Le Onde del Destino.

di lovespace
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Horizon ***
Capitolo 2: *** Attacco all'Arcadia ***
Capitolo 3: *** LE DUE FACCE DELLA VERITA' ***
Capitolo 4: *** L'ANGELO NERO ***
Capitolo 5: *** CORPO A CORPO ***
Capitolo 6: *** ARCTIC ***
Capitolo 7: *** RESPIRO NEL RESPIRO ***
Capitolo 8: *** LOST ***
Capitolo 9: *** TOCHIRO ***
Capitolo 10: *** LA SOTTILE MEMBRANA TRA LA VITA E LA MORTE ***
Capitolo 11: *** LEGAMI ***
Capitolo 12: *** CARNE E SANGUE ***
Capitolo 13: *** RIVELAZIONI ***
Capitolo 14: *** L'ONDA ANOMALA ***
Capitolo 15: *** LA CENA ***
Capitolo 16: *** SE TU SEI FIAMMA IO BRUCERO' E SARO' CENERE ***
Capitolo 17: *** SO COME SEI ***
Capitolo 18: *** RAIN ***
Capitolo 19: *** PASSEGGIATA NELLO SPAZIO ***
Capitolo 20: *** TOKARGA ***
Capitolo 21: *** TENEBRE ***
Capitolo 22: *** LA DECISIONE ***



Capitolo 1
*** La Horizon ***


Care ragazze ciò che ci lega tutte indissolubilmente è l’amore per il nostro Capitano. Come accaduto a molte di voi subito dopo aver visto il film ‘Space pirates Capitan Harlock’ la mia testa ha iniziato, quasi da sola, ad elaborare una storia alternativa. Un amore salvifico per il nostro Harlock. A tal proposito approfitto subito per ringraziare Harlocked alla quale per mesi ho raccontato la storia e che mi ha sempre spronato a scrivere. Questo capitolo è tutto tuo. Oggi eccomi qui tentennante. Spero vi piaccia il mio modo di scrivere e che la storia vi avvinca.

Ringrazio di cuore tutti coloro che si fermeranno a leggere.

 

1

 

LA HORIZON

- Arcadia “Capitano!” disse Kei continuando a guardare i suoi monitor  “sul radar vedo una nave ad appena un anno luce da noi”. Harlock dal suo trono spostò solo lo sguardo da Kei a Yattaran . “Yattaran?” L’uomo dopo aver controllato i suoi strumenti con tocchi veloci delle dita sugli schermi sorrise quasi beffardo “ah ah..è una grossa nave capitano!..Dai dati in nostro possesso … è..è la Horizon una corazzata classe Destiny!” E continuando a scaricare dati “hey hey..armamento offensivo e difensivo utilizzata per il trasporto di contingenti e di rifornimenti..” l’ultima parola l’aveva pronunciata sorridendo sardonico. ”Kei sai che vuol dire?” Disse guardando la bionda ragazza alla sua destra. ”Non è una nave è un forziere..ci sarà di tutto! E in abbondanza..”   “Già!“ rispose sarcastica lei “ma anche un vero esercito … dovremmo lasciar perdere Capitano” guardò verso il trono. Harlock seguendo il filo dei suoi pensieri “Yattaran imposta le coordinate non possiamo farci sfuggire una occasione come questa, infliggeremo alla Gaia Sanction una perdita che non dimenticherà. Tecnica nautica in skip” disse alzandosi con la calma regale distendendo il mantello ed avanzando maestoso verso il timone. “Ma Capitano vi potrebbe essere un intero contingente armato!” il tono di Kei era preoccupato. “Tutti gli uomini disponibili si preparino ad assaltare la nave. A bordo resteranno solo quelli strettamente necessari, verrò anche io!” . Il tono era imperativo di quelli che non ammettevano repliche. Kei era perplessa ma la sua partecipazione all’assalto le dava certezza di esito positivo. L’allarme sonoro dell’Arcadia si diffuse violento per la nave e la voce di Yattaran l’accompagnava “Tutti gli uomini disponibili sul ponte per un assalto all’arma bianca, forza razza di pigroni oggi il Capitano sarà dei nostri!”. A quelle parole gli uomini si guardarono compiaciuti, qualcosa di grosso bolliva in pentola se il Capitano lasciava l’Arcadia. Corsero ad indossare le tute blindate. Eseguita rapidamente la manovra di avvicinamento Harlock piantato davanti al timone ferocemente determinato, speronò con consumata esperienza e grande tecnica e totale consapevolezza di forze e mezzi, la nave nemica, creando così a seguito del violentissimo impatto tra le due, un corridoio di passaggio da cui effettuare l’abbordaggio. Al contrario dei suoi uomini non indossava l’equipaggiamento blindato ma una semplice mascherina nera sul volto. Senza alcuna esitazione raggiunto il punto d’attracco si preparò all’attacco vero e proprio. Gli uomini gli stavano rispettosamente alcuni passi indietro. Harlock, sfoderata la spada con agile risolutezza si lanciò implacabile sull’altra nave sparendo oltre la coltre di fumo e scintille come una fiera che ‘sente’ la preda pur non vedendola. Inesorabile, impavido, il viso contratto dalla tensione del momento fendette l’aria, le armature, i corpi di chi si frapponeva tra lui e la meta. I nemici vestiti di bianche corazze cadevano a terra uno dopo l’altro come fiocchi di neve. Tolta la mascherina incedeva senza fretta da un corridoio all’altro come guidato dall’odore del sangue. Un nero felino, un puma, un passo dopo l'altro fiero e sprezzante, i sensi allertati e' lui Il predatore, la sua lentezza denotava un’immensa sicurezza. E’ solo vendetta che cerca il suo animo tormentato? Intanto seguiva l’andamento della battaglia attraverso le trasmissioni radio tra gli uomini e l’Arcadia. Tutti aspettavano i suoi ordini, lui è il capo, il condottiero, tutti dipendono da lui. E’ lui il faro tra il fumo e le fiamme,la luce guida delle loro vite. Incedeva senza fretta, sapeva che altrove i suoi uomini stavano facendo un buon lavoro. La nave nemica come previsto era colma di ogni tipo di derrate, armi e strumentazioni. Si susseguirono piccole esplosioni, vi era fumo ovunque, rumori di arma da fuoco e corpi che cadevano. Mentre camminava un movimento in un corridoio laterale attirò la sua attenzione. Voltò il capo. Un soldato chino accanto ad un altro probabilmente ferito. Harlock nell’avvicinarsi creò volontariamente rumore, il suo codice d’onore gli impediva di colpire qualcuno alle spalle. Il soldato alzandosi, lo vide, gli puntò la pistola contro, esplose diversi colpi in successione, uno, due, tre, nessuno andò a segno come se una forza invisibile non lo permettesse . Harlock sollevata la  pistola con spietata risolutezza la puntò dritta al cuore del soldato. La morte per mano sua, doveva sempre essere una morte netta! Immediata! L’ultimo atto d’onore ad un combattente nemico. Ma nello stesso istante in cui premette il grilletto qualcosa attirò il suo sguardo, spostò il braccio di poco più in alto così da cambiare la traiettoria del proiettile. Su quell’armatura bianca all’altezza del cuore c’era dipinta una croce di colore rosso. Quello davanti a lui.. era un medico!

Il proiettile deviato all’ultimo istante colpì di striscio il soldato all’altezza dell’attaccatura del casco dell’armatura. Il casco si staccò, volò via, cadde, rotolò, rotolò e finì poco più in là. Il soldato perse per un attimo l’equilibrio ma restò in piedi. E come la forza dell’acqua, per troppo tempo trattenuta dallo sbarramento di una diga, una volta libera defluisce impetuosa all’esterno alla ricerca di libertà , allo stesso modo un fiume di lunghi e morbidi capelli castani esplose fuori dal casco ondeggiando per poi trovar pace lungo le curve della schiena. Un bellissimo volto di donna ora lo guardava, lo scrutava. Non c’ era paura in quei grandi e profondi occhi neri. Spesso Harlock aveva incrociato un lampo di terrore e ansia negli occhi di chi stava per morire per mano sua. C’era chi indietreggiava, chi tremava e chi addirittura fuggiva. Quella donna non si mosse, l’arma ancora in pugno lungo la gamba destra, teneva gli occhi fissi sul suo volto. Harlock immobile abbassò la pistola. Uno strano ed immotivato turbamento si stava lentamente impossessando di lui. Una inquietudine che veniva da lontano, da una zona remota ed ormai sepolta del suo spirito che non seppe spiegarsi. Un richiamo ancestrale a qualcosa, ma cosa? Come se il velo delle tenebre si fosse scostato per un breve istante mostrandogli qualcosa di cui aveva colto l'importanza non comprendendolo.  “Sei un medico?” chiese  “sono il primo ufficiale – medico di questa nave” rispose la donna. La sua voce dolce e ferma non tradiva nessuna emozione, continuava a fissarlo. “Il mio nome è Helèn Stèren”.  “Sai chi sono io?” chiese lui. “Tu  sei...Harlock. Ho visto le tue foto segnaletiche”. Harlock era rapito da quel viso. Non riusciva a distoglierne lo sguardo. L’aria intorno a loro sembrava ferma. Harlock rispondendo quasi ad un richiamo esterno alla sua volontà, e contravvenendo puerilmente ad ogni regola dettata dall’esperienza e dal buon senso si sentì dire “Mi serve un medico a bordo della mia nave, la tua tra poco esploderà!”. “Non è la mia nave” puntualizzò lei quasi a volerne prendere le distanze. “Mi vuoi arruolare Harlock?” non c’era sarcasmo nella sua voce. “No! mi serve un medico a bordo, potrai andar via quando vorrai”. In realtà portarla sull’Arcadia voleva semplicemente dire, in quel momento, salvarle la vita , prendere tempo per capire. Era l’unica cosa che gli era chiara: lei non doveva morire! Helen dalla sua si rendeva conto della situazione e benché non fosse nella posizione di dettare condizioni disse “Verrò ad una condizione, vorrei prendere alcuni effetti personali dalla mia cabina”. In quel momento Yattaran correndo capitò in quel corridoio. Dovette fermarsi. Li guardava attonito. L’uno poi l’altro.  Intorno impazzava la battaglia, l’odore della morte aleggiava tra fumo , schegge, urla di lamiere, scariche elettriche, ma quei due se ne stavano lì come se fosse l’ora del tè . Come rapiti da un incantesimo. ’Yattaran!’ la voce del Capitano lo scosse bruscamente dalle sue considerazioni. “Il medico qui viene con noi! Deve andare nella sua cabina, và con lei, avete cinque minuti prima che salti ogni cosa! “. “Ma ...ma Capitano !“  Fece l’uomo balbettando “noi non facciamo prigionieri !” “Non è un prigioniero è il nostro nuovo medico!” Così dicendo Harlock si voltò’ facendo ondeggiare il suo nero mantello. Helen pensò che sembrava un angelo, l’angelo nero della morte.

Gli uomini fecero tutti ritorno sull’Arcadia. Tra tutti spiccava questo soldato con la bianca armatura della Gaia, tutti lo guardavano ostili e non spiegandoselo , ma ciò che il Capitano decideva era legge. Si tolse il casco e vi fu un brusio. Una ...donna! Kei fu la prima a farsi avanti  ancheggiando ”Tu chi sei?”.  “Non pensavo ci fossero donne a bordo dell’Arcadia!” rispose lei sorridendo. Un sorriso caldo, trasparente e rassicurante che colpì Kei. Riecheggiò il rumore prodotto sul metallo dagli stivali di Harlock . Tutti alzarono il viso in quella direzione. “Bene! vedo che non c’è bisogno delle presentazioni! Lei è il nostro nuovo medico. Kei mostrale il suo alloggio.”  Stava per voltarsi quando Helèn interrompendo il silenzio che sempre accoglieva i suoi ordini, “preferirei  vedere l’infermeria, ci sono degli uomini feriti” al suo occhio esperto non erano sfuggiti pirati claudicanti, con tagli o escoriazioni. “E sia!” disse Harlock con un cenno del capo a Kei prima di sparire nel suo mantello. Kei molto seccata da quella novità diede una occhiataccia a  Yattaran che alzò gli occhi e le mani al cielo. Kei gli occhi fissi sulla nuova arrivata , guardinga e diffidente. Non solo una donna! ma pure della Gaia! penso'. Se lo sentiva che quella nave avrebbe portato guai. “Io sono Helèn” disse a voce sostenuta la nuova arrivata“ sono un medico non un nemico, chi ha bisogno per favore, ci segua”. Gli uomini dell’Arcadia all’inizio riluttanti e sospettosi, lentamente cominciarono, più che altro per la necessità dettata dal bisogno reale d’essere medicati , ad andare da Helèn. E comunque sempre in due ed armati fino ai denti. I primi ad uscire dall’infermeria invogliavano gli altri ad entrare, mostrando le loro medicazioni e facendo segni di approvazione. Era competente, pratica, disponibile, piena di buoni consigli e sorrideva sempre. Un sorriso semplice e caldo che riempiva i cuori come un raggio di sole in un luogo ormai buio da troppo tempo. Addirittura qualcuno che tanto ormai era lì , le parlò anche di qualche vecchio acciacco. Un camice bianco, quando stai male, pensò tra se, elimina sempre le iniziali diffidenze. Kei voleva scoprire di più sul suo conto e la raggiunse “il capitano vuole che ti mostri la nave”. L’alloggio a lei riservato era in realtà adiacente all’infermeria ed un po’ più grande di quello degli altri, letto, due poltrone, comò e grande bagno con doccia. Qualcuno le aveva già portato le sue cose.

L’Arcadia era una nave immensa vi erano molti spazzi comuni, cucina robotizzata con annessa mensa dai grandi tavoli e panche in metallo fissati al pavimento , grande palestra e sala per gli allenamenti, un piccolo teatro , alloggi. Ma ciò che la lasciò senza parole fu la plancia. L’immensa vetrata sullo spazio, il timone. Sembrava di essere su di un antico galeone piuttosto che sulla nave più potente dell’universo conosciuto. Non lo avrebbe mai immaginato. Non aveva mai visto nulla del genere sulle navi della Gaia Flett. Harloch aveva un trono, lo guardò affascinata, svettava sinistro sul ponte di comando, rosso porpora con i teschi argentei come poggia mani. Incuteva timore ma anche rispetto. Sembrava raccontare di chi fosse e cosa pensasse l’uomo a cui apparteneva. Alle sue spalle il motore della nave, un retaggio della guerra di Come Home,niente del genere sulle navi della Gaia Fleet dove vi erano motori a evanescenza. Che strana nave, sembrava una cattedrale gotica, volte immense, immersa nella semi oscurità, piena di echi, ombre lunghe e strani rumori, sembrava viva pensò. Consumarono un piccolo pasto  “non sono una nemica Kei ” le disse ad un tratto, per interrompere il silenzio, e toccando la mano della ragazza, ”chiedimi ciò che vuoi” lo sguardo di Helen era sincero  “se il capitano ha deciso che fossi dei nostri c’è un motivo, lui non sbaglia mai!” disse Kei ”e poi ero stufa di stare sola qui” proseguì strizzandole l’occhio. Helen le raccontò di come si era arruolata, dei suoi studi da medico e rispose a qualche domanda. Parlarono di armi, battaglie , uomini, uniformi, come a Kei non capitava da tanto. Le raccontò qualcosa sui membri dell’equipaggio e di Harlock, della loro fede incrollabile in lui e negli ideali che lui perseguiva. Del fatto che fosse un uomo molto introverso ma giusto e leale. Ognuno di loro non avrebbe esitato un solo istante a dare la vita per lui. Alla fine parte dei timori di Kei erano diminuiti, più che altro perché Helèn le ispirava fiducia e davvero aveva voglia dopo tanto tempo di avere nell'equipaggio un'altra donna. Si disse però che l’avrebbe comunque tenuta sott’occhio. Percorsero un tratto insieme “la tua cabina è alla fine di questo corridoio, notte.” “Notte Kei e grazie.” Helèn si incamminò lentamente per il lungo corridoio illuminato solo da una bassa luce notturna azzurrognola. Ogni tanto, ai lati si apriva una stretta finestra rettangolare dal vetro spesso da cui si intravedevano i pianeti galleggiare lenti in un immenso mare nero e denso. Ripensò a quando, solo poche ore prima con apprensione dai vetri della Horizon aveva visto per la prima volta la grande polena a forma di teschio dagli occhi rosso sangue dell’Arcadia ammantata da un nero mantello come il suo Capitano. Fu lì che lo sentì arrivare, si voltò e stavolta anche se la luce non era moltissima riuscì ad osservarlo bene. Camminava lentamente ma con passo fermo come chi ha tutto il tempo dell’universo, i capelli che incorniciavano un viso dai lineamenti antichi, ondeggiavano così come il lungo mantello, accompagnando l’andatura elegante e sicura, la spada ad ogni passo toccava la gamba sinistra ritmicamente. La snella figura si stagliava alta e fiera al centro del corridoio. Il mantello dall’alto bavero rosso lo rendeva ancor più maestoso ed imponente. Ecco da dove arrivavano gli strani racconti di chi anche se per poco, lo aveva veduto. Si fermò a qualche passo da lei, era impossibile non avvertirne l’ aura forte e potente. Ne osservò il viso, lo sguardo per la prima volta da vicino. Era un uomo forgiato come una spada nel fuoco del tempo e delle battaglie, temprato nel  ghiaccio vivo del dolore e della malinconia e battuto nella valle della solitudine e del rimpianto. “Rimpianti?” Le chiese lui dando voce ai suoi pensieri (ma.. leggeva nella mente?). Aveva una bellissima voce morbida e calda,  Helèn si chiese di che colore sarebbe stata la sua risata.  “No non ho rimpianti ero da poco sulla Horizon”. Era bello, molto, i lineamenti gentili , ma aveva il viso di chi è stanco ma non può arrendersi, di chi soffre dentro e non può smettere. La guardava con uno sguardo profondo ed indagatore ma non la metteva a disagio al contrario lei ne percepiva solo il buono. “Paura?” chiese lui.  “Ho smesso di avere paura tanto tempo fa’’. Quella donna lo incuriosiva e lo metteva a disagio al tempo. L’ovale delicato, le labbra sensuali  , gli occhi così oscuri, quel viso...non poteva non guardarlo senza che qualcosa dentro di lui, nel profondo cominciasse a scricchiolare. Come quando da una parete rocciosa si staccano i primi frammenti di pietra che preludono alla frana. Perché ? E perché l’aveva voluta sull’Arcadia? Non era attrazione fisica ne era certo, era altro, ma cosa? Era la stessa cosa che gli aveva impedito di spararle quando si erano visti. Il suo occhio si spostava lento su di lei. Helèn portava una semplice divisa nera l’aveva scelta perché non vi erano i simboli della Gaia, pantaloni aderenti e giacca militare sfiancata. Non era altissima ma armoniosa , il fisico allenato di chi vive combattendo, ma i suoi occhi erano gli occhi di chi si era perduto, pensò Harlock. “Riposati!” le fece e si avviò voltandosi. “Harlock!” lo chiamò, lui si voltò lievemente, prima di girarsi del tutto perché lei non parlava. Chinò il capo a sinistra in attesa. Avrebbe voluto essere già lontano ma era ancora lì davanti a lei. Helèn aveva solo dato fiato ai suoi desideri chiamandolo, sentiva chiaramente che il lungo viaggio che aveva intrapreso tanti anni prima era arrivato alla fine. Avrebbe voluto parlarne con lui ma non poteva, non ancora “nulla...notte!”. Si avviò dalla parte opposta accompagnata dal rumore dei passi cadenzati di lui che si allontanavano. Si voltò un attimo a guardare la figura dietro quel mantello ondeggiate ed i capelli lievemente arruffati. Le diede un senso di grande solitudine. Era quasi arrivata alla sua stanza che una luce strana alle sue spalle la illuminò, si voltò di scatto e vide Meeme. Eterea, sembrava fluttuare, irradiava una soffusa luce verde, la guardava quasi a scavarle dentro non tradendo emozioni “io... io sono Helen” le disse. Aveva sentito parlare di lei, si favoleggiava di questa aliena che viveva con Capitan Harlock e che forse era la sua donna. “Lo so” rispose “ Ti aspettavo, sapevo che un giorno saresti arrivata “ alcune piccole luci come dotate di vita propria iniziarono a fluttuare intorno ad Helen. “Il tuo viaggio è finito”. Helen la guardò stupita. “Non è questo che ti stavi chiedendo?”  e come era arrivata, sparì. Helen chiuse la porta della stanza alle sue spalle appoggiandovisi stanca e guardandosi intorno. Era stata una lunga giornata che mai avrebbe pensato si sarebbe conclusa a bordo dell’Arcadia. La Horizon attaccata, distrutta. Aveva visto tanti, troppi morire, poi forse sarebbe toccato a lei, ma Harlock l’aveva risparmiata chiedendole di andare con loro. Aveva accettato perché ormai non aveva più nulla da perdere, quello che aveva avuto da perdere nella sua vita lo aveva già perso . Tolse le sue tre piantine dalla cassa e le mise accanto alla finestra. Poggiò la fronte al vetro freddo, guardò fuori non sapendo quanto si sbagliasse . Avrebbe avuto ancora tutto e perso tutto … ancora una volta.

 

 

I personaggi descritti sono di chi li ha inventati primo tra tutti Leiji Matsumoto ma anche Shinji Aramaki e Harutoshi Fukui grazie per averci riportato il nostro Capitano dopo tanti anni.

Un ringraziamento speciale alla mia beta collega ma soprattutto amica Erika.

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Capitolo 2
*** Attacco all'Arcadia ***


  • Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla terra,in egual maniera le onde del destino,nel loro divenire dal passato al presente,talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via. -

 

Voglio subito ringraziare i tanti, tantissimi, che si sono fermati a leggere il primo capitolo, un grazie di cuore a tutti. Ed un abbraccio forte va a chi ha voluto farmi sapere cosa ne pensava. Grazie ragazze.  Il mio augurio per tutti è che la magia della forza del destino e del nostro Harlock vi rapiscano anche stavolta.

 

2

 

       Attacco all’Arcadia

 

- Helèn si svegliò di soprassalto all’urlo dilaniante di un allarme che sembrò squarciare il buio. Osservò il soffitto di metallo dell’Arcadia e ricordò. Guardò l’orologio che convenzionalmente stabiliva il ritmo di sonno-veglia in quella eterna notte astrale. Sentì un fragore immenso provenire da babordo e la nave vibrare… Erano attaccati!

Si vestì più veloce che poté ,legò i capelli. Era un militare ma non era sulla sua nave, non sapeva bene cosa fare. Corse per il corridoio in direzione della plancia di comando, erano tutti là. Harlock era seduto sul suo grande trono rosso, le mani strette sui due teschi laterali che fungevano da braccioli, non riuscì a coglierne l’espressione. Yattaran gridava ordini all’interfono: “tutti alle torrette di fuoco presto! Presto maledizione!”  Helèn raggiunse Harlock: “che succede?” Lui inclinato lievemente il capo a sinistra, serio: “cercano te!” Disse, indicando con un movimento del capo fuori dall’immensa vetrata. “Me?” Qualunque altra parola le morì in gola. Si vedevano diversi aerei navalizzati compiere ardite manovre scaricando a più riprese il loro carico di fuoco e morte sull’Arcadia. Ad ogni colpo il metallo gemeva e la nave tremava . Harlock si alzò facendo svolazzare il suo mantello. In quello stesso istante un colpo potentissimo percorse per intero l’Arcadia che oscillò vistosamente e si inclinò su di un lato. Tutti si tennero saldamente alle loro postazioni, tranne Helèn che accanto al trono perse l’equilibrio. Sarebbe caduta ma qualcosa la resse saldamente in piedi. Harlock l’aveva tenuta per il braccio; era incredibile la forza che aveva, pensò Helèn. Si guardarono, era la prima volta che c’era un contatto tra loro. Il tempo che scorre incessante dalla notte dei tempi, perse un colpo, ma solo Harlock ed Helèn se ne avvidero. Helèn spostò lo sguardo dal viso di Harlock alla sua mano guantata, poi di nuovo a lui, che di scatto la lasciò come se una scossa elettrica l’avesse colpito. “Capitano!” La voce di Kei era un misto tra l’incredulo e l’adirato: “falla a babordo Capitano.. sono riusciti ad entrare!” Immediatamente tutti gli uomini presenti in plancia, senza bisogno di alcun ordine, incluso Yattaran, schizzarono letteralmente fuori. Helèn seguendo esclusivamente quello che il cuore le dettava,d’istinto senza pensarci con un solo balzo fu giù dalle scalette laterali del ponte di comando alla plancia, scattò veloce dove correvano gli altri. Harlock la seguì con lo sguardo. Helèn prese una pistola ed una spada dalla rastrelliera dove erano tutti gli altri a rifornirsi. La guardarono con diffidenza e si guardarono tra loro incerti se lasciarglielo fare. Lei sorrise e caricando con un colpo disse: “forza!” Ed iniziò a correre sicura dove i soldati della Gaia avevano fatto breccia. Gli uomini di Harlock non si risparmiavano. Nonostante fossero privi delle tute di protezione, intrapresero la lotta con ardore e con qualunque tipo di arma. Dovevano difendere la loro casa, la loro nave, il loro capitano. Helèn si muoveva rapida, fiera, i sensi acuiti dall’esperienza.  Colpiva e colpiva attraverso un uso magistrale della spada o si riparava un istante e sparava, si riparava e sparava ancora; incurante dei centinaia di colpi nella sua direzione. Fulminea avanzava guadagnando terreno e sparava ancora. Tutti si resero presto conto che era un’arma da guerra. Sapeva quello che faceva ed era stata addestrata per farlo. Sparava con precisione ed usava la spada da provetta schermitrice. All’incrocio tra quattro corridoi la situazione sembrava statica. Colpì ovunque e nessuna delle parti sembrava avere la meglio.

Fu allora che Helèn vide Harlock saltare giù da una balaustra in alto e con una capriola atterrare con fluida eleganza al centro del fuoco incrociato e cominciare a piroettare con fredda determinazione insieme alla sua fida spada e colpire con letale precisione. Indomito, senza traccia alcuna di paura. Helèn rimase per un lungo istante ammaliata. Un fascino spettrale gli aleggiava intorno; la morte era la sua compagna in quei momenti. Duettava con lui e per lui, sorridendogli sardonica ed incredula d’avere ancora una volta per se’ un partner tanto magnifico. Tutti gli uomini si spostarono più avanti, certi che non avesse bisogno di loro. Anche Helèn lo superò correndo. Lui la seguì con lo sguardo. Ancora fuoco e proiettili. “Yattan, Kaito copritemi!” Gridò Helen riuscendo ad entrare nella stanza successiva, ma ciò che vide non le piacque. Uno dei pirati giaceva a terra con un vistoso squarcio su una coscia, che si teneva con una mano. Uno degli uomini in armatura correva verso di lui per finirlo. Helèn comprese che non ce l’avrebbe  fatta a raggiungerlo correndo. Si diede uno slancio in avanti e con una giravolta  su se stessa, facendo leva solo su di una mano, nell’altra aveva la spada, si ritrovò in piedi davanti all’uomo a terra, a mo’ di scudo. “Ci sono!” Disse rivolta a lui. Iniziò così un duello con uno, due soldati. Lei non si muoveva da lì e non si sarebbe mossa. Le gambe lievemente divaricate e piantate al suolo a protezione del ragazzo, sembrava una statua di marmo. Ad un tratto un proiettile colpì il fermo che le legava  i capelli che ricaddero quindi liberi sulle spalle cominciando con lei ad ondeggiare in quel duello di morte. Fu così che Harlock sopraggiungendo la vide. Sembrava una dea greca, maestosa, imperlata di sudore, coperta dei suoi stessi capelli, pronta a tutto. Come poteva esserci tanta grazia, bellezza , forza e volontà ed anche violenza nella stessa persona? Si chiese. Aveva incontrato molte donne guerriere nella sua lunga vita. Anche Kei lo era, ma Helèn a differenza delle altre, combatteva senza paura della morte. Caduti due uomini, un terzo si dette alla fuga o così parve ad Helèn che lo inseguì. Rimasero soli in uno stretto corridoio. Helen iniziò a far roteare la spada ,quando gli sentì pronunciare il suo nome ”Helèn!” si bloccò. Il soldato modificando il colore della visiera del suo casco si mostrò a lei. “Ennosuke!” Fece lei abbassando l’arma, incredula e riconoscendo quei profondi occhi azzurri. Erano stati compagni nell’accademia della flotta. “Helèn vieni via con noi! che fai qui?” Gli sentì dire. Helèn si guardò alle spalle temendo l’arrivo di qualcuno. “Enosuke va via! Ti prego vattene! Battete in ritirata e ..ti prego! Io… io sono morta!” così dicendo Helèn si portò il pugno destro sulle labbra e poi sul cuore. Era un segno convenzionale, un codice, che usavano tra loro i militari. Voleva dire ‘nella parola e nell’onore’* e faceva diretto riferimento al loro codice d’onore. Helèn era stata il suo capo un tempo, e lui con un cenno d’assenso obbedì anche stavolta. L’uomo si allontanò ordinando via radio la ritirata. Il cuore di Helèn batteva all’impazzata, i polmoni pompavano vorticosamente aria, l’adrenalina scorreva furibonda nelle vene. Aveva tradito!! Aveva tradito!! Non sarebbe mai più potuta tornare indietro! Mai più! Guardava fisso un punto per terra. Che stava facendo? Che stava facendo? Ripose le armi meccanicamente nelle fondine. A chi, a cosa stava dicendo addio lo sapeva bene. Guardò per un attimo verso il punto in cui Enosuke era corso via. Si voltò disperata dalla parte opposta e Harlock era lì che la guardava. E come sempre accadeva quando il loro sguardo si incrociava, lei si calmò. Il tempo rallentò e tutto intorno parve diventare relativo. “Stai bene?” Le chiese lui passandole rapidamente uno sguardo indagatore su tutto il corpo. Helèn mosse qualche passo nella sua direzione “NOOOOO!” Avrebbe voluto gridare ma non lo fece, disse solo:  “sono un medico. Io salvo vite, non mi piace uccidere.” Fece qualche altro passo; gli fu a pochi centimetri. Avvertiva il calore che il  corpo di lui stava producendo per lo sforzo della battaglia. Dovette alzare il capo per guardarlo, lei gli arrivava solo alle spalle. Fece scivolare lentamente lo sguardo sulla sua guancia sinistra. Lui pensò stesse guardando la sua cicatrice, ma lei sollevata la mano destra con il pollice, gli tolse una piccola traccia di sangue, poco più che un graffio, causato probabilmente da qualche scheggia d’armatura. Così facendo posò anche le altre quattro dita sul viso e sembrò quasi una carezza.

Un gemito proveniente dall’altra stanza ridestò di colpo Helèn che corse via. Il dovere la chiamava! Corse dall’uomo che era a terra, iniziò a dare ordini perché l’aiutassero. Harlock non si voltò, cercava di mettere ordine nella ridda irrazionale di sensazioni che provava. Helèn non portava i guanti. Cosa lo aveva turbato tanto di quel contatto semplice e spontaneo? Helèn trascorse il resto della giornata ad applicare dispositivi per la calcificazione delle ossa, per le ustioni da attrito, l’utilizzo di un tessuto transgenico che garantiva la proliferazione cellulare per le ferite più profonde le portò via tanto tempo.* ”Helèn!”. Kei era sulla porta dell’infermeria. “Hai finito? Ti stiamo aspettando tutti per un boccone.” Helèn sorrise. Era distrutta e non mangiava dalla sera prima. Si tocco gli occhi con le dita. Si alzò stancamente dalla sedia della piccola scrivania, avrebbe voluto fare una doccia ma avrebbe aspettato. Nella mensa tutti erano seduti sulle panche e parlavano animatamente. Al comparire di Helèn si levò un rumoroso applauso spontaneo, qualcuno fischiò e qualcuno batté i piedi. Helen imbarazzata arrossì e si mise a sedere. Yattaran la raggiunse con in mano un bicchiere con all’interno un liquido rossastro e glielo porse, poi preso il suo disse: ”Alla tua salute Helen, grazie per tutto quello che hai fatto oggi per l’Arcadia e per noi!”  Tutti bevvero. “Ma io non ho fatto niente” disse Helèn. Shou il giovane pirata a cui aveva salvato la vita, la raggiunse aiutandosi con le stampelle: “Grazie Helèn da oggi considerami il tuo servo.” “Ma io no ho fatto niente…davvero! ” Disse Helen, tentando di dissimulare il suo imbarazzo prendendo una forchettata di quello che aveva nel piatto. Kei seduta accanto a lei con fare ammiccante: “Ti sei accorta che il capitano oggi non ti ha persa d’occhio un istante?” E lei: ”Ma io so difendermi da sola.”  E Yattaran canzonatorio mostrando la bocca bella piena: “Ma vaaa? Non ce ne siamo accorti!” Disse scatenando le risa di tutti. “Ho solo avuto un bravo maestro” disse lei, e per un istante i suoi occhi si velarono di una nera tristezza. Helèn li guardò tutti, erano un bel gruppo affiatato, e se anche non avevano l’organizzazione e la tecnica di un esercito, combattevano col cuore ed avrebbero dato la vita gli uni per gli altri. Dopo un numero di brindisi di cui Helèn perse il conto e qualche allegra canzoncina, si congedarono. Helèn raggiunse la sua camera. Come medico di bordo aveva il privilegio di una stanza un po’ più grande ed il bagno era ricavato in un grande ambiente unico lavabo-doccia. Si infilò sotto l’acqua augurandosi che non finisse mai. L’acqua calda portava via tutto, anche i pensieri. Chiuse gli occhi e lui comparve! Helen spalancò gli occhi.  Perché? Perché le era venuto in mente? Era un combattente tenace e risoluto, sembrava non dubitare mai, ma nel suo sguardo lei aveva colto un dolore profondo e lacerante. Si guardò l’avambraccio sinistro dove lui l’aveva tenuta per non farla cadere, quattro dita si distinguevano nettamente, ci avrebbero messo diverse settimana a sparire, pensò. La sua pelle, ora era così fragile... Si asciugò i lunghi capelli guardandosi allo specchio. In quello stesso istante Harlock si guardava allo specchio del bagno delle sua cabina. Si passò lentamente la mano sulla guancia dove lei lo aveva toccato. A quanti nemici aveva visto abbassare lo sguardo non riuscendo a sostenere il suo, anche i suoi uomini spesso lo evitavano. Lei invece…sembrava cercarlo per indagarlo. Cosa lo aveva turbato di quel suo gesto? Ogni volta per una frazione di secondo si sentiva perso… perché? E perché l’aveva voluta irrazionalmente e assurdamente a bordo? Uscì.

Helèn non riusciva a prendere sonno benché fosse a pezzi o forse proprio per quello . Nell’Arcadia faceva freddo. Prese da una delle casse che non aveva ancora disfatto un sacchettino e si diresse alla mensa. Fece bollire in pochi istanti dell’acqua e vi sciolse parte del contenuto del sacchetto. Sedette e bevve sperando di scaldarsi, guardava il vapore uscire dalla tazza, bevve alcuni sorsi. Si soffermò sulla chiazza tondeggiante che la tazza aveva lasciato sul ripiano lucido del tavolo. Guardando quel cerchio le venne in mente la terra e ne seguì i bordi con il dito… Gli occhi le si riempirono di lacrime, strinse forte la tazza con entrambe le mani. Harlock la osservava dal corridoio buio. Non entrò, voleva evitarla, ma lei ne percepì la presenza e si voltò dalla sua parte. Si alzò in piedi di scatto quasi fosse stata scoperta a rubare. Dallo sguardo che lui le lanciò si rese conto d’avere indosso solo una magliettina bianca che le arrivava sì e no a metà coscia, e dei calzini. Lo sguardo di Harlock si soffermò più del dovuto sulle gambe bellissime benché muscolose per poi salire al seno. Helèn per sua professione aveva un rapporto diverso dagli altri con il corpo, non le era sembrato strano uscire così, ma attraverso la lenta carezza di quello sguardo sul suo seno si rese conto di avere i capezzoli turgidi e ben in vista. “Fa freddo in questa nave.” Disse  sedendosi per coprirsi. “E’ vero” Disse lui entrando. E con la sua presenza colmò l’intero spazio della stanza. Quando arrivava, tutto oltre lui sembrava smettere di essere. ”Non dormi?” Chiese lei. Lui fissava la sua tazza. “Vuoi? è una tisana!” E senza attendere risposta si alzò a preparare una tazza anche per lui. Mentre lo faceva Harlock sedendosi al tavolo dove era lei, regalò una carezza, stavolta ai suoi glutei sotto la maglietta. “E’ la dark matter.” Lei lo guardò interrogativa. “Il freddo che senti è la dark matter che permea interamente la nave.” Poi guardando nella tazza che lei gli aveva messo davanti “ma..ma queste sono foglie!” Disse sorpreso. “Sì, è passiflora. Un’erba coltivata da un antichissimo popolo della terra: gli Aztechi. Ha un effetto calmante che induce il sonno e aiuta a contrastare gli effetti della tensione; il principio attivo è l’armina.” Era il medico che parlava. Harlock avrebbe voluto chiederle come facesse ad avere quelle foglie, chi fosse, da dove venisse, perché prima avesse gli occhi lucidi, ma riuscì solo a guardare le sue labbra che si muovevano lasciando intravedere i piccoli denti. Stava bene quando era con lei, il solo ascoltarla lo faceva rilassare ma si limitò a bere. Teneva la tazza con tutte le dita non dal manico, il sapore era buono. Poi all’improvviso disse: ”Sei una grande combattente. Perché non mi hai colpito la prima volta che ci siamo visti? Hai sparato, avresti potuto colpirmi ma non lo hai fatto.” Lei guardò per un lungo momento nella sua tazza, quasi cercasse lì la sua risposta. “Forse perché volevo morire per mano tua.” Harlock ne rimase profondamente colpito ma non lo dette a vedere. “Vuoi morire?” Le fece con una punta di sarcasmo. E lei alzandosi: ”Morire è facile. E’ vivere il difficile.” Poi sorrise e stringendosi nelle spalle: “Ho freddo! Vado.” Harlock si alzò, così la dominava nell’altezza e nella possanza fisica. Lei lo guardò. Era un uomo davvero notevole, e fece quello che lei non si sarebbe mai aspettata: si tolse il mantello e glielo mise sulle spalle. Helèn fu travolta da un misto di sensazioni, un odore intenso di pelle e tabacco, di uomo e legno antico ed un dolcissimo tepore l’avviluppò. Era come essere tra le sue braccia e per la primissima volta un pensiero le attraversò la mente. Come sarebbe stato? Affondò il viso all’interno del bavero, posandovi, labbra e naso ed aspirò profondamente. “Hai un buon odore.” Disse guardandolo. Harlock si stupì di tutta quella spontanea sincerità. Decidendo di ritrovare la sicurezza di sé e del suo ruolo disse: ”Domani dobbiamo parlare! Devi dirmi chi sei, perché ci hanno cercato ed attaccato per te, e come mai hai quelle foglie”. Lei non si rabbuiò, gli sorrise invece, illuminandolo come un raggio di sole. “Sono Helèn, non ci attaccheranno più, e le foglie sono della pianta che è nella mia stanza, comunque domani verrò da te a rapporto.” Si incamminarono per il corridoio, lei sembrava avere uno strascico piuttosto che un mantello per quanto era lungo. Camminavano l’uno accanto all’altro con una lentezza ed una tranquillità tale che sembrava lo facessero tutte le sere da sempre. Harlock si ritrovò a pensare che quando gli era accanto, uno strano senso quasi di pace lo pervadeva. Ad un tratto lei ruppe il silenzio: “Sai, è strano ma da quando sono qui sull’Arcadia sento come una presenza…” Harlock si voltò ad osservarla. “Non saprei come definirla, come se…come se qualcuno mi seguisse e guardasse sempre…Assurdo vero?” Sorrise. In quel preciso istante, con un grido stridulo, un grosso rapace arrivò dal nulla posandosi sulla spalla destra di Harlock. “Ecco la risposta che volevi.” Fece Harlock. La ragazza che con una mano si teneva il mantello, allungò l’altra verso l’animale che abbassandosi, quasi inchinandosi, accettò le sue carezze sul capo. “Strano...di solito non è così socievole.” Raggiunsero la stanza di lei “in ogni stanza c’è un piccolo camino a fiamma elettrica”* le disse lui. Helen si tolse con garbo il mantello rendendoglielo. “Grazie, a domani... A proposito, hai delle bellissime spalle.” Si scambiarono un altro lunghissimo sguardo entrambi consapevoli che in un altro tempo e in un altro spazio non si sarebbero lasciati. Lui si allontanò e lei si chiuse la porta alle spalle, sicura che quell’odore l’avrebbe accompagnata tutta la notte e forse non avrebbe avuto i suoi soliti incubi. Harlock non si rimise il mantello, sapeva che se lo avesse fatto l’odore di lei lo avrebbe travolto.

 

 

 

* Segno convenzionale del codice militare e tecniche mediche di mia invenzione.

 

Grazie alla mia beta mia collega ma soprattutto cara amica Erika che non ha mai visto il film ma che adora questo Harlock e mi accoglie con ‘che bellooo’ ogni volta che mi rende un capitolo.

Grazie ad Harlocked con la quale e grazie alla quale la settimana scorsa sono stata autrice di un ‘parto’ :-D tu sai di che parlo cara… madrina….non smettere mai di donare…

Capitolo dedicato ad Angelfire  anche tu sai perché cara.

I personaggi ed i luoghi descritti sono di chi li ha inventati primo tra tutti Leiji Matsumoto ma anche Shinji Aramaki e Harutoshi Fukui grazie per averci riportato il nostro Capitano dopo tanti anni.

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Capitolo 3
*** LE DUE FACCE DELLA VERITA' ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla terra ,in egual maniera le onde del destino,nel loro divenire dal passato al presente,talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

3

 

 

LE DUE FACCE DELLA VERITA’

 

- Il mattino seguente prestissimo Harlock si recò col solito passo lento e deciso in plancia, doveva comunicare alcune decisioni ai suoi due ufficiali di bordo. Il rumore dei suoi stivali sul freddo metallo dell’Arcadia lo accompagnava anche quel giorno, era un’abitudine che aveva per non sentirsi solo. Venne distolto dal solito fluire dei suoi pensieri da due dei suoi uomini che lo incrociarono e superarono in tutta fretta quasi spintonandosi. Vistolo rallentarono, accennando un rispettoso saluto. Per ricominciare a correre appena superato. Harlock si voltò per guardarli. Strano tanto fermento a quell’ora del mattino.

 La sua attenzione venne quindi attirata da alcune voci provenienti  da un corridoio laterale, notò una lunga fila di uomini in attesa davanti alla porta dell’infermeria e decise di verificare cosa stesse accadendo. Gli uomini in fila che quasi sgomitavano, avevano in mano una boccetta con del liquido giallognolo, e chi ne usciva aveva un cerotto sul braccio e un lecca-lecca in mano. “ Hei! Ma il tuo è al gusto di ciliegia non è giusto.” ”E tu? ne hai due? Perchè? Oh! Buongiorno… Capitano” Gli uomini si fecero da parte. Harlock superò la fila ed entrò nell’infermeria. Ovviamente nessuno si permise di fargli notare che c’era una ‘ fila ’ era pur sempre il Capitano.

Helèn di spalle con indosso il camice bianco, i capelli ben raccolti disse senza voltarsi: “Posa le urine sul tavolo, torso nudo ed apri la bocca.” Si voltò con un abbassa lingua nella mano ed il bastoncino di un lecca-lecca che le spuntava dall’angolo dalla bocca. “Oh Harlock! ” Disse in un misto di  sorpresa e contentezza, sorridendo. “Benvenuto. Spogl… togliti… sì… insomma… il mantello e tutto il resto…” I due si scrutarono, lo sguardo di Harlock era cupo ed i tratti gentili apparivano lievemente induriti, le morbide labbra strette; i neri e profondi occhi di Helèn interrogativi.  “ Non sono venuto per la visita. Che succede qui ? ” Le chiese secco. Un lampo attraversò la sua pupilla nocciola. “ Devo fare un check-up completo a tutti, gruppo sanguigno, urine ecc… qui… qui non c’è niente. ” Disse Helèn facendo segno ad uno schedario alla sua destra. “ Ho bisogno di eseguire un’anamnesi approfondita, disegnare il profilo personale di ognuno dei tuoi uomini e annotare eventuali fattori di rischio personali così da poter individuare precocemente l’insorgere di una patologia o meglio ancora prevenirla.” “Non era questo che avevo in mente quando ti ho chiesto di venire qui. E poi io sono CAPITAN Harlock ! ” Lei lo aveva sempre chiamato semplicemente ‘Harlock’.

Helèn reagì alla sua maniera; quando credeva di aver subìto un torto attaccava.  “ Io non sono uno dei tuoi uomini Harlock ! Invece sono il medico, e dico che qui ci vuole ordine. Lo so io quello che ho dovuto fare per riuscire a medicare e curare tutti in questi giorni senza un minino di…”

Non riuscì a terminare la frase, lo sguardo di Harlock glielo impedì... l’avrebbe incenerita. Continuò a fissarla per un lungo momento senza proferire parola, poi si voltò accompagnandosi con un gesto del mantello e sparì. Helèn si girò a sua volta e scaraventò furibonda il lecca-lecca nel piccolo lavandino di metallo. Perché non capiva?  “ Non farci caso… Helèn ,lui è così. Non è cattivo credi…è un uomo buono e generoso, imparerai a conoscerlo anche tu, ha i suoi pensieri, i suoi  percorsi mentali…”  Kei era sulla porta. ”Che vuoi fare Helèn? continuiamo? ” Helen la guardò, nei suoi occhi c’era tanto rammarico: “ Ormai il danno è fatto Kei, sono io ad aver sbagliato… avrei dovuto parlargliene e chiedere il permesso… il Capitano è lui...”concluse guardando per terra e infilando le mani nelle tasche del camice. Poi aggiunse stancamente guardandola: “ Sì…continuiamo, grazie.” Dopo le analisi a tutto l’equipaggio ed un breve pasto che consumò da sola adducendo il tanto lavoro, Helèn si preparò ad andare da Harlock così come lui le aveva chiesto il giorno prima.

Era tesa e nervosa. Quello che poteva venir fuori da quel colloquio avrebbe potuto determinante la sua permanenza sull’Arcadia. Dopo una doccia si sistemò la divisa come se avesse dovuto ‘passar rassegna’. Era molto bella. Trucco leggero, capelli ordinatamente raccolti sulla nuca, la divisa nera perfetta, non troppo larga né troppo stretta, bottoni e fibbie lucidi, stivali lustri. Armi pulite ed efficienti.  Era tutto in ordine, solo il suo cuore non voleva saperne di stare ‘al suo di posto ’ e di cessare di battere all’impazzata. Si avviò in una parte della nave nella quale non era mai stata; la parte posteriore, il castello di poppa dove erano gli alloggi di Harlock.

 Il capitano dal canto suo aveva rimuginato tutto il giorno, sia sui suoi uomini che non riconosceva a contendersi i lecca-lecca di Helèn e soprattutto sul fatto che lei avesse mostrato l’ardire di rispondergli così davanti a loro. Come mai riusciva a tenergli testa? Era stato lui a permetterglielo? Si stava rammollendo come i suoi uomini? Se sì, avrebbe rimesso le cose al loro posto. Con passo nervoso si mosse avanti e indietro per la sua stanza. Helèn camminò lentamente, ma arrivò presto.

 Bussò alla porta. Si aprì. Harlock era lì, seduto dietro a quella che sembrava una grande ed antica scrivania di legno scuro, con un grande teschio intarsiato nella parte anteriore. Era su di una sedia anch’essa antica a giudicare dal colore e dalle dimensioni. Alle sue spalle si apriva un’immensa e meravigliosa vetrata ad aggetto sull’universo da togliere il fiato. Era qui dunque che Harlock trascorreva tanto del suo tempo, pensò Helèn. La stanza era per lo più immersa nell’oscurità fatta eccezione per diversi candelabri accesi che ne rischiaravano solo alcune zone. Sulla destra e sulla sinistra si intravedevano due altre stanze. Helèn dopo aver fatto alcuni passi gli rivolse un formale saluto militare battendo i tacchi. Harlock la guardava ma non avrebbe saputo dire come; era troppo distante. Percepì solo il movimento del capo, che faceva per aumentare la ridotta visione monoculare. “A che serve il saluto militare?” Disse con fare sarcastico e con un tono di voce alto e fermo. “Non mi chiami neppure Capitano!” Si alzò di scatto. Helèn non rispose. Harlock avvicinatosi, iniziò a girarle intorno lentamente come un nero avvoltoio, guardandola. Helèn sentiva il suo respiro ed il suo sguardo persistente. Era come la carezza del fuoco. Sentiva quasi la pelle bruciare dove il suo sguardo si posava. Harlock aveva deciso di fare quello che gli riusciva meglio: voleva sapere ed avrebbe saputo. Dopo un silenzio che ad Helèn parve interminabile le disse: “Sono diversi giorni che sei a bordo ed io di te so solo quello che TU mi hai detto. Il tuo nome e che sei un medico.”

Helèn strinse i pugni: “Sono un ufficiale - medico e poi sono convinta che tu abbia controllato chi io sia.”  “Ciò che la Gaia Sanction certifica ha poco valore! ” Disse lui ironico mantenendo un tono di voce alto ed imperioso. “ Quelle tue piante da dove vengono? ”  Helèn rispose cercando di sembrare disinvolta: ”Sono piante originarie della terra ma è ovvio che non vengono da lì, la terra sì,è un regalo. Altro? ” Harlock continuava a girarle intorno non distogliendo mai lo sguardo, con il preciso scopo di innervosirla. ”Su che pianeta o colonia sei nata? Quando? E dove hai vissuto? ” Helèn per un istante cercò di incrociare il suo sguardo ma non vi riuscì. “Sono nata e cresciuta su Europa il primo satellite terraformato di Giove, poi mi sono arruolata ed eccomi qui.” Harlock non credeva assolutamente a nulla di quello che gli stava raccontando Helèn ed il fatto che lei ancora pensasse di poter mentire lo faceva andare su tutte le furie come non gli capitava da anni. Di solito era più freddo, scaltro e riflessivo, ma con lei non ci riusciva. “Allora perché ci hanno attaccato? Se tu fossi un semplice ufficiale come dici non lo avrebbero fatto. Un simile dispiegamento di forze per un ufficiale? A chi credi di darla a bere? ” La sua voce era tagliente come il vetro rotto e gelida come il ghiaccio.

Helèn iniziava a scricchiolare, stringeva i pugni. Si rese conto che in realtà lei, Harlock il ricercato numero ‘SS00999’, non lo conosceva. Non sapeva di cosa realmente fosse capace. E che forse fino a quel giorno si era comportato diversamente con lei solo per estorcerle la verità. La guardava con un disprezzo che non meritava. Dov’era il gentiluomo della sera prima? “ Non ci attaccheranno più, ho chiesto di riferire che nello scontro a fuoco fossi morta.” Disse Helèn. “Non è una risposta! ” tuonò Harlock. “A chi hai chiesto? Ci tengono a te! Chi sei ? ” Ora le stava davanti e la fissava duro, imponente dall’alto. “La figlia del Plenipotenziario? ” Helèn a quelle parole sorrise debolmente. Se Harlock avesse immaginato quante volte era stata a cena a casa sua. Harlock la vide sorridere ed interpretò quel sorriso come una beffa. Era esasperato, quasi disperato. Doveva sapere, se voleva che Helèn restasse a bordo dell’Arcadia. Era furibondo. Ma era mai possibile che lei non capisse? Se non avesse saputo sarebbe stato costretto a mandarla via, e dopo quanto era successo la Gaia l’avrebbe torturata prima e condannata a morte poi, applicando le leggi dell’alleanza planetaria. Doveva portare Helèn a cedere. Ad ogni costo. Così giocò la sua ultima carta anche se gli sarebbe costata cara, tanto cara.

D’improvviso e senza che lei se lo aspettasse col dorso della mano destra le diede uno schiaffo.

Helèn, il viso completamente girato da un lato per effetto dello schiaffo e della sorpresa, un ciuffo di capelli scivolato sul volto, restò dov’era. Harlock se lo aspettava, era un militare addestrato, ma i suoi occhi ora erano lucidi ed un piccolo rivolo di sangue cominciò a uscirle dall’angolo della bocca. Il sapore acre le invase la bocca. A quella vista Harlock  spalancò incredulo l’occhio, aveva calibrato bene la forza ne era sicuro. Vacillò. Era stato necessario compiere un gesto forte, lontano da tutto quello che lui era e professava, ma necessario. Riuscì con sforzo immane a restare saldo sulla sua posizione. Doveva aspettare per non compromettere tutto.

Ciò che a Helèn faceva male non era il labbro, era qualcosa al centro del suo cuore, del suo io più profondo, non avrebbe mai immaginato Harlock così come lei lo aveva percepito, capace di un simile gesto. 

Helèn capitolò. Con il dorso della mano destra si asciugò il sangue e dal taschino della giacca prese un documento, glielo porse. Era un vecchio documento ingiallito dal tempo c’era una foto sbiadita di Helèn un po’ più giovane, sorridente. Certificava che Helèn era nata sul pianeta Terra 140 anni prima. Harlock guardò il documento, poi guardò lei “continui a prendermi in giro con un misero documento falso? ” Le disse sprezzante. Con un grande sforzo Helen rispose: “Io sono nata sul pianeta Terra 140 anni fa.” Harlock la guardava, i suoi occhi non mentivano, la sua voce era sincera.” “Ma…ma come è possibile? ” “Criogenesi, signore.”

Mio padre era uno scienziato, faceva studi sull’ animazione sospesa, anche per questo a noi era concesso vivere sulla terra ...sull’inviolabile dominio, anche durante la guerra di Came Home.” Parlare le pesava, ogni singola parola era sofferta e pesante come se insieme alle parole vi fossero lame roventi. “Un giorno, mio padre corse a casa e dopo un frettoloso saluto, senza spiegazioni,mise me, mia madre e le mie sorelle nelle celle criogeniche di sua invenzione. Erano solo sperimentali ma volle tentare il tutto per tutto. La terra era perduta ripeteva.Ci abbracciammo, dicendo che ci saremmo rivisti presto ma… ma quando mi svegliai… loro non c’erano più. La mia casa non c’era più. La terra non c’era più. Le loro celle difettose non avevano portato a termine il processo; solo la mia…” Le ultime parole Helèn le aveva pronunciate lentamente sopraffatta da un dolore che non riusciva a gestire. Le lacrime le rigavano le guance. Harlock in preda a mille moti dell’anima che come puledri impazziti riusciva a stento a dominare chiese: “Quanti anni erano passati ? ” Helen rispose: “100 anni.” Il capo chino per nascondere le lacrime, ormai la sua voce era solo un sussurro. “Ieri la Gaia Fleet mi cercava perché ad oggi ,sono l’unico essere vivente ad essere sopravvissuto a 100 anni di criogenesi. Mi trovarono e divenni un topo da laboratorio, mi sottoposero ad ogni genere di test, esami, torture. Poi un giorno uno degli scienziati ebbe pietà di me, mi aiutò, mi insegnò la lotta,la scherma e grazie a questo riuscii ad arruolarmi, ad integrarmi e ad iniziare una nuova vita, perché della vecchia non c’era rimasto più nulla. Solo i miei... sbiaditi ricordi. “

Ora tutto era chiaro. Harlock aveva avuto quello che voleva: la verità. Ma che amaro sapore aveva. Lo sentiva in bocca mentre non riusciva distogliere lo sguardo da quel rivoletto di sangue sulle labbra di Helèn. E a quale prezzo poi ? Il disprezzo di lei. “Puoi andare ora.” La congedò, Helèn si diresse verso la porta. Harlock si voltò non avrebbe potuto sopportare di incrociare ancora il suo sguardo, ma aggiunse a mezza voce: “Perdonami… credevo d’aver calibrato meglio la mia forza. Non volevo farti tanto male, ma… avevo bisogno della verità.” Cercò di mascherarlo parlando piano ma la  voce aveva un tono sofferto. Quello schiaffo aveva fatto più male a lui che a lei. “Non è colpa tua è uno dei tanti ‘doni’ della criogenesi. Cento anni nel ghiaccio hanno trasformato la mia pelle in carta velina ed il mio sangue non coagula più come quello degli altri. E tu...tu non potevi saperlo… è il principale motivo per cui mi hanno insegnato a difendermi e sono diventata la guerriera che sono. ”

Si erano parlati tutto il tempo restando di spalle l’uno all’altra. Harlock aveva un assoluto bisogno di rimanere solo e non aggiunse altro. Helèn fece per uscire, poi fermandosi aggiunse con tono supplice “Signore, non dica nulla agli altri...non potrei più vivere qui se...se sapessero che in realtà ho 140 anni. ” Uscì. La porta si chiuse con un tonfo dietro di lei.

Harlock si voltò di colpo, il mantello ondeggiò e con un ghigno del viso, imprimendo tutta la forza che aveva in corpo, sferro un pugno contro una delle pareti di metallo della stanza, che si piegò. Sentì netta la pelle aprirsi, il sangue sotto il guanto di pelle ma non gli importò. Rimase così,immobile. Per la prima volta aveva sotto gli occhi una delle SUE vittime; una delle persone, l’unica persona rimasta, a cui lui aveva strappato il pianeta terra. E per un assurdo scherzo del destino proprio lui l’ aveva voluta sull’ Arcadia.

E lei era lì ora.

 

 

Note:

Questo terzo capitolo è dedicato a tutti coloro che scrivono del grande ed unico Capitano , grazie perché per merito di tutti voi e delle vostre avventure  lui resta vivo nei nostri cuori e nei nostri occhi.

Lo dedico inoltre a tutte quelle meravigliose fanciulle che sin dall’inizio hanno letto con passione questa storia frutto della mia mente e si domandavano chi fosse e da dove venisse Helèn… ora lo sapete e potete trarre le vostre deduzioni e fare le vostre considerazioni. Ma sappiate una cosa,la verità è come una Matrioscka viene fuori a strati,lentamente ;-p Helèn ha raccontato ad Harlock  SOLO parte della verità. Tanto altro e perché i due si sentano misteriosamente attratti lo scopriremo insieme più avanti ;-) un grazie a tutte.

Grazie ad Harlocked per il sostegno e tutto il resto :- *

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Capitolo 4
*** L'ANGELO NERO ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla terra, in egual maniera le onde del destino, nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via. -

                                                                                    4

 

 

                                                                                                                                                                                   

L’ANGELO NERO.

 

- Fuori dagli appartamenti di Harlock Helèn camminava veloce, voleva tornare in camera sua; voleva  ordinare i suoi pensieri, voleva comprendere le emozioni, voleva e doveva capire. Ne sentiva forte l’esigenza, come il bere. Si sentiva stanca come dopo un duello ma ciò che le doleva non erano i muscoli, era il cuore. Un peso forte l’opprimeva, doveva andare il più lontano possibile da lì. Si trovò d’improvviso davanti  Meeme , eterea, impalpabile, inspiegabile, senza tempo. Meeme  come sempre la osservò piano, in profondità, poi spostò lo sguardo alla mano che teneva sul viso, chiuse un paio di volte le doppie palpebre dei grandi occhi. Comprese. E senza dir nulla si diresse da Harlock.

Lo trovò sprofondato su una delle grandi sedie, accanto alla scrivania. In mano un bicchiere colmo di vino, la sedia era in parte girata verso la grande vetrata, guardava lontano; era lontano.

 Il suo sguardo si spostò poi ad alcune gocce di vino che  lente ed irregolari cadevano dal tavolo al pavimento una dopo l’altra. La mano destra aperta sulla superficie del tavolo, Harlock aveva tolto il guanto e versato sulla pelle escoriata e livida del dorso un bicchiere di vino a mo’ di disinfettante.  Meeme si recò in bagno a prendere il necessario per la medicazione. Si avvicinò ma lui con un gesto del capo le fece di no. “Ma brucerà!”  Disse lei.  “Deve bruciare!” Rispose caustico lui.  Meeme dopo essersi versata da bere si acciambellò su di un’altra poltrona: “Che cosa è successo? ” Chiese dolcemente per conoscere ciò che in verità già sapeva. Bevve piano.

Helèn si chiuse in camera sua con il ‘code’ non lo aveva mai fatto prima. In bagno si sciacquò il viso più volte, bevve dalla mano, aveva un piccolo taglio all’interno del labbro inferiore a causa dell’urto della pelle sul dente. Non sanguinava più. Una sciocchezza per chiunque tranne che per lei. Restò col capo chino sul lavabo per alcuni attimi guardando le piccole gocce d’acqua scivolare via piano una dopo l’altra. Si mise istintivamente una mano sul viso; lì dove lui l’aveva colpita. Non capiva. Aveva intravisto per un istante il viso di lui e vi aveva trovato solo turbamento. Anzi, per un attimo aveva avuto come l’impressione che quel gesto avesse provocato in Harlock una sorta di dolore, quasi che fosse stata lei a causarlo.

 Harlock emerse piano dal suo silenzio come da una palude melmosa e densa. 

“L’ho schiaffeggiata Meeme ” disse con una voce che arrivava dal fondo tormentato della sua anima. Abbassò lievemente il capo di modo che i capelli scendessero a coprirgli in parte il viso. Non faceva che vedere la piccola ferita che le aveva inferto, gli occhi lucidi di Helèn mentre tentava con ogni fibra del suo corpo di mantenere i nervi saldi; in realtà si intuiva cosa avesse passato. Era per questo che aveva detto d’esser già morta. Era davvero come se lo fosse stata, aveva perso la sua casa, la sua famiglia, il suo pianeta e tutto per COLPA sua. Si portò il dorso della mano lacerata sulle labbra carnose per sentirne in parte l’acre sapore.

 Helèn indossata una comoda tuta se ne stava seduta sul letto, le braccia strette attorno alle gambe, la testa sulle ginocchia, i capelli liberi dove volevano. Respirava piano ed ascoltava il battito regolare del suo cuore e di lontano il rombo del suo animo. In fondo si sentiva meglio: condividere il suo segreto con Harlock la faceva sentire più leggera. Non erano molte le persone a sapere, e lui doveva essere uno di loro, lo aveva percepito dal primo momento in cui lo aveva visto, senza poterselo in alcun modo spiegare. Le aveva ispirato tanta fiducia quasi che il suo segreto, se mai possibile, con lui sarebbe stato ancora più al sicuro. “Il tuo viaggio è finito.” Le aveva detto Meeme, e forse era proprio così. Harlock era un uomo dal comportamento impetuoso a volte irrazionale, ma i suoi intenti erano nobili, era giusto con i giusti e spietato con gli iniqui e forse aveva voluto portarla all’estremo per metterla alla prova. Del resto su una nave del genere la lealtà per il Capitano era tutto. Reciproca e profonda fiducia, verità e trasparenza; tutte cose che lei non aveva fatto tacendo. Già il...‘Capitano’ Perché non riusciva a chiamarlo così? Perché lo sentiva tanto vicino a lei? L’aveva spaventata ma se lo era meritato, sarebbe dovuta andare lei da lui a vuotare il sacco. Ma era così difficile. Si ora era chiaro, lui l’aveva volontariamente portata al limite per ottenerne la confessione, l’aveva volontariamente  alleggerita di quel fardello, era un uomo altruista e generoso come diceva Kei, un uomo che meritava rispetto. Perché la Gaia lo dipingeva come un criminale? Il peggior terrorista di tutto l’universo. Solo perché si era impossessato delle 100 bombe a vibrazione dimensionale? C’era qualcosa che nonostante il suo ruolo nella Gaia Fleet le era stato taciuto. Alcune lacrime grandi e pesanti si formarono sugli occhi di Helèn ed iniziarono a percorrere libere le linee del suo volto. Non era stata corretta con Harlock e certo lui non aveva fatto ciò che aveva fatto a cuor leggero. No, non era diverso da come lei lo aveva percepito. Aveva sbagliato, con gli uomini sbagliava sempre, sempre! 

 “Ho sbagliato Meeme ma dovevo sapere.” Continuò Harlock. Meeme versò ad entrambi altro vino rosso, poi disse laconica: “Sei stato così tanto duro per allontanarla il più possibile da te… lo sai, ma se è qui, c’è un motivo. Nulla accade per caso Harlock.” Bevve. “Se l’hai voluta e la vuoi qui a tutti i costi c’è un perché... Chieditelo.”  Harlock fissando il bicchiere lo fece roteare lentamente provocando un’ onda del liquido rosso, creando così un piccolo vortice come quelli che da 100 anni squassavano impietosi il volto della terra e al cui formarsi aveva assistito impotente e dolorosamente inerme . “Sì ..certo. ” Rispose. ” Il motivo è avere sotto agli occhi tutti i giorni una delle MIE vittime." Disse amaro. Bevve d’un sorso l’intero contenuto del bicchiere. Una goccia rosso rubino gli scese lungo l’angolo delle labbra,la pulì quasi con rabbia con le dita della mano sinistra e guardandole disse: “Se è anche con questo che dovrò convivere per il resto dei miei giorni lo farò! Pagherò per tutto, per tutto,anche per questo.” “ Harlock… non è un’altra punizione da auto infliggersi per espiare!” Disse Meeme con tono accorato,comprendendo quanto dovesse esser atroce per lui ritrovarsi di fonte,viva e vera una delle persone a cui aveva sottratto per sempre la terra. Una persona del cui trite destino era stato involontariamente l’artefice. Come se il suo incubo ricorrente, il suo grande tormento avessero ora un volto ed un nome. Ma Harlock non l’ascoltava già più. Alzatosi e posato il bicchiere, con un solo gesto si sbarazzo del mantello, quasi che ora il peso fosse divenuto insostenibile. Presa una bottiglia, misero palliativo per il suo dolore, uscì. Ma quella sera lei sarebbe stata la sua sola compagna.

Trascorsero alcuni giorni in cui Harlock evitò accuratamente Helèn. Rimase per la gran parte del tempo nei suoi alloggi, ne usciva solo a notte fonda e pareva più in pena del solito, quasi che un potente maremoto avesse distrutto gli argini delle sue certezze ed ora dovesse faticosamente ricostruirle. Una cosa gli era chiara; lui ed Helèn avevano pressappoco la stessa età, ma questa scoperta se mai, lo portava a star peggio. Doveva pensare, rielaborare il tutto, resettare per ricominciare, da solo. Helèn invece si sentiva sola aveva un gran bisogno di stare in compagnia così ne approfittò per imparare a conoscere gli altri membri dell’equipaggio. Trascorse del tempo con Kei che le narrò come era entrata a far parte dell’Arcadia; con Yattaran che le mostrò una gran quantità di modellini, il suo grande hobby; con Shou imparò tutto sui tatuaggi, lui stesso si era fatto un enorme jolly roger tra  la fronte ed il cranio pelato. Aki amava lavorare il cuoio e le regalò una quantità di teschi da cucire ovunque; con Eichiro invece imparò molte cose sui motori  e le armi in dotazione all’Arcadia. Ogni tanto con la coda dell’occhio le sembrava di vedere il mantello di Harlock o di sentirne i passi in lontananza ma ogni volta lui non c’era. Avrebbe voluto parlargli ma pensava  fosse più giusto rispettare il suo allontanamento.

 “Capitano…Capitano!” La voce di Kei proveniva forte dall’interfono sulla scrivania di Harlock: “Parla Kei.” “C’è un ricognitore a poca distanza da noi, l’aspettiamo in plancia Capitano.” A grandi passi Harlock raggiunse il ponte di comando non gli pareva vero di poter sfogare un po’ della sua frustrazione. Senza esitare ordinò di attaccare. Helèn era lì con tutti gli altri e finalmente si videro. Helèn gli sorrise e quel sorriso per Harlock ebbe l’effetto di cento pugnalate, le rispose con uno sguardo enigmatico,intenso che lei non capì.

L’Arcadia correva agile per i sentieri dell’universo che innumerevoli volte aveva battuto, quasi avvertisse che LUI era al comando. Harlock si avventò letteralmente al timone, urlava ordini a tutti, sembrava impazzito; Yattaran e Kei si guardarono più volte perplessi. La velocità era impressionante, il grosso ricognitore sempre più vicino, Harlock fatto ruotare il timone con entrambe le mani per stabilire la rotta ed il grado esatto di inclinazione della nave, senza bisogno di altro, velocissimo, con l’ausilio della sola mano destra impresse una rotazione totale dello stesso portando in questo modo l’Arcadia a speronare con violenta precisione l’altra nave.

L’urto fu squassante. Vi erano pezzi di metallo dell’altra nave che iniziarono a vagare lenti per l’universo. Helèn ne rimase affascinata. Ecco, si disse. “Questo è il leggendario Capitan Harlock! ” Torreggiava dall’ alto del suo timone, letale alla guida della sua nave, condottiero senza timori né esitazioni,timoniere ardito e devastante,noncurante di tutto il resto, perché qualunque fosse stato il ‘resto’ l’avrebbe affrontato.

Gli uomini intanto si prepararono rapidi all’assalto. ”Vorrei andare con loro Signore” chiese Helèn. Sarebbe stata la prima volta che lasciava l’Arcadia. Harlock per non dirle di no, acconsentì con un lieve cenno del capo. Andò a sedersi sul suo trono per tornare padrone di se. L’assalto durò poco, gli uomini riferivano via radio a Kei rimasta a bordo dell’Arcadia. Ma quando la prima navicella da ricognizione fece ritorno, uno strano clima aleggiava; un’ansia mista a triste sconfitta. Raccontarono sommariamente che uno di loro aveva avuto problemi e che Hèlen era tornata indietro a prenderlo...ma vi era stata un’ esplosione. Harlock corse giù all’hangar attese il ritorno della seconda navicella. Ne uscì Yattaran completamente annerito dal fumo, reggeva un pirata ferito. Scuoteva la testa facendo segno di no. Harlock si irrigidì, guardò Yattaran e poi rivolto all’uomo ferito: “Che cosa è successo?” “Capitano…” L’uomo stentava a parlare, a trovare le parole: “Mentre…mentre rientravo…verso l’uscita… ecco c’è stata un’ esplosione, sono rimasto ferito, poi ho visto Helèn e con il suo aiuto sono riuscito a tornare verso la navetta…ma... mentre correvamo lei, lei era davvero pochi passi dietro di me, c’è stata un’altra violentissima esplosione, l’ho sentita gridare… mi sono voltato ma era scomparsa tra le fiamme, ho provato a tornare indietro ma il calore era insopportabile...” L’uomo abbassò il capo in senso di sconfitta. “E’ vero capitano!” Intervenne Yattaran, eravamo già tutti fuori quando Helèn si è accorta che mancava Hiroaki. Le esplosioni si succedevano, le ho detto che non c’era più nulla da fare per lui ma mi ha risposto che mai sarebbe tornata con un uomo in meno e si è rituffata tra le fiamme. Poco dopo Hiroaki ne è uscito ma lei non c’era… Sono tornato indietro, l’ho cercata, l’ho cercata Capitano; l’ho chiamata a lungo, a lungo, ma…ma non ho mai ottenuto risposta… mi…mi dispiace Capitano” Yattaran abbassò lo sguardo sconsolato.

Harlock era una statua di pietra, nessuno avrebbe potuto capire cosa stesse pensando o provando. Senza aggiungere altro salì su una delle navette appena rientrate. “Capitano è inutile, è morta Capitano!” Urlò Yattaran, a cui il suo Capitano stava a cuore più di ogni altra cosa al mondo. “Se questo è vero, riporterò il suo corpo ” rispose secco Harlock. Partì.

Raggiunto lo squarcio creatosi attraverso l’impatto con l’Arcadia, Harlock, mascherina nera sul volto, iniziò a camminare lentamente, doveva vedere ma soprattutto sentire. Ogni tanto la nave era scossa da violente vibrazioni causate da esplosioni lontane; vi era fumo denso ovunque, una gran quantità di cavi elettrici sospesi si muovevano come dotati di vita propria, e come serpenti lanciavano faville dalle fauci luminose. Una esplosione vicina. Harlock barcollò. La temperatura era altissima, le tempie pulsavano e la sua mente pensava “Helèn dannazione dove sei?” La situazione era critica, vi erano macerie e lamiera fusa ovunque. Non poteva essere morta, non poteva averla persa. Tolta la mascherina, iniziò a chiamarla a gran voce: “Helèn…Helèn mi senti? ”

Sull’Arcadia la tensione era al culmine. Tutti erano attaccati alle postazioni in attesa di un messaggio di Harlock. “Tra poco quella maledetta nave collasserà! ” Disse Yattaran rivolto a Kei. La preoccupazione era chiara sul suo volto, non faceva che andare avanti e indietro passandosi una mano sulla testa; anche Kei era un fascio di nervi, aveva paura per Harlock ma anche per Helèn.

Harlock procedeva, voltando lentamente il capo da destra a sinistra non tralasciando nulla, noncurante dell’elevata temperatura, solo alcuni rivoletti di sudore sulla fronte tradivano il suo sentire: la sua attenzione era rivolta solo alla ricerca. Le  fiamme danzavano intorno e per lui. A volte alcune lingue di fuoco come braccia femminili bramose lo lambivano,sorridendo sardoniche. “Helèn mi senti? ”

Helèn a seguito dell’esplosione era stata sbalzata violentemente contro una parete di metallo che poi le era crollata addosso e la ricopriva quasi interamente. Aveva perso i sensi, solo l’armatura blindata aveva impedito il peggio. Sentì una voce lontana. Alzò faticosamente il capo. Caldo, fumo, fuoco. Sentiva dolore, il che era buon segno pensò; ma vedeva solo fiamme. Il pavimento caldo vibrava sotto di lei. Non riusciva a vedere bene: “Sto morendo.” Pensava. Immagini del passato, del presente, presero a rincorrersi nella sua mente; frasi, parole, volti, emozioni, sentimenti, Harlock. Faceva fatica a respirare per il peso del metallo sul corpo, la testa le ronzava. Si sentì nuovamente chiamare. “È giunta la mia ora!” Pensò. “Sono pronta...”

Poi d’improvviso un grande angelo nero si materializzò in lontananza, impalpabile  nell’aria tremula, dispiegando con le mani le grandi ali nere, i capelli castani, alto, longilineo, camminava lento e maestoso tra le fiamme, solenne, avvolto da una luce spettrale,  bellissimo. Aveva una benda su un occhio: “Harlock!” Pensò Helèn. Sorrise amara: “Sto davvero morendo perché lo vedo.” ”Helèn dove sei? Mi senti Helèn?” non era una allucinazione, era davvero Harlock!

 Gridò con quanto fiato avesse in gola. Ma non emise suono. Ci riprovò, la gola le bruciava, raccolse le forze per gridare solo un nome, un nome solo: HARLOCK.  “Harlock… ”gridò con quanto fiato aveva. Il miraggio dell’angelo dalle ali nere  la sentì ed iniziò a correre verso di lei, il mantello si gonfiò, simile ad ali spiegate, i capelli ondeggiarono, la figura snella e scattante, fu da lei. Un ginocchio a terra, sollevata la pesante lastra di metallo la tirò via con facilità. E lì per terra la strinse a sé.

All’interno della sua armatura Helèn piangeva: “Sei venuto qui, per me, per me… Allora non mi odi? Perdonami, perdonami se non ti ho detto tutto subito,ma avevo paura.” Harlock non rispose. Si alzarono. Poi le chiese: “Stai bene?” Helèn fece cenno di sì. “Ascoltami; dobbiamo allontanarci il più in fretta possibile. Ora lancerò una piccola bomba. L’esplosione consumerà tutto l’ossigeno rimasto; per pochi istanti le fiamme si ritireranno e si creerà un varco, avremo così  la possibilità di passare, ma saranno solo pochi istanti, dopo… tutto crollerà. Pensi di farcela? ” Helèn fece cenno di sì col capo. Harlock messa la mascherina, lanciò la bomba proteggendo Helèn. Le fiamme si ritrassero di colpo come fiere colpite dalla frusta del domatore: Harlock ed Helèn corsero in quel breve corridoio temporale tenendosi per mano. Helèn sentiva quella presa salda e forte e Harlock non la lasciò mai. Continuarono a correre fino alla navetta.  E poi... di colpo TUTTO esplose.

Sull’Arcadia il panico serpeggiò rapido dagli occhi ai volti di tutti. Kei, la bocca semiaperta incapace di parlare, Yattaran entrambe le mani sulla testa disse disperato, pensando al peggio e dando voce al pensiero di tutti: “ Noo! Capitano che faremo ora noi senza di te! ” In quell’istante una voce nota a tutti comunicò via radio che tornava...Tornava con Helèn. Un coro di urla e risa si levò simultaneamente dalla plancia:  Kei e Yattaran si guardarono grati, alcuni saltarono dalla gioia e per il sollievo lanciando in aria le bandane. Harlock ordinò la partenza immediata dell’Arcadia subito dopo il loro attracco.

Helèn non si era seduta accanto ad Harlock, era rimasta nella parte posteriore del velivolo, poggiata ad una parete. Si era tolta, non senza difficoltà, la pesante armatura blindata. Arrivati nell’hangar dell’Arcadia Harlock lasciò i comandi e la raggiunse. I capelli sciolti Helèn se ne stava quasi abbandonata contro la parete con il braccio destro che teneva innaturalmente il sinistro. Sudava, stava soffrendo.

Harlock la guardò preoccupato: “Helen?” Disse con aria interrogativa. “Ho una clavicola lussata, devi a…iutarmi ti prego… non ce la faccio più.” Il dolore doveva essere insopportabile, il labbro inferiore le tremava leggermente per lo sforzo. Harlock la spostò delicatamente mettendosi lui spalle alla parete per avere un supporto: “Tieniti con l’altro braccio a me.” Le disse. Si guardavano, non distolsero mai lo sguardo l’uno dall’altra. Helèn gli passò il braccio destro intorno al collo. “Pronta?” Lei fece cenno di sì col capo. Soffriva molto. Harlock con una mano tirò su delicatamente lateralmente il braccio sinistro di Helèn; con l’altra si preparò ad esercitare con un colpo netto, una forte e decisa pressione all’altezza della clavicola per risistemarla: doveva essere una manovra secca e corretta o avrebbe potuto lacerare i legamenti.

Fu un istante. Helèn si strinse a lui, gridò e svenne per il dolore lancinante. Harlock la sostenne. Un braccio intorno alla vita, l’altro intorno alle spalle.  La sostenne… e… la strinse, la strinse forte a sé. Soli. Volle tenere quella donna inerme un lungo momento tra le sue braccia. La strinse forte percependone il tepore, affondando il viso nei suoi capelli aspirandone il profumo. Ma che gli stava succedendo? Chi era quella donna che teneva tra le braccia e che non avrebbe mai voluto lasciare? Fu solo un momento, prima che la sollevasse tra le braccia per uscire dalla navetta.

 

 

 

Note :

Grazie alla mia Beta Erika Buon compleanno cara :-*

E grazie di cuore a tutte le meravigliose fanciulle che hanno voluto commentare o farmi sapere privatamente cosa pensano del racconto,dello stile e delle idee. Lo apprezzo molto siete fonte di riflessione e di ispirazione sempre. Grazie.

E grazie ancora a chi ha voluto inserire la storia tra le seguite, ricordate o preferite. Lego i vostri nomi ed avverto il vostro sguardo benevolo. Grazie.

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Capitolo 5
*** CORPO A CORPO ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla terra,in egual maniera le onde del destino,nel loro divenire dal passato al presente,talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

5

 

 

 

CORPO A CORPO

 

 

Quando Helèn aprì gli occhi l’accolsero le azzurre iridi di Kei “Come ti senti? la devi smettere con questi atti eroici o ci farai morire di crepacuore” le disse sorridendo. Helèn aveva braccio e spalla fasciati insieme, era in camera sua”. Dov’è Harlock ?” chiese “E’ in plancia,ti va di mangiare qualcosa? E domani mattina di ricevere visite? Tutti mi chiedono di te” le disse Kei strizzandole l’occhio. 

Harlock solo, sul grande ponte di comando, fissava un nero mare di velluto striato d’argento che si stagliava infinito innanzi a lui. In realtà ciò che realmente stava fissando era l’universo che era dentro di lui,pieno di sfaccettature, cangiante, immenso e mutabile. La guancia poggiata sul pugno della mano sinistra,il viso quasi interamente coperto dall’ampio bavero del mantello e dai capelli, il corpo affondato nella struttura del trono che lui si era fatto costruire tanto tempo prima mosso da volontà di giustizia e libertà. Ma da quanto tempo non era più libero? Libero di pensare, libero di sentire, libero di amare? All’esterno nulla di ciò che stava sentendo sarebbe mai emerso, ma quello che in verità lui udiva era il suono metallico dell’inizio di una dura battaglia quella di Harlock con Harlock. Qualcosa stava cambiando in lui, iniziava ad avvertire il sibilo di un vento lontano. Era perfettamente consapevole che se avesse permesso a quella brezza sottile di crescere e soffiare sarebbe ben presto diventata un uragano che lo avrebbe travolto e spazzato via. Se gli avesse lasciato campo libero si sarebbe impossessato di ogni fibra del suo essere, la sua potenza se accresciuta, l’avrebbe travolto e lui non poteva assolutamente permetterselo. E quel vento… ora aveva un volto, aveva un nome Helèn. Era stato un atto di debolezza farla salire sull’Arcadia, ancora una volta avrebbe dovuto convivere con una sua scelta. Eppure gli bastava chiudere per un attimo gli occhi della mente per lasciarsi cullare dal ricordo di quel viso,di quello sguardo.

Si alzò di scatto aprendo con le mani il grande mantello e lasciando a grandi falcate il ponte di comando. Tori volò giù e si posò sulla sua spalla destra. Harlock trascorse alcune ore nella sala del grande computer centrale ma senza trarne beneficio. Ed a dimostrazione di ciò,per recarsi nei suoi appartamenti nel castello di poppa scelse il corridoio che passava accanto alla stanza di Helèn.

La luce filtrava dalla parte inferiore della porta di metallo. Era ancora sveglia. La ricordò mentre lo chiamava. La superò veloce.

 Nelle sue stanze Meeme lo aspettava “Non ceni Harlock ?” “Non ho fame“ disse lui sfilandosi i guanti e scaraventandoli sul tavolo. “Che hai?” Lei sapeva da cosa nasceva  quell’inquietudine, la conosceva bene, ed altrettanto bene sapeva che a volte Harlock doveva ascoltarsi, ammettere certi moti dell’animo per farli assurgere a coscienza e prenderne consapevolezza. Harlock non amava parlare e in special modo di sé. Ma con Meeme era diverso era una vecchia amica ormai, leale, sincera e lo conosceva bene.

Harlock braccia conserte davanti all’immensa vetrata la cui sconvolgente bellezza lo inghiottiva ogni volta.

 “Oggi ho creduto che fosse morta. Mi sono spinto al limite estremo,non avrei lasciato quella dannata nave senza di lei, contravvenendo a tutto ciò che detta il buon senso ed a ciò che ho insegnato ai miei uomini. Così facendo ho messo a repentaglio l’incolumità mia e dell’intero equipaggio. Io sono il Capitano di questa nave e come tale ho la responsabilità di 40 persone. Loro mi hanno consegnato le loro vite, si fidano di me e da me dipendono. Ma da quando lei è qui i miei sentimenti prendono il sopravvento su tutto il resto” il suo tono di voce era duro, determinato.

”Parli di Helèn?”. Harlock non rispose, ora parlava a se stesso “Non posso e non voglio che questa cosa cresca dentro di me. Quando la guardo negli occhi sento che potrei naufragare”.

Meeme era preoccupata ma non per  Harlock ma di Harlock . “Che intendi fare?” “Non posso mandarla via, vorrebbe dire condannarla a morte, ma posso fare in modo che le cose cambino!”. Aveva proferito le ultime frasi tenendo i pugni stretti. Meeme scosse la testa.

Il giorno dopo Harlock appariva più stanco del solito, non era riuscito a dormire. Aveva preso una decisione soffocando ancora una volta i suoi sentimenti per il superiore bene comune di cui si sentiva responsabile. Questo gli dava forza.

Con passo sicuro si recò verso la stanza di Helèn. La porta era aperta, udì la sua risata argentina provenire dall’interno. Dalla porta vide Yattaran con in mano un modellino dell’Arcadia che mimava tra suoni e sbuffi quella che pareva una battaglia. Helèn era morbidamente distesa su alcuni cuscini posti ai piedi della poltrona, accanto al piccolo camino, il braccio bloccato da una fasciatura al corpo. Aveva una tuta termica bianca aderentissima le gambe adagiate l’una sull’altra ed i piedi scoperti. Dai lunghi capelli benché raccolti, alcune morbide ciocche erano scivolate incorniciandole l’ovale del viso. La sua risata lo colpì improvvisa, inaspettata come un getto d’acqua fresca, portandogli alla mente le montagne innevate.

Helèn gli occhi lievemente socchiusi, il capo delicatamente chinato all’indietro mostrava parte del collo. Dentro di sé invidiò Yattaran che riusciva a farla ridere così. Lei lo vide e divenne subito seria. Abbassò lo sguardo per nascondere gli inconsapevoli battiti accelerati del suo cuore. Yattaran si voltò di scatto ”Capo!” fece un po’ impacciato. Poi rivolto ad Helèn “ Beh! Io vado Helèn…“ disse dandole il modellino dell’Arcadia “grazie Yattaran” rispose lei sorridendo. La porta si chiuse dietro il pirata.

 Harlock non era mai entrato in quella stanza, trasudava di lei. Nell’aria il dolce odore dei suoi capelli. Candele profumate. Notò i tre vasetti accanto alla finestra “Mi ricordano da dove vengo” poi aggiunse amaramente “Sono l’unica persona vivente ad essere nata sulla terra”. Volse lo sguardo alle fiamme del camino e disse “Grazie per essere venuto a salvarmi.”  Harlock le si avvicinò di qualche passo. “E’ proprio per questo che sono qui.“ Fece bruscamente. Helèn lo guardò  “Se vuoi restare su questa nave evitati altre alzate d’ingegno come quella”. “Ma di che parli?” fece lei sorpresa.

”Del fatto che per essere tornata indietro per un uomo solo, saremmo potuti morire in due!” rispose secco. ”

Ma…ma io… non potevo lasciarlo lì, il mio è stato solo un incidente.” “Saresti potuta morire!” urlò lui. Ma di queste ultime parole Helèn capì solo ciò che volle capire. Abbassò lo sguardo “ Non sarebbe cambiato poi molto” fece malinconica. ”Nessuno mi aspetta là fuori,anzi” sorrise amara “qualcuno mi aspetta, la corte Suprema della Gaia Sanction.” Si riebbe e in un moto di rivalsa ”qual’ è dunque la mia punizione Signore?” disse alzandosi con foga.

 Per terra con lui che la dominava dall’alto si sentiva inerme,ma nel movimento innaturale e frettoloso che compì per non sentire dolore alla spalla, perse l’equilibrio. Harlock con una falcata fu da lei e la prese per la vita.

I loro sguardi si incontrarono consapevoli di quel contatto. Lei sentiva la sua mano forte sul fianco, lui percepiva il dolce tepore e la morbidezza del corpo di lei. Harlock avrebbe voluto tirarla a sè e fare aderire il corpo di Helèn al suo. Ma non fece nulla di tutto questo. Helèn gli poggiò  la mano libera sul petto all’altezza del Jolly Roger che aveva sul giubbino di pelle, e lo spinse via dolcemente guardandolo “Non sono una bambina, devi farla finita di correre ad aiutarmi! ”. 

Ed accadde. Il fiorire di un ricordo,quel gesto tra di loro, come quando aprendo un cassetto ne viene fuori un odore che riporta alla mente sopite sensazioni. La mano di lei sul petto di lui che lo allontanava dolcemente. Si guardarono sorpresi, travolti all’unisono dalla medesima strana sensazione. Cercando l’uno nello sguardo dell’altro una risposta. Il tempo scandì un po’ più lentamente i suoi rintocchi. Harlock si riebbe per primo. Uscì con addosso uno strano senso di famigliarità e di esperienza vissuta. Helèn lo archiviò come un dejà vu.

 Non appena Harlock fu fuori Helèn cominciò a togliersi gli abiti e quasi a strapparsi la fasciatura di dosso. Da quella stessa notte cominciò a sottoporsi a lunghe sessioni di allenamento. All’inizio per riprendere le funzioni del braccio e rinforzare la muscolatura,poi anche per tutto il resto. Si allenava duramente per esser forte abbastanza da non aver bisogno di nessuno. Lo faceva con rabbia, con dolore, con sacrificio come lo aveva sempre fatto per rendere più forte il suo fragile corpo.

Ben presto l’eco di questi allenamenti si diffuse tra la ciurma, all’inizio i più andavano a guardarla incuriositi, poi pian piano qualcuno iniziò ad allenarsi con lei chiedendole consigli e spiegazioni. Ciò che li incuriosiva era la capacità di Helèn di mescolare l’arte della spada con quella atletica. Lei sorrideva ed aiutava come poteva.

Un giorno Harlock domandandosi dove fossero finiti tutti chiese a Yattaran, l’unico presente in plancia “Dove sono gli altri?”.

“Ma come capitano non lo sa? alle sessioni d’allenamento di Helèn, quella donna è una forza della natura Capitano. Dovrebbe vedere che…” si morse la lingua perché stava per dirne una delle sue. Harlock incuriosito si recò alla grande sala degli allenamenti ma, prima di arrivarvi sentì  Kei affannata dire ”Però…amica mia…quella tua spalla è proprio a posto adesso!”. Le sentì ridere insieme e sentendosi di troppo si allontanò.

La notte successiva durante una delle sue lunghe passeggiate ‘concilia sonno’ si ritrovò inconsapevolmente nei pressi della palestra, la luce accesa filtrava dalla porta d’accesso. Da uno degli oblò sulle ante vide Helèn: scalza, pantaloni e canottiera bianca aderenti e due strane protezioni in pelle sugli avambracci. Stava duettando con un nemico immaginario. La sua spada sibilava nell’aria. Era agile e flessuosa, elegante e leggera, fendeva l’aria con la spada. A vederla combattere con ‘l’uomo invisibile’ non seppe resistere,il suo lato guerriero ebbe la meglio, entrò di colpo.

 ”Credo ti serva un avversario” disse ad una Helèn stupita di vederlo lì. Helèn gli fece segno con la spada di accomodarsi. Harlock con un solo gesto si sbarazzò del mantello,poi del corpetto e del giubbetto in pelle sotto al quale non aveva nulla. Helèn rimase stordita nel vederlo così… in pantaloni. Lo osservò per un lungo istante. I suoi occhi vagarono lenti percorrendo le linee perfette di spalle e torace. Harlock era un uomo fisicamente notevole ma si comportava come chi non ne ha consapevolezza alcuna. La bella muscolatura di spalle e braccia era stata plasmata da anni ed anni di battaglie e scontri, trapezio, deltoide e tricipite ben sviluppati glielo narravano. Nonostante tante piccole cicatrici il torace conservava una bellezza austera ed elegante. Le braccia muscolose armonizzavano perfettamente con le ampie spalle ben delineate. Vita sottile, addome piatto, lunghe gambe, contribuivano a rendere la figura slanciata. La carnagione che aveva immaginato più pallida era invece di un colorito lievemente ambrato.

Tolti stivali e cinturoni,presa la fedele compagna di tante battaglie la Gravity Saber  si mise davanti a lei. Era strano essere lì a guardarsi negli occhi sfidandosi. Helèn abbozzo ‘il saluto ’ con la spada, lui toccò con la lama della sua l’altra lama e con un movimento del mento in avanti la invitò ad iniziare per prima. Helèn lo interpretò come un gesto di sfida e un po’ della rabbia sopita per il rimprovero ingiustamente ricevuto per il suo comportamento irresponsabile riemerse. Decise di mostrargli una volta per tutte chi era e che sapeva sempre ciò che faceva. Non era una donna né un medico ma un ufficiale,un combattente. E diventarlo le era costato lacrime e sangue,si era guadagnata il rispetto dei suoi capi prima, e dei suoi uomini dopo. Ed ora toccava ad Harlock.

Iniziò assestando un colpo rovescio fortissimo che Harlock resse ma che lo lasciò incredibilmente sorpreso ‘quanta forza’ pensò. Il duello vero e proprio ebbe inizio. Helèn seguì con un affondo e poi ancora con un fendente ed un montante violenti.  Harlock si difendeva ma cercava ancora di calibrare la giusta dose di forza. Helèn era impetuosa non si risparmiava, colpiva e colpiva, saltava indietro di scatto e poi attaccava. Capì che Harlock si stava limitando a studiarla ma non era quello che voleva, allora provocatoriamente disse “Forza Harlock è tutto qui quello che sa fare il ricercato numero uno dell’universo o le donne sai solo prenderle a schiaffi quando non se lo aspettano?” a quelle parole Harlock partì con una battuta e poi con un legamento,le lame si unirono stridendo, era un gioco di forza, i respiri si fecero affannosi. Helèn ne venne fuori con un prodigioso salto all’indietro. Harlock sorrise debolmente abbassando il capo per non farsi scorgere, si disse che Helèn era un degno avversario. Il tempo complice silente, rallentò per tenerli insieme un po’ più a lungo.

La osservava roteare leggera nell’aria, saltare all’indietro,correre in punta di piedi per schivare i suoi colpi, alcune ciocche di capelli le danzavano ribelli sul viso rendendola bellissima.

Guardandola mentre continuavano a duellare, iniziò a percepire uno strano calore provenire dal centro del petto. Non era il calore dato dall’azione, era uno strano calore che nasceva da dentro, che si diramava prepotente e che non poteva fermare, sorrise ancora debolmente inebriato da quella sensazione che non ricordava d’aver provato da tanto. “Chi ti ha insegnato a batterti così?”  le chiese. “Una persona che mi voleva bene, che ha cercato in questo modo di aiutarmi, rendendomi forte e facendomi entrare nell’esercito della Gaia Fleet” a quel nome Harlock preso dalla concitazione della contesa divenne una furia, per Helèn divenne difficile.

Si trovarono spesso a pochi centimetri l’uno dall’altro, l’uno contro l’altro divisi solo dalle lame incrociate. Entrambi sentivano i reciproci respiri veloci ed il reciproco calore corporeo. Helèn guardava la pupilla ambrata di Harlock ed i capelli che aderivano alla fronte per il sudore rendendolo se mai possibile ancora più bello. Fu un attimo, Helèn spintolo lontano da se con un’imbroccata riuscì quasi a colpirlo, la lama passò a pochi millimetri dal suo viso e la parte finale di un ciuffo di capelli venne tagliato via.

Helèn si bloccò terrorizzata, e lui ne approfittò. Con un colpo fortissimo fece volare via la spada di lei che finì molti metri lontana. Helèn la seguì con lo sguardo ma le era stato insegnato a non arrendersi. Così sfoderò la sua arma segreta, in quelli che sembravano dei semplici copri avambracci in pelle vi erano in realtà cinque lame oblique affilatissime che lei fece scattare fuori. Iniziò a colpire e colpire la spada di Harlock proprio con quelle lame. Harlock parando quei fendenti indietreggiava lentamente, era rapito e affascinato da quella donna. Poi di colpo lanciò in alto la spada e con scatto felino le bloccò entrambi i polsi con le mani.

Finirono entrambi violentemente sul pavimento. Harlock sopra di lei.

 Helèn si divincolava per liberarsi da quella morsa ma le vigorose braccia di lui non glielo permisero. Muoveva il corpo ma così facendo faceva semplicemente aderire ancor di più il suo bacino a quello di Harlock. Lui la fissava. Le stava scavando dentro con lo sguardo. L’alito caldo della bocca di lui le lambiva il viso. Si arrese. Alcune piccole gocce di sudore dal viso di lui si trasferirono a quello di lei seguendo la forza di gravità, o semplicemente il loro desiderio. Helèn respirava affannosamente; così facendo il seno, sollevandosi ritmicamente toccava il torace di lui, avrebbe voluto non respirare ma non poteva. Sentiva netti i battiti del cuore di lui a cui il suo corpo faceva da cassa di risonanza. Harlock  avvicinò ancora di più il volto al suo. Erano pericolosamente vicini. Il capitano piegò il viso in basso osservando il seno di lei che gli sfiorava morbido il torace, si avvicinò alla sua bocca. Helèn credette l’avrebbe baciata, erano a pochi millimetri. Ma le disse piano “Ho capito perché combatti così. Non è perché non hai paura della morte, tu vuoi la morte, la cerchi”.

Così dicendo le lasciò i polsi, si alzò. Helèn sentì i suoi passi arrivare infondo alla stanza ed uscire. Non si poteva esser vittoriosi con Harlock e non faceva riferimento a questo loro corpo a corpo.

 

 

Note:

Questo capitolo è dedicato ‘al mio grande amore,al mio amore grande’ mia figlia S. alle cui movenze elastiche ed eleganti mi sono ispirata per scrivere questo capitolo che tanto amo  ’a te che hai dato senso al tempo senza misurarlo ’ :-*  © Lorenzo Cherubini

Tecniche di scherma da “Tecniche di combattimento con la spada”

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Capitolo 6
*** ARCTIC ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla terra, in egual maniera le onde del destino, nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

Grazie a tutti coloro che si fermeranno a leggere.

 

6

 

 

ARCTIC

 

 

Trascorsero alcuni giorni apparentemente uguali nei quali l’Arcadia solcava lenta il mare placido dell’Universo. Era uno strano navigare, come in cerca di qualcosa. La vita scorreva tranquilla anche per l’equipaggio all’interno della nave. Solo Meeme si vedeva meno del solito. Ma una sera si materializzò davanti alla porta dell’infermeria. La luce che di solito emanava vivida ed intensa era opaca, quasi spenta. Helèn era alla scrivania. Si voltò, le due donne si fissarono a lungo.

”Meeme qualcosa non va?” le chiese Helèn preoccupata, avvicinandosi mentre una strana sensazione si impossessava di lei. Meeme non rispose subito, mosse alcuni passi piano nella sua direzione, entrando nella stanza. Diafana, evanescente, sembrava irreale, le prese una mano e come se provasse dolore disse “Tra breve… tanto ti sarà chiesto… sii forte.”

La donna non capì ciò che Meeme voleva dirle ma attraverso quel tocco delicato percepì nettamente una vibrazione, quasi che così facendo volesse infonderle coraggio. Una forte sensazione di inquietudine la pervase,  spalancò gli occhi. L’aliena le sorrise dolcemente e come era arrivata se ne andò via.

Helèn che già aveva difficoltà a dormire quella sera vagò a lungo per i corridoi dell’Arcadia cercando di fissare pensieri e sensazioni. Ad un tratto senza preavviso alcuno, Tori le piombò davanti spaventandola. “Oh! sei tu piccolo monello“ fece lei sorridendo e allungando una mano verso di lui che, dopo alcuni passi sul pavimento di metallo spiccò il volo. Helèn decise di seguirlo,per lei una strada valeva l’altra.

Mentre camminava guardandolo volare ricordò che per alcune antiche tribù della Terra l’avvoltoio era colui che accompagnava l’uomo nel suo viaggio dopo la morte. Attraverso una stretta porticina metallica lo seguì in un ambiente immenso nel quale non era mai stata. Era tutto immerso nella penombra. Mano a mano che gli occhi si abituarono al buio si rese conto di trovarsi nella grande sala del computer centrale. Le avevano detto che era il cuore pulsante dell’Arcadia e che era off-limits per tutti, tranne che per Harlock. Tori iniziò a volare in alto, in maniera circolare fino a quando sparì alla sua vista. Il computer era enorme, impressionante, presentava un grande corpo centrale ancorato in basso ed in alto da una notevole quantità di collettori e condotti di varia dimensione. Non aveva mai visto nulla del genere sulle navi della Gaia ma, più che un cuore in realtà le ricordava un cervello. Ogni tanto vi si accendevano alcune piccole luci, sembrava che la stanza fosse stata costruita attorno al computer e non viceversa. Ebbe la netta sensazione d’esser entrata nel ‘sancta sanctorum’ della cattedrale Arcadia. Percepiva un’aura strana, camminava lentamente senza far rumore, con reverenza, quasi senza respirare.  Ad un tratto vide Harlock, si nascose d’istinto e restò ad ascoltare.

 Seduto su uno dei grossi condotti parlava a voce bassissima o come lei credette pregava! Si… era lì per pregare. Tori ricomparve dal nulla e si appollaiò sulla spalla di Harlock che alzandosi diede due pacche alla struttura metallica del computer ed uscì. Helèn sentì il rumore dei suoi inconfondibili passi sul metallo allontanarsi. Si andò a mettere esattamente dove era lui. Sorrise. Su di una specie di sporgenza del corpo del computer Harlock aveva lasciato un bicchiere con del vino rosso. Lascia anche offerte votive? Pensò un po’ frastornata. Prese il bicchiere e notò sul cristallo purissimo l’impronta delle labbra di lui, fece un cenno con la mano che reggeva il bicchiere rivolta al grande computer come a voler partecipare anche lei a quello strano rito pagano, posò le sue labbra sul bicchiere esattamente dove erano state quelle di Harlock e bevve!

Chiuse gli occhi. Il liquido scese lento e pungente lungo la gola e le scaldò lo stomaco. Come una carezza. Il sapore del vino ed il pensiero che poco prima lì vi erano state le labbra di Harlock le provocarono una sensazione di ebbrezza. Posò il bicchiere, fece un inchino ed andò via.

Due grossi cerchi concentrici rossi si accesero sul grande computer ma Helèn non poté vederli si era già voltata presa dai suoi pensieri.

Camminava e ripensava ad Harlock così come lo aveva visto. Era un leader carismatico, un guerriero implacabile, ma il suo fiero sguardo a volte pareva spento, assente, quasi che un profondo rammarico lo strappasse a se stesso, un dolore profondo si nutrisse ogni giorno della sua luce, di lui, consumandolo poco a poco. Ed al tempo stesso vi vedeva l’inquietudine dettata da uno spirito impavido che non vuole arrendersi. Per certi versi erano uguali, anche lei viveva col peso di tante perdite sul cuore e di un dolore profondo, immenso, che mai nulla al mondo avrebbe potuto colmare. Avrebbe voluto aiutare Harlock ma il suo spirito era celato dietro una roccaforte di ghiaccio e sofferenza, nessuno vi avrebbe mai potuto fare breccia. Ed ormai lei non era più in grado di dare o ricevere amore. Gli occhi le si inumidirono. Si concentrò un istante sul corridoio da percorrere per tornare alla sua stanza e si rese conto di essersi sbagliata, tornò rapidamente indietro e girato un angolo.  Ed eccolo lì, il protagonista dei suoi pensieri.

Si erano quasi scontrati, la guardò chinando lievemente il capo di lato scrutandone gli occhi. Era una sua caratteristica cercava sempre lo sguardo di chi gli stava di fronte per capire anche ciò che non veniva detto. Era un'abitudine che aveva acquisito sin dai primi tempi da militare. Trovando gli occhi di Helèn inumiditi il suo solito sguardo freddo si ammorbidì. Perché quella donna gli risvegliava sentimenti di dolcezza e tenerezza come se il suo compito fosse proteggerla? Un pensiero sì affacciò un istante prima di dissolversi, forse chissà in un’altra vita lo aveva fatto. ”Notte Harlock”.

“Notte a te ”. Le loro strade si divisero.                                          

Il giorno dopo Helèn notò un certo fermento in plancia. “Cosa accade?” chiese rivolta a Kei.

 “Siamo finalmente giunti nei pressi di Arctic dobbiamo lasciare qualcosa su questo pianeta“ le rispose sbrigativa.

”Qualcosa? ” fece interrogativa Helèn.

”Una bomba”. La voce di Harlock proveniva dalle sue spalle.

 “Una bomba? e perché?” chiese Helèn, voltandosi. Nessuno rispose e lei continuò a guardarlo dubbiosa”.

“Vieni con me, la piazzeremo e intanto ti spiegherò” le rispose Harlock prima di sparire nel suo mantello.

Quelle parole le aveva pronunciate con fatica quasi fossero macigni. Il pianeta Arctic era stato chiamato così dagli uomini perché interamente ricoperto dai ghiacci e come tanti pianeti e satelliti aveva nomi che nostalgicamente ricordavano la Terra. La temperatura era sempre qualche grado sotto allo zero e tempeste di neve vi si susseguivano. Per questo non era mai stato abitato. In compenso l’aria era respirabile. Ad Helèn venne data una pesante tuta termica nera con guanti annessi ed un mantello con cappuccio.

Lei ed Harlock salirono sulla navetta. Seduti l’uno accanto all’altro Helèn notò che guidava con semplice naturalezza, ed una sicurezza che denotava tanta conoscenza e tante ore di volo. Doveva esser stato un grande pilota. Helèn non fece domande si limitò ad osservare. Dall’Arcadia la bomba venne resa visibile, era sempre stata lì ma mimetizzata.

”Ho capito“. Disse Helèn continuando a guardare innanzi a se. “Questa è una delle cento bombe a vibrazione dimensionale che ti accusano d’aver sottratto alla Gaia Sanction”.

In un primo tempo Harlock non rispose, poi disse“Erano cento, ne sono rimaste solo due”.

 “Dove sono le altre?”. Stavolta Helèn si voltò a guardarlo.

 “Sono state piazzate in 98 luoghi cardine dell’Universo”.

 “Luoghi cardine?”

 “Si… luoghi che corrispondono ai nodi temporali”.

Helèn non chiese altro, era stata resa edotta della teoria del popolo dei Nibelunghi sui nodi temporali. Tacque, avvertiva che parlarne ad Harlock procurava disagio, quasi dolore. Capiva sempre quando qualcosa gli creava sofferenza, lo coglieva da alcune piccole inflessioni della voce. Si concentrò sulle sue mani che agili e sicure attuavano le varie manovre con estrema rapidità e precisione. Il capitano avvertiva lo sguardo di Helèn su di sé, si voltò “Non preoccuparti andrà tutto bene”.

 “Lo so… io non ho mai paura quando sono con te”. Rispose con ingenua semplicità.

Harlock cambiò discorso. “Sul pianeta ci sono tormente di neve ricorrenti ma, secondo i nostri calcoli, dovremmo avere un’ora di tranquillità”.

Arrivati a destinazione scesero. Il paesaggio era bianco, disarmante, uguale. La luce riflessa ovunque era intensa, il freddo  pungente. L’aria benché respirabile era leggera, rarefatta, dava un senso di stordimento.

Harlock iniziò la procedura di attivazione della bomba che era stata ancorata a terra nel ghiaccio da alcuni tiranti in metallo. Intanto si era sollevato un forte vento. Helèn guardava quel paesaggio desolatamente uguale, ovunque volgesse lo sguardo tutto era bianco e luminoso, le folate di vento le ferivano il viso, l’aria sottile le riempiva prepotente ogni angolo dei polmoni. Il vento sembrava rendere instabile la superficie sollevando e muovendo un sottilissimo strato di neve. Si voltò, guardò Harlock e disse “Le farai detonare tutte insieme non è vero?”

Harlock piegato accanto agli inneschi elettronici la guardò, si alzò. Helèn era una donna intelligente ed intuitiva. “Si” rispose pacato.

 “Cosa accadrà? ” chiese Helèn senza tradire emozioni.

Harlock guardava lontano, il suo sguardo cupo si perdeva in quel chiarore diffuso e perfetto. “L’universo che ora conosci, cesserà di essere, se ne creerà uno nuovo, da cui tutto avrà nuovamente origine”. Mentre parlava il suo sguardo galoppava selvaggio su quella distesa immacolata, lontano da tutto, portando con sé il suo spirito fiero e combattivo da troppo tempo prigioniero del buio. Helèn non disse nulla gli si avvicinò per guardarlo in volto mentre il vento gelido colpiva i loro visi, i loro corpi, rendendo quasi vivi i loro mantelli.

Quando lui la guardò lei disse “Non mi importa di morire.”

Harlock fu molto sorpreso da quella totale e serena accettazione di ciò che le aveva appena rivelato. “Ma posso chiederti una cosa?”. Lui fece cenno di si col capo fissandola. “Sono stata sempre sola nei 100 anni di morte - non morte della cariogenesi, io... io non voglio più morire da sola. Mi prometti che… quel giorno, in quel momento sarai con me e mi stringerai e non mi lascerai morire da sola?”. Aveva pronunciato quelle parole col trasporto della disperazione.

Harlock era visibilmente turbato, il vento gli scompigliava i capelli mettendo in evidenza i lineamenti perfetti del viso. Comprese appieno la sua richiesta, Helèn non poteva saperlo ma, la solitudine che lei provava era la medesima che da tanto albergava nel suo cuore.

 ”Hai la mia parola” le disse.

Helèn sorrise, un sorriso puro, pieno di gratitudine e denso di significati. Quel sorriso per un breve istante stordì Harlock accendendo nel suo cuore una scintilla breve, calda e luminosa come quel raggio di sole che senza saperlo per primo al mattino squarcia il velo della notte.

La bomba venne preparata ma nello stesso istante in cui si apprestavano a rientrare ci fu come una scossa, seguita subito da una specie di terremoto, un cedimento strutturale, i due si guardarono, la bomba ancora agganciata alla navetta si inclinò di 30 poi 45 gradi. I tiranti d’acciaio che la rendevano stabile si spezzarono uno dopo l’altro mozzando l’aria. In un rapido susseguirsi di eventi Helèn scivolò giù per il pavimento inclinato Harlock trovato un appiglio con una mano riuscì a prenderla per un braccio con l’altra.

”Che succede?” gridò Helèn.

 “Non lo so, non era previsto”. Intanto sull’Arcadia erano tutti in fermento e cercavano di comprendere cosa stesse capitando. “Allora maledizione cosa sta accadendo? ” fece Kei gridando ad uno dei pirati che controllava e ricontrollava i dati ed i monitor. “Merda!”

“Che c’è?” fece Kei. E mentre l’uomo le spiegava cosa fosse accaduto una enorme voragine si aprì  sotto alla bomba che iniziò a sprofondare tra altissimi sbuffi d’acqua gelida e muraglioni di ghiaccio.

Erano atterrati sulla superficie di un lago ghiacciato che aveva ceduto al peso della bomba.

In un istante con estrema prontezza di riflessi Harlock tirò a se Helèn con tutta la forza che poté e stringendola a sé con un balzo saltò giù dalla bomba prima che si inabissasse.

Caddero pesantemente su di una sporgenza, ma fu solo un attimo prima che alcune lastre di ghiaccio sovrastanti frantumandosi li ricoprissero interamente. Helèn non capiva, era disorientata, c’era polvere di neve ovunque, respirava a fatica. Intorno il sordo rumore del ghiaccio che si spaccava. Avvertiva parte del corpo di Harlock sul suo ed udiva un lamento, un lamento dettato da un sforzo disumano.

Finalmente riuscì a vedere. Vide il volto di Harlock sul suo. Harlock finito su di lei tentava con la sola forza delle spalle e delle braccia di impedire che lo strato sovrastante di ghiaccio collassasse su di loro schiacciandoli. Lo spazio vitale che avevano era creato solo dalle braccia di Harlock. Il suo volto era una maschera per lo sforzo immenso che stava facendo per evitare che soccombessero. Benché lo spazio fra di loro fosse poco Helèn vide lo strazio dipinto sul suo volto,  non poteva fare nulla, posò le mani su quel viso mentre la luce filtrava da alcune piccole crepe di quella loro candida bara di ghiaccio.

 “Harlock lascia stare” disse in tono supplice.

 “Noooo” gridò lui tra i denti per la disperazione e la fatica.

 “ Ti supplico, siamo… siamo spacciati. Non mi importa di morire”. Intanto gli occhi le si riempirono di lacrime bollenti. “Sono esattamente dove avrei voluto essere”.

 Harlock la fissò. ”Non… non morirai e comunque non qui e non… ora“.

“Harlock ti supplico”. Lo spazio tra loro si assottigliava a causa del gravare del peso del ghiaccio sulle spalle di Harlock. Frustrato smise di cercare di ritardare l’inevitabile. Smise di far leva sulle braccia poggiandosi sugli avambracci incorniciando così il volto di Helen con le sue braccia. In cuor suo sapeva che lui non sarebbe morto. Solo lei.

”Sei davvero dove avresti voluto essere?”. Chiese quasi sussurrando. Helèn che ormai aveva il viso coperto di lacrime fece segno di ‘sì ‘ con la testa.

“Quale posto migliore delle tue braccia? “. Si sforzò di sorridere, quindi si sollevò quel tanto che bastava per colmare la distanza tra il suo viso e quello di lui e sempre racchiudendogli il viso tra le mani lo baciò teneramente. Un bacio sulle labbra, morbido e semplice, ma che produsse in Harlock una reazione immensa. No! non si sarebbe arreso, lei non sarebbe morta, non lo avrebbe permesso!

L’abbracciò stringendola forte. Ma in quello stesso istante il ghiaccio sotto di loro cedette, si squarciò, caddero in acqua insieme a giganteschi blocchi di ghiaccio.

Si crearono enormi mulinelli d’acqua, rotearono più volte a causa degli enormi spostamenti d’acqua causati dal peso delle lastre. Helèn si divincolava ma il mantello appesantito la tirava giù. L’acqua ghiacciata le rendeva difficoltoso il movimento degli arti e miriadi di bolle non le permettevano di vedere, capire, orizzontarsi, riusciva a malapena schivare i fendenti di ghiaccio che la sfioravano. Sentiva come milioni di spille pungerle la pelle. Si liberò del mantello e con un immenso sforzo, nuotò nel verso contrario alla caduta del ghiaccio. Il corpo sembrava non volerle obbedirle, ma alla fine riuscì a nuotare verso la luce.

Emerse e respirò, i polmoni bruciavano, il cuore batteva all’impazzata, disorientata guardò intorno da ogni parte. Guardò e guardò ancora,cercava un punto nero in quel mare bianco ma non lo trovò.

Harlock dove sei? “Harlooock” Gridò forte e disperatamente, ma ovunque guardasse non c’era. Era la giù nel lago, da qualche parte, prese quanta più aria poté nonostante il lancinante dolore che questo le provocò ai polmoni e andò giù infondo guardando intorno disperata, finché lo vide.

Aveva un piede destro bloccato tra due enormi blocchi di ghiaccio, si dibatteva ma inutilmente. Helèn lo raggiunse e presa la pistola iniziò a sparare sul ghiaccio per cercare di liberarlo stando attenta a non ferirlo. Poi ad un tratto vedendo alcune bolle d’aria che fuoriuscivano dalla sua bocca si rese conto che era senza ossigeno da troppo tempo. Lo raggiunse e bloccandogli il viso tra le mani avvicinò le loro bocche donandogli così tutto l’ossigeno che ancora aveva.

Tornò in superficie si riempì i polmoni per quanto possibile e tornò giù. Riprese a sparare ma il puntamento laser della pistola non era molto efficace in acqua. Poi nuovamente afferrandogli dolcemente il viso tra le mani gli offrì tutto l’ossigeno che aveva. Harlock che cercava in ogni modo di liberarsi restava immobile a guardarla in quei pochi istanti in cui lei gli donava un po’ della sua vita. Helèn continuò così tre, quattro, cinque volte. Poi, dopo aver donato ad Harlock l’ultima boccata di ossigeno che aveva, allungando una mano verso di lui, perse i sensi e lentamente cominciò ad affondare.

Harlock la vide andare giù fluttuando nell’acqua fino a sparire nel buio del lago. Preso da quella forza estrema che solo la disperazione profonda sa dare, facendo leva con la spada rischiando di procurarsi una profonda ferita al piede, finalmente si liberò. Helèn alla fine era riuscita a creare delle fenditure nel ghiaccio spesso che lo imprigionava. Iniziò a nuotare con vigore verso il fondo, anche il suo ossigeno iniziava a scarseggiare. La vide, portata via da una leggera corrente, i capelli ondeggiavano morbidamente intorno al  viso inanimato. Con le forze che gli restavano la tirò a sè e cercò di uscire da quell’inferno di acqua. Nuotava con un solo braccio, era allo stremo, ma sentire il corpo senza vita di Helèn attaccato al suo gli fece ritrovare una volontà che credeva perduta.

Riemerse dall’acqua respirando con voluttà l’aria fredda, i polmoni sembravano scoppiargli era come se respirasse schegge di metallo. Sentì in bocca il sapore del sangue. Raggiunse la riva ghiacciata, tirata fuori Helèn la guardò. Le labbra avevano perso il loro colorito, erano di un viola chiaro, la pelle bianchissima. In ginocchio accanto a lei iniziò a praticarle la rianimazione cardio polmonare. Le spingeva con entrambe le braccia lo sterno per poi interrompere brevemente e praticarle la respirazione bocca a bocca. Continuò e continuò ripensando allo sguardo di lei mentre poco prima gli donava ossigeno. ”Helèn, Helèn ” chiamava ansimante col fiato mozzato ma non accadde nulla.

 L’acqua scivolava via dalle ciocche scomposte dei suoi capelli e dal suo viso come la vita di Helèn scivolava via da lei. Il freddo intenso e gli indumenti che si andavano ghiacciando rendevano i movimenti difficili, continuò ancora mosso solo dalla disperazione, posò per l’ultima volta le labbra su quelle di lei. Erano ghiacciate, non vi era più vita in loro. Le macchiò senza volere con una stilla di sangue della sua bocca. Nulla. La tirò su per le spalle iniziando a scuoterla. “ Helèn, Helèèènn non puoi morireee Helènnn”. Gridò.

Ma era come una bambola tra le sue mani. Inerme, i capelli attaccati al viso, il capo reclinato. La posò delicatamente sul ghiaccio guardandosi i palmi aperti delle mani. ”Non ho mantenuto la promessa“ disse con un fil di voce, continuando a fissare le sue mani. Non avvertiva più nulla, né freddo, né dolore, né stanchezza era come anestetizzato.

Poi, un flebile colpo di tosse e un altro, guardò verso di lei. Cercava di respirare tra piccoli rigurgiti d’acqua. La prese tra le braccia, con una mano le reggeva la testa, Helèn aprì gli occhi, e gli regalò lo sguardo più bello che lui avesse mai visto.

La tirò a sè. In quel momento una navetta atterrò a pochi metri e alcuni uomini corsero verso di loro.

 

 

Note

Questo capitolo è dedicato alla mia B-Beta  ;-* grazieeee di esistereee!

Lo dedico anche ad Harlocked ed a Mamie entrambe sanno perché  ;-p

E’ mia intenzione dedicare un capitolo ad ognuna delle meravigliose donne che mi seguono. Alla prossima.

 

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Capitolo 7
*** RESPIRO NEL RESPIRO ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

 

7

 

Grazie a tutti coloro che si fermeranno a leggere.

 

 

RESPIRO NEL RESPIRO

 

 

Sia Helèn che Harlock ricevettero immediate cure mediche ma mentre il capitano poco dopo essere tornato sull’Arcadia riprese quasi miracolosamente le forze, Helèn aveva seri problemi con la pelle. L’essere stata a lungo nell’acqua ghiacciata, nonostante la speciale tuta che indossava, aveva indebolito la sua già fragile epidermide. Aveva i primi segni dell’ipotermia. Con l’aiuto di Meeme riuscì a cospargersi quasi completamente di una sostanza gelatinosa creata per lei, che in passato le era tornata utile ed a fasciarsi. Purtroppo però dolore e bruciore rimasero.

Durante tutto il tempo della medicazione Meeme non le chiese nulla, la sfiorava con delicatezza e con movimenti resi sapienti dall’esperienza.

Fu Helèn a rompere il silenzio chiedendole “Tu sai, non è vero Meeme? È stato Harlock a dirtelo?”

“No… io so, perché sento, sento che il tuo corpo è come quello di Harlock…  in vita da molte vite”.

“Come quello di Harlock?” chiese Helèn non capendo, ma Meeme non aggiunse altro. Continuò a fasciarla con delicatezza. Dopo un certo tempo le disse ad occhi bassi “Cerca di guarire in fretta il tempo della verità si avvicina”.

“Meeme!” sbottò la donna quasi irritata “ Ma cosa intendi dire?”

L’aliena avvicinandosi alla finestra e guardando fuori aggiunse “Devi essere forte Helèn, anche per Harlock. Navighiamo in questo immenso mare nero che è l’Universo, che è anche la culla della vita di noi tutti, l’           Universo è come il mare che era sulla Terra, non si ferma mai, le sue onde in moto perpetuo lo tengono in vita ed a volte come le onde del mare, il destino ci rende quello che un tempo ci ha tolto, ma chiede sempre qualcosa in cambio, io lo so bene”. Poi fissando Helèn proseguì “Devi essere forte molto forte o… non ci sarà un futuro per nessuno su questa nave”. Così dicendo uscì dalla stanza.

Helèn restò sola.

In tarda serata dopo aver sperato che Harlock si facesse vivo sentì il bisogno quasi fisico di vederlo. E per la prima volta senza invito si recò da lui. Bussò un po’ titubante alla porta che dava ai suoi alloggi. Sentì un ‘avanti’ lontano. Entrò.

Tutto era immerso come sempre nella semi oscurità, la sola luce veniva dalla tremula fiamma di alcune candele. Lui non era dietro la grande scrivania centrale e delle due stanze che si aprivano una a destra ed una a sinistra una sola era rischiarata da una luce lievemente più forte. Si diresse lentamente, con soggezione, da quella parte.

Lui era lì, seduto per terra, davanti ad un grande camino, teneva una gamba piegata ed un braccio sul ginocchio, guardava il fuoco. Non si voltò. Disse pacatamente “Dimmi Helèn”.

“Come hai fatto a sapere che ero io?” chiese lei.

“Sei l’unica che verrebbe da me a quest’ora e senza farsi annunciare” rispose sempre senza voltarsi. In realtà aveva percepito sin da subito il suo profumo, ma lo tenne per sé. Helèn si avvicinò alla sua sinistra restando in piedi, Harlock con un gesto della mano l’invitò a sedersi. Aveva il viso stanco, ma vi era come una nuova consapevolezza che aveva reso il suo sguardo ancor più malinconico. Non indossava i soliti abiti ma semplici pantaloni aderenti ed un maglione a collo alto, non portava i guanti.

Helèn gli si sedette accanto cingendosi le gambe con le braccia. Il mento sulle ginocchia. I lunghi capelli scivolarono giù morbidi dalle spalle come il sipario di un palcoscenico.

Si mise a guardare anche lei le piccole lingue di fuoco del grande camino. “A casa mia… sulla Terra” disse soffocata dalla tristezza, dando semplicemente fiato ai suoi pensieri “Avevamo un camino grande come questo… ci passavamo le serate, leggendo, giocando, mangiando” tacque.

“Non smettere” le disse Harlock guardandola.

Helèn con fatica riprese “Ci scaldavamo il pane o i dolci, il ponce, recitavamo versi di antichi poeti, giocavamo e ridevamo, o semplicemente ci scaldavamo dopo esser stati nel bosco a raccogliere legna”. Helèn posò il capo sulle ginocchia “E’ inutile ricordare, inutile. Ero venuta solo perché… per sapere come stai e ringraziarti, ti devo la vita. Siamo due a zero!” si sforzò di sorridere guardandolo.

“Io sto bene Helèn… sto bene”. Il suo sguardo era come assente. Poi allungò una mano verso di lei sfiorandole le dita semi fasciate delle mani per osservarle.

“Passerà presto non preoccuparti ” fece lei.

 “Mi hai detto che questo è ‘uno’ dei problemi che hai a causa della criogenesi. Quali sono gli altri?”.

Helèn emise un lungo sospiro poi lo guardò reticente “Essenzialmente altri due, ma… per ora te ne dirò uno solo. Io...io non posso più avere figli”. Abbassò lo sguardo, si tocco nervosamente il viso, la cosa la faceva soffrire. “La temperatura ed il tempo hanno letteralmente distrutto i miei ovuli. Basta, fine. Sarò per sempre un albero senza fiori ”. Si morse le labbra.

Harlock fu colpito non dalla verità ma dal suo commento amaro. Helèn si alzò. “Resta se vuoi”. Le disse dolcemente.

Restarono lì senza dire nulla, condividendo semplicemente il calore e osservando la danza del fuoco. Helèn guardava Harlock, il riverbero dolce della luce su quel suo volto gentile dai tratti antichi e delicati, lo rendeva bellissimo. Aveva mani grandi ed eleganti dalle dita lunghe ed affusolate un po’ più ampie alle giunture. Quelle mani le ricordarono un movimento. Ma tutto era lontano e nebuloso. Chissà quale era la sua storia, il suo vero passato, non quello della ‘leggenda’ che tutti narravano.

“Mi hai chiesto dei miei ricordi. Raccontami qualcosa dei tuoi, della tua infanzia o giovinezza.” 

Harlock scosse la testa mesto. “Vuoi sapere di quando mi sono arruolato? Della scuola militare? Dell’addestramento spietato? Degli amici morti? Di quando sono diventato un ufficiale o un ricercato? O magari di quanta gente ho dovuto uccidere? Questo è stata la mia vita. Questo solo”.

Helèn capì d’aver toccato un nervo scoperto, quelle sue parole taglienti le fecero male.

“Ma ho vissuto libero. Sempre! Ne ho fatto il mio vessillo. Anche se, perseguire un simile ideale ha i suoi costi”. Le ultime parole le aveva pronunciate con forza vibrante. Per un attimo una scintilla aveva rischiarato il suo occhio. Helèn era impressionata Harlock le aveva chiesto dei suoi ricordi famigliari perché lui non ne aveva di suoi? Doveva aver sofferto davvero tanto. Restò in silenzio. Mai come in quell’istante le sembrò tanto poco ‘Harlock’ ma solo un giovane uomo.

Osservandolo ricordò gli avvenimenti di quel giorno, spostò lo sguardo sulle sue labbra al momento un po’ imbronciate, le ricordava calde e morbide nonostante fossero immersi nell’acqua ghiacciata. Si sentiva tanto vicina a lui dopo tutto quello che avevano condiviso. Non si rese conto che quel suo sguardo in realtà era una dolce carezza. Capelli, profilo, labbra. Lui se ne avvide e carpendo i suoi pensieri le chiese “Perché mi hai baciato poco prima che cadessimo in acqua? ”

 “Era solo… si solo un bacio d’addio”. Rispose la giovane dottoressa schernendosi.

“Perché mi hai detto che eri dove avresti voluto essere?”

 “Perché è vero”. Rispose lei con innocenza “Quando sono vicino a te mi sento bene, in pace col mondo e con me stessa. Sento… si sento che posso deporre le armi e chiudere gli occhi. Non per amore se è questo che pensi” si affrettò a rispondere abbassando lo sguardo per pudore. "E’… è una sensazione profonda che non so spiegarmi, la sento sempre quando sono con te. Mi nasce da dentro, fa parte di me”. Poi si affrettò a specificare. “So che penserai che voglia farti la corte ma non è così. E’ semplicemente che, quando come me, hai perso tutto come me, ma hai comunque ricominciato a vivere impari che questa vita è troppo breve per tenersi dentro le cose”. Sorrise “E’ una sensazione di caldo benessere qui”. Disse facendo cenno al centro del cuore.

Harlock la fissava attonito, aveva appena espresso in parole quello che provava anche lui dal primo momento in cui i loro sguardi si erano incrociati. Ma disse sarcastico. “Deporre le armi e chiudere gli occhi ah…!” Un amaro sorriso si dipinse sul suo volto. Abbassò il capo lasciando che i capelli gli coprissero il viso. Helèn aveva imparato osservandolo, che quando faceva così era perché si sentiva più vulnerabile. Del resto, i capelli, il mantello, la semi oscurità, quella stanza, quella nave, cosa erano se non muri erti a protezione non della sua persona ma del suo animo?

Helèn gli si avvicinò mettendosi in ginocchio davanti e guardandolo dritto nell’occhio. “Pensi che a te non sia concesso? E perché’? ”

“Tu non sai nulla di me dottore!” le rispose piccato, prendendo subito le distanze. ”Non sai che io sono un criminale, un terrorista una minaccia per il genere umano?” disse caustico.

“Durante il mio addestramento hanno provato ad instillarmi l’odio verso di te. Ma io… non sono mai riuscita ad odiarti. Non c’è cattiveria nel tuo sguardo, né odio nel tuo cuore. Il tuo animo è puro”.

 “Tu non sai, non sai di cosa parli!” continuò lui scuotendo la testa.

“Perché allora hai condiviso con me la verità sulle bombe a vibrazione dimensionale?”

“Perché tu sai!” disse lui ferendola con lo sguardo.

”So? Cosa so? ” Helèn era realmente confusa. Non capiva.

“Tu conosci, a differenza di tutti, il reale aspetto della Terra”. Disse d’un fiato come se si liberasse. “Sai che è spacciata. E non puoi parlarne perché ti scopriresti”.

 “Se pensi che non ne parlerei solo per non scoprirmi, ti sbagli. L’avrei fatto e lo farò per lealtà. Anche se non so ancora bene perché mi hai salvato la vita portandomi su questa nave”.

Harlock incassò il colpo.

Helèn, al ricordo della Terra come era ora, abbassò il capo. Pensarci le faceva male, come quel giorno in cui dopo il risveglio le avevano svelato la verità. Il tempo non aveva alleviato nulla. Tutto era vivido e chiaro come allora. “Vuoi distruggere l’intero universo? E sia, fallo! Avrai i tuoi motivi io non ti giudico per questo”. Helèn si era improvvisamente infervorata. “Ma su una cosa voglio farti riflettere. Il genere umano benché non abbia più un posto in cui tornare e vaghi smarrita da oltre un secolo per l’Universo alla ricerca di un luogo da poter anche solo semplicemente chiamare casa, non si è mai arreso! Mai! Anche se la Terra ora, è solo… un’ illusione". Helèn si morse un labbro. Ma quel piccolo dolore non lenì quello più grande del suo cuore.

A quelle parole Harlock sgranò il suo occhio. Il dottore proseguì. “L’Universo intero è la nostra casa ora. La forza dell’umanità risiede nell’umanità stessa, non in un pianeta. Noi continuiamo a credere, ad amare, a lottare, a sognare ed a sperare. I bambini continuano a nascere”. Chiuse per un istante gli occhi quasi a respingere un’immagine dolorosa. “E… riempiono i nostri cuori di gioia e stupore. Continuiamo a incantarci per le meraviglie del cosmo o per un semplice sorriso. E… se anche ci estingueremo, avremo vissuto! La Terra, la nostra meravigliosa Terra non ha chance. Io lo so. Ma l’umanità sì, ed ha diritto ad una seconda possibilità!” Aveva pronunciato le ultime parole tenendo i pugni stretti fino quasi a farsi male. Gli occhi lucidi tradivano il suo sentire.

Harlock l’aveva guardata tutto il tempo immaginando la ridda di emozioni che si celavano dietro quelle parole. Nessuno si sarebbe mai permesso di parlargli così. Nessuno. Dopo tutto quello che aveva passato, lei riusciva ancora a pensarla così?  Quanta forza nascondeva dentro sé quella giovane donna.

Poi lei aggiunse. “Morire non serve a liberarsi, allora tanto vale… perdonare, vivere e amare”. Fece per alzarsi, il cuore le batteva forte. Harlock le prese una mano impedendoglielo.

Da quanto tempo non viveva,  perduto in un limbo di non vita? Da quanto vagava per l’Universo accecato dal suo rancore? Poi senza cercarla era arrivata questa donna così fragile e forte che aveva fatto nuovamente espandere i suoi polmoni, defluire il suo sangue e battere il suo cuore.

Helèn lo guardò. Lesse il peso di un enorme fardello e la lenta agonia di uno spirito combattuto. Gli carezzò una guancia. “Qualunque cosa tu abbia fatto, non tormentarti più”.

Si guardarono, Harlock sentiva il tepore di quella mano sul viso, ripensò a quando, gelida, l’aveva creduta morta e risentì il dilaniante vuoto che in quel momento l’aveva invaso.

“Chi sei tu? ” Sussurrò appena.

Erano così vicini, le loro bocche si chiamarono piano, incerte sfiorandosi. Rimasero per un lungo momento così, immobili, solo carezzandosi le labbra, godendo di quel contatto, respiro nel respiro, vita nella vita, dolore nel dolore. Poi le labbra si schiusero piano, per fondersi incerte, tremule. Fu un bacio solo abbozzato, delicato, pieno di paura, di cose mai dette e mai fatte e di sogni inespressi e di speranze infrante. Aveva il sapore del passato.

Si guardarono nuovamente, senza parlare. In quel momento erano soltanto due esseri soli, che avevano bisogno di un contatto fisico. Helèn, si girò rannicchiandosi di spalle tra le sue gambe. La testa posata sul suo braccio. Lui la strinse appena un po’ ed appoggiò le labbra sui suoi capelli dandole un bacio. Lasciò che una dolce sensazione di pace lo pervadesse. ‘Pace’. Fremette al pensiero. E dopo tanto ed estenuante lottare si concesse di chiudere per un attimo il suo occhio. “Non sarai mai un albero senza fiori. Non lo sarai mai”. Le sussurrò.

Poi non parlò più. Avrebbe dovuto dirle che, anche lui come lei, era nato e vissuto sulla terra. Che era LUI l’uomo che in un solo istante l’aveva dilaniata, distruggendola per sempre, rendendola quello che era e spiegarle gli eventi per i quali non poteva più morire. Ma non lo fece.

Temeva che l’avrebbe odiato. Che queste atroci verità, l’avrebbero potuta spaventare allontanandola e non lo voleva, ma forse non sapeva più quello che desiderava. La strinse a sé, quasi lei avesse potuto dissetare il suo animo arido lenendo anche se per un solo istante le piaghe accese del suo spirito.

L’aveva guardata a lungo dormire, cullata dal suo respiro regolare, accoccolata e tenera, aveva osservato ogni particolare di quel volto, ne aveva sfiorato delicatamente i contorni con i polpastrelli delle dita. Guance, mento, fronte, labbra. Ora ne era certo. Lo aveva già visto. Ma dove? Quando?    

Quando Helèn si svegliò lui non c’era più.    

 

                                         

 

NOTE

Sempre grazie alla mia B-Beta. L’oceano e l’amicizia hanno qualcosa in comune l’immensità. TVB.

Questo capitolo è dedicato a Lady Five.

Allego una bellissima deviantart alla quale mi sono ispirata per la mia coppia H&H spero vi piaccia.

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Capitolo 8
*** LOST ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

8

Attenzione, nel presente capitolo sono descritte immagini e sentimenti forti che potrebbero turbare l’altrui sensibilità.

 

LOST

 

La mattina dopo come suo solito Harlock scomparve, Helèn non lo vide per tutto il giorno. Fu dura per lei. Aveva dolori diffusi su tutta l’epidermide ed i metodi che usava di solito non sortirono effetto.

Yattaran sempre attento si rese conto che Helèn non stava molto bene. Ma lei non poté spiegare nel dettaglio l’origine del suo malessere.

“Ma io ho un rimedio!” fece lui, felice di poterla aiutare tornando poco dopo baldanzoso dalla sua stanza, con due pillolette anonime in mano.

“Non prendo medicinali” fece gentile Helèn. Le medicine avevano strani effetti su di lei.

“Ma le ho comprate su Centuriun, lo sanno tutti che lì ci sono i migliori medici” disse alzando l’indice destro.

Helèn decise di accettarle per farlo contento e perché non sapeva più che fare per il dolore. Guardò a lungo le pillole nel palmo della sua mano indecisa sul da farsi.

Le prese.

Era nell’infermeria quando cominciò a sentirsi malissimo. Tutto iniziò con dei disturbi della vista, inizialmente li archiviò come stanchezza, poi iniziò a girarle la testa ed uno stano torpore iniziò ad impossessarsi di lei. Era scossa da lievi tremori e sentì il bisogno di stendersi. Utilizzò il tavolo di metallo delle visite. La colsero delle ondate di gelo, si coprì con un grande lenzuolo che teneva sul tavolo e lentamente entrò in quello che a lei parve essere una specie di coma.

Avrebbe voluto chiedere aiuto ma l’interfono le parve irraggiungibile. Cosa gli stava accadendo? Sentì i battiti del cuore lentamente diminuire. Cercò con tutte le sue forze di restare sveglia ma non vi riuscì. Perse conoscenza. Precipitò lentamente, inesorabilmente in una sorta di oblio.       

Era buio e freddo, si guardò intorno, era in una specie di immenso labirinto, iniziò a correre cercando una via d’uscita, ma per quanto corresse era sempre troppo lontana. Poi scorse Harlock. Lui sparì. Ad ogni angolo vedeva il suo mantello, correva, correva, ma quando le sembrava d’averlo raggiunto lui era da un’altra parte. Lo chiamava ma non udiva il suono della sua voce. Lui non si voltò mai. Un senso di angoscia e solitudine la pervasero mentre l’inconfondibile rumore dei passi di lui lo portavano via da lei.

Quando riaprì gli occhi era confusa, indolenzita, potevano essere passate due ore come due giorni. Si guardò lentamente intorno era nell’infermeria, per terra, completamente coperta dal grande lenzuolo. Doveva essere caduta.

Si sollevò piano tenendosi al bordo del tavolo, lentamente la vista iniziò a farsi salda. Aveva la bocca  impastata. La testa le girava ancora. Un senso di nausea la coglieva ad ondate. Bevve con le mani dell’acqua dal piccolo lavandino di metallo alle sue spalle poi se le passò sul viso e dietro al collo. Ma cosa le era accaduto? Ricordò lentamente. Le due pillole, il malore che ne era seguito.

Alzò il capo per massaggiarsi il collo, così facendo notò qualcosa di assolutamente inspiegabile. Qualcosa che la lasciò sconcertata. Sbatté le palpebre più volte incredula.

La piccola fila di pensili di metallo lungo la parete sul piccolo lavello era crivellato di colpi. Come era possibile? Forse non era sveglia. Vi passò incerta sopra le dita, non poteva essere ma, erano senza dubbio colpi d’arma da fuoco. Era confusa, non capiva. Il cuore iniziò a batterle forte, cominciò a guardarsi intorno velocemente, anche sul muro e sugli altri pensili c’erano segni di arma da fuoco. Non riusciva a spiegarselo. Ma cosa era accaduto? Un attacco? E lei? Lei di certo cadendo dietro al tavolo completamente coperta dal lenzuolo non era stata vista. Ma chi? Chi era l’autore? Helèn era come stordita, impaurita. Doveva capire.

Prese le sue armi dalle fondine e si avviò guardinga alla porta. Non appena l'ebbe aperta un acre e pungente odore di fumo la colpì forte come uno schiaffo, paralizzandola. L’ansia esplose. Intorno a lei il silenzio era assordante. Poteva significare soltanto che, qualunque cosa fosse accaduta, ora, era terminata. Iniziò ad avanzare lentamente con circospezione controllando visivamente ogni punto, coprendosi le spalle come era stata addestrata a fare. Nessuno, nessun suono. Continuò la ricognizione vigile, attenta, diretta al ponte di comando. Nel corridoio tracce evidenti di lotta ed alcune armi, nessun corpo. Man mano che avanzava il fumo si faceva più denso, passandovi accanto guardò meccanicamente fuori da uno degli oblò. Si bloccò. L'Arcadia si muoveva lentamente, era come se… il sangue le si raggelò. L'Arcadia stava andando alla deriva.

Ma come era possibile? Arrivò in plancia non sapendo neppure lei cosa aspettarsi, aveva la gola secca, gli occhi le bruciavano a causa del fumo. Nessuno! La calma che vi regnava era assurdamente irreale. Il grande timone si muoveva lentamente, abbandonato a se stesso, ruotava piano a destra e poi a sinistra, producendo tetri scricchiolii del legno. L’Arcadia era lievemente inclinata su un lato ed il grande motore a Dark Matter era spento.

Helèn smarrita strinse d’impulso con una mano il timone per fermarlo, quasi che  l'antico legname avesse potuto rivelarle cosa fosse successo. Si guardò intorno. I monitor erano tutti spenti e da quelli infranti venivano fuori luminose scariche elettriche. Helèn si guardò intorno disorientata. Ansimava, il cuore pareva impazzito. Sulle pareti erano visibili sventagliate di proiettili. Ma dove erano tutti? Guardò implorante il trono, vi si avvicinò piano, misurando i passi. Nel centro all'altezza del capo di Harlock vi era conficcato un pugnale, come per un tiro al bersaglio. Lo tolse con rabbia scaraventandolo in terra. La paura fredda spettatrice sorridendo sadica le carezzò il viso, Helèn rabbrividì. Harlock dove sei?

Iniziò a correre senza neppure rendersene conto, i sensi allertati, verso gli alloggi della ciurma. Spalancò tutte le porte, una dopo l’altra, rapidamente. Nessuno. Era come se fossero stati appena lasciati dai loro occupanti. Poi si recò nella grande mensa e negli ambienti comuni dove aveva sempre trovato qualcuno. Al posto del solito allegro vociare l’accolse una piatta quiete. Non c’era nessuno. Tutto era stato messo sottosopra. Iniziò a chiamare “Kei, Yattaran, ragazzi mi sentite? dove siete?”. Corse nel piccolo teatro dove a volte si tenevano le riunioni, vuoto. La calma era spettrale.

Si recò allora al piano inferiore dove erano le stanze di detenzione ed i magazzini. La temperatura era elevata e poi arrivò il fuoco. Giù in fondo c’era una falla, gridò tra l’aria tremula, attese qualche secondo, gridò ancora ma le fiamme inghiottirono la sua voce. Nessuna risposta. Azionò gli idranti come le era stato insegnato e chiuse alcune paratie. Si accasciò alla parete chiusa, sconfortata ed incredula. Dove erano tutti? Annaspò, si guardò intorno sperduta, era di nuovo sola come quando era stata chiusa nella cella criogenica. Strinse le mani alle spalle per darsi coraggio. Era sola. Gli occhi le si velarono di lacrime. Si fece forza scacciando quella sensazione dal retrogusto di morte. Corse quindi al boccaporto dove erano alloggiate le navette. La sua ultima speranza. Attese con ansia che il portellone si aprisse.

Non c’erano più! Si portò istintivamente una mano alla gola. Il panico alleato della paura gliela strinse forte, si guardò a destra e poi a sinistra, il cuore ormai le batteva all’impazzata, non potevano esser andati tutti via… senza di lei, e perché? Si concentrò sul suo respiro per tornare lentamente padrona di sé. Harlock non avrebbe mai abbandonato l’Arcadia al suo destino mai! Decise quindi di andare nel cassero di poppa dove erano i suoi alloggi.

Corse, corse veloce. Spalancò la porta di colpo, il fiato corto, per un istante lo vide dietro la scrivania. Un’illusione. Tutto era sottosopra. Qualcuno aveva frugato senza ritegno tra le sue cose. Di lui non c’era traccia. ‘Harlock dove sei?’

Nella sua camera, sul letto, uno dei suoi maglioni neri. Lo prese e se lo portò al viso. Aspirò profondamente quell’ indumento che sapeva di lui come ogni cosa là dentro. Gli occhi le si riempirono di lacrime ma le ricacciò indietro. Inspirò forte. La disperazione l’attanagliò. Strinse forte i pugni. Non aveva alcun senso abbandonare così l’Arcadia, lasciandola al suo destino, alla deriva nell’Universo come una nave fantasma. Qualcuno era salito a bordo costringendoli a farlo, ma chi? CHI?

Doveva calmarsi, ragionare a mente fredda. Tornò indietro stavolta lentamente, sconfitta. Mentre camminava piano, un passo dietro l’altro, le braccia abbandonate lungo i fianchi, la pistola ciondoloni nella mano, mille ipotesi le si affacciarono alla mente. Ma nessuna plausibile. Guardò fuori da uno degli oblò, fuori lo spettacolo di stelle era immutato. “Dove siete?” sussurrò. Vide nel riflesso una lacrima scenderle lungo una guancia. Doveva tornare in plancia ed azionare il dispositivo di allarme generalizzato che avrebbe richiamato la nave più vicina ma questo avrebbe voluto dire consegnare l’Arcadia alla Gaia Sanction. Non poteva farlo. Continuò a camminare accompagnata solo dall’eco dei suoi passi.

Si ritrovò davanti alla stanza degli allenamenti, vi era già passata senza entrarvi. Ma stavolta qualcosa attirò la sua attenzione. Dal disotto della porta fuoriusciva un rigagnolo oscuro. Capì subito cosa era, ne aveva riconosciuto la densità, ma si piegò a toccarlo, l’annusò sulle dita. SANGUE! Un brivido le percosse rapido la schiena, rabbrividì. Un segno di vita ma anche un cattivo presagio.

Le tempie pulsavano veloci, la paura l’abbrancò come una fiera tenendola stretta. Inspirò ed impugnò l’arma con entrambe le mani, circospetta, con fare guardingo lasciando la porta a protezione delle spalle, la spalancò.

Nulla. Si voltò, e con lo sguardo seguì lentamente quel rivoletto di sangue sul pavimento per capirne l’origine. I battiti del suo cuore scandivano il tempo. Camminava piano, quasi a rallentare l’inevitabile. Ma ciò che vide la terrorizzò. Si bloccò.

Vi era una enorme pozza di sangue formata da gocce che cadevano irregolari dall’alto. La sua mente si rifiutava di accettare razionalmente quell’immagine ‘il sangue non cade dall’alto’. Alzò lentamente lo sguardo e… vide!

Vide quello che mai avrebbe voluto vedere. Mai. Un urlo atroce le strappò la gola morendo ancor prima di nascere. Vacillò, l’arma le cadde dalle mani prive di forza, le gambe non la sostennero. Cadde in ginocchio, avrebbe voluto distogliere lo sguardo ma non poteva, non ci riusciva. Ciò che i suoi occhi le riportavano non era vero non poteva esserlo. Era pietrificata. NO, non poteva essere. Non poteva essere.

 Scuoteva la testa, il cuore letteralmente impazzito. Si portò le mani alla bocca tenendovele premute forte per soffocare un lamento atroce e profondo di dolore. Dolore senza fine che stava traboccando dal suo essere e che fece vibrare ogni singola corda del suo sentire. Gli occhi le si riempirono di lacrime, quasi a nasconderle ciò che non volevano accettare. Tremando tese una mano.

Harlock era li. Inerme, in catene.

Lo avevano incatenato in alto per la vita, per le spalle, collo, polsi, gambe, dorso. La testa inclinata priva di vita, i capelli gli coprivano interamente il volto, se ne percepiva appena il profilo. E sangue, sangue ovunque. Helèn scuoteva il capo. NO, non poteva crederci, lo avevano usato come bersaglio umano dopo averlo incatenato e lasciato lì agonizzante. Ma chi? Chi aveva potuto tanto? Lente ed inesorabili stille di sangue lasciavano il suo corpo, la sua vita, finendo in terra.

Rabbia e disperazione si impossessarono di lei e preso il graviti saber di Harlock, che giaceva in terra, con ceco furore tagliò una dopo l’altra quelle catene.

“Noo. La libertà in catene noo”. Gridò con tutta se stessa. Gli occhi le ardevano dalle lacrime. Il corpo inerme di lui le cadde addosso. Entrambi finirono sul pavimento. Helèn percepì l’odore dolciastro del sangue di Harlock su di lei.

Lo girò piano, trepidante, dilaniata dall’ansia nel cercare di capire ciò che aveva orrore di scoprire. Era ancora vivo? Le mani le tremavano, come mai nella sua vita, il cuore fremeva impazzito per lo strazio, gli occhi carichi di lacrime le appannavano la vista, la sua anima urlava parole che non capiva. Con movimenti maldestri aprì il corpetto e poi il giubbino in pelle. Sotto vi era solo sangue. Provò a sentire un battito, sporcandosi il volto di sangue. Nulla. Nulla. Non era lucida.

Lo tirò a sé abbracciandolo e gridando folle di dolore. “Noo”.

Lo immaginò sprezzante e fiero mentre tolto il mantello lo legavano. Conservando sino alla fine la grande dignità di uomo e leader carismatico quale era. Strinse al petto disperata quel corpo inanimato. Piangendo il suo dolore infinito.

Poi, un impercettibile lamento.

Era vivo, vivo!  “Harlock che ti hanno fatto? Che ti hanno fatto?” chiese quasi supplicando. Doveva salvarlo ma non riusciva a formulare pensieri compiuti, solo una frase continuava a ripetere all’infinito guardandolo, piena di rabbia e frustrazione ‘lo hanno usato come bersaglio. Come bersaglio…’ come avevano potuto e perché? Solo questo era riuscita a capire dal numero incredibile di ferite. Volevano infliggergli una morte lenta ed atroce.

Corse a prendere una barella su cuscinetti d’aria che usavano per il trasporto di feriti, non fu facile mettercelo su. “Resisti, resisti non arrenderti, non arrenderti” continuava a ripetere meccanicamente a lui o forse a se stessa. “Sei forte lo so!” Lo liberò dalle catene scaraventandole via con rabbia, lontano. Helèn respirava male, l’emozione le impediva di coordinare i movimenti come avrebbe voluto. Preparò una mascherina d’ossigeno da mettergli. Per farlo dovette scostare i capelli dal viso. Distolse per un istante lo sguardo, non riusciva a vederlo così. Il volto eburneo esanime, il capo abbandonato di lato, la fronte sempre corrugata, inanimata, le labbra lievemente dischiuse, l’occhio sempre vigile e pronto dietro una palpebra chiusa. Una ferita di striscio tra i capelli aveva creato una traccia di sangue rappreso che andava dalla fronte al naso a parte del viso. Helèn la pulì con dita esitanti. “Ti supplico non arrenderti amore mio” sussurrò senza rendersene conto.

Si riebbe, stava solo perdendo tempo prezioso. Raggiunse la sala operatoria annessa all’infermeria. Ma ciò di cui si rese conto distrusse tutte le sue speranze. Rimase impietrita davanti all’ingresso.

La sala operatoria era semidistrutta, strumenti, congegni, apparati, presidi diagnostici e biomedici, persino le scorte di plasma. Tutto era stato barbaramente distrutto. Helèn annaspò, si guardò intorno e poi ancora ed ancora. Tutto iniziò a girare, non ce la faceva a sopportare tutto questo. No, era troppo! Stava quasi per perdere i sensi quando risentì la voce di Meeme ‘Dovrai essere forte Helèn, o non ci sarà un futuro per nessuno di noi’. Volse lo sguardo ad Harlock su quella barella, gli strinse una mano come avrebbe fatto lui se fosse stato accanto a lei per infonderle coraggio. Strinse i pugni. ‘Forza Helèn tu sai operare anche senza tutta questa strumentazione lo hai imparato sulla Terra, tanto tempo fa, devi solo ricordare.’ Ma ricordare faceva male, tanto male. Doveva riportare in vita ricordi che aveva sepolto perché troppo dolorosi. ‘Fallo per lui, per Harlock.’ Si ripeteva. Sistemò velocemente ogni cosa meglio che poté.

Non restava molto tempo. Si lavò le mani nel piccolo lavandino di metallo che in un istante si riempì di liquido rosso. Sangue. Il sangue di Harlock. Le lacrime scendevano da sole e non riusciva a fermarle perché ogni fibra del suo spirito tremava livida. Strinse forte il bordo del piccolo lavabo fino a che le nocche non le divennero bianche, l’angoscia per quello che si apprestava a fare le mozzava il fiato.

Alzò il capo al cielo pregando. ‘Non pensare che sia lui. Non pensare che sia lui o non ce la farai’ si ripeteva. Respirò a fondo e respirò ancora. Prese tutto quello che era rimasto intatto, doveva pensare freddamente o non sarebbe stata in grado di agire per il meglio. Con un bisturi iniziò a tagliare gli abiti di Harlock, con un rispetto ed una reverenza quasi sacrale. Iniziò le operazioni di sedazione e preparò una flebo con l’anestetico ed un antibiotico. Guardò quelle braccia forti e muscolose seguendone la linea delle vene, quante volte l’avevano tratta in salvo, adesso giacevano inermi.

Si guardò le mani, ora sarebbero state loro a salvare lui. Collegò Harlock ad un piccolo monitor portatile, l’unico rimasto intatto. Doveva controllarne l’attività cardiaca e tenere sotto controlo i parametri vitali, predispose tutto il materiale necessario all’intera seduta operatoria, ed infine collegò l’ossigeno.

Mano a mano che procedeva si rendeva sempre più conto che le ferite causate da armi erano molteplici, alcune di striscio altre più profonde. Provò ad immaginare cosa avesse potuto provare lui. Lo vide maestoso e regale, lo sguardo fisso davanti a sé mentre lo incatenavano, il suo Harlock. Lo immaginò stringere i denti immobile e stoico nell’accettazione del dolore poi…

E lei dov’era? Dov’era? Scosse con vigore la testa come per scacciare un insetto ma quella che cercava di mandare via era l’immagine atroce di uomini senza volto che lo usavano come bersaglio umano ridendo.

Lo guardò solo un istante prima di collegarlo al respiratore, carezzandogli i capelli. In quello sguardo c’era tutto il suo amore. Indossò camice e guanti sterili. Chiuse gli occhi. Tornò agli studi di medicina che aveva fatto da ragazza tanto, tanto tempo prima sulla Terra, perché nulla di ciò che aveva appreso dopo, ora poteva tornarle utile. Con i presidi distrutti doveva accertare l’entità delle ferite una alla volta partendo dagli organi vitali, pregò che nessun colpo avesse leso irrimediabilmente gli organi interni. Non pensò più ad Harlock uomo, ma al suo corpo che soffriva e lottava, da salvare. Avrebbe fatto tutto quello che era in suo potere.

Il suo sguardo correva costantemente al piccolo monitor che disegnava le onde del suo cuore, deboli, ma costanti. ‘Tu sei forte’ pensava. ‘Qualunque cosa sia accaduta la supereremo.’ Ma mentre lo pensava, sapeva di mentire. Si mentiva.

Cosa avrebbe dato per avere la possibilità di guardare ancora una volta quell’iride scura che si muoveva rapida indagandoti dentro. Quello sguardo profondo, vivido ed a volte pervaso da una struggente tenerezza.

Tamponò, suturò, come un tempo con ago e filo, clampò*i vasi lesionati per arrestare le emorragie. Fremeva ogni volta in cui era costretta ad aspirare del sangue. La fronte madida di sudore che le finiva negli occhi, bruciandoli, ma non se ne curava, a volte lo sguardo andava al viso di Harlock, coperto con la mascherina che ritmicamente si appannava debolmente, ma subito li distoglieva, non doveva pensare. Passarono ore, molte ore, sembrava non dover finire mai, fu scrupolosa e precisa. Le braccia le dolevano, veloci le dita si muovevano ripetendo gesti antichi a cui non era più abituata. Era stanca fisicamente ed emotivamente ma non poteva fermarsi.

Terminò. Escluse versamenti interni. Il corpetto in metallo di Harlock lo aveva protetto o molto più semplicemente volutamente ferite poco profonde dovevano portare ad una morte lenta e dolorosa. Rabbrividì pensandolo.

Ora le occorreva sangue. Ricordò il giorno in cui lui le aveva impedito di verificarne il gruppo sanguigno, ebbe un gesto di stizza. Aveva una sola possibilità e quella possibilità era lei. Era donatrice universale ed era l’unica cosa da fare. Iniziò a prelevarselo, era una pratica a cui era abituata, spesso era costretta a sottoporsi ad analisi, solo che questa volta il sangue da prelevare sarebbe stato molto di più, ma non le importava. Non poté quanto avrebbe voluto, temeva di indebolirsi troppo. Non c’era tempo, riempì una parte della sacchetta che conteneva l’eparina un anti coagulante e la posizionò in alto. Osservò il tubicino  trasparente diventare rosso ed il suo sangue correre da lui e in lui. Come lei nel labirinto del suo incubo. Si augurò che tutto andasse bene. Non era quello il protocollo ma non aveva alternative.

Iniziò ad eliminare con garze sterili il sangue rappreso di cui il corpo di Harlock era pervaso. Per quando facesse, complice la stanchezza e la paura le sembrò di non finire mai. Continuava ad eliminare sangue rappreso, le parve che ogni cosa fosse intrisa del sangue di lui, il suo corpo, la stanza, le sue mani, lei stessa. La tensione emotiva esplose con tutto il suo fragore devastante e finalmente diede sfogo alle sue lacrime. Si accasciò su di una sedia e pianse, pianse finalmente tutte le sue lacrime, tremando e  dondolandosi lentamente avanti ed indietro accompagnando così il suo lento lamento. Cullando così quel nuovo sentimento che le era di colpo esploso dentro. Ora che era forse troppo tardi. Le braccia strette in vita, ripiegata su se stessa, non poteva fare più nulla. Gridava tutto il suo strazio e la sua frustrazione.

Lo aveva creduto invincibile, invulnerabile, ed ora stava su di un letto a lottare tra la vita e la morte e lei era nuovamente sola, sapendo che tutto era appeso ad un sottile filo. Il flebile filo della speranza.

Immagini del suo volto, delle sue espressioni le passavano davanti rapide. Avrebbe scoperto chi era stato, fosse l’ultima cosa che avrebbe fatto, l’avrebbe vendicato!

Piano si calmò. Controllò gli strumenti, Harlock era stabile ma la febbre stava salendo veloce. La sua battaglia per la vita era appena iniziata. Lo coprì con una coperta termica. E teneramente si chinò a baciagli una guancia. ‘Amore mio immenso e puro’. Sussurrò.

Se voleva trasfondergli altro sangue doveva mangiare. Erano molte ore che non assumeva liquidi. Decise di recarsi in mensa. Portò con se un trasmettitore che l’avrebbe avvisata di ogni cambiamento di Harlock.

L’Arcadia vagava ormai senza rotta, senza meta per l’Universo. Relitto con i suoi spettri ed i suoi segreti.

Ma senza Harlock non sarebbe mai riuscita a farla ripartire e tutto sarebbe stato perduto.

 

 

Note

* Tamponare, suturare, clampare sono termini chirurgici. In sintesi, per sutura chirurgica si intende la procedura chirurgica che permette di avvicinare stabilmente i lembi di una ferita favorendone la cicatrizzazione. Col termine clampare s'intende l'uso di forbici chirurgiche per bloccare una perdita ingente di sangue da un vaso.

Questo è un capitolo che ho scritto con difficoltà, versando sangue e lacrime perché, il ‘mio’ Harlock non l’ho mai lasciato solo nel dolore ed ho sofferto insieme a lui.

Capitolo dedicato alla mia B-Beta. ‘Vivi un giorno alla volta e fanne un capolavoro’. Grazie.

Grazie ancora ai tantissimi lettori silenti di cui non conosco i nomi, vedo solo numeretti… palesateviii ;-p

E grazie a Mizu turba-sonni che mi ha inviato questa bellissima Fan art di Harlock che mi ha subito ricordato la tempesta di neve del mio capitolo Artic. Perché turba-sonni? Me le invia poco prima d’andare a letto la sera… e chi dorme più ;-p Grazie cara.

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Capitolo 9
*** TOCHIRO ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

 

9

 

TOCHIRO

 

Dopo la trasfusione ematica ad Harlock, Helèn si era recata nelle cucine. Tutto era desolatamente sottosopra anche lì ed in parte saccheggiato. Malinconicamente rivide tutta la ciurma seduta a mangiare a ridere e scherzare. “Ragazzi dove siete tutti? Dove?”.

Bevve avidamente del latte, aveva lo stomaco sottosopra ma doveva mangiare o si sarebbe indebolita. Prese alcuni biscotti e della frutta. Una mela, se la passò sulle labbra annusandone il profumo. Chiuse gli occhi. ‘Casa’.

Tornando indietro si ritrovò inconsapevolmente a passare davanti alla porta d’accesso al grande computer centrale.

Avevano cercato di farla esplodere non riuscendoci.  Appariva deformata e non più utilizzabile, ma lei conosceva un altro accesso. Glielo aveva mostrato Tori quel giorno in cui lo aveva seguito.

Entrò.

Tutto era immerso nell’oscurità. L’unica fonte di luce veniva da alcune lampade d’emergenza poste in basso un po’ su tutta la nave. Le piccole luci di solito accese sulla struttura del computer erano spente. Tutto sembrava annegare nel silenzio. Solo i suoi passi riecheggiavano tetri sul metallo del pavimento.

Andò a mettersi dove aveva visto tante volte Harlock. Aveva bisogno di pregare, di credere, di parlare anche solo per sentire la sua stessa voce.

Guardò lentamente in alto la struttura del grande computer. Si avvicinò posando i palmi delle mani sul freddo metallo.

“Harlock” disse con voce stentata e rotta dall’emozione. “Sta morendo! io… lo so”.

Un nodo le serrava la gola. “Le sue condizioni sono disperate! Ho fatto tutto quello che era nelle mie possibilità. Ma, la situazione clinica è compromessa”.

Non riusciva più a pronunciare quelle parole che le salivano incontenibili dal cuore e che sentiva il bisogno disperato di condividere con qualcuno. “Sta… sta morendo”. Lacrime liberatorie si affacciarono ai suoi stanchi occhi. “Quanto vorrei non essere un medico, per non sapere, per potermi dare speranza. Ma speranza non c’è”.

Si portò le mani al volto, scivolando lentamente sul pavimento.

"Harlock veniva sempre qui ogni volta che era combattuto o si sentiva solo. Aiutami! Aiutami ti prego! La nave va alla deriva, non ci sono navette, i contatti radio sono in avaria, credo ci siano problemi ai generatori supplementari di gravità e se faccio partire l’allarme generalizzato* arriverà una nave della Gaia Fleet”.

“Che posso fare? Che posso fare?”. Le sue parole ora, erano solo un lento lamento.

“Io lo amo e… e lui sta morendo. Sta morendo" gridò disperata.

Sentì riecheggiare ‘Lo amo’. Prendendo così quasi consapevolezza di quelle parole che aveva pronunciato.

Poi di scatto sollevò la testa.

Le era sembrato di sentire il suo nome.

Helèn”. Era come un sospiro sottile e sofferto.

Si voltò rapida, a destra e poi a sinistra, alzandosi di scatto. La mano corse alla fondina, prese la pistola. “Chi è? chi c’è?” urlò. L’eco della sua voce si perse lentamente nel grande ambiente.

 Sono io”. Helèn si guardò intorno voltando il viso e puntò l’arma di scatto da ogni parte nell’oscurità che la circondava. Silenzio.

Una luce rossa alle sue spalle attirò la sua attenzione. Si voltò. Sul computer ora erano accesi due grandi cerchi rossi concentrici. Helèn fissando quelle luci pulsanti comprese abbassando lentamente l’arma. Ciò che percepiva non era realmente udibile. Quello che sentiva era frutto di telepatia. “Chi… chi sei tu?” chiese confusa con voce sostenuta indietreggiando di alcuni passi.

‘Questa storia mi sta facendo diventare pazza’, pensò scuotendo il capo. Sto parlando con un computer. Si voltò per andarsene.

“Il mio nome è Tochiro”. Helèn si bloccò. Immobile come una statua ascoltava. Lei conosceva quel nome.

“Per salvare la vita di Harlock devi far ripartire il motore a Dark Matter”.

Helèn ripensò a quando aveva visto Harlock, sembrava pregare, in realtà le parole che aveva udito erano risposte. Ciò che lei percepiva era frutto di una forma di comunicazione esclusivamente mentale.

 “Tochiro?” chiese interrogativa. “Chi sei?”

“Sono colui che ha progettato e costruito l’Arcadia”.

La donna allora ricordò ciò che le era stato detto in diverse occasioni dai membri della Gaia Sanction. Tochiro Oyama era colui il quale veniva definito il miglior amico di Harlock. Era con lui che Harlock parlava? Era lui il segreto dell’Arcadia di cui tutti raccontavano? Ma se era morto come era possibile? Decise che queste domande avrebbero potuto aspettare, in quel momento aveva un’unica priorità. Chiese: “Pos… posso salvare Harlock? Co.. come?”

“Devi far ripartire il motore a Dark Matter”.

“Ma mi hanno detto che… che solo Meeme può attivare il motore”.

Harlock ne ha ordinato lo spegnimento affinché non finisse in mani sbagliate. Ma esiste un altro modo” le rispose con calma innaturale.

Helèn notò che quella voce pareva sofferente. Quasi stesse vivendo il suo stesso dolore. Avrebbe scoperto in seguito che l’Arcadia, Harlock e Tochiro erano indissolubilmente legati e non solo dal destino.

“Farò qualunque cosa se questo servirà a salvare Harlock anche se non capisco come le due cose siano connesse”.

Devi prendere i due bracciali di metallo che Harlock porta sempre con sé. vengono da Yura, Sono un regalo di Meeme. sono due chiavi, Portali in plancia. Và”.

‘Due chiavi’. Ripeté mentalmente Helèn. Corse veloce in sala operatoria, una speranza assurdamente inaspettata si era accesa nel suo cuore. Prese i due bracciali. Ricordava di averli messi accanto ai vestiti di Harlock.

Passandogli accanto lo guardò un istante per prendere coraggio. Poi corse in plancia.

Si fermò davanti al grande motore osservandolo in tutta la sua cupa maestosità. Spento le sembrò molto simile ad un grande organo a canne. L’organo della grande cattedrale Arcadia. Ne aveva visto uno in un’antichissima basilica sulla terra da bambina. La voce di Tochiro nella sua testa parlò.

Sali fino in cima Helèn”.

Indossati i bracciali, cominciò la scalata a mani nude. Cercò degli appigli ma non fu facile, la struttura non ne aveva molti ed aveva le braccia stanche per il lungo intervento ad Harlock. Il metallo era freddo e liscio, a metà percorso guardò in basso, la testa le girò. Chiuse gli occhi di scatto. Respirò piano e per aiutarsi, cominciò a ricordare gli alberi della terra. Quelli maestosi che crescevano accanto a casa sua, dove tante volte si era arrampicata. Ricordò l’intenso odore del muschio, il rumore del legno, il vento freddo tra le fronde e tra i capelli, lo sguardo lontano e… perse la presa di una mano.

Dal braccio rimasto ciondoloni uno dei bracciali scivolò via. Lo prese al volo con la mano restando appesa per sole due dita dell’altra.

Annaspò, se fosse caduta da quell’altezza sarebbero morti in due. Si portò lentamente il bracciale tra le labbra e con un piccolo slancio riprese la salita. Le braccia le dolevano ma non si sarebbe arresa. Arrivò in cima, si sedette a cavalcioni sulla struttura. Riprese fiato.

Cerca un alloggiamento sotto uno sportellino di metallo scuro. E’ un metallo diverso da tutto ciò che conosci. Inserisci  i due bracciali e ruotali uno in senso orario ed uno in senso antiorario’.

Helèn trovò un alloggiamento che pareva costruito appositamente per contenere i due bracciali. Li guardò un istante, facendovi scorrere sopra le dita. Quelle in rilievo sulla superficie di metallo dorato erano parole.  Parole-chiave, codici d’accesso. Ecco perché Harlock non se ne separava mai. Erano un modo per riavviare il motore senza l’ausilio di Meeme.

Li inserì. Le scanalature combaciarono perfettamente con gli alloggiamenti, li ruotò come le era stato detto. Respirò profondamente ed attese.

Lentamente la struttura del grande motore gemendo iniziò a muoversi piano. Cavi e tiranti iniziarono a far girare delle grandi ruote poste lateralmente. Subito dopo questo provocò il movimento di un grande anello centrale. Ma ciò che attirò l’attenzione di Helèn fu il generarsi, sotto di lei  al centro della struttura, di una luce verdognola che presto si compattò sotto forma di sfera, al centro della quale si muoveva una strana energia. La luce non era molto intensa, non come l’aveva vista tra le mani di Meeme.

Si affretto a scendere. Giunta a terra posò le mani sulle ginocchia, era esausta.

“Non ora” Le disse la voce. “I danni ingenti ai sistemi di supporto vitale e di controllo ambientale, la scarsa potenza del motore non ci consentono di tenere attiva tutta la nave. dobbiamo convogliare energia solo in due o tre ambienti. Il resto va posto in stand-by per utilizzare al meglio le risorse e l’ossigeno che è a bordo”.

Helèn timidamente chiese “Ma il sistema di autoriparazione?”

“Ha danni ingenti è in avaria”

Il medico allora rispose subito “L’infermeria, la cucina e gli appartamenti di Harlock”. Helèn percepì nettamente un sorriso.

Ha ragione il mio amico Harlock. sei una donna speciale”.

Helèn si sentì grata di non essere più sola. “Grazie Tochiro per esserti palesato a me”. ‘Amico’ rifletté. Comprese quanto questo probabilmente fosse costato all’ingegnere e che lo avesse fatto solo perché era realmente l’unica chance per salvare il suo caro amico Harlock. Una nuova speranza ora palpitava nel suo cuore.

Mentre camminava ripensava alle parole di Tochiro ai danni che le aveva elencato. Gli autori di quell’assalto sapevano quel che facevano, volevano sbarazzarsi per sempre dell’Arcadia e del suo capitano mandandoli a morire insieme.  

Intanto era arrivata in sala operatoria, ebbe molto da fare. Trasferire Harlock. Preparare tutto il necessario occorrente per effettuare gli spostamenti in ambienti privi di ossigeno e luce. Tochiro si occupò di isolare il resto.

Contemporaneamente il motore a Dark Matter richiamava a sé dai recessi più reconditi dell’Universo la materia oscura. Come un dio della notte che richiami a se l’esercito da ogni dove. Helèn sistemò Harlock con gli strumenti e tutto l’occorrente nei suoi appartamenti accanto al camino e si preparò ad aspettare. Si prelevò dell’altro sangue ed effettuò un’altra trasfusione. Il viso di Harlock le parve sereno.

“Dove sei?” gli chiese dolcemente carezzandogli il viso. Controllati gli strumenti con della garza sterile imbevuta cominciò a pulirgli bene il viso ed i capelli. Accanto alla benda dell’occhio c’era del sangue rappreso, doveva toglierla per pulire al disotto. Sapeva già cosa vi avrebbe trovato ma le mani le tremarono mentre la rimuoveva con delicatezza.

Per Harlock quella benda era tanto, molto più che una semplice protezione per l’occhio. La benda che lui nascondeva con i capelli era la parte di una fragile maschera, uno scudo, la difesa di qualcosa che andava ben oltre il suo sguardo offeso. Era il rifugio della parte più profonda e recondita di Harlock. L’Harlock uomo. Togliendola Helèn mentalmente gli chiese perdono, era come violare un segreto, la sua parte più intima, senza il suo permesso. Era come aprire uno scrigno entro cui nessuno aveva mai guardato.

Come aveva immaginato sotto vi era solo una palpebra che non compiendo più movimenti era ormai atrofica**. Pulì tutto con sacro rispetto e amorevole cura. La vera cieca era lei che non si era accorta dei segnali di quel fuoco immenso che ora le ardeva in cuore e per associazione ripensò a loro due davanti a quel camino. Cosa non avrebbe dato per tornare indietro. Gli passò una mano amorevole tra i capelli, a differenza di quanto potesse sembrare guardandoli erano morbidi e sottili.

Era strano pensò, continuando a carezzarne il volto con lo sguardo. Provava un sentimento tanto profondo per un uomo che infondo non conosceva veramente. Erano da poco insieme ed anche se avevano condiviso dei momenti molto difficili non riusciva a spiegarselo. In passato aveva creduto d’amare ma nulla era paragonabile a questo sentimento che sentiva vivo e palpitante dentro di lei. Ma era tutto molto confuso e lei non riusciva a chiarirlo neppure a se stessa. Era talmente radicato in lei che sembrava esserci da sempre. Come un seme che giace latente nella terra per anni che poi per merito di una sola goccia d’acqua finalmente germina e germoglia. E questa sensazione l’aveva accompagnata sin dal primo loro incontro. Quando contrariamente ad ogni logica l’aveva seguito su quella nave. Quasi che una forza più grande di lei l’avesse voluto.

Mangiò qualcosa. Doveva. Passò la notte a vegliarlo teneramente, rinfrescandolo, bagnandogli le labbra e pregando. Gli strinse una mano tra le sue, erano bellissime, lunghe e calde, aprì il palmo carezzandoglielo, sorrise debolmente, loro due avevano gli stessi calletti da arma da fuoco. Una lacrima scese giù da sola. Baciò quel palmo e se lo portò al viso. Non riusciva a vederlo così. “Perdonami. Non ero lì con te. Perdonami se puoi”. Senza rendersene conto sfinita si addormentò. 

Trascorsero alcune ore quando, una luce intensa la svegliò. Tutto intorno ad Harlock aleggiava una luce blu-violacea a tratti iridescente, si muoveva lentamente come dotata di vita propria.*** Helèn si allontanò di scatto impaurita facendo cadere la sedia su cui era seduta. “Che sta succedendo?” gridò allarmata.

Tochiro le rispose. “E’ bene. E’ l’effetto della Dark Matter su Harlock ne vedrai presto gli esiti da sola”.

La luce danzò per un po’ intorno e dentro il corpo del Capitano, Helèn non capiva, tese piano una mano per toccarla, era effimera ed impalpabile ma ne avvertì la potenza. Continuò ancora per qualche tempo, poi svanì.

La donna non riusciva a capire questo legame tra Harlock e questa strana energia ma non chiese. Riprese il controllo degli strumenti. Ormai sveglia si guardò per la prima volta intorno.

Era nel regno di Harlock.

La sfera armillare, il mobile con i vini, la scrivania. Le venne spontaneo sistemare i fogli che mani indegne avevano sparpagliato ovunque. Vi erano carte nautiche dell’Universo, appunti, libri ed i diario di bordo. Si chinò per raccoglierlo e lesse su di una pagina il proprio nome vergato dalla mano di Harlock. Le dette una grande emozione, la tentazione di leggere quello che lui aveva scritto fu forte ma non lo fece, lo rispettava troppo.

Si recò nella sua stanza da letto e notò per la prima volta la grande struttura del letto di Harlock.

Un’ampia testata in legno oscuro che saliva fino al tetto della nave formava il baldacchino. Ne rimase sconcertata. Era costituito dai rami ricurvi di un grande e  vecchio albero ormai morto forse proveniente dalla terra. I rami sostenevano dei teli di broccato rosso che scendevano giù morbidamente. Pensò che più che un letto sembrava un ricovero naturale, quasi un rifugio.

Da una parte poi in una specie di libreria, vi erano grossi libri antichi dalle copertina in pelle e dal titolo ormai illeggibile ed un becher in vetro, contenete… la annusò, Terra. Doveva esser caduto e riparato con grande affetto e cura. Harlock era davvero molto legato al pianeta Terra molto più di tutti coloro che conosceva che non essendovi nati la guardavano solo come un sogno lontano.

Uscendo dalla camera da letto venne attirata dalla stanza dalla parte opposta sempre al buio. Vi si recò portando con se un candelabro. Ne illuminò una parte, il suo cuore si riempì inconsapevolmente di gioia. In quella stanza c’era un pianoforte a coda. Si avvicinò, era antico, impolverato. Era da quando era bambina che non ne vedeva uno. Sollevò con attenzione il coperchio, schiacciò pochi tasti resi scuri dal tempo. Sorrise, era scordato. Il Capitano suonava? Si chiese. Poi tornò nell’altra stanza, dove l’unico suono udibile invece era il ‘BIP-BIP’ del cardio-frequenzimetro di Harlock.

 Gli si avvicinò, era il SUO cuore che voleva sentire, scostò la coperta termica e posò delicatamente un orecchio sul suo petto per udirne i veri battiti. Chiuse gli occhi.

Era regolare e forte. Una lacrima scappò via veloce da lei per stare con lui, sul suo cuore. “Harlock so che puoi sentirmi. Torna da me”. Sussurrò.

Si sollevò guardando malinconicamente fuori dalla vetrata. Come le pareva minaccioso quel mare nero ora senza di lui che invece sembrava non averne paura mai, lui che davvero aveva fatto dell’Universo intero la sua casa e lo solcava ribelle e fiero alla ricerca della libertà vera.

Non poteva sapere che Harlock era proprio lì in quel momento, in quel grande mare nero.

 

 

Note.

Con questo capitolo ho voluto dare una mia spiegazione dei bracciali che  Harlock porta. Con la Mony (che li chiama i bracciali di Xena) ce ne chiedevamo spesso il perché ;-) Mi sono detta che per tenerli sempre addosso dovevano avere una importanza speciale.

*L’allarme generalizzato è un sistema di sicurezza attualmente utilizzato su tutti i mezzi di trasporto su rotaia. In caso di grave pericolo consente di bloccare l’intera circolazione innescando contemporaneamente un allerta per l’attivazione immediata di tutte le procedure per la risoluzione dello stesso.

**La Dark Matter per me non è la materia oscura così come canonicamente viene interpretata. E’ un’energia viva, potente, misteriosa e sconosciuta, quasi un’entità. Solo Harlock ne può trarre beneficio perché era sull’Arcadia al momento dell’apertura del motore e ne è stato contaminato. Un po’ come quando si viene contaminati dalle radiazioni di una centrale nucleare. Nessun altro. Solo lui pertanto non può morire e le sue ferite si rigenerano solo se il motore è in funzione.

***La mia visione di quello che la benda nasconde.

 Grazie alla B-Beta ‘Nella vita i momenti bui arrivano perché tu possa capire quanta luce hai dentro’ non dimenticarlo :-*  

Questo capitolo lo dedico a Death Shadow. E grazie sempre a tutti coloro, e siete davvero tantiii, che settimana dopo settimana seguono questa mia storia.

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Capitolo 10
*** LA SOTTILE MEMBRANA TRA LA VITA E LA MORTE ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

 

10

 

 

 

LA SOTTILE MEMBRANA TRA LA VITA E LA MORTE

 

 

Harlock incatenato, dopo una aver perso i sensi, si ritrovò a fluttuare nell’immenso spazio nero dell’Universo.

Aveva le mani saldamente legate dietro alle spalle, torso nudo e nessun punto di riferimento. Non vi erano stelle o pianeti guardando i quali si sarebbe potuto orientare.

Nero abissale ovunque, lo spazio siderale era fuori e dentro di lui.

Per un certo tempo restò così, ad assaporare quello stato di nulla che gli era sconosciuto. Galleggiando mollemente, i capelli debolmente scomposti. Il silenzio nell’anima ed il vuoto nel cuore. Niente ricordi, niente lotte, niente moti dell’animo, niente dolore. Niente. Solo il rumore regolare e lento del suo cuore. Finalmente.  

Ad un tratto da lontano scorse piccoli punti di luce. Meteore. La polvere dell’Universo. Piccoli corpi celesti che come proiettili di ogni dimensione iniziarono a colpirlo procurandogli lancinanti dolori  squarciando la sua carne. Stringeva i denti provava ad evitarli ma gli era impossibile, i movimenti gli erano negati. Sputò del sangue e sorrise amaramente. La morte non sarebbe arrivata tanto presto.

Ad ogni colpo una stilettata gli provocava un dolore acuto, non poteva far nulla per evitarlo, continuava a lottare cercando di slegarsi non riuscendovi. Ancora colpi e ferite lancinanti, quanto sarebbe durata? Poi non sentì più nulla.

Aveva iniziato a fluttuare. Ora era in un’altra dimensione, vedeva se stesso, il suo corpo libero, galleggiare. Si sentiva leggero, in pace, finalmente, come se la guerra fosse finita, come se ogni battaglia fosse ormai inutile.

Da lontano scorse un meraviglioso Pianeta Azzurro, ve ne era solo uno così in tutto l’Universo. La Terra. Sorrise, il suo viaggio era finito.

Solo il ricordo di una strano sentimento lo tratteneva. Rimpianto. Ma per cosa? Qualcosa di lasciato in sospeso. Di incompiuto. La sua mente era stanca non voleva indagare, tornare indietro avrebbe voluto dire soffrire e lottare. Sentiva una sensazione di buono, di dolce, qualcuno ora leniva le piaghe del suo corpo e toccava il suo viso. Si lasciò cullare da quella sensazione, dimentico di tutto. D’improvviso udì lontano il pianto di una donna. Chi era? Poi ancora il nulla.

La sua mente ebbe pietà di lui e lo accontentò. Il mare scuro dell’Universo ora era l’azzurro e meraviglioso mare della Terra.

Harlock vi era completamente immerso, cullato in esso. Vedeva i raggi del sole, il suo sole,  fendere la superficie azzurra facendo brillare le lievi increspature dell’acqua come fosse striato d’argento. Udiva il dolce suono dello sciabordio delle onde.

Presto però quelle stesse onde lo portarono ad urtare violentemente contro gli scogli aguzzi, senza possibilità alcuna di evitarli. Ancora dolore. Lottò con le forze che gli restavano, poi si disse che era finalmente a casa, allora perché lottare? Chiuse gli occhi ‘sono qui’ sussurrò abbandonandosi all’oblio.

Si ritrovò sulla terra ferma: la spiaggia. Camminava, i piedi affondavano piano nella sabbia molle e dolce, la bianca spuma delle onde gli lambiva i piedi nudi bagnando l’orlo dei pantaloni. Tutto intorno solo il rumore del mare e l’odore intenso ed acre della salsedine. Se ne riempì le narici. Doveva essere morto pensò guardando quella distesa d’acqua senza confini.

Chiuse gli occhi e lentamente si voltò alla ricerca di qualcosa. Si ritrovò in uno sterminato campo di grano. Sorrise, guardò a destra e a sinistra come un bimbo felice che cerca gli occhi della mamma in attesa di un cenno d’assenso. Iniziò a correre, le mani aperte sfioravano le spighe che si piegavano a quel tocco gentile. Harlock correva veloce, sempre più veloce e sorrideva, se era morto, non gli importava, sentiva solo la carezza del vento sul viso e tra i capelli. Correndo gridò con quanto fiato aveva in gola, un urlo liberatorio, possente, il cui eco giunse lontano.

 La Terra rispose. Un lampo squarciò il cielo.

Iniziò a piovere, una pioggia chiara e leggera. Si fermò. Volse il viso ed i palmi delle mani al cielo. Chiuse gli occhi raccogliendo su di sé ed in sé quella meravigliosa sensazione di acqua, cielo e terra erano un tutt’uno. L’acqua scivolava via lenta dalle sue mani aperte, sui suoi capelli e sulla pelle del suo corpo formando mille rivoletti.

In un istante quella medesima acqua divenne sabbia. Guardò il cielo e poi le sue mani, dalle quali la sabbia scivolava via, veloce come il tempo... Ora tutto era diventato deserto, intorno solo terra arida e sole accecante. Stinse i pugni per impedire alla sabbia di scivolare via. Ai suoi piedi il suolo arso ed assetato si spaccava creando fenditure dalle quali si poteva udire la richiesta d’aiuto di madre Terra.

Comprese.

La mascella serrata, lo sguardo si fece cupo, si guardò intorno lentamente, aspettando.

Il viso teso, lo sguardo attento. Un vento fortissimo iniziò a spirare, un vento denso e rosso, rosso come il sangue che creando immensi vortici d’aria portava via tutto. Cercò di proteggere gli occhi con le braccia tenendo sempre nei pugni serrati la sabbia che vi era rimasta, quasi come fosse un ultimo baluardo di speranza. 

‘PLINK, PLINK’ Riprese coscienza.

Udiva uno sgocciolio sommesso ma il solo cercare di aprire gli occhi faceva male, il dolore fisico che provava era talmente forte da percepirlo ormai quasi come non fosse il suo. Intorno silenzio ovattato, solo un netto : ‘Plink…plink…’ un suono di gocce che cadono e si infrangono a terra. Aprì con dolorosa lentezza gli occhi, vide ciò che c’era sotto di sé.

Realizzò.

Un ghigno amaro gli si dipinse sul viso sofferente. Era il suo sangue che cadendo produceva quel suono. Era dove lo avevano legato. Richiuse gli occhi.

La pioggia ora era diventata sangue e ricopriva ogni cosa. 

Helèn gli stava sempre accanto ma decise, prima di effettuare la medicazione di fare una doccia. La sua stanza era tra quelle senza ossigeno ed energia, quindi presi alcuni indumenti decise di utilizzare la doccia nella cabina di Harlock. Posò trasmettitore e candelabro sul lavandino. Era strano essere lì, nel suo bagno. C’era un’ampia doccia ed anche una enorme vasca da bagno un po’ retrò, che però si sposava però perfettamente con il resto dell’arredamento.

Entrò nella doccia, concedendosi un momento solo per se stessa, un momento per raccogliere le idee. L’acqua scorreva veloce, fresca e benefica, dalla testa carezzandole il corpo. Helèn si lavò delicatamente, non aveva più dolore. Stava cambiando derma, uno strato leggero di pelle si stava staccando, come dopo una scottatura, era l’esito della sua avventura sul pianeta Arctic. Lasciò che insieme all’acqua defluissero via anche i pensieri, le angosce, le paure. Harlock non poteva morire, non lui. Non lo avrebbe permesso. Aveva voglia di raccontargli tante cose della Terra, chissà se con la vita solitaria che conduceva sapeva dei tanti movimenti di ribellione contro la Gaia Sanction che a lui si ispiravano e di cui lei sapeva perché era stata mandata a reprimerli.

Di quante cose non avevano parlato, quanto tempo avevano sprecato.

Lo immaginò in quella doccia, aprì gli occhi, e la flebile luce del candelabro che si era portata dietro, le fece un regalo. Su una delle ante di cristallo della doccia vide chiaramente l’impronta del palmo di Harlock. Probabilmente vi si era poggiato a lungo mentre l’acqua scorreva veloce producendo vapore. Le sembrò quasi di vederlo lì, perso in chissà quali pensieri mentre poggiato lasciava quel segno a causa della condensa. Helèn sorrise debolmente poggiandovi delicatamente sopra la sua mano, tanto più piccola. Immaginò le onde del tempo sovrapporsi come se davvero potessero essere lì tutti e due, insieme, in quel momento, con le mani palmo contro palmo. Rabbrividì a quell’immagine forte ed intensa, uscì.

Aveva posato i suoi abiti sul letto, vestendosi rivide il maglione di Harlock e istintivamente lo indossò. Le stava grande, ma sapeva di lui, arrotolò i polsini, chiuse gli occhi, si cinse con le braccia, inspirò piano il suo odore immaginando che fosse lì ad abbracciarla.

Il suono del trasmettitore la riportò bruscamente dal suo sogno alla realtà. Corse da Harlock in preda all’ansia.

Il battito cardiaco era accelerato, troppo. La pupilla si muoveva veloce sotto la palpebra. Sognava? Riviveva la scena del tiro al bersaglio? Qualcosa non andava. Ad Helèn non piacque, erano ore cruciali se fosse entrato in coma ora non avrebbe potuto più fare molto. Anche il suo di cuore prese a battere all’impazzata. Come aiutarlo? Harlock aveva i pugni serrati a nulla valsero i suoi tentativi di riaprirli. Si lamentava ma non riusciva a capire quello che cercava di dirle.  

                                                                      ***

La bufera soffiava violenta. Al centro della tempesta di vento, dei vortici di morte, Harlock gridava, gridava forte  “Perdonami, perdonami! E’colpa miaaa! Perdonami Madre! Perdonami Madre Terra mia… non volevo. Non volevo madre mia! Prendi la mia vita in cambio…”. E cadde a terra, in ginocchio, guadando il cielo con i pugni chiusi.

Nello stesso istante una boccia in vetro cadde dalle mani di Helèn, il vetro esplose disperdendo il suo contenuto sul pavimento.

Il cuore di Harlock si era fermato!

La morte, spietata ed affascinante, languidamente le sorrise, beffarda, alzando un sopracciglio ‘era suo’!

Helèn volse lo sguardo impietrito sul monitor e terrorizzata prese una siringa di adrenalina, gliela iniettò dritta nel cuore, con forza. Solo la disperazione la sosteneva “no-no-no” Continuava a ripetere mentre controllava spasmodicamente il monitor. “Non lo avrai!” urlò.

E la Terra rispose. Harlock devi vivere’.

“Harlock devi vivere!” gridò Helèn con quanta forza la disperazione le dava.

Un’onda. Un’onda sullo schermo le disse che il cuore era ripartito. Crollò sulla sedia. Le mani le tremavano, la siringa vuota le cadde, iperventilava. Continuava a guardare il monitor ‘forza ,forza’ pensò, poi riuscì a spostare gli occhi verso il volto di Harlock ora disteso. Il labbro inferiore le tremava, anche le mani ora le tremavano. Le tenne una nell’altra per fermarle ripetendo ‘non lo avrai, non lo avrai’.

Trascorsero alcune ore, Helèn ci mise molto a calmarsi. Si stringeva nel maglione, guardando dalla vetrata l’abissale Universo spettatore eterno ed immoto. Cosa avrebbe fatto se lui fosse morto?

Harlock non si era arreso ed aveva deciso di continuare a combattere la sua battaglia. Helèn iniziò a medicargli le ferite rimuovendo le bende, posizionando un’altra sacchetta di sangue. Le garze erano piene di siero e sangue ma si stupì nel vedere com’erano le lesioni. Apparivano quasi completamente prive di ematomi, lontane dall’essere rimarginate ma in condizioni eccellenti visto il tempo trascorso e l’evento traumatico che le aveva prodotte. Il colore, i bordi, la quasi assenza di turgore, tutto le parlò di guarigione. La Dark Matter pensò. Per la prima volta si sentì leggera, dette uno sguardo alle altre cicatrici di Harlock, quelle che lui già aveva. Sembravano molto, molto vecchie e soprattutto strane rispetto ai moderni sistemi di cicatrizzazione. Era come se fossero state curate nel passato, anche quelle alla ‘vecchia maniera’. Si meravigliò, questo non era assolutamente possibile se Harlock era figlio di quel tempo. La testa le doleva. Decise di lasciarlo riposare.

Messo un respiratore. Uscì. Si accorse subito che Tochiro aveva stabilizzato i generatori supplementari di gravità. Si recò nella mensa e poi decise di ritornare nella sala degli allenamenti, dopo il macabro ritrovamento non vi era più entrata. Ma doveva farlo. Vi giunse ed il cuore le si strinse al ricordo di lui e di come lo aveva ritrovato. Decise che avrebbe pulito e rimosso ogni cosa. Intanto la sua testa continuava a formulare ipotesi su cosa fosse realmente accaduto, su chi fosse stato. Aveva scartato la Gaia Sanction loro non si sarebbero mai comportati così, non avrebbero perso l’occasione d’oro di processare e giustiziare Harlock pubblicamente. Sorrise amara.

Raccolse da terra i cinturoni, le armi ed il mantello di Harlock. Qualcosa di luminoso attirò la sua attenzione, lo raccolse.

Era la decorazione venuta via dall’elsa di una spada. Era un’immagine del Jolly Roger con una bandana sul cranio, lo strinse forte in pugno con rabbia, conosceva quel simbolo maledetto. Mercenari. Pirati-mercenari che vagavano per l’Universo assoldando le peggiori canaglie e vendendo i loro servigi al miglior offerente. Il ‘Branco’ si facevano chiamare e proprio come un branco erano spietati e famelici. Ma poco avevano dei lupi erano solo delle iene. A volte anche la Gaia Fleet, in maniera assolutamente ufficiosa, se ne era servita per i lavori sporchi. Lei lo sapeva. Erano stati loro, ma chi, come e perché li aveva assoldati? Ebbe la consolazione della quasi certezza che il resto dell’equipaggio potesse essere vivo, perché usavano fare prigionieri per poi rivenderli. A lei ed a Harlock non restava moltissimo tempo. Le vendite degli schiavi erano cadenzate da un calendario molto preciso di cui tutti, informalmente, erano a conoscenza.

Tornò da lui, mangiò e trascorse la sera a sistemare amorevolmente il mantello, le sue armi: il Gravity Saber  e la Cosmo Gun. Era un onore maneggiare le armi più potenti dell’Universo, le armi che avevano contribuito a rendere Harlock leggenda. Con gli occhi della mente lo rivide elegante e sicuro volteggiare tra i nemici colpendoli con forza inaudita. Poi, nuovamente richiamata dai più reconditi recessi ancestrali della galassia, arrivò la Dark Matter. 

Ancora una volta, intorno ad Harlock, si creò un’aura di luce mista a scariche elettriche. Stavolta Helèn non si mosse, voleva capire quello che non osava chiedere. Osservò la danza della materia oscura intorno e dentro il corpo di Harlock. Non si chiese se fosse un male o un bene, da dove venisse né perché tutto questo accadesse. Quella cosa, quella forza lo guariva e questo le bastava. Restò come di guardia fin tanto che non scomparve.

Nei momenti di tranquillità Helèn si aggirava per l’appartamento di Harlock, affascinata, sfiorando avida gli oggetti. Quasi che essi avrebbero potuto narrarle qualcosa del loro misterioso proprietario.

Preso il candelabro si recò nell’unica stanza sempre al buio. Quella dove era il grande pianoforte. Sedette sullo sgabello, guardando a lungo lo strumento, carezzandone indecisa la superficie con la mano, poi sollevò con lentezza il coperchio e dopo una rapida occhiata ai tasti iniziò a percorrerli con la punta delle dita. Il pianoforte, muto da tanti anni, inizialmente scricchiolò poi emise suoni melodiosi e benché fosse scordato, la sua voce era flautata e magica. Avrebbe raggiunto Harlock ovunque fosse pensò Helèn.

La donna non conosceva le note né leggeva la musica, ripeteva a memoria melodie imparate da bambina. Chiuse gli occhi e quelle note le portarono alla mente ricordi lontani e che credeva perduti.

Harlock immerso nel suo nulla, nell’immenso nero udì indistinto un suono, un suono lontano. Poi una musica come portata dalla brezza cosmica. Si voltò, cos’era? Chi era? Abbandonandosi a quelle dolci note riuscì a visualizzare tanti bellissimi colori. Ricordò il verde cangiante degli alberi, il giallo delle foglie in autunno, il rosso dei fiori, il rosa abbozzato delle nuvole dopo la pioggia, l'arancio acceso del sole che muore all’orizzonte tramontando e poi la luce di un sorriso. Un sorriso di donna, un sorriso accennato e caldo che sapeva rivolto a lui ed a lui solo. Ma per quanto si sforzasse non ne vedeva il volto.

I sensi erano alterati ma la udì chiamare il suo nome, risuonò chiaro in quell’oscurità senza fine tutta  intorno a lui “Harlock, Harlock dove sei? Torna da me”. Chi era? Si portò inconsapevolmente le dita sulle labbra. Helèn accanto al suo corpo lo sollecitava chiamandolo e bagnandogli le labbra secche con acqua ed olio profumato. Harlock si voltò verso la voce, era dalla parte opposta rispetto alla Terra, era nel buio.

La voce era luminosa ma lì vi era solo oscurità e dolore fisico. Sentì che vi era qualcosa di sospeso oltre quel velo nero. Guardò ancora la Terra. Qualcosa di interrotto che lui e lui solo doveva portare a termine. Non si era mai tirato indietro in vita sua, aveva sempre lottato per ciò che credeva giusto, fino in fondo.

Tornò indietro seguendo un dolce profumo ed il ricordo sbiadito di un sorriso. Mentre camminava allontanandosi dalla Terra, senza più voltarsi altre immagini corsero ad affacciarsi alla sua mente, non avevano senso ma le sentiva importanti. Un grande cappello marrone dalle larghe falde, dei grossi occhiali. Alzò lo sguardo e dall’alto dondolando piano nell’aria scese una lunga piuma nera.

Helèn si addormentò ancora una volta con la fronte appoggiata sulla mano di lui.

Nel cuore della notte si svegliò di colpo, alzò la testa, qualcosa l’aveva svegliata. Un suono? No, una parola.

 “A-c-q-u-a” Harlock chiedeva acqua. Le si riempirono gli occhi di lacrime. Non poteva crederci. “Sono qui, ma non puoi bere” gli sussurrò carezzandogli le tempie. Sapeva che, come dopo ogni intervento chirurgico, il paziente ha la gola arsa ma non può assolutamente assumere liquidi. Provò a dargli una irrisoria quantità d’acqua, solo per rinfrescargli la bocca, ma non era in grado di deglutire, il liquido colava via dagli angoli. Helèn allora ne prese un sorso e poi poggiando le labbra sulle sue cercò di dargliene un po’. Aggiunse alla flebo dell’altra soluzione fisiologica che avrebbe contribuito all’idratazione. Poi felice, senza pensarci, corse veloce per i corridoi diretta al computer centrale. Entrata nella grande stanza l’abbracciò come fosse una persona. Due cerchi concentrici si accesero per lei che pianse, ma stavolta le sue, erano lacrime di gioia.

 

 

NOTE

In questo capitolo ho provato a spiegare cosa potesse sentire e provare Harlock nello stato di incoscienza nel quale attualmente si trova. Come i dolori del corpo, e tutto ciò che gli arriva dall’esterno potesse esser rielaborato a livello conscio ed inconscio mescolandosi  con desideri, sogni e rimpianti.

Avendo io citato e descritto il meraviglioso mare della terra una menzione speciale va alle bellissime sirene del fandom.

Grazie sempre alla B-Beta. ‘Gli amici sono gli angeli della vita’ t.v.b.

Questo capitolo è dedicato all’uomo della mia vita, mio marito e compagno M. che come dico io ‘mi sopporta e mi supporta’ da sempre ed anche in questa bella avventura. Grazie per le ‘consulenze’.  I love you

 

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Capitolo 11
*** LEGAMI ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

 

11

 

 

 

LEGAMI

 

Trascorse un altro giorno in quell’eterna notte astrale a cui Helèn non riusciva ad abituarsi. Ogni ‘mattina’ così come convenzionalmente era stabilito si aspettava che il sole sorgesse ma non accadeva mai.

A volte passando accanto ad una stella si veniva inondati dalla suo caldo chiarore fin tanto che l’astronave restava in quella rotta. Lei viveva sempre quella luce come un dono. Restava immobile pervasa dalla lucentezza ad assorbirne ogni luminoso singolo raggio, come se fosse una pianta e quando il buio tornava, si sentiva orfana di tanta bellezza, del resto il suo nome voleva dire ‘luce splendente’.

Suonava sempre più spesso al pianoforte, le melodie che conosceva a memoria, accompagnata dai ricordi che le facevano rivivere il suo pianeta azzurro che non esisteva più. Vedeva i membri della sua famiglia raggiungerla in quella stanza, sua madre, suo padre, le sorelle. E se anche per poco riabbracciava quella sua vita che sempre rimpiangeva. Quando si fosse ripreso, avrebbe chiesto ad Harlock il permesso di suonarlo, le dava un grande senso di pace.

Aveva redatto un inventario del cibo e dell’acqua rimasti a bordo e delle avarie per quello che le sue competenze e la conoscenza dell’Arcadia le avevano permesso. Aveva sistemato i vari ambienti come meglio aveva potuto. Riordinato i modellini di Yattaran sulle mensole come li ricordava e messo una bella coperta nella cabina di Kei, le sarebbe piaciuta. Sospirò prima di chiuderne la porta ‘dove sei amica mia?’.

Non le piaceva aggirarsi per l’Arcadia così deserta, desolata, le dava un forte senso di inquietudine, preferiva rintanarsi nella cabina di Harlock con la sua nuova scoperta, il pianoforte.

Aprì sovrappensiero, la pesante porta che dava l’accesso agli alloggi del Capitano entrandovi distratta dal tentativo di aprire il casco che portava e che le permetteva di respirare fuori da lì.

Ma stavolta, alzando il capo ebbe un sussulto, il cuore perse un battito.

Impietrita, lo sguardo fermo davanti a lei. Attonita. La testa prese a ronzarle ed il cuore a battere forte, come impazzito.

Harlock la stava guardando!

Si era tirato lievemente sulla schiena, era poggiato ai cuscini. Benché il suo viso fosse provato e scavato era l’Harlock di sempre. Altero, sicuro, lo sguardo fisso e l’iride di un nocciola vellutato non tradiva emozioni.

Helèn respirava veloce e l’eco del suo respiro rimbombava nel casco che ancora portava. Lo tolse. E come già una volta era accaduto, i suoi lunghi capelli corvini defluirono morbidamente fuori.

“Ben… bentornato Ca… capitano”. Disse con voce che avrebbe voluto suonasse più ferma. Si sforzò di sorridere ma lottava con l’infinita ridda di emozioni che cercavano di sovrastarla. Pensò che il cuore le sarebbe scoppiato. Abbassò timidamente lo sguardo.

Quanto aveva sognato quel momento, e forse sognava davvero... Si tolse il resto dell’equipaggiamento protettivo. E lo raggiunse piano, per paura che sparisse. Harlock la seguì con lo sguardo per tutto il tempo.

“Co… come si sente Capitano? La devo visitare” disse esitante. Si sedette accanto a lui prendendo dal ripiano una penna luminosa. “Segua la luce con la pupilla, per favore”.

Ma per quanto si sforzasse Helèn non riusciva a tenere ferma la piccola fonte luminosa che pareva una lucciola impazzita sul volto di lui.

Harlock le bloccò la mano con la sua guardandola intensamente. “Deve essere accaduto qualcosa di davvero grave se continui a chiamarmi Capitano!”

La voce era roca ma salda. Helèn non poteva credere che le stesse parlando, non poteva credere di sentire di nuovo il suono di quella voce avvolgente, di avere il suo sguardo penetrante su di sé e che fosse veramente lui a tenerle forte la mano e non lei la sua esanime.

In un istante l’ansia, l’angoscia, la paura, il terrore di perderlo dei giorni passati le inondarono l’anima togliendole il respiro. Annaspò. Abbassò lo sguardo, per nascondere la vista appannata da grosse lacrime. Capì che sarebbe stato inutile combattere quei sentimenti che violentemente le stavano squarciando lo spirito in attesa di erompere fuori.

“Oh Capitano” disse buttandosi al suo collo, stringendolo forte ed iniziando a piangere senza remore. Tra un singhiozzo e l’altro continuava a ripetere: “Capitano, capitano”. Quante altre cose avrebbe voluto dirgli ma riusciva a ripetere quella sola parola che ne conteneva altre mille.

Avrebbe voluto baciare quella pelle tiepida a contatto col suo viso ma si trattenne. Le spalle scosse dai singulti, lo strinse a sé.

Harlock che tante cose aveva intuito e tante ne aveva ricordate le mise piano una mano sulla testa. Attendendo.

Poi chiese in maniera diretta come era da lui. “Dove siamo? Dove sono gli altri? La nave? ” Helèn si riebbe.       

“Prima una breve visita Capitan Harlock poi le dirò tutto”. Disse asciugandosi gli occhi arrossati. Non si era accorta che stava dando ad Harlock del ‘lei’. Erano stati troppo vicini, e i sentimenti che ora la legavano a lui, le richiedevano di prendere inconsapevolmente le distanze.

Dopo la breve visita. La donna lo staccò dai vari strumenti, cercando di non incontrare mai il suo sguardo intenso benché ne avvertisse la prepotente forza su di sé. Si rese conto che lui le stava guardando le braccia martoriate dai tanti prelievi.

“Mi occorreva sangue” si schernì, tirandosi giù le maniche. Così facendo si avvide di portare ancora il suo maglione. “Scusa… avevo freddo” disse facendo per toglierlo.

“Tienilo, sta meglio a te”. Le rispose con una espressione indecifrabile.

Helèn lo ringraziò con un cenno del capo. Gli si sedette accanto emettendo un lungo sospiro. Lo guardò vincendo la tentazione di passargli una mano tra i capelli e sul viso. Che sensazione inebriante essere attraversate da quello sguardo, dal calore di quella voce. Iniziò il suo racconto dicendo “Non so dove siamo Capitano e sull’Arcadia ci siamo… solo noi”.             

Gli raccontò del suo risveglio all’interno dell’infermeria dietro al tavolo delle visite dove era caduta. Che grazie a questo probabilmente non era stata notata. Parlò delle reali condizioni della nave, omise quanto poté sul suo ritrovamento e di Tochiro. Poi, aprendo il palmo tremante per la rabbia gli mostrò il Jolly Roger che aveva trovato, raccontandogli tutto ciò che sapeva di questi mercenari.

Harlock strinse le labbra, volgendo altrove lo sguardo per dominare l’ira. Quando tornò a guardarla nel suo occhio non c’era incertezza, sapeva esattamente cosa fare. Helèn chiese con aria implorante “Capitano ma cosa è accaduto?”

Dopo un lungo silenzio. “Siamo stati attaccati, sembrava un abbordaggio come gli altri ma stavolta c’era una variabile che non avevamo contemplato. Hanno iniziato a fare prigionieri, abbiamo contrattato uno scambio ma…” spostò lo sguardo, stringendo le labbra come seguendo un pensiero “…ma loro non hanno mantenuto la parola.” Il tono con cui chiuse la frase non accettava repliche. Helèn se lo fece bastare.

Harlock si abbandonò sui cuscini, era stanco, Helèn gli misurò la pressione e sostituì le flebo. “Devi togliermele Helèn, devo alzarmi.”

“E’ prematuro capitano”.

Lui la guardò serio, un lampo gli attraversò l’iride. “L’Arcadia ha bisogno di me! Bisogna recuperare le funzionalità perdute e scoprire dove tengono i miei uomini prima che tutti vengano venduti. Voglio, devo alzarmi!” Fece autoritario mettendo i piedi in terra.

“Capitano non posso permetterglielo” disse Helèn mettendosi davanti nel tentativo di fermarlo.

“Decido io Dottore!” le rispose sprezzante alzandosi e chiudendo un attimo l’occhio a seguito del repentino gesto.

Ad Helèn non restò che togliere le flebo o lo avrebbe fatto lui malamente.

Harlock si sistemò il lenzuolo attorno alla vita e si fece aiutare da Helèn, che lo sosteneva, ad andare in camera sua. Prima di incamminarsi si voltò a guardare per un lungo momento fuori dalla grande vetrata.

Il suo sguardo si perse tra le onde di quel mare nero, con tristezza e malinconia, poi disse “Devo fare una doccia.”

“Lo escludo Capitano. C’è una cosa che non le ho detto, le strumentazioni mediche sono in avaria, io ho dovuto chiudere le ferite come si faceva una volta. Questo tipo di sutura richiede più tempo per rimarginare rispetto alle tecniche odierne”.

Harlock non la stava a sentire, era già sparito nel suo bagno.

Helèn era in apprensione, si maledisse per non riuscire ad imporsi. Attese un tempo che le parve congruo, poi andò a bussare, ma non udì risposta.

“Capitano. Capitano! Mi sente? Tutto bene?” Nulla. “Harlock?” Helèn si disse che prima che Capitano lui era un suo paziente ed entrò trafelata.

Harlock si era accasciato sul pavimento della doccia, sotto l’acqua, si teneva la mano su una delle ferite all’addome. Evidentemente si era riaperta, ne fuoriusciva molto sangue.

Helèn corse inginocchiandosi accanto a lui. “Merda! merda!” disse tamponando la ferita come meglio poteva. L’acqua bagnava anche lei.

Harlock le sfiorò una guancia, con le dita. Si scrutarono. Nello suo sguardo vi era una richiesta d’aiuto che la turbò profondamente.

“De… vo an dare il più vici… no poss… ibile al mo… to re dell’ Arcadia”. Le disse con dolorosa fatica.

“Non se ne parla”. Gli rispose perentoria perché impaurita. 

“E’ un or dine pri… mo uffi… ufficiale medico Helèn Stern”.

Era la prima volta che pronunciava il suo nome per esteso. Helèn rabbrividì ma non per l'acqua che le scorreva addosso. Capì che era davvero importante ed obbedì.

Mentre, gli medicava strettamente la ferita ed Harlock accettava stoicamente il dolore che ne derivava, Helèn gli spiegò che l’ossigeno era presente solo in tre ambienti di tutta la nave e che avrebbero dovuto usare delle tute con l’ossigeno.

Harlock la ispezionava piano con lo sguardo, i vestiti bagnati, i capelli attaccati al volto, era stanca e sciupata, nei suoi occhi era ricomparsa la paura che vi aveva visto i primi giorni.

Lentamente appoggiato a lei Harlock percorse i corridoi della sua Arcadia.

Il volto teso per il dolore, l’espressione cupa. Pareva soffrire più per la sua nave che per sé. Mentre camminavano piano per i bui e silenziosi corridoi si soffermava a toccarne, quasi a carezzarne con lenti movimenti le pareti con il palmo. Apparentemente per appoggiarvisi, ma in realtà quasi a volerla salutare, rincuorare e darle forza. Come fosse una cara e vecchia amica con la quale era abituato a condividere vittorie e sconfitte.

Giunsero in plancia.

Harlock dedicò un lungo e sofferente sguardo d’insieme al grande ambiente desolato.

Poi si avvicinò al motore ed alla sfera luminescente. Era di un verde pallido così come quando Helèn l’aveva riavviata.

Harlock tese una mano sul globo di energia ed accadde come nelle notti precedenti.

La sfera interagì con lui ed il suo corpo venne avvolto da una luce molto forte.

Helèn si allontanò cercando quasi riparo accanto allo scranno. Sembrava che quella energia donando qualcosa a lui ne ricavasse nutrimento per se stessa. Era come se tra Harlock e quella forza quasi viva, vi fosse un legame. Un legame che lei non comprendeva che le faceva quasi paura.

L’energia che ad Harlock arrivava e lo attraversava tornava a quello strano motore dieci, cento volte più potente.

La sfera divenne più grande e luminosissima al punto che Helèn dovette distogliere lo sguardo. In quello strano momento quasi mistico si sentì di troppo. Avrebbe voluto andar via ma non lo fece, guardò e tacque.

Quando tutto fu finito Harlock stava molto meglio. Helèn con grande sorpresa lo vide ripercorrere quegli stessi corridoi da solo, eretto, risoluto, un passo dopo l’altro senza alcun bisogno del suo aiuto.

Chiuse gli occhi concentrandosi sul suono di quei passi cadenzati sul metallo. Sorrise, anche il suo cuore sorrise, quante volte aveva solo immaginato di sentirlo riecheggiare ed ora, ora era vero.

Harlock si diresse verso il grande computer centrale.

 

 

 

NOTE

Grazie sempre per tutto alla mia B-Beta.

Dedico questo capitolo ed il meraviglioso risveglio del Capitano a Mizu che tanto lo anelava ;-)

Grazie a tutti coloro che continuano a leggere questa mia f. con mia grande sorpresa sempre di più :-)) Grazieee.

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Capitolo 12
*** CARNE E SANGUE ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

                                                                                  12

 

 

CARNE E SANGUE

 

Quando Harlock rientrò nei suoi appartamenti, Helèn aveva appena finito di asciugarsi i capelli, era nella camera da letto, e stava usando un oblò come specchio per pettinarli.

Sentendolo arrivare, lasciò andare la lunga chioma sulla schiena e si voltò appena, prima di girarsi del tutto verso di lui e regalargli un sorriso luminosissimo che gli si impresse sulla retina.

Harlock, come era nella sua natura, si irrigidì. Non era abituato ad avere qualcuno in quegli spazi da sempre solo suoi.

Lei lo comprese. “Scusa… forse dovremmo riattivare la funzionalità di camera mia” disse impacciata, sentendosi improvvisamente di troppo.

“Non occorre” rispose lui, rivolgendole uno sguardo indecifrabile, voltandosi e dirigendosi verso il tavolo dove lei aveva preparato una cena spartana e leggera.

Mangiarono svogliatamente senza dire nulla. L’aria era pesante, gli accadimenti passati e le decisioni future la rendevano tale.

Harlock era teso, il viso contratto, la testa lontana oltre i pensieri. Helèn si chiese dove fosse e per spezzare il silenzio chiese. “Che intendi fare?” Quella situazione che li vedeva lì da soli era strana, a tratti imbarazzante.

“Da ciò che ho visto il lavoro è tanto, prima lo faremo e meglio sarà. Devo capire cos’è ancora funzionante a bordo e cosa no e scoprire dove sono gli altri, dove li hanno portati”. Disse d’un fiato serrando le labbra. 

“Sei preoccupato?”

Harlock rispose dopo un profondo respiro.

“Si, lo sono… soprattutto per Meeme”.

Helèn abbassò lo sguardo sul piatto, avrebbe dovuto immaginarlo. Bevve d’un sorso il vino che lui le aveva versato e che fino a quel momento non aveva toccato. Quel gesto non sfuggì ad Harlock.

“Grazie per quello che hai fatto, non deve essere stato facile”.

La donna chinò la testa. “No, non lo è stato. Mi sono ritrovata nuovamente sola, credevo che non mi sarebbe mai più capitato e invece...” scosse il capo “Ho temuto di impazzire”.

Harlock la guardò interrogativo. “Anche quando mi sono risvegliata dalla criogenesi ero sola, disperatamente sola”. Strinse i pugni sul tavolo. Harlock mise una mano sul pugno stretto, quasi a voler sciogliere quel nodo. Non portava i guanti ed Helèn percepì tutto il calore,  la sua forza, e la protezione di quella mano gentile.

Si guardarono un istante. Harlock aveva il viso stanco e gli occhi lievemente cerchiati. Helèn non poté fare a meno di ripensare a tutto il resto del suo corpo. Abbassò il capo per sfuggire a quello sguardo penetrante che sembrava come voler trovare e poi sfogliare il libro dell’anima che era dentro di lei. Quello che provava per lui era definitivamente cambiato, ma avrebbe fatto quanto in suo potere per ricacciarlo, soffocarlo dentro alle pareti troppo strette del suo cuore.

Harlock si alzò muovendo qualche passo verso la grande vetrata. Vi rimase braccia conserte, fissando un punto indefinito. Vestito di abiti neri, la figura snella e slanciata, completata dalle spalle larghe e morbide, si stagliava bellissima contro il riflesso del vetro. Anche così accigliato e impenetrabile era superbo, pensò Helèn.

Riponeva in lui grande speranza, l’aveva già fatto, ma avrebbe messo la vita nelle sue mani altre mille volte. Del resto cosa era stata la sua vita senza di lui fino a quel momento? Si trovò a chiedersi.

Lo raggiunse e facendosi forza chiese “Perché sei così preoccupato proprio per  Meeme?”

Se ne stavano li, entrambi le braccia conserte in un atteggiamento di chiusura mentre dall’esterno arrivavano gli esiti luminosi del lontano brillamento* di una stella. Saette e strali si abbattevano sull’Arcadia che se ne restava immobile, incrollabile spettatrice.

Helèn carezzandone la figura con lo sguardo rifletté su come ora non provasse alcuna paura. Di come si sentisse tanto più protetta e sicura sull’Arcadia adesso che lui stava bene.

Attraversavano la magnetosfera di un corpo celeste, un flusso di particelle elettricamente cariche dava vita ad uno spettacolo splendido di luce e colori. Lampi e bagliori si susseguivano rapidi illuminandoli a tratti per poi svanire e lasciare il posto a colori meravigliosi che andavano degradando dall’indaco al blu più intenso. Come se ciò che accadesse fuori fosse speculare di ciò che in realtà accadeva ai due occupanti dell’Arcadia.

“Lei è l’unica non terrestre”. Le rispose serio.

“E’ la tua compagna? ” chiese Helèn d’un fiato. Harlock abbozzò uno stanco sorriso.

“No, lei è la mia migliore amica e sì, una fedele compagna di viaggio. E’ forte ma anche indifesa”.

“La troveremo vedrai ed io ti aiuterò!” Helèn aveva pronunciato quelle parole con trasporto mettendosi davanti a lui. Harlock allungò una mano sfiorandole con due dita teneramente una guancia.

Le loro ombre si fusero sul grande pavimento per un gioco di luci. Helèn inconsapevolmente le separò, allontanandosi di colpo e toccandosi istintivamente il viso come se un dardo di fuoco l’avesse sfiorata. Andò accanto al camino, sperando che la sua luce avrebbe mascherato il suo rossore.

Fino a quella sera aveva trascorso le notti su di una sedia accanto a lui. Braccia incrociate sul petto guardando le fiamme disse “Se non ti spiace io dormirei qui”.

“No!” rispose secco lui, voltandosi a guardarla. “Userai il mio letto”.

“No! Il letto è tuo e tu… tu sei convalescente”. Fece lei quasi allarmata.

“Io sto bene ed il letto è enorme. Possiamo usarlo tutti e due senza darci fastidio. Dobbiamo riposare bene, ci attende tanto lavoro da domani”. Disse voltandosi nuovamente.

Helèn sospirò ma tacque. Non voleva sembrare una sciocca. I suoi occhi affogarono brevemente tra le fiamme poi raggiunse il grande letto in legno.

Di spalle, si tolse solo il grande maglione sotto cui aveva un body scollato, tenendo gli aderenti pantaloni della tuta termica, era imbarazzatissima ma cercò di dissimulare. Si sistemò sul bordo più estremo del letto cercando di occupare meno spazio possibile, continuando a dare le spalle ad Harlock e rischiando ad ogni respiro di cadere per terra.

Sentì lui armeggiare con i vestiti, poi avvertì il movimento del letto, si irrigidì. Non si voltò quando sentì. “Notte”.

“Notte”. Rispose, pensando che non sarebbe mai riuscita a dormire con accanto il respiro di lui. Invece la stanchezza la vinse. Sognò.

Sognò di essere sull’Arcadia prigioniera della sua bara criogenetica di vetro e metallo.

Harlock davanti a lei era legato, i colpi lo ferivano e lei non poteva fare nulla per aiutarlo. Nulla. Gridava, dava calci e pugni alla teca in preda alla disperazione allo sgomento ed all’impotenza ma era tutto inutile. ‘Noo lasciatelo, vi supplico. Harlock… Harlock!’. Gridava disperata ed inerme con quanto fiato aveva.

“Helèn, Helèn svegliati! Sono qui! Apri gli occhi! Sono qui!”

Helèn strappata da quell’incubo straziante ci mise alcuni istanti per realizzare. Il cuore le batteva furibondo.

Harlock, spostatosi su di lei la scuoteva per le spalle.

Realizzò di essere sveglia. Lo sguardo nello sguardo di lui, si calmò. Il respiro tornò piano regolare. Vederlo così vivo e forte, provato ma bellissimo, al punto che era lui ed aiutare lei, le fece realmente capire che davvero ormai il peggio era passato. Le immagini di quei lunghi giorni le passarono davanti agli occhi. L’Arcadia desolatamente vuota, lui legato e sanguinante, esanime in fin di vita, morente.

Ed ora. Ora era così vicino e la teneva tra le braccia. Percepiva l’odore del suo respiro tiepido ed il tepore della pelle del torace. Non le importò cosa avrebbe pensato, gli carezzò dolcemente il viso, la mano tremante. E mentre le lacrime scorrevano via, si strinse forte a lui, passandogli le dita tra i capelli felice di sentirlo vivo e caldo su di sé.

Tutto quello che aveva passato, la tensione accumulata in quelle ore infinite, le notti insonni, le violente emozioni, si sciolsero definitivamente in quell’abbraccio così intimo e senza timori.

Harlock era un uomo dotato di grande sensibilità aveva compreso tutto quello che Helèn aveva dovuto sopportare. Il suo cuore fu inaspettatamente pervaso da una grande tenerezza per quella giovane donna. Così la strinse forte, felice di tenerla tra le braccia senza saperselo quasi spiegare. Sentiva il corpo di Helèn tremare sotto al suo. Sollevò il capo per guardarla sciolta in quell’abbraccio e in quelle lacrime. Gli parve così piccola e indifesa, lontana dall’immagine che aveva di lei, si chiese come fosse possibile. Un sentimento nuovo pervase lentamente il suo essere, dilagante ed incontrollato. E non era solo gratitudine era qualcosa di buono e luminoso di profondo e forte. Era qualcosa che seppe, mai più sarebbe riuscito a rinchiudere dietro sbarre di ghiaccio.

“Non piangere Helèn ti prego, il peggio è passato”.

Il cuore di Helèn stava per esplodere la sua verità. Tutto quello che non era riuscita a dirgli stava per esondare dalle pareti di carta della sua anima. “Scusami per queste lacrime e perdonami, perdonami se puoi, io… avrei dovuto essere con te… al tuo fianco”. Non riusciva a scandire le parole, le emozioni gliele portavano via. “Io… non avrei mai, mai permesso che ti…”

Lui la interruppe. “Helèn io sono vivo solo grazie a te”.

Helèn scuoteva piano il capo, facendo cenno di no. Lui glielo bloccò prendendole il viso tra le mani.

Lei avvertiva le dita lunghe ed affusolate sul viso.

“Sei bellissima e sei coraggiosa, sei tenera e sei forte, non ti arrendi mai, sei tenace e dolcissima, sai solo dare senza chiedere mai. Non è stata colpa tua ed io non permetterò che tu viva con questo rimorso. Io so cosa vuol dire vivere con un rimorso che ti strazia l’anima. A te non lo permetterò”. Le ultime parole Harlock le aveva sussurrate, quasi soffiate sulla sua bocca.

Quindi posò le labbra sulle sue quasi a suggello di ciò che aveva detto.

Quello doveva essere. Ma il tenero tepore delle accoglienti labbra di lei lo tradì e si rese conto di volere di più. Aprì piano le labbra per appropriarsi delle sue. Lentamente il bacio si fece spontaneamente e dolcemente più esigente, non immaginava d’avere tanta sete di lei. Con lenti movimenti della bocca si impossessò delle labbra di Helèn baciandole con crescente voluttà. Lei le schiuse naturalmente reclinando lievemente la testa mentre ogni singola parte del suo corpo s’andava liquefacendo. Harlock continuava a tenerle il viso avvinto tra le mani quasi temesse di perderla. Lei chiuse gli occhi quando sentì la sua lingua farsi largo cercando la propria, investita da sensazioni di una intensità tale che ne ebbe paura. Le sue labbra erano calde ed invitanti, il suo sapore, il tepore della sua pelle un luogo dove tornare e rimanere.

Si abbandonò completamente a quel bacio in cui mise tutta se stessa. Avvertiva i muscoli del corpo di lui tendersi a contatto col suo. I loro corpi, i loro cuori, i loro respiri vibrarono insieme meravigliosamente per un lungo momento durante quel bacio dolce ed appassionato. Lui avvertì il respiro di Helèn farsi più veloce, il suo corpo sussultare. Quelle labbra, quella bocca che ora danzava languidamente con la sua, quella donna che teneva vigorosamente stretta a sé erano vita. Ne avvertì netto il sapore. I loro respiri si fusero armonicamente divenendo lentamente uno.

Poi lui di colpo staccò il viso dal suo, affondandolo nel cuscino. Il respiro affannoso. “Scusami”. Sussurrò cercando di tornare padrone di sé.

Il respiro veloce, Helèn percepì netto il cuore di Harlock battere all’impazzata sul suo seno che ne assecondava i movimenti. Comprese. Lui non lo reputava giusto. Sgusciò lentamente e dolorosamente via dalle sue braccia, rannicchiandosi in un angolo estremo del letto sentendosi orfana di quell’abbraccio forte e protettivo. Si sentì improvvisamente indifesa, come privata di uno scudo. Cercò lentamente di riprendere possesso del suo corpo. Sentì che lui fece altrettanto.

Harlock occhi stretti combatteva col vuoto dilagante a cui mai si sarebbe abituato e che ora percepiva. Col nulla amaro che era tornato ad impossessarsi di lui. Mentre il sapore di lei lentamente lo abbandonava.

L’indomani quando Helèn aprì gli occhi, notò che come due magneti erano entrambi tornati a cercarsi al centro del letto ed erano quasi abbracciati.

Trattenne il respiro. Lui dormiva. Si chiese come sarebbe stato se… arrossì. Alzò lo guardo per ammirarlo, il volto sereno, semi nascosto da un ciuffo ribelle, il respiro regolare, lo aveva guardato per ore mentre lo aveva vegliato, ma non si sarebbe stancata mai di seguire i contorni perfetti e gentili di quel nobile volto dai tratti dolci e antichi. Ripensò al loro bacio. Ed al solo ricordo il suo corpo si accese.

Si alzò piano.

Dopo una visita alle cucine si sedette ai piedi della vetrata. Erano molto vicini ad un grosso pianeta. Ammirava estasiata le onde danzanti verdi iridescenti dell’aurora boreale che quella mattina le donava. Avvolta in una coperta, una tazza di caffè nero fumante tra le mani, gli occhi rapiti da quello spettacolo.

Così la scorse lui mentre infilava un pesante maglione. Si bloccò col maglione sulle braccia prima di farlo passare sulla testa, inchinò lievemente il capo per permettersi di guardarla meglio.

Le si avvicinò. “Anche io non mi stanco mai di questa meraviglia”.

Lei sorrise imbarazzata e fece segno ad un’altra tazza da cui usciva un esile filo di vapore. Lui sedette accanto a lei sul pavimento. Bevve guardandola.

La luce creava spettacolari riverberi sui loro visi. Ed Harlock seppe d’aver già vissuto quel momento con lei. Seduti vicini a guardare… a guardare cosa? Quando?

Volendo interrompere quello strano deja vu che non sembrava aver senso le chiese all’improvviso. “Cosa avresti fatto se fossi morto?”

Helèn voltandosi, lo guardò profondamente, allargando lievemente le narici per la stilettata che quella domanda le provocò, attese un attimo. Solo il fatto di vederlo vivo innanzi a se le permise di rispondere. “Tu… sei… morto”.

Harlock attonito per quella inaspettata rivelazione restò in silenzio, fissandola.

Helèn distolse lo sguardo. “Sei un uomo di carne e sangue Capitan Harlock, benché la tua grandezza ti renda tanto di più”.

Poi aggiunse. “Qualcosa ti ha richiamato qui, non so cosa e sei tornato”. Sorrise debolmente, avrebbe voluto dire ‘sei tornato da me, ma non lo fece’. Invece disse “Qualcosa che devi portare a termine, non so cosa sia… ma  di qualunque cosa si tratti io sarò al tuo fianco”. Gli regalò uno dei suoi sorrisi carichi di vita e di speranza e si allontanò.

Nella mente di Harlock continuò a lungo a risuonare quella semplice e cruda verità ‘Sei un uomo di carne e sangue Capitan Harlock!’

 

 

 

NOTE

*Brillamento  di una stella è la violenta eruzione di materia che esplode dalla fotosfera di una stella, creando spettacolari protuberanze solari.

Questo capitolo è per Micia Sissi, che si chiedeva come sarebbe stato l’amore tra H&H spero che questo ‘assaggio’ ti piaccia ;-p

Una citazione alla Mizu ‘baciologa’ ;-D

Un grazie alla MEGA B-Beta. ‘Sei GRANDE-GRANDE’.

Ed un grazie cicciotto alla Angelfire che mi ha spiegato come allegare le immagini che ho voglia di condividere con voi tutte che mi seguite.

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Capitolo 13
*** RIVELAZIONI ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

13

 

 

 

RIVELAZIONI

 

Quel giorno furono molto impegnati, Helèn cercò di sistemare al meglio le avarie di alcuni pannelli come Harlock le aveva spiegato. Controllò e cercò di salvare il salvabile e fece l’inventario di ciò che occorreva. Il capitano invece trascorse il suo tempo tra computer centrale e ponte principale.

Helèn lo vide completamente disteso sotto uno dei  monitor della plancia a collegare fili ed a fare prove. Entrambi saltarono il pasto ma per cena Helèn preparò qualcosa ed andò a cercarlo.

Lo trovò in piedi, le mani posate sul timone fermo. Guardava davanti a sé risucchiato da vortici di pensieri, che andavano oltre l’immensa vetrata che li divideva dal nero mantello dell’Universo. Lui la sentì arrivare ma non si voltò. Entrambi indossavano le tute e le bombole per l’ossigeno.

“Ho preparato qualcosa per cena e vorrei poter controllare le tue bende”.

Harlock si voltò, il suo sguardo un abisso di tristezza, non doveva essere facile per lui vedere l’Arcadia così.

Helèn ne fu profondamente turbata. “I danni sono seri?” Chiese in apprensione.

“Sì, il sistema di autoriparazione non funziona se il motore a Dark Matter non è a pieno regime. E senza Meeme funziona al 50% dovremo effettuare da noi le riparazioni più importanti. C’è tanto lavoro e poco tempo”. Disse stringendo le mani al legno del timone.

“Conta su di me”.

Harlock, fece un breve cenno col capo, e si avviò verso le sue stanze. Helèn lo guardò mentre si allontanava. Pareva sempre così altero e sicuro, ma era anche schiacciato da pesi e responsabilità che a volte percepiva tanto più grandi di lui. Provava pena, era un capitano leale e responsabile, era chiaro che sopra ogni cosa, ciò che lo lacerava era la preoccupazione per i suoi uomini.

Mangiarono in silenzio poi Helèn chiese. “Da dove dobbiamo incominciare?”

“Ci sono danni importanti sia all’interno ed all’esterno della nave. Io mi occuperò di quelli all’esterno e domani ti mostrerò quello che devi fare tu”. 

“A proposito di mostrare, ti devo cambiare le fasciature e medicare le ferite”.

Harlock non ne fu felice ma si sfilò il maglione dalla testa in un istante.

Helèn rimosse, sfiorando piano la pelle tiepida, bendaggi e garze rimanendo senza parole. Le ferite erano del tutto rimarginate. Una guarigione che aveva del prodigioso.

“Io… io non capisco”. Disse scuotendo piano la testa e guardandolo con due grandi occhi increduli.

Harlock pensò che fosse giunta l’ora di rivelarle parte della verità. Tirò un lungo sospiro, mentre lei con delicatezza puliva la pelle dai resti di disinfettante.

“Helèn, diversi anni fa durante…”. Inspirò profondamente. “Sì, durante un incidente, sono stato contaminato con la materia oscura, che è la forza che muove l’Arcadia: un motore vivo e palpitante. Questa contaminazione mi permette di guarire prima rispetto alle altre persone”.

Helèn lo guardò seria. “Avevo intuito che fosse così, perché a livello scientifico non me lo sapevo spiegare e… credo ci sia anche dell’altro. Ma me lo dirai quando lo riterrai opportuno. Finito!” Fece prendendo il necessario per la medicazione per riporlo. Quell’argomento non era facile da affrontare per Harlock lo sentiva.

Sapeva che la verità nascosta dietro a questa contaminazione di cui le parlava era un’altra, qualcosa che temeva quasi di sapere, ignorandone il motivo. Lui era vivo e stava bene questo solo contava. Si voltò a guardarlo, non si stancava mai di osservarlo. Elegante in ogni singolo gesto, i capelli lievemente ondeggianti ad ogni movimento del capo, il mento sfuggente e labbra sempre un po’ corrucciate. Un brivido le percorse la schiena al pensiero di ciò che quelle labbra sapevano suscitare.

Si era messo a scrivere fitto su di un foglio, il volto semi nascosto dai capelli, completamente perso nei suoi ragionamenti. Helèn fece un gioco che faceva sempre da bambina. Pensò “se alza lo sguardo e mi guarda ORA, vuol dire che noi…” non terminò la frase, lui alzò il viso ed iniziò a guardarla assorto, inclinando un po’ il capo come sempre faceva per completare la sua visione parziale. Lei gli sorrise e cercò rifugio con gli occhi tra gli oggetti che ornavano la parte superiore del camino.

Sedette in terra e coccolata dal tepore danzante della fiamma del camino senza rendersene conto si addormentò. Si svegliò vagamente quando si sentì sollevare.

Mosse il viso insonnolita e col naso e le labbra sfiorò qualcosa di morbido e caldo. Conosceva quell'odore. Aprì appena gli occhi e si rese conto che era il collo di Harlock, ne inspirò il profumo sfiorandolo appena con le labbra, si rese conto che lui dopo averla presa in braccio la stava portando a letto. Ma Helèn ebbe la netta sensazione che attendesse qualche istante di troppo prima di adagiarla tra le lenzuola.

Il giorno dopo il capitano si attivò presto, lei lo cercò all’interno dell’Arcadia non trovandocelo, immaginò dovesse essere all’esterno per le riparazioni di cui le aveva parlato. Lei invece si occupò di quelle interne come lui le aveva mostrato usando un saldatore laser ed apposita mascherina. Era sola in un grande corridoio nella semi oscurità.

Si voltò di scatto. Si sentì osservata.

Nessuno.

Dal primo giorno viveva con la sensazione che sulla nave ci fosse qualcuno oltre a loro due ma non ne aveva fatto parola con Harlock per non dargli ulteriori pensieri. Non solo si sentiva osservata, seguita per i lunghi corridoi, ma a volte, ne era certa, mancava del cibo.

Harlock rientrò, era quasi contento. “Ho eliminato la falla da cui perdevamo ossigeno tra qualche ora potremo riaverlo in tutta la nave”.

“Bene”. Fece Helèn che era stufa di portare tutta quella attrezzatura per respirare, ma questo avrebbe voluto anche dire tornare nella propria stanza.

A pranzo finalmente parlò ad Harlock di quella sua sensazione, dei suoi dubbi, ma in realtà sul momento lui parve non darle importanza.

Nella seconda metà del pomeriggio ogni ambiente dell’Arcadia era ossigenato. Una Helèn sorridente riportò le piantine in camera sua. Camminando per i corridoi inspirava profondamente col naso riempiendosi i polmoni. Era bellissimo, lentamente si stava facendo ritorno alla normalità ed era tutta opera di Harlock. Presto tutto sarebbe tornato come prima si disse ottimista.

Nella sua stanza si dedicò finalmente ad una lunghissima doccia. Il suo grande bagno, l’intimità e le sue cose le erano mancate.

Era lì a giocare rilassata con  la schiuma, quando improvvisamente la porta del bagno si spalancò con allarmata violenza, producendo un tonfo sordo urtando contro il muro di metallo.

Helèn sobbalzò spaventata. Si bloccò. Era pietrificata. La saponetta le sgusciò via dalle mani e scivolando andò ad arrestarsi accanto ad un paio di stivali fermi sulla porta.

Inerte percepì solo il freddo grigio metallo della canna di una pistola puntata verso di lei. Un fremito le percorse per intero la schiena, svuotandola da ogni possibile pensiero.

Harlock era lì, pistola in mano, la fissava teso.

La donna restò immobile non capendo. Incapace di coprirsi, non poté. Guardava solo quell'arma, stordita.

Lui percorse fugacemente con lo sguardo la sua figura. Non sembrando in realtà notare la sua nudità.

Quando parlò la sua voce non tradì emozione solo concitazione. “C’è un incendio a bordo… Avevi ragione, c’è qualcuno sull’Arcadia oltre a noi!”

Helèn, sgranò gli occhi. Superato lo shock preso un asciugamano, si vestì e praticamente ancora bagnata corse con Harlock a domare le fiamme.

Il sistema antincendio della nave non era scattato, o per via di un’avaria, o forse per una manomissione, come forse era più propenso a pensare Harlock.

La zona interessata era quella di alcuni ambienti antistanti la cambusa vera e propria. Con degli estintori ad onde d'urto* in mano, Harlock ed Helèn si fecero strada tra le varie stanze. Poi, si trovarono davanti ad una porta di metallo chiusa.

Dietro la porta si udivano nettamente dei rumori. “C’è qualcuno lì!” disse Helèn preoccupata ed incredula. Harlock accanto a lei, le fece segno di tacere mettendosi un dito sulle labbra avvicinandosi piano alla porta per aprirla.

Si udì una specie di grido disumano che terrorizzò profondamente Helèn. Un tragico ricordo le affiorò alla mente, sgomenta, con un gesto avventato, dettato solo dall’istinto, dimenticando ogni più semplice regola di sicurezza, aprì la porta in apprensione per chiunque vi fosse all’interno.

Fu un attimo. Una vampa di fuoco alta sino al soffitto, accompagnata da un alito di aria bollente, non appena entrata in contatto con una nuova fonte di ossigeno sfiatò fuori dalla stanza.

Helèn si sentì sollevare da terra. Harlock si era messo davanti a lei chiudendo entrambi nel mantello, trascinandola via. Si ritrovarono addosso a degli scaffali. Lei lo guardò grata per un lungo momento. Le aveva fatto scudo con il suo corpo.

Un istante e lui sparì nel fumo della stanza con l’estintore. Helèn lo seguì.

Harlock immobile, lievemente di profilo, teneva la cosmo gun con la mano destra puntata esattamente davanti a lui in linea con il suo occhio. Con il braccio sinistro spinse delicatamente Helèn dietro a sé per proteggerla.

Dal retro, di ciò che restava di alcuni scatoloni, lentamente una nera figura emerse.

Gracchiò e si sistemò le piume bruciacchiate. “Tori!” esultò Helèn correndo dal volatile. “Piccolo ma allora eri tu che mi rubavi il cibo, ma perché non ti sei fatto vedere?”

“Con molta probabilità gli hanno dato la caccia, era spaventato, si è rifugiato dove forse vi era qualche fonte di ossigeno, o più probabilmente qualcuno ha pensato a lui”. Disse Harlock con un sorriso appena abbozzato mentre toccava delicatamente il capo della bestiola, che cercò subito di salirgli sulla spalla non riuscendovi.

Helèn scorse nello sguardo di Harlock un vero accenno di felicità per il ritrovamento dell’animale. Portò subito Tory in infermeria per le medicazioni. Harlock invece dopo una doverosa visita al computer centrale se ne tornò nei suoi appartamenti a pianificare il lavoro del giorno successivo. Ma ogni volta che posava gli occhi sul foglio vi compariva l’immagine di Helèn, così come l’aveva trovata nella doccia. Bellissima nella sua innocente nudità.

Si versò da bere. Chiuse l’occhio sforzandosi di pensare ad altro. Ma l’immagine di lei tornava prepotente.

Decise di cedere e l’assaporò. Bevve piano mantenendo il vino nell’incavo della bocca. Reclinò il capo sulla poltrona espirando lentamente. Sentì il rumore dell’acqua che dal soffione utilizzava il corpo di lei come scivolo percorrendolo interamente curva dopo curva, l’odore sottile di un olio aromatico, la fioca luce tremula nel riflesso di pelle bagnata, i lunghi capelli attaccati al corpo. Le spalle morbide, il seno generoso e sodo, le areole delicate come il rosa dei petali, i capezzoli turgidi, morbidi fianchi, gambe tornite e… deglutì avvertendo un dolce formicolio tra il palato e la lingua. Lei non aveva fatto nulla per coprirsi, per celare la sua nudità. Era consapevole ormai di desiderare quella donna ogni giorno di più. Ma non avrebbe ceduto a quel desiderio, non c’era posto per l’amore nella sua vita, tanto meno adesso. Lasciò che la sua mente vagasse libera immaginandosi in quella doccia con lei. Avvinti.

Un bussare alla porta lo strappò con dolore alla sua visione. “Avanti”.

Helèn entrò. “Ciao sono venuta per Tory magari volevi sapere…”.

“Certo, dimmi”. Rispose lui sistemandosi impacciato sulla sedia.

“E’ debilitato ma sta bene, ha qualche bruciatura, sembra piagnucolare, forse gli manchi”.

“E’ il suo padrone a mancargli”.

“Il suo padrone? Ma non sei tu?”

“Lui apparteneva al mio migliore amico”.

“Apparteneva? Perché, dov’è lui ora?” Chiese Helèn senza riflettere.

“E’ morto, è morto per causa mia”. Harlock si versò generosamente da bere ma ne versò anche ad Helèn guardandola, lei accettò sedendogli accanto.

“Per causa tua? Co.. come?” Helèn sperava finalmente di capire. Era questo il mostro che aveva percepito fin dal primo giorno lacerare e masticare fino in fondo, senza tregua, l’animo buono e nobile di Harlock fino a smembrargli l’anima? Era questa l'ombra oscura che ogni tanto attraversava il suo sguardo rendendolo sempre cupo ed infelice?

In alcune circostanze, come questa, il volto e i lineamenti di Harlock  s’indurivano, lo sguardo si faceva livido, del tutto impenetrabile, le labbra si serravano. Si ergevano subito alte le sue difese. Tutto mutava in lui, la postura, il tono della voce, la sua luce. Tutto gridava aiuto ed al tempo stesso ostilità.

Helèn restò in attesa. Harlock avrebbe potuto non rispondere ma decise di farlo. Tra lui ed Helèn la fiammella dorata di una candela danzava al ritmo dei loro respiri, piegandosi ora da una parte ora dall’altra, regalando a tratti flebili bagliori aurei allo sguardo di entrambi.

Dopo un tuffo nei profondi ed accoglienti occhi di Helèn emergendone Harlock dolorosamente si ascoltò dire. “La mia impulsività, la mia presunzione, la volontà ferma di perseguire i miei ideali ad ogni costo lo hanno ucciso!” serrò forte i pugni, la pelle dei guanti produsse un sottile stridio. “Io lo ho ucciso!” Si alzò di scatto accompagnando con la mano destra il grande mantello, non riuscendo a contenere da seduto un’esplosione di sentimenti contrastanti, quali: rabbia, rammarico, dolore e impotenza.

Helèn non si mosse temendo quasi che una qualunque parola, o gesto, avrebbero potuto interrompere la labile apertura del cuore di lui.

Harlock proseguì trascinandosi nei suoi ricordi. “Col mio comportamento irresponsabile, accecato dalla vendetta, abbandonato ogni buon senso, ho causato la morte del mio unico amico. Quel giorno, non ho perso solo il mio occhio, ho perso anche  lo sguardo dell’unica persona che mi abbia mai veramente capito, e con cui io sia stato profondamente me stesso. Un uomo grande, geniale. Che mi ha insegnato tante cose. La mente superiore che ha costruito tutto questo”. Così dicendo si voltò in parte per indicare con orgoglio l’Arcadia.

Quella stessa candela che rischiarava il tavolo gli mostrò una scia di luce argentea sul volto di Helèn. Una lacrima, un attimo prima che quasi si rifugiasse impaurita tra le sue labbra. Aveva capito di chi parlava Harlock. Dello spirito, della ‘vis’ che ora aleggiava nel computer centrale e che permeava di sé ogni singolo elemento sull’Arcadia. Finalmente iniziava a comprendere. Il dolore di Harlock, il suo rapporto con l’ingegnere.

“Perché quella lacrima?” Chiese Harlock che mai avrebbe pensato di udire ciò che invece sentì.

“Anche io ho ucciso qualcuno che amavo”.

Harlock raggelò. “Tu?” chiese incredulo.

Helèn il capo chino, con le dita portò via rapida un’altra lacrima. “Non ho saputo amare abbastanza. Non ero dove avrei dovuto essere quando lui aveva bisogno di me, ed è morto… da solo, col mio nome sulle labbra. Unicamente per colpa mia”.

Helèn senza rendersene conto scuoteva lievemente il viso mentre parlava. “Dietro ad una porta rimasta chiusa”.

Harlock incurvò il sopracciglio ed alcune rughe si formarono sulla fronte. Ricordò il gesto avventato di Helèn nell’aprire la porta poche ore prima ed il velo di angoscia e paura che aveva letto nei suoi occhi.

Lei allora aveva amato, amato profondamente un uomo che ora non c’era più. Harlock provò sensazioni contrastanti avvertì la gelida carezza della gelosia seguita però dal caldo alito del sollievo. Quanto ancora ignorava di quella donna e nonostante tutto non gli importava, sentiva di sapere di lei tutto ciò che era necessario. E per i pochi istanti in cui erano stati vicini l’aveva sentita stranamente sua, come se gli fosse appartenuta da sempre.

Helèn cercò di versarsi dell’altro vino, ma la bottiglia si limitò a tintinnare contro il bordo del bicchiere, senza donarle il suo prezioso contenuto. Ci pensò Harlock aiutandola, ma Helèn non bevve, si alzò quasi gelosa di quel dolore, dirigendosi rapida alla grande vetrata. Sembrava che guardasse fuori, ma in realtà ciò che vedeva era il volto di chi non c’era più.

“Era molto importante per te?” le chiese lui seguendola con lo guardo.

“Lui era il mio mondo. L’unica persona che avesse reso più sopportabili i miei giorni lontani dalla Terra. Il suo sorriso era il sole che non mi scalderà più, la sua voce il vento che non mi carezzerà, i suoi occhi azzurri il cielo nel quale non mi perderò mai più. Torna ogni notte a visitarmi.” Helèn affondò il viso tra le mani per nascondere il suo dolore.

Quelle parole furono per Harlock uno stiletto rovente al centro del petto. Non comprese, non volle comprendere. Si limitò a guardare le spalle di Helèn scosse da un dolore che percepì tanto più grande di lei.

“Ti prego non… non chiedermi più nulla”. Gli disse implorandolo con lo sguardo.

Quell’uomo chiunque fosse, aveva voluto dire tanto per lei ed anche in questo erano simili. Quanto dolore la vita pareva non aver risparmiato neanche a lei.

“A quanto pare io e te abbiamo perso coloro che amavamo di più e ci portiamo marchiato dentro Il nostro personale inferno”. Disse lentamente e amaro Harlock, sentendo per la prima volta di poter condividere la sua angoscia con qualcuno.

Raggiunse Helèn abbracciandola dalle spalle, più alto e possente di lei la strinse dolcemente tra le braccia. Lei non poteva scorgere il suo volto, così Harlock per una volta lasciò che la sua maschera si sgretolasse, sciogliendosi piano. Helèn accolse con piacere quell’abbraccio benefico.

“Non c’è notte in cui non gli senta pronunciare il mio nome”. Harlock la strinse ancora di più come a voler assorbire con il corpo il suo dolore. Lentamente lei si abbandonò a quell’abbraccio decontraendo i muscoli, la flebile luce che proveniva dall’esterno disegnava sul pavimento una sola, lunga armoniosa ombra scura.

Helèn si voltò adagio. Per guardare l’uomo che sentiva di amare, l’unico con cui aveva condiviso tanto, in così poco tempo. A cui si sentiva tanto vicina. Lo guardò teneramente grata. Lui le mise una mano dietro al collo e facendolo con il pollice le portò via quello che restava di una lacrima. Poi continuando a fissarla le passò il pollice sulla bocca carezzandole dolcemente le labbra morbide. Helèn inclinò il viso per accogliere quella carezza.

Harlock non distolse mai gli occhi da quelle labbra in attesa di farle sue. Si chinò e le assaggiò lentamente a più riprese. Come quando si desidera ardentemente assaporare un cibo e lo si fa a piccoli morsi affinché il piacere duri più a lungo. Tenendo lo sguardo avvinto al suo. Ad ogni distacco dalle sue labbra benché breve Helèn trasaliva come privata della vita stessa. Era come se il dolore di due anime si fondesse per ottenere conforto dall’altra. Poi Harlock le imprigionò la bocca con la sua cercandone con voluttà la lingua. A quel tocco così intimo e passionale ad Helèn mancò il terreno sotto i piedi e si sostenne a lui mentre ogni singola parte del suo corpo si accendeva per quell’uomo impetuoso e travolgente. Lui la strinse ancora più a sé per percepirne il dolce tepore. La sua bocca si muoveva ardita cercando e disegnando percorsi di piacere inesplorato. Si chinò lievemente prendendola in braccio con un solo, semplice gesto, senza smettere di baciarla mai per portarla sul suo letto.

Un boato immenso li fece trasalire. Il sordo tonfo di qualcosa che dall’esterno si era pesantemente infranto contro la vetrata li fece sussultare. L'Arcadia colpita vibrava vistosamente. Seguirono altri colpi sempre più rapidi e violenti.

 

 

 

NOTE

*Estintori ad onde d’urto di mia invenzione.

Questo capitolo è dedicato ad Harlocked. “We are waiting for you, my darilng”. :-* Benvenuta Divergente Trasversale.

Grazie sempre a tutti coloro che settimana dopo settimana continuano a leggere e seguire. Grazie a chi mi manda messaggini privati non appena posto ed a chi formula ipotesi che scaldano il cuore… vi adoro tutti!

Un grazie speciale a chi ogni settimana mi riempie di gioia lasciando una rec. Facendomi così sapere cosa ne pensano ed indicandomi la via, siete fonte perpetua di ispirazione. Grazie a tutte.

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Capitolo 14
*** L'ONDA ANOMALA ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

 

14

 

 

 

L’ONDA ANOMALA

 

Entrambi si voltarono di scatto, guardando fulminei, verso la vetrata.

Helèn spaventata. “Co… cosa è stato?"

"Meteoriti". Il volto di Harlock era di colpo una maschera cupa.

"Presto in plancia!" Le disse guardando fuori con apprensione. "Con i deflettori in avaria*, bisogna evitarle ad ogni costo. Abbiamo già troppi danni non ne occorrono altri, non ora!"

Così dicendo la mise giù correndo via rapidamente. Helèn lo seguì non ancora pienamente in possesso delle sue facoltà.

Il metallo dell'Arcadia vibrava ad ogni colpo, stridendo nell'assorbire la potenza degli impatti.

Dal ponte di comando, Harlock al timone fece segno ad Helèn di utilizzare l'unica postazione monitor di cui aveva ripristinato le funzionalità.

La donna, in basso rispetto ad Harlock, attendeva ordini.

"Helèn sarai il mio pilota. Il mio ufficiale di rotta, guidami!" le disse con piglio.

La nave continuava ad essere scossa, investita a più riprese dai frammenti di Universo di quello sciame meteoritico.

Helèn guardava il monitor cercando di capire, prevedere la traiettoria di quella tempesta di veri e propri asteroidi che li stavano investendo. Con i sensori a lunga gittata ed il sistema di autoriparazione in avaria, ogni altro danno sarebbe potuto essere letale.

Si guardò intorno, l'Arcadia le parve un valoroso combattente in balia dell’avverso destino, senza né armatura, né scudo, mentre quegli urti sembravano scandire il tempo che le restava. Usare le armi sarebbe stato inutile, erano solo in due. Tutto dipendeva da lei.

Si riebbe. Guardò i monitor davanti a sé. "Tutto a dritta capitano!" urlò decisa. "Cosi'… bene, tenere la rotta e ora tutto a babordo. Presto!".

Harlock piantato al timone, energico, risoluto, lo sguardo fisso innanzi a sé eseguiva con precisione le manovre. Per un attimo guardò Helèn concentrata nel compito che le aveva affidato, riponeva in lei totale fiducia.

L'Arcadia lentamente obbediva al suo capitano ondeggiando vistosamente. Quei corpi celesti sfrecciavano veloci sfiorandoli.

"Abbattere la chiglia presto, tutto a ponente". Gridò la donna. Un'altra piccola formazione di meteoriti venne evitata per un soffio. "Mantenere la rotta capitano. Alla via così".

La nera cupola dell’Universo sovrastante pareva oscillare accompagnando i movimenti dell’ Arcadia. Ogni tanto Helèn distoglieva lo sguardo dai monitor per voltarsi ed osservare dal basso Harlock.

Il timone scricchiolava per il vigore dei rapidi e potenti movimenti delle sue braccia, ai quali imprimeva una forza quasi rabbiosa dettata dalla volontà di salvare la sua nave.

Helèn fu impressionata dalla titanica determinazione di quell'uomo che, pur con una limitata visione oculare, riusciva a far spostare una corazzata lunga un chilometro come fosse stato un piccolo veivolo, con una precisione che la sconcertò. Da quella postazione Harlock le parve ancora più imponente, incrollabile. Le gambe divaricate, il grande mantello che ondeggiava con lui, accompagnandolo nei movimenti, i lineamenti del viso contratti, la mascella serrata, lo sguardo prepotentemente sensuale.

"La nave beccheggia capitano, correggere la rotta 4 gradi a babordo… perfetto… mantenere la rotta!" Disse d’un fiato.

L' Arcadia gemeva sforzata dai rapidi movimenti, il metallo si lamentava, l’Universo sembrava sbuffare e gorgogliare mentre lo scafo lo fendeva prepotente.

Helèn sorrise realizzando che stava contribuendo a determinare la rotta della mitica, grande Arcadia col suo leggendario capitano, il più temuto condottiero di tutti i tempi, e lei, lei era lì con lui. Solo pochi mesi prima non lo avrebbe mai creduto possibile.

Ad un tratto, controllando i monitor si trovò ad un bivio. Due grossi sciami meteoritici che correvano quasi paralleli stavano per colpirli, potevano evitarne solo uno. Non c'era il tempo di chiedere ma solo di decidere. "Presto tutto a tribordo. Presto Capitano!" Disse in apprensione.

Harlock con entrambe le mani utilizzando anche il proprio corpo per imprimere forza alla manovra, fece roteare rapidamente il grande timone tutto a destra. La nave scarrocciò rapida. In quegli istanti, nei difficili movimenti che compiva con apparente facilità spostando il pesante timone era come se lui e l’Arcadia divenissero un solo corpo. Come se l’uno fosse stato creato per l’altro e viceversa.

L'impatto con l'altro gruppo di asteroidi fu inevitabile. Helèn perso l’equilibrio fu scaraventata lontano dalla postazione. Harlock si resse al timone con tutta la sua forza, digrignando i denti e tentando di ridurre al minimo il rollìo della nave. Quando nuovamente guardò in basso non la vide.

"Helèn? Stai bene? Helèn?" La voce era ferma ma allarmata.

"Si, scusa ho dovuto fare una scelta". Fece lei massaggiandosi un fianco e tornando al suo posto. Lui abbozzò un sorriso, fu il suo modo per dirle che aveva approvato la sua decisione.

Helèn comprese. "Capitano, credo che il peggio sia passato”. Disse pensando a loro due come alla mente ed al braccio. “Alla poggia!” fece posando due dita sul ciglio destro.

"Il computer non riporta la presenza di danni gravi all'esterno capitano". Disse soddisfatta guardandolo e regalandogli uno dei suoi sorrisi solari. Quindi lo raggiunse veloce sul ponte di comando da una delle scalette che lo collegavano alla plancia.

Lui la fissò impenetrabile. Era provato. "Sei un ottimo pilota Helèn". Si limitò a dire. Era ovvio che la poesia del bacio di poco prima si era del tutto dissolta, correndo via come le meteoriti. "Notte Helèn".

"Notte Harlock". Rispose lei seguendolo con lo sguardo sparire nell’oscurità del corridoio, fino ad udirne solo il cadenzato incedere. Il passo deciso e sicuro, il lento ondeggiare del mantello sfrangiato, il movimento ritmico della spada sul fianco. Si era nuovamente rinchiuso nei profondi recessi del suo spirito, pensò. Era già tornato a camminare tra i brandelli della sua anima.

Harlock meditabondo si avviò lentamente al computer centrale.

Qualche ora dopo, nei suoi alloggi attese amaramente che la solitudine insonne venisse a fargli compagnia. Non si fece attendere molto, percepì il setoso frusciare delle sue lunghe vesti cineree. Ne intravide il profilo tra le ombre dei drappi del suo letto. Le sorrise beffardo, stappando una bottiglia e sollevandola come per un brindisi e bevendone direttamente il dolce nettare ambrato. Sarebbe stata una lunga notte si disse. Doveva mettere in ordine pensieri e sensazioni. Ne aveva bisogno ogni qual volta l'intricato ginepraio del suo essere veniva scompaginato. Sapeva che entrandovi le spine acuminate lo avrebbero ferito ma tutto faceva parte di quello strano rito espiatorio che gli occorreva per temprare la forza e la volontà che lo tenevano fermamente saldo da oltre cento anni. Era un duro viaggio dentro se stesso, dal quale, pagato il tributo, ne usciva rigenerato ma con l'acre sensazione ogni volta d'aver perso qualcosa. Qualcosa di importante.

Helèn raggiunse il suo pennuto paziente in infermeria, lo nutrì con del pesce in scatola. Mentre lo carezzava dolcemente, acciambellato in una cesta sulla sua scrivania, pensava ad Harlock, al gesto di proteggerla quando avevano trovato Tori. L'aveva spinta dolcemente dietro di sé per farle da scudo. Era stato un comportamento spontaneo, protettivo. Ripensò all'intensità dello sguardo che le aveva donato quando era sotto la doccia e a come, dopo, entrambi erano riusciti ad aprire i loro cuori, o ciò che ne restava.

Chiuse gli occhi, un brivido di piacere la percorse, ripensando ai suoi baci caldi, pieni di una passione generosa che non aveva mai provato prima. Quei baci erano pregni di un’ immensa voglia di amare ed essere riamato. Nel suo sguardo leggeva chiaro uno spasmodico desiderio di amore e pace. Un sentimento inespresso che desiderava solo venir fuori.

Amare Harlock era come essere investiti da un'onda anomala.

Imprevista, immensa, che sorprende e travolge, all'improvviso completamente, strappando il respiro ma che non disorientava. Le sue braccia forti erano l'ancora a cui tenersi aggrappati, il suo sguardo il porto di quiete dove essere tratti in salvo.

Ma poi come sempre accadeva, improvvise si innalzavano alte ed invalicabili le mura che aveva eretto a protezione delle piaghe del suo cuore. Ma solo l'amore guarisce le ferite… non il tempo. Pensò, lei lo sapeva bene.

Helèn immaginava quei sette guardiani di pietra e ghiaccio: solitudine, rimpianto, tormento, rimorso, nostalgia, disperazione e impotenza; erigersi colossali e spaventosi a difesa di enormi mura spettrali.

Non ne aveva paura, si disse. Li avrebbe vinti tutti, uno ad uno. Avrebbe espugnato il suo cuore e lo avrebbe fatto a modo suo. Avrebbe colmato i suoi neri silenzi con bianche parole. Spazzato via il temporale della malinconia con il sole della comprensione. Soffiato via la solitudine che si nutriva di se stessa, portando alla luce quanto vi era ancora di bello nel suo cuore. Colmato l'amara nostalgia con nuovi dolci ricordi. Sarebbe stata il suo conforto, la sua protezione durante le intemperie. Ora era pronta ad amare, pronta a donare.

Era come se Harlock si fosse perso nella sua disperazione, rifuggendo qualunque cosa potesse portargli dolcezza, speranza, pace. Era come se dovesse espiare. Ma cosa? Si chiese se fosse tutto dovuto alla morte di Torchio, del quale si incolpava. O se non fosse invece solo paura di amare?

Dal cassetto della scrivania prese un suo vecchio porta documenti e ne tirò fuori un foglietto ripiegato. Era una foto segnaletica di Harlock di qualche anno prima. Sorrise divertita, non gli rendeva affatto giustizia. Oltre al numero SS00999 sotto la fotografia c’era scritto: 'Un criminale, un terrorista, una minaccia per il genere umano'. Guardò ancora l’immagine. L’aveva con sé da tempo, per lavoro, insieme a quelle di molti altri criminali, ma aveva conservato solo la sua. Perché? Non ci aveva fatto caso allora. Perché l'aveva tenuta?

Il mattino dopo un Harlock insonne si era messo subito all'opera. Dopo qualche ora non vedendola si era recato alla sua cabina bussando irrequieto. Nessuna risposta. Spalancò la porta col piglio indispettito del comandante, ma il letto era intatto. Non vi aveva dormito. Si recò quindi in infermeria. E lì la trovò alla scrivania.

Dormiva, il capo mollemente adagiato sul braccio disteso, il respiro flebile e regolare. Il suo bel profilo faceva capolino tra alcune ciocche di capelli, la bocca era semi dischiusa. Cambiando idea decise di andar via non svegliandola, ma Tori vedendolo gracchiò forte saltandogli su una spalla, iniziando poi a sistemarsi le piume.

Helèn si svegliò di soprassalto. "Che succede?"

"Il sole è sorto da un pezzo dottore!" fece ironico lui.

"Il sole? Che sole?" Chiese lei sapendo che il buio astrale li avvolgeva costantemente. "Sai Harlock se non sapessi il contrario, direi che hai vissuto sulla terra anche tu". Disse stiracchiandosi.

"In cucina c'è del caffè, forza c'è molto da fare". Disse lui terminando la frase di spalle allontanandosi.

Dopo il duro lavoro del mattino, nel pomeriggio Harlock la convocò nelle sue stanze.

La porta era aperta. Helèn lo vide in piedi, una mano posata sulla scrivania, accigliato, mentre guardava alcune grandi carte nautiche che aveva srotolato. Senza alzare il capo le disse. "Accomodati Helèn".

Ma come faceva quell'uomo ad avvertire sempre la sua presenza? Forse davvero aveva sette sensi?

Indicandole un punto sulla carta le disse. "Ho fatto delle ricerche, so dove li tengono".

"Sai… sai dove sono?" fece sorpresa lei.

"Sono dei malfattori piuttosto abitudinari e presuntuosi, non cambiano mai il loro modo di operare. Si disfano presto del loro bottino. Li portano sull'ottavo astro del sistema stellare di Gora, Tocharga. Lo conosci?"

"Si è un pianeta inospitale, ci sono stata". Rispose pensosa Helèn.

"E’ per questo che li tengono lì”. Proseguì lui. "Ho valutato tutte le ipotesi, le due migliori sono, o di liberarli mentre sono ancora rinchiusi in quella specie di galera, o durante il trasferimento, poco prima loro della vendita".

Helèn assorta rispose. "Siamo solo in due, credo che la soluzione migliore sia prima che avvenga lo spostamento dei prigionieri. Non vorrei coinvolgere civili. Certo questo riduce le nostre chance ad una sola".

"Avevo pensato ad una manovra diversiva dell'Arcadia". Le disse lui guardandola. "Bisogna scoprire quando ed a che ora ci sarà il trasferimento".

"Avevi pensato a qualcosa? Io ho ancora le mie divise della Gaia Fleet ed i ‘pass’ non credo li abbiano cambiati".

Harlock inclinato il capo la guardò colpito ed un lampo attraversò  il suo occhio. "Sai cosa rischi?"

"Certo che lo so! Ma ogni tua battaglia, ora è la mia". Rispose seria la donna.

Harlock la scrutò ammirato quasi a leggerle dentro, poi proseguì. "Tra una quindicina di giorni la nave tornerà ad essere operativa ci dirigeremo prima su Rain poi su Tocarga".

"Rain?"

"E’ un minuscolo pianeta disabitato lontano dalle rotte consuete su cui potremo fare scorta di acqua e dove abbiamo un nostro deposito di cibo, armi e munizioni”. Disse indicando un punto sulla carta.

"Bene!" assentì Helèn.

La ‘riunione’ sembrava terminata quando lei parlò. "Vorrei chiederti una cosa. Domani vorrei preparare una cena un po’ diversa".

"Diversa?"

"Si domani sulla Terra sarebbe stato Natale**".

"Natale? E tu come lo sai?"

"Ho un mio calendario terrestre. Lo so che ti sembrerà strano, ma per me che ci sono nata, mantenere in vita alcune tradizioni è importante. Va bene per te?"

"Certo". Rispose lui non sapendo bene cosa aspettarsi.

Il giorno dopo per Helèn fu un continuo canticchiare per tutta la nave. Svolazzava tra i corridoi cantando motivetti natalizi che riportarono Harlock indietro di un secolo. Lui si limitava ad osservarla in parte divertito, in parte affascinato perché quella donna, nonostante tutto, conservava una fresca voglia di vivere che le invidiava.

Helèn trascorse anche un'oretta al pianoforte. Harlock le aveva detto che poteva suonarlo ogni qual volta ne avesse avuto voglia, ma lei lo faceva solo quando sapeva che lui era altrove.

Le note risuonavano propagandosi piano per tutta la nave, che silente, con tanti corridoi e pareti di metallo, fungeva tipo da enorme cassa di risonanza.

Harlock ovunque fosse si interrompeva e ascoltava quella musica assorto, rapito.

Poggiava le spalle ad una parete, piegava una gamba, incrociava le braccia al petto, chiudeva gli occhi e riportava alla mente paesaggi della Terra che non c'erano più, ma che come diceva Helèn avrebbero rivissuto nel loro ricordo.

Gli piaceva molto sentirla suonare ma non glielo aveva mai detto. Rispettava il suo spazio e faceva ritorno in camera sua solo quando era sicuro che lei avesse terminato. Sfiorava i tasti ancora tiepidi del vecchio pianoforte e pensava a Tochiro, alla loro giovinezza svanita come neve al sole della verità. Presto, troppo presto.

Tori dopo le amorevoli cure che il medico gli aveva riservato non la lascia mai. Dove era lei era lui. Ormai era la sua ombra.

Nel tardo pomeriggio una Helèn indaffarata era alle prese con un bel pezzo di carne per la cena. Si era accorta tardi che, tutti i forni sensing ray*** per scongelare rapidamente erano inutilizzabili. Avrebbero pagato anche questo, quei dannati mercenari, si disse mentre cercava un soluzione. Pensò che tagliando la carne a fette sarebbe riuscita a farla cuocere più velocemente. Aveva fretta. Con la mano sinistra teneva la carne e con la destra impugnò un grosso coltello.

Ed accadde.

La lama scivolò rapida sul ghiaccio della carne passandole poi sul dorso della mano.

Helèn guardò paralizzata una vistosa macchia rosso scarlatto aprirsi rapida sul dorso candido della sua mano sinistra. Non vi erano danni ai tendini, la lama aveva leso solo i tessuti ma per lei che non coagulava poteva essere pericoloso.

"Merda!" disse odiandosi per la sua stupidità e tamponando la ferita con dei canovacci. Nel giro di pochi istanti il piano di lavoro era ricoperto di sangue.

"Tori ascoltami, chiama Harlock. Va’ da Harlock!" Ordinò disperata.

Il grosso volatile, gracchiò e dopo un paio di saltelli sgraziati spiccò il volo.

La donna si augurò che avesse capito. Non aveva nulla con sé per chiamare Harlock aveva lasciato il trasmettitore in camera ed i citofoni interni erano all'ultimo posto nell’ordine delle cose da ripristinare sulla nave.

Tori giunto alla porta del capitano iniziò a sbattervi contro emettendo striduli suoni di richiamo.

Harlock allarmato spalancò la porta di colpo. Alzò gli occhi, nere piume cadevano dall’alto lente verso su di lui. "Che succede?"

Tori volò lontano accettandosi però che lui lo seguisse.

Correndo Harlock chiese. "Dove andiamo? Da Helèn?".

Giunto davanti alla porta d’accesso della cucina, si bloccò rimanendo un istante sbalordito guardandosi intorno. Non capiva dove Helèn fosse ferita, vista l'assurda quantità di sangue.

"Non è nulla capitano è solo un piccolo taglio sulla mano”. Fece lei con un sorriso tirato, cercando così di dissimulare la sua profonda preoccupazione. “Devi prendere il kit per le suture". Aggiunse. "Presto per favore".

In un istante il necessario fu sul grande banco della cucina.

Helèn parlando lentamente disse. "Ti dirò io come fare, sutureremo come si faceva un tempo".

Grazie alle spiegazioni di Helèn, Harlock con insolita maestria riuscì a richiudere con ago e filo la ferita in breve tempo. Helèn non volle sedativi locali e certo provava dolore. Piccole gocce di sudore le imperlavano la fronte. Ma ogni volta che Harlock alzava il viso per guardarla lei sorrideva debolmente.

"Bravo un'altra delle tue doti nascoste. Punti piccoli e perfetti, quasi tu lo avessi già fatto". Disse per mascherare il disagio. Era pallida. “Hai dita lunghe ed affusolate da chirurgo”. Messasi in piedi, la testa le girò. Sì resse al tavolo.

Harlock la sostenne prima di prenderla per portarla in infermeria. Helèn non protestò. Lì assunse alcune compresse. Seduta alla scrivania si teneva la testa con la mano destra.

Harlock per tutto il tempo non aveva pronunciato una sola parola.

Continuava a guardarla cupo, accigliato.

"Su Harlock non è nulla! E' stato solo uno sciocco incidente". Fece lei avvertendo quello sguardo e quel silenzio come macigni.

"C'è qualcosa che non mi hai detto". Rispose lui finalmente.

 I due si fissarono un lungo momento come due pugili prima dell'inizio dell'incontro.

"Harlock  sai che non coagulo bene come gli altri".

"No tu non coaguli affatto Helèn!” replicò duro lui, palesemente agitato. “Ho l'impressione che le tue condizioni di salute peggiorino, o sbaglio?"

"Sbagli!” Fece lei concitata. “Era il tipo di taglio e di lama". Spiegò frettolosamente.

"Helèn il taglio non era profondo, ma tu hai perso troppo sangue". Disse lui poco convinto.

"Sto bene Harlock davvero. Sanguinare mi ricorda di essere viva”. Poi guardando la fasciatura aggiunse piano. “Io adoro le cicatrici e questa… avrà per sempre un valore speciale”. Lo guardò intensamente come se stesse per dirgli addio. “Perché l'hai fatta tu". Così dicendo lo spinse affettuosamente fuori dall'infermeria. "Dai! Ho da fare, tra poche ore è Natale".

Chiusa la porta vi crollò appoggiandovisi. Gli occhi le si riempiono di lacrime. Si mise la mano destra sulla bocca per non farsi sentire. Disperata annaspò guardandosi intorno.

Era vero, stava peggiorando, lo sapeva. Lo aveva sempre saputo.

Per quanto sarebbe riuscita a tenere nascosta la verità? La vita le sfuggiva via come sabbia tra le dita.

Quando aveva raccontato ad Harlock dei danni della lunga permanenza in criogenesi sul suo corpo aveva detto solo di non poter più avere dei figli, accennando solamente ad un altro problema.

Questo era l'altro problema.

Harlock tornò in cucina. La quantità di sangue per un taglio di pochi centimetri era impressionante. Helèn lo sapeva bene per questo aveva mandato Tori a cercarlo. Ripulì in fretta, con rabbia. Poi preso il pezzo di carne lo scaraventò con collera nel lavandino. Si guardò le mani sporche, riflettendo che quel sangue, il sangue di Helèn circolava già da qualche tempo anche dentro il suo corpo.     

 

 

 

 

Note

Termini  ‘tecnici’ da Glossario termini marinareschi. Ho voluto immaginare l’Arcadia come un vero galeone in balia delle onde del destino da cui la terminologia.  Abbattere la chiglia:inclinare su di un fianco. Beccheggiare:oscillare. Alla via:mantenere la rotta. Scarrocciare:deviare lateralmente. Rollio:movimento intorno al proprio asse. Alla poggia:mantenere la medesima direzione.

*Deflettore: Utilizza un campo di gravitoni per avere un effetto repulsivo. Devia le masse, meteore o detriti che possono entrare in collisione con la nave.

**Mai avrei pensato quando molti mesi fa ho iniziato a scrivere questa fic che avrei postato proprio vicino al Natale.     Vorrà dire che Capitano farà gli auguri a tutte noi J

***Forni  Sensing-ray: I forni del futuro.

Grazie sempre alla B-beta ed a chi si ferma a leggere e commentare.

 

 

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Capitolo 15
*** LA CENA ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

 

15

 

 

LA CENA

 

Il pomeriggio trascorse ma Helèn non si mosse dalla sua cabina.

Harlock in apprensione andò ad accertarsi delle sue condizioni di salute. Bussò con discrezione.

“Entra pure Harlock” rispose stancamente Helèn.

“Come stai? Come va la mano?”

“Meglio grazie, non era nulla di grave te lo avevo detto”. Rispose abbozzando un debole sorriso.

Lui la osservò un lungo momento seduta sul suo letto, le gambe raccolte al petto. Rannicchiata su se stessa.

“Sarei venuta io da te, tra poco, per dirti che l’idea della cena di Natale era una vera sciocchezza. Non so come mi sia venuta in mente, scusami”. Sospirò profondamente. “E’ che a volte… sento un forte bisogno di normalità”. Poi guardando fuori avvilita, proseguì “non mi abituerò mai veramente a questo buio… a questa vita. Ed il non sapere dove sono gli altri mi attanaglia il cuore” concluse, incrociando per un istante il suo sguardo.

Harlock si incupì. In quegli occhi aveva letto un moto di vera disperazione, che contrastava con i sorrisi pieni di speranza e voglia di vivere che nei momenti bui lei gli aveva regalato. Qualcosa non andava, ora ne era certo. Poi il pensiero corse ai suoi uomini. Strinse forte i pugni e fece per uscire bloccandosi però sulla porta.

Quel lampo di spietata desolazione che aveva colto nello sguardo di Helèn lo fece fermare. Lei che gli aveva salvato la vita, che aveva superato completamente da sola momenti durissimi, pareva ora annegare nello sconforto. Sembrava chiedergli aiuto. Decise, vincendo se stesso e la sua natura, di donarle quello di cui in realtà lei aveva bisogno. Sentì che era giusto. Decise di regalarle qualche ora di semplice spensieratezza, di quasi ‘normalità’, come l’aveva definita lei”.

Quindi si voltò dicendo. “Peccato, eri riuscita ad incuriosirmi”.

“Davvero?” rispose Helèn mentre un guizzo di luce le attraversò le iridi.

Harlock sorrise tra sé. “Si” rispose uscendo.

All'ora fissata, negli appartamenti di Harlock, Helèn aveva preparato, una graziosa tavola con al centro una bella piantina di pomodori agghindata per l’occasione come se fosse stata un alberello di Natale. Pochi e semplici piatti facevano bella mostra sulla scrivania ben apparecchiata ed illuminata da un grande candelabro.

Harlock uscendo dalla sua camera, vestito e sbarbato, guardò il tutto accennando un sorriso  divertito e versandosi un bicchiere di vino. Ma quando fece per portarlo alle labbra, il bicchiere restò a mezz'aria. Helèn era sulla porta.

Bellissima.

Indossava un lungo vestito di velluto rosso scuro stretto in vita che le metteva in evidenza le curve del seno. Aveva raccolto i capelli e messo una collana con un rubino. La fasciatura alla mano era stata abilmente nascosta, mentre invece il vestito non nascondeva il resto, scoprendole in parte morbidamente la schiena. Portava un paio di oggetti impacchettati.

"Buonasera Capitano". Disse sorridendo maliziosa, consapevole dello sguardo che lui le aveva appena donato.

Harlock la salutò levando il bicchiere, e bevendone il contenuto d'un sorso senza distogliere lo sguardo da lei. Tori volò ad appollaiarsi su di una trave.

"Sei molto bella. Non sapevo avessi abiti simili a questi”. Le disse spostandole cavallerescamente la sedia.

"Come ti ho detto sulla Horizon ero da poco, non avevo in verità neppure disfatto i bagagli. Tenevo tutto in una cassa che mi sono portata quando sono venuta qui, e tra le altre cose c’erano anche gli abiti. Ne possedevo tanti, ne ho tenuti un paio". Fece impacciata.

 Harlock le sedette accanto. "Come mai?"

"Avevo una vita sociale piuttosto intensa sia prima che dopo essermi arruolata". Non aggiunse altro ed Harlock non chiese.

Helèn facendo riferimento ai piatti disse con orgoglio. "Come avrai notato non c'e' molto ma tutto ciò che mangerai stasera viene in qualche modo dalla Terra".

Aveva la sua attenzione.

"Sugo di pomodori della mia piantina, così come le spezie. La carne no, ma i contorni essiccati vengono dalla mia serra".

"La tua serra?" Fece incuriosito lui.

"Si sulla nave su cui ero prima, avevo una mia piccola serra di piante provenienti dalla Terra. In quello che qui…” sorrise “sarebbe considerato il giardinetto di poppa*”.

“Il giardinetto di Poppa? Ma è dove c'è la cabina del capitano?" fece perplesso lui.

"Già… io vivevo lì... cioè vi avevo accesso". Rispose mordendosi le labbra per la sua imprudenza.

Harlock la guardò riflettendo come, nonostante il tempo passato ignorasse molte cose del suo passato.

"E come mai hai cambiato nave scegliendo la Horizon?" chiese lui versandole da bere.

"Volevo allargare i miei orizzonti” rispose ridendo e dribblando così la risposta."Al Natale Harlock!" disse alzando il calice.

"Non avrei mai pensato di dirlo ma… al Natale". Fece lui accostando gli eleganti bicchieri il cui cristallo produsse un lieve tintinnio.

I piatti molto semplici sparirono in fretta.

“Sei una brava cuoca chi ti ha insegnato? Tua madre?”

Lo sguardo di Helèn si rattristò. “No, lei era ricercatrice non aveva tempo per certe cose. Ho conosciuto dopo, nella mia seconda vita, come la chiamo io, una donna speciale che mi ha insegnato”.

La cena proseguì piacevolmente, il clima era caldo e sereno. Il tepore del camino, la luce delle candele, il riflesso di vino rosso e loro.

Helèn parlò tutto il tempo, era felice, gli occhi le brillavano. Dopo tanto, tanto tempo festeggiava il Natale con qualcuno che sentiva di amare profondamente. Raccontò di come lei e la sua famiglia preparavano e festeggiavano quella festa speciale, lo rese partecipe di aneddoti buffissimi che non riusciva quasi a dirgli per le risate che le provocavano. 

Harlock la guardava rapito accompagnando le sue parole con lenti cenni del capo, non solo perché era bellissima e radiosa, ma perché la sua risata argentina era luminosa e contagiosa, i suoi occhi due limpidi laghi in cui affogare. Sentì i muscoli del corpo lentamente rilassarsi. Le piaceva la sua compagnia e lei era incredibilmente sensuale quando ridendo si portava il dorso della mano alle labbra. Ammirava tutto di lei, la forza, il coraggio, la tenacia e la splendida femminilità.

Dopo che la prima bottiglia fu terminata lei chiese, resa spavalda dal vino "Capitano mi concede questo ballo?" così dicendo si produsse in un inchino con tale grazia solenne che Harlock le sorrise affascinato e divertito, decidendo di accontentarla. Decise di partecipare a quel gioco. Aveva voglia di lasciarsi andare anche se per un solo momento.

Alzandosi le accennò un inchino con la mano dietro la schiena. “Madame”. 

“Monsieur” rispose lei.

Le cinse la vita, facendo scorrere piano la mano sul morbido tessuto del fianco. Tirandola lentamente a sé. Quel semplice contatto diede il via ad una magica alchimia, di cui entrambi furono immediatamente consapevoli. Lei posò la mano destra sulla sua spalla. Iniziarono così un ballo fatto di sguardi e desideri.

La musica risuonava nella loro testa, volteggiavano al ritmo lento, fissandosi. Lo sguardo di Harlock era un nero mantello di velluto, gli occhi di Helèn due stelle luminose.

Si udiva solo il fruscio delle sue vesti ed il cuoio degli stivali di lui. Erano talmente armoniosi nei movimenti da sembrare che non avessero fatto altro in vita loro. Lui l’accompagnava i fluidi movimenti e lei sembrava volare sorretta da quello sguardo forte e dolce al tempo.

Helèn percepiva forte la sua eccitante e magnetica sensualità. Ammirava i lineamenti del viso rilassati. Erano, se mai possibile, ancora più belli. Ne studiò lo sguardo docile e lievemente divertito a cui lentamente si andava abituando.

Harlock era un uomo speciale, affascinante e seducente. Dotato di un regale e disarmante carisma del quale non pareva essere consapevole. 

Danzando, percepivano la reciproca fisicità, si osservavano studiandosi come se il resto dell’Universo avesse smesso di esistere.

Harlock ammirava la solare eleganza di Helèn. Tra loro c'era una forte tensione sessuale che traspariva da come lui la teneva avvinta a sé e dagli sguardi carezzevoli che lei gli donava, spostando piano lo sguardo, dai capelli, alla fronte, alle labbra. L'attrazione che li legava, a volte sembrava sommergerli incontrollabile. Lui le strinse un po’ di più la mano sinistra provocandole un lieve dolore. Helèn sobbalzò.

"Scusami non ricordavo la ferita" fece contrito lui bloccandosi.

"Bellissima quella cicatrice mi ricorderà di essere stata felice". Rispose in un soffio lei non smettendo di guardarlo.

Harlock ne fu colpito. Non aveva mai pensato che ad una cicatrice si potesse legare un bel ricordo. 'Felice?' Dunque Helèn era felice con lui, sull'Arcadia?

Ballarono ancora per  qualche tempo e come sempre accadeva il pendolo del tempo rallentò i suoi rintocchi per prolungare la magia. Helèn sopraffatta da una strana sensazione perse un passo urtando Harlock, alzò lo sguardo verso di lui. "Ma… ma io te… abbiamo già ballato insieme?" chiese turbata.

"No". Le rispose lui divertito, facendole fare un morbido caschè. "Ma avremmo dovuto". Rispose facendola risalire piano e sorridendole sornione. Stava bene, provava una serenità che credeva perduta.

Terminato il ballo, si separarono con riluttanza, restando un lungo momento a fissarsi, senza bisogno di parole. Helèn disse qualcosa ma lui non la sentì. Guardava solo il movimento delle sue labbra, ogni parola fu come bacio.

Tornando al tavolo Helèn per la prima volta chiese. "Perché qui è sempre così buio?"

Lui sollevato il sopracciglio, rispose. "Nel buio si scorgono cose che alla luce sembrerebbero insignificanti". Bevve. "Qui il tuo sorriso è luce".

La donna abbassò il viso sperando che il suo rossore non si scorgesse.

“Prima pensando alla cicatrice che ti resterà sul dorso della mano, riflettevo sul fatto che tu hai un modo tutto tuo di rielaborare ciò che ti accade”. Proseguì lui.

"Quando ti viene data una seconda possibilità, il tuo modo di vedere la vita cambia profondamente Harlock".

La conversazione aveva preso una direzione che ad Helèn non piaceva, temeva che lui le avrebbe nuovamente chiesto della sua salute, così per distrarlo gli disse con enfasi "E' l'ora dei regali".

"Di che regali si tratta?" chiese sempre più incuriosito lui.

"Ma come? Non sai che Babbo Natale porta dei doni a grandi e piccoli se sono stati buoni?" rispose con aria di finta saccenza.

Lui con una dolce tristezza nello sguardo, le rispose invece con falsa innocenza. "Io sono stato buono?"

Helèn non poté trattenersi dal posargli teneramente un amano su una guancia. Era come se in quella ingenua domanda avesse intravisto per la prima volta un giovane uomo privato troppo presto dell’amore e della famiglia. "Tu… sei buono Harlock".

Poi rendendosi conto del suo gesto, prese a raccontare la storia del cugino, che un Natale per calarsi dal camino per poco non si era rotto l'osso del collo. Rise di cuore e quella risata sincera e cristallina ebbe il potere di scaldare il distaccato e freddo cuore di Harlock che si ritrovò a chiedersi come mai il destino avesse portato una donna tanto bella e piena di vita nella sua cabina quella notte di Natale.

Poi Helèn scartando un grosso pezzo di carne cruda e lanciandolo con vigore in aria gridò "Tori questo è per te!" Il grosso volatile lo prese al volo."Buon Natale!" gridò mentre il buffo uccello si rintanava col bottino.

“E questo è per te Capitano!” Helèn gli porse una bottiglia dall'aria molto antica a cui aveva legato un grosso fiocco rosso. "È una bottiglia speciale" proseguì "Mi è stata regalata per un'occasione davvero importante, ed io voglio donarla a te”. Poi scandendo piano le parole. “È una bottiglia imbottigliata sulla terra. Non su Marte o su qualche satellite terrificato. Quest'uva è nata e maturata piano al caldo sole della Terra".

Harlock colpito, presa la bottiglia l’osservò rapito. Ne guardò il contenuto in contro luce, sfiorando con delicatezza ciò che restava dell'ingiallita etichetta. Ne comprese il valore ed il significato che poteva avere per Helèn ed apprezzò che volesse condividerla con lui.

"Grazie". Disse semplicemente guardandola.

"Buon Natale Capitan Harlock!" Helèn si sollevò sulla punta dei piedi sfiorandogli una guancia con un tenero bacio. Lui rimase fermo a fissarla con uno sguardo penetrante. Per quanti sforzi facesse quella donna gli era entrata dentro.

"Beviamo?" chiese allegra Helèn.

Harlock aprì la bottiglia con garbata sicurezza. Il vino era di un rosso cupo, intenso e liquoroso. Ne versò con lentezza il contenuto in due ballon**, ne osservò il colore e ne sorbì l'odore, dopodiché porgendo un bicchiere ad Helèn l'assaporò piano, lasciando che il palato ne cogliesse ogni sfumatura e l'esofago si scaldasse lentamente.

Chiuse l'occhio immaginando un casolare, un assolato vigneto una mattina di settembre, una brezza leggera carezzava l’erba accompagnata dal cinguettio degli uccelli, una dolce collina, l'abbaiare lontano di un cane, una donna che carezzando l’animale lo salutava, una volta raggiunto lo guardava con dolcezza infinita sorridendogli.

Spalancò l'occhio turbato. Quella donna aveva il volto di Helèn. La guardò accanto a lui, il bicchiere in mano, gli occhi chiusi, le labbra lucide stavano ancora assaporando il liquore. Lei si ridestò sentendosi osservata. Sorrise ma il suo sguardo era velato di tristezza. "Scusa ero lontana” disse malinconica “Ero su di una verdeggiante collina".

Harlock per dissimulare l’effetto che l’immagine e quelle inspiegabili parole avevano avuto su di lui si affrettò a dire piccato "E’ davvero un vino speciale, sicuramente vale una piccola fortuna. Avevi amici facoltosi per ricevere regali del genere".

"Come ti ho detto avevo un'intensa vita sociale". Rispose semplicemente lei.

"Perché aprirla stasera?" la rintuzza lui che ha deciso di sapere.

Helèn si fece seria. "Natale con te è un evento speciale, forse sarà l'unico Natale che passeremo insieme... magari per te non è cosi... ma…" Non terminò la frase, lui avvicinatosi, le prese il mento tra le dita, si sporse in avanti regalandole un lungo bacio.

Le sue labbra le parvero leggere come la brezza del mattino, ma morbide ed intense come certe notti d’estate, calde e molli. “Buon Natale dottore!" le sussurrò. Il suo alito dolce sapeva di liquore e di passione, di desiderio e voglia repressa.

Poi spostandosi alla sua scrivania aprì con fare sicuro uno dei cassetti prendendo un plico arrotolato. Vi vergò rapido sopra la sua firma e lo porse ad Helèn dicendo "Io non vado in giro a fare compere come avrai notato. Ma voglio donarti qualcosa di mio".

Helèn srotolato incuriosita il foglio di pergamena color ambra, vi fece scorrere lo sguardo ma non riuscì a terminare la lettura. Gli occhi le si inumidirono, saltò al collo di Harlock stringendolo forte, e affondando il viso nell’ampio bavero. “Grazie è il più bel regalo che abbia mai ricevuto" disse commossa.

Lui le aveva appena regalato una stella.

"L'ho scoperta diversi anni fa ai confini dell'Universo conosciuto” le rispose stringendola debolmente. “Ora si chiama Helèn, ed è tua".

La donna avrebbe voluto fare molto di più che starsene lì impalata con gli occhi pieni di lacrime. Sorrise, mordendosi il labbro inferiore e guardando quella firma veloce e complessa in fondo al foglio.

Questo era Harlock, gli altri regalavano gioielli o costose bottiglie di vino. Lui una stella.

Anche la bottiglia terminò.

Helèn non si rese conto di essersi addormentata. Fece per alzarsi, si dovette reggere al tavolo, riconobbe che quel vino era davvero molto forte. Era decisamente brilla. Anche Harlock si era addormentato sulla sua sedia.

Presa la pergamena e tolte le scarpe per non far rumore, pensò di lasciarlo riposare. Lo osservò teneramente dormire. Il viso lievemente chino da un lato, i capelli scompigliati che lo nascondevano in parte. Era bellissimo il suo Harlock.

Si avvicinò e sussurrò "Buona notte amore mio" sfiorandogli appena le labbra con bacio.

Uscì. La porta si chiuse. Harlock spalancò il suo occhio.

Non dormiva. Ripeté mentalmente le parole di Helèn 'amore mio'.

Helèn lo amava e lui non se ne era reso conto. Non era lucido. Aveva bevuto decisamente troppo.

Uscì! Doveva sapere.

 

 

 

 

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Note

*Giardinetto di poppa: parte posta a poppa dei galeoni, munita di un balcone decorato con piante (da cui anche‘vento a giardinetto’).

** Rossi importanti e di lungo invecchiamento richiedono il ballon, calice di grandi dimensioni dal caratteristico aspetto arrotondato, che meglio consente al vino di liberare i profumi complessi. 

Capitolo dedicato alle meravigliose donne che seguono recensendola ogni settimana questa mia fic. Grazie questa cena è per tutte voi ;-P

Sempre grazie alla favolosa B-Beta per tutto specialmente per i preziosi consigli :-*

Grazie alla Mizu per l’azzeccatissima fan art. ;-)

Il Natale è davvero alle porte AUGURI a tutti coloro che leggono anche dal nostro grande ed unico Capitano che come vedete ha allestito un albero ‘a tema’per noi tutte. Baci.

 

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Capitolo 16
*** SE TU SEI FIAMMA IO BRUCERO' E SARO' CENERE ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

 

16

 

 

 

SE TU SEI FIAMMA IO BRUCERO’ E SARO’ CENERE

 

 

 

Helèn non era in camera sua. Harlock la cercò spasmodico, famelico.

Brilla come era, aveva sbagliato passaggio. Aggirandosi traballante per uno degli immensi corridoi della nave, nella penombra, senza rendersene conto, andò letteralmente a sbattere contro un Harlock immobile.

“Oh Capitano, ciao! Ma che ci fai tu qui?" gli disse ridacchiando sollevando il viso.

Lui la guardò duramente, severo, inaccessibile. Sembrava una magnifica statua di marmo. Non un muscolo del volto tradiva la minima emozione. Solo i capelli ed il mantello si muovevano debolmente.

Helèn indietreggiò intimorita "Che c'è?" chiese smarrita.

Il mantello ondeggiò. Harlock raggiuntala con un’unica ampia falcata la prese per la vita, e con il solo braccio destro la sollevò di peso e la schiacciò con irruenza contro la fredda parete di metallo alle sue spalle. Facendo così aderire i loro corpi caldi.

Con una mano le cingeva saldamente la vita, l'altra era poggiata sulla parete a pochi centimetri dal viso di Helèn.

A causa di quel brusco movimento le scivolarono via dalle mani scarpe e pergamena, lo chignon si sciolse, ed i capelli le ricaddero morbidamente sulle spalle, sprigionando nell’aria un tenue profumo.

Così sollevata era alta quanto lui. Lo guardava dritta in viso. Prigioniera tra la parete ed il suo corpo aggressivo. Prigioniera di quello sguardo.

Avvertiva sulla pelle del volto il suo respiro veloce, tiepido e inebriante, mentre i muscoli del suo corpo si contraevano, come se stesse combattendo una battaglia contro se stesso.

I loro cuori erano in corsa. Battiti frenetici si rincorrevano fondendosi, inseguiti da sensazioni vaste e nuove, alla ricerca di risposte su quel loro sentire.

"Ha… rl… " sussurrò impaurita, non potendo distogliere lo sguardo, non capendo. Ma non fece in tempo a terminare.

Lui dopo averla guardata con una passione ed un ardore che le erano sconosciuti, le imprigionò famelico la bocca con la propria, in un bacio intenso e profondo, potente e prepotente che le spezzò il respiro.

Con rapidi ed impetuosi movimenti delle labbra gustò con fiera voluttà il sapore morbido di quella bocca, di quella donna.

Si staccò da quelle labbra dolorosamente inappagato, il respiro corto. Ne indagò per un lungo momento gli occhi, alla ricerca di una risposta. Il suo sguardo era di una intensità tale che fece tremare Helèn. Poi presala in braccio la portò nei suoi appartamenti chiudendo la porta con un piede.

La stese sul grande letto continuando a baciarla con ardore infinito. Non erano semplici baci, in quell’impeto vi era la volontà di volersi appropriare di qualcosa per troppo tempo negato. Con fame voluttuosa, con voglia quasi aggressiva, con dolore ed amore insieme. Come se lei fosse sempre stata una cosa solo sua.

Helèn trascinata via da quel vortice immenso di passione riuscì solo a posargli dolcemente le mani sulle spalle.

Era fuoco. Lava incandescente che fonde imprigionando ogni cosa al suo passaggio, che riempie di sé ogni spazio. Ne ebbe paura e desiderio insieme.

Sentiva le sue mani carezzarle con impeto il corpo inguainato nel vestito di velluto. Brividi violenti le percorrevano la schiena come elettricità. Avevano entrambi il respiro veloce e continuavano a guardarsi quasi disperatamente. Come se fossero al centro di una tempesta che lungamente attesa, improvvisa, si sprigiona strappandoti via ogni certezza. Una bufera che solo loro potevano placare. Nell’occhio di quel vortice di sensazioni crescenti c’erano loro e loro due soltanto.

Helèn tremava debolmente tra un misto di desiderio represso e consapevolezza che nulla sarebbe stato più come prima. Harlock in un istante si sbarazzò di mantello e giubbetto, cercando dopo averle baciato collo e spalle con passione, di abbassarle la scollatura in uno spasmodico e necessario bisogno di contatto con la sua pelle. Lei lo aiutò sfilandosi le maniche dell’abito.

Lui la strinse. A quel contatto con la sua pelle Helèn rabbrividì di piacere. Era calda, morbida, lievemente umida. Con i polpastrelli sfiorò con languida lentezza i muscoli delle spalle scolpite a cui tante volte si era ritrovata a pensare percependone i movimenti, i pettorali solidi e lisci, armoniosi nonostante qualche cicatrice che ne esaltava la bellezza. La testa le girava, temeva che un qualunque gesto avrebbe potuto far cessare tutto. Ma stavolta Harlock non si sarebbe fermato. Perché ora sapeva che anche lei lo voleva.

Scostando alcune ciocche di capelli lui iniziò a perlustrare piano con le labbra la pelle del collo aspirandone la fragranza dolce e inebriante, percependola come fosse l’aroma della vita, perché in quel momento lei era proprio un anelito di vita vera ritrovata. Si sentì per la prima volta, dopo tante vite, stranamente pago come quando dopo un lungo viaggio si torna a casa, ed un odore famigliare ti accoglie aprendo la porta abbracciandoti, coccolandoti e rassicurandoti lo spirito.

Non si chiese il perché di quelle sensazioni, chiuse il suo occhio, assaporando quella piacevole sensazione, riaprendolo subito dopo in debito di luce. Si scostò guardandola un istante, ansimando, ebbro di lei, nello sguardo di Helèn c’era una tacita richiesta, che attendeva d’esser accolta. Ciuffi ribelli di capelli gli coprivano in parte il viso, Helèn li scostò dolcemente con dita tremanti per guardarlo. Sapeva che in quello sguardo avrebbe trovato quello che cercava.

Il volto trepidante di Harlock era bellissimo, vi traspariva una dolcezza che non conosceva, lo sguardo languidamente perso dietro l’attesa. Helèn gli sorrise sollevandosi lievemente per baciarlo teneramente con tutto il trasporto di cui era capace stringendolo forte a sé.

Si baciarono ancora ed ancora, mai sazi di quella meravigliosa e naturale intimità, non era il corpo ad essere unito in quell’intimo abbraccio ma l’anima. Stanca ma finalmente quieta come alla fine di una lunga ricerca.

Ogni bacio non era un semplice contatto di labbra, ma era conoscenza ed accettazione di sé, di quel sentimento troppo a lungo negato e soffocato. Lui le sfilò il vestito rapidamente, lanciando tutto lontano, quasi con rabbia, sbarazzandosi dei suoi abiti quasi con riluttanza, come se ogni istante lontano da lei fosse un’agonia. Come se gli mancasse l’ossigeno.

Helèn stesasi, pudicamente si posò le mani sul seno, lui le prese dolcemente regalandole un lungo e sensualissimo sguardo “Fai male per quanto sei bella” sussurrò, posandole i palmi delle mani al centro del suo petto per farle sentire l’assordante frastuono prodotto dal suo cuore.

Helèn sorrise commossa come solo a lui sapeva sorridere, due lacrime scivolarono via, quel cuore batteva forte per lei.

Le lunghe dita affusolate delle mani di Harlock si muovevano lente sulla sua pelle setosa del suo corpo quasi a volerne scoprire e catturare ogni centimetro, sopraffatto dalle sensazioni che provava. Avide labbra la esplorarono mai paghe, disegnandovi in punta di lingua arditi sentieri di piacere, regalando ad Helèn sensazioni travolgenti che mai aveva provato.

Durante quel dolce supplizio Helèn teneva il dorso della mano sulla bocca a soffocare piccoli gemiti, lui le baciò la mano prima di allontanarla delicatamente con il viso per scrutarla, quasi a voler scolpire nella mente quel viso, quella languida espressione.

Intimidita Helèn si sollevò leggermente per nascondere il volto nell’incavo del suo collo, mentre sentiva le sue mani percorrerle sensualmente la schiena. Aspirò profondamente quel momento e le sensazioni che le regalava. I capelli di lui le carezzavano lentamente una guancia provocandole brividi sottili. Gli baciò con esasperante lentezza collo e spalle, sentì il suo respiro rallentare, scese assaporando con labbra umide i forti pettorali e le valli dove la spalla si univa al petto. Sfiorò piano con le labbra la pelle madida, sapeva di sale e sesso, elegante e magnetica come lui. 

Poi il suo cuore perse un colpo, si sentì per un istante persa.

Dai recessi più profondi del suo inconscio evocato dall’odore di lui emerse un ricordo, un richiamo. A quella fragranza era legata una dolorosa e profonda sensazione di distacco, di perdita, di vuoto incolmabile che non seppe spiegarsi. Annaspò. Lei quell’odore lo aveva già sentito e perduto, ne era certa. Si scostò alla ricerca del rassicurante sguardo di lui per una risposta.

“Lo so” le sussurrò lui ma non le diede il tempo di riflettere stendendola e baciandola ancora con voluttà. Harlock faceva fatica a respingere le ondate di desiderio che gli impedivano di ragionare, che erano ora il combustibile per quel fuoco, che finalmente bruciava nel profondo dell’anima, sprigionando una forza incredibile che Helèn percepiva con ogni corda del suo essere.

“Se tu sei fuoco, io brucerò e sarò cenere” gli sussurrò lei arrendendosi completamente, decidendo di assaporare intensamente quel singolo momento prima che il successivo lo cancellasse. Si inarcò lievemente spontaneamente quando sentì la sua bocca impossessarsi del suo seno avvertendone il caldo abbraccio della lingua. Aprendo gli occhi trattenne il respiro nello scorgere fiammelle in quello sguardo che la carezzava.

Dopo aver fatto aderire i loro corpi, lui fece scivolare le dita delle mani tra le dita della sue stringendole appena, puoi piano la stretta si fece più forte e due corpi divennero uno e si accolsero senza più riserve, o timori, nella silente accettazione che tutto quello stava a significare.

Si strinsero l’un l’altra con tutta l’anima, consapevoli dei loro corpi uniti e della luce vibrante che loro anime ora non più sole, emanavano. Si guardarono, con questa meravigliosa ed inspiegabile consapevolezza, labbra contro labbra, respiro nel respiro.

Un granello della grande clessidra del tempo si arrestò sospeso a mezz’aria perché qualunque cosa fosse accaduta in quell’istante non avrebbe avuto nessuna importanza.

Gli Universi separati si unirono. Fu come se vecchie ferite si rimarginassero e nuove smettessero di perdere sangue. I loro cuori battendo all’unisono si cercarono ritrovandosi ad occhi chiusi, lasciandosi annegare al ritmo dei loro corpi e dei loro respiri.

 

 

 

 

 

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Note

La frase del titolo l’ho letta non ricordo neppure più dove, ma mi sembrava perfetta. Come questo disegno nel quale mi sono casualmente imbattuta e che ovviamente appartiene a chi lo ha fatto, l'ho trovato su internet, non ricordo chi sia l'autore, mi spiace lo ringrazierei.

Capitolo dedicato a tutte le splendide fanciulle che anelavano questo momento. La loro prima volta io la vedo così, l’incontro tra due anime, le successive saranno diverse ;-p

Un grazie sempre alla silente B-Beta.

 A causa delle festività natalizie il prossimo postaggio potrebbe slittare al sabato o alla domenica. Vi aspetto tutte per il post! Grazie a chi recensisce, a chi legge, a chi mi ha messo tra i seguiti o preferiti. Una abbraccio e felice Natale a tutte.

 

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Capitolo 17
*** SO COME SEI ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

 

 

 

17

 

 

 

SO COME SEI

 

      

Helèn non avrebbe mai immaginato di svegliarsi con accanto la sua assenza.

Si guardò intorno spaesata, allungando la mano verso il cuscino alla sua sinistra, era freddo, sintomo che lui era via già da un po’.

Alcune parti del corpo le dolevano, a dimostrazione che non aveva sognato, era stato tutto vero.

Vera la passione, l’irruenza, il desiderio. Reali i sospiri, le sensazioni, gli abbracci. Ricordò il sapore dei suoi baci. Arrossì appena, mentre i suoi occhi vagavano lenti sulla grande struttura del letto a baldacchino, riportandole alla mente le dolci espressioni del viso di lui.

Avvertì il rumore della porta che si apriva ed i suoi passi nella stanza accanto. Il cuore prese a batterle forte, come impazzito.

Entrando lui posò un vassoio su un basso mobiletto, girò intorno al letto per averla di fronte. Era vestito di tutto punto, pantaloni, maglione, stivali.

Lei si sollevò a sedere scontrandosi con uno sguardo ermetico, corazzato e distaccato. In quell’occhio nero vi era solo il gelo di una notte d’inverno. Si guardarono per un lungo momento senza proferire parola. Lei era coperta solo in parte da un angolo del lenzuolo, iniziò a sentirsi a disagio, a provare una spiacevole sensazione di freddo.

“Helèn” le disse con voce incolore “Volevo chiederti scusa per ieri sera… il vino… non ero lucido, sono stato completamente avvinto da te e dalle tue grazie. Non accadrà più. Hai la mia parola”.

La donna abbassò lo sguardo incredula. ‘No, non può essere vero’ si disse concentrandosi disperatamente sulla valanga di sentimenti, che quelle parole dure, come il grigio del cemento avevano provocato. Cercò di non ascoltare l’inverno dilagante che stava sentendo al centro del cuore. Era stato solo sesso si ripeteva, solo sesso. Lo ripeteva per convincersi, per trovare da qualche parte la forza per reagire con dignità a quella situazione. La forza, per affrontare lo sguardo dell’uomo che aveva appena rinnegato lei, ed una notte d’amore.

Intanto cercava, sperando che lui non se ne accorgesse, di coprirsi tirando il lenzuolo che però era rimasto impigliato da qualche parte, e non voleva saperne di venir via.

Improvvisamente si sentì nuda ed indifesa, avrebbe voluto non essere lì.

Con voce il più ferma che poté rispose senza guardarlo “Non si preoccupi Capitano, sono maggiorenne, non c’è alcun problema”. Intanto continuava lentamente, ma disperatamente, a cercare di liberare il lenzuolo tirandolo. Un seno le faceva capolino tra i lunghi capelli.

Ad Harlock fece una tenerezza sconfinata vederla in quel grande letto: sola, con i lunghi capelli che non riuscivano a celarne la nudità, lottare per coprirsi. Le parve infinitamente fragile, piccola, in lotta con se stessa per ritrovare coraggio mantenendo lo sguardo basso.

Capì d’averle fatto molto male, ma lo aveva messo in conto. Erano ore che ci ragionava. Aveva trascorso la notte guardandola dormire ed analizzando i propri sentimenti. Lei, il respiro lento, il viso dolce ed appagato, aveva provato un sentimento dolcissimo, sfiorandole una guancia ed un braccio ‘Chi sei veramente tu?’ si era chiesto fuggendo poi subito via da quella passione che sentiva così forte e radicata. Come se ci fosse sempre stata.

Aveva deciso che non l’avrebbe mai trascinata nel suo inferno. Lei era pace.

Mai l’avrebbe costretta a vivere la sua non vita. Lei era vita.

Non avrebbe permesso che la sua rabbia la travolgesse finendo per corroderla, corrompendola. Lei era serenità.

Mai l’avrebbe trascinata nel buio della disperazione, nel quale si aggirava da anni, la sua anima luminosa aveva diritto di splendere. Lei era libera e tale doveva restare.

Era solo un fantasma, l’ombra di una vita precedente. LUI ancora una volta avrebbe rinunciato a tutto.

“Ti lascio… rivestire” le disse voltandosi e facendo un passo per allontanarsi.

Si arrestò di colpo, quasi che il suo corpo si fosse autonomamente fermato impedendogli di fare il passo successivo. “Chi voglio prendere in giro” disse con un filo di voce, stringendo forte i pugni.

Helèn alzò il capo incerta d’aver capito bene.

Lui si voltò di scatto. L’istante dopo la teneva tra le braccia “Perdonami” le sussurrò baciandole tutto il viso. Annegò un istante nei suoi occhi prima di baciarla ancora.

Helèn comprese la sua dilaniante lotta interiore, la strenua battaglia personale che lo consumava e che costantemente viveva e di cui lei, ora era parte. Comprese che quella durezza era solo una maschera per nascondere la sofferenza. Gli mise un dito sulle labbra. Facendogli capire che aveva compreso. Non chiese nulla. E ancora le sue labbra e ancora le sue mani*.

Lui la baciò, nel suo modo così unico, e la guardò con quell’iride scura che sembrava voler racchiudere solo loro due in un Universo che fosse solo il loro. Le prese il viso tra le mani “Perdonami, sono solo un folle”.

Helèn, scosse piano la testa poi chiuse gli occhi lasciandosi ancora una volta avvolgere dal calore della sua sicurezza, dal brivido caldo della sua passione, dalla sensuale malinconia dei suoi sguardi che sembravano solo volerle chiedere scusa.

Lui ritrovò le sue forme morbide e dolci. Il famigliare tepore della sua pelle che profumava ancora di loro. Si disfece degli abiti, guardandola quasi sorridente, ebbro di una strana felicità. Era come se si fosse liberato da un giogo a cui lui stesso si era sottoposto. Aveva disubbidito a se stesso, per la prima volta dopo tanto tempo. La baciò insaziabile con impeto, poi dolcemente con la lingua le schiuse le labbra, in cerca della sua, voleva sentire proprio ogni centimetro di quella donna, facendo aderire i loro corpi.

Helèn percepì il peso del suo corpo e la fiamma della sua passione, si curvò naturalmente verso di lui, come un arco che si tende fino al limite per accogliere la freccia che poi lo attraverserà. In quel solo istante, sospesi nel vuoto e nel tempo, prima che la freccia lo abbandoni per raggiungere la meta, arco e la freccia sono la stessa cosa. In pochi istanti furono freccia ed arco, perché così volevano percepirsi. Lui si perse dentro lei, parlando con i suoi occhi senza dire una parola.

Le onde di un interiore mare primordiale li lambirono lentamente, coprendoli per poi sollevarli fino a trasformarsi in tempesta. In maremoto che cancella le singole identità rendendole una sola. Il frastuono di quelle onde, nascose il loro crescente piacere.

Poi Harlock si lasciò scivolare lentamente sul corpo di lei, respirando affannosamente posò il capo sul suo seno, lasciandosi cullare dal movimento. Ad Helèn venne spontaneo accompagnare il suo respiro, carezzandogli piano i capelli.

“Non smettere…” le chiese stringendola “Vorrei sempre sentire la tua mano... sul mio capo e restare così per l’eternità”. Helèn comprese che in quella semplice frase, c’era tutta la dolorosa e stanca solitudine di Harlock.

Sembrava voler gridare ‘BASTA’ a tutto quello che lo tormentava. Poi sollevandosi un istante per guardarla negli occhi continuò “ciò che posso darti è solo questo momento, lo sai”.

Gli occhi di Helèn si velarono di lacrime “lo so, io non ti ho chiesto niente. Nessuno meglio di me sa che ogni momento può essere l’ultimo, prenderò un attimo alla volta assaporandolo fin tanto che dura. Perché un istante con te vale una eternità. Ma tu non allontanarmi”. Si strinsero addormentandosi così senza che importasse dove iniziava l’uno e finisse l’altra.

Harlock si svegliò perché si sentì osservato. Helèn se ne stava morbidamente poggiata sul suo petto, con una mano si teneva la testa e imprimeva nel cuore quasi ritraendoli con lo sguardo, i particolari di quel viso dolcissimo per racchiuderli nello scrigno della mente per sempre.

Inaspettatamente lui quasi intuendo ciò che lei stava facendo disse “Voglio che tu mi tolga la benda e veda come realmente sono”.

“Non occorre. Lo so come sei. So cosa c’è sotto la benda, l’ho sempre saputo”.

Lui senza attendere ancora, quasi ormai fosse una necessità mostrarsi a lei interamente, con un gesto rapido se la sfilò tenendola stretta nel pugno.

Lei lo guardò come solo una donna innamorata sa guardare il proprio uomo.

“Sono un mostro” fece lui posando il capo sul cuscino.

Helèn sorrise stringendo gli occhi come a lui piaceva tanto “Oh sì! Sei davvero brutto!”

“Ma non le vedi? ”

“Cosa, le cicatrici? No, non le vedo” rispose seria. “Non le ho mai viste. Io vedo un uomo bellissimo e valoroso che insegue da sempre i suoi ideali, per i quali sarebbe disposto a morire. Vedo un impavido combattente che usa spada e pistola come non ho mai visto fare. Un comandante fiero e responsabile.” Così dicendo baciò con delicatezza infinita quell’occhio che mai più avrebbe rivisto la luce  per scendere poi l’ungo la cicatrice sulla guancia. Baci piccolissimi e delicatissimi. Poi sorridendo “Hai fame? Io tanta.”

Dopo una ricca colazione si dedicarono ai danni che l’Arcadia aveva ancora in sospeso. Trascorsero diverse ore, Helèn era in un corridoio che andava liberato da alcune parti in ferro che erano crollate.

“Tori molla. Mollaaa… uccellaccio cocciuto, finirai per farti male!”

Harlock attirato dalla sua voce la raggiunse.

Davanti ai suoi occhi si presentò un buffo siparietto.

La donna si stava contendendo disperata con Tori un piccolo tubo di ferro che chissà per quale assurdo motivo l’avvoltoio voleva per sé. Helèn arrabbiata non era disposta a cedere il mal tolto. Tori dalla sua tirava col becco e sbattendo le ali a mezz’aria per lo sforzo, stava perdendo una gran quantità di piume.

Harlock si avvicinò furtivo senza far rumore alle spalle di Helèn, per aiutarla, Tori vedendolo arrivare mollò di colpo la presa.

Improvvisamente sbilanciata, per il contraccolpo, la donna cadde indietro travolgendolo, poiché non lo aveva sentito arrivare. Finirono entrambi per terra, e per la violenza della caduta Helèn perse uno scarponcino, che volò in aria e venne afferrato proprio da Tori che rapido fuggì via col bottino.

Lei esasperata stava per urlargli qualcosa contro, ma quello che udì la bloccò.

Si voltò lentamente, incredula. Gli occhi spalancati. Attonita.

Una risata.

Una risata piena e luminosa. Una risata bella e liberatoria.  Una risata calda e vera.

Dietro di lei, scorse Harlock semi sdraiato, col corpo appoggiato sugli avambracci, il capo lievemente inclinato all’indietro. Rideva.

Era bellissimo, i capelli lievemente mossi, la testa inclinata lasciava intravedere l’arcata superiore dei denti perfetti e le narici. La fronte era distesa. Il petto vibrava debolmente.

Helèn si ricordò di quando la prima volta, in cui lo aveva visto, si era chiesta di che colore sarebbe potuta essere la sua risata. Ora lo sapeva.

Era azzurra.

Azzurra e limpida come il cielo della Terra dopo il vento. Pura e trasparente come la sua anima. Fresca e chiara come la prima brezza del mattino.

Gli occhi inspiegabilmente le si riempirono di lacrime. Era immensamente felice per lui. Per nasconderle si lanciò al collo di Harlock. Lui la strinse forte incredulo di quella meravigliosa sensazione che stava provando. Era come qualcosa che fosse sempre esistito e forse era stato solo dimenticato. ‘Questa è la felicità? ‘ si chiese. ‘Ma è giusto che io la provi?’

Helèn sciolta in quell’abbraccio lo guardò e comprese, benché conscia di non conoscere tutti i motivi del perché lui fosse sempre così malinconico, e si negasse la felicità, come se fosse schiacciato da un peso che non comprendeva. Per lei era solo un giovane uomo che aveva diritto di vivere. Fece cenno di sì con la testa e lui le asciugò quelle lacrime di gioia e condivisione, tornando ad abbracciarla forte, respirando, profondamente contento di essere in quel momento con lei, perché comunque fossero andate le cose non  lo avrebbe mai dimenticato.

Restarono così a terra. Poi Helèn titubante gli confidò una sua sensazione ricorrente, della quale non aveva mai fatto parola. “Spesso ho l’impressione d’aver già vissuto alcune situazioni con te. Come ad esempio questa. Perché? ”

“Non lo so” si limitò a risponderle seriamente lui, tornando a stringerla, sempre più consapevole che presto o tardi avrebbe dovuto dire ad Helèn la verità. La verità su chi era, da dove veniva, e cosa aveva fatto.

 

 

 

 

NOTE      

*Cit. da ‘Bambolina e Barracuda’ © Ligabue.

Un abbraccio caldo (cò sto freddo) alla mia B-Beta.

Un augurio grande per il 2015 (ci vedremo ad anno nuovo con i postaggi regolari) a chi legge silente ed a chi legge e commenta. GRAZIE e FELICE ANNO NUOVO questa dolcissima fan art inviatami dalla Mizu a cui mando un bacio speciale è per tutte voi.

 

 

 

 

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Capitolo 18
*** RAIN ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

 

18

 

 

RAIN

 

 

Ripresero a lavorare alacremente nonostante tutto non dimenticavano mai il loro obbiettivo.

Liberare gli altri.

In serata Helèn entrò negli appartamenti di Harlock con il vassoio della cena. Lui era seduto sulla grande sedia della scrivania, il capo completamente reclinato, appoggiato sul bordo della spalliera, l’occhio chiuso, non si mosse pur sentendola arrivare.

Helèn posato il vassoio si avvicinò dietro allo schienale della sua sedia baciandolo dolcemente sulle labbra al contrario. “Che hai?” gli sussurrò. Il suo alito era tiepido e profumato.

Lui non rispose.

“Hai mal di testa, vero?”

Lui aperto l’occhio “Come lo sai?” rispose guardandola.

“Lo so perché ne conosco la causa”.

Lui continuò a fissarla.

“E’ la visione monoculare. Il tuo occhio sinistro lavorando da solo si stanca e questo ti provoca il mal di testa. E’ questo che spesso ti rende accigliato? Dovresti riposare maggiormente la vista” così dicendo gli mise con delicatezza una mano sull’occhio aperto.

Le sue dita fresche furono balsamo. “Per il mal di testa ho un rimedio” continuò.

“Non prendo medicine Helèn” fece brusco lui.

“No è un rimedio naturale, si chiama serotonina”. Sussurrò sulle sue labbra prima di baciarlo con dolcezza infinita. La sua lingua si insinuò timidamente tra le labbra calde ed invitanti di lui. Con pochi abili tocchi lui rispose subito a quel bacio, lasciando che le labbra si assaporassero sensuali e le lingue si incontrassero languidamente riconoscendosi, in un approccio fatto di tocchi gentili ed eccitanti al tempo.

“E’ questa la medicina di cui parlavi dottore?” chiese lui sarcastico, abbozzando un sorriso.

“Caro il mio Harlock un bacio può regolarizzare il battito cardiaco, stimolare la circolazione sanguigna ed abbassare la pressione arteriosa, tutto merito dell’ossitocina” rispose lei fintamente impettita riprendendosi il suo ruolo di medico.

“Che cos’è?” chiese lui sempre più divertito.

“E’ un ormone secreto dall’ipotalamo, la parte centrale del cervello ed è definito anche l’ormone dell’amore”.

“La storia si fa interessante”. Fece lui tirandola a se ed iniziando a baciarla con l’ardore che gli era consueto. Godendo come sempre di quel magico contatto che si creava ogni volta che erano vicini.

Helèn sorrise “Credo abbia fatto effetto” disse infilandogli le mani tra i capelli e rispondendo al bacio. Non avrebbe mai smesso di baciarlo. I loro corpi rapidamente si accesero mentre invece la cena sul vassoio divenne lentamente fredda.

Stesi sul letto, Helèn guardava come sempre rapita il grande baldacchino del letto di Harlock. Lui se ne stava prono il viso tra le braccia incrociate. “E’ tanto che volevo chiedertelo, questo cos’è? Da dove viene?” chiese lei indicando con un largo movimento del braccio la struttura a rami del letto a baldacchino.

“Cosa pensi che sia?”

“Sembra un albero o ciò che ne resta”.

“Esatto” continuò restando con la testa fra le braccia.

“Da dove viene?”

“Dall’unico posto possibile” proseguì amaro lui.

“Era un albero che cresceva sulla Terra, un albero speciale che ho deciso di portar via da quello che restava del pianeta, l’ho fatto pietrificare* ed ora in qualche modo vivrà per sempre”.

‘Vivere per sempre’ Helèn a quelle parole era saltata in piedi sul letto noncurante d’esser completamente nuda. Con le dita ne sfiorò la superficie liscia e fredda come fosse di cristallo. Non poteva crederci veniva dal suo pianeta. “Perché è un albero speciale? Perché lo hai portato qui?”

Lui sollevò pigramente la testa donando un lungo sguardo al suo corpo nudo lievemente illuminato dall’esterno. “Un tempo pensavo di poter morire qui, tra i suoi rami”.

Lei gli si accoccolò accanto “Allora è un albero davvero speciale, un giorno mi dirai perché. Anche io amavo gli alberi, erano la mia casa… un tempo”. Si intristì, cambiando poi argomento. “Ma qualcosa ti impensierisce, cosa?” chiese guardandolo.

“Domani saremo su Rain ci riforniremo di tutto ciò che occorre e poi ci dirigeremo su Tocarga a liberare tutti, non sarà affatto semplice”.

“Com’è Rain?”

Si voltò a guardarla. “Un piccolo pianeta, lo scelsi come base-magazzino perché l’aria è respirabile ed è fuori da ogni rotta consueta, non è un pianeta sicuro”. Disse scandendo le ultime parole.

“Perché si chiama Rain?”

“Semplicemente ci piove di continuo. E’ l’ennesimo tentativo fallito dell’uomo di ricostruirsi una vita su un pianeta il più possibile simile alla Terra. Ma nulla è o sarà mai come il nostro pianeta natio”. Così dicendo terminò sprofondando nuovamente il viso tra le braccia.

“Sai ci sono persone che hanno dedicato e dedicano l’intera vita alla ricerca di un pianeta uguale alla Terra. E  ci credono fermamente”. Lo rimbrotto quasi impacciata la donna.

“Di chi parli?” le chiese incuriosito e vagamente sospettoso lui.

“Di nessuno” fece sbrigativa, ma ad Harlock non era sfuggito il lampo di scuro dolore che le aveva attraversato lo sguardo. Quante cose ignorava di lei. Ma non indagò, che diritto aveva di sapere? Lui che le nascondeva la sua più atroce verità.

Helèn pose molte altre domande ad Harlock, adorava sentirlo parlare, lui sempre così taciturno, il suono della sua voce era come musica e l’affascinava ascoltarlo raccontare storie di pianeti lontani o di decisioni e scelte fatte da Capitano nell’arco della sua vita. Era nato per essere un leader, per essere libero.

 

L’Arcadia scese sul pianeta attraversandone lentamente la densa atmosfera. L’atterraggio fu perfetto. La nave si adagiò su di una piattaforma in metallo che poco dopo l’attracco si aprì facendola calare di diversi metri nel sottosuolo.  Harlock ad Helèn scesero.

L’aria era pesantemente carica di umidità calda, torrida. Un’enorme gigante rossa surriscaldava quel piccolo pianeta che possedeva ben cinque satelliti di cui si intravedeva la rugosa superficie.

Helèn li guardava come rapita, mentre Harlock predisponeva con un computer portatile ogni cosa per l’approvvigionamento idrico e rifornimento di cibo e munizioni. La donna indicando i satelliti del pianeta gli gridò sorridendo “Non mi abituerò mai a più di una luna”.

Lui ricambiò il sorriso, avrebbe voluto dire ‘anche io’ ma si sarebbe tradito. Riprese a lavorare.

“Ma perché il pianeta è stato abbandonato?” chiese lei continuando a guardarsi intorno.

Harlock si fece serio. “Non è sicuro. Ci sono degli animali frutto di studi genetici ed incroci che furono portati qui per essere osservati, studiati in un ambiente simile alla Terra, ma l’aria ricca di ossigeno li fece iper-sviluppare, presero il sopravvento, fuggirono e da allora vivono allo stato brado”.

Tutto era pronto, tubi per il rifornimento idrico, casse di armi, derrate di cibo, ma anche parti di ricambio, tutto fu caricato sull’Arcadia per mezzo di argani elettrici e piccoli robot.

Harlock si recò in un angolo dell’immenso aviorimessa. Tirò via un grande telone. Un istante dopo il fragore del rombo potente di un motore invase l’hangar riempiendone ogni angolo.

Helèn si voltò di scatto in quella direzione. Vide Harlock arrivare in sella ad una grande moto nera su cuscinetti d’aria. Per un istante le parve un cavaliere d’altri tempi a cavalcioni sul suo fido destriero. I capelli mossi dal vento, lo sguardo sicuro e tenace, coraggioso ed intrepido, senza paura dell’ignoto. Bellissimo.

“Qui è meglio circolare su mezzi veloci” le disse lui sorridendo sornione porgendole un paio di occhiali da sole. Helèn rise, Harlock la guardò interrogativo.

“Hai fatto mettere i teschi anche su questa”. Disse indicandone di varie dimensioni sul davanti ed ai lati della grosso veicolo.

“Un mio antico amore”. Rispose lui inforcando gli occhiali.

Alla moto era collegato un rimorchio per il trasporto di merci, lui vi sistemò il mantello, poi con agilità vi saltò sopra mettendo in moto. Diede più volte gas sorridendo per il boato che aveva volontariamente provocato. Si voltò a guardare Helèn “Sali?”

Lei montò dietro di lui ed Harlock partì come un razzo. Helèn lo strinse forte cingendogli il petto con le mani e posandogli la testa sulle spalle.

Fuori dal grande hangar furono accecati dalla luce, le narici si riempirono di aria ed odori. Harlock perfettamente a suo agio, il vento caldo sul volto, tra i capelli, percorreva veloce una specie di strada sterrata tra la tanta vegetazione, sollevando un nuvolone di polvere.

Helèn stava bene, era felice, il vento che sapeva di erba e terra le scompigliava i capelli, non avrebbe voluto essere da nessun’altra parte. Inspirò profondamente, provava un’immensa sensazione di libertà sia fisica che spirituale. Anche Harlock dovette provare qualcosa del genere perché toccò con la propria quelle mani strette sul suo petto all’altezza del cuore.

La velocità era notevole, il motore rombava possente. Harlock governava il mezzo a perfezione infondendo ad Helèn un grande senso di sicurezza. Il vento portava via i pensieri, il sole scaldava la pelle e la velocità rendeva l’aria più leggera. Entrambi avrebbero voluto che quel piccolo viaggio, immersi nel sole, durasse per sempre.

Giunsero ad una isolata costruzione in metallo dal tetto spiovente. Una casetta completamente in acciaio con grate orizzontali alle finestre ed un piccolo ballatoio coperto.

Scesero, Harlock digitò un codice e la porta si aprì.

La stanza era arredata semplicemente con mobili anch’essi di metallo,vi era una piccola cucina ed in un’altra stanza letto e bagno. “Trascorreremo alcune ore qui” disse lui.

Helèn che mal sopportava quell’elevato tasso di umidità si tolse giacca e cinturone con le armi buttandole su di una sedia. Rimase con pantaloni ed una canotta. Cercò del caffè nell’attrezzatissima cucina e lo trovò. Porse una tazza ad Harlock che la prese senza neppure farci caso.

Era lontano. Guardava fuori attraverso le feritoie della finestra. Era tesissimo, la mascella serrata, forse viveva l’ansia di ciò che li aspettava.

“Che hai?” gli chiese lei “Andrà tutto bene vedrai ce la faremo”.

“Helèn… tu non verrai” disse con aria greve continuando a guardare fuori.

La donna non poteva credere alle sue orecchie “c…cosa?”

“Ho deciso che resterai qui”.

“Pe…perchè?” fece incredula.

“Perché è una missione difficile quasi suicida, preferisco che tu resti qui”. Rispose lui continuando a guardare fuori.

Helèn era fuori di sé “Guardami quando ti parlo!” gridò.

Harlock si voltò lentamente verso di lei, guardandola accigliato, con l’aria cupa che gli era tipica.

“Dove vai tu vengo io” disse disperata lei.

“Non stavolta Helèn” fece serissimo continuando a fissarla immobile.

“E cosa dovrei fare? Aspettare qui che tu ti ricordi di tornare? Non puoi decidere per me, ti rammento che non sono non un membro della tua ciurma”. Continuò lei quasi isterica, la gola serrata in una morsa di paura incredula.

“Fin tanto che resterai a bordo dell’Arcadia sei un mio sottoposto!” ribadì con forza lui.

 Helèn scuoteva vigorosamente la testa annaspando “No, non puoi decidere sempre e solo tu”.

“Decidere è il mio mestiere” le rispose con calma studiata.

“Beh! Stavolta no!” Fece lei decisa.

“Ma è possibile che tu non capisca che lo faccio per te? Non voglio che ti accada nulla”.

“Non puoi, non puoi decidere per me!” la donna tremava dalla rabbia, le lacrime le salirono agli occhi. Si avvicinò rapida alla porta, spalancandola.

“No! non uscire Helèn è pericoloso!” le intimò lui cercando di afferrarla. Ma lei sgusciò rapida sul ballatoio.

Intanto aveva iniziato a piovere.

“Ti avevo chiesto di non mandarmi via” disse Helèn scuotendo la testa incredula.

Del gesto altruista di Harlock lei aveva colto solo questo.

Nel disperato tentativo di tenerla lì lui le disse “Non ti manderò via, sarai dove è il tuo posto”. Così dicendo si portò la mano al cuore, poi fece un passo per afferrarla. Ma lei si ritrasse e con un balzo fu fuori, correndo via veloce.

“Helèn torna indietro subito è pericoloso, questa non è semplice pioggia Helèn!” urlava Harlock.

Ma lei non l’ascoltava, pensava solo all’esser stata tradita .

Corse fin tanto che il fiato glielo concesse.

Mentre correva si guardava intorno per memorizzare, da brava militare, punti di riferimento per poter poi tornare indietro. Corse e corse fino a non farcela più. I polmoni le dolevano, l’aria era greve come il piombo. Si fermò per riprendere fiato, le mani poggiate sulle gambe, si guardava intorno. L’aria era pesante, la pioggia pure sembrava pesante. Fu allora che si rese conto che quella non era acqua.

Ripensò alle parole di Harlock. Ne raccolse un po’ nel palmo della mano. Era un miscuglio gelatinoso e trasparente che aveva ricoperto ogni cosa. La densità della pioggia creava come un muro impedendole di vedere dove si trovasse, ovunque guardasse non vi erano più punti di riferimento. Dappertutto vi era solo un muro d’acqua spessa e lattiginosa. Ruotò su se stessa, non avrebbe saputo dire da dove era arrivata.

Si era persa.

Quel miscuglio gelatinoso le aveva impregnato i capelli ed i vestiti. Decise di rimanere dov’era aspettando che spiovesse.

Fu allora che ebbe la sensazione di essere osservata.

Istintivamente portò le mani alle pistole. Ma il cinturone con le armi era rimasto in casa. ‘Maledizione!’ era del tutto indifesa.

Si guardò lentamente intorno. Nulla era visibile.

Si accovacciò, una mano sul terreno per percepirne le vibrazioni, capire cosa fosse e dove fosse. A giudicare dal tremito era qualcosa di grosso. Sembrava… sì, un grosso animale al trotto.

Helèn ricordò quello che Harlock le aveva raccontato sugli esperimenti fatti alle bestie. Ora era fondamentale comprenderne la direzione. Le sembrò che il grosso quadrupede fermatosi non molto lontano da lei, scalciasse sul terreno con gli zoccoli, pronto per caricare nella sua direzione.

Non lo avrebbe visto arrivare, prese il piccolo pugnale che teneva all’interno dello stivale, chiuse gli occhi per concentrarsi sugli altri sensi, e attese. Il cuore le batteva forte.

Il grosso animale iniziò a correre  veloce verso di lei.

Attese sino all’ultimo istante quando le fu abbastanza vicino da sentirne il soffio d’aria dalle narici, Helèn saltò più in alto che poté nel disperato tentativo di evitarlo. Provò a conficcargli sulla schiena il piccolo pugnale ma la lama si spezzo. Completò la giravolta in aria ricadendo perfettamente in piedi mentre l’animale la superava.

Si voltò ansimando convinta di avercela fatta. Sorrise.

Poi piano, il sorriso si spense.

Una sensazione di calore sulla coscia. Helèn si toccò con la mano e la guardò abbassando lentamente lo sguardo consapevole di ciò che avrebbe visto.

SANGUE.

La parte sinistra della coscia prima del ginocchio era stata lacerata profondamente, come, non seppe dirlo.

Sorrise amara. La sua vita era finita.

Sentiva il fiato dell’animale farsi sempre più corto per l’eccitazione della caccia. La osservava muovendosi nervosamente dietro quel muro d’acqua aspettando il momento giusto per attaccarla.

Lei ora era la preda.

Il sangue le riempì il pantalone e lo stivale. Non poteva aspettare. I battiti del cuore iniziarono a rallentare.

Era da tanto che aspettava quel momento. La morte.

Il suo ‘sensei’ l’aveva preparata anche a quello. L’avrebbe affrontata con coraggio senza paura. ‘Tadaski presto saremo insieme’, sorrise, questo pensiero le diede coraggio.

“Forzaaa” gridò nella direzione della bestia con quanto fiato aveva in gola. “Forza che aspetti? Vieni sono qui! forza maledetto che aspetti?”

Lo sentì arrivare rapido, colossale, stavolta voleva vederlo, ma non ci riuscì, era come fosse color della pioggia. Fu un solo istante, era rapidissimo. Un dolore atroce ad un fianco le spezzò il fiato annebbiandole la vista.

Come al rallentatore si sentì crollare a terra, ogni fibra della mente le diceva di alzarsi ma non ci riuscì, il corpo non le rispose.

L’animale caricò ancora. Lo sentì arrivare. Era la fine.

Chiuse gli occhi nell’accettazione di ciò che sarebbe stato. La pioggia la ricopriva piano. Con la mente tornò alla sensazione di libertà e felicità provata solo poche ore prima sulla moto con Harlock. Vi si immerse completamente estraniandosi da quella realtà.

Poi sentì un urlo umano fortissimo provenire da lontano e farsi più vicino.

Sembrava un urlo di guerra emesso per attirare l’attenzione. Funzionò.

Sentì l’animale fermarsi e cambiare direzione. Poi avvertì netti i movimenti di una strenue lotta poco lontano da lei. Urla e lamenti si susseguirono in rapida sequenza. Non avrebbe saputo dire quanto. Poi la terra tremò per un istante come se qualcosa di enorme vi fosse pesantemente caduto.

Pensò ad Harlock o lo vide su di sè. Le urlava qualcosa ma lei non sentì. Aveva il viso sporco di sangue. Chiuse gli occhi.

Ormai per lei era tardi.

 

 

 

Note

*Piertificazione  dalla rivista "Advanced Materials" gli scienziati scrivono di aver sottoposto campioni di legno di pino e di pioppo a un bagno acido di due giorni, di averli poi immersi in una soluzione di silice per altri due, di averli asciugati, di averli messi a cuocere per due ore in un forno ripieno di argon portato gradualmente fino a 1.400 gradi centigradi, e di averli fatti raffreddare in argon a temperatura ambiente. Gli scienziati hanno ottenuto così legno pietrificato, con la silice che si è permanentemente legata al carbonio rimasto nella cellulosa per formare una nuova ceramica di carburo di silicio. (Il futuro è già qui ;-P)

Primo capitolo del nuovo anno dedicato, con un grazie, alla cara Divergente Trasversale che con un suggerimento mi ha tirato fuori da una ‘impasse’ su questo capitolo :-*

Un pensiero pieno d’affetto sempre alla mia B-Beta che io immagino come un’ apetta laboriosa, grazie sempre.

Il primo immancabile abbraccio del 2015 è senza dubbio per le meravigliose donne che settimana dopo settimana o solo a volte, mi fanno conoscere con le recensioni e privatamente cosa pensano dei vari capitoli. Sappiate che siete voi a donarmi la carica. Ve ne sarò sempre grata! LO

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Capitolo 19
*** PASSEGGIATA NELLO SPAZIO ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

 

19

 

 

 

PASSEGGIATA NELLO SPAZIO

 

 

Helèn percepiva movimenti, scossoni, la concitazione di un respiro affannato.

La sua ora era giunta e si chiedeva come mai la morte ci mettesse tanto a mostrarle il suo volto.

Poi anche i rumori si fecero lontani ed indistinti.

Era bambina, correva nel sole, dall’altra parte due braccia che sapeva essere del padre benché la luce ne celasse il viso. Poi il tenero sorriso di sua madre e quelle braccia forti e sicure la sollevarono verso il chiarore stringendola. ‘Non permetterò che tu muoia’ sentì. Poi più nulla.

 

Aprì lentamente e con fatica le palpebre pesanti. La fioca luce di una candela attirò nel buio il suo sguardo. Muovendo solo gli occhi cercò di capire dove fosse. Era tutto in penombra. Con le mani avvertì una stoffa, forse un lenzuolo. Spostò lievemente e dolorosamente la testa a sinistra. Accanto a lei scorse una figura abbandonata su di una poltrona. L’avrebbe riconosciuta fra un milione era Harlock, chiuse gli occhi stanchi e l’oblio, soave, la riprese con sé.

Più tardi, un dolore al fianco la svegliò, stavolta aprendo gli occhi vide chiaramente Harlock armeggiare sistemando quella che le parve una fasciatura. Emise un lamento, lui si voltò di scatto. “Helèn” le si inginocchiò accanto. Non era l’uomo che aveva lasciato, era smagrito, stanco, la barba incolta di alcuni giorni, lo sguardo smarrito e provato di chi no sa. Cercò di parlare non riuscendoci, lui sorrise, un sorriso dolcissimo e luminoso. “Non stancarti, bruci dalla febbre”. Due lacrimoni riuscirono ad esprimere quello che Helèn provava. “Perdonami” riuscì a sussurrare ma questo le provocò un colpo di tosse che le rivelò in un istante dolori diffusi in tutto il corpo. Strinse gli occhi per accettare meglio la sofferenza.

“Helèn devi riposare” la pregò lui. Lei si arrese ma prima chiese “Tocarga?”

“Non temere” le rispose sfiorandole il viso con due dita “Siamo diretti lì, ma ora non pensarci, riposa”.

 

Helèn percepì un lontano rumore d’acqua, acqua che scorreva veloce. Sentì d’avere la fronte sudata, ed avvertì il fresco delle lenzuola sul corpo. Aperti gli occhi notò che la stanza era vuota. Dal letto di Harlock, contemplò affascinata, come sempre faceva,  i rami dell’alta struttura ed i drappi in esso intrecciati. Sorrise, era lui sotto la doccia. Lo immaginò, chiudendo gli occhi ed affondando morbidamente nel ricordo di lui. Si voltò a guardare il posto accanto al suo, c’era ancora la forma del suo corpo. Harlock aveva dormito lì. L’aveva vegliata. Mosse il braccio e notò un tubicino rosso ad esso collegato, SANGUE. Guardò perplessa la sacchetta appesa in alto. ‘Di chi era?’ si chiese.

“E’ il mio!” Si voltò in direzione della voce. Harlock aveva un asciugamano in vita si sfregava i capelli con un altro. “E’ ottimo te lo assicuro” le disse avvicinandosi piano a controllare la sacchetta per verificarne la quantità “ottima annata”. Nel guardarla, le strizzò l’occhio sorridendo, era umido, emanava un ottimo profumo, era sbarbato e sensuale. Meraviglioso. Sorrise ancora, forse perché lei stava meglio, pensò Helèn. Era bellissimo quando sorrideva, accadeva raramente ma quando lo faceva, si illuminava di una luce speciale.

“Non hai più febbre, vuoi mangiare qualcosa?” le chiese premuroso. Helèn fece cenno di sì, in realtà non aveva fame ma era consapevole che il cibo l’avrebbe aiutata. Bevve tremolante il brodo che Harlock le porgeva senza dire nulla, evitando per il tutto il tempo il suo sguardo, lui se ne accorse. “Che c’è?” Helèn faticò a rispondere ma non era la voce a mancarle, solo le parole.

“Harlock”. Era tanto che non pronunciava quel nome, il suono della sua voce le fece uno strano effetto. Lui la osservò serio e silenzioso, come sempre. Non parlava, lui lasciava parlare, ascoltava, perché sapeva ascoltare e soprattutto comprendere. “Perdonami, sono stata una sciocca. Ho rischiato di rovinare tutto. E soprattutto ti ho rallentato. Sei stato costretto a curarmi non so neppure come e…”

“Puoi dirlo forte” fece lui interrompendola. “Dobbiamo decisamente farla finita con questo scambio di liquidi” disse cercando di sdrammatizzare.

“Cosa è accaduto? Non ricordo molto”. Insisté lei angosciata.

Di colpo Harlock facendosi scuro in volto: “A cosa serve ricordare ora?”

“Ti prego”. Insisté lei.

Guardando fuori lui emise un lungo sospiro. “Ti ho trovata. All’inizio ho davvero temuto per te. Non sapevo cosa fare, eri in una pozza di sangue”. Tacque un istante al ricordo, gli procurava ancora dolore. “Ho agito d’impulso, mosso dalla disperazione o forse, solo dal buonsenso dettato dall’esperienza. Ho tamponato le ferite come ho potuto, ti ho portato sull’Arcadia, le ho suturate, non so neppure io come” scosse il capo. “Poi ho ricordato che tu avevi usato il tuo sangue per salvare me ed ho… ho rischiato il tutto per tutto, ed ho utilizzato il mio. Poi ho atteso”. Disse allontanandosi, quasi per alleggerire il peso di quelle parole “Una delle attese più lunghe della mia vita”.

Il silenzio pesò greve, a lungo. In quella semplice frase vi era tutto lo strazio e l’ansia di chi aveva creduto d’averla persa, di chi ancora una volta aveva dovuto lottare con la morte.

“Mi dispiace” riuscì a dire Helèn, che in cuor suo aveva appena compreso una grande verità. Una verità che ora le bruciava dentro e lentamente la devastava. Pianse, pianse sommessamente, perché aveva capito che doveva lasciare Harlock. Per il suo stesso bene doveva stare solo.

 

Non potendo l’Arcadia utilizzare la tecnica nautica in-skip i giorni di navigazione che seguirono, sembrarono non finire mai. Furono giorni strani. Pieni di silenzi, di frasi abbozzate, di sguardi veloci e pensieri dolorosi.

Helèn si rimise in piedi, controllò il lavoro di sutura di Harlock e lo trovò buono. Si stupì. Su quella nave per un motivo che a lei ancora sfuggiva, le ferite rimarginavano prima. Ne fu felice, voleva e doveva riprendersi presto. Per alcuni giorni si tenne volontariamente lontana da lui adducendo come scusa le ferite e la stanchezza. Harlock dal canto suo era distante e meditabondo come chi si estranea da tutto per elaborare un lutto.

Dopo tanto tempo Helèn tornò barcollante con le sue stampelle da Tochiro. Non ci era più andata per rispetto ad Harlock. Quel posto, quel legame misterioso che li univa era solo loro e tale doveva rimanere. Il capitano non le aveva fatto mai alcuna domanda e lei non aveva raccontato nulla, proprio per non violare in alcun modo quel rapporto speciale ed inspiegabile. Si sedette davanti al grande computer lo sguardo basso, affogato nel fiume dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti. Aveva maturato l’idea che Harlock sarebbe stato meglio senza di lei. Lo aveva visto troppo provato al suo risveglio. Era come se per colpa sua avesse dovuto mettere nuovamente a nudo una parte di sé che doveva restare celata per la sua stessa sopravvivenza. Era come se fosse stato costretto a riaprire dolorosamente una parte interna del suo spirito che doveva restare chiusa, per il suo stesso bene. Il luogo dove tutti noi teniamo i ricordi che fanno più male.

“Sai” disse emettendo un lungo sospiro credo che per Harlock sia meglio stare senza di me”.

Due cerchi concentrici si accesero. “Non è come pensi”.

 Helèn sollevò il capo felice di sentirlo nuovamente. Gli occhi le si illuminarono “Ciao”.

Lui è più forte e determinato da quando tu sei qui ed ora ha bisogno del tuo aiuto più che mai”.

“Ha già sofferto abbastanza, ha perso troppe persone che amava. Un giorno perderà anche me, io lo amo come non ho mai amato nessuno e proprio per questo non voglio che soffra ancora. Non fa che cercare di proteggermi, e non ne comprendo appieno il reale motivo, sono diventata un peso. E non va bene”. Helèn abbassò nuovamente lo sguardo, scuotendo la testa rapita dal fluire dei suoi pensieri.

“Non è come pensi, io lo conosco è forte ed ha già fatto la sua scelta”.

I giorni trascorsero, Helèn non poteva esercitarsi come avrebbe voluto, così optò per un modo più leggero di allenamento. La danza, un suo antico amore.

Doveva tornare in forma in un modo o in un altro. Doveva essere un aiuto per Harlock non un peso. La sera senza che Harlock lo sapesse si recava nel piccolo teatro utilizzato per le riunioni che richiedevano la presenza dell’intero equipaggio, e danzava. Alla sua maniera, sola, senza che nessuno la vedesse. Ne usciva con le gambe doloranti ma rinfrancata nello spirito.

Una notte Harlock rientrando nei suoi appartamenti decise di fare un percorso diverso dal solito e venne attirato dal suono flebile di una musica che proveniva dal piccolo teatro. Non poteva che essere Helèn. Entrò incuriosito, spinto dalla consapevolezza di sapere infondo ancora così poco di quella donna. Silenzioso, sedette in una delle ultime file assolutamente immerso nel buio.

Sul palco poco illuminato Helèn con un semplice body e calze nere, la gamba ferita su di una sedia la massaggiava, si riscaldava. I capelli raccolti in una coda. Non si era accorta di lui. Cessata la musica che lo aveva attirato lì ne iniziò un’altra. Una musica lenta e struggente, sembrava una musica del passato.

Helèn le braccia al cielo, immobile, una scultura nello spazio di una purezza infinita lentamente passo dopo passo diede vita ad una danza dolce e sensuale. Si muoveva elegante, armoniosa, con naturalezza. Volteggiava agile ed appassionata nell’aria. Accompagnava fluida con le braccia i movimenti delle gambe. Sembrava con il linguaggio del corpo narrare di una struggente storia. Immersa nella penombra si muoveva leggiadra e languida. Sembrava un sogno.

Piroettava dolcemente su se stessa accompagnando i flessuosi movimenti del corpo con la morbidezza delle linee delle braccia. Sul viso le si dipingevano le sensazioni e le emozioni che stava rivivendo. Harlock la seguiva con lo sguardo estasiato.

Poi la musica si fece più commovente ed Helèn si ritrovò accanto ad una specie di manichino. Harlock ci mise un po’ a comprendere. Si trattava di uno dei manichini della sartoria con solo la parte centrale del corpo con indosso un grande mantello nero. Quello era lui! Ed Helèn con la danza raccontava la ‘loro storia’.

Con le mani unite a mo’ di pistola ripercorse il drammatico momento in cui lui le aveva sparato, il casco era saltato e si erano visti per la prima volta. Ballava con dolore ed impeto insieme, ogni gesto era un’emozione, era libera ed appassionata. Correva agile con passi abbozzati da una parte all’altra del piccolo palco. Flessuosa e soave. I piedi quasi non toccavano terra. Preso il manichino, nelle sue mani divenne quasi vivo. Volteggiava con lui sorridendogli dolcemente, immaginando un viso, un’espressione.

Helèn da principio se ne mostrava attratta ed al tempo impaurita, danzava insieme a lui avvolgendosi come in un abbraccio nel suo mantello, grata per la sua protezione per poi allontanarsene attanagliata dal dolore che questo le provocava.

Le sue movenze, il suo viso, tutto raccontava l’immenso amore che provava. Alla fine dopo averlo baciato e stretto dolcemente fuggiva via rintanandosi in se stessa gambe e braccia al petto.

La musica lentamente terminò e ciò che rimase furono solo i sommessi singhiozzi di Helèn.

Harlock stringeva con le mani i braccioli della poltroncina. Aveva intuito ma al tempo non voleva capire. Non mosse un solo muscolo per non tradirsi. Helèn sentì un rumore provenire dal fondo della sala. Si alzò guardinga “Chi c’è?”

Tori spuntò fuori dal nulla appollaiandosi vicino a lei. “Ciao che c’è? Chiede di me? Andiamo allora”. Helèn asciugate le lacrime indossato una specie di maglioncino si allontanò con Tori.

‘Chi chiedeva di lei? Sulla nave c’erano solo loro due’. Li seguì. Erano diretti al grande computer centrale.

Attesi alcuni minuti Harlock sentì Helèn dire ridendo “Dobbiamo smetterla di vederci così!” Fece quindi irruzione nella stanza del computer, con il piglio di un amante tradito.

“Che succede qui?” Helèn colta di sorpresa si spaventò. “Harlock sei tu?”

“Chi altri sennò. Come mai qui?”

“Non arrabbiarti, è solo grazie a lui” fece segno al computer “se ho potuto salvare te e l’Arcadia, non ti sei chiesto come avessi fatto e dove fossero i tuoi bracciali?”

“Pensavo li avessero rubati e tu perché non mi hai detto nulla?”

“Non me lo hai chiesto. Ma il tuo segreto è al sicuro con me”.

“Lasciaci soli per favore” aggiunse duro. Helèn obbedì mesta rintanandosi in camera sua.

Poco dopo sentì bussare alla porta. “Avanti”.

Helèn un accappatoio indosso, stava sostituendo i cerotti sulle ferite. Harlock la guardò, i lineamenti decisi sembravano scolpiti nel granito. “Ti disturbo?”

“Stavo per fare la doccia”.

“Resteranno le cicatrici”. Disse guardandole le ferite che si stavano rimarginando.

“Non ha alcuna importanza. Non sono le cicatrici esterne a preoccuparmi. Quelle una volta cicatrizzate non si riaprono. Le cicatrici dell’anima invece a volte si riaprono ricominciando a sanguinare”. Commentò triste.

“Scusa per prima, sono stato immotivatamente brusco. E’ che ti ho visto danzare poi correre via e…” terminò la frase sulla bocca di lei. La baciò con passione dolorosa, quasi a farle male.

Lei lo respinse debolmente “Mi.. mi hai visto danzare ?”

“No ho visto danzare la tua anima”.

Helèn abbassò lo sguardo intimidita “Dai… devo fare la doccia”.

Lui sorrise beffardo continuando a baciarla. “Ti voglio” le sussurrò in un orecchio provocandole un brivido di piacere. Quindi la sollevò portandola nel grande bagno adiacente.

Aperta l’acqua della doccia la posò sotto il getto tiepido iniziando a togliersi gli indumenti. Helèn era ipnotizzata dalla sensualità magnetica di quell’uomo che si liberava dei vestiti non distogliendo mai lo sguardo dal suo. Raggiuntala sotto al getto d’acqua caldo, una mano sulla nuca riprese a baciarla avidamente, strappandole l’accappatoio e scaraventandolo via insieme alla sua benda. Questo le tolse quasi il respiro.

Nel suo sguardo c’era un ardore ed una tensione sessuale che la turbò. Lo guardò in tutta la sua fiammeggiante bellezza. I capelli da asciutti divennero presto bagnanti aderendo sensualmente alla fronte. Lui con un rapido gesto delle mani se li portò indietro.  Milioni di goccioline d’acqua solcavano la sua pelle scorrendo via veloci, a volte soffermandosi un attimo nell’incavo delle spalle o sulla curva di una cicatrice, dai capelli, al viso, al torace. Altre si adattavano alle sue forme, ai muscoli, alle pieghe, formando rivoli d’acqua che correvano via. E come quei rivoli le mani di lui disegnavano arditi percorsi sul suo corpo. Carezze ardenti come il fuoco.

Helèn appoggiò il viso sul suo petto assaporandone il profumo virile. Sfiorandolo dolcemente con le labbra. La pelle era umida e resa sensibile per l’acqua. Scostandola lui le dedicò un lunghissimo sguardo. Gli occhi di Helèn accarezzavano i contorni del suo dolcissimo viso, delle sue labbra con desiderio facendo accelerare i battiti del suo cuore. Come aveva anche solo potuto pensare di riuscire a vivere senza di lui? Stretta al suo corpo muscoloso si lasciò andare completamente rispondendo ai suoi baci e carezzandogli le spalle, il petto, lo stomaco.

Harlock senza mai smettere di baciarla, scese al collo ed al seno. Helèn si strinse a lui con tutta se stessa, stordita, temendo quasi di perdersi nelle sensazioni senza confine che quell’uomo passionale e volitivo le faceva provare. Poi presala in braccio la posò sull’adiacente piano del lavabo, si chinò per assaporane la femminilità. Lei piegò il viso, quasi spaventata dalle emozioni che quell’uomo sapeva accendere nel suo corpo. Lui le sollevò il mento scrutandola a lungo e la strinse forte tra le braccia. Tirandola poi a sé con voluttà, unendo i lori corpi. Come un fiume dentro il mare. Presto la fiamma del desiderio appagato li avvolse, sprigionando faville, travolgendoli incontrollabile.

Si diedero l’un l’altra come mai. Con la volontà profonda di essere e sentirsi una cosa sola. Come il mare che da sempre aspetta il fiume, per continuare a vivere e morire.

*

Abbracciati accanto al piccolo camino. “Ci verresti con me in un posto?”. Chiese lui.

Helèn inclinò il capo incuriosita.

“Ti propongo una passeggiata”.

Indossarono le tute con cui solitamente Harlock usciva al di fuori dell’Arcadia per le riparazioni. Erano tute speciali aderivano al corpo proteggendolo ma garantendone la libertà di movimento ma soprattutto erano dotate di speciali scarpe magnetiche* che li ancoravano al metallo dell’Arcadia.

Accesi i respiratori uscirono da un portellone che immetteva direttamente alla parte superiore della nave. Helèn non aveva mai preso realmente dimestichezza con l’assenza di gravità, anzi la odiava e risultava impacciata. Harlock ne sorrise arricciando il naso e le tese una mano. Lei prese quella mano e venne quasi issata su di peso. Camminarono sulla superficie della grande corazzata sino ad arrivare ad una decina di metri dalla polena. Harlock si sedette ed Helèn lo imitò.

Dopo un lungo silenzio Harlock parlò con lo sguardo perso intorno. “A volte vengo qui per sentirmi libero, oltre la vetrata che mi sembra mi separi da tutto il resto. Qui mi sento davvero libero, libero di immergermi nello spazio e diventare una cosa sola con lui. Se un giorno morissi…”

“No” sfuggì ad Helèn.

“Se morissi” riprese lui “Vorrei che le mie ceneri fossero disperse nello spazio da qui. Ora è questa la mia casa dopo la Terra”.

Helèn si chiese il perché di quello strano discorso, sembrava che Harlock avesse come un brutto presentimento, ma tacque. Se ne rimasero seduti in silenzio senza misurare il tempo, mentre l’Arcadia navigava sospinta dal placido vento dell’Universo**.

Restarono fermi ad assaporarne la pace e la calma consapevoli d’essere soli l’uno al fianco dell’altra con il solo desiderio di starsene lì. Helèn guardava quello scuro manto di stelle come se lo vedesse per la prima volta. Lentamente se ne sentì risucchiata come se il Cosmo intero stesse cercando di entrare dentro il suo spirito. Provò una sensazione di smarrimento profondo. Allungò una mano a toccare il braccio di Harlock perché fosse la sua ancora, perché non la facesse volar via. Lui comprese e le strinse la mano ed anche attraverso la muta lei ne percepì la forza ed il calore.

Non si era mai sentita vicina ad una persona come in quel momento. Lui le sorrise in quel sorriso buono e trasparente c’era tutto. Domande, risposte, passato e futuro ed in quella mano che stringeva la sua, il presente. Avvertì nettamente il grande amore per la vita di quell’uomo e si sentì onorata di condividerne quel momento speciale. Capì che lui ci sarebbe sempre stato per lei e lei non avrebbe mai potuto lasciarlo.

Ad un tratto Harlock senza dir nulla si alzò quasi attirato da qualcosa. Lentamente raggiunse la polena, rimanendo in piedi sulla punta più estrema. Fermo a sfidare in perfetto equilibrio il moto dell’Arcadia su quel teschio dagli occhi infuocati. Nell’assordante silenzio sembrava quasi voler raccogliere dentro sé la forza dell’intero Universo.

Si stagliava statuario sullo sfondo senza fondo. Helèn non avrebbe saputo dire dove finiva l’Arcadia e dove iniziava lo spazio, si chiese a cosa pensasse, cosa provasse.

Il tempo sembrò fermarsi, era bellissimo. La figura alta, slanciata. Epico, intrepido. Lo sentì dire “Arcadia go!” per poi voltarsi meravigliosamente sorridente.

In quello stesso istante una specie di brezza cosmica si levò.

Helèn alzatasi la percepì solo perche l’enorme bandiera col jolly roger dell’Arcadia sino a quel momento inanimata iniziò a sventolare e lei comprese in quello stesso istante, che il vero vessillo di quella nave era lui. Era Harlock!

Fu una grande ed intensa emozione, Helèn impresse quell’immagine nella sua mente. Qualunque cosa fosse accaduta lo avrebbe ricordato per sempre così.

 Forte, eroico; leggendario.

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NOTE

Capitolo dedicato a coloro che mi chiedevano un altro momento di serena felicità per H&H ed alla mia instancabile B-Beta.

*Scarpe del futuro per non volare via di mia invenzione.

**Il vento nell’Universo non esiste, vi è quello che viene definito ‘Vento stellare’ che è un flusso di gas emesso dall’atmosfera di una stella. La polvere stellare scatena dei venti in un processo a catena di fuoriuscita di gas, si tratta di una corrente di particelle, non il vento come lo intendiamo noi sulla Terra. Poeticamente qui l’ho voluto immaginare in grado di far muovere come nel film, la mitica bandiera con il jolly roger.

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Capitolo 20
*** TOKARGA ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

 

 

20

 

 

TOKARGA

 

Tokarga era l’ottavo pianeta del sistema stellare di Ghora, un pianeta inospitale al suolo ma la cui atmosfera era abitabile. Pertanto erano state costruite molti anni addietro delle città galleggianti*.

Nell’ardito progetto iniziale le verdeggianti città fluttuanti avrebbero anche costituito uno scudo solare attorno al pianeta consentendo così il lento ma graduale processo di terraformazione.

In realtà le cose non erano andate così. Il progetto si era rivelato assai dispendioso ed i tempi troppo lunghi. Quindi aldilà dell’innegabile fascino, presto le città isole, erano in gran parte state abbandonate divenendo terra di nessuno.

Erano presto divenute ricettacolo delle peggiori canaglie dell’Universo. Pertanto, in un grande penitenziario della Gaia Sanction c’erano detenuti i peggiori delinquenti. Quelli che non avevano diritto neanche ad un processo. Qui si trovava ora la ciurma dell’Arcadia ceduta in cambio di chissà cosa dai mercenari alla Gaia Fleet.

In loco si tenevano periodicamente aste a cui partecipava chiunque ed i detenuti venivano quindi venduti al miglior offerente per diventare schiavi o peggio. Su Tokarga si poteva comprare tutto ed il contrario di tutto, bastava avere il danaro. Tutti lo sapevano.

L’Arcadia venne accuratamente nascosta da un sistema olografico.

Sulla corazzata c’era una navetta conservata in un ponte posteriore di cui Helèn non era a conoscenza. Era più piccola delle altre senza l’effige del jolly roger. Serviva ad effettuare ricognizioni o scendere sui pianeti passando inosservati, esattamente quello che volevano Harlock ed Helèn.

Scendere sul pianeta per prendere quante più informazioni possibili e dare quindi il via al loro piano. Indossarono vestiti molto diversi dal solito.

Helèn una camicia su una gonna corta e stivali, Harlock pantaloni e stivali di pelle marrone con camicia e giacca in pelle. Si scambiarono un’occhiata divertita guardandosi. Helèn portò con sé anche tutto ciò che poteva servirle, Harlock prese denaro ed armi.

Scesi su una delle isole indossarono delle lunghe tuniche marroni con cappuccio. Helèn aveva addirittura coperto la bocca, in questo modo i suoi bellissimi occhi scuri risaltavano incredibilmente. Harlock dal canto suo teneva il cappuccio calato a coprirgli parte del volto. Del resto, restava il ricercato numero uno dell’Universo conosciuto. Helèn si chiese cosa si potesse provare a sentirsi sempre braccato e cosa avrebbe fatto se avesse perso la libertà.

La città che prendeva il nome dal pianeta era caotica, il grande mercato affollato, le case addossate, le vie strette e sporche, le donne di malaffare, i mercanti e le merci accalcate.

Faceva caldo, ed ad ogni angolo si veniva accolti da odori contrastanti tra loro. Ogni tanto qualcuno li avvicinava con un’offerta ma bastava lo sguardo di Harlock a dissuaderli.

Helèn sorrise, se avessero avuto a che fare con lui gli sarebbe bastato osservarne il portamento marziale e superbo con cui avanzava, per capire chi fosse.

Presero una stanza in un albergo qualunque e benché riluttante Harlock acconsentì che si separassero per acquisire quante più informazioni possibili.

Lui si recò in una specie di vecchio saloon**. Era scuro all’interno, delle grosse ventole in alto giravano lente spostando l’aria, c’era odore di fumo e sporcizia. L’oste quasi del tutto calvo non fece domande quando Harlock si sedette al bancone e gli versò in un bicchiere, il contenuto di una delle bottiglie alle sue spalle, che lui gli aveva indicato.

Alle pareti c’erano foto sbiadite del passato: uomini, pionieri pieni di speranze, un tempo sorridenti.

All’unico tavolo occupato c’erano tre uomini avanti con gli anni. Sembravano tre piloti o meccanici o semplicemente lo erano stati.

Non si sorpresero quando lui prese posto accanto a loro alla quarta sedia del tavolo. Probabilmente li stupì molto di più la bottiglia di whisky che mise al centro del tavolo.

Uno dei tre, quello che portava un cappello da pilota dopo essersi toccato mento e bocca più volte con avidità si versò da bere. “Cosa ti porta in questo luogo ameno straniero?”

“L’asta” rispose secco lui.

“Ah! allora tutto si spiega tutto” fece un altro con una barbetta ispida e cappello, abbozzando una risata, ma l’iniziale riso forzato si trasformò in una tossetta secca e stizzosa.

Subentrò quindi il terzo “Ti serve qualche pezzo di carne umana?”

“No, solo pezzi interi” rispose Harlock comprendendo che la chiacchierata pareva prendere la direzione giusta, continuando a bere lentamente il contenuto del suo bicchiere.

“L’asta è tra pochi giorni, amico… ed a giudicare dalla qualità di whisky che bevi hai molto danaro”. A quelle parole Harlock molto lentamente presa la pistola la posò sul tavolo.

“Hey hey tranquillo, facevo per dire… magari sei anche tu qui per quella,  l’aliena” Harlock si irrigidì a quelle parole ma non lo diede a vedere continuò a sorseggiare il liquido ambrato.

“L’aliena?” chiese.

 “Si vengono da mezzo Universo per lei. Se la aggiudicherà il miglior offerente”.

Dopo una pausa Harlock chiese “Dove li tengono?”

“Ma chi? I detenuti?” fece il primo dei tre “Ma nell’unico posto possibile su questo maledetto pianeta, alla Fortezza, sì insomma nel penitenziario ad est del pianeta, l’unica zona mai terraformata. Non c’è altro posto qui, fidati, ci ho passato la mia misera esistenza. Del resto perché costruirvi un penitenziario? Se scappi su questo dannato pianeta non hai scampo”. Concluse scolandosi il bicchiere.

“Dove si tiene l’asta?”

“Amico questo ti costerà un po’ di più di una bottiglia di whisky”.

Harlock fece segno col mento all’oste che ne portò un’altra.

“Eccezionalmente l’asta si terrà nel penitenziario stesso non vogliono rischiare spostando i detenuti. Chissà poi perché? Alla tua straniero!” concluse quello sollevando il bicchiere.

Harlock terminò lentamente il contenuto del suo. Questa notizia modificava i suoi piani. Aveva deciso di approfittare del breve trasporto dei detenuti,  al luogo dell’asta, per attaccare il piccolo contingente piuttosto che entrare nella fortezza dove i soldati sarebbero stati sicuramente di più e meglio armati. Raccolte le ultime informazioni che i tre avevano da dargli, si alzò, riprese la pistola e si diresse lentamente verso l’uscita, si fermò ed abbozzando un  sorrisetto strappò dalla parete una sua vecchia foto segnaletica.

In quel momento un ragazzo entrando sovrappensiero lo urtò. I due si guardarono un istante. Il ragazzo era giovane, pelle  diafana, capelli castani scompigliati, occhi scuri, l’aria triste. Indossava un maglione con sopra un lungo gilet in pelle. Chiese scusa frettolosamente dirigendosi al bancone. “E’ arrivata qualche corazzata oggi?” chiese.

“No figliolo”. Rispose l’oste versandogli il solito caffè in una tazza scura e ricominciando ad asciugare lentamente i suoi bicchieri.

Harlock tornato in albergo aspettò un paio d’ore Helèn, poi non vedendola tornare uscì a cercarla. La donna aveva addosso un localizzatore ed Harlock la trovò.

Era in una viuzza sporca tra due palazzi, un uomo la teneva addossata al muro e con una mano le manteneva sollevata una coscia palpandogliela con bramosia. Intanto le parlava all’orecchio, sembrava ubriaco.

Helèn mostrandosi compiacente gli teneva una mano tra i capelli. Harlock e lei si scambiarono un fugace sguardo, lui aveva già la mano sulla pistola. Il suo sguardo dardeggiava minaccioso.

Helèn con gli occhi lo supplicò di aspettare. Dopo poco lei stessa colpì l’uomo alla testa che si accasciò per terra privo di sensi.

“Si può sapere chi diamine è?” chiese Harlock inferocito.

“E’ una guardia del penitenziario è tutta la sera che me lo lavoro”.

Lui la fulminò con lo sguardo, era fuori sé.

Lei di rimando gli lanciò un cartellino identificativo che aveva sottratto al malcapitato.

Lui senza neppure guardarlo le fece. “Sai bene quanto me che ne denuncerà lo smarrimento e domani sarà inutilizzabile”.

“E’ vero, ma il micro cip che c’è dentro con la piantina del penitenziario che mi ha mostrato poco fa no”. Rispose lei, con sguardo trionfante.

Tornati in albergo Helèn restò più a lungo del solito sotto la doccia. Non era contenta, soprattutto che Harlock l’avesse vista.

Quando uscì lui era assorto, stava analizzando attraverso un computer la mappa olografica del penitenziario, la girava e rigirava muovendo un dito nell’aria. Era nervoso e non la degnò di uno sguardo.

“Che hai?” chiese Helèn mentre si pettinava. Lui non rispose. “Ora conosco gli orari dei cambi del personale, so in quale parte del penitenziario li tengono. Perché fai così?”.

Lui spostò appena lo sguardo “Era proprio necessario?” chiese glaciale.

“Cosa? Fingersi una prostituta? Faccio quel che serve” rispose secca e dispiaciuta lei, poi sorridendo lo raggiunse.

“Non è successo nulla tra me e quel tipo, te lo giuro, l’ho fatto bere molto”.

Poi abbracciandolo dalle spalle. “Ti hanno mai detto quanto sei mostruosamente sexy quando fai il geloso?” disse baciandolo su una guancia.

“Non sono geloso” disse lui freddo, mentendo. In realtà erano giorni che il suo sesto senso gli inviava segnali, aveva come un presentimento che lo rendeva più inquieto del solito. “Dobbiamo ripetere il piano e studiare con cura la piantina”.

“Lo so, capitano, lo faremo dopo. Voglio essere sicura che tu abbia capito. Non voglio che restiamo arrabbiati. Domani è un giorno importantissimo tutto deve andare bene. Deve!”

Si stesero un momento sul letto abbracciandosi. Helèn infilò il viso nell’incavo del collo di lui tra mascella e spalla. Quello era il ‘suo posto ’ preferito. Respirava piano il suo odore e percepiva il calore della pelle. Questo la calmava sempre. Chiuse gli occhi, nulla sarebbe mai potuto accadere quando era lì.

Harlock dal canto suo era teso e preoccupato. Era angustiato per la missione da affrontare assurdamente solo in due, per i suoi uomini di cui ignorava le condizioni e per Helèn. Era vero quella fitta rovente al centro dello stomaco che aveva provato vedendola con ‘quello’ l’aveva turbato. Non aveva mai provato nulla del genere e se il nome di quella cosa era gelosia voleva dire solo una cosa. Helèn era diventata senza rendersene conto una parte di lui. Forse a causa della loro permanenza solitaria sull’Arcadia, forse perché si erano reciprocamente salvati la vita, o forse più semplicemente perché il destino così aveva deciso. Questo lo angosciava perché era consapevole che i sentimenti forti gli toglievano lucidità. L’amicizia sconfinata per Tochiro mista all’immenso dolore d’averlo perso gli avevano fatto prendere l’assurda ed avventata decisione che ancora pagava. L’ira profonda contro la Gaia Sanction non l’avevano fatto ragionare ed agire freddamente e questo gli aveva fatto perdere l’occhio destro. E in un lontano passato l’amore per un’altra donna l’aveva fatto comportare avventatamente facendogli procurare la cicatrice che ora segnava il suo volto***.

Anche Helèn era pensierosa. Da quando era scesa dall’Arcadia le ferite le dolevano. E poi si chiedeva come sarebbero cambiate le cose tra lei ed Harlock una volta che tutti i membri dell’equipaggio fossero tornati a bordo. La missione la impensieriva profondamente, ad Harlock non lo dava a vedere, ma sapeva che in qualche modo tutto era nelle sue mani. Aveva un asso nella manica del quale non gli aveva parlato, ma che avrebbe usato.

 

L’indomani Helèn indossata la sua armatura blindata della Gaia Fleet, valigetta in mano, si diresse con piglio sicuro dal soldato di guardia all’interno del penitenziario nella zona più esterna. I suoi passi risuonarono freddi e sicuri sul pavimento di metallo. Portava il casco sotto il braccio. Presentò il suo tesserino augurandosi che fosse ancora valido così non avrebbe dovuto sparare al giovane ragazzo che lo stava controllando. “Benvenuta comandante Steren!” fece quello saltando come una molla sull’attenti non appena lesse con chi aveva a che fare, porgendole il saluto militare.

“Comodo” fece Helèn.

“Qual buon vento Signore?”

“Non vi hanno informato?” chiese lei seria e distaccata “Devo visitare l’aliena”.

 Il ragazzo cominciò a guardare sul computer non trovandoci nulla.

“Strano” fece Helèn non scomponendosi “No, non lo è Signore, qua siamo dimenticati da tutti”.

“E’ il consiglio dei decani ad avermi inviato qui” proseguì la donna “Ma sì Signore so bene chi è lei! Lei è la…” Helèn sapendo che Harlock ascoltava la conversazione lo interruppe.

“Ho qui la richiesta firmata di uno di loro: Tetsuya Takimura”.

Il ragazzo sorrise sornione a quel nome. “Appunto” disse semplicemente prendendo il documento e dandole una chiave elettronica che le consentiva l’accesso illimitato a tutti i settori e facendola passare.

Come immaginava il suo asso nella manica aveva funzionato perfettamente, la lettera bianca con la firma di Tetsuya Takimura****, che aveva compilato come un lascia passare ‘le aveva aperto tutte porte’.

Helèn si diresse dove tenevano Meeme. Al rumore della porta di metallo che si apriva, l’aliena si voltò ed il suo viso di solito impassibile tradì una forte emozione. Corse verso Helèn, i capelli ondeggiarono quasi dotati di vita propria. Le due donne, si toccarono le mani e tanto bastò. “Allora ce l’hai fatta Helèn” le disse.

“Solo dopo ho capito il significato delle tue parole Meeme. Mi sono state di sostegno. Ora dobbiamo mettercela tutta. Harlock e l’Arcadia hanno bisogno di te” Meeme fece cenno di si col capo. Helèn si tolse l’armatura blindata e la fece indossare all’aliena dandole anche una delle sue pistole. Sotto portava l’uniforme viola dei comandanti della Gaia.

Meeme indossò il casco per passare inosservata. Uscirono. A nessuno parve strano vedere per i corridoi un comandante della Gaia Fleet scortato da un soldato. Veniva salutata con rispetto e reverenza dai soldati, prima che lei, una volta superati, li colpisse col calcio della pistola per prenderne abiti ed armi. Quindi lei e Meeme aprivano una o più celle.

Harlock dall’Arcadia invece le seguiva rendendo inoffensive le videocamere poste lungo il percorso, modificandone le trasmissioni.

Il piano era semplice. I soldati venivano spogliati ed imbavagliati e le loro uniformi date ad uno dei pirati che le indossava. La scena era uguale ogni volta, aperta una porta gli occupanti sussultavano prima di riconoscerla. Helèn o gli altri a gesti spiegavano il piano, ne seguivano sorrisi e sguardi di intesa, si cambiavano e si passava alla cella seguente. Se le uniformi erano insufficienti i pirati si fingevano legati e seguivano le finte guardie. Benché la tensione fosse alta Helèn sorrideva nel vedere i volti di quei ragazzi accendersi nel riconoscerla. Tutti erano consapevoli che il loro capitano non li avrebbe abbandonati.

Solo Kei fece eccezione. Riconosciuta l’amica le si buttò al collo stringendola forte “Helèn credevo non ti avrei vista mai più, ero convinta che i mercenari ti avessero consegnata alla Gaia Fleet. Allora, in qualche modo, lo scambio di Harlock ha funzionato? Lui dov’è?” chiese con ansia.

Helèn non comprese le sue parole.  “Cosa? Chi… chi doveva consegnarmi alla Gaia? Di che scambio parli?” chiese smarrita.

“Ma come chi? I mercenari”. Helèn continuava a non capire, guardando confusa l’amica.

“Dopo aver assaltato l’Arcadia ed esser riusciti a penetrare ci avevano quasi del tutto sopraffatto, tranne il Capitano che continuava a tenerli in scacco. Ma poi, ci hanno detto d’averti presa, di tenerti in ostaggio e che ti avrebbero consegnata alla Gaia se il capitano non si fosse consegnato loro. Per questo Harlock si è arreso”.

Per una frazione di secondo la stanza girò vorticosamente intorno ad Helèn rivide Harlock incatenato usato come un bersaglio.

Ora tutto era chiaro! Era questo che era accaduto. Lui si era arreso consegnandosi a quei bastardi per riavere lei! Anche se i mercenari bleffavano, ma lui non poteva saperlo. Helèn parve frastornata continuava a guardarsi intorno incredula. Questo era quello che era accaduto e lui non glielo aveva rivelato. Si sentì persa.

Meeme le toccò un braccio. In quello stesso istante la voce di Harlock la ridestò. “Falco***** chiama colomba, mi ricevi?” chiese vedendo il localizzatore che lei aveva indosso fermo da troppo tempo.

“Si… Fa…Falco ti ricevo, la migrazione prosegue senza intoppi”.

Harlock ed Helèn avevano deciso di ridurre le comunicazioni all’essenziale utilizzando dei nomi in codice. Lui aveva scelto il nome Falco ‘era il mio nome di battaglia ai tempi dell’ Accademia’ le aveva detto sopraffatto dai ricordi e tu sarai la mia colomba della pace.

 

Adesso arrivava la parte rischiosa, il gruppo era diventato numeroso ed avrebbe potuto destare sospetti. Il piano prevedeva di raggiungere il cortile interno della fortezza e lì sarebbe sopraggiunta l’Arcadia. Mancava solo un manipolo di pirati tra cui Yattaran, quando uno strana cicala risuonò  per tutta la fortificazione.

“E’ l’ora delle visite” fece Kei mordendosi un labbro.

“Merda non ci voleva” le fece eco Helèn. “Falco qui colomba mi ricevi ?”  “Falco qui colomba mi ricevi?”

“Ti ricevo forte e chiaro”.

“Falco migrazione rimandata ci sono civili, ripeto civili” seguì il silenzio.

 Harlock pensava. “Prosegui raccolta colomba passo e chiudo”.

“Presto!” disse Helèn con un segno agli altri, i pirati non fecero in tempo a tramortire altre tre guardie ed aprire le quattro celle rimanenti che un acutissimo e allarme sonoro riecheggiò lancinante facendo vibrare le mura di metallo. Si guardarono attoniti.

 

Erano stati scoperti.

 

 

 

Note

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Grazie sempre a chi si fermerà a leggere e vorrà lasciare un commento.

*Teoria di G.A.Landis sulle città galleggianti, che costituendo uno scudo solare attorno al pianeta potrebbero essere utilizzate per la terraformazione.

**Mio omaggio a Gun Frontier. Del resto cosa non è la parte iniziale del film se non un omaggio a G.F.

***Poiché nel film Harlock perde l’occhio a seguito di una esplosione sul’Arcadia ho pensato che la cicatrice si poteva ‘addebitare’ al suo incontro con Maya al quale però farò accenno in seguito.

****Del perché Helèn sia in possesso di questa ‘carta bianca’ e di questo personaggio parlerò diffusamente in seguito.

*****Dovendo scegliere un nome in codice ho pensato fosse bellissimo usare il soprannome ‘Falco’ che Divergente Trasversale utilizza nella sua fic ‘Space Cowboy’ creando così uno speciale intreccio tra storie. Ne ho parlato con lei che si è detta subito entusiasta.

DOMANDONE: Chi indovina chi è il ragazzo che urta Harlock all’ingresso del Saloon?

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Capitolo 21
*** TENEBRE ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

21

 

 

TENEBRE

 

Nello stesso istante in cui l’allarme eruppe violento, dall’ultima cella schizzò fuori Yattaran.

“Ma che diamine! Ce ne avete messo di tempo per venire a riprenderci!” fece lui strizzando Helèn che non poté che sorridere di quell’affettuoso abbraccio.

“Siamo nei guai Yattaran, ci hanno scoperti ed inoltre la manovra diversiva che avrebbe dovuto attuare il capitano dall’Arcadia, di far saltare parte del penitenziario, è irrealizzabile ci sono civili in visita”.

Yattaran recuperato un fucile da una delle guardie a terra, la guardò e sorridendo sornione le disse “It’s party time baby” quindi la superò correndo verso la fine del corridoio, gli altri lo seguirono. Helèn comprese, sorrise ammirata e lo seguì anche lei. C’era un motivo se Harlock ne aveva fatto il suo primo ufficiale.

Si imbatterono subito in un contingente di soldati armati fino ai denti. Lo scontro fu immediato. In pochi istanti si scatenò l’inferno. Kei era una furia, con due mitragliette sparava da ogni lato, ruotando su se stessa, mentre i soldati continuavano a sopraggiungere da ogni parte.

Yattaran usava il fucile come fosse un martello, tramortendo chiunque gli passasse a tiro. Tutti i pirati lottavano come se non vi fosse un domani, lottavano per il bene più prezioso di tutti, la loro libertà.

Helèn faceva del suo meglio ma non era incisiva come gli altri erano abituati a vederla. Le parole di Kei continuavano a riecheggiarle nella mente. Harlock si era consegnato a quei luridi bastardi che lo avevano massacrato riducendolo in fin di vita, per lei, per riaverla, per impedire che la consegnassero alla Gaia Saction. L’immagine di lui ridotto in fin di vita, appeso a quelle catene la tormentava       prepotente.

Un soldato le stava sparando addosso una raffica di colpi. Per sfuggire fece un salto, superando una specie di sbarramento. Ma atterrò male, sentì una fortissima fitta alla gamba, all’altezza della ferita che credeva rimarginata. Ci mise la mano sopra. Sangue. In quello stesso istante, approfittando della sua disattenzione, un altro  sodato le piantò il fucile a pochi centimetri dal viso. Helèn vide la canna dell'arma ed il suo dito premere piano sul grilletto. Chiuse gli occhi.

Fu un istante.

L’onda d’urto dell’esplosione la travolse, sentì il colpo passarle incredibilmente vicino al volto, deviato all’ultimo istante.

Le orecchie le fischiavano. Aprì gli occhi. Il soldato davanti a lei la guardava come pietrificato, sbarrati gli occhi cadde di colpo privo di vita. Yattaran comparve dietro di lui. Gli aveva lanciato un grosso coltello tra le scapole. La tirò su di peso “Helèn stai bene? che hai? Forza piccola. Non è da te”. Poi notò il sangue poco sotto il ginocchio. “E’ una sciocchezza” disse piegandosi e legandole un fazzoletto strettissimo. Helèn gli sorrise grata.

In quell’istante in maniera del tutto inspiegabile calò il silenzio.

Sembrò assurdo.

Helèn e Yattaran si guardarono interrogativi come gli altri. Poi compresero il motivo della calma irreale che improvvisamente era calata.

Harlock dall’altra parte del corridoio camminava lento, risoluto, inesorabile. Il grande mantello si apriva ondeggiando accompagnando la camminata sicura e fiera. La sua figura sembrava colmare ogni spazio, mentre avanzava determinato, il mento lievemente sollevato, lo sguardo attento veloce si spostava rapido. Un passo dopo l’altro, la spada nella mano destra, avanzava senza paura verso i suoi uomini.

La maggior parte dei soldati indietreggiava barcollando al sol vederlo, increduli che fosse lui. Poi da quegli stessi uomini con cui i pirati si stavano battendo venne dato l’ordine di far fuoco compatti verso di lui.

Moltissimi colpi partirono nello stesso istante nella sua direzione.

Yattaran e Kei si riebbero per primi iniziando nuovamente a lottare. Helèn colpiva coma una forsennata a casaccio chi sparava contro Harlock, poi gli uni dopo gli altri i pirati ripresero a combattere tutti con più forza di prima rianimati dalla presenza del loro capitano.

I soldati della Gaia continuavano a sopraggiungere, più che una fortezza quel luogo sembrava essere un formicaio. Uno dei proiettili colpì la spada di Harlock che a causa del contraccolpo gli saltò di mano volando lontano.

Noncurante del pericolo, spostato con eleganza il mantello con la mano sinistra estrasse la cosmo gun, sparò un paio di colpi in direzione del fuoco nemico, due soldati caddero a terra, quindi si diresse con la solita calma verso il gravity saber che giaceva a terra. Alzò un istante lo sguardo, sorrise beffardo alla morte che lo guardava sussurrandole ‘non ora’. Con un colpo del piede fece roteare in aria la spada prendendola al volo e colpendo uno dei soldati a terra, che in quel momento raccolte le forze cercava di sparargli.

Helèn aveva seguito tutta la scena rapita. La calma e la sicurezza di Harlock denotavano una tale padronanza di sé e dei propri mezzi che la turbarono. I loro sguardi si incrociarono per un istante e fu come una carezza reciproca. Un ritrovarsi anche se solo dopo una breve separazione un ‘ci sono’ che loro solo compresero.

Raggiunti i suoi uomini Harlock lottò con loro e per loro, con tutto se stesso. Erano numericamente inferiori e vennero spinti verso il cortile interno della fortezza credendo così di prenderli in trappola.

Uscendo la luce li accecò ma fu solo un attimo.

Un’ombra famigliare li coprì come un caldo e scuro mantello. L’Arcadia era sulle loro teste e li proteggeva. Diverse scalette d’acciaio penzolavano dal boccaporto aperto. Alcuni uomini, i più vicini le presero iniziando a salire.

Helèn con la spada teneva a bada un soldato molto più grande e forte di lei, lottava con tutta se stessa per non essere sopraffatta. La ferita alla gamba le faceva male. Harlock poco distante da lei voltandosi un istante notò la sua difficoltà e scorse il sangue rappreso sul fazzoletto.

 

Ed accadde.

 

Helèn sentì provenire dalla sua destra un urlo atroce e profondo, un grido lacerante che le straziò l’anima. Come al rallentatore si voltò in quella direzione, ciocche di lunghi capelli, seguirono il movimento del viso. Guardò tremando perché sapeva bene di chi era quella voce. Un brivido freddo come una lama d’acciaio la percorse interamente, quando realizzò. No non poteva essere vero.

 

Tutto era perduto.

 

Harlock un ginocchio a terra, si teneva la mano sull’occhio sinistro ed attraverso le dita, copiose gocce di sangue denso e scuro cadevano impregnando la sabbia del grande cortile.

Il tempo rallentò.

Helèn corse più veloce che poté ma le sembrò di non arrivare mai. Il vento sollevava la sabbia scompigliandole i capelli, il sole illuminava una figura scura, curva su se stessa. Fu da lui. “Sono qui! ” gli gridò perche la sentisse. Non poteva credere a quello che suo malgrado la vista le riportava.

 

Harlock era cieco!

 

Raccolse il gravity saber ed incrociò innanzi a sé le lame delle due spade, la sua e quella di Harlock affinché i soldati che correvano minacciosi verso di loro per approfittare della situazione, le vedessero chiaramente.

Si sistemò davanti a lui piegandosi lievemente in avanti, come un felino che sta per spiccare un salto. E come un felino si guardava intorno spostando la testa ora a destra, ora a sinistra. Era come se un istinto animale, primordiale, avesse preso il sopravvento in lei. Era una leonessa che difendeva il proprio uomo. Non avrebbe permesso a nessuno di toccarlo! “Luridi avvoltoi non lo avrete” poi gridò con quando fiato aveva: “il Capitano è a terra!”.

In quell’istante tutti i pirati benché presi dalla lotta, si voltarono increduli, cose se quella frase non avesse alcun senso.

“Yattaran!” sentì Harlock chiamare il suo primo ufficiale. Yattaran tramortito il soldato con cui stava combattendo, si avvicinò ad Harlock rendendosi conto della gravità della situazione.

“Capitano!” disse trafelato.

“Yattaran porta in salvo Helèn e gli uomini presto!”

“Ma capitano…” Yattaran resosi conto delle reali condizioni del suo capitano, chiamò a gran voce Kei.

“Kei pensa ad Helèn, io penso al capitano!”

“Ce la fai Helèn?” chiese Kei angosciata, continuando a sparare in ogni direzione.

Helèn, fece cenno di sì con la testa. Teneva Harlock per le spalle guidandone i passi “Sono qui, sono qui” continuava ripetergli.

Intanto era sopraggiunta Meeme “Harlock” disse con voce che tradiva una forte emozione.

“Meeme sali per prima attiva il motore a Dark Metter, Kei” ordinò Harlock voltandosi nella direzione in cui aveva sentito la voce delle due donne, continuando a tenersi la mano sull’occhio “Non partire prima che tutti siano a bordo, mi hai capito? Tutti!”

“Si capitano” rispose la ragazza scambiando una angustiata occhiata con Helèn. Yattaran e Kei li condussero rapidi alle funi retrattili, che veloci li issarono a bordo.

Una granata fumogena esplose lontano attirando l’attenzione mentre i motori dell’Arcadia opportunamente direzionati crearono un vortice di fumo fitto e scuro che consentì agli altri di prendere funi e scalette. Yattaran fu l’ultimo a salire.

Gli ordini del capitano vennero rispettati. Meeme avviò il motore a Dark Matter, e finalmente a piena potenza l’Arcadia si allontanò rapida.

 

Sarebbe dovuto essere un momento di grande gioia, invece nel boccaporto tutti si guardavano senza proferire parola, quello che era accaduto era di una gravità inaudita.

Chi stava meglio aiutò i feriti, per fortuna nessuno era grave. Yattaran e Kei ripresi i loro ruoli cercarono di fare il punto della situazione.

Salita sulla nave Helèn aveva condotto Harlock in infermeria. Lo fece stendere sul lettino. Gli teneva forte la mano destra neppure lei sapeva perché. Fece per allontanarsi ma lui la trattenne “Respira Helèn” le fece calmo.

La donna respirò ma non era facile.

Si lavò le mani mise camice, mascherina e guanti sterili e lentamente con paura scostò la mano di Harlock dall’occhio sinistro. ‘Fa che non sia nulla, fa che sia solo un graffio’ pregava. Il lato sinistro del viso di Harlock era una maschera di sangue non poteva essere solo un graffio. Il sangue non le permetteva di vedere bene. Mise degli speciali occhiali operatori ingrandenti. “Cosa ti ha colpito?” chiese per poter capire.

“Non lo so. Come va la ferita alla gamba?”

“Ma la smetti di preoccuparti per me diamine!”

Helèn prima gli iniettò un anti dolorifico poi con delicatezza estrema pulì con della garza sterile imbevuta, solo il contorno dell’occhio. L’emorragia era terminata. Ma nonostante gli speciali occhiali non riusciva a vedere nulla.

Decise di fare dei raggi. Intanto Meeme era giunta “Harlock” fece vedendolo steso sotto al macchinario per i raggi. Helèn comparve dalla stanza adiacente guardando delle lastre. Le bloccò nel negatoscopio* fissandole con attenzione. Meeme la raggiunse. Helèn le disse stancamente senza neppure guardarla “L’emorragia è cessata non so bene neppure perché”.

“E’ la Dark Metter”.

“Ah già” fece lei meccanicamente senza riflettere era davvero preoccupata.

 Meeme la guardò interrogativa ma lei non aveva una risposta da darle.

Pulì il bulbo oculare ed il viso di Harlock, lo bendò fasciandoli entrambi gli occhi, con un rotolo di garza bianca. Pensò fosse più giusto così. Lo fece mettere seduto aiutandolo a bere.

“Cos’è?” domandò lui.

“Solo un antibiotico, per ora è tutto quello che posso fare” rispose stancamente.

 ”Allora?” chiese lui.

Helèn gli si sedette di fronte. Ispirò prima di parlare, cercando di avere un tono di voce asettico, tanto lui non poteva vedere la sua espressione turbata “Io non sono un’oculista e…”

“Helèn!” la incitò.

“Qualcosa ha danneggiato la cornea e superato la camera anteriore dell’occhio non riesco a capire se ha toccato il cristallino, o se addirittura ha lambito il nervo ottico, il sangue fuoriuscito dai vasi sanguigni lesionatisi non mi permette di vedere. Mi…mi serve un giorno o due per far riassorbire il sangue e magari fare una ‘tac’ solo allora sapremo se…”

“Se ci vedrò ancora?” Harlock si alzò benché cieco la sua figura risultava imponente.

 “Meeme accompagnami nei miei alloggi poi mandami Kei e Yattaran per decidere sul da farsi”. Quindi lasciò l’infermeria.

Helèn restò sola. Sola con i suoi pensieri, le sue paure ed i suoi sensi di colpa.  

Tornò a guardare le lastre cercando risposte che non aveva. L’ansia la dilaniava, si portò una mano alla fronte. Harlock era cieco solo questo riusciva a pensare. Non avrebbe potuto immaginare una pena peggiore per lui. Pesante come un macigno la riassalì la sensazione che aveva avuto prima che andassero a Tokarga, per il suo stesso bene Harlock doveva esser separato da lei. Si riebbe e mandò a chiamare quanti avevano piccole ferite o contusioni da medicare.

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NOTE

 

*Schermo luminoso atto a esaminare per trasparenza i negativi o le diapositive.

Questo capitolo dedicato a Lady Five.

Grazie alla mai paziente e generosa B-Beta.

Grazie a tutti coloro che si fermeranno a leggere, ed a chi vorrà lasciarmi un commento. GRAZIE :-*

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Capitolo 22
*** LA DECISIONE ***


Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.

 

 

 

22

 

 

LA DECISIONE

 

 

Durante le medicazioni, i membri dell’equipaggio le chiesero tutti di Harlock ma Helèn poté dire poco.

In serata stanca, passando accanto alla mensa, riconobbe il biondo caschetto di Kei. Si accasciò sulla panca di fronte alla sua amica che affettuosamente le versò del caffè.

“Siete stati da Harlock?” le chiese. Kei fece cenno lentamente di sì con il capo, era stanca e preoccupata.

“Per ora io e Yattaran ci divideremo in plancia e ci manterremo lontani dalle rotte più trafficate, poi… non so”.

“Chi erano i mercenari che hanno assaltato la nave portandovi via?” chiese Helèn non riuscendo a mascherare l’angoscia.

 “Il ‘Branco’ si fanno chiamare quei porci, ma sono solo delle iene, un gruppo eterogeneo di farabutti. Venderebbero le loro madri per nulla”. Rispose Kei sprezzante.

“Come sono andate le cose?” l’incalzò Helèn.

“Dopo un giorno circa di viaggio, ci hanno consegnati ufficiosamente alla Gaia Flett che deve averli pagati molto bene per questo lavoretto sporco”. Helèn preferì non raccontarle quello che avevano fatto ad Harlock, la sua amica era già sin troppo angustiata.

“Come vi hanno tenuti durante la detenzione su Tokarga?”

“Bene, pure troppo, bastardi… ma solo perché dovevano venderci a caro prezzo, eravamo merce preziosa. In questo modo ci avrebbero dispersi per l’Universo sbarazzandosi di noi in modo ‘pulito’ senza i clamori di un’esecuzione pubblica”. Disse amaramente sarcastica, poi di colpo “Tu lo guarirai vero Helèn ?”

“Non lo so Kei, davvero… non lo so”. Rispose scuotendo le testa, continuando a guardare il nero liquido senza fondo della sua tazza.

“Ho paura Helèn, io gli voglio bene. Tu non lo conosci. Harlock non può vivere da cieco, lo capisci?” la voce e i trasparenti occhi della donna tradivano un’angoscia profonda mista a paura. “Sono su questa nave da quando ero una ragazzina, non l’ho mai visto così”.

“Sì… lo so Kei, gli voglio bene anche io, troppo”. Strinse forte la mano dell’amica guardandola dritta nelle iridi azzurre. Si alzò ed uscì diretta da Harlock.

Bussò ed entrò.

Lui se ne stava con la testa reclinata sulla sua grande sedia. “Come ti senti?” Chiese Helèn avvicinandosi e scrutando da vicino la benda sugli occhi “Fa male?”

“Sì”

Gli versò un anti dolorifico nel bicchiere con dell’acqua aiutandolo a bere, scostò un ciuffo di capelli mettendogli una mano sulla fronte per verificarne la temperatura. Se fosse sopraggiunta la febbre, sintomo di un’infezione, le cose si sarebbero complicate non poco. Lui le prese la mano baciandone il palmo. Ma lei la sottrasse allontanandosi.

 “Che c’è?” chiese stupito lui.

Helèn non sapeva da che parte cominciare, voleva correre da lui e riempirlo di baci e poi di pugni, per essersi distratto, e per sapere perché non le avesse raccontato nulla su come realmente erano andate le cose con i mercenari. Teneva le mani serrate guardandolo, cercando con tutta se stessa di ricacciare indietro le lacrime. Non poteva vederlo così. Ridotto all’oscurità. Le lacrime uscirono da sole incrinandole la voce.

“Per… perché non mi hai detto che tu ti eri consegnato ai mercenari in cambio della mia libertà? Perché?”

Harlock attese un attimo, poi spostando la testa nella sua direzione disse: “A che sarebbe servito?”

“Perché lo hai fatto? Ti hanno massacrato, ti… ti hanno quasi ucciso!”

“Ma non sono morto”.

“Finiscila dannazione!” Helèn tremava. Non riusciva in nessun modo ad accettare quella cruda verità. “Come è accaduto?” insisté.

 “Cosa?”.

 “Come hanno fatto a colpirti l’occhio? Tu sai bene che è il tuo punto debole. Io ti ho osservato quando combatti, tendi sempre quasi naturalmente a ripararti la parte sinistra del viso. Come hanno fatto?”

Harlock non rispose.

“Te lo dico io, eri distratto! Guardavi me. Me e le mie dannate ferite!” Helèn iper ventilava. “Perché? Perché mi proteggi sempre? Perché?” chiese disperata.

“Helèn andrà tutto bene” fece lui per tranquillizzarla.

 “Rispondi!” gridò lei.

“Non lo so. Davvero. Tu perché lo fai?” chiese calmo lui.

“Perché ti amo!”rispose lei di getto rendendosi subito conto di quello che aveva appena detto.

 Le lacrime ormai correvano libere lungo le sue gote. “Sì ti amo”. Ripeté a voce bassa quasi a se stessa. “Ti amo come non ho mai amato nessuno. Di un amore folle e disperato, che mi fa paura, che dilaga dentro me, che mi fa male qui” disse colpendosi al centro del petto. “E’ come se ti avessi sempre amato, di un amore che si nutre di se stesso e di te, che non mi lascia tregua. Perché è un amore impossibile. Non sarebbe mai dovuto succedere. Mai!”

Harlock si alzò cercando di raggiungerla ma urtò uno dei piedi della scrivania, tutto ciò che vi era sopra si rovesciò e lui perse per un istante l’equilibrio. Helèn corse ad aiutarlo, lui la tirò a sé stringendola forte cercando di vederla oltre le bende. “Mi dispiace non averli osservati mentre lo dicevi”.

“Co… cosa?”

“I tuoi occhi”. Le sussurrò.

“Tu non capisci, non vedi come sei ridotto?”

“Sei l’ultima cosa che ho visto, va bene così”.

“No, no, non va bene così”. Helèn non riusciva a fermare le lacrime. Lui si chinò a baciarla “ripetilo” le sussurrò.

 Helèn deglutì, poi sfiorandogli la benda con le dita “Mi spiace, non sarebbe mai dovuto succedere, mai”.

“Io invece ne sono contento” disse lui seguendo col viso come un’immagine lontana. “Ho sempre perso quelli a cui volevo bene, per una volta è a me che è andata male”.

 In quelle parole pronunciate con inconcepibile leggerezza Helèn avvertì una realtà cruda e pesante. Una verità che suppurava un dolore dal quale lui cercava disperatamente un’assoluzione. Era come se fosse disposto a tutto per liberarsene, in qualunque modo ed a qualunque prezzo. Finalmente comprese. Comprese il perché di quel suo atteggiamento quasi indifferente nei confronti di quello che gli era accaduto e che tanto la irritava. Era convinto che con la cecità avrebbe finalmente pagato. Avrebbe finalmente saldato il suo debito. Ma per cosa? Di cosa si reputava colpevole per pensare ad una pena tanto cara? Posò la fronte al suo petto, sentiva il suo cuore battere veloce.

“Non è come dici tu. Ed io… io non posso amarti”. Così dicendo fuggì via.

Helèn trascorse la notte a visionare dal computer testi medici ed interventi, a riguardare le lastre in suo possesso ma la risposta era sempre la stessa. Intervento. Un intervento che lei non avrebbe mai potuto fare o almeno non da sola. Per un intervento di quella natura ci voleva un luminare del campo, una persona fidata. In ballo c’era la vista di Harlock non poteva sbagliare o comportarsi con leggerezza. Non poteva portarlo in un centro medico qualunque di un pianeta qualsiasi lo avrebbero riconosciuto, arrestato. Trascorse la notte a pensare ad una soluzione. Alla fine credette di averla trovata, era la meno rischiosa. Spense il PC che le riportò riflessa sul visore scuro la sua immagine stanca e provata. Si guardò a lungo, poi si massaggiò le stanche pupille. Tornò da Harlock.

Meeme l’accolse “Ha avuto una notte agitata, credo provi dolore” disse costernata.“Ti ha cercata continuamente”.

 Helèn si avvicinò al grande letto, fu contenta che lui non potesse vederla, era a pezzi. “Come stai?” chiese dandogli la solita medicina. Lui prese il bicchiere che lei gli porgeva non permettendo però che lei lo lasciasse. Le strinse forte le mani guardandola in volto. Helèn chinò lo sguardo come se attraverso le bende lui potesse realmente vederla.

 “Harlock” lo supplicò. Lui le lasciò le mani. Quindi sedette sul letto accanto a lui. “Ascoltami. Mi sono fatta un’idea precisa di quello che hai e di ciò che bisogna fare, più tardi faremo una tac di conferma ma ne sono piuttosto sicura”.

Harlock ascoltava in silenzio. “Il corpo estraneo entrando nell’occhio ha lesionato la cornea, l’iride ed il cristallino, la ferita è circondata dall’emorragia io credo che qualunque cosa sia si trovi nel vitreo o sulla retina, vada asportato chirurgicamente e presto, il tempo non depone a nostro favore”.

 “Bene. Lo farai tu!”

“No Harlock, io non posso o quantomeno non da sola, è un delicatissimo intervento di micro chirurgia, neanche il più piccolo errore può esser commesso durante la rimozione o resterai… cieco, ho bisogno dell’aiuto di un luminare del campo”.

 Harlock la fece parlare. “Con l’aiuto di Yattaran contatterò un mio professore universitario su Marte il professor Nakashima, sarebbe meraviglioso averlo qui ma, immagino non sarebbe prudente. Gli chiederò un consulto e di assistermi durante l’intervento in videoconferenza”.

 “No!” la secca risposta di Harlock la colpì come uno schiaffo. Era convinta d’aver trovato la soluzione migliore.

“Per… perché?”

“E’ troppo pericoloso, un contatto così lungo verrebbe rintracciato scoprendoci e poi chi è questo Nakashima? Uno dei tanti asserviti che venerano Gaia? I miei uomini sono appena tornati sulla loro nave dopo una lunga detenzione non li rimetterò ancora una volta in pericolo. E tu non ti rendi conto che così facendo ti riveleresti? Lo farai tu”.

 “No, non posso. Non diventerai cieco per colpa mia”. Rispose Helèn alzandosi di scatto. “Perché non lo capisci? Non l’ho mai fatto, ho solo assistito ad interventi del genere”. Era stanca per la notte insonne, per quello che comunque avrebbe dovuto affrontare, per quello che aveva detto ad Harlock e soprattutto aveva tanta, tanta paura per lui.

 “Mi spiace, il mio bene viene dopo quello degli altri”. Fece grave lui.

“Ma possibile che tu non capisca? TU sei il bene degli altri! Sei il capitano di questa nave, e sei un simbolo per milioni di terrestri. Possibile che tu non lo sappia. Non sai quante rivolte ci hanno mandato a sedare ribellioni nate nel tuo nome, tu sei più di una leggenda, sei un simbolo”.

Crollò in ginocchio accanto al letto. Gli prese una mano portandosela al viso “Ti prego, ti prego, dimmi di sì. Non mi importa niente di me, a me importa solo di te. Una volta iniziata l’operazione non so cosa troverò e dovrò comunque andare avanti, ma da sola non posso farcela. Non posso. Lui mi deve un favore non ci tradirà. Te lo giuro. Non ti ho mai chiesto nulla da quando sono qui, fallo per quello che c’è stato tra noi, acconsenti, ti prego”.

Harlock inspirò profondamente, attese un lungo momento. “E va bene”.

Lentamente la donna si calmò tornando padrona di sé. “Vado a parlare con Yattaran dopo torno”. Così dicendo uscì.

Harlock si portò alle labbra le dita bagnate delle sue lacrime, restò fermo a pensare alle parole che aveva pronunciato: ‘quello che c’è stato tra noi’ aveva usato il passato.

Come Helèn immaginava Yattaran fu felice di poterle essere utile, disse che per evitare che la lunga connessione fosse scoperta, avrebbe creato delle interferenze cambiando continuamente canale, certo il resto dipendeva da questo professor Nakashima. Si mise subito a lavoro per contattarlo.

Helèn era davvero a pezzi, Harlock le mancava da morire, per quanto facesse dei respiri profondi le mancava l’aria. Tornò in infermeria.

Avvisò Meeme e preparò il necessario per la Tac.

Come sempre accadeva, quando lui entrò nell’infermeria, lei che era di spalle, ne percepì l’aura forte, voltandosi di scatto. Portava dei vestiti comodi, pantaloni ed un pullover color antracite con cerniera al collo. Vedere la fascia bianca intorno agli occhi le strinse il cuore. “Controlliamo la benda” disse facendolo sedere.

Helèn si avvicinò, si chinò in avanti per togliere la fasciatura,  lui voltandosi, le sfiorò senza volere le labbra. Helèn si ritrasse di colpo. Lui se ne accorse. “Non vedo, non ho la lebbra”. Disse duro.

 Helèn non rispose, si concentrò esclusivamente sul quello che doveva fare. Fu molto professionale. Ed alla fine quello che pensava venne confermato dall’esame.

“Yattaran a breve mi chiamerà per il primo contatto con il professore, se tutto va come spero, già domani potrei operarti, poi ci sarà un la degenza post operatoria. Chiamo Meeme così ti accompagna in camera tua”.

“Non puoi accompagni tu?”. Helèn acconsentì, prendendolo per un braccio. Ma anche solo stargli accanto le faceva male. Il suo odore le inondava le narici, il suo tepore si trasferiva dal suo corpo a quello di lei. La sua forza mascolina la stordiva. Giunti nella stanza lo fece sedere alla sedia della scrivania. “Vado a cercare Meeme perché resti con te”.

Lui fece per versarsi da bere ma il vino finì in parte sulla scrivania in parte per terra. Con un urlo di stizza scaraventò lontano il bicchiere che si infranse. Helèn corse a pulire. “Vattene! che fai ancora qui?” le urlò.

“Ti… ti prego non rendere le cose più difficili”.

“Perché diavolo mi tratti così? Mi eviti, ho acconsentito che quel tuo professore ti aiuti durante l’intervento, ma continui a startene in quella dannata infermeria”.

“Ti prego non agitarti, ti sale la pressione arteriosa”.

 “Al diavolo la mia pressione” e con un gesto scaraventò via volontariamente tutto quello che era sulla scrivania. Helèn lo raggiunse fermandolo, cercando di calmarlo.

“Lo faccio per te. Non lo capisci?” disse con voce malferma.

“Per me?” tuonò quasi lui.

“Da quando sono su questa nave ti ho reso più debole, la mia presenza non ti fa bene. E’ colpa mia se ti sei arreso ai quei mercenari senza scrupoli, ed è sempre colpa mia se ora sei in questa situazione. Mi manchi da morire ma credo sia più giusto così. Perdonami”.

“Non sei tu che fai le mie scelte. La vita che conduco è così. Spietata, disumana. Tu non c’entri. Anzi, tu mi hai aiutato ad affrontare con spirito nuovo gli ultimi accadimenti, una prova dopo l’altra. Ma se è questo che vuoi…” così dicendo cercò di raggiungere la grande vetrata. Una mano avanti a sé, lentamente, giunto la posò sul vetro ghiacciato. Poi vi poggiò la fronte. Il suo Universo gli mancava. Helèn provò una gran pena, gli si avvicinò e gli strinse una mano.

Si schiarì la voce. “Stiamo attraversando una nebulosa molto bella, dai colori che vanno dall’amaranto al giallo. Al centro ci sono dei corpi luminescenti, sembrano diamanti, i suoi bordi sono frastagliati, d’oro e… ho paura. Ho solo tanta paura per te” disse guardandolo.

 “Io no”. Rispose lui.

 Lo abbracciò forte guardandolo in volto. “Tu… tu non hai paura di nulla”.

“Non è vero. C’è una cosa che mi fa paura”.

 “Cosa?” chiese allibita Helèn.

“Ho paura di perdere le persone a cui voglio bene. E’ per questo che…” non terminò la frase. Helèn la terminò nella sua testa ‘non ami’. Abbassò lo sguardo.

Quella notte la donna dormì lì. Harlock era già stato privato della vista non poteva di colpo privarlo anche del suo amore, ora aveva bisogno di lei. “Stringimi” gli chiese, mentre un senso di perdita senza confini le stava pervadendo l’anima. Perché tutto era così ingiusto?

Per quanto avesse lottato con se stessa, il suo posto in quel momento era accanto a lui.

 

L’indomani era al computer di Yattaran con una cuffietta all’orecchio ed un microfono. “Pronto professor Nakashima?”

“Si? Chi parla?”una voce gentile e matura le rispose dall’alta parte.

 La donna sorrise riconoscendola “Professore sono Helèn, Helèn Sterèn”.

 “Helèn? Ma… sei davvero tu?” rispose l’uomo perplesso.

“Professore ha sempre quei sigari nascosti nel libro di ambliopia* della sua biblioteca?”

 “Ragazza, allora sei davvero tu. Ma, ma io credevo che…” Disse con tono meravigliato.

 “Mi ascolti professore, non posso rispondere alle sue domande è una lunga storia ed io ho bisogno del suo aiuto”.

 Helèn spiegò per grandi linee cosa era accaduto al suo paziente ed il motivo per cui non poteva rivolgersi ai canali ufficiali. Parlò della sua idea di farsi aiutare durante l’intervento con l’ausilio di una telecamera e riportò l’esito dei suoi esami omettendo accuratamente di chi si trattasse.

L’uomo, per un lungo momento tacque, comprese che accettare, se fosse stato scoperto, avrebbe comportato dei rischi soprattutto per lui.

“So cosa sta pensando professore, ma io non ho alternative, la prego” la voce di Helèn era accorata.

L’uomo allora chiese “E’ qualcuno vicino al tuo cuore come Tadashi?”

“Sì” rispose Helèn senza esitare “Io l’amo, darei la mia vita per lui ed è importante che nessuno lo sappia mai professore”.

“Dopo quello che hai fatto per mio figlio Takumi non posso dirti di no. Sai, mia moglie è morta pochi mesi fa”.

“Non lo sapevo”. Helèn chinò il capo al ricordo di quella donna rotondetta dal sorriso solare che portava limonata fresca per tutti durante le lezioni private del professore.

“Ora ho solo mio figlio e non sarebbe accanto a me se non fosse stato per te, io non dimentico Helèn”.

L’uomo accettò e tutto fu fissato per il giorno dopo. Helèn si alzò guardando Yattaran, lui le sorrise sornione. Lei comprese che non avrebbe fatto parola con nessuno di quello che aveva udito durante quella telefonata, quindi si diresse stancamente negli appartamenti di Harlock.

Lo trovò seduto sul grande letto, la schiena poggiata sui cuscini, lui si voltò di scatto sentendola entrare. “Allora? Come è andata Helèn?”

“Bene, ma come fai sempre a sapere che sono io?”. Lui sorrise, non rispose.

Helèn gli si sedette accanto dall’altra parte del letto, prendendogli una mano e gli raccontò della telefonata, di chi era il professore, di come si fosse trovata a salvare durante un attacco, la vita del figlio anch’egli ufficiale medico della Gaia Fleet. Poi poggiò la testa sul suo cuscino, i suoi capelli le solleticavano dolcemente il viso, il suo odore la coccolò dolcemente e tutta la tensione e la stanchezza fino ad allora accumulate ebbero la meglio. Si addormentò così.

Quando si svegliò era poggiata sulla sua spalla, lui era rimasto lì. Immobile. “Scusami, perché non mi hai svegliata? Chissà che noia, che hai fatto tutto il tempo?”

 “Avevi bisogno di dormire. Ho trascorso il tempo ripensando a te mentre danzavi, con gli occhi della mente ti vedo ancora. Poi adoro ascoltare il suono del tuo respiro regolare, fai un sacco di suoni buffi”.

“Suoni buffi? Che suoni buffi?” chiese Helèn

“Del tipo ‘pppsss o ‘broth-broth’ ”

Helèn sgranò gli occhi “Ma… ma non è vero!” disse dandogli dei pugnetti sul petto.

Lui si voltò di scatto fingendo un’atroce dolore all’occhio. Helèn gridò spaventata “Oddio, che hai? Fammi vedere”.

Così facendo si sbilanciò verso di lui che ne approfittò per bloccarla saldamente per le braccia baciandola. Lei non reagì rispose al bacio dolcemente, sorrise “Sei un bugiardo planetario, ed un bravo attore”.

Risero scaricando un po’ della tensione accumulata. Lui immobile sembrava guardarla. “Sembra anche a te, d’aver vissuto già una situazione come questa?”

“Si” rispose lui sapendo bene di cosa parlava. Quello strano senso di già fatto, di già vissuto.

“Forse ci siamo incontrati nei sogni Helèn”.

Restarono così abbracciati, godendo del reciproco sentire in attesa che arrivasse il giorno dopo.

 

 

 

NOTE

Testo di Ambliopia: L'ambliopia, in oftalmologia è un'alterazione della visione dello spazio che viene a manifestarsi inizialmente durante i primi anni di vita.

Capitolo dedicato ad Angelfire.

Sempre grazie alla MIA B-Beta.

E grazie sempre a coloro che leggono e commentano.

Mi scuso con tutti per il ritardo nel postaggio causato da malanni di stagione e da questa vita in corsa alla quale, a volte, è davvero difficile star dietro. Una nuova improvvisa attività mi ha assorbita completamente. Forse anche i prossimi postaggi slitteranno, ne chiedo scusa sin da subito,spero comprenderete grazie a tutti sempre :-*

 

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