Ride On

di Hermione Weasley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1/20 ***
Capitolo 2: *** 2/20 ***
Capitolo 3: *** 3/20 ***
Capitolo 4: *** 4/20 ***
Capitolo 5: *** 5/20 ***
Capitolo 6: *** 6/20 ***
Capitolo 7: *** 7/20 ***
Capitolo 8: *** 8/20 ***
Capitolo 9: *** 9/20 ***
Capitolo 10: *** 10/20 ***
Capitolo 11: *** 11/20 ***
Capitolo 12: *** 12/20 ***
Capitolo 13: *** 13/20 ***
Capitolo 14: *** 14/20 ***
Capitolo 15: *** 15/20 ***
Capitolo 16: *** 16/20 ***
Capitolo 17: *** 17/20 ***
Capitolo 18: *** 18/20 ***
Capitolo 19: *** 19/20 ***
Capitolo 20: *** 20/20 ***



Capitolo 1
*** 1/20 ***


Qualche coordinata su questa storia: si tratta di un AU "umanizzato" (dettaglio che non vale per Clint e Natasha in particolare, ma per altri personaggi sì) in cui i nostri eroi non sono eroici e non se la passano granché bene. I protagonisti sono sempre Clint e Natasha (che si scambiano i punti di vista), ma più o meno tutti i sei del gruppo averanno il loro spazio e la storia riguarda tutti loro. Sono 20 capitoli in tutto, già scritti... quindi a meno che non mi prenda una tegola in capo, si concluderà (prima o poi). (Ah e, sì, ultimamente sto vivendo la mia fase Avengers + AC/DC, in perfetto stile Tony Stark :P)
Altre note in fondo al capitolo insieme ad una sorpresa :D
Buona lettura!


Disclaimer: nessuno di questi personaggi mi appartiene, ma sono di proprietà di Marvel & Disney. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.


Ride On

 

Ride on, one of these days I'm gonna
Ride on, change my evil ways
Till then I'll just keep ridin' on
But I ain't too young to realize
That I ain't too old to try
Try to get back to the start
And it's another redlight nightmare
Another redlight street
And I ain't too old to hurry
Cause I ain't too old to die
But I sure am hard to beat

(AC/DC – Ride On)

 

 

- Capitolo 1 -

 

 

San Paolo, Brasile

 

Se chiudeva gli occhi riusciva ancora ad immaginarsi il rogo... le fiamme che si levavano fino al cielo a lambire alte nubi di fumo nero. L'aria pesante, densa ed irrespirabile. Non c'erano solo resti di letti, muri, macchinari, a sollevarsi insieme ai turbinii del fuoco. Oh, no. C'erano anche e soprattutto ceneri umane.

Se chiudeva gli occhi poteva ancora sentire le urla risuonarle nelle orecchie. Acute e strazianti, le erano scese lungo l'esofago, quasi le avesse bevute, un amaro sorso dopo l'altro.

Se chiudeva gli occhi poteva ancora vedere le sagome di fuoco dei disperati che si lanciavano giù dalle finestre, desiderosi di trovare una via d'uscita, una qualsiasi via d'uscita al tumulo di fiamme e macerie che sarebbe ben presto diventato la loro tomba.

Ma non aveva bisogno di chiudere gli occhi per ricordarsi come si era sentita, come l'odore di carne bruciata le avesse improvvisamente restituito lucidità: la consapevolezza di aver appena ucciso in un unico colpo tutta quella gente, le si depositò sul petto come un macigno.

Non aveva voluto farlo, ma Ivan non le aveva lasciato altra scelta: non c'era mai nessuna alternativa possibile quando si trattava dei suoi ordini. Andavano eseguiti alla perfezione, mai contestati e di certo mai sovvertiti, per nessuna ragione al mondo. Ivan aveva un modo tutto suo di convincerla a fare ciò che c'era da fare: sapeva essere dannatamente persuasivo quando ci si metteva. Natasha non riusciva mai a dirgli di no: era suo padre, l'uomo che l'aveva cresciuta, la persona grazie alla quale non era mai affamata, mai sola, ma in preda al bisogno di qualcosa di irraggiungibile. Ivan era tutto per lei... o almeno così le aveva insegnato a credere.

Le mancavano i tempi in cui si si erano occupati di piccoli furtarelli e semplici raggiri, giusto per andare avanti, assicurarsi di avere lo stomaco pieno almeno fino all'alba successiva. Erano stati quelli la prima, vera parte del suo addestramento. Innocue inezie. Ma da quelle irrilevanti rapine, era passata a lavori un po' più complicati: recupero di informazioni, di segreti, opere di convincimento estremamente persuasive... non erano passati che cinque anni da quando Ivan l'aveva ritenuta pronta a lavori di ben altro tipo. Mesi e mesi in cui non aveva fatto altro che inseguire, raggirare, uccidere. Sconosciuti. Per conto di chi o perché, non lo sapeva. All'inizio aveva creduto che Ivan lo facesse per sé, per regolare chissà che conto in sospeso. Ma poi, col passare del tempo, aveva capito che si trattava di mandanti esterni: uomini e donne che lo pagavano affinché mettesse sua figlia all'opera. Un vero talento, una bambina prodigio cresciuta per essere un'arma a tutti gli effetti: lui, l'unico capace di maneggiarla. Dopotutto non era stato forse lui a temprarla, plasmarla, forgiarla nel fuoco di tanti e tali peccati?

Ma adesso... il disagio che le stava crescendo nello stomaco non sembrava volerle dare tregua. Un dolore sordo che pulsava lentamente, ingrandendosi con ogni secondo che passava. Aveva provato sensi di colpa anche prima di quel giorno, ma mai così violentemente, mai tanto chiaramente. Mai era stata sul punto di sentirsi sull'orlo di un baratro così profondo: l'acqua alla gola, il respiro a mozzarlesi in petto, come se un mare nero – rosso – la stesse sommergendo, rischiando di farla annegare una volta per tutte. Stavolta, convincersi che non c'era alcun motivo per cui non avrebbe dovuto porre fine alla vita di una persona, che nessuna forza divina sarebbe arrivata ad abbattersi su di lei, era stato praticamente impossibile. L'illusione non funzionava più.

Neanche riusciva a respirare per bene: per un attimo, mentre era rimasta ad osservare il rogo che aveva concluso la sua ennesima missione, aveva seriamente creduto che sarebbe morta soffocata insieme a tutte le sue vittime. Una parte di lei, quella che odiava Ivan con tutta se stessa, che recalcitrava ogni qual volta l'uomo le assegnava un nuovo compito, ci tenne a ricordarle che se lo meritava. Credeva seriamente di poter seminare morte e distruzione solo perché suo padre le aveva detto di farlo?

Ma qualcosa di più forte l'aveva aiutata a trascinarsi lontano da quel caos: si era fatta strada tra folle di curiosi impauriti, tra i vigili del fuoco sopraggiunti con troppo ritardo insieme alle forze dell'ordine, si era mescolata alla gente comune, dileguandosi tra le strade polverose di San Paolo. Un'ombra tra le tante.

 

Riaprì gli occhi sulle complicate decorazioni della Cattedrale Metropolitana Ortodossa. La luce del tardo pomeriggio filtrava attraverso le finestre delle navate laterali, proiettando solitari fasci di pulviscolo sul pavimento grigio. Erano stati dei passi in avvicinamento a destarla dai suoi pensieri. Non ebbe il tempo di formularne uno di più, che Ivan le si sedette pesantemente di fianco sulla panca centrale che aveva occupato in quell'ultima mezz'ora. Quale luogo migliore di una chiesa per riflettere sui propri peccati?

L'uomo finse di inginocchiarsi, di pronunciare un paio di rapide preghiere prima di decidersi a prestarle una seppur discreta attenzione.

“Ottimo lavoro,” si voltò per lanciarle un'occhiata indecifrabile, “ce ne andiamo di qui questa sera stessa.”

Natasha non rispose, limitandosi piuttosto a fissare il fondo della cattedrale, il sontuoso e opulento lampadario che pendeva sopra le loro teste come una spada di Damocle.

“Che c'è? Non sei contenta, bambina?” Ivan le strinse affettuosamente un ginocchio, cercando di scrollarla da quel torpore che pareva essersi impossessato di lei.

“Perché?” La domanda che aveva trattenuto fino a quell'istante le sgorgò dalle labbra con un'urgenza che ebbe il potere di sorprendere lei stessa.

“Perché cosa?”

“Perché tutta quella gente?”

Ogni traccia di soddisfazione svanì dal volto di Ivan: non era affatto contento della piega che aveva preso la discussione. Natasha conosceva le sue espressioni a memoria, sapeva che, a quella che stava sfoggiando in quel particolare istante, non sarebbe seguito niente di buono, non per lei almeno.

“Non devi fare domande, Natalia.”

“No, giusto. Devo solo uccidere,” il sarcasmo prese forma nella sua voce senza che potesse far molto a riguardo.

“Non dirlo con quel tono. Dovresti essere grata del fat-”

“Del fatto che ci sia tu a prenderti cura di me, lo so.”

“Non accetto ingratitudine, bambina.”

“Non sono ingrata. Sono adulta ormai. Ho compiuto venticinque anni. Posso... p-posso...”

“Cosa? Cavartela da sola?” Ivan rilasciò una risata sgradevole, una di quelle che aveva il potere di farle male più di qualsiasi mortificazione corporale avesse potuto escogitare.

“Sì,” si ostinò a precisare, distogliendo rapidamente lo sguardo.

“Non puoi stare per conto tuo, Natalia. Sei ancora una ragazzina.”

“Non è vero,” osò contraddirlo ancora, nonostante il terrore minacciasse di prendere il sopravvento, benché fosse del tutto consapevole che non si sarebbe guadagnata altro che ulteriori punizioni.

“Lo sei... sei una ragazzetta stupida la cui unica risorsa è il suo povero padre.”

“Non sono stupida.”

“Sì che sei stupida. E lo saresti molto di più se non ti avessi insegnato tutto quello che sai. E' a me che devi tutto, Natalia.”

“Non sei nemmeno il mio vero padre,” l'accusò in un sibilo. Ivan strabuzzò gli occhi, le guance rugose improvvisamente tirate dall'indignazione più acuta.

“Cos'è che hai detto?” L'afferrò malamente per i capelli, tirandoglieli fino a farle male, costringendola a piegare il capo all'indietro contro la schienale della panca.

“Ho detto...,” Natasha si umettò le labbra, ignorando il battito impazzito del proprio cuore, la paura che prometteva di toglierle il respiro e la ragione da un momento all'altro. “Ho detto che non sei nemmeno il mio vero padre.”

“Brutta puttanella.” Il manrovescio la colpì in pieno volto. Il dolore si riverberò dalla mandibola al alla bocca, al naso... ben presto sentì il sapore del sangue sulla lingua. “Vuoi ripeterlo un'altra volta?”

“Non sei nemmeno il mio... vero padre,” ripeté in tono di sfida, serrando i pugni per impedirsi una qualsiasi reazione inconsulta. Ivan non si fece alcun problema di sorta, colpendola di nuovo, più forte. Il contatto violento pelle contro pelle, risuonò sinistramente tra le pareti della chiesa deserta.

“Stasera ce ne andiamo, come pianificato,” stabilì seccamente, senza lasciarla andare. Con la mano libera estrasse una siringa incappucciata dalla tasca interna della sua giacca. La vista dell'ago le scatenò l'ennesimo attacco di panico. No... non di nuovo. Non di nuovo. Ti prego, ti prego, ti prego.

“E lo sai che cosa succede alle bambine che non obbediscono?”

“T-Ti prego... ti prego non lo fare,” supplicò a mezza voce, facendo fatica a controllarne il volume.

“Mi dispiace Natalia, sei andata troppo oltre stavolta.” Tolse il cappuccio dalla siringa servendosi della bocca, sputandolo a terra senza troppe cerimonie. “Sta' ferma.”

“No,” le ci volle tutto il suo autocontrollo per smozzicare quell'unica, misera sillaba. Tutto il corpo contratto per la paura, i muscoli tesi e i nervi annodati su loro stessi ad impedirle di muoversi... Ivan non aveva neppure bisogno di immobilizzarla per fare di lei ciò che voleva. Perché avrebbe dovuto usare catene reali quando si era tanto impegnato ad imprigionarla a livello mentale?

“Ho detto: sta' ferma,” ribadì, avvicinandole l'ago al collo, là dove era solito iniettarle quel maledetto intruglio con cui l'aveva minacciata sin da piccola. Confusione, mal di testa, capogiri, idee estranee che le frullavano per la testa, che non le permettevano di decidere cose fosse suo e cosa no, cosa fosse successo realmente e cosa soltanto un'illusione.

Non voleva sentirsi così.

Non voleva dimenticarsi dell'incendio dell'ospedale.

“NO!” L'istinto prese il sopravvento per la prima vera volta in tutta la sua vita. Gli afferrò il polso, stringendo bruscamente per impedirgli di avvicinarla oltre.

“Natalia, non farmi... arrabbiare,” biascicò rosso in volto e sotto sforzo nel tentativo di contrastare la sua forza.

“S-Stavolta no... s-stavolta non lo farai.”

“Non s-sei tu che decidi.”

“Invece... s-sì.”

Durò solo un'istante: la mossa le venne naturale come il respiro. La lama del piccolo coltello che teneva sempre con sé – un regalo di Ivan per il suo tredicesimo compleanno – affondò nella carne appena sotto la sua ascella, quasi fosse stata di burro. Natasha si ritrovò a fissare gli occhi sgranati e confusi del suo protettore, padre, padrone... carceriere.

“N-Natalia... N-Natalia che hai f-fatto... ?” Si assicurò di fargli mollare la siringa prima di azzardare un qualsiasi ulteriore movimento.

“A-Adesso basta,” esalò in risposta. Estrasse il coltello e lo colpì di nuovo, stavolta con più foga.

“Natasha...,” l'aria aveva cominciato ad uscirgli di bocca in modo strano, come se non fosse più stato capace di respirare correttamente.

“Adesso basta,” fu tutto quello che riuscì a ripetere prima di completare l'opera con la terza e ultima coltellata. Le toccò abbandonare l'arma e allontanarsi per non cedere alla tentazione di ferirlo altre dieci, cento, mille volte: un odio nuovo, cocente e totalizzante aveva cominciato a farsi strada nel suo petto. Un odio sopito per troppi anni, covato inconsapevolmente, tra carezze, schiaffi e violenze psicologiche di ogni tipo. Barcollò all'indietro, sorreggendosi con le mani ben piantate sugli schienali di due panche vicine. Non smise di guardarlo mentre tentava pateticamente di pronunciare il suo nome, il sangue a scendergli copioso lungo il fianco, a macchiargli i vestiti, le mani.

Avrebbe voluto aspettare finché non avesse esalato il suo ultimo respiro, ma un rumore dal fondo della chiesa le suggerì che era meglio andarsene prima di essere scoperta.

“Me la caverò da sola, Ivan,” asserì, più per convincere se stessa che lui. Annuì tra sé, come a decretare la fine di quella conversazione, dopodiché girò sui tacchi e si diresse a passo spedito, ma naturale, verso una delle uscite laterali.

La luce morente del giorno la investì senza riscaldarla. L'euforia dell'indipendenza appena conquistata non durò a lungo, anzi, non durò affatto. Le bastò muovere un paio di passi, immettersi di nuovo tra le gente, fingere di essere una persona normale, per convincersi di aver appena commesso il più grave errore della sua vita.

Forse Ivan aveva ragione: forse non poteva sopravvivere da sola. Che avrebbe fatto senza di lui? Come si sarebbe mantenuta? Come sarebbe uscita dal paese... con quali soldi?

Dovette far ricorso al folto bagaglio del suo addestramento per mantenere una seppur minima parvenza di calma. Fece l'unica cosa che era capace di fare: eseguire degli ordini. Anche se stavolta non c'era nessuno ad impartirglieli, se non lei stessa.

 

*

 

36 ore dopo

Waverly, Iowa

 

“Sto cercando Hawkeye.”

La voce della donna lo raggiunse fin sotto il pick-up del quale si stava occupando, costringendolo a rallentare i propri movimenti e a tendere le orecchie (o almeno quello che gli funzionava) per rimanere in ascolto.

“Hawkeye?” Riuscì a percepire l'indecisione nella voce del vecchio Buck. Se l'immaginò mentre squadrava la sconosciuta da capo a piedi con aria valutativa, impegnato a decidere se ci si potesse fidare o meno. Trattenne il respiro per un paio di secondi...

“Ehi, uccellaccio.” Con la sua voce raschiante, lo informò che aveva preso la sua decisione: la donna pareva un tipo a posto. Clint riemerse dalla sua prigione di metallo e ferraglia, rimettendosi in piedi con tutta la calma del mondo. Recuperò uno straccio abbandonato sul bancone dell'officina per pulirsi le mani sporche d'olio, lanciando uno sguardo in tralice alla nuova arrivata: una donna bianca. Ad occhio e croce doveva avere tra i trenta e i quarant'anni. Indossava un tailleur blu cobalto che non si addiceva granché all'atmosfera che vigeva indiscussa nell'autorimessa: un diamante precocemente avvizzito in una discarica.

“Non qui,” fu tutto quello che le disse prima di farle cenno di seguirlo sul retro, nell'ufficio di Buck (che di un ufficio, per la cronaca, aveva ben poco). La invitò ad accomodarsi, ma la donna rifiutò educatamente con un impercettibile movimento della mano sinistra.

“Le dispiace se fumo?” Tirò fuori un pacchetto mezzo schiacciato dalla tasca della tuta da lavoro, aspettando il via libera della sua ospite per estrarre una sigaretta, sistemarsela tra le labbra e accenderla con un accendino recuperato dalla scrivania del principale. Aveva scoperto che i suoi clienti tendevano a rilassarsi di più se lo affrontavano mentre era impegnato in una qualche operazione: se riparare un motore o fumarsi una sigaretta non aveva grande importanza.

Ad uno sguardo più attento, la donna gli parve molto più giovane dell'età che dimostrava. Un'espressione vacua ben annidata nei suoi occhi, rughe marcate sulla fronte e intorno alla bocca. Qualcosa – o qualcuno – doveva averla fatta invecchiare prima del suo tempo.

“Chi le ha parlato di me?”

“Jimmy.” La sconosciuta aveva una voce fredda e stridente, un pesante accento dell'est Europa ad indurire ogni suono.

“Jimmy cosa?”

“Jimmy Klein.”

“Oh. Jimmy,” annuì tra sé. Il signor Klein era un povero stronzo per cui aveva portato a termine un paio di lavoretti: pessimo individuo che, a sua discolpa, non aveva mai grosse pretese e in più pagava bene.

“Cosa posso fare per lei?”

La donna parve esitare. Inspirò a fondo, aggrappandosi con entrambe le mani al manico della borsa che portava alla spalla, come se da quello dipendesse il suo già precario equilibrio. Clint si limitò ad osservarla, dandole tutto il tempo e lo spazio per abbandonare il campo se ne avesse sentito il bisogno: non era certo la prima volta che un cliente si rendeva improvvisamente conto che contattarlo era stata una pessima idea. Un leggero sussulto le animò le guance. Solo allora si accorse della rabbia che si celava dietro il suo sguardo assente.

“Voglio che uccida una persona.”

Clint fece una smorfia, soffiando il fumo nell'aria. “Ha presente il cartone animato Aladdin?”

“Non...”

“Il genio può esaudire qualsiasi desiderio tranne: far innamorare, resuscitare i morti e... uccidere.” Le rivolse un sorriso cordiale che la donna non sembrò registrare.

“Per favore.”

“No, mi dispiace. Posso rubare per lei, spiare per lei... ma non uccidere.” Ho già abbastanza problemi e conti in sospeso senza mettermi pure ad accoppare gente a caso.

La sconosciuta restò immobile a fissarlo, dandogli di nuovo l'impressione che stesse per esplodere da un momento all'altro. Ad urlare o piangere o entrambe le cose.

Non fece nessuna delle due, optando piuttosto per ripescare qualcosa dalla sua borsa. Prima che potesse capire come e perché, la donna gli tese una fotografia: uno scatto sgranato, a colori, che ritraeva una giovane donna. L'unico dettaglio veramente visibile, una massa ondeggiante di lunghi capelli rossi. Una sensazione familiare gli riempì lo stomaco, come ad obbligarlo a prendere atto di un'informazione importante. Mise in moto il cervello, lasciando che facesse i dovuti collegamenti prima di approdare ad una qualche conclusione. Io questa la conosco.

“Ha ucciso mia figlia.” Fu tutto quello che la sconosciuta aggiunse prima di riserrare le labbra in un'unica linea sottile. “La chiamano Black Widow.”

Clint sbuffò una mezza risata al nomignolo, nonostante trovasse la situazione tutto fuorché divertente. Certo, la foto non era esattamente un modello di chiarezza, eppure ne era sicuro: si era già imbattuto in quella donna. Come avrebbe potuto dimenticarla? Si era assicurata di rubargli tutto il ricavato di un complicato lavoro che aveva portato a termine per conto di un ricco (e sinistro) banchiere di San Francisco qualche anno prima. Ricordava con sconcertante chiarezza il momento in cui aveva finto di andargli dosso per sbaglio con quella sua espressione da cucciolo smarrito. Le aveva dato delle dritte su come raggiungere la stazione ferroviaria più vicina e poi l'aveva guardata allontanarsi in solitaria. Erano i suoi occhi, verdi e spauriti, che gli si erano impressi nella mente. Quelli e il rosso accecante dei suoi capelli. Solo quando fu ritornato in albergo si era accorto di essere stato derubato. Il ladro provetto che si era lasciato fottere in quel modo da una ragazzina, come un dannato principiante... si era maledetto per giorni, settimane, mesi. Diecimila bigliettoni evaporati, così, in un batter d'occhio e alla luce del sole perché non aveva dato la dovuta importanza ad un'adolescente dall'aria innocua. Dopo quel giorno, si era solennemente ripromesso di non lasciarsi mai più ingannare dalle apparenze.

“Perché ha ucciso sua figlia?” Si decise infine a chiederle, restituendole la fotografia.

“Per vendicarsi di mio marito, suppongo.”

“Suppone?”

“Mia figlia aveva solo due anni,” ribatté con freddezza, trattenendo a stento la furia che aveva cancellato ogni traccia di colore dal suo volto impallidito.

Una morsa gelida gli strinse lo stomaco, ma neanche quella fu abbastanza per convincerlo ad accettare. La donna sembrò percepire la sua incertezza: non esitò ad approfittare dell'opportunità che le si era improvvisamente presentata, capendo che era quello il momento per insistere.

“L'ultima volta è stata avvistata a San Paolo, in Brasile,” lo mise al corrente. “Ha sicuramente sentito parlare dell'incendio all'ospedale...”

Eccome se ne aveva sentito parlare: pure per uno come lui che leggeva solo sporadicamente i quotidiani e che evitava il telegiornale come la peste, era stato impossibile sfuggire a quella particolare informazione. Un intero ospedale statale dato alle fiamme: le stime dei morti erano state impietose, i superstiti pochi, gli indenni ancora meno.

Ricambiò l'occhiata della donna e annuì.

“Secondo i miei informatori, si sta accingendo a rientrare negli Stati Uniti.”

“Dove?”

“Arizona,” rispose prontamente, tirando fuori una busta da lettera dalla borsa che portava ancora al braccio. “Qui ci sono biglietti aerei di andata e ritorno, insieme ad una carta di credito con la quale avrà accesso ad un fondo di cinquantamila dollari. Se gliene servissero di più, non dovrà far altro che infor-”

“Le ho detto che non uccido nessuno,” la interruppe, più che deciso a mettere le cose in chiaro.

“Due milioni.”

“Due milioni?”

“E' la cifra che le pagherò per aver tolto di mezzo quel... q-quel mostro.” La voce le aveva ceduto un poco sul finale, così come la complicata maschera che si stava sforzando in ogni modo di mantenere. “Un milione adesso, un milione a cose finite.”

Ora... Clint non si sarebbe mai preso per un tipo avido di denaro. Conduceva una vita semplice, riparava motori di giorno, giocava a biliardo o freccette e beveva birra la sera, da solo o in compagnia. Certo, a scadenze regolari tentava di inserire questo o quel lavoretto, giusto per togliersi qualche sfizio, tenersi in allenamento, evitare di affogare nel tran tran quotidiano, crearsi qualche occasione per utilizzare il suo arco. Ma due milioni di dollari potevano cambiare ogni cosa: comprarsi un appartamento decente in un luogo che non fosse quel cesso di Waverly, Iowa; smettere di sporcarsi le mani (letteralmente e metaforicamente), ricominciare da capo.

“La prego, signor... Hawkeye.” La donna si sporse verso di lui, uno sguardo implorante sul volto e una supplica nella voce. Gli afferrò una mano con entrambe le sue, affusolate e fredde come il marmo. “Mi aiuti a vendicare la morte della mia bambina.”

Si ritrovò a guardare nei suoi occhi, improvvisamente accesi di una nuova, implacabile luce. Conosceva fin troppo bene la sensazione che gli stava riempiendo lo stomaco: stava per cedere. Porca puttana.

Tentò di ignorare la confusione che rischiava di ottenebrargli il cervello, valutando i pro e i contro. A favore della sconosciuta c'era che la fantomatica Black Widow gli doveva già diecimila dollari, che era una pazza priva di scrupoli che ammazzava bambini in fasce e che dava fuoco agli ospedali... il mondo sarebbe stato un posto migliore se l'avesse tolta di mezzo, no? E poi c'era quel particolare non irrilevante dei due milioni di dollari. Tutte le spese per la missione coperte: spostamenti, attrezzatura, cibo e chissà che altro; era sicuro che avrebbe potuto inserirci anche qualche extra.

Di contro c'era che non aveva mai (volontariamente) ammazzato proprio nessuno.

Le dita gelide della donna sembravano scavare tunnel di ghiaccio nella sua pelle. I pensieri presero a susseguirsi sempre più rapidamente nella sua testa, motivazioni, alternative, una stronzata dopo l'altra...

“Va bene.” Le parole gli uscirono di bocca prima che potesse impedirselo. Ignorò la pessima sensazione che gli invase lo stomaco quando ebbe metabolizzato ciò che aveva appena detto. Il sollievo distese le rughe del viso della sconosciuta, ma solo per un misero istante. La facciata di ferrea indifferenza tornò al suo posto, gli occhi – inumiditisi solo qualche attimo prima – di nuovo aridi ed apatici.

“Parte questa sera stessa.” Clint fece per ribattere, ma vista l'entità del compenso, decise che era meglio starsene zitto. “Qui ci sono tutte le informazioni di cui disponiamo,” gli passò una grossa busta giallognola, di quelle che si usano per i documenti confidenziali. “I biglietti aerei e la carta,” gli ricordò, insistendo affinché prendesse anche quelli, “e i soldi li ho in macchina. Vado a prenderli.”

Clint annuì, affrettandosi a spegnere la sigaretta nel portacenere per raccogliere tutto il materiale con cui la donna lo stava sobbarcando. La seguì fuori dall'ufficio di Buck, facendo fatica a tenere il passo. Si fermò nel bel mezzo dell'autorimessa, guardandola mentre si affrettava intorno alla sua macchina parcheggiata sul marciapiede, leggermente discostata rispetto all'ingresso.

“Barton,” la voce gracchiante di Buck lo fece sussultare. “Problemi?”

“Nessuno, ma starò via per un po'.” Il vecchio puntò i suoi minuscoli occhi acquosi nei suoi, come per comunicargli chissà che avvertimento. Grazie al cielo non era uno di molte parole e – il più delle volte – preferiva starsene zitto che impartire sagge lezioni di vita. Era per questo che Clint gli voleva bene.

“Cerca di non metterti nei guai.”

“Quando mai?”

“Che dannato stronzo che sei,” biascicò, sputacchiando a terra prima di ricordarsi di qualcosa. “Ah, è arrivato quel coso per te stamattina.” Gli indicò un pacco postale abbandonato accanto ad una cassetta degli attrezzi.

“Di chi è?”

“Non ne ho idea. Non c'è il mittente.”

“Okay,” la donna era di ritorno.“Grazie, Buck.” Si affrettò a congedarsi per raggiungere la nuova cliente.

“Qui c'è la prima parte,” gli consegnò la valigetta che aveva recuperato dalla sua automobile, “potrà controllarla non appena me ne sarò andata. Insieme ai biglietti aerei troverà tutte le informazioni che le servono per contattarmi. Questo è un cellulare prepagato: lo usi se ci sono problemi con i soldi.” Il telefono fu l'ultima cosa ad aggiungersi alla mole di oggetti che la donna gli aveva scaricato addosso.

“Ricevuto.”

“Ah e... vorrei ricevere aggiornamenti almeno ogni quarantotto ore.”

“Ce ne vorranno molte meno,” le assicurò con un tronfio sorriso di cui si pentì immediamente.

“Lo spero per lei,” asserì. “Non la sottovaluti. Quella donna è violenta e astuta... non risponde a nessun dio.” Nessun sano di mente lo fa.

“Allora ci risentiamo tra quarantotto ore, signora...”

“Drakov. Elizaveta Drakov.”


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Note:
Taaaanti ringraziamenti alla socia/beta/partnerincrime/compagnadimanicomio/ecc. Eli, perché non solo ha betato la storia, ma ha anche prodotto due magnifiche fanart ispirate :') che sono bellissime T__T grazie Eli :*

 
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Per tutto il resto, grazie per essere arrivati fin qui e al prossimo capitolo :3
S.

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Capitolo 2
*** 2/20 ***


- Capitolo 2 -

 

48 ore dopo

Florence, Arizona

 

Il sole cadeva a picco sullo spiazzo antistante il motel. A Natasha sembrava di poter sentire l'asfalto ribollire fin dentro l'angusta stanza in cui aveva trascorso la notte. Un letto sgangherato schiacciato tra due pareti, la porta del minuscolo bagno che si apriva sulla terza, l'ingresso sulla quarta. La moquette aveva l'aria di risalire almeno a cinquant'anni prima, così come il copriletto e le federe ingiallite. Non le importava granché: era stata in posti ben peggiori.

Il sonno le premeva sugli occhi come una pesantissima coperta: la paura, a malapena sedata in un remoto angolo del suo stomaco, faceva di tutto pur di tenerla sveglia. Aveva vegliato sull'aereo che l'aveva portata da San Paolo a Phoenix, Arizona: quindici ore che aveva trascorso tentando disperatamente di non dare a vedere quanto fosse nervosa. Nelle occhiate innocenti delle hostess, nei loro sorrisi cortesi, le era parso di scorgere mute accuse e promesse di punizioni future ed imminenti. Non si era concessa neanche una minuscola pausa dopo l'atterraggio: l'istinto le diceva che rimanere in una città popolosa come Phoenix non sarebbe stata un'ottima idea. Troppe telecamere, troppi telefoni cellulari, troppa attenzione. Aveva assecondato le sue sensazioni, ritrovandosi a bordo di un pullman qualunque, diretto in una città secondaria a caso. Una manciata d'ore in più ed era arrivata a Florence, uno squallido mucchio di case basse e larghe, la polvere del deserto ad imbiancare ogni facciata, ogni volto, ogni strada. Per Natasha era irrilevante: un posto valeva l'altro.

Era stata costretta – e lo era tuttora – a combattere contro i ricordi di quel suo ultimo incontro con Ivan Petrovich, l'uomo che l'aveva cresciuta e addestrata; ricordi che continuavano a palesarlesi nella mente a tradimento, rendendola di fatto incapace di produrre un qualsiasi pensiero sensato.

Aveva ucciso il suo mentore.

Aveva ucciso il suo protettore.

Ciò che di più simile avesse mai avuto ad una famiglia.

Scattò in piedi, portandosi entrambe le mani ai capelli umidi di sudore, premendo alle tempie come se il gesto potesse liberarla da quelle considerazioni moleste. Restò immobile per qualche istante, obbligandosi ad inspirare, trattenere, espirare, come Ivan le aveva insegnato a fare per combattere l'agitazione, il panico. In quegli ultimi giorni, aveva dovuto ricorrere a quel trucchetto più volte di quante avrebbe mai voluto ammettere.

L'inerzia la stava uccidendo.

Di nuovo l'urgenza, feroce ed implacabile, a rianimarla, a tenerla sveglia contro ogni buonsenso, a dispetto delle proteste del suo corpo debilitato. Non fermarsi mai: ecco cosa le avrebbe impedito di riflettere. Si permise nuovamente di scivolare nello stato mentale che assumeva quando lavorava: era ciò che conosceva meglio, l'unica cosa che avesse delle regole ben precise, uno schema sempre uguale a se stesso, immutabile. Natasha aveva bisogno di punti di riferimento fissi, di equilibri ricorrenti, di azioni e reazioni meccaniche. Lasciò che le pianificazioni e i ragionamenti concreti la ricoprissero con la loro familiarità, provocandole un'illusoria sensazione di conforto e sollievo.

Si concesse un'ultima, rapida doccia prima di riunire i pochi effetti personali che aveva con sé: un paio di portafogli che aveva rubato all'aeroporto di Phoenix, i documenti falsi che Ivan le aveva procurato, uno zaino recuperato da chissà dove. Si rivestì degli abiti polverosi con cui era arrivata e che aveva inutilmente tentato di lavare servendosi del sapone scadente che aveva trovato in bagno. Uscì dalla stanza, sotto il sole accecante: l'afa l'avvolse senza troppi complimenti, rischiando di confonderle di nuovo i pensieri.

Come faceva la gente a non dare di matto con tutto quel caldo?

Attraversò il parcheggio semi-deserto per raggiungere il piccolo edificio in cui si trovava la reception, chiavi e banconote alla mano... sarebbe potuta fuggire senza pagare, certo, ma non le pareva il caso di crearsi ulteriori, inutili problemi. Non quando avrebbe potuto facilmente evitarli.

Stavolta dietro il bancone c'era un donna di mezza età, capelli ossigenati che avevano disperatamente bisogno di essere ritinti, unghie laccate di rosa acceso, il trucco malamente applicato e un'espressione tutt'altro che allegra sul volto. Natasha non la biasimava: sfidava chiunque ad essere felice in quel cesso infernale. Fu sul punto di salutarla, esordire con un buongiorno magari, ma la donna giocò d'anticipo, saltando i convenevoli a piè pari.

“Se ne va?”

“Stanza trentasette,” annuì.

“Cinquantasette dollari,” decretò in tono asciutto, tirando fuori un pacchetto di chewing-gum da sotto il bancone. C'era qualcosa nel suo squallido aspetto fisico che le impediva di guardare altrove, che attirava il suo sguardo come una grottesca calamita.

Natasha le passò tre banconote da venti, appose una firma falsa sul registro che la donna le mise sotto il naso e fece per andarsene. Fu sul punto di varcare la soglia, uscire di nuovo sotto il sole implacabile, quando la voce della receptionist la richiamò sgradevolmente.

“Ehi, dolcezza,” Natasha si voltò, senza preoccuparsi di nascondere la propria perplessità all'appellativo, “è arrivato questo per te stamattina. Il corriere è comparso alle quattro del mattino, ci crederesti? Da quando i postini lavorano così presto? Sai come sono questi lavoratori statali, loro...”

Le parole della donna si confusero, da qualche parte, nel retro del suo cervello. Tutta la sua attenzione era stata appena catalizzata da quell'anonimo pacco rivestito di carta marroncina che l'aspettava sul bancone, apparentemente innocuo. Eppure le era bastato vederlo per mandare in tilt tutti i suoi campanelli d'allarme: qualcuno l'aveva trovata. Si avvicinò lentamente, come se ci fosse stata una bomba ad attenderla. (La receptionist continuava a straparlare, un delirio sul ridicolo aumento delle tasse, sulle categorie privilegiate eccetera, eccetera). Di sicuro doveva esserci stato un errore: il pacco doveva essere lì per qualcun altro, un ospite qualunque del motel che non era lei. Ma una prima, breve ispezione fu sufficiente a rivelarle l'etichetta che riportava proprio il nome sotto cui stava viaggiando: Natalie Rushman, Sunrise Motel, Stanza 37.

Il gelo le scese nello stomaco. Erano sulle sue tracce. Chi o perché non lo sapeva e neanche le importava. La consapevolezza che la giustizia divina, in qualche modo, l'aveva finalmente raggiunta le tolse il respiro per un orribile attimo. Ribaltò con urgenza il pacco alla ricerca di un mittente, un indizio che potesse darle qualche informazione su chi le fosse alle costole.

Niente.

“Qualche problema, dolcezza?” La donna aveva interrotto il suo sproloquio per scoccarle un'occhiata scettica. Natasha si limitò a guardarla con occhi vacui per un lunghissimo attimo, in totale silenzio. Oh, quanto avrebbe voluto essere al suo deprimentissimo posto. Afferrò il pacco, lo infilò nel piccolo zaino che aveva con sé e se ne andò senza una parola di più, inseguita dal fastidioso schiocco della lingua della donna, che non doveva aver gradito la maleducazione di quel frettoloso congedo.

Percorse ad ampi passi il parcheggio, sbucò su una lunga strada assolata e deserta: la cittadina l'attendeva alla sua destra, montagne e polvere a sinistra. Guardò prima dall'una e poi dall'altra parte.

Poteva fuggire.

O poteva restare... e Natasha era stanca di correre.

Le bastarono pochi secondi per decidere: che quell'incubo abbacinante finisse pure. Non aveva più niente da perdere.

Svoltò a destra.

 

*

 

“So dov'è.”

“Aveva detto che ci avrebbe messo meno di quarantotto ore.”

Sì, dico sempre un sacco di cose, è la mia specialità. Trattenne per un istante il respiro, sentendo l'orecchio buono fastidiosamente sudato contro il display del telefono cellulare.

“Sto andando a prenderla, non ci vorrà molto.”

“Mi auguro di non aver riposto la mia fiducia nella persona sbagliata.”

La fiducia, non lo so, ma i suoi soldi sono decisamente al posto giusto. Nelle mie tasche.

“Non la deluderò,” la rassicurò in tono volutamente stucchevole, prima che il tu-tu-tu dall'altro capo del telefono lo informasse che la donna aveva appena troncato la comunicazione. “Stronza,” smozzicò a denti stretti.

Per come erano trascorsi quegli ultimi due giorni, era un miracolo che ci fosse ancora il chiodo fisso dei due milioni di dollari a tenerlo sull'attenti. Era stato costretto a ricordarsi che l'Arizona non è altro che un'abnorme fornace i cui abitanti cuociono a fuoco lento per l'intera durata della loro vita. In più, aveva dovuto scendere a patti col fatto che il suo obbiettivo aveva il brutto vizio di muoversi troppo rapidamente: non aveva fatto in tempo ad atterrare all'aeroporto di Phoenix che era già arrivato il momento di andarsene. Si era messo a chiedere in giro se avessero visto quella donna, mostrando la sua fotografia a bigliettai, controllori, guardie, negozianti all'interno della struttura. Dallo scatto non si capiva granché, ma il consenso comune era che si trattava di una bella donna, pallida, occhi verdi, capelli rossi e un corpo mozzafiato. Una fisicità che non le aveva permesso di passare inosservata: se qualcuno l'aveva vista, di certo non se l'era dimenticata. Il che andava tutto a suo favore.

Era riuscito a beccare un autista in pausa sul marciapiede antistante l'aeroporto, dove pullman andavano e venivano non-stop col loro carico di passeggeri passati o futuri. Ned, così gli aveva detto di chiamarsi, dopo qualche esitazione gli aveva confermato di averla scarrozzata a Florence, a qualche decina di chilometri di distanza dalla capitale dello stato. Clint non aveva perso tempo: era salito sul primo pullman diretto da quelle parti e, in un paio d'ore, era arrivato in quel buco dimenticato da dio – e a ragione – tra le montagne rocciose.

A quel punto non aveva fatto altro che ripetere la stessa tiritera: salve, sto cercando mia sorella, è scappata di casa da qualche giorno. L'ha vista per caso? Qui tirava fuori la fotografia, sfoggiando l'espressione più contrita e preoccupata del suo repertorio. Ma no, si figuri, solo una bravata, ma se non prende le sue medicine con regolarità rischia di mettersi nei guai. Chiamare la polizia? No, davvero, si figuri, la cosa l'agiterebbe e basta, e il cielo solo sa quanto sia ingestibile quando è nervosa. A questo punto fingeva di ricevere la telefonata da parte del genitore di turno, madre o padre non aveva importanza, al quale dava qualche insignificante aggiornamento. Il risultato era garantito al cento per cento. Mi scusi, sa, i miei genitori sono estremamente preoccupati. Non si è mai allontanata tanto a lungo. Saprebbe darmi almeno una dritta? In questo modo riusciva a togliere di mezzo qualsiasi possibile remora o esitazione: non era né un fidanzato geloso, né uno stalker, né un... esattore delle tasse. Solo un fratello terribilmente angosciato dall'improvvisa sparizione dell'amata sorellina: alla gente piaceva bersi quelle stronzate, la consapevolezza di aver fatto una buona azione li metteva di buon umore per tutto il giorno.

Così era arrivato, passo dopo passo, davanti ad un malfamato bar di periferia. L'insegna luminosa, attualmente spenta e a cui mancavano un paio di lettere, pendeva sbilenca sopra l'ingresso. Oltre la fatiscente costruzione si stagliavano alte montagne, mentre dall'interno provenivano grida e urla sommesse, incitamenti e cori di natura non meglio identificabile. Lo spiazzo davanti all'ingresso sarebbe stato deserto se non fosse stato per un paio di motociclette vecchio stile parcheggiate contro quel che restava di una vecchia, grezza staccionata. Dove cazzo sono andato a finire?

Ma la farmacista era stata chiara: la donna coi capelli rossi si era diretta proprio in quella direzione dopo aver acquistato delle aspirine. Sulla strada non c'erano nient'altro che cactus, polvere e quella bettola. Il calcolo della probabilità non lasciava grandi margini di dubbio, a meno che la famigerata Black Widow non avesse deciso di intraprendere una solitaria traversata del deserto... ed era piuttosto sicuro che non fosse tanto stupida.

Fece per entrare, quando un trio d'uomini uscì imprecando e bestemmiando sonoramente.

“Dannata puttana,” sputacchiò il primo, zigomo gonfio e sopracciglio spaccato.

“D-Diamole una lezione, Todd,” uno dei due compari suggerì, tenendosi gelosamente la mano destra al petto, le dita visibilmente lussate e l'orgoglio messo pure peggio.

Il terzo doveva aver appena bofonchiato un assenso, ma le attuali condizioni della sua bocca – ridotta ad una poltiglia rossa – non permettevano di distinguere le sue parole.

“Tu, va' a chiamare quel sacco di merda di Aaron,” era stato Todd a parlare, “digli di portare un po' dei suoi amici.” Mano Lussata accennò una protesta. “Digli che mi deve uno stracazzo di favore e che se non mi dà retta renderò la vita del suo sporco fratellino un inferno, alla fabbrica.” Non ci fu bisogno di ulteriore persuasione.

Clint li seguì con lo sguardo mentre si accostavano al ciglio della strada, meditando vendetta e macinando improperi e offese ad una velocità impressionante. Gli era un po' difficile da credere, ma suonava come se la colpevole di tutto quel trambusto fosse proprio una donna. Probabilmente una ridicola questione di gelosia che doveva aver scatenato la furia dei testosteronati presenti o, comunque, un'inezia simile. Non gli importava: tutto quello che gli interessava era trovare l'assassina, porre fine alle sue malefatte, tornare a casa per prelevare l'altro milione di dollari che lo attendeva da qualche parte, in una fredda e angusta cassetta di sicurezza, godersi il resto della sua vita.

Sistemò la sacca che aveva con sé sulla spalla dopo aver finito di arrotolarsi per bene le maniche corte della t-shirt bianca e sdrucita che indossava. Puzzo d'alcool, fumo e sudore lo raggiunse, asprissimo, non appena ebbe varcato la soglia del bar (in quel preciso istante, avrebbe volentieri scambiato il suo orecchio sordo con un naso malfunzionante). Vetri rotti scricchiolarono sotto la suola dei suoi stivali e qualcosa di non meglio identificato rendeva appiccicaticcio il pavimento, facendo cigolare ogni passo. Fantastico.

Un folto gruppo d'uomini a cui si aggiungevano – da quel che poteva vedere – un paio di donne, occupava il lato di fondo della catapecchia: sembravano riuniti in cerchio, impedendogli di vedere che cosa, di preciso, stessero osservando con tanta attenzione. Qualcuno gridava, i più applaudivano. Tavoli e sedie di diverse fatture e dimensioni erano stati spinti verso l'ingresso, presumibilmente per creare spazio... forse per la famosa rissa di cui Todd & co. avevano pagato lo scotto. Possibile che fosse ancora in corso?

Il barista lo accolse con un mugugnio esasperato: qualcosa gli diceva che detestava quella situazione, ma che non poteva fare proprio niente a riguardo. Era un ometto piccolo, sulla cinquantina, una camicia a quadretti sporca e pochi capelli rimastigli in testa.

“Ti serve qualcosa?” Lo apostrofò con fare scontroso.

“Una birra,” tanto voleva prendersela comoda, no? Per quel che gli era concesso di vedere di quel bugigattolo, non c'era proprio nessuna rossa mozzafiato nei paraggi. “Ghiacciata.” Gli passò una banconota da dieci, giusto per stabilire che non era un cazzone, che poteva pagare e che con il casino in corso non c'entrava proprio niente. Il barista biascicò una protesta, ma tirò fuori una bottiglia di Budweiser dal frigorifero sotto al bancone e prese i soldi senza obiettare.

“E il resto?” Non riuscì ad impedirsi di chiedere.

“Nessun resto. Quella birra costa dieci dollari, se non ti va bene, te ne puoi andare pure al diavolo.” Sparì nel retrobottega dopo avergli lanciato contro un paio di insulti totalmente superflui.

“Adoro questo posto,” commentò tra sé. Se non altro, un corposo sorso della sua bibita ghiacciata contribuì a rimetterlo al mondo... certo, era sudato e la maglia gli stava fastidiosamente appiccicata addosso; il manico della sacca aveva scavato nella pelle della sua spalla e il tessuto sintetico non faceva proprio niente per aiutare la traspirazione... ma aveva la sua birra. Che importanza poteva avere tutto il resto?

Qualcuno venne scaraventato a terra a pochissimi passi di distanza dal punto in cui Clint si era fermato davanti al bancone. Un tizio di circa quarant'anni, il vetro di un bicchiere conficcato in testa, il collo e il viso rossi per lo sforzo, le vene in evidenza in più punti. Ouch. Il cerchio si richiuse sullo scontro in corso prima che gli fosse possibile capire chi fossero i contendenti: non aveva mai visto nessuno incazzarsi in quel modo per una dannata scopata. Certa gente aveva solo bisogno di rilassarsi, rilassarsi sul serio però, con un po' di yoga magari o qualche altra stronzata del caso.

L'occhio gli cadde sul bersaglio delle freccette che giaceva inutilizzato su uno dei tavoli vicini, come messo in bella mostra per stuzzicare il suo interesse.

“Ehi!” Richiamò il barista, sporgendosi oltre il bancone. “Dove sono le freccette?” Nessuna risposta. Che posto del cazzo. Decise di andarsele a cercare da solo: se la donna non era in quel posto dove essersi avventurata nel deserto. E se avesse dovuto seguirla, allora avrebbe avuto bisogno di un mezzo di qualche genere. In ogni caso, gli sembrava ci fossero i margini di tempo giusti per prendersi una maledetta pausa. Il caldo gli aveva fatto fondere il cervello e il caos generale non aiutava minimamente. Nascose la sacca in un punto sicuro e, bottiglia alla mano, si avviò verso il gruppo inferocito in fondo alla bettola, cercando di sgusciare tra la gente alla ricerca delle freccette... o di quel che ne rimaneva. Gliene bastava anche solo una, giusto per sgombrare un po' la mente e riacquistare lucidità: era l'unica cosa che gli permetteva seriamente di riflettere, che l'aiutava a pensare.

L'ennesimo contendente – una donna stavolta – venne lanciato letteralmente contro il pavimento. Il cerchio si riaprì e stavolta Clint era abbastanza vicino per vedere chi, esattamente, stesse macinando tutti quegli avversari uno dopo l'altro. Una donna, meno di trent'anni, fisico minuto ma asciutto e compatto, i muscoli in evidenza sulle braccia e sull'addome lasciato scoperto dalla canottiera stracciata che indossava. La pelle pallida ricoperta di sudore, due evidenti occhiaie a deturparle il viso esausto, capelli rossi scuriti dall'umidità e uno sguardo folle negli occhi.

Non gli ci volle molto per fare due più due. Il campanello nella sua testa cominciò a suonare, ding-ding-ding, annunciandogli che aveva fatto centro.

“FORZA!” Sbraitò la ragazza, la voce roca per lo sforzo e – sospettò – lo sfinimento. Non aveva l'aria di aver dormito molto nelle ultime... quante? Trentasei ore? Settantadue? “Qualcun altro di voi stronzi vuole farsi avanti?”

Si susseguirono altre risate, altri insulti, qualcuno sputò nel bel mezzo dell'arena improvvisata: Black Widow – o quale diavolo era il suo vero nome – si premurò di tirargli un cazzotto in pieno viso. Era stato un movimento talmente rapido e repentino, che fino all'ultimo secondo neanche Clint fu in grado di intuire quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Di solito era piuttosto bravo a prevedere il comportamento della gente: quell'attimo di defaillance ebbe l'effetto di turbarlo, disegnandogli un'espressione corrucciata sul volto.

“Allora?!” La donna aveva ripreso ad urlare, come impazzita. “Chi si vuole fare avanti?!” Fece saettare lo sguardo tutt'attorno, posandosi su questa o quella persona, mai convinta, sempre all'erta. Sembrava un animale rabbioso, famelico, alla ricerca della sua prossima preda, di uno sfogo.

Non capì immediatamente cosa la stesse trattenendo oltre in quel lurido bar: non aveva già pestato abbastanza musi lunghi? Cosa voleva dimostrare? Che era capace di farsi valere, nonostante le apparenze non promettessero proprio niente di buono? L'espressione che le leggeva sul volto, ferina, non aveva niente a che vedere con l'idea che si era fatto di Black Widow in quelle poche ore che erano seguite alla visita di Elizaveta Drakov. Se l'era immaginata placida, algida, astuta e calcolatrice: fredda all'esterno, ma capace di metter su un qualsiasi teatrino, quello più adatto all'occasione. La donna impazzita che stava dando spettacolo in mezzo a quella bettola di periferia non sembrava furba, né tantomeno saggia.

“Lui.”

Il movimento sincronico dei presenti che si voltavano verso di lui, lo destò dalle sue elucubrazioni. La ragazza, una mano sui fianchi sudati macchiati di sangue, gli stava puntando un dito contro.

“Voglio lui,” decretò in tono definitivo, senza togliergli gli occhi di dosso. Nonostante la luce folle che sembrava bruciarle dietro le iridi scure, Clint lesse una certa consapevolezza nel suo sguardo. Come se la donna avesse improvvisamente compreso qualcosa: magari l'aveva riconosciuto come il povero stronzo che si era fatto gabbare come un principiante anni e anni prima a San Francisco, o forse...

Si puntò a sua volta un dito contro, rivolgendole un'espressione adeguatamente perplessa.

“Io?”

“Fatti sotto,” lo invitò, continuando a tenerlo inchiodato al pavimento con la sola persuasione dello sguardo. I seni le si abbassavano e alzavano in rapida sequenza, sotto l'impeto del respiro irregolare. La stoffa di quel che restava della sua canottiera, aveva il brutto vizio di tirare proprio nei punti più...

“Non ci penso neanche,” replicò seccamente, annaffiando il rifiuto con un corposo sorso di birra. Il pubblico, fetente e mezzo ubriaco, scoppiò a ridere all'unisono.

“Che senso ha aspettare, ah?”

“Aspettare?” Clint non riusciva a capire. Si sottrasse malamente ai tentativi di un paio di scagnozzi apparentemente intenzionati a lanciarlo nella mischia, che lui lo volesse o meno.

“Chi cazzo è questo idiota?” Blaterò qualcuno.

“Un forestiere!” Decise un altro.

“Che razza di accento era quello?” Indagò un terzo.

Si sentì spingere bruscamente verso l'arena, senza poter far granché a riguardo. Quando le fu ad un misero metro di distanza, tra le grida che si alzavano dal gruppo, fu la voce bassa e pacata della donna a sovrastare tutte le altre.
“E' l'uomo che mi ucciderà.”

 

*

 

Il mal di testa sembrava essersi esteso a tutto l'emisfero destro, un dolore sordo che si riverberava da qualche parte dietro gli occhi. Si sedette su uno degli sgabelli liberi, ignorando le occhiate che le venivano lanciate da più parti.

“Acqua,” ordinò al barista che le si era avvicinato proprio in quel momento. Gli bastò un nanosecondo esatto per abbassare gli occhi dal suo viso alle sue tette, e lì li lasciò senza farsi troppi problemi. Natasha fece finta di niente, scolando il bicchiere che l'uomo le mise sotto al naso.

“Ancora,” lo esortò, riavvicinandogli il contenitore vuoto con un dito. Se lo fece riempire ancora un paio di volte prima di decidersi a buttarci dentro un'aspirina, ben sapendo che non avrebbe fatto proprio niente per mitigare l'emicrania. Solo una sonora dormita avrebbe potuto curarla e Natasha era piuttosto convinta che non avrebbe trovato la forza di riposarsi neanche tra un milione di anni. I nervi tesi, i muscoli in tiro, lo stomaco contratto. Da quanto non mangiava? Qualcosa le suggeriva che era l'ansia a tenerla in piedi, o la paura, forse. Nient'altro.

“Ti sei persa, bellezza?” Uno sconosciuto aveva preso posto sullo sgabello accanto al suo, sporgendosi fastidiosamente verso di lei.

“Non sono in vena,” troncò la conversazione sul nascere. L'uomo sorrise, voltandosi verso un gruppetto di compari che lo attendevano seduti ad uno dei tavoli di fondo del bar. Qualcuno doveva avergli lanciato degli incoraggiamenti di qualche tipo.

“Non sei in vena, peccato. Possiamo divertirci.”

“Ho detto che non sono in vena,” ribadì, il pulsare alle tempie e dietro gli occhi sempre più intenso.

“E andiamo, bellezza... scommetto che vieni da una grande città, ah? Una come te...”

“Basta,” si voltò di scatto verso di lui, la furia negli occhi, il volto deformato dalla rabbia.

“Woah,” scoppiò in una risata odiosa. “Non ti pare di essere un po' troppo definitiva?”

“Fottiti.”

“Modera i termini, stellina,” il divertimento prosciugato poco a poco dal suo viso.

“Tipo? Fottiti non va bene?” L'uomo l'afferrò malamente per un braccio, affondando le dita nella sua pelle morbida.

“Sta' molto, molto attenta.”

Gli rivolse un sorriso gelido, mentre qualcosa di non meglio identificato – la paura o forse la frustrazione – le risalì su per lo stomaco, andando a colpire tutti i punti giusti, attivando un interruttore dopo l'altro.

“Oh, sono attentissima...”

Schiantare il bicchiere contro il bancone, afferrare un pezzo di vetro e piantarglielo nella mano che ancora la stringeva, fu un attimo. Aggiungerci due pugni in pieno viso per giusta misura, poi, le venne spontaneo. Col cervello in tilt, le sembrava che il suo corpo stesse facendo tutto da solo, che stesse prendendo l'iniziativa: giurò a se stessa che non aveva voluto pestare anche gli amichetti accorsi in aiuto dello sconosciuto, eppure l'aveva fatto. Quando gli avventori del bar l'avevano messa nel mezzo, qualcuno tenendola ferma mentre altri le mettevano le mani addosso un po' ovunque, non era stata sua intenzione scatenare la rissa, mordere a sangue chi la imprigionava, afferrare un boccale e schiantarlo sulla testa di un altro, stritolare le dita di un terzo, abbattere l'ennesimo gancio destro sui denti di un altro ancora... era successo e basta.

Le forze di causa-effetto si erano perse per strada, come in un sogno dai contorni indefiniti. Gli arti le bruciavano e lo stomaco sembrava finalmente cominciare a rilassarsi, i nervi, come fattisi incandescenti, parevano placati. Non le importava se si trattasse di un'illusione o meno... quel che contava era come si sentiva, e adesso, dopo aver sprecato le poche energie che le rimanevano, dopo aver messo mano alla scorta che neanche credeva di avere, stava meglio.

Sostituire un avversario dopo l'altro le era venuto istintivo: era in cima alle montagne russe, in preda ad una vera e propria sbronza, alla botta di una qualche droga invisibile, e per niente – niente – al mondo avrebbe mai voluto scendere.

Finché quell'uomo non le si era palesato davanti: le era saltato agli occhi come una palma nel bel mezzo del polo nord. Dolorosamente fuori posto. Qualcosa, da qualche parte nello stomaco, le diceva che era lì per lei. Dopotutto, non lo stava forse aspettando? Certo, non poteva sapere sotto che forma il castigo divino l'avrebbe raggiunta, ma era consapevole del fatto che sarebbe arrivato comunque. Il pacco che aveva ricevuto quella mattina stessa – che adesso giaceva intonso nel suo zaino – non era stato che un ambasciatore inanimato, arrivato a preannunciare l'arrivo di cose ben peggiori. Natasha non aveva mai dubitato che qualcuno l'avrebbe seguito... e adesso, quel qualcuno, ce l'aveva proprio davanti.

“Come fai a sapere che sono qui per ucciderti?” L'uomo, non molto alto, strizzato in una maglietta bianca, aveva l'aria di essersi perso nel posto sbagliato.

“Non ti confondi tanto bene con la fauna locale,” ribatté, girandogli lentamente attorno, pronta all'attacco.

“Non lo farò qui davanti a tutti,” sentenziò, un'espressione dannatamente seria sul volto.

“Sei il tipo pudico?”

“Sono il tipo a cui piace non avere testimoni.”

“Saggio.”

“Lo sai che Todd & co. stanno per tornare con la cavalleria?”

“Non conosco nessun Todd.”

“Bè, lui conosce te.”

“Non sono qui per parlare,” puntualizzò esasperata, sentendo la frustrazione tornare a gonfiarle il petto. “Voglio combattere.”

“Combattere non ti salverà la vita.”

“E chi ha parlato di salvarsi la vita? Tu...” un impercettibile mutamento nel tono, “parli troppo.”

Gli si scagliò addosso con una serie di colpi veloci che andarono tutti a vuoto, proprio mentre grida dall'ingresso arrivarono a catalizzare l'attenzione del suo pubblico. Lo sconosciuto la colpì con un cazzotto in pieno stomaco e uno dietro il collo. Mentre il caos imperversava tutt'attorno e la rissa si propagava a tutte le file concentriche, Natasha cominciò a vedere doppio. Merda...

“I tuoi amici sono tornati,” lo sentì dire, mentre ancora la teneva per il collo. Lo colpì violentemente al petto e al fianco un paio di volte, ottenendo solamente di fargli stringere la presa. “Guarda in che razza di casino mi hai messo.”

Sentì le gambe cedere sotto il proprio peso, improvvisamente inutili. Doveva aver raggiunto il limite delle energie concesse e adesso le toccava pagare pegno per tutte quelle che aveva appena speso. Solo una dannata principiante si sarebbe fatta cogliere dal suo assassino in un momento tanto inopportuno.

“Uccidimi... i-in fretta e... e b-basta,” mormorò, una supplica forse. Non era nemmeno troppo sicura di aver parlato davvero. Le immagini si confusero sempre di più, i suoni si fecero sempre più ovattati e distanti, e le braccia dello sconosciuto erano così solide che non riuscì proprio ad impedirsi di lasciarsi sostenere come una bambola di pezza.

Il mare nero dell'incoscienza si richiuse su di lei.



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Note:
Eeee i primi due "Avengers" si incontrano-scontrano nella polverosa Arizona. Natasha alla deriva e Clint dietro ai soldi... e c'è quel misterioso pacco ad accomunarli.
Non ho molto altro da dire a parte ringraziare chiunque abbia letto, sbirciato e commentato :3 mi fa tanto piacere! E solito shout-out di rito alla socia/beta/supportomorale Eli <3
Buon weekend a tutti e al prossimo capitolo! :D
S.

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Capitolo 3
*** 3/20 ***


- Capitolo 3 -

 

 

 

Parcheggiò sul retro della stazione di servizio, in corrispondenza del misero rettangolo d'ombra che un grosso cartellone pubblicitario sbiadito proiettava sull'asfalto ancora bollente.

Socchiuse gli occhi e si rilassò per un breve istante contro il sedile, sentendo la schiena fastidiosamente sudata: per come si erano messe le cose, non era neppure sicuro di ricordare come ci si sentisse da asciutti. Giurò a se stesso, per la centesima volta almeno, che, come meta del suo prossimo lavoro extra, non avrebbe accettato niente che si trovasse al di sotto del circolo polare artico.

Disinnescò il motore e ne requisì le chiavi, concedendosi solo una rapida occhiata in direzione della sua inconsapevole compagna di viaggio – distesa su un sottile materasso sistemato sul retro – prima di scendere dal furgone per sgranchirsi un po' le gambe, i muscoli intorpiditi da quasi dieci ore ininterrotte di guida. Si passò una mano sul collo umido e sporco di polvere, seguendo con lo sguardo la linea indistinta dell'orizzonte: il sole sarebbe tramontato di lì a breve, portandosi via – o almeno Clint se lo augurava – l'afa che l'aveva oppresso per tutto il giorno.

Restò in contemplazione della vasta desolazione fatta di terra, caldo, montagne impervie e aride, su cui si snodava il nastro nero della strada. Qualcosa gli suggeriva che non avrebbe abbandonato quel particolare scenario tanto presto.

“Cazzo,” biascicò tra sé, costringendosi ad uscire dallo stato catatonico in cui pareva essere sprofondato. Se si metteva a riflettere su come la situazione, da perfettamente chiara e razionale, era diventata un ammasso confuso di cose che non avevano alcun senso, per di più nel giro di un'ora al massimo, gli girava la testa. Contò i soldi che aveva con sé – solo una piccola parte dei cinquantamila che Elizaveta Drakov gli aveva messo a disposizione – dirigendosi a passo indolente verso la stazione di servizio.

Un impercettibile scampanellio accompagnò il suo ingresso nel piccolo mini-market antistante la pompa di benzina. Un ragazzo, doveva avere una ventina d'anni, capelli ricci e pelle scura, si limitò a lanciargli una pigra occhiata, prima di tornare a prestare attenzione alla tv portatile poggiata sul bancone.

“'Sera,” lo salutò, ricevendo in cambio un grugnito non meglio decifrabile, ma sicuramente disinteressato. Non aveva la più pallida idea di cosa stesse guardando, ma quel poco che riusciva a sentire gli fece nuovamente ringraziare di essere mezzo sordo. Si immise tra le corsie stipate di cibo, bevande, provviste di qualsiasi tipo, bagnoschiuma, shampoo, fazzoletti, oggetti da giardinaggio, un singolo ombrello (chi cazzo poteva averne bisogno in quella merda di deserto?), souvenir di ogni genere. Lo esplorò da cima a fondo con estrema perizia, più per godersi l'aria condizionata che per assicurarsi di non dimenticare niente di essenziale.

Mentre teneva sotto controllo il furgone attraverso le vetrine affacciate sull'esterno, Clint optò infine per un pacco da sei lattine di birra, una grossa confezione d'acqua e un paio di bottigliette più piccole, biscotti al cacao, dei salatini, patatine al formaggio, merendine all'albicocca, due magliette dallo stand dei souvenir e un flacone di deodorante da uomo. Riuscì a portare tutto al bancone senza particolari problemi, sotto lo sguardo incuriosito del cassiere, improvvisamente più interessato alle sue manovre (e – sospettò – al suo occhio nero) che alla televisione.

“Quante buste?” Gli domandò, dopo aver passato in rapida rassegna gli articoli.

“Due. E un pacchetto di Lucky Strike.”

“Non abbiamo le Lucky Strike.”

“Marlboro rosse allora.”

“Neanche.”

“Chesterfield?”

“Solo quelle al mentolo.”

Clint fece fatica a trattenere un moto d'irritazione. “Scelga lei, va bene?” Si impedì di sospirare troppo vistosamente, intrecciando le braccia al petto mentre lo osservava passare gli acquisti al lettore con snervante lentezza.

L'orologio digitale appeso alla parete di compensato lo informò che mancavano esattamente trentasette ore prima che la signora Drakov lo contattasse per aggiornamenti. Ciò significava che era ancora in tempo a togliere di mezzo la ragazza senza che la sua cliente venisse mai a sapere che aveva... esitato. Avrebbe voluto imputare la colpa della sua irresolutezza al fatto che, in fin dei conti, c'era ancora una parte di lui che non poteva essere corrotta. I soldi gli avevano fatto gola, ma non abbastanza da convincerlo a compromettersi. O almeno, l'avevano persuaso a parole, ma non nei fatti.

In realtà era stata una questione di pura praticità: non poteva ucciderla in quel lurido bar davanti a tutti quei testimoni, gente che avrebbe potuto riconoscerlo, descriverlo, indicarlo. Lasciare Florence, dopo aver rubato un mezzo che facesse al caso suo, gli era sembrata la scelta più saggia. Aveva inoltre formulato un grossolano piano che prevedeva di farla soffocare nel sonno senza che neppure se ne accorgesse, scaricarla nel deserto e lasciare che i coyote facessero il resto... ma aveva temporeggiato. Tuttavia, non era affatto pronto a cantar vittoria per la sua anima redenta.

Nonostante sapesse che era una pessima, pessima idea, si era messo a frugare tra le sue cose: portafogli che non avevano l'aria di appartenerle, un passaporto e una patente contraffatti, le aspirine che doveva aver acquistato prima di dirigersi alla bettola in cerca di guai.

E poi c'era quel pacco ancora intonso. Ne aveva riconosciuto il rivestimento, lo spago che lo teneva chiuso, l'etichetta che riportava l'indirizzo di un qualche motel nei paraggi. Quante possibilità c'erano che lui e la sua vittima designata avessero ricevuto lo stesso identico pacco in due stati diversi, a distanza di un paio di giorni al massimo?

Clint Barton non credeva alla coincidenze. Si era visto costretto ad accostare, ripescare dalla sua sacca la busta di carta in cui aveva riposto il contenuto dell'involto prima di lasciare Waverly, ripromettendosi di visionarlo più attentamente quando avesse avuto almeno un'ora libera. Inizialmente aveva creduto si trattasse di un pessimo scherzo: che cazzo se ne sarebbe dovuto fare del frammento di una cartina muta che il cielo solo sapeva cosa rappresentasse, quella che sembrava la chiave di una cassetta di sicurezza e un post-it su cui era riportato un indirizzo di Puente Antiguo, una località del New Mexico di cui non aveva neppure mai sentito parlare? Non aveva esitato a scartare il pacco della ragazza, e affanculo le buone maniere: vi aveva trovato la medesima scatola di cartone, un altro pezzo della stessa cartina, una chiave simile alla sua, un approssimativo indirizzo per una qualche frazione di Lafayette in Louisiana. Ad un controllo più attento si accorse che sotto il pezzo della sua mappa era segnato, appena percettibile, un numero uno, mentre sul retro di quella di Natalie Rushman, Black Widow o come diavolo si chiamasse in realtà, era stato tracciato un minuscolo tre. Non furono sufficienti a decidere se si trattasse o meno della medesima mano.

Aveva ripreso a guidare con le idee ancora più confuse, ma le priorità erano improvvisamente cambiate: prima avrebbe cercato di vederci chiaro, e solo poi l'avrebbe fatta fuori. Le possibilità più disparate gli si erano presentate davanti agli occhi: e se la signora Drakov fosse stata d'accordo con Natalie fin dall'inizio? E se non fosse stato altro che un enorme complotto per metterlo in gattabuia? E comunque che cazzo c'entrava la ragazza? Due milioni di dollari! Come aveva potuto non farsi un paio di domande a riguardo?

“Trentatrè dollari e settanta centesimi.”

La voce del commesso lo riportò bruscamente alla realtà. Le linee dell'orologio su cui si era fissato si rifecero chiare e definite: il mondo tornò improvvisamente a fuoco.

“Vorrei anche due taniche vuote per fare benzina,” si ricordò improvvisamente, porgendogli un paio di banconote da venti.

“Da quella parte,” gliele indicò con uno svogliato cenno del capo. “Piene?”

“Sì.”

“Sono... centoventi dollari in più.”

Suppose che era troppo tardi per chiedergli se avessero un tandem capace di attraversare il deserto.

“Le serve una mano?” Il commesso stava contando i soldi. Palpabile, nella sua voce strascicata, l'apatica speranza che Clint rifiutasse un qualsiasi aiuto.

“No, ce la faccio.” Lo accontentò, sistemandosi le due buste sotto al braccio, la confezione d'acqua nella stessa mano e le taniche vuote nell'altra. Accennò un saluto in direzione del ragazzo, guadagnando rapidamente l'uscita. L'afa lo avvolse come una soffocante coperta non appena ebbe rimesso piede fuori dal mini-market, ma se non altro riusciva a sentire l'alito leggero della notte imminente nell'aria. O forse stava solo cominciando ad avere le allucinazioni.

Scaricò la spesa sul sedile anteriore del furgone prima di tornare indietro a riempire le taniche di benzina. Si assicurò che nessuno lo stesse osservando prima di aprire lo sportello scorrevole del furgone, rivelando la figura riversa sul materasso sottile, ancora assopita.

Si costrinse a non soffermarsi più di tanto sulla linea sinuosa del suo corpo: era già abbastanza confuso di suo.

Immobilizzò le due taniche sul retro con un cavo elastico che aveva ripescato nello scatolone abbandonato tra la ruota di riserva e una cassetta degli attrezzi. Richiuse lo sportello e occupò il posto di guida. Avviò il motore, facendo manovra con una mano, mentre con l'altra si apriva una delle sei lattine di birra che aveva appena comprato (un altro dei suoi talenti). Si immise nella strada e accese la radio, lasciando che le note di una canzone che non conosceva riempissero l'abitacolo.

Decise che avrebbe guidato fino al definitivo calare del sole, dopodiché avrebbe risolto la questione Black Widow una volta per tutte.

 

*

 

La realtà la reclamò bruscamente: si risvegliò di soprassalto al gracchiare di una voce mostruosa. Scattò seduta, la schiena dolorante, i muscoli intorpiditi, lividi e contusioni che si imposero alla sua coscienza, uno dopo l'altro.

La pelle sudata di freddo, la vista ancora confusa, Natasha tentò di non lasciarsi sopraffare dal battito impazzito del proprio cuore, di contenere la paura che l'aveva invasa non appena si era resa conto di non sapere dove si trovasse o... con chi. Prese atto della presenza di qualcuno solo quando si fu rilassata abbastanza da permettere ai suoi sensi di fare il loro lavoro. Il buio la circondava quasi del tutto, se non fosse stato per quella porzione di cielo trapuntata di stelle che riusciva ad intravedere: intuì di trovarsi su un mezzo di trasporto di qualche tipo. Assegnò la voce orrenda che l'aveva ridestata alla radio che udiva in sottofondo e la presenza indistinta che percepiva poco distante – stranamente lontana dal posto di guida – all'autista.

Gli avvenimenti della mattinata la investirono come un fiume in piena, provocandole numerose fitte di mal di testa.

La luce improvvisa della fiammella di un accendino le rivelò il volto di quello che – ne era piuttosto convinta – era (o sarebbe stato) il suo assassino. Sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di metterlo a fuoco, ma quella si spense prima che potesse esaminarlo come avrebbe voluto.

“Hai dormito come un sasso,” la informò, senza curarsi del buio che li avvolgeva. A giudicare dal modo in cui pronunciava le parole, doveva essere impegnato a mangiare.

“P-Perché non mi hai uccisa?”

“Avevo fame.”

“Fottiti.”

“Ti sei svegliata bene.”

“Che cazzo è successo?”

“Non potevo di certo ammazzarti davanti a tutta quella gente, no? E poi quel tuo amico Todd è arrivato a rovinarmi la festa, per cui...”

“Non è un mio amico.”

“Si fa per parlare.”

Natasha sprofondò in un ostinato silenzio, mentre prendeva atto delle proprie condizioni: aveva polsi e caviglie legate con delle fascette stringicavo. Lo sfinimento e le botte ricevute, poi, avevano fatto il resto, rendendole di fatto impossibile una qualsiasi fuga.

“Come hai fatto a trovarmi?” Fece quello che Ivan le aveva insegnato a fare nelle situazioni critiche: guadagnare tempo, stimare i danni, esaminare le circostanze, decidere per la soluzione che aveva le più alte probabilità di successo. Quello che la infastidiva era che non aveva realmente pianificato di sopravvivere a quella lurida bettola: aveva deciso di affrontare il suo inseguitore a muso duro, ma la rabbia e l'agitazione avevano preso il sopravvento. Natasha aveva sperato con tutta se stessa che l'arrivo del suo carnefice coincidesse anche con la fine delle sue tribolazioni. Capiva, adesso, che con l'incendio dell'ospedale di San Paolo aveva definitivamente compromesso il suo rapporto con Ivan e, allo stesso tempo, che senza di lui era finita.

Non poteva continuare, non poteva smettere.

La via d'uscita era una e una soltanto e, adesso, le veniva negata anche quella.

“Qualcuno sapeva dove trovarti.”

“Cosa c'entrava il pacco?”

Seguì una lunga pausa in cui riuscì a percepire l'impalpabile mutamento nel ritmo del respiro dell'uomo. Qualcosa le diceva che la risposta a quella particolare domanda non sarebbe stata poi così immediata.

“Non sono stato io a mandartelo.”

“Certo,” sbuffò una risata carica di scherno, smozzicando un'imprecazione mentre provava a rimettersi almeno seduta. La bieca luce delle stelle le stava finalmente permettendo di abituare i propri occhi all'oscurità circostante. A giudicare dall'intensità con cui gli astri brillavano, dovevano trovarsi nel bel mezzo del deserto, lontani da qualsiasi fonte di luce artificiale.

“Non sono stato io,” ribadì l'uomo. “Magari hai fatto incazzare qualcun altro.”

“Ho fatto incazzare un sacco di gente. Questo non significa che siano in grado di trovarmi.”

“Bè, a quanto pare sono in buona compagnia.”

Calò il silenzio per qualche istante ancora, prima che un brusco movimento dello sconosciuto non la facesse scattare malamente. Natasha si schiacciò contro la parete di quello che aveva capito essere un furgone, trattenendo il respiro.

“Sta' calma, sto solo cercando una...” un fascio di luce azzurrina la investì senza alcun preavviso, “... torcia.” Sbatté furiosamente le palpebre, aspettando che il fastidio agli occhi passasse prima di fissare la propria attenzione su di lui. Indossava gli stessi vestiti che gli aveva visto addosso al bar, i capelli più spettinati, il volto segnato dalla stanchezza, lo zigomo gonfio e un occhio nero. “Patatine?” Natasha osservò scetticamente il pacchetto che le stava offrendo, trattenendo a sento una smorfia disgustata.

“Fottiti,” ribadì.

“Non sei una che parla molto, ah?”

“Fottiti.”

“Appunto. Ascoltami... Natalie, o qualsiasi sia il tuo vero nome...”

“Fottiti.”

“Va bene, Fottiti, ti dico quello che so, va bene? So che hai fame e molta più sete...”

Natasha fu sul punto di smentirlo, ma le sue parole ebbero il potere di renderla improvvisamente consapevole della gola arida, della lingua ancora felpata dal sonno, dal rimestare senza sosta del proprio stomaco. Serrò le labbra secche e si impedì di dire alcunché.

“... quindi facciamo così. Un sorso d'acqua per ogni risposta, che te ne pare?”

“Perché non mi uccidi e basta?”

“Perché ci tengo, a vederci chiaro.”

“Credevo dovessi uccidermi.”

“Non ho detto che non ti ucciderò.”

“Hai intenzione di prendermi per sfinimento?”

L'uomo le agitò una bottiglietta d'acqua sotto al naso, lasciando che fosse quella a rispondere per lui. Natasha avrebbe voluto resistere stoicamente, mandarlo tenacemente a fanculo per tutte le volte che fosse stato necessario, ma... al diavolo, se doveva morire, tanto voleva godersi quel che restava della sua patetica esistenza. Annuì infine, irrigidendo i muscoli quando lo sconosciuto si alzò per sederlesi di fianco, sul materasso sgangherato. Il disagio per quella vicinanza non richiesta non esitò a palesarsi. La pelle dell'uomo emanava tutto il calore che aveva assorbito durante il giorno; l'odore del furgone, poi, si mescolava al suo, un misto di deodorante appena spruzzato e sudore che – sorprendentemente – non le risultò poi così sgradevole. Tentò comunque di allontanarsi un poco, ristabilire una certa distanza, riacquistare il proprio spazio. Se lo sconosciuto si era accorto delle sue manovre, fece finta di niente.

“Iniziamo con qualcosa di semplice,” riprese, svitando il tappo della bottiglietta. “Quando hai ricevuto quel pacco?”

“Stamattina,” replicò semplicemente, decidendo che avrebbe fatto la reticente solo con le informazioni più scottanti (che, non dubitava, sarebbero state richieste a breve). L'uomo ne prese tacitamente atto e, senza toccarla, l'aiutò a poggiare le labbra sul bordo della bottiglia, a prenderne un sorso che – per quanto la riguardava – durò troppo poco.

“Ah-ah, non fare l'ingorda.”

“Stronzo.”

“Quando capita,” le concesse. Natasha fu costretta a trattenere il respiro per impedirsi di tirargli una testata in piena fronte. Intanto, approfittando della semi-oscurità, dell'attenzione focalizzata su quel bizzarro interrogatorio, cominciò ad armeggiare con la fascetta stringicavo che le immobilizzava le mani dietro la schiena. Temporeggiare, sempre e comunque.

“Sei stata contattata da qualcuno, ultimamente? Una donna di circa quarant'anni, dell'est Europa... magari?”

Assottigliò lo sguardo, fissandolo dritto in quegli occhi di cui non riusciva ancora a distinguere il colore. Era una domanda estremamente specifica: riusciva a leggergli nello sguardo la confusione, come se si stesse arrovellando alla ricerca della soluzione di un complicato indovinello. Evidentemente aveva pensato che quella donna potesse fungere da collegamento tra le proprie vicende e le... sue. Per quale motivo lo sconosciuto fosse alla ricerca di un terreno comune, però, quello Natasha non l'aveva capito. Forse neanche lui lo sapeva: magari anche lo sconosciuto aveva un suo Ivan ad impartirgli ordini che non poteva contestare.

“No.”

“Ne sei proprio sicura?”

“Cazzo, non so di che cosa tu stia parlando.”

“Va bene, va bene. Non c'è bisogno di scaldarsi,” protestò, concedendole un secondo sorso, stavolta un po' più corposo del primo. Nelle manovre in cui era attualmente impegnata, il dolore ai polsi si intensificò: ebbe cura di cancellare qualsiasi traccia di sofferenza dal proprio volto, dalla propria postura. L'uomo la privò nuovamente del bacio dissetante della bottiglia. Un rivolo d'acqua le scivolò giù per l'angolo della bocca, percorrendo la curva del mento prima di scenderle lungo il collo e sparire da qualche parte, nello spazio tra i suoi seni.

“Chi è che ti manda?” Gli chiese, invertendo per un attimo i ruoli prestabiliti.

“Sono io che faccio le domande,” le rammentò, la voce improvvisamente più bassa, ostile,gli occhi tenacemente fissi nei suoi, quasi fosse stato costretto a sforzarsi per mantenerveli.

“Cosa sei? Una specie di sicario?” Studiò famelicamente il suo volto, la sua espressione. L'insistenza del suo sguardo ebbe l'effetto di metterlo a disagio: lo vide distogliere la sua attenzione altrove, mascherando abilmente il fastidio (ma non abbastanza da impedirle di accorgersene). “Un assassino a pagamento,” realizzò ad alta voce. Per cosa? Un qualche vittima in cerca di vendetta? Un criminale che aveva deciso di toglierla di mezzo per... in realtà Natasha non aveva la più pallida idea di cosa facessero i criminali. Magari là fuori c'erano altre Natalia e altri Ivan che facevano esattamente quello che aveva fatto lei con suo padre. Era possibile che si fosse creata una certa concorrenza, che qualcuno fosse interessato ad ucciderla per allargare il proprio mercato, completare l'opera che lei stessa aveva iniziato in quella chiesa di San Paolo.

“Sono io che faccio le domande. Smettila o niente acqua.”

Irrigidì i tratti del volto per un lunghissimo istante, ma alla fine si ritrovò ad acconsentire con un impercettibile cenno del capo.

“Ti ricordi di me?” Natasha si accigliò.

“Dovrei?”

“Cazzo, odio chi risponde alle domande con altre domande,” blaterò tra sé, esasperato. “Rispondi.”

“No che non mi ricordo di te, non so chi sei, non ti ho mai visto prima d'ora.”

L'uomo si mise a ridere, l'incredulità ad accendergli gli occhi improvvisamente più vispi, ma non le sfuggì l'amarezza nella sua voce. Le sembrò sul punto di dire qualcosa di rilevante, magari rivelarle qualcosa, spiegarle perché le avesse posto quella particolare domanda, ma optò infine per avvicinarle nuovamente la bottiglia, offrirle il terzo sorso, il più breve di tutti. Aveva l'aria di essersela presa. La possibilità che si trattasse di una sua vittima alla ricerca di una vendetta tutta personale, le balenò davanti agli occhi. Cercò di pensare agli ultimi compiti che aveva portato a termine per Ivan, ma non riuscì a ricollegare il volto dell'uomo a nessuna delle persone che ricordava. Anche se, se doveva essere sincera, c'era ben poco che rammentasse degli ultimi anni: le sensazioni, quelle rimanevano nonostante Ivan si fosse premurato di cancellare gli eventi a cui erano collegate. Poteva richiamare alla mente cadaveri dai tratti confusi, oppure le loro ferite, quelle con estrema chiarezza, scorci di posti, luoghi che non avrebbe saputo collocare su nessuna mappa. Non molto altro.

“Non ho una gran memoria,” ammise, come a rendere più sincera la propria risposta e, soprattutto, mantenere attivo il diversivo.

“Me ne sono accorto,” decretò seccamente, umettandosi le labbra. “Cosa sei, quindi? Un'assassina? Una ladra?”

“Non sono niente.”

“Niente non è una risposta.”

“Solo perché non ti piace non significa che non lo sia,” replicò duramente.

“Quindi un sacco di gente vuole ammazzarti, ma tu non sai perché.”

“Oh, lo so il perché.”

“E quel pacco allora?” Le domandò a tradimento.

“Che c'entra?”

“Non hai idea di chi potrebbe avertelo mandato?”

“No,” ribadì, comprendendo improvvisamente che doveva essere stato sincero quando le aveva detto di non essere stato lui ad inviarglielo. “Ne hai ricevuto uno anche tu?” Chiese, più per prenderlo in giro che altro... ma la sua reazione, a malapena trattenuta, fu più rivelatrice di qualsiasi altra risposta.

“Che c'è dentro?” L'uomo esitò: le parve turbato dalla sua perspicacia. Un pensiero, quello, che le provocò un temporaneo moto di soddisfazione.

“Tanto vale che te lo faccia vedere.”

Natasha indietreggiò leggermente con tutto il busto, tentando di nascondere i polsi insanguinati allo spostamento del fascio di luce proiettato dalla torcia. Lo sconosciuto ripescò qualcosa dal sedile anteriore prima di riprendere il suo posto sul materasso: rovesciò il contenuto di una busta di carta sul pavimento dell'abitacolo, disponendo gli oggetti secondo un criterio che Natasha non comprese immediatamente. Dopodiché, vi puntò sopra la luce, permettendole di condurre una prima, sommaria ispezione: quella che sembrava una cartina stracciata priva di indicazioni, due indirizzi, due chiavi.

“Hai aperto anche il mio?”

“Spero non ti dispiaccia,” commentò sarcasticamente. Non riuscì ad impedirsi di lanciargli un'occhiataccia, prima di tornare sugli oggetti (mentre, con l'aiuto di un chiodo infisso nella parete retrostante, continuava a lavorare sui legacci). “Qualche brillante idea, Natalie?”

“Sono stati inviati dalla stessa persona.”

“Ma davvero? Cosa te lo fa pensare?” L'ironia era tagliente.

“Fottiti.”

“E' la tua parola preferita o hai per caso uno di quei calendari 'una parola al giorno'? Perché in quel caso credo di aver capito quella di oggi.”

“Vogliono che troviamo qualcuno... due persone diverse.”

“E le chiavi?”

“Sembrano per delle cassette di sicurezza. Magari contano di farci trovare qualcosa e qualcuno.”

“Illuminante, ti ringrazio.”

“Perché il tuo contributo è stato essenziale, devo dire.”

“Fin lì ci arrivava anche un bambino.”

“Peccato che tu non sia un assassino di bambini allora.”

“Già, almeno uno di noi due non lo è.” La replica, astiosa, le scese nello stomaco, gelida e sgradevole... si ritrovò a fissarlo con occhi leggermente sgranati, il volto tirato e una gran voglia di vomitare. L'uomo sostenne il suo sguardo in aperta sfida. Stavolta fu Natasha ad interrompere per prima il contatto visivo. Sì, c'erano stati dei bambini tra le sue vittime. L'unico lavoro che ricordasse davvero con chiarezza, l'incendio di San Paolo, doveva averne mietute diverse... niente le vietava di pensare che ce ne fossero stati altri, in precedenza.

“Cos'hai intenzione di fare?” Gli domandò allora, stavolta più per distogliere l'attenzione da quel particolare argomento e scacciare l'ansia che la stava tormentando, che per tenerlo occupato.

“Ucciderti e sparire il più lontano possibile.”

“Saggia decisione.” Di cui, tuttavia, non le parve granché contento.

“Hai altri suggerimenti?”

“Potremmo andare a quegli indirizzi.” (La fascetta si faceva sempre più lenta...)

“Per far cosa? Cadere come dei fessi nella trappola di un maniaco?”

“Non guardare me. Sono quella che dev'essere ammazzata, ricordi?”

“Non sono cose che tendo a dimenticare, io.”

“Oh, fattene una ragione. Mi dimentico di un sacco di persone.” (C'era quasi.)

“Saranno contenti quelli che hai derubato.”

“Quindi si tratterebbe di una specie di vendetta personale.”

“Che cazzo... ti preferivo quando eri svenuta.”

“Ti preferivo quando non esistevi.” (Bingo!)

“Devo pensare. Non ci riesco con te qua dietro ch-”

Un violento gancio destro lo prese in pieno viso, facendogli morire le parole in gola. Natasha approfittò del momento di defaillance per tentare un altro affondo: l'uomo, però, era ancora abbastanza lucido da intercettarla, impedirle di colpirlo di nuovo. Con i piedi ancora uniti, lo colpì violentemente allo stomaco, respingendolo contro i sedili anteriori. Afferrò un paio di tenaglie dalla cassetta degli attrezzi che aveva individuato alla sua destra, tagliando anche la fascetta che le immobilizzava le caviglie. Dopodiché gli fu di nuovo addosso, scagliandoglisi contro con tutta la sua furia.

“F-Fermati!”

“Sta' zitto!” L'uomo contrattaccò, ma stavolta la forma fisica non era dalla sua. Natasha lo colpì con una ginocchiata al petto, mozzandogli il respiro. Colse al volo il momento propizio: con un ultimo pugno in testa, lo mise definitivamente fuoriuso, ritraendosi in fretta e furia mentre lo sconosciuto si accasciava sul fondo del furgone. Fottiti, stronzo.

Si obbligò a regolare il respiro, affrettandosi a raccogliere la torcia sfuggita dalla presa dell'uomo. Cercò le fascette stringicavo con cui l'aveva legata e ne recuperò altre due per fare altrettanto con lui. Lo abbandonò su quello stesso materasso, di fatto ribaltando le posizioni originarie. Rimise il contenuto dei due pacchi nella busta di carta, prima di procedere a perquisirlo: lo liberò del peso di un inutile coltello e delle chiavi del furgone. Ebbe cura di rimuovere il chiodo con cui si era liberata e di allontanare dal materasso qualsiasi oggetto capace di agevolargli una possibile fuga. Uscì dal retro e risalì al posto di guida, portando con sé acqua e patatine. Prima di infilare le chiavi nell'ignizione, bevve l'intero contenuto della bottiglietta, lanciandola – ormai vuota – sul sedile del passeggero, a raggiungere un mucchio di latine schiacciate. Si asciugò le labbra col dorso della mano, spengendo la radio ancora accesa con l'altra.

Riempiendosi la bocca con una manciata di patatine, si decise a rimettere in moto il furgone, sperando ardentemente che la notte portasse consiglio.

Trecentocinquanta chilometri la separavano dal New Mexico.



__________________________________________

Note:
E man mano ci si avvicina all'incontro col primo vendicatore: immagino avrete intuito di chi si tratta :P mentre l'indizio per l'altro incontro è un po' meno diretto.
Non sarà un viaggio facile e neanche la convivenza sarà rosa e fiori (ma se Clint e Natasha non si menano un po', ogni tanto, che gusto c'è?)
Oltre a questo ben poco da dire :) Ringraziamenti di rito alla sclerosocia/beta Eli e a chiunque abbia letto, letto & commentato, sbirciato, ecc. Vi ringrazio <3
And that's all! Fino alla prossima...
S.

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Capitolo 4
*** 4/20 ***


- Capitolo 4 -

 

 

6 ore dopo

nei pressi di Albuquerque, New Mexico

 

“Mi scusi, potrebbe prestarmi la cartina?” Un sorriso smagliante e la giusta, calcolata inclinazione del busto, furono sufficienti a dissipare il malumore dal volto dell'uomo a cui si era rivolta. La tavola calda era gremita di avventori intenti nelle rispettive colazioni, ma solo quel tipo sulla sessantina, la pelata lucidissima e un grosso naso aquilino, pareva provvisto di una mappa che potesse fare al caso suo.

“Certo,” non esitò ad offrirgliela, mentre il piccolo mento suino affondava nei sottostanti strati di grasso.

“Gliela riporto subito.” Natasha mantenne il contatto visivo finché non fu il momento di dargli le spalle per tornare al suo tavolo. Annaffiò l'ultimo boccone di uova strapazzate e bacon con un sorso di succo d'arancia, tenendo impegnati gli occhi nella ricerca di Puente Antiguo tra le varie località segnalate sulla cartina.

Ad occhio e croce dovevano esserci almeno un paio d'ore di viaggio in più ad attenderla, forse tre: dopo essersi reimmessa su strade più trafficate, mantenere i ritmi che aveva macinato nel deserto era diventato praticamente impossibile. Mentre studiava la mappa, strade, autostrade, fiumi e città si fecero improvvisamente confusi, la mente che divagava su altro...

Forse l'uomo che giaceva addormentato nel furgone aveva ragione: seguire le criptiche istruzioni recapitate per posta da un pazzo non era esattamente la scelta più saggia a sua disposizione. Ma Natasha, che aveva riflettuto fino alla nausea, era arrivata alla conclusione che non aveva niente di meglio da fare. Semplicemente. Per la prima volta da che aveva coscienza di se stessa, non c'era nessuno ad impartirle compiti da portare a termine nel minor tempo possibile. Certo, era stata costretta a qualche furtarello per permettersi di proseguire il viaggio, ma da quando il suo presunto assassino era entrato in scena, non ce n'era stato più alcun bisogno: quel tizio aveva qualcosa come cinquemila dollari in contanti nascosti tra le sue cose. Se ne era servita per pagarsi la colazione e fare benzina; nessuna spesa extra.

Oltre al denaro aveva scovato gli strumenti del suo mestiere: una Glock con silenziatore, diversi coltelli, un telefono cellulare prepagato e... arco e frecce. Solo quel bizzarro particolare aveva contribuito a richiamarle alla memoria confuse conversazioni con Ivan riguardo la concorrenza, i nemici. Di quei soggetti, non ne rammentava nessuno in particolare, ma anche la minima allusione ad un tizio che lavorava con un'arma tanto vistosa e primitiva, sarebbe stata difficile da dimenticare. Fumose reminiscenze a parte, continuava a non sapere come si chiamasse... ammesso che la cosa potesse esserle in qualche modo utile.

L'altro problema era che se lo sconosciuto l'aveva trovata, se quel pacco era riuscito a raggiungerla, allora significava che – virtualmente – tutti avrebbero potuto individuarla per regolare un conto in sospeso, vendicarsi di un qualche torto passato o, semplicemente, arrestarla. Una rapida scorsa delle testate giornalistiche le aveva rivelato che l'incendio dell'ospedale di San Paolo, in mancanza di indizi che puntassero verso l'azione dolosa, era stato liquidato come un tragico incidente. Ma, sebbene la pista più fresca che potesse ricondurre a lei fosse stata apparentemente neutralizzata, non significava che fosse al sicuro. Anzi.

In ogni caso, nel caos più totale che circondava attualmente la sua vita, la questione dei misteriosi pacchi postali era l'unica che le permettesse di concentrarsi su qualcosa di concreto, la sola che le desse uno scopo, seppur limitato nel tempo.

“Scusi.” Fermò la cameriera che le stava passando di fianco. “Potrebbe farmi un caffè da portar via?” La donna azzardò un sorriso poco convinto, lasciando cadere lo sguardo sulle striature rossastre che le circondavano ciascun polso. “Trucchetto di magia andato male,” fu la pronta giustificazione di Natasha, che le rivolse un'occhiata tanto innocente e placida da diradare ogni sospetto.

“Subito.”

La seguì pigramente con gli occhi, sforzandosi di mantenere la facciata ad uso e consumo dei presenti. La vicinanza con una città come Albuquerque avrebbe sicuramente moltiplicato il pericolo di lasciarsi alle spalle tracce concrete, ma al momento non le importava più di tanto.

Non appena la cameriera fu di ritorno, pagò per colazione e caffè con un paio di banconote, con l'aggiunta di una lauta mancia che ebbe il potere di farla sciogliere in effusioni della più stucchevole cortesia. Restituì la cartina al suo legittimo proprietario, sperando di aver memorizzato il percorso (o comunque contando di poterne trovare un'altra più avanti, se ce ne fosse stato bisogno: la sua memoria non era esattamente affidabile) e infine uscì in strada, aspettando che la carreggiata fosse sgombra per poter raggiungere il furgone parcheggiato sul lato opposto...

… cosa che non le fu possibile.

Il motore del mezzo ritornò improvvisamente in vita, borbottando una mezza protesta prima di riguadagnare la corsia destra con una sgommata degna di un film d'azione. Natasha, caffè alla mano, osservò il furgone sfrecciarle davanti agli occhi; lo spostamento del vento a scompigliarle leggermente i capelli.

 

*

 

Vaffanculo ad Elizaveta Drakov. Vaffanculo ai due milioni di dollari e soprattutto vaffanculo a Natalie Rushman che era riuscita a rendergli la vita un inferno nel giro di appena ventiquattr'ore.

Ci aveva messo un secolo a liberarsi da quelle fascette stringicavo (più o meno tutta la notte) e ancora di più a rendersi conto che nessuno lo obbligava a portare avanti quella farsa. Poteva sempre tornare indietro, dire alla signora Drakov che non se ne faceva di niente, restituirle i soldi (che sicuramente avrebbe rivoluto) e al diavolo. Non potevano forzarlo a sopportare tutte quelle stronzate, né aveva mai chiesto a nessuno che tutti quei guai lo inseguissero: adesso ci si mettevano pure le assassine provette con la memoria corta e pazzi complottisti che inviavano misteriosi pacchetti in giro per il paese.

Riguardo quell'ultima questione, poi, si era ormai convinto si trattasse di una qualche complicata operazione di polizia atta a cogliere in fallo i più pericolosi criminali a contratto ancora a piede libero. Che altro potevano avere in comune lui e quella Natalie? Ammesso che un qualche collegamento ci fosse davvero: lui si dilettava di furti praticamente perfetti, recupero di informazioni, spionaggio di basso livello. Non aveva mai dato fuoco ad un ospedale, né ucciso un bambino e di certo non aveva intenzione di cominciare proprio adesso.

Più se ne persuadeva, più premeva sull'acceleratore, deciso ad allontanarsi da quella situazione del cazzo il più rapidamente possibile. Anzi, avrebbe richiamato immediatamente la signora Drakov e avrebbe messo fine a quell'incarico seduta stante: che se l'ammazzasse da sola Black Widow. Chi diavolo era lui per mettersi a vendicare torti subiti da terzi?

Mentre frugava nella sua sacca abbandonata sul sedile del passeggero, insieme a bottigliette di plastica e lattine vuote, Clint decise che non gli importava, che non lo riguardava e che ognuno doveva pensare per se stesso. Come potevano pretendere che assumesse su di sé il peso di certe azioni? Perché doveva essere lui a sporcarsi le mani? I lavoretti che accettava, li faceva per sé e per nessun altro. Per sentirsi meglio con se stesso, per convincersi di non essere stato risucchiato dal sistema, per mostrare al mondo (sotto le mentite spoglie di Hawkeye) che non era solo un meccanico in una squallida cittadina dell'Iowa, ma che sarebbe potuto essere molto di più. Che era di più, che li fotteva nel bel mezzo della notte, quando nessuno guardava, talmente abile e silenzioso da risultare praticamente introvabile.

“Che cazzo!” Sbraitò, incapace di trovare il cellulare. Eppure era sicuro di averlo lasciato là dentro, insieme ai suoi effetti personali. A meno che...

“Non dirmelo, non dirmelo, non dir-” Gli bastò aprire lo sportellino sotto al cruscotto per accorgersi che la mazzetta di denaro prelevato al suo arrivo all'aeroporto di Phoenix era sparita. “MERDA!”

Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, tirando un brusco pugno al volante nel tentativo di scaricare la rabbia. Si era presa i soldi, la carta di credito, il telefono, le chiavi del furgone e che altro? La mia fottuta dignità, pensò lugubremente. Era la seconda volta che quella ragazzetta riusciva a fregarlo come un maledetto principiante.

Aspettò che la strada fosse sufficientemente sgombra prima di effettuare un'inversione ad U che lo immise di nuovo nella corsia di sinistra, nel senso di percorrenza opposto. Non solo non poteva fare a meno dell'unico mezzo di comunicazione che aveva per tenersi in contatto con la signora Drakov, ma neanche poteva permettersi di perderle cinquemila dollari, non quando era del tutto intenzionato a rifiutare l'incarico e per di più a lavoro cominciato. Era una professionista, cazzo, uno che ci sapeva fare, uno di cui i clienti potevano fidarsi ciecamente. Responsabile, discreto... e un sacco di altre stronzate che, in quel preciso istante, non gli si addicevano per niente. Quello, più di ogni altro dettaglio, lo stava facendo uscire di testa.

Gli ci vollero dieci minuti per intercettarla: stava camminando lungo il ciglio della statale, un bicchiere di caffè in una mano, lo zaino sulle spalle e indosso la canottiera I love Arizona che le aveva comprato al mini-market la sera precedente. Come cazzo gli era venuto in mente, ah? Cos'è che l'aveva spinto a comprarle una stupida maglietta per sostituire quella che si era strappata nella rissa al bar? Non erano affari suoi come se ne andava conciata in giro, giusto? E che importanza aveva se le faceva delle tette da urlo? Per quel che gli interessava poteva andarsene in giro nuda! Non sono affari miei, si ripeté, come per convincersi che lui non c'entrava proprio niente, che non doveva niente a nessuno, che ognuno doveva pensare a risolvere i propri casini in perfetta autonomia... e vaffanculo.

Ennesima inversione ad U per affiancarla, decelerando sensibilmente per far procedere il furgone a passo d'uomo.

“Ti sei presa qualcosa di mio,” esordì, ostile e nervoso per la fame e l'astinenza da caffè (o in alternativa di birra gelida).

“Anche tu.”

“Questo furgone non è tuo, se non te ne fossi accorta.”

“Neanche tuo, mi pare.”

“Adesso lo è.”

“Hai montato male la targa falsa,” l'accusò, ottenendo di farlo sporgere fuori dal finestrino, come se in quel modo avesse potuto controllare di persona.

“Non è vero.”

“E' vero. Usi la tecnica sbagliata.”

“Quindi sei un'esperta di targhe false.”

“Tra le altre cose, sì,” confermò, bevendo un sorso di caffè. Clint tentò di nascondere la sofferenza che quella visione gli procurava, ma non gli riusci granché bene. Se per le tette o per il caffè, quello non gli era ancora chiaro.

“Ridammi i miei soldi e ridammi il telefono e poi ti giuro che mi levo dalle palle.”

“Hai deciso che non mi vuoi uccidere?”

“Non ti ho mai voluta uccidere,” parve ripensarci, “anche se non sono mai stato tanto vicino a cambiare idea come adesso.”

“Non avevi voglia di uccidermi, ma eri disposto a farlo comunque.”

“Dobbiamo tutti fare cose che non ci va di fare.”

“E' tuo padre che ti obbliga a farlo?” Una sventagliata di clacson risucchiò le ultime parole della ragazza. Clint fece cenno agli autisti che lo seguivano di superarlo con un unico gesto nervoso (che gli valse almeno un paio di insulti: per sua fortuna della dignità di sua madre non gliene fregava proprio niente).

“Mio padre è morto e sepolto da un pezzo, grazie al cielo,” replicò seccamente, controllando che nessuno li stesse ancora seguendo.

“Allora chi ti ha detto di uccidermi?”

“Ascolta...” sbuffò sonoramente: l'assurdità di tutte quelle domande non faceva proprio niente per migliorare il suo umore. “Perché non sali? Mi sento un idiota a parlarti così.” La donna e il furgone si fermarono nello stesso momento. La vide osservarlo attentamente, come nel disperato tentativo di prevedere la sua prossima mossa.

“Non sei molto convincente,” obiettò a mo' d'accusa.

“Me ne rendo conto. Ma al momento tutto quello che voglio fare è tornarmene a casa.” Stavolta, le parole dovettero uscirgli con l'enfasi giusta per persuadere Natalie ad aprire la portiera di destra e rubare il posto alle cianfrusaglie ammucchiate sul sedile del passeggero.

“Se provi ad uccidermi ti ammazzo,” la ragazza lo avvertì, il tono monocorde e un'espressione glaciale sul volto.

“Stabiliamo una tregua, ti va?”

“Non sei credibile.”

“Lo so. Ma non ti ho forse tirato fuori da quel bar quando avrei potuto lasciare che ti pestassero a sangue?”

“Perché l'hai fatto?”

“Perché sono uno stronzo, ecco perché.”

“Tu non sei un assassino.”

“No. Non lo sono.”

“Ma hai accettato di uccidermi.”

“Mi hanno offerto due milioni di dollari per farlo!” Sbottò, stritolando il volante tra le mani. “Lo sai quanti sono due milioni di dollari?”

“Sì che lo so.” L'urgenza con cui le parole le erano uscite di bocca non lo convinsero fino in fondo. Sembrava, piuttosto, che stesse ostentando una sicurezza che, nonostante tutto, non le apparteneva realmente.

“Fatto sta che adesso i pro sono molti meno dei contro,” gli venne inspiegabilmente da ridere, ricordando la complicata riflessione con cui aveva ceduto e accettato l'incarico tanto per cominciare.

Clint si concentrò sulla strada – in mancanza di un'idea migliore – seguendo le indicazioni per Albuquerque, mentre le sue parole cadevano nel silenzio. Le lanciò una rapida occhiata, vedendola immersa in quella che sembrava una complicata elucubrazione: le labbra rosse e carnose intrappolate tra i denti, gli occhi verdissimi e attenti, proiettati verso una meta lontana e invisibile, i capelli rossi raccolti in un'improvvisata coda di cavallo, il collo pallido macchiato di sudore e polvere, e quella scollatura che, dio santissimo... si costrinse a guardare altrove un attimo prima che la donna riprendesse a parlare.

“Facciamo così.” Inspirò a fondo, voltandosi infine verso di lui. “Mi accompagni a Puente Antiguo per scoprire chi ci ha mandato quella roba, prometti di non uccidermi finché non abbiamo finito e poi, quando abbiamo capito di che si tratta... puoi farmi fuori.”

“Che cosa?” Clint non riuscì a nascondere la perplessità, evidente nella propria voce.

“Sì, insomma, non sei curioso? Io non ti ho mai visto, tu non mi hai mai vista, ma no-”

“Sì che ci siamo già visti.”

“Ma non è quello che conta, no? Cos'abbiamo in comune io e te? Niente.”

“Non mi stavo riferendo a quello. Vuoi che ti uccida?”

Un velo di noia, apatia e disinteresse le calò sul volto: sembrava che una marea di panico, ansia e paura l'avesse investita per poi ritirarsi lentamente, lasciandosi alle spalle solo un vuoto fastidioso. Clint conosceva quell'espressione a memoria. L'aveva letta sul proprio viso per infinite mattine, anni e anni fa, prima che l'idea di Hawkeye arrivasse a salvarlo da quella palude priva di colori che era diventata la sua vita. Il tran tran quotidiano del presente, le ferite mai realmente cicatrizzate del passato e l'inesistente fiducia nel futuro, avevano fatto sì che il suo mondo si tingesse di sfumature di grigio, sempre più uguali le une alle altre...

Deglutì a vuoto, tremando appena al rimescolio che gli animò lo stomaco ancora vuoto in modo desolante.

“Non è che lo voglio,” lo corresse dopo una lunghissima pausa. “E' che non mi interessa.”

La bislacca caccia al tesoro recapitata per direttissima nella loro posta era l'unico ostacolo che la separava dall'imminente conclusione della sua esistenza, e la cosa non sembrava preoccuparla minimamente. Fu costretto mordersi la lingua per impedirsi di cominciare a sparare stronzate sul significato della vita e sul fatto che ne abbiamo solo una, e un'altra valanga di cazzate che il suo psicologo (leggi: il suo barista) gli aveva più volte propinato negli anni più bui. Di nuovo: quelli non erano affari suoi. Voleva morire? Bene, ottimo... dopotutto non hanno tutti il diritto di fare le proprie scelte?

“Quindi...,” si schiarì la voce con un leggero colpo di tosse, ignorando il senso di colpa che stava tenacemente tentando di soffocare. Non è un mio problema. Non.è.un.mio.problema. “Puente Antiguo e poi Lafayette?” La ragazza annuì.

“Una settimana,” propose. “Una settimana di tempo. Se arriviamo alla fine, bene, sennò puoi fare quello che ti pare e ottenere la ricompensa.”

Qualcosa gli diceva che anche quell'ennesima offerta in apparenza succulenta e soprattutto semplice, si sarebbe rivelata più complicata del previsto. In ogni caso, decise di risolvere il problema quando e se si fosse posto.

“Affare fatto,” convenne infine, tendendole una mano affinché gliela stringesse per suggellare il patto.

“Affaro fatto,” gli fece eco e, dopo qualche istante di esitazione, ricambiò anche la stretta.

“Clint.”

“Clint cosa?”

“E' il mio nome.”

“Oh. Natasha... Natasha Romanoff.”

 

*

 

Puente Antiguo, New Mexico

 

“Dov'è la mia Glock?”

“L'ho presa io.”

Natasha non aspettò che Clint ribattesse per scendere dal furgone e guardarsi attorno: la cittadina di Puente Antiguo non era poi così ridente, in fondo. Un mucchio di case larghe e basse dipinte di diversi colori, compresse tra vari negozi, il tutto ricoperto da un spesso strato di polvere. La polvere e la luce abbacinante del sole erano state le costanti di quel breve soggiorno negli Stati Uniti: Natasha non poteva dirsi un'amante di nessuna delle due cose.

“E se mi servisse?”

“Hai il tuo arco.”

“Tante grazie, quello lo so, solo che...” sbuffò sonoramente. “Oh, al diavolo!”

“E' più utile se la tengo io,” ci tenne a sottolineare, avviandosi verso il portone rosso che avevano individuato come corrispondente all'indirizzo di Clint.

“Come sarebbe?”

“Io non ho paura di usarla.” Doveva averlo convinto perché non aggiunse nient'altro finché non ebbero raggiunto il numero 10.

“E adesso che facciamo?” Le domandò, il nervosismo palpabile nella sua voce.

“Suoniamo, no?”

“Ah, bè... giusto. Come ho fatto a non pensarci?”

“Ascoltami, se non ti va bene puoi anche andartene a fanculo.”

“Sta' calma, va bene?”

“Sei tu quello che non sta calmo!”

“Io sono calmissimo!” Puntualizzò, alzando a tal punto la voce da attirare l'attenzione di alcuni passanti. Una madre col figlio per mano affrettò il passo, allontanandosi il più rapidamente possibile dal punto in cui si trovavano.

“Certo, come no.” Natasha fece schioccare la lingua, decidendo di porre fine a quella ridicola conversazione. Salì i gradini che la separavano dal portone e suonò il campanello sotto cui campeggiava un'etichetta dall'aria nuova fiammante: Perkins-Bowman. Si accorse che il nome non corrispondeva a quello riportato sull'indirizzo, ma non ebbe il tempo di informarne Clint, che la porta si aprì di un misero spicchio, lasciando intravedere il volto avvizzito di una donna di circa ottant'anni. Indossava una vestaglia a fiori e un paio di ciabatte consumate. Natasha si sentì investire da un odore dolciastro: acqua di colonia e talco, forse.

“Buongiorno, signora,” neanche il suo sorriso più zuccheroso fu sufficiente a convincere la vecchia delle sue buone intenzioni. “Stiamo cercando Donald Blake.”

“Donald? Oh...,” parve confusa. “Don non abita più qui ormai un paio d'anni.”

“Sa dove possiamo trovarlo?”

“Lavora al negozio qua di fianco. Quello che vende...” si bloccò, voltandosi verso un punto non meglio definito alle proprie spalle. “Cos'è che vende quel negozio, Herb?”

“Articoli di elettronica!” L'incerta voce di quello che Natasha intuì essere il marito della donna, la raggiunse fin sui gradini d'ingresso.

“Quello che vende articoli di elettronica,” riconfermò la donna, faticando a trattenere un'espressione disgustata.

“La ringrazio. Buona giornata.” Mantenne il sorriso finché la porta non si fu richiusa, murando di nuovo la donna e quel nauseabondo odore tra le quattro mura della sua casa.

Scoccò una rapida occhiata in direzione di Clint, immobile a qualche metro di distanza, quasi a ribadire che non aveva proprio niente a che fare con lei. Senza aggiungere nient'altro o attendere un commento, imboccò il marciapiede in direzione del negozio di elettronica all'angolo.

Le bastò specchiarsi in una delle ampie vetrine dietro cui era messa in mostra una disordinata catasta di oggetti, per capire cos'è che aveva schifato la donna. Linee scure le solcavano il viso in prossimità di quei punti in cui la polvere si era depositata e il sudore asciugato. I capelli intrecciati in un nodo spettinato, le occhiaie profonde sotto gli occhi cerchiati. Il bianco della canottiera I love Arizona ormai annerito in più punti. Tracce di sangue rappreso e contusioni ancora più o meno evidenti a completare il quadretto. Non era sicura di essersi mai vista in condizioni peggiori di quelle (viaggiare col finestrino aperto era stata una pessima idea).

“Cos'è, sei interessata a comprare un microonde?” La voce di Clint la obbligò a mettere a fuoco ciò che giaceva oltre il vetro.

“No, se ti vorrò cuocere mi servirà un forno più grande.”

“Potresti avere un futuro da cabarettista, lo sai?”

Natasha lo mandò tacitamente a fanculo prima di entrare nel negozio. L'aria condizionata l'investì insieme alle occhiate dei pochi presenti. Fece schioccare le labbra, fingendo una certa indifferenza... prima di ricordarsi che, ridotta in quelle condizioni, più che una cliente qualunque assomigliava ad una selvaggia o una barbona, potenzialmente una ladra. Il fatto che Clint, poi, non le sembrasse messo poi così male, la fece innervosire: sì, la sua t-shirt bianca era ormai sudicia e sporca, le stesse linee di polvere e sudore si erano fossilizzate anche sul suo viso e sulle sue braccia scoperte... ma più che un criminale sembrava un operaio di qualche tipo, un muratore o magari un camionista. L'espressione corrucciata che gli piegava le labbra, poi, e quei suoi stupidi bicipiti costantemente esposti, non facevano proprio niente per mitigare quella fastidiosa sensazione che le prendeva lo stomaco tutte le volte che rimaneva a guardarlo un po' troppo a lungo.

Scacciò quei pensieri come un insetto molesto, dirigendosi a passo spedito verso l'unica cassa aperta.

“Sto cercando Donald Blake. Mi hanno detto che lavora qua.”

Il commesso rialzò lo sguardo da un complicato schema di parole crociate, trattenendo a stento una reazione sorpresa nel ritrovarsela davanti.

“Don, certo...” tossicchiò, come per richiamarsi all'ordine, posando lo sguardo sulle sue tette e almeno su quelle non parve avere niente da ridire. Strano. “Don!” Chiamò, senza distogliere l'attenzione dal suo decolleté. “DON! Ah... eccoti lì.”

Un uomo grande e grosso fece capolino oltre la corsia degli elettrodomestici: era alto, piazzato, spalle ampie, braccia e pettorali in evidenza, i capelli biondissimi e lunghi raccolti in una bassa coda disordinata. Indossava la divisa arancione della catena di cui faceva parte il negozio e aveva uno scatolone in mano: l'avevano interrotto mentre stava disponendo degli articoli sugli espositori semi-vuoti.

“Ovviamente è un fottuto lottatore di wrestling,” borbottò Clint. “E' tutto tuo, Tasha.”

“Natasha.”

“Che importa? Tanto tra poco sarai morta.” Lo vide irrigidirsi per la battuta infelice. “Nel senso che... è lui che è pericoloso, non i-”

“Lascia stare,” lo liquidò lei, più imbarazzata dal suo tentativo di migliorare le cose che dalla frecciatina crudele che le aveva inavvertitamente scagliato contro. Avvicinò rapidamente l'uomo che rispondeva al nome di Donald Blake, ostentando una familiarità tutta artificiosa.

“Signor Blake, giusto?”

“Sono io.” Aveva una voce profonda, ma spenta. “A chi interessa?”

“Il mio nome è Natalie Rushman.” Realizzò di non avere la più pallida idea di cos'avrebbe dovuto dire. “Abbiamo...” si voltò verso Clint, ricevendo in cambio un'occhiataccia. “Ho,” si corresse, “ho ricevuto il suo indirizzo insieme a-”

“Qualcuno vi ha recapitato la mia posta per sbaglio?”

“No. Qualcuno mi ha inviato il suo indirizzo insieme a una cartina e una chiave. Mi chiedevo se l-”

“E' solo un scherzo di Pete... un bravo ragazzo, ma un po' suonato. Non è il primo che fa in città.”

“Non sono del posto.”

“Deve aver scelto il suo indirizzo a caso, allora. Ha fatto un sacco di strada per niente,” scrollò le spalle e riprese a spostare le confezioni dei caricabatterie dallo scatolone all'espositore, senza mostrare il benché minimo interesse per quell'assurda conversazione.

“Le dico di no,” stabilì, la soglia della sopportazione pericolosamente bassa.

“Senta, non so dove voglia andare a parare, ma sto lavorando.”

“Se solo mi potesse dare cinque minuti...”

“Non posso.”

“A che ora stacca?”

L'uomo dibatté con se stesso se rispondere o meno. “Alle sette e mezzo,” concesse infine, una maschera di annoiata esasperazione.

“Che ne dice di una birra, allora?” Donald Blake bloccò per un attimo le sue manovre, concedendole una lunga, penetrante occhiata. Più che il commesso di un negozio di elettronica, sembrava una di quelle statue greche che ricordava di aver visto ad Atene o Parigi (o forse l'aveva sognato?): svettava su tutto il resto con una sorta di nobile contegno che mal si adattava all'atmosfera circostante. “Birra e cena. Offro io,” offerta al rialzo.

“Non so se...”

“Ha qualche impegno?”

Natasha lo vide rabbuiarsi ulteriormente, abbassare lo sguardo, improvvisamente in difficoltà.

“No. No, nessun impegno.”

“Sette e trenta qua fuori, allora.”

Donald scrollò le spalle, riprendendo a lavorare senza una parola di più: decise di prenderlo come un sì, tornando indietro per superare Clint e uscire dal negozio.

“Gli hai offerto una cena che io dovrò pagare,” si lamentò.

“Ti farò guadagnare due milioni di dollari, il minimo che puoi fare e smetterla di comportarti come uno stronzo,” mise le cose in chiaro, guardandolo malissimo.

“E adesso?”

“Cerchiamo un albergo... ho bisogno di farmi una doccia.”

“Finalmente te ne sei resa conto.”

Natasha lasciò che un sano e discretissimo cazzotto nello stomaco parlasse per lei.


__________________________________________

Note:
Mi rendo conto di aver barato almeno un po': il terzo membro della squadra è arrivato, ma toccherà aspettare il prossimo capitolo per sapere qualcosa in più sul suo conto. Per chi non lo sapesse, Donald Blake è l'alias "umano" di Thor nei fumetti (ma una citazione c'è anche nel primo film che lo riguarda, con Jane che gli presta una t-shirt che riporta un'etichetta col nome del suo ex, un certo Donald Blake appunto).
Per quanto riguarda Clint e Natasha i rapporti sono in fase di tregua, ma lei è ancora in crisi esistenziale, e pure Clint ha una bella gatta da pelare con la questione della signora Drakov. Riusciranno a convincere Don a seguirli? Lo scopriremo... nella prossima puntata :P
Tanti ringraziamenti alla sclerosocia, come sempre, e a tutti quelli che hanno letto, commentato e sbirciato <3 mi fa sempre piacere sapere che ne pensate! :D
Alla prossima!
S.

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Capitolo 5
*** 5/20 ***


- Capitolo 5 -

 

 

 

“Cheeseburger con patatine, bacon, salsa piccante e jalapeño?” La cameriera fece scorrere lo sguardo sui tre, non molto convinta da quello che doveva sembrarle, a tutti gli effetti, un bizzarro assortimento.

Clint le indicò Donald con un cenno del capo prima di tornare a rivolgere la sua totale, indefessa attenzione al proprio boccale di birra ormai agli sgoccioli. La seguì discretamente con lo sguardo mentre si allontanava per andare a prendere altri ordini ad un tavolo vicino: indossava una striminzita t-shirt nera su cui era cucito il logo del piccolo pub in cui si trovavano, sopra un paio di shorts che a malapena potevano essere definiti dei pantaloni. Clint non aveva la benché minima intenzione di lamentarsi: la serata faceva già abbastanza schifo, tanto valeva rifarsi gli occhi con qualcosa di bello, no? (E che, preferibilmente, non avesse la fastidiosa abitudine di prenderlo a pugni.)

La cameriera sparì sul retro, privandolo dello spettacolo. Fece vagare gli occhi tutt'intorno, sui vari gruppetti di gente assiepata a ciascun tavolo, sul trio di ragazze che avevano occupato il lato libero del locale per mettersi a ballare e attirare così l'attenzione di altrettanti coetanei poco distanti, sul barman che pareva muoversi come al rallentatore... sembrava che l'intera popolazione di Puente Antiguo si fosse data appuntamento in quel posto. Donne, uomini, vecchi, persino qualche bambino a correre tra i tavoli nel disperato tentativo di sfuggire alle grinfie di genitori stressati.

Trattenne a stento un'imprecazione quando si accorse di essere arrivato alla fine della sua birra. Riappoggiò il boccale sul tavolo, scoccando un'occhiata a Donald. A Clint non c'era voluto molto per rendersi conto che il commesso del negozio di elettronica li aveva fottuti: aveva accettato l'invito a cena e aveva mantenuto la parola data. D'altro canto, neppure aveva specificato che avrebbe ripagato cibo e birra degnandoli di una qualche risposta. Era da circa mezz'ora e un paio di hamburger che Donald si ostinava ad un assoluto, totale silenzio, fatta accezione per i saluti di rito a concittadini e conoscenti.

Natasha aveva inutilmente tentato di intavolare una qualche discussione, ma l'uomo si era limitato a ficcarsi una manciata di patatine in bocca, lasciando cadere le inquisizioni della donna nel vuoto. Nonostante l'esasperazione fosse ben visibile sul suo volto, la ragazza non sembrava avere alcuna intenzione di arrendersi.

“Ho abbastanza soldi per altri venticinque cheeseburger,” l'avvertì. “Spero abbiano un po' di bicarbonato da prestarle.” Don le rivolse un placido sorriso a guance piene che però non gli raggiunse gli occhi. A Clint venne da ridere, guadagnandosi così un'occhiataccia della donna.

“Che c'è?” Domandò scocciato. “Sto cominciando a tifare per lui.”

“Dato che gli paghi la cena, mi pare il minimo,” ribatté lei astiosamente.

“Non ho avuto molta scelta.”

Natasha si limitò a far schioccare la lingua, tornando a fissare Donald, forse nella speranza di intimorirlo a tal punto da convincerlo a scucirsi almeno un po'. In ogni caso, sarebbe stata una serata lunghissima e Clint non era un particolare fan dei trucchetti psicologici.

“Ho bisogno di un'altra birra per sostenere questa brillante conversazione,” annunciò, approfittando della ricomparsa della cameriera per rimettersi in piedi e affiancarla al bancone. Non aveva un piano e neppure era sicuro di quali fossero le sue intenzioni: sapeva solo che la lontananza da casa si faceva sentire e che le sue serata al pub a bere birra e fare il coglione con i colleghi e le ragazze di Waverly (per quanto l'assortimento non fosse esattamente dei migliori), nonostante tutto, gli mancavano.

La donna, vassoio vuoto alla mano in attesa che il barman finisse di preparare certi cocktail dall'aria nauseabonda, parve accorgersi delle sue attenzioni, ricambiando il suo sguardo con un sorriso.

“Quindi... siete amici di Don?” Gli chiese, evitando di mantenere troppo a lungo il contatto visivo. Non era molto alta, né esageratamente attraente, ma aveva un bel fisico e lunghi capelli biondi raccolti in una treccia. Senza contare che praticamente qualsiasi cosa avrebbe potuto migliorare la situazione del cazzo in cui Clint era più che consapevole di trovarsi.

“Non proprio.”

“Amici di Jane?”

“Jane...” Scosse il capo, sperando che il barman si desse una mossa con quei dannati Long Island per occuparsi della sua birra.

“L'ex moglie.” Se c'era una cosa che Clint adorava delle cameriere e che aveva imparato sia sul lavoro (non quello ufficiale) sia nelle sue serate al pub, era che a loro piaceva parlare, a maggior ragione se ci si trovava in una località tanto piccola come quella di Puente Antiguo dove tutti sapevano tutto di tutti.

“Problemi in paradiso?” L'apostrofò, sforzandosi di apparire più brillante e sciolto di quanto non fosse in realtà (i primi approcci, che erano quelli che più detestava, gli venivano meglio dopo un paio di birre).

“Piuttosto all'inferno,” lo corresse in tono confidenziale, continuando ad osservarlo come in attesa di un qualche barlume di consapevolezza. Parve contrariata quando le fu chiaro che Clint non aveva la più pallida idea di che cosa stesse parlando. “Davvero non conosci la storia di Don?”

“Sono appena arrivato,” si giustificò, celando a malapena il fastidio. Magari si trattava solo di stupide chiacchiere, ma c'era una qualche possibilità che potesse raccontargli qualcosa di utile, una qualche informazione che avrebbe potuto usare per sbloccare l'afasia dell'uomo... ammesso che gliene importasse qualcosa. Ci tenne a ricordarsi che quella era stata una crociata intrapresa da Natasha e alla quale lui si era accodato per forza di cose: le aveva promesso di accompagnarla, non di aiutarla in nessun modo.

“Era un astro nascente del pugilato,” la cameriera si era appoggiata al bancone con un braccio, sporgendo leggermente il busto in avanti e un fianco all'infuori. L'aveva osservato a lungo, come per decidere se ci si potesse fidare prima di vuotare il sacco. In ogni caso, il gossip aveva avuto la meglio.

“Chi? Don?”

La cameriera annuì, gli occhi scintillanti per la smania di andare avanti. “E' il figlio di un magnate norvegese, non ne hai mai sentito parlare? Suo padre era il capo della A.S.G.A.R.D. Incorporated.”

“Sul serio?” Niente di ciò che stava dicendo gli risultava in qualche modo familiare, ma finse comunque un certo interesse, giusto per vedere dove sarebbe andata a parare. Quel che avrebbe fatto, poi, con quelle informazioni, non aveva grande importanza.

“Sul serio. Avrebbe dovuto prendere il suo posto, essendo il figlio primogenito, ma Don voleva continuare col pugilato. Ha rotto con la famiglia e si è trasferito negli Stati Uniti.”

“Quanto tempo fa?”

“Non lo so, circa cinque anni fa mi pare,” scrollò le spalle: non era di certo il tipo di dettaglio che le interessava. “Si è sposato con Jane e ha continuato a combattere... aveva raggiunto una certa fama.”

“Ora che me lo dici, qualcosa mi è venuto in mente,” mentì spudoratamente, ottenendo però un ampio sorriso soddisfatto da parte della ragazza. Un atleta fallito non doveva faticar molto per essere considerato una celebrità in un paese tanto piccolo.

“Lo sapevo, è impossibile non averne sentito parlare!” Ignorò lo scontroso richiamo da parte del barman che la esortava a tornarsene a lavoro (“Sono con un cliente, Bill, non vedi?”), riportando subito dopo l'attenzione su di lui. “Comunque... è andato tutto bene finché suo padre non è morto. Siccome non comunicava più con la famiglia, Don è venuto a saperlo troppo tardi. Il fratellastro ha ereditato tutto.”

“Cazzo.”

“Già. Ha smantellato la società del padre non appena ne ha avuto la possibilità.”

“Come mai?”

“Rancori mai risolti, immagino. Quando Don l'ha scoperto ha passato davvero un brutto periodo. Ha cominciato a perdere tutti gli incontri e alla fine pure il contratto che aveva col suo preparatore e gli sponsor...”

Clint si accigliò, voltandosi appena verso il tavolo dove Donald stava ancora mangiando sotto lo sguardo impietrito di Natasha.

“... la moglie era una scienziata. Si sono trasferiti qui per qualcosa che aveva a che fare col lavoro di lei. Io non ci capisco niente di fisica, ma era una roba complessa.” Con un brusco gesto mise a tacere l'ennesimo richiamano del barman. “Il matrimonio è andato a rotoli, comunque. Non hanno retto al tracollo di lui. Alla fine Jane se n'è andata e lui è rimasto.” Rilasciò un impercettibile sospiro, fissando i suoi grandi occhi scuri su Clint, come aspettandosi di vederlo condividere la tristezza per le vicende del povero Blake.

“Che situazione del cazzo,” fu tutto quello che riuscì a formulare.

“Già. Adesso le cose sembrano un po' migliorate... ha ripreso a fare qualche lavoretto in città e persino ad uscire un po' la sera. E' un bravo ragazzo, in fondo, quando è di buon umore è persino divertente.”

“Me ne sono... accorto,” l'ennesima bugia, giusto per dire qualcosa.

“E sai qual è la parte migliore?” Senza neanche aspettare una risposta, la ragazza si sporse verso di lui con fare confidenziale. Profumava di bagnoschiuma e... lacca per capelli. “Il suo vero nome è Thor.”

“Thor?”

“Brandy!” La voce del barman, stavolta, non permetteva deroghe.

“Vado, Bill, vado! Tu la pazienza non sai nemmeno dove stia di casa, ah?” Lo rimbrottò lei, inspiegabilmente esasperata dall'insistenza del principale. Clint l'aiutò a sistemare i Long Island e un'acqua tonica sul vassoio, mentre il famigerato Bill gli ripassava il suo boccale di birra, finalmente pieno, sicuramente per esortarlo ad allontanarsi e smetterla di distrarre la cameriera.

“Comunque mi chiamo Brandy,” aggiunse, prima che Clint non avvertisse le dita di lei scivolargli nella tasca anteriore dei jeans. “Stacco a mezzanotte.” Gli fece l'occhiolino e si allontanò con le sue ordinazioni prima che potesse aggiungere altro. Scoprì che gli aveva lasciato un fazzoletto su cui aveva scarabocchiato il suo numero di telefono (se lo stesse tenendo d'occhio da prima o se ne avesse uno sempre pronto all'occorrenza, non riuscì a deciderlo e neanche gli parve rilevante farlo).

Sorrise tra sé, incredulo di tanta fortuna.

 

*

 

Natasha stava cominciando a perdere la pazienza: la consapevolezza di non essere neanche capace di convincere un tizio qualunque a parlare con lei, la faceva sentire fuori luogo, inadeguata. Una parte di lei si era convinta che gli insegnamenti di Ivan, senza la costante e rincuorante presenza del suo mentore, non sarebbero serviti a niente. Dopotutto che cosa aveva combinato da quando aveva lasciato San Paolo? Era riuscita a fuggire, certo, ma si era pure lasciata trovare non una, ma ben due volte. Aveva fatto sfoggio delle sue tecniche di combattimento solo per sedare una rissa prima e per stordire un singolo uomo poi. Infine aveva proposto al suo assassino di aiutarla in un'assurda caccia al tesoro che non prevedeva proprio niente di buono, promettendogli che si sarebbe fatta ammazzare di lì ad una settimana. Non era ancora del tutto certa che gliel'avrebbe lasciato fare, ma più andava avanti, più comprendeva di non essere tagliata per quel genere di vita, più la convinzione di non essere altro che un'incompetente senza legami né sicurezze scendeva su di lei, opprimendole il petto.

Se non fosse riuscita a sbloccare quella situazione al più presto, non solo non avrebbe mai scoperto chi diavolo fosse sulle sue tracce, ma neanche avrebbe convinto Clint a continuare quel viaggio improbabile. Sollevò lo sguardo verso il fondo del pub dove l'uomo sembrava impegnato in una fitta conversazione con la cameriera che li aveva serviti. La distanza tra i due era irrisoria: entrambi appoggiati con un gomito al bancone, lei in una posa che valeva più di mille parole, lui leggermente sbilanciato in avanti, come ad avvolgerla con la sua presenza e ribadire il proprio interesse.

Tornò bruscamente su Donald che, d'altro canto, pareva avere occhi solo per il suo secondo cheeseburger.

“Non voglio infilarti nei casini,” riprese a parlare neanche lei sapeva bene perché, tentando di suonare meno formale. “Voglio solo sapere chi ci sta cercando.”

L'uomo non si degnò neppure di guardarla, infilandosi il pollice sporco di ketchup in bocca prima di addentare quel che restava del suo panino. Fu costretta a trattenersi per non tirargli un calcio sotto al tavolo.

Clint riprese il suo posto sulla panca accanto a lei un attimo dopo, un sorriso insopportabile sul volto (il primo che gli avesse mai visto addosso da quando l'aveva conosciuto). Suppose che l'approccio con la cameriera fosse andato alla grande, ma non riuscì ad essere felice per lui. Ostentò un ragionevole disinteresse, senza avere alcuna voglia di mettersi a pensare a come e perché le avesse dato fastidio. Anzi, lo sapeva già perché: avevano intrapreso quel viaggio con un intento ben preciso, che di sicuro non prevedeva sbattersi cameriere in paesini sperduti nel deserto.

“Thor, ah?” Dopo un lunghissimo attimo di assoluto silenzio, Clint si era finalmente deciso a parlare. Natasha fece per voltarsi verso di lui, chiedergli di che diavolo stesse parlando, ma la brusca reazione di Donald catalizzò tutta la sua attenzione: aveva smesso di masticare, lasciando cadere nel piatto la patatina che stava per azzannare. Lo vide afferrare il tovagliolo sporco, svuotare il suo boccale di birra e pulirsi la bocca in rapida sequenza. Si sarebbe sicuramente alzato e allontanato se Natasha non avesse assecondato l'istinto: gli piantò un piede tra le gambe, facendo pressione sul cavallo dei suoi pantaloni.

“Vattene e giuro che ti dimenticherai anche di averne avuto uno,” lo minacciò.

Donald si immobilizzò sul posto, ma più che preoccupato sembrava... divertito. Scoppiò in una fragorosa risata in cui Natasha non stentò a riconoscere una non trascurabile rabbia repressa.

“Avete intenzione di tenermi inchiodato qui fino... a quando?”

“Finché sarà necessario,” decretò in tono pratico prima di voltarsi verso Clint. “Chi diavolo è Thor?”

L'uomo le rivolse un'occhiata sfuggente prima di spostarsi su Donald, il quale lo stava osservando intensamente, i tratti del volto irrigiditi, le mani chiuse a pugno sul tavolo, le nocche bianchissime. Sembrava volesse avvertirlo di scegliere per bene le parole, a meno che non avesse voluto pagarne le conseguenze.

“E' il suo vero nome,” stabilì infine, “giusto Don?” Chiese conferma, ricevendo in risposta solo un basso ringhio di disapprovazione.

“Si chiama Thor. E questo come ci aiuta, di grazia?” Ribatté, senza riuscire a capire dove diavolo Clint volesse andare a parare: Thor era sicuramente un nome più particolare di Donald. Magari aveva voluto confondersi tra la folla, evitare che qualcuno lo trovasse.

“Il nome? A niente,” ribatté Clint, improvvisamente sulla difensiva. “Ma era un pugile.”

Natasha fece mente locale: doveva esserci un criterio dietro la distribuzione di quei pacchi, un filo rosso che li legava gli uni agli altri sebbene il collegamento non fosse poi così immediato.

“Credo che qualcuno voglia offrirci un lavoro,” l'uomo ribadì, arrivando alla medesima conclusione che Natasha non aveva fatto in tempo a formulare.

“Che genere di lavoro?” Intervenne Thor, improvvisamente più interessato che incazzato.

“Un lavoro illegale,” precisò.

“Chi cazzo siete voi due, si può sapere?” Fece scorrere lo sguardo da lei a Clint e ritorno.

“Tu che ne dici?” Domandò Natasha.

“Non voglio avere niente a che fare con voi. Rigo dritto, adesso, non è come pri-”

“Se siamo qui è perché abbiamo fatto tutti qualcosa di illegale,” stabilì l'uomo al suo fianco. “Scommetto che non sei venuto a Puente Antiguo solo per seguire tua moglie.” Natasha capì che la conversazione con la cameriera non era stata poi una gran perdita di tempo.

“Tu non sai un cazzo di me,” puntualizzò rabbiosamente Thor, sporgendosi verso di lui con aria minacciosa.

“So quanto basta. Qualcuno conosce il tuo passato... chi ti dice che non torneranno a romperti le palle?”

“Ci siete voi due a rompermi le palle.”

“Siamo nella tua stessa situazione. Abbiamo ricevuto quel cazzo di pacco e vogliamo sapere di che diavolo si tratta. Non ti preoccupa il pensiero che qualcuno sia in grado di trovarci in qualsiasi momento?” La placida furia con cui Clint gli stava illustrando la situazione, il tono pratico con cui esponeva i fatti, la sorprese: era più che convinta che non l'avrebbe aiutata neanche sotto tortura.

Thor si zittì, passandosi una mano sulle guance ispide di barba, evidentemente indeciso.

“Sapevamo dove trovarti perché qualcuno mi ha mandato il tuo indirizzo,” sottolineò ancora una volta. “Se ci rifiutassimo, non sappiamo quali sarebbero le conseguenze.”

“Potrebbero tornare a ricattarti,” intervenne Natasha, capendo che sia il momento che la tattica erano propizi. “Se sanno dove vivevi, sanno anche che eri sposato.”

“Questo che cazzo c'entra?” La menzione della moglie non gli aveva fatto particolarmente piacere.

“Niente,” replicò elusivamente. “Solo che potremmo avere a che fare con gente potente che potrebbe non prendere bene un rifiuto... e usare altri mezzi di persuasione.”

“Mi state minacciando?” Natasha intuì che stava facendo un'immensa fatica a moderare il tono di voce.

“No. Ascolta...,” ritrasse il piede, rimettendosi seduta più compostamente. “Non ti stiamo chiedendo di venire con noi. Dacci quello che ti hanno mandato e ce ne andiamo.”

Thor le scoccò un'occhiata tutt'altro che convinta prima di voltarsi verso Clint, il quale si limitò a fargli cenno di procedere.

“E sia.” La concessione gli uscì più come un basso grugnito rabbioso che come una resa. Natasha lo osservò attentamente, pronta ad entrare in azione se l'uomo avesse tentato di fuggire prima di aver consegnato loro ciò che volevano. Lo vide cercare nelle tasche dei pantaloni neri della divisa che aveva ancora indosso, prima di rovesciare sul tavolo una manciata di cianfrusaglie: scontrini, l'involucro variopinto di una Pop-Tart, foglietti vari, un portachiavi a forma di martello...

“Una cartina inutile, un nome senza indirizzo, una chiave inutile,” elencò in tono ostile. “Contenti?”

Natasha dispiegò la pallina di carta che Thor aveva fatto del frammento di mappa, ispezionandone il retro finché non ebbe trovato quello che si aspettava, un numero due a malapena visibile. Lo mostrò a Clint, che aveva ripreso ad ostentare il più totale disinteresse per l'intera faccenda.

“Sei il secondo,” ragionò Natasha. “Sei tu quello che doveva trovarmi.” Il biglietto su cui era riportato il suo nome – il suo vero nome – non lasciava adito a dubbi.

“Credevo ti chiamassi Natalie Rushman,” ribatté Thor, ormai più che deciso ad andarsene il più rapidamente possibile.

“Natasha Romanoff,” lo corresse.

“Chiunque ci stia cercando, non voglio averci niente a che fare,” decretò in tono incontrovertibile.

“Fa' come ti pare,” lo liquidò lei, tirando fuori dallo zaino che aveva con sé la busta di carta dove aveva raccolto il contenuto degli altri due pacchi. “Ce ne andiamo prima dell'alba,” aggiunse in direzione di Clint.

“Prima ve ne andate e meglio è,” convenne Thor, rimettendosi finalmente in piedi sovrastandoli con tutta la sua altezza. Natasha doveva ammettere che, in circostanze avverse, non avrebbe mai voluto trovarselo davanti.

“Buona serata anche a te,” la voce di Clint, carica di sarcasmo, seguì l'uscita di scena dell'uomo, che non li degnò neppure di un saluto (non che Natasha se ne aspettasse uno).

“Ci conviene andare a dormire,” riprese lei, contando i soldi per pagare il conto.

“Io resto: ho voglia di un'altra birra.”

O di una cameriera. “Come preferisci.”

 

*

 

La luce dell'alba penetrò attraverso le tapparelle abbassate, dando a Natasha un'immediata sensazione di sollievo. L'ennesima stanza di motel, ma almeno più pulita del solito. Rimase immobile sul letto, aspettando che i raggi luminosi lo raggiungessero prima di scendere dal materasso, sgranchirsi le braccia e concedersi una doccia rapida.

La notte le era parsa lunghissima e tormentata: prima c'erano stati i gemiti e i sospiri dalla camera adiacente, quella occupata da Clint e – Natasha sospettava – dalla cameriera che doveva aver rimorchiato al pub. Si era sforzata di ignorarli, ma più andavano avanti, più le risultava impossibile non immaginarsi la scena: si era sempre chiesta com'è che quel genere di cose accadessero, nel mondo reale. Quello in cui non c'è nessuno ad indicarti chi devi sedurre, in quanto tempo e in che luogo, quello dove le cose si susseguono spontaneamente e il piacere è fine a se stesso.

Si era domandata che cosa piacesse ad uno come Clint, passando mentalmente in rassegna il repertorio delle tecniche che aveva imparato, sul campo e grazie ad Ivan, scegliendo quelle che le sembrava gli si addicessero di più. Il filo dei suoi pensieri l'aveva infine condotta in territori pericolosi: dopo essersi ritrovata con una mano affondata tra le cosce, il respiro irregolare, la fronte imperlata di sudore e il desiderio insoddisfatto ad arroventarle il basso ventre, aveva deciso di pensare ad altro, svuotare la mente.

Con il sonno, però, erano arrivati anche gli incubi. Si era svegliata almeno un paio di volte, il cuore a mille e la netta, sconcertante sensazione di poter percepire la presenza di Ivan a pochissimi passi di distanza. Aveva alternato quel torpore popolato di mostri, ad un'insonnia carica d'ansia. L'alba era finalmente giunta a liberarla dall'obbligo di dover almeno tentare un riposo e di questo gliene era grata.

Finì di lavarsi e di rivestirsi con gli abiti puliti che aveva acquistato in città il pomeriggio precedente, un paio di jeans scuri e una canottiera nera a spalline larghe. Gli stivali continuavano ad essere ridotti in pessime condizioni, ma si sarebbe dovuta accontentare almeno fino alla prossima tappa. Infilò tutte le cose che aveva nello zaino e uscì finalmente a godersi l'aria pungente del primo mattino: nel giro di un'ora al massimo, l'afa sarebbe sicuramente tornata ad opprimerla. La pelle delle spalle ancora le bruciava per la prolungata esposizione al sole.

Richiuse la porta, soffermandosi davanti a quella della stanza accanto. Bussò un paio di volte, senza ottenere alcuna risposta. Dopo una rapida sbirciatina attraverso le finestre chiuse, tirò fuori un paio di pinzette, cominciando ad armeggiare con la serratura finché non la sentì scattare e aprirsi.

Spalancò la porta, immediatamente investita dall'odore di birra, fumo e sesso. Mosse un passo all'interno della camera, calciando per sbaglio una lattina vuota che rotolò un paio di metri più avanti. Il rumore parve sufficiente a svegliare Clint, riverso a pancia in giù sul letto, il volto affondato nel cuscino, il lenzuolo a coprigli solo parte delle gambe. Rannicchiata sul lato opposto del letto, dormiva la cameriera: Natasha riconobbe i succinti pezzi della sua divisa abbandonati sul pavimento.

Restò per un istante ad osservare la scena, sentendo il fastidio subentrare alla sensazione incomprensibile che l'aveva invasa la notte precedente. La rabbia prese il sopravvento, convincendola infine a fare irruzione nella stanza, recuperare i vestiti di Clint e lanciarglieli addosso.

“Datti una mossa, partiamo tra cinque minuti.”

“E-Eh?” L'uomo le lanciò uno sguardo ancora carico di sonno ed incoscienza.

“Ho detto di darti una mossa. Partiamo tra cinque minuti,” ribadì. “O sei diventato sordo anche dall'altra parte?” L'insinuazione ebbe l'effetto di farlo scattare seduto sul letto, completamente nudo, un'espressione perplessa sul volto e quello che aveva l'aria di essere un gran mal di testa a deformargli il volto. A lungo andare, anche lui aveva finito per abbronzarsi (non che lei fosse riuscita a prendere altro colore che non fosse un malsano rosso aragosta).

“Come c-cazzo fai aaaa...,” uno sbadiglio lo interruppe, “... a sapere che sono mezzo sordo?”

“Vestiti,” insisté lei, aiutandolo a riunire tutti i suoi effetti personali prima di uscire dalla stanza e dirigersi a passo spedito verso la reception. Pagò per entrambe le camere coi soldi che non gli aveva ancora restituito (cosa che per altro non aveva alcuna intenzione di fare), affrettandosi in direzione del furgone parcheggiato all'esterno del comprensorio. L'uomo la raggiunse una decina di minuti dopo, quando aveva già acceso il motore e aperto la portiera del passeggero per velocizzare le manovre.

“Che cazzo, 'Tasha, sono solo le cinque del mattino,” protestò svogliatamente, prendendo posto accanto a lei. Aveva gli occhi ancora chiusi dal sonno, la sacca che conteneva il suo arco poggiata sulle gambe.

“Ti avevo detto che saremmo partiti all'alba e il nome è Natasha.”

“Possiamo almeno fermarci a prendere un caffè?”

“No,” ingranò la prima, seguendo le indicazioni per uscire da Puente Antiguo una volta per tutte (dubitava vivamente che ci sarebbe mai ritornata in vita sua).

“Oh, andiamo! Non farà di certo una gran differenza!”

“Alla prossima sosta, va bene?” Concesse con aria esasperata.

“Devo anche pisciare.”

“Non potevi farlo prima di uscire?”

“Ho avuto un problema tecnico, va bene?”

“Che razza di problema...,” si bloccò a metà frase, intuendo in qualche modo la sua risposta. “No, non lo voglio sapere,” si corresse.

“Capita a tutti...”

“Ti ho detto che non mi interessa.”

“... lo sapresti se ogni tanto ti concedessi qualche svago.”

“Che ne sai tu di quello che mi concedo o non mi concedo?”

“Ti si legge su tutta la faccia.”

“Potrei farti gridare come un dannato maiale sgozzato senza neppure toccarti, lo sai questo?” Se di dolore o di piacere, questo evitò volutamente di specificarlo. Si voltò verso di lui, rivolgendogli l'occhiata più penetrante di cui fu capace: le parve sul punto di replicare, ma lo sguardo doveva averlo convinto abbastanza da farlo infine desistere.

Il silenzio invase l'abitacolo, infranto solamente dal rumore degli oggetti che si spostavano sul retro ad ogni curva e dagli sbadigli continui dell'uomo.

“Quello non è Thor?” Clint le stava indicando una figura immobile in fondo alla strada – più che altro un puntino indistinto in prossimità del cartello che augurava a chi usciva da Puente Antiguo un ottimo viaggio e un pronto ritorno – fin troppo lontana perché potesse distinguerne i tratti.

“Come fai a vederlo?”

“Vedo meglio da lontano.”

“Sei presbite?”

“No, ateo,” replicò seriosamente.

“Stronzo.”

“Anche quello.”

Solo quando furono sufficientemente vicini, Natasha poté constatare che sì, si trattava proprio di Thor: un borsone caricato su una spalla, i capelli sciolti e ancora umidi ad incorniciargli il viso. Rallentò progressivamente l'andatura fino a fermarsi del tutto, senza però spegnere il motore.

“Cambiato idea?” Clint si sporse dal finestrino, rivolgendogli un rapido cenno di saluto.

“Potrei farlo di nuovo,” li avvertì Thor, un'espressione tutt'altro che allegra sul volto, gli occhi pesantemente cerchiati di nero: non ci voleva molto a capire che doveva essere rimasto sveglio tutta la notte a pensare. Alla fine le chiacchiere sulle possibili rappresaglie di chiunque li stesse cercando, dovevano aver avuto la meglio. Il fatto, poi, che né lei né Clint si fossero lasciati impressionare da quella prospettiva, stava solo a significarle che nessuno dei due aveva niente da perdere o parenti da compromettere.

“Sali sul retro,” lo invitò Natasha, aspettando che la portiera scorrevole si fosse richiusa prima di ripartire.

Mentre Thor prendeva posto sul materasso sul retro, si lasciarono Puente Antiguo alle spalle.


__________________________________________

Note:
E quindi abbiamo incontrato Donald... o meglio: la cameriera ci ha permesso di incontrare Donald. Come preannunciato ho ridotto il soprannaturale al minimo: quindi Thor non è più un asgardiano, ma "solo" il figlio di un ricco industriale norvegese che ha deciso di deviare dal percorso voluto per lui dalla famiglia, per tentare la fortuna negli States. Le cose non sono andate molto bene e per il nostro Thor non è stato tutto rose e fiori.
Nonostante Natasha stia navigando nella confusione più totale, non proprio preparata a gestire il mondo da sola, è straordinariamente riuscita a convincere non il primo, ma il secondo Vendicatore a seguirla! Clint, come sempre, dà di matto e gli ormoni non aiutano nessuno dei due a rimanere concentrati. (Sennò che gusto c'è?)
Nel prossimo capitolo daremo i primi indizi e ci avvicineremo al quarto Vendicatore... scommesse?
Ancora tanti ringraziamenti alla sclerosocia e a chiunque legga e commenti la storia :')
Alla prossima!

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Capitolo 6
*** 6/20 ***


- Capitolo 6 -

 

 

 

 

8 ore dopo

da qualche parte in Texas

 

Il furgone si arrestò con un brusco contraccolpo. Clint, che stava disperatamente tentando di recuperare almeno un paio d'ore di sonno sul materasso nel retro, venne sbalzato contro lo schienale del sedile anteriore, strappato definitivamente dal fragile torpore che era riuscito ad invocare con tanta fatica.

“M-Merda!” Imprecò, raddrizzandosi rapidamente. “Mi spieghi chi diavolo ti ha insegnato a guidare?”

Natasha, seduta al posto di guida, non si voltò neppure per prenderlo in considerazione: si limitò a stringere maggiormente il volante tra le mani e a fissare il parabrezza con aria contrariata. Clint seguì istintivamente lo sguardo della donna, sgranando gli occhi in un'espressione inorridita quando si accorse del fumo che fuoriusciva dalla carrozzeria.

“Cazzo.” Si affrettò ad uscire dal retro, inanellando un'imprecazione dopo l'altra finché non ebbe aggirato il furgone. Una nuvola di vapore e fumo lo investì non appena ebbe aperto il coperchio del cofano: fu costretto ad indietreggiare di svariati passi, tossendo rumorosamente. Solo quando la nebbia si fu sufficientemente diradata, si riavvicinò al mezzo per constatarne i danni.

Il silenzio sarebbe stato pressoché totale se non fosse stato per le auto che andavano e venivano nei due sensi di percorrenza: la strada si snodava infinita davanti e dietro di loro, col deserto e la poca vegetazione brulla ad interrompersi proprio laddove finiva l'asfalto. Il sole del primo pomeriggio era alto nel cielo e il sudore, fidato compagno degli ultimi giorni, arrivò prontamente ad imperlargli la fronte.

“Ci capisci qualcosa o stai solo aspettando una qualche ispirazione?” Natasha si era sporta dal finestrino, rivolgendole uno di quei suoi sguardi irritati e perplessi che lo mandavano su di giri.

“Sto aspettando che il motore si freddi,” replicò in tono altrettanto insopportabile, ignorando le occhiate che Thor stava lanciando alternativamente all'uno e all'altra.

La donna trattenne lo sguardo su di lui ancora per qualche istante prima di decidersi a lasciar andare il volante e abbandonarsi contro la fodera lisa e scucita del sedile, sollevando le braccia sopra la testa per sgranchirsi le spalle. La osservò di sottecchi mentre arcuava la schiena e sporgeva in avanti il petto, come ipnotizzato. Fu il rumore della portiera che si richiudeva a farlo trasalire, richiamandolo all'attenzione.

Thor l'aveva affiancato, i capelli lunghi tirati all'indietro, le braccia gonfie strizzate in una t-shirt che aveva l'aria di stargli un po' troppo piccola.

“Te ne intendi?” Gli domandò, stringendo gli occhi per ripararsi in qualche modo dalla luce abbacinante in cui erano immersi.

“Abbastanza,” confermò Clint. “Dev'essere un problema di surriscaldamento.”

“Puoi ripararlo?”

Annuì, testando il calore con un dito prima di decidersi a trafficare con le varie parti. “C'è una cassetta degli attrezzi sul retro.” Thor non se lo fece ripetere due volte: andò e tornò in pochi attimi.

“Credi che riuscirà a portarci fino in Louisiana?”

“Non lo so,” ammise, esaminando gli utensili a disposizione: non molti e decisamente non quelli più adatti.

Natasha, che aveva allungato i piedi sopra al cruscotto, non sembrava intenzionata a perdersi nemmeno una parola di quella conversazione: gli sembrava di potersi sentire i suoi penetranti occhi addosso.

“Forse dovremmo toglierci dalla strada,” mormorò l'altro, sovrappensiero. “Stiamo ingombrando la carreggiata.”

Con un furgone rubato, tra l'altro. Clint non era affatto sicuro che restare fermi in bella mostra, a disposizione di infiniti sguardi indiscreti, fosse una buona idea.

“Che suggerisci di fare? A spinta?”

L'uomo si strinse nelle spalle, come se per lui non fosse affatto un problema.

“Scommetto che sposti un sacco di camion nel tuo tempo libero.”

Riuscì a strappargli una risata che gli illuminò tutto il viso. Clint non era esattamente uno a cui piacesse osservare la gente per carpirne ogni più intimo segreto, ma di una cosa si era accorto: la tristezza non era la condizione che più s'addiceva al suo imponente compagno di viaggio. Tutte le volte che accennava un sorriso sembrava doversi trattenere per non lasciarsi trasportare. Come se ci tenesse a ricordarsi, ogni santa volta, che non aveva proprio alcun motivo per essere anche solo momentaneamente felice, che la sua vita era una merda e lui con lei.

Lo seguì con lo sguardo mentre si dirigeva sul retro. Dopo un'ultima occhiata al motore, batté una mano sulla portiera di Natasha.

“Dobbiamo accostare,” fece una smorfia al modo in cui si era sistemata. “E togli i piedi da lì.”

La sentì sbuffare mentre si allontanava, raggiungendo Thor, già in posizione sul retro. “Al tre,” avvertì la ragazza che stava provvedendo a girare le ruote. “Uno, due... tre!”

Sotto la spinta dei due, il furgone oscillò lentamente verso il lato della strada, sbandando leggermente oltre il limite dell'asfalto prima di fermarsi del tutto.

Le note stonate della suoneria di un cellulare riempirono l'aria un attimo dopo: Clint riconobbe il rumore infernale del suo prepagato, affrettandosi ad andarlo a recuperare nella sacca abbandonata tra le cianfrusaglie del retro. Erano già passate quarantotto ore? Fece un rapido calcolo mentale mentre si allontanava a grandi passi dal furgone per ottenere almeno un po' di privacy.

Lo lasciò squillare per un po' prima di decidersi a rispondere.

“Pronto?”

“Allora?” La voce gelida della donna ebbe il potere di metterlo a disagio, il che era stupido, considerata la distanza che li separava.

“Ci sto ancora lavorando.”

Il silenzio dall'altro capo della cornetta si estese fin troppo a lungo: Clint era convinto di poter sentire il respiro accelerato della signora Drakov, la rabbia mal repressa che faticava a trattenere. Non dubitava che, prima o poi, i suoi nervi avrebbero ceduto e il peso del lutto l'avrebbe fatta uscire di testa.

“Aveva detto che ci avrebbe messo meno di quarantotto ore.”

“Mi sbagliavo. La donna è rapida e astuta...”

“L'avevo avvertita.”

“Lo so. Ma non potevo saperlo senza prima testarlo con mano.”

“Se non è in grado di portare a ter-”

“Sono perfettamente in grado. Mi dia solo più tempo,” indurì il tono di voce, determinato a non farsi prendere a pesci in faccia. Non era la puttana di nessuno, era stata lei a cercarlo per risolverle quello stupido problema e, nonostante il lauto compenso che l'aspettava, proprio niente lo obbligava a farsi trattare come un incompetente qualunque. “Dopotutto non avevamo stabilito una scadenza, no? Vuole Black Widow morta e l'avrà.”

Riuscì a figurarsela mentre si irrigidiva per l'irritazione e lo mandava mentalmente al diavolo in rapida sequenza.

“Non si prenda gioco di me, signor Hawkeye.” Quando riprese a parlare, il tono basso e implacabile che gli rivolse ebbe il potere di fargli gelare il sangue nelle vene. “Porti a termine il lavoro e non pensi di potermi ingannare.”

“Non ho affatto intenzione di ingannarla.”

“Lo spero per lei.” Il modo in cui pronunciò quelle ultime parole, gli fece capire che non stava affatto scherzando. Si morse il labbro inferiore, trattenendo inconsapevolmente il respiro. Si rese improvvisamente conto di aver commesso un altro, madornale errore: non aveva la più pallida idea di chi fosse, esattamente, Elizaveta Drakov. Sapeva che Natasha aveva ucciso sua figlia per vendicarsi del marito, ma... del perché ce ne fosse stato il bisogno, tanto per cominciare, quello non se l'era mai chiesto. La donna gli era sembrata inoffensiva: una ricca annoiata che non riusciva a superare il dolore per la perdita della figlia. Ma adesso, la possibilità che si trattasse di una criminale fatta e finita, una che per di più aveva a disposizione fondi illimitati, gli si palesò finalmente davanti agli occhi in tutta la sua inquietante fisionomia.

Soffocò un sospiro, coprendosi gli occhi con una mano: possibile che il pensiero di quei due milioni di dollari l'avesse accecato a tal punto? Possibile che nonostante tutti i suoi buoni propositi, tutte quelle ciniche regole di vita che si era imposto pur di sopravvivere, si fossero sfaldate come neve al sole davanti alla semplice promessa di tutti quei soldi?

“Ci risentiamo tra quarantotto ore.” Fu la donna a spezzare l'ennesima, lunga pausa.

“Quarantotto ore,” convenne Clint prima di interrompere la comunicazione.

Lo stomaco gli si era aggrovigliato su se stesso. Qualcosa gli diceva che, allo scadere di quei due giorni seguenti, guadagnare altro tempo sarebbe stato praticamente impossibile. Restò immobile per qualche istante, lasciando che il suo sguardo si perdesse oltre l'ondeggiante linea dell'orizzonte, smerigliata dal calore rilasciato dall'asfalto. Si concesse ancora un paio di secondi prima di tornare indietro.

 

*

 

Lo sfregare della spalla ustionata contro il metallo ancora caldo della portiera la costrinse a svegliarsi con un vago gemito di stizza. Il cuore le batteva rapidamente, il principio di un attacco di panico bloccato da qualche parte all'altezza del petto. Tentò di allontanare il pensiero di Ivan il più velocemente possibile, concentrandosi sui primi oggetti concreti su cui riuscì a posare lo sguardo ancora assonnato. Aveva imparato a dormire per terra, in poltrona, in treno, in aereo, persino all'aria aperta senza il conforto del benché minimo riparo: quella non era di certo la situazione più scomoda in cui si fosse mai venuta a trovare. Eppure il sonno arrivava sempre faticosamente e mai troppo a lungo. Le sembrava, quasi, che il volto di Ivan fosse costantemente in agguato dietro la sue palpebre, in attesa del prossimo momento propizio in cui uscire allo scoperto per tormentarla.

I suoi occhi non impiegarono molto ad abituarsi all'oscurità circostante: i fasci gialli dei fari illuminavano strette porzioni di strada e, in alto, il cielo affollato di stelle offriva l'unico, vero spettacolo degno di nota che il deserto le avesse concesso in quei giorni.

Si sistemò meglio contro lo zaino appallottolato che stava usando a mo' di cuscino, cercando una posizione più comoda.

Solo allora prese atto della presenza di Clint al posto di guida, lo sguardo concentrato, il sonno ad appesantirgli gli occhi. Thor, che riposava nel retro, sembrava essere l'unico in grado di lasciarsi conquistare dalle braccia di Morfeo anche in circostanze tanto scomode. Ci avevano messo circa un'ora a rimettere in sesto il furgone: erano ripartiti subito dopo, facendo solo qualche sporadica sosta per bere, mangiare e andare in bagno.

“Dove siamo?” Domandò in un soffio, tornando a rivolgersi all'uomo al suo fianco.

“Ancora un paio d'ore e saremo in Louisiana.” La sua voce le sembrò più bassa del solito. Più calda, forse.

“Vuoi che ti dia il cambio?”

“No. Ce la faccio.”

“Non sembrerebbe.”

“Sono sveglio, ti dico,” insisté, troppo stanco per metterci tutta l'irritazione alla quale si era ormai abbondantemente abituata.

“Come vuoi.” Sbuffò qualcosa, rannicchiandosi di nuovo contro la portiera.

“Incubi?”

Le parole di Clint la costrinsero a prestargli di nuovo attenzione. Nonostante la stanchezza sentì comunque il calore dell'imbarazzo risalirle su per le guance.

“Ho detto qualcosa?” Le ci vollero un paio di secondi prima di decidersi a chiederglielo: temeva che la risposta non le sarebbe piaciuta affatto.

“Sì, ma...” scosse il capo, scoccandole una rapida occhiata. “... in una lingua che non conosco. Immagino sia russo.”

Natasha annuì lentamente, rimettendosi dritta contro la parete del'abitacolo per poterlo guardare meglio, studiare il suo profilo scuro stagliato contro il cielo buio oltre il finestrino.

“Di dov'è che sei di preciso?”

“Volgograd.”

Sembrò riflettere per qualche istante per poi decretare che no, non aveva la più pallida idea di dove si trovasse.

“Era la vecchia Stalingrado,” suggerì a mezza voce, neanche lei sapeva bene perché. Il silenzio si prolungò tanto che Natasha fu piuttosto certa che la conversazione si fosse conclusa... finché Clint non riprese a parlare.

“Non c'era nessun indirizzo insieme al tuo nome,” constatò. Un'affermazione più che una domanda.

“Non sono mai rimasta nello stesso posto troppo a lungo.” Come i loro misteriosi e presunti datori di lavoro si aspettassero che Thor riuscisse a trovarla, quello non l'aveva ancora capito. Ma d'altro canto, se avessero seguito l'ordine impartito dai pacchi che avevano ricevuto, l'ex pugile non sarebbe stato solo nella ricerca: se Clint l'aveva trovata autonomamente, avrebbe potuto rifarlo anche in compagnia di Thor.

“Non abiti da nessuna parte?” Il concetto non pareva risuonargli granché sensato.

“No.”

“La scuola? Neppure quella hai mai frequentato?”

Natasha si strinse nelle spalle. “Studiavo a casa con mio padre.” Fisica, geografia, matematica, scienze... Ivan non aveva lasciato niente al caso per quanto concerneva la sua educazione. Quand'era stata troppo piccola per occuparsi di altro che piccoli furti, la maggior parte del tempo che avevano trascorso insieme, da un capo all'altro del mondo, era stato speso in lezioni, sia teoriche che sul campo. Non aveva mai avuto un libro di testo, eppure non si era mai sentita stupida o ignorante. Per quanto riguardava le lingue, poi, quelle le aveva imparate per pura necessità e a seconda delle mete scelte da suo padre.

Rieccolo, il pensiero di Ivan. Che Natasha lo volesse oppure no, era ancora capace di insinuarsi nella sua testa, controllarla a distanza anche adesso che non c'era più. Imporsi nelle sue azioni, modificare la sua volontà, farla agire di conseguenza...

“Non credevo avessi un padre.”

“Tutti hanno un padre,” obiettò.

“Lo so, non...” scosse il capo, infastidito. “Lascia perdere.”

Tornò ad occhieggiare la strada, sforzandosi di concentrarsi su altro, una qualsiasi idea che non avesse a che fare col padre putativo. Ma quale che fosse lo stupido dettaglio su cui focalizzava la sua attenzione, finiva sempre per tornare al medesimo punto di partenza.

“E' morto da poco,” si ritrovò a dire, malcelando l'urgenza che la stava crescendo nello stomaco.

Clint le lanciò un'occhiata sospetta e insieme vagamente allarmata.

“Mi... dispiace. Suppongo.” Faticò a risponderle. Natasha riusciva a percepire nettamente l'incertezza nel suo tono di voce: era bastata un'informazione personale scambiata in modo apparentemente disinteressato per metterlo all'erta. “Malattia?”

La domanda di Clint non era altro che un misero tentativo di estenderle una riluttante cortesia: quasi non avesse voluto lasciar cadere la conversazione nel niente dopo che lei gli aveva inspiegabilmente parlato di suo padre. Ma, Natasha si rese conto, non aveva aspettato altro che quello in tutti quei giorni che erano trascorsi dalla sua fuga da San Paolo: solo che qualcuno le desse una scusa per parlare di suo padre, per confessare il suo peccato, dargli voce e forma, renderlo cosa fisica così da permetterle di affrontarlo come faceva con le sue vittime designate.

“L'ho ucciso.”

Studiò attentamente la sua espressione finché non lo vide... sorridere. Per poi sbuffare una risata incredula.

“L'hai ucciso,” ribadì, come per assicurarsi di aver capito bene.

La situazione era a dir poco assurda, ma Natasha se ne sentì contagiata: prima che potessero rendersene conto si erano messi tutti e due a ridere sommessamente, quasi si fossero appena raccontati la barzelletta del secolo.

“Perché stai ridendo?”

“Anche tu stai ridendo.”

“Hai cominciato tu.”

“No... no hai ragione,” ammise, tentando di placarsi. “Scusa.” Natasha scrollò le spalle come a dirgli che non aveva alcuna importanza. “Quanto tempo fa?”

“Una settimana.” Gli ultimi giorni erano trascorsi tanto rapidamente e confusamente, da impedirle di fare un calcolo preciso. C'erano stati dei minuti che le erano parsi lunghi ore, interi pomeriggi che invece erano scomparsi in un battito di ciglia. Era stato un sogno, un incubo. Anche in quell'istante i contorni della realtà le apparivano sfocati. Aveva davvero intrapreso un viaggio senza senso attraverso gli Stati Uniti per smascherare chiunque li avesse contattati? Se riavvolgeva il nastro dei suoi ricordi fino a poche settimane prima, ritrovava Ivan, la loro vita sradicata, le pianificazioni dei vari compiti, la minaccia del siero che riusciva a farle dimenticare chi fosse e cose fosse solita fare, gli allenamenti, le prove, i test... sentì l'ilarità immotivata scemarle via dal viso, evaporare per lasciare spazio al sordo rumore della propria coscienza.

“Perché?” Clint si era rifatto serio tanto quanto lei.

“Non lo so.”

“Ci sono un sacco di cose che non sai.”

“Dovevo farlo,” si corresse. Aveva formulato tante di quelle giustificazioni, una più improbabile dell'altra; aveva portato avanti lunghe ed estenuanti conversazioni con se stessa, con il fantasma di Ivan che abitava nella sua testa... eppure, adesso, non si sentiva più sicura di niente.

“Anch'io avrei volentieri ucciso mio padre.” Natasha si accigliò, fissandolo attentamente per tentare di capire le sue intenzioni.

“L'hai fatto?”

“Non ce n'è stato bisogno,” si voltò verso di lei, un mesto sorriso sul volto. “Incidente stradale.”

“Ma se l'avessi fatto... ti saresti sentito in colpa?”

“Certo.” Non sembrava avesse avuto bisogno di riflettere, prima di rispondere.

“Quindi non l'avresti fatto?”

“Non lo so.”

“Credevo che tu sapessi tutto,” gli fece notare, senza traccia d'astio nella voce.

“Io non so un cazzo,” decretò in tono definitivo. “Dico solo che arrivi ad un certo punto in cui... devi fare qualcosa di imperdonabile, se vuoi continuare a vivere.” (*)

Natasha soppesò attentamente le sue parole: nonostante non fosse affatto sicura di averne capito a pieno il senso, c'era qualcosa che le faceva suonare straordinariamente... vere.

“Dormi,” suggerì Clint. “Domani sarà un lungo giorno.”

 

*

 

12 ore dopo

Lafayette, Louisiana

 

 

“E' una chiesa.” La perplessità era palpabile nella voce di Thor.

Si fermarono di fronte al prato incolto che cresceva davanti alla sgangherata costruzione: doveva essere stata bianca, un tempo, ma adesso il volto che offriva ai passanti era una facciata di legno ingiallito segnata dagli anni e dal tempo avverso.

Non faceva eccessivamente caldo per essere le due del pomeriggio, ma l'umidità rendeva l'aria pressoché irrespirabile. Natasha aveva rinunciato ad asciugarsi il sudore dalla fronte svariate ore prima, quando aveva capito che sarebbe stato del tutto inutile.

La periferia di Lafayette sembrava essere impegnata in una costante lotta tra la vegetazione che rischiava di risucchiarla e strapparla alla città da una parte e la civilizzazione, con i suoi edifici e grattacieli moderni dall'altra. A giudicare dal punto in cui si trovavano, la controparte selvaggia sembrava aver avuto la meglio: grossi alberi scintillanti d'umidità proiettavano la loro ombra sulla strada quasi del tutto deserta. Qualche vecchia signora con abiti sbracciati e ventaglio alla mano, un paio di ragazzini in bicicletta, un cane impegnato ad annusare una radice affiorante dal terreno, le uniche presenze del quartiere in quell'ora meridiana.

“Magari il dottor Bruce Banner ha preso i voti,” argomentò Clint, sistemando meglio la tracolla della sacca che portava sulla schiena dopo essersi rifiutato categoricamente di lasciarla sul furgone. Il doppio filo nero tagliava in due la t-shirt bianca che indossava, mettendo in evidenza la linea dei pettorali.

“Se la tua teoria del lavoro è valida,” intervenne Thor, la voce bassa e rallentata, “che dovremmo volere da un prete?”

Il silenzio tornò a serpeggiare tutt'attorno, nell'aria solo il ronzio di qualche zanzara che aveva osato sfidare l'afa. Entrambi gli uomini si voltarono verso di lei, come in attesa di una sua decisione. Natasha non era sicura che la responsabilità le facesse piacere, ma sapeva che se non fosse stato per la sua insistenza, nemmeno sarebbero arrivati fino a quel punto.

“Entriamo a chiedere,” decretò infine, precedendoli su per il vialetto a malapena distinguibile tra le erbacce che, prima o poi, l'avrebbero inghiottito definitivamente. Era abituata a chiese enormi ed imponenti, fatte di pietra, oro e marmo, in cui l'aria è sempre fresca e la sensazione di trovarsi al cospetto di una forza sovrumana costantemente palpabile: quella chiesetta ai bordi di Lafayette non le ricordava niente che avesse mai visto prima. L'aria ristagnava tra le poche panche di legno disposte nell'unico grande stanzone. In fondo, al posto dell'abside, un pulpito, un enorme croce di legno e un organo dall'aria fin troppo moderna: mancavano solo un coro gospel e, magari, un esorcismo in corso a completare il quadretto.

“Aspettatemi qui,” suggerì senza neppure voltarsi per controllare che i due avessero recepito il messaggio. Percorse i pochi metri che la separavano dalla sagrestia di cui aveva individuato l'ingresso, una piccola porticina verniciata di bianco che si mimetizzava col resto della parete. Bussò un paio di volte. Qualcuno, dall'interno, la invitò ad entrare. La stanza era angusta e caldissima, pile di libri accatastati in più punti, mobili dall'aria antiquata le cui vetrinette lasciavano intravedere cimeli e oggetti sacri di vario genere. Un ventilatore elettrico appoggiato su una radio scassata smuoveva l'aria con un impercettibile ronzio, senza tuttavia offrire alcun beneficio degno di nota. La finestra aperta incorniciava uno scorcio del prato antistante la chiesa, alberi, un tratto di strada. Un uomo di colore sulla sessantina era seduto all'unica scrivania presente: sembrava impegnato nella lettura di un quotidiano di cui Natasha non riconobbe il titolo.

“Le confessioni cominciano tra mezz'ora,” le disse, sollevando lo sguardo su di lei solo in quell'istante. Parve sorpreso.

“Non sono qui per confessarmi,” replicò semplicemente. Restò in silenzio finché l'uomo, la confusione evidente sul suo volto, le fece cenno di accomodarsi.

“Sposti pure i libri.” Lo assecondò, richiudendosi silenziosamente la porta alle spalle prima di sgombrare l'unica sedia disponibile e prendervi posto.

“Come posso aiutarla?” L'uomo, stempiato e sbarbato di fresco, non aveva affatto l'aria di essere un prete: era abituata ai ricchi paramenti delle chiese ortodosse o al massimo cattoliche, non ad abbigliamenti tanto formali... quotidiani. Ragnatele di rughe si aprivano agli angoli dei suoi occhi gentili, le iridi scure circondate da macchie giallognole.

“Lei è il dottor Bruce Banner?” Il sorriso cortese dello sconosciuto traballò un poco sotto il peso della sua domanda. Natasha si sforzò di apparire tranquilla, nell'intento di non dargli il benché minimo motivo di dubitare.

“No,” scosse leggermente il capo, facendosi infine sospettoso. “Chi lo vuole sapere?”

“Un'amica.”

“Il dottor Banner non ha amici.”

“A parte lei?” Azzardò, ottenendo in cambio un'occhiata placidamente divertita.

“A parte me,” convenne con l'aria di chi è appena stato colto in fallo.

“Ho bisogno di parlare con lui. Sa dove posso trovarlo?”

“Il dottor Banner non vuole essere trovato.”

“E' una cosa importante.”

“Chissà come mai, avete tutti da dire cose importanti, quando si tratta di Bruce.”

Quindi chiunque fosse questo sedicente dottore, non era la prima volta che qualcuno veniva a cercarlo. L'uomo sospirò pesantemente, massaggiandosi le tempie con entrambe le mani, come se il gesto avesse potuto aiutarlo a riflettere. Continuò per quella che a Natasha parve un'eternità, finché, scuotendo il capo in segno di disapprovazione, non si decise a tornare a guardarla.

“Ha da pagare?”

“Sì.” Natasha, che non aveva capito dove volesse andare a parare, si limitò ad assecondarlo.

“Chi è che le ha detto di venire a cercarlo qui?” Le domandò mentre si rimetteva in piedi per affacciarsi alla finestra spalancata.

“Un conoscente,” mentì con tanta naturalezza che il reverendo non parve dubitare della sua buona fede, annuendo distrattamente come a prenderne atto.

“Jonah!” Affacciandosi quel tanto che la zanzariera glielo permetteva, richiamò l'attenzione di uno dei ragazzini in bicicletta che stavano giocando lungo la strada. Gli fece bruscamente cenno di avvicinarsi. “Questa signora vuole parlare con il dottore,” Natasha si vide indicare mentre l'uomo lo informava. Il ragazzino, alto, scuro e smilzo con i capelli acconciati in una cascata di treccine, sembrò cogliere al volo le istruzioni dell'uomo. “Aspettala là fuori,” lo congedò il reverendo, aspettando che si fosse nuovamente allontanato per tornare a rivolgerlesi. “Qualsiasi cosa succeda, non lo faccia arrabbiare.”

“Non ho intenzione di far arrabbiare un ragazzino.”

L'uomo si mise a ridere di gusto. “Chi? Jonah? Io parlavo del dottore.”

“Non voglio far arrabbiare neanche lui.”

“Se è venuto fin qui è perché non voleva essere trovato.”

“Ho ragione di credere che si trovi in pericolo.” Si augurò che la stessa scusa che avevano propinato a Thor, funzionasse anche con lui.

“Il dottore è già in pericolo,” mormorò l'altro in tono sconsolato.

“Perché?”

Il reverendo sembrò valutare se rispondere o meno, optando infine per una ragionevole reticenza.

“Lei si limiti a non farlo arrabbiare,” ribadì.

L'unica cosa che Natasha aveva intuito di questo dottor Bruce Banner era che non amava la compagnia, che era predisposto all'irascibilità e che non doveva essere originario del posto. Giocherellò con qualche altra possibilità prima di decidersi ad annuire e rimettersi in piedi, raggiungendo la porticina dalla quale era entrata.

“La ringrazio della disponibilità.”

“Aspetti a ringraziarmi,” la mise in guardia l'altro, riprendendo il suo posto dietro la scrivania. Lo sguardo dovette cadergli su qualcosa in particolare perché il viso gli si illuminò d'improvvisa consapevolezza. “Potrebbe portargli questo?”

Natasha intuì di cosa si trattasse prima ancora di vedere lo sgangherato pacchetto rivestito di carta marroncina, tenuto chiuso da uno spago sottile: il gemello di quello che aveva ricevuto mentre si trovava in Arizona.

“E' arrivato un paio di giorni fa, e non ho avuto modo di consegnarglielo.”

“Nessun problema.”

Prese l'involto dalle mani del reverendo, rivolgendogli un frettoloso cenno di saluto prima di uscire dalla sagrestia per riunirsi a Clint e Thor che, nel frattempo, avevano preso posto su una delle panche di fondo, sotto gli occhi indignati di una fedele che non sembrava essere granché d'accordo con le tenute estive dei due.

“Allora?”

Ignorò l'inquisizione di Thor, tirando dritto finché non furono fuori, sul vialetto che striava il prato bruciacchiato. Il piccolo Jonah la stava già aspettando giù in strada, mentre il profilo del reverendo si stagliava nel quadro della finestra da cui l'aveva visto affacciarsi pochi attimi prima: non sembrava molto contento di riscoprirla in compagnia.

Natasha si voltò finalmente verso i due, mostrando loro il pacchetto che l'uomo le aveva consegnato.

“Allora siamo nel posto giusto.”



__________________________________________

Note:
Chi aveva ipotizzato che il quarto Vendicatore fosse Bruce Banner aveva indovinato! Ho barato di nuovo e questo è un capitolo "di passaggio": Clint e Natasha cominciano a scambiarsi qualche altra parola (oltre agli insulti che ci stanno sempre :P), mentre Thor si sforza di tenersi in disparte... Bruce invece è andato a nascondersi in Louisiana per motivi che scopriremo nel prossimo capitolo. Tutta l'idea di questa storia era nata perché volevo sfruttare proprio l'ambientazione del Sud "umido" degli Stati Uniti (sulla scia di True Blood) e poi - come avrete intuito - ho finito per dirottare altrove il mio interesse. Ma volevo cimentarmici comunque, quindi sia questo che i prossimi due capitoli si svolgeranno proprio in questi luoghi.
Come sempre ringrazio la semper fidelis sclerosocia Eli \O/ e chiunque abbia letto & commentato :D mi fa sempre piacere, lo sapete!
Anyway, buon weekend e al prossimo capitolo!
S.

(*) citazione a memoria (e possibilmente non corretta) da "A dangerous method" di David Cronenberg.

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Capitolo 7
*** 7/20 ***


- Capitolo 7 -

 

 

 

L'umidità e il ronzio continuo di insetti fin troppo insistenti stavano pericolosamente rischiando di farlo uscire di testa. La foresta li circondava nel suo abbraccio soffocante: ovunque Clint posasse lo sguardo incontrava solo verde. Il verde di grandi mangrovie infisse nell'acqua stagnante con i loro nodosi grovigli di radici, imponenti salici dalle chiome cadenti, felci che punteggiavano il terreno bagnato...

La luce faticava a penetrare attraverso la spessa coltre della vegetazione, ma il caldo non sembrava voler accennare a diminuire.

“Quanto dobbiamo camminare ancora?” Scacciò con una mano una zanzara molesta, nascondendo a malapena l'irritazione per una situazione tanto sconveniente.

“Cinque minuti,” asserì il bambino che stava facendo loro da guida.

“Lo vai ripetendo da mezz'ora,” replicò.

“Cinque minuti.”

Serrò le labbra, tentando di ignorare il sordo, martellante bisogno di mettersi ad urlare per scaricare tutta la propria frustrazione. Aveva voglia di un letto soffice, cazzo, si sarebbe persino accontentato di un asciugamano disteso per terra, magari con l'aggiunta di una birra ghiacciata e un ventilatore puntato addosso. Una scampagnata nei boschi alla ricerca di un pazzo che – molto evidentemente – non voleva essere trovato, si trovava attualmente molto in basso nella sua lista dei desideri.

I suoi compagni di viaggio non sembravano affetti tanto quanto lui dall'assurdità delle circostanze: Natasha teneva agilmente il passo del ragazzino, scambiando con lui occasionali parole che Clint non riusciva a distinguere; Thor, che lo precedeva, continuava a guardare tutt'attorno e verso l'alto, visibilmente affascinato da un'atmosfera che doveva risultargli nuova. Dopo aver abitato a Puente Antiguo per cinque anni, pensò Clint, persino una maledetta pozza gli sarebbe parsa interessante.

Mentre la sua mente divagava su tutti i problemi che si erano accumulati in quei pochi giorni, ricordandogli – per l'ennesima volta! – che la signora Drakov avrebbe chiamato tra meno di ventiquattro ore, l'improvvisa apparizione di una radura arrivò a distrarlo, impedendogli di spingersi più a fondo nel nero vortice dell'apprensione.

I grandi alberi della foresta più fitta avevano ceduto il passo ad un prato di erba alta e ingiallita percossa dagli instancabili raggi del sole che, in quel punto, non trovava alcun ostacolo degno di nota sulla propria strada. Al riparo offerto da un'imponente ceiba nell'unica zona d'ombra della radura, si trovava un'abitazione dall'aria pericolante: nient'altro che un rettangolo di legno sopraelevato rispetto al terreno di circa un metro, tetto piatto e ricoperto di lamiere di diverse forme e colori, zanzariere fissate su intelaiature di legno tutt'intorno, a difendere l'ingresso e le sole due finestre che Clint riusciva a scorgere dal suo punto d'osservazione, dall'incursione di insetti non graditi.

Gli alberi gli avevano fatto venire una voglia matta di arrampicarsi il più in alto possibile, raggiungere l'ultimo ramo, appostarvicisi per una, due, tre ore, godendosi il territorio quasi del tutto incontaminato dalla prospettiva che preferiva. Porre una certa distanza – tutta verticale, s'intende – tra lui e il mondo, lo aiutava ad affrontare i problemi con la dovuta oggettività. Lassù si sentiva disconnesso da tutto e tutti, lo spettacolo di vita brulicante ai suoi piedi e la netta sensazione che niente di tutto ciò lo riguardasse. Un estraneo in terra straniera, solo di passaggio. E se quella era una sensazione che lo terrorizzava, spesso e volentieri, quando le situazioni si facevano troppo spinose, era la stessa che riusciva a salvarlo.

“Aspettaci qui.”

Si voltò verso Natasha appena in tempo per vederla passare una banconota da venti al ragazzino (per quello scadente tour nei boschi avevano persino dovuto pagare?), il quale si limitò a rivolgerle un rapido cenno d'assenso. Lo seguì con lo sguardo mentre raccoglieva un bastone lungo e sottile e si lasciava cadere ai piedi di uno degli alberi più vicini.

“Bussiamo?” Domandò Thor, accennando persino il gesto con una mano semichiusa.

“A meno che non vogliate fare irruzione dalla finestra,” replicò sarcasticamente Clint. “Peccato non abbia un camino.”

“Qualsiasi cosa succeda,” Natasha aveva tagliato corto, precedendoli in direzione della catapecchia, “non fatelo arrabbiare.” Quell'aria determinata e autoritaria che aveva assunto da qualche ora a quella parte lo irritava e stuzzicava in modo molto poco casto in egual misura; il fatto che fosse sudata e accaldata, poi, non faceva che completare quel seccante quadro d'insieme (seccante per la sua psiche, più che altro).

“Perché?” Stavolta Clint dovette concordare con Thor nella sua perplessità. Non andava da sé di non far incazzare nessuno?

“Non lo so,” ammise. “Il reverendo si è raccomandato.”

“Ci abbiamo messo tre quarti d'ora per raggiungere questo posto. Andrà su tutte le furie solo perché l'abbiamo trovato,” si ritrovò a puntualizzare, ottenendo solo uno sguardo indecifrabile in risposta.

“Appunto. Non peggioriamo la situazione.”

Gli pareva di riuscire a sentire il tanfo di un guaio grosso come una montagna che incombeva loro addosso. Non avevano già il dannato pacco che era stato recapitato al dottore? Non potevano semplicemente andarsene a fanculo e seguire l'indirizzo che vi avrebbero trovato all'interno?

“Dovremmo controllare che non ci siano trappole.” Natasha si era fermata ai piedi dei tre gradini che li separavano dal fatiscente portico, guardandosi attentamente attorno.

“Che genere di trappole?” Interloquì Thor.

“Qualsiasi cosa che sembri fuori posto.”

“Prendo il lato destro,” si offrì Clint. Tanto valeva darsi una mossa e assicurarsi di tornare in città prima che il sole calasse. Natasha ne prese atto, procedendo a sinistra.

Non trovarono niente che fosse degno di nota a parte la latrina separata e allontanata di svariati metri rispetto al resto dell'abitazione, come in quelle vecchie fattorie del Sud che si vedevano nei film. Il muschio minacciava di inghiottire l'intera catapecchia da un momento all'altro e i pali che fungevano da fondamenta sembravano marci e pronti a crollare alla minima sollecitazione.

Si ricongiunsero prima sul retro e poi sul davanti, scambiandosi tacitamente i lati per assicurarsi di non aver mancato niente. Thor, che era rimasto ad attenderli davanti all'ingresso, rivolse ad entrambi un'occhiata incuriosita.

“Cosa?” Interloquì Clint, dopo essersi inutilmente sforzato di ignorare il suo sguardo.

“Niente,” scosse il capo. “Mi chiedevo cosa faceste, di preciso, nella vita...”

Nessuno dei due rispose. Natasha tagliò corto, avviandosi su per la bassa scaletta fino ad aprire l'esile zanzariera del portico ed occuparsi immediatamente dell'ingresso.

“Dottor Banner?”

Una sfilza di acchiappasogni di diverse forme e dimensioni, che pendevano dalla tettoia soprastante, attirarono la sua attenzione: non un filo di vento a farli smuovere o tintinnare.

“Il dottore non deve dormire sonni molto tranquilli,” ragionò ad alta voce prima di voltarsi per accorgersi che sia Thor che Natasha erano spariti oltre la porta aperta. “Ma sì, facciamo come fossimo a casa nostra...” blaterò sarcastico, seguendoli all'interno con aria riluttante.

Mille odori diversi gli colpirono le narici nel momento esatto in cui oltrepassò la soglia. L'unico grande stanzone era stato suddiviso in diverse aree con teli variopinti che calavano dal soffitto. Ovunque posasse lo sguardo, mobili tutti spaiati tra loro, tavoli, banconi da lavoro... più che una casa sembrava la fusione di un laboratorio in piena regola con una discarica di oggetti abbandonati. Le pareti erano ricoperte di scaffali ricolmi di boccettine, fiale, barattoli, contenitori di vario genere; l'olezzo di erbe, fiori, essenze e chissà che altra diavoleria ad appestare l'aria pesante racchiusa tra quei quattro pannelli di legno schiacciati tra pavimento e soffitto.

“Che cazzo...” mormorò tra sé. “Siamo sicuri di voler aggiungere lo sciamano voodoo al gruppo?”

“Non è uno sciamano, è un dottore,” ribatté Natasha che stava meticolosamente passando in rassegna ogni singolo oggetto su cui riusciva a mettere mano, probabilmente alla disperata ricerca di un qualche indizio utile. Dalla familiarità con cui procedeva, Clint sospettava fosse abbondantemente abituata a quel genere di cose: Black Widow non era solo versata nel combattimento corpo a corpo (spettacolo al quale, a dir la verità, non aveva ancora realmente assistito e al quale era meglio non pensare se non voleva perdersi in tortuosi lidi fatti di sangue e sudore) o nell'uccidere, ma si intendeva anche di scassinamento, camuffamento di vetture rubate, ricerca di informazioni. Più che di un sicario a pagamento, quello gli sembrava il curriculum vitae di una spia fatta e finita.

“Qualsiasi cosa sia non credo gli farà piacere trovarci qua dentro.”

“La porta non era chiusa.”

“E quindi? Non c'è nessun cartello che inviti gli sconosciuti ad entrare, mi sembra.”

“Prima o poi avremmo dovuto farlo comunque,” si giustificò lei, improvvisamente sulla difensiva. “Non sappiamo neppure quando tornerà.”

“Sei stata tu a dirci di non farlo incazzare o sbaglio?”

“Volete piantarla?” Thor era intervenuto, frapponendosi tra i due con tutta la sua imponente mole. “Il vostro battibeccare non aiuta proprio nessuno.”

“Io faccio quel che cazzo mi pare,” ribatté animatamente.

“Io pure,” intervenne Natasha prima di allontanarsi verso il fondo della stanza.

“Se non altro sono riuscito a mettervi d'accordo,” borbottò Thor tra sé, sollevando quello che aveva tutta l'aria di essere un barattolo pieno di bulbi oculari. “A che serve tutta questa roba?”

“A scagliare anatemi mortali,” gli rispose seccamente, mentre la sensazione di pericolo imminente non faceva altro che crescergli nello stomaco. “Credo che dovremmo uscire.”

Natasha stava esaminando delle bustine piene di erbe e polverine diverse, troppo presa dalla sua perlustrazione per dargli retta.

“Sembra che si diletti di yoga.” Thor aveva lasciato perdere i dettagli più grotteschi per sollevare una delle tante tende improvvisate appese al soffitto, rivelando un tappetino colorato disteso sul pavimento, su cui era stato abbandonato un rosario buddista.

“Come fai a saperlo?” Domandò prima di ricordarsi che non gliene fregava proprio un cazzo e che lo stomaco gli si era praticamente accartocciato su se stesso per il crescente disagio.

“Le ragazze non fanno altro in palestra.”

“Scommetto che ci vai in continuazione.”

“Che cosa vorresti insinuare?” Fu il tono vagamente alterato di Thor a riportarlo alla realtà. Che diavolo stava facendo? Da quando far incazzare la gente per scaricare il proprio nervosismo portava a qualcosa di buono?

“Niente, lascia perdere,” liquidò l'argomento con un brusco gesto della mano. “Usciamo di qui,” insisté.

“Ho quasi finito,” gli fece eco Natasha.

Un boato improvviso sovrastò improvvisamente la sua voce, costringendoli a voltarsi tutti e tre verso la finestra più vicina.

“Cos'è stato?” Chiese Thor, un'espressione contrita a deformargli il volto.

“Uno sparo,” Clint serrò rapidamente la presa sulla tracolla della sacca che aveva con sé.

“Fucile a pompa,” specificò la donna.

“Fucile a pompa?” Quindi riusciva persino a riconoscere le armi a seconda del rumore che facevano gli spari? Ma chi cazzo era Natasha Romanoff?

“Quello che ho detto,” ribadì, superandoli per guadagnare per prima l'uscita. “Dobbiamo uscire di qui.”

“Tante grazie. Non è quello che vado ripetendo da almeno un quarto d'ora,” convenne sarcasticamente, affrettandosi a chiudere la fila.

L'orecchio buono cominciò a fischiare e l'orrenda sensazione che gli aveva preso lo stomaco si concretizzò finalmente in una gelida fitta di terrore: l'albero davanti cui il ragazzino si era seduto ad aspettarli era deserto, di Jonah neppure l'ombra.

Natasha non fece in tempo a scendere quei pochi gradini che li separavano dalla radura che un'ombra nera – che solo più tardi avrebbe riconosciuto come quella di un uomo – arrivò a scaraventarla a terra, bloccandola al suolo col proprio peso. Le avrebbe schiantato il calcio del fucile in piena faccia se Thor non fosse accorso in suo aiuto, afferrandolo di peso per liberarla, senza riuscire tuttavia a disarmarlo.

Clint gettò a terra la sacca, tirandone fuori arco e frecce con movimenti rapidi e concisi.

“Tenetelo occupato!” Gridò, scorgendo solo un misero stralcio di Thor che si gettava di lato per evitare l'ennesimo proiettile... o forse no.

“Sta sparando a salve!” Natasha si era rimessa in piedi, cercando freneticamente la Glock che gli aveva requisito: lo sconosciuto, approfittando del momento di defaillance del gigante biondo, si scagliò nuovamente sulla donna, impedendole di armarsi come avrebbe voluto.

Andiamo, andiamo, andiamo cazzo! Imbracciò l'arco, incoccò la prima freccia che gli capitò sotto mano, approfittando della seppur insufficiente copertura del portico per prendere la mira.

Natasha gli aveva afferrato il fucile con entrambe le mani, ingaggiando una violenta colluttazione: si muovevano troppo rapidamente, ruotando senza sosta dall'una e dall'altra parte, impedendogli di avere una linea di tiro pulita.

Cazzo, Clint. Muoviti. Inspirò a fondo, tentando di convincersi ad agire... eppure l'idea di rischiare di colpire la donna piuttosto che quel cazzo di dottore impazzito, non gli piaceva proprio per niente.

“Vaffanculo,” esalò tra sé, scendendo rapidamente i gradini proprio mentre l'uomo le assestava un glorioso cazzotto nello stomaco, rispedendola sul terreno per direttissima nonostante la resistenza opposta dalla ragazza.

“Stia fermo!” Urlò, tenendolo sotto tiro da distanza ravvicinatissima.

L'uomo si voltò verso di lui, offrendogli un volto allucinato, un'espressione folle negli occhi iniettati di sangue, una smorfia impazzita ad increspargli le labbra.

Natasha, ancora a terra, approfittò del diversivo per sferrargli un calcio nel ventre, costringerlo ad indietreggiare e allontanarsi così da tutti e due.

“Metta giù quel fucile,” lo avvertì, non troppo sicuro di riuscire a trovare traccia della benché minima consapevolezza nel suo sguardo sovreccitato. Indossava una camicia di lino sgualcita sopra pantaloni troppo larghi: la furia gli deformava i tratti del volto, rendendolo più simile ad un animale inferocito che ad un essere umano.

Dopo un misero secondo di stasi assoluta, l'uomo gridò orribilmente con tutto il fiato che aveva in corpo: Clint ebbe la netta sensazione che si stesse preparando al contrattacco. Dottore un cazzo.

Scagliò la prima freccia, ferendolo di striscio ad una mano quel tanto che bastò a fargli mollare il fucile a terra e urlare ancora più forte, fuori di sé dalla rabbia.

Incoccò subito un altro dardo, cogliendo i movimenti di Thor con la coda dell'occhio.

“La prossima volta toccherà alla sua faccia,” aggiunse in tono di scherno, distraendolo solo per pochi secondi.

Riemergendo alle spalle del dottore impazzito, l'ex-pugile decaduto gli abbatté i due pugni congiunti appena sotto la nuca: l'uomo si afflosciò davanti ai loro occhi, privo di sensi.

 

*

 

“Dov'è che hai imparato ad usare quel coso?”

Natasha, che si stava assicurando che i nodi delle corde con cui aveva immobilizzato il dottore reggessero a qualsiasi tentativo di fuga, rialzò lo sguardo prima su Thor e poi su Clint. Quest'ultimo era impegnato a ripulire la punta della freccia che aveva scoccato contro il padrone di casa, un'operazione che sembrava richiedere tutta la sua concentrazione.

“Al circo,” replicò in tono talmente serio da risultare ambiguo.

“Come no.” Thor, seduto su uno sgabello recuperato da chissà dove, si era messo ridere, prendendola come una battuta.

C'era qualcosa, però, nel modo in cui Clint aveva pronunciato quelle parole, la naturalezza con cui gli erano uscite di bocca e soprattutto l'attenzione con cui aveva studiato la reazione dell'altro, che la persuadeva, piuttosto, della sua sincerità. Si limitò a scoccargli una rapida occhiata mentre stava guardando altrove, prima di tornare ad occuparsi del dottore.

“Non ho intenzione di portarmi dietro un pazzo furioso.” La voce assorta di Clint tornò a riempire il silenzio.

“Non ce ne andremo prima di avergli parlato,” decretò lei in tono definitivo, alzandosi per passare in rassegna solo alcune delle sostanze imbottigliate e catalogate nel rozzo laboratorio che occupava quasi tutto lo spazio disponibile nella catapecchia.

“Cosa ti fa pensare che sia in grado di parlare?” Intervenne Thor.

“Ha ragione,” Clint si schierò dalla sua parte. “Sappiamo che sa sparare e urlare come un matto.”

“Non aveva intenzione di uccidere,” obiettò, dopotutto il fucile non era neppure caricato con cartucce vere, “e il reverendo aveva detto di non farlo arrabbiare.”

“E tu non gli hai dato retta,” l'accusò, mentre il gigante biondo tornava a zittirsi e a fingere straordinario interesse per quel poco che si intravedeva attraverso la finestra sbarrata.

“Non credevo che sarebbe passato subito all'attacco,” ribatté, afferrando uno dei tanti barattoli schierati sullo scaffale vicino. Clint scosse il capo senza aggiungere nient'altro: Natasha trovava il trattamento del silenzio più irritante di qualsiasi insulto potesse scagliarle contro. Fece solenne voto di ignorarlo a sua volta.

Svitò il tappo dal contenitore che aveva recuperato, avvicinandosi al dottor Banner, accasciato sul pavimento, contro una delle poche porzioni di parete lasciate sgombre dalle sue cataste di cianfrusaglie.

“Che fai?” Thor, che aveva smesso di far finta di niente, le lanciò un'occhiata sospettosa.

“Lo sveglio.”

Clint sbuffò una risata incredula, senza tuttavia distogliere lo sguardo dalle proprie operazioni.

Natasha li liquidò entrambi con un'alzata di spalle, mettendo i sali ammoniacali sotto il naso del dottore. Bastarono un paio di secondi perché le palpebre dell'uomo cominciassero a muoversi impercettibilmente.

“Dottor Banner?” Trattenne il barattolo in prossimità del suo viso ancora per qualche istante, finché i suoi occhi non si fissarono su di lei, storditi.

“Che... c-che...”

“Va tutto bene,” lo rassicurò, appoggiando i sali sul pavimento, a distanza di sicurezza.

Il dottore fece saettare uno sguardo ancora confuso per tutta la stanza, soffermandosi prima su di lei, poi sui due uomini alle sue spalle. Senza rendersene conto, Natasha trattenne il respiro: era vero che non c'era traccia della follia che aveva scatenato contro di loro solo pochi minuti prima, ma il terrore che riaffiorasse improvvisamente, quando meno se l'aspettava e a dispetto le corde ad immobilizzarlo, era vivo e presente alla base del suo stomaco.

Nonostante fosse stato annunciato dallo sparo, l'attacco l'aveva colta di sorpresa: in altre circostanze non si sarebbe lasciata prendere dal panico, ma il volto inferocito e deforme che si era trovata a qualche misero centimetro dalla faccia senza alcun preavviso, le aveva messo il terrore addosso. Le aveva ricordato uno di quei mostri che popolavano il suo sonno, fattosi improvvisamente reale per far avverare ogni suo più sordido timore. Poteva controllare e raggirare chiunque, volgere qualsiasi situazione in proprio favore, ma tutto il suo addestramento diventava inutile quando si ritrovava ad avere a che fare con soggetti che per loro propria definizione sfuggivano ad ogni logica.

Non aveva alcuna intenzione di concedergli il bis: si sforzò di apparire tranquilla e sicura di sé, perfettamente padrona della situazione.

“Chi siete?” Il dottore stava lentamente prendendo atto delle condizioni in cui si trovava.

“Amici,” mentì, comprendendo che se non fossero riusciti a convincerlo della loro buona fede prima che l'impedimento dei legacci lo mandasse su di giri, rischiavano di dover ricominciare tutto da capo.

“Non ho amici,” il fastidio palpabile nella sua voce. “Immagino che non siate qui per comprare qualcosa,” aggiunse in un soffio, l'espressione altrimenti gentile della sua faccia, velata da un'evidente preoccupazione. Si sentiva in pericolo almeno tanto quanto lei.

“Che genere di... cosa?” Domandò, sperando che farlo parlare potesse contribuire a placarlo preventivamente.

“Sostanze...”

Clint si mise a ridere alle sue spalle. “Spacciatore di droga, seriamente?” Certo, avrebbe solo in parte spiegato perché i loro misteriosi (e sempre supposti) datori di lavoro li avessero indirizzati verso il dottore, ma se non altro lo collocava in ambito più o meno illegale.

“Non sono una spacciatore di droga,” lo corresse pazientemente l'altro, quasi stesse impartendo una qualche lezione ad un allievo riluttante.

“Cosa allora? Antidolorifici?” L'arciere non sembrava aver intenzione di abbassare il tiro.

“Qualcosa del genere,” confermò l'altro. Natasha si accorse del mondo in cui stava respirando, profondamente, come mettendo in pratica delle istruzioni ben precise: probabilmente una tecnica yoga... o qualsiasi altra cosa fosse in grado di tenere vivo il suo autocontrollo. “Ci sono tanti malati per cui non c'è più niente da fare se non... attenuare il dolore.”

“Un buon samaritano, dunque,” l'apostrofò Clint, smettendo di pulire arco e frecce solo in quell'istante.

“Solo un modo per tirare avanti.”

Ecco perché il reverendo si era assicurato che fosse in possesso di denaro contante: all'inizio aveva pensato che avesse a che fare con la mancia da lasciare al piccolo Jonah, ma poteva essere anche un riferimento all'attività illecita di Banner.

“Prendete tutto quello che vi pare,” decretò infine in tono sconsolato. “Non posso fare molto comunque.”

“Ne è sicuro?” Stavolta fu il turno di Thor ad intervenire. “Mi è sembrato perfettamente in grado di badare a se stesso, là fuori.”

“Non ho intenzione di affidarmi all'Altro,” mormorò, stavolta a voce più bassa, appena udibile.

“L'altro?” Il gigante biondo non sembrava aver capito a che si stesse riferendo.

“E' una storia troppo lunga.”

Non ci voleva un genio per capire che il Bruce Banner che avevano davanti in quel momento, non aveva niente a che vedere col pazzo furioso che avevano affrontato nella radura. Il modo in cui si sforzava disperatamente di restare calmo, nonostante la situazione fosse tutt'altro che ideale, le confermava il suo interesse a rimanere padrone di sé, a non ferire chi gli stava attorno.

“Mi faccia indovinare: sdoppiamento della personalità.” Clint aveva il pessimo vizio di dar voce alle conclusioni alle quali lei stessa era appena giunta. “Lo sa che in tribunale non regge, vero?”

“Per quale motivo crede che abiti in mezzo al niente, signor... ?”

“Clint.”

Quale che fosse la vita del dottore prima del ritiro in Louisiana, doveva essere stata sufficientemente degna di nota da attirare l'attenzione di chiunque li stesse contattando. Se valeva la stessa regola in vigore per gli altri, allora anche Banner doveva essersi infilato nei guai con la legge: se per il suo traffico di cure compassionevoli o per la sua particolare condizione, questo non seppe dirlo.

“Bene, signor Clint. Signora... signore,” Banner si soffermò su ciascuno di loro, quasi li stesse congedando. “Se non siete qui per derubarmi, allora vi pregherei di andarvene. Gli ospiti non sono il mio forte... e ancor meno dell'Altro. Vi consiglio di darvela a gambe levate prima che si decida a farmi visita.”

Natasha lo ignorò, avvicinandosi piuttosto lo zaino dal quale estrasse il pacchetto che il reverendo le aveva consegnato.

“E' arrivato questo per lei,” disse, lanciandogli l'involto in grembo.

“Oh, corrieri espresso,” commentò ironico, mentre un sorriso divertito e sarcastico insieme gli si apriva sulle labbra.

“Contiene una chiave, il frammento di quella che ci sembra una mappa e un indirizzo.”

“Ho le mani un tantino occupate al momento.”

Thor si alzò per recuperare ed aprire il pacco, disponendogli sotto il naso i tre oggetti che Natasha aveva appena elencato.

“Pensiamo che qualcuno ci stia invitando a cercarci l'un l'altro... per offrirci un lavoro.”

“Pensate?” Bruce si mise a ridere.

“Per quale altro motivo, sennò?” Si strinse nelle spalle, invitandolo ad illuminarli tutti con una qualche teoria geniale. Era o non era la sua la mente più brillante attualmente a disposizione nei paraggi?

“Non lo so. Per ucciderci? Ingabbiarci? Studiarci? Le possibilità sono infinite.”

“Per ucciderci sarebbe stato sufficiente inviarci pacchetti carichi di tritolo, non di stupidi indizi,” obiettò, sforzandosi di contestarlo il più razionalmente possibile. “Se avessero voluto metterci in gabbia, perché non limitare le ricerche ad un'area ben precisa? Perché farci attraversare mezzo paese? Di sicuro non siamo gli unici fuorilegge degli Stati Uniti.” Scosse leggermente il capo. “Analizzarci... a parte il suo caso, dottore, temo che non ci sia niente di straordinariamente interessante in nessuno di noi.”

Banner rimase in silenzio, studiando attentamente la sua espressione, soppesando una ad una le sue obiezioni. Nonostante l'aria perennemente, educatamente divertita che stava sfoggiando, Natasha era sicura di aver fatto breccia, almeno in qualche misura.

“E' così che siete riusciti a trovarmi?”

“Nel mio biglietto era riportato il suo nome e l'indirizzo di una chiesa.”

“Il reverendo Newlin,” mormorò tra sé, come prendendo atto della catena di causa-effetto che li aveva portati fin lì, nelle viscere della foresta.

“Chiunque ci stia inviando queste informazioni, sa dove trovarci.”

“... e nessuno mi assicura che sarete gli ultimi a farmi visita. E' corretto?” Natasha annuì. “Cosa consigliate di fare?”

“Seguire la pista fino al capolinea.”

“Siete davvero sicuri che sia la scelta più saggia?”

“No,” rispose seccamente Clint alle sue spalle.

“Ma è l'unica che abbiamo,” aggiunse Natasha. “A meno che lei non abbia ancora voglia di scappare.”

Il dottore si rifece improvvisamente più serio e pensieroso: non sembrava ancora del tutto convinto di quella particolare linea d'azione. Le variabili fuori dalla loro portata erano ancora troppe.

“No,” ammise infine. “Di fuggire mi sono stufato. Ciò non toglie che non sia esattamente il compagno di viaggio ideale...”

“L'Altro?” Thor sembrava aver intuito le preoccupazioni del dottore. Banner annuì, mettendosi seduto un po' più compostamente, la schiena schiacciata alla parete retrostante.

“Cosa fa di solito per tenerlo sotto controllo?” Intervenne Clint.

“Medito.”

“E funziona?”

“Non sempre,” fu costretto a riconoscere. “Posso portare con me dei sedativi, ma... rischio di non essere sufficientemente lucido per qualsiasi cosa dovremmo fare.”

Natasha aveva preso a torturarsi il labbro inferiore coi denti, sovrappensiero, mentre Thor posava alternativamente lo sguardo su lei e poi su Clint e ritorno. Nessuno sembrava particolarmente incline ad accettare quella convivenza forzata, tantomeno il diretto interessato.

“Dovrà trovare il modo di fidarsi di noi.” Fu lei ad infrangere una volta per tutte il silenzio carico di disagio che aveva preso a serpeggiare tutt'intorno.

“Lo stai ufficialmente invitando a partire con noi?” Clint non suonava affatto d'accordo.

“Hai un'idea migliore?”

“No, ma se dovesse perdere la testa mentre siamo per strada...”

“Lo sederemo. Giusto dottore?” Si voltò verso Banner in cerca della sua approvazione. L'uomo si limitò ad annuire, in evidente difficoltà: Natasha scelse molto convenientemente di non rilevare la sua incertezza. “Se non gli daremo modo di dubitare, allora non avrà motivo di perdere il controllo.”

La prospettiva non stuzzicava nemmeno lei: il terrore che l'aveva invasa quando il dottore l'aveva scaraventata a terra, aleggiava ancora da qualche parte all'altezza del suo stomaco.

“E' come andare in giro con una bomba pronta ad esplodere,” obiettò l'arciere.

“Non è lui che devo temere o sbaglio?” Replicò astiosamente, fissandolo dritto negli occhi. Dopotutto che importanza poteva avere se la presenza del dottore equivaleva ad andare in giro con una miscela chimica altamente instabile? Non era lui che le aveva promesso di ucciderla.

“Non credo di capire cosa sta succedendo,” borbottò il dottore.

“Lo fanno in continuazione,” Thor suonò esasperato.

Natasha sostenne lo sguardo di Clint finché l'uomo non lo ricambiò con un gestaccio che poteva interpretarsi come un: fa' come cazzo ti pare.

“Allora è deciso.”

“Avrò bisogno di un po' di tempo per fare i bagagli. Portare le mie scorte al reverendo... in caso qualcuno avesse bisogno.”

“Non abbiamo tempo da perdere, doc.” Clint si era rimesso in piedi, non ancora del tutto convinto che fosse il caso di riporre l'arco nella sacca.

“Vi chiedo solo fino a stasera.”

“Non ho intenzione di rimanere in questo posto un secondo di più.”

“Possiamo trovarci da Lafitte dopo cena,” propose. “E' un pub poco distante dalla chiesa,” puntualizzò a beneficio di tutti.

“Da Lafitte alle nove in punto,” precisò Natasha, raccogliendo il contenuto del pacchetto indirizzato al dottore. “Questi li prendo io... in caso decida di non voler niente a che fare con noi.”

“La fiducia prima di tutto.”

“Cerchi di non mandare l'Altro, all'appuntamento,” lo mise in guardia prima di chinarsi a snodare le corde con cui l'aveva immobilizzato.

“Farò del mio meglio.”

Gli lanciò un'ultima occhiata prima di recuperare le sue cose e raggiungere Clint e Thor fuori dalla catapecchia-laboratorio, impedendosi di mettersi letteralmente a correre nel caso l'infelice metà del dottore avesse deciso di tornare a far loro la festa.

“Credi seriamente che si presenterà?” Clint si era fermato a qualche metro di distanza.

“No,” ammise, sovrappensiero. “Ci riposiamo un po', aspettiamo le nove e se ci dovesse dar buca,” si rigirò il biglietto di Bruce tra le mani, “andremo a far visita al signor Steve Rogers.”



__________________________________________
 

Note:
Premetto subito che riportare la "condizione" di Bruce nell'AU non è stato facile. In pratica diventa Hulk... senza ingigantirsi o inverdirsi. Una sorta di "sdoppiamento della personalità" (che poi sdoppiamento della personalità non è). Mi auguro solo che non sia risultato troppo ridicolo ù_ù Per capire cosa la reso così, però, c'è da aspettare il prossimo capitolo :) e come vedete è già stato annunciato quale sarà il penultimo Vendicatore che incontreremo (e di conseguenza anche l'ultimo)... con calma :P Mentre nel frattempo si delineano un po' meglio i rapporti nel *gruppetto*... (e qui conclude con le chiacchere XD)
Tanti ringraziamenti alla sclerosocia come sempre <3 e a chi mi segue&commenta! Soprattutto: Blackmoody, Frau Blucher, Ragdoll_Cat e fangirl_mutante_SHIELD. Grazie!
Alla prossima!
S.

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Capitolo 8
*** 8/20 ***


- Capitolo 8 -

 

 

Se c'era una cosa che Natasha aveva abbondantemente capito, era che l'appetito di Thor non conosceva alcun limite. Che si trattasse di hamburger, sandwich, insalate, merendine o biscotti, il gigante biondo attaccava tutto col medesimo gusto, senza mai averne abbastanza.

Lafitte's offriva piatti tipici della cucina cajun e musica jazz dal vivo... o almeno così annunciava l'insegna. Foto sbiadite appese alle pareti testimoniavano di giorni migliori in cui il legno dei pannelli che ancora rivestivano le pareti doveva essere stato lucido, quando la clientela era composta dai giovani del quartiere, neri e bianchi insieme.

Adesso non restavano che dei vecchi ricurvi impegnati in una rumorosa partita di poker, un paio di avventori del luogo immersi in solitarie riflessioni al bancone, persino qualche turista in posa per farsi ritrarre in questo o quell'angolo caratteristico del pub, sicuramente orgogliosi di essere riusciti a darsi al turismo alternativo, lontani dalle attrazioni più popolari. Le note stonate di una vecchia radio gracchiante raggiungevano i pochi tavoli disposti disordinatamente nelle due stanze adiacenti e comunicanti.

Superato il sospetto con cui li avevano accolti, la cucina si era rivelata essere niente male... o forse avevano tutti e tre troppa fame per permettersi di fare gli schizzinosi.

Fatto stava che Thor aveva spazzolato la sua porzione di gumbo e adesso si stava adoperando ad attirare l'attenzione del cameriere affinché gliene portasse un'altra.

“Se non altro a qualcuno non è passata la fame.” Clint riemergeva solo a tratti dal suo secondo boccale di birra: intervallava un boccone di cibo con due sorsi della sua bevanda ghiacciata preferita.

Dal canto suo, Natasha si stava prendendo tutto il tempo per godersi il suo jambalaya senza rischiare di farsi venire un'indigestione (come Thor) o ubriacarsi prima di riuscire a mettere qualcosa nello stomaco (come Clint).

Se ci fosse stato Ivan, con lei, le avrebbe offerto qualche semplicistica nozione sulla storia del luogo in cui si trovavano, in quel caso la Louisiana, e dei piatti che stavano consumando. Dopodiché le avrebbe fatto delle domande a tradimento per assicurarsi che fosse stata attenta. Per questo si sforzava di guardarsi attorno, assorbire tutte le informazioni messe inconsapevolmente in bella mostra... era una delle poche buone abitudini che il padre le aveva insegnato e una di quelle che non aveva intenzione di lasciar cadere, giusto per darsi un'illusione di continuità.

“Che stai cercando?” Le chiese Clint, seguendo la direzione del suo sguardo.

“Niente,” si affrettò a rispondere, riempiendosi la bocca di riso per scoraggiare qualsiasi altro tipo di inquisizione su quella medesima linea.

“C'è una cosa che non mi torna.” Sorprendentemente, la piena attività delle mandibole di Thor non gli impediva di articolare frasi di senso compiuto.

“Spara,” lo invitò l'altro.

“Se ci vogliono offrire un lavoro,” annaffiò quella premessa con un sorso di birra, “perché non sono semplicemente venuti a chiedercelo?”

Natasha lanciò un'occhiata in direzione di Clint, sperando si sentisse in vena di sedare la richiesta di chiarimenti del gigante biondo. Qualcosa le diceva, comunque, che sia lei che il suo futuro assassino erano arrivati alla stessa conclusione (dando per scontato che l'ipotesi dell'offerta di lavoro fosse corretta). L'arciere aveva la fastidiosa abitudine di trovarsi d'accordo con lei su tante, troppe questioni.

“Per farci passare del tempo insieme.” L'uomo non ci mise molto ad accontentarla. “Se abbiamo ragione, immagino si tratti di un lavoro di gruppo.”

“Ha senso,” riconobbe Thor dopo un lungo attimo di silenzio trascorso in quella che le era sembrata una profonda riflessione. “Sono ottimisti.”

“Anche troppo,” convenne Clint. “Devono essere disperati per tentare qualcosa di tanto stupido... e complicato.”

“Avete pensato a chi potrebbe essere?” Natasha si ritrovò a chiedere.

“La mafia?” Teorizzò l'arciere, non molto esaltato dalla prospettiva. “Qualche ricco annoiato che non ha la più pallida idea di come ci si comporta nell'ambiente?”

“Quale ambiente?” Chiese Thor.

“Quello della criminalità più o meno organizzata.”

“E voi due siete esperti del campo...” lasciò la frase in sospeso, spostando l'attenzione alternativamente da Clint a Natasha.

“No,” disse lei.

“Sì,” replicò l'altro, parlando praticamente all'unisono.

Il sincronico tempismo delle loro risposte li costrinse a voltarsi l'uno verso l'altra, scambiandosi un'ostile, occhiata interrogativa.

“Okay, credo che andrò a controllare che fine ha fatto il mio jumbo,” Thor si rimise in piedi, evidentemente deciso a prendersi una pausa dal clima di guerra fredda che serpeggiava tra i due.

“Gumbo,” lo corresse lei un attimo prima che l'uomo si allontanasse in direzione delle cucine.

Tornò sulla sua cena, determinata ad ignorare completamente l'arciere seduto al suo fianco (perché diavolo si ostinava a prendere posto accanto a lei, quello ancora non l'aveva capito). Clint non sembrava intenzionato a lasciar cadere l'argomento.

“Negare l'evidenza non aiuterà proprio nessuno.”

“Quale evidenza?”

“Il fatto che sei una criminale... e anche piuttosto organizzata, mi sembra.”

Natasha si sforzò di pensare ad altro, fingere che Clint non esistesse, non degnarlo neppure di uno sguardo.

“Va bene, magari non sei proprio organizzata, ma lo eri.” Si corresse.

Di nuovo nessuna risposta, lo stomaco che cominciava a contrarsi fastidiosamente per il nervosismo.

“Scommetto che era tuo padre che se ne occupava. Tu ti sei sempre limitata ad eseguire gli ordini.”

“E se anche fosse?” Sbottò, mandando al diavolo ogni singolo proposito di non guardarlo.

“Sei una criminale allo sbando.”

“Smettila.”

“E adesso ti stai accanendo per arrivare alla fine di questa storia nella speranza che dall'altra parte ci sia qualcuno pronto a tirarti fuori da questo... limbo.”

“Non mi trovo in nessun limbo.”

“Oh, eccome se ci sei. Non potevi più vivere con tuo padre, l'hai fatto fuori e solo poi hai scoperto che non puoi vivere nemmeno senza. Hai bisogno di qualcuno che ti dica cosa fare.”

“Io non ho bisogno proprio di niente.”

Clint lasciò perdere la sua birra, abbandonando bruscamente le posate nel piatto per voltarsi del tutto verso di lei.

“Per quale altro motivo vuoi arrivare fino in fondo allora?”

“Voglio capire chi è che mi ha trovata.”

“Io ti ho trovata.”

“Non solo tu, il pacc-”

“Ti sei persino offerta di farti uccidere pur di arrivare fino in fondo.”

La presenza dell'uomo sembrava incombere su di lei, schiacciarla tra il tavolo, la sedia su cui era seduta e la parete retrostante: Natasha cominciò a sentirsi soffocare.

“E con questo?”

“Dico solo che andare alla ricerca di un nuovo padrone potrebbe non essere la risposta.”

“Non rispondo a nessun padrone,” puntualizzò, facendo saettare lo sguardo tutt'attorno, come in cerca di una pronta via di fuga.

“Non vuol dire che tu non ne abbia bisogno.”

“Sta' zitto, Clint,” sibilò, stringendo la presa sul coltello ancora pulito poggiato sul tovagliolo.

“Perché? Non dirmi che non ci hai pensato.” Dovette leggerle qualcosa di compromettente sul volto, perché una certa consapevolezza parve illuminargli lo sguardo un attimo dopo. “Certo che ci hai pensato.”

“Basta.”

“Farti uccidere è la via d'uscita più semplice, giusto? Il tuo piano di riserva.”

“Fottiti.”

“Offendimi quanto ti pare e piace, non cambierà di certo la realtà dei fatti.”

“Clint...” Si sentiva pericolosamente arrivata al limite.

“Non ti rendi conto di quanto sei patetica? Neppure rie-”

“... BASTA!”

Il brusco rumore del coltello che si conficcava nel legno del tavolo a pochissimi centimetri di distanza dalla mano dell'uomo, ebbe l'effetto di attirare l'attenzione dei pochi avventori del Lafitte's.

L'arciere continuava a fissarla, apparentemente affatto turbato da quel violento exploit.

“Dammi un valido motivo per non ucciderti,” sussurrò in tono completamente diverso, senza lasciare andare il suo sguardo neanche per un misero istante.

“Non ce ne sono.” Natasha dovette sforzarsi per articolare una risposta sensata e ancor di più per sostenere l'implacabile inquisizione dei suoi occhi.

“Non ti ricordi di aver ucciso la figlia della Drakov, non ricordi di avermi derubato a San Francisco... o menti oppure...”

“Te l'ho detto, ho una pessima memoria.”

“Stronzate,” liquidò quella spiegazione con una certa urgenza. “Tuo padre ti obbligava a farlo, giusto?”

“No, facevo tutto da sola,” gli fece eco, ostinandosi a negare contro ogni buon senso.

“Bugiarda,” l'accusò. “Ti dava degli ordini, ti manipolava e poi ti faceva dimenticare tutto.”

“No.” Si rimise bruscamente in piedi, rovesciando la sedia alle sue spalle.

“Perché lo stai difendendo?” Le parole di Clint, che sembrava tutto fuorché intenzionato a lasciarla andare, la seguirono mentre guadagnava l'uscita del pub a grandi passi.

Stronzo, stronzo... stronzo. Il cuore le batteva all'impazzata nel petto e lo stomaco le doleva a tal punto da farla sentire sul punto di vomitare.

“Ti ho fatto una domanda!” La voce dell'uomo di nuovo vicina – e lui con quella – la fece sprofondare nell'agitazione più nera.

“HO DETTO BASTA!” Urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, scagliandosi contro di lui fino a schiantarlo contro la parete esterna del locale, un braccio premuto sul collo ad impedirgli di respirare agevolmente.

“R-Rispondi!” Nonostante l'agitazione, Natasha non ebbe difficoltà a rendersi conto che Clint si stava trattenendo – seppure a fatica – da qualsiasi reazione inconsulta.

“Se vuoi un motivo per non uccidermi, te lo dovrai cercare da solo!” Più lo guardava e con più ferocia la rabbia le ribolliva nelle vene, facendole perdere progressivamente lucidità.

“N-Non mi...” Clint boccheggiò per qualche istante in cerca di aria prima di afferrarla bruscamente per le spalle, sfruttare la forza delle proprie braccia per invertire le posizioni, schiacciarla contro il muro. “Non mi stai aiutando affatto.”

“Non ho la minima intenzione di aiutarti!” Sibilò in risposta, sentendosi addosso il calore emanato dal suo corpo, l'odore forte della sua pelle, il grigio indistinto dei suoi occhi nei propri... le ci volle un istante per accorgersi della propria eccitazione e uno di più perché la consapevolezza di essere fisicamente attratta dall'uomo che avrebbe dovuto ucciderla si facesse strada dentro di lei. Il che non faceva proprio niente per sedare i suoi più sordidi istinti.

Trattenne il respiro, sentendosi scivolare sempre più a fondo in una spirale che non le era affatto familiare, mentre ogni singola immagine che la sua mente osava proporle la spingeva verso una qualche azione di cui – ne era più che sicura – si sarebbe certamente pentita.

La gabbia delle braccia di Clint venne a mancarle di colpo: Thor l'aveva afferrato da dietro, costringendolo a lasciarle il suo spazio, a ristabilire la distanza minima che avrebbe dovuto separarli in ogni momento.

“Che cazzo ti salta in testa?” Tuonò in direzione dell'arciere, allargando la grosse braccia muscolose in un gesto confuso.

“Niente che ti riguardi,” replicò l'altro, rosso in volto per la rabbia e l'imbarazzo. Natasha bloccò i propri pensieri prima che potesse iniziare a formulare una qualche spiegazione alternativa, una che prendesse in considerazione aspetti che era al momento più che intenzionata ad ignorare in toto.

“Certo che mi riguarda. Siamo in questa storia tutti insieme,” gli ricordò.

“Tutti insieme? Credi seriamente che questa sia una stracazzo di gita scolastica?”

“Non prendermi in giro, Clint,” sibilò l'altro con un'autorevolezza che Natasha non avrebbe mai sospettato. “Siete stati voi due a convincermi a seguirvi.”

“L'idea è sua,” l'arciere la indicò con improvvisa urgenza.

“Non m'importa quali sono i tuoi interessi, il perché la stai assecondando... non me ne frega un cazzo,” puntualizzò astiosamente. “Ma finché rimarremo tutti insieme, finché non arriviamo alla fine, datevi una regolata o siete per conto vostro.”

Natasha trattenne il respiro, appoggiandosi al muro mentre aspettava che il battito cardiaco decidesse finalmente di regolarizzarsi. Clint si limitò a lanciarle una rapida occhiata prima di portarsi entrambe le mani ai capelli, dare loro le spalle per calciare l'asfalto in preda all'esasperazione. Thor rimase sulla traiettoria che portava da lei all'arciere, come per assicurarsi che nessuno dei due tentasse altre mosse azzardate per farla pagare all'altro.

“A quanto pare, l'ira non è solo il mio peccato.”

Una voce pacata, terribilmente in contrasto con l'atmosfera tesa e nervosa che imperversava tutt'intorno, attirò la loro attenzione senza alcun preavviso. Il dottor Bruce Banner, un vecchio borsone da viaggio alla mano, era fermo sul marciapiede svariati metri più avanti.

“Preferite che torni in un momento più opportuno?”

 

*

 

10 ore dopo

da qualche parte in Mississippi

 

“Buongiorno.”

La voce assonnata del dottor Banner lo raggiunse dal sedile del passeggero.

“'Giorno, doc.” Clint si concesse un lungo sorso di caffè, osservando l'uomo di sottecchi mentre si stiracchiava e sistemava alla meno peggio gli abiti già irrimediabilmente sgualciti. Si rese improvvisamente conto di tutto il tempo che era passato da quando qualcuno gli aveva rivolto un saluto di quel genere: un saluto normale. Buongiorno, buonasera, arrivederci. Sorrise tra sé, a metà tra l'incredulo e il divertito.

“Qualcosa di divertente?” Lo interrogò l'altro.

“Nah,” scosse il capo, tamburellando la mano libera sul volante. “Ha dormito come un sasso.”

Banner sbadigliò sonoramente dimenticandosi di coprirsi la bocca con una mano; dopodiché passò a pulirsi gli occhiali con un lembo della camicia, indossandoli quando gli fu chiaro di non poter ottenere un risultato migliore di quello. Alla luce del giorno, in un ambiente che non ricordasse un dannato film di Indiana Jones, aveva un'aria molto meno spaventosa, quasi inquietantemente ordinaria.

“Sonno arretrato,” spiegò l'altro, stringendosi nelle spalle.

“Oh, mi creda, la capisco benissimo.” La settimana non si era ancora conclusa, ma Clint già sentiva il bisogno di una dormita degna di questo nome. Non c'era stato un solo attimo in quei pochi giorni, in cui non si fosse sentito terribilmente assonnato e, di conseguenza, pericolosamente incline al nervosismo.

“Dammi del tu, mi fai sentire come un vecchio professore.”

“Come preferisci, doc.”

“Quello dove l'hai preso?” Bruce stava indicando il caffè ormai agli sgoccioli che occupava ancora la mano destra di Clint.

“Drive-thru aperto tutta la notte,” si limitò a rispondere.

“Giusto.” Parve valutare qualcosa prima di decidersi a riprendere la parola. “Ti dispiace fermarti al prossimo? Ho bisogno di qualcosa di caldo.”

“Niente di meglio di un caffè per cominciare la giornata.”

L'altro si mise a ridere. “Caffè? Oh no, per carità. A meno che non mi vogliate legare al sedile dopo neanche,” controllò l'orologio, “wow, quasi dieci ore di viaggio.”

“Il caffè rischia di farti perdere il controllo?”

“Non di per sé, ma resta comunque un eccitante. Preferisco non stuzzicare l'Altro se posso evitarlo.”

Clint annuì distrattamente, premendo leggermente sull'acceleratore: senza contare soste per rifornimenti ed esigenze varie, c'erano ancora venti ore a separarli dal loro arrivo a Birmingham.

“Posso essere sincero?” Si ritrovò a chiedergli, voltandosi per raccogliere il cenno d'assenso con cui Bruce gli dava il via libera. “Non credevo che avresti accettato di partire con noi.”

“Se devo essere sincero,” lo imitò, “neanche io.”

“Che ti ha fatto cambiare idea?”

Il dottore fece una smorfia, sovrappensiero, fissando la strada che si snodava davanti ai loro occhi.

“Mi sono reso conto che non vedevo tante persone tutte insieme da almeno sei mesi.”

“La vita dell'eremita ti è venuta noia, quindi?”

“Qualcosa del genere,” si strinse nelle spalle. “E poi quella...,” si voltò verso il retro dove Natasha e Thor si erano in qualche modo sistemati per riposare almeno qualche ora, “... ahm, donna, sa essere estremamente persuasiva.”

“Non sai quanto.”

“Se devo scegliere tra l'attesa di qualcosa di orribile, e dover andar incontro a quel qualcosa a testa alta, preferisco di gran lunga la seconda opzione.” Clint non poteva proprio biasimarlo. “Senza contare che il reverendo Newlin e la sua gente sono brave persone. Non volevo metterli inutilmente nei guai.”

“Doc, sei una boccata d'aria fresca,” commentò spassionatamente, strappandogli un sorriso.

Thor non era esattamente una persona sgradevole, ma neanche di gran compagnia: con quella sua aria di chi pensa di portare sulle proprie spalle le colpe dell'umanità intera, il gigante biondo aveva il brutto vizio di innescare meccanismi pericolosi. Anche lui era stato così una volta, uno di quei pazzi che credono di doversi sobbarcare il peso dei propri problemi e di quello degli altri, cercando al contempo di non lasciarsene sopraffare. Clint non era stato capace di farlo: si era dovuto arrendere, visto costretto a rifiutare ogni questione che non lo riguardasse da vicino e a ridurre le proprie al minimo, senza andare ad inseguire guai non richiesti. L'andazzo di quegli ultimi giorni e soprattutto la vicinanza di Natasha, lo stavano poco a poco convincendo di essere sul punto di cascarci di nuovo: più andavano avanti e più la certezza di poterla uccidere a sangue freddo, quando sarebbe arrivato il momento, veniva meno. A niente servivano i lunghi ragionamenti con cui tentava di persuadersi che la donna non era affar suo, che era stata lei stessa a firmare la propria condanna a morte senza la necessità di alcuna pressione da parte sua.

Una sola verità sussisteva: non era un assassino. Non se poteva evitarlo.

Senza contare che la convivenza con la spia dai capelli rossi stava cominciando a farsi sempre più scomoda. Non aiutava che fosse l'unica donna costantemente presente nel raggio di un centinaio di metri o che resisterle sembrava essere praticamente impossibile. Anzi, una vera follia. Il suo nome in codice era o non era Black Widow? Se rispondeva alla realtà anche solo la metà di quanto Hawkeye gli si addiceva, Clint sapeva che sarebbero stati guai per tutti coloro che avessero tentato di mettersi sulla sua strada. Lui stesso incluso.

“Adattarsi a degli sconosciuti non è mai semplice.” Bruce gli rivolse un'occhiata comprensiva. “E questo mi pare un gruppo particolarmente... eterogeneo.”

Clint sbuffò una risata. “Puoi dirlo forte.”

“Un gigante muscoloso che porta il nome della divinità norrena del tuono, un'attraente manipolatrice...,” fece una breve pausa, come valutando qualcosa, “... un arciere. Una scelta quantomeno originale.”

“Al giorno d'oggi bisogna farsi riconoscere,” si giustificò con un'alzata di spalle. “Ti sei dimenticato di aggiungere scienziato bipolare alla lista.”

“Non sono bipolare,” lo corresse senza traccia d'astio o offesa nella voce.

“Dalla nascita?” Una domanda implicita che il dottore non lasciò cadere nel vuoto.

“Non proprio.” Prese tempo, sfilandosi gli occhiali prima di accennare nuovamente a pulirli. “Lavoravo per l'esercito, un tempo.”

“Militare?”

Bruce scosse prontamente il capo, afflosciandosi appena contro lo schienale del sedile.

“Conducevo delle ricerche. Degli... esperimenti. Finché un giorno non ho commesso un errore... un grave errore.”

“Che genere di errore?” Una parte di lui gli suggeriva di farsi i cazzi suoi, l'altra trovava la presenza del dottore talmente rilassante (paradossale!) da non offrirgli una valida ragione per tenere per sé tutte quelle domande irrisolte.

“Stavamo sperimentando un siero per aiutare i nostri soldati in missione...”

Qualcosa gli suggeriva che la questione non era poi così semplice come pensava.

“... uno dei nostri soggetti ha perso il controllo durante lo svolgimento di alcuni test,” riprese, abbassando progressivamente il tono di voce. “Mi ha attaccato. E' successo tutto così rapidamente... nella colluttazione è riuscito a colpirmi con una delle siringhe che contenevano la dose di siero da somministrare.” Sbuffò una risata che colse Clint alla sprovvista. “Giustizia divina, non ti pare? Da scienziato a cavia.”

“Il destino ha un pessimo modo di mettersi nel mezzo.”

“Già,” rilasciò bruscamente il fiato. “Sono stato tenuto in quarantena, ma tutti gli esami effettuati ebbero risultato negativo. Sono stato rilasciato quasi due mesi dopo. Solo allora i sintomi hanno cominciato a manifestarsi.”

“Lo sdoppiamento di personalità?”

Bruce gli scoccò una rapida occhiata. “Suppongo che si possa chiamare così,” concesse. “Ma non è neanche quello. Il siero non mi spinge ad essere un'altra persona... si limita a tirar fuori il peggio di me.”

“Non tutti hanno bisogno di un siero super sofisticato per farlo,” sentenziò, forse a mo' di consolazione, magari solo per non lasciar cadere le parole di Bruce nell'indifferenza.

Il dottor Banner gli rivolse un sorriso impacciato.

 

*

 

16 ore dopo

al confine con l'Alabama

 

Natasha finì di asciugarsi le mani prima di gettare le salviette umide nel cestino della spazzatura. Si legò di nuovo i capelli in una crocchia improvvisata, passando in rassegna le ustioni che il sole le aveva procurato in quegli ultimi giorni. Dopo aver patito le pene dell'inferno, lo strato più superficiale della sua pelle cominciava a sfaldarsi. Ne tirò un pezzo che venne via come la pellicola di cellule morte che era: si chiese se non potesse fare come i serpenti, liberarsi della sua vecchia pelle, rinascere sotto una nuova identità.

Scosse il capo, come deridendosi per quei pensieri tanto stupidi. Uscì dal bagno delle signore della stazione di servizio in cui avevano fatto sosta, lasciando che la porta oscillasse bruscamente alle sue spalle mentre si dirigeva a passo spedito verso il furgone parcheggiato poco più avanti.

Clint stava scolandosi l'ennesima birra (ormai le sue abitudini le aveva capite: caffè nero al mattino, birra per il resto del giorno e della notte, a meno che il confine fra le due fosse tanto labile da giustificare una Budweiser ghiacciata per colazione), nessuna traccia di Thor e del dottore.

“Dove sono gli altri?” Gli chiese non appena gli fu abbastanza vicina da farsi sentire.

“Sono andati a prendere da mangiare.”

Suo malgrado, Natasha si ritrovò a studiare distrattamente la sua espressione: era da quando Thor gli aveva dato il cambio alla guida che le pareva preoccupato. Le linee del suo viso erano andate facendosi sempre più marcate man mano che la giornata procedeva, come se il peso di una qualche consapevolezza gli stesse gravando addosso, alla disperata ricerca di una valvola di sfogo.

Sentiva la domanda premerle sulla lingua, supplicando di essere formulata, ma la ricacciò indietro di violenza, impedendosi anche solo di sfiorare l'idea di interpellarlo. Dopo l'exploit davanti al Lafitte's, Natasha aveva fatto in modo che i loro scambi si riducessero allo stretto indispensabile e Clint si era ben guardato dal sovvertire il suo implicito proposito.

“Guido io,” decretò dopo un attimo di silenzio, appoggiandosi al furgone con le spalle, le braccia intrecciate al petto.

“Fa' pure,” fu la sua, ennesima, laconica risposta.

Si ricordò improvvisamente quanto le desse sui nervi il trattamento del silenzio: il che non aveva senso, considerato che era stata lei stessa ad evitarlo per tutto il santo giorno. Trattenne un moto di stizza, facendo vagare lo sguardo sulla stazione di servizio praticamente deserta. Le stelle si erano riaccese nel cielo, tornando finalmente a farle compagnia. Passò in rassegna le altre vetture presenti nel parcheggio, una berlina rossa fiammante e una vecchia station wagon verde e grigia: dei proprietari neanche l'ombra.

Proprio mentre Thor e Bruce ricomparivano oltre la pompa della benzina, le braccia ricolme di cibo spazzatura e bibite gassate razziate dall'ennesima sfilza di distributori automatici, un grosso SUV nero dai vetri oscurati, che Natasha era più che sicura di aver visto a più riprese durante il viaggio, fece manovra per entrare nell'area di sosta. Ebbe come la netta sensazione che la temperatura si fosse di colpo abbassata di un paio di gradi.

“Che c'è?” Clint si doveva essere accorto del suo turbamento.

“Quel SUV...”

L'uomo seguì tacitamente la direzione del suo sguardo.

“Cosa?”

“Ci sta seguendo,” tutti i suoi campanelli d'allarme, improvvisamente attivi, ebbero l'effetto di metterla in modalità emergenza.

“Come?”

“Ti dico che ci sta seguendo,” ribadì con rinnovata urgenza, spalancando il portellone del furgone.

“Che cazzo stai dicendo?”

Natasha lo ignorò, voltandosi rapidamente verso Thor e Bruce. “DATEVI UNA MOSSA!” Urlò con tutto il fiato che aveva in gola, ottenendo di farli arrestare in allarme, lasciar cadere a terra il tanto sudato bottino e iniziare a correre nella loro direzione. “Sali!” Sbraitò in direzione di Clint, aggirando il furgone per occupare il posto di guida.

“Che sta succedendo?” La voce trafelata di Thor precedette di un nanosecondo la chiusura della portiera scorrevole.

“Niente, Natasha è convinta che ci stiano seguendo,” lo rassicurò Clint in tono irritato.

“Chi?” Bruce inorridì, facendo fatica a nascondere la preoccupazione che gli invase lo sguardo.

“Nessuno, è solo lei ch-”

Proprio mentre il motore riprendeva vita e il furgone imboccava nuovamente la strada, una raffica di proiettili si abbatté su di loro.

 

__________________________________________

Note:
Non molto da dire stavolta! A riequilibrare un rapporto caaarico di tensione tra Clint e Natasha, arriva Bruce a distendere i nervi del nostro arciere (paradossale, me ne rendo conto) e a raccontare la sua storia. E proprio quando la situazione pare sul punto di esplodere, arriva un'altra gatta da pelare. Vedremo come andrà a finire :P
Il solito grazie sentitissimo alla sclerosocia e a chiunque abbia letto e/o commentato :')

Per concludere un po' di sana pubblicità occulta. Vi consiglio Sleep Twitch di Sheep01, perché ci sono i nostri personaggi preferiti calati in un AU apocalittico... DO WANT, RIGHT?

Grazie dell'attenzione e alla prossima!
S.

 

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Capitolo 9
*** 9/20 ***


- Capitolo 9 -

 

 

 

“State giù!”

Natasha sterzò bruscamente di lato, riguadagnando freneticamente la strada mentre il contraccolpo mandava Thor e Bruce a sbattere contro le pareti del furgone.

“Cazzo.” Clint era impallidito al suo fianco, lo sguardo allucinato fissato sullo specchietto retrovisore che lasciava intravedere il SUV nero che li stava inseguendo. Uomini dall'aria decisamente poco raccomandabile, sporti quasi per tutto il busto attraverso i finestrini anteriori, stavano prendendo la mira, pronti a sventagliare la seconda raffica di colpi.

“Ci hanno sparato addosso!” La voce di Bruce, carica d'angoscia, non fece altro che palesare ciò che era già ben evidente a tutti.

“Lo faranno di nuovo,” chiosò Natasha, prima che il rimbombo di alcuni spari non arrivasse a darle ragione. “Merda!” Mentre schiacciava il piede sull'acceleratore e cominciava a procedere a zig zag nel disperato tentativo di non dare riferimenti agli inseguitori, si voltò verso i due nel retro, lanciando un'occhiata preoccupata in direzione del dottore. La situazione era sicuramente una di quelle che avrebbe definito ad alto stress e se c'era una cosa che aveva capito da quell'intero giorno di viaggio che aveva condiviso con Banner, era che il dottore non rispondeva granché bene alla tensione.

“Dobbiamo rispondere al fuoco!” Clint, dopo un primo attimo di puro shock, sembrava aver ripreso vita, fatto scattare il proprio cervello in modalità emergenza.

“La Glock è nello zaino!”

“A fanculo la Glock!” Sbraitò in risposta, recuperando la sua sacca da viaggio per estrarne arco e frecce.

“Hai i colpi contati con quello!” Protestò mentre un proiettile arrivava a portarsi via lo specchietto di sinistra.

“Me li farò bastare!”

Natasha stritolò il volante tra le mani, irritata: quello era esattamente il tipo di crisi che era stata addestrata ad affrontare nel migliore dei modi da che aveva memoria. Peccato fosse impegnata ad assicurarsi che nessuno di quei colpi raggiungessero i loro pneumatici per potersi occupare d'altro. Appiedati il cielo solo sapeva dove, senza armi adeguate e costretti a fronteggiare quegli individui sicuramente molto meglio equipaggiati di loro: non avrebbero di certo fatto una fine ideale.

Mentre Clint scavalcava il sedile anteriore per passare sul retro, l'arco già imbracciato e la prima freccia pronta ad essere scoccata, Natasha afferrò lo zaino che aveva premuto tra sé e lo schienale nella speranza di stare più comoda. Riprese a guidare con una sola mano, mantenendo la medesima andatura irregolare, mentre con l'altra cercava la Glock requisita all'arciere solo qualche giorno prima.

Non appena fu sicura di aver messo abbastanza spazio tra il furgone e il SUV – per quanto il motore di quel catorcio glielo concedesse – spense i fari, nella speranza che il buio improvviso facilitasse loro la fuga.

Una sventagliata di colpi crivellò violentemente l'estremità posteriore del mezzo, rischiando di farle perdere il controllo.

“Thor, prendi il posto di guida!” Ordinò, improvvisamente certa che affidarsi solo ed esclusivamente alla velocità non avrebbe concesso loro una reale chance di uscirne più o meno indenni.

L'uomo non perse tempo, sgusciando oltre Clint per infilarsi sgraziatamente e a forza nell'intercapedine tra i due sedili anteriori per raggiungere quello del passeggero.

“Dottore!” Il pensiero successivo di Natasha fu per Banner. “Come stiamo messi là dietro?”

“U-Una favola,” biascicò quello. Rannicchiato com'era nell'angolo più interno del materasso, subito alle sue spalle, non le riuscì di scorgere la sua espressione.

Aspettò che Thor afferrasse almeno il volante, operando un brusco cambio di posto che arrestò il furgone per un paio di istanti, prima che il gigante biondo prendesse finalmente il controllo, accelerando ancora.

“Bruce,” Glock alla mano, Natasha poté finalmente occuparsi di Banner. Aveva una pessima cera, la fronte ricoperta da un velo di sudore, il respiro corto, le braccia contratte attorno al suo borsone da viaggio. “Tutto a posto?”

Non fece in tempo ad ottenere risposta che Clint, probabilmente decretandolo un momento opportuno, spalancò il portellone laterale, sporgendosi letteralmente fuori dal veicolo per scoccare la sua prima freccia.

“M-Mai stato meglio.” La voce del dottore tornò a distrarla.

“Forse è il caso di tirar fuori quel sedativo.”

“C-Credo che sia... u-un'ottima idea,” convenne debolmente, senza tuttavia riuscire a muovere neanche un muscolo.

Intanto il rumore di quella che le era sembrata un'Uzi cessò di colpo, segno che Clint era riuscito a mettere fuoriuso almeno uno dei passeggeri del SUV scuro, che non sembrava avere la benché minima intenzione di lasciarseli sfuggire.

Natasha datti una cazzo di mossa. Attualmente, le condizioni del dottore la preoccupavano di più degli assassini furiosi che avevano alle calcagna. Mise rapidamente in ordine le proprie priorità, decidendosi infine a strappare la borsa dalle mani dell'uomo alla ricerca del sedativo. Il buio pressoché totale e il vento che si infilava a forza dal portellone aperto non l'aiutarono affatto nelle operazioni.

“Dov'è?” Domandò, vedendosi costretta ad urlare pur di farsi sentire.

“Una... u-una scatolina lunga, di metallo.”

L'ennesima cascata di proiettili l'assordò per un interminabile istante: Clint si era ritirato all'interno del furgone, approfittando della copertura di alcune delle infinite cianfrusaglie che si ritrovavano là dietro.

Natasha saggiò freneticamente la consistenza di tutto ciò su cui riuscì a metter mano (camicie, intimo, biscotti, quello che le sembrò un kit per il pronto soccorso, un accendino, strumenti di laboratorio di vario genere), finché le sue dita non si richiusero su quello che faceva al caso suo. Ne sollevò il coperchio, afferrando una delle dieci fialette ordinatamente disposte e l'unica siringa disponibile.

“Riesci a farcela da solo?” Gli chiese con urgenza, togliendo il cappuccio all'ago per conficcarlo nella linguetta argentea della dose di sedativo con estrema agilità.

“P-Penso di sì,” balbettò il dottore, annuendo tanto vigorosamente da farle capire che non era affatto sicuro della veridicità della propria risposta. Gli afferrò una mano, guidandola attorno all'impugnatura della siringa, obbligandolo a serrarci sopra la presa.

“Andrà tutto bene.”

“C-Certo.”

Non ebbe altra scelta che fidarsi di lui, lasciarlo alle proprie manovre e affiancare finalmente Clint.

“Quanti sono?”

“Quattro... adesso due,” fu la pronta, asciutta risposta.

“Del prossimo me ne occupo io. Possiamo alternarci.”

“Sono perfettamente in grado d-”

“Se finisci quelle tue cazzo di frecce siamo nella merda,” si ritrovò a puntualizzare con un po' troppa verve. “Tu prova ad atterrargli le ruote, io mi occupo di quei figli di puttana.”

Anche nella semi-oscurità che regnava tutt'attorno, Natasha riuscì a distinguere i tratti contriti del suo volto, le linee del viso ancora scavate nonostante la concentrazione che sembrava conferirgli una certa, imperscrutabile solidità.

“Va bene,” acconsentì infine, chinandosi di fianco al portellone, arco alla mano, mentre Natasha si sistemava alle sue spalle, in piedi. Nel momento esatto in cui l'ennesima sventagliata di fuoco si placò, scattarono entrambi in azione, sporgendosi oltre il portellone per prendere la mira.

Adattandosi all'ingombro dell'arma dell'arciere, Natasha riuscì a colpire un paio di volte l'uomo che stava occupando il sedile posteriore di destra, decisamente troppo lento a rientrare nella copertura offerta dall'abitacolo. Clint, d'altro canto, era sul punto di scoccare la sua ennesima freccia, ma una brusca sterzata di Thor gli fece perdere l'equilibrio, impedendogli di piazzare il colpo.

“Cazzo!”

Natasha rientrò in tutta fretta, lanciando una rapida occhiata al dottore: la testa riversa all'indietro, le palpebre semichiuse, la siringa ancora conficcata in una coscia. Se non altro non avrebbero avuto un altro problema da aggiungere alla lista che andava via via infittendosi con ogni secondo che passava. Fu di nuovo su Clint, vedendolo incoccare ben due frecce, pronto a tornare in azione.

“Sei impazzito?” Non poté impedirsi di chiedere, chinandosi su se stessa mentre alcuni proiettili raggiungevano il lato di sinistra del veicolo: i tiratori di destra erano già stati eliminati, ma il furgone non concedeva la possibilità di prendere decentemente la mira dall'altra parte. Certo, potevano rischiare di sfalzare l'allineamento dei due veicoli, ma in quel caso avrebbero offerto una linea di tiro pulita dritta dritta nel loro fianco scoperto.

“No, non possiamo impedire agli altri due di sparare,” furono le poche parole che ricevette in risposta.

“E quindi?”

“Quindi ho intenzione di atterrare due gomme in un colpo solo,” decretò seccamente. “Coprimi.”

Non ebbe il tempo di ribattere che Clint già si muoveva per riprendere il suo posto oltre il portellone. Si lanciarono un brevissimo sguardo di intesa prima di sporgersi sul vuoto della strada: Natasha cominciò a sparare verso il parabrezza, sperando che la pioggia di fuoco scoraggiasse i due tiratori ancora attivi a non abbandonare il riparo dell'abitacolo.

Furono solo pochi secondi che le parvero, piuttosto, lunghi un'eternità: il suono del grilletto che veniva premuto a vuoto le fece scendere il gelo nello stomaco, annunciandole che aveva esaurito le munizioni. Trattenne malamente il respiro mentre un innaturale silenzio li avvolgeva. Gli occupanti del SUV dovevano aver deciso che era finalmente arrivato il loro turno: il clic delle armi ricaricate la fece inorridire. L'auto nera sbandò di lato, avvicinandosi pericolosamente al limite dell'asfalto per disallineare le loro posizioni, permettere ai tiratori di sinistra di poter puntare direttamente all'interno del furgone.

La deflagrazione di due spari contemporanei le rimbombò nelle orecchie.

“Clint!” Il suo nome le uscì senza che l'avesse preventivato.

L'arciere lasciò finalmente andare la corda tesa fino all'inverosimile: le frecce partirono con un sibilo, fendendo l'aria come un coltello nel burro. Lo afferrò malamente per un braccio, riuscendo a strattonarlo all'interno del furgone prima di sentirlo urlare.

Un boato assordante li raggiunse alle spalle: i dardi avevano trovato le loro vittime designate. In mancanza della stabilità delle ruote sinistre e sotto l'impeto della velocità alla quale stava procedendo, il SUV si accasciò violentemente su un lato, riempiendo l'aria del caos delle lamiere che incontravano l'asfalto in una fontana di scintille accecanti.

“Merda,” un'imprecazione carica di nevrotico sarcasmo andò a mischiarsi con le inquisizioni agitate di Thor.

“Concentrati sulla strada!” Gli gridò prima di tornare a prestare attenzione a Clint.

Solo allora Natasha si rese conto di esserglisi letteralmente gettata addosso e che una grande quantità di sangue stava cominciando a scendergli giù per l'avambraccio.

L'arciere era stato colpito.

 

*

 

“Thor, riaccendi i fari!”

Il dolore era tanto e tale, che il suo unico orecchio buono non sembrava intenzionato a registrare il benché minimo suono. Capì solo che Natasha aveva dato l'ordine quando i suoi occhi tornarono a distinguere l'interno del furgone, adesso fiocamente illuminato dalla piccola luce alogena sistemata tra il davanti e il retro della vettura.

“C-Cazzo,” si sentì di ripetere, giusto per non rimanersene lì, con le mani in mano.

Non era sicuro della dinamica dei fatti: l'unica cosa che aveva capito era che era riuscito a mettere a segno un cazzo di colpo da maestro che gli aveva permesso di mandare a fanculo quel maledetto macchinone. Ne era stato capace nonostante le pessime condizioni in cui si trovavano in quel momento, a dispetto della mancanza di una visuale quantomeno decente, del continuo spostarsi del veicolo lungo la carreggiata e della variabile costituita dal vento. Ma era stato troppo lento a rientrare: uno degli ultimi proiettili che quei dannati figli di puttana erano riusciti a scagliar loro contro, l'aveva colpito appena sotto la spalla sinistra. Quello di cui non era sicuro era se fosse stato l'impatto con lo sparo a respingerlo violentemente all'interno del furgone o se era stata Natasha a metterlo presumibilmente in salvo con poca, pochissima grazia. Non ricordava neanche se il proiettile l'avesse raggiunto prima o dopo essersi sentito strattonare all'indietro: se così fosse stato, allora c'era una vaga possibilità che quel colpo mirasse ad un'area ben più vitale del suo braccio.

“Sta' fermo.” La voce di Natasha, subito dopo il boato del portellone che si richiudeva, arrivò ad interrompere tutte quelle riflessioni estemporanee ed inutili.

“Hai visto? C-Ce l'ho fatta.”

“Ho visto,” convenne lei dopo avergli lanciato un'occhiata indecifrabile. “Riesci a metterti seduto?”

Clint rifletté attentamente: a parte un intenso bruciore alla spalla e un fastidioso pulsare che si trasformava in vero e proprio dolore solo a tratti, si sentiva bene. In forma... per quanto in forma si potesse sentire uno a cui hanno appena sparato.

Lasciò che la donna gli sfilasse di mano arco e frecce senza protestare (almeno non vocalmente), senza aspettare alcuna istruzione specifica per tirarsi su col busto e appoggiarsi alla parete retrostante, crivellata di colpi.

“C-Che palle,” esalò, mentre Natasha gli si riavvicinava per esaminare la ferita. “Sei pure un'esperta crocerossina?” Si detestò per il modo in cui si ritrovò a rivolgerlesi: la donna riusciva a mandarlo sui nervi facendo più o meno qualsiasi cosa. Il che – sospettava – dipendeva probabilmente da una serie di riflessioni con se stesso che Clint stava accuratamente (disperatamente) tentando di evitare ormai da un pezzo.

“Fottiti,” fu la sua sintetica risposta.

“Mi mancherà sentirmi m-mandare a farmi fottere... con tutta questa i-insistenza.”

“Rallegrati,” lo rassicurò lei, “ne avrai ancora per un po'. Il proiettile ti ha passato da parte a parte.” La sua voce gli risuonò diversa, un po' come la prima volta che gli aveva parlato di suo padre: nessuna traccia d'accusa, nessun nervosismo o voglia di farlo a pezzi. Pacata.

“Che culo.” Si passò una mano sul viso, sentendo la testa girargli leggermente. Aveva fame e sete e un nodo allo stomaco che non pareva intenzionato a sciogliersi tanto presto, nonostante si fossero lasciati alle spalle l'attrazione principale della serata.

Le scoccò un'occhiata storta mentre armeggiava con il borsone del dottore – che, per la cronaca, era ancora mezzo addormentato nel suo angolo – per estrarne quello che riconobbe essere un kit di pronto soccorso. Thor li stava spiando attraverso lo specchietto retrovisore, un'espressione contrita sul volto: a giudicare dal modo in cui si stava tenacemente aggrappando al volante, il siparietto-sparatoria non era esattamente stato di suo gradimento. Clint non lo biasimava minimamente.

“E' il tuo cliente, giusto?”

Sbatté le palpebre tornando a mettere a fuoco il volto di Natasha, impegnata a fare qualcosa di non meglio definito al suo fianco.

“Chi?”

“Quelli... erano gli scagnozzi del tuo cliente.”

La preoccupazione e l'ansia che l'avevano tormentato per tutto il giorno si acuirono nuovamente, imponendosi ferocemente alla sua attenzione, reclamando di essere presi in considerazione una volta per tutte. Aveva cominciato a sospettare quando il telefono non aveva squillato allo scadere delle quarantotto ore: aveva passato l'intera notte insonne alla ricerca di una scusa sufficientemente credibile per giustificare l'ennesimo ritardo nel completamento della missione, ma la signora Drakov non l'aveva mai contatto per aggiornamenti. Se una parte di lui si era voluta illudere ad ogni costo che, magari, se n'era semplicemente dimenticata, o che forse aveva avuto degli impegni inderogabili che le avevano fatto momentaneamente passare di mente l'esistenza dell'arciere-ladro-spia che lei stessa aveva assoldato per eliminare l'assassina di sua figlia; l'altra, quella razionale che non accettava stronzate di alcun tipo, sapeva che non era un buon segno, che la loro ultima telefonata doveva aver avuto conseguenze ben peggiori di quanto avesse inizialmente immaginato.

L'aveva fatta incazzare. Elizaveta Drakov si era probabilmente resa conto che contattare Hawkeye era stato un pessimo affare e che, dopotutto, non era più interessata a mantenere attiva la loro collaborazione.

“Penso di sì,” esalò infine, trovandosi terribilmente in difficoltà nel sostenere lo sguardo inquisitore della donna. Non che avesse bisogno di chissà quale conferma: Clint si era accorto che Natasha aveva la situazione fin troppo chiara. Era quella una delle doti della donna che più lo facevano uscire di testa, il modo in cui osservava disinteressatamente tutto ciò che la circondava, intuendo processi e meccanismi che sarebbero risultati oscuri ai più, ma non a lei, dannatamente perspicace com'era.

“Suppongo che tu sia di nuovo disoccupato, allora,” suggerì a mezza voce, spruzzando un liquido dall'odore acre su una garza pulita prima di passargliela sul foro che il proiettile aveva scavato nella sua carne. Il dolore fu tanto acuto ed immediato che mancò poco gli strappasse un gemito stonato. Serrò le labbra e trattenne il respiro, impedendosi di emettere il benché minimo suono.

“G-Grazie della precisazione,” ci tenne a sottolineare, non appena fu più o meno sicuro di non rischiare una figura di merda.

“Perché ti ha assoldato?” Una veste di artefatta nonchalance accompagnò la sua domanda.

“Per vendicare la morte di sua figlia.” Non esitò a rispondere, tanto ormai che importanza poteva avere? Clint dubitava fortemente che esistesse un modo più concreto ed efficace per comunicare la volontà di rescindere un contratto che mandare degli energumeni inferociti a distribuire pallottole a destra e a manca.

Natasha non aggiunse nient'altro e si limitò a procedere con le sue operazioni. Dopo aver disinfettato la ferita su entrambi i lati, la fasciò con delle bende sottili fermandole con un pezzo di scotch di carta.

Approfittò della sua concentrazione per scrutarla in viso a distanza ravvicinata: non aveva l'aria dell'assassina. Certo, aveva scoperto che sapeva essere incredibilmente pericolosa quando voleva, ma c'era qualcosa nei suoi occhi che non smetteva di dargli un'idea di... ingenuità, forse. Si poteva essere ingenui e letali al tempo stesso?

“Deve aver rintracciato il telefono.” La donna riprese la parola dopo un paio di istanti di completo silenzio. “Dovresti sbarazzartene.”

Clint annuì, dandole tacitamente l'assenso per andare a recuperare la sua sacca ancora abbandonata sul sedile del passeggero e ripescarne il cellulare prepagato. Aveva un'aria talmente innocua: sembrava impossibile fosse stato quel coso inerte a comunicare la loro posizione agli scagnozzi della signora Drakov. Osservò Natasha mentre schiantava il telefono contro il bordo della cassetta degli attrezzi miracolosamente sopravvissuta all'andatura impazzita che il furgone aveva mantenuto durante l'inseguimento.

“Mi devi ben due milioni di dollari,” le rammentò, più divertito e pacificato che ostile.

Si sarebbe persino vergognato ad ammetterlo a chiunque altro oltre che a se stesso, ma si sentiva sollevato: la decisione che l'aveva tormentato assiduamente, giorno e notte, era appena sfumata nel niente. Non era più compito suo scegliere tra la vita di Natasha e il lauto compenso che la signora Drakov gli aveva offerto in cambio dei suoi servizi. Era un pensiero da vigliacchi, se ne rendeva perfettamente conto. O forse era solo contento di non dover riconoscere che tutti quegli anni trascorsi a convincersi che la priorità era occuparsi solo ed esclusivamente di se stesso e delle proprie necessità, senza guardare in faccia niente e nessuno, erano stati del tutto inutili. Una mera illusione di guarigione da quelle tendenze fastidiosamente altruistiche che l'avevano messo ripetutamente nei guai, che gli erano inevitabilmente connaturate.

Quale che fosse la conclusione alla quale era arrivato, i fatti rimanevano: aveva preferito infilarsi in un'assurda serie di guai piuttosto che conficcare una delle sue frecce nel cuore della donna. Non importava quanto forte e quanto insistentemente avesse strepitato ai quattro venti che l'avrebbe fatta fuori, prima o poi. Si rendeva conto, adesso, nonostante stesse cercando disperatamente di non prenderne atto, che aveva semplicemente rimandato quel momento giorno dopo giorno, non perché avessero stretto quel bizzarro accordo, ma perché non voleva ammazzarla.

“Non hai l'aria di esserci rimasto poi così male,” gli fece notare. Si era seduta sul lato opposto del furgone, occupando l'angolo di materasso che il dottore aveva lasciato libero.

“Era un lavoro nato storto comunque,” liquidò la cosa, controllando distrattamente la fasciatura al braccio. “Dove hai imparato a farlo?”

“Mio padre.” Scrollò leggermente le spalle, come si fosse trattato di un dettaglio di nessuna importanza. “Se non ti fidi ti basta aspettare che Bruce si svegli.”

“Mi fido,” si affrettò a replicare senza realizzarlo fino in fondo. “E poi il dottore non si sveglia neppure con le cannonate.”

Un'impercettibile risata parve scuoterla leggermente.

“Se non altro qualcuno di noi riesce a riposare.”

“Dillo a me. Comincio a vederci pure doppio.”

“Ti hanno appena sparato,” obiettò lei.

“Sul serio?” Le rivolse un ampio sorriso, sgranchendo finalmente i muscoli – ormai quasi atrofizzati – del viso. “Non me n'ero accorto.”

 

*

 

2 ore dopo
nei pressi di Birmingham, Alabama

 

Stando alle indicazioni stradali, mancava meno di un miglio al loro imminente ingresso a Birmingham: la città coi suoi grattacieli e edifici scintillanti, si stagliava in lontananza sulla linea dell'orizzonte. Avrebbero avuto bisogno di una mappa per individuare l'indirizzo riportato sul biglietto che il dottor Banner aveva ricevuto, ma Natasha contava comunque di poter risolvere celermente la faccenda, sperando che Steve Rogers, chiunque egli fosse, si lasciasse convincere a seguirli o quantomeno ad affidar loro il contenuto del pacchetto che gli era stato recapitato (o così si supponeva), senza opporre troppa resistenza.

Al calare dell'adrenalina, fame e sete – che li tormentavano ormai da tutta la notte – erano tornate a farsi sentire, reclamando l'attenzione di tutti.

Thor aveva proposto di fermarsi al drive-through di un fast food che avevano scorto in lontananza, ed era lì che erano andati ad arenarsi.

“Allora, tre cheeseburger, un hamburger, due toast, patatine per tutti e...,” Bruce si bloccò, grattandosi la sommità del capo con la matita che aveva usato per scarabocchiare le ordinazioni su un pezzo di carta qualunque, “... cos'è che avevi detto?” Si voltò verso di lei, lanciandole un'occhiata confusa.

“Un tè.”

“Oh, giusto,” si rammentò improvvisamente.

“E un caffè,” intervenne Clint. “Prendimi anche una birra.”

“Non sono nemmeno le nove del mattino,” protestò Bruce. “E comunque con gli antidolorifici che hai preso non puoi assumere alcool.”

L'arciere sospirò in modo tanto teatrale da strapparle un sorriso, abbandonato com'era sul retro, il braccio ferito ancora fasciato e la sacca contenente l'arco possessivamente stretta in quello sano.

“Un caffè nero, allora,” si arrese. “Triplo.”

“Non mi stupisce che tu sia sempre così nervoso,” asserì il dottore.

Finalmente la station wagon grigia che bloccava loro la strada riprese a procedere, permettendo a Natasha di avanzare e fermarsi davanti alla schermata che riportava il menù del ristorante.

“Benvenuti da Wendy's, il mio nome è Bella, come posso esservi utile?” Un'assonnata voce femminile li raggiunse dallo speaker, trattenendo a stento uno sbadiglio.

Natasha squadrò l'infernale aggeggio che aveva appena parlato, lanciando un'occhiata perplessa in direzione di Bruce, seduto al suo fianco.

“Basta che le comunichi le ordinazioni,” la incoraggiò quello, passandole il foglietto stropicciato su cui aveva segnato... parole incomprensibili. Non si sorprese più di tanto nello scoprire che il dottor Banner, esattamente come ogni suo altro collega che si potesse definire tale, aveva una calligrafia indecifrabile.

“Ci siete?” Bella cominciava a spazientirsi.

Si affrettò ad elencarle – più a memoria che affidandosi alla lista di Bruce – i vari piatti, sporgendosi un poco fuori dal finestrino per assicurarsi che la donna riuscisse a sentirla.

“Sono... quarantasette dollari e settantaquattro centesimi,” dichiarò Bella in tono monocorde, “le vostre ordinazioni vi aspettano proprio dietro l'angolo. Grazie per aver scelto Wendy's e buona permanenza a Birmingham.”

Natasha seguì le istruzioni della donna, fermandosi davanti ad una finestra aperta oltre la quale alcuni dipendenti in t-shirt blu andavano muovendosi a rilento, inscatolando e insacchettando i cibi in confezioni di forme e dimensioni diverse. Un ragazzo che doveva avere meno di vent'anni, si sporse verso di lei senza neanche degnarla di uno sguardo, consegnandole un'enorme busta di carta e prendendosi in cambio la banconota da cinquanta che gli stava porgendo.

“Arrivederci,” salutò con aria annoiata, restituendole il resto con una mano guantata. “Il prossimo.”

“Non c'è nessun prossimo,” fece notare Thor, mentre Natasha passava la busta a Bruce e Clint, impaziente, si rimetteva in piedi sul retro per avere la propria razione di cibo.

“Strano,” commentò il dottore. “Ero convinto che ci fosse qualcuno dopo di noi.”

“Che importanza ha? Ho fame,” si lamentò l'arciere, andando a tediarlo sul sedile anteriore affinché gli passasse il suo cheeseburger.

L'ennesima, pessima sensazione si impossessò di lei. Era vero che non erano stati gli ultimi a deviare verso il drive-through del ristorante...

Strinse leggermente il volante tra le mani, decidendo che – quale che fosse la situazione – non aveva molta altra scelta se non quella di avanzare e reimmettersi in strada per macinare gli ultimi metri che li separavano da Birmingham.

Fece appena in tempo a sbucare sulla carreggiata, Clint ad addentare il suo cheeseburger, Thor a ingollare il suo in due miseri morsi e Bruce a cercare un fazzoletto con cui pulirsi gli occhiali, quando uno stuolo di sirene e luci lampeggianti rosse e blu non li investì bruscamente, costringendo Natasha a frenare di colpo.

La polizia li aveva appena circondati.


__________________________________________

Note:
E per un pericolo appena scampato, ne arriva un altro fresco fresco. La questione Drakov verrà archiviata per un po' mentre i nostri dovranno trovare un modo per liberarsi della polizia. Intanto l'universo ha finalmente concesso a Clint una scusa valida per non uccidere Natasha (sono convinta ne avesse a bizzeffe, ma poca intenzione di prenderne realmente atto). Faremo la conoscenza del penultimo Vendicatore nel prossimo capitolo... ma non dico nient'altro :P
Ringraziamenti come sempre alla sclerosocia Eli :* e a chiunque mi segua, leggendo, commentando, spulciando, ecc. Apprezzo tantissimo :')
Alla prossima!
S.

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Capitolo 10
*** 10/20 ***


- Capitolo 10 -

 

 

L'olezzo di piscio e vomito aleggiava nella cella in cui li avevano rinchiusi mentre i poliziotti facevano i dovuti accertamenti, ai quali – Clint ne era più che sicuro – non sarebbe seguito proprio niente di buono. Aveva pensato che niente di peggio avrebbe potuto seguire l'attacco degli scagnozzi di Elizaveta Drakov, ma più passava il tempo e più si vedeva costretto a scendere a patti col fatto che si sbagliava.

Appoggiato col braccio sano alle sbarre, seguiva distrattamente l'andirivieni delle guardie su e giù per lo stretto corridoio pitturato di un azzurrino improponibile. Alle sue spalle Fat Pat (o almeno così dicevano i suoi tatuaggi) russava sonoramente e un spilungone alto e calvo si era appropriato della tazza del cesso per rimettervi il contenuto del proprio stomaco... ripetutamente.

Thor aveva preso posto sull'altra panca libera, i gomiti piantati sulle ginocchia e un'espressione stanca fissa in un punto qualunque del pavimento lercio. Bruce, invece, misurava nervosamente i pochi metri quadri che costituivano la cella, togliendosi, pulendosi e rinfilandosi gli occhiali a più riprese.

“Questa proprio non ci voleva,” lo sentì borbottare.

Per la prima volta da che l'aveva conosciuto, Clint si ritrovò a sperare che perdesse la testa: la totale uscita di senno di un detenuto era un valido motivo per liberarli, giusto? Magari bastava farlo incazzare ancora un po' perché il suo inconscio sguinzagliasse finalmente il mostro, garantendo loro una via di fuga. Oppure sarebbero morti prima che il poliziotto più vicino riuscisse a trovare la chiave giusta.

Non gli sembrava comunque un'idea totalmente pessima. Se la fame e la sete erano ancora delle priorità (al commissariato si erano limitati ad offrir loro un bicchiere d'acqua ciascuno), tutta la sua attenzione era stata catalizzata dalla consapevolezza che quei dannati farabutti era in possesso, non solo dei documenti che attestavano la sua identità, ma anche del suo prezioso arco. I lavori che aveva portato a termine erano sempre stati puliti, precisi: salvo un paio di volte in cui non aveva potuto proprio fare altrimenti, si era sempre ben guardato dal lasciare tracce che potessero ricondurre a lui. Se nel sistema c'erano informazioni su un qualche caso irrisolto che menzionava l'uso di un determinato tipo di frecce, allora era fottuto. La sua tranquilla esistenza sarebbe andata completamente a puttane e, per quanto sapesse che la vita che conduceva non era esattamente un granché, non era del tutto pronto a lasciarla andare. Non per passare il resto dei suoi giorni in gattabuia, comunque.

“Stai calmo, doc. Adesso verranno a tirarci fuori.”

Lo scenario in cui Banner impazziva proprio mentre li portavano via, lo soddisfaceva un po' di più. Sarebbe stato il diversivo perfetto per attirare altrove l'attenzione dei poliziotti e approfittare del putiferio per filarsela dall'ingresso principale. Certo, il dottore ne avrebbe dovuto pagare le conseguenze, e il pensiero di doverlo sacrificare non faceva che stuzzicare il suo senso di colpa, ma meglio uno che tutti e quattro, no?

Il conteggio dei membri del gruppo fece sì che il pensiero di Natasha tornasse a tormentarlo: in quanto unica presenza femminile dello sbandato quartetto che erano, era stata portata in un'ala diversa del commissariato, dove si stava sicuramente godendo la compagnia di qualche prostituta fermata durante la notte e di un paio di ubriache ancora impegnate a smaltire la sbornia della serata appena conclusa. Clint riusciva a figurarsi la scena con straordinaria vividezza (l'idea che fosse sola, poi, lo irritava più di tutto il resto).

“Sono calmo,” assicurò Bruce, più per convincere se stesso che lui. “Era da troppo che non mi capitava.”

“Sei già stato al fresco?” Gli domandò, sperando che un po' di conversazione lo distraesse dal preoccupante fulcro di quell'intera questione. Clint dubitava che qualcuno sarebbe arrivato a liberarli e tantomeno a far loro sconti per... uno qualsiasi dei crimini che avevano commesso nelle ultime ventiquattro ore.

“Più di una volta,” ammise. “L'Altro non risponde granché bene alle autorità.”

Clint sbuffò una risata, portandosi distrattamente una mano al braccio fasciato di fresco (l'infermiere del commissariato era stato molto meno delicato di Natasha).

“L'Altro ed io potremmo essere grandi amici.”

“Quando non è impegnato a prenderti a pugni,” concesse il dottore.

“Tutti i miei amici mi hanno preso a pugni almeno una volta,” prima di andarsene più o meno a fanculo, aggiunse a suo esclusivo beneficio.

“E tu, Thor?” Bruce si era rivolto al gigante biondo che solo in quell'istante aveva rialzato lo sguardo dal pavimento.

“Come?” Non sembrava aver seguito la conversazione.

“Sei mai stato al fresco?”

Clint lo vide annuire appena, prima di abbozzare un sorriso affatto convincente. “Per circa un anno.”

“Cazzo.”

“Wow.”

“Ho quasi ammazzato un avversario... sul ring,” mormorò, offrendo una delucidazione che nessuno dei due aveva incoraggiato. Ricordò il breve scambio al pub di Puente Antiguo con Brandy, la cameriera, il modo in cui aveva intuito che dopo aver assistito al crollo della sua nascente carriera, doveva anche aver passato dei guai con la legge; guai che l'avevano spinto a seguire la moglie in quel cesso di cittadina incastrata nel deserto.

“Abbiamo fatto tutti cose di cui non siamo fieri,” convenne Bruce, lanciandogli un'occhiata comprensiva che Thor non mancò di registrare con un impercettibile cenno del capo. Forse un ringraziamento.

“Probabilmente ne dovremo fare altre,” aggiunse Clint. Comunque fossero andate le cose, era più che determinato ad uscire di lì ad ogni costo. Potevano accusarli di furto, guida pericolosa, uso improprio di armi da fuoco non registrate e... probabilmente un centinaio di altri reati minori a cui non riusciva neanche a pensare. Magari ci sarebbe stata un'udienza, forse anche un processo. In ogni caso, era sicuro che – prima o poi – sarebbe arrivata l'occasione giusta per darsela a gambe.

Il respiro raschiante di Fat Pat si era intensificato di colpo, sovrastando ogni altro rumore, incluso quello dei conati di vomito dello spilungone ancora accasciato nell'angolo del cesso.

Decisamente, avevano visto giorni migliori.

Clint scosse il capo, spettinandosi i capelli con una mano proprio mentre dei movimenti oltre le sbarre attirarono la sua attenzione: alcuni agenti si stavano muovendo nella loro direzione, chiavi alla mano.

“Banner, Blake e Barton. Mani,” ordinò uno, battendo il manganello sulle sbarre in uno sgradevole invito.

Thor si alzò dalla sua postazione sulla panca e Bruce fu costretto ad interrompere il suo ansiolitico viavai: tutti e tre offrirono i polsi all'agente, che provvide ad ammanettarli in rapida sequenza.

“Indietro,” un altro intimò, aspettando che si fossero allontanati dalla porta prima di farne scattare la serratura.

“Forza,” l'agente che completava il trio, “tempo di rispondere ad un po' di domande.”

Mentre li portavano via, il cielo solo sapeva dove, Clint socchiuse gli occhi, pregando con tutto se stesso che l'Altro si decidesse a degnarli della sua presenza.

 

*

 

Natasha fece scorrere lo sguardo sulle pareti ingiallite della stanza in cui l'avevano appena rinchiusa. C'era solo un tavolo ad occuparla e un paio di sedie metalliche. Un neon traballante diffondeva la sua luce intermittente tutt'intorno, riflettendosi sul finto specchio che – probabilmente – si affacciava su un corridoio o un ambiente adiacente di altro tipo.

L'agente che si era occupata di lei – una ciarliera Karen Higgs – le aveva assicurato che non avrebbe dovuto aspettare a lungo prima che qualcuno arrivasse ad interrogarla. La consapevolezza di essere stata catturata e ancora di più l'allontanamento dal resto del gruppo, l'aveva fatta sentire, per la prima vera volta dagli eventi di San Paolo, sola e spaesata. Sembrava che il sogno allucinato di quegli ultimi giorni fosse destinato a concludersi così, in una stazione di polizia di Birmingham, in Alabama, ad un passo dalla conclusione della bizzarra caccia al tesoro che aveva tanto insistito per intraprendere.

Adesso, più che in qualsiasi altro momento, sentiva il bisogno di qualcuno che le desse delle direttive, che le tenesse la mano e le dicesse di non preoccuparsi, qualcuno che avesse tutte le risposte, lasciandole l'ingrato compito di eseguire meccanicamente gli ordini. Tutto il resto sarebbe andato a posto. Clint aveva ragione: l'unico motivo per cui si era ostinata ad andare avanti, era che non aveva nient'altro. Nessun altro. Scampata alla prospettiva di venir giustiziata dall'arciere, le sue opzioni si erano ridotte ad una sola: andarsene in giro nella speranza di trovare qualcuno che l'assoldasse per permetterle di guadagnarsi da vivere nell'unico modo in cui era capace. Rubando, estorcendo, uccidendo, risolvendo problemi di vario genere.

Ricominciare da capo una vita normale, sotto falsa identità, mischiarsi alla gente comune, cercarsi un lavoro ordinario, le sembrava un scenario assolutamente improbabile. Smettere di fare quello che Ivan l'aveva addestrata a fare, sarebbe stato come disimparare a respirare o camminare. Innaturale ed inutile.

L'arresto, però, apriva una nuova strada: poteva sempre confessare tutti i suoi crimini e garantirsi un posto in carcere da lì alla fine dei suoi anni. Chiunque sarebbe stato felice d'averla e, soprattutto, di poter sbandierare al mondo intero di aver catturato una pericolosa criminale internazionale. Forse l'avrebbero estradata in Brasile affinché potesserlo punirla come meritava per l'incendio dell'ospedale. O magari gli uomini della Drakov sarebbero tornati all'attacco, piantandole una pallottola tra gli occhi prima che potesse anche solo accennare ad uscire dal paese.

Si stava chiedendo se avrebbe mai rivisto i suoi compagni di viaggio, sforzandosi di metabolizzare la sensazione affatto familiare che si ostinava a crescerle in petto, quando la porta della stanza si riaprì, lasciando entrare l'ennesimo agente. Portava con sé due sedie, uguali a quelle su cui Karen l'aveva stucchevolmente invitata a sedersi, che sistemò alla sua destra. Natasha lo vide sparire e ricomparire con un'altra che dispose, stavolta, alla sua sinsitra.

“Che sta succedendo?” L'uomo non le rispose, limitandosi ad uscire per poi richiudersi la porta alle spalle.

Da quando in qua gli interrogatori venivano condotti con tutti i sospettati insieme? Ivan le aveva insegnato tutte le tecniche del perfetto inquisitore e nessuna di quelle prevedeva la presenza di così tante persone. Forse speravano che finissero per tradirsi o vendersi l'un l'altro?

Non ebbe il tempo di formulare la benché minima ipotesi che la porta si riaprì per permettere a Bruce, Clint e Thor di entrare, quest'ultimo costretto ad abbassare il capo per non battere una testata contro lo stipite più alto.

Presero tutti frettolosamente posto accanto a lei. Il dottore, evidentemente in difficoltà, si limitò a tenere lo sguardo basso, concentrandosi su quelli che Natasha riconobbe come i suoi esercizi di respirazione. Thor le scoccò una rapida occhiata, quasi non avesse mai nutrito alcun dubbio riguardo la possibilità di rivederla a breve.

“Stai bene?” Clint fu l'unico ad interpellarla, mentre occupava la sedia libera alla sua sinistra.

“Bene,” confermò, “tu?”

“Sono stato peggio.”

“Il braccio?”

“A posto,” la rassicurò con una leggera scrollata di spalle.

Natasha fece per aggiungere qualcos'altro, magari mettere insieme un qualche piano di fuga, lì su due piedi, ma l'arrivo di un uomo in giacca e cravatta la distolse dal suo proposito.

Era alto e ben piazzato, spalle larghe, capelli biondicci tagliati corti e le guance sbarbate di fresco. Portava con sé un fascicolo e una busta di carta bianca che Natasha non riconobbe. Le apparve, da subito, fin troppo giovane per ricoprire un grado tanto alto nella gerarchia delle forze dell'ordine: a giudicare dall'abbigliamento doveva essere un tenente o un capitano.

“Quindi,” fu lo sconosciuto a prendere la parola, occupando l'unica sedia sull'altro lato del tavolo, “Donald Blake, Bruce Banner, Clint Barton e... Natalie Rushman.”

Dovevano aver rovistato tra i loro effetti personali finché non avevano trovato i loro documenti falsi, rivisti o autentici che fossero. In quel momento era più preoccupata per le armi di Clint, la Glock che gli aveva requisito e la borsa piena di medicinali più o meno legali di Bruce.

Le sembrò, tra l'altro, che l'uomo fosse particolarmente interessato al dottore, dettaglio che la sorprese: avrebbe giurato che il più in vista tra i quattro fosse Thor (sempre che la cameriera di Puente Antiguo non avesse esagerato quando ne aveva decantato i trascorsi sportivi).

“Avete fatto un sacco di strada dall'Arizona,” constatò lo sconosciuto, “su un furgone rubato per di più.”

Possibile che il motivo dell'arresto fosse il furto e non la sparatoria con gli uomini dell'ex-cliente di Clint? Possibile che fossero scampati alle loro grinfie solo per finire in una nauseabonda cella dell'Alabama?

“Qualcuno mi vuole spiegare perché?” Lo sguardo dell'uomo li passò in rassegna uno ad uno, finché l'arciere non si decise a prendere la parola.

“Per come la vedo io, gli abbiamo fatto un favore.”

“Al signor,” controllò il fascicolo finché non ebbe trovato l'informazione che cercava, “al signor Guthrie.”

“Esattamente. E anche a lei, in un certo senso. Non so se l'avete guardato per bene, ma ha l'aria di essere il furgone di uno che fomenta la prostituzione o, peggio, rapisce bambini adescandoli con palloncini colorati.”

Natasha fece fatica a mantenere un'espressione neutrale, mentre Thor neanche si sforzò di farlo; Bruce era ancora chinato in avanti, le dita contratte le une sulle altre.

“Suppongo sia un modo di vederla, signor Barton,” convenne il poliziotto, “ma rimane comunque furto.”

“Furto a fin di bene.”

“Dipende dai punti di vista.”

“Scelga lei a quale preferisce dar credito, agente.”

“Sono solito dar credito solo alla verità,” decretò con fermezza, quasi volesse rimproverarlo delle sue malefatte per impartirgli una qualche lezione di vita, piuttosto che minacciarlo con un'imminente punizione. “Capitano, comunque.”

“Non si scomodi, mi può chiamare Clint.”

Lo sconosciuto accennò un sorriso sinceramente divertito, scuotendo leggermente il capo. Thor e Bruce erano impietriti sul posto, mentre Natasha si limitava a godersi lo spettacolo: se dovevano affondare tanto valeva farlo con stile.

“Capitano Steve Rogers,” puntualizzò, “è il mio nome, non il suo.”

Sentì il calore defluirle improvvisamente dal viso mentre registrava e metabolizzava le parole dell'uomo. Sbatté le palpebre e inspirò a fondo, sedendosi un po' più compostamente mentre tentava di assicurarsi di aver capito bene.

“Steve Rogers,” ripeté, ricevendo un cenno d'assenso da parte del diretto interessato.

Persino Bruce sembrava essersi preso una pausa dalla sua crisi di nervi, mentre Clint e Thor si erano zittiti, lasciandole tacitamente il campo libero per tentare l'approccio che le sembrava più adatto, così come aveva fatto con ciascuno di loro.

Il capitano ricambiò il suo sguardo inquisitore, sostenendolo placidamente, quasi si fosse aspettato quel brusco ribaltamento d'atmosfera. Il silenzio rimase pressoché totale finché Rogers non si decise ad alzarsi per premere un interruttore sulla parete retrostante; dopodiché, riguadagnò il suo posto.

“Nessuno ci sentirà,” disse a mezza voce, congiungendo le mani sul fascicolo aperto.

“Lei non lavora per questa divisione, giusto?”

“No, ha ragione.” L'uomo scosse il capo dopo averla scrutata a lungo.

“Qualcuno, però, l'ha informata del nostro arrivo,” obiettò.

“Non proprio,” concesse. “Mi trovavo qui per un'altra questione... sono incappato nel deposito prove proprio mentre stavano registrando i vostri effetti personali.”

Clint si irrigidì al suo fianco, probabilmente tormentato dal pensiero del suo prezioso arco archiviato in un anonimo scatolone.

“Suppongo che anche lei abbia ricevuto quel pacco,” alluse, scegliendo attentamente le parole.

Il capitano Rogers annuì, lasciando che il silenzio tornasse a serpeggiare nella stanza per qualche secondo.

“Siete venuti fin qui per cercarmi.” Un'affermazione più che una domanda.

“Cos'ha intenzione di fare?” Tagliò corto Clint, intromettendosi nella conversazione.

“Aiutarvi ad arrivare fino in fondo,” rispose l'altro, insospettendola immediatamente.

“Sarebbe disposto a compromettere la sua brillante carriera per imbarcarsi in una caccia al tesoro senza capo né coda?” Le parole le uscirono più fredde del previsto: di certo il capitano non si aspettava davvero che avrebbero creduto ciecamente al suo clamoroso voltafaccia!

“Perché non lascia che sia io ad occuparmi della mia carriera, signorina Rushman?”

“Nessuno ci assicura che possiamo fidarci di lei.”

“Non mi sembra che siate nella posizione più adatta per permettervi il lusso di non farlo.”

“Ha ragione,” fu costretto a riconoscere Thor.

Natasha non disse niente per qualche istante, sentendosi addosso lo sguardo discreto di Clint.

“La domanda resta: che ha intenzione di fare?”

“Tirarvi fuori di qui.”

“A che prezzo?” Indagò l'arciere.

“Preferisce essere trasferito nel carcere più vicino, signor Barton?”

“Secondo lei?”

Il capitano Rogers sospirò appena, intrecciando le braccia al petto e appoggiandosi allo schienale della sedia su cui era seduto.

“Ho solo una possibilità di farvi uscire di qui e sfumerà a breve,” riprese. “Ho bisogno di sapere se siete con me o se preferite aspettare la prossima occasione... sempre che se ne presenti un'altra.”

Se le avessero rivelato che di lì a poco si sarebbe trovata nella condizione di dover essere persuasa a continuare quel viaggio per cui aveva tanto, strenuamente combattuto, Natasha si sarebbe messa a ridere di gusto. Eppure era proprio quello che stava succedendo: il capitano Rogers sembrava fin troppo consapevole delle circostanze e, anzi, pareva più motivato di tutti loro messi insieme. Possibile che fosse già in contatto col nome che aveva ricevuto insieme alla cartina e alla chiave? Altrimenti come poteva sapere di cosa si trattasse? Era davvero tanto perspicace da essere in grado di intuire quel complesso e bislacco piano basandosi solamente su quei tre oggetti misteriosamente recapitatigli nella cassetta della posta?

“Quattro minuti,” sottolineò il capitano, mascherando non troppo abilmente il nervosismo che Natasha riuscì a leggergli negli occhi.

“Va bene,” fu lei la prima ad acconsentire.

“Ci sto,” si aggiunse Thor.

“Anch'io.” La voce del dottor Banner si era affievolita, ma pareva aver riguadagnato almeno un po' di calma.

Si voltarono tutti e quattro verso Clint, il quale si limitò a rivolgerle una breve occhiata: sapevano entrambi che non avevano altra scelta e che tentare la fuga, quali che fossero le intenzioni del capitano Rogers, era sempre meglio che restare bloccati nella fetida cella di un commissariato di polizia. Senza contare che, se anche l'uomo avesse avuto in serbo per loro una qualche brutta sorpresa, restavano in un non irrilevante vantaggio numerico: quattro contro uno.

“E sia,” l'assenso di Clint arrivò un attimo dopo, “ma voglio indietro il mio arco o non se ne fa di niente.”

“L-La mia borsa, a-anche,” borbottò Bruce. “Se non l-le dispiace,” puntualizzò per giusta misura, asciugandosi con la manica della camicia il velo di sudore che gli aveva ricoperto la fronte, decisamente più per l'ansia che per il caldo.

Il capitano Rogers annuì rimettendosi finalmente in piedi. Estrasse discretamente una chiave dalla tasca della giacca, nascondendola sotto la busta di carta che non aveva ancora aperto. Si riprese il fascicolo, lanciando un'occhiata esplicita a ciascuno di loro.

“Li distraggo per darvi il tempo di liberarvi,” li avvertì. “Non più di un minuto. Dopodiché arrivate fino in fondo al corridoio e seguite le istruzioni per il parcheggio sul retro. Non mettetevi a correre e cercate di non dare nell'occhio.”

“Conosciamo i trucchi del mestiere,” Natasha ci tenne a precisare: non aveva di certo bisogno che un dannato piedipiatti le insegnasse come fare la spia.

“Non bene come credete, evidentemente,” fu la pronta, secca risposta del capitano.

 

*

 

Aspettò che la serratura fosse scattata con un sonoro clic prima di sfilarsi le manette e massaggiarsi i polsi. Si avviò verso la porta che Rogers aveva lasciato socchiusa, sbirciando nel corridoio per controllare la situazione mentre Natasha provvedeva a liberare anche Thor e Bruce e ad impossessarsi della busta che il capitano si era curato di lasciare sul tavolo.

“Come andiamo, doc?” Lo apostrofò, improvvisamente preoccupato dall'aria malaticcia del dottore.

“Sto bene,” assicurò l'altro, sbuffando le parole con una certa difficoltà.

Ovviamente la loro buona stella rischiava di farlo uscire di testa proprio quando la situazione sembrava aver preso la piega giusta... o quantomeno una meno sbagliata.

Clint scambiò una breve occhiata con Natasha, comprendendo che i suoi timori erano condivisi.

“Resisti, doc. Fra poco ti tiriamo fuori di qui,” provò a rassicurarlo, prima di rivolgersi agli altri. “Siete pronti?”

Non appena ebbe ricevuto un cenno d'assenso da ciascuno dei presenti, uscì dalla stanza interrogatori e, assumendo l'andatura più tranquilla di cui fu capace, imboccò il corridoio, seguendo le frettolose indicazioni che il capitano aveva loro impartito.

Gli parve di scorgere uno stralcio dell'uomo impegnato in un'allegra conversazione con dei colleghi davanti alla macchinetta del caffè sistemata in uno dei corridoi laterali: in effetti, la stanza su cui si affacciava il finto specchio era deserta.

Natasha l'affiancò prendendolo sottobraccio.

“Che fai?” Non riuscì a nascondere la sorpresa nella propria voce.

“Se procediamo in fila indiana qualcuno se ne renderà conto.”

“E' illegale, procedere in fila indiana?”

Svoltarono sulla sinistra, seguendo la freccia che prometteva di condurli al parcheggio sul retro.

“Hai mai visto un gruppo di persone, per la strada, camminare in fila indiana?”

“Non-”

“Non è il momento,” lo zittì prontamente, rivolgendo un sorriso stucchevole ad un agente basso e tarchiato che accennò un saluto dopo averle – Clint e il resto dell'universo dovevano essersene accorti – spudoratamente guardato le tette. Se una parte di lui avrebbe voluto inspiegabilmente prenderlo a pugni, l'altra si beava delle mille e più qualità della carrozzeria di Natasha.

Mentre giravano sulla destra e poi sulla sinistra, decise di tenersi occupato voltandosi verso Bruce per controllare che fosse ancora tutto a posto: la corsa verso il parcheggio non sembrava aver fatto granché per migliorare il suo stato d'animo.

“Bruce è troppo nervoso,” commentò a mezza voce, rivolto alla donna che ancora procedeva al suo fianco.

“Lo so. Ho paura abbia oltrepassato il punto di non ritorno già da un pezzo,” convenne lei. Il che significava che solamente una sana, obbligata dormita, avrebbe potuto evitare la non richiesta comparsa di quello che il dottore chiamava l'Altro.

Thor, d'altro canto, pareva perfettamente a suo agio: a Clint arrivavano i saluti goliardici che rivolgeva più o meno a chiunque incrociasse. Per quanto assurda fosse quella particolare tecnica, nessuno si soffermò a chiedergli chi diavolo fosse, lasciandosi piuttosto trasportare dall'inspiegabile entusiasmo di quell'uomo grande e grosso. Clint aveva imparato (a sue spese) che i vincenti avevano un ascendente non irrilevante sulla maggior parte della gente: per quanti problemi Thor avesse avuto dall'epoca dei suoi successi sportivi, era altrettanto convinto che sapesse come invocare alla perfezione un atteggiamento che, in passato, doveva essergli sicuramente appartenuto.

“Ci siamo,” decretò Natasha a voce abbastanza alta per farsi sentire da Banner, come nel tentativo di confortarlo con la promessa della liberazione imminente.

L'uscita che conduceva al parcheggio si stagliò in fondo all'ultimo, stretto corridoio, illuminato da una luce giallognola che conferiva incarnati da malato a tutti e quattro. Il maniglione antipanico era proprio laggiù, a un paio di miseri metri di distanza...

“Ehi, voi!” Una voce sconosciuta li raggiunse alle spalle: un agente, mano alla pistola ancora nella fondina, si stagliava nel punto esatto da cui erano appena venuti.

Ebbero tutti e quattro la medesima idea: scattarono in una folle corsa per macinare quei pochi metri che li separavano dal parcheggio. Natasha gli lasciò andare il braccio, spingendosi per prima contro la porta, spalancandola per permettere a tutti e tre di uscire.

“Tasha?!” Le chiese con urgenza, vedendola restare immobile con la maniglia esterna ancora in pugno, i passi del poliziotto in corsa verso di loro sempre più vicini, la voce alzata in cerca di soccorsi, via via più insistente e impossibile da ignorare.

“Aspetta solo un...,” con un contraccolpo violento, Natasha schiantò la porta in faccia all'agente che stava giusto per uscire nel parcheggio, rispendendolo a terra con un setto nasale deviato e – Clint suppose – un imminente mal di testa, “... attimo.”

“Bel colpo!” Non riuscì a trattenersi dal dire, mentre si ricongiungevano a Bruce e Thor, nascosti dietro l'unico furgone presente nel parcheggio insieme a svariate auto d'ordinanza. “Adesso che cazzo facciamo?”

“Rubiamo una macchina,” decise Natasha, sporgendosi oltre l'estremità posteriore del veicolo per controllare che il poliziotto che li aveva inseguiti non fosse riuscito ad attirare l'attenzione di qualche collega.

“E poi?” Intervenne Bruce.

“E poi ci penseremo.” La donna aveva ragione, la priorità era andarsene... se non fosse stato per un piccolo particolare totalmente non insignificante.

“Dove cazzo è Big Jim?” Clint stava cominciando a perdere le staffe. “Non me ne vado senza il mio arco.”

Lo sportello del furgone dietro cui si erano appostati, si era appena aperto: la figura del capitano incombeva su di loro, proiettando la sua gigantesca ombra sull'asfalto.

“E allora datevi una mossa,” decretò, come a rispondere alla condizione imposta da Clint. “Salite sul retro.”

“Fuggiamo su un mezzo della polizia?” Thor non era convinto.

“E' f-follia,” biascicò il dottor Banner.

“E' geniale!”

“E' geniale!” Lo corresse Clint, senza rendersi conto di aver parlato all'unisono con Natasha.

Il capitano Rogers aspettò che fossero saliti tutti a bordo, a sedere sulle strette panchine infisse su ciascun lato dell'abitacolo, prima di chiudere il portellone e risalire al posto di guida.

“Allacciatevi le cinture,” ordinò mentre il motore prendeva improvvisamente vita.

“Ci stanno seguendo?” Domandò Thor, greve e allarmato insieme, l'incubo dell'ennesimo inseguimento automobilistico ad oscurargli il volto.

“No... regole della strada.”

Se il suo arco, appoggiato trasversalmente su uno scatolone abbandonato in un angolo, non fosse prontamente arrivato a distrarlo dall'uscita infelice, Clint l'avrebbe volentieri mandato a fanculo.

 

__________________________________________

Note:
Con la comparsa di Steve, arriviamo al giro di boa della storia! Altri dieci capitoli alla fine :)
Come qualcuno di voi aveva intuito, l'incontro-scontro con la polizia non ha portato (fortunatamente) soltanto guai ai nostri Vendicatori sbandati :P o così sembrerebbe...
Qualche dettaglio in più sulla storia del Capitano verrà rivelato nel prossimo capitolo... e intanto ci avviciniamo anche all'incontro con l'illustre assente della squadra.
Chiacchere a parte, ringrazio tuuuuutti coloro che hanno letto/commentato la storia, ché mi fa sempre piacere, e come di consueto alla sclero-socia che mi sostiene anche nei momenti più bui (tipo... ora ù_ù).
Buon weekend a tutti e al prossimo capitolo! :3
S.

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Capitolo 11
*** 11/20 ***


- Capitolo 11 -

 

 

 

Il treno correva rumorosamente sui binari.

L'idea di dover trascorrere non meno di venti ore rinchiuso in quel serpente di lamiere rischiava di farlo impazzire. La stanchezza e le energie ormai pericolosamente esaurite minacciavano il suo equilibrio mentale già di per sé tremendamente precario.

Il capitano Rogers li aveva scarrozzati alla stazione ferroviaria più vicina e, dopo aver parcheggiato il furgone della polizia in un luogo sufficientemente appartato, li aveva condotti ad un binario qualunque ed esortati a salire sul treno che sarebbe partito di lì a poco con destinazione Miami, Florida. Per quanto non gli piacesse, Clint doveva ammettere che il piedipiatti ci sapeva fare: nessuno aveva contestato le sue istruzioni. Nonostante la giovane età che dimostrava, Steve Rogers emanava autorità e portamento d'altri tempi: un'espressione sempre seria e solenne campeggiava sul suo volto. In modo del tutto irrazionale, avevano più o meno inconsapevolmente deciso di potersi fidare di lui; Clint era per altro piuttosto sicuro che quel particolare sviluppo avesse poco o niente a che fare con la carica di Rogers o il fascino esercitato dalla sua divisa.

Erano riusciti a trovare uno scompartimento miracolosamente vuoto, a lasciarsi cadere ciascuno su uno dei posti liberi, a fissare lo scorrere del paesaggio dal finestrino, a chiedersi che cazzo fosse appena successo e se non stessero per caso sognando... o vivendo un incubo.

Quel che contava, in quel preciso istante, era che il suo arco giaceva al sicuro nella sacca che Rogers aveva avuto il buon senso di restituirgli. Clint sapeva fin troppo bene che era un pensiero estremamente stupido: ma mentre il mondo gli si sfaldava attorno, proponendogli scenari allucinati dei quali gli sfuggivano quasi comicamente i nessi di causa-effetto, aveva bisogno di un punto fermo, qualcosa che lo tenesse ancorato alla realtà, che gli ricordasse chi era.

Dovette passare un'ora prima che lo stato di sbigottimento assoluto si attenuasse un poco, quel tanto che gli bastò per spingerlo a guardarsi attorno, a riprendere contatto con ciò che lo circondava.

Thor, che occupava il posto più vicino al finestrino nel senso opposto a quello di percorrenza, stava dormendo; il capo poggiato contro la parete, le braccia muscolose ed ingombranti malamente schiacciate contro il corpo. Bruce, che gli sedeva di fianco, il suo prezioso borsone da viaggio stretto contro il petto, stava disperatamente combattendo contro il torpore indotto dal sedativo che insisteva per portarselo via. Il capitano e Natasha avevano occupato i due posti più vicini alla porta, l'uno di fronte all'altra: Clint sospettò che la donna fosse l'unica, insieme al poliziotto, ad essere rimasta assiduamente in all'erta per tutto il tempo. Le braccia serrate sotto al petto – così come faceva tutte le volte che qualcosa non le andava a genio – continuava a fissare Rogers quasi avesse voluto sezionargli il cervello per capire quali fossero le sue reali intenzioni.

L'uomo, che inizialmente non sembrava essere particolarmente innervosito da quello stato di cose, in quegli ultimi attimi cominciava a dare qualche seccato segno di cedimento. Qualcosa gli diceva che quello era esattamente l'intento di Natasha: nonostante il poco tempo che avevano passato insieme, Clint poteva dire con certezza che prendere la gente per sfinimento doveva essere una delle sue specialità.

Per quel che lo riguardava, aveva preso posto accanto al finestrino, approfittando dell'unico sedile vuoto per tirar su le gambe e mettersi comodo. Avrebbe voluto chiudere gli occhi e riposare almeno per un paio d'ore, ma la tensione in quel dannato scompartimento si tagliava col coltello e una vocina, da qualche parte nella sua testa, gli suggeriva di restare sveglio, pronto all'azione.

“Chi è che stiamo andando a cercare a Miami?” Si decise a chiedere, stropicciandosi un occhio per scacciare il sonno che gli aveva già reso le palpebre pesantissime.

Rogers si limitò a scoccargli un'occhiata storta: era seduto tanto rigidamente e con la schiena talmente dritta contro lo schienale, da dargli l'impressione che si sarebbe spezzato in due da un momento all'altro. Non gli ci volle granché, poi, per prendere atto del sentimento che gli deformava impercettibilmente i tratti del volto: Clint aveva visto il disprezzo in faccia tante di quelle volte da saperlo riconoscere alla perfezione.

“Sei un pessimo attore, capitano.” La voce di Natasha infranse l'imbarazzante silenzio che era tornato a serpeggiare tutt'attorno. Il brusco passaggio dalla formula di cortesia ad una più informale non doveva essere casuale.

“La fa suonare come una cosa negativa,” Rogers, d'altro canto, non pareva intenzionato a stemperare il pessimo clima che stava rendendo l'aria a malapena respirabile.
“Lo è. In questo mondo saper mentire è una necessità.”

“Non nel mio.”

“Sul serio?” Natasha aveva slacciato le braccia dal petto e si era sporta leggermente in avanti, come ad invadere lo spazio del capitano. “Magari se riuscissi a dissimulare anche solo un briciolo dello sdegno con cui ci guardi, eviteresti di farti inutili nemici.”

Rogers si era zittito: le mani a tal punto strette l'una nell'altra da imbiancargli le nocche, gonfiargli le spalle per l'ennesima, brusca contrazione dei muscoli. Clint si accorse solo in quell'istante di quanto apparisse imponente. Nonostante il caldo umido del mezzogiorno imminente, indossava ancora la giacca elegante sopra la camicia accuratamente inamidata; non si era neppure allentato la cravatta.

“O forse non è tanto il disprezzo che provi per noi,” riprese Natasha, la voce bassa, ipnotica e canzonatoria al tempo stesso, “ma quello che provi per te stesso.”

“Magari dovresti riposare invece di provare a psicanalizzarmi,” protestò l'altro, calibrando attentamente il tono, rifiutandosi di prendere anche solo in considerazione la possibilità di lasciarsi andare alla rabbia che – era piuttosto evidente – lo stava tormentando.

“Oh, ma il bello è che non ci devo neppure provare. Sei un libro aperto,” decretò lei seccamente. “Detesti l'idea di essere rimasto invischiato con dei criminali e ancor più quella di essere diventato uno di noi.”

“Non sono uno di voi.”

“A meno che aiutare quattro sospettati a fuggire da un commissariato di polizia non sia più un reato...”

Dal modo in cui Rogers aveva indurito i tratti del volto, Clint capì che Natasha aveva fatto centro.

“Il caso è stato cancellato dal sistema.” Ma il capitano non sembrava tanto pronto ad affrontare la realtà dei fatti: doveva tener molto alla sua – non dubitava – candidissima fedina penale.

“Da chi?”

“Un amico.”

“La stessa persona che le ha fatto avere cinque biglietti per questo treno?”

Stavolta Clint non ebbe bisogno dell'intervento chiarificatore delle parole della donna per comprendere cosa gli passasse per la testa. Qualcuno, molto probabilmente un collega, l'aveva aiutato a pianificare la fuga e a cancellare le loro tracce.

“Mettere a repentaglio la carriera per quattro delinquenti non dev'essere stato facile,” Natasha, imperterrita, insisteva, “tutto per aver ricevuto criptici indizi su... qualcosa.”

“Ti ho già risposto a riguardo.”

“Quella non era una risposta,” era vero che il capitano, nella stanza interrogatori, le aveva suggerito di pensare agli affari suoi, lo stesso consiglio che – implicitamente – le stava riproponendo in quel momento, “e di sicuro non ci permette di fidarci di te.”

“Eppure siete saliti su questo treno senza neanche battere ciglio,” obiettò, segnando un punto – il primo – in proprio favore.

“Non confondere il non avere altra scelta con la fiducia.”

“La fiducia che condividete l'un l'altra, giusto,” il piedipiatti, a quanto pareva, non era estraneo al sarcasmo, “mi perdonerai per non essermene accorto.”

“Se cerchi di fotterci te ne pentirai amaramente.”

“Io non sto cercando di fottere nessuno. Arriveremo alla fine di questa storia e poi ognuno riprenderà la sua strada.”

Natasha gli rivolse un lento, subdolo sorriso, a fargli capire che di tutte quelle stronzate, non ne avrebbe bevuta neanche una.

“Non hai risposto alla mia domanda,” Clint si intromise, sforzandosi di mantenere un tono neutro per non buttare benzina sul fuoco che già minacciava di divampare da un momento all'altro.

“Tony Stark.” Il capitano aveva parlato a bassa voce e dopo un lungo istante in cui non aveva fatto altro che fissarlo attentamente: doveva aver deciso che tenerli all'oscuro non sarebbe servito a niente.

“Tony Stark?” Gli venne da ridere. “Quel Tony Stark?”

“Evidentemente.”

“Chi è Tony Stark?” Natasha si era voltata verso di lui, un'aria interrogativa a corrugarle la fronte.

“Non sai chi è Stark? Il milionario delle Stark Industries?” La donna scosse il capo. “L'unico rampollo della famiglia Stark. Credo abbia passato più tempo in riabilitazione che a casa sua.”

Anche per un riluttante spettatore televisivo come lui, sfuggire alle notizie e ai gossip che circondavano quell'eccentrico personaggio sarebbe stato praticamente impossibile. Ricordava persino il comunicato stampa con cui il consiglio della società che era appartenuta al padre l'aveva estromesso da qualsiasi incarico degno di una qualche rilevanza, promettendogli un lauto stipendio annuale in cambio della solenne promessa di restarsene fuori dai piedi. Stark era famoso per le sue sfrenate feste a base di alcool, musica spacca-timpani e donne seminude, il tutto all'insegna del lusso più selvaggio.

“Non stiamo andando sulla costa sbagliata?” Clint non poté fare a meno di chiedersi, tornando a prestare attenzione a Rogers.

“No. L'indirizzo che ho ricevuto si trova a Miami.”

“A che ci serve un milionario?” Domandò Natasha. “Si aspettano pure che ci finanziamo da soli?”

“Può darsi. Oppure si aspettano che... inventi qualcosa,” ipotizzò. I rotocalchi non mancavano di sottolineare la parabola discendente disegnata dalla sua vita, da laureato summa cum laude al MIT a mina vagante della Los Angeles “bene”.

La donna non pareva troppo convinta e, se doveva essere sincero, nemmeno a lui piaceva l'idea di aggiungere al gruppo un individuo tanto in vista, tanto meno uno fuori controllo come Stark.

Natasha si era riappoggiata allo schienale del sedile, lo sguardo perso in un punto non meglio definito del pavimento, presumibilmente immersa nelle proprie riflessioni. Si sorprese a riflettere sull'abisso che separava la versione fiera e ostile che tirava fuori davanti al pericolo, e quella più taciturna e dimessa a cui cedeva il passo quando pensava di non essere osservata. Un mistero che continuava a tormentarlo, supplicarlo – quasi – di essere risolto.

“Chi è stato a trovarti?” Fu la volta di Rogers di sorprenderlo.

“Chi? Io?” Clint si indicò, come per essere sicuro di non aver capito male. Il capitano annuì. “Nessuno.”

“Di chi era l'indirizzo che hai ricevuto?”

“Di Thor.”

“Ma eravate già in due quando siete arrivati in New Mexico,” obiettò, beccandosi sguardi sospettosi sia da lui che da Natasha. Come faceva a saperlo? “Telecamere di sicurezza,” si limitò a spiegarsi non appena si fu accorto della perplessità che aveva suscitato.

“Eravamo già in due,” convenne infine, senza trovare un valido motivo per mentire.

“Quindi siete... una coppia?” La voce di Rogers aveva assunto un tono tutto particolare, incerto, che risuonò assolutamente bizzarro in bocca ad un uomo grande e grosso come lui.

“Cosa intendi per coppia?” Dopotutto che male ci sarebbe stato a prenderlo un po' in giro?

“Lavorate insieme?” Riformulò, fastidio ed imbarazzo a mescolarsi nei suoi occhi improvvisamente più vispi.

“Sì.” Natasha si intromise, battendolo sul tempo. In una sorta di irrazionale slancio di lealtà, Clint sostenne lo sguardo di Rogers che, tacitamente adesso, gli stava chiedendo conferma. Non era affatto sicuro di capire le intenzioni della donna, ma se avesse dovuto scegliere a chi dar man forte, sicuramente avrebbe optato per chi conosceva da più tempo (e poco importava se si trattava di un'assassina/ladra/spia che aveva tentato di uccidere).

“Non so voi, ma mi è venuta una gran fame.” Riprese dopo un attimo di silenzio: non avrebbe potuto sopportare tutto quel nervosismo per un secondo di più.

“La carrozza ristorante è in fondo al treno,” lo informò il capitano. Sembrava che aiutare la gente, anche quella che non gli piaceva per niente, fosse più forte di lui. Un altruismo di principio, più che quello tutto viscerale che gli aveva creato così tanti problemi in passato: se Clint finiva sempre per farsi in quattro per chi gli stava a cuore, spesso contro ogni buon senso e ben sapendo di dover pagare un prezzo salatissimo, era anche vero che non faceva il minimo sconto a chi gli metteva i bastoni tra le ruote.

“Ricevuto, cap.” Si rimise in piedi, sistemandosi la sacca a tracolla. “Volete qualcosa?”

Sia Steve che Natasha scossero silenziosamente il capo.

 

*

 

10 ore dopo

da qualche parte in Florida

 

Il treno procedeva nel buio più assoluto: il sole era calato ormai da un paio d'ore, facendo sprofondare il cielo in un baratro oscuro, le stelle a malapena visibili. Dopo il viavai che si era creato in direzione della carrozza ristorante attorno all'ora di cena, il corridoio su cui dava la porta del loro scompartimento si era fatto di nuovo deserto; non un'anima viva che arrivasse a destarla dai suoi pensieri.

“Rogers ha ragione,” forse aveva parlato troppo presto, “dovresti riposare.” Un'ombra arrivò ad invadere la solitudine che era riuscita a conquistarsi in una delle zone di transito da un vagone all'altro. Non fece grande fatica a riconoscere la voce di Clint.

“Sei tu quello che non riesce a tenere gli occhi aperti,” la sua laconica risposta mentre l'uomo l'affiancava davanti al finestrino.

“E neppure chiusi,” borbottò l'altro, nascondendo a malapena il fastidio che quello stato di cose gli procurava. Natasha non era sicura di averlo mai visto non assonnato. “E poi quelle lasagne schifose che abbiamo mangiato per cena mi sono rimaste sullo stomaco.” Non ci sarebbe voluto il parere di un esperto chef per condividere il suo disgusto.

“Non erano nemmeno la cosa più schifosa che abbiamo messo sotto i denti in questi giorni.”

“No,” convenne. “Decisamente no.”

Lasciarono che il silenzio cadesse tra di loro, entrambi presi dall'indistinto panorama che scorreva oltre il vetro graffiato ed opaco. Si sorprese a realizzare che, nonostante tutto e anche senza dire proprio un bel niente, si sentiva a suo agio. La constatazione, però, quella sì che la fece sentire fuori posto, vulnerabile, improvvisamente allo scoperto.

“Credi che gli uomini del tuo cliente torneranno a cercarti?” Disse la prima cosa che le venne in mente, sperando che Clint non si fosse accorto di niente.

“Probabilmente,” parlò solo dopo una breve pausa. “Ma senza il telefono da rintracciare, non dovrebbero essere in grado di trovarmi.” Avevano i soldi contati per lo stesso motivo: utilizzare la carta di credito che – da quel che Natasha aveva capito – gli era stata messa a disposizione dall'individuo che l'aveva assoldato, avrebbe significato anche rivelare la loro posizione. Non potevano far altro che centellinare quei cinquemila dollari di cui Clint era già in possesso la prima volta che si erano scontrati.

“Miami è una metropoli. Sarà più difficile nascondersi.”

“Lo so. Che cazzo dovrei fare comunque?” Suonava più rassegnato che arrabbiato. “L'unica è evitare di mettersi inutilmente nei guai e affrontare il problema quando e se si presenterà.”

“Mi dispiace.” Natasha realizzò quanto, esattamente, suonasse stupido solo dopo averlo detto.

“Per cosa? Avermi messo nei guai?” Sembrava divertito. “Non avrei mai dovuto accettare un lavoro del genere. E' colpa mia.”

“Avevi bisogno di soldi?”

“No,” scosse il capo. Riusciva a malapena a vedergli gli occhi tanto erano soffuse le poche luci del treno ancora accese. “Sono stato... ingordo.”

“Due milioni di dollari avrebbero fatto gola a chiunque,” si ritrovò a dire, se per consolarlo o altro, non avrebbe saputo determinarlo.

“Non credevo che avrebbero fatto gola a me,” ammise a mezza voce.

“L'integerrimo arciere dell'Iowa.”

“Mi stai prendendo per il culo?”

Natasha si mise a ridere all'espressione contrita che gli intravide sul volto e ancor di più al modo – pessimo – in cui Clint si sforzava di mostrarsi tutto fuorché divertito. Fu costretto a cedere dopo un misero attimo in cui gli doveva essere apparsa chiara l'inutilità di quella particolare mini-crociata.

“Di sicuro non posso essere più integerrimo di Rogers.” Il pensiero del capitano e delle sue criptiche intenzioni ebbe l'effetto di farla tornare seria. “Non ti piace, mh?”

“No,” confessò. “Detesto non capire cosa muove la gente.”

“La maggior parte delle persone va avanti senza capire cos'è che pensano gli altri, lo sai?”

“Io non sono la maggior parte delle persone,” ci tenne a puntualizzare. “Se non sai cosa muove una persona, se non sai cosa la spinge a fare quello che fa, rischi di non poterla...”

“Controllare,” Clint completò per lei, improvvisamente serio a sua volta. “Ti capita tanto spesso?”

“Che cosa?”

“Dover controllare la gente. Suona stancante.”

“Non lo è,” replicò prima ancora di chiedersi se non fosse realmente così. “E' peggio vivere nell'incertezza.”

“Alle volte la gente può sorprenderti anche in positivo.” Adesso che stava cercando di fare? Consolarla, forse?

“Quante volte ti ha sorpreso in modo positivo?” Gli rigirò la domanda, ottenendo di vederlo incupirsi impercettibilmente. Appunto.

“Tu, però, mi hai sorpreso.” Le parole dell'uomo arrivarono a tradimento, quando ormai Natasha credeva di aver avuto la meglio.

“Non mi conosci neanche,” si ritrovò a ribattere, inspiegabilmente sulla difensiva.

“No, è vero. Però mi sono fatto un'idea.”

“Potrebbe essere sbagliata.”

“Oppure no.”

“Sentiamo allora,” lo esortò in tono di sfida. “Che idea ti sei fatto?” Anche se l'invito pareva averlo colto alla sprovvista, non sembrava intenzionato a dichiararsi sconfitto; non così presto, almeno.

“Che tuo padre era il tuo unico punto di riferimento e che senza di lui ti senti persa,” stabilì, appoggiandosi con le spalle al finestrino per poterla scrutare in viso.

“Questo era facilmente deducibile.”

“Che l'hai ucciso perché, anche se non lo vuoi ammettere, ti trattava come una specie di prigioniera. Ti ha addestrato ad essere quello che sei, senza mai permetterti di... scoprire te stessa.”

“Non ho proprio alcun bisogno di scoprire me stessa,” replicò astiosamente. Se ne pentì un attimo dopo: più si mostrava infastidita e più Clint avrebbe capito di averci azzeccato. Per quanto le fosse difficile controllare le proprie reazioni in sua presenza – tutto ciò che suo padre le aveva insegnato vacillava pericolosamente quando c'era di mezzo l'arciere – si ripromise di fare attenzione, di trattenersi il più possibile.

“Scommetto che non sai neppure cosa ti piace.”

“So esattamente che cosa mi piace.”

“Ad esempio?” Aveva fatto per ribattere a tono, senza dargli neppure il tempo di concludere la domanda, ma fu ben presto costretta a realizzare di non sapere da che parte cominciare.

“Mi piace il tè,” stabilì, sentendosi estremamente stupida ad aver asserito una cosa tanto banale in un tono così solenne.

“Sei russa, no? Non bevete tè in continuazione, voialtri? E' un'abitudine che ti ha attaccato lui.”

“E con questo?”

“Dimmi cos'è che ti piace... qualcosa che non è stato lui ad insegnarti, qualcosa che hai scoperto da sola.”

Il suo primo istinto fu quello di metterlo in difficoltà, raccontargli della notte che avevano trascorso a Puente Antiguo, al modo in cui si era eccitata a sentirlo nell'altra stanza insieme alla cameriera, quello in cui si era preoccupata di darsi sollievo, o quantomeno provarci. Ma la parte più razionale di lei subentrò ad impedirglielo: rivelarglielo avrebbe potuto imbarazzarlo e darle così una breve soddisfazione; d'altro canto, c'era anche il rischio che Clint la prendesse come una debolezza, che la usasse a suo vantaggio. Per quanto a suo agio si sentisse in sua presenza, non aveva la benché minima intenzione di metterlo in condizione di crearle inutili problemi.

“Mi piace guardare le stelle,” dichiarò infine, sostenendo il suo sguardo. “Non ne avevo mai viste tante, prima di attraversare il deserto.”

L'espressione di scherno che Natasha si era aspettata non arrivò mai, sostituita, piuttosto, da una lunga, occhiata valutativa. Si ritrovò a tirare un inconsapevole sospiro di sollievo.

“Perché?”

“Perché cosa?”

“Perché ti piacciono? Ci hai mai pensato?” A dir la verità no, non l'aveva mai fatto.

“Perché sono lontane da tutto questo. Perché possono guardare senza mai lasciarsi coinvolgere... perché mi fanno pensare ad un altro mondo.”

“Come... qualcosa di religioso?”

“Non lo so.” Non era neppure sicura che quello che aveva appena detto non suonasse completamente stupido o insensato. “Forse è perché mi aspetta l'inferno.”

“Credi seriamente in quelle stronzate?” Natasha lo incenerì con lo sguardo. “Ognuno può credere a cosa gli pare,” sentì il bisogno di spiegarsi, “ma quando sento parlare di inferno...” Lo vide sorridere.

“Non credi nella dannazione eterna?”

“Credo nella dannazione terrena. Qualsiasi cosa ci aspetti dall'altra parte non può essere peggio di questo,” decretò seccamente, improvvisamente più serio. Turbato, forse.

“Certi inferni sono peggio di altri.”

“Mi scuserai se mi limito a preoccuparmi di quelli reali.”

Non trovando proprio niente da ribattere, si limitò ad appoggiare la fronte sul vetro e a socchiudere gli occhi. Si sentì addosso lo sguardo di Clint, ma lo lasciò fare, quasi sperando – segretamente – che fosse in grado di carpirle chissà che verità di cui nemmeno lei era a conoscenza. Si concentrò sui pochi rumori che li circondavano, sforzandosi quasi di accordare il ritmo del proprio respiro a quello di lui. Provò un'improvvisa, cocente voglia di toccarlo, assicurarsi che fosse reale, vivo e concreto e non uno stupido prodotto della sua immaginazione. Temeva ancora, alle volte, che di punto in bianco si sarebbe svegliata di soprassalto, ritrovandosi nella fatiscente pensione di San Paolo in cui aveva alloggiato insieme ad Ivan; costretta a scendere a patti col fatto che si era inventata tutto. Tutto quel ridicolo viaggio, gli indizi, la caccia al tesoro, Clint...

“Credo che Rogers conosca Banner,” riaprì gli occhi, obbligandosi a parlare pur di fissare le proprie percezioni della realtà circostante.

“Che intendi dire?”

“Non lo so... è più che altro una sensazione.” Tenne lo sguardo fisso su di lui, come per paura di vederlo svanire, disperdersi nell'aria come un ricordo impalpabile.

“Bè, Banner mi ha detto di aver lavorato per l'esercito,” confessò, senza tuttavia raccontarle niente di nuovo. Si era preoccupata di rimanere in ascolto quando li aveva sentiti parlare, sul furgone ormai perduto per sempre (quanto era stupido che le mancasse pure quel colabrodo ambulante?).

“Non mi stupirei se Rogers si fosse arruolato, ad un certo punto.”

“L'ho fatto.”

La voce del capitano li costrinse entrambi a voltarsi verso di lui, la sua imponente mole a stagliarsi sulla soglia della doppia porta che divideva l'area di transizione con il resto della carrozza. Per un attimo, il terrore irrazionale che Rogers avesse origliato la loro intera conversazione le riempì lo stomaco, costringendola a ricacciare indietro la rabbia che prese a scorrerle nelle vene.

“Com'è che sei finito a fare il piedipiatti, allora?” Se l'arciere era seccato da quella brusca interruzione, si curò di non darlo a vedere, tentando piuttosto di portare la situazione a proprio vantaggio.

“L'Afghanistan mi ha fatto cambiare più di un'idea.” Finalmente liberatosi della giacca, la cravatta leggermente allentata, la camicia bianca – che pareva quasi fosforescente nel buio pressoché totale – lasciava intravedere le forme scolpite del suo fisico prestante. Avanzò di qualche passo verso di loro, le mani nascoste nelle tasche anteriori dei pantaloni eleganti.

“Continua a non spiegare come fai a conoscere Banner,” fece notare Natasha. Possibile che conoscesse qualcuno dei militari che avevano partecipato ai test del siero a cui il dottore aveva lavorato in passato? O che il governo fosse riuscito a metterne a punto una versione più stabile, che non provocasse gli effetti collaterali di cui Bruce stava ancora pagando le conseguenze?

“Chi ha detto che lo conosco?”

Non riuscì ad impedirsi di scoccargli un'occhiata gelida: se aveva intenzione di continuare a prenderli per il culo, ad interpellarli dall'alto del suo piedistallo fatto di patriottismo e senso civico, non avevano proprio nient'altro da dirsi. Rogers serrò le labbra fino a ridurle ad una linea sottile, come prendendo atto della situazione.

“Ero uno dei volontari che si sono sottoposti al progetto in via anonima,” ammise dopo un lungo attimo di silenzio, “ma il dottor Banner se n'era già andato.”

“Quindi gli esperimenti sono andati a buon fine?” Clint non suonava convinto.

“No. Quasi tutti i soggetti sono impazziti fino alla morte,” spiegò a voce bassissima, avvicinandoli fino ad appoggiare le spalle alla parete opposta al finestrino. “Tutti tranne Banner ed io.”

“Significa che soffri della sua stessa condizione?” Natasha era più che decisa a vederci chiaro.

Rogers scosse il capo, abbozzando un sorriso affatto divertito.

“Il siero ha funzionato,” decretò con disarmante semplicità. “Sono diventato più forte, più veloce... più utile.”

“Stai dicendo che là fuori ci sono intere truppe dell'esercito composte da super soldati?” La perplessità perfettamente percepibile nella voce di Clint.

“No, solo i miei test hanno avuto esito positivo.”

“Perché?” Natasha gli scoccò un'occhiata sospettosa.

“Non ne ho la più pallida idea,” ammise. Era stata lei stessa a criticare le sue pessime doti di attore: non solo le pareva sincero, ma era anche piuttosto sicura che non sarebbe riuscito a mentire neanche se avesse voluto farlo; persino omettere aspetti della verità doveva risultargli difficoltoso.

“Dopo l'Afghanistan il governo ha deciso di insabbiare gli esperimenti,” riprese a parlare, “la notizia delle morti durante i test rischiava di trapelare.” Fece scorrere alternativamente lo sguardo su Clint e poi su di lei. “La popolarità di cui godevo tra i soldati del mio reggimento è l'unico motivo per cui non hanno potuto semplicemente togliermi di mezzo.”

Natasha non stentava a credere che i vertici dei gloriosi Stati Uniti d'America potessero arrivare a tanto.

“... quindi ti hanno spedito in Alabama a fare il poliziotto,” completò Clint per lui.

Rogers annuì, un misto di mestizia e rabbia a deformargli i tratti del volto, le guance appena scurite da un'ombra di barba incolta.

“Dovreste riposare,” aggiunse, come a decretare la fine di quella conversazione. Qualcosa le suggeriva che l'unico motivo per cui aveva deciso di scucirsi era per dimostrare loro la sua buona fede: anche se non voleva mischiarsi con dei veri e propri delinquenti – criminali le cui azioni andavano contro ogni suo più intimo principio – doveva aver compreso l'importanza della coesione, elemento essenziale se volevano portare a termine quell'assurda ricerca.

“Avremo bisogno di energie per convincere Stark a seguirci.”

“Credi seriamente che abbiamo qualche possibilità?” Domandò Clint.

“Sinceramente?” Il capitano scosse il capo. “Nemmeno una.”

 

__________________________________________

Note:
Un capitolo di stallo per permettere ai personaggi di abituarsi l'uno all'altro... o quasi :P mi piaceva l'idea che Steve non fosse poi così contento di mescolarsi a gente con una pessima reputazione. La sua storia lo ricollega in qualche modo a Bruce e come avrete intuito c'è qualcosa che il nostro capitano non ci sta dicendo. In più, come avevo preannunciato all'inizio, Tony è stato ricollocato lontano da Malibù (ci stiamo dirigendo sulla costa diametralmente opposta) e farà la sua comparsa nel prossimo capitolo :)
And... that's all.
Grazie a tutti coloro che leggono/commentano e in particolare alla sclerosocia in trasferta in quel di Lucca!
Al prossimo aggiornamento!
S.

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Capitolo 12
*** 12/20 ***


- Capitolo 12 -

 

 

 

11 ore dopo

Miami, Florida

 

Il Mandarin Oriental di Miami si stagliava loro di fronte con la sua imponente mole: il prestigioso hotel sembrava emergere dall'acqua che lo circondava per svettare nel cielo azzurro e terso del primo mattino.

“Qual è il piano?” Chiese Bruce dopo aver fatto sparire quel che rimaneva della sua ciambella.

“Se entriamo là dentro chiameranno la sicurezza,” intervenne Thor, palesando le preoccupazioni di tutti.

Steve si limitò a posare uno sguardo interrogativo prima su Clint e poi su di lei.

“Se quello che dicono di lui è vero, a quest'ora se la starà dormendo della grossa,” constatò l'arciere, gli occhi puntati alla sommità dell'edificio, forse un vago desiderio di poter salire fino al tetto a godersi il panorama circostante.

“Vado io,” decretò Natasha. Presentarsi in massa sarebbe stato stupido e, tra tutti i presenti, si sentiva la più indicata a mescolarsi con i clienti di un hotel a cinque stelle: la gente non si faceva troppe domande quando si trovava davanti una bella donna. “Aspettatemi qua fuori.”

“Che succede se ti fermano?” Le chiese Clint.

“Non mi fermeranno,” lo rassicurò con un'occhiata indispettita.

“Per quanto aspettiamo?” Steve era passato immediatamente al lato pratico della faccenda.

“Mezz'ora al massimo.”

Dopo aver ricevuto un rapido cenno d'assenso dal capitano e una tacita raccomandazione da parte dell'arciere, Natasha si sistemò alla meno peggio i capelli e tirò verso il basso la canottiera nera che ancora indossava, scoprendo maggiormente la linea dei seni. Dopodiché si avviò verso l'ingresso del mastodontico edificio, varcando le porte di vetro per venir investita dal freddo pungente e artificiale dell'aria condizionata.

Fece scorrere discretamente lo sguardo tutt'attorno, passando in rassegna i pochi ospiti che sostavano nella hall: una vecchia signora seduta in poltrona a dar da mangiare pezzi di brioches al suo barboncino color miele, una coppia di giovani sposi intenti a scambiarsi tenere (nauseabonde) effusioni, un uomo in sovrappeso – vestito in giacca e cravatta – impegnato nella lettura del Miami Herald. Nessuno parve prestarle attenzione.

Decidendo che non aveva proprio niente da perdere, raggiunse il bancone della reception, dove una donna di mezz'età l'accolse con un ampio sorriso in cui non mancava una traccia di perplessità per il modo in cui era vestita: doveva ammettere che i suoi abiti (e la sua faccia) non se la passavano granché bene. Non ricordava neanche quand'era stata l'ultima volta che aveva dormito in un letto vero; probabilmente al motel di Puente Antiguo...

“Buongiorno, posso esserle utile?”

“Buongiorno,” mise su la sua espressione svampita più convincente, decidendo di approfittare dell'impercettibile sdegno che le leggeva nello sguardo e sperare in un po' di sana accondiscendenza. “Spero che possa aiutarmi perché sono, bè... sono nei guai.”

“Che genere di guai?” Domandò con cipiglio severo, improvvisamente glaciale nella sua cortesia.

“Vede... mi vergogno un po' ad ammetterlo, ma...” fece una breve pausa, appoggiandosi al bancone con entrambe le braccia per mettere in evidenza i seni, “... sono appena stata assunta, e il mio capo mi aveva detto di prenotare una suite per uno dei suoi ospiti. Solo che me... dio, è così imbarazzante... me ne sono dimenticata.”

Si morse le labbra e sfoderò una smorfia inebetita, come per farle capire che era davvero nei guai fino al collo.

“Mi dispiace ma tutte le nostre suite sono prenotate, signorina... ?”

“Rushman. Ahm... Natalie Rushman,” precisò prima di scoppiare in una risatina isterica. “Lei com'è che si chiama?”

“Patricia Montgomery,” rispose quella algidamente.

“Oh... come il cappotto?”

“Come il cappotto,” convenne la receptionist, palesemente sempre più convinta di trovarsi di fronte ad una completa inetta.

“Va bene, Patricia come il cappotto, è che vede... il mio capo è una persona piuttosto importante e se solo lei potesse trovare il modo di liberare la suite più esclusiva, allora i-”

“Mi dispiace, ma la Oriental Suite è stata prenotata per tutto il mese.” Quante possibilità c'erano che il miliardario Tony Stark si trovasse proprio nell'appartamento più lussuoso dell'albergo? Natasha decise di affidarsi alla sua intuizione.

“Lo sa chi è il mio capo?” Una domanda innocente, nella fittizia speranza che la donna potesse in qualche modo risolvere magicamente la situazione.

“No, signorina Rushman, la prego, mi illumini,” sentenziò ironicamente, probabilmente chiedendosi chi fosse il povero idiota malato di tette che aveva deciso di assumerla con intenti tutt'altro che onesti.

“Lo vede il giornale che quell'uomo sta leggendo?” Natasha si voltò verso i divanetti sistemati al centro della hall, indicandole l'uomo in giacca e cravatta che stava – si accorse – fingendo di sfogliare il suo quotidiano.

“Il Miami Herald?”

“Precisamente,” annuì, tornando rapidamente sulla donna per rivolgerle uno sguardo supplice. “Davvero non può fare niente per il direttore? Lei mi salverebbe la vita.”

“Lei lavora per il signor Spellman?” Chiese la receptionist, assolutamente basita.

“Non dica a nessuno che gliel'ho detto,” si affrettò ad esortarla ad un improbabile silenzio, quasi si fosse trattato di un segreto di stato.

Patricia aveva l'aria di chi aveva appena risolto un complicato mistero: se Natasha si era giocata bene le sue carte, non solo la signora Montgomery-come-il-cappotto non avrebbe messo in discussione il perché un uomo tanto rispettabile come Spellman avesse assunto un'incompente del genere, ma neppure l'avrebbe considerata una minaccia di alcun tipo, finendo per abbassare – inesorabilmente – le sue professionalissime difese.

“Chiamerò personalmente il signor Spellman per scusarmi, ma non posso fare niente per liberare la Oriental.” Sembrava essere tutto ciò che la donna era in grado di offrirle.

“No, la prego. Il guaio l'ho fatto io, sarà meglio che gliene parli personalmente, le dispiace?” Imbronciò le labbra per sottolineare il momento drammatico. “Se solo potessi contattare chi occupa la Oriental, magari potrei dire al signor Spellman di chiamare e -”

“No, mi dispiace. Il signor Stark ha lasciato precise disposizioni di non essere disturbato.”

Bingo.

A Natasha non sfuggì il vago disprezzo con cui Patricia aveva pronunciato il nome del miliardario, segno che non solo Stark alloggiava nella Oriental, ma che doveva aver dato più d'un filo da torcere allo staff dell'albergo.

“Detto fra noi,” riprese la receptionist, “preferirei di gran lunga avere come ospite un qualsiasi amico del signor Spellman, piuttosto che Tony Stark, ma,” ed eccola l'accondiscendenza di chi crede di non aver niente da temere dal proprio interlocutore, “davvero, signorina Rushman, temo di non poter far niente per lui.”

“Fa' niente,” accennò una leggera scrollata di spalle, accertandosi di apparire affranta al punto giusto ma pur sempre spensierata, giusto per non darle l'idea di avere un cervello in grado di comprendere in che razza di situazione spinosa si trovasse. “La ringrazio per la sua gentilezza. So che ha fatto tutto il possibile.”

Si congedò con un saluto impacciato, approfittando del percorso inverso per individuare tutte le porte e sale che si aprivano sulla hall. Se i viaggi con Ivan le avevano insegnato qualcosa, i piani più alti dell'albergo dovevano essere accessibili solo via ascensore; per far funzionare quello, invece, avrebbero dovuto recuperare una chiave magnetica. Sul dove potessero trovarla, però, non aveva la più pallida idea: magari potevano aspettare che un cameriere o un altro membro dello staff uscissero dal retro, stordirlo e perquisirlo. Ma in quel caso nessuno le assicurava che avessero la chiave ancora addosso: se il Mandarin Oriental era tanto esclusivo come sembrava, sicuramente avrebbe fatto estrema attenzione a chi aveva accesso ai suoi piani più alti. Natasha sapeva fin troppo bene che i ricchi tendono a valutare la loro privacy più di ogni altra cosa al mondo.

“Mi scusi, signorina?”

Non aveva fatto in tempo a raggiungere le porte di vetro che l'uomo che aveva visto impegnato nella lettura del giornale l'aveva affiancata, un sorriso gentile ad illuminargli il volto. Il fatto, poi, che si stesse sforzando – poco e male – di non fissarle le tette, contribuì a non farglielo odiare... almeno non immediatamente.

“Sì?” Si assicurò di mantenere in piedi la facciata di Natalie Rushman, l'ottusa segretaria del direttore del Miami Herald.

“Non ho potuto fare a meno di notarla,” ammise quello, passandosi nervosamente una mano tra i capelli. Più che un ricco ospite dell'albergo sembrava uno che ci lavorava... un portiere o magari un autista.

“Oh, la ringrazio,” sorrise ampiamente, cancellando qualsiasi traccia di disgusto stesse minacciando di palesarlesi sul volto.

“Stasera il mio capo darà una festa,” la informò, dritto al punto. “Magari può fare un salto e... chiedere di me.”

“Lei è molto gentile e io ho... terribilmente bisogno di uno svago,” l'assecondò, giusto per non lasciare niente di intentato. “Dov'è che si terra la festa?”

“Qui in albergo, stasera a partire dalle dieci.”

“Al suo capo piace festeggiare tutta la notte, ah?” Insinuò con aria divertita.

“Non può immaginare quanto.”

Qualcosa le diceva che si era appena guadagnata un invito per una delle celeberazioni selvagge di Tony Stark.

“Stasera alle dieci allora. Cercherò di esserci.”

“Chieda di me, il mio nome è Harold Hogan... ma lei può chiamarmi Happy, se le va.”

“Che soprannome simpatico,” sorrise svenevole, dandogli un colpetto sulla spalla. “Lo farò senz'altro, Happy.”

“A stasera allora, signorina...”

“Natalie Rushman.”

“Natalie,” ripeté quello. “A stasera.”

Natasha gli fece l'occhiolino, dandogli finalmente le spalle per uscire dalla hall dell'albergo, assicurandosi di far oscillare i fianchi ad ogni passo. Proprio mentre si preparava ad uscire e Happy tornava a sedersi al suo posto per riprendere la lettura del Miami Herald, si accorse che Patricia Montgomery era impegnata in una fitta confabulazione con un'altra receptionist appena sopraggiunta, intervallata da occhiate, divertite e indignate insieme, lanciate nella sua direzione.

Le ignorò, tornando finalmente all'aria già calda del mattino. Trovò il resto del gruppo seduto su alcune panchine disposte svariati metri oltre, lontane dall'ingresso dell'albergo.

“Allora?” Clint, che era l'unico in piedi, arrestò il suo andirivieni senza meta per andarle incontro.

“Stark darà una festa stasera,” non esitò ad informarli, “nella suite Oriental.”

“Come ci entriamo?” Intervenne Steve, affatto persuaso a cantar vittoria.

“Il suo assistente personale,” o autista/baby-sitter per ricchi viziati che fosse, “mi ha invitata.”

“Immagino che non ti abbia esortato a portare qualche amico,” borbottò Bruce.

“Posso trovare il modo di farvi entrare,” si ritrovò a proporre con disarmante semplicità.

“Non sappiamo neanche che razza di sicurezza abbia Stark,” protestò Clint.

“Cinque guardie del corpo sempre con sé,” sentenziò Rogers che, evidentemente, aveva fatto i compiti a casa.

“Dovrò solo fare in modo che Stark voglia che mi avvicini. Le guardie non sono un problema.”

Nessuno parve intenzionato a contraddirla o a mettere in discussione i suoi propositi.

“Che facciamo fino a stasera?” Brontolò Thor.

“Suggerisco di trovare un motel in una zona non troppo trafficata, così potrete riposarvi.”

“E tu?” Clint le stava rivolgendo un'occhiata perplessa.

“Natalie Rushman ha bisogno di fare shopping.”

 

*

 

Il ponte che conduceva all'isoletta su cui si ergeva il Mandarin Oriental Hotel era stipato di auto lussuose, limousine e SUV nuovi di zecca di ogni genere. Steve aveva parcheggiato la berlina nera – noleggiata giusto un paio di ore prima – a qualche metro di distanza, determinato a non incolonnarsi dietro al resto dei veicoli, più per non dare inutilmente nell'occhio che per non rimanere imbottigliato nel traffico.

A giudicare dalla folla che pareva ammassarsi in lontananza, all'ingresso dell'albergo, la festa di Stark non era poi così esclusiva. Clint riusciva ad intuire i profili di un numero spropositato di donne alte, slanciate, formose, bellissime, strette in abitini succinti dai colori improbabili; qualche bellimbusto rileccato qua e là a completare il quadretto.

“Quante volte hai detto che l'hai fatto?” Si ritrovò a chiedere, sporgendosi tra i due sedili anteriori, occupati rispettivamente da Steve e Natasha, per rivolgersi direttamente alla donna.

Non era ancora sicuro di essersi ripreso dalla brusca (ma neanche tanto) trasformazione che la ragazza aveva subito: si era abituato a vederla in abiti sgualciti e sporchi, i capelli costantemente legati per l'impossibilità di poterli lavare tanto spesso, quegli stivalacci polverosi sempre ai piedi. Quel pomeriggio, l'aveva vista tornare al motel con diverse buste di forme, dimensioni e colori diversi, infilarsi nel bagno e ricomparirne con indosso un mini-abito leopardato stretto in vita, che Natasha riusciva miracolosamente a far apparire di classe. Non che fosse poi così interessato a cosa la donna indossasse...

Affatto.

Per niente.

Zero.

I capelli, che gli erano apparsi immediatamente più rossi e lunghi di quanto non ricordasse, le scendevano in morbide onde sulle spalle. Scarpe nere vertiginosamente alte, orecchini a pendente e un velo di trucco completavano l'opera, che aveva preso a tormentarlo con pure troppa insistenza, soprattutto in aree del suo corpo che avrebbe voluto – in quel momento almeno – morte e sepolte sotto strati e strati di pace dei sensi.

“Più di una volta,” lo rassicurò lei, anche se la prospettiva di mandarla a fare da esca ad un dannato miliardario che col suo cazzo ne battezzava – nel migliore dei casi – una a sera, non lo rallegrava minimamente.

Il fatto, poi, che l'avesse conosciuta come Black Widow prima ancora che come Natalie o come Natasha, era tornato ad infastidirlo più di tutto il resto. Non si era mai del tutto soffermato a riflettere su cosa, esattamente, significasse quello specifico nome in codice. O meglio: se l'era immaginato, ma non ne aveva mai realmente preso atto prima di ritrovarsela davanti sfoggiando quel nuovo set di abilità. Non gli sembrava più tanto assurdo che la donna avesse sentito il bisogno di sfuggire al suo padre-carceriere: metabolizzare anche quell'ulteriore sfaccettatura della sua persona, aveva finito per dare tinte ancora più fosche al suo passato così come Clint se l'era immaginato.

“Allora,” intervenne Steve. “Il piano è il seguente: Natasha si infiltrerà alla festa, raggiungerà la suite e ci farà avere la carta magnetica per l'accesso. Dopo avercela consegnata, Barton ed io ci dirigeremo alla suite, mentre voi due,” si voltò per assicurarsi che Thor e Bruce recepissero attentamente le istruzioni, “vi occupate di tenere sotto controllo la situazione.”

“Provvederò ad isolare Stark e aspetterò che arriviate per spiegargli del... piano,” concluse Natasha per lui. “Un gioco da ragazzi.”

“Che succede se qualcosa va storto?” Non riuscì a fare a meno di chiedere (perché diavolo dovesse sempre pensare al peggio, quando c'era di mezzo la donna, ancora non l'aveva capito, ma d'altronde neanche riusciva ad ignorare quella pungente sensazione che continuava ad infastidirlo).

“Niente andrà storto. So cosa faccio,” decretò lei in tono definitivo.

“So che sai quello che fai, ma che mi dici di quello che fanno gli altri?”

“Stark è solo un ricco viziato che riempie il suo tempo con inutili feste,” ribatté Natasha. “Ho gestito di peggio.”

“Questo non mi consola affatto,” si lasciò scappare, ottenendo di farla voltare verso di lui, la sua pelle profumata di fresco a pochissimi centimetri di distanza.

“A meno che non vogliate prendere in considerazione la possibilità di mettere Bruce in tiro e appellarci all'animo scientifico di Stark, direi che questa è la nostra unica chance di avvicinarlo.”

“Io... voto per quest'opzione,” ribadì il dottore.

“Altro da dire?” Solo il silenzio fece eco all'inquisizione di Steve. “Ottimo.”

“Ci vediamo tra mezz'ora sotto il lato sud dell'albergo,” convenne Natasha prima di lanciare un'ultima occhiata a ciascuno di loro e uscire dall'auto sistemandosi l'abito sulle gambe.

“Non sono sicuro di voler essere nei panni di Stark, in questo momento,” sentì borbottare Bruce.

Mentre Clint si sforzava di pensare a qualcosa che non fosse il folle piano di seduzione messo in atto dalla donna, lo stomaco gli si accartocciò bruscamente su se stesso.

 

*

 

La receptionist – fortunatamente non Patricia, che doveva aver finito il turno ore prima – riattaccò il telefono, rivolgendole un sorriso di circostanza.

“Il signor Stark la sta aspettando, signorina Rushman.” Ad un suo cenno, uno dei camerieri che si aggiravano per la hall intenti a gestire la situazione festaiola con il minor numero di vittime possibile, si avvicinò per scortarla in direzione dell'ascensore più vicino. Il grosso degli invitati era già stato smaltito, lasciando l'ampio ingresso pressoché deserto e concedendo a Natasha di non dover condividere con qualcun altro l'ascesa fino alla suite di Stark.

Dopo essere stata sommariamente perquisita da quella che aveva tutta l'aria di essere una delle cinque guardie del corpo del miliardario e averne ricevuto il via libera, accettò l'invito del cameriere a salire per prima. Aspettò che le porte si fossero richiuse, che l'uomo avesse inserito la chiave magnetica nell'apposita fessura e digitato un codice sul pannello che si era attivato (sequenza che si curò di memorizzare); dopodiché gli fu addosso, attaccandolo alle spalle per cingergli il collo con entrambe le braccia, una mano sulla bocca per impedirgli di urlare: le fu sufficiente tagliargli le scorte di ossigeno finché i sensi non vennero a mancargli. Il cameriere si afflosciò ai suoi piedi senza troppe cerimonie.

Gli sfilò la chiave di mano, aspettando più o meno pazientemente che l'ascensore arrivasse a destinazione. Non appena le porte si riaprirono, venne investita da una musica assordante, da gridolini impazziti, risate, urla... Nonostante il fastidio, fu abbastanza sicura che, grazie a quella particolare situazione, nessuno avrebbe prestato attenzione al cameriere svenuto tanto presto. Si assicurò di rispedirlo al piano di sotto, nel caso avesse avuto la brillante idea di entrare per avvisare qualcuno.

Si decise infine a farsi strada tra i corpi ammassati nell'ingresso fin dove la massa degli invitati sembrava estendersi. Le cadde lo sguardo su una pila di riviste, buste, lettere che facevano bella mostra di sé sulla superficie di marmo del lungo tavolo che costeggiava il corridoio: sembrava che il signor Stark non avesse degnato la sua posta nemmeno di un'occhiata. Qualcosa le suggeriva che il misterioso involto – che a rigor di logica doveva essere stato inviato anche a lui – aveva ricevuto il medesimo trattamento: passò in rassegna il cumulo di missive senza trovare niente che facesse al caso suo.

Aveva ormai perso le speranze, quando si accorse che una della ragazze che occupavano l'ingresso, abbarbicata ad un ometto basso che indossava degli orribili pantaloni bianchi, stava pestando il suo tacco dodici su... quello che doveva essere stato un pacchetto. Una volta.

Si affrettò a recuperarlo, chiedendo scusa alla sconosciuta che a malapena si rese conto delle sue manovre, troppo presa dalla lingua del suo focoso compagno. Natasha era convinta che la maggior parte dei presenti avesse già raggiunto un ragionevole livello di inebriamento: il che, ovviamente, andava tutto a suo vantaggio.

Incastrò la chiave magnetica sotto lo spago che teneva chiusa la carta marroncina stracciata in più punti, assicurandosi che non rischiasse di scappar via; recuperò una penna abbandonata in un grande piatto di vetro rosso sistemato sul tavolo, scarabocchiando le cifre del codice necessario ad attivare l'ascensore. Dopodiché sgusciò fuori dal corridoio, ignorando il folle dimenarsi di tutti quei corpi sudati per puntare alla terrazza che scorgeva in lontananza. Mentre le appariva chiaro che la mastodontica suite conteneva più gente di quanta ne potesse realmente accogliere, Natasha rischiò di incrociare Happy, l'assistente personale di Stark. Deviò nella direzione opposta, facendo il giro largo attraverso il salotto e l'area relax, finché l'aria fresca che proveniva dall'esterno non la guidò verso una porta di vetro scorrevole. La fece scivolare di lato, disturbando l'ennesima coppia impegnata in attività ricreative e un paio d'uomini in giacca scura che dovevano averne approfittato per fumarsi una sigaretta: sembrava che la terrazza cingesse il perimetro esterno di tutta la suite.

Ignorò sia gli uni che gli altri, sporgendosi oltre il parapetto per individuare i due punti minuscoli che, se i suoi calcoli erano esatti, dovevano essere Clint e Steve. Si portò una mano alle labbra, rilasciando un alto fischio per attirare la loro attenzione: la testa bionda del capitano si alzò per prima, subito seguita da quella dell'arciere, che, più che averla sentita, sembrava aver imitato istintivamente il gesto di Rogers. Natasha agitò una mano prima di lanciare pacchetto e chiave magnetica nel vuoto: non aspettò di assicurarsi che andassero a segno, scoccando un'occhiata indecifrabile ai due fumatori che la guardavano incuriositi, superandoli per rientrare direttamente dal salotto dove si concentrava il grosso della festa.

Conclusa la fase uno, si concesse il tempo di guardarsi attorno: le luci stroboscopiche che Stark aveva presumibilmente fatto installare lanciavano variopinti flash accecanti in ogni direzione. Alcune ragazze, liberatesi dei vertiginosi tacchi con cui erano arrivate, stavano saltando su uno dei divani che occupavano la sala, altre si agitavano come matte in prossimità della stazione del DJ. Bottiglie di champagne, super alcolici, lattine di birra ingombravano alcuni tavoli sparsi ai diversi angoli della suite.

Natasha passò in rassegna i pochi uomini che punteggiavano la folla prevalentemente femminile: nessuno rispondeva alla descrizione che Steve le aveva fatto del miliardario. Fu ben attenta a spostarsi tutte le volte che uno dei presenti accennava a volersi fare avanti, magari invitarla a ballare o bere qualcosa; e soprattutto a monitorare gli spostamenti di Happy: stretto nel solito completo elegante con cui l'aveva visto quella mattina, l'uomo faceva su e giù per la suite, con l'aria di chi ha un diavolo per capello. Tenere sotto controllo quella mandria imbufalita non doveva essere tanto semplice.

Decise di passare alla stanza successiva, immettendosi in un salotto più piccolo. Sedute sull'unico divano che si snodava lungo tutta la parete per fronteggiare un enorme televisore a schermo piatto, otto ragazze – tra cui notò due gemelle – si erano disposte regolarmente attorno al fulcro di quel particolare gruppo: un uomo non molto alto, pantaloni eleganti, piedi nudi, le maniche della camicia blu notte arrotolate fin sopra i gomiti; indossava un paio di occhiali scuri e teneva tra le labbra, messe in evidenza dal pizzetto estremamente curato, un grosso sigaro cubano spento.

Un sinistro ronzio accompagnò lo spostarsi sincronico di tutti gli sguardi verso qualcosa che si trovava al di sopra delle loro teste: un bizzarro marchingegno – una specie di aeroplanino telecomandato – aveva preso a schizzare da un capo all'altro della stanza. Sembrava che lo sconosciuto lo stesse pilotando utilizzando un grosso guanto metallico, con sommo divertimento e ultrasoniche risate raschia-gola emesse dallo stuolo di donne adoranti che lo circondava. Una di loro, esortata dallo sconosciuto, lanciò un bicchiere da Martini per aria: un attimo dopo andò in mille pezzi, colpito da quello che le era sembrato un raggio... laser.

Comportamento eccentrico, bislacche ed inutili invenzioni, pizzetto: Natasha non aveva più grandi dubbi riguardo l'identità dell'uomo che le sedeva praticamente di fronte. Fare la svampita non l'avrebbe aiutata ad attirare l'attenzione di Stark: sembrava che il miliardario ne avesse una fornitura praticamente illimitata, molto probabilmente a vita. Come si fa a conquistare un uomo che crede di avere già tutto? Mettendogli davanti agli occhi qualcosa che pensa di non poter avere. Si limitò ad irrigidire la postura, a raddrizzare la schiena e a recuperare un drink qualunque, premurandosi di scoccare lunghe occhiate cariche di disappunto e disgusto in direzione di Stark.

Solo quando l'uomo parve finalmente essersene accorto, Natasha finse interesse per qualcos'altro, lasciandosi alle spalle il salotto e il caos per uscire di nuovo sulla terrazza, svariati metri oltre il punto in cui si era sporta per consegnare il pacchetto a Clint e Steve.

Si appoggiò di schiena al parapetto, allungando un braccio sulla ringhiera. Non dovette attendere a lungo perché Stark la raggiungesse: si era liberato del guanto metallico, ma non di sigaro e occhiali da sole.

“Se c'è una cosa che non sopporto,” esordì, non appena l'ebbe individuata, “è vedere gente che non si diverte alle mie feste.”

Natasha decise di rimanere su una linea vagamente ostile, quel tanto che le bastava per stuzzicare la sua attenzione senza rischiare di farlo desistere del tutto. Si limitò a scrollare le spalle, a bere un sorso del suo cocktail zuccheroso e ad ostinarsi a non dire niente.

“Oh, capisco,” riprese l'altro, avvicinandosi di qualche passo. “Sei una difficile, giusto?” Parve scrutarla attentamente negli occhi attraverso le lenti scure infisse nella montatura costosa. “Certo, c'è anche la possibilità che tu sia sordomuta. Non che ci sia qualche problema,” riprese a blaterare, “diversità e rappresentazione sono il perno della società moderna, lo sapevi?” Natasha scosse il capo, un misto di noia e divertimento ad accenderle lo sguardo. “Io nemmeno.”

“Neanche lei ha l'aria di divertirsi granché,” si decise a formulare, calibrando attentamente il tono di voce.

“Io?” Stark scoppiò a ridere. “Il divertimento l'ho praticamente inventato io,” decretò pretenziosamente.

“Insieme a... inutili gingilli, giusto?”

“Non ha ricevuto il promemoria? Le cose migliori della vita sono inutili.”

Nonostante l'ennesima risata, Natasha capì che non era affatto divertito. Le dava l'impressione di un uomo grande e cresciuto che si ostinava a comportarsi come un ragazzino, contro ogni buon senso, contro ogni evidenza, portando strenuamente avanti un'illusione che non doveva convincere fino in fondo neanche lui.

“Credevo che le cose migliori della vita non si potessero comprare,” replicò.

“Spero vivamente che tu non abbia ragione o sarei nei guai.” Le scoccò un'occhiata al di sopra degli occhiali da sole: il movimento le permise di intuire l'ombra delle occhiaie che gli cerchiavano lo sguardo. Quelle, insieme alla sua voce strascicata e roca, le suggerirono che non doveva aver dormito molto nelle ultime quarantotto ore.

Un movimento oltre la porta a vetri attirò la sua attenzione: Clint, lattina di birra immancabilmente alla mano, e Steve altissimo e imponente a catalizzare gli sguardi delle ragazze presenti, avevano fatto il loro ingresso nel salotto.

“Qualcosa di più interessante di me?” Stark si voltò per controllare cos'è che stesse guardando, ma Natasha non gliene dette il tempo. L'afferrò per le spalle, invertendo le posizioni fino a schiacciarlo contro il parapetto, il piccolo coltello che aveva assicurato ad una fascia attorno alla coscia (abbastanza discretamente da eludere i controlli della sicurezza) puntato direttamente tra le gambe. L'uomo, che si era a malapena accorto del brusco ribaltamento, si limitò a guardarla con aria spaesata e solo vagamente indispettita, lasciando però cadere il sigaro a terra.

“Di solito quando spero che le donne che mi porto a letto non nascondano una sorpresina, mi riferisco a tutt'altro,” blaterò, quasi non si stesse rendendo conto della situazione. Natasha minacciò di affondare la lama ben oltre la pregiata stoffa dei suoi pantaloni d'alta sartoria. “Non sono sicuro di sapere cosa preferirei in questo momento.”

Proprio mentre Clint e Steve la raggiungevano, gli sfilò gli occhiali da sole, decisa a guardarlo in viso, forse nel tentativo di intimidirlo... il fatto che non stesse mostrando la benché minima traccia di preoccupazione la irritava molto più di quanto avrebbe voluto ammettere.

“Oh, il comitato d'accoglienza,” Stark li accolse con un ampio sorriso. “E poi dicono che le mie feste sono tutte uguali!”

“Si sieda,” Rogers esordì, l'espressione estremamente seria e scocciata.

“Non è che ha pure dei salatini, vero?” Intervenne Clint.

“Se vuole posso chiamare il servizio in camera,” si offrì Tony.

“Sarebbe delizioso.”

Natasha cominciò a temere che la serata sarebbe stata più lunga del previsto.

 

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Note:
E finalmente è entrato in scena anche l'ultimo Vendicatore! Giusto un assaggio di Tony Stark, ma ben più di un indizio sulla sua backstory. Per facilitarmi gli spostamenti, ho ricollocato Tony in quel di Miami (ma solo di passaggio, come si intuisce dalla location)... me lo immagino dedito a una gran serie di festeggiamenti in tournée per gli States (sennò a che servono i soldi? :P) Le citazioni *visive* da Iron Man 2 si sprecano (incluso il look di Natasha/Natalie per l'occasione!).
Toccherà aspettare il prossimo capitolo per scoprire come Stark prenderà la notizia di questo fantomatico "lavoro" (se di quello si tratta) e per vedere come il gruppo interagirà nella sua interezza.
Vi anticipo che il capitolo 13 arriverà tra  un po' più di una settimana, perché ho intenzione di postare un'altra cosetta...
Oltre a questo i ringraziamenti di rito alla sclerosocia che mi porta Vedove Nere in regalo (for real!) e anche a tutti voi che leggete e mi fate sapere che ne pensate volta per volta :D mi fa sempre tanto piacere.
Ora che ho delirato abbastanza, vi auguro un buon weekend :P
Al prossimo aggiornamento!
S.

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Capitolo 13
*** 13/20 ***


- Capitolo 13 -

 

 

 

Tony Stark era esattamente come se l'era immaginato: un adulto che ha ricevuto un biglietto di sola andata per un soggiorno perpetuo nel paese dei balocchi.

“Se volete derubarmi, prendete tutto quello che vi pare,” decretò con semplicità, prendendo posto sulla sedia che Steve aveva recuperato qualche metro più avanti.

“Perché sono tutti convinti che vogliamo derubarli?” O meglio, Clint – che non aveva dimenticato la reazione del dottor Banner al loro primo incontro – si immaginava perfettamente il perché, solo che non si era mai soffermato a riflettere su quanto fosse evidente... da fuori.

“La vostra...” Stark fece una pausa, lanciando una lunga occhiata in direzione di Natasha, “... esca. Posso dire 'esca'?” La donna alzò gli occhi al cielo, mandandolo mentalmente al diavolo. “Insomma, ha appena minacciato i miei gioielli. Il che significa che volete qualcosa... oppure che è incazzata con me,” elencò rapidamente, “ma dato che ci conosciamo da neanche cinque minuti, avrei battuto un record.” Parve rivolgerle una muta domanda alla quale Natasha si guardò bene dal rispondere.

“Non siamo qui per derubarla,” si intromise Steve, la voce autoritaria e posata che non faceva proprio niente per nascondere la perplessità che un ambiente tanto dissoluto doveva avergli provocato.

“Giornalisti? Non ditemi che siete giornalisti! Per cosa li pago a fare quei dannati scimmioni senza cervello?” L'uomo si sporse di lato, forse per intercettare lo sguardo di una delle sue guardie attualmente impegnate a controllare (piuttosto sommariamente, a quanto pareva) le varie stanze; Clint ebbe cura di rispedirlo compostamente a sedere.

“Cosa volete, forza!” Stark si stava innervosendo. “Soldi, donne, alcool... che investa in una qualche stupida società che ha bisogno di finanziamenti, che...” sospirò, “continuo a sperare che sia per una specie di celebrazione orgiastica, ma immagino che non sia così.”

L'espressione contrita di Steve dovette essere sufficiente a dissipare ogni dubbio a riguardo.

“Poco male,” riprese il miliardario, “la percentuale di testosterone era troppa persino per i miei gusti.”

Clint scolò la sua birra in un sol sorso pur di non rischiare di visualizzare qualsiasi cosa Stark stesse insinuando.

“Ha ricevuto questo qualche giorno fa,” Rogers gli mostrò il pacchetto ammaccato, “sa che cosa contiene?”

“No, ma se mi restituite gli occhiali forse potrei riuscirci,” ribatté quello, voltandosi verso Natasha con un sorrisetto supplice che mal si sposava con le condizioni pietose del suo viso esausto.

“Perché?” Clint si ritrovò a chiedere. “Hai gli occhiali a raggi X?”

“Tecnicamente non posso dirlo, finirei in un sacco di beghe legali, ma in pratica...” alluse.

“Vuoi dirmi che riesci a vedere sotto i vestiti di... chiunque?” Non sapeva se essere ammirato o disgustato; probabilmente un mix tra le due.

“Perché non provi e basta?”

Prima che potesse fare un bel niente, una furia leopardata gli bloccò la vista e lo schiocco di pelle contro pelle gli annunciò che Natasha aveva appena preso a pugni Stark.

“O-Oh m-merda.” Si era portato le mani alla mascella colpita, estremamente contrariato da quell'improvviso colpo di scena. “D-Dove 'ono finite le 'onne che t-tirano schiaffi?”

“Gli schiaffi non sono nel suo stile,” confermò Clint.

“Signor Stark,” il tono imperioso di Steve tornò a sovrastarli. “Questo pacco contiene un'offerta di lavoro.”

“Io non lavoro, signor...,” sembrò realizzare di non sapere il suo nome solo in quell'istante, “Action Man.”

“Di questo ce ne siamo accorti, la ringrazio,” la gelida cortesia di Rogers contribuiva, bizzarramente, a rendere il tutto persino più tragicomico di quanto già non fosse. “Siamo stati contattati proprio come lei. Qualcuno ci sta cercando.”

“Sono molto contento per voi, ma a me non interessa.”

“Non sa neppure di cosa sto parlando.”

“Non è rilevante. Non so se se n'è accorto, signor Van Damme, ma potrei anche andare avanti per un anno intero a pulirmi il culo con il faccione di Benjamin Franklin e ancora non sarei neppure lontanamente vicino alla bancarotta.”

“Continuo a non capire come potrebbe aiutarci,” sentenziò Natasha, l'irritazione malamente celata nella sua voce.

“Ha le risorse,” Clint si strinse nelle spalle, ben sapendo di sottolineare l'ovvio.

“Risorse per fare cosa? No, aspetta aspetta... non mi interessa,” allargò leggermente le braccia. “Il mio analista dice che ho una soglia dell'attenzione pari a quella di un bambino di sei anni.”

“Forse sarebbe il caso di farsene consigliare uno nuovo,” replicò Clint che, sui frutti positivi della terapia, nutriva già non pochi dubbi.

“Una marea di stronzate,” concordò Stark.

Natasha si era voltata verso la porta a vetri: a giudicare dalla direzione del suo sguardo, stava tenendo d'occhio un uomo in giacca e cravatta che si aggirava per il salotto come un'anima in pena.

“Vado a distrarlo,” si limitò a dire, lasciandoli soli col padrone di casa per andare ad intercettare quello che doveva essere il suo assistente personale: anche se era vestito come i gorilla della sicurezza, non ci voleva molto per capire che non era uno di loro.

“Ecco come ha fatto ad arrivare fin quassù,” Tony stava ragionando tra sé. “Fosse stata una delle sue solite racchie, l'avrei licenziato.”

Steve sembrava sul punto di perdere definitivamente la pazienza.

“Signor Stark...”

“Chiamami Tony.”

“... abbiamo intenzione di seguire gli indizi che ci sono stati recapitati fin dove ci porteranno.”

“Indizi? Siete sicuri di non essere rimasti incastrati in una di quelle catene... 'se non la invii ad altre sette persone non ti si rizzerà più per sette anni'?”

“Che razza di gente conosce?” Clint, che si era appoggiato al parapetto con nonchalance, con l'intento di apparire – agli occhi di chiunque li stesse osservando da lontano – impegnato in un'amichevole conversazione con Stark, lo guardò con aria inorridita.

“Barton,” Steve parve rimproverarlo.

“Che c'è? Non verrà con noi neppure se lo obblighiamo a farlo,” replicò sulla difensiva.

“Bè, se mi obbligaste, sarei probabilmente costretto a venire,” Tony tenne a precisare.

“Ci sta suggerendo di rapirla, signor Stark?” Steve continuava ad apparirgli terribilmente confuso da quell'intera situazione: cercare di mettere il miliardario all'angolo era come sforzarsi di afferrare l'acqua a mani nude. Tutto tempo perso.

“Non sarebbe la prima volta,” sentenziò quello. “Questa festa non era comunque un granché.”

Dalla musica assordante, dalle grida dei corpi schiacciati in furibonde danze, dalle risate che riecheggiavano tutt'intorno, Clint non era affatto sicuro che la festa non fosse un successo. Si chiese a quante serate simili dovesse aver partecipato per essere arrivato al punto di trovarle noiose...

Mentre passava sommariamente in rassegna i presenti, fu costretto a soffermarsi su Natasha: appoggiata al muro con entrambe le spalle, stava rivolgendo allo scagnozzo di Stark un sorriso che non le aveva mai visto addosso prima d'allora. Tutto, dalla sua postura, al modo calibratissimo in cui scuoteva leggermente i capelli ogni volta che diceva qualcosa, alle calcolate volte in cui si assicurava di sfiorargli casualmente un braccio o una spalla... tutto gli suggeriva che quella non era Natasha, ma un'altra persona.

“Dovremmo andarcene,” si ritrovò a dire, più solennemente del previsto stavolta.

“Sei geloso di Happy?” Indagò Stark, il tono di voce improvvisamente odioso.

“Chi cazzo è Happy?” Si voltò bruscamente verso di lui, incenerendolo con lo sguardo. “Andiamocene e basta,” ribadì, rivolgendosi direttamente a Steve.

“Lo portiamo con noi,” decise gravemente il capitano con l'aria di chi preferirebbe prendere una qualsiasi altra decisione se solo gli avessero offerto un'alternativa.

“Giusto per sapere, state decidendo se rapirmi o meno?”

Rogers ignorò bellamente la domanda di Tony, bypassandolo per chiedere tacitamente il suo assenso. Clint non poté far altro che acconsentire: avevano fatto trenta, tanto valeva fare trentuno, anche se quel trentuno prevedeva il sequestro di uno degli uomini più conosciuti al mondo.

Stark si limitò a guardare prima l'uno e poi l'altro, apparentemente affatto preoccupato dalla prospettiva di essere sequestrato da un branco di sconosciuti dall'aria minacciosa.

“Posso almeno andare a prendere un paio di scarpe?”

 

*

 

“Sono piuttosto sicuro che il tipo della reception sia convinto che siamo tutti qui per girare un film porno.”

Il fatto che Stark avesse entrambi i polsi legati alla testiera del letto (e solo perché era stato lui ad insistere, non si era ancora capito su che linea di pensiero) non faceva proprio niente per impedirgli di blaterare senza sosta. Natasha non l'avrebbe ammesso neppure sotto tortura, ma c'era qualcosa in quell'uomo, nel suo atteggiamento, che la faceva andare fuori di testa, contro ogni più ragionevole buon senso. L'avrebbe volentieri rinchiuso di nuovo nel bagagliaio della berlina presa a noleggio da Rogers, così come avevano fatto per trasportarlo dall'albergo a cinque stelle a quello scalcagnato motel fuori mano.

“Cinque uomini e una donna?” Ribatté Steve, forse con l'intento di zittirlo mettendo in evidenza l'aspetto più assurdo di tutta quella storia... ma il capitano finì per fare peggio che meglio.

“Non hai visto molti film porno, eh, Superman?”

Natasha scoccò una rapida occhiata in direzione di Rogers: nonostante si stesse sforzando di far finta di niente, un velo di rossore era riuscito a raggiungergli le guance. Lo vide fingere disinteresse e concentrarsi sulle sei chiavi, una per ogni pacchetto ricevuto, che teneva tutte in una mano. L'inquisizione di Stark ottenne solo un generico silenzio in risposta.

Dopo una frettolosa, ma ineccepibile fuga dal Mandarin Oriental Hotel, erano tornati ad occupare le camere comunicanti in cui avevano trascorso il pomeriggio: Thor era seduto sul pavimento, intento a spiluccare noccioline da una confezione razziata dal mini-bar della stanza adiacente; Bruce stava cercando di far funzionare il televisore; mentre Clint era di nuovo impegnato a pulire la punta delle poche frecce che ancora aveva con sé.

Finì di disporre i pezzi della cartina muta sull'unica scrivania della stanza, assemblando i vari frammenti nell'unico modo possibile: la forma che ottenne non le suggerì proprio niente. Aveva un'aria troppo regolare per poter rappresentare una qualche conformazione geografica, ma oltre a quello non era sicura di poterne trarre altre informazioni utili.

“Tu eri l'ultimo,” Steve aveva ripreso la parola, rivolgendosi all'arciere. “Stark doveva venirti a cercare.”

“E' stata una fortuna che mi sia messo nel mezzo allora,” rispose l'altro. In effetti, se avesse dovuto aspettare i comodi di Tony, molto probabilmente non sarebbe mai arrivato da nessuna parte.

“Sono proprio qui, lo sapete?” Protestò il miliardario, lanciando ad entrambi occhiate indignate.

“E' per questo che stiamo parlando ad alta voce,” lo zittì Clint... almeno per qualche secondo.

“Quindi fatemi capire,” riprese Stark, “ognuno di noi ha ricevuto quella... roba. E voi siete convinti che vogliano offrirci un qualche lavoro?”

“Per quale altro motivo sennò?” Thor sembrava ormai del tutto persuaso da quell'ipotesi.

“Che genere di lavoro?”

“Un lavoro presumibilmente illegale,” Bruce, che nel frattempo era riuscito a posizionare l'antenna affinché almeno un canale fosse sufficientemente visibile, si voltò verso l'uomo legato al letto, rivolgendogli un mezzo sorriso.

“L'arciere, il bestione biondo, il bestione castano, un... uomo con una borsa da viaggio molto grande (Barry Poppins?) e la femme fatale,” elencò Stark. “Questo sarebbe il glorioso piano per... ?”

“Non possiamo saperlo finché non avremo decifrato gli indizi,” decretò prepotentemente Natasha.

“Che sarebbero?”

“Una cartina muta che non ci dice niente e sei chiavi per altrettante cassette di sicurezza.”

Clint si era rimesso in piedi, abbandonando per un istante arco e frecce per avvicinarla alla scrivania e dare un'occhiata al puzzle precariamente ricomposto.

“Sei sicura che non si possano... montare diversamente?”

“Ci ho provato,” replicò a mezza voce. “Se qualcun altro vuole fare un tentativo.”

Lasciò libera la sedia, permettendo a Clint di sedersi e a Bruce e Steve di avere abbastanza spazio per collaborare ad un assemblaggio alternativo.

Natasha recuperò lo zaino che conteneva le poche cose che aveva con sé, chiudendosi in bagno. Si sfilò l'abito stretto e scomodo che ancora indossava e si sbarazzò degli orecchini a pendente. Lo specchio che sovrastava il lavandino le rimandò il proprio riflesso; era pallida e più magra di quanto ricordasse: si sfiorò appena sotto i seni, sentendo le costole sporgere leggermente in più punti. Le ferite più fresche erano ormai in via di guarigione e i lividi che aveva rimediato parevano essersi riassorbiti del tutto. I capelli sciolti, poi, risaltavano bruscamente sul biancore della sua pelle: vene azzurrognole la tramavano in più punti, come in un complicato ricamo.

Si fissò per quella che le parve l'eternità, quasi fosse stata in attesa di una qualche rivelazione che, puntualmente, non arrivò mai. Sospirò appena, affrettandosi ad indossare gli abiti nuovi e decisamente più pratici che aveva acquistato quel pomeriggio: un paio di jeans scuri e una t-shirt nera. Dopo essersi sciacquata il viso e lavata i denti alla meno peggio, tornò a raggiungere gli altri.

Anche Thor si era unito al conciliabolo attorno alla scrivania, ma nessuno sembrava essere arrivato ad una qualche conclusione degna di nota.

Restò immobile ad osservarli per qualche istante, ancora non del tutto convinta di non star sognando ad occhi aperti: il brusco risveglio nella pensione di San Paolo era ancora in agguato, da qualche parte nella sua testa. Eppure, nonostante l'opprimente incertezza che accompagnava ogni loro singola mossa, Natasha non avrebbe scambiato tutto quello per nient'altro al mondo. Non ricordava quando fosse stata l'ultima volta in cui aveva avuto tanta compagnia e per un lasso di tempo tanto prolungato... una settimana o poco più, praticamente un record. E, sebbene le loro situazioni fossero tutte diverse, era altrettanto certa che lo stesso ragionamento valesse su per giù anche per gli altri: doveva valere per Steve, l'eroe di guerra costretto all'anonimato dell'Alabama per cancellare il ricordo degli esperimenti che su di lui erano stati condotti; Bruce, il dottore irascibile che aveva dovuto cercare la solitudine della foresta per evitare di scatenare la sua furia su degli innocenti; Thor, che a malapena riusciva a ricordarsi di non vivere nel passato e di guardare avanti, forse nella speranza di poter ricominciare da capo un giorno; Stark... che a dispetto di tutti i semi-sconosciuti di cui amava circondarsi, non sembrava aver mantenuto relazioni che potessero definirsi tali, soprattutto a giudicare dal modo in cui aveva accettato di farsi rapire, quasi gli avessero fatto un favore a trascinarlo via dall'ennesima festa a base di alcool, donne succinte e musica assordante. E poi c'era Clint... che non era sicura di aver inquadrato fino in fondo: era un tipo solitario, ma non sembrava sua natura esserlo. Non in quel modo, almeno. Si era ormai convinta che ci dovesse essere stato qualcuno, un tempo, che aveva significato qualcosa per lui: nonostante il suo lavoro tutt'altro che legale, c'era una bontà di fondo nel suo sguardo che ogni tanto faceva capolino oltre gli strati di cinismo e disappunto di cui sembrava essersi rivestito. Una corazza che cominciava a mostrare i primi segni di cedimento.

Natasha sapeva che la gente non cambia pelle, non realmente, che prima o poi sarebbero stati costretti a svestirsi di qualsiasi identità avessero deciso di assumere, per guardare finalmente in faccia la realtà. Tutti... tranne lei. Più che una persona fatta e finita, Ivan si era assicurato che Natasha fosse una pagina bianca su cui poter scrivere, cancellare e riscrivere tante volte quante fossero stato necessarie. Conosceva a memoria le vita e i comportamenti delle persone che aveva finto di essere, ma così poco di se stessa. Erano state le parole di Clint a farglielo capire: una volta sedimentatasi nella sua testa, la verità, più che una liberazione, le era apparsa come una condanna.

“Magari non è una cartina, magari è qualcos'altro,” ipotizzò Bruce.

“Qualcos'altro? Dovrai essere un po' più preciso di così, doc,” obiettò l'arciere.

Natasha si costrinse ad uscire dalla sequela di apatiche riflessioni in cui era caduta, muovendo in direzione di Stark, ancora legato al letto con i cordoncini rubati alle tende.

“Va' a vedere,” gli disse soltanto, decidendosi a liberarlo una volta per tutte.

In tutto quel caos, una cosa la sapeva: c'era un motivo se qualcuno li aveva scelti. Di delinquenti più o meno abili era pieno il mondo, ma i loro presunti e misteriosi datori di lavoro avevano scelto quei sei e nessun altro. Il biglietto di Stark, che riportava l'indirizzo di Clint, in una località dell'Iowa che non aveva mai sentito nominare, aveva chiuso il cerchio.

“Siete i sequestratori più noiosi della storia,” si lamentò quello, rimettendosi seduto.

Natasha gli scoccò un'occhiata infernale, convincendolo ad alzarsi dal materasso e a raggiungere la scrivania. Thor aveva già battuto in ritirata e Clint era tornato alle sue frecce, lasciando che Bruce e Steve si occupassero di trovare una qualche miracolosa soluzione.

Tony squadrò il mucchietto di carta con aria perplessa e stranamente solenne.

“Questo non è un posto,” dichiarò dopo qualche istante di assoluto silenzio. “E' un logo.”

“Un logo?” Rogers sollevò il capo con aria contrita. “Un logo di cosa?”

“Della mia nuova centrale ad osmosi,” rispose con un'immediatezza disarmante.

“La tua... che?” Clint aveva di nuovo messo da parte le frecce per prestare attenzione.

“Centrale ad osmosi,” Bruce sembrava star giocherellando con le parole, ragionando e parlando al tempo stesso, “credevo che ci stessero lavorando i norvegesi.”

“Dovevano. Ma le Stark Industries hanno fatto un'offerta più alta, ottenuto e perfezionato il progetto,” spiegò Tony, “dovremmo inaugurarla il prossimo anno... se non hanno cambiato i piani.”

“Che cazzo è una centrale ad osmosi?” Clint pareva indispettito dal fatto che nessuno si fosse preso la briga di fare la domanda più ovvia.

“E' un modo per creare energia pulita e rinnovabile dalla miscelazione di acqua dolce e salata,” rispose Bruce, che guardava Stark con l'aria di chi ha appena trovato un inaspettato rispetto nei confronti di chi non avrebbe valutato più d'un soldo bucato.

“Credevo che ti avessero estromesso dal consiglio delle Stark Industries,” intervenne Natasha.

“L'hanno fatto,” confermò Tony, un improvviso malumore ad animargli il volto ancora stravolto dalla stanchezza, “ma ho comunque avuto il tempo di imporre condizioni ridicole a tutti i nostri progetti in corso, prima che succedesse.” Non c'era divertimento nella sua voce, solo un'amara delusione.

“Come... ?” Steve lo invitò ad andare avanti.

“Come disegnare il logo della nuova, super seriosa centrale ad osmosi delle Stark Industries,” un sorriso tornò a tendergli le labbra. “Avete una penna?” Bruce corse a frugare nel suo borsone da viaggio, tornando indietro con una penna a sfera dall'estremità mangiucchiata.

“Ecco.”

“Sei un tipo nervoso, eh, doc?” Commentò Stark, che non mancò di registrare le occhiate perplesse e vagamente imbarazzate che ricevette in risposta. “Che ho detto?”

“A che ti serve la penna?” Di nuovo Rogers a riportarlo all'attenzione.

“A fare...,” Tony si chinò sulla scrivania, cominciando a tracciare linee incomprensibili sul puzzle, “... questo.” Si rimise dritto, con aria soddisfatta, solo quando ebbe completato l'opera.

Natasha si sporse in avanti per avere una visuale migliore, il che non l'aiutò comunque a capire che diavolo rappresentasse.

“Che cazzo dovrebbe essere?” Clint l'aveva sollevata dall'onere di prendere la parola.

“Come sarebbe a dire?” Stark si voltò verso l'arciere con aria indignata prima di soffermarsi su tutti gli altri in cerca di un sostegno che non arrivò.

“Sembra un pesce,” contribuì Thor.

“Non è un pesce è una sirena. Anzi, due sirene,” borbottò Tony, “va bene che il disegno non è il mio forte, ma...”

“Non riesco a vederlo,” mormorò Bruce, che nonostante tutto quel guardare, non sembrava capace – esattamente come tutti gli altri – di visualizzare niente di sensato.

“Sono due sirene che fanno un sessantanove, non lo vedi?”

Quel sessantanove? Ma non sono sirene?” Clint era confuso.

“E' una metafora, sono una sirena per l'acqua dolce e una per l'acqua salata... se le guardate per bene stanno pure mandando a fanculo,” il nervosismo era palpabile nella voce di Stark. “Francamente, ho speso soldi per opere d'arte più incomprensibili di questa,” si lamentò.

“Hanno accettato di prenderlo per buono?” Rogers suonava sorpreso.

“Non hanno avuto altra scelta. Se non avessero assecondato le mie condizioni, tutti i progetti in corso alle Stark Industries sarebbero rimasti impantanati per... mesi, probabilmente anni.”

Natasha si era ormai convinta che quello, più che il capriccio di un ricco annoiato, fosse stato un modo per vendicarsi di chi l'aveva estromesso dal controllo delle industrie che portavano il suo nome. Era chiaro che quella magra conquista non era minimamente capace di sanare il disappunto per la perdita di tutto il resto.

“Dove si trova questa centrale?” Si decise a chiedere.

“Vicino ad Anchorage.”

“Alaska?” Bruce aveva aggrottato la fronte, mentre un'unica, muta domanda cominciò a serpeggiare nel silenzio che, non fosse stato per la TV ancora accesa, sarebbe stato totale.

A meno che non si fossero decisi ad intraprendere un viaggio tanto lungo, una meta lontana e fuori mano come quella escludeva l'uso di qualsiasi mezzo di trasporto. Certo, avrebbero potuto organizzare una gita aerea a spese dell'ex-cliente di Clint, ma Natasha dubitava fortemente che i soldi che avevano a disposizione sarebbero bastati a portarli fino ad Anchorage, ed usare la carta di credito (ammesso che fosse ancora attiva) era fuori discussione. Senza contare che la presenza di Tony complicava di molto la situazione: chiunque avrebbe potuto riconoscerlo, soprattutto in un luogo tanto affollato come un aereoporto.

“Perché quei musi lunghi?” Stark non sembrava aver colto il problema.

“Come ci arriviamo in Alaska?” Clint allargò le braccia, sottolineando l'assurdità della situazione.

“Con il mio jet privato, no?”

Cinque paia di occhi sgranati si posarono su di lui.

 

*

 

6 ore dopo

nei cieli della Florida

 

Se qualcuno gli avesse detto che si sarebbe trovato a continuare quel bizzarro (e potenzialmente inutile) viaggio verso l'ignoto su un dannato jet privato, probabilmente si sarebbe fatto una grossa, grassissima risata. Eppure era esattamente ciò che era appena successo: era stata sufficiente una chiamata di Stark al suo assistente personale, Happy o come cazzo si chiamava, ordinare che il suo aereo venisse preparato per un'imminente partenza e guidare fino al Kendall-Tamiami Airport di Miami sulla sua limousine (Tony, infatti, si era categoricamente rifiutato di tornare ad occupare il bagagliaio della berlina che Steve aveva noleggiato). La struttura avrebbe dovuto aprire i battenti alle sei del mattino, ma – come Clint aveva potuto notare – il nome di Stark aveva un che di miracoloso: bastava pronunciare quelle cinque lettere per far sì che più o meno chiunque sprofondasse nel servilismo più imbarazzante e assoluto.

Avevano tirato giù dal letto il direttore e un manipolo di dipendenti, subito accorsi per accogliere il ricco e influente Tony Stark con il dovuto riguardo. Erano stati condotti in un elegante salotto in cui era stata servita loro la colazione, mentre qualcun altro correva a sincerarsi delle condizioni del jet e dell'arrivo – di lì a breve – del pilota personale di Stark.

In meno di quattro ore si erano ritrovati ad occupare i costosi sedili in pelle del velivolo, con un paio di hostess assonnate a fare su e in giù da un capo all'altro del confortevole ambiente per accertarsi che nessuno di loro avesse bisogno di niente.

Bruce, che si era rifiutato di consegnare il bagaglio a chicchessia affinché venisse sistemato altrove, aveva reclinato indietro il sedile, utilizzando il suo borsone come poggiapiedi e si era addormentato nel giro di pochi minuti. Natasha si era isolata, più che altro – Clint sospettò – per evitare gli sguardi indignati che l'assistente personale di Stark (che poi si era rivelato essere il suo autista) continuava a lanciare nella sua direzione: non doveva aver preso molto bene il seducente raggiro di cui era stato vittima alla festa.

Per quanto lo riguardava, insieme a Thor, Steve e Tony, si era preso uno dei quattro sedili che fronteggiavano un tavolino, lasciandosi coinvolgere in un'improbabile partita a poker.

“Posso menzionare l'evidente elefante nella stanza?” Stark gettò in mezzo al tavolo un paio di fiches, facendo poi scorrere lo sguardo sugli altri tre che – tuttavia – si guardarono bene dal degnarlo di una risposta. “La proporzione maschi/femmine di questo gruppo è piuttosto scadente.”

“Cosa suggerisci di fare?” Gli chiese con tono annoiato. “Reclutare altre donne?”

“E rovinare il certosino lavoro dei nostri misteriosi clienti?” Tony si mise a ridere. “E' chiaro che soffrono di un grave disturbo psicologico, preferirei non tentare la fortuna facendoli incazzare.”

“Allora sta' zitto e muoviti,” lo esortò malamente a fare una qualsiasi mossa per chiudere il turno.

“Quello che volevo dire è che... qualcuno ha reclamato la precedenza con Jessica Rabbit?”

Steve si limitò a scoccargli un'occhiata perplessa, mentre Thor era troppo preso dall'analisi delle proprie carte per prestar loro attenzione. Clint, dal canto suo, sentì lo stomaco contrarsi malamente, riuscendo a malapena a controllare l'espressione di puro disgusto che gli si dipinse sul volto. Fece per rispondere a tono, ma la figura di Natasha arrivò a bloccare la poca luce che illuminava il tavolo da gioco, stagliando su di esso un'ombra inquietante.

“Riesco a sentirti Stark,” sentenziò a voce bassissima, scocciata e glaciale insieme.

“I-Io?” Tony si indicò stupidamente prima di procedere a deglutire a fatica e a fingere indifferenza. “Parlavo di un classico del cinema americano.”

“L'unico scenario in cui sarei disposta a toccarti è quello in cui ti spacco la faccia a mani nude,” aggiunse con disarmante pacatezza.

“E'... favoloso,” tossicchiò Stark, “non... non vedo l'ora. Magari quando sono un po' più riposato, che ne dici?”

“Fa' a tutti un favore e sta' zitto, che te ne pare?”

“Un'ottima idea,” convenne, prima di dirottare la sua attenzione su Steve. “Tocca a te.”

Clint seguì Natasha con lo sguardo mentre tornava al suo posto: Happy le tagliò la strada con il semplice, chiarissimo intento di metterla in difficoltà. Durò solo pochi istanti, dopodiché l'autista di Stark fu costretto a farsi da parte e ad abbassare di molto il tiro.

“Io esco,” decretò, mollando le proprie carte sul tavolo.

“Ricordati di prendere un paracadute e di non fare più tardi di mezzanotte.” La voce cantilenante di Stark lo seguì fino al sedile libero che fronteggiava quello occupato da Natasha; vi si lasciò cadere con un impercettibile sospiro.

“Non cagarlo, è un idiota,” le disse a mezza voce, assecondando un'urgenza che non riusciva a capire fino in fondo.

“Lo so.”

“E agli uomini non piace scoprire di essere stati presi per il culo,” aggiunse, riferendosi ad Happy, “ma gli passerà, vedrai.”

“Credi seriamente che me ne importi qualcosa di cosa pensano quei due?” La donna gli suonò più indispettita del previsto, niente a che fare con l'algida indifferenza che aveva ostentato neanche un minuto prima.

“Sì?” Azzardò. “E' normale.”

“Non è colpa mia se Stark è un narcisista da manuale o se la maggior parte degli uomini vedono solo quello che vogliono vedere,” si giustificò, sprofondando maggiormente contro lo schienale, come schiacciata dal peso del proprio nervosismo.

“Che vuoi dire?”

“Che tutto quello che fate è proiettare le vostre fantasie sulle donne che incontrate, non importa che razza di personalità abbiano,” spiegò con aria seccata. “Quello che faccio è approfittarmi della debolezza della gente per ottenere ciò che voglio.”

“Non ti devi giustificare con nessuno,” sentì il bisogno di dirle, ottenendo almeno di farsi guardare negli occhi. “Men che meno con me.”

Natasha si strinse nelle spalle, lanciando solo una breve occhiata fuori dal finestrino: il buio della notte aveva definitivamente ceduto il passo al chiarore del primo mattino. La luce calda del sole accendeva i suoi capelli di mille riflessi, facendo apparire i suoi occhi ancora più verdi di quanto non fossero in realtà. La coesistenza di tutti quegli opposti (ingenua e letale, scontrosa e amichevole, padrona della situazione e in balia di se stessa) continuava a catalizzare fin troppo efficacemente la sua attenzione. Natasha lo faceva sentire a suo agio e terribilmente a disagio al tempo stesso. Inspiegabilmente.

Rimasero in silenzio a lungo, finché la donna non riprese la parola, stavolta in tutt'altro tono.

“Ti sei mai messo a pensare che... che se nessuno ti conosce, è come se non esistessi neanche?”

“Che intendi?” Si ritrovò a chiedere, nonostante avesse un'idea piuttosto precisa di quello che Natasha stesse cercando di dire.

“Che potremmo morire da un momento all'altro e se nessuno ci conosce, non avremmo lasciato una traccia da nessuna parte.”

“Ci tieni? A... lasciare una traccia?”

“Non m'importa,” mormorò dopo un attimo d'incertezza, “però mi spaventa.” Nonostante tutto, gli parve sincera.

“Hai tutto il tempo che vuoi per farti conoscere da chi ti pare.”

“Non lo so.”

Accorgendosi della sua riluttanza, lasciò che le parole di Natasha cadessero nel vuoto: non gli sembrava proprio il caso di insistere.

“Ti conviene-”

“Riposarmi, lo so,” abbozzò un inaspettato sorriso nella sua direzione. “Lo dicono tutti qua in giro, ma non lo fa mai nessuno,” fece notare, abbassando la copertura del finestrino per tagliare fuori la luce del giorno. Clint dovette riconoscere che non aveva tutti i torti.

“Dormi,” ribadì, “mi occupo io di controllare la situazione.”

Natasha lo guardò per un lungo istante con aria valutativa, prima di decidersi ad annuire, come a suggellare un tacito patto appena sottoscritto da entrambi.

“Svegliami quando vuoi fare a cambio,” mormorò, senza curarsi dell'assurdità delle proprie parole: erano rinchiusi in un abitacolo di lamiera sospeso a chissà quanti piedi d'altezza, che cosa sarebbe potuto succedere?

“Siamo d'accordo,” decretò semplicemente, guardandola accoccolarsi contro il sedile e chiudere gli occhi dopo averlo scrutato ancora per qualche attimo.

Bastarono pochi minuti perché il ritmo lento e cadenzato del suo respiro arrivasse a colmare il poco spazio che li separava.


__________________________________________

Note:
Aaand we're back! Il povero Stark è talmente annoiato barra votato all'auto-distruzione purché gli movimenti la vita, che non è poi così schifato dall'idea di essere rapito. E adesso che tutti i nostri Vendicatori sono insieme, cominciano a prendere forma un po' di cose. Fatto sta che ci sarà - come preannunciato - un brusco cambio d'atmosfera e dal caldo afoso del sud degli Stati Uniti verremo catapultati all'estremo nord. Ci stiamo avvicinando alla fine della "caccia al tesoro"... ma per questo, c'è il prossimo capitolo :P
I soliti sentitissimi ringraziamenti a chi legge/commenta/spulcia, soprattutto agli habitués, e come sempre alla sclero-socia-beta Eli :*
Alla prossima!
S.

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Capitolo 14
*** 14/20 ***


- Capitolo 14 -

 

 

 

11 ore dopo

Anchorage, Alaska

 

“Scegli la cosa più costosa che trovi,” le suggerì Clint. “Tanto paga Stark.”

Natasha rialzò lo sguardo dalla striminzita selezione di indumenti femminili in esposizione nel reparto abbigliamento del primo negozio che erano riusciti ad intercettare sulla loro strada.

Erano atterrati in un piccolo aeroporto privato di Anchorage che le luci del pomeriggio erano ancora alte; l'aria fredda e pungente li aveva accolti senza troppe cerimonie, a differenza dei lacché di Stark la cui influenza sembrava non conoscere confini geografici di alcun tipo.

Sembrava che nessuno avesse rivolto più di un pensiero al brusco cambiamento di clima che li attendeva: solo Natasha non si era sorpresa, ma la convinzione di poter sostenere temperature ben più rigide di quelle l'aveva spinta a mettere in secondo piano quella particolare considerazione. Fu ben presto costretta a realizzare di non esserci più granché abituata: nonostante casa (se così poteva definire la sua terra natia) si trovasse a poche miglia a ovest dal punto in cui si trovavano, oltre lo stretto di Bering, c'era ben poco, in Anchorage, che le ricordasse la sua infanzia.

La città si stendeva pigramente tra le gelide acque del golfo di Cook e la catena montuosa innevata che si innalzava alle sue spalle, schiacciando l'esiguo agglomerato urbano nel suo solido abbraccio. Non ci avevano messo molto a raggiungere il centro cittadino sulle vetture che Stark aveva predisposto mentre ancora si trovavano in volo, ma procurarsi un abbigliamento adeguato era stata la prima preoccupazione di tutti.

Tirò fuori una giacca a vento nera, assicurandosi che l'interno fosse sufficientemente pesante da tenerla al caldo anche quando le temperature fossero calate per la notte imminente.

Fece scorrere lo sguardo da un capo all'altro del negozio: il maggior numero di clienti si concentrava nell'area dedicata a caccia e pesca mentre i pochi altri avventori erano disseminati nelle varie corsie. Bruce e Tony sembravano impegnati in una fitta conversazione riguardo – se gli stralci che aveva colto sul jet ne erano un qualche indizio – complicate questioni scientifiche di cui non era riuscita a decifrare granché. Poco più oltre Steve e Thor stavano passando in rassegna alcuni giubbotti pesanti con aria non molto convinta.

“Credo che Thor abbia rischiato di sfondarne uno, prima,” Clint, che doveva aver seguito la direzione del suo sguardo, tornò a parlare, rivolgendole un microscopico sorriso. L'idea che uomini tanto grossi e in forma facessero fatica a trovare indumenti che calzassero loro alla perfezione la divertì per qualche assurdo motivo.

“Tu che hai preso?” Si decise a chiedergli: nonostante la poca voglia che aveva di parlare, non le andava di far cadere nel vuoto tutti i suoi tentativi d'approccio (se, poi, di quelli effettivamente si trattasse, era tutto da vedere).

Clint le mostrò la giacca a vento viola scuro che aveva scelto, insieme ad un paio di guanti neri e un cappellino di lana dello stesso colore.

Uscirono bardati di tutto punto dopo aver lasciato che Stark pagasse per tutti. Strade larghe e regolari suddividevano la città, organizzando facilmente lo scarso traffico che l'attraversava. Tony si fermò in prossimità delle due auto scure che li avevano portati fin lì, fronteggiandoli tutti quanti con un'espressione che non prometteva niente di buono.

“Ho una notizia buona e una cattiva,” decretò solennemente.

“Sarebbe a dire?” Steve, che aveva già indurito lo sguardo, gli rivolse un'occhiata corrucciata.

“Nessuno ha sentito la parte su quella buona?” Protestò il miliardario, simulando un'indignazione eccessiva. “Ho convinto il responsabile alla supervisione della centrale a lasciarcela visitare.”

“La cattiva?” Intervenne Thor con una certa impazienza.

“La cattiva è che non si trova esattamente ad Anchorage,” aggiunse Tony in tono impercettibilmente più basso. “Ci sono un paio d'ore di macchina per arrivarci.”

“Fantastico. Tra un paio d'ore sarà notte,” borbottò Clint.

“E' già tanto che mi sia ricordato di questo buco di città!” Si giustificò Stark a gran voce. “La centrale è a Cordova, un villaggio qua vicino,” alzò una mano, come a bloccare qualsiasi protesta o insulto. “Ringraziate la vostra buona stella che non mi sia ricordato di Cordova o avrei rischiato di spedirci tutti in Spagna.”

“Se non altro non fa tutto questo freddo, in Spagna,” mormorò Bruce, tirando su la cerniera del piumino verde brillante che aveva scelto.

“E hanno pure la sangria,” aggiunse Clint, come per stabilire quale delle due opzioni avrebbe di gran lunga preferito.

“Adesso che facciamo?” Domandò Thor, le grosse braccia intrecciate al petto in un'espressione minacciosa.

“Ci conviene guidare fino a Cordova,” suggerì Natasha, “dormire da qualche parte e aspettare che faccia mattina.”

Diffusi cenni d'assenso stabilirono la meta della seconda tappa del viaggio.

 

*

 

2 ore e mezzo dopo

Cordova, Alaska

 

Cordova si era rivelata essere un mucchietto di casa colorate affacciato sul golfo d'Alaska; nel porticciolo antistante avevano trovato rifugio un gran numero di imbarcazioni dalle dimensioni piuttosto ridotte, ad occhio e croce – Clint constatò – quasi tutte pescherecci. Lo scendere della sera aveva portato con sé un velo di grigiore che aveva ricoperto ogni cosa, assottigliando la profondità, uniformando le ombre che cominciavano ad allungarsi tutt'intorno.

Stark aveva loro prenotato due quadruple al Reluctant Fisherman Inn, una costruzione di legno bianco venato di nero che si affacciava direttamente sulle barche attraccate nel porto.

Seduto sulla sommità del tetto spiovente della locanda, Clint osservava mentre l'oceano si trasformava in una pozza scura puntinata dalle luci dei pescherecci sempre meno distinguibili; sopra di lui, quasi specularmente, il cielo nero e le stelle luminose.

Non ricordava quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che si era concesso un lusso del genere: pochi minuti di silenzio quasi assoluto, svariati metri di distanza a separarlo dal resto del mondo, la sensazione di poter allungare un dito e sfiorare le nuvole; non una singola preoccupazione nell'universo.

Le risate provenienti dal piano inferiore, in prossimità del ristorante, riuscivano ancora a raggiungerlo nonostante la postazione e l'ululato del vento che pareva intensificarsi con ogni minuto che passava. Forse fu per quello che non riuscì a registrare il rumore di passi in avvicinamento solo finché Natasha non lo sovrastò con tutta la sua altezza, bloccandogli improvvisamente la visuale. Doveva aver accompagnato la sua comparsa con qualche parola che, tuttavia, Clint non riuscì a cogliere. Si trattenne a stento dal chiederle di ripetere, mentre la donna lo aggirava per sedersi sull'altro lato, quello dell'orecchio buono.

“Ho detto che ero uscita a cercarti,” disse.

I capelli scarlatti spettinati dal vento, le guance arrossate dal freddo e le labbra più piene del solito risaltavano contro la sua pelle pallida a dispetto del buio circostante. La osservò per qualche istante, sentendo qualcosa di oscuro e viscerale muoverglisi in petto (e molto più in basso, là dove prendevano sempre forma i suoi più sordidi istinti), prima di scacciare prepotentemente la sensazione; rialzò la schiena e si rimise seduto.

“Ancora non mi hai detto come hai fatto a capire che sono mezzo sordo,” si ritrovò a chiederle implicitamente. Non gli era sfuggito il modo in cui la donna si era assicurata di essere dalla parte giusta prima di rivolgerglisi per una seconda volta.

“Favorisci sempre questo lato,” si limitò a rispondere lei. “Ti giri sempre di qua quando parli con qualcuno.”

“Sembra che tu non abbia mai fatto altro che studiare la gente,” la prese debolmente in giro, guardandola stringersi nella sua giacca a vento nuova di pacca.

“E' un modo per passare il tempo,” si giustificò con una leggera scrollata di spalle.

Analizzare il comportamento delle persone non era esattamente quello che avrebbe definito un hobby sano, ma Clint suppose che proprio a quell'abitudine Natasha doveva la sua straordinaria dimestichezza con i suoi interlocutori... quelli che doveva ingannare, almeno. Sembrava che la donna avesse a propria disposizione un repertorio più o meno ampio di personaggi tra cui scegliere a seconda delle circostanze e delle necessità; ciascuno minuziosamente ricostruito raccogliendo dettagli ed indizi tra gli individui con cui entrava in contatto ogni giorno. Un gran lavoro di patchwork che doveva aver dato i suoi frutti ben più d'una volta. Tra tutte quelle identità, però, Clint aveva come l'impressione che Natasha avesse smarrito se stessa e che ancora non fosse riuscita a ritrovarsi, ritrovandosi impossibilitata a ricordare quante maschere si fosse messa, quante tolta, ad essere sicura di non averne ancora una o più addosso.

“Com'è successo?”

La domanda della donna sembrò disperdersi nell'aria insieme al vento che se la portò via. Valutò se rispondere o meno, senza poter fare a meno di irrigidirsi un poco. Spinse le mani nelle tasche della giacca, realizzando con un attimo di ritardo di averle strette a pugno.

“Mio padre,” decretò dopo un lungo attimo di silenzio. Ma Natasha doveva aver intuito, dalla sua reazione a malapena accennata, che non era perché non aveva sentito che non stava rispondendo. “Aveva il brutto vizio di scaricare la rabbia su di me.” E su Barney, aggiunse tra sé, non troppo sicuro di voler dare consistenza reale al ricordo del fratello per paura che tornasse in qualche modo a tormentarlo.

Il volto di Natasha era impassibile, non un traccia di solidarietà, né di goffa pietà: sembrava semplicemente aver preso atto delle sue parole, magari rimuginandoci sopra tra sé e sé, per la qual cosa le fu estremamente grato.

“Che mi sono perso di sotto?” Si affrettò a domandare, dirottando la conversazione – se la si poteva definire tale – in territori di gran lunga meno insidiosi.

“Stark ha rischiato di strozzarsi con una lisca,” lo informò in tono monocorde, “Rogers era convinto che lo stesse prendendo per il culo.” Clint si mise a ridere. “Ci ha messo un po' prima di decidersi a salvarlo.”

“Mi sarebbe piaciuto vederlo.”

“Te ne sei andato...” lo accusò con un vago mormorio, puntando l'attenzione sul porto piuttosto che su di lui.

“Non sono l'unico che comincia a non soffrire più la compagnia,” rilanciò, ricambiando la sua occhiata sorpresa con uno sguardo esplicito. Sarebbe stato impossibile non accorgersi di quanto fosse diventata taciturna in quelle ultime ore: si era abituato all'atteggiamento ostico della donna, ma quello... era qualcos'altro. Il nervosismo con cui si era sforzata di rispondere alle sue domande, quando tutto ciò che avrebbe voluto fare era nascondersi da qualche parte a godersi silenzio e solitudine, gli era apparso piuttosto evidente.

“Cos'è che ti preoccupa?” Si ritrovo a chiederle.

Natasha si strinse nelle spalle, come a sminuire le sue osservazioni: probabilmente sapeva che aveva ragione, ma non aveva alcuna intenzione di glorificare i suoi sospetti con una qualche – seppur vaga – conferma.

“Niente.”

“Per essere una perfetta bugiarda, alle volte sei veramente scarsa.”

“Non sono per niente scarsa,” l'avvertì minacciosamente, voltandosi di nuovo verso di lui.

“Lo sei. Lo so che stai mentendo... e tu sai che io so,” puntualizzò.

La vide stringere le labbra fino a ridurle ad una rossa, linea sottile; gli occhi verdi illuminati di vera e propria indisponenza nei suoi confronti. Sostenne il suo sguardo, osservando il lento passaggio da quell'espressione inviperita ad una colpevole ad una solo velatamente dispiaciuta: Natasha non era l'unica a vantare una certa perspicacia, quando si trattava di studiare i comportamenti della gente.

“Non lo so...,” fece una breve pausa, attirando le ginocchia al petto per poggiarci sopra le braccia. “Non sono più tanto sicura che continuare sia una buona idea.”

“Perché?” Non era stata forse lei a convincerli ad arrivare fino a quel punto? L'unico motivo per cui erano riusciti a raggiungere Rogers era stata proprio la sua caparbietà: le cose erano andate molto più lisce da quando era arrivato il capitano a darle inconsapevole man forte, ma adesso i piani sembravano essersi ribaltati.

“Che razza di organizzazione criminale si nasconde in Alaska?” Gli chiese, cercando di nuovo il suo sguardo. “Qual è il delinquente che si isola a tal punto dal resto del mondo?”

Clint fece per rispondere, ma si ritrovò a chiudere la bocca prima di poter proferire parola: Natasha aveva ragione. Di criminali ne aveva conosciuti anche troppi e tutti – in varia misura – erano perfettamente calati nell'ambiente nel quale si trovavano ad operare. Che si trattasse di mafia o del riccone di turno interessato a salvaguardare i propri interessi in modo non del tutto legale, non aveva importanza: ognuno respirava e agiva in un luogo ben preciso con il quale viveva praticamente in simbiosi. La piccola e isolata Cordova, in quel senso, non offriva un campo giochi particolarmente allettante.

“E poi c'è la questione della centrale di Stark,” riprese la donna. “Significa che chiunque ci stia contattando collabora con le Stark Industries.”

“Credi che siamo già arrivati al capolinea?” Non c'era qualche possibilità che la centrale non fosse altro che la collocazione dell'indizio successivo? Magari la caccia al tesoro non sarebbe finita lì, ma li avrebbe portati altrove.

“Penso che non ci avrebbero spedito fin quassù per così poco,” ragionò lei.

Tornò a scrutare il porto e le sue luci: sembrava assurdo che la calma assoluta di quel villaggio di pescatori schiacciato tra le montagne potesse celare chissà quale complicato segreto.

“Abbiamo a che fare con gente importante,” Natasha sottolineò.

“Il che spiegherebbe anche come hanno fatto a trovarci,” aggiunse, ottenendo in cambio un debole cenno d'assenso.

“Che succede se stiamo camminando dritti in una trappola?” La donna era tornata a guardarlo, posando su di lui uno sguardo incerto, preoccupato... forse persino spaventato.

“Ci siamo spinti troppo oltre per poter tornare indietro proprio adesso,” tentò di rassicurarla. “E poi dubito che saremmo in grado di convincere Stark a desistere.” Natasha parve prendere atto di quel particolare affatto irrilevante con estrema riluttanza. “Se si tratta di una trappola, ce ne tireremo fuori. Dopotutto non siamo una super squadra di delinquenti?”

La donna gli scoccò un'occhiata scettica, se per il “super” o per la “squadra”, questo non avrebbe saputo dirlo.

“Immagino che domani lo scopriremo,” sentenziò lei sovrappensiero.

Si limitò ad annuire, a distendere le mani ancora contratte nelle tasche della giacca.

“Andiamo,” Natasha si era rimessa in piedi, “lo faccio io il primo turno.”

Dopo il tacito patto che avevano stretto sul jet di Stark, Clint non ebbe bisogno di chiederle a cosa si stesse riferendo. Ignorando ostinatamente quell'informe e fastidiosa sensazione che la sua presenza gli procurava (ripromettendosi – per l'ennesima volta – di affrontarla in un secondo momento) accettò di buon grado il suo invito.

 

*

 

La centrale era un imponente edificio dalla facciata giallognola incastrato nella sottile striscia di terreno che separava l'oceano Pacifico da un ampio lago interno. Il vento, quella mattina, soffiava con insistenza persino maggiore, increspando inesorabilmente la superficie dell'acqua che li circondava quasi da ogni lato.

L'uomo in giacca e cravatta che li aveva accolti fuori dalla locanda neanche un'ora prima, stava loro illustrando il funzionamento dello stabilimento e i progressi che erano stati fatti in quegli ultimi mesi, dopo che Stark era stato estromesso dalla direzione delle Stark Industries e di fatto tenuto all'oscuro dello stato dei progetti ancora in corso. L'immagine di ingestibile rampollo di ricca famiglia mal si conciliava con l'espressione sinceramente concentrata che Tony stava dedicando allo sconosciuto. Natasha l'aveva osservato attentamente mentre annuiva o si soffermava a chiedere qualche chiarimento, coinvolgendo Bruce in certe sue riflessioni a cui lei stessa faticava a star dietro.

“Posso chiederle chi l'accompagna?” L'ometto fece un cenno alle due guardie che sostavano davanti alla grande porta d'ingresso, voltandosi poi per rivolgere a tutti loro un sorriso stucchevole. Parlava con voce bassa e pacata, quasi avesse temuto di fare troppo rumore.

“Questi sono...” Stark scoccò rapide, allucinate occhiate nella loro direzione. “Dei miei amici,” decretò infine, dopo un attimo di smarrimento. Natasha tirò un impercettibile sospiro di sollievo: doveva essersi trattenuto – praticamente per miracolo! - dall'affibbiare a tutti un qualche odioso nomignolo. “Erano convinti che stessi raccontando loro una marea di stronzate, quando ho menzionato la centrale...”

“Un viaggio estremamente lungo per vincere una scommessa,” commentò l'altro.

“Non se hai soldi da buttar via,” stabilì Tony allegramente, “e poi avevamo un po' tutti bisogno di una vacanza.”

Nonostante l'assenza di Happy, abbandonato in un albergo di Anchorage, Stark non aveva avuto grandi difficoltà a comportarsi bene: da quel che Natasha aveva capito, solitamente era proprio l'autista ad impedirgli di spingersi troppo oltre... o almeno ci provava. Fatto stava che le brutte occhiaie scure, che il miliardario aveva sfoggiato la sera del loro primo incontro, erano sparite quasi del tutto, cedendo il passo ad un'espressione ragionevolmente assonnata.

Il loro accompagnatore si limitò a prenderne atto, conducendoli finalmente oltre le porte d'ingresso e nel grande ambiente in cui si muovevano svariate persone, affaccendate intorno ad enormi macchinari di forme e dimensioni diverse. L'uomo aspettò che fossero tutti entrati e sembrò sul punto di attaccare con un qualche discorso educativo, ma il suo telefono squillò, zittendolo preventivamente. Tirò fuori l'apparecchio dalla tasca del pesante giubbotto che indossava sopra il completo elegante, scrutando per qualche istante il display prima di tornare su di loro con aria rammaricata.

“Perdonatemi, ma è una telefonata importante,” si portò il cellulare all'orecchio, “faccia come se fosse a casa sua signor Stark. Sarò con voi a breve, scusatemi ancora.” Si allontanò frettolosamente, attivando la chiamata quando fu ormai sufficientemente lontano da impedirle di cogliere anche solo qualche stralcio della conversazione appena intrapresa.

“Dividiamoci.” La voce di Rogers la costrinse a lasciare il loro accompagnatore a se stesso.

“Cosa dobbiamo cercare? Il logo delle due sirene?” Chiese Thor.

“Dev'essere qui da qualche parte,” confermò Stark. “Mi sono assicurato che venisse realizzato.”

“Bruce tu va' con Thor,” decise Steve, “Clint con Natasha, e tu, Stark, vieni con me.”

Dopo un paio di rapide, ma sentite raccomandazioni, il capitano li spedì in tre direzioni diverse col compito di perlustrare ciascuno la propria zona e di avvisare gli altri in caso avessero trovato qualcosa.

“Vaneggio o Steve continua a guardarci in modo strano?” L'arciere l'aveva affiancata, ma continuava a far scorrere lo sguardo un po' ovunque, passando in rassegna i macchinari, i dipendenti, le poche indicazioni sparse per la sala principale, persino il soffitto che li dominava dall'alto.

“Non riesce a capire se lavoriamo insieme o altro,” rispose semplicemente, aprendo una doppia porta a spinta che dava su una stanza secondaria, più piccola e luminosa, che aveva l'aria di aver ancora bisogno di qualche mese di lavoro per essere definitivamente ultimata.

“Lo trovi divertente?”

“Vederlo sforzarsi di decifrarci?” Si strinse nelle spalle, come a manifestare il proprio assenso. “E' combattuto tra il fidarsi e il non fidarsi,” aggiunse, mentre Clint si soffermava a sbirciare alcune ampie mappe abbandonate su uno dei tanti tavoli da lavoro che li circondavano. “Cosa sono?”

“Credo siano i piani della centrale,” rispose l'arciere, seguendo con l'indice una linea immaginaria. “Dovremmo essere qui.”

Rimasero ad osservarli ancora per qualche attimo prima di decidere che non sarebbero stati poi così utili e di proseguire oltre: i dieci minuti che Rogers aveva loro concesso rischiavano di scadere da un momento all'altro. Attraversarono la stanza, ignorando le occhiate disinteressate dei dipendenti che si muovevano instancabilmente da un capo all'altro, tutti troppo impegnati in una qualche specifica mansione per dirottare la loro attenzione altrove; raggiunsero un corridoio laterale, su cui si affacciavano diverse porte.

“Gli uffici?” Azzardò Clint, sporgendosi all'interno di una delle stanze imbiancate di fresco e ancora irrimediabilmente vuote, non fosse stato per qualche occasionale utensile abbandonato da un operaio sbadato: uno scaleo, un secchio, un pennello ormai asciutto...

Svoltarono in un secondo corridoio, più stretto e buio del precedente per la totale mancanza di finestre che dessero sull'esterno. Avanzarono finché una porta non sbarrò loro la strada: il simbolo delle scale suggeriva che doveva condurre al piano superiore, ma nonostante tutti i tentativi di aprirla, aveva l'aria di essere ancora sigillata; in più, non c'era nessuna serratura che potesse supplicarla di essere forzata.

“Fantastico,” borbottò l'arciere, “ci tocca tornare indietro.”

Natasha tentò un'ultima volta prima di seguire Clint, già tornato sui suoi passi. Gli andò a sbattere addosso quando quello si fermò di colpo, tagliandole bruscamente la strada per fronteggiare una porta dall'aria anonima.

“Cazzo,” protestò, ma l'uomo sembrava a tal punto preso dalla sua scoperta da non prestarle minimamente attenzione.

“Guarda.”

L'etichetta ancora incellophanata recitava Ripostiglio e, sotto di quella, campeggiava il logo delle due sirene che Stark si era tanto impegnato di disegnare, anch'esso semi-nascosto dalla pellicola che lo rivestiva.

“Credi che si stiano nascondendo in uno sgabuzzino?” Natasha non poté fare a meno di mostrarsi perplessa.

Clint tentò di aprirla, ma, per quanto agitasse la maniglia, non sembrava avere alcuna intenzione di cedere. Lo costrinse a farsi da parte in modo da lasciarle abbastanza spazio per studiarne la serratura, che – a differenza dell'ingresso alle scale – faceva bella mostra di sé in prossimità dello stipite destro. Si sfilò lo zaino dalle spalle, ripescandone una graffetta completamente aperta e un paio di pinzette.

“Grazie, quello so farlo anch'io,” protestò l'arciere, osservandola dall'alto in basso con aria contrita.

“In meno di cinque secondi?” Le sue parole vennero accompagnate dallo schiocco della serratura che si apriva e da un mezzo sorriso.

“Come fai a metterci così poco?” Clint non si preoccupò di mascherare la propria sorpresa.

“Tanta pratica.” Troppa. Aveva imparato la fine arte dello scassinamento prima ancora di saper leggere e scrivere: aveva ben presto perso il conto di tutti i cassetti, porte, cassaforti che aveva frozato già prima di aver compiuto i suoi primi dieci anni.

Lo sgabuzzino non sembrava contenere niente di particolare: un paio di scaffalature metalliche ancora completamente sgombre e un secchio abbandonato in un angolo. Natasha dissimulò in qualche modo la propria delusione, decidendo, però, di perlustrare lo stanzino prima di dichiararsi definitivamente sconfitta. Clint sembrava aver optato istintivamente per il medesimo proposito: approfittando dell'appoggio dei due scaffali si arrampicò fino al soffitto, dandogli leggeri colpetti col pugno chiuso.

“Qua sopra non c'è niente,” confermò con riluttanza.

Natasha imitò i suoi gesti, colpendo il pavimento rivestito dalla moquette coi piedi finché un rumore di vuoto improvviso non riempì l'angusto spazio che stavano condividendo.

“L'hai sentito?” Gli domandò con urgenza, sollevando il capo verso di lui.

“Cazzo se l'ho sentito!”

Si affrettò a scendere dagli scaffali e a raggiungerla in basso; si chinò per ripetere le operazioni, tendendo l'orecchio buono affinché il suono tornasse a farsi sentire forte e chiaro.

“C'è qualcosa qua sotto,” ribadì a mezza voce, aprendo la sacca che portava ancora a tracolla per tirarne fuori un coltello multiuso. Ne aprì la lama, piantandola nel punto del pavimento che aveva appena colpito. Gli ci volle un po' per sbarazzarsi della porzione di moquette che ricopriva quella che sembrava a tutti gli effetti una botola: sollevare il coperchio dell'impiantito di legno fu un gioco da ragazzi, ma Natasha non si stupì più di tanto nel vedere l'entusiasmo spegnersi dal volto dell'uomo quando si ritrovarono davanti ad un portellone blindato.

“Wow, questi sì che ci tengono alle loro scope,” commentò Clint sarcastico.

“C'è un pannello là sotto,” l'avvertì lei, alzando uno sportellino di plastica per rivelare una tastiera numerica corredata – molto banalmente – da un tasto rosso e uno verde. “Qualche brillante idea?”

“Nessuna,” mormorò l'altro, dando una rapida controllata all'orologio. “Dobbiamo avvertire gli altri.” Ricoprì il buco nel pavimento con poche, abili mosse.

Era vero che non avevano a disposizione proprio nessun codice (inserire le cifre progressive segnate sul retro dei frammenti del logo suonava fin troppo semplice), ma c'era ancora la questione delle chiavi da risolvere.

“Clint,” la voce le uscì più imperiosa del previsto.

“Mh?” L'uomo, fermo sulla soglia dello sgabuzzino, si voltò verso di lei con aria interrogativa.

“Quante banche ci sono a Cordova?”

 

*

 

Due. Due erano le banche di cui il villaggio disponeva.

Dopo aver frettolosamente esposto i frutti della loro ricerca e dell'intuizione di Natasha, senza neanche attendere che il loro accompagnatore avesse concluso la chiamata, Stark aveva deciso di congedarsi, lasciando detto di aspettarli di lì ad un paio d'ore.

Avevano guidato fino alla cittadina, individuando senza particolari difficoltà le uniche due filiali di cui gli abitanti di Cordova potevano servirsi. Se la prima non era altro che un bancone in un angolo del negozio di alimentari più grande del villaggio, la seconda aveva per sé un'intera casupola che, con il suo azzurro pallido, si stagliava loro di fronte con la promessa di un'imminente soluzione a quel rocambolesco andirivieni.

“Ehi, Xena,” Stark si voltò verso Natasha proprio mentre Steve stava loro consegnando le rispettive chiavi. “Spero che tu abbia ragione.”

Non ricevette in cambio che un'occhiata storta, un attimo prima che l'intero gruppo si muovesse all'interno dell'edificio. Il campanello dell'ingresso riempì il quasi totale silenzio dell'unica stanza visibile al pubblico; a parte l'impiegato e la signora intenta a contare i soldi che doveva aver appena ritirato, non c'era nessuno.

Una donna li raggiunse dal retro, sbucando dall'altra parte del bancone: capelli scuri raccolti in una stretta crocchia, occhi azzurri, l'impiegata rivolse loro un sorriso appena accennato.

“Buongiorno, posso esservi utile?”

“Buongiorno,” le fece eco Steve. “Siamo qui per ritirare il contenuto delle nostre cassette di sicurezza.”

“Nessun problema. Avrò bisogno di chiavi e documenti.”

Se il cassiere al suo fianco non sembrava particolarmente convinto da quell'intera faccenda – molto probabilmente chiedendosi chi diavolo fosse tutta quella gente – la donna che li stava servendo non manifestò il benché minimo segno di disagio. Mentre cercava il passaporto che aveva disperso chissà dove nella sacca dell'arco, Clint la studiò attentamente, senza poter fare a meno di constatare quanto poco si amalgamasse con l'atmosfera circostante.

“Vi accompagnerò uno per volta,” annunciò l'impiegata, facendo cenno a Rogers di raggiungerla in una stanza adiacente.

“C'è qualcosa che non va,” Natasha gli si era accostata, parlando a bassa voce, ma fingendo sufficiente indifferenza da convincere l'altro cassiere, che ancora li fissava, che stavano avendo una conversazione qualunque.

“Lei non è di qui,” concordò, intuendo le sue preoccupazioni.

Si scambiarono un'ultima occhiata prima che Steve fosse di ritorno; Thor gli dette prontamente il cambio mentre Stark si fece rapidamente avanti per sapere che cosa le cassette di sicurezza avessero in serbo per loro.

“Post-it,” la voce del capitano suonava più perplessa e contrita del solito.

“Post-it?” Domandò Tony esasperato.

“Che c'è scritto sopra?” Intervenne Clint, determinato a non perdersi in inutili chiacchiere.

“Un numero,” mostrò loro il foglietto sul quale era stato tracciato a pennarello un grosso otto.

“Sei numeri per sei chiavi,” mormorò Natasha.

Sei numeri fanno un codice, si ritrovò a pensare, mentre la consapevolezza di aver appena ottenuto il lasciapassare per la porta blindata si palesava, più o meno puntualmente, a ciascuno di loro.

 

*

 

Dopo svariate contrattazioni avevano deciso, per via della sua esile corporatura, di mandarla avanti. Clint le incombeva addosso, mentre gli altri si erano dovuti accontentare di aspettare nel corridoio a controllare che nessuno sopraggiungesse a far loro la festa: l'angusto spazio offerto dallo sgabuzzino non concedeva soluzioni alternative.

Finì di spostare la moquette già tagliata, di sollevare le tavole di legno del pavimento e scoperchiare la tastiera del portellone che avevano individuato neanche un'ora prima.

“Ci sei?” Clint le chiese conferma, rigirandosi tra le mani i post-it che avevano trovato nelle rispettive cassette di sicurezza, minuziosamente ordinati da Rogers secondo l'ordine dei numeri che erano stati segnati dietro i corrispettivi frammenti del logo.

“Ci sono.”

“Due, sette, cinque, nove, otto... e tre. Te lo devo ripetere?”

Natasha scosse il capo, finendo di inserire le cifre nel pannello che aveva improvvisamente preso vita. Ebbe solo un breve, brevissimo attimo d'esitazione prima di schiacciare il tasto verde. Si rimise rapidamente in piedi, indietreggiando di un mezzo passo mentre il complicato sistema di sicurezza si attivava: il portellone scattò aperto con uno sbuffo d'aria gelida che doveva provenire dalle viscere del piano interrato.

Serrò le labbra, con l'impressione che tutti – lei compresa – stessero trattenendo il respiro in attesa di un qualche evento drammatico che non arrivò... almeno non tanto presto.

“Ottimo. E adesso chi si offre volontario?” Stark aveva spinto la testa tra Clint e Steve, osservando il passaggio appena aperto con aria tremendamente curiosa. “Superman? Conan il Barbaro là in fondo? Nessuno?”

“Sta' zitto, Stark,” l'arciere lo incenerì con lo sguardo.

“Vado io,” decise Natasha, afferrando la maniglia per sollevare il pesante portellone blindato: nel buio sottostante si riusciva ad intravedere una scala metallica a pioli che scendeva fino ad essere completamente inghiottita dal buio.

“Natasha,” Rogers intervenne, “lascia stare, faccio io.”

“Perché sai già cos'è che ci aspetta?” Gli domandò, scoccandogli un'occhiata sferzante.

L'impressione che il capitano sapesse più cose di quanto avesse lasciato a vedere non l'aveva mai realmente abbandonata, men che meno adesso che sembravano tanto vicini alla meta. L'uomo non rispose, dandole solamente l'ennesima – tacita – conferma di averci visto giusto: Rogers non mentiva mai e se rischiava di farlo, piuttosto, se ne rimaneva zitto.

“Io ti seguo,” decretò Clint. “Avremo bisogno di tutte e due le mani per scendere...” Il che rendeva di fatto impossibile impugnare un'arma nel caso ci fosse un comitato d'accoglienza ostile ad attenderli dall'altra parte.

“Non ci avranno fatto venire fin qui per prenderci a calci in culo,” commentò Stark con aria straordinariamente solenne.

Dopo essersi aperta la cerniera della giacca nel tentativo di agevolarsi un minimo i movimenti, Natasha si calò oltre il portellone, il metallo della scala gelido sotto le sue mani. Attese solo un muto via libera da parte di Clint, dopodiché prese a scendere, piolo dopo piolo, attimo dopo attimo.

Scese per quella che le parve un'eternità, mentre l'aria tutt'attorno a lei si faceva più fredda, umida e il buio si infittiva sempre di più, fino a renderle di fatto impossibile distinguere un bel niente. Il cuore pareva accelerare il proprio battito man mano che si allontanava dalla superficie; solo il rumore degli spostamenti dell'arciere sopra di lei l'accompagnavano nella sua discesa.

Dovettero trascorrere svariati minuti prima che i suoi piedi incontrassero il pavimento invece del gradino successivo.

“Siamo arrivati,” disse, sperando solo che la voce raggiungesse Clint.

Si fece da parte, ignorando la spessa coltre di buio che la circondava per sfilarsi lo zaino ed estrarre la Glock. L'arciere le fu di fianco poco dopo, e così, in rapida processione, anche gli altri quattro, prima Steve, poi Thor, infine Tony e Bruce.

“Magari è un nuovo ristorante al buio,” ipotizzò Stark, il nervosismo appena palpabile nella sua voce, “ci siete mai stati? Una stronzata disumana. Potrebbero servirti un piatto di immondizia e neppure te ne accorg-”

Mille luci al neon si accesero bruscamente una dopo l'altra, accecandoli per un lungo, interminabile attimo.

Solo quando gli occhi si furono abituati, Natasha – il cuore in gola – riuscì a scorgere tre figure immobili davanti a loro: riconobbe l'uomo di destra come quello che li aveva accompagnati durante la visita alla centrale che non aveva mai avuto realmente luogo; la donna di sinistra come l'impiegata dalla banca di Cordova; infine, al centro, si stagliava la figura più imponente di tutte, un uomo alto, la pelle scura così come la totalità del suo abbigliamento, una benda a coprirgli l'occhio sinistro.

“Signori,” li accolse con la sua voce bassa e raschiante, “benvenuti al quartier generale dell'ex SHIELD.” Natasha sentì lo stomaco contrarsi in preda all'agitazione. “Vi stavamo aspettando.”

 

__________________________________________

Note:
e dopo un (bel) po' di contortume (spero non troppo) i nostri eroi (?) hanno raggiunto i loro fantomatici datori di lavoro! Come avevate più o meno tutti intuito (l'originalità non è esattamente il mio forte :P) si trattava dello SHIELD e di Fury, che dopo aver visto i nostri in azione "dal vivo", hanno finalmente deciso di scoprire le carte in tavola. Ci sono ulteriori circostanze da chiarire, ma tutto sarà ben delineato col prossimo capitolo. Vi avviso che mi sono avvalsa di vari dettagli del canon dell'MCU, quindi certe cose potrebbero (cioè, sicuramente) risultarvi familiari. Chiedo venia anche per il lato romantico della faccenda: prometto che ci saranno soddisfazioni (*ahem*) ma con l'attacco di tram
ite che ha preso la storia (quando mai, poi!), il rapporto tra Clint e Natasha mi è uscito col piede sul freno, ecco :P Spero che gli indizi lanciati qua e là siano significativi comunque, però ù_ù
E' tutto anche a questa girata! Concludo ringraziando chi legge e mi fa sapere che ne pensa della storia, come sempre, e alla sclero-socia-beta Eli che mi sopporta :*
Buon weekend a tutti e al prossimo aggiornamento (:
S.

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Capitolo 15
*** 15/20 ***


- Capitolo 15 -

 

 

 

“Dove cazzo ci stanno portando?” Non aveva proprio potuto fare a meno di chiedersi, mentre la figura alta e imperiosa di quello che sembrava essere il capo, da quelle parti, faceva loro strada attraverso tortuosi corridoi tutti uguali, oltre porte blindate che richiedevano l'inserimento di codici – Clint sospettava – sempre diversi.

Natasha si limitò a lanciargli un'occhiata confusa, procedendo al suo fianco con l'aria di chi sta dirigendosi al patibolo, ma vorrebbe anche dissimulare la paura con un pizzico di sana strafottenza.

“Se avessero voluto ucciderci l'avrebbero già fatto,” tentò di rassicurarla.

“Lo so,” rispose seccamente lei, il tono basso e ostile.

“Non si direbbe.”

Il commento gli valse una gomitata nello stomaco e probabilmente anche un bis se il loro l'arrivo in un ampio stanzone non fosse giunto giusto in tempo a distrarli tutti quanti. La prima impressione di Clint fu quella di trovarsi in un formicaio: ovunque guardasse riusciva a distinguere decine di persone, chi andava e veniva, chi portava caffè o documenti, chi discuteva animatamente, chi non smetteva di digitare furiosamente sui computer allestiti sul lato sinistro dell'enorme spazio spoglio. Dal ritmo con cui si muovevano, sembrava di trovarsi in un bunker e che là fuori, in superficie, stesse imperversando una vera e propria guerra. Non c'era niente che suggerisse la presenza di una banda di criminali particolarmente organizzata. E poi, quel tipo alto e minaccioso non aveva loro dato il benvenuto al quartier generale dell'ex SHIELD? Non aveva la più pallida idea di che cosa si trattasse, ma era abbastanza sicuro di non averlo mai sentito nominare prima d'allora, il che – data la sua straordinaria dimestichezza con l'ambiente della delinquenza – gli confermava che: o avevano che fare con dei fuorilegge estremamente riservati, o che erano fuori strada. Doveva essere tutt'altro.

“Questo è il cuore operativo dell'organizzazione,” l'ometto che li aveva accompagnati durante la visita alla centrale non sembrava aver perso il vizio di comportarsi da guida turistica. “Da qui ci teniamo in contatto con le altre sezioni dell'ex SHIELD e coordiniamo gli interventi necessari.”

Interventi necessari. Di che cazzo stava parlando?

“Dio, ho sempre odiato le gite scolastiche,” si lamentò, coinvolgendo Natasha nelle sue considerazioni.

“Non sono sicura che questa sia una gita scolastica,” ribatté lei.

“Bè, sembra esserlo,” ci tenne ad insistere, beccandosi un'occhiataccia da parte della donna che li aveva accolti alla banca di Cordova; adesso capiva perché, già da prima, gli ricordasse tutto fuorché un'impiegata: dirigeva il suo cipiglio severo un po' in tutte le direzioni, tenendo alto il capo e procedendo con la schiena dritta... una tutta d'un pezzo.

Il trio li condusse in una stanza secondaria, più piccola, con alcuni schermi sistemati sulle nude pareti di cemento e un tavolo che ne occupava il centro. Il capo si era fermato dietro la sedia a capotavola, poggiandosi allo schienale con entrambe le mani mentre con un brusco cenno del capo li invitava a sedersi. Se il suo atteggiamento si sposava alla perfezione con l'algida compostezza della donna, non altrettanto con la stucchevole cortesia dell'altro, l'espressione perpetuamente bloccata su quel sorriso cordiale che non aveva smesso di rivolgere un po' a tutti – ma in particolar modo a Rogers, gli parve di intuire – sin dal momento del loro primo incontro.

Dopo un attimo di esitazione, il capitano fu il primo a raccogliere l'invito dello sconosciuto, voltandosi verso di loro come per convincerli a fare altrettanto. Francamente, all'eventualità che Natasha avesse ragione, che Steve fosse stato davvero a conoscenza della meta a cui li avrebbe portati quella complicata e bizzarra macchinazione, non sapeva come avrebbe reagito. Da una parte si sarebbe sentito tradito, forse, ma dall'altra... il capitano sembrava una persona troppo onesta e morigerata per lasciarsi persuadere a condurli verso una trappola certa. E se una spiegazione – seppur vaga – la si poteva trovare nello scopo della sua professione (non era compito dei poliziotti assicurare alla giustizia i fuorilegge come lui?), era anche vero che in prigione c'erano finiti eccome, e che ci sarebbero anche rimasti se non fosse stato per il suo intervento.

Un ragazzo alto e smilzo entrò nella stanza trasportando un piccolo carrello su cui facevano bella mostra di sé un paio di caraffe di caffè e alcune tazze.

“Se volevate invitarci per un tè avreste solo dovuto chiamarci,” Stark, che si era trattenuto pure troppo a lungo, probabilmente inquietato dalla solennità dell'ambiente, aveva infine ceduto. “Anche se conosco posti migliori di questa... cantina. Seriamente, la prossima volta datemi un colpo di telefono.”

Il capo non esitò ad incenerirlo con lo sguardo: il fatto che disponesse di un unico occhio non inficiava minimamente l'efficacia dell'aria minacciosa che proiettava tutt'attorno a sé. Tony aveva un pessimo modo di esprimersi – non che a lui andasse tanto meglio – ma Clint si ritrovò comunque a pensare che non aveva tutti i torti. Possibile che non ci fosse stato un modo più semplice per assemblare la squadra? Se la si poteva definire tale, ovviamente (punto su cui nutriva non pochi dubbi).

“Era proprio necessario spedirci su e giù per trovare questo posto?” Thor non aveva l'aria di essere particolarmente felice di quel colpo di scena. “Eravate lì ad osservarci mentre cercavamo di risolvere quel...”

“Volevamo essere sicuri di concedervi abbastanza tempo per conoscervi a sufficienza,” la donna era intervenuta. “Ma allo stesso tempo non potevamo permetterci di garantirvi l'accesso finché non vi avessimo visti all'opera.”

“Oh, questo migliora tutto,” la voce gelida e sarcastica di Natasha costrinse tutti a voltarsi verso di lei. “Fare parte di un dannato studio comportamentale è sempre stato il mio sogno,” sibilò, senza preoccuparsi di nascondere la propria indignazione.

L'arrivo del ragazzo del caffè lo distrasse, per un attimo, dalla discussione in corso: lo seguì con lo sguardo mentre serviva una tazza della bevanda fumante ciascuno, lasciando quella che pareva una zuccheriera e alcune palettine di legno al centro del tavolo a disposizione di tutti.

“Grazie Greg, puoi andare,” il tipo della centrale l'aveva congedato con l'ennesimo sorriso gentile.

“Se ci avete chiesto di venire fin qui è perché ci avevate già visti in azione,” non appena la porta si fu richiusa alle spalle di Greg e del suo carrello, Natasha tornò ad incalzare i tre.

“In azione insieme,” la corresse la donna.

“E comunque chi diavolo siete?” La russa non pareva affatto intenzionata a mollare il colpo. “Ex SHIELD non ci dice proprio un bel niente.”

Sia la falsa impiegata di banca che la guida della centrale si voltarono verso il terzo uomo, l'unico che non si era fatto vedere in precedenza, come per chiedergli tacitamente il via libera. Passò un interminabile attimo in cui lo sconosciuto si limitò a fissare Natasha, e lei ad osservare lui senza il benché minimo segno di cedimento o intimidazione. Dopodiché, l'uomo si limitò ad annuire una sola volta.

“Phillip Coulson,” l'ometto in giacca e cravatta fu il primo a presentarsi, “ex agente SHIELD.”

“Maria Hill,” gli fece eco l'altra che, non senza irrigidire i tratti del volto, parve rifiutarsi di aggiungere una qualunque qualifica al suo nome.

“Colonnello Nicholas J. Fury.” La voce bassa e potente del capo catalizzò la loro attenzione. “Adesso che abbiamo concluso con i convenevoli, passerei a qualcosa di più interessante,” neppure si curò di dissimulare il sarcasmo che venava le sue parole. “Se lei, signorina Romanoff, è d'accordo, ovviamente.”

“Dovete avere pazienza,” intervenne Bruce, entrambi i gomiti appoggiati sul tavolo, “è stato un viaggio lungo e stancante. Non potete biasimarci se abbiamo tante domande da farvi.”

“Tanto per cominciare: che cazzo è lo SHIELD?” Clint non riuscì a fare a meno di intromettersi.

Era,” lo corresse la Hill, congiungendo le mani affusolate davanti al viso. “Era un'organizzazione paragovernativa che si occupava della sicurezza internazionale, signor Barton.”

Va bene, l'avevano abbondantemente capito che conoscevano i loro nomi: c'era proprio così tanto bisogno di ribadirlo in continuazione? Clint era piuttosto sicuro che tutti loro – nessuno escluso – fossero ben consapevoli di chi aveva il coltello dalla parte del manico in quella particolare situazione.

“Qualche anno fa abbiamo scoperto che una gruppo terroristico la cui fondazione risale alla Seconda Guerra Mondiale si celava ancora tra le nostre file,” spiegò Coulson. “Nel corso degli ultimi trent'anni, sono riusciti ad inserirsi in modo talmente capillare ed efficace da essere in grado di sabotare molteplici operazioni senza che ce ne accorgessimo, tanto da convincere il governo che lo SHIELD era corrotto e che andava smantellato al più presto.”

“E così è stato,” riprese la donna. “Il loro capo, Alexander Pierce, ha persuaso il Ministero della Difesa ad affidargli il compito di istituire una nuova organizzazione che prendesse il posto dello SHIELD.”

“Grazie alla sua influenza ci è riuscito,” adesso il sorriso era sparito anche dal volto di Coulson. “E' ormai da un paio d'anni che l'HYDRA, di fatto, controlla la sicurezza nazionale ed internazionale.”

“Il punto è che non è quella, che sta loro a cuore,” Fury si era intromesso, quasi indispettito da quella lezione di storia recente del tutto non richiesta. “Il loro obbiettivo è mettere in ginocchio il mondo per convincerlo a rinunciare alla propria libertà in cambio di sicurezza.” Si rimise bruscamente in piedi, recuperando un fascicolo che lanciò di malo modo in mezzo al tavolo: ne fuoriuscirono foto e ritagli di quotidiani prevalentemente stranieri, prime pagine e scatti rubati che parlavano di attacchi terroristici, attentati, guerriglia, assassinii, stragi ed esecuzioni. “Inutile specificare che ci stanno riuscendo alla grande.”

“Perché il presidente dovrebbe permettere tutto questo?” Rogers, incredibilmente corrucciato, si era rivolto direttamente a Fury.

“Perché non sa che tutti questi eventi sono ricollegabili all'HYDRA. Quei fottuti figli di puttana sanno come cancellare le proprie tracce e hanno amici e alleati pronti a parar loro il culo,” illustrò con tono sferzante. “Se mi avesse dato il tempo di spiegarmi in precedenza, capitano Rogers, non saremmo a questo punto.” Steve si limitò a serrare le labbra, fingendo attenzione per alcuni degli articoli che gli erano fluttuati sotto al naso.

Quindi lo SHIELD, o ex che fosse, aveva già cercato di reclutarlo: era possibile che – essendo stato parte dell'esercito – fosse stato a conoscenza delle sorti dell'organizzazione e avesse deciso, piuttosto, di tenersene alla larga. Cosa gli avesse fatto cambiare idea, però, quello non avrebbe saputo dirlo.

Era vero che negli ultimi anni le notizie di cronaca nera, allarmismi e panico si erano diffusi a macchia d'olio, ma Clint non aveva mai pensato ad imputare quell'escalation a niente di più che alla progressiva e ineluttabile corruzione della razza umana, secondo lo stesso processo che li avrebbe prima o poi portati all'autodistruzione. Adesso si affacciava l'ipotesi che ognuno di quegli eventi potesse in qualche modo ricollegarsi a macchinazioni e complotti che raggiungevano le sfere più alte dello stato: e non c'erano solo gli Stati Uniti coinvolti, ma il mondo intero.

“In tutto questo non mi è ancora chiaro perché ci avete fatto venire fin qui,” di nuovo Bruce, a ribadire educatamente la propria confusione.

“Uno dei pochi lussi che possiamo concederci in quanto organizzazione attualmente fuori legge, dottor Banner, è quello di operare fuori da un ambito prettamente legale,” sentenziò la Hill.

Allora avevano visto giusto: quello che volevano fare era offrire loro un lavoro, approfittare delle loro singolari e rispettive capacità per... combattere il crimine che viveva in seno alla nazione più potente del mondo?

Decise di bere un sorso di caffè, nella speranza che quello riuscisse miracolosamente a migliorare le cose, ma la bevanda faceva talmente schifo che a malapena si impedì di sputarla.

“Ci scusi per la qualità della nostra miscela, signor Barton,” Coulson, che doveva essersi accorto di quel disastroso assaggio, era tornato ad interpellarlo, “accumulare provviste di cibo non è esattamente il nostro forte.”

“Siamo costretti a farle arrivare in piccole quantità e da diversi angoli del paese pur di non destare sospetti.” Clint scoccò un'occhiata a Maria Hill, chiedendosi da quanto tempo operassero sotto terra, nella quantomeno ottimistica speranza di poter contrastare l'HYDRA – o come cazzo l'avevano chiamata – agendo nell'ombra: tutto quello che riuscì a capire era che non doveva essere affatto una cosa semplice e nemmeno una sistemazione ideale per nessun essere umano.

“E al fatto che ci troviamo sotto la mia centrale nessuno ci ha pensato? Mi state pagando un affitto o... ?” Stark si era intromesso ad interrompere le sue riflessioni.

“La signorina Potts ci sta aiutando,” di nuovo Coulson con il suo tono affabile. “I consumi della centrale riescono a coprire e mascherare quelli del quartier generale... a dir la verità è stata proprio una sua idea.”

La menzione di quella che Clint ricordava come l'attuale CEO delle Stark Industries aveva avuto il potere di prosciugare anche la più piccola traccia di allegra arroganza che contraddistingueva l'atteggiamento di Tony, cedendo il passo ad un'espressione contrita e confusa. Sembrava aver preso il coinvolgimento della donna nella conversazione come un vero e proprio colpo basso. Si limitò a stringere le labbra e annuire, dirottando la propria attenzione altrove: l'improvvisa consapevolezza che tutti – in varie e diverse misure – avevano avuto un passato turbolento (traumi che avevano segnato la loro esistenza e che ancora ne dettavano loro malgrado il corso, tenendoli piegati nella propria morsa, pericolosamente soli, costantemente in bilico sul ciglio di un baratro oscuro) si palesò finalmente agli occhi di Clint.

“Quindi ci avete portato fin qui per reclutarci?” Si azzardò a chiedere, trovando quel punto ancora fastidiosamente nebuloso: il fatto che nessuno di loro avesse proprio niente da perdere giocava sicuramente in favore dei tre ex agenti SHIELD, ma l'arciere non era comunque sicuro di volersi imbarcare in qualcosa che gli appariva dannatamente più grande di lui.

“Come squadra,” ribadì Fury. “Abbiamo bisogno che facciate qualcosa per noi.”

“E se ci rifiutassimo?” Natasha non sembrava voler lasciare niente di intentato, noncurante dell'occhiata penetrante e gelida da parte dell'uomo che quell'inquisizione le valse.

“Non possiamo farvi uscire di qui,” spiegò in tono asciutto, pratico, “sapete già troppe cose.”

“Allora o siamo con voi o siamo vostri prigionieri,” articolò lei in tono di sfida, “non mi sembra un'offerta di lavoro poi così equilibrata.”

“Preferirebbe che le somministrassi il siero di suo padre, signorina Romanoff?”

Clint vide la ragazza irrigidirsi sul posto, i tratti del volto improvvisamente tesi e più pallidi del solito, i pugni chiusi sul tavolo e un'espressione di panico a malapena trattenuto ad animarle lo sguardo.

“Come-”

“Sappiamo più cose di quante crediate. Su tutti voi,” allargò la questione a tutti i presenti, lui compreso. “Quello che mi preme di farvi capire è che siete tutti in possesso di abilità specifiche, abilità che farebbero molto comodo ad un'organizzazione come la nostra,” si era rimesso in piedi, misurando ad ampi passi lo spazio che circondava il tavolo. “Le alternative sono tre: o vi rifiutate, nel qual caso saremo costretti a rinchiudervi nelle nostre celle e buttare via la chiave almeno fino a quando non avrete cambiato idea; o vi rifiutate e, per qualche assurdo motivo, riuscite a scappare prima che uno dei miei uomini possa impedirvelo,” Fury si era soffermato in particolar modo su Thor prima di proseguire oltre, “e sappiate che non ho intenzione di semplificarvi le cose in alcun modo.” Inspirò a fondo. “Oppure decidete di lavorare per noi: potrete lasciarvi alle spalle le vostre vite, se così le vogliamo definire, e occuparvi di qualcosa di più importante.”

“Mi pare che stia dando per scontato il nostro indefesso altruismo,” l'appunto gli era uscito più astioso del previsto, ma non gli piaceva affatto il tono paternalistico con cui l'uomo continuava ad interpellarli.

“Il suo, signor Barton? Mi dica...” lo fronteggiò, fermandosi a pochi passi di distanza dal punto in cui era seduto, “cosa preferisce fare? Tornare alla casa dei suoi genitori nell'Iowa? Riparare motori scassati di giorno e illudersi di essere libero solo perché il suo passatempo è derubare la gente?” Clint sentì il cuore aumentare i propri battiti, la rabbia provocata da tutta quella presunzione a fargli ribollire il sangue nelle vene. “Quanto tempo ancora prima che il precario equilibrio che si è conquistato torni ad infrangersi in mille pezzi? Affogherà i suoi dispiaceri nell'alcool, si lascerà andare, supplicherà un qualsiasi tragico evento di cancellarla dalla faccia della terra? Di nuovo?” L'indignazione l'aveva travolto a tal punto da impedirgli di aprir bocca, di proferir parola, di dare voce alla furia che gli fioriva in petto, inesorabile.

“Perché non se ne sta zitto?” Non ebbe bisogno di voltarsi per indovinare l'ira sul volto di Natasha.

“Lei più di ogni altro dovrebbe capirlo, signorina Romanoff. Lasciare suo padre per morto a San Paolo non l'ha aiutata a risolvere nessun problema, mi pare. Non è forse per questo che ha insistito per arrivare sin qui? Non mi dica che non sperava di trovare qualcosa che fosse capace di colmare l'assoluta mancanza di senso della sua esistenza.”

“Non glielo dirò un'altra volta,” aveva ribadito Natasha, la voce furente le uscì come un soffio tremante. “Stia zitto.”

“Perché dico la verità?” La sfidò Fury, allargando platealmente le braccia; dopodiché passò a dedicarsi agli altri. “Dottor Banner, pensa davvero di poter vivere isolato dal mondo per il resto dei suoi giorni? Non dico la verità se le faccio notare che l'Altro, come a lei piace chiamarlo, finirà comunque per prendere il sopravvento, che lei lo voglia o no e a dispetto dei chilometri di distanza che si preoccupa di stabilire tra lei e gli innocenti che la circondano?” Bruce, turbato, non rispose. “O l'atleta caduto in disgrazia, che non riesce ad affrontare il caos che è diventata la sua vita, che pur di non dover fronteggiare il fratello che ha distrutto l'eredità di suo padre, di guardare in faccia il senso di colpa e sconfiggerlo una volta per tutte, preferisce compiangersi giorno dopo giorno, infliggendosi un'esistenza insignificante nella speranza di pagare lo scotto per i propri errori. Sbaglio, signor Odinson?” Thor si curò di guardare altrove, fingendo interesse per uno degli schermi appesi alle pareti che avevano appena ripreso vita. “Il miliardario rampollo della famiglia Stark...,” apostrofò Fury, passando oltre.

“La prego, si risparmi la predica... ne ho ricevute anche troppe ultimamente,” si impose Tony, evidentemente affatto intenzionato a lasciarsi prendere a schiaffi in faccia tanto remissivamente.

“Non mi pare che abbia imparato la lezione, allora,” constatò l'altro. “Lei ha un dono, signor Stark, una mente brillante come poche, ma invece che impegnarsi per affermare i suoi diritti, ha fatto in modo di alienarsi l'intera dirigenza delle Stark Industries. La signorina Potts ha combattuto per lei, e lei non ha fatto altro che sabotare i suoi tentativi.”

“Lasciarle la dirigenza è stata la cosa più sensata che potessi fare!” Esclamò Tony con un'urgenza che Clint non gli aveva mai visto addosso prima d'allora.

“Una delle più sensate, glielo concedo,” proseguì Fury. “Ma non la più difficile. Gettare al vento la sua vita, la sua intelligenza... crede che siano modi per rifarsela con suo padre.” Stark gli scoccò un'occhiata infernale, ma non osò ribattere. “La notizia flash è che suo padre è morto e che l'unico che sta deludendo è se stesso. Nessun altro.”

Da quanto tempo, esattamente, l'ex SHIELD o chi per loro, li stava tenendo sott'occhio? Come facevano ad essere a conoscenza di tutti quei dettagli della loro vita privata?

“Capitano Rogers,” il tono di Fury si era fatto improvvisamente ancora più greve e solenne, il suo sguardo esplicito.

“Non potevo sapere in che mani mi sarei messo,” ribatté Rogers, ostentando una calma che, tuttavia, tradiva il suo evidente nervosismo.

“No, ma è comunque riuscito a capire che non aveva niente da perdere. Lei è un soldato, capitano, non un fottuto poliziotto. Non dovrebbe dimenticarsi dei suoi successi, noi non l'abbiamo fatto... e ci aspettiamo grandi cose da lei.”

La foto di un uomo sui cinquant'anni era apparsa sullo schermo proprio alle spalle di Fury.

“Mi aspetto grandi cose da tutti voi...,” riprese, tornando a far scorrere lo sguardo su ciascuno di loro, “mi auguro che ci darete la possibilità di dimostrarvi che qualsiasi uomo, non importa che cosa faccia o da dove venga, può raggiungere qualsiasi obbiettivo se ha la possibilità di far parte di qualcosa di più grande.”

 

*

 

Il silenzio dominò la stanza per quella che le parve un'eternità. Il cuore non aveva ancora smesso di batterle all'impazzata nel petto, minacciando di esplodere da un momento all'altro. Sapeva che le parole dell'uomo non l'avrebbero sconvolta a tal punto se non fossero state – anche in minima parte – vere. Irrazionalmente, però, l'idea che qualcuno fosse a conoscenza della sua esistenza, sebbene non avesse mai tentato di interferirvi, la consolava: dopotutto, per tutti quegli anni, non era stata solo un impalpabile spettro che si aggirava per il mondo a disseminare morte e sofferenza. Qualcuno si era accorto di lei. Quel pensiero la faceva sentire inspiegabilmente più umana... reale.

“Quello che vedete alle nostre spalle è il dottor Erik Selvig,” spiegò Coulson.

“Lo scienziato scandinavo?” Domandò Bruce, ottenendo in risposta solo un rapido cenno d'assenso da parte della Hill.

“L'ho già sentito nominare,” mormorò Thor sovrappensiero: sembrava si stesse sforzando di ricollegare quel nome ad un qualche evento o ricordo specifico.

“Ha lavorato col padre di sua moglie,” chiosò Coulson. “E' stato reclutato a forza tra le file dell'HYDRA, con il compito di condurre alcuni esperimenti su una fonte d'energia rinnovabile su cui stavano lavorando i norvegesi.” L'uomo fece una breve pausa, trattenendo la propria attenzione sul gigante biondo che continuava a fissarlo con aria inebetita. “Ha mai sentito parlare del progetto Tesseract, signor Odinson?” Dall'espressione che gli si dipinse sul volto, Natasha intuì che non si trattava di argomenti inediti. “Suo fratello si è lasciato convincere a venderlo ai vertici dell'HYDRA in cambio di un massiccio aiuto nello smantellamento della A.S.G.A.R.D. Incorporated.”

“Sono riusciti a trovare un modo per sfruttarla?” Incalzò Steve, dopo aver lanciato un'occhiata preoccupata in direzione di Thor; forse un modo per allentare la pressione che pareva gravargli addosso come un macigno man mano che Coulson proseguiva.

“Non ancora, ma il dottor Selvig è vicinissimo alla soluzione del problema.”

“Abbiamo stimato un altro mese al massimo,” puntualizzò Maria Hill, come a sottolineare la gravità della situazione.

“Abbiamo motivo di credere che l'energia, una volta resa disponibile, sarà utilizzata per la messa a punto di armi di distruzione di massa di nuova generazione. Le applicazioni belliche di una fonte tanto potente sono virtualmente infinite: l'HYDRA non si lascerà sfuggire l'occasione di poter piegare sotto di sé l'intero globo,” Coulson spiegò. “Cellule dormienti dell'organizzazione si sono già installate in tutti i continenti in attesa che la... testa madre dia loro i mezzi con cui entrare in azione.”

“Che dobbiamo fare?” Domandò Natasha, determinata ad arrivare al fulcro della questione.

“Il dottor Selvig si trova in un complesso HYDRA situato su una delle punte più settentrionali dell'Alaska,” con l'ausilio di un telecomando, Coulson sostituì la foto dello scienziato con una mappa dello stato in cui si trovavano attualmente. “Qui, nei pressi di Point Hope,” dichiarò, indicando loro un punto ben preciso.

“Calzante,” commentò Clint, che non era ancora riuscito a sbarazzarsi della stessa espressione perplessa che aveva sfoggiato fino ad allora.

“Quello che dovrete fare sarà introdurvi all'interno della struttura, trarre in salvo Selvig, cancellare ogni traccia del progetto dai database dell'HYDRA e consegnarci tutto ciò che trovate sui progressi che sono stati fatti negli ultimi mesi,” concluse Coulson.

“Per farne cosa?” Indagò Steve, l'ombra del sospetto ad oscurargli lo sguardo.

“Per far sì che non cada nelle mani sbagliate,” Fury, che nel frattempo aveva ripreso il suo posto, non sembrava aver gradito l'insinuazione.

“Quel tipo di potere farebbe gola a chiunque,” ribatté il capitano.

“Lo fate suonare come un gioco da ragazzi,” si lamentò Stark, dirottando il dibattito altrove. “Quale sarebbe il piano?”

“Il piano lo dovrete concordare fra di voi.” La replica di Maria Hill aveva destato più di un dubbio.

“Non solo ci avete fatto attraversare il paese in lungo e in largo, ma adesso pretendete persino che rischiamo la pelle per voi mentre ve ne lavate le mani?” Clint fu il primo a mettere in parole lo stupore che – più o meno esplicitamente – ognuno di loro stava manifestando.

“Se accetterete l'offerta, sarete voi a scendere in campo,” spiegò pacatamente Coulson, “sapete voi come gestirvi e in quante fasi suddividere l'operazione.”

“Vi procureremo tutti i mezzi di cui avrete bisogno, informazioni e armi adatte a ciascuno di voi,” di nuovo la Hill col cipiglio severo di chi non sembra anche solo voler prendere in considerazione la prospettiva di un rifiuto.

“E in cambio?” Chiese Natasha, stringendosi nelle spalle in segno di spietato disinteresse alle occhiate indignate che le arrivarono dai tre, con la straordinaria partecipazione di Rogers. “Se ci conoscete così bene sapete anche che alcuni di noi si fanno pagare, per questo genere di cose.”

“Non abbiamo denaro da risparmiare per pagarle lo stipendio, signorina Romanoff,” decretò seccamente Fury. “Ma non ci prenda per degli sprovveduti. Abbiamo pensato anche a questo.”

Bastò un rapido cenno da parte del colonnello: Maria Hill si alzò per andare a recuperare uno scatolone abbandonato in un angolo della stanza; lo trasportò fino al tavolo prima di prendere a distribuire alcuni fascicoli. Su ciascuno di essi era riportato a chiare lettere il nome di uno dei presenti.

“Ognuno di voi ha interessi che vanno bel al di là del vile denaro,” decretò Fury, una traccia di presuntuosa arroganza nella voce, nel modo in cui sedeva appoggiandosi ai braccioli della sedia. “Suo padre le avrà sicuramente insegnato che saper fare leva sulle debolezze della gente costituisce le fondamenta dell'addestramento di ogni spia che si rispetti.”

Clint, al suo fianco, aveva fissato lo sguardo sulla fotografia che – insieme ad un documento di cui non riuscì a decifrare la natura – sembrava costituire l'intero contenuto del fascicolo. I pugni chiusi, il modo in cui aveva raddrizzato le spalle tradivano la tensione che l'aveva improvvisamente animato: chiunque fosse l'uomo dello scatto, aveva l'aria di essere una cosa importante.

Natasha non ci mise molto ad accorgersi che anche gli altri, proprio come l'arciere, si erano zittiti nello studio delle rispettive cartelle, chi più, chi meno sconvolto.

“Dov'è il resto?” Era stato Bruce a parlare, rialzando a malapena lo sguardo dall'incartamento che teneva ancora tra mani tremanti.

“Il resto lo riceverete dopo,” si limitò a spiegare Fury. “Quando avrete accettato il lavoro.”

“Per quanto?” Domandò Thor.

“Per quanto vorrete,” rispose Coulson, “ma come ha detto il colonnello, se mai doveste decidere di volervene andare, non potremmo permettervelo. Dalla segretezza di questo posto dipende l'incolumità di migliaia di persone.”

“Continuate a non lasciarci altra scelta,” si lamentò Clint, ma a voce talmente bassa da risultare quasi del tutto inudibile.

“Io ci sto.” Rogers, la fronte solcata da una profonda ruga di preoccupazione, aveva appena richiuso il fascicolo.

“Anch'io,” si accodò Bruce.

“Io pure,” la conferma di Thor assomigliava più ad un grugnito che ad un assenso.

“Oh, al diavolo!” Sbraitò Stark, gettando la cartella sul tavolo per rimettersi seduto. “Tanto ho il weekend libero,” aggiunse a mo' di specificazione, senza risultare – tuttavia – brillante e tagliente come suo solito.

Natasha si limitò a serrare le mani sul fascicolo ancora sigillato che Maria Hill le aveva consegnato, osservando uno ad uno i suoi compagni mentre cedevano ai ricatti, travestiti da lusinghe, dei tre semi-sconosciuti che li avevano sballottati da un capo all'altro degli Stati Uniti così come avrebbero fatto come delle dannate bambole di pezza. Possibile che avessero un'esca abbastanza succulenta per convincerli tutti ad imbarcarsi in un'operazione tanto pericolosa? Non aveva fatto altro che portare a termine compiti simili durante tutto l'arco della sua vita: riusciva a riconoscere una missione particolarmente spinosa e pericolosa quando ne vedeva una.

Si voltò verso Clint, rendendosi conto solo in quell'istante dello sguardo dell'arciere fisso su di lei, una domanda inespressa ad accendergli lo sguardo, il senso di colpa a piegargli le labbra in una smorfia che aveva del rammaricato. Non le ci volle molto per realizzare che anche lui stava per accodarsi a tutti gli altri.

“Non ho altra scelta, Nat,” bisbigliò prima di rivolgersi agli altri e con un: “Contatemi dentro,” confermò la propria partecipazione. Due parole che dovevano essergli costate un'estrema fatica.

Ignorò quelle otto paia d'occhi che si erano posate su di lei, ultimo baluardo di quel disomogeneo gruppo che l'ex SHIELD aveva tanto tenuto a mettere insieme. Inspirò a fondo, decidendosi infine ad aprire il fascicolo, quasi sfidandolo a sorprenderla.

L'involto conteneva soltanto una vecchia fotografia che ritraeva quella che le sembrava una classe d'asilo: due file di bambine ordinatamente affiancate l'una all'altra. Indossavano tutte lo stesso grembiule grigio e un'espressione maledettamente seria sul volto. Ai lati svettavano gli unici due adulti: da una parte una donna alta, bionda, i lunghi capelli tirati in un'acconciatura severa; dall'altra un uomo dal fisico prestante, dai lineamenti giovanili vagamente familiari...

… solo quando il cuore prese a batterle più rapidamente e un conato improvviso rischiò di farle rimettere la colazione sul tavolo, Natasha fu costretta a realizzare che quello non era altri che Ivan Petrovich, suo padre, almeno una ventina d'anni prima. Da quell'improvvisa consapevolezza, all'istintivo cercarsi tra i volti spauriti e smunti delle bambine fotografate, bastò un attimo. Ed eccola lì, seria e solenne, i capelli rossi e lisci tagliati corti sotto al mento, l'aria seriosa di una ragazzina che sta disperatamente cercando di darsi un tono.

Nascose le mani, che avevano preso a tremarle incontrollabilmente, sotto al tavolo, rialzando lo sguardo sui presenti solo quando fu sicura di non rischiare di mettersi a piangere o vomitare. Si schiarì la voce, umettandosi le labbra, facendo appello a tutto il suo autocontrollo per apparire disinvolta, disinteressata... padrona del proprio destino.

“Quando cominciamo?”


__________________________________________

Note:
Bè, ci voleva un capitolo esplicativo: (più o meno) tutte le carte sono state scoperte e i ricatti distribuiti. Tecnicamente ho fatto avverare quello che stava per succedere in Captain America 2: l'HYDRA è riuscita ad infiltrarsi e a sostituire lo SHIELD dopo averne distrutto la reputazione. Adesso quel che rimane da fare è seminare panico e distruzione un po' per tutto il globo, mentre Fury (con le palle più girate del solito, me ne rendo conto) & co. sono stati costretti a rintanarsi sotto terra con l'aiuto di Pepper in veste di CEO delle Stark Industries. Insomma, ci sarà un colpo di coda "d'azione" finale, come avrete intuito :P e ci tufferemo anche nelle backstory di Clint e Natasha. Anyway, non voglio anticipare troppo. Mancano cinque capitoli alla conclusione!
Spero che tutti i dubbi siano stati fugati!
Come al solito ringrazio tutti coloro che leggono e mi fanno sapere cosa ne pensano, e la sclerosocia Eli per il supporto in queste settimane deliranti.
Buon weekend a tutti! :)
S.

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Capitolo 16
*** 16/20 ***


- Capitolo 16 -

 

 

 

Il refettorio aveva più che altro l'aria di un centro per rifugiati dopo una qualche catastrofe naturale: un enorme stanzone nel quale erano stati disposti tavoli di diverse forme e fatture. Gli odori di cibi diversi fuoriuscivano da una saletta adiacente dove doveva essere situata la cucina, mescolandosi nell'aria, già di per sé soffocante, che permeava l'intero quartier generale. Le fu piuttosto chiaro come il grosso del denaro che l'ex SHIELD aveva a disposizione fosse destinato al settore operativo più che a quello più prettamente umano: una semplice questione di priorità.

Si accodò alla fila di agenti ordinatamente incolonnata davanti al banco della distribuzione, imitando le mosse di chi le stava di fronte, simulando una familiarità che non le apparteneva minimamente. Più o meno tutti vestivano di nero, forse per suggerire l'idea di una divisa che li accomunasse tutti quanti, ma era proprio su dettagli di quel genere che il soggiorno nelle cantine della centrale di Stark doveva aver avuto i suoi maggiori e più duraturi effetti.

Non era sicura che quel posto le piacesse; anzi... prima di tutto detestava l'idea di trovarsi nelle viscere del sottosuolo, sotto strati e strati di cemento e terra: se si soffermava troppo su quella considerazione, aveva come l'impressione che le mancasse il respiro. Sapeva che la reazione aveva

a che fare col terrore sopito che ancora la tormentava, più che con la configurazione di quell'enorme bunker che l'ex SHIELD aveva assunto come base per le proprie operazioni. L'immagine della fotografia che Maria Hill le aveva consegnato continuava a palesarsi davanti ai suoi occhi nei momenti meno opportuni. Alle volte era talmente assorta in quello sfaldato ricordo da riconoscere il volto ringiovanito di Ivan in chi le stava attorno: trasaliva bruscamente, trascinandosi a forza nella realtà del presente, ripetendosi più e più volte che suo padre se n'era andato, che era morto, che il passato si era concluso e che – a dispetto di tutto l'orrore che poteva nascondere dentro di sé – non poteva toccarla. Non più.

“Il prossimo!”

La voce sgraziata della signora oltre il bancone le fece realizzare di essere ormai arrivata alla fine della fila e di essere già stata servita; la donna – grassoccia, i capelli castani e crespi che fuoriuscivano dalla cuffietta che indossava – le indicò il vassoio riempito di una purea giallastra e di un paio di polpette inzuppate in un qualche sugo non meglio identificabile.

“Grazie,” si affrettò a dire, afferrando le posate che la donna le stava ancora, impazientemente, offrendo, prima di avventurarsi al centro della sala alla ricerca di un posto libero. Tra le occhiate sospette che le arrivavano da più direzioni, riconobbe lo sguardo intento e contrito di Steve, il quale stava attualmente occupando l'angolo più vicino all'ingresso del tavolo di sinistra. Natasha si avviò in quella direzione, prendendo il posto che fronteggiava quello del capitano, con la consapevolezza di non aver poi così tanta fame a farla interrogare sull'utilità di tutto quel ridicolo, sfiancante teatrino.

“Dove sono gli altri?” Gli chiese, infilzando una polpetta giusto per tenere le mani occupate.

L'uomo, che la stava ancora scrutando attentamente, si limitò a scrollare le spalle e a far sparire l'ultimo boccone di carne e purè.

“Barton sta ancora completando gli esami,” le disse infine, come dando per scontato che fosse quello il dettaglio che le interessava. “Banner e Stark hanno finito di mangiare e sono scappati a rintanarsi in laboratorio... di nuovo. Odinson, non l'ho visto.”

Alla conclusione della nevrotica riunione a cui il colonnello Fury li aveva obbligati a partecipare, dopo aver dato risposte più o meno esaurienti ad ognuno dei loro interrogativi, il trio di ex agenti li aveva invitati a sottoporsi a dei sommari test clinici: vivendo sotto terra, era necessaria un'ossessiva cautela nei confronti di chi e cosa veniva introdotto all'interno della base. In più, Natasha sospettava, doveva essere un modo per confermare il loro stato di salute, la loro prestanza fisica e abilità. Le ci era voluto un lungo minuto per convincersi di avere sotto controllo il terrore che la vista dell'ago del prelievo le aveva procurato; l'infermiera che si era occupata di lei – una signora di mezz'età coi capelli già ingrigiti – era stata abbastanza gentile da far finta di niente, distraendola con vacue chiacchiere riguardo cosa le mancasse della vita in superficie. L'avevano pesata, fatta correre su un tapis roulant con degli elettrodi sistemati sul petto, e infine misurata... non era sicura di aver colto l'utilità di quell'ultimo rilevamento.

“Ascolta,” Steve aveva ripreso a parlare, “mi dispiace per non avervi detto quello che sapevo.”

Natasha sollevò lo sguardo dal suo piatto, scoccandogli un'occhiata confusa: si stava seriamente scusando con lei?

“Sapevo soltanto che ci avrebbero riprovato... a reclutarmi, intendo,” si spiegò meglio il capitano, “mi avevano contattato, ma conoscevo la storia dello SHIELD.” Sbuffò, fece una breve pausa, come per raccogliere le idee e poi proseguì: “O almeno credevo di saperla. Il colonnello mi aveva avvisato che mi avrebbero fatto cambiare idea. Quando quel pacco è arrivato non ci ho messo molto a capire di che si trattasse.” La osservò per qualche istante, forse in attesa che fosse lei a dire qualcosa. “Sono davvero un bugiardo tanto pessimo?”

“Fai schifo,” confermò impietosamente lei. “Un brillante, giovane capitano della polizia dell'Alabama che accetta di correre dietro le sottane di un gruppo di delinquenti dopo neanche tre minuti di interrogatorio?”

“Lo fai suonare dannatamente stupido,” mormorò l'altro, forse l'ombra di un sorriso sulle labbra.

“Perché lo è.” Prese tempo, spilluzzicando dal piatto con aria poco convinta. “Cos'è che ti ha fatto cambiare idea?”

“Ho avuto un sacco di tempo per riflettere su quello che Fury mi aveva detto,” Steve si strinse nelle spalle, “a lungo andare, ogni cosa mi è sembrata... credibile.”

“A cose fatte resterai con loro...,” le era uscita più come una constatazione che una domanda. In realtà non nutriva proprio alcun dubbio su quella che sarebbe stata la decisione di Rogers.

“Non posso tornare indietro,” non dopo aver aiutato dei sospettati ad evadere, comunque, “e qui potrei essere utile.”

“Perché t'importa così tanto?” Si ritrovò a chiedergli, stavolta sinceramente interessata: non era sicura di riuscire a comprendere cosa lo spingesse ad aiutare il prossimo con tutta quella... altruistica costanza.

“E' quello che ho sempre fatto.” Steve sembrava essersi fatto improvvisamente più serio. “Ci sono così tante persone che non possono permettersi il lusso di difendersi,” un sorriso gli piegò inaspettatamente le labbra, “e poi detesto i bulli.”

Natasha gli rivolse una lunga, occhiata valutativa: preoccuparsi per gli altri continuava a sembrarle del tutto inutile. Quanti avrebbero fatto lo stesso per lui? Quanti non gli si sarebbero rivoltati contro se avessero potuto trarne un qualche vantaggio? Quanti altri avrebbero finito per soccombere alla paura, all'istinto che li spingeva all'autoconservazione, ad abbandonarlo a se stesso anche nel momento del bisogno?

Avrebbe voluto ribattere con una qualsiasi di quelle obiezioni, ma c'era qualcosa nello sguardo di Steve che la fece desistere: l'illusione era la sua, ed era quella che lo animava, che faceva sì che riuscisse ad addormentarsi tutte le notti. Chi era lei per smentirlo? Non sarebbe comunque riuscita a fargli cambiare idea.

“Credo che andrò a riposare,” il capitano si era frettolosamente rimesso in piedi. Seguendo la direzione del suo sguardo, Natasha si accorse che doveva aver individuato Clint in fila con gli altri agenti che ancora dovevano cenare. L'apparizione dell'arciere doveva averlo convinto a battere in ritirata. “Ci vediamo domani mattina.”

“A domani,” gli fece eco, guardandolo con aria vagamente divertita mentre recuperava il suo vassoio e quelli lasciati sul tavolo da altri commensali disattenti per riportarli al bancone, ricevendo in cambio un ampio sorriso dentato da parte della signora della distribuzione.

Tornò alle sue polpette, aspettando – più o meno pazientemente – che Clint la raggiungesse. Sembrava che nessuno di loro avesse ancora rivelato ad un altro membro del gruppo il contenuto del proprio fascicolo: non era neppure tanto certa di volerne discutere con qualcuno, ma la presenza dell'arciere – per assurdo che fosse – aveva su di lei un effetto calmante. Tutte le volte che le era vicino, e nonostante quello che era il suo atteggiamento più frequente, Clint non smetteva di darle l'idea di uno che sa il fatto suo, che non si lascia prendere dal panico neppure nelle situazioni più drammatiche. Le era ormai capitato più di una volta di ritrovarsi a confidargli cose che non avrebbe mai voluto dire a nessuno, neanche sotto tortura.

Trascorsero pochi minuti dopo i quali non le fu più possibile distinguerlo nella fila ormai assottigliatasi, che si snodava per quasi metà della lunghezza della refettorio. Non le ci volle molto, però, per riconoscerlo seduto in disparte due tavoli più avanti al suo. Il primo istinto fu quello di alzarsi e palesare la propria presenza, ma qualcosa le suggeriva che Clint l'aveva vista eccome e che aveva avuto tutta l'intenzione di evitarla. Il modo in cui masticava di buona lena, come per finire il più rapidamente possibile, lo sguardo fisso nel piatto e le spalle incurvate in avanti... tutto le faceva capire che non aveva alcuna voglia di parlare o interagire con chicchessia.

Finì la propria cena altrettanto velocemente, rimettendosi in piedi qualche secondo dopo, rifiutandosi categoricamente di prendere atto del cocente fastidio che le rimestava lo stomaco: se non voleva parlarle che se ne andasse pure al diavolo.

Abbandonò di mala grazia il vassoio sulla pila dei piatti sporchi che si stava accumulando al bancone, beccandosi un'occhiataccia dalla signora che l'aveva servita. Vaffanculo, le avrebbe voluto rispondere, non possiamo essere tutti Capitan America.

 

*

 

I corridoi dell'area dormitorio erano dannatamente stretti e angusti. Nonostante i bocchettoni che avrebbero dovuto contribuire al ricambio dell'aria, a portare l'ossigeno dalla superficie attraverso la centrale che li sovrastava, l'atmosfera era umida e pesante. Gelida. Il sogno di chi soffriva di reumatismi.

A parte qualche isolato tentativo di rendere l'ambiente più accogliente (quadretti appesi alle pareti, indicazioni colorate che segnalavano le direzioni giuste da prendere per questa o quella zona della base, persino un vaso di fiori finti sistemato su una vecchia cassetta di legno abbandonata dove due corridoi si incontravano perpendicolarmente) l'aspetto di bunker anti-atomico, in quella particolare area, era ancora più evidente.

Clint si soffermò per l'ennesima volta davanti a quella che doveva essere la stanza di Natasha: se a lui era toccato di dover condividere la camera (un buco con due brandine schiacciate sulle due pareti più lunghe) con Steve, la donna era stata dispensata dall'avere un coinquilino.

Se doveva essere del tutto sincero con se stesso, non sapeva perché era lì: non aveva voglia di parlare, non aveva voglia di vedere nessuno... ma se fosse rimasto un secondo di più in quel glorificato loculo che il colonnello Fury gli aveva assegnato, avrebbe rischiato di perdere la testa.

Tirò fuori dalla tasca dei jeans la foto già sgualcita che aveva trovato nel suo fascicolo: non fosse stato per i capelli rossicci e l'espressione strafottente, sarebbe stato come guardarsi allo specchio. Suo fratello Barney sembrava essere tutto ciò che Clint non era: la battuta sempre pronta, le idee dannatamente chiare, la soluzione costantemente a portata di mano. O, se non altro, era sempre stato abbastanza bravo da convincerlo di essere sempre un passo avanti a lui. Erano passati diversi anni dall'ultima volta che l'aveva visto, ma quel volto tanto simile al suo l'avrebbe riconosciuto tra mille: a parte una cicatrice che gli attraversava la guancia destra, non sembrava essere cambiato granché.

Per quanto avesse tentato di rimuovere la scena, ricordava ancora con sconcertante precisione il giorno in cui due rappresentanti dell'esercito bussarono alla porta del suo appartamento di Brooklyn per annunciargli che suo fratello era morto in azione. Se si concentrava solo un istante, riusciva persino a provare di nuovo quella medesima sensazione: lo stupore, lo shock, l'intontimento... nemmeno lo sapeva che suo fratello si era arruolato. Ci dev'essere un errore, aveva loro risposto. E quelli, probabilmente credendo di avere a che fare con un parente impietrito, nella fase del più acuto rifiuto della realtà dei fatti, si erano scambiati uno sguardo consapevole, gli avevano consegnato le medagliette che riportavano il suo nome. Suo fratello è morto in azione, avevano ribadito, questo indirizzo era il suo unico contatto d'emergenza. Se n'erano andati frettolosamente, senza guardarsi alle spalle, lasciandolo da solo ad affrontare quell'assurda verità, a boccheggiare come un pesce fuor d'acqua: Barney, il fratello maggiore che non vedeva da una vita, non c'era più.

Gli ci erano voluti tre giorni per metabolizzare la notizia, poco più di settanta ore che erano culminate in un incubo orribile, accompagnato da un sommesso pianto soffocato nel cuscino.

Quelle che ne seguirono furono settimane confuse: una specie di trance in cui aveva ripreso in mano il suo vecchio arco solo perché gli ricordava suo fratello. Quell'aggeggio che aveva segnato la sua vita era l'ultimo, sottile filo rosso che lo ricollegava ancora alla sua infanzia a Waverly, alla casa dei suoi genitori; aveva bevuto fino a stordirsi, a ripetizione. Quando l'idea di essere solo al mondo senza neanche l'ombra di una famiglia aveva cominciato a farsi insopportabile, aveva chiesto a Bobbi, la sua ragazza del momento, di sposarlo.

Tra tutte, quella era la decisione di cui si era maggiormente pentito. Barbara era stata la sua storia più seria; convivevano da appena sei mesi quando si era ritrovato a blaterare quella proposta senza né capo né coda: ci aveva messo un po' a dirgli di sì, ma non gli ci era comunque voluto molto a farla cedere. Tempo dopo, quando si era allontanato a sufficienza da quella situazione da averne una visuale migliore, capì che Bobbi l'aveva fatto solo ed esclusivamente nella speranza che assecondarlo potesse effettivamente aiutarlo ad uscire dal baratro in cui era precipitato.

La cerimonia era stata rapida ed indolore, la luna di miele trascorsa in un ostinato ritiro nella camera del suo appartamento; periodo durante il quale si erano alzati dal letto solo per andare in bagno, bere e mangiare. Si era illuso, oh, se si era illuso: ma era bastato uscire da quella stanza perché le cose gli apparissero per quelle che erano, perché tutto andasse a puttane. Lui era infelice, Bobbi era infelice... non avrebbe mai potuto colmare il vuoto che la dipartita di suo fratello gli aveva causato, non a forza, non in un modo così innaturale. Si erano lasciati di comune accordo, una domenica qualunque. Dopodiché Clint si era trasferito nella vecchia casa dei suoi genitori a Waverly, decisione che si era rivelata più deleteria che altro: era lì che aveva raggiunto il punto più basso, lì che, proprio quando aveva cominciato a scavare, tra i fumi dell'alcool e il tanfo del tabacco, aveva deciso di rimettersi in piedi... un giorno dopo l'altro. Faticosamente.

E adesso quegli illustri sconosciuti gli presentavano la possibilità di rivederlo... vivo? Perché all'eventualità che gli avessero infilato quella dannata foto a tradimento, tenendo molto convenientemente per sé la parte in cui gli ricordavano che era morto, non la voleva neanche prendere in considerazione: si sarebbe preoccupato di far apparire l'HYDRA come un fottuto gattino in confronto alla furia che avrebbe scatenato su quel buco d'infami nascosti sotto terra.

Fu il rumore della porta che si apriva a riportarlo alla realtà: Natasha gli stava rivolgendo un'occhiata indecifrabile.

“Hai intenzione di fare su e giù ancora per molto? Ti sento pensare da qua dietro,” lo rimproverò seccamente.

“Ahm... n-no,” balbettò in risposta, affrettandosi a rinfilare la fotografia spiegazzata nella tasca posteriore dei pantaloni. La sua confusione fu tale da convincerla ad addolcire – anche se di poco – lo sguardo.

“Fa' come ti pare. Chiudi se decidi di andartene,” lo avvertì, abbandonandolo solo come uno stoccafisso in mezzo al corridoio, la porta ancora spalancata in un tacito, irruento invito. Esitò ancora per qualche istante prima di decidersi ad accettarlo, a varcare la soglia della stretta camera che Fury le aveva assegnato. Il libro aperto e capovolto sul letto non ancora disfatto e lo zaino poggiato sul pavimento, erano gli unici indizi a suggerire l'effettiva presenza, in quella sottospecie di sgabuzzino, di un essere umano.

Natasha si era rimessa seduta sul materasso, un'occhiata interrogativa nella sua direzione. Indossava ancora gli abiti che lo SHIELD aveva loro consegnato alla conclusione dei test a cui li avevano sottoposti. Se pensava a tutto quello che si era fatto fare senza neppure accennare ad una protesta, gli veniva da ridere: era stato sufficiente mostrargli una foto di Barney per fottergli definitivamente il cervello.

La sensazione che era solita assalirlo quand'era solo con Natasha, non tardò a manifestarsi... facendogli molto prontamente mettere in discussione la bislacca decisione che l'aveva portato fin lì.

“Rogers ti tiene sveglio con i suoi racconti di guerra?” Gli domandò, ostentando un'artificiosa disattenzione nei suoi confronti e, di contro, un particolare interesse per quel libro che aveva recuperato da chissà dove.

“Rogers sta dormendo come un angioletto,” replicò, un accesso improvviso di imbarazzo ad impacciare ogni sua mossa. Accennò ad un paio di passi nella sua direzione, un attimo prima che Natasha lo invitasse a sedersi accanto a lei con un rapido sguardo, sollevandolo dall'onere di prendere l'iniziativa. Non se lo fece ripetere due volte: la raggiunse senza troppe cerimonie. La brandina si piegò pericolosamente sotto il suo peso, facendogli temere che potesse cedere da un momento all'altro.

“Come sono andati gli esami?” Si decise a domandarle.

“Niente di troppo invasivo.”

“Già.”

Studiò per un istante il suo profilo: sembrava ci fosse qualcosa che la infastidiva, ma non avrebbe saputo dire cosa. Si era illuso che il suo comportamento a cena fosse passato inosservato, ma adesso non ne era più tanto sicuro: si sorprese a sentirsi in colpa senza che potesse far molto a riguardo.

“O ne vuoi parlare o non ne vuoi parlare,” Natasha aveva decretato in tono fermo e deciso. “Non girarci attorno.”

“Non so se ne voglio parlare,” ammise, mettendosi immediatamente sulla difensiva.

“Allora perché sei venuto fin qui?” Incalzò lei.

“Non lo so, va bene?” Stava già cominciando ad esasperarsi. “Vuoi che me ne vada?”

“Non ho detto che voglio che tu te ne vada.”

“Bè la tua faccia sembra dire tutto il contrario.”

“Perché non mi piace essere ignorata!” Esclamò innervosita, voltandosi – solo in quell'istante – per poterlo guardare in faccia.

“Non avevo voglia di parlarne,” si giustificò di nuovo.

“Ma adesso sei qui,” gli fece notare in tono insopportabile.

“Cazzo, se non la smetti giuro che me ne vado.” Si sentì stupido a minacciarla con un evento di cui – molto probabilmente – non gliene fregava proprio niente. Per quale motivo avrebbe voluto averlo lì, comunque? Scattò in piedi, accompagnato dai cigolii di quel letto scadente.

“Non mi pare che qualcuno ti stia trattenendo.”

“Vaffanculo, Natasha,” borbottò inviperito, e se ne sarebbe anche andato se la voce della donna non arrivasse molto prontamente a fermarlo.

“Ti è caduta la foto di tuo fratello.”

Sentirle pronunciare quelle due misere parole ad alta voce, ebbe il pessimo effetto di farlo scattare come una molla: si voltò bruscamente, strappandole di mano lo scatto che gli stava porgendo. L'occhiata turbata e furente che gli lanciò, insieme al folle battito del suo cuore impazzito, lo trascinarono di nuovo con i piedi per terra a chiedersi che cazzo gli fosse preso. Sei un fottuto stronzo quando ti ci metti, non poté fare a meno di ribadire a se stesso, sentendo il calore dell'imbarazzo risalirgli su per il collo, le guance, fino alle orecchie.

Non riuscì a bloccare un impercettibile sospiro mentre gli cadeva lo sguardo sull'immagine di Barney: non era poi così difficile capire come Natasha avesse intuito il grado di parentela che li legava. Ricordava ancora le poche volte, in estate, in cui sua madre permetteva loro di accompagnarla per le commissioni del giorno, il modo in cui quasi tutti coloro che incontravano non mancavano di sottolineare quanto si somigliassero, che – non fosse stato per il colore dei capelli – sarebbero potuti passare per gemelli. Riusciva persino a figurarsi l'espressione disgustata di Barney, che ci teneva a ribadire (giusto per farlo arrabbiare) che avrebbe preferito ingoiare un moscone piuttosto che dover condividere la faccia con quello sfigato di suo fratello.

“Lo credevo morto,” mormorò senza neanche accorgersene. “Pensi...,” si interruppe per qualche istante, finendo seduto sul pavimento come per paura che le gambe gli tirassero un brutto scherzo. “Pensi che me l'avrebbero fatto vedere se... s-se non fosse vivo?”

Natasha lo stava scrutando attentamente, di nuovo con l'aria di chi sta cercando di capire il funzionamento di un qualche complicato meccanismo.

“Non noti niente di diverso?” Finì per chiedergli in tono asciutto, pacato.

Era questo che gli piaceva di lei: chiunque altro si sarebbe lanciato in una tirata all'insegna della speranza e dell'illusione, convincendolo che non c'era motivo di dubitare delle intenzioni dell'ex SHIELD, che suo fratello era ancora vivo, da qualche parte, in attesa che qualcuno andasse a riprenderselo... prima o poi. Niente del genere: Natasha era rimasta coi piedi per terra, valutando minuziosamente la situazione, quali che fossero le sue condizioni psicologiche e a dispetto di ciò che avrebbe voluto sentirsi dire. Sincera fino a far male, ma senza cattiveria.

“La cicatrice,” replicò dopo un lungo attimo di silenzio. “Ma potrebbe essersela fatta prima di morire,” aggiunse, rifiutando di concedersi anche la più piccola delle speranze.

“Da quanto non lo vedevi?”

“Un sacco di tempo. Avrò avuto diciassette anni al massimo,” sussurrò appena udibile.

Dopo gli anni trascorsi al circo, si erano susseguiti dei rocamboleschi pellegrinaggi che li avevano portati ad attraversare il paese. Si erano stabiliti a New York per quello che doveva essere solo un soggiorno limitato, ma Clint aveva trovato lavoro e la sistemazione – la soffitta di un vecchio scorbutico che aveva bisogno d'aiuto a rimettere in sesto il suo appartamento – di cui disponevano non era poi così scadente. Avevano litigato, si erano presi a male parole, avevano rischiato di venire alle mani... la mattina dopo Barney non c'era più. Nonostante in cuor suo non avesse mai dubitato della sua partenza, Clint aveva comunque sperato che si trattasse di uno dei suoi soliti scherzi. Finché i giorni non erano diventati settimane, le settimane mesi e i mesi anni.

“Quando avremo finito il lavoro te lo diranno,” puntualizzò Natasha.

“Se sopravviviamo,” non poté fare a meno di sottolineare.

“Non ho intenzione di morire prima di aver scoperto cosa sanno,” decretò seccamente lei.

La vide armeggiare con le pagine ingiallite del vecchio volume, tirandone fuori una fotografia; gliela porse senza alcuna spiegazione. Lo scatto ritraeva quella che gli ricordò, immediatamente, una di quelle orrende foto di classe che si scattano alla fine di ogni anno scolastico; ma non gli ci volle poi molto per cogliere la tensione che animava i visi di tutte quelle bambine vestite di grigio, insieme all'aspetto militaresco dei due adulti che chiudevano le due file.

“L'uomo è mio padre,” lo informò lei a mezza voce.

“Ci sei anche tu,” non riuscì a fare a meno di notare. Tra tutte quelle facce spaurite aveva individuato il suo cipiglio serioso, i capelli rossi e lisci, una mano stretta sul polso dell'altra: sembrava stesse imitando la postura di quello che gli aveva indicato come suo padre.

“Non ricordo niente... e nessuno,” riprese lei, quasi non l'avesse neppure sentito. “Solo la faccia di quella donna, ma...,” scosse il capo, sovrappensiero, “non riesco a collocarla.”

Clint ricordò le parole del colonnello Fury, il modo in cui le aveva arrogantemente chiesto se avesse preferito il siero di suo padre alla minaccia delle prigioni che – non dubitava – li attendevano in caso di rifiuto: una necessaria precauzione se volevano assicurarsi che i segreti dell'ex SHIELD rimanessero sotto terra insieme a loro.

“Ti faceva dimenticare?” Si azzardò a domandarle, perplesso. La osservò mentre sfogliava distrattamente il libro, i denti affondati nelle labbra in un'espressione incerta, contratta. Avrebbe voluto allungare una mano, sfiorarle il viso e... nemmeno lui sapeva bene cosa. Rise tra sé di quel primordiale, inutile impulso. “Non devi rispon-”

“In continuazione,” lo interruppe con una certa urgenza, impedendogli di finire la frase, gli occhi verdi e profondi di nuovo puntati nella sua direzione.

“Perché?” Non era sicuro di riuscire a capire.

“Per controllarmi meglio.” La risposta fu tanto banale da risultargli disarmante. “Non era il mio padre biologico,” aggiunse a mo' d'appendice.

“Che è successo alle altre?” Se l'uomo se l'era portata via, obbligandola a girare il mondo mentre lui metteva all'asta i suoi servizi, significava che quella specie di inquietante asilo era stata solo una soluzione temporanea... forse l'inizio di tutto.

“Credo siano tutte morte.” La voce di Natasha lo fece agghiacciare: avrebbe voluto chiederle cos'è che glielo facesse pensare, ma aveva come la netta sensazione che più che una riflessione razionale, quella fosse solo una nebulosa impressione confermata – forse – da qualche vago ricordo.

Rimasero immobili per quella che gli parve un'eternità, lasciando che il tempo scorresse silenziosamente tra di loro, che il respiro di uno si regolasse su quello dell'altro man mano che i secondi si avvincendavano gli uni agli altri.

“Vuoi rimanere qui?” Fu costretto ad osservarla per un paio di istanti prima di capire cos'è che gli avesse chiesto. “Possiamo fare a turno,” specificò lei.

“Non ti dispiace?” Si ritrovò a chiederle prima ancora di poter registrare le implicazioni di quell'offerta. Nonostante i pensieri che si ritrovava ad ignorare e reprimere, fossero tutt'altro che casti, quel loro bizzarro patto aveva un non so che di innocente, qualcosa che andava salvaguardato a dispetto dei suoi più sordidi e bassi istinti.

“No, c'è posto.” La vide sedersi ai piedi del letto e scostare la coperte come per invitarlo a prendervi posto. “Faccio io il primo turno.”

“No, figurati, posso farlo io.” Mentre sistemava le due foto sullo zaino della ragazza, si chiese se non fosse per caso impazzito: eppure tutto quello che voleva fare, in quel momento, era smettere di pensare, riposarsi e – per quanto suonasse stupido – l'idea che Natasha vegliasse su di lui era la sola, vera consolazione che sembrava in grado di convincere gli ingranaggi del suo cervello a fermarsi per qualche ora di assoluta, benefica quiete.

“Lo faccio io,” insisté lei. “Devo finire di leggere questo, comunque.”

“Che cos'è?”

Frankenstein.”

Mentre si toglieva le scarpe e si infilava sotto le lenzuola, gli venne inspiegabilmente da ridere.

“Odiavo quel fottuto libro,” decretò solennemente, lanciandole un'ultima occhiata assonnata. “Non riuscivo a non tifare per il mostro.”

Natasha abbozzò un sorriso.

“Per chi altri, sennò?”


__________________________________________

Note:
Un capitolo di "pausa" per riallacciare un po' di fili (più che altro riguardo la posizione di Steve) e esplorare un po' il passato di Natasha (o almeno quello che suppone sia il suo passato), ma soprattutto quello di Clint, con la straordinaria apparizione di Bobbi e Barney... sarà vivo? Sarà morto? Ce lo deve dire Fury ù_ù
Nient'altro da aggiungere. L'azione si articolerà sui prossimi due capitoli, con il diciannovesimo conclusivo e il ventesimo che fungerà da epilogo (provvisorio? Chi vivrà vedrà XD).
Ringrazio le "fedelissime" che leggono e recensiscono sempre (Ragdoll_Cat, Blackmoody e Frau Blucher) e ovviamente la sclerosocia (a questo giro per le sue consulenze letterarie in particolare :P).
Ed è tutto! Buon weekend a tutti e alla prossima!
S.

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Capitolo 17
*** 17/20 ***


- Capitolo 17 -

 

 

 

Tutte quelle voci sovrapposte lo stavano facendo uscire di testa: sembrava che il suono rimbalzasse incessantemente sulle pareti, in una sottospecie di cacofonica sfida di ping pong di cui non beneficiava proprio nessuno, men che meno la sua psiche. In fondo alla stanza, la stessa in cui avevano partecipato alla prima, illuminante riunione, Maria Hill e il colonnello Fury li stavano osservando così come avrebbero tenuto sotto controllo una nidiata impazzita di bambini intenti a creare il caos in un parco giochi.

Tra urla, strepiti ed insulti, Clint era più che sicuro che si stessero pentendo amaramente del loro diabolico piano votato all'assemblaggio di una squadra che neppure poteva definirsi tale.

“Chi cazzo ti ha dato il permesso di decidere per tutti?” Thor, a cui – ormai era abbondantemente assodato – giravano le palle da almeno un paio di giorni, non aveva alcuna intenzione di piegarsi alle direttive di Rogers.

“Non è colpa mia se sono il più qualificato qua dentro,” ribatté Steve. Quella particolare discussione (ripetuta almeno per la terza volta nel giro di quelle ultime quarantotto ore di inutili pianificazioni) aveva avuto lo straordinario effetto di farlo uscire dai gangheri... per quanto il capitano stesse sforzandosi di trattenere l'agitazione e il nervosismo, la frustrazione stava chiaramente avendo la meglio.

“Il più qualificato in cosa?” Odinson si rifiutò di mollare il colpo.

“Per decidere come diavolo muoverci! Ecco per cosa!”

“La volete smettere di urlare?” Banner, abbandonato sulla sedia più distante dall'occhio del ciclone, si era preoccupato di alzare la voce affinché i due bestioni riuscissero a sentirlo. Si massaggiò la fronte con aria esausta, “mi state facendo venire il mal di testa.”

“Ha ragione,” intervenne Tony, l'aria baldanzosa di sempre venata da evidente irritazione, “stare qui ad urlarci contro non servirà a niente. E' divertente, ma a meno che non decidiate di decretare il vincitore di questa discussione con uno scontro di wrestling, bè non sono interessato,” stabilì astiosamente, scoccando una rapida occhiata in direzione di Natasha, “oppure una scazzottata nel fango.” Si voltò verso Fury alle sue spalle, “Ce l'avete del fango qua sotto?” Lo sguardo fulminante che ricevette in risposta fu sufficiente a sedare quell'unico sprazzo di idiozia che era riuscito ad invocare tanto faticosamente.

“Questa non è un'operazione militare,” decretò la donna in tono artificiosamente pacato.

“Ah no? E cosa, allora? Illuminami,” la invitò Steve in modo semplicemente odioso.

“E' un'operazione di spionaggio,” sibilò lei, fissandolo dritto negli occhi, come se avesse potuto convogliare tutti gli insulti che avrebbe voluto scagliargli contro in quell'unica, implacabile occhiata.

“Ha ragione,” Clint decise di darle man forte. “Non siamo soldati.”

“Io non sono una spia,” puntualizzò acremente Rogers.

“Non dirlo come se fosse un fottuto insulto,” lo rimbrottò l'arciere. “Sbaglio o hai accettato di seguirci fin qui ben sapendo di finire tra le mani di un intero sottosuolo di spie?”

“Questo non è affatto ciò che vo-”

“O ci decidiamo a dare una svolta ragionevole a quest'incontro, o me ne torno in laboratorio,” li informò apaticamente Bruce, “ho delle cose da finire.” Sembrava si stesse sforzando di isolarsi il più possibile da quel marasma, per convincersi che non lo riguardava... né lui, né tantomeno l'Altro. Natasha, che doveva aver avuto il suo stesso pensiero, lanciò un lungo, preoccupato sguardo in direzione del dottore: fargli perdere il controllo con una riunione del cazzo sarebbe stato quantomeno paradossale.

“Va bene,” Steve si era lasciato ricadere sulla sedia, esasperato, “allora illustrateci il piano.”

Clint alzò gli occhi al soffitto: tutto quello che gli mancava per rendere perfetta quella giornata era proprio un maledetto militare ferito nell'orgoglio. Gli avrebbe volentieri ficcato tutte le sue dannate stellette al merito in fronte, se le avesse avute a portata di mano.

“La prima cosa che dobbiamo fare è mettere fuoriuso le telecamere,” parlò solo quando la stanza si fu fatta sufficientemente silenziosa. “Bruce,” lo interpellò, “tu te ne intendi di complessi di questo genere, giusto?” Doveva pur aver lavorato in un luogo molto simile a quello prima dell'incidente. Ottenne solo un confuso cenno d'assenso in cambio. “Sai da dove si può disattivare il sistema di sicurezza?”

“Una struttura tanto grande deve avere un circuito per ciascuna area,” replicò il dottore dopo un attimo di riflessione. “Ma dovrebbe anche esserci una stanza comandi capace di controllare tutte le telecamere contemporaneamente.”

“Potrei hackerare il sistema e far sì che vedano solo quello che devono vedere,” li interruppe Stark.

“Ti riesce sul serio?” Clint si pentì dell'inflessione incerta che aveva dato alla domanda nel momento esatto in cui l'aveva pronunciata.

“Certo che mi riesce,” replicò piccato l'altro, “cosa credi che faccia nel mio tempo libero?”

“Ahm... niente?”

“Non fare niente è troppo noioso.”

“Va bene, abbiamo capito,” Natasha, di nuovo, a riportarli all'attenzione. “Che cosa ti serve?”

“Il loro computer e un miracolo.” Stark le rivolse un ampio, fintissimo sorriso.

“Quindi dovrai entrare con noi,” ragionò lei, scegliendo deliberatamente di ignorare tutto ciò che non riguardava la missione in senso stretto. “Puoi riuscire a cancellare tutti i loro database dallo stesso apparecchio?”

“Ovvio che ci riesco, Ivy.”

“Chi diavolo è Ivy?” Clint non riuscì a trattenersi di chiedere.

“Ivy... come Poison Ivy,” precisò seccamente Stark.

“Wow. Ce ne hai messo di tempo per farti venire in mente un'altra rossa famosa,” Bruce si era messo a ridere. L'intervento aveva a tal punto dell'incredibile, che una risata – più o meno convinta – sfuggì a tutti e sei.
“Natasha,” Steve la invitò ad andare avanti con un cenno del capo.

“Non possiamo permetterci che Stark venga visto,” proseguì lei, “se anche una sola telecamera riuscisse ad intercettarlo, non avremo virtualmente alcuna via di scampo. Sapranno che è coinvolto e verranno a cercarci qui.”

Facendo crollare l'intero SHIELD per la seconda volta nel giro di... Clint non ricordava affatto quanti anni fossero passati da quell'ultima catastrofe. Fury, sullo sfondo, aveva indurito i tratti del volto, senza curarsi di far segreto del proprio nervosismo.

“Qualcuno di noi dovrà scortarlo fino alla sala di comando e assicurarsi che resti al sicuro,” continuò la donna.

“Posso farlo io,” si offrì Steve.

“No,” Clint si sporse coi gomiti sul tavolo. “Senza offesa, cap, ma credo che sia meglio che ti occupi di Selvig.”

“Perché?”

“Perché Natasha ed io non abbiamo mai salvato nessuno,” fece semplicemente notare. “La nostra specialità è entrare ed uscire senza essere visti, non il recupero ostaggi.”

“Quindi che suggerite di fare?”

“I laboratori si trovano ai piani superiori del blocco C, no?” Puntò un dito sull'enorme mappa dispiegata sul tavolo. “Accompagnerò Bruce a recuperare qualsiasi sia la diavoleria che stiamo cercando,” dopotutto chi meglio di lui poteva raccapezzarsi in un laboratorio? “Entreremo dal tetto... quei figli di puttana non si renderanno conto di niente finché non capiranno di essere stati fottuti.”

“Allora io mi occupo di portare Stark alla sala comando,” intervenne Natasha.

“E Odinson ed io ci occuperemo di Selvig,” concluse Steve per loro.

“Thor, tu e il dottore avete una conoscenza in comune,” si limitò a spiegare la donna, rivolta al gigante biondo, “è più facile che si fidi di te che di chiunque altro in questa stanza.”

“... e se i dormitori dello staff sono al piano interrato, Selvig avrà bisogno di tutta la protezione possibile,” specificò l'arciere. Chi meglio di due omoni grandi e grossi a fargli da guardie del corpo?

Rogers e Odinson si scambiarono solo una breve occhiata, rivolgendosi un cenno d'assenso appena percettibile. Per quanto lasciasse a desiderare, quello era decisamente il piano meno folle che avessero messo a punto in quelle ultime ore.

“E l'estrazione?” Domandò Steve.

“Di quella, ce ne occupiamo noi.” La voce imperiosa del colonnello li raggiunse dal fondo della stanza.

Mentre più o meno tutti prendevano atto delle sue parole, Clint non poté fare a meno di scoccargli un'occhiata tagliente. Il modo in cui li avevano persuasi ad accettare il lavoro (leggi: missione suicida) ancora non gli andava giù; eppure non poteva tirarsi indietro, non adesso, non ora che c'era la prospettiva di sapere che fine avesse fatto Barney, se fosse effettivamente ancora vivo...

“Se abbiamo finito, credo che mi ritirerò in laboratorio,” sentenziò Stark.

“Vengo con te,” convenne Bruce, rimettendosi in piedi per seguire Tony fuori dalla stanza. Thor e Steve si accodarono poco dopo, lasciandolo solo con Natasha e la coppia Fury-Hill impegnata in una concitata e privatissima discussione in prossimità degli schermi appesi alla parete di fondo. Distolse lo sguardo dai due, prestando piuttosto attenzione alla donna ancora chinata sulla mappa, una ruga di preoccupazione a solcarle la fronte.

“Che ne dici?” La interpellò. “Abbiamo qualche chance?”

“Il piano fa acqua da tutte le parti,” mormorò lei, senza sollevare lo sguardo dalla piantina: sembrava si stesse adoperando per impararla a memoria. “Ma ho affrontato situazioni peggiori.”

“Magari ha ragione Stark,” l'affiancò silenziosamente, “magari abbiamo bisogno di un fottuto miracolo.”

“Un miracolo non ci tirerà fuori da questo casino.”

“Pensavo credessi in dio.”

Natasha sollevò lo sguardo nel suo, rivolgendogli un microscopico, amaro sorriso.

“Ti ho detto che credo nell'inferno, non in dio.”

 

*

 

24 ore dopo

quartier generale dell'ex SHIELD

 

La divisa che le avevano procurato stringeva fastidiosamente... in più punti. Non che il tessuto della tuta non possedesse delle arcane proprietà: il sarto della base si era preoccupato di elencargliele tutte, una per una; prima fra tutte quella di tenerla al sicuro dalle rigide temperature artiche che li attendevano. Non era scomoda, ma neppure il suo massimo ideale di praticità: sperò ardentemente di non dover fare una capatina al bagno proprio nel bel mezzo della missione, tanto per cominciare. Se non altro ci aveva guadagnato un paio di stivali nuovi che le calzavano alla perfezione.

Tirò su la cerniera sul davanti almeno fin sotto la gola, un attimo prima che qualcuno bussasse alla porta della sua stanza.

“Nat?” La voce di Clint la spinse ad andare ad aprire prima che l'arciere potesse avere il tempo di aggiungere una qualsiasi altra cosa. Si ritrovò a fronteggiarlo, non senza un impercettibile sussulto a farla trasalire: non fosse stato per le braccia scoperte – sicuramente per facilitargli i movimenti – fino alle spalle, anche l'uomo sarebbe stato ricoperto di nero da capo a piedi.

“Bè almeno tu non rischi di fartela addosso,” fu l'unico commento semi-sensato che le uscì di bocca. Chi diavolo aveva pensato che cucirle quel glorificato body di plastica scura sarebbe stata una buona idea?

Clint era indietreggiato di un misero passo, come per ottenere una migliore visuale d'insieme: se non altro ebbe il buon senso di non trattenercisi più del dovuto.

“Che stai facendo?” Gli chiese, nonostante lo sapesse benissimo.

“Sei...” scosse il capo come alla ricerca delle parole giuste, “pericolosa.”

“Ero pericolosa anche prima,” sottolineò con irritazione, beccandosi un sorriso in risposta.

“Andiamo, Tony ci vuole vedere nel suo laboratorio.”

“Siamo qui da neppure tre giorni e lui ha già un suo laboratorio?” Si chiuse la porta alle spalle, invitandolo a fare strada.

“Il terreno, in fin dei conti, gli appartiene,” le ricordò. “A quanto pare neppure l'inflessibile Fury è riuscito a negarglielo.”

“Non credo che Stark sia abituato a sentirsi dire di no,” convenne. “Perché vuole vederci?”

“Non lo so. Suppongo abbia a che fare con tutte le ore che lui e Bruce hanno trascorso là dentro.”

Percorsero il resto della distanza che li separava dal laboratorio in silenzio, ignorando le occhiate smarrite – ma molto più spesso sospettose – degli abitanti del quartier generale che incontrarono sulla loro strada. Le parve, via via, di star scendendo ancora di svariati metri sotto terra. Clint la condusse attraverso altri corridoi, fino a fermarsi davanti ad una doppia porta metallica, dietro la quale riusciva chiaramente a sentire Stark, impegnato in una qualsiasi delle sue bizzarre tirate.

“Oh, eccovi finalmente!” Esclamò, puntando loro un dito contro non appena li vide varcare la soglia del laboratorio.

Natasha si prese il tempo di passare in rassegna i presenti: qualcuno si era preoccupato di infilare Steve e la sua imponente mole in una tuta nera molto simile alla sua; Thor, invece, sembrava condividere la praticità della divisa di Clint, le braccia muscolose lasciate scoperte per una mobilità maggiore; Bruce e Tony, d'altro canto, indossavano semplici abiti scuri.

Tutt'intorno erano disposti banconi dall'aria innocua, provette, macchinari di ogni genere e forma; il soffitto sembrava più alto e l'aria più asciutta. Su uno dei tre tavoli che occupavano la stanza, invece, erano stati stati sistemati dei teli neri a coprire... qualcosa di non meglio definito.

“Sembriamo un gruppo hard-metal,” commentò l'arciere, probabilmente senza sapere se ridere o piangere.

“Perché voi due siete vestiti normali?” Natasha non poté fare a meno di chiedere, rivolgendosi prima a Tony e poi a Bruce.

“Perché noi useremo le nostre menti,” Stark si puntò un dito alla tempia. “Non abbiamo bisogno di strani aiuti di nient'altro,” si calò il cappuccio della felpa scura sugli occhi, stringendone i lacci fino a coprirsi gran parte del volto, “se non di questo.”

“Molto divertente,” si ritrovò a commentare, affatto impressionata.

“Siccome sei intrattabile, parlerò prima con Barton,” decretò il miliardario, voltandosi verso Clint dopo averle rivolto un'occhiata che poteva tradursi con un così impari. “Mi hanno detto che ti diletti di tiro con l'arco,” esordì, avvicinandosi al tavolo ricoperto di oggetti misteriosi. Scostò uno dei teli, tirando fuori quello che aveva tutta l'aria di essere l'arco di Clint. “Ta-daaaa!”

Se Stark era estasiato, Natasha non mancò di notare come all'arciere stesse per venire un colpo.

“C-Che cazzo gli hai fatto?” Domandò con tanto d'occhi, la voce piccina e un pallore cadaverico a tingergli il viso.

“Sei contento o arrabbiato?” Tony glielo porse con un'occhiata allucinata. “Non riesco a capirlo.”

“Chi ti ha d-dato il permesso di manomettere il mio... ar-”

“Non l'ho manomesso,” ribatté prontamente Stark, “l'ho migliorato. Scusami tanto se in questo posto dimenticato da dio – ma non dal fisco! – non dispongono di una nutrita selezione di armi paleolitiche.”

Clint continuava ad ignorarlo, studiando attentamente le modifiche che erano state apportate alla sua arma prediletta: dopo un lungo istante di puro panico, i tratti del suo volto parvero rilassarsi. Evidentemente il danno non era poi così catastrofico come aveva inizialmente ipotizzato.

“Che ne sai tu di archi, comunque?” Lo interpellò, provando ad imbracciarlo per testarne la stabilità: dall'espressione che gli si dipinse sul volto, Natasha non stentò ad intuirne la soddisfazione.

“Di archi? Niente. Di fisica, però, bè... e non è finita qui!” Gli porse una manciata di frecce dall'aria estremamente tecnologica. “Freccia taser, freccia al C4, freccia rampino, freccia...” andò avanti ad elencare tutta una serie di tipologie che Natasha era piuttosto convinta si stesse inventando di sana pianta, “... e infine frecce. Normali, intendo. Ma chi si diverte ad usarle, quelle?” Sorrise ampiamente.

L'arciere si limitò a fissare alternativamente i dardi e Stark con tanto d'occhi, vistosamente sconcertato da quell'inaspettato sviluppo. Lo seguì con lo sguardo mentre si metteva seduto in disparte su uno dei tanti sgabelli che punteggiavano la stanza, analizzando le frecce una ad una. Tony parve aver deciso di prendere il suo attonito silenzio come il più sentito dei ringraziamenti, dopodiché fu di nuovo su di lei.

“Se stai per darmi un rossetto laser giuro che ti prendo a calci in culo,” l'avvertì preventivamente.

“Rossetto laser? Ma per chi mi hai preso? Il tardone dei film di James Bond?” Si voltò per recuperare qualcosa dal tavolo su cui – adesso l'aveva capito – aveva disposto quelli che dovevano essere dei prototipi, lanciando una rapida occhiata in direzione di Bruce e mormorando qualcosa di molto simile a: nascondilo subito! Natasha intrecciò le braccia al petto, osservandolo con aria di sfida, come in attesa di essere sconvolta.

“Tanto per cominciare... braccialetti,” decretò Stark, voltandosi di nuovo verso di lei per mostrarle dei grossi bracciali neri.

“A questo punto avrei preferito il rossetto,” commentò, senza tuttavia sottrarsi alle manovre di Tony che la invitò a tendergli un braccio affinché potesse mostrarle il funzionamento della sua straordinaria (ma era ancora tutto da vedere) invenzione. “Ho anche un collier di diamanti esplosivi?”

“Il tuo sarcasmo non mi scalfisce,” puntualizzò lui dopo averle assicurato l'aggeggio al polso. Recuperò quelli che assomigliavano a dei proiettili troppo allungati, tenendone uno tra pollice ed indice. “Pronta a perdere le mutande?”

“Stark...” lo redarguì.

“Va bene, va bene. Il concetto è lo stesso delle frecce del tuo ragazzo,” le spiegò, “ognuno di questi gioiellini ha una sua funzione specifica: quattro sono esplosivi, due contengono del gas soporifero, due un filo metallico iper-resistente, uno dotato di rampino automatico e l'altro no... nel caso tu voglia garrotare qualcuno piuttosto che svolazzare dal soffitto e infine, i miei preferiti...,” ne prese un altro, del tutto uguale al primo nell'aspetto, “li ho chiamati Widow Bites. Danno una scarica elettrica fino a trentamila volts... su per giù.”

Natasha inarcò un sopracciglio, facendo di tutto pur di non mostrarsi sorpresa... perché, se doveva essere del tutto sincera, lo era eccome.

“Fammi vedere come funzionano,” lo invitò con quello che sembrò più un ordine che altro.

“Non ti emozionare troppo,” la prese in giro Stark, “è solo perché sei tu quella che mi deve parare il culo, quindi tanto vale...”

“Sta' zitto.” Stavolta era solo un suggerimento amichevole... ma sentito.

“Oh e ovviamente ognuno di voi avrà con sé un'arma da fuoco, ma i silenziatori a disposizione non sono molti, e non credo che fare rumore sia il nostro obbiettivo principale,” proseguì Tony, adoperandosi ad inserire tutti i lunghi proiettili che le aveva mostrato negli appositi scompartimenti del bracciale – e, successivamente, del relativo gemello – che le cingeva il polso. “Dobbiamo cercare di dare nell'occhio e... nell'orecchio il meno possibile,” aggiunse.

“Partiamo tra tre quarti d'ora,” li avvertì Steve, soppesando quello che aveva tutta l'aria di essere uno... scudo.

“Qualcuno mi ricordi di pisciare prima d'uscire,” stabilì Stark, beccandosi occhiatacce più o meno indignate da ogni direzione. “Che c'è? Quando sono agitato la mia vescica dà di matto.”

Forse era vero che avrebbero avuto bisogno di un miracolo.

 

*

 

4 ore dopo

Point Hope, Alaska

 

Il generatore che alimentava i sensori di movimento ronzò sinistramente per qualche istante prima che la freccia taser non completasse il lavoro: il rumore del corto circuito si perse nell'aria gelida e tagliente, contribuendo a tranquillizzarlo almeno un poco.

Si portò una mano alla trasmittente nascosta nell'orecchio, voltandosi verso Banner, accucciato al suo fianco.

“Via libera per il perimetro,” bisbigliò, sentendosi estremamente stupido a parlare al niente. I ricevuto di Natasha e Rogers lo raggiunsero poco dopo, distanziati da un misero nanosecondo di silenzio.

Non era ancora sicuro che tutta quella bislacca idea del lavoro di squadra gli piacesse, ma, se da una parte la presenza di individui dei quali non poteva controllare le azioni lo agitava, dall'altra era contento di non trovarsi in quella marea di merda da solo.

“Procediamo verso la scala anti-incendio dell'edificio C,” proseguì Clint a beneficio di tutti, scambiando una rapida occhiata con Bruce accanto a lui. “Eliminare le guardie sarebbe troppo rischioso,” lo avvertì a mezza voce. “Basterà muoversi lentamente e non ci vedranno, okay?”

Il complesso si estendeva su un'esigua porzione di terra completamente pianeggiante, affacciata sul mare dei Ciukci, che – a detta di Natasha – era tutto ciò che li separava dalla Siberia.

Durante il viaggio in elicottero da Cordova a Noalak, lungo e scomodo, persino lo scambio di inutili nozioni che avrebbe senza dubbio rimosso in toto di lì a qualche ora, gli avevano dato un certo sollievo. Il silenzio e la tensione che li avevano accompagnati fin lì erano stati a dir poco insopportabili: parlare non l'aveva solo aiutato a distrarsi, ma anche a non focalizzarsi ossessivamente sul freddo che minacciava di entrargli fin nelle ossa nonostante il pesante giubbotto che avevano avuto il buon senso di fornirgli.

Giunti a ridosso di quell'ultima località, alcuni alleati dell'ex SHIELD li avevano trasportati per circa duecento chilometri in direzione nord-ovest – a bordo di certi mezzi che ricordavano in egual misura una jeep e una fottuta slitta – avvicinandoli il più possibile alla ridente (come no) cittadina di Point Hope: una manciata di container dimenticati al di sopra del circolo polare artico. Non poteva proprio fare a meno di ricordarsi quella ridicola promessa che – sfiancato dall'opprimente calura del deserto – si era fatto, di non accettare più incarichi che non si collocassero al di sopra di quello stramaledetto parallelo che separava il resto del globo da una delle zone più gelide del mondo: bè, aveva ottenuto quello che voleva e adesso avrebbe volentieri preferito frantumarsi le palle a suon di mazzate piuttosto che restare là sopra un secondo di più. Si sforzò di pensare a spiagge bianche, sole caldo, mari cristallini e Natasha in bikini... giusto perché non gli sembrava giusto lasciarla fuori da quel roseo quadretto che si era appena costruito (di nuovo, come no).

La struttura dell'HYDRA era composta da svariati blocchi di cemento circondati da una recinzione metallica corredata da simpatici cartelli che segnalavano pericolo di morte imminente o – meno definitivamente – invitavano improbabili visitatori ad andarsene a fanculo il più rapidamente possibile (parafrasi personale di Clint). I tre gruppi avrebbero raggiunto tre diverse ali del complesso da altrettante direzioni: a loro era toccato il lato est. Penetrare attraverso quella precaria barriera era stato un gioco da ragazzi, individuare il generatore che teneva in vita i sensori d'allarme esterni, però, non tanto.

La notte era buia e spessa, solo pochi fasci di luce semoventi illuminavano questa o quella zona della struttura, lasciando intravedere occasionali guardie bardate di piumini, sciarpe e cappelli di lana.

“Al mio tre,” annunciò al dottore, tenendo un occhio puntato su di lui per assicurarsi che fosse pronto, l'altro sui fari che continuavano a muoversi... il momento propizio sarebbe arrivato fra, “uno, due... tre!”

Uscì rapidamente allo scoperto, guadagnando l'oscurità offerta da un gabbiotto abbandonato in mezzo ai sentieri asfaltati che separavano ciascuno di quei cinque blocchi. “Doc?”

“Ci sono,” biascicò l'altro, schiacciandosi il più possibile contro il vetro opaco della casupola deserta. Clint non ebbe bisogno di guardarlo per accorgersi della sua agitazione.

“Di nuovo doc,” ribadì a mezza voce, contando i secondi che lo separavano dal raggiungere la scala anti-incendio. “Andrà tutto bene, capito?”

Non aspettò un cenno d'assenso per tornare a muoversi: scattò oltre la barriera del gabbiotto, correndo silenziosamente fino ai piedi della scala. Non esitò ad imboccarla, a macinare velocemente gradino dopo gradino finché non ebbero raggiunto il tetto piatto e deserto. Si gettò a terra, strisciando fino al ciglio per cercare gli altri due gruppi con lo sguardo: Natasha e Tony erano appena penetrati all'interno dell'edificio E, lasciandosi alle spalle una guardia priva di sensi nascosta nell'ombra; il blocco B, invece, gli oscurava la visuale su Thor e Steve.

“Siamo sul tetto,” informò gli altri. “Iniziamo a scendere.”

“Io e Stark siamo dentro,” la voce di Natasha lo raggiunse come un soffio.

“Odinson ed io ci stiamo lavorando,” il tono di Rogers non prometteva niente di buono.

“Avete bisogno di una mano?” Chiese Clint, sforzandosi di mantenere la calma.

“No, abbiamo tutto sotto controllo. Andate.”

 

*

 

“Come diavolo hai fatto ad atterrare quel coso alto due metri?”

“Stark, sta' zitto,” lo redarguì in un sibilo appena udibile. Vederla in azione, alle prese con la guardia alla quale avevano molto convenientemente sottratto il badge d'accesso, sembrava avergli provocato una paresi cerebrale dalla quale non dava segno di volersi di riprendere.

“Dove le hai imparate tutte quelle mosse?” Riprese, totalmente indisturbato, rischiando di precederla nel corridoio che intersecava quello d'ingresso; Natasha allungò un braccio per tagliargli bruscamente la strada e costringerlo ad indietreggiare.

“Sta' attento alle telecamere,” ci tenne a ricordargli con sguardo di fuoco, ottenendo in cambio un religioso cenno d'assenso. Era riuscita a mettere fuoriuso quella che sorvegliava l'ingresso, ma di occhi puntati addosso rischiavano di averne ancora: individuò almeno un paio di quegli aggeggi infernali in altrettanti angoli del soffitto. La buona notizia era che, proprio come le luci esterne, anche quelle ruotavano più o meno lentamente di centottanta gradi, il che dava loro una finestra di tempo sufficiente ad eluderle... o neutralizzarle.

“Tirati giù il cappuccio,” gli ordinò a mezza voce.

In fondo al corridoio di sinistra si intravedeva una rampa di scale che – se i loro calcoli erano esatti – li avrebbe condotti al piano superiore. Trovata la sala di comando, tutto quello che le sarebbe rimasto da fare era osservare Stark all'opera e, soprattutto, impedire che qualcuno li disturbasse.

“Fa' quello che faccio io.” Fu l'ultima indicazione che gli impartì prima di prendere la mira e accecare con un colpo di pistola la telecamera di destra; lo sparo silenziato rimbombò impercettibilmente tra le pareti prima di estinguersi del tutto. Mentre quella di sinistra era puntata altrove, Natasha uscì allo scoperto, percorrendo il corridoio rasente al muro, ricordandosi a malapena di respirare finché non ebbero guadagnato la rampa di scale.

“H-Ho appena perso vent'anni di vita,” balbettò Stark, che l'aveva seguita a ruota.

“Tu aspetta qui,” tagliò corto, ignorando il suo smarrimento, “controllo che non ci sia nessuno.”

Si assicurò che avesse capito prima di imboccare le scale, due, tre gradini alla volta. Neutralizzò la telecamera che minacciava di scoprirla con un altro, silenzioso colpo perfetto, dopodiché proseguì fino a raggiungere il primo piano: l'ennesimo dedalo di porte e corridoi dall'aria tutta uguale. Un paio di guardie armate stavano sorvegliando la porzione di destra, quella su cui si apriva la sala comandi. Aspettò che una delle due svoltasse in un corridoio adiacente per avvicinare l'altra alle spalle e spezzargli il collo con un unico movimento fluido. Il leggero tonfo che ne seguì attirò l'attenzione del collega, costringendola ad afferrare il cadavere e a trascinarlo all'indietro fino a nasconderlo sulle scale da dov'era appena arrivata.

“Ed? Hai detto qualcosa?”

Restò nascosta dietro la parete ad osservare il morto accasciato sui gradini, mentre la voce dell'altra guardia si faceva sempre più vicina. Socchiuse gli occhi alla ricerca di assoluta concentrazione, così come suo padre le aveva insegnato: riuscì a calcolare i passi che ancora separavano lo sconosciuto dal punto in cui si trovava. In tre, due...

Sferrò un pugno alla cieca, colpendo l'uomo dritto in faccia: lo schiantò al muro, attivando uno degli Widow Bites che Stark aveva creato appositamente per lei, eliminando qualsiasi contatto tra lei e la guardia un secondo prima che una scossa elettrica non lo folgorasse sul posto, impedendogli di urlare o chiedere aiuto. Natasha dovette convincersi a distogliere lo sguardo dal sinistro spettacolo offerto dagli inquietanti singulti che scuotevano ancora il corpo dell'uomo mentre si accasciava al suolo: la sala di comando, Natasha. Datti una cazzo di mossa.

“Rogers, Odinson, siete riusciti ad entrare?” La voce di Clint, inaspettata, a farla sussultare sul posto.

“Siamo dentro,” confermò Steve, “stiamo cercando la stanza di Selvig.”

Si lasciò accompagnare da quel breve scambio di battute mentre spalancava la porta dell'ufficio che costituiva la sua meta: una uomo calvo, il berretto della sicurezza abbandonato sulla scrivania accanto a lui, stava distrattamente osservando le diverse porzioni in cui era diviso il grande schermo del computer centrale, ognuna di quelle afferente ad altrettante telecamere sparse per il complesso.

“Bert, va' a chiamare Kate,” le si rivolse con la convinzione che si trattasse di un collega. “C'è qualcosa che non va con le nostre telecamere...” Pausa in cui Natasha avanzò lentamente, silenziosa come un gatto. “... e anche con quelle dei blocchi B e C. Dev'essere un altro di quei cali di tens-”

Strinse tra le mani le estremità del filo metallico che Stark le aveva dato in dotazione, cingendo bruscamente il collo taurino della guardia che prese a dimenarsi come un pazzo. Natasha serrò la presa, tagliandogli le riserve d'ossigeno e trascinandolo all'indietro con tutta la sedia per impedirgli di dare l'allarme schiacciando il bottone anti-panico che aveva già individuato sotto la scrivania.

Trattenne il respiro e tirò finché le mani non le si imbrattarono di sangue e l'uomo non cadde a terra con un ultimo gorgoglio.

“C-Cazzo.”

Una voce alle sue spalle la costrinse a voltarsi: stava quasi per scagliarglisi contro, quando si accorse che altri non era se non Stark.

“Ti avevo detto di restare dov'eri,” sibilò.

“Credevo... a-avessi bisogno d'aiuto, ma...” scoccò un'occhiata inorridita all'uomo sgozzato che giaceva proprio ai suoi piedi, “... evidentemente no.”

“Datti una mossa,” gli ordinò, indicandogli bruscamente il computer.

Tony non se lo fece ripetere due volte.

 

*

 

“Le telecamere sono a posto,” l'annuncio di Natasha arrivò come una manna dal cielo.

“Sentito, doc?” Clint si voltò ad apostrofare Banner, schiacciati com'erano contro la porta che li separava dall'area dei laboratori. “Via libera.”

“E le guardie?” Ne avevano individuate almeno due a sorvegliare il corridoio su cui si sarebbero immessi a breve.

“Me ne occupo io.” Si spostò leggermente di lato. “Al mio via apri la porta, mh?” Bruce annuì con aria determinata. “Ora.”

Uscì allo scoperto incoccando e scoccando una freccia taser dopo l'altra: i due uomini caddero a terra contorcendosi malamente in preda alle convulsioni, prima ancora d'aver capito cosa li avesse colpiti.

“Ci siamo,” avvertì Bruce, facendogli cenno di seguirlo là fuori. “Ti ricordi qual è il laboratorio di Selvig?” Banner annuì, dirigendosi a passo sicuro verso la porta in fondo al corridoio che tagliava perpendicolarmente quello in cui si trovavano, dandogli il tempo di recuperare le frecce ancora conficcate nelle braccia dei due: l'elettricità era andata, ma in caso di emergenza sarebbe stato meglio avere tutte le risorse possibili a disposizione.

Stavolta fu lui a seguire il dottore all'interno del laboratorio, un enorme stanzone che in quanto a tecnologie sofisticate avrebbe fatto morire di vergogna quello dell'ex SHIELD. Bruce parve impressionato tanto quanto lui, ma non disse niente: si lanciò, piuttosto, ad esaminare tutto ciò che gli capitava a tiro, documenti lasciati in giro, becker e fiale dall'aria arzigogolata.

“Oh, di questa mi ricordo,” ci tenne a dire, avendo individuato l'unica cosa che gli era familiare: una bilancia dall'aspetto piuttosto antiquato. “Il signor Pavlov ne usava una durante le lezioni di scienze, alle elementari.”

“Barton, ho bisogno di luce,” Bruce – che l'aveva bellamente ignorato – lo esortò ad avvicinarsi. Clint gli fu subito di fianco, sfoderando una delle due torce elettriche che aveva con sé.

“Ne ho un'altra.”

“No, devo avere entrambe le mani libere.” Ne prese atto, seguendolo passo passo mentre scartabellava fascicoli e documenti, apriva armadietti, vetrinette, cassetti, tutto quello che gli capitava a tiro. “Questo,” gliene schiaffò in mano uno, e poi un altro e prima che potesse rendersene conto era sobbarcato.

“Ehi, doc,” lo richiamò, indicandogli una valigetta abbandonata su uno dei tanti banconi, “là sopra c'è lo stesso simbolo dei documenti.” Una specie di cubo dall'aria piuttosto banale, se doveva dirla tutta.

Bruce si illuminò, avventandocisi sopra come un assetato che ha appena trovato un'oasi nel deserto.

“Abbia... ato... ig,” doveva esserci una qualche interferenza, perché le parole di Steve lo raggiunsero solo frammentariamente.

“Ripeti, Rogers,” lo invitò.

“... mo trova... Sel...”

“Sono sotto terra,” la comunicazione con Natasha era invece chiara e limpida. “Il segnale non è altrettanto forte.”

“Credo abbiano trovato Selvig,” interloquì Clint, sperando solo che fossero davvero a buon punto.

“Bar... no... ato... allar...” Per quanto volesse rimanere positivo, quegli spezzoni suonavano inquietantemente simili a un: Barton, hanno dato l'allarme.

“Merda,” l'imprecazione della donna, che doveva essere arrivata alla sua medesima conclusione.

“A che punto siete?” Chiese con urgenza.

“Stark sta finendo di hackerare il loro database. Voi?”

“Banner ha trovato quello che ci serve.”

Un'esplosione improvvisa pose fine a quel breve scambio: le finestre andarono in mille pezzi e un lungo, basso fischio gli riempì l'unico orecchio buono. Non... di nuovo. Cazzo!

“Bruce!” Si rimise in piedi, chiamando il dottore nonostante non riuscisse neppure a sentire il suono della propria voce. Lo afferrò sotto le ascelle aiutandolo a rimettersi dritto dopo aver tolto di mezzo la stufetta a gas che gli era rovinata addosso: la forza della deflagrazione gli aveva fatto perdere l'equilibrio, spazzando via i pochi oggetti sparsi sui tavoli tutt'attorno. “Dobbiamo andare!” Gli gridò in faccia, sperando che fosse capace di decifrare il movimento frenetico delle sue labbra. “Prendi tutto quello che ci serve!”

Si assicurò che Banner avesse capito, vedendolo annuire un paio di volte prima di recuperare la valigetta a cui era ancora aggrappato e almeno tre dei fascicoli che Clint aveva lasciato cadere a terra nell'esplosione. Dopodiché lo vide armeggiare con quella che pareva una bombola di...

“Propano?” Domandò confuso, mentre Bruce continuava a blaterare di cose che non riusciva a distinguere.

Vaffanculo ai sordi, vaffanculo alle bombe e vaffanculo a Nick Fury!

Gli bastò guardarlo mentre ne apriva la manopola, però, per capire cos'è che avesse intenzione di fare. Lo assecondò senza neanche rifletterci: tirò fuori una bombola gemella e imitò le sue mosse, afferrando poi l'accendino che Banner aveva recuperato da chissà dove e che adesso gli stava porgendo, scattando poi immediatamente verso la porta.

Clint se lo rigirò tra le mani per un misero istante: ma che cazzo ne sapeva lui? Lo scienziato era Bruce e Bruce aveva deciso di darsi alla piromania notturna, quindi al diavolo! Ravvivò la fiamma dell'accendino scagliandolo sul fondo della stanza prima di lanciarsi in una folle corsa attraverso il corridoio: il turbine di fuoco della deflagrazione li inseguì fino a quando non ebbero imboccato le scale per il piano terra.

Percorsi tutti quegli incroci tutti uguali, come in un fottuto labirinto, Clint fu il primo ad uscire all'aria aperta, l'arco imbracciato e la sirena dell'allarme a tormentare quel suo unico orecchio funzionante.

Oh... merda.



__________________________________________

Note:
E alla fine arriva anche un po' d'azione con tutti i problemi del caso. Spero non sia risultato *troppo* caotico (c'è qualcosa di più complicato da descrivere di una scena d'azione? Non credo XD). Invece mi sono divertita tantissimo a scrivere il pezzo di Tony che distribuisci giocattolini in giro (giusto per non farci mancare nessun cliché dei film spionistici!).
Ringraziamenti di rito alla sclerobetasocia Eli e a tutti coloro che leggono, leggono & commentano, ecc. Mi fa sempre piacere :)
Buon weekend e al prossimo aggiornamento!
S.

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Capitolo 18
*** 18/20 ***


- Capitolo 18 -

 

 

 

Mentre la sirena dell'allarme si perdeva nell'aria gelida della notte artica, Natasha guadagnò la copertura offerta dall'edificio D, schiacciandosi alla parete un attimo prima che le guardie appena sopraggiunte non cominciassero a far fuoco.

Si obbligò a controllare il respiro, assicurandosi di avere abbastanza munizioni mentre faceva scorrere lo sguardo sui tre che le stavano attorno: fatta eccezione per Bruce, improvvisamente impallidito, sembravano stare tutti bene. I due gruppi si erano riuniti all'esterno subito dopo l'esplosione che aveva scosso il cielo immobile. Sapeva che, se non si fossero messi in salvo al più presto, non sarebbero scampati ad un'imminente visita dell'Altro.

“Rogers, Odinson,” chiamò, riuscendo a malapena a sentire la propria voce, sovrastata com'era dal rumore degli spari e dal lungo fischio che ancora le riempiva le orecchie. “Mi ricevete?”

“Non funziona,” decretò concitatamente Clint, voltandosi verso di lei prima che l'ennesima raffica di spari non arrivasse a cancellare ogni altro suono. Lo vide alzare lo sguardo sul tetto del blocco dietro cui si trovavano e rivolgerle furiosi cenni in quella direzione: non ci mise molto ad intuire che intenzioni avesse.

“Vai!” Lo esortò annuendo più e più volte. L'arciere indietreggiò di qualche passo, selezionò una freccia precisa dall'assortimento che Stark gli aveva fornito e la scoccò verso l'alto: un attimo dopo Clint, appeso ad un cavo sottile, stava scalando la facciata.

“Mi dispiace dover fare il guastafeste, ma dobbiamo andarcene!” Esclamò Tony, parandolesi davanti con un'espressione preoccupata.

Se niente era cambiato, gli alleati dell'ex SHIELD che li avevano portati fino a Point Hope li stavano ancora aspettando a tre miglia di distanza dal complesso: il problema, adesso, era attraversare il centro della struttura in direzione di almeno uno dei tre varchi che ciascun gruppo si era aperto nella recinzione che ne seguiva il perimetro. Clint avrebbe potuto coprirli fin tanto che avesse avuto frecce e proiettili a disposizione, ma la traversata sarebbe stata complicata in ogni caso.

Sollevò lo sguardo per accorgersi che l'arciere era sparito oltre il ciglio del tetto.

“Sono in posizione,” le annunciò un attimo dopo, il tono straordinariamente calmo e pacato per una situazione tanto orribile. “Sono almeno in venti.”

“Hanno tirato tutto lo staff giù dal letto,” esalò in risposta, facendo cenno a Tony di restare indietro mentre si affacciava all'angolo dell'edificio. Approfittò di una tregua improvvisa per sporgersi al di là del muro e farsi un'idea – per quanto vaga – delle forze attualmente in gioco.

“Diciotto,” si corresse Clint. “Diciassette.” Le guardie gridavano e intensificavano la sventagliata di colpi tutte le volte che l'arciere ne atterrava una.

“L'unica possibilità che abbiamo è correre tra i blocchi B ed A,” tornò a rivolgersi ai due che aspettavano alle sue spalle, “se restiamo qua dietro rischiamo di rimanere in trappola.” Senza contare che gli uomini che li tenevano sotto tiro avevano probabilmente chiamato rinforzi che minacciavano di arrivare da un momento all'altro; certo, stanziare la base per i propri loschi esperimenti nel bel mezzo del niente garantiva una privacy pressoché assoluta, ma aveva anche i suoi contro: tempo e difficoltà ad essere raggiunta in primis.

“Ci ridurranno a un dannato colabrodo!” Protestò Stark senza abbandonare il suo posto al fianco di Bruce, il cui respiro pareva accelerare con ogni secondo che passava. A pensarci meglio, una visita dell'Altro, in quelle precise circostanze, non le sarebbe dispiaciuta così tanto.

“Vi copro io, ma voi dovete muovervi,” spiegò rapidamente. “Arrivate almeno fino all'edificio B, nascondetevi là dietro e aspettatemi, va bene?”

“Datevi una mossa,” di nuovo la voce di Clint. “Questi figli di puttana spuntano fuori come fottutissimi funghi!”

“Quanti?” Chiese conferma.

“Almeno un'altra decina,” la informò. “Per adesso.”

Natasha fu di nuovo su Bruce e Tony, assicurandosi che fossero abbastanza lucidi per sopportare la traversata. Prese la valigetta che Banner teneva ancora stritolata tra le braccia, esortando Stark a farsi carico dei documenti che il dottore doveva aver recuperato nei laboratori neanche qualche minuto prima che i loro due gruppi si riunissero.

“Statemi dietro.” Attese solo un breve, incerto cenno d'assenso da parte di entrambi; dopodiché aspettò che l'ennesima raffica di proiettili si fosse placata prima di gettarsi oltre l'angolo dell'edificio, puntare l'arma dritta davanti a sé e fare ripetutamente fuoco, atterrando una guardia dopo l'altra. “Muovetevi!” Ringhiò, mentre gli uomini davanti a lei si accasciavano a terra, colpiti da fuoco nemico, amico, frecce o... uno scudo.

“Rogers e Odinson!” L'esclamazione trionfante di Clint le risuonò nelle orecchie un attimo dopo.

Ignorò la tenue sensazione di sollievo che la invase, circumnavigando l'edificio B dietro cui Banner e Stark la stavano già aspettando, il primo scosso da brividi incontrollabili, l'altro vistosamente turbato.

“Non resisterà per molto,” biascicò Tony, ogni traccia di insolenza prosciugatasi dal suo volto.

Natasha annuì, approfittando dell'improvviso momento di stallo per ricaricare l'arma, concentrandosi sugli spari che continuavano a riempire incessantemente l'aria, sovrastando a malapena l'assordante sirena dell'allarme.

“Selvig è con loro,” di nuovo l'arciere.

“Quanti uomini, Barton?”

“Non più di otto. Rogers e Odinson se ne stanno occupando.”

“Scendi di lì, ce ne andiamo!”

“Non aspettavo nient'altro.”

“ROMANOFF!” Non aveva neppure fatto in tempo a registrare l'urlo di Stark che dovette assecondare il suo istinto: si gettò di lato, evitando per un pelo che il colpo sparato da un cecchino appostato su uno degli edifici circostanti la raggiungesse alla testa.

“Dobbiamo andarcene!” Urlò di rimando, rimettendosi in piedi per spingere i due a muoversi in direzione del blocco A. Non attesero alcun via libera per uscire allo scoperto e attraversare forsennatamente la strada che separava i due edifici, riprendendo a far fuoco praticamente alla cieca.

“Nat!” Ancora la voce di Clint. “Nat, stai bene?”

“A posto,” esalò, il respiro corto e il cuore a batterle in petto come impazzito. Appena raggiunto l'edificio non avevano esitato a seguirne il perimetro per guadagnarne il retro: il varco aperto nella recinzione metallica, appena una decina di metri più oltre, si stagliò loro davanti con la promessa di una via di fuga.

“Cazzo.”

“Che è successo?” Ma l'arciere non stava più parlando con lei: in sottofondo e praticamente per miracolo, le parve di udire la voce di Rogers insieme ad una sconosciuta, che doveva appartenere al dottor Selvig. “Clint! Clint parlami!” Insisté, incapace di ignorare la morsa gelida che le aveva improvvisamente stretto lo stomaco.

“Non me ne vado senza quei prototipi!” Stabilì lo scienziato, la voce aspra e spaventata insieme.

“Non abbiamo tempo,” Rogers con la sua calma malamente ostentata.

“Merda, vado io! Dov-” L'ennesima raffica di spari sommerse la voce dell'arciere.

“Romanoff,” si sentì strattonare, “o ce ne andiamo o rischiamo di avere un'altra gatta da pelare.” Tony accennò rapidamente a Bruce, accasciato su se stesso in preda a spasmi improvvisi.

“Ci dirigiamo verso il punto di ritrovo,” annunciò nella trasmittente, affatto sicura che ci fosse ancora qualcuno in ascolto. “Stark, dammi una mano.”

Si sistemarono a ciascun lato del dottore, afferrandolo per le braccia da sotto le ascelle, scambiandosi poi una rapida occhiata.

“Forza, Ferrari,” Tony la esortò, “dacci il via.”

“Ricordami di prenderti a calci in culo quando siamo al sicuro, ah?” Prese un appunto mentale prima di scattare bruscamente in avanti, trascinando Banner e Stark con sé in direzione della recinzione. Riuscì ad atterrare senza problemi un paio di guardie che si pararono loro davanti, ma la deflagrazione di un ennesimo sparo li raggiunse dal lato opposto.

“M-Merda!” L'imprecazione di Tony le risuonò nell'orecchio nell'esatto momento in cui il peso di Bruce rischiò di farla inciampare e cadere: Stark era a terra, le mani al petto, il terrore negli occhi, i fascicoli sparsi tutt'attorno sul terreno fangoso.

Natasha ignorò a malapena il battito impazzito del proprio cuore, sparando e colpendo alla testa la guardia che aveva fatto fuoco neanche un istante prima, mettendone KO altre tre prima che il clic del grilletto che scattava a vuoto non arrivò ad annunciarle che dovevano davvero andarsene al più presto.

“Cazzo,” tornò su Tony che si stava stracciando la maglietta termica a rivelare il giubbotto anti-proiettile nel quale il colpo era andato a conficcarsi proprio in prossimità del cuore. “P-Per un attimo h-ho temuto che sarei stato c-costretto a s-sopravvivere con una b-batteria a pile!” Esclamò allucinato, arrancando per rimettersi in piedi e raccogliere alla meno peggio i documenti che aveva lasciato cadere.

“Datti una mossa, Stark!” Gli gridò contro, sperando di obbligarlo ad aggrapparsi a quell'ultimo briciolo di lucidità: l'uscita dal perimetro del complesso era proprio lì... a pochissimi passi di distanza.

Macinarono velocemente quegli ultimi metri, aiutando Bruce ad attraversare il varco. Natasha non ebbe neppure il tempo di pensare a cosa fosse necessario fare (aspettare gli altri? Correre alla macchina? Tornare indietro?) che l'ennesimo boato si propagò nell'aria, costringendoli a voltarsi verso il punto da cui erano appena venuti.

“Romanoff! Romanoff, dobbiamo andarcene!” La voce di Tony si impose alla sua attenzione, costringendola a prendere freddamente in considerazione ogni possibilità e, per quanto – per motivi che ancora le apparivano oscuri – avesse voluto trovare una soluzione alternativa, sapeva che l'unica cosa da fare era percorrere quelle tre miglia che li separavano dal punto di ritrovo e augurarsi che gli altri fossero perfettamente in grado di badare a se stessi. E doveva essere così, no? Per quale altra ragione erano stati scelti dall'ex SHIELD se non potevano cavarsela da soli?

“Romanoff,” Stark non esitò ad insistere. “Dobbiamo andarcene,” ribadì più seriamente di quanto Natasha gli avesse mai visto fare.

Inspirò ed espirò un paio di volte prima di decidersi ad annuire, riafferrare Bruce per un braccio, stringere la valigetta recuperata dai laboratori in una mano, la pistola scarica nell'altra e cominciare a camminare.

 

*

 

5 ore dopo

Cordova, Alaska

 

“Come sta?” La sua voce si perse tra le pareti grigie e spoglie dell'infermeria del quartier generale dell'ex SHIELD, facendo sì che Tony – seduto accanto al letto del dottor Banner – si voltasse verso di lei, i segni della stanchezza ben visibili sul viso stravolto.

“Stando al tizio che l'ha curato, avrebbe fatto meglio a dare di matto,” decretò Stark con una leggera scrollata di spalle. “Gli hanno dovuto somministrare un sedativo,” aggiunse, “ma si rimetterà.”

Il che era molto più di quanto si potesse dire dell'altra metà del gruppo: Natasha, Bruce e Tony erano riusciti a raggiungere gli uomini che li stavano aspettando, come pattuito, a tre miglia di distanza da Point Hope; a quel punto non avevano potuto far altro che cedere alle insistenze di chi voleva trasportarli immediatamente in direzione di Noalak, dove si trovavano gli elicotteri che avrebbero dovuto riportarli a Cordova. La scelta razionale era stata quella di assecondarli: quale che fosse la sorte toccata a Thor, Steve e Clint, mettere a repentaglio l'incolumità dell'intera squadra per una sorta di inutile solidarietà sarebbe stato stupido. Si erano quindi lasciati alle spalle una delle due auto-slitte prima, uno degli elicotteri poi, sperando che il resto della squadra li avrebbe raggiunti al più presto... neanche gli alleati dell'ex SHIELD avrebbero potuto attardarsi per sempre.

Il viaggio fino alla centrale di Stark e poi la discesa nella viscere della terra fino alla base del colonnello Fury si era protratto nel tempo come un sogno, impedendole di rendersi del tutto conto di cosa fosse successo davvero. Solo quando aveva realizzato di essere finalmente al sicuro, si era ricordata perché avessero accettato quel folle incarico, delle informazioni che il defunto SHIELD aveva loro promesso. Si era sorpresa ad accorgersi di quanto poco le interessassero: l'irrazionale speranza che conoscere il suo passato l'avrebbe aiutata a capire il suo presente, le era improvvisamente apparsa stupida. Infondata.

“Saranno qui a breve,” Stark era tornato a guardarla, di nuovo quell'espressione seria e contrita, “sanno come cavarsela.”

Natasha si limitò ad annuire un attimo prima che Phil Coulson non facesse capolino oltre la porta dell'infermeria, lanciando loro un'occhiata indecifrabile.

“Sono tornati,” disse soltanto, dandole la sfuggevole impressione che si fosse soffermato in particolar modo su di lei. Non le concesse il tempo di chiedere o aggiungere alcunché che si era già dileguato senza una parola di più, acuendo quella sensazione di catastrofe imminente che l'aveva tormentata durante tutto il viaggio di ritorno.

Ignorò i richiami di Stark, inseguendo Coulson senza pensarci un secondo di più: scansò i pochi agenti che, riuniti in gruppetti o in solitaria, percorrevano i corridoi in quelle prime ore del mattino. Si arrestò soltanto quando ebbe raggiunto l'anticamera alla quale si accedeva tramite l'ingresso principale della base (niente a che vedere con la bizzarra botola che avevano trovato nello sgabuzzino della centrale): tutta l'attività del quartier generale sembrava concentrarsi proprio lì. Maria Hill sbraitava ordini a chiunque osasse incrociare il suo sguardo, un paio di infermieri stavano portando via quello che Natasha riconobbe come il dottor Selvig, un altro si stava preoccupando della vistosa ferita alla tempia sfoggiata da Thor, mentre Rogers era impegnato in una fitta conversazione con il colonnello Fury. Poco distante, una valigetta ammaccata molto simile a quella che lei stessa aveva trasportato per gran parte del tragitto di ritorno giaceva incustodita nel bel mezzo della stanza, là dove uno dei tre doveva averla lasciata.

Serrò le labbra, ostinandosi a guardarsi attorno alla ricerca di quell'unica persona che sembrava attualmente mancare all'appello: ma per quanto guardasse, per quanto si spostasse da un capannello di agenti all'altro, di Clint non c'era nemmeno l'ombra.

Aprì e serrò i pugni, ritrovandosi bloccata sul posto, la gola stretta da un nodo fastidioso: ed eccola quella sgradevole sensazione allo stomaco che cominciava a concretizzarsi, a prendere forma. L'occhiata grave e severa che Steve le lanciò al di sopra delle spalle di Fury, non fece altro che confermare ciò che già sospettava: Clint era rimasto indietro. Restò immobile a ricambiare il suo sguardo finché il capitano non riuscì a liberarsi del colonnello e a muoversi nella sua direzione con un'espressione che non prometteva proprio niente di buono.

“Ehi,” fu Rogers ad esordire, mentre Natasha intrecciava le braccia al petto ed esibiva la miglior facciata di disinteresse che fu capace di edificare in quel preciso istante.

“Dov'è Barton?” Gli chiese, mascherando a malapena l'urgenza che quell'interrogativo le procurava.

“Lui...,” Steve parve esitare.

“Rogers,” lo richiamò freddamente all'attenzione. “Dov'è Barton?” Ripeté, indurendo i tratti del volto: non aveva alcuna intenzione di facilitargli in alcun modo la cosa.

“Selvig ha parlato di alcuni prototipi senza i quali non avrebbe accettato di seguirci,” mormorò Steve, ignorando l'astio che – ne era sicura – doveva trasparire da ogni singolo centimetro del suo volto.

“Questo lo so,” puntualizzò, maltrattenendo l'irritazione.

“Barton si è offerto di andarli a prendere,” dichiarò l'altro, abbassando un poco la voce.

“Ma lui e Banner erano già stati nei laboratori,” non poté fare a meno di ribattere. Aggrappandosi a quel poco di lucidità che gli rimaneva, Bruce le aveva raccontato dell'incendio che lui e Clint avevano scatenato nel blocco C del complesso, nella speranza – così le aveva detto – di cancellare qualsiasi progresso la ricerca di Selvig avesse fatto per conto dell'HYDRA: se avessero voluto salvare il salvabile, avrebbero avuto bisogno di più tempo. Quello, aveva specificato il dottor Banner, era quanto di meglio avessero potuto fare prima che l'esplosione arrivasse a costringerli a fuggire il più rapidamente possibile.

“Non era lì che si trovavano, ma nel quinto edificio... quello di massima sicurezza,” replicò debolmente Steve. “Selvig gli ha fornito il codice d'accesso...,” fece una breve pausa, umettandosi lentamente le labbra.

Un dolore sordo all'altezza del petto era tutto ciò che le ricordava che non stava affatto sognando, che quella conversazione era realmente in corso e che non avrebbe potuto fare proprio niente per evitarlo.

“Siamo rimasti ad aspettarlo, ma le guardie continuavano ad aumentare e le munizioni stavano finendo,” riprese il capitano. “Proprio mentre stavamo per decidere di andarcene, Barton ci ha richiamati... e lanciato la valigetta,” gliela indicò con un cenno del capo, “da una delle finestre. Stava per saltare... raggiungerci,” scosse il capo. “Ma c'è stata un'altra esplosione... credo che il complesso fosse progettato per auto-distruggersi in caso di pericolo. E' quello che è successo al blocco B, quando siamo entrati per prelevare Selvig.”

Se per qualcuno l'esitazione di Rogers avrebbe potuto risultare solidale, tutto quello che Natasha avrebbe voluto fare in quel preciso momento era prenderlo a pugni finché non avesse esaurito anche la più piccola briciola di energia che le rimaneva. Serrò le labbra concentrandosi solo sui fatti, sforzandosi di rimanere lucida e presente, più che determinata a non concedere il benché minimo spazio all'incertezza o alla paranoia.

“L'avete visto cadere?” Gli domandò freddamente, serrando la presa sulle proprie braccia.

“No, ma-”

“Rogers,” esalò in un soffio gelido, “l'avete visto cadere?”

Era una domanda semplice: l'avevano visto morire con i propri occhi oppure si erano lasciati vincere dall'istinto di sopravvivenza decidendo di fuggire il più lontano possibile? Se l'avevano dato per spacciato senza accertarsi che fosse effettivamente morto, allora l'eventualità che Clint fosse riuscito a mettersi in salvo sussisteva.

“L'edificio è esploso, Natasha,” sussurrò lui, tentando forse di suonare ragionevole, ottenendo, però, solo di farla arrabbiare di più.

“Non usare quel tono paternalistico con me,” rispose pacatamente, sentendosi pericolosamente arrivata al limite. “L'avete visto cadere?”

Rogers restò a guardarla per un lunghissimo attimo, evidentemente indeciso sul da farsi: Natasha lo vide deglutire a vuoto, poi passarsi una mano sul volto macchiato di polvere e fumo. Dopodiché, con un vago sospiro, il capitano scosse il capo in segno di diniego.

Quindi non l'avevano visto morire: l'esplosione li aveva semplicemente spinti a darlo per morto, ma Clint... Clint poteva ancora essere vivo. Gli ingranaggi del suo cervello parvero rimettersi in moto tutti insieme, mentre si obbligava ad entrare in modalità emergenza, a sgombrare la mente da qualsiasi nozione o sentimento non le tornasse utile per concentrarsi solo ed esclusivamente sui fatti.

Gli scoccò un'occhiata carica di disgusto, dandogli le spalle per allontanarsi a passo di marcia in direzione dell'area dormitorio. Scansò le poche persone che incontrò sul proprio cammino e ignorò le proteste di chi urtò bruscamente nella foga di raggiungere la propria stanza. Aveva già formulato una lista di cose da fare e aveva ogni intenzione di cancellare sistematicamente, una ad una, tutte le voci che la componevano.

Spalancò la porta della sua camera, afferrando lo zaino che conteneva tutti i suoi pochi effetti personali; si spogliò degli abiti più comodi che aveva indossato al suo arrivo alla base, dopo la doccia che si era concessa, rinfilandosi la tuta che l'ex SHIELD le aveva fornito, ignorandone l'assoluta scomodità o il fatto che si era graffiata e stracciata in più punti.

Uscì subito dopo, diretta, stavolta, ai laboratori del livello inferiore: se davvero voleva recuperare Clint avrebbe avuto bisogno di tutta l'artiglieria su cui poteva mettere le mani. Le possibilità erano tre: o l'arciere era riuscito a fuggire e attualmente si trovava disperso tra i ghiacci del circolo polare artico; oppure era sopravvissuto e stato fatto prigioniero dall'HYDRA; al terzo scenario... Natasha non volle proprio pensare.

Fece irruzione nel laboratorio dove un uomo e due donne in camice bianco erano attualmente impegnati ciascuno alla propria postazione; fece finta di niente, aprendo tutti gli armadietti e i cassetti che riuscì ad individuare, trattenendosi a malapena dal distruggere tutto ciò che non le serviva.

“Dove sono le armi?” Chiese seccamente quando le fu chiaro che non sarebbe riuscita a trovare proprio niente di utile. I tre, che l'avevano osservata inebetiti fino a quel momento, si scambiarono rapidi sguardi turbati; non osarono aprire bocca. “Ho detto,” ripeté, estraendo la pistola scarica di cui disponeva (ma loro non potevano saperlo, no?) per puntarla loro contro, “dove sono le armi?”

Li vide alzare le mani a mo' di resa: una delle donne indietreggiò istintivamente fino a schiacciarsi in un angolo del laboratorio; l'uomo si era già gettato a terra invocando pietà. Solo la seconda donna parve essere abbastanza lucida da prestarle ancora un minimo d'attenzione.

“Nell'armeria,” decretò con voce tremante.

“Dov'è l'armeria?”

“Al livello 3.”

“A che livello siamo adesso?”

“Livello 5... p-per... per f-favore...”

Natasha non rimase ad ascoltare quel che restava della frase, uscendo dalla stanza in direzione del livello 3. Possibile che non si fosse neppure accorta dell'organizzazione di quel posto? Possibile ci fosse un'armeria di cui Fury non aveva parlato? Intercettò un ragazzo che solo poi avrebbe riconosciuto come Greg che aveva servito loro il caffè durante la prima riunione al quartier generale dell'ex SHIELD, bloccandolo con una mano nel bel mezzo dell'ennesimo corridoio.

“Come faccio a salire fino al livello 3?” Domandò con urgenza, ma quello pareva troppo preso dalla pistola che – se n'era dimenticata – stava ancora impugnando. Si vide costretta a puntargliela contro, aggiungendoci un'occhiata fulminante per giusta misura. “Come faccio a raggiungere il livello 3?”

“C-Ci s-sono le scale... d-da... da quella parte,” le indicò un punto qualsiasi alle sue spalle.

“Accompagnami,” lo esortò a farle strada, sospingendolo malamente in avanti. Camminarono per un misero paio di minuti, senza incontrare nessuno, finché Greg non si fermò a davanti ad una doppia porta, indicandogliela con una mano tremante.

“D-Da qui si arriva o-ovunque,” le spiegò debolmente.

Natasha si limitò a strattonarlo all'indietro, senza degnarlo neppure di uno sguardo prima di aprire la porta e ricomparire in uno stretto vano dove l'aria era umida e pesante. Una rampa di scale saliva, un'altra scendeva. Imboccò la prima, macinando un gradino dopo l'altro; passò davanti alla doppia porta che segnalava l'accesso al livello 4, continuando a muoversi finché non ebbe raggiunto la successiva, identica ma con un grosso 3 tracciato in vernice sulla parete. Vi si addossò contro, spalancandola per immettersi nell'ennesimo corridoio uguale a mille altri che aveva già visto e percorso. Dovette ricordarsi della posta in gioco, che per niente al mondo si sarebbe potuta concedere la benché minima esitazione; dopodiché riprese a procedere ad ampi passi, curandosi di celare la pistola alla vista degli sporadici agenti che intercettò sul proprio cammino.

Solo quando individuò il colonnello Fury fermo davanti ad una grossa porta blindata, ebbe la certezza di essere nel posto giusto. L'uomo si voltò verso di lei, le mani congiunte dietro la schiena e un'espressione di pura irritazione a corrugargli l'espressione. Qualcosa le suggerì che la stava aspettando.

“Mi hanno detto che sta terrorizzando i miei uomini,” sibilò quello, senza esitare a guardarla dritta negli occhi.

“Si tolga di mezzo,” gli intimò, eliminando almeno un paio di metri dalla distanza che li separava.

“Oppure cosa? Mi minaccerà con una pistola scarica?”

Natasha assottigliò lo sguardo mentre rabbia e nervosismo le contraevano i muscoli. Se le circostanze fossero state diverse, forse, un uomo come Fury sarebbe tranquillamente riuscito a guadagnarsi la sua stima e il suo rispetto: ma in quel momento, tutto ciò a cui riusciva a pensare era uscire di lì con i mezzi più adatti alla folle missione che si era prefissata.

“Non ho bisogno di un'arma per essere pericolosa,” decretò semplicemente, gettando a terra la pistola senza interrompere il contatto visivo col colonnello.

“Perché crede che l'abbiamo portata sin qui, signorina Romanoff?” Replicò l'altro, rivolgendole un'occhiata a metà tra il seccato e l'annoiato.

“Le consiglio di lasciarmi passare,” gli intimò, scatenandogli una sgradevole risata che non fece altro che agitarla di più.

“Non è lei a dettare le regole qua sotto.”

“E' stato lei a portarmi fin qui,” gli rammentò in tono odioso, “forse avrebbe dovuto pensarci due volte.”

“Oh, mi sono sufficientemente interrogato sulla ragionevolezza del mio proposito, signorina Romanoff.” Il modo in cui continuava a pronunciare il suo nome rischiava di farla uscire di testa.

“Andrò a recuperare Barton a mani nude se sarà necessario.”

“Per quanto le sue abilità mi sorprendano, dubito che riuscirà a mettere fuoriuso l'HYDRA in queste condizioni.”

“L'HYDRA,” si ritrovò a ripetere, come per assicurarsi di aver capito bene. La sensazione che Fury sapesse molto più di quanto lasciasse intravedere diventò improvvisamente una certezza: Clint era vivo.

“Allora mi faccia prendere almeno un paio di pistole, munizioni...”

“Non posso sprecare le nostre risorse per recuperare un solo uomo, signorina Romanoff.”

“E' stato lei a portare quel solo uomo fin qui, ricorda?”

“Il signor Barton era perfettamente consapevole dei rischi che stava correndo.”

“Sul serio?” La voce le uscì più acuta e furiosa di quanto avrebbe voluto. “L'avete ricattato con informazioni sul fratello che ha creduto morto fino ad ora,” sibilò, stringendo i pugni fino a farsi male. “Che si aspettava che facesse? Che rifiutasse l'offerta?”

“Continuo a non cap-”

“La situazione è piuttosto semplice, signor Fury,” lo interruppe, calcando sull'appellativo per sottolineare quanto esattamente detestasse il modo in cui le si rivolgeva. “O lei mi fa uscire di qui con tutto l'armamentario del caso, oppure le renderò la vita un inferno.”

“Cosa le fa credere che riuscirà ad eludere la nostra sorveglianza?”

“Lei mi ha reclutato,” gli rammentò, “lei sa di che cosa sono capace. Me lo dica lei se sarò in grado di eludere la vostra sorveglianza.”

“Non ha la più pallida idea del motivo per cui è finita nel nostro radar.” Il tono e lo sguardo del colonnello sembravano essere appena impercettibilmente mutati.

“Sembrate saper tutto di noi,” si ostinò ad apparire sfacciata e sicura di sé, ad ignorare il seme del dubbio che cominciava a fiorirle in petto.

“La figlia di Drakov, l'ospedale di San Paolo... tutti gli attentati che ha messo a segno negli ultimi due anni...,” proseguì l'uomo, avanzando di un paio di passi nella sua direzione; fu necessario tutto il suo autocontrollo per convincersi a non indietreggiare di rimando. “Ivan Petrovich prendeva ordini dall'HYDRA.”

Natasha sentì il cuore perdere un battito, lo stomaco contrarsi fastidiosamente. Se gli incarichi che suo padre le aveva presentato venivano dall'HYDRA, allora significava che tutte le persone che aveva ucciso... le aveva eliminate per conto di quelle stesse persone che tenevano attualmente in ostaggio Clint.

“Non è vero,” sibilò in risposta.

“Oh, può ignorare la verità quanto le pare,” replicò Fury, fissandola, “ma non la cambierà minimamente. L'unico motivo per cui l'abbiamo contattata è perché volevamo toglierla di mezzo, signorina Romanoff.”

“Perché non l'avete fatto?” Si ritrovò a chiedere, facendo un'immensa fatica a mantenere il tono di voce fermo e distaccato.

“Perché ha tentato di uccidere suo padre... e ha insistito per arrivare fin qui. Ben più di quanto ci aspettassimo.”

“Tentato...,” qualcosa di molto simile al terrore cieco si fece strada dentro di lei senza alcun preavviso. Il cuore riprese a battere più rapidamente, mentre una sensazione che era rimasta sopita fino a quell'istante si palesò in tutto il suo sgradevole tumulto.

“Non è rimasta a guardarlo morire, non è così?”

Una delle prime regole che Ivan le aveva insegnato quando le missioni che le affidava si erano fatte improvvisamente più delicate, era quella di controllare che le sue vittime designate fossero effettivamente morte prima di allontanarsi dal luogo del delitto. Ma la chiesa in cui l'aveva accoltellato era un luogo troppo scoperto per permetterle di trattenersi sufficientemente a lungo. Ricordava il rumore che aveva sentito alle proprie spalle, la paura di essere catturata, l'urgenza fisica che aveva provato di allontanarsi il più rapidamente possibile dall'uomo che aveva meticolosamente pilotato ogni singolo attimo della sua vita.

“N-Non può...”

“Ivan Petrovich è ancora vivo.”

Il gelo le riempì lo stomaco, togliendole bruscamente il respiro. Una forza sconosciuta, un turbine oscuro rischiava di trascinarla giù con sé, farle perdere la lucidità, il senno... ma nel panico che minacciava di soverchiarla, fu il ricordo di quello che avrebbe dovuto fare a tenerla – seppure a stento – con i piedi per terra.

“N-Non mi interessa,” biascicò inudibile. “Devo ritrovare Barton.”

“Barton è spacciato.”

“Le ho detto,” si fece avanti, scacciando furiosamente l'incertezza, “che devo ritrovare Barton.”

“Ha ragione,” la voce di Steve la raggiunse alle proprie spalle. Doveva essersi lasciata distrarre a tal punto dalle rivelazioni di Fury da non aver sentito i passi in avvicinamento del capitano. “La lasci passare, colonnello.”

“Capitano Rogers,” lo apostrofò gelidamente l'uomo, “da lei mi aspetto maggiore ragionevolezza.”

“Barton è uno della squadra,” replicò l'altro mentre l'affiancava, “io non lascio indietro nessuno.” Natasha intuì a malapena il disappunto che si era disegnato sul volto di Steve: aveva dato Clint per morto e, adesso, si era appena reso conto dell'informazione che il colonnello gli aveva tenuto all'oscuro.

Fury fece scorrere alternativamente lo sguardo prima sull'una e poi sull'altro, a più riprese.

“Siete da soli,” li avvertì scontrosamente, “nessun piano d'estrazione, niente di niente. Riceverete in dotazione due pistole ciascuno e nient'altro.”

“Saranno sufficienti,” decretò Natasha, la consapevolezza di aver finalmente fatto breccia nella corazza del colonnello. L'uomo aprì loro la porta blindata dell'armeria per poi accennare ad allontanarsi... ed esitare; lo videro cercare qualcosa nella tasca della felpa scura che indossava, per poi lanciarlo nella loro direzione.

“Se non vi date una mossa lo porteranno fuori dallo stato,” fu l'ultimo, incomprensibile suggerimento che si concesse prima di dar loro le spalle e andarsene.

Solo allora Natasha abbassò lo sguardo sull'oggetto che aveva recuperato al volo, istintivamente: sul piccolo display che mostrava quella che riconobbe come una mappa dell'Alaska, brillava un puntino rosso in un lento, impercettibile movimento verso est.

“Sembra un rilevatore di posizione,” mormorò Steve. “Dov'è diretto?”

“Anchorage,” rispose a mezza voce. “Abbiamo meno di tre ore per intercettarli.”

Rogers l'aggirò per poterla fronteggiare, un'espressione concentrata sul volto.

“Le faremo bastare.”

 

 

__________________________________________

Note:
Non potevo proprio non rivisitare l'evento di The Avengers che ha iniziato tutta la follia clintashosa, quindi Clint è nei guai (scusa Clint!). Intanto si fanno rivelazioni sul conto di Natasha (che qualcuno di voi aveva ben intuito!) e ci si avvicina alla fine. Due capitoli to go!
Oltre a questo vorrei ringraziare la mia sclerobetasocia Eli e tuuuuuuuuutti voi che mi avete letta/recensita in questo 2014 da ritorno di fiamma con le fanfiction, per essere arrivati fin qui :') come sempre, mi fa un sacco piacere! Vi auguro un fantastico 2015, che sia sereno e tranquillo e che Avengers: Age of Ultron non infranga tutti i miei sogni di gloria con qualche bruttura che non voglio nemmeno nominare (non potevo esimermi, scusate XD) e non faccia schifo in generale. Amen.
Un bacione e ancora tanti auguri per il nuovo anno!
Alla prossima!
S.

 

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Capitolo 19
*** 19/20 ***


- Capitolo 19 -

 

 

 

“Oh, andiamo amico... te lo sto chiedendo per favore. Dov'è che stiamo and-”

Il quarto o quinto cazzotto del viaggio gli impedì di completare la frase, permettendo però al dolore di riverberarglisi in onde concentriche un po' per tutto il corpo.

Non che ce ne fosse bisogno: era già abbastanza miracoloso che fosse uscito (più o meno) incolume dall'esplosione di quel maledetto edificio, ma gli amabili membri dell'HYDRA che si erano tanto preoccupati della sua salute si erano anche assicurati che ne portasse i segni... evidenti.

Per quanto si sforzasse di sgombrare la mente e riflettere su ciò che era accaduto, Clint non ricordava granché degli eventi della nottata a Point Hope. Sapeva di aver gettato quella dannata valigetta dalla finestra, di aver incoccato la seconda e ultima freccia rampino di cui disponeva, di aver cercato un bersaglio che facesse al caso suo, di averla scoccata... rammentava vagamente il bizzarro mescolarsi dell'aria gelida con il calore insopportabile che l'aveva scaraventato all'esterno. Poi nient'altro.

Era piuttosto sicuro di essere riuscito a lanciarsi nel vuoto prima che il grosso dell'esplosione lo investisse; se poi la sua freccia fosse stata in grado di raggiungere un edificio circostante e concendergli una via di fuga che non includesse uno schianto col terreno, questo non lo ricordava. Si era accorto di non avere niente di rotto, fatta eccezione per un paio di costole incrinate, ma sospettava che avessero più che altro a che fare con il pessimo temperamento degli uomini dell'HYDRA, che non con una qualche caduta da svariati metri d'altezza.

Oh, quello ormai era assodato: quei gran figli di puttana non sembravano stancarsi di prenderlo a pugni. Si era risvegliato ammanettato ad un cazzo di palo nel bel mezzo del complesso, con la sirena dell'allarme a tormentargli l'unico orecchio buono (e neanche quello se la stava passando troppo bene) e fiamme accecanti ad alzarsi da almeno tre dei blocchi che componevano la struttura, uomini che si muovevano in ogni direzione lanciando ordini e imprecazioni, furgoni che venivano spostati, auto, jeep.

Non ci aveva messo molto a capire di essere stato lasciato indietro: non ne faceva una colpa a nessuno se non a se stesso. Davvero l'unica scelta che aveva avuto era stata quella di assecondare le folli richieste del dottor Selvig? Com'era riuscito quello straccio di scienziato invecchiato prima del tempo a convincerlo a compiere un'azione tanto stupida? Per dei prototipi di cui non avrebbe mai capito il funzionamento e di cui – in tutta sincerità – non gliene fregava proprio un cazzo... Quello che gli importava, il suo unico obbiettivo era stato quello di portare a termine la missione, raccogliere le informazioni che il colonnello Fury sembrava avere sul conto di Barney e andarsene in qualche oscuro, remoto angolo del globo a leccarsi le ferite in attesa di una brillante idea per rimettere in piedi quel che restava della sua vita.

Ma no. Selvig si era impuntato e Clint non aveva potuto far altro che cedere a quella stupida vocina che era tornata a farsi sentire dal giorno stesso in cui era entrato in quella dannata bettola di Florence, Arizona con l'intento di uccidere a sangue freddo una donna che neanche conosceva. Quella parte di lui che lo pungolava ogni santa volta affinché facesse la cosa giusta, quella che aveva imparato ad ignorare, a soffocare, a relegare in un luogo lontano da se stesso. La medesima che l'aveva messo nei guai più volte di quante avrebbe voluto ammettere. Perché sapeva che quella vocina era una gran puttana: ti mette nella merda, ti spinge a fare le cose più impensabili, ti fa andare così vicino a perdere tutto quanto, a rimetterci la pelle... ma nella sua esperienza, Clint ormai aveva capito che la sua coscienza (perché di quella si trattava, no?) aveva la pessima abitudine di dargli dipendenza. Perché sì, pensare sempre e solo a se stesso, prendere le decisioni semplici, quelle egoistiche, quelle che, sì, ti salvano il culo, ma poi col senso di colpa come la mettiamo? E' la via più facile da intraprendere, lì su due piedi, ma si fa ben presto irta e scomoda e spaventosa. Le scelte complicate invece, quelle giuste, lo facevano sempre finire nella merda... ma non si portavano dietro quel fastidioso groppo alla gola, o la gelida morsa che gli aveva stretto lo stomaco quasi incessantemente in quegli ultimi anni. Piuttosto una pace della coscienza.

Mentre il dolore di quell'ennesimo colpo si diradava lentamente, riducendosi ad un unico, sordo pulsare, Clint decise che – in fin dei conti – non si era pentito di essersi offerto volontario per recuperare quella stracazzo di valigetta. In questo modo l'unico a cui doveva rispondere in quel momento era proprio lui: non un accigliato colonnello Fury che gli chiedeva perché diavolo avesse lasciato indietro una parte così importante di quella missione; non un impallidito e ansante dottor Selvig trascinato via a forza perché le sue richieste non erano state ascoltate... no, l'unico di cui doveva tener conto al momento era se stesso. Quello era il solo scenario in cui una sua scelta non avrebbe fatto altro che mettere nella merda lui e nessun altro. Il che, per quanto assurdo suonasse, contando che era attualmente prigioniero di una manica di pazzi senza alcuno scrupolo, lo faceva sentire... bene.

“Cazzo, fermati!”

L'autista della jeep su cui avevano viaggiato in quell'ultimo paio d'ore aveva bruscamente arrestato il mezzo, imprecando a gran voce. Non che a Clint dispiacesse granché: se il viaggio in elicottero era stato stressante (tra cazzotti e continue promesse di defenestramento), quello sulla strada era stato persino peggio; tra asfalto dissestato e pessime abilità alla guida aveva rischiato di dare di stomaco almeno una decina di volta. E l'avrebbe persino fatto se non fosse stato piuttosto convinto che era tutta una complicata messinscena per dare ai quei gran figli di puttana una scusa qualunque per pestarlo a sangue... di nuovo.

“Che è successo?” La guardia che l'aveva sorvegliato (e preso a pugni) fino a quel momento si sporse verso i sedili anteriori.

Sebbene fosse legato mani e piedi e con una mobilità estremamente limitata, Clint riuscì ad intravedere un'auto abbandonata trasversalmente sulla carreggiata, la portiera del guidatore spalancata e...

“C'è una donna per terra,” biascicò il biondino seduto accanto al conducente.

“E a noi che cazzo ce ne frega?” Blaterò il suo carceriere, “togliamola di mezzo e andiamocene.”

“Sembra sia stata investita,” decretò l'autista, mentre – alle loro spalle – il clacson della seconda jeep, che faceva parte del convoglio punitivo che gli avevano affibbiato, arrivava ad assordarli. (Come se le sue povere orecchie non ne avessero già abbondantemente avuto abbastanza!)

“Secondo me è una puttana, guarda che ridicola pelliccia che ha addosso,” rise il biondo, beccandosi una violenta gomitata. “Che cazzo ho detto?”

“E' pieno giorno, non lo vedi?” L'uomo che lo stava sorvegliando si rivolse al collega con il tono di chi ne ha le palle piene. “Dobbiamo andarcene. Adesso. Va' a toglierla di mezzo, muoviti.”

Il sorriso che rischiava di affiorargli sul volto, mentre il biondino scendeva dalla jeep, minacciò di fargli dolere sia l'occhio tumefatto che il labbro spaccato: decise molto prudentemente di evitare. Quegli stupidi bestioni tendevano a perdere la pazienza per il minimo (presunto) affronto e – in tutta sincerità – si era già stufato di essere usato come un fottuto punching bag umano.

“Che cazzo guardi, ah?” Lo redarguì violentemente la sua guardia personale, premendogli il pugno chiuso sotto la mascella, proprio in quel dannato punto che continuava a fargli un male del diavolo.

“Dovresti proprio imparare a darti una calmata,” non riuscì ad impedirsi di dire, “un po' di yoga, magari, che ne dici? Dicono faccia mirac-”

Va bene, quel cazzotto se l'era proprio andato a cercare.

L'autista si era messo a ridere, voltandosi solo per un istante nella loro direzione prima di tornare a fronteggiare il parabrezza. Clint avvertì distintamente il brusco cambio d'atmosfera.

“Dov'è finito quello stronzo di Pete?” Domandò con una certa urgenza, attirando l'attenzione dell'uomo che gli sedeva di fianco. “E' sparita pure la puttana.”

Il fatto che per colpa delle sue pessime condizioni fisiche non potesse godersi lo spettacolo di quegli stupidi gorilla che si lasciavano fottere da una prostituta investita, bè... quello gli faceva girare un po' le palle.

“Forse la sta nascondendo da qualche parte,” Clint lo vide indicare la fitta vegetazione che costeggiava la strada su entrambi i lati, “tra gli alberi, no?”

“Dove cazzo la sta portando allora?” L'autista si sporse verso il sedile del passeggero come nel tentativo di individuare il collega. “Doveva solo toglierla di mezzo non portarla a fare una fottuta scampagnata nei boschi.”

“Lo sai com'è Pete... le starà facendo la respirazione bocca a bocca.” La guardia che lo stava sorvegliando proruppe in una risata fragorosa e sguaiata che – stavolta, almeno – non riuscì a contagiare il conducente.

“Non ridere, Neil,” lo redarguì seccamente, “c'è qualcosa che non va.”

“Oh, non rovinarci la festa, va bene? Siamo già abbastanza nella merda col capo senza che ti ci metta anche tu con le tue sensazioni da stronzo,” dette un violento colpo alla portiera, come per scaricare la rabbia (lui l'aveva detto che non era poi così normale), “vado a prenderlo così la smetti di tremare come una fottuta checca, ah?”

L'autista si voltò per scoccare a Neil un'occhiata fulminante, prima di soffermarsi su di lui con aria contrita... sembrava volesse in qualche modo accusarlo di quell'imprevisto.

“Non guardare me,” si giustificò mentre il suo carceriere scendeva giù dalla jeep facendo un ampio gesto in direzione dei colleghi del secondo veicolo, “mi avete legato come un salame.”

L'uomo si limitò a fissarlo ancora per qualche istante quando un grido strozzato li raggiunse, subito seguito da due colpi d'arma da fuoco. Clint inorridì, gettandosi sul sedile posteriore per nascondersi alla vista, ricominciando a strattonare i legacci che gli immobilizzavano mani e piedi: quale che fosse la situazione, non aveva alcuna intenzione di farsi ammazzare senza opporre la benché minima resistenza.

Le urla si intensificarono e così gli spari e i tonfi sordi di corpi esanimi che cadevano a terra: possibile fossero appena caduti vittima di un'imboscata? E soprattutto: perché cazzo doveva sempre finire nel mezzo a situazioni del genere?

Tirò e fece forza finché le corde non si allentarono quel tanto che gli fu sufficiente per sfilare prima un polso martoriato e poi l'altro; passò immediatamente alle caviglie, ma non ebbe il tempo di applicarcisi che la portiera si spalancò e...

“N-Natasha?” Biascicò incredulo, improvvisamente convinto di essere svenuto – per l'ennesima volta! – e di star sognando. La donna si era improvvisamente stagliata contro la porzione del cielo ingrigito incorniciata dalla portiera.

“Il tuo essere scioccato è francamente offensivo,” ribatté quella, tirando fuori un grosso coltello serramanico per liberarlo dagli impedimenti alle caviglie.

Ma no, era proprio lì, in carne ed ossa... solo quando si rese conto della pelliccia di pessima fattura che indossava, comprese che la prostituta investita non era altri che lei, che doveva aver messo KO quell'idiota di Pete senza che nessuno di loro se ne accorgesse, che aveva molto probabilmente riservato lo stesso trattamento a quell'imbecille di Neil.

“Natasha, Barton, datevi una mossa!” Sentire la voce di Rogers, poi, gli provocò un'improvviso accesso di risa.

La donna ignorò molto convenientemente quello che aveva tutta l'aria di essere un attacco isterico, afferrandolo per un braccio per costringerlo a rimettersi in piedi e a scendere dall'auto.

“Forza, non abbiamo tutto il santo giorno,” si drappeggiò il suo braccio sulle spalle, sorreggendolo dietro la schiena, “ce la fai a camminare?”

“Credo d-di sì,” le assicurò, ma riuscì a malapena a muovere un passo che un capogiro improvviso, accompagnato da un terribile conato di vomito, arrivò a destabilizzarlo. “M-Merda.”

“Steve!”

“Ci penso io, tu guida!”

Clint sbatté le palpebre una, due, tre volte, ma le cose continuarono ad apparirgli confuse, irrimediabilmente mescolate. Le voci, anche quelle, sempre più ovattate e distanti. Il dolore tornò a tormentarlo più forte e violento di prima – possibile che avesse sottovalutato a tal punto le proprie condizioni? – facendogli perdere quell'ultimo briciolo di lucidità che gli rimaneva.

I pallini scuri che gli punteggiavano la vista si ingrandirono, congiungendosi gli uni agli altri, finché l'oscurità non l'ebbe inghiottito del tutto.

 

*

 

Si soffermò a qualche passo di distanza dall'ingresso dell'infermeria, rigirandosi tra le mani il plico di fogli che era miracolosamente riuscita a farsi consegnare da Fury: le appariva molto meno consistente di quanto si sarebbe aspettata... ma non stava a lei decidere.

Esitò ancora per un paio di secondi, facendosi distrattamente da parte per lasciar passare un gruppetto d'agenti impegnati in una fitta conversazione riguardo un argomento qualunque.

Si concesse un profondo respiro e, zaino in spalla, si decise a varcare la soglia dello stanzone che ospitava i degenti del quartier generale dell'ex SHIELD. Del tutto deserto, se non fosse stato per una donna vistosamente incinta addormentata sulla lettiga più vicina alla parete di fondo e per Clint che, invece, ne occupava una nella zona centrale (dopo la crisi della nottata appena trascorsa, infatti, Bruce aveva già fatto ritorno alla sua camera).

Natasha lo vide riaprire gli occhi nel momento esatto in cui si azzardò a muovere un passo nella sua direzione, le nocche bianche per la folle presa che aveva stretto attorno al fascicolo... come se quei pochi fogli avessero potuto ancorarla alla realtà, in qualche modo.

“Credevo fossi sordo,” esordì fermandosi ai piedi del letto, il tentativo di un sorriso ad incresparle le labbra.

“Lo sono,” biascicò Clint ancora intontito dal sonno e dagli antidolorifici, “ma l'orecchio che mi rimane funziona... straordinariamente bene.”

A parte l'ingombrante fasciatura che gli copriva quasi tutto il busto, sembrava stare bene; sicuramente meglio di quanto non avrebbe fatto se non fossero riusciti a strapparlo alle grinfie dell'HYDRA... non suonava come il tipo di organizzazione a cui piace fare sconti ai propri nemici. Tutt'altro.

“Come avete fatto a trovarmi?” Le chiese di nuovo, sforzandosi di rimettersi seduto con scarso successo.

“Sta' fermo,” lo redarguì con un'occhiataccia. “Localizzatore nascosto negli abiti che ci hanno procurato,” aggiunse un attimo dopo, appoggiando lo zaino a terra per avvicinarsi ancora un poco al fianco della lettiga.

“Un'idea di Stark?”

“Pare di no.” Non era sicura di volergli dire che il colonnello non le era parso neppure troppo contento di dover condividere con lei quell'informazione: se non avesse insistito per andarselo a riprendere, il dettaglio di quell'infernale aggeggio capace di individuarli tutti su una qualsiasi mappa, se lo sarebbe molto probabilmente tenuto per sé.

“Ma non vi ha mandato lui...,” mormorò Clint, improvvisamente più serio e accigliato. Natasha lo guardò mentre si stropicciava il viso, trattenendo a sento una smorfia di dolore quando le sue dita ritrovarono l'occhio ancora nero, il labbro spaccato, lo zigomo gonfio. Si decise a scuotere il capo in segno di diniego, senza aggiungere nient'altro. “Perché siete tornati indietro?” Insisté lui, confuso. “O almeno... lo so perché Rogers è tornato indietro, ma tu?”

Lo sguardo dell'uomo la obbligò ad abbassare gli occhi e poi a distoglierli altrove, a fingere particolare interesse per la donna incinta che respirava silenziosamente in fondo alla stanza.

Perché era tornata indietro? Non ne aveva idea. Perché l'idea che li avessero trascinati fin lì, adescati con la promessa di informazioni sul loro passato o sui loro cari, per poi essere scaricati senza il benché minimo ripensamento nelle mani dei nemici... bè, non le era andato giù. Per niente. E in più c'era stato qualcos'altro, qualcosa che aveva reso l'idea di andare avanti senza Clint più insopportabile del previsto. Dopotutto non si conoscevano da due settimane al massimo? Invocare un qualsiasi legame affettivo sarebbe stato ridicolo, impensabile. Eppure era bastato tanto così ad instaurare tra di loro un certo rispetto, di questo si trattava: una lealtà cieca che li aveva indissolubilmente avvicinati l'uno all'altra. Un'affinità forse. Niente di più... niente di meno.

Certo, quella sensazione che aveva rischiato di prendere il sopravvento più d'una volta – il fatto che l'uomo che era stato inviato ad ucciderla riuscisse pure a scatenarle reazioni di cui avrebbe volentieri fatto a meno – non se n'era mai andata del tutto. Ma il tacito patto di aiuto reciproco, quello si era imposto su tutto il resto. E Natasha non aveva potuto far altro che rispettarlo fino in fondo, quali che fossero i pericoli che avrebbe dovuto correre per attenervisi.

“Natasha,” Clint la richiamò all'attenzione, il tono di voce improvvisamente più basso, caldo, confidenziale.

“Non potevo lasciarti indietro,” si costrinse a rispondere.

“Potevi,” arrivò lui a contraddirla impietosamente.

“No,” scosse vigorosamente il capo. “Non potevo lasciarti indietro... tu, per me, l'avresti fatto.”

“Non esserne tanto sicura.” Si era adombrato di nuovo; adesso anche lui sfuggiva all'inquisizione dei suoi occhi.

“Avresti dibattuto con te stesso e poi l'avresti fatto.”

“Tu sai sempre tutto, non è vero?”

“Oh no, faccio finta di sapere un sacco di cose. Ma di questa... di questa sono certa.”

Rimasero in silenzio per qualche istante finché Natasha non si decise a porgergli il fascicolo che ancora teneva tra le mani.

“Ho convinto Fury a lasciarmelo fare,” spiegò semplicemente, invitandolo a prendere il plico.

“Che cos'è?”

“Il motivo per cui ti sei lanciato in una missione suicida, ricordi?”

Ci aveva messo un po' a persuaderlo, ma alla fine il colonnello aveva permesso che fosse lei a consegnargli la ricompensa per la sua partecipazione all'operazione di Point Hope. Clint le scoccò una lunga, incerta occhiata, quasi stesse valutando se voleva esserne davvero a conoscenza oppure no. Dopo un minuto buono in cui l'arciere non doveva aver fatto altro che discutere con se stesso, allungò una mano sfilandole delicatamente la cartellina dalle dita.

“Vuoi bere?” Gli chiese, avvicinandogli la bottiglietta d'acqua appoggiata sul comodino.

“Perché?” La domanda gli era uscita in tono inaspettatamente ostile. “L'hai letta?” Sembrava la stesse accusando di averlo voluto preparare ad una qualche... tragedia.

“No che non l'ho letta,” ribatté astiosamente a sua volta.

Clint fece per replicare, ma qualcosa doveva avergli suggerito che continuare su quella linea non sarebbe servito a niente e che dar voce al proprio nervosismo con quella tattica – per altro piuttosto scadente – non l'avrebbe portato da nessuna parte.

“Mi andrebbe un po' d'acqua...,” si corresse, addolcendo il tono e accettando la bevanda dalle sue mani. “Avresti dovuto leggerla,” aggiunse dopo essersi concesso un paio di piccoli sorsi, “almeno mi potresti dire se devo aprirla o meno.”

“Posso farlo adesso, se vuoi.”

“No... no, odio essere un vigliacco.”

“Non sei un vigliacco.” Sbagliava o era rimasto indietro per esaudire le richieste di un uomo – il dottor Selvig – che neppure conosceva pur di permettere a tutti loro di abbandonare il complesso il prima possibile? Nessuno, neanche l'esimio capitano Rogers si era offerto di assecondare le condizioni imposte dallo scienziato; nessuno tranne lui. Il meccanico barra arciere barra ladro che arrotondava lo stipendio mensile con qualche lavoretto extra... era stato lui a correre il rischio di rimetterci la pelle.

“Quello che dici, Nat,” rispose con un mezzo sorriso, restituendole la bottiglietta prima di rifarsi serio e spostare tutta la sua attenzione sul fascicolo. Natasha lo vide inspirare ed espirare un paio di volte, fare una smorfia al dolore alle costole che ne conseguì; infine rompere il sigillo di stoffa e aprire la cartellina con mani tremanti.

Trattenne il fiato quasi fosse stata lei quella sul punto di ricevere informazioni determinanti sulla vita (o la morte) di un parente... non che avesse realmente una qualche cognizione su come ci si dovesse sentire ad avere una famiglia. Una famiglia vera. Forse era per quello che non aveva potuto lasciarlo indietro: prima di Clint nessuno aveva mai fatto niente per lei, non in mancanza di un qualche tornaconto personale, comunque. Un tornaconto personale che l'uomo aveva piuttosto rifiutato; quei dannati due milioni di dollari che gli avevano offerto per la sua testa...

“Che c'è scritto?” Finì per chiedergli, la voce ridotta ad un soffio, il disperato tentativo di decifrare l'espressione compunta con cui stava passando in rassegna i documenti contenuti nel fascicolo.

“Che è stato fatto prigioniero,” mormorò lui dopo un lunghissimo attimo di silenzio.

“Da chi?”

“Un gruppo di terroristi, pare. Potrebbero...,” lasciò la frase in sospeso ancora per qualche secondo, come meditando su ciò che aveva appena appreso. “Potrebbero averlo portato dalla loro parte.”

“E poi?”

“Poi danno... il suo ultimo avvistamento. Mumbai,” gli venne inspiegabilmente da ridere. “Barney in vacanza nella fottutissima India, te lo immagini?”

Natasha si ritrovò a ricambiare il suo sguardo perso, amaramente divertito, senza sapere come rispondere adeguatamente a quella domanda.

“Che hai intenzione di fare?” Domandò, anche se in cuor suo già sapeva cosa doveva girargli per la testa.

“Devo trovarlo,” esalò, rifacendosi nuovamente serio. Mise da parte il fascicolo, decidendosi finalmente a guardarla dritta negli occhi. “Anche tu sei in partenza, no?”

Dovette trattenersi dal nascondere lo zaino sotto al letto, perché sarebbe stato stupido, perché Clint non era uno da lasciarsi prendere in giro tanto facilmente... e soprattutto, forse, perché era l'unico a cui valesse la pena dirlo. Il solo a cui sarebbe importato.

“Mio padre è ancora vivo,” formulò cautamente, riempiendo il silenzio che era andato riempiendo il poco spazio che li separava.

“Credevo che...”

“Anch'io,” convenne seccamente, impedendogli di terminare la frase.

“Finirai il lavoro?” Le domandò, mitigando in qualche modo l'espressione. La sua solidarietà non le era proprio d'alcun aiuto, eppure l'idea che qualcuno capisse, riusciva a farla sentire un po' meno sola.

“Non lo so,” rispose a mezza voce. “Ma non posso fare nient'altro se prima non ho risolto quel problema.”

“Cercherà di blandirti, lo sai? Di... convincerti,” mormorò lui. “E tu rischierai di caderci... di nuovo.”

Per quanto avesse voluto contraddirlo, Natasha sapeva che aveva ragione. Non era forse stato proprio quello il modus operandi di Ivan? Dispensatore di carezze e cazzotti (metaforici e non) in perfetto equilibrio, per far in modo che non si allontanasse mai del tutto, mettendo però in chiaro chi era che comandava... chi prendeva le decisioni. Era rimasta avvinta in quella ragnatela di concessioni ed abusi finché l'odore di carne bruciata, trascinato dal vento di San Paolo, non sembrava averla riscossa, riportata alla realtà. Era paradossale che un'assassina come lei, una spia il cui nome in codice richiamava quello di un ragno velenoso e letale, si fosse ritrovata a ricoprire il ruolo della preda più che del predatore... per quasi tutta la sua vita.

“Se non riesco a tagliare fuori Ivan, non posso fare nient'altro,” decretò, quasi inudibile.

“Lo capisco,” convenne Clint, l'aria turbata, “ma sta' attenta, va bene?”

“Tu che farai?” Gli ritorse la domanda, soccombendo all'urgenza che la stava spingendo ad allontanare da sé il focus di quella discussione.

“Non posso tornare a Waverly,” disse con una leggera scrollata di spalle (di nuovo, si ricordò di non muoversi solo quando l'aveva già fatto). “Dubito che la signora Drakov abbia intenzione di lasciar perdere,” biascicò con una smorfia insofferente.

“Me ne occupo io,” le parole le erano uscite di bocca prima di poterci riflettere.

“Occupartene?” Clint non sembrava aver compreso fino in fondo le sue intenzioni.

“Avresti potuto uccidermi, ma non l'hai fatto,” gli rammentò.

“Sono stato io a sottrarmi all'incarico,” puntualizzò lui di rimando, “non è affar tuo.”

“Ho ucciso sua figlia. E' me che vuole, non te.”

“Toglierai di mezzo anche lei?”

“Lo saprò quando l'avrò vista,” replicò cripticamente. “Tu dovrai rimanere qui finché non avrò sistemato la questione.”

“Non se ne parla.” Il rifiuto di Clint arrivò categorico e perentorio.

“Non essere stupido,” si sporse verso di lui, “se vuoi veramente recuperare tuo fratello dovrai raccogliere tutte le informazioni disponibili.”

“Sono tutte qua dentro,” le rammentò, tamburellando l'indice sul fascicolo abbandonato tra le pieghe della coperta.

“Ne sei proprio sicuro?” Le bastava piantare il seme del dubbio perché quello mettesse radice nelle sue convinzioni... tutto quello che le importava era che l'arciere rimanesse al sicuro finché la questione Drakov non fosse stata risolta. Nient'altro. “I mezzi che hanno qua sotto non puoi trovarli da nessun'altra parte.”

“Stai cercando di manipolarmi, Nat?” L'accusò lui, improvvisamente più divertito che indignato.

“Sta funzionando?” Rilanciò, ottenendo un ampio sorriso incredulo in risposta. “Dammi due settimane. E' tutto quello che ti chiedo.”

“Perché t'importa tanto che quella pazzoide non mi ficchi una pallottola in fronte?”

“Perché mi piace pensare di avere un posto dove tornare quando avrò finito con Ivan,” rispose semplicemente, lasciando che Clint potesse accertarsi della sua sincerità solo guardandola negli occhi. Togliere di mezzo suo padre e lasciarsi alle spalle l'ex SHIELD avrebbe significato ritrovarsi di nuovo sola al mondo. Quel viaggio, però, le aveva insegnato che non doveva necessariamente essere così, che – se solo l'avesse voluto – poteva avere un'alternativa. “E poi avrai bisogno d'aiuto per ritrovare tuo fratello.”

“Tu non verrai con me da nessuna parte!” Il piacevole stupore che gli aveva acceso gli occhi era stato nuovamente sostituito da un'indispettita irritazione.

“Staremo a vedere.” Adesso veniva da ridere anche a lei.

Lo guardò mentre rimetteva insieme i fogli nella cartellina, per poi appoggiarla di nuovo sul comodino, un vago disagio ad aleggiare tutt'attorno.

“Che ne sarà degli altri?” Finì per chiederle, come per prolungare quello scambio (che – l'avevano capito entrambi – sarebbe stato l'ultimo per un bel po') il più possibile.

“Banner e Stark hanno intenzione di allargare i laboratori... forse trasferirsi in un'altra base SHIELD,” lo informò, “Odinson ha deciso di restare sotto richiesta di Selvig. Mentre Rogers...”

“... Rogers rimarrà qui in pianta stabile,” completò per lei.

“Qualcosa del genere. Fury aveva bisogno di un poster boy per questo posto,” commentò con un mezzo sorriso.

“E il colonnello? Non ha neanche tentato di fermarti?”

“Non sa che me ne sto andando.”

“Non gli piacerà.”

“Perché credi che lo stia facendo?”

Si rimise in piedi rispondendo ad un inconsapevole istinto, gettandosi lo zaino sulle spalle come a decretare la fine di quella conversazione.

“Come farai a contattarmi?” Clint, fattosi nuovamente serio, stava ancora cercando di rimettersi seduto.

“Troverò un modo.”

“Natasha...”

“Smettila di preoccuparti.” Gli si avvicinò rapidamente, premendogli delicatamente una mano sulla spalla nuda per convincerlo a restare disteso. Restò per qualche attimo a fissarlo dall'alto in basso, studiando distrattamente le linee del suo volto martoriato, trattenendo le dita sulla sua pelle scoperta per un attimo di troppo. “Ti troverò.”

“E' questo che mi preoccupa,” la prese in giro lui, districandosi in qualche modo dall'impaccio del momento.

“Sei un fottuto stronzo, lo sai?”

“Oh, dimmi qualcosa di nuovo.”

Natasha assecondò il bizzarro rimescolio che le aveva preso lo stomaco, chinandosi su di lui per premere le labbra sulle sue, in un brusco, ma casto bacio.

Durò per quella che le parve un'eternità, ma che non erano stati altro che pochi secondi. Dopodiché si scostò, il fantasma di un sorriso ad illuminarle il volto. Non si fermò ad osservare l'espressione che gli si era dipinta sul viso, né a sentire cos'avesse da dirle... si limitò a godersi quell'inspiegabile sensazione di trionfo che minacciava di impossessarsi di lei da un momento all'altro...

… o quasi.

“Tecnicamente quello non era dire un bel niente!” Le parole di lui la raggiunsero mentre usciva dalla stanza.

L'illusione di essere finalmente riuscita a zittirlo si sfaldò passo dopo passo.

Per una volta tanto, però, decise che non le importava.

 

__________________________________________

Note:
Anche stavolta non molto da dire su questo capitolo (il primo dell'anno!), il penultimo, che conclude la vicenda prima dell'epilogo del ventesimo. Natasha ha un po' di cose in sospeso da sistemare, ma la questione SHIELD non si concluderà del tutto (sennò poi chi lo sente Fury?). Lo stesso vale per Clint, e per gli altri Vendicatori (meno recalcitranti degli altri due XD)
Anyway, rimando tutti i deliri conclusivi al prossimo capitolo :) Intanto ringrazio la sclerobetasocia Eli (mi sono appena resa conto che questo capitolo te l'ho mandato mentre eri in Grecia... e ora si crepa di freddo e tutte cose) e i lettori vecchi & nuovi! I vostri commenti mi fanno sempre piacere, quindi grazie :3
Un po' in ritardo, ma auguri di buon anno :P
Grazie per essere arrivati fin qui e al prossimo ed ultimo aggiornamento!
S.

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Capitolo 20
*** 20/20 ***


- Capitolo 20 -

 

 

 

2 mesi dopo

Waverly, Iowa

 

Controllò che Buck non gli stesse prestando attenzione, estraendo il cellulare dalla tasca della tuta con aria furtiva. Ne osservò il display quasi fosse stato in attesa di una qualche rivelazione esistenziale... che, puntualmente ed esattamente com'era ripetutamente successo nell'ultimo paio d'ore, non arrivò.

Stark gli aveva promesso informazioni fresche fresche sul conto di Barney, ma erano ormai tre giorni che non si faceva sentire. Non che Clint avesse un qualche dubbio sulle doti di pirata informatico di Tony, tutt'altro: gli era bastato vederlo all'opera svariate settimane prime, quando si era deciso ad hackerare il sistema dello SHIELD per scoprire la provenienza delle patate che servivano a pranzo, a cena... a volte persino a colazione. Sebbene fosse solo un modo per far saltare i nervi al colonnello Fury (e in quel senso aveva funzionato alla meraviglia), Clint aveva colto l'occasione al volo, chiedendogli di indagare su quanto l'organizzazione sapesse realmente dell'attuale posizione del fratello.

A dirla tutta non avevano scoperto granché: lo SHIELD si era limitato a tenere per sé il sospetto che Barney fosse – in una qualche misura tutta da determinare – un collaboratore dell'HYDRA. Per quale altro motivo un'organizzazione che si occupava della sicurezza mondiale avrebbe dovuto monitorare gli spostamenti e gli avvistamenti di suo fratello? Il gruppo terroristico al quale era affiliato era in contatto con alcune delle cellule internazionali dell'HYDRA... a Clint era bastato fare due più due per arrivare alle stesse conclusioni che Fury gli aveva tanto convenientemente taciuto.

Dopo la partenza di Natasha, il suo soggiorno alla base operativa di Cordova si era protratto per una decina di giorni, giusto il tempo per le sue costole di rimettersi in sesto e per lui di ficcanasare dove non gli competeva. A dargli il via libera, l'unico di cui avesse avuto realmente bisogno, era stato l'arrivo di una cartolina indirizzata ad un certo Mr. Waverly; la fotografia ritraeva lo skyline di New York mentre il retro riportava poche concise parole, trascritte in una calligrafia disordinata e scomposta: Tante luci, ma nessuna stella. Spero che a casa stiano tutti bene! Nathan.

Dopo un acceso interrogatorio al povero agente Waverly (che disgraziatamente esisteva davvero), Coulson era riuscito a decifrare il messaggio e si era finalmente deciso a consegnargliela.

Il pensiero che Natasha fosse stata capace di creare scompiglio solo con l'invio di una fottuta cartolina l'aveva fatto ridere più a lungo di quanto avrebbe voluto ammettere; quello e il fatto che la signora Drakov era stata (in qualche modo) depennata dalla lista di cose di cui avrebbe dovuto preoccuparsi.

In ogni caso, l'avviso era stato come una manna del cielo. Aveva fatto i bagagli e se n'era andato senza troppe cerimonie, mantenendosi comunque in contatto sia con Stark che con Rogers, il quale aveva inutilmente tentato di convincerlo a restare. Doveva ammettere che era stato sul punto di cedere: Steve poteva essere dannatamente insistente quando ci si metteva. Per un attimo era quasi riuscito a persuaderlo che del suo dannato paese gliene fregasse qualcosa, che avrebbe potuto mettere le sue abilità al servizio di una giusta causa... ma il pensiero di Barney, invischiato in affari troppo più grandi di lui, aveva avuto la meglio.

Nonostante questo, Clint aveva la netta sensazione che la questione SHIELD fosse tutt'altro che una pratica conclusa. Anzi. E il colonnello Fury doveva aver avuto la stessa impressione, o non gli avrebbe permesso di lasciare la base come se niente fosse.

Quale che fosse il caso, aveva fatto ritorno a Waverly, Iowa, ripreso la sua vita di sempre. Il modo in cui il vecchio Buck l'aveva accolto all'officina aveva messo bruscamente in evidenza la completa straordinarietà degli eventi che si erano da poco conclusi: a parte una tirata di orecchi su quei venti giorni trascorsi a fare solo dio sapeva cosa, la routine era ricominciata senza alcun intoppo. Niente chiacchiere su pericolosi complotti che miravano a sovvertire l'ordine del mondo, nessuna missione suicida per recuperare strani aggeggi di cui non riusciva neppure a capire il funzionamento... se i primi tempi avevano avuto su di lui un effetto distensivo, a lungo andare il tran-tran quotidiano aveva cominciato ad innervosirlo. Quello e – soprattutto – il fatto che le ricerche sul conto di Barney continuavano ad impelagarsi in un vicolo cieco dopo l'altro: il database dell'esercito era pressoché inutilizzabile, mentre le poche informazioni che aveva rinvenuto su Internet erano – nel migliore dei casi – a malapena circostanziali.

Stark l'aveva contattato settantadue ore prima, avvisandolo di certi movimenti che lo SHIELD stava monitorando, spostamenti che coinvolgevano anche il gruppo di cui faceva parte Barney (ancora doveva capire in che capacità). Gli aveva promesso di tenerlo aggiornato e non si era più fatto sentire; il che poteva significare due cose: che era stato scoperto e successivamente preso letalmente a calci in culo da Fury o che non c'era niente di nuovo.

Per quanto avesse voluto fare le valigie e cominciare a combinare qualcosa – qualsiasi cosa – sapeva altrettanto bene che imbarcarsi in un'impresa tanto pericolosa, uno spostamento alla cieca dopo l'altro, non sarebbe servito a niente... probabilmente solo a farlo uscire definitivamente di cervello.

“Ehi, uccellaccio, ancora con quel dannato aggeggio?”

La voce di Buck lo fece trasalire, costringendolo a rinfilarsi il telefono in tasca e a voltarsi verso di lui con l'espressione più innocente che riuscì ad invocare lì su due piedi.

“Questa ha bisogno di una batteria nuova,” replicò con naturalezza, poggiando una mano sul cofano aperto della Camaro a cui stava lavorando.

“Non prendermi per il culo, Barton,” Buck si era messo a ridere di fronte a cotanta sfacciataggine.

“Stavo solo...”

“Almeno non farti vedere, va bene?”

“Hai ragione, Buck,” decretò la propria sconfitta con una leggera scrollata di spalle.

“Ah,” l'uomo aveva fatto per dargli le spalle e andarsene, ma si era bloccato a mezza strada, “c'è una tipa che sta cercando Hawkeye.”

Lo stomaco gli si contrasse fastidiosamente: l'ultima volta che aveva vissuto quella scena, la signora Drakov gli aveva fatto un'offerta che non aveva proprio potuto rifiutare e che l'aveva messo nel peggior mare di merda in cui fosse mai finito in vita sua (lui, che di certi oceani se ne intendeva alla perfezione).

“E' quella dell'altra volta?” Gli chiese, sbirciando inutilmente in direzione dell'ingresso che dava sulla strada e che gli era attualmente schermato dalle pareti di lamiere e cemento della rimessa.

“Come cazzo credi che possa ricordarmi quella dell'altra volta?” Buck si grattò la nuca, sovrappensiero. “Questa forse è più giovane,” azzardò, ma finì per indispettirsi subito dopo. “Va' a vedere per i cavoli tuoi e datti una mossa: Kevin e Louie le hanno già messo gli occhi addosso. Se aspetti ancora un po' di lei non sarà rimasto un bel niente!” La fragorosa risata in cui era esploso si trasformò prontamente in un raschiante tossire.

Clint lo osservò per qualche istante, mentre una sensazione fin troppo familiare si impossessava di lui. Lasciò la Camaro e la sua defunta batteria a se stessa, superando il principale per spostarsi nella stanza adiacente, un'improvvisa consapevolezza ad animarlo.

“Ehi, uccellaccio!” Le grida roche di Buck lo inseguirono mentre si allontanava, “se sparisci per un altro mese puoi pure risparmiarti la briga di ritornare, capito?”

Individuò Kevin, alto e slanciato, una zazzera di ricci scuri e un sorrisetto strafottente sulle labbra; Louie rasato e con due bicipiti che non mancava di mostrare a chiunque gli capitasse a tiro: appoggiati in modo del tutto innaturale ad un'auto rossa fiammante parcheggiata accanto al marciapiede antistante l'ingresso dell'officina, stavano tenendo occupata una donna che gli dava attualmente le spalle. Capelli rossi e mossi che a malapena le sfioravano le spalle, il medesimo zaino che aveva con sé la prima volta che l'aveva vista, un vestito a fiori che le scendeva a coprirle a malapena i ginocchi, le gambe pallide e nude e muscolose...

Si voltò verso di lui un attimo dopo, quasi avesse percepito il suo arrivo o l'incedere sempre uguale dei suoi passi.

Natasha gli rivolse un ampio sorriso. Fu costretto a pararsi gli occhi con una mano, immersa com'era nella luce aranciata del tardo pomeriggio. Si ritrovò a deglutire sonoramente, la gola riarsa e un bizzarro disagio a rimestargli lo stomaco.

“Louie e...,” la vide voltarsi verso gli altri due, “Kevin, giusto?” Tornò su di lui, un'aria divertita ad illuminarle tutto il volto. “Mi stavano mettendo al corrente delle mille e più attrazioni di Waverly.”

“Ah sì?”

“Il miglior pub degli Stati Uniti si trova proprio alla fine di questa strada, a quanto pare,” insisté lei, calcando sull'assurdità di quell'asserzione.

“Il migliore!” Convenne Louie che non si era accorto dello scetticismo di lei, mentre tentava di assumere una posa che mettesse sufficientemente in evidenza le sue enormi braccia muscolose.

“Dovresti proprio venire con noi stasera,” Kevin gli dette manforte, fingendo un disinteresse così poco credibile da risultare comico.

“Perché non andate a tormentare qualcun altro?” Le parole gli erano uscite più imperiose di quanto avesse voluto.

“Oh, andiamo!” Protestò l'altro, rizzando improvvisamente la schiena. “Non puoi fare sempre così.”

“Perché non facciamo decidere la signora?” Intervenne Kevin con l'aria di chi è convinto di avere la situazione in pugno, totalmente a proprio vantaggio.

Natasha non aveva smesso un secondo di sorridere: più che seccata sembrava divertita, quasi stesse assistendo ad uno spettacolo mai visto... non così da vicino, almeno.

“Sono qui per parlare con Barton,” finì per rispondere con una leggera scrollata di spalle, a mo' di scusa.

“Perché sono sempre tutte qui per parlare con Barton?” Louie si era voltato verso il compare per esprimere tutta la sua frustrazione. Clint li ignorò completamente, avvicinando Natasha di un paio di passi, quella strana sensazione di disagio ancora ad impacciargli i movimenti.

“Ehi, chiedo a Buck se posso staccare adesso,” decise.

“Posso aspettare finché non hai finito,” si offrì lei, continuando a guardarlo con l'aria di chi ha appena scoperto qualcosa di – che qualcuno gli desse un colpo in testa! – bello.

“No, no, tanto... manca mezz'ora,” Clint si affrettò a puntualizzare, facendole cenno di restare ferma dov'era.

“Non vado da nessuna parte.”

 

*

 

Il pub migliore degli Stati Uniti si era rivelato non essere neppure il migliore della contea di Bremer... o almeno così le aveva confidato Clint. Il Green Clover si limitava ad essere il locale preferito dell'arciere, o meglio – Natasha sospettava – quello situato perfettamente a metà strada tra casa e officina.

“Allora,” l'uomo si lasciò ricadere seduto di fronte a lei, sprofondando nella lisa finta pelle delle panche che punteggiavano il pub, “vuoi dirmi perché sei così di buon umore o... continuerai a sorridere misteriosamente fino all'anno prossimo?” Poggiò due grossi boccali di birra accanto al cestino di pollo e patatine fritte che la cameriera aveva portato solo qualche minuto prima.

“Non posso essere di ottimo umore e basta?” Rilanciò dopo un istante di silenzio, la voce venata da un impalpabile tono di sfida. Clint si prese qualche attimo per osservarla attentamente e Natasha ne approfittò per fare altrettanto: indossava ancora la canottiera scura che gli aveva intravisto sotto la tuta da lavoro, il collo e le braccia macchiati di nero in più punti, le mani innaturalmente pulite rispetto a tutto il resto.

“Certo che puoi essere di ottimo umore,” decretò infine, ficcandosi una patatina in bocca. “Ti ricordavo diversa, tutto qui.”

“Anch'io ti ricordavo diverso,” l'accusò bonariamente, alludendo ai suoi vestiti.

Clint le lanciò un'occhiata interrogativa prima di indicarsi con un dito e un'espressione perplessa sul volto.

“Perché faccio il meccanico?”

“Ti sta bene,” Natasha convenne, “ti dona.”

“Mi dona fare il meccanico?”

“Già,” prese un sorso di birra, cercando di placare l'euforia che le aveva preso lo stomaco.

La verità era una e una soltanto: Natasha era contenta di non essere più... sola. In quegli ultimi due mesi, le sembrava di aver trattenuto il respiro; si era spostata senza sosta, con un solo pensiero fisso ad esortarla ad andare avanti: l'idea, per quanto fallace, che qualcuno la stesse aspettando... da qualche parte.

“Non credevo che saresti realmente venuta a cercarmi,” ammise l'altro, appoggiandosi alla schienale della panca con un leggero sospiro.

“Ho pensato che sei stato l'unico a non ricevere una visita... per tutta quella faccenda, sai.”

“Neanche tu.”

“Tu mi hai trovata.”

“Solo perché la signora Drakov aveva le informazioni corrette.”

“Non importa,” Natasha si strinse nelle spalle. “E poi mi ero stufata di andare in giro da sola,” aggiunse, caricando istintivamente la voce di una falsa indifferenza.

Clint dovette soppesare per un attimo le sue parole; infine, si decise a sorriderle di rimando, a scuotere il capo quasi non riuscisse a credere ai propri occhi.

“Come hai fatto a convincerla a lasciarmi in pace?” Si risolse a chiederle, alternando patatine e alette di pollo fritte a corposi sorsi di birra.

“Sembra che avesse non pochi problemi da risolvere.” Una delle tante cose che Ivan le aveva insegnato era che tutti, tutti hanno un punto debole, che chiunque può essere comprato. Bastava saper premere i tasti giusti nel giusto ordine: tutti volevano qualcosa, tutti avrebbero fatto virtualmente di tutto pur di ottenerlo.

“E non ha cercato di ucciderti?”

“Oh, no, l'ha fatto eccome,” sorrise di nuovo, “prima ha tentato di togliermi di mezzo e poi ha deciso di optare per un approccio più ragionevole,” esattamente come aveva sospettato sin dal primo istante in cui si era ritrovata faccia a faccia con Elizaveta Drakov.

“L'hai uccisa?” Si era rifatto serio, un velo di tristezza ad incupirgli gli occhi.

“No,” scosse il capo, ricordando a se stessa di rimanere sul vago. “Solo spaventata.”

“Spaventata. Con cosa?”

“Sono piuttosto persuasiva quando voglio esserlo, lo sai?” Replicò piccata, lanciandogli un'occhiata esplicita.

“Cazzo, me ne sono accorto.” Entrambi avevano ben presente il modo in cui aveva convinto cinque uomini (più o meno) grandi e grossi ad imbarcarsi in una folle e misteriosa impresa che avrebbe potuto tranquillamente ucciderli tutti. “E i capelli?”

Si accigliò, portandosi distrattamente una mano alle ciocche mosse che le sfioravano a malapena le spalle, sovrappensiero.

“Avevo voglia di cambiare,” rispose semplicemente, colta alla sprovvista da una domanda tanto normale, “e poi avevano preso fuoco, quindi...,” alla quale si sentì di dare una risposta non troppo ordinaria.

“Ti avrei voluto vedere,” Clint si era messo a ridere.

“Con i capelli in fiamme?”

“Letteralmente: avere un diavolo per capello.”

“Sei proprio uno stronzo quando ti ci metti, lo sai?”

“Non mi devo neppure impegnare più di tanto: è una dote naturale.”

“Me ne sono accorta, non ti preoccupare.”

“Mi erano mancati i tuoi insulti.”

Natasha fece per ribattere a tono, disincastrandosi dal ritmo improvvisamente serrato delle loro battute. Si limitò ad osservarlo per qualche istante, più per cercare di dare un nome alla sensazione che le aveva riempito lo stomaco – della quale, ne era sicura, era lui il colpevole – che per fargli capire chissà che cosa. Lo vide cambiare bruscamente espressione, guardare qualcosa (qualcuno?) che doveva trovarsi alle sue spalle.

“Ehi, Clint,” una voce femminile la raggiunse da dietro, subito seguita da una testa bionda che le occupò la visuale. “Mi prendi da bere?” La ragazza – di cui Natasha non aveva ancora visto il viso – si era appoggiata al tavolo con una mano.

“Kelsea...” Le ci volle un secondo di troppo per accorgersi dei due boccali, per intuire che non era da solo e, in rapida sequenza, per voltarsi verso di lei con aria confusa e sorpresa insieme.

“Oh, pardon, non mi ero accorta che avessi già compagnia.” La donna le rivolse un sorriso canzonatorio, rimettendosi frettolosamente dritta, quasi a ribadire fulmineamente il suo totale disinteresse. “Se cambi idea sai dove trovarmi,” tornò su Clint, sfiorandogli calibratamente un braccio con la punta delle dita, “stasera è un mortorio.”

“Certo,” l'uomo annuì, rivolgendole un sorriso imbarazzato che – a giudicare dall'espressione perplessa di Kelsea o qualsiasi fosse il suo nome – non dovette apparirle granché familiare.

Natasha la seguì con lo sguardo mentre si allontanava in direzione del bancone, lanciando occhiate alternativamente deluse e gelide nella loro direzione.

“E tuo padre?” La voce di Clint si impose alla sua attenzione con una certa urgenza, come per dirottare la conversazione lontana anni luce da quell'episodio e impedirle, così, di indagare oltre. Tornò su di lui, notando la poca naturalezza nel modo in cui aveva ripreso a bere e mangiare, quasi meccanicamente.

Si umettò le labbra, più divertita che altro, sforzandosi di non lasciarsi prendere dallo sconforto alla menzione di Ivan: quale che fosse la situazione, il pensiero del padre aveva sempre e comunque il potere di alimentare il mostro nero della paura che le dormiva in petto.

“Non sono riuscita a trovarlo,” confessò dopo un lungo attimo di silenzio. “Sono tornata in Brasile, ma non c'era traccia di lui in nessun ospedale.”

“Hai rinunciato?” Le domandò, la fronte corrugata da un vago senso di colpa.

“E' inutile,” annuì leggermente, distogliendo lo sguardo, “se non è già morto, sarà lui a cercarmi.” Una parte di lei, in effetti, ci contava. Tuttavia, rimase in silenzio per qualche istante, tentando di tenere sotto controllo il panico che minacciava di proromperle nelle vene da un momento all'altro.

“Non importa,” Clint aveva allungato una mano, forse per poggiargliela sul braccio, abbandonandola però a qualche centimetro di distanza, “non è niente che tu non possa affrontare.”

Non ne era poi così sicura: Ivan l'aveva tenuta in pugno tanto a lungo da precluderle anche solo la prospettiva di una vita alternativa, una in cui non sono gli ordini e le missioni a scandire il ritmo dei giorni. Solo in quelle ultime settimane era stata capace di immaginarsi scenari leggermente diversi, a farsi faticosamente strada in direzione di un futuro privo di regole e padroni e punizioni.

“Mi ricordo di San Francisco, lo sai?” Mormorò.

“Di quando mi hai fottuto diecimila bigliettoni?” Il tono di Clint era indispettito e divertito in egual misura. “Siamo in due, allora.”

“Mi sono ricordata di un sacco di cose.,” aggiunse a mezza voce.

“Forse l'effetto di... qualsiasi diavoleria ti somministrasse, era solo temporaneo,” ipotizzò lui, ritraendo definitivamente la mano, deviandola piuttosto verso il cestino del pollo.

“Il siero non era nella sua versione definitiva,” o almeno così dicevano i documenti che il colonnello Fury le aveva consegnato poco prima della sua partenza dalla base ex SHIELD di Cordova. Le ci erano volute due settimane prima di decidersi ad aprire il fascicolo, ancora di più a leggerne il contenuto. “Faceva parte dei servizi segreti russi,” riprese a parlare senza neppure rendersene conto, “una sezione separata del KGB, la Red Room. Si trattava di un programma sperimentale che coinvolgeva bambine dai sei ai dodici anni, più che altro. Credo che l'idea fosse quella di addestrarci,” annuì distrattamente, come per dare conferma alle proprie parole.

“Bambine soldato?”

“Non soldati,” Natasha rialzò lo sguardo, rivolgendogli un mesto sorriso, “spie. Armi,” sospirò. “L'idea era quella di riplasmare i nostri corpi e le nostre menti, renderci di volta in volta adatte all'occasione. Le più forti, sarebbero avanzate alla fasi successive. Le altre...”

“Cazzo.”

“Quando il KGB è stato smantellato, la Red Room è sparita con quello. I vertici dell'esercito hanno insistito affinché ne venisse cancellata ogni traccia...,” operazione che aveva richiesto l'assassinio delle bambine che ne facevano parte, o almeno di quelle che erano sopravvissute. Colse l'occhiata inorridita di Clint, limitandosi a scrollare le spalle.

“Immagino che Ivan non volesse rinunciare al lavoro di tutta una vita,” chiosò dopo una lunga pausa. Erano state conclusioni a cui era arrivata quasi automaticamente: l'uomo doveva averla rapita prima che i giustizieri arrivassero a lei, era fuggito portandola con sé e, quando erano stati finalmente al sicuro, aveva ripreso a fare quello che avrebbe fatto se la Red Room fosse sopravvissuta. L'aveva addestrata a rubare, nascondersi, uccidere, mentire, spiare, manipolare... aveva usato il siero che doveva aver portato con sé per piegarla al suo volere, renderla più malleabile, controllabile. Qualcosa le suggeriva che, a dispetto della mancanza di mezzi, era persino stato in grado di produrlo autonomamente. Il pensiero che quel supplizio fosse durato per quasi vent'anni le dava il voltastomaco, le faceva girare la testa in preda a rabbia e paura insieme.

“Che hai intenzione di fare adesso?” La voce di Clint la riportò coi piedi per terra, diradando le coltri di terrore che rischiavano di ottenebrarla.

“Speravo che potessi dirmelo tu,” mormorò, accompagnando le parole con l'ennesimo sorriso.

“Stark doveva contattarmi per delle informazioni su Barney,” anche l'arciere si era rifatto innaturalmente serio, “ma sono tre giorni che non si fa sentire.”

“Allora le aspetteremo,” decise, “e poi andiamo a cercarlo.”

“Non devi venire con me,” Clint si era messo a ridere, scuotendo il capo come per scacciare l'assurdità di quella proposta.

“No, non devo,” convenne lei, cercando i suoi occhi affinché si convincesse della sua sincerità, “ma voglio. Sono stanca di andare in giro da sola.”

“Meglio soli che male accompagnati,” sentenziò seraficamente l'altro.

“Già, quando cominci a citare proverbi senza senso è quando sai di non aver ragione,” replicò implacabile, rivolgendogli un'occhiata esplicita. “A meno che tu non mi voglia tra i piedi.”

“No.” La risposta arrivò secca e recisa prima ancora che Natasha avesse il tempo di terminare la frase. “Non è perché non ti voglio tra i piedi,” precisò. “Credevo solo che... avresti voluto fare altro.”

“Altro?”

“Altro,” ribadì l'uomo, vagamente in difficoltà, “una vita diversa intendo.”

“Questo è tutto ciò che conosco,” si limitò a rispondere, “questo è ciò che sono.”

“Magari non sai di poter essere qualcos'altro.”

“Magari non posso... essere nient'altro,” lo corresse.

Lo vide dischiudere le labbra, prepararsi a replicare, infine richiuderle senza aver emesso il benché minimo suono: Natasha capì di aver avuto la meglio.

“Hai un posto dove dormire?”

“Ho la mia auto.”

“Non puoi dormire in un'auto.”

“Hai un'idea migliore?”

 

*

 

Le assi del portico scricchiolarono sinistramente sotto i loro passi. La presenza della donna incombeva alle sue spalle: poteva essere la birra o il caldo di quegli ultimi giorni d'estate che rischiava di dargli alla testa, ma la sensazione di disagio che l'aveva accompagnato sin dal momento in cui Natasha era apparsa sulla soglia dell'officina, non l'aveva ancora lasciato. Un fastidioso nodo allo stomaco che l'aveva tenuto su di giri per tutte quelle ore, quasi il suo corpo fosse capace di percepire l'imminenza di un qualche evento a cui il suo cervello non riusciva ancora a dare una forma.

“E' qui che sei cresciuto?”

Non era sicuro di poterla seriamente definire un'idea migliore, ma si dava il caso che era anche l'unica che avesse avuto. Nonostante sapesse – piuttosto bene, tra l'altro – che Natasha era perfettamente in grado di difendersi da sola (al punto che avrebbe definito “in pericolo” chiunque avesse avuto la pessima idea di tirarle un brutto scherzo), il pensiero di lasciarla dormire sul sedile posteriore della sua auto non gli era proprio andato a genio.

“Per un po',” confermò dopo un attimo di esitazione, lanciandole un'occhiata indecifrabile mentre cercava la chiave nelle tasche dei jeans. La infilò nella toppa non appena l'ebbe trovata, senza smettere di sentirsi addosso lo sguardo indagatore di lei.

“Non devi ospitarmi per forza,” Natasha, accostata allo stipite, stava cercando i suoi occhi, quasi avesse colto la sua esitazione.

“Non devo, voglio,” la citazione gli uscì in modo più irritante di quanto avesse preventivato. La serratura scattò un attimo dopo; Clint spalancò la porta, rivelando lo spoglio corridoio d'ingresso immerso nel buio pressoché totale. “E' che... non sono abituato ad avere ospiti,” deglutì appena, umettandosi le labbra.

La donna era rimasta ferma al suo posto: nell'ombra, riusciva solo a scorgere il pacato scintillio dei suoi occhi, le rotondità delle sue forme in netto contrasto col bianco scrostato della parete esterna.

“Posso cercare un albergo,” si decise a dire, indietreggiando di un misero passo. “Non devo per forza dormire in auto.”

“Smettila,” la invitò ad entrare con un brusco gesto. “Devo dirlo ad alta voce? Sei una specie di vampiro?”

“Sei un idiota,” lo redarguì lei, la voce seccata e divertita insieme, decidendosi infine a superarlo, a varcare per prima la soglia e tagliare così la testa al toro. L'oscurità del corridoio la inghiottì, lasciando che nell'aria aleggiasse il fantasma del suo profumo, che – Clint sospettava – non doveva essere altro che l'odore emanato dalla sua pelle.

Si decise a seguirla dopo un ultimo istante d'incertezza, a richiudersi la porta alle spalle e cercare la luce con una mano. L'interruttore scattò a vuoto.

“E' saltata di nuovo la corrente,” esalò esasperato, gettando alla cieca la chiave nella grossa zuppiera di vetro sistemata sull'unico mobiletto che occupava l'ingresso. Conosceva la disposizione degli oggetti praticamente a memoria: quando aveva fatto ritorno da New York si era preoccupato di lasciare tutto così come aveva trovato. Niente era cambiato rispetto agli anni della sua infanzia: c'era solo uno spesso strato di polvere ad invecchiare ogni cosa, a segnalare il passaggio del tempo su un mondo ormai morto, così come quasi tutti coloro che l'avevano abitato. O almeno così aveva creduto fino a qualche mese prima: l'idea che il fratello fosse ancora vivo aveva gettato una luce completamente diversa su quel posto, l'aveva fatto sembrare... meno morto, forse.

Non si era accorto di aver cominciato a respirare irregolarmente.

“Clint?” La voce di Natasha gli apparve improvvisamente più vicina, forse solo ad un paio di passi di distanza. “E' tutto okay?”

Giurò che la donna si fosse fatta avanti, di poter sentire il suo odore più chiaramente, il calore della sua pelle accaldata, la sua presenza tutta materiale. Se solo avesse allungato una mano avrebbe potuto toccarla...

Realizzò di essere indietreggiato quando si ritrovò con le spalle al muro, la vista a malapena abituata a tutto quel buio. Le dita di lei trovarono il suo viso, costringendolo a socchiudere gli occhi, a rabbrividire al contatto nonostante l'afa che appesantiva l'aria. Deglutì faticosamente, la gola improvvisamente riarsa, la consapevolezza del proprio corpo, la concretezza di quello di lei... così vicino.

La sentì trattenere il fiato, gli parve persino di poter distinguere il battito del suo cuore a rimbombare tra le pareti, ma era un pensiero stupido: non era mezzo sordo, comunque?

“Natasha?” Esalò, inorridendo al modo in cui la voce gli era uscita, bassa e roca e confusa.

Fu un attimo. Il calore umido delle sue labbra gli mozzò il respiro in gola: ne ricordava ancora la consistenza da quando l'aveva baciato in quell'infermeria improvvisata nel quartier generale dell'ex SHIELD, ma niente avrebbe potuto prepararlo alla brusca reazione che quel contatto gli provocò. Si lasciò sfuggire un gemito strozzato, affondò una mano tra i suoi capelli, attirandola a sé per i fianchi con l'altra finché la distanza tra i loro corpi non fu definitivamente annullata.

Assecondò i suoi gesti sempre più frenetici, quasi disperati, dischiudendo le labbra per approfondire il bacio, per riempirsi la bocca del suo sapore. La temperatura parve centuplicarsi in un solo istante: le braccia di Natasha gli furono addosso, poi le gambe, il calore delle sue cosce morbide che – non aveva capito come – gli cingevano i fianchi. Invertì la posizione, schiacciandola alla parete mentre la teneva sollevata senza riuscire a smettere di baciarla, di toccarla ovunque gli capitasse, di saggiare la pelle liscia del suo corpo, tanto pallida da illuderlo di poterla vedere nel buio.

Si lasciò cullare dal battito impazzito del proprio cuore, dall'urgenza che aveva improvvisamente preso il sopravvento, costringendolo a soddisfare quella necessità prima di qualsiasi altra. Le sue dita trovarono alla cieca, istintivamente, tutti quei posti in cui avrebbe voluto sfiorarla fin dal primo giorno che l'aveva vista, sudata e pericolosa e furente in quella fetida bettola di Florence, Arizona...

Non si rese mai del tutto conto di come avesse fatto a trasportarla fino alla soffitta – l'unica stanza della casa che si era concesso di occupare – a disperdere i loro vestiti giù per le scale, a non perdere la testa alla maledetta reazione che i gemiti e i sospiri di lei gli scatenavano. Un istinto animalesco, quasi primitivo e primordiale l'aveva sostenuto fin lassù, forse.

L'odore di Natasha, la sua voce, i suoi soffi, i suoi graffi, ogni cosa si era susseguita ferocemente e freneticamente, annebbiandogli i sensi, riducendo la sua lucidità a quell'unico desiderio, a quella fame che andava placata... un brusco, bollente, convulso affondo dopo l'altro.

Sul materasso abbandonato sul pavimento che gli fungeva da letto, nel groviglio delle lenzuola sfatte, non aveva smesso di cercare ossessivamente il caldo umido del suo corpo, di lasciarsene travolgere come un fottuto ubriaco che non può averne abbastanza.

L'ebbro tremore delle loro membra, i singhiozzi strozzati di Natasha, il fastidioso tirare dei suoi muscoli contratti, il sudore e la polvere...

 

*

 

La luce dell'alba che penetrava dall'alta finestra aperta la stuzzicò fino a farle aprire gli occhi. Mugugnò una protesta, coprendosi il viso con una mano mentre tentava di mettere a fuoco il soffitto tramato di travi che la sovrastava.

Restò immobile, lasciando che ogni singolo particolare di quel bizzarro scenario si palesasse alla sua coscienza: la consistenza delle lenzuola su di lei, l'odore di chiuso e di sesso che la circondava, gli oggetti ammassati sul pavimento a dare l'idea di un accampamento temporaneo più che di casa.

Allargò le braccia, misurando il materasso in tutta la sua larghezza; mosse le gambe indolenzite, sentendo i muscoli protestare debolmente, sfiancati. Fece scivolare una mano tra le proprie cosce, saggiandone distrattamente la pelle delicata e irritata. L'ombra di un sorriso le crepitò sulle labbra ancora gonfie, sovrappensiero.

Inspirò a fondo, stiracchiandosi ancora per qualche attimo prima di trascinarsi fino al pavimento per rimettersi in piedi. Individuò il vestito a fiori che indossava la sera prima nel mucchietto di stoffa abbandonato vicino alle scale; si affrettò a raccoglierlo e indossarlo prima di arrampicarsi fuori dalla piccola finestra che si apriva sulla facciata della casa, uscendo all'aria fresca della mattina.

Clint sedeva sul tetto: un paio di vecchi pantaloni morbidi erano il solo indumento che aveva addosso; lo sguardo perso sul desolante panorama che li circondava, campi e case tutte uguali illuminati dalla luce rosata del giorno appena nato. Lo raggiunse agilmente, sedendoglisi di fianco senza chiedere il permesso, accorgendosi solo in quel momento del telefono che teneva tra le mani.

L'uomo si limitò ad osservarla: i capelli spettinati e un paio di graffi a marchiargli le spalle costituivano l'unica traccia della notte appena passata. Passò un attimo di totale silenzio prima che Natasha non lo sentisse ridere sommessamente.

“Qualcosa di divertente?” Gli chiese, inarcando un sopracciglio e trattenendo molto convenientemente il sorriso che avrebbe voluto rivolgergli.

“Hai il segno del cuscino sul viso.” Si portò una mano al volto, indovinando il leggero solco che la cucitura della federa le aveva scavato nella guancia. “Non volevo svegliarti.”

“E' stata la luce,” lo rassicurò a mezza voce. “Tentato di fuggire?”

“Un po' difficile fuggire da casa mia,” commentò. Nonostante l'impaccio, le parve di buon umore.

“Ti avevo detto che potevo dormire altrove.”

“Se lo dici un'altra volta, giuro che...”

“Giuri che?” Natasha lo urtò appena, spalla contro spalla. “Non ti preoccupare, non ti chiederò di tenermi la mano la prossima volta che attraversiamo la strada.”

“Non sono affatto preoccupato.”

“No? Allora perché non ci hai mai portato nessuno qui?”

“Quello che intendevo era: non sono preoccupato... perché sei tu.”

“E io sono diversa da tutte le altre,” lo prese in giro.

“Tutti sono diversi da tutti gli altri,” la corresse lui. “Sei meno diversa da me di tanta altra gente, però.”

“Diversa nei punti giusti,” finì per dire, strappandogli una risata e un vigoroso cenno d'assenso.

“E' stato divertente,” concesse.

“Divertente,” ripeté, come per assicurarsi di aver capito bene.

“Non farmi dire cose che non voglio dire... di cui potrei pentirmi,” la mise in guardia.

Natasha sorrise, assecondandolo. Studiò per qualche istante il suo profilo, rilassato sì, ma con un'evidente (impercettibile per chiunque non fosse stato abile come lei a leggere le persone) ruga di preoccupazione a segnargli il volto. Si rifece seria come di riflesso, facendo vagare lo sguardo sul panorama illuminato dal sole sempre più caldo e alto nel cielo.

“Stark si è fatto sentire?” Domandò, intuendo la causa del suo turbamento.

“Già,” confermò dopo un attimo d'esitazione.

“Dove siamo diretti?”

Clint si voltò per guardarla negli occhi, improvvisamente serio e contrito.

“Sarà pericoloso,” l'avvertì, “non... non devi rischiare per me.”

“Non sto rischiando per te,” ribatté prontamente.

“Natasha...”

“Clint.” Pronunciò il suo nome con tanta autorevolezza da convincerlo a zittirsi, a ricambiare il suo sguardo, determinato e ostico insieme.

Che altro avrebbe potuto fare, comunque? Andarsene in giro a chiedere se qualcuno avesse bisogno di un omicidio? Un furto? Una spia? Sapeva che, in mancanza di alternative, avrebbe finito per ricadere nell'orbita dell'ex SHIELD: se doveva rischiare la vita per aiutare gente che non conosceva, tanto valeva farlo per Clint.

“Va bene,” fu costretto a cedere, l'ennesimo sorriso ad increspargli le labbra. “Non devi aver accettato molti 'no' come risposta, ah?”

“Non da gente come te.”

“Gente come me...”

“Gente di cui m'importa,” stabilì seccamente, suonando sufficientemente seccata da dissuaderlo dall'aggiungere un qualsiasi commento tagliente a riguardo. “Dove siamo diretti?”

“Giappone.”

“Quando?”

“Domani.”

“Avremo bisogno di biglietti aerei, allora.”

“Stark ci ha già pensato.”

“Armi?”

“Anche. Mi ha messo in contatto con la base giapponese dello SHIELD.”

“Esiste una base giapponese dello SHIELD?”

“Evidentemente.”

“Quindi che ci resta da fare?”

“Una doccia?” Clint si era rimesso in piedi, sovrastandola con tutta la sua altezza. Stiracchiò le braccia e fece scrocchiare la schiena prima di scendere giù dal tetto, sparendo oltre il davanzale della piccola finestra che riconduceva alla soffitta con un'unica, fluida manovra.

Natasha restò immobile finché non lo vide ricomparire, sporgendosi con tutto il busto, un'occhiata interrogativa sul volto.

“Per essere una spia russa non mi sembri così sveglia,” la prese in giro. “Hai bisogno di un invito scritto?”

“Che ti fa pensare che abbia voglia di fare la doccia con te?” Rilanciò.

“C'è tanto spazio e poca acqua calda...”

“Posso lavarmi con l'acqua fredda.”

“... e il sottoscritto. Nudo. Non puoi dirmi di no.”

“Sei proprio uno stronzo, te l'ho mai detto?”

“Al punto di essere quasi riuscita a convincermi che il mio nome di battesimo sia Stronzo.”

“Ti dona,” convenne, raggiungendolo senza alcuna difficoltà.

Non fece in tempo a saltare all'interno della soffitta che Clint l'afferrò di peso, cogliendola totalmente alla sprovvista.

“Clint!” Protestò a gran voce, dimenandosi tra le sue braccia. “Clint, ho ucciso per molto meno!”

“Cosa credi che renda tutto questo così divertente?”

La trattenne senza forzarla, lasciandosi sfuggire una risata che si confuse alla sua mentre la trasportava giù per le scale.

 

*

 

Caricò l'ultimo borsone sul retro della vecchia Audi rossa di Natasha, richiudendo il bagagliaio con un sonoro schianto di lamiere.

“Dove diavolo l'hai trovato questo trabiccolo?” Non poté proprio esimersi dal chiedere, sporgendosi oltre il finestrino del conducente, un sorriso insopportabile ad illuminargli il volto.

“Il modello che piaceva a me dava troppo nell'occhio,” replicò lei, sostenendo piccatamente il suo sguardo. “Un giorno te lo farò vedere,” promise. Clint, che non riuscì a capire se era seria o meno, si limitò a scuotere il capo. “Preso tutto?” Natasha lo incalzò.

“Tutto,” confermò a mezza voce, voltandosi verso la facciata dalla sua casa di infanzia. Tendeva a dimenticare quanto fosse squallida di giorno... la luce del sole aveva il pessimo vizio di rivelare ogni crepa, ogni difetto, ogni bruttura. Solo a lui, che sapeva che la vera tragedia si era andata consumando all'interno dell'abitazione, non appariva poi così tremenda.

“Tutto a posto?”

Si voltò per incrociare lo sguardo – ora pacato – della donna, i capelli più rossi, gli occhi più verdi. Fece per rispondere, ma si limitò a scrollare le spalle, ad impedirsi di guardare di nuovo verso quello che era stato il santuario dei suoi genitori e della sua infanzia. Aggirò l'automobile da davanti, prendendo posto sul sedile del passeggero, un sospiro ad accompagnare i suoi movimenti.

Allungò una mano per accendere la radio, mentre Natasha riportava in vita il motore.

“Lo sai,” riprese lei, controllando che la strada fosse sgombra per immettersi nella carreggiata deserta, “mi manca quel dannato furgone.”

Clint si mise a ridere, saltando di stazione in stazione finché non ne ebbe trovata una che faceva al caso loro.

“Questa è triste,” protestò Natasha, mentre le note di una vecchia ballata riempivano l'abitacolo.

“Non ti hanno insegnato che le cose belle, di solito, lo sono?” Ribatté lui cripticamente, a metà tra il serio e il divertito. La donna frenò qualsiasi reazione, studiando soltanto la sua espressione fino a decidere di non replicare.

L'asfalto scivolava sotto le ruote; le strade e le case che ormai conosceva a memoria sfuggivano ai suoi occhi oltre i finestrini spalancati. Si abbassò gli occhiali da sole sul viso, incassandosi maggiormente contro il sedile, tenendo il tempo della canzone con un piede.

“Natasha?” La voce gli uscì in un soffio, mentre la donna si voltava verso di lui, un'espressione preoccupata a crucciarle il volto come di riflesso.

“Sì?”

Fece una pausa ad effetto, come per aumentare la suspense e poi...

“Siamo arrivati?”

“Oh, fottiti!”

Il vento, la musica, la risata di Clint, si portarono via l'imprecazione di Natasha.

 

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Note:
Aaaaand that's it! Siamo arrivati alla fine :) Col botto, perché non mi potevo smentire, e perché dopo tutto il "patire" clintashoso degli scorsi 19 capitoli ci voleva :P Credo che la distanza abbia rimesso in prospettiva le cose sia per lei, che per lui (dopotutto lo dice anche Clint che ci vede meglio da lontano, no?) e ... bè, finalmente soli! Unico appunto: la canzone che si sente alla radio è Wish You Were Here dei Pink Floyd. E' la canzone che mi ha ispirata scrivendo e inizialmente avrei voluta intitolarla di conseguenza, ma non sono riuscita a trovare un verso che mi piacesse... e gli AC/DC sono arrivati in mio soccorso con Ride On.
La fine rimane aperta ad un possibile sequel: Clint e Natasha sono partiti alla ricerca di Barney, ma la nostra russa nasconde qualcosa, e la missione dell'ex SHIELD contro l'HYDRA continua (non senza l'aiuto degli altri Vendicatori). Le idee (abbozzatissime) ci sono, devo solo trovare voglia/ispirazione/tempo per scrivere :) Prossimamente...

Ringrazio chi ha letto la storia ed è arrivato fin qui, in particolar modo:
Ragdoll_Cat, Alwaysmiling_, blue_sun23, Mumma, Frau Blucher, Blackmoody, fangirl_mutante_SHIELD, Rebekah_65, gio05. Grazie :') Dovuti e sentitissimi ringraziamenti anche alla sclerobetasocia Eli che mi ha consigliata fino alla fine! :*

Concludo con un po' di sana pubblicità all'insegna del Clintasha:
- Hawks di Sheep01, un AU medievale a dir poco delizioso, drammatico e divertente insieme, basato sul film Ladyhawke. Ma qualsiasi cosa della socia val la pena d'esser letto, da Sleep Twitch (ancora in corso) alla conclusa ma sempreverde Cinque Centesimi (soprattutto se vi piace Clint);
- La Leggenda degli Straordinari Vendicatori di the Commas, un dettagliatissimo AU vittoriano più che altro Loki-centrico, ma con incursioni dell'intera e squadra e pure della nostra coppia preferita (ancora in corso);
-
Blood Red, Snow White di Lorhen, interamente dedicata a Natasha e alla sua storia che non manca di affrontare (egregiamente se posso dire la mia!) tra gli altri, il suo rapporto con Clint (ancora in corso);
- per quel che mi riguarda invece ho ancora una raccolta di 10 one-shot/flashfic da pubblicare, a metà tra angst, fluff e commedia (non credo di dover specificare incentrate su chi :P) e una one-shot più lunga che funge da spin-off alla raccolta stessa. Arriverà tra un po'... prossimamente su questi schermi :)


E adesso ho finito davvero!
Ancora grazie per essere arrivati fino alla fine e alla prossima storia :D
S.

 

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