Desideri

di susita21
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nuove conoscenze ***
Capitolo 2: *** Notte di San Lorenzo ***
Capitolo 3: *** Ritorno al passato ***



Capitolo 1
*** Nuove conoscenze ***


            NUOVE CONOSCENZE.

 [Jazmine Collins-Theo O’Malley]


 
Una nuova settimana aveva inizio, e non ne avevo le forze. Quella precedente mi aveva sfinita, e avevo solo voglia di rimanere a casa. Mia madre, con voce dolce, venne a svegliarmi, conquistandosi una cuscinata in pieno viso. La giornata non stava iniziando bene.



La scuola è un tripudio di pettegolezzi, rossetti sbavati dai troppi baci e ormoni a mille. “Sembra un circo”, pensai. Raggiunsi l'armadietto e arrivò Lizzy, la mia compagna di banco, iniziando a tormentarmi già da subito con storie che per me contavano meno di niente. Feci finta di ascoltarla, finché non arrivammo in classe e ci sedemmo. I miei amici, per così dire, erano degli imbecilli fatti e finiti. Tranne uno. O almeno credo, all'apparenza non lo sembrava. Doveva essere nuovo, dato che era la prima che lo vedevo. Non dava confidenza a nessuno, parlava a monosillabi e per il resto del tempo leggeva un libro, che poi scoprii essere "Una casa di petali rossi". Il professore entrò dopo dieci minuti, e come prima cosa ci presentò il nuovo alunno. Il nuovo arrivato si avvicinò alla cattedra e, rivolto a noi, disse di chiamarsi Theo O’Malley, di essersi trasferito con gli zii dal New Messico, e di essere stato bocciato più volte. Non disse altro e se ne tornò al suo posto. Cominciò la lezione, e il desiderio di tutti era che la campanella suonasse presto. Non appena si sentì quel suono, tutti scattarono sull’attenti e uscirono in corridoio. Rimanevano due persone in classe, ai loro banchi. Theo O’Malley ed io. Leggeva ancora, non credo avesse smesso per tutta la durata della lezione. “Quel libro dev’essere davvero fantastico per non staccarsene mai”, mi dissi. Ne avevo uno anch’io, ma non lo tirai fuori. "Promettimi che ci sarai". Adoravo quel libro, era la decima volta che lo leggevo, e non mi stancavo mai. Ogni volta sembrava la prima.



Non feci altro che guardarlo per tutto il cambio d’ora e probabilmente se ne accorse, perché prima dell’uscita lasciò il suo libro sul mio banco. Lo presi delicatamente, come facevo con tutti i libri. Lo aprii. All'interno c’era una dedica: “Se hai buon gusto nello scegliere i libri, questo ti piacerà”. Lo misi nello zaino e mi incamminai verso casa.

Nel pomeriggio tirai fuori il libro e mi chiesi perché uno sconosciuto che non sapeva neanche il mio nome, avesse deciso di prestarmelo. Perché proprio a me? Rimuginai su questo fatto tutta la giornata, e la notte non portò consiglio.



La mattina seguente misi il libro nello zaino ed uscii di casa. Avevo finalmente un buon motivo per andare in quella gabbia di matti che osano chiamare scuola. Vedere Theo.

 

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Capitolo 2
*** Notte di San Lorenzo ***


NOTTE DI SAN LORENZO. [Elijah Ward-Pam Jefferson]
 
 
ELIJAH.
 
 
Come ogni anno il Castello traboccava di ogni tipo di persone.. peccato che la maggior parte di loro non capiva niente di quello di cui si parlava.
«Buonasera signori, quell’agglomerato di luci che possiamo vedere alla destra della torre più alta, è la Grande nebulosa di Orione, che il mio amico vi farà vedere al telescopio, se volete».
Andavamo avanti così da ore ormai, quando, mentre posizionavo il telescopio, sentii una voce timida e leggera che chiese: «Lei crede nell’esistenza degli extraterrestri?», mi voltai e vidi un visino delicato illuminato dalla fioca luce del lampione. «Non importa quello a cui si crede o quello a cui non si crede. La scienza afferma che c’è una possibilità che esistano altri esseri viventi, in altri pianeti». Ma cosa stavo dicendo? Facevo il saccente con una perfetta sconosciuta, per quanto carina fosse. Aveva profondi occhi color ambra, labbra carnose e capelli castani. «Non le ho chiesto cosa dice la scienza, ma cosa pensa lei»; «Bhè, io credo che qualcosa esista, ma non esseri simili a noi». La ragazza sorrise e si allontanò lentamente. Tornai confuso al mio lavoro, la serata stava per terminare.
 
Tornato a casa, accesi la tv e mi misi a letto. Diamine, che sorriso. Non avevo mai visto un sorriso così vivo. Era stato come una visione, una dea. Afrodite, la Dea della bellezza. Mi piacerebbe rivederla. Forse questa sera, al Castello.
 
 
PAM.
 
La Notte di San Lorenzo mi è sempre piaciuta. Amo stare sdraiata sull’erba appena tagliata a guardare le stelle. Esprimere desideri dopo aver visto una stella cadente, ascoltare gli astronomi, osservare le nebulose al telescopio. Non credo che qualcun’altro questa sera sia venuto qui per il mio stesso motivo. Io amo sapere il più possibile sulle costellazioni, sui satelliti, e questa sera, questo posto, sono i più adatti. Nel punto più panoramico del Castello c’era un astronomo che faceva questo lavoro e veniva qui la Notte di San Lorenzo da molti anni. Lo vidi per la prima volta quattro anni fa, quando questo progetto dei telescopi venne messo in atto. Sono quattro anni che entrambi veniamo al Castello, e ancora non ho capito come si chiama. Questa sera è vestito con jeans scuri e una camicia bianca. Credo sia più grande di me, dall’apparenza sembra sui 25 o 26 anni. Ha una voce chiara e profonda, capelli corti e rossi, occhi verdi. E’ davvero bello. Una mia amica dice che è attraente. Io dico che la mia amica ha ragione.
Vorrei parlargli, dirgli che amo l’astronomia tanto quanto lui, e che lo osservo tutte le Notti di San Lorenzo, da quattro anni.
Le mie gambe iniziano a muoversi, “Oh mio Dio, dove sto andando?”.. Me lo ritrovo davanti a pochi metri da me, mentre sistema il telescopio. «Lei crede nell’esistenza degli extraterrestri?», “Lei crede nell’esistenza degli extraterrestri? Ma che domande sono? Pam hai bisogno di riposo”. Lui si volta perplesso –glielo si leggeva in faccia- e mi risponde, con voce serena: . «Non importa quello a cui si crede o quello a cui non si crede. La scienza afferma che c’è una possibilità che esistano altri esseri viventi, in altri pianeti»; almeno so che non sono l’unica ad aver bisogno di riposo. «Non le ho chiesto cosa dice la scienza, ma cosa pensa lei», tutti avrebbero detto che sono sicura di me, ma la verità era che mi tremavano le gambe e il cuore mi batteva forte. «Bhè, io credo che qualcosa esista, ma non esseri simili a noi», mi disse dopo un po’. Sorrisi e mi allontanai. Sapere se crede o no negli extraterrestri non era esattamente ciò che avrei voluto sapere su di lui, ma era già un passo in avanti. Ora sapevo ben due cose: era un astronomo e crede negli extraterrestri. Dovevo assolutamente saperne di più. Forse questa sera. Al Castello.

 
 

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Capitolo 3
*** Ritorno al passato ***


RITORNO AL PASSATO.


[Jared Williams-Fannie Richardson]
 
26 Luglio, 2000.
 
«Papà, quando andiamo a prendere la mamma?»
«Tra poco, Jared».
«Allora mi vado a preparare?»
«Si, ma fai poco rumore».
Era sempre una lotta per me parlare con mio padre. Lui non mi voleva bene, lo sentivo. Ma io a lui gliene volevo, gliene volevo eccome. Salii silenziosamente nella mia cameretta, e accostai la porta.
Volevo vedere la mamma, mi mancava molto, ma non volevo salire in macchina con mio padre. Anche un bambino di quattro anni capisce quando c’è qualcosa che non va, e con mio padre c’era sempre qualcosa che non andava. Ne parlai con la mamma una volta, ma lei mi disse di non badarci e pensare che se mi fossi comportato bene, non ci sarebbero stati problemi.
Mi sedetti rattristato sul letto, e da lì sentii mio padre che urlava contro qualcuno in televisione che non passava la palla. “Odio chi ha inventato la televisione”, pensai. Per un bambino non erano i pensieri giusti da fare, ma con un papà che passava l’intera giornata davanti alla tivù, non si può pensare che questo. Decisi di prepararmi, riscesi le scale, e mi sedetti sull’ultimo gradino. Mio padre finalmente spense la televisione e mi guardò. «Che diavolo vuoi, moccioso?» Nessuna risposta. La mamma mi aveva insegnato a non rispondere quando mi chiamava moccioso. Mi dette una spinta e salì le scale. Ero terrorizzato quando si comportava così, non portava niente di bello.
Qualche minuto dopo, salimmo in macchina. Dal sedile posteriore potevo vedere il riflesso del volto di mio padre sullo specchietto. Non era un bel volto. Aveva i capelli già grigi e qualche ruga sulla fronte. Il colore degli occhi mi piaceva, nero pece, ma emanavano odio e disprezzo. Soprattutto quando erano rivolti verso di me.
Svoltato l’ultimo isolato arrivammo di fronte alla scuola elementare dove insegnava la mamma, e lei ci venne incontro. Salì in macchina, ci salutò e papà ripartì sgommando. Ero convinto che lei lo amasse, anche con tutti i difetti, ma non ero molto convinto che lui provasse gli stessi sentimenti. Si vedeva da come le parlava, da come la guardava. Non si guarda così tua moglie e la madre di tuo figlio.
Eravamo a casa da qualche ora, e mia madre ed io stavamo preparando la cena. Mio padre scese le scale, si affacciò in cucina e con voce rauca ci avvertì che non avrebbe cenato con noi. ”Neanche questa sera..”, pensai. «Dove vai?», gli chiese mia madre. «Non impicciarti di affari che non ti riguardano, donna». Era fastidioso. «Ti lascio la cena in forno?», mio padre non rispose e se ne andò. Lo prendemmo per un no.

Per cena, avevamo preparato un’insalata di riso e dei pomodori e fette. Mentre mangiavamo guardavo la mamma, e mi chiesi come avesse fatto a sposare un uomo come mio padre. «Perché l’hai sposato, mamma?», mia madre mi guardò, ma vidi nei suoi occhi una scintilla di tristezza. «Non voglio che tu dica queste cose, Jared. Io lo amo, e lui ama me. Un giorno proverai anche tu un amore come questo». «Non credo, mamma. Io non chiamerò mai mia moglie “donna”, ma “cara” o “piccola” o “tesoro”. E non chiamerò neanche mio figlio “moccioso”, non è bello». Mi guardò stupita, ma poi mi sorrise. «Vieni qui piccolo mio». Scesi con un salto dalla sedia, e mi sedetti sulle sue ginocchia, appoggiando la testa sul suo petto. Mi piaceva sentire il battito del suo cuore. Era un suono rilassante, e il suo corpo emanava sempre calore. Mi addormentai lì, lasciando il resto della cena sul piatto.
A notte fonda, mi risvegliai nel mio letto, e sentii mio padre rientrare. Salì le scale, e percorse il corridoio verso la sua camera. Ma improvvisamente si bloccò e ritornò di sotto. Udii la porta d’ingresso aprirsi e poi richiudersi. Affacciandomi dalla finestra della mia camera lo vidi uscire in giardino, diretto al cancello del vialetto. Scesi in fretta le scale, cercando di non fare comunque rumore, ed uscii in giardino anch’io. Lui mi sentì, si voltò e sbuffò.
Non avrei voluto davvero scendere le scale e seguirlo, ma non volevo che stesse per fare quello che pensavo. Non sapevo che dire, come sempre. Ma iniziò lui a parlare: «Torna a letto». Aveva lo sguardo duro, e portava una valigia nella mano destra. Fece un gesto con la mano, come per scacciarmi, ma io mi avvicinai ostinato a sapere cosa stesse facendo. Mi sovrastava di moltissimo, e avevo una paura folle che mi picchiasse. Non sarebbe stata la prima volta, ma ora sembrava più pericoloso che mai. 
«Dove stai andando?» chiesi ingenuamente. «Da nessuna parte, faccio una passeggiata». Mi cadde l’occhio sul suo orologio: erano le tre di notte. «Perché fai una passeggiata alle tre di notte?». «Non scocciare, moccioso. Tornatene in camera». Stavo per voltarmi e tornare in casa, mi prese un braccio e mi costrinse a girarmi. «Ora stammi bene a sentire, ragazzo. Tu non mi piaci, e io non ti piaccio. Lo sappiamo bene entrambi..»; «Tu mi piaci», lo interruppi. «Shh, zitto e non mi interrompere», piccola pausa. «Papà sta per andare via –sei abbastanza intelligente da averlo già capito da solo, vero? Quando domani mattina ti alzerai, scendi in cucina e prepara la colazione a tua madre, senza scottarti con il fornello. Poi preparati, ed esci con lei. Andate dove volete, ora che ne avrete la possibilità. Vi lascio la macchina, le chiavi sono nel posacenere all’ingresso». Fece per andarsene, ma lo fermai. «Papà.. Ma tu dove andrai? Il tuo posto non è qui con noi?», mi guardò e gli angoli della bocca sembrarono alzarglisi leggermente. «No, Jared, il mio posto non è più qui con voi». «Ma la mamma ha bisogno di te! Io ho bisogno di te..». Iniziai a piangere e a tremare. «Sii uomo, Jared! Gli uomini non piangono mai. Neanche ai funerali». «Lo zio Clark pianse al funerale del nonno..», un vero sorriso gli spuntò sul volto, il primo dopo tanto tempo. «Lo zio Clark non è vero uomo, allora!».. Mi accarezzò il volto, e mi accorsi che le sue mani erano ruvide e grandi. «Addio Jared». «Addio papà». E se ne andò. Mi lasciò lì, un bambino di quattro anni da solo nel giardino di casa sua alle tre di notte, in lacrime e scalzo. Mentre rientravo in casa, sperai vivamente che quello non fosse un vero addio, ma piuttosto un “arrivederci, a presto”.

 
 
 
29 Settembre, 2004.
 
          Oggi mia madre ed io saremmo dovuti andare al luna-park, se solo lei non avesse scelto di lasciarsi andare, e di abbandonarmi. La casa non era mai stata così piena di persone, alcune che neanche conoscevo. Una nostra vicina di casa mi aveva vestito col vestito buono: era un abito da festa, ma oggi meno che mai avevo voglia di festeggiare. Me ne stavo seduto sulla poltrona che un tempo era di mio padre. Non era stata usata da quel 26 Luglio 2000.

 
Sia io che mio padre, quella sera in giardino, avevamo pensato che senza di lui mia madre sarebbe stata più felice. Ma sbagliavamo, e di grosso. Il giorno dopo del suo abbandono mi alzai di buon’ ora –meglio dire che non avevo dormito affatto- e preparai la colazione a mia madre: latte e caffè, brioche alla marmellata di albicocche e succo alla mela. Amava le colazioni sostanziose.

Si alzò con un sorriso, ma non appena vide l’altra metà del letto vuota, si rattristò. Gli appoggiai il vassoio sulle gambe e subito cercò di non farmi preoccupare del fatto che papà non c’era. Ma ero io che dovevo recitare, per non fare preoccupare lei.
Passammo una settimana allegra insieme. Sembrava aver preso bene il fatto che papà se ne fosse andato. Ma mi sbagliavo. Dopo qualche giorno iniziò a mangiare di meno, parlare di meno, e dormire di più.

           Poco prima di lasciarmi, andai in camera sua e mi sedetti sul letto accanto a lei. «Mamma.. non te ne andare, fallo per me». «Piccolo mio, mi dispiace tanto.. Pensavo di farcela senza tuo padre, ma la verità è che senza di lui, questa casa non va. Anche con le urla, i grugniti e i calci alla tivù, la verità è che questa casa senza tuo padre è il nulla». La guardai sorpreso, come poteva dire una cosa così? Mio padre mia aveva reso l’infanzia un incubo, fino a che non aveva fatto la scelta di andarsene. Per quanto mi riguardava, averlo o no vicino non era molto diverso. «Ma mamma, io credevo.. io e papà credevamo che senza di lui tu saresti meglio, e che avremmo vissuto meglio senza di lui». Vidi nei suoi occhi un lampo di confusione. Non sapeva ancora che quella sera io e papà avevamo parlato e ci eravamo detti addio. «Voi avete parlato prima che se ne andasse?» mi chiese dopo un attimo di incertezza. «Si, il 26 Luglio del 2000, rientrò a casa alle tre, e mi svegliai sentendo la porta chiudersi. Lo raggiunsi in giardino e parlammo per un po’». «Cosa ti disse?». Le presi una mano e le parlai lentamente: «Mi disse che saremmo stati più felici, che quello non era il suo posto, e che la mattina dopo avrei dovuto svegliarmi presto e prepararti la colazione». «Ecco perché eri così carino e gentile»; «Sono sempre stato carino e gentile con te, mammina». «lo so, Jared, lo so. Non è questo che volevo dire. Ti prendevi cura di me, quando sarei dovuta essere io ad occuparmi di te e mi dispiace per non esserti stata vicino. Avevi quattro anni e avevi appena perso tuo padre. Almeno avrei potuto chiederti come stavi, e invece non ho fatto niente». «Non ti preoccupare, mamma», «E invece avrei dovuto preoccuparmi. E’ il dovere di una madre». Scossi la testa in segno di rassegnazione, era impossibile discutere con lei.
Ero ancora su quella poltrona, quando la nostra vicina si avvicinò e mi portò un bicchiere di aranciata. La gente iniziava ad andarsene e la mia vicina mi prese sotto la sua ala e mi portò in giardino. Mi disse che lei, avendo già otto figli e i suoi genitori in casa, non poteva ospitare anche me, ma –mi assicurò- avrebbe davvero voluto.

Così a sette anni, orfano di madre e abbandonato dal padre finii in orfanotrofio dal Signor John Parker. “Passerò qui gran parte della mia vita, probabilmente”.
 
Avevo ragione.
 
 

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