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di hajley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo due ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


Non so come mi sia venuta in mente questa storia. Forse è stata la "storia" finita e mai iniziata con Alessio a darmi le prime idee. Molti spunti me li ha dati Federica Bosco con la serie "Innamorata di un angelo" che è da sempre tra i miei libri preferiti (anche se, essendo un'accanita lettrice, la lista è piuttosto lunga rimarrà sempre ai primi posti). Altri spunti li ho presi dalla mia vita reale. Ad esempio, ho deciso di chiamare Violet la protagonista perché è simile al mio nome, Viola. Spero con tutto il cuore di suscitarvi emozioni mentre leggete e di lasciare un buon ricordo dentro ognuna di voi. La storia è semplice ma dolcissima allo stesso tempo. Un'adolescente che si sente diversa e che non riesce a trovare il sorriso, un vecchio amico che torna e che diventerà il principe azzurro perfetto, anche se con la sigaretta tra le labbra, che ruberà il cuore infranto di Violet. Vi prego di immaginare Violet come voi, sì, esatto, proprio tu che leggi, e Jace come il vostro idolo o il ragazzo che vi piace. Non si chiama Jace per Shadowhunters, sia chiaro. Era un nome che mi piaceva molto e l'ho scelto tra gli altri che avevo in mente perché inizia con la J, che è una lettera a cui sono molto "affezionata" per vari motivi. Per quanto riguarda il gruppo scout di Violet, dato che frequento un gruppo italiano, ho costruito la storia in base al sistema scout italiano; che sicuramente non è molto diverso da quello inglese ma che comunque presenta delle differenze. Ogni riferimento a luoghi e posti realmente esistenti narrati nella mia storia potrebbero essere veri o inventati. Penso di narrare al tempo presente, ma potrei avere un ripensamento e scrivere al passato variando da un capitolo all'altro. Vi prego di non farci caso o farmelo notare, pura licenza HAHAHA. Metterò uno piccolo "spazio autrice" a fine capitolo e se volete che legga le vostre storie non esitate a chiedere, sarò felice di farlo. Buona lettura e scusate la rottura di coglioni, ma ci tenevo davvero a dirvi queste cose prima che iniziaste a leggere. Viola. P.S: Seguitemi su twitter (@oceanidistelle), su tumblr (laragazzacheprofumavadilibri.tumblr.com) e su wattpad. Se non ricambio vuol dire che ho distrattamente dimenticato di farlo, perdonatemi e chiedete❤ Grazie di cuore per aver scelto di leggere la mia storia! ❤

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Capitolo 2
*** Capitolo uno ***


Sorseggio il caffè ormai freddo nel mug dei Beatles, con la solita espressione spenta sul volto che vedo riflesso nello sportello del microonde. Le cuffiette nelle orecchie che sparano rock anni sessanta e gli occhi pieni di matita nera che si chiudono e quasi desidererebbero essere chiusi per sempre. La mia vita ormai è solo un danatissimo rito che si ripete tutti i giorni con lo stesso ritmo. Scuola, scuola, scuola, musica, musica, musica, libri, libri, mille libri, libri di ogni tipo. Ora che ci penso, ho più libri che vestiti. L'ho sempre dato per scontato, a dire il vero, ma ora mi rendo conto che per le mie compagne non è così. I miei non hanno mai smesso di riempire casa di libri, e io di leggerli. E non ho ancora finito di leggerli tutti. Ci sono libri ovunque in casa mia: sotto uno sgabello, in uno scaffale, sopra un mobile o sulla dispensa. Io li ho persino sotto il letto, tra le estremità del materasso e il comodino. Sono due anni che dobbiamo comprare un'altra libreria ma ancora non lo abbiamo fatto. Prima ci pensava papà ai mobili, ma adesso papà non c'è. Detta così sembra che sia morto e confesso che spesso penso che non mi dispiacerebbe, anche se poi mi sento in colpa. La verità è non sono mai riuscita a parlare apertamente con papà. Non abbiamo mai parlato di cose serie, anche se lui mi ha sempre detto che prima o poi dovevamo farlo. Papà è il classico tipo che, se gli parli di qualcosa, ti risponde che "purtroppo è la vita", e poi torna a leggere saggi di filosofia. Penso che papà ami la filosofia più di quanto ami me e le mie sorelle. È la materia che insegna da anni e ormai è parte di lui. Mi ricordo che quando avevo sei anni già mi parlava di Freud. Non in modo serio o drastico, magari mentre stavamo andando al mare, nel suo macchinone blu - che poi, tanto "one" non è mai stato -, poi mamma si girava verso di me e mi faceva una faccia come per dire «non lo ascoltare». E io ridevo, perché papà continuava a parlare, parlare, parlare e mamma a fare quella faccia. Mi mancano tanto quei giorni a Skegness. Le gemelle erano già nate ma mamma e papà ancora sembravano andare d'accordo, e non si sapeva nulla dell'autismo di Elisewin. Erano giorni felicissimi quelli. Io allora ero piccolina, che ne sapevo della vita e di come fosse. Neanche mi importava forse. Avevo appena imparato ad intrecciarmi i capelli e mi piaceva tanto andare al mare. Facevo sempre il bagno, me lo ricordo bene. Papà mi faceva fare i tuffi e mamma leggeva Baricco all'ombrellone, anche se disturbata spesso dalle gemelle. A mamma e papà è sempre piaciuto Baricco. È un autore italiano che mamma ha fatto conoscere a papà quando erano all'università. Quando mamma si è laureata sono nata io, Violet. Come le violette. Mamma ha sempre amato quei fiori. Quattro anni dopo sono nate le gemelle. Iris; come i fiori che piacevano alla nonna quand'era in vita, e Elisewin; come la protagonista del libro di Baricco che i miei avevano amato ai tempi della scuola. La sera tornavamo a casa e mamma cucinava il pesce fritto con le patatine, io facevo le bolle di sapone e poi papà tirava fuori la chitarra e suonava gli Eagles e i Rolling Stones, e io provavo ad indovinare di chi fosse la canzone che sentivo. Dicevo sempre «Gli U2, gli U2!» o «I Pink Purple!». Poi papà mi spiegava che i Pink Purple non esistevano, c'erano i Pink Floyd e i Deep Purple. Mi sembra così strano parlarne così, davanti ad una tazza di caffè freddo. Non avrei mai pensato che quelle canzoni sarebbero diventate la mia vita. Beh, erano anni felici quelli. Anni in cui ancora non capivo il significato della parola "sofferenza", anni in cui non sapevo cosa fosse, provavo solo ad immaginarlo. E mi interessava pure. Lo cercavo spesso su Internet a casa dei nonni. Avevo imparato da sola ad usarlo e ad andare su Google, però quando cercavo quella parola mi uscivano immagini che mi facevano piangere, così ogni tanto chiedevo agli adulti. «Mamma, papà, che vuol dire esattamente soffrire?» «Beh... », rispondeva papà. Mamma mi fissava e sorrideva dolcemente. «Forse non... come glielo spieghiamo? È difficile da spiegare a parole, piccola Vì. Sono cose che vanno provate. Ma tu non devi essere triste perché non sai il significato profondo di questo brutto parolone. Anzi, amore mio, ringrazia Gesù che ancora non lo sai» «No, mamma aspetta. Io lo so cos'è la sofferenza. Anche se non sto proprio soffrendo mi dispiace non sapere esattamente cos'è. E quindi la mia è una forma di sofferenza, giusto?» «Giusto» «Mamma?» «Dimmi» «Chi vive non sapendo perché lo fa è una persona sofferente?» «Mhm... credo di sì» «Grazie, mamma» Mi ricordo bene una frase di uno sei miei libri preferiti: "Il ritratto di Dorian Gray", diceva «Esistono veleni talmente insidiosi che per conoscerne le proprietà bisogna assurmerli». È esattamente ciò che io ho vissufo con quel "brutto parolone", come lo chiamava mamma. Ahimé, ora l'ho capito cos'è la sofferenza. Eccome. E in questo momento per me la sofferenza è dover bere un caffè freddo e prendere la metro, entrare a scuola, dover togliere le cuffiette e salutare persone che non mi risponderanno o che fingeranno di essere carine e gentili con me, ma non appena girerò l'angolo avranno da ridire sulla mia maglietta con Freddie Mercury o sui miei capelli rossi spettinati e umidi di pioggia. La scuola è la mia tortura. Studiare mi piace, ma non mi piace il contatto con la gente e la scuola non mi aiuta di certo. Lì le persone non pensano, e se pensano, pensano alle cose più stupide. Sono lontane un mondo da me, me ne accorgo quando ci parlo, dalle loro risposte. Sono così mediocri e semplici, mi fanno pena e rabbia allo stesso tempo, anche se a volte quasi desidererei di essere come loro e non avere la testa piena di mille pensieri. Io penso troppo, decisamente troppo. Non so se è un bene o no. «Violet, sbrigati! Sono già le sette meno un quarto e tu devi ancora finire di fare colazione!» Diciamo che in questi casi no, non è un bene. - Prendo la borsa e un libro sotto il braccio ed esco di casa con il cielo brusco di Leicester sopra la mia testa. Cammino svelta schivando le pozzanghere e raggiungo la fermata del bus. Una volta salita, mi stupisco che ci sia un posto libero e mi siedo accanto ad un'elegante signora con un un rossetto rosso accesso sulle labbra. Apro il libro e mi metto a leggere, abbassando il volume delle cuffiette che sparano i Led Zeppelin da quando sono uscita. La musica e i libri sono il mio rifugio. Leggo ovunque, in ogni momento, sin da quando ero piccola. Papà e mamma si arrabbiavano. Erano contenti che leggessi tanto ma i libri mi sono sempre piaciuti più delle persone, e la cosa li turbava. Tuttora mi dicono che dovrei uscire di più e leggere meno, ascoltare più persone parlarmi e meno canzoni sfondarmi le orecchie, ma non ci riesco. Io non piaccio alla gente e la gente non piace a me. A volte ci scambiamo uno sorriso, ma nulla di morbosamente profondo. Non riesco ad aprirmi con le persone, la maggior parte della gente mi fa sentire a disagio. Le uniche persone che mi piacciono sono quelle che si sentono sempre inadeguate o nel posto sbagliato, come me. Quelle che sentono il bisogno di tirare le maniche fin sulle nocche e che lasciano i capelli davanti al viso per coprirsi il più possibile. Mi rivedo in loro, le capisco. Con la coda dell'occhio vedo la signora seduta accanto a me scendere sul marciapiede una volta aperte le porte davanti a me. Chiudo il libro spazientita. Non riesco a leggere quando la mia mente straborda di pensieri. Confondo le parole che leggo con quelle che penso e, se provo a non farlo, mi gira la testa per lo sforzo. Non riesco a frenare i pensieri. Tento di lavorare su questa cosa ogni giorno ma è troppo forte. Così, prendo il telefono e lo sblocco. Il codice è 1970, l'anno di nascita di mamma. Mi metto a cazzeggiare togliendo il codice, cambiando lo sfondo e poi mando avanti la canzone. Se ascolto "Another Love" di Odell in pubblico c'è il rischio che possa mettermi a piangere e sembrare un'imbecille, oltre che un mostro per via del trucco che colerebbe. «Scusa, posso sede... Violet?» «Jace?» Ho tolto bruscamente le cuffiette dalle orecchie, che sono cadute per terra allontanando dai miei timpani quel suono paradisiaco che mi isolava dal resto dell'universo, riportandomi nel mondo reale. Sinceramente non sono così sicura di essere nella realtà, perché davanti ai miei occhi c'è Jace Hamilton. Per quell'attimo che sembra durare anni io rimango ferma e lo guardo. Non esistono autobus, tuoni, cuffiette per terra o libri in bilico tra il ginocchio e il sedile accanto al mio. Ci siamo solo io e lui. Soprattutto lui. «Cosa ci fai qui?», mi chiede. Ha una faccia sconvolta e io mi sforzo di non pensare a come dev' essere la mia. «Io abito qui, sto andando a scuola» Si siede e passa le mani nei capelli. «Mio Dio, ancora non ci credo. Non so neanche come ho potuto riconoscerti. Sei così... dimagrita. Per caso hai anche tinto i capelli?» Annuisco accennando un sorriso e prendo tra le dita una ciocca di capelli rossi. «Sì, rossi come quelli di mamma e Scarlett» «Scarlett, Gesù! Quanti anni ha adesso?» «Quattro» «Quattro...», ripete sconcertato. «Sono quattro anni che non ci vediamo. Tu ne hai sedici, giusto?» «Quindici. Tu devi farne diciannove il prossimo settembre, il ventotto. Sbaglio?» Non so perché l'ho detto. Non mi sono resa conto che in questo modo ho evidenziato il fatto che lui non ricordava quanti anni avessi e io invece sapevo quanti doveva compirne e quando. Spero non se ne sia accorto. «Già. Tu sei di ottobre, vero?» Il cuore mi si riempe di gioia nel sentire che ricorda il mese del mio compleanno. Effettivamente è stupido. «Sì», mormoro. Ora che le muovo mi rendo conto che le mie labbra quasi si stanno seccando a furia di sorridere. Che strana sensazione. Rimaniamo a sorriderci finché il suo cellulare non squilla. Ho quasi un sussulto nel sentire che la sua suoneria è "Hammer to Fall" dei Queen, una canzone che adoro. «Scusami, Vì» Vì. Mi ha chiamata Vì. «Mamma. Mamma, non sai chi ho incontrato. Non ci crederai mai. Violet, Violet Rodes! La figlia di Tom e Marlen. Ti ricordi? Qualche anno fa eravamo nello stesso gruppo in spiaggia. È cresciuta un sacco, devi vedere che bella ragazza è diventata!» Quei complimenti mi lusingano non poco, ma somigliano a quelli dei parenti di mamma in Italia. Insomma, qualcosa che direbbe un adulto, e la cosa non fa altro che farmi pensare che Jace è lontano da me, non solo per quanto riguarda l'età. D'altro canto, lo è sempre stato... «Va bene, allora tranquilla... posso mangiare un panino in giro. A dopo» Blocca il telefono e mi guarda. «Scusa, era mamma. Non riesce a tornare per pranzo» «Che lavoro fa qui?» «Ha trovato un posto di lavoro come chef in un ristorante qui vicino. Dovresti venire, sai. Si mangia molto bene. Ci sono anche piatti italiani e conoscendo le tue origini so che li apprezzeresti molto» «Grazie, se ci sarà occasione seguirò il tuo consiglio» Tira fuori dallo zaino una lattina di coca-cola. «Dove vai a scuola adesso?», gli chiedo per rompere il silenzio. «Harbloom, tu? Vuoi un po'?» Mi porge la lattina ma io sono troppo sconvolta nell'aver sentito quel nome che gli rispondo dopo qualche secondo. «Ti ringrazio, no. Harbloom? Sul serio? Le nostre scuole fanno spesso gemellaggi o cose simili... partite, mostre, musical.. è veramente strano che ancora non ci siamo incontrati. Io sono della Pencey» «Ne ho sentito molto parlare. Cavolo, devi essere davvero brava... lì ti massacreranno, suppongo» Annuisco con tristezza. «Puoi chiamarmi se ti serve un secchione in erba che ti aiuti, ma sono certo che tu con la testa che hai non ne hai minimamente bisogno» Sorrido. È così dolce, mio Dio. Non posso credere di avercelo davanti. Jace Hamilton, porca puttana! Delle ragazze ucciderebbero per essere al mio posto. E lui mi parla, mi sorride, mi fa complimenti di continuo, si sta addirittura offrendo di aiutarmi nello studio. Mi sforzo di non fissarlo e di non illudermi di nuovo. Non voglio cadere nella sua rete ancora una volta, ora che sono riuscita ad uscirne. «Oh, lo farei ma non ho neanche il tuo numero» «Sul serio? Ero convinto ce l'avessi. Passami il telefono, te lo scrivo subito» Glielo metto in mano sforzandomi di non sembrare troppo felice e lui lo sblocca, sorridendo nel vedere il mio sfondo. «Sempre grande intenditrice di musica, tu. Me lo ricordo, ti piacevano tanto i Pink Floyd quando ti ho vista le ultime volte» «Mi piacciono ancora», sottolineo. «Oh, lo vedo», ride. «Papà ha lasciato a casa un vecchio giradischi con "The Wall". Non sai che meraviglia» «Lasciato? Come sarebbe a dire? Dov'è adesso?» «Beh, ha fatto le valigie ed è andato a vivere ad Holborn» Sono sconvolta. «Mi... mi dispiace tanto», balbetto. «Anche mio padre se n'è andato, il Natale prossimo a quando ci siamo visti l'ultima volta. Scarlett era ancora piccina. Adesso lui insegna in una scuola di Londra. Penso addirittura abbia una compagna» Mi fissa tristemente. «Sono davvero dispiaciuto per te, Vì» Rimaniamo in silenzio, fermi a guardare il pavimento. Ci capiamo a vicenda, ma non c'è neanche bisogno di dirlo. Dopo un po' rompe il silenzio e mi porge il cellulare. «Ecco fatto. Ora devo scendere, è stato veramente bellissimo rivederti, piccola Vì. Scrivimi appena puoi, così memorizzo il tuo numero. Potremmo uscire uno di questi giorni, magari ci vediamo a scuola... che bella sciarpa! Dai, fatti abbracciare» "Fatti abbracciare". Che parole deliziose. Non smetto di sentirle ripetersi nella mia testa. Mi abbraccia dolcemente, passando le mani sulla mia schiena. È un abbraccio che dura poco ma non m'importa. Jace mi ha abbracciata, e io mi sento così viva e felice che quasi la cosa non mi preoccupa. - Arrivo a scuola, ovviamente, in ritardo. Le mie compagne storciono il naso appena mi vedono entrare e posare la borsa sotto il banco. Mi sento osservata ma ormai ci sto facendo l'abitudine. Levo la sciarpa di Grifondoro e il cappottino grigio e li poggio sulla sedia, mentre il professor Fhitz attende che io mi sieda per cominciare ad interrogare. È un ex collega di papà. So che ancora adesso sono amici, ma non per questo sono la sua alunna preferita, anzi, a malapena mi accenna un sorriso. Però quando la campanella suona e tutti escono mi trattiene per parlare. Lo fa spesso e mamma si incazza perché non le rispondo al cellulare e comincia a pensare che sia stata rapita. Il professore estrae dalla sua tanto temuta busta di carta due foglietti e li apre. «Formart e Halls interrogati in letteratura. Dunque; cominciamo con Shakespeare» Mi guarda e io gli sorrido. Ieri abbiamo discusso molto su Shakespeare. Comincia a fare domande e alzo il braccio ogni volta che finisce di pronunciarle. In realtà non lo alzo, porto l'indice all'altezza delle orecchie e lui capisce. Alzare una mano dà troppo nell'occhio per una come me. Il mio compagno di banco, Lucas, mi guarda strano. Per essere io, sorrido veramente troppo. «Rodes, rispondi tu» Tutti si girano a guardarmi, compresa Formart, che non sa rispondere. «Scusi qual era la domanda?» Formart ride maliziosa. Il professor Fhitz mi guarda e sorride divertito. «Rodes, questa distrazione non è da te. Stamattina un bel principe ha forse rubato il suo cuore infranto dai suoi vecchi amori impossibili come... ehm.. Il Giovane Holden, signorina?» ♡ Ciao ragazze, Scusate davvero per l'attesa... molte di voi hanno aspettato con ansia che iniziassi e vi ringrazio davvero per questo. Il fatto è che voglio scrivere qualcosa di veramente bello e speciale, non come le solite cose. E per farlo ho bisogno di tempo e concentrazione. Vi sembrerà stupido ma non riesco a scrivere se non sto sola e tranquilla, mi confondo e finisco per esprimermi male rendendo la lettura meno scorrevole e, soprattuto, piacevole. Così in questi giorni mi sono messa agli scogli con un paio di cuffiette e il mio telefono e ho scritto questo capitolo che spero con tutto il cuore vi sia piaciuto. Mi scuso per gli eventuali errori, non esitate a correggermi! Vi saluto e vi abbraccio, molto grata a chiunque abbia letto tutto il capitolo fino a queste parole. PS: rileggete la prefazione! Vostra Viola ♡

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Capitolo 3
*** Capitolo due ***


La battuta del signor Fhitz ha espresso perfettamente ciò che Jace è per me. Il ragazzo perfetto che sembra uscito da uno dei miei libri preferiti. È la classica persona di cui si parla nei romanzi rosa e per quanto non ne abbia letti molti ho sempre visto Jace come il più preciso protagonista di una storia d'amore perfetta. Ho sempre voluto fare la scrittrice, da piccola pensavo di scrivere un libro su Jace. Benché non abbia mai sopravvaluto le mie doti di scrittice, so che se parlassi di Jace sarei capace di ideare un capolavoro. Io e Jace ci siamo conosciuti a Skegness. Mi ricordo che ogni volta che mi vedeva leggere mi passava davanti e dava una schicchera sul libro per farmelo cadere in faccia. Non ricordo né quando né come abbiamo iniziato a parlare, semplicemente ci vedevamo lì tutti i giorni quando d'estate io e la mia famiglia ci trasferivamo a casa dei nonni per le vacanze. Mi ricordo che anche allora la casa a Skegness era quella che definivo "la mia vera casa". Mamma e papà mi dicevano che lì ci stavo solo d'estate, la mia vera casa era quella a Leicester. Con il giardino pieno di margherite, il tetto rosso ben verniciato, tutti i miei libri, tutti i miei vestiti, il mio letto bianco con le lenzuola rosa, la cucina comoda con gli sportelli che non cigolavano, il caminetto con le nostre foto sopra, le finestre con peonie di mamma, e tutte quelle cose che per loro costituivano il vero concetto di "casa". Ma per me casa era Skegness. Era quella palazzina con la vernice tutta lesionata e rovinata, le finestre bianche arrugginite, il giardinetto pieno d'erba con quei pochi fiori che morivano non appena tornavamo a Leicester, il letto a castello di legno con il materasso duro e le lenzuola color acquamarina. Il gas andava acceso con il fiammifero e il forno funzionava male, per questo mamma odiava dover cucinare lì. Papà invece moriva di caldo perché non c'erano i condizionatori e lui a volte dormiva fuori sull'amaca. I miei non hanno mai amato Skegness come l'ho amata io, ma io sono certa che anche loro hanno in serbo per quel posto tanto affetto. Non ci si può non affezionare a Skegness, a quel mare che profuma di vita, a quel cielo che assume mille sfumature di azzurro, di viola, di rosa, sempre pieno di stelle, dietro a quelle palme sul lungomare. Io potrei vivere tutta la mia vita lì, comprando i biscotti dei Maghi di Waverly al supermercato dietro il nostro plesso, andando in spiaggia anche d'inverno, leggendo o ascoltando la musica. O, perché no?, facendo entrambe le cose contemporaneamente. Ho sempre amato quel posto anche perché lì le persone mi sono tutte simpatiche, o quasi. Ci sono tutti i miei amici. Alcuni abitano lì tutto l'anno, altri vanno solo l'estate come me ma le nostre case sono tutte vicinissime e sin da quando ero piccola mamma mi lasciava raggiungerle da sola. Non mi scorderò mai di quelle mattine passate a fare braccialetti, tutti in pigiama, o di quelle sere in cui mi affrettavo a lavarmi e vestirmi per andare da loro a vedere film. Vedevamo sempre "Spiderman" o "I passi dell'amore". Quei film ci piacevano da matti e poi erano gli unici due che Andrea era riuscito a scaricare. Quanti M&M's ingurgitavamo quelle sere, specialmente io. Pensare che ora non tocco da mesi un dolce per via della mia dieta-senza-fine. L'ultimo che ho mangiato è stato una torta per la festa di inizio anno scolastico. L'aveva fatta Jimmy, un ragazzo della mia classe che tutti prendono in giro sin dalle elementari. Nessuno toccava il suo dolce, come se fossero schifati da qualcosa che avesse fatto lui. All'inizio anche io l'ho rifiutata ma poi ho visto che nessuno la prendeva e che il cioccolato si stava sciogliendo sotto il sole di settembre, e poi Jimmy mi faceva tanta pena, così ne ho tagliata una fetta sotto gli occhi di tutti e l'ho mangiata in un attimo. Ho persino detto a Jimmy che fosse deliziosa, anche se la trovavo alquanto stomachevole seppur con un buon sapore. Mi schiero sempre dalla parte dei più deboli e dei diversi. Mamma dice che è perché avendo una sorellina "diversa", sono abituata ad ogni tipo di diversità sin da piccola. Effettivamente ha ragione. A dieci anni già leggevo libri sull'autismo. Del resto, vedevo mamma piangere per questa strana malattia che aveva Elisewin e volevo informarmi. Ci sono riuscita appieno e ne ero anche soddisfatta, così quando le persone si chiedevano perché mia sorella urlasse senza motivo o perché facesse quelli che per un bambino "normale" sono capricci, io sapevo dare una spiegazione ben valida e precisa. «Mia sorella soffre di una forma di spettro autismo. Non può tollerare molte cose che il suo cervello rifiuta di comprendere, come ad esempio il ketchup mischiato alla maionese o il gelato al cioccolato mischiato alla panna, e perciò scarica la propria tensione sfogandosi urlando» Almeno per me era così e lo è sempre stato. Ogni volta che ripetevo il mio discorsetto a qualcuno, per non far parlare mamma che si riempiva sempre di lacrime o papà che abbassava lo sguardo, le persone mi accarezzavano la guancia o mi scompigliavano i capelli affettuosamente e mamma si asciugava le lacrime sorridendomi. «Va tutto bene, Vì. Tranquilla» Se ci ripenso piango anch'io, ma sono sull'auto, Jace si è trasferito a Leicester e io ho molte altre cose a cui pensare. Quindi per ora il mio masochismo psicologico può aspettare. E anche tanto. ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ Nel pomeriggio mi sdraio sul letto e accendo il vecchio - e scassato - pc di papà, aprendo Facebook. È passato molto tempo dall'ultima volta che ho visualizzato la pagina. Il fatto è che gli "amici" di Facebook sono persone che non amo o che, anzi, non sopporto. Meno vedo le cose che postano, meglio mi sento. Digito "Jace Hamilton" sulla barra di ricerca e compare subito il suo viso angelico, per non dire divino. È la cosa più bella che abbia mai visto, giuro. Ha due occhi color cioccolato e dei capelli corvini che spesso porta via dalla fronte con un gesto della mano, che ho sempre trovato infinitamente affascinante. Quanto alle mani, non scendere nella volgarità dicendo che ogni volta che le guardo le desidererei sul mio corpo, mi è davvero complicato. Ha le dita piuttosto lunghe e affusolate, bianche come il latte e con le nocche che si arrossano facilmente. Ha le classiche dita da pianista o da chitarrista, e infatti suona entrambi gli strumenti. Come me, ama il rock. Lo sapevo già ma la sua immagine di copertina con un disco dei Rolling Stones lo conferma. Guardo il suo diario. Non posta molte cose e la cosa mi fa piacere. Ci sono foto di concerti, foto con delle ragazze - argh! -, foto con un gruppo scout. La guardo interessata, non sapevo fosse scout. Nello scrutare i particolari della foto, in cui è in uniforme insieme ad una decina di ragazzi sorridenti, mi accorgo che il loro fazzolettone è diverso da quello di Leicester o di quello che hanno la maggior parte dei gruppi scout di Londra. Dev'essere il gruppo di Skegness. Per un attimo penso a quanto sarebbe bello averlo nel mio gruppo. Andare agli scout sarebbe ancora più piacevole, se potesse esserlo. Mi trovo bene con quelle persone, mi fanno sentire come se fossi nel posto giusto al momento giusto. Ed è una sensazione che non provo mai. Scorro ancora più giù nella pagina, vedendo le sue foto in spiaggia a Skegness, con la sua famiglia, con il fratellino, con altri amici e mentre suona la chitarra. «Come va la ricerca su Facebook, tesoro?», civetta mamma entrando nella mia stanza per poggiare sulla scrivania dei panni che dovrò stirare e mettere a posto. «Mamma, per favore... sto guardando il profilo di Jace, abbi pietà di me!» Mi metto a mani giunte guardandola al contrario con la testa sulla tastiera. Quando le ho detto di aver incontrato Jace sembrava non crederci ed era entusiasta che la persona che mi è sempre piaciuta sin da piccola fosse nella mia stessa città, ma ora è impassibile. «Non ti vedo studiare con impegno, Viola» Quando mi chiama con il mio "vero nome", il nome che teoricamente lei voleva appiopparmi, la versione italiana di Violet, se così si può definire, vuol dire che c'è qualcosa che non va. «Mammaaaa, ti prego. Lo dici tutti i santissimi anni che Cristo manda e poi vengo promossa a pieni voti» «Ma quest'anno sei alla Pencey, è diverso. Non puoi permetterti di stare ore appiccicata al computer se vuoi eccellere in tutte le materie!» «Mamma, ma chi ca... chi cavolo vuole eccellere?» «Non dico con superbia o presunzione! Insomma... hai capito. Eccellere nel senso di andare bene. E poi non alzare quel tono nominando il Signore con tanta facilità. Stai diventando esattamente come i miei alunni» Lo dice sempre, ma insegna in una scuola che sembra un riformatorio. Le ragazze rimangono incinte una volta ogni due mesi e poi lo dicono a mamma, perché lei è l'unica che le ascolta come vogliono. A volte vorrei che i miei genitori si comportassero con me come fanno con i loro alunni. «Mamma smettila, smettila con questa storia. Non è affatto vero che sono come i tuoi stupidi alunni, e se lo sono forse dovresti farti qualche esame di coscienza!» Non appena finisco di pronunciare quelle parole ho l'istinto di tapparmi la bocca con la mano, ma rimango immobile e fisso mamma pentita. «Mamma scusa è che tu mi... tu mi fai innervosire e io...» «Ti auguro di fare una bella vita felice come la mia, da grande, e di sentirti dire queste cose da un figlio, Violet Rodes!» Esce sbattendo la porta con la forza di una persona arrabbiata. Mi butto a peso morto sul letto, con una lacrima di esasperazione che mi riga la guancia e fisso Jace che sorride sulla foto nello schermo. È incredibile il modo in cui quel viso mi dia forza. Mi fa sentire come se se qualcuno mi stia abbracciando dicendomi che tutto si risolverà. Ma io lo so che non è così e per questo piango. Piango perché mi sento affogare nei miei problemi, ogni singolo giorno, e le persone non fanno che peggiorare le cose. Io ho bisogno di Jace. Finora ho sempre tentato di bloccare i miei sentimenti nei suoi confronti ma non posso riuscirci, sono troppo forti e io troppo debole. Io amo Jace. Lo amo da impazzire. Non ho mai smesso di amarlo da quella estate, ho solo finto, mentendo anche a me stessa. Ho bisogno di Jace, del suo sorriso, dei suoi occhi, delle sue mani. Ho bisogno che mi stringa e mi dica che andrà tutto bene, che mi dia tutto l'amore che non ho mai ricevuto. «Hey Vì, tu pensi che nessuno ti abbia mai amato davvero, se n'è andato persino tuo padre, ma adesso ci sono io. Vengo con te ovunque tu voglia andare, ti sono sempre accanto. Adesso ci sono io» Oh, perché non smetto di piangere? ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ Non c'è verso di fare pace con mamma, e io devo andare a riunione di squadriglia. Le ragazze mi hanno chiesto espressamente di non tardare, dobbiamo organizzare la giornata delle famiglie. «Mamma, puoi accompagnarmi tu?», mormoro a mezza bocca prendendo la borsa mezza vuota con il quaderno e la borraccia. Ci metto dentro anche gli appunti di latino, così nei momenti più vuoti della riunione posso studiare. Mamma continua a svuotare la lavatrice e non mi guarda. Intanto infilo la sciarpa di Grifondoro e il cappottino grigio. Metto anche i guanti che Scarlett ha definito "da strega", fa troppo freddo. «Devo portare Iris a danza. Sei abbastanza grande per andare da sola, aria fresca in faccia e in dieci minuti sei in sede» Sbuffo ed esco sforzandomi di non sbattere la porta. Il freddo è pungente e il cielo sembra avercela col mondo. Mi stramaledico per non aver preso l'ombrello. Cammino svelta per Leicester e arrivo alla sede scout. Letizia e le altre mi aspettano sulla porta della casetta in mezzo agli alberi in cui facciamo attività e mi fanno cenno di sbrigarmi. Appena entro le saluto tutte con un bacio sulla guancia e mi siedo attorno al tavolo al centro della stanza. Tiriamo fuori i quaderni e cominciamo a parlare della giornata di domenica, tutte infreddolite e rosse in viso, strofinando le mani e riscaldandole con l'alito. «Vì, tuo papà viene?», mi chiede Sophia. È una ragazza alta e con i capelli tinti di un bellissimo nero, con i riflessi color prugna. Ha gli occhi marroni e dolci, come quelli di un cerbiatto. La guardo sorridendo e mi stringo tra le spalle. «Devo ancora chiederglielo, oggi lo chiamo» Passiamo il resto della riunione a decidere cosa fare e mangiare domenica. Sono un po' a disagio perché sarà la Giornata delle Famiglie e io una famiglia non sono poi così sicura di averla. Cioè, ce l'ho ma è così diversa da quelle dei miei compagni che se dovessi ammalarmi entro domenica tirerei un sospiro di sollievo. Mentre Letizia, Sophia, Francis e Celine decidono il cibo io tiro fuori gli appunti di latino e li leggo. Poi ripeto a mente quanto più ricordo fissando gli armadi, i cassettoni e le scatole alle pareti della sede. Francis mi guarda e mi sorride. «Vì, non preoccuparti. Se devi studiare puoi farlo, poi ti facciamo leggere cosa abbiamo deciso ma se arriva Annie-Joe ti prego, togli tutto» Annuisco sgranando gli occhi. Annie-Joe è il nostro capo scout. Viene ad aprirci la sede per la riunione ogni giovedì, poi ci lascia dentro e va ad aiutare il giardiniere o a cucire una nuova sacca per le matite colorate. Spesso durante la riunione sono costretta a studiare, ma devo nascondere i fogli sotto il tavolo perché se Annie-Joe dovesse passare la mia squadriglia perderebbe punti. Mentre mi dispero perché non riesco a ricordare le declinazioni, sento un rumore di chiavi e mi affretto a mettere via gli appunti, accartocciando un po' il foglio dentro la borsa. «Ragazze, vi ho portato un po' di té caldo. Ho trovato delle bustine avanzate dall'ultima uscita che abbiamo fatto. Ve lo lascio qui» Poggia sul tavolo un piattino, dipinto di rosso da me nell'ultima Giornata della Creatività, con cinque bicchieri di plastica pieni quasi fino all'orlo. La ringraziamo tanto e ci riscaldiamo con quel po' di té che sembra diventare ogni secondo più tiepido a contatto con l'aria gelida. ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ Una volta finita la riunione mamma mi chiama e mi chiede di passare a prendere il latte da Naciess. Guardo il cielo minaccioso e cammino svelta per Halford Street con il tacco degli stivali che batte sull'asfalto. Inizia a piovere. Sento i capelli inumidirsi e bagnarsi sempre di più e vedo la borsa si riempirsi di goccioline. La metto sulla testa per non rovinare il lavoro di due ore di esaurimento nervoso davanti allo specchio e appena posso mi metto sotto il tetto di una casa. L'ingresso è illuminato ma finestre sono tutte chiuse e presumo non ci sia nessuno dentro, così mi siedo sull'unico gradino tra il patio e il giardino e provo a chiamare mamma, ma non c'è campo e il cellulare si spegne. Lo sbatto sul ginocchio e trattenendomi dal lanciarlo sull'asfalto bagnato lo butto nella borsa con violenza. Scoppio in un urletto isterico e mi copro il viso con le mani. La pioggia non sembra avere intenzione di smettere di cadere e io sto congelando. Intravedo una figura uscire da un'auto e incamminarsi verso la casa accanto al giardinetto in cui sono seduta. Ha il cappuccio tirato il più possibile sul viso con la mano, ma appena lo toglie devo trattenermi dall'urlare. È Jace. Suona il campanello insistentemente, con una smorfia di fastidio sulla faccia. È bello anche così, bagnato come un pulcino e con i capelli fradici. Sto sorridendo come un'ebete e me ne accorgo solo ora. Appena si gira verso di me alzo la mano e la agito. «Jace, ciao!», urlo coprendo il rumore della pioggia e dei tuoni. «Violet! Cosa ci fai lì?» È sorpreso ma sembra felice di vedermi. Felice più o meno un decimo rispetto a quanto lo sono io, nonostante il mio aspetto da sopravvisuta al naufragio del Titanic, con i capelli fradici e il trucco colato. «È una storia un po' lunga», rispondo ridendo. «Cosa?» «È una lunga storia», urlo più forte. «Aspetta non sento un cazzo, vieni qui» Non me lo faccio ripetere due volte; prendo la borsa e, con quest'ultima sulla testa raggiungo Jace che continua a citofonare. Impreca contro il pulsante e poi mi sorride. «Mi fa piacere vederti, dove stavi andando?» Mi dà un bacio sulla guancia e io desidererei che quel momento non finisse mai. La pioggia, il citofono rotto e i capelli arricciati dall'acqua piovana non sono proprio il massimo, ma hanno un non-so-che di romantico. «Sono andata a riunione di squadriglia» «Squadriglia? Anche tu sei scout?» Il vento è così agitato che gli occhi mi lacrimano e fatico a tenerli aperti. La pioggia è incessante e sull'asfalto si sta formando un fiumiciattolo. Rispondo solo dopo qualche secondo. «Sì, perché?» «Anch'io sono scout!» «Ma dai, non lo sapevo», mento spudoratamente. Rimane in silenzio e prende il telefono. «Vì, vai sotto alla casa degli Hantist, chiamo mamma» «Ti bagnerai ancora di più così, vai tu. Io sono già abbastanza fradicia» Sorrido. Passa la mano non impegnata a tenere il telefono sulla mia guancia e io trattengo il respiro. Se questo è l'effetto di tanta pioggia. ti prego, Dio, scatena il diluvio universale. «Vai tu, c'è un solo gradino» «No, sul serio io...» «O il gradino o il solletico» Il solletico, il solletico, il solletico... «Il gradino», sorrido e corro a sedermi. Una volta seduta lo sento parlare con la mamma. Parla ad un volume di ventimila decibel e scandisce bene ogni parola, sillaba per sillaba, perché il cellulare non prende. Dopo un secondo lo vedo attaccare e incamminarsi verso una delle case vicine, mi fa cenno di seguirlo e lo raggiungo in un batter di ciglia, impiastrate di quel poco di mascara che non è colato. Il freddo è così pungente che ad ogni mio respiro una vaporosa nuvoletta si libera nell'aria. Sono zuppa d'acqua dalla testa ai piedi; il cappottino grigio, bagnandosi, è diventato nero, e la sciarpa di Grifondoro mi avvolge il collo gelida e umida, facendomi provare una sensazione di soffocamento a dir poco odiosa. Potrei uccidere per un bagno caldo. Jace digrigna i denti e ha le palpebre vicinissime l'una all'altra. Quanto vorrei baciarlo... È così bello, con quel giacchetto nero, quei pantaloni a sigaretta e le scarpe di pelle con i lacci. È uno spettacolo che pagherei per guardare. Appena la mamma di Jace ci apre sembra trattenere un urlo. Non so se sia piena di sgomento perché siamo più bagnati del mare o perché ci sono io sono con suo figlio. Jace gli avrà parlato del nostro incontro? «Ciao Helena!», le dico sorridente. «Violet! Mio Dio, quasi non ti riconoscevo! Come sei cambiata, sei stupenda!» «Te l'avevo detto, mamma», dice Jace facendomi l'occhiolino mentre struscia i piedi sullo zerbino con i gattini nell'ingresso. Non devo arrossire, altrimenti sono ancora più brutta. «Stupenda? Ho paura di guardarmi nello specchio!» «Oh, non dire corbellerie. Aspettate, aspettate! Vi porto degli asciugamani... Santo Cielo, non oso immaginare quant'acqua ci sarà per terra quando sorpasserete quello zerbino. Fermi lì, ci metterò un po' perché sono nel ripostiglio insieme alle altre cose che usciamo d'estate non vi muovete!» Puoi metterci anche tutta la vita, Helena. Sento il tacco dei suoi stivali battere sull'ultimo gradino e allontanarsi al piano di sopra. Mi guardo intorno imbarazzata. «Che bella casa, Jay!» «Ti piace?» «Molto» Tolgo la sciarpa e il cappotto e li strizzo tra le mani fuori dalla porta per far cadere l'acqua, poi li appendo all'attaccapanni accanto all'entrata. Io e Jace rimaniamo in silenzio finché lui non parla per rompere il ghiaccio. «E quindi... anche tu sei scout. Da quanto?» «Mah, saranno più o meno cinque anni» «Non me l'avevi mai detto» «Beh, neanche tu» «Vero... ma non c'è stata occasione. Io e te parlavamo poco in spiaggia, tu sei sempre stata così timida...» «Lo dici come se fosse una cosa orribile...», mi fingo offesa. «No, no, Vì. Non volevo dare quest'impressione. È che mi dispiace, perché non ho mai avuto il coraggio di darti un'occasione per parlare e avrei dovuto farlo, ora me ne accorgo più che mai» «In che senso...?», faccio finta di non aver afferrato bene ciò che voleva dirmi. «Nel senso che sei una persona stupenda e mi sto pentendo di non essere venuto a parlarti mentre leggevi o stavi da sola in spiaggia. Ci sono state veramente poche occasioni in cui abbiamo parlato. E poi eravamo in gruppo...» «E quindi?» «E quindi se siamo da soli riesco a parlarti più apertamente. Quante domande, piccola Rodes!» Rido. «Tranquilla, adoro le persone che fanno tante domande» Non smetto di sorridere. «Sai, il bagnato ti dona. Te lo dissi anche qualche anno fa, usciti dall'acqua. Mio Dio, che onde quel giorno... Matt stava quasi per ammazzarsi sugli scogli» Guarda il vuoto con l'aria di chi ha negli occhi un ricordo felice. «Ti ricordi?», mi chiede. «A dire il vero no, non mi ricordo neanche di aver mai fatto un bagno con te» «Beh, ma è vero. Io e te non abbiamo mai fatto un bagno insieme...» Ride malizioso e io roteo le pupille. «Stupido» «Troietta» «Io?», sgrano gli occhi arricciando le labbra. «Ecco qui, scusate vi ho fatto aspettare un po' ma dentro a quel casino non si capisce nulla. Sai, Vì ci siamo trasferiti pochi mesi fa...» Helena scende mentre io e Jace ridiamo divertiti e ci mette sulle spalle degli asciugamani da mare con dei delfini. «Lo so, Jace mi ha detto che non è molto che siete a Leicester, del resto avremmo dovuto incontrarci. Grazie infinite Helena, e scusa tanto per il disturbo... è successo un casino» «Figurati tesoro, è un piacere» Helena è una donna estremamente dolce e carina. Ha i capelli di un colore che adoro, al confine tra il castano e il biondo, e gli occhi azzurri come i riflessi nel ghiaccio. Non so la sua età precisa, ma penso vada per i quaranta come mia madre. «Vì, vuoi chiamare Marlen?» Mi porge il telefono. Annuisco, preoccupata della reazione di mamma. Incredibile che non abbia pensato a lei tutto questo tempo. La presenza di Jace mi fa dimenticare tutte le cose che mi turbano o mi infastidiscono. «Pronto?» «Mamma...» «Violet!? Dove sei? Quando avevi intenzione di chiamarmi? Cosa stai facendo?» «Mamma non urlare... sono con Jace, l'ho incontrato in Halford Street mentre andavo da Naciess. Sono zuppa d'acqua, ora sono a casa degli Hamilton e...» Helena mi fa segno di salutarla agitando la mano. «Helena ti saluta» «Risalutala e ringraziala tanto. Cribbio, Violet ma dove cazzo hai la testa? Hai lasciato l'ombrello qui e quella merda di cellulare dov'è? Eh?» Quando mamma si arrabbia spara una parolaccia dietro l'altra come fossero congiunzioni o preposizioni. Poi a me dice che non devo dirle... «Mamma per favore, si è spento» «Se tu la smettessi di cazzeggiare su Twitter tutto il giorno, molto probabilmente il cellulare non si spegnerebbe nel momento del bisogno!» «Mamma, mamma, ti prego...» Quell'odiosissima voce stimola in me istinti di autolesionismo, attacchi nervosi o suicidio ogni volta che i miei poveri timpani devono subirne la violenza. «Non parlarmi in questo modo, Violet, altrimenti come ti ho messo al mondo ti ci tolgo» La sua frase preferita. «Quel coso non lo tocchi più per due settimane, ti vengo a prendere tra una mezzoretta» «Mamma ma...» Attacca e io restituisco il telefono ad Helena con lo sguardo fisso nella pioggia che intravedo dalla finestra. Finalmente ho trovato una definizione a ciò che provo dentro nei momenti così, protagonisti della mia vita. La pioggia. Il mio stato d'animo è la pioggia. «Vì, tutto bene?» «Sì, grazie... è solo che mamma si è arrabbiata a morte» «È normale, non ti preoccupare, le passerà. Dopo ci parlo io, tranquilla» Le sorrido, prendendo mentalmente in considerazione l'idea di trasferirmi dagli Hamilton. ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ Jace torna in salotto quasi completamente asciutto e attacca l'asciugacapelli ad una presa elettrica accanto ad una lampada a fiori. «Vieni, Vì, asciugati. Piccola, stai gelando...» Mi ha davvero chiamata "piccola"? «Vado a prepararvi una cioccolata calda», dice Helena. «Oh, no Helena. Non preoccuparti, ho bevuto il té a riunione di squadriglia», mi affretto a rispondere. «Andiamo, non puoi rifiutare...» Per quanto ne abbia voglia non posso bere cioccolata calda, sarebbe un attentato alla mia dieta. Mi mordo le labbra indecisa. «Magari mettine solo mezza tazza per me, grazie infinite» ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ Quando finalmente finisco di asciugare i capelli una sensazione di intenso benessere mi invade. Jace ha acceso il fuoco e io sto bene al calduccio. Helena mi ha dato una spazzola e ho pettinato talmente tanto i capelli che non sono molto ricci. Mi ha persino fatto lavare il viso, e tutto quel trucco che avevo sul viso è sparito. Le cose che mi preoccupano, però, sono mamma e i compiti per domani, che ancora non ho terminato. Aggiungiamo anche il fatto che, se volessi sentire Jace, non potrò farlo per ben due settimane. Dopo un po' di tempo passato a parlare con Helena e Jace del loro trasferimento, della scuola di Colin -il fratellino di Jace -, di mio padre e delle mie sorelline, sentiamo suonare il campanello. Helena si precipita sulla porta. Io poggio sul tavolino di vetro la tazza di cioccolata calda e mi alzo con un po' di esitazione. «Cos'hai?», mi chiede Jace. Mi chiedo come faccia a percepire sempre le mie emozioni. È come se una parte di lui vivesse dentro di me e sentisse tutto ciò di cui ho bisogno o ciò che mi manca. È magico. «Niente, è che mamma si è incazzata a morte e mi ha tolto il telefono per due settimane» Lo dico in modo che né Helena né mamma, che si stanno affettuosamente salutando sulla soglia della porta, non mi sentano. Jace si morde le labbra. «Oh no...» «Già...», annuisco tristemente. «Aspetta, vieni» Mi fa cenno di seguirlo e si incammina verso il corridoio. «Jay... Jay, dove mi stai portando?» «Sei carina quando mi chiami Jay» Lascio cadere sulle tempie una ciocca di capelli che avevo messo dietro l'orecchio. Sono contenta che non si sia girato verso di me, così non incontro il suo sguardo e evito un imbarazzantissimo momento. Apre un cassetto e tira fuori un iPod di una sfumatura tra il banco e il grigio perla. «Tieni» «Cosa? Perché?» Penso di aver capito perché me lo stia porgendo e questo suo gesto mi riempe il cuore di gioia. «Prendilo e nascondilo nella borsa. Se riesci a non farti beccare, puoi mandarmi messaggi con questo, qualsiasi cosa ti serva. Scrivimi per qualunque cazzata, okay?» ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ Una volta nel letto, nonostante mamma fosse terribilmente arrabbiata con me, nonostante non avessi studiato consapevole delle interrogazioni del giorno seguente, nonostante la Giornata delle Famiglie, nonostante tutto, mi addormento con un lieve sorriso sulle labbra e un cuore che ha stranamente voglia di battere. ✮ Salve ragazze! Prima di dire qualsiasi altra sciocchezza devo ringraziarvi, con tutto il cuore. Negli ultimi giorni ho ricevuto un sacco di complimenti da voi e non avete idea di quanto mi abbiano lusingata. È bellissimo sentirmi dire che ciò che scrivo con tutta me stessa vi piace. "Escape" è una parte di me, e se vi piace io non posso fare altro che essere al settimo cielo. Quindi, grazie con tutto il cuore per aver letto quella che è la parte di me che ho voluto condividere con voi. Vi voglio bene. Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento. Lasciatemi un commentino, se volete. PS: siccome questa storia è stata pubblicata inizialmente su wattpad, la sto trascrivend anche qui.. ma se volete continuare a leggere tutti i capitoli che ho già scritto vi basta andare qui in attesa che li scriva anche su efp: http://www.wattpad.com/45983552-escape-capitolo-uno Contattatemi su Twitter (@oceanidistelle) o su Ask (@xheeytheredelilah) per farmi sapere se seguite la storia. Baci, Vostra Viola ✮

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Capitolo 4
*** Capitolo tre ***


«Bene, ragazzi. Vi auguro un felice Natale, ma non riposatevi troppo: vi aspettano una vasta gamma di compiti in classe una volta tornati a scuola! Rodes, puoi trattenerti un secondo in aula? Devo parlarti». Annuisco trattenendo un sospiro di esasperazione. Cos'altro dovrà dirmi adesso? Non può mandarmi un messaggio su Whatsapp? Ha il mio numero! Santo cielo, non ha mai fame questo tizio? Okay, è single, ma un pranzo dovrebbe invogliarlo a tornare a casa, no? «Signor Fhitz mi perdoni ma sono in punizione, non ho il cellulare, non posso avvisare mia madre e si preoccupa tantissimo ogni volta che non torno a casa entro dieci minuti. Può mandarmi un messaggio?» Mi fingo dispiaciuta ed effettivamente mi rincresce dovergli dire che non posso rimanere, ma molto probabilmente se dovessi trattenermi il signor Fhitz non smetterebbe di parlare per almeno mezzora e quando tornerei a casa la mia vita sarebbe in grave pericolo. «D'accordo allora ti scrivo, non ti preoccupare. Buon Natale, Violet! Tanti auguri anche al tuo papà, proverò a sentirlo uno di questi giorni...» «Andrò a stare da lui in questi giorni, gli porterò i suoi auguri. Buon Natale anche a lei professore, grazie» Una volta uscita da scuola mi incammino verso la fermata dell'autobus, guardando le Dottor Martens blu petrolio muoversi velocemente sull'asfalto. Mi siedo su una panchina e tiro fuori dalla borsa dei Pink Floyd - ultimo regalo di compleanno di papà - l'iPod di Jace. Ancora mi stupisco che mi abbia dato un oggetto del genere così facilmente, solo per dirmi che posso scrivergli in caso di necessità. La cosa che mi mette in difficoltà è la "qualsiasi cazzata" per cui posso scrivergli. Ma quale cazzata? Io ho bisogno di lui sempre, in ogni momento. Potrei scrivergli dalla mattina alla sera, forse anche di notte, e non mi basterebbe. Sblocco l'iPod notando le applicazioni scaricate. Le apro una per una e leggo tutti i messaggi, anche se sentendomi un po' in colpa. Chiacchierate con amici di scuola, amici di Skegness, i suoi genitori, parenti lontani... Apro persino le immagini, che sono tantissime. Foto artistiche, dipinti, recensioni di libri, foto al mare, foto di se stesso fatte con l'autoscatto (che mi fanno impazzire) e infine... una sua foto abbracciato con una ragazza. La tiene stretta per i fianchi, sono vicinissimi. Mi sento male. Lei è bellissima. Bionda, con gli occhi chiari e le labbra perfette. La fisso per qualche secondo finché non arriva l'autobus. Salgo distrattamente e mi siedo non staccando lo sguardo dall'iPod. Credo di essermi illusa. Come sempre, del resto. Mi sono lasiata illudere dai suoi complimenti, dai suoi sorrisi, dalle sue dita calde che accarezzavano la mia guancia come fosse la cosa più importante del mondo. Evidentemente volea essere gentile con me, sarò sempre e solo la tizia sfigata che leggeva Wilde sulla spiaggia. Lui è troppo per me. Lui è Jace Hamilton, è grande, è figo. Ad uno come lui non interessano le bambine con i capelli rossi, le lentiggini chiare, le gambe magre e un po' storte, le spalle piccole. Nessuna ragazza nell'universo è al pari di Jace, figuriamoci una sfigata come me. ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ «Vì, hai preparato le cose da portare da papà?» Mamma entra in cameretta urlando per sovrastare gli Iron Maiden. Spengo lo stereo e scuoto la testa mordendomi il labbro. «Dai, preparati la borsa...» Entro nell'armadio per prendere il borsone di jeans che tengo vicino all'uniforme scout e alle valigie. Il mio armadio è sempre stato il mio rifugio, dopo la cameretta. È una piccola stanzetta dentro la camera, dove ho sempre riposto valigie e vestiti. C'è addirittura una piccola porticina che non ho mai aperto, mai in tutta la mia vita. Io e Marta, la mia migliore amica a distanza, forse l'unica amica che ho, abbiamo deciso che quella è Narnia e che un giorno la apriremo insieme. «Che palle mamma, non... ahia, caz...», picchio la testa sulla porta dell'armadio e ringrazio me stessa per non aver finito di pronunciare la parolaccia. «Non mi va di andare da papà e lasciarti sola» «Ma non sono sola, non ti preoccupare. Andrò a dormire da zia Mary e poi verrano anche zia Audrey e zio Francis, i nonni, qualche amico della parrocchia...» «Sì ma io la Vigilia di Natale l'ho sempre passata così, non voglio andare da papà...», dico mettendo nel borsone dei jeans con dei maglioncini. «Non mettere troppa roba, stai solo tre giorni... lo so che non vuoi, ma dai, non starai male da papà. Ti porti il libro, il cellulare...» «Me l'hai sequestrato», sottolineo arricciando le labbra con fare interrogativo e togliendo un maglioncino rosso dal borsone. «Hai ragione, e io non mi ricredo mai quando si tratta di punizioni ma questa è un'occasione particolare...» «Mi restituisci il cellulare?» Gli occhi mi si illuminano mentre ripongo delle mutande nella borsa. «Solo per la tua permanenza da papà, quando tornerai a casa me lo ridarai, okay?» Annuisco sorridendo. «Grazie, mamma» Sorride anche lei. «Sei... sei ancora arrabbiata?», azzardo a chiederle. «Un po' mi è passata, ma tu a volte mi fai disperare. Invece di venirmi incontro...» Abbasso lo sguardo. «Però io sono molto stressata ultimamente e, se stai pensando che lo sono sempre, sappi che ora lo sono anche più del solito» «Lo so, lo so» «Violet, io non voglio essere una mamma stressante e oppressiva. Essere tua amica, oltre che tua madre, è sempre stato facile ma adesso tu stai crescendo e pretendi solo il rapporto "mamma-amica", io non posso essere solo quello, capisci? Le amiche sono le amiche, le mamme sono le mamme e per quanto possano provare ad essere entrambe la cosa non è possibile» «Mi stai dicendo che non ho amiche?» «Andiamo, Vì. Tu non sei come le altre ragazze, non mi chiedi mai di uscire, di vederti con qualcuno. L'unico rapporto che riesci a mantenere solido è quello con Marta, e solo perché lei abita lontana» «Mi stai ferendo» «Non è mia intenzione ferirti ma guarda in faccia la realtà, tu non hai amici» «Non è vero» «Avanti, dimmi chi sono i tuoi amici» «Beh, ultimamente c'è Jace», dico con un filo di voce. «Jace, oh certo. Non lo vedevi da quattro anni, in spiaggia non parlavate mai e improvvisamente lo consideri un amico» La fisso con odio. È una stronza, una stronza senza ritegno. «Sei un'asociale, una piccola depressa truccata di nero che non fa che ascoltare rock e leggere libri. Sai, Vì, finiamola qui. Non mi va di litigare. Ma sappi che essere soli non è mai un bene. Mai» ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ La mattina dopo mi sveglio sul letto, con i vestiti ancora addosso. Mi strofino gli occhi e le ciglia mi fanno male. Sono ancora truccata. Beh, truccata per modo di dire. Devo essermi addormentata mentre piangevo, perché sul cuscino ci sono delle macchie nere. Suppongo sia mascara. Mi succede spesso, piango come una deficiente e poi mi addormento. Mi alzo e vado al bagno. Nel vedere il mio riflesso nello specchio ho quasi un sussulto. Sono un mostro. Il trucco è colato su tutto il viso e le ciglia sono impiastrate. Mi strucco e una lacrima mi accarezza la guancia mentre penso a ieri. Non voglio andare da papà, mamma è sicuramente incazzata con me e non sento Jace da quella che mi sembra un'eternità e mi manca, mi manca terribilmente. Prendo il suo iPod dalla borsa in cameretta e torno in bagno. Entro su Facebook per scrivergli e ci sono tre messaggi non letti. È lui. Jace Hamilton, 20 dicembre. [8.43 PM] "Hey piccola Vì♡" Jace Hamilton, ieri. [9.01 AM] "Mi dispiace non vederti sull'autobus oggi. Il venerdì entro alle nove e mezza. Tu sei già a scuola?" Jace Hamilton, ieri. [6.23 PM] "Sto forse disturbando una delle sue letture depresse, miss? Una sua risposta sarebbe gradita... si connetta presto" Sorrido. Ogni pensiero svanisce nel momento in cui leggo e rileggo quei messaggi. Penso un secondo a cosa scrivere e poi butto giù le prime parole che istintivamente vorrei dirgli. "Hey Jace♡ Scusa, non avevo ancora acceso il tuo iPod. Grazie mille per avermelo prestato, è stato davvero un pensiero gentilissimo. Tranquillo, non hai interrotto nessuna lettura, solo una stupida preparazione delle cose da portare da papà questi giorni. Buone vacanze PS: quando posso ridarti l'iPod?" Non appena invio il messaggio mi chiedo se ho scritto troppo, ma ormai ho inviato. Mentre entro nella doccia sento una notifica e corro a vedere. È lui. "Buffo svegliarsi con i tuoi messaggi, come mai già in piedi? Vai da tuo padre? Non lo sapevo... speravo di vederti questi giorni. Posso passare stamattina, così ti saluto♡" Il cuore mi batte come una canzona dei Deep Purple. Forse anche di più. "Sì, devo andare da papà... dobbiamo, cioè. Ma stiamo solo fino alla mattina di Natale, passa a prenderci dopo pranzo" "Quindi stamattina sei a casa?" "Sì" "Ma non sei sola, vero?" "Ehm.. no, ci sono mamma, Iris, Elisewin e Scarlett. Perché?" "Volevo stare un po' solo con te" "Perché?" "È imbarazzante quando fai tutte queste domande. Niente, volevo darti una cosa" "Scusa..." "Dai, mi vesto e vengo" "Aspetta, sono sveglia soltanto io e non so il codice dell'allarme" «Violet, sei tu?» La voce roca di mamma al mattino, oltre che a riportarmi alla realtà, mi fa rischiare un infarto. Butto l'iPod dentro il cestino dei panni sporchi e le sorrido imbarazzata non appena entra. «Che ci fai tutta nuda? Da quanto sei sveglia?» «Non molto, stavo per fare la doccia», sussurro. Mi fissa per una manciata di secondi. «Vì, quanto sei magra... stai sparendo... sì, sì, guardami con quella faccia. Sei un mostro, guardati, fai impressione, fai schifo. Se facessi esercizio fisico invece di stare tutto il giorno a cazzeggiare non sentiresti il bisogno di saltare i pasti, come ieri sera...» Trattengo un urlo, ma urlo dentro e fa ancora più male. «Mamma, esci» «Continua così, mi raccomando» Non appena esce mi guardo allo specchio e piango, piango lacrime amare e piene di disperazione. Se qualcuno mi chiedesse perché non sono felice io non saprei rispondergli, gli direi semplicemente di passare una giornata con me e vedermi tentare di sopportare tutto quello che mi succede intorno. Non essere capita da nessuno, essere vista come una piccola stupida, stare male e non sapere con chi parlare, essere trattata male anche dalle persone che in teoria dovrebbero essere un punto di riferimento. ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ ☾ ☽ Chiusa a chiave in cameretta, provando invano di studiare latino per anticipare il lavoro - sotto consiglio, o forse dovrei dire obbligo di mamma - sento squillare l'iPod di Jace e mi precipito come un fulmine a leggere il messagggio. "Finalmente sono riuscito a trovare la tua casa, piccola Rodes. Diciamo che le indicazioni non sono il tuo forte. Ho dovuto chiedere di te ai passanti... magari adesso esci? Sono sul marciapiede accanto al tuo muretto" Metto l'iPod in tasca e sento il cuore colmarsi di gioia e battere felice, mentre gli occhi quasi non si commuovono. Per non destare sospetti, esco dal balcone della camera da letto di mamma, con il passo silenzioso e movimenti minimi, senza la giacca. Morirò di freddo ma lì fuori c'è Jace, il mio Jace, e per lui rischierei qualsiasi cosa. Cammino veloce verso il cancello, guardando i fiori un po' appassiti dal freddo alle mie spalle. Esco sulla strada e mi volto a destra. Eccolo lì. Le gambe stese per terra, il cellulare tra le mani, un cappello di lana nera sui capelli corvini, le labbra semiaperte e le dita bianche che scivolano sullo schermo. Vorrei scattargli una foto e fissarla per l'eternità. «Jace...», lo chiamo con un filo di voce, strofinandomi le braccia con le mani. Solo adesso percepisco il freddo, ed è così pungente che sento come mille aghi roventi tentare di conficcarsi nella pelle sotto il maglioncino. Lui si gira e si alza subito, venendomi incontro. «Salve, piccola Rodes» Mi bacia la guancia e io sorrido con gli occhi socchiusi, nel tentativo di godermi quel piccolo, dolce bacio. «Vì, ma sei impazzita? Sei senza giacca e faranno due gradi, cosa ti dice quella testolina? Tieni, mettiti questo», così dicendo fa per togliersi il giubbotto, posando lo zaino che ha sulle spalle a terra. «Jace, non ci provare» «Stai zitta» Poggia la giacca sulle mie spalle e passa le mani sulle mie braccia, quasi volesse fissarcela sopra. Io rimango lì imbambolata tanto da sembrare idiota e guardo il maglione blu con i fiocchi di neve che indossa. «Jay, dico sul serio, io...» «Sssssh» Porta un dito sulle mie labbra socchiudendo le sue e io ho come la sensazione di stare per svenire. Non lo dico tanto per dire, la terra sotto i piedi mi risulta così morbida e fluida, che è quasi come se non ci fosse. «Tua mamma lo sa che sei qui?», mi chiede tentando di riscaldarsi strofinandosi con le mani. «No, motivo per cui tra un minuto rientro. Così ti do la giacca...» «Non ti preoccupare, sento un po' freddo ma il maglione è caldo» «Mi sento in colpa» «Non devi, te l'ho data io la giacca, no?» Silenzio. «Mi piace questo maglione» «Grazie, è il mio preferito. Questo colore sta bene con i miei capelli e con la mia pelle chiara, non trovi?» Annuisco. Cristo se non gli sta bene. Fa per aprire lo zaino che ha posato sulla terra gelida e tira fuori un pacchetto bianco, con una scritta scura sopra. «Cos'è?», chiedo. «Per te», me lo porge sorridendomi. Sulla carta bianca c'è scritto Per la piccola Rodes. Lo guardo interrogativa e lui non smette di sorridermi, arrossato in viso dal freddo. Scarto il foglio bianco scoprendo un libro, non poteva farmi regalo migliore. Il titolo non mi è affatto nuovo e, anzi, mi è molto famigliare tanto da farmi sorridere affettuosamente. Il giovane Holden. «Lo hai letto?», mi chiede. Non riesco a mentire e annuisco. «Cazzo, lo sapevo. Immaginavo che una come te l'avesse già letto. Sono stato un idiota» Una come me. «Scherzi? E' uno dei miei libri preferiti. Non fa niente se l'ho già letto, me lo aveva prestato mia madre. Sei stato carinissimo» «E' anche uno dei miei libri preferiti. Me lo ha regalato papà quando ero in terza media, avevo la tua età. Mi piacque tantissimo. E' stato un libro che mi ha fatto riflettere, nonostante a molti possa sembrare banale. Volevo che tu leggessi qualcosa che in un certo senso mi appartiene» Quelle parole mi toccano profondamente. «Aprilo solo quando sarai a casa», mi dice. «Perché?» «Lo scoprirai» «Beh, forse allora è meglio che vada...», dico togliendomi la giacca e provando a fargliela indossare. Dio, è così alto che mi sento piccolissima in confronto a lui. Ed effettivamente lo sono. Mentre provo a fargli salire una manica sulle spalle lui prende la mia mano e la stringe. Lo guardo e mi sento avvampare. Il suo sguardo è fermo nei miei occhi. Sembra che da un momento all'altro possa baciarmi. Ti prego, Jace, baciami. Sotto questi rami secchi e freddi come il ghiaccio, mentre tremo con la mano tiepida nelle tua. Lascia improvvisamente la mia mano, che per poco non cade giù come quella di un cadavere. Si sistema la giacca senza smettere di guardarmi. Io non riesco a controllare la direzione del mio sguardo, che è fisso su di lui e lo desidera come non mai. Mi schiocco le dita imbarazzata e alzo una mano per salutarlo, sforzandomi di sorridere, mentre lui mette lo zaino sulle spalle. Mi giro e faccio per andarmene, spingendo il cancello in avanti. «Vì, aspetta» Mi volto speranzosa di sentire da un momento all'altro le sue labbra calde e morbide sulle mie. «L' iPod» ♡ Salve ragazze mie, so di aver appena infranto un sogno che stava per diventare "realtà" ma, mi rincresce dovervelo dire, dovrete aspettare ancora un po' per il fatidico bacio (come una di voi ha definito) tra gli Jiolet, nome con cui una di voi ha battezzato la coppia. Come siete carine, aw... i vostri messaggi mi fanno sciogliere, non siete molte ma vi adoro con tutto il cuore. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che sia servito anche un po' come pretesto per farmi perdonare, dato che non potrò aggiornare per ben due settimane (fino al ventisei luglio circa). Ebbene sì, perché ho il campo scout e agli scout è assolutamente proibito l'uso di apparecchi elettronici. Mi mancherete ma non smettete di scrivermi, qui o su Twitter (@oceanidistelle). Vi adoro, Vostra Viola♡

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