Il Regno di Clara.

di Gnana
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Fiamme e Silenzio. ***
Capitolo 3: *** Un piccolo incontro viscido. ***
Capitolo 4: *** Parole al Vento. ***
Capitolo 5: *** Finalmente. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Leggere è l’unica cosa che mi è rimasta.
I libri non mi abbandonano, restano lì fissi, immobili, mi scrutano e mi fanno compagnia silenziosamente. Li amo, semplicemente. Non ho mai provato un sentimento così forte e così strano allo stesso tempo, eppure è lì: mi stana, mi prende, mi culla, fa di me ciò che vuole.
I libri sono indifferenti a tutto questo, in fondo sono lì per questo, è la loro natura. Possono sembrare un ammasso di carta, ma sono vivi. Sono vivi da tempo e lo saranno eternamente. Fisicamente, nella memoria, nell’aria. Si, perché quando leggo sento nell’aria qualcosa muoversi e quel qualcosa, ne sono sicura, è la mia storia, la storia che leggo.
Mi sono chiesta per quale motivo mi faccio cullare da loro, perché mi sono lasciata andare, perché lo faccio ogni volta. E secondo me la risposta è che è facile vivere la vita di altri piuttosto che la tua. La tua ti é difficile, piena di ostacoli, ci devi ragionare, devi fare delle scelte. Nei libri, no. La storia è già prestabilita, già scritta, sai che non devi sforzarti, devi solo vivere e vedere dove la storia ti porta. Sono i personaggi a decidere, a fare le scelte e stai lì a guardare mentre si innamorano, muoiono, odiano e non puoi fare a meno di sentirti strano. Si, in quegli attimi che si prende il tuo cervello per riposare. Un attimo prima sei completamente coinvolto e un attimo dopo la distrazione ti mette quella sensazione dentro. Rifletti, cerchi di capire cos’è e capisci. Ti rendi conto che mentre riempi il tuo cervello di ogni pagina, svuoti il tuo cuore di ogni emozione.
Uno scrittore disse che quando si finisce un libro è come perdere un amico.
Ah, fosse così facile…
No, per me è come morire. Ogni volta. Ed io odio morire, così inizio subito un’altra storia. Ne ho bisogno.
Muoio e rinasco tantissime volte, lo faccio da tempo, lo continuo a fare e continuerò a farlo. Vivo milioni di vite da spettatore. E la cosa fa male, è una droga che ti prosciuga, ti fa ammalare, ti danna l’anima. Ma è la cosa più bella del mondo. E’ maledettamente divino. E leggo all’infinito.
All’infinito.

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Capitolo 2
*** Fiamme e Silenzio. ***



Mi chiamo Clara e vivo qui da ormai… non ricordo, ho perso la cognizione del tempo. Saranno mesi o anni, non saprei, ma non mi importa. Mi sono persa, mi hanno abbandonata, credo.
Mi trovo in una biblioteca, una delle tante biblioteche sopravvissute al grande incendio. E’ la piu’ grande che abbia mai visto, in effetti non ricordo di averne viste altre.
Cazzo, odio questi  esercizi mnemonici! Ricominciamo.
Mi chiamo Clara, ho 18 anni, sono venuta qui per la prima volta da piccola. C’erano anche mamma e papà e sorridevano, mi tenevano per mano mentre ridevo. Non eravamo ancora entrati, però…

Una profonda angoscia mi attanaglia il cuore e un flashback mi fa accasciare a terra facendo cadere anche la sedia su cui mi ero poggiata. Fiamme, tante fiamme, lacrime e fra di esse mia madre mi grida di andare dentro.

“Vai dentro, Clara, scappa!”
“Mamma! Non mi lasciare, mammina!”
Continuavo a piangere e guardavo i miei genitori prendersi per mano e andare in mezzo alla folla impaurita. Ero su uno dei tanti scalini che portavano alla biblioteca, erano sporchi e molto scomodi, ma non mi importava e neanche delle lacrime che offuscavano la mia vista. Potevo, però, distinguere palazzi in fiamme e gente stesa sull’asfalto, inerme, donne che piangevano in ginocchio con i loro bambini insanguinati in braccio, qualcuno gridava “La morte! E’ arrivata la morte!” e poi arrivò qualcuno in divisa che lo trascinò via.

Una mano mi si posò sulla spalla e un braccio mi cinse la vita, mi sollevò e urlai con tutta me stessa con l’illusione di poter spaventare il mio aggressore, invano. Non ebbi il tempo né la forza di girarmi e guardarlo in faccia e intanto ci inoltravamo sempre piu’ nell’edificio pieno di libri e in cui si sentivano solo i suoi passi e la mia voce. Il casino di fuori era diventato solo un rumore sordo ed era assolutamente peggio, perché sentivo di allontanarmi ancor di piu’ da mamma e papà. Ogni tanto si sentivano dei botti seguiti da un leggero tremolio del pavimento e tutto intorno a me diventava piu’ scuro. Non andava bene per niente. Rivolevo il sole, rivolevo il vento, rivolevo la mia mamma.
Il mio aggressore, finalmente, mi mise a terra e mi serrò le spalle con le sue possenti mani, si inginocchiò e piantò i suoi occhi luminosi dritto nei miei.
“Sorellina. Adesso calmati, ci sono io.”
Mi sorrise e smisi di piangere all’istante.


Oh… Ora ricordo…

Questi stupidi esercizi. Li faccio ogni giorno, perché ogni fottutissimo giorno mi dimentico dell’orrore che è stato e ogni volta che riacquisto la memoria mi maledico, perché avrei preferito vagare senza ricordare e continuare ad essere cullata dalle mie storie senza angoscia.
Lui mi ha insegnato a leggere, lui mi ha insegnato a sopravvivere. E’ morto tre anni fa, è caduto e una costola gli ha perforato un polmone. Che morte figa, eh? Lo trovai accasciato scompostamente in una specie di buca piena di fango. Aveva tutta la faccia sporca e i vestiti stracciati, come se avesse lottato, e notai un bel ematoma gigante sul petto e la bocca era sporca di sangue rappreso. Bello spettacolo.

Erano stati gli Stupak, ne sono sicurissima ancora oggi. Uccelli molto scorbutici e molto veloci. Se ti trovavi nel loro territorio eri morto, se ti trovavi nel territorio in cui stavano cacciando eri morto, se facevi troppo rumore ed erano affamati, ti sentivano da molto lontano. Ed eri morto.
Una bella gatta da pelare per una ragazza di sedici anni, appena compiuti, a cui è appena morto il fratello. Infatti non uscii per settimane e mi cibai esclusivamente delle schifezze dei distributori automatici nell’area ristoro. Quando c’era mio fratello si andava a caccia degli Stupak. Io non ne sono mai stata capace, ma poi fui costretta ad uscire quasi ogni giorno e procurarmi un uccello gigante. Ehm, no. Non quello.

Ho paura che un giorno possano estinguersi, visto che non c’è molto da mangiare per loro, a causa delle nubi. Gli altri animali si riproducono molto meno di prima, a causa delle nubi. Gli umani sono tutti morti, a causa delle nubi, tranne io. E col cazzo che avrei dato il mio culo a un uccello gigante. Oh, di nuovo.
Le nubi vagavano dai tempi del grande incendio. Apparivano innocue, sembrava nebbiolina, ma era un miscuglio di gas che molto lentamente faceva effetto su qualunque forma di vita ne fosse a contatto.
La mia fine sarebbe stata il cancro, ma era ancora molto lontano. Gli animali invece erano un po’ piu’ deboli e diventavano sterili.

Prendo la mia divisa da caccia molto imbarazzante e mi dirigo verso il tetto. Esco dalla grande sala e tramite una porta di servizio accedo ad uno spazio troppo piccolo per contenere quella rampa di scale. Salgo a fatica, perché sono rimasta a leggere nella stessa posizione per ore e ora ho tutti i muscoli indolenziti. La rampa di scale é molto lunga, la biblioteca ha molti piani, ma finalmente arrivo alla “soffitta”. E’ davvero una soffitta, ma l’ho messo tra virgolette perché non la uso da tale. La chiamo ‘la stanza delle storie spezzettate’. Ci metto tutte le pagine perdute che trovo sparse nei corridoi immensi e quando trovo un libro con pagine mancanti in qualche scaffale, vengo qui e mi metto a cercare.

E’ molto grande e dal soffitto basso e non è molto luminosa. La luce entra da un paio di finestre e dall’immensa botola sul soffitto che dà sulla cima, la lascio sempre aperta perché è davvero pesante e mi scoccia ogni giorno aprirla per uscire fuori. Proprio sotto la botola c’è un grosso contenitore pieno di acqua piovana, lo sposto ed esco fuori facendo attenzione che non ci siano Stupak a passeggiare.
Raccolgo le bacinelle piene d’acqua e una ad una le porto in soffitta e faccio attenzione a non far cadere neanche una goccia. Tutte le volte che lo faccio mi sento lo sguardo di mio fratello sulla nuca e ho paura di sbagliare e di prendermi un rimprovero. Fortunatamente non accade nulla e le ripongo al fianco del muro libero dopo aver fatto grandissimi sorsi da una delle bacinelle.

Ricordo che io  e mio fratello un giorno uscimmo per strada e andammo a cercare una casa non ancora crollata, dovevamo cercare qualcosa per contenere l’acqua e le trovammo quasi subito. Le mise nella sua borsa da Mary Poppins e tornammo alla nostra dimora col sorriso sulle labbra. Oh, quanto mi manca…
Bah, via questi pensieri. Ora si caccia.

Scendo di nuovo giu’ nel salone principale, mi sistemo il giubbotto antiproiettile e i miei parastinchi, prendo la mia balestra e spalanco le gigantesche porte. Quell’arma l’aveva costruita mio fratello quando era piu’ piccolo, amava le armi e la meccanica. Come frecce uso delle stecche di legno molto appuntite che ricavo dagli scaffali e dai mobili inutilizzati delle case lì in giro. Agli Stupak danno molto fastidio.
Rimango immobile per un po’ ad ammirare la città silenziosa e la piazza deserta, poi stringo la mia balestra e comincio a correre. Faccio piu’ rumore possibile per attirare l’attenzione degli uccellacci e comincio a ululare, è il mio urlo di battaglia. Il lupo mi rappresenta, è una creatura maestosa e docile, ma se si sente minacciato, uccide. Proprio come me. Purtroppo non esistevano da centinaia di anni, ne aveva visto uno in un libro e ora sapevo tutto su di loro, avrei voluto accarezzarne uno.
Continuo a correre in mezzo alla piazza facendo rumore con le campanelline che avevo attaccato agli stivali e continuavo ad ululare.

Andiamo! Fatevi sottooooo…!”

Ne vedo uno che mi fissa, mi fermo e gli faccio la linguaccia e comincio a ridere. Gli Stupak odiano le risate. Si gettò in picchiata dal palazzo dove giaceva e viene verso di me, io subito punto la balestra e lo colpisco in mezzo agli occhi. Mi piace cacciare ora, mi diverto e poi sono anche brava. Peccato non possa far vedere la mia bravura a mio fratello. Vado verso l’uccello steso in mezzo alla piazza, vicino all’enorme Fontana della Liberazione. Venne costruita un secolo fa, nel 2900 circa, quando i cloni nazisti si ribellarono alla dittatura e scapparono via dalla Terra con le loro navi e lasciarono il povero Ulrich con la faccia da ebete. Lo scemo pensò bene di spararsi dopo un paio di ore, per la gioia di tutti. Che figura!

Mi inginocchio davanti al povero George – Si, davo un nome ad ogni preda – e gli tolgo dolcemente la stecca di legno dal cranio, ma non finisco il lavoro che mi si parano davanti altri due Stupak. Sono a piu’ o meno a cinque metri di distanza e se ne stanno buoni a fissarmi con una specie di ghigno, o almeno pensavo fosse quello. Ma quella specie era senza cervello, non volevano proprio capire che avevo una balestra in mano, però c’era un problema. Se avessi ucciso uno dei due, l’altro mi sarebbe saltato addosso in un attimo. Forse posso lanciare in aria il loro amico, distrarli e scappare, ma no… troppo pericoloso. Intanto si stanno avvicinando e io non so proprio cosa fare. Idea!

Mi alzo e faccio un ghigno anch’io, li guardo avvicinarsi lentamente, poi alzo di scatto la balestra e prendo uno dei due. La getto subito a terra per prendere fra due mani il loro amico, proprio mentre si era infuriato il secondo, e con tutta la forza che ho glielo scaglio contro. Mentre lui cade, stordito, riprendo la mia balestra e miro dritto in mezzo agli occhi.


Silenzio. Sento solo il mio respiro.

  -Eccomi qui con il primo capitolo. Questa è la storia a cui tengo di più, perchè mi rispecchio in Clara completamente. Il Prologo in realtà, doveva essere un semplice sfogo sentimentale, ma poi rileggendolo mi sono immaginata una ragazza che per davvero vivesse quello che ho vissuto io per un po' ed è diventato l'inizio della storia. Spero vi piaccia, baci baci.

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Capitolo 3
*** Un piccolo incontro viscido. ***


- 2 -
Un piccolo incontro viscido


 
 
Che la solitudine sia una brutta o una bella cosa dipende dai punti di vista. Quando la avverti sembra che ospiti qualcosa di freddo e viscido all’interno che non ti vuole far respirare. E tu disperi, ma è inutile perché non se ne va, fino a quando qualcuno non apre un contatto con te, la cosa viscida scompare piano e riesci addirittura a sorridere. Rischi, poi, di perdere quella persona e renderti conto che in realtà non ti era mai appartenuta.
Questo è stato il mio problema di sempre. Da piccola quando una persona mi parlava, pretendevo che restasse accanto a me, che continuasse a non farmi sentire sola, ma non si fa. Le persone vanno e vengono, bisogna onorarle e ringraziarle rispettando la loro decisione di andarsene.
Solitudine: Stato di chi è, di chi vive solo. Un luogo dove non c’è nessuno.
Io sono sola, vivo da sola. Il posto dove vivo è solitario… se non ci sono. Secondo il vocabolario il posto dove vivo non si sente solo mentre io si. Perfetto.
Ma ecco che entra in ballo il mio punto di vista: io sono sola, ma lo sono con me stessa, quindi non lo sono. E poi sono circondata da libri, chi si sentirebbe così?
Vedete, quando ho detto che mio fratello mi ha insegnato a leggere e a sopravvivere, non intendevo separare le due cose. I libri mi hanno salvata, mi salvano e mi salveranno ogni volta che vorrò. Danno senza ricevere e io prendo senza dare, é un accordo tacito tra noi, é grazie a loro se sopravvivo e anche a quello che mi ha insegnato mio fratello.
Ho portato i tre cadaveri nella biblioteca, puzzano di morte. Mi dirigo nella piccola area ristoro, alla ricerca di un coltello o qualcosa di affilato per poter fare a pezzi la loro carne.
Trovo una mannaia dalla lama scheggiata e arrugginita, ma non importa, devo fare in fretta: la puzza di decomposizione inizia a farsi sentire ed è disgustoso.
Sono qui in ginocchio davanti ai miei ragazzi, sono pronta allo schifo più totale. Prendo il grosso coltello e gli do un piccolo bacio, poi prendo la mira proprio al centro della pancia del mio ragazzotto deforme e puzzolente e dò un colpo secco.
Trovo qualcosa di insolito e molto viscido dentro. Ci sono delle uova! La mia mannaia ne ha distrutti parecchi, però ne è sopravvissuto uno. Lo lavo e lo metto da parte, poi deciderò cosa fare. Non rischio che si schiuda, ho imparato da una specie di manuale le fasi di un uovo di Stupak e quel coso non si schiuderà prima di due giorni.
Finisco di macellare i miei amici e vado a lavarmi. Non é proprio un bagno, é solo un angolo dove mi butto dell’acqua addosso. Mi tolgo la sciocca divisa, sciocca, ma che un bel po’ di volte mi ha salvato la vita. Ho imparato ad accettarla dopo che mio fratello è morto. Molte cose ho accettato dopo la sua morte: la divisa, il fatto di dover parlare da sola, il fatto di dover mangiare uccelli; tutto quello che mi stava accadendo, non l’ho mai accettato fino a quando non ho trovato il cadavere sporco e rattrappito di quel ragazzo una volta cazzuto. L’avevo accettato per lui, perché non volevo deluderlo, perché mi piace credere che vegli su di me anche da sotto la tomba improvvisata che gli ho fatto.
Prendo una bacinella piena d’acqua e me la verso sul corpo nudo e sulla testa. Lavarmi col sapone è un evento raro e non é certo questo il caso, così mi strofino un po’ con le dita, giusto per togliere il fango incrostato sulla pelle.
Il fatto che sono nuda in un salone immenso, all’inizio mi metteva in soggezione, come se qualcuno potesse vedermi. A volte mi succede anche adesso, quando sono distratta. E’ strano quanto il cervello sia restio ad accettare verità evidenti. Non c’è un’anima viva qui.
Mi copro con un asciugamano e mi metto a sedere vicino a un tavolo nell’area lettura. Ho l’abitudine di scegliere i libri guardandoli da lontano, é una nuova prospettiva dove posso trovare una certa bellezza. Lo trovo quasi subito, sembra che brilli in mezzo a quei miliardi di pagine che sembrano formare muri intorno a me.
 
Sto leggendo da ore, visto il numero di pagine che tengo con la mano sinistra. A me, invece sembra di leggere ora da decenni, ora da secondi.
Un rumore mi distrae.
Ripongo accuratamente il libro su un tavolo, gli do un’ultima occhiata pentita prima di correre via. Vado a tutta velocità nel grande salone facendo scivolare i piedi sul pavimento. Mi blocco quando vedo camminare, malconcio, un piccolo esemplare di Stupak, fradicio dalla testa ai piedi. E’ alto circa mezzo metro, contro il metro e mezzo della madre. Si reggeva a malapena in piedi, o in artigli.
Quando mi vede non si spaventa, anzi, fa per venirmi incontro e io ho l’incredibile impulso di scappare, ma un attimo dopo inciampa nelle sue stesse zampe e si accascia a terra a lamentarsi.
Impossibile che sia successo adesso, doveva nascere tra due giorni. Forse ho danneggiato il guscio.
Mi avvicino lentamente. Non ho mai avuto a che fare con neonati di quel genere, non so se l’istinto da massacratore a sangue freddo veniva covato assieme alle uova.
Ora sono vicinissima, lo guardo dall’alto, i nostri sguardi s’incrociano. Muove appena le ali e mi guarda con degli occhioni penetranti e, non so come un becco rigido di un rapace carnivoro possa trasformarsi in un sorriso, ma posso giurare che mi stia sorridendo.
Mi inginocchio lentamente e lo tocco leggermente per accertarmi una volta per tutte se sia cattivo o no e lui si comporta come se fosse la creatura più innocua di tutto il creato.
– Ho deciso, piccolino, mi prenderò cura di te.
– Ruack!
Non sarò più sola.



NdA 
Ho deciso di non dividere i capitoli in paragrafi, mi hanno detto che é più facile da leggere, ma ho pensato che chi ha davvero voglia di leggere qualcosa la legge e basta, no? 
E' da parecchio che non vengo qui ad aggiornare/revisionare e non ho neanche mai usato le note, ma sono pronta a rimediare! Mi sento talmente felice che userò la mia chiavetta internet come bacchetta magica. Purtroppo non posso usarla su di me per farmi scrivere meglio quindi accontentatevi :c
Fatemi sapere se vi piace e bacibaci. Che il Dottore vegli su di noi C;

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Capitolo 4
*** Parole al Vento. ***


- 3 -

Parole al vento



Ogni scrittore può essere un poeta e ogni poeta può essere scrittore.
Si gioca con le parole e con i significati, si usa una penna e si descrivono piccoli pezzi di tempo, piccoli pezzi di emozione che rispecchiano l’anima. Lasciano senza fiato, ti riempiono.
I poeti e gli scrittori prendono parola e la passano e senza rendersi conto sono messaggeri. Come piccioni che volano e portano verità a destinatari indefiniti.
Quando scrivo, immagino sempre che quel foglio andrà a un destinatario, non importa quale, basta che ce ne sia uno, non importa se a questo mondo ci sono solo io, ce ne sarà qualcuno su un altro pianeta, perfino in un altro universo, ma c’è sempre. E se proprio non riesci a immaginartene uno, il destinatario dovrà essere te stesso. Le parole non vanno al vento, visto che è dal vento che arrivano, quindi devono essere trasmesse.
Io ho tanta immaginazione e ho sempre saputo scrivere, perché ho avuto un grande insegnante, che é mio fratello. Tuttavia non riesco a capire se sono una brava scrittrice o meno. Mi aiuto paragonando i miei scritti con i libri che compongono la mia casa, ma non mi basta, ho bisogno di altri occhi.
Penso che un giorno insegnerò a leggere al mio Darling – così ho chiamato il cucciolo di Stupak – almeno mi farà da critico.
Tengo presente, però, che non ho una dote naturale. La mia immaginazione é fervida perché é stata nutrita.
Io la vedo come un bambino: nasce, si nutre e cresce. Poi arrivano le regole grammaticali che incupiscono e lo fanno diventare adulto, ma se le saprà domare, acquisirà armonia e diventerà l’uomo perfetto.
Stamattina mi sono svegliata presto e ho fatto i miei soliti esercizi mnemonici e come al solito mi sono dovuta aggrappare a un tavolo per non cadere per terra, talmente lo shock del flashback. Li odio.
Ho dato da mangiare a Darling, fortunatamente non si è fatta vedere durante la mia amnesia, altrimenti avrei urlato come una pazza e probabilmente sarei svenuta.
Poi sono salita su in soffitta a rispolverare le mie vecchie storie, per vedere se c’era qualcosa che potevo cambiare. Visto che devono essere viste da altri occhi per essere criticate a pieno, io aspetto che la mia anima cambi e i miei occhi con essa, così ogni volta che le leggo dopo tanto tempo, so sempre cosa è giusto e cosa è sbagliato e mentre lo faccio ascolto il consiglio del vento.
Mentre sposto una pila di fogli, cade a terra della carta appallottolata. La guardo accigliata per qualche secondo, ha qualcosa di familiare, poi la prendo e la faccio ruotare nelle mani.
“Non può essere…”
Un gran sorriso si apre sul mio volto quando aprendo la carta, mi accorgo che sono le mie prime parole.
E’ incredibile come siano potute durare per tutto questo tempo.
E’ un fogliettino abbastanza piccolo, ma su di esso ci sono delle lettere grandi e scomposte, colorate di blu.
C’é scritto Armando, mio fratello.
Il blu é il mio colore, ma non è il mio colore preferito.
La frase stona ma il concetto è quello: c’è differenza tra le due cose. Un colore può essere il tuo, quando rispecchia il tuo carattere, ma puoi anche non sapere quale sia. Io so che è il mio perché è il simbolo della calma, della tranquillità e dell’equilibrio. Coloro che prediligono il colore blu sono persone caratterizzate da sentimenti profondi e intensi e fanno dei propri ideali la loro arma vincente.
Decido di salire sulla cima per fare una passeggiata.
La mia testa fa capolino dalla botola. Non piove e non c’è nessuno Stupak, quindi esco allo scoperto e mi metto a sedere sul bordo con le gambe che penzolano nel vuoto.
Ammiro il tramonto con gli occhi socchiusi, le nuvole sono rade e lontane, tutte ammassate all’orizzonte. Il colore giallo assieme all’arancione arrivano fin sopra la mia testa, mentre se mi giro posso scorgere un po’ di blu scuro all’orizzonte opposto.
Il giallo e l’arancione sono i miei colori preferiti. Indicano vitalità, felicità e calore. Incarnano tutto quello a cui aspiro, ma che non posso ottenere. E mi piace così tanto il tramonto perché si mischiano col blu.
Sto cantando una canzoncina quando all’improvviso il vento mi butta in faccia un foglio.
Lo prendo, irritata, ma poi mi accorgo che è una cosa straordinaria. Un foglio che non viene dalla biblioteca!
E’ scritto da entrambi i lati con una penna blu.

“Chiunque sia la persona o la cosa che sta leggendo queste righe, ti prego, vienimi a prendere. Sono sola, non ricordo chi sono e dove sono. C’è un albero grandissimo e da lontano vedo delle case deserte, c’é anche una montagna molto grande con la cima sempre innevata e credo che a metà ci sia una specie di castello. Non so neanche in che tempo mi trovo e non so neanche quanto tempo passerà prima che tu legga. Forse sono morta, forse no. Ti prego, cercami. Ho fame. Ho fame di amore. E quando arrivi, portami un libro! Mi chiamo L...”

Non faccio in tempo a leggere il nome che il vento me lo porta via dalle dita e resto lì a guardarlo con la bocca semichiusa e con le mani ancora nella stessa posizione. Poi mi rimetto a posto e non posso fare a meno di sorridere pensando al fatto che il vento, ancora una volta, mi ha affidato delle parole.
Una strana sensazione mi attanaglia i polmoni e sono costretta a fare respiri corti. Non so da dove provenga, non ho mai provato niente del genere. Un sorriso vuole spuntare dalle mie labbra, ma lo reprimo: devo rimanere concentrata. Sto fremendo, stranamente ho voglia di cantare a squarciagola oppure ballare. Da quanto tempo non lo faccio? Il mio corpo reagisce in modo talmente diverso da quello che vuole la mia mente e questo mi confonde.
Oh, al diavolo. C’é un’altra persona su questo pianeta! Sono stanca di cercare di ripararmi, di sentirmi al sicuro, ora voglio sentire un po’ di brio, di eccitazione, voglio rischiare. E’ fantastica questa sensazione ed é fantastico il fatto che da qui posso vedere la montagna con il picco innevato e a metà c’é un castello, proprio come l’ha descritto la persona che mi ha chiesto aiuto. Posso farcela, posso trovarla!
Mi precipito a cercare il borsone, quello che porto con me quando faccio esplorazione, ma questa volta ho intenzione di stare fuori più a lungo di una semplice giornata. Devo rimboccarmi le maniche e scegliere i libri che forse gli piacciono di più, quelli che una persona sola e persa può amare. Devo preparare anche i vestiti, la tenuta da caccia, la balestra e tanti legnetti di scorta da usare come frecce. Non devo dimenticarmi assolutamente la carne che ho lasciato appesa nell’atrio. Improvvisamente avverto un languorino e stacco un pezzo di carne affumicato e lo sgranocchio mentre sistemo nella borsa le ultime bottiglie d’acqua. Ora mi manca solo di salutare Darling.
Mi avvicino a lei con cautela, ho paura che se la prenda, anche se non capisce tanto bene il linguaggio umano. Lei, invece, si avvicina velocemente e mi fa le feste. Mi piange il cuore, cacchio.
“Senti, Darling… ci conosciamo da molto poco, addirittura da ore. Mi sono divertita e ti voglio un mondo di bene, ma ora devo andare via.”
Darling si arrampica sulla mia schiena, poi salta sbattendo le ali. Quando cade a terra facendo una capriola, diventa triste e fa un verso che non gli avevo mai sentito fare. Mi accorgo che ha voglia di volare.
Buffo. Stiamo comunicando la stessa cosa, vogliamo entrambe andare via. La prendo in braccio e le do una mano a prendere il volo. Prima la lancio da una sedia, poi da uno scaffale alto, poi dalle scale. Dopo un bel po’ di tentativi riesce a fare il giro dell’intero padiglione.
“Si, vai così, brava! Ora sei pronta.”
La prendo e la porto sul tetto e mentre sto sul cornicione, mi accorgo che la tristezza é scomparsa. Ormai é cresciuta abbastanza da volare via e prendersi la sua vita da uccello assetato di sangue, ma per me sarà sempre la mia Darling. E chissà se ci rivedremo e se quando succederà, mi riconoscerà oppure mi sbranerà senza pietà. Ma non posso stare dietro ai pensieri di un rapace, così dopo averle dato un lungo bacio sul becco, la lascio andare. Sta volando via verso la foresta dagli alberi bruciati, dove di solito gli Stupak non vanno, perché non c’é niente da mangiare, così lo prendo come un segno. Darling ha capito chi sto cercando e sa dove devo cercare.
Prendo il borsone e una volta uscita dalla biblioteca, corro verso gli alberi.

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Capitolo 5
*** Finalmente. ***


- 4 -
Finalmente.
 
Mi ritrovai in una selva oscura, che la dritta via era smarrita…
Mio fratello mi diceva sempre di smetterla con le poesie, che erano primitive. Non aveva tutti i torti, ma ora non c’é quindi posso recitarle quando voglio.
Sono nella foresta e tutti gli alberi sono aridi e spogli, bruciati dal gelo e dal grande incendio di anni fa. A quanto pare mi sbagliavo sugli animali, infatti ci sono ancora degli uccelli che cantano tra gli alberi, ma i loro versi sono raccapriccianti. Chissà se sono carnivori.
Sto camminando da ore ormai, in piena notte, ma fortunatamente non ho paura del buio, solo devo stare più attenta perché la visuale non é delle migliori.
Riesco a trovare la fine del bosco, dopo c’é una grande pianura. Non so quanto sia vasta e non riesco a distinguere le ombre, se proseguissi avrei l’impressione di camminare nel nulla e sicuramente perderei la direzione.
Decido di riposare e mi appoggio ad un albero, sperando che non mi trovino animali sconosciuti. Dopo aver mangiato un po’ di carne e bevuto dell’acqua, mi addormento con la borsa in braccio e nonostante tutto, col sorriso sulle labbra.
C’é una strana luce tutto intorno a me, é sfocata e va e viene in modo dolce e incostante, non copre tutto lo spazio bensì si sposta da una zona all’altra. Sembra che stia sott’acqua e stia guardando verso la superficie, ma non sento i rumori né il freddo né il bagnato, il mio unico senso é la vista. La luce mi culla, mi fa venire sonno, ma credo di stare già dormendo, come si può dormire ancora? Eppure sogno di nuovo.
Mi trovo su una spiaggia, di notte. La sabbia é nera e fresca, i pochi alberi flosci, il mare é calmo e all’orizzonte non scorgo nient’altro che altra acqua. La luna é enorme, molto vicina, le stelle sembrano tanti fari. Entro nell’acqua sentendo sulla pelle il freddo pungente, il vento mi scompiglia i capelli, avanzo fino a che non me li bagno, poi mi fermo di botto. Sta per succedere qualcosa, lo sento. Aspetto un qualche segnale, qualche segno dalla natura, un albero che cade, un ammiccamento della luna, qualsiasi cosa. Il segnale alla fine arriva da me. Sento il rumore di una cosa che si spezza, viene da dentro la mia testa. Faccio subito un passo e improvvisamente mi trovo molti metri sott’acqua, guardo nel vuoto dell’abisso cercando qualcosa.
Qualcosa mi sfiora la mano, poi il braccio, una gamba. Mi giro e vedo una copia esatta di me stessa che fluttua inerme, é svenuta oppure questa é la sua casa e sta solo dormendo profondamente.
Le prendo la mano delicatamente, la porto con me, verso la luce.

 
Mi sono appena svegliata e non ho la minima idea di dove mi trovo né come ci sono arrivata. In effetti, non so neanche come mi chiamo. Mi si é conficcato un pezzo di tronco nella schiena e un uccellino mi stava beccando un dito.
Non c’é un’anima viva, solo alberi e una grande pianura, al centro una grande quercia. Spicca in questa natura morta perché é l’unico albero ad avere una chioma verde, l’unico pizzico di vita che si può vedere in questa landa desolata. Ha radici e un tronco forti, mentre gli altri alberi cadrebbero a pezzi con un solo pugno.
Frugo nella borsa che mi trovo di fianco e trovo cibo e acqua. Non so di chi sia questa roba, forse é mia, forse no. Forse mi hanno dato una botta in testa, per questo ho perso la memoria. Forse dovrei esercitarmi a ricordare piccole cose, così magari mi verrà in mente tutto il resto.
Ricordo che questa carne appartiene a un uccello, l’acqua non so da dove venga, solo la balestra mi é familiare, ma non riesco a capire perché. Mi tasto il viso con le dita per ricordare almeno come sono fatta, ma niente. Decido di guardarmi intorno. Ricordo di essere venuta dal bosco e che mi sono addormentata qui. Anche la quercia mi ricorda qualcosa… Si! La stavo cercando e adesso l’ho trovata.
D’un tratto la mia vista si annebbia e sento delle urla e degli spari rimbombarmi nel cervello.
Fa caldo e ho voglia di strapparmi i vestiti da dosso. Un ragazzo mi prende e mi trascina via mentre chiamo disperatamente i miei genitori.
Tutto é rosso e bollente, c’é gente morta dappertutto, solo che io non capisco cosa sta succedendo perché sono troppo piccola.

Mi accascio in terra, col fiato corto, tengo una mano sul tronco e con una mi trattengo lo stomaco per non vomitare.
E’ dura ogni volta rivivere il passato, il Grande Incendio, l’evento che mi ha cambiato la vita. Ma non ho motivo di essere così triste come le altre volte, perché ora ho la possibilità di parlare con un’altra persona, finalmente.
Si, ricordo anche lei, la misteriosa e sconosciuta C. Per quanto sia emozionata e impaziente di vederla, non riesco proprio a immaginarmela, ho solo la certezza che siamo molto simili. Lei é sola, io sono sola, lei é persa e io sono persa, staremo benissimo insieme.
Credo di aver fatto un sogno strano stanotte, ho ancora le mani tremanti, ma probabilmente é solo il freddo. Non riesco a ricordare i dettagli, le sensazioni, gli eventi, niente di niente. So solo che era molto strano e che mai nessun sogno mi ha mai lasciato così perplessa, quasi vuota.
M’incammino verso la quercia, con la speranza che monta nel petto e mi guardo intorno, pronta a inseguire qualunque movimento che sembri vagamente umano.
Dopo un po’ comincio a fare rumore e a cantare a squarciagola sperando che quel qualcuno mi senta, poi, visto che non so il suo nome intero, lo chiamo utilizzando solo l’iniziale e mi sento una stupida a urlare in mezzo al nulla una semplice consonante che da sola non ha neanche un bel suono.
Cerco di immaginarmi com’é fatto. O di immaginarla, perché per me aveva una scrittura femminile e dalle parole che ha usato penso sia della mia stessa età, poi la cosa più bella é che ama i libri proprio come me.
“Già abbiamo tre cose in comune!”
Urlo di nuovo, più forte, la mia voce si infrange contro gli alberi e corre nell’aria creando una specie di eco molto inquietante.
Dopo aver sorpassato la quercia, trovo un altro bosco un po’ più carino di quello da cui sono arrivata e più verde, ma forse é solo perché ora c’é la luce del sole.
C’é un sentiero, cosa molto strana perché quella zona non era abitata neanche prima dell’Incendio. Lo percorro per un tratto e, facendomi strada fra i rami bassi e tante zanzare, arrivo in un piccolo spiazzo dove c’é una vecchia tenda stracciata e accartocciata tra l’erba.
E’ sua, é sicuramente passata di qui. Una vocina nelle profondità del mio cervello mi dice che potrebbe essere di chiunque, in realtà. Se lei é sopravvissuta, potrebbe averlo fatto anche qualcun altro che magari é morto e ha lasciato la sua tenda proprio lì. Ma io devo crederci, devo continuare a cercare.
Lascio la borsa in terra e mi arrampico sull’albero più robusto e alto che trovo, per avere una visuale più ampia. Giro senza meta da un bel po’ e l’unica traccia che trovo dopo ore é solo quel pezzo di stoffa, potrei metterci giorni e io non ne ho la minima intenzione. Sto attenta a spostare velocemente il peso per non far cedere i rami sotto i miei piedi e il risultato é una faticaccia, ma una volta arrivata in cima penso che ne sia valsa la pena: posso vedere tutto il resto del bosco e, oltre, altre tende in piedi e ancora intatte.
“Si!”
Per l’entusiasmo provoco uno scossone e il ramo sotto di me si spezza e cado rovinosamente cercando di aggrapparmi ai rami sottostanti, ma senza tanto successo. Alla fine atterro in modo goffo e doloroso, ma per fortuna non ho niente di rotto, posso continuare.
Prendo la borsa e cammino in direzione delle tende.
Sono arrivata all’accampamento che al contrario delle mie aspettative é deserto e mi interrogo su quanta strada ancora dovrò compiere quando sento un fruscio e del vociare tra i cespugli. Aguzzo l’udito per scoprire da dove viene, magari sarà un altro animale, ma ora che ho imparato a sperare, lo faccio senza riserve.
Sento un altro rumore, alla mia destra, così comincio a spostarmi e tenere fisso lo sguardo, pronta a catturare con lo sguardo qualsiasi ombra o movimento ci sia, ma non c’é niente.
Aspetto una manciata di secondi, ma il fruscio non si presenta, l’unico rumore é un cinguettio malaticcio. Ci rinuncio e sposto lo sguardo perché a tenerli fissi così mi fanno male.
Quando mi volto al lato opposto mi si para davanti una figura, il suo viso a pochi centimetri dal mio.
“Cazzo!”
Faccio un balzo all’indietro e ruzzolo per terra, terrorizzata a morte. Mi sbaglio o erano gli occhi più grandi e blu che io abbia mai visto? Mi alzo a fatica, e con il fiato corto per lo spavento e guardando meglio il mio cuore salta ancora un battito, ma questa volta dalla felicità. E’ una ragazza, ad occhio e croce, mia coetanea. E’ decisamente lei. Finalmente.
“Ciao.”
Mi saluta porgendomi la sua mano, sorridendo. I suoi capelli sembrano fatti d’oro, i suoi occhi blu due mari, ha il naso aquilino, la bocca piccola e le labbra sottili. Nel complesso, un po’ bruttina, ma adesso é il viso migliore che potessi immaginare.
Ignoro la sua mano protesa, sfodero il mio sorriso più grande e mi aggrappo al suo collo con le braccia, stritolandola in un grande abbraccio. E’ il mio barlume di luce dopo abissi di ombra, é il calore che tanto desideravo nella mia dimora fatta di freddo.
“Ti ho trovata!”
“Eh, già.”
Dice lei con la voce un po’ soffocata e roca, la sto stringendo troppo, ma sento il suo sorriso più forte di prima e mi piace un casino. Sento anche il suo imbarazzo e mi chiedo come mai vedendo dopo tanto tempo di assoluto silenzio una persona la timidezza non vada a farsi fottere, come ha fatto con piacere la mia.
Mi ritraggo per paura di fargli troppo male. Vivere in una biblioteca in un mondo apocalittico é già difficile, figuriamoci in bosco. Sarà piena di graffi e lividi e mangerà poco, non voglio romperla perché sembrava tanto fragile prima il suo sorriso.
“Scusami, non volevo… Non ho mai saputo controllare i miei impulsi.”
“Non preoccuparti, é una bella cosa.” Mi tranquillizza lei. “Sono così felice di vedere un viso nuovo, ho fatto fatica ad ambientarmi in questo posto, é stata l’esperienza più brutta della mia vita.”
In un attimo vedo tutta l’angoscia provata sulla sua espressione, probabilmente la stessa che avevo anch’io.
“Ti capisco, anch’io sono qui da molti anni e non avrei mai pensato che esistesse un altro essere umano come me, per giunta femmina e… che ama i libri!”
“E tu questo come lo sai?”
“Ho letto il tuo biglietto…”
“Biglietto? Ah, si! Oddio, l’ho scritto tanto di quel tempo fa, non ricordo neanche le parole che ho usato… ma come ti chiami?”
“Clara.”
“Che buffo. Anch’io.”
Ci guardiamo stupite e divertite. E’ quasi impossibile, anzi, completamente, ma lei é davanti a men in questo momento, per davvero!
Mi stringe la mano come se fosse la cosa più emozionante del mondo, e lo era, in effetti.
“Mi fa molto piacere conoscerti, non sai quanto”
Aveva quasi le lacrime agli occhi.
“Ti ho trovata grazie al biglietto. Hai descritto la montagna, l’albero… così mi sono precipitata qui e… ti ho portato anche dei libri.”
Apro subito la borsa mentre lei mi guarda a bocca aperta, le faccio vedere il contenuto e gli scappa un verso di stupore e felicità, poi scoppia a ridere. Gli occhi le brillano e… ha un sorriso meraviglioso.
Ne prende velocemente uno come se fosse cibo e lei stesse a digiuno da mesi.
“Oh, grazie mille!” Mi guarda con dolcezza e vedo di nuovo quel luccichio nei suoi occhi, era commossa. “E’ stato un pensiero molto gentile… é stato tutto gentile!”
Mi abbraccia forte e restiamo così per alcuni secondi, io le carezzo i capelli, per consolarla, per ripagarle di tutti quegli anni in solitudine.
Le sussurro in un orecchio.
“Non sarai più sola.”




NdA 
Finalmente Clara ha trovato la sua amica che, guarda caso ha il suo stesso nome. Voi direte "che cagata assurda" e invece c'é un motivo.
Finalmente l'ho revisionato e sta prendendo forma anche il capitolo successivo, ma come al solito ci metterò del tempo ad aggiungerlo perché sono un incapace ç-ç Vi prego, recensite, mi farebbe molto piacere, ma soprattutto mi dareste una grossissima mano con i vostri consigli e le vostre critiche. A presto! bacibaci e che il Dottore vegli su di noi C:

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