Gli ultimi Eroi

di Aleena
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***





CAPITOLO I
 
 
  D’improvviso il cielo si accese di una luce così potente che nessun fulmine avrebbe mai potuto anche solo sperare di eguagliarla. Risuonò un rombo tanto forte da far perdere l’equilibrio ai soldati al suo fianco, ritti in piedi dietro il muro; poi un istante di calma prima che i bussolotti iniziassero a rotolare a terra e i sibili e gli strilli e i boati invadessero il suo mondo, catapultandolo in una tempesta meravigliosa e tremenda.
Imbracciava la sua arma come se fosse l’unica cosa semplice in un mondo sovrannaturale, e in qualche modo lo era: l’aveva da quando, appena ventitreenne, era stato richiamato come coscritto a combattere quella che, nuovamente, qualche coglione aveva definito “guerra lampo”. Non lo era stata nessuna delle precedenti e non lo sarebbe stata nemmeno questa, così gli aveva detto una volta Raoul, e Santiago aveva scosso la testa e sospirato, forzando le labbra ad un sorriso bonario che era solo un’estrema negazione.
  Non era finita presto, anzi: l’aveva portato lì, tredici anni dopo essere stato strappato da una casa in mattoni rossi che probabilmente non esisteva più, per lasciarlo in mezzo al caos di un inferno grigio, accucciato dietro un muro della mensa ufficiali con un fucile in mano e, nelle narici, l’odore del Chorizo scadente che si mescolava a quello del campo di battaglia. Miscellanea di sangue, acciaio e defezione, con appena una stilla di aroma di tradimento.
  Perché gli italiani non avrebbero dovuto sapere dove il campo si trovasse, né sarebbero potuti entrare in altro modo che aiutati.
  Il forte semovente era ben difeso: tre lunghe strisce di barriere al plasma e una rete sonica che si attivava quando un soldato senza il Timbro l’attraversava – e questo era solo il perimetro esterno. I due metri di terreno polveroso che separavano le strutture-ricovero dalle barriere erano disseminati di cadaveri, resti carbonizzati di chi aveva messo un piede in fallo su una trappola esplosiva. Vecchie ma efficaci, diceva Raoul, ed era vero in una maniera tremenda. Come la foga della fanteria italiana, che spingeva i soldati sempre più verso i confini interni e il recinto nel quale i Dottori lavoravano.
  «Con me, sulla destra. Con me!» urlò, mentre spostava il calcio della pistola indietro, caricando un colpo che esplose con un sibilo attenuato in un’onda di staticità così sottile da essere quasi invisibile. Colpì il braccio di un vecchio dallo sguardo spento e la divisa verde, e l’arto che conteneva, avvamparono per un istante, consumando la carne e l’osso fino quasi al collo, trasformandoli nella cenere pallida che ricopriva il terreno. «A destra.» ripeté, la voce che si spegneva di un’ottava mentre gli occhi indagavano volti e vesti, cercando e colpendo quasi allo stesso ritmo, la mente ancora più vigile per effetto dell’adrenalina che gli avevano iniettato prima dello scontro.
  Si rese conto di essere solo appena un istante prima di accorgersi che la rete era stata bucata, e che gli Stelth erano tornati visibili. Allora un nodo pesante parve sciogliersi e la sua determinazione vacillò per un istante, mentre la convinzione che avrebbe fallito la sua missione cominciava a serpeggiare in lui. Quindi corse lontano, cercando l’edificio più solido e alto, quello che avrebbe dovuto avere le fondamenta più profonde. Mentre correva sparava, cerando di offrire tutto l’aiuto che poteva alla fazione cui aveva giurato fedeltà, nel bene e nel male. Colpì due ragazzi che non potevano avere più di vent’anni e con rabbia pensò alla foto che riposava nella sua tasca; ma non era il momento.
  Gli aerei avrebbero impiegato meno di un minuto per individuare a e distruggere il loro obiettivo.
  Santiago doveva muoversi, scivolare fra i cadaveri e le rovine e nascondersi. Glielo doveva, gliel’aveva promesso…
  Un lampo. Un rumore assordante e vuoto. Un sibilo solo.
  Silenzio.
  Gli aerei avevano individuato i Dottori. 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


CAPITOLO II
 
 
  Era finita. Doveva esserlo.
  Giaceva con gli occhi chiusi, disteso al suolo e circondato da rovine, polvere e silenzio: l’attacco era cessato e i nemici se ne erano andati. La missione era fallita, per lui. Strinse le labbra mentre le mani si muovevano a spasmi, annaspando frenetiche lungo l’uniforme e fino alle tasche, con un’urgenza che trascendeva il dolore delle ferite.
  «Generale, ce n’è uno qui. Dei nostri. Si muove ancora.» urlò qualcuno da un punto imprecisato alla sua sinistra.
  «Condizioni?» chiese seccamente un altro, col tono di chi sia abituato a poche, decise parole.
  «Ferito, non grave. Forse sotto shock… forse cieco, o sordo. Si muove ma…» la prima voce era troppo vicina per fingere che non fosse Santiago l’oggetto della conversazione.
  Un tremito leggero della terra, pesante rumore di passi.
  «Tirati su, soldato!» ordinò il generale. Santiago rimase immobile, eccezion fatta per la mano, che ancora scavava frenetica nell’abito logoro. Toccò il bordo della carta appena prima che il generale lo afferrasse ad una spalla e, con uno strattone, lo sollevasse in piedi. Rumore di lacerazione, la manica della giacca cedette, mascherando il mugolio. Santiago, non più sostenuto dalla forza dell’uomo, cadde in avanti, distrattamente cosciente del dolore che si irradiava solo dal ginocchio sinistro. Aprì gli occhi – di un verde sporco troppo simile a quello della divisa, il colore di uno stagno abbandonato – e li piantò in quelli glaciali del generale. Fra le mani stringeva una vecchia foto, a cui si aggrappava come ad un’ancora di salvezza.
  «Anche questo è morto dentro. Ma forse sa ancora sparare. Caricalo sul mezzo e cercane altri.» ordinò il generale con tono tagliente, e si voltò per allontanarsi mentre l’attendente ancora eseguiva il saluto.
  Santiago continuò a seguire con lo sguardo l’uomo anche quando questo era ormai solo un ombra fra le distese di corpi ed edifici distrutti, poi gli occhi caddero sull’immagine consunta che teneva fra le mani e nulla ebbe più importanza. Distrattamente si accorse che qualcuno lo visitava, ripuliva le sue ferite e gli iniettava delle staminali sulla pelle lesa. Poi il sedativo, e tratti d’oscurità mentre il suo corpo veniva riparato meccanicamente. Pasti irregolari, albe e tramonti, e una canzone nella testa… y si te piensas echar atras tienes muchas huellas que borrar…1
  Perché? Si chiedeva, e ancora Ho fallito.
  E all’improvviso il sedativo smise di isolarlo dal mondo; tornarono i rumori, e con essi la coscienza.
  Era in una stanza stretta e lunga dalle pareti di cartongesso sbiadito, così sottili che gli pareva di poter sentire l’odore del vento, appena fuori. Una struttura d’emergenza, eretta in meno di un’ora e pronta ad essere smontata, assolutamente inutile come schermo e, meno ancora, come difesa. Era un indizio importante: edifici del genere, più temporanei di una pioggia estiva, erano solo un mero riparo dagli agenti esterni, atmosferici e chimici: se la scelta era caduta su tale costruzione invece che sulle usuali strutture di cemento, voleva dire che la ricognizione si era trasformata in una fuga.
  Santiago si vestì in fretta, si assicurò che tutto fosse ancora nelle sue tasche e corse fuori, incurante delle vertigini, e ciò che si trovò davanti gli provocò una fitta: tre strutture di cui una sola in cemento, quattro mezzi di trasporto, due guardie di perimetro. Nessun muro sonico, nessuna stazione missilistica mobile montata. La respirazione accelerò, mandandolo quasi in iperventilazione. Trenta persone, forse quaranta!
  Senza accorgersene, cominciò a cantare a bassa voce.
  «Pierdes la fe, cualquier esperanza es vana no se que creer. Pero olvidame, que nadie te ha llamadoy ya estas otra vez…2»
  «Non sei male. Ma è una canzone troppo vecchia per un ragazzo come te.» mormorò una voce femminile alle sue spalle. Santiago si voltò.
  «Ragazzo?» domandò, ironico, e lei sorrise. Aveva i capelli di un biondo sporco rasati quasi completamente, alla foggia dei marinai, e scaltri occhi nocciola. Non dimostrava più di diciott’anni. Lei annuì e gli tese una mano delicata. Era più bassa di lui di almeno tutta la testa.
  «Alona.» si presentò, scostando appena il capo in un gesto distratto, che mise in mostra parte delle linee di codice a barre tatuate appena dietro l’orecchio.
  «Santiago. Sei un…» esitò, temendo di offenderla, ma Alona sorrise.
  «Un Re-Ab. Esatto.» disse lei, allegramente. «Ero un ingegnere troppo bravo per morire di cancro. Ero nel team che studiò il primo ordigno a fissione nucleare anisotopa, sai? Quello che ora è nel motore del tostapane.» E rise. Aveva una voce così frizzante e delicata che metteva Santiago a disagio.
  «Di che… anni… sei?» domandò, cercando di nascondere l’imbarazzo.
  «Duemilasedici. Tre anni prima della terza. Sono morta prima di una guerra solo per essere risvegliata per questa. Assurdo, vero? Bella gamba, comunque.» Alona gli fece l’occhiolino, additando l’arto metallico che partiva poco sotto l’anca destra di Santiago. «È affascinante, non trovi? Ai miei tempi non era di routine come ora.»
  Santiago alzò le spalle. Restarono in silenzio per un po’, ascoltando il rumore frenetico dell’accampamento.
  «Ci hanno teso un’imboscata mentre cercavamo di penetrare il loro territorio.» cominciò Alona, lo sguardo fisso avanti, alle colline in lontananza. «Spiavano una missione di spionaggio. C’è dell’ironia pesante in questo, vero?»
  «I Dottori?»
  «Sani e salvi. Non sono mai stati nel loro campo base, sai? Li tenevano fuori, in un bunker che cambiava posto ogni notte. Solo i generali sapevano dov’era. Hanno pensato di averli fatti fuori tutti… e di averci ammazzati. Invece siamo vivi… ventotto soldati, noi compresi, e sedici Dottori. Lì dento.»
  «Come mai non sei con loro?» con un cenno del capo, Santiago indicò un gruppo di soldati a poca distanza, raccolti attorno alla piccola cucina da campo rotonda. Lo sguardo della Re-Ab lo seguì, puntandosi sul veicolo corazzato che riposava ancorato al suolo. Il bunker mobile dei Dottori.
  «Ero brava, ma sono rimasta indietro. Quasi due secoli non vengono colmati con tre anni d’accademia.» Alona scrollò le spalle, piantando le mani nelle tasche. «Ero di base su una nave-accademia quando ci hanno richiamati. Adesso faccio il manutentore specializzato. E tu?» il tono era passato da un velato rimpianto all’allegria con naturalezza, lasciandolo spiazzato.
  «Sottotenente. Ero ufficiale in comando di un piccolo plotone distaccato a Madrid. Due coorti, diciotto cannoni a laser. Non avevamo nemmeno un medico con noi.» disse Santiago, imbarazzato. Sorrideva, non poteva farne a meno. La ragazza lo faceva sentire a suo agio con una naturalezza sconcertante. «I miei erano bravi ragazzi. Ci occupavamo di comunicazione e cifratura… sai, messaggi codificati e riparazione hardware e software. Ci spostavamo spesso e… bhe, ne sono arrivati dodici al campo a nord. Immagino che non li rivedrò più.»
  «Un pensiero inutile. Ora siamo noi i tuoi compagni. E.. oh!» Alona si bloccò di colpo, portandosi sull’attenti. Ancor prima di averne osservato il volto o i gradi, anche Santiago aveva eseguito il saluto, seguendo un riflesso condizionato che era parte dell’addestramento.
  «Riposo.» la voce gelida dell’uomo era inconfondibile, ma solo adesso Santiago poteva associarla al volto rude e duro che lo fissava come un compratore esigente. Non indossava l’uniforme destinata ai generali, ma una casacca verde da soldato semplice, priva di stelle sulle spalline – eppure non si sarebbe osato mettere in dubbio la sua persona.
  «Sottotenente Santiago del cinquantottesimo, telecominucazioni.» si presentò, senza abbandonare la posa rigida.
  «Riposo, ho detto.» intimò il generale, quindi rivolse uno sguardo interrogativo ad Alona, che annuì, seria. «Bene. Telecomunicazioni? Lo vedremo. In quella struttura ci sono tre comunicatori. Trovali, scegliti un mezzo e caricaceli. Te ne occuperai tu. Trova il guasto, riparali. Caporale, assegnagli due soldati del terzo come sottoposti. Xabat e Ricardo andranno benissimo. Fornisci a tutti e tre un nuovo identificativo e poi torna alle armi, le voglio operative entro le sei di domattina. Ah, e procuragli uno dei diari. Sottotenente, da ora in avanti sei un ufficiale con mansioni di storico e la responsabilità di una piccola unità. Comincia col registrare l’attacco.» il generale concluse il discorso con una nota secca, quindi riprese il suo giro. Santiago si voltò verso Alona, con gli occhi ancora spalancati.
  «Guarda che se ne è andato. Rilassati.» disse con allegria il caporale, e poi allungò un braccio chiaro, indicando due uomini identici intenti a controllare i cingoli iridescenti di uno dei mezzi. «Quelli sono i tuoi nuovi migliori amici. Non farti ingannare, si conciano nello stesso modo ma non sono fratelli. Nemmeno cugini, credo. Erano nell’aviazione prima di venir trasferiti al terzo.» disse lei, annuendo come chi avesse spiegato una verità ovvia. Quindi assunse un fare pratico e lo condusse verso la struttura più lontana, un capanno in lamina di cromo riflettente, dove un uomo alto e massiccio lo squadrò dall’alto in basso, senza mai abbandonarlo. Aveva le braccia possenti strette al petto in una posa che faceva risaltare la sua prestanza fisica, leggermente smontata dai piccoli occhiali rotondi in equilibrio sulla punta del naso aquilino. Alona disse che si chiamava Serafin e di non ridere del suo nome, perché era un tagliagole della fanteria; poi consegnò a Santiago tre tablet, gli indicò sette scatoloni e, con una pacca sulle spalle, lo salutò dicendo, a voce troppo alta, «Vedi di andartene presto. Quel grazioso cherubino è un po’ sociopatico.»
  Le scatole erano leggere dunque Santiago se ne caricò il più possibile fra le braccia. Serafin grugnì ma tacque, limitandosi a sbattere la porta alle sue spalle quando l’ufficiale fu uscito dal magazzino, fuori dal quale lo spettavano i due attendenti. Non si presentarono, limitandosi a caricarsi di un identico numero di scatole ciascuno e avviarsi verso il mezzo sul quale lavoravano.
  Tacevano ancora quando, sette ore dopo, Santiago finì di allineare i tablet col server collegato al database nel chip del generale. Quando tutti i sistemi furono online, l’ufficiale cominciò ad ispezionare le scatole, lasciandosi quasi subito sfuggire un gemito disperato.
  «Ti sei appena accorto di essere fottuto, vero?» sghignazzò il guidatore, prendendo l’ennesima buca.
  «Ti pare il modo di rivolgersi a un superiore, soldato?» lo riprese Santiago. I due identici soldati che gli sedevano alle spalle risero.
  «Ufficiale, d’accordo. Siete comunque fottuto. Il generale avrà le vostre palle, garantito. Signore.» rispose l’altro attendente, voltandosi a guardarlo negli occhi. Sedeva accanto a quello che, quasi immediatamente, Santiago aveva cominciato a chiamare “uno dei gemelli
  «Smettete di usare quel tono da film con me, idioti! E tu guarda la strada, altrimenti…»
  «… quei congegni andranno più in pezzi?!» concluse qualcuno dal fondo del mezzo, e tutti gli altri scoppiarono a ridere.
  Santiago chiuse la scatola e la poggiò accanto alle altre, che occupavano i due posti al suo fianco. Nessuno aveva protestato quando le aveva messe lì, e lui sapeva perché. Con calma sollevò la schiena, facendo appello a tutta la dignità che poteva.
  «Chi di voi è del terzo?» chiese, puntando gli occhi su ognuno degli undici soldati che occupavano la parte posteriore del mezzo. Una donna produsse un sorriso furbo e restituì lo sguardo con aria di sfida, ma fu il più anziano del gruppo a rispondere.
  «Ci sono otto Dottori, tre soldati semplici, un sergente e un sottotenente.» fece un cenno di assenso col capo. «I primi hanno una scorta di quattro guardie personali e viaggiano in un mezzo speciale. Gli altri hanno il privilegio di dividere la strada con quel che rimane del terzo. Tutti, tranne uno, viaggiano col generale. Ti è abbastanza chiaro?»
  «Cazzo.» rispose Santiago, mentre una mano saliva fra i capelli corti e pungenti, a carezzare il capo, e l’altra scendeva nei recessi delle tasche. «Si.» e forse avrebbe aggiunto qualcos’altro, ma il veicolo si fermò di colpo, catapultandolo in avanti. Si afferrò al sedile poco prima di finire addosso a una ragazza dallo sguardo di fuoco, provocando un collettivo sbuffo di sdegno che era peggio di qualunque risata.
  Mentre il gruppo scendeva senza proteste o domande, Santiago estrasse la foto dalla tasca e rimase a fissarla con uno sguardo vacuo, mentre un unico pensiero gli affollava la mente.
  Quei soldati non lo consideravano neppure. Era solo, definitivamente solo.

 
1 e se progetti di tornare indietro devi coprire molte tracce
2 Perdi la fede, ogni speranza è vana non si sa a cosa credere.Ma dimenticami, perché nessuno ti ha chiamato e ci sei di nuovo.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


CAPITOLO III
 
 
  «… attorno a Madrid. La sicurezza è a livelli altissimi, e non sappiano su quali frequenze siano state tarate le difese. Le nostre credenziali potrebbero non essere aggiornate.» concluse un ometto basso, pieno di muscoli e totalmente privo di peli. Il generale annuì, quindi si volse verso il drappello di soldati che gli si erano riuniti attorno. Santiago si affrettò, il tablet fra le mani che mandava un basso ronzio. Come attirati dal movimento, gli occhi del generale si piantarono su di lui e vi rimasero finché l’ufficiale non prese posto nel cerchio di soldati, accanto ai gemelli.
  «Sottotenente. In elegante ritardo, vedo. Devi scusarci, abbiamo iniziato senza attenderti.» disse il generale, gelido. La totale assenza d’inflessioni nella voce dura di quell’uomo era la cosa che più di tutte preoccupava Santiago, dandogli l’impressione che fosse totalmente privo di alcun sentimento. Come avrebbe potuto sopravvivere ad un uomo del genere?
  «Chiedo scusa, signore.» si limitò a dire, modulando il tono a seria gravità, sicuro che nessuna parola in più gli avrebbe procurato vantaggio. Il generale si limitò a squadrarlo per un lungo istante, costringendolo a faticare per non abbassare lo sguardo, prima di riprendere a parlare.
  «Le trasmittenti?»
  «La strada era troppo accidentata, signore. Era impossibile eseguire un buon lavoro in quelle condizioni. Quei congegni sono…» esitò, cercando un termine che non riuscì a trovare. «andati, signore.»
  «Andati?» il generale sollevò appena un sopracciglio. «Andati? Chi cazzo ti ha promosso ufficiale tecnico? Per gli déi! Andati!» non aveva gridato, ma il furore gelido aveva fatto indietreggiare Santiago di un passo.   Sono fottuto, pensò.
  «Lascia che ti spieghi, sottotenente» riprese il generale, stringendo fra i denti l’ultima parola quasi fosse un chicco di caffè particolarmente amaro. «Dobbiamo consegnare un pacco umano in una fortezza piena di soldati che ci credono morti. L’unico modo per entrare è fargli sapere che esistiamo ancora. O vuoi forse esibire i nostri ospiti
  Non sono un bambino idiota, lo so che servono, maledetto bastardo!, pensò Santiago, ma scosse la testa, con gravità.
  «Bene. Amara e Sherita, a voi i primi turni di guardia. Due ore, non di più, poi Tomas e Ruben. L’ultimo turno lo faremo io, Alona e il nostro nuovo ufficiale… che avrà finito di riparare almeno la radio per allora. Riposo soldati.» li congedò, avviandosi verso il mezzo dei Dottori.
  Santiago volse le spalle, inghiottendo un fiotto di ira e mortificazione.
  «Tu si che hai capito tutto della vita militare.» uno dei gemelli gli si era affiancato sulla destra, subito imitato dall’altro: così disposti, facevano sembrare Santiago un condannato scortato in cella.
  «Gradirei non dover subire il vostro umorismo. Ho da fare.» replicò fra i denti Santiago, accelerando il passo.
  «Suvvia, sei il nostro ufficiale, no? Non ti buttare giù così. Puoi punirci, no? Incazzati, urlaci contro, mandaci a pulire i cessi.» ridacchiò il gemello di sinistra, seguendolo a ruota. Ora che poteva vederli da vicino, Santiago notò la scintilla di follia che aleggiava, identica, su quei volti grossolanamente diversi.
  «Te l’ho detto, soldato, modera il linguaggio.»
  «E tu puniscilo! Chi ti obbedirà se non ti fai rispettare? Pensi che basti il tuo gelido disprezzo? O quella bella stella incollata sulla tua spalla?» riprese l’altro. Santiago non gli badò, limitandosi a scivolare all’interno del mezzo. Afferrò una scatola e fece scivolare il contenuto su di un sedile, lasciando che le sue mani esperte navigassero tra i pezzi, analizzandoli e riconoscendoli nella maniera meccanica dettata dall’esperienza.
  Nessuno lo raggiunse.
  Quattro ore più tardi due delle radio erano state assemblate, ma solo una produceva qualcosa di più di un sibilo assordante. L’accantonò, avviandosi al turno di guardia con lo stesso animo di un condannato al plotone d’esecuzione.
  Il punto d’osservazione era un rettangolo di terreno bruciato al limitare estremo del campo, appena fuori dalla cupola di protezione. Un distorsore di campo rendeva le figure poco meno di ombre su un suolo desolato: quattro sagome che si rivelarono essere i gemelli, il generale e il caporale, riunite attorno ad un bruciatore chimico che emanava una luce gialla fissa, simile ad un minuscolo sole. Lunghe ombre notturne scavavano i loro volti, rendendoli alieni e spaventosi nonostante il tono leggero della conversazione. Nessuno sembrò far caso a lui, che si sedette in disparte, lasciando il gruppo di commilitoni alle loro chiacchiere oziose.
  Sentendosi la persona più sola al mondo, Santiago estrasse dalla tasca la foto e rimase a fissarla in silenzio, studiando i volti e i sorrisi che vi erano ritratti con lo stesso interesse di un naturalista che avesse appena scoperto una rara farfalla esotica – e forse era davvero così, perché Santiago era in grado di perdersi nei colori solari di quell’immagine scattata molto, forse troppo, tempo addietro.
  Un ultimo attimo felice, pensò l’ufficiale, sospirando. Chiuse gli occhi e, quando li riaprì, due ombre gli si erano parate davanti; i gemelli lo guardavano, due identici sorrisi stampati in volto.
  «Che abbiamo qui, signore?» chiese uno dei due, melenso e derisorio, mentre l’altro allungava la mano rapido, chiudendo due dita sulla foto e tirandola a sé. Santiago alzò lo sguardo e fissò i due gemelli e prima che potesse fermarsi aveva caricato un colpo con l’arto metallico, diretto allo stomaco del più vicino dei due, quello con la foto ancora stretta fra le dita; che incassò, troppo lento per reagire. Seguendo il movimento dell’impeto, Santiago gli si proiettò addosso, spingendolo con tutto il peso a terra. Cominciò a tempestarlo ritmicamente di pugni, colpendo là dove la carne era più sensibile e scoperta. Da dietro arrivò il sibilo di un calcio che lo colpì alla spalla, e improvvisamente fu una mischia: entrambi i gemelli gli erano addosso, colpendolo con tutta la foga che potevano, mentre lui cercava di evitarli e di colpirli nel frattempo. Era allenato, e si vedeva: colpiva più lentamente dei suoi avversari, ma ogni pugno o calcio era diretto con precisione verso bersagli studiati, che fecero ben presto perdere il fiato e sanguinare i due uomini che gridavano come belve, dimentichi di qualunque legge o ordine.
  Poi ci fu un colpo secco, come di frusta, e una scarica gelida paralizzò la colonna vertebrale di Santiago, bloccandolo a metà di un pugno, il braccio sollevato a mezz’aria. L’immobilità l’invase completamente, seguita da un’onda di dolore che scendeva come un anello di fiamme sulla sua pelle chiara, bruciandogli i peli delle braccia e dandogli fitte insopportabili all’inguine. Così svuotato, Santiago crollò a terra, finendo appena sopra il corpo di uno dei gemelli, colpito dalla stessa paralisi. Immobile, osservò il generale farsi avanti con passo marziale, spostando il cursore della sua arma dalla punta ancora rossa, simile al bagliore di una sigaretta nel buio. Puntò la canna della pistola alla testa di Santiago, che sentì la pelle avvampare e bruciarsi. Gli avrebbe lasciato un marchio, forse, ma non aveva importanza. Contavano solo gli occhi azzurri come il ghiaccio di quell’uomo senza pietà, che lo fissavano con disprezzo.
  Santiago batté le palpebre, impassibile, conscio di quello che l’attendeva. In una mano stringeva la foto, ora leggermente macchiata di sangue nuovo all’angolo superiore. 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


CAPITOLO IV
 
 
  La regione intorno a Madrid pullulava di guardie, non tutte amiche.
  Man mano che la capitale si avvicinava il giorno si faceva più cupo, seguendo l’addensarsi del temporale, che borbottava e sibilava in lontananza, mischiandosi agli accenti esotici degli stranieri che pattugliavano la zona. Quasi tutti i soldati spagnoli tacevano, ormai, tremendamente consapevoli della vicinanza al cuore pulsante della loro nazione.
  Due giorni prima uno dei mezzi si era fermato e nessuno era stato in grado di riuscire a farlo ripartire. Il generale aveva dunque dato l’ordine di abbandonarlo, e ora i superstiti erano stretti l’uno sull’altro nell’unico cingolato rimasto, pigiati come animali. In fondo, compressi fra le casse di viveri e la colonnina del trasmettitore, erano stipati Santiago e i suoi sottoposti, legati dai sottili fili argentei della ragnatela al plasma. Ferite e ecchimosi coprivano il volto e il corpo dei tre militari, uno dei quali aveva una costola rotta che lo faceva sussultare e gemere ad ogni avvallamento del terreno. Nessuno sembrava farci caso: il generale aveva dato ordine di non sprecare nemmeno un’aspirina per loro, raccontando cos’era avvenuto mentre confiscava le armi e il rettangolo di carta che aveva dato inizio alla lite.
  Ora tacevano tutti, arrancando su un terreno stepposo e arido, la cui monotonia era interrotta, di tanto in tanto, da declivi spianati dal vento da cui spuntavano, come denti marci e distrutti, i resti di vecchie cartelloni pubblicitari di metallo corroso e, di tanto in tanto, i tori d’acciaio che ammiccavano dai rilievi. La radio mandava musica degli anni del nucleare e bollettini di guerra ad intervalli di venti minuti, e se qualcuno azzardava una nota o un sorriso, questo subito si spegneva alle parole “sconfitta… ritirata… schieramento di sicurezza”.
  Il re era stato trasferito, assieme agli organi minori di governo, in un luogo sicuro lontano dalla capitale, ora in mano ad una mescolanza di italiani e americani. La popolazione non era stata toccata, anche se erano da aspettarsi ritorsioni contro i ribelli che sarebbero sorti. No, nessuna notizia dei Dottori: gli invasori sconfessavano di averli uccisi nel bombardamento atomico, ma c’erano pochi dubbi in merito, dato che dell’accampamento scientifico erano stati trovati solo i resti carbonizzati delle strutture sotterranee. Si aspettavano rinforzi dall’Asia centrale: il califfato, che aveva stracciato l’alleanza con l’Italia dopo l’attacco di una settimana prima, aveva promesso di infrangere il blocco aereo che gravava sull’Europa, ma ancora non c’erano state battaglie nei cieli. E poi ancora aggiornamenti sulle vittime, sullo stato della politica estera, sulle nuove alleanze, sui ribelli che davano asilo ai soldati nemici. Una situazione agghiacciante che faceva stringere i cuori in una morsa gelida a tutti, persino i più avvezzi al tradimento e alla morte.
  Solo il generale manteneva il suo contegno impassibile. Ascoltava le notizie senza un minimo cenno, limitandosi a dare ordini perentori quando le parole chiave dei giornalisti attivavano una frequenza della sua mente. Non aveva cambiato rotta fino a che non era stato diramato un bollettino sullo stato delle coltivazioni di datteri del sud, pericoloso in maniera terrificante. Le piantagioni nella regioni di Murcia erano andate distrutte da un conflitto a fuoco che aveva interessato diversi mezzi pesanti, dicevano. Ancor prima che avessero finito di parlare, il generale aveva ricalcolato la rotta e fatto deviare il loro piccolo convoglio sulla cittadina del sud, dando come rotta ultima Cartagena. Avrebbero bypassato Valencia, aveva detto, perché quella città, che le notizie riferivano essere “una piccola oasi di quiete”, era un’imboscata. Santiago non capiva ma preferiva tacere, conscio della posizione delicata nella quale si trovava. Era prigioniero da due giorni e, in quel periodo, non aveva toccato altro che acqua. Lo stomaco gli doleva, contraendosi con uno spasmo rumoroso al pensiero delle caramelle stantie che riposavano nelle sue tasche, mezzo appiccicate alla ferraglia che si trascinava dietro dal campo nord. Riusciva a tuffare le mani nel tessuto e a toccarle, ma mai avrebbe potuto portarle alla bocca, quindi su limitava a giocarci, cercando di staccarle dal resto. Sapeva che l’inedia era la procedura standard, e che se l’era meritata. Così attendeva, cercando sul volto del generale un segno che potesse fargli capire quando sarebbe passata. Non lo trovò, e ben presto la sua indagine scivolò in un sonno agitato da incubi antichi, di donne col volto in fiamme e bambini che piangevano, in fila l’uno accanto all’altro lungo un muro che non sarebbe esistito più. E la loro mano – la sua mano - che si chiudeva sull’arma meccanicamente, inghiottendo sentimenti e dolore, delegandoli a quando quell’orrore fosse finito.
Ne era ancora immerso, e non poteva farne a meno. Lo faccio per loro, per dargli una vita migliore, sussurrava a sé stesso; e doveva averlo detto a voce alta, perché vene svegliato da una donna e una domanda.
  «“Loro” sono le persone nella foto?»
  Santiago non rispose, e lei non disse altro, limitandosi a svegliare gli altri due prigionieri e a guidare il piccolo gruppo fuori, verso uno dei due edifici in cemento appena eretti e poi al suo interno, una spoglia stanza dalle pareti grigie con una sedia, un tavolo pieno di sonde e apparecchi e una persona voltata di spalle. Santiago lo riconobbe all’istante, quindi si volse e osservò con distacco la sua scorta: era la stessa donna che gli aveva lanciato l’occhiata incandescente nel mezzo… quando? Una settimana prima? Non importava. Era una bella donna, dalle forme generose e il volto aguzzo e sottile coperto di lentiggini atteggiato ad un distacco che non arrivava agli occhi; il movimento nervoso, le iridi che scrutavano il buio della notte con sospetto, una lieve pressione delle mani tradivano inquietudine. Sulle sue spalle riposavano tre stelle di metallo consumato. Il capitano fece un gesto di saluto, battendo i tacchi delle scarpe maschili con un rumore sordo che fece voltare lentamente il generale, intento a studiare una proiezione di dati fluttuante a mezz’aria. L’uomo si prese un istante per far scorrere uno sguardo distratto sui presenti, quindi congedò la donna chiamandola per nome. Amarissa.
  «Siamo un gruppo disomogeneo.» esordì, passandosi la mano sul polso destro, dove il Timbro luccicava come arterie di plasma lungo l’avambraccio. «Ma non lascerò che diveniamo dei disperati senza ordine. Quindi parlate, e siate convincenti. Preferisco lasciare un cadavere a insozzare la terra piuttosto che un sovversivo in vita.» e puntò gli occhi su uno dei gemelli, stringendoli appena. «Ricardo.»
  «Non sopporto di ricevere ordini da lui. Signore.»
  «Xabat?»
  «Concordo, signore. È inadatto al comando, inefficace come tecnico e incapace di controllarsi.»
  «Non sarebbe sopravvissuto un’ora nell’aereonautica. Gli altri piloti lo avrebbero fatto a pezzi. Signore.»
  «Ma qui non siamo nell’aereonautica, signore.» intervenne Xabat con una punta di amarezza nella voce e un sorriso folle e subitaneo sulle labbra.
  «Silenzio.» Intimò il generale, spegnendo con la sua voce anche le espressioni di rimprovero dei gemelli, che parvero spegnersi tornare ad una inquietante tranquillità. «No, non lo siamo. Questo è il campo di battaglia, non l’accademia. Qui, un soldato che non si integra è un pericolo per gli altri e per la missione. E ogni pericolo deve essere neutralizzato.» lo disse con distacco, lasciando cadere la frase come fosse un commento privo di rilevanza, un’ovvietà. «Ufficiale in comando. Mi spieghi perché ha aggredito i suoi sottoposti.»
  «Hanno passato il segno. Signore.» disse Santiago, cercando di domare la profonda inquietudine e il martellante È la fine che gli esplodeva nella testa a ritmo del flusso sanguigno.
  «Passato il segno? Si spieghi. Chiaramente. Questa non è una chiacchierata, ma una corte marziale. Voglio che le sia ben chiaro.»
  «Hanno… toccato l’unica cosa… l’unica cosa che mi tiene ancora in vita, signore.» confessò Santiago, cercando di regolarizzare il respiro. Gli occhi si mossero, scavando avidi nella stanza alla ricerca di ciò che era suo.
  «Cos’è quest’idiozia, soldato?» domandò il generale, annullando la distanza che separava i loro volti, un ringhio afono che gli deformava il volto.
  «Un sentimentalismo.» disse Santiago in tono di sfida, rilassando le spalle. Senza smettere di fissarlo il generale si allontanò e allungò una mano alla scrivania, prendendo l’unico pezzo di carta che vi riposava, voltato sul dorso. Lo esaminò con distacco, trattenendolo fra due dita. Il volto di Santiago sbiancò. «Posso riaverlo? Signore.» chiese, con una punta appena di violenza.
  «Spiegami.»
  «Ho degli ordini e li rispetto, signore. Mi hanno insegnato a rispettarli. Mi dicono “spara”, e io lo faccio, senza permettermi alcuna remora. Ma non lo faccio per il mio generale, né per il mio re. Lo faccio per il mio paese. Lo faccio per quelle persone che sono sempre con me. Per loro. L’ha vista?» il generale alzò le spalle impercettibilmente, in un gesto che forse era solo un riflesso non controllato. Santiago abbassò le spalle, espirando, mentre un accenno di sorriso sorgeva, subitaneo. «La volti, signore.» disse, e il generale lo fece, osservandola con distacco. I due gemelli allungarono il collo quasi in sincrono, avidi.
  «È la tua famiglia?» domandò, abbassando appena l’immagine, che ritraeva una giovane e sorridente donna con un neonato fra le braccia pallide e due bambine al fianco. Era appena sfocata, chiaramente segnata da acqua, sole e grasso della pelle, e rovinata in alcuni punti. Tutto il lato sinistro era piegato e fissato con pezzi di scotch ingiallito; nascondeva alla vista l’orecchio destro della bambina e la figura  che le era accanto, di cui spuntava la mano tra i capelli folti della piccola.
  «Si. E no. La prego, non lo faccia!» sbottò Santiago con urgenza, bloccando il movimento del generale, le cui dita erano salite a forzare l’adesivo, cercando di aprire l’angolo. «C’è un ragazzo, lì sotto. Un ragazzo con… con un sorriso velato di nostalgia, che non si rende conto di avere tutto quello che si possa desiderare. Un ragazzo che se ne è andato per combattere la sua guerra epica ed eroica e li ha lasciati soli ad affrontare la vita. E quel ragazzo» la voce era rotta da un’emozione che sembrava non essere in grado di controllare, ma il volto cercava di restare impassibile, tradendo lo sforzo immenso  e straziante a cui doveva essere sottoposto. «… quel ragazzo non lo merita, ma è con loro, sempre con loro, in ogni istante della sua vita. Ho fatto una promessa, signore. Ho giurato di non voltare quel lembo fino a quando non avrò terminato la missione per cui mi sono arruolato: salvare il mio paese. Allora e solo alllora quel ragazzo tornerà fra sua famiglia di carta e ricordi, e l’uomo… anche l’uomo tornerà a casa.» concluse, respirando appena. Aveva gli occhi rossi e la pelle del volto e delle labbra pallida come quella di un morto.
  «Capisco.» si limitò a dire il generale, lasciando stare la foto e portando la mano al chip nel braccio destro e premendolo. La ragnatela di forza si allentò e scivolò via, dissolvendosi nell’aria nella sua corsa verso il pavimento. «Sei un ufficiale in comando. Hai una missione, e sai che lo scopo è alto. Se loro si salvano, anche noi ci salveremo.»
  «Lo so bene, signore.» disse Santiago, prendendo un respiro profondo.
  «Allora assumi il tuo ruolo. Ho un altro compito da affidare a te e alla tua squadra.» il generale aveva voltato loro le spalle un attimo, in un gesto che trasudava fiducia in sé e in loro. Era tornato al suo solito tono spicciolo.
  «Sono ai suoi ordini, signore.» disse Santiago, e la sua voce rimase salda e ferma.
  «Bene. Due uomini sono stati trovati morti ieri, durante la pausa. Sebe e Xavier.»
  «Quello biondo e quello brutto che si sono seduti sui nostri piedi quando si è rotto il furgone.» spiegò Xabat con indifferenza, in risposta allo sguardo interrogativo di Santiago.
  «Signore.» aggiunse Ricardo con un mezzo occhiolino, accentuando il sorriso folle.
  «I medici hanno avanzato l’ipotesi del malore, e io l’avvaloro. Ma la realtà è meno facile. Dietro la testa Sebe aveva un segno di ustione parzialmente cicatrizzato.»
  «E allora?» sbuffò a mezza voce Xabat. Una vena sulla fronte del generale si contrasse appena.
  «Distorsori neurologici.» rispose in fretta Santiago, cercando di evitare una reazione del generale; che produsse una smorfia di disprezzo.
  «Mi sorprende che li conosciate.»
  «È un dispositivo meccanico, e io sono un tecnico. So ripararlo, signore.»
  «Bene. E ne conosci il meccanismo?»
  «So che è fatale. Signore.»
  «No. Un Distorsore crea una corrente di bassa carica ad alta tensione. Non è fatale di per sé, ma il voltaggio altera i sensori del Timbro, danneggiando i connettori di frequenza che finiscono per alterarsi e rilasciare una scossa fatale, che provoca un arresto cardiaco. È un logorio lento, che dipende dal tempo di impianto del chip. Il che vuol dire che il Distorsore può essere stato usato fino a dodici giorni fa. Solo un attento esame del chip potrà stabilire l’ora dell’omicidio.»
  «E Xavier?» domandò Ricardo.
  «Stessa cosa, ma senza bruciatura. I medici ci stanno ancora lavorando. Sospettano che la ragazza fosse troppo vicina a Xavier quando il connettore si è fuso.»
  «È possibile? Signore?» chiese Xabat.
  «Così dicono.»
  «Perché ce lo dite, signore?» si intromise Santiago, nuovamente in ansia. Finiranno mai queste domande? O vuole farmi morire d’infarto?
  «Siete stati perquisiti mentre dormivate. Per quanto le vostre tasche siano piene di merda, non c’è niente di più pericoloso del tetano lì dentro. Ed eravate legati.»
  «Capisco. La ringrazio, signore.» disse Santiago, lanciando un’occhiata ai due uomini che gi facevano da ala. I gemelli sorrisero la loro smorfia folle e si sgranchirono le spalle, improvvisamente rianimati. Santiago si permise appena un barlume di speranza mentre, con la precisione che gli era stata insegnata, eseguiva il saluto. Il generale li congedò, attendendo che fossero quasi alla porta per parlare, dandogli le spalle.
  «Lavorate come una cazzo di squadra e trovatemi quel bastardo. È tutto.»

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


CAPITOLO V
 
 
  La zona intorno ad Albacete portava i segni del bosco che era stata. L’odore dei tronchi marci permeava l’aria, mentre il gelo sciolto formava pozzanghere di fango e melma rossastra, l’onnipresente segno delle atomiche. Sedevano in circolo attorno al fuoco chimico stringendo i lembi delle giacche lacere ad avvolgere le tute - la cui carica non garantiva più alcun aiuto contro il gelo del giorno - cercando di contrastare il vento che spirava dall’entroterra.
  Avevano perso altri tre uomini in un incidente che, nella sua atrocità, aveva del ridicolo: uno dei connettori della barriera era saltato dal fermo che l’ancorava al suolo, interrompendo la continuità della recinzione. Il cavo aveva colpito al volto Esteban, un uomo coriaceo di quasi sessant’anni – due terzi dei quali passati montando e riparando barriere – strappandogli metà del cranio. La staticità si era ripercossa fino all’edificio più vicino, una struttura in lamina di cromo adibita a dispensa, attorno alla quale stavano Serafin l’armaiolo, Joge il cuoco e un ragazzo di cui Santiago non aveva mai saputo il nome. Il ragazzo e il cuciniere erano stato sbalzati lontano, il corpo devastato dal plasma incandescente fuori controllo. Il luogotenente se l’era cavata con un braccio e un piede nuovi: la struttura aveva attutito gran parte dei colpi, andando distrutta. 
  Santiago aveva aggiornato il diario di viaggio, cifrando nomi e ruoli e catalogandoli assieme ai dati contenuti nel Timbro… quando era riuscito ad estrarli. Un’inquietudine profonda l’aveva colto a metà del lavoro, quando era divenuto chiaro che il fermo era stato manomesso. Ma da chi? Una delle vittime, era da presumere, o forse qualcuno dei tanti soldati che si affrettavano a montare strutture nell’angusto spazio in cui erano rinchiusi, urtandosi e fuggendo alle proprie mansioni. Chi avrebbe mai potuto individuare un malintenzionato quando tutti avevano un compito?
  Aveva provato a chiedere in giro, ma nessuno ricordava.
  «Regolare, mio caro ufficiale. Guarda te: hai le mansioni che, in un plotone normale, verrebbero affidate a quattro persone. E non devi nemmeno montare gli edifici!» disse Ricardo con foga, interrompendo il pensiero a voce alta di Santiago. Era nervoso, quella sera: sbatteva gli occhi ad un ritmo troppo alto, allargando il lato destro della bocca di scatto quando pronunciava le vocali.
  «Quelle macchine hanno bisogno di otto persone per scavare le fondamenta e ricoprirle, e noi eravamo in due. Due! Sfido che a costruire un dormitorio ci abbiamo messo quaranta minuti!» Il gemello non era da meno: contraeva ritmico le mani, tamburellando ora l’uno ora l’altro piede al suolo, sempre più veloce. Santiago aveva tirato fuori la foto e la studiava, carezzandola come fosse un bene prezioso; ci metteva troppa cura per non accorgersi che lo faceva per distrarsi dai tic dei gemelli. Alona guardava il cielo, scrutandolo come se contenesse una verità innegabile, e di tanto in tanto lanciava occhiate veloci all’immagine, mordendosi le labbra – finché non ne poté più e scivolò dietro Santiago, allungando il collo come una bambina.
  «Mi hanno detto che è la tua famiglia.» esordì, allegra. Guardò le bambine gemelle, studiando gli occhi scuri così simili a quelli della madre e i capelli neri, corti e lisci. Poi guardò il bimbo piccolo e il sorriso finalmente si sciolse nel mugolio che tentava di trattenere. «Oh, sono tanto carini. E il bimbo ti somiglia così… tanto. Ti mancano molto?» domandò, allungando una mano e toccando i volti con l’indice, piano, come per una carezza, fino al bordo ripiegato fermato con lo scotch, dietro il quale lui si nascondeva. Santiago glielo permise, pur irrigidendosi visibilmente, tanto che i gemelli si mossero, pronti a afferrarlo nel caso avesse cominciato a menare le mani di nuovo.
  «Sono qui per loro, e questo mi conforta e mi distrugge allo stesso tempo.» disse, con una durezza nella voce che voleva mettere fine alla storia. Alona si ritrasse, portando il dito alla bocca con il vezzo di una bambina che si fosse scottata. Xabat scoppiò nella sua risata folle.
  «Sempre della sua famiglia si parla. E allora? Tutti abbiamo avuto una donna nella nostra vita, che sarà mai? Io voglio novità. Tu? Ce l’hai un marito, ufficiale?» domandò il gemello, ammiccando in maniera volgare. Alona piegò il capo, sorridendo in quella maniera disarmante per la sua innocenza.
  «No. Sono morta troppo giovane per averlo. Ai miei tempi si aspettavano i trentadue anni.» e scrollò le spalle, mentre i volti dei gemelli si pietrificavano in identiche espressioni di sgomento. «Toglietemi una curiosità, voi due.» continuò, sporgendosi avanti e sgranando appena gli occhi, un’espressione da folletto in viso «Che avete di sbagliato? Cioè, perché ve ne andate in giro come se foste fratelli siamesi separati alla nascita?»
  I due si mossero, a disagio. Xabat scrollò le spalle e aprì e chiuse la bocca un paio di volte, come un pesce che annaspi, prima di scrollarsi violentemente e alzarsi. Lasciò il cono di luce e scomparve oltre lo schermo del distorsore. Santiago si alzò, pronto ad inseguirlo, ma Ricardo lo trattenne per un polso, afferrandolo con troppa forza.
  «Lascialo fare, non servirebbe a niente.» disse con gravità, raccogliendoli entrambi nel suo sguardo carico di disappunto. Alona era mortificata, rossa in volto e raccolta in sé. Santiago si sedette senza parlare, sempre nella morsa del sottoposto. «Non tutti accettano le conseguenze dell’addestramento. Alcuni impazziscono al… al pensiero di perdersi. Altri si arrendono, ma vengono scartati, perché non ci può essere menzogna. Deve essere vero. Deve…» scosse il capo, lasciando andare Santiago con violenza, per passarsi la mano sul volto, al sudore freddo che gli imperlava la pelle. «Ti fanno una marea di test a scuola. Vedono che sei adatto, ti portano in accademia e ti assegnano un compagno. La fanno sembrare una cosa bella, un onore, e tu ci credi e ti impegni. Prima ti vestono allo stesso modo, poi ti insegnano a mangiare un cibo che è metà quel che ti piace e metà quel che piace a lui. Poi devi re-imparare a parlare, a camminare, a pensare! Alla fine ti distrai coi compiti o con gli allenamenti, e un bel giorno ti accorgi che ti sei perso e che non ci puoi fare niente. Allora mi sono messo l’anima in pace, perché non abbiamo perso metà di noi, ma ci siamo migliorati. E poi ti dicono che non sei più solo, ed è vero… è la sintonia! Mentale, sessuale e fisica.» Ricardo smise di parlare di colpo, lasciando un senso di attesa. Respirava velocemente e sembrava sempre più folle.
  «Perché?»chiese Alona con un filo di voce, filtrando le parole con le dita.
  «Perché è necessario. Se non c’è sintonia non c’è coordinazione, e gli stelth diventano un arma puntata contro sé stessi invece che contro il nemico. L’aria… l’aria è un territorio senza leggi, e solo pensando in sincrono puoi volare. Collegare le menti, ad un livello superiore alla meccanica, alla scienza, alla fiducia… non lo potete capire.» e si alzò, lasciando l’area nello stesso modo in cui l’aveva fatto Xabat. Lo inseguiva, e Santiago non aveva dubbi che sapesse come trovarlo.  
  Le sue spalle si alzavano ed abbassavano ritmicamente, seguendo l’onda di un tic che era il retaggio di un’anima che amava e odiava la sua controparte, una parte di sé che non era in grado di abbandonare.  

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


CAPITOLO VI


  Un cielo nuvoloso e giallo come la sabbia accolse la scoperta del settimo cadavere, con gli occhi color latte che fissavano il cielo ed una macchia rossastra, simile ad una puntura di siringa, sotto la palpebra destra.
  Altri cinque soldati avevano perso la vita; cinque donne, con dinamiche che erano chiaramente riconducibili ad un delitto. In tutto l’accampamento, ormai composto da quattordici soldati, Santiago compreso, non si parlava d’altro che del traditore che si muoveva silenzioso fra loro, trucidandoli vigliaccamente. Molti si rivolgevano a Santiago, ormai: soldati pronti a fornire un aiuto alle indagini, un consiglio o semplicemente per puntare il dito contro altri, lui compreso.
  Perché solo i soldati del terzo erano stati uccisi.
  Santiago cercava di scacciare l’inquietudine dalla mente con lo sforzo fisico, offrendosi per qualunque lavoro necessitasse di una persona esperta in riparazioni. Supervisionava perfino lo smaltimento dei cadaveri, cosa che, a detta di alcuni, lo rendeva ancora più sospetto. Non vi badava, e lavorava con alacrità e una strana, insolita serenità: l’assurda immunità di cui godeva col generale in virtù della bravata lo faceva sentire stranamente sicuro, se unita al fatto di non appartenere al terzo; guardava i cadaveri con distacco, esaminandoli con appena un accenno di curiosità, come se ne fosse immune. Spesso si domandava se non fosse semplicemente perché ne aveva visti troppi, di uomini morti, per provare pena; e allora aveva paura di sé e cercava di dormire, scacciando i fantasmi del passato e i ricordi che lo ferivano.
  La sera si riuniva col generale e i suoi attendenti e faceva rapporto, descrivendo ciò che i due medici superstiti avevano trovato sui corpi, i sospetti, le vaghe certezze. Il generale annuiva con gravità, talvolta sorprendendolo con commenti arguti circa la posizione dei corpi o delle ferite. Poi li congedava improvvisamente, con un cenno perentorio della mano, e mandava a chiamare Alona.
  Erano nella periferia di Murcia, a Jan Javier, nascosti in una fattoria crollata e abbandonata in tutta fretta. Fra le rovine sibilavano creature a sangue caldo, che strisciavano nella notte con la sicurezza dei loro troppi occhi. Santiago si offriva per il turno di guardia scegliendo sempre l’ultimo, quello a cavallo dell’alba; in parte perché amava vedere il sole illuminare la calma piatta del mare, e in parte perché gli forniva la scusa per dormire nel veicolo, cosa che gli evitava le occhiate piene di rimprovero.
  Non stava facendo progressi e lo sapeva. 
  Solitamente era solo, sebbene qualche volta i gemelli gli tenessero compagnia: la notte della confessione li aveva legati a lui in un modo che non capiva, ma che lo rendeva fiero e triste assieme. Lo aveva confidato ad Alona, che divideva spesso l’alba con lui, e lei gli aveva sorriso, dicendogli che forse si rendeva conto di essere in bilico su un filo che aveva da un capo la morte per assassinio e dall’altra la colpa. Lui non aveva risposto, lasciando il discorso in sospeso fino a quella mattina.
  «Come ti troveresti se scoprissi che sono stati loro a uccidere quella gente?» chiese lei all’improvviso, rompendo un silenzio che si allungava nell’alba da quasi un’ora. Santiago scosse il capo.
  «Non sono stai loro.» disse, con convinzione.
  «E come fai a dirlo?» lo sfidò lei, stringendosi un po’ più a lui.
  «Lo so, con la stessa sicurezza con cui so che non sei tu la colpevole.» le sorrise Santiago, stringendola a sua volta. Tremava.
  «Giureresti sulla nostra innocenza?» chiese lei con una serietà grave che sfumò nel broncio fanciullesco che era lei più di ogni altra cosa, quando lui annuì con sicurezza. «Dimmi, sei sicuro di noi come lo sei di te?»
  «Forse anche di più.» disse Santiago, lasciandosi sfuggire una risata folle e amara. «Alona, sono così sicuro di tante cose che comincio a dubitare anche di me.»
  «Delle volte non ti capisco.» disse lei, e rise, divertita.
 «Sono stanco, Alona. Tremendamente stanco.» disse, e lo sembrava davvero. Occhiaie profonde incidevano solchi sulla sua pelle olivastra, stringendo ancora più la fessura degli occhi allungati.
  «Vuoi che me ne vada?» sussurrò lei, stringendosi a lui con forza, come a negare le sue stesse parole. Attraverso il tessuto sottile della tuta, la ragazza ne saggiò il fisico, asciutto e allenato, non tanto prestante quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Distese le labbra e scivolò fra le sue braccia con naturalezza, ridendo felice. Lui non si mosse, trattenendola appena con una pressione che poteva voler dire tutto e niente. Trasse un lungo respiro, poi un altro.
  «Come fai a prendere tutto con questa leggerezza? Stiamo morendo ad uno ad uno. Noi, il nostro mondo, tutto questo fottutissimo universo.» disse Santiago con una tristezza infinita, e lei sollevò il capo, girandosi a guardarlo negli occhi - che erano chiusi e puntati al cielo, lontano da quella spiaggia e da lei. Allora Alona ricordò la foto e cercò di scansarsi, mortificata, ma lui la tenne stretta, facendola aderire al suo petto come se volesse attaccarla a sé.
  «È qualcosa che dipende dal fatto di essere già morta. Quando hai visto cosa c’è di là, cominci ad apprezzare la vita. Perché sprecare ogni istante a preoccuparmi della morte? Già so cosa mi attende. Me la vivo meglio, per capirci.» disse lei, vincendo ogni resistenza e scivolando fra le sue braccia con tutto l’abbandono che poteva.
  «È così brutto di… di là?» domandò lui, carezzandole la schiena e i capelli.
  «No. Diverso, direi. Per alcuni versi tremendo, per altri spettacolare. Provo… nostalgia e timore. Sai, il discorso di amore-odio. Che alla fine è solo indifferenza, se ci fai caso con attenzione.» disse lei in un soffio, avvolgendogli la vita con le braccia.
  «Capisco. Quindi non hai paura dell’assassino?» domandò lui, abbassando il capo fino quasi a sfiorarle l’orecchio con le labbra. i capelli ispidi di lui le pungevano la tempia, ma era un fastidio che le piaceva, che la faceva sentire viva.
  «Certo che ne ho. Mi piace qui, e vorrei… fare delle cose, prima di morire.»
  «Ad esempio?» soffiò lui, e Alona lasciò uscire quel che aveva giurato di tenere per sé.
  «Ad esempio… mangiare un gelato osservandomi scivolare da una vetrina all’altra in calle Serrano, a Madrid. Poter dire di no ad un uomo che di me vuole solo il corpo, e sentirmi bene per averlo fatto. Fare il bagno alla Manga, dove andavo da piccola. Scivolare nell’acqua e fare l’amore col ragazzo del duemiladuecentonovanta che mi piace da morire.» disse, e voltò il capo verso di lui, accogliendo le labbra del soldato nelle sue.
  Fu un bacio lungo e carico di passione che si dissolse in fretta. Si staccarono entrambi improvvisamente, come colpiti da una corrente gelida che li aveva riportati bruscamente alla realtà.
  «Il ragazzo del duemiladuecentonovanta che mi piace da morire, e che è sposato.» disse lei e si alzò, allontanandosi in fretta.
  Nella sia del sole nascente, Santiago colse vera tristezza nel volto di lei, e per un attimo ogni sua convinzione crollò.

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


CAPITOLO VII
 
 
  Tre giorni, sette morti, meno di un chilometro percorso.
Erano allo scoperto da ventisette ore e solo qualche dio misericordioso li aveva salvati dall’essere individuati e catturati. La terra intorno a loro era dipinta in tinte di fuoco, solcata dai riverberi cristallini lasciati dalle armi nucleari. Il livello di radiazioni li avrebbe uccisi in pochi secondi se non avessero indossato le tute, ad anche così due dei soldati più anziani non ce l’avevano fatta. I loro corpi erano stati lasciati a dissolversi su una duna di un arancione troppo brillante, mentre la carica destinata ai disintegratori per cadaveri veniva risparmiata per le batterie della radio. Che taceva, troppe erano le interferenze.
Santiago non era stato in grado di riparare nessun apparecchio di trasmissione, quindi i superstiti si muovevano con una cautela maggiore, doppiamente prudenti sia verso i nemici sia verso gli amici. Erano fuggiaschi allo stremo, concentrati sulla sopravvivenza di quelle sedici persone stivate nel secondo mezzo,quei salvatori che non avevano mai visto.
Nessuno era in grado di comprendere - né tantomeno aggiustare - il guasto al cingolato, sebbene le energie di tutti fossero spese nella sua riparazione. Qualcuno suggeriva di andare a piedi, usando la potenza ausiliaria di uno dei generatori dei Dottori per alimentare lo scudo di sei metri per sei che avevano in dotazione, bastevole appena a coprire loro e il mezzo. Gli atri scuotevano il capo: era la zona peggiore di tutta la Spagna, la più contaminata. Tanto valeva spararsi un colpo in bocca e farla finita, avrebbero faticato di meno.
Il generale manteneva la calma con un contegno che metteva i brividi. Senza una parola aveva sparato in testa al suo attendente, l’omino pelato che aveva preso l’abitudine di far rapporto ogni due ore e che era stato trovato, completamente nudo e con la gola squarciata, appena fuori dall’ultimo campo-base che avevano eretto. Non si era giustificato, né ce ne era stato bisogno: il poveretto non poteva parlare e soffriva. Era stato un gesto di pietà, ma questa non aveva mai trovato posto negli occhi celesti del generale.
Santiago passava le sue giornate diviso fra il lavoro, la foto e Alona. Ne seguiva il movimento con la coda dell’occhio solo per scansarla in fretta quando lei gli si avvicinava, speranzosa. La desiderava da star male, quanto non aveva mai voluto nessun’altra cosa in vita sua, ma nello stesso tempo aveva fatto un giuramento: e se per lei era passione, dall’altra parte c’era l’amore, un sentimento talmente radicato in lui da portarlo lì, in mezzo al nulla più brutale, pur di assecondarlo.
Ma nei suoi sogni era sempre Alona che vedeva, una figura pallida e piccola, indifesa in una maniera disumana e nello stesso tempo così forte da farlo vacillare. Lavorava e lei era lì, qualunque cosa facesse. Dormiva e il suo odore gli si insinuava nelle narici, creando visioni in cui erano insieme nella carne e al di là. Da questi sogni si svegliava con una voglia che lo divorava e usciva, convinto che se l’avesse vista, l’avrebbe presa.
E allora tutto sarebbe andato all’inferno, lui compreso.
Non l’aveva mai trovata, fino a quella notte. Brillava, fra le rade nubi troppo simili ad un fungo atomico, una luna quasi piena, uno spettacolo raro e meraviglioso che l’aveva distratto per un attimo, facendolo perdere nella luce di un ricordo lontano, di una notte meravigliosa come quella: la sua prima notte da uomo. Seguendo un impulso che dominava i suoi pensieri si allontanò da quel che restava del campo, muovendosi verso la lingua di terra che separava il mar Menor dall’Adriatico, larga meno di sei metri.
Qualcuno scivolava nell’oscurità, silenzioso come il vento. Gli arrivò alle spalle senza che Santiago ne avesse sentore e gli passò un braccio intorno alla gola, stringendolo forte. Annaspando, Santiago frugò nelle tasche alla ricerca di un’arma che non aveva. Era uscito vestito solo della giacca e della tuta, e la fondina era nel quadrato di terreno che occupava nelle ore di riposo. Una mano si chiuse sulle sue labbra, gelida come la morte, e il sentore di minuscoli, perfetti ingranaggi invase la sua bocca ansante, riempiendola del sapore del sangue. Un arto meccanico!
Serafin ansimava contro il suo orecchio come un amante brutale, o una bestia in estasi. Il petto del luogotenente, premuto contro il suo, dava in scatti feroci, seguendo il ritmo della passione che lo infiammava – desiderio di morte, pulsante quando quello di Santiago per Alona. Stringeva, e già minuscoli punti di oscurità velavano il campo visivo della vittima, che cercava di mordere le dita di metallo che lo zittivano.
Non posso morire così. Non adesso. Non dopo tutto quello che ho fatto per arrivare qui! Non per un pazzo e una voglia di sesso…
L’odore del fiato del carnefice, sospinto dall’accelerata respirazione, sapeva di erbe e menta. Appiccicoso. Come una caramella. Un’idea che doveva ricordargli qualcosa. Senza forze, Santiago lasciò andare il braccio dell’aggressore e affondò le mani nelle tasche, cercando. Era rischioso, lo sapeva, ma non poteva più aspettare. Qualcosa di appiccicoso gli sfiorò il mignolo e con uno sforzo tuffò le dita più a fondo, recuperando un accendino grande quando il suo pollice, di metallo laccato. Chiuse gli occhi e lanciò un’ultima preghiera mentre spostava la levetta del livello fiamma dalla posizione minima alla massima, puntando l’arma contro il braccio metallico dell’avversario.
Fu come se un fulmine l’avesse colpito. D’improvviso fu vivamente consapevole di ogni singola cellula nel suo corpo, e di come stessero ardendo. Ne percepì il grido di strazio, chiaro come l’ultimo canto di un cigno, e scoprì che non c’era bellezza in questo. Alle sue spalle Serafin fondeva, sciogliendosi in un liquido primordiale che gli colava lungo la spina dorsale.
Poi il braccio metallico cadde, o fu sbalzato via, e Santiago si ritrovò ad annaspare al suolo, mentre intorno a lui sangue e plasma dell’uomo che era stato Serafin veniva assorbito dalla terra secca e arida. Rimase ansante, consapevole che il cuore poteva scoppiargli in petto da un minuto all’altro, mentre la paura lottava contro l’adrenalina, minacciando di farlo svenire. Resistette all’impulso di perdere i sensi, ma non a quello di vomitare.
La bocca aveva un sapore acre e questo in qualche modo lo confortò. Ricordava l’odore del fiato di Serafin, il sentore dolciastro della caramella che somigliava troppo a quello della morte, e trattenne un altro conato. Poi qualcuno corse verso di lui gridando e Santiago si mosse, spinto dal riflesso di ogni battaglia che aveva combattuto. Frugò fra i resti del luogotenente e trovò quel che aveva sperato: un’arma. La caricò e fece fuoco ancor prima di vedere in faccia il suo aggressore.
Questi cadde e, morendo, girò il volto al cielo, rivelando le fattezze familiari di uno dei gemelli.
Santiago trattenne il fiato e cercò di muoversi, scoprendo che la gamba metallica non poteva più reggerlo. Era fuori uso, fulminata dalla stessa scossa che presto avrebbe ucciso anche lui.
Aveva voglia di piangere, di vacillare e perdersi in un dolore con cui non aveva mai fatto i conti, ma si trattenne. C’era qualcun altro alle sue spalle.
«Santiago…» disse una voce delicata, e fu l’ennesimo colpo. L’unico che non avrebbe potuto sopportare.
«Alona.» disse, voltando il busto per incontrarla. Lei annaspò verso di lui e poi cadde al suolo al suo fianco, sollevando una nube di polvere. Gli buttò le braccia al collo e lo strinse con una forza che fece pulsare il segno rosso lasciato dall’arto metallico.
«Santiago… Xabat, lui… avevamo sentito un rumore e…» cominciò a spiegare, ma una serie di singhiozzi secchi le scosse il corpo violentemente, costringendola a fermarsi.
«Va tutto bene.» mormorò Santiago con un nodo alla gola. Lo disse con dolcezza, consapevole che in quel momento qualcos’altro moriva dentro di lui.
«Bene? Xabat è morto e tu… tu stati per… Come fa ad andare bene?» domandò lei, abbandonandosi ad un pianto incontrollato fra le sue braccia. Col cuore che, ad ogni singhiozzo, andava più in pezzi, Santiago affondò il volto nell’incavo del collo di lei, carezzando la schiena con la mano nella quale teneva ancora stretto l’accendino.
«Era Serafin. Era lui l’altro… l’assasino.» cercò di spiegare Santiago, ma lei piegò il viso e lo baciò, cancellando qualunque altra parola avesse voluto dire.
«E tu la vittima.» disse lei, e sorrise.
«L’ho ucciso.» confessò Santiago. Passava il polpastrello del pollice sull’incisione dell’accendino, ma Alona non poteva vedere cosa ci fosse scritto.
«Ti ho visto io… io ero lì e tu…» e poi tacque, mentre il suo cervello riordinava gli avvenimenti secondo un processo logico e scientifico che era parte del suo passato.
“Dejame, que yo no tengo la culpa de verte caer.1» cominciò a cantare Santiago, modulando la sua voce profonda ad un sussurro ferito. Alona sbarrò gli occhi mentre la levetta scattava e il suo sottile fruscio si perdeva nell’eco della strofa. Santiago la spinse lontano con gentilezza e lei lo lasciò fare, paralizzata dal dolore. «Si yo no tengo la culpa de verte...2
Ora ogni nota ha un senso, pensò Alona, e le sue labbra tremarono. Ora aveva tutto un senso.
Una scossa le attraversò la mente, scivolando lungo il flusso dei suoi pensieri e staccandone il connettore. Tradimento, urlarono i suoi nervi, spegnendosi. E mentre il suo cuore accelerava e moriva di nuovo, Alona abbassò gli occhi sull’arma che le martoriava il petto e lesse l’incisione.

Raoul.


 
1Lasciami stare, perché non ho colpa nel vederti cadere
2Si, non ho colpa nel vederti cadere.


(Entre Dos Tierras, Heroes Del Silencio)
 

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


CAPITOLO VIII
 
 
  Alona non aveva gridato nemmeno una volta, ma ormai non aveva importanza.
  L’intero campo era in subbuglio. I tre soldati superstiti correvano lungo il perimetro, cercando i compagni scomparsi. Ricardo gridava, rivoltando terra e metallo alla ricerca del gemello ormai perduto. Doveva aver avvertito qualcosa, perché la follia nella sua voce era allarmante: un grido di solitudine e dolore così pressante che lacerava l’anima.
  O l’avrebbe fatto, se Santiago si fosse permesso di possederne una.
  Lasciò cadere il distorsore neurologico a terra, appena accanto al volto immobile del Re-Ab che aveva distrutto, e imbracciò la pistola quasi distrattamente.
  Non mi è rimasto altro che quello che ho sempre avuto. Una vecchia foto e uno scopo. Una missione.
  L’avrebbe portata a termine e sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe fatto prima di rendere l’anima ad una terra che non era la sua.
  Caricò il colpo e attese, l’arma ingannevolmente puntata al suolo. Si prese un minuto perché le sue vittime potessero guardarlo, come lui aveva sempre guardato loro, in faccia. Un ultimo guizzo di lealtà. Glielo doveva. Quegli uomini avevano la sola colpa di essere lì, e doverli ingannare e uccidere era l’ultima delle infamie della sua vita. Estrasse la foto e la tenne in mano, sospesa. Per lui.
  Colpì il pilota all’inguine sfruttando una precisione che era sempre stata il suo vanto e lo guardò fremere e pian piano dissolversi, consumato dal laser. Poi lasciò avvicinare Ricardo quel tanto che gli occorreva perché riuscisse a leggergli in volto la colpa, quindi attese. Gli avrebbe concesso un colpo, uno solo: un pugno all’occhio destro, che collassò nell’impatto con la mano dura e allenata del pilota. La pistola, già puntata verso il ventre di Ricardo, esplose la sua ultima scintilla e poi cadde, seguendo l’ombra delle membra che si dissolvevano.
  E infine furono solo Santiago e il generale. 

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


CAPITOLO IX
 
 
  Dall’alto della sua posizione, il generale fisso Santiago senza una mossa o un fiato.
  La furia sul suo volto era simile ad una tempesta: cambiava i contorni della pelle con una rapidità impressionante, lasciando il disegno generale intatto. Odio, delusione, orgoglio ferito e desiderio di sangue si alternavano su quel viso solitamente composto rendendo quel generale di ghiaccio inspiegabilmente fragile. Spogliato della sua dignità tornava ad essere un uomo, spezzato, sofferente e patetico come, e forse più, di tutti gli altri. Eppure era questa la creatura a cui avrebbe affidato la sua missione.
  Santiago teneva le mani lunga davanti a sé, allungando la foto con uno slancio quasi teatrale, i muscoli tesi nello sforzo di raggiungere una vetta cui non sarebbe mai più arrivato. I connettori della gamba metallica mandavano un fruscio sinistro, spegnendosi: sibille del destino che lo attendeva, lo costringevano al suolo, immobile.
  «Apritela, signore.» disse Santiago, usando il gergo formale col quale si era sempre rivolto a lui. Questo parve scuotere il generale, che allungò appena la mano, costringendo il traditore ad allungarsi fino al limite estremo per consegnargli la foto.
  Le mani del generale tremarono mentre staccava lo scotch ingiallito dal tempo e voltava il lembo, rivelando il volto di un giovane biondo che sorrideva felice, la camicia gialla macchiata da un’impronta marrone che poteva essere solamente sangue vecchio. Nonostante i tratti deformati dal solco della piega, il ragazzo nell’immagine era senza ogni dubbio uno sconosciuto.
  «Hai parlato di una famiglia. Ma non hai mai detto che era la tua.» disse il generale con voce spezzata, staccando con ira gli occhi dall’immagine, come se questa l’offendesse.
  «Non l’ho fatto. Signore. Le piacerebbe ascoltare l’ultima verità di un traditore?» sussurrò Santiago. Il braccio palpitava, sempre più rosso, mentre le luci del Marchio pulsavano con un’intermittenza lieve, scivolando dal blu al viola, sempre più veloci. Anche il generale lo guardava, adesso.
  «Quanto?» chiese.
  «Non molto. Il chip è relativamente nuovo… per me. Ce l’aveva lui nel braccio.» ed indicò la foto, con un’espressione di dolore e affetto profondo. «Santiago. Il padre, l’ufficiale, la prima vittima. Aveva quarant’anni quando l’ho trovato disteso in una pozza di sangue, con una pallottola nella testa e la foto fra le dita. Era spagnolo sa? Come lei. Era… forse sette, otto mesi fa. A… a quel tempo già sapevo parlare la vostra lingua come, se non meglio, di voi, ma avevo appena valicato i Pirenei.
  «Viaggiavo con un gruppo di incursori scelti. Ci hanno allenato fin da piccoli per questa missione. Per riprenderci ciò che è nostro. I Dottori… i Dottori sono la chiave della salvezza di questo mondo. Sedici maestri in sedici arti diverse. Sedici grandi menti al lavoro per un unico progetto. Meraviglioso e fragile, come la tela di un ragno. Non appena la stabilizzeranno, quella piccola macchina pulsante sarà in grado di bonificare il mondo, eliminando il cancro invasore della terra e quello flagello dell’uomo. Quanto pensa che valga?
«Ci hanno ingannati. Hanno detto che volevamo tenere la scoperta per noi. Venderla. Renderci schiavo il mondo. Nessuno l’aveva pensato, nessuno lo voleva. Come possiamo pensare di salvarci? Come possiamo governare un mondo vuoto e infertile? Con l’oro? Che cazzo ce ne saremmo fatti dell’oro?» domandò il traditore, afferrandosi un polso. Soffriva, le parole che uscivano a scatti frementi dalle sue labbra. Sudava a causa della temperatura aumentata dalla fusione del chip nel suo avambraccio, dove la cicatrice recente della messa in atto del Timbro brillava bianca sulla pelle bordeaux, ennesima conferma.
  «No. Non ancora. Aspetta… io... noi! Noi, non volevamo nulla di più che vivere. Poi è iniziata la propaganda, e prima che potessimo capire perché, le bombe cadevano sulle nostre città, distruggendo monumenti vecchi di secoli e miliardi di persone. Distruggendo una cultura. Le atomiche, le maledette atomiche!
  «Col pretesto della giusta ragione ci hanno invasi, derubandoci di tutto ciò che avevamo creato, tutto ciò che ci era rimasto: un laboratorio mobile, una cura valida per metà e i sedici geni che avevamo riunito per completarla. Ci avete trascinato in guerra. Voi, con le vostre bugie. Voi, con la vostra propaganda e la sete di potere.
  «Ho visto la mia gente morire per la sola colpa di voler vivere e, per salvarla, mi sono dovuto unire ai carnefici… ho combattuto, ucciso, mangiato, parlato, scopato con voi! Tutto… tutto per poter cercare un ingaggio, per creare la fiducia, per diventare un coscritto, poco meno di uno schiavo. E poi è arrivata Lleida e il cadavere di Santiago. Era la mia occasione e l’ho colta. Dodici persone sono morte quel giorno, sostituite dai miei compagni. Ma solo io avevo la foto, solo io sapevo… sapevo che… anche voi, come noi…» ormai rantolava, gli occhi che si giravano a mostrare il bianco sempre più spesso. La pelle intorno al chip era insensibile, già in viaggio verso il mondo in cui la sua anima l’avrebbe raggiunta. «Lui… aveva perso tutto. Come me. E allora dissi… dissi a Raoul… che volevo salvare anche loro. Avrei fatto qualunque cosa perché nessun uomo finisse ancora nella polvere, solo e dimenticato. Anche uccidere… voi, e con voi. E ora… se ora tu porterai quelle persone dal tuo re… tutti… tutti loro… saranno morti invano. Io, i soldati del terzo, quel povero pazzo che ha fatto parte del lavoro per me. Alona. Santiago. Spariranno tutti. Come questa terra. Il diario… solo tu puoi sbloccarlo. Ha… le tue credenziali. Lì c’è… lui. Trovalo. Leggilo. Ti prego. E… portala a la Manga. Era uno dei suoi sogni. Falle fare il bagno, lasciala lì. Lasciala…» lo sguardo del traditore era fisso sul cadavere di Alona. Pianse una lacrima sola, l’ultima, per lei, poi il suo cuore esplose e lo catapultò lontano, verso il luogo in cui scontavano le loro pene gli eroe senza onore. 

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


CAPITOLO X
 
 
  Risolutamente vivo e solo, il generale si mosse. Non c’era sguardo nei suoi occhi, solo una glaciale, vuota determinazione. Scavalcò il cadavere di Santiago, di Ricardo e di Martin senza neppure vederli e si fece strada nella carcassa del trasporto, scavandovi all’interno finché non trovò il tablet con cui il traditore aveva lavorato. Vi appoggiò il Timbro e si sedette, diritto e vuoto, in cerca di un briciolo di realtà.
 
 
Questa è una prova di comunicazione. Codice rilevanza: grigio. Autore: Sott. Santiago.
 
Se hai trovato questo messaggio significa che te l’ho detto. Sai tutto. E mi perdonerai se ti do del tu, ma non ho mai amato i formalismi. E queste sono le ultime confessioni di un morto… cosa c’è di meno informale?
Vorrei raccontarti chi sono, dove sono nato, com’era bella casa mia, ma non lo farò. L’italiano che è in me si è già macchiato di così tante colpe, che preferisco essere lo spagnolo. Quindi ti parlerò di lui. Di Santiago. O meglio, dell’uomo che Santiago è diventato dopo morto.
Quest’uomo ti odia. Con tutta l’anima. Ti odio perché so che rimarrai in vita solo tu, alla fine. Non perché te lo meriti, ma perché nel tuo braccio, fra i filamenti del Timbro, è scritto il codice di sblocco di quella dannata porta. Solo tu puoi liberare i Dottori e portarli al sicuro.
Ti conosco, Julio. Ho fatto ricerche su di te e ti ho osservato. Decifravi messaggi con l’abilità di uno stratega comune, ma non era così semplice, vero? O meglio, così chiaro. Sapevi dove andare a cosa fare perché era a te che erano destinati quei messaggi.
Ti conosco, Julio.
Hai servito la casa reale da quando sei entrato nell’accademia. Un nobile! Mi fai talmente schifo.
Come puoi capire, i dispositivi di comunicazione hanno funzionato, anche se per poco. Mi servivano informazioni, e dovevo tenerle per me. Le informazioni sono potere.
Vorrei dirti così tanto… raccontarti di come quelle cianfrusaglie appiccicose nelle mie tasche fossero armi celate, di come ho ammazzato quella donna seduta ai miei piedi mentre ero legato o dell’abilità che ci è voluta per non affezionarmi. Ma non lo farò.
Canteranno i posteri il mio requiem, forse. Un requiem di bestemmie e maledizioni, ma che vuoi farci? Si raccoglie quello che si semina. E se è vero che le guerre vanno e vengono, ma i grandi soldati vivono per sempre, allora forse non riceverò neanche quelle. Non sono un soldato ma un disperato, lo so, ed è questa la mia forza. Qualcosa che non puoi capire, lo so.
Ti conosco, Julio. E ti odio.
Ti sei preso tutto alla fine: la mia missione, la mia vita, le mie memorie… la mia donna. Te la sei goduta, Julio? Io ho avuto un bacio solamente e tu te la sei scopata tutte le notti. Bella la vita al comando. Hai avuto ogni cosa di me alla fine, perfino i miei silenzi, la mia sincerità… la cosa più preziosa! E solo perché sei dannatamente indispensabile. Hanno bisogno di te, Julio. La mia gente, la resistenza, il mondo intero. Che cazzo di ironia!
Ti chiedi perché te lo dico, sputandoti in faccia il mio odio così direttamente invece di pregarti di ascoltarmi?
Perché ti conosco, Julio.
Non sei tipo da lusinghe, anzi: godi del tuo potere e lo usi. Lo so, e posso capirlo. Ma tu dovrai capire me: io sono morto, non ho nulla da guadagnare da una bugia. Nulla da guadagnare dal tuo disprezzo o dalla tua compassione.
Ma quella gente si! Il tuo popolo, e quello del Santiago che sono stato. Loro hanno il diritto di salvare la loro vita. Come tua madre e tuo fratello lo avevano, ma l’atomica li ha uccisi comunque.
Allora ascoltami, Julio. Raoul ti aspetta ad Atamarìa. Aspetta i Dottori per portarli a casa, in un luogo sicuro. Mentre a Cartagena il tuo re ti aspetta per ucciderti, come ha già ucciso meta dell’Italia e della Spagna, e gli dèi sanno su quanti altri cadaveri dorme la notte. Vai da lui, dal tuo re: portagli il congegno e digli che è finito. Digli che i Dottori sono stati ammazzati da un traditore. E se quello che ti ho detto è vero, se il tuo re e padrone ti dirà di dimenticare, allora serviti le memorie contenute in questa scheda. Il tuo comunicatore è attivo, lo è sempre stato, devi solo aggiornarlo. Puoi farlo, lo so. Sei stato addestrato. È nella mia tasca, fra le mie cose. Il pezzo che ti manca per trasformarti da burattino a scopo. Manda un impulso, e lasciali liberi. Lascia che i Dottori vadano a casa, da chi si prenderà cura di loro. Da Raoul. È un brav’uomo, il migliore.
L’avresti amato se ti fossi degnato di incontrarlo, Julio. Io lo so. L’avresti amato e avresti dato la vita per il suo sogno.
Atamarìa, Calle della colina. La casa gialla.
 
Addio, generale. 
 

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


CAPITOLO XI
 
 
  Una sala, due uomini, il destino del mondo alle spalle.
  Julio era chinato a terra, nella riverenza dovuta al sovrano; soli, occupavano la camera ad ovest dell’ala privata del re, una stanza lunga e sontuosa dalle pareti ricoperte di opere d’arte. Il re le osservava, compiaciuto, mostrando l’anima da collezionista che era celebre in Spagna.
  «Siete sicuro che funzioni, generale?» domandò con superiorità, guardando Julio come fosse qualcosa di sgradito. Lo sondava, indagando ogni minima imperfezione, ogni menzogna nascoste. Non ne avrebbe trovate, Julio lo sapeva: era andato da lui con l’animo gonfio di quell’orgoglio travolgente che aveva infiammato ogni istante della sua vita. La consapevolezza di essere la servizio di un giusto universale, di un vero bene superiore.
  «Sicuro, mio Signore. L’ho testata su me stesso. Solo un poco, per sfuggire alle radiazione della Manga e arrivare da Voi, per consegnarla nelle Vostre mani.»
  «Bene. Non c’è dolo in questo, nessuna colpa. Ci fidiamo di voi, generale, più che di chiunque altro. Questa è la prova che avete riposto ottimamente alle nostre Reali speranze.»
  «Per servirVi, mio Re.» disse il generale, gonfiandosi d’orgoglio. Eppure c’era la nota… quell’ultima confessione che gli urlava nella mente a volume alterno, come una radio mal sintonizzata, causandogli un senso di colpa di cui non capiva le ragioni. Aveva agito secondo coscienza, senza tradire sé stesso e i suoi principi. E non era forse questo che facevano i veri eroi?
  «Ebbene, cosa chiedete come ricompensa? Terre, onori, oro… Vi daremo qualsiasi cosa vorrete. Siete il Nostro salvatore, dopotutto.» il re sorrise, bonario, invitando con un cenno Julio ad alzarsi. Il generale si mosse lentamente, controllando i muscoli e l’inquietudine che quel “nostro”, così pieno di autocompiacimento, aveva risvegliato.
  «Vi chiedo il minore degli onori, mio Re. Permettetemi di annunciare oggi stesso, ora, che la cura è nelle nostre mani, e che entro un mese ogni uomo, donna e bambino potrà beneficiarne. Fatemi annunciare che distribuirete casa per casa questo elisir così che ogni persona in questo vasto mondo possa acclamare il Vostro nome. Lasciate che dica che tutti avranno la cura, e che Voi veglierete perché questo sia fatto.» disse Julio, sollevando il capo. Aveva pronunciato il discorso con un vero, genuino entusiasmo, pericolosamente simile al fanatismo, e il suo volto si era trasfigurato, rivelando un uomo che nessuno dei suoi soldati avrebbe potuto riconoscere. Un sognatore, così l’aveva definito suo fratello una volta, prima di morire.
  «Ah… vedete, Generale, ciò non… non è possibile, ora. La cura deve essere testata e… non possiamo rischiare che qualche effetto collaterale danneggi il popolo. E la distribuzione… capirete che non è possibile donare un patrimonio così grande. Esso è troppo potente per circolare liberamente. Una panacea dei mali come questa cosa porterebbe? Nessuno avrebbe più timore della morte, e questo mondo non avrebbe altro cardine che il timore per la legge… e siete in grado di capire cosa significhi. Noi vogliamo la fine della guerra, non l’anarchia eterna.» La voce del re era diventata untuosa, insinuante. La forza con cui parlava, il fastidio malcelato con il quale sciorinava le sue bugie così palesi era rivoltante. Julio ne fu travolto e una parte di lui crollò.
  «Non… volete venderla?» chiese, improvvisamente incerto e barcollante. La terra cominciò a mancargli da sotto i piedi e si sentì vacillare, sull’orlo di un baratro.
  «Venderla. Che dite? Vendere è un termine così volgare… non Siamo un mercante! Vogliamo che i governanti decidano cosa farne, sotto Nostro consiglio diretto. Solo Noi dobbiamo avere il potere di negare o concedere un bene talmente prezioso. Solo Noi, che abbiamo combattuto così tanto per averlo e ne capiamo il valore umano. Capisci?» disse il sovrano, paonazzo in volto. La sua voce era salita di un’ottava trasformandolo in una caricatura di sé, piena di sdegno e orgoglio ferito. Un viscido, falso burattino.
  «Capisco. E mi rimetto alla Vostra lungimiranza.» disse il generale e si inchinò. Nel farlo, sfiorò quasi distrattamente con un dito il polso grosso, interrompendo la comunicazione e lanciando il segnale di sblocco. Il sovrano, intento a ricomporsi, non notò la cicatrice recente che luccicava, grande come un’unghia, appena sotto la prima linea del Timbro.
  Aveva vinto, e quel burattino del generale non avrebbe vissuto più di un’ora. Il mondo era nelle sue mani, racchiuso in una boccetta di liquido color della notte.
 

  A molti chilometri di distanza, la porta di un blindato si aprì da sola, e sedici persone uscirono nel cortile di una casa isolata di una città dimenticata. 

 


 
Piccolo Spazio-Me:
Cavolo, è passata una vita da quando ho scritto questo racconto! Non ricordo se ho lasciato delle note o meno negli scorsi capitoli, ma credo di no... il fatto che questa piccola storia, a cui tengo in una maniera tutta sua (e fra poco capirete perché), non abbia ricevuto commenti mi ha buttata giù. Ho deciso di darle un finale perché mi faceva piacere pensare che chi l'ha letta senza parlare (posso vedere i numeri e so che c'è più di qualcuno che l'ha aperta e, spero, letta) volesse sapere come andava a finire... e mi dispiaceva lasciarvi a bocca asciutta. 
Ve lo dico sinceramente, non so per quanto questa storia resterà su EFP. Vedete, l'ho scritta tutta di getto, partendo da un'idea che è rimasta solo in parte quella originale. L'ho scritta sorprendendomi di tutti quei piccoli spunti non voluti (Alona, i gemelli...) che sono venuti fuori senza che me ne accorgessi, per impreziosire la storia e, di questo sono sicura, per dirmi che c'era dell'altro, che non potevo fermarmi a questo. Che, nonostante tutto, la storia è incompleta.
E come potrebbe non esserlo? Ho comiciato a scriverla in una mattina d'estate, seduta sotto un'ombrellone sul terrazzo di casa mia, con un caldo che ti strappava il fiato. Ho cominciato a scriverla e non mi sono fermata per le nove ore seguenti - non per andare in bagno, non per pranzare, non per ripararmi dal caldo. Volevo finirla a tutti i corsti perché, per una volta, ero dentro la storia, la stavo vivendo mentre la scrivevo, scoprendola in un... una maniera che aveva del meraviglioso! A cuore aperto, senza pensare a niente se non a lei. 
Per questo la adoro. Per questo penso che meriti di meglio che rimanere qui, dimenticata in fondo alla mia lista di tentativi più o meno riusciti. 
Perciò leggetela, fatemi sapere che ne pensate, vivetela, datemi un consiglio perché quest'estate, nel caldo della mia terrazza, la riprenderò in mano e ne ricaverò una storia che, mi auguro, farà sognare qualcuno come ha fatto sognare me. 
E la prossima volta che sarà online avrà il mio nome stampto sopra, non il mio nickname. E ne sono già orgogliosa. 
Questa è una delle note più personali che abbia mai fatto :S Forse il fatto di credere, in fondo in fondo, che nessuno stia per leggere questo capitolo mi fa essere sincera (quanto è facile l'anonimato!) 
O forse è solo Giorgio che parla, e chi sa cosa sia Giorgio (e mi conosce, dunque) può capire in che situazione emotiva sia io adesso :D
Se volete dirmi qualcosa, se volete farmi sapere che, in fondo, tanto sola questa storiella non è o, magari, volete essere d'aiuto e segnalarmi i punti di forza e di debolezza, le vostre impressioni e i vostri suggerimenti - in poche parole, se volete essere parte del mio sogno - io vi aspetto! Una mano fa sempre piacere, anche se raramente chiedo aiuto, io :S
Solo, qualunque commento vogliate fare, vi chiedo di farlo al primo capitolo: questa storia è destinata ad essere cancellata da qui e, con lei, le vostre parole... ma ho intenzione di lasciare il primo capitolo e, chi sa, magari inserirci anche queste note.
Per cominciare a parlarvi togliendomi un po' la maschera di Aleena, magari.
Ma non subito.
Vi aspetto <3

 

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