RIGOR MORTIS

di minimelania
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un Trascurabile Contrattempo ***
Capitolo 2: *** Un intermezzo ***
Capitolo 3: *** Portami via ***
Capitolo 4: *** Un sonno senza sogni ***



Capitolo 1
*** Un Trascurabile Contrattempo ***


- La zingara è morta, gli disse qualcuno. Non ricordava neppure la voce, né il luogo in cui si trovava nel momento in cui vennero a dirglielo. Solo, sentiva tremare le gambe. Di un tremito così incontrollabile che fece di marmo ogni suo muscolo per resistere.
- Che cosa dobbiamo farne, arcidiacono? Ha diritto a una sepoltura cristiana?
Povera bimba. Il laido frate gli stava davanti, mandato a sua volta dal carceriere. E sapevano che i condannati morti nell’eresia, quelli condannati alla forca dopo qualche infame processo non avevano diritto a nient’altro che a una fossa comune.
Ma perché allora adesso, quello stupido frate, quell’individuo untuoso davanti a lui ancora sorrideva a mezza bocca, e se ne stava sulla soglia come se non decidesse né di andare e neppure di fare un passo dentro la stanza? E fulmineamente lo capì. L’aveva vista, e non poteva dimenticarla, anche lui. Quell’altro chinò il capo, come se avesse inteso la sua domanda mentale.
- E’ molto bella – disse, fissando in terra. E adesso un poco strusciava il piede sul freddo pavimento di marmo – E’ molto bella, signore. Dispiace che debba andare sotto terra. Sapete che cosa gli capita, a quelli come lei.
Lo sapeva. Claude Frollo lo sapeva molto bene, per aver accompagnato decine di sacchi di eretici, corpi di carne in decomposizione, alla fossa che aspettava loro come una bocca spalancata. Sapeva della calce viva che manda un puzzo di fetido sfrigolio d’ossa, sapeva delle putredini subito intaccate, del fumare di tutti quei vestiti marci. E tutto perché non si sviluppino pestilenze. Cento e più corpi. Forse duecento in una delle tantissime fosse anonime. E poi calce sopra, narici ingombre della peggiore acredine del mondo, quella roba che sale alle narici dai corpi, quel misto di putridume e necessaria, bruciante igiene. No, non voleva che finisse in quel modo, anche se adesso era un sacco d’ossa, un sacco forse, anche di carne… quella carne che tante volte aveva sognata, fantasticata nelle lunghe notti spagnole. Quando era stato via, lontano lontanissimo da tutto, mentre lei in carcere invecchiava. Che poi, erano passati solo due anni. Pochi anni, invero. Ma era lui ad essere ora quasi morto, e di un male comune. Il povero vecchio Claude Frollo era morto di consunzione di sé, quella piaga che attacca i vivi quando cessano a un punto completamente di sognare. E lui adesso no, non sognava più. Niente affatto, aveva solo vaghi ricordi di che cosa fosse stato sognare.
E ancora adesso, in qualche notte afosa si ricordava di quel velo di carne, di quel filamento di sogno che era stato il suo amore per lei. Povera bimba, quanto l’aveva amata di quell’amore egoistico che non è niente affatto amore. Che è brama, e brama sciocca ed insensata.
- Allora, dico ai fratelli di far venire il becchino?
No. Non voleva, non poteva. Eppure voleva vederla l’ultima volta. Per l’ultimo giorno in cui ancora il suo corpo smagrito (oh! Come doveva essere ridotto ormai dopo due lunghi anni di carcere), voleva vedere ancora una volta il suo lungo collo ormai certo piagato. La bella schiena spezzata dalla frusta, le dolci mani che forse ormai certo avevano perso le unghie. Perché qualsiasi detenuto in quel buio comincia prima per rosicchiarsele, poi se le mangia per i morsi di fame. Infine, quando in quel buio impazziscono, spesso grattano per ore e ore il muro soltanto per poterne scappare. E i topi, dalle loro tane negli angoli, miseramente commemorano tutta quella miseria umana.
- Voglio che la mettiate sotto terra senza toccarle un capello. E solo dopo che sarò andato a vederla.
Gli venne in mente qualche anno prima, mentre una grande pestilenza – oh, non immensa come quelle che si ebbero poi, ma comunque abbastanza da falciare migliaia di vittime – oh, ricordava mentre a casa sua morivano tutti come mosche che lui, lui stesso là era tornato, nel suo quartiere per portar via almeno il piccolo Jean. E in quel caso, da una porta ad un tratto aveva scorto una signora bruna, una donna di una bellezza molle che solo pochi sanno ricordare dietro il fumoso sipario del tempo. Ma lui la ricordava perché aveva tra le braccia qualcosa di irredimibile. Era questa una bambina morta, addobbata come se fosse per andare a un ballo. E nel consegnarla a un becchino la madre, perché doveva essere la madre, gli disse solo “fate che vada sotto terra così com’è. Mi promettete di non toccarle un capello?”. E in quella al rude becchino porse una piccola borsa di monete. E quello inginocchiandosi quasi prese la bimba come poteva e la dispose delicatamente sopra al suo carro.
Bene. Adesso lui ricordava la donna, e ricordava anche il becchino.
- Dio vuole essere misericordioso con noi, e vuole che lo siamo con i suoi figli, tutti i suoi figli. Andate pure a dire ai becchini che si preparino, ma prima verrò e voglio essere lasciato solo.
Il frate se ne andò, evidentemente sollevato da tutto quel dire di Claude Frollo. Perché quando Claude Frollo parlava si rischiaravano gli animi. E questioni che fino a un attimo prima erano apparse insolubili all’improvviso diventavano invece trasparentissime. Andandosene, forse il frate pensò che tutta quella santa bellezza non sarebbe andata sprecata. Se la Esmeralda avesse avuto prima una preghiera di Claude Frollo sarebbe andata in Paradiso in carrozza. Chiunque stringa una preghiera di Claude Frollo ha tra le dita un sicuro lasciapassare per la beatitudine.


Peccato che Claude Frollo stesse male, fosse assai in ansia. Praticamente non mangiò, a pranzo, come del resto non mangiava mai. Eppure stavolta aveva paura. Paura di vederla ancora una volta ma morta, fredda, dimagrita, ossuta, male in arnese, senza capelli e ormai l’ombra di quella che era stata. Non che con lui il tempo si fosse mostrato clemente. Pareva ormai quasi un vecchio aveva ancora solo trentotto anni. Nei due anni precedenti era stato coinvolto in più di un affare di Stato. Ambascerie prima a Granada, poi in qualche altra terra da mori. Povero Claude, era sì invecchiato, ma soprattutto era come se ormai niente potesse più scalfirgli il petto. In una notte di luna nuova aveva amato una, una sola donna sopra a un pagliericcio per strada. E mormorando il nome di lei, il nome dell’altra, della sua tigre segreta aveva finto di morire. Era giunto a quella specie di secco piacere, di cupo fremito di cuore a cui spesso – non tanto – si abbandonava anche quando era da solo. Esmeralda, aveva sussurrato. Ma lei non era Esmeralda. Era una stupida qualunque con solo forse un poco di capelli nerissimi. Nessuna era Esmeralda perché lei era la sola. La Esmeralda. Smeraldo mio, perdona il tuo amore che è in questi vicolo, qui, adesso, e geme addosso a un’altra donna soltanto per esser tuo.
Il suo potere, già in quei mesi e poi una volta tornato in Francia, si era enormemente accresciuto. Adesso solo da lui passavano gli ordini per quel paese straniero. Il Re si consultava solo con lui. Era in breve l’uomo più potente di Francia dopo il sovrano e tuttavia non c’era pace. Sapeva solo che lei era là, esattamente dove l’aveva lasciata. Col pagliericcio umido ai piedi e il fetido bugliolo del cibo e degli escrementi. Povero amore mio, cosa ti ho fatto? Se lo era quasi tatuato nel cuore, come quegli strani negri che a volte vedeva ancora comparire per strada quando era in Spagna. Anche loro, nel biancore dei denti sembravano aver tatuato un sorriso in cui non credevano. Ed erano quasi tutti schiavi, tutti mori con lunghe braccia e anelli al naso. Mori, prendetemi e portate via anche me su quelle vostre scope con cui a notte vi recate dal vostro signore, il demonio. Portate via anche me, fetidi mostri, e non fate che assista mai alla sua morte, alla morte di lei che in vita si chiamava Esmeralda.

Ma ora era morta, lo sapeva, sì. E adesso in bocca gli tremava qualcosa che forse erano lacrime, forse una supplica. Forse invece una preghiera all’Altissimo, o un bacio. Il bacio vivo che non avrebbe mai più incontrato le sue labbra di carne.

 

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Capitolo 2
*** Un intermezzo ***


I carcerieri si spostarono a vederlo passare. Tutti si spostavano. Il nome di Frollo non doveva neppure essere detto a voce alta. Lo sussurravano, e ne avevano paura. La lanterna del disgraziato davanti a lui, un carceriere enorme e guercio di cui vedeva la schiena macchiata in una giubba di tela grezza, ballonzolava nelle tenebre. E rivelava di volta in volta come in un mirifico caleidoscopio celle di poveri infelici, miserabili, avanti fetidi di carne umana. Oh, come sarebbe stato meglio per tutti se ogni cosa, ogni cosa all’istante avesse cessato di esistere. L’arcidiacono rimuginava tra sé quando qualcosa attrasse la sua attenzione. Era un topo che usciva da una delle celle con un pezzetto di stoffa in bocca. Il carceriere imprecò a trovarselo sgusciare tra i piedi calzati in vecchi sandali umidi, e sì che doveva esserci abituato.
- Queste bestiacce sono dappertutto, ce ne sono sempre di più.
- Come gli zingari – mormorò l’arcidiacono, senza che l’altro osasse fiatare. Neanche lui, il carceriere orribile con l’occhio guercio e la mano alla frustra, nei suoi pensieri confusi, aveva del tutto simpatico quel vecchio prete che aveva dietro. E camminando, ecco quasi ne aveva paura. Si diceva che sapesse bene dove infilare la daga dentro le scapole di un uomo. Ne aveva ammazzati, si diceva, avvelenati nelle sue molte ambascerie. Ma questo era niente rispetto ai roghi che negli anni scorsi, negli ultimi due anni aveva alzato. Pieni di zingari, la sua ossessione. Si mormorava che ne avesse messi a morte oltre trecento. E questi con mezzi, diciamo, leciti. Quanti donne, quanti bambini in culla, questo non era dato saperlo.
- Manca molto? – chiese l’arcidiacono.
- No, signor mio.
Svoltarono un angolo e il carceriere fu ben felice, come sollevato, di lasciarsi sorpassare da lui, dal vecchio prete la cui sottana strusciava contro ogni pietra come la morte. Si diceva che il volto suo fosse quello di lei, che lui e la morte fossero consanguinei, che avessero stretto un patto.
- Potete andare, adesso.
Il carceriere chinò la testa, e gli porse un mazzo di chiavi.
- E’ la prima chiave grande, monsignore. E lei… - e qui ebbe come un attimo di esitazione, deglutì – non l’abbiamo toccata.
Da qualche parte nella sua testa un pensiero frullava come dentro le tenebre.
- Ma perché volete vederla?
Si pentì subito della domanda. Ma l’arcidiacono sorrise piano.
- Questa signora è una mia vecchia conoscenza. Volevo tenerle un’ultima volta la mano prima che vada sottoterra.

 
Era tutto, naturalmente, buio. Il carceriere fissò la lampada al muro, dietro di lui, e poi scomparve. La luce rossa illuminò una stanza di forse due metri per due. L’arcidiacono socchiuse gli occhi. C’era troppo calore dentro la stanza, e poi quel puzzo intollerabile. Per qualche istante fece come se non ci fosse niente, come se non avesse visto quel sacco buttato proprio in mezzo alla cella. Ricopriva qualcosa, e quel qualcosa era il corpo di lei.
- Non devo pensare – si disse – Non devo pensare. Lei è morta ed io non sono qui.
Gli vennero alla mente certi spasmi, certe contrazioni dell’animo che in molti anni aveva provato. Prima, le prime volte, quando la vedeva danzare a Notre-Dame. Com’era stata bella, avvolta di sole. E dire che non era passato che un soffio, un soffio unico di tempo che aveva unito i respiri nella morte di una zingara e di un arcidiacono. E adesso invece era tutto finito, e lei era morta.
Si avvicinò di qualche passo.
- Troverai sotto una vecchia magra e sdentata – si disse. Due anni e mezzo di carcere fanno questo ed altro a gente ben più in carne e più in salute di lei - Era un pulcino quando è entrata, adesso sarà uno scarafaggio. Sicuro che vuoi vederla?
Emise un sospiro. Il puzzo era davvero osceno. Escrementi, orina. L’orina di lei. E nel più fondo del suo cuore di mostro, per un istante, oh, ma quanto breve!, sognò di essere chiuso con lei dentro a una stanza. E averla davanti in tutta la sua gloria oscena e dirle, sì, dirle pisciami addosso. Fai che io sia la tua latrina, tutto.
Si scosse. Andiamo, andiamo via di qui.
Ma poi qualcosa attirò la sua attenzione. Era un piedino, che spuntava dal sacco. Il suo piedino, era proprio lei. Si accucciò piano, nel liquame. Il suo piedino, com’era pallido, com’era rovinato, ma ancora in tutto degno di lei.
- Fermati, cane. Non toccarla – si disse.
Ed era già con la mano protesa. La chiuse in aria, la riaprì. Era lei. Adesso stava sfiorando il suo piede, che era freddo come il marmo e bellissimo. Oh, quante volte aveva voluto che quel piedino gli schiacciasse la testa, oh quante volte avrebbe voluto essere lui a implorare lei di non ucciderlo, di fargli tanto male e di distruggerlo, così, con quel piede. E adesso che era tutto suo lei era morta.
Scostò appena, febbrilmente, la tela del sacco. Eccolo, il polpaccio. Oh, davvero, era dimagrita. Ma bella, conservava ancora la linea purissima, quella di quando lei danzava con le trecce d’oro e a lui aveva rubato il cuore. Eccola qui, la mia amata, si disse. Il suo polpaccio lungo e disteso, e le ginocchia, oh, le sue ginocchia!
Si accucciò meglio, e poi si ritrasse. Stava profanando un cadavere. Ma era bellissima. Non poté proprio, non poté fermare la sua stessa mano. L’avrebbe fatto, se avesse potuto, ma quella dal ginocchio timidamente stava risalendo la coscia.
E’ morta, è morta!
Eppure no. Quella coscia ancora di marmo, tutta incrostata di sudiciume, come pareva viva!
E pianse lacrime amarissime mentre gemeva piano, già eccitato. Lei. Morta e così desiderabile. Chinò la testa, voleva morire. Ma ormai era troppo tardi anche per quello.
Fu in quel momento che lo udì. Lontanissimo. Era un sospiro.
- C’è qualcuno! – gridò, fuori di sé. Si era voltato. Fissava la porta dove nient’altro che la lanterna tremolava per uno sbuffo di vento. – Chi c’è?
Nessuno, solo lui e la sua morta. O forse magari uno spettro che veniva al mondo per perseguitarlo dopo che le mascelle di pietra del suo sepolcro si erano schiuse.
- Se sei un fantasma fatti avanti, non ho paura della morte!
Ma niente si mosse fuor della fiamma vicino alla porta. Lui allora cadde in un silenzio attonito.
- Sto impazzendo – disse pianissimo. E poi, e poi oh sì che impazzì davvero.
Fu nell’esatto momento in cui si voltava di nuovo verso il suo adorato cadavere che sentì bene, chiaro e distinto, un altro respiro, e poi un colpo di tosse. Agghiacciò. Il telo si muoveva.
- Esmeralda?
La bocca gli si era fatta di pietra, il cuore batteva all’impazzata. Sentiva le mani come tizzoni ardenti, le gambe gli erano diventate di marmo.
Accostò appena la testa a quel sacco. Lì sotto c’era qualcosa.
Chiuse gli occhi.
- Esmeralda – disse pianissimo.
Lei fece una piccola mossa col piede.
- Dove sono? – mormorò appena.
A Frollo il cuore si era fermato. Pensò che fosse un sogno, sperava che fosse un sogno. Fissò il sacco e poi lentamente tirò giù la parte che le copriva il volto.

 

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Capitolo 3
*** Portami via ***


Il suo cuore mancò un battito; poi un altro. Tutto intorno era diventato di gelo. Ricordava che da bambino la balia gli raccontava la storia di una fata che passa in silenzio e gela tutto quello che tocca. Gela villaggi e palazzi; gela bambini nella culla, sposi novelli, vecchi in agonia. Lui adesso si sentiva così. Quel momento sarebbe durato per sempre. Bastava trattenere il respiro e niente si sarebbe più mosso. Sarebbe rimasto così, nei secoli dei secoli. 
Ma no, invece qualcosa dentro il sacco si mosse. Si mosse appena, ma si mosse, indiscutibilmente. Era lei.
- Dove sono? – sussurrò. La mano dell’Arcidiacono finì di far scivolare la tela verso le spalle della donna per cui ora per ora, in tutti quegli anni, era morto nella carne e nello spirito; per cui le pene del suo inferno privato, reiterato giorno dopo giorno, non sarebbero state comunque abbastanza. La mano tremò, ma portò a termine il compito. E lei era lì, sotto di lui, a occhi chiusi.
“Menomale che non mi guarda” pensò lui, con un misto di dolore inumano e di tripudio. Lei era lì, sotto di lui, a occhi chiusi, ed era ancora bellissima. Il tempo e gli stenti avevano distrutto molto della sua freschezza, il luogo oscuro e mefitico in cui lui per anni l’aveva rinchiusa le aveva lasciato sul volto le tracce di un pallore incancellabile. Sembrava un giglio tenuto troppo a lungo schiacciato tra le pagine di un codice. Ma era lì. Le labbra, ora sottili e screpolate in più punti, erano ancora belle e dolcissime; le dita fini, ricoperte di piccole croste, erano ancora sufficienti a condannare chiunque alla dannazione; le unghie rosee, a forma di mandorla, erano spezzate e sporche, ma lui d’istinto le prese una mano e le baciò. Lei teneva gli occhi chiusi e respirava.
“I suoi capelli” pensò lui “sono ancora stupendi”. E subito voleva toccarli, quella massa ingarbugliata e sporchissima, quel nido di uccelli del paradiso, quel cuscino su cui avrebbe voluto addormentarsi e morire. Lei era lì. La sua adorata, unica bimba. Era lì e non era morta.
- Dove sono? – un altro colpo di tosse, e a quel punto aprì gli occhi.Erano ancora i suoi occhi, di una dolcezza ultraterrena; limpidi, seducenti – ma in qualche modo diversi. Lei sbatté le palpebre alla luce della lanterna che lui portava. Aveva freddo, sulle sue braccia correvano brividi che presto divennero un tremito continuo. Era coperta di sudiciume e sporcizia, era tremante, era indifesa, era più magra di uno spettro ma era la sua Esmeralda. Era viva.
- Tacete. Non vi affaticate – riuscì chissà come a dire lui, spremendosi queste parole dal petto che gli era diventato di ghiaccio ma in cui furiosamente si agitavano gli spettri che non avevano mai smesso di bruciarlo. Ora lei era lì, sotto di lui, viva e nuda. Era coperta di un sudario lercio e rabberciato alla meglio, dentro cui chissà quanti cadaveri erano finiti prima che la tela, impregnata di umori immondi e meschini, andasse a posarsi quella pelle dolcissima, bianca, irreale. Ora lei era lì, lui la teneva tra le braccia e tra un istante, quando gli occhi della Esmeralda si fossero abituati alla luce, lei avrebbe urlato e lo avrebbe respinto con le ultime, povere forze che aveva.L’Arcidiacono non poté, anche soltanto in quel brevissimo istante, reprimere un brivido al pensiero che avrebbe potuto stringerla a sé, che in qualche modo lo stava già facendo. Lui era un vecchio, ormai; lei una povera moribonda – ma non morta! – coperta di sporcizia; intorno a loro c’era una cella fetida e oscena… e lui l’aveva tra le braccia. Era lei, la sua bambina palpitante, la sua piccola rondine, l’amore della sua miserabile vita, che lui aveva cercato di distruggere in tutti modi, perché la sua ossessione si placasse. Non si era placata.
- Amore mio – non poté impedirsi di mormorare. E nell’attimo in cui pensava che lei lo avrebbe respinto con disgusto, che si sarebbe finalmente messa a urlare, che avrebbe cominciato a dibattersi, sentì un calore invadergli il petto e serpeggiargli per le viscere. Lei… il suo amore… la sua bambina dolcissima… una mano, la mano che era corsa fremente su per il polpaccio e la coscia… la mano si arrestò. Era dolcissimo quell’esatto momento in cui tutto era sospeso, in cui lui era soltanto un automa in cui scorreva ancora un poco di sangue e che stringeva tra le braccia un altro corpo, un corpo ultraterreno ancora vivo, il corpo celeste di lei.
- Chi sei? – sussurrò lei, i cui occhi ora restavano aperti, lo guardavano, vedevano persino alla luce, ma non sembravano riconoscerlo. Nel pallore spettrale del suo volto accennò persino a un sorriso. Era leggera, tanto leggera tra le sue braccia. Sembrava un piccolo fantasma spuntato dal nulla a tormentarlo ancora e ancora; ma non era un fantasma, era viva. Viva, e andava portata fuori di dì.
- Non mi riconosci, Esmeralda? – chiese lui con un tono che voleva essere neutro; era il tono che usava negli interrogatori ‘gentili’, quelli che ancora non necessitavano del ricorso alla tortura. Non subito. Ma la voce, quella voce che lui avrebbe voluto rassicurante e piana, gli uscì invece un sussurrò strozzato di ansia e desiderio – Non mi riconosci?Lei sorrise, un poco meno convinta. In quel momento lui si accorse che aveva un livido sulla mascella, che terminava alla base del collo. Era ormai solo un’ombra bluastra, ma doveva essere stato violento l’urto che l’aveva provocato. Forse il carceriere aveva provato ad abusare di lei, forse ci era anche riuscito. La sua creatura aveva lottato, la sua dolcissima stella. Ci avrebbe pensato lui a rimettere le cose a posto, avrebbe fatto uccidere il carceriere e l’avrebbe portata via da quell’orrore.
- Chi sei? – lo disse ancora una volta, e questa volta gli sorrise davvero. Lui restò senza fiato un secondo, un lunghissimo secondo in cui lei parve riscuotersi dal torpore e con le poche forze che aveva si puntellò sulle braccia. Lui aveva posato la lanterna in terra, a fianco a sé. Si accorse all’improvviso del freddo che faceva in quella segreta, si tolse il mantello e glie lo mise intorno alle spalle. Intorno al sacco da cui sbucava la sua pelle. Lei lo accolse con gratitudine; un altro sorriso calmo, smarrito. Un gemito leggero di piacere a sentire il calore di qualcosa che fosse asciutto e non viscido, che fosse caldo e non freddo, che fosse morbido e non urticante.
- Sono Claude. Amore mio, sono Claude – mormorò, pentendosi subito di quello che stava dicendo; ora lei si sarebbe ripresa, l’avrebbe ricordato e finalmente si sarebbe messa ad urlare. Ma non gli importava niente, voleva prenderla e portarla con sé. E invece lei lo fissava con occhi calmi, troppo calmi, calmissimi.
- Sei lo sposo che è venuto a salvarmi? Lui scosse la testa. Chissà da quanto era uscita di senno. Chissà da quanto pregava in cuor suo che qualcuno venisse a salvarla. Lui era quello che l’aveva precipitata in quell’abisso di dolore e di morte. Ma ora era lì, era lì con lei.
- Sono io. Sono il tuo sposo.
- Portami via. 


*****

Non aggiornavo da tanto tempo, ma la gentile mail di una lettrice mi ha raggiunto per dirmi che proprio voleva sapere come andava a finire, e allora... enjoy, proverò ad aggiornarla ancora nei prossimi giorni ;)

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Capitolo 4
*** Un sonno senza sogni ***


Fu facilissimo portarla via di lì; bastò dire che era morta di peste, e tutti i chiavistelli si dischiusero uno dopo l’altro, magicamente. Lui la peste l’aveva già avuta, un anno e mezzo prima, davvero; era passata lasciandogli pochissimi segni, se non una leggera vertigine che non se n’era più andata. L’aveva presa a Marsiglia, dove era andato a visitare dei loschi ambasciatori travestiti da mercanti di tappeti, per conto del Re. Ma quelli venivano da Tunisi, e prima ancora chissà da dove. C’erano state delle morti nel quartiere, cinque persone in neanche trentasei ore che erano lì: lui ci aveva parlato, alcune lettere erano passate di mano, e poi lo scambio di alcune monete e un paio di involti che contenevano materiale prezioso, da recapitare subito a corte. Due giorni dopo aveva cominciato a sentir salire la febbre; si era barricato nella cella del convento dove i domenicani lo ospitavano; aveva detto che gli lasciassero fuori dalla porta un boccale di acqua e un pane ogni giorno; e che se avessero visto che a un tratto nessuno li prendeva più, venissero con cautela a sotterrarlo. Ma il decimo giorno era uscito, dimagrito, ancora stanco e sfebbrato. Solo una traccia violacea alla base dell’addome mostrava il segno di quella peste passata lievissima sopra il suo corpo che avrebbe desiderato solo di morire; lieve ma abbastanza da farlo stare male ancora settimane. Aveva sibilato “bruciate tutto quel che trovate nella stanza”, il che si riduceva a un letto, a un saccone di paglia e a un lenzuolo. Si era fatto prestare una tunica, era montato a cavallo ed era tornato a Parigi. 
Per questo adesso poteva senza alcuna preoccupazione tenere in braccio un involto con dentro un cadavere e dire ai carcerieri che lo lasciassero passare subito, che era meglio per tutti. Per qualche ora si diffuse nelle carceri la solita isteria della peste; tirarono un secchio d’acqua nella cella dove era morta la zingara, nessuno morì e non se ne parlo più. Ma intanto Claude Frollo era fuori, con la sua amata tra le braccia. Non poteva ancora capacitarsi della fortuna irreale che lei avesse perso la memoria, che accettasse di fingersi morta per farsi portare tra le braccia da lui, portare fuori da tutto questo, fuori dall’inferno del carcere e della vita infernale a cui lui l’aveva condannata per troppo desiderio. Si sentiva stranamente stanco, stanco come se avesse vissuto due secoli in quelle poche ore, stanco come non si era mai sentito in vita sua, ma anche elettrizzato mentre stringeva a sé le povere carni di quella che era stata il suo amore, il suo incubo, la sua dannazione e che ora era sua, solo sua, sua per sempre. 
Non ci volle molto perché, con il favore delle tenebre, riuscisse a introdurla nella torre campanaria dove aveva il suo studio. Lei a quel punto era talmente sfinita che dormiva di un sonno più simile alla morte, e lui ne approfittò per adagiarla delicatamente su un tappeto vicino al fuoco, per mettere a bollire un po’ d’acqua dentro a una pentola di coccio sul camino e andare a prendere uno straccio pulito. Lui si lavava sempre così, ma senza scaldare l’acqua. Per lei invece ci voleva attenzione; adesso più che mai. Era magra da far paura, denutrita, distrutta dalle privazioni e dal freddo. Ma ora non le sarebbe mancato mai più niente, perché era con lui. Mentre l’acqua si scaldava, ma non troppo perché non voleva certo ustionarla, si guardò intorno impaziente per vedere se c’era rimasto qualcosa da mangiare. Lui non prendeva quasi mai i pasti nel suo studio, perché il cibo attirava i topi e i topi sono nemici dei libri, ma fortunatamente quel giorno la buona stella lo assisteva: il giorno prima si era portato con sé alcune mele, e un pezzo di pane perché voleva stare alzato fino a tardi e non voleva scendere alla pure ricca tavola che condivideva con gli altri prelati e canonici. Ora pensò con disappunto a tutti i piccoli piatti di crema dolce, alle uova, al latte, al miele, ai panini al burro su cui neanche i suoi occhi si posavano; il cibo gli dava la nausea, sempre di più man mano che invecchiava. Ma ora cosa avrebbe dato per avere subito con sé un po’ di miele, qualcosa di dolce con cui scaldare un po’ di latte, qualcosa di più buono da offrire alle sue labbra adorabili che non un tozzo di pan secco e un paio di mele brunastre. Ma per il momento doveva accontentarsi. Così mise le mele vicino alla pentola, perché si ammorbidissero un po’, e poi toltala dal fuoco cominciò a soffiarci sopra perché il calore dell’acqua non fosse troppo.
Non si può dire il brivido di amore, di desiderio, di tenerezza, di paura che ebbe quando cominciò a stracciarle l’immondo sudario di dosso per liberarla, e poterla pulire. Dal lembo di stoffa marcita veniva su un odore nauseabondo, orrendamente nauseabondo anche per lui che era abituato ai cadaveri, per cui si affrettò a tagliar via tutto con un coltello, stando bene attento a non ferirla, e lo gettò col fuoco. Sentì una sensazione di sollievo al vedere la vampa che inghiottiva quell’immondizia, e tanto fu il sollievo che per un istante non ricordò ciò che lo aspettava appena voltati gli occhi. Lei era nuda sotto di lui, distesa sul tappeto, scheletrica, meravigliosamente bella, svenuta, sporchissima. Fu in quel momento che anni e anni di studio, anni e anni di ascesi forse per l’unica volta in vita sua gli riuscirono in qualche grado utili, perché pur con sforzo disumano riuscì a non gettarlesi addosso. Chinò un secondo la testa; prese un respiro. Aspettò. E quando sentì le pulsazioni del suo cuore non dico calmarsi, ma almeno decelerare un poco, intinse lo straccio pulito dentro l’acqua tiepida e cominciò a massaggiarle la pelle. 
Lei era sventa ma il calore le fece bene; lui cominciò dalle gambe, toccando delicatamente con le sue lunghe dita che erano abituate a sfogliare manoscritti quella pelle ancora più traslucida di come la ricordava; in più punti ora coperta di lividi, di graffi, di punture di cimici e di morsi di qualcosa che lui sperò ardentemente non fossero topi. Povera bambina innocente. Lo straccio diventò grigio in pochi secondi, tanta era la sporcizia; e molto presto l’operazione dell’acqua dovette essere ripetuta perché si stava già intorbidendo. La prima pentola fu sufficiente a lavare sommariamente le gambe, la seconda le braccia e il viso, la terza il busto – e fu la parte in assoluto più difficile perché le sue piccole magnifiche areole erano ancora rosa pur con tutto quel lezzo, erano ancora pallide e trasparenti come la pancia di un cucciolo, e Claude dovette letteralmente affondarsi le unghie nel palmo per non baciarle subito, per non morirci attaccato. C’era tempo, si disse, per quello. E nel momento in cui lo diceva un empito di trionfo eccitato, torbido, estremo gli fece gonfiare le pupille e torcere quel poco che gli restava di labbra in una specie di sorriso estasiato. Lei intanto dormiva, e dopo averla girata su un fianco per procedere a una pur sommaria pulizia della schiena e del resto (Dio onnipotente, passare uno straccio su quelle bianchissime natiche, due piccole pallidissime sfere che sembravano levigate nel marmo!), dopo aver preso un altro respiro, giudicò che per quella sera la pulizia poteva bastare. La prese tra le braccia e la adagiò, nuda com’era, nel lettuccio su cui a volte lui stesso si buttava per qualche ora a tarda notte, quando era troppo stanco per tornare nella sua stanza.
A vederle la testa sul cuscino si rese conto che la matassa dei capelli era ancora un unico blocco di sporcizia e di lerciume; probabilmente aveva i pidocchi, ma anche soltanto l’idea di prendere una forbice e tagliare quella meravigliosa massa di fili che gli riempivano gli occhi gli fece male; decise che il giorno dopo, se fosse stata più in forze, avrebbe provato a lavarli e a districarli in qualche modo; forse con l’olio, forse con qualche unguento che poteva trovare nei suoi libri. Ma nel frattempo lui era stanchissimo e lei era viva; era viva.
Si fermò solo un istante vicino al suo letto, dalla paura che il desiderio lo travolgesse. Non voleva pensare al suo corpo nudo appena sotto la ruvida coperta, non voleva pensare a entrare dentro di lei; sapeva che quella stessa notte, anzi anche in quell’istante medesimo, avrebbe potuto forzarla, ma non voleva. Voleva che lei lo guardasse come aveva già fatto qualche ora prima nella cella. Voleva che lei lo chiamasse ancora ‘mio sposo’. E non fu deluso, perché poco prima di uscire dalla cella, alla ricerca di un indumento caldo per coprirla e di qualcosa che potesse funzionare da scarpe per quando lei si fosse alzata, sentì che gli prendeva la mano.
- Non lasciarmi qui sola - sussurrò, senza neanche aprire gli occhi, con voce rochissima – non lasciarmi amore mio. Lui sentì che il cielo ai suoi piedi si apriva; sentì che qualsiasi dolore e fatica gli scivolavano via di dosso come se Dio stesso lo avesse benedetto come fa coi suoi santi e i suoi martiri. Si inginocchiò accanto al cuscino dove lei teneva la testa. Fece di sì con il capo e non ebbe la forza di dir niente; scoppiò a piangere. Ma lei era già di nuovo affondata nel sonno senza sogni di chi è appena scampato alla morte.

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