I racconti di una notte

di Jelsa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Raffaele ***
Capitolo 2: *** Aurora ***
Capitolo 3: *** Paolo ***
Capitolo 4: *** Francesco ***
Capitolo 5: *** Michela ***
Capitolo 6: *** Elena ***
Capitolo 7: *** Chiara ***
Capitolo 8: *** Gioele ***
Capitolo 9: *** Margherita ***
Capitolo 10: *** Matteo ***
Capitolo 11: *** Sofia ***



Capitolo 1
*** Raffaele ***


1. Raffaele

Sono qui per farmi l’ennesima canna, qui seduto su questi gradini di un parco abbandonato, qui da solo. Preparo la cartina con molta cura, stando ben attento a non far cadere neanche un milligrammo. Vedo nel cielo una stupida stella cadente che cerca di farmi credere in qualcosa, ma non ci riesce; ciò che ottiene è la mia incertezza se accendermela ora o aspettare ancora un giorno, cercando di riprovarci, cercando di resistere un’ultima volta prima di cadere. Sono caduto così tante volte che se restassi per terra, facendomi calpestare, farebbe meno male. Quindi ora sono qui, quasi per terra, su questi gradini con un accendino nella mano destra e la mia porta per un mondo nuovo nella sinistra. Mi guardo intorno, è buio, c’è solo qualche lampione solitario che mi fa compagnia, debole con la sua luce fioca che basterebbe un calcio per spegnerlo. 

Mi appoggio la canna sulle labbra e porto la testa indietro, respiro, sono ancora fuori da quel paradiso ingannevole e me ne sto qui in questo inferno; sinceramente non so se sia meglio una bugia o la cruda realtà. Con una bugia alla fine puoi fingere che sia tutto come vorresti, ma la realtà è quella e non puoi farci niente. Mi domando perché i pensieri più impegnativi mi vengano giusto un momento prima di cadere.
La stella ancora ci prova a farmi desiderare qualcosa, ma piovesse anche tutto l’universo io oggi mi distruggo. Ok, va bene, giusto qualche piccola lesione mentale, niente di grave, no? Su Luna, non mi guardare così, lo so che fa male, ma credi che tutto il resto faccia bene? Sai Luna, ogni tanto ci provo a continuare, ma puntualmente mi ritrovo più infondo di prima e mi sono stancato di questa corrente, mi sono stancato di stringere i pugni e tirare avanti perché qui non si tira avanti niente.
Ricordo la prima volta che assaggiai quel sapore, quella volta che aspirai quel fumo. Ogni cosa diventava leggera, sentivo di poter volare, sentivo di esistere sopra ogni cosa, sentivo che qualcosa dentro di me cresceva. Cosa era? Forse era felicità, forse era tristezza, forse era la droga in circolo, non ne sono sicuro; ciò di cui ero certo era che tutti gli altri stavano ridendo, cantavano, ballavano, sembrava tutto così perfetto, era il paradiso.

“Dai Raffa! Un altro tiro! Anzi no, facciamo il giro della morte!” mi disse uno tra quelli, aveva gli occhi rossi e un sorriso agghiacciante.
“Il giro della morte cosa è?” chiesi ridendo.
“Ci mettiamo in cerchio, io sto al centro, si inizia con uno che fa un tiro, deve tenersi il fumo dentro fino a che non tocca di nuovo a lui. È una figata! Chi resiste di più si becca una canna gratis!”. Quello era entusiasta di quel gioco. Accettai e scoprii di avere una certa dote per la droga, così vinsi e quella sera continuammo a volare in quell’universo parallelo.


È un ricordo lontano, forse ormai una decina di anni quando i primi tiri non si aspiravano, quando ti sentivi in colpa, quando ti credevi un condannato e se i tuoi scoprivano qualcosa ti immaginavi fuori casa. Quegli anni dove i voti a scuola erano i numeri che ti classificavano, dove si cercava una console per giocare a COD, dove gareggiavi con i motorini modificati e ti sentivi libero vedendo sfiorare quei 90 km all’ora.
Una volta, sempre durante lo stesso periodo del primo tiro, dissi che finita la scuola avrei voluto diventare uno scrittore, così iniziai a scrivere. Tutto ciò che ho scritto sta in un quaderno sepolto da qualche parte in soffitta insieme ai libri di storia e italiano. In un tema scrissi alla mia professoressa che avrei voluto cambiare il mondo, che ero stanco di stare così. Il commento che mi lasciò fu ‘La convinzione è l’essenziale’.
Sono immagini lontane, di un passato che sembrava così brutto mentre lo vivevo eppure, visto ora, appare accettabile. Sono triste e ho deciso di accenderla, non mi interessa, non ho più la forza per sopravvivere. L’accendino è quasi finito e non riesco a far uscire la fiamma, oggi qualcuno ci si è messo d’impegno per mandarmele tutte male. Calcio via l’accendino e mi alzo, vado nel Vicolo, lì c’è sempre qualcuno con l’accendino. Mentre cammino vedo le ultime auto che se ne vanno dalle discoteche, la notte è pallida di fronte a questi giovani curvi al ciglio della strada che buttano fuori le loro illusioni. Sono impotente vedendo questi ragazzi con ancora i drink in mano che stanno per cadere – o sono già caduti – nel mio stesso oblio. Vorrei fermarli, vorrei avvertirli che non sarà solo marijuana quella che fumeranno, non sarà solo un drink quello che berranno. Vorrei avvertirli che la facilità di dire la frase “Smetto quando voglio” è inversamente proporzionale alla vera voglia che hai di smettere.
Qui nel Vicolo ci sono due ragazzi e due ragazze, avranno sì e no sui diciassette anni  e sono già su questo vicolo, che ci fate? Non vedete che quelle pasticche sono solo altro schifo che ingerite? Una delle ragazze piange mentre rigurgita qualcosa, mi giro, non ce la faccio a vedere questa generazione che si brucia. Pur vedendo tutto questo dolore ho ancora voglia di quella canna, ho voglia di cancellare queste immagini. Chiedo a quei giovani l’accendino, ma sono così distanti da questa terra che non mi sentono.
Alzo gli occhi al cielo, in questa notte di San Lorenzo, dove le stelle hanno il desiderio di farmi credere ancora in qualcosa. Così mi arrendo, respiro l’aria di quel vicolo e non mi piace, decido di andarmene, voglio uscire e tornare a casa, questa notte sta diventando troppo lunga.

Sono qui, nel mio letto, nella mia camera, sono qui che sto per chiudere gli occhi, sono qui e ho intenzione di far realizzare il desiderio di quelle stelle che ancora credono in me. Magari questa sarà l’ultima volta che ci provo, magari questa è la volta buona che ce la faccio o magari i miei occhi diventeranno ancora più rossi.
Nel dubbio, dormo.





#Spazio autrice (?)
Sì sono tornata dopo ... mmh... anni... Se ok...
Questa diciamo che per me è una cosa un po' più seria perchè tutte le storie che racconterò saranno sì frutto della mia fantasia ma mischiate alla quotidianità, a ciò che provo io in prima persona, ciò che mi raccontano gli altri. Mi piacerebbe far leggere alle persone la vita nostra ecco... Bhè recensite, ditemi che ne pensate, pubblicate, condividete, insomma fate quello che volete! Ahahah 

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Capitolo 2
*** Aurora ***


1.Aurora
Mi arriva un messaggio, è appena passata la mezzanotte e sono tutti fuori a guardare le stelle, così i miei amici hanno ben pensato di chiamare anche me. Di fatti nel messaggio trovo un “Ei auro! Dai vieni al parco che Mauro ha vicino casa! Siamo tutti qui!”. Guardo il soffitto vuoto della mia camera, una luce fioca viene dalla finestra aperta perché è davvero molto caldo. Mi decido e, quasi senza voglia, mi trascino fuori casa per andare in quel parco. Sento la musica della discoteca non poco lontana e mi viene da pensare a tutti quei ragazzi che sono là a divertirsi come se non ci fosse un domani e io sto qui, camminando verso un parco dove probabilmente mi annoierò. Sospiro e mi guardo attorno, non c’è nessuno, solo io, la mia ombra e quelle stelle appiccicate in quel grande telo nero. Oggi è la notte in cui possono staccarsi e volare via. Forza stelle, andatevene! Cosa aspettate ancora lì, ferme, immobili?
All’entrata del parco sono parcheggiate moto e auto. Raggiungo i miei amici, sono là distesi sul prato mentre fumano e ascoltano musiche dolci. A volte mi chiedo se i miei amici siano davvero così come appaiono oppure abbiano ancora qualcosa che non mi hanno mostrato. Li saluto a bassa voce, mi siedo accanto a loro silenziosamente e mi fermo a scrutare quel cielo appiccicoso. Sento la voce entusiasta di qualcuno che esclama alla vista di una stella cedente, ma io non riesco a vederne e il mio desiderio rimane ancorato a me. Mi volto verso lui, il ragazzo che mi ha mandato il messaggio per farmi uscire, è lì abbracciato con la mia migliore amica, mentre io mi sto corrodendo l’anima. Teoricamente loro due non sarebbero neanche una coppia ufficiale. Sento gli altri che commentano sui due, dicono che sono perfetti insieme, che non esiste coppia migliore della loro, che si amano davvero. Mi chiedo perché l’amore perfetto e vero sia solo quello corrisposto, io per esempio lo amo ormai da quattro anni più della mia vita e nessuno ha mai detto che il mio amore è vero. Penso che l’amore non sia solo ‘rose e fiori’, ma anche ‘spine e rovi’.
Una volta poi l’avevo pure baciato e gli chiesi, ansiosa, che cosa lui avesse provato.
Niente.
Disse “Cosa avrei dovuto sentire?”. Lì mi sembrò di sentire il peso di una frana infrangersi su di me. Dentro me i pensieri cavalcavano veloci: io avevo sentito l’intero cosmo e lui nulla? Rimasi allibita e lui se ne andò, piano piano, ogni giorno lo sentivo più distante, ormai il miglior amico che avevo era soltanto un vago ricordo. Il giorno definitivo fu quando ci disse che avrebbe voluto staccarsi da tutti i noi. Non ci potevo credere: la mia unica ragione di vita, colui che mi aveva insegnato a vivere, lui che mi aveva fatto notare quanto io fossi forte… se ne sarebbe andato per sempre. Disse che voleva ritrovare sé stesso e io pensai che mi sarei persa nei suoi labirinti pur di farlo tornare, ma preferii stare in silenzio dato che aveva qualcuno affianco a lui molto migliore di me. Passai quindi il periodo apparentemente più lungo della mia vita sperando in un suo ritorno, sperando che capisse quanto ci tenessi a lui perché no, non è vero che il valore delle persone si capisce solo quando le perdi; io sapevo benissimo quanto lui valesse anche senza che se ne fosse andato.
Quindi ora sono qui, affianco alle due persone più importanti della mia vita, lui e lei, così felici insieme, finalmente hanno trovato sé stessi insieme.
Mi viene da piangere sotto queste stelle che non hanno voglia di farsi vedere da me nella loro liberazione. Vorrei piangere qui di fronte a tutti e urlare al mondo che no, non va bene se io sto male. Vorrei dire a tutti che se sono felici nel loro mondo, non è uguale per tutti gli altri. Vorrei piangere e vedere chi sarebbe disposto ad asciugare le mie lacrime. Eppure ancora una volta taccio, reprimo i miei sentimenti perché infondo è giusto così, però mi alzo e respiro affondo. Chiudo gli occhi, apro le braccia, potrei spiccare il volo se solo volessi. I miei amici pensano che mi sia fatta qualcosa, in realtà questa è solo il mio grido silenzioso che se ne va. Quando li riapro noto che lui si sta alzando e lei si dirige non so dove. Gli altri iniziano ad urlare al cielo aspettandosi una risposta. Mi chiedo cosa stia succedendo, sto capendo ben poco in questi ultimi istanti. Lui si avvicina, alza le mani con le mie e urla con tutto il fiato che ha in gola, mi sembra quasi stupido quello che tutti qui stanno facendo.
“Perché state urlando tutti?” gli domando soffocando una risata.
“Per liberarci di qualcosa che fa troppo male tener dentro, così ormai è là fuori e non ci appartiene più” mi risponde lui guardandomi negli occhi, ma io torno a fissare il cielo che non si degna di lasciar andar via queste stelle.
“Di cosa vuoi liberarti?” gli chiedo curiosa, in piedi e immobile sul prato. Gli altri mano a mano cadono in abbracci e discorsi troppo profondi per l’ora. Lui abbassa gli occhi, respira fortemente, ma non parla. È anche lui fermo sotto questo cielo ad aspettare che qualcosa gli cambi la vita. Vorrei confessargli che non ci si deve aspettare che le cose cambino da sé, ma bisogna aprire gli occhi e iniziare a correre, vorrei ricordargli che niente e nessuno può fermarci nella nostra corsa; vorrei dirgli che siamo tutti sulla stessa partita dello stesso gioco che potrei farlo tornare in vita se solo lui lanciasse un segnale d’aiuto, ma non lo fa. Lui piuttosto morirebbe pur di non far vedere che anche lui cade.
Con un sospiro si lascia andare al terreno e si distende, io mi abbasso e vedo che i suoi occhi luccicano. Mi sento impotente, ho davanti a me la mia vita che si commuove e non posso fare nulla. Mi metto su di un fianco e gli prendo la mano, lui volta il capo verso di me e io sento il mio cuore che sta facendo il dj dentro il mio corpo. Mi accorgo di tremare, ho paura, non ho idea di che cosa, attualmente non ho nulla da perdere, eppure sento la paura nelle vene. Lui se ne rende conto, si gira completamente verso di me e si fa vedere mentre piange. Vorrei chiedergli a cosa sono dovute quelle lacrime, mi piacerebbe rassicurarlo, fargli capire che io sono sempre stata qui per lui, mi viene voglia di piangere con lui. In questo momento sono così vicina al suo cuore che ne sento il battito, è accelerato, forse per le lacrime. Qualche dio lontano mi da un coraggio inaspettato e mi da la spinta necessaria per abbracciarlo, tenermelo stretto, vicino, sicuro. Lo avvolgo nelle mie braccia, non lascerò che qualcosa possa ferirlo, non ancora o di nuovo. Prometto a me stessa di essere più forte per salvare almeno lui da questo mondo. La sensazione più bella poi è sentire che lui mi sta abbracciando con la mia stessa intensità se non più forte. Normalmente mi sarei chiesta il perché di questo abbraccio, ma ora non mi importa più di nulla tranne che di me e lui abbracciati dopo così tanto tempo.
Volgo lo sguardo al cielo con la speranza di trovarla quella stella e non so se sia il caso o se qualcuno questa sera mi vuole tanto bene, ma io quella stella la vedo; là con la sua coda che se ne va lontana da questo posto e brilla come non mai.
Non ho idea di che cosa succederà nei giorni a seguire: se la mia amica si arrabbierà, se i due ne avevano già parlato, se lui mi ama o no, se tutto questo è frutto di una mia strana fantasia.
Nel dubbio, sorrido.


#Scusatemi, li metterò tutti ora. Poi non avrò più tempo...

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Capitolo 3
*** Paolo ***


1.Paolo
Sono le nove di sera e sto tornando a casa dal lavoro. Questa strada sembra interminabile, i semafori giocano ad essere timidi mentre mi vedono e arrossiscono di continuo. Per i marciapiedi vedo gruppi ansiosi di giovani, coppiette che si tengono per mano e mi fa quasi venir un senso di malinconia. Guardo nello specchietto retrovisore e mi accorgo della collanina fatta di pasta di mia figlia. Voleva che la portassi quando vado a lavoro; non potendo, la porto sempre ovunque. È molto colorata e ogni tanto qualche pezzo di scotch tiene unite una perlina gialla e un fiorellino viola. Tra tutto quel nero dell’auto mette allegria quella collanina.
Lancio un’occhiata veloce all’orologio e vedo che sono passati dieci minuti, devo fare in fretta, almeno oggi devo mantenere la promessa che ho fatto a mia moglie. Mi aveva chiesto di guardare le stelle tutti insieme questa sera, così io gli ho detto che certamente si poteva fare. Ogni tanto mi dice che non mi importa nulla di nostra figlia né di lei, pensa che la tradisca probabilmente. Quello che non sa è che tutti i giorni lavoro da mattina a sera per lei, per donarle tutto. So che mi vorrebbe accanto a lei piuttosto che quei soldi in più, so che vorrebbe un padre più presente per sua figlia, che non le regala affetto con dei peluche o altri giochetti simili. Piacerebbe anche a me essere il marito che mia moglie desidera, ma non riesco proprio a fare tutto.
Nella radio mettono su qualche canzoncina di chissà quale nuovo cantante. Mi innervosisce questo ritmo copiato circa altre sette volte da altri cantanti, così la spengo con un po’ di rabbia che non so da che cosa sia scaturita – forse dal fatto che sto per non mantenere la parola data –. Spengo l’aria condizionata e apro i finestrini, mi va di sentirmi libero come all’età di vent’anni quando il mio unico pensiero era divertirmi, rimpiango quei tempi, ma amo questi nuovi.
Il cellulare squilla ed è mia moglie, mi dice di fare in fretta perché è successa una cosa molto brutta e allora io accelero e non mi importa neanche più dei semafori, tanto chi è ancora per le strade la notte delle stelle cadenti? Sono all’incrocio vicino casa mia, non guardo neanche se arriva qualcuno e continuo ad andare avanti.
Ruote che stridono, un clacson inutile che urla e un colpo, veloce e brutale. Sono scagliato via con la mia macchina che si ribalta. Sento il mio battito cardiaco che è velocissimo, la testa mi pulsa e non riesco bene a capire che cosa è successo. La mia mente cerca di rielaborare le ultime immagini: un bagliore, il cofano di un auto che spunta alla mia destra e tutto il resto che rotola. Poi li collego con i suoni e mi rendo conto che ho appena avuto un incidente. Mentre sono accartocciato lì dentro, stordito, guardo la collanina di mia figlia e mi dico che sono proprio uno stupido, che se avessi avuto più cura nel guidare ora probabilmente sarei a casa ad abbracciarla. Cerco di riprendermi e provo a muovermi, sento il capo che si sta bagnando, lo tocco con una mano e vedo che è sangue. Respiro a fondo  e cerco di muovere tutti gli altri, apparentemente ho solo un atroce dolore al petto, all’altezza della cintura di sicurezza. Mi metto la collanina in tasca e slaccio la cintura, il petto fa male, ma resisto. Sento delle voci fuori che dicono di chiamare un’ambulanza, chiedono se quel signore sta bene e lui risponde che non si è fatto niente di che: è la sua macchina che soffre. Poi aggiunge che bisognerebbe andare a vedere come sto io, così li sento correre da me. Si affaccia un ragazzo sui venticinque anni e mi tira fuori, nota la mia ferita e il fatto che non riesco a muovere il busto a causa del dolore al petto. Lui chiama un’ambulanza e io provo a scusarmi con quel signore che avrà più o meno la mia stessa età. Dice di non preoccuparmi, ma io sto quasi per piangere. Il vicinato è tutto sulle porte di casa a osservare, esce anche mia moglie con mia figlia per mano e mi raggiunge. Mi sembra così bella anche se è in vestaglia e mia figlia credo sia la bambina più bella di questo mondo con i suoi occhioni scuri. Si inginocchiano su di me, la bimba rimane immobile perché non riesce bene a capire cosa sia successo, mia moglie mi abbraccia piangendo e si scusa. Le dico che non c’è motivo, che non è colpa sua e che non deve preoccuparsi, piuttosto sono io che dovrei scusarmi perché non abbiamo potuto guardare le stelle tutti insieme. Il giovane la informa che a breve arriverà un’ambulanza e lei piange ancora di più. Non sopporto di vederla così.
Siamo in ospedale, hanno detto che non ho nulla di particolarmente grave, solo qualche lesione. In termini poveri “qualche botta troppo forte”. Posso dire che come la sfortuna mi ha baciato, la fortuna mi ha abbracciato. Nostra figlia si è addormentata sul divanetto e mia moglie è seduta accanto a me, tra poco si addormenterà anche lei. Le prendo una mano e vorrei che questa sera si potesse rifare tutta da capo, che si possa riprovare a rifarla, nel modo giusto, come sarebbero dovute andare le cose.
Mi rendo conto che non mi ha detto la notizia per cui stavo correndo così veloce e un po’ ci resto male. La vedo che si accascia sempre di più, i capelli le cadono sul viso pallido. Sono così dispiaciuto che oggi sia dovuta andare così.
Prendo dalla tasca della mia giacca la collanina e me la metto, è il momento giusto. Non so se questo cielo mi regalerà una stella questa notte, per ora mi ha regalato una moglie fantastica e una figlia dolcissima. Mi prometto che quando starò bene le cose miglioreranno, che mi impegnerò nell’essere più presente, che non saranno solo giocattoli ciò che mia figlia si ricorderà di me. Voglio cambiare, questo imprevisto mi ha fatto capire che niente è così preciso come nel tuo lavoro, non puoi programmarti la vita e sperare che il resto si adegui.
Volgo lo sguardo alla finestra e il cielo è buio in questa notte, non ci sarà nessun desiderio espresso per questa famiglia, ma poco mi importa: non mi servono delle stelle per far sì che qualcosa accada. Da ora sarò io che farò accadere le cose, non il ‘destino’. Non so se sarò capace di cambiare sul serio questa situazione, se questa famiglia riuscirà ancora a stare bene tutta insieme, se mia figlia mi vorrebbe diverso o se mia moglie preferirebbe non avermi sposato.
Nel dubbio, le amo e le proteggo, qualunque cosa succeda.

 

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Capitolo 4
*** Francesco ***


1.Francesco
L’odore della bomboletta mi invade le narici, mi metto il passamontagna nero come questa notte. La parete inizia a colorarsi, traccio le linee, seguo il disegno che mi sono fatto prima sul quaderno. Il mio amico sta finendo la sua scritta “Sex or love” e lo guardo mentre si muove sotto questo cielo che ci protegge. La città è tappezzata dai nostri spruzzi di arte urbana, molti ci chiamano vandali eppure noi vogliamo solo colorare questo grigiore con il nostro umore. Molto spesso ci tocca lasciare il disegno a metà e le borse lì nel mezzo della strada perché qualcuno ha ben pensato di chiamare i ‘caramba’ e a quel punto ci si incappuccia e se ce la facciamo recuperiamo qualcosa, altrimenti si dimentica tutto e cominciamo a correre. Corriamo così veloce, saltiamo sopra i muretti, scavalchiamo reti e cancelli, corri e corri, non smettere di farlo, non confessare chi sei, non dire nulla. Ormai sembra quasi un gioco, ogni tanto speriamo che arrivi qualcuno a scoprirci così possiamo continuare la partita.
“Oh frà, quanto hai?” mi chiede il mio amico mentre si scosta i capelli dalla fronte con il braccio, ha le mani sporche di rosso e verde fluo.
“Mha non lo so… Dipende” rispondo concentrato sul disegno, ho caldo, dovrei ricordarmi di portarmi la bandana e non il passamontagna di questi tempi. Mi tolgo la maglia e la metto nello zaino nero.
Ogni tanto penso che questa vita da “topo” mi si adegui perfettamente. Tutto questo fuggi fuggi, le cose sbagliate, essere diverso, con un ideale che anche se buono continui sulla tua cattiva strada. Fin da piccolo mi piaceva essere quel tipo di ragazzo che i miei genitori mi urlavano di non frequentare. Voglio rompere queste regole che mi hanno imposto. I miei avrebbero voluto che io andassi in un qualche liceo, che diventassi chissà quale dottore o avvocato, ma eccomi qui questa ennesima notte a fare il vandalo per la città. Qualche volta vedo i vecchi compagni che mi guardano male, pensano che io sia un ladro o che faccia parte di una gang. Semplicemente a me piace portare la mia parola su questi muri, non mi piace essere comandato, non voglio che mi si dica cosa fare.
Mentre penso ho finito il mio murales. È una figura semi-umana nera che si suicida, ha gli occhi quasi bianchi con le occhiaie oro che colano come un mascara fino al mento dove sotto si tende un coltello oro che taglia la gola. Non ha la bocca né capelli né sangue che cola. Entrambi guardiamo quella figura così macabra e triste. Il mio amico mi chiede il permesso e io lascio fare. Aggiunge alla figura due pupille nere che guardano in alto, dentro di esse fa brillare una stella cadente; poi crea una curva quasi invisibile che sarebbe un leggero sorriso. Ci allontaniamo e sembra perfetto, un misto tra malinconia, speranza e depressione che poi è quello che la nostra generazione è diventata. Siamo appesi a un filo di speranza mentre iene di depressione ci aspettano sotto i nostri piedi. Quel filo non si spezzerà, non per me, io mi sto arrampicando e ci porto chi mi segue, insieme arriveremo a quel benedetto benessere.
I miei vedevano giusto quando dicevano che sarei potuto diventare avvocato, il fatto è che io di cose legali non me ne intendo, ma per farmi giustizia ci riesco molto bene. Mi va di combattere per me e per gli altri quando da soli non ce la fanno. Ora che ci penso potrei diventare davvero un buon avvocato, ma questo graffito mi ricorda chi sono e non cosa potrei diventare.
Sentiamo dei passi, una torcia che si aggira curiosa. Prendiamo veloci le bombolette, mettiamo le nostre firme  e le buttiamo negli zaini mentre iniziamo a scappare. Non siamo neanche sicuri che siano i caramba, ma meglio prevenire che curare, no?
Ci rifugiamo in un posto non poco lontano, è vicino una vecchia casa abbandonata che noi ci siamo presi la briga di sistemare quanto meglio per poterci venire. Ci lasciamo cadere su quei divani presi dalla discarica che seppur rotti e sporchi sono comodi dopo una corsa. Siamo stanchi e non parliamo, facciamo spesso così noi due; il silenzio non ci imbarazza né ci intimorisce, ci piace ascoltare il verso del mondo. Mi alzo e vado fuori, dove abbiamo portato due teli a mo’ di sdraie, lui mi chiede dove sto andando e mi raggiunge. Ci stendiamo lì e guardiamo il cielo perché sì, anche noi due questa sera abbiamo voglia di credere in qualcosa. Questa sera ci va di credere che se affidiamo i nostri desideri a una stella, un giorno si avvereranno.
Sinceramente mi importa poco di tutto perché ora posso ammettere di stare davvero bene sotto questo cielo affianco alla persona più importante della mia vita, sembrerà quasi tutto uno scherzo, ma sì infondo sto davvero bene e non so per quanto altro tempo lo sarò. Non so neanche se queste stelle funzionano davvero, se i miei desideri si avvereranno e se sarò ancora felice.
Nel dubbio, ci credo

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Capitolo 5
*** Michela ***


1.Michela
Tutta queste gente che balla e si scatena mi mette felicità, tutta questa musica che pompa nelle casse mi elettrizza, tutto questo buio e queste luci a intermittenza mi mettono sicurezza. Mai come in questi momenti mi sono sentita così a mio agio: invisibile e guardata da tutti allo stesso momento. È come se sapessi di poter far tutto quello che voglio sotto gli occhi degli altri e a nessuno importerebbe o mi giudicherebbe perché qui tutti fanno esattamente come me. Una folla di persone che hanno bisogno di lasciarsi andare, di fregarsene per un po’, di staccare da questa realtà divertendosi, ballando, cantando, urlando. Certa gente pensa che le discoteche siano solo droga e alcool, ma il divertimento lo si trova pure non bevendo o non drogandosi, che poi anche se fosse, una o due bevute non hanno mai ucciso nessuno.
Sono in uno stato in cui non mi importa più nulla, non mi interessa più della mia vita ora né di quella degli altri. Sono stanca di preoccuparmi di andare bene agli altri, sono stanca di tentare ogni giorno di dare il meglio e ancora non è mai abbastanza. Non voglio interessarmi di ciò che le persone diranno di me, ciò che tutti fanno o ciò che voglio da me. Ora sono io che faccio ciò che voglio, sono io che scelgo per me, che faccio per me. Tutto quello che mi accadrà sarà perché io lo vorrò, mi renderò la causa delle mie azioni, non sarò più una spettatrice immobile di questo spettacolo, diventerò la protagonista e tutti gli altri saranno là nel pubblico, chi ad applaudire chi a fischiare. Non mi preoccuperò più di come apparire agli occhi degli altri, non mi preoccuperò del mio futuro, voglio vivermi il presente, voglio vivere questa notte come fosse l’ultima.
Questa notte ho intenzione di chiudere gli occhi e non pensare più, per una notte non voglio pensare più a niente, né a me stessa né a tutto il resto. Voglio svegliarmi domani mattina e dire “Cavolo, rifacciamolo tutto da capo!”. Mi va di essere davvero felice, anche fosse per una sola volta, anche fosse solo per una notte.  Non so, ma credo che quando si da tutto e resta ancora nulla dopo un po’ non ce la si può fare più e si resta così, inerme di fronte a questo palco che si sgretola e si ride. Rido così tanto che tutti mi fissano e mi chiedono perché non faccio nulla per cambiare le cose e non rispondo, continuo a ridere perché ormai non sono più io a preoccuparmi, ma  lo fanno gli altri per me. Ora è il momento che io stia bene, anche se gli altri staranno male. Diranno che sono menefreghista, senza sentimenti, diranno che non ho rispetto per gli altri e che sono solo un’egocentrica, ma io li guarderò, sorriderò e con la fierezza di una leonessa risponderò: “Tu non ci pensavi a me quando io stavo male, tu non ti preoccupavi di me mentre facevi le tue cose. Ti accorgi delle persone solo quando non sono più ai tuoi piedi. Sono stanca di essere nel fondo. Sì, sono un diavolo, della peggio specie. Ricorda che per battermi ci vuole un angelo e tu, caro mio, non sei affatto così perfetto come credi.”
Quindi se ora sono qui a saltare come una dannata con un drink in mano che metà si è buttato, non giudicatemi.
Sono tra le braccia di questo ragazzo che mi guarda, sembra un po’ fatto e ha gli occhi persi. Si avvicina e prova a baciarmi, io non mi tiro indietro, gli lascio prendere ciò che vuole. Farò felice questo ragazzo che probabilmente non rivedrò mai più per tutta la mia vita. Mi fa fare una giravolta e inizia a sorridere, la musica si fa più forte e le tempie battono. Vedo questo tipo che mi abbraccia e mi bacia, mi tocca i capelli, la schiena, quasi fosse il mio ragazzo. Mentre mi morde il labbro inferiore sento che ride, si scosta e aspetta che sia io a cercarlo. Ma sì, stiamo al suo gioco e divertiamoci un po’, questa sera sono sua e di nessuno. Sento gli occhi di chi conosco addosso, so che per domani le voci gireranno di una velocità cosmica, ma poco mi interessa. Posso fare quello che voglio esattamente come lo fanno tutti gli altri.
Sento le mani di questo ragazzo che sono curiose, chiudo gli occhi e rido mentre metto le mie mani dietro il suo collo. Sento il suo profumo, è la colonia che va di moda questo periodo e sinceramente a me fa impazzire. Mi chiede come mi chiamo e gli dico il mio nome, non mi va neanche di domandargli il suo, ma me lo dice lo stesso. Si chiama Andrea e sembra bellissimo sotto queste luci, ma so che è l’effetto dell’alcool o della serata; probabilmente lui penserà lo stesso, ma va bene così. Questa sera entrambi vogliamo solo non pensare e divertirci, siamo complici del nostro piano. Mi promette che ci rivedremo, mi va di sperarci, mi va di credere per queste ore che sia sincero, che magari è diverso quindi mi fido quando mi dice che ora sta davvero bene. Mi sento felice perché sono la causa del suo benessere e vorrei che qui ci fosse qualcuno che sia la causa del mio, ma ormai non c’è più.
Il dj ci invita a stare col naso rivolto verso il cielo mentre aprono il soffitto. Tra una pioggia di coriandoli, fumo e drink il cielo si sveste e si mostra nella sua intimità. È là che cerca di coprirsi con qualche nuvola notturna, ma noi siamo più furbi e riusciamo a vederlo.
“Ti va di desiderare qualcosa insieme?” mi chiede all’improvviso questo ragazzo. Io lo guardo sbalordita, c’è chi ti offre una bibita, chi ti invita a cena fuori, chi ti propone di uscire insieme il sabato successivo e questo mi chiede di desiderare qualcosa insieme. Rido sottovoce e lo guardo mentre lui è quasi serio. Alzo gli occhi al cielo e guardo quelle stelle. Certo che a voi poco importa dei nostri desideri, vero? Ma forse se questa notte è dedicata a voi, magari la magia è reale.
“Che vorresti desiderare insieme?” gli chiedo quasi scocciata di quella proposta e lui sorride, forse pensa di aver fatto colpo e io glielo faccio credere.
“Desideriamo che da ora in poi le nostre vite cambieranno, in meglio, solo in meglio. Ti va?”.
E non so se quel pazzo che mi abbraccia sotto questo cielo sia un cretino della peggio specie o solo un sognatore che ha ancora un po’ di speranza, ma infondo non ci perdo nulla a desiderare qualcosa. Aspetto che questa stella cada per me, per lui, forse anche un po’ per noi due.
Così quella striscia di speranza spezza il cielo, guardo lui che mi fissa e sorride, rialziamo gli occhi al cielo e desideriamo insieme. Non so se crederci davvero, non so se questa è solo la supplica di uno che non si salverà più o se riuscirò a cambiare la mia vita come abbiamo desiderato.
Nel dubbio, non ci penso.

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Capitolo 6
*** Elena ***


1.Elena
Non so davvero come possa essere successo, è stato veloce, una chiamata e la mia vita è cambiata. Non so proprio come possa essere accaduto, avevamo fatto il possibile perché non accadesse, perché andasse tutto bene, ci stavamo preoccupando tutti, c’avevamo provato tutti. Ma non ce ne eravamo accorti, non l’avevamo notata, pensavamo stesse bene o che comunque non fosse nulla di grave. Eppure, circa dieci minuti fa, mi arriva questa chiamata.
“Pronto Samu, che c’è?” rispondo felice, di lì a breve saremmo tutti usciti per andare a vedere le stelle.
“Nikita…” mi dice lui un po’ preoccupato. A me sale l’ansia, non ci chiamiamo mai se non per le cose importanti. Se mi chiama per Nikita, è successo qualcosa di molto importante.
“Successo qualcosa?” chiedo con la paura che possa essere successo il peggio.
“Lei è… Cioè si è…” si interrompe, non riesce a continuare, sento che sta per piangere, ha la voce spezzata da un nodo che non lo lascia finire.
“Si è…?” non ci voglio credere, finchè non me lo dice, non  ci crederò.
“Vieni a casa sua, i suoi non c’erano, sono passato per chiamarla e… Ti prego corri!” esclama tutto d’un fiato e io ora sono davvero preoccupata. Velocemente prendo le chiavi, monto sul motorino e prendo la strada per casa di Nikita. Fortunatamente non è lontana da casa mia e in meno di tre minuti sono lì. La porta è aperta, la lascio così e corro al piano di sopra, la casa è tutta in ordine, non c’è niente che possa essere diversamente, sembra tutto così normale. Mi viene incontro Samuele mentre si asciuga le lacrime, non ce la fa a parlare così mi porta direttamente in bagno. Le mie gambe iniziano a tremare, il respiro si fa affannoso, mi stringe la mano, sento che mi cresce la paura e l’ansia, non ci voglio credere.
È seduta. Indossa una canotta bianca e degli shorts neri. Guarda per terra, gli occhi ancora aperti, le righe di un mascara sciolto le sporcano il viso. È scalza, nella vasca piena a metà tra acqua e sangue, il suo sangue. Due tagli enormi, uno per braccio le squartano la pelle. La lama è ancora tra le sue mani.
Non ci voglio credere, cado in ginocchio, inizio a piangere. Piango tantissimo, mi avvicino a Nikita, l’abbraccio, voglio sentirla qui perché lei è ancora qui. Samuele prende degli asciugamani, cerca di tamponarle il sangue, lei non reagisce. Urliamo mentre un oceano di ricordi ci investe con la sua pioggia. A questo punto dovremmo chiuderle gli occhi, ma noi vogliamo che ritorni, aspettiamo che si rialzi, l’ha sempre fatto, lei si è sempre rialzata anche se sul fondo c’aveva costruito la vita. Lei c’era ritornata in superfice, era l’esempio di forza, nonostante tutto ce l’aveva fatta, non si era arresa, tentava ogni volta. Tra le troppe lacrime ci è sfuggita una lettera che è poggiata sul lavandino. Mi trascino fino a prenderla, mi tremano le mani, tra le lacrime e singhiozzi non riesco nemmeno ad aprirla, così si avvicina Samuele e la prende. La apre e inizia a piangere ancora di più come me, non possiamo credere che sia successo. Ci aspettiamo che ci sia scritto la sua vita, che ci siano le spiegazioni, che ci dica perché è l’ha fatto, ci aspettiamo che magari si risvegli per magia.
“Solo non preoccupatevi, ok?
Vi voglio bene, Niki”
Certo, per lei non bisognava mai preoccuparsi, bisognava lasciare le cose così come andavano senza stare troppo a pensarci, senza starci male. Lei viveva così: gli occhi che guardavano là e respirava, non le importava cosa avrebbe fatto poi, lei voleva stare bene ora. Lei viveva del presente, non si curava del futuro o del passato, né suo né degli altri. Le piaceva fare esattamente quello che voleva, diceva sempre “Sii come sei e prenditi i tuoi insulti”, sosteneva che tutti siamo soggetti di voci, dobbiamo solo imparare a fregarcene. Non era l’odio altrui a preoccuparla, lei soffriva per l’amore. L’amore, il bene, non erano fatti per lei, diceva. Era ossessionata dall’idea di essere immersa nell’odio, ripeteva che era fatta per essere dimenticata, ma era da ricordare.
Tante volte siamo corsi da lei perché volevamo fermarla, se solo avesse chiamato anche questa volta, se solo si fosse resa conto che noi siamo sempre qui. Ma lei ha sempre avuto gli occhi chiusi, vedeva sempre quello che voleva lei. Credeva di essere imperfetta, uno sbaglio, la ragione dei mali altrui ed era solo una ragazzina quando iniziò a pensarlo. Non aveva mai chiesto aiuto seriamente così è cresciuta con questa perversa convinzione fino a che oggi il suo pensiero non ha avuto la meglio. Si è lasciata andare e ha lasciato un enorme voragine.
L’ambulanza è arrivata, la sirena urla, immagino già i passanti fermi sotto casa che si domandano se davvero Nikita è riuscita a farlo. Questi due volontari la tolgono dalla vasca, la poggiano su una brandina, le sentono il battito, non c’è. Cercano di rianimarla, ma probabilmente c’è poco da fare. Sospirano, si danno da fare, ma lei è morta.


Lei è morta.


Morta. Morta. Morta. Morta. Morta. 
E non c’è niente da fare, non più. La portano via e noi restiamo qua immobili accasciati nel suo bagno a piangere. Un volontario ci invita ad uscire, chiede se sappiamo qualcosa, chiamare i genitori e tante altre cose, ma noi non riusciamo neanche ad aprire gli occhi.
Usciamo, siamo sul marciapiede, la folla se ne va e l’ambulanza corre via. Crolliamo, vogliamo solo che ritorni, ma è impossibile. Vediamo due, tre, quattro stelle. Non ci crediamo più, l’unica cosa che potremmo desiderare è che Nikita sia ancora viva.
Non c’è dubbio, è morta.

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Capitolo 7
*** Chiara ***


1.Chiara
Chiudo il ristorante, il capo lascia sempre chiudere me. I miei vestiti odorano di patatine fritte, grasso e cipolle, mi viene quasi da vomitare. È l’una di notte mentre inchiavo la porta davanti, nel parcheggio non c’è nessuno tranne due giovincelli che si divertono nel retro di una macchina. Vado veloce fino alla fermata del treno, per strada c’è un vecchio che chiede qualche spiccio, se avessi abbastanza soldi glieli darei. Guardo l’ora: il prossimo tremo dovrebbe arrivare tra mezz’ora, ma ovviamente ci sarà ritardo quindi facciamo un’ora. Potrei quasi andare a casa a piedi e impiegherei lo stesso tempo. Mi siedo sulla panchina, ci sono scritte di innamorati annoiati e poeti ribelli. Il tempo delle scritte su muri e  pali per me è passato, lascio che questa generazione si diverta. L’orologio segna l’una e dieci, il tempo sembra essersi fermato, mi guardo intorno, non c’è nessuno che parte, nessuno che torna, ci sono solo che io che aspetto.
Vorrei andare in un bar e bere fino a vomitare l’anima.
Vorrei mangiare fino a scoppiare come un palloncino.
Vorrei ballare in una discoteca e iniziare a comportarmi come una ragazzina in calore.
Vorrei andare dal primo che passa e chiedergli di passare una serata insieme
Vorrei tornare ai miei sedici anni, quando tutto quello che facevo lo potevo fare: avevo 16 anni e mi era concesso il mondo. Quel tempo è lontano, ho smesso con quelle scemenze, ho smesso di fare la ragazzina. Sospiro. L’unica cosa che voglio ora è un letto, il mio letto, dormire per ore e non svegliarmi più. Anche da ragazza dormivo molto quando potevo, la mia vita era fatta di dormi-mangia-esci-dormi-mangia-esci. I miei “amici” dicono che dovrei divertirmi un po’, staccare dal lavoro e farmi una vita come loro che ormai hanno famiglie, case e auto costosissime.
Fisso l’orologio, le lancette scorrono lentamente e il tempo scivola come catrame sull’asfalto. Pesa, pesa su di me, mi ricordo che è l’ora di continuare, di riniziare a credere in qualcosa. Ho iniziato a sopravvivere una volta finita l’università, a quel punto mi fui ritrovata da sola difronte ad una vita che aspettava la mia prossima mossa. Il fatto è che non ero pronta per quella vita da tigri, così lasciai che la corrente mi portasse dove lei volesse. Ho accettato il primo lavoro che mi capitò, presi il primo appartamento in una squallida palazzina e iniziai a fare ogni giorno la stessa cosa per tutti i giorni.
Alzati, lavati, vestiti, mangia, preparati, lavoro, torna, mangia, lavati, dormi. Alzati, lavati, vestiti, mangia, preparati, lavoro, torna, mangia, lavati, dormi. Ripeti all’infinito.
Guardo le lancette, il treno dovrebbe arrivare tra meno di dieci minuti, se tutto va bene (ma di solito non va mai bene). Respiro l’aria asciutta di questa notte. È esattamente uguale a tutte le altre volte, non c’è aria di magia, non c’è un ragazzo che mi accompagna a casa, non ci sono degli amici a farmi una sorpresa, non viene una fatina per trasformarmi in una principessa.
Accendo una sigaretta, aspiro lentamente, il vento mi spingi il fumo negli occhi che iniziano a pizzicare. Appoggio la testa al muretto, socchiudo gli occhi: vorrei solo dormire. Mi rilasso, continuo a fumare, mi sento leggera e libera. In lontananza sento che sta arrivando il treno, una voce metallica mi invita a salire. Entro e anche lì mi ritrovo ad essere sola nella cabina. Non c’è da meravigliarsi: chi starebbe fuori a quest’ora? Anzi, riformulo: chi starebbe fuori a quest’ora della notta la notte di San Lorenzo? Nessuno, ecco. Condannata dalla solitudine, mi accomodo sui sedili, distendo le gambe, tanto non c’è nessuno, chi vuoi che venga a discutere? Guardo fuori, il paesaggio corre veloce mentre il tempo continua a rallentare. Le luci si confondono, i cavi elettrici non finiscono più, gli alberi si rincorrono ed io sono qui seduta, la fronte appoggiata al vetro e mi sto quasi addormentando. Respiro lentamente, dovrei avere un aspetto orrendo, la matita colata, sudata, indossando una vecchia tuta bianca, i capelli raccolti in una cipolla cadente. Mi rallegro e penso che fortunatamente nessuno sarà costretto a vedere una tale schifezza. Il cellulare squilla, fa un casino immenso e voglio spegnerlo subito. È un numero che non conosco, non ho idea di chi sia. Lo lascio squillare un po’ mentre penso se rispondere o meno. Controvoglia trascino in dito sul displey. Che verde sia e verde fu.
“Pronto?” le mie corde vocali si impegnano ad emettere suoni.
“Pronto ehm, la cosa può sembrare strana, ma ho fatto una scommessa con alcuni miei amici e hanno detto che avrei dovuto chiamare la prima persona che corrispondeva alla pagina dell’elenco telefonico del numero delle carte che avevo in mano. Lasci stare è complicato da spiegare, bè mi dispiace di averla disturbata, dalla voce mi sembra che si sia appena svegliata…”  un fiume in piena quella voce, non si fermava mai.
“Ehm no, stavo tornando a casa, ora se non le dispiac…” non faccio in tempo a finire la frase che quello continua, è irritante.
“No no, non chiuda, la scommessa non finisce qui. Non chiuda, ei la vedo, sta per chiudere, ma mi ascolti! Primo: io sono Luca, lei dovrebbe essere Chiara. Secondo: non abbia paura, non la uccido, non la stupro né la derubo, venga al bar “Costy” domani. Se se lo stesse chiedendo, sì è un appuntamento” Inizio a stancarmi di questo fiume.
“Senta non ho tempo per queste cose da ragazzini, ho da fare.” E sto davvero per chiudere ma…
“No no, sul serio, non chiuda, non le chiedo molto, solo un pomeriggio, uno solo e mai più. Non dica no, è una scommessa! Non può assolutamente tirarsi indietro, se lo fa è soltanto un’altra di quelle donne che non fanno altro che rifiutare il mondo perché il mondo è troppo difficile per loro.” Questo tizio mi ha seriamente seccata, ma quell’ultima frase…  continua “Le chiedo scusa ancora una volta, ma domani, alle cinque e mezza, si faccia trovare lì. È solo un pomeriggio, è solo per una volta, probabilmente non mi rivedrà mai più. Comunque ho 30 anni e sì, faccio ancora queste cazzate con i miei amici.”
“Bhè non si può di certo dire che sia maturo per uno della sua età. Io ne ho 26 e non trovo alcun motivo per il quale io debba accettare la sua inutile offerta di uno stupido e irrilevante appuntamento.” Non chiudo, voglio sapere che cosa dirà.
“Sa che le dico? Dovrebbe imparare ad osare, non saprà mai che cosa le accadrà la prossima settimana, non saprà mai quando arriverà la sua fine, il suo punto. Lei sta trascorrendo la sua vita come fosse un’interminabile vuoto, continua ad andare avanti, ma questo non è andare avanti! Apra gli occhi! Io non la conosco, ma se ne avessi la possibilità, non dico che le cambierei la vita, ma almeno le farei vivere questa.”
Così chiude lui, questo Luca di 30 anni e io rimango con il cellulare nelle mani e le porte del treno aperte. Scendo, mi incammino per strada e vedo una stella cadente, non so se desiderare o no. Fisso il vuoto nel cielo, non so se è il destino o no, non so se è la stella o no, non so se è questo Luca o no.
Nel dubbio, è ora di riempire questo vuoto.

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Capitolo 8
*** Gioele ***


1.Gioele
Mi accomodo sul letto, la finestra spalancata per il troppo caldo e magari da qui qualche stella potrei anche vederla da lontano. Appoggio il computer portatile sulle mie gambe incrociate e lo accendo, vengo inondato da una luce bianca. Il cellulare vibra per le notifiche dei vari social network, lo spengo, mi sta distraendo. Vado su Google, scrivo ‘chat’ e clicco sul primo sito che esce. Mi porta ad una stupida chat, il sito dice che è vietata la pornografia, ma probabilmente qui ci stanno tutti solo per quello. Vedo i partecipanti della chat: SeXyBoy91, Cuccioletta23, A-aron5, Black­_G, ecc…
Mi creo un profilo, mi chiamo -Sky- e scrivo i dati a caso, una falsa e-mail, una falsa data di nascita, falso tutto. Scrivo sulla chat principale.
-Sky- : Ciao!
Vedo il mio messaggio che viene sotterrato da altri tizi che mi salutano solo per educazione e aspetto quanto basta che qualcuno inizi a scrivermi. Aspetto che qualcuno troppo disperato per la realtà cerchi un amico on-line. Aspetto che mi cerchino per dirmi di loro, conoscerli, sapere delle loro vite. Aspetto che trovino il loro perfetto sconosciuto a cui raccontare i propri problemi.
Mi si apre una chat in privato.
Skyfall: Il tuo nome è nel mio.
-Sky-: Il mio nickname è nel tuo.
Skyfall: Perché sei su questa chat?
-Sky-: Potrei fare la stessa domanda a te, perché sei qui?
Skyfall: Non vale, te l’ho chiesto prima io!
Lo ammetto, mi piace fare lo stronzetto all’inizio.
-Sky-: Sono qui perché non mi andava di uscire e mi annoio, tu?
Skyfall: Sono qui perché non credo in questa cazzata dei desideri e preferisco stare qui a chattare.
Come ti chiami?

-Sky-: Gioele, tu?
Skyfall: Naomi.
Quanti anni hai?

-Sky-: 20 tu?
Skyfall: 17
Una volta che sai l’età e il sesso, il gioco per farteli aprire a te è semplicissimo.
-Sky-: Se ti chiedo come stai rispondi sinceramente?
Skyfall: Cosa..?
-Sky-: Come stai?
Skyfall: Male.
Le chiedo perché e lei mi dice che si sente sola, ha paura di sé stessa, ha paura di far male alle persone che vuole bene, non sa più come fare per star bene, ha mollato tutto, non ce la fa più. Mi capitano spesso ragazze come lei, sono tutte finite nella stessa merda. Dicono ‘Ce la faccio’ all’inizio e poi crollano sotto un fiocco di neve. Iniziano a rovinarsi dopo che vedono altri farlo, pensano che sia il modo giusto per stare bene e iniziano a congelarsi sotto la neve. Diventano dure, fredde, hanno crepe ovunque, ma stanno ancora in piedi; non mollano, no, devono restare nella bufera, far vedere che sono forti come le altre, devono rimanerci. Si fanno forza insieme, si dicono che possono farcela, resistono. Poi arriva una, decide che l’estate le manca, questo inverno l’ha mangiata dentro e vuole ritornare al sole. Il ricordo del caldo aleggia nel freddo delle altre. Non capiscono come potrebbero tornare al caldo, ormai il freddo è così comodo: nasconde, culla, rassicura, dice che è troppo difficile la vita quindi perché vivere?. Il caldo no, col caldo si combatte, si tira avanti, ci si fa in quattro per stare bene davvero, sembra solo fatica sprecata agli occhi di queste ragazze, ma rimpiangono il tempo in cui erano bambine al mare. E così arrivo io.
-Sky-: Quando deciderai di stare meglio?
Skyfall: Ma io voglio stare bene! Solo non posso…
-Sky-: Quando ti deciderai a farti aiutare?
Skyfall: Non potrebbe aiutarmi nessuno…  è questo il problema.
-Sky-: Tu hai paura di chiedere aiuto.
Skyfall: Non è vero, se potessi chiederlo l’avrei già fatto.
-Sky-: Perché non puoi?
Skyfall: …
Perché non voglio che pensino che sia pazza.

-Sky-: Visto? Hai paura. Una paura fottuta di non essere perfetta.
Skyfall: Sì e quindi?
-Sky-: Combatti, non startene solo qui a lamentarti.
Skyfall: Come?
-Sky-: Inizia col chiedere aiuto a qualcuno di serio.
Skyfall: Chiedo aiuto a te.
Guardo fuori dalla finestra, mi fermo qualche attimo e respiro quest’aria afosa. Vedo la scia di una stella e mi convinco che i desideri si possano davvero avverare. Non sono sicuro se dovrei impegnarmi di nuovo nell’aiutare e amare qualcuno. Non so davvero se riuscirò ancora a vedermi queste ragazze crescere e diventare forti con me per poi abbandonarmi così che continuino la loro vita. Non sono pronto per perdere ancora qualcuno.
-Sky-: Ok, ti aiuterò io.
Nel dubbio, lo faccio.

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Capitolo 9
*** Margherita ***


1.Margherita
Sono nel bagno di un locale malandato ricurva sul lavandino a pulirmi la bocca dal vomito. Pochi minuti fa ho finito di rigurgitare ciò che ho mangiato alla festa dove sono stata invitata da un gruppo di ragazzi. Non so neanche chi siano, mi sono solo imbucata a questa festa e ho iniziato a mangiare tutto ciò che ho trovato, non importava cosa fosse, avevo fame. Erano circa 5 giorni che andavo avanti con litri litri e litri d’acqua intervallati da una mela. Il mio organismo chiedeva cibo e la mia mente non riusciva più a controllarlo. Maccheroni al ragù che sporcavano i colletti delle camicie dei ragazzi; patatine inzuppate nel sale, immerse in ketchup e maionese che finivano una dietro l’altra nella mia gola; hotdog caldissimi pieni di tutto quello che si potrebbe mangiare; birra amarissima e frizzante, fresca che corrodeva la gola mentre ingoiavo il tutto senza pensare alle innumerevoli calorie che ingurgitavo. Tutto quel grasso, tutto quell’unto, quell’olio che scola dal cibo, le bocche degli invitati che masticano, alcuni si lasciano sfuggire qualche pezzettino e mi sputano quello che mangiano, le posate che rumoreggiano, la confusione, tutto ciò mi faceva girare la testa e il mio stomaco protestava. Non ero più abituata a tutto quel cibo, sentivo il senso di vomito salirmi su per l’esofago corrotto così sono corsa in bagno. Non c’era nessuno, ho aperto la porta e mi sono fiondata ad abbracciare il cesso nel quale ho rigurgitato tutto. Non ho lasciato una briciola dentro di me, niente, non ho più niente nel mio stomaco, nel mio corpo non c’è niente.
Sono vuota.
Sono completamente vuota.

Scarico lo schifo che ho prodotto e sento la bocca bruciare, i succhi gastrici corrodono il cibo e anche il mio corpo. Mi sono alzata e mi sono sciacquata il viso, le mani, cercavo di ritornare pulita, pura. Il mio corpo è come un tempio che deve rimanere perfetto, immutato, niente può entrarci. Guardo nello specchio la mia immagine riflessa e realizzo che mi si vedono troppo gli zigomi, le ossa che sbucano dal mio corpo quasi come se non mi appartenessero. La matita si è sciolta e il mascara non è da meno così mi rifaccio completamente il trucco, ci metto poco. Sospiro, la mia pelle è bianca cadaverica, sembro davvero morta e magari se lo fossi non mi dispiacerebbe così tanto. I capelli sembrano spaghetti neri , ora un po’ mossi dall’umidità dell’aria e dal sudore; sono lunghi e rovinati alle punte, potrei sembrare un vampiro. Il vestito non mi stringe come dovrebbe e si vede che questa XS mi sta larga. Tiro indietro la pancia, stringo il vestito ecco, così vorrei essere. Quasi invisibile, scomparire, così magra da non essere vista, così leggera per poter volare. Vorrei volare via con queste mie ali e andarmene in un luogo che nessuno conosce, restare lì per addormentarmi e non svegliarmi mai più.
Bussano alla porta così mi riprendo in fretta dalla mia orrida immagine e la apro. C’è una ragazza un po’ stanca che si regge a stento. La vedo che si trascina dentro e vomita, non aspetta neanche che io sia del tutto uscita. La raggiungo e le tengo i capelli, non so neanche chi sia, ma so che non vorrebbe sporcarsi in una serata come questa. Si butta indietro e si accascia al pavimento con la schiena poggiata sulle piastrelle sporche del muro. Si toglie i tacchi e sembra non si sia ancora accorta che io sono lì con lei. Mi siedo lì affianco dopo aver chiuso la porta. La guardo, il suo vestito rosso fuoco senza spalline dovrebbe aver fatto furore là tra i ragazzi, mentre le sue curve sono da Dio. Non è più magra di me e questo mi rende felice. Ha i capelli biondicci, probabilmente una tinta cinese che non ha fatto effetto sul suo castano chiaro. Sospira, non apre ancora gli occhi, il rossetto invece le è scomparso per metà del labbro inferiore, le si è posizionato invece sul dorso della mano destra.
“Come ti chiami?” mi fa dopo qualche minuto che ormai eravamo lì.
“Margherita, tu?” le rispondo con curiosità. Lei volta il viso verso di me e riesco a vedere i suoi occhi, sono blu. Non sono celesti-grigi come quelli di molti, i suoi sono proprio blu, come il mare profondo.
“Io sono Valeria. Grazie per avermi tenuto i capelli” dice lentamente, come se si fosse dimenticata come si parla.
“Sei amica di Mezza’?” continua poi. Io sinceramente non ho idea di chi sia così le dico che mi sono imbucata perché alcuni mi avevano invitato. Lei annuisce pensierosa.
“È uno stronzo. Comunque, Margherita, dove ti piacerebbe essere ora?” sembra così innocente mentre parla, mi accorgo che potrebbe essere di uno o due anni più piccola di me. È triste, le si legge in faccia che non sta bene. Potrei quasi giurare che si è scolata da sola una bottiglia di vodka o qualche mix di alcool. Si morde il labbro e giocherella con i tacchi neri altissimi.
“Mi piacerebbe essere su un letto a non fare assolutamente niente per sempre. A te?” le passo la palla.
“Ovunque, basta che non ci sia questa gente” piagnucola. La guardo e lei mi fissa, mi cade sopra e cerco di rimetterla appoggiata al muro. Fa per abbracciarmi, non riesco a resistere così cerco di darle quella sicurezza che servirebbe a me. Piange piano, non vuole farsi sentire, vuole farsi credere forte. Mi stringe e inizia a singhiozzare. Non so letteralmente cosa fare così l’accarezzo.
“Ei.. ei. È tutto ok. Qualsiasi cosa ti sia accaduto, ora è tutto ok. Non pensarci. È tutto ok. Vedrai che finirà tutto.” La rassicuro o almeno questo è quello che vorrei sentirmi dire io ora, continuo “Vuoi che ti porti via da qui? Ho un appartamento, puoi passare lì la notte. Eh, allora?”. Mi sento una mamma con la sua bambina, lei singhiozza un “sì” silenzioso. Ci alziamo lentamente e andiamo via da quel posto orrendo. Guido io, tra le due io sono nelle condizioni migliori. Guarda fuori dal finestrino durante il viaggio e forse per un po’ si stava addormentando. Inizia a piovere, niente stelle per noi questa sera. Niente desideri, ancora.
Prendiamo l’ascensore, teniamo i tacchi in mano, abbiamo i piedi distrutti. Valeria non è in grado di svestirsi così l’accompagno in bagno e lo faccio io per lei, cerco di lavarla. Vedo sul suo corpo vecchie cicatrici. Sono ormai bianche, lei mormora qualcosa che non riesco a capire. La porto sul letto grande e la lascio dormire lì. Vado anche io a sistemarmi e fisso di nuovo il mio corpo. Non so se sia meglio uno scheletro o un muro di graffi. Sospiro e ritorno in camera, mi distendo e inizialmente le rivolgo la schiena, poi mi giro verso di lei. L’accarezzo il viso, è così piccola e così persa. Sta dormendo credo, mi chiedo cosa l’abbia portata alla distruzione in questo modo: non è brutta, non è grassa, sembra amata o almeno alla festa era felice con tutti. Mi abbraccia come fossi un fidanzato, un peluche o un enorme cuscino. Quel corpo, quella ragazza, quella vicinanza, l’idea di essere amata. Tutto ciò mi turba così cerco di staccarmi un po’, non voglio che si affezioni a una come me: potrei solo portarla più giù di quanto non sia già.
Guardo il soffitto nero, sento la pioggia che scende energica sulla strada, non riesco a dormire. Mi metto seduta con i piedi che toccano il pavimento. Sulla mia schiena spuntano corna di dinosauro, mi alzo lentamente cercando di non svegliarla. Controllo l’ora, sono le due e vado nel balconcino bagnato. Mi accendo una sigaretta e mi siedo, coperta dal balcone di sopra. Aspiro lentamente e inizio a sentire un po’ di freddo. Un brivido mi corre per tutto il corpo o il presunto corpo che dovrei avere. Sento dei passi, è Valeria.
“Perché non sei rimasta nel letto? Se ti do fastidio me ne vado” si scusa.
“No, no. Semplicemente non riesco a dormire”
“Non hai freddo qui?” mi chiede “Wow… sei così magra, non hai paura di non reggerti più?”. Non la guardo neanche.
“Tu invece non hai paura di sanguinare, vero?” le ribatto. Lei abbassa lo sguardo.
“Oggi volevo esprimere un desiderio, ma non potrò farlo…” e fissa la pioggia mentre si abbraccia le ginocchia.
“Non hai bisogno di una stella per farlo” rispondo.
“Ma manca la magia” sembra una bambina cresciuta troppo in fretta.
“Ok, non sarà proprio una stella ma immagina lo sia…” lancio la sigaretta dal balcone e sembra una stella con la sua scia.
Lei sorride, mi ringrazia e appoggia la sua testa sulla mia spalla.
Non ho idea di che cosa fare con questa ragazza, non sono pronta per gli altri, non lo sono mai stata. Non ho idea se il suo desiderio si avvererà, magari creeremo una nuova “leggenda”. Non ho idea di quello che ne sarà di me o di lei.
Nel dubbio, smetto di preoccuparmi.


 

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Capitolo 10
*** Matteo ***


1.Matteo
Quinto e ultimo rigore.
Luca Malzetti, numero 21, con la sua bella maglia arancione e bianca si posiziona davanti a me. Il pallone ai suoi piedi, un rivolo di sudore sulla fronte gli scende al lato destro del viso mentre i suoi occhi mi fissano. Siamo tutti stanchissimi, il caldo è insopportabile e vorremmo essere di certo da un’altra parte piuttosto che in questo campetto.
Malzo respira affondo, si concentra. Se riuscissi a bloccare la sua palla potremmo vincere, contano tutti su di me, la coppa è nelle mie mani, il destino della nostra squadra lo è. Mi preparo bene con la mani aperte all’altezza delle ginocchia, sento i capelli bagnati che mi pizzicano sul collo. Sono un tempio di tensione, concentrazione e ansia in questo momento. Fisso lo sguardo sui suoi occhi, cerco di indovinare dove andrà a tirare, potrebbe anche fingere, io devo solo provare a pararla. Prende la rincorsa e va, veloce, colpisce la palla che vola alta nell’angolo destro della porta. Mi slancio, salto, allungo le mani più che posso, apro bene le dita per bloccarla. La vedo che si pianta nelle mie mani, io cado su un fianco. I miei compagni hanno iniziato a urlare, saltano, stanno correndo verso di me. Non ci posso credere abbiamo la coppa, ce l’abbiamo fatta. Mi fanno salire sulle loro braccia, sulla “sedia del papa”. Vedo gli occhi di tutti brillare, i sorrisi immensi che abbiamo stampati sui visi, ci abbracciamo mentre i coriandoli invadono il campo, i tifosi che scuotono gli striscioni mentre fanno urlare quelle trombette. Vedo anche l’altra squadra che se ne sta con gli occhi bassi, Malzetti che è in ginocchio per terra con il viso tra le mani, un suo compagno gli va vicino e lo aiuta a rialzarsi, ma lui non vuole. Decido di scendere dal mio trono, vado verso di lui e gli tendo una mano, porto ancora i guanti. Lui mi guarda con i suoi occhi e da più vicino posso notare che sono verdi, forse pensa che lo faccio solo perché mi fa pena.
“Era solo una partita” gli dico accovacciandomi, ancora con la mano rivolta verso di lui, accenno un sorriso.
“Era la mia ultima partita” mi risponde prendendo la mia mano e alzandosi da solo ancora prima che io mi sia alzato. Rimaniamo per qualche secondo a guardarci imbarazzati in silenzio quando sento i miei compagni che mi chiamano, così corro da loro. Ci danno la coppa, la alziamo in alto verso il cielo, quel cielo che con tutte quelle luci non ci fa vedere le stelle, ma a noi neanche importa più: abbiamo vinto! Siamo al centro dei riflettori, siamo negli schermi, nelle foto, saremo ricordati per aver vinto la coppa dell’anno, la nostra foto sarà nei bar.
Andiamo negli spogliatoi e festeggiamo con qualche birra rimediata non so dove, la torta al cioccolato che non va quasi a nessuno perché abbiamo troppa sete per mangiare. Ci laviamo velocemente perché non vediamo l’ora di andare fuori a festeggiare sia la vincita che la serata. Lancio un occhiata veloce al cellulare: sono le 23.27 e nessuna chiamata né messaggio. Strano come tutti abbiano qualcuno con cui vantarsi mentre io no. Faccio la borsa in due minuti, esco che ho ancora i capelli bagnati dopo la doccia, tanto è Estate. Prendo le chiavi e mi dirigo dove ho lasciato la macchina. Vedo Luca che è appoggiato sul muretto, la sua squadra è dall’altra parte del parcheggio e lui è lì da solo a guardare le sue Vans. Decido di avvicinarmi, due lupi solitari non sempre sono avversari. Mi appoggio accanto a lui e gioco con le chiavi.
“Perché sei venuto qui?” mi chiede un po’ triste e scettico.
“Non si dovrebbe stare soli dopo una partita. Non si dovrebbe stare soli di notte, soprattutto questa notte. Non si dovrebbe stare da soli e basta” non so perché, ma quel ragazzo mi ispira dolcezza.
“Sigaretta?” mi fa poi porgendomi il pacchetto. Io lo guardo e non so se far finta di fumare o semplicemente dire la verità.
“A dir la verità non ho mai fumato…” mi guarda e strabuzza gli occhi, non ci crede.
“Cosa?! Dobbiamo assolutamente rimediare” sorride e scende dal muretto, si mette in piedi davanti a me, questa volta senza il pallone, poi continua “Vuoi provare?” e potrei dire che sta ridendo.
“Ehm ok, ma non ridere” non so se possa aver visto che sto arrossendo.
“Ok, allora prendi la mia che è già accesa, tira e poi aspira come se dovessi fare un grande respiro dal dottore” mentre lo dice mi mette sulle labbra la sigaretta retta dalle sue dita. Io provo come mi ha detto, ma quel fumo mi pizzica in gola e butto fuori tossendo, non mi piace neanche. Lui ride, ma cerca di trattenersi perché gli avevo detto di non farlo.
“Hai le labbra morbide” dice ricomponendosi e fumando. Mi soffia sopra il fumo e io chiudo gli occhi, sinceramente non mi piace molto quell’odore, ma posso sopportarlo. Guarda un attimo il cielo, ormai le luci del campetto si stanno spegnendo, se ne stanno andando tutti.
“Non hai una ragazza da cui correre?” mi chiede continuando a guardare il cielo, passa una stella cadente. Non desidero nulla, spero lui l’abbia fatto: non si possono sprecare le stelle.
“No, tu invece?” e lo vedo che sorride appena, con il mozzicone ancora in bocca.
“No, io ho un segreto da cui scappare” mi risponde così, abbassando lo sguardo e tornando a fissare le sue scarpe.
Rimango in silenzio, incerto su cosa sia più giusto dire in questo momento; intanto lui getta la sigaretta e prende le sue cose.
“I segreti fanno male, ma solo se nascosti” Luca si gira e si avvicina a me, mette la fronte contro la mia, i nostri nasi si toccano. Gli guardo le labbra, sono bellissime. Credo lui stia facendo lo stesso
“A volte alcuni segreti fanno bene a restare tali” mi sussurra a fior di labbra, sento il suo respiro, il suo alito, l’odore di fumo. È bellissimo e sento che è una persona fantastica, voglio baciarlo. Aspetta cosa ho appena pensato?! Non me ne rendo conto che il mio corpo ha seguito una qualche strana forza e ora sento le sue labbra sulle mie. Ho gli occhi chiusi, non ho idea di quello che sto facendo. Luca lentamente si allontana dal mio viso, aprendo gli occhi vedo che lui ha uno sguardo spaesato.
“Ma quindi tu sei…” mi dice piano, incerto.
“Non lo so… tu, invece?” ribatto insicuro.
“Sì… bello il mio segreto, no?” risponde abbassando la testa.
“Sei bello tu” mi scappa subito dopo. Non ho più il controllo sul mio corpo e non so perché mi sento strano. Luca mi guarda e quasi sorride, ha le fossette sulle guance. È una situazione imbarazzante ora, stiamo entrambi in piedi e impalati senza saper che dire o che fare.
“Senti ehm, non è che ti va di passare la sera insieme, ho la macchina e possiamo andare dove vuoi” propongo alla fine, sperando che non mi lasci da solo.
“Nessuno dovrebbe star solo di notte, no?” e mi passa un braccio dietro il collo.
Così ci dirigiamo in macchina, emozionati e un po’ imbarazzati, direzione: ovunque.
Non so se questa cosa sia giusta o no, non so cosa direbbe la mia famiglia o la sua, non so neanche se questo è un appuntamento o meno.
Nel dubbio, mi viene voglia di baciarlo ancora e va bene così.

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Capitolo 11
*** Sofia ***


1.Sofia
Non ho tempo, devo fare tutto ora, non ho tempo.
Nello zaino ho cercato di mettere il possibile: due magliette, due maglioncini, un leggins, un jeans, un paio di shorts, tre paia di calzetti e tre slip. Ho rubato 150 euro da mia madre e ho preso altri 100 dai miei risparmi, dovrebbero bastarmi per un mesetto se mangio solo una volta al giorno.
Ho deciso di partire, di andare lontano, non so dove, basta che non sia qui, devo farlo. Non so come riuscirò a vivere, probabilmente mi troverò lavoro in un bar sulla strada. Partirò tra dieci minuti, quando domani diventerà oggi e a quel punto l’idea di un nuovo giorno non farà più paura. Al circolo ho salutato tutti come se domani sarò ancora lì, a scherzare con loro, con tutta quella massa informe di persone che fingo mi stiano simpatiche. Ho dato la buonanotte a mia nonna e mia mamma come se domani io mi svegliassi all’una del pomeriggio come sempre. Ho accarezzato il mio gatto come se domani lo potrò fare di nuovo. Nessuno sa che me ne andrò, per sempre. Non mi vedranno più, non vedranno più quella ragazza un po’ strana che si trascina fuori casa senza voglia solo per non essere chiamata asociale. Non vedranno più quella bambina che gioca a fare la grande. No, non mi vedranno più, per così tanto tempo che il ricordo dei miei occhi svanirà, nessuno si ricorderà se metto i capelli dietro l’orecchio, il colore del mio smalto preferito o quante volte stavo in silenzio senza dire niente per ore mentre tutti parlavano e parlavano. Il mio ricordo svanirà lentamente e sarà come se io non ci sia mai stata. Non ho paura del futuro, è questo presente che continua a torturarmi, giorno dopo giorno, niente cambia e io resto immobile qua.
 È ora di muoversi, sì perché non ho più tempo, è arrivato il momento. Scendo piano, esco dalla porta sul retro e scavalco il muretto, faccio il giro delle case e vado sulla strada. Ho paura che i miei si possano svegliare e a quel punto tutto il mio piano andrebbe a farsi fottere. Cerco un taxi e mi faccio portare fino all’aeroporto, avevo già il biglietto. Salgo sull’aereo e tra poco spiccherò il volo per l’America. Mi piace l’idea di poter volare, ho sempre pensato che quelli che si buttano dai palazzi alla fine vogliono solo imparare a volare. Ho il posto vicino al finestrino e mi ci accoccolo, ho le cuffie e sto ascoltando una canzone che nessuno ascolterà mai. Devo aspettare ancora quindici minuti perché l’aereo parta e a me inizia a salire l’ansia che qualcuno mi possa scoprire.
Inspira, espira, inspira, espira, inspira, espira. Ripeti con calma.
Lo psicologo mi ha insegnato a fare così per controllare l’ansia, ma alla fine, serve a poco e io inizio a torturarmi le labbra. Ho il respiro irregolare e questa non dovrebbe essere una cosa buona. Cerco di distrarmi, guardo fuori e penso a tutti quelli che stanno esprimendo desideri e realizzo che è solo una stupida tradizione, se così si può chiamare. Perché credere che una stella cadente possa far avverare i desideri delle persone? Non cambierà mai niente con una stella. O meglio, niente mai cambierà. Sospiro, mi giro e mi accorgo che accanto a me si è seduta una signora, avrà cinquantotto anni su per giù, ha un aspetto stanco, mi domando infatti perché abbia preso l’aereo a quest’ora. Di notte gli aerei li prendono solo chi sta fuggendo. Poco importa, io provo ad addormentarmi, ma niente da fare: stiamo partendo e sento le mie viscere contorcersi. Stringo i manici della poltroncina e fisso un punto sullo schienale davanti. Ho la bocca serrata e sembro quasi morta, trattengo il fiato.
“Primo volo?” quella voce rosata mi spezza la concentrazione per non vomitare e torno a respirare.
“Eh già.” balbetto in una maniera incomprensibile.
“Dove andrai una volta là?” continua a parlarmi, queste vecchiette che cercano di conversare a volte mi infastidiscono. Come devo spiegarvelo che a volte i giovani vogliono semplicemente stare in silenzio?
“Bhè… ehm…  a Miami. Sì, là c’è una mia cugina e mi ha invitato…” mento così spudoratamente che sembro quasi credibile.
“Oh bene bene, io vado a trovare mia figlia che sta partorendo. Sai, è il suo primo figlio e non vorrei lasciarla da sola a New York.” Mi fa l’occhiolino e continua “Si è separata da suo marito, a dirla tutta non mi è mai piaciuto gran che, era uno sbruffone. Solo che l’ha messa incinta e lei ha voluto tenere il bimbo. Si chiamerà Jason se è maschio o Violet, se è una femmina.”
E io annuisco senza saper bene che dire, accenno un sorriso e riprendo a guardarmi le mani intrecciate sulle ginocchia.
“La prima volta che ho preso l’aereo fu quando avevo circa ventidue anni. A quel tempo non si usava molto prendere l’aereo e a dir il vero ero molto spaventata. Ricordo che lo presi perché dovevo andare al funerale di uno mio zio, ma alla fine andai al mare. Il mare della Spagna, era caldo e di starmene in un cimitero per piangere la morte di qualcuno che neanche conoscevo, bhè non me ne andava.” Ricorda con un sorrisetto. Ha il rossetto rosso, come si usava un tempo e profuma di rosa, un profumo antico ma pur sempre bello.
“Wow” commento impacciata.
“Vedi a volte viene il momento di partire e basta, senza una metà perché semplicemente ti serve. Quando parti tutto sembra più bello, tutto ciò che hai, lo perdi e in quel momento niente ti è mai sembrato così bello. È l’idea di partire che facilita tutto, pensi che finalmente è la volta buona che potrai dimenticare tutto e tutti si dimenticheranno di te. Tutto ciò che eri, finisce.”  Spiega con dolcezza e ora la guardo attenta.
“Un po’ come morire, no?” affermo certa.
“Un po’ come nascere un’altra volta, ma sei già grande, già pronta per il mondo e questa volta niente può fermarti perché non sei più come prima…” sembra si stia preparando per un viaggio nella sua memoria, sorride a riguardo e sto pensando che forse è proprio così che funziona. Si parte, si inizia, si va.
Penso sia strano come a volte le persone siano giusto un po’ più adorabili del solito, come un ‘grazie’ può fare la differenza. Strano come una tradizione richiami tutti sotto un cielo stellato, come tutti si ritrovano a credere in una magia. Strano come, mentre si pensa ad occhi chiusi un pensiero tira l’altro e tu non riesci più a controllarti, ti chiedi come ci sei arrivato e non trovi l’inizio. Strano come tutto d’un tratto ti addormenti e non te ne rendi conto finché non ti svegli. Strano come…
Welcome to USA. It’s seven am and we are on New York city.”
Devo essermi addormentata, non c’è dubbio.






#Spazio Autrice
Ok il momento "aiuto mi voglio ammazzare" è passato e forse qualche altra storiella la metto... Ma basta che mi dite cosa ne pensate  altrimenti chiudo qua.

 

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