LA LIBERTA' PIU' GRANDE

di Silvana Uber
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** LA PROVA ***
Capitolo 2: *** IRRICONOSCIBILE ***



Capitolo 1
*** LA PROVA ***


La luce ambrata del mattino filtra tra le tende mosse dal vento, scivolando come un’intrusa contro le pareti ed incurvandosi verso il mio volto come dita affusolate di un pianista.
Apro gli occhi appesantiti dalle scarse ore di sonno e vago con lo sguardo in cerca della sveglia. Sono appena le sei e mezza del mattino, ma da sotto la finestra aperta della mia camera mi raggiungono già le urla di richiamo dei fruttivendoli, il rumore delle cassette di legno che si spezzano sotto le suole delle scarpe, la musica del bar dell’angolo. Il mondo ha ripreso vita, una nuova giornata è cominciata e nulla è cambiato, nonostante questa notte una bambina è morta nella stanza dove da sempre vi si è nascosta per giocare con le sue bambole preferite.
Mi alzo dal letto e mi avvicino allo specchio a muro per osservare la mia immagine… tutta l’infantilità e l’ingenuità dei miei anni sono scomparsi dal mio volto lasciando il posto all’espressione dura e ostile di una donna che non è ancora in grado di esserlo per davvero. Sono goffa come una bambina che indossa le scarpe dal tacco della sua mamma per giocare a fare la grande.
Chiudo ostinata gli occhi e obbligo le labbra ad un sorriso meccanico e finto. Vorrei riavvolgere il nastro della mia vita e non dover così fingere di essere quella che non sono, solo per evitare che il mio dolore si propaghi di cuore in cuore.
Ma questo mio sorriso non è sufficientemente sincero per riuscire ad allontanare quel senso di vertigine che ti da alla testa quando non si ha più la consapevolezza di avere anche un solo lembo di pelle sano e inattaccabile. Non si può sorridere e non si può nemmeno fingere di sorridere quando si sente il dolore penetrare nella tua carne, nelle tue ossa. Quel dolore che non conosce rimorsi o pietà e che sembra beffarsi delle tue lacrime. Quel dolore che si riesce a mascherare col mondo intero, ma non con sé stessi.
E’ come se il mio cuore si fosse spezzato in due parti… E anche se un giorno riuscirò a rimetterle insieme, la crepa rimarrà sempre a ricordarmi che sono diventata una bambola rotta. Perché certi errori, non si smetterà mai di pagarli. E a volte, non basta un’intera vita per scontare le pene…
Ci sono tante cose che vorrei capire, una tra tutte è da dove viene questo dolore che mi pervade l’anima…questo dolore fulmineo, senza senso. Qualcosa è cambiato ma non così tanto da farmi capire cosa è rimasto uguale a prima.
 
 
Sono trascorsi otto anni da quel giorno.
Mi erano serviti otto anni per ritrovare il coraggio di tornare nel mio paese, a Port Angeles.
Per tutto questo tempo avevo vissuto a Port Townsend, una minuscola cittadina nell’estremo sud-est della penisola di Olimpia, con mia nonna, la quale, fin dai primi giorni della nostra convivenza, si era rivelata un’ottima cuoca e un’amabile confidente.
Lei era l’unica a sapere del perché i miei occhi da troppo tempo non sorridevano più.
“Telefonami quando arrivi”, mi abbracciò un’ultima volta, prima di lasciarmi salire sul treno.
“Non preoccuparti”.
“E se penserai di non farcela, ricorda che un posto per te qua ci sarà sempre. Fai una prova… sforzati un poco i primi giorni…”
“Tenterò”, tagliai corto, cercando di ritrarre la mano dalla sua.
Alcune persone mi urtano mentre salirono sul vagone. Mancavano pochi istanti alla partenza ed io me ne stavo ancora con una gamba ancorata a terra e l’altra sul gradino. Non volevo andarmene.
Odiavo Port Angeles, detestavo tutte le persone che ci vivevano, anche se sapevo che questo era solo un riflesso di ciò che mi aveva trasformato nella cosa più simile ad un vegetale.
Amavo Port Townsend invece. Nessun brutto ricordo, nessun spiacevole evento.
Sollevai la pesante valigia e la depositai sul vagone. Non ci avevo messo dentro molte cose perché mia nonna mi aveva promesso che avrei potuto tornare da lei anche subito se non fossi riuscita a reintegrarmi con le persone della mia città. E considerando che reputavo questo cosa più che certa, avevo infilato in valigia solo un poco di intimo e qualche maglietta di ricambio.
“Agnes!!!” Mi chiamò ancora, un attimo prima che gli sportelli si chiusero. “La vita ti deve molto ma ricorda che se non sarai forte, continuerà a toglierti qualcosa”.
Le sorrisi, cacciando a fatica le lacrime in gola.
Già…la vita mi doveva molto. Mi doveva otto anni.
Poi il treno fischiò, i passeggeri si affacciarono ai finestrini per gli ultimi saluti, le porte si chiusero automaticamente in un boato e le persone a terra sollevarono le mani in segno di saluto. Posai la fronte sul vetro della porta e fissai il volto di mia nonna scomparire tra centinaia di volti, insieme ad ogni mia speranza.
Presi posto accanto al finestrino in uno scompartimento vuoto e aspettai rassegnata che il treno si allontanasse dalla stazione… portandomi lontana da quella che io ormai, consideravo la mia vera casa.
Erano già le cinque del pomeriggio ma faceva ancora indecentemente caldo. Sentivo le gocce di sudore imperlarmi la fronte e la mia maglietta era macchiata proprio sul davanti e sotto le ascelle. Cercai di portare l’attenzione sul libro di poesie che tenevo aperto sulle ginocchia, ma i miei occhi venivano attirati costantemente dal paesaggio esterno che sfrecciava accanto a me. Stavamo costeggiando un tratto dell’oceano quando sentii la porta dello scompartimento aprirsi.
“E’ libero?”
Diedi una rapida occhiata al ragazzo in divisa che stava in piedi davanti a me. Con entrambe le mani sorreggeva un borsone verde militare.
“Prego”. Risposi accennando un lieve sorriso di circostanza, per poi subito riportare l’attenzione al panorama. Avrei preferito restarmene da sola nello scompartimento, ma ebbi l’accortezza di non sbuffare quando quel ragazzo si voltò per sistemare il suo bagaglio nello scomparto sopra i sedili.
“Mi ricordi qualcuno”, disse, quando infine si sistemò di fronte a me.
Mi voltai pigramente verso di lui e dopo aver studiato il suo volto per non più di tre secondi, sollevai le spalle. “Come ha detto?”
“Oh…scusami. Forse era più educato se mi presentavo prima di…”
“Non ce n’è alcun bisogno”. Lo interruppi con foga. “Non ho alcuna intenzione di far conversazione con uno sconosciuto”.
Tossicchiò un paio di volte, imbarazzato, poi posò sulla testa il berretto della sua divisa militare, come volesse darsi importanza.
“Non era mia intenzione disturbarla. Mi scusi”. Passò educatamente al lei.
“Vorrei avere la certezza che questa sua intenzione non cambi durante il viaggio”, bofonchiai, voltandomi nuovamente verso il finestrino.
Con questa frase ero riuscita ad assicurarmi un tragitto silenzioso e tranquillo fino a destinazione.
Quando cominciai a riconoscere i vecchi palazzi della periferia di Port Angeles mi drizzai sulle punte dei piedi per togliere il mio bagaglio dagli appositi sostegni. Ero ancora intenta a sfilare la manica della mia giacca rimasta incastrata sotto la sacca da viaggio verde militare quando il treno frenò, facendomi finire proprio tra le braccia di quel soldato.
“Si è fatta male?”
“No…”, mi ritrassi disgustata, osservando la sua mano che non accennava a staccarsi dal mio avambraccio, “può lasciarmi ora”.
“Ha per caso qualcosa contro i militari?”, quando me lo chiese non mi stava guardando, perciò non riuscii a vederne l’espressione. Con mio grande orrore stava afferrando la sua borsa, segno che questa era anche la sua fermata. Dovevo liberarmene alla svelta.
“C’è l’ho solo con chi non capisce quando una persona non ha alcun interesse a fare conversazione”.
“Oh, ma io lo capisco benissimo”, riuscì a sorridermi nonostante tutto. Si fece da parte e con un gesto del braccio mi invitò ad uscire dallo scompartimento prima di lui.
C’era qualcosa di profondamente irritante nella bellezza del suo volto. Il suo sguardo era quello di chi è abituato a vincere e a prendere senza chiedere. L’unico suo pregio era la divisa che indossava e che in un modo o nell’altro mi rassicurava. Era come se fosse un’etichetta di presentazione: “sono un militare quindi non uccido la gente. O almeno, non i civili”.
Quando scesi dal treno notai che non c’erano molte persone in attesa ma solo qualche famigliola che si ricongiungeva probabilmente dopo le vacanze estive. Alcuni uomini in giacca e cravatta trascinavano il loro minuscolo bagaglio accanto alle rotaie, verso l’uscita. E fu proprio in quel punto che scorsi mia madre.
 
Le andai incontro lentamente, sforzandomi da lontano di intuire quello che stava provando a nascondere dietro un sorriso tirato. Quando anche lei mi vide si sbracciò per attirare la mia attenzione e le feci segno con la testa che l’avevo vista.
“Ti rivedrò?” Mi ero completamente dimenticata che quel ragazzo mi stava ancora camminando accanto. A quanto pareva, nessuno era venuto in stazione a prenderlo e per un momento ebbi l’assurda tentazione di offrirgli un passaggio sulla famigliare di mia madre.
“Port Angeles è molto piccola”, borbottai allontanandomi, poi aggiunsi sprezzante. “Purtroppo!”
“Al posto di “purtroppo” preferirei dire “per fortuna”!”
Gli lanciai un’occhiataccia che ignorò e che ricambiò con una strizzatina dell’occhio.
Appena raggiunsi mia madre sentii il cuore balzarmi nella bocca dello stomaco, il sangue cominciò a scorrere più veloce e a martellare nelle tempie. Da più vicino, il suo sorriso appariva ancora più falso, ma del resto ci avevo fatto l’abitudine perché era identico a quello che vedevo ogni volta che mi guardavo allo specchio. Una madre è una donna ferita a morte senza il suo bambino! Io ero lì, la stavo abbracciando, le baciavo la guancia, ricambiavo il suo sorriso con la stessa, identica falsa allegria, eppure la vera me stessa era scomparsa, sradicata per sempre alle sue origini. Di me era rimasto solo il nome, tutto il resto era morto e nessuno voleva piangerlo e ricordarlo.
Il destino può prendersi l’anima delle persone per un semplice sfizio personale e lasciare il corpo a marcire e confondersi tra la gente, in balìa di sentimenti che non gli appartengono più. Ma quando lo fa, non tiene mai in conto che quando una persona è dilaniata dal dolore, quest’ultimo si affaccia meccanicamente sulla vita di altri, marchiandola in modo definitivo e totale.
Osservai l’auto di mia padre posteggiata in seconda fila con le quattro frecce. Mi domandai se anche le auto avessero una certa loro “forza di volontà”, perché questa famigliare aveva resistito a così tanti anni da diventare quasi un oggetto di antiquariato. Vendendola non ci avremmo fatto nemmeno cento dollari, anzi era più probabile che avremmo dovuto offrire del denaro al folle che avesse in qualche modo dimostrato interesse per quel reperto preistorico. Va a capire del perché mia madre vi era tanto affezionata!
“Le ruote sono un po’ sgonfie”, le feci notare quando per imboccare la provinciale sentii il rottame sbandare sull’asfalto.
“Hai ragione”, rise di gusto, neanche ci fosse qualcosa di divertente nel finire fuori di strada. “Avrei dovuto cambiarle la settimana scorsa…”
“O dieci anni fa!”, polemizzai, parlando contemporaneamente a lei.
Mia madre finse di non avermi sentito e continuò: “Sai, c’è stato qualche problema dal carrozziere”.
Corrugai la fronte. ”Tipo?”
“Tipo…”, abbassò la voce e si sporse verso di me con fare cospiratorio, come se dentro la macchina avessero piazzato dei registratori. Tutta questa sua messinscena aveva l’aria di pettegolezzo. “Tipo che la figlia del signor Northon si è fatta mettere incinta da un forestiero e…”
“Chi è il Signor Northon?”
“Il carrozziere”, mi rispose come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
“Non c’è più il vecchio Hugh?”
“Oh no…”,  fece spallucce, svoltando nel nostro vialetto, “è morto due anni fa… o erano tre, ora non ricordo”.
Sollevai un sopracciglio disgustata. In questa maledetta città nessuno era mai riuscito a dare una priorità alle cose o alle notizie. Per loro era più emozionante parlare di chi si era fatto mettere incinta e da chi, piuttosto che ricordare una persona che si era sempre fatta in quattro per noi.
Scaricai il mio unico bagaglio e le portai in casa, al piano superiore. La mia camera non mi era affatto famigliare, eppure notai che mia madre non aveva cambiato niente. C’erano ancora le solite tendine verdi di pizzo alla finestra, le mie fotografie appiccicate con lo scotch all’anta dell’armadio, il grande tappeto macchiato sull’angolo, proprio sopra uno strano ghirigorio che avevo disegnato da piccola con l’evidenziatore perché avevo finito i fogli, la sedia in vimini dove la sera ci gettavo i vestiti. Era tutto troppo uguale a prima perché potesse piacermi. Mi faceva sentire a casa ed io non avevo ancora deciso di restare.
Per un po’ mi guardai attorno in cerca di particolari nuovi ed estranei, infine mi arresi e lasciai cadere la valigia sopra il copriletto di Bambi che mia madre non aveva tolto.
“Vuoi che ti aiuti a disfarla?”, mi chiese, in piedi accanto alla porta.
Non mi voltai verso di lei. Non ero dell’umore giusto per fare conversazione né per fingere che fossi contenta di stare lì. Ero invece al limite della sopportazione, in balìa di una vera e propria crisi di pianto.
“Posso fare da sola. Ho portato solo poche cose con me”.
Per un po’ calò il silenzio. Sentivo solo il mio cuore tamburellare mentre sistemavo alcune mie magliette nel primo cassetto del comò.
“Tuo padre sarà qui verso le sette”, mi informò impacciata. “Hai qualche preferenza per cena?”
“Va bene qualsiasi cosa”.
“Ok, allora” sospirò, “io vado. Se hai bisogno di qualcosa mi trovi in cucina”.
Annuii e continuai a svuotare le mie ultime cose fin quando non percepii più la sua presenza alle mie spalle. Allora mi sposati verso la scrivania, accesi il mio computer portatile, posai la fronte sul monitor e mi permisi finalmente di piangere.
 
Alle sette in punto sentii la macchina di mio padre entrare nel vialetto e contemporaneamente la voce di mia madre che mi urlò dalle scale: “E’ arrivato! Scendi Agnes!”
Avevo avuto tutto il tempo per farmi una doccia e rifarmi il trucco. Le punte dei capelli erano ancora umide, così le frizionai con un asciugamano e le attorcigliai in un elastico che avevo trovato miracolosamente in un cassetto della scrivania.
Scesi le scale lentamente per ritardare il mio primo faccia a faccia con mio padre. Non ero mai riuscita ad entrare in sintonia con lui ma cosa più importante non ero mai stata capace di perdonargli lo scarso interesse che aveva avuto riguardo il mio allontanamento da casa. Nessuna domanda, nessuna spiegazione. Da sempre sosteneva che i figli dovevano essere lasciati liberi di scegliere con la propria testa, ma era un ragionamento un po’ troppo menefreghista considerando che me ne ero andata di casa a soli tredici anni.
“Agnes!”, urlò mio padre, allargando le braccia quando scesi l’ultimo gradino.
Indossava una vecchia tuta da lavoro e aveva le mani sporche di grasso. Ma per il resto era sempre lo stesso, con poche rughe in più attorno agli occhi che probabilmente non bastavano a convincerlo ad assumersi le proprie responsabilità.
“Ciao”, lo salutai con un mezzo sorriso.
Il fatto che ero rimasta impalata, ignorando il suo invito ad abbracciarlo, lo spiazzò. Ma fu una cosa momentanea perché subito mi fece cenno di seguirlo in cucina. Quella mossa ci aiutò a scioglierci.
Ovviamente non sapeva del perché avevo insistito tanto per andarmene di casa e non sembrava così interessato da scoprirlo ora, tra una forchettata di patate e una di insalata.
Per un po’ mangiammo tutti e tre in silenzio, lanciandoci occhiate interrogative, ma ormai l’imbarazzo era svanito. Purtroppo, ci stavamo comportando come se non me ne fossi mai andata e questo mi fece tremare di paura. E proprio in quel momento mi resi conto che, qualunque cosa io avessi fatto, qualunque cosa mi fosse accaduta, niente sarebbe mai cambiato. Erano tutti molto abili a fingere che niente fosse differente a prima. Nessuno si accorgeva che dentro di me c’era un vulcano di rabbia pronto ad esplodere. O forse, nessuno voleva accorgersene. Molto meglio ignorare i problemi piuttosto che affrontarli.
Venni colta dall’impulso di salire di corsa le scale e rifare la valigia. Ma avevo promesso a mia nonna che ci avrei provato almeno per un giorno. Ed erano trascorse sole tre ore.
“Allora?”, attaccò mio padre. “Come è andato il viaggio?”
Finii di masticare. “Bene. Breve! Port Townsend è a meno di due ore da qua”.
“Hai lasciato molti amici lì?” Suonava quasi un terzo grado sebbene fossi certa che non lo fosse dal momento che le domande uscivano dalla bocca di mio padre.
“Qualcuno.”, alzai le spalle, conficcando i denti della forchetta in un pezzo di carne al sangue. Non avevo fame. Non ne avevo per niente. “Ho legato molto con una ragazza, Sarah. Frequentavamo la stessa classe.”
Mia madre mi tolse il piatto e lo sostituì con una coppetta di macedonia. “Andrai a trovarla?”
“Verrà lei questo week-end”.
“Hai lasciato degli amici anche qui”, mi fece notare. Non sembrava molto soddisfatta della mia risposta.
“Non si ricorderanno nemmeno di me”.
“Già!” Sospirò, poi si voltò verso il frigorifero per riporre la macedonia. “Sei stata via così tanto. E sei cambiata molto”.
“A quanto pare il mio aspetto è l’unica cosa che è cambiata”, mormorai talmente basso che non mi sentirono.
“Dovresti provare a chiamarli. Stephen fino a qualche mese fa mi chiedeva di te, ora lavora al supermercato con sua madre, gli da una mano.” Annuii giusto per farla contenta. L’ultima cosa che desideravo era riagganciare le mie vecchie amicizie e riprendere la mia vita come se non fosse successo nulla.
“Potrei uscire questa sera e vedere se li trovo al pub”, proposi. Non volevo chiedere il permesso perché era scontato che poi si sarebbe creato un precedente.
“Sei appena arrivata”, fu il semplice commento di mia madre. Teneva gli occhi fissi sulla sua coppetta di macedonia, ruotando le spalle in un modo che mi fece capire che era sui carboni ardenti.
Mio padre non sembrava pensarla allo stesso modo. “Vuoi che ti accompagni?”
“No!”, cercai di nascondere il mio orrore tossicchiando e deviando il suo sguardo. “E’ a soli due passi”.
“D’accordo”.
“Grazie”, gli sorrisi.
“A che ora pensi di tornare?”
“Non farò tardi.”, guardai verso mia madre e mi sentii quasi in dovere di aggiungere: “Ma se preferite che resti…”
“No, no. Vai pure. Sarai ansiosa di rivederli dopo tanto tempo”, gli occhi di mia madre finalmente si alzarono dalla coppetta di macedonia. Una strana luce li riempiva.
“Non ho intenzione di salire sul primo treno che passa”, la rassicurai cauta.
Mi inviò un sorriso calmo. “Lo so”. Per un momento però i suoi occhi indugiarono nei miei, come a cercarne la conferma.
Terminato di sparecchiare mio padre mi ricordò che il giorno dopo avevano organizzato una specie di festicciola di benvenuto a casa nostra, poi mi augurò una buona serata e mi lasciò cadere nel palmo della mano le chiavi della sua macchina, in un momento che mia madre non stava guardando nella nostra direzione.
“Guida piano”, si raccomandò.
Non mi aveva mai vista guidare perciò apprezzai quel suo gesto.
 
Arrivare al centro di quella città non fu difficile, sebbene avessero cambiato qualche indicazione stradale e avessero costruito una decina di incroci in più. Qui a Port Angeles bastavano pochi minuti per raggiungere un punto dall’altro senza nemmeno servirsi dell’autostrada. Ogni posto che vedevo mi risvegliava ricordi piacevoli e meno, tuttavia non mi facevano sentire benvenuta. Mi sentivo un’estranea, una specie di forestiera di passaggio che aveva scelto di fare tappa in quel posto per riprendere il viaggio la mattina dopo. Riconobbi le luci del centro e il piccolo parco dove la sera mi incontravo con Susan, la mia vecchia migliore amica.
Per raggiungere il pub avrei dovuto svoltare a destra ma all’ultimo sterzai il volante e feci un’inversione di marcia. Le ruote anteriori sobbalzarono sul bordo del marciapiede e fecero perdere stabilità all’auto. Mi ci vollero una decina di secondi per raddrizzare l’auto e rimettermi in carreggiata. Ripresi a respirare con calma e accessi l’autoradio, sintonizzandola su una stazione che trasmetteva gli ultimi successi. Di lì a poco avrei raggiunto la mia vecchia scuola. Il respirò tornò a farsi rauco e istintivamente sollevai di poco il piede dall’acceleratore.
Fuori tutto era buio e immobile. I bagliori argentati della luna gettavano ombre nei cortili delle case e terminavano esattamente ai piedi di un grosso cancello grigio. Era assurdo come la mia mente fosse riuscita a ricordare praticamente ogni cosa tranne quel vecchio edificio. Se non fosse stato per il cartello che indicava la “Port Angeles High School” avrei continuato a proseguire lungo la strada.
Dopo aver parcheggiato lungo il marciapiede, fui costretta a restare seduta all’interno dell’abitacolo almeno dieci minuti per ricordare il motivo che mi aveva spinta proprio lì. Era la prova più grande che avessi dovuto affrontare. Superata questa, potevo forse cominciare a prendere in considerazione l’idea di restare a Port angeles per qualche giorno.
A peggiorare le cose c’era la strada deserta, le finestre spente delle case vicine, il silenzio quasi assordante che faceva sembrare quel posto il mio peggiore incubo.
Chiusi lo sportello e mi guardai intorno nella speranza di scorgere da lontano qualche passante. Ma ero sola, mi resi conto con una fitta nello stomaco.
Deglutii un paio di volte, ripetendomi fino allo sfinimento “ce la potevo fare”, infine, un passo dopo l’altro, attraversai la strada desolata. Più mi avvicinavo, più aumentava la sensazione di disagio. Il respiro aumentò al ritmo dei battiti del cuore, aprendo impietoso lo squarcio che avevo nel petto. Stavo quasi per tornare indietro, ma volevo mettere alla prova il mio coraggio. Sapevo di non essere più la bambina di tredici anni.
Raggiunto il cancello, afferrai le grate con entrambe le mani e guardai dentro. Al buio faticai a riconoscere i luoghi, le panchine lungo il viale asfaltato che portava all’ingresso, le scale d’emergenza sulla facciata ovest, le finestre bianche delle aule. Ovviamente non c’era nessuno, nient’altro che ricordi che avrei potuto rievocare anche se mi fossi trovata dall’ altra parte del Mondo. Assieme alla consapevolezza di essere giunta alla metà, mi travolse un’ondata di dolore che mi fece scivolare a terra, sulle ginocchia. Improvvisamente fui lieta del fatto che non ci fosse nessuno a guardarmi. Se qualcuno mi avesse vista in quelle condizioni, mi sarei trovata costretta a dare una spiegazione che la mia coscienza si rifiutava di affrontare. Come potevo spiegare a qualcuno che stavo raggomitolata a terra perché mi stavo sbriciolando? Quel luogo deserto scatenava in me un dolore troppo grande da sopportare, per questo quando ordinai a me stessa di rialzarmi, non ci riuscii.
Indietreggiai sull’asfalto strisciando sulle ginocchia, cadendo con la faccia a terra, sollevandomi di poco puntando i polsi sull’asfalto, scorticandomi le mani, imprecando tra i denti. Perché non ero riuscita a superare la prova: avevo ancora la stessa identica paura!

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Capitolo 2
*** IRRICONOSCIBILE ***


Mi risvegliai per il caldo torrido alle prime luci del giorno. La mia canotta era completamente fradicia, tenevo un braccio sopra gli occhi per proteggerli da un fascio di luce che filtrava dalle persiane semiaperte, una ciocca di capelli mi si era appiccicata alla guancia. La scostai e mi rigirai sul fianco, sperando di riaddormentarmi. Ma l’afa ristagnava nella piccola camera e qualcosa, un pensiero simile ad un sogno, si faceva largo nella mia coscienza, spronandomi a ricordarlo.
“La festa!”, mi ricordai all’improvviso, saltando su d’istinto e scattando verso la porta.
Sentivo le voci di mio padre e mia madre ma non riuscivo a captare una sola parola di quello che si stavano dicendo. Eppure avevo la sensazione più che certa che stessero parlando di me per il semplice fatto che il tono della loro voce era circospetto.
Ignorai la mia curiosità e sgattaiolai in bagno col beauty case. Non avevo avuto ancora il tempo di svuotarlo, anche se ad essere sinceri non l’avevo fatto di proposito. Se non disfacevo tutti i bagagli mi sembrava di avere ancora una possibilità per scappare.
Il volto riflesso allo specchio era quello di un’estranea: non riuscivo più a riconoscermi, non riuscivo nemmeno più a decifrare le mie emozioni.
Mio padre uscì prima che io scendessi al piano di sotto a fare colazione e trovai solo mia madre intenta a padellare. Divorai una manciata di cereali e bevvi il latte direttamente dal cartone mentre organizzavo la mia giornata. Se avessi deciso di restare, cosa poco probabile, mi sarei dovuta trovare un lavoretto anche part-time per non pesare sulle spalle dei miei genitori. Consideravo frustrante l’idea di chiedere loro qualche spicciolo di dollaro ogni volta che avessi voluto uscire di casa.
Ma per il momento il mio unico impegno era quello di fare la spesa e tornare a casa il prima possibile per aiutare a preparare le tartine e i piatti freddi per la festa in mio onore. Era un programma semplice eppure ero eccitata all’idea di andare al supermercato, e la cosa mi spaventava.
Inutile stare a raccontarmi storie, ero in agitazione perché sapevo che al supermercato avrei incontrato Stephen. E ciò andava contro alla mia idea estenuante di non volermi trattenere a lungo a Port Angeles.
Dopo tutte le mie insistenze per non restare e il mio stupido giochetto di non disfare del tutto i bagagli, questa mia impazienza di rivedere un mio vecchio amico era del tutto immotivata e contraddittoria. Dei legami avrebbero solo messo in discussione ogni mio proposito ed era l’ultima cosa di cui avevo bisogno.
Chiusi il giornale degli annunci del lavoro e lo abbandonai sul mobile della cucina.
Avevo promesso alla nonna di averci provato almeno un giorno, e lo avevo fatto. Erano trascorse ventiquattro ore e l’unico motivo per cui presi la strada che portava al supermercato anziché alla stazione, era la festa organizzata appositamente per me. Non tolleravo l’idea di deludere o offendere i miei genitori, perciò sarei rimasta un’altra notte. Una soltanto! Non era un sacrificio così enorme dopo tutto.
Feci rotta senza indugio verso il mini-market, a qualche isolato più all’interno rispetto alla via principale, pittoresca e colorata, dedicata ai turisti. Essendo inizio estate non ce ne erano ancora molti, ma ogni tanto si incontrava qualche famiglia con la macchina fotografica che marciava verso il molo, al centro della baia.
Effettivamente Port Angeles era molto curata e caratteristica dal punto di vista di un turista, ma per chi ci doveva abitare era una trappola mortale.
Davanti alla porta del mini-market c’erano delle cassette in legno piene di frutta che formavano una specie di percorso obbligato che si doveva percorrere per entrare. Scostai la tenda a corde appesa al telaio della porta e schivai all’ultimo una girandola caduta dallo scaffale. Una rapida occhiata mi bastò per capire che era più sfornito di quanto mi fossi aspettata.
Comunque non dovevo acquistare molte cose; tolsi dalla tasca dei jeans la lista della spesa e mi avvicinai verso il banco del pane. Non impiegai molto a fare il giro di quei dieci scaffali impolverati, dove la merce era sistemata così in alto che dovevo saltellare per afferrare ciò che mi serviva.
Adocchiai il barattolo dello zucchero proprio di fronte a me, tra le buste di arachidi e quelle di farina per dolci. Mi rizzai sulle punte dei piedi e quasi mi slogai un braccio per afferrarlo senza far cadere a terra tutti gli altri prodotti.
“Serve una mano?”
Ci rinunciai e ricaddi sui talloni.
“Per fare la spesa qui bisognerebbe portarsi la scala da casa”, grugnii, accorgendomi troppo tardi che a parlare era stato proprio un commesso.
Aveva i capelli biondi che gli si attorcigliavano attorno le orecchie, la pelle troppo abbronzata per credere fosse solo merito del sole. I muscoli erano messi in evidenza da una canottiera blu con le maniche strappate all’altezza dei bicipiti e il logo del negozio stampato sul davanti. Aveva un look fintamente trasandato, di quelli che obbligano quasi tutte le ragazze a voltarsi per ammirarlo. Deglutii, sforzandomi di rimediare.
“Cioè… dovrebbe portarsela chi è sotto il metro e settanta….”, tentai di rimediare, ma la voce mi scemò mentre parlavo.
“Lo dico sempre anch’io!”, rise, passandosi una mano tra i capelli già scompigliati. Alcune ciocche gli ricaddero sulla fronte, proprio accanto agli occhi di un azzurro intenso. Aveva tutta l’aria del tipico ragazzo che faceva colpo al primo sguardo e che era consapevole di questo. Gli guardai gli occhi ancora una volta. Erano pieni di attenzione. Troppa per i miei gusti!
“Se lo dici sempre perché non fate gli scaffali un po’ più bassi?”, gli feci notare, afferrando il barattolo di zucchero che mi stava porgendo.
Piegò le labbra in una smorfia divertita. “E’ un buon metodo per aiutare e conoscere le ragazze di passaggio”. Decisamente troppe attenzioni. “Sei qui in vacanza? Io sono Stephen.”
“Allora puoi smettere di provarci con me”, sussultai sul posto, sgranando gli occhi contro quelli incuriositi di lui. Perciò non ero l’unica ad essere cambiata tanto da diventare irriconoscibile?! “Se sei Stephen puoi smettere subito”, aggiunsi impacciata.
Posò un gomito sul bordo dello scaffale e portò una gamba davanti all’altra, come volesse incrociarle. Tipica posizione da macho, pensai.
“Perché? Ti hanno per caso detto…”
Gli diedi una leggera spinta, facendogli perdere l’equilibrio, già precario per la posizione.
“Perché sono Agnes”, mormorai.
“Tu…?”, aggrottò la fronte, squadrandomi da capo a piedi con una lentezza quasi sfrontata. Quando percepii il suo sguardo immobile sul mio petto gli diedi un’altra spinta, questa volte più forte.
“Oh cazzo!”, sussurrò, appena fece scivolare lo sguardo sul mio volto.
Abbozzai. “Sembra che hai appena visto un fantasma”.
Lui annuii, completamente imbambolato. Le labbra socchiuse. “E che cazzo di fantasma!”.
Accanto a noi passò una vecchia che si ritrasse in fretta e furia, sgattaiolando in un corridoio.
Mi guardai attorno furtiva. “Potresti dire una frase senza includere la parola cazzo?”, bisbigliai l’ultima parola per non farmi sentire da alcune clienti in coda alla cassa.
Non sembrò nemmeno far caso a questa mia protesta. Aprì la bocca per dire qualcosa ma subito ci ripensò e la richiuse, facendomi gesto con la mano di aspettarlo per un momento. Lo osservai sciogliersi il grembiule mentre a enormi falcate raggiunse il piccolo magazzino alle sue spalle e infilò la testa nella porta socchiusa.
“Mamma! Vado a prendermi un caffè.”
Da dietro la porta sentii rispondere una voce famigliare. “Ricorda che ci vogliono dieci minuti per un caffè, Stephen. Non tre ore come l’ultima volta!”.
Lui si voltò verso di me sollevando gli occhi al cielo e mimando “bla bla bla” con le labbra.
Per quanto il suo fisico fosse cambiato, notai con nostalgia che aveva conservato le espressioni di un tempo. Stephen era sempre stato allergico agli orari e alle regole, diventando in pochi anni la pecora nera tra gli studenti della Port Angeles High School, e facendo precipitare anche me in quell’abisso di punizioni e insufficienze perenni, per il semplice fatto che gli ero amica e per forze di cose dovevo somigliargli.
Mi precedette uscendo dal negozio e spostò con le scarpe alcune ceste di legno per far prima.
Il bar, grazie a Dio, era proprio dall’altra parte della strada e cominciavo ad avere un estremo bisogno del caffè  che a casa non avevo preso.
“Allora, racconta! Quando sei tornata?”, mi chiese una volta che c’eravamo sistemati sugli sgabelli di fronte al bancone.
“Ieri pomeriggio, col treno delle cinque”.
“E perché cazz… cavolo non sei venuta al pub?”
Afferrai la tazza enorme di caffè e aspirai il vapore. “Mi sgridi ancora prima di chiedermi come sto?”
“Che stai di merda è abbastanza evidente. Non c’è bisogno di fare domande idiote.”
Incassai il colpo senza battere ciglio. Ero abbastanza fortunata che non volesse indagare senza dargli il pretesto per farlo. Non volevo assolutamente dimostrargli quanto mi avesse sorpreso il suo intuito.
“Ieri sera avevo alcune cose da fare”, sorseggiai il caffè, ustionandomi la lingua. “Porca miseria!”
Stephen scoppiò a ridere. Mi piaceva la sua risata. “Se ti aspettavi grossi cambiamenti in questa città, rimarrai delusa. Mini-market sforniti e…”, avvicinò le labbra al mio orecchio, “…caffè disgustosi come sempre”.
Osservai il liquido nero che facevo ondeggiare muovendo la tazza, nella vana speranza che si raffreddasse più in fretta.
“Tu sei cambiato!”, buttai lì con finta indifferenza.
“In alcune cose, sì”, diventò serio, ma non mi guardò. Tenne lo sguardo fisso davanti a se, seguendo i movimenti del barista. “Mentre tu sei cambiata completamente”.
“Come fai a dirlo?”
“Non ti ho vista ancora sorridere”, mormorò, come se si trattasse di un segreto di vitale importanza.
Cominciava a stranirmi il fatto che ci parlassimo senza guardarci in faccia: io continuavo a fissare il vapore che saliva dal caffè, Stephen teneva lo sguardo dritto di fronte a sé. All’apparenza potevamo sembrare imbarazzati, ma sentivo che non era così. Stephen stava cercando in qualche modo di non essere invadente e fissandomi negli occhi mi avrebbe obbligata a fingere un’allegria che non aveva alcun diritto di pretendere. Perciò questo distacco voluto e calcolato ci aiutava ad entrare in confidenza e a dire cose che altrimenti avremmo tenuto per noi stessi. Lo apprezzai.
“Quanti giorni ti fermerai?”, mi chiese.
“A dire la verità non sarei proprio di passaggio”, risposi titubante, non sapendo bene quale verità dirgli. Ma appena vidi un lampo di luce passargli nello sguardo mi affrettai ad aggiungere: “Ma non ho ancora deciso nulla”.
Rimase in silenzio per un po’, finendo di bere il suo caffè.
“Non ho disfatto la valigia”, precisai.
Annuì, sempre in silenzio senza sentire il bisogno di aggiungere altro.
“Non ti sei poi iscritto al college?”, cambiai argomento.
“Naaa!”, scrollò le spalle e finalmente mi guardò di sottecchi, tenendo le labbra piegate in un sorriso sghembo. “Mi conosci, preferisco imboccare le scorciatoie.”
“Farai carriera al negozio di tua madre, quindi!”
Fece spallucce. “La paga è buona e gli orari li stabilisco io. Conosci qualcuno più fortunato di me?”
“Tua sorella invece?”
“Preso il diploma continuerà a studiare”. Sembrava più un ordine che una scelta. “Ci manca solo che si metta a lavorare a diciott’anni”.
“Tu l’hai fatto”.
“Io sono un altro paio di maniche. Per la mia sorellina voglio il meglio”.
A quel punto ci stavamo guardando, decisamente più rilassati ora che il ghiaccio iniziale era stato spezzato. Nel frattempo avevo girato lo sgabello in modo da trovarmi di fronte a lui, le nostre ginocchia si sfioravano ma non ci feci quasi caso. Quella solitamente era la classica situazione che mi portava a tirare fuori il peggio di me. Invece con Stephen non mi infastidiva. Mi accorsi che mi stavo divertendo più di quanto avessi mai potuto pensare, malgrado una parte di me, la più grande, restava ostinatamente ancorata alle mie intenzioni originali che non erano affatto cambiate dopo un paio di risate.
Non volevo tornare ad essere la Agnes di un tempo e con Stephen vicino cominciava ad essere difficile accantonare quel senso di benessere che da tempo non provavo. Non potevo permettermi di stare bene, perché avrebbe significato arrendermi per la seconda volta in meno di ventiquattro ore.
Non potevo assolutamente.
Guardai di sfuggita il mio orologio. Erano passati ben più di dieci minuti. Ed era scaduto il tempo che avevo giurato di dedicargli.
Bevvi tutto d’un fiato il caffè rimasto e appena allungai una banconota sul bancone, le sue dita mi bloccarono per il polso. Percepii la sua forza, mille e mille volte superiore alla mia. La potevo sentire in ogni suo polpastrello mentre premevano la mia carne, uno ad uno. Entrava sotto pelle, attraversava ogni tendine fino a raggiungere l’osso come una gelida coltellata.
Con uno scatto ritirai la mano, la nascosi dietro la schiena e balzai giù dallo sgabello. Sentivo il sangue riempirmi gli occhi mentre la rabbia montava fino a farmi tremare le labbra.
“Ehi… ehi!”, sollevò entrambe le braccia in segno di resa. “Mi dispiace, ok?”
Scrollai la testa. “No, scusa tu”, però continuai a retrocedere di qualche passo.
“Volevo offrirti il caffè. Mi sembra il minimo visto e considerato che ti ho invitato io”, si giustificò. Sembrava davvero dispiaciuto, ma probabilmente non sapeva nemmeno di cosa. Apprezzai anche questo.
Apprezzai che mi accompagnò fino alla macchina, nonostante la sua pausa caffè fosse terminata da un pezzo.
Apprezzai che non mi chiese spiegazioni per la mia reazione.
Ma la cosa che più di tutte apprezzai è che non tentò in nessun modo di baciarmi sulle guance o abbracciarmi al momento dei saluti.
Me ne stavo con una gamba infilata all’interno dell’abitacolo, sorreggendomi allo sportello aperto. “E’ stato bello rivederti!”. E non stavo mentendo affatto.
“Già!”, si passò la mano tra i capelli, come l’avevo visto fare prima in negozio. A forza di fare così si sarebbe tolto tutto il gel.
Improvvisamente il suo sguardo mutò, divenendo da tranquillo ad eccitato.
“Ho intenzione di organizzare una festa al pub per darti il benvenuto la prossima settimana.”, dal tono capii che era orgoglioso della sua proposta.
Scossi la testa prima ancora che terminasse la frase. “No! No…”, scossi ancora la testa, posandogli la mano sul petto. “… no!”
“Perché no?”, si strinse nelle spalle. “Se hai intenzione di non restare tanto vale che ci vediamo tutti insieme come i vecchi tempi”.
“No!”, riuscii a dire. Cominciavo ad essere a corto di fiato. Non era la festa in sé a preoccuparmi, quanto la DATA. Lasciargliela organizzare avrebbe significato una cosa sola: un’altra settimana qui a Port Angeles. Ed era molto più di quanto i miei nervi avrebbero  potuto sopportare. A causa di una festa in mio onore avevo già dovuto rinviare la mia partenza di un giorno e non avevo alcuna intenzione di permettere a qualcuno, chiunque fosse, di ostacolare i miei progetti.
“Ti ringrazio ma non me la sento di festeggiare”, buttai lì la prima scusa che mi venne in mente.
Feci per chiudere la portiera ma Stephen con un movimento fluido e veloce della spalla la bloccò in tempo.
“E da quando in qua?”, mi chiese.
O almeno era quello che mi sembrava di aver sentito. Ero ancora troppo occupata a calcolare mentalmente la sua forza. Aveva bloccato la portiera senza dover nemmeno muovere un dito. Ed io non ero riuscita ad evitare che lo facesse, segno evidente che in tutti questi anni non avevo acquistato prontezza di riflessi e forza, come invece avevo stupidamente creduto. Con un colpo allo stomaco realizzai di quanta differenza c’era tra il mio fisico e il suo. Lui era forte, io no. Mi ero allenata per anni senza riuscire ad avvicinarmi neanche lontanamente alla forza di un uomo. Ero spacciata!
Avevo ancora gli occhi spalancati sulla portiera aperta quando gli chiesi: “Come hai fatto?”
Corrugò la fronte, spiazzato. “Fatto cosa, Agnes?”
Posai un dito sul finestrino.
“Quel movimento di spalla”. Ripresi fiato. “Hai bloccato la portiera con la spalla ma ti sei mosso così velocemente che non ho visto…”
“Agnes?”, mi chiamò. Aveva rilassato i muscoli del volto, non abbastanza comunque da apparire tranquillo.
Lo guardai.
“Vuoi che ti accompagni fino a casa?”, chiese.
Era l’ultima domanda che mi sarei aspettata. Continuai a guardarlo in silenzio per una manciata di secondi, permettendo così alla mia mente di riprendere il controllo.
“Mi credi pazza?”, suonava quasi un’accusa.
“No!”. Fece una smorfia. “Ti credo abbastanza spaventata da aver bisogno di un passaggio”.
Mi morsi il labbro non sapendo in che modo obiettare e sgattaiolai sul sedile del passeggero, facendo attenzione a non rimanere incastrata nel freno a mano. In un attimo Stephen azionò il motore e fece retromarcia.
“Mettiti la cintura”, mi ordinò mentre raddrizzava la macchina, puntando verso il molo.
 Senza volerlo realmente scambiai l’ordine per una minaccia e mi ritrovai avvinghiata al sedile, con la mano stretta sulla maniglia della portiera. Sarei stata abbastanza coraggiosa da gettarmi dalla macchina in corsa se fosse stato necessario e la cintura mi avrebbe solo rallentato i movimenti.
“E’ così evidente?”, chiesi, sorpresa che la mia voce uscii pacata.
“Sì!”, fu la sua unica risposta. Aveva capito al volo a ciò che mi stavo riferendo. Era evidente che avevo paura di lui. Ma a questo punto non capivo più se era furioso, pensieroso o entrambe le cose.
“Tu come fai?”
Fece un breve respiro.
“A fare cosa?”. Continuava a guardare fuori dal parabrezza, ma la rabbia era evidente sul suo volto. Dalla mia posizione vedevo la sua mascella tremare, le dita strette sul volante. Non riuscivo a decifrare ciò che stava provando né il perché.
“A nascondere la paura quando la provi. A non far capire che sei spaventato”.
Con uno scatto della testa mi lanciò un’occhiata veloce, per poi tornare a concentrarsi sulla strada. I suoi occhi erano ridotti a due piccole fessure e ogni suo gesto portava a supporre che stesse facendo un grosso sforzo per tenere a bada la furia.
“Mi arrabbio!”
“Davvero?”
“Sì! Quando qualcuno mi spaventa, trasformo la paura in rabbia”. Gettò fuori l’aria molto lentamente. Altro tentativo di calmarsi. “E il più delle volte va a finire che è l’altro cagarsi addosso”.
“Rabbia”, ripetei tra me e me.
“Perlomeno”, riprese, “a me sembra funzionare”.
Per il resto del breve tragitto che ci separava da casa mia restai in silenzio, osservandolo mentre guidava senza staccare gli occhi dalla strada. Infine arrestò l’auto proprio dentro il mio vialetto, accanto a quella di mia madre, tolse le chiavi dal quadro e me le consegnò, senza mai guardarmi nemmeno per sbaglio.
“Organizzerò quella festa!”, ci riprovò.
“Stephen!”, sospirai, scendendo.
Stavamo camminando verso l’ingresso, io gli stavo dietro di mezzo metro, cercando inutilmente di reggere il passo.
“Agnes!”, sbraitò, facendomi fare un salto indietro. La sua espressione era talmente rabbiosa da ricordarmi quella di un assassino. Avevo la strada bloccata, notai, con lui davanti alla porta.
“Voglio che ti distrai, ok? E porca puttana voglio vedere di nuovo il tuo vecchio sorriso. Quindi ora…”
“D’accordo”, mi arresi. Metabolizzai con qualche secondo di ritardo ciò che significava per me quella concessione. Ma il danno orami era fatto, non potevo più tornare indietro. Un’alta settimana, altri sette maledettissimi giorni! Digrignai i denti per la frustrazione.
“Faremo quella festa”, mugugnai. E il suo sguardo da feroce killer svanì di colpo.
“Hai sempre lo stesso numero di telefono?”
“Sì. Ti do anche quello del telefonino”.
Annuì e mi porse il suo cellulare. Digitai automaticamente i numeri sulla tastiera, poi glielo resi nel preciso istante che aprì bocca.
“Che devo dire agli altri?”.
“Non lo so…”, scrollai le spalle, lieta di vederlo farsi da parte creando un varco tra me e la porta. Il pericolo era passato. “Potresti dire che… non lo so”.
Mi fissò incerto. “Vuoi che sia una sorpresa?”
“Non lo so”.
Cominciavo a sentirmi stupida. Misi sottosopra il cervello cercando una risposta meno demenziale, ma non ci riuscii subito.
“Allora”, attaccò titubante, pronunciando lentamente ogni singola parola, “potresti dirmi cosa non devo dire”.
Abbassai lo sguardo sulle punte dei piedi e retrocessi fino a sbattere con la schiena sulla porta.
“Non dire che sono tornata”, mormorai.
Allargò le braccia, in netto disaccordo. “Non vuoi che lo sappiano? Sono tuoi amici.”
“Lo so, Stephen. Non voglio nascondere affatto la mia presenza qui a Port Angeles”.
“Ma?”.
Parlai ancora più basso. “Ma non voglio che credano sia tornata”.
“Vuoi abbandonarci una seconda volta?”, c’era quasi risentimento nella sua voce, ma lo ignorai.
Guardai di lato. “Non voglio avere ripensamenti quando questo accadrà”.
Aprii la porta e sgattaiolai dentro, libera finalmente dal suo sguardo interrogativo. Ricordai di non averlo nemmeno ringraziato per il passaggio quando ormai stavano per arrivare gli invitati.
Avevo quasi terminato di spalmare il burro d’arachidi sulle tartine, mia madre si occupava del punch e dei vassoi di tacchino tonnato mentre mio padre aveva portato una decina di bottiglie di vino che aveva personalmente lasciato invecchiare per dieci anni in cantina. Non avevo pensato di portare da Port Townsend qualche vestito elegante perciò avevo optato per una camicia bianca e dei pantaloni neri. Avrei dovuto assolutamente fare un salto ai grandi magazzini in previsione della festa organizzata da Stephen. Maledizione a quella dannata festa!
Lanciai il coltello sporco dentro il lavandino, imprecando tra i denti, poi finii di sistemare i piatti sul tavolo imbandito, sufficientemente colmo di ogni ben di Dio da poter sfamare mezza Port Angeles.
Se non avessi fatto quella promessa alla nonna a quest’ora sarei su un treno anziché nel mio soggiorno, marciando verso la porta per aprire al primo invitato e sfoderando un sorriso talmente glaciale da somigliare a tutto, tranne che ad un invito ad entrare.
“La mia piccola Agnes!”. Mia zia, la sorella di mio padre, se ne stava sotto la luce del portico, dimenando le braccia per farsi abbracciare in un modo che mi portava a sospettare che non ricordasse la mia età.
Ricambiai l’abbraccio fingendo magistralmente di essere contenta.
A parte il fatto che la cosa più saggia da fare fosse quella di partire senza dire niente a nessuno, c'era una piccola parte della mia coscienza, fastidiosa e insistente, che mi obbligava a sorridere a tutti gli invitati che arrivavano uno dopo l’altro, curiosi di vedere quanto il tempo mi avesse cambiata.
Nessuno era interessato a ciò che sentivo o a quello che provavo, avrei potuto scoppiare a piangere e nessuno se ne sarebbe accorto ma avrebbero continuato a dire: “Ma quanto ti sei fatta alta!”
Ricordai a me stessa di non essere in trappola mentre ricambiavo sorrisi, scambiavo convenevoli, offrivo le tartine che avevo preparato poco prima. E’ vero, la mia partenza per forze maggiori era stata rinviata di una settimana, ma a quel punto non era più nemmeno quello a pesarmi; era il vedere che la mia famiglia, le persone che in linea teorica avrebbero dovuto essere particolarmente interessate a me, erano invece totalmente indifferenti. Stephen invece, con una semplice occhiata, era riuscito a scavare più a fondo di quanto non fossi riuscita a fare io stessa in questi ultimi otto anni.
L’ultima persona che arrivò fu mia cugina Tiffany, di due anni più grande di me. La vidi attraversare la stanza, sgomitando tra gli altri parenti, sedere in fuori, naso in su, muovendo impercettibile la testa quasi avesse timore di disfarsi l’acconciatura.
“Agnes!”, accostò la guancia alla mia, baciando l’aria. “Ti trovo benissimo”.
“Grazie!”, risposi cordiale. Se avessi dato credito a tutti i complimenti che mi erano stati fatti quel giorno, avrei cominciato a sospettare che il mio futuro fosse sulla passerella di qualche importante sfilata. Non ero talmente idiota da non sapere che i commenti sull’aspetto fisico erano una modalità puramente convenzionale, ma cominciai ad avvertire un certo senso di fastidio nel riceverli perché erano la sacrosanta conferma che tutta questa marmaglia di gente che non mi vedeva da una decina d’anni era venuta fin qui, disdicendo impegni e appuntamenti, col semplice scopo di ripulire il mio frigorifero.
Guardai attentamente ogni volto presente, le labbra che si aprivano e si chiudevano riversando frasi alle quali non riuscivo ad agganciarmi a causa della mia assenza, gli occhi velati di noia che di tanto in tanto mi cercavano, giusto per educazione, le scale che portavano al piano di sopra. Per un momento pensai l’impensabile: potevo approfittare della confusione per sgattaiolare in camera, tirare fuori da sotto il letto la mia valigia, scendere, percorrere la strada verso la stazione….
Gettai in gola un intero bicchiere di vino rosso che mi fece accapponare la pelle. Dovevo darmi una calmata! Dovevo trovare un compromesso tra il mio desiderio di andarmene il più lontano possibile e quello di stare con la mia famiglia, con mamma e papà. L’unico lato positivo di questa situazione era che, essendo completamente orrenda, non poteva che migliorare. Peggio di così era impossibile. Questo pensiero m’infuse un po’ di coraggio, quel tanto che bastò da aiutarmi a stiracchiare l’angolo delle labbra in un mezzo sorriso e fingermi interessata a ciò che stava raccontando mia zia Rosy.
“Vi sto dicendo la verità!”, disse tra una risata e l’altra. “L’ho vista uscire dalla parrucchiera con ancora tutti i bigodini in testa. Quella donna è esaurita e non ha nemmeno trent’anni, forse…”
“Di chi state parlando?”, m’intromisi. Non che mi importasse, ma era sempre meglio di continuare a fare conversazione con quella parte della mia coscienza che tentavo di distruggere da un paio di ore. Esattamente da quando avevo capito che non sarebbe stato facile per me andarmene senza per forza di cose far soffrire qualcuno. Di nuovo.
“Di Miss Crodwell”, mi rispose.
Stava ancora ridendo. Le guancie le erano diventate di un rosso preoccupante. Controllai il bicchiere che aveva in mano e mi accorsi che era rimasto solo un goccio di whisky. Eppure ricordavo di non aver mai visto mia zia bere neanche un goccio di redbull.
“E chi sarebbe?”
Allargò le braccia, sorpresa. “Ma dai! E’ quella pazza che ha comprato l’appartamento del signor Hugh”, non vedendo alcun cambiamento nella mia espressione mi fornì qualche ulteriore dettaglio, parlando più lentamente e facendo pian piano scomparire il sorriso dalle sue labbra. “Quella che ha quella specie di pincher che chiama cane e che le scappa sempre.”
Intervenne anche mia cugina. “La pazza che lo scorso Natale voleva fare un panettone gigante e venderlo in una bancarella fuori dalla chiesa…”, ispezionò il mio viso prima di scambiarsi una veloce occhiata con mia zia. “…Ma tu non puoi saperlo ovviamente”, riprese impacciata, convinta di aver fatto un’enorme gaffe. “Te ne sei andata senza tante cerimonie e senza salutare nessuno”.
“Ehi”, m’infervorai. “Ehi, diamoci una calmata, ok?”.
Dentro di me si stava svolgendo una vera e propria lotta per tenere a bada il carattere che avevo cercato di tenere nascosto a tutti in questi ultimi due giorni. Mi ero comportata come se la Agnes di un tempo, mite e remissiva, non fosse mai scomparsa, sapendo comunque che sarebbe bastato il minimo pretesto per far emergere il lato più terribile di me stessa, quello che esercitavo ormai da molti anni e che avevo perfezionato talmente bene da far invidia ad un’attrice di Hollywood.
Con gli occhi zigzagai tra il suo volto e quello di mia zia, che a quanto pareva sosteneva in pieno ciò che mia cugina aveva appena avuto il coraggio di dire, ovvero ciò che tutti si limitavano solo a pensare.
Cercai di riprendere il controllo ma avevo gli occhi inondati di lacrime per la rabbia. “Non mi pare che voi vi siate ammazzate per correre qui a salutarmi il giorno che me ne sono andata”.
“Già!”, mia cugina sollevò le sopracciglia ma non mosse nessun altro muscolo della faccia, scolpita nel trucco impeccabile. “E a quanto pare abbiamo fatto bene, dal momento che per te non contava niente”.
Piegai la testa di lato, fulminandola con lo sguardo. “Stai vaneggiando!”
“Tu, mia cara, non sei nella posizione di dare a ME”, puntò l’unghia smaltata di rosso contro la sua gola, “della pazza. Dopotutto, non sono io quella che se ne è andata in punta di piedi e senza dare a nessuno uno straccio di spiegazione”.
La sua ostilità mi feriva, mi pungeva sul viso e tirava fuori il peggio di me.
“Ma suppongo che nella tua cazzo di testa una spiegazione tu te la sia data”, sibilai, avvicinando così tanto il volto al suo che la vidi retrocedere sconvolta. Non riuscivo comunque a capire se era sconvolta per il mio linguaggio o per l’affronto. Magari per entrambe le cose.
Tiffany reagì a scoppio ritardato. In qualunque modo aveva pensato di ribattere, ora si trovava costretta a trovare qualcosa di più pertinente.
“Dammela tu”, mi sfidò, “dammela ora una spiegazione.”
Imprecai tra i denti, ignorando la sfida con una specie di smorfia insofferente. Solo allora incrociai lo sguardo di mia zia che per tutto il tempo aveva assistito al battibecco senza immischiarsi. Mi guardava come se fossi un’aliena, scuotendo la testa in un modo che poteva voler dire solamente che provava molta pena per mio padre, suo fratello.
“Ti vergogni troppo?”, altra sfida, questa ancora più difficile da ignorare.
“No”. Sfoderai il sorriso più acido di cui fossi capace, dandole un colpetto col dito proprio in mezzo alla fronte. “Penso solo che la tua testa sia così piena di merda da non riuscire nemmeno a capire cose tanto banali, come allontanati perché la tua cara cuginetta Agnes ti sta per rompere il setto nasale!”
“Agnes?”, mia zia cercò di dividerci, trattenendo me per un braccio e mia cugina per la spalla. “Chiedile scusa immediatamente!”
“Dovrei?”
“Questa non è l’educazione che tuo padre ti ha insegnato”.
Cercai di calmarmi. “No, infatti. Ho lavorato personalmente sul mio comportamento, quindi mi assumo ogni responsabilità”.
“Scusati con tua cugina”, ribadì.
“Non ho intenzione di farlo.”
“Dio!”, sospirò melodrammatica. “Come sei cambiata. Una volta era così educata, dico bene Tiffany?”
Mia cugina aveva ancora gli occhi sbarrati.
“Sì”, squittì, tenendo d’occhio il mio pugno.
Poi si avviò indispettita, a grandi passi,  verso il tavolo da pranzo, a riaffermare la sua dignità con qualcuno più socievole e malleabile di me. Mia zia la seguì immediatamente, urlandole dietro di aspettarla.
Avevo la faccia accaldata, le mani che tremavano, la vista appannata dall’alcool, ed eravamo solo a metà festa. La persona successiva che mi si avvicinò fu mia madre.
“Ti stai divertendo?”
“Un mondo”, risposi senza guardarla per paura che riuscisse a leggere la menzogna attraverso i miei occhi. “Hai bisogno di là in cucina? Vuoi che ti aiuti a fare altre tartine o a…”
“No, no! Tu stai qui e continua a divertirti. Hai chiacchierato con tua cugina?”
Mi calò un macigno sullo stomaco. “Sì.”
“E’ molto cambiata, vero?”, la cercò con lo sguardo e quando vide che era fuori portata dalla nostra voce, continuò: “E’ diventata un po’ snob, ma sai, ha vinto una borsa di studi per la University, quindi presumo possa permetterselo”.
Inarcai un sopracciglio. “E ci riesce benissimo.”
“Hai bevuto vino?”
“No!”, notai però che stava guardando il bicchiere che avevo in mano e scrollai le spalle. “Giusto un paio di bicchieri”.
“Da quando in qua bevi vino?”, mi rimproverò.
“Sai bene che mi serve”
“Per dimenticare?”. Era scettica.
“Quando bevo i ricordi sono meno nitidi”.
“Non riuscirai a dimenticare con l’alcool”.
Non le lasciai quasi il tempo di finire. “E nemmeno con te che continui a parlarne”.
Meditò per qualche istante, corrugando la fronte.
“Non ho sollevato QUELL’argomento nemmeno una volta da quando sei tornata”.
“Lo fai ogni volta che mi guardi.”, sussurrai, allontanandomi lungo il corridoio che portava alle scale.
“Agnes, mi dispiace!”, mi gridò dietro.
Alcuni parenti si zittirono di colpo, voltandosi a guardarmi. Poi ripresero a parlare mezzo secondo dopo, come se non fosse successo nulla.
Salii le scale facendo due gradini per volta e fiondai in camera mia, sbattendomi la porta alle spalle.
Avevo lasciato il computer acceso; controllai la posta elettronica per vedere se avevo messaggi e mi collegai alla pagina di facebook nella speranza che Sarah fosse connessa. Non era in linea. Quindi, giusto per curiosità, digitai il nome di Stephen e gli inviai una richiesta d’amicizia. Doveva avere un mucchio di conoscenze, considerando che la sua lista d’amici contava ottocentosei persone, tra le quali riconobbi i nomi dei nostri vecchi amici. C’era Anne, Alessandro e Trevis. Mandai una richiesta d’amicizia anche a loro dopo aver spulciato tra le loro foto per vedere quanto fossero cambiati. L’unica fotografia che non trovai fu quella di Alessandro.
Controllai ancora una volta la mia e-mail per vedere se la nonna mi avesse scritto –ero l’unica nipote al mondo credo, ad avere una nonna tecnologica- poi rassegnata chiusi google e mi concentrai sul secondo capitolo del mio libro. L’idea di tenere un diario non mi aveva mai emozionata perciò, dal momento che non avevo nessuno con cui confidarmi, avevo provato a romanzare tutta la mia vita, scoprendo che su una pagina bianca di Word avevo il potere di far accadere tutto ciò che mi era successo in quegli ultimi otto anni, ad una persona che non ero io. Su quel file, dove annotavo ogni momento della mia vita; non ero io a soffrire ma una persona che non esisteva nella realtà, c,yhe provava al posto mio tutto il dolore che ogni giorno dovevo affrontare. Mentre scrivevo e rileggevo quelle pagine, mi sembrava di stare meglio, mi sentivo svuotata. Come se ogni sentimento uscisse dal mio corpo per entrare nello schermo piatto del computer.
Cominciai a sentire la rabbia affievolirsi lentamente mentre lasciavo che fosse la protagonista del mio libro a provarla per me. Una protagonista che, come ormai avrete capito, avevo chiamato Agnes.

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