I'll be your Soldier

di AlexEinfall
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Solo un giorno qualunque ***
Capitolo 2: *** L'Alba del Giorno Dopo ***
Capitolo 3: *** Nei nostri sogni più spietati ***
Capitolo 4: *** Le nostre colpe pesanti ***
Capitolo 5: *** E poi ho bussato alla tua porta ***
Capitolo 6: *** Combatti o fuggi, fallo ora ***
Capitolo 7: *** Mille anni, o anche solo un secondo ***
Capitolo 8: *** Dalle macerie alla vita ***
Capitolo 9: *** Le luci di Chicago ***
Capitolo 10: *** Le cicatrici di un combattente ***
Capitolo 11: *** Un posto da chiamare inizio ***
Capitolo 12: *** Le cose che arriverà ad amare ***
Capitolo 13: *** Le memorie non vogliono bruciare I ***
Capitolo 14: *** Le memorie non vogliono bruciare II ***
Capitolo 15: *** Questione di adattamento ***
Capitolo 16: *** In bilico ***
Capitolo 17: *** Punto d'impatto ***
Capitolo 18: *** Oltre lo specchio ***
Capitolo 19: *** La nostra normalità ***
Capitolo 20: *** I primi passi su scale parallele ***
Capitolo 21: *** Gli occhi degli altri ***
Capitolo 22: *** Inciso su un proiettile ***
Capitolo 23: *** Affittare l'anima ***
Capitolo 24: *** La notte ci divora ***
Capitolo 25: *** Un corpo perfetto, un'anima perfetta ***
Capitolo 26: *** Non solo parole ***
Capitolo 27: *** Felipe ***
Capitolo 28: *** Il rapido precipitare degli eventi ***



Capitolo 1
*** Solo un giorno qualunque ***


Note: Dunque dunque. Mi guardo attorno e vedo che non c'è neanche una long su questa coppia, in questo sito. E mi son detta "visto che l'idea mi frulla in testa da quando ho iniziato a seguire la serie, why not?" Quindi, eccomi qui. Questo, lo premetto, è un esperimento sui due tenenti e anche su di me: volta per volta aggiungerò un capitolo, lasciandomi trasportare. Voglio proprio vedere cosa ne vien fuori!
Detto questo, ho bisogno più che mai di voi: fatemi sapere cosa ne pensate.
Enjoy!
 
Declaimer: i personaggi non mi appartengono nemmeno per un decimo e io non guadagno nemmeno un soldo da questa storia.



 I'll be your Soldier


I'd get it if you need it,
I'll search if you don't see it,
You're thirsty, I'll be rain,
You get hurt, I'll take your pain.

I know you don't believe it,
But I said it and I still mean it,
When you heard what I told you,
When you get worried I'll be your soldier.
 Gavin Degraw




1
Solo un giorno qualunque



   Era una serata qualunque alla caserma 51. Mills e Dowson erano ai fornelli, intenti a preparare una sostanziosa cena per gli stomaci affamati dei pompieri. Otis, Mouch e Cruz ingannavano l'attesa del pasto con una partita a carte. Severide entrò in silenzio, perso nei propri pensieri. La spalla non gli doleva più da tempo e non aveva più bisogno di medicine, eppure qualcosa lo irritava ancora. Sentiva lo stesso fastidioso prurito ai nervi, ma la causa questa volta era del tutto diversa. Il suo prurito si chiamava Matthew Casey. Lo cercò con lo sguardo, non trovandolo da nessuna parte.
   «Dowson, dov'è Casey?»
   La ragazza alzò lo sguardo dai fornelli solo un attimo e scrollò le spalle. L'occhiata di Mills era molto esplicita e Severide si ritrovò a sbuffare sonoramente: che quei due andassero a letto era ovvio, ma si chiedeva se gli altri fossero ciechi o solo discreti. E che Dowson e Casey covassero qualcosa era ancora più ovvio. Strinse le mascelle, ma decise che farsi rovinare la fine di una giornata già pessima per queste inezie fosse da idioti. Afferrò un cracker e lo mandò giù, trovando difficoltà a ingoiarlo: aveva un groppo alla gola grande quanto un pugno.
   Dowson svanì nella dispensa e Mills ne approdittò per chinarsi sul tenente.
   «Lo cerchi per parlargli di oggi?» bisbigliò il ragazzo. «Insomma, voglio dire, ha perso il controllo con quel tipo. Non è da lui...»
   Severide avvertì la rabbia montargli.
   «Ascoltami bene, ragazzino. Non sei un tenente e di questo passo non lo sarai mai. Gli affari di Casey non ti riguardano.»
   Buttò giù il mezzo crecker e lasciò la cucina, sotto gli sguardi increduli dei presenti. Ebbe appena il tempo di percepire il dispiacere e il risentimento di Mills, ma decise che non gli importava. Ora voleva solo trovare Casey e magari lasciargli un bel marchio sullo zigomo, tanto per ricordargli il suo ruolo.
   
   Cercò ovunque, ma del biondino nessuna traccia. All'improvviso lo colpì un'intuizione: l'unico posto in cui non aveva cercato era il tetto. Mentre saliva le scale fredde e anonime, l'immagine di un altro collega che tentava il suicidio lo colpì come un pugno allo stomaco. Non era un'idea razionale, ma si ritrovò comunque a salire i gradini a due a due, con una strana frenesia nelle gambe e lo stomaco vuoto.
   Quando aprì la pesante porta d'acciaio, lo investì l'aria era fredda, troppo pungente anche per il suo cappotto: a breve avrebbe nevicato su Chicago. Sul limite dello spiazzo vide una sagoma sottile, stagliata contro le luci della città, e un puntino rosso acceso contro il cielo.
   «Casey?»
   L'altro non si voltò nemmeno, lasciando che si avvicinasse.
   «Che combini?»
   Il tenente non sembrava avvertire il freddo, protetto solo dalla t-shirt d'ordinanza. I gomiti poggiati sulla balaustra di cemento, tirava tediose boccate da una sigaretta, gli occhi fissi sull'orizzonte invisibile. Severide si soffiò nelle mani per riscaldarsi, prendendo tempo. Ora che lo aveva davanti, non sentiva più rabbia, ma solo qualcosa di diverso...di più vicino.
   «Non sapevo fumassi» disse per ingannare il tempo, in attesa di una frase più intelligente.
    Casey scrollò le spalle e guardò la piccola fiammella alla fine della sua sigaretta. Il fumo che usciva dalla sua bocca si univa a quello del fiato condensato.
    «Non fumo da quando avevo quindici anni. Ironico, no? Quanti incendi provocati da questa stecca piccola e inutile...» disse con voce roca e quasi arresa.
    Severide annuì distrattamente, incerto se avvicinarsi o meno. Lo colse il pensiero che se Metthew Casey fosse stato una donna, lui avrebbe saputo esattamente cosa fare. Ma davanti agli occhi arrossati dell'altro si sentiva stupido e inadatto.
    «Se sei qui per quello che è successo oggi, il Capo mi ha già strigliato abbastanza.»
    Quelle parole attizzarono il fuoco nel petto di Severide.
    «Forse non abbastanza» grugnì. «Hai quasi aggredito un uomo, per di più una vittima!»
    Casey gettò via la sigaretta e lo fissò con occhi di fuoco. «Una vittima?» Rise beffardo. «Un uomo che appicca un incendio in casa sua è una vittima? Per poco i suoi figli non morivano!»
    «Non lo ha fatto volutamente. In ogni caso, non è tuo diritto o dovere prendere a pugni ogni idiota di questa città!»
    «Perché no, uhm? Devo mostrarmi comprensivo, una pacca sulla spalla e via? Sei fortunato, amico, questa volta non hai ucciso i tuoi figli? Io non...»
    «Cosa, Casey?»
    «Io non metterei mai in pericolo la vita dei miei figli!» sbottò il tenente, sostenendo il suo sguardo
    Severide all'improvviso capì e la consapevolezza fu una doccia gelida sulla sua ira, capace di smontarla in un attimo. «È questo, allora. Tu...vuoi dei figli. È per questo che Hallie...»
    «Taci!» ringhiò Casey, puntandogli un dito contro. «Non nominarla. Tu non sai niente!»
    «È vero, non lo so. Ma non puoi portare la tua vita privata sul lavoro. Non tu!»
    Casey aprì le braccia infreddolite e rise amaramente: «Perché? Perché sono un tenente? Un esempio? Un leader! Sai cosa ti dico?» Frugò nelle tasche dell'ampio pantalone e ne estrasse il proprio distintivo, che schiacciò sul petto del collega. «Ora non lo sono più!»
    Fece per andarsene, ma Kelly lo afferrò per il gomito. Casey si ribellò e sembrò sul punto di rispondergli con i pugni, ma poi crollò in ginocchio, stringendosi la testa con le mani tremanti. Severide lo lasciò immediatamente, come colto da una scossa elettrica. Era confuso e non aveva idea di cosa fare. Si rese conto che quello bravo in queste cose era proprio Casey, che ora sembrava distrutto da qualcosa che lui non riusciva proprio a capire.
   «Vattene, Kelly...» mugugnò Casey.
   Poteva essere una considerazione stupida e inappropriata, ma il fatto che l'avesse chiamato per nome gli sembrava più assurdo di tutto il resto.
    «Alzati» mormorò Severide, porgendogli la mano. Casey tentennò, poi lo ascoltò, a viso basso. «Questo è tuo» disse Kelly, restituendogli il distintivo. «Non potrà mai essere di qualcun altro finché sarai in questa caserma.»
    Casey afferrò il distintivo e sul suo volto passò brevemente l'ombra del sollievo. Severide vedeva che qualcosa lo turbava profondamente, ma non riusciva a trattenerlo il tempo necessario per trovare le parole giuste. Matthew Casey schiuse gli occhi e quando li riaprì erano gelidi.
   «Per favore, Severide, vattene. Lasciami solo.»
   Kelly non riusciva a muoversi: sentiva di dover restare e che se fosse andato via ora avrebbe perso ogni opportunità di sapere. E lui doveva sapere.
   «Ti lascio in pace se mi rispondi, e stavolta niente balle, ok?»
    Casey annuì appena.
    «Cosa diavolo ti succede?»
   Matthew abbassò lo sguardo e lo rivolse alla città. L'aria fredda sembrava non tangerlo, come se vivesse in un altro mondo.
    Quando finalmente parlò, la sua voce sembrò venire da lontano, da un piccolo spazio tra il cielo sopra Chicago. «Mia madre...Mi ha detto che io non sono come lei, che non ho la stessa rabbia dentro.»Si fermò, espirando forte, poi guardò Severide dritto negli occhi. «Non è vero. Io sono peggio di lei. Le chiavi...Io sapevo, ma le ho lasciate lì. Io...le ho permesso di ucciderlo.»
    Severide non capiva a quali chiavi si riferisse e non ci pensò neanche. Poggiò una mano sulla spalla di Casey e la strinse forte. In uno sguardo gli comunicò ogni cosa. Uno sguardo che li legò per un attimo, ma così vicini come mai lo erano stati.
   «Io non so se sei come lei, o come tuo padre. Io so solo che...Sono fiero di averti come compagno di squadra.»
   Casey annuì, poco convinto.
   «Ora basta, non farmi sembrare una ragazzina» disse rorridendo. «Senti, Mills e Dowson stanno preparando la cena, ma in realtà io non ho molta fame. Ti offro da bere, dove vuoi tu, d'accordo? Facciamo qualcosa da uomini!»
   Matthew accennò un sorriso, che per Severide voleva dire tutto. Insieme lasciarono il tetto e tutto l'astio che c'era stato. La testa leggera e il petto pesante, pregustavano l'alcol che avrebbe loro concesso un attimo di sinestetica pace.


   L'alcol scendeva a fiumi, cancellando ogni groppo alla gola, tutti i risentimenti, gli sbagli e le tensioni. L'ebrezza, come un fuoco sacro ed eterno, annebbiava le menti e scioglieva i muscoli. E il sangue, veloce circolava in ogni tessuto, riscaldando il corpo e il petto.
   Tra le risate, Severide aveva intravisto la fine della storia, aveva avvertito come la serata sarebbe finita. Sentiva il corpo di Casey sempre più vicino al suo, la nuca calda, le pupille dilatate e le mani frenetiche. Seduto al bar aveva chiesto al collega di continuare a casa, poiché il barista non aveva più intenzione di annaffiare oltre i loro spiriti. Avevano camminato e parlato, la lingua di Casey sempre più sciolta, le parole che si arrotolavano nella bocca impastata. Lui aveva riso fino a farsi venire le lacrime. Aveva aperto la porta di casa, grato che Shay fosse da un'amica, o qualunque cosa fosse. Aveva aperto la bottiglia di scotch e aveva deciso che i bicchieri non servivano. L'aveva passata a Casey, crollato sul divano, le orbite che vuote fissavano il soffitto.
   Il tenente aveva detto: «Bella casa...» e poi più nulla.
   Severide aveva fatto tutto questo con l'assoluta certezza della piega che gli eventi avrebbero preso, eppure nessun timore era riuscito a fermarlo. Era un copione che ben conosceva e che mezza popolazione femminile di Chicago aveva recitato con lui. Ma nulla di tutto ciò era riuscito a fermarlo, le cose, semplicemente, erano scivolate via. Così come il suo corpo su quello di Casey e la bottiglia sul tappeto immacolato. Non era certo di ciò che facesse e Casey non sembrava messo tanto meglio, eppure il biondo aveva istintivamente sciolto ogni inibizione e il suo corpo era divenuto bollente. Era un invito che Kelly non poteva rifiutare. I petti si incollarono e Severide perse completamente la cognizione delle proprie azioni. Mentre slacciava incautamente i pantaloni di Casey, spogliandolo della sua divisa e di qualunque appiglio alla realtà dei loro ruoli, Severide comprese che quello era esattamente ciò di cui avevano bisogno. Tutto il resto non contava.
   «Kelly...» biascicò Casey, pretendendo che l'altro lo guardasse. «Questo...non significa nulla.»
   Severide sorrise e gli soffiò sul collo. «Assolutamente nulla. E ora taci, Casey.»




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Capitolo 2
*** L'Alba del Giorno Dopo ***



2

L'alba del giorno dopo

I'll keep you my dirty little secret
Don't tell anyone or you'll be just another regret
(Just another regret, hope that you can keep it)
My dirty little secret

Who has to know
When we live such fragile lives
It's the best way we survive

The All-American Rejects




  Shay entrò nell'appartamento sbuffando sonoramente. La serata non era andata esattamente come sperato: Kendra, ormai a corto di speranze, aveva deciso di propinarle tutta una sfilza di sue amiche, una più instabile dell'altra. Tutto lo stress era quindi bloccato nel suo collo e tra poco meno di un'ora avrebbe dovuto ricominciare un altro estenuante turno. Nel posare le chiavi, l'occhio le cadde sul tappeto, macchiato dal liquido giallastrao scivolato via da una bottiglia di scotch. Involontariamente, si ritrovò a sorridere: a quanto pare a Kelly era andata meglio. Poi vide le coperte attorcigliate sul divano e le si inarcò un sopracciglio.
   Scrollò le spalle e si diresse al frigo, per prendere uno yogurt come ben magra consolazione.
   Quasi la stesse attendendo, Kelly le giunse alle spalle.
   «Hei, Shay!» esultò, sedendosi alla penisola. «Com'è andata la serata?»
   «Un vero schifo» annunciò la bionda, per poi squadrarlo.
  Kelly sembrava frenetico e indossava un sorriso che le puzzava. Gli versò il caffé del giorno prima e poggiò i gomiti sul marmo, per osservarlo meglio.
   «E a te? Hai avuto visite?» chiese, sorridendo maliziosa.
   Kelly scosse la testa. «Nulla di importante.»
   «Certo...» disse poco convinta. «Come al solito.»
   «Come al solito.» Il tenente sorrise, trangugiò il caffé e scappò via, come se temesse chissà quale punizione.



   Matthew Casey camminava con le mani infossate nelle tasche dei pantaloni. Tremava dal freddo e non riusciva a credere di averlo sopportato la sera prima. Si chiese stupidamente dove fosse la sua giacca. La testa gli pulsava e non era riuscito a bere neanche un caffé. Qualcosa gli diceva che quella giornata sarebbe stata uno schifo e lui non era molto abituato a tutto quel pessimismo.
   Quello che era avvenuto di mattina, solo poche ore prima, gli sembrava ancora avvolto nella nebbia. Si era risvegliato poco dopo l'alba e aveva faticato a riconoscere un ambiente che, a dirla tutta, non aveva mai visto prima. La bottiglia di scotch gli aveva aperto la mente: quella era proprio la casa di Kelly Severide e Leslie Shay. Un brivido l'aveva scosso così forte da farlo saltare in piedi e correre via. Ora si ritrovava a percorrere la strada per la caserma, a piedi, contro il freddo. La cosa che più lo aveva stupito era stata svegliarsi nudo e, maggiormente, con una coperta addosso. Ricordava vagamente la sera prima, o forse la sua mente cercava soltanto di proteggerlo, chiudendo fuori le scene più hard. Lui, Matthew Casey, era sotto shock. La lunga camminata gli stava schiarendo la mente e, passo dopo passo, cercava di convincersi che fosse tutto un assurdo scherzo. Eppure la sua stessa mente non glielo permetteva: lui non riusciva ad ingannarsi oltre.
   Il suono di un clacson lo fece sobbalzare. Si voltò e vide una macchina che lo seguiva a passo d'uomo. Pregò con tutte le sue forze di aver sbagliato modello, ma le sue preghiere non vennero ascoltate. L'auto si fermò e il finestrino abbassato rivelò il volto raggiante di Dowson.
   «Hei, Casey, hai deciso di allenarti anche al mattino?»
   «Hei. Volevo solo fare due passi» disse celando il nervosismo e quel vago sentore di disagio alla bocca dello stomaco.
   «Su, sali, o ti congelerai.»
   Casey accettò, non sopportando oltre il freddo. Il calore dell'auto, in effetti, fu un sollievo.
   «Scusa se te lo dico, ma non hai una bella cera.»
   Matt annuì, ma non riuscì a dire nulla. Mentre l'auto si dirigeva alla caserma, avvicinandolo sempre di più alla possibilità di incrociare Severide, una strana considerazione lo colpì: Kelly poteva anche essere un idiota arrogante, ma almeno era riuscito a fargli dimenticare i suoi problemi, rimpiazzandoli con questioni molto più urgenti.



  Kelly Severide si sedette al tavolo della squadra tattica, sfogliando il giornale. Pagina dopo pagina, cercava di concentrarsi sulle notizie.
Borsa in calo...omicidio...rapina a mano armata...
  Era tutto inutile: riusciva solo a pensare alla propria idiozia. Quella mattina si era svegliato come al solito e mentre, come sempre, si concedeva una doccia fredda, aveva improvvisamente ricordato ogni cosa. Neanche un particolare della notte prima gli era sfuggito, nemmeno il gesto, tanto semplice quanto assurdo, di coprire il corpo nudo di Casey con una coperta. Il biondo si era addormentato così, mugugnando qualcosa di incomprensibile. Uscito dalla doccia, Severide era corso giù per le scale, e con sollievo aveva riscontrato che il divano era vuoto e che di Matthew non c'era traccia. Forse un briciolo di dispiacere gli si era depositato sullo stomaco, ma lo aveva lavato via con uno sbuffo.
   Ora, seduto a sfogliare un inutile quotidiano, pensò che in fondo un saluto sarebbe stato gradito. Almeno ora non si ritroverebbe a lanciare occhiate all'ingresso del garage, per monitorare l'arrivo di Casey. Mentre beveva il caffé, quella stessa mattina, aveva deciso che l'indifferenza fosse la miglior linea d'azione: quello che era accaduto non aveva significato nulla, solo uno sbaglio dettato dall'alcol e dallo stress. Lui, Kelly Severide, poteva benissimo fingere non fosse avvenuto. Chissà cosa avrebbe fatto Casey? La cosa lo preoccupava vagamente.
 


    Quando l'auto di Dowson si fermò nel grosso parcheggio della Caserma, il tenente Casey avvertì una scossa percorrerlo per tutto il corpo, come se il sedile si fosse improvvisamente caricato di elettricità. Una profonda nausea lo colpì allo stomaco e gli occhi divennero grandi e spauriti.
 La possibilità di incrociare lo sguardo di Kelly non era più solo una vaga sensazione che sarebbe giunta prima o poi, ma una certezza terrificante. Non aveva la minima idea di cosa fare, lui che era sempre pronto a prendere le situazioni in mano, anche le più drammatiche. Chiuse gli occhi e sperò in una chiamata, perché avrebbe preferito mille volte trovarsi al centro di una casa in fiamme, che nel tumulto del suo cuore di fronte alla Caserma.
   «Casey? Tutto ok?»
    Dowson lo guardava preoccupata; forse troppo intensamente, pensò vagamente Matt. Si affrettò ad annuire e abbozzò un sorriso, sentendo i nervi tesi fino a far male. Gabby mormorò un okay poco convinto e scese dal veicolo.
  «Comunque, dovresti cambiarti prima di uscire dalla Caserma» disse con un sorriso.
   Casey guardò i propri pantaloni, non riuscendo a credere di essere uscito a bere con quelli indosso e di averli tenuti anche dopo... Non disse nulla e seguì a ruota il paramedico, poi girò dietro il camion parcheggiato della squadra 3 e quasi corse fino alla porta d'ingresso della Caserma. Era quasi certo che Severide l'avesse intravisto, anche se nella mente aveva l'immagine del tenente seduto di spalle alla porta. Eppure quella notte aveva avuto la conferma che le eccezioni esistono e che colpiscono sempre insieme. Quello che era successo, lo sapeva, avrebbe cambiato il corso degli eventi. Scrollò le spalle e si diresse al suo armadietto, ripetendosi che stava ingigantendo le cose e che, di questo passo, lo avrebbero schiacciato. In fondo, non era successo nulla di irreparabile, no? Avrebbe continuato la sua vita come nulla fosse, perché non aveva significato nulla.
   Dannazione, imprecò. Avrebbe davvero voluto credere alle bugie che andava ripetendosi, ma non ci riusciva. Nulla sarebbe mai stato lo stesso, lo sapeva fin troppo bene. Conosceva lo schema di quegli eventi che irrompono nella vita e modificano ogni cosa, portandoti un giorno a chiederti come sarebbero potute andare le cose se non...
   Se non...
   «Hei, Casey.»
   Sobbalzò, riconoscende immediatamente la voce: era proprio Severide, che lo ispezionava con il suo migliore sguardo innocente. Cercò le parole giuste, ma non aveva idea di cosa dire.
   «Hei» riuscì solo a buttar fuori.
   Kelly poggiò la sballa agli armadietti, con lo sguardo che vagava confusamente.
   «Senti» disse, staccandosi dalla sua posizione. «Volevo solo dirti che...insomma, non è che siamo obbligati a parlrne, no? Cioè, tutto come prima, giusto?»
   Casey lo guardò appena, si schiarì la voce e ripose la maglietta nell'armadietto, chiudendolo con cautela.
   «Parlare di cosa?!» disse, abbozzando un sorriso.
   Severide rimase un attimo incerto, poi sorrise. «Perfetto.»
  Si guardarono un istante, come se ognuno volesse in realtà aggiungere altro ma non ci riuscisse. In quel momento l'allarme tuonò dall'interfono, annunciando un incidente automobilistico con vittime intrappolate.



   Shay salì sull'ambulanza, che partì a tutta velocità dietro i due camion dei vigili del fuoco.
   A Dowson non occorse molto per notare il malumore della collega. Le lanciò rapide occhiate eloquenti, finché l'altra non sbuffò.
  «Che c'è?»
  «Dimmetolo tu, Shay. Hai quella faccia.»
  «Quale faccia, scusa?»
  «Lo sai...» disse Gabby, sorridendo.
  «D'accordo!» si arrese Shay. «Non è nulla. Solo Kelly e i suoi misteri.»
  «Che vuoi dire? Tu e Severide avete davvero dei segreti?»
   Shay diede uno spintone a Dowson, che reggeva saldamente il volante.
   «E' andato a letto con qualcuna, la scorsa notte, e non vuole dirmi chi.»
   «Bhe, Severide va a letto con molte qualcuna, le vuoi davvero conoscere tutte?» chiese Gabby, svoltando l'angolo.
   «No, certo che no. Ma era strano...come se nascondesse qualcosa.»
   «Magari è una tua impressione...oppure...»
   «Oppure?»
   «Bhe, potrebbe trattarsi di una delle tue ex finte lesbiche.»
   Shay scosse la testa e incrociò le braccia al petto, mentre la collega parcheggiava l'ambulanza lungo il ponte. «Ora andiamo, ne parliamo dopo» disse la bionda, scendendo di corsa dal veicolo, mentre Gabby scuoteva la testa e rideva. Il sorriso le morì sulle labbra di fronte alla scena, che la investì come un pugno negli occhi.
   Sul ponte, sospeso sopra le fredde acque invernali, due auto si erano scontrate, accartocciandosi. La monovolume scompariva e si fondeva con il grosso SUV nero, in un fumante sbuffo. Sembrava una bestia metallica pronta ad esplodere. Eppure ciò che più appariva spaventoso era tutto il resto: le auto erano bloccate lungo i due sensi di marcia e una marea di impiegati, mamme e gente qualunque urlava e sgomitava, come a voler che qualcuno pagasse per il loro ritardo.
   Non c'era da meravigliarsi, pensò Dowson, lievemente intimorita.
   «Ora di punta» mormorò Shay. «Gente molto arrabbiata.»
   Le ragazze si scambiarono un'occhiata.



   Severide scese dal camion e corse verso i due veicoli. Come sua abitudine, lanciò uno sguardo a Casey, con l'intenzione di coordinarsi con il tenente, che però non rispose al consueto muto appello. Boden comunicò alle squadre di controllare le due auto.
   «Qui ce n'è uno!» urlò Cruz, facendo accorrere Shay e Dowson.
   Mentre Severide coordinava la sua squadra per estrarre dalle macerie la prima vittima, si accorse di non riuscire più a vedere Casey.
   «Capo» disse a Boden. «Non trovo Casey!»
   «Cosa?» tuonò l'uomo, per farsi sentire oltre la folla accalcatasi intorno al luogo dell'incidente. L'isteria stava dilagando tra gli impiegati, il cui unico pensiero era giungere al lavoro puntuali, bloccati da quell'inconveniente nel bel mezzo del ponte.
   Improvvisamente si udì un grido sormontare tutti gli altri, facendo voltare i vigili del fuoco. Poco distante un'uomo urlava e sgomitava, tentando di avvicinarsi alle due auto schiantate. Proprio lì Severide intravide la giacca di Casey. Fu un attimo e lui non riuscì neanche a muoversi, paralizzato: il tenente Matthew Casey fu spinto con forza e cadde giù dal ponte, svanendo in un attimo.
  «Casey!»



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Capitolo 3
*** Nei nostri sogni più spietati ***


3
Nei nostri sogni più spietati


   «Casey!»
   Era riuscito a sentire solo quel grido disperato. La caduta sembrò durare in eterno, eppure fu un attimo. Riuscì a mantenere la lucidà necessaria per fare tutto ciò in suo potere: piegò lievemente le ginocchia, per sbloccarle dalla rigidità, e puntò i piedi, per proteggere la testa. Sperava solo di riemergere e già avvertiva l'assenza di ossigeno che presto gli avrebbe chiuso la gola.
   La frizione dell'aria, il peso del cielo e poi lo schianto, così forte da rendere la superficie dell'acqua dura come cemento. Il fiume era gelido e avvertì immediatamente un freddo che andava oltre tutto ciò che aveva mai percepito: pungente, profondo fino alle ossa. Il proprio corpo gli parve di piombo, ma non aveva nessuna forza; non avvertiva altro che quel dannato gelo. Andò a fondo così in fretta da non avere neanche il tempo di reagire; solo quando perse conoscenza gli occhi trovarono pace, chiudendosi come sigilli.


   «Casey!»
  La propria voce gli rimbombò nella testa e nel petto. Ci fu un attimo di quiete, come se tutti tendessero i nervi, per poi scattare. Nel tumulto generale, tutti riuscirono a fare del loro meglio per organizzarsi. Kelly uscì dalla propria paralisi con uno slancio disperato: corse alla balaustra e guardò giù. L'acqua era increspata lì dove il corpo era piombato e grossi cerchi, ultimi testimoni del dramma, andavano svanendo. Il fiume scorreva veloce, troppo: doveva agire in fretta.
   «Le funi! Subito!» gridò alla sua squadra.
   «Devi indossare la tuta!» gli intimò Boden, sbiancato anche lui.
   Ma Kelly sapeva che non c'era tempo. Sordo a tutto, mise l'imbragatura e si calò giù dal ponte, con un filo spesso a tenerlo saldo alla vita. Mentre scendeva e i secondi passavano, riusciva solo a pensare che tutto sarebbe potuto finire in un attimo e che Matt...
   Guardò giù e vide la giacca del collega salire a galla, poi il biondo dei capelli sparsi come alghe. Comprese in un attimo la gravità della situazione: Matt era svenuto e la corrente lo avrebbe risucchiato, facendolo svanire in mare. Il pensiero di questa eventualità lo colpì allo stomaco e la testa prese a girargli vorticosa. Si aggrappò alle proprie forza e scese veloce, conscio di essere l'unico che potesse salvarlo e che la vita di Matthew Casey era nelle sue mani.
   Ricordò ciò che l'istruttore, molti anni prima, gli aveva detto: saper scegliere le proprie battaglie distingue un buon vigile del fuoco. Diceva che esistono due tipi di salvataggi: quelli estremi e quelli inutili; gli ultimi comprendevano vittime oramai spacciate. Kelly non era d'accordo. Eppure non riuscì a non pensare che quello di Casey era probabilmente il miglior canditato per il secondo tipo di salvataggio.



   
   Era notte fonda e la luce era svanita. Kelly percorse il corridoio, senza bisogno di tastare le mura: conosceva la strada per la propria camera da letto meglio di qualunque altro angolo della casa. Quando giunse, trovò la luce del comodino accesa a illuminare le lenzuola: erano di un blu intenso, accecante, e sembravano fredde come...l'interno di una bara. Si avvicinò e solo allora vide che esse spofondavano, come se al centro del letto vi fosse una voragine. Si sporse, sudando freddo, e lì, nel profondo di quelle coltri, vide il corpo congelato di Casey. Gli occhi verdi si spalancarono, ed erano molto più lucenti di quanto ricordasse. Con voce gelida, Matt espirò parole taglienti: «Era la tua ultima occasione.»
   Poi i polmoni si riempirono di acqua e gli parve di annegare.

   Kelly si svegliò di colpo, annaspando e tossendo. Si voltò nel letto, trovandolo vuoto e caldo. Sospirò, con il sollievo che solo svegliarsi da un brutto sogno può regalare. Ma presto quella fievole sensazione di benessere svanì e gli occhi si inumidirono. Alle narici gli giunse un odore forte, maschile e familiare, con una note dolce di sottofondo: lui non era lì e non era mai stato nel suo letto, eppure Kelly avvertì l'odore intenso intrappolato tra i capelli di Matthew.



   Dowson percorreva il corridoio a grossi passi, torturandosi le mani. Shay l'aveva costretta a tornare al lavoro, alla loro vita, dicendole che tutto si sarebbe sistemato. La verità, la sua verità, era semplice e tremenda: vedere Casey sprofondare nell'acqua gelida l'aveva sconvolta. Ricordava il gorgoglio profondo e selvaggio della gola del vigile, quando aveva sputato fuori l'acqua dolce. Sentiva ancora il petto immobile sotto le sue mani, la pelle tirata e bianca, come mai l'aveva vista. E avvertira il freddo di quel corpo che ormai poteva dirsi morto. Non riusciva ad abbandonare quella tremenda sensazione che tutto stesse per finire e che non avrebbe mai più visto gli occhi di Matt illuminarsi. Mai più.
   Non avrebbe potuto mai più dire quello che sentiva e avrebbe pianto per sempre la propria indecisione. Dowson aveva rischiato di perdere la possibilità di svegliarsi con il suo profumo ad avvolgerla, o di pulirgli gli occhi dalle lacrime notturne. Avrebbe potuto perdere tutto e ora sentiva di non avere nulla.
   Quando vide Severide giungere dalla porta d'ingresso, sentì un profondo sollievo. Gli corse incontro e lo bloccò, trovandolo fin troppo reattivo.
   «Tutto ok?»
   «Sì, certo» disse il tenente, cercando una via di fuga.
   Gabby gli afferrò il braccio per un attimo, ritirandolo con una scusa veloce. Non c'era mai stata molta confidenza tra loro, ma lei sentiva che Kelly era l'unico a poter, anche solo in parte, capire cosa provava.
   «Posso parlarti un momento?»


   Kelly accettò a malincuore, poiché avvertiva che l'argomento della discussione sarebbe stato Casey. Era l'ultima cosa della quale aveva voglia di parlare, soprattutto con Dowson; eppure sapeva di dover mantere un comportamento più neutro possibile.
   «Che succede?» sputò fuori, sperando di togliersi via il cerotto in pochi minuti.
   Si chiese se anche la loro conversazione sarebbe stata interrotta dall'allarme, ma poi il pensiero divenne troppo bruciante e distolse lo sguardo.
  «Ti sembrerà assurdo, ma credo che solo tu puoi capire» cominciò Gabby, con un sorriso teso. «Il fatto è che...io...è diventato difficile pensare di tornare al lavoro, alla vita di tutti i giorni, capisci?»
   Kelly alzò le sopracciglia, fingendo di non riuscire a cogliere il senso di quelle parole; vide chiaramente che la ragazza era confusa dal suo atteggiamento, quindi tentò un sorriso disinvolto.
   «Hey, guarda che non è morto nessuno!»
   «Ma poteva» rispose Gabby, accigliandosi.
   «Senti, ora è vivo e sta bene, non dobbiamo fare il funerale a nessuno» rispose Kelly disinvolto. «Quindi torna al tuo lavoro.» Fece per andarsene, ma Gabby lo bloccò.
   «Non sei andato a trovarlo» disse secca.
   «E allora?»
   «Bhe, gli hai salvato la vita!»
   Kelly serrò le mascelle per trattenere tutto quello che avrebbe voluto dire; si limità a fare spallucce. «Anche tu. Sei tu che lo hai riportato indietro.»
    Gabby apparve per un attimo sconvolta da quell'affermazione, detta con tanta semplicità.
   «E tu lo ha tirato fuori dall'acqua» disse dopo un lungo silenzio.
    Kelly la guardò negli occhi scuri e vide la luce di una strana felicità, inquinata dai rimpianti e dalle confusioni e, ancora più a fondo di quello sguardo, c'era una punta di orgoglio ed eroismo.

   Gabby fissò Kelly e vide solo due occhi arrossati e stanchi, silenziosi custodi di chissà quali emozioni.
    «Sta bene?» chiese alla fine il tenente, con voce rigida.
    «Sì» rispose Gabby, ancor più rigidamente. «Considerando che è annegato e il suo cuore si è fermato, sta bene. Oggi gli hanno tolto il respiratore e non sembra esserci edema cerebrale. La pressione sta tornando nella norma.»
   Quel freddo elenco di sintomi lasciò Kelly incredulo: sentirlo rendeva tutto più reale, tutto ciò che era avvenuto prima e dopo l'incidente. Solo ora si rendeva conto di vivere in una sua realtà ovattata, dove tutto era ancora come prima; la verità era che tutto aveva subito un cambiamento radicale e lui non era riuscito ad afferrarlo.
   Si voltò e si diresse nella sala comune, lasciando Gabby infastidita e amareggiata da un comportamento che non riusciva a spiegarsi.



   Suo padre stringeva una camicia insanguinata. Matt cercava ovunque un riparo, ma ogni cosa sulla quale il suo sguardo si posasse era illuminata. Si accorse che non c'era ombra e ogni punto di quella casa sembrava accecante, come se il sole si trovasse nei suoi stessi occhi. Non poteva fuggire.
   Sudava freddo, eppure non riusciva a percepire altra emozione se non paura. La propria pelle bruciava per quanto era gelida ed era bianco come un foglio mai scritto.
  Guardò l'uomo di fronte a lui: aveva i suoi stessi occhi, lo stesso colore limpido, ma erano più grandi e bui, più spaventosi. Sentì alle sue spalle un respiro caldo, ma non c'era nessun'altro lì, nessuno a salvarlo. Non avvertiva neanche il battito del proprio cuore o i polmoni riempirsi d'aria.
   L'uomo si avvicinò e la casa parve tremare sotto la sua furia. Matt era congelato.
   Sentiva nelle orecchie la voce distante di qualcuno, roca e possente, così diversa da come la ricordava. La voce di Kelly non diceva nulla, eppure era piena di parole.
   Quando suo padre lo raggiunse, non fu capace di muoversi.
  «Mio figlio non sarà mai uno di loro, non sarà mai come loro, non sarà mai un debole» tuonò suo padre, abbattendo su di lui le mani possenti.
   Matt sentì la gola serrarsi tra le dita nodose e la voce di Kelly urlare da lontano.
   

   Aprì gli occhi placidamente, sebbene fossero grandi e pieni di paura. Quel sogno era così vicino ai propri ricordi reali da pietrificarlo. I farmaci gli impedirono di urlare o reagire, facendogli sentire il peso del proprio corpo stanco. Voltò il viso sul cuscino bianco, al fetido profumo di disinfettante, e una lacrima colò silenziosa.













Note: Hello! Dunque, ringrazio di cuore chi sta seguendo questa storia e mi scuso per i tempi di aggiornamento, ma sono in viaggio. Cercherò di aggiornare il prima possibile.
See you soon.
Ax.

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Capitolo 4
*** Le nostre colpe pesanti ***


Note: Prima di tutto, ringrazio di cuore chi sta seguendo questa storia e mi sta lasciando il suo parere. Poi, vorrei scusarmi per l'assenza; ho passato un mese senza connessione stabile, con solo uno zaino e un cane, seguito da altri mesi in cui il computer e lo scrivere non potevano essere messi al primo posto (per quanto mi dispiacesse). Ora sono tornata e...sì, ho intenzione di continuare questa storia e di scriverne altre. Questa pausa ha portanto una nuova "consapevolezza" su cosa voglia dire per me scrivere, e almeno di questo ne sono grata. Ma sto divagando-
  Aggiornerò presto.
  Alex.



4

 Le nostre colpe pesanti
   

   
    Il respiro rantolava appena, come un soffio spezzato a metà. Il petto si alzava ed abbassava velocemente, appesantito e stanco. La pelle era ancora bianca, ma riprendeva colore: Dowson poteva vederla nettamente più rosea e sana.
   «Stai meglio» disse la ragazza, dimenticando il tono interrogativo.
  Matt stirò le labbra e disse, con voce roca: «Diciamo che me la cavo bene.»
  Si tirò su, per stare seduto, non sopportando oltre il ruolo di malato. «Vorrei solo uscire di qui.»
  Dowson sorrise, tirandosi un ciuffo di capelli dietro l'orecchio. Lo sguardo nervoso percorreva la stanza: le mura pallide, le tende sottili, il letto pulito ma disfatto, come se le ultime notti il suo occupante fosse rimasto inquieto. Non le risultava difficile immaginare il tenente Casey a rigirarsi tra le lenzuola, stanco di quel materasso e di quell'ospedale.
   «Presto potrai uscire, secondo il medico anche stasera.»
   Il barlume di una quieta gioia apparì negli occhi verdi e il volto si illuminò di un sincero sorriso. «Finalmente!» Nel dirlo una tosse convulsa lo assalì e come un colpo di fucile svanì in un sospiro.
   Dowson si accigliò, ma resistette alla tentazione di posargli una mano sulla spalla. «Devi riposare, però. I tuoi polmoni sono sofferenti e devono riprendersi. La tua capacità respiratoria-»
   «Lo so» la interruppe bruscamente, fissandola con un astio che svanì subito, soppiantato dal rammarico di fronte all'espressione turbata del paramedico. «Perdonami, hai ragione. Questa storia...voglio solo lasciarmela alle spalle.» Si fissò le mani arrossate e il suo sguardo si accigliò. «So che di te posso fidarmi.»
   A quelle parole, Gabby avvertì un tuffo al cuore e deglutì a fatica. «Certo.»
   Matt non parve notare il tremolio nella voce del paramedico, e continuò: «Cosa sai di quello che è successo?»
   A Dowson la formulazione della domanda apparve strana, come se non dovesse essere posta così, ma attribbuì la cosa alla stanchezza del tenente. Si sedette e prese un grosso respiro. «Siamo accorsi sul ponte per un incidente tra un SUV e una monovolume e-»
   «Sì, questo lo ricordo.»
   «E il resto?»
   Matt sospirò. Sembrava che l'intera faccenda, quel dover porre domande, gli pesasse immensamente. «Ricordo delle urla e di aver battuto la schiena contro la balaustra. Ma è tutto confuso.»
   Gabby era imbarazzata: come dirgli che nessuno sapeva cosa esattamente fosse successo? Si fece forza e scosse la testa. «Mi dispiace, Casey, ma non sappiamo altro.»
   Il tenente annuì, con lo sguardo profondo posato negli occhi della ragazza. «Capisco.» Poi sorrise, inaspettatamente. «Va bene così.»
   «Oggi incontrerò Antonio, sono certa che riusciremo a risalire al colpevole» disse Gabby speranzosa, ma si accorse che Casey non la ascoltava più. Ebbe la strana sensazione che al tenente non interessasse molto quella parte della storia, e la cosa le sembrava inconciliabile con lui. Soprattutto non riusciva a capire cosa si aspettasse di sapere, perché farle quella domanda. Una vocina nella testa le sussurrava che c'era qualcosa che Casey non voleva che lei sapesse, che nessuno sapesse, ma la sua parte razionale la teneva lontano da questi pensieri. Perché mai Matthew Casey avrebbe dovuto tener nascosto qualcosa? Cosa poteva mai nascondere l'integerrimo tenente della Caserma 51?


   Il corpo di Matthew sotto le sue dita era stato caldo e teso. Aveva sentito il sospiro nel suo petto, attraverso il proprio. Aveva respirato il suo odore che, come da una fornace, si alzava dalla sua pelle sempre più intenso.
   Dopo solo meno di ventiquattro ore, lo aveva sollevato, freddo e rigido. Il petto schiacciato contro il proprio era rimasto immobile, privo dell'alito vitale. L'odore sembrava essere morto nelle acque gelide, trascinato via dalla corrente, sotto il ponte.
   Severide affondò la testa tra le mani, non riuscendo a risolvere il dissidio tra quei due corpi, appartenuti allo stesso uomo, così dissimili, così lontani. Quella diversità gli lasciava uno stupore sconvolgente, un'impressione feroce, che non gli permetteva di allontanarsi da quelle preoccupazioni.
   Alzò lo sguardo verso il muro, decorato dai distintivi e dalle foto dei vigili morti in servizio. C'era sempre un posto vuoto, su quella tetra e orgogliosa parete, un posto che prima o poi sarebbe potuto toccare a ognuno di loro. Andy glielo aveva insegnato, morendo in un giorno qualunque. E Casey glielo aveva ricordato, cadendo da un ponte in un giorno qualunque.
   Con un sospiro, si alzò, incrociando lo sguardo di Antonio. Il ragazzo gli rivolse un rapido sorriso e gli fece cenno di seguirlo. La sorella, alle sue spalle, sembrava persa nei propri pensieri.
    Quando entrò nell'ufficio di Boden, gli sembrò che quelle mura fossero troppo strette.
    Il detective e il comandante si strinsero la mano, e nel volto del più anziano si leggeva una inquieta attesa.
   «Novità?» tagliò corto.
   Antonio scosse la testa, sconfitto. «L'uomo alla guida del SUV è morto stamattina, insufficienza cardiaca.»
   Un lamento sfuggì dalle labbra di Gabby.
   «Mi dispiace» le disse il fratello, prima di cambiare argomento. «Per quanto riguarda l'uomo che ha spinto Casey, non abbiamo nessun indizio. Nessuno dei presenti è stato in grado di identificarlo.»
   «C'era molta confusione» ammise Gabby.
   Antonio annuì. «In questi casi, è sempre difficile trovare l'ago nel pagliaio.»
   «Le auto?» chiese Boden, stringendo le dita sui fianchi.
   «Anche qui, una pista morta. Tutte le auto sono state identificate, tutte le targhe rintracciate. Potrebbe essere chiunque, o nessuno di loro.»
   «Di quante persone parliamo?»
   «Vicine all'incidente? Circa cinquanta.»
   Gabby lanciò un'imprecazione a denti stretti.
   «Ci vorrà un po' per interrogarli tutti» continuò Antonio.
   «La donna della monovolume? Magari sa qualcosa» ipotizzò Gabby.
   Antonio scosse la testa. «Si è salvata per miracolo e, come tutti, non ha visto nulla. Stiamo ancora lavorando per ricostruire la dinamica dell'incidente.»
   La stanza si riempì di un lungo silenzio, rotto dalla voce di Boden. Severide si rese conto solo allora di non aver detto nulla e di essere chiamato in causa.
   «Severide, tu cosa dici?»
   Il tenente fece spallucce. La sua mente si era accartocciata come un vecchio giornale sotto la pioggia, dimenticato sulle scale fredde. Per tutto il tempo non era riuscito a pensare a nulla. La rabbia che credeva avrebbe provato non c'era; la sete di vendetta era solo una nuvola scura dietro di lui.
   «Non ho visto nulla» disse, schiarendosi la voce. Avvertiva di essere al centro delle sorprese attenzioni dei presenti, eppure non riusciva a reagire. Tentò di riprendere il controllo del proprio corpo. «Lo troverai» disse, guardando Antonio negli occhi. Il detective annuì con aria solenne, ma tutti sapevano che l'unico in grado di manter fede a quella promessa si trovava in un letto d'ospedale.
   «Ho le foto di tutti i presenti, tutti possibili sospettati» disse Antonio, indicando il fascicolo stretto nella mano. «Come sta Casey? È in grado di aiutarci?»
   Gabby annuì, incerta.«Bhe...non ricorda molto. Ma sta meglio.»
   «Bene. Andrò da lui, voglio vedere se riesce a indicarci qualcuno.» Prima di uscire, lanciò uno sguardo a Severide. «Tu vieni con me? C'è bisogno che qualcuno mostri le foto alla donna della monovolume.»
   Sentendo gli sguardi di Dowson e Boden puntati su di lui, annuì e seguì Antonio fuori dalla porta. Si morse il labbro, non potendo fuggire oltre il confronto con l'altro tenente.


  Shiela Telmon era una mamma full time, con lunghi capelli castani e il viso pallido scevro dal trucco. Le labbra sottili si stesero in una linea meditabonda, mentre con mani incerte sfogliava le foto. Sospirò e alzò lo sguardo sul tenente.
  «Mi dispiace, ma non riconosco nessuno» disse, portandosi poi la mano alla fronte. La benda che copriva la ferita era immacolata e lei non poteva davvero credere di essere ancora viva. Severide lo comprese dallo sguardo liquido.
  Sorrise, prendendo le foto e rimettendole nella cartella. «Non si preoccupi» le disse per alleviare la tensione. «Si riprenda e se le viene in mente qualcosa, chiami questo numero» aggiunse, porgendole il cartoncino bianco che Antonio gli aveva dato. Lasciando la stanza della donna e tornando nel corridoio dell'ospedale, non poté fare a meno di prestare attenzione a un dettaglio: in altre circostanze, Kelly avrebbe dato il proprio numero. Scosse la testa e si massaggiò la tempia, conscio che quello non era un incidente qualunque.
   Lo sguardo si perse nel corridoio e si fissò sull'ultima stanza a destra. Sospirò e si avviò in quella direzione. La porta era aperta, ma lui bussò lo stesso sullo stipite.
  Antonio si voltò e gli fece cenno di entrare, mentre Casey, seduto con la schiena sorretta da due cuscini, gli lanciò appena uno sguardo. Il biondo tornò alle foto, sventolandole in un gesto di resa e passandole al detective.
  «Nulla, non riconosco nessuno» disse, accigliandosi.
  Antonio rinfoderò le foto nel fascicolo e gli diede un colpetto amichevole sulla spalla. «Tranquillo, Casey, lo troveremo.»
 Lui annuì distrattamente e reclinò la testa contro il cuscino. Severide era rimasto indietro, scrutando la situazione e desiderando fare qualcosa, qualunque cosa, pur di evadere quel peso sullo stomaco. Con stupore si accorse, incrociando per un attimo gli occhi verdi, di cosa quel macigno contenesse: senso di colpa. Non poteva crederci. Uscì dalla sua trance solo quando Antonio gli passò affianco, prima di uscire dalla porta. Girò su se stesso, con l'intenzione di seguirlo, ma poi ci ripensò.
  Guardò Casey e le flebo alle quali era collegato, cercando di reprimere un inquieto senso di inadeguatezza.
  «Come te la passi?» chiese, attirando la sua attenzione.
  Casey rivolse al soffitto un ghigno, diverso da qualunque sua solita espressione. Severide lo vide stringere i dentì e trattenere a stento un colpo di tosse, prima di schiarirsi la gola e dire: «Giorni migliori...hai presente?»
  Severide cercò di ridere, ma il nervosismo gli strozzò ogni intenzione. C'era qualcosa che non gli piaceva nella situazione. Si massaggiò il collo con una mano, tenendo l'altra saldamente ancorata al fianco. «Senti, se hai bisogno di qualcosa-»
  «Sono a posto, Severide» lo interruppe lui, guardandolo negli occhi. Malgrado le labbra fossero tirate in un sorriso tranquillo, lo sguardo era freddo e distaccato.
  Il moro si massaggiò le mani e sorrise. «D'accordo, allora...bhe, riprenditi.»
  Casey non attese che Severide lasciasse la stanza, per voltare la testa e chiudere gli occhi.

 
  Il gomito poggiato sullo sportello e il pugno sotto il mento, Matt guardava distrattamente il paesaggio oltre il finestrino. Christie cambiò per l'ennesima volta la stazione radio, facendolo sorridere.
  «Che c'è?» sbuffò lei, le mani salde sul volante.
  «Certe cose non cambiano mai» mormorò lui, senza staccare gli occhi dagli edifici che scorrevano piano.
 Lei gli lanciò uno sguardo interrogativo, prima di tornare alla strada.
 Matt scivolò sul sedile, reclinando la testa e chiudendo gli occhi. Continuava a rivedere, dietro le palpebre, lo sguardo confuso di Severide, turbato come ben poche volte in passato. Una parte di sé condannava se stesso per la sua reazione alla visita del moro, ma l'altra parte, quella che si alimentava di rabbia e risentimento, avrebbe voluto dire parole di fuoco. Non aveva mentito del tutto quando aveva detto di non ricordare nulla dell'incidente, sebbene avesse preferito tenere per sé un dettaglio: lui si era distratto. Ricordava vagamente la sensazione che lo aveva colto scendendo dal camion, come ogni volta; quella volta era diverso. La sua mente era vuota e non per l'urgenza di agire, ma per il senso di confusione che, fin dal mattino, non lo aveva mai lasciato. Matt si era svegliato con i visibili postumi di una sbronza e la percezione di non aver dormito affatto. Avrebbe dovuto vergognarsi di se stesso per aver osato presentarsi a lavoro in quelle condizioni, sebbene nessuno sembrasse averlo notato. Ma lui aveva un condice morale ben preciso: se non sei al cento per cento, non sei pronto. Se non puoi fidarti del tuo corpo e della tua mente, non puoi prendere che la tua squadra si fidi di te. Il problema di questo codice era come stimare quel cento per cento, perché lui aveva imparato presto a sovrastimarsi, per il semplice bisogno di dare ogni parte di sé nel suo lavoro.
  Scosse la testa quando si rese conto che l'auto si era fermata nel vialetto di casa. Sospirò e si allungò sul sedile posteriore, afferrando la borsa che Christie gli aveva portato in ospedale.
  Una volta entrato in casa, portò la borsa in camera e chiuse la porta, rimandando a dopo una doccia della quale aveva estrema necessità. Nel momento esatto in cui sentì l'odore del caffé provenire dalla cucina, la sua mente cominciò a elaborare la domanda che dal suo risveglio in ospedale lo assillava. Poggiò la spalla alla cornice di legno della cucina, osservando la sorella armeggiare con le tazze.
  «Christie.»
  Lei si voltò appena, tornando poi a versare il caffé. «Non ci provare, Matt. Non dirmi di andarmene. Voglio assicurarmi-»
  Lui fece un passo avanti, accorciando le distanze, e le prese un polso per bloccarla e attirarne l'attenzione.
  «Cosa?» chiese con voce incerta, incontrando gli occhi bui del fratello.
  «Devo chiederti una cosa» disse lui, lasciando andare la presa sul suo polso e poggiando il palmo della mano sul marmo bianco, lo sguardo perso oltre la finestra. «Ricordi un ragazzo di nome Edward?»
  Christie sbattè le palpebre, palesemente confusa.
  «Era un mio amico, ai tempi del liceo.»
  Lei meditò, annuendo piano. «Flick? Il fratello di Mary, certo. Lei era nella mia squadra di nuoto, prima che mi spedissero in collegio.»
  Matt si passò la lingua sul labbro inferiore, sentendo il cuore accellerare e il respiro divenire troppo corto per i suoi polmoni. Guardò la sorella, che ricambiò con uno sguardo confuso.
  «Perché mi chiedi di lui? E' successo qualcosa? Ricordo che fu mandato in un'accademia militare o qualcosa del genere.» Christie strinse le braccia al petto, insospettita dal silenzio del fratello. «Papà credeva che quel ragazzo avesse una brutta influenza su di te.»
  Gli angoli della bocca di Matt si sollevarono in un sorriso triste. Secondo Gregory Casey, quel ragazzo aveva decisamente una cattiva influenza sul suo debole e influenzabile figlio. Sentì un groppo alla gola formarsi improvvisamente. Sentire la sorella parlare di quello che era accaduto, rendeva tutto reale. Non era solo un vago sogno adolescenziale, un ricordo alimentato dai rimpianti: era accaduto realmente. Anche se Christie non poteva sapere i dettagli, anche se era convinta che quel ragazzo fosse solo uno sbandato che il padre aveva allontanato a calci dalla vita del figlio, era reale.
  «Matt?» tentò Christie, visibilmente preoccupata dal pallore sul volto del fratello. Lui si riscosse e cercò di sorridere con noncuranza, afferrando una tazza piena e prendendo un sorso di caffé.
  «Una settimana fa è morto, in Afganistan» disse, cercando di dare un tono neutrale alla sua voce e poggiando la tazza. «Puoi andare, Christie. Io faccio una doccia» aggiunse da dietro le spalle, ignorando lo sguardo confuso della sorella. L'ultima cosa che voleva sentire erano parole di dispiacere o altre domande.
   Il suo senso di colpa era lì, pesante come un gabbia di ferro intorno al suo torace. Il ricordo delle camice di flanella, di quella particolare camicia nascosta sotto il suo letto, del sangue che usciva dal naso di Edward e che colava dalle nocche di suo padre... Era colpa sua se il padre di Edward lo aveva disconosciuto e spedito in una scuola militare; era colpa sua che quella scuola lo aveve portato a indossare una divisa e impugnare un fucile; era colpa sua la sua morte...
  Sotto il getto della doccia, gli parve che neanche l'acqua potesse lavar via le sue memorie.

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Capitolo 5
*** E poi ho bussato alla tua porta ***


Note: Hallo, guys! Avverto che questo capitolo sarà un po' lunghetto, perché decisamente non potevo spezzarlo nel mezzo senza risultare sadica e insensata.
  Avvertenze: non ho potuto evitare, in alcuni punti, un linghuaggio un tantino scurrile. Insomma, usare  eufemismi sarebbe stato abbastanza ipocrita e fuori luogo. 
  Detto ciò, ulteriori note saranno sul fondo.
  Enjoy!


5

E poi ho bussato alla tua porta

          

     «Sul serio, Matt?»
    Il biondo puntò i gomiti sul materasso, tirando su il torso per incontrare gli occhi increduli di Edward. Lo vide voltarsi verso la libreria e tirare fuori un albo, sventolandolo divertito. Tutto ciò a cui Matt riusciva a pensare erano le sottili tende della sua camera, stampate con stupidi disegni scuri, che disegnavano sul corpo nudo del ragazzo una tela di luci e ombre. Era bellissimo, riusciva solo a processare questa parola. Bello come la prima volta che l'aveva visto, in pantaloncini e t-shirt, sudato e sorridente.
  «Fumetti? Che sei un nerd?»
  Matt roteò gli occhi e afferrò il cuscino, gettandoglielo contro. Lo mancò di poco, mandando a terra i quaderni poggiati sulla scrivania. Edward rise e ruotò la sedia, sedendosi con le gambe accavvallate a sfogliare l'albo. Ancora una volta, Matt elaborò un pensiero molto semplice e lineare: il fumetto degli X-Men che lui aveva sfogliato tante volte ora era poggiato tra le gambe di Edward, coprendo la sua parte più intima. Sentì le braccia tremargli per lo sforzo di reggersi, quindi decise di alzarsi e indossare i boxer. Non gli sfuggì la fitta di dolore alle cosce, ma ne sorrise. Quella stanchezza nei muscoli, quel dolore liquido, erano tra le cose più belle che avesse mai provato.
  In punta di piedi, si avvicinò al ragazzo. Gli sfilò di mano l'albo e lo ripose sulla scrivania, ignorando le sue proteste.
  «Dai su, mi stavo divertendo!»
  «Sei solo un coglione» gli disse, dandogli una spinta sulla spalla. Edward traballò e rispose a tono con un pugno sul petto, così debole da non lasciar segno. Matt rise, afferrandogli il polso e attirandolo a sé. Per un attimo si concesse il lusso di chiudere gli occhi e saggiare con ogni senso il ragazzo. L'odore del sudore che freddava sulla pelle, la sensazione dei capelli tra le dita, così lunghi da coprirgli le orecchie, il sapore ancora fresco delle sue labbra e della sua lingua nella bocca, e il placido respiro che gli colmava le orecchie. Quando riaprì gli occhi, incrontrò i suoi, splancati e bui come sempre. Era in quei momenti, in quel semplice guardarsi a fondo, che Matt si sentiva vulnerabile eppure felice, privo di qualunque pretesa.
  Poi tutto accadde in fretta. La porta si aprì, preannunciata da passi pesanti lungo il corridoio. Gli occhi di Edward erano immensi, terrorizzati. Matt si era staccato da lui all'istante.
  Suo padre era apparso sull'uscio e il sorriso gli era scivolato via immediatamente, come se la sola scena davanti ai suoi occhi potesse spegnere l'interruttore della sua gioia. Passò lo sguardo tra i due ragazzi e una serie di emozioni si accesero negli occhi verdi: sorpresa, disgusto e infine rabbia. Il caos entrò nella stanza, distruggendo tutto ciò che c'era stato. Gregory Casey urlò, afferrando il braccio di Edward così forte da fargli male. Lo colpì, spindengolo fuori dalla stanza. La porta si chiuse di colpo, un ultimo lungo sguardo come una fucilata dritto al cuore di Matt.
  Lui era rimasto immobile, pietrificato.
  Fu l'ultima volta che vide Edward.
 
 
    Matt spinse a fondo i palmi nelle orbite, cercando di cancellare quei ricordi dalla sua mente.
    La notte scivolava via silenziosa. L'orologio appeso al muro del salotto continuava a mandare avanti le sue lancette, una dopo l'altra. Seduto sul divano, Matt lasciava che il suo corpo nudo tentasse di accomodarsi al freddo, solo una asciugamano umida intorno alla vita. Attraverso le tende, i fari delle auto illuminavano la parete e il suo viso, scomparendo poi nel nulla. Affondò la testa tra le mani, il respiro pesante, mentre le emozioni degli ultimi dieci giorni cominciavano a infiltrarsi nelle ossa.
  Esattamente dieci giorni prima, era seduto con Severide al tavolo della Caserma, quando il suo occhio era caduto su un articolo del quotidiano. Ci credi? Tutti morti, aveva detto Kelly, sventolando la pagina ed esalando un sospiro. Matt si era sporto e aveva visto l'articolo. In quel momento il mondo gli era crollato addosso. C'era la foto di una compagnia dell'esercito e c'era un volto che lui non credeva di poter rivedere. Il terzo a sinistra di un gruppo di ragazzi, aveva i capelli corti molto più scuri e il sorriso che lui ricordava. La barba era cresciuta e la pelle sembrava abbronza. Il bianco e nero non rendeva giustizia alla sua bellezza, una volta giovanile e ora così matura. Una bomba aveva colpito il convoglio sul quale viaggiava la compagnia, diceva il giornale. Nessun sopravvissuto. Era passato molto tempo, troppo, ma Matt lo aveva riconosciuto all'istante.
  Era fuggito da quella notizia, da quella realtà. Aveva negato che fosse realmente accaduto, perché non poteva essere lui, non poteva essere Edward. Poi la consapevolezza lo aveva stroncato e la foto che aveva nascosto nel cassetto del comodino era stata un impietoso contrasto. In quella foto loro erano vicini, Edward gli circondava le spalle con un braccio, con l'altro teneva uno skateboard. Tutto era perfetto e semplice.
  Aveva letto un articolo su internet, in cui si parlava di medagli al valore. Una aveva il nome Eward Flick.
  Tre giorni dopo era andato al cimitero e lo aveva visto con i suoi stessi occhi. La lapide con il suo nome.
  Edward era morto.
  L'ultima volta che lo aveva visto aveva quindici anni e la prospettiva di una vita davanti, una vita libera, una vita piena e luminosa.
  Esalò un lungo sospiro, abbandonandosi ai cuscini del divano. Guardò il soffitto, dove lampeggiarono i fari di una grossa auto rombante, e sentì gli occhi riempirsi di lacrime.
  Ora il vaso di Pandora era aperto, il coperchio divelto con forza, e ogni male ne usciva travolgendolo. Ritornava la rabbia e il disgusto di suo padre, ritornava la risata e il sorriso di Edward, ritornava l'odio feroce che lo aveva distrutto la sua innocenza. L'odio che aveva provato per suo padre, davanti alla lapide di Edward, era stato bruciante, intenso come quello di quel giorno di molti anni prima. Era così forte, da accecarlo e terrorizzarlo. Gregory Casey era morto, ma le ferite che aveva lasciato continuavano a riaprirsi.
   No, sua madre si sbagliava, pensò Matt. Lui aveva ancora dentro di sé quell'odio e lo stava consumando.
   Aveva rischiato di perdere il controllo, aveva aggredito una vittima dopo averla tirata fuori da una casa in fiamme, ed era finito in un rabbioso sesso con un collega. Non uno qualsiasi, no...con Kelly Severide.   
   Quel sentimento così crudele lo aveva spinto fuori dagli schemi semplici e lineari della sua vita, facendolo cadere letteralmente tra le braccia di Kelly.
   Era sempre riuscito a dividere i suoi afferri dai suoi impulsi sessuali, finché quella dannata notte i due mondi erano collimati e, lui temeva, non ci sarebbe stato più ritorno. I confini sono importanti, questo l'aveva appreso molto presto. Aveva speso la sua vita a tracciare linee e incasellare le persone entro un certo schema; così era più semplice e naturale andare avanti, sapere cosa aspettarsi da una persona e cosa l'altra potesse attendere da lui. In questo modo era sempre garantito cosa fosse un amico e cosa un amante, chi ferire e chi amare. Malgrado gli imprevisti della vita, lui aveva saputo adattarsi ad essa grazie ai confini e ai muri intorno a sé.
   Poi Edward era morto e lui aveva visto la sua lapide semplice e asettica. Poteva ancora mantenere un minimo di controllo sulla sua vita, se non fosse arrivato Kelly, che lo aveva spinto su un divano e l'aveva fatto suo. Kelly che non rientrava più in nessuno schema e che, con la sua tipica indelicatezza, aveva varcato una linea pericolosa. L'incidente del fiume, ora, gli sembrava una tragica, ma inevitabile, conseguenza. Ogni certezza nella sua vita era crollata e la colpa, alla fine, era la sua. Lo era sempre stata.
 


   
   Matthew Casey è un cocciuto, arrogante idiota, pensò Kelly, entrando nella sua auto.
   Aveva passato grossa parte del suo tempo libero a cercare di girare intorno al problema, di evadere e distrarsi, senza alcun successo. Continuava a ripensare alla voce fredda e distaccata di Matt, al suo sguardo duro. Ogni volta gli tornavano alla mente dei particolari -come la mascella serrata o il modo in cui aveva cambiato espressione, quando lui era entrato nella stanza d'ospedale- e continuava a rivederli ancora e ancora nella sua testa, finché non seppe più se non fosse solo la sua immaginazione.
  Rimase seduto qualche minuto, guardando distrattamente le finestre della sua casa. Non aveva idea di dove andare, sapeva solo di dover andare.
  Stava preparando l'ennesimo caffé, quando una realizzazione l'aveva colpito. Aveva ripensato all'incidente e al corpo di Matt, al terrore che aveva provato tirandolo su, stretto a sé. Lo aveva poggiato sulla barella e Dowson aveva controllato il battito, incontrando per un attimo i suoi occhi. Non morire, Matt, non morire si era ripetuto mentalmente, la divisa zuppa e il freddo che gli entrava nelle ossa.
   Molte volte aveva manipolato nella sua testa quel momento, sentendo sempre quel profondo senso di colpa; in alcuni momenti, aveva immaginato cosa sarebbe successo se il cuore di Matt non fosse ripartito: il dolore, così simile a quello provato tempo addietro dopo Andy, ma questa volta, lui lo aveva sentito, più forte e profondo. Se Matt fosse morto, Kelly sarebbe sprofondato nella consapevolezza di non averlo salutato. Di non aver chiarito. C'era anche una parte irrazionale di se stesso che lo considerava, dopo quella natte di alcol e sesso, una sua responsabilità.
   Era stata sulla scia di questi pensieri, che l'epifania era giunta, colpendolo nello stomaco. Il caffé gli era caduto di mano e aveva capito una cosa che, al momento, gli era sembrata essenziale: lui doveva chiarire. Kelly Severide, temerario e inarrestabile, aveva il dovere verso se stesso di fronteggiare Matt e dirgli semplicemente sei un cocciuto, arrogate idiota.
  Mise in moto, con la determinazione di raggiungere la casa di Matt e chiarire una volta per tutte. Non c'era alcun modo che lui si lasciasse sfuggire l'occasione di battere il ferro finché era caldo, prima che quelle incomprensioni divenissero nuove ferite. Nel loro lavoro, non potevano permettersi il lusso di covare rancori: c'erano decisioni da prendere, uomini da dirigere, persone da salvare, e tutto questo necessitava spesso un accordo tra i due leader.
  Al diavolo se Casey si sentiva imbarazzato per quella scappatella o se era scosso per essere, tecnicamente, morto per qualche secondo. Kelly non aveva intenzione di farsi frenare da nulla.


  Quando Matt sentì bussare alla porta, stava indossando pantaloni e t-shirt, la mezzanotte appena scoccata e nessuna idea di chi potesse esserci fuori casa sua; lo sguardo di sorpresa che rivolse a Kelly era, dunque, ben giustificato. Tra l'aria fredda che irruppe sul suo volto e lo sguardo del collega, che sembrava animato da una strana urgenza, il biondo si ritrovò senza parole.
  «Hey» disse Kelly, strofinandosi le mani. «Posso entrare?»
  «Uhm...sì, certo.»
  Matt uscì dalla sua trance e gli fece spazio, chiudendo la porta con lentezza, nel vano tentativo di inquadrare la situazione. Sperò con tutto se stesso che Kelly si fosse presentato per invitarlo a prendere ad uscire per un drink, perché l'alternativa non gli piaceva affatto. Ma dal momento che il tenente era in piedi nel suo salotto, spostando il peso da un piede all'altro e guardandosi intorno come a cercare le parole, Matt comprese che non era una serata tranquilla che lui era venuto a cercare.
   Quando pensi che non possa andare peggio, riflettè Matt, sospirando. Era stanco, frustrato e decisamente fuori tono; l'unica cosa che voleva era cullarsi nel silenzio e spegnere la mente.
  «Hai una birra?» sputò fuori Kelly. «Ci vorrebbe una birra.»
  «In realtà stavo andando a dormire» ammise Matt, grattandosi la nuca.
   Kelly squadrò il disegno dei pantaloni del piagiama e annuì. Non sembrò rendersi conto di essere piombato in casa sua a mezzanotte e non aver ancora spiegato il perché. Il silenzio li stava rendendo entrambi nervosi, quindi Matt scrollò le spalle e sorrise. «Ma credo che una birra non faccia male.»
  Aveva appena aperto il frigorifero e chinato la testa per cercare due birre, quando sentì Kelly schiarirsi la gola. Afferrò gli oggetti della sua ricerca, le ultime due bottiglie nascoste dietro gli avanzi della cena preparata da Christie, e chiuse l'anta. Non voleva ammettere di non essersi accorto che Kelly lo aveva raggiunto, intontito da una situazione che sembrava surreale. Sentiva l'ansia montargli e per qualche motivo la vicinanza dell'altro lo infastidiva. Era intendo a cercare di elaborare il significato di tutto ciò, mentre stappava le birre.
  «Grazie, Matt» disse Kelly, afferrando la birra e prendendo un sorso. Poggiato al bancone della cucina, guardava a terra e si massaggiava il collo con la mano libera.
  Matt prese un sorso e lo guardò. Kelly Severide non era un uomo da sentimentalismi. Il modo migliore per metterlo a disagio era spingerlo a parlare di ciò che provava. In quel momento, era decisamente a disagio e questo a Matt non piaceva.
  «Come te la cavi?» chiese Kelly, agitando la bottiglia nella sua direzione.
  Matt fece spallucce. «Bene.»
   Il moro annuì, facendo cadere la conversazione. Seguì un lungo silenzio, prima che Matt decidesse di averne abbastanza.
  «Allora...qualche motivo in particolare per cui ti serve una birra proprio a casa mia?»
  Kelly lo guardò confuso, poi afferrò il tono leggero e sorrise. Scrollò le spalle, prendendo un altro sorso, molto più lungo dei precedenti. Quando abbassò la birra, il suo corpo si tese, come se si preparasse a una lotta.
  «Senti, non voglio girarci intorno. Insomma, quello che è successo...voglio dire, tra noi, sai?» Non ricevendo risposta, neanche un battito di ciglio, Kelly sospirò. «Parlarne non piace a te come non piace a me, ma, amico, noi dobbiamo lavorare insieme. Sai, tutte quelle storie di Boden sul collaborare.»
  Era successo, alla fine. Severide voleva davvero parlarne. Matt poggiò il sedere al tavolo e cercò di sembrare tranquillo. «Credevo fossimo d'accordo sul non parlarne.»
  «E' vero, e sono il primo a pensare che può andar bene così. Voglio dire, è stato un errore e tutto il resto. Ma, sai, voglio che sia tutto a posto, tra noi.»
  Un errore.
  La parola rimbombò nella testa di Matt. Le labbra di Kelly, quelle stesse che lo avevano baciato e che avevano percorso la sua pelle, ora rinnegavano ogni gemito, ogni vibrazione. Non l'avrebbe mai detto ad alta voce, ma ne era ferito.
  «Esatto, uno stupido errore» disse, prendendo un sorso di birra che trovò difficile da ingoiare. Sembrava più amara e pungente sul fondo della gola. «Non è cambiato nulla, no?»
  «Qualcosa è cambiato.»
  Matt alzò un sopracciglio, spingendolo a spiegarsi. Fu mentre parlava, che Kelly ebbe un'altra illuminazione. «Sei quasi morto, Matt. E' una di quelle cose che cambiano tutto.»
  Era vero, per entrambi. Kelly capì in quell'esatto istante, in quella cucina e con una birra in mano, l'impatto che quell'incidente aveva avuto su di lui. Comprese che, se non fosse avvenuto, lui avrebbe semplicemente dimenticato ciò che era successo tra loro e tutto sarebbe tornato alla normalità. Il problema era che quella mattina Matt era caduto in quel dannato fiume ed era quasi morto. Questo cambiava tutto, a partire dal modo in cui lui stesso guardava alla sua vita. Guardò Matt e fu strano pensare che lui avrebbe potuto non esserci, che l'aveva quasi perso. La sola idea era sufficiente a spingerlo a chidersi perché lo avesse portato a casa, quella notte, e perché avesse provato, dopo quell'atto, una tale soddisfazione. Nessun senso di colpa quando Matt aveva urlato, o quando lui aveva steso una coperta sul corpo nudo, o si era risvegliato ricordando ogni cosa. C'era stato imbarazzo, forse, e confusione, ma non colpa. Quella era venuta dopo, davanti al suo corpo rigido e pallido.
  Dal canto suo, Matt si era ritrovato nell'arco di dieci giorni di fronte alla morte per ben due volte. Erano due di troppo, per i suoi gusti. Forse davvero avrebbe potuto dimenticare quella notte e andare avanti, cercare stabilità, un giorno creare una famiglia ed essere felice. Magari, sarebbe bastato questo a renderlo soddisfatto. In un altro universo, lui avrebbe risposto a quella chiamata, salvato la giornata e chiuso la storia; sarebbe tornato nella sua casa e avrebbe ricominciato la sua vita senza drammi.
   Non in questo universo. Lui era morto, letteralmente -cosa con la quale ancora non aveva davvero fatto i conti- e tutto perché non era stato in grado di ricoversarsi dall'idea di aver fatto sesso proprio con Severide. Aveva commesso un errore fatale: era corso incontro a quell'uomo disperato e aveva cercato di farlo ragionare, di allontanarlo. Si era distratto il tempo necessario per essere spinto giù dal ponte e... Oh mio Dio!
  «Voleva uccidersi!» Si rese conto di averlo detto ad alta voce e alzò lo sguardo su Kelly, gli occhi spalancati. «L'uomo sul ponte, lui voleva suicidarsi.»
  «Cosa?» sbottò Kelly, strappato ai propri pensieri.
  Matt si passò una mano sul volto, sconvolto da quel ricordo. «È stato lui a causare l'incidente. Voleva buttarsi dal ponte, ma ci ha ripensato. È tornato sui suoi passi ed è sbucato davanti al SUV.»
  «Il conducente ha sterzato ed è entrato nell'altra carreggiata, scontrandosi con la monovolume» concluse Kelly, ricostruendo mentalmente la dinamica dell'incidente. «Diamine...Puoi identificarlo?»
  «No...non lo so» mormorò Matt.
   Si passò ancora una mano sul volto, misurando il pavimento con passi stanchi. Ricordava le parole di quell'uomo, il suo sproloquio confuso e la rabbia che era esplosa all'improvviso, travolgendolo. Soprattutto, ricordava di essere rimasto pietrificato a quelle parole. Aveva rivisto gli occhi scuri di Edward e sentito sotto la pelle quella di Kelly; aveva pensato, per un fatale attimo, che la vita fosse troppo breve per lasciar andare quelle sensazioni solo per paura. L'ultima cosa che ricordava erano le mani di quell'uomo su di lui e di essersi risvegliato in ospedale.
  «Dobbiamo trovarlo» disse Kelly risoluto.
  La testa di Matt scattò e gli occhi si fissarono su di lui.
  Gli sarebbe bastato poco, solo una parola o forse due, un sorriso, per trovare la pace che cercava. Avrebbe potuto scrollarsi di dosso la tristezza e il risentimento, allentando la tensione che gli comprimeva la mente. Bastava ammettere che quell' errore gli era dannatamente piaciuto e che l'avrebbe rifatto mille volte. Per cosa? Severide era lì per chiudere quella storia e lui non avrebbe mai ammesso, neanche a se stesso, che di fronte alla morte aveva pensato a quell'unica, intensa, notte. «Cosa?»
  «Deve pagare, Matt. Cazzo, ti ha quasi ucciso e un uomo è morto!»
  «Non mi ha quasi ucciso, è stato un dannato incidente.»
  «Ma di che parli? Sei un vigile del fuoco, un tenente, non scivoli così da un ponte!»
  «Stai dicendo che non so fare il mio lavoro?»
  Kelly aprì le braccia, esasperato. La voce di Matt si era alzata, le distanze accorcate e un dito era puntato contro di lui in tono accusatorio.
  «Non sto dicendo...no, sai cosa, tu ora mi spieghi che ti prende.»
  «Non so di che parli, Severide.»
  «Tu ce l'hai con me dall'incidente» rispose lui, posando la bottiglia con forza sul lavello e staccandosi dal piano della cucina. «Credi che sia stupido? All'ospedale a mala pena mi parli e ora hai questo atteggiamento.» Portò le mani avanti a indicarlo e Matt sentì qualcosa accendersi nel petto e rispondere a quella provocazione. «Non ti ho spinto io giù da un ponte. Io ti ci ho tirato fuori!»
  «Che diavolo vuoi, un ringraziamento?»
  L'idea che Kelly gli avesse effettivamente salvato la vita non l'aveva neanche toccato, e ora lo sfiorò appena, senza scalfire la superficie bianca della sua rabbia.
  «Ma che...No, no, tu hai qualcosa che non va, Casey.»
  «Io? Tu vieni in casa mia di notte e pretendi una birra, quando in realtà non si capisce cosa vuoi. Non si capisce mai!»
  «Volevo parlare, okay? E tu invece sai solo urlarmi contro!»
  «Allora vattene!» urlò Matt, sorprendendo entrambi.
  Il braccio teso indicava ancora uno spazio indefinito oltre l'ingresso della cucina, ma gli occhi erano fissi in quelli di Kelly. Anche se il petto gli doleva e ogni respiro era faticoso e pungente, continuò: «Cosa stai aspettando, uhm? Cosa hai di così importante da dirmi? Neanche tu lo sai quello che vuoi, mai!»
  Questo fa male, disse una voce sul fondo della mente di Kelly. Faceva male perché era la dannata verità. A lui era piaciuto, quello che era accaduto; sessualmente parlando, era stato davvero fantastico. Non era stato come con tutte le donne che aveva portato nel letto; c'era stata rabbia, quasi ferocia, e forza. Era una sensazione nuova e affascinante, che aveva lasciato un'impronta tangibile.
  Era nell'aria tra loro, quella fiamma antica che mai si era spenta, quella scintilla che sfregava al ritmo dei loro respiri affannati. Loro due erano sempre stati diversi, come binari gemelli che, però, ogni tanto si avvicinano e ciò che ne esce sono confuse e frenetiche scintille. Non era una sensazione che era disposto ad abbandonare.
   Kelly sentì l'impulso di far esplodere quel fuoco, invece che domarlo. Alzò la testa e colmò con pochi passi rabbiosi le distanze tra loro. Matt non accennò a muoversi dalla sua posizione, fronteggiandolo.
   «Io non so cosa voglio?» ringhiò, picchiettando un dito sulla spalla del biondo. «Da giorni ti comporti come un pazzo, ti ubriachi e ti fai scopare, e ora mi odi come se ti avessi preso a calci in culo!»
   Non intendeva farlo, ma il dito sulla maglia di Matt divenne una spinta abbastanza forte da farlo finire contro il muro. La bottiglia cadde a terra, schizzando vetro e birra sul pavimento. Il biondo schiacciò la schiena contro la superficie solida e il volto si contrasse in un'espressione che mai, neanche nei momenti peggiori, Kelly gli aveva visto. Gli afferrò la maglia, spingendolo a restare dov'era. Il resto fu puro e semplice istinto. L'attimo prima si fissavano come sul punto di ingaggiare una rissa, quello dopo le loro labbra erano incollate.
  Gelo.
  Kelly fece per staccarsi, ritrovando parte della sua lucidità, ma avverti le dita di Matt afferrargli la schiena e spingerlo contro di sé, ricambiando in bacio con altrettanta necessità.
  Fuoco.
  Il calore si sprigionò improvvisamente e Matt ne rimase folgorato. Dallo stomaco fino alla mente, cancellò tutto, creando invece di distruggere. Creò una leggerezza nella quale si perse, annullando tutto il resto. Creò speranza e una semplice sensazione di sicurezza. Creò bisogno e tremori e fame sempre più grande.
  Gelo.
  Sentì i fianchi di Kelly avere un tremito e il bacino spingere contro il proprio. Un caldo piacere fece il suo corso tra le vene e le arterie, scendendo sempre più in basso. Fu allora che il velo gli fu strappato via dalla mente e lui tornò alla realtà. Premette i palmi contro il petto dell'altro, spingendolo con forza lontano da sé.
  La bocca di Kelly si aprì, rimanendo a corto di parole e di fiato.
  «Cazzo» mormorò, succhiandosi istintivamente il labbro inferiore. «Io...Oh mio Dio.»
  Non aveva scuse, questa volta, perché sbronza e disperazione non erano nell'equazione. C'era stata rabbia e c'era stato desiderio e lucidità, almeno fino a un certo punto, fino al momento in cui avrebbe desiderato non staccarsi mai più da quel bacio...e oltre.
  Matt si passò una mano sulle labbra, ma non nel tentativo di lavar via il suo sapore. Era semplicemente perfetto e, per questo, spaventoso. «Ora dovresti...»
   «Vado via» lo interruppe Kelly, ricevendo un cenno del capo.
   Matt rimase immobile, fissando il proprio riflesso nel vetro della finestra, oltre il quale c'erano solo i cespugli bui. Non si mosse neanche quando udì, in lontananza, la porta richiudersi di colpo.
  Non c'era più modo di nascondersi: Kelly aveva voluto ogni attimo del loro contatto, tanto quanto l'aveva desiderato lui.
  Nulla poteva più essere lo stesso.
   
 




...
Note di fondo: Scrivere questo capitolo è stato davvero arduo per tutta una serie di ragioni. Soprattutto, è per me il punto decisivo della storia, uno dei tanti, perché lo è anche nella vita reale: arriva quel momento, dopo che un evento ha spezzato ogni logica e ci ha buttati fuori dalla comfort zone, in cui devi chiederti come vuoi che le cose vadano. Insomma, fight or flight.
 Questa è la versione che più mi ha convinto e che, lo so, lascia aperte mille possibilità, ma mi va bene così.
  Altra precisazione: ovviamente (?), non sono un uomo, dunque non posso realmente capire l'impatto di un'esperienza simile su di un uomo. Tutti gli studi, le testimonianze e i racconti di amici non possono colmare il gap. Per questo, ho deciso di non scendere troppo nei particolari delle ripercussioni psicologiche e sociali. Avendo la mia particolare visione della cosa (come un po' tutti), mi sono attenuta a quella, adattandola ai personaggi. Se qualcuno si sente insultato, offeso o anche infastidito, può benissimo farmelo notare (anzi, è ben accetto), ma voglio sottolineare che non parlo e non scrivo per sentito dire. Non ho intenzione di raccontare un mondo lontano dalla mia esperienza reale, del tutto immaginato e psicologicamente inattendibile. Provo a rendere i miei personaggi coerenti e incoerenti come sono le persone reali, malgrado si tratti sempre di finzione. Ma, lo ammetto e lo riammetto, non sono perfetta in questo e quindi se qualcuno trova incoerenze enormi o assurdità, prego davvero di farmelo notare, ci tengo molto.
  Umilmente e serenamente, chiudo questa boriosa nota (;
   Baci, abbracci e smancerie,
   Alex.

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Capitolo 6
*** Combatti o fuggi, fallo ora ***





6

Combatti o fuggi, fallo ora

    




   «Sei un polizziotto?»
   Il respiro della bionda era colmo del dolciastro sapore d'alcol e le parole strisciavano sulla lingua impastata. Severide rise, ingollando il resto del suo drink. Quella donna era il centro del suo universo, in quel momento, e lui era davvero ubriaco, molto più della notte in cui si era portato a casa Matt. Represse il pensiero, perché questa era la sua notte di svago, il suo momento di perdita e distacco dalla realtà. Al diavolo Matthew Casey e il confronto che non era andato come previsto -e lui, in fondo, non aveva previsto un bel niente.
   Il resto della nottata era per lui, ne aveva bisogno. Un altro corpo, un'altra notte, un altro risveglio senza ricordi.
 La strinse a sé e le sussurrò tutto ciò che poteva essere detto solo tra le lenzuola, o sul divanetto di un club qualunque. Lei esalò una risatina sul suo collo, spingendo il seno contro il suo braccio, dimentica di ogni curiosità sulla vita segreta di quel ragazzo dai bellissimi occhi lucidi.
  La sua lunga gamba si strinse intorno alle sue e le labbra gonfie gli leccarono la mascella, risalendo fino alla bocca. Kelly lasciò che le loro lingue si esplorassero a vicenda, cercando con le dita ogni parte nuda della pelle bianca di quella ragazza...il nome non era rilevante, nulla lo era.
   La musica rombava intorno a loro e andava bene, tutto andava bene.
   Era già troppo ubriaco per badarci, o per ricordare come si fosse ritrovato fuori dal locale con un labbro rotto e nessuna traccia della bionda.
   Si sedette sul marciapiede dietro un'auto, incollando la fronte al tessuto ruvido dei jeans.
  «Sta arrivando a prenderti» disse una voce roca dietro di lui, mentre il telefono veniva fatto scivolare nella tasca della giacca. Qualcuno gli diede una pacca sulla spalla, prima di andarsene e lasciarlo con un ultimo commento. «La tua ragazza ti ammazza.»
  Alzò la testa solo quando i fari di un'auto puntarono su di lui. Grugnì e parò il volto con un avambraccio, sentendo gli occhi in fiamme e la testa pompare come un grosso cuore gonfio. Riuscì vagamente a riconoscere la sagoma di qualcuno accovacciato al suo fianco, le mani salde sul suo braccio.
   Leslie?
  «Dai, alzati.»
  Protestò appena, troppo stanco e ubriaco per resistere. Tutto quello che voleva era restare seduto lì in eterno.
   Si ritrovò a tastare con i palmi la superficie di un'auto. Shay aprì lo sportello e lo aiutò a sedersi. L'auto ripartì e lui ciondolò la testa fino a trovare la giusta posizione contro il finestrino.
   «Questa è l'ultima volta che vengo a prenderti, Kelly.»


   Shay versò il caffé in una tazza e vi spruzzò dentro mezzo limone. Lo portò in salotto e glielo posò tra le mani. Lui lo guardò confuso, poi alzò un sopracciglio e sorrise.
 «Che devo farci?»
  «Berlo?»
  Kelly sbuffò e reclinò la testa contro lo schienale del divano. Lei gli afferrò la nuca e lo costrinse a riaddrizzarsi. «Caffé amaro e limone, per schiarirti la mente» bofonchiò.
   Essere tirata giù dal letto alle due di notte dalla voce rude di un barista, non era esattamente una cosa che poteva metterla di buon animo. Sapeva che Kelly aveva bevuto anche di più in passato e che aveva quello che si può definire un fegato di ferro, ma l'istinto del paramedico era difficile da sopprimere. Avrebbe dovuto semplicemente lasciarlo alla sua miseria, ma voleva almeno che da quella sveglia brusca ne uscisse qualcosa di produttivo. Perciò gli prese il mento tra le dita e cercò di farlo voltare per controllargli gli occhi. Lui la allontanò con un debole gesto della mano, rischiando di farsi cadere addosso il caffè bollente.
  «Okay...» mormorò, afferrando la tazza e portandogliela alle labbra. «Bevi e non discutere.»
  Dopo diversi tentativi, riuscì a vincerlo per stanchezza e a fargli prendere qualche sorso, senza però riuscire a evitare che gli sputasse addosso del caffé nel mentre. Si ripulì il volto e prese un fazzoletto dal tavolino, tamponandogli il taglio sul labbro. «Chi hai fatto arrabbiare stavolta?»
  Lui chiuse gli occhi e lasciò andare una risata amara. «Casey...»
  «Cosa? Casey era con te al club?»
  «Che? No no, lui era a casa sua.»
  «Sei ubriaco.»
  «Lui era ubriaco, non stasera eh...io no...»
  «Di che diavolo parli?»
  «Io volevo portarla a casa, sul serio. La bionda, intendo...davvero bello...bella, voglio dire...» continuò lui, lo sguardo assente e la voce impastata. «E poi non l'ho fatto. Dovevo farlo, vero? E' quello che faccio, no?» Rise stupidamente, prima di mormorare: «Ma c'è sempre lui nella testa, sai? Era dannatamente ubriaco...io no...non così.»
  Shay cercò di mettere insieme i pezzi di quello sproloquio, dubitando ci fosse una logica. «Quando?»
  «Prima dell'incidente. Ha dormito qui» sussurrò lui, battendo il palmo sul divano e ridendo senza senso. «Ci credi? Sul divano. È successo proprio qui...» Il suo corpo crollò e la testa finì sul cuscino. Chiuse gli occhi e proseguì a mugugnare frasi sconnesse.
  Shay scosse la testa, incredula, e si alzò piano.
  Casey aveva dormito sul divano la notte prima dell'incidente?
  Casey era ubriaco?
  Oh. Mio. Dio.
  «Sei andato a letto con Casey?» sbottò ad occhi spalancati.
  «Abbiamo fatto sesso, Shay.» Soffocò una risata sotto le braccia che gli coprivano il volto. Shay rimase immobile a guardarlo per diversi minuti, prima di lasciar andare un fischio e tornare a letto.
  Oh.
 



  La deprivazione di sonno non era un'esperienza nuova per Matthew Casey. Quando accadeva, non più di un paio di volte ogni tanto, si limitava a prendere i suoi attrezzi e cominciare uno dei lavori di ristrutturazione che teneva sospesi. C'erano sempre lavori da fare, le cose si rompevano o rovinavano ed andavano aggiustate, quelle nuove potevano essere migliorate. Quando non era soddisfatto, cominciava a costruire qualcosa: cucce per cani che consegnava al canile fuori città, cassette per uccelli che appendeva a dozzine nel cortile posteriore o regalava in giro, c'erano poi scatole, mobiletti o qualunque cosa gli venisse in mente. Creare era positivo, sempre.
   Non questa volta.
  Guardò l'orologio, sospirando al quadrante che, impassibile, mostrava le quattro e cinquantuno. Presto sarebbe sorta l'alba e l'avrebbe visto stanco e irritabile. L'unica cosa produttiva che era riuscito a fare era stato pulire il piccolo disastro di birra e vetri in cucina.
  Guardando alla finestra, gli sembrava quasi che il cielo si stesse schiarendo, sebbene mancasse ancora tempo perché il sole sorgesse. Era sospeso in quell'ora vuota, troppo tardi per dormire, troppo presto per trovare un'occupazione.
  Con un grugnito di frustrazione, si scoprì ad ammettere una crudele verità: si sentiva solo.
  Aveva provato quella stessa solitudine in ospedale, malgrado le visite dei colleghi e la costante presenza di Christie. Era come se tutte quelle persone attorno a lui non facessero altro che rendergli palese la mancanza di un solo elemento: Kelly Severide. Il tenente aveva aspettato ventiquattro ore, prima di presentarsi davanti al suo letto d'ospedale. Solo ora Matt sentiva quanto ne fosse rimasto ferito.
  Non si aspettava nulla, ma questo non voleva dire che facesse meno male. Eppure avrebbe potuto convivere anche con quello, gettarsi tutto alle spalle e racchiudere ogni emozione in una scatalo che avrebbe preso polvere nella soffitta della sua mente. Ancora una volta, Kelly aveva dovuto rovinare tutto, bussando alla sua porta e alla sua mente, spingendolo al limite tra rabbia e desiderio, e alla fine tirandolo dentro quel bacio.
   Le tende cominciavano a schiarirsi sotto il tocco del sole nascente, quando Matt riuscì a chiudere gli occhi e quasi scivolare nel sonno.
   In quel momento, mentre l'aria diventava via via più tiepida, si concesse il lusso di immaginare un finale diverso della storia. Nella sua mente, tornò a quello che era accaduto solo poche ore prima: in questo nuovo scenario, lui non allontanava il corpo di Kelly, ma lo attirava a sé, rilasciando se stesso in ogni spinta e gemito. Finivano sul tavolo, o lì contro il muro, spogliandosi a vicenda come se gli abiti andassero a fuoco; poi c'era solo la bocca di Kelly sulla sua, le sue mani sul suo torace e la sua vita pulsante in lui, o viceversa -chissà cosa avrebbe provato a dominare Kelly...il solo pensiero gli riscaldava le mani.
   Si rigirò tra le lenzuola, dando la schiena ai raggi solari sempre più nitidi. Arrotolò ancora il nastro dei ricordi, fino a ritornare al momento in cui la rabbia aveva prevalso sulla ragione. Faticò a individuarlo, ma alla fine ci riuscì.
   «Sei quasi morto, Matt, è una di quelle cose che cambiano tutto.»
  Questo gli aveva detto Kelly. Immaginò un corso diverso degli eventi: lui annuiva, perché davvero essere quasi morto aveva cambiato ogni cosa, quindi abbassava ogni difesa e la rabbia sfumava in una nuvola lontana fluttuando via dal suo corpo e, uscendo dalla finestra, portava con sè anche quella di Kelly. Matt allora ammetteva tutto,  perché accidenti a lui era piaciuto andare a letto con Severide e l'avrebbe rifatto subito; seguiva un'appagante conversazione a cuore aperto, con tanto di ammissioni e segreti rivelati.  Allora si sarebbe risvegliato con le spalle nude di Kelly sotto le dita e il suo respiro caldo tra i capelli scuri; l'uomo si sarebbe voltato e gli avrebbe sorriso, aprendo quei grandi occhi blu-verdi ancora assonnati, lo avrebbe baciato e avrebbe sentito il mondo tornare al suo posto.
  Stop!
  Matt spalancò gli occhi e si liberò delle coperte.
  Cercò di focalizzarsi sulla giornata che lo aspettava: erano le sei e tra due ore aveva appuntamento con Boden per discutere dell'incidente. Mentre cercava di scrollarsi di dosso la stanchezza, non poté fare a meno di pensare che avrebbe dormito come un angelo, se fosse avvenuto un misto dei due scenari.




   Quando aprì gli occhi, a Severide bastò spostare lo sguardo lungo il soffitto per sentire la prima fitta attraversargli le orbite e premergli le tempie.
  «Dannazione» ringhiò a denti stretti, registrando il secondo indizio della notte precedente: il labbro sembrò spaccarsi, tirando la pelle. Si passò la lingua sul taglio, ingoiando il sapore metallico del sangue che, a causa della sede della ferita, era ancora fresco. Si strofinò il viso, controllandosi poi le nocche: nessun segno di lotta.
  «Molto male...» Se non aveva neanche opposto resistenza a chiunque l'avesse colpito, doveva essersi conciato per bene.
  Non cercò neanche di riassemblare i pezzi di quello che era accaduto, limitandosi a strisciare in bagno e poi in cucina. Lì si sedette sullo sgabello, sentendo le energie pian piano tornare e i muscoli svegliarsi, grazie all'azione energizzante della doccia fresca.
  «'Giorno.»
  Shay gli sorriaw, per poi tornare alla caraffa del caffé. Kelly alzò un sopracciglio, colpito dalla strana sensazione che quel sorriso fosse...diverso. Quando la ragazza gli porse una tazza di caffé fumante e poggiò i gomiti sul piano, sorseggiando dalla propria, la sensazione divenne quasi certezza. Prima che potesse comprendere cosa stesse accadendo, Shay parlò con voce calma. «Allora, com'è stato scoparsi un altro tenente?»
  Kelly sentì il sorso di caffé risalirgli in gola e bruciargli. Tossì forte, prima di riuscire a ritrovare il controllo. Lanciò a Shay uno sguardo interrogativo e nei suoi occhi vide consapevolezza.
  Dannazione.
  Pezzi di ricordi cominciarono a sorgere alla sua coscienza. Si era addormentato sul divano, risvegliandosi in uno stato di malessere nel mezzo della notte, prima di raggiungere il letto. Ricordava il caffé con il limone, Shay che lo obbligava a berlo, lui che biascicava qualcosa...Dannazione! Le aveva raccontato tutto, o almeno abbastanza perché lei figurasse il quadro completo.
  La sua mente tornò all'ultimo ricordo lucido: lui che baciava Casey. Si morse il labbro, trovando conforto nel sapore del sangue, senza riuscire però ad allontanare quel senso di rimpianto sul fondo della gola. Sentiva di aver sbagliato tutto, come al solito, ma questa volta aveva ben chiaro quale fosse l'errore: scappare via. Lui, Kelly Severide, aveva sempre scelto combatti, non fuggi.
   Non credeva, ormai, di avere molto per cui combattere. La sua fuga era stato un messaggio ben chiaro.
  «Non è come pensi» disse senza pensarci.
  Lei si accigliò e sbuffò.
  «Sul serio vuoi prendere questa linea? Sono Leslie Shay! Bionda ma non stupida.»
  Lui sorrise, grattandosi la nuca.
  Shay poggiò una mano sulla sua, stretta attorno alla tazza, e lui alzò due occhi lucidi su di lei. Non erano rudi, ironici o luminosi. Sembravano...sconfitti. «Leslie, è stato un dannato errore» ammise, scuotendo la testa. «Eravamo ubriachi e, non lo so, le cose mi sono scivolate di mano...Lui era un disastro, sul serio. Ricordi quel tizio che ha messo fuoco alla propria casa? Si era addormentato con il sigaro in bocca e Matt non ci ha visto più. Quella sera sono andato a parlargli e...Sembrava sotto shock o qualcosa di simile, pensavo che un drink gli avrebbe fatto bene, sai. Poi sono diventati due, tre e alla fine eravamo ubriachi.»
  Si fermò, mordendosi il labbro.
  «E' stato bello, almeno?» provò Shay, attirandosi uno sguardo confuso. Tentò un sorriso, intrecciando le dita alle sue sulla tazza. Sentì la sua mano reagire e allentare la presa.
  «Diamine, è stato fottutamente bello.» Si sentì quasi sorpreso di averlo ammesso.
   Decisamente era stato fantastico e baciarlo, con lucidità e determinazione, era stato anche meglio.
   «E lui...insomma, ne avete parlato o roba simile?»
   Kelly non sapeva come rispondere, quindi scrollò le spalle. «Non sono una lesbica e sono quasi certo che non lo sia neanche lui.»
   Shay gli diede un pugno sulla spalla, strappandogli una risata.
  «Sei un maschilista, lo sai? Anche gli uomini possono parlare di sentimenti.» Lo fronteggiò con le braccia incrociate al petto, scrutanolo con quel suo sguardo indagatore e facendolo sentire come se mille luci fossero puntate su di lui. Poi sorrise e annuì, assestandogli una gomitata sul fianco. «Ne avete parlato!»
  «Direi più discusso...e comunque, non abbiamo chiarito niente. Non c'è nulla da chiarire.»
   «Certo certo.» Shay controllò l'orologio, poi sbuffò: «Turno tra trenta minuti.» Fece per andarsene, ma tornò sui suoi passi e lo fissò intensamente, puntandogli un dito contro. «La cosa non finisce qui.»
  Kelly aspettò di sentirla salire le scale, prima di rilasciare un lungo respiro. Finì il resto del suo caffé e assemblò un toast che il suo stomaco rifiutava. Mentre si preparava per il lungo turno che lo attendeva, ripensò alla notte precedente. Più che le parole corse e urlate tra loro, ciò che si fissò nelle sue ossa, senza abbandonarlo mai, fu lo sguardo di Matt e le sue labbra.
  Quando uscì nell'aria fredda di Chicago, era ormai convinto di aver commesso lo sbaglio più grande della sua vita, fuggendo via da quegli occhi e quelle labbra.
    



   Tony misurava il piccolo salotto di casa a grosse falcate, con le mani che frenetiche andavano al viso, ai fianchi e alla nuca. Era così agitato che gli sembrava di vedere ogni mobile di quella casa, così familiare, attraverso un velo d'acqua. Non era l'edificio a tremare, ma il suo intero corpo.
  «Tony...» pigolò suo padre, seduto sul divano.
  «Cosa, pa'!?» ringhiò, fermandosi davanti a lui. Afferrò il quotidiano sul tavolino e lo sventolò furioso. «Hai letto o sei completamente andato, uhm?»
  Il vecchio sospirò e fuggì lo sguardo del figlio, posando il proprio sulla grande foto incorniciata con legno laccato. Lui e Doris avevano ordinato quella cornice dall'Italia e lui ne andava fiero. Nell'immagine c'era un Anthony di cinque anni, con un grosso sorriso sul volto abbronzato e un cerotto sulla fronte. Doris era bella come sempre, il mento tirato su con dignità e le spalle ritte. Lui, Johnny, era più giovane e felice, i capelli neri ancora lucenti e vivi occhi blu.
  Fu destato dal quotidiano lanciatogli addosso. In un'altra vita, avrebbe preso a calci suo figlio. Ora, era solo stanco e dispiaciuto.
  «Accidenti, pa', hai quasi ucciso un fottuto vigile del fuoco! Un tenente! Hai idea che ti fanno se ti trovano? Quelli sono eroi!»
  Tony cercò di tornare lucido, stringendo i pugni lungo i fianchi. Per quanta rabbia provasse, non avrebbe mai osato colpire suo padre. Non era così che sua madre l'aveva cresciuto.
  Si passò le mani tra i capelli neri, respirando pesantemente, prima di congiungerle davanti al volto. «Okay» disse per calmarsi. Lo sguardo vacuo di suo padre gli fece drizzare i peli sulla nuca. Odiava vederlo in quello stato. Si sedette sul tavolino e gli strinse una mano sul ginocchio, attirando la sua attenzione. «Senti, mi dispiace, okay? Non ce l'ho con te, capito?»
  Gli occhi di Johnny divennero liquidi e Tony sentì il cuore stringersi. Come poteva avercela con suo padre, dopo quello che avevano passato? Dopo che lui si era letteralmente spezzato la schiena in fabbrica per tirarli su? Dopo che la mamma era morta e lui, Tony, aveva perso il lavoro? Dopo che...aveva tentato di ammazzarsi?
  «Sistemerò le cose, papà. Va bene?»
  «Cosa hai intenzione di fare?» chiese Johnny con occhi spaventati.
  Tony sorrise, ingoiando il groppo alla gola. «Tutto ciò che serve a salvare la mia famiglia.»

   
   «Hey, Capo, hai visto chi c'è in prima pagina!» urlò Hermann, sventolando in aria un quotidiano.
  Boden lo squadrò, alzando un sopracciglio.
   «Parlano di Casey, Capo» spiegò Mouch dal divano, prima di lanciare un'occhiata al collega. «E comunque è solo una trafila.»
  «Quel che è» fece Hermann, scrollando le spalle. «Il nostro tenente è un eroe.»
  «Non solo per la stampa» commentò Otis, afferrando una briosche dal piano della cucina e agitandola in direzione di Hermann. «Adesso niente staccherà le donne da lui.»
  «Scommetto che Severide è invidioso. Voglio proprio vedere la faccia che fa quando vede l'articolo.»
  Boden si schiarì la voce, congelando il sorriso sul volto di tre uomini. Quando ottenne silenzio, li guardò uno a uno e chiese: «Qualcuno ha visto Casey?»
  «No, Capo. Non è in malattia?» chiese Otis, perplesso.
  «Abbiamo un appuntamento» si limitò a dire il Capo, prima di voltarsi. «Se lo vedete, avvisatemi. Ah, e dite a Severide che lo cerco.»
  «Sarà fatto, Capo» urlò Hermann, mimando il saluto militare.
  Boden attese di raggiungere il suo ufficio, per sospirare pesantemente. Guardò le scartoffie che lo attendevano e si massaggiò il collo.
   L'istinto negli anni aveva scavato in lui gallerie profonde e bastava un dettaglio per destarlo. Ascoltarlo era d'obbligo, ignorarlo impossibile. Controllò ancora l'orologio e storse le labbra: Casey era in ritardo di mezzora e il suo istinto gli diceva che non era una coincidenza.
   Matthew Casey non era mai in ritardo.
   Si sedette alla scrivania e alzò la cornetta: al quinto squillo, cominciò a tamburellare le dita sul piano di legno.
  Matthew Casey non perdeva mai una chiamata del suo Comandante.
  C'era decisamente qualcosa che non andava.
  Un bussare deciso lo strappò ai suoi pensieri. «Entra.»
  Severide aprì la porta e la richiuse dietro di sé, sentendo nell'aria che qualcosa non andava. «Mi cercava, Capo?»
  «Hai visto Casey?»
  Vide il tenente spalancare gli occhi e deglutire, prima di ricomporsi e scuotere la testa.
  «Qualcosa non va?»
  Il suono dell'allarme li fece scattare. Erano già nel corridoio quando la voce asettica annunciò un incendio in un appartamento.
  Severide percorse il resto del tragitto fino al garage con il cuore in gola. Indossando stivali e divisa, incontrò lo sguardo di Dowson. «E' casa di Casey» disse con voce rotta dalla paura.
  Non seppe come, ma Kelly riuscì a parlare. «Lo so.»





  Diciotto secondi di immobilità. Diciotto e l'allarme sul giubotto comincia a suonare. Matthew aveva imparato molto presto ad avere paura di quel suono e, malgrado l'istinto entrasse in gioco al primo trillo per prepararlo a lottare, negli anni quel terrore primordiale non era mai diminuito, congelandogli le ossa.
  C'era silenzio, ora. Un lungo ed estenuante silenzio. Fermo nella stessa posizione da più di diciotto secondi, ritto in mezzo alla strada, non riusciva a sentire nulla se non un sordo fischio attraversargli le orecchie.
  La sua casa andava a fuoco. Era la fobia nascosta di ogni vigile del fuoco, vedere la propria vita divorata dalle fiamme come una vendetta dispettosa. Il tetto crollò con un rombo, che gli giunse come il suono lontano di un sasso che rotoli da una scarpata. Il fumo divenne nero, un grosso pennacchio contro il cielo bianco, e lui provò l'istinto di ripararsi, ma non riuscì a muoversi.
   Nella sua mente si rincorrevano parole pronunciate da una strana voce, in quella che sembrava un'altra vita: mio padre, diceva, lui non può andare in prigione.
  Mi dispiace, aveva pensato Matt, Lo so, lo capisco. Ma non lo aveva detto all'uomo che l'aveva colpito.
  Non posso...no no...tu devi capire, aveva detto.
  Sì, Matt capiva. Sì, sapeva che sarebbe morto entro diciotto secondi e nessun allarme l'avrebbe salvato. Il sangue correva troppo veloce lungo il collo.
  Poi tutto aveva preso fuoco e si era risvegliato sputando fumo e lacrime. L'istinto aveva fatto il resto: corri, perché non puoi combattere. Corri e non voltarti.
  Così aveva corso, schivando le fiamme e rotolando sul vialetto della sua casa distrutta. Si era alzato e tutto era diventato un film lontano.
  C'era puzza di benzina e carne bruciata che gli arrivava alle narici e le pizzicava.
  C'era una strana sensazione di calore, come se fosse troppo vicino a una stufa ma non riuscisse ad allontanarsi.
  Avvertì sirene in lontananza.
  Voci urlavano quello che sembrava il suo nome.
  Nei suoi occhi solo fumo, fiamme e una nebbia grigia che avvolgeva ogni cosa.
  Le finestre esplosero e ciò che rimaneva della carcassa della sua casa sembrò urlargli contro, in un boato che gli scosse il petto.
  Una mano pesante si abbatté sulla sua spalla, le dita come ferro intorno ai suoi muscoli tesi.
  Come uscendo da una torbida palude, le orecchie si stapparono con un flop deciso, e una voce le attraversò come una lama. Girò lentamente la testa e un dolore mai sentito prima esplose nel cranio, attraversandogli le tempie. C'erano aghi appuntiti che penetravano la carne del suo addome.
  Caldo, troppo caldo.
  Poi improvvisamente il freddo esplose e diramò dita lunghe su tutto il corpo, partendo da un punto sul suo viso e correndo lungo i nervi.
  Occhi blu spalancati come oceani lo fissavano. Labbra rosse si affannavano tra le parole.
  Poi divenne consapevole di ogni cellula del suo corpo e fu troppo.
  Accolse il buio con pace.



  Kelly guardò un secondo di troppo il corpo tra le sue braccia. Gli occhi che aveva incontrato i suoi erano stati vuoti, fino a un attimo prima di ruotà indietro e chiudersi. Era stato meno di un secondo, ma Kelly lo aveva visto, Kelly aveva visto Matt e lui l'aveva riconosciuto.
   Negli occhi azzurri c'era stata paura, confusione, dolore e infine gratitudine.
  «Qui!» urlò a Shay, riemergendo dalla nebbia.
   Aiutò Dowson a sistemare Matt sulla barella. Boden urlava ordini, gli idranti sparavano getti contro quella carcassa in fiamme che una volta era la casa di Casey. Non c'era più null'altro da fare che limitare i danni.
  Le divise che sferragliavano per la strada, le urla, l'acqua e il fuoco e il fumo, erano solo un caos indistinto intorno a Kelly. Tremava, sudore e sangue attaccati alle dita come guanti troppo stretti.
  «Ustioni serie. Hai il battito?»
  «Debole ma c'è. Guarda la testa, Gabby.»
  «Trauma alla tempia, dobbiamo stabilizzarlo subito.»
  Si prese la testa tra le mani, guardando i due paramedici affrettarsi intorno al corpo di Casey, circondate dai suoi uomini.
  Torce negli occhi.
  Mani sulla fronte.
  Il sangue inzuppava la sottile t-shirt e i pantaloni, entrambi bruciati e anneriti. La stoffa venne tagliata per rivelare il petto così fermo, così lento nel suo ispirare ed espirare. L'addome e tutto un fianco sembravano fumare, pelle rossa e nera. L'odore della carne bruciata era così forte da nausearlo.
 Fu appena consapevole delle dita che gentili, ma urgenti, strinsero il suo braccio.
 Gli occhi di Shay erano lucidi e lo invitavano. Guardò Dowson, già sul retro dell'ambulanza, intenta a poggiare garze imbevute sul corpo di Matt.
  Annuì a Shay e salì a bordo. L'ultimo sguardo che lanciò alla casa in fiamme era velato di lacrime.






Note: Eccomi eccomi. Mi sono portata avanti di un paio di capitoli, presa da un'improvvisa ispirazione. Quindi presto pubblicherò altro, perché sarebbe troppo crudele sospendere a lungo a questo punto della storia.
  Grazie a chi mi segue e mi sprona, consapevole o meno.
  A voi, Alex.

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Capitolo 7
*** Mille anni, o anche solo un secondo ***


Avvertenze: In questo capitolo e in alcuni dei seguenti si fa riferimento a traumi fisici e psicologici. Ho cercato di tenere il tutto sotto il limite del rating della storia, ma se qualcuno non è d'accordo o crede che io abbia sforato, me lo dica e vedrò come risistemare le cose.
Come intuibile dal capitolo precedente, si menzionano fuoco e ustioni. Se per voi sono argomenti caldi (scusate il gioco di parole), sappiate che vi ho avvertito; in ogni caso, ho cercato di non entrare troppo nei dettagli.
Altra nota: in corsivo alcuni flashback.
Okay, parte noiosa detta.
Enjoy!





7

Mille anni, o anche solo un secondo






   «Buongiorno, Matt. Cominciavo a chiedermi se ti saresti svegliato.»
  Quella voce e quella risata...Matt spalancò gli occhi e si guardò attorno frenetico. Le mura del suo soggiorno sembravano sciogliersi, la vernice colar giù e i contorni indefiniti traballare. Sbatté le palpebre, sentendole pesanti come piombo.
   Di fronte a lui Andy continuava a ridere e scuotere la testa. Sembrava lo stesso: la maschera girata sulla fronte, la giacca della divisa sulla spalla e le braccia nude intatte. La pelle non era bruciata e annerita, come l'ultima volta che l'aveva visto. Quel dannato giorno, Severide aveva preso in braccio il loro amico e  lo aveva portato di peso fuori da quella casa infernale. Matt aveva stentato a riconoscerlo.
  «Darden...che ci fai qui? Tu dovresti-»
  «Essere morto?» chiese Andy, inarcando le sopracciglia. «Amico, sei piuttosto indelicato.»
  «Sono morto?»
  Matt cercava di ricordare, ma tutto gli sembrava avvolto dalla fuliggine. Sentiva caldo e faticava a respirare, anche se non gli sembrava necessario. «Sono morto...»
  «Nha, non ancora. Potrebbe succedere tra...» fece finta di controllare l'orologio da polso, «...forse tre o quattro minuti.»
  Tre o quattro minuti...Matt non aveva idea di cosa significasse o di come quantificare quegli ultimi attimi di vita. Le finestre erano scomparse, così come l'orologio e ogni cosa che una volta riempiva lo spazio. C'erano solo quattro mura soffocanti. Non poteva essere vero.
  «Andy, tu non sei reale. Sei morto.»
  «Concetto afferrato, tenente. Sei piuttosto ripetitivo.»
  Andy scosse la testa in finto disappunto e si avvicinò.
  «No, no» mormorò Matt, alzando un braccio per mantenere le distanze. «Tutto questo è un sogno o...o un'allucinazione. Tu sei solo frutto della mia mente.»
  «Può darsi. Questo mi rende meno reale?»
  Matt guardò a terra e solo allora si accorse di avere indosso solo un paio di pantaloni.
  «Ah sì, quello» disse Andy, indicandolo. «La tua t-shirt è malandata. Le fiamme l'hanno distrutta. Peccato, ti stava bene.»
  Il petto e l'addome erano lucidi e intatti. Matt alzò uno sguardo interrogativo sull'amico. Andy sembrava sempre più reale, mentre intorno a loro la stanza si distorceva e il caldo diventava insopportabile.
  «Senti, mi piacerebbe rimanere qui a chiacchierare con te» disse Andy, facendosi serio. «Ma magari un'altra volta, uhm? Ora devi svegliarti, perché, amico, stai andando a fuoco e non ti resta molto prima che diventi come me.»
  «Come? Come faccio a svegliarmi?» chiese con un filo di voce.
  Andy si passò una mano sulla nuca, cercando le parole giuste. Alzò gli occhi su di lui e ghignò. «Ti ricordi la festa d'ammissione all'accademia? Eri ubriaco marcio e parlavi parecchio.»
  Matt era certo che da sveglio non avesse mai ricordato quella notte, mentre ora gli tornavano alla mente tutti i momenti. Mentre Andy lo portava a casa di peso, Matt aveva confessato di aver voluto ci fosse Severide al suo posto. Poi aveva pianto fino ad addormentarsi.
  «Esatto, amico, mi riferisco proprio a quella parte della festa» disse Andy, leggendogli nella mente. «Non lasciartelo sfuggire.» Sorrise, quel suo ghigno così familiare sulle labbra. «Sai, sapevo che prima o poi sarebbe successo, intendo tu e Kelly. Diamine, credo che voi siete stati gli ultimi a rendervene conto! Io l'ho sempre saputo. La metà delle volte non ero certo se sareste finiti a bastonarvi a vicenda o a rotolarvi per terra come conigli. Per me era ovvio, ma voi...tu, soprattutto, Casey, non volevi accettarlo. Sapevi che lui avrebbe potuto distruggerti e lasciarti senza nulla. Hai seri problemi d'abbandono, lo sai? Ma alla fine, per quanto ti sei sforzato di negarti la felicità, quello che era inevitabile è accaduto.»  
  «Come sai quello che è successo?»
  «Matt, io so tutto! Privilegio dei morti, suppongo.»
  «Tutto?»
  «Woa, fermo, non pensarlo neanche. Non vi spio mentre...sai. È più imbarazzante per me che per voi, fidati.»
  Matt rise. Forse davvero stava morendo, forse lo era già, ma si scoprì a non curarsene. Era stanco. Se avesse dormito solo un altro po', tutto si sarebbe sistemato.
  «Non chiudere gli occhi, Tenente» gli impose Andy. Matt sentì la sua mano sulla spalla come ghiaccio su una fiamma. Era lui la fiamma. «Prima che il fuoco arrivasse, in quella casa, ho pensato a Heater e ai ragazzi. Sapevo che sarei morto. Avrei voluto avere altri mille anni, in quel momento, o anche solo un secondo. Mi capisci?»
  Matt annuì e Andy gli strinse la spalla, prima di staccarsi.
  «Cosa succede ora?»
 «Il fuoco sta arrivando, Matt. Lascia che per una volta sia io a darti un consiglio: torna indietro. Svegliati e prenditi i tuoi mille anni o anche solo un secondo. Ne vale la pena, credimi.»
  Matt stava per chiedere altro, perché gli sembrò che le risposte fossero in questo momento più importanti della sua stessa vita. Aprì la bocca, ma una folata di cenere gli serrò la gola. Si chinò e tossì convulsamente, gli occhi rossi che bruciavano e il caldo sempre più intenso.
   Non voleva morire.
  Aveva qualcosa per cui vivere, giusto? Gli servivano altri mille anni o anche solo un secondo.
  Matt lo voleva più di quanto avesse mai voluto qualunque cosa nella sua vita.
  Alzò la testa per cercare Andy, ma vide solo una torcia umana. Come nei suoi ricordi e nei suoi incubi, Andy stava andando a fuoco. Cercò di urlare, ma la voce gli rimase nel petto.
  La figura del suo amico divenne una palla di fuoco che ringhiava pericolosamente. Poi esplose, investendolo.
  Fu allora che aprì gli occhi e il suo cervello riuscì a registrare solo un comando: corri!
 

......


   
  Fuoco...troppo caldo...brucia...
  Che succede?
  «Resta con me, Matt. Apri gli occhi.»
  Occhi blu...Kelly.
  Kelly, sono qui.
  «Bravo, amico, così. Tieni duro. Non farci spaventare, non hai idea di quanto forte possa colpirti Shay.»
  Fa male... Vado a fuoco. Oh mio Dio, aiutami.
  «Devi calmarti, amico. Stiamo andando all'ospedale, starai benone, okay? Ma devi stare fermo.»
  No no no. Kelly, guardami. Kelly, fa troppo male, basta.
  «Dowson, dagli qualcosa! Sta soffrendo!»
  «Gli ho dato tutto quello che potevo, Kelly! Può...potrebbe avere un trauma cranico.»
  La testa sta bene...sta bene...
  Datemi qualcosa!
  Fatelo smettere!
  «Tienilo fermo! E' sotto shock.»
  No no no, non sono...Guardami, Kelly, non sono...
  Blu.
  Non voglio morire.
  Mille anni...
  Un secondo...
  «Andrà tutto bene, Matt.»
  Sarai con me?
  «Sono qui, amico, andrà bene.»    

......

   L'attesa fu uno stillicidio di secondi, minuti e infine ore. Poggiato al muro, lontano da tutti e incurante degli sguardi che saettavano su di lui, Kelly sentì lo shock avere la meglio sulla ragione. Se fosse riuscito a processare un solo pensiero coerente, ne sarebbe stato grato. Non voleva provare la carrellata di emozioni che l'attendeva con le fauci spalancate, pronta a inghiottirlo. Avrebbe provato dolore, paura, rabbia. Nella sua mente c'era solo il ricordo del corpo senza vita di Andy, la pelle un mosaico di grinze, brandelli di divisa attaccati alle ferite e sangue. E c'era poi il corpo di Matt su quella barella, gli occhi che si spalcavano e il corpo che sussultava, un puzzle di pelle rossa, bianca e nera.
  «Stai bene?»
  Non rispose a Shay, non sentì le sue dita sul braccio.
  «Sei pallido.»
  La sua voce era preoccupata, soffice e rotta. Era la voce dell'affetto, della consapevolezza e di tutte quelle emozioni che lui non riusciva a provare.
  Mi sento perso, avrebbe voluto dire.
  Chinò la testa tra le mani e la scosse vigorosamente. Nessuno disse nulla e nessuno distolse lo sguardo, mentre Shay lo abbracciava e accoglieva il suo viso sulla spalla.
  «E' colpa mia...» mormorò sulle sua maglietta. «E' colpa mia, Shay. E' colpa mia» continuò a ripetere. Quello che all'inizio era un bisbiglio appena udibile a lei, divenne una imprecazione di rabbia abbastanza forte da attirare più di un paio di sguardi confusi.
  «Cosa?» mormorò Gabriella, avvicinandosi.
  Shay scosse la testa e afferrò Kelly per un braccio, trascinandolo in un corridoio adiacente. Lì cercò il bagno degli uomini, lo spinse dentro e si assicurò fosse vuoto. Chiusa la porta, si voltò e trovò il suo amico poggiato a un lavandino, intento a raccogliere con le mani getti di acqua fresca contro il viso. Gli diede il tempo di ricomporsi e gli passò un panno di carta.
  «Kelly.»
  Lui incrociò il suo sguardo nello specchio, riaprendo subito il rubinetto e sciacquando ancora le mani. Gli sembrava che il sangue di Matt non volesse più andar via. Passarono secondi e scrosci d'acqua, prima che Shay gli poggiasse una mano sul braccio, invitandolo a guardarla.
  Kelly si tese e chiuse di colpo il rubinetto, poggiando i palmi al bordo del lavello.
  «E' normale, lo sai-»
  «No, Shay!» ringhiò, liberandosi della sua stretta gentile. Davanti al cipiglio della ragazza, sospirò, portandosi una mano al volto. «Scusa...io... È colpa mia.»
  «Continui a ripeterlo...tu non hai colpe. Hai fatto quello che potevi» gli disse con tono comprensivo, prendendogli la mano. Questa volta lui accettò, intrecciando le sue dita e stringendo piano. «Parlami, Kelly. Che succede?»
  Scosse la testa in rassegnazione, usando l'altra mano per premere sugli occhi e ricacciare le lacrime.
  «Ieri notte... Sono andato da lui per parlare di...» Si interruppe, non riuscendo a finire la frase, ma la mano di Shay lo fece tornare alla realtà con una decisa stretta. «Non è stata una conversazione piacevole. Ci conosci...abbiamo litigato e...l'ho spinto contro il muro e l'ho baciato.»
  «Okay...»
  «Lui ha risposto, credo...Poi mi ha scacciato e io sono scappato.» Il pugno della mano libera si serrò intorno alla stoffa della propria divisa. «Oddio, Shay! Se fossi rimasto, se le cose fossero andate diversamente...se non fossi andato in quel club a ubriacarmi per cercare...cosa poi? Se fossi rimasto lui ora starebbe bene!»
  «Non potevi evitarlo, Kelly. Tu avevi un turno, eri a lavoro. Non puoi sapere che le cose sarebbero andate diversamente.»
  «Neanche tu.»
  Si guardarono a lungo senza riuscire a dir nulla.
  Una parte di Kelly gli ricordava che Shay aveva ragione, che non c'era modo di prevedere quello che sarebbe successo. Malgrado la razionalità di quelle parole, lui era un vigile del fuoco abituato a salvare vite ogni giorno e pensare di non poter fare la differenza, quando la vita in gioco era di una persona cara, era frustrante oltre ogni limite.
 Dopo un lungo silenzio, Shay gli pose una mano sul braccio, carezzandolo con una delicatezza che solo con lui poteva mostrare. «Casey è forte, lo sai. Ce la farà.» Gli diede una pacca per spronarlo a raccogliere le forze e, con un sorriso stanco, aggiunse: «Deve farcela, perché non voglio perdere l'unica occasione della mia vita di fare la damigella.»
  Kelly la guardò torvo, ma Shay riuscì a strappargli un sorriso.



  Il verdetto arrivò sotto forma della voce professionale di una dottoressa.
  «...ustioni moderate di secondo e terzo grado sul 20% del corpo... è interessata la metà destra del torso, gamba e braccia ... il dolore è una cosa positiva, vuol dire che le terminazioni nervose sono intatte... abbiamo asportato il tessuto necrotico su fianco e addome e ripulito le ferite...»
   Kelly ascoltava ogni parola, sforzandosi di concentrarsi su quelle essenziali. La sua mente correva indietro al momento in cui tutto sarebbe potuto essere giusto. Quell'unica notte era tutto ciò che aveva.
 
  Le sue mani corsero frenetiche lungo la linea dell'addome teso, sentendolo sciogliersi come non attendesse altro. Un gemito sfuggì alle labbra di Matt, diffondeno alchol e desiderio sulla sua guancia. Kelly saggiò con i polpastrelli la linea dell'osso del bacino, scendendo fino alle cosce bianche e lisce. Era così perfetto, così giusto, che per un attimo credette di non riuscire a muoversi.
  Il corpo di Matt si inarcò in cerca di contatto, un grugnito stretto tra i denti, mentre le dita stringevano i suoi capelli. Gli spinsero la testa nell'incavo del collo e Kelly aprì la bocca per accogliere la sua pelle.
  Matt lo voleva con tutto se stesso, con una forza e una determinazione che ricordavano un incendio poderoso.
 
  «...concussione, dovuta all'impatto con un oggetto contundente... tre punti di sutura... segni di lotta...»

   Le labbra andarono a fuoco sulla pelle già calda. Alzò il volto e lo guardò negli occhi, in quei bui e lucidi occhi azzurri. Matt aveva le labbra socchiuse e lo stava pregando di non fermarsi, di non andare via.
   Niente ripensamenti, gli disse Kelly senza parole.
  Matt gli circondò i fianchi con le gambe, le ginocchia premute contro i suoi muscoli fino a far male.

  «...lo abbiamo intubato... ha inalato molto fumo, ma non ci sono ustioni alle vie aeree...»

  Il respiro sempre più corto, rotto dai gemiti. Di dolore o piacere, Kelly non sapeva dirlo.
  Il ritmo sempre più veloce, le unghie nella carne e le labbra di Matt così voraci da sembrare ovunque nello stesso momento.
 Il battito sempre più forte, scavando gallerie di calore nel corpo.
Tutto si annullò in una luce bianca, tra l'odore del sudore e il dolce sapore del piacere.

  Tornò alla realta quando qualcuno fece quella domanda, la domanda che tutti avevano sulla punta del cuore. Kelly non seppe chi e non gli importò.
  «Sì riprenderà?»
  Un attimo di pausa e i respiri vennero trattenuti. La dottoressa strinse la cartella al petto e disse: «E' stato fortunato, malgrado tutto. Se non si fosse risvegliato e non fosse uscito da quella casa, il fumo o il fuoco lo avrebbero ucciso.» Schietta e diretta. «La concussione è moderata, nelle prossime 48 valuteremo eventuali danni.  Abbiamo dovuto indurre il coma, per il dolore. Le ustioni sono piuttosto severe e occorrà tempo per valutare una eventuale guarigione totale. Le ustioni di secondo grado andranno incontro a guarigione spontanea, se non accorranno complicanze, nell'arco dei prossimi 14 giorni. L'addome ci preoccupa: c'è un'ustione profonda, all'incirca di venticinque centimetri di diametro. Ha sfiorato di poco l'ombellico, ma potrebbe insorgere un'infezione pericolosa. Dobbiamo monitorarlo per scongiurare anche danni a carico dei reni o del sistema urinario. In generale, dobbiamo attendere dai quindici ai ventuno giorni per valutare lo stato cicatriziale e se procedere con un innesto cutaneo.  Per ora, possiamo solo aspettare che si risvegli e da lì valutare eventuali danni permanenti.»
 

   
   Gabby lo aveva capito in un secondo e tutto aveva preso un colore diverso.
   Sul retro dell'ambulanza, combattendo contro l'agitazione di Matt e le proprie lacrime, lo aveva capito. Lui l'aveva guardata e non aveva visto altro che una nebbia di dolore. Poi aveva guardato Severide e i suoi occhi si erano calmati. Con quello sguardo lo stava pregando, stava chiedendo a Kelly un aiuto che lei, invece, non poteva dargli. Kelly gli aveva sorriso attraverso la paura e le lacrime e Matt aveva chiuso gli occhi, stringendogli la mano.
  Quando Shay le poggiò tra le mani un bicchiere di caffé, sorridendole debolmente, Gabby cercò di concentrare i suoi sensi in quel sapore dolciastro.
  «Lui non ha bisogno di me» ammise con le labbra tremanti sull'orlo del bicchiere.
  Shay la guardò come se sapesse, come se fosse dispiaciuta oltre immaginazione. Si lasciò abbracciare e pianse silenziosamente nel corridoio immacolato.
  Si staccò da quella stretta confortante, asgiugandosi gli occhi, solo quando vide Antonio attraversare le porte di vetro. Non disse nulla, stringendole una spalla e dandole un cenno del capo.
  «Cos'è?» chiese Shay, indicando il fascicolo nella mano del detective.
  «Una cosa che devo mostrare a Boden» disse, cercando di oltrepassarle. Gabby gli afferrò il braccio, guardandolo con decisione. «L'incendio è stato doloso» ammise, palesando il sospetto di tutti.
  Gabby non riuscì a trattenere un singhiozzo.


  «Qualcuno ha forzato la serratura sul retro e si è introdotto in casa. Forse non si aspettava di trovarci Casey, non lo sappiamo. C'è stata una collutazione. Deve averlo colpito con qualcosa e dopo ha cosparso tutto di benzina e...bhe, il resto lo sapete.»
  Boden incrociò le braccia e lanciò un'occhiata a Kelly. I pugni del tenente erano serrati e ogni muscolo sembrava teso nel tentativo di controllare la rabbia. Lentamente, tornò a fissare Antonio e annuì.
  «Vi chiederei se Casey ha nemici, ma conosco la risposta.»
  «Casey è un brav'uomo» concordò Boden.
  Fu allora che Kelly uscì dalla sua immobilità e parlò con voce rude. «L'uomo che lo ha spinto dal ponte. È lui.»
  «Di che parli?» chiese Antonio, scrutandolo con sospetto.
  «L'uomo...il bastardo voleva ammazzarsi e ha causato l'incidente. È tornato per...per tappargli la bocca.»
  Boden si voltò verso il tenente, uno sguardo così duro che, in altre circostanze, lo avrebbe spaventato. «E' stato lui a dirtelo?»
  Kelly annuì appena.
  Antonio passò lo sguardo tra i due, poi sospirò e si massaggiò il collo. «Okay, le cose stanno così: la scientifica sta analizzando la scena, ma visti i danni credo troveranno poco. Tutti i testimoni che abbiamo ci hanno detto di aver visto la casa in fiamme e basta. Per quanto riguarda l'incidente del ponte, siamo riusciti a mettere insieme solo una descrizione molto generica dell'uomo: sulla cinquantina, bianco, camicia chiara. L'unica cosa che possiamo fare è sperare che Casey riesca a identificarlo, se è stato davvero lui, e a raccontarci esattamente cosa è successo.»
  «Tienici informati» disse Boden, senza alcun dubbio che fosse un ordine.
  Prima che potesse aggiungere altro, Kelly si voltò e si avviò lungo il corridoio, marciando con i pugni serrati lungo i fianchi. I due lo seguirono con lo sguardo e Antonio non poté fare a meno di immaginare la furia che avrebbe provato al suo posto.
  «Come sta?» chiese alla fine.
  Boden sospirò e scosse la testa.
  Antonio comprese e cercò di essere incoraggiante. «Casey è forte, si riprenderà.»
  «Lo è.»
 
......

 
  Ha bisogno di te, gli aveva detto Shay, così a bassa voce che solo lui l'aveva percepito. Non gli importava se tutto l'ospedale, la caserma, la città lo sapesse. Kelly voleva solo esserci.
  La sedia sembrava più fredda sotto di lui a ogni minuto che passava. Oltre le tapparelle sottili il sole cominciava a discendere, raffreddandosi dietro i palazzi vuoti.
  Chiuse gli occhi e finalmente li riaprì, riuscendo a guardare davvero il corpo steso sul materasso. Le coperte bianche erano state arrotolate fino alla vita e un lembo era posto sotto la gamba scoperta. La gamba e il braccio destri erano stati fasciati, metà dorso completamente nascosto da garze sterili, mentre sulla tempia una benda copriva la ferita ricucita. Il tubo era stato tolto dalla gola e sostituito da una mascherina, che rendeva in qualche modo più cocente il pallore del volto, contrastato da un grosso livido sulla guancia. Il macchinario emetteva un sordo fischio, pompando ossigeno, e il bip regolare del monitor cardiaco sembrava un usignolo metallico sospeso sulle loro teste.
  In quarantotto ore nulla era cambiato. Le medicazioni erano state cambiate, nessuna infezione era sorta e i parametri vitali erano stabili. Eppure Matt non accennava a volersi svegliare.
  Era pallido, ma per la prima volta Kelly si ritrovò a scrutare Matt con occhi diversi e a trovarlo di una bellezza sconvolgente.
  Era stato un idiota, lo sapeva. Malgrado le parole confortanti di Shay, nulla poteva cancellargli dalla mente che lui avrebbe potuto fare di più. Come con Andy. Kelly lo avrebbe difeso, avrebbe lottato e dato tutto per salvarlo.
  Troppo tardi.
  «Matt, mi dispiace» mormorò con voce spezzata.
  «Devi svegliarti, okay? Poi sistemeremo tutto...ma se tu...se non ti svegli, io non posso...» Sentì un singhiozzo strozzargli la voce e cercò di ignorare il fatto che la sua vista fosse annebbiata. «Non posso perderti.»
  Avrebbe dato tutto, ogni singola cellula di se stesso, anche il proprio distintivo, se fosse servito a tornare indietro e a non commettere gli stessi errori. Quella notte avrebbe dovuto portarlo nel suo letto, accettare che si avvicinasse a lui più di qualunque altro uomo e come ben poche donne avevano fatto. Ma la paura lo aveva tenuto a distanza. Paura che per Matt fosse solo un errore, paura di ciò che aveva provato con lui e paura, anzi terrore che le cose tra loro sarebbero esplose, distruggendo tutto ciò che avevano.
  Lui, impulsivo e facile alla perdita di autocontrollo, si era frenato l'unica volta che non avrebbe dovuto. Guardò Matt e pregò un Dio che non aveva mai invocato di fargli aprire gli occhi, anche solo per un secondo. Gli sarebbe bastato a sorridergli e dirgli che lui sarebbe rimasto, sempre, che non aveva più altra paura che quella di perderlo. Quando quegli occhi al confine tra un cielo e un prato si fossero aperti, Kelly avrebbe sentito il suo mondo ricomporsi. Ne aveva disperato bisogno.
  Strinse le dita intorno alle sbarre di ferro del letto, il suo volto tanto vicino al corpo di Matt da poter sentire l'odore del disinfettante, della pelle lesa e, in fondo a tutte quelle garze e quelle medicazioni,  il suo.
  Posò la fronte sul dorso delle mani e pianse.









Note: Hey! Come promesso, ho aggiornato prima del solito.
Vorrei precisare che non sono né un medico né effettivamente una studentessa di medicina, ma ci tengo a essere il più precisa possibile. Quindi, se il mio tentativo di non scrivere baggianate mediche è fallito, invito chi ne sa più di me a farmelo notare, così non ripeterò l'errore (:
Thank you.
See you soon, Alex.

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Capitolo 8
*** Dalle macerie alla vita ***


8
Dalle macerie alla vita
 


 


  Il Camion 81 si era proprosto di liberare dai detriti la casa di Casey, in modo da permettere alle indagini di cominciare. Era bastato che Boden desse un cenno del capo per far correre i vigili sul posto. Kelly non aveva neanche dovuto chiedere il permesso per aggiungersi al gruppo.
  Il fuoco aveva sfiorato le due case vicine, lasciando sulle mura esterne lingue nere che salivano fino alle finestre. Kelly rimase in piedi nello stesso posto in cui aveva trovato Matt, chiuse gli occhi e prese un grosso respiro. Dietro le palpebre gli apparve l'immagine del tenente steso in quel dannato letto, avvolto dalle garze. Boden gli strinse una spalla e lo invitò a seguirlo all'interno.
  Il pavimento del secondo piano aveva ceduto, riversando detriti lungo tutto il pianterreno. Sulle loro teste si intravedeva il cielo racchiuso nei brandelli di soffitto ancora intatti.
 Kelly si fece strada nel salotto, dove ogni mobile era stato deformato dal fuoco, alcuni frantumati dal crollo. Dovette fare uno sforzo immenso per focalizzarsi sul suo compito.
  Fece disporre gli uomini in una catena, per passare i detriti fino all'esterno. Kelly, all'inizio del corteo, urlava ordini per rendere la procedura più veloce e liscia possibile. Prima avessero liberato la zona, prima la polizia avrebbe cominciato a indagare.
   Si bloccò quando, alzando un'asse, scoprì il pavimento annerito; spazzando via la fuliggine, i suoi guanti incontrarono una macchia scura e secca. Deglutì a fatica, realizzando che era il sangue di Casey.
  Boden gli lanciò uno sguardo di comprensione, prima di chinarsi e cominciare ad aiutarlo con il resto dei detriti.
  Avevano appena iniziato a liberare la cucina, quando il telefono di Boden squillò. L'uomo fermò i lavori e rispose, indossando un'espressione tesa. Lo sentì annuire in ascolto e, infine, sorridere.
  «Che succede?» sputò fuori Kelly.
  «Era l'ospedale» urlò Boden in modo che tutti potessero sentirlo. «Casey si è svegliato!»
  
 


   Scollando le palpebre, la prima cosa che vide fu una nebbia soffice, che si dissipò in un alone sempre più ampio.
  La seconda cosa che Matt registrò furono due mani, strette intorno al metallo delle sbarre al lato del letto.
  La terza necessitò uno sforzo immenso per sollevare il volto di pochi centimetri: gli occhi di Kelly.
  In essi passò sorpresa, subito sostituita da sollievo e gioia. Doveva essere uno specchio di ciò che lui stesso provò.
  Tentò di parlare, ma non sembrava che le parole volessero costruirsi nella sua mente e uscirgli dalle labbra.
  Ricordava vagamente di aver aperto gli occhi e di aver visto infermiere accorrere intorno a lui. Forse era solo un sogno, si disse, incapace di capire dove fosse. Cercò di muoversi e ciò che provò fu solo dolore.
  Una scarica di terrore gli attraversò la mente, mentre i ricordi tornavano cpnfusi.
  Mosse le labbra nel tentativo di comunicare, gli occhi che passavano sul suo corpo e cercavano di localizzare l'origine del dolore, che emergeva piano come una piccola fiamma. Sarebbe diventato un incendio, lo sentiva già grugnire sotto la superficie della pelle. I muscoli si tesero, tremando per lo sforzo, e le orecchie si riempirono del sordo tonfo del suo battito, sovrastando il bip frenetico del monitor.
 «Matt.»
  Alzò la testa e vide negli occhi blu il riflesso del suo stesso panico.
  Mosse la mano e riuscì a incontrare la sua. La strinse con quanta forza aveva e si concentrò solo su quella sensazione. La pelle ruvida del dorso sotto i polpastrelli, le nocche delle dita intrecciate e premute le une contro le altre, la forza del bisogno di un contatto riassunta in quel semplice gesto.
  La sua mente crollò di nuovo nella nebbia e non seppe quantificare o afferrare il tempo che scivolò via, o quanto rimasero fermi con le dita dell'uno intrecciate a quelle dell'altro. Da qualche parte in mezzo a quel lungo risveglio, la lucidità strisciò nel suo corpo. Chiuse gli occhi per quello che sembrò un anno e quando li riaprì Kelly era ancora lì.
  Le loro dita si sciolsero e la mano ricadde sul materasso.
  «Mi hai spaventato a morte» disse Kelly con un sorriso, mascherando la preoccupazione. I suoi occhi percorrevano il corpo di Matt come a cercare il filo da tagliare per evitare l'esplosione.
  Lui attese che tornassero nei suoi, prima di sorridere. O almeno, credette di farlo.
  Tentò di parlare, senza successo. Kelly gli spostò la mascherina dal volto e gli passò un bicchiere d'acqua, che gli sembrò una benedizione per la gola secca.
  «Come ti senti?»
  Era una domanda stupida, realizzò Kelly, ma non era riuscito a trattenersi.
  Matt tirò le labbra in un quieto sorriso, ma non rispose. Passarono secondi di adattamento al nuovo stato di coscienza, prima che la sua voce arsa tornasse.
  «Cosa diavolo è successo? Mi sento come un pacco di pocporn nel microonde.»
   Kelly trattenne una risata al tentativo di umorismo del biondo.
  «Hai dormito per tre giorni. Ti sei svegliato qualche ora fa ma eri...diciamo un po' confuso e ti hanno sedato... La tua casa...è, uhm, andata a fuoco. Ti ho trovato in mezzo alla strada, eri ferito e sei svenuto. Hanno indotto il coma per via, sai, della ferita alla testa» disse indicandosi la fronte, «e del resto.»
  Il resto?
 Come evocato da quelle parole, il dolore tornò ad aggredirlo. Matt strinse i denti, pronto a giurare di non aver mai sentito nulla di simile. Tutta la parte destra del suo corpo era in fiamme, come se ogni cellula dal collo alla caviglia fosse stata tagliuzzata minuziosamente e riempita di acqua bollente.
  Kelly alzò una mano, che rimase come un fantasma ad aleggiare sulla sua spalla. La ritirò subito, poggiandola a disagio sulla gamba.
 «Hai delle ustioni» Incosciamente, toccò il proprio addome, quasi lo sentisse gemere di dolore. «Non è tanto brutto. Voglio dire...nulla che una camicia e un paio di pantaloni non possano coprire.»
  Matt si sorprese di se stesso quando non riuscì a trattenere una breve risata.
  Tentò di alzarsi a sedere, ma Kelly lo tenne giù con una mano sulla spalla sana. «Hey, buono. Devi riposare.»
  Riluttante, Matt si lasciò scivolare sul materasso, stringendo i denti contro il dolore. Guardò il proprio braccio fasciato e alzò la mano per toccare i bordi delle garze. Riuscì a risalire fino alla spalla prima di incontrare pelle liscia e illesa.
   «I dottori dicono che la maggior parte delle ferite guarirà da sola. Se tutto va bene, non lasceranno molte cicatrici. La testa è a posto, giusto un paio di punti.»
  «Mmm...Ne sto collezionando troppi...un giorno dovrò ritirare il premio, uhm?» scherzò, ma il suo sorriso era più tirato e triste.
  Isolò la paura e tutte le emozioni negative che tentavano di aggredirlo, concentrandosi solo su una cosa: era vivo e Severide era lì. Si schiarì la voce, sentendo la gola grattare.
  «Kelly.»
  Il moro alzò su di lui gli occhi e rimase attonito di fronte alla forza che, dietro il dolore e la stanchezza, emanavano quelli di Matt.
  «Tornerei indietro se potessi.»
  Kelly avrebbe voluto dire sì, anche io, e subito, ma non disse nulla. Si sporse e gli voltò il viso con una mano, premendo delicatamente sulla mascella bordata di nero. Si avvicinò quanto bastava per posare le labbra sulle sue. Lo sentì esitare, solo un attimo prima di rispondere al bacio. Si staccò lentamente, desiderando quel momento durasse all'infinito, ma bisognoso d'aria. Lo guardò e lo vide sorridere, prima di alzare due dita e asciugargli la guancia con le nocche. A Kelly non importava di piangere, perché era pronto a giurare di non essere mai stato così felice.
  Un bussare insistente alla porta lo fece sussultare.
  Si raddrizzò, strofinandosi il viso. Matt rivolse lo sguardo alla finestrella nella porta e vide un'infermiera sorridere imbarazzata.
  «Mmm...sono sicuro che sarà argomento di gossip.»
  Severide rise, prima di dargli una stretta alla mano e uscire.
  Matt vide l'infermiera entrare, porgergli domande e controllare le flebo, ma la sua mente era altrove. Era così felice di essere vivo, malgrado tutto, che voleva solo annullare ogni dolore e cullarsi in quel piacere. L'occhio gli cadde sulla pompetta per la morfina e fu tentato di premerla fino a consumarsi il pollice.
  L'infermiera non obiettò e si profuse in spiegazioni sul suo utilizzo, prima di premerla.
  Matt saggiò le proprie labbra, ancora intrise del sapore di Kelly, prima di sentire la dolce mano del piacere e dello stordimento trascinarlo nel sonno.
  L'ultimo pensiero fu l'assoluta certezza che Kelly sarebbe stato lì, al suo risveglio.







   Richiudendo piano la porta della stanza, il sollievo e la gioia si sfaldarono di fronte alla realtà quando raggiunse Boden e Antonio Dowson in fondo al corridoio.
   Nella sala d'attesa, gli uomini della Caserma 51 saltarono dalle loro sedie, aggredendolo con domande sulle condizioni di Matt. Frastornato da quell'accoglienza, Kelly fu interrotto dall'arrivo di un medico che portava con sé un'espressione cordiale e un paio di sottili occhiali.
  «Immagino voi siate la famiglia di Matthew Casey» disse il dottore, porgendo la mano a Boden. «Dottor Steven Callighan. Prenderò in cura Matthew.»
  «Wallace Boden» rispose l'uomo stringendo saldamente la mano del medico. «Cosa puoi dirci?»
  «Dunque, dal suo risveglio i parametri vitali sono migliorati ed è stabile. Lo terremo in terapia intensiva ancora per un po'. Il rischio di infezioni non è ancora scongiurato, ma generalmente le sue condizioni sono incoraggianti.»
  Tutti rilasciarono sospiri e sorrisi trattenuti per tre giorni.
   «Quanto dovrà rimanere in ospedale?» chiese Gabriela.
   «Almeno ventuno giorni» rispose Callighan, risistemandosi gli occhiali.
   Di fronte allo sguardo confuso dei due paramedici, lanciò uno sguardo al detective, che annuì e prese parola.
   «Abbiamo concordato con il direttore dell'ospedale che questo è il luogo più sicuro in cui stare per Casey. Metteremo un ufficiale davanti alla sua porta, per sicurezza. C'è il rischio che chiunque sia stato torni a cercarlo, senza contare che non ha una casa in cui stare.»
   Boden passò lo sguardo tra i vigili, prima di concordare. «Ovviamente noi non lo lasceremo solo.»
  Callighan si schiarì la voce, attirando l'attenzione dei presenti. «Ora, se volete scusarmi, ho un paziente da controllare.»
   Congedato, il medico percorse il corridoio, svanendo nella stanza di Casey. Boden non perse tempo, allontanandosi con il detective e il tenente, in modo da non farsi udire dal resto della caserma.
   «Dimmi che avete qualcosa.»
   Il detective scosse la testa, rinfoderando le braccia sul petto. «Per ora ancora nulla, ma ci stiamo lavorando. La casa è abbastanza agibile da cominciare i prelievi della scientifica, ma per i risultati delle analisi bisogna aspettare. Ora che Casey è sveglio, possiamo solo sperare che sappia dirci qualcosa.»
  «D'accordo, prima cominciate meglio è.»
  «Questa è la nostra idea» rispose Antonio scrollando le spalle.
  «Lui che diavolo ci fa qui?» ringhiò Kelly, fissando un punto dietro le spalle del detective, che si voltò e imprecò a denti stretti.
  Hank Voight li approcciò con un cenno del capo. «Comandante.»
  «Voight» lo salutò l'uomo, incrociando le braccia al petto.
  «E' uno scherzo?» sbottò Kelly, fissando Antonio.
  «Sono a capo dell'indagine, Tenente Severide» rispose l'uomo con noncuranza.
  Kelly ignorò il detective, rivolgendo ad Antonio uno sguardo tra lo stupito e il collerico. «Vuoi davvero farlo entrare in quella stanza?»
  «No, sarò io a parlare con Casey» rispose caustico Dowson, lanciando uno sguardo al capo. «Non vogliamo agitarlo.»
  «Allora che diavolo vuoi?»
  «Kelly» lo richiamò a voce bassa Boden. «Nessuna faida, non qui.»
  Voight infilò le mani nelle tasche della giacca di pelle, fissando dritto Severide. «Sono qui per portarti in centrale, ci serve aiuto a capire il nostro piromane. La squadra che avete mandato a liberare il posto ha fatto un buon lavoro, abbiamo già mandato dentro la scientifica e scattato qualche foto.»
  A Severide passarono per la mente una marea di insulti e modi per farla pagare, fisicamente, all'uomo. Quando il caos Voight era scoppiato, lui non aveva saputo intervenire o aiutare Casey, troppo distanti per comunicare davvero. Ora lo aveva di fronte e tutta la rabbia sommersa tornava. Si impose la calma, focalizzando tutte le sue emozioni negative sul responsabile, o i responsabili, di quanto accaduto a Casey.
  Guardò Boden in cerca di permesso. Al suo cenno di assenso, si avviò lungo il corridoio a passo deciso.
  Voight sospirò e si congedò, raggiungendo il tenente.
  «Sai che non me la bevo che vuoi aiutare Casey» disse Kelly, appena prima di salire in auto.
  «Non c'è bisogno che tu lo creda» rispose Voight aprendo lo sportello.


   Severide aveva sfogliato quelle foto più e più volte, fino ad imprimersele in mente. Aveva cercato di compartimentalizzare e restare obiettivo, ma poi vedeva un particolare di quella casa distrutta e sentiva un macigno rotolargli in petto.
  Fu strappato ai suoi pensieri dalla voce roca di Voight.
  «Allora, Tenente?»
  Si ricompose e sparpagliò delle foto sulla scrivania, indicando vari punti per tracciare un percorso. «Il fuoco è partito dal secondo piano. È entrato dalla porta sul retro, ha colpito Casey, poi è salito e ha cosparso tutto di benzina. Questi sono i resti di una tanica che ha lasciato di sopra come accellerante, per essere certo di fare più danni possibile. Ha continuato fino all'uscita e qui» puntò alla foto di un angolo del soggiorno, «vedi questi vetri più spessi? Una bottiglia, forse di birra.»
  «Una molotov?»
  «E' uscito e l'ha lanciata. Non lo troverete in nessun reparto ustionati, il bastardo non si è fatto un graffio.» Senza volerlo, strinse una delle foto tra le dita, rilasciandola quando si accorse del gesto.  
  Voight lo osservò con cura, prima di sospirare e incrociare le braccia al petto.
  «Sapeva quello che faceva. Le telecamere non lo hanno beccato, nessun testimone l'ha visto-»
  Fu interrotto dallo sbuffo irritato di Kelly.
  «-o se l'ha visto non parla» preciso Voight.
  «Perché non chiedi ai tuoi amici
  «Già fatto» disse Voight, fronteggiandolo e mantenendo il suo sguardo. «Come ho detto, non ci sono testimoni.»
  Kelly strinse i pugni sui fianchi, le pupille dilatate e la mascella serrata. Voight fece un passo indietro, alzando le mani in segno di resa.
  «Kelly Severide» sillabò lentamente. «Sembri un uomo che cerca vendetta. Non devo dirti di fidarti del sistema, sarebbe inutile, giusto?»
  «Prendi quel bastardo» ringhiò Kelly, afferrando il fascicolo e voltandosi.
  Voight lo lasciò andare, certo che non ci fosse molto che potesse dire o fare per tenerlo a bada.


.....

   Quando Matt riaprì gli occhi, Boden era seduto sulla sedia e gli sorrideva. Alle sue spalle, Antonio Dowson si staccò dal muro al quale era poggiato e lo fiancheggiò.
  «Felice di vederti sveglio, Matt.»
   Si tirò a sedere con lentezza, graziato dall'effetto dei medicinali.
   «Sono piuttosto resistente, Capo» disse con un sorriso.
  Antonio rise, incrociando le braccia al petto. «Qualcuno direbbe indistruttibile.»
  Matt accettò il bicchiere d'acqua offerto da Boden e lo bevve lentamente, prima di risistemarsi sui cuscini. «Se hai bisogno di una deposizione, è meglio farlo subito.»
  Non aveva idea di quanto avesse dormito dopo aver visto Kelly e di quanto a lungo la morfina gli avrebbe permesso di ignorare il dolore.
  Antonio annuì, tirando fuori dalla tasca il taccuino e la penna.
  Matt reclinò la testa contro il cuscino e cominciò a raccontare tutto quello che ricordava. Raccontò dell'incidente sul ponte: aveva notato l'uomo agitarsi e urlare ed era corso a calmarlo, ovviamente senza successo; tra le urla era riuscito a capire la dinamica dell'incidente, prima di finire sbalzato oltre la balaustra. Passò poi a raccontare di come quella mattina si era svegliato per andare in Caserma ed era stato aggredito dal figlio del suddetto uomo, adducendo come movente il bisogno di difendere il padre dalla prigione.
   Quando finì, Antonio tamburellò la penna sui fogli, prima di  lanciare uno sguardo a Boden. Il Comandante reclinò la testa in direzione della porta, spingendo il detective a rinfoderare il tacuino.
  «Bene, Matt, ci sei stato molto utile. Tra qualche ora manderemo un disegnatore per l'identikit, se te la senti.»
  «Scherzi? Voglio chiudere questa storia» disse con voce più roca, la stanchezza e il dolore che cominciavano a prevalere sulla razionalità.
  Seguì con lo sguardo Antonio uscire, prima di rivolgersi a Boden, ogni traccia di sorriso cancellata da un'espressione tesa. C'era un'idea che si era insinuata nella sua mente e non voleva abbandonarlo, l'immagine di una persona che tornava a perseguitarlo. Cercò di controllare la rabbia e di non farla trasparire dalla voce.
  «So che probabilmente Voight è a capo delle indagini» cominciò, aspettando che Boden annuisse per continuare. «Lo posso accettare...ma deve farmi un favore.»
  «Quello che vuoi, Matt.»
  «Lo tenga lontano da Severide.»
  Boden lo guardò con un misto di sorpresa e tristezza, ma annuì. «Stai tranquillo.»
  Matt si sforzò di rimanere vigile, ma Boden colse i segni della sua recita molto velocemente e si congedò, lasciandolo al suo riposo. Chiuse gli occhi, sperando che al suo risveglio non ci sarebbero stati brutti ricordi e domande scomode, ma un paio di occhi lucidi e un sorriso che cominciava ad anelare come aria.
 

   June l'infermiera gli aveva detto che Matthew stava dormendo e che probabilmente non si sarebbe svegliato per le prossime due o tre ore, per via di tutte le medicine che gli circolavano nel corpo. Kelly aveva scrollato le spalle ed era entrato, richiudendo la porta. Non aveva bisogno che Matt fosse sveglio, gli bastava vederlo.
   Aveva passato il giorno a correre dietro ad Antonio e Voight, a controllare e ricontrollare la casa di Casey. Era stremato e frustrato dal silenzio delle indagini. La scientifica aveva rinvenuto diverse impronte sulla porta forzata dall'agressore, ma il riscontro aveva portato solo allo stesso Casey e ad un vicino che lo aveva aiutato in alcuni lavori.
   Smettila di correre dietro ai responsabili, gli aveva detto Shay. Va da lui.
   Così era uscito dal parcheggio della Caserma e aveva guidato fino all'ospedale.
  La stanza era silenziosa e l'unica fonte di luce veniva da una piccola lampada a neon posta sulla porta, oltre la quale echeggiava il suono ovattato di suole di gomma e piccole ruote.
  Kelly passò i polpastrelli sul casco poggiato sulle gambe, fermandosi a lisciare i contorni della stampa gialla: CASEY. Glielo avevano consegnato in ospedale dopo l'incidente del ponte, insieme alla divisa; da allora Kelly aveva tenuto il casco in auto, senza realmente farsene un problema.
  Matt teneva gli occhi chiusi, il petto che si alzava ed abbassava regolarmente, dando all'ambiente asettico e statico una parvenza di vita e movimento. Kelly si sporse a carezzargli i capelli, sfiorando di poco il bozzo sulla tempia, dove i punti spessi e neri davano un'aspetto grottesco alla pelle arrossata. Malgrado ciò, a Kelly non era mai sembrato più bello.
  Spostò la mano sul collo e sulla linea della mascella, perdendosi a contemplare tutto ciò che non aveva mai avuto il coraggio di vedere, non così. Non poteva davvero credere che fosse lì, vivo, che quegli occhi l'avessero ancora guardato con lo stessa luce limpida. Sorrise, certo che non avrebbe mai potuto provare nella sua vita una gioia paragonabile a quella di poche ore prima, quando Matt aveva finalmente aperto gli occhi e gli aveva sorriso.
   Ritirò la mano quando lo vide muoversi e risistemarsi, ancora nel sonno, voltando la testa verso di lui. Lo guardò a lungo, prima di prendere il casco e poggiarlo sul comodino. Si bloccò, indeciso se fare ciò che sentiva con estrema necessità di dover fare. Scosse la testa e lasciò andare ogni pensiero, chinandosi e posando le labbra sulla fronte liscia di Matt. Si morse il labbro inferiore, sospeso sul suo volto, e si chinò ancora per lasciare un leggero bacio sulle labbra.
  «Buonanotte, Matt» bisbigliò, prima di uscire e tornare a casa. Forse, si disse, questa volta sarebbe riuscito a dormire.


   Matt si svegliò nel mezzo della notte, strappato all'incoscienza da un incubo fin troppo reale. Si guardò attorno, quasi aspettandosi di vedere fiamme e fumo avvolgere il suo letto. Rassicurato dalla stanza vuota, si passò una mano sul volto. Era stato vicino a credere di essere realmente ancora in quella casa e di non riuscire a muoversi, sveglio ma paralizzato.
  Si tirò a sedere e passò i polpastrelli sul braccio fasciato, lo sguardo rivolto al cielo scuro nascosto dietro le tende.
  Sembrava che la sua mente si divertisse a torturare se stessa, proponendogli scenari sempre più crudeli. In quest'ultimo, c'era Severide, ed era così dannatamente tangibile che non si sarebbe sorpreso se lo avesse trovato accanto al letto. C'erano così tante cose che avrebbe voluto dirgli, così tanti nodi da sciogliere, che non sapeva da dove cominciare.
  Prese il bicchiere d'acqua dal comodino, e le sue dita incapparono in un oggetto che aveva imparato a conoscere come il retro della propria nuca.
  Lo afferrò e lo portò in grembo, saggiandone le linee così familiari. Il suo casco, l'unica protezione tra un soffitto e la propria testa, era lì tra le sue mani e lui non aveva nessun dubbio su chi lo avesse portato.
   Chiuse gli occhi, saggiandosi il labbro inferiore. Si stupì a riuscire a richiamare il sapore del bacio di ore prima, quasi fosse passato solo un attimo.
  Sorrise e si stese, sperando che quel casco potesse in qualche modo proteggere anche la sua mente.












Note: Grazie a voi che mi lasciate sempre un commento incoraggiante, questa storia sta andando avanti grazie a voi (i blocchi sono brutte bestie e a volte serve solo una spinta). Ho già pronti un bel po' di capitoli e la storia sta iniziando ad andare oltre quello che avevo pianificato. Accidenti, mi sono divertita così tanto a scrivere poche altre volte in passato! A costo di essere ripetitiva, grazie di cuore!
  PS: Vi assicuro che i tempi dell'annusarsi a vicenda, del guardo ma non tocco e dei sì ma anche no stanno finendo per i due tenenti. In fondo, all you need is love, right?
  See you soon.
  Alex.

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Capitolo 9
*** Le luci di Chicago ***


9
Le luci di Chicago







   Kelly non era una persona mattiniera. Quando la sua sveglia suonava, lui sapeva immediatamente che doveva prepararsi per il turno e usciva adagio dal letto, cominciando con calma il rituale mattutino. Calcolava i tempi al solo scopo di non essere costretto a sprecare ore di prezioso sonno.
  Quella mattina, tuttavia, si alzò con un anticipo di due ore. Il sole non era ancora sorto quando si srotolò dalle coperte e barcollò fino al bagno, sbattendo nel percorso contro lo spigolo di un mobile, che meritò una colorita imprecazione. Massaggiandosi il bacino contuso, cominciò a prepararsi e riemergere dal sonno.
  Quando si guardò allo specchio dopo una lunga doccia, capì di non essere molto presentabile. Sebbene il giorno prima non fosse di turno, si era stancato più del previsto. Era andato alla stazione per avere notizie sulle indagini, era tornato nella casa di Casey per un controllo, poi aveva portato una tardiva colazione al biondo, e ancora stazione, casa di Casey, ospedale. Aveva concluso il tutto con un losco giro per i sobborghi con Antonio e Voight, mostrando alle facce più brutte della città quella dell'identikit.
  Tutto inutile, come sempre.
  Salì in auto mezzora e due caffé dopo, diretto all'ospedale.
  Le infermiere si erano arrese alle sue visite non programmate, stanche di ripetere che c'era un orario da rispettare; un po' perché comprendevano fosse difficile per un vigile del fuoco adattarsi a orari ristretti, un po' perché Kelly non aveva dato adito a proteste.
  Così quando passò accanto alla postazione delle infermiere, fu accolto solo da un paio di teste che si sollevarono e riabbassarono con un sbuffo. Camminò tranquillamente fino al corridoio che ormai conosceva bene, dirigendosi alla stanza 131.
  Lì venne bloccato da June, che scuoteva animatamente la testolina castana.
  «Il dottore è dentro.»
  «Qualcosa non va?»
  June sembrò ponderare se spiegarsi o meno, poi lo prese per un gomito e lo allontanò.
  «Il dottor Callighan si è consultato con un chirurgo, il dottor Gale. Stanno pensando di provvedere a un innesto cutaneo sull'addome e parte del fianco.»
  «Okay...» mormorò Kelly, non certo di capire fino in fondo cosa comportasse. La porta della stanza si aprì e June fece qualche passo indietro, girandosi poi e avviandosi verso la postazione delle infermiere, come se non sapesse esattamente cosa fare.
  Il dottor Gallighan la seguì con lo sguardo, prima di essere approcciato dal tenente.
  «Dottore, tutto okay?» chiese, indicando con un cenno del capo la stanza.
  «Volevo annunciarlo a tempo debito» disse il dottore con lieve disappunto. «Visto che è qui... Matthew ha dato il consenso per un'operazione di ricostruzione. Intendiamo operare un autotrapianto per aiutare la guarigione dell'ustione più profonda. Preleveremo una sezione rettangolare dalla coscia sana e la trapianteremo sulla parte lesa di addome e fianco. Sono già passati cinque giorni dall'incidente, se operiamo adesso gli esiti cicatriziali saranno minori. Questo aiuterà non solo dal punto di vista estetico, ma anche funzionale.»
  «E' sicuro operare adesso?»
  «Certo. È sveglio da due giorni senza complicanze e i suoi parametri vitali sono abbastanza buoni da poter reggere molto bene un'operazione.»
  Kelly si massaggiò il collo, pensando esattamente a cosa dire a Matt. L'idea che tornasse sotto i ferri non gli piaceva, malgrado avesse abbastanza conoscenze da sapere che la sua vita non era più in pericolo.
  «D'accordo, grazie dottore.»
  Raccolse i suoi pensieri ed entrò nella stanza. Sobbalzò quando, invece del corpo placidamente posato sul materasso, trovò Matt seduto sul bordo del letto con le mani salde sulle lenzuola e i piedi che sfioravano il pavimento. Il biondo alzò lo sguardo e i suoi occhi si allargarono come quelli di un bambino colto a disubbidire. Subito si rilassò, abbassando le spalle e aprendo un piccolo sorriso sul volto.
  «Sei sicuro di poterlo fare?» chiese Kelly richiudendo la porta. Sventolò in aria il sacchetto di carta che aveva con sé e lo poggiò sul materasso.
  «Dovrei starmene steso a letto per le prossime due settimane?»
  «Lucy-rossa che dice?»
  Matt rise al soprannome che Kelly aveva scelto per la sua fisioterapista.
  «Per lei dovrei continuare a farmi piegare gomiti e ginocchia come una bambola.»
  Kelly storse le labbra, decidendo di non argomentare sul bisogno di Matt di riprendere in mano la propria vita ed essere indipendente, malgrado vedesse il dolore sbiancargli il volto. Si sedette sulla sedia di fronte a lui e chinò di lato la testa per indicare il sacchetto non ancora degnato d'attenzione.
  Matt lo aprì e scrutò l'interno, prima di inarcare le sopracciglia. «E' quello che penso io?»
  «Esattamente quello che pensi tu. I migliori pancake di Chicago.»
  Il biondo rise, estraendo il contenitore di plastica e poggiandolo sul tavolino. «Non sono i migliori, solo quelli più vicini all'accademia.»
  «In realtà, sono quelli a metà strada tra una notte da leoni e l'accademia.»
  Entrambi risero al ricordo delle colazioni fatte da King Kong, la piccola rosticceria che frequentavano ai tempi dell'accademia. Kelly premette il pulsante per sistemare il letto in modo che Matt potesse sedervici senza fare sforzi, quindi prese le forchette e i piatti dalla busta e servì entrambi. Mentre mangiava, lanciava rapide occhiate all'altro, notando come spiluccasse in cibo con poco interesse.
  «Ho parlato con Callighan» disse con nonchalance, ingoiando un boccone e controllando le sue reazioni. «Quand'è che ti operano?»
  Dal modo in cui Matt frenò la forchetta a mezz'aria, Kelly seppe di aver toccato il punto della sua distrazione.
  «Domani.»
  Per un paio di minuti non disse altro e lui pensò non avesse intenzione di farlo, finché non poggiò il piatto ancora pieno sul comodino, risistemandosi sui cuscini. «Mi terranno fermo per almeno cinque giorni dopo l'intervento e ci vorrà un mese perché la guarigione sia totale.»
  «Ma così potrai tornare a lavoro in non più di un mese, no?»
  Matt accennò un breve sorriso, tradito dagli occhi cupi.
  Kelly gli prese la mano, attirando il suo sguardo. «So che vorresti solo uscire di qui e mandare tutto a quel paese.»
  Il biondo attese che finisse di parlare e, quando capì che aveva finito, rise di cuore.
  «Sei un disastro con le consolazioni.»
  Kelly si chinò e lo baciò, cogliendolo di sorpresa. Gli ci volle un attimo per rispondere, stringendogli più forte la mano. «Meglio?» chiese sulle sue labbra.
  «Giusto un po'.»
  Il tenente tornò ai suoi pancake, abbandonandosi alla sedia come fosse una comoda poltrona davanti ad un focolare. Matt lo osservò attentamente, notando tutti i segni di stanchezza che conosceva apparire su quel volto quando qualcosa occupava la sua mente. Li riconosceva immediatamente, dopo anni di lavoro insieme. In quel momento pensò di chiedergli delle indagini, ma c'era qualcos'altro che gli premeva di più, un argomento che non poteva più essere evitato.
  «La mattina dell'incendio dovevo andare in Caserma per parlare con Boden.»
  «Lo so» rispose Kelly, alzando uno sguardo confuso dal piatto.
  «Se non fosse successo quello che, bhe, è successo, dopo sarei venuto a parlare con te.»
  Lo vide irrigidirsi e scrutarlo all'angolo degli occhi, mentre tornava a infilzare i pancake.
  «Dobbiamo parlare, Kelly» disse con fermezza.
  Il moro posò la forchetta e lo guardò come se lo avesse appena colpito in pieno viso. Si massaggiò il collo e tentò un sorriso. «Sì, certo. Uhm...okay, non sono un asso in queste cose.»
  Matt non rise, non rispose al suo tentativo di alleggerire la situazione, ma continuò a guardarlo dritto attendendo che parlasse. Anche se non gli fosse piaciuto quello che avrebbe detto, anche se Kelly avesse fatto un passo indietro, Matt non poteva più aspettare.
   Cominciava a credere che non avrebbe più parlato, quando un trillo acuto li destò entrambi. Kelly tastò le tasche della giacca, fino a trovare il cellulare.
  Quando lesse il numero, Matt vide qualcosa di cupo passargli negli occhi.
  La conversazione durò poco e, dalla parte di Kelly, fu solo un annuire seguito da un arrivo deciso.
  «Devo andare» annuciò, alzandosi e guardando con frenesia i piatti e i fazzoletti sparsi. «Torno stasera con un hamburger.»
  «Devo rimettermi in forma, non prendere dieci chili.»
  Kelly rimase incerto, la mente che correva altrove.
  «Stasera, okay? Parlaremo stasera.»
  Il biondo abbandonò la schiena ai cuscini. «Vai, Severide» lo incitò.
 
 




  Attraversando i corridoi della stazione di polizia, Severide si ritrovò a camminare così velocemente da sfiorare la corsa. Nella sua mente le parole di Matt rimbalzavano, scontrandosi con l'annuncio di Antonio. Si fermò e scrollò le spalle per riprendere controllo, prima di aprire le porte e avvicinarsi all'ufficio di Voight. All'interno lo trovò attaccato al telefono, un'espressione contrita sul volto, e Antonio in piedi ad attendere con le braccia giunte sul petto.
  Quando Voight ebbe riattaccato, si alzò e fece il giro della scrivania, sedendosi poi sul bordo.
  «Allora? Li avete presi?»
  I due uomini si scambiarono uno sguardo, poi Voight fece un cenno del capo al più giovane, che prese un fascicolo dalla scrivania e lo passò al tenente.
  Kelly lo aprì, trovandosi davanti la foto di uomo, l'identikit descritto da Casey attaccato sopra con una graffetta.
  «Tenente Severide, faccia la conoscenza di Anthony Messer» disse Voight sarcastiamente. «Piccolo delinquente e ora aspirante piromane.»
  Il tenente guardò Voight, poi Antonio.
  «Abbiamo mandato in giro l'identikit, non trovando nulla qui. Un paio di ore fa mi chiama questo amico da New York e mi dice che conosce bene questo tizio, che lo ha arrestato personalmente un paio di volte. Tutti reati minori, è un piccolo delinquente. Qualche mese fa la madre muore e lui perde il lavoro, così viene a stare qui dal padre che è rimasto solo.»
  «Johnny Messer» intervenne Voight, facendo cenno a Kelly di sfogliare il fascicolo. La foto era di un uomo sui cinquanta, occhi grigi e volto pallido. «Lui non ha mai toccato manco un gatto, ha rigato così dritto da avere sì o no due multe per eccesso di velocità risalenti a vent'anni fa.»
  Kelly, rimasto in attonito silenzio, chiuse di colpo il fascicolo e lo lanciò sulla scrivania. Dei dettagli non gli importava nulla, voleva solo arrivare al sodo. «Okay, dove sono?»
  Antonio guardò Voight e sospirò. «Al momento non ne abbiamo idea. Siamo andati al domicilio del padre, ma sembra abbiano lasciato la casa.»
  «Che vuol dire?»
  Voight si staccò dalla scrivania e si avvicinò al tenente. «Vuol dire che si nascondono in qualche buco o che hanno preso il volo.»
  Kelly non era certo di riuscire a mantenere il proprio pugno lungo il fianco. Qualcosa nell'espressione di Voight gli suonava come una sfida.
  «Abbiamo diramato un avviso di cattura» disse Antonio, annusando la tensione. Voight fece un passo indietro, gli occhi sempre fissi sul tenente. «Ora non possono uscire da Chicago senza che lo sappiamo, ma non possiamo essere sicuri che non siano già andati via.»
  Sentendo il mondo scivolargli dai piedi, Kelly non seppe se era sul punto di piangere o urlare. Respirò a fondo, cercando di comporsi. Aveva passato una settimana a covare quella rabbia e ora che l'obiettivo era stato identificato, lui era impotente.
  «Quindi ora cosa facciamo?»
  «Noi continueremo a chiedere in giro e a fare le nostre indagini» rispose Voight. «Tu torni al tuo lavoro e cerchi di metterti l'anima in pace. Non c'è niente che tu possa fare, al momento.»
  Decisamente troppo, pensò Kelly. Si vide bene dal colpire Voight proprio lì nel suo ufficio. Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma vedere Voight in azione gli aveva dimostrato quanto sapesse fare il suo lavoro, anche se nei modi sbagliati. Se c'era qualcuno che poteva arrivare ai Messer era lui.
  Fece un passo indietro prima di rischiare di compromettere tutto, tentato ancor più dalla faccia di Voight che sembrava reclamare i suoi pugni.
  «Dai, ti accompagno» si offrì Antonio, spronandolo a lasciare l'edificio in sicurezza.
  Una volta fuori, Kelly intrecciò le dita dietro la nuca nel tentativo di contenersi, prima di colpire un cestino vicino.
  «Okay, immagino che questo sia il danno minore» disse sarcasticamente Antonio. Lo vide rivolgergli uno sguardo che, malgrado la rabbia, era di scusa, per poi salire in auto e ripartire ferocemente.
  Sospirò, saggiando la propria frustrazione. Quando tornò da Voight, l'uomo aveva perso il suo solito ghigno e aveva un'espressione tesa sul volto.
  «Quello lì» disse indicando la porta dalla quale Severide era uscito. «Un giorno finirà col farsi ammazzare.»
  Antonio sbuffò una risata, abbandonandosi pesantemente alla sedia. «E' quello che dicono anche di te, da anni.»

......


  Antonio Dowson entrò nel piccolo bar e subito sentì il bisogno di scrollarsi di dosso il cappotto. L'aria era pesante e congestionata, rendendo l'ambiente privo di riscaldamenti estremamente accaldato.
  Si sedette su uno sgabello, poggiando il giubotto di pelle su quello accanto, e ordinò una birra. In attesa, scrutò i dintorni, notando appena tre tavoli occupati. Nessun volto gli destava allarme. Estrasse il cellulare e inviò un messaggio, riponendolo con un ghigno. Quando il barista gli stappò una birra, la porta alle sue spalle si aprì, colpendogli la nuca con una folata del freddo vento di Chicago. Alla periferia del suo campo visivo, riconobbe immediatamente l'andatura nervosa.
  «Come lo hai capito?» chiese Kelly scivolando sullo sgabello accanto al suo, il cellulare aperto sul messaggio.
 «Che mi stavi pedinando?» sbuffò Antonio. «Amico, sono un polizziotto.»
 Fece cenno al barista di portare un'altra birra e posò la propria, prima di voltarsi e scrutare Kelly. Riconobbe subito un pattern che aveva visto alla specchio mille volte: occhi arrossati, occhiaie violacee e pelle tesa. Attese che avesse la possibilità di confortarsi con una birra, prima di parlare.
  «Come sta Casey?»
  Kelly esito con le labbra sull'orlo della bottiglia, prima di bere un lungo sorso.
  «Meglio. Senti, sia tu che io sappiamo perché sono qui» tagliò corto, fissandolo con decisione.
  Antonio scrollò le spalle, poi controllò l'orologio. Era indeciso quanto fosse opportuno dire al tenente. Da lì a mezzora il suo informatore sarebbe entrato nel bar e lui non era certo di riuscire ad allontanare Kelly in tempo, se glielo avesse detto. Aveva sempre l'opzione della minaccia di un arresto per ostacolo alle indagini, cosa che non avrebbe mai fatto ma che Severide non poteva sapere per certo.
  Non si fidava del tenente, malgrado fosse convinto che le sue intenzioni fossero buone. Voleva giustizia per il suo amico e lui poteva capirlo fin troppo bene, così come sapeva che il confine tra giustizia e vendetta è labile e, a volte, perseguendo l'una si finisce intrappolati nell'altra. Antonio, dal canto suo, voleva solo assicurarsi che nessun ostacolo rovinasse le indagini.
  «Non lo so, Severide. Io sono qui per prendere una birra. Tu?»
  Kelly sbuffò una risata, voltandosi sullo sgabello per osservarlo.
  «Mi prendi in giro? Devo credere che non sei qui per incontrare qualcuno, magari qualcuno che per una volta sa qualcosa? Ti ho visto parlare con Voight. Ti ha mandato lui qu, no?»  
  «Non sono affari tuoi, e te lo dico da amico. Quello che potevi fare lo hai fatto e non è stato poco.»
  Il tenente sbattè una mano sul bancone, facendo sobbalzare i presenti.
  Antonio rimase impassibile e, dopo aver lasciato delle banconote davanti al barista, si alzò e afferrò il giaccone. «Senti, ti do un consiglio da amico» disse squadrando Severide dall'alto. «Io so cosa stai provando, ci sono passato.» Ignorò il suo sguardo scettico e continuò: «Noi siamo gli agenti e noi indaghiamo. Tu hai un solo compito ed è stare vicino al tuo amico. Guardati, sei qui a corrermi dietro e a fare domande in giro, per cosa? Mentre tu sbatti in giro la tua rabbia, il tuo amico, collega, compagno d'armi è da solo in un ospedale. Hai di meglio da fare che annusare eringhiare per tutta Chicago come un cane rabbioso. Il meglio che puoi fare ora è tornare a casa, farti una bella dormita e tornare in te.»
  Quando lo vide abbassare le spalle e distogliere lo sguardo, ogni traccia di rabbia che scivolava via, capì che forse aveva colto nel segno. Indossò la giacca e uscì.
  Cinque minuti dopo, nascosto in un vicolo, vide Kelly uscire dal bar e salire in auto. Sorrise, sperando di aver messo un po' di pace nel cuore dell'uomo, prima di tornare nel bar e attendere un altro informatore dirgli per l'ennesima volta che non conosceva i Messer.



......



Il corridoio dell'ospedale sembrava lungo come il viale da qui all'infinito. Kelly non riusciva a vederne la fine, ma sapeva di dover andare. I suoi passi non producevano eco sulle pareti. Non se ne curò. Una sola porta scintillava sulla destra e lui sapeva di dover girare la maniglia.
  Da qualche parte oltre il bianco, proveniva l'eco della voce di Heater e le risate dei ragazzi di Darden. Erano felici. Kelly chiese perché, ma nessuno rispose.
  Poggiò la mano sulla maniglia e la ritirò subito. Era incandescente. La porta si aprì e quando entrò, il letto era vuoto, tranne per un uomo seduto avviluppato in un camice bianco.
  Andy rise e alzò la testa, fissandolo con occhi scintillanti. La porta si chiuse con uno schiocco secco, portando via con sé le voci e le risate.
  Kelly scoprì con orrore di non poter parlare e gli sembrò di avere così tante domande da esserne sommerso.
  «Non c'è un'altra occasione, Kelly. Questo è l'ultimo colpo che hai.»
  Le tende dietro le spalle di Andy vennero via, tirate da una mano invisibile, rivelando oltre i vetri un muro di fiamme.
  «Quando entri in una casa in fiamme, correre ti ammazzerà. Fermarti a pensare troppo, farti troppe domande, ti ammazzerà. L'unica possibilità che hai è guardarti attorno e sapere a ogni passo cosa perderai.»
  Un urlo esplose oltre le finestre. Kelly riconobbe in quel boato la propria voce.

 
   Severide spalancò gli occhi, emergendo dall'inquieto dormiveglia. Si strofinò il viso con una mano, cercando di lavarsi via il sonno e quel sogno così reale.
   Cambiò posizione, incontrando qualcosa di duro sotto il gomito. Svegliato completamente da quella sensazione, si accorse di essere in una delle sale d'attesa dell'ospedale, sdraiato sulle sedie di plastica. Si alzò a sedere, scrocchiando il collo indolenzito e stirando le braccia sulla testa. Non ricordava di essersi addormentato, ma di certo il suo corpo doveva aver reclamato a lungo un po' di sosta.
  «Buongiorno.»
  Alzò lo sguardo e incontrò il viso pallido ma sorridente di Matt. Vestito con il camice ospedaliero -Kelly odiava intensamente quegli stupidi disegni blu- era seduto sulla sedia a rotelle, accompagnato da una flebo e un'infermiera. Rivolse un rapido cenno alla ragazza che uscì in silenzio.
  «Qualcuno mi ha detto che un vigile stava occupando la sala d'attesa» annunciò con un sorriso beffardo.
  «Uhm, sì, credo...credo di essermi addormentato.»
  «Perspicace come sempre.» Matt rise e girò la ruota della sedia quanto bastava per avvicinarsi.   «Perché non mi hai svegliato? So che vedermi dormire deve essere uno spettacolo, ma hey da sveglio sono meglio.»
  Kelly inarcò le sopracciglia, prima di sbuffare una risata.
  «Com'è che Jeff non ti ha seguito?» chiese Kelly, controllando la porta per esser certo che l'ufficiale mandato da Antonio non fosse nei paraggi. Tutto il rispetto per il ragazzo, ma era un po' troppo caustico e giovane per i suoi gusti. La prima volta che l'aveva visto davanti alla stanza di Matt, aveva dovuto mostrargli il distintivo, come se la divisa non fosse abbastanza.
  «Credo non abbia dubbi che non lascerò l'ospedale in queste condizioni. Voglio dire, non credo che questo camice resisterebbe a un po' di pioggia e vento. Non ho voglia di correre per Chicago con il sedere al vento.»
  Kelly rise mentre si alzava e stirava la schiena. Non aveva intenzione di andarsene. Dopo le memorie e i sogni che continuavano ad assalirlo, nascondendo messaggi incomprensibili, non aveva alcuna voglia di tornare a casa, solo e frustrato.
  «Caffé?»
  Matt alzò la testa e annuì, prendendo a staccare con cura la febo.
  «Woa, che fai? Non credo dovresti farlo.»
  «Da quando Kelly Severide segue le ricette mediche?» lo canzonò Matt. «Sono solo vitamine e sali minerali. Passerò dopo a riprenderla, sono sicuro che nessuno la ruberà.»
  Kelly rise e afferrò i manubri della sedia, cominciando a spingerla lungo il corridoio, fino a fermarla accanto alla macchinetta.
  «Tutto okay?» chiese il moro, scrutando Matt all'angolo del suo campo visivo.
  «Sicuro» rispose velocemente Matt, prima di reclinare la testa in direzione del bicchiere di caffé che andava riempiendosi. «Certe cose non cambiano mai, eh?»
   Severide guardò il bicchiere come fosse un corpo estraneo. Era una cosa automatica, quella di riempire di zucchero il proprio caffé ogni volta che si sentiva agitato. Matt lo sapeva bene, perché era stato lui a farglielo notare.
  «Voglio farti vedere una cosa» annunciò Matt con un piccolo sorriso, afferrando il bicchiere e poggiandolo tra le gambe. «Segui le mie indicazioni, okay?»
  Kelly non aveva idea di cosa avesse in mente, ma eseguì. Spinse la carrozzina fino a un ascensore di servizio, molto più piccolo di quelli tipicamente riservati ai pazienti. Sul cartello c'era l'avviso di non entrare se non autorizzati e, quando Kelly guardò Matt interrogativo, lui si limitò a sventolare una mano in aria.
  Entrati nella cabina, salirono fino al penultimo piano, uscendo in un corridoio isolato. Percorrendolo, si trovarono affiancati dalle porte di ufficili privati.
 I dottori che incrociarono erano tutti troppo stanchi per dar peso alla loro presenza; un paio scambiarono cenni del capo con Matt, e Kelly realizzò che Hellie doveva averlo portato lì. Sentì una strana amarezza in gola.
  «Qui» disse Matt, quando giunsero di fronte a un'ampia vetrata con tende opache. Kelly aprì un'anta, incontrando l'aria fresca della notte.
  La balconata era isolata e le tende permettevano privacy e silenzio. Sopra di loro solo il cielo e sotto il parcheggio semivuoto dell'ospedale. Matt si fece spingere fino alla balaustra, poggiandovi sopra il bicchiere di caffé. Alzò il braccio sano, afferrando il corrimano e puntando il piede a terra.
  «Woa, aspetta» intervenne Kelly, facendogli scivolare un braccio intorno alla vita. Lo aiutò a tirarsi su, cercando di non far stridere le garze. Non dovette essere facile per Matt trattenere un urlo, ma Kelly si aspettava una tale caparbietà. Ne sorride, guardandolo poggiare tutto il peso sull'avabraccio posto sulla balaustra.
  Un brivido lo scosse e solo allora Kelly registrò il freddo della notte.
  Si tolse la giacca e lo aiutò ad infilare il braccio sinistro.
  «Grazie» disse Matt, sorridendo. «Anche se fa molto cavaliere.»
  «Che vuoi che ti dica? Sono un gentiluomo.
  Tornarono ai loro caffé e al silenzio, lasciando che l'eco delle loro risate scivolasse nell'aria.
  «Mi piace questo posto» mormorò Matt strappandoli alla loro trance. «Voglio dire, ogni volta che potevo venivo qui, sai mentre Hellie finiva un turno o cose del genere.» Nel momento in cui il nome della sua ex fidanzata toccò le labbra, Matt distolse lo sguardo. «Qui ho preso alcune delle decisioni più importanti.»
  «Ad esempio?» chiese Kelly, schiarendosi la voce. Gli occhi fissi sul profilo di Matt erano pieni di aspettativa e ansia, come se sentisse che qualcosa era nell'aria. La quiete della notte non aiutava a debellare quella sensazione di calma prima della tempesta.
  «Come ad esempio se lasciarla o no.»
  Seguì uno strano silenzio che non era imbarazzato, ma teso.
  Kelly poggiava i gomiti alla balaustra di ferro, lanciando rapide occhiate al biondo. Sul viso di Matt era dipinto un lieve cipiglio, non quello tipico di una rabbia sommersa, ma il tipo che assumeva quando cercava di metabolizzare qualcosa. Cercò di seguirlo con lo sguardo, incontrando solo le luci distanti della città. Nella sua mente l'enigma di quel sogno, che pian piano svaniva nella nebbia, si sovrapponeva al mistero oltre quello sguardo e quelle parole. C'era un misto di contemplazione e fervore nei suoi occhi, qualcosa che gli faceva sentire una strana pressione alla base della nuca.
  «Cosa...» si schiarì ancora la voce, maledicendosi per il suono debole in cui si era rotta. «Cosa stai decidendo, ora?»
  Matt voltò la testa e lo fissò con occhi così grandi e scuri da disarmarlo. «Posso fidarmi di te? Dopo tutto quello che è successo, dopo...dopo Darden, Heater...posso fidarmi di noi? Posso fidarmi del fatto che non rovineremo tutto?»
  Kelly si sentì colpito al petto. Eccolo, il momento della verità era arrivato, quel momento che negli ultimi due giorni aveva cercato di schivare. Lui sentiva una spinta pura e semplice verso Matt, qualcosa che trascendeva la fiducia e la paura. Dopo averlo perso, avrebbe accettato di buon grado il rischio di perderlo ancora, se fosse servito ad averlo davvero. Sul campo, si fidava di lui fino al midollo e sapeva che avrebbe imparato a fidarsi in ogni altro campo, se solo lui gli avesse aperto le porte. Ma conosceva Matt...poteva dargli torto se non aveva più quella fiducia in lui? La verità era che non poteva biasimarlo se mai avrebbe potuto fidarsi di lui abbastanza da costruire qualcosa.
  Abbassò lo sguardo, desiderando avere anche una sola prova che lo convincesse.
  «Dimmelo tu» rispose alla fine. «Puoi fidarti? Perché io ti conosco, Matt, e lo so che questo non ha alcun senso se non puoi fidarti. Non ha futuro...»
  Matt soppesò le sue parole, serrando le labbra secche colpite dalla brezza. Malgrado il freddo, sentiva un intenso fuoco imporporargli il collo e il petto, nulla a che vedere con le ustioni. Fissò lo sguardo in quello di Kelly, cercando la risposta a quella domanda. Aveva senso, in primo luogo, porsela?
  «Lo so a cosa stai pensando...C'è la Caserma, il lavoro e...è  passato troppo astio sotto il ponte, no? Se roviniamo questo» continuò Kelly, la voce più bassa e tormentata. «Matt, se roviniamo quello che ora c'è...»
  «Non potremo tornare indietro» concluse lui, annuendo di riflesso.
  Guardò ancora la città in lontananza, le luci di una Chicago che aveva conosciuto così bene. Essere lì, circondato dal buio, e vedere quelle luci così piccole, riusciva a mettere ogni cosa in prospettiva.
  Riusciva a sentire la pressione sotto la pelle di Kelly e il suo bisogno di afferrarlo, di dimostrare con i fatti e con il tempo le sue ragioni. Poi sentiva la pressione in fondo alla propria mente, la paura  e il groviglio di emozioni. Era sempre stata lì, stipata in un angolo a crescere in silenzio. Il bisogno di Kelly era nato quando l'aveva visto per la prima volta ed era rimasto silente, fino ad esplodere.
  «Quando Andy è morto...» mormorò, fissando la luce intermittente di un'ambulanza in lontananza. «Quello è stato uno dei giorni più brutti della mia vita. Ho perso un amico, una relazione stabile, la fiducia nelle mie capacità di leadership, e te.»
   Kelly annuì piano, stringendosi le mani e disegnando cerchi con i pollici nei palmi. «Siamo stati dei coglioni, abbiamo rovinato tutto. Andy ci avrebbe preso a calci in culo.»
  «Puoi scommetterci che l'avrebbe fatto.»
  Una risata triste riempì l'aria, rompendosi a metà come una canzone sbagliata.
  «Ogni volta che credevo di fare dei progressi» disse Matt, «tu facevi qualcosa che mi mandava in bestia. E ogni volta che mi offrivi una mano, io la ignoravo perché avevo altro per la testa.»
  «Direi che il tempismo non è il nostro forte.»
  «No, affatto. Come altre cose...»
  Ed era lì il nodo al quale tutti gli altri venivano, quello che li bloccava tutti, impedendo loro di raggiungere il bandolo della matassa. Kelly e Matt, Matt e Kelly...poteva davvero funzionare? Poteva non essere un suicidio programmato, una futura folie-à-deux?
  «Nell'incendio...» disse Matt, sentendosi sull'orlo delle lacrime. Cercò di ingoiare il groppo alla gola, sentendo quel calore sempre più forte. «L'ho visto, intendo Darden.»
  Quando i suoi occhi tornarono su Kelly, lo vide esitare, prima di sbuffare nervosamente. «Non ce ne libereremo mai, eh?»
  «Temo di no» rispose con un piccolo sorriso. «Mi ha detto...mille anni o anche solo un secondo.»
  «Cioè?»
  «La vita è breve, Kelly. Dannatamente breve. Un giorno ci sei con tutti i tuoi problemi e il giorno dopo...ti rendi conto che ci sono poche cose importanti nella vita.» Fece uno sforzo immenso per sollevare il braccio destro, ma alla fine riuscì ad afferrare il l'avambraccio di Kelly e a stringerlo con forza.
  C'erano stati in passato mille motivi che gli sorgevano alla mente e bloccavano ogni sua iniziativa. Avrebbe potuto buttarsi in qualcosa che, lo aveva sentito, sarebbe stata magnifica. C'era la fama di Severide il donnaiolo, la loro carriera nei vigili del fuoco, il bisogno di stabilità, la paura di perdere tutto. Ora, di fronte a quegli occhi che luccicavano come le luci distanti di Chicago, Matt si rendeva conto che nulla di tutto ciò aveva importanza. Era morto e tornato indietro, e l'unico rimpianto era stato lui.
  «Quello che facciamo, combattere gli incendi, è pericoloso ed è ciò che amiamo. Quante volte guardiamo in faccia la morte e ci chiediamo cosa perdo? Cosa resta di mio lì fuori? Voglio tentare, Kelly. Voglio che sia tu il mio resto.»
   Matt lo stava osservando come se null'altro esistesse e per Kelly era così. Lo sguardo gli cadde sulle sue labbra, rosse e schiuse, poi di nuovo gli occhi magnetici. L'ultima cosa di cui Kelly fu cosciente era il proprio battito accellerato, poi il sapore delle sue labbra. Gli poggiò una mano sul volto, lì dove il livido si schiariva, e lo baciò come non aveva mai fatto. Era un bacio calmo, inteso ad assaporarsi a vicenda, prendendo tutto il tempo che avrebbero avuto da lì al futuro. Voleva che in quel bacio Matt sapesse che questo era tutto quello di cui aveva bisogno. Che questa era la sua prova di fiducia. In un solo contatto di labbra e lingue, voleva infondere tutto ciò che le parole non raggiungevano. Non avrebbe mai creduto un giorno di poter sentire così tanto in un semplice bacio. C'era calore e calma, nel modo in cui quelle labbra si muovevano assieme alle sue. C'era la lotta subdola della lingua contro la propria, il breve stridere dei denti tra loro.
   Reale.
   Quando si scostarono, gli sospirò sulle labbra e lo vide sorridere. Matt si sporse a lasciargli un bacio all'angolo della bocca, prima di riprendere il respiro e raddrizzarsi. Barcollò appena, zoppicando sul piede per non cadere. Kelly lo sostenne, attendendo che fosse stabile.
  Andy aveva ragione, pensò guardando quelle labbra inumidite. Lui doveva guardarsi attorno, guardare in quegli occhi lucidi, e vedere la propria verità. Era abituato a far parlare le azioni, riservando alle parole solo una cornice di fondo. Questa volta, però, sapeva che le azioni non bastavano.
  Con le dita serrate intorno alla stoffa della propria giacca, un po' troppo grande per Matt, Kelly mormorò: «Puoi fidarti di me, Matt. Io...io mi fido di me. So che è questo quello che voglio e non rovinerò tutto. Tutto il resto, troveremo un modo per venirne a capo. Quando ti ho visto in mezzo all'acqua...e poi in strada...Dio, Matt. Non mi sono mai sentito così-»
  «Perso» concluse Matt, stringendo le dita intorno al suo braccio.
  Kelly annuì, tentando un sorriso. «Che razza di idiota sarei se dopo tutto questo facessi un casino?»
  Se ti deludessi, pensò. Se mi deludessi.*
  «Un gran coglione» concordò Matt.
  Kelly assorbì la sua quieta risata, prima di sollevargli il mento e guardarlo negli occhi.
  «Non gioco più, non con te.»
  Matt guardò sul fondo di quegli occhi, il sinistro pienamente investito dalla luce al neon. In quel momento, non ebbe più alcun dubbio. Sarebbe potuto morire anche il giorno dopo, per quel che poteva saperne, e fare i patti con l'inatteso era parte del suo lavoro. Lui, come pochi altri sfortunati, lo aveva saggiato una volta di troppo, sfiorando la fine così da vicino da sentirne l'odore sulla pelle.
  E in quel momento, poco prima di chiudere gli occhi, aveva pensato agli occhi di Kelly e al suo sorriso. Come poteva, una cosa simile, non valere ogni rischio, ogni energia, ogni forza, per essere afferrata?
  Era così...reale, come nulla prima.
  Un sorriso gli illumino il voltò, mentre si chinava e posava le labbra sulle sue.
  Matt si fidava di loro.
  Severide capì, in quel momento, che non tutto era perduto e che il passato non aveva più nessuna importanza. Capì che Matt non sarebbe fuggito e che lui sarebbe rimasto, fino alla fine, non importava il resto. Un giorno il mondo sarebbe potuto crollar loro sulle spalle e ogni cosa sarebbe andata distrutta, ma lui era pronto a giurare che valesse la pena di rischiare anche un'Apocalisse, se poteva avere Matt. Perché se questa era l'ultima occasione, lui non l'aveva sprecata.
  «Niente più stronzate?» chiese Kelly guardandolo negli occhi.
  «Niente più stronzate.»
  «Bene, ora torniamo dentro, prima che ti congeli il culo.»
  Matt rise e si sedette sulla sedia, lanciando un ultimo sguardo alle luci di Chicago.
  Non gli erano mai sembrate così piccole e distanti.









Note: Hello! Ho scritto e riscritto questo capitolo così tante volte...sono approdata a questo, ma non so quanto abbia reso ciò che intendevo esprimere. (Capitolo un pizzichino più personale, perché riferimenti a luoghi e persone non sono del tutto casuali.) Quindi, consigli, critiche, pareri sono sempre stramegasuperben-accetti.
PS: Chi ha visto CSI:NY avrà forse storto il naso all'uso meschino del cognome Messer, ma per me è una specie di omaggio (!?).
      *Riferimento al discorso, e reinterpretazione del suddetto, di Benny Severide al figlio: Deludi chiunque, deluti tutti, ma non deludere mai te stesso.
Alla prossima, Ax.

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Capitolo 10
*** Le cicatrici di un combattente ***


10
Le cicatrici di un combattente




  Kelly era in piedi nel corridoio, misurandolo a grossi passi, quando finalmente la barella uscì dalla stanza. Matt era vestito con un camice sterile e una mascherina gli pendeva sul petto. Si scambiarono un cenno del capo, prima che June e altre due infermiere spingessero la barella oltre le doppie porte che portavano alla sala operatoria.
  Sapeva che l'operazione non era rischiosa e che Matt sarebbe uscito da quelle porte vivo e vegeto. Eppure sentì una stretta al petto. Sospirò e si cercò una sedia isolata, preprandosi ad attendere che l'operazione finisse. Non aveva alcuna intenzione di andare da nessun'altra parte.
  Si morse il labbro, cercando di rievocare il sapore dell'ultimo bacio. Era diverso da qualunque cosa ricordasse e non riusciva a collocarlo da nessuna parte. Aveva baciato molte persone, forse troppe, e ora si rendeva conto di quanto questa fosse diversa e, in qualche modo, speciale. Intima. Poteva isolare diversi sapori in quell'unico mix, ognuno in grado di rievocare sensazioni e ricordi diversi. C'era un sottile sottofondo dolce, come quello di una bibita iperproteica, sul quale si innestavano neve, pioggia e agrumi vari. Nessuno di questi sapori da solo riusciva a racchiudere quello complesso delle labbra Matt. Rimase sconvolto dalle sue stesse conclusioni: non avrebbe mai voluto o potuto baciare nessun altro. Quel particolare sapore era tutto ciò che voleva assaggiare.
  Christie arrivò dopo dieci minuti, il volto teso e le mani che si torturavano a vicenda. Si sedette in attesa, scambiando solo qualche parola di circostanza con Kelly. Lui, osservandola, si ritrovò a chiedersi se Matt sapesse che fosse lì. Forse non lo avrebbe mai scoperto, perché improvvisamente la bionda si alzò. Esitò un attimo, prima di sorridere debolmente al vigile.
  «Devo prendere Violet a scuola. Se...qualunque cosa, chiamami.»
  Si scambiarono i numeri e lei corse via.
  Quando Shay arrivò, portandogli un caffé da una bar vicino, Kelly ne fu estremamente grato. Controllò l'orologio e sospirò.
  «Quando è entrato?» chiese Leslie, stirandosi sulla sedia.
  «Quaranta minuti.»
  Lei annuì, allungando il collo per osservare il corridoio sgombro e silenzioso, prima di tornare a poggiare la schiena contro la scomoda plastica. Gli diede una pacca sul ginocchio e lo rassicurò: «Andrà bene, queste cose ci mettono un po', sai.»
  Kelly la guardò, ignorando le sue parole. La mente era occupata da altri pensieri e immagini.
  Quella mattina si era svegliato sulla sedia accanto al letto di Matt, sapendo esattamente cosa volesse.
  «Ieri abbiamo parlato» mormorò, prima di guardare l'amica negli occhi. «Funzionerà. Deve funzionare.»
  Leslie lo osservò a lungo, poi un sorriso le illuminò il viso. Lo abbracciò, stampandogli un bacio sulla guancia.
  «Finalmente!»
  «Cosa?» chiese Kelly, stupito dalla sua gioia.
  «Finalmente Kelly Severide si è innamorato.»


....


  Gabby conosceva Shay abbastanza bene da leggerle in faccia quando qualcosa la preoccupava.
  Lavorare insieme per lunghi turni, con la stanchezza e i nervi tesi, ore spalla a spalla per salvare vite, riusciva a farti vedere un po' tutti i lati di una persona. Riconosceva il tic leggero della palpebra, il modo in cui le labbra strusciavano tra loro e le dita si rilassavano e stringevano intorno al volante.
  Erano quasi giunte al suo appartamento, quando Shay cedette alla pressione dello sguardo della collega su di lei. Con una rapida occhiata, sbottò: «Cosa, stavolta?»
  Gabby strinse le palpebre e incrociò le braccia al petto, senza mai staccarle gli occhi di dosso. «Dimmelo tu...»
  Quando Shay si mordicchiò il labbro, Gabby ebbe la conferma di quella sensazione che le aleggiava attorno da giorni: la sua amica le nascondeva qualcosa.
  «Non riguarda Casey, vero?»
  Shay sussultò e rispose con una risatina, che si ruppe a metà. Con un gesto della mano, scosse la testa. «No...no, ma che dici!»
  «Okay, ora mi stai preoccupando. Sai qualcosa che non so? Kendra ti ha detto qualcosa?»
  «Gabby, lui starà bene.» Per sottolineare l'affermazione, incrociò per un attimo il suo sguardo, prima di tornare alla strada con un'espressione tormentata. «Voglio dire, starà meglio. Callighan...sai, Kendra lo conosce bene. Comunque, ha detto che il trapianto è andato bene.»
  Gabby non rispose, spostando lo sguardo oltre il parabrezza. Ricordava distintintamente la prima volta che l'aveva visto in quel letto d'ospedale, ancora addormentato; la seconda, era sveglio e spendeva tutte le sue energie per non mostrare il dolore che provava, dentro e fuori. Quando pensò a come potesse apparire la sua pelle sotto tutte quelle garze, un grosso groppo le si formò in fondo alla gola e lo stomaco si torse. Spinse indietro tutte queste sensazioni, perché ciò che importava era che fosse vivo e che presto -forse non così presto- sarebbe tornato al suo lavoro, alla sua vita.
  Un pensiero la colse e le sue mani cominciarono a sudare: Casey non aveva più una casa. Poteva essere egoista e fuori luogo, ma lei sentì la necessità di offrirgli un letto...ovvero, un tetto.
  «Senti, Shay...io» si bloccò, torturandosi le mani. Sentì Shay guardarla con apprensione, quindi prese un grosso respiro e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, non riuscì a frenare le parole. «So che sarà l'ultimo dei suoi pensieri, ora, e che dovrà restare in ospedale ancora per molto, ma quando uscirà...voglio dire, lui non ha più una casa. Forse potrei...insomma, vorrei poter essere utile.» Sospirò e reclinò la testa, ricacciando indietro la frustrazione. «Chi prendo in giro? Prima c'era Hellie e ora...io l'ho visto, Shay. Lui non pensa più a me in quel modo...se mai l'ha fatto. Lui non...si è allontanato, capisci? Non so spiegarlo, ma lo sento.»
  Si passò una mano sul volto e attese di riuscire a ritrovare il respiro. Ammettere il poprio tormento, mentre lui aveva lottato per la vita due volte in pochi giorni e ora era in quel letto a soffrire, la fece sentire in colpa. Si rese conto del lungo silenzio solo quando  l'auto si fermò nel vialetto di casa sua. Guardò Shay, che non accennava a scendere dall'auto o staccare le mani dal volante.
  «Shay?»
  «Cosa?» chiese lei, strappata alla sua trance.
  «Bhe, dì qualcosa...non sei mai così silenziosa. Neanche un commento?»
  La ragazza sospirò e guardò oltre il finestrino, sotto lo sguardo preoccupato e quasi irritato di Gabby. «Shay...che succede?»
  «Ascolta, io...okay...diamine, non pensavo fosse così difficile.» Shay sospirò e fissò lo sguardo sulle ginocchia di Gabby, incapace di guardarla negli occhi. «Ti dirò quello che ho detto a Kelly. Voi due siete miei amici, accidenti siete i miei migliori amici e io non tradirei mai nessuno dei due...Dannato Kelly, mi ha messo in questa-»
  «Di che diavolo parli?» premette Gabby. Per qualche motivo, gli tornò alla mente lo sguardo di Kelly sul retro dell'ambulanza, quello di Matt e quella bizzarra sensazione di disagio che l'aveva colpita allo stomaco. Li aveva visti in ospedale e c'era decisamente qualcosa di strano tra loro.
  «Matt è interessato a qualcun altro» sputò fuori Shay, arrischiandosi a guardarla negli occhi. Sembrava le avesse appena dato uno schiaffo in pieno volto. «Anzi, direi che è già occupato.»
  Gabby deglutì a fatica, cercando di non ammettere di non essere sorpresa. Prima che potesse indagare oltre, Shay alzò una mano e la frenò. «Ti prego, Gabby, non chiedermi altro. Non mettermi anche tu in questa situazione che già è uno schifo, okay? Parla con Kelly.»
  Lei annuì e uscì dall'auto, sbattendo dietro di sé lo sportello. Entrò in casa senza voltarsi indietro.
  Shay aveva tenuto per sé quel segreto troppo a lungo e adesso che, in parte, era venuto fuori, non si sentì affatto sollevata. Rilasciò un lungo respiro e avviò il motore.
  Questa me la paghi, Kelly.




......




  Casey attese che Antonio Dowson uscisse dalla stanza, prima di rivolgere un quieto sorriso a Boden. L'uomo prese posto sulla sedia, la camicia bianca immacolata e un'espressione tesa. A Matt non fu difficile leggere le emozioni che si agitavano dietro gli occhi scuri. In quel momento pensò allo sguardo dispiaciuto con il quale il detective aveva loro annunciato che le indagini sull'incendio e l'incidente del ponte erano ancora ferme. Johnny e Anthony Messer sembravano svaniti nel nulla. Nessuno li aveva visti, nessuno li conosceva. Prassi.
  Matt era certo di dover provare qualcosa a quella notizia, ma non era sicuro di cosa, perché al momento sentiva solo un bizzarro distacco. Aveva quasi paura del momento in cui tutte le emozioni si sarebbero palesate, travolgendolo.
  Li troveremo, Matt, lo aveva rassicurato Boden con occhi di fuoco.
  Il suo sguardo ora era più dolce, mentre chiedeva: «Come te la stai passando?» Matt stava per replicare con un sorriso, quando la mano di Boden si alzò e uno dei suoi sguardi seri lo bloccò. «La verità, Matt.»
  Matt...Tutti continuavano ad usare il suo nome, come se fosse un oggetto da maneggiare con cura, malgrado i suoi sforzi di debellare ogni preoccupazione. Non poteva biasimarli, in fondo, perché lui al loro posto avrebbe fatto lo stesso. Questo non rendeva più semplice essere inchiodato a quel letto e vedere la porta aprirsi e chiudersi, sapendo ogni volta di dover indossare un sorriso.
  Lo sguardo di tutti lo forzava a incollare sul viso quella mascherza, tranne quello di Severide. Lui poteva vedere oltre. Matt si concesse un momento per sorriderne.
  Sospirò e disse la semplice verità. «Ci sono giorni buoni e giorni meno buoni.»
  Boden annuì e lui non ebbe dubbi che capisse fino in fondo le sue parole. Gli fu grato che non chiedesse di definire quel giorno. Cinque giorni erano passati dal trapianto e il dolore cominciava a farsi sentire. Cinque da quella notte in cui lui e Kelly avevano deciso di rischiare il tutto per tutto, e il sapore delle sue labbra sulle proprie era ancora percepibile. La contrapposizione tra gioia e dolore gli lasciava in gola un retrogusto difficile da comprendere.
   «So cosa vuol dire essere toccati dal fuoco» disse Boden con voce calma. Gli occhi di Matt andarono automaticamente al camice che copriva il fianco, mentre Boden sentì l'istinto di toccare la propria schiena, dove la grossa cicatrice attraversava la pelle scura. «Non si dimentica, mai. Ci sono giorni in cui mi guardo allo specchio e mi aspetto di non trovarla, ma lei è sempre lì. All'inizio la rifiutavo, la odiavo.»
  Matt lo guardò senza dir nulla, assorbito dal suo tono confidenziale.
  «Ma poi ho capito che è un onore portarla. Ci sono giorni in cui mi ricorda quello che i miei errori mi hanno portato via, e giorni in cui ricordo ciò che mi ha insegnato e quante vite ho salvato.»
   Il biondo distolse lo sguardo e scosse la testa. «La mia non è una ferita di battaglia, Capo.»
  «Ti sbagli» disse secco Boden. «Eri solo, in quella casa, ed eri ferito. Eppure il tuo istinto ti ha salvato. Ti sei alzato e hai attraversato l'inferno per salvarti. Tu hai combattuto.»
  «Non ho salvato nessuno.»
  «Hai salvato te stesso. I tuoi uomini» disse con voce più roca, indicando la porta della stanza, «loro sanno che hai combattuto. Tu sei un leader e come tale hai dato loro un esempio che non dimenticheranno mai e hai ricordato loro che un vigile del fuoco è sempre un vigile del fuoco.»
  Matt sentì una strana sensazione agitarsi sul fondo dello stomaco, mentre i suoi occhi si legavano a quelli di Boden. Non era solo il dolore e la stanchezza, ma un misto incromprensibile di orgoglio e gratitudine.
  «Un leader non appende mai la giacca da tenente» disse, ripetendo le stesse parole che Boden gli aveva detto molti anni prima, dandogli per la prima volta quella divisa. Solo ora capiva cosa volessero dire, quelle parole.
  Boden annuì e gli strinse un braccio, prima di uscire e lasciarlo ad un riposo più sereno di quanto si aspettasse.


......
 

  Era appena sorta l'alba, quando un bussare distinto sullo stipite della porta fu seguito da suole pesanti. Matt sapeva chi fosse ancor prima di alzare lo sguardo dal giornale e incontrare il volto stanco di Kelly.
  «Nottataccia?»
  Il moro sospirò e si abbandonò alla sedia, stendendo le gambe come se pesassero troppo.
  «Non hai idea» mugugnò, mentre passava una mano sul volto stanco. «Capp è rimasto intrappolato nel seminterrato di una casa. Per poco non ci rimetteva la pelle.»
  Matt fece una smorfia, chiudendo il quotidiano e gettandolo sul tavolo. Si alzò, poggiando il peso ai braccioli della poltrona, e si sedette di fronte a lui sul bordo del letto.
  «Voltati.»
  Kelly lo guardò scettico, ma il biondo non ammise repliche, costringendolo a voltare la sedia per rivolgergli la schiena. Le spalle sussulturano al tocco di due mani decise ma delicate, le dita che si infilavano sotto l'orlo della t-shirt e, fredde, incontravano la sua pelle calda. Un brivido involontario fu presto soppiantato da una sensazione di benessere liquido, mentre Matt operava uno dei massaggi migliori che lui avesse mai provato. Avvertì il suo fiato sul collo, la barba incolta che sfregava sulla pelle della nuca, mentre Matt si chinava e all'orecchio gli sussurrava: «Meglio?»
  Il moro annuì, sorridendo al tocco delle sue labbra sulla pelle del collo. Alzò una mano per sfiorare con le dita la pelle lucida del braccio di Matt, disegnando cerchi involontari, gli occhi chiusi e il respiro pesante. Lo sentì fermarsi e tendersi, come se il tocco lo avesse congelato. Fu solo un attimo e, quando le dita ripresero il loro cammino sulle sue scapole, Kelly poté quasi sentire il sorriso di Matt alle sue spalle.
  «Stavo pensando» annunciò il biondo, chinandosi sulla sua spalla. «Shay sa di noi, giusto? E immagino anche Dowson...»
  «Mmm...Dowson l'avrà capito da sola.»
  Matt si concentrò sul collo irrigidito di Kelly, premendo con i pollici verso l'alto per sciogliere i nervi.
  «E' un problema?» chiese il moro, lanciandogli uno sguardo.
  «Finché sono solo loro, no.»
  Kelly rimase in silenzio, spostando le mani sulle cosce di Matt, che lo serravano da entrambi i lati. Le massaggiò attraverso la stoffa sottile dei pantaloni, come fossero braccioli di una comoda poltrona.
  «La Caserma non deve saperlo, lo so, Matt» esalò alla fine. «Non voglio guai come non li vuoi tu. Non sono stupido, so che una relazione attirerebbe tutti gli occhi su di noi.»
  «E qualunque sbaglio, sarebbe colpa nostra.»
  Rimasero in silenzioso accordo, entrambi consapevoli che Boden avrebbe loro dato filo da torcere. Nessuno dei due credeva che i ragazzi avrebbero reagito male alla loro relazione, almeno non così male, ma chi poteva dar loro torto se avessero cominciato a dubitare della loro capacità di comandare?
  Matt sapeva che al suo ritorno avrebbe dovuto affrontare il difficile passo di far capire a tutti che stava bene e che era pronto a tornare. Non voleva mettere sul piatto della bilancia anche una relazione tra tenenti. Spostò le dita sugli avambracci di Kelly, tenendoli saldi mentre si chinava e gli baciava il collo. Il moro reclinò la testa per poterlo baciare sulle labbra, sorridendo tra esse.
  «Tu assicurati che Shay tenga la bocca chiusa.»
  Kelly si finse offeso, prima di ridere quietamente. «Non sono un supereroe.»
    

 

.....
 

   Shay esalò un lungo sospiro, scostandosi un ciuffo biondo dalla fronte e portandolo dietro l'orecchio. Lasciò andare i pacchi di tubi che stava contando. Per tre volte era arrivata fino a dieci, prima di perdere il conto.
  «Hey.»
  Alzò di scatto la testa, vedendo salire sul retro dell'ambulanza proprio la sorgente della sua ansia. Da giorni lavoravano senza rivolgersi niente più che frasi brevi e concise, utili solo al loro lavoro. Shay sapeva che Gabriela era risentita per tutta la situazione e che aveva trovato in lei una valvola di sfogo alla propria rabbia. In fondo, non poteva darle torto: le aveva tenuto nascosto un pezzo importante del puzzle.
  «Hey» rispose con voce più cauta del normale. Gabby sorrise e afferrò la cartella posta sulla barella. Scorse velocemente la lista, poi alzò un sopracciglio.
  «Sai che abbiamo altri dieci minuti per compilare la lista?»
  «Già, lo immaginavo» mormorò Shay, riprendendo a contare i sacchetti e a disporli in una pila.
  «Da sola non ce la farai mai» disse Gabby, aprendo uno scomparto per contare il resto dell'attrezzatura. I loro occhi si incontrarono e lei gli offrì un sorriso, che riuscì subito a farla sentire sollevata.
  Avevano quasi finito e Gabby stava completando le annotazioni, quando pasò la penna sulla cartellina, attirando l'attenzione della collega. «Senti...volevo solo che sapessi che tra noi è tutto a posto, okay?»
  Shay la scrutò e dovette convincerla ciò che vide, perché annuì e sorrise. Trattenne le domande sulla punta della lingua, sentendosi in dovere di ricambiare la cortesia di Gabby: nessuna delle due voleva essere pressata a dare risposte scomode così presto. La ferita andava rimarginata, prima.
  «Hey, ragazze!»
  «Otis» salutò Shay, senza alzare gli occhi dalla fornitura di flebo. «Tredici.»
  Gabby annotò, prima di salutare il vigile poggiato allo sportello aperto.   
  «Come se la cava Casey? Sapete quando lo faranno uscire?»
  Shay lanciò uno sguardo a Gabby, che si schiarì la voce e si impose un quieto sorriso. «Sta meglio. Sono passate tre settimane e l'ospedale non può più tenerlo. Antonio crede che è più sicuro ora farlo uscire, ma lo terrà d'occhio.»
  Otis annuì, dondolandosi avanti e indietro. Si staccò dallo sportello e disse sinceramente: «Qui manca davvero, i ragazzi sono persi senza il tenente.»
  Shay era intenta a salutarlo, quando il suo cellulare squillò. Vedendo il numero sul display, si scusò con Gabby e scese dall'ambulanza, allontanandosi il più possibile.
  «Meglio che sia questione di vita o di morte, Kelly» grugnì appena rispose.
  «In qualche modo lo è. Devo chiederti una cosa.»
   La voce agitata era sull'orlo dell'euforia e lei poteva immaginare molto bene il suo sorriso.
  «Proprio ora? Non puoi aspettare che finisca il turno?»
  «No, devo farlo ora o perdo il coraggio. Senti, dimmi solo: è un problema se Matt viene a stare da noi? »
   Shay rimase senza parola e pensieri. Quando la voce di Kelly la richiamò all'attenzione, lei si guardò attorno, prima di poggiare la schiena al retro del camion 81. «Non ti sembra un po' presto?» cercò di scherzare.
  «No no...cioè, non intendo venire a stare in quel senso. Sai, è solo per i primi tempi, finché non trova un posto suo... Dì di sì, Shay, ti prego.»
  Considerò le sue opzioni e, sinceramente, non trovò un solo motivo per negarglielo. Matt era tranquillo e ordinato, sapeva cucinare e aggiustare qualunque cosa si rompesse, senza contare che in lui Shay aveva trovato una piacevole compagnia. Da un punto di vista pratico, avrebbe sopperito a tutte le loro mancanze. L'unica ragione poteva essere Gabby, ma ormai era quasi certa che non le servisse davvero sapere la verità per abbandonare le speranze di una vita con Matt.
  «Avanti, Shay, sai che me lo devi.»
  La bionda sbuffò, ripensando a tutte le catastrofiche relazioni trasformate in brevi convivenze che aveva attraversato in quell'appartamento, costringendo Kelly a subirne alti e, soprattutto, bassi.
  «D'accordo, nessun problema.»
  Kelly si profuse in ringraziamenti entusiasti, ma Shay lo interruppe subito. «Aspetta...almeno con lui ne hai parlato?»
  «Non ancora.»
  Shay sospirò e trattenne a stento un sorriso: non sentiva Kelly così genuinamente felice da troppo tempo.
  «Buona fortuna, Kelly» disse in tono ironico, prima di agganciare.
  Aveva ancora il ghigno sulle labbra quando vide Gabby scendere dall'ambulanza e incontrare il suo sguardo. Ricomponendosi, sperò vivamente che Kelly non facesse uno dei suoi soliti casini.



  Tamburellando le dita sul fianco della pesante macchinetta, Kelly attendeva impaziente che tutto il caffé fluisse nel bicchiere di carta. La mente intanto viaggiava a mille tra le migliaia di possibilità che gli si aprivano davanti come campi sterminati.
  L'idea gli era venuta come un lampo appena parcheggiata l'auto davanti all'ospedale. Matt non aveva una casa e non mancavano molti giorni alle sue dimissioni. Guardando l'entrata delle ambulanze oltre il parabrezza, Kelly aveva preso una delle sue decisioni impulsive e da allora sentiva le mani formicolare dall'agitazione. Tutti i discorsi che si era preparato mentalmente si erano ingarbugliati e ora sembravano sfuggirgli.
  Non riusciva a credere al modo in cui le cose si erano allineate da sole. Dopo quell'unico confronto sulla balconata, non c'era stato bisogno di dire altro. Matt era diventato sempre più confidente, fisicamente più tranquillo, e Kelly si era ritrovato ad osservarlo sempre più a lungo. Su questo doveva dar credito a Casey: delle volte, fin troppo a lungo e con uno sguardo che di innocente aveva ben poco. Semplicemente non riusciva a impedirsi di saggiare con gli occhi ogni aspetto del biondo, come una liceale alla sua prima cotta. A volte viaggiava così tanto con la mente, che si presentavano spontaneamente le immagini delle mille cose che avrebbe fatto con Matt, o più precisamente a Matt. Casey aveva un'abilità particolare nel cogliere l'esatto momento in cui la mente di Kelly approdava a questi lidi, e lo canzonava, riportandolo alla realtà.
  Il bip della macchinetta lo distolse dai pensieri. Afferrò il bicchiere e si voltò, quasi inciampando in Dowson.
  «Hey, scusa» riuscì a dire Kelly, fallendo nel sembrare disinvolto.
  «Hey. Niente...anzi, cercavo te.»
  Il tono di Dowson contraddiceva la sua postura: era debole e sconfitto, quasi amareggiato. Il sorriso finto sembrava costarle troppo.
  Kelly annegò il groppo alla gola in un sorso di caffé, rendendosi poi conto che non l'aveva preso per sé. Si voltò e cercò nelle tasche delle monete da infilare nell'apparecchio, annotando mentalmente di mettere meno zucchero.
  «Caffé?»
  «No, grazie, sono a posto.»
  Il tenente annuì e premette il tasto. «Allora, cosa volevi da me?»
  Gabby poggiò la spalla alla macchinetta e si morse il labbro.
  «Senti, non prendere male quello che sto per dirti» cominciò, quando incrociò il suo sguardo. «Solo, ti prego, rispondimi sinceramente.»
  Davanti alle sue mani congiunte in preghiera e al suo sguardo lucido, Kelly non riuscì a far altro che annuire debolmente.
  «Bene...» Gabby passò una mano tra i capelli mori, trovando dopo pochi secondi il coraggio di guardarlo. «C'è qualcosa tra te e Matt?»
  «Cosa?»
   Sbuffò una risata, ma il suo cervello, dopo una brusca interruzione, riprese a ruotare a mille, gli occhi spalancati fissi in quelli di Gabby. .
  «Ascolta» lo pregò lei, intuendo il suo shock. «Non lo dirò a nessuno e non...non ti giudico, assolutamente. Solo...devo saperlo, capisci?»
  Ancora una volta, un bip lo costrinse a distogliere lo sguardo e prendere l'altro bicchiere. «E' complicato» disse, poi la guardò negli occhi e vide la preghiera muta che esprimevano.
  Kelly annuì piano.
  Gabby distolse lo sguardo e lui fu pronto a giurare che cercasse di lavar via le lacrime, portandosi una mano al volto. Quando tornò a guardarlo, i suoi occhi erano rossi, ma il sorriso, seppur più piccolo, sincero. «D'accordo. Solo, promettimi che non lo ferirai.»
  «Mai» disse, sorprendendosi della propria sicurezza.
  Gabby si voltò e scomparve oltre l'angolo del corridoio. Kelly la seguì con lo sguardo, prima di sospirare e ricomporsi, diretto alla stanza di Matt.
 


  «Oh, caffè di ricetta ospedaliera» borbottò Matt, sorridendo.
  «Meglio di quello di Mouch.»
  «Mouch sa fare il caffè?»
   Kelly rise, sedendosi pesantemente sulla sedia. «Te l'ho detto che le cose alla caserma sono strane senza di te.»
   Matt ebbe appena tempo di saggiare l'umorismo, prima che l'affermazione gli lasciasse in gola un gusto amaro. Tentò un sorriso e nascose la sua pessima recita in un sorso di caffé. «Pessimo» borbottò con una smorfia, poggiando il bicchiere sul comodino.
  «Non abbatterti» cominciò Kelly, poggiado i comiti sulle ginocchia. «Sai che tornerai presto in forma.»
  «Puoi giurarci.»
  Il moro vide di nuovo quel sorriso forzato e si limitò ad annuire, nessuno dei due pronto ad affrontare quel discorso. Parlarne seriamente avrebbe reso più reale il tempo che sarebbe trascorso tra le dimissioni e il ricovero completo, più tangibile il lungo percorso di guarigione sia delle ferite fisiche che mentali.
  Fu senza preavviso e senza neanche pensarci, che Kelly sputò fuori quella domanda. «Vieni a vivere con me.»
  Dannazione! Imprecò mentalmente. Non aveva intenzione di dirlo così e di certo non era suonata come se Matt avesse una scelta.
 «Voglio dire, puoi venire a stare da me e Shay, sai finché non trovi un posto tuo. Insomma, non devi metterti a cercarlo ora. Noi ti aiuteremo, ovvio...» Si bloccò e si azzardò a guardare Matt. Sul viso stupito comparve un rapido sorriso. «Se vuoi, eh.»
  Matt scrollò le spalle, fingendosi indifferente. «Dipende se mi lascerete cucinare.»
  «Amico, prego tutti i giorni che qualcuno allontani Shay dalle padelle!»
  «Così terribile?»
  «L'hai detto, Matt.»
  Kelly non trattenne una risata nervosa. Malgrado Matt stesse solo scherzando, i suoi occhi erano seri e bui, come se dietro di essi ci fosse una verità diretta solo a lui. Nell'accedere al fondo di quello sguardo si sentì liberato dal peso di tutto ciò che era accaduto, delle proprie colpe e della rabbia. Incertezza e paura, che non aveva mai realizzato di provare, fluirono via in un semplice battito di ciglia.
  Rimasero in quella stanza a parlare di tutto e niente finché Matt non si addormentò. Kelly rimase un attimo a guardarlo, prima di voltarsi e uscire per tornare alla casa che, presto, sarebbe stata l'inizio di qualcosa che lui era impaziente di scoprire.









Note: Hello! Ringrazio ancora chi mi segue, commenta e si appassiona a ciò che scrivo (ne sono davvero davvero molto felice!)
Questo capitolo copre l'arco della degenza ospedaliera di Casey. Ho preferito non prolungare troppo la descrizione della suddetta, sfoltendo il capitolo di tutte le aggiunte che avevo fatto per alleggerirlo ed evitando così di dividerlo.
Detto ciò, evoluzioni in progress!
Alla prossima, Ax.

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Capitolo 11
*** Un posto da chiamare inizio ***


11
Un posto da chiamare inizio




   Steven Callighan aveva un repertorio sconfinato di espressioni. Tra tristezza, costerno e soddisfazione sapeva far mutare i suoi tratti fino a toccare così tante sfumature che Matt faticava a tenerne il conto. Non che questo ora importasse. Si concentrò per leggerne il volto, mentre gli occhi dietro le sottili lenti passavano in rassegna la cartella clinica.
  Incerto su come interpretare il cipiglio di concentrazione del medico, spostò il peso sul tavolo freddo della piccola stanza, le mani salde sul bordo.
  «Bene, Matthew» annunciò alla fine Callighan, chiudendo la cartella e poggiandola su un tavolo vicino. «Gli esami sono nella norma, anzi direi che scoppi di salute.»
   Il biondo sorrise, dopo aver rilasciato un respiro trattenuto troppo a lungo.  
  «Prima di rilasciarti, voglio dare un'occhiata» continuò Callighan, indicandogli di spogliarsi. Matt scese dal tavolo e slegò il camice, tornando poi a sedersi. Callighan oscultò il cuore e i polmoni, annuendo di tanto in tanto. «Okay. La capacità polmonare è molto buona e il battito è nella norma, nessun intoppo.»
   «Immagino che essere un vigile del fuoco abbia aiutato.»
  Callighan sorrise e si tolse lo stetoscopio, prima di chinarsi a controllare le cicatrici. Roteò il braccio e la gamba, tastando vari punti e chiedendo se avesse difficoltà nei movimenti o sentisse dolore. Alle rispose negative, sembrò sinceramente soddisfatto. Matt pensò con un sorriso amaro che quell'uomo gli ricordava Hellie.
  Quando le mani del medico toccarono la grossa macchia che da vicino all'ombellico saliva fino alle costole, Matt sussultò. «Dolore?»
  «Un po'. Più fastidio.»
  «E' normale, non preoccuparti. Con il tempo migliorerà e grazie al trapianto la cicatrice non ti impedirà i movimenti. Presto riacquisterai la sensibilità.»
  «Suona bene.»
  Callighan annuì, aggiornando la cartella mentre Matt indossava t-shirt e pantaloni.
  «Allora, dottore, sono libero di uscire?» chiese con un ghigno. Quando il dottore annuì, Matt fu sul punto di correre via dalla stanza. «Quando posso tornare a lavoro?»
  «Direi tra le cinque e le sei settimane, ma ovviamente dovrai anche parlarne con il Comandante.» Notando il cipiglio confuso e amareggiato dell'uomo, Callighan sospirò. «Ascoltami, Matthew. Queste tre settimane sono state dure, lo so, e hai perso molta massa muscolare. Malgrado la tua assidua frequentazione della fisioterapia, hai ancora molto da recuperare. Ti consiglio di cominciare il prima possibile, se vuoi tornare in fretta a lavoro.»
  «Lo farò, dottore» disse convinto Casey. Voleva solo uscire di lì, andare da Kelly e ricominciare con la sua vita. Avrebbe passato il suo tempo in palestra, o correndo per tutta Chicago, se solo avesse messo piede fuori da quel dannato ospedale.
  «Bene. La pelle di braccia, torace e gamba avrà un aspetto migliore tra qualche settimana e presto tornerà come prima. Potrebbe essere di un colore differente, all'inizio, nulla fuori dalla norma. Comunque, evita esposizioni dirette al sole per almeno un paio di anni.»
  «A Chicago? Non sarà difficile.»
  Callighan rise e per poco Matt non sussultò: non l'aveva mai sentito ridere.  
  «Abbi cura di te, Matthew» disse l'uomo con un sorriso genuino, tendendogli la mano.
  Matt la strinse con decisione e profonda gratitudine. «Grazie, dottore.»
  Uscì dalla stanza in preda alla frenesia e quasi correndo, ma si bloccò quando si imbattè in Kelly. Il moro saltò dalla sedia e lo raggiunse, la postura d'attesa e gli occhi vigili quasi comici.
  «Allora, che ha detto? Tutto okay? Problemi?»
  «Woa, rallenta, Severide» lo canzonò Casey. «Sono più sano di prima.»
  Kelly lo scrutò attentamente. «Sicuro?»
  «Sicurissimo.»
  Prima che potesse registrarlo, Kelly lo afferrò per il bordo della t-shirt e lo baciò con forza. Matt si ritrovò a stringere le dita intorno al bavero della giacca di pelle, sorridendo tra le sue labbra.
  «Andiamo a casa» mormorò quando si furono staccati. «Non vedo l'ora di uscire di qui.»



  Gli bastò un passo perché la realtà divenisse tangibile. Chiuso in quella stanza d'ospedale per lunghi giorni, stordito dai farmaci e dalle visite insistenti, Matt si era ritrovato a vivere in una nuvola sospesa. A riempire le giornate c'era stata la nostaglia di casa e della caserma, la voglia frenetica di uscire per un drink con i ragazzi e pretendere che tutto fosse normale, e a volte quel misto di incredulità e benessere che si rifletteva negli occhi di Kelly.
  Tutto questo lo travolse non appena fece quel passo oltre la soglia dell'appartamento.
  Rimase immobile a fissare lo sguardo sul divano, quello stesso sul quale tutto era cominciato, senza realmente vederlo. Lo spostò verso Kelly, che aveva poggiato la sua borsa su un tavolino nella strada per il frigo, immergendosi in un veloce sproloquio mentre armeggiava con le birre.
  «Lì ci sono vestiti nuovi, boxer e calzini e tutto il resto. Tutto puro cotone. In quanto alla scelta io non c'entro, ha fatto tutto Shay, quindi se ti ritrovi qualcosa di imbarazzante o oltraggioso parla con lei. Per tutto il resto, rasoi, shampoo, asciugamani...prendi tutto quello che vuoi, ma ti sconsiglio di toccare la sua roba perché tende a diventare possessiva. Ah, a proposito, lo yogurt-»
  Il suo corpo era entrato in modalità automatica e si ritrovò, senza accorgersene, di fronte a Kelly. Il moro rimase con le labbra schiuse, le parole che non uscivano più e le dita serrate intorno al collo di due bottiglie di birra. Gli occhi erano spalancati e lucidi e, Matt l'avrebbe giurato sulla Caserma, pieni di lussuria.
  Gli strappò le birre di mano e le poggiò sul piano. Prima di potersi voltare, si ritrovò con la schiena premuta contro il marmo, le mani di Kelly salde sui suoi fianchi. Lo vide esitare e chinarsi a baciarlo, aprendo appena le labbra sulle sue. Sentì lo sforzo di contenersi nei muscoli tesi del suo braccio e fu sul punto di ridere. Quando si scostò, il suo sguardo era completamente perso.
  Matt ghignò e gli afferrò il collo della maglietta, attirandolo in un altro bacio, così aperto e vorace da far stridere i denti. Il familiare calore, quello provato la prima volta, tornò a infondersi nel corpo, il cuore che accellerava e un brivido che attraversava la schiena. Era la sensazione che aspettava da così tanto tempo da divenire un sogno lontano. Ora era reale.
  Ruppe il bacio, il respiro corto e le fronti incollate.
  «Non ce la facevo più» sussurrò Kelly, premendogli una mano sulla schiena. «Stavo impazzendo»
  Matt sentì il respiro caldo passargli sul collo, seguito da labbra gentili. Il tocco, prima esitante, si sciolse nel bisogno quando il biondo esalò un lungo respiro, incoscio di averlo trattenuto. Inarcò la schiena, reggendosi al duro marmo dietro di lui e lasciando alle mani di Kelly percorrere la sua schiena, il suo fianco sano e parte dell'addome, con un'incredibile perizia nell'evitare le zone lese.
  Reclinò la testa, esponendogli il collo e lasciandolo alla mercé della lingua di Kelly, che percorse cerchi studiati capaci di sciogliergli lo stomaco. Matt era quasi certo di star perdendo contatto con la realtà. Chiuse gli occhi e si lasciò andare alle sensazioni, immaginando di toccare ogni parte del corpo di Kelly, lo stesso che tante volte gli era stato mostrato innocentemente. Non riuscì a muoversi, ritrovandosi a serrare sempre più le dita, finché il bordo del piano si stampò nei suoi palmi. Qualunque cosa gli stesse facendo, suonava dannatamente bene.
  Si morse un labbro quando i loro bacini vennero a contatto, le cicatrici che strofinavano contro il cotone e sotto la pressione del corpo tonico di Kelly, ma non lo scansò. Invece, gli afferrò la nuca con una mano, alzandogli il volto e baciandolo avidamente. Poteva sentire il suo sorriso e il suo desiderio sulle labbra. Inebriante.
  Da qualche parte in quel bacio, Kelly aveva aperto alle sue dita la strada verso il cavallo dei sottili pantaloni di Matt, dandogli una stretta che gli mozzò il fiato.
  Persi nel loro incontro, nessuno dei due si accorse della porta che si apriva alle loro spalle, o dei passi frenetici che si avvicinavano, finché un'esclamazione di sorpresa li congelò.
  «No no e...»
  Kelly ruppe il bacio, tenendo stretto Matt e lanciando un sorriso alla bionda oltre la sua spalla. «...no! In cucina, no!» concluse Shay, scrollandosi di spalla la tracolla che ricadde sul pavimento.
  Matt si schiarì la voce, scollandosi di dosso il moro, che sbuffò e recuperò la sua birra. Con ben poco dispiacere notò che era divenuta calda e sgasata. Shay li fulminò entrambi, nel tragitto fino al frigorifero, dal quale recuperò un'altra birra e un cartone di pizza della sera prima. Quando tornò a guardare Kelly, dovette trattenenere un sorriso, perché quello del coinquilino era oltragiosamente contagioso. Passò lo sguardo tra i due e li indicò con la birra, prima di stapparla.
  «Non potrei essere più felice di dichiarare questa casa tana dell'onore gay» disse, strappando a Kelly un ghigno e a Matt uno sguardo sorpreso. «Ma non è un bordello. Mai e dico mai, in nessuna circostanza, neanche se state bollendo fin dentro al vostro primo cervello, mai nella mia cucina.»
  «E' anche mia» obiettò Kelly, cercando di intenerirla con lo sguardo.
  Shay non la bevve, fulimandolo con un'occhiata che fece rabbrividire Matt. «Allora la dividiamo, e io mi prendo la metà con il frigo.»
  «Poco male, della metà con i fornelli non sai che fartene!»
  Shay gli diede un pugno sul braccio e, da come Kelly se ne lamentò, Matt poté intuire che le storie sulla forza della bionda non fossero tutte esagerazioni. Non poté non ridere, sentendosi finalmente sgravato dal peso di tutto ciò che lo aveva tormentato in quei giorni.
  Erano a metà delle loro birre, quando Shay legò lo sguardò con Casey. Lui inarcò le sopracciglia, non sicuro di cosa stesse accadendo. Prima che potesse fare ipotesi, la bionda si chinò verso Kelly e lo annusò, facendo una smorfia.
  «Cosa?»
  «Puzzi, Kelly.»
  Il moro afferrò un lembo della maglietta e si diede un'annusata. «Diamine, è vero. Ho saltato le docce dopo il turno.»
  «Vai a lavarti, perché non so se è peggio quella pizza o tu» disse, indicando il cartone aperto. «Tu, invece» continuò, puntando un dito a Casey, «potresti aiutarmi a mettere insieme qualcosa di commestibile. Così almeno non devo sentirmi lui.»
  Kelly, già a metà strada per le scale, sventolò la mano e si avviò al piano superiore. Matt lanciò uno sguardo interrogativo a Shay, perché qualcosa gli diceva che la ragazza volesse separarli.
  Di qualunque cosa volesse parlare da soli, dovette attendere. Appena Kelly fu fuori vista, Shay sospirò e aprì il figrorifero, chinandosi a indagare. Matt la raggiunse, scrutando sopra le sue spalle. Cucinare gli mancava terribilmente, come ogni cosa che avesse una parvenza di normalità, e ogni pensiero svanì nel tentativo di immaginare cosa preparare. Il frigo era un'accozzaglia di ingredienti mal assortiti, compresi alcuni vegetali che, divisi per specie, non avrebbero fruttato niente.
  «Avete della carne?»
  «Mmm...eccola, ma non chiedermi che animale sia» disse Shay, afferrando un contenitore.
 «Prendi tutto ciò che avete di vegetale e lascia il resto a me.»
  Shay eseguì e dispose sul bancone patate, peperoni e zucchine, mentre Matt poggiava la carne su un tagliere e la esaminava, un grosso coltello in una mano. Le diede istruzione di tagliare le verdure a cubetti, tutti dello stesso spessore, mentre si dedicava a ricavare strisce di carne che tagliava poi in bocconcini. Quando finì, tagliò la cipolla e la versò in una pentola con acqua e olio, fino a farla dorare per poi versare la carne e un goccio di vino. Abbassò la fiamma e tornò al bancone, dove le verdure erano ancora per metà intere. Ne prese qualcuna e cominciò a tagliarle.
  «Se hai qualcosa da chiedermi, puoi farlo tranquillamente» disse a Shay. La ragazza alzò lo sguardo solo un attimo, prima di tornare alle verdure con un lieve cipiglio.
   «Kelly è una testa calda» cominciò, lanciando uno sguardo alle scale per essere certa di non essere interrotta dal suo arrivo. Scosse la testa, tagliando di netto una fetta di peperone. «So che tutti pensano che sia una specie di Dongiovanni che non riscalda mai lo stesso letto due volte, e per lo più hanno ragione. Tu invece sei più...affidabile» disse a voce più bassa, quasi temesse fosse un insulto.
  Casey inarcò le sopracciglia e lei fece un gesto stizzito della mano, disegnando pericolosi cerchi con il coltello. «Sai cosa voglio dire.»
  «Sì, tranquilla» concesse lui, sorridendo. Prese l'ultimo peperone dal tagliere di Shay e cominciò a tagliuzzarlo, indicandole con un cenno di controllare la carne. «Se stai per dirmi che mi spezzerà il cuore, vorrei obiettare che non sono una ragazzina.»
  «No no» lo corresse lei, guardando la carne sfrigolare e optando per la birra abbandonata lì accanto. Matt prese le verdure e le unì alla carne, dando una veloce girata prima di ripulirsi le mani con un panno. «Quello che voglio dire è che tu non devi spezzargli il cuore.»
   Matt trattenne una risata, tagliata sul nascere dallo sguardo serio di Shay.
  «Scusa, fai sul serio?»
  «Okay, sto per dirti qualcosa che se lui sentisse, mi costerebbe caro. Voi vi conoscete da quanto? Bhe, parecchio tempo, amici, colleghi, Batman e Robin, spalla a spalla contro il mondo e tutto il resto. Ma io lo conosco in modo diverso e, credimi, se tu facessi qualche casino davvero gli spezzeresti quel cocciuto cuore che si ritrova. Soprattutto, non azzardarti più a morire.»
  Matt sorrise e alzò le mani in segno di resa, ma non disse nulla, assorbendo semplicemente quelle parole. Non gli risultava difficile crederle. Kelly aveva paura di essere ferito tanto quanto ne aveva lui, cambiava solo il loro modo di reagire: l'uno si buttava in relazioni senza futuro, l'altro rincorreva il sogno di una relazione che avesse un futuro stabile. Ora erano giunti a un punto di incontro e l'equilibrio poteva rivelarsi fin troppo instabile. Guardò Shay e annuì. Rimasero così a lungo, senza bisogno di aggiungere altro, finché un fischiettare acuto li riscosse.
   «Allora, che si mangia?» chiese Kelly poggiandosi al bancone, i capelli ancora umidi e ancora quel sorriso sul volto.
   Matt tornò alla pentola, guardano distrattamente il contenuto.
  «Manzo, tonico e succoso manzo» sillabò Shay.
  «Davvero, Shay? Proprio tu te ne esci con queste battute?» Kelly le fece una smorfia, prima di raggiungere Matt e poggiargli il mento sulla spalla. «Dimmi che mi salverai da quella strega. La metà delle volte non ho idea di cosa stia mangiando.»
  Matt rise, senza azzardarsi a controllare la reazione di Shay. Un brivido piacevole gli corse lungo la schiena quando Kelly gli posò un bacio sulla nuca. Con sollievo pensò che gli veniva naturalmente semplice abituarsi a quella fisicità con lui.
  Guardò Shay e Kelly immergersi in una lunga e insensata argomentazione su soggetti casuali e si sentì a casa come mai prima.




   Kelly era completamente consapevole delle parole del dottor Callighan: Matthew ha bisogno di riposo e sconsiglio qualunque sforzo fisico eccessivo per un paio di giorni.
   Forse fu la Tequila che, in qualche momento tra la cena e un film, Leslie aveva tirato fuori felice come una bambina. Forse fu il modo in cui il corpo di Matt si riscaldava accanto al suo sul divano. O forse, si disse, non gli occorreva la sua mano sulla coscia per risvegliare un bisogno impellente.
   Qualunque fosse la ragione, Kelly si era alzato seguendo Matt su per le scale, strizzando l'occhio a Shay che, malgrado ruotasse gli occhi, aveva riso attaccandosi alla bottiglia di Tequila.
   Ora era sopra di lui, ancora.
   Questa volta cercò di prendersi tutto il tempo disponibile, svestendolo con cura e cercando di ignorare il modo in cui le sue dita tremavano in anticipazione. Le strinse intorno all'orlo della t-shirt, poggiato ad un gomito per non esercitare troppa pressione sul suo corpo. La sua bocca era così incantata dal suo collo, che gli ci volle più di un secondo per registrare le dita che si strinsero intorno al suo polso. Alzò il viso, interrogandolo con lo sguardo. Matt non disse nulla e Kelly lo baciò con forza, perché a lui non importava delle cicatrici, voleva solo sentire i loro petti incollati.
  Quando finalmente la maglia fu tolta e lanciata insieme agli altri vestiti chissà dove, Matt rise e la sua lingua cominciò ad esplorare ogni parte del suo collo, dal mento alla clavicola.
  Kelly credette di grugnire in un modo gutturale che non riconosceva, prima che tutto divenisse sfocato e il mondo cominciasse a girare. Si ritrovò di schiena contro il materasso, chiedendosi come fosse accaduto. Le domande si fermarono lì dove la bocca di Matt cominciò a scendere oltre il petto e l'addome.
  Serrò una mano sul suo collo e si ritrovò a spingergli la testa sempre più in basso. Quando sentì la sua bocca lì dove il sangue sembrava volergli esplodere fuori dalla pelle, si portò una mano al volto e urlò un'imprecazione. Avvertì appena la risata soffocata di Matt, piena di quella compiacenza che era pronto a giurare un giorno avrebbe anche potuto amare. Come tutto il resto.


  Per un lungo e piacevole momento, i loro respiri affannati sul cuscino furono l'unico rumore a invadere la stanza. Il sudore cominciava a raffreddarsi sulla pelle e Matt tirò su le coperte, senza mai cancellare dal volto quel sottile sorriso appagato. Si risistemò sul materasso, il piacere interrotto bruscamente dalla fastidiosa sensazione delle lenzuola lungo il fianco.
  «Tutto okay?» chiese Kelly con un cipiglio che per poco non lo fece ridere.
  «Sicuro, duecento per cento.» Matt sistemò il braccio dietro la testa, seguendo con la coda dell'occhio i movimenti del moro. Lo vide poggiare un gomito sul cuscino, girarsi di fianco e scrutarlo.
  «Oh mio dio, non dirmi che sei tipo da chiacchiere da letto.»
  «Tu no?»
  Matt scrollò le spalle e si passò la lingua sulle labbra, saggiando i rimasugli del sapore di Kelly.
  «Dì la verità, dove hai imparato certe cose?» chiese Kelly con un ghigno, indicando sotto le coperte.
  «Talento naturale.»
  «No no, non esiste che me la bevo.» Kelly si chinò a scrutarlo e Matt evitò il suo sguardo, sperando che semplicemente si arrendesse. «Oh...non sono il primo!»
  «Io sì?» chiese scetticamente.
  «Forse...» ammise Kelly, mordendosi il labbro.
  Matt si voltò, rotolando sul fianco. «Stai scherzando?»
  «Tu?»
  Si guardarono a lungo, entrambi sorpresi dalle rivelazioni dell'altro, finché Kelly non scoppiò a ridere. «Non ci credo, aspetta che lo dica a Leslie!»
  Matt gli posò le dita sul collo, carrezzando la pelle ispida alla base della mascella con un polpastrello. Si morse il labbro, prima di stamparlo su quello di Kelly e baciarlo. Non aveva intenzione ora di condividere la sua storia, di ritornare a Edward e a tutto ciò che era successo.
 Quando si staccarono, Kelly chiese di colpo: «Perché Hellie?»
 Quella domanda a ciel sereno lo lasciò interdetto. Sospirò e poggiò la testa sul braccio. «Mi sembrava la cosa giusta, al momento.»
  «La amavi?»
  Matt distolse lo sguardo, ma annuì. Negli occhi spalancati di Kelly c'era un'attenzione che non gli aveva mai rivolto, non così. Sentiva le sue dita sul fianco tracciare piccoli cerchi, e gli sembrò incredibile quanto riuscisse quel gesto a calmarlo. «In ogni caso, le cose andavano male già prima che finissero. Diciamo che lei era ciò che volevo, ma non quello di cui avevo bisogno.»
  «E questo che vuol dire? Cazzate filosofiche?»
  «Forse» rispose ridendo. Si massaggiò il lobo dell'orecchio, in quel gesto che una volta gli era così abituale. Quando se ne accorse, smise subito e un breve cipiglio gli comparve sul volto. Quel confronto era scomodo, ma glielo doveva. «Pensavo che avere una famiglia fosse okay, cioè sai sistemarsi, avere bambini, sembrava così giusto. Vedevo Andy e quanto era felice e pensavo perché no? Dopo un po' è diventato un sogno, una meta da raggiungere per riempire tutti i vuoti. Mi ero convinto che fosse la mia strada, sai, per essere felice. E quando lei mi ha detto di no io, bhe, non ho trovato altri motivi per continuare.» Fece una pausa, colpito dal peso di quello che non aveva mai detto a nessuno. «Immagino che non fossi pronto ad accettare che avevo bisogno di altro.»
  «Sai che non rimarrò mai incinta, vero?»
  Matt rise e scosse la testa, rotolando di schiena. «Me ne farò una ragione» disse con un sorriso. Sentì le dita di Kelly scivolare sul petto, i polpastrelli caldi sulla pelle scesero e sfiorarono il bordo della cicatrice. Un brivido involontario gli scese lungo la spina dorsale. Voltò la testa sul cuscino perché lui potesse guardarlo in viso.
 «Matt, io non sto giocando» mormorò Kelly con uno sguardo serio. «Questo per me non è uno scherzo. O tutto o niente, intesi?»
  Non c'era ambiguità nella sua voce o nella sua espressione. Non c'era esitazione nella risposta di Matt.
  «All in.»









Note: A chi legge, grazie come sempre!
   Mi scuso per il rallentamento nell'aggiornare (sono stata via un paio di giorni e sono tornata con la salute a metà). La storia va avanti e aggiornerò presto.
   With love, Ax.

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Capitolo 12
*** Le cose che arriverà ad amare ***


12
Le cose che arriverò ad amare



   
   
  Kelly fu svegliato dal rumore di acqua scrosciante. Rotoltò sulla schiena, grugnendo all'idea di affrontare una piovosa giornata. Quando fu costretto a sbattere le palpebre contro un intenso sole, si accorse che non era la pioggia che sentiva, ma il getto della doccia oltre la porta del piccolo bagno. Si rilassò, stirando le braccia e strofinando il viso.
  Il quieto sorriso divenne una smorfia quando Matt uscì dal bagno indossando pantaloni e t-shirt.
  Si soffermò ad osservare le gocce intrappolate tra i capelli arruffati e le ciglia, al mattino sempre di quella tonalità dorata.
  «Dove hai intenzione di andare?»
  «Oh, buongiorno anche a te» scherzò lui frizionando i capelli con un'asciugamano. «Vado a fare una corsa. Se hai intenzione di venire, ti conviene muoverti, perché non ti aspetto.»
   Kelly si tirò a sedere e lo afferrò per i fianchi, attirandolo con facilità addosso. Lo baciò e, prima che potesse argomentare, rotolò su di lui per costringerlo a letto.
  «Non ci pensare» mormorò Matt poco convinto, un palmo sul petto nudo di Kelly.
  Il moro strusciò il bacino contro il suo e gli baciò il collo, sussurrandogli: «Andiamo, Matt, ho dovuto aspettare così tanto per questo.» Tracciò la linea del suo bicipite, lasciadogli un bacio all'angolo della bocca e sentendolo perdere resistenza.
  «Non lamentarti proprio tu.»
  Kelly si sollevò sul gomito, staccandosi da lui abbastanza per rivolgergli un'occhiata maliziosa.
  «Quanto?»
  «Quanto cosa?» sussurrò Matt, afferrandogli la nuca per baciarlo.
  Kelly resistette, fissandolo con un ghigno. «Quanto hai dovuto aspettare per avere questo» rispose, indicandosi il torace glabro.
  Matt lo spinse da parte, riuscendo a liberarsi dalla sua presa.
  «Oh no, non avremo questa conversazione ora» disse strisciando fino al bordo del letto. Si chinò ad afferrare le scarpe. «Anzi, non l'avremo mai.»
  «Dai, voglio sapere quanto il mio ragazzo ha dovuto patire per avermi.»
  Nell'esatto istante in cui le parole uscirono dalla sua bocca, Kelly desiderò rimangiarsele. Matt si bloccò con i lacci tra le dita e si voltò lentamente a guardarlo.
  Il mio ragazzo?
  Non avevano mai parlato di questo aspetto della relazione ed era la prima volta che quelle tre parole uscivano dalla bocca di uno di loro. Kelly si ritrovò a trattenere il respiro, sul punto di dire qualcosa, qualunque cosa che alleggerisse la situazione. Inaspettatamente, un ghigno illuminò il volto di Matt, che si chinò e lo baciò.
  «Allora chiediglielo» mormorò, prima di rivolgergli un'espressione turbata. «Aspetta, lui lo sa che sono qui? Perché non voglio problemi.»
  Kelly rise, spingendogli una spalla col pugno.
 «Hai programmi per oggi?» chiese Matt quando fu in piedi, pronto a uscire.
 Kelly scese dal letto e si stirò la schiena con un grosso sbadiglio.
 «Nha. Ho il turno stanotte. Certo, avevo in programma di passare il giorno a letto, magari non da solo» disse, facendo roteare gli occhi al biondo.
  «Colazione da Aldo's, tra quarantacinque minuti» propose Matt, ispezionando la sacca che Leslie gli aveva procurato. Si bloccò e vi gettò dentro una maglia, per poi passare una mano sul volto.
  Kelly colse il repentino cambio di umore e si avvicinò con cautela.
  «Che succede?»
  «L'ipod» mormorò Matt. «Immagino sia finito distrutto con tutto il resto.»
  Il moro non disse nulla, ma aprì il cassetto del comodino e ne estrasse un ipod.
  «Tieni, è il mio. Non romperlo, non dargli fuoco e non regalarlo a qualcuno solo per far bella figura.»
  Matt passò lo sguardo tra Kelly e il dispositivo nella mano tesa, aprendosi in un sorriso. Gli posò un bacio veloce sulle labbra, quindi afferrò l'ipod e corse via.
  «Figurati, non devi ringraziarmi» mormorò il moro, prima di passare il pollice sul labbro e sorridere.




   
   Matt sprofondò nel divano con un pesante sospiro. Odiava ammetterlo, ma non aveva previsto di stancarsi così in fretta. I primi giorni di libertà li aveva passati sforzando il suo corpo al limite, ignorando quelli che sapeva essere i confini tra una sana stanchezza e un doloroso sfiancamento.
  Ora aveva dovuto rinunciare al suo programma di allenamento dopo appena venti minuti di corsa, il tempo di arrivare all'emporio all'angolo e girare sui tacchi.
  Le gambe erano molli e in fiamme, il petto gli doleva e ogni giuntura sembrava piena zeppa di acido lattico.
  Non lo faceva sentire meglio il fatto che l'appartameno fosse totalmente vuoto e silenzioso. Odiava vivere da solo, malgrado avesse i suoi mille lati positivi; lo odiava soprattutto in momenti come questo, troppo prostrato per tenersi occupato con qualunque cosa. Matthew Casey era un dannato animale sociale, non un gatto sornione come Kelly. Accese la TV, cercando di riempire il vuoto con programi futili.
  Reclinò la testa contro i cuscini. Presto la sua mente si allontanò dai Tre tipi di taglio da grigliare per volare verso l'assenza che lo circondava. Quella mattina si era svegliato in un letto freddo, maledicendosi per essersi addormentato così pesantemente da non sentire Kelly e Leslie uscire.
  Se Kelly nel mezzo della notte lo aveva svegliato e salutato, lui non lo ricordava, ma poteva ben supporre il moro non se ne fosse curato poi tanto. Perché Kelly poteva solo immaginare il senso di disagio che Matt sentiva in fondo allo stomaco.
  Mentre le ore scivolavano, i canali si srotolavano sullo schermo e lui faceva la spola tra cucina e camere per trovare qualcosa da fare, quel senso di ansia non diminuì. A metà pomeriggio si risolse ad afferrare il cellulare. Scrollò la rubrica fino al numero di Severide, ignorando il modo in cui il suo pollice tremava, o il suo cuore accellerava con ogni squillo a vuoto.
  Finché finalmente ci fu una risposta, e lui crollò sulla sedia.
  «Hey, Matt.»
  «Hey. Sono di strada per il supermercato» mentì, lisciando il bordo di una tazza, «così mi chiedevo se tu e Shay avete voglia di qualcosa in particolare.»
   La risata di Kelly lo fece sussultare.
  «Amico, torniamo per colazione.»
  «Sì, giusto. Okay, allora pancakes?»
  «Pancakes sia.»
  Matt sospirò, sollevato che Kelly stesse bene e che non avesse intuito il vero motivo della chiamata.
  «Ah, non aspettarci alzati. Torneremo tutti interi.»
  Chiuse la chiamata per interrompere la risata di Kelly, imprecando a denti stretti. Severide lo conosceva meglio di quanto lui volesse ammettere.
  Rimase in silenzio a guardare nel vuoto, il cellulare in una mano e l'altra in un pugno sotto il mento. Si riscosse e decise di uscire, sapendo che avrebbe cucinato pancake anche per tutta la notte.
   Non credeva di potersi abituare al ruolo di Penelope che aspetta Ulisse tornare a casa, ma sapeva che mai, assolutamente mai, avrebbe dato a Kelly la soddisfazione di saperlo.

 
 

   Doveva essere un recupero semplice e tutto sarebbe dovuto andare come da manuale. Kelly aveva sempre dato per assodato che la realtà del suo lavoro non combaciava mai con le pagine scritte o le esercitazioni fatte. L'imprevisto era insito in ogni chiamata, per cui l'unica certezza che si ritrovava davanti scendendo dal camion era l'assoluta mancanza di certezze.
  Così si ritrovò a riaprire gli occhi al suono assordante del proprio allarme agganciato alla divisa. Sbatté le palpebre, mentre quel bip continuo gli penetrava nella mente e lo richiamava all'azione. Niente panico, niente esitazioni: agisci. Era in questo mantra che quel suono veniva automaticamente convertito.
  Tuttavia, il suo corpo impiegò una frazione di secondo di troppo per reagire.
  «Severide!»
  Alzò la testa, cercando di riconoscere la fonte di quel richiamo. Mentre i suoi muscoli tornavano alla vita, le sue orecchie furono graziate dal cessare immeditato dell'allarme.
  «Tutto okay!» urlò alle teste dei vigili, che spuntavano dal cratere aperto nel pavimento come volpi da una tana. La propria voce gli giunse attutita dalla maschera e fu sollevato di averla ancora indosso. Finire a tossire convulsamente per il fumo non era un'esperienza che voleva ripetere.
  «Scendiamo a prenderti!»
  Si alzò a sedere, reprimendo a stento la nausea e la debolezza che lo aggredirono al cambio di posizione, indicandogli che il suo corpo si rifiutava di sforzarsi oltre. Ricordava vagamente di aver sentito le assi cedere e quell'istante di istintivo panico, quello nel quale la sua professione gli aveva insegnato a riflettere su una via di fuga. Inutile, almeno finché non avesse imparato a volare.
  Mentre Capp scendeva per recuperarlo, trovò il casco e si alzò, incerto sulle gambe. Era certo che lo avrebbero costretto a una lunga permanenza in pronto soccorso per controlli inutili e noiosi.
  Quando finalmente fu scortato all'esterno della casa pericolante, sorretto da Mills e Capp, realizzò dall'espressione di Boden che le sue supposizioni fossero esatte.
  «Sto bene» si affrettò a dire, una volta strappata la maschera. Si massaggiò di riflesso la spalla, certo che un grosso livido fosse il massimo delle conseguenze di quella caduta.
  Shay lo stava scrutando così attentamente che lui non si sarebbe stupito se, pensando un numero qualunque, lei lo avesse ripetuto fedelmente.
  «Devi farti controllare» tagliò corto Boden. «Shay?»
  «Ci penso io, Capo» rispose la bionda, afferrando il braccio di Kelly e trascinandolo all'ambulanza.
  Fu costretto a sedersi affianco a Dowson, che monitorava il ragazzo che erano riusciti a tirare fuori dalla casa, intubato e sedato. Mentre Gabriela passava a porgli domande su possibili sintomi, controllandogli i segni vitali, un pensiero risucchiò tutta l'attenzione di Kelly. Dietro le palpebre poteva vedere gli occhi di Matt allargarsi, colmi di preoccupazione, colpa e paura. Avere qualcuno da cui tornare dopo aver rischiato la vita, non era esattamente come se l'era aspettato. C'era, da qualche parte, il benessere di sapere che ogni paura nascosta non doveva essere palesata, ma semplicemente lasciata dormire accanto a quella dell'altro. In fondo, avere paura di morire era umano, e anche Kelly lo era. Il bisogno di non mentire, di essere completamente sincero e libero con Matt lo spaventava. C'era anche quel sottile senso di pressione, come se la propria salute e la propria vita non fossero più solo questioni personali.
  Kelly non era certo di essere pronto a questo tipo di condivisione, perché poteva tramutarsi in liberazione di quelle silenti paure. Sarebbe stato costretto a fronteggiarle e non poteva permettersi debolezze. E se, la prossima volta, non avesse rischiato tanto? E se, un giorno, sarebbe arrivato al punto di fallire nel suo compito per paura delle conseguenze? Per paura di non poter tornare da lui?
  Con un'imprecazione a denti stretti, che sorprese Dowson, reclinò la testa contro lo stomaco dell'ambulanza, arrendosi a cercare una soluzione a quel dilemma.
  Gli effetti collaterali di quella relazione non rientravano nel tipo di imprevisti che poteva affrontare.

 
  Leslie Shay non era famosa per la sua capacità di tenere la bocca chiusa. Abituata a sputar fuori ciò che pensava, delle volte senza calcolare poi tanto le conseguenze, si ritrovava spesso a fallire nel cogliere le regole dell'opportuno e non. Così, quando davanti a un cartone di pizza gigante, sdraiata comodamente sul divano, si lasciò scappare ciò che era accaduto nell'ultimo soccorso, Kelly non ne fu poi tanto sorpreso.
  Lo sguardo di Matt assunse l'esatta tonalità affettiva che aveva immaginato. Neanche il precipitoso tentativo di autocorrezione di Shay, seguito da una rottambolesca fuga linguistica sugli esami negativi di Kelly, riuscì a cancellare la preoccupazione dal volto del biondo.
  I suoi occhi si spostarono lentamente sul compagno, rimanendo fissi nei suoi mentre il silenzio diventava teso per loro, imbarazzante per Shay. La bionda si alzò, offrendosi di sistemare i rimasugli della cena, con lo scopo esplicito di lasciarli soli.
  «Hai intenzione di dire qualcosa o mi guarderai così per il resto della tua vita?» scherzò Kelly, nascondendo il disagio in un lungo sorso di birra.
  Poté quasi sentire il momento esatto in cui i nervi di Matt rilasciarono lo sgomento, riempiendosi di realizzazione, seguita da tutto il bagaglio di senso di colpa e frustrazione. Al suo posto, ne era certo, si sarebbe frustato mentalmente per la propria incapacità di coprirgli le spalle.
  «Seriamente, Kelly» disse, risistemandosi nel suo posto all'angolo del divano. «Quanto è stato grave?»
  «Andiamo, Matt, sono qui e sono tutto intero.»
  «E hai difficoltà a muoverti. Direi un livido dai mille colori sulla schiena.»
  Kelly sbatté le palpebre, ma la sorpresa fu veloce a trasformarsi in un ghigno. Matt lo conosceva bene. Era certo che al biondo non sarebbe sfuggito il modo in cui poneva cautela nel non poggiare troppo la parte di schiena contusa, o come i suoi movimenti fossero impacciati.
  Lo guardò e seppe che quello era il momento che temeva segretamente fin dall'inizio, quello che avrebbe tracciato i limiti e deciso quanto quel rapporto potesse funzionare. La propria capacità di permettere a Matt di curarsi di lui e ai suoi sentimenti di non occludere le capacità al lavoro, sarebbe dipesa da quello che lui avrebbe fatto.
  L'imprevisto, imparò quella sera, poteva rivelarsi più positivo e appagante di quanto potesse immaginare.
  Matt si alzò, togliendogli di mano la birra e afferrandogli l'altra con decisione, per imporgli di seguirlo su per le scale. Kelly non ebbe tempo di far altro che rimanere sorpreso, quando il biondo prese possesso del suo respiro con un profondo bacio.
  «Sullo stomaco» gli sussurrò alle orecchie, mentre le sue mani operavano per sfilargli la maglia.
  «Cosa?» balbettò Kelly, incerto di aver davvero capito.
  Gli occhi di Matt erano così scuri e profondi da ipnotizzarlo. «Ho bisogno che tu sia mio» mormorò con voce roca, continuando a svestirlo con impellenza.
  Kelly si ritrovò esattamente dove e come Matt lo voleva, il proprio battito potente nello stomaco, premuto con forza contro il materasso. Le mani del biondo percorsero la sua schiena dolorante, con rude cura e necessità, fino a raggiungere le natiche e afferrarle con decisione.
  Non sapeva cosa aspettarsi o cosa avrebbe provato, e stranamente questo da solo era in grado di fargli provare un'eccitazione totalmente nuova e sconosciuta. C'era qualcosa di profondo nel modo in cui Matt gli respirava sul collo, baciando e mordendo la pelle della sua spalla. Un doppio significato si nascondeva nella forza delle sue mani sui suoi fianchi. Il confine era lì e veniva tracciato con movimenti brucianti e spinte profonde, mai troppo gentili né troppo intrusive.
  Mentre Matt si muoveva dentro di lui e il suo corpo pian piano trasformava il dolore in piacere, accomodandosi a quell'intrusione, Kelly ebbe il barlume di una importante rivelazione. Il confine veniva tirato, con unghie, denti e sospiri, ed entrambi si guardavano negli occhi ai due lati della linea. Avrebbe funzionato, ne era certo, perché se quella relazione era un dare e avere, se era spingere e ritirarsi, il loro ritmo era una sincronia perfetta.


  Matt lo spinse contro il materasso con il peso del suo corpo rilassato, il respiro corto e pesante sulla sua nuca. Quando rotolò via, per Kelly fu come perdere un contatto profondo. Prima che potesse sentirne il freddo distacco, si girò sulla schiena e abbracciò il biondo con una necessità mai così forte prima. Per un attimo si lasciò cullare dalle loro gambe intrecciate, dai loro respiri che pian piano trovavano un ritmo più sano e dalle sue labbra sul petto.
  Nella sua vita prima di lui non avrebbe mai immaginato un giorno di ritrovarsi a consumare un rapporto con un uomo; certo, qualche volta la sua mente era approdata a quei lidi, e ogni volta nelle sue fantasie era lui che dominava. Non aveva mai creduto che esse si tramutassero in realtà e tantomeno che un giorno si sarebbe ritorvato lì, abbracciato a Matt, dopo averlo accolto nel suo corpo. Era intimo, era feroce ed era appagante in modi difficili da ripetere. Soprattutto, sembra la cosa più giusta della sua vita.
  «Wow...» mormorò a se stesso.
  Sentì la risata di Matt sfiorargli il petto, soffocata dalla guancia premuta contro i muscoli tesi. Gli carezzò i capelli, lasciandogli un bacio sulla testa come fosse un essere prezioso da curare con attenzione.
  «Mi sento...pieno.»
  Matt alzò il mento e lo baciò. «E' questo che si prova ad appartenersi» gli sussurrò sulle labbra.
  Kelly allargò gli occhi, riempiendoli di quella bocca arrossata e di quelle pupille dilatate come universi.
  Lo strinse più forte a sé e non disse altro, perché non si fidava della propria attuale capacità di parlare. Sentiva il petto di Matt alzarsi ed abbassarsi con il suo, in un ritmo speculare e lento, risacca di un oceano che si dipanava in quell'attimo eterno. Tutto il mondo era lì fuori, ma tutto ciò che importava realmente era incollato al proprio corpo.
  Kelly capì, assorbendo il rumore del respiro di Matt che sprofondava nel sonno, che quell'amore poteva renderlo solo più forte. Le sue paure e le sue incertezze era lì, stese con loro, dormendo placidamente. Avrebbe lottato fino allo stremo per tornare a casa da lui, perché lui non temesse mai la solitudine. Allo stesso modo, con rinnovata fiducia nell'amore umano, avrebbe salvato ogni vita a costo di tutto, per permettere ai mille amanti dispersi nella città di rincontrarsi.




  «Lo hai mai fatto, prima?»
  «Cosa?»
  «Non prenderla male, ma con me sei sempre stato passivo. Pensavo ti piacesse così.»
  «Aspettavo fossi pronto, tutto qui.»
  «Matt, lo stai facendo ancora.»
  Matt sapeva esattamente a cosa si riferisse. Nonostante ciò, ingoiò un pezzo di ciambella e rivolse lo sguardo al fiume oltre la balaustra del belvedere; chiese innocente: «Cosa starei facendo?»
  Kelly si voltò e poggiò la schiena alla ringhiera di ferro, scrutandolo con attenzione. «Eviti di rispondere alle mie domande.»
  «Ti è piaciuto, giusto? Qual è il problema?» chiese in tono più rude del previsto.
  Il moro reclinò la testa, stringendo le palpebre contro il candore delle nuvole che rifletteva dolorosamente i raggi lontani del sole. Non avrebbe mai ammesso che la rudezza e la forza di Matt sotto le lenzuola erano state più che esaltanti, o il fatto che avessero lasciato dietro di sé un lieve dolore. Valeva la pena essere costretto a sedersi con cautela per qualche ora, o giorno.
  Si perse un attimo a considerare quanto quel rovescio di medaglia gli piacesse: il gentile e amabile Matthew Casey che si trasforma in un mr Hyde quasi prepotente, che prende ciò che vuole con una necessità impellente. Solo quando aveva realizzato il sottotesto insito in quell'atto, escludendo l'esperienza di quasi-morte di Kelly, aveva capito che doveva esserci dell'altro.
  «Ti mancava» disse, riaprendo gli occhi e guardandolo. Ora i pezzi andavano al loro posto da sé, come attratti magneticamente l'uno all'altro: la rudezza di Matt, le spinte così profonde e forti, come se non potesse più contenere un desiderio di lunga data. «Perché non mi hai chiesto di farlo prima?»
  Matt sbuffò una risata, guardandolo come se avesse appena chiesto l'ovvio. «Non credevo avresti accettato.»
  «Pensavi ti avrei preso a calci solo per avermelo chiesto?»
  Kelly rise, ma non bevve un solo sorso di quella bugia. Si guardarono a lungo, finché Matt sospirò, abbassando lo sguardo sulle proprie mani.
  «Avanti, Matt, dimmi la verità» lo spronò con voce calma.
  «Quando ero alle superiori avevo una storia» disse. Schiarì la voce, corrugando la fronte come se si sforzasse di non lasciar trapelare troppo. «E' stato il primo con cui sono stato attivo. L'unico» pronunciò quell'ultima parola con decisione, sottolineandone l'importanza con uno sguardo diretto negli occhi di Kelly. Guardò ancora il fiume, mentre una folata di vento gli congelava la nuca sudata. «Avevo paura di cosa avrei provato se lo avessi rifatto.»
  Kelly lasciò che il silenzio scivolasse tra loro e che le sue parole si piantassero in lui. Ricordò il giorno in cui aveva baciato Renee sullo stesso belvedere in cui ora si trovavano. Dopo che la loro storia era finita, lui aveva evitato quel luogo, riservandolo a un angolo della propria memoria. Aveva avuto paura di portarci qualunque altra donna, soprattutto quando le cose andavano bene: cosa sarebbe successo se, stando lì con qualcun altro, avesse ricordato la sensazione delle labbra di Renee? Un ricordo del genere può distruggere una relazione, allontanarti da una persona o spingerti a compararla con una fiamma inestinguibile del passato. Non Matt. Lui lo aveva portato in quel luogo ed era magnifico averlo lì, sapere che il passato era lontano e che il presente era mille volte migliore. Unico.
  Ora il belvedere gli sembrava diverso dai suoi ricordi. Dall'acqua che scorreva dietro le sue spalle alla stessa aria che respiravano, tutto sembrava di una tonalità nuova.
  Capì che per Matt doveva essere lo stesso.
  «E cosa hai provato?» chiese alla fine.
  Matt si voltò e gli sorrise. «Amore.»











Note: Hello, guys! Profonda gratitudine per chi ancora mi segue e mi lascia un commento. Piccolo appunto: per Renee si intende la "prima Renee", poiché la seconda nella mia storia non è contemplata.
Piccolo annuncio: ricordate quella "dolcissima" donna che ha dato al mondo Matthew Casey? Ecco, se non la ricordate, rinfrescatevi la memoria perché sta per tornare.
E dopo questo, alla prossima!
Ax.



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Capitolo 13
*** Le memorie non vogliono bruciare I ***


Nota importante: Hello guys! Il ritardo è dovuto in parte alla revisione di un capitolo che si è rivelato così lungo da portarmi a dividerlo in due parti (don't panic, posterò entrambe in un'unica volta). Nei prossimi giorni sarò via e senza pc, dunque credo posterò verso fine settimana. Detto questo, altra piccola precisazione: non credevo che la storia diventasse più lunga di una decina di capitoli, ma a quanto pare mi sbagliavo, quindi ho deciso di dividerla in due parti. Questi due capitoli sono una sorta di stacco, un modo per risolvere alcune questioni e svoltare verso il resto della trama con la mia coscienza a posto (può sembrare assurdo, ma tant'è!)
   Ora...a voi!
   Ejoy!



13

Le memorie non vogliono bruciare
Pt I




   Matt rientrò nell'appartamento sudato e stanco. Il pomeriggio cominciava a stendere un manto di nuvole scure sull'orizzonte, risucchiando il rossore che indicava la fine del giorno e l'inizio della
notte. Il suo umore non era molto distante dalla tempesta che quieta attendeva oltre i confini di Chicago. Con uno strano senso di vuoto e intorpidimento, aveva percorso a piedi la distanza tra la piccola palestra e la casa di Kelly. Perso in quella sensazione ovattata, si era ritrovato in una strada che conosceva bene: gli sarebbe bastato camminare un altro chilometro, svoltare a destra e poi a sinistra, per ritrovarsi di fronte alla propria casa.
  La realizzazione lo aveva colpito come una doccia fredda; era stato così automatico per lui percorrere quelle strade, fin da quando aveva preso in affitto quella casa, che ora gli sembrava assurda la realtà. I suoi mobili un po' retrò, che lui aveva ben levigato, e le sue lenzuola comprate all'angolo della strada, erano svaniti. Le foto che aveva appeso ai muri e posto sulla libreria, andate. I suoi vestiti, quelli di tutti i giorni, non c'erano più.
  La foto di sua madre e suo padre, felici prima della rottura ma con quella strana nostalgia negli occhi simile a un presagio, l'aveva tenuta su un mobile nascosto. Doveva essere finita tra le fiamme.
  Conservava sulla scrivania una statuetta di cartapesta a forma di idrante, una delle opere di Violet nel laboratorio d'arte della scuola. La cartapesta brucia, rammentò.
  C'era poi un'altra foto, nascosta nel comodino sotto una pila di fogli e memorie vecchie. In quella, Edward sorrideva con il sole negli occhi scuri, stringendogli un braccio intorno alle spalle. Il fuoco non poteva averla perdonata, perché le fiamme non guardano negli occhi felici, non si ritirano rispettose.
   C'erano stati momenti, in passato, in cui aveva creduto nel sollievo che bruciare i ricordi avrebbe apportato. Dimenticare suo padre e il dolore che la sua vita e la sua morte avevano causato; dimenticare i tempi in cui lo abbracciava felice, allacciandogli le braccia al collo, e l'odore d'ufficio e pelle di costosa poltrona che portava con sé; dimenticare l'odio che li aveva divisi, alimentato dalla rabbia di sua madre e dalla propria incapacità di rispecchiare l'ideale di un padre autoritario; dimenticare le mani di Edward su di sé, le sue labbra giovani, la sua barba incolta, nei pomeriggi assolati e nelle mattine nevose.
  Non avrebbe mai creduto di potersi sentire così perso, senza i segni tangibili di quei ricordi.
  Improvvisamente, poco prima di aprire la porta, desiderò che l'appartamento fosse vuoto. Niente Shay, niente Kelly, nessuno. Ma ancor prima di essere investito dall'aria calda del salotto, gli giunse alle narici l'odore di frittura e alle orecchie lo scalpiccio dei passi di Shay nella cucina.
  Scrollò di dosso ogni cosa, indossando un sorriso plastico nel tragitto per il bancone. Prese una birra già aperta, presumibilmente di Kelly, e ne bevve un lungo sorso.
  «Alchol dopo la palestra?» sbuffò Shay, rivolgendogli il viso arrossato dal calore dei fornelli. «Matthew Casey, stai diventando un ragazzaccio!»
  Matt rise, poggiando il peso al piano, i gomiti ben piantati. Ogni muscolo gli doleva, ma non credeva che fosse un male: era, al momento, l'unica cosa che riuscisse a sentire.
  Quando Kelly lo raggiuse, raggiante e fresco di riposo, una strana inquietudine si depositò nel suo stomaco, prendendosi il suo spazio e allargandosi sempre di più. Il bacio sulle labbra, le sue mani intorno alla vita, il suo sorriso sulla pelle, riuscirono a istillargli un senso di disagio profondo. Più le ore passavano, tra la cena e chiacchiere liberatorie di fronte a diverse bottiglie di birra, più Matt si sentiva estraneo. Dietro la sua maschera sorridente, non sentiva altro che il rombo del proprio vuoto.
  Quando il silenzio scivolò lento tra loro, indicando la fine della giornata, Matt incrociò lo sguardo di Kelly e comprese esattamente cosa quel disagio significasse: Kelly lo guardava come sapesse la sua menzogna e potesse vedere dietro le sue mura.
  Matt non voleva affrontarlo, non ora.
  Aprì la bocca per dire qualcosa che alleviasse la tensione che sentiva, ma fu interrotto dalla suoneria del proprio telefono. Lo recuperò dal tavolino e guardò l'ID del chiamante.
  «E' Christie» disse, prima di rispondere. Le avrebbe detto che andava tutto bene e non aveva bisogno di nulla, come sempre. Ma questa volta sua sorella aveva scelto il giorno sbagliato per i sentimentalismi.
  «Matthew.» L'uso del suo nome per esteso, unito a quel particolare tono, lo mise all'erta. «Ho trovato la mamma-»
  Matt si alzò, allontanandosi di fretta. Non aveva intenzione di avere quella conversazione.
  «Christie, non dirmi che le hai detto...sai che non voglio» mormorò, poggiandosi alla finestra.
  «E' tua madre...nostra madre. Vuoi che non sappia che sei-che sei quasi morto?»
  Al tono esasperato della sorella, sospirò pesantemente, passandosi una mano sulla fronte sudata.
   «Cosa ha detto?»
   Non voleva davvero saperlo, ma doveva.
   «Vuole vederti. Domani mattina per colazione, puoi?»
  «D'accordo.»
  Chiuse la chiamata senza pensarci troppo. Strinse il cellulare in un pugno, così stretto da imprimerne la forma nel palmo, mentre poggiava la fronte al freddo vetro della finestra. Si permise per un secondo di considerare la macchinazzione della madre: far chiamare Christie per convincerlo e impedirgli di trovare scuse.
  «Brutte notizie?»
  Staccò la fronte dal vetro, incrociando nel riflesso lo sguardo di Kelly.
  «Domani mattina ho una colazione con mia madre.»
  «Uhm» mugugnò Kelly, non certo di cosa pensarne. Matt non amava molto quell'argomento. «Vuoi...insomma, vuoi che ti accompagni o roba simile?»
  Matt alzò un sopracciglio, più divertito che sorpreso alla domanda. Il sorriso non riuscì a raggiungere gli occhi; l'idea di rivedere sua madre, di riaprire altre ferite, lo straziava. Portare Kelly con sé...non era esattamente qualcosa che riusciva a figurarsi. Scrollò le spalle e declinò l'offerta, passadogli accanto. Le dita che si serrarono sul suo braccio, forti e decise, lo bloccarono e sorpresero.
  «Che c'è che non va?»
  «Nulla.»
  Kelly lo fissò così a lungo che Matt temette di aver scritto sul volto qualcosa che lui non conosceva, qualche strana verità. Si sentì incredibilmente esposto.
  «Non mentirmi» mormorò il moro, in un tono al confine tra minaccia e ammonimento. Un confine molto labile. «Sei strano da quando sei tornato dalla palestra. So che non è per tua madre, giusto?»
  Matt distolse lo sguardo troppo velocemente per non confermare i dubbi di Kelly.
 «È successo qualcosa?»
 Qualcosa di pungente gli premette dietro le palpebre, e Matt dovette deglutile saliva e amarezza prima di rispondere: «Hanno distrutto tutti i miei ricordi e ora sono liberi. Come mi dovrei sentire?»
  Kelly non aveva una risposta. Non poteva realmente capire cosa Matt provasse, anche se una sua idea ce l'aveva. Sapeva che non si riduceva tutto all'attacamento materiale a degli oggetti: era molto di più. Soprattutto per loro, gravati dal peso di un lavoro rischioso e attanagliati dall'imprevisto, un posto da chiamare casa era molto più che quattro mura e un tetto. Era un posto sicuro, in cui sentirsi liberi e in contatto con se stessi, rilasciando tutte le paure e le incertezze. Anthony Messer aveva distrutto quel luogo, il rifugio di Matt, quello in cui accumulava ricordi non solo sotto forma di fotografie o oggetti, ma nelle mura stesse.
  Fece scivolare la mano dietro la sua schiena, premendo con l'altra sulla nuca. Matt cedette subito e con sua sorpresa si lasciò abbracciare, nascondendo il volto nella sua spalla. Lo tenne stretto, carezzandogli la testa. Il suo respiro era veloce contro la propria pelle, carico di pianto, anche se nessuna lascrima sfuggì agli occhi.
  Costruiremo memorie nuove, avrebbe voluto dirgli. Non disse nulla, mormorandogli nelle orecchie parole incomprensibili in tono cauto, solo per calmarlo.
  Quando sentì le sue braccia intorno al busto divenire meno forti e il suo corpo abbandonarsi al proprio, esausto, sciolse l'abbraccio. Gli alzò il mento e lo baciò.
  Era ora di dormire, di coprire ogni dolore con una coperta di intimità e accettazione.
  Quella notte Matt si addormentò con le braccia di Kelly a stringerlo, le mani premute sull'addome e il fiato che gli solleticava il collo. Forse, si disse, non aveva bisogno di quelle memorie a cui tanto si era aggrappato, odiandole e amandole costantemente



   Un bambino gli tagliò la strada, quasi incespicando nei suoi scarponi, prima di ridere rumorosamente e allontanarsi lungo il marciapiede. Matt seguì la piccola schiena scomparire oltre un angolo, prima di tornare a guardare il locale di fronte a lui, all'altro lato della strada. Era un modesto cafè con poche pretese e una tendina a strisce al di sopra della porta, ombreggiando i gradini. Ricordava distintamente il campananello che suonava mentre le sue mani, molto più piccole di ora, spingevano la porta a vetri; l'odore fragrante dei pancakes e lo sfrigolare della pancetta e delle uova; il sorriso sul volto rubicondo del cuoco, sempre lo stesso, arrossato e sudato.
  Matt non si meravigliò più di tanto per la scelta di quel posto: sua madre usava avere un tipo di umorismo macabro. Quello era il luogo dove facevano colazione molto tempo prima, ogni lunedì mattina, dopo il weekend passato con il padre. Era una sorta di rivendicazione per lei, un atto che dichiarava l'appartenenza di suo figlio, mascherato da dolci e bibite gasate.
  Quando il campanello suonò, per Matt fu un rumore fastidioso, molto lontano dalla gioia che usava istillargli. Condizionamento, pensò mentre cercava con lo sguardo la madre, trovandola seduta allo stesso tavolo in fondo alla sala. Il loro tavolo.
  Salutando distrattamente una cameriera, notò con un misto di nostalgia e sollievo che il vecchio cuoco non c'era più. Ebbe appena il tempo di notare quanto manipolatrice, ancora una volta, si mostrasse sua madre, prima che i suoi occhi si alzassero su di lui. Lei sorrise e lui ricambiò di riflesso, lasciandosi trascinare in un imbarazzato abbraccio.
   «I pancakes sono ancora fantastici» disse Nancy appena Matt si fu sistemato sul divanetto. «Te li ricordi com'erano?»
  «Sì, mamma. Me li ricordo» rispose guardando distrattamente il piccolo menù.
  «Anche se George non lavora più qui-»
  «Prendo uova e pancetta» tagliò corto Matt, alzando una mano per richiamare una cameriera.
  Nancy esalò un sottile oh, ordinando i suoi pancakes. La cameriera prese gli ordini e si allontanò, lasciandoli a un teso silenzio.
  «Stai bene, Matt?» chiese Nancy.
  «Sì, sto bene.» Matt la guardò negli occhi, cercando una frase che fosse abbastanza convincente ma non troppo impegnativa. «Sono pronto a tornare al lavoro» decise di dire, alla fine.
  Nancy annuì, ma l'angolo della sua bocca si storse in disapprovazione. Per un attimo sembrò voler dire qualcosa -qualcosa che Matt sapeva essere al confine tra rimprovero e preoccupazione. La cameriera portò i loro ordini, sollevandolo dal peso di quelle parole sospese nell'aria.
  Ingagiarono una conversazione futile sul più e meno, e Matt si rese conto che il suo stomaco non voleva accettare la colazione. Perdonare una persona non vuol dire essere disposti a lasciarla entrare nella propria sfera personale. Picchiettò le uova con i denti della forchetta, chiedendosi perché avesse accettato di incontrarla. Un'altra domanda lo pressava - perché non riesco a rilasciare tutto questo rancore? - ma lui non voleva pensare alle implicazione che trasportava.
  «Dovresti mangiare, tesoro. Sei piuttosto magro.»
  Matt alzò lo sguardo e sbuffò una risata. Vide l'ombra ferita che quel gesto lasciò negli occhi della madre, e si sentì automaticamente in colpa. Quelle stesse parole gli erano state ripetute anni prima, con lo stesso disarmante tono e quell'inclinazione dolorosa nella voce.
  Erano i mesi seguiti alla scomparsa di Edward. Partenza non rendeva l'idea.
  «Tu lo sapevi» disse alla fine, quasi a se stesso.
  «Cosa?»
  «Sapevi di Edward.»
  Nancy si mosse a disagio sul sedile di finta pelle. Abbandonò la forchetta sul piatto e allungò una mano, ma riuscì solo a sfiorare le nocche di quella del figlio, che la ritirò come scottato.
  «Tu lo sapevi e non hai detto niente.»
  «Matt...» pregò Nancy in quel tono sconfitto che, lui lo riconosceva, precedeva una rabbia difensiva. «Perché mi fai questo? Perché vuoi riportare a galla-»
  «Lui è morto, mamma» soffiò Matt, chinandosi sul tavolo per non essere ascoltato. Avrebbe voluto cacciare tutti i presenti, tutte le famigliole riunite per la colazione, perché non voleva che quel ricordo sfiorasse il mondo. «Potevi impedirlo.»
  «Matt» disse caustica, stringendo un pugno sul tavolo. Matt rimase sconvolto, ancora una volta, dalla subdula ferocia nel suo sguardo. Aveva sempre un effetto deleterio su di lui, malgrado gli anni fossero passati e lui li avesse spesi ad allontanarsi il più possibile da quelle strette radici. Le stesse che ora sembravano stringergli la gola. «Non c'era nulla che potessi fare, lo sai. Se tu me ne avessi parlato...Se ti fossi fidato di me, avrei potuto fare qualcosa. Parlare con tuo padre, o aiutarti a nascondere la cosa.»
  A Matt ci volle più di un secondo per registrare l'accusa insita in quelle parole. Quando la realizzazione arrivò, sentì il sague defluirgli dal viso, prima di tornare con forza. «Stai dicendo che la colpa è mia?»
 Riconobbe il formicolio nelle mani e il particolare ritmo accellerato del proprio battito. Dovette stringere le palpebre per non lasciare che lo sguardo di sua madre lo alimentasse. Si alzò di colpo, afferrando il giubbotto e infilandoselo in fretta. Come scossa, Nancy lo imitò, ma rimase incerta su come frenare il proprio figlio.
  «Matt, aspetta. Parliamo» lo pregò, ignorando le teste vicine che si erano sollevate dai piatti e ora li fissavano a disagio. Più di un paio di persone pensò a un litigio tra una donna annoiata e il proprio giovane amante, ma lei non ci badò, sopprimendo il moto di vergogna e il bisogno di nascondere i propri drammi familiare. Una vita fa questo aveva avuto valore, ora non più. «Sei quasi morto, Matt. Non puoi andartene così.»
  Nancy sapeva che era un colpo basso, e lo vide negli occhi accusatori del figlio. A mali estremi...
  «E' stato bello rivederti, mamma» disse in tono freddo e meccanico, le mascelle contratte. «Grazie per la colazione.»
  Sentì gli occhi di sua madre sulla nuca bruciare come soli estivi, mentre si voltava e usciva da quel cafè con l'intenzione di non tornarci mai più.
 
  Nancy tremava mentre posava le banconote sul tavolino, adocchiando il piatto ancora pieno di pancetta e uova strapazzate. Una strana indifferenza e lontananza dal mondo esterno l'accompagnò fuori da quel cafè, che ormai non aveva più nulla dei bei ricordi che conservava di suo figlio. Quella sensazione mosse le sue gambe verso l'auto e le sue mani guidarono la vettura fino alla Caserma 51.
 Entrando nell'hangar intriso dell'odore di fulligine e olio per motori, si torturò le mani, con ancora quella bizzarra leggerezza nella mente. Era sconvolta, realizzò brevemente. Suo figlio era così distante da ricordarle il disastro che aveva procurato a quell'essere gentile che, anni prima, gli posava baci sulle guance e rideva per un nonnulla.
  Il più grande pentimento della sua vita era questo. In un'aula di tribunale aveva affermato di essere pentita di aver ucciso suo marito, ma non era dell'omicidio che si sentiva in colpa. Aveva rovinato i suoi figli, non meglio di quanto aveva fatto Gregory.
  «Signora Casey?»
  Voltò la testa in direzione di quella voce, strappata alla propria trance. Un ragazzo moro dagli occhi chiarissimi la osservava con sorpresa. Nancy lo conosceva, ma al momento il nome gli sfuggiva. Lui dovette intuirlo, perché con un sorriso cordiale si presentò.
  «Kelly Severide, ricorda? Ci siamo incontrati qualche mese fa.»
  Nancy annuì, esalando una risata che spaventò se stessa, per quanto rotta era.
  «Lei è un buon amico di mio figlio?»
  «Certo. È successo qualcosa?»
  Ignorò la debole inflessione della voce verso una nota preoccupata. Annotò mentalmente che avrebbe dovuto venire a patti con tutto ciò che quel giorno aveva deciso di ignorare.
  «Ho bisogno di parlare con qualcuno che gli è vicino.»
  Severide la osservò a lungo, prima di annuire in tono comprensivo ed invitarla a seguirlo.










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Capitolo 14
*** Le memorie non vogliono bruciare II ***


14
Le memorie non vogliono bruciare
Pt II



  Chiudendo la porta dell'ufficio dietro di sé, Kelly non fu certo di cosa pensare. Una parte ben radicata della sua mente gli urlava di non ascolare qualunque cosa Nancy Casey volesse dirgli. Non importava ora fosse il compagno di Matt, il biondo rimaneva una delle persona più riservate che conoscesse. Era cresciuto assorbendo quel bisogno di intimità, mascherando tutto con un volto cordiale che dicesse al mondo che tutto fosse al suo posto. Matt cercava di convincere le persone attorno a lui che non vi fosse alcun scheletro nel suo armadio, nulla di torbido dietro la facciata da ragazzo per bene. Ora, in qualche modo, Kelly sentiva di star tradendo la sua fiducia.
   Quando si concesse di guardare Nancy, vide il suo volto contratto in una profonda preoccupazione e in qualcosa che, vagamente, ricordava il rancore che Matt le portava. C'era una ferita nascosta, intuì, dietro tutto quel risentimento reciproco.
  Forse Matt aveva bisogno che questa conversazione avvenisse, forse grazie a Nancy lui avrebbe saputo come aiutarlo. Qualunque il problema fosse. In fondo, una semplice conversazione non poteva arrecare danno.
  «Signora Casey-»
  «Oh, per favore, chiamami Nancy.»
  Severide rispose al suo sorriso teso con un cenno del capo. Non voleva ammetterlo, ma sentiva una nota di disagio che non aveva nulla a che fare con qualunque cosa la donna volesse dirgli. Era il ragazzo di suo figlio, e in tutta onestà non aveva idea di come sentirsi nei suoi confronti, o di come avrebbe potuto sentirsi lei. L'unica volta che era entrato nella cerchia familiare di qualcuno, non era finita molto bene. Era certo che la famiglia di Renee continuasse a odiarlo.
  «D'accordo, Nancy» concesse con un debole sorriso. «Cosa posso fare per lei?»
  La donna strinse le mani, massaggiandole ansiosa, fino a sospirare e decidersi a guardarlo negli occhi. «Come amico di Matt, credo sai che i nostri rapporti sono un po'...difficili. Temo che se qualcosa lo turbasse, non me ne parlerebbe. In fondo, non posso biasimarlo, giusto?»
  Kelly si massaggiò il collo, cercando nella superficie della scrivania un appoggio.
  «In ogni caso» tagliò corto Nancy, facendo qualche passo avanti per colmare le distanze. «Ho saputo troppo tardi quello che gli è accaduto. È ironico...mi sono allontanata per proteggere lui e Christie, e... Voglio solo sapere come sta.»
  Il moro ponderò cosa dire. Dal tono e dallo sguardo torturato della donna intuiva che la colazione non fosse andata esattamente bene. Annotò mentalmente di chiamare Matt -dandogli il tempo di metabolizzare gli eventi. «Sta meglio ogni giorno.»
  «Non è esattamente una risposta» constatò Nancy con disappunto.
  «Ha ragione» concesse Kelly, staccandosi dalla scrivania. Non gli restava che dire la verità. Onestamente, c'era qualcosa nel modo di porsi di Nancy che lo innervosiva, come se le sue domande nascondessero un secondo fine. Aveva già visto quel tipo di sguardo, quello di chi attende di sentire esattamente le parole che vuole sentire. Non dubitava che la donna fosse realmente preoccupata per il figlio, ma gli sembrava volesse una risposta che ne allegerisse la coscienza. «Quello che è successo a Matt è grave e poteva essere anche molto peggio. La sua salute sta migliorando rapidamente. Non potrebbe tornare al lavoro, se non fosse così.»
  Studiò attentamente la reazione di Nancy, che distolse un attimo lo sguardo, persa in qualche riflessione mentre le labbra si muovevano a rincorrere i pensieri.
  «Mangia bene?»
  Kelly sbattè le palpebre, incapace di capire da dove venisse quella domanda improvvisa.
  «Può sembrare una domanda sciocca» si affrettò a dire Nancy, sventolando una mano in aria prima di ricongiungerla all'altra. «L'ho visto dimagrito.»
  «Non deve preoccuparsi. Ha perso molta massa muscolare per la lunga degenza e altre questioni riguardanti le ferite. Il suo metabolismo è cambiato, ma ci sta lavorando.»
   Nancy sorrise tristemente, prima di annuire e risistemarsi la borsa sulla spalla. Sembrava sul punto di congendarsi.
  «Nancy» la richiamò Kelly, avvicinandosi alla donna, che sembrò indietreggiare d'istinto verso la porta. «Cosa realmente vuole sapere?»
  Era un rischio braccarla così e per un attimo vide un'ombra di rabbia passarle sul volto, le sopracciglia corrugate e le labbra tese. La donna si rilassò dopo un secondo, sospirando.
  «Kelly, questo deve rimanere tra noi» disse Nancy, guardandosi alle spalle come se temesse di essere udita. Quando finalmente tornò a guardare Kelly, i suoi occhi erano tristi e fugaci. «Non so bene cosa sia successo, tutto quello che Christie mi ha detto è che Matt sembrava turbato da un po' di tempo. Intendo, prima di...dell'incidente del ponte. Sembra che un suo amico del liceo sia morto di recente. Lui...non parlerà mai di questo con me.» Nancy non gli diede tempo di assorbire le sue parole, congiungendo le mani al petto in preghiera. «Lui ha bisogno di parlarne. Per favore, tu sei suo amico, fa qualcosa.»
  «Lo farò» mormorò Kelly, gli occhi spalancati in sorpresa e stordimento.
  Notò appena Nancy uscire, salutandola di riflesso. Non riusciva a collocare quella nuova informazione, come se quel pezzo appartenesse a un puzzle totalmente diverso.
  Possibile che Matt non gli avesse parlato di una cosa che, a quanto pareva, lo turbava tanto? Sedendosi sul bordo della brandina, le mani al volto in riflessione, si rese conto che quel pezzo in realtà si incastrava troppo bene con altri. Semplicemente, lui voleva rifiutare il quadro generale.
  Da una parte c'era Matt e la strana inquietudine che a volte lo assaliva, dall'altra la morte di un ragazzo al quale, apparentemente, teneva molto. Spalancò gli occhi quando ricordò la conversazione avuta qualche giorno prima al belvedere.

 «Quando ero alle superiori avevo una storia...
E' stato il primo con cui sono stato attivo. L'unico...
Avevo paura di cosa avrei provato se lo avessi rifatto.»


  Mentre le parole gli tornavano alla mente, apparivano sempre più tristi e dolorose, gli occhi di Matt più liquidi di quanto ricordasse, mentre le pronunciava a fior di labbra.
  Scattò in piedi, preso da un'improvvisa agitazione. Aveva bisogno di far quadrare le cose, di affrontare Matt e sapere la verità.
  Percorrendo i corridoi della Caserma, senza alcuna reale meta, gli si paravano dietro le palpebre immagini continue. Gli sembrava di rivedere il volto sconfitto e scosso di Matt, lì sul tetto di quello stesso edificio, e il modo in cui le sue mani tremavano mentre gli porgeva il proprio distintivo.
  Fu colto da quella peculiare sensazione di euforia e stordimento di chi riesce finalmente a collegare li eventi, dando loro un senso che li faccia apparire più coerenti.
  Abbandonandosi a questa sensazione, cercò di ricacciare in fondo alla mente la percezione di essere stato tradito: aveva posto piena fiducia in Matt, possibile che lui non potesse fare lo stesso?
  Fu strappato al proprio rimuginare quando, svoltando un angolo, quasi si scontrò contro Boden.    L'uomo lo guardò con sospetto, intuendo la sua agitazione.
  «Tutto ok, tenente?»
  «No. Sì-» si precipitò a rispondere, guadagnandosi uno sguardo scettico. Si ricompose e chiese:  «Capo, posso assentarmi per mezzora? Non ci vorrà molto.»
   «Kelly-»
   «E' importante» disse, intuendo dove Boden volesse finire. Era certo di aver perso punti agli occhi dell'uomo, in seguito a tutta la storia dell'infortunio al collo, ma ora non aveva importanza.
  Il Comandante sembrò ponderare le sue magre ragioni, quindi rilasciò un pesante sospiro, chiudendo un attimo gli occhi. «Vai» acconsentì. «Severide» aggiunse quando il tenente era ormai a metà corridoio. «Mezzora, intesi?»
  Kelly annuì, mentre sfilava di tasca il cellulare. Giunto all'auto, aveva ormai già capito che Matt non avrebbe risposto alle sue chiamate. Ingoiando l'allarme che gli pulsava nella mente, poiché sentiva per istinto che qualcosa non andava, si ricordò che Shay non era di turno.
  Già dietro al volante, la chiamò, tamburellando le dita della mano libera sulla gamba.
  «Casey è a casa?» chiese, senza darle il tempo di rispondere.
  «Ciao anche a te. Comunque, no. È tornato quando mi sono svegliata ed è uscito poco dopo.»
  «Ti ha detto dove andava?» chiese, malgrado sentisse fosse inutile.
  «No...Qualcosa non va?»
  «Non lo so. Chiamami se torna.»
  Agganciò rompendo a metà il saluto di Shay, o forse altre domande. Chiuse un attimo gli occhi per ricomporsi e, quando li riaprì, una rivelazione gli attraversò la mente. Avviò il motore e si immise in strada, certo che ci fosse solo un posto dove Matt potesse nascondersi.





  
   Matt misurò a grossi passi la linea di confine del piccolo campo da baskett, adocchiando l'apertura tra la recinsione, la strada oscurata da uno spesso muretto. Sbuffò diverse volte, prima di abbandonarsi alla panchina. Strinse tra le mani il pallone, trovando conforto nella sensazione della ruvida pelle sotto i polpastrelli. Cominciava ad arrendersi all'idea che Edward non si sarebbe fatto vivo, quando un movimento catturò la sua attenzione. Per nulla intenzionato a smascherare la sua ansiosa attesa, rimase seduto a guardare a terra, senza riuscire a reprimere un sorriso quando la lunga ombra si proiettò sul cemento.
   Senza preavviso, lanciò la palla nella direzione del nuovo arrivato, mormorando: «Sei un codardo.» Alzò gli occhi al rumore dell'oggetto che veniva frenato nella sua traiettora, compiaciuto che Edward l'avesse colto senza batter ciglio.
   «Sarebbe?» chiese il moro, alzando un sopracciglio in quel modo che Matt trovava esilarante.
  Si alzò dalla panchina e stirò le braccia sulla testa, fingendosi indifferente. «Hai paura di perdere contro di me.»
  Edward rise, palleggiando un paio di volte per effetto, prima di rimandargli il lancio. «Nei tuoi sogni, Casey. Sono pronto a stracciarti anche bendato, sempre che tu non voglia tirarti indietro.»
  Per tutta risposta, Matt ghignò e si rigirò il pallone tra le mani, prima di correre verso il canestro e mettersi in posizione. La partita non durò molto, entrambi pressati dal calare del sole, mentre le loro ombre si allungavano fino a toccare la recinsione e curvarsi sul muretto.
  Quando giunsero al punteggio concordato, Matt poggiò le mani alle ginocchia e riprese fiato, madido di sudore e con i primi segni di stanchezza nei muscoli.
  «Te l'avevo detto, Casey» lo rimbeccò Edward, godendosi la propria vittoria.
  Estrasse dallo zaino una bottiglia d'acqua, prendendo grossi sorsi tra un respiro e l'altro.
  Matt sapeva che Edward era un giocatore migliore di lui, anche se mai glielo avrebbe detto. A suo favore, la natura gli aveva dotato braccia lunghe e gambe scattanti, insieme a una buona altezza e spalle larghe. Lo raggiunse e gli strappò la bottiglietta, rinfrescandosi con essa. Ne rovesciò una manciata sul capo, sbattendo le ciglia per debellare le gocce tra esse intrappolate.
  «Perché diavolo non entri in squadra?» chiese alla fine, asciugandosi il volto con un lembo della t-shirt. 
  Le mani che si posarono sui suoi fianchi lo presero alla sprovvista, impedendogli di reprimere una breve risata. Edward sorrise di quel suo sorriso sbieco e si sporse per baciarlo.
   «Perché odio il gioco di squadra» mormorò sulle sue labbra. «E perché mi piace troppo vederti giocare.»
   «Sì?» lo istigò Matt, circondandogli la vita con un braccio per attirarlo a sé.
   «Oh sì...quando diventi tutto sudato che la maglia ti si attacca addosso, per non parlare dei pantaloncini...Dio, quanto ti stanno bene!»
 Per sottolineare l'affermazione, Edward gli afferrò il sedere e lo baciò ancora.
 In sei mesi di relazione nascosta, di incontri in angoli bui della scuola o nei bagni, lontani in pubblico, troppo vicini in privato, Matt non credeva di potersi stancare di quelle labbra e quella lingua, che portava sulla punta il retrogusto di caffé alla vaniglia e sigarette leggere.
   «Dimmi che non finirà» mormorò quando Edward si staccò da lui. «Dimmi che non è solo una stronzata da ragazzini, che vuoi davvero me.»
  Il moro sorrise e scosse la testa divertito. «Matty, non ho bisogno di un ragazzo per divertirmi.»
   «Che vuol dire?»
   «Vuol dire che questo» disse, indicando prima sé poi Matt. «Questo è importante.»
  "E' per sempre?" Avrebbe voluto chiedere Matt. Non lo fece, raccogliendo le sue cose e infilando il pallone nella sacca. Non espresse quella domanda, perché quando tutto ciò che hai è appeso ad un filo così sottile, sferzato da mille ostacoli e nemici, certe domande è meglio non trovino voce.
 "E' per sempre finché ci siamo noi", pensò, guardando le spalle ritte di Edward allontanarsi verso il tramonto. Ai suoi piedi la lunga ombra recedeva, fino a scomparire.



  Quella che una volta era casa sua, ora sembrava solo un altro cumulo di macerie. Bizzarro come, in tutti quegli anni di servizio nei Vigili del Fuoco di Chicago, non avesse mai pensato al destino di quegli edifici in fiamme. Salvavano vite, scrivevano i rapporti e tornavano alle loro case, senza mai curarsi che lì fuori c'erano persone che non avevano più un posto da cui tornare. Si facevano ospitare da amici, come lui, oppure andavano a vivere da parenti, fidanzate e fidanzati, in hotel o piccoli motel, sotto ponti, in tende erette ai confini della civiltà. Nessuna di quelle vittime avrebbe più riavuto la propria casa. Matt non aveva mai considerato tutto ciò, o quanto devastante quella sensazione potesse essere, non finché le proprie gambe lo avevano portato finalmente in quel luogo.
  Entrò con cautela, sorpassando e strappando i nastri che sconsigliavano l'ingresso in quel luogo. Si chiese chi mai, eccetto lui, volesse tornare lì.
  Fu quasi certo che qualcuno nella casa accanto aprì la finestra e lo scrutò; forse uno dei suoi vecchi vicini, ma non se ne curò.
  Nella sua mente tornavano a sovrapporsi le immagini, mentre attraversava per inerzia le stanze. C'era la cucina dove Voight aveva fatto nascondere della droga e dove gli occhi di Hellie si erano spalancati nel terrore, di fronte ai due agenti. C'era il divano dove aveva consumato dozzine di birre davanti a qualche partita, film o programma futile, lasciando scivolare via il peso della giornata. C'era il muro contro il quale Kelly lo aveva spinto, baciandolo con forza.
  Lì dove erano mobili, coperte, libri, foto e tutto ciò che rende un edificio una casa, ora c'era solo distruzione. Matt respirò a fondo, poggiandosi al muro e scivolando piano a terra. Le ginocchia sollevate, vi poggiò sopra il mento, scrutando il muro annerito come per cercare una spiegazione.
  Un telo di plastica era stato tirato sul tetto, per impedire alla pioggia e al vento di distruggere le prove. Lo sentiva gonfiarsi e sbatacchiare come un uccello in gabbia, lo schioccare della plastica come una frusta sospesa nel cielo.
  Era tutto così strano e irreale, eppure ogni cosa troppo familiare.
  Chiuse gli occhi e rivide il campo ai bordi del quartiere dove era cresciuto. L'erba incolta che spuntava ostinata dal cemento, crepato e macchiato al sole, il muretto sgretolato dove le lucertole si scioglievano in estate e le formiche correvano in primavera. Fu allora che riconobbe la sensazione che ora lo attanagliava, quel senso di perdita. Il campetto non era stato più  lo stesso dopo la partenza di Edward, come se qualcuno avesse sdradicato il suo stesso significato, rendendolo solo un luogo grigio e abbandonato.
  La sua casa non era più una casa.
 Quando rilasciò un lungo respiro, lo sentì umido e pesante.
 «Hai dei vicini molto curiosi.»
  Matt alzò la testa di scatto, ma appena incontrò gli occhi preoccupati di Kelly, riportò lo sguardo sul muro e scrollò le spalle.
  «Qualcuno ha chiamato Antonio e gli ha detto che un uomo era entrato qui» continuò Kelly, malgrado fosse chiaro a Matt non importasse. Fece qualche passo avanti, ombreggiando il biondo con la propria figura. «Ero di strada, così-»
  «Non mi interessa» sbottò Matt. Non credeva a una sola parola: sapeva per certo che Kelly sapesse dove trovarlo e non volesse ammetterlo. Il come gli sfuggiva, ma si figurò che al posto suo quello sarebbe stato il primo luogo che avrebbe controllato. «Sto bene, Kelly.»
   «Lo vedo» mormorò il moro, poggiandosi al muro. Matt sentì l'intonaco sgretolarsi e finire sulla propria spalla. «Insomma, se non stessi bene non saresti nella tua vecchia casa bruciata, seduto a terra, a guardare il vuoto. Ho ragione?»
  Matt sbuffò una risata, sentendo improvvisamente la necessità di massaggiarsi le palpebre. Gli occhi bruciavano nell'aria stantia e tossica della casa.
  «Vuoi partecipare?» chiese alzando il mento, senza guardarlo in volto.
  Lo vide scrollare le spalle e sedersi accanto a lui. Stettero a lungo così, spalla a spalla, senza dir nulla. Matt lo sorprese a scrutarlo un paio di volte, come se attendesse di vederlo dar di matto o, peggio, piangere. Non accadde, perché Matt non era affatto triste o addolorato: si sentiva solo estraneo, come se guardasse se stesso da lontano. La testa era così leggera da fargli male.
   Il crepitio della polvere sotto le scarpe di Kelly, mentre stendeva le gambe, preannunciò la sua voce sottile. «Ho parlato con tua madre.»
  Matt voltò la testa incredulo, ma la rabbia si trasformò in una risata isterica. Qualcosa gli diceva che non sarebbe dovuto essere sorpreso. Non disse nulla, aspettando che Kelly si adattasse alla sua reazione e continuasse. In verità, non si fidava abbastanza della propria voce, o della possibilità che le parole oltrepassassero il groppo alla gola.
  «Come si chiamava?»
  La domanda lo congelò tra la confusione e la paura, intuendo vagamente a chi si riferisse. Lo guardò interrogativo e gli occhi di Kelly sembrarono concentrati.
  «Il ragazzo di cui mi hai parlato l'altra notte...è lui, vero? E' lui che è morto.»
  «Hai parlato con lei, sai già tutto» sbuffò Matt. Era lievemente sorpreso della propria reazione; malgrado il cuore avesse cominciato a battere pugni contro il proprio petto, una punta di sollievo cominciava a formarsi alla base della mente.
  «Non mi ha detto nulla di specifico» sottolineò Kelly.
  Matt lo guardò ed ebbe conferma dei suoi sospetti: era irritato dalla sua mancanza di risposte e dalla continua elusività. Sospirò, reclinando la testa contro il muro. Ancora intonaco che si sgretolava, rotolando fino al pavimento.
   «Edward Flick. L'ho conosciuto alle superiori. Siamo stati insieme dieci mesi.»
   Kelly rimase in silenzio, ascoltandolo con un'espressione che Matt non riusciva a collocare da nessuna parte. Gli sembrò, ora che aveva cominciato, che le parole venissero da sé, spingendo per liberarsi nell'aria di quella casa ora irreale.
  «Quando avevo tredici anni tutti i miei compagni cominciavano a correre dietro le ragazze, a parlare delle mille cose che volevano fare con loro. Qualcuno aveva già un po' di barbetta, cambiavano la voce e diventavano più grossi e muscolosi. Io ero basso, magro e glabro come un bambino.»
  «Ti prendevano in giro.»
  «Spesso e volentieri» rispose Matt con una risatina. «Bhe, alle superiori le cose sono iniziate a cambiare. Immagino che la pubertà fosse finalmente arrivata anche per me. Ho iniziato a fare palestra e ho imparato a guadagnarmi la simpatia degli altri. Potevo essere più piccolo e avere una faccia da ragazzina, ma sapevo come far ridere gli altri. Quando hanno iniziato a capire che avevo i coglioni di prendere a pugni uno più grosso di me, hanno smesso di pensare di potermi prendere in giro.» Si fermò, lasciando che un sorriso malinconico gli aleggiasse sul volto. Quindi si schiarì la voce e distese le gambe intorpidite, prima di riportarle al petto. «Era facile non guardare troppo a lungo gli atleti, fingere di apprezzare le cheerleder e tutto il resto. Fingevo anche con me stesso, ma non volevo pensarci: sai come si è a quell'età, è facile distrarsi. Alle ragazze piacevo perché ero gentile e, quando sono entrato nella squadra di basket, avevo più o meno tutto quello che volevo. Poi...è arrivato Edward e ha sconvolto tutto. La prima volto che l'ho visto ho capito che non potevo più distogliere lo sguardo e non arrossire. Lui non era affatto come me.» Matt si voltò e lanciò un'occhiata a Kelly. «Ti somigliava, sai?» appena abbe pronunciato le parole, se ne pentì. Malgrado la facilità con cui potessero essere malinterpretate e recepite, Kelly non accennò a replicare o a mutare la sua espressione, invitandolo a continuare. Il biondo sospirò e poggiò il gomito sul ginocchio, massagginado distrattamente i capelli. «Dopo poco cominciarono a farsi sentire i primi rumori: si diceva che fosse una checca, che facesse lavoretti nei bagni senza nemmeno farsi pagare e cose simili. Ovviamente, grossa parte non era vera, anche se lavoretti ne aveva fatti. Comunque, Edward non sembrava per nulla toccato dalle chiacchiere e dalle offese, come se in fondo non importasse. L'unica cosa che voleva era tenere tutto nella scuola, perché suo padre era uno di quei padri padroni che vogliono i figli perfetti e tutto. Non so come è iniziata esattamente, ma io lo guardavo sempre di più e lui non era stupido, e così siamo finiti a incontrarci in giro per la scuola. Nessuna dichiarazione o altro, solo incontri e un po' di sesso impacciato.»
  «Ma non era solo questo» constatò Kelly.
  Matt lo guardò a lungo, poi annuì e gli rivolse un breve sorriso. «Non era solo questo, no. Era la mia prima cotta vera e propria, il mio primo ragazzo. Ero confuso, certo, ma mi bastava stare con lui e tutto il resto non mi importava. Non mi facevo troppo domande perché era lui e...diamine, ero un ragazzino, volevo solo divertirmi e fare sesso. Le domande sono venute dopo...ma-»
  «E' un'altra storia?» lo canzonò Kelly.
 «Qualcosa del genere» concordò Matt, sorridendo del proprio clichè. «Credo che le cose sono iniziate a diventare più importanti da quando abbiamo cominciato a vederci al campetto. Era un campo abbandonato, uno di quelli sparsi per il quartiere dove di notte succedono le classiche cose che spingono i genitori a dire "non andare lì di notte", sai? Ogni tre giorni ci vedevamo lì, giocavamo, fumavamo e bevevamo birra. Lì non c'era sesso o incontri per occasione. C'era solo la voglia di vederci e stare insieme.»
  Matt lasciò scivolare il silenzio tra loro, finché Kelly capì che la storia era vicina alla fine e, grattandosi la nuca, chiese: «Dimmi che non finisce male.»
  «Mi dispiace» mormorò Matt, cercando di non badare alla gola secca o al fatto che l'umorismo non avesse sfiorato le sue parole. «Alla fine mio padre ci ha scoperti, ha detto tutto al padre, che lo ha mandato in un collegio militare.» Matt respirò a fondo, sorprendendosi di quanto facile fosse raccontare qualcosa che non era mai stata detta, rimanendo un segreto ingombrante anche tra lui e sua madre. Aprì il palmo della mano, disegnandovi sopra cerchi regolari con il pollice dell'altra. «Poco prima dell'incidente del ponte, ho scoperto che era morto. Ricordi quell'articolo sul convoglio attaccato in Afganistan?»
  Kelly annuì, gli occhi spalancati che passavano mentalmente in rassegna i propri ricordi.
  «Edward era lì.»
  Il vento si alzò, frustando con forza il telo di plastica sulle loro teste. Ondeggiando furiosamente per qualche secondo, esso proiettò ombre e luci sul volto di Matt, gli occhi socchiusi.
  Le dita che gli afferrarono con gentilezza e decisione il mento lo fecero sussultare. Kelly gli voltò il viso, fissandolo con tale intensità da farlo tremare.
   «E' okay» mormorò, prima di baciarlo per annegare ogni sua protesta.
  Fu appena uno sfiorarsi di labbra, nel quale Matt scoprì per contrasto quanto secche fossero le proprie. 
   «Voglio dire, è terribile» disse Kelly quando si furono separati, con il fantasma di un sorriso triste sulle labbra. Tutti i pezzi si incastravano: ora riusciva a comprendere cosa avesse spinto oltre il limite Matt, quella notte sopra il tetto della Caserma. Uno strano entusiasmo lo pervase, accellerandogli il battito. Lo guardò negli occhi: non gli era mai apparso così nudo e vero. Capì che quell'euforia che sentiva sotto pelle era tutta lì, in quelle due iridi sincere: Matt si fidava di lui. «Lo amavi?»
  «Sì.»
  Matt spalancò gli occhi alla propria decisione: non era mai riuscito a rispondere a se stesso a quella domanda, ma ora sentì un grosso peso scivolare via, senza far rumore.
  «Allora non lo dimenticherai» disse Kelly, premendo un pollice sulla sua mascella per imprimere le proprie parole. «Io amavo mia madre e la amo ancora. Non andrà mai via.»
  Una lacrima sfuggì all'occhio destro del biondo, poiché il momento era troppo vivo e reale per lasciarla dietro le palpebre. Si lasciò abbracciare da Kelly, sentendo finalmente di aver rimesso a posto qualcosa che non sapeva neanche ne avesse bisogno.
  


   Quella notte Matt rimase sveglio a guardare il soffitto, le braccia dietro la nuca e la testa galleggiante su un mare di sensazioni che non riusciva realmente ad afferrare. Era certo che avrebbe ceduto alla stanchezza e all'intorpidimento che la giornata, con il suo carico emotivo, aveva prodotto. Lo avrebbe fatto, se Kelly non fosse scivolato sotto le lenzuola, fresco di doccia.
  «Boden ti ha strigliato?»
  Il moro rise mentre si sistemava accanto a lui, il suo corpo caldo che prendeva il posto dello spazio vuoto e freddo sul materasso. «Niente di nuovo, no?»
  Sentì la mano di Kelly infilarsi sotto la maglietta e carezzargli il fianco. Quando le dita cominciarono a solleticargli la pelle, Matt gli afferrò il polso e lo guardò negli occhi. «Non voglio fare sesso.»
  Kelly si sporse e lo baciò, schiudendo appena le labbra. «Va bene» mormorò.
  Matt si rilassò e lasciò andare la presa sul suo polso, sorridendo quando Kelly continuò a carezzarlo con calma. Capì in quel semplice gesto e nel respiro calmo sul suo collo, che davvero a lui bastava averlo vicino. Voltò la testa e lo guardò ancora, ritrovandosi a guardare gli stessi occhi con i quali era cresciuto come vigile, quei chiarissimi occhi che sapevano diventare cobalto per la furia, assorbire il colore del cielo in una giornata di sole o delle acque gelide del fiume d'inverno. Passò alle labbra, rosee e intense, quelle stesse che rivedeva ridere nel passato, più giovani e tenere, e poi urlargli contro insulti nei loro mille litigi e scontri. Passò l'indice su di esse, sentendole schiudersi al tocco. Quando tornò agli occhi, vide le sopracciglia corrugate in una domanda silente.
  «Non mi ero reso conto prima di quante cose siano cambiate» sussurrò. Non seppe perché, ma gli sembrava di non poter alzare la voce senza turbare l'intimità del momento. «Qualche mese fa a quest'ora eravamo ognuno per conto suo, rimuginando su quanto l'altro fosse un bastardo. E ora eccoci qui.»
  Kelly scoprì i denti bianchi in un sorriso sincero. Posò il palmo sul suo collo, sentendo sotto la pelle il battito regolare del cuore. Lo stesso cuore che aveva immaginato battere con furia nella paura, nella rabbia e in mille altre emozioni.
  «Siamo sempre gli stessi, Matt» disse Kelly, rilassandosi sotto il suo tocco, una mano stretta intorno alla vita del biondo fino a sentire l'osso del bacino in rilievo. «Siamo solo più sinceri e liberi, no? Senza tutte quelle stronzate tra noi e con un po' di buon sesso in più.»
  Matt lo guardò come se non credesse alle sue parole, ma in fondo solo Kelly poteva conoscere quella verità. Lui era cieco di fronte alla realtà di ciò che era, di chi era dopo tutto quello che era accaduto. Kelly era lì per lui, come mai prima, per essere la sua certezza e il suo baricentro. Tutto il resto ruotava attorno allo spazio dei loro corpi. Se Matt si concentrava in quelle iridi, i rumori cessavano, assottigliandosi a una frequenza così bassa da non contare, non davvero.
  «Matt, stai bene?»
  La domanda lo colse di sorpresa, ma riuscì a sorridere e baciarlo.
  «Sto bene, Kel.»
  «Okay.» Kelly si distese sotto le coperte e chiuse gli occhi, mentre mormorava: «Se ci ripensi riguardo al sesso, non svegliarmi. Potrei dormire fino al prossimo turno.»
  Matt rise, voltandosi di schiena. «Ti prendo in parola.»
  «Non ti abituare» mormorò il moro sulla sua spalla.
  Non ci volle molto perché Matt sentisse il suo braccio circondargli la vita e il suo respiro diventare pesante, indicando l'inizio di un quieto sonno.
  Poco dopo avvertì la propria mente scivolare verso la nebbia.   









Nota: Eccoci qui. Scrivere questi due capitoli, soprattutto quest'ultimo, è stato più impegnativo del previsto. Tutta la parte riguardante il racconto di Matt è in parte ispirata a una storia vera, in parte il mio tentativo di spiegare un pezzo del tormento che ha portato Casey ad essere così riluttante all'inizio della storia. Anyway, spero di aver reso l'idea.
A presto, Ax.

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Capitolo 15
*** Questione di adattamento ***


Avvertenze: Menzione di atti sessuali, senza entrare nei dettagli; uso di un linguaggio non lindo e pulito.




Parte II


Where did all the people go?
They got scared when the lights went low
I'll get you through it nice and slow.
When the world's spinning out of control.

Afraid of what they might lose
Might get scraped or they might get bruised.
You could beg them, what's the use?
That's why it's called a moment of truth

Soldier- David DeGraw


15
Questione di adattamento
 




  Matt spalancò gli occhi e si portò seduto ancor prima di svegliarsi completamente. Grugnì contro la luce debole dell'alba, troppo improvvisa per non bruciargli gli occhi. Si passò una mano sul volto, cercando di allontanare il sottile strato di sudore che nella notte si era depositato e raffreddato. Mentre le immagini oniriche vorticavano nella sua mente, posizionandosi in punti lontani e bui, si guardò attorno alla ricerca di un appiglio alla realtà. Incontrò la testa arruffata di Kelly, steso di pancia con il cuscino stretto tra le braccia. Riuscì a sorridere, pensando che un giorno avrebbe dovuto scattargli una foto mentre era così, addormentato e indifeso. Provò la tentazione di carezzargli le spalle nude, ma desistette. L'orologio lo informava che era troppo presto per svegliarlo, e troppo tardi per tornare a dormirgli accanto.
  Spingendo l'ansia notturna in un angolo e pervaso da un senso di inquietudine, scivolò fuori dalle lenzuola e raggiunse il bagno in punta di piedi.
  La doccia avrebbe svegliato Kelly, che malgrado ronfasse quietamente aveva un sonno piuttosto leggero, quindi optò per abbondanti getti d'acqua sul volto. Più fresco e pulito, tornò in camera e indossò velocemente pantaloni, t-shirt e felpa.
  Aveva bisogno di correre fino a sentire i muscoli bruciare e le memorie degli incubi allontanarsi. Solo allora, si disse, sarebbe stato pronto per il suo primo turno dopo la lunga degenza.




   Kelly aprì gli occhi al suono insistente della sveglia. Abbatté una mano sul macchinario infernale, riducendolo velocemente al silenzio, prima di stirarsi pigramente e rotolare su un fianco. Con occhi ancora chiusi, tastò l'altra metà del letto, trovandola vuota e fredda. Aprì un occhio e sbuffò, decidendo di alzarsi e lavarsi. Nel tragitto per il bagno, prese nota dell'assenza dei pantaloni e della vecchia t-shirt del CFD che Matt indossava per correre. Non si sorprese che fosse già uscito e che non l'avesse svegliato. Se c'era una cosa che Matthew sapeva far bene era defilarsi come un dannato gatto.
   Sotto il getto fresco della doccia, pensò a tutte le cose che il suo corpo aveva imparato su Matt. Le sue dita avevano esplorato ogni angolo, ogni osso e ogni muscolo sotto la pelle; conosceva come fosse propria quella piccola cicatrice sotto l'ascella, e lui, ridendo, gli aveva raccontato di essere caduto dalla slitta l'unica volta che l'aveva usata. Conosceva i punti che lo rilassavano, quanta pressione esercitare con le mani prima di lasciare lividi sulla pelle chiarissima, o dove bastava sfiorarlo per farlo sciogliere. Poteva sentire il suo corpo sotto le dita anche quando non c'era.
  Matt, dal canto suo, sembrava sapere già nella prima settimana come muoversi per ridurlo a una massa gorgogliante di piacere e conforto. Aveva sempre dato credito all'arguzia e alla capacità di osservazione del biondo, ma non avrebbe mai potuto sognare un amante migliore.
  Lavando i denti, un'asciugamano avviluppata intorno alla vita, ripensò a tutto il contorto, ai vizi e le piccole bizzarrie, a cosa Matt amasse mangiare e cosa cucinare, alla posizione in cui dormiva -steso sulla schiena, il cuscino tenuto saldo con un braccio e l'altra mano sempre in cerca del corpo di Kelly- e tutti quei dettagli che nel complesso gli davano sicurezza di appartenenza.
  Guardandosi allo specchio mentre si radeva la barba di due giorni, si ritrovò a sorridere, riportando alla mente le mille sfumature di sorriso di Matt. Le conosceva già quasi tutte, tranne alcune e una in particolare. C'era un sorriso che lui aveva cominciato a mostrargli all'inizo della seconda settimana, al mattino. Era ampio, l'angolo sinistro della bocca leggermente più sollevato, e rughette tutte intorno agli occhi, la fronte rilassata e...accidenti, quel luccichio nelle iridi e giù in fondo alle pupille...Kelly sentiva il petto infiammarsi ogni volta. Non era certo di come classificare quel sorriso, ma la cosa più vicina che gli veniva in mente era amore. Non come l'amore che lui aveva avuto per Renee e Matt per Hallie. Non come l'amore per Shay, o per sua madre. No, era un misto di tutti questi e, se avesse ricordato bene le lezioni ai tempi delle scuole, avrebbe detto che quel sentimento era più della somma delle sue parti.
  Accorgendosi di star fissando in modo assente lo specchio con un sorriso che, lo sapeva, Shay avrrebbe tirato in ballo almeno per una settimana, indossò jeans e camicia e scese le scale, massaggiando i capelli ancora umidi.
  «Buongiorno.»
  Shay si voltò e gli sorrise, mormorando un saluto veloce prima di afferrare un recipiente di plastica e poggiarlo sul marmo. Kelly studiò con sorpresa e sospetto l'oggetto, prima di aprirlo e trovare all'interno una pila di pancakes. Inarcò un sopracciglio e Shay portò le mani davanti, muovendole in segno d'innocenza.
  «Casey?»
  «Esatto.»
  Kelly rise e prese una forchetta dalla mano della ragazza, sedendosi e gustando il pasto.
  «Allora, oggi torna in campo?»
  «Già» mugugnò Kelly, ingoiando un boccone. Strinse le palpebre di fronte allo sguardo perplesso di Shay, quindi si affrettò a precisare: «Non ci provare. Lui dice che sta bene ed è pronto e io gli credo.»
  «Ha corso per tutta Chicago, credo sia più allenato ora che prima di tutto questo schifo» commentò Shay, aprendo il frigorifero e afferrando il suo yogurt. Cercò un cucchiaino e lo infilò nel bicchiere, riempiendo poi due tazze di caffé. «Dì un po'...com'è?» chiese, massaggiandosi l'addome e alzando un sopracciglio.
  «Che vuol dire com'è? Normale, come deve essere» rispose lui un po' troppo sulla difensiva. «Non è un problema e non è così brutta.»
  Shay annuì, infilandosi in bocca una cucchiaita di yogurt. Finirono la colazione in realtivo silenzio. Kelly vuotò la sua tazza di caffé e lasciò metà pancakes per Matt, prima di controllare l'orologio.
  «Pensi che sarà un problema? Voglio dire, tu e lui a lavoro...» disse Shay fingendosi disinteressata, il cucchiaino che batteva traditore sul labbro. «Cioè, non fraintendermi, non c'è nessuno al mondo, neanche Boden, che sarebbe più felice di me del fatto che finalmente voi due ragazzi avete smesso di beccarvi a vicenda e avete deciso di sfogare il vostro testosterone in modo più produttivo, ma...»
  «Ma non sarà un problema» intercettò Kelly, fissandola.
  «Oh sì, sono certa riuscirete a dividere vita privata e lavoro» disse passandogli accanto, prima di chinarsi e sussurrargli all'orecchio: «E sono sicura che riuscirai a tenerlo nella divisa quando i vostri corpi sudati strusceranno tra loro su una scala.» Puntò con il cucchiaino al cavallo dei suoi pantaloni e Kelly rise, scuotendo la testa.
  Non era certo che stesse realmente scherzando.
  La porta dell'appartamento si aprì e Shay gli lanciò un'ultimo sguardo malizioso, prima di avviarsi alle scale e salutare Matt nel tragitto.
  Il biondo quasi corse fino alla cucina e aprì il frigorifero, afferrando una bottiglietta e svuotandola in pochi sorsi. Si passò l'orlo della t-shirt sul volto, scoprendo per un attimo l'addome e attirandovi lo sguardo di Kelly. Non badò alla grossa cicatrice, ma ai muscoli tonici e al ciuffo di peli che sporgeva dalla tuta. Incosciamente, si leccò le labbra, e a Matt non sfuggì.
  Si chinò sul bancone per baciarlo, lasciandogli sulle labbra il sapore salato del sudore, prima di aprire il contenitore e cominciare a spiluccare i pancakes.
  «Se continui ad allenarti così finirò per sembrare quello pigro che sta tutto il giorno seduto sul suo sedere» sbuffò Kelly, poggiando il mento sul palmo della mano e osservandolo divertito.
  «Potresti venire con me ogni tanto» ritorse Matt, ingoiando un boccone.
  «Potresti svegliarmi, tanto per cominciare.»
  «Non esiste. Se io ti svegliassi, non mi lasceresti uscire dal letto» disse il biondo, puntandogli contro la forchetta.
  «Come se ti dispiacesse.»
  Matt gli lanciò un'occhiata torva, ma le sue labbra si curvarono in un leggero ghigno.
  «Qual è il tuo tempo? Sono sicuro che posso batterlo.»
  «E' tutto una competizione, per te. Ecco perché non ti sveglio per correre.»
  «Paura di essere battuto miseramente, Casey?» lo sfidò Kelly, alzandosi e facendo il giro del bancone per raggiungerlo. Poggiò il peso al piano, incrociando le braccia al petto.
  «Il giorno che mi batterai...» disse Matt, lasciando la frase in sospeso.
  Kelly gli poggiò le mani ai fianchi, sfiorandogli l'orecchio con le labbra. «Io posso batterti sempre, in qualunque campo.»
  Matt poggiò il contenitore sul piano, prima di afferrare i polsi del compagno e liberarsi dalla presa. Si voltò, bloccato dalla sua figura, e lo guardò con un misto di incredulità e sfida. «Sei un bastardo» disse, baciandolo per frenare ogni protesta. Kelly sussultò quando i denti di Matt si piantarono nel suo labbro inferiore. In cerca di dominanza, gli afferrò la nuca, prolungando il bacio finché non ebbe bisogno d'aria. Con le fronti incollate e gli occhi negli occhi, gli carezzò il collo, chiedendo a bruciapelo: «Ti senti pronto?»
 «Mai stato più pronto!» esultò Matt, scivolando via da lui e afferrando una tazza di caffé.
  Kelly non era realmente preoccupato di come la loro relazione potesse influire sul lavoro, ma al contrario sentiva un'improvvisa gioia al pensiero di rivederlo con la divisa, a fare ciò che sapeva fare meglio. Non gli era sfuggito il modo in cui i suoi occhi si illuminavano, bramosi, ogni volta che costringeva Kelly a raccontargli qualcosa della giornata e del turno appena concluso. L'agitazione che lo costringeva a lunghe sessioni di allenamento era un altro importante indizio. Matt aveva bisogno di tornare al lavoro. Non poteva far altro che capirlo ed era questa una delle cose che lo esaltavano di più: loro potevano comprendersi ad un livello inaccessibile ad altri. Erano entrambi vigili del fuoco ed entrambi erano passati e passavano attraverso le stesse difficoltà. Spesso non c'era bisogno di parole o spiegazioni, bastava uno sguardo ed era come guardarsi in uno specchio.
  «Ascolta» disse in tono serio, attirandosi un paio di occhi curiosi. «Qualunque cosa non vada, me lo dici, okay?»
  «Assolutamente.»
  Si fissarono a lungo, mentre Kelly cercava di codificare il suo sguardo e capire se fosse sincero. Altra nota di merito per Matthew Casey: poker face invidiabile. Malgrado ciò, sorrise e lo baciò ancora, assaporandolo quanto più possibile, conscio che nelle prossime ventiquattro ore avrebbe dovuto girargli alla larga.
  «Andiamo a salvare la città» disse Matt, correndo a fare una doccia.





   Quando Casey varcò le soglie dell'hangar con la sacca in spalla, tutti gli uomini della caserma 51 sembravano essere lì ad attenderlo, ingannando il tempo in faccende di routine. Dovette far scivolare a terra la borsa, aggredito dalla gioia dei colleghi. Ci fu un gran abbracciare e congratularsi, battute e scherzi, un'entusiasmo che riuscì a imporporargli il viso. In questi momenti, Matt si sentiva parte di qualcosa che non era famiglia, non come lui l'aveva conosciuta, ma andava ben oltre. Nessuno di loro era costretto da vincoli di sangue o affetto, piuttosto genuinamente contenti di vederlo ancora in piedi.
  «E chi lo spezza» disse Hermann, ridendo e stringendogli una spalla.
  Quando Gabby si avvicinò, il sorriso di Matt si strinse di poco, ma abbastanza perché lei lo notasse e lui lo vedesse riflesso nei suoi occhi scuri. Si guardarono per un attimo, mentre Matt cercava di elaborare cosa fare. Non era un mistero che si fosse trasferito -momentaneamente- da Kelly e Shay; tutti alla Caserma erano passati di lì a salutarlo, tutti tranne Gabby. L'aveva vista un paio di volte ad un bar ed erano riusciti a bere sopra l'imbarazzo. Sapeva che era andata avanti e aveva ripreso a vedere Mills e ne era contento, credendo che ormai ogni disagio fosse passato. Ma per qualche motivo questo incontro era diverso.
  «Bentornato, Casey» disse alla fine Gabby.
  Lui la abbracciò, sentendosi sollevato. Il loro rapporto non sarebbe mai più stato come prima, ma potevano lavorarci. Quando sciolsero l'abbraccio, Matt lanciò un'occhiata a Severide che, in disparte, gli sorrise e annuì.
  «Matt!» tuonò la voce profonda di Boden.
  Si strinsero la mano e il sorriso dell'uomo era più grande di quanto lo avesse mai visto.
  Quando l'entusiasmo scemò e gli uomini tornarono alle loro faccende, Boden fece cenno ai due tenenti di seguirlo nel suo ufficio.
  Giunti dentro, chiusero la porta e attesero che il Comandante, poggiato alla scrivania con le braccia incrociate sul petto, parlasse.
  «Allora, come procede?»
  «Perfettamente, Capo» rispose Matt con un sorriso tranquillo sulle labbra e quel suo sguardo da il mondo è bellissimo.
  Boden lo squadrò, quindi guardò Severide, che scrollò le spalle. «Bene, quindi sei pronto a tornare in pieno servizio?»
  «Assolutamente. Due giorni fa ho fatto il test fisico e sono in piena forma. Callighan ha dato il via libera.»
  «In questo caso» disse Boden, visibilmente sollevato. «Bentornato alla 51.»
  Si strinsero ancora la mano con decisione.
  «Grazie, Capo.»
  L'uomo annuì, poi fece il giro della scrivania e si sedette, sventolando una mano per invitare i due tenenti ad imitarlo. La sua espressione era velocemente mutata in concerno e una sorta di tristezza sommersa.
  «Qualcosa non va?» chiese Kelly, risistemandosi sulla sedia.
  «Ieri mattina il Detective Dowson è passato dal mio ufficio e mi ha lasciato questo» disse Boden, passando a Casey un file.
  Kelly lo vide irrigidire la schiena e aprire la cartella con un cipiglio di concentrazione. Sul suo voltò passò sorpresa, subito sostituita da una muta rabbia. Ogni tratto si tese. Kelly si sporse a osservare, alzando un sopracciglio in direzione di Boden.
  «Quello è tutto ciò che hanno sui due incidenti» disse il Capo, incrociando le dita sulla scrivania.
  Matt chiuse il fascicolo e lo alzò in aria, mostrando la scritta stampata in rosso.
  «Caso chiuso?» recitò con sarcasmo.
  Boden annuì in modo greve. «Antonio dice che hanno fatto il possibile, ma senza ulteriori sviluppi devono chiudere il caso.»
  «Quindi? Che facciamo?» sbottò Kelly.
  «Noi nulla, Tenente Severide. Non siamo la polizia.»
  Kelly aveva voglia di urlare che al diavolo la polizia, loro dovevano pagare, ma lo sguardo duro di Boden lo inchiodò al suo posto. Invece che dar di matto, scrutò Casey. Era immobile, gli occhi fissi sul fascicolo e le dita serrate intorno alle carte.
  «Mi dispiace, Matt-»
  «Non hanno altre prove che l'identikit, giusto? Anche se li prendono, non basterà un identikit per inchiodarli» argomentò Casey. Kelly cominciava seriamente a preoccuparsi, perché dal volto del compagno non traspariva alcuna emozione.
  Boden sospirò e accennò un sì con la testa. «Quello, e la tua testimonianza.»
  «Va bene» disse il biondo alzandosi. «Posso uscire?»
  Il Capo si alzò di riflesso ed estese un braccio in segno di consenso. «Vai pure, Matt.»
  Matt non attese altro, uscendo dall'ufficio.
  Quando Severide lo raggiunse agli armadietti, lo trovò senza maglietta e intento a cambiarsi. La stanza era vuota e, malgrado sapesse che era inopportuno e che Matt avrebbe potuto dargli un pugno solo per averlo pensato, non resistette a passargli una mano sulla schiena. Lo sentì tendersi, senza fermarsi dal suo armeggiare in cerca, Kelly lo sapeva, di null'altro che una distrazione.
  Avrebbe potuto dire mille cose per tentare di sollevarlo, ma sapeva che nulla avrebbe realmente funzionato. Invece, gli massaggiò le spalle con entrambe le mani, delicatamente. Si chinò e gli baciò il collo al di sotto della linea della mascella, lì dove Matt preferiva.
  «E' tutto okay» mormorò il biondo, chiudendo l'armadietto.
  Kelly fece scivolare le mani sui suoi fianchi, saggiando con i polpastrelli la pelle grinzosa della cicatrice. Matt sussultò appena, ma si rilassò dopo un altro bacio sulla nuca.
  «Lo so» disse il moro sul suo orecchio, sentendolo rilassare la schiena contro il proprio petto.
  Il suono acuto della sirena li preparò all'azione ancor prima che la voce gracchiasse ordini.
  Ambulanza 61, Camion 81, Persona in difficoltà-
  Kelly si bloccò, guardando interrogativo Matt.
  «Turno mio di salvare il mondo» disse mentre infilava la t-shirt.
  Il sorriso che gli rivolse era calmo ma non forzato. Uno di quelli che gli dicevano grazie e anche ho vinto.
  Severide gli lasciò una pacca sul sedere, accettando di buon grado l'occhiataccia che Matt gli rifilò.
 

  Sentendo l'annuncio Persona in difficoltà Matt aveva immaginato tutt'altro scenario. Gli sembrava rude e cinico ammetterlo, ma avrebbe preferito una chiamata più adrenalinica come bentornato. Sentì qualcuno battergli un palmo sulla spalla e si voltò all'istante, troppo iperattivo per frenare il movimento. Cruz ne parve leggermente sorpreso, ma ebbe abbastanza buon senso da non commentare.
  «Bentornato, tenente» disse con non velato sarcasmo.
  «Già» borbottò Casey, scuotendo la testa. «Una chiamata è una chiamata. Forza, torniamo in Caserma.»
  I suoi uomini si misero all'opera per recuperare i propri attrezzi, mentre l'ambulanza caricava i duecentocinquanta chili di donna che avevano estratto dalla casa, rompendo uno dei muri del salotto. Matt si soffermò a pensare a quanto dura potesse essere per una persona vivere rinchiusa nel proprio corpo e, per qualche motivo, gli tornò alla mente l'ospedale, le garze, l'immobilità forzata. Sentì i muscoli appesantirsi e la gola stringersi, quindi scrollò le spalle e salì sul camion.
   Non aveva intenzione di permettere ai ricordi di offuscare la propria luciudità.

   
  Il resto del turno fu da manuale. Un paio di piccoli incidenti e un salvataggio. Matt si ritrovò ad operare in automatismo: il suo corpo sapeva istintivamente cosa fare. I suoi uomini sembravano compiaciuti di vederlo tornare in perfetta forma, quasi non fosse mai accaduto nulla. Le domande pressanti sul suo stato di salute scemarono alla terza chiamata e Matt ne fu davvero felice. Comprendeva le preoccupazioni di tutti, ma l'ultima cosa di cui aveva bisogno era sentirsi un oggetto fragile o imperfetto. Era tornato il leader, il tenente che sapeva sempre come gestire anche le situazioni più critiche.
  Il problema era la sua testa. Nessuna emozione si sprigionava nel suo petto appena sfondavano una porta ed entravano in un inferno di fiamme. Persino la gioia e la soddisfazione di aver salvato una vita, ponendola nelle mani esperte dei due paramedici, non lo toccava. Sentiva di essere in una bolla invisibile e ogni sensazione riusciva appena a scuoterne la superficie.
  Continuò a trascinare il suo corpo verso la fine della giornata, segretamente temendo il momento in cui quella bolla confortevole sarebbe esplosa.





  Kelly marciò per i corridoi della Caserma con una strana leggerezza nella mente, il telefono stretto nel palmo. Adocchiò velocemente la sala comune, proseguendo senza indugio. Giunto nell'hangar, notò che nessuno dei vigili sembrava in vista. Si fermò davanti alla stanza che ospitava le divise, guardandosi attorno con più cautela.
  Via libera.
  Esitò con la mano sulla maniglia, perché qualcosa gli diceva che era una pessima idea. D'altra parte, non poteva negare che il messaggio ancora aperto sul telefono gli aveva infuocato il ventre quasi all'istante. Con un grosso sospiro, aprì la porta e la richiuse subito dietro di sé, quasi temesse che qualcuno si infilasse all'interno.
  Fece per accendere la luce, quando un frusciare di vestiti lo bloccò. La mano che si posò intorno al suo polso e altre dita che gli afferrarono la nuca lo congelarono d'istinto.
  Labbra calde si posarono sulle sue in un bacio rude, nel quale la lingua spinse con forza per invadere la sua bocca. Rimase immobile, preso alla sprovvista, ricambiano passivamente il bacio.  «Matt?» esalò in una misto di domanda e affermazione.
  «Aspettavi qualcun'altro?» chiese Matt nel suo tono canzonatorio e con finto disappunto.
  Kelly alzò il cellulare, sbloccando lo schermo e rivelando il messaggio. La luce colpì il volto di Matt e per un attimo il moro rimase senza fiato di fronte a quegli occhi allargati e lucidi, che sembravano urlare desiderio. «Che diavolo vuol dire? Non puoi darmi appuntamento qui per-»
  In tutta risposta, Matt frenò ogni protesta afferrandogli con tale forza il cavallo dei pantaloni da fargli esalare un grugnito. Kelly sentì le ginocchia del biondo spingere contro le sue e incespicò, ritrovandosi con le spalle premute contro il muro. La bocca di Matt era già sul suo collo e le sue mani sotto la sua maglietta massaggiavano i suoi fianchi con frenesia.
  Kelly era senza parole, la mente una tavola bianca. Al buio -il cellulare doveva essere caduto in quello che, più che un incontro, sembrava uno scontro- credette per un attimo di star delirando. Se non avesse riconosciuto così bene l'odore di Matt e il suono del suo respiro accellerato, avrebbe quasi pensato non fosse lui. Matthew Casey non era tipo da-
  Tutti i suoi pensieri si bloccarono quando sentì il contatto venir meno e si sorprese a mugugnare in disappunto. Ogni sua protesta fu bloccata quando sentì suole strusciare a terra e le mani di Matt lavorare la zip dei suoi pantaloni. Cercò con le dita il suo corpo, incontrando i capelli soffici. L'immagine si formò automatica nella sua mente: Matt era in ginocchio davanti a lui, la fronte premuta contro il suo addome mentre i propri pantaloni scivolavano intorno alle caviglie. Quell'immagine mentale e la sensazione del respiro caldo di Matt su parti così sensibili, furono abbastanza perché non gli importasse più di nulla. In quel momento potevano essere ovunque, anche sulla vetta del K2, e lui non si sarebbe tirato indietro per alcun motivo. Reclinò la testa contro il muro, abbandonansodi alle qualità innegabili della bocca del compagno.



   
  «Allora...» bisbigliò Gabriela, poggiando la schiena al bancone davanti al quale Shay stava versandosi del caffé. Afferrò una mela e la rigirò tra le mani, impostandosi in quel tono di finto disinteresse che la bionda conosceva bene. «Come vanno le cose a Brokeback Mountain?»
  Leslie si bloccò con la tazza a mezzaria, guardando l'amica con le sopracciglia sollevate in un misto di sorpresa e incertezza.
  «Tranquilla, possiamo parlarne» le assicurò Gabriela, dando un morso alla mela. Masticò con entusiasmo e ingoiò il boccone. «Voglio dire, non ne parliamo mai. E ora che tra me e Casey sta tornando tutto normale... Non posso far finta che non sia vero.»
  La bionda si guardò attorno e, quando fu certa che nessuno le ascoltasse, poggiò i gomiti al bancone, invitando silenziosamente l'amica ad assumere la stessa posizione cospiratoria.
  «Sicura di volerlo sapere?» chiese, palesamente non convinta dalla sua recita.
  Gabby forzò un sorriso, ma decise di andare per la verità. «E' ancora un po' tutto strano e assurdo per me, ma l'ho superata. Sul serio. Non è che ci sia mai stato qualcosa tra noi. E poi Peter è così...» Alzò gli occhi al cielo e finse un mugugno di piacere, al quale Shay risposte con un gesto deciso della mano. «Taglia qui. Non voglio troppi dettagli.»
  La mora rise, prima di prendere un altro morso di mela. «Quindi? Sei pronta al gossip, ora che sai che puoi dar sfogo alla tua vena chiacchiericcia?»
  Leslie roteò gli occhi, nascondendo un sorriso nella tazza.
  «Va alla grande» disse, guardando nella tazza. «Voglio dire, anche troppo. Non ho mai visto Kelly così rose e fiori.»
   «E Casey? Sta bene?»
  Leslie scrollò una spalla, punta nel vivo. Poteva essere egoista come pensiero, ma sentiva uno strano fastidio sull'argomento: malgrado Casey vivesse con loro da ormai più di un mese, lei non era pronta a mettere la mano sul fuoco su cosa provasse o pensasse in quella testa bionda. Si era sempre considerata una buona osservatrice e non sapere leggere oltre i sorrisi del tenente la disturbava.
  «Credo sia tornato quasi come prima.»
  «Quasi?» chiese Gabriela con preoccupazione.
  «Quasi» sottolineò Shay guardandola. «C'è stata tutta quella storia con la madre e la sorella...»
  «Che storia?»
  Capì di aver detto troppo, ma ormai era tardi per tornare indietro. Gabriela non l'avrebbe lasciata scappare con quelle poche briciole. «Qualche settimana fa ha litigato con la madre, o qualcosa del genere. Non ne ha parlato molto. Da quello che mi ha detto Kelly le cose si sono sistemate da sole. Casey sembrava piuttosto turbato, ma sai come sono quei due: proteggono i propri segreti a vicenda.»
  «Uhm» mugugnò Gabriela attraverso un boccone di frutta.
  «Hai qualcosa in mente» constatò Leslie, chinandosi ad osservarla fino a spingerla a distogliere lo sguardo. «Avanti, sputa.»
  La mora guardò la mela, poi i fornelli, assorta nella contemplazione di ciò che stava per ammettere. Rigirava la questione da vari punti, ma riusciva a focalizzarsi solo sugli aspetti positivi per sé. «Credi che...» tentò, prima di schiarirsi la voce e guardare l'amica in tono speranzoso. «Insomma, il Molly's ha bisogno di alcuni lavori e...sai com'è, non navighiamo nell'oro, e un aiuto da un amico non sarebbe affatto male.»
  Leslie stirò la schiena con un sorriso, prima di poggiare una mano sulla spalla di Gabriela. «Puoi chiederlo a Casey, non credo che Kelly darà di matto.»
  Gabriela trovò difficoltà a ingoiare completamente il boccone di succosa mela.
  Quel non credo aleggiava nell'aria come una nuvola scura.



  Matt accese la luce e gli occhi di Kelly bruciarono un attimo di troppo, per poi focalizzarsi piano sul pavimento. L'orgasmo gli scivolava piano nei muscoli. L'onda di piacere e sollievo si bloccò dolorosamente quando notò la macchia sul pavimento. Strinse tra i denti un'imprecazione, chiedendosi se Matt non avesse archittetato tutto solo per costringerlo a ripulire i danni del proprio piacere. Lo scatto della serratura lo strappò a quei pensieri – si chiese quando Matt avesse chiuso la porta, ma suppose che tutto ciò che era successo da quel primo bacio a quel momento doveva essergli sfuggito.
  Con sorpresa si accorse che il compagno afferrava la maniglia, in procinto di uscire senza aggiungere nulla.
  «Matt?» mormorò, prima di ricomporsi e afferrargli un lembo della maglia, costringendolo a voltarsi. «Questo che vuol dire?»
  «Scusa?» chiese Matt con uno strano ghigno sul viso.
  «Perché lo hai fatto?»
  «Perché me lo hai fatto fare?»
  «Cosa?» Stordito da quello sguardo ora così lucido, Kelly faticò ad afferrare il corso dei propri pensieri, desistendo a figurarsi quelli dell'altro.   
  La realtà della propria sconsideratezza lo colpì a fondo, istillandogli un'improvvisa vergogna; ciò che più di tutto non riusciva a capire era come potesse proprio Matt correre certi rischi. «Cosa c'è sotto? Non è possibile che tu...voglio dire, poteva esserci una chiamata! Sei stato avventato.»
  Matt parve offeso e in un attimo i suoi occhi tornarono a una dura maschera di lontananza. Con un gesto stizzito si liberò dalla presa di Kelly e si avviò alla porta. «Hai avuto un pompino gratis, vuoi davvero lamentarti?»
   Le sue parole vennero attutite dallo schioccare della porta che si richiudeva, ma né il tono irritato né le parole mordaci sfuggirono al moro. Rimase un attimo inebetito a fissare la porta, prima di ricordarsi del disastro che doveva ripulire. Non trovando null'altro, prese una maglietta della Caserma e si inginocchiò a terra.


   Le sue mani tremavano e afferrare il bordo del lavabo non sembrò sortire alcun effetto. Guardare gli occhi socchiusi e le labbra schiuse di Kelly mentre l'orgasmo lo invadeva era stato impagabile, ma il bisogno di rilasciare la tensione nel suo ventre era svanito l'attimo in cui aveva realizzato quello che aveva fatto.
   Fissò i propri occhi guardarlo dallo specchio, spalancati e increduli di sé stesso. Matt aveva sentito la necessità di annegare in qualcosa, qualunque sensazione che non fosse l'ansia tormentosa alla base della nuca. Non poteva concederle spazio, perché lui era più forte di lei, doveva esserlo. Era un tenente, un dannato leader e non poteva mostrare alcuna debolezza, neanche a se stesso. Non aveva realmente premeditato di ritrovarsi in ginocchio di fronte alla zip dei pantaloni di Kelly, ma non aveva saputo frenarsi.
  Fuggendo dalla tentazione di nascondersi nelle proprie paure, aveva ceduto a quella di fuggire da esse il più lontano possibile.
  In definitiva, aveva perso il controllo.
  Aprì il rubinetto con più forza del necessario e raccolse tra le mani acqua fredda, che gettò sul viso arrossato.
  Boden avrebbe potuto scoprirli.
  Uno dei ragazzi avrebbe potuto avvicinarsi alla porta per prendere una divisa e sentire i gemiti di Kelly.
  La sirena avrebbe potuto richiamarli all'azione e loro non essere pronti. Qualche secondo di troppo e la vita di qualcuno sarebbe potuta cessare, per colpa loro. Colpa sua.
  Si sentì nauseato e sull'orlo della rottura.
  Ambulanza 61, Camion 81, Squadra 3, Incendio-
  Un'ondata d'adrenalina spazzò via ogni altra cosa, spingendolo fuori dal bagno e di corsa verso il camion.















Note: Scusate il lieve ritardo, ma come annunciato ero via (no pc, no connessione e blablabla)
Ho già qualche altro capitolo pronto, devo solo revisionarli con calma. 

*Per chi non lo sapesse (?), più su si fa riferimento al film "I segreti di Brokeback Mountain" (2005).
*
"No, era un misto di tutti questi e, se avesse ricordato bene le lezioni ai tempi delle scuole, avrebbe detto che quel sentimento era più della somma delle sue parti." Qui ci si riferisce ad Aristotele, secondo cui "Il tutto è maggiore della somma delle sue parti", e per estensione ai sistemi complessi (yep, un po' fissata).

Nient'altro da dichiarare, se non: alla prossima!
Ax.


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Capitolo 16
*** In bilico ***


16
In bilico



  Matt non aveva dimenticato quella sensazione, ma quando salì sul camion, indossando la divisa e sistemando il casco, si sentì esaltato come la prima volta. Il primo reale incendio dopo quasi due mesi. Si lasciò pervadere dalla sensazione carburante della sua vita: l'adrenalina che cominciava a montargli nel corpo appena le sirene si accendevano, con l'imprevisto dietro le porte e non sapendo cosa avrebbero incontrato. Si concentrò su questo, spazzando via ogni esitazione.
  «Meglio che starsene sul divano, eh, Tenente?» gli urlò Herman, battendogli una mano sulla spalla.
  «Non hai idea quanto mi sia mancato.»
  «Non lo so, Casey» disse Otis con il suo ghigno tipico. «Con tutte le belle donne che passano per quella casa, tra Shay e Severide, io vorrei viverci su quel divano.»
  Tutti gli uomini del camion risero, mentre in lontanaza cominciava a defilarsi un grosso pennacchio di fumo. A quella vista una strana sensazione cominciò a mischiarsi all'adrenalina, qualcosa che sfociava nell'ansia. Casey la represse e, appena sceso dal veicolo, la mente entrò subito in modalità operativa.
  «L'incendio è partito dal primo piano e sta salendo fino al tetto» disse Boden appena i due tenenti lo raggiunsero. «Abbiamo almeno altre sei vittime intrappolate tra i quattro piani.»
  «Okay» dissero all'unisono, dividendosi per coordinare le operazioni.
  «Cruz, la scala, Otis e Mouch ventilate il tetto!» urlò Casey. «Herman e Mills con me.»
  «Capp, noi andiamo con Casey» si frappose Severide. «Noi prendiamo il primo e il secondo»
  «Noi terzo e quarto.»
  Prima di indossare le maschere, i due si guardarono negli occhi e annuirono, entrando spalla a spalla nell'edificio in fiamme.


  Matt credeva di sapere cosa avrebbe provato una volta che si fosse ritrovato avvolto dalla fiamme. Aveva avuto paura di essere aggredito da quella sensazione di sordo terrore e che questo, in effetti, fosse lo scenario peggiore.
  Curvo al centro di una stanza, i cui confini svanivano tra fiamme e fumo, scoprì che non avrebbe mai potuto prevedere il senso di vuoto che ora si espandeva nel suo petto. Mentre urlava e attraversava l'appartamento in cerca di superstiti, la sua mente si liberava di ogni altra cosa. Il crepitio delle fiamme, il calore che riscaldava la pelle e lo ricopriva di sudore, l'odore della plastica della propria maschera... tutto ciò che lo circondava sfumava in un sottofondo lontano e intangibile.
  Matthew Casey, per la prima volta in anni di servizio, non provò nulla.
  «Tenente!»
  Si voltò in direzione della voce di Hermann, che nel corridoio sorreggeva il peso di un uomo svenuto.
  «Vai avanti!» urlò Casey, correndo nella sua direzione.
  Scese le scale di fretta, ponendo attenzione alle condizioni delle assi.
  Un fruscio di vestiti lo bloccò davanti a una porta divelta. Ebbe appena tempo di chiedersi come, tra il boato dell'incendio e lo scricchiolare delle assi del pavimento, lo avesse udito. Ogni pensiero razionale si disintegrò di fronte al volto che intravide attraverso il caos. Anthony Messer era di fronte a lui, come un ologramma fatto della stessa sostanza del fumo che l'avvolgeva.
  I suoi occhi penetravano ogni centimetro della sua mente, bloccandogli il fiato in gola. Matt non riusciva a respirare per il cappio invisibile intorno alla gola, mentre il cuore martellava le orecchie, marciando implacabile.
  Non sentiva il peso rassicurante della divisa, o la sensazione opprimente della maschera premuta contro il volto. Gli occhi spalancati si riempivano della vista dei propri mobili che bruciavano e del sangue che gli colava dalla fronte. Poteva sentire il dolore e la paura, la testa girare e il mondo offuscarsi.
  Qualcuno chiamava il suo nome, tra disperazione e rabbia, mentre Tony Messer brandiva la chiave inglese, scintillante e fredda.
 

  Severide misurava lo stesso pezzo di strada davanti al camion con passi nervosi, saettando gli occhi tra l'edificio in fiamme e Boden. Era passato solo un minuto da quando lui e Capp avevano portato fuori due vittime, Otis e Mouch altre due, Mills uscito per aiutare i paramedici con le barelle. Un minuto da quando Herman era riemerso con una quinta vittima e rientrato per aiutare Casey a cercare l'ultima, intrappolata al quarto piano. Un minuto che sembrava espandersi all'infinito, mentre ogni cosa si muoveva lentamente.
  «Casey, rapporto.»
  Boden attese risposta, poi lanciò uno sguardo a Severide. Tutti i vigili trattenevano il respiro, di fronte al fumo che diventava sempre più nero. L'avviso di un minuto era già stato lanciato e rimasto inascoltato.
  «Tenente. Vieni fuori, ora» ringhiò Boden.
 Severide si avvicinò al Comandante quando la radio gracchiò, ma la voce che giunse non era quella che attendeva. «Sono Hermann, sto uscendo.»
  Pochi secondi dopo il vigile emerse dal fumo che avvolgeva l'ingresso. Cruz lo aiutò a sistemare la vittima sulla barella e i due paramedici cominciarono a controllarla.
  «Hermann, dove diavolo è Casey?» urlò Severide, fronteggiando il vigile.
  «Era dietro di me, non sono riuscito a farlo muovere» disse nel panico. «Non credo mi abbia sentito.»
  «Che vuol dire?» sbraitò Boden, afferrando la radio.
  Kelly imprecò e avvicinò la trasmittente alle labbra, anticipando il Comandante. «Casey, dove diavolo sei?»
  Silenzio.  
 Ricordò lo sguardo duro del compagno nella stanza delle divise, la sua risposta secca, il modo in cui le sue labbra l'avevano aggredito nel bisogno di annegare in quella sensazione. Realizzò cosa realmente aveva visto in quegli occhi, la stessa identica cosa che era stata anche nei suoi solo pochi mesi prima. Quello non era Matt, ma una massa di paure e rabbie represse, della quale non ci si poteva fidare.
 «Matt!»
  Si era raccomandato di stare calmo, di non oltrepassare la linea, ma ora come ora non poteva importargli di meno. Strappò a Hermann la maschera e indossò l'elmetto.
  «Che diavolo fai?»
  Non guardò Boden, sordo a tutto tranne che al rumore del proprio respiro nella maschera. Corto. Sempre più corto. Si disse che la vista era appannata per il fumo, ma era una menzogna.
  «Severide, devi aspettare-»
  «Al diavolo, io entro!»
  Non attese risposta e iniziò a correre verso l'ingresso. Fece appena un passo nel corridoio quando si imbatté in una divisa che correva nella sua direzione.
  «Fuori! Subito!»
  Si lasciò afferrare per un braccio e trascinare all'esterno. L'esplosione li mancò di un soffio, togliendogli l'asfalto da sotto i piedi e sbalzandoli a terra.
  Severide sentì la maschera incrinarsi e battere contro il volto. Per l'urlo, i denti tagliarono l'interno della guancia con forza. Spinto dall'adrenalina, riuscì ad alzarsi subito e a strapparsi di dosso l'equipaggiamento danneggiato. Gettò a terra il casco, spuntando sangue sull'asfalto. Gli parve di non respirare affatto mentre con lo sguardo cerava Matt.
  Dio, fa che stia bene.
  Non di nuovo....no...
  Quando lo vide carponi, la maschera a terra e il respiro affannosso, riuscì a rilasciare il respiro. Hermann lo aiutò a tirarsi su, reggendolo per le spalle. «Tenente, tutto okay?» chiese allarmato, tastandogli la giacca con i palmi aperti.
  Matt gli strinse un braccio e sorrise come se non fosse accaduto nulla. «Sì, tutto a posto. C'è mancato poco, eh?»
  Severide non vide più nulla. L'adrenalina e il terrore appena provati lo invasero, tramutandosi in rabbia. Quando fu in grado di capire cosa stesse facendo, si ritrovò ad afferrare Casey per il bavero della divisa e a strattonarlo.
  «Che diavolo ti è saltato in mente? Un minuto vuol dire un fottuto minuto! Volevi morire, eh? Idiota!»
  Qualcuno gli poggiò una mano pesante sul petto, costringendolo ad allontanarsi.
  Guardò Boden, alzando e abbassando le spalle in cerca di controllo.
  «Torna al camion, Tenente, subito» ordinò l'uomo, spingendolo fino all'abitacolo.
  Severide strinse tra i denti una risposta che gli avrebbe causato fin troppi problemi e salì sul sedile,  sbattendo con forza lo sportello. Reclinò la testa contro lo schienale, battendola fino a riacquistare una vista più chiara.
  Quando guardò oltre il parabrezza, Casey era ancora lì, immobile dove lo aveva lasciato, e il suo sguardo era duro. Lo vide voltarsi, ignorando i paramedici che cercavano di trattenerlo per controllarlo, e salire sul camion.





  «Hai una spiegazione per quello che è successo?» abbaiò Boden appena Matt ebbe richiuso la porta dell'ufficio.
  «Sono inciampato, Capo» rispose, le mani strette dietro la schiena. Sapeva che era la scusa più banale che potesse inventare, ma non era riuscito a elaborare nient'altro.
  Boden sollevò un sopracciglio. «Inciampato?»
  «Inciampato, sì.»
  Matt non aveva mai amato mentire, ma negli anni si era ritrovato a farlo più spesso del desiderato e aveva affinato la tecnica. A volte, si giustificava, le persone hanno bisogno di sentire determinate bugie perché il mondo continui a girare indisturbato. Dire al Comandante che aveva visto Anthony Messer e di aver avuto un attacco di panico, semplicemente, non era un'opzione. Senza vacillare o batter ciglio, continuò: «Scenendo le scale, devo aver messo male un piede. La radio deve essersi rotta, per questo non ho risposto.»
  «Non mi stai mentendo, Casey?» chiese lentamente Boden.
  Matt tirò le labbra in un sorriso e scosse la testa.
  «Andiamo, Capo, non mi crede?»
  Il Comandante lo scrutò a lungo, cercando di carpire la verità. Matt si impose di non tradirsi in alcun modo, ma non poté evitare di deglutire.
  «Hermann dice che ti ha richiamato, ma tu non l'hai ascoltato.»
  «Non l'ho sentito. Lo sa meglio di me quanto casino ci sia in un incendio simile.»
  «D'accordo» concesse Boden, sospirando. Il suo sguardo divenne più docile, mentre ricadeva pesantemente sulla sedia. «Ascolta, Matt, quello che ti è successo avrebbe spezzato chiunque. Io voglio fidarmi di te, perché conto sul fatto che non mi nasconderesti di non essere al cento per cento. Ma ti consiglio vivamente di parlare con qualcuno. Se non vuoi parlare con me, puoi farlo con uno dei tuoi uomini, o con Severide. So che vi siete avvicinati molto.»
  Matt si limitò a fissare lo sguardo sulla spalla destra del Comandante, annuendo appena. Sentiva i suoi occhi scuri scrutarlo alla ricerca di una debolezza; gli sembrava che ogni sguardo indirizzato a lui avesse lo stesso identico scopo: trovare una faglia nella sua armatura. Questo lo spingeva automaticamente a rafforzarla.
  «Ascolterò il suo consiglio, Capo.»
  «Matt, forse non hai afferrato quello che voglio dirti. Se avrò anche solo il sospetto che tu non sia pronto come dici a tornare in campo, sarò costretto a fare rapporto, ciò vuol dire che sarai obbligato a parlare con un'analista del Dipartimento.»
  «Capo...»
  «Non è un opzione, Casey» disse caustico, alzando una mano per fermare ogni sua protesta. «Siamo d'accordo?»
  Matt strinse le dita intorno al proprio polso così forte da sentire la circolazione venir meno e i polpastrelli formicolare. «Siamo d'accordo.»
  «Bene. Puoi andare. Ma che non si ripeta più, intesi? La prossima volta che la radio non funziona, esci subito.»
  «Certo Capo, non si ripeterà.»
  «Sì sì, vai.»
  Matt annuì e uscì dall'ufficio. Percorse pochi passi nel corridoio, prima di poggiare la schiena al muro e rilasciare un lungo sospiro. Più si sforzava di restare focalizzato sui suoi compiti e le sue responsabilità, più intorno a sé vedeva dubbi e incertezze.
  Quel turno cominciava a sembrargli il più lungo della sua vita.



  Convincere Hermann a raccontare quello che era accaduto nell'incendio non fu semplice, ma Kelly fece appello a ogni ragione a disposizione -compreso il benessere stesso di Casey- per farlo parlare. Alla fine la preoccupazione superò la lealtà, e il vigile del Camion 81 dipinse una situazione che a Kelly non piacque affatto.
  «Senti, questo non l'ho detto a Boden perché non voglio mettere Casey nei guai. Io sono sicuro che potesse sentirmi» disse Hermann, bisbigliando per non farsi udire dagli altri. «Cioè, avrebbe potuto sentirmi, ma...era come se non potesse. Io dovevo portare quell'uomo fuori prima che fosse troppo tardi, ma per un attimo ho pensato che Casey non ne sarebbe uscito. Non mi piace doverlo dire, ma non credo che il Tenente sia al cento per cento.»
  Kelly provò la tentazione di dargli una pacca sulla spalla, per sollevarlo dal senso di colpa e dalla paura che gli contraeva il volto, ma era troppo occupato a gestire le proprie emozioni.
  Passò parte del turno a rimuginare su cosa fare, gravato dalla responsabilità di dover fare qualcosa. Conosceva Matt e sapeva che metterlo alle strette sarebbe servito solo a rafforzare il suo scudo, perché mai avrebbe ammesso le proprie debolezze sotto forzatura. Scartò l'idea di affrontarlo direttamente, per quanto fremesse dal bisogno di farlo. Matt poteva essere un ragazzo ragionevole e disponibile, ma messo all'angolo reagiva come un animale ferito. Kelly poteva capirlo meglio di chiunque altro.
  Il modo in cui il compagno lo evitava, rivolgendogli rare occhiate fredde, non aiutava la sua causa.
  Quando il Camion 81 rientrò dopo una chiamata, Kelly attese che i vigili fluissero verso la sala comune, quindi abbandonò il quotidiano e si alzò dal tavolo. Matt era rimasto indietro, controllando l'attrezzatura per evitare il confronto con chiunque.
  «Hey» lo salutò, cercando di essere più disinvolto possibile.
  L'unico modo per arrivare al nocciolo della faccenda era cercare di lanciare un'offerta di pace e sperare che l'altro la cogliesse.
  Matt alzò appena lo sguardo su di lui -o meglio, sulla sua maglietta, evitando accuratamente il viso.
  «Hey» rispose freddamente, tirando gli estremi di una fune e mettendola da parte.
  Kelly si impose di non badare al muto astio che serpeggiava nella voce del compagno. Cercò a terra le parole che sapeva doveva lasciar uscire dalle labbra, per quanto gli costassero. Erano vere e sarebbero pesante come un macigno finché non le avesse liberate. Sospirò e disse: «Senti, mi dispiace per stamattina. Ho esagerato... e ti chiedi scusa.»
  «Okay.»
  «Okay?»
  Matt alzò lo sguardo su di lui e scrollò le spalle. «Che altro vuoi ti dica?»
  «Non lo so. Pensavo avremmo avuto una di quelle conversazioni a cuore aperto» cercò di scherzare Kelly. «Hai presente, io che ti chiedo scusa e tu che mi dici che è tutto okay, che abbiamo sbagliato ma risolveremo, etc etc.»
  «La mia radio si è rotta, io non ho sbagliato.»
  «Avanti, Matt» lo spronò Kelly. Parlare con lui ora era come scontrarsi con un muro, e lui sapeva di dover evitare di sbucciarsi le nocche e provocare crepe nei mattoni. «Se c'è qualcosa che non va-»
  «Non c'è» taglio corto il biondo.
  «Stai mentendo a me o a te stesso?» Quando ottenne come risposta solo uno sguardo duro, sospirò e continuò: «Senti, io ti sto dando lo spazio che ti serve, Matt. Ma tu hai delle responsabilità, sei un Tenente.»
  «Stai mettendo in dubbio la mia posizione?» ringhiò Matt, la mascella che tremava dalla rabbia di quell'affronto.
  «Sì» rispose Kelly di impulso.
  «Perfetto, grazie tante» mormorò Matt, oltrepassandolo e marciando in direzione delle doppie porte della Caserma.
  Kelly lo guardò allontanarsi, mormorando a denti stretti un'imprecazione. Gli costava ammetterlo, ma non aveva idea di come scavalcare le difese di Matt senza frantumarle.





  L'orologio da parete strisciava piano le sue lancette, avvicinandosi con lentezza all'ora in cui la sirena di fine turno avrebbe suonato. Matt, seduto al tavolo della sala comune, sorseggiava pigramente il caffé, mentre con la mano libera tamburellava le dita sul massiccio tavolo. Per la prima volta in anni e anni di angosciante attesa del suono della sirena, si ritrovò a sperare che il tempo si dilatasse. Non aveva alcuna voglia di uscire dalla Caserma e scontrarsi con Kelly, perché sapeva fin troppo bene che non avrebbe potuto evitare un altro confronto. Tutto ciò che voleva era fare il suo lavoro al meglio, o per lo meno impegnarsi nell'obiettivo, e non pensare a nient'altro. Un'accorata e sincera discussione sui propri problemi non era nei suoi programmi.
  Hermann entrò nella sala con un giornale arrotolato tra le mani, e lo abbatté sulla nuca di Cruz, facendolo sobbalzare.
  «Smettila di fissare l'orologio» lo ammonì il più anziano. «Non farà suonare prima la sirena.»
  «Tentare non nuoce» brontolò Cruz, massaggiandosi il collo arrossato.
  Mouch rise dalla sua postazione sul divano, senza mai staccare gli occhi dalla tv.
  «Hey, Tenente, perché non vieni al Molly's dopo il turno?» chiese Herman sedendosi di fronte a Matt. Poggiò i gomiti sulle ginocchia e si sporse a bisbigliare. «Non abbiamo ancora aperto, ma nessuno ci vieta di far assaggiare a qualche amico la nuova birra che Otis ha comprato.»
  «Tranne la legge» mormorò Cruz, guadagnandosi un'occhiataccia da Hermann.
  Matt ponderò la proposta e decise che una birra con degli amici era un'idea più allentante che uno scomodo confronto con Kelly.
  «Birra americana?» chiese con un ghigno.
  «Per la verità,» si intromise Otis, alzandosi dal tavolino e raggiungendoli, «è belga, ed è sublime. Devi provarla, Casey.»
  Matt saettò lo sguardo tra i due colleghi, quindi annuì. «Che birra sia» poggiò la tazza sul tavolo e si alzò. «Ma non la pago. Lo faccio per voi, non voglio che la polizia vi faccia chiudere prima di aprire» disse in finta serietà.
  Avviandosi allo spogliatoio, sentì Otis ridere sotto i baffi.  



 Rianimato da una lunga doccia, Casey frugava nel proprio armadietto senza uno scopo preciso. La sua mente era completamente assorbita dall'ultimo confronto con Kelly e da tutto ciò che era accaduto.
  Sentiva la diffidenza dei suoi uomini, il modo in cui Boden lo scrutava, e avrebbe potuto superare ogni cosa. Ma di tutte le persone non si sarebbe mai aspettato che proprio Severide gli desse quello scacco.
  Kelly non si fidava di lui. L'uomo che amava, al quale aveva donato segreti e terrori, l'uomo che lo  stringeva dopo gli incubi senza mai costringerlo a denudarli, proprio lui ora lo guardava con lo stesso muto disappunto che era negli occhi di tutti.
  Matt si sentiva sotto la lente di un microscopio troppo invasivo, che una mano meschina regolava continuamente per mettere a fuoco ogni sua debolezza.
  La parte razionale di sé cercava di arrivare al nocciolo delle motivazioni del compagno, dove si nascondeva la paura di perderlo ancora e la rabbia covata per tutto ciò che gli era accaduto. In fondo, come poteva biasimarlo quando neanche lui si fidava di se stesso? Ma la parte emotiva poneva una barriera alla comprensione. Quello che c'era oltre era un campo condiviso, pericoloso, e se Matt vi fosse entrato ogni sua autoconvinsione sarebbe crollata. Kelly lo avrebbe costretto ad aprire quella porta che conduceva al garbuglio di emozioni che cercava di tenere sotto controllo. Matt sapeva che c'erano porte che, una volta aperte, non potevano essere richiuse. Lui non poteva permettere di farsi sopraffare dalla negatività, dalla paura e dalla rabbia; doveva concentrarsi sul suo lavoro e tirare avanti il più possibile.
  Si sedette sulla panca, strofinandosi il volto con la mano.
  Un rumore di passi lo fece scattare in piedi, le mani nascoste nell'armadietto in cerca della propria maglia. Deglutì a fatica un nodo di frustrazione quando quella particolare camminata assunse nella sua mente un'identità precisa. Kelly poggiò il borsone sulla panca accanto a lui e, senza dir nulla, aprì l'armadietto e tirò fuori un cambio. Matt aveva già infilato con lentezza la maglia, quando un vociare chiassoso annunciò l'arrivo dei ragazzi.
  «Allora, Tenente, ci ha ripensato per stasera?» chiese Hermann, lasciandogli una pacca sulla spalla nel tragitto per il proprio armadietto.
  Matt ignorò l'occhiata confusa di Kelly e si sforzò di sorridere.
  «Siamo sempre d'accordo che non pagherò un centesimo, vero?»
  «Certo certo, offre la casa» rispose l'uomo, aprendo il proprio armadietto. «In qualche modo dobbiamo festeggiare il tuo ritorno, no?»
  «Vuoi essere dei nostri, Severide?» chiese distrattamente Otis.
  Matt si voltò a scrutare la reazione del compagno, chiedendosi se fosse l'unico a sentire l'aria ghiacciarsi. Notò, alla periferia del suo campo visivo, che Herman saettava lo sguardo tra i due tenenti. Kelly afferrò i propri vestiti e chiuse l'armadietto. «La prossima» disse bruscamente, avviandosi alle docce.
  «Ho detto qualcosa di sbagliato?» chiese Otis confuso.
  Hermann roteò gli occhi e issò sulla spalla la propria sacca.
  Matt si scrollò di dosso la tensione e raccolse le proprie cose, decidendo che neanche Kelly poteva vietargli di rilassarsi di fronte a una birra con i colleghi. Voleva solo sentire la normalità, viverla sulla pelle e dimenticare tutto il resto. Kelly avrebbe capito e, se non lo avesse fatto, sarebbe stato un suo problema.
  Con questo mantra nella mente, Matt seguì le urla dei ragazzi quando la sirena finalmente rilasciò il suo liberatorio grido.









Note: Hi, guys! Ho faticato per scrivere questo capitolo, che in origine era molto più lungo e nettamente diverso. Inizialmente non mi ero preoccupata più di tanto delle ripercussioni psicologiche dei due "incidenti", ma mentre scrivevo mi sono ritrovata a storcere il naso. Insomma, già un'esperienza di quasi-morte è pesante, ma due? Per di più, in situazioni piuttosto violente. Quindi, ho approfondito la questione, ma cerco di evitare drammatizzazioni eccessive. Non mi piace calcare troppo la mano quando non necessario (almeno, non più), ma piuttosto voglio cercare di ridimensionare le reazioni emotive della persona, in modo da modellarle sul suo carattere e sulla situazione. Oh, bhe, questo poi è il mio obiettivo, ma non so quanto ci sto riuscendo e ci riuscirò.  Va da sé che non ci saranno clamorose discese nell'oblio, nella depressione o altro. Ma non voglio lasciare spoiler.
See ya soon,
Ax.

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Capitolo 17
*** Punto d'impatto ***


17
Punto d'impatto




   «Davvero non ti da fastidio?» chiese Shay, risistemando la testa sul braccio dell'amico.
  Kelly scrollò la spalla libera, stringendo con le dita la stoffa del divano. Si portò la birra alle labbra e, come ripensandoci, mormorò: «Casey è un uomo libero, può fare quello che vuole.»
  Shay alzò la testa per guardarlo in volto, ma il moro non spostò lo sguardo dalla TV finché non capì che lei non avrebbe desistito.
  «Che c'è?»
  «Niente» mugugnò Shay. «Solo che ricordavo sapessi mentire meglio di così.»
  Kelly roteò gli occhi e sprofondò nei cuscini del divano, sollevando una gamba per sistemarla sul tavolino. «Senti, non mi da fastidio che esca con i ragazzi e che non me lo dica.»
  Shay attese che continuasse e, quando fu chiaro che aveva intenzione di chiudere il discorso, sospirò e disse: «Ma il fatto che sta evitando di rimanere solo con te?»
  Kelly la guardò e non poté fare a meno di stirare le labbra in un piccolo sorriso. Shay lo conosceva dannatamente bene. Non portava rancore a Matt per aver programmato la propria serata senza tenerlo in conto, perché in fondo non aveva intenzione di finire in un rapporto geloso e possessivo. Doveva ammettere che era strano ritrovarsi a casa senza di lui, e il posto vuoto sul divano si faceva sentire – soprattutto dopo un turno così massacrante, avrebbe davvero voluto stringerlo e sentirlo suo. Kelly era abituato a concludere la giornata con un braccio sulla spalla di Matt, carezzandolo distrattamente, fino a sentire il corpo scivolare sul suo nel sonno. Malgrado la sensazione gli mancasse, non voleva dare troppo peso alla sua assenza.
  Ciò che realmente lo innervosiva, impedendogli di godere di una tranquilla serata con Shay, era sapere la verità. Matt lo stava evitando, e Kelly poteva immaginare il motivo. Il suo compagno non voleva affrontare ciò che era successo durante il turno.
  «Dovresti parlargli» disse Shay, strappandolo ai propri pensieri. «È  comodo rifugirarsi nei va tutto bene, ma prima o poi rischierà la vita di qualcuno.» Dicendo ciò, lo guardò negli occhi con una serietà che lo scosse. Entrambi sapevano a cosa si riferisse e automaticamente Kelly ripensò a quel giorno in ospedale, quando aveva stretto la mano di Shay e si era ripromesso di risolvere i propri problemi, ora e subito.
  Quando Shay si rilassò contro il suo petto e lui tornò a guardare lo schermo, la sua mente era ormai intrappolata da quel pensiero. Matt poteva aver bisogno di spazio, di processare le cose con i propri tempi e di affrontare i propri problemi da solo... Ma Kelly sapeva che queste erano solo scusanti, vie di fuga facili. Dieci minuti trascorsero in silenzio, prima che Kelly si raddrizzasse e Shay gli facesse spazio per farlo alzare.
  «Dove vai?» chiese quando lo vide indossare la giacca in fretta.
  «A parlargli.»
  «Hey» lo richiamò, prima che potesse chiudere la porta. «Non devo dirti di andarci piano e, possibilmente, evitare qualunque scontro fisico, vero?»
  Kelly roteò gli occhi, mormorando: «Per favore, Shay, non sono così stupido», prima di chiudere la porta e svanire.
 Shay sospirò e afferrò la birra lasciata a metà. Poco rassicurata dalle parole dell'amico, decise di alzarsi e cercare qualcuno con cui uscire.



  Il primo bicchiere di birra scivolò via facilmente. Matt doveva ammettere che Otis aveva ragione, e il gusto era decisamente migliore del previsto. La compagnia fu appagante e riuscì a perdersi nelle chiacchiere e negli scherzi dei colleghi. Hermann da dietro il bancone lanciava battute sagaci, interrompendo e innervosendo Otis, che cercava di raccontare tutto ciò che era avvenuto in quel mese e mezzo in Caserma. Quello che ne uscì fu un quadro comico e bizzarro, che più di una volta Cruz sottolineò essere del tutto inventato. Matt rise di gusto, godendo dell'aria calda e accogliente del piccolo bar, dove la polvere ancora si nascondeva agli angoli dei muri e il legno delle sedie scricchiolava.
  Il secondo bicchiere di birra si intorbidì nello stomaco, appesantito dal ricordo dello sguardo deluso e irritato di Kelly. Quella vista, ripresentandosi improvvisa, lo fece allontanare dal calore della compagnia, avvolgendolo della fredda sensazione della mancanza. Per un attimo rimpianse di essere uscito e desiderò aggrapparsi al corpo di Kelly con quanta forza possibile. Riuscì ad annegare il senso di colpa e il disagio nel terzo e nel quarto bicchiere di birra. Avendo snobbato l'ultimo pasto in Caserma, l'alchol salì velocemente e in poco Matt si ritrovò con i sensi intorpiditi e i riflessi lenti. Mantenne la sua postazione sullo sgabello, impegnandosi a non dar a vedere l'orizzonte di una brutta sbronza triste.
  Sapeva che nel suo stato attuale la quinta birra avrebbe segnato il confine tra un'allegra serata alcolica e una lunga discesa nell'eccesso. Fremeva già all'idea di spostare la festa altrove, in un luogo più affollato e in cui bere senza sentire di esagerare, o di abusare dell'ospitalità dei ragazzi del Molly's.
  Si accorse di aver già fatto la sua scelta quando gli giunse la voce forte di Cruz. «Wow, Tenente, sicuro di reggerne un'altra?» chiese ridendo.
  La sua mano sulla spalla per un attimo lo fece irrigidire, ma scrollò di dosso quella sensazione di fastidio.  
 «Vuoi sfidarmi, Cruz?» chiese ghignando.
  Il volto del collega gli appariva ancora chiaro, sebbene i piccoli dettagli sfumassero in un alone confuso.
 «Hey, buoni con le sfide, ragazzi. Non volete mica bervi il locale? Siamo qui per festeggiare.»
  Per un attimo Matt ebbe la sensazione che gli occhi di Hermann, in contrasto al suo tono gioviale, fossero seri e preoccupati.
 Poggiò saldamente le mani sul bancone, per apparire più in sé di quanto non fosse. Non erano le quattro birre a fargli sentire quella strana leggerezza nella mente, ma una strana eccitazione. Aveva fame di altro, di tutto. Improvvisamente sentì di poter fare qualunque cosa. Il controllato e calmo Matthew Casey poteva ballare sul mondo e ridere e correre fino a non sentire le gambe.
  Era sul punto di allungarsi oltre il bancone e servirsi da solo, quando uno sbuffo di gelo gli colpì la nuca, segnalando che la porta del locale era stata aperta.
  «Hey hey, guarda chi si vede» urlò Herman, svendolando una mano. «Vuoi unirti a noi o sei venuto a recuperare il tuo coinquilino?»
  Matt mormorò un'imprecazione a denti stretti. Ancor prima di voltarsi, seppe che Severide era alle sue spalle, poteva sentirlo e immaginarlo fin troppo bene. E di certo non era lì per partecipare alla sua piccola festa privata. Kelly era giunto per fermarlo, sfregandosi le mani e scrollandosi di dosso l'umidità della città, in quell'ostentata disinvoltura che solitamente ammirava.
  «Qualcuno deve pur portare il suo culo a casa» disse Kelly, raggiungendolo e poggiandosi al bancone. L'odore di bagnoschiuma e sigaro gli fece girare la testa più del solito.
  «Non credo» mormorò Matt. Ora desiderava ardentemente aver preso quella quinta birra ed essere già uscito di lì.
  «Avanti, Tenente, non vuoi mica finirci tutta la birra?»
  Alzò gli occhi appena in tempo per vedere Hermann scambiare uno sguardo di intesa con Kelly, e avvertire tutto d'un tratto l'aria tesa intorno a lui. Otis dardeggiava lo sguardo tra un altrettanto imbarazzato Cruz e i due Tenenti, senza più nessuna battuta sulla punta della lingua. Reprimendo l'impulso di rispondere a Hermann, Matt alzò le mani in segno di resa e scese dallo sgabello.
  «D'accordo» disse, indossando un sorriso mentre afferrava la giacca dall'attaccapanni. «Grazie della serata, ragazzi.»
  Non sentì la risposta, già fuori sul marciapiedi a farsi investire dall'aria fredda di Chicago. Avvertiva il gelo insinuarsi nei capelli, ma la pelle era in fiamme e lui non sapeva se era per rabbia o per l'alchol. Senza esitare, si avviò lungo la strada.
  «Matt!» lo richiamò Kelly, correndogli dietro.
  Appena lo avvertì alle spalle, una bolla di bianca rabbia esplose dietro gli occhi, riempendogli i nervi e annebbiandogli la vista. Si voltò e gli afferrò la giacca, spingendolo contro il muro di un edificio.
  «Matt, che diavolo fai?» ringhiò Kelly, afferrandogli a sua volta il bavero della giacca. Lo strattonò abbastanza forte da allontanarlo e farlo barcollare in cerca di equilibrio. Matt poggiò la schiena ad un palo della luce, e la rabbia si alimentò di quella spinta rude.
  «Lasciami in pace, Severide. Non ho bisogno di una baby-sitter! Lo so che cosa cercate di fare tutti. Volete tenermi sotto controllo, perché...cosa? Non sono affidabile?»
   Kelly sbuffò una risata, aprendo le braccia in tono di sfida. «Guardati e dimmi se davvero pensi di essere affidabile. Che vuoi fare? Ubriacarti fino a svenire? E poi cosa? Tornerai a lavoro e farai finta di nulla?»
  «Con te ha funzionato così bene» disse sarcasticamente Matt.
  Quelle parole colpirono Kelly esattamente dove Matt, nella rabbia e nella stanchezza mentale, voleva. L'espressione del moro mutò rapidamente da sorpresa a dolore e infine rabbia.
 «Io... Senti, lascia stare. Sto bene, voglio solo che mi lasci in pace!»
 «Allora vai, ubriacati, distruggiti, fai quello che ti pare. Ma quando ne avrai abbastanza, non sperare che io sarò ancora qui a raccogliere i pezzi.»
  «Non ne ho bisogno! Non ho bisogno di te, di aiuto o di qualunque altra cosa. Cristo! Voglio solo divertirmi un po', tu ne stai facendo una questione di Stato.»
  Matt si ritrovò senza fiato, i polmoni appesantiti dal carico di emozioni e dall'aria fredda che condensava il respiro intorno al suo viso. Gli occhi di Kelly si incupirono, mentre avanzava verso di lui colmano in pochi attimi la distanza. Il palmo del moro si fermò sul suo petto, spingendogli la schiena contro la superficie fredda del palo in modo doloroso.
  «Hai bisogno di aiuto, Matt.»
  Le sue parole, pronunciate con voce più roca ed estranea del previsto, lasciarono un'eco che rimbalzò tra gli edifici. «Ma sei troppo orgoglioso e spaventato per ammetterlo. Ne ho abbastanza di balle e pretese. Ti ho dato sei settimane e ti ho sempre aperto la porta. Mi dici che va tutto bene? D'accordo, mi dico che hai bisogno di convincerti che sia così per andare avanti, e aspetto. Ora basta! Non riguarda solo te, lo capisci?» Quando vide Matt distogliere lo sguardo e sentì le proprie parole cadere nel vuoto, premette più forte il palmo sul petto del compagno, non riuscendo a frenare la propria lingua dal dire ciò che sapeva essere sbagliato: «Dovrei lasciarti qui, ma io non sono come te. Io non lascio indietro nessuno.»
  Matt chiuse gli occhi, inalando pesantemente dal naso. Dovette impiegare tutte le sue poche forze residue per impedirsi di scoppiare e aggredire l'uomo che, con la sua presenza e le sue parole, spingeva il bottone della sua rabbia.
  «Fanculo» ringhiò, divincolandosi a fatica dalla presa.
  Kelly indietreggiò, lasciandogli lo spazio fisico per muoversi, ma inchiodandolo con lo sguardo. Matt si staccò dal palo e si avviò lungo il marciapiedi. Non sapeva dove stesse andando, sapeva solo di doversi allontanare.
  Ignorò la voce di Kelly, stringendo le palpebre per cercare di dissipare la nebbia nella mente. Il cuore accellerava e i muscoli erano tesi come di fronte al pericolo. Matt doveva mettere più distanza possibile tra sé e il suo compagno, doveva farlo. In un angolo della mente, un grumo di terrore andava formandosi: aveva paura di quello che avrebbe potuto fare. Conosceva abbastanza bene i propri limiti da sentire quando il formicolio sotto la pelle diveniva un tremore, e il proprio controllo vacillava. Scosso dall'idea di poter ferire Kelly, in qualunque modo, si ritrovò ad aumentare tanto il passo da sembrare corresse.
  Sentì una mano forte afferrargli la spalla e ancora una volta la rabbia esplose, ma questa volta con tale potenza che riuscì a riacquistare una vista chiara solo quando fu troppo tardi. Ebbe appena la percezione di essersi voltato e aver sollevato un pungo, che si era scontrato con il volto di Kelly.
  Il moro barcollò, tenendosi la guancia con una mano. Nei suoi occhi c'era stupore e shock e, quando si posarono su di lui, tutta la confusione venne spazzata via. Improvvisamente sobrio da rabbia e alchol, Matt si ritrovò a fissare la propria mano come se fosse estranea. Le nocche cominciavano ad arrossarsi per il forte impatto, il dolore che pulsava sotto la pelle.
  «Che cazzo, Matt» mormorò Kelly, raddrizzandosi e massaggiando la mascella.
  Rimasero in silenzio, mentre Matt cercava di trovare un appiglio che lo tirasse fuori dall'intorpidimento in cui era sprofondato. Riprendendo fiato, guardò Kelly e ciò che vide gli serrò lo stomaco. Avrebbe preferito che l'altro rispondesse al pugno, che lo colpisse con quanta forza aveva, piuttosto che rimanere fermo e guardarlo in attesa.
  Kelly era lì, in molti più modi e sensi di quanto potesse cogliere.
  Il suo stomaco si strinse, gorgogliò e infine fu afferrato da un intenso crampo. Matt ebbe la lucidità di chinarsi contro un muro, prima di riversare a terra le birre e parte della cena.
  Sentì la mano di Kelly sulla sua nuca, ferma e calda, e si ritrovò a chiudere gli occhi e lasciarsi andare al contatto.
  Svuotato e stanco per qualunque lotta o protesta, Matt si lasciò afferrare per un braccio e condurre all'auto.


 
  La mascella cominciava a fargli dannatamente male. Non aiutava che quel colpo avesse riaperto la lunga ferita nella guancia, dove i denti avevano aperto uno squarcio quando l'esplosione della mattina lo aveva sbalzato a terra. Ingoiando il sapore metallico del sangue e l'amaro provocato dalla  rabbia, Kelly cercò di concentrarsi sulla strada davanti a sé. Matt lo aveva già colpito in passato, quando erano più giovani e non riuscivano a risolvere i propri conflitti con le parole. A quei tempi, Kelly non aveva mai mancato di rispondere al fuoco con il fuoco, fino a costringere Andy a dividerli fisicamente. C'era un labile confine tra diplomazia e perdita di controllo, e negli anni avevano imparato a gestirlo. Kelly sapeva esattamente cosa non dire per evitare che lo scontro scivolasse dal verbale al fisico, mentre Matt sapeva quando Kelly dimenticava quella consapevolezza, e si ritirava di conseguenza.
  Ora gli sembrava che le placche tettoniche dei loro sentimenti si stessero riassestando, lasciandosi dietro un'inevitabile scia di terremoti ed esplosioni vulcaniche. Non era certo di cosa gli avesse impedito di afferrare Matt e sbatterlo contro il muro di quell'edificio, colpendolo fino a togliergli dal volto quello sguardo di sfida. Strinse il volante, cercando di reprimere l'ondata di rabbia che al pensiero risorgeva. Forse era stato lo sguardo di terrore che, dopo quel pungo, si era impossessato degli occhi chiari di Matt, o forse la consapevolezza che se avesse risposto all'aggressione tutto si sarebbe irreparabilmente distrutto. Un sospetto lo colse e il suo mondo sembrò vacillare: e se fosse già tutto distrutto? Matt aveva tradito la sua fiducia e aveva morso la mano che gli aveva teso. Kelly ebbe paura di non essere in grado di perdonarlo. Da amici erano sempre riusciti a concedersi a vicenda il perdono, anche nelle situazioni più disperate; sesso e amore complicavano tutto.
  Lanciò uno sguardo al compagno, che sedeva rigidamente accanto a lui e guardava le luci dei lampioni saettare nel buio oltre il finestrino. Era così immobile, che quando parlò la sua voce parve irreale. «Mi dispiace.»
  «Per cosa?» chiese Kelly, oltre il groppo che dalla gola estendeva tentacoli dolorosi fino alle mascelle.
  Matt inclinò la testa e sventolò una mano nella direzione generale della propria guancia. «Per averti colpito. Non volevo, non dovevo.» La sua voce si ruppe. Nascose il volto nella mano, massaggiandosi gli occhi. Kelly poté quasi giurare che stesse per piangere. «Per quello che ho detto... Per averti mentito» esalò in frustrazione, abbattendo la mano sul proprio ginocchio. «Cristo! Mi dispiace per tutto.»
  Kelly strinse le dita intorno al volante, mentre il tono della voce di Matt gli scuoteva qualcosa in fondo allo stomaco. Non era pietà o compassione...era dolore, si accorse. Sentiva la sua disperazione combaciare con la propria, il suo dolore mischiarsi al proprio. Si chiese quando la connessione empatica tra loro fosse divenuta così forte, ma si arrese a non saperlo mai. Non poteva ripescare dalla memoria il momento esatto in cui le proprie onde emotive si erano sincronizzate con quelle di Matt. Era accaduto lentamente e in modo naturale, come il crescere di una piccola e fiera pianta attraverso le stagioni. Con stupore pensò che questo non poteva che essere amore.
  «Io ti amo, Matt.»
  Sentì il sudore congelarsi tra le scapole. Lo aveva detto ad alta voce, troppo alta per non essere udita. La sua fortuna volle che il prossimo semaforo fosse rosso. Fermi nell'auto senza alcuna distrazione, senza una scappatoia a quelle parole, rimasero in silenzio finché si udì un suono strozzato. A metà tra un singhiozzo e un gemito, quel suono riverberò nel suo petto così forte che per un attimo Kelly temette di averlo esalato lui stesso.
  Si voltò e incontrò gli occhi spalancati di Matt, rossi e liquidi. Il peso di quelle tre parole era nel suo sguardo, che diventava sempre più profondo mentre la sorpresa si trasformava in consapevolezza. Il suo fiato caldo gli carezzò le labbra e lui sentì la necessità di dirlo ancora, di urlarlo finché non fosse entrato in quella testa dura, piantandosi per sempre. Lo aveva detto senza pensarci, ma non era un errore e ora gli sembrava troppo importante che Matt lo sapesse. «Ti amo, cazzo. Ti amo, e in questo momento ti odio così tanto che potrei prenderti a pugni, perché questo non sei tu e non sopporto vederti così.»
  Matt irruppe in una risata bizzarra e Kelly guardò confuso le lacrime che si formavano agli angoli degli occhi, scintillando alla luce dei lampioni. Se fossero di gioia o dolore non riusciva a dirlo, ne riusciva a comprendere cosa ci fosse da ridere.
  «Scusa, è che...Wow...»
  Il biondo rimase a bocca aperta, le parole rotte in gola.
  Kelly non riusciva più a sostenere il suo sguardo, quindi gli afferrò il colletto della giacca e lo tirò a sé, baciandolo rudemente. L'impatto fece cozzare i denti, strappando a Matt un gemito di sorpresa e dolore. Ripresosi dallo stupore, rispose al bacio, schiudendo le labbra e accogliendo Kelly.
  Quando si staccarono per riprendere aria, le labbra di Matt formarono le esatte parole che Kelly temeva di non udire mai.
  Fu appena un soffio d'aria, ma quanto bastava per far vibrare le corde vocali in un ti amo che rimbombò nella sua mente, facendo per un attimo girare i contorni del mondo.
  Un clacson suonò rabbioso e ancora una volta Matt scoppiò a ridere, questa volta non da solo.
  Quando Kelly premette l'accelleratore e strinse il volante, le sue mani tremavano.
  «Sai che comunque dovremo parlarne, vero?» mormorò, senza staccare gli occhi dalla strada. «Intendo...di tutta questa faccenda, del tuo-»
  «Problema?»
  Matt reclinò la testa e chiuse gli occhi.
  «Abbiamo tutta la notte per parlare.»
  Kelly non potè fare a meno di considerarla una vittoria. Forse, si disse, amore e perdono non dovrebbero mai stare nella stessa sentenza.
   


















Note: Hello, guys! Dopo le devastanti vacanze pasquali (vacanze? mmm) sono tornata. In questi giorni mi è stato impossibile aggiornare, anche se il capitolo era già bello pronto. Comunque, piccola nota (che in realtà è una mia riflessione): ho pensato a ripensato a quanto appropriato fosse il pugno (come gesto, come significato, come tutto), ma alla fine ho deciso di lasciarlo lì dov'è; non credo sia incompatibile con la situazione e il carattere dei personaggi, in più avrà un suo significato in seguito. Non dico altro, se non che tornerò presto!
Grazie di esserci e seguirmi.
Ax.

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Capitolo 18
*** Oltre lo specchio ***



18
Oltre lo specchio




  L'acqua gli colpiva le spalle con tale forza da indolenzirle. Con i palmi delle mani sulle piastrelle umide e la testa bassa, Matt respirava a fondo, cercando di focalizzare il turbine di emozioni che vorticava nervoso intorno alla sua mente.

Ti amo, cazzo.
Ti amo, e in questo momento ti odio così tanto che potrei prenderti a pugni,
perché questo non sei tu e non sopporto vederti così.

 
  Poteva sentire la voce di Kelly pronunciare quelle parole, roca e potente come un boato. Una voce che portava una verità scomoda, ma innegabile – questo non sei tu. Una voce che parlava da un angolo nascosto di Kelly, quello dove si rifugiavano le sue colpe e le sue paure, tutte quelle cose che nascondeva al mondo e teneva preziosamente custodite. Le aveva cedute a lui, aprendo le proprie porte e fidandosi in modo irrazionale di Matt -ti amo.
  Ed era lì il nodo della questione, Matt lo sapeva. Non aveva un luogo in cui lasciarsi cullare dalla proprie illusioni. Kelly  lo poteva guardare, dentro e fuori, costringendolo a vedere nei suoi occhi il proprio riflesso. Un riflesso che non gli piaceva, perché non corrispondeva all'uomo che era prima dei Messer.
  Quelle parole continuavano a riverberargli dentro, con il loro carico di bellezza e dolore, con l'amore che portavano e la distruzione che ricordavano.
  Matt non era stupido e, per quanto non volesse vedere la realtà, lui sapeva esattamente cosa gli stava succedendo. L'aveva previsto e aveva scelto di ignorarlo. Non succederà a me, si era detto, non può. Aveva visto vigili crollare sotto il peso di traumi impossibili da cancellare. Bastava una debolezza ed erano marchiati per sempre. Arrivavano al punto di vedere qualcosa di troppo, immagini che li perseguitavano per tutta la vita, e da uomini forti e integri, si trasformavano in fantasmi di se stessi.
  Non io, si era detto in quelle settimane, anche quando si svegliava nel terrore istillato da un incubo troppo vivido o quando, bruciando un pancacke, sentiva la propria pelle andare a fuoco, o quando, ancora, guardando la propria cicatrice gli mancava il respiro.
  Improvvisamente, si sentì sopraffatto dalla vergogna e dal disgusto di sé. Aveva mentito all'unica persona che non lo avrebbe mai giudicato e mai fatto sentire meno di quanto realmente fosse. L'unica persona che gli aveva aperto il cuore, superando sfudicie e paure. Aveva respinto Kelly e, anche se il moro non l'avrebbe mai ammesso, l'aveva ferito. Emotivamente e fisicamente -non sopporto vederti così.
  Si era convinto di aver superato tutto, di esserne uscito più forte di prima, e aveva ignorato deliberatamente tutti i segnali di pericolo. Aveva cercato di tenere lontano Kelly da tutto ciò, perché sapeva che ammetterlo a lui avrebbe significato rendere più reale e tangibile ciò che lui voleva ignorare. Ma Kelly non si era lasciato ingannare, perché in fondo lo conosceva meglio di chiunque altro. Kelly lo aveva rincorso anche quando Matt aveva cercato di fuggire da lui e dalla realtà, non si era arreso neanche quando era stato investito dalla sua rabbia -ti amo, e in questo momento ti odio così tanto che potrei prenderti a pugni.
  Kelly lo amava. Più ci pensava, più si rendeva conto che quell'affermazione non poteva essere colta da alcuna ragione. Gli sembrava assurdo, eppure così giusto e reale. Come una folgorazione, una potente epifania lo scosse, facendolo rabbrividire malgrado il calore della doccia: Kelly lo aveva salvato e continuava a farlo. Kelly, che era l'unica costante della sua esistenza, l'unica fonte di emozioni che non poteva essere ignorata. Poteva nascondere i propri sentimenti dietro una maschera di rabbia, indifferenza e persino odio, ma non poteva ignorare il fuoco che ardeva ogni volta che Kelly lo sfiorava.
  Quando emerse dalle tende della doccia, ogni superficie del bagno era avviluppata in nuvole di vapore. Ripulì lo specchio con un asciugamano e studiò il proprio riflesso, la pelle arrossata dal calore e gli occhi iniettati di sangue. Si asciugò in fretta e scese le scale, rilassando i muscoli sotto una felpa che non era sua e profumava di lui.
  Trovò Kelly quasi steso sul divano, con indosso gli stessi vestiti di prima. La mascella arrossata cominciava a prendere un colore livido e Matt sentì il proprio pugno pulsare di dolore.
  Lo sguardo del moro si spostò dal soffitto al compagno, fermo a pochi passi. Matt guardò a terra, sedendosi con lentezza all'altro capo del divano. Cercando un punto fermo nel palmo della propria mano, attese che una parola venisse detta, qualcosa che sancisse l'inizio di una conversazione dalla quale non voleva più fuggire, ma che non sapeva come cominciare.
  Avvertì i cuscini sussultare sotto il peso dei movimenti di Kelly. All'angolo del suo campo visivo, lo vide poggiare i gomiti sulle ginocchia e stringere le mani. Gli venne da ridere: malgrado tutto ciò che era cambiato, c'erano cose che tra loro sarebbero rimaste sempre uguali. Come l'imbarazzente e infantile turbine di parole non dette tra loro, quella strana inadeguatezza nell'esprimere a voce qualcosa di profondo. Entrambi si erano sempre accontentati di sguardi e gesti capaci di veicolare tutto ciò che c'era da comunicare, ma ora si ritrovavano avvolti da un silenzio che non poteva rimanere tale.
  «Hai ragione» disse alla fine Matt, attirandosi uno sguardo interessato da Kelly -forse anche sollevato. Il biondo deglutì, incapace di alzare davvero gli occhi dalle proprie mani. «Avrei dovuto dirti che non era tutto okay...pensavo che- accidenti, non so cosa pensavo! Forse non pensavo affatto. Volevo solo tornare alla mia vita, alla normalità, e non dare ragione a quelli mi guardavano come se stessi per esplodere.»
 «Ma hanno ragione» mormorò Kelly. Quando Matt alzò gli occhi di scatto, quasi irritato, seppe di aver detto qualcosa che poteva essere sbagliato, ma era fin troppo giusto. Sostenne il suo sguardo e aggiunse: «Se vuoi che ci prendiamo in giro e ci diciamo che andrà tutto bene, possiamo anche tacere da subito.»
  Matt spostò lo sguardo lungo il muro, poi sospirò. Si grattò la nuca nervosamente e annuì. «Immagino che hai ragione. Che avete tutti ragione» disse a denti stretti. Si alzò e cominciò a misurare gli stessi cinque passi avanti e indietro, prima di fermarsi di colpo e aprire le braccia. «Che dovrei fare, allora? Io sono un vigile del fuoco, Kel. Non è quello che faccio, non è un lavoro, e tu lo sai meglio di chiunque altro. Questo sono io.»
  «Hey, non ho detto che devi appendere la giacca al chiodo» esalò Kelly, alzandosi e guardandolo negli occhi. Rimase oltre il tavolino, l'unica cosa che li separava. «Cristo, non ti direi mai una cosa del genere.»
  «Okay» mormorò Matt, massaggiandosi ancora il collo, visibilmente più calmo. «Sì, lo so. Ma che devo fare, allora?»
  «Aiutami a capire, perché davvero sono confuso. Non ti ho mai visto così...»
  Matt sbuffò una risata amara, stringendo istintivamente le braccia al petto. «Neanche io» bisbigliò appena percettibilmente. «Non so cosa dirti.»
  «Che è successo in quella casa? Nell'incendio...»
  Il biondo si morse il labbro, cercando di formulare la risposta. Si arrese quando capì che in qualunque modo l'avesse detto, nulla sarebbe cambiato. «Ho perso la testa» disse fissandolo negli occhi per studiarne la reazione. Kelly strinse le palpebre, invitandolo con il suo silenzio a spiegarsi. «Ho visto Tony Messer e...era come se non riuscissi a muovermi. Ma non è-»
  «Fermo» lo interruppe Kelly, alzando la mano. «Giuro che se stai per dirmi che non è così grave ti spacco la faccia, intesi?»
  Matt tirò le labbra in un debole sorriso e annuì.
  «Bene» disse Kelly ad alta voce, più per rassicurare se stesso che intendendolo davvero. Si grattò la barba, sentendo la pressione degli occhi di Matt su di sé. In essi c'era la difensiva attesa di un rigetto, mista a qualcosa che d'altra parte somigliava alla preghiera di assoluzione, o soluzione. Kelly non era particolarmente a suo agio con nessuna delle due.
  Scelse di fare ciò di cui sapeva Matt aveva bisogno. Nei mesi passati in una rottambolesca fuga dalla verità, tra il dolore alla spalla e i farmaci, aveva rifiutato ogni mano tesa. Anche quando Matt aveva superato tutto l'astio e il rancore per aprirgli le porte, lui le aveva chiuse e gli aveva voltato le spalle, perché se le avesse oltrepassate si sarebbe ritrovato nudo di fronte alla realtà. Una realtà che lo aveva terrorizzato fino a ridurlo a una corazza che teneva a distanza ogni cosa, ogni persona, una macchina che entrava in azione bliandando fuori ogni emozione. Allora aveva avuto bisogno di uno schiaffo morale per capire, di avere la verità messa a nudo di fronte a sé.
  «Sai che potrebbe accadere ancora, vero?» chiese con voce dura, imponendosi di non distogliere lo sguardo dagli occhi del compagno. Vide le spalle abbassarsi e la maschera di difesa cedere. Matt distolse lo sguardo, solo un attimo, ma abbastanza per essere una risposta più che chiara per Kelly.
  Non aveva mai avuto la possibilità di spiegare a Matt tutto ciò che era successo dopo la morte di Darden, né il coraggio. Ora sentiva che era la cosa più importante, l'unica cosa che potesse realmente fargli capire la verità.
  «Quando mi sono ferito al collo, avevo paura di perdere il mio lavoro e ho rischiato di farvi ammazzare tutti. La metà delle volte mi faceva così male che avrei voluto prendere a pugni qualcuno, l'altra metà ero tanto fatto da non capire neanche cosa facessi. Dowson mi ha aiutato ad uscirne, costringendomi a contattare questo gruppo di recupero, ma niente può cancellare quello che ho fatto e le vite che ho messo in pericolo. È una dannata fortuna che non ho ucciso nessuno, o me stesso.»
  La sicurezza con cui aveva cominciato a parlare si sciolse nella vergogna. Il suo orgoglio vacillava ancora al ricordo e all'ammissione di colpa. Poté sentire il respiro di Matt spezzarsi anche nella distanza che li separava. «Oggi era solo il primo turno, e ti convincerai che è normale sentirsi un po' male, un po' fuori gioco. Poi arriva il secondo e il terzo e il quarto turno, e tu sei sempre meno attento, sempre più avventato. Un giorno ti svegli e indossi la tua divisa, e non ti accorgi più che qualcosa non va con te. Forse ammazzerai qualcuno, forse te la caverai, ma ti dirai che va tutto bene, in ogni caso.» Si fermò per prendere respiro. Attraversò lo spazio che li separava, sperando che Matt non indietreggiasse. Non lo fece. «Dannazione, Matt, io non voglio che tu aspetti, che tu rischi di fare qualcosa per cui pentirti per sempre.»
  Matt strinse il labbro inferiore tra i denti, succhiando aria e il vago sentore di sangue e alchol. Non sapeva come processare tutto ciò che ora circondava la persona di Kelly -i fantasmi delle loro debolezze finalmente liberi dalle catene dell'orgoglio e della paura. Oltre le sue parole, c'era la sua voce rotta e i suoi occhi nudi e sinceri; c'era la determinazione e la rabbia, ma non contro di lui, piuttosto per lui. Kelly Severide era un combattente, e ora lottava per l'anima della persona che amava. Matt si sentì travolto da tutto ciò, scosso fin nel profondo del suo bisogno di amore e protezione, quello stesso che nella vita aveva imparato a centellinare per paura di rimanere solo, ferito ed esangue.
  Alzò gli occhi su di lui, sentendoli liquidi come il proprio stomaco.
  «Cosa dovrei fare?» mormorò.
  «Fatti aiutare, ora e subito» rispose Kelly senza pensarci un secondo di più. Gli afferrò il braccio, imprimendo più forza del necessario, quasi sentisse il bisogno di ancorarlo a quel momento.
  «Quindi stai dicendo che dovrei...» Le parole gli morirono in gola: non poteva realmente credere di essere arrivato a quel punto. Da Edward a Darden, non aveva mai chiesto quel tipo di aiuto, segretamente troppo fiero per credere di averne bisogno.
  «Credi che sia da deboli?» chiese Kelly, con l'intento di un umorismo che non pervase la voce. Fece scivolare la mano lungo il suo braccio, fino a sfiorare la sua. Un vago sollievo si insinuò in lui quando Matt aprì il pugno e accolse la sua mano. «Puoi dirlo a Boden, se preferisci, e se la vedrà lui. E sappiamo entrambi cosa vuol dire.»
  Matt strinse le dita intorno alla sua mano, annuendo piano.
 «Le cazzate che stai pensando ora le ho pensate anche io. Matt, nessuno ti giudicherà se deciderai di rivolgerti a qualcuno...esperto. Anzi, nessuno lo saprà, solo io e te. E io non ti giudico, mai.»
 Matt guardava ovunque tranne a lui, cercando di processare le proprie alternative. Un pensiero focalizzava la sua attenzione: Kelly era lì a parlargli con il cuore in mano, e lui non poteva davvero non assorbire ogni parola come sacra. Poteva continuare a fingere a sé stesso o al suo compagno, ma questa era un'alternativa che quel ti amo aveva decisamente annientato. C'era poi la possibilità di aggrapparsi a lui e rifugiarsi nella vana speranza che l'amore possa davvero guarire ogni male; l'amore e il tempo. Eppure se Matt guardava dentro di sé, riusciva a vedere tutte le volte che in passato si era abbandonato a quella comoda illusione, e tutte le ferite che aveva causato. Ferite ancora aperte, che ora sanguinavano. No, doveva ammetterlo, i Messer non l'avevano dilaniato: la colpa era, in fine, sua, e di tutte le cicatrici che aveva lasciato asciugare in un angolo della mente. La violenza, la perdita e il dolore erano sempre stati fantasmi che aveva cercato di combattere stringendo nella notte Hellie, Louise e altre tre o quattro persone che aveva considerato le sue anime gemelle.
  Guardò Kelly negli occhi e sentì le sue dita bruciare oltre la stoffa della felpa, lì dove la mano sinistra afferrava la sua spalla. Kelly era diverso, Kelly era l'amore reale, ora e subito; Kelly non poteva essere il salvagente in un mare in tempesta, che prima o poi avrebbe finito per inghiottirlo. Kelly era l'ancora che fermasse il moto degli eventi e lo costringesse a guardare dentro di sé. Kelly lo spingeva a essere migliore.
  Matt fu travolto da una sensazione di forza e sicurezza che non sentiva da così tanto, che all'inizio non la riconobbe. Non c'era nulla di illusorio e avventato in quel fuoco che gli stabilizzava mente e cuore, ma la corposa consapevolezza di essere ancora se stesso. Lui c'era, ritto di fronte al mondo, e Kelly era alle sue spalle, sempre.
  «Okay» esalò alla fine. «Lo farò.»
  Kelly sorrise e gli afferrò il volto con le mani, attirandolo in un lungo bacio. Staccandosi in cerca d'aria, le fronti incollate, mormorò: «Io sarò sempre al tuo fianco.»
  Matt non aveva mai creduto così profondamente alle parole di nessuno.
  «Ma basta stronzate, intesi? Niente più bugie.»
  «Basta stronzate» confermò Matt, prima di abbozzare un sorriso. «Come va la mascella?»
  «Per favore, picchi ancora come una ragazzina.»
  Matt rise, sentendo la propria voce vibrare nel petto del compagno sotto il palmo della mano, allacciandosi al battito di quel cuore che, lo sapeva, non avrebbe mai smesso di lottare per lui, per loro.

















Note: Hello! Devo prendermi un attimo per ringraziarvi per esserci, davvero è importante per me avere i vostri feedback. Non sciorino altre parole perché non renderebbero comunque giustizia a quanto vi sono grata, quindi vado avanti. Dunque, questo capitolo è più corto degli altri, ma ho ritenuto fosse meglio chiudere questo momento in un quadro a sé. Ci sono due o tre punti che mi hanno tormentata e il risultato finale per me è ancora un dubbio. Qualche riflessione: l'amore e il tempo guariscono tutto, molti dicono. Ho letto molte storie (non mi riferisco a questo sito, ma in generale) in cui trionfa l'amore come eterno guaritore. Ora, personalmente ritengo che questa linea di pensiero tolga forza all'amore, piuttosto che dargliene. L'amore, almeno io credo, ti può rendere migliore, a volte peggiore (tutto relativo, ovviamente), ma non è una divinità nella quale riporre tutte le speranze e dire "l'amore ci salverà" -che poi, concretamente, che vuol dire? Con questo non voglio assolutamente sminuirlo come sentimento, ma anzi credo che la sua forza sia proprio nell'aprirti anche la mente, sostenerti, spingerti a trovare un motivo per prendere determinate strade. Ecco, è questo che ho voluto mettere nella mia storia, in questo preciso punto. Credo che uno dei doni più grandi che una persona possa farti è darti uno schiaffo morale e dirti "guarda che diamine stai facendo", per poi spronarti a trovare il coraggio di prendere una decisione che può andare anche contro il tuo orgoglio, ma alla fine è la migliore.
Scusate il dilungamento, ma ci tenevo a esprimere i motivi dietro questo capitolo.

  Piccola noticina: vi chiederete "chi è Louise?" Volete una risposta? Non è importante ;) Ho aggiunto quel nome solo per un tocco di realtà, null'altro.

Detto ciò...passo e chiudo.
Alla prossima.
Ax.

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Capitolo 19
*** La nostra normalità ***


19
La nostra normalità
 


   La mattina seguente, Matt si svegliò emergendo naturalmente dal dormiveglia. Si liberò lentamente dalla stretta di Kelly, attendendo che si risistemasse ancora nel sonno, prima di toccare il pavimento in punta di piedi. Sapeva che il compagno non voleva essere svegliato durante il primo giorno libero, e che se ci avesse provato lo avrebbe sentito grugnire di disappunto tutto il giorno. Quindi cercò i propri vestiti, ponendo attenzione nel fare meno rumore possibile. Trovò la t-shirt ai piedi del letto e la infilò, uscendo e richiudendo piano la porta. Quando fu in corridoio, liberò lo sbadiglio che premeva per uscire dalle sue labbra, stirando i muscoli indolenziti di braccia e collo.
  Dopo una veloce sosta in bagno, scese la scala a chiocciola con l'obiettivo di preparare la colazione per tutti e tre. Gli dava un senso di familiarità quel gesto, che nel periodo di convalescenza lo aveva aiutato a sentirsi utile.
  Con il sorriso sulle labbra, percorse il salotto, fermandosi di colpo quando vide una figura sconosciuta poggiata al bancone della cucina.
  Esalò un verso inesplicabile di sorpresa. La ragazza lo guardò stupita, allargando gli occhi castani, prima di sorridere per mostrare due fila di denti bianchi. Massaggiò i capelli scuri, che in onde scompigliate le ricadevano sulle spalle nude e sulla canotta verde.
  «Buongiorno» disse Matt, lo stupore ancora insito nel tono di voce.
  «Buongiorno» rispose la ragazza, allungando una mano. «Samantha, ma puoi chiamarmi Sam. Tu devi essere...Kelly?»
  Matt le strinse la mano, sfoderando il suo miglior sorriso amichevole. «Matthew, ma devi chiamarmi Matt.»
  Sam rise, poi afferrò la tazza con entrambe le mani e assaporò la miscela. L'odore del caffé invadeva lo spazio tra loro, colpendo le narici di Matt, bisognose di quel sentore.
  «Ce n'è ancora, se lo vuoi» disse Sam, indicando il contenitore colmo di liquido.
  Matt accennò un grazie e si servì. Dopo il primo sorso, non poté che esalare un sospiro di piacere. «Forte e nero, come piace a me. Non lo dire a Shay, ma l'unico motivo per cui mi sveglio prima di lei è che il suo caffé è terribile» bisbigliò Matt.
  «Oh, non lo so, ma ricorderò il tuo consiglio.»
  Matt le strizzò l'occhio, prima di aprire il frigo e cercare l'impasto per pancackes che aveva preparato un paio di giorni prima. Forse aveva solo bisogno di scusarsi per il grosso livido sulla mascella di Kelly, o forse voleva sentirsi utile in qualche modo, ma quella mattina aveva davvero bisogno di preparare una buona colazione. Estrasse il contenitore e cominciò ad armeggiare in cucina. Sam gli fece spazio, poggiandosi al lavello e bevendo dalla sua tazza con lentezza.
  «Quindi...» disse guardandolo versare l'impasto nella padella calda. «Tu sei il ragazzo di Kelly, giusto? Io e Leslie non abbiamo parlato molto stanotte, ma l'argomento sembrava interessarle molto.»
  «Sì, sono io» rispose Matt, distogliendo lo sguardo dalla padella per rivolgerle un sorriso.
  «E vivi qui?»
  «Mmm...per ora, sì.»
  «Per ora? Non ti sei, tipo, trasferito?»
  «In realtà non proprio. La mia casa è andata a fuoco, quindi...»
  «Sul serio?» chiese Sam, incredula. «Oh, dici sul serio...scusa, è terribile.»
  Matt scrollò le spalle, afferrando una paletta per voltare i pancackes. «L'ho superata, tranquilla» rispose sinceramente. Per allontanare il discorso da sé, chiese: «Quindi tu e Shay vi siete conosciute ieri?»
  «Sì. Lei era con un'amica comune, in questo club, e bhe...drink tira drink» disse Sam, concludendo la frase con un sorriso che illuminò i caldi occhi castani.

 
   Shay si svegliò in un letto vuoto. Oltre le tende, il sole era già alto negli ultimi bagliori del mattino, così splendido da costringerla a rotolare tra le coperte per trovare rifugio. Ricordava vagamente come era giunta a casa, ma non aveva certo cancellato dalla mente l'appassionante nottata passata con Sam. Al pensiero, sorrise, perché se anche la ragazza fosse uscita senza salutarla, in ogni caso un sano e appagante sesso tra quasi sconosciute era sempre ristorante. Cercò di non pensare che sarebbe stato davvero bello svegliarsi con un altro corpo accanto, soprattutto se era di Samantha.
  Sbadigliando rumorosamente, scese dal letto e impiegò diversi minuti a ritrovare l'equilibrio. Strisciò i piedi in corridoio, fermandosi quando registrò che la porta della stanza di Kelly era socchiusa. Ricordava dal suo ritorno che il divano in salotto era libero, quindi i due dovevano aver fatto pace. Sentendo dei rumori dalla cucina, immaginò che Matt fosse già sceso, quindi si parò gli occhi con una mano e con l'altra bussò alla porta. La aprì prima di ricevere risposta.
  «Dimmi che sei vestito, e se non lo sei copriti subito.»
  La risata di Kelly, rude per il sonno, la rasserenò all'istante. Tolse la mano dagli occhi e lo trovò seduto sul letto, le lenzuola strette intorno al bacino.
  «Buongiorno» disse il moro, massaggiandosi la nuca. Shay lo raggiunse e si sedette sul bordo del letto, ringraziando mentalmente Matt, che aveva insistito perché Kelly comprasse tende più spesse.
  «È un buongiorno?» indagò Shay, esaminandolo a fondo.
  Kelly rise, abbandonando la schiena alla testiera del letto.
  «Mmm...devo dedurre che avete fatto pace, o vi siete dedicati al sesso arrabbiato che piace tanto a voi ragazzi?»
  «Ti sembra tanto assurdo che abbiamo solo parlato?» chiese Kelly, inarcando le sopracciglia.
  Shay scrollò le spalle e si chinò per posargli un bacio sulla fronte. «Quel che ti pare, Kelly. Basta che smettete di portare in giro le vostre nubi scure.» Quando Kelly reclinò la testa, esponendo la macchia livida poco distante dal mento, Shay esalò un gemito di sorpresa. «Wow, pensavo non fossi così stupido da prenderlo a pugni.»
  Kelly tastò con le dita la propria mascella, stringendo i denti contro il dolore. «Guarda che è stato lui a colpirmi.»
  «E tu non hai risposto?» chiese Shay poco convinta.
  «Non l'ho neanche sfiorato.»
  «Wow...»
  «Wow cosa?»
  «Niente niente» disse Shay, allargando il proprio sorriso. Gli diede una pacca sul braccio e si chinò a bisbigliare: «Tienilo stretto, Kelly, perché se riesce a domarti così, conviene a tutti che ti stia intorno il più a lungo possibile.»
  Fece per alzarsi, ma Kelly le afferrò un polso, costringendola a restare.
  Shay guardò prima lui, poi le dita intorno al suo polso, e ancora il suo amico. Sembrava sul punto di dire qualcosa e lei sapeva che l'unica cosa che potesse fare per incoraggiarlo era attendere. Alla fine, Kelly sciolse la presa sul suo polso e sospirò.
  «Non avrei mai pensato che una relazione fosse così complicata» disse in un lamento.
  Shay roteò gli occhi. «Sul serio? Kelly, l'ultima relazione che hai avuto, e che si può davvero chiamare relazione, non è andata proprio bene.»
  «Già, è questo il problema. Non pensavo di cascarci di nuovo. Però...ora è diverso.»
  «Perché è Casey.»
  «Perché è Casey» confermò Kelly, risistemandosi sul materasso e sporgendosi verso di lei, in modo da non dover alzare la voce. «Voglio dire, il sesso è davvero fantastico, tutta questa storia di forza e potere e lotta, davvero fantastico» disse entusiasmandosi, prima che la voce tornasse a una strana inquietudine. «Ma quando arrivano i problemi... Io non sono sicuro di sapere come gestirli.»
  Shay non era certa di riuscire a reggere quel discorso prima di due tazze di caffé, ma gli occhi di Kelly, così vivi e bisognosi, la spinsero a concentrarsi. Sapeva che quella poteva essere l'ultima volta che lui le proponeva quel tipo di fragilità, quindi sospirò e gli poggiò una mano sul braccio nudo.
  «Ascolta, se foste qualunque altra coppia vi direi di mollare tutto.»
  «Oh, grandioso» si lamentò Kelly.
  «Aspetta» lo interruppe. «Ho detto se foste qualunque altra coppia, ma siete voi due, e davvero funzionate. Non so come sia possibile, perché siete gli opposti, eppure siete in molte cose identici. Due cocciuti identici. Non ti ho mai visto così felice, così te stesso. Quindi, non rovinare tutto perché hai paura di non essere all'altezza. Smettila di chiederti quello che devi fare, fallo e basta. Funzionerà.»
  Kelly annuì di riflesso, poi le rivolse un ghigno che lei riconobbe subito come canzonatorio. «Stai diventando tenera, Leslie Shay?»
  La bionda gli diede uno schiaffo sul petto e si alzò. «Guardati allo specchio, Kelly Severide.»
  Kelly la guardò avviarsi alla porta, e la richiamò. «Tu stai bene, Shay?»
  Lei sorrise in quel modo che per Kelly voleva dire solo una cosa: sano e disimpegnato sesso con sconosciute.
  «Benissimo» rispose, prima di uscire.
  Kelly si stese e lasciò alle sue labbra la possibilità di esprimere un sorriso intimo e sincero. Forse Leslie aveva ragione, forse loro erano destinati a funzionare, in un modo o nell'altro. Malgrado tutti gli incidenti nel loro percorso, non erano mai usciti dalle rispettive orbite, gravitando in cerca di una collusione. Alla fine era giunta, ed era stato come tornare a respirare, riemergere dall'acqua e trovare lo spazio per rilassarsi e dire "ci sono, finalmente."
   
 
 «Caffé!» urlò Shay, emergendo dalle scale con due pesanti borse sotto gli occhi e i capelli scompigliati intorno al viso pallido.
  «Buongiorno» risposero all'uninoso Matt e Sam, prima di lanciarsi uno sguardo divertito.
  Shay mugugnò una risposta e si bloccò quando vide Sam. Nascose un sorriso dietro un altro sbadiglio, raggiungendola e baciandola, prima di recuperare una tazza e riempirla di caffé. Squadrò i due, seguendo con lo sguardo il biondo che disponeva su un piatto i pancackes ormai pronti.
  «Non avete parlato di me, vero?»
  «Nah...» rispose Matt.
  Shay scrollò le spalle e, al quinto sorso di caffé, riprese lucidità e si chinò su Matt. «Il tuo orso bruno di sopra ti cerca. Meglio che muovi il culo.»
  Matt le lanciò un'occhiata stupita, ammonendola per la pessima scelta di parole, ma davanti al suo sorriso non poté far altro che ghignare. Versò in una tazza del caffé, aggiungendo abbastanza zucchero da far cominciare bene la giornata del compagno. Con le due tazze in bilico in una mano, si voltò e sorrise a Sam. «Bello averti conosciuta.»
  Sam alzò la tazza e sorrise in saluto.
  «Tienila» bisbigliò Matt all'orecchio di Shay. «Sa fare un ottimo caffé.»
  Si dileguò prima che la bionda potesse rispondere, salendo le scale con attenzione per non rovesciare il contenuto delle tazze.
  Come previsto, Kelly era ancora a letto, le braccia dietro la nuca e uno strano sorriso sul volto. Matt gli lanciò un cenno del capo, poggiando le due tazze sul comodino.
  «Hai intenzione di alzarti prima o poi?»
  Kelly fece una smorfia, afferrandogli il polso e attirandolo in un bacio. Da un semplice buongiorno, il gesto si trasformò in un incontro caldo e bisognoso, mentre Kelly gli afferrava la nuca e lo attirava a letto. Matt si ritrovò con la schiena premuta contro il materasso e il petto spinto contro quello del compagno. Quando si staccarono in cerca d'aria, Matt infilò la mano nei boxer di Kelly, compiacendosi del breve gemito trattenuto a stento.
  «Qualcuno è già bello sveglio» sussurrò sulle sue labbra, massaggiandolo con lentezza.
  Il moro si morse il labbro, rotolando di schiena e aggrappandosi alle braccia di Matt per portarlo su di sé. Afferrò il polso del biondo, portandogli la mano sull'elastico dei boxer.
  «Vuoi prendermi subito o vuoi un invito scritto?» grugnì Kelly al suo orecchio, la voce arrochita dal desiderio in quella tonalità calda che riusciva a sciogliere ogni ragione in Matt. Il biondo cercò di mantenere il proprio respiro sotto controllo e di non dargli a vedere quanto lo volesse in quel momento.
 «Sei sicuro?»
  Kelly gli baciò il collo, mormorando sulla sua pelle: «Smettila di fare domande idiote.»
  La risata di Matt fu soffocata da un rabbioso bacio. Quando riuscì a staccarsi dalla presa di Kelly sulla sua nuca, gli sfilò velocemente i boxer, prima di afferrare il tubo di lubrificante sul comodino, abbandonato tra la lampada e le tazze di caffé.





   Matt aveva cominciato a lamentarsi del fatto che loro non facevano nulla di normale, quindi Kelly si era ritrovato a spendere metà del suo giorno libero concedendosi al lusso delle cose da coppie normali. Avevano pranzato con tacos e bibite gassate lungo il fiume, camminato per le strade del centro con scarsa attenzione per le vetrine, riuscendo a comprare appena qualche maglia nuova per Matt -il cui spazio nell'armadio cominciava pericolosamente a mischiarsi con quello di Kelly. Alla fine erano approdati a un piccolo parco, per godere degli ultimi raggi solari.
  Non avevano con sé un telo o una coperta, ma Matt non esitò a togliersi le scarpe e stendersi nell'erba riscaldata da una delle rare buone giornate di Chicago. Kelly ne rise, ma lo imitò, le braccia dietro la nuca e le ginocchia sollevate.
  «Questa è la cosa più gay che mi hai fatto fare oggi» disse, strizzando gli occhi contro un raggio che penetrava tra le foglie.
  Matt rise e Kelly voltò la testa per osservarlo. Le foglie ondeggiavano in piccole ombre sul suo volto, dove la pelle sembrava più pallida nel contrasto. La piccola cicatrice sulla fronte biancheggiava, appena coperta da un ciuffo di capelli che ricresceva velocemente. Le ciglia sembravano dorarsi della stessa tonalità del sole, facendo apparire gli occhi di un colore molto vicino a quello del mare. Kelly sorrise, perché era troppo bello, in quell'esatto momento, per non essere baciato. Si sporse, reggendosi su un gomito, e poggiò le proprie labbra sulle sue. Matt rimase sorpreso, assorto com'era nell'esplorazione delle nuvole, ma quando il calore si dissipò sul suo volto, rispose al bacio con la solita passione. Kelly si staccò, assorbendo l'effetto della propria ombra sul suo viso. Gli occhi spalancati lo guardavano con la stessa nuda e cruda sincerità che così raramente mostrava in pubblico. Matt era il controllo impersonato, eppure in momenti come quello, così come nelle spire di un incendio tremendo, rivelava tutta la sua natura: forte, impetuosa, vera.
  Istintivamente, si morse il labro inferiore, carezzandogli il collo e saggiando la pelle accaldata.
  Matt strinse tra le dita il tessuto della sua t-shirt, all'altezza del petto, e lo attirò a sé.
  «Questo è decisamente gay» sussurrò sulle sue labbra.
  Kelly fece scivolare le dita sul suo collo, stringendolo e mormorando: «Oh, per una volta, taci» prima di baciarlo ancora.
  Rimasero stesi l'uno accanto all'altro, i gomiti che si toccavano, mentre il sole scendeva oltre le cime degli alberi e dei palazzi intorno al parco. L'erba cominciava a raffreddarsi, la terra che rilasciava piano il calore, mentre un lieve venticello frusciava tra le foglie.
  Fu nel silenzio lasciato dall'ultima lieve conversazione, che Matt disse: «Credo dovrei trovarmi un casa mia.»
  Kelly non riuscì a impedirsi una smorfia, ma non diede a vedere il proprio stupore, limitandosi a reclinare di lato la testa. «Se vuoi.»
  «Fai sempre finta che non t'importi» brontolò Matt, ma il suo tono era abbastanza leggero da non irritarlo. Accettava quella recita come parte della caparbietà e dell'orgoglio dell'altro, e poteva capirla bene. «Abbiamo troppo spesso turni accavallati, e quando non stiamo insieme sul lavoro, lo siamo a casa. Ovviamente Boden non ci cambierà i turni senza volere spiegazioni, quindi l'unica cosa logica da fare è che mi trasferisca.»
  «Cambieresti sul serio turno?»
  «No» ammise Matt, guardandolo e sorridendo. «Voglio lavorare con il meglio che c'è.»
  Kelly ghignò al velato complimento, mentre Matt rotolava su un fianco e si sollevava sul gomito.
  «Sono serio, Kel. Siamo insieme quasi ventiquattrore su ventiquattro. È bello, davvero, ma forse è...troppo.»
  Matt si morse il labbro per reprimere la voce che gli urlava di non affrontare quell'argomento. Lui voleva dannatamente ogni ora di ogni giorno con Kelly.
  Mille anni, o anche solo un secondo.
  La voce di Andy, malgrado il tempo trascorso, gli riverberava chiara in mente. Sembrava passata una vita da quando aveva avuto quella sorta di allucinazione, ma era stata così viva da rimanere impressa. Guardò Kelly e pensò a tutto ciò che da quel giorno terribile aveva conquistato, a quanto impossibile allora gli sembrasse quello che ora era la sua quotidianità, la sua normalità.
 Ma sapeva, nella sua parte razionale, che la loro storia era cominciata come una corsa, e se non avesse fatto nulla per rallentarla sarebbero finiti per collidere e disgregarsi.
 Attese con ansia una risposta, che arrivò quando Kelly si sollevò sugli avambracci e annuì. «Okay» disse solo.
 «Okay?»
 «Se proprio tu vuoi rallentare, allora vuol dire che sul serio è meglio farlo.»
 «Da quando mi ascolti senza protestare?» scherzò Matt. Si rese conto che segretamente aveva sperato che Kelly gli ridesse in faccia, dicendogli che era una stronzata, che non avevano bisogno di un freno. Solo in quel momento riuscì a ruotare la tavola e vedere quanto l'intera situazione spaventasse Kelly, tanto quanto lui.
  «Senti, io voglio usare ogni giorno, ma mi conosco e so che tendo a...spremere la relazione fino all'osso. E poi hai ragione, siamo sempre insieme, finiremo per-»
  «Autodistruggerci?»
  «Già, qualcosa del genere» disse Kelly con un lieve sorriso. «Senza contare che prima o poi dovrai tornare alle tue costruzioni, e il mio appartamento è delicato, non voglio che sporchi tutto in giro o rovini qualcosa. Shay mi ammazzerebbe.»
  Matt rise, immaginando il pregiato appartamento rovinato dai suoi attrezzi e dai lavori.
  Quando ormai l'aria era troppo fredda e buia per essere goduta, si alzararono e tornarono all'auto.
  «Hai già trovato un terapista?» chiese Kelly a bruciapelo, aprendo lo sportello del conducente.
  «Ho in mente qualcuno» rispose Matt, sistemandosi sul sedile.
  «Okay, bene.»
  «Hey, non ci sto ripensando» lo rassicurò, guardandolo negli occhi. «Domani lo chiamo.»
  Kelly si sporse a baciarlo, sorridendo sulle sue labbra, prima di infilare la chiave nell'accensione.
  Matt guardava la città correre oltre i finestrini, mentre lo stereo emanava una melodia soffice e le sue dita si intrecciavano a quelle di Kelly sul cambio. Si sentì rilassato e in pace con se stesso, perché ogni cosa sembrava aver trovato il suo posto e un nuovo concetto di normalità sorgeva oltre le curve del suo mondo.
  Per la prima volta in troppo tempo, ebbe la chiara e innegabile sensazione che ogni cosa si sarebbe sistemata. E per la prima volta nella sua vita, sentì di non essere solo nella sua battaglia.
  Avrebbe cercato un nuovo appartamento, che sarebbe tornato ad essere il suo spazio, un luogo che avrebbe condiviso con Kelly ogni volta che la solitudine avesse bussato alle sue porte. Certo, lo avrebbe cercato. Forse non domani, e nemmeno il giorno dopo, ma prima o poi.
  Con in mente questo blando obiettivo, reclinò la testa contro il sedile e si ritrovò a scivolare nel sonno, cullato dall'odore di Kelly.








Note: Hi, guys! Scusate il tremendo ritardo, è stata una settimana rocambolesca e la prossima non sarà più tranquilla, ma cercherò di essere più presente.
  Questo capitolo è, come da titolo, una sorta di quadro di un giorno qualunque nella nuova vita di Casey e Severide, e al contempo una sorta di modo per rallentare un attimo prima di ciò che verrà...
  Vi ringrazio come al solito della presenza, spero di avere tempo per ringraziarvi individualmente. I vostri consigli e le vostre analisi mi sono molto utili, davvero.
 Alla prossima,
  Ax.

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Capitolo 20
*** I primi passi su scale parallele ***


20
I primi passi su scale parallele




   «Matthew, lo sai che questo non è professionale, vero?»
  Matt roteò gli occhi, abbandonando per un attimo il panino stretto tra le dita per lanciare all'amico uno sguardo che lasciava poco spazio ad argomentazioni.
  Michael scosse la testa, infilando la cannuccia che spuntava dalla sua bibita tra i denti. A qualche piede di distanza due fratelli si rincorrevano nell'area giochi, ignorando gli ammonimenti della madre. Il tavolo in grezzo legno sul quale erano seduti rilasciava un piacevole calore, dal quale per un attimo entrambi si lasciarono cullare, nell'atmosfera confortevole del primo pomeriggio. Matt sapeva che l'amico stava assorbendo tutto ciò che gli aveva raccontato. Riassumere quello che era accaduto nelle ultime settimane era stato più semplice del previsto, e si ritrovò a chiedersi quando la parte difficile sarebbe giunta. Aveva lasciato fuori dal racconto tutte le emozioni, delineando i fatti nudi e crudi, ma sapeva che non sarebbe bastato.
  «D'accordo, chiariamo le cose» disse Michael, poggiando gli avrambracci sulle ginocchia e guardando il vigile. «Le nostre saranno solo conversazioni. Sono tuo amico, quindi non posso considerarti un paziente o farti pagare, e la mia opinione non conta come professionale. Intesi?»
  «Rilassati, Doc, non pretendo che tu sia professionale.»
  «È per questo che hai scelto me? Perché un terapista è troppo professionale?»
  Matt distolse lo sguardo, punto nel vivo. Conosceva Michael dai tempi dell'ultimo anno di superiori e neanche quando suo padre era morto e lui era solo un amico, non un terapista, lo aveva contattato. Si era rifiutato di alzare la cornetta dopo la morte di Andy, ma questa volta era stato costretto a farlo. Non voleva tradire la fiducia di Kelly e, d'altra parte, era stato proprio il suo compagno a farlo scontrare con la realtà. Questa volta, lo sapeva, non poteva caversela da solo. Conoscere i propri limiti era un punto cardine della sua professione.
  «Senti, se il Dipartimento sapesse che vedo un terapista, andrebbe in allarme. Questo vuol dire che dovrei superare un test psicologico-»
  «E hai paura di non passarlo?»
  «Certo che posso passarlo» sbuffò Matt.
  «Perché vuoi la terapia, Matthew?»
  Il biondo battè le palpebre, cercando di processare una risposta. «Perché devo farlo» sputò fuori, sebbene non lo soddisfacesse. «Il Comandante è stato piuttosto chiaro su questo. E poi voglio dimostrare ai miei uomini che sono tornato in forma.»
  «Sei un pessimo bugiardo.»
  «Per favore, sono un ottimo bugiardo» ritorse Matt, sperando di dissolvere la questione nell'umorismo.
  Michael sorrise, ma non si lasciò ingannare. «Nessuno ti ha costretto a farlo. Ti conosco abbasta da poterlo dire. Avanti, gli unici ordini che esegui sono quelli che vengono da persone che rispetti. Non sei esattamente uno che si piega all'autorità senza discutere. In più, ti stai contraddicendo da solo. Sono sicuro che il Comandante non ha idea che tu sia qui con me, oggi.»
  «Okay, Doc, stai correndo troppo. Mi psicanalizzi così, su due piedi?»
  «Nha, non ti sto psicanalizzando» mormorò Michael. Poggiò la bibita tra le ginocchia e i palmi sul tavolo, saggiando il calore del legno. «E comunque, quel termine non lo usava nemmeno il mio professore.»
  Matt rise e cercò di ingoiare il boccone, ma il panino era diventato improvvisamente insipido. Lo avvolse nella carta e lo mise nella busta, abbandonandolo sulla panchina. Vide Michael arrotolare le maniche della camicia bianca e strusciare i palmi per ripulirli dalle foglie secche cadute dall'albero.
  «Devo sapere se sei davvero motivato a fare questa cosa» disse, chiandosi sulla panca per rovistare nella tracolla. Ne tirò fuori un pacco di sigarette e un accendino. Ne strinse una tra le labbra sottili.
  «Se vuoi saperlo, dovrai offrirmene una.»
  Michael sollevò un sopracciglio, stirando le labbra in un sorriso. Quando anche Matt ebbe la sua sigaretta tra le labbra, accesa e fumante, ispirò a lungo. Sentì il fumo entrargli nei polmoni, il sapore acre in gola e la nicotina che saliva alla mente, dandogli l'illusione di schiarire i propri pensieri.
  Sbuffò nell'aria una nuvola di fumo, guardando la cenere scivolare dalla punta della sigaretta.
  «Ti ricordi di Kelly Severide?» chiese, cercando di controllare il tremito delle labbra.
  Michael annuì, portando la sigaretta alle labbra, mentre con la mano libera massaggiava la nuca rasata.
  «Stiamo insieme» disse alla fine Matt, fissandolo e aspettando una reazione. Se Michael era stupito, lo nascose bene, limitandosi ad annuire ancora. «È iniziato tutto prima dell'incidente, quello del ponte. Ci siamo scontrati, prima e dopo...era tutto confuso. Dopo l'incendio, era come se sapessi esattamente cosa volevo.»
  «Questione di prospettive» mormorò il giovane psichiatra, grattandosi la barba sul mento. «Di fronte a un evento critico, si tende a rivalutare la propria vita, le scelte fatte, cosa si è rischiato di perdere o guadagnare.»
  «Già, immagino sia così. È lui che mi ha convinto a chiedere aiuto. Sai, se lo conoscessi come lo conosco io, potresti capire quanto sia testardo. Non avrebbe mollato finché non avessi accettato, e questo mi ha fatto capire quanto realmente ne abbia bisogno.»
  «Ma non è solo questo» constatò Michael. «Sei arrivato al punto di vedere qualcosa che ti ha spaventato tanto da chiedere aiuto.»
  Matt si ritrovò a corto di parole. Si prese più tempo del necessario per aspirare dalla sigaretta, cercando di processare cosa dire. Non amava sentirsi dire ciò che pensava, ascoltare la verità su qualcosa di così intimo da qualcuno, ed era in parte il motivo per cui la terapia lo spaventava tanto. D'altra parte, era strano ammettere tutto a voce alta e gli sembrava quasi di raccontare la storia di qualcun altro.
  «Io ho visto l'uomo che mi ha aggredito» mormorò, fissando lo sguardo sulla balaustra del fiume, che scintillava in lontananza. «Durante una chiamata per un appartamento in fiamme, io l'ho visto e per un attimo ho dimenticato dove fossi e cosa stessi facendo. Sono riuscito a tornare in me un attimo prima che il posto crollasse.»
  Non appena quell'ammissione lasciò le sue labbra, Matt desiderò rimangiarsela. Temeva che Michael dicesse quello che, al posto suo, avrebbe pensato. Doveva ammettere che se uno dei suoi uomini gli avesse confessato una cosa simile, lui gli avrebbe dato una pacca sulla spalla e gli avrebbe detto di appendere il distintivo al muro, prima che finisse su quello dell'Accademia.
  Rabbrividì al pensiero.
  «Matthew» lo richiamò la voce calda di Micheal. Lo guardò negli occhi, calmi e scuri, e attese il verdetto. Lo psichiatra sorrise e gli diede una pacca sulla gamba. «La tua carriera non è finita. La tua è una reazione forte, ma ancora nei limiti del normale. In queste settimane sei rimasto lontano da ciò che poteva ricordarti gli eventi traumatici che hai subito, e questo ti ha permesso di proteggerti dai ricordi, o almeno dalla loro forza. Ora sei costretto a fronteggiarli, e questo li ha riportati a galla. Ma hai una persona accanto che ti comprende, e questo non è poco. Possiamo lavorarci, stai tranquillo.» Michael scese dal tavolo e spense la sigaretta nel posacenere agganciato ad esso. «Intanto, dovresti imparare qualche esercizio di respirazione.»
  Matt inarcò le sopracciglia, estinguendo la propria sigaretta. «Dopo questa?»
  «Oh, sei giovane e atletico, i tuoi polmoni stanno benissimo.»
  Quando infilò le mani nelle tasche dei jeans, seguendo la schiena di Michael lungo il fiume, Matt si sentì alleggerito da un grosso peso. Ora gli sembrava assurdo aver atteso tanto per chiedere un aiuto, perché tutto cominciava ad apparirgli in una luce diversa. Il semplice fatto di aver portato allo scoperto le sue angosce segrete le aveva private di quel potere che esercitavano, alimentandosi di fughe e paure.
  «Sai, questo Kelly di cui mi hai parlato» disse Michael risistemando la tracolla sulla spalla. «Non rovinare le cose con lui, intesi? Se riesce a farsi ascoltare da te, vale la pena di essere tenuto stretto.»
 




   «Grossa parte del potere che eventi traumatici come quelli che hai subito hanno, glielo attribusci tu e il modo in cui li interpreti. Considerandoti una vittima, il tuo pensiero è oscurato da riflessioni quali avrei potuto reagire diversamente oppure avrei dovuto difendermi. Devi accettare che ciò che è accaduto è stata una fatalità e che tu non hai colpe. Era una situazione fuori dal tuo controllo. Hai fatto il possibile, sei sopravvissuto, e questa non è una colpa, ma un motivo di orgoglio.»
 
   Le parole di Michael continuavano a tornargli in mente, colorandosi di quella tonalità calda e rassicurante che aveva reso il suo amico uno stimato psichiatra, malgrado la giovane età. Non si sentiva più in una spirale senza uscita, ma all'inizio di una strada che, per quante curve avesse, aveva un fine che era l'inizio di qualcos'altro. Era tutta questione di tonalità, partendo da come Matt stesso percepiva e sentiva le persone intorno a lui. Quando quel pomeriggio, dopo la lunga chiacchierata con Michael, rientrò nell'appartamento, il sorriso di Shay gli parve più naturale -c'erano stati giorni in cui aveva pensato che la ragazza si sforzasse di sorridere per farlo sentire accolto. Persino lo sguardo d'attesa di Kelly, mentre gli chiedeva come era andata, sembrava più disinvolto e tranquillo, come se non nascondesse la paura di vederlo crollare.
  Matt si abbandonò al divano, strirando le gambe e le braccia. In un attimo, sentì Kelly ricadere accanto a lui, facendo sobbalzare i cuscini.
  «Allora?» lo pressò, poggiando un gomito alla spalliera del divano e guardandolo in aspettativa.
  Matt aprì gli occhi e sorrise, gustando l'espressione di Kelly mutare da tensione a sollievo.
  «Si può fare» disse, facendo scivolare la mano su quella del compagno. Strinse le dita intorno ad essa, sollevando il palmo e disegnandovi con il pollice cerchi rilassanti.
  «Quindi hai deciso di farlo sul serio?»
  «Non mi rimangio le mie promesse, dovresti saperlo.» Matt gli strinse più forte la mano, deglutendo un nodo in fondo alla gola. «C'è un ma...»
  «Spara.»
  «Non so se e quando potrà succedere ancora, sai di-»
  «Perdere la testa?»
  Matt gli diede un pugno sul petto, ridendo della sua indelicatezza.
  «Ouch! Okay, okay, sono serio» disse Kelly, massaggiandosi lo sterno. «Quindi...che vuoi fare?»
  «Non lo so, Kel» mormorò Matt, poggiando la testa allo schienale del divano e massaggiandosi una tempia. «Avrei bisogno di un angioletto sulla spalla che mi prenda a schiaffi quando serve.»
  «Oppure potresti averlo già trovato.»
  Il biondo aprì gli occhi e inclinò la testa confuso.
  Kelly si sentì improvvisamente sull'orlo di un burrone. Sapeva che c'erano solo due possibili esiti alla sua proposta, e non era certo di quale dei due lo spaventasse di più.
  «Ascolta, ti serve qualcuno che ti prenda a schiaffi se viaggi troppo con la testa, no? Chi meglio di me?»
  «Vuoi vendicarti, ammettilo» disse Matt, indicando la mascella contusa del compagno.
  Kelly roteò gli occhi e sbuffò. «Posso vendicarmi quando voglio.»
  Matt sembrò rifletterci, quindi un piccolo sorriso si aprì sul suo volto. «D'accordo.»
  «D'accordo? Sul serio?»
  «Cosa?»
  Il moro rise, grattandosi la nuca. «Bhe, non credevo avresti accettato così facilmente. Ti rendi conto ce mi stai dando il permesso di aiutarti?»
  Matt incilò la testa e fece una smorfia che nascondeva ogni suo imbarazzo.
  «Voglio dire, ti ricordi il trasloco di tre anni fa? Ti eri fatto male alla schiena ma eri così cocciuto che non mi hai lasciato fare tutto. Alla fine sei caduto per le scale.»
  «Me lo ricordo, grazie» si lamentò Matt. «Tu mi hai aiutato ad alzarmi.»
  «E tu mi hai guardato come se ti avessi buttato io a terra.»
  «Mentre Andy non faceva altro che ridere. Mi ha preso in giro per tre turni.»
  Kelly rise al ricordo, annuendo veementemente. «Te lo meritavi.»
  Per un attimo il sorriso di Kelly sbiadì nella nostalgia che il ricordo di Andy portava. Matt sembrò accorgersene, legando i loro sguardi con qualcosa di diverso negli occhi.
  «Le cose sono cambiate» mormorò, distogliendo lo sguardo.
  Kelly gli circondò la spalla con il braccio libero, attirandolo a sé e baciandolo. Matt saggiò le labbra umide, al contrasto con le quali le sue erano secche per il vento che le aveva sferzate. Sentendosi leggero e rilassato, prolungò il bacio oltre il confine tra un semplice incontro di labbra e un preliminare. Infilò le dita ancora fredde sotto l'orlo della t-shirt nera di Kelly, sentendolo sussultare al tocco. Quando non si scostò, Matt si avventurò lungo la fascia di muscoli tonici sull'addome, fino al bacino, che carezzò nel modo che sapeva far impazzire il compagno.
  Una tosse secca li bloccò.
  «Potete almeno aspettare che io esca?» chiese Shay, afferrado le chiavi e la borsa.
  Non appena la porta si chiuse dietro la ragazza, Matt si voltò verso il compagno. Ebbe appena tempo di sorridere, prima che le mani di Kelly gli afferrassero la t-shirt e cominciassero a sollevarla di fretta.
  Matt apprezzava molte cose della sua relazione con Kelly; come il modo in cui, malgrado lo negasse al mattino, Kelly lo abbracciava durante il sonno e lui si risvegliava per una gamba addormentata o un braccio formicolante. Matt sorrideva ogni volta che Kelly mascherava un complimento dentro un'offesa, o si sforzava di alzarsi prima solo per poter condividere la doccia. Gli piaceva che ci pensasse due volte prima di finire l'ultimo pezzo di pizza, soprattutto se era quella con i peperoni, perché sapeva che Matt la adorava. Gli piacevano le lotte tra le coperte e fuori, sentire i suoi muscoli contratti in una presa e urlare la resa solo per vederlo esultare in vittoria. Non poteva rinunciare alle serate passate davanti a un film, sentendo le sue dita avventurarsi tra i suoi capelli distrattamente, o alle lunghe notti davanti a un videogame, senza che nessuno dei due volesse arrendersi al sonno.
  Ma mentre Kelly lo spingeva contro il divano, muovendosi nella bramosia di averlo subito ed ora, Matt sapeva di amare in modo irrevocabile la sensazione di quel corpo tonico che opprimeva il suo, senza mai togliergli il proprio spazio. Amava il modo in cui, seppur nella fretta della necessità, Kelly trovava il tempo e l'autocontrollo per saggiare con le labbra i punti deboli di Matt, solleticandoli allo stesso tempo con le dita. E quando quelle stesse dita gli stringevano i polsi, sollevandoli oltre la testa e fermandoli sui cuscini, costringendo Matt a grugnire e spingere il bacino in cerca di contatto, sul viso di Kelly si apriva un ghigno che gli faceva perdere ogni controllo. In esso c'era la vittoria di averlo alla sua mercé, come anche quella di averlo finalmente, di essere suo e solo suo; Severide sapeva di aver domato Matt, e Matt aveva la certezza di aver domato Severide. C'era anche la soddisfazione di sentire la resistenza dei muscoli di Matt a quel blocco, e il corpo che cercava un contatto, disperatamente. C'era, in definitiva, sapere di volersi a vicenda più di ogni altra cosa, e che in quel momento c'era solo appartenersi e null'altro.
  Era in quel momento, poco prima di sentirlo dentro di sé, che Matt sapeva con assoluta e brutale certezza di amare Kelly Severide.



   Quando Matt si svegliò, fu in un vero e proprio bagno di sudore. Le immagini che lo avevano destato erano più vive del solito e non sembravano volersi allontanare dagli occhi. Intorno a lui il buio si assestava lentamente, facendo emergere i contorni delle cose. Non ricordava di essersi addormentato e impiegò diversi secondi a figurarsi dove fosse, e a capire che non era stato il fuoco a riscaldargli la pelle, ma il terrore di un altro incubo.
  Cercò sicurezza nei mobili del salotto, i cui angoli si stagliavano nella luce arancione che penetrava dalle tende della finestra, e nella sensazione di calore del corpo steso accanto al suo. Chiuse gli occhi, ispirando ed espirando lentamente, cercando di riprendere il ritmo che Micheal gli aveva insegnato.
  «Matt?» mormorò la voce impasta dal sonno, mentre Kelly sollevava la testa dal proprio braccio. Non ottenendo un'immediata risposta, il moro si sollevò sul gomito, osservando il compagno seduto sul bordo del divano.
  «Hey, tutto okay?»
  Si tirò a sedere, ancora stordito, ma strappato al sonno dalla preccupazione. Sentendolo respirare pesantemente e sfiorando la pelle bollente e sudata, capì immediatamente cosa era successo. Spostò le gambe ai lati di Matt, stringendogli i fianchi, e passò un braccio sul suo petto, attirandolo a sé. Reclinò la schiena contro i cuscini, stringendo Matt per fargli sentire la sicurezza del proprio corpo. Il contatto diede al biondo la sensazione di essere sorretto, come se fosse sul bordo di un grattacielo con la certezza di non poter cadere.
  «È tutto okay» mormorò Kelly al suo orecchio, avvertendo sotto la pelle il petto di Matt tornare a un ritmo normale.
  Il biondo si irrigidì, tornando alla realtà di colpo, e per un attimo Kelly ebbe la sensazione che si sarebbe liberato della sua presa. Quando Matt gli afferrò l'avambraccio con entrambe le mani, fu certo che il vecchio copione si sarebbe ripetuto: lo avrebbe scansato, avrebbe scherzato sulla sua apprensione e sarebbe tornato a dormire. Matthew sapeva bene come nascondere le preoccupazioni e i tormenti dietro l'umorismo, fingendo di prendere alla leggera ciò che realmente lo preoccupava. Non questa volta. Le dita di Matt, calde sulla sua pelle, si aggrapparono con forza, salde. Matt reclinò la testa sulla sua spalla e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, non c'era traccia di scherno o fastidio.
  «Andiamo a letto?» gli chiese Kelly.
  «Sì, meglio.»
  Matt si alzò, liberandosi dalla presa, e raccolse la t-shirt finita sul tavolino.
  «Hey, è tutto okay, vero?»
  «Effetti collaterali di raccontare tutto a uno strizzacervelli» rispose Matt con un sorriso, prima di farsi serio e porgergli la mano. «È tutto okay, Kel, sta tranquillo.»
  Per una volta, Kelly non ebbe dubbi che Matt fosse sincero su questo. Afferrò la mano tesa e non resistette all'impulso di afferrargli i fianchi e stringerlo a sé, incollando ancora il proprio petto alla schiena liscia di Matt. Gli baciò la nuca, prima di scostarsi e condurlo in camera.
  Il suo Matt stava riemergendo oltre la superficie dell'acqua, lui lo sentiva come mai prima, e quella notte riuscì ad addormentarsi con la corposa speranza che le cose sarebbero andate bene.
  Eppure sentiva un pizzichio alla base della nuca e come un prurito sotto la pelle; era certo che per gettarsi tutta la faccenda alle spalle non bastasse sentire che Matt stava bene. Kelly aveva bisogno che il torto venisse lavato via, che i colpevoli pagassero e che la giustizia, la sua personale giustizia, emergesse.





  Era appena sorta l'alba e la casa era troppo silenziosa per Kelly. A piedi nudi, percorse il corridoio con cautela. Oltre le mura ancora fredde dell'appartamento, la vita cominciava piano a riemergere, sollevandosi assieme al sole. Eppure all'interno di quello spazio, tutto sembrava troppo immobile per permettergli una fuga da ciò che lo aveva destato. Matthew ancora dormiva con il volto affondato nel cuscino e un braccio steso tra le lenzuola, in cerca del corpo del compagno. Kelly sapeva che, malgrado il sonno leggero, Matt avrebbe dormito almeno un altro paio di ore. La porta della stanza di Shay era appena socchiusa, lasciando intravedere due corpi avvolti tra le lenzuola. Kelly non aveva intenzione di spiare, ma dalla chioma mora sparpagliata sul cuscino, intuì che la sua compagnia fosse Samantha. Per un attimo si concesse di sorridere, nella speranza che quella relazione non fosse per l'amica un'altra delusione.
  Scese le scale e raggiunse il mobile della TV. Aprì a colpo sicuro il primo cassetto e, tra i dvd e i giochi della xbox, trovò un fascicolo marrone chiaro. Lo estrasse e lo portò con sé in cucina. Lo poggiò sul piano di marmo e preparò il caffé, imprecando tra i denti quando involontariamente sbatté la tazza sul bancone. Con la sua buona dose di caffeina, si sedette sullo sgabello e aprì il fascicolo. Il volto severo di Jhonny Messer lo accolse con la sua valanga di disturbanti ricordi, come sempre. Lo studiò come se vi potesse trovare una traccia, una spiegazione più solida dell'irrazionale realtà.
  Emanò un lungo sospiro, cercando di controllare il moto di rabbia che gli sorgeva spontaneo nel petto.
  Con quanta calma riusciva a padroneggiare, lesse ogni dettaglio del fascicolo, delle vite dei Messer, delle prove raccolte nei due incidenti, compreso il referto ospedaliero sulle ferite di Matthew. Quella per lui era la parte peggiore. Essere un vigile del fuoco significava, inevitabilmente, collezionare una serie di ferite e cicatrici; con quello poteva venire a patti. Ma non con questo. C'era qualcosa di intrinsecamente sbagliato nel dover portare sul corpo, per sempre, le conseguenze della follia di due sconosciuti. Sapere che loro erano a piede libero, chissà dove, faceva apparire quella lista di traumi, contusioni e segni sulla pelle un'inutile conseguenza. Come se tutto ciò che Matt e lui, che loro avevano passato non fosse servito a nulla.
  Con un grugnito, Kelly chiuse il fascicolo. Fu tentato di gettarlo via o bruciarlo, ma non poteva distruggere l'ultimo brandello di speranza che gli restava. Afferrò il cellulare e, prima di poterlo realizzare, il suo dito aleggiò sul numero del Detective Voight. Con rabbia, allontanò il dispositivo. A cosa sarebbe servito chiamare il Diavolo? Non gli avrebbe dato che qualcun altro contro cui riversare la propria frustrazione.
  Si passò le mani tra i capelli, guardando attraverso le tende il sole sorgere oltre le nuvole bianche sparpagliate nel cielo. Sulla sua testa, le assi del pavimento cominciarono a scricchiolare, e passi pesanti si udivano, sempre meno trascinati. Matt si stava svegliando. Kelly raccolse il fascicolo e lo nascose nel cassetto dal quale proveniva. Si scrollò di dosso ogni rimasuglio di quell'inutile ricerca e si preparò a tornare in Caserma. Lì, almeno, era certo di fare la differenza nel caos del mondo.
 






Note: Hello guys! Come sempre, grazie dei vostri deliziosi commenti e utili punti di vista, sono apprezzatissimi! Dunque, ho deciso di inserire il personaggio di Micheal per due motivi: il primo è che l'idea mi piaceva; il secondo, e più importante, è che mi sembrava più appropriato alla situazione - Matthew può aver accettato di chiedere aiuto, ma credo che se avesse l'opportunità di evitare un professionista, lo farebbe. Con questo voglio precisare che io né sconsiglio né giudico la terapia, sia chiaro.  Il personaggio di Michael mi permette anche di inserire altri scenari (uscendo da casa e Caserma, per intenderci), e dare una sorta di stacco alle ambientazioni dominanti nella storia. Inoltre, se mi servirà, potrò affrontare argomenti altrimenti difficili da collocare.
  Okay, fine nota ;)
  A presto!
  Ax.
 

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Capitolo 21
*** Gli occhi degli altri ***


21
Gli occhi degli altri



   
   Quel mercoledì Kelly e Matt cominciarono il turno insieme, camminando spalla a spalla fino agli armadietti con null'altro che chiacchiere leggere. La mattinata scivolò via tranquillamente, con ben poche chiamate e ancor meno adrenalina. Severide rise a tutti i commenti sulla sua mascella tumefatta, sapendo che Matt si portava dietro ancora un persistente senso di colpa, ma non mancò di sottolineare il piccolo fregio quando, svanita la novità, si ritrovarono in bagno.
  «Lo sai che indosso bene un paio di lividi.»
  Matt sollevò un sopracciglio al commento, sogghignando in quel modo che Kelly cominciava a considerare stranamente attraente.
  «Non farci l'abitudine, non succederà più» rispose Matt sciacquandosi le mani, solo per metà scherzando. Riassunse un'espressione giocosa quando aggiunse a bassa voce: «A meno che tu non me lo chieda.»
  Kelly gettò sulla spalla l'asciugamano umida, ridendo sotto i baffi. «Dovremmo passare per la palestra, dopo il turno. Così potrai colpirmi senza sentirti in colpa.»
  «In colpa?» sbuffò Matt. Poggiò una mano al lavello, ponderando la proprosta. Con un cenno del capo, rispose: «Okay, ci sto. Chi perde fa la spesa. E per fare la spesa, intendo prendere tutto il necessario.»
  Estese una mano, sollevando il sopracciglio in un chiaro invito. Kelly la strinse con un sorriso. Quando Matt cercò di ritirare il braccio, il moro ne approfittò per attirarlo a sé, sbilanciandolo.
  «Extra-large, per me. Ricordatelo» gli sussurrò all'orecchio.
  «Attento a vantarti troppo, Severide.»
  «Posso permettermelo.»
  Matt lo spinse via, ma non poté onestamente replicare a quella verità.
  Severide attese che il compagno si fosse allontanato, per raccogliere le sue cose e uscire dal bagno. Lo trovò al bancone della cucina, intento a versarsi del caffé. Attese il suo turno, tamburellando le dita sul piano e, nel farlo, il suo sguardo vagò fino a cogliere il volto di Hermann. L'uomo, oltre il bancone, lanciò uno sguardo alla nocca arrossata e sbucciata di Matt, accigliandosi.
  Quando si accorse di essere osservato, si defilò senza aggiungere nulla.
 






   Salendo sul camion per la prima chiamata del pomeriggio, Matt si sentì meno teso di quanto avesse previsto. Con un braccio fuori dal finestrino, saggiò l'aria che gli sferzava la pelle, compatta e reale. Ora riusciva a riconoscere il palpito dell'ansia dietro la propria maschera e, invece che reprimerlo, tentò di razionalizzarlo e calmarsi, respirando a fondo. Le nocche della mano destra cominciarono a pulsare, quindi ritirò il braccio e le carezzò distrattamente. Non avrebbe mai più perso il controllo, non così, non con Kelly.
  «Ci siamo» annunciò Hermann dal sedile posteriore, infilando la testa nel finestrino mentre il camion parcheggiava lungo la strada. Emanò un acuto fischio, che attirò l'attenzione di Matt.
  Davanti a loro si presentava una delle situazioni che loro maggiormente odiavano: un pesante e vecchio bus che bloccava il traffico. Il mezzo aveva sterzato, lasciando una lunga scia nera sull'asfalto, e ora bloccava la strada in entrambi i sensi. Un gruppo di automobilisti aveva lasciato le proprie auto, accalcandosi tutt'intorno insieme a un folto sciame di curiosi.
  «Cosa abbiamo, Capo?» chiese Matt appena ebbe raggiunto il Comandante.
  L'uomo indicò il bus fermo. I clacson delle auto e le urla in strada costrinsero Boden ad alzare la voce. «Un ragazzo è finito sotto le ruote del bus. L'autista dice che è spuntato all'improvviso. Sospetto suicidio.»
  «Il ragazzo è ancora vivo?» chiese Severide.
  Boden gli lanciò uno sguardo che valeva più di ogni spiegazione.
  «Okay» mormorò il Tenente. «Tiriamolo fuori prima che qualcuno si faccia male.»
  Matt ordinò a Mouch, Mills e Cruz di tenere lontane le persone dal bus e cercare di calmare gli animi degli automobilisti. Con l'aiuto di una pattuglia di polizia riuscirono a fare abbastanza spazio da cominciare l'ispezione del mezzo. Severide si stese di petto per controllare la situazione e Matt lo imitò. Dal suo lato non poteva vedere il volto della vittima, ma dal sangue che inzuppava i capelli scuri e si spandeva sull'asfalto, doveva essere messo male. La gamba destra era intrappolata tra le ruote e continuava a sanguinare copiosamente. Matt era quasi certo fosse morto, ma quando sfilò il guanto e gli prese il polso, avvertì qualcosa. Si sporse il più possibile per poggiare due dita sul collo e lo sentì ancora, più chiaramente. Era debole e irregolare, ma il battito c'era.
  «Severide! È ancora vito!» urlò.
  In poco il collega gli fu accanto, abbaiando ordini per predisporre l'attrezzatura. Matt rimase dov'era, mentre intorno a sé sentiva le divise sferragliare e la lamiera del mezzo stridere. Non riuscì a trovare la forza di lasciare il collo del ragazzo, malgrado l'odore di asfalto e sangue cominciasse a nausearlo. Doveva essere vivo, doveva sapere che era così. C'era qualcosa di affascinante in quel debole e persistente battito sotto le dita, una strenua forza e determinazione che gli scossero il petto e lo stomaco.
  «Okay, ce l'ho!» disse Kelly. Solo udendo la sua voce Matt si accorse che il compagno era scivolato sotto il bus, che era stato sollevato abbastanza da permettere l'estrazione della vittima. Non sapeva quando o come, ma la gamba era stata liberata dallo pneumatico e ora pendeva ad un'angolazione del tutto sbagliata.
  «Matt» mormorò Kelly, costringedolo a voltarsi. Lo fissò a lungo e solo allora Matt capì di dover lasciare il collo del ragazzo. Strisciò via per permettere alla barella di passare e aiutò Kelly a sistemare la vittima.
  Dowson e Shay erano già intente a controllare i segni vitali e dare il primo soccorso, quando Matt riuscì a riemergere dal caos creatosi intorno al bus.
  Sentì Kelly battergli una mano sulla spalla e scrutarlo in cerca di un segnale d'allarme.
  Matt scosse il capo, forzando un sorriso. Le dita intrise di sangue cominciavano a formicolargli, mentre alle sue spalle il camion 81 agganciava il bus per spostarlo dalla strada e, poco distante, i paramedici operavano sulla vittima la rianimazione. Il disperato appello di Dowson al ragazzo, perché resistesse, si mischiava alle urla tutt'intorno e al rumore dei corpi che spingevano tra loro per avere un pezzo di quel dramma.
  Osservò la scena con orrore, sentendo ancora sotto i polpastrelli quel fiero e ostinato battito. Qualcuno gli urtò la spalla, facendogli perdere per un attimo l'equilibrio. Quando alzò lo sguardo, un ragazzo correva verso i paramedici con un cellulare davanti a sé.
  «Tu!» urlò Matt, marciando verso il ragazzo che, preso di sorpresa, si voltò a fissarlo. «Che diavolo pensi di fare? Non hai un po' di rispetto, uhm?»
  Avrebbe voluto distruggere la faccia instupidita di quel ragazzo. Avrebbe voluto gettarlo a terra e colpirlo finché anche il suo volto non fosse diventato una maschera di sangue. Lo avrebbe fatto, ne era certo, se una mano decisa non gli avesse premuto il petto e l'altra afferrato il gomito.
  «Matt» ringhiò Kelly nel suo orecchio, tirandolo via e stringendolo al proprio petto. Matt cercò di liberarsi dalla presa, scalciando e dimenandosi. «Calmati, Matt.»
  L'alito caldo del moro gli sfiorò l'orecchio, surriscaldato dalla furia. Sentiva il palmo aperto sul petto spingere con forza e le dita serrarsi intorno all'incavo del suo gomito. Cercò di riprendere il controllo, concentrando i suoi sensi in quel contatto.
  Sentiva gli sguardi di alcuni dei suoi uomini su di sé e chiuse gli occhi, perché non riusciva ad affrontarli, non ora.
  «Okay, sono calmo» mormorò.
  «Che succede qui?»
  La voce potente di Boden lo fece trasalire. Kelly lo lasciò andare subito. Accennò al ragazzo, che ora argomentava rumorosamente con un ufficiale di polizia.
  «Portate via quest'idiota!» ringhiò Boden.
  L'agente, aiutato da Cruz, riuscì ad allontanare il ragazzo, mentre la barella veniva issata sul retro dell'ambulanza. Il mezzo partì a tutta velocità, lanciando il suo lamento a sirene spiegate.
  «Tutto bene qui?» chiese il Comandante, saettando lo sguardo tra i due tenenti.
  «Tutto bene, Capo» si affrettò a dire Severide, stringendo la spalla di Matt. «Solo una scintilla, niente di importante.»
  «Okay. Spostiamo questo affare e puliamo la strada.»
  Matt osservò il Comandante tornare alla sua postazione d'osservazione dei lavori.
  «Stai attento, Matt» mormorò Kelly.
  Il biondo aprì la bocca per replicare che non era colpa sua se quell'idiota non aveva avuto il minimo senso comune, ma la richiuse quando vide Hermann raggiungerli. Porse a Casey una bottiglietta d'acqua e gli diede una pacca sulla spalla.
  «Il mondo è pieno di idioti, eh?» disse, indicando con il pollice dietro le spalle, gli occhi fissi su Severide. «Quel ragazzo ti dovrebbe ringraziare» commentò, prima di allontanarsi.
  Matt bevve un lungo sorso d'acqua, notando all'angolo del campo visivo lo sguardo concentrato di Kelly. Lo seguì, trovandolo focalizzato su Hermann che aiutava gli altri a sgombrare la strada.   «Cosa?»
Kelly si riscosse e scrollò le spalle. «Niente, niente. Dai, torniamo a lavoro.»
 




 

   «Vuoi fare sul serio o preferisci andare a ballare con le ragazzine?»
  Matt alzò lo sguardo dal pavimento del ring, inarcando le sopracciglia con quel ghigno sulle labbra. Si raddrizzò e Kelly poté vedere i muscoli delle braccia flettersi mentre dentro i guantoni i pugni si stringevano. Non poté far altro che sorridere. Matt saltellò sul posto, facendo ondeggiare la sottile canotta di una taglia più grande, che già cominciava ad attaccarsi al petto e alla schiena per il sudore. Kelly conosceva come propri i movimenti di Matt sul ring. Cominciava con calma e il primo round era solitamente uno schivare e parare; non era particolarmente forte o dotato di tecnica, ma si muoveva in quel modo furtivo che aumentava la frustrazione dell'avversario. Al secondo round, quando Kelly cominciava ad anticipare le sue mosse e ad assestare qualche colpo ben mirato, i movimenti di Matt diventavano meno controllati e più scattanti. Verso la fine Matt cominciava a rimandare i colpi, ma erano solo provocazioni. Il terzo round era il preferito di Kelly: limitarsi alla difeva diventava impossibile, uno spreco di energie nella ricerca del controllo; era allora che Matt cominciava a rispondere davvero ai colpi.
  Matt si passò l'avambraccio sulla fronte, raccogliendo il sudore e la polvere. Battè i guantoni tra loro e scrollò le spalle.
  Kelly roteò gli occhi alla recita, ma fu preso alla sprovvista da un colpo ben assestato al fianco.
  «Wow...Fai sul serio, allora?»
  Le sue parole furono inghiottite da una sequela di colpi e parate, finché tra le mura spoglie rimbombò solo il rumore dei guantoni contro i caschi protettivi e la pelle. Le suole delle scarpe strusciavano sul pavimento, accavallandosi ai grugniti e alle esalazioni di sorpresa o rabbia.
  Kelly si ritrovò sormontato dalla furia di Matt, costretto a portare gli avambracci davanti al volto per proteggersi dai suoi attacchi. In passato, erano state poche le volte che erano giunti a quel livello di scontro. Al quinto o sesto round, se la giornata era stata buona.
  «Avanti, Matt, così» grugnì quando lo sentì rallentare.
  Ebbe appena il tempo di scorgere uno scorcio del volto contratto di Matt, prima di doversi ritirare dietro i propri guantoni per parare altri colpi. Gli occhi solitamente calmi e gentili erano infuocati e privi di focus, la stessa espressione che Matt assumeva quando beveva un bicchiere di troppo, o la passione lo travolgeva annebbiandogli la mente.
  Un colpo alla mascella lo fece indietreggiare, mentre il dolore si sprigionava come un fuoco, contraendogli i nervi. Si aggrappò alle corde, stringendo i denti per non mostrare la propria sofferenza. Oltre l'orgoglio, c'era il desiderio di non interrompere quello scontro, di non far sprofondare Matt nella realtà, strappandolo al meraviglioso fuoco che lo pervadeva.
  Alzò lo sguardo e trovò il suo compagno ritto di fronte a lui. Il fiato corto alzava ed appassava il petto con forza. Tutto ciò che Kelly riuscì a sentire era il calore di quel corpo e il suo respiro pesante che faceva da contrattempo al proprio.
  I muscoli tesi sembravano vibrare sotto la stoffa e la pelle, le labbra schiuse e lo sguardo annebbiato. Fissandolo per un momento di troppo, Kelly si accorse della sensazione che gli scioglieva il ventre e di come il proprio sangue corresse nella direzione sbagliata, lasciando tra le orecchie solo il palpito del cuore.
  In un attimo gli fu addosso e, mentre Matt alzava i guantoni per rispondere al colpo, Kelly strappò via i propri con furia. Gli afferrò il volto con una mano e con l'altra gli strinse la nuca, attirandolo in un feroce bacio. A corto d'aria, Matt lo spinse indietro, spalancando gli occhi. Per un attimo ci furono solo i loro respiri e i guantoni di Matt premuti contro il petto di Kelly, e l'attimo dopo le loro labbra erano di nuovo incollate e Kelly spingeva Matt indietro. Il biondo finì con la schiena contro le corde e un grugnito sfuggì alle sue labbra.
  «Sei sicuro...» mormorò a un soffio dal suo volto, il fiato corto. «Che non ci sia...nessuno?»
  Kelly scosse la testa, aggredendo la sua gola e quel piccolo pezzo di pelle tra l'orecchio e la nuca, che sapeva far perdere il controllo a Matt. Rise sulla sua pelle quando lo sentì esalare al diavolo, poco prima di sentire le sue mani liberarsi dei guantoni e afferrargli i fianchi.
  Kelly non si lasciò tener fermo, tirandogli via i polsi e congiungendo le sue mani sulle corde. Spinse con il proprio corpo contro il suo, sentendolo gemere per la frizione.
  Matt non sembrava voler cedere il controllo così facilmente. Spinse con il bacino per liberarsi dalla morsa. In tutta risposta, Kelly lasciò andare le sue mani per spingergli le spalle indietro, facendolo urtare ancora contro le corde. Soffocò il suo grugnito con un altro bacio, avventurandosi con le mani oltre i sottili pantaloncini. Il biondo cominciava ad arrendersi, reclinando la testa e leccandosi le labbra, in aspettativa del lavoro delle mani esperte del compagno.
  Sollevò appena le palpebre e fu allora che il sangue si congelò nelle vene. Oltre i capelli di Kelly, che sfregavano le sue labbra e gli inebriavano le narici, vide due occhi spalancati fissarli dall'ingresso della stanza.
  «Cazzo» esalò, spingendo indietro Kelly.
  Il moro barcollò e lo guardò irritato e confuso. «Che ti prende?»
  «Mills!»
  Kelly rimase pietrificato. Si voltò appena in tempo per vedere il candidato indietreggiare e correre via. Stava per buttarsi giù dal ring quando Matt gli afferrò con forza il braccio.
  «Vado io» disse. Senza attendere replica, superò le corde e cominciò a correre verso l'uscita. Kelly non poté fare altro che grugnire una serie di spergiuri, portandosi le mani tra i capelli.
 


  «Mills!» urlò Matt, seguendo la schiena del candidato. «Peter!»
  Il ragazzo si bloccò nel mezzo dello scuro corridoio, voltandosi di colpo. Matt non era certo di come leggere la sua espressione: c'era shock -e questo era normale- e c'era qualcosa di davvero indefinibile. Forse rabbia, risentimento, sfiducia. Matt non voleva davvero saperlo.
  Lo raggiunse e riprese fiato, portando una mano avanti per bloccarlo.
  «Senti, non so cosa hai visto-»
  «Abbastanza» rispose caustico Peter. Era confuso ogni oltre misura e la sua mente viaggiava in troppe direzioni per articolare un pensiero lineare. Si chiedeva se fosse l'unico a non aver visto arrivare quella relazione, se gli altri sapessero e lui fosse stato escluso per sfiducia, se Gaby sapesse e non glielo avesse detto per lo stesso motivo. Questo pensiero feriva più di tutti gli altri. Guardò il proprio Tenente e in quel momento ricordò perché lo stimava così tanto come uomo: Casey era ritto davanti a lui e attendeva la sua reazione, senza profondersi in scuse vane. Fiero e sicuro. Sospirò e cercò di raccogliere i propri sentimenti, perché Casey non meritava la sua rabbia. «Senta, Tenente, non sono affari miei.»
  «No, infatti» disse Matt. Era combattuto tra il congedarsi e il bisogno di spiegarsi. Mills non aveva mai mostrato altro che rispetto nei suoi confronti e, benché fosse un subordinato, Matt sentiva il bisogno di ricambiare. «So che non lo dirai a nessuno, ma se hai problemi con...questa cosa, dimmelo.»
  Mills si accigliò, poi distolse lo sguardo. No, non aveva alcun problema con questa cosa, anche se gli sembrava di aver assistito a un sogno, o un'allucinazione. Da quando era entrato alla 51, aveva visto Severide e Casey beccarsi a vicenda e lanciarsi più che innoque battute. C'erano state volte in cui si era sentito al centro di un fuoco incrociato, chiedendosi quando ne sarebbe caduto vittima. Ora, stranamente, tutto gli sembrava avere un po' più senso.
  «Tenente, ciò che penso di lei non è cambiato» affermò convinto, fissandolo negli occhi.
  Matt annuì e gli diede una pacca sulla spalla.
  «Sei un bravo ragazzo, Mills.»
  Peter accennò un sorriso, ancora troppo intontito per rispondere con qualcosa di sensato. Si voltò, poi ci ripensò e chiese: «Boden...lui lo sa?»
  Matt scosse la testa.
  «Dovreste dirglielo» mormorò Peter, prima di allontarsi.
  Matt lo guardò svoltare l'angolo e riuscì finalmente a sospirare di sollievo. L'idea che Mills ora sapesse non gli piaceva molto, ma in fondo credeva a ciò che aveva detto. Ciò che lo turbava era il modo in cui il ragazzo aveva parlato di Boden. Si massaggiò la nuca, mentre scenari di come il Comandante avrebbe reagito galopparono feroci nella sua mente. Preso da quelle immagini, sussultò quando una mano si posò sulla sua spalla.
  «Bhe?» chiese Kelly, guardandolo in aspettativa.
  «Proiettile schivato» mormorò Matt. «Per ora» aggiunse oltrepassandolo.
  «Hey!» lo richiamò Kelly, urlando per farsi sentire. «Ci stai ancora per un altro round?»
  Matt sorrise, sapendo esattamente a cosa il compagno si riferisse. Si voltò e, senza fermarsi, rispose: «Forse...»
 

 










Note: Hello! Scusate immensamente per il lungo periodo di attesa, problemi con il pc e con la vita in generale mi hanno impedito di essere assidua. Cercherò di essere più presente. Grazie a chi continua a seguirmi e continuerà :)
A presto, Ax.











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Capitolo 22
*** Inciso su un proiettile ***


22
Inciso su un proiettile


   Matt era rimasto silenzioso per tutto il tragitto dalla palestra fino a casa. Kelly era abituato alle battute e alle chiacchiere da nulla, così come al silenzio nel quale si adagiavano, troppo stanchi e rilassati per concedersi alle parole. Molto prima che la loro storia cominciasse, lui aveva imparato a capire ognuno dei silenzi di Matt: quando erano carichi di rabbia, di vergogna o semplicemente se stessi. Si era sempre sentito a suo agio con questi ultimi, né tesi né imbarazzati. Il silenzio di quella sera era diverso. Quando Matt si spogliò per la doccia, dopo aver detto appena un paio di parole in più di un'ora, Kelly ne ebbe abbastanza.
  «Qualcosa non va?» chiese casualmente, rovistando nell'armadio in cerca di una t-shirt e dei pantaloni per la notte.
  Matt si voltò e sembrò riemergere da una profonda riflessione. Scrollò le spalle con una smorfia, sfilando la maglia sopra la testa. «Nha, sono solo stanco.»
  «Ci hai dato dentro in palestra» commentò Kelly. «Mills?»
  «Non dirà nulla.»
  «Non è quello che ti ho chiesto.»
  Matt sollevò le braccia in segno di resa, prima di sfilarsi i pantaloni. Infilò il pallice nell'elastico dei boxer, poi scosse la testa e lo ritirò. Kelly ne sorrise: l'unica volta che Matt si era azzardato a camminare nudo in corridoio, Shay aveva fatto una scenata memorabile. Da allora il biondo ci pensava bene due volte prima di mostrare le proprie parti intime.
  «Lo conosci» disse Matt, riportando Kelly al punto della conversazione. «Non ha problemi con noi e credo che finché non portiamo questa cosa sul lavoro, sarà a posto.»
  «Non mi sembri convinto.»
  Matt si massaggiò la nuca, in quel gesto così naturale quando qualcosa lo imbarazzava. Questa riflessione portò un cipiglio sul volto di Kelly. «Hai qualche problema con il fatto che Mills lo sappia?»
  «Tu no?»
  Kelly scrollò le spalle. «Non mi importa più di tanto. Io e te stiamo ancora insieme e siamo ancora al nostro posto in Caserma. Il resto non mi interessa.»
  Matt esalò una risata sorpresa. «Parla quello che oh quella ragazza è un fuoco, te lo dico io» disse imitandolo.
  «Cos'è, geloso di un commento? E da quando origli mentre parlo con i miei ragazzi?»
  «Oh, non lo so, forse da quando condividiamo lo stesso letto?»
  Si accigliò e guardò il compagno. «Non fai sul serio, giusto?»
  «Con te o con gli altri dieci?»
  «Coglione» mormorò il moro, lanciandogli la maglietta appallottolata.
  Matt la afferrò e la rimandò con uno sbuffo. Approfittò della sorpresa di Kelly per colmare le distanze e infilare una mano oltre i boxer che gli stringevano il sedere. Diede una veloce strizzata e ghignò. «Non sono geloso di questo» mormorò, prima di mordergli il labbro inferiore. «Mi fido di te.»
  Kelly gli afferrò saldamente i fianchi, attirandolo in un bacio. «A tuo rischio e pericolo.»
  «Non fare il playboy con me, non sono una delle tue ragazze focose» ritorse Matt, divincolandosi e avviandosi alla porta. «Ti unisci a me? Qualcuno deve insaponarmi la schiena.»
  Il moro roteò gli occhi, grato che Matt si fosse voltato prima di vedere il sorriso sulle sue labbra.



   
Il sole bruciava. Kelly aprì gli occhi ed ebbe la sensazione che le proprie palpebre andassero a fuoco, ritirandosi nelle orbite come foglie secche. Nella gola c'era polvere e fuliggine, ma il panico che gli premeva il petto aveva altre ragioni. Si guardò attorto e si ritrovò steso su un prato. L'erba era fresca, lui lo sapeva, ma sotto i palmi delle mani sembrava un fuoco. Un'ombra calò sul suo viso e, anche se non avrebbe dovuto vederne il volto, lui sapeva chi fosse.
  «Non è finita qui» disse l'ombra, e il suo ghigno era tutto ciò che impedì al cuore di Kelly di fermarsi.
  Era una voce possente e tagliente, che gli attraversò la testa da tempia a tempia.
  Avrebbe voluto urlare, alzarsi e distruggere quel volto, ma era bloccato nel suo stesso corpo. Impotente.
  L'ombra svanì e il terrore divenne una coperta opprimente. Kelly sapeva di non essere solo e non poteva vedere dove l'uomo fosse, o cosa avrebbe fatto.
  Un urlo disumano squarciò l'aria e la sua bocca si spalancò. Ma quella non era la sua voce.
  Matt stava urlando.


  Kelly si svegliò di colpo, tremante e sudato. Con il respiro affannato, strinse le lenzuola intorno ai pugni, cercando di cancellare dalla mente le immagini di quell'incubo. Era la prima volta in due mesi che sognava Anthony Messer.
  Il sangue defluì dal suo viso quando si ricordò di non essere solo. Si voltò e, nella penobra della sua stanza, vide il profilo del corpo addormentato di Matt. Riuscì a rilassarsi al pensiero di non averlo svegliato; non avrebbe saputo come evitare di rispondere alle domande che ne sarebbero seguite.
  Con le dita sfiorò la sua spalla, desideroso di sentire che fosse reale e stesse bene. Matt si mosse tra le lenzuola, mugugnando nel sonno e voltandosi su un lato.
  Kelly si stese di nuovo al suo fianco, ma questa volta più vicino del solito.
  Sapeva che non sarebbe riuscito a riprendere sonno. Raramente si era sentito così impotente come in quel sogno e la verità che portava era ancora più dura da assorbire: lui lo era anche nella realtà. I Messer avevano cercato di uccidere Matt e in nessun modo lui aveva potuto evitarlo. Strinse ancora i pugni, questa volta nelle vene non il terrore, ma una rabbia così sottile e potente da appesantirgli il respiro.




  Il pollice tremava, aleggiando sullo schermo del cellulare, combattuto tra premere e ritirarsi.  
  Chiuse gli occhi e lasciò decidere al proprio corpo.
  «Voight.»
  Kelly prese un grosso respiro, poggiando la mano libera al piano della cucina.
  «Sono Severide.»
  Ci fu un breve silenzio e il frusciare di vestiti, quindi la voce roca del detective attraversò la linea. «Cosa posso fare per te?»
  Si disse che era la sua immaginazione, eppure gli sembrava che Voight sapesse esattamente il motivo della chiamata. Non che, d'altronde, avrebbe potuto invitarlo a bere o scambiare qualche chiacchiera amichevole. Decise che la diplomazia, con suo grande sollievo, poteva essere scartata per arrivare subito al punto.
  «Muovi il tuo culo da polizziotto e trova i Messer» ringhiò a denti stretti, afferrando più saldamente il bordo del bancone.
  Voight sospirò. «Immagino non hai preso bene la svolta nelle indagini.»
  «Mi prendi in giro?» chiese sarcasticamente, la voce rotta da un'amara risata. «Non c'è stata nessuna svolta. Loro sono lì fuori, dannazione, e tu non riesci a trovarli!»
  «Hai finito? Perché abbaiarmi contro non smuoverà un bel niente» ritorse Voight con voce dura. «Senti, qui non siamo in un film, non hai idea di come funzionano le indagini.»
  «E tu ce l'hai?»
  Kelly si preparò allo scontro verbale. Una parte di sé lo reclamava per rilasciare la tensione e la rabbia, ma rimase deluso quando si udì un altro profondo sospiro.
  «Ho qualche altra pista da battere. Aspetta mie notizie.»
  Era già pronto a replicare, ma la linea fu interrotta bruscamente. Imprecando a denti stretti, Kelly strinse il cellulare tra le dita, strofinandosi il volto con l'altra mano. Se chiudeva gli occhi, poteva vedere quelli feriti di Matt e la sua espressione dura, quando avrebbe scoperto di quella chiamata. Cercò di non sentirsi sporco per questo -diamine, l'unica cosa che l'aveva spinto ad avvicinarsi a Voight era stata dare giustizia a Matt. La morale rigida e testarda del biondo non poteva impedirgli di fare quello che era giusto; meglio fosse lui a sporcarsi le mani.





 
   Matt non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, forse neanche allo specchio, ma il ritorno in Caserma dopo l'incidente della palestra gli portò più nervosismo del previsto. Non riuscì a rilassarsi neanche quando Mills, già dietro i fornelli, lo salutò con un cenno politico del capo. Sapeva che era solo una sua paranoia sentire i suoi occhi bruciargli la nuca quando, ritirandosi nello spogliatoio, gli diede le spalle. Eppure non poté fare a meno di sentirsi rabbrividire. Non si era mai sentito a suo agio nell'intimità di sguardi che deriva dal condividere, soprattutto quando non era conseguenza di una sua decisione.
   Forse, si disse, la paranoia era un'altra cosa su cui lavorare con Michael.
  «Tenente!» lo salutò Hermann, staccandosi da una conversazione con Cruz e Otis e raggiungendolo davanti al suo armadietto.
  «Hermann.»
  L'uomo rimase a fissarlo, strusciando le mani tra loro e attendendo che lo spazio si liberasse. Matt gli lanciò un'occhiata confusa, finché l'uomo, appuratosi che entrambi i colleghi fossero tornati in sala comune, gli strinse una spalla.
  «Come va, Casey?»
  «Bene» rispose cautamente e con una nota di sorpresa. «Qualche problema, Hermann?»
  «No no, tutto okay.»
  «Okay...» mormorò Matt, chiudendo l'armadietto e avviandosi all'uscita.
  «Tenente, aspetta» lo richiamò il più anziano. «Senti, ti parlo da amico a amico» disse, chinandosi in avanti in tono cospiratore.
   Matt lo imitò sarcasticamente, sperando in segreto che le prossime parole a uscire da quelle labbra non riguardassero in alcun modo Severide.
  «Io rispetto Severide, davvero-»
  Accidenti.
  «-ma...sei sicuro che sia una buona idea tutto questo legare e vivere insieme? Ti vedo un po'...fuori rotta.»
  Matt sapeva di dover tenere i nervi saldi e agire con disinvoltura, ma a dispetto delle sue buone intenzioni, non poté evitare alla sua voce di divenire dura. «Non credo che questi siano realmente affari tuoi, Hermann.»
  Di fronte allo sguardo ferito dell'uomo, sospirò e cercò di essere più politico. Dovette impiegare tutte le sue energie, perché sentire uno dei suoi uomini offendere sottilmente il proprio compagno era nella lista delle cose capaci di spruzzargli il sangue al cervello.
   «Scusa, non volevo fare lo stronzo» disse, massaggiandosi la fronte. «Sono grato che ti preoccupi per me, Hermann, ma non sono al liceo e non mi farò trascinare sulla cattiva strada dal bullo della scuola.»
  Riuscì ad accompagnare il suo tentativo di umorismo con un sorriso. Hermann sembrò dubitarne, ma alla fine ricambiò il ghigno e gli diede una pacca sulla spalla. Matt cominciava a odiare quel gesto, a odiare la preoccupazione di Hermann e odiare essere lì in quel momento. Per fortuna, l'uomo si ritirò senza indulgere ancora su quell'argomento, lasciando Matt da solo e sollevato.
  Con un grosso sospiro, si sedette sulla panca, prendendo un minuto per calmare i nervi.
  Mentre ripensava a quello che il sottoposto gli aveva detto, una rivelazione lo colpì, un dubbio strusciante: possibile che Hermann sapesse di lui e Kelly? Con questo pensiero, ne giunsero altri, in una copiosa valanga. Tutti riportavano a Mills e all'incidente in palestra.
  Si alzò di scatto, con l'intenzione di affrontare il candidato - anche se non aveva idea di come parlargli senza urlare; il suono dell'allarme frantumò i suoi piani. Malgrado il disagio e la rabbia, una casa in fiamme era mille volte più importante di qualunque problema personale.


 

   Matt aveva imparato a separare la sua vita privata dal lavoro molto prima della maggior parte dei suoi colleghi. Forse era dovuto al suo carattere riservato e a quell'autocontrollo che molti gli invidiavano, o forse doveva ringraziare sua madre, che troppo presto gli aveva insegnato che i panni sporchi si lavano in casa. Così andava avanti a dispetto di tutto: si alzava, si preparava per il turno e dava il meglio di sé, anche quando aveva passato la notte sveglio e gli occhi ancora erano gonfi per il pianto. Quando la situazione diventava critica, i suoi uomini dovevano potersi affidare a lui, non importava quanto il peso gli schiacciasse le spalle; Matthew Casey doveva agire con calma e razionalità, perché in gioco c'erano le vite, c'era il caos delle fiamme che solo un cuore fermo poteva domare. Eppure Matt, a dispetto di ogni buona intenzione, era dannatamente umano e ogni essere umano ha i suoi limiti.
  Così si ritrovò nel sangue non solo adrenalina, ma anche panico. In un attimo gli passò nella mente l'immagine di una vita triste e desolata, una vita senza Kelly, nella quale lavorare alla Caserma 51 o anche in qualunque altra sarebbe stato impossibile. Una vita nella quale non avrebbe più potuto guardare negli occhi i suoi uomini, sua sorella, sua madre, nessuno, senza sentirsi sporco e colpevole.
   Ripensandoci a mente fredda, furono solo pochi secondi, ma al momento per Matt erano anni, mentre la voce di Kelly, distorta dalla radio, rimbombava nelle sue orecchie.
  "Situazione ostaggi. Uomo armato."
  Poteva smembrare le parole, privarle del loro significato, ma il senso era chiaro a tutti. Di fronte alla casa a due piani in cui il fuoco era stato relegato ad un angolo, ma ancora s'agitava, i vigili si guardavano increduli. La squadra di Severide era entrata nell'edificio adiacente per controllare che il fuoco allargatosi fin lì non avesse mietuto vittime. Tutti gli uomini della squadra 3 erano usciti, tutti tranne Severide, sceso nel seminterrato per controllare la sorgente di strani rumori.
  Gli sguardi dei vigili cercavano gli occhi di Boden, che stringeva la trasmittente tra le dita.
  «Severide, la polizia sta arrivando.»
  Non vi fu risposta.
  In quel silenzio, Matt cancellò ogni razionalità. Sapeva che la cosa più saggia da fare fosse aspettare la polizia e dei negoziatori. Sapeva che se fosse entrato nel seminterrato per aiutare l'altro Tenente il fuoco o un proiettile avrebbe ucciso entrambi. Sapeva molte cose, schemi d'azione, piani e protocolli, ma in quel momento distrusse ogni consapevolezza. Indossò l'elmetto che aveva stretto in una mano e cominciò a correre verso l'ingresso est al seminterrato.
  Una mano lo bloccò.
  Voltandosi non vide Boden, come si sarebbe aspettato, ma Hermann. In qualche modo il vigile era stato l'unico a notarlo, ad anticiparlo.
  «Hermann, togliti di dosso» ringhiò, in tono più minaccioso di quanto necessario. Il vigile si limitò a scuotere la testa, fissandolo negli occhi con uno sguardo duro che nascondeva una consapevolezza, un dolore che Matt non aveva tempo o voglia di capire.
  Cercò invano di divincolarsi dalla presa, pensando a quanti preziosi secondi stesse sprecando.
  «Christopher, non te lo dico un'altra volta.»
  «No, Casey! Non ti lascerò mettere la tua vita in pericolo. Dobbiamo aspettare la polizia.»
  «Kelly morirà!» gli urlò in faccia. Sapeva di aver attirato sguardi che era meglio non fossero su di lui, ma ora non gli importava.
  «Se fosse chiunque altro, tu aspetteresti» ritorse Hermann, per nulla impressionato dalla sua rabbia.
  «Se lì dentro ci fosse Cindy, aspetteresti? Se ci fosse Parker o un altro dei tuoi figli, tra le fiamme e con una pistola puntata alla testa, tu aspetteresti?»
  Hermann sembrò colpito dalla domanda e si ritrovò a scuotere la testa.
  «Casey! Che diavolo succede?» urlò la voce di Boden.
  Matt lo ignorò e approfittò della distrazione per divincolarsi e correre via.
  Fu come in un sogno che raggiunse la porta ormai sfondata che conduceva al seminterrato. Chiuse fuori le urla che venivano dall'esterno e dalla sua trasmittende, i rumori della strada e dei vigili che lo richiamavano. Scese i gradini e cercò di non perdere la calma.
  Guardati attorno, analizza ogni dettaglio.
  Ora più che mai, poteva fare la differenza tra la vita e la morte.


 
  «Severide!»
  Kelly sentì il sangue congelarsi nelle vene. Ancora una volta, la voce di Boden lo richiamava, con una disperazione questa volta al limite. L'uomo di fronte a lui reggeva la pistola nella mano, mentre con l'altra grattava furiosamente la pelle del volto e della nuca. Dagli occhi arrossati e dal tremore che gli sconquassava le membra sottili, Kelly poteva dire senza difficoltà che il ragazzo fosse sotto l'effetto di qualcosa. A giudicare dal rude e sporco laboratorio alle sue spalle, avrebbe scommetto sulle anfetamine.
  «Fa tacere quella cazzo di radio!» urlò il ragazzo, sventolando la pistola nella sua direzione.
  «Okay, calmati. La spengo subito» disse Kelly, sapendo che assecondarlo ora non era una scelta.
   Il tremito delle dita intorno al calcio dell'arma lo allarmava: o il ragazzo aveva già usato una pistola, oppure era talmente nervoso che il grilletto sarebbe potuto diventare fragile da un momento all'altro.
  Sapere che la propria vita era racchiusa nel gesto di un solo dito di un uomo fuori di sé, lo fece sentire impotente e rabbioso. Lentamente portò la mano alla trasmittente, spingendo la levetta che era l'ultimo filo di connessione tra sé e il resto della Caserma. L'apparecchio gracchiò, poi rimase silente.
  Il ragazzo sembrò sollevato e riprese a camminare avanti e indietro, bloccandosi solo nell'udire gli scricchiolii delle assi sulle loro teste, dilatate e scosse dal calore. Kelly sapeva che il fuoco che aveva invaso l'ultimo piano sarebbe sceso molto velocemente e, considerando il vento che sbatteva contro la finestra in alto, poteva trattarsi di una questione di troppi pochi minuti. Si aspettava di sentire da un momento all'altro le sirene della polizia avvicinarsi, ma ora il silenzio rotto dai passi, i respiri e gli spergiuri di quell'uomo era tutto ciò che aveva.
  Tentare di farlo ragionare era stato inutile, e Kelly aveva dovuto mordersi la lingua prima di aggravare la situazione.
  Fu con lucida brutalità che realizzò di non avere molte chance di uscirne vivo.
  Il suo corpo si stava automaticamente preparando alla lotta, poteva avvertire il proprio cuore battere velocemente e i muscoli tendersi. Se quello doveva essere l'ultimo turno della sua vita, avrebbe combattuto fino a non poterlo più fare. Strinse i pugni e, proprio mentre attendeva il momento propizio per lanciarsi contro l'uomo, passi pesanti attirarono l'attenzione di entrambi.
  Le scale scricchiolarono e si sentì contro il muro il frusciare di vestiti e qualcosa che tintinnava. Kelly trattenne il respiro, non volendo davvero credere alla familiarità di quel pattern di rumori. Le sue migliori speranze furono frantumate quando dal buio delle scale emerse una figura.
  «Matt?»
  «Tu chi cazzo sei?» urlò l'uomo, sventolando la pistola in direzione del Tenente.
  Matt alzò le mani e si avvicinò cautamente, finché Kelly poté avvertire il distinto odore del suo corpo avvolto dalla fuligine e dell'adrenalina.
  «Sono Matt» disse Casey, mostrando una calma che Kelly sapeva nessuno dei presenti possedeva. «Tu come ti chiami?»
  L'uomo esitò un attimo, poi rialzò la pistola, puntandola nella direzione generale della testa di Casey. «Mi prendi in giro? Ora vi sparo, giuro vi sparo.»
  «Okay» mormorò Matt, avanzando di qualche cauto passo.
   Kelly sapeva di non dover distogliere lo sguardo dalla canna dell'arma, ma i suoi occhi non riuscivano a staccarsi dal compagno. Era furioso, confuso, spaventato, ma soprattutto avrebbe voluto cacciare a calci Matt per metterlo in salvo.
  «Se ci uccidi ora» continuò il biondo. «Finisce tutto qui. Per te, per noi, per tutti.»
  Matt guardò Kelly all'angolo del campo visivo e per un attimo i loro sguardi si incrociarono. Fu in quel momento che il moro capì cosa sarebbe successo: c'era solo una pallottola e uno dei loro due nomi era scritto sopra. Non si trattava più di lottare fino alla morte, ma di morire al posto dell'altro.
  Kelly si allontanò da Matt, cotringendo l'uomo a puntargli la pistola contro. Se c'era abbastanza distanza tra loro, uno dei due si sarebbe salvato. In quella situazione estrema, quella gli sembrava l'unica speranza salda.
  «Ascolta» quasi ringhiò Matt, attirandosi ancora l'attenzione dell'uomo, che ora dardeggiava lo sguardo nervosamente tra i due. «Dammi la pistola e arrenditi. La polizia sarà qui a breve, se spari è finita.»
  Il biondo tese la mano e l'unica reazione dell'altro fu stringere più saldamente l'arma.
  «Stai zitto! Devo pensare! Taci!»
  Il volto arrossato sfiorò una nota livida e Kelly seppe che quella era la sua ultima possibilità. Uno spiraglio nel caos. Guardò Matt e quando il biondo annuì, lui seppe esattamente cosa fare. Il suono delle sirene rimbombò attraverso il seminterrato, facendo scattare la testa dell'uomo.
  «Ti sbatteranno dentro» urlò Matt.
  L'esca era stata lanciata. L'uomo si voltò furioso, così assorbito dal proprio panico da non notare che il suo secondo ostaggio lo aveva fiancheggiato. Kelly gli assestò un colpo sul fianco. L'uomo grugnì e fu sul punto di sparare, ma la mano di Matt gli circondò il polso, spingendogli il braccio in alto. Un colpo partì a vuoto, liberando tutta l'adrenalina nei corpi dei Tenenti.
  In poco più che qualche secondo, l'uomo fu a terra, spinto da un ginocchio di Kelly piantato sul petto, mentre passi frenetici calpestavano le scale.
  Uno suqadrone di agenti aveva fatto il suo ingresso, attirati dallo sparo.
  L'uomo, al limite della coscienza, fu issato e ammanettato.
  Quando gli agenti uscirono, Kelly guardò Matt con una furia che presto cedette di fronte alla consapevolezza di essere vivi, entrambi.
  «Mai più» ringhiò.
  Matt sorrise stancamente e gli afferrò la nuca. Prima che potesse baciarlo, il soffitto scricchiolò e la voce di Boden echeggiò attraverso la trasmittente.
  «Venite fuori!»
  Senza farselo ripetere, i due Tenenti corsero verso la salvezza.






Note: Hello, guys! Non ho molto da dire, se non che l'ispirazione comincia pian piano a strisciare di nuovo a casa (e sempre nei momenti meno opportuni, ma non ci lamentiamo). Cercherò di aggiornare più assiduamente.
   Ax.



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Capitolo 23
*** Affittare l'anima ***



23

Affittare l'anima
 

   Ritti di fronte alla scrivania di Boden, Matt e Kelly condividevano una sensazione davvero spiacevole: sarebbe loro piovuta sulla testa una pioggia di guai.
  Usciti dal seminterrato, Boden aveva rivolto loro appena uno sguardo truce. Qualunque offesa o urlo sarebbe stato migliore che quel terribile e duro silenzio. Il ritorno in Caserma era stato silenzioso su entrambi i camion; nessuno degli uomini delle due squadre aveva osato commentare ciò che era successo. Per la maggior parte aleggiava il terrore del momento in cui la reazione di Boden sarebbe giunta.
  Quando i Tenenti erano stati convocati nell'ufficio, i loro uomini avevano indossato sguardi compassionevoli e spaventati.
  Matt guardava Boden, che guardava entrambi con le mascelle serrate. Non riuscendo più a sopportare l'attesa, parlò prima di potersi frenare.
  «Senta, Capo, so di aver sbagliato-»
  Boden alzò una mano per frenarlo e i suoi occhi si infiammarono.
  «Quando, Casey? Quando hai deciso di entrare senza permesso, o quando hai deliberatemente ignorato un ordine?»
  Matt abbassò il capo istintivamente, vergognandosi della sua attuale posizione.
  «Non so cosa stia succedendo qui» disse Boden, stringendo le mani sulla scrivania. «Prima tu, Casey, ignori il mio ordine di uscire da un edificio in fiamme e menti spudoratamente, poi questo.» Prima di ricevere risposta, Boden si voltò verso Kelly. «E tu, Severide, prendi decisioni di testa tua, mi oltrepassi, lasci il turno e torni dopo un'ora senza una valida ragione. Ora, voglio credere di non aver perso il controllo sui miei due Tenenti, i miei uomini migliori, quelli che dovrebbero avere il buonsenso per comandare. È così?»
  Matt annuì, ma non osò guardare Kelly. Malgrado ciò, avvertì il capo del moro imitarlo. Provò l'istinto di dire la verità, di svelare a Boden la loro relazione. Non era certo che Kelly approvasse la sua intenzione, né che questo non li avrebbe messi in guai peggiori. L'ultima cosa che voleva era che Boden considerasse il loro rapporto qualcosa che ne degenerasse le capacità lavorative, ma non era certo di avere molte alternative.
  «Casey» lo richiamò Boden, spingendolo a guardarlo negli occhi.
   Ciò che vide non gli piacque affatto e sentì il sangue defluirgli dal viso, attendendo parole che non avrebbe mai voluto sentire.
  «Sei sospeso.»
  La verità folgorò la sua mente: Kelly era la cosa più preziosa che aveva. Il suo lavoro e la posizione che aveva guadagnato con così tanta fatica, non erano nulla paragonato a quello che aveva con il suo compagno. Kelly era la persona che lui aveva atteso per tutta la vita, la speranza che non era riuscito ad abbandonare, il sentimento che aveva potuto osservare solo negli occhi di pochi fortunati.
  «Cosa?» sbottò Kelly. «Sta scherzando?»
  «Vuoi essere sospeso ance tu, Severide?» lo sfidò duramente Boden, prima di tornare a Casey. «Ti ho dato tempo, ma a quanto pare hai bisogno di altro riposo. Quello che hai fatto oggi non solo è assurdamente stupido, ma così pericoloso che siete fortunati ad esserne usciti vivi. Non posso rischiare la vita dei miei uomini per i tuoi problemi.»
  «Stranzate» ringhiò Kelly.
  «Kelly» lo ammonì Matt, guardandolo negli occhi.
  Si voltò lentamente verso Boden e, con voce ferma, disse: «Quello che ho fatto oggi lo rifarei mille volte, Capo.»
   Infilò una mano nella tasca dei pantaloni e ne estrasse il distintivo. Per Kelly fu un terribile deja-vu vedere quel pezzo di metallo lasciare le dita di Matt e posarsi sulla scrivania. Eppure questa volta era diverso: non era la disperazione a muovere le sue mani, ma qualcosa di più lucente. Qualcosa che a Kelly sembrava amore.
  «Se essere un vigile del fuoco non vuol dire difendere la vita delle persone a cui tengo, allora non lo sono.»
  Boden si alzò dalla sedia, reggendosi alla scrivania come se cercasse un equilibrio tra le sue emozioni. Kelly guardò con strana fascinazione i due uomini fissarsi negli occhi senza cedere, da un lato abbagliato dalla determinazione di Matt, dall'altro preoccupato per la reazione di Boden a quelle parole.
  «Questo cosa vuol dire? Cosa ti aspetti che faccia?» chiese Boden.
  «Quello che vuole» disse Matt, aprendo le braccia in tono di sfida.
   Kelly lo aveva visto comportarsi così molto raramente, e mai con Boden. Casey non era il tipo di persona che provocava un diretto superiore, soprattutto qualcuno che rispettava; per lui era molto importante ottenere l'approvazione e il rispetto reciproco. Per un attimo fu tentato di intervenire, ma era bloccato dall'indecisione: cosa avrebbe potuto fare? La diplomazia non era il suo forte.
  «Avrei fatto lo stesso» disse di getto, attirandosi due paia di occhi stupiti.
  Guardò fisso Boden, ignorando lo sguardo di Matt.
  «Ci sospenda entrambi, o ci lasci andare.»
  Boden li guardò uno ad uno con un cipiglio confuso a increspargli la fronte.
  «Che diavolo sta succedendo qui?»
  «Non siamo coinquilini» rispose Kelly. «Siamo una coppia.»
  Il cipiglio di Boden divenne più profondo, mentre la sorpresa passava nei suoi occhi scuri. Per secondi che sembrarono eterni, l'aria si congelò e nessuno dei tre uomini riuscì a muovere un muscolo. Matt abbassò lo sguardo appena oltre il volto di Boden e quando tornò ad esso, assistette a un inatteso spettacolo di emozioni scavare tra le rughe e i lineamenti del Comandante.
   Boden si mosse lentamente, rompendo la tenzione, e afferrò il distintivo. Lo guardò e lo tese a Matt, prima di sedersi e sospirare pesantemente.
  «Questo non cambia niente» disse Boden. «Siete sospesi entrambi. Finite questo turno e andate a casa. Schiaritevi le idee e non tornate prima di due turni. Intesi?»



  «Poteva andare peggio, eh?» cercò di scherzare Kelly, appena usciti dall'ufficio di Boden.
  La tensione lasciava i suoi muscoli tanto velocemente da fargli girare la testa. Ma Matt non sembrava in vena di scherzi. Senza dare segno di aver registrato le sue parole, si avviò lungo il corridoio. Kelly lo intercettò, parandogli la strada.
  «Hey, che ti prende?»
  «Niente» mormorò Casey, facendo un passo indietro. «Senti, ho da fare.»
  Cercò di aggirarlo, ma Kelly lo frenò ancora.
  «Ce l'hai con me per quello che ho detto a Boden?»
  Matt lo guardò ferito, ma la rabbia lasciò velocemente i suoi occhi, risucchiata dalla stanchezza. Sospirò e scosse la testa.
   I suoi occhi sembrarono addolcirsi, mentre rispondeva: «No, prima o poi lo avrebbe scoperto. Ho solo bisogno di stare un po' solo, okay?»
  Per Kelly non era affatto okay. Non voleva mostrarlo a Matt, ma si sentiva lievemente ferito dal suo atteggiamento. Aveva lottato per lui, messo in gioco tutto in quell'ufficio, e sentirlo ritirarsi così gli faceva dubitare di aver realmente fatto dei progressi in quelle settimane.
  Alzò le mani in finta resa.
  «Come vuoi» mormorò, noncurante del tono acido e rude.
  Matt lo guardò allontanarsi, schiaffeggiandosi mentalmente. Sapeva che avrebbe dovuto sistemare le cose dopo il turno, ma ora era davvero troppo stanco e confuso per farlo. In un solo giorno aveva messo in gioco la sua vita, il suo lavoro e i suoi affetti per un'unica persona. Era quanto di più ardito avesse mai fatto per qualcuno, Hellie compresa.
   Amava Kelly. Questa ora sembrava l'unica certezza.
   Lo spaventava pensare a cosa sarebbe stato capace di fare per Kelly, ma ora le parole di sua madre acquistavano un senso diverso, che pesava come un macigno.
   Si ritirò nel suo ufficio, chiudendo la porta e abbandonandosi alla sedia. Si massaggiò le palpebre, cercando di far chiarezza nel turbine di emozioni che, dopo l'adrenalinica chiamata, ricadeva nelle sue ossa.





  Kelly decise che starsene con le mani in mano non fosse un'opzione; era molto più allettante concedere finalmente a Shay quel controllo al motore dell'ambulanza che le aveva promesso una settimana prima. Mentre armeggiava nel cofano aperto, gli sembrò di ritrovare il controllo su tutta la situazione. Sapeva che Matt sarebbe tornato da lui e avrebbe chiesto scusa -non per forza verbalmente, anzi probabilmente non verbalmente, ma non gli importava. Conosceva il suo compagno e sapeva che a volte aveva solo bisogno di un po' di spazio per ritrovare la presa sulle sue emozioni. A lui andava bene, in fondo, perché preferiva non spingerlo fino al punto di poterlo attaccare. Non era ancora certo di poterlo dire, ma gli sembrava di cominciare a capire quale fosse il ritmo della loro relazione.
  Nel profondo delle sue paure e delle sue debolezze, tuttavia, la freddezza di Matt l'aveva ferito.
  «Hey.»
  Alzò lo sguardo e trovò Gabriela poggiata al cofano aperto, con un lieve sorriso sul volto.
  «Hey, Dowson» rispose, con un cenno del capo.
  Con uno straccio unto grattò via i residui di olio dalle nocche, stirando al contempo la schiena. Tutta la tensione della giornata cominciava a farsi sentire, ma il turno era ancora lungo e non credeva di riuscire a concedersi il lusso di una veloce dormita. Voleva dare il massimo finché non fosse suonata la sirena di fine turno, dato che non avrebbe lavorato per altri sei giorni.
  «Allora, trovato il problema?»
  «Sì e no» rispose grattandosi la fronte.
  «La cinghia di trasmissione è un po' logora, ma non credo sia tutto qui. Onestamente, a questo affare serve più una rottamazione che una riparazione.»
  «Già, parla col comando centrale» sbuffò Gaby. «Chiedo una nuova ambulanza da quando ho iniziato a usare questa.»
  Kelly rise e fu quasi stupito quando Gaby lo accompagnò. Non avevano mai avuto un buon rapporto - anzi questo era un eufemismo. Era quasi certo che Gabriela, fin dal primo incontro, non avesse mai smesso di odiarlo, eppure ora c'era qualcosa di diverso nello sguardo che gli rivolgeva. Si chiese se anche lui sarebbe stato capace di gioire sapendo che Matt era con la persona che amava, anche se non fosse stato lui. Non ne fu certo e decise di non avventurarsi in quei pensieri.
  «Hey, Severide!» lo richiamò Capp, correndo verso di lui. «Hai visite, qui fuori.»
  Kelly guardò interrogativo Gabriela, quindi si allontanò e uscì nel parcheggio.
  La figura che vide poggiata a un'auto scura lungo il marciapiede gli inviò una scarica nervosa lungo la schiena.
  «Se non hai una nuova pista, meglio che sparisci» disse, avvicinandosi e sfilando dal taschino un pacco di sigarette.
  Voight si staccò dall'auto e gli rivolse un ghigno, prima di scuotere la testa.
  «Sai, a me solitamente piacciono le teste calde, ma prima o poi dovrai moderare i toni con me.»
  Kelly rise con la sigaretta tra i denti, accendendola con indifferenza. Sbuffò una nuvola di fumo in direzione del detective, che non accennò a muoversi. Se avesse dovuto scommettere sulle emozioni dell'uomo, avrebbe detto che lo odiava fino al midollo e che desiderasse rompergli la faccia. Non capiva perché Voight trattenesse il suo sangue caldo con lui, ma immaginò c'entrasse con la volontà di ripulirsi dopo quello che aveva fatto a Matt.
  Era un compromesso che Kelly poteva accettare.
  «Che vuoi, Voight?»
  «Ho sentito dai ragazzi quello che avete fatto oggi, tu e il tuo amico Casey.»
  Kelly represse il moto di rabbia che gli serrò la gola.
  «E sei venuto qui per congratularti o ringraziarci?»
  «Nessuno dei due» disse Voight, infilando la testa nel finestrino dell'auto. Ritirò un fascicolo e lo porse a Kelly, assicurandosi che nessuno li osservasse.
   «Lui è Jeremy, il cognome non conta» spiegò il detective quando Kelly ebbe aperto il fascicolo. «Un piccolo delinquente che stava in banda con il vostro amico di oggi, Jim. Ha parlato subito, incredibile. Lo avete conciato bene.»
  Kelly ignorò il commento, concentrandosi sul volto ritratto in fotografia.
  «E allora? È un piccolo delinquente qualunque.»
  «Invece no» disse Voight, poggiando la schiena alla portiera dell'auto e incrociando le braccia. «Quel piccolo delinquente è in combutta con un pezzo grosso, o meglio uno che crede di esserlo. Il suo nome è Tyrone.»
  «Qual è il punto, Voight?» sputò fuori Kelly, agitando in aria il fascicolo.
  «Il punto è che prendiamo Jeremy, lo portiamo in centrale e lui vede le foto al muro dei Messer. Bingo! Comincia a cantare come se fosse in chiesa.»
  Kelly rischiò di far cadere la sigaretta dalle labbra. La estrasse e la gettò a terra, incurante che fosse solo a metà. Riaprì il fascicolo e guardò ancora la foto di Jeremy.
  «Che cosa ha detto?»
  «Che facendo una consegna per Tyrone ha sentito parlare di questi due italiani. Non sa altro.»
  «Okay» mormorò Kelly.
  Cercò di frenare il tremito delle mani, scosso dall'adrenalina di avere finalmente qualcosa di concreto. Quando alzò gli occhi, vide che Voight aveva aperto la portiera dell'auto.
  «Quando smonti, fammi uno squillo. Andremo a fare una visita a Tyrone» disse. Salì e chiuse la portiera, aggiungendo: «Lascia a casa il tuo Robin. Solo io e te, intesi?»  




  Quando Matt riuscì a ritrovare Kelly tra i corridoi della Caserma, ricevette appena un cenno di saluto. Non era di quelli carichi di astio, perché se fosse stato davvero arrabbiato probabilmente non lo avrebbe salutato, nel migliore dei casi. Nel peggiore...bhe, sarebbe stato un disastro di urla e insulti. Kelly non possedeva la sottile abilità di tenersi le cose per sé o far buon viso a cattivo gioco, o se la possedeva non si curava di sfoggiarla con Matt. E lui, in fondo, lo aveva sempre apprezzato, poiché gli dava la sicurezza di sapere che poteva fidarsi di un suo sorriso.
   Matt sapeva che ora toccava a lui dargli tempo.
   Dopo la sua lunga riflessione -o meglio, i lunghi minuti ad osservare il vuoto delle pareti del suo ufficio- Matt riemerse nella vita della Caserma sentendosi uno stupido. La sua mente ora andava schiarendosi e una doccia fredda riuscì a calmare ogni dissidio interiore.
   Svoltando l'angolo del corridoio, Matt quasi si scontrò con Hermann. L'uomo si ricompose subito e Matt si scusò politicamente, pronto a tornare al suo vagare meditabondo.
  Ma il vigile gli afferrò il gomito. Matt lo guardò confuso e l'altro allentò la presa, scrutandolo a fondo. Erano rare le volte che quel tipo di serietà induriva i lineamenti di Hermann, e Matt non era certo di riuscire ora a reggere qualunque cosa avesse da dirgli.
  Dopo un lungo dialogo di sguardi, Hermann disse: «Quindi tu e Severide, uhm?»
  «Sì» rispose Matt lentamente, cercando di capire se la domanda fosse pervasa da emozioni negative.
  Hermann alla fine annuì e gli diede una pacca sulla spalla. Matt rimase perplesso.
  «Non fare quella faccia, Tenente!» disse l'uomo, tornando luminoso come sempre. «Sono settimane che cerco di tirarvi fuori qualcosa, ma siete come muri. Comunque, buon per voi.»
  «Buon per noi?» chiese Matt, più confuso di prima.
  Hermann fece una smorfia di finta offesa.
  «Cosa? Pensavi che vi avrei messo al rogo? Casey, in questa Caserma non è mai stato un problema chi uno si porta a letto.»
   Matt sentì di star per ridere e cercò di trattenersi, invano. Quello che ne uscì fu una risata gutturale che somigliava a un colpo di tosse. Si sentiva attirato in una strana euforia. In qualche modo, sapere che Hermann non aveva cambiato idea sulla sua persona lo faceva sentire leggero.
  «Non credo che il comandante pensi la stessa cosa.»
  «Cosa?» chiese Hermann, accigliandosi. «Tu non conosci Rey Filson?»
  Matt scosse la testa e vide l'altro vigile ridere di grosso.
  «Casey, quello è uno dei migliori amici di Boden. Qualche anno fa erano inseparabili. L'unica volta che Boden ha fatto da testimone a delle nozze sono state le sue.»
  «E allora?»
  «E allora, era un matrimonio con due sposi» disse Hermann, strizzandogli l'occhio. «Rey e Phillip erano l'unica coppia non scoppiata della Caserma.»
  Matt battè le palpebre più volte, sentendosi improvvisamente stupido. Ora le sue paranoie gli sembravano ridicole e infantili. Hermann gli battè ancora una mano sulla spalla, ridendo del suo stupore.
  «Finché non combinate guai, avete il mio totale appoggio.»
  Quando Matt si fu ripreso abbastanza dal mormorare un grazie sincero, si accorse che Hermann era già andato via per la sua strada. Poteva tuttavia sentirne ancora la risata.
   Pensò a Mills, Hermann e a Boden e capì che non gli importava affatto che sapessero. Il subdolo terrore che lo aveva chiuso nel silenzio non aveva, ora, alcun potere su di lui. Gli occhi furiosi di suo padre ancora continuavano a osservarlo da un angolo nascosto della sua mente, ma ora Matt non era più un ragazzino spaventato. Ora era certo, per la prima volta nella sua vita, che nulla potesse distruggere il suo legame con Kelly. Aveva qualcosa che doveva essere difeso e che meritava ogni energia. Non era certo di riuscire a considerare la sospensione giusta, o che cosa questo dicesse di lui come Tenente. Ma non aveva mentito a Boden: quello che aveva fatto lo avrebbe rifatto altre mille volte.
   Pensò ai giorni che avrebbe dovuto trascorrere lontano dal lavoro e, contrariamente al previsto, la sospensione non gli apparì più come una vergognosa punizione. Riusciva solo a pensare al tempo che avrebbe potuto finalmente trascorrere con Kelly, lontani dal caos della città, chiusi nel loro appartamento, soli e vicini.
 
  In sala comune, Kelly sembrava assorto in un giornale che non stava realmente leggendo. Matt afferrò una sedia e la trascinò accanto a lui, sedendosi a cavalcioni per scrutare oltre le sue spalle.
  Kelly se ne accorse con qualche secondo di ritardo. Sembrò emergere da una profonda riflessione; scosse la testa e guardò interrogativo Matt.
   Quello sguardo fu abbastanza perché il biondo sapesse che la tensione tra loro si era dissipata.
  «Cosa?»
  «Niente, mi chiedevo se quella pagina numero tredici sia così interessante, o se hai dimenticato come si legge.»
  Kelly guardò il giornale, poi Matt, quindi richiuse il fascicolo con uno sbuffo e si passò una mano sul volto. Si sentiva a disagio, questa era l'unica spiegazione a quello strano senso di fastidio e difficoltà nel guardare Matt negli occhi. Si sentiva come un ragazzino che cammini per strada con i pantaloni sbagliati, per la stagione e l'anno sbagliati.
  Non poteva dirgli di Voight, di averlo cercato, di essersi messo lui nella situazione di non poter rifiutare il suo invito alla caccia. Si sentiva quasi geloso di quel privilegio, perché era certo che Matt avrebbe fatto di tutto per impedirgli di seguire Voight quella sera. E Kelly non voleva lasciarsi convincere, non voleva giugere al "o me o la tua personale vendetta." Aveva paura di ciò che avrebbe scelto.
  Così fece l'unica cosa in grado di farlo sentire piccolo, infimo e pieno di vergogna. Mentì con il sorriso sulle labbra e il petto pesante.
  «Tutta questa faccenda di Boden mi innervosisce» disse, afferrando la tazza di caffé abbandonata sul tavolo. Ne prese un sorso e resistette all'impulso di sputare la miscela zuccherina e fredda. «Una sospensione, ora? Non ci voleva.»
  Matt si grattò la nuca e fece spallucce. Decisamente non ci voleva, ma ora che Kelly sembrava così sotto tono, si sentiva in dovere di sollevarlo. Ignorò la paranoica vocina che gli suggeriva che qualcosa fosse fuori posto con il compagno. Ne aveva abbastanza di paranoie. «Abbiamo fatto la cosa giusta, lo sai.»
  Kelly alzò su di lui uno sguardo ironico, ma Matt non vi badò.
  «Okay, magari io ho agito un po'-»
  «Da idiota?» si intromise una voce tagliente.
  Shay si sedette di fronte a loro, congiungendo le mani sul tavolo e scrutandoli.
  «Complimenti, tenenti. Grazie al vostro piccolo cuore coccoloso e al vostro complesso dell'eroe, la Caserma rimarrà senza tenenti. Ciò vuol dire: Dowson stressata, che vuol dire io stressata, Hermann stressato e...oh, guarda un po', nessuno dei tuoi amici della Squadra sarà stressato, giocheranno a carte e rideranno del caos generale.»
  Kelly guardò Matt, che alzò le mani in segno di resa. Ignorò lo sguardo fulminante di Shay, indossando un grosso sorriso.
  «Stasera al Galapagos, offro io» disse Matt, guardando la bionda con quanta affabilità possedeva.
  «Okay» concesse Shay, alzando tre dita. «Questi sono i drink che mi devi.»
  «Wow, qualcuno domani dovrà pur andare a lavoro» commentò Kelly, guadagnandosi un'ultima occhiata infuocata dalla bionda.
   Shay si alzò e mormorò qualcosa, allontanandosi a grossi passi.
  «Ti divertirai stasera con lei» disse Kelly, alzandosi.
  Matt lo imitò con uno sguardo interrogativo.
  «Scusa, che vuol dire?»
  «Cosa?»
  «Che vuol dire io e lei? Tu non vieni?»
  Kelly scosse la testa e stirò il collo, massaggiandone l'attaccatura con la spalla.
  «Credo di aver preso una bella botta oggi, resterò a casa. E poi abbiamo un bel po' di tempo da passare soli.»
  Si allontanò certo che la sua menzogna non fosse tanto opaca per Matt. Sperò solo che non fosse neanche troppo trasparente. Forse, entro il sorgere della prossima alba, tutto sarebbe finito: la sua rabbia e frustrazione, gli incubi suoi e di Matt. E allora avrebbe stretto il suo compagno nel letto, mentre il sole gli sfiorava i capelli e ne riscaldava l'odore, senza nessun fantasma a freddare i loro cuori.









Note:
  Rispondo qui al commento di Cecimolli, in modo da dissipare i dubbi anche di altri: l'episodio della palestra nel capitolo 21 può essere interpretato in entrambi i modi che tu hai proposto. Se da una parte Matt ha covato un po' di risentimento verso Kelly (e malgrado i chiarimenti, il corpo spesso agisce in automatico e nel momento di sfogo, un po' esce il represso), dall'altra parte Kelly si propone come vero e proprio canale di sfogo per tutta la rabbia che il compagno si è ritrovato a dover tenere a bada. Spero di aver chiarito e, come sempre, ringrazio te e Sasuke_kun_Uchiha per la vostra costante presenza. Questo è un periodo un po' colmo di impegni e, se di certo mi piace, d'altro canto è difficile stare al passo con le storie che sto scrivendo. Sapere che voi continuate a seguire a dispetto dei miei salti temporali mi sprona a continuare a pubblicare. Quindi, un ringraziamento davvero sentito.
   A presto,
   Ax.


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Capitolo 24
*** La notte ci divora ***



24

La notte ci divora


(Un mese prima)
 

   Tony scrollò le spalle, cercando di sopprimere l'istintivo senso di pericolo che lo aveva afferrato quando era entrato nel condominio. Le scale buie, la musica alta che trasudava dalla porta e i passi pesanti sopra la sua testa non aiutavano affatto.
   «Okay, ora o mai più» mormorò, prima di alzare un pugno per bussare.
   Al primo tocco, nessuno rispose. Tentò ancora, ma nulla. Decise quindi di premere il campanello. Aveva già alzato l'indice quando la musica scemò e i catenacci cominciarono a essere tirati. Sull'uscio apparve un ragazzino sudamericano avviluppato in una pesante felpa, gli occhi neri che lo indagavano con sospetto.
  «Cerco Tyrone» riuscì a dire Tony.
  Il ragazzo poggiò una mano sullo stipite, continuando a guardarlo con diffidenza.
  «Sono un amico di Lou» spiegò l'italiano, spostando il peso da un piede all'altro. «New York.»
  Al nome della città, una pesante mano tirò indietro il ragazzino, che si fece da parte per far spazio a un uomo sulla trentina, il volto affilato e lo sguardo penetrante. Tony non aveva la minima idea di che aspetto avesse Tyrone, ma a giudicare dalle catene d'oro massiccio e dalla postura aggressiva, immaginò che fosse l'uomo che ora lo troneggiava.
  «Ti manda Lou?» chiese con voce abrasiva.
  Tony annuì con decisione, chidendosi se mai avrebbe avuto il coraggio di non scappare in quell'esatto istante se la situazione non fosse stata così disperata.
  «Entra.»
  L'italiano seguì l'invito come un ordine, entrando nell'appartamento e guardandosi subito attorno, come se attendesse da un momento all'altro di ritrovarsi una pistola alla tempia. Seguì il ragazzino nel salotto, dove altri due uomini erano chini su un tavolino a trafficare con chissà quale droga. Tony non era un esperto di sostanze stupefacenti e non ci teneva troppo a diventarlo. Tyrone si abbandonò alla poltrona e fece un cenno del capo al ragazzino.
  «Felipe, cervezas
  Felipe scomparì in una piccola cucina, tornando con quattro birre dalla marca sconosciuta. Tony riuscì a berne solo un sorso, prima di sentire la bile risalirgli.
  «Allora, che vuoi?» sputò fuori Tyrone.
  Intuendo che la pazienza dell'uomo fosse davvero limitata, Tony rispose in fretta: «Mi serve aiuto. Lou mi ha detto che se venivo a Chicago e avevo problemi, potevo venire da te.»
  La cosa doveva essere di un umorismo che lui non capiva, perché Tyrone rise, trascinando con sé i due ragazzi seduti sul divano. Solo Felipe condivideva la sua confusione, ritto contro un muro. Forse, si disse Tony, quel ragazzino non capiva una parola di inglese.
  «Lou dice molte cose. E tu saresti?»
  «Tony, Messer.»
  «A che ti serve il mio aiuto? Donne? Droga? Uomini?»
  Ancora una volta, la stanza si riempì di risate grasse, mentre il nervosismo di Tony aumentava.
  «Io...» si schiarì la voce, arrischiandosi a fissare dritto Tyrone. «Ho fatto un casino e ora mi cercano. C'era questo vigile del fuoco e io avevo bisogno che chiudesse la bocca, per la mia famiglia, capisci? Quindi sono andato a casa sua e-»
  «Fermo» ringhiò Tyrone, chinandosi in avanti. «Non voglio sapere i fatti tuoi. Voglio solo sapere che vuoi da me.»
  «Devo sparire per un po', ma non posso lasciare Chicago. La polizia mi sta alle costole.»
  Tyrone reclinò la schiena contro i cuscini, grattandosi il mento come se riflettesse su questioni profonde.
  «Lou è un amico, lo sai? Te l'ha detto che gli devo un favore?»
  Tony annuì, incerto se ringraziare o maledire il suo amico di New Tork.
  «Miguel, occupatene tu» disse Tyrone, facendo scattare la testa di uno dei ragazzi.
  Miguel guardò Tony e ghignò, annuendo poi al capo.
  «Ho un posto dove puoi stare finché le acque non si calmano» disse Tyrone, puntandogli un dito contro. «Ma tu non mi conosci, intesi? Fai il mio nome e sei morto.»
  Tony deglutì a fatica: non c'era modo che quella frase di circostanza fosse davvero di circostanza.



(Presente)

   Quando Matt aveva invitato Shay in uno dei club gay preferiti dalla bionda, aveva realmente pensato fosse una buona idea, anche carina. Sentiva di dover tornare nel flusso della civiltà, e di dover in qualche modo portare un po' di gioia anche a lei. In fondo, aveva vissuto sulla pelle gli alti e bassi dell'ultimo mese e più, e certamente per lei non doveva essere stato semplice galleggiare nella marea che lui e Kelly avevano portato nell'appartamento.
   Più il tempo e i corpi intorno a lui scivolavano, più Matt cominciava a ricredersi.
   La musica ad alto volume pulsava come un orrendo cuore scalpitante in una gabbia d'acciaio. Matt alzò lo sguardo e storse le labbra alla vista delle lamine di ferro e rame sistemate tutt'intorno alle mura interne del locale. Quello che doveva essere un particolare all'avanguardia e innovativo, si mostrava una mostruosità sia per gli occhi che per le orecchie. Il suono proveniente dalle casse sembrava tagliare le lamine, che vibravano e sfregavano tra loro, aggiungendo altro rumore alla già palese cacofonia dell'ambiente. Matt, bicchiere alla mano e dita distrattamente a giocherellare con la cannuccia, non poteva fare a meno di notare tutti gli orrori di costruzione del Galapagos, chiedendosi come i proprietari avessero ottenuto la liceanza per aprire.
   Lo sguardo gli cadde sulle due ragazze all'altro capo del tavolino, rilassate contro i cuscini del divanetto. Inclinò di lato la testa, in un gesto instintivo, come a voler mettere a fuoco ciò che c'era oltre gli occhi di un osservatore. Shay scelse quel momento per distogliere lo sguardo dalla propria mano nascosta sotto il tavolino -sicuramente intenta a carezzare la gamba di Sam- e puntarlo su di lui.
  Si accigliò in una muta domanda, poi roteò gli occhi e fece un cenno a un cameriere di passaggio.
  «Hai decisamente bisogno di bere» disse come spiegazione.
   Sam rise, poggiandosi più pesantemente alla spalla della compagna, palesando nel gesto il grado di alchol nelle sue vene. Solo allora Matt abbassò lo sguardo sul proprio drink, trovandolo ormai agli sgoccioli. Restavano appena due piccole fragole sul fondo, annegate in due dita di ghiaccio sciolto. Non riusciva a capacitarsi come avesse fatto a finirlo, dato che quel tipo di drink fruttato era troppo dolciastro per i suoi gusti. Sicuramente doveva avere qualcosa a che fare con il lungo mese passato a bere solo qualche birra. Non lo avrebbe ammesso ad alta voce, ma l'alchol gli era mancato.
   Rise della propria distrazione e alzò le mani in resa, sentendosi leggermente più leggero e ubriaco quando si accorse che i corpi che affollavano la pista da ballo cominciavano a sembrargli confusi.
  Concentrandosi sulle vibrazioni propagate dalle casse della sala, e riverberate dalle orrende lamine alle mura, gli parve di avvertire qualcosa nella tasca. Estrasse il cellulare, scoprendosi deluso nel notare che non aveva ricevuto alcuna chiamata o messaggio.
  «Terra chiama il Tenente Casey!»
   Matt sobbalzò, rischiando di far scivolare a terra il cellulare. Lo infilò velocemente in tasca, rivolgendo uno sguardo di scusa a Shay. La bionda sorrise, gli occhi brillanti per l'euforia data dalla buona dose di alchol. Fece un gesto confuso della mano, indicando il drink che era stato posato davanti a lui.
   Non si era accorto dell'avvicinarsi del cameriere. Questo pensiero lo assorbì per un minuto buono. La sua mente, per quanto cercava di distrarsi con tutto ciò che lo circondava, restava risucchiata in un unico buco nero di domande. Tutti i suoi pensieri, anche quelli che cercavano di rifuggire all'esterno, gravitavano intorno all'orbita di Kelly. Il comportamento del compagno, anche tornati a casa, era stato elusivo, e Matt non poteva fare a meno di rimanerne perplesso. Il sospetto era sempre dietro l'angolo, anche se lui cercava di fuggirne il più possibile.
  Ignorando la sensazione di umidità sui palmi delle mani data dal bicchiere ghiacciato, Matt poteva ancora sentire sotto le dita i fianchi tonici di Kelly. Amava carezzare la curva dell'osso del bacino, fino a trovare quel punto in cui i muscoli cominciavano a flettersi sull'addome, solleticati dal suo tocco. Prima di uscire, aveva posato le sue mani in quel punto sensibile e Kelly gli aveva sorriso, chinandosi per baciarlo. Un gesto semplice, quotidiano, ma che aveva qavuto una sfumatura strana, come se qualcosa non fosse al suo posto. Matt non se ne vantava, ma doveva ammettere di essere un bugiardo migliore del suo compagno, e questo, unito alla conoscenza di ogni sfumatura dell'espressione di Kelly, nel tempo aveva affinato la sua capacità di cogliere gli indizi di menzogna da parte sua. Un breve tremolio appena sotto l'occhio sinistro, indice che il sorriso richiedesse uno sforzo immenso per essere tenuto al suo posto, e l'assenza di quelle rughette intorno agli occhi erano per lui indizi lampanti.
   Arrotolava più e più volte nella mente l'ultima conversazione avuta, cercando in essa qualcosa che gli era sfuggito.

   «Coming out con il boss, Tenente. Devo ammetterlo, non me lo aspettavo.»
   Kelly gli posò un palmo sulla guancia, e Matt cercò di non badare a quanto la sua pelle fosse calda e sudata. Era una cosa che a Kelly succedeva spesso, quando era nervoso.
  Invece, si concentrò sui fianchi nudi del compagno, carezzandoli fino a fermare le dita sulle sporgenze del bacino. Diede una veloce stretta e lo guardò negli occhi. Lo sguardo stanco di Kelly era rivolto al suo collo.
  «Sei solo invidioso perché non sei stato tu a dirlo per prima» lo canzonò Kelly.
  Matt roteò gli occhi, sbuffando.
  «Certo, come no? Avevo preparato anche un bel discorso. Qualcosa tipo "senta, capo, io e Kelly scopiamo fino alla distruzione dopo ogni turno, e mentre siamo di turno non pensiamo ad altro che-"»
  La sua tirata rimase in sospeso, rotta da un gemito. Kelly stava giocando con il suo collo, solleticandolo con la lingua senza pietà.
  Matt spinse più a fondo le dita nella pelle sensibile dei fianchi del compagno, fino al limite con il dolore.
  Kelly grugnì sulla sua pelle, ma capì il segnale e alzò il mento. Invece che guardarlo negli occhi come Matt voleva, lo baciò.
  Il biondo si sottrasse al bacio, finalmente legando il suo sguardo a quello del moro.
  «Non mi nascondi nulla, vero?»
  E se prima aveva dubitato dei propri sospetti, ora non poteva che sentirli luccicare nella sua mente. Kelly non rispose, afferrandogli la nuca e baciandolo. Il suo sorriso non aveva nulla di naturale.

   «Kelly è un idiota» bornottò Shay.
   Matt sobbalzò, tornando alla realtà così di colpo da riuscire quasi a sentire un crack da qualche parte nella sua testa. Aveva ricordato tutti i minimi particolari così bene che si chiese se non si fosse addormentato.
   «Se fosse venuto con noi, ora sarebbe un'altra storia.»
   Sam alzò lo sguardo dal proprio drink e sollevò le sopracciglia in direzione della compagna.
   «Okay» esalò Shay, alzando le mani e quasi urlando sopra la musica. «Non guardarmi così. Non sto mica dicendo che non mi sto divertendo.» Indicò Matt con un altro gesto impreciso della mano. «Ma lasciare lui così?» Come rendendosi conto di aver detto qualcosa che potesse sembrare offensivo, lentamente si voltò e incrociò lo sguardo di Matt. «Voglio dire...non è che...»
   Matt rise, sorprendendo entrambe le ragazze.
   Kelly era strano la metà del tempo, perché lui avrebbe dovuto preoccuparsi così tanto? Non era forse l'eccessivo peso che dava alle cose ad avergli dato tanti guai? Non era forse la sua cautela, il fermarsi e pensare, il cercare sempre di capire per poter reagire a tempo, ad aver dato a lui e al compagno tante attese e rimpianti?
   Sapeva che se avesse continuato a pensarci tutta la sera, sarebbe tornato a casa di cattivo umore, per trovare il compagno di un umore non migliore. Da lì a un litigio il passo sarebbe stato breve.
   Per una volta, Matt decise che fosse giusto lasciar andare la presa sui suoi pensieri. Doveva semplicemente fidarsi della consapevolezza che Kelly gli avrebbe parlato di cosa lo preoccupava. Prima o poi.
   Sapeva che l'alchol era in grossa parte responsabile della propria improvvisa leggerenza, ma non gli importava. Cedere il controllo, a volte, era davvero tutto ciò che il suo corpo e la sua mente chiedevano.
   Bevve in pochi sorsi il resto del suo drink e si alzò.
   I suoi pensieri cominciava a diventare fugaci, difficili da focalizzare. Ne fu soddisfatto.
   Tese la mano a Sam, alzando poi l'altra per Shay.
   «Al diavolo Kelly» disse, con un grosso ghigno. «Mi concedete un ballo?»
   Sam scoppiò a ridere, accettando la mano tesa e afferrando con l'altra quella di Shay.
   «Questo si che è parlare, Tenente» urlò Shay, incespicando nei propri piedi.




  Il viaggio nell'auto di Voight fu silenzioso. Kelly guardava oltre il parabrezza un punto fisso nel cielo, stringendo le mascelle e le dita sulle proprie gambe. Non si curava del silenzio, perché non gli importava che ci fosse. Quell'invisibile presenza sembrava essere comoda ad entrambi.
  Solo quando il veicolo rallentò e si immise in un vicolo, Voight sembrò ricordarsi di avere compagnia. Spense il motore e sospirò.
  «Okay, ora ti spiego cosa succederà» disse.
  Attese un cenno di comprensione dall'altro, prima di continuare.
  «Quello lì è il covo di Tyrone.»
  Indicò con un pollice alle loro spalle, ma Kelly non si curò di voltarsi e seguire il gesto. I suoi occhi rimasero fissi in quelli del detective.
  «Entriamo, io faccio qualche domanda e usciamo. Niente cazzate, intesi? Se riscaldi la situazione, ti porto via a calci.»
  Kelly sbottò in una risata isterica. Solo ora si rendeva conto del proprio nervosismo. Le dita della mano destra stringeva il tessuto dei jeans così forte che sentiva la carne al di sotto bruciare.
  Scese dall'auto prima che Voight potesse aggiungere altro. Nel freddo che appena riusciva a scalfire la sua coscienza, la realtà della situazione lo colpì, affondando in lui. Fu un attimo di esitazione, prima che il suono dello sportello che veniva chiuso lo riscosse.
  «Sei pronto?»
  Annuì e seguì Voight, attraversando la strada in automatico. Era pericoloso, quello che stava facendo, e non era così stupido da non figurarsi tutto quello che sarebbe potuto andare storto. Certamente non gli sfuggiva che si trattava di Voight, e che questa volta Antonio non era presente. Il detective Dowson, all'inizio delle indagini, aveva sempre dato a Kelly la sensazione che le cose fossero sotto controllo. In qualche modo, rappresentava per lui l'altro lato della medaglia che Voight incarnava nel suo ghigno freddo. Antonio era la giustizia, Voight era invece qualcosa che Kelly non voleva accettare. Qualcosa con cui lui sapeva fosse meglio non mischiarsi.
   Salendo le buie scale del condominio, con la luce dei fari stradali che si insinuava dalle finestrelle, Kelly capì che ormai era troppo tardi per i ripensamenti.
  Quando si ritrovò davanti alla porta di Tyrone, non certo di come ci fosse arrivato, scoprì che il battito del proprio cuore sovrastava ogni altro rumore. Fu come in uno stato ipnotico che vide il detecive alzare un pugno e bussare alla porta.
  Ogni dubbio si dissipò e nella sua mente si imposero gli occhi crudeli di Anthony Messer, così come lui li aveva visti nel suo sogno. Le immagini dell'ultimo mese, delle agonie e dei tormenti di Matt, presero il posto di tutto ciò che di positivo era accaduto. In quel momento nel suo cuore c'era solo rabbia.
  Kelly scrollò di dosso l'immagine dello sguardo ferito di Matt. Lui stava facendo lo cosa giusta, no? E poi da quanto a Kelly Severide servivano giustificazioni? Non è che stesse commettendo alcun crimine -o almeno sperava. Stava solo aiutando Voight nelle indagini.
  La priorità era cercare i responsabili, gli uomini che avevano quasi ucciso la persona che amava.
  Come poteva un fine così nobile essere una cosa negativa?
  Si riscosse al suono di catenacci che venivano tirati.
  La porta si aprì di uno spiraglio, poi completamente. Kelly trattenne il respiro, ma ciò che si trovò davanti fu del tutto imprevisto.
  Gli venne quasi da ridere.
  «Cerco Tyrone» disse Voight.
  Il ragazzino sull'uscio li fissò uno ad uno con i suoi grandi occhi neri, così profondi che era difficile distinguerne le pupille.
  Voight sollevò le sopracciglia in attesa.
  Il ragazzino lo guardò come se nessuno avesse parlato.
  Il detective ripetette irritato, a voce più alta: «Busco Tyrone. È qui, no? Digli che Voight lo cerca.»
  A quelle parole, si udì una voce provenire dall'interno dell'appartamento.
  «Oi, Felipe! Es un amigo, puede entrar
  Il ragazzino si fece da parte senza patter ciglio, lasciandoli entrare e richiudendo la porta alle loro spalle.
  «Ah, Voight! Non mi aspettavo di vederti così-»
  La voce si bloccò quando Voight entrò nel piccolo salotto. Seduto su una poltrona, un uomo dai lineamenti appuntiti e la pelle olivastra alzò lo sguardo dalla sua rivista. Il suo sguardo si fissò su Kelly, tornando subito a Voight con un cipiglio.
  «Chi diavolo è lui?»
  «Un vigile del fuoco» disse Voight con semplicità.
  Allo sguardo sospettoso dell'uomo, si rivolse a Kelly: «Mostraglielo, Severide.»
  Nulla di questa situazione gli piaceva, ma infilò comunque la mano nella tasca della giacca e ne estrasse il distintivo che Voight gli aveva fatto portare. Lo mostrò a quello che presupponeva essere Tyrone.
  L'uomo lo scrutò, quindi guardò uno dei ragazzi seduti sul divano.
  «Hey, Nando. Controlla: Caserma 51. Kelly Severide.»
  Il ragazzo annuì e aprì il pc. Kelly seguì il tutto in silenzio, sentendosi esposto e irritato. Alle spalle di Tyrone, il ragazzino, Felipe, osservava con cura lo schermo del pc.
  «Positivo, capo» disse Nando, voltando il dispositivo perché Tyrone potesse controllare.
  Kelly inclinò la testa, scrutando Felipe. Forse la sua mente gli stava davvero giocando brutti scherzi, perché per un attimo, appena il ragazzino alzò gli occhi dallo schermo per guardare lui, gli parve di vedere l'ombra dell'empatia in essi.
  Tornò alla realtà quando Tyrone parlò con voce più calma e tranquilla.
  «Tu e il tuo amico potete sedervi» disse con un ghigno.
  Kelly non credeva di riuscire a tenere il sedere fermo su una stupida sedia, ma sotto sprono di Voight ubbidì.
  «Allora, in cosa posso aiutarti, Voight?»
  Il detective estrasse dalla tasca due foto e le porse a Tyrone.
  «Mi servono questi due. Dimmi dove trovarli.»
  Le dita di Tyrone si serrarono intorno alle due foto, che gettò poi sul tavolino.
  «E non dirmi che non li hai mai visti» ammonì Voight. «Abbiamo preso un tuo uomo e sappiamo che tu hai dato una mano a quei due.»
  Sul divano i due ragazzi si scambiarono uno sguardo, ma non dissero nulla. Alle spalle di Tyrone, Felipe era ritto in piedi, le mani strette dietro la schiena e i capelli corvini che si confondevano con il cielo scuro oltre le finestre. Tutti erano immobili e Kelly sentì di star per esplodere. I lineamenti dei mobili sembravano sfumare, mentre all'angolo del suo ristretto campo visivo il divano con i due ragazzi sembrava svanire in un alone scuro. Poteva sentire distintamente in gola le pulsazioni aumentare ad un ritmo allarmante. L'adrenalina gli tendeva i muscoli. Cercò di respirare a fondo attraverso le narici, ma tutto quello che ne ricavò fu una pungente sensazione di bruciore alla base del naso.
   Non gli interessava che tipo di rapporto ci fosse tra Voight e Tyrone, o cosa significasse la silente comunicazione di sguardi. Voleva solo risposte.
  Voight avvertì il suo nervosismo, il picchiettare a terra del piede e la tensione nei muscoli delle braccia.
   Prima di potergli lasciare il tempo di parlare, disse: «Avanti, Tyrone, sai che verrò a saperlo comunque. Dammi qualcosa e vedrò di ricompensarti.»
  Kelly era al limite.
  Ricompensarlo? Uno scambio?
  Non poteva credere che la vita di Matt, in quella giungla urbana, valesse così poco. Uno scambio di favori per ottenere la verità. Come le persone potessero dare un prezzo materiale a quel concetto gli era sempre sembrato un dilemma atroce.
  Tyrone sorrise e accese una sigaretta.
  «Vorrei aiutarti, amigo, ma non posso» disse, esalando nell'aria il fumo acre. Strinse la stecca tra le dita e scosse la testa.
  Con un gesto vago della mano, indicò le foto sul tavolino.
  «Quello viene da me e mi dice che ha bisogno di un posto dove stare, senza essere trovato. Ma non ho idea dove sia. Dovresti chiederlo a Miguel, ma il bastardo si è fatto ammazzare. Povero diavolo.»
  I due ragazzi chinarono il capo e chiusero gli occhi insieme a Tyrone. Solo Felipe rimase impassibile.
  «Chi altro sa dove sono?» pressò Voight.
  «Nessuno. Fosse per me avrei piantato una pallottola nella testa del ragazzo, quell'italiano. Mai piaciuti. Ma che vuoi farci, un favore è un favore, no?»
  Kelly non aveva idea di cosa stesse parlando, ma non gli importava. Tyrone sorrideva, ghignava, rideva, e tutto quello che lui riusciva a pensare era la voglia di spaccargli i denti.
  Per la seconda volta, gli occhi castani di Tyrone si fermarono sui suoi. In essi c'era una linea di derisione che gli diede ai nervi.
  «Cosa, è per un tuo amico? Parlava di un vigile del fuoco. Caliente
  Nella sua voce c'era la beffa e lo scherno. Quando esalò il fumo sul suo volto, Kelly perse ogni razionalità, quasi quella nebbia si fosse insinuata nella sua mente, sciogliendo ogni freno.
  Scattò in piedi e gli puntò un dito contro.
  «Dimmi dove diavolo sono! Giuro che ti ammazzo se non parli!»
  Voight gli afferrò la manica della giacca, tirandolo via. Prima che Kelly potesse fare altro, si ritrovò sul pianerottolo. Voight lo guardò dall'uscio, prima di sbattere la porta e lasciarlo fuori.
  Kelly fu tentato di prendere a pugni qualcosa, qualunque cosa. Misurò lo spazio davanti alla porta, avanti e indietro, respirando pesantemente. Passò le mani tra i capelli, sul volto, sulle braccia, finché sentì di cominciare a calmarsi.
  Poggiò la schiena al muro opposto alla porta, sapendo che non poteva far altro che aspettare.
  Chiuse gli occhi, pizzicando la base del naso. Un terribile mal di testa cominciava a tamburellare in fondo al cranio, insinuandosi come zampe di ragno su tutta la parte destra della testa. Non aveva creduto di star trattenendo così tanto la rabbia. Solo quando era scattato aveva capito di star mantenendo il controllo per non esplodere.
  Non gli sembrava reale, nulla di tutto questo. Né Tyrone, né Felipe e né tantomento la conversazione che era avvenuta in quel salotto. Era come vedere un film e non poter far nulla per cambiare il destino die suoi personaggi. E ora era stato chiuso fuori dal teatro, dietro le quinte, ad immaginare senza poter vedere.
   Sentiva gli occhi pizzicare e sapeva non era solo il mal di testa. Li serrò ancora, cercando di reprimere le lacrime. Non poteva piangere, non ora. Anche se si diceva che era il nervosismo e la testa pesante, sapeva di non potersi permettere quella debolezza.
   Forse aveva rovinato tutto, senza alcun motivo. E non solo l'opportunità di trovare i Messer. Quello che lo preoccupava era Matt.
  Aprì gli occhi, grugnendo in disappunto.
  Cosa diavolo sto facendo?
  Matt stava cercando di lasciarsi tutto alle spalle, di ricominciare, di trovare una chiusura. Kelly voleva lo stesso, ma ora capiva che aveva mal interpretato il punto finale. Per lui era la giustizia -no, la vendetta. Per Matt era la normalità.
  Aveva riaperto una ferità, gettato sale in essa, e ora era troppo tardi per riparare il danno. Ora Kelly sapeva che era sbagliato quello che stava facendo, ma la sua mente non riusciva ad andare avanti.   
   Fine nobile? Chi prendo in giro?
  In quel salotto sporco e opprimente, Kelly aveva sentito l'eccitazione della vendetta. Se avesse avuto di fronte uno dei Messer, ne era certo, lo avrebbe ucciso a mani nude.
  Un tuffo al cuore rischiò di farlo crollare sulle sue stesse gambe.
  Era terrorizzato da se stesso. Guardò le proprie mani tremanti, sentendole distanti dal proprio corpo.
  Confuso e disorientato, scese di fretta le scale e corse oltre la strada, incurante del clacson rabbioso di un'auto che lo sfiorò, mancandolo di pochi centimetri. Si poggiò pesantemente al cofano dell'auto di Voight, cercando di riprendere il respiro.
  Per un breve attimo, si chiese se anche Matt avesse provato lo stesso terrore e disgusto di sé, quando era stavo a un soffio dall'uccidere Voight.
  Estrasse dalla tasca il cellulare e compose di fretta il numero di Matt.
  Non sapeva cosa dire, voleva solo sentire la sua voce, ricordarsi cosa di buono ci fosse nel mondo. Gli sembrava che, insieme al fumo e all'aria stantia, sulla pelle si fosse attaccata anche tutta l'immondizia della civiltà.
  Portò il dispositivo all'orecchio, respirando pesantemente mentre la linea suonava a vuoto.
  «Che diavolo ti è preso?»
  Si voltò e guardò Voight, stringendo il cellulare più forte. Matt non rispose.
  «Tu!» sibilò Kelly, riponendo il cellulare nella giacca. Si avvicinò all'uomo per fronteggiarlo. «Ti pagano, eh? Per aiutarli a fare ad altri quello che hanno fatto a Matt!»
  «Non sai di cosa parli» lo liquidò Voight, cercando di oltrepassarlo.
  Kelly gli afferrò la manica della giacca e lo spintonò.
  «Okay» ringhiò Voight a denti stretti, risistemando la giacca. «Ora è meglio che ti calmi, o non risponderò delle mie azioni.» Alzò le mani per sottolineare il suo punto. «Ti dimentichi che non sono loro i responsabili, e che questa è la mia indagine.»
  «Perché diavolo mi hai portato, allora?»
  «Tu me lo hai chiesto!» urlò Voight. «Tu mi hai chiamato, tu lo hai voluto. Ma questo è l'ultimo favore che ti faccio, Severide. Ora sali in macchina e stai zitto.»
   Kelly non ebbe tempo di replicare. Il detective entrò nell'auto e mise in moto.
   Lanciò un ultimo sguardo al condimionio dall'altra parte della strada, chiedendosi quanti fossero i chilometri che avrebbe dovuto percorrere prima di lasciarsi tutto quello alle spalle.





   «Jeremy» disse Tyrone, palesando tutto il proprio disgusto.
  Nando sbuffò una risata di scherno, poggiando la schiena ai cuscini del divano, le braccia sulle spalliere e le gambe stese sul tavolino. Le foto dei Messer si stropicciarono sotto le sue scarpe.
  Lo sguardo di Tyrone lo rabbrividì, cancellandogli dal volto il sorriso.
  «Lo voglio morto, ora» grugnì il capo.
  «Lo hanno preso oggi, dobbiamo aspettare che lo trasferiscono al gabbio» commentò Leo, grattandosi il volto pallido con il palmo sudato della mano.
   Nando gli assestò una gomitata nelle costole, che lo riportò brevemente alla realtà. Guardò Tyrone, guindi abbassò lo sguardo, sentendosi agitato.
  «Certo, questo lo sai. Scusa, capo.»
  «Americanos» mormorò Tyrone, guardando Leo con disprezzo.
  Scosse la testa e strinse i pugni.
  «Non posso mettermi Voight contro. Jeremy deve chiudere la bocca una volta per tutte.»
  I due ragazzi annuirono di riflesso. Leo aprì una scatola di latta e tornò a fare l'unica cosa che sapeva fare decentemente: contare le buste di erba.
  Nando sospirò, grattandosi la nuca. Guardò Felipe, poggiato al muro alle spalle di Tyrone. Quel ragazzino non gli era mai piaciuto. Era troppo piccolo e magro per la sua età, quindi escluso che sapesse battersi come un uomo. Non lo aveva mai visto maneggiare armi, quindi probabilmente con una pistola in mano non avrebbe saputo che farci. Non sembrava neanche intelligente, perché sicuro non parlava mai.
  Forse era per questo che Tyrone se lo portava sempre dietro. Il silenzio era la fedeltà più grande.
  «Chi chiamo per il lavoro?» chiese alla fine, guardando Tyrone.
  «Armando. Ha già l'ergastolo sul collo, si sporcherà le mani per un po' di roba.»
  Nando annuì, reciprocando il ghigno di Tyrone.
  «Senti, capo, ma davvero non sai dove sono i Messer?»
  Tyrone scrollò le spalle e si alzò, infilando in tasca le sigarette e le chiavi dell'auto.
  Indicò con un pollice Felipe e sorrise.
  «Felipe è andato con Miguel per portarli via. Lo sa solo lui.»
  Nando guardò Felipe, che rimase impassibile, e rise di gusto.
  Non osava immaginare quanti segreti quel ragazzino si sarebbe portato nella tomba.






Note: Hi!
  Tengo a precisare che il mio spagnolo è un po' arruginito, e che per un paio di cose sono dovuta ricorrere a google, quindi per ogni errore (ora e in seguito) mi scuso. Se doveste notare qualche errore, come sempre ditemelo e provvederò a correggere. Altra piccola nota: per qualche ragione a me del tutto oscura, il mio computer ha deciso di cominciare a correggere l'italiano "dei" con il tedesco "die"; mi sembra di aver corretto ognuna di queste fastidiose correzioni (scusate il gioco di parole), ma se ne trovate altre scusatemi.
   Yep, capitolo un po' angst e un po' lunghetto, ma anche un necessario (un bel po', attualmente) alla storia. Verranno tempi migliori? Vengono sempre, prima o poi.
   Dovrei farlo? Non so, ma lo faccio lo stesso: ormai siamo ben oltre la metà della storia, quindi la fine si avvicina. Non sono ancora sicura di poter quantificare quanto resta da scrivere (tre, quattro, cinque capitoli?), ma la discesa è in corso.
   Grazie a chi mi segue e mi sprona e regala un po' del suo tempo a questa storia.
   A presto,
   Ax.
   

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Capitolo 25
*** Un corpo perfetto, un'anima perfetta ***



25
Un corpo perfetto, un'anima perfetta


  «Tyrone non sa dove siano i Messer. L'unico a saperlo era il suo uomo, Miguel.»
  Kelly voltò appena la testa per guardare Voight, che teneva gli occhi fissi sulla strada davanti a sé.
  «Gli credi?»
  «Non ha motivi per mentire, non con me.»
  Si sentiva stanco, come raramente in passato. Era un tipo di stanchezza che gli ricordava il giorno dopo il funerale di Andy. Intorpidito, confuso e nervoso. Soprattutto, drenato di ogni forza.
  «Cosa si fa ora?» mormorò.
  Tutta la rabbia stava scivolando via, lasciando solo un guscio apatico nella sua mente. Gli sembrava che nella sua testa ormai ci fosse posto solo per il terribile e lento martello dell'emicranea.
  Non aveva creduto di poter sostenere un'altra delusione, l'ennesima pista vuota. Non era felice di scoprire che aveva avuto ragione
  Voight non rispose.
  Guidò in silenzio, fino a fermare l'auto nel parcheggio. Il veicolo di Kelly era visibile nella luce al neon della tavola calda, ma lui non riusciva a scendere e raggiungerlo. Sentiva gli arti pesanti e una mano invisibile spingerlo sul sedile.
  «Vai a dormire, Severide. Questo...non fa per te.»
  Anche mentre guidava per tornare a casa, Kelly continuava a chiedersi cosa Voight avesse voluto dire.
   Il sospiro umido scivolò improvviso dalle sue labbra.
   Il pianto fu irruento, sorprendendolo. Cercò di trattenersi, di restare silenzioso, ma i singhiozzi divennero strozzati e dolorosi. Accostò, incapace di vedere la strada. Poggiò la fronte al volante, aspettando che il suo corpo smettesse di tremare.
  Dopo un lungo istante rimise in moto, asciugandosi furiosamente le guance.
  Strinse il volante, girando intorno al quartiere finché di lacrime non ne rimasero più.
   Matt.
   Voleva solo tornare da Matt, riuscire a guardarlo negli occhi, a baciarlo senza sentire le lacrime salate sulle labbra. Tutto sarebbe stato in ordine, se solo avesse potuto stringerlo.
   Immaginò la verità delle sue menzogne aleggiare tra i loro corpi uniti e avvertì una stretta al petto. Se avesse potuto produrre altre lacrime, lo avrebbe fatto. Sentiva solo la gola stringersi e bruciare.
   Sperò che Matt potesse perdonarlo.



   I club non erano mai stati il suo forte, ancor meno il tipo di locali che solo un gay in cerca di una notte di sesso frequentava. Non era neanche mai stato tanto assorbito dalla scena LGBT di Chicago, avuto amici che ne facessero parte o mai pensato di entrarvi per alcun motivo. Matthew Casey, semplicemente, non amava l'artificioso e il mondano. I suoi gusti erano più vicini a una sincera birra, in un bar schietto e semplice, molto lontani da complicati drink dal retrogusto esotico e architetture tanto ricercate quanto grottesche. Pannelli in materiali ecosostenibili ma dall'estetica incomprensibile, drink biologici, zucchero di canna sul fondo del bicchiere e stecche di cetriolo come ornamento non erano esattamente particolari che lui riusciva a gradire.
  Reclinò la testa, ridendo al soffitto adornato di semplici travi d'acciaio, che si dipanavano a imitazione della tela di un ragno. Un ragno gigante, pensò. Un ragno che avrebbe potuto divorare Chicago con i suoi denti metallici.
  Abbassò la testa e guardò confuso Shay, avvinghiata al corpo snello di Sam.
  Le afferrò un braccio e lei registrò dopo troppo tempo il gesto. Con le labbra della compagna sul collo e lo sguardo lucido, lo guardò sorpresa.
  Matt dovette chinarsi fino a sfiorarle il lobo dell'orecchio, e anche in quella posizione fu costretto a urlare oltre la musica.
  «I ragni hanno i denti?»
  Shay lo fissò a lungo, prima di ridere di gusto e afferrargli il polso.
  Matt scrollò le spalle. Era un dubbio atroce, quello dei ragni, ma eventualmente si arrese a non scoprirlo mai. Cominciava già a dimenticare perché fosse importante.
  Fu quasi certo di avvertire qualcuno pressare il proprio corpo contro il suo, ma c'erano troppe frizioni di jeans e petti nudi perché lui potesse focalizzarsi su una persona in particolare.
  La musica cominciava a non importare. Era solo un suono assordante, ma lontano, incalzante come il battito di un enorme cuore in una gabbia d'acciaio. Lo sentiva nel petto, nelle mani formicolanti e nello stomaco. C'era un dolore pressante e familiare nel suo basso ventre, un bisogno liquido che cominciava a premere su ogni muscolo, gridando per chiedere la sua attenzione.
  Le luci si accendevano e spegnevano, cambiando colore e calore, come una costante metamorfosi. Non riusciva a cogliere il blu, che già era diventato verde, che si trasformava in un rosso acceso.
  Troppi volti danzavano attorno a lui, accesi dai colori, così che gli sembrava di avere attorno un numero indefinibile di alieni. Tutti pressati l'uno contro l'altro, muovendosi come un'unica entità con mille braccia e gambe indipendenti.
  Matt ancora era certo di non amare i nightclub -non aiutava l'urgenza di rompere il muso a chiunque fosse l'uomo che continuava a sfiorarlo. Malgrado ciò, cominciava a capirne il fascino. Musica, luci e alchool lo catapultavano in un mondo selvaggio, senza limiti, dove la protezione dell'anonimato era uno scudo perfetto per l'ego. I sentimenti non contavano, i pensieri erano labili.
  Attirò a sé Sam, danzando con lei nella pessima imitazione di un ballo sensuale. Strizzò l'occhio a Shay, che premeva una mano sulle labbra per sopprimere una risata sconnessa.
  Matt, onestamente, non ricordava l'ultima volta che si era sentito così libero. Un moto di tristezza lo colse quando pensò che se Kelly fosse stato lì con lui, il mondo sarebbe apparso realmente perfetto. Avrebbe condiviso con lui questo lato di sé che brontolava per uscire dalla sua pelle ed espandersi.
  Ghignò, infine, quando immaginò tutte le cose che avrebbe fatto con Kelly, e a Kelly, se lui fosse stato lì.
   Improvvisamente gli sembrò impossibile reggere anche solo un'altra canzone prima di poter tornare a casa.





   Arrendersi alla stanchezza era stata una lotta più ardua del previsto. Il suo corpo reclamava riposo, ogni muscolo dolente e irrigidito dallo sforzo della lunga giornata. Steso in un letto vuoto, la sua mente continuava a sprofondare nell'oblio, ogni volta tirata indietro dall'ansia. Era come se Kelly fosse sospeso su una lunga scala, con l'unica ancora di un piede poggiato sull'ultimo piolo. Poteva sbilanciarsi e sentire la libertà e il sollievo di cadere nel vuoto, ma all'ultimo momento il terrore di quel passo lo sbalzava indietro, costringendolo a reggersi alla realtà.
   Era sollevato che Matt e Shay non fossero già in casa quando era rientrato, perché non sarebbe riuscito proprio ora a reggere un confronto, qualunque esso fosse. Questo pensiero gli strinse lo stomaco con le dita fredde del senso di colpa, tirandolo ancora una volta fuori dal sonno. Aveva il sollievo a un passo da lui, bastava che allungasse la mano e poteva sfiorarlo con le dita.
  Grugnì in puro e profondo disappunto, girandosi tra le coperte ormai intrecciate alle gambe e incollate dal sudore. Il ricamo delle tende scure disegnava sulla sua spalla e sul braccio fiori e ghirigori di luce e ombre. Si voltò per fuggire da quella distrazione, ritrovandosi lo stesso fastidioso disegno sulla parete opposta.
  Chiuse gli occhi, cercando di liberare la mente da ogni pensiero.
  Rincorreva continuamente le stesse immagini, riavvolgendo il nastro delle parole udite quel giorno. A volte immaginava la voce di Voight, altre quella di Casey, di Tyrone. Vedeva gli occhi di Felipe, scuri e silenziosi, impossibili da leggere. Poi quelli di Voight, freddi, ma schietti.
  Inevitabilmente si ritrovò a manipolare gli scenari, a pensare a cosa avrebbe potuto dire e fare per cambiare il corso degli eventi. Se non fosse entrato in quel seminterrato, non avrebbe dovuto scontrarsi con quel drogato – Jim? Voight non avrebbe rintracciato Jeremy, quindi non avrebbe collegato i Messer a Tyrone. Né lui né Matt sarebbe stati sospesi, né Boden avrebbe saputo di loro. Kelly, se le cose fossero andate diversamente, ora sarebbe in un club con Matt. O forse no, perché magari Matt non avrebbe proposto l'uscita.
   Era certo che, per lo meno, avrebbe avuto Matt tra le braccia, con il naso premuto contro il suo collo e il respiro calmo e pesante del sonno. Adesso era tutto ciò che desiderava.
   Voci e rumori entrarono nel suo dormiveglia, attraversando la nebbia nella sua mente senza scalfire la sua coscienza. Le immagini mutarono, più scure, velate di una strana tinta vermiglia. Immaginò di aver trovato i Messer nell'appartamento di Tyrone, di aver picchiato il volto dell'uomo fino a renderne irriconoscibile il ghigno, rompendo dente dopo dente. E i Messer...oh, erano fin troppe le cose che avrebbe potuto far loro.
  Una presenza era su di lui.
  Annaspò, spalancando gli occhi senza realmente vedere nulla.
  Forse una porta era stata aperta, non solo nella sua mente, ma nella realtà della stanza attorno a lui. La luce del corridoio era entrata, fendendo l'ombra confortevole che lo nascondeva. Gli sembrò di sentire vestiti strusciare e ricadere a terra.
  Poi mani su di lui.
  Per un attimo il terrore gli strappò dai polmoni il respiro.
  Mise a fuoco davanti a sé, incapace di muoversi. Una mano spingeva la sua spalla contro il materasso, mentre l'altra gli teneva saldamente il bacino -con più forza del necessario.
  Kelly, stordito e incredulo, si ritrovò a guardare una testa bionda china sul suo addome, illuminata dalla tela di luce riflessa dalle tende.
  «Matt?»
  Lo sentì ridere sul suo stomaco e premere i polpastrelli più a fondo nel suo bacino. Dita fredde cominciarono a sfilargli i boxer.
  Kelly non seppe protestare, anzi dimenticò il motivo per cui avrebbe dovuto. Abbandonò la testa al cuscino e chiuse gli occhi, lasciando che Matt facesse di lui ciò che voleva.
  Quando le immagini crudeli irruppero dietro le palpebre, posò la mano su quella di Matt, ora sul suo petto, e la strinse più forte che poteva.
   Fu sorpreso dalla velocità e dalla forza con cui la situazione cambiò. D'un tratto le mani di Matt scivolarono sulle sue braccia, e la sua bocca non era più dove Kelly avrebbe voluto. Il pizzico di un morso all'interno della gamba lo sorprese. Matt gli afferrò i bicipiti, rovesciando le loro posizioni.  Con movimenti scoordinati ma in qualche modo decisi, si sistemò di schiena, portando Kelly su di sé.
   Il moro si chinò in un lungo bacio, ma poteva sentire l'impazienza tremare sotto la pelle del compagno.
  Si staccò per allungare un braccio e cercare il tubetto di lubrificante, ma Matt gli bloccò il polso, circondandolo con dita ferree e sudate.
  «Non posso aspettare» biascicò Matt, in un tono rude e profondo che Kelly non poteva ignorare.
  Matt sarebbe stato dolorante il giorno dopo, ma ora neanche questo sembrava realmente importante.
  Sorrise, dimentico di tutto il resto, desideroso solo di incontrare il loro bisogno. Le distanze potevano accorciarsi fino a non distinguere più i bordi che separavano la verità dalla menzogna.
  Non poteva negarlo: lo eccitava questo volto di Matt, riflesso negli occhi resi scuri dalle pupille dilatate all'eccesso.
  Sentendolo stringersi a lui come ne dipendesse la sua stessa vita, scoprì che c'era un modo diverso di scendere dalla scala. Non ebbe paura. Poteva sentire il brivido del salto, poco prima che la gravità vincesse il suo corpo.






   Matt aprì gli occhi nella luce accecante del mattino più luminoso che lui ricordasse. Da quando Chicago era così soleggiata in inverno?
  Grugnì rumorosamente, voltando le spalle alla finestra. Nel farlo, una serie di muscoli si contrasse in una catena di dolore e pesantezza. Affondò la testa nel cuscino, cercando rifugio alla sensazione di bruciore in fondo agli occhi. Mentre emergeva dal letargo, la sua mente corse alla sera precedente.
  Ricordava vagamente il ritorno a casa. Un attimo prima era in pista a ballare con Shay e Sam, quello dopo era nudo nel letto, avvinghiato a Severide. Sorrise della propria capacità di focalizzarsi su quel particolare momento della notte. Cercò di guardare alle sue spalle, riuscendo ad allungare solo di poco il collo indolenzito. La testa pesava troppo, quindi, appuratosi che Kelly non fosse a letto, la abbandonò al cuscino. Sentiva un formicolio intenso alla base della nuca e seppe che alzarsi avrebbe capovolto il mondo. Sospirò e spinse le gambe oltre il bordo del letto, sollevandosi a sedere con cautela. Portò una mano alla fronte, aspettando che il mondo smettesse di girare.
  Tuttavia, il mal di testa che cominciava a pulsare tra le tempie era meno intenso di quanto si fosse aspettato.
  Dopo una veloce sosta in bagno, nella quale prese nota del pungente dolore al fianco destro, dove sarebbe spuntato un livido, scese le scale in cerca di Kelly.
  La cucina era vuota. Il silenzio aleggiava tra le pareti e, per una volta, Matt odiò le mura ottimamente insonorizzate del condominio.
  Sul bancone della cucina trovò il contenitore di caffé pieno e un piatto di omlette. Pizzicò la pellicola che avvolgeva la pietanza, sollevandola appena. L'aroma delle banane gli portò un senso di nausea. Spinse da parte il piatto, decidendo di non voler rischiare di mangiarlo. Nel farlo, notò un triangolo di carta spuntare da sotto la porcellana. Incuriosito, lo estrasse e spiegò.

Riprendi le energie.
Torno presto.
K.
 
   Involontariamente, sorrise.
   Oltre i vetri della finestra il cielo era chiaro e, da quell'angolazione, sembrava non avere alcun confine. Niente grattacieli, casolari, edifici simili a mostri di ferro e cemento. Sospirò e capovolse la tazza, versando una generosa dose di caffé.
  Storse le labbra: era freddo, così come sembrava esserlo il piatto di omlette -se l'assenza di condensa poteva essere un indizio. Guardò l'orologio: dieci e trenta.
  Si chiese da quanto tempo Kelly fosse uscito. Con quella domanda, tornarono mille altre, emergendo crudeli. Sembravano volersi vendicare delle ore che lui aveva speso bevendo e divertendosi senza un pensiero al mondo.
  Si pizzicò la base del naso, sperando di non inciampare in un'emicrania lancinante.



  Due ore dopo essersi svegliato in un letto vuoto, Matt non aveva ancora ricevuto alcun segnale da Kelly. Sospirò, abbandonando la testa ai cuscini del divano. Studiava lo stesso pezzo di soffitto da almeno dieci minuti, da quando il programma di cucina era finito ed era cominciato qualcosa che aveva a che fare con le costruzioni. Normalmente l'avrebbe guardando con calmo interesse, ma al momento non aveva forza di concentrarsi su nulla, se non quel pezzo di intonaco sulla sua testa.
  Il suono del campanello lo destò, facendolo sobbalzare. Si alzò piano, rispondendo a tono al borbottio del suo stomaco. Spense la tv nel tragitto per la porta.
  Aprendola, fu colto da un lieve disappunto, rendendosi conto di essersi aspettato di trovare il compagno.
  «Michael.»
  Il ragazzo sorrise e sventolò un sacco di take away cinese.
  «Ho pensato di passare prima di pranzo, se non è un problema.»
  «Scherzi?» rispose Matt, facendosi da parte per farlo entrare. «Non avevo nulla da fare.»
  «Ottimo.»
  Michael poggiò la busta sul tavolino, svestendosi poi della giacca.
  «Non pensavo che il tuo appartamento fosse così-»
  «Bello?»
  «Stavo per dire raffinato.»
  «Infatti non è mio» rispose Matt, ricadendo sul divano.
  Michael sogghignò e si accomodò sulla poltrona.Guardò Matt e rise.
  «Cosa?»
  «Questo...» disse indicando lo spazio tra loro. «Questo si che fa tanto psicanalisi. Tu sul divano e io sulla poltrona.»
  Matt rise e fece per stendersi.
  «Oh, no, dovresti girarti nell'altro verso» disse Michael con finto cipiglio. «Non dovresti potermi guardare in volto mentre mi parli.»
  Michael attese che la risata dell'amico scemasse, prima di afferrare il suo contenitore e porgere l'altro a Matt.
  «Il tuo compagno?»
  Matt infilzò un gamberetto con la punta della bacchetta, cercando di non lasciarsi trascinare dal nervosismo. L'ultima cosa che voleva era palesare a Michael la propria frustrazione, ed essere costretto a parlare di Kelly. Non voleva insinuare niente, né ascoltare ipotesi. Cercava in tutti i modi di concentrarsi per tenere a bada la paranoia. Era un lavoro accurato che richiedeva concentrazione, sebbene il prezzo da pagare fosse un crescere costante delle pulsazioni nella sua testa.
  «Uscito.»
  «Mmm...lavoro?»
  Matt alzò lo sguardo e sorrise. La sua uscita di emergenza! «Siamo stati sospesi, in realtà.»
  «Wow. E io che credevo stessi migliorando.»
  «Hey, guarda che questa volta non è colpa mia. O almeno...non in quel senso.»
  «Cosa avete fatto? Rubato un gatto da un albero? Lasciato una vecchietta ad attraversare da sola la strada?»
   Matt finse una risata e accartocciò un tovagliolo, lanciandolo contro l'amico.
   «In realtà, gli ho salvato il culo in una situazione ostaggi, nel mezzo di un incendio. Al Capo non è andata a genio.»
   Michael emise un sonoro fischio, scuotendo la testa mentre rovistava nel riso per cercare un cetriolo.
  «Le persone fanno cose assurde quando credono di perdere chi amano, eh?»
  Matt distolse lo sguardo. Pensò a Johnny Messere e a suo figlio, rivide i loro occhi e le loro labbra muoversi in parole che, in fondo, potevano essere d'amore reciproco. Forse era un gioco della sua mente, o il bisogno di dare un senso alle loro azioni per difendere la bontà umana, ma gli parve di rivedere nel loro sguardo qualcosa di profondo, un dolore che solo l'amore può portare.
  «Non sai quanto hai ragione, Doc.»
  Poggiò le bacchette nel contenitore. Guardò a lungo il fondo di riso e gamberi, prima di alzare lo sguardo e dire: «Non voglio trovarmi un'altra casa. Voglio vivere con Kelly.»
  «Wow...credevo non ritenessi fosse una mossa furba.»
  Matt ricordava esattamente cosa aveva detto la volta precedente a Michael, e allora ne era stato così convinto da parlarne anche con Kelly. Ora gli sembrava che quella paura di rovinare tutto fosse solo un nascondiglio, uno scudo contro una catastrofe che esisteva solo nelle possibilità ventilate dalla sua mente. Perché avrebbe dovuto sottrarsi a questa vita? Svegliarsi in un letto vuoto gli aveva fatto capire quanto non fosse ciò che voleva. Lui voleva aprire gli occhi e incontrare quelli socchiusi e arrossati di Kelly. Voleva intrecciare le dita ancora addormentate tra i capelli scompigliati del compagno, ed era disposto a soffrire il caldo del suo corpo d'estate e il freddo della punta del suo naso d'inverno. Lui voleva tutto questo e al solo pensiero di non averlo sentiva già la nostalgia.
  «Correrò il rischio.»
 







Note: Hi! Questo capitolo è un po' più breve, ma mi sembra giusto tagliarlo qui, perché prevedo che il prossimo sarà più lungo e intenso. Non temete, ogni nodo verrà al pettine.
Grazie a chi mi segue e commenta, per me è molto importante. Ho avuto un periodo davvero intenso e colmo di impegni importanti, ma ora ho un periodo di "ferie" finno a fine mese, quindi tornerò ad essere più assidua nel postare. Yeah!
See you soon,
Ax.



















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Capitolo 26
*** Non solo parole ***



26
Non solo parole


  Il fiume correva con calma, imperturbabile. Il sole era alto e padroneggiava un cielo privo di nuvole, ma la superficie dell'acqua sembrava non impressionata dalla sua forza. Anche a distanza, protetto dal parapetto, poteva sentire le gelide dita del fiume carezzargli la pelle.
  Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, le dita serrate intorno al ferro ormai caldo della balaustra.
  L'ultima volta che era stato lì con Matt, ogni cosa gli era sembrata perfetta. C'era il sorriso sul volto del biondo e nei suoi occhi, e lui poteva sentirlo in fondo all'anima. Poteva sentire le dita di Matt sulle sue, e a quel contatto qualcosa nel suo petto allargarsi, come un palloncino che attenda da sempre di essere riempito.
  Era bastato un attimo per raggrinzirlo. Un solo errore per distruggere ogni cosa. Uno stupido sogno, una stupida ossessione e una stupida decisione irrazionale per inquinare la sua felicità.
  Guardando indietro a quella notte e a quell'incubo, Kelly non riusciva a localizzare il momento esatto in cui il grilletto della vendetta era stato premuto. Non riusciva a capire come potesse qualcosa innescarsi all'improvviso. Suo padre una volta gli aveva detto che ci sono bombe che non puoi disinnescare finché non le fai esplodere. Forse era questo ciò che c'era nella sua mente, forse quella bomba era stata piazzata sotto il suo cranio quel giorno sul ponte.
  Ora c'era solo un modo per ritrovare la strada di casa.
  Quanto avrebbe voluto abbandonare tutto e tornare da Matt, tornare con tutto se stesso, e fare l'amore con lui senza null'altro a frenare la sua libertà.
  Odiava se stesso per esserne incapace.
  «Severide.»
  Si voltò e quando incontrò lo sguardo di Antonio, distolse il proprio. Strofinò il volto con il palmo sudato della mano, sperando che gli occhi smettessero di pungere.
  «Senza offesa, amico, hai un aspetto orribile.»
  «Lo so.»
  Antonio poggiò la schiena alla balaustra, incrociando le braccia al petto e guardandolo criticamente.
  «Che succede?»
  Kelly chiuse gli occhi ed inspirò aria pungente, prima di rilasciarla lentamente. «Ho bisogno del tuo aiuto.»
  Antonio inarcò le sopracciglia, invitandolo a continuare.
  Quanto odiava quella situazione! Si fece forza, perché ormai la porta era stata aperta, e gli serviva altra luce per distinguere tra le ombre che affollavano la stanza buia. Doveva fidarsi di Antonio, forse lasciare a lui le redini...Non era certo di riuscire ad arrivare fino in fondo, a liberarsi dell'armatura e lasciare a qualcun altro il compito di combattere quella battaglia.
  «Conosci un certo Tyrone?»
  Il detective irruppe in una breve risata secca. «Devi essere un po' più specifico.»
  «Il capo del tipo che avete arrestato ieri.»
  «Jeremy?»
  Quando Kelly annuì, Antonio serrò le mascelle, staccandosi dal parapetto e drizzando la schiena. «Stanne fuori»
  «Cosa?»
  Antonio distolse lo sguardo, puntandolo sugli edifici oltre il fiume. Sospirò pesantemente e si passò una mano tra i capelli, prima di guardarlo con decisione. «Ascolta, non so cosa tu hai in mente...ma stanne lontano, intesi?»
  «Qual è il problema?» sibilò Kelly.
  Improvvisamente si sentiva in trappola e aveva la sensazione che Voight gli avesse nascosto qualcosa. Accidenti, era stato davvero così stupido da fidarsi del detective? Ora gli sembrava di essere incappato in un gioco del quale non conosceva neanche metà delle regole.
  «Il problema è che Tyrone è nel libro paga di Voight da anni, e quando c'è lui di mezzo succede sempre qualcosa di molto molto brutto, mi capisci?»
  «No, e non mi interessa. Tyrone ha aiutato i Messer, lo sapevi?»
  Antonio sospirò, abbassando le spalle e annuendo.
  «Lo sapevi? Antonio, che sta succedendo?»
  «Okay, ascolta, questa conversazione non è mai avvenuta, ci siamo capiti?»
  Kelly non batté ciglio.    
  Antonio sospirò ancora e mormorò qualcosa tra i denti. Si guardò attorno, quindi infilò una mano nella giacca e ne estrasse un pezzo di carta. Quando lo girò, Kelly rimase senza fiato, più confuso di prima di fronte alla fotografia di un ragazzino. Doveva avere almeno tre anni in meno di come lui l'aveva visto, ma gli occhi erano gli stessi.
  Antonio rimise la foto al suo posto e poggiò una mano al parapetto. «Immagino tu lo abbia riconosciuto, Tyrone ce l'ha sempre intorno. Lo chiama Felipe, ma non è il suo vero nome. Quattro anni fa era parte di un gruppo di ragazzini scomparsi in un viaggio attraverso il confine messicano.»
  «Traffico umano?» chiese Kelly sgomento.
  La nausea lo colpì all'idea, rischiando di farlo chinare sull'asfalto.
  «Così sembra. Degli altri ragazzi non se ne ha traccia. Severide, parliamo di dodici ragazzi scomparsi, rapiti dalle loro stesse famiglie, capisci?»
  «Come...» la gola si serrò. Si passò una mano sul volto, cercando di impedirle di tremare. «Come può Voight avere a che fare con una persona che fa una cosa simile?»
  «Non è come pensi. Voight sarà anche marcio, ma non fino a questo punto. Tyrone ha preso il ragazzo nella sua banda, ma è escluso che sappia del giro. L'unico che potrebbe darci informazioni su chi regge il traffico è Felipe.»
  «Quindi...» Kelly non riuscì a finire la frase, perché la sua mente cercava di correre dietro tutte le informazioni.
  «Quindi Voight ti ha portato con sé per non destare sospetti. Doveva essere certo che Felipe fosse il ragazzo scomparso. Senti, mi dispiace di averti mentito, ma ci servivano le informazioni, lo capisci?»
  Kelly fece un passo indietro, allacciando le dita dietro la nuca e sollevando lo sguardo al cielo. Il respiro era troppo corto e lui sapeva di essere sul punto di perdere la calma.
  «Severide-»
  «No!» ringhiò, puntando un dito contro il detective. «Dannazione, Antonio! A qualcuno interessa prendere quei bastardi dei Messer o sono l'unico?»
  «Non sei l'unico» rispose seccamente Antonio. «Matt è un amico e noi stiamo facendo il possibile per trovare i responsabili. Ma tu...Severide, devi cercare di farti da parte. Finirai per farti male o fare un casino, fidati.»
  «Un casino? Come posso fare peggio di voi che non fate nulla?»
  Kelly era quasi certo che Antonio, dopo aver fatto un passo avanti, lo avrebbe colpito. Drizzò le spalle in attesa del colpo, che non arrivò.
  Il detective lo fissò a lungo, quindi disse: «Io so esattamente cosa provi, ci sono passato, credimi. Questa caccia alle streghe ti logorerà, perderai tutto quello che hai intorno, allontanerai le persone che ami perché per te non esisterà altro che la vendetta. E quando alla fine riuscirai a piantare una pallottola nella testa di ognuno di loro due, ti ritroverai con nulla. Sarai solo un altro assassino e nessuno, nemmeno le persone che ami e per le quali hai venduto l'anima, saranno dalla tua parte, perché di te non sarà rimasto nulla.»
   Kelly sentì lo stomaco contorcersi. Fissando il fondo degli occhi di Antonio, vide il futuro ipotetico nel quale non era troppo difficile specchiarsi.
  «Sei un brav'uomo, Kelly» disse alla fine Antonio, voltandosi.
  Si allontanò, salendo sull'auto senza aggiungere altro. Non serviva, non davvero, perché ormai per Kelly era impossibile assorbire altre parole.
  Guardò le proprie mani tremare senza controllo, mentre il sole continuava a battere la superficie di ogni cosa.
  Pensò ai genitori di Felipe, alla madre e il padre e i fratelli. Si chiese se anche loro avessero nella testa la stessa bomba innescata e come potessero andare avanti ogni giorno sapendo che la giustizia non era stata sritta per loro. Immaginò il dolore di non sapere dove il loro figlio e fratello fosse, se fosse vivo, o cosa avesse passato, come fosse diventato e se ancora fosse in grado di riconoscerli.
   E poi l'epifania lo scosse: Matt era ancora vivo. Lui poteva sfiorarlo, amarlo e viverlo ogni giorno.
   Non poteva disinnescare la bomba, né tantomeno farla esplodere senza far danni.
   L'unica alternativa era imparare a convivere con il costante ticchettio in un angolo della mente.
 





   Matt rimase in silenzio. Il suo sguardo si spostò dal soffitto solo in pochi punti salienti del racconto. L'espressione che in quei momenti rivolse al compagno gli serrò la gola, ma si impose di non vacillare, non fermarsi.
  Quando Kelly finì, rimase in attesa di una reazione, qualunque essa fosse. Sentiva la testa leggera, gli occhi bruciare e il sudore attaccarsi sulla nuca. Non era la catarsi che aveva desiderato e fantasticato durante tutto il viaggio di ritorno a casa.
  Ora che le sue colpe erano allo scoperto, sentiva di non riuscire a reggere un altro secondo di immobilità.
  Cominciava a credere che fosse meglio correre in bagno prima di rovinare il tappeto con la propria bile, quando Matt sospirò. Si passò una mano sul volto, stringendo e rilassando le mascelle diverse volte.
  «Mi hai mentito.»
  Non era una domanda, anche se Kelly sentì l'impulso di rispondere. Non era neanche un'affermazione. Lo sguardo di Matt era rivolto al pavimento, assorbito nel suo mondo interiore. Le spalle ebbero un sussulto, indicando un lungo sospiro. Matt si lasciò cadere sul divano, poggiando i gomiti alle ginocchia e infilando le dita tra i capelli corti.
  Kelly rimase immobile, osservandolo strusciare le mani sul volto, fino a fermarle in un saldo pugno sotto il mento. Riconosceva il lieve rossore alla guance e il luccichio degli occhi come segni della sua rabbia.
  Per la prima volta in mezzora, Matt alzò lo sguardo su di lui, guardandolo negli occhi. Kelly sentì i nervi cercare una strada per sgusciare via dalla pelle. No, lui non aveva mai avuto bisogno di giustificazioni, ma quello sguardo lo uccideva. Delusione.
  «Mi hai mentito» ripeté Matt. «Poi mi hai detto la verità. Tutta la verità?»
  Quella domanda era più dolorosa del suo sguardo e della sua stessa voce.
  Incapace di parlare, Kelly annuì deciso. Se in quel momento avesse perso la fiducia di Matt, avrebbe perso ogni cosa.

    Non farò un casino, non rovinerò tutto.
 
   Le sue stesse parole, ripetute a se stesso all'infinito in quei mesi, gli parvero un oscuro e spietato presagio. Quanto era stato ingenuo.
  «Okay» mormorò Matt, facendo forza sulle ginocchia per alzarsi. «Ascolta. Non ti dirò che non sono arrabbiato o che ti perdono, non ora.» Abbassò appena lo sguardo sulla sua t-shirt, prima di guardarlo. La distanza tra loro appariva a Kelly fredda e impersonale, ma sapeva che era ciò di cui avevano bisogno, ora. «Però, ti ringrazio...per avermi detto la verità, alla fine.»
  Kelly sentì di star per ridere e, involontariamente, gli angoli delle sue labbra si sollevarono i un tic nervoso.
  «Ora è meglio che esca» disse Matt, ponendo ancor più distanza mentre indossava la giacca. «Prima che ceda alla tentazione di darti un pugno.»
   Quando Matt uscì, Kelly rimase in piedi a guardare la porta. Non era certo di cosa avrebbe dovuto provare.





  Matt si ritrovò a vagare senza una meta precisa. Infilando le mani nelle tasche della giacca, percorse a falcate il primo isolato, prima di arrivare a uno stop. Si fermò e chiuse gli occhi, prendendo un grosso respiro.
  Kelly aveva mentito proprio a lui, malgrado fosse pienamente cosciente del peso che una menzogna potesse avere per Matt. Non poteva evitare di sentirsi ferito, nell'orgoglio e in posti ben più vulnerabili della sua mente. Mesi prima, non avrebbe creduto di riprovare quella particolare stretta al petto, quella che gli faceva sentire la testa leggera e le gambe molli. C'era rabbia, era innegabile, e c'era anche una ferita nascosta che riprendeva a pulsare.
  Aprì gli occhi ed esalò un lungo sospiro, che bruciò in gola. Cercò di rilassare le mascelle contratte e scoprì che le proprie dita erano serrate in pugni dolorosi.
  Kelly aveva mentito e l'aveva ammesso. Sostenendo il suo sguardo, aveva buttato fuori tutta la verità. A Matt veniva quasi da ridere, combattuto tra l'offesa e uno strano orgoglio.
  Kelly che per mesi aveva mentito sul suo infortunio e la sua dipendenza, senza mai distogliere lo sguardo mentre ripeteva Io sto bene. Lo stesso uomo aveva ammesso i propri errori, nudo e crudo, e Matt non poteva non pensare che l'amore davvero possa cambiare ogni cosa.
  Malgrado riuscisse a comprendere le ragioni del compagno, aveva bisogno di tempo per afferrare con mano quella consapevolezza e lasciare che essa sciogliesse il grumo di emozioni negative.
  Fu tentato di chiamare Gabby o Michael, ma nessuno dei due era disponibile a quell'ora.
  Estrasse il cellulare e compose il primo numero che gli venne in mente.
  «Stevens.»
  Matt rimase un attimo interdetto, quindi strofinò la nuca con il palmo sudato.
  «Sam? Sono Matt.»
  «Hey, Matt. Che succede?»
  Il biondo sospirò, poggiando la schiena a un palo.
  «Dimmi che hai ancora il turno di notte, perché ho decisamente bisogno del tuo caffé.»
  La risata infantile di Sam  in qualche modo riuscì a calmare Matt.
  «Ti invio l'indirizzo.»


   Un'ora dopo, Matt non ebbe dubbi del perché Shay avesse deciso di portare la sua relazione con Sam al livello successivo all'avventura di una notte. Se Leslie non nascondeva ciò che pensava e sapeva essere diretta, Sam possedeva la sottile e controversa arte di essere spietata e cruda, senza tuttavia alcuna cattiveria. Matt sentì quasi di dover chinare il capo a metà del lungo sproloquio della ragazza. Rimase in silenzio, annuendo di tanto in tanto, distogliendo lo sguardo e fissando il proprio caffé. Sam riuscì a colpire tanti nervi scoperti da farlo sentire nudo e indifeso. Incosciamente, strinse le braccia al petto, poggiando i gomiti sul piano della cucina.
  «Se la persona che amo facesse una cosa simile per me, la sposerei.»
  Questa fu la conclusione giusta e pungente dell'intero discorso, nel quale Sam denudò tutte le colpe e gli errori di Matt in quei due mesi, e quanto fosse ingiusto ora prendersela con Kelly. Matt lo sapeva, e sapeva che Sam era la voce di quel piccolo essere giudicante che era in fondo alla sua mente.
  Assorbito dalle proprie colpe, Matt non registrò il silenzio, fin quando divenne così teso da spingere Sam a schiarirsi la voce. Il biondo alzò lo sguardo su di lei e sospirò, rispondendo alla muta domanda trattenuta nello sguardo corrucciato.
  «Okay» mormorò, drizzandosi e alzando le mani in segno di resa. «Hai completamente ragione, sono stato un idiota.»
   L'espressione di Sam si addolcì e la sua voce divenne più soffice. «So che hai passato un periodo duro. Diamine, io al posto tuo sarei rannicchiata sul divano a guardare The L Word tutto il giorno, affogando nel gelato e nella mia sporcizia» disse, allungando una mano per prendere la sua. «Ed è normale essere arrabbiati, ma anche per Kelly deve essere stata dura. Se una cosa del genere succedesse a Leslie...»
  Sam rabbrividì e si morse il labbro. Matt le diede una stretta alla mano, sforzandosi di sorriderle.
  «Voi siete questo, Matt. Voi siete dei combattenti e lottate per quello che amate... Non c'è niente di brutto in questo. Ora va da lui e sistema le cose, perché non vale la pena far scaturire da una tragedia un'altra.»
  Matt chiuse gli occhi, massaggiandosi il ponte del naso con la mano libera. Sam aveva ragione e Matt sapeva che nulla di tutto questo dovesse essere facile per Kelly. Entrambi avevano reagito come avevano sempre fatto: cercare di farcela da soli, risolvendo il problema prima di capire quale realmente fosse.
  Ma lui sapeva, aveva imparato, che quello che ha sempre funzionato non è destinato a funzionare per sempre. Questa relazione era qualcosa di nuovo per entrambi.
  Si alzò, pronto a tornare a casa, quando Sam lo richiamò. Nei suoi occhi c'era un'espressione dura, ma non accusatoria. «Tutti mentiamo, Matt, e quando siamo fortunati lo facciamo per un buon motivo. Anche tu gli hai mentito, te lo leggo in faccia.»
  Improvvisamente, Matt si sentì tanto in colpa da non riuscire a reggere il suo sguardo.





   Il buio lo avvolgeva, schiarito solo dalla luna oltre le finestre. Si strinse nella coperta quando sentì la porta aprirsi. Chiuse gli occhi mentre l'uscio veniva richiuso con cura. Un sospiro risuonò nella stanza. Sapeva che era lui, sapeva che sarebbe arrivato per spiegargli le sue ragioni, ma lui non voleva sentirle. Gregory Casey voleva essere considerato nel giusto, sempre. Quando non poteva farlo in un'aula di tribunale, lo faceva tra le mura di casa, con i suoi sorrisi falsi e le sue parole studiate.
  Matt avrebbe voluto che credesse stesse dormendo, ma in fondo suo padre lo conosceva dannatamente bene.
  «Matthew.»
  Odiava quel nome. Suo padre e sua madre erano gli unici, al di fuori della scuola, a chiamarlo così, e quel giorno Matt decise che nessun'altro avrebbe dovuto.
   «So che non dormi» disse il padre, avvicinandosi.
   Matt poté sentirlo sedersi sulla sedia alla scrivania, quella sulla quale era stato Edward. Strinse gli occhi, impedendo alle lacrime di scendere. Non poteva mostrarsi debole con lui nella stessa stanza, neanche a se stesso, malgrado volesse solo la pace e la sicurezza della solitudine, per liberare le sue paure e i suoi dolori. Suo padre non sembrava volergli concedere neanche questo.
   «Non capisci quello che ho fatto, e forse mi odi, ma va bene così per ora. Sei un ragazzo intelligente e so che presto capirai, quando non sarai più arrabbiato. Tu meriti meglio di questo. Quella vita non fa per te, Matthew; tu sei meglio di questo, io lo so. Sei mio figlio e ti conosco meglio di chiunque altro. Eri confuso e ti sei lasciato trascinare da quel ragazzo.»
  Matt avrebbe voluto difendere Edward, ma le parole erano bloccate in gola. Quando suo padre cominciava la sua arringa, sembrava non esserci spazio per alcuna protesta.
   «Alle persone che fanno quel tipo di cose succedono cose brutte, lo capisci? Tu non lo sai perché sei giovane e ingenuo, e io voglio che non ti capiti mai di scoprirlo sulla pelle.»
   Lo sentì alzarsi e sospirare, e in qualche modo trovò la forza di chiedere:  «Mi manderai via come hai fatto con Chris?»
   «Certo che no, figliolo. Tua sorella è una testa calda. Sei tu il futuro della famiglia.» Il tono divertito nella sua voce, in qualche modo, fu peggiore di tutte le sue parole.  «Per questo sono sicuro che i miei nipotini verranno da te.»
   Matt si addormentò solo quando ebbe pianto tanto da restarne esausto. Dopo quella notte, non versò più lacrime per Edward. Quando il pensiero e i ricordi bussavano alla porta, lui li scacciava via. Non parlarono mai più di quello che era successo. Matt non ebbe mai la possibilità di confessare chi fosse in realtà, e in qualche modo lasciò che quella maschera divenisse la sua seconda pelle. Scoprì che poteva davvero provare un affetto profondo per le ragazze e le donne che si avvicinavano a lui, e si illuse di chiamarlo amore. Quando un ragazzo attirava la sua attenzione, risvegliando i suoi istinti, chiudeva gli occhi e prendeva un grosso respiro. Una ricaduta era inevitabile, ma la mattina seguente non c'era spazio per domande e ripensamenti. Rabbia era la prima emozione, dopo la vergogna. Non era avvenuto, si diceva. Era un incubo, qualcosa che non era lui.
  Perché Matthew Casey non era gay, non lo era mai stato e non lo sarebbe stato mai.





   Quando un battere frenetico risuonò tra le assi della porta, Kelly sobbalzò nel suo posto sul divano, nel quale aveva passato l'ultima ora e mezzo guardando cronache sportive senza un reale interesse. Impiegò qualche secondo ad alzarsi e raggiungere l'offeso uscio. Sbirciando nell'occhiello, vide il volto agitato di Matt. Si accigliò. Ricordò che Matt era uscito così di fretta da dimenticare le chiavi. Sospirò e afferrò la maniglia, preparandosi a uno scontro verbale che davvero non aveva voglia di affrontare. Ma, in fondo, sentiva di meritarlo.
  Raccolse respiro e forze e aprì la porta. Matt abbassò il pugno ed entrò nell'appartamento, sorpassandolo.
  Chiudendo piano la porta, Kelly poteva sentirlo alle sue spalle osservarlo in attesa. Si voltò e aprì la bocca per scusarsi ancora, ma Matt alzò una mano e lo bloccò.
  «Ho mentito.»
  Kelly rimase pietrificato. Né le parole né il tono erano quello che si attendeva. Malgrado la postura ancora tesa, la voce di Matt era calma e ragionevole. Lui poteva benissimo vedere tutti i piccoli indizi corporei che essudavano senso di colpa. Una strana agitazione gli montò in petto.
  «Io» mormorò Matt, prima di sospirare, gli occhi fissi sulla maglietta di Kelly. Quando li alzò e incontrò i suoi, Kelly fu quasi certo che dalle sue prossime parole sarebbe dipesa la propria vita. Era una sensazione sciocca e strana, ma non poté evitarla. «Quando tu hai detto tutto a Boden...quando Mills ci ha scoperti, e poi Hermann-»
  «Hermann lo sa?» si ritrovò a chiedere meccanicamente.
  Matt sospirò ancora e annuì. «Non è questo il punto...»
  «Allora quale?» chiese Kelly, con voce più dura del necessario. Matt sembrò urtato dal suo tono, ma si riprese in fretta.
  «Ti ho detto che non mi interessava chi lo sapesse, ma non era vero. Io ho provato vergogna» ammise.
  «Cosa? Ti vergogni di me?»
  «No... no, assolutamente.» Matt rimase in silenzio, come se cercasse di capire come rimediare al suo errore, o rovistasse nella sua mente per trovare le parole.
  Kelly sentiva il familiare fuoco dell'offosa serrargli i pugni, sovrastando le proprie colpe. La rabbia in quel momento gli sembrava il rifugio migliore, senza il quale sarebbe stato esposto al senso di tradimento che percepiva.
  «Kel...» mormorò Matt. La sua testa scattò e sembrò ricordare come usare le parole. «Quando mio padre...quando ha scoperto me e Edward...tu non hai idea di cosa ho provato.»
  Kelly serrò le labbra, perché Matt aveva ragione. In un modo contorto, avrebbe voluto saperlo.
  «Dopo quel giorno, mi sentivo sporco e sbagliato. Ho impiegato così tante energie a cambiare ciò che ero, ciò che sono... A nasconderlo. Ma quella vergogna non è mai andata via. Io so che essere ciò che sono non è vergognoso, non c'è nulla di sbagliato, ma non riuscivo a convincere me stesso ad accettarmi. Mio padre era un bravo uomo, ma aveva i suoi difetti...direi che mi ha incasinato il cervello, uhm?»
  L'ombra di un sorriso triste passò sul suo volto. I suoi occhi tornarono sui propri piedi, prima di alzarsi tentativi verso Kelly. Nello sguardo del compagno vide confusione, attenzione e una punta di tristezza.
  «Quando ho sentito alla radio la tua voce...eri in pericolo e lì ho sentito che nient'altro contava. Io non posso perderti, Kelly. Semplicemente non posso.»
   Kelly sentì la sua rabbia sciogliersi e qualcosa di molto più sereno e appagante espandersi nel petto.
   Non riusciva a dir nulla, ma malgrado ciò Matt disse: «Ora ascoltami e non parlare.» Appuratosi che Kelly avesse capito, Matt continuò: «Quello che hai fatto lo avrei fatto anche io. Diamine, se qualcuno avesse anche solo provato a sfiorarti lo avrei ammazzato. Non dico che è giusto, ma lo capisco. Noi siamo così, siamo combattenti, è quello che facciamo. Noi proteggiamo chi amiamo.» Matt distolse un attimo lo sguardo, passandosi una mano sulla fronte sudata, prima di guardarlo di nuovo. «Ciò non vuol dire che non mi hai fatto incazzare, ma che...lo capisco. Ma ti sei messo in una situazione pericolosa e la cosa peggiore è che non me lo hai detto non perché non volessi ferirmi. Non me lo hai detto perché sapevi che ti avrei fermato, e tu sei troppo fottutamente orgoglioso e testardo per lasciarmelo fare. Lo capisco. Avrei fatto lo stesso.»
  Kelly sentì gli angoli delle proprie labbra sollevarsi a tono con il battito del proprio cuore. Che diavolo aveva fatto per meritarsi un uomo del genere nella sua vita?
  «Io sono gay, Kelly» sputò fuori. Spalancò gli occhi, come sorpreso dalla forza di quelle parole. Era lui, era vero, ed era la cosa più giusta da dire. Alzò lo sguardo e sorrise così giovialmente che Kelly capì quanto quella semplice parola, in fondo, fosse capace di farlo sentire bene. «E ti amo, okay? Kelly, ti amo così tanto che farei qualunque cosa per te» ammise Matt, e Kelly non ebbe dubbi su quanto gli fosse costato dirlo, anche solo a se stesso. «Ma tu non permetterti mai più di fare una cosa del genere alle mie spalle. Se siamo nella merda, ci siamo insieme. Io voglio essere ovunque tu sei. Siamo insieme in tutto questo, intesi?»
  Matt riprese fiato e Kelly fu attratto dal petto che si alzava ed abbassava frenetico. Una scossa gli percorse la schiena, sciogliendo ogni ansia in un intenso desiderio in fondo allo stomaco. Alzò lo sguardo e lo fissò in quello di Matt. In quel momento, tutto il suo essere si sentiva attratto da lui come mai prima d'ora. Matt lo comprendeva ad un livello così profondo da scuoterlo. Non solo lo capiva, ma lo accettava. Kelly si sentiva nudo e sentiva quello sguardo, come dita calde, frugargli nel petto.
  «Siamo a posto, ora?» chiese in un sussurro.
  Matt roteò gli occhi, ma un sorriso gli curvò le labbra. «Certo, siamo a posto, Kel.»
  «Bene» mormorò Kelly, raggiungendolo. Gli poggiò una mano sul collo, carezzando il punto in cui poteva sentire le pulsazioni veloci del suo cuore. Inclinò la testa e ghignò. «Perché ora ho una voglia matta di portarti a letto.»
  Matt esalò la risata più liberatoria che Kelly gli avesse mai sentito.
  «Meglio per te che ne valga la pena.»








Note: Hello. Come scusa per la mia assenza, ho deciso di non tagliare questo capitolo come inizialmente pensavo di fare, così da darvi qualcosa di più sostanzioso da leggere. Il prossimo sarà presto in arrivo (cambio di pc e altre diavolerie tecniche mi hanno rallentata). Grazie ancora a Cecimolli e Sasuke_kun_Uchiha per la loro presenza. Vi apprezzo molto
Piccole precisazioni: la professione di Gregory Casey, così come tutto ciò che lo riguarda, è frutto di mie congetture e non è fedelle allo Show originale, dal quale si ricavano poche informazioni su di lui.
A presto,
Ax.

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Capitolo 27
*** Felipe ***



27

Felipe

   Kelly aprì gli occhi con calma, ritrovandosi avvolto dalla luce calda del primo pomeriggio. Stirò appena i muscoli, attento a non smuovere la figura addormentata al suo fianco. Si girò su un fianco, la mano infilata tra la testa e il cuscino, mentre con quella libera carezzava delicatamente la testa bionda. I capelli sottili erano incollati dal sudore, che spalmava il torso chiaro e ben scolpito. Le palpebre erano chiuse e ferme, i tratti rilassati. Kelly sorrise, saggiando sotto i polpastrelli callosi la soffice consistenza dei capelli corti. Matt era di una bellezza infantile e innocent  mentre dormiva. Sorpirò, ripensando al modo in cui l'aveva stretto solo un'ora prima, sentendosi appagato e libero, come un animale appena uscito da una buia grotta che si ritrovi in una selvaggia e brillante foresta. Respirava aria limpida e calda, l'odore di sudore e sesso ancora dolce sul corpo e tra le lenzuola. Era in momenti come quello che avrebbe desiderato averlo così per sempre, perché aveva la chiara consapevolezza di quanto ciò che avevano fosse importante.

  Risistemò la testa sul cuscino, poggiando la mano sul fianco nudo del compagno. Il sonno tornò a colpire la sua mente, placido e ben accolto.


   Shay scese dall'ambulanza con uno sbuffo sonoro. Estrasse il cellulare dalla tasca e lesse il messaggio di Sam. Gabby vide sul volto dell'amica formarsi un cipiglio, che pian piano si trasformò in un sorriso.

  «Che succede?» chiese con un ghigno divertito.

  Shay scrollò le spalle e ripose il cellulare.

  «Sam e Matt sono amiche del cuore.»

  Gabby sollevò un sopracciglio, quindi esalò una breve risata. Si sentiva sollevata di come le cose, in fondo, cominciassero ad assestarsi da sole. Mentre vagava con lo sguardo nell'hunger, i suoi occhi incontrarono quelli scuri di Peter. Gli sorrise e lui le fece un cenno del capo, con quel suo dolce e genuino sorriso. Gabby fu colta dalla trepidazione. Quella sera Matt sarebbe passato al Molly's per delle riparazione, e lei era impaziente di testare la loro nuova amicizia.

 




   Felipe si morse il labbro, tirando con gli incisivi un pezzetto di pelle fino a sentire il sangue entrargli in bocca e pungergli la lingua. Alzò un dito e premette il cursore del pc. In pochi secondi l'articolo di giornale apparve sullo schermo. Con occhi attenti lesse ogni cosa, riuscendo a comprendere solo i tratti salienti. Anche se il suo inglese non era ottimo, quello che apprese gli bastò a sentire un profondo senso di disagio alla base dello stomaco.

  Tyrone lo aveva sempre trattato bene. Mai nulla più di un urlo quando Felipe si distraeva, rintanandosi nel suo mondo interiore. Non parlava, ma non era stupido, e poteva vedere la beffa negli occhi degli uomini di Tyrone. A nessuno piaceva, e dal canto suo a Felipe non piaceva nessuno. Tranne Tyrone. Lui non l'aveva mai trattato da stupido, mai rivolto uno sguardo di pietà o fastidio.

  Felipe sapeva che le cose sarebbero potute andargli molto peggio. Aveva sempre un pasto caldo, un letto pulito e nessuno a fargli del male. Tyrone lo proteggeva. Quando gli uomini lo avevano portato da Tyrone, dicendo di sbarazzarsi di lui perché era troppo stupido e buono a nulla, Felipe aveva davvero creduto di non riuscire a vedere un'altra alba. Eppure Tyrone lo aveva caricato nella sua auto e portato nel suo appartamento. Gli aveva dato un foglio di carta e chiesto se sapesse scrivere. Accidenti se sapeva farlo, aveva pensato Felipe. Nel suo liceo, giù in Colombia, era il ragazzo più brillante. Felipe amava la chimica e la biologia, le cose minute nascoste dietro gli angoli della realtà, lì dove nessuno guardava. Particelle che erano lì anche se tutti le ignoravano.. Come lui.

  «Hey.»

  La voce rude di Tyrone fece scattare la testa di Felipe, strappandolo ai ricordi. Guardò il capo, quindi batté le palpebre e abbassò lo sguardo sul pc. Velocemente lo chiuse, rendendosi poi conto di aver solo aggravato la sua situazione.

  Tyrone rise, sedendosi sul divano accanto a lui.

  «Ragazzo, se guardi un porno non ti devi vergognare» disse, facendolo arrossire. «Siamo in America, niño.»

  Felipe si guardò le mani e pensò a Matthew Casey. Lui aveva una famiglia, degli amici, qualcuno che lottava per lui. Ripensò agli occhi blu dell'uomo che era entrato con Voight. Kelly Severide. Chiuse gli occhi e si chiese se anche suo padre avesse quello sguardo determinato.

  Forse per se stesso e per suo padre non c'era più speranza, ma doveva essercene per Casey e Severide. Erano uomini giusti, Felipe poteva sentirlo, ed erano combattenti. Era affascinato nell'immaginarli come eroi. Gli mancavano i suoi fumetti. Anche se Tyrone gliene comprava molti, non avevano mai lo stesso odore di quelli con i quali era cresciuto.

  «Qualcosa non va?»

  Guardò Tyrone e scosse la testa. L'uomo lo osservò a lungo, con uno sguardo concentrato, prima di sorridere e alzarsi.

  «Tra dieci minuti usciamo, dobbiamo fare una consegna.»

  Felipe lo guardò uscire, quindi sospirò, poggiando la schiena ai cuscini del divano. Riprese a mordere quel pezzetto di labbro sanguinante, guardando il soffitto. Tyrone gli sarebbe mancato. Non era neanche certo che non lo avrebbe ucciso quando avrebbe scoperto cosa voleva fare. Odiava tradire la fiducia di qualcuno che per lui aveva fatto tanto, perché suo padre gli aveva sempre detto che il valore di un uomo si misura nella sua lealtà.

  Suo padre...l'uomo che, durante l'alluvione in cui sua madre era annegata nell'acqua e nel fango, si era gettato a mani nude tra i torrenti che erano strade, salvando quante più persone possibili. Suo padre, austero e silenzioso, con gli occhi vivi e le braccia forti. Suo padre che gli aveva insegnato cosa fosse giusto e cosa no.

  Aprì il pc e cercò l'indirizzo della Caserma 51.




  Scendendo dall'auto con la sacca degli attrezzi, Matt ebbe per un attimo la sensazione che tutto fosse come prima. Il Molly's era di fronte a lui, fedele a sé stesso, e la porta che aveva sistemato e montato uguale a come la ricordava.

   Eppure tutto era cambiato.

   Nella sua mente tornò l'immagine della foto scattata con Dowson su quegli scalini, e la sensazione che aveva provato vedendo Mills arrivare. Aveva davvero creduto che un giorno Gabriela sarebbe diventata qualcosa di più e la gelosia che aveva provato era stata reale. Ma lui aveva imparato che l'amore aveva mille facce.

   Strinse le maniche della sacca e si avviò all'ingresso. Dowson, appena sentita la porta aprirsi, alzò lo sguardo da un tavolo rovesciato. Una luce di imbarazzo le passò negli occhi, che distolse per un attimo, prima di alzarsi e rivolgergli un sorriso.

  «Allora, è quello il paziente?» chiese Matt, avvicinandosi con la sacca al tavolo.

  «Già. Questo tavolo sarà stato qui per anni e ora ha deciso di rompersi» spiegò Gabriela, passandosi una mano tra i capelli. «Dimmi che c'è speranza.»

  Matt finse un cipiglio, accovacciandosi a studiare il danno.

  «Allora?» chiese la ragazza trepitante.

  Il biondo alzò su di lei un sorriso, prima di aprire la sacca in cerca degli attrezzi.

  «Ci sono solo un paio di cardini saltati, il legno è in buono stato. Non sarà difficile o doloroso.»

  Gabriela rise nel tragitto per il bancone, sporgendosi a prendere due birre dal frigo portatile. Ne offrì una a Matt, poi si sedette su un tavolo vicino, le gambe incrociate e lo sguardo attento sul lavoro del tenente. Solo ora realizzava che, in effetti, era la prima volta che restavano da soli dopo l'ospedale. Deglutì e cercò di sembrare disinvolta.

  «Bella sacca» disse, indicando con la bottiglia di birra l'oggetto ai suoi piedi.

  «Uhm, sì. La mia, quella che tenevo a casa, era più grande, ma è andata distrutta» spiegò il biondo, mentre sganciava i cardini. Non gli sembrava opportuno dire che era un regalo di Kelly, o come lo avesse ringraziato. «Antonio dice che alcuni attrezzi erano ancora intatti, ma tanto valeva farsene di nuovi, no?»

  «Giusto» ammise Gabriela, prendendo un sorso di birra.

  Ci fu un breve momento di tensione e, sentendosi scomoda, decise di cambiare argomento prima che il silenzio diventasse insopportabile.

  «Tra te e Severide sembra funzionare, vero?»

  Si maledisse mentalmente, perché il silenzio che seguì le sue parole fu molto più imbarazzante del previsto. Matt interruppe qualunque cosa stesse facendo, guardando le gambe all'aria del tavolo in cerca di parole. Non trovando nulla di appropriato, si sedette sui talloni e poggiò le mani alle cosce, per poi riprendere a lavorare con un cacciavite.

  «Sì, abbiamo trovato il modo di far funzionare le cose.»

  Quando guardò Gabriela, la vide molto meno tesa di quanto credesse. Forse, si disse, avrebbero trovato una nuova sistemazione reciproca, un nuovo modo di far funzionare le cose anche tra loro.

  «Tu e Peter?» chiese con calma, estraendo una vite e poggiandola a terra.

  «Molto bene. Sai, all'inizio pensavo è troppo giovane, è ancora un ragazzino e cose del genere, ma sta andando molto bene. È...dolce.»

  «Mills è un bravo ragazzo» concordò Matt, prima di fare una smorfia in direzione del tavolo. «Qui due viti sono andate, le devo sostituire.» Prese un kit di viti e chiodi e cominciò a frugarlo in cerca di quella adatta. Quando la trovò, esultò e cominciò ad avvitarla. «Comunque» continuò, lanciando una rapida occhiata alla ragazza. «Sono davvero contento per voi.»

  «Anch'io» disse Gabriela. «Per voi due, intendo.»

  Matt la guardò stranito e, notando che lo intendeva davvero, ne sorrise. «Grazie.»

  Gabriela fece un gesto dismissivo con la mano, scendendo dal tavolo e raggiungendolo. Si chinò a guardare il lavoro e gli diede una pacca sulla spalla.

  «Ottimo lavoro, Tenente.»

  Il biondo si rialzò e insieme cominciarono a voltare il tavolo. Lo testò smuovendolo e trovandolo stabile.

  «Nulla di impegnativo, e poi ci ho guadagnato una birra.»

  Entrambi risero, bevendo i rimasugli delle rispettive birre. Matt studiò Gabby sopra l'orlo della bottiglia, sentendo un grosso peso scivolare via a ogni sorso. Tutto sembrava sistemarsi, la sua galassia personale ruotare e trovare un nuovo baricentro. Tutto era perfetto, malgrado ogni imperfezione.

  Così come la calma era giunta, depositandosi su di lui, l'alito freddo dell'imprevisto gli soffiò sul collo. Percepì appena la campanella sulla porta del locale aprirsi, perché il suo sguardo era concentrato sul viso sorpreso di Gabriela e sui suoi occhi spalancati.

  Si voltò e in un attimo la coltre di pace sulla sua mente cominciò a traballare.

  «Casey, Dowson» li salutò l'ultimo uomo che Matt avrebbe voluto incontrare.

  «Voight.»


  Voight non era tipo da vacillare nelle sue intenzioni. Prendeva una decisione e portava a termine il suo piano, qualunque esso fosse. Ogni imperfezione o inciampo nel percorso era solo una noia da sorpassare.

   Guardando la strada fredda appena fuori il Molly's, si ritrovò a chiedersi come le cose sarebbero andate. Studiò Matt, che teneva le baccia incrociate sul petto e quello sguardo di sfida sul volto, e si ritrovò a sorridere internamente. Non gli era occorso troppo per comprendere quell'uomo e, anche se non l'avrebbe mai detto a Casey, lo stimava. Al tempo del loro primo incontro, aveva compreso quanto simili fossero, e quanto il bisogno di proteggere i rispettivi affetti li avesse resi nemici. Lui voleva riparare il torto, ma c'era qualcosa negli occhi di Casey che gli suggeriva il perdono non fosse esattamente uno dei suoi punti forti. Non in questo caso.

  Sospirò e decise che tagliare la testa al toro fosse l'idea migliore.

  «So che non corre buon sangue tra noi.»

  Casey sbuffò una risata amara, poggiando la schiena al muro di mattoni dell'edificio. Voight lo ignorò e continuò deciso.

  «Credimi quando ti dico che ora non importa. Sono qui per farti un favore, e farne uno a me stesso.»

  «Hai davvero il coraggio di venirmi qui a parlare di favori

  Voight fissò Casey finché questo serrò le mascelle e sembrò capire di dover aspettare spiegazioni. Il detective rimase leggermente sorpreso che il vigile non fosse già andato via, ma che attualmente gli stesse concedendo il beneficio del dubbio. Poi lo colse l'intuizione: Casey sapeva. Tuttavia non lasciò trapelare la propria sorpresa.

  «So che Severide ti ha raccontato tutto, riguardo Tyrone.»

  Casey distolse appena lo sguardo, unico indizio di conferma. Questo, decisamente, gli facilitava le cose.

  «Allora vado dritto al punto» continuò Voight. «Il tuo amico ha buone intenzioni, ma deve stare fuori da questa faccenda.»

  La testa del biondo scattò come un ingranaggio iperattivo e le sue spalle, istintivamente, si staccarono dal muro per fargli acquistare una postura più aggressiva.

  «Stai scherzando? Tu lo hai portato dentro questa faccenda e ora lo vuoi fuori?»

  «Tu lo vuoi dentro questo schifo?» lo sfidò Voight.

  Matt non disse nulla, limitandosi a fissarlo senza batter ciglio.

  «Non l'ho tirato io dentro. È stato lui a chiamarmi di continuo. Voleva rendersi utile, e l'ho accontentato.»

  «Oh, davvero un samaritano, Voight» lo sbeffeggiò Casey.

  Voight si era ripromesso di mantenere la calma, ma c'era qualcosa nel modo di guardarlo di Casey che non mancava di irritarlo.

  «Ascoltami bene» disse, prendendo un grosso respiro per calmarsi. «L'ho portato con me perché credevo fosse capace di restare calmo e non fare stronzate. Ma a quanto pare non ne è capace.»

  «Attento a quello che dici» sibilò Matt.

  Voight rimase un attimo incerto. Cosa diavolo succedeva tra quei due? Fino a due mesi prima aveva creduto fossero cane e gatto, e ora sembravano un unico essere che si difende dal mondo. Si ricoverò subito, decidendo che non fossero affari suoi. Lui era lì per ben altri motivi.

  «Senti, pensa quello che vuoi» mormorò alla fine, pronto a tornare alla sua auto. «Fai un favore a me, a Severide e a te stesso se lo tieni fuori dai miei affari.»

  Si voltò e si incamminò, ma la voce di Casey lo bloccò.

  «Voight.»

  Quando gli lanciò uno sguardo oltre le spalle, lo vide assumere un'espressione diversa, come se stesse lottando con se stesso per decidersi a chiedere quello che premeva sulla lingua.

  «Quel ragazzo...Felipe. È tutto vero?»

  Voight serrò i pugni e si voltò. «Come ho detto, statene fuori.»



   Guardando Voight allontanarsi lungo la strada, Casey sentì una strana tensione raggrumarsi alla base della nuca. Per quanto la sua vita lo richiamasse, chiedendogli insistentemente di tornare alla normalità, ventilandogli davanti agli occhi una pace mai sperata prima, c'era sempre qualcosa che si incrinava nel suo progetto. Vedeva il suo futuro luminoso, calmo come il mare all'alba, eppure esisteva sempre questo piccolo rombo in fondo al cielo, come di un temporale mai acquietatosi. Ignorarlo era forse il miglior modo per godere del sole e dell'amore, ma non di debellare quelle nuvole sempre più cariche.

  E se tutta quell'energia negativa fosse esplosa in un giorno qualunque? Tutto ciò che aveva gli sarebbe stato sottratto, trascinato via dal temporale?

  Scosse la testa e guardò alle sue spalle, sentendosi osservato. Dalla cornice della porta, Gabriela lo guardava interrogativa.

  Lui sorrise, ma non riuscì a dire nulla. Mentirle non aveva alcun senso, perché lei poteva sempre sentire la menzogna nella sua voce. Sospirò e lanciò un ultimo sguardo alla strada umida.

  Forse, per una volta, Voight aveva ragione. Non potevano cacciare i Messer, o salvare Felipe. L'unica cosa che a lui e Kelly era rimasta era cercare di salvare se stessi.

  Spostò lo sguardo sul cielo oltre gli edifici, sentendo il carico dell'umidità trasportata dalle nuvole. Avrebbe piovuto, molto presto; lui era sempre stato capace di prevederlo. Sentiva quella particolare sensazione di prurito alla base del naso e come piccole formiche percorrergli la schiena e le braccia.

  La pioggia, pensò, sembrava la metafora perfetta: avrebbe lavato via ogni traccia del passato.

  «Hey. Tutto bene?»

  Guardò Gabriela, ora accanto a lui, e annuì. «Benissimo.»

  Forse non era davvero una bugia, perché lei sorrise e gli prese la mano.


 


  «Pronto?»

  «Chris, sono Matt. Come stai?»

  «Hey, Matt... Tutto bene. Tu? È da un po' che non vieni a trovarci. Violet chiede sempre di te.»

  «Lo so. Sono stati giorni-»

  «Impegnativi. Sì, lo so, Matt. Ma puoi venire quando vuoi, lo sai.»

  «Certo, lo so. Io e Kelly verremo presto.»

  Respiro trattenuto. Matt non sapeva se fosse solo il suo o anche quello della sorella. La sua risposta, in ogni caso, lo lasciò sorpreso.

  «Sai, mi chiedevo quando l'avresti portato qui per farcelo conoscere meglio. Quando l'ho visto all'ospedale...ci sono poche persone capaci di amare così tanto. Comunque, davvero, portalo qui. A Violet piacerà di sicuro. Anche se sarà un po' delusa.»

  «Delusa?»

  L'aria, questa volta, lasciò completamente i suoi polmoni.

  «Certo! Quando lo ha visto l'ultima volta ha detto di volerlo sposare.»

  Matt non riuscì a trattenere una risata liberatoria, tanto forte da fargli lacrimare gli occhi. Dopo un lungo silenzio, Christie sospirò nella cornetta del telefono.

  «Sono felice che tu abbia trovato finalmente ciò che cercavi. Lui ti rende felice?»

  Matt guardò l'uomo disteso sul divano, addormentato con la testa fuori dal cuscino e la bocca socchiusa.

  «Sì. Assolutamente.» Poté immaginare il sorriso della sorella oltre la cornetta, e questo gli diede forza per chiedere: «Perché non vieni all'inaugurazione del Molly's? Sarà questo sabato. Puoi portare anche Carl e Violet.»

  «Non credo che per Violet sia un buon esempio.»

  Matt rise ancora e annuì, sebbene la sorella non potesse vederlo.

  «Sai... alla mamma farebbe piacere conoscere Kelly.»

  «Uhm...» Matt non sapeva cosa dire, ma sapeva di non poter dire quello che pensava. Non c'era bisogno di resuscitare ancora il fantasma di Edward. «Ci penserò, Christie. A sabato?»

   «A sabato, Matt.»

  Quando riaggaciò, gli sembrò di poter respirare un po' meglio. Un altro pezzo del suo passato era stato rimesso a posto. Sospriò e si alzò, raggiungendo Kelly. Si chinò e gli baciò la tempia. Il moro mugugnò nel sonno e piano aprì gli occhi, arrossati e confusi.

  «Matt...tutto okay?»

  Matt sorrise e gli baciò le labbra. «Tutto benissimo.»

  Kelly annuì distrattamente diverse volte, chiudendo di nuovo gli occhi. «Bene...»

  Tutto bene, pensò Matt, credendoci davvero.

 



   Shay scese dall'ambulanza con uno sbuffo, sbattendo lo sportello dietro di sé.

  «Andiamo, stai esagerando» si lamentò, appena la collega la raggiunse.  

  «No, Shay, quella ad esagerare sei stata tu» ritorse Dowson, scuotendo la testa in disapprovazione.

  Shay roteò gli occhi, poi vide Otis passar loro accanto e lo intercettò. Il vigile la guardò sorpreso e sospettoso, soprattutto quando quest'ultima espose il suo ghigno meno promettente.

  «Otis, scenario: ultima chiamata del turno per un infarto, un ragazzo sotto effetto di MDMA che chiaramente non ha un infarto ma mani un po' troppo lunghe.»

  Questa volta fu Gabby a roteare gli occhi, prima di intimare a Otis di non assecondare la bionda. L'uomo dardeggiò lo sguardo tra le due, sentendosi in trappola.

  Gabby poteva essere una dura, ma Shay lo spaventava decisamente di più, quindi guardò quest'ultima e finse di ponderare a lungo le alternative.

  «Giusto per essere chiari» chiese per prendere tempo. «L'uomo è per me o per te?»

  «Entrambi» rispose seccamente la bionda. «A meno che tu non sia gay.»

  «Non in questa vita» rispose Otis. «Bhe...penso che...forse avrei reagito abbastanza male.»

  «Visto!» esultò Shay, guardando l'amica mentre indicava Otis.

  «Male nel tuo vocabolario è quasi rompere la mano a un uomo» puntualizzò Gabby.

  «Quasi è la parola chiave, amica mia.»

  Otis sorrise politicamente e tentò una ritirata, ma la voce possente del comandante Boden gli evitò ogni sotterfugio.

  «Dowson! Nel mio ufficio.»

  Shay guardò l'amica in tono di scusa, ma lei si limitò a sbuffare e raggiungere il comandante.

  Forse aveva davvero esagerato, pensò Shay guardando Gabby allontanarsi. D'altra parte era certa che il ragazzo non avrebbe mai sporto denuncia e che al massimo si sarebbe trattato di una piccola lavata di capo da parte di Boden. Avrebbero solo dovuto spiegare come un ragazzo che lamentava un possibile attacco cardiaco fosse finito in ospedale per una lesione alla mano. Erano incappate in guai peggiori, in passato.

   Ancora lievemente in colpa, si voltò in cerca di Otis, roteando gli occhi quando si accorse di essere rimasta sola.

   Era intenta a decidere come passare il tempo fino al ritorno di Dowson, quando qualcosa all'angolo del suo campo visivo attirò la sua attenzione. La sua mente impiegò poco a registrare il dettaglio e, ancor prima di poter capire cosa fosse, si ritrovò a fissare lo sguardo in due occhi scuri.

  Di fronte all'ambulanza, similmente comparso dal nulla, c'era un ragazzino dalla pelle olivastra e fitti capelli corvini.

  «Ehm...hai bisogno di qualcosa?» chiese con quanta dolcezza riuscisse a mostrare, e al momento non era molta.

  Il ragazzo si limitò a fissarla. C'era qualcosa in quello sguardo che insinuava sotto la sua pelle un brivido freddo.

  Si chinò di poco per raggiungere il suo livello, e chiese ancora: «Posso aiutarti? Parli la mia lingua?» Non ricevendo risposta, si raddrizzò e sposirò. «Immagino sia un no» mormorò, voltandosi. «Forse è meglio chiamare Gabby.»

  Dita sottili ma ferree si serrarono intorno alla manica della sua divisa. Guardò il ragazzino, che indicò il Camion 81.

  «Cerchi qualcuno dell'81?»

  Il ragazzo annuì, poi lasciò andare la presa ed estrasse dalla tasca un pezzo di carta e una penna. Poggiò il foglio sul cofano dell'ambulanza e scribacchiò in fretta. Risistemata la penna, lo porse al paramedico.

  Shay afferrò la nota con titubanza.

  I suoi occhi si spalancarono di fronte a ciò che lesse.


  Lt. Casey. Portami da lui, è importante. No polizia.


   Eppure fu lo sguardo di estrema preghiera negli occhi di quel ragazzo la cosa più convincente di tutte.

   




Note: Hi! Come promesso, eccomi. Ho cambiato la formattazione del testo, mi sembra così abbia più respiro e sia quindi più leggibile.
In questo capitolo me la sono presa comoda con le riflessioni, ma è solo perché nei prossimi ci sarà molta più azione. Non dico altro :D
Grazie della vostra infinita pazienza.
A presto!
Ax.

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Capitolo 28
*** Il rapido precipitare degli eventi ***




28
Il rapido precipitare degli eventi



  «Sei veramente incredibile.»

  Matt alzò lo sguardo dal videogame, per lanciare un'occhiata al compagno comparso dalla cucina, prima di riportarlo sullo schermo.

  Lo sentì sbuffare irritato e avvicinarsi. Non era propenso a lasciar perdere qualunque cosa lo infastidisse. Avvertì il suo sguardo insistente, capace di distrarlo dal livello di Call of Duty.

  «Cosa?»

  «Puoi almeno mettere in pausa e guardarmi?»

  Matt si morse il labbro, pigiando il tasto del controller con furia, sperando di non morire e dover ripetere la missione per la terza volta. «Uhm, no.»

  Kelly emise un verso irritato e gli parò la vista, costringendolo a lasciare andare il controller con un gesto irritato.

  «Perfetto! Se non volevi che superassi il tuo record avresti dovuto dirlo prima!»

  In sottofondo sentì le esplosioni e la voce strozzata del suo personaggio, mentre le luci incorniciavano la figura tesa di Kelly. Lo guardò e capì che qualunque fosse il problema, doveva essere qualcosa di serio.

  «Tua madre, Matt. Mi prendi in giro? Pensavo fosse una di quelle cose di cui una coppia parla.»

  Matt era confuso. Si alzò per fronteggiare il compagno.  

  «Christie mi ha chiamata» disse Kelly, divincolandosi dalla sua presa. «Non te lo aspettavi, eh? Ci siamo scambiati il numero in ospedale. Mi ha supplicato di farti ragionare, perché a quanto pare non riesce a capire perché proprio tu hai detto a vostra madre di non venire all'inaugurazione. Sue parole: deve prendere una diavolo di posizione

  Matt si accigliò, non certo di voler davvero affrontare quel discorso. Era vero: quando la madre lo aveva chiamato per ringraziarlo dell'invito, lui era riuscito a convincerla a non venire. Non ne andava fiero e sapeva di averla ferita, ma sapeva anche che era per il meglio.

  Non poteva nasondere di sentirsi irritato e a disagio a parlare di questo proprio con Kelly.

  Decise che alleviare la tensione fosse la cosa migliore. Questo prima che Kelly portasse la discussione a un livello ben diverso.

  «La cosa peggiore è che io so perché non la vuoi al Molly's» sputò fuori il moro, guardandolo duramente. «Com'è che mi hai detto un po' di tempo fa? Non so mai cosa potrebbe dire o fare

  Una seconda realizzazione colpì Matt, facendolo sentire offeso oltre ogni previsione. «Scherzi? Vuoi davvero ritorcermi questo contro?»

  «Perché no? Non sei tu che ami così tanto ritorcere contro gli altri le loro parole?»

  «Quando lo avrei fatto?»

  Kelly aprì la bocca per parlare, e Matt seppe che se nel suo discorso fosse uscito il nome di Darden, le cose sarebbero degenerate velocemente. Sentiva all'idea già la rabbia montargli. Kelly, tuttavia, non disse nulla di ciò che Matt temeva.

  Dopo un attimo di teso silenzio, Kelly scosse la testa e mormorò sconfitto: «Credevo avessimo superato questo, ma a quanto pare non riesci davvero ad esporti con me.»

  «Non è così» insistette Matt. Prese un grosso respiro, portandosi le mani al volto per cercare di lavar via la frustrazione. Non aveva scelta, doveva dire tutto. «Senti, non è perché ho paura che dica a tutti che stiamo insieme.»

   Odiava la propria debolezza quando c'era di mezzo la madre, ma non riusciva davvero ad affrontare l'argomento. Non riusciva ancora ad avere quel pezzo della sua vita attorno, non in questa sua nuova vita con Kelly e la Caserma e ciò che aveva faticosamente costruito negli anni. Vedere sua madre era ogni volta vedere il fantasma di un passato che non avrebbe dovuto essere ancora presente. Anzi, peggio, i fantasmi, perché erano tanti, troppi: suo padre, Edward, quel maledetto giorno in cui aveva scordato le chiavi sul tavolino. Per anni si era chiesto se le avesse davvero dimenticate, o se i discorsi deliranti di sua madre lo avessero influenzato. Se non avesse origliato quel litigio al telefono, nel soggiorno di suo padre, avrebbe dimenticato le chiavi? Se non avesse saputo che suo padre teneva sempre la pistola carica a portata di mano, sarebbe stato così negligente?

   Aveva ormai capito che queste domande erano inutili, ma acquistavano un peso enorme quando gli occhi di sua madre lo guardavano dentro, come anni prima.

   «Tu non la conosci, Kelly. Ci sono cose che non sai...»

   La testa di Kelly scattò come colpita da una frustata.

   «Questo è il dannato punto, Matt» ringhiò, puntandogli un dito contro in un'accusa che Matt sentiva pienamente meritata, ma non voleva davvero sopportare. «Tu conosci mio padre e sai tutto di me, o almeno le cose importanti. Io di te non so niente!»

  «Di che diavolo parli? Tu hai sempre saputo tutto quello che è successo.»

  Kelly sbuffò una risata denigratoria, incrociando le braccia al petto e sollevando un sopracciglio.

  «Sul serio? Come della notte in cui tuo padre morì? Nessuno sa nulla di quella notte, perché tu non vuoi parlarne.»

  «Smettila» sibilò Matt, ora sull'orlo della rabbia.

  Si voltò, deciso a chiudere lì il discorso.

  Kelly era di tutt'altro parere, e lo palesò afferrandogli saldamente il braccio e voltandolo con forza.

  Matt poggiò un palmo sul suo petto, spingendo per liberarsi dalla presa. «Non c'è nessun motivo di parlarne, okay?»

  «Certo, perché finora non parlare delle cose ha funzionato così bene!»

  Uno strano pulsare annebbiò la vista e la mente di Matt. Quando riuscì a mettere a fuoco, si ritrovò con il collo della t-shirt di Kelly stretto in un pugno e l'altro sospeso sul suo volto. Lo sguardo del compagno non tradiva la sorpresa e lo sgomento, ma era rigido, duro, quasi sfidante. L'ondata di adrenalina defluì dal corpo del biondo, drenandolo completamente quando realizzò cosa stava per fare. Lasciò andare il compagno e scosse la testa, prima di massaggiarsi le orbite con le dita.

  «Scusa...non volevo colpirti.»

  «Invece volevi farlo» disse la voce di Kelly, nella quale non c'era rabbia, ma resa e una strana orma di dolcezza.

  Matt allontanò le mani dagli occhi e lo guardò, riconoscendo in lui la stessa debolezza che ora lo assaliva.

  «Senti» cominciò il moro, quindi sospirò e guardò altrove. «Forse ho esagerato, okay? Ma...Matt, io voglio solo-»

  «Essere parte della mia vita?» chiese il biondo, sorridendo debolmente.

   Kelly lo imitò.

   «Già, qualcosa del genere.»

   «Ho bisogno di tempo, Kel. Lo sai...»

   Le braccia intorno al suo busto lo presero alla sprovvista. Sussultò, prima di sentire quel familiare calore invaderlo. Matt strinse le proprie braccia intorno alla vita di Kelly, poggiando la fronte nell'incavo del suo collo. Come fossero passati dai pugni a questo non riusciva a realizzarlo. Erano questo, un ossimoro che funziona, qualcosa che sa rompersi e ricostruirsi. C'era qualcosa di così primitivamente splendido in ciò che sentì di esserne sommerso. I suoi genitori litigavano spesso e mai l'amore vinceva, ma lui era cresciuto convinto che esso potesse esistere e trionfare. E ora eccolo, al profumo di docciaschiuma e sigaro, con la barba tra i suoi capelli e muscoli forti contro i propri.

   Kelly liberò una mano per afferrargli il mento e spingerlo a guardarlo.

  «Il discorso non è chiuso, okay?»

  Matt avrebbe voluto protestare, ma il suono di un cellulare lo bloccò. Scioltosi velocemente dall'abbraccio, Kelly recuperò il dispositivo e rispose, schiarendosi prima la voce. Quel suo modo di ricomporre l'immagine dura del Tenente Severide, ogni qual volta qualcosa di esterno lo portava a una profonda autoconsapevolezza, non mancava di far sorridere Matt.

   «Hey-» Fece una smorfia, allontanando leggermente il telefono dall'orecchio. Guardò Matt, accigliandosi. «Sì, è qui con me... cosa?... Shay, rallenta, non capisco niente...Okay, okay. Ti aspettiamo qui.»

   «Che succede?» chiese Matt, appena il compagno ebbe riposto il cellulare con uno sguardo pensieroso.

   «Shay dice che un ragazzino è venuto a cercarti in Caserma. Non è che hai un figlio di cui non sai nulla?»

   Matt si congelò, prima di capire che Kelly stava scherzando. Afferrò un cuscino dal divano e glielo lanciò contro.

   «Dovresti essere tu a preoccuparti di queste cose.»

   



 


   Severide era da sempre convinto di una cosa: ci sono memorie che possono trasportare, senza alcuna articolazione, più emozioni che libri interi di parole. A questa consapevolezza si univa quella che uno sguardo, soprattutto un particolare paio d'occhi, potesse realmente scavarti dentro. Non era semplice da descrivere, ma era una sensazione inafferrabile eppure radicata fin nelle ossa, come gelida nebbia di una frigida mattina d'autunno.

   Aprendo la porta di casa, il sorriso morì sulle sue labbra e sentì chiaramente di essere sbiancato in volto. A corto di parole, si fece da parte, sentendo sui propri tratti gli occhi curiosi di Matt.

  Eppure, uniti alle parole vuote di Shay, questi erano solo dettagli sullo sfondo: il punto focale erano due occhi neri su un volto troppo giovane per tale silenzio. Occhi che lo avevano fissato un secondo, prima di spostarsi altrove, come un sole che occhieggi brevemente dalle nuvole, lasciando sulla pelle una strana sensazione di buio.

  «Hey, ciao» disse Matt con voce calma, quella che utilizzava per i bambini.

  Kelly, ripresosi dallo shock, lo guardò con quella sorta di piacevole invidia nei suoi confronti. Matt sapeva davvero farci con i bambini. Il pensiero era legato ad altri che non voleva davvero affrontare, quindi si riscosse ancora e guardò Felipe entrare in casa seguito da Shay.

  Richiuse la porta, poggiandovi le spalle e sperando di confondersi per un minuto con essa. Aveva bisogno di solo un minuto e avrebbe raccolto i pensieri e... fatto cosa? Non aveva idea di cosa dire o fare.

  «Io sono Matt» continuò il biondo, facendo segno al ragazzo di sedersi.

  Lui ubbidì, poggiando i palmi aperti delle mani sulle ginocchia sporgenti. Matt lo fissò interrogativo, quindi alzò lo sguardo di domanda su Shay.

  Lei fece spallucce e mormorò: «Non ha detto una parola, mi ha solo scritto questo.»

  Matt prese il foglio e aggrottò le sopracciglia, confuso.

   «Hey, amico» provò ancora, sedendosi sulla poltrona, ma in modo da lasciare al ragazzo il suo spazio. «Capisci quello che dico? Come ti chiami?»

   «Felipe» sputò fuori Kelly, staccandosi dalla porta.

  Il ragazzo alzò su di lui gli occhi cerchiati dalle lunga ciglia, e annuì.

  Kelly potè vedere sul volto del compagno il momento esatto in cui quel nome venne collegato alla realtà. Matt saettò lo sguardo tra Kelly e il ragazzo, il foglio di carta stretto in un pugno. Poi i suoi tratti si rilassarono all'improvviso e lui si alzò con calma, approcciando Shay, rimasta in piedi e confusa.

  «Grazie per averlo portato qui, Shay» disse con un sorriso affabile.

  «Se mi diceste cosa succede...» mormorò lei, squadrandoli. «So che mi nascondete qualcosa.»

  «Non essere paranoica» sbuffò Matt, senza mai perdere il sorriso. «Felipe è un mio piccolo vecchio amico, e non gli piace tanto la polizia. Sai com'è...»

  La bionda fissò a lungo il vigile, quindi roteò gli occhi e si diresse alla porta. «Dowson mi ammazzerà e io ammazzerò te, Casey, per avermi fatto perdere tempo» disse prima di uscire, senza curarsi di chiudere piano la porta.

   Appena il paramedico fu fuori portata d'orecchio, i suoi passi pesanti lungo il corridoio del condominio, i lineamenti di Matt tornarono duri.

   Kelly gli afferrò la manica della maglia e lo voltò, bisbigliando: «Che hai intenzione di fare?» Accennò con la testa al ragazzo, ancora seduto sul divano.

  Matt guardò sopra la propria spalla, poi sospirò e si passò una mano sul volto.

  «Sapere cosa vuole da me, immagino.»

  «Matt...» sibilò Kelly. «La situazione non mi piace.»

  I muscoli del braccio del biondo si irrigidirono sotto le sue dita. «Bhe, non l'ho creata io, la situazione» disse a denti stretti, prima di divincolarsi.

  «Felipe?»

  Il ragazzo alzò lo sguardo e lo fissò con occhi calmi e allo stesso tempo vivi. Era come se una strana quiete attendesse sul fondo di quel nero, come un cane accucciato che aspetti la fine della tempesta e il ritorno del padrone dal mare.

  «Tu mi capisci, vero?» chiese Matt, sedendosi questa volta al lato opposto del divano.

  Con suo sollievo, Felipe non si scostò, ma seguì con lo sguardo Kelly sedersi sul bordo della poltrona adiacente. Annuì e tornò a guardare Matt.

  «Bene. Puoi dirmi perché sei qui?»

  Lui vagò con lo sguardo nel soggiorno e Kelly capì in un attimo. Si alzò e aprì uno dei cassetti del mobile della TV, estraendo un foglio di carta stropicciato e una penna.

  Li poggiò sul tavolino e guardò Felipe: «Puoi scrivere, se vuoi.»

  Il ragazzo sembrò accennare un sorriso, l'angolo delle labbra appena sollevato e una piccola fossetta sulla guancia. Kelly pensò che Felipe dovesse avere un sorriso sincero e caldo, ma si ritrovò a chiedersi da quanto tempo non lo mostrasse.

  Prese la penna nella mano destra e cominciò a scrivere velocemente.

  Quando finì, voltò il foglio verso Matt.

   Il biondo lesse in fretta, ma dovette rileggere per comprendere davvero, preso com'era dall'agitazione e dalla sensazione che, qualunque cosa contenesse, quel foglio dovesse essere di estrema importanza.

   «Cristo...» mormorò alla fine, appena un'esalazione.

   Kelly sentì ogni muscolo irrigidirsi, come pronto ad reagire.

   «Cosa? Che dice?»

   Matt sollevò lo sguardo dal foglio e lo rivolse a Kelly.

   «L'indirizzo dei Messer.»

   Prima che il biondo potesse aggiungere altro, il compagno aveva afferrato la giacca poggiata su una sedia. La indossò di fretta e recuperò le chiavi dell'auto. Matt reagì in un istante, afferrandogli la manica e strattonandolo perché potesse guardarlo in volto. La ferrea determinazione che incontrò gli inviò una scarica sinistra lungo la schiena. Per qualche strano motivo, avvertì l'addome avere uno spasmo ed essere percorso da tanti piccoli aghi, lì dove restava la lunga cicatrice, persistente ricordo degli eventi che li avevano portati lì.

  «Che hai intenzione di fare, Kelly?» chiese in un tono di sfida che sorprese se stesso.

  «Tu cosa credi, Matt?» rispose a tono il moro, guardandolo duramente. «Hai idea di quello che ho passato per ottenere quell'indirizzo? Ora dovrei sedermi sul mio culo e fare cosa?»

  «Voight-»

   Kelly sbuffò una risata di scherno.

   «Non provarci, Matt.»

   L'elettricità che correva tra i loro corpi, congiunti flebilmente lì dove le dita di Matt erano serrate intorno alla manica della giacca di Kelly, fu interrotta bruscamente da un'ombra all'angolo del loro campo visivo. Matt lasciò andare il compagno e guardò Felipe. Il ragazzo tendeva il palmo della mano in alto. In un attimo voltò la mano destra in modo da mostrare le nocche e la abbatté sul pamo aperto di quella sinistra. Ripeté il gesto tre volte prima che Matt capisse.

  «Ci sta dicendo di smetterla» mormorò, sentendosi stranamente in colpa.

  Kelly sollevò le sopracciglia scetticamente e Matt roteò gli occhi infastidito.

  «Ricordi il corso di ASL? Qualcuno l'ha davvero seguito, al contrario di te.»

  La risposta del moro fu tagliata dal suono ripetuto della mano di Felipe contro l'altra.

  «Okay» esalò Matt, alzando le mani in segno di resa. «Okay, ho capito.»

  Felipe sollevò le labbra in un accenno di sorriso, quindi portò la mano destra all'altezza del volto e la mosse in fuori, chiudendo le dita.

  «No, non andiamo da nessuna parte» disse Matt risolutamente.

  Il cipiglio sul volto del ragazzo lo fece assomigliare per un attimo al ragazzino che sarebbe dovuto essere.

  Puntò verso se stesso, quindi portò gli indici in avanti.

  Matt guardò Kelly, che li osservava confuso.

  «Vuole andare lui, se non andiamo noi» spiegò con un sospiro, prima di passarsi una mano sul volto.

   Si sentiva in trappola. Sapeva che Felipe aveva rischiato molto per avvertirli, e che era potenzialmente ancora in pericolo. Una parte di se stesso voleva lasciarsi andare alla tentazione di risolvere la questione come aveva desiderato dal primo giorno: a mani nude. La coscienza e quel vago senso di giustizia che aveva cercato di rafforzare per superare la rabbia e la sete di vendetta, tutavia, gli impedivano di prendere lui stesso le chiavi dell'auto e guidare il più velocemente possibile verso i Messer.

   Prese un grosso respiro, chiudendo gli occhi. Quando li riaprì, la mano di Kelly era sulla sua spalla. In una frazione di secondo, quella a lui necessaria per riprendere il controllo, sembrava essersi formata una muta alleanza tra il suo compagno e Felipe. Entrambi lo guardavano carichi di aspettativa.

  Kelly gli afferrò anche l'altra spalla, guardandolo negli occhi fino a bruciargli la mente e appesantirgli il petto.

  «Matt» disse il moro con voce roca. «Dobbiamo farlo, e lo faremo. Fidati di me.»

  Non poteva non farlo. Non gli accorse che un secondo per ritrovarsi ad annuire, sentendo le dita serrarsi sulle sue spalle. Quindi guardò Felipe e scosse la testa.

   «Tu non puoi venire con noi» disse fermamente, guadagnandosi un altro cipiglio e due braccia esili strette al petto. «Ascolta» continuò con calma. «Non dimenticherò mai quello che hai fatto, ma hai bisogno di essere al sicuro. A me serve che tu lo sia, lo capisci?»

  Il ragazzo spalancò i grandi occhi neri, che si riempirono di paura. Agitatamente, mosse le mani in aria. Matt gli fece segno di rallentare e lui sospirò e ripeté i gesti con più calma, ma mani ancora tremanti.

  «No, non chiamerò la polizia» disse Matt per rassicurarlo.

  Non ora, pensò, ma non lo disse. Felipe avrebbe capito a tempo debito che era per il suo bene.

  «Possiamo portarlo da Sam» disse Kelly. «Non lavora nei servizi sociali?»

  «E credi che Shay non farà domande?»

  «Si tratta di poco tempo.»

  Matt cercò di non rabrividere al concetto insito in quella frase, di non pensare a cosa sarebbe potuto succedere quando avrebbero raggiunto i Messer. Non poteva pensarci, se voleva arrivare fino in fondo.

  «Lo lasciamo lì con una scusa e lo passiamo a prendere...dopo» mormorò Kelly.

  Matt ci pensò su, quindi si rivolse a Felipe. «Va bene per te? Sam è nostra amica, starai bene.»

  Felipe, chiaramente non del tutto soddisfatto,  ma abbastanza furbo da capire di non avere scelta, annuì. Poi mosse ancora le mani, con un'espressione difensiva sul volto e le guance lievemente imporporate.

  Matt sorrise e annuì. «Certo che tornerò a prenderti. Te lo prometto.»

  Sperò non diventasse una promessa tradita.




   Voight strinse i lembi della giacca, in un vago e istintivo gesto di protezione contro il pungente vento che si era alzato nell'aria umida. Guardò intorno a sé, scrutando il parcheggio del café alla ricerca di possibili indizi fuori posto. Era una deformazione professionale e personale, una sorta di muta paranoia che lo spingeva immancabilmente a guardarsi le spalle. Appurato che tutto fosse in ordine -due monovolume e un furgone di una catena di pizza a consegna- scrocchiò i muscoli del collo e si avviò all'entrata nel locale.

  Individuò Tyrone velocemente, poiché gli unici altri avventori erano una famiglia chiassosa e un ragazzo in una stupida divisa a strisce rosse e gialle, chino sul bancone a chiacchierare con un'avvenente cameriera. Li oltrepassò in silenzio e lanciò uno sguardo a Tyrone. L'uomo sembrava nervoso e non certo nella sua giornata migliore.

   Voight ne prese nota e si sedette al tavolo, prendendosi deliberatamente tutto il tempo possibile.

   Se c'era una cosa in cui era particolarmente abile era di certo tirare fili già ben tesi.

   Richiamò l'attenzione della cameriera, libera dal suo imbarazzato flirt con il ragazzo della pizza, per ordinare un caffé nero e un piatto di uova e pancetta, che non sentiva davvero d'aver bisogno di mangiare, ma certo avrebbe fatto con quanta calma possibile.

   Tyrone parlò non appena la giovane si fu allontanata, sporgendosi sul tavolo con aria minacciosa.

   «Uno dei miei è scomparso, e sono sicuro che tu c'entri qualcosa.»

   Voight sbuffò una risata e si risistemò la giacca. Puntò i gomiti sul tavolo, imitando la postura di Tyrone finché questi, leggermente intimidito, reclinò appena le spalle indietro.

    «Cosa te lo fa pensare?»

    «Sappiamo entrambi che i Perez hanno fatto fuori Miguel» disse Tyrone abbassando la voce. «Diciamo che so per certo che non hanno preso-» L'uomo si fermò, mordendosi le labbra.

   Voight sollevò le sopracciglia, invitandolo a continuare. In quel momento la cameriera tornò con un timido sorriso e le ordinazioni, svanendo velocemente quando Tyrone le rivolse uno sguardo duro.

   «Sai» disse il detective, ritagliando pezzi di bacon. «Se non parli chiaro, non ti puoi aspettare che lo faccia io. Fammi una domanda se vuoi una risposta.»

   Tyrone sembrò soppesare le sue alternative. Voight fermò il coltello nel mezzo di una fetta di bacon, colto da un'intuizione. Scrutò Tyrone in cerca di indizi che la confermassero.

  Non aveva visto mai il colombiano così afflitto.

  Ritornò al piatto e chiese tranquillamente. «Da quanto è scomparso il ragazzino?»

  Tyrone sussultò visibilmente e coprì la sua sorpresa abbattendo il palmo della mano sul tavolo. A pochi tavoli di distanza, la mamma dei due bambini esclamò un gridolino di sorpresa, poi bisbigliò qualcosa al marito, facendo voltare i figli curiosi.

   «Cosa diavolo sai di questa storia?»

   «So che tieni al ragazzo. Non ti importa dei tuoi uomini, ma di questo sì. Altrimenti non saresti mai venuto da me.» Voight ghignò, nascondendo il tumulto nella sua mente all'idea che al ragazzo fosse accaduto qualcosa. «Vuoi dirmi che hai un cuore tenero?»

   «Assurdità» sbuffò Tyrone. «Nel mio paese non si butta via un regalo.»

   Voight si irrigidì e alzò lentamente lo sguardo. Vide negli occhi di Tyrone una sorta di terrore, quello che giunge nell'accorgersi di aver lasciato andare un dettaglio importante.

  Come aveva potuto essere così ingenuo? Proprio lui, Hank Voight, aveva creduto alla storiella di Tyrone che trovava un ragazzino per strada. Tutti i suoi uomini, quelli che era riuscito a far parlare, avevano giurato che Felipe fosse stato trovato nei sobborghi di Chicago. Perché Tyrone avesse mentito ai suoi stessi uomini non gli importava, non ora, non realmente. Tutto ciò che riusciva a focalizzare era il desiderio di sbattere la testa di Tyrone contro il tavolo.

    «Okay» esalò Voight, congiungendo le mani davanti a sé. Lo indicò con un dito, dicendo a denti stretti: «So esattamente di cosa stai parlando, e ora so che conosci chi c'è dietro questa storia.»

    «Di che diavolo parli?»

    «Container 47» disse Voight, osservando la reazione che si aspettava: Tyrone si inumidì le labbra improvvisamente secche. «I ragazzi scomparsi. Tu sai chi c'è dietro. »

   Tyrone guardò altrove, quindi fece spallucce. «Può darsi.»

   Questa volta fu Voight a battere entrambe le mani sul tavolo. Al rumore di pelle contro legno e delle porcellane tintinnanti, la famigliola si alzò e si sbrigò a lasciare il locale.

   «Se rivuoi Felipe, devi darmi i nomi, i luoghi, tutto quello che sai. O giuro su mio figlio che questo sarà l'ultimo pasto della tua vita.»

   Dopo un lungo, teso silenzio, Tyrone annuì.



Note: Ciao ragazzi! Scusate il ritardo, sono così piena di imprevisti e impegni da riuscire a ritagliare davvero poco tempo per lavorare sulla storia. Eppure non la abbandono, mai.

Piccola nota: ASL, ovvero American Sign Language, è la lingua dei segni usata in America. Poiché ogni Paese ha la sua lingua dei segni, la ASL è diversa dalla LIS (Lingua Italiana dei Segni). 

Il prossimo aggiornamento non giungerà prima di una settimana. Scusate per il disagio!

A presto,

Ax.

















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