle mura distrutte; credevano davvero che si sarebbero ritirati nei loro antri nella lontana terra di Rhûn e non rivendicare ciò che avevano perduto, tra soldati e dignità? Quel giorno Nani e Uomini avrebbero capito che gli Esterling fossero più agguerriti che mai e che non avrebbero abbassato il capo di fronte a nessun Re, se non al proprio. Puntò la sua lunga e dorata lancia verso la città e i mûmakil, ben protetti da giganti corazze di legno e metallo, si mossero in quella direzione. Neppure un esercito di Elfi muniti di tutte le frecce del mondo avrebbero potuto fermarli, ora.

E mentre alcuni soldati tentavano di spegnere le fiamme, Boromir gridò agli arcieri di mettersi in posizione e di puntare alle zampe degli olifanti, laddove non fossero protette; il resto dei combattenti, invece, si preparò lungo le mura, stringendo le proprie armi con determinazione, in caso i mûmakil e i loro cavalieri fossero riusciti ad oltrepassare le deboli mura in pietra e legno. E sarebbe accaduto tra non molto, pensò con angoscia il Sovrintendente.

I mûmakil si mossero dapprima con lentezza, ma il loro passo si fece via via sempre più spedito e giunsero sotto i loro occhi come dei giganteschi sassi scaraventati dalle catapulte. Non bastarono le frecce degli arcieri, né le pietre che lanciarono, per fermarli. Quelle bestie colossali s’infransero contro la fragilità delle mura in legno, schiacciandole con le zampe e spazzandole con le zanne con la stessa facilità di un piede su un formicaio.

E si scatenò il caos.

Quello che era un cantiere animato fino a poche ore prima, si trasformò in un nuovo campo di battaglia. Numerosi Uomini e Nani vennero uccisi immediatamente dalle zanne armate degli olifanti, ma molti riuscirono a schivare la furia animalesca nascondendosi dietro qualche rovina o accovacciandosi al loro passaggio. Dáin gridò l’attacco e i suoi guerrieri corsero verso le bestie, con le asce sguainate e la risolutezza negli occhi. Con colpi forti e ben assestati, tagliarono e ferirono molteplici volte le zampe degli animali, che presero a muoversi freneticamente in preda al dolore e alla paura. Alcuni edifici crollarono sotto il loro peso, vanificando il lavoro dei Nani e facendo sanguinare il cuore di Boromir, che ancora una volta vedeva la distruzione aggiungersi a quella già presente. La speranza di vedere Osgiliath tornare a vivere, prima della fine dei suoi giorni, si affievolì immediatamente e fu preso dallo sconforto.

E dalla rabbia.

Con un grido di immenso dolore e di battaglia, Boromir si lanciò nella mischia: la sua possente spada sulla mano destra e l’immancabile scudo rotondo alla sinistra. L’unico pensiero che lanciò, al mondo fuori da quelle mura di sangue e distruzione, volò verso Brethil e sperò che almeno lei tornasse a casa sana e salva. Gli Esterling rimasero colpiti dalla veemenza dei suoi attacchi e pochi di loro trovarono il coraggio di affrontarlo a viso aperto.

Solo uno di loro mosse qualche passo nella sua direzione e sorrise, quando Boromir si accorse di lui. Afferrò la lancia con entrambe le mani e lo sfidò, puntando i piedi sul lastricato in rovina e mettendosi in posizione di attacco. Il Sovrintendente quasi ringhiò quando lo attaccò; la forza del suo fendente rischiò di spezzare la lancia, se solo fosse stata fatta in semplice legno. Ma quella era resistente, laminata d’oro e d’argento. Ricambiò l’attacco con l’intenzione di colpirlo in pieno addome, ma Boromir si difese con lo scudo, sebbene arretrò di un passo per la violenza della botta. Si studiarono per qualche secondo, girando intorno ad un invisibile centro. Fu il Sovrintendente ad attaccare nuovamente, irritato da quel gioco di sguardi e di attesa; Azdor si difese ancora e con abilità sorprendente - non era certo uno sprovveduto che sfidava il combattente migliore di Gondor. Con un movimento rapido ed efficace, riuscì a colpire Boromir su un ginocchio, facendolo cadere sull’altro, e l’Uomo si morsicò la lingua pur di non gridare dal dolore.

Azdor ghignò, avvicinandosi come un gatto al topo. «Alzati e combatti, Gondoriano

Il disprezzo che impregnò quell’appellativo gli bastò per non farselo ripetere una seconda volta e Boromir fece ricorso a tutte le energie di cui ancora disponeva, per rimettersi in piedi e riprendere il duello.

Dáin combatteva non molto distante da Glóin, entrambi sporchi di sudore, terra e sangue; accanto al loro Re stavano i figli di Rulin e il loro padre, anch’essi ammaccati per l’aspro combattimento ma ancora in piedi sulle loro ferme gambe. Gli Esterling, che sedevano sui dorsi dei mûmakil, erano infatti scesi a terra, per combattere corpo a corpo; credettero di trovare Nani sfiniti e incapaci di combattere, poiché erano carpentieri e artigiani, ma non avevano fatto i conti con la durezza di quella razza che aveva affrontato il fuoco di un drago e non si sarebbe piegata di fronte a dei miseri uomini dal volto nascosto.

Káir affondò le sue due e maneggevoli asce sulla schiena di un Uomo dell’Est che aveva tentato di attaccare alle spalle il fratello, e gridò per il sollievo di averlo salvato. «Tutto bene?»

Tarón annuì, battendogli velocemente una mano sulla spalla e concentrandosi nuovamente sulla battaglia. Il minore dei due si guardò attorno, cercando con lo sguardo il padre, ma non lo vide subito. Lo scorse accanto a Dáin, sempre fedele scudiero che non lo avrebbe abbandonato per alcuna ragione al mondo. Gli corse incontro, facendosi largo tra cadaveri e nemici, per sincerarsi delle sue condizioni e combattere con lui, ma si fermò, paralizzato dalla paura, quando lo vide cadere sulle sue ginocchia, nel tentativo di parare un colpo diretto al Re. Dáin se ne accorse troppo tardi ed uccise con rabbia l’assalitore. Si chinò sul Nano che gli aveva salvato la vita e lo afferrò sotto le ascelle, per trasportarlo in un luogo più appartato e lontano dagli scontri. Káir li seguì entrambi, gli occhi che già pizzicavano per le lacrime.

«Padre–»

Dáin sollevò uno sguardo pieno di rammarico e dolore sul giovane ragazzo, che non osava avvicinarsi più del dovuto. Rimaneva in piedi a pochi passi dal genitore, gravemente ferito, e lo osservava con gli occhi sbarrati. Káir non aveva mai avuto paura come in quel momento. Credeva che il padre fosse invincibile, dopo tutte quelle battaglie, dopo la scomparsa dell’adorata moglie, dopo la perdita del suo occhio; credeva che niente al mondo avrebbe potuto farlo cadere. E invece eccolo lì, che non aveva neppure la forza di alzare un braccio verso di lui per chiedergli di avvicinarsi, almeno per gli ultimi istanti della sua vita.

Káir si sfilò l’elmo, lasciandolo cadere per terra, e s’inginocchiò accanto al Nano, afferrandogli la mano e lasciando sfogare il pianto.

«Ragazzo mio–» mormorò Rulin, abbozzando un sorriso. «Vorrei... vorrei poter avere più... più tempo per–» Tossì sangue e capì che non molto tempo sarebbe passato prima che i polmoni ne venissero sommersi. «–per salutarvi tutti. Siete il mio... orgoglio.»

Il figlio si chinò su di lui, abbracciandolo con forza e chiedendogli di non andarsene, non ancora. Dáin non ebbe il cuore di allontanarlo, anche se avrebbe voluto evitargli l’ulteriore dolore di doverlo vedere morire tra le sue braccia.

«Saluterò la mamma... per voi.»

«Padre!»

Tarón udì il grido straziato del fratello e chiuse gli occhi. Non ebbe il bisogno di voltarsi e cercarlo, per capire cosa fosse appena successo.

 

 

 

Aragorn ed Éomer incitarono i propri soldati a cavalcare più velocemente. I suoni terribili della battaglia e le colonne di fumo che si sollevavano dalla città di Osgiliath erano inquietanti e gli fecero temere il peggio. Il loro arrivo fu una boccata d’aria fresca per gli assediati e gli Esterling, vedendoli giungere al galoppo e armati delle più nere intenzioni, indietreggiarono, fino alla fuga.

Azdor non si fece intimidire da quell’apparente atto di forza; con un ultimo fendente, colpì Boromir al viso, spedendolo in terra quasi senza coscienza, e ordinò la ritirata, sospendendo momentaneamente la battaglia. Sorrise sotto il suo elmo. Tutto andava secondo i piani. Ora dovevano solo attendere.

Boromir si rialzò a fatica, rintronato per il possente colpo. Si tolse l’elmo e si rese conto che stesse sanguinando dalla fronte. Represse un gemito di frustrazione, ma ritirò la spada e, barcollando, si diresse verso il cavallo di Aragorn, giunto in quel momento.

Il Re di Gondor smontò, incrociando il suo sguardo di sollievo; ma non fece in tempo a salutare l’amico e a sincerarsi delle sue condizioni di salute, perché Dáin gli corse incontro. «Mio signore! Rulin il Carpentiere è gravemente ferito! Potete salvarlo?»

Aragorn, allora, rivolse la sua attenzione al Nano e gli fece cenno di mostrargli la strada verso il ferito.

Boromir dovette attendere parecchio prima di poter parlare finalmente con il suo Re.

E, soprattutto, per chiedergli spiegazioni sulla partenza di Brethil.

Lo seguì laddove Rulin giaceva inerme, tra le braccia del figlio in lacrime. Káir alzò lo sguardo solo quando vide un Uomo di una bellezza regale chinarsi dall’altro lato del padre.

«Ragazzo mio, egli è Re Aragorn e si dice che abbia salvato molte vite disperate, in passato.» gli disse Dáin, con una mano sulla spalla per rassicurarlo. «Lascia che si prenda cura di tuo padre.»

Il giovane Nano scosse il capo. «Non c’è speranza... lui–lui sta morendo.»

Aragorn sorrise. «C’è sempre speranza. E farò in modo che anche tu la trovi.»

Káir trovò lo sguardo del fratello, che annuì. Così si allontanò di un passo, senza distogliere l’attenzione dal Re e dal corpo di suo padre. Accanto a lui, Dáin continuava a dargli il suo sostegno con un braccio intorno alle spalle. Káir amava profondamente suo padre per poter sopportare la sua morte, ma era consapevole che quello era un rischio che doveva mettere in conto, essendo un guerriero; eppure, l’unico pensiero che non gli avrebbe dato pace se il padre non avesse superato la notte e quelle successive, fu l’idea di Trán e del dolore che l’avrebbe sicuramente uccisa.

Trascorsero delle ore, prima che Aragorn si rialzasse dal giaciglio di Rulin e si avvicinasse ai due fratelli, sorridendo con stanchezza. «Ha perso molto sangue, e purtroppo la ferita è profonda. Ma è vivo.» Osservò i due correre dal padre, che pareva profondamente addormentato, e sospirò. Guardò Dáin, che essendo sveglio e vispo, aveva colto qualcosa che l’Uomo non aveva avuto il coraggio di ammettere.

«Non si risveglierà, vero?» domandò in un sussurro.

Aragorn scosse il capo. «Io spero di sì, ma temo di no. Il suo corpo ha resistito fino ad ora, ma non so per quanto ancora possa farlo.»

«Ahimè, è colpa mia se egli sia caduto; colpa mia se si trovasse qui, questo giorno.»

«No, amico mio, non addossarti colpe che non sono le tue.» Aragorn gli strinse le mani sulle spalle. «Io vi ho chiesto di giungere a Gondor e mi assumo la totale responsabilità di tutto ciò per non essermi assicurato della vostra protezione. Ma neppure io avrei creduto che avrebbero attaccato in così poco tempo, e con così poco preavviso. La colpa, a ben vedere, non è di nessuno di noi.»

Dáin annuì, sentendo il cuore pesante e la stanchezza sopraffarlo. Così Aragorn lo lasciò per permettergli di riposare e si avvicinò a Boromir, che discorreva tristemente con Éomer, mentre osservavano i sopravvissuti che spegnevano gli ultimi piccoli incendi e spostavano i cadaveri. Diedero alle fiamme quelli del nemico, poiché un atto simile non meritava il minimo rispetto per i caduti: li avevano attaccati nel cuore della notte, nel punto più vulnerabile che stava tentando di rinascere con tanta fatica e sudore, approfittando del fatto che non avessero difese per respingerli. La rabbia e l’odio nei confronti dell’esercito di Esterling era talmente alta che molti Nani furono costretti a restare ai loro posti con la forza,  pur di non lanciarsi in un attacco suicida e prendersi la loro vendetta.

Boromir si voltò appena si accorse della sua presenza accanto e il sollievo di avere i suoi soldati a difesa di Osgiliath fu presto dimenticato da una collera incontrollabile. Lo afferrò per il colletto del mantello e strinse fino a farsi male.

«Boromir!» esclamò Éomer, trascinandolo lontano dal Re con tutta la forza che disponeva. «Sei impazzito, per caso?»

Aragorn non fece niente per difendersi ma annuì. «Avanti, dimmelo.»

Il Sovrintendente strinse gli occhi, poiché la pioggia continuava a cadere ininterrottamente e gli offuscava la vista. Gli puntò un dito contro, tremando per l’ira e la disperazione. «Ti avevo chiesto di tenerla al sicuro, e tu... tu l’hai spedita verso la morte!»

«È stata una sua scelta, Boromir. E non spetta a me decidere per lei.»

«Avresti potuto dissuaderla, Aragorn!» gridò l’Uomo. «Avresti dovuto farlo!»

«Per te o per lei?»

L’altro non rispose subito; si passò una mano sul viso bagnato e scosse il capo. «Sì, sono egoista, Aragorn. Sono egoista perché voglio proteggerla anche quando lei non vuole che lo faccia. Non puoi biasimarmi per questo.»

«E tu non puoi accusarmi di non averla protetta.» replicò il Re. «Perché andare contro il suo volere, significa anche attaccare il suo orgoglio. Boromir–» aggiunse, più dolcemente. «Tu non sai cosa abbia dovuto sopportare in questo ultimo periodo; non hai visto il suo sguardo, lo stesso che vidi tempo addietro quando desiderava solo scappare per la vergogna e i sensi di colpa. Non potevo costringerla a rimanere in una città che non ha fatto altro se non mettere in discussione la sua posizione e le sue capacità. Si sentiva in gabbia e l’ho liberata.»

«E hai preferito mandarla alla guerra sapendo bene che il suo misero esercito non potrà vincere quello degli Haradrim?»

«Brethil è un soldato, come me e te. E nessuno di noi può fare niente per cambiarlo.»

Boromir si lasciò cadere su una rovina, prendendosi la testa tra le mani e reprimendo a stento la voglia di gridare la sua rabbia.

La rabbia per l’ennesimo attacco alla sua città.

La rabbia per aver visto la morte camminare nuovamente tra le sue fila.

La rabbia per la consapevolezza che Brethil era lontana e in pericolo.

Sentiva nuovamente quell’opprimente sensazione che lo aveva colto quando ancora l’influsso dell’Anello lo turbava, il senso di impotenza che lo frustrava. E lei, lei non era lì, a dargli il suo sostegno. Non era lì, dove avrebbe potuto prendersi cura di lui, e lui di lei, come avevano fatto dal primo istante in cui si erano conosciuti. Si erano lasciati con la speranza di rivedersi dopo una manciata di settimane, e ora sembrava tutto un ricordo lontano e sfuocato.

Non aveva neppure potuto dirle addio.

Aragorn gli si sedette accanto, abbracciandolo fraternamente. «Non farti cogliere dalla disperazione, poiché è questo il loro piano. Ci hanno attaccato nel momento in cui siamo più vulnerabili e contano sul nostro sconforto. Non permettergli di vincerti.» Vedendo che l’amico non osava aggiungere altro, Aragorn si alzò con un sospiro stanco e si incamminò per una ricognizione, portando ben presto conforto e speranza con la sua sola presenza.

Éomer lanciò un’occhiata a Boromir, ancora seduto con lo sguardo perso nel vuoto, e gli batté amichevolmente una pacca sulla spalla. «La donna di cui ti sei innamorato va e viene come preferisce, amico mio. Dovresti averlo capito da tempo, ormai.»

Il Sovrintendente rise con tristezza. «Sì. E non l’amerei se così non fosse.»

«Allora mettiti il cuore in pace, poiché ella non ti permetterebbe di piangerti addosso. Vedrai che tornerà.»

«E quando il momento giungerà la legherò come un cavallo in una stalla.»

Éomer rise. «Chiamami, quando tenterai di farlo. Vorrei essere presente quando sarà lei a legare te!»

 

 

 

*

Ohohoh.

Iniziano a cadere le prime vittime.

E Rulin, ahimè, non sarà neppure l’unico.

Ma taccio! *^*

Alla settimana prossima!

Con affetto,

Marta.

 

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Capitolo 16
*** 16. ***


Salve a tutti!

Come state? Io sono ancora scossa dall’Hobbit Fan Event di qualche giorno fa, soprattutto dalla visione del trailer di tre minuti che sto guardando come una droga ogni dannato giorno. *^*

(Per non parlare del mio povero cuore alla vista di quell’uomo alto, barbuto e dalla voce baritonale di RA. Non credo che mi riprenderò mai più.)

Ad ogni modo, vorrei prima scusarmi se non ho ancora risposto alle recensioni, ma è stata una settimana impegnativissima – prometto che entro la fine della giornata rispondo a tutte e per bene. <3

Inoltre vorrei mettervi in guardia da questo capitolo, perché... beh, succede (più di) qualcosa e ho una paura tremenda. >_<

Che Eru mi sostenga!

Grazie, GRAZIE  a tutti voi che mi seguite e continuate a farlo. Siete matti, lo sapete?

E io vi amo. <3

Un abbraccio e buona lettura!
Marta.

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

16.

21 Settembre 3019 T. E.

 

 

Trán era da sola alla fucina, quel giorno. Gli altri Nani erano al Grande Cancello, per iniziare a montare i primi componenti di quello nuovo, giacché gli scultori avevano terminato di levigare le grandi lastre in pietra, che attendevano solo di essere ricoperte da uno spesso strato sapientemente lavorato di mithril. In un certo senso, fu lieta del fatto che i Nani non fossero nei paraggi; in particolare che Dwalin non lo fosse. Quando Káel le aveva raccontato di come se l’era dovuta caricare per riportarla in camera, aveva quasi rischiato di strozzarsi con la sua stessa saliva per la sorpresa; ed era più che sicura che non avrebbe potuto trattenere un sorriso di pieno divertimento se avesse incrociato il suo sguardo. D’altra parte era sollevata dal fatto che non fosse stato Thorin a prenderla tra le braccia come il marito con la neo-sposa.

Alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo, e si diede un pizzicotto.

Svegliati, Trán, questa è una cosa che non si avvererà neanche nei tuoi peggiori incubi, si disse in un sospiro.

Terminò il suo lavoro poco prima di pranzo, esausta. Ma non si avviò subito a mangiare; voleva terminare i pugnali per i nipoti del Re e voleva farlo quel giorno, prima che non avesse più il tempo. Così trascorse l’ora successiva, abbastanza soddisfatta del risultato, finché il gemello, con il fratello minore, non giunsero a cercarla per andare a pranzare. Lungo la breve via che li separava dalla mensa, incontrarono pochissime persone. Con l’ulteriore partenza del Re e dell’altra metà dell’esercito, Minas Tirith ora sembrava davvero vuota e fu un pensiero impressionante. Avevano conosciuto quelle strade ricche di persone e di musica, di colori e profumi; ora sembrava un enorme e bianco camposanto.

«Come procede al Grande Cancello?» domandò Trán, scacciando i brutti pensieri.

«Direi bene.» Káel si stiracchiò le braccia, intrecciando le mani dietro la nuca. «Abbiamo finito di montare i carrelli per sollevare i lastroni e le impalcature; dopo pranzo inizieremo il rivestimento, prima di montarli. Dovresti passare a dare un’occhiata, sorellina.»

La Nana annuì. Si sedette al tavolo con i suoi fratelli accanto a Balin, Fili e Kili. Il Re e Dwalin giunsero in ritardo, poiché dovevano terminare un lavoro pesante prima di riposarsi un poco. Erano visibilmente stanchi, ma nessuno di loro avrebbe aperto bocca per lamentarsi. L’entusiasmo per ciò che stavano costruendo andava ben oltre qualsiasi fatica – e il loro orgoglio non gli avrebbe permesso di lagnarsi per qualche goccia di sudore.

Balin notò di come Trán, appena arrivata, gettò una veloce occhiata per tutta la grande sala di ristoro, cercando qualcuno che non trovò, e ridacchiò tra sé e sé. Thorin era abbastanza testardo e cieco da non rendersi conto che le sue paure fossero infondate. Salutò i fratelli con un cordiale sorriso e Káel con i nipoti del Re intavolarono subito una lunga discussione sul lavoro appena concluso e, soprattutto, su ciò che avrebbero fatto dopo essersi riempiti lo stomaco. Erano oltremodo entusiasti dell’incarico che stavano portando avanti.

L’anziano Nano si rivolse alla ragazza, dopo aver bevuto un lungo sorso di idromele. «Arriverà tra poco, non temere.»

Trán divenne paonazza e fece saettare uno sguardo imbarazzato sull’altro. Non osò far finta di niente e domandargli di chi stesse parlando, perché quello sembrava saperne anche più di lei. Così si schiarì la gola, sorvolando abilmente su quella frase gettata come legna da ardere. «Káel mi ha detto che i lavori procedono bene.»

Balin sghignazzò, annuendo. Era proprio vero che quella ragazza amasse ignorare le persone, quando si trovava a disagio. «Sì, oserei dire benissimo e celermente, per fortuna. Se continueremo a lavorare su questo ritmo, finiremo in meno di due settimane, anziché un mese.»

«Il terrore di una guerra fa correre anche le lumache.» mormorò Trán. «Avete visto i Nani provenienti da Osgiliath? Quando ci raggiungeranno?»

«Entro la serata, immagino.» Balin sospirò. «Ma temo che i tuoi familiari non saranno tra loro. Essi sanno combattere valorosamente e non abbandoneranno il vostro Re in un momento simile.»

La Nana chinò il capo. «È quello che sospettavo anche io.»

«Non preoccuparti, ragazza. Sapranno come superare anche questa battaglia.»

«Hai la pessima abitudine di preoccuparti per tutti, figlia di Rulin.» fece una voce profonda alle sue spalle. «Quando inizierai a preoccuparti per te stessa?»

Non ci fu bisogno di voltarsi per capire chi le avesse spedito quei soliti brividi lungo la schiena. «Le persone di cui mi preoccupo sono le uniche importanti nella mia vita, sire Thorin. Se dovesse succedere qualcosa a loro, è come se anche io venissi colpita.»

Thorin si sedette accanto a Fili, poco lontano da lei, ma non la guardò. Era ancora troppo scosso dal groviglio di pensieri che gli aveva causato la discussione con Balin. Temeva che se l’avesse osservata, se si fosse perso in quegli occhi azzurri e luminosi, non avrebbe trovato il coraggio di fare quello che si era ripromesso: cacciare la sua costante immagine lontano dalla sua mente. Aveva ben altro a cui pensare per permettersi distrazioni. Vi aveva rimuginato per parecchie ore, trascorrendo l’ennesima notte insonne, ed era giunto alla conclusione che non avesse intenzione di avere complicazioni di alcun tipo; del resto, essa stessa gli aveva detto che voleva la sua amicizia, nient’altro. Non si aspettava certo che lo facesse, ma era abbastanza realista da capire fin dove avrebbe potuto spingere lo strano rapporto che avevano instaurato – e aveva capito che non sarebbe andato oltre. Il solo pensare di corteggiarla, e che Mahal lo fulminasse per averlo fatto, era ridicolo quasi quanto l’amicizia tra Gimli e l’Elfo.

Sì, era un’idea ridicola.

Eppure talmente allettante che, nonostante i suoi buoni propositi, non riusciva a lavarla via.

Dwalin spezzò il flusso dei suoi pensieri, sedendosi di fronte alla Nana e ghignando. «Dormito bene, ragazza?»

Trán arrossì, ridacchiando. «Chiedo scusa, messer Dwalin... mi è stato detto che mi hai trasportata fino a casa. Non dev’essere stato divertente.»

«Sciocchezze.» borbottò quello. «Non è stato poi tanto diverso dal trascinare un sacco di patate.»

«E per la barba di Durin, Trán, hai il sonno più pesante del mio!» esclamò Fili.

«E russi.» aggiunse seriamente il fratello.

«Co–come?!» I presenti risero di fronte al suo imbarazzo. «Io no–non russo!»

«Dici così perché non ti senti, sorellina. Il che mi stupisce, è così forte che dovresti svegliarti da sola.»

Fili e Kili quasi si capottarono dalle sedie per le risate, mentre lei sprofondava sulla sua per la vergogna. Il fatto che persino Thorin stesse ridendo di lei non aiutò certo il suo morale.

Balin fu l’unico a difenderla, sorridendole bonariamente. «Non ascoltarli, ragazza mia. Non hai emesso un suono, tanto che pensavamo fossi morta.»

«Aye. Per questo ti ho paragonata ad un sacco di patate. Avevi più o meno la stessa vitalità.»

Fu sollevata dalla notizia, anche se non capiva se quel paragone fosse un complimento o meno, ma l’imbarazzo di essere stata messa nuovamente al centro degli scherzi del fratello e degli altri due amici non svanì subito e mangiò il suo pasto in silenzio per il resto del pranzo.

Il tempo di tornare al lavoro giunse troppo velocemente per tutti, ma nessuno si lamentò. Trán li seguì, sotto consiglio di Káel, poiché era altamente incuriosita e voleva vedere anche parte del suo lavoro finalmente concluso. Così raggiunsero il cantiere, dove alcuni Nani avevano già ripreso ad occuparsi delle proprie faccende. Le sottili ma indistruttibili lastre di mithril, che ora venivano montate sulla pietra, erano decorate da stupendi bassorilievi, che raccontavano la storia dell’ultima, grande battaglia della Terza Era: dalla disperazione di Gondor nel rendersi conto di dover affrontare il Male da solo, all’arrivo dei Rohirrim, fino alla definitiva caduta di Sauron e al ritorno del Re.

Trán diede una mano al fratello, nel fissare e unire i pezzi mancanti, ma dovette mettersi da parte quando fu il momento di sollevare la pesante parte di portone sulle funi. Una decina di Nani erano appostati sulla cinta muraria, pronti a sollevare al primo ordine del Re; dopo che ebbero assicurato il pesante fardello alle corde, Thorin gridò di iniziare a tirare e continuò a ripetere l’ordine finché la lastra non fu posizionata verticalmente sul livello del terreno, e leggermente fluttuante nell’aria. Il Re alzò una mano e ordinò di fermare il sollevamento; così, lui e Dwalin, aiutati da altri tre Nani in forze come loro, spostarono l’imponente lastra ricoperta di mithril e la piazzarono sui primi pesanti cardini del cancello. Le esclamazioni di esultanza e gli applausi per quel primo, grande passo risuonarono per parecchie vie, tra Nani e Uomini che gridavano di gioia. Dwalin ghignò, spolverandosi le mani sul tessuto dei pantaloni, mentre Thorin osservava il risultato del loro lavoro con soddisfazione. Incontrò lo sguardo di Trán, che lo osservava a sua volta, fiera del prodotto del suo operato, ma egli lo fuggì immediatamente, lasciandola interdetta per qualche istante.

Trán aveva notato un lieve cambiamento in Thorin, in quelle poche ore, già dalla cena precedente e in così poco tempo; lo aveva visto a pranzo, quando neppure l’aveva degnata di uno sguardo, lo aveva capito dal tono distante con cui le aveva rivolto due misere parole, lo aveva appena provato su se stessa in quel momento. Avrebbe dovuto essersi abituata, ormai, ai suoi sbalzi d’umore, si disse; ma era evidente una improvvisa e fastidiosa indifferenza nei suoi confronti – perché Thorin era sempre stato tutto fuorché indifferente. Fece un veloce esame di coscienza, chiedendosi se avesse fatto o detto qualcosa di offensivo, ma per una volta convenne con se stessa che fosse stata impeccabile. Certo, arrossiva troppo spesso quando era in sua compagnia, ma non credeva che quello fosse motivo di insolenza. O almeno, lo sperava.

Così gli si avvicinò timidamente in un momento in cui Dwalin si era allontanato per recuperare degli attrezzi. Thorin si accorse di lei solo quando si schiarì la gola per avvisarlo della sua presenza e sentì tutte le difese erette con tanta fatica crollare immediatamente quando lei parlò.

«C’è qualcosa che non va, vero?»

Thorin sospirò pesantemente, spostando lo sguardo da lei alle pietre del cantiere, come se potessero aiutarlo a trovare una risposta. «Trán...»

«Ho fatto qualcosa di sbagliato?» gli domandò, temendo la sua risposta. «Oppure... oppure hai cambiato idea sulla nostra amicizia?»

Il Nano sentì il cuore farsi pesante, notando il sincero dispiacere in quegli occhi ora tristi e perplessi, e si diede dello stupido per averle inculcato il seme del dubbio. Così la prese per mano, allontanandosi dal cantiere alla ricerca di un luogo più appartato in cui parlare. Non fu un’impresa semplice, poiché incrociarono molti Nani che, sebbene indaffarati, non si fecero sfuggire il fatto che il Re di Erebor tenesse per mano una femmina. Trovò l’ingresso di una corte verde, nascosta alla vista della strada, e attraversarono in silenzio il corridoio arcato; la fece sedere su una panca in pietra e le diede le spalle, ficcandosi le mani sui fianchi e cercando di riordinare i pensieri. Trán attese con pazienza che lui parlasse, ma nessuno dei due osò fiatare per interminabili minuti.

«Thorin? Cosa ho fatto?»

Il Nano si voltò finalmente, ma tenne lo sguardo basso. Da dove avrebbe dovuto cominciare? E come? «Non hai fatto niente, Trán. In un certo senso, almeno.»

«Questo non mi aiuta a capire.» replicò lei, incrociando le braccia al petto. «Meno enigmi e più chiarezza, per favore. Se ti ho offeso in qualche modo, io–»

«Trán!» esclamò lui, zittendola. Inspirò nuovamente con fatica, sedendosi accanto a lei e trovando la forza di guardarla negli occhi. «Non c’è niente nel tuo comportamento che mi abbia offeso; lo dico sul serio.»

La Nana abbassò lo sguardo sulle loro dita, nuovamente intrecciate. «E allora... qual è il problema?»

Eccola, nuovamente la dannata gola che diventava secca. Mahal, perché era diventato così assurdamente difficile parlare? «Il problema è che sono troppo vecchio per affrontare certi pensieri che mi lasciano sveglio la notte.» Non ci fu bisogno di chiedergli a voce che tipo di pensieri facesse, perché gli bastò il suo sguardo interrogativo per farlo continuare. «Ricordi il nostro primo incontro?»

Lei ridacchiò. «E come potrei dimenticarlo? Persi parecchi anni di vita per la sorpresa.»

«Lo ricordo bene anche io.» proseguì Thorin, in un sorriso nostalgico. «E ricordo che provai subito una ridicola curiosità nei tuoi confronti; è vero, ti ho ingannata nascondendoti la mia identità e per la mia successiva ostilità nei tuoi confronti non smetterò mai di chiederti perdono. Ciò per cui invece non riesco ad incolparmi, e so che dovrei farlo, è ciò che ho iniziato a provare, fin dai nostri primi incontri e screzi. Mi rendo conto che non abbia il diritto di desiderarti al mio fianco dopo le offese che ci siamo scambiati; ma non riesco a farne a meno, soprattutto ora che ci siamo riappacificati.» Le strinse le mani con più risolutezza, come se con quel gesto potesse rafforzare le sue parole. «Trán, mi dispiace se ti ho recato dolore con il mio comportamento, e se hai percepito la mia indifferenza... ma sto tentando di fare chiarezza con me stesso, sto cercando di essere realista e di non illudermi come un ragazzino.»

La Nana non osava neppure respirare. Non sapeva se essere felice, emozionata, spaventata, arrabbiata; oppure era tutte quelle cose insieme, perché solo uno come Thorin Scudodiquercia era in grado di causarle così tante sensazioni in un solo istante. Così prese coraggio, e parlò. «Non hai pensato che... che magari anche io potessi provare lo stesso per te? Hai creduto che fosse bene, invece, prendere una decisione per entrambi?»

Thorin parve preso in contropiede e l’irritazione che le stava montando dentro svanì, sostituita dallo stupore. Era davvero così ingenuo da non essersi accorto che anche lei avesse le stesse paure e provasse le stesse emozioni quando stavano insieme?

«Ho provato a fare lo stesso, io ci ho provato sul serio.» mormorò la Nana, abbassando lo sguardo. «Ma ho fallito; e poiché sapevo bene che le mie speranze fossero sciocche, allora ho accettato la tua amicizia come un dono prezioso, l’unica cosa che avrei mai potuto avere da te. Del resto... tu sei un Re e io sono... cosa sono io? Cosa sono io rispetto alle belle dame che potrebbero persino uccidere, pur di diventare la tua regina?»

Lui sorrise, questa volta di sollievo, e gli parve che un pesante fardello gli fosse stato tolto dalla schiena. «È vero, non hai sangue nobile; ne hai di Elfico, addirittura. Solo Mahal sa cosa direbbe il Consiglio Reale se solo osassi formulare un simile pensiero. Sei testarda e pessimista oltre ogni modo, non hai un’educazione di corte e sei impacciata quando si tratta di relazionarti con qualcuno. Chiunque direbbe che regina peggiore di te non esisterebbe.» Rise di sincero divertimento quando vide la sua espressione indignata. Così si affrettò a terminare il discorso, prima che perdesse il filo e lei capisse il contrario di ciò che voleva dirle. «Ma io non voglio corteggiare nessuna bella dama, Trán; non voglio la falsa perfezione di una donna priva di spina dorsale da esporre come un gioiello. Perché nessuna di loro sarebbe te.» Le si avvicinò, allungando una mano al suo viso ormai imporporato dall’imbarazzo e dall’emozione, e le accarezzò una guancia, facendola rabbrividire per quel contatto ruvido sulla sua pelle. «Io voglio te, Trán, figlia di Rulin. È questo il mio problema.»

La Nana neppure si rese conto di piangere per la gioia. Strinse la sua mano tra le proprie, come se volesse accertarsi che lui fosse reale, che le avesse detto davvero quelle belle parole. E rise tra le lacrime, incapace di rispondergli, incapace anche solo di formulare un pensiero logico.

Thorin sorrise con lei e poggiò la fronte contro la sua, i loro occhi così vicini da poterne percepire la minima sfumatura. «So che ci porteremo all’esasperazione più di una volta, l’uno con l’altra; ma non mi pentirei di averti accanto neppure se fosse la mia ultima azione. Permettimi di corteggiarti, Trán; vorrei poter conquistare il tuo cuore e dire al mondo che mi appartiene, così come il mio appartiene a te.»

Trán ricambiò il sorriso e si portò la sua mano alle labbra, quella dove il grande anello di Durin spiccava tra le tozze dita; baciò il gioiello con riverenza e annuì. «Il mio cuore è tuo già da tempo, mio Re

Quando tornarono al cantiere, i loro più stretti amici li osservarono inquisitori, poiché a nessuno era sfuggita la loro assenza. Fu Fili il primo a parlare, nascondendo lo stupore con due fossette birichine sulle guance.

«Bella pettinatura, melhekhinh.» scherzò, ammiccando al fratello. «Kili, ricordami, quanto avevamo scommesso?»

Dwalin grugnì e alzò gli occhi al cielo. «Spero stiate scherzando.»

Kili ghignò. «Assolutamente no. Paga, messer Dwalin. Un impegno è pur sempre un impegno.»

«Fratello, se non starai più attento ti succhieranno anche il sangue.» fece Balin, ridacchiando. Poi si rivolse ai due innamorati e gli si avvicinò, posando le mani sulle spalle di entrambi. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma la gioia negli occhi del suo sovrano e in quelli della sua compagna fu talmente grande e toccante che preferì tacere, limitandosi a sorridere.

Trán si sfiorò i capelli che Thorin le aveva acconciato solo pochi istanti prima: una coppia di trecce che le incorniciava la fronte come una corona, per poi unirsi sulla nuca in una sola, fermate da una clip in oro in cui il simbolo di Durin si mostrava in geometriche ed eleganti decorazioni. Arrossì al pensiero di ciò che significava e al leggero e fugace bacio che il Nano le aveva depositato sulle labbra, dopo che ebbe finito. Era stato così innocente e dolce che credette di averlo sognato; ma la felicità che gli rasserenava il viso serio era reale e capì che non fosse frutto della sua fervida immaginazione.

Era davvero la Signora del Re di Erebor; e il cuore le esplodeva di gioia.

 

 

 

22 Settembre 3019 T. E.

 

 

La vegetazione era bassa ma rigogliosa, in quella parte di Gondor. Non vi erano molti alberi, ma la presenza dei numerosi affluenti dell’Anduin e alcuni corsi d’acqua secondari animavano il paesaggio con riflessi di luce e, ahimè, un nutrito numero di fastidiosi insetti. Gimli era ovviamente la persona più insofferente di tutto l’esercito, sebbene la sua pelle coriacea fosse quella meno esposta a punture di qualsiasi genere, e per non sentirlo lagnare ad ogni istante, Imrahil gli aveva dato un unguento puzzolente ma efficace, che avrebbe tenuto alla larga qualsiasi essere vivente con le ali – e non; il naso sensibile di Legolas, infatti, ne risentì parecchio, purtroppo per lui.

L’umidità dell’aria fu resa ancor più pesante dalla densa cappa di nuvole provenienti da Nord e tutti sperarono che non piovesse ancora una volta, inzuppandoli fino alle ossa e rallentando la loro marcia. L’umore, dopo l’eco del Corno di Gondor, era via via sempre più basso e anche la confortante presenza del sole pareva un ricordo lontano. C’era chi aveva azzardato un lieve accenno di conforto, rassicurando i propri commilitoni che tra qualche anno tutti avrebbero raccontato della loro impresa, che avrebbero scritto canzoni su come l’esercito di Gondor fosse sceso in battaglia, con coraggio e decisione, sebbene le sorti della battaglia non promettevano un ritorno a casa. Gimli, che aveva colto qualche parola, aveva sbottato che non se ne sarebbero fatti niente delle poesie e dei racconti, una volta morti; e per quanto fosse orgoglioso e come il resto dei Nani, preferiva di gran lunga tenersi la testa sul collo ed essere dimenticato, piuttosto che il contrario.

Fu verso l’ora di pranzo che raggiunsero il primo villaggio della zona, dopo giorni interi di sola natura, che sorgeva lungo la via verso il Sud accanto al letto dell’Erui.

«È abitato principalmente da pescatori fluviali.» spiegò il Principe di Dol Amroth. «Sono persone pacifiche e dei grandi lavoratori, ma un po’ diffidenti; e conoscono molto di ciò che succede in queste terre, poiché si trovano proprio lungo il cammino principale e molti viaggiatori si fermano a riposare da loro.»

«Andiamo a vedere che cosa abbiano da raccontarci, allora.» suggerì Elrohir. «Giacché, in ogni modo, il nostro percorso ci porta lì.»

L’esercito proseguì fino al villaggio, ma si fermò un po’ distante dalle abitazioni. La vista di un’armata mastodontica come quella era di per sé allarmante, e non volevano rischiare di terrorizzare gli abitanti senza prima aver chiesto il permesso di attraversare le loro strade. Così Imrahil e Brethil aprirono la fila del piccolo gruppo che andò in avanscoperta, seguiti dai figli di Elrond e Legolas con Gimli.

Un uomo ben piazzato e dalla pelle bruciata dal sole li accolse all’ingresso della cinta difensiva, eretta con grossi tronchi di quercia lavorati, e scoprirono ben presto che si trattasse del Governatore.

«Buon giorno, miei illustri viaggiatori. Venite ed accomodatevi nella mia casa, sarete stanchi.» li salutò con un inchino, sbirciando l’esercito accampato alle loro spalle. «Non ci aspettavamo certo un manipolo di guerrieri così grande. Cosa succede, se posso saperlo? Il terribile suono de Corno del Sovrintendente ci ha svegliati tutti, qualche giorno fa.»

Lo seguirono in una modesta abitazione, una grande palafitta sul fiume. Il salone dove li fece accomodare era caldo e accogliente, con una grande pelliccia di orso come tappeto accanto al focolare acceso.

Fu Imrahil a parlare, poiché il Governatore si era rivolto unicamente a lui, e non certo alla donna né agli altri quattro stranieri. «Abbiamo ragione di credere che i nostri confini siano in pericolo, mio signore. Stiamo andando a portare maggiori difese dall’altra parte dell’Anduin.»

«Pericolo, dici?» Il Governatore sembrò sorpreso. «Che io sappia, niente si muove a Sud. Tranne le numerose delegazioni di Haradrim che sono passate di qui nelle ultime settimane. Non vedevo così tanti Sudroni dalla grande Guerra.»

Brethil si rizzò sulla sedia. «Come, prego?»

Il Governatore spostò lo sguardo su di lei, ancora incerto se fidarsi di una donna in divisa. «Tu chi sei, mia signora?»

«Il mio nome non ha importanza.» replicò lei, secca. «Ti basti sapere che servo il tuo stesso Re con la mia vita. Ora, hai parlato di delegazioni di Haradrim: spiegati

Legolas scambiò un’occhiata con i gemelli, da una parte divertiti per il temperamento di Brethil, che continuava a non perdere la calma nonostante i continui affronti, ma ora anche inquietati da quella notizia.

«Ebbene.» si schiarì la voce il Governatore, arrossito d’improvviso. Non era abituato a prendere ordini da una femmina – tranne che dalla madre dei suoi figli, quella despota! Si fece pensieroso, mentre contava mentalmente. «Ho conteggiato quattro grandi gruppi di Haradrim; sono giunti quasi uno alla settimana. Non sono ancora arrivati a Minas Tirith?» Non seppe dire perché la notizia sembrò scioccarli tanto, ma la donna in particolare sbiancò.

«Il motivo del loro viaggio?» domandò il Principe di Dol Amroth, il cui bel viso era ora segnato da rughe di preoccupazione.

«Sono delegazioni di pace; portano doni e vessilli della loro terra. Mi stupisce che non ne sappiate niente.»

«Quanti per gruppo?» domandò Brethil, in un soffio. Imrahil, al suo fianco, si mosse in agitazione.

«Quattrocento, cinquecento in tutto. Sono stati accolti nel migliore dei modi, ovviamente. L’inviato da Minas Tirith non poteva certo ritrovarsi i vostri ospiti senza alloggio e cibo per la notte, e rischiare che andasse a raccontarlo al Re. Che figura ci farei, poi?»

«Inviato? Quale inviato?» chiese Imrahil, giacché Brethil non riuscì a formulare un pensiero logico in quel frangente.

Tutto quello non aveva alcun senso. Minas Tirith attendeva un esercito di cinquemila lance pronto ad attaccarla, non una delegazione di Haradrim a scaglioni – che tra le altre cose non aveva mai raggiunto la Capitale. E nessun inviato era stato mandato ad accoglierli, poiché neppure il Re ne era a conoscenza. Cosa stava succedendo?

«Sì, passava di qua di quando in quando; a volte solo per domandarci se fosse giunto qualcuno, altre per accoglierli di persona. Ecco, forse ricordo anche il suo nome...» mormorò il Governatore, scavando nella sua mente. «Era un tipo magro, dal colorito di pelle un po’ abbronzato, mi è parso. E parlava fluidamente la loro lingua, per giunta, anche perché altrimenti non avremmo capito una parola.» Gli occhi sgranarono e schioccò due dita, entusiasta. «Mardil! Sì, si chiama così. Messer Mardil.»

Brethil socchiuse le labbra, mentre un brivido di paura la immobilizzò sul posto. Le ci vollero parecchi istanti prima di trovare la forza di alzarsi dalla sedia e ritrovarsi fuori in un istante, per cercare l’aria che non riusciva più a raggiungerle i polmoni. I gemelli la seguirono subito dopo, mentre il Governatore osservò stranito il comportamento confuso dei suoi ospiti.

«Thêl

«Lle tyava quel?*»

«No, non mi sento bene.» replicò duramente lei, comprimendosi le tempie in vista di un potente mal di testa. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente. «Non mi sento bene.»

Elladan le passò una mano sulla spalla, confortandola. Il fratello, invece, le si parò davanti. «Mardil non è uno dei consiglieri di Aragorn?»

La Guardia Reale annuì lentamente, cercando di sistemare tutto il caos che le si era formato in testa. «Sì, è la Prima Lancia di Ecthirion.» disse, meccanicamente.

«Vieni, sediamoci accanto al fiume e facciamo un po’ di chiarezza con calma, giacché mi sembri confusa, e noi con te.» disse Elladan, accompagnandola lungo un pontile e sedendosi sul bordo, lei in mezzo tra i fratelli.

«Dunque.» continuò Elrohir. «Sappiamo che un esercito di cinquemila Haradrim si muove per dichiarare guerra a Gondor, e ora scopriamo che invece alcuni di loro sono diretti a Minas Tirith come messaggeri di pace. Aragorn, ovviamente, non è a conoscenza di tutto questo e nessuno è ancora giunto in città.»

Brethil scosse il capo, osservando senza realmente vederli i placidi movimenti del fiume che rifletteva la luce di mezzogiorno.

«La fonte che vi ha informato dell’esercito era attendibile?»

«Sì, era un soldato di Gondor e–» Brethil interruppe le sue parole, ricordando quelle sconclusionate del messo. Chiuse nuovamente gli occhi, ripescando i frammenti della discussione con l’uomo e cercando qualcosa, qualsiasi cosa che potesse portarle chiarezza. Aveva parlato di un esercito di cinquemila teste e aveva fatto riferimento alla famiglia in pericolo prima che venisse ucciso. Socchiuse le labbra, iniziando a capire. «Era sotto minaccia.»

I gemelli si scambiarono un’occhiata, senza afferrare. Così attesero che Brethil proseguisse.

«Mi disse che la sua famiglia fosse in pericolo se non... qualcosa. Non fece in tempo a dirlo, o forse non volle dirlo perché non poteva. Fu azzittito prima che potesse parlare oltre. E poi lo vidi... Mardil, comparve proprio poco dopo che l’assassino fu scomparso.» Riaprì gli occhi, ripensando allo strano comportamento dell’uomo nelle ultime settimane. Non le era mai piaciuto, e il sentimento era palese che fosse reciproco; ma aveva notato un cambiamento nei suoi atteggiamenti, ora più sfacciati e melliflui, al limite del sopportabile. Persino Ecthirion era parso sorpreso ed irritato dalla condotta del suo sottoposto.

«Quindi, credi che non ci sia nessun esercito in marcia verso Gondor e che Mardil abbia architettato tutto questo?»

Brethil scosse il capo, insicura. «Non lo so, amici miei, non lo so.» Si mise le mani tra i corti capelli neri, disorientata e terrorizzata, poiché non sapeva cosa fare. Se ciò che stava pensando fosse stato corretto, e cioè che Mardil avesse sviato metà dell’esercito di Minas Tirith verso altri lidi, in modo da tradire il Re e far muovere gli Haradrim in segreto, allora avrebbe dovuto dare l’ordine di fare retromarcia e procedere nuovamente verso la Capitale; ma avrebbe potuto prendere quel rischio, non avendo certezze? E se il grande esercito del Sud fosse esistito davvero? Sarebbe stata la fine per Minas Tirith e non se lo sarebbe perdonata.

«Il Corno di Gondor di Boromir.» disse improvvisamente Elrohir.

Gli occhi di Brethil saettarono verso di lui, il cuore che perse più di un battito.

«Pensaci: quasi mille uomini sono in marcia lontano da Minas Tirith; Osgiliath viene attaccata e Boromir richiede aiuto suonando il Corno, sicché Aragorn non può fare altro che mandargli rinforzi.»

«Minas Tirith rimarrebbe svuotata di difese.» continuò Elladan, afferrando il pensiero del gemello. «E Mardil avrebbe via libera per fare... qualsiasi cosa abbia in mente. Eppure non abbiamo incontrato Haradrim lungo il cammino. Devono essersi nascosti bene nelle montagne, durante il nostro passaggio.»

«Esterling.» mormorò Brethil, con la gola improvvisamente secca. «I Nani ci dissero che gli Esterling si stavano muovendo con loro, lungo l’Anduin. Avranno attaccato Osgiliath da nord.»

Oh, Boromir...

Elrohir parve riflettere qualche secondo, ma fu Imrahil a parlare, comparendo in quel momento con Gimli. «Giungono gli Elfi dagli Emyn Arnen. Legolas è andato loro incontro.» Il Principe sembrò preoccupato quanto Brethil. «Mia signora, ho capito cosa stai pensando e la tua stessa idea sembra ronzarmi per la mente, ora.»

La donna si alzò, seguita dai gemelli, e guardò in direzione dell’esercito, scorgendo il cavallo bianco di Legolas galoppare a tutta velocità verso gli Elfi. «Cosa dovrei ordinare ai nostri Uomini? Cosa dovrei fare, mio signore?» gli domandò in una supplica, perché mai come allora si era sentita impotente e indecisa.

Imrahil le mise entrambe le mani sulle spalle, per darle conforto. «Brethil.» le disse, con affetto. «Anche io al tuo posto sarei spaventato, poiché la scelta da compiere è ardua. E se Aragorn avesse saputo in che posizione ti avrebbe messo, ci avrebbe pensato due volte prima di affidarti tale fardello. Ma né lui, né io, ci pentiremmo della tua decisione. Io e i miei uomini ti seguiremo, ovunque tu ci dica di andare; e dico questo perché confido nel tuo buonsenso, amica mia, poiché hai dato prova più volte di possederlo.»

Brethil avrebbe avuto da ridire in proposito, ma prese un profondo respiro, sentendo i polmoni farsi pesanti. Annuì, ancora incerta. «Ora andiamo a vedere se gli Elfi hanno notizie per noi.»

Salutarono il Governatore, ringraziandolo per le informazioni e l’ospitalità, e quello, ancora un po’ confuso, rispose loro che avrebbero potuto passare il guado del fiume in qualsiasi momento. Quando raggiunsero Legolas e il centinaio di Elfi provenienti dall’Ithilien, il figlio di Thranduil aveva già scoperto ciò che c’era da sapere.

«Hanno intercettato Aragorn sulla via di Osgiliath, che è stata attaccata dagli Esterling all’alba di due giorni fa.» disse sbrigativamente. «Tutte le difese sono sulla città in rovina, ora.»

Brethil chiuse gli occhi, cercando la forza per parlare, mentre Elladan chiedeva se sapessero come fosse la situazione lungo gli ingressi del Rammas Echor. Non vi erano passaggi attraverso il Mindolluin per far entrare gli Haradrim a Minas Tirith, sicché la cinta muraria che difendeva il Pelennor era l’unica difesa che Mardil avrebbe incontrato prima di raggiungere la capitale – e temeva che potesse facilmente superarla grazie alla sua posizione nella Cittadella.

Fu solo in quel momento che la voce seria di Brethil interruppe ogni dialogo. «Voglio cento Uomini pronti a galoppare verso i confini con l’Harad, che controllino la situazione e mi facciano rapporto il prima possibile.» ordinò Brethil, ritrovando la sua freddezza ora che sapeva cosa fare. «Il resto dell’esercito mi seguirà a Minas Tirith. Dovremo essere veloci: poche e brevi soste, per riposare i nostri corpi e quelli dei cavalli; cerchiamo un numeroso gruppo di Haradrim lungo la via. Qualcuno ha da obiettare?»

Nessuno, ovviamente, osò dire una parola in contrario. Imrahil si offrì di andare con i suoi soldati a Sud e controllare di persona la situazione; e poiché Brethil si fidava ciecamente di lui, più che di qualsiasi altro soldato, accettò senza ulteriori discussioni.

«Dunque, le nostre strade si dividono qui, ancora una volta.» le disse il Principe di Dol Amroth, abbracciandola fraternamente. «Spero di rivederti presto e in circostanze migliori di queste, amica mia. E con mio nipote al tuo fianco.»

Brethil ricambiò l’abbraccio. «Lo spero anche io, mio signore. Io e Boromir attenderemo il tuo ritorno con ansia.»

Non indugiarono oltre nei saluti e negli auguri di buona fortuna. Il tempo stringeva e non erano neppure sicuri che il poco che avessero a disposizione sarebbe bastato. I gemelli e Legolas si misero a capo degli Elfi, non prima di aver rassicurato Brethil che stesse facendo la cosa migliore. Lei, d’altro canto, sperò vivamente che così fosse. Spronò Nerian verso i suoi uomini e si rese conto di essere formalmente sola, ora che Imrahil l’aveva lasciata; eppure, negli sguardi dei suoi soldati, non vide dubbi ed esitazioni nei suoi confronti, ma solo la grande determinazione di difendere il proprio popolo e farla pagare al traditore.

Brethil si ritrovò a stringere i denti con forza.

Mardil sarebbe morto.

E il piacere di ucciderlo sarebbe stato tutto suo.

 

 

 

 

 

*

*Lle tyava quel? – ti senti bene?

 

Bene.

È successo, alla fine.

Tutti i nodi sono giunti al pettine.

E io tremo. D:

Che ve ne pare?

*scappa*

Alla settimana prossima!

Con affetto,

Marta.

 

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Capitolo 17
*** 17. ***


Buona domenica!

Perdonate il giorno di ritardo,  visto che solitamente aggiorno di sabato, ma questo capitolo ha subito un po’ di modifiche nelle ultime ore, sebbene fosse già scritto eoni fa, e ieri non era ancora pronto.

C’era una parte che continuava a non convincermi troppo, spero di aver fatto un buon lavoro!

E grazie, come sempre.

Non smetterò mai di ringraziarvi per il vostro sostegno, siete adorabili. *^*

Un abbraccio e buona lettura!
Marta.

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

17.

 

23 Settembre 3019 T. E.

 

Non vi fu riposo, in quei giorni, per i Nani di Erebor che lavoravano alle difese di Minas Tirith. Erano trascorsi tre giorni da quando avevano spedito la richiesta di aiuto a Rohan e, piuttosto che avvistare l’esercito dei Signori dei Cavalli, continuavano a vedere le alte colonne di fumo che si sollevavano verso Osgiliath. Coloro che non potevano combattere erano giunti al riparo della Città Bianca il giorno prima e aveva subito notato l’assenza della famiglia di Trán. Ne fu intimamente orgoglioso, ma la tristezza e l’ansia negli occhi della donna che aveva scelto di corteggiare, lo fece desistere dal gioirne troppo. Temeva per la loro vita così come lui per quella dei suoi compagni e amici.

Interruppe un attimo il suo lavoro alla forgia, spostando lo sguardo sulla Nana, concentrata e sudata. Thorin, nonostante tutto, sentì il cuore scaldarsi piacevolmente mentre si beava della sua vista. Non avevano ancora avuto modo di stare da soli, da quando avevano confessato di provare qualcosa, l’uno per l’altra; ma entrambi erano consapevoli che i brevi istanti in cui i loro occhi si incatenavano erano unicamente per loro.

E lo erano anche in quel momento, quando Trán, sentendosi osservata, ricambiò il suo sguardo, arrossendo. Thorin si chiese se nemmeno il tempo e l’abitudine le avrebbero impedito di imbarazzarsi alle sue attenzioni. Era evidente che non fosse abituata, ma sperò che non cambiasse. Era oltremodo deliziosa e gli ricordava costantemente che il cuore della Nana appartenesse a lui e lui soltanto.

Il flusso dei suoi pensieri venne bruscamente interrotto dall’arrivo di un soldato, entusiasta. «Miei signori! Rohan è in vista!» esclamò, sorridente. I Nani, nell’udire quelle parole, abbandonarono momentaneamente i loro posti di lavoro, correndo verso le mura per poter scorgere la macchia scura dell’esercito, ancora troppo lontana che pareva ferma. Thorin si lasciò scappare un sorriso di sollievo e si chiese se la vittoria fosse ancora possibile.

«Speriamo che non arrivino troppo tardi.» fece Kili, poggiando le braccia contro la balaustra in pietra.

«Gli Esterling sono ancora accampati attorno Osgiliath.» fece Káel, aguzzando la vista. «Gondor e la nostra gente sembrano ancora in piedi.»

Thorin si voltò, nel sentire una presa forte alla mano, e incontrò gli occhi azzurri di Trán, che si spostarono dai Rohirrim alla città in rovina. Ricambiò la stretta, intrecciando le loro dita ed infondendole un po’ di quel coraggio che, in quell’ultimo periodo, le stava mancando. «Andrà tutto bene, vedrai.»

Lei lo guardò, finalmente, e annuì. «Riesco a vedere la speranza, ora. E la stringo tra le mani.»

Quelle parole ebbero il potere di fargli saltare qualche battito cardiaco e non riuscì ad attendere che il resto dei Nani tornasse alla fucina, per accarezzarle il viso con i polpastrelli ruvidi. Si chinò per baciarle la fronte e la sentì rabbrividire quando spostò la mano libera sulla sua nuca, mentre il pollice le sfiorava il lobo dell’orecchio. «Dove è finito il tuo immancabile pessimismo?»

«Ne senti la mancanza?»

Thorin rise piano, scuotendo il capo. «No. Ma mi lusinga che sia stato io ad averlo fatto sparire.» La baciò nuovamente, questa volta sulla tempia. Trán chiuse gli occhi, assaporando la morbidezza delle sue labbra e l’asprezza della barba che le pungeva la pelle; e si chiese come avesse fatto, in tutti quegli anni, ad aver potuto vivere senza l’affetto di quel Nano che le aveva irrimediabilmente conquistato anima e cuore.

«Torneremo ad Erebor.» continuò Thorin, sfiorandole una delle trecce che lui stesso le aveva fatto. «E lo faremo insieme. Te lo prometto.»

«E noi possiamo venire con voi?» domandò Kili, birbante e sveglio abbastanza da scappare per tempo, prima che la mano pesante dello zio gli facesse girare la testa tre volte sul collo, per averlo interrotto. Trán rise e tornarono a lavorare, la sua mano che si sciolse da quella del suo Re solo quando raggiunsero la fucina.

«Mi domando come se la stia cavando dama Brethil.» fece Fili, pensieroso. «Insomma, immagino che sappia fare il suo lavoro, ma... quei due gemelli di Imladris non mi piacciono per niente.»

«Udite, udite!» esclamò il fratello, spintonandolo amichevolmente. «Parla la gelosia!»

Fili schioccò sdegnato la lingua, incrociando le braccia. «Ebbene, hai visto in che modo l’hanno abbracciata? Insomma, dove si è mai visto un Elfo che abbraccia qualcuno? Spero tanto che il Sovrintendente li rimetta in riga, una volta che siano tornati.»

«Mi duole ricordarti che il Sovrintendente ama la tua adorata Prima Guardia. E pare che la cosa sia reciproca, fratellone.»

Il Nano biondo sbuffò, agitando le treccine dei baffi. «Beh, sempre meglio lui che uno di quei due... o peggio ancora, entrambi!»

«Fili!» tuonò Thorin.

Il nipote scoppiò a ridere, nascondendo i suoi timori con la sfrontatezza. «Suvvia, zio, scherzavo!»

«Mi rincresce dirtelo, amico–» gli sussurrò Káel, con un delizioso sorriso sulle labbra. «–ma come giullare non sei il massimo.»

Le buone speranze di Trán vacillarono un poco nel sentir nominare la donna e ricadde nel mutismo. Lei sarebbe anche potuta tornare a casa al fianco di Thorin, ma Brethil era lontana da loro, lontana dall’Uomo che amava e che avrebbe potuto proteggerla. Sperò solo che Legolas e chiunque l’accompagnasse tenesse un occhio aperto su di lei.

 

 

 

Il terzo attacco che avevano dovuto respingere, da quando gli Esterling avevano osato spingersi oltre le linee di difesa, era stato anche più fiacco dei precedenti. Gli arcieri dai volti nascosti avevano fatto cascare una pioggia di dardi infuocati e bagnati nella pece, dando l’ennesimo grattacapo all’esercito di Gondor che doveva spegnere i nuovi e numerosi incendi; ma sebbene qualcuno rimase ferito e alcuni purtroppo caddero, i danni alla città non furono molti, essendo interamente in pietra.

Aragorn aveva capito che stessero prendendo tempo, che avessero intenzione di portarli all’esasperazione dell’attesa, prima del colpo finale e mortale. Ma quell’idea stava lentamente svanendo e nuovi dubbi sorsero nella sua mente. Il duplice pericolo dell’esercito del Sud di Haradrim e quello degli Esterling giungeva contemporaneamente e non poteva essere solo una coincidenza. E se il loro intento non fosse solo quello di stancarli psicologicamente? E se i due popoli di Uomini si fossero alleati contro il loro comune nemico?

Il pugno che tirò ad un innocente muro, che ebbe la sfortuna di trovarsi nei paraggi, gli ferì le nocche, ma non se ne curò. Strinse gli occhi, passandosi una mano tra i capelli sudati, e si guardò intorno. Osgiliath era circondata. Non avevano alcuna possibilità di ritirarsi a Minas Tirith, né di far trasportare i feriti alle Case di Guarigione della Capitale. Uno in particolare aveva urgente bisogno di cure e temeva che quell’attesa gli sarebbe costata la vita, già appesa ad un filo.

Boromir, che sedeva con Éomer a poca distanza dal suo Re, alzò il capo, udendo il gemito di frustrazione dell’amico. Lasciò la cura della sua spada, che stava affilando e lucidando, per avvicinarsi ad Aragorn. Gli posò gentilmente una mano sulla spalla, stringendogliela per infondergli forza. «Sono passati tre giorni da quando abbiamo acceso i Fuochi di Amon Dîn. Rohan giungerà presto, lo sai. Rispose già alle nostre richieste d’aiuto, lo farà nuovamente; soprattutto ora che il suo sovrano è con noi.»

Il Re spostò gli occhi grigi in quelli chiari e carichi di rabbia repressa dell’amico. «Non dubito dell’aiuto che ci daranno e confido sulle nostre forze per sconfiggerli. Ma mi preoccupo per Minas Tirith. E per Brethil.»

Non ci fu niente che poté impedire al Sovrintendente di stringere i denti al pensiero della donna in marcia verso morte certa. Loro avrebbero potuto salvarsi, ma lei? E gli Uomini che la seguivano? Suo zio e suo cugino? Quella di Aragorn era stata un’idea folle, ma forse anche l’unica possibilità tra le poche che avevano. Non avrebbe potuto continuare a biasimarlo a lungo.

Così, gli domandò quali fossero i suoi pensieri, evitando lo spinoso argomento riguardante la donna, e Aragorn gli rivelò i suoi timori e le sue idee. Anche lui aveva pensato che le coincidenze non esistessero, o almeno non così eclatanti, e avere la conferma dall’amico lo turbò più del dovuto. «Cosa comandi, mio Re?»

Egli non rispose subito. Si rizzò sulla schiena, inspirando l’aria fresca di quel pomeriggio di fine settembre. Una strategia stava lentamente prendendo forma ed era altrettanto suicida come quella di marciare verso il Morannon, solo qualche mese prima. Ma erano spalle al muro e l’unica speranza che avevano era quella di tentare. E finché lui e i suoi Uomini avessero avuto forza nei muscoli e sangue nelle vene, non si sarebbero arresi.

Con una mano sul braccio di Boromir, i due si avviarono verso Éomer, che ora discuteva con Dáin e Glóin e che appena li vide si alzò dalla sua postazione, in attesa.

«Parleremo.» disse Aragorn, assaggiando il significato di quella singola parola per qualche secondo e studiando le reazioni perplesse degli altri. «Chiederò udienza con il loro Comandante, poiché è l’ultima cosa che si aspettano.»

«Sei per caso impazzito?» esclamò Boromir. «Quell’animale ha tentato di privarmi il collo della mia testa!»

«Giocheremo con le loro regole: prenderemo tempo, poiché è ciò che loro stessi stanno facendo. Non mi è ancora chiaro cosa stiano attendendo, ma non possiamo stare rinchiusi in queste mura mentre la disperazione e la paura s’insinua nei nostri animi.» Aragorn strinse due mani sul viso di Boromir e lo obbligò a volgersi verso i soldati. «Guardali, amico mio. Guarda i loro volti e dimmi cosa vedi, se non disperazione e rassegnazione? Gli Elfi mi chiamano Estel per una ragione, e io voglio dare loro speranza. Non ho intenzione di permettere a degli invasori di dettare verbo nella nostra terra.»

«E cosa credi di fare andando a parlamentare?» domandò Éomer, anche lui scettico. «Quelli sono pronti ad abbatterti appena ti vedranno varcare i cancelli.»

Aragorn sorrise, con un luccichio di entusiasmo negli occhi. «Non se ci crederanno parte del loro esercito.»

Dáin si ficcò le mani sui fianchi e fu il primo a parlare. «Ah! Se non fossi alto la metà e grasso il doppio sarei il primo a farlo!» scherzò, ghignando sotto i folti baffi ingrigiti.

«Fammi capire bene.» disse lentamente Boromir, sperando di aver inteso male. «Stai proponendo di vestirci con gli abiti dei loro caduti e... raggiungere gli Esterling come se niente fosse? Non credi che si accorgeranno dell’inganno?»

«No, se useremo un pizzico di furbizia e avremo un po’ di fortuna.»

Il Sovrintendente brontolò. «Parli come Gandalf, spero te ne renda conto.»

«Ahimè, quanto vorrei che egli fosse qui a consigliarci un’idea migliore!» Il viso stanco di Aragorn si distese nuovamente. «Ma siamo soli, ora, e vorrei che ascoltaste il mio piano e che mi aiutate a raffinarlo. È l’ultima cosa che si aspettano da noi.»

«Ebbene, illuminaci.» replicò Boromir, incrociando le braccia al petto.

Il Dúnadan illustrò la sua idea e lentamente i suoi interlocutori iniziarono ad appoggiarlo; era un piano assurdo, ma aveva senso. Eppure, nessuno di loro appoggiò la sua ferma decisione di andare da solo. Boromir per primo gli chiese se fosse impazzito del tutto.

«Mi stai chiedendo di lasciar andare nella tana del lupo il mio Re?» esclamò rabbioso, alzandosi e puntandogli uno sguardo furente in viso. «Dopo tutto quello che abbiamo vissuto per metterti la corona sul capo, vuoi lanciarti verso la morte?»

«È pericoloso e non metterò a rischio la vita di qualcun altro, se non la mia.»

«E non pensi al tuo popolo che rimarrebbe nuovamente senza il suo sovrano? O credi che gli anni trascorsi sotto la reggenza dei Sovrintendenti ci abbia allenato abbastanza da non farci accusare il colpo?»

«Lo farò volentieri, proprio per il nostro popolo, Boromir. Non sono un codardo, né mi ritirerò dalla prima linea, se si tratta di combattere per Gondor, per le nostre famiglie. E non cambierò idea, neppure se dovessi minacciarmi con la tua lama. Il mio è un ordine e non si discute.»

Dopo un lungo istante di silenzio, in cui pareva che il resto degli interlocutori avesse trattenuto il fiato per l’intero litigio, Boromir parlò nuovamente, con preoccupante calma. «Vuoi travestirti da Esterling? Ebbene, fallo. Ma verrò con te. Questo non si discute.»

«No, Boromir, non posso permetterlo. Se io dovessi cadere–»

«–io cadrò con te. Tua moglie è la Regina e non lascerà un trono vacante, né mio fratello non sarà in grado di ricoprire il ruolo di Sovrintendente.»

Non spesero altre parole, perché capirono che nessuno dei due avrebbe ritirato le proprie decisioni. Così Aragorn annuì e non trascorse più di un’ora quando iniziarono a rovistare tra i cadaveri degli Esterling, cambiandosi d’armatura e coprendosi il volto con quegli elmi e veli dorati e neri.

«È la cosa più stupida e disgustosa che abbia mai fatto in vita mia.» borbottò Boromir, sistemandosi una corazza ammaccata e sporca di sangue. «Se questi poveri disgraziati non avessero tentato di uccidermi, proverei anche vergogna.»

Dáin, che insieme ad Éomer, sarebbe rimasto ad Osgiliath per comandare il resto dell’esercito, trovò la forza di riderne. «Beh, converrai con me che non gli servirà più tutto quell’armamentario.» Diede un leggero calcio al cadavere, che giaceva pancia in terra, per rivoltarlo e guardarlo in viso. Aveva gli occhi sbarrati e una brutta e profonda ferita al capo, ma era stato ucciso da una lama che gli aveva perforato un polmone.

Aragorn osservò il deceduto e sospirò. «Quello era un ragazzo che probabilmente non superava i venti inverni. E i genitori aspetteranno invano il suo ritorno. Non vi è onore in ciò che ha fatto, e in ciò che stiamo facendo noi ora.»

«Siamo in guerra, Re Elessar.» replicò Dáin, che parve arrossire per quel velato rimprovero. «Tutti noi siamo a conoscenza dei rischi che corriamo; anche il ragazzo e la sua famiglia. Magari lui non voleva partire e ha dovuto arruolarsi nell’esercito per forza; o magari era un folle sanguinario che meritava di morire. Non lo sapremo mai. Ebbene, ora ciò che più mi importa è che io, voi e la mia gente sia viva. Non mi interessa omaggiare il nemico, né il suo ricordo. Neppure quando tutto questo sarà finito, perché sarò più occupato a pregare per l’anima dei miei caduti, piuttosto che per quella di chi li ha uccisi.»

Aragorn annuì, comprendendo la rabbia nelle parole del Nano, e nessuno di loro osò aggiungere altro. Lui e Boromir si scambiarono una veloce occhiata e furono pronti a muoversi poco dopo. Al chiaro di luna e vestiti come degli Esterling, nessuno avrebbe potuto distinguerli.

«Ricorda, Boromir.» fece il Dúnadan, prima di lasciare la città in rovina. «Lascia parlare me e sii disinvolto. Siamo soldati che gli Uomini di Gondor hanno deciso di lasciar andare, dopo aver ucciso il resto dei prigionieri, perché vuole mandare loro un messaggio. Cercheremo di avvicinarci al Comandante, che sembra avere un certo interesse in te, a quanto pare.» L’altro grugnì qualcosa, ma il Re continuò. «Non lasciarti prendere dalla rabbia. Dobbiamo invece diffondere il seme del dubbio e la paura. Gli confideremo di aver udito i soldati parlare di un immenso esercito proveniente da Rohan, di gran lunga superiore al loro, che sarà su di noi entro la fine della giornata. Speriamo solo di riuscire a carpire le loro intenzioni.»

«Non mi è ancora chiaro come faremo a scappare, quando i Rohirrim giungeranno. Rischiamo di essere uccisi, scambiati per Esterling.» fece notare il Sovrintendente.

«Di questo non mi preoccuperei. Sgattaioleremo quando Rohan sarà quasi su di noi e ci libereremo di queste corazze e degli elmi. La cotta di maglia che indossiamo sarà sufficiente a proteggerci. O almeno, ce la faremo bastare.»

Boromir sospirò, rassegnato. «È davvero la cosa più stupida che abbia mai fatto.»

«E tu sei il folle che mi segue! Andiamo, ora. Il tempo ci è nemico.»

Con un’ultima occhiata ai rimasti, Éomer fece un cenno ad Erkenbrand e Elfhelm di far aprire il malandato cancello della città e i fasulli Esterling corsero con tutte le poche forze di cui disponevano verso l’accampamento al di fuori le mura.

«Buona fortuna, amici miei.» sussurrò il Re di Rohan, chinando il capo e volgendo loro le spalle, per discutere dei nuovi piani di difesa con i suoi soldati e i Nani.

 

Aragorn si buttò a terra, stremato, e Boromir lo seguì, respirando con fatica. Avevano corso con tutto li fiato di cui disponevano, le mani alzate in segno di pace, e alcuni Esterling, che li avevano avvistati da parecchio, gli si avvicinarono, aiutandoli a rimettersi in piedi.

«Yes ts’ankanum yem khosel vor Arrajnordi. Da hratap.*» disse il Re di Gondor nella loro lingua. Boromir sbarrò gli occhi per la sorpresa, ignorando completamente che potesse conoscere il linguaggio degli Esterling. L’altro non poté dirgli che, durante i suoi lunghi anni di vagabondaggio come Dúnadan, avesse avuto modo di impararne più d’una, oltre che l’Elfico.

Un soldato annuì, conducendoli dal loro Comandante, che trovarono al di fuori della sua regale tenda rossa e dorata. Alzò lo sguardo scuro su di loro e il Sovrintendente dovette far ricorso a tutto il suo poco autocontrollo, pur di non saltargli alla gola e strangolarlo con le sue stesse mani. Si chinò, invece, al suo cospetto, imitando Aragorn, mentre quello sollevò un sopracciglio, con perplessità.

«E voi da dove giungete, così conciati?» disse Azdor, spostando l’attenzione sui nuovi arrivati e studiandoli con cautela; si soffermò su Boromir, che mantenne ostinatamente gli occhi rivolti verso la terra umida, nascondendo gli occhi irati sotto le folte ciglia brune.

«Noi e molti altri eravamo ostaggi dei... Gondoriani.» rispose Aragorn, tenendo anch’esso lo sguardo basso e marcando l’ultima parola con il disprezzo che aveva sentito nelle loro voci, solo qualche ora fa. «Siamo gli unici sopravvissuti.»

«Lo vedo.» mormorò il Comandante, continuando a scrutarli. «Mi sorprende vedervi qui.»

«Siamo stati rilasciati, mio signore.»

«E per quale motivo avrebbero dovuto farlo?»

«Sono stupidi, mio signore. E molli come il burro al sole.»

Con una risata, Azdor gli si avvicinò, sollevandogli il mento e costringendolo a guardarlo. Gli occhi neri dell’Esterling parevano due buchi scavati in profondità e mal celavano la sua cattiveria. Tuttavia continuò a sorridere sbiecamente. «Non ne dubito. Mi è stato detto che l’Elessar sia un Uomo privo di spina dorsale che si circonda di donne per proteggersi.»

Boromir strinse i pugni, in un gesto che non passò inosservato, e pensò che, se avesse saggiato la lama di Brethil quel cane non avrebbe potuto ridere ancora per molto di lei.

«Immagino che la tua stizza sia di disgusto, amico.» commentò Azdor, osservando ora l’altro soldato.

Il Capitano di Gondor represse un sospiro di collera e parlò con voce tremendamente bassa. «Pensavo, mio signore, che vorrei personalmente mettere in riga le donne di cui parli e ricordare loro quale sia il proprio posto nella civiltà.»

Azdor sorrise apertamente, una fossetta sinistra comparve ai lati delle labbra carnose. Aragorn ghignò, più per il sollievo di quella risposta, che per compiacere il Comandante; quello, d’altro canto, gli diede un buffetto sul viso, riprendendo il discorso.

«Dici di avere notizie urgenti. Parla.»

Il Ramingo gli raccontò di ciò che avevano udito durante le loro presunte ore di prigionia. «Ci sbeffeggiavano, dicendo che l’ora della nostra rovina sarebbe giunta presto. Il capo dei Gondoriani ci ha rilasciati per avvisarti: per dirti di arrenderti all’evidente sconfitta.»

Come a sottolineare le parole di Aragorn, un soldato levò la voce, gridando di guardare il polverone che si alzava verso Ovest. «Rohan arriva!»

Gli Uomini di Gondor sorrisero sotto gli elmi, sentendo la speranza divampare nuovamente nei loro animi. Ma furono delusi dalla reazione del nemico, poiché non vi fu la paura che avevano auspicato.

Azdor, infatti, scoppiò a ridere e sputò in terra. «Che i Signori dei Cavalli vengano! Li accoglieremo nel migliore dei modi.» Si avvicinò a Boromir, afferrandolo per il collo e levandogli l’elmo; lo colpì il viso con un poderoso pugno, che gli annebbiò la vista per parecchi secondi. «Mi credevate tanto stupido, Gondoriani? Neppure quest’armatura potrebbe nascondere l’odio che trasuda dalla tua pelle, né io dimentico facilmente gli occhi di chi voglio vedere morto.»

Aragorn sentì il proprio cuore mancare qualche battito e sbiancò; il sorriso vittorioso gli si spense immediatamente. Incontrò lo sguardo divertito del Comandante degli Esterling e vide la sua sete di sangue iniettargli gli occhi.

«La mia fonte mi aveva messo in guardia su quanto il Re di Gondor fosse stupido.» disse con lentezza, mentre trascinava con la forza di una sola mano il corpo indebolito del Sovrintendente. «Solo, devo fargli i complimenti, poiché ha superato di gran lunga le mie aspettative.»

Aragorn si tolse l’elmo, rivelando il suo volto stanco e mortalmente serio, e si alzò con dignità. «Complimenti a te per la tua perspicacia, Esterling

«Suvvia, sei venuto qui per civettare o per combattere? Che cosa vuole realmente il tuo Re?»

Il Ramingo fu almeno sollevato dal fatto che non avesse indovinato chi fossero i due Gondoriani che aveva di fronte. «Vuole darti la possibilità di fare la scelta migliore per la tua gente. Rohan sta arrivando e sarà devastante come un’onda sullo scoglio. O avete dimenticato cosa accadde proprio in questi campi solo qualche mese fa?»

«No, non lo dimentico; ed infatti, eccomi qui, a reclamare vendetta.» Il Comandante sorrise. «Con la differenza, Gondoriano, che lo scoglio sono io.»

«Chi è la tua fonte?»

«Bada bene!» esclamò l’altro, colpendolo con un calcio all’addome, che lo spedì in ginocchio. «Le domande le pongo io. Ma dato che la vostra piccola visita mi ha rallegrato, ti dirò questo: il tuo Re è davvero talmente stupido da non rendersi conto delle persone di cui si circonda.»

Aragorn respirò a fatica, cercando di riprendere fiato dopo il colpo, e le parole di Éomer gli risuonarono in mente.

Mardil... quel dannato cane.

«La tua fine e quella del tuo amichetto è già scritta.» continuò Azdor. «Non lascerete questo accampamento vivi. E neppure Minas Tirith rimarrà in piedi così a lungo. Essi saranno ormai quasi arrivati.»

I due Uomini di Gondor si scambiarono un’occhiata di terrore. Minas Tirith era in pericolo? Chi era quasi arrivato?

In sottofondo, il resto degli Esterling stava esultando, battendo i piedi per terra e le lance sugli scudi, e gridando Mahvan! Mahvan!** per tutto l’accampamento.

Azdor alzò una mano per zittirli e il silenzio tornò a regnare. «Ma prima di uccidervi, ho in mente qualcosa. Un banchetto di benvenuto per i nostri amici di Rohan. E uno spettacolino per te, così... per ammazzare il tempo. Patrastel hank’yeri!***»

Nessuno di loro capì cosa stesse per succedere, finché non lo videro con i loro occhi. Cinque Uomini si prepararono ad erigere un palo, conficcandolo con forza nel terreno e fissando una corda sull’estremità che volgeva verso il cielo. Lì Boromir venne legato per i piedi e issato a testa in giù; fu Azdor in persona a ferirgli la gola, con un sorriso di sadico piacere. A nulla servì agitarsi per liberarsi, poiché ad ogni sua mossa avventata, un soldato era pronto a colpirlo con sempre più forza, finché neppure la caparbietà di Boromir ebbe più la voglia di resistere. Aragorn fu  fatto inginocchiare davanti all’amico, affinché potesse guardarlo morire dissanguato; passò inosservato, però, il suo tentativo di liberarsi i polsi dalle strette corde che gli legavano le mani dietro la schiena. Non avrebbe permesso che Boromir morisse in quel modo pietoso, appeso come un pollo prima di uno spiedo; no, non lo avrebbe permesso.

Lui lo aveva trascinato con sé, e lui avrebbe salvato il salvabile.

Boromir gli rifilò l’ennesima occhiata, ma questa volta fu di rassegnata sconfitta. «Ti promisi che ti avrei seguito ovunque, anche verso la morte mio Re.» gli sussurrò. «Non mi pento della mia parola, né tu devi pentirti della tua scelta.»

«Mi dispiace di averti trascinato in questa follia.» mormorò Aragorn in un sospiro.

«Sciocchezze. Sono felice che sia con me, amico mio.»

Il Re sorrise, tristemente, e Boromir chiuse gli occhi, chiedendosi cosa sarebbe stato di lui tra qualche anno, se fosse sopravvissuto a quell’ennesima dura prova.

Brethil...

L’idea che non l’avrebbe più vista gli serrò dolorosamente la gola, più della consapevolezza che sarebbe morto lentamente.

Quanto avrebbe voluto poterla abbracciare un’ultima volta, affondare il naso tra i suoi capelli neri e disordinati, inspirare il suo profumo e baciare ogni centimetro della sua pelle martoriata dalle cicatrici.

Non aveva mai pregato in vita sua, poiché non credeva nei Valar; ma quel giorno, quando Azdor passò lentamente con la punta di un pugnale a bucare il punto più delicato della sua gola e sentì il caldo sangue fluire lentamente dalla ferita, Boromir pregò.

E chiese ad Eru, o chi per lui, di proteggere l’unica donna che avesse mai amato e, ne era sicuro, avrebbe amato anche dopo la morte.

Pregò che tornasse a casa sana e salva e che si rifacesse una vita, lontano dal dolore e dalle guerre, magari tra le foreste dell’Ithilien con il giovane Elegost che pareva così tanto innamorato di lei.

Pregò che i gemelli di Imladris le rimanessero accanto, finché la morte non si fosse portata via anche lei.

E pregò che continuasse a sorridere e che vivesse felice, anche per lui.

 

 

 

 

Non mancava che un giorno di marcia alle mura di Minas Tirith. Avevano superato il Rammas Echor con una facilità imbarazzante, a ben pensarci. Mardil, del resto, era ben conosciuto soprattutto alla Porta Sud, che attraversava spesso e volentieri, e le sentinelle di guardia al cancello l’avevano accolto come sempre con un saluto e un inchino. Solo che, quel giorno, nessuno di loro fece in tempo a raddrizzare nuovamente la schiena. I dieci Haradrim che lo avevano accompagnato in avanscoperta – e che avevano scambiato per una delegazione di pace – li avevano uccisi prima ancora che potessero farlo.

E ora che il penultimo ostacolo era stato superato, avevano atteso il resto delle silenziose truppe, prima di proseguire verso l’ultima tappa del viaggio. Visti gli attacchi degli Esterling, Minas Tirith aveva sicuramente messo il coprifuoco a tutti gli abitanti del Pelennor e della Città Bianca, cosicché quei campi fossero pressoché deserti e potessero muoversi liberamente senza destare sospetti. Ma Mardil era anche un Uomo altamente furbo e con una maniacale attenzione ai dettagli, e non volle correre il rischio che qualcuno li scoprisse prima che raggiungessero il loro obiettivo e svelasse la loro posizione. Così spiegò ai suoi Haradrim che avrebbero proseguito lungo il limitare della catena montuosa, rifugiandosi dalla vista delle vedette della Città di Pietra lungo i sali e scendi dei pendii e la fitta vegetazione rigogliosa.

Si erano fermati lì per il resto della giornata, nascosti tra gli abeti del Mindolluin, in attesa del calare delle tenebre, quando si sarebbero mossi; non accesero fuochi, né parlarono. Il segreto di tutta la complicata missione, che Mardil aveva pianificato da tempo con Azdor, si basava sulla discrezione e non avrebbe potuto rischiare di rovinare tutto proprio durante l’ultima parte del piano.

Ghignò, compiaciuto della sua mente. Nessuno avrebbe sospettato di lui, fintanto che non fosse comparso a calare la distruzione sul regno degli Uomini. Persino Ecthirion, che aveva mostrato qualche perplessità sul comportamento del suo ultimo periodo aveva creduto alla mole infinita di bugie che gli aveva rifilato per coprire le sue scappatelle. Era sempre stato silenzioso e fedele, eppure nessuno pareva dargli ciò che meritava: il rispetto. In tutti quegli anni, Gondor non era mai stata veramente la sua casa; sebbene vi fosse cresciuto per la maggior parte della vita, nel suo sangue scorreva quello dell’Harad, e tutti continuavano a ricordarglielo: lo guardavano con diffidenza, per il colorito troppo scuro della sua pelle, per quegli occhi neri e penetranti che parevano pece; aveva udito le malelingue alle sue spalle, che lo additavano come strano e diverso, e che non si erano attenuate neppure quando Ecthirion lo aveva nominato sua Prima Lancia. Nessuno di loro, però, ricordava il nome della sua buona famiglia, che tanto tempo addietro essi stesso avevano ucciso senza pietà.

Poi la Guerra dell’Anello era giunta e con quella la promessa di una vita migliore, tra la sua gente che non lo avrebbe ripudiato, ma anzi!, lo avrebbe nominato il proprio capo da seguire. Perché lui avrebbe sconfitto Gondor con l’astuzia, più che con la forza; e l’occasione era giunta proprio con Azdor, il nuovo Comandante degli Esterling che aveva sostituito quello precedente, così arrendevole di fronte alle richieste di Re Elessar, mentre egli era così assetato di vendetta per la sua gente uccisa dagli Uomini dell’Ovest.

Un comune nemico e il profondo odio che entrambi avevano covato per anni era stato il loro punto d’incontro.

Il tempo dei giochi era ormai finito.

 

Eppure Ecthirion, a differenza di ciò che credeva Mardil, non si era bevuto l’ultima ed eclatante scusa per lasciare Minas Tirith alla volta di chissà quali affari. Aveva preferito sottostare al suo gioco almeno all’apparenza e, appena la sua Prima Lancia era sparita oltre il Grande Cancello in costruzione, aveva sellato velocemente il suo cavallo, preso qualche scorta di viveri e aveva seguito le sue tracce a distanza, affinché non si accorgesse di lui.

Non aveva avvisato nessuno, nella Cittadella, sulla sua partenza. Sapeva che il suo posto, in mancanza del Re e del Sovrintendente fosse accanto alla Regina, per proteggere la città e prendere il comando delle armate nel caso ve ne fosse stato il bisogno, ma quella era una faccenda che voleva risolvere da solo, senza l’intervento di nessuno. Si trattava, del resto, della sua Prima Lancia, dell’uomo di cui avrebbe dovuto fidarsi ciecamente, e che invece gli aveva dato prova di tiri mancini e di numerosi segreti.

E ne ebbe la terrificante prova quando raggiunse il Cancello Sud del Rammas Echor, tristemente silenzioso. L’odore della morte era giunta fino alle sue narici prima ancora che si avvicinasse alla muraglia difensiva e guardò con orrore i cadaveri circondati da mosche e beccati da qualche uccello in cerca di cibo. Una rabbia cieca gli annebbiò la vista per qualche secondo e strinse con così forza le briglie del suo cavallo che, se non fosse stato per i guanti in pelle che indossava, si sarebbe ferito con le sue corte unghie.

Guardò il terreno, cercando possibili tracce da seguire per individuare il nemico che si era introdotto entro i confini del Rammas Echor e per un attimo, un solo attimo, si dispiacque per il fatto che la Sfregiata non fosse con lui per aiutarlo. Non era un Ramingo, non era abituato a leggere ciò che la terra aveva da raccontargli; ma non fu difficile, infine, riuscire a scorgere il pesante passaggio di qualche migliaio di piedi, diretti verso la vegetazione delle pendici montuose.

In quel momento, l’unica cosa che riuscì a fare fu di calciare con forza i talloni contro il ventre del suo destriero e di galoppare fino allo sfinimento. Sapeva solo che, qualsiasi cosa si muovesse silenziosa e letale, era diretta a Minas Tirith, ormai priva di una difesa adeguata, e doveva raggiungerla in tempo, prima che fosse troppo tardi. Ebbe così la possibilità di ricomporre tutti gli enigmi che si erano sommati in quegli ultimi giorni e si maledisse per non averlo capito prima. L’attacco degli Esterling ad Osgiliath e la notizia di un esercito proveniente dal Sud erano giunte quasi contemporaneamente, con un tempismo pessimo – o perfetto, secondo quelli che erano gli evidenti piani del Nemico. Si domandò, addirittura, se l’esercito di cinquemila lance esistesse realmente, o se fosse stato una semplice scusa per sguarnire Minas Tirith in vista dell’attacco a sorpresa. Mardil era stato così accorto da far nascondere i suoi alleati, durante il passaggio dell’esercito comandato dalla Sfregiata, e lui si sentì ancora una volta così stupido ed impotente per non averlo impedito prima.

E come se anche il suo cavallo avesse capito l’urgenza di quella corsa, non rallentò il galoppo neppure un istante, volando sul Pelennor come una freccia verso il suo obiettivo.

 

 

 

*

 

* Vorrei parlare con il Comandante. È urgente.

** A morte!

*** Preparate i pali!

 

Una piccola nota sulla lingua utilizzata: è armeno. Il Professore, che io sappia, non ha scritto qualcosa sul linguaggio degli Esterling, quindi ho dovuto arrangiarmi. Ho provato diverse lingue, prima di scegliere l’armeno; alla fine era quella che più mi piaceva come suono e che secondo me potrebbe rispecchiare il loro linguaggio. Ad ogni modo, ringraziate Google Translator per qualsiasi errore. :D

E dopo questo, lascio a voi il parere. Pomodori marci e uova scadute sono gratuitamente a vostra disposizione da lanciare ad Aragorn e alle sue geniali idee. :P

A presto! *^*

Marta.

 

 

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Capitolo 18
*** 18. ***


*entra in punta di piedi*

C’è ancora qualcuno, là fuori?

Chiedo infinitamente scusa per il tremendo ritardo e per non aver ancora risposto alle recensioni – cosa che rimedierò al più presto oggi; ma la tesi mi sta deliziando et uccidendo, e come se non bastasse la press per La Desolazione di Smaug è ufficialmente iniziata e mi perdo nei meandri di video, foto ed interviste!

Spero di farmi perdonare con questo capitolo... o forse no? ;)

A presto! *_*

E come sempre un GRAZIE gigante a tutti coloro che mi seguono!
Marta.

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

18.

 

24 Settembre 3019 T. E.

 

Era da poco passata la mezzanotte quando i Rohirrim erano giunti sul nemico con la stessa forza e violenza di un’ondata. Gli Esterling non si erano fatti trovare impreparati, schierandosi ordinatamente per barricare il passaggio con le lance abbassate, mentre gli arcieri si erano posizionati in retroguardia, pronti a far piovere frecce come le gocce di un temporale. Ma la resistenza e il vigore dei cavalli di Rohan, sommato alla velocità con cui si abbatterono su di loro, vennero forse sottovalutati, e i ranghi degli Esterling si ruppero facilmente, lasciando spazio ad un disordinato e mortale scontro. Le grida di battaglia impazzarono per i campi intrisi nuovamente di sangue e Re Éomer spronò i suoi soldati e quelli di Gondor affinché lo seguissero fuori le mura, per unirsi al resto dell’esercito. Dáin e i Nani li raggiunsero poco dopo, lanciandosi con le asce in mano e uccidendo qualsiasi cosa si muovesse e attentasse alla loro sicurezza; non vi era pietà nei loro volti insanguinati e ciechi dalla furia, poiché lo stesso odio muoveva il nemico.

Il profumo della vittoria si fece più pungente quando, dall’altro lato del fiume, giunse Faramir, seguito dai Raminghi dell’Ithilien e da un numeroso gruppi di Elfi, che si precipitarono giusto in tempo per mandare allo sbaraglio le ultime truppe nemiche. Ma Éomer ebbe la brutta sensazione che qualcosa stesse andando storto. Si guardò intorno, levando la lancia dal corpo senza vita di un soldato e mosse il cavallo, scrutando il campo di battaglia e cercando qualcuno che ancora mancava all’appello. Incontrò lo sguardo di un guerriero, dalla lucente armatura dorata, e persino nell’oscurità notò il barlume sinistro dei suoi occhi scuri; ma fu ciò che vide oltre le sue spalle, verso l’accampamento ora in fiamme degli Esterling, che gli fece ribollire il sangue nelle vene.

«Aragorn!»

Udendo quel grido disperato e irato, Elegost, che aveva attraversato il ponte ed era giunto sulla riva opposta, levò il capo, seguendo lo sguardo del Re di Rohan e sbarrando gli occhi nel vedere quello che un tempo era stato il suo capo, rotolarsi su un fianco per evitare il fendente di Azdor; si era finalmente liberato delle corde, approfittando del caos e sciogliendo anche quelle che appendevano Boromir, ma Aragorn non aveva armi con sé, poiché gli erano state tolte preventivamente, e si ritrovò a dover difendersi a mani nude da quel mortale nemico.

Éomer ed Elegost cavalcarono contro la figura immobile di Azdor, che rivolse ora la sua attenzione verso i due e si preparò all’inevitabile scontro; strinse con forza la lancia di metallo e oro e la conficcò sul primo cavallo che gli capitò a tiro. Elegost venne disarcionato con violenza, atterrando su una spalla; gridò dal dolore, ma dovette riprendersi velocemente per spostarsi e non essere travolto dal suo stesso destriero, ormai impazzito per la ferita.

Azdor schivò la furia di Éomer, che non si fermò ma proseguì verso i suoi amici di Gondor.

«Aragorn!» esclamò, smontando da cavallo e raggiungendoli immediatamente. Dimenticò per un istante la battaglia che si combatteva intorno a loro, per sincerarsi delle loro condizioni: Boromir era ricaduto sulla pozza del suo stesso sangue e l’odore pungente del ferro gli fece storcere il naso.

«Amico mio, apri gli occhi.» mormorava Aragorn, schiaffeggiandolo nel tentativo di farlo riprendere. Tamponò la piccola ferita sul collo e premette con forza, affinché l’emorragia terminasse.

«Aragorn.» ripeté Éomer, preoccupato per la sorte del Sovrintendente e per lo sguardo disperato dell’amico. «Come stai, amico mio?»

Il Re di Gondor mosse il capo con lentezza, accennando un gesto affermativo – per quanto bene potesse stare realmente: era ferito, dolorante e oppresso da un terribile senso di colpa. Mormorò qualcosa al suo migliore compagno e sentì il cuore sanguinare come la sua gola.

Boromir, infatti, non pareva volersi svegliare.

A pochi metri più avanti, Elegost si rimetteva in piedi con fatica, una spalla lussata che pulsava dal dolore. Eppure niente gli avrebbe proibito di riprendere in mano la spada, che gli era caduta di mano, per fronteggiare il guerriero dorato che lo aveva disarcionato. Gli fu addosso poco dopo, tenace e adirato, ma l’affondo andò a vuoto; Azdor gli rifilò un colpo di lancia sull’addome, che gli troncò il fiato per qualche secondo. Scansò la punta dell’arma con la sua lama, calciandolo al ginocchio. Azdor gridò qualche insulto nella sua oscura lingua, ma non cadde.

Era tenace, il maledetto.

Rimasero ad osservarsi per qualche istante, il pesante suono dei loro respiri che si confondeva tra il fragore della battaglia. Elegost strinse con più forza la spada, facendola cozzare con violenza contro la lancia dell’Esterling. Non si rese subito conto di ciò che accadde, dopo quelli che parvero minuti interminabili di affondi e parate; sentì solo un fastidioso bruciore all’altezza del petto e la sensazione di avere la leggera camicia di lana, sotto la cotta di maglia, completamente zuppa. Azdor sorrise, trionfante, ma l’espressione vittoriosa si trasformò subito in una di puro terrore. Cadde sulle ginocchia, insieme ad Elegost, ma per motivi differenti; il Ramingo era infatti rimasto ferito dalla sua lancia, che lo aveva trapassato come se fosse stato burro, ma egli era stato invece colpito da una freccia, che si era conficcata con precisione laddove l’armatura e l’elmo lasciavano scoperto una generosa porzione di nuca.

Faramir abbassò l’arco e si difese velocemente da un altro paio di nemici, prima che potesse realmente cantare vittoria. Con la morte di Azdor, infatti, il resto degli Esterling si diede alla fuga un paio d’ore dopo l’alba, e Gondor e Rohan si concessero un sorriso per la vittoria. Ma non ci fu gioia né vennero cantate le lodi per gli eserciti vincenti, poiché troppi di loro erano i caduti e i gravemente feriti, e tra essi vi erano nomi eccellenti.

Il Principe dell’Ithilien si chinò su Elegost, controllando l’entità della ferita. Ma anche lui si rendeva conto che fosse troppo profonda per essere medicata.

«Mio signore, non badare a me... tuo fratello necessita di cure.» mormorò, tossendo sangue.

Faramir seguì il dito del giovane Ramingo e sbarrò gli occhi nel trovare il corpo inerme del fratello maggiore. Combatté l’impulso di correre da lui per sincerarsi delle sue condizioni, ma non avrebbe potuto lasciare il suo compagno a morire senza qualcuno accanto. Così gli strinse un braccio con affetto. «Boromir è in buone mani, Aragorn e gli Elfi si prenderanno cura di lui; necessiti di cure anche tu, amico mio.»

Elegost sorrise tristemente. «Ahimè, non credo che ci sia cura che possa salvarmi, mio signore.» Deglutì a fatica, il sapore ferroso del sangue che lo nauseava. «Ma ti prego di portare i miei... i miei omaggi al Sovrintendente, se dovesse riaprire gli occhi... e alla sua sposa.» aggiunse, con malinconia e amore.

Lacrime amare bagnarono il bel volto di Faramir quando l’Uomo tra le sue braccia si spense. Mormorò una preghiera per la sua buona anima e lì lo lasciò, per raggiungere il fratellone, ancora incosciente. Incontrò lo sguardo colpevole di Aragorn, ancora chino sull’amico.

Il Re non si sarebbe perdonato quella leggerezza per il resto della vita. Non voleva neppure pensare alla possibilità che Boromir potesse morire a causa sua; che il suo migliore amico non potesse più riaprire gli occhi; né avrebbe sopportato l’odio e il dolore che Brethil avrebbe provato alla notizia, se mai fosse rientrata a Gondor.

No, non avrebbe potuto sopportare un tale fardello, poiché sulle sue spalle vi erano già troppe preoccupazioni e le sue mani erano fin troppo sporche del sangue della sua gente.

Così allungò una mano verso Faramir, che si chinò immediatamente accanto a lui. «Ho bisogno del tuo aiuto per salvarlo.»

Il Principe annuì. «Qualsiasi cosa il mio Re comandi.»

In quel momento Aragorn si sentiva di tutto, fuorché Re. Ma accantonò quei brutti pensieri in un angolo della mente, ripromettendosi di affrontarli a tempo debito, e si concentrò sul suo amico. Sperò solo che la sua proverbiale capacità curativa si rivelasse davvero tale, ancora una volta.

 

 

25 Settembre 3019 T. E.

 

Non vi fu riposo per i Nani di Erebor al lavoro sul Grande Cancello. Il cantiere procedeva più velocemente del previsto, data la situazione critica e le brutte notizie provenienti da Osgiliath, ma mancavano ancora un paio di settimane alla conclusione dei lavori. Di quei tempi, la semplice porta in legno di quercia e ferro, calata provvisoriamente sull’entrata della città, non era certo il modo migliore per tenere al sicuro le famiglie di Minas Tirith, né gli ospiti che conteneva – nobili e civili.

I fabbri che erano scappati dalla città in rovina si erano uniti a quelli di Thorin, cosicché la quantità di lavoro si dimezzasse per tutti, e le fucine si riempirono come uova di altri Nani chiassosi e volenterosi. Trán e Káel vennero spostati nell’ala riservata al Re di Erebor e ai suoi più stretti compagni ed entrambi ne furono contenti: non solo perché preferivano la quiete di Thorin e la compagnia dei suoi allegri nipoti, ma era soprattutto l’ennesima dimostrazione di quel rispetto che avevano guadagnato con il tempo e le unghie.

«Oltre al fatto che si dice che il Re Sotto la Montagna sia un tipo parecchio geloso dei suoi gioielli... un Nano della peggior specie, insomma.» aveva cantilenato il gemello all’orecchio della Nana, che era diventata paonazza e aveva borbottato qualcosa contro la sua sconfinata simpatia.

Ma Káel non si sbagliava di certo, quando diceva che Thorin fosse geloso; neppure la sete per l’oro e la malattia che ne era conseguita quando era tornato ad Erebor e che aveva quasi segnato la sua fine, gli aveva insegnato che la gelosia dovesse essere impiegata a piccole dosi. E poiché Trán era una pietra preziosa e delicata che andava protetta, non poteva certo lasciarla in balia di un branco di Nani rozzi e puzzolenti di sudore, sebbene nessuno di loro avrebbe osato rivolgerle la parola per il timore che il Re in persona potesse sfuriare su di loro. Perché anche se Thorin non glielo avesse chiesto ancora, era palese che quella stramba Nana dai capelli rossi sarebbe stata la futura Regina di Erebor, e tutti loro preferivano tenersi la testa attaccata al collo e sperare di poter vedere il loro matrimonio, piuttosto che partecipare al proprio funerale, indispettendo il burbero ed orgoglioso Re.

Anche in quel momento, tra un attimo di pausa per asciugarsi il sudore dalla fronte, Thorin aveva alzato lo sguardo verso la ragazza e non poté frenare un sorriso nel vederla ridere e lavorare tra Fili e Kili – sperò solo che non avessero iniziato a chiamarla zia, come avevano minacciato la notte scorsa.

L’ora di pranzo giunse più velocemente del previsto per tutti, troppo occupati a terminare i propri compiti per badare al rapido movimento del sole; ma i loro stomaci, a differenza della mente, erano decisamente più suscettibili al passare del tempo e si ritrovarono a deridersi per i brontolii che si udivano tra una martellata e l’altra. Neppure Trán fu esente e divenne più rossa dei suoi capelli quando i tre diavoli che le stavano vicino si coalizzarono nuovamente contro di lei: a quanto pareva, quello era il loro passatempo preferito.

Thorin approfittò del breve tragitto che li separava dalla mensa per prendere sotto braccio la sua corteggiata e godere un poco della sua vicinanza, poiché aveva bisogno della sua freschezza in un periodo pericoloso come quello, ricco di preoccupazioni. Osservò con letizia le trecce che le incoronavano il viso e si sentì orgoglioso nel vederle ancora ben strette come se le avesse appena intrecciate, ma ancora più felice nel ricordarsi cosa significassero.

«Non ti sei fermata un attimo, neanche oggi. Non sei stanca?»

Trán parve indignata e gli pizzicò il braccio. «Non ti permetto di insultarmi, sire Thorin Scudodiquercia. Sono in forze quanto te. Solo affamata, direi.»

«Mi è parso di sentire qualcosa, in proposito.» replicò lui, con un delizioso sorriso sulle labbra. «E non intendevo offendere il tuo orgoglio, mia signora, giacché la mia era solo preoccupazione. Non mi permetterei mai di mettere in dubbio la tua forza d’animo e la portata del tuo braccio.»

«Oh, li conosci entrambi, mi pare di ricordare.» ridacchiò Trán, stringendosi a lui con affetto e guardandolo con gli occhi azzurri che brillavano di spensieratezza e divertimento. «Apprezzo però la tua preoccupazione. D’altronde, vorrei poter ricambiare e porti la stessa domanda, ma temo che la tua dignità sarebbe più ferita della mia, se lo facessi.»

«Vedo che impari a conoscermi.»

«Non sei così complicato, alla fine. E non tanto diverso da me.»

Thorin rallentò il passo, lasciando che la processione di Nani si rintanasse dentro la mensa, per fermarsi in un angolo della strada, lontano da occhi indiscreti, e chinarsi per accarezzare lentamente quelle labbra piccole con le sue; aveva desiderato farlo nuovamente dopo quel lieto pomeriggio, di baciarla finché avesse avuto forza e fiato. «Comincio a detestare questa situazione; non abbiamo avuto un singolo attimo tempo da spendere insieme... in pace e solitudine.» Sorrise nel vederla arrossire come sempre, ma felice di quel gesto inaspettato.

La Nana lo abbracciò, baciandolo su una guancia. «Finché riuscirai a ritagliare un po’ di momenti come questo, non sarò certo io a lamentarmi.»

Sentì le forti braccia di lui stringerla possessivamente contro il suo corpo, infischiandosene se fossero entrambi sudati e sporchi per il duro lavoro. In quel momento, il desiderio di sentire il calore dell’altro era talmente assordante che nient’altro aveva importanza; rimasero così, abbracciati e con gli occhi chiusi, l’uno con le labbra tra quei capelli rossi, l’altra con il viso nascosto nell’incavo tra la spalla e il collo. Tornarono sui loro passi solo quando udirono la voce di Kili che li richiamava a mangiare e di Fili che se lo trascinava nuovamente dentro l’edificio, per evitare che potesse assistere a qualcosa che gli potesse bloccare la crescita.

«Anche se, effettivamente, devi aver già visto qualcosa di traumatizzante da piccolo, fratellino.» commentò il Nano biondo, battendogli una mano sulla guancia coperta dal solito filo di rada barba che non voleva crescere.

Consumarono il loro pasto con rapidità, sia per la fame sia per la voglia di tornare al lavoro; ma non poterono lavorare per molto tempo, poiché le campane d’allarme risuonarono per le strade, facendo ricadere nel terrore della guerra i cittadini. I Nani uscirono dalle fucine, per tentare di capire cosa stesse succedendo, e Thorin fu quasi investito dalla furia di un cavallo grigio e dal suo cavaliere. Ecthirion frenò la sua corsa, scansandolo all’ultimo momento, e ci mancò poco che il destriero lo scalzasse mentre s’impennava, spaventato e sorpreso di quell’improvviso ostacolo.

«In nome di Durin! Che succede?» domandò il Nano, mentre l’Uomo smontava e si massaggiava una spalla. Solo in quel momento Thorin notò che sanguinasse.

«Il Nemico è su di noi.» disse il Secondo Comandante, reprimendo una smorfia di dolore. «Siamo stati ingannati e ora ne pagheremo le conseguenze.»

«Parla chiaro, Gambe Lunghe.» fece Dwalin, affiancando l’amico insieme al fratello. «Non mi piacciono gli enigmi.»

Ecthirion grugnì qualcosa e fece cenno col capo affinché li seguisse, per raccontare loro ciò che sapeva durante il tragitto verso la Cittadella. Del resto, i Nani erano l’unica possibile difesa su cui poteva contare, oltre l’esiguo numero di soldati rimasti in città, ed era bene che sapessero e collaborassero di conseguenza. «Ho dato l’ordine di smantellare il Primo e il Secondo Cerchio, in vista dell’attacco. Il Grande Cancello è ancora incompiuto e non può difenderci a lungo. Le porte dei vari livelli sono robuste ed incastonate nella roccia della montagna, ma temo che Mardil abbia pensato ad una soluzione anche a questo problema.»

«Contava sul fattore sorpresa.» mormorò Thorin, mentre con disappunto faticava a stare al passo lungo dell’Uomo. «E, sebbene la notizia giunga improvvisa, non ci coglie completamente alla sprovvista. Abbiamo ancora tempo per organizzare una difesa che non avrebbe trovato, se tu non avessi scoperto cosa avesse in mente.»

Raggiunsero la Cittadella e vennero intercettati da Dama Arwen, vestita ora con un paio di pantaloni argentati e una tunica del medesimo colore; la sua spada Elfica pendeva su un fianco, così come la faretra e l’arco erano sulla schiena dritta e fiera. «Quali notizie?»

Dopo un breve inchino, il Secondo Comandante riassunse la situazione anche per la sua Regina e insieme iniziarono a disporre le difese della città. Una volta svuotati i primi due livelli, i civili avrebbero trovato rifugio dietro la quarta e quinta cerchia di mura, mentre il primo e il secondo sarebbe stato controllato rispettivamente dai Nani e dagli Uomini: gli uni sarebbero stati l’ottimo muro che avrebbe respinto gli Haradrim in un combattimento corpo a corpo, gli altri si sarebbero posizionati lungo i bastioni, per abbattere i nemici con gli archi.

Thorin non ebbe tempo di pensare al fatto che il suo istinto gli avesse detto bene, nei confronti di quel Mardil; diede pochi ma decisi ordini ai suoi guerrieri, per poi andare a cercare Trán, che stava risalendo verso la sua abitazione. La prese per mano appena la trovò, prima che potesse aprire la porta della sua abitazione e, senza lasciare la presa, Thorin la condusse al Sesto Cerchio, in quelli che erano i suoi alloggi e quelli dei nipoti, Balin e Dwalin. Aprì con urgenza la porta in legno, conducendola alla sua stanza personale. Trán fu scossa da un brivido quando fu invasa dall’odore del Nano, che aleggiava per tutta la camera.

«Rimani qui e non muoverti, per nessuna ragione.» le disse, seriamente. «È più sicuro questo livello, piuttosto che il Quarto. Farò portare qui anche il tuo fratello minore, affinché stiate al sicuro insieme. Ma non uscire di casa e non affacciarti alle finestre, sono stato chiaro?» Lei annuì, guardandolo mentre si avvicinava ad una cassapanca, per tirare fuori la sua spada Nanica. «L’ultima volta che avevi un arma tra le mani, nel momento del bisogno, non sapevi bene come usarla; ma nella mia vita ho avuto modo di scoprire guerrieri anche negli esseri più piccoli e apparentemente più innocui.» La vaga ombra di un sorriso si dipinse sulle labbra serie, ripensando al loro vecchio scassinatore. «Starò più tranquillo se so che la terrai con te.»

Trán prese l’elsa della pesante lama con mani tremanti e strinse le dita sul fodero in pelle, sapientemente decorato con antiche rune. «Grazie.» Thorin accennò un vago gesto con il capo, ma lei lo fermò prima che se ne andasse, prendendogli una mano. «Torna da me, ti prego.»

Il Nano sorrise e le accarezzò una guancia, poggiando la fronte contro la sua, mentre una mano s’infilava tra i capelli rossi, alla base della nuca. «Ti ho fatto una promessa, qualche giorno fa. E io mantengo sempre la parola data: faremo rientro ad Erebor, insieme, Habanuh*

Chiuse gli occhi e le diede un leggero e veloce bacio sulla fronte, sul naso, sulla guancia, infine soffermandosi teneramente sulle labbra. Trán gli avvolse le spalle con le braccia, lasciando cadere la spada sul letto e stringendosi a lui, temendo di lasciarlo andare e di non rivederlo più. Avevano troppo da perdere, entrambi, e il timore che la gioia che avevano da poco trovato potesse svanire in così poco tempo era soffocante. Ma lui non si permise di perdersi in quel bacio desiderato eppure dal retrogusto amaro per l’imminente battaglia, e si impose di allontanarsi, non certo senza una buona dose di riluttanza, poiché aveva dei doveri da compiere e la sua gente e quella di Gondor da proteggere.

Trán rimase così sola, sdraiata sul letto di Thorin e abbracciata contro il cuscino. Inspirò profondamente l’odore che ormai aveva imparato a riconoscere e amare, e così, coccolata da quella piacevole familiarità della stanza del Nano, l’ansia per gli eventi funesti che stavano giungendo su di loro sparì per qualche istante, illudendola che tutto andasse per il meglio.

Ma sapeva bene che così non fosse. Thorin e i suoi amici erano là fuori, a proteggere una città che non era la loro, perché il Re era in battaglia altrove con il suo Sovrintendente, laddove anche il padre e gli altri due fratelli combattevano; e poi c’era Brethil, lontana così tante leghe da casa e da lei, e quasi temette di dimenticarsi il suo volto. Strinse con forza gli occhi e il cuscino, per evitarsi di piangere. Doveva essere forte e coraggiosa, proprio come la donna che aveva conosciuto, proprio come la madre... proprio come la Nana che avrebbe dovuto e voluto essere, perché la corteggiata del Re di Erebor non poteva essere certo una piagnona.

Quando Trión, accompagnato da Káel, giunse tra le sue braccia, Trán lo baciò sul viso paffutello per farlo ridere e arrossire come sempre. Il gemello, però, non si trattenne con loro, poiché aveva offerto la sua ascia a difesa di Minas Tirith e non poteva tirarsi indietro. Con un sorriso, tante raccomandazioni e un forte abbraccio, salutò i suoi fratelli e fu presto lontano dalla loro vista.

Trán sospirò con pesantezza, sperando che tutti coloro che amava tornassero sani e salvi a casa. Si stupì di quanto il numero si fosse allargato, rispetto ai cinque membri della sua famiglia, e sorrise.

 

 

 

Arwen camminò velocemente verso il Re dei Nani, che aveva i piedi ben piantati sul lastricato della Strada dei Lanternieri, non troppo lontano dal Grande Cancello; accanto a lui Dwalin e Balin, con il primo folto numero di soldati, mentre i Nipoti controllavano e dirigevano la retroguardia sull’uscio della Seconda Porta. Con l’arco ben stretto tra le lunghe ed affusolate dita, la Regina si fermò al suo fianco, guardando verso l’entrata della città, come se i suoi occhi Elfici potessero vedere oltre le mura.

«I miei soldati sono i posizione, mia signora.» fece Thorin, la voce pericolosamente bassa e che prometteva guerra e sangue. «Chiunque osi attraversare quel cancello dovrà rendere conto ai Nani di Erebor; non si umilia il nostro lavoro tentando di superare le nostre difese.»

Ella abbozzò un sorriso. «Ne sono sicura. Ma il Grande Cancello è, purtroppo, ancora incompiuto e se il Nemico dovesse attraversarlo non sarà certo per una mancanza del vostro lavoro, bensì grazie al pessimo tempismo con cui ci attaccano. Vi chiedo quindi prudenza, poiché siete ancora ospiti miei e di mio marito e mi rincresce che vi siate trovati in una situazione simile.»

Balin chinò il capo. «Mia signora, la nostra presenza qui implica un profondo legame di amicizia e alleanza; è ciò che dimostreremo oggi.»

«Che la luce della Stella del Vespro vi protegga, amici miei. Buona fortuna!» E così dicendo, la Regina raggiunse gli arcieri lungo il bastione del Primo Cerchio, di cui aveva il pieno comando, e con lei Ecthirion.

Le milizie di Haradrim erano ormai visibili sul Pelennor e il Secondo Capitano di Gondor aguzzò la vista per tentare di scorgere quello che un tempo era il suo uomo più fidato. Mardil, in sella al suo destriero, ironicamente ancora bardato con i simboli di Gondor, cavalcava sulla retrovia, giacché aveva notato le difese a guardia delle mura della città e temeva di essere ucciso prima ancora di giungere all’interno della città.

«Dannato codardo.» mormorò a denti stretti Ecthirion, che contava i minuti che lo separavano dal momento in cui lo avrebbe punito con le sue stesse mani.

Thorin chiuse gli occhi per qualche istante, concentrandosi sui rumori di sottofondo, finché udì i passi ritmici e pesanti dell’esercito che si avvicinava; fece un cenno a Káel, affinché lo seguisse, e insieme raggiunsero l’Uomo, per constatare di persona l’entità del nemico e scorgerne le fattezze. L’esercito era ancora lontano, per i suoi occhi, così l’altro giovane Nano gli disse ciò che vide. Le loro divise erano scarlatte, come lo stendardo su cui svettava un serpente nero, di spessa pelle, sopra cui si poggiava una cotta di piastrine d’ottone, e proteggevano le parti più deboli dei loro corpi prestanti fin troppo bene; i pochi arcieri di cui disponevano avrebbero dovuto essere molto precisi per non sprecare le frecce. Brandivano scimitarre e lance dalla punta rossa, come il sangue di cui si sarebbero presto macchiate, e nell’altra mano reggevano scudi rotondi, gialli e neri, rinforzati da grossi aculei appuntiti e probabilmente intrisi di veleno. Tornò dai suoi uomini, riassumendo ciò che Káel aveva visto e azzardando qualche consiglio per la difesa – sebbene lui decise di parlare di attacco, poiché gli orgogliosi e combattivi Nani non dovevano parare i colpi, bensì affondarli.

Con una pesante mano sulla spalla fermò il fratello di Trán, che stava tornando al fianco dei nipoti, e gliela strinse con affetto. Non ci fu bisogno di parole per Káel, per capire cosa quel gesto volesse dire, e ricambiò il gesto sull’altra spalla del Re, sorridendo. No, non sarebbe morto quel giorno. Aveva una sorella a cui badare e una famiglia da proteggere.

E magari un matrimonio a cui presenziare, concluse tra sé e sé, divertito.

Quando il giovane dei Colli Ferrosi si fu allontanato, Thorin spostò lo sguardo su Fili e Kili, con cui aveva già avuto modo di parlare in privato, e accennò loro un lieve movimento del capo, per dargli coraggio e darsene a sua volta. Quando fossero tornati ad Erebor e Dís avesse scoperto della nuova e pericolosa battaglia che avevano dovuto combattere a Gondor, avrebbe sicuramente richiesto una volta per tutte la sua testa, per aver messo i suoi figli nuovamente in pericolo. E Thorin iniziò persino a credere che fosse lui ad attirare le guerre.

Mantenendosi a distanza di sicurezza dalla gittata degli archi Gondoriani, l’esercito capeggiato da Mardil si fermò non troppo lontano dalla città e lì rimase. Se c’era una cosa che l’Uomo sapeva fare bene era l’attesa; aveva pianificato tutto da tanto, tantissimo tempo e molti, a differenza sua, avrebbero rinunciato prima ancora di iniziare a vedere i risultati, a causa della stancante attesa; e se conosceva l’animo dei guerrieri a capo della difesa di Minas Tirith, sapeva quanto attendere li snervasse oltre ogni modo. Non poteva certo sapere che l’esercito di Brethil stesse tornando indietro con la stessa velocità di un Uomo inseguito da un cavallo imbizzarrito e che ogni singolo minuto che ritardava lo allontanava dalla vittoria.

Mardil si poggiò mollemente con gli avambracci sulla sella, osando fischiettare tranquillamente nel sentire lo sguardo penetrante e carico di odio di Ecthirion. Lo scorse dopo qualche lungo istante di ispezione e sorrise apertamente, mostrando i denti bianchi in contrasto con il colore olivastro della sua pelle. Così lasciò l’esercito, fermo alle sue spalle in attesa di ordini, e si mosse con fastidiosa lentezza verso le mura della città, catturando subito l’attenzione di tutti, soprattutto del suo Secondo Capitano.

«Ecthirion, mio signore! E mia bellissima Regina!» li chiamò a gran voce, accennando un inchino. «Suvvia, non aprite la porta ad un soldato di Gondor? Porto insperati amici con me.»

«Amici?» replicò l’altro, con la voce avvelenata. «E dimmi, da quando Gondor stringe alleanze con i Sudroni?» domandò, calcando il disprezzo in quel nominativo dispregiativo.

«Esattamente da quando gli stessi Haradrim portano un messaggio di pace. Sono riuscito in ciò che il nostro Re ha fallito. Lasciateci entrare e non saremo costretti a farci strada da soli.»

Ecthirion non riuscì a non far tremare le corde vocali dalla rabbia. «Neppure l’Oscuro Signore riuscì nell’intento di far cadere Minas Tirith. Dubito che lo farai tu con l’esiguo manipolo di soldati che ti porti dietro, dannata feccia! Credevi davvero che avresti potuto avere il libero passaggio, dopo ciò che hai fatto e chi ti accompagna?»

«Oh no, certo che no.» fece allibito l’altro, scuotendo il capo. «Anzi, speravo in una vostra strenue difesa e immaginavo che così sarebbero andate le cose. Altrimenti il divertimento dove sarebbe stato?»

Ecthirion si mosse irrequieto. «Mia signora–» disse alla Regina al suo fianco, con una freccia incoccata sull’arco teso. «–riuscite a colpirlo?»

Lei non rispose, trattenendo il fiato e prendendo la mira.

Così l’Uomo tornò a replicare. «Troverai divertente anche il momento in cui ti trapasserò il cuore a fil di spada?»

Mardil ghignò. «Mi piacerebbe vederti nel tentativo di farlo. Sarebbe la prima volta, infatti, che tireresti fuori l’autorità che persino una donna sfregiata è riuscita a calpestare!»

Terminò a malapena la frase, poiché il lungo arco Elfico di Arwen, che le permetteva una gittata maggiore, aveva scagliato una freccia con spaventosa precisione sulla spalla, facendolo gemere dal dolore e dalla sorpresa. Ecthirion ghignò, soddisfatto, mentre quello batteva in ritirata e gridava qualcosa in una lingua oscura e gutturale. L’esercito si mosse immediatamente dopo e Minas Tirith si ritrovò nuovamente in guerra.

Gli arcieri iniziarono a far piovere frecce da ogni lato e molti Haradrim caddero prima ancora di raggiungere le mura. Eppure coloro che reggevano l’arma più potente, in quel momento, erano ben protetti da un tetto di scudi, e il rudimentale ariete che avevano preparato in tutta fretta durante il viaggio dal lontano Sud, s’infranse con un potente botto contro il primo cancello in legno, rafforzato all’ultimo momento con delle spranghe di ferro.

Thorin strinse la presa su Orcrist e sullo scudo di quercia, ben sapendo che quel debole strato non avrebbe retto per più di cinque, ben assestati colpi. Oltre la porta in legno vi era la prima parte del vero e proprio cancello in mithril e pietra che i Nani di Erebor stavano fabbricando, ma non erano riusciti a montare l’altra pesante anta, che copriva un piano di dimensioni Umane in altezza; sarebbe stato più difficoltoso abbatterlo e quella sarebbe stata una bella prova per provare la sua resistenza, ma il tempo correva contro di loro e Thorin aveva ordinato di chiudere la parte mancante con qualsiasi cosa di resistente trovassero – dalle grandi pietre di qualche cantiere a spuntoni in legno.

In mancanza d’altro, quella era l’unica difesa su cui potevano contare e sperò che reggesse il più a lungo possibile.

 

 

 

La sagoma di Minas Tirith era ormai visibile, seppur ancora troppo lontana, ma la vicinanza delle lunghe mura del Rammas Echor le diede la vaga impressione di essere più vicini del previsto. Eppure, la consapevolezza di poter raggiungere la Capitale entro la fine della giornata non la sollevò, poiché aveva voltato lo sguardo verso il fiume, laddove le rovine di Osgiliath formavano una scura massa di pietre, e sentì il cuore farsi pesante nel vedere il fumo di numerosi incendi innalzarsi dalla città. Si chiese come fosse andata la battaglia, se stessero ancora combattendo, se avessero vinto o perso... se Boromir fosse ancora vivo.

Brethil inspirò a fatica, ingoiando il fastidioso nodo alla gola che aveva da quando aveva sentito il Corno di Gondor e ricevuto la conferma dell’attacco con notizia giunta con gli Elfi. Aveva il brutto presentimento che, quella volta, qualcosa sarebbe andata storta; e lei, la cui vita era stata segnata da sogni premonitori e profezie, raramente si sbagliava.

Spronò Nerian a galoppare più velocemente di quanto già non le stesse concedendo, ma il cavallo non oppose resistenza alcuna e aumentò il passo, poiché egli era discendente di Rohan e come tale avrebbe reso onore alla sua stirpe. Elladan ed Elrohir, che galoppavano ai suoi fianchi, erano stranamente silenziosi, sebbene di tanto in tanto scambiassero qualche parola per tirarla lontano dai cattivi pensieri. Dietro di loro vi era Legolas, ai cui fianchi era aggrappato un indispettito Gimli, stanco di essere sballottato su quel dannato cavallo per giorni interi.

La macabra sorpresa che trovarono al Cancello Sud della muraglia di difesa le fece stringere i denti dalla rabbia, e lo stesso sentimento di odio e desiderio di vendetta, contro chiunque avesse commesso quell’orrore, s’impossessò del resto dell’esercito. Non ci fu bisogno di ulteriori discorsi per spronare i soldati, poiché lo stimolo era tristemente davanti ai loro occhi, e si lanciarono verso l’ultima tappa di quel lungo e inutile viaggio con ferocia.

 

 

 

 

*

 

* Gemma (haban) mia (-uh)

 

Un caro saluto e... FREAK OUT, THE HOBBIT IS COMING!

Dieci giorni e sclereremo tutti insieme… pronti? :)

Marta.

 

 

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Capitolo 19
*** 19. ***


Avete visto Il Film? Lo avete visto? *_*

Beh, avrei molte cose da ridire su mooolti cambiamenti di trama rispetto al libro, ma... nel complesso mi è piaciuto!

Scriverò una recensione sul mio blog dopo che lo guarderò per la seconda volta, giovedì! Stay tuned. ;)

Ad ogni modo, mi scuso ancora per non aver risposto a tutte le recensioni, provvederò entro oggi! >_<

Sappiate che vi amo, tanto tanto tanto.

E ora si va a battagliare nella Città Bianca. Ne vedremo delle belle. ;)

A presto!

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

19.

 

25 Settembre 3019 T. E.

 

Thorin si chiese quanto tempo ancora avrebbero potuto resistere. La prima parte del cancello era crollata facilmente, come si aspettava, mentre ora gli Haradrim parevano avere più difficoltà con la seconda. Fu un pensiero rassicurante, dopo tutto, che la mano dei Nani avesse contribuito a rallentare il peggio. Ma era proprio così che sarebbe andata: avrebbero semplicemente rallentato il tempo, ma non evitato l’inevitabile. Gli Haradrim avrebbero attraversato le mura e non c’era niente, in quel momento, che avrebbe potuto fare per impedirglielo.  

Quando si accorse che i cardini e il frettoloso muro iniziavano a dare segni di cedimento, Thorin agì in fretta e, senza una parola, ordinò ai suoi uomini di nascondersi e agli arcieri di ritirarsi sui tetti degli edifici, sulle torri e ovunque avessero una buona visuale senza essere scoperti. Se era quello il fato di quella giornata, e cioè che gli invasori entrassero a Minas Tirith, allora avrebbero avuto una sorpresa degna del miglior banchetto di benvenuto.

Il cancello in opera si spalancò appena in tempo per permettere ai suoi soldati e a quelli di Gondor di trovare un nascondiglio, e gli Haradrim rimasero interdetti nel vedere la desolazione e la calma dall’altra parte delle mura, invece che un esiguo esercito pronto a riversarsi su di loro come il fuoco di un drago. La fanteria mosse i primi passi all’interno della silenziosa Città Bianca, le scimitarre in posizione difensiva e gli scudi ben alti sul torace, mentre setacciavano le strade con i loro penetranti occhi neri.

Fu solo quando un numeroso gruppo di loro fu completamente all’interno che la potente voce di Thorin spezzò l’irreale silenzio calato sulla città e i Nani si avventarono sugli assalitori con la stessa furia di una valanga, affondando asce e spade contro la carne sotto le loro dorate corazze, mentre gli arcieri scaricavano frecce con destrezza e precisione. Fu così che, dopo non molti mesi dall’ultimo assalto di Minas Tirith, la città venne nuovamente invasa dal clangore della battaglia e altro sangue venne versato sulle strade lastricate di bianco.

Gli Haradrim si ripresero presto dalla sorpresa e in pochi istanti la potenza difensiva dei Nani e degli Uomini non parve più così invalicabile. Non seppero quantificare quanto tempo trascorse dall’inizio della battaglia, ma parve infinito. Alcuni di loro caddero e ben presto iniziarono ad indietreggiare sotto gli affondi delle scimitarre e la robustezza delle loro corazze, finché Thorin gridò la ritirata al Secondo Cerchio. Chiusero il cancello poco prima che il nemico li raggiungesse e Fili e Kili abbassarono la pesante grata dietro la porta in legno. Con un sorriso, si batterono una testata, per festeggiare il tempismo; ma il momento di gioia fu ben presto soffocato dalla rabbia e dalla frustrazione degli assalitori, che si sfogarono sugli edifici del Primo Livello, saccheggiandoli ed incendiandoli.

Ecthirion avrebbe volentieri saltato le alte mura del secondo bastione, pur di lanciarsi contro chiunque osasse sollevare un solo dito sulla sua città... o per marchiare con la sua lama un sorriso di sangue sul volto disgustoso del suo ormai vecchio sottoposto, che dall’alto della sua sella osservava la distruzione con soddisfazione, nonostante una mano insanguinata fosse premuta sulla ferita. Ma le sue speranze di vendetta vennero stroncate dalla limpida ma energica voce della sua Regina.

«Arcieri!» gridò Arwen, gli occhi spalancati verso un gruppo di Sudroni. «Coprite il cancello, ora!»

Kili corse verso il suo avamposto e, imitato dagli altri, tentò di colpire i soldati che stavano riorganizzando l’attacco. Ne vide alcuni, in particolare, armeggiare con qualcosa che non riuscì a decifrare; erano troppo in alto per poterli vedere chiaramente, ma Káel, al suo fianco, aveva visto bene, proprio come la Regina.

«Che cosa vogliono fare?» domandò più a se stesso che all’altro, sporgendosi dal suo avamposto per osservare meglio. «Sembra che stiano spargendo della sabbia nera lungo il cancello...»

Gli Haradrim si allontanarono velocemente, mentre uno, posizionato a debita distanza, tendeva un arco dalla freccia infuocata.

Káel spalancò la bocca e gridò.

Gridò più forte che poté, anche a costo di perdere l’uso della voce. Quasi non fece in tempo a finire l’avvertimento e a strattonare Kili il più lontano possibile, che il cancello saltò in aria, sgretolandosi come un castello di arenaria sotto un soffio di vento troppo impetuoso. Chiunque fosse nei paraggi venne sbalzato dall’onda d’urto e i poveri malcapitati sbatterono violentemente contro pareti e pavimento, mentre i detriti delle mura e del cancello cadevano come pioggia su di loro: alcuni non fecero in tempo a ripararsi, altri si spostarono giusto in tempo.

Thorin sentì la forza dell’aria muoverlo a decine di piedi di distanza e atterrò brutalmente sulla schiena; per un lungo istante gli parve di essere morto. Non percepiva più il corpo, né i suoni attorno a lui; solo un intenso fischio alle orecchie, causato dall’intensità dell’esplosione, e lo sguardo annebbiato dal dolore e dalla confusione. Osservò vacuo il cielo nuvoloso, cercando di ricordarsi come si facesse a respirare, poiché non era sicuro neppure di riuscire a dilatare i polmoni. Il fastidioso fischio, che pareva penetrargli il cervello, scemò lentamente, sostituito ancora una volta dalle grida degli Haradrim, che partivano all’attacco, approfittando della loro debolezza. Sbarrò gli occhi quando si rese conto del pericolo in cui si trovava; ma riuscì a riacquistare la sensibilità delle braccia e delle gambe solo al terribile pensiero dei nipoti, così vicini al cancello un momento prima dell’esplosione. Il terrore che fossero gravemente feriti, o peggio, gli diede la forza di rialzarsi e di trovare un solido appoggio sull’ascia. Vide Dwalin risollevarsi in tempo per difendersi da un soldato e Balin poco distante da lui, il viso e la candida barba sporchi di sangue. Cercò con nervosismo un qualsiasi segno che potesse indicargli che Fili e Kili stessero bene, ma non li vide.

La paura gli strinse il cuore, così come tanti anni prima, quando erano caduti davanti al suo corpo per difenderlo dalla barbarie degli Orchi, alle porte della loro Montagna. Quel giorno avevano rischiato seriamente la vita e ringraziò il cielo che non fosse cosciente per non vivere l’angoscia di quelle lunghe settimane in cui erano stati costretti a letto, senza riprendere conoscenza.

Con rabbia, affondò l’ascia su chiunque ostacolasse il suo cammino, mentre continuava disperatamente la sua ricerca e gridava i loro nomi a gran voce, nella vana speranza di ritrovarli sulle proprie gambe, accanto al Nano dai capelli rossi.

Poco più lontano, ancora stordito e stupito dall’esplosione, Ecthirion si rimise in piedi, guardando la distruzione intorno a sé. Fino a qualche giorno prima, Minas Tirith pullulava di vita e di entusiasmo per la ritrovata pace; ora tutto sembrava perduto. Si ritrovò a chiedersi persino se non fosse stato solo frutto della sua immaginazione, se la Guerra dell’Anello fosse realmente finita o se la stessero ancora combattendo.

Per la prima volta nella sua vita, l’Uomo si sentì impotente, come un ragazzino alla sua prima battaglia, la spada che tremava tra le mani e la paura di muovere un muscolo. Non servì ricordarsi che avesse combattuto guerre ben peggiori, né che fosse sopravvissuto a ferite profonde, ben più gravi della spalla colpita dalla freccia solo qualche tempo prima. Ma cosa potevano fare lui, i suoi Uomini o tutti quei Nani, di fronte a quella diavoleria che i Sudroni avevano portato?

Tempo addietro Re Éomer aveva parlato loro di un attacco simile al Fosso di Helm, per mano di Saruman; le possenti ed indistruttibili mura della fortezza, che mai erano state invase, erano crollate in un istante.

Digrignò i denti, di fronte alla vigliaccheria del nemico. Quale degno avversario avrebbe ricorso a vili astuzie come quelle, per vincere una battaglia?

Eppure sapeva bene, per esperienza, che non vi fossero regole in guerra.

L’unica che contava veramente era una ed una sola.

Uccidi o lasciati uccidere.

E lui aveva preferito sempre la prima opzione.

«Mia signora!» gridò, alla sua Regina. «Dobbiamo ritirarci alla Cittadella, non è sicuro qui!»

Arwen levò la spada dal cadavere di un Haradrim e il suo sguardo gli fece capire che non fosse del suo stesso avviso: era una donna che sapeva ben difendere se stessa e ora avrebbe dovuto proteggere anche la sua gente, con o senza suo marito. Non si sarebbe rintanata come una codarda nella sicurezza dell’ultima cerchia di Minas Tirith.

Piuttosto sarebbe morta.

«Mia Regina! Ti prego, devi seguirmi!» continuò l’Uomo. «Dama Brethil non è qui a proteggervi, questo compito spetta a me, ora.»

«Mantieni la posizione!» replicò lei, senza ammettere ulteriori discussioni. «Mantieni la posizione con me, Ecthirion, e moriamo per difenderci. Dimostrami che la fiducia del tuo Re è ben riposta.»

Egli inspirò pesantemente e annuì. «Ebbene, così sia. Ma ti prego, stammi vicina, mia Regina. Preferisco che prendano la mia vita, piuttosto che la tua.»

 

 

 

Trán non riuscì a sopprimere un grido di paura quando le vibrazioni e l’eco dell’esplosione raggiunse il Sesto livello, facendo tremare le pareti dell’edificio e le vene ai polsi. Le urla di terrore dei civili giunsero chiaramente nella stanza di Thorin e lei rabbrividì. Solo l’odore del Nano, che impregnava le coperte sotto cui era accovacciata con il fratello, riusciva a darle quel poco di forza che le bastava per non tremare come una foglia. Le dava l’illusione che lui fosse accanto al suo corpo, mentre l’abbracciava con affetto per darle coraggio.

Ma Thorin non era lì, con lei.

Mahal, lui non era lì.

Era lì fuori e solo i Valar sapevano cosa stesse accadendo.

Quanto avrebbe desiderato che l’abbracciasse davvero!

Trión le si strinse contro, cercando conforto e cacciando indietro le lacrime di paura, e lei non poté far altro che cullarlo, sussurrandogli che tutto sarebbe finito in fretta e per il meglio.

O almeno, così sperava e pregava, anche se dopo quel tremendo boato, ormai, non credeva più nemmeno alle sue stesse parole.

A centinaia di piedi da lei si stava scatenando l’inferno e l’insicurezza e la paura le serrarono la gola.

Ora che aveva trovato finalmente un bello e sincero gruppo di amici, ora che aveva imparato ad aprirsi con gli estranei e che, soprattutto, aveva trovato qualcuno con cui condividere un sentimento travolgente come l’amore, tutto le parve perduto e si chiese cosa avesse combinato di male per meritarsi tanta sofferenza e tante difficoltà. Non era più sicura di rivedere Brethil, che il Fabbro la proteggesse, e ora persino suo padre, i suoi fratelli, i suoi amici e il suo Re erano in pericolo.

Il terrore di perdere tutto quello che aveva faticosamente guadagnato era devastante.

E non sapeva più cosa fare né pensare.

Se qualche mese prima le avessero detto che sarebbe partita per Gondor, che avrebbe conosciuto l’amicizia e l’amore e si sarebbe trovata invischiata in una guerra, avrebbe riso e scacciato quell’idea come una mosca fastidiosa.

Eppure, nemmeno la paura di quei momenti poté farle rimpiangere la decisione di seguire la sua famiglia in quell’avventura. Che ne sarebbe stato di lei, se non avesse mai varcato la soglia dei Colli Ferrosi? Sarebbe ancora sola con i suoi pensieri, con il suo lutto e con la sua famiglia. Non avrebbe riso con Fili e Kili, né avrebbe potuto contare sulla presenza confortante di Brethil.

E non avrebbe, probabilmente, mai incontrato Thorin.

Quel pensiero fu talmente orribile che sentì il petto dolerle dall’angoscia.

No, neppure la Morte stessa l’avrebbe fatta pentire della sua scelta.

Gettò un’occhiata alla finestra, temendo di avvicinarsi come le aveva proibito Thorin, sia per paura di essere colpita da qualsiasi cosa stesse succedendo là fuori, sia di vedere la distruzione con i suoi occhi. Trán non aveva mai conosciuto la guerra, poiché era stata combattuta lontana dai Colli Ferrosi, e aveva sempre sperato di non vedere gli orrori che i suoi fratelli e suo padre le avevano raccontato.

Così si strinse al fratello, baciandogli la testolina indiavolata e raccontandogli qualsiasi cosa, pur di distrargli la mente... e la sua.

 

 

 

L’esplosione era stata così potente da far imbizzarrire i loro cavalli anche ad una profonda distanza, e ora alte colonne di fumo salivano dalla Città Bianca, mentre il sole scendeva velocemente verso Ovest. Brethil spronò Nerian con rabbia, abbassando la lama di Celeboglinn nel momento in cui raggiunse i primi Haradrim della retroguardia. Lo sforzo e l’euforia di essere finalmente giunti fu liberato in un grido inumano e il Nemico tremò per la prima volta nell’insicurezza. L’esercito di Minas Tirith era di poco superiore al loro, ma era doppiamente motivato ad uccidere ogni invasore respirasse per il solo fatto di aver osato anche pensare di riportare il terrore della guerra entro i confini di Gondor, tra le mura della loro Capitale.

Gimli si lanciò su un gruppo di Haradrim dal cavallo in corsa di Legolas, e quelli caddero sotto il suo peso e la sua letale ascia. «A-ha! Ora si comincia a ragionare!»

«Conteggio onesto, questa volta, mi raccomando!» esclamò Legolas, scagliando la decima freccia in pochi istanti.

«Onesto? Parli di onestà a me, ragazzino?» replicò scandalizzato il Nano, tagliando di netto il collo ad un soldato che ebbe la sfortuna di ritrovarsi di fronte alla sua indignazione. «Tu, piuttosto, bada bene a come conti, Elfo!»

Legolas rise, saltando dal cavallo e sfoderando i lunghi ed affilati pugnali che teneva sulla schiena, giacché la faretra era ormai vuota. «Mettiamo una posta in palio, dato che a voi Nani piacciono tanto le scommesse.»

I due furono separati per qualche lungo minuto, prima di ritrovarsi schiena contro schiena e riprendere il discorso da dove era stato interrotto.

«E cosa vorresti scommettere, damerino?» domandò Gimli; dovette attendere ancora qualche istante prima che la sua curiosità fosse sedata.

«Se io dovessi vincere–» disse Legolas. «–dovrai tagliarti la barba.»

Il Nano fermò la sua personale battaglia, guardandolo con occhi e labbra sbarrati, sperando di aver udito male. «Appartengo alla Casata dei Lungobarbi! Questo ti suggerisce qualcosa?»

«Oh, lo so bene, mastro Nano. E dato che si parla dell’onore della tua famiglia, allora avanti, combatti! Credo che stia già perdendo, amico mio.» replicò l’Elfo, in un sorriso divertito.

«Aspetta, Orecchie a Punta! Non abbiamo deciso quale sarebbe il mio premio se fossi io a vincere.»

«Ma è ovvio: terrai la tua barba lunga e folta per il resto della tua vita!»

Gimli boccheggiò ancora qualche istante e riprese a combattere con più veemenza, borbottando la conta dei caduti e pensando che avrebbe preferito tagliarsi le dita delle mani piuttosto che sfiorare anche un solo ciuffo della sua adorata barba con una lama.

Poco più avanti, una scia di cadaveri segnava il passaggio delle lame dei gemelli di Imladris, ora non più sorridenti e lieti, ma letali come la Morte stessa. Brethil cavalcò all’interno della città, abbattendo e calpestando nemici, e rimase pietrificata nel vedere lo stesso spettacolo del Fosso di Helm durante la battaglia contro le forze della Mano Bianca, quando era giunta in soccorso con l’esercito di Erkenbrand, tanti mesi addietro. La battaglia era ormai dilagata ovunque lungo i primi tre livelli, paurosamente vicino ai civili, e avrebbero dovuto fermare la loro marcia prima che fosse troppo tardi.

Il viso martoriato dalle cicatrici le si distorse dalla rabbia e combatté con rinnovato vigore. E come lei, nessuno dei suoi soldati sembrò badare alla stanchezza della lunga cavalcata, falciando e uccidendo qualsiasi cosa fosse identificata come il nemico. Non c’era spazio per riprendere il fiato, in quella carneficina. Nani e Uomini avrebbero preferito morire piuttosto che distrarsi dall’affaticamento.

Avrebbero ripulito Minas Tirith dalla feccia che l’aveva assalita e lo avrebbero fatto quel giorno, pensò Brethil, sfilando la lhang dall’addome di un Haradrim. Nel caos non si accorse di un arciere che colpì il suo cavallo e Nerian impennò impaurito e dolorante, rischiando di disarcionarla malamente. Saltò dalla sella prima che il piede le si incastrasse sulla staffa e tentò inutilmente di calmare il suo destriero, che si allontanò al galoppo, impazzito.

«Mia signora!» gridò un soldato, poco distante da lei. «Alle tue spalle!»

Si voltò appena in tempo per vedere un Uomo crollare ai suoi piedi e la possente ascia di Dwalin conficcata sul cranio. La donna sospirò di sollievo e lui ghignò. «Non c’è di che, ragazza.»

Brethil si lasciò sfuggire un sorriso, ma fu ben presto dimenticato, sostituito dalla gravità della situazione. «Gli altri?»

Il Nano non ebbe bisogno di chiederle a chi si rivolgesse, per capirla, e lui non si sprecò certo in parole. «Balin è ancora sulle sue gambe e lo stesso vale per Thorin. Ma non so dove siano i ragazzi.»

Brethil strinse i denti, guardandosi intorno. «Mardil?»

«Quel codardo non si è ancora fatto vedere.» borbottò Dwalin, le cui nocche divennero bianche pensando all’Uomo. «Che venga pure!»

Non spesero altro tempo in chiacchiere e tornarono ai loro posti. Brethil si mosse verso il Terzo Cerchio, cercando traccia dei nipoti di Thorin e soprattutto per controllare la situazione alla porta del Quarto. Trovò Ecthirion con la Regina e un altro manipolo di soldati di Gondor, che difendevano l’ingresso ai civili, e li raggiunse, seguita dai suoi Uomini. Gli Haradrim vennero sopraffatti velocemente e il Secondo Capitano di Gondor non fu mai così sollevato di rivedere il viso sfregiato della donna come in quel momento. Se fosse stato sentimentalista, e soprattutto lei non una donna, l’avrebbe senza dubbio accolta con un abbraccio.

«Credevo dovessi dirigerti all’Harad! Hai perso il senso dell’orientamento lungo il cammino?» le domandò invece, per non perdere l’abitudine e dimenticarsi chi fossero entrambi.

«Chiamalo buon senso; sapevo che lasciare la città in mano tua avrebbe portato solo guai.» replicò a denti stretti; poi si rivolse alla Regina. «Mia signora, la Prima Guardia è nuovamente al tuo servizio.»

Arwen sorrise. «Combattiamo insieme, allora.»

Si gettarono con rinnovata forza sul nemico, in quella battaglia che non pareva aver fine; Elladan ed Elrohir si erano affiancati alla sorella e alla Dúnadan, e, come solevano fare un tempo che pareva lontano intere Ere, i quattro lottarono insieme, difendendosi a vicenda in una danza sincronizzata e letale. Persino Ecthirion ebbe qualche secondo di stupore, guardando i tre Mezz’Elfi e la Sfregiata; ma dovette riprendere subito il pieno controllo della sua attenzione, prima che la sua leggerezza gli costasse caro l’osso del collo.

«Thêl! Quando tutto questo finirà–» stava dicendo Elladan, tra un colpo di spada e l’altro. «–ricordati che abbiamo uno scontro da portare a termine!»

La donna grugnì stancamente qualcosa. «Ultimamente la lista dei miei duelli sta diventando un tantino lunga.»

«Fatti qualche domanda, dunque!» replicò Elrohir, con un sorriso.

Ma Brethil non ebbe tempo per chiedersi perché tutti volessero scontrarsi con lei.

O forse sì, se lo domandò quando si ritrovò un uomo decisamente più alto e massiccio di Boromir che aveva deciso di mirare la sua foga omicida verso di lei. Calò con forza la sua scimitarra sulla donna e Brethil si ritrovò a parare il colpo con fatica e con entrambe le mani sulla spada, rischiando persino di spezzarsi il polso. L’Haradrim la spintonò con forza, facendole perdere l’equilibrio e la presa sulla lama, e cadde sulla schiena, gemendo dal dolore; rotolò su un fianco  giusto in tempo per evitare l’ennesimo affondo e lo calciò sotto le ginocchia, sperando di farlo cadere; ma quello pareva avere i piedi incollati al terreno e ghignò di soddisfazione. Cercò con frenesia l’elsa di Celeboglinn ma non la trovò subito e sentì il terreno mancarle quando l’Uomo la sollevò per i corti capelli. Il pugno che ricevette all’addome poco dopo le troncò il fiato per interminabili secondi e sbarrò occhi e bocca in un grido sordo. Brethil non riuscì a reagire neppure quando sentì la freddezza di una corta lama sul fianco destro e cadde in ginocchio, gemendo dal dolore. Gli occhi appannati dalle lacrime e dalla sofferenza le permisero di vedere la sagoma dell’elsa di un pugnale, conficcato completamente nella carne, che perdeva copiosamente sangue. Poteva quasi sentire la gelida punta del pugnale raschiare contro le ossa del bacino ad ogni movimento. Alzò lo sguardo sull’Haradrim che l’aveva colpita e che aveva tutte le intenzioni di porre fine alle sue sofferenze con un colpo netto della scimitarra contro il collo.

Aveva visto la Morte in faccia molte, troppe volte durante la sua vita; ma mai quel momento la sua mano pareva così vivida da sfiorarla, per afferrare la sua vita con le lunghe e scheletriche dita.

Brethil trattenne il fiato.

Non ebbe tempo per pensare, per perdersi nei ricordi di un’esistenza fatta di vagabondaggi e battaglie. Accadde tutto così in fretta che quasi non se ne accorse. Ebbe solo il tempo di alzare il mento, per guardare in faccia il suo carnefice e aspettando che la fine giungesse.

Sperò solo che Boromir, dovunque fosse, stesse bene e superasse la guerra anche per lei.

Anche con gli occhi ora chiusi riusciva a vederlo.

Le sorrideva come nelle giornate più luminose, quando le mostrava con orgoglio le vie della sua infanzia e le raccontava la storia di Gondor.

S’imbronciava quando lei faceva valere le proprie ragioni di fronte alla sua sconfinata testardaggine.

E percepiva la morbidezza di quelle labbra sulle sue, prima di lasciarsi andare tra le sue braccia e tra i sogni dell’ennesima notte spesa insieme.

Ma la spada non calò con la velocità che aveva immaginato e sperato.

Riaprì gli occhi grigi quasi con disappunto e vide l’Haradrim cadere senza vita, mentre alle sue spalle si alzava la figura ferita di Ecthirion, la spada grondante di sangue. Brethil tornò a respirare, impiegando qualche secondo prima di rendersi conto che fosse ancora viva. Incontrò lo sguardo del Secondo Capitano, che le porgeva una mano per rialzarsi, e lei l’afferrò con forza, rimettendosi in piedi sulle gambe maldestre e ringraziandolo con un breve cenno del capo. Sfilò con disgusto il pugnale dal fianco, premendo immediatamente una mano sulla ferita che pulsava fastidiosamente, poiché temeva per un’emorragia troppo abbondante e non poteva permettersi di perdere forze nel mezzo di una battaglia. Ecthirion si strappò il mantello, fasciandole il busto con uno stretto nodo, e Brethil tentò di raddrizzare la schiena appena finì. Con un instabile equilibrio, strinse Celeboglinn tra le dita della mano sinistra, controllando la situazione; ma quando incrociò lo sguardo di Mardil, che era giunto al galoppo evitando le spade dei Gondoriani, ed ora era pronto a combattere, si mise in guardia.

Ecthirion, però, le oscurò la vista, frapponendosi tra i due. La sua espressione, perennemente seria e irata, parve ancora più minacciosa del solito. «Lascialo a me. Lui è mio

Brethil sapeva bene che quello non fosse un gesto di cortesia per la sua ferita. No, Ecthirion voleva vendicarsi del suo uomo più fidato, colui che lo aveva tradito senza remore alcuna. E sebbene volesse essere lei ad ucciderlo con le sue mani, si fece da parte, poggiandosi contro il muro di un’abitazione e preparandosi a qualsiasi altro attacco le venisse rivolto.

Ecthirion ringhiò dalla rabbia, mentre stringeva la spada e lo scudo tra le dita.

Eccolo lì, il verme.

Gli sorrideva, come se il caos che si stava scatenando intorno a lui non fosse altro che puro divertimento. E forse lo era davvero, per lui: un gioco di cui aveva scritto personalmente le regole e in cui sapeva di aver vinto.

Ma Ecthirion non gli avrebbe permesso di lasciarsi sconfiggere, un’ulteriore volta. Perché sì, aveva perso come mentore e guida. Che cosa aveva sbagliato, come suo Comandante? Quando era accaduto il cambiamento? Quando l’aveva perso di vista? Erano tutte domande che continuava a porsi da quando aveva scoperto il suo doppio gioco, e il non trovare risposta lo debilitava e lo irritava ancora di più.

«Perché?» fu tutto ciò che riuscì a chiedergli, quando le loro lame si incrociarono in un clangore di ferro contro ferro.

Mardil ghignò, il viso contorto dalla follia e dallo sforzo dello scontro. «Ero stanco. Stanco di essere la tua ombra e quella del Sovrintendente. Stanco che persino una donna fosse più in alto di me! Mi è stata proposta un’offerta migliore e l’ho accolta con piacere. Potere, quello vero... quello che tu non hai mai avuto, quello che né tu né il tuo amato Re avrebbe potuto darmi.»

Ecthirion gli fu addosso con più vigore, facendolo arretrare ma senza colpirlo. Mardil era un soldato fin troppo ben addestrato per farsi sopraffare da lui.

Il suo maestro.

«È tutto qui? Combatti contro Gondor solo per meri scopi egoistici?»

«No, certo che no. Quale vuoto e scarso cattivo sarei. Ti ho mai accennato al mio albero genealogico e alle mie origini Harad?»

Il Secondo Capitano sgranò gli occhi, preso alla sprovvista dalla domanda e dall’affondo successivo, che lo colpì alla spalla già ferita.

«Oh, sì... mia madre era Haradrim. E Gondor l’uccise.» continuò Mardil, muovendo la lama nella carne, con piacevole sadismo. «Morì esattamente di fronte ai miei occhi di bambino. Riesco ancora a vederla prendere l’ultimo respiro, prima di rimanere immobile; e riesco ancora a vedere il gusto del Gondoriano che si prese la sua vita. Così, spaventosamente simile a te, mio caro amico.» Ecthirion tentò di parlare, ma quello non glielo permise. «Tu hai ucciso la mia famiglia. E io ucciderò la tua, dovesse significare mettere a ferro e fuoco l’intera Terra di Mezzo. Sai, forse tu non la ricorderai, ma mia madre era bella ed una guerriera, come la Sfregiata. Ma le donne, nell’Harad, sono nate per combattere; femmine come l’amante del Sovrintendente sono un insulto alle nostre signore, non trovi?»

Il sorriso si spense solo qualche secondo dopo essersi reso conto che la mano che reggeva la spada non era più attaccata al braccio, che ora perdeva sangue ovunque. Con orrore, spostò lo sguardo sulla donna che aveva appena disprezzato e che reggeva la sua affilata lama elfica.

«E così, sarei un insulto?» ansimò, per lo sforzò che aveva dovuto fare nel correre incontro ai due.

Mardil non fece in tempo a rispondere, perché un freddo mortale dovuto al panico lo immobilizzò sul posto; con un colpo di tosse sputò altro sangue e cadde sulla schiena, ormai senza vita e la spada di Ecthirion affondata fino all’elsa nell’addome.

Con le lacrime agli occhi per il dolore del tradimento, per aver ucciso un uomo che credeva essergli amico e fratello – l’unico che potesse ritenere tale – eppure felice per il sollievo di essere ancora vivo, Ecthirion si rivolse a Brethil, una mano sulla spalla ferita, e cadde in ginocchio accanto a lei, non trovando la forza di sollevare lo sguardo. «Ti chiedo perdono, mia signora.» mormorò, con rabbia. «Perdonami per aver dubitato di te. Perdonami

Brethil lo abbracciò con cautela, ancora troppo scossa dagli avvenimenti per rendersi conto che l’uomo distrutto che aveva tra le braccia era lo stesso che, per lunghe settimane, l’aveva insultata fino all’esasperazione.

Le trombe risuonarono per la città con forza e gioia, e in quel momento niente contava più. Non i loro asti, non i loro sbagli.

Erano vivi.

E Minas Tirith gridava di aver vinto, ancora una volta.

 

 

 

*

 

Ebbene, anche questo è andato!

Mamma mia, che fatica tremenda!

Deve esserci davvero qualcosa di tremendamente sbagliato in me, per farmi amare capitoli come questo. :D

A presto! *-*

E andate a vedere La Desolazione di Smaug! Solo il Drago vale il prezzo del biglietto. <3

Marta.

 

 

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Capitolo 20
*** 20. ***


Buon Yuletide a tutti – anche se in ritardo!

Spero abbiate passato un felice Natale e vi siate rimpinzati per bene di porcherie caloriche. Io l’ho fatto e sto ancora digerendo!

Vi lascio subito a questo nuovo capitolo – l’ultima parte è stata uno strazio da scrivere, ma andava fatto.

Grazie infinite a tutti coloro che continuano a leggere, recensire, seguire, preferire... insomma, a stare dietro a questo mattone!

Diamine, sono già al ventesimo capitolo? Quando è successo?!

In sostanza, vi adoro. Sul serio.

A presto!

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

20.

 

25 Settembre 3019 T. E.

 

Le trombe di vittoria quasi non squillarono per la terza volta, che Trán si era già precipitata in strada, una mano in quella di Trión, l’altra stretta sulla pesante spada di Thorin. Corse fino a perdere il fiato, rallentando il passo non appena iniziò a scorgere i primi cadaveri e i soldati feriti che si dirigevano alle Case di Guarigione. Dovette strattonare il fratello minore per evitargli di saltellare incuriosito intorno ai caduti e si chiese se non fosse stata una pessima idea portarlo con sé. Ma d’altronde non poteva attendere un minuto di più, né poteva lasciarlo solo nella confortevole stanza del Re.

Sentì il cuore mancarle più di un battito quando riconobbe la sagoma della Regina di Gondor che sosteneva quella debole e ricurva di un’altra donna. «Mahal, Brethil!»

Si portò le mani alle labbra, mentre sentiva chiaramente le lacrime pizzicarle gli occhi. Temeva di non rivederla più, se non avvolta in un lenzuolo funebre, eppure eccola lì, che stringeva i denti pur di mettere un piede davanti all’altro e raggiungere le cure dei guaritori. La divisa era intrisa di sangue, che continuava a fuoriuscire copioso dalla brutta ferita sul fianco e Trán pregò che non fosse qualcosa che andasse oltre le loro possibilità.

La Dúnadan sollevò lo sguardo sulla Nana, che ora le si era affiancata per aiutare Arwen, e le sorrise grata. «Non dovresti essere qui, Trán.» le sussurrò debolmente. «Non è uno spettacolo adatto ai tuoi occhi, o a quelli di tuo fratello.»

«Non rimarrò chiusa dietro quattro mura, mentre le persone che amo soffrono senza di me. Ho atteso abbastanza.» replicò testarda l’altra. «Mi prenderò cura di te e di chiunque ne abbia bisogno. Sì, insomma... farò quel che posso.» aggiunse, arrossendo. Non sapeva bene come avrebbe potuto essere di aiuto, se non bagnare qualche pezza di tessuto e rinfrescare la fronte febbricitante dei feriti. Ma era sicura che avrebbe fatto di tutto pur di non essere d’intralcio. «Sono estremamente felice che sia tornata.»

Brethil si lasciò sfuggire un sospiro, in un misto di sollievo e tristezza. Non poteva dire ugualmente, lei. Mancavano ancora troppe persone all’appello per completare la gioia di essere nuovamente a Gondor; ma non voleva rovinare l’umore instabile della sua piccola amica. Così sorrise e le strinse debolmente una mano sulla spalla. «Lo sono anche io.»

«Sai, ho custodito gelosamente la tua spilla. E vedo che la mia clip pende ancora tra i tuoi capelli!»

«Le trecce dei Nani sembrano superare qualsiasi ostacolo – proprio come loro.»

Quelle parole ebbero l’effetto di riportarla alla realtà e Trán lanciò un’occhiata preoccupata alle sue spalle. «A proposito... tu sai–sai degli altri?»

«Vidi Dwalin e mi assicurò che lui, suo fratello e il Re stessero bene. Ma avevamo entrambi la nostra battaglia da combattere e non so cosa sia successo dopo. Vai da loro, amica mia. Avrai tempo per starmi accanto una volta che le acque si saranno calmate. E non sarò certo di compagnia, sotto le mani di Ioreth.»

La Nana, che chiaramente non conosceva la petulante guaritrice di Minas Tirith, fece per scuotere il capo con veemenza, ma il desiderio di andare a cercare suo fratello, i suoi amici e il suo Re fu talmente forte che capitolò poco dopo; ed era più che sicura che Brethil fosse in buone mani, sicché si allontanò dalle due donne con il cuore meno pesante, ma pur sempre preoccupato. Chiese a Trión di seguirle, cosicché non dovesse badare a lui, e si affrettò tra le strade insanguinate della Città Bianca, quelle stesse vie che solo qualche giorno prima erano candide e gioiose. Ora puzzavano di morte e dovette coprirsi il naso e la bocca con una mano, pur di evitarsi il rigetto della colazione e della cena insieme. Se avesse potuto avrebbe tappato persino orecchie e occhi, pur di non udire e vedere i pianti e la disperazione dei sopravvissuti. Raggiunse in tutta fretta il secondo cerchio, fermando i suoi passi non appena vide la distruzione di quell’esplosione che aveva fatto tremare la terra. Vide pietre, armi e corpi irriconoscibili sparsi ovunque e non riuscì a trattenere le lacrime. Com’era possibile che Uomini potessero arrecare così tanta desolazione ad altri Uomini?

Osservò i soldati di Gondor che legavano gli ultimi prigionieri e li portavano alle galere, promettendo loro le pene peggiori sotto quelle celle scavate nel cuore del Mindolluin, in attesa del ritorno del Re. Cercò ovunque, sperando di non riconoscere il corpo di qualche amico tra quelli riversi a terra. Lo scorse poco dopo. Era ammaccato e sporco di sangue, e sperò vivamente che non fosse il suo. Stava contando i caduti insieme a Dwalin e Balin, l’espressione angosciata che prevaleva di gran lunga sulla gioia di aver superato anche quell’ennesima prova.

Trán gli corse incontro, infischiandosene degli sguardo sconcertati di chiunque li vide, e si ritrovò tra quelle braccia forti e confortevoli ancora una volta; lì, dove si sentiva completa così come l’ultima pietra di un edificio completava l’opera.

E pianse.

Pianse di gioia, pianse per la terribile paura che aveva patito in quelle infinite ore di impotente attesa. E mai, mai come allora Thorin fu felice di essere sulle proprie gambe, di poterla abbracciare nuovamente, di poter inspirare il profumo dei suoi capelli rossi. Le baciò la fronte, stringendola con affetto, e si permise di sorridere.

Alle sue spalle, i nipoti si reggevano su Káel, e nonostante la stanchezza e la brutta botta che avevano dovuto accusare con l’esplosione, non risparmiarono le grida di gioia e i canti di vittoria. Trán e Thorin si ritrovarono così abbracciati dai tre, che riuscirono a trovare la forza di stringerli e saltargli intorno. Dwalin si lasciò cadere per terra, sbuffando di sollievo e sorrise al fratello, che gli batté una mano sulle spalle stanche.

«Possiamo dire di aver superato anche questa insieme, amico mio.» disse Balin.

Dwalin si guardò intorno. «Non era esattamente ciò che avevo in mente quando Thorin ci informò di questo viaggio.»

«Ahimè, fratello, nessuno di noi poteva prevederlo, neppure il Re di Gondor. Temo che il nostro soggiorno a Minas Tirith sarà prolungato di qualche mese.»

«Dís sarà al culmine della gioia, appena riceverà nostre notizie.»

I due ridacchiarono alle parole rassegnate di Thorin, mentre i nipoti scacciavano i suoi timori con vaghi gesti delle mani. «La mamma vorrà solo la tua testa, non c’è da preoccuparsi.»

Il Re di Erebor sospirò, chiedendosi se avesse potuto omettere qualche dettaglio della battaglia, affinché la sorella non si preoccupasse più del dovuto. Non vi era alcuna ragione per cui avrebbe dovuto scriverle che avevano provato l’ebrezza del volo in caduta libera, del resto. «Andiamo, ora. Avete bisogno di cure e di riposo.» mormorò, dando una mano a Káel nel sostenere i nipoti.

Trán li seguì, con i figli di Fundin accanto e il gemello tra le braccia, e osservò Thorin con perplessità. «Mio signore, hai bisogno di essere medicato anche tu. Non affaticarti troppo.»

«Sto bene.»

«Zoppichi, anche se stai facendo di tutto pur di non mostrarlo.»

Il Nano alzò gli occhi al cielo, maledicendo l’occhio attento della ragazza. «La colpa è di Fili. Sei pesante come un carico di ferro, nipote.»

«È un modo gentile di dirmi che sto prendendo qualche chilo di troppo?» esclamò indignato quello, mentre il fratello minore scoppiava a ridere.

«Aye, ragazzo. Dovresti vivere qualche tempo con la fanciulla lì; almeno saresti costretto a non mangiare più del dovuto.»

Trán fece saettare uno sguardo furioso ed imbarazzato verso Dwalin, che ghignò di divertimento alla sua espressione.

Con lentezza si diressero ai loro appartamenti, giacché le Case di Guarigione erano colme di soldati che necessitavano di urgenti cure. Trán fu lesta, però, a cercare bendaggi e medicamenti, incappando sfortunatamente nella vecchia curatrice, impazzita da tanto lavoro.

«Per tutti i Valar, ragazzina! Cosa ci fai qui?» gracchiò Ioreth, che rischiò di mandare all’aria il vassoio di acqua calda che teneva tra le braccia. «Levati dai piedi, non è un luogo né il momento per giocare, questo.»

La Nana aprì e chiuse le labbra più volte, incapace di formulare una risposta, mentre sentiva guance ed orecchie infuocarsi per la stizza di essere scambiata per una bambina.

Fu una ragazzetta alle spalle della donna che fermò i suoi passi e la osservò con curiosità. «Tu sei l’amica di Dama Brethil, giusto?» Ad un cenno affermativo, quella sorrise. «Il mio nome è Rainiel, sono la sua ancella. Chiedo scusa per le parole di Ioreth, ha la brutta abitudine di scambiare Nani e Mezzuomini per bambini; ma non voleva offenderti. Ad ogni modo, la mia signora ha bisogno di medicamento immediato, ma se posso esserti d’aiuto in qualsiasi modo chiedi pure. Vedrò cosa posso fare.»

Trán balbettò un ringraziamento e le domandò dove potesse trovare l’occorrente per il primo soccorso; doveva, del resto, ripulire e fasciare ferite affinché non s’infettassero. Guardò scettica e nauseata gli aghi e il filo che l’ancella le diede, insieme a bende e disinfettanti al limone, giacché non credeva potesse essere in grado di trovare la forza di mettere i punti a qualcuno. Sperò che Balin, o chi per lui, potesse essere d’aiuto, se fosse stato necessario. «Ti ringrazio per la tua gentilezza.» le disse, sorridendo. «Correrò al capezzale di Dama Brethil appena mi sarà possibile.»

«Ne sarà felice. Buona fortuna!»

Trán tornò di corsa agli appartamenti dei Nani e con sua grande sorpresa vi trovò anche Legolas e Gimli, che stavano riassumendo la conta dei loro nemici riguardo ad una scommessa di cui non volle conoscere i particolari, e con loro anche i gemelli di Rivendell. I due parvero pensierosi, mentre la osservavano – cosa che Thorin, seduto su una poltrona e scuro in viso, notò immediatamente e lo irritò più del necessario. Non solo quei damerini dalle orecchie appuntite stavano tentando di mettergli le mani addosso per medicare ferite che avrebbe potuto ignorare per i giorni successivi, ma la loro attenzione era ora fissa sulla Nana, che arrossì fino alla punta dei piedi.

Legolas l’aiutò subito a reggere l’occorrente e a darsi da fare con le abrasioni dei nipoti di Thorin e del gemello, mentre Gimli fumava bellamente alla faccia sua – estremamente soddisfatto di non doversi tagliare la barba per onorare la parola data.

 «Oh, ma certo!» esclamò uno dei due figli di Elrond. «Tu devi essere la figlia di mastro Rulin!» aggiunse l’altro.

A quelle parole gli occhi della Nana s’illuminarono. «Conoscete mio padre?»

«Il carpentiere più rinomato che Rivendell abbia conosciuto.»

«Era solito lavorare per nostro padre, tanti anni fa.»

«A proposito, perdona la nostra maleducazione: io sono Elladan e lui è Elrohir.»

«Ho imparato a riconoscervi, ragazzini.» s’intromise Gimli, sbuffando del fumo. «E posso dire con certezza che tu sei Elladan e tu sei Elrohir.»

Quelli scoppiarono a ridere, congratulandosi per i suoi occhi di falco per cui si vantava tanto. Trán arrossì quando le baciarono a turno il dorso della mano e spostò istintivamente lo sguardo su Thorin, i cui denti erano serrati tanto da far male.

Elladan, a cui non era sfuggito quello scambio di occhiate e soprattutto le clip nelle trecce dei suoi capelli, sorrise amabile. «Dama Trán, saresti così cortese da convincere il tuo Re a lasciarsi controllare le ferite? Sarà pur sempre un Nano della peggior specie, ma non ho il cuore di non medicarlo.»

Il silenzio calò sulla stanza, interrotto poco dopo dalle risate incontrollate di Fili e Kili; persino Balin si lasciò scappare un sorriso, che nascose per fortuna sotto la folta barba bianca. Thorin, chiaramente, non gradì l’umorismo Elfico e s’infastidì ulteriormente quando Trán parve assecondarlo. «Ti allei con loro?»

«Mi pare ovvio.»

«E a me pare ovvio che nessuno di voi sappia riconoscere i limiti della mia pazienza.»

«In nome di Mahal il Fabbro, mio signore!» esclamò Trán, spazientita. «Non dimostri di essere un eroe, così facendo, bensì un incosciente.» Gli si avvicinò, aggiungendo poi con più dolcezza: «Permetti almeno a me di medicarti?»

Thorin ignorò i sorrisi di compiacimento sui volti dei suoi compagni e si alzò, dirigendosi alla sua stanza senza una parola in più. La Nana lo seguì in silenzio e si richiuse la porta alle spalle, poggiando l’occorrente sulla cassapanca ai piedi del letto, e si morsicò con nervosismo l’interno delle guance. Era la prima volta in cui rimanevano soli, da quando avevano iniziato il corteggiamento, senza fratelli o nipoti intorno, o senza la minaccia di una guerra alle porte della città. Quel pensiero la colpì all’altezza dello stomaco, che le si contorse per l’imbarazzo non appena lui si sfilò la tunica e la cotta di maglia che proteggeva il suo corpo prestante. Sapeva bene che avrebbe dovuto togliersi anche il resto degli indumenti superiori, se avesse voluto farsi medicare per bene, e l’immagine di quel torace scolpito che aveva scorto quella lontana mattina alle forge le tornò in mente, imporporandole indecentemente le guance.

«Ti senti bene?» le domandò Thorin, sedendosi stancamente sul bordo del letto e osservando il colorito arrossato del suo volto con circospezione.

Trán mormorò qualcosa, affrettandosi ad iniziare a disinfettare i graffi sul viso e a ripulirgli la pelle dal sangue ormai coagulato. Per sua fortuna non trovò ferite troppo profonde, se non un labbro spaccato e un taglio fastidioso sul sopracciglio sinistro. «Ma se dovessi trovare qualche ferita più problematica delle altre, sappi che i gemelli saranno i primi ad essere avvisati. Non ho le competenze per curarti a dovere e la tua gamba mi preoccupa.»

«La mia gamba sta bene. E non ho intenzione di farmi toccare da loro.»

Trán allontanò di scatto la mano dalla pelle del Nano, colta da una nuova ondata di imbarazzo. Riuscì a mettere insieme qualche parola solo per l’esasperazione a cui la stava velocemente portando. «Thorin, non sei stato molto cortese. Sei davvero il Nano più ottuso che abbia mai incontrato. Ti stanno offrendo il loro aiuto; credevo che la tua ostilità nei confronti degli Elfi fosse superata con... con noi.»

Thorin borbottò qualcosa che non capì. «Suggellai una tregua con Thranduil in circostanze estreme; e ho deciso di corteggiarti per la persona che sei. Ciò non implica che la loro razza mi debba piacere.» Si pentì immediatamente delle sue parole appena udì il suono della sua voce. La vide stringere le labbra, stizzita, mentre premeva con più forza un panno sulla carne viva e dovette mordersi la lingua pur di non lamentarsi per il dolore. «Trán, non volevo dire questo–»

«Ma è ciò che hai detto. Ed è ciò che pensi.»

Il Re sospirò con pesantezza. «Non puoi chiedermi di mettere da parte i rancori che ho serbato per una vita. Credevo che fossi una Nana a tutti gli effetti, giacché me lo hai fatto capire e dimostrato più volte. Non hai motivo di sentirti offesa.»

Ci furono minuti di interminabile silenzio, prima che lei riprendesse a parlare, gli occhi chini sul tessuto da strizzare. «Ti pentirai di aver scelto me, lo so.»

Thorin sbatté più volte le palpebre, fermando la sua mano a mezz’aria e cercando il suo sguardo. «Spero ti renda conto dell’assurdità di ciò che hai appena detto.»

«Non è meno assurdo del tuo comportamento.»

«Trán.» la richiamò, in un sospiro.

«Solleva la maglia, ho finito con il viso.» In altre circostanze non avrebbe avuto neppure il coraggio di formulare un pensiero simile, men che meno pronunciarlo a voce alta; ma era fin troppo delusa da quel lato del Nano che faticava a sparire, che non se ne curò minimamente.

Thorin scosse il capo, accarezzandole le guance con le sue tozze e callose mani. «Habanuh, parlami.»

Lei non osò incontrare il suo sguardo e si ritrovò ad inciampare sulle sue parole, nuovamente. Batté più volte le ciglia, cercando di scacciare l’improvviso disagio che la colse; si sentì patetica e detestò quel Nano che aveva di fronte, perché era a causa sua che tutte le sue poche sicurezze crollavano come un castello di sabbia. «Io ho... ho paura.» Thorin non la interruppe e, seppure lei non lo vide, percepì ugualmente il suo sguardo indagatorio. «Non ho mai avuto amici, né... né qualcuno come... come te. Temo che possa svanire tutto da un momento all’altro, perché sono felice e quando ciò accade è destinato a non durare.»

Thorin non aveva parole per confortarla. Lui stesso aveva provato sulla sua pelle che i momenti più lieti terminassero nei modi più bruschi; eppure aveva imparato che quando si lottava per ciò che si amava, i propri sforzi sarebbero stati ripagati. Se così non fosse stato, se lui non avesse lottato dopo la distruzione di Smaug, dopo la morte dei suoi più cari familiari e amici, il dolore e la rabbia, lui non avrebbe riconquistato Erebor, né avrebbe restituito alla sua gente ciò che gli spettava di diritto. Non era abituato ad arrendersi, né lo avrebbe fatto in quella circostanza: sapeva bene che il desiderio di avere Trán accanto non sarebbe stato facile da gestire, sia per il loro passato che per questioni meramente politiche, ma non si sarebbe arreso e non avrebbe permesso che lei lo facesse.

Così tentò di sedare ogni preoccupazione, ogni timore e ogni cattivo pensiero con un lungo e lento bacio. E capì di essere riuscito nel suo intento nel momento in cui Trán chiuse gli occhi e rispose alle sue attenzioni con disperazione, stringendosi contro di lui con il timore che potesse sparire da un momento all’altro. Ma Thorin non aveva intenzione di andarsene, non senza lei al suo fianco. Prese possesso di quella bocca impertinente con così tanto ardore da perdere per qualche lungo istante la cognizione del tempo e dello spazio. La sentì abbandonarsi alle sue labbra, che si spostarono sulle guance arrossate, sul collo, su quelle orecchie appuntite che gli avrebbero costantemente ricordato chi fosse realmente. Si sorprese quando udì un gemito di piacere scapparle dalla gola quando gliele sfiorò in caldi baci. Sorrise, ripetendo il gesto, e Trán si chiese quanto ancora sarebbe potuta resistere prima di sciogliersi, in preda a quell’imbarazzante calore che l’aveva colta.

«Thorin–» mormorò tra i baci e le carezze. Lo sentì allontanarsi un poco e il Nano si sfilò la tunica, con impazienza. E lei, lei rimase impietrita di fronte alla visione che le si presentò davanti. «Thorin, co–cosa fai?» Le parole le morirono in gola appena notò il sorriso carico di malizia e divertimento di quelle labbra sottili e umide.

«Eseguo i tuoi ordini, Melhekhinh. Ho sollevato la maglia come mi hai chiesto.»

Tutto ciò che Trán riuscì a dire fu un oh di sorpresa e imbarazzo. Thorin si chinò per baciarla ancora una volta, con lentezza e dolcezza, solleticandole la pelle delle guance e del collo con la barba; intrecciò le loro dita in un gesto di affetto e se le portò al petto, all’altezza del cuore. Trán fu più che sorpresa nel sentirne il battito accelerato fare concorrenza al suo. La sensazione della peluria scura sotto i suo polpastrelli la fece rabbrividire e sentì chiaramente i muscoli del Nano tremare a quel timido contatto. Non ebbe il coraggio di incontrare il suo sguardo se non dopo che lui le accarezzò la punta del naso con la sua.

«Non avere paura, Trán.» le sussurrò.

Se fosse una risposta alla confessione di poco prima o un tacito invito a toccarlo, non seppe dirlo. Così lei abbozzò un sorriso, lo baciò timidamente, una mano che lasciò la sua per accarezzargli con riverenza la barba, facendolo sospirare proprio come aveva fatto lei sotto le sue attenzioni. Seguì la linea del collo con le dita, fino a quella delle spalle muscolose e delle braccia, che ora la reggevano nuovamente con possessione; quelle stesse braccia poco abituate a stringere creature così delicate e belle, e che si erano invece forgiate durante una vita da fabbro e da guerriero.

Trán si schiarì la gola, improvvisamente secca. «No–non credere che con i tuoi modi... lusinghieri io abbia dimenticato cosa stessi facendo prima.» riuscì a dire.

Lui parve sorpreso, ma con un’evidente punta di divertimento nella voce. «Perché, ti ho per caso distratta?» Gemette più per la sorpresa che per il dolore, quando lei per ripicca premette contro un livido violaceo sull’addome.

Eppure lei sorrideva e in quel momento nient’altro aveva importanza.

A meno che non si trattasse dei nipoti che, non udendo più il loro litigio all’ombra della porta della sua stanza, l’avevano spalancata e si erano fiondati all’interno, temendo che ci fosse scappato il morto.

Non sapevano che presto, i morti, sarebbero stati loro.

 

 

26 Settembre 3019 T. E.

 

Brethil era profondamente addormentata, il respiro pesante e regolare che scandiva le lunghe ore di sonno. Ma la Nana era decisa a non abbandonare il capezzale della donna per nessun motivo al mondo, neppure per mangiare. Erano i nipoti del Re che, in punizione per la loro intromissione nella stanza del Re il giorno prima, le facevano compagnia e osavano allontanarsi per compiere qualche lavoro o per portarle del cibo; anche loro avrebbero voluto essere presenti quando Brethil si fosse risvegliata, giacché si era rivelata essere una buona compagnia e li avesse aiutati a rimettersi in piedi quando erano ancora incoscienti per il volo che avevano fatto; ad ogni modo, avevano comunque intenzione di fare compagnia alla loro futura zia per quanto gli fosse possibile. Di quando in quando anche i gemelli di Imladris giungevano a sincerarsi delle sue e delle loro condizioni, portando grande conforto con la sola presenza, giacché sorridevano e li rasserenavano.

Trán le bagnò la fronte con un panno umido, sperando che la febbre finalmente si abbassasse, e le strinse una mano tra le sue. Fili e Kili sedevano ora accanto alla finestra, osservando la scena silenziosi. Ioreth li aveva rassicurati che fosse fuori da ogni pericolo e che il suo corpo fosse solo molto stanco e desideroso di riprendere le forze, dopo l’estenuante battaglia e la perdita di sangue; li aveva anche minacciati più volte di lasciare la stanza, perché non aveva alcuna intenzione di prendersi cura anche dei loro affaticati corpi. Ma loro non avevano ancora visto segni di miglioramento, se non un colorito più vivo sul bel volto graffiato, né si erano allontanati più del dovuto. Avrebbero tanto voluto che Brethil riaprisse gli occhi grigi e parlasse con loro.

Il suono delle trombe li avvertì che i sopravvissuti e i feriti che necessitavano di cure di Osgiliath fossero finalmente giunti in città, e si diressero velocemente lungo la Via dei Lanternieri, lasciando per quel momento la donna al suo meritato riposo. Trán corse alla ricerca dei fratelli, seguita da Káel e Trión, ma rallentò i suoi passi nel vedere i loro volti seri e stanchi, e il sorriso di sollievo le si spense immediatamente. Notò subito l’assenza del padre e l’orribile presentimento di quella portantina coperta da un lenzuolo la fece fermare.

Dáin camminava alla testa della fila, accanto a Thorin, Dwalin e Balin che lo avevano accolto per il suo ritorno, mentre Aragorn ed Éomer proseguivano a passo spedito verso le Case di Guarigione, affinché Boromir e il resto dei soldati feriti potessero ricevere le cure giuste per riprendersi; dietro di loro Tarón e Káir trasportavano una lettiga, aiutati da altri due Nani, e sui loro volti non vi era gioia né sollievo per la fine della battaglia, ma solo un immenso e devastante dolore.

Thorin cercò il suo sguardo, ma non lo trovò. Era troppo intenta a studiare quella barella per accorgersi del suo desiderio di darle sostegno.

«Padre... nostro padre è rimasto ad Osgiliath?» domandò la Nana al maggiore dei fratelli. Poteva anche darsi, giacché era il capomastro del cantiere e avrebbe avuto il triplo del lavoro da supervisionare, dopo la battaglia.

Tarón socchiuse le labbra per rispondere, ma non ne trovò la forza. Come avrebbe fatto a mettere insieme le parole giuste per dirle che il loro unico genitore rimasto in vita fosse morto?

Non vi era un modo giusto, d’altronde.

Nessuna parola, per quanto accurata e dolce, avrebbe potuto alleviare il dispiacere e l’amarezza di una notizia simile.

Fu Dáin che, dopo un profondo sospiro, lasciò il fianco di Thorin, immobilizzato dall’angoscia di non rivedere più quel sorriso che tanto amava e che aveva visto solo qualche ora prima, e si avvicinò alla ragazza, stringendole le braccia con affetto. «Combatté valorosamente al mio fianco, come fece sempre da quando conservo memoria; e tenne alto l’onore e il nome della vostra famiglia.» mormorò il Re. «È mio compito proteggere i miei sudditi e i miei amici, e ho fallito.»

Káir chinò il viso, stringendo gli occhi con forza; ma neppure quella cecità gli impedì di rivedere il padre cadere a pochi piedi di distanza da lui. Nemmeno il giorno della sua morte avrebbe potuto dimenticare quell’infinito e terribile momento. Si era sentito così terribilmente impotente ed inutile e non si sarebbe mai perdonato di non aver potuto fare di più.

Trán, sorprendendo tutti, scosse il capo, rifiutandosi di piangere, di credere che suo padre fosse... fosse...

No.

No.

Sgusciò dalle braccia del suo sovrano, per chinarsi sulla lettiga e spostare il lenzuolo. Il respiro le si fermò in gola nel vedere il padre che giaceva come se fosse addormentato; ma lei sorrise, accarezzandogli il volto sereno e mortalmente freddo. «No.» mormorò, scostandogli qualche ciocca di capelli dal viso. «Mio padre sta solo riposando, deve essere molto stanco.»

I fratelli si scambiarono un’occhiata addolorata e Thorin, che non aveva osato avvicinarsi, chinò il capo, coprendosi gli occhi con una mano, per allontanare almeno dalla vista quell’impietosa. Ma non vi era bisogno di vederla per percepire ciò che stava passando per la mente della Nana in quel momento. Conosceva, purtroppo, molto bene il dolore della perdita di un padre, di un nonno, di un fratello, di un amico.

«Sta solo riposando, come Brethil.» si convinse Trán, accantonando il suo pessimismo per la prima volta in vita sua. «Presto si sveglierà e ci racconterà di come abbia salvato la Città degli Uomini. Gli preparerò una tisana calda... e... e ci parlerà della sua avventura davanti al camino acceso.»

Káel fu accanto alla sorella, abbracciandola e costringendo il suo viso bagnato di lacrime contro il suo addome, sperando che smettesse di parlare. Un singhiozzo soffocato li fece rabbrividire, ma Trán non capiva.

Non capiva quei volti funerei. Non avevano per caso vinto?

Non capiva perché Káel stesse tremando. Era forse intirizzito?

Non capiva l’irreale silenzio in cui Minas Tirith pareva caduta. O forse era lei che era diventata sorda alle loro parole?

E non capiva... quando e perché aveva iniziato a piangere?

«Dobbiamo... dobbiamo metterlo al caldo. È freddo.»

«Trán, ti prego...»

«Káel, potresti cucinargli qualcosa per quando si sveglierà.» continuò imperterrita, la voce soffocata dal tessuto della tunica del fratello, che stringeva tra le dita con forza. «Lo sai che anche lui non ama il mio cibo–»

«Mahal, Trán!» Il gemello s’inginocchiò con lei, prendendole il viso tra le mani e costringendola a guardarlo negli occhi. «Lui non– lui non si risveglierà. Mi hai capito, sorellina? Nostro padre è con la mamma, ora. Non si risveglierà.» le ripeté, con le lacrime agli occhi.

Lo sguardo perso di Trán, quel lungo istante che trascorse quando la consapevolezza di ciò che fosse accaduto distrusse le sue vane convinzioni, fu qualcosa che Káel non avrebbe dimenticato facilmente. Era come se stesse guardando una bambola, che non reagiva, non respirava, non si muoveva. Dove fosse finita la loro adorata e pessimista sorella nessuno di loro seppe dirlo, ma doveva essere molto, molto distante da dove si trovava in quel momento.

Scosse un’ultima volta il capo, la Nana, e sgusciò dalla presa ferrea del fratello, correndo via. Thorin mosse istintivamente un passo, per seguirla, ma Dwalin lo fermò per un braccio. «Non ora.»

Con riluttanza e un sospiro pesante, Thorin annuì. E capì, dall’occhiata perplessa di Dáin, che non fosse il momento adatto per lasciarsi alle spalle il pesante ruolo di sovrano per affrettarsi dietro alla Nana e tentare in qualche modo di darle conforto; non era ancora giunto il momento delle spiegazioni, sebbene suo cugino avesse subito notato l’acconciatura e le clip di Durin tra i capelli della Nana. Vi erano numerose questioni da discutere, prima di lasciarsi andare al lutto e al dolore.

Lanciò un’ultima occhiata alla figura di Trán, che sparì dietro l’angolo di un edificio, e si avvicinò a Káel, ancora inginocchiato e in lacrime. I nipoti gli erano accanto, che gli battevano le mani sulle spalle per incoraggiarlo a farsi forza, e lo tirò su per un braccio, stringendoglielo con affetto. Il giovane Nano ingoiò il groppo in gola e fece qualcosa di inaspettato.

Lo abbracciò, come aveva fatto anni addietro con il padre alla triste notizia della scomparsa della madre.

 

 

 

*

 

Ebbene... credo che non sia il caso di aggiungere altro.

Ci rivedremo l’anno prossimo, miei cari lettori e lettrici.

I migliori auguri per un grandioso 2014 a tutti – ve lo meritate!

Un caro saluto,

Marta.

 

 

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Capitolo 21
*** 21. ***


Buona domenica, miei cari seguaci!

Ho finalmente trovato un po’ di tempo per completare questo capitolo, che avevo già scritto per metà, ma che a causa tesi non sono riuscita a riprendere in mano fino a ieri.

Mi scuso (nuovamente) per non aver risposto ancora alle recensioni, ma mi metterò d’impegno oggi, che ho una mezz’ora libera – almeno, io me la prendo perché voi ve la meritate tutta!

Per farmi perdonare, questo capitolo è un po’ più lungo del precedente, e finalmente ritroveremo due cari personaggi – dato che alcuni di voi si stavano preoccupando che avessi dimenticato Aragorn e Boromir. Giammai. ;)

Grazie miliardesime a chiunque stia seguendo questa storia!

Vi voglio bene!

A presto!

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

21.

 

28 Settembre 3019 T. E.

 

La porta della stanza cigolò sui cardini e Fili e Kili alzarono contemporaneamente lo sguardo sulla figura che fece capolino sull’uscio. Káel l’aprì completamente, rivelando anche la presenza angosciata del loro zio, che in quei giorni difficili, trascorso a contare i danni, pareva aver concesso una buona parte del suo affetto al ragazzo, proprio come fece con entrambi quando il loro padre non aveva fatto rientro dalla battaglia combattuta ad Azanulbizar.

Káel li salutò con un breve cenno del capo e si avvicinò alla sorella, sdraiata accanto ad un’addormentata Brethil. Era lì da giorni interi e osava muoversi da quella posizione solo per bagnarle la fronte e soddisfare i propri bisogni fisiologici. Aveva un aspetto terribile: i capelli intrecciati da Thorin erano ormai scarmigliati dalle numerose volte in cui si era presa il capo tra le mani, alla disperata ricerca di una motivazione per cui anche suo padre se ne fosse dovuto andare; aveva profonde occhiaie, segno di notti insonni e tormentate, e pareva lo stoppino di una candela, troppo corto e debole per bruciare.

Erano trascorsi due giorni dalla tremenda notizia e della ragazza non rimaneva che una sbiadita ombra di ciò che era stata. Piangeva fino a stremarsi, rifiutava il cibo e l’apprensione di chiunque; persino Thorin si era visto ignorato e solo una volta lei aveva osato incontrare il suo sguardo: quando lui era giunto per starle accanto, la prima volta, e aveva letto l’espressione di agonia che le stava scavando l’anima, aveva chiaramente percepito la gola stringersi; l’aveva abbracciata con vigore, cercando di riscuoterla attraverso quel gesto disperato e pieno di affetto, ma lei non aveva fatto niente per ricambiare.

Non ne aveva la forza.

Ma aveva quella per piangere tutte le lacrime di cui disponeva.

Era rimasto così, a cullarla in silenzio, mentre lei spendeva tutte le sue energie in singhiozzi, finché esausta non si era addormentata tra le sue braccia.

Ed ora eccola lì, una bambola in una coltre di dolore.

«Trán.» la chiamò Káel, dopo un profondo sospiro. «Trán, è ora.»

La Nana parve non udirlo, intenta com’era ad osservare la sua amica che riposava tranquillamente nella quiete delle Case di Guarigione. Aveva una mano tiepida e la spilla della donna tra le sue, il movimento impercettibile di un polpastrello che l’accarezzava con gentilezza.

«Trán–» replicò Káel, la voce spezzata, mentre le si avvicinava e le stringeva un braccio. «–ti prego. Dobbiamo salutarlo...» Non ottenne nuovamente risposta, se non un flebile cenno di diniego col capo. «Non vuoi salutarlo?» Questa volta la ragazza scosse veementemente il capo e il fratello chinò arrendevolmente le spalle.

Che domande le faceva?

Salutarlo?

Lei non voleva salutarlo!

Perché avrebbe significato chiudere definitivamente quel capitolo e lei non sapeva se fosse in grado di farlo.

Anzi, ne era sicura. Non ci sarebbe riuscita.

Thorin chiese silenziosamente ai nipoti di iniziare ad uscire e richiamò il giovane fabbro con una mano sulla spalla. «Vai con loro e i tuoi fratelli. Ti raggiungeremo subito.»

Káel sapeva bene che il Re li avrebbe raggiunti da solo, ma sperava che forse almeno lui fosse in grado di riafferrare la sorella perduta; così le sfiorò la guancia con un bacio e si sforzò di fare come chiesto, unendosi a Fili e Kili e scendendo verso l’ingresso della città.

Thorin rimase immobile per qualche istante, osservandola fare il nulla. «Sei sicura che non vuoi–» Le sue parole vennero subito troncate dall’ennesimo silenzioso no e inspirò con pesantezza. «I tuoi fratelli si chiederanno che fine avrai fatto. Vuoi lasciarli soli?»

Caduta nel suo mutismo, il Nano capì che non avrebbe risolto nulla, almeno per il momento. Avrebbe potuto prenderla di forza e obbligarla alla cerimonia, perché sapeva che con il tempo si sarebbe pentita di non essere stata presente al funerale del padre. Ma non poteva forzarla, in un momento come quello. Non poteva farlo, sapendo quanto fragile fosse.

Così si chinò, mimando il gesto del fratello e baciandola però sulla tempia. Tenne le labbra premute contro la sua pelle per più di qualche secondo, sentendola rabbrividire. «Tornerò presto.» le sussurrò. «Te lo prometto.»

Thorin lasciò la stanza poco dopo, lanciando un’ultima occhiata alle due figure sdraiate ed immobili, nella speranza che almeno una si alzasse e lo seguisse. Ma ciò non accadde e si richiuse la porta alle spalle, raggiungendo i suoi compagni e la folla di Uomini, Nani ed Elfi giunti per commemorare i caduti di Osgiliath e Minas Tirith. Non vi fu bisogno di discorsi da parte del Re di Gondor, se non un profondo ringraziamento a chiunque fosse giunto ad aiutarli nel momento del bisogno – ed Éomer, Dáin, Thorin e il resto dei Generali chinarono il capo alle sue parole.

I corpi dei nemici erano già stati bruciati senza alcuna commemorazione qualche ora dopo la vittoria; mentre i loro caduti erano ora impilati l’uno sull’altro in numerose pire di legno bagnate d’olio, su cui molti cittadini avevano lanciato fiori bianchi e freschi. Fu compito di numerosi soldati, tra cui anche i due Re dei Nani, prendere le torce e accendere i roghi. La voce sinuosa e struggente degli Elfi si innalzò insieme alle fiamme, con un canto di sofferenza e la speranza che Aulë proteggesse le loro anime, e le trombe squillarono in segno di lutto.

 

 

Il fumo si alzava lentamente, poco lontano dal Grande Cancello in costruzione di Minas Tirith, e con esso anche i lamenti di chi era rimasto in vita e ora arrancava nel lutto. Ma nel profondo silenzio delle Case di Guarigione, non giunse altro se non il grave e potente suono delle trombe cittadine. Fu forse in quel momento che Trán, in piedi sul davanzale della finestra, intenta a scrutare la colonna di ceneri dei caduti, capì che fosse davvero tutto perduto.

 

 

Thorin rientrò dalla commemorazione con il cuore pesante. Avrebbe voluto parlare di persona a quel Nano che tempo addietro aveva protetto il suo corpo con il proprio; avrebbe voluto chinare il capo e ammettere di essersi rivolto a lui e alla sua famiglia in maniera indecorosa, all’inizio del loro rapporto; avrebbe voluto chiedergli il permesso di sposare sua figlia, poiché era un uomo d’onore e non le avrebbe fatto una proposta simile senza il suo consenso. Ma di Rulin non rimanevano che ricordi e polveri, e sapere che non poteva fare niente per cambiare il corso delle cose lo faceva sentire impotente.

Ma c’era qualcosa che poteva e doveva fare. Stare accanto alla donna che amava, anche se lei avesse finto di non udirlo o vederlo, anche se avesse deciso di cacciarlo perché nel dolore non voleva nessuno nei paraggi. Thorin le doveva questo e molto più, ed era con quella determinazione che si diresse nuovamente alle Case di Guarigione.

La trovò accanto alla porta finestra che dava sui giardini, mentre osservava il penoso spettacolo di fumo sul Pelennor, e una parte di sé fu sollevata nel vederla in piedi, anche se si era rifiutata di porgere di persona i suoi ultimi saluti al padre. Le si avvicinò, accertandosi con uno sguardo che Brethil riposasse ancora, e le fu alle spalle poco dopo, per abbracciarla. La sentì irrigidirsi per un lungo istante, forse così persa nei suoi pensieri da non essersi accorta del suo arrivo; ma appena Trán riconobbe il suo inconfondibile e penetrante odore di tabacco e ferro, e la morbidezza della sua barba contro la pelle del collo, si rilassò tra le sue braccia, permettendogli di stringerla ancora di più contro il suo petto, mentre le grandi e callose mani le accarezzavano il ventre.

Nessuno dei due parlò. Non vi era del resto niente di cui discutere e nessuna parola di circostanza venne spesa da entrambi. La sola presenza di Thorin, che le premeva con affetto la schiena contro il torace, era sufficiente per farle capire che lui le sarebbe stato accanto, in qualsiasi momento, per qualsiasi motivo.

Fu però lui a spezzare quell’innaturale silenzio. «Hai mangiato?» le domandò, in un sussurro. Lei scosse il capo. «Dovresti mettere qualcosa nello stomaco. L’ora del pranzo è quasi giunta.»

«Non ho fame.»

Thorin sospirò. «Habanuh, devi cercare di reagire.» Non credette di aver detto qualcosa di tremendamente sbagliato finché lei sgusciò dalla sua presa ferrea – ma solo perché lo colse di sorpresa. Trán lo osservava con occhi sbarrati, le sopracciglia aggrottate e tremava. Tremava come se avesse passato una notte al gelo senza il confortante abbraccio di una coperta.

«Reagire?» replicò sotto voce la Nana, passando dallo scetticismo all’ira. «Mi dici di reagire? E per cosa dovrei farlo?»

«I tuoi fratelli sono ancora in vita.» La sua risata priva di divertimento lo interruppe un attimo. Thorin era più che convinto che stesse per scoppiare nuovamente a piangere. «I tuoi fratelli sono vivi, io sono vivo. Ma la cosa più importante è che tu lo sei ugualmente, Trán. Sei viva e non devi ucciderti con le tue man–»

«Ho perso mio padre! E lei–lei ancora non si sveglia!» gridò lei, interrompendolo ancora una volta. «Che senso ha che io sia ancora viva se lui se n’è andato? Credi che mi importi di mangiare? Mio padre è morto! Per sempre!» Si tappò la bocca con le mani nello stesso istante in cui le parole le uscirono dalle labbra, rendendosi conto dell’orrore di ciò che aveva detto realmente.

Suo padre era morto.

Morto, per sempre.

Cadde in ginocchio, colpendo debolmente un pugno sul pavimento in pietra, le lacrime che non parevano voler smettere di bagnarle il viso.

Mahal, quante ne aveva in corpo?

Era normale piangere così tanto? Era sicura di no.

«E non pensi a chi ti ama e si preoccupa per te?» Non pensi a come mi senta io?, avrebbe voluto chiederle.

«Non m’importa! Tu non capisci!»

«In nome di Durin!» esclamò lui, nell’esasperazione, non curandosi di abbassare le voci, giacché ormai quelle della ragazza avevano risvegliato persino i morti. «Mi credi tanto insensibile? Io, che ho dovuto sopportare la caduta di tutta la mia famiglia davanti ai miei occhi? Io, che ho perso la mia casa e la mia giovinezza e che ho dovuto faticare tutta la mia vita pur di riprendermi ciò che spettava a me e al mio popolo? Credi che non conosca il dolore? Credi che non sappia cosa tu stia provando ora? Vidi mio nonno morire nel modo più atroce e ignobile che esistesse; persi mio padre e mio fratello, e il marito di mia sorella, che era parte della mia famiglia come se avesse il mio stesso sangue. Vidi i miei nipoti crescere senza un padre e mia sorella rischiare di sbiadire nel lutto.» Le si inginocchiò di fronte, afferrandola per le braccia, il tono di voce ancora fermo ma ora più morbido. «Il tuo dolore è anche il mio. Ciò che stai vivendo ora è anche la mia pena, Trán. E voglio fare tutto ciò in mio potere per alleviartela. Ma non diventare qualcuno che nessuno di noi riconosce; non andare laddove non posso raggiungerti.»

Trán si lasciò abbracciare, stringendo la stoffa della sua tunica tra le dita e cercando conforto in quelle braccia calde e forti. Anche in momenti come quelli, in cui il dolore era talmente forte da darle la sensazione di soffocare, la sua presenza riusciva a calmarla. Cercò di regolare il suo respiro, concentrandosi su quello di lui, finché si sentì, almeno momentaneamente, in pace con se stessa e il buio che la circondava.

«Tua sorella–» sussurrò finalmente lei, schiarendosi la gola secca ed inumidendosi le labbra secche con la lingua. «–tua sorella come fece a superarlo?»

Thorin le accarezzò il capo con le labbra, sospirando mentre la mente tornava indietro nel tempo. «Dís è sempre stata una donna con un forte carattere. Era la più piccola della famiglia, eppure aveva il temperamento più acceso di tutti. Pareva che niente potesse scalfiggerla; un estraneo avrebbe detto che fosse fredda, ma non lo è mai stata. Ha vissuto la maggior parte della sua infanzia in esilio e non ha mai conosciuto il riposo e la tranquillità, finché non incontrò suo marito. Oh, avresti dovuto vedere come la stoica principessa degli Ered Luin diventasse malleabile come una fetta di burro, in presenza di quel ragazzo. Non avevo mai visto un tale amore e una tale felicità nei suoi occhi, se non quando nacque Fili. Era il ritratto della gioia ed ero oltremodo rassicurato dal fatto che almeno lei, in tutto il nostro dolore, avesse trovato una valida ragione per sorridere. Quando tornammo così pochi da Moria, lei capì immediatamente cosa fosse successo. In un solo istante io ero tutto ciò che le era rimasto della nostra famiglia, proprio nel momento in cui avrebbe dovuto gioire ancora una volta, giacché Kili sarebbe nato poche settimane dopo. Tornò ad essere la donna inflessibile che era sempre stata prima di sposarsi, concentrò tutta la sua attenzione sui suoi figli e sulla politica. E trovò la forza che le mancava solo perché aveva qualcuno a cui badare, qualcuno che aveva ancora bisogno di lei.» Thorin prese un respiro profondo, perdendosi in quei ricordi lontani. Poi chinò lo sguardo sulla Nana e le accarezzò le guance con entrambe le mani, scostandole il capo dal petto e osservandola intensamente. «Tu sei come lei, Trán. E ti ho scelta perché so per certo che saresti una coraggiosa e forte Regina, che tutti amerebbero e loderebbero; me lo hai dimostrato più di una volta, anche se ami nasconderlo nelle tue insicurezze. Non è questo il momento di arrendersi al dolore; sono sicuro che né tuo padre né tua madre sarebbero felici di saperti abbandonata in questo modo. Devi essere forte, ora: per te stessa e per i tuoi fratelli.»

«Thorin, io...» si asciugò l’ennesima lacrima, poggiando la fronte contro quella del Nano, le dita ancora strette nel tessuto delle sue vesti. «Io non so se sono in grado di farcela. Non ci riesco da sola.»

«Allora saremo forti in due, perché ti aiuterò con qualsiasi mezzo. Mi prenderò cura di te, e dei tuo fratelli, se voi me lo permetterete.»

Con un sospiro affaticato, Trán annuì e lo abbracciò con energia, affondando il viso tra i suoi lunghi capelli scuri e sussurrandogli un grazie che faticò ad udire.

Thorin la baciò sulla spalla, accarezzandole con devozione la schiena scossa dai brividi. «Mi consenti di scortarti a pranzo, Habanuh?» le mormorò, solleticandole l’orecchio con il suo fiato caldo. La risposta tardò ad arrivare, tanto che il Nano temette fosse nuovamente caduta nel suo mutismo; ma lei annuì.

«Permesso accordato.»

Con un lieve sorriso d’incoraggiamento, Thorin si mise in piedi, porgendole la mano per aiutarla a rialzarsi, e la osservò con attenzione, bevendo ogni dettaglio della sua espressione. Sapeva che non avrebbe dovuto aspettarsi di vederla sorridere nuovamente con il lutto così fresco, ma la vide arrossire sotto il suo sguardo e il suo sorriso si allargò ancora di più. «Dopo pranzo vorrei rintrecciarti i capelli.» le disse, prendendo la clip della sua casata e rincuorandosi di quella promessa che si erano scambiati solo qualche giorno prima. Trán annuì, chinando gli occhi e osservando le loro mani ancora intrecciate. Senza un’altra parola, Thorin fece scivolare i polpastrelli ruvidi sulla pelle delicata del viso, seguendone il profilo con le dita e gli occhi, fermandosi su quelle piccole e carnose labbra, ora socchiuse, che avevano il potere di fargli dimenticare persino chi fosse. Non si era neppure reso conto di aver chinato il viso verso di lei, se non quando i loro nasi si sfiorarono. Trán deglutì a fatica nel ritrovarsi ad osservare ogni singola sfumatura di quegli occhi blu, che ora parevano chiederle il permesso di andare avanti.

Perché Thorin desiderava baciarla con tutte le fibre del suo corpo, per ricordarle costantemente che aveva il suo cuore, soprattutto in un momento difficile come quello; eppure non voleva approfittare della sua debolezza e del suo lutto per prendersi ciò che voleva. Così rimasero immobili per qualche istante, i loro respiri sulla pelle dell’altro  e il sangue che pompava velocemente nelle vene; finché fu lei a sollevare il mento e a baciarlo con leggerezza, come se fosse la prima volta. E Thorin non fece niente per approfondire quella carezza, delicato, quasi timoroso di spaventarla e farla scappare.

Trán non si sarebbe mai abituata alla devozione e alla sensibilità che quel Nano robusto e letale le dimostrava: come potevano mani dure come le sue stringerla come se fosse un cristallo prezioso che rischiava di rompersi alla minima pressione? Come poteva una bocca affamata come la sua, resistere alla tentazione di divorarla in un bacio che di casto avrebbe avuto ben poco?

Eppure eccolo lì, una mano tra i suoi capelli rossi e sfatti, l’altra che stringeva ancora la sua, mentre depositava piccoli e teneri baci sulle labbra, sulle guance, sul naso. Trán trovò la forza di sorridere e gli soffiò poche parole sull’orecchio.

Lo farò anche io.

Lui parve immobilizzarsi, confuso, e si distanziò un poco per chiederle con lo sguardo cosa volesse dire.

«Anche io mi prenderò cura di te.»

 

29 Settembre 3019 T. E.

 

Brethil aprì stancamente gli occhi e osservò senza realmente vederlo il soffitto voltato della sua vecchia stanza alle Case di Guarigione. Il profumo dei giardini accanto e delle erbe mediche che aleggiava nell’aria la riportò indietro nel tempo, quando era giunta per la prima volta a Minas Tirith, stremata per il lungo viaggio, affamata e disidratata. Ricordava di come Ioreth riuscisse a gridare contro qualunque cosa si muovesse e fosse un potenziale pericolo d’intralcio al suo importante compito di guaritrice e di come Pipino riuscisse ad imitarla alla perfezione, con i suoi lunghi monologhi riguardanti qualche membro della numerosissima famiglia, e facendola ridere di sollievo e divertimento. E ricordò di quando si era risvegliata e la prima cosa che aveva visto era stata il capo di Boromir, poggiato sulle braccia e profondamente addormentato sul bordo del letto. Quel giorno si era permessa per la prima volta di osservarlo veramente, come una donna e non una Dúnadan.

Sembravano passati secoli da quel giorno di Marzo e lei si sentiva infinitamente stanca.

Voltò lo sguardo alla sua sinistra e non si stupì di trovarsi Trán accoccolata contro il suo corpo. Aveva l’espressione carica di dolore anche durante il sonno e anche nella penombra della stanza poteva notare le righe delle lacrime ormai secche sulle guance. Fu il luccichio argentato tra le mani della Nana ad attirare la sua attenzione e si concesse un sorriso nel riconoscere la sua spilla, stretta con forza come se potesse assorbirne l’energia e darsi coraggio. Gliela sfilò con delicatezza, cercando di non svegliarla e se la rigirò tra le dita, accarezzandola con il polpastrello del pollice e ricordando l’onore e l’orgoglio di indossarla, così come la vergogna per ciò che aveva fatto liberando Gollum.

Baciò la spilla con devozione, rimettendola poi tra le mani della Nana. Non avrebbe mai smesso di essere una Dúnadan, di quello era più che certa.

Un movimento nell’angolo della camera attirò la sua attenzione e cercò d’istinto il pugnale sotto il cuscino – che ovviamente non trovò. Ioreth era sempre contraria alla vista di armi e mai come in quel momento la maledì per le sue futili paure. Ma si tranquillizzò appena riconobbe la sagoma bassa eppure imponente muoversi con sofferenza su una sedia.

Thorin sospirò, catturando il suo sguardo, e l’espressione di sollievo per vederla sveglia gli rasserenò il viso stanco. Il Nano si alzò, cercando di non destare l’altra piccola figura sul letto, ancora profondamente addormentata, e si ficcò i pollici sulla cintura della tunica, chinando il capo alla donna. «Lieto di vederti in salute, mia signora.» sussurrò, nella sua voce già bassa di natura. Se non fosse stato per l’irreale silenzio delle Case di Guarigione, Brethil non avrebbe udito una parola.

«Il sollievo è reciproco, sire Thorin.» Fu oltremodo confusa nel vedere lui nella stanza, e non qualcun altro. Si sarebbe aspettata di vedere Elladan e Elrohir, o persino Gimli e Legolas, ma non certo lui.

Così, notando l’espressione della donna, il Nano s’affrettò a spiegare. «Fili e Kili hanno vegliato su di te per ore intere; e anche i due Mezz’Elfi. Ho spedito i miei nipoti a riposarsi per qualche ora, promettendo loro che li avrei svegliati in caso ci fossero stati miglioramenti.»

Brethil sorrise ripensando ai nipoti del Re di Erebor. «Stanno bene, dunque?» Lui annuì. «Ne sono oltremodo felice. Quanto tempo sono stata incosciente?»

«Tre giorni, credo.»

La donna si passò una mano sul viso, fischiando. «Pare che abbia dormito più del dovuto.»

«Hai dormito il necessario. Da quanto mi è stato detto ti è salita la febbre; e hai perso molto sangue.»

«Sì, ricordo qualcosa in proposito.» borbottò Brethil, sfiorandosi il fianco fasciato. «Avete contato molte perdite?»

Thorin sospirò con pesantezza, osservando Trán. «Sì, purtroppo sì. Suo padre è tra i caduti.»

Con lo sguardo carico di orrore, Brethil strinse inconsciamente la ragazza, sentendo il cuore pungere per la sofferenza.

Oh, Trán...

Non poteva credere possibile che anche l’ultimo pilastro della sua famiglia se ne fosse andato, dopo tutto il dolore che aveva dovuto sopportare per la perdita della madre. Trán era una ragazza forte, quando doveva di difendersi, ma era incredibilmente debole di fronte alle avversità che la vita le aveva riservato. Senza la presenza di qualcuno che la confortasse e l’aiutasse a superare anche quel momento, Trán si sarebbe distrutta come un vaso caduto sul pavimento.

«All’inizio...» mormorò il Nano, in un filo di voce. «All’inizio non si rendeva conto.»

Era comprensibile, pensò Brethil. Probabilmente credeva di vivere un incubo. Aveva cercato di convincersi della medesima cosa quando aveva trovato i pochi resti del padre lasciati dagli Orchi; o quando aveva visto Halbarad cadere davanti ai suoi occhi, senza poter fare niente per impedirlo.

«I suoi fratelli?»

«Se la caveranno.»

La donna annuì, consolandosi almeno con quel pensiero. Se avesse perduto anche uno solo di loro, o il gemello in particolare, non ci sarebbe stata via di ritorno.

Con un sospiro, Brethil si mosse sul letto, mettendosi a sedere con fatica e guardando intensamente la porta, che mai come allora le pareva distante. Sentiva i punti della ferita pruderle incessantemente da quando aveva aperto gli occhi, sebbene il dolore pareva passato, e rammentò di come un Haradrim le avesse piantato un pugnale sull’addome, tranciandole i muscoli e facendole perdere l’equilibrio. Se non fosse stato per Ecthirion, a quell’ora starebbe riposando sulla lettiga di morte, piuttosto che su quel letto confortevole.

«Mi è stato ordinato di non lasciarti andare da alcuna parte, mia signora.» l’avvertì Thorin, incrociando le braccia al petto e indovinando le sue intenzioni. D’altronde, per poco che la conosceva, capiva perfettamente quanto scomodo potesse essere per lei restare bloccata in quattro mura.

«Lo immaginavo.» soffiò lei, lasciandosi ricadere sui cuscini e osservando il soffitto. «Ioreth darebbe ordini persino ad Aragorn, se lo ritenesse un peso davanti al suo cammino. Sa essere molto convincente.»

Il Nano si lasciò sfuggire uno sbuffo – se fosse divertito o meno non seppe dirlo, ma quanto pareva aveva avuto a che fare con la vecchia. «Mi pare ovvio che non ho intenzione di seguire le sue direttive. Sei grande abbastanza da saper gestire le tue ferite senza procurartene altre; e sono un Re, non prendo ordini, li do. Quindi–» Prese una gruccia in legno, che l’avrebbe sostenuta meglio. «–vai pure dove credi, poiché immagino voglia accertarti della salute dei tuoi compagni. Baderò io alla ragazza.»

Brethil lo osservò con perplessità, tentando di scovare qualche inganno nella sua gentilezza; ma infine annuì, tentando di mettersi in piedi a fatica, aiutata dal Nano e cercando di non svegliare Trán. Sapeva bene che sarebbe dovuta rimanere immobile, ora che la ferita iniziava a rimarginarsi ed era più delicata che mai. Ma ora che era cosciente non sarebbe rimasta con le mani in mano. Doveva sapere, doveva accertarsi che gli altri stessero bene.

Guardò l’amica con tristezza, sospirando. «Sire Thorin, so che i rapporti tra voi non siano dei migliori, ma vorrei chiederti di prenderti cura di lei ancora per un po’.»

Lui si ritrovò a ridere piano prima ancora che potesse rendersene conto. «Credo che tu abbia bisogno di aggiornamenti, dama Brethil, giacché parecchie cose sono mutate dal giorno della tua partenza. Ma sappi questo: per nessuna ragione al mondo lascerò che la ragazza si annulli con il suo lutto. Ti promisi di badare a lei ed è ciò che ho fatto... e che ho intenzione di continuare a fare, anche una volta che saremo tornati a casa – se lei continuerà a permettermelo.»

Gli occhi grigi della Dúnadan sgranarono nel riconoscere in quello sguardo serio lo stesso che Boromir le rivolgeva quando era preoccupato per la sua sorte. «Sì, credo che avrò bisogno di un resoconto; ma per ora mi accontenterò delle tue parole. Sono felice per voi, Thorin. È ciò che meritate entrambi: un po’ di luce in tutto questo buio.»

Il Nano chinò il capo per ringraziarla. Prima di lasciare la stanza, Brethil si voltò un’ultima volta verso di lui, che ora sedeva sul bordo del letto e accarezzava il viso dell’amica con devozione e affetto, e sorrise, decisamente più tranquilla. Quando fu fuori dalla sua stanza, Brethil si guardò intorno, cercando di capire che ore fossero dalla luce ormai rossastra del sole che filtrava dalle finestre, e decidendo da che parte andare.

Sperò solo di non incappare in Ioreth, altrimenti avrebbe sentito le sue urla per il resto dei suoi giorni.

Non sapeva se ci fosse qualche viso conosciuto, tra le Case, ma si ricordò di Ecthirion e della ferita che aveva riportato durante lo scontro con Mardil, così decise di iniziare a cercare lui; entrambi avevano molto su cui discutere e in cuor suo Brethil sperò che stesse bene. Ma non fu lui che trovò, quando aprì la prima porta che le capitò a tiro, bensì gli occhi preoccupati e lucidi di Faramir, che si spostarono immediatamente su di lei.

Brethil trattenne il fiato, sapendo bene chi avrebbe trovato sul letto della stanza. Si poggiò contro il muro, poiché né le gambe né la stampella ebbero il potere di reggerla più. Boromir era mortalmente pallido e poté dirlo anche senza essersi avvicinata al suo capezzale. Aragorn, anch’esso con un aspetto orribile, era chino su di lui, intento a medicarlo da giorni interi. Il profumo dell’athelas inebriò i suoi sensi, ma neanche l’effetto tranquillante della pianta ebbe il potere di calmarla.

Sentiva la stanza vorticarle intorno e un terribile senso di nausea le fece portare una mano alla bocca. Faramir le fu accanto in un attimo, temendo che crollasse, e fu lesto abbastanza per afferrarla in tempo, prima che cadesse sulle ginocchia. Avvicinò una sedia al letto e la donna lì si sedette, stringendo subito le mani di Boromir, fortunatamente ancora tiepide.

Non ci fu bisogno di domande, poiché il Re sapeva bene quali lei gli stesse tacitamente chiedendo. Un profondo senso di vergogna e svilimento lo invase, portandolo a chinare il capo, incapace di guardare l’amica negli occhi. Non seppe come trovò il coraggio di raccontarle del suo ridicolo piano, di come gli avesse permesso di seguirlo. «Pare che ultimamente io non abbia fatto altro che spedirvi verso missioni suicida.» terminò, con falso sarcasmo.

Brethil, però, non ebbe il cuore né l’intenzione alcuna di accusarlo per le sue decisioni. Non lo avrebbe fatto per averla fatta cavalcare verso l’Harad, pur conoscendo i numeri delle due parti, né per l’idea folle che aveva avuto ad Osgiliath; per tutti i Valar, avevano cavalcato verso le porte del Morannon, solo qualche mese prima! Lo conosceva bene ed era sicura che nessuna delle sue decisioni non fosse prima studiata al dettaglio. Ed erano fin troppo simili, perché anche lei non avrebbe accettato di rimanere con le mani in mano, mentre la morte camminava lungo i confini del suo regno.

Così scosse il capo. «Non temere il mio giudizio, Aragorn, perché non sarò certo io a condannare le tue scelte; non ne ho il diritto. Se tu mi dicessi di correre tra le fiamme di un balrog per salvare il tuo Regno, non esiterei un istante di più, anche se significasse la mia fine.»

Il Re riuscì a sostenere lo sguardo sincero dell’amica, gli occhi lucidi per le lacrime.

«Ora dimmi, si riprenderà?» domandò Brethil, in un filo di voce.

Aragorn annuì. «Sì, vivrà. Ma avrà bisogno di qualche tempo per riprendere le forze.»

«Così tu, mio signore.» disse Faramir, parlando per la prima volta.

«Il mio corpo non chiede ancora pietà, amico mio. Avrò modo di riposarmi, quando avrò terminato i miei doveri e riparato i miei errori.»

Brethil tornò a guardare Boromir e gli accarezzò la mano. Le parve irreale che fosse nuovamente lì, davanti ai suoi occhi. Quelle settimane di lontananza non le erano mai sembrate così lunghe e l’ultimo periodo aveva dovuto addirittura convincersi del fatto che, con molta probabilità, non l’avrebbe potuto più vedere. E invece eccolo lì, grande e grosso come lo ricordava, sebbene ora fosse innocuo come un cucciolo di cane. «Chi abbiamo perduto?»

Lo sguardo di Aragorn si fece duro per la tristezza, ma fu Faramir a rispondere, poiché il caduto era ormai parte dei Raminghi dell’Ithilien ed era morto tra le sue braccia. «Elegost il Dúnadan. Uccise il Comandante degli Esterling, lo stesso che ha ridotto mio fratello in queste condizioni. Le sue ultime parole furono per il Sovrintendente... e per te, mia signora.»

Brethil chiuse gli occhi, sentendo le lacrime pizzicarglieli con urgenza. Elegost era stato un caro e silenzioso amico, da quando aveva memoria; non aveva mai capito, o forse non aveva mai voluto farlo, se la devozione che aveva nei suoi confronti fosse mera amicizia o un sentimento più forte. Boromir, durante sporadici momenti di gelosia, le aveva confessato che credesse che l’uomo l’amasse, e lei rispondeva sempre con una risata e un diniego del capo. Qualsiasi cosa Elegost provasse per lei, era sempre stato un ottimo compagno di viaggio e di battaglie e saperlo in una pira di legno, che attendeva di essere bruciata insieme ai cadaveri degli altri caduti, le strinse il cuore.

La morte era un aspetto della sua vita a cui avrebbe dovuto essere allenata, poiché l’aveva vista in faccia fin troppo spesso; eppure non ci si abituava alla perdita degli amici o della propria famiglia, perché era come se morisse con loro una parte di lei. Quella più grande se n’era andata con i genitori e, successivamente, con la dipartita di Halbarad.

Guardò Boromir, ancora profondamente addormentato, e gli baciò la mano. Era più che sicura che se l’Uomo non avesse riaperto gli occhi, allora sarebbe morta di dolore anche lei. Il pensiero fu confortante, in un certo senso. Qualunque fosse la fine dei loro corpi e delle loro anime, era più che sicura che vi sarebbero andati insieme. Perché il giorno in cui Brethil aveva salvato la vita di Boromir fu lo stesso in cui avevano irrimediabilmente sancito il legame che li univa e che li avrebbe legati fino alla fine dei loro giorni, e oltre.

«La tua ferita?» domandò Aragorn, spezzando il flusso dei suoi pensieri. «Non dovresti essere in piedi, amica mia.»

Lei scrollò le spalle. «Sopravvivrò. Ora è solo fastidiosa... odio non potermi muovere liberamente.»

«Lo so bene; non saresti qui, altrimenti.» Il Re si lasciò sfuggire un sorriso e si rizzò sulla sedia. «Lascia che la controlli. Sono certo che Ioreth e mia moglie abbiano fatto un buon lavoro, ma vorrei assicurarmene di persona.» E lei non si ritrasse, perché sapeva bene che non avrebbe avuto la forza fisica né mentale di farlo.

Fu dopo che l’Uomo le pulì la ferita con le sue erbe e gliela fasciò con bende pulite, che Faramir e Aragorn lasciarono la stanza e lei, con un po’ di fatica ma tanta determinazione, si stese accanto al suo Sovrintendente, Capitano e Signore, accarezzandogli il volto e quei capelli biondi che tanto amava sfiorare. Si addormentò così, con il capo sul cuscino accanto a quello dell’uomo e un braccio attorno al torace robusto e levigato dagli allenamenti.

Le era mancato il suo calore e il suo odore.

E lei, dopo tanto tempo di smarrimento, si sentì finalmente a casa.

 

 

 

*

 

Per tutti i Valar, la prima parte è stata uno strazio da scrivere. Spero di non aver fatto un pasticcio. >_<

Tutti più sollevati che Boromir vivrà? Mi credevate davvero così sadica da ammazzare il mio personaggio preferito? *-* Ah!

Al prossimo capitolo – che non ho idea di quando giungerà, ohibò! Ma spero entro la fine del mese. :)

Un caro saluto,

Marta.

 

 

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Capitolo 22
*** 22. ***


E fu così, che dopo l’ennesima settimana passata a smadonnare contro autocad ed affini, trovai il tempo di concludere il capitolo e pubblicarlo.

*applausi*

Scherzi a parte, sto iniziando a sentire la pressione di Aprile che si avvicina.

Dormo da cani, l’ispirazione per il progetto scarseggia e come sempre relatore e correlatore si divertono a cambiare le carte in tavola un giorno sì e l’altro anche.

Ma io resisto. >_<

Nel frattempo, godetevi finalmente il nuovo capitolo! E, ripeto finalmente, sarà più leggero dei precedenti! ;)

Buona lettura e grazie infinite a tutti voi che continuate a seguirmi e che mi dite così tante belle, bellissime parole.

Non me le merito. *//*

Un caro saluto,

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

22.

 

30 Settembre 3019 T. E.

 

C’erano caduti e feriti ovunque.

La sua lhang grondava di sangue e lei faticava a restare in piedi; il dolore al fianco era lancinante, ma doveva trovare le forze di rialzarsi e mantenere la posizione, per difendersi e difendere.

Le mura della Città Bianca parevano infinitamente alte.

Non ricordava che lo fossero così tanto.

Chinò lo sguardo sulla sua divisa, ma non indossava l’uniforme che Aragorn le aveva donato quando l’aveva nominata Prima Guardia del Re. Era nei suoi vecchi abiti grigi da Dúnadan, la spilla argentata che brillava sulla spalla sinistra, e per un momento si chiese se si trovasse davvero a Gondor o se fosse tornata al Nord, sotto le rovine della perduta Annúminas.

La sua attenzione venne catturata immediatamente dall’Albero Bianco ricamato sulla tunica di un soldato e riconobbe Boromir, steso sul terreno. Era immobile, con l’espressione rilassata di chi stava riposando. Ma solo quando gli si chinò accanto, nonostante il fianco che pulsava incessantemente, che si accorse che Boromir non stava affatto dormendo, giacché non respirava più.

Tentò di gridare il suo dolore, di allungare una mano verso l’uomo per riscuoterlo. Ma nessun suono uscì dalla sua gola, né alcun muscolo volle rispondere al suo volere.

Eppure un grido si levò nell’aria. Era terribile e lo conosceva bene.

Il freddo mortale di quel suono stridulo la fece raggelare sul posto e per un attimo credette che anche il suo cuore si fosse fermato dalla paura. Tentò di tapparsi le orecchie, per fuggire a quella tortura, ma la voce riprese a gridare ancora più forte. Pareva che stesse parlando, ma lei si rifiutava di capire cosa stesse dicendo.

Fu solo quando il grido fu così assordante da non poter essere più ignorato, che si rese conto che ciò che udiva non era la voce lacerante di un Nazgûl, ma bensì apparteneva alla solita, vecchia Ioreth.

«Beneamato Eru, mia signora!» sbraitò per l’ennesima volta, finché Brethil aprì finalmente gli occhi appannati, sbattendo più volte le palpebre per mettere a fuoco soffitto in pietra della stanza. «Si può sapere cosa ci fai qui? Non è la tua stanza, se ben ricordo; ed è oltremodo indecoroso trovarti nel letto del Sovrintendente! Suvvia, prendi la tua gruccia e tornatene nella tua camera – e che il Re non mi punisca se ti lego al tuo letto, per una buona volta! Dovrei proprio farlo, giacché ogni volta decidi di andartene a spasso quando ti ho chiaramente vietato di muoverti! Per l’amore dei Valar, neppure quel Nano borioso è riuscito a fermarti? Che il cielo mi aiuti contro la tua testardaggine!»

Brethil si stropicciò il viso, ancora assonnata e rintronata dal sogno inquietante e dal fiume di parole della guaritrice, che non pareva preoccuparsi del suo stato di shock, né tanto meno poteva conoscere le inquietudini che l’avevano spinta in quello stesso letto il giorno prima. Infischiandosene della donna, Brethil si mise a sedere, osservando il volto ora un po’ meno pallido di Boromir. Allungò una mano verso il naso dell’uomo e si rilassò nel rendersi conto che respirasse. Continuava a dormire in quel sonno profondo da cui non sembrava volersi risvegliare e si domandò quanto tempo ancora sarebbe passato prima di potersi perdere nuovamente nei suoi occhi chiari. Le mancava il suono vibrante della sua voce, i suoi rari sorrisi, i loro duelli – verbali e non.

Erano vivi entrambi, ma mai come allora si era sentita così vuota.

«Mia signora.» riprese Ioreth, con un sospiro. «Immagino che sia in pena per il mio signore Boromir, ma anche tu hai bisogno di riposare e non di faticare in giro per le Case di Guarigione. Stai pur certa che sarai la prima persona che avviserò, se il Sovrintendente si dovesse svegliare.»

«Il Sovrintendente si sveglierà.» Rimarcò Brethil, passandosi una mano sulla fronte. «E non mi muoverò da questo letto, neppure se Aragorn stesso me lo ordinasse. Voglio essere presente quando avverrà.»

Le parole di replica della vecchia donna furono interrotte da un paio di nocche che bussarono alla porta e Brethil ringraziò chiunque si nascondesse dietro l’uscio per il suo tempismo. Poco dopo Rainiel l’aprì, rivolgendo un timido sorriso alla sua signora e chinandosi lievemente per un saluto. «Chiedo perdono per il disturbo, ma c’è una visita per te, dama Brethil. Non ti trovavo nella tua stanza e immaginavo saresti stata qui.»

Brethil annuì debolmente, sbirciando oltre le spalle della sua ancella; corrugò la fronte appena si accorse di Ecthirion, che mosse qualche passo dentro la stanza, con le spalle incurvate dalla stanchezza e forse dalla vergogna. Aveva il petto completamente fasciato e la spalla ferita perdeva nuovamente sangue, bagnando le bende candide; era stato accorto, però, ad infilarsi una maglia per nascondere la macchia rossa agli occhi attenti di Ioreth, ben conoscendo la donna e avendo poca voglia di udire le sue paternali – che ovviamente quella non gli risparmiò.

«Varda e Yavanna! Quale parte di dovete riposare non vi è chiara? Nemmeno i miei nipoti, che hanno tutti meno di dieci anni e sono più scalmanati di un branco di cani affamati, è così difficile metterli in riga!»

«Ho un graffio alla spalla, niente che possa impedire alle mie gambe di muoversi, buona donna.» borbottò a denti stretti Ecthirion, che prese una sedia e la posizionò poco distante ai piedi del letto, senza badare ulteriormente alla guaritrice. Scambiò una veloce occhiata con la Dúnadan, che aveva sistemato un cuscino contro la schiena, per sdraiarsi nuovamente e non sforzare troppo il fianco. Nessuno dei due osò parlare, finché Ioreth e Rainiel erano nella stanza. La guaritrice, che controllò sia lo stato di Boromir che quello di Brethil, continuò a mormorare improperi contro le loro teste calde, rimpiangendo i tempi in cui la sua posizione era più rispettata ed autoritaria; se ne andò poco dopo, seguita dall’ancella, che dovette sorbirsi le sue sgridate e le lunghe lamentele – come se lei, poi, potesse impedire ad un guerriero come il Secondo Capitano, o alla sua signora, di rimanere degente in un letto.

Quando la porta fu chiusa alle loro spalle, la stanza cadde in un pacifico e agognato silenzio. Godettero dell’assenza della voce gracchiante della guaritrice per parecchi minuti; il sole era ormai alto e Minas Tirith era nuovamente in pieno fermento per riparare i danni della battaglia. Brethil si domandò come stesse Trán, se fosse in compagnia e con la mente occupata e lontana dai cattivi pensieri. Sperò vivamente che così fosse, anche se sapeva bene che in situazioni come la sua neppure il miglior giullare sulla faccia della terra avrebbe potuto risollevarle il morale.

Ecthirion sospirò pesantemente, riportandola con i piedi sulla realtà. Lo osservò a lungo, rendendosi conto di come invece lui sfuggisse il suo sguardo, ora sul pavimento, ora su Boromir. «Il Re mi ha detto che sia fuori pericolo.»

«È ciò che ha detto anche a me.»

L’uomo inspirò nuovamente, decidendo finalmente di osservarla.

La Sfregiata.

Una donna.

La stessa che aveva umiliato e deriso per mesi, che gli aveva rubato il posto accanto all’Elessar, che lo aveva nascosto nell’ombra.

La stessa donna che gli aveva salvato la vita.

«Come stai, mia signora?»

Brethil attese qualche istante prima di rispondergli. Era evidente che il Secondo Capitano fosse in estremo disagio, ora che la battaglia era conclusa, con tutto ciò che aveva comportato, e i vecchi asti erano tornati a galla. Nessuno dei due avrebbe potuto dimenticare i loro trascorsi, gli insulti e i continui litigi, poiché erano legati da un profondo odio l’uno per l’altra. Eppure Ecthirion sapeva bene che avrebbe dovuto ingoiare il fastidioso nodo alla gola e mettere da parte la vergogna, per ringraziarla a dovere e porgerle delle valide scuse.

«Dovrò stare lontana dall’arena di allenamento per un po’.» borbottò la donna, evidentemente infastidita dalla sua impossibilità di muoversi liberamente. «La tua spalla?»

«Temo che saremo in due ad annoiarci.»

Ricaddero nuovamente nel silenzio imbarazzante di poco prima, poiché Brethil non fece niente per sollevare una discussione, mentre l’uomo tentava di trovare le parole adatte.

Ma infine l’Uomo ci riuscì, con fatica. «Quando il Sovrintendente tornò in città prima della battaglia del Pelennor–» iniziò, inumidendosi le labbra. «–quasi stentai a riconoscerlo. Nonostante fosse concentrato sui suoi doveri, spesso mi pareva con la mente altrove; e quando qualcuno gli chiedeva a cosa stesse pensando, iniziava a parlare della sua Salvezza, di quanto avrebbe voluto averla accanto. E quando confidò di essere stato curato e difeso da una donna, sembrava così sereno eppure tormentato che ebbi paura. Ebbi paura che la tua comparsa, e successivamente la tua presenza, fossero una distrazione, che perdessimo il nostro Capitano nel momento in cui ne avevamo più bisogno.»

Brethil non si rese subito conto di stringere i denti e i pugni finché non iniziarono a dolerle per lo sforzo. Si impose però di rilassare muscoli, decisa ad ascoltarlo fino alla fine con pazienza, come sempre aveva fatto in quell’ultimo periodo di vita.

«In quel momento non m’importava che tu gli avessi salvato la vita. Che senso aveva che fosse ancora sulle sue gambe, se pareva più preoccupato di tenerti a bada, piuttosto che occuparsi della sua gente?» Ecthirion chiuse gli occhi, strizzandoseli con due dita, prima di riaprirli e riprendere a parlare. «E continuavo a chiedermi: cosa può trovare un uomo come lui in una... donna poco femminile come te, senza dote né bellezza? Una donna che maneggia la spada come un uomo, tra l’altro.» Rise, senza divertimento. «La verità è che provai invidia. Una profonda e disgustosa invidia; eri giunta vestita di stracci e avresti presto indossato la divisa della Prima Guardia del Re. Perché tu e non me? Perché tu, una donna che ha avuto la fortuna di crescere con l’erede al trono di Gondor e che non aveva mai veduto Minas Tirith con i propri occhi, e non un uomo che ha servito questo Regno per tutta la vita?»

Brethil chinò il capo. In un certo senso capiva la rabbia e la frustrazione del soldato. Ma sebbene fosse nata nel lontano Nord, era cresciuta con la speranza di trovare la via verso la terra dei suoi antenati, combattendo con Aragorn e con il resto degli esiliati Raminghi. Il servizio che aveva reso a Gondor, sebbene lontano dai suoi confini, la rendeva meno degna di indossare la sua uniforme?

Lei non aveva chiesto niente di tutto ciò che le era stato dato.

Non aveva chiesto di essere nominata Capitano della Guardia Reale.

Non aveva chiesto di innamorarsi del Sovrintendente e di essere ricambiata.

Quali colpe poteva avere, lei, se non quelle di aver compiuto il suo dovere e di essere stata se stessa?

«So cosa stai pensando.» fece Ecthirion, sorridendo tristemente. «Ho creduto che fossi riuscita ad incantare tutti con un passato tormentato, giacché quelle cicatrici non porteranno sicuramente buoni ricordi. Ho creduto che ti fossi abbassata a meri giochi di potere, per raggiungere la tua posizione.» Ecthirion abbassò lo sguardo su un pugno chiuso, sperando di trovare la forza di riuscire a dire ciò che stava per pronunciare. «Ma ora so. Ora capisco

Brethil lo osservò con curiosità, le labbra strette in una linea sottile e gli occhi grigi che lo scrutavano con attenzione.

«Diedi la mia totale fiducia ad un Uomo che non esitò a colpire me e la nostra gente alle spalle, nel peggiore dei modi; e non riuscii a darla a te. Ma capii chi tu fossi realmente quando udii il tuo discorso all’esercito, prima della partenza verso l’Harad. Lo capii quando ti vidi tornare per difendere le mura di questa città. Ti ho veduta combattere e... e salvarmi la vita, quando eri ferita.»

«Se non fosse stato per te, non sarei qui, ora.» fece Brethil, parlando per la prima volta dopo tanto. «Ci siamo salvati a vicenda, se la memoria non m’inganna.»

Ecthirion annuì. «E devo ammetterlo, sono in pace per averlo fatto.»

«Lo sono anche io.»

L’uomo rimase in silenzio, osservando il volto rilassato del Sovrintendente. Non sarebbe riuscito a chiederle perdono per il suo comportamento passato, giacché lo aveva fatto in un momento di dolore e gioia alla fine della battaglia. D’altro canto, non vi era bisogno di farlo a voce alta. Quel lungo discorso fu sufficiente per Brethil. Non sarebbero mai stati amici, di quello erano certi entrambi. Ma per il momento avevano firmato una tregua e la donna sperò che durasse più di qualche giorno, ora che gli aveva dimostrato di essersi meritata la carica che ricopriva. Era sinceramente stanca di dover subire i suoi insulti.

Ecthirion si schiarì la gola e si alzò con lentezza, nascondendo abilmente una smorfia di dolore per una forte fitta alla spalla. «Sarà meglio che ora vada a farmi cambiare le bende.»

«Non sentirai la fine della predica Ioreth, altrimenti.» annuì lei. «Scusami se non mi alzo.»

«Conosco la via d’uscita.» Si fermò con la mano sul pomello della porta, senza voltarsi. «Prenditi cura di lui. E... per favore, avvertimi se dovesse risvegliarsi.»

Con un cenno del capo, Brethil lo osservò sparire dalla stanza e si rilassò nuovamente contro i cuscini. Ma non ebbe il tempo di rimuginare troppo sulla discussione che avevano appena intrapreso, perché una voce roca eppure tremendamente familiare le fece voltare il viso verso il corpo steso sul letto accanto al suo, e lo fece con così tanta veemenza da farsi venire un crampo al collo. Non seppe dire se le lacrime che le pizzicarono gli occhi furono di sollievo o di dolore.

«Un bel... discorso, direi.»

Brethil scoppiò a ridere di felicità, vedendo gli occhi chiari del suo Sovrintendente aprirsi con debolezza e sorriderle. Dimenticando la ferita in via di guarigione, gli si strinse contro, baciandolo ripetutamente su una guancia ispida, mentre le lacrime e le sue risate gli solleticavano la pelle.

«Non farlo mai più.» gli ordinò in un sussurro, nascondendo il viso sull’incavo del collo e inspirandone il profumo. «Non farlo mai più, Boromir. Ho temuto che–»

«Sono qui.» l’interruppe lui, cercando di muovere un braccio per accarezzarle il volto sfregiato. «Sono qui, ora.»

«Sì, sei qui.» ripeté Brethil più volte, come se servisse a convincersi che fosse davvero lì, con lei, lontano dal pericolo. Si sciolse come neve al sole nel sentire i polpastrelli ruvidi dell’uomo sfiorarle la pelle del viso e gli strinse la mano nella sua, mentre lui piegava il capo di lato per osservarla e tentare di metterla a fuoco. Era ancora privo delle minime forze, ma aveva bisogno di vederla e guardarla, dopo tutto quel tempo interminabile di lontananza. Ed eccoli lì, dopo numerose strizzate di palpebre, quegli occhi grigi e profondi che sembravano leggerlo come un libro aperto; quelle cicatrici orribili che le deturpavano il bel viso e il suo sorriso... oh, quel sorriso non lo avrebbe dimenticato tanto facilmente, dopo quel giorno. Poiché Brethil sorrideva raramente e quello fu il più bel regalo di bentornato che potesse fargli.

Stava per allungare il collo e catturare le sue labbra in un leggero bacio, quando lei si sollevò su un avambraccio e lo osservò con preoccupazione. «Sei a digiuno da giorni interi; te la senti di mangiare qualcosa? Ioreth ha portato del cibo, poco fa. Sarai disidratato, lascia che ti aiuti.»

Boromir fu quasi sommerso da tutte quelle parole e non poté esimersi dal sogghignare. Gli tornarono in mente quei lenti giorni trascorsi sui colli di Amon Hen, quando lei si prendeva cura delle sue ferite e lo riportava gradualmente in forze. Ma quando la vide muoversi con fatica, con una mano premuta sul fianco, il sorriso gli si spense sul volto. «Sei ferita.»

«Non è niente di grave.» borbottò lei, tentando di mettersi a sedere per poi raggiungere il vassoio che Ioreth aveva lasciato poco prima sulla cassapanca.

«Brethil, non dovresti muoverti.» Glielo disse in un sussurro roco, poiché la gola era arsa dopo così tanto tempo in silenzio e con pochi liquidi in corpo; ma alle orecchie della donna suonò come un ordine improrogabile e gli lanciò un’occhiataccia.

«Hai bisogno di bere, Boromir, e di mettere qualcosa nello stomaco. Non sei morto dissanguato e non ti lascerò certamente morire di stenti.» replicò, afferrando la gruccia e avvicinandosi al cibo. «Ho già la vecchia cornacchia alle calcagna, non ho bisogno anche di te.»

Non ci fu bisogno di spiegazioni, perché l’uomo capì perfettamente a chi si stesse riferendo. Tentò di mettersi a sedere e ci riuscì con difficoltà, ma solo grazie alla sua ostinatezza e non certo ai suoi muscoli addormentati. Non ricordava come si fosse ridotto in quelle condizioni, ma doveva essere sicuramente qualcosa di spiacevole e non certo a causa di una pesante sbronza. Accettò senza ulteriori lamentele il bicchiere d’acqua che Brethil gli fece bere e dovette calmare la sua sete pur di non finirla in un unico sorso.

«Cosa ti è accaduto?» le domandò, mentre la osservava riempire nuovamente la coppa.

«È stato un Haradrim più alto ed imponente di te, che ora è felicemente cenere nell’aria.» lo aiutò a bere qualche altro sorso, per poi dedicarsi alla zuppa ormai tiepida e a qualche pezzo di pane fresco.

L’ostinatezza di Boromir, che gli gridava di non lasciarsi imboccare come un bambino, lo portò ad afferrare il cucchiaio in legno dalla presa della donna; ma la mano gli tremava troppo e grugnì di disappunto.

Brethil sorrise, baciandogli la punta del naso. «Nessuno lo verrà a sapere; te lo prometto.»

Quasi non fece in tempo a finire la frase, che la porta si spalancò di nuovo e questa volta furono Legolas e Gimli, insieme ai gemelli di Imladris, a fare la loro comparsa, proprio mentre Boromir socchiudeva le labbra per mangiare.

«Beh, se questa non è un’immagine memorabile.» esclamò Gimli, piantandosi i pugni sui fianchi e sollevando la fronte, con divertimento. «Direi che supera persino il fanciullino ubriaco.»

Legolas sorrise, battendogli una mano sulla spalla. «Non fui io a cadere privo di sensi sul pavimento. Ma non pretendo che te lo ricordi.»

Il viso colorito di Boromir divenne pallido in un baleno e Brethil non riuscì a frenare una risata. Era troppo sollevata, troppo contenta e troppo divertita dal suo imbarazzo per trattenersi. L’Uomo l’ammonì con lo sguardo e borbottò qualcosa contro il tempismo dei quattro, ringraziando che avesse a disposizione un cucchiaio e non un coltello da piantargli in fronte; quelli, ovviamente, si erano richiusi la porta alle spalle e ora lo avevano circondato attorno al letto.

«Bentornato tra noi, Capitano.»

«Vedo che thêl si sta prendendo ben cura di te.»

«Come una mamma col suo bambino, oserei dire, fratello!»

«Sapete.» esordì Boromir, cercando di ritrovare dignità rizzando la schiena. «Sto quasi per rimpiangere i miei giorni di incoscienza.»

«Ti conviene rimetterti in forze al più presto, amico mio.» fece Aragorn, comparendo sul davanzale della finestra che dava sui giardini. «Perché temo dovrai tagliare un po’ di lingue, appena si saprà in giro cosa ho visto.»

Il Sovrintendente si lasciò cadere sui cuscini, mentre una risata stanca e roca gli rasserenava il viso. «E che la tua sia la prima a cadere, mio Re!»

 

 

 

Aveva dormito poco quella notte.

Se si fosse addormentato in quella situazione, solo qualche giorno prima, era più che sicuro che avrebbe dormito il sonno più pacifico di tutta la sua lunga vita. Eppure i continui tremolii di Trán dettati dagli incubi non gli fecero chiudere occhio. La sentiva sussurrare disperatamente e muoversi indisposta tra le sue braccia robuste, che non avevano intenzione di lasciarla andare via; ma neppure il calore rassicurante del suo respiro contro il viso contrito della Nana avrebbe potuto allontanare il freddo del buio degli incubi che ora la perseguitavano.

Allora aveva persino deciso di mormorare una ninna nanna, che soleva cantare ai fratelli quando erano ancora piccoli e spaventati dagli eventi di Smaug e dalla scomparsa prematura della loro madre; la stessa che suonava con l’arpa a Fili e Kili per farli addormentare, quando Dís era troppo stanca per raccontare loro qualche storia. Solo allora Trán pareva rasserenarsi un poco, sospirando di sollievo e accoccolandosi inconsciamente contro il suo petto. Ma quando quelle dolci parole terminavano, riportando la stanza nell’assoluto silenzio, allora le ombre degli incubi tornavano e lei riprendeva ad agitarsi.

Thorin la osservò per interminabili minuti, ora che il sole iniziava a sollevarsi sull’orizzonte e i suoi timidi e tiepidi raggi le illuminavano il volto. Pareva più rilassata, giacché forse la stanchezza l’aveva finalmente colta in un sonno senza sogni. Le accarezzò lievemente la linea del naso, sfiorando quelle piccole labbra tentatrici e socchiuse, studiandola come se fosse l’Archepietra in carne ed ossa e tentando di capire come potesse essere così bella e vera, lì tra le sue braccia.

I rumori provenienti dalla cucina, al piano di sotto, gli suggerirono che qualcuno  dovesse già essere in piedi – e dato il baccano, doveva trattarsi dei nipoti. Da quando lui e la sua cerchia di amici e lavoratori avevano ripreso le forze, non passavano che un paio d’ore dopo l’alba prima che andassero a lavorare alacremente per riparare i danni della battaglia e terminare il lavoro per cui erano giunti da così lontano. Persino i fratelli della Nana avevano deciso di occuparsi pienamente delle proprie attività, per scaricare la frustrazione, la rabbia e il dolore che la perdita del loro padre gli aveva causato.

Quel giorno non era diverso dagli altri, se non fosse per il fatto che Thorin aveva deciso di portare Trán nel suo alloggio, dato che Brethil aveva avuto la brillante idea di andarsene in giro per le Case di Guarigione. Non aveva avuto il cuore di svegliarla per darle la buona novella, anche se forse avrebbe dovuto farlo; un po’ di luce, in tutto quel buio, non avrebbe potuto far altro che regalarle un sorriso. Le era parsa troppo stanca e pallida, per farlo.

Ma era ora giunto il momento di alzarsi e non voleva lasciarla da sola, in una stanza che non avrebbe riconosciuto subito, appena si fosse svegliata. Così chinò il viso, baciandola leggermente tra i capelli, sulla fronte, sulla punta del naso, mentre la chiamava per nome in un sussurro. La sentì stiracchiarsi, le gambe che accarezzavano le sue mentre si allungavano intorpidite, e Trán sbatté più volte le palpebre nel dormiveglia, mugugnando qualche parola di protesta.

«Ancora un altro po’, Káel...»

«Melhekhinh, è tempo di svegliarsi.» La sentì rabbrividire nel percepire il suo fiato su un orecchio e fu solo allora che aprì gli occhi. Il sorriso del Nano sparì nel momento in cui Trán lo osservò a lungo e si rese conto che no, quello non era suo fratello.

«Brethil... dov’è Brethil?» domandò d’improvviso, mettendosi a sedere e guardandosi intorno. Nonostante fosse ancora mezzo addormentata, realizzò più di una cosa, in quel momento: quella non era la stanza dove la donna riposava e riprendeva le forze, e lei non ricordava di aver abbandonato il capezzale dell’amica per nessun istante; il corpo che aveva accanto non era certo quello femminile contro il quale si era addormentata e quando si rese conto di chi si trattasse, il pallore del suo viso parve scomparire, sostituito da un rossore imbarazzante.

«Th-Thorin, cosa...»

Il Nano allungò una mano verso il suo volto confuso e la esortò a sdraiarsi nuovamente. «Brethil sta bene, non devi preoccuparti.»

Trán gli si accoccolò contro, ancora perplessa. «E dove è? Perché non sono con lei? Ti avevo chiesto di svegliarmi!»

Il Re le asciugò il viso dalle lacrime, che avevano iniziato a bagnarle le guance senza che se ne accorgesse. «Eri stanca, Trán. E lo sei ancora, a quanto pare. Ma non volevo lasciarti sola ed è tempo della colazione; mi accompagneresti o vorresti continuare a dormire?»

«Mi hai... mi hai portata tu qui?»

Thorin annuì. «Non ti ho abbandonata neppure un istante.»

Ponderò a lungo quella risposta, non sapendo se essere imbarazzata, sollevata o arrabbiata. Anche se, più probabilmente, era tutte e tre le cose. Deglutì il nodo alla gola per il doloroso ricordo degli incubi e decise di tranquillizzarsi un poco. Era tra le braccia del suo Re, protettivo e amorevole come poche volte lo aveva visto, e a quanto pareva Brethil stava bene.

Ma lei no.

Lei non stava bene.

Anche se tentava di farsi forza, anche se continuava a convincersi che prima o poi quel vuoto incolmabile si sarebbe affievolito, sebbene non sarebbe mai scomparso.

«Trán...»

La voce di Thorin la riportò alla realtà, mentre la stringeva con affetto. L’urgenza di sentire il suo amore, affinché cancellasse per qualche momento il dolore, si fece così intensa che si rese conto di baciarlo solo quando lui, colto di sorpresa, iniziò a ricambiare con ardore. La piacevole sensazione di quelle labbra sulle sue, quella ruvida della barba contro la sua pelle e il peso di lui che la premette contro il letto la fece avvampare dello stesso calore che l’aveva colta prima che Fili e Kili li interrompessero, qualche giorno prima. Per un lungo istante dimenticò persino come si chiamasse, quando percepì le ruvide dita del Nano accarezzarle la linea dei fianchi. Fu quando i baci si spostarono sul collo e Trán non riuscì a trattenere un gemito di piacere, che Thorin tornò con la mente alla realtà e si fermò ad osservarla, bevendo con lo sguardo le sue palpebre abbassate, le labbra dischiuse e le gote più rosee del solito.

«Perché–» mormorò la Nana, riaprendo gli occhi, non più appannati per il sonno ma per qualcosa che aveva a che fare con il tremendo capogiro che i baci di Thorin le avevano procurato. «–perché ti sei fermato?»

«Perché, Habanuh–» le sussurrò, prima di accarezzarle il naso con il suo e baciarla lievemente sulle labbra arrossate e umide. «–rischierei di non fermarmi.»

«Oh.»

Il Nano rise piano, nel constatare per l’ennesima volta la sua tremenda timidezza. «Inoltre, questo letto non è esattamente quello che vorrei, per un momento importante come quello

Trán ebbe timore di chiedergli “E quale letto sarebbe più appropriato, mio signore, fintanto che ci sei tu sopra?”, ma Thorin capì ugualmente la sua domanda.

«Il baldacchino dei miei alloggi, ad Erebor, è decisamente più comodo ed adatto ad un Re e alla sua signora.» le sussurrò in un orecchio, baciandoglielo e facendola rabbrividire. Aveva le orecchie appuntite dei tanto detestati Elfi, ma sapere che fossero così sensibili non faceva che intrigarlo oltre ogni decenza. La baciò un’ultima volta con lentezza sulle labbra, prima di mettersi a sedere e porgerle una mano. «Dunque, parlavamo della colazione, se non erro.»

La Nana scosse il capo e trovò la forza di ridacchiare – cosa per cui lui fu più che sollevato. «Mi sto rendendo conto che hai la cattiva abitudine di distrarmi.»

«Le mie più profonde scuse, dama Trán. Ma non biasimarmi, giacché anche io vengo facilmente deconcentrato.»

Si alzò, sgranchendosi le gambe e constatando che quella ferita non facesse più male come i giorni precedenti. «Preferisci continuare a riposarti?»

Trán scosse con forza il capo, accettando il braccio che lui le porse poco dopo. «No, c’è del lavoro da fare e ho poltrito abbastanza, questi giorni. Passerò a trovare Brethil e poi vi raggiungerò alle forge, dopo colazione.»

Il Nano ne fu oltremodo felice e la baciò tra i capelli, con il cuore più leggero. Scesero verso la sala da pranzo e furono accolti dal profumo di pane fresco, uova e pancetta. Balin offrì loro una tazza di the fumante e fu felice di vedere l’espressione meno crucciata della Nana. Eppure, quando Trán incrociò lo sguardo di Káel, rimasto solo insieme a lei e Trión dopo la partenza degli altri due fratelli, il groppo alla gola tornò a farsi sentire nuovamente e dovette inspirare con pesantezza per ricacciarlo indietro. Gli si avvicinò per dargli l’abbraccio del buongiorno  e Fili e Kili, che fumavano con lui poco distanti dal caminetto spento, gli furono addosso, apparentemente gelosi di quello scambio d’affetto, ma in realtà determinati a far tornare il sorriso sulle labbra dei loro due amici.

Kili sollevò le sopracciglia nel vedere lo sguardo perplesso del guerriero tatuato, che aveva fermato un cosciotto di pollo a pochi centimetri dalla bocca. «Avanti, mastro Dwalin!» fece il minore dei fratelli, agitando un braccio per invitarlo ad unirsi a loro. «C’è spazio per tutti!»

Quello, d’altronde, sbarrò gli occhi inorridito, come se l’idea di un abbraccio gli causasse una reazione allergica, e riprese a mangiare, mentre il fratello ridacchiava sotto i baffi candidi. Thorin prese posto a capotavola e, guardando la sua famiglia, per la prima volta dopo giorni ebbe la piacevole sensazione che le cose sarebbero potute solo migliorare.

Sperò vivamente che non si sbagliasse.

 

 

 

*

 

E finalmente Boromir ritorna in forze! Sì, beh, più o meno.

Mi mancavano quei due insieme. Aww ho tante belle cose in mente, per loro. <3

Vi lascio e vi do appuntamento al più presto possibile – che non ho idea di quando sia in realtà.

Portate pazienza, vi prego.

Prima o poi prenderò il dannato pezzo di carta, sarò tristemente disoccupata e avrò tanto tempo per scrivere.

Un abbraccio!

Marta.

 

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Capitolo 23
*** 23. ***


Rieccomi! Credevo di aggiornare dopo la laurea, e invece in una notte insonne sono riuscita a buttare giù questo capitolo – qualunque cosa esso sia.

Capitolo cortino, poca azione ma tanti dialoghi, vi avverto. Ma era un lavoraccio che andava fatto, soprattutto tra i miei nostri due eroi preferiti – B&B. ;)

Probabilmente questa è la volta buona in cui, al prossimo aggiornamento, sarò finalmente architetto – se tutto andrà bene, ovviamente.

Quindi sparisco e vi lascio al capitolo!
Prima però vorrei ringraziarvi ancora una volta per il vostro supporto e la vostra pazienza. Significa davvero tanto per me.

E chiedo scusa se ancora non ho risposto alle ultime recensioni, ma prometto che lo farò appena riuscirò a liberarmi la testa dal progetto per una decina di minuti.

È il minimo che posso fare per ringraziarvi a dovere. :)

Sappiate che vi abbraccio virtualmente forte forte, intanto. <3

Vi adoro,

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

23.

 

30 Settembre 3019 T. E.

 

Trán fu lesta a terminare la colazione. Non aveva appetito neppure quella mattina, ma si sforzò di mandar giù più di qualche briciola di pane, notando quanto Thorin e Káel la stessero controllando affinché non s’indebolisse troppo. Persino Dwalin le aveva spinto sotto il naso una bella fetta di formaggio, con lo sguardo di uno che non avrebbe accettato facilmente un rifiuto. I Nani parlarono quietamente del lavoro che li attendeva anche quel giorno e lei si appuntò mentalmente di spedire una parola al Signore dei Rohirrim, per informarlo che era a sua completa disposizione e a quella delle armi dei suoi soldati.

Aiutò Balin a sparecchiare il tavolo ed accatastarono le stoviglie sporche dentro una tinozza d’acqua, sapendo per certo che qualcuno sarebbe passato a ripulire tutto. Trán li ringraziò profusamente per la colazione e per la loro ospitalità, giacché aveva scoperto che anche Káel e Trión avessero dormito in quegli stessi alloggi durante le notti precedenti. Dwalin fece per batterle un’impacciata manona sulla testa, ma si ritrasse subito, ricordandosi che quella un giorno sarebbe potuta diventare la sua Regina, e si limitò a borbottare qualcosa come “Sciocchezze”, prima di sparire alle officine con il fratello e i più giovani.

Rimasti soli, Thorin si avvicinò alla compagna, prendendole una mano tra le sue e baciandone il dorso. «Bada che potresti non trovare dama Brethil nella sua stanza.»

«Come no?» domandò Trán. «È ferita e debole, perché non dovrebbe stare a letto?»

«Perché è testarda ed insofferente. Ed è preoccupata per le persone che ama, proprio come te.»

La Nana sospirò. «Grazie per avermelo detto. Se avessi trovato la sua stanza vuota avrei pensato al peggio.»

Come sempre. «Vorresti che ti accompagnassi?»

«No, non preoccuparti. Sei richiesto alle forge.» Gli accarezzò il viso con la mano libera e sorrise quando lo vide chiudere gli occhi, tendendosi verso la morbidezza delle sue carezze. «Non impiegherò molto; voglio solo assicurarmi che stia bene... e voglio... voglio sentirlo con le sue parole.»

«E sia.» Thorin si chinò per baciarle le labbra. «Attenderò con pazienza di vederti nuovamente lavorare al mio fianco. Nonostante le officine siano piene, per me sono tremendamente vuote senza la tua presenza.»

«Oh, Thorin.» mormorò lei, abbracciandolo e lasciandosi scappare un singhiozzo. Temendo di aver detto qualcosa di inappropriato, il Nano si scostò il tanto che serviva per osservarla e sbarrò gli occhi quando vide i suoi lucidi di lacrime. «No, non preoccuparti.» lo zittì prima ancora che potesse parlare, affondando il viso contro il collo ispido del Re, stringendolo con forza. «Mi hai semplicemente commossa. Lo sai che sono... facile alle lacrime.»

«Finché sono di gioia, ben vengano.» Thorin trovò difficile lasciarla andare, quando l’unica cosa che avrebbe voluto fosse di riportarla in camera da letto e tenerla tra le braccia per il resto della giornata. Con un ultimo, leggero bacio, i due si salutarono momentaneamente e Trán, riempito un cesto di frutta fresca, si diresse alla volta di Brethil, impaziente di rivederla muoversi e di sentire la sua voce. Come Thorin le aveva annunciato, non udì risposta quando bussò alla porta della sua stanza, ma riconobbe il suono della sua risata, proveniente da un paio di porte poco lontane. Si avvicinò lentamente, tentando di riconoscere le numerose voci gioviali, tra cui quella di Legolas, dei due gemelli di Rivendell e persino quella del Re di Gondor.

Sospirando, si poggiò contro il muro in pietra, stringendo il cesto tra le braccia e osservando le volte a crociera del corridoio, indecisa se annunciare la sua presenza, se attendere qualche altro minuto oppure recarsi a lavoro, per non disturbare il loro momento di lietezza. Stava per optare proprio per l’ultima opzione, quando le sagome di Faramir ed Éomer comparvero dietro un angolo, bloccando i suoi passi sul posto e sentendo il sangue fluirle sulle gote.

«Dama Trán se non erro.» la salutò il giovane Re, con un inchino del capo. «Mi domandavo quando avrei potuto incontrarti per parlare del lavoro che vorrei commissionarti.»

La Nana si inchinò più volte, stringendo ora il manico della cesta con forza. S’impose un po’ di calma, ricordandosi che non avrebbe dovuto essere tanto a disagio a trattare con un sovrano ed un principe, giacché era la compagna di uno e l’amica di due. «Mio signore Éomer, avevo intenzione di informarti poco più tardi che oggi avrei ripreso a lavorare, e che i tuoi soldati possono venire alle forge quando meglio credono.»

«Molto bene.» replicò l’altro, osservandola ora con perplessità. «Anche tu sei qui per far visita al Sovrintendente?»

«Il... Sovrintendente?»

«Mio fratello ha ripreso conoscenza.» fece Faramir, con un sorriso gioviale e sollevato sulle labbra. «E pare che stiano festeggiando, là dentro.»

Trán scosse il capo, imbarazzata. «Oh, io credevo che dama Brethil fosse... oh, lasciate perdere. Non voglio intromettermi; ma porgete i miei più cari saluti al Sovrintendente e... potete dargli questo.» aggiunse, porgendo loro il suo regalo.

«Conoscendo Brethil sarà proprio qui.» Éomer aveva già aperto la porta, quando si voltò verso di lei e la esortò ad entrare con un cenno del capo. E né il suo udito, né le supposizioni del giovane Rohirrim furono errate, giacché la donna era seduta sul letto accanto al Capitano di Gondor, entrambi circondati dagli amici. Trán si sentì oltremodo fuori luogo e rimase in un angolo ad osservare gli uomini ridere e abbracciarsi, mentre nessuno pareva accorgersi di lei.

Nessuno, tranne Brethil.

Gli occhi grigi della Dúnadan luccicavano per la felicità e Trán non ricordava di averglieli mai visti così luminosi, in quel poco tempo che avevano trascorso insieme. Le allungò una mano affinché si avvicinasse e fu solo allora che i visitatori si voltarono verso la Nana, che divenne nuovamente paonazza, e si spostarono per farla passare. Ma nel momento in cui le due amiche si abbracciarono, Trán dimenticò di essere il centro dell’attenzione di tutti e pianse di gioia.

«Mahal.» sussurrò, la voce spezzata. «Ero così preoccupata! Continuavi a dormire e a non muoverti, avevi la febbre e non sapevo più cosa fare–»

«Ero solo molto stanca.» la rassicurò la donna, accarezzandole i capelli intrecciati; fu in quel momento che le dita sfiorarono una clip metallica e Brethil poté osservare alla luce del sole gli intarsi geometrici, così simili a quelli che ricordava di aver visto nella cintura dei Durin. «Sire Thorin mi ha detto che non ti sei allontanata un attimo. Non avresti dovuto trascurarti così, amica mia.»

«Non riuscivo a pensare ad altro se non a mio–» Terminò la frase a metà, la Nana, scuotendo il capo. «Sono così felice che stia meglio. Il fianco?»

«Sta lentamente guarendo. Tu, piuttosto, come stai?»

Quella chinò gli occhi, stringendosi nelle spalle. Non sapeva darle una risposta, in realtà. Non voleva preoccuparla dicendole che il lutto la stava lentamente logorando, ma d’altra parte l’affetto che aveva ricevuto in quei giorni e il sollievo di sapere che almeno il resto delle persone che amava fosse salvo, non poteva che alleggerirle il peso sul cuore.

Spostò lo sguardo sul Sovrintendente, che da qualche tempo osservava la sua donna e ora la Nana con crescente curiosità. «Mi ricordo di te, giacché eri nella carovana che visitò l’Ithilien qualche settimana fa.»

La Nana si chiese quanto tempo fosse passato da quel giorno e si sorprese di quante cose, invece, fossero cambiate. «Trán, figlia di Rulin, mio signore.» gli disse, la voce che tremò nel pronunciare il nome del padre. Brethil le strinse una mano, probabilmente perché sapeva cosa fosse accaduto.

Boromir corrugò la fronte e lei si sentì sotto stretto scrutinio. Quei penetranti occhi chiari parevano cercare qualche risposta sul suo viso e Trán non sapeva se temere la domanda. Ma l’espressione crucciata  dell’Uomo si stese in un sorriso. «Devi essere una persona particolarmente interessante, Trán figlia di Rulin, se hai conquistato l’amicizia di Brethil.»

Elladan le batté una mano sulla spalla, vedendola a disagio per il complimento. «Oh, lo è parecchio, Boromir.»

«Le ha tenuto compagnia per tutto il tempo della tua e della nostra assenza.» aggiunse Elrohir.

Il Sovrintendente chinò il capo. «Allora permettimi di ringraziarti.»

«Non devi farlo, mio signore. Sono io che devo ringraziare Brethil della sua amicizia, giacché anche lei, come me, regala la sua fiducia a poche persone.» La donna sorrise e la baciò una tempia. «Oh, quasi dimenticavo! Vi ho portato un pensiero, spero che non abbiate già fatto colazione.» fece Trán, recuperando la frutta e poggiandola sul bordo del letto. «E prego, è per tutti voi, non solo per i degenti.»

Boromir fu il primo ad allungare una mano verso una mela, senza fare troppi complimenti, poiché da quando aveva riscoperto il piacere di mangiare, sentiva che non avrebbe potuto far altro fino alla fine dei suoi giorni.

«Ma come?» lo punzecchiò Aragorn. «Non ti fai dare una mano d’aiuto dalla tua signora?»

Con gli occhi ridotti ad una fessura, il Sovrintendente gli lanciò un’altra mela, centrandogli la fronte con precisione chirurgica.

«Osi attaccare il tuo Re?»

Boromir ghignò. «E che il Re ringrazi la mia poca voglia di alzarmi dal letto.»

D’altra parte, Éomer e Faramir non colsero la battuta e i gemelli furono oltremodo felici di spiegare loro cosa avessero visto poco prima.

Il fratello del Capitano di Gondor, così, gli batté una mano sulla spalla, sorridendo sornione. «Se non ricordo male, ero io quello che veniva imboccato da te quando ero piccolo.»

«Eri anche quello che bagnava il letto.» replicò l’altro in un borbottio.

«Suvvia signori.» fece Éomer, tentando di zittire tutti e trattenendo una risata. «Non dovremmo accanirci così; il nostro Boromir è solo vecchio e stanco.»

«Vecchio?» domandò attonito l’Uomo, che si voltò verso Brethil. «Credi che sia vecchio?»

Lei gli accarezzò una mano, lo sguardo basso pur di non incontrare il suo scioccato ed arrabbiato per le continue provocazioni e non rischiare di ridergli in faccia. «No, non direi vecchio... diciamo che non sei più un ragazzino, ecco.»

Boromir si lasciò cadere sui cuscini alle sue spalle, chiudendo gli occhi e tagliando fuori chiunque. «Mi domando quanto tempo ancora passerà prima che riceva una lettera dagli Hobbit con il testo di una ballata in merito. Non ne vedrò la fine, accidenti a voi.»

«Oh, se solo Pipino fosse qui.» disse Brethil, birichina. «Riesco a vederlo chiaramente mentre ti salta sul letto e cerca di ficcarti qualche fungo in bocca.»

Nonostante l’orgoglio ferito ripetutamente nel giro di pochi minuti, Boromir sorrise nel ripensare ai piccoletti e si domandò se prima o poi sarebbe giunta l’occasione di incontrarli, un giorno.

Trán, che aveva ascoltato i loro battibecchi con un sorriso sulle labbra, si congedò poco dopo, ringraziandoli per averla messa a suo agio e promettendo che sarebbe tornata presto a trovarli. Éomer le diede appuntamento a poco più tardi e lei si sentì finalmente elettrizzata dall’idea di tornare a lavorare il ferro e di servire uno dei Re degli Uomini. Si diresse alle forge con una certa fretta, impaziente di occupare la mente con il ritmico suono del martello sul metallo incandescente.

Káel fu il primo ad accorgersi del suo arrivo e senza preavviso le si lanciò contro, abbracciandola con così tanta forza che la lasciò letteralmente senza fiato. «Finalmente.» le sussurrò con voce tremante, baciandole una tempia. «Finalmente sei tornata.»

Trán ricacciò indietro le lacrime e ricambiò la stretta con altrettanto vigore. Intercettò lo sguardo di Thorin, che aveva interrotto il suo lavoro per osservarli, e si scambiarono un sorriso. «Sì, sono tornata.»

I primi uomini di Éomer iniziarono ad arrivare dopo una decina di minuti e Trán fu letteralmente sommersa di armi da affilare, lucidare e riparare. Il fatto che l’avessero avvertita di altri soldati che sarebbero passati entro la mattinata, le parve più una minaccia che un sollievo, ma fu ben felice di avere il resto del giorno occupato dal lavoro.

«Oi, Trán.» la chiamò Kili, dopo qualche tempo, spezzando il silenzio battuto solo dal martello sull’incudine. «Mi sono sempre chiesto, cosa c’è in quella cassa?»

La Nana spostò l’attenzione dalla spada su cui stava lavorando al baule, ricordandosi che contenesse i pugnali che ancora doveva dargli. «Oh, niente, solo qualche attrezzo di famiglia.»

Fili le guardò oltre le spalle, crucciato. «E lo tieni chiuso a chiave?»

«Sono attrezzi preziosi. Mio... mio padre me li regalò anni fa.» Evitò accuratamente lo sguardo del fratello, perplesso giacché non ricordava di un dono simile, e fu sicura di essere arrossita per la menzogna.

«Ah, sì?» incalzò Káel.

Thorin, che invece ben ricordava le armi che le aveva visto intagliare qualche tempo addietro, tagliò ogni curiosità sul nascere, con un imperioso “Testa china sul vostro lavoro, voi tre”. Il sospiro di sollievo della Nana gli fece capire che gli fosse oltremodo grata. Non aveva ancora pensato al momento giusto per darglieli, né era totalmente convinta del risultato. Avrebbe chiesto consiglio a Thorin prima di pranzo, quando sarebbero rimasti soli per qualche minuto prima di raggiungere gli altri.

 

 

 

 

Brethil si stiracchiò le gambe per l’ennesima volta, i muscoli che gridavano per essere messi in uso dopo tutti quei giorni di immobilità. Aveva tentato più volte, dopo la scappatella alla stanza di Boromir, di muovere qualche passo tra l’erba fresca dei giardini, ma la ferita al fianco continuava a pulsarle incessantemente nonostante si stesse rimarginando velocemente, e le succhiava tutte le energie di cui disponeva. Si sentiva tremendamente inutile, bloccata sul letto delle Case di Guarigione, e non poteva sopportarlo. Abituata alla movimentata vita dei Raminghi, che riposavano poco e correvano tanto, le parve di essere rinchiusa in una prigione, polsi e caviglie incatenati saldamente al pavimento.

Sospirò con pesantezza e l’uomo sdraiato accanto a lei parve ridacchiare. «Sei più insofferente di Gimli circondato da alberi.»

«È esattamente così che mi sento.» borbottò Brethil, lo sguardo che osservava quel soffitto che ormai conosceva a memoria. Avrebbe potuto ridisegnare ogni concio di pietra e ogni trave in legno di quella stanza anche ad occhi chiusi.

«Presto tornerai in forze. E così anche io.» rispose Boromir, girandosi su un fianco ed osservando l’espressione crucciata della donna. «Non sei l’unica ad essere così entusiasta di rimanere ferma nella stessa stanza da giorni.»

Con un sorriso, Brethil spostò il capo verso la sua direzione, accoccolandosi meglio contro il cuscino. Rimase qualche secondo di troppo ad osservare quegli occhi chiari che tanto le erano mancati, prima di parlare. «Ritieniti fortunato per la compagnia.»

«Fortunato, dici?» Boromir aggrottò la fronte. «È per causa tua che devo sorbirmi le lamentele della vecchia Ioreth sul tuo comportamento indecoroso. Come se potessi prenderti di peso e farti riposare su un altro letto che non sia già occupato da me.»

«Oh, allora mi affretto a togliere il disturbo, mio signore

Il tono canzonatorio della donna, in contrasto con l’assoluta mancanza di sforzi per mantenere fede alle sue parole, lo fece sorridere. Le accarezzò il viso, seguendo la linea delle cicatrici con un polpastrello ruvido; fu piacevole vedere come la pelle le si intirizzì immediatamente. «Ho imparato a non ascoltare più le voci dentro la mia testa... quelle voci così insistenti e dolorose che mi hanno perseguitato per tutti i mesi passati; posso riuscire a non ascoltare la sua voce.»

 «Ioreth ha le corde vocali più acute di Sauron, ti ricordo.» L’ombra di disagio sul volto dell’uomo la fece pentire delle sue parole. Sapeva bene quanto Boromir avesse sofferto sotto l’influenza dell’Anello; l’aveva visto con i suoi occhi. «Scusami, ho parlato a sproposito.»

Il Sovrintendente non rispose subito, lo sguardo perso nei ricordi di quei giorni funesti, quando credeva di aver perso completamente la testa, quando aveva sperato di morire piuttosto che vivere con il senso di colpa per ciò che aveva fatto. Scacciò quei pensieri con una scrollata del capo, i capelli biondi che gli ricaddero sugli occhi. Brethil allungò una mano, liberandogli il viso, e prima che potesse ritrarla lui l’aveva già afferrata sulla sua, baciandone il palmo e solleticandole la pelle con la barba ispida un po’ più lunga del solito.

«No, forse hai ragione.» le disse piano, abbozzando un sorriso. «La chiamiamo cornacchia per un motivo, del resto.»

Brethil sospirò, incerta di quel lieve tentativo di rassicurarla. «Hai più avuto incubi?»

Avevano speso ore a raccontarsi cosa fosse successo dal giorno in cui si erano salutati, da quando si erano lasciati con la consapevolezza che nessuno dei due andasse in guerra e che si sarebbero presto rivisti. Lui le aveva raccontato dei Nani e di come lavoravano alacremente; di come Azdor aveva attaccato la città e di come avevano tentato di difenderla prima dell’arrivo di Aragorn. E lei di quanto avesse legato in così poco tempo con Trán, del giorno in cui giunse il messaggero moribondo dall’Harad, della partenza verso i confini, di come fosse stato difficile prendere la decisione di tornare indietro. Ma nessuno dei due aveva osato raccontare delle proprie paure ed angosce – l’uno con gli incubi del passato, l’altra con il terrore di non trovare un posto nella sua nuova vita a Gondor; di quanto avessero sofferto per la loro lontananza e di quanto avessero contato i giorni che li separavano al loro prossimo incontro. Perché nonostante ormai fossero talmente uniti da sentire l’aria mancare quando non si trovavano l’uno al fianco dell’altra, erano entrambi molto orgogliosi per permettere alle proprie debolezze di intaccare quella corazza di fierezza.

Eppure entrambi erano estremamente fragili e proprio questa loro vulnerabilità li aveva uniti in primo luogo. Fu così che, dopo qualche istante di esitazione, Boromir annuì. «Di tanto in tanto, quando ero ad Osgiliath. Quando tu non c’eri.» le confessò, lo sguardo sulla mano intrecciata con la sua. «Rividi le fiamme di Mordor avvolgere la mia città; rividi il giorno in cui attaccai Frodo. Da questo punto di vista ringrazio che fossi incosciente per così tanti giorni; ho avuto il sonno senza sogni migliore della mia vita.»

«Felice di saperlo; per me, tuo fratello ed Aragorn è stato un incubo, invece.»

«Lo posso immaginare; e me ne dispiace.»

«Non è colpa tua, Boromir.»

Il Capitano della Torre Bianca s’inumidì le labbra, insicuro sulle parole che avrebbe dovuto usare. «Avrei dovuto essere più forte. Avrei dovuto resistere e tenere gli occhi aperti anche quando... anche quando sentivo le forze scivolare insieme al mio sangue. E invece, invece sono stato debole. Debole! Come quando l’Anello prese il sopravvento della mia mente. Io, che credevo di avere almeno un corpo che potesse combattere qualsiasi nemico, se non un animo resistente come quello di mio fratello, sono stato sopraffatto da due miseri tagli.»

«Boromir–»

«E continuavo a pensare che la fine fosse giunta, che tutto ciò che avevo guadagnato con il dolore e la fatica sarebbe stato distrutto quella stessa notte. Oh Brethil, se solo sapessi quanto male provai quando vidi la mia Osgiliath, sul piede della rinascita, nuovamente distrutta ed infuocata, alla mercé di selvaggi ed Olifanti. Fu come se mi avessero strappato il cuore dal petto e calpestato senza remore più e più volte.

E poi ti vidi, quando sentii il freddo della morte accarezzarmi ancora una volta: ti vidi, bella e sorridente, e mi vergognai, perché non riuscii a farmi forza neppure pensando a te. Mi feci sopraffare dall’insicurezza e dalla paura che tu stessa avresti incontrato la morte, perché presto il nemico sarebbe giunto anche a Minas Tirith, perché il tuo esercito avrebbe incontrato resistenza nell’Harad; cosicché l’unica consolazione che ebbi, prima di abbandonarmi alle tenebre, fu che ti avrei rivista nelle Aule di Mandos.» Le accarezzò via una lacrima, scappata al suo autocontrollo senza che potesse impedirselo. «Sono un debole, Brethil. Non sarò mai l’uomo che mio padre avrebbe voluto.»

«Sì, sei un uomo, Boromir.» ripeté lei, catturando la sua mano e stringendola. «Sei un uomo con le sue debolezze, come chiunque altro. Nessuno, neppure Aragorn è senza macchia e senza paura. Non siamo Orchi; siamo persone che hanno visto troppo nella propria vita, e sofferto altrettanto. Non oso immaginare i momenti che hai dovuto trascorrere, prima di svenire; nessuno dovrebbe vivere momenti come quelli – tranne cani come Mardil.» aggiunse, a denti stretti. «Non biasimarti se il tuo corpo ti ha tradito, né se la tua mente ha visto il buio senza uno spiraglio di luce. Anche io ho temuto il peggio, Boromir. Quando partii per l’Harad sapevo che non sarei tornata; sapevo che non ti avrei più rivisto. Ma egoisticamente una parte di me ne era sollevata, e sai perché?» L’uomo scosse il capo, incuriosito eppure intimorito da quello che avrebbe udito poco dopo. «Perché avevo finalmente trovato uno scopo dopo mesi di stallo. Quando decisi di rimanere a Gondor non sapevo cosa avrei fatto della mia vita; sì, Aragorn mi diede la divisa della Guardia Reale e proteggerlo era ciò per cui ero stata addestrata. Ma iniziai a sentirmi oppressa dalle mura di questa città; il desiderio di riprendere a viaggiare e vivere nelle terre selvagge si fece sempre più insistente e mi domandai più volte se questo fosse realmente il mio posto. Mi dissi di darmi tempo per abituarmi, giacché il cambiamento era sostanzioso; ma non ci riuscii. Ero costantemente messa sotto pressione dalle dicerie di Ecthirion e di chiunque gli desse ragione e, nonostante non abbia mai dato troppo peso agli insulti degli altri, iniziai invece a capitolare. Temevo che nessuno mi avrebbe accettata, tranne il Re e te: non li hai sentiti, mentre parlavano di me come se non fossi mai stata nella loro stessa stanza; non li hai sentiti mentre insinuavano che avessi raggiunto la mia posizione solo per i favori al Re e a te.» Riprese fiato, tentando di calmare il tono irato della sua voce, mentre Boromir le accarezzava il dorso della mano con un pollice, per tranquillizzarla. «Volevo tornare al Nord, riprendermi indietro la mia vita di Ramingo. Volevo tornare a vivere nella foresta, dormire sotto le stelle, appostarmi per ore e difendere il nostro popolo. Non sono nata per essere rinchiusa tra quattro mura e subire le dicerie di chicchessia.»

«Dunque–» la interruppe Boromir, la delusione e la rabbia ora visibile sul suo viso. «Dunque volevi abbandonare Aragorn? Volevi scappare nuovamente?»

«No, io–»

«Sì, invece, è quello che volevi fare. Non hai ancora imparato che non è aggirando gli ostacoli che li supererai? Aragorn non ti ha onorato di quella divisa per vederla gettata in un angolo del suo Regno!»

Brethil sospirò, strizzandosi gli occhi con due dita, tentando di scacciare il groppo alla gola che il senso di colpa le stava causando. Perché Boromir aveva ragione: c’era stato un lungo momento, durante quelle settimane, in cui aveva quasi capitolato, per sellare Nerian e dirigersi lontano da lì.

Come la codarda che era già stata tempo addietro.

«E non avresti abbandonato solo il tuo Re; avresti abbandonato anche me.» aggiunse l’Uomo, la voce che gli tremava. «Dimmi, Brethil: è ancora questo il tuo desiderio?»

La donna aprì gli occhi di scatto, mentre un deciso no lasciò le sue labbra prima ancora che potesse rendersene conto.

«Allora non ti capisco.» replicò lui, scuotendo il capo e lasciando la presa sulla sua mano. Se non fosse stato così debole avrebbe volentieri lasciato quel caldo letto per mettere qualche metro di distanza tra lui e la donna e calmare lo stato di agitazione in cui stava crollando.

«Boromir, guardami.» Si rifiutò ostinatamente di assecondare quell’ordine, finché Brethil lo costrinse. «L’unica sicurezza che ho sempre avuto nella mia vita era ciò per cui sono nata, ciò per cui la mia famiglia mi ha cresciuta e addestrata, ciò per cui è morta. Io sono niente, Boromir, al di fuori di un Ramingo. Non ho conosciuto altro se non quella vita. E quando mi hai chiesto di rimanere a Minas Tirith, con te... ho avuto paura. Io, che ho combattuto tutti gli anni della mia esistenza contro il Nemico e contro i pregiudizi, ho temuto di perdere ciò che ero e che sono sempre stata: la mia natura, la mia essenza.

E me ne sono resa conto in questi mesi, costantemente: non ci sarebbe alcun luogo che avrei potuto considerare come la mia casa: non Gondor, né il Nord, perché non ho mai avuto una fissa dimora. Ma quando sei partito per Osgiliath e io per l’Harad, sapendo che probabilmente non ci saremmo più rivisti... ho capito. Ho capito che non avrei mai avuto un luogo da chiamare casa, perché tu sei la mia casa, Boromir. E ovunque mi chiederai di andare, ovunque tu andrai... io sarò con te. A casa. Per questo quando partii mi sentii leggera: perché preferivo andare incontro alla morte, piuttosto che sapere che la mia casa probabilmente non sarebbe più tornata da me.»

Boromir non trovò subito le parole giuste per replicare, poiché la profondità di ciò che aveva appena udito lo destabilizzò. Sapeva bene che la donna che aveva di fronte, che aveva imparato a rispettare ed amare, non fosse solo la fredda guerriera che appariva e che avesse le sue forze così come le sue debolezze. Ma udirlo direttamente dalle sue labbra, vedere quegli occhi grigi inumidirsi per le lacrime, fu lacerante. Erano cresciuti in ambienti e circostanze così diversi che a stento capiva come potessero sorreggersi a vicenda; eppure condividevano la stessa paura di smarrirsi, di non riconoscere più se stessi dopo tutto ciò che avevano vissuto.

L’attirò tra le sue braccia con forza, allentando un poco la presa solo quando la sentì gemere a denti stretti per il dolore al fianco. «Perdonami.» Se fosse per averle causato dolore alla ferita o per aver dubitato della sua devozione verso di lui non seppe dirlo; forse lo fece per entrambi i motivi, pensò mentre le baciava la fronte. La sentì sospirare di sollievo, mentre le dita sottili di lei gli accarezzavano il mento.

«Io sono niente se non una Dúnadan.» ripeté Brethil, a bassa voce. «Ma sono niente anche senza di te.»

«Sei la mia Vita e la mia Coscienza, ricordi?» le domandò, in un sorriso. «Sarei morto, fisicamente e non, se non fosse stato per te.»

Rimasero in silenzio per lunghi minuti, ognuno perso nelle proprie riflessioni, godendo del caldo abbraccio in cui si erano uniti.

Fu Boromir il primo a spezzare la quiete. «Se fossi stata già mia moglie, il pensiero di lasciarmi indietro non ti avrebbe neppure sfiorata.» mormorò, con evidente sarcasmo.

«Se fossi già stata tua moglie, non ti avrei comunque permesso di domarmi come un cavallo selvaggio.» Boromir rise, ora di sincero divertimento. «E comunque, non sarei andata troppo lontana prima di rendermi conto dell’enorme sbaglio che avrei commesso. Né ho intenzione di andare da alcuna parte, ora che ti ho ritrovato.»

«E di...» Il Sovrintendente si schiarì la gola, improvvisamente secca. «... di diventare mia moglie? Ne hai ancora l’intenzione?»

Quegli occhi grigi e sottili trovarono subito i suoi, in trepida attesa di una risposta positiva. Ricordavano entrambi del giorno in cui lui le aveva proposto il matrimonio, quel giorno in cui il loro rapporto aveva oltrepassato un nuovo livello. Eppure nessuno dei due aveva più parlato di quell’eventualità, né dei preparativi di una celebrazione, non di una data. Forse per i troppi doveri a cui dovevano rispondere le loro cariche dopo la fine della Guerra dell’Anello, o forse perché l’idea di sposarsi li eccitava e spaventava contemporaneamente. Due guerrieri come loro cosa potevano saperne della vita coniugale?

Vide i suoi stessi pensieri attraversarle il volto e temette il peggio; l’avrebbe certo amata anche senza una cerimonia ufficiale, ma il suo orgoglio sarebbe andato in frantumi. Eppure, quando la vide sorridere ed annuire, si rese conto di aver trattenuto il fiato e la baciò finalmente sulle labbra, esigente e possessivo, mentre un’idea bizzarra ed allettante si faceva largo nella sua mente.

 

 

 

*

 

Chiedo scusa se il capitolo è risultato più noioso del previsto, ma la lunga chiacchierata di chiarimento tra Brethil e Boromir andava fatta. Mi ronzava in testa da mesi ed era ora di metterla per iscritto!

Oh, e ovviamente si accettano scommesse sull’idea bizzarra del Sovrintendente! :)

Avrei dovuto scriverla in questo capitolo, ma preferisco tagliarlo qui e lasciarvi con la curiosità. Non vedo l’ora di scriverla... sarà oltremodo divertente. ;)

A presto (?),

Marta.

 

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Capitolo 24
*** 24. ***


*entra in punta di piedi*

Qualcuno si ricorda ancora di me? No? Sono quella che sparì per l’imminente laurea di Aprile e che dopo aver finalmente finito è caduta nel circolo vizioso del foglio bianco.

Sì, gente, sono ufficialmente un architetto (e ancora disoccupata, ovviamente) e non nego che ritrovare le forze per riprendere a scrivere dopo tutta quella stanchezza sia stato più che difficile.

Oltre al fatto che sono stata traviata altrove dall’ispirazione, il ché non ha aiutato di certo. E io non so scrivere capitoli tranquilli come quello che state per leggere, quindi peggio ancora!

Ma rieccomi qui, sperando che la vostra pazienza non vi abbia abbandonati.

Il nuovo trailer de Lo Hobbit mi ha forse ridato la voglia di scrivere sulla Terra di Mezzo e preghiamo Eru che non mi metta depressione e che non mi faccia uccidere tutti.

*paura eh?*

Vi lascio subito al capitolo, un po’ corto forse, e tremendamente orribile; ma vi ho già avvisato: non so scrivere di tranquillità. E l’ho riletto solo un paio di volte, spero di non aver lasciato orrori lungo la strada.

Un abbraccio e un bacio a chiunque continui a seguirmi e mi ha seguita!

Vi adoro,

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

24.

 

2 Ottobre 3019 T. E.

 

Se Ioreth non fece cadere il vassoio della colazione per la sorpresa, fu solo grazie al suo poco autocontrollo; ma era più che sicura che fosse sul punto di perdere la pazienza quando entrò nella stanza che ospitava il Signore di Osgiliath per quei giorni di riposo e trovò il letto vuoto. Non ebbe la stessa calma quando si diresse di tutta velocità verso la camera di Brethil, che sedeva sul bordo del letto e si controllava con attenzione la ferita sul fianco, ancora rossa e dolente, ma ormai sulla via della cicatrizzazione.

«Dove è finito il Sovrintendente?!»

Brethil sarebbe saltata dallo spavento se non l’avesse udita giungere prima ancora di vederla piombarle in camera. «Non ne ho idea. È per caso sparito?»

«Non fare la furba con me, mia signora.» replicò stizzita la vecchia curatrice, ficcandosi le mani sui fianchi e scrutandola con fare impettito. «Sono andata a portargli la colazione e tutto quello che ho trovato sono stati tre cuscini nascosti sotto le lenzuola! Per il buon nome del Re, lo faceva quando era un ragazzino!»

La Prima Guardia dovette sforzarsi di non ridacchiare e si strinse nelle spalle. «Giuro che non so dove sia; e no, non lo sto nascondendo sotto il letto, amica mia.»

«Non mi meraviglierei e anzi; forse dovrei controllare.» borbottò Ioreth, le labbra strette in una preoccupante linea sottile. «E tu, invece, cosa stai facendo in piedi?»

«Tecnicamente sono seduta.»

«Non ti dissi di rimanere sdraiata per il prossimi sette giorni?»

«Ne sono trascorsi quattro e mi sento decisamente b–»

«Se avessi a che fare con un esercito di neonati mi capirebbero meglio di voi.» borbottò tra sé e sé la guaritrice, scuotendo il capo e schiaffeggiandole una mano che stava palpando la ferita, di cui si prese cura personalmente.

«Ha davvero nascosto i cuscini sotto le coperte?» domandò Brethil dopo qualche lungo istante di silenzio, non riuscendo a nascondere un sorriso.

«Sì, e non è divertente.» sbottò l’altra, sospirando. «Soprattutto perché, quando soleva farlo da ragazzo, niente di buono ne seguiva.»

«Non credo che sarà in grado di creare troppi guai. Sta ancora riprendendo le forze.»

«Oh, ragazza, allora proprio non lo conosci.» Per la prima volta da quando Brethil l’aveva incontrata, l’espressione perennemente crucciata di Ioreth si distese in chissà quale piacevole e divertente ricordo. Ma fu rapido come il battito delle sue palpebre e subito quella tornò imbronciata. «Se dovessi vederlo prima che lo afferri io, raccomandagli di trovare una scusa più che valida.»

«Credo che ce l’abbia, buona donna.» fece la voce gioviale di Elrohir, che comparve con il fratello sulla soglia della porta.

«Oh, ce l’ha eccome. Dal Re in persona.» proseguì il fratello, strizzando un occhio a Brethil.

Ioreth scattò in piedi, brandendo il vassoio ormai vuoto dalle ciotole. «Dov’è? Ditemi dov’è?»

«Abbiamo giurato di non dirlo, signora. Neppure sotto tortura.» disse solennemente Elladan, alludendo all’arma che la vecchia donna minacciava di cadergli pesantemente sulla testa. «Ordini dall’alto.»

Per loro fortuna, quella se ne andò poco dopo promettendo vendetta, e i gemelli si richiusero la porta alle spalle.

«Allora, thêl, come ti senti oggi?»

«Hai certo un colorito migliore di qualche giorno fa.»

«Sto bene, fisicamente.» sospirò la donna, sdraiandosi contro la pila di cuscini alle sue spalle, mentre i fratelli le avvicinavano la colazione – porridge, profumate salsicce arrosto e fette di pane imburrato con prosciutto e formaggio. Pipino ne sarebbe andato matto, pensò con nostalgia. «È che odio stare chiu–»

«–chiusa in queste quattro mura.» terminarono in coro i gemelli, ridendo.

«Lo sai che ora non saresti di grande aiuto al Re, sì?»

Brethil sospirò. «Sapete meglio di me che l’ho servito in condizioni peggiori di queste.»

«Sì, ma non indossavi la divisa ufficiale di Gondor. Né lui indossava una corona.»

«Aragorn non ha mai avuto bisogno di una corona sul capo per ricordarmi chi sia.» La donna agitò una mano per scacciare qualsiasi cattivo pensiero. «Piuttosto, a proposito del Re, ditemi: cosa c’è dietro la sparizione di Boromir?»

I gemelli si scambiarono un’occhiata malandrina che non fece altro se non preoccuparla ulteriormente.

«Dobbiamo recarci qualche giorno nell’Ithilien per un incontro con il Principe Faramir.» disse Elladan. « Legolas e Gimli verranno con noi.»

«E Boromir in tutto ciò cosa c’entra? Vi accompagnerà anche lui, quando a malapena riesce a reggersi in piedi?»

«Oh, mi è parso parecchio energetico, prima.» commentò Elrohir, mentre il fratello annuiva con entusiasmo.

«Sto ancora attendendo una risposta, amici miei.»

«E tu sei intelligente a sufficienza per capire che stiamo tergiversando e non siamo autorizzati a darti spiegazioni di alcun tipo.»

Brethil alzò gli occhi al soffitto, ben sapendo che quando quei due decidevano di allearsi contro di lei, non ci sarebbe stato modo per vincerli.

Avrebbe dovuto aspettare.

Ancora. Su quel dannato letto che ormai aveva acquisito la forma del suo fondoschiena.

«Torneremo giusto in tempo, comunque.»

«Giusto in tempo per cosa?»

«Per rivederti in piedi, ovvio.»

Elladan rise nel sentire l’occhiata pesante di Brethil che, chiaramente, non si stava bevendo neppure una parola di ciò che le stavano dicendo. «Ad ogni modo, sarai contenta di sapere che la tua amica dama Trán stia facendo conquiste tra gli uomini di Éomer: pare che siano tutti molto soddisfatti dei suoi servigi.»

L’espressione crucciata della donna si distese in un sorriso. «Oh, questo sì che mi fa piacere. L’ho veduta poco, questi giorni; immagino che sia molto indaffarata.»

Elrohir annuì. «Dovresti vedere Re Thorin, però: non so se sia più contento di averla sott’occhio alle forge, o più imbestialito dai commenti dei Rohirrim.»

Quelle parole le fecero tornare in mente un particolare che, tra una cosa e l’altra, si era dimenticata di chiedere alla sua amica. «Mi è parso di capire che ora siano più... come dire, in buoni termini?»

«Oh, direi di sì.» ammiccò Elladan. «Ma non sta a noi raccontarti la storia. Sai cosa possiamo dirti, invece?»

«Cosa sta facendo Boromir?» tentò la donna.

«Gimli aveva fatto una scommessa con Legolas, durante la battaglia. E a quanto pare ha perso.» disse invece Elladan.

«Anche se continua a rifiutarsi di ammetterlo – i Nani hanno davvero la testa più dura della roccia che lavorano.»

Brethil ebbe quasi timore di chiederlo. «E cosa avevano scommesso?»

I gemelli risposero in coro, come sempre. «La sua barba.»

Gli occhi grigi le si spalancarono immediatamente, così come la bocca. «Non ditemi che ha dovuto tagliarla?»

Ci furono attimi di silenzio che, per un istante, le fecero credere ad una risposta affermativa. Sapeva quanto i Nani e le scommesse andassero a braccetto come gli Hobbit con i funghi, ma non poteva credere che potessero addirittura giocarsi il motivo del loro orgoglio e simbolo della loro famiglia.

«No, può stare tranquillo; Legolas è stato fin troppo buono.» fece Elladan, e il gemello aggiunse: «Se fosse stato per noi, gliel’avremmo rasata personalmente.»

«Oh, non lo metto in dubbio!» ridacchiò Brethil, ora più rilassata. L’idea di un Gimli senza barba l’avrebbe scossa più del dovuto. «E come pensa di ripagarlo, dunque?»

«Ci accompagna nell’Ithilien, come ti abbiamo detto.»

«Niente lo fa infuriare più delle foreste.»

«E di altri Elfi, chiaro.»

La donna scosse il capo, sinceramente divertita. «Quanto tempo starete via?»

«Un paio di settimane, al massimo. Ti mancheremo, vero?» domandò Elladan, malandrino.

«Assolutamente no.» replicò lei. Ovviamente, ciò che intendeva era l’esatto contrario, ma non lo avrebbe mai ammesso a voce alta. «E quando partirete?»

«Questa mattina; siamo infatti passati a salutarti prima di metterci in viaggio.»

Se l’idea di non rivederli, seppure per una settimana, la rattristasse e le stringesse la bocca dello stomaco, Brethil non lo diede a vedere; ma vi era stata quell’ultima volta in cui aveva salutato qualcuno, consapevole che non stesse andando in guerra, e alla fine della corsa lo aveva quasi perso; ma non voleva rinchiudersi nel pessimismo. Per quello bastava ed avanzava Trán.

«Perdonatemi se non vi accompagno fino al cancello principale, amici miei.» disse solo, abbozzando un sorriso stanco.

«Ah, thêl, conosciamo la strada, ormai.» Elladan si chinò per baciarle la fronte, e così il fratello. «Torneremo prima che te ne renda conto.»

Brethil annuì, sapendo bene che avrebbero mantenuto fede alla loro parola, come sempre avevano fatto. Se ne andarono poco dopo, quando anche Legolas e Gimli furono passati per un breve saluto – uno gioviale come sempre, l’altro più scuro di una nuvola carica di pioggia.

Terminò in solitudine la sua colazione, chiedendosi che fine avesse fatto Boromir e cosa stesse architettando con Aragorn. Ma durante tutto l’arco della giornata, che trascorse lenta e noiosa come le precedenti, non riuscì a ricevere alcuna notizia; neppure Rainiel, la sua fidata ancella, né Ioreth, che tornò a farle visita più tardi prima di pranzo, le seppero dare qualche notizia in più.

E giacché nessuno pareva ricordarsi della sua esistenza, per quel giorno, decise che ne avrebbe approfittato per scappare lontano da quelle Case tranquille che ormai le andavano troppo strette. Si spogliò lentamente della veste bianca da camera, per indossare una tunica grigia con dei pantaloni scuri e i suoi logori stivali. Afferrò il suo vecchio mantello e si nascose il viso sfregiato sotto il cappuccio, sperando che nessuno la riconoscesse e la fermasse.

Dopo una rapida occhiata al corridoio su cui si affacciava la sua stanza, Brethil si dileguò verso i livelli inferiori di Minas Tirith, silenziosa ed invisibile come sempre era stata.

 

 

 

Se sguardo avesse potuto incenerire, il soldato che aveva appena lasciato la bottega si sarebbe ritrovato con la schiena perforata. Nessuno di quegli Uomini poteva sapere che la bella Nana, che di Nanico aveva ben poco, fosse la compagna del Re e che i loro sorrisi ammiccanti e i loro complimenti sulle sue notevoli doti di fabbro erano del tutto inopportuni. Il tutto sotto lo sguardo infuriato di Thorin, quello divertito dei nipoti e dei suoi amici più fidati e quello innocente della diretta interessata che, ovviamente, non si rendeva conto di niente. Trán, infatti, era talmente concentrata sul suo lavoro, nel tentativo di non ricadere nello sconforto del lutto e di non distrarsi dalla presenza troppo vicina del suo Re, per accorgersi di quello che le stesse accadendo intorno; anzi, a volte neppure sentiva le belle parole che le venivano rivolte.

«Zia Trán potrebbe ritrovarsi un Orchetto accanto che neppure lo vedrebbe.» commentò Kili, rimarcando il nomignolo che lui ed il fratello avevano deciso di darle – più per dispetto allo zio, che per imbarazzarla. Ovviamente lei neppure li udì, facendoli ridere. «Visto? Che vi ho detto?»

Thorin, che non aveva più neppure la forza di riprenderli, gli scoccò solo una penetrante e severa occhiata e quelli ripresero a lavorare. La porta della fucina si riaprì ancora una volta e, con un sospiro esasperato, osservò il nuovo arrivato, pronto a sbottare qualcosa di poco elegante se non si fosse comportato decentemente nei riguardi della sua corteggiata; ma ogni parola bellicosa svanì nel momento in cui lo straniero si tolse il cappuccio calato sul viso e gli occhi grigi e brillanti di Brethil lo salutarono.

«Mia signora! In nome di Durin, cosa ci fai qui?» le domandò, mentre Trán parve risvegliarsi, sollevò subito lo sguardo sull’amica, quasi non credendo alle sue orecchie, e le corse incontro per aiutarla a sedersi.

Fili, che ovviamente non poteva non civettare con la donna, in quello che ormai era diventato più un passatempo che qualcosa di serio, spostò con gran fracasso degli attrezzi da una sedia lì vicino e Brethil si sedette, affaticata ma divertita. «Perdona il caos, dama Brethil, non attendevamo visite di riguardo.» le disse, ammiccando.

Quella scosse il capo. «Perdonatemi voi per l’arrivo inaspettato. Ma non potevo più stare su quel letto.»

«E giustamente hai ben visto di camminare per mezza città con un fianco ferito.» la riprese Dwalin, la cui espressione dura ed impassibile si distese in un ghigno. «Mi piaci proprio, ragazza.»

«Sei un’incosciente, amica mia.» dissentì Trán, le mani sui fianchi e l’aria impettita. «Devi riposarti, non sottoporti a sforzi simili!»

«Oh, per favore; Ioreth ti ha per caso istruita?» La Nana arrossì, guardandosi le punte dei piedi, e Brethil le strinse una mano. «Sto meglio, Trán, davvero. Non mi sarei mossa se ciò avesse significato rischiare di arrecarmi ulteriore danno. Beh? Cosa sono quelle espressioni?» aggiunse, perplessa, quando incontrò gli sguardi poco convinti dei Nani.

 «Hai la mia stessa pazienza, quando si tratta di degenza, mia signora.» disse Thorin, tornando alla sua postazione. «E con questo intendo che non ne abbia affatto.»

Brethil sorrise, rilassandosi. «Spero di non disturbarvi; ma non sapevo dove andare senza destare l’ira di qualcuno.»

«La desterai sicuramente appena si accorgeranno della tua assenza.» replicò il Re. «Ma per il momento puoi considerarti al sicuro.»

«I lavori come procedono?»

Thorin sospirò. Le raccontò che stessero lavorando giorno e notte per risanare ciò che la battaglia aveva distrutto, soprattutto per ridare una casa a chi l’aveva persa con l’esplosione; tutti gli Uomini in forze, ovviamente, si stavano dando da fare per velocizzare il processo. D’altra parte, il cancello aveva ben retto e sarebbe stato terminato in due settimane, tre al massimo. «I Nani di mio cugino, invece, credo che rimarranno ad Osgiliath più del tempo previsto. A quanto pare gli Olifanti hanno triplicato il lavoro.»

Quelle parole ebbero il potere di raggelarla. Se Thorin e i suoi avessero finito i loro compiti in tre settimane, allora sarebbero presto ripartiti verso il Nord. E ciò significava salutarli... salutare lei.

Eru, non si sarebbe mai abituata agli addii. Vi erano notti in cui ancora sognava il momento in cui lei e Boromir avevano salutato Pipino e Merry, ed il solo ricordo faceva ancora male.

«Quando starai meglio verrai a trovarci, mia signora?» domandò Káel. «Avevi detto di essere nata a Dale.»

«Oh sì!» esclamarono Fili e Kili in coro. «Certo che verrai!» Persino Trán aveva alzato lo sguardo, speranzosa di una sua risposta positiva.

Brethil sorrise tristemente. Sarebbe voluta tornare nel lontano Nord, per visitare i posti che l’avevano vista crescere, per farli vedere a Boromir e raccontargli della sua vita lassù; e magari fare un salto nella Contea, dopo aver salutato i Nani di Erebor.  «Mi farebbe molto piacere ripercorrere quella strada. Chissà, magari un giorno.»

«Beh, dovrai venire per forza, una volta che ci sarà una data.» fece pensieroso Kili. «Vero, zio?»

«Oh, solitamente cade per il Giorno di Durin, ma forse ora sarebbe ancora troppo presto per–»

«Silenzio.» sbottò Thorin, che parve arrossire fin sopra le orecchie; Trán, invece, e che Mahal la tenesse innocente come l’aveva fatta, non capì di che data stessero parlando. Ovviamente, tutti scoppiarono a ridere quando chiese spiegazioni e il fratello le batté una manona sulla schiena, come per consolarla.

«Ad ogni modo, bisogna ricambiare il favore.» proseguì Fili.

«Che favore?» fu ora la volta di Brethil, a cui non sfuggirono le occhiate che i Nani si scambiarono. Ma lei non era addormentata ed ingenua come l’amica e capì che anche loro sapessero qualcosa in più di lei. «Perfetto, sono circondata da persone che credevo fidate e invece mantengono segreti.»

«No, stai pure tranquilla.» la rassicurò Fili, con un occhiolino. «Solo una cerchia ristretta di persone.»

Brethil scosse il capo. Era più che sicura che stessero preparando qualche festa per la fine della battaglia e per festeggiare i vivi e i sopravvissuti, ma, per qualche assurdo motivo, lei non doveva esserne al corrente. Del resto, tutti i suoi più vicini amici sapevano quanto odiasse celebrare qualsiasi cosa – dal suo compleanno al giorno del Yuletide; probabilmente volevano solo farla arrabbiare, più che farle una piacevole sorpresa.

L’ora del pranzo giunse velocemente, ora che Brethil aveva trovato della compagnia, e Trán fu come sempre gentile e premurosa, chiedendole di attenderla nascosta alle forge, mentre lei andava a recuperare del cibo per entrambe; chiaramente, anche gli altri Nani decisero di non attardarsi alla mensa e tornarono carichi di ciotole fumanti e boccali di birra, ripulendo un lungo tavolo dagli attrezzi di lavoro ed apparecchiandolo.

«Mia signora!» esclamò una voce sottile sull’uscio della porta, affaticata dal fiatone. Le teste dei presenti si voltarono verso la nuova arrivata, che arrossì furiosamente e chinò il capo. «Chiedo perdono per l’interruzione, ma lassù stanno impazzendo per trovarti, dama Brethil.»

«Oh, Rainiel, mi domandavo quanto tempo ancora sarebbe passato prima che suonassero le trombe d’allarme.» scherzò Brethil. «Come vedi sto bene e nessuno mi ha rapita; ma per favore, non una parola sul mio nascondiglio.»

«Mia signora, Ioreth mi strapperà l’informazione dalla lingua, sai bene come sia insistente quella donna.»

«Oh beh.» esordì Kili, dando una gomitata al fratello, e saltando in piedi. «Allora temo che dovrai attardarti con noi, finché la tua signora non deciderà di tornare alle sue stanze.»

Brethil rise nel vedere gli occhi spalancati per lo stupore e l’imbarazzo, mentre scuoteva veementemente il capo.

«Non–non potrei mai, miei Principi!» disse infatti l’ancella. «Sono attesa per i miei compiti e non posso–»

«Sciocchezze!» esclamò Fili, che insieme al fratello la prese per mano e le fece posto tra loro.

Rainiel lanciò una tacita supplica alla sua signora, che alzò le spalle impotente. «Sono Nani e sono testardi; non c’è niente che possa fare per fargli cambiare idea, ora.»

E con quelle parole, iniziarono a mangiare.

Brethil fu ben accorta a tenere un occhio sulla sua piccola amica, giacché non sembrava avere molto appetito, e notò che anche Re Thorin la stesse tenendo sotto controllo, dalla parte opposta del tavolo. Quel Nano aveva davvero preso in parola la sua richiesta di non perderla di vista.

Discussero principalmente di lavoro, come sempre facevano ogni volta che si riposavano, e Brethil preferì ascoltarli piuttosto che interromperli. Gli unici che non presero viva parte alla discussione furono i due malandrini dei Principi, troppo intenti a vezzeggiare e far ridere la sua ancella, che sedeva stretta tra loro, piuttosto che preoccuparsi dei loro doveri. A quanto pare, quando una preda non era disponibile si fiondavano su una nuova, pensò Brethil divertita.

Il pranzo volò via velocemente, lasciandoli con lo stomaco pieno e soddisfatti, pronti a tornare a lavorare in men che non si dica. Brethil si alzò con un po’ di sforzo, aiutata da Trán che la sorresse, per quanto la sua statura glielo permettesse.

«Mi accompagneresti alle stalle?» domandò la donna alla Nana, i cui occhi verdi saettarono sui suoi, spalancati e sorpresi.

«E magari poi potremmo camminare fino ad Osgiliath, perché no.» replicò sarcasticamente Trán. «Sai, non credo proprio che sia il caso di affaticarti ulteriormente.»

«Non mi affaticherò troppo; e sono qui vicino.» la rassicurò, stringendole una mano sulla spalla. «Ho solo bisogno di vedere il mio cavallo. Aveva una brutta ferita quando lo lasciai e non ho ancora avuto modo di accertarmi che stia bene. E vorrei spendere qualche minuto in tua compagnia; se il tuo Re te lo permette, chiaro.»

Thorin annuì, percependo la sua tacita richiesta, e Trán sospirò. «E sia.»

«Mia signora.» fece Rainiel, le guance ancora imporporate dalle risate, ma ora visibilmente preoccupata. «Cosa dovrei fare? Verrò sicuramente ripresa e–»

«Mi assumo ogni responsabilità, amica mia; non devi preoccuparti. Racconta pure la verità; io ti raggiungerò presto.»

«Non torni con me? Dove devi andare, ancora, mia signora? Non è saggio tirare troppo la corda.»

Trán fece scivolare lo sguardo dall’ancella all’altra donna, un “ha ragione lei” ben visibile nell’espressione del suo minuto viso.

Brethil le strinse una mano, rassicurante. «Ormai ho messo in allarme tutti; se dovessi mancare una mezzora in più o una in meno non cambierebbe troppo le carte in tavola, no? Farò presto, stai pure tranquilla.»

Rainiel non fu per niente convinta dalle sue parole, ma del resto non era nei suoi poteri – né nelle sue capacità fisiche – prendere la sua signora di peso e portarsela in spalle fino alle Case di Guarigione. Oh, se solo il Sovrintendente fosse stato disponibile!

La Dúnadan e la Nana si diressero a passo lento verso le scuderie, che si trovavano al Primo Livello, non lontano dal Grande Cancello. Trascorsero la prima parte della passeggiata in silenzio, una sorretta sulle spalle della più bassa, intenta a pensare un modo per iniziare il discorso che aveva in mente. «Ho saputo che il tuo lavoro è parecchio apprezzato dai soldati di Éomer.»

«Oh, l’ho sentito dire anche io.» scherzò Trán, arrossendo. «Temo che mi lusinghino troppo; non è un grande e difficile compito quello che mi chiedono di fare.»

«Ma lo fai bene, e ciò è quello che conta.» disse in un sorriso la donna. «Re Thorin sarà orgoglioso, immagino; anche se non è esattamente il tuo sovrano, certo.» Le gote della Nana divennero ancora più paonazze, se per l’imbarazzo o per lo sforzo di rimanere impassibile Brethil non seppe dirlo. Ma capì di aver toccato il tasto giusto quando la sentì balbettare qualche parola di assenso.

«Ad ogni modo, ti stai tenendo ben occupata e questo è ottimo; anche se ho sentito la mancanza delle tue visite.»

«Perdonami, non sai quante volte avrei preferito scappare e andare a trovarti!»

«Ognuno ha i propri doveri, amica mia. Non devi scusarti. Sono felice che stia lavorando, invece; servire il Re di Rohan non è un qualcosa che tutti possono vantare.» Dopo qualche altro lungo istante di silenzio, Brethil continuò. «E dimmi; prima di partire mi dissi che le trecce hanno un significato nella tua cultura.» esordì la donna, spiando la sua reazione con la coda dell’occhio. «E non ho potuto non notare che la tua pettinatura sia un po’ cambiata.»

Il colore arrossato delle guance si propagò fino alla punta delle orecchie e la donna si morsicò le labbra pur di non sorridere.

«Hai... un occhio attento.»

«Devo averlo, amica mia. Ebbene? Hanno un significato particolare?»

Trán sollevò lo sguardo su di lei, aggrottando le sopracciglia. «Provo la cattiva sensazione che tu sappia bene cosa ci sia dietro queste trecce, ma nonostante tutto voglia sentirmelo dire a voce alta.»

«Oh, no, no!» si affrettò Brethil, sorridendo malandrina. «Non ne sono sicura, vorrei solo avere la conferma; e la tua pettinatura non è la sola cosa che ho notato essere cambiata, durante la mia assenza.»

Nonostante l’imbarazzo dell’argomento, Trán sorrise sognante e scosse il capo. «Non saprei dove cominciare.»

«Proviamo dalla fine; il resto verrà da sé.»

E così Trán fece. Le raccontò, all’inizio con un po’ di imbarazzo, che indossasse trecce e clip tipiche di un corteggiamento, e quasi non credette alle sue stesse parole quando disse a voce alta chi fosse il Nano che gliele aveva intrecciate. «Se penso che fino a qualche settimana fa ci detestavamo...»

«Sicura che vi detestaste sul serio?»

Trán strinse le labbra, ricordandosi le parole di Thorin. Ti odio perché non riesco a farlo. «No, forse non realmente. Anche se c’erano momenti in cui avrei desiderato picchiarlo, piuttosto che guardarlo in viso; e credo viceversa! Ad ogni modo, se avessi pensato che avrei indossato il simbolo dei Durin tra i capelli, avrei riso fino a non avere più forze.»

«Cosa è cambiato, dunque?»

E la Nana proseguì il suo incredibile racconto: dal chiarimento, quella notte lungo le mura, a come le cose tra loro, lentamente ma inesorabilmente, fossero migliorate. «È tutto così irreale e bello, per essere vero, che temo un giorno o l’altro di risvegliarmi e rendermi conto che fosse tutto un lunghissimo sogno.»

Brethil le baciò il capo. «È tutto reale, quanto me e te in questo momento. E non posso esserne che felice. Ma sai cosa significa questo, sì?» L’occhiata confusa della Nana quasi la fece ridere. «Che diventerai Regina di Erebor, un giorno.»

«Oh Mahal.» mormorò Trán, sentendosi mancare per un momento. Non che l’idea non le avesse accarezzato la mente, nei giorni precedenti; ma era stata fin troppo occupata a lavorare e a piangere la perdita di suo padre, per rendersi realmente conto di cosa avrebbe probabilmente portato quel corteggiamento. «Ecco, ancora non è niente di ufficiale. Insomma, sire Thorin potrebbe anche decidere di interrompere l’assurdità che sta compiendo nei miei confronti.»

«Non dirne tu, di assurdità.» la rimbeccò la donna. «Hai detto bene sulla mia vista: osservo più di quanto occhio riesca a vedere; e persino un cieco si accorgerebbe di cosa vi lega. Piuttosto dimmi, quanto dura un corteggiamento?»

«Dipende...» mormorò. «Insomma, non sono un’esperta in materia, credo più di qualche mese. Ma non ho idea di come le cose funzionino per la Famiglia Reale. Oh, Brethil, sarei una pessima Regina!»

«Ne dubito.» la rassicurò la Dúnadan.

«E se il Consiglio Reale dovesse andare contro la sua decisione?»

«Oh beh, è il Re. Potrebbe anche essere un tiranno, per una volta.»

Le due ridacchiarono.

«E tu ed il Sovrintendente, invece?» chiese la Nana, tentando di cambiare argomento. «Da quanto tempo vi corteggiate?»

«Noi non ci corteggiamo.» La sola idea la fece ridere di sincero divertimento. «Non siamo esattamente la coppia più romantica che possa incontrare, Trán. Non credo nemmeno che Boromir sappia il significato di corteggiare qualcuno.»

«Oh... ma vi sposerete un giorno, no?»

Brethil sospirò. «Ne abbiamo parlato... un paio di volte.»

«E?»

Si strinse nelle spalle. «Non credo che sposarci cambierebbe molto le cose, tra noi, né il modo in cui comportarci in presenza di altre persone. Sarebbe una cerimonia più ufficiale, che altro.» E con sguardo inorridito, aggiunse: «Oltre al fatto che dovrei indossare un abito

Trán rise con lei e si ritrovarono presto alle scuderie.

Trovarono Nerian accovacciato in un angolo della sua stalla, la coscia ben fasciata e tremante. Lo stalliere, che le accolse subito, spiegò loro che avesse subito un forte trauma, tra l’esplosione e la ferita che aveva subito, ed era evidente che non sarebbe stato più in grado di farsi montare. Zoppicava vistosamente e avrebbe continuato a farlo per il resto dei suoi giorni.

Brethil ascoltò le sue parole in silenzio, l’espressione tremendamente addolorata, e Trán capì che vi era molto legata. «Da quanto lo cavalchi?»

«Da numerosi anni, ormai.» mormorò Brethil, aprendo il cancello in legno ed inginocchiandosi su di lui, accarezzandogli il collo. Il cavallo sollevò subito il capo, rianimandosi nel vedere la sua padrona, e lei sorrise. «Da quando ancora servivo Re Théoden, a Rohan. È stato un fidato compagno di viaggi; ma ahimè, temo che le nostre avventure insieme terminino qui.» Si rimise in piedi e quello ne seguì i movimenti, rialzandosi a fatica e scuotendo la criniera, orgoglioso per esserci riuscito. Dopo aver controllato che riuscisse a poggiare lo zoccolo della zampa lesionata, lo afferrò per una briglia e lentamente lo portò fuori dalla stalla, fino al Grande Cancello. Trán li seguì senza una parola, forse indovinando ciò che stava per succedere. Oltre le mura della Città Bianca, Brethil si fermò e gli baciò il manto ramato, abbracciandogli il collo per interminabili istanti. Poi, con cautela, gli tolse le briglie, stando ben attenta a non spaventarlo. Era irrequieto per lo shock che aveva avuto, ma si era calmato visibilmente quando la sua padrona era finalmente tornata.

Sarebbe stato ancora più difficile dirgli addio.

Con un ultimo bacio tra gli occhi castani, Brethil gli diede una pacca sulla coscia, per intimargli di andare. Ma Nerian non si mosse, quasi non capendo cosa stesse facendo. Gli sussurrò così qualche parola in elfico, che Aragorn le aveva insegnato decenni addietro, e il cavallo sbuffò, scuotendo la criniera come se dissentisse.

«Andiamo, amico mio. Sei libero.»

Nerian parve accarezzarle il viso con il muso in un bacio d’addio e lei rise, le lacrime sul punto di bagnarle le guance sfregiate. Con un’ultima pacca, il cavallo finalmente si mosse e cavalcò qualche metro, zoppicante ma apparentemente in forze, prima di girarsi e controllare che lo stesse seguendo. Ma Brethil non ebbe più la forza di osservarlo e gli diede le spalle, accompagnata dall’amica, e più si guardò indietro.

 

 

 

*

 

A voi l’ardua sentenza – io continuo a credere che sia un capitolo terribile.

A presto (?),

Marta.

 

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Capitolo 25
*** 25. ***


Rieccomi qui, dopo an unexpected poco tempo. Circa.

Sto passando un periodaccio, ultimamente – diciamo che quest’estate non è stata il riposo e il relax che avevo pianificato – quindi mi scuso per non aver ancora risposto alle vostre splendide e numerose recensioni. Lo farò il prima possibile, promesso! Se riesco, entro stanotte. È il minimo che possa fare per ringraziarvi del caloroso bentornata che mi avete dato. Davvero, è stato commovente. :’)

E grazie a tutti coloro che continuano ad aggiungerla tra preferiti, vari ed eventuali. Siete una gioia!

Ad ogni modo, credo che questa storia stia per raggiungere la sua fine. Non so ancora bene quanti capitoli ancora mancheranno, ma non saranno più di cinque, probabilmente. Ma non temete (?!), vedrete che lascerò aperta la porta ad un altro capitolo della serie (e l’ultimo della trilogia) – sto già lasciando qualche seme in questo capitolo. :)

Spero che questo nuovo coso vi piaccia. Insomma, passata la guerra c’è bisogno di un po’ di inutile riempimento di trama, no?

Come al solito faccio pena, quando si tratta di capitoli come questo.

A voi l’ardua sentenza!
Buona lettura.

E ricordatevi: vi adoro.

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

25.

 

3 Ottobre 3019 T. E.

 

Continuarono a spostare lo sguardo dai pugnali alla Nana, aprendo e richiudendo più volte la bocca, nel vano tentativo di dire qualcosa. Ma erano troppo sorpresi dai regali e affascinati dalla squisita manodopera di Trán, tanto da rimanere a corto di parole. Così, scambiandosi una veloce occhiata ed un cenno del capo, le saltarono addosso in contemporanea, stringendola in una morsa di abbracci che avrebbe soffocato persino un Nano della stazza di Dwalin.

«Grazie, imad!»

«Sono stupendi ed inaspettati!»

«Per quale occasione sono? I nostri compleanni sono ancora lontani!»

«Kee, non serve un’occasione per darci un regalo. Siamo adorabili e imad ha visto bene di ricordarcelo.»

Trán ridacchiò, impossibilitata a muovere le braccia per ricambiare la stretta, e Thorin, poggiato contro lo stipite della porta d’ingresso della fucina, scosse il capo, l’espressione seria ora rasserenata da un leggero sorriso. Non era stato facile convincerla che quei pugnali fossero di alta fattura e che i nipoti li avrebbero apprezzati come delle pietre preziose. Trán era una Nana piuttosto critica, quando si trattava di qualcosa che proveniva dalle sue mani, e finché non si convinceva che tutto fosse perfetto non ci sarebbe stato verso di farle cambiare idea. Era esigente ed instancabile, e questo non poteva che aggiungersi alla lista delle cose che adorava di lei.

«Ora lasciatela andare, nipoti.» fece imperativo, rizzando la schiena e muovendo qualche passo verso i tre. «Rischierete di romperla.»

«Oh, scusa zia!» esclamarono in coro, allentando la presa ed allontanandosi un poco. «Ti abbiamo fatto male?»

«No, nessuna costola rotta, per il momento.» fece lei, con un bel sorriso sulle labbra e le gote deliziosamente rosee – se per l’imbarazzo o per la poca aria che era riuscita a respirare in quegli istanti, Thorin non seppe dirlo.

Con qualche ultima poderosa pacca sulla spalla e due sonori baci sulle guance, Fili e Kili si defilarono poco dopo, per mostrare a tutti le loro nuove e bellissime armi.

Trán osservò distrattamente la porta oltre il quale erano spariti e sorrise. «Non è andata male, no?»

«Temevi il contrario?» Lei si strinse nelle spalle. «Habanuh, non avrei saputo fare di meglio.»

«Non lo dici per farmi contenta?»

Thorin le si avvicinò, accarezzandole le braccia coperte dalle larghe maniche del suo abito, ora strette da una serie di lacci, per evitarle impedimenti durante il lavoro. «Trán, sai bene che non riesca a trattenere le parole, quando qualcosa non mi aggrada.»

La Nana sbuffò, fingendosi indispettita. «Oh sì, lo ricordo.»

Il Re sorrise, chinandosi per baciarle la fronte, e lei arrossì, se possibile, ulteriormente. Era più che sicura che nemmeno altri cento anni avrebbero potuto farla abituare a quei gesti di affetto che raramente quel Nano mostrava. Nascose il suo imbarazzo affondando il viso su quell’ampio e duro petto, abbracciandolo e godendo per qualche lungo istante di quelle braccia forti che non esitarono a stringerla. Sospirò di contentezza quando quel familiare odore di ferro e tabacco le inebriò i sensi. Sollevò leggermente il capo, per sfiorargli il collo con la punta del naso, e sorrise nel percepire quel corpo muscoloso contro il suo rabbrividire quando lo baciò con audacia sul pomo d’Adamo. Thorin inspirò con lentezza, forse per cercare di placare l’insistente desiderio di dimenticarsi di tutto e tutti e vezzeggiarla per il resto dei suoi giorni. Ma non poteva lasciarsi andare, non ancora. Aveva un’etichetta da seguire e non aveva alcuna intenzione di intaccare la decenza della sua compagna.

«Quando torneremo a casa questi momenti di pace saranno più rari.» commentò, dopo un istante.

Un groppo alla gola le soffocò il respiro. «Lo so bene... sei un Re.»

Thorin chinò il capo, le sopracciglia aggrottate. «Non intendevo a causa dei miei doveri... anche se in parte lo sono.» Sospirò, accarezzandole distrattamente la schiena. «Mi riferivo al fatto che qui le cose sono diverse. Una volta che saremo nuovamente in cammino verso Erebor, dovremo seguire delle regole ben precise per... per il corteggiamento, intendo.»

«Oh.» Dopo un lungo silenzio, Trán parlò. «Non sono un’esperta in materia, mio signore... né in vita mia ho mai avuto le attenzioni di un nobile. Cosa devo aspettarmi?»

«Un accompagnatore ovunque andremo, che avrà il compito di controllare che non succeda niente di... compromettente, ecco. Più la scorta, ovviamente. E nessun comportamento intimo in pubblico.»

La Nana si allontanò un poco, per guardarlo meglio in viso. «Ciò vuol dire che non avremo più un momento da soli?»

«Non se vuoi mantenere il tuo onore intatto.» borbottò lui, ovviamente seccato all’idea. «Avremo gli occhi di tutti addosso, Ghivashel; e molti non aspetteranno altro che un passo falso pur di divulgare pettegolezzi. E no.» aggiunse in fretta, vedendo l’espressione turbata della compagna. «La tua discendenza non è il motivo per cui devi preoccuparti, per il momento; né voglio spaventarti e farti scappare. Questo accadrebbe con qualunque femmina il Re decidesse di corteggiare.»

Trán assimilò quelle parole con timore. Aveva sempre odiato essere al centro dell’attenzione. Aveva trascorso la sua vita con la sola compagnia della famiglia e raramente aveva fatto parlare di sé – e quando ciò accadeva avrebbe preferito sparire dalla faccia della terra, pur di doversi sentire oggetto delle attenzioni altrui. Ma ora come avrebbe fatto? Ora che il Re in persona l’avrebbe presentata al suo popolo come la sua compagna, probabilmente come la futura Regina di Erebor, come avrebbe potuto far fronte agli occhi di un regno intero che probabilmente l’avrebbe disprezzata per le sue orecchie appuntite e l’assenza di barba? E come avrebbe potuto prendere in mano tutte le responsabilità che quel corteggiamento avrebbe comportato?

«Thorin io... io non sono come te.» mormorò, gli occhi fissi su una clip delle sue trecce, con cui giocava nervosamente. Lui non parlò, attendendo che continuasse, ma lo sentì chiaramente irrigidirsi. «Tu sei... sei un nobile dalla nascita e... e hai dovuto prenderti la responsabilità di guidare un popolo da così giovane. E io? Io sono solo un fabbro e–»

«Mi pare di averne già parlato.»

«Lo so, è solo che–»

«Ti stai pentendo di aver accettato la mia proposta.»

Trán sollevò lo sguardo sul Nano, che ora si era allontanato di qualche passo e la osservava con pesantezza e... timore? «Thorin, no! Io–» S’inumidì le labbra, sapendo di dover ponderare al meglio le sue parole per non rischiare di distruggere tutto ciò che avevano faticosamente costruito. «Non mi sono pentita e mai lo sarò. Quello che ti dissi è vero: hai sempre avuto il mio cuore e così sarà per il resto dei miei giorni. Mi hai reso un grande onore e sono davvero la persona più felice di questa terra.» gli disse, in un timido sorriso, stringendogli una mano con la sua. «Ma devi capire che tu non sei un Nano qualunque. Tu sei il Re e non voglio deluderti, non voglio rischiare di non essere in grado di ricoprire il ruolo che mi stai offrendo. E... non piacerò a nessuno, Thorin. Siamo onesti.»

Il Re chiuse gli occhi, inspirando con calma, e scosse il capo. Le accarezzò il dorso della mano con il pollice, mentre poggiò l’altra mano sulla sua delicata nuca, guardandola ora con serietà. «Devi piacere a me, donna testarda. A me, e a nessun’altro.» replicò con fermezza il Re. «Credi che ti avrei voluto al mio fianco se non fossi stata degna di una Regina? Credi che avrei osato occupare la mia mente con pensieri frivoli come una femmina, quando il mio popolo ha più bisogno di me, se tu fossi stata solo una Nana qualunque?» Le baciò la punta del naso con dolcezza, ora sorridendo. «Non sarai da sola in tutto questo, te ne rendi conto? Ci sarò io al tuo fianco; e avrai parecchio tempo per abituarti all’idea. Direi... almeno un anno.»

«Oh.» replicò nuovamente lei, ora perplessa. «Così tanto?»

«Purtroppo sì.» mormorò Thorin, baciandola sulle labbra. «E sono più preoccupato di non poter fare questo quando più mi aggrada.»

La Nana arrossì e si sciolse in un sorriso più sincero. «Oh, allora dovremo farne la scorta, mio signore.»

«Come la mia Regina comanda.» mormorò lui, prima di baciarla nuovamente e con intensità.

 

 

Nell’altra stanza, Balin, Dwalin e Káel avevano apparecchiato per il pranzo, giacché anche quel giorno Brethil aveva ben deciso di ignorare il buon senso di starsene a riposo, e ora stava chiacchierando con il piccolo Trión, tentando di esaudire la sua incredibile curiosità.

«E perché hai i capelli corti? Adad ci ha sempre detto di non tagliarli mai. Guarda che lunghi!» esclamò il giovane Nano, afferrandosi una lunga ciocca ramata e mostrandogliela con orgoglio.

La donna si accarezzò i suoi, rendendosi conto che fossero cresciuti un po’ troppo da quando aveva iniziato la sua nuova vita a Minas Tirith. Avrebbe dovuto chiedere a Rainiel il favore di tagliarglieli, sperando che non le svenisse ai piedi per l’assurda richiesta. «Mi è più comodo tenerli corti, soprattutto quando devo... insegnare le buone maniere alle persone cattive.» gli spiegò, tentando di non essere troppo diretta. «E non sono così pratica di trecce ed acconciature, per ritirarmeli dal viso come fate voi Nani.»

«Posso intrecciarteli? Posso?»

«Per la barba di Mahal, non farlo!» ridacchiò il fratello maggiore. «Non vorrei che dopo dovessi tagliarli fino alla radice, impossibilitata a scioglierne i nodi, mia signora.» Il solo pensiero li fece rabbrividire e Brethil abbozzò un sorriso, divertita ed affascinata dalle loro divergenze culturali.

«Non li tagliate davvero mai?»

«Oh, beh, i nostri capelli sono molto spessi e crescono lentamente.» le spiegò Balin. «Così come la barba.»

«A Kili, però, cresce davvero troppo piano.» fece drammaticamente Fili, mentre il diretto interessato incurvava le spalle in segno di sconfitta.

«Tagliarsi i capelli o la barba è un atto tremendo.» continuò Balin, nascondendo un sorriso rivolto ai due fratelli. «Solitamente, nel caso di un grave crimine, è una punizione peggiore persino di una condanna a morte.» Brethil corrugò la fronte, interessata e curiosa. «Una volta che un Nano viene punito con la rasatura di capelli e barba, tutti sapranno che si sia macchiato di un atto vergognoso e vile; i Nani lo bandiranno, così come gli Uomini ne staranno alla larga e gli Elfi... beh, gli Elfi non sono mai stati molto accomodanti neppure con un Nano onorevole, quindi puoi ben immaginare.»

«Morirebbe di fame e senza un tetto sopra la testa.» commentò Brethil. «È decisamente una condanna peggiore della morte.»

«L’onore e l’orgoglio di un Nano sono i tratti che ci caratterizzano, mia signora. La vergogna ed il disonore sono la pena più grande che ci possa essere.»

La donna annuì, ma non fu del tutto d’accordo con quella visione di cose. Ripensò a Mardil e al suo tradimento, e si disse che non vi era stata soddisfazione più grande di vederlo esalare l’ultimo respiro. Non avrebbe potuto sopportare l’idea di saperlo ancora vivo, seppur imprigionato o bandito da qualsiasi casa esistente sulla faccia della terra. Feccia come lui meritava la morte, non la grazia di continuare a vivere.

Presto anche Thorin e Trán li raggiunsero per il pranzo e l’allegra tavolata si riempì lo stomaco fino a scoppiare, tra qualche boccale di birra e una bella risata. Brethil fu sollevata nel vedere la sua piccola amica un po’ più serena, rispetto ai giorni precedenti, e si appuntò mentalmente di ringraziare il Nano che le sedeva protettivamente accanto per essersi preso cura di lei – forse anche troppo, aggiunse in un mezzo sorriso. Ma il suo pensiero volò così al suo Sovrintendente e il suo viso luminoso si rattristò un poco. Aveva creduto di perderlo, solo pochi giorni prima, e ora che stava bene e riguadagnava le forze avrebbe voluto averlo accanto, anche solo per trascorrere una serata in silenzio, l’uno tra le braccia dell’altra. Ed invece non vedeva il suo bel viso da un paio di giorni e l’idea che ne sentisse terribilmente la mancanza le fece stringere il cucchiaio con forza per la stizza.

Da quando era diventata così... patetica?

Boromir era il Sovrintendente di Gondor, e ora Signore di Osgiliath. Era normale che fosse nuovamente occupato con i suoi doveri, ora che aveva ripreso a camminare, seppur debolmente. Eppure non poteva negarlo: le mancava.

Troppo, per una donna che aveva imparato a vivere in solitudine.

L’averlo quasi visto morire davanti ai suoi occhi, forse le aveva fatto capire quanto indispensabile fosse diventato, e non sapeva bene se esserne spaventata o meno.

Il flusso dei suoi pensieri venne bruscamente interrotto da Fili, sedutole accanto, che le stava chiedendo quando avrebbero potuto ripetere il duello di qualche settimana prima.

«Spero di essere liberata dalla mia prigionia alle Case di Guarigione in pochi giorni; in questo modo potrò riprendere gli allenamenti e sarò pronta entro un paio di settimane.»

«Non riesci proprio a star ferma, tu.» I Nani e la donna si voltarono immediatamente alla nuova voce proveniente dall’ingresso e Boromir si chinò lievemente in segno di saluto. Nonostante stesse riprendendo le forze, si era stancato parecchio dopo tutto quel camminare, ma fece di tutto pur di non mostrare che fosse poggiato contro lo stipite della porta per sorreggersi. «Perdonate il disturbo, ma mi è stato detto che avrei potuto trovare Dama Brethil qui.»

«Ti è stato detto bene.» replicò asciutta, incrociando le braccia al petto e schiaffeggiandosi mentalmente pur di ricacciare indietro la voglia di prenderlo a calci – o di saltargli al collo. Aveva un aspetto orribile. «Felice di vederti in piedi, mio signore.»

Boromir corrugò le sopracciglia, cogliendo il sarcasmo poco divertito della donna, e sospirò. Era indispettita, era palese. E poteva persino indovinarne il motivo. Ma decise di rimandare ogni discussione ad un momento e luogo più appropriati, e salutò con cordialità il resto dei presenti. Káel si affrettò a prendere in braccio il fratello minore, per assicurargli un posto, e Boromir lo ringraziò con un cenno del capo. «Spero che la mia città vi stia trattando bene, anche se immagino che trovarvi in mezzo ad una battaglia sia stato il peggior modo di accogliervi.»

«Non è stato certo per vostro volere, Sovrintendente.» replicò Thorin. «Come ti senti?»

«Ammaccato.» disse con onestà. «Ma vivo.»

Balin annuì. «E questo è ciò che importa.»

«Anche se dallo sguardo della Prima Guardia, qualcosa mi dice che lo sarà ancora per poco.» sussurrò Kili al fratello.

«Ho parlato con il Re Elessar e ho visto con i miei occhi i danni... mi rincresce dovervi trattenere qui più del previsto. Ma sappiate che, se vorrete lasciare Gondor entro i termini iniziali, nessuno vi obbligherà a stare.»

Thorin agitò una mano. «Sciocchezze. È in momenti come questi che le vecchie alleanze devono consolidarsi. Rimarremo il necessario e senza causare troppo disturbo, se il Re di Gondor lo desidera.»

Il cenno affermativo di Boromir fu accolto con uno simile d’intesa e, sebbene Thorin non vedesse l’ora di rimettere piede nella sua Montagna Solitaria, non avrebbe abbandonato gli Uomini in una situazione disastrata come quella. Dís non sarebbe stata felice di saperli via anche durante le festività del Dì di Durin, ormai quasi su di loro; d’altra parte, quel giorno funesto gli riportava alla mente il migliore e peggiore momento della sua vita, quando aveva riaperto le porte di Erebor, a discapito delle malelingue, e aveva detto addio alla sua sanità, troppo debole per combattere la Malattia del Drago.

Una mano piccola e calda cercò la sua, sotto il tavolo, allontanandolo dai brutti ricordi, e ricambiò la stretta di Trán per rassicurarla che andasse tutto bene.

«Hai pranzato?» stava domandando nel frattempo Brethil a Boromir.

Lui scosse il capo. «Non ho avuto molto tempo... e nemmeno la voglia.»

«Oh, ma devi, mio signore!» esclamò Trán, scattando in piedi e recuperando una ciotola di zuppa per il nuovo arrivato. Boromir e Thorin, che sedevano l’uno di fronte all’altro, si scambiarono un’occhiata, e Brethil non poté nascondere un sorriso.

«Ti conviene mangiare.» gli disse, infatti. «Sa essere persuasiva più della vecchia Ioreth.»

«Fintanto che non mi si imbocca.» borbottò sottovoce l’Uomo, le orecchie rosse al ricordo di quell’affronto, ancora fresco nella sua mente.

«Ad ognuno il suo.» esclamò Dwalin, battendo una possente manata sulle spalle del proprio Re, facendogli quasi ingoiare il cucchiaio che aveva tra le labbra.

E mentre il resto della compagnia scoppiava a ridere, i due uomini più influenti presenti nella stanza si domandarono tacitamente da quando fossero diventati gli zimbelli di turno.

 

 

Brethil e Boromir lasciarono le forge non appena lui ebbe terminato il veloce pranzo e, con lentezza, si avviarono verso la Sesta Cerchia. Nessuno dei due osò chiedere all’altro se avesse bisogno di sostegno, sia perché erano entrambi troppo orgogliosi per farlo, sia perché non erano al massimo delle loro forze per sorreggere l’altro. Non parlarono per tutta la lunghezza del quarto livello, l’uno cercando un modo di spiegare la sua inspiegabile assenza, l’altra che aveva tutte le intenzioni di rinfacciarglielo.

«Come ti senti?» domandò Boromir, dopo un interminabile silenzio, e la vide irrigidirsi con la coda dell’occhio.

«Direi bene.»

«Bene.»

Camminarono per un altro, lungo livello senza dire una parola, e fu solo quando raggiunsero l’ingresso del sesto ed intravvidero le Case di Guarigione, che Boromir si lasciò sfuggire un sospiro pesante. «Credo che ti debba delle spiegazioni.»

«Sì, dovresti.» sbottò Brethil, aprendo finalmente la porta della sua stanza e quasi richiudendogliela in faccia, se non fosse stato per la prontezza di riflessi dell’Uomo, che rischiò di ritrovarsela sul naso. «Così come dovrebbe darmi qualche spiegazione anche metà Cittadella, giacché tutti sembrano avere segreti, oltre te.»

«Brethil–» Lei si fermo accanto al letto, voltandosi per guardarlo ed incrociando le braccia sotto il seno, in attesa. «–ho avuto molto di cui discutere con Aragorn. Sta pianificando un contrattacco agli Esterling e tra non molto avremo un Consiglio con tutti i Signori di Gondor ed i nostri vicini, per decidere come e quando agire. Éomer e i suoi uomini marceranno con noi, a quanto pare.»

«E questa è una notizia così segreta che neppure la Prima Guardia del Re deve esserne a conoscenza?»

«No, certo che no! Farai parte anche tu del Consiglio, ovviamente.»

Brethil lo scrutò con attenzione. Aveva gli occhi lucidi o stava immaginando le cose? «Ma non è questo il motivo per cui sei stato via per tutti questi giorni... nelle tue condizioni, per giunta!»

«Mi sto riprendendo alla perfezione, io

«Hai un aspetto tremendo, ti sei guardato in uno specchio? A mala pena riesci a reggerti in piedi.»

«Parla quella con un fianco lacerato.»

«Il mio fianco sta guarendo bene, grazie tante.»

Rimasero a fissarsi per lunghi secondi, finché entrambi non riuscirono a trattenere una risata. Brethil si passò una mano in viso, scuotendo il capo. «Eru, siamo ridicoli.»

Lui annuì, avvicinandosi ed accarezzandole una guancia sfregiata con un lieve ed insicuro sorriso sulle labbra. «Non andremmo così d’accordo, se non lo fossimo.»

«Boromir...» gli sussurrò, intercettandogli la mano e stringendola con la sua. «Non mi stai dicendo tutto.»

Il Capitano della Torre Bianca chinò il capo, maledicendo l’attenzione della sua donna. Era davvero così facile leggerlo come se fosse un libro aperto? «Gli ho chiesto un parere.» Vedendo che Brethil non accennava a rispondere – o forse temendo qualche altra battuta sarcastica – si affrettò ad aggiungere: «Riguardo il nostro matrimonio.»

Quegli occhi grigi, che fino a qualche secondo prima gli stavano scavando l’anima nel tentativo di carpire cosa gli stesse passando per la mente, ora sgranarono e un delizioso colorito roseo le imporporò le guance solitamente pallide.

Boromir s’inumidì le labbra, prendendo coraggio. «Giacché lui ti conosce più tempo di me e siete nati nel Nord, mi chiedevo se ci fosse qualche tradizione differente dalla nostra, perché...» deglutì, rizzando la schiena. «... perché voglio farti sentire a casa.»

«Boromir, tu– tu sei la mia casa.»

«Lo so, ma dopo ciò che mi hai detto, riguardo la tua voglia di evadere da qui... mi ha fatto capire che non desidero legarti a qualcosa che tu non vuoi o a cui non appartieni. Se dovessi decidere di vivere il resto dei tuoi giorni con me, allora sarà mio compito renderti felice e farti sentire a casa. E voglio iniziare per bene... anche se non sono il massimo esperto in materia.» Si strinse nelle spalle. «È per questo che sono sparito nel nulla. Ho posto delle domande, mi sono state date delle risposte... e mi sono messo al lavoro.»

«Oh, Boromir.» mormorò Brethil, con le lacrime agli occhi. Gli si appese al collo, affondando il viso nell’incavo della spalla, e sentendo subito la presa cauta di lui sui suoi fianchi, nel timore di urtarle la ferita. «Perché non ne hai parlato con me? Credo di conoscermi meglio di Aragorn, sai?»

«Non lo dubito, ma poi la sorpresa sarebbe rovinata.»

La donna si scostò di qualche centimetro, per guardarlo in viso. «Boromir, sai che odio le sorprese, sì?»

«Lo so bene. Ma questa ti piacerà. Credo.» Si grattò la nuca, pensieroso. «Spero. Altrimenti mi macchierò di regicidio.»

La Dúnadan ridacchiò, accoccolandosi meglio tra quelle forti e confortanti braccia, inspirando il profumo della sua pelle e godendo del suo calore. Fu solo in quel momento che si accorse di quanto fosse caldo. Sollevò una mano sulla fronte dell’uomo, che sbuffò. «Boromir, stai letteralmente prendendo fuoco. Sdraiati, ora.»

«Non ci pens–»

Con le poche forze che le rimanevano, Brethil lo spintonò contro il letto, sorda alle sue proteste. Gli sfilò gli stivali e la parte superiore della casacca che indossava, coprendolo con una pesante coperta. «Dimmi se ho capito bene: ti stai riprendendo alla perfezione, uh? Ti è risalita la febbre.»

«Sei peggio della vecchia arpia.»

«La vecchia arpia ti scuoierebbe vivo; ringrazia che ci sia io a prendermi cura di te, ora.»

«Come sempre, del resto.» mormorò in un borbottio.

Brethil fece finta di non udirlo, ma sorrise quando gli diede le spalle per bagnare una stoffa di acqua fresca. Gli tamponò la fronte sudata e Boromir chiuse gli occhi, assaporandone il sollievo con un lungo respiro.

«Devo recuperare un po’ di foglie mediche da farti bere; vedi di farti trovare, quando tornerò.»

La stanchezza di tutta quella lunga mattina prese il sopravvento e Boromir cadde in un leggero sonno poco dopo che lei lasciò la stanza. Si svegliò solo quando sentì il suo nome nelle orecchie e delle dita callose accarezzargli la guancia ispida.

«Ti ho preparato una tisana e ho rischiato che Ioreth mi scoprisse.» gli confidò, aiutandolo a mettersi seduto per bere senza soffocarsi. «Ti farà bene.»

L’odore non era dei migliori, come qualsiasi medicina dovesse mandar giù, e dovette farsi coraggio pur di ingoiarla in pochi sorsi e terminare quella tortura. «È disgustosa.»

«Lo so; ma non deve piacerti.» Gli mise un paio di cuscini sotto il capo e Boromir si sdraiò nuovamente, osservando distrattamente il soffitto in pietra. «Hai intenzione di farti crescere la barba?»

L’Uomo spostò lo sguardo su di lei. «No, certo che no.» S’inumidì le labbra, un po’ impacciato. «Stavo aspettando il momento per chiederti se fosse possibile che... che fossi tu, a rasarmi il viso. Sarò pure sulle mie gambe ma... le mie mani non sono ancora ferme abbastanza per evitarmi qualche taglio.»

«E i Valar sanno quanto non ne voglia vedere altri, sulla tua pelle.» borbottò Brethil, in un sospiro. «Ma aspetta un attimo e dimmi se ho capito bene: stai dicendo di essere troppo debole e richiedi l’aiuto di una donna per farti la toeletta?»

«Mi stai mettendo in bocca parole che non ho mai pronunciato.»

«Perché sei troppo orgoglioso ed astuto per farlo. Ma il senso è quello. E non sono io quella che non si regge in piedi.»

«Sei insopportabile, lo sai?»

La donna rise ed annuì. «E sia. Ne sarò onorata. Ma non dirlo ai Nani: dopo averli sentiti parlare di dignità e capelli, potrebbero sentirsi male.»

 

 

 

*

 

A presto (?),

Marta.

 

Ps: ho aperto un blog sulle Architettura della Terra di Mezzo, tanto per non stare con le mani in mano, che mi sta prendendo un sacco di tempo e che potete trovare qui. Se volete farci un salto, o avete richieste in particolare, sapete come contattarmi!

 

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