Piccolo Fiore

di GoldFish27
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***



Capitolo 1
*** I. ***


I.

Piccolo Fiore
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I.

- Biglietti, per favore.
Estrassi dalla tasca i due tagliandi dorati e li mostrai all'usciere. Questi li esaminò un attimo, poi ci indicò una scalinata sontuosa, più in lontananza. Mentre raggiungevamo i gradini marmorei, non potevo fare a meno di notare lo sfarzo di quel luogo: al di là del pregiato tappeto rosso che separava le nostre suole dal pavimento lucido, al di là delle armature medievali ricoperte da drappi rossi e le lunghe e pesanti tende che ricadevano ai lati dei muri giallognoli, tutto dava un senso di pulito e di ponderato ordine. Perfino le persone, nascoste dietro i loro abiti eleganti, si amalgamavano con lo scenario circostante, dando l'impressione di essere a un congresso di camaleonti.
- Sbrigati, Alberto!
La voce di mia moglie mi richiamò dall'alto dei primi cinque gradini. La conoscevo troppo bene per non riconoscere il suo eccitamento, e come biasimarla? Non capitava spesso di assistere a uno spettacolo nel teatro lirico più importante della città.
Era stata una faticaccia trovare i biglietti: ricordo ancora la faccia di ogni singolo edicolante che mi comunicava, dispiaciuto, di aver esaurito i biglietti. "Se li vegnono a solà!", se li rubano, mi aveva confessato un simpatico cartolibrario in dialetto romanesco. L'unico furto accertato, però, è quello che io ho dovuto subire, mio malgrado. "Sono gli unici rimasti" mi aveva detto quel marocchino con la faccia di volpe e la coda di paglia. Chissà da dove li aveva presi. Ma non m'importa: li avevo pagati una fortuna e volevo godermi lo spettacolo.
 
La scalinata nascondeva altre due rampe di scalini, più ripide, dalle quali si raggiungevano i posti più alti. La mia mente contava attentamente i gradini che calpestavo per farmi un'idea dell'altezza, dato che le grandi finestre arcuate che adornavano l'esterno erano coperte da infinite tende rossastre. Non ero mai stato così in alto, prima di allora. In un teatro, intendo. Avevo sempre preferito le prime file, giù nell'androne.
Arrivai in cima con il fiatone: non avevo più l'età per certe sfacchinate. La schiena emise qualche lamento mentre mi sedevo sulle poltrone basse e - fortunatamente - molto comode. E poi c'è chi si lamenta della gente che dorme a teatro! Ci mancava solo che vibrassero e, chiudendo gli occhi, mi sarei sentito come in un centro benessere...
Lo spettacolo stava per cominciare. La marea di gente che fuoriusciva dai grandi ingressi della sala andava pian piano scemando. In meno di una decina di minuti le luci furono abbassate, e, mentre il sipario veniva spalancato, il vociare di sottofondo si ridusse ad un brusio confuso, per poi sparire del tutto appena una voce femminile si diffuse attraverso gli altoparlanti. Immediatamente dopo, una donna sbucò da dietro le quinte, procedendo verso il centro del palco.
Oltre al fiato corto e i dolori di schiena, la mia età mi aveva regalato anche un altro piacevole ricordo: la miopia. Avevo iniziato a portare gli occhiali verso i quarant'anni, ma col tempo ero peggiorato. Adesso il mio nasone soffriva il peso di due lenti tanto spesse che neanche gli oblò dei transatlantici. Per l'occasione, avevo scelto di indossare una montatura un filino più elegante, con il risultato di trasformarmi in una talpa. E adesso, sul palco distinguevo soltanto una macchia colorata che si muoveva. Se il suono delle sue corde vocali non si fosse sentito dagli altoparlanti della sala, per me sarebbe potuta essere un uomo come una donna, un robot, un operaio in tuta da lavoro o uno scimpanzé in calzamaglia. Non faceva alcuna differenza.
La macchiolina blu parlò per qualche secondo, ringraziando gli spettatori per essere venuti, e sparì dalla parte opposta della scena. Lo spettacolo poteva finalmente avere inizio.

 

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Capitolo 2
*** II. ***


II.

Piccolo Fiore
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II.

Non si trattava di una rappresentazione unica, a dire il vero. Era più che altro un "varietà". Seguirono scene recitate a monologhi, divertenti scenette di cabaret e intermezzi di buona musica classica.
Erano passate all'incirca due ore dall'inizio e senza poter riuscire a distinguere chi era in scena la mia pazienza si stava lentamente esaurendo. Iniziai a litigare con la poltrona per trovare una seduta più comoda, poi trafficai con il mio orologio da polso, cambiando più e più volte l'orario, per il solo gusto di farlo. Dovevo ammetterlo: lo spettacolo, per quanto vario, mi annoiava. Sarei rimasto volentieri a casa, se fosse stato per me, ma Marilena ci teneva tanto...
Mia moglie mi lanciò un'occhiataccia dopo che ebbi attivato per sbaglio la sveglia dell'orologio. Per fortuna ci trovavamo in un momento di distacco tra una esibizione e l'altra, così il parlottare delle persone aveva nascosto quello squillare molesto.
Gettai uno sguardo verso il palcoscenico, giusto per vedere di quale colore sarebbe stata la macchiolina pronta a esibirsi. Questa volta, però, ne apparvero tre o quattro, tutte nere, che si raggrupparono intorno a qualcosa di più grande e ignoto, trascinandolo al centro della scena. Dietro di loro comparve una figura tutta rossa, che venne accolta da un sonoro applauso.
Ero davvero curioso di sapere cosa stesse accadendo, ma mi imbarazzava chiedere a mia moglie di spiegarmelo. Per fortuna, un suo raro commento mi salvò la serata:
- Carino, il pianoforte; sembra uguale al tuo.
Mi limitai ad annuire. Quindi quella macchia nera era un pianoforte, e il pianista (o la pianista?) doveva essere quello vestito di rosso.
Le luci si abbassarono, i due lobi sfocati si congiunsero e il silenzio calò nella sala.
Seguì una scarica di note, fredde e veloci, che mi fece salire un brivido lungo la schiena. Poi, gli altoparlanti sputarono una sinfonia elegante, calda e appassionata. Mi adagiai sullo schienale della poltrona. Avevamo ascoltato jazzisti con le loro trombe, contrabbassi e violinisti, ma l'unico strumento che avrebbe rilassato le mie anziane orecchie era proprio quello: il pianoforte.
Anche io, tempo addietro, ero stato un virtuoso della tastiera bianconera. Prima di trovare lavoro, prima di conoscere Marilena, prima di sposarmi, il pianoforte era stato tutta la mia vita. Andavo in giro per le piazze, suonando per la gente, armonizzando i pomeriggi, incantando le serate, rendendo memorabili le afose giornate estive. Ogni sera, in ogni luogo, ero sempre lì, seduto di fronte al mio strumento, a liberare le meravigliose melodie che si celavano nel profondo della mia mente. Di solito evitavo di ricordare quei momenti, seppur piacevoli, perché mi avrebbero spinto a rifarlo, a scendere per strada, e non avevo più l'età per farlo. Ero vecchio. Vecchio e stanco.
Rimasi ad ascoltare il pianista che aveva resuscitato in me quei ricordi. Doveva essere davvero di qualità; chissà chi era. Si destreggiava sui tasti con disinvoltura, e anche senza riuscire a vederlo nitidamente, potevo giurare che avesse chiuso gli occhi.
Lo imitai.


 

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Capitolo 3
*** III. ***


III.

Piccolo Fiore
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III.

Il sole brillava a più non posso sulle mura intonacate, provate dal peso di innumerevoli primavere trascorse a respirare l'aria d'antiche gesta sepolte sotto metri di marmo.
- E' davvero un'ottima giornata.
- Già.
- Dici che se andranno presto?
- Penso proprio di no.
- Ho sentito che rallenteranno i servizi...
- Meglio. Avranno più tempo per rimanere qui.
Turisti. Ecco di cosa si stava parlando. I turisti sono la linfa vitale di ogni artista di strada. Portano curiosità, interesse, stupore... Sono loro che ci spingono ad andare avanti. Hanno mille idiomi e altrettanti accenti, milioni di diversi vocaboli che alla fine non contano nulla, perché si meravigliano tutti nella stessa lingua. E quando riesci a farli meravigliare, o anche solo a trattenerli per qualche minuto, allora capisci di essere diventato un artista di successo. Un artista di quel calibro lascia il segno; e io, modestamente, lo facevo.
- Qui.
Roberto mi aiutò a fissare il pianoforte nel suolo chiancato: odiavo che si spostasse mentre suonavo, mi faceva perdere la concentrazione. Gettai lo sguardo verso l'obelisco. Piazza del Popolo era sempre piena, durante quel periodo dell'anno, ma a quell'ora c'era un po' meno gente. Con quel sole imperdonabile, immaginai che tutti fossero andati a bere un bella bibita fresca, e avrei voluto davvero fare lo stesso. Ma dovevo sistemare tutto prima delle cinque, o la gente mi sarebbe passata davanti inutilmente.
Salutai Roberto che, come ogni estate, mi aiutava a montare e smontare il pianoforte. Lo caricava sul furgoncino della sua ditta e me lo consegnava direttamente nel garage di casa mia, pronto per essere rispolverato il pomeriggio successivo. Io, in cambio, davo lezioni private ai suoi due figli. Non avrei potuto trovare un partner migliore.
Gettai per terra il cappello per le offerte e iniziai ad accordare il pianoforte. Chissà quanta gente si sarebbe avvicinata, quell'oggi, chissà quanti mi avrebbero ascoltato fino alla fine, e quanti altri si sarebbero stancati delle mie melodie, ripiegando su un mimo o un prestigiatore.
Per le cinque meno venti era tutto pronto. Il programma era il solito: dalle cinque alle sette si suonava, poi un'oretta di riposo, e via con i pezzi notturni.
Le mie dita si posarono delicatamente sulla prima nota: un sol. Cominciava una nuova giornata.
 
Le ore si susseguivano, incalzanti come le note suonate dalle mie mani agili e sapienti. In genere la gente amava formare un semicerchio attorno al pianoforte, tenendosi distante, come per paura di distrarmi e di turbare le mie sinfonie. Gli adulti, maschi e femmine in ugual misura, portavano con sé i loro bambini, che più degli altri rimanevano incantati di fronte al suono dello strumento, o alla facilità con cui riuscivo a creare atmosfere ansiose e rilassanti, gioconde e affrante, con il semplice movimento delle dita. Erano proprio i bambini, poi, quelli che venivano a consegnarmi le offerte per conto dei loro genitori. Io lanciavo un sorriso appena sentivo il rumore di una monetina che cadeva nel cappello, o non appena alcuni di loro - di solito i più coraggiosi - si avvicinavano al pianoforte per osservami più da vicino.
La gente andava e veniva, in un ricambio continuo. Non facevo caso alle loro facce, perché tanto non le avrei mai più riviste. Anche quelli che si fermavano a fare due chiacchiere, anche quei ragazzini che mi chiedevano di provare il piano, di solito me li dimenticavo, perché se c'è una cosa veramente costante per gli artisti di strada, è il cambiamento. Nulla rimane, nulla si mantiene. Poteva accadere, nei casi più rari, che una persona si trovasse a passare per lo stesso luogo due sere di seguito, fermandosi due volte a guardarmi per il semplice piacere di ascoltare. Ma, al di là di questo, ogni giorno vedevo visi nuovi, sconosciuti, che dopo qualche ora avevo già dimenticato.
 
Ma l'infruttuosità non era il solo motivo per cui non mi sforzavo di tenere a mente i visi dei miei spettatori. Infatti, fino ad allora, nessuno mi aveva mai colpito veramente.
Fino ad allora.


 

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Capitolo 4
*** IV. ***


IV.

Piccolo Fiore
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IV.

Era una serata calda, lì, in una delle piazze più importanti di Roma. Il sole era scomparso da poco e  la gente si stava riversando sul viale oltre le mura alla ricerca degli ultimi pullman e degli ultimi tram in corsa.
Attorno al mio pianoforte, però, il numero di spettatori era addirittura aumentato. Un altro po' e mi avrebbero circondato del tutto per la prima volta, quell'estate. La gente dondolava il capo seguendo le mie note leggere, volutamente alte per combattere l'afa notturna. Terminai un'altra melodia e bevvi un sorso d'acqua tra un applauso generale.
Le persone continuavano ad avvicinarsi, così decisi che era giunto il momento della mia ballata preferita, il mio pezzo forte, che serbavo per i momenti di maggiore afflusso. La conoscevo talmente bene a memoria che non avevo neanche bisogno di aiutarmi con lo spartito.
Le note scivolavano sotto i miei tocchi in un crescendo, gioiose e incalzanti. Alzai lo sguardo e lo puntai tra la gente per osservare le loro reazioni, e fu allora che la vidi.
 
Rimaneva immobile, seppur ondeggiando tra la folla, prima nascosta dietro un paio di jeans blu scuro, poi coperta da una lunga gonna. Tutti la urtavano, nessuno sembrava accorgersene, ma lei rimaneva sempre ferma al suo posto e non sembrava affatto curarsi di chi le stava intorno. Aveva gli occhi fissi sul pianoforte, ma troppo bassi per star guardando i tasti. Il suo sguardo era molto più lontano, remoto, irraggiungibile. Sembrava che una strega le avesse fatto un incantesimo, costringendola a rimanere in quella posizione per l'eternità.
L'indice mi scivolò su un tasto sbagliato, generando una stonatura che soltanto un orecchio sufficientemente allenato avrebbe potuto udire. Distolsi lo sguardo per concentrarmi sulla ballata. Ogni tanto, però, lanciavo un'occhiata alla mia impassibile spettatrice. Aveva una carnagione di colore olivastro, e non ero del tutto sicuro che quelli che indossava fossero propriamente abiti, tant'erano sporchi e stropicciati. Il viso, esile come il resto del corpo, era polveroso, e gli occhietti risaltavano tra alla pelle annerita dallo sporco. Tutto di lei dava l'idea di trasandatezza e noncuranza; tutto, eccetto i capelli. Questi, neri e lisci, erano acconciati amorosamente in due codine di cavallo che le ricadevano dai due lati della testa.
Puntai lo sguardo altrove mentre completavo la melodia. L'ultima nota fu seguita da un profondo silenzio, poi la gente sciolse le mani in un applauso fragoroso. Girai la testa verso la bambina dagli abiti polverosi, ma, con mia grande sorpresa, i miei occhi incontrarono solo gli abiti della gente.
Era scomparsa.


 

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