Dystophic Lovers

di Aru_chan98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Desiderio Negato ***
Capitolo 2: *** Gli invasori consolatori ***
Capitolo 3: *** Crescendo d'affetto ***
Capitolo 4: *** Rivelazioni ***
Capitolo 5: *** Riuscire a salvarci ***
Capitolo 6: *** Far accadere un Miracolo ***
Capitolo 7: *** Una nuova vita ***



Capitolo 1
*** Desiderio Negato ***


Dei bambini che ridevano, uccellini che cinguettavano e coppiette che si tenevano per mano con l’amore riflesso negli occhi. Arthur era in mezzo a loro, mano nella mano con una persona che non riusciva a riconoscere. Ridevano e scherzavano, finché non si sedettero su una panchina, vicino ad un grande albero che offriva un gradito riparo dal calore estivo. I due continuavano a parlare finché un piccolo silenzio scese fra loro e Arthur non si ritrovò che a pochi centimetri dalle labbra dello sconosciuto, ma un uccello fin troppo rumoroso lo distrasse e in un attimo tutto fu buio. Arthur riaprì gli occhi e il suo sguardo incontrò il soffitto del suo appartamento grigio chiaro. Identificò subito il rumore molesto come l’allarme della sveglia che suo nonno gli aveva lasciato: segnava le 7.30 del mattino del 18 Giugno 21xx. La spense subito e ritornò a sdraiarsi sul letto e fissare il soffitto coi suoi occhi smeraldo. Aveva il cuore che gli batteva forte, le guance in fiamme e un senso di delusione nello stomaco. Faceva quel sogno quasi ogni notte da quando aveva compiuto 23 anni, quasi due mesi prima. Ogni volta veniva interrotto in quel momento e ogni volta si svegliava col cuore in gola. Provò a ripensarci attentamente, cercando di soffermarsi su ogni possibile particolare della persona misteriosa, ma, come ogni volta, il sogno era già quasi sparito, rendendo ogni possibile riconoscimento della persona impossibile. Non sapeva nemmeno se era una ragazza o un ragazzo… Era sicuramente una ragazza, pensò Arthur, scuotendo la testa. Si mise a sedere e il contatto dei piedi col pavimento freddo lo fece rabbrividire leggermente. Ormai era la dodicesima volta consecutiva che faceva lo stesso identico sogno, o almeno, che finiva in quel modo. Non era lui quello bravo a capire i sogni, quello era suo nonno: durante la sua infanzia gli leggeva tanti libri fatti di carta (ormai esistevano solo gli olo-libri ma Arthur li odiava davvero tanto), ma ne aveva tanti altri, che trattavano di tante cose. I suoi preferiti erano quelli che parlavano dei sogni, mentre il nipotino era più interessato ai libri di storia, geografia, teatro e romanzi. Il nonno sapeva interpretare perfettamente ogni sogno, così Arthur glieli raccontava molto volentieri. Arthur adorava suo nonno, che era stato il suo unico familiare ancora in vita che l’avesse riconosciuto e che l’aveva amato come un figlio fino alla sua morte, avvenuta quando Arthur aveva appena 21 anni. Gli aveva lasciato la sua casa e una lettera, che Arthur non aveva mai aperto, poiché bloccato dalle ultime parole dell’uomo: “Arthur, ragazzo mio” gli aveva detto, quasi sussurrando “Oltre alla casa in cui abbiamo passato tanto tempo insieme ti lascio questa lettera. Promettimi che non l’aprirai per nessun motivo, a meno che non sia strettamente necessario per la salvezza di qualcuno a cui tieni più che a te stesso”. Il ragazzo aveva preso la lettera dalle mani del vecchio, mettendola via, con mani tremanti, per paura di bagnarla a causa delle lacrime che gli scendevano. Dei libri però non c’era traccia. “Se tu fossi qui sapresti sicuramente che cosa significa tutto questo grande casino che ho nella mia testa, grandpa” disse piano Arthur, guardando la foto del nonno che teneva vicino alla vecchia sveglia. Si vestì con calma, facendo attenzione che la divisa fosse tutta in ordine e poi si diresse in cucina per fare colazione. Bruciò leggermente la colazione e si preparò una tazza di the nero. Finì la colazione e poi, con la tazza ancora in mano, si avvicinò alle tende che coprivano la finestra della sua camera. La scostò leggermente e guardò fuori: il panorama mostrava una città con molti grattacieli e condomini, con un’adeguata quantità di verde e giardini pensili, che faceva da sfondo ad un cielo di un azzurro bellissimo. Gli uccelli però erano assenti in quel panorama surreale, così come dalle strade si sentivano provenire rumori di auto e pendolari, ma non risate di bambini. Finì di bere il suo the, prese il suo zaino e si affrettò ad uscire di casa, diretto verso l’università. Frequentava l’università da tre anni, sempre la facoltà di lingue, storia e geografia passate. Voleva diventare uno storico come suo nonno e la storia lo attirava più di qualsiasi altra materia. L’università si trovava nel quartiere a nord-est rispetto al centro della città, ove si ergevano gli edifici più importanti, come il palazzo del governo, gli uffici adibiti a varie mansioni della vita cittadina e il centro di fecondazione e approvazione della prole. Quest’ultimo era il più odiato di tutti sin dalla sua creazione, avvenuta quasi un secolo prima. A causa della sovrappopolazione del pianeta, gli stati mondiali si erano accordati su uno stretto controllo delle nascite. Avevano persino costretto gli animali in enormi riserve lontano dalle città e provocato una guerra che aveva distrutto tre delle cinque metropoli in cui si erano radunati gli umani. Arthur prese il primo tram che partiva dalla fermata a pochi passi da casa sua. Si mise seduto vicino al finestrino e, con la musica nelle orecchie, si mise a fissare il paesaggio urbano che scorreva tra stazione e stazione, ancora assorto nei pensieri di quel nuvoloso mattino. Si accorse in tempo di essere arrivato e senza dire una parola scese dal tram.

L’università distava qualche metro dalla fermata e il biondo impiegò solo 10 minuti a raggiungerla. Entrò nell’aula con 5 minuti di anticipo rispetto agli altri, si sedette al solito posto e posò lo zaino sul banco. Poco dopo la classe si popolò di altre persone e accanto a lui si sedette il suo migliore amico Francis. I ragazzi seguirono le lezioni, chiacchierando ogni tanto, finché, finalmente, non suonò la campanella della fine delle lezioni: quel giorno non avevano lezioni pomeridiane. “Allora Arthur, oggi torni subito a casa o ti va di uscire con me, mio cugino e un nostro amico?” gli chiese l’amico. “Grazie, ma penso che andrò a casa. Ho anche il part-time questo pomeriggio” gli rispose Arthur, rimettendo i suoi libri nel suo zaino. “Ho capito. Cerca di fare attenzione, prima di ritrovarti sommerso dalla merce del negozio in cui lavori eh” scherzo Francis, beccandosi un’occhiataccia. “Oh, shut your hell up, you frog. E comunque mi piace lavorare lì: da una sensazione di stare nel passato” rispose l’inglese. “A chi lo dici. Adoravo le storie che tuo nonno raccontava sulla sua infanzia. Tutte quelle storie sul correre nei prati, giocare con gli animali o con gli altri bambini. Per non parlare poi del poter avere una famiglia come e quando si voleva. Sarebbe stato bellissimo se tutto questo  fosse durato fino ad oggi …” disse Francis, passando da un tono sognante ad uno che non tradiva una nota di amarezza. Ormai, nella loro società bisognava avere una dote speciale a livello genetico per avere una prole. Oppure una grande quantità di soldi. “Le invidio davvero tanto le donne. Non importa che abbiano o meno una dote in particolare, sono libere da ogni vincolo. E se si trovano un compagno speciale ancora meglio per loro e il governo” disse Francis mentre guardava con occhi invidiosi le ragazze che passavano in corridoio. “Ho saputo di Jeanne. Mi dispiace davvero così tanto, old chap” disse Arthur, facendo abbassare lo sguardo al francese. Era molto legato alla sua compagna, Jeanne. Progettavano da una vita di avere una famiglia. Nonostante avessero appena 24 anni, riuscirono ad ottenere il permesso di generare una prole, ma non senza qualche difficoltà. Arthur ricordava ancora quanto gioiosamente l’amico scherzava col nascituro che stava crescendo nella sua amata. I due avevano pure concordato di far chiamare Arthur con l’appellativo di “zio” dal bambino. Però, quando venne il momento di dar alla luce il bambino, Jeanne non ce la fece. “Oh beh, non c’era niente che si potesse fare. L’unico rimpianto che ho è non essere stato in grado di darle la famiglia che voleva” disse con le lacrime agli occhi “Il nostro piccolo Matthew è nato sano, ma non me lo lasciano vedere per non so quale legge del cavolo”. “Sono certo che te lo lasceranno vedere presto” cercò di consolarlo l’inglese. “Beh, perché nel frattempo non provi anche tu? Fammi vedere la tua leggendaria fortuna, papi” disse Francis con un sorriso forzato. Tendette ad Arthur un modulo compilato di tutto punto. Il biondo lo prese e quando lo lesse i suoi occhi si riempirono di sorpresa: era un modulo per una richiesta di prole compilata a nome suo. Arthur rimase senza parole per quanto era forte la gratitudine verso l’amico: a causa degli studi e del lavoro non aveva mai avuto un attimo di respiro per andare a compilare tutte le scartoffie per ricevere uno di quei moduli. “De rien, mon ami. C’était un plaisir. Non dicevi che era da un po’ che volevi un bambino? Meglio se ci vai adesso, anche salti una volta il lavoro non penso che verrai licenziato” gli disse l’amico. Gli occhi di Arthur s’illuminarono con una gioia incredibile, abbracciò l’amico, ringraziandolo di cuore e si diresse più veloce che poteva in centro città.

Arrivò al centro prima che potè e si mise in attesa di arrivare al bancone della reception. Una volta lì, si ritrovò a dover aspettare ancora in una stanza diversa però, per essere chiamato da una persona più competente. In seguito venne fatto accomodare in una stanza, dove poco dopo arrivò un’infermiera. “Lei è il signor Kirkland, giusto?” il ragazzo rispose affermativamente. L’infermiera gli fece alcune domande. “Lei ha già una compagna?” gli chiese infine l’infermiera. “No, non ancora” gli rispose il ragazzo, con una nota di paura nella voce: sperò con tutto il cuore che non l’avrebbero trovato non idoneo per quel dettaglio. “Hmm, allora dovrà scegliere una portatrice. Per trovare quella più adatta deve darci un campione del suo DNA, così potremmo anche capire se potrà essere approvato per una prole” concluse la ragazza. Il ragazzo si sottopose a tutti gli esami che gli vennero richiesti, per poi essere riportato nella saletta bianca di prima. Attese per svariati minuti, più inquieto ogni minuto che passava. Finalmente, dopo un’interminabile ora, l’infermiera uscì dal laboratorio coi risultati. “Signore, mi spiace davvero tanto, ma lei non è idoneo per generare una prole di un qualsiasi tipo” Gli disse, porgendogli una cartella, probabilmente contenente i suoi esami. Arthur sentì il suo cuore finire in pezzi: non idoneo per generare una prole… Si sentì incredibilmente triste, prese la cartella, ringraziò l’infermiera per il tempo che gli aveva concesso e s’incamminò fuori dall’edificio. Fece pochi passi, incamminandosi per vie che passavano inosservate ai suoi occhi, tanto era stato forte lo shock. Ad un trattò sentì le gambe rischiare di non reggerlo più, così decise di sedersi su una piccola scalinata.  Aprì la cartella e ne lesse il contenuto: sotto una marea di dati più o meno complessi ne spiccava uno, ovvero l’analisi del suo quadro genetico. Era stato classificato come “normale cittadino senza attitudini o talenti/doti” e alla fine del documento un “Non idoneo per una prole” era scritto a lettere rosse”. Il ragazzo cominciò a piangere e quasi in contemporanea cominciò a piovere. Non gli importava di bagnarsi, tutte le sue speranze di non essere più solo o amato di nuovo erano sparite per sempre: non sarebbe mai potuto diventare padre.

Continuò a piangere per minuti interi, sotto la pioggia, che man mano diventava sempre più fitta. Arthur sentì un rumore di passi, ma non si mosse: non gli importava più nulla, voleva solo essere lasciato in pace per quel doloroso momento. Tutt'un tratto non sentì più la pioggia battere sulla sua testa: un ombrello celeste lo riparava dalla fredda pioggia scrosciante. Alzò gli occhi per vedere a chi apparteneva quell’ombrello e i suoi occhi smeraldo incontrarono quelli zaffiro di una giovane e bella donna. “Come mai stai piangendo?” gli chiese senza troppi complimenti. “Non… non sono affari tuoi” le rispose l’inglese. Non voleva essere assillato in generale, figurarsi in quell’occasione. Si accorse troppo tardi che la ragazza era riuscita a leggere la sua cartella, che aveva lasciato aperta. Lo sguardo della ragazza si fece più gentile e, tendendogli una mano per aiutarlo a rialzarsi, gli fece un sorriso che per un attimo alleviò il suo dolore, anche se di poco. Arthur afferrò la mano della ragazza, che aveva una presa inaspettatamente salda, e si rimise in piedi. “Comunque, come hai detto di chiamarti?” chiese la ragazza, con fare curioso. “Non l’ho detto infatti” si affrettò a dire il ragazzo “Sono Arthur Kirkland”. “Io sono Amelia Jones” ripose con vitalità la ragazza “Piacere di conoscerti. Dimmi Arthur, dove abiti? Posso accompagnarti a casa se vuoi” “Ah, no, non preoccuparti, posso farcela anche da solo” le rispose l’inglese, ma la ragazza non sembrava voler accettare delle lamentele. “Non fare complimenti, ho appena finito di lavorare e tu non hai un ombrello: se vai da qualche parte con questa pioggia ti prenderai un brutto raffreddore” replicò la bionda. Dopo qualche insistenza, Arthur si lasciò convincere da Amelia a farsi accompagnare a casa, senza sapersi decidere se considerare quella giornata come finita in una completa tragedia o se trovarvi un qualche lato positivo.

Piccolo Angolo dell'autrice:
Salve a tutti. Spero vivamente che questa Fanfiction sia ben fatta, anche perchè è la prima che pubblico. Ho tratto spunto da un sogno che ho fatto qualche giorno fa, quindi se alcuni punti non sono chiari questo ne è il motivo... Se qualcosa non va bene o qualcosa di simile non esitate a farmi sapere e spero vi sia piaciuta :)

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Capitolo 2
*** Gli invasori consolatori ***


Dopo essere arrivato a casa, Arthur si buttò a pancia in su sul letto e si mise a pensare: non si sentiva affatto bene. Continuava a pensare al contenuto di quella cartella e allo strano incontro con quella misteriosa ragazza. Non sembrava una cattiva persona, anche se era così piena di vita da dargli un po’ sui nervi, ma era comunque troppo curiosa per i suoi gusti. Durante il tragitto gli aveva fatto un sacco di domande a cui lui non aveva risposto, un po’ per via dello shock, un po’ perché non voleva risponderle. In compenso Amelia sembrava essere davvero preoccupata per lui, tanto che, prima di separarsi, lo aveva convinto a scambiarsi i numeri di telefono. Continuò a fissare il soffitto ancora per un po’ prima di rendersi conto di essere bagnato fradicio. Aveva anche bagnato le coperte del letto, così prima di fare la doccia si affrettò a cambiarle, ma ogni cosa che facesse sembrava la facesse in trance, perché la sua mente divagava ancora tra mille pensieri diversi. Dopo essersi cambiato si mise sotto le coperte e cercò di riposare, convinto che così l’incredibile mal di testa che gli era venuto sarebbe passato. Non volle nemmeno prepararsi la cena e fece fatica ad addormentarsi. Quella notte il solito sogno non si presentò, ma venne sostituito da un incubo in cui Arthur si trovava tutto solo al buio. Subito dopo rivisse la morte del nonno, per poi passare di nuovo nella stanza buia. Cercò un’uscita ma non c’era, così si sedette con le ginocchia al petto appoggiato ad uno dei muri di quella stanza buia. Poco dopo cominciò a sentire una voce, ma cominciò a prestarle attenzione solo quando sembrò riferirsi a lui per deriderlo: “Ma ehy, che ci vuoi fare? Questa società è questa società, quindi la mediocrità deve sparire. Certi individui è meglio che non inquinino la sottile linea di progresso umano. Il governo ha fatto bene a mettere questa selezione genetica, almeno così solo quelli con qualcosa da offrire all’umanità futura possono dare vita a dei figli. I mediocri è meglio che rimangano attaccati come vermi al passato”. “No, non è vero…” mormorò Arthur “Non è vero niente! Anche noi persone comuni abbiamo gli stessi diritti! Anche noi meritiamo affetto e libertà!” esclamò il ragazzo contro la voce che, mettendosi a ridere in modo inquietante, sembrò aggredirlo utilizzando le tenebre che avvolgevano il ragazzo.

Arthur spalancò gli occhi e il suo sguardo incontrò la parete a cui era accostato il letto. La sveglia segnava le 10 del mattino. Il ragazzo era nel panico più totale, col cuore che batteva per lo spavento e qualche lacrima che bagnava il cuscino per la rabbia. “Oh, give me a break” sospirò, chiedendosi perché fosse in grado di ricordare molto bene quell’incubo, ma non i sogni piacevoli che faceva. Cercò di alzarsi dal letto, ma il freddo che sentiva lo convinse a rintanarsi nelle coperte. In più, il suo mal di testa era peggiorato e non si sentiva bene. “Shit, non la febbre” pensò. Con un po’ di fatica, si alzò dal letto, raggiunse un cassetto della cassettiera e ne tirò fuori un termometro. Si misurò la febbre e risultò avere 38.4 di febbre. Emise un sospiro di esasperazione, perché l’influenza era l’ultima cosa che gli serviva, ma comunque aggiunse delle coperte più pesanti al suo letto e si preparò alcune fascette di stoffa fredde come il ghiaccio per cercare di abbassare la febbre. Prese anche qualche medicina per poi cercare di riposare ulteriormente. Per fortuna non si presentarono altri incubi, ma comunque Arthur si sentiva debole. Solo verso sera si costrinse a mangiare qualcosa, per poi avvertire il suo capo che aveva la febbre e che per un paio di giorni non sarebbe andato al lavoro. Prima di tornare a letto recuperò dal tavolino davanti al divano una scatola per il cucito. Una volta sotto le coperte, si sedette e si mise a ricamare, canticchiando una canzone che il nonno gli aveva insegnato da bambino: cucire lo metteva sempre di buon umore. Andò più o meno avanti così per altri due giorni, anche se la febbre non si decideva a scendere. L’unica cosa che cambiava era che si sforzava di fare almeno due pasti al giorno e prendere le medicine con regolarità, cercando di affaticarsi il meno possibile. Per tutto il tempo non sognò nemmeno una volta. Il pomeriggio del terzo giorno si svegliò sentendo qualcuno bussare alla porta. Non fece in tempo ad alzarsi che sentì la porta di casa aprirsi. “Bonjour mon ami, non si usa più accogliere gli amici che vengono a trovarti o chiamarli se si intende sparire?” lo rimproverò una voce di sua conoscenza con un marcato accento francese dal soggiorno. “Se si è a letto con la febbre credo sia concesso, stupid frog” gli rispose con un tono sarcastico l’inglese, che nel frattempo si era alzato e si era appoggiato allo stipite della porta della sua camera. I due stavano quasi per avere una delle loro litigate amichevoli quando l’attenzione di Arthur fu attirata da un altro particolare: Amelia era all’entrata di casa sua. L’inglese si congelò sul posto: che ci faceva lei lì? La ragazza entrò senza troppi complimenti dopo aver chiuso la porta alle sue spalle. “Carino il pigiamino con le stelline Artie” gli disse Amelia con un sorriso dispettoso rivolto al ragazzo, che divenne rosso per l’imbarazzo. Andava bene se era solo Francis perché erano amici d’infanzia, ma con un’estranea, donna soprattutto, la cosa era alquanto imbarazzante. “I-il m-mio nome è Arthur prima di tutto” Si affrettò a dire il biondo, ormai completamente rosso “Secondo, come cavolo hai fatto a sapere dove abito? Non ricordo di avertelo mai detto”. “olalà, penso sia colpa mia” disse di punto in bianco Francis. Arthur gli chiese di spiegare, mentre si assicurava che quella ragazza vestita solo con una maglietta, dei pantaloncini e scarpe da ginnastica non curiosasse in giro. “Beh, una così bella signorina non poteva passare inosservata agli occhi del fratellone ovviamente” cominciò il francese, beccandosi subito un’occhiataccia dall’amico “Soprattutto se parla tra sé e sé di un certo inglesino nei pressi della stazione del tram” aggiunse con calma Francis “Così mi sono avvicinato a questa incantevole signorina e le ho chiesto se le serviva aiuto perché sembrava alquanto contrariata. Non immagini che sorpresa quando mi ha detto che cercava di ricordare la fermata di un tale Arthur Kirkland. Non ho potuto non portarla con me” concluse facendogli un occhiolino. Arthur si chiese che cosa avesse in mente l’amico, anche se aveva una brutta sensazione a riguardo. Che fosse deciso a trovargli una compagna? In fondo, era da quando aveva conosciuto Jeanne che lo assillava con la storia che la vita era migliore con una compagna, ma la verità era che Arthur non aveva ancora incontrato quella giusta, quella che lo avrebbe catturato inesorabilmente. “Conoscendolo” si disse con una nota di rassegnazione “è la cosa più ovvia che ci si possa aspettare da lui”. “Aspettate un secondo che vado a cambiarmi” si affrettò a dire l’inglese, per poi tornare pochi minuti dopo, vestito con una maglietta verde scuro e dei jeans.

“Spero di non disturbare” s’intromise Amelia “Ma non hai risposto al telefono nemmeno una volta, così ho cominciato a preoccuparmi, anche perché l’altro giorno avevi un’aria davvero così abbattuta che mi ha fatto temere per il peggio” l’inglese si pietrificò sul posto al realizzarsi di uno dei suoi timori: la ragazza era davvero riuscita a leggere la sua cartella. “Mais, di che stai parlando Amélie?” chiese Francis. Il volto di Arthur si rabbuiò all’istante. Le parole che non volevano uscirgli dalle labbra sembravano depositarsi pesantemente nella sua pancia, rendendo le sue gambe sempre meno in grado di sostenerlo. Si sedette sul divanetto posto quasi al centro della stanza e, con lo sguardo basso per nascondere gli occhi lucidi, disse “Non… non sono stato ritenuto idoneo”. “Quoi?!” esclamò Francis, che non credeva alle parole dell’amico: era il primo dell’università, com’era possibile che non fosse stato accettato? “E già” cominciò Arthur con un sorriso senza allegria “Hanno stabilito che sono solo una persona ordinaria. Non ho nessuna dote speciale a livello genetico…” “Ma… perché non me lo hai detto, se non subito, il giorno dopo?” gli chiese l’amico, rattristandosi molto nel vedere l’amico in quelle condizioni. “Ho avuto la febbre alta per due giorni, solo oggi sembra essersi abbassata, anche se di poco. Probabilmente mi sono dimenticato di mettere il telefono sotto carica. Ma comunque, non volevo darti altri dispiaceri. Ne hai già troppi. I’m so sorry, my friend” gli rispose Arthur. Francis si girò verso la ragazza per chiederle di lasciarli soli, ma quello che vide lo sorprese: La ragazza aveva i pugni serrati così strettamente che le nocche le si erano sbiancate e aveva un’ espressione che esprimeva sia rabbia che dispiacere. “Amélie…” Cominciò il francese, ma subito la ragazza esclamò “Non dovresti dire così! Quello che dicono gli altri non è importante se non gli dai peso. Troveremo sicuramente una soluzione al problema!”. Dopodiché prese Arthur per un braccio e lo trascino fuori dalla porta diretta chissà-dove e il ragazzo, nonostante le proteste e la resistenza posta (che venne vanificata dalla prepotenza della ragazza), riuscì a malapena ad afferrare le converse appoggiate vicino all’ingresso, prima di sparire dietro all’irruenta Amelia. Francis all’inizio rimase basito, per poi rilassarsi e sospirare un “ahhhh, i giovani innamorati d’oggi” con fare sarcastico. Rimase a pensare alle parole dell’amico ancora per qualche minuto prima di decidere di usare qualche sua conoscenza per far luce sulla questione, chiudendo a chiave l’appartamento per poi andare via.

Piccolo Angolo dell'Autrice:
Eccomi di nuovo con un nuovo capitolo di questa strana storia. Questa volta la mia fantasia non voleva lasciarmi stare e continuava a fornirmi nuovi elementi, tanto che mi sono pure ritrovata a scrivere senza capire dove volevo andare a parare ahahaha Spero sia buono come il precedente :)

 

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Capitolo 3
*** Crescendo d'affetto ***


“Si può sapere perché siamo venuti qui, you bloody git?” chiese Arthur con aria scocciata ad Amelia. Erano seduti al tavolo bianco di un bar, il cui balcone dava sull’area boschiva della città. Erano seduti al tavolo più vicino al parapetto e un cameriere robot aveva appena servito loro un the caldo per Arthur e due enormi porzioni di gelato multi gusto e una tazza di cioccolata calda ad Amelia. Nonostante il the fosse molto buono (a detta di Arthur) il ragazzo non accennava a voler smettere di avere quell’aria scocciata. “Perché questo posto offre le cose più buone del mondo o‘ course” rispose la ragazza dal marcato accento americano. Ora che aveva l’occasione di sentirla parlare di più, il biondo cominciò a sentirsi infastidito da quell’accento americano: gli ricordava troppo quei bulletti che lo prendevano in giro alle elementari. “L’unica cosa buona è la vista” pensò il ragazzo, perdendo lo sguardo all’orizzonte, dove immaginò di vedere dei passeri volare liberi nel cielo. “Sarebbe ancora più bello se ci fossero degli uccelli a volare nel cielo” disse Amelia con fare sognante. Arthur si limitò ad annuire, ma quel piccolo commento gli aveva fatto passare in parte il malumore. Si rimise a sorseggiare il suo the, mentre la ragazza a momenti si strozzava per la velocità con cui mangiava il cibo. Dopo le prime due cucchiaiate della seconda coppa di gelato le fece male la testa e di conseguenza Arthur cerco di ridere discretamente, perché per l’etichetta del gentleman deridere una signorina era maleducazione, ma dopo la seconda volta non riuscì a trattenersi: scoppiò a ridere di gusto anche se riuscì a contenersi quel tanto che basta per non disturbare le altre persone. Amelia fece finta di essersela presa e gli disse “Che hai da ridere, stupid dude? Aspetta solo che il the sia un po’ più caldo di quello che ti aspetti e appena ti brucerai la lingua riderò io” ma non riuscì a mantenere quel finto broncio a lungo, così anche lei finì per mettersi a ridere. Grazie al cielo ci fu quell’episodio, perché da lì riuscirono a rompere il ghiaccio e riuscirono a chiacchierare di cose come “Come sarebbe bello se gli animali potessero essere domestici” o “se si potessero coltivare delle piante cosa ti piacerebbe coltivare” e via discorrendo. Il pomeriggio passò in modo piacevole, ma non erano nemmeno le 17.30 che Arthur non si sentì bene, così la ragazza gli offrì il suo aiuto, che il biondo accettò, spontaneamente questa volta. Lo aiutò ad arrivare fino alla soglia di casa, ove l’inglese tirò fuori da una crepa vicino alla porta, una chiave. Mentre si affrettava a raggiungere il letto a momenti non cadeva per terra: la testa gli era presa a girare e aveva quasi perso l’equilibrio. La giovane americana lo aiutò a raggiungere il letto, dove Arthur si rintanò sotto le coperte. “My goodness, ma tu scotti!” esclamò la ragazza, toccandogli la fronte con una mano. Si guardò intorno, alla ricerca di un termometro, che trovò vicino alla sveglia. Lo prese e misurò la febbre al ragazzo: la febbre gli era salita e adesso era a 39.2. Si fece seria mentre chiedeva ad Arthur dove poteva trovare delle medicazioni e tutto quello che le serviva per aiutarlo almeno un po’. Portò al ragazzo le medicine che aveva nella credenza del bagno, gli mise un bel piumone di piume d’oca sintetiche e gli mise una fascia auto-congelante sulla fronte. Dopodiché lo lasciò dormire e chiuse la porta quando uscì dalla sua stanza. Si sedette un attimo sul divano, a gambe accavallate e braccia incrociate, pensando a cosa fare, con aria assorta. Per prima cosa decise di cucinare la cena, visto che l’orologio sopra la parete del soggiorno segnava già le 18.45, così si diresse in cucina e si rimboccò le maniche per preparare al malato del porridge e una bella bistecca per sé. Dopo una buona mezzoretta la cucina odorava di cibo cotto e non del solito odore di bruciato di quando Arthur cucinava. La ragazza cercò per la credenza un vassoio dove poter mettere un piatto pieno di porridge, un cucchiaio e delle arance e poi portare il tutto al malato. Alla fine lo trovò ma non prima di aver messo a soqquadro metà della cucina dell’inglese. Prese il tutto e si diresse verso la sua stanza. Bussò prima di entrare, ma Arthur stava ancora dormendo. Poggiò il vassoio sul comodino vicino al letto e si avvicinò al ragazzo: dormiva così beatamente che le fu difficile decidere di sveglialo. Alla fine si decise e con leggerezza gli scosse una spalla. “Ancora cinque minuti grandpa” mugugnò Arthur, così Amelia lo scosse leggermente più forte aggiungendo “Avanti dormiglione, non sono ancora così vecchia da essere tua nonna. Dai che la cena si fredda” a bassa voce e con tono dolce e divertito. Arthur aprì gli occhi lentamente e mise a fuoco la figura della ragazza : in un primo momento si chiese che ci facesse lei lì, ma si ricordò subito dopo che era lì perché lui non stava molto bene. La ragazza lo aiutò a mettersi seduto, gli misurò la febbre (38.7) e gli mise il vassoio con la cena sulle gambe. “Grazie mille Amelia” le disse il ragazzo, “Figurati” gli rispose la ragazza, avviandosi verso la cucina. “Aspetta!” la trattenne Arthur “almeno lascia che ti faccia compagnia”. La ragazza non dovette nemmeno pensarci che era già accanto al letto, seduta su una sedia, col piatto sul letto. Mangiarono in allegria grazie alla vivacità della ragazza che smorzava l’imbarazzo del ragazzo. Una volta finito Amelia raccolse i piatti e li lavò, per poi ritornare da Arthur per dirgli che era tardi e lei doveva tornare a casa. “Ma tornerò, non preoccuparti” finì l’americana, “E chi si preoccupa?” rispose sarcasticamente l’inglese, che non voleva mettere troppa acidità nella frase per non far svanire il sorriso energico che Amelia aveva tenuto per tutta la cena. Gli promise di tornare a trovarlo e uscendo gli fece la linguaccia. Il ragazzo fece un piccolo sorriso prima di riaddormentarsi dopo aver sentito la porta chiudersi. Con sua grande sorpresa e piacere, quella notte il suo solito sogno ritornò a fargli compagnia e così riuscì a riposare come si deve.

La mattina seguente fu svegliato dall’odore di bacon e uova cotte che proveniva dalla cucina. Si alzò dal letto, accorgendosi di avere tutti i capelli spettinati, per dirigersi in cucina, aspettandosi di vedere Francis preparare la colazione per poi sfotterlo sul fatto che la sua cucinare era la migliore al mondo. Ma quando si affacciò sulla porta della cucina vi trovò Amelia, intenta a friggere qualche fetta di pancetta mentre canticchiava una canzone che aveva qualcosa di nostalgico. Si girò quasi subito e gli rivolse un sorriso ancora più allegro di quello che aveva mentre cucinava: “Buongiorno bell’addormentato” desse la ragazza scherzando “la febbre?”. Il ragazzo le rispose che non se l’era ancora provata ma che si sentiva meglio, poi si sedette e la ragazza ,lo raggiunse con due piatti contenenti pancetta fritta e uova all’occhio di bue. La ragazza mise una bella tazza di the davanti ad Arthur, mentre lei si versò del caffè. Mentre stavano mangiando, Arthur notò un particolare: Amelia stava indossando un paio di occhiali dalla montatura rossa che non le aveva mai visto portare prima d’ora. “Senti Amelia, ma gli occhiali?” chiese il ragazzo, la ragazza arrossì leggermente per poi dire “In genere, per questioni di lavoro, preferisco usare delle lenti a contatto, ma se sono a casa o nel tempo libero mi piace indossarli. In realtà sono miope”. “È un peccato però, con gli occhiali sei molto più carina” disse il ragazzo, facendo arrossire ancora di più la ragazza. Finirono la colazione in silenzio, dopodiché la ragazza, dopo aver dato una rapida occhiata al suo orologio da polso, andò al lavoro. Arthur si alzò con calma, appoggiò i piatti nel lavello, decidendo di lavarli più tardi, rifece il suo letto e decise di guardare qualcosa in tv. Verso le 11 si annoiò, così decise di spegnere il televisore e andare alla ricerca del famoso cellulare deceduto. Lo cercò in giro per casa per poi trovarlo sotto il letto: probabilmente gli era caduto dalle tasche qualche giorno prima e per sbaglio l’aveva spedito sotto il letto con un calcio involontario. Lo mise sottocarica, aspettò qualche minuto e infine lo accese. Vi trovo 7 chiamate perse da Francis e 3 chiamate perse e 8 messaggi da un numero sconosciuto, ma che riconobbe essere Amelia dal modo in cui erano scritti i messaggi. Stupido spelling americano, pensò Arthur, che trovava odiose le abbreviazioni e gli spelling diversi delle parole americane rispetto a quelle britanniche. All’una si preparò il pranzo e lavò i piatti, mentre nel pomeriggio cercò di contattare l’amico, ma risultò irraggiungibile. “Che strano, in genere Francis risponde sempre appena può” disse tra sé e sé il ragazzo. Liquidò la faccenda dicendosi che magari l’amico era occupato, così prese qualche medicina e tornò a dormire. Quello che non sapeva era che in realtà Francis era si occupato, ma a cercare di chiarire perché lui fosse stato giudicato come “cittadino normale” ed era andato a trovare una sua vecchia conoscenza che lavorava proprio in quei laboratori .

Quando si presentò lì chiese di vedere il dott. Honda e la rimpatriata tra i due avvenne nell’ufficio di quest’ultimo, con una bella stretta di mano. “Allora, come va amico mio?” chiese Francis, “Tutto bene. E tu?” gli rispose pacatamente Kiku. I due si conoscevano dalle medie e, frequentando anche le stesse scuole superiori, il giapponese conosceva bene pure Arthur. “Tutto bene, anche se sono sommerso da problemi di vario tipo” rispose Francis. Kiku gli chiese di raccontagli tutto per bene, così Francis gli spiegò la situazione di Arthur, per poi concludere chiedendogli se sapeva qualcosa riguardo quel permesso negato. Il moro ci penso bene e con un’espressione pensierosa gli disse “Penso di aver capito la situazione. Ma se gli hanno detto di avere un DNA normale non penso ci sia molto da fare. In più, se falsificassi il permesso e Arthur venisse beccato, gli toglierebbero il bambino per sempre o peggio”. “Ma è proprio per questo che sono venuto a chiederti consiglio Kiku. Non so cosa fare per aiutarlo. Tu lo sai quanto desiderava una famiglia, non posso stare con le mani in mano mentre lui soffre. Inoltre, è il migliore di tutta l’università, com’è possibile che sia solo una persona ordinario? L’ultimo era uno che era intelligente pure a livello genetico, perché Arthur no?” disse il francese, frustrato. Il giapponese ci pensò su ancora per qualche minuto per poi esprimere la sua conclusione: “Devi sapere che in un vecchio diario di mio nonno si dice che un tempo la gente apprendeva molte cose da libri cartacei”. “Ah, si. Me lo ricordo, il nonno di Arthur diceva spesso che i libri di carta avevano molte più informazioni rispetto alle sintesi riportate sugli olo-libri di oggi” rispose Francis, divagando leggermente nei ricordi. “Quindi pensi che Arthur sia intelligente solo per questo motivo… effettivamente mi sembra plausibile. Devi sapere che suo nonno aveva un’intera parete piena di libri cartacei. Però non mi risulta che ne abbia letti di recente” “E se ne avesse letti durante l’infanzia? Che tipo era suo nonno? In quel diario era anche detto che se si leggono tanti libri i bambini diventano comunque più intelligenti” disse Honda. Rimasero a discuterne quasi per tutto il pomeriggio, o almeno finché Francis non fece l’errore di nominare Amelia. “Quindi si è trovato una compagna finalmente” disse Kiku con un’aria frivola negli occhi che non esprimeva sulla sua faccia. “Non non, Amélie non è la compagna di Arthur” si affrettò a negare il francese, ma la cosa non convinse pienamente l’amico, che gli chiese di descrivergli la ragazza. Non appena l’amico ebbe finito di descrivergli Amelia, Kiku si fece pensieroso “Come hai detto che si chiama?” gli chiese alla fine. “Se non ricordo male si chiama Amelia Jones” rispose Francis, notando che l’amico aveva fatto un’espressione sorpresa per qualche secondo. Nonostante tutto non gli chiese niente: sapeva bene quanto Honda potesse essere riservato e svincolare le domande che gli davano fastidio. Voleva chiedere altro al giapponese, ma un’infermiera lo chiamò e Kiku fu costretto a liquidarlo con un saluto veloce per poi sparire dietro di lei. Francis tornò a casa, ma continuò a pensare a tutto quello che l’amico gli aveva detto e soprattutto al motivo della sua reazione al nome della ragazza.

La settimana che seguì fu molto più felice. Amelia andava a trovare Arthur tutte le mattine e capitò anche qualche sera. Preparava la colazione mentre quando si presentava la sera portava un sacco di cibo spazzatura, sia perché le piaceva, sia per fare un dispetto ad Arthur che lo odiava. Il ragazzo era guarito dalla febbre tre giorni dopo, ma comunque si innervosiva quando la ragazza insinuava che fosse stata la sua cattiva cucina a farlo stare male per quasi una settimana intera. L’unica cosa che si poteva notare di cambiato era che, ogni volta che era in presenza del biondo, Amelia portava gli occhiali. Questo fatto fu una cosa davvero piacevole per Arthur, che davvero la apprezzava di più con gli occhiali. Ricominciò ad andare all’università e appena Francis lo vide gli tirò una bella pacca sulla spalla e non lo lasciò in pace per la maggior parte del tempo, prendendolo in giro su una sua possibile relazione con la bella americana, alle quali Arthur negava sempre, arrossendo vistosamente. Anche quella sera Arthur stava venendo preso in giro al telefono dal francese, questa volta perché il giorno prima Amelia era venuta a trovarlo in università approfittando del suo giorno libero. “Honhonhonhon si si, certo come no. E ti aspetti che mi beva la storia che Amélie è solo un’amica?” disse il francese, deridendolo. Arthur stava per replicare, ma qualcuno suonò alla porta di casa sua prima che potesse farlo. Guardò l’orologio: segnava le 7.30 di sera. Liquidò il francese con sollievo e andò ad aprire la porta: era Amelia con il solito cibo spazzatura e un dvd. “Howdy Arthur” lo salutò allegramente la ragazza. “Ciao Amelia” le rispose. Poi, riferendosi al sacchetto di cibo spazzatura che la ragazza teneva, le disse “Se vuoi entrare quello schifo deve sparire, capito?”, ma la ragazza si mise a ridere e replicò “Eddai Arthur, in fondo i miei hamburgers sono molto più salutari della tua cucina”, cosa che fece arrabbiare il ragazzo. “Se la mia cucina ti fa così schifo allora non mangiarla no?” le disse, quasi in un soffio, ma arrossì quando la ragazza gli arruffò i capelli aggiungendo “La mangerei in ogni caso, stupido” con un bel sorriso. Arthur la fece entrare e la prima cosa che fece la ragazza fu posare la borsa contenente un solo panino: Arthur intuì che in realtà l’amica sperava che lui cucinasse per lei. “Come mai sei venuta, stasera?” le chiese Arthur. “Francis mi ha prestato questo film, ma oggi non mi andava di stare da sola, quindi mi chiedevo se ti andava di vederlo con me” gli rispose Amelia, con un po’ d’imbarazzo nella voce nell’ultima frase. Il ragazzo annuì, imbarazzato dalla situazione, “Ma non ti sembra un po’ presto per i film? Non è nemmeno sera” le disse il ragazzo, che voleva ritardare il momento in cui sarebbero stati seduti vicini su quel divano, a causa dell’imbarazzo. La ragazza guardò l’orologio prima di concordare con lui: anche lei era alquanto imbarazzata. “Ma allora che si fa?” chiese la ragazza, “In genere quando ho del tempo libero cucio” le rispose il ragazzo “Se vuoi ti faccio vedere”. La ragazza annuì, così Arthur si affrettò ad andare a prendere il suo ultimo ricamo incompleto e la scatola del cucito. Si sedette sul divano e cominciò a cucire mentre Amelia lo guardava, seduta sul bracciolo accanto a lui: il ragazzo stava cucendo delle rondini, ma erano così ben fatte che la ragazza non poté fare a meno di pensare a quanto Arthur fosse abile nel cucito. Ogni tanto gli occhi smeraldo di Arthur cercavano quelli zaffiro della ragazza, ma li trovava sempre intenti a guardarlo lavorare, cosa che gli diede una strana sensazione di calore dentro lo stomaco. Nell’esatto momento in cui Amelia si accorse di uno dei suoi sguardi e lo ricambiò, Arthur diventò rosso come un peperone e a momenti non sbagliò un pezzetto del ricamo. “Se vuoi posso insegnarti come si fa” le disse Arthur, che vedeva l’amica molto interessata al suo lavoro. La ragazza annuì con vigore e si mise vicino a lui. Nel passarle il tutto le loro mani si sfiorarono, dando una bella scossa ad entrambi e facendo accelerare i loro cuori. La ragazza cercò di seguire le istruzioni di Arthur, ma era distratta e non faceva che sbagliare, così il ragazzo decise di aiutarla. Le dita di Amelia tremarono leggermente quando quelle di Arthur le si posarono sopra per aiutarla a ricamare come si deve. “B-beh, penso che abbiamo aspettato troppo! P-perché non ceniamo?” disse frettolosamente Amelia. Arthur concordò e si diresse in cucina per preparare la cena.

La ragazza, rimasta sola sul divano, si portò una mano al cuore: batteva così velocemente che sembrava un treno in corsa. La puzza di bruciato proveniente dalla cucina la distrasse dai suoi pensieri e ridacchiando pensò “Non ci credo… ha bruciato anche la cena di stasera”. I due mangiarono cercando di conversare, ma quella sera c’era qualcosa di diverso nell’aria, un qualcosa che li faceva sentire entrambi nervosi e imbarazzati. Infine, decisero di vedere il film. Arthur si sedette sul divano mentre Amelia armeggiava col televisore, intenta a trovare la fessura del lettore dvd. La trovò dopo pochi minuti e mise su il film, per poi sedersi vicino all’amico. Il divano di Arthur non era molto grande, così le loro spalle finirono irrimediabilmente per toccarsi. Verso la seconda metà del film accadde una scena che attirò particolarmente l’attenzione del ragazzo: la protagonista era svenuta e il protagonista, cercando di aiutarla, scoprì che la ragazza era una persona speciale. Inevitabilmente il suo sguardo cadde su Amelia, che era quasi completamente concentrata sul film: la trovò davvero bella con gli occhiali che le cadevano sulla punta del naso e i capelli leggermente spettinati. Poi, il suo sguardo si soffermò sulle sue labbra: voleva baciarla, toccarla, stringerla a sé. Non aveva mai provato nulla di simile in vita sua. Improvvisamente, un pensiero assali la sua mente: e se quello fosse stato amore? Si disse che erano tutte frottole, arrossendo più che mai, attirando l’attenzione di Amelia. La ragazza sembrò accorgersi del dilemma del ragazzo, lo stesso che si agitava dentro di lei, così prese coraggio e, mentre l’inglese si era costretto a riportare la sua attenzione sul film, gli strinse una mano. Arthur avvampò ancora di più, lanciando qualche occhiata alla ragazza, che sembrava assorta in qualche pensiero che le fece mettere su un broncio infantile, cosa che fece pensare ad Arthur che era davvero carina. Dopo almeno 10 minuti senza alcuna reazione di entrambi, se non qualche imbarazzo di tanto in tanto, la ragazza si decise. Senza che l’inglese se ne accorgesse, gli si avvicinò e gli diede un bacio sulla guancia. Il ragazzo arrossì violentemente e alla fine cedette: le mise la mano libera sulla spalla e premette le sue labbra sulle sue. Una sensazione di calore ed eccitazione cominciò a crescere dentro entrambi non appena Amelia ricambiò quel bacio rubato, che pian piano diventava sempre più passionale. Preso da quei baci che crescevano d’intensità e profondità, Arthur si ritrovò a spingere Amelia contro i cuscini del divano, sotto di sé. Le sua mani correvano sulla ragazza, che man mano si lasciava andare alla lussuria che correva tra i due. A causa del calore, il ragazzo fu costretto a togliersi la maglietta, rivelando un fisico che fece eccitare ancora di più la ragazza, che non riuscì a fermare le sue mani dal toccarlo, ricevendo delle scossette ad ogni minimo tocco. Continuò a baciarla, per poi posare piccoli bacetti sul suo collo, mentre le mani correvano a toglierle i pantaloni, i quali ricevettero la compagnia di quelli del ragazzo in meno di qualche minuto. Ma nell’esatto momento in cui il ragazzo attentò alle mutande della ragazza, la guardò con uno sguardo stupito ed esclamò “Ma come? Amelia, tu… tu sei...?!”

Piccolo Angolo Dell'Autrice:
Eccomi di ritorno con un nuovo capitolo di questa strana storia. Devo ammettere che questa volta mi sono ritrovata in difficoltànello scrivere, sopratutto l'ultima parte. Per chi volesse saperlo, il film che i due stanno guardando è Tron Legacy, mi sembrava adeguato, anche se ho fatto venire un bell'esaurimento nervoso ad alcune mie amiche perchè non trovavo un film adatto ahahahahah

 

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Capitolo 4
*** Rivelazioni ***


“Ma… Ma tu sei un ragazzo!!” esclamò di colpo Arthur, allontanandosi leggermente. L’altro abbassò la testa con fare triste e annuì. Arthur era scioccato: la sua Amelia in realtà era un uomo! Il ragazzo che credeva Amelia fece leva sui gomiti e si mise seduto,  ma la cosa che stordì Arthur fu che l’altro era sul punto di piangere. “Tu… chi sei veramente?” chiese titubante l’inglese, mettendosi seduto a sua volta. “I-il mio n-nome è Alfred Jones” rispose il ragazzo con un tono di voce che doveva essere quello vero poiché più profondo rispetto a quando parlava come Amelia. Balbettava per lo sforzo di non far cadere quelle grosse lacrime che gli si erano radunate agli angoli degli occhi, ma in cui si rifletteva un chiaro cuore infranto. “Ma… Ma perché?” cominciò a chiedere Arthur, ma s’interrupe nel sentire l’altro ragazzo mormorare “I’m sorry Arthur. I’m so sorry. Non era mia intenzione ingannarti. Non volevo… io… io volevo dirti tutto, ma avevo paura” ma dicendo così scoppiò a piangere. Arthur era davvero confuso: perché mai quel ragazzo avrebbe dovuto mentirgli? Ma oltre ai suoi pensieri anche il suo cuore era confuso, soprattutto perché, anche dopo quella rivelazione, non aveva smesso la sua corsa impazzita, come se fosse indifferente a quell’evento. Poi, arrivò alla risposta di tutta quella tempesta che quell’americano gli aveva portato dentro. La risposta alle sue preoccupazioni, al suo trovarlo carino, all’euforia quando veniva a trovarlo anche la sera, agli imbarazzi che lo assalivano, al volerlo baciare e al perché il suo cuore non aveva battuto ciglio: era semplicemente innamorato. Appena ne prese consapevolezza un sorriso dolce si disegnò sulle sue labbra, ma Alfred aveva gli occhi offuscati dalle troppe lacrime e il petto pieno di rimorsi e pezzi del suo cuore ormai  infranto, per notarlo, così, i suoi occhi si spalancarono per la sorpresa non appena l’amico lo abbracciò forte. Alfred seppellì la faccia nella spalla nuda di Arthur, mentre quest’ultimo gli cingeva le spalle con un braccio e con l’altro gli accarezzava i capelli biondi. “Non piangere” cominciò l’inglese con la voce più calma e dolce possibile “Ti credo. Non mi avresti mai ingannato e se eri travestito da donna ci sarà stato un buon motivo. Credo che tu sia davvero una brava persona, quindi non vedo perché dovrei dubitare di te”. “Ma Arthur” replicò l’americano “Sono passate quasi più di due settimane dal nostro primo incontro. Che razza di amico cerca di fregare i propri amici? E se…” s’interruppe per tirare su col naso e perché una nuova ondata di singhiozzi gli aveva bloccato le parole in gola. “E se scoprendo chi io fossi in realtà mi avessi abbandonato? Però, sarebbe stato meglio se te lo avessi detto prima di stasera. Prima che tutto questo casino aggredisse la mia testa. Prima che… prima che…” cominciò a dire, ma i singhiozzi erano così forti che le parole gli uscirono solo in un soffio basso: “…prima che m’innamorassi di te”. Dal forte calore proveniente dalla sua spalla, Arthur poté dedurre che l’amico era nel più completo imbarazzo, ma in fondo, non provava anche lui le sue stesse identiche emozioni? Staccò leggermente Alfred dalla sua spalla e gli rubò un tenero bacio quasi a fior di labbra, come a volerlo rassicurare. L’americano in un primo momento rimase basito, poi, un timido “perché?” gli scappò. Arthur lo costrinse a guardarlo negli occhi: “Perché? Perché anch’io ti amo, idiot. Non importa chi tu sia o perché fai certe cose. Sei e rimani la stupenda persona che mi ha aiutato ad uscire da quel periodaccio che si è abbattuto sulla mia vita due settimane fa. Che faceva finta di odiare la mia cucina mentre non vedeva l’ora di assaggiarla. Che mi ha accudito mentre avevo la febbre alta. Che mi faceva esasperare. Tu sei tu, non importa come”. “Anche…” disse Alfred, abbassando lo sguardo “Anche se ammettessi che mi sei piaciuto dal momento in cui ti ho visto sotto la pioggia? Anche se ti ho mentito per tutto questo tempo? Anche se… non sono una ragazza?”. “Non importa chi tu sia, l’amore è e sarà sempre amore, indipendentemente dal sesso dei due innamorati. Tu mi ami?” chiese l’inglese, “Certo che si” rispose con convinzione Alfred. “E allora non c’è nient’altro di cui dobbiamo discutere per il momento. Se hai delle cose che devi tenermi segrete aspetterò finché non ti sentirai pronto a dirmele. Quanto a tutto il resto…” disse Arthur, alzandosi dal divano diretto verso la sua camera da letto, seguito dallo sguardo incredulo ma finalmente asciutto del suo giovane amore. L’inglese si girò sullo stipite della porta e gli disse “Togliti qualsiasi cosa non ti appartenga fin dalla nascita e vieni qui. È con te che voglio fare l’amore, non con altri” per poi sparire nella stanza. Alfred si levò con una velocità incredibile tutto quello che aveva di femminile addosso e raggiunse l’altro ragazzo. Per il resto della notte solo versi di piacere uscirono da quella stanza, che diventò più calda della notte estiva, mentre accoglieva due giovani cuori che cominciavano la loro danza per unirsi ed infine diventare uno solo, proprio come i due proprietari che fremevano per unire i loro corpi nell’amore più selvaggio e dolce. Solo al sorgere dell’alba la stanchezza li assalì, facendoli addormentare uno nelle braccia dell’altro con un sorriso sereno sulle labbra consumate dai troppi baci e un senso di appagamento, pura felicità e completezza nei loro cuori.

Nel tardo pomeriggio Arthur si svegliò. La prima cosa che i suoi occhi smeraldo videro, aprendosi, fu il viso addormentato del suo giovane amore. Sembrava così sereno e maturo e il giovane inglese non poté fare a meno di sorridere: non riusciva a credere a quello che avevano fatto, ma era felice che fosse accaduto. Accarezzò dolcemente la guancia dell’americano che lentamente aprì gli occhi. “Buongiorno” gli disse Alfred, quasi sussurrandolo, con un sorriso pieno d’amore che faticava a trattenere, ma che era davvero il sorriso più bello che Arthur gli avesse mai visto fare. “Buongiorno” gli rispose l’inglese, arrossendo quando il compagno gli prese la mano e ne baciò il palmo. Erano entrambi in chiaro imbarazzo, ma la felicità la superava di gran lunga, tanto che entrambi non riuscivano a smettere di sorridere. Il momento però fu spezzato dallo stomaco di Alfred, che di punto in bianco brontolò, facendo ridere Arthur, che si offrì di preparargli la colazione. “Ti prego, non un’altra arma di distruzione di massa” disse l’americano, al quale l’inglese rispose con un ben recitato tono oltraggiato “You bloody git!”. Alfred ridacchiò e bloccò il compagno dal dirigersi verso la cucina, afferrandolo per un braccio, e lo attirò a sé per baciarlo. Arthur accettò quel bacio e poi si diresse velocemente in cucina. Alfred se la prese comoda per uscire dal letto: a rallentarlo c’erano tutti i suoi pensieri. Dopo la precedente notte doveva ad Arthur delle spiegazioni chiare su tutta la faccenda, in fondo, era o non era diventato il suo compagno oramai? Entrò in cucina e si sedette al tavolo, le gambe che si agitavano sotto la sedia mentre osservava il suo Arthur che bruciava l’ennesimo piatto, indossando solo un paio di boxer con la bandiera americana che riconobbe come suoi. “Ma quando se li è messi?” si chiese Alfred, che era assolutamente sicuro che l’altro fosse entrato in cucina senza nulla addosso. Dal canto suo, Arthur a momenti fece cadere in terra la colazione alla vista dell’americano, che se ne stava seduto completamente nudo e con le gambe a penzoloni. “Qualcosa non va?” gli chiese Alfred, con tono dispettoso, ma invece di arrabbiarsi, l’inglese ebbe una reazione che l’altro trovò davvero adorabile: s’imbarazzò a tal punto che le sue orecchie erano diventate tutte rosse e si guardò in giro. “Come se ieri notte fossi stato tanto innocente” pensò Alfred, con un tono ironico che se l’avesse sentito Arthur, lo avrebbe insultato per un bel po’. Consumarono la colazione tra sguardi rubati e parole che finalmente uscivano in totale onestà. Ormai si era fatta sera, ma i due non volevano ancora separarsi, così decisero di passare anche il resto della giornata assieme. Alfred riuscì a modificare leggermente il televisore del compagno per collegarci una console. Si sedette per terra, con la schiena appoggiata al divano e si mise a giocare ad un videogioco che gli era stato prestato, a detta sua, da un amico sul lavoro. Arthur, invece, prese il suo ultimo ricamo e si sedette tra le invitanti gambe di Alfred, appoggiando la schiena al petto del ragazzo, ammorbidito dalla felpa rossa che portava. “ahi!” esclamò l’americano quando il compagno cercò di mettersi comodo contro di lui. “I’m sorry! Non è che ti ho fatto troppo male ieri sera vero?” chiese dispiaciuto Arthur.  “No, don’t worry, ma cerca di fare attenzione ok?” si affrettò a dire l’altro. Passarono gran parte della serata così, uno giocando ai videogiochi, l’altro finendo di ricamare dei fiori. La quiete della serata fu disturbata da un punto del gioco che Alfred ritenne noioso, ma che sfruttò per baciare il collo candido di Arthur, lasciandogli un vistoso succhiotto, mentre alcuni brividi attraversarono la spina dorsale dell’inglese. “Ma che cavolo fai?!” esclamò l’inglese, toccandosi con la mano il punto in cui il compagno gli aveva lasciato il segno. “Beh, così chiunque potrà capire che sei mio” gli rispose Alfred, con occhi maliziosi. “Sarei tuo anche senza, idiot” borbottò l’inglese, abbassando lo sguardo. Il suo amore, dopo aver messo in pausa il gioco e posato il controller, gli cinse le anche con le braccia, facendolo girare verso di sé e piantò i suoi occhi zaffiro nei suoi sfuggenti. A quel punto, poco dopo che l’americano ebbe ripreso a provocarlo, cogliendolo alla sprovvista gli rubò un bacio, al quale egli rispose con gran vigore, per poi staccarsi e guardarlo, come per chiedere il permesso di proseguire. Arthur non poté resistere e, leccandogli il labbro inferiore per fargli capire che aveva il suo permesso, lasciò che la sua lingua incontrasse quella del suo giovane amato. Pochi attimi dopo si ritrovò seduto contro il divano con Alfred a cavalcioni sulle sue anche, che lo trascinava in mulinelli d’emozioni ad ogni singolo bacio. “Sei sicuro di volerlo fare qui? In questo modo vestirsi un paio d’ore fa diventerà inutile” cercò di protestare debolmente l’inglese, che non voleva far stancare il suo amato ragazzo, ma lui replicò “Non importa” togliendosi gli occhiali e ritrascinando l’inglese verso gli stessi sentimenti che li avevano travolti la sera precedente.

La mattina seguente dovettero separarsi: Arthur doveva andare in università, mentre Alfred aveva il lavoro. “Aspetta Al” gli disse Arthur, prima che il suo amato si rimettesse il suo travestimento da ragazza. Il ragazzo si girò, ma rimase dolcemente sorpreso quando il compagno lo baciò sulla guancia. “Buon lavoro eh” gli disse gentilmente l’inglese. “Grazie. A te buono studio” gli rispose Alfred con uno dei suoi soliti sorrisi a trentadue denti, ma prima di uscire dalla porta di casa si fece serio e, girandosi, disse ad Arthur di aspettarlo quella sera, perché doveva dirgli delle cose importanti. L’inglese annuì con determinazione. Dopodiché, l’americano sparì dalla vista, lasciando Arthur in una marea di pensieri diversi. Anche quando si sedette al suo solito posto in università la sua mente era completamente altrove, tanto, che non si accorse della presenza di Francis, il che lo fece sobbalzare non appena il francese lo salutò. “Allora, come mai ieri sei sparito? Il professore era alquanto arrabbiato sai?”  gli disse con aria curiosa il francese, ma s’insospettì quando Arthur arrossì vistosamente e rispose velocemente che si era solo alzato più tardi del solito. “Ma chi vuoi prendere in giro? Scommetto che te la sei spassata con Amélie. Honhonhonhon adesso si che ne ho la conferma” disse Francis, vedendo Arthur avvampare nuovamente “Dai dai, raccontami tutto”. “Non c’è niente da raccontare, è solo venuta a trovarmi due sere fa, per guardare un film insieme, n-niente di che” gli rispose Arthur, cercando di essere convincente, “Ah ah! Beccato. E bravo il mio inglesino. Allora, com’è stato caro ex-verginello?” gli chiese immediatamente il francese, pieno di curiosità fino alla punta dei capelli. Il ragazzo s’imbarazzò, ma con occhi sognanti disse “È stata l’esperienza più bella del mondo. Ti giuro, old chap, non ho mai provato niente di simile prima d’ora. Ho davvero sperato che la notte non finisse mai”. Francis ridacchiò per poi rispondergli “Capisco la sensazione. A quanto pare il fratellone è riuscito a prevedere un’altra relazione alla grande” “di che stai parlando?” chiese l’inglese, “Parlo che avrei potuto scommetterci che quella sarebbe diventata la tua compagna. Si vedeva nel modo in cui ti guardava, come se volesse mangiarti con gli occhi. In più, qualche giorno fa mi sono accorto che anche tu stavi coltivando un certo interesse per lei. È stato come fare due più due” gli rispose pacatamente il biondo. “Sarà…” gli rispose Arthur, per poi tornare a prestare più attenzione ai suoi pensieri che all’amico, sperando che il tempo passasse il più in fretta possibile. Verso sera, finalmente l’americano suonò alla porta: doveva essere per forza passato da casa sua, perché non era travestito da donna. I suoi occhi seri, ma che esprimevano anche felicità, erano velati dagli occhiali che piacevano al suo ragazzo. Arthur sorrise quasi involontariamente appena lo vide. Dopo essere entrato e aver salutato con un caloroso abbraccio l’inglese, i due si sedettero al tavolo della cucina. Alfred aveva un’aria davvero stanca, così Arthur gli chiese se gli andava del the. “Caffè per favore” gli rispose l’americano, con un sorriso che lasciava trapelare un po’ di stanchezza.

Alla fine si ritrovarono seduti uno davanti all’altro, ognuno con una tazza fumante tra le mani, contenenti rispettivamente caffè e the nero. Dopo un attimo di silenzio, Alfred inspirò e infine disse “Penso sia giusto metterti al corrente di alcune cose su me stesso e vorrei che tu mi ascoltassi”. “Devi sapere che c’è un motivo se devo travestirmi da donna. Ma prima devo dirti altre cose oppure non ne capirai appieno il motivo” cominciò Alfred “ Devi sapere che mio padre lavorava per il governo. Era uno dei migliori scienziati, così gli fu assegnato un progetto molto importante dal ministro della demografia. Secondo te, perché il governo ci costringe a chiedere il permesso al Centro di fecondazione e approvazione prole per poi concederci una famiglia solo se abbiamo un DNA con qualche particolarità?” gli chiese e Arthur gli rispose “Per contenere la crescita demografica”. “Questo è quello che ci hanno sempre detto” replicò l’americano “Ma la verità è un’altra: in realtà loro sono alla ricerca dell’umano perfetto” “L’umano perfetto?” chiese Arthur con tono incredulo. “Si. Per loro “l’umano perfetto” sarebbe un tipo di persona dal DNA mutevole, ossia, un tipo di DNA che, anche se modificato, cambia anche radicalmente senza provocare danni di alcun tipo. Per esempio, se si prendesse una ciocca di capelli di questo soggetto e ne modificassimo il colore, dal biondo al nero diciamo, quella ciocca diventerebbe nera a vita senza provocare tumori o un disgregamento del DNA restante. Per questo ci è permesso riprodurci solo con persone dal DNA particolare. È tutta una ricerca del governo per ottenere questo soggetto attraverso generazioni di DNA raffinati.” spiegò Alfred. “Ma… e tutto questo come potrebbe avere a che fare con te?” gli chiese l’inglese, che stava faticando a credere alle parole del suo amato. “Beh, mio padre era l’incaricato di fare le previsioni di quando sarebbe nato questo soggetto e con esso controllare tutte le discendenze genetiche. Così, gli venne un colpo quando, secondo i suoi calcoli, questo individuo in cui non credeva, sarebbe nato il 4 Luglio di 19 anni fa” “Aspetta, intendi che…” cominciò l’inglese, ma Alfred lo interruppe subito dicendo “Si, sono io il soggetto in questione. Mio padre quasi si disperò quando lo scoprì”. Arthur a momenti non lasciò cadere la tazza per la sorpresa: sentiva che Alfred era speciale, ma non avrebbe mai immaginato lo fosse fino a questo punto. “Purtroppo uno dei colleghi di mio padre trovò un pezzo del documento di mio padre, in cui era scritto sia il sesso che i dati genetici del futuro nascituro e lo consegnò al ministro. Quando nacqui, mio padre avvertì subito mia madre del pericolo e mi fecero dichiarare femmina col falso nome di Amelia Jones, anche se in famiglia mi hanno sempre chiamato Alfred. Fin dai miei primi ricordi mio padre mi costringeva a vestirmi da ragazza, dicendomi che da grande avrei capito. Una sera, dopo i miei 17 anni, mi spiegò tutto, sia del progetto sia chi io fossi e del perché fossi costretto a celare il mio vero sesso. Temeva che se mi avessero trovato mi avrebbero portato via da lui, o peggio, mi avrebbero rinchiuso in un laboratorio a vita per farmi continui esperimenti. Mi resi conto solo in quel momento di quanto papà avesse rischiato pur di salvarmi. Venne ucciso per questo. Sia lui che mia madre, accusati di aver rivelato segreti di stato e di aver rubato un progetto di vitale importanza. Io feci in tempo a scappare e grazie al mio travestimento, riuscii a condurre una vita normale. Le ragazze non vengono mai sottoposte a controlli del DNA o a doverlo fornire per essere riconosciuti al lavoro. Per quello e tutto il resto basta il sangue” finì il ragazzo, che finalmente si sentì come se un peso gli si fosse sollevato dal cuore. Ad Arthur servì un po’ di tempo per metabolizzare il tutto, erano davvero tante informazioni. “Alla fine volevo scoprire di più sul luogo in cui lavorava mio padre e riuscire a trovare qualche pezzo del suo lavoro, se ancora era da qualche parte. Essendo donna per loro, il primo lavoro che mi offrirono fu come portatrice di bambini per conto di chi non aveva una compagna, ma mi classificarono come portatrice sterile ed erano un po’ riluttanti ad assumermi per i lavori di burocrazia. Solo di recente si sono fidati abbastanza da lasciarmi presiedere il reparto maternità e lì ho scoperto un’ala dell’edificio che non conoscevo. In una di quelle stanze c’erano un sacco di bambini, così cercai di capire lo scopo di quel luogo: lì vengono portati tutti i bambini che sembrano avere un’affinità col DNA e l’aspetto descritto da mio padre. Sembra che abbiano creduto che nei suoi calcoli abbia calcolato male la data di nascita, così trattengono tutti i bambini che corrispondono alle altre descrizioni. Devo ammettere che uno di essi mi ha incuriosito particolarmente. Era quasi identico a me quando ero piccolo e anche il suo quadro genetico era quasi identico al mio, salvo per alcuni punti. Il nome del piccolo era qualcosa tipo Mathias Bonequa credo” continuò Alfred. A sentire quel nome Arthur quasi scattò in piedi e disse in fretta “Matthew Bonnefois? Il nome del piccolo era Matthew Bonnefois?” “Si, esatto. Perché tutto questo interesse?” chiese l’americano, leggermente disorientato. “Quello è il figlio di Francis!” esclamò l’inglese, che era sul punto di prendere il telefono per dirglielo, ma fu bloccato dal suo ragazzo. “Fermo. Lo so che vuoi dirglielo subito, ma se ti scoprissero… se scoprissero che tu sai questi segreti di stato, ti uccideranno. E… e io non potrei farcela se tu morissi” disse con aria allarmata Alfred, a cui lacrimarono leggermente gli occhi. Arthur mise via il telefono, calmandosi grazie alla preoccupazione del giovane compagno. Si sporse verso di lui per accarezzargli una guancia dicendo “Please don’t cry, my darling” con tono dolce e rassicurante “Troveremo una soluzione a tutto questo, va bene?” “Me lo prometti?” chiese Alfred con tono infantile, “Si, te lo prometto” gli rispose Arthur con occhi decisi.

Piccolo Angolo dell'Autrice:
Eccomi di nuovo. Vorrei scusarmi per il ritardo, ma questa settimana è stata piena di turbolenze tra scuola e uscite con gli amici. anche l'ispirazione si è fatta pregare per una volta... Per quanto riguarda questo capitolo, la scena iniziale me la covavo da un sacco di tempo e sono felice di averla finalmente scritta. Spero possa piacere come i precedenti capitoli :) 
           

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Capitolo 5
*** Riuscire a salvarci ***


Quando Arthur si svegliò, la mattina seguente, la testa gli faceva male a causa della notte quasi completamente in bianco (a causa di un certo americano) e resa pesante da tutti i pensieri che si erano creati dalle rivelazioni che aveva appreso il giorno prima. Voleva avvisare Francis, era il suo migliore amico ed era suo dovere dirgli perché non gli era concesso vedere suo figlio, ma non voleva tradire la fiducia del suo amato compagno. Si mise a sedere, liberandosi dal gentile ma fermo abbraccio del suo amore, che mormorò, appallottolandosi, “I lo…”, facendo arrossire Arthur. “Cosa posso fare per aiutarlo? Se ne parlassi a Francis si arrabbierebbe, ma da solo non posso aiutarlo. D’altro canto, credo che abbia ragione, se provo a dire una sola parola di tutto ciò verrei arrestato o peggio…” pensò l’inglese, che era davvero determinato a rispettare la promessa fatta al giovane compagno. Infine, gli venne un’idea, ma prima di metterla in pratica doveva necessariamente parlarne sia con Francis che con Alfred. Si girò verso quest’ultimo e, mentre gli accarezzava i capelli biondi cercando di non svegliarlo, sussurrò “Sei stato davvero coraggioso my love” e prima di alzarsi definitivamente dal letto gli posò un bacio gentile sui capelli.
Alfred si svegliò sentendo delle voci concitate provenire dal salotto della casa: riconobbe all’istante quella del suo amato ragazzo e con un po’ di preoccupazione ne sentì un’altra, con uno spiccato accento francese che doveva per forza appartenere al francese amico di Arthur. Si affrettò a vestirsi, ma si accorse troppo tardi che non aveva con se i suoi abiti femminili ne nient’altro. Entrò nel panico: non doveva rivelare a nessuno il suo vero sesso, tantomeno ad un estraneo, anche se era il migliore amico del suo ragazzo. La tensione salii quando sentì dei passi avvicinarsi alla camera, ma si rilassò non appena vide che era Arthur. “Hai intenzione di rimanere qui tutta la giornata o vieni di là con me? Ci sono delle cose molto importanti di cui devo discutere sia con i nostri ospiti che con te” “Ma Arthur, non ho il mio travestimento. Non te la prendere, ma non me la sento di uscire così. Non voglio mettere in pericolo te o il tuo amico, è già stato rischioso rivelarti ogni cosa su di me, dicendolo ad altri aumenteremmo solo il rischio di essere scoperti”. “Ma se le cose rimangono così non ci sarà mai un cambiamento. Please, just for this time, trust me, my sweet Darling” gli disse, prendendogli una mano e tirandolo per essa leggermente. L’americano allora annuì e si lasciò condurre nel soggiorno, dove ad attenderli c’era Francis, seduto sul divano che li aspettava. Alfred  cercò di nascondersi dietro Arthur, ma la differenza d’altezza rendeva il tutto uno spettacolo al limite del comico. “Old chap, volevo presentarti una persona. Questo è Alfred” disse l’inglese al suo amico, che salutò il nuovo arrivato. Francis notò subito che i due si tenevano per mano e disse, sgranando gli occhi “Aspetta. Arthur, mais tu… Tu es…?” “Yes, old chap. Io sono innamorato di questo ragazzo, ed è il mio compagno. Mi spiace, ma è la verità” gli rispose l’amico, con un sorriso alquanto imbarazzato. Nella loro società, essere gay equivaleva ad una cosa estremamente imbarazzante per la famiglia e quasi proibita dal governo: tutti dovevano avere un compagno di sesso opposto, oppure non avrebbero potuto dar vita a nessun tipo di discendenza. “Mais… et Amélie? Non eri innamorato di lei?” chiese il francese, con confusione crescente. “È una lunga storia, ma vorrei che mi ascoltassi per bene, perché avrei bisogno del tuo aiuto” disse Arthur, per poi prendere due sedie, disponendole in modo che i tre potessero parlare anche a bassa voce e fece cenno ad Alfred di sedersi, per poi sedersi a sua volta. Cominciò a spiegare per filo e per segno ciò che Alfred gli aveva raccontato il giorno precedente, cercando di ritardare il più possibile la notizia su suo figlio. “E non è tutto old chap” cercò di finire Arthur, scegliendo le parole con cura “Sappiamo anche perché trattengono tuo figlio. Ti prego Francis, cerca di mantenere la calma. Tengono Matthew nel centro dove lavora Alfred perché credono che sia lui il soggetto che cercano. Al mi ha detto che aspetto e quadro genetico corrispondono quasi ai suoi e che penso che sia per questo che ti impediscono di vederlo…”. Questa notizia colpì Francis più forte di un pugno. “Mon Mattie… le fils de ma aimé Jeanne… un esperimento ? Oh mon Dieu” disse sconvolto, con la testa tra le mani per la sconsolazione. “I’m terrible sorry, ma dovevo dirtelo. Anche perché voglio aiutarvi entrambi” disse Arthur con aria decisa “Ma ancora non so come. Ci dev’essere un modo sia per salvare tuo figlio sia per ridare ad Alfred una vita normale in tutti i sensi. I migliori piani li abbiamo sempre progettati insieme, quindi sono convinto che ce la faremo” “Dammi… dammi qualche giorno per riprendermi, poi penseremo ad un piano d’azione. Je suis désolée, mon ami, ma questa si che è una notizia seria. Non dirò niente a nessuno, lo prometto. Ci vediamo” e così dicendo, il francese si congedò. Il filo dei pensieri di Arthur fu interrotto dal giovane americano: aveva attirato la sua attenzione appoggiando la mano su quella candida dell’inglese e quando quest’ultimo si girò per guardarlo vide che stava tremando. Non gli era mai parlo così fragile e gli provocò una scarica d’emozioni indefinibili. Desiderò con tutto se stesso di riuscire a far finire tutto in fretta, sia per lui che per il suo giovane amato che per il suo migliore amico. Cercò di consolarlo con il più caldo abbraccio che avesse mai fatto, che sembrò calmare Alfred, che a sua volta lo stinse forte a sé come a cercare di credere nelle parole fiduciose del compagno, ovvero che avrebbero trovato una soluzione.

Nella settimana che seguì Arthur non ebbe notizie di Francis né lo vide in università. Sia l’inglese che il suo compagno erano preoccupati, soprattutto perché non era da lui sparire nel nulla. Così, un giorno Arthur decise di andare a chiedere a Kiku se avesse ricevuto notizie dell’amico. Proprio come Francis qualche giorno prima, venne accolto dall’amico nel suo studio. Purtroppo il viaggio si rivelò a vuoto: nemmeno Kiku sapeva che cos’era accaduto al francese. “Dottore, eccolo le schede dei pazienti di stamattina!” esclamò un’infermiera, entrando nello studio vivacemente. Gli occhi di Arthur si spalancarono alla vista della giovane ragazza. “Oh, grazie mille Amelia, posale pure sulla mia scrivania” le disse Kiku, con il suo solito tono pacato. La ragazza se ne stava per andare quando il dottore la fermò: “Ah, aspetta. Amelia, vorrei presentarti una persona, ma credo che tu la conosca già…” disse Kiku, con una strana luce negli occhi “Non è vero? Dai Arthur, quanto a lungo volevi tenermi nascosto il fatto che hai finalmente trovato una compagna?”. Sia l’infermiera che il ragazzo diventarono rossi: erano si compagni, e non solo di titolo, ma non potevano dire la verità a Kiku. Lo avrebbero fatto solo in caso di estrema necessità. “Ehm, ciao Amelia. Non pensavo che ti avrei incontrata sul lavoro. Come stai? Tutto bene?” le chiese timidamente l’inglese, cercando d’ignorare il commento dell’amico. “T-tutto bene. Come mai sei qui? Non stavi cercando d’avere notizie di Francis?” rispose la ragazza, altrettanto imbarazzata. Arthur gli spiegò che Kiku era un buon amico suo e di Francis e che era venuto da lui perché credeva che avesse sue notizie. Dal canto suo, Kiku si rivelò alquanto curioso riguardo la relazione che i due ragazzi intrattenevano, capendo al volo che i due erano amanti dalle loro reazioni, cosa che aumentò la curiosità nei loro confronti. Arthur decise di aspettare che il suo ragazzo finisse di lavorare prima di dileguarsi dalle attenzioni del giapponese. Erano ancora al punto di partenza. Decisero di rincasare: Arthur aveva proposto, qualche giorno prima, al suo compagno di venire a vivere da lui e Alfred aveva accettato, anche se entrambi sapevano che il ragazzo sarebbe dovuto apparire come una donna all’esterno delle mura domestiche, ma niente era comparabile a poter chiamare quel posto “casa nostra”. L’inglese non fece in tempo ad aprire la porta di casa che il telefono squillò. Si affrettò a rispondere, facendo cenno al suo compagno di entrare e mettersi comodo. Al telefono c’era Francis, che sembrava essersi finalmente ripreso dalle cattive notizie ed essersi caricato di determinazione. I due rimasero a parlare per buona parte del pomeriggio, cercando di calcolare ogni possibile variabile di un piano d’azione che li avrebbe aiutati a salvare tutti loro dai casini in cui erano, ma ogni piano aveva sempre un tallone d’Achille che li avrebbe fatti fallire. “Purtroppo non vedo vie d’uscita” “Capisco… grazie comunque per l’aiuto old chap” gli rispose l’inglese, per poi chiudere la chiamata. Si sentiva amareggiato per non riuscire a trovare una scappatoia per salvare tutti. Per la frustrazione tirò un calcio al comodino vicino al suo letto, producendo un forte rumore, che incredibilmente non svegliò l’americano che dormiva beatamente sul divano, ma che fece aprire un cassetto che era bloccato da tempo. Arthur notò che al suo interno c’era qualcosa di bianco: era una lettera! Il ragazzo la prese con mani tremanti, intuendo che quella era la misteriosa lettera che suo nonno gli aveva lasciato. Si disse che era tempo di aprirla, perché in ballo c’era la vita di Alfred, colui per cui avrebbe rischiato persino la sua vita. Si sedette sul letto e cominciò a leggerla: “Caro Arthur. Se stai leggendo questa lettera vuol dire che io sono morto e che tu sei in una situazione di grande pericolo o hai bisogno d’aiuto per salvare qualcuno a te molto caro. Voglio raccontarti una storia figliolo, una accaduta molto prima che tu nascessi. Mi spiace averti fatto credere per tutti questi anni che io fossi uno storico, ma fidati, era per il tuo bene. In realtà ero uno scienziato e lavoravo sotto la tutela del primo ministro delle comunicazioni. Il mio lavoro consisteva nel cercare di rendere più facili i rapporti con l’unica città sopravvissuta alla guerra. Amavo davvero il mio lavoro, soprattutto perché mi permise d’incontrare tua nonna… ma sabotai il tutto non appena il figlio di un mio stimato collega, il professor Jones, non mi avvertì di una cospirazione immane. La nostra città voleva impiegare l’umano perfetto per conquistare quella città. “L’umano perfetto”, mio caro figliolo, è un individuo il cui DNA può mutare anche radicalmente senza subirne le conseguenze. Mi addolorò molto sapere che sarebbe stato proprio il figlio di quest’illustre scienziato ad essere il soggetto in questione. Purtroppo morì prematuramente insieme alla moglie, giudicati colpevoli di aver rivelato e manomesso segreti di stato, cosa completamente falsa, perché in realtà avevano solo cercato di salvare il loro bambino. Ma non ti dico questa storia a caso, quando scoprirono il mio crimine, tua nonna e tuo padre si presero la colpa, venendo assassinati. Fu tuo padre in persona a chiedermi di dirti che non ti aveva mai riconosciuto, proprio per non metterti in pericolo. Avevi 4 anni quando furono giustiziati e appena 21 quando i genitori di quel povero ragazzino furono messi a morte. Per tutta la tua infanzia ho cercato di insegnarti i valori più giusti di cui una persona abbia bisogno, nella speranza che un giorno tu riuscissi a trovare il ragazzo in questione e aiutarlo a fuggire. Sono sicuro che ci riuscirai, ma, nel caso tutto dovesse fallire, nella stessa busta in cui è contenuta questa lettera, troverai una mappa che ti condurrà alla seconda città, al di là del mare. In allegato c’è anche un messaggio per la popolazione del luogo. Sul retro della mappa è segnata la posizione del mio laboratorio segreto: al suo interno troverai un aereo, sentiti libero di usarlo per attraversare il mare. Essendo molto vecchio non sarà visibile ai radar militari. Non ti scoraggiare, esiste una soluzione a tutto, specie se si hanno le mappe dell’edificio giusto, non è vero figliolo? Stammi bene e buona fortuna. Tuo nonno, Alibert Kirkland. P.S. ultimamente ti sento parlare molto spesso con Francis dell’avere una prole tutta vostra. Sono convinto che il tuo amico ce la farà, la sua ragazza è davvero deliziosa. Arthur, so bene che tu abbia un quadro genetico normale, ma fidati, aprendo la mente ad ogni possibile soluzione che possa esserci, anche la più pazza o assurda, alla fine si può trovare la soluzione”. Le parole del nonno lo stupirono molto: in tutta la sua vita non aveva mai dubitato di suo nonno, credendo che fosse davvero chi diceva di essere. Lo aveva idealizzato per tutti quegli anni, pensando che davvero fosse stato l’unico a volergli bene. Anche in quel momento, mentre piangeva, la stima che aveva per il nonno non poteva fare a meno di crescere, insieme ad un rinnovato affetto per quel genitore che, nonostante non avesse conosciuto per davvero, aveva dato la vita per la sua sicurezza. Si sentiva pieno di rimorso per il disprezzo che aveva provato per suo padre. Calmandosi, cercò di capire a fondo ogni informazione che il nonno gli aveva lasciato. Gli sembrò un incredibile scherzo del fato il fatto che suo nonno conoscesse il padre di Alfred. S’interrogò soprattutto sul suo consiglio contenuto nel post scriptum: cosa avrebbe mai voluto significare? Ispezionò l’interno della busta e al suo interno vi trovò davvero altri pezzi di carta: una mappa che sembrava rappresentare buona parte del mondo, un messaggio scritto in una lingua che non riusciva a capire e la piantina di un edificio che si rivelò essere il Centro di Fecondazione e Approvazione Prole. Stava posando la busta sulla coperta del letto, quando un piccolo oggetto cadde fuori da essa: era una piccola chiave di bronzo. “Che sia la chiave del laboratorio del nonno?” si chiese Arthur. Mentre ci rimuginava su, decise di mettere al corrente il giovane ragazzo che dormiva nella stanza affianco. Si sedette sul bracciolo del divano, dal lato dove la testa bionda dell’americano riposava tra i cuscini. “Darling… Hey my darling, wake up please” disse piano il britannico, mentre accarezzava i capelli arruffati del suo giovane amore. Alfred aprì lentamente i suoi occhi zaffiro e chiese al compagno come mai lo avesse svegliato. “Penso di aver trovato un modo per risolvere le cose” gli rispose, sorridendo timidamente. “Ho trovato una lettera che mi ha lasciato mio nonno prima di morire. Credo di aver trovato una scappatoia” disse l’inglese, sedendosi affianco all’altro ragazzo “Una lettera di tuo nonno? Arthur, non mi hai mai parlato della tua famiglia…” disse il ragazzo “Beh, non c’è molto da dire in realtà. Mia madre è morta dandomi alla luce, mentre di mio padre non ho molti ricordi. So solo che all’età di 4 anni andai a vivere da mio nonno. Questa era casa nostra infatti, anche se è un po’ cambiata dalla sua morte” “Mi spiace davvero tanto Arthur” gli disse il ragazzo “Non posso dire di non aver sofferto, ma in qualche modo ho sempre pensato che fosse destino. Sia io che Francis potremmo raccontarti certe storie su di lui… ma comunque, dovresti leggerla anche tu” disse Arthur, porgendo la lettera all’altro ragazzo. Quest’ultimo sbarrò gli occhi verso metà lettera. Quando finì di leggerla, la sua prima reazione su di stupore, per poi irrompere in una risatina leggera. “Che hai da ridere?” gli chiese Arthur, con un tono più aspro di quanto non avesse voluto, “No, niente. È che mi viene da ridere al pensiero che mio padre non solo conosceva tuo nonno, ma che quest’ultimo ti abbia pure chiesto di trovarmi e aiutarmi, come a dire di proteggermi. Se ci pensi, questa coincidenza è davvero strana e non posso farci nulla. Anche perché penso che tuo nonno sarebbe più felice di quanto immagini perché il suo caro nipote è riuscito ad esaudire il suo ultimo desiderio, ovvero aiutare il figlio di un caro amico” e così dicendo, gli rivolse un sorriso davvero dolce, che fece arrossire il più grande. Si sentiva felice per la consapevolezza di aver trovato una soluzione a tutti quei problemi e nello stesso tempo essere riuscito a realizzare la richiesta del nonno. “Però immagina la sua faccia, se potesse sapere che il soggetto sperimentale in questione ha una relazione speciale col suo nipotino. Credo che non l’avrebbe mai immaginato” finì Alfred e Arthur gli rispose dicendo, in tono giocoso “E chi lo sa? Il nonno era un tipo davvero eccentrico. Per me potrebbe averlo supposto, solo per poi scuotere la testa e dirsi “Il mio caro ragazzo si merita una bella ragazza, o al massimo un ragazzo che mangia poche porcherie””. Alfred fece finta di essersi offeso, ma dopo poco entrambi scoppiarono a ridere. Arthur lasciò il ragazzo ad esaminare il contenuto della busta al completo, mentre chiamava il francese per mettersi d’accordo per vedersi il giorno seguente, dicendo di aver trovato una soluzione ad ogni problema. L’americano esaminò con cura ogni carta, anche lui non capendo niente tranne che qualche parola del misterioso messaggio e soffermandosi in particolare sulla planimetria del suo posto di lavoro: mentre ne studiava ogni minimo dettaglio, un’idea folle, nata e cresciuta dal misterioso consiglio del nonno di Arthur, gli balenò in testa. Solo, aveva bisogno di un aiuto extra per potersi realizzare.

Il pomeriggio seguente, i due discussero della scoperta di Arthur con Francis. Al francese brillarono subito gli occhi, un buon segno per l’inglese, che percepì che l’amico aveva un piano vincente in mente. Lo illustrò a loro pochi minuti dopo che ebbero finito di parlare. Anche il piano di Francis necessitava di un quarto complice per poter essere messo in atto. I tre ragazzi si guardarono, avendo avuto tutti e tre la medesima idea: Kiku. “Ok, ma anche se decidessimo di chiedere a lui di essere nostro complice, non pensate che potrebbe essere complicato spiegargli la situazione nel suo studio? E se qualcuno origliasse? Non di essere paranoici, ma se vogliamo che questo piano funzioni dobbiamo agire con la massima prudenza. Possiamo fidarci solo di noi e di lui” esordì il francese “Arthur, sei sicuro che tu e Alfred non correrete alcun rischio?” “Si, stai tranquillo old chap. Se restiamo uniti riusciremo a superare tutto” disse convinto Arthur, prendendo la mano del compagno. Decisero che avrebbero cercato l’appoggio del giapponese il mattino seguente, quando, secondo quello che sapeva il giovane americano, Kiku sarebbe stato in pausa per preparare delle pratiche per il giorno dopo. Il piano prevedeva un altro incontro “fortuito” tra Arthur e Alfred nella versione femminile mentre l’inglese e l’amico parlano, come l’ultima volta. Il piano cominciò sotto i migliori auspici: Alfred riuscì a scambiare il suo turno con quello dell’assistente di Kiku senza troppi problemi e l’università di Arthur chiuse per alcune manutenzioni. “C’è qualche motivo particolare per cui ci incontriamo di nuovo, amico mio?” lo accolse Honda, con un sorriso ironico. “In realtà una cosa ci sarebbe, ma non sono sicuro di potertela dire o meno” gli rispose l’inglese con aria seria. Kiku capì al volo che era qualcosa di grave, così si avvicinò alla telecamera posta all’angolo dello studio e ne impostò la modalità privacy, oscurandone la vista alla sala di sicurezza. Rimaneva il problema dell’audio, ma il giapponese seppe risolvere pure quello: controllò tra le pratiche del suo computer e trovò una vecchissima registrazione di un vecchio consulto. Lo mise su e i due furono finalmente liberi di parlare. Ma prima che Arthur potesse proferire parola, Amelia irruppe nella stanza, portando delle pratiche da sbrigare. Dopo averle posate però, la ragazza rimase nell’ufficio, anche se Kiku cercava di farle capire che doveva andarsene. “Amelia, potresti scusarci per favore? Vorrei parlare in privato con Arthur di cose private” cominciò il giapponese, ma si stupì quando fu lo stesso Arthur a dire “No Kiku, Amelia deve restare, perché questa cosa centra soprattutto con lei e abbiamo bisogno del tuo aiuto”. Kiku appoggiò la schiena al bordo della sua scrivania e disse loro che li avrebbe ascoltati. “Prima però, c’è una cosa che devi sapere…” disse timidamente Amelia. Arthur gli strinse la mano come per fargli coraggio e la ragazza si portò una mano ai capelli, che si rivelarono essere una parrucca. “Quindi tu hai un compagno?!” esclamò stupito Kiku, quasi facendosi sentire dalla videocamera “Ma… ma… e questa graziosa infermiera? Non era lei la tua fiamma?”. La situazione cominciava a puzzare di dejà vu per Arthur, che con pazienza si mise a spiegargli tutto, compreso il contenuto della lettera affidatagli da suo nonno. Kiku cercò di ascoltare senza fare una piega, ma persino lui non poteva fare a meno di stupirsi su alcuni pezzi della storia che i due amanti gli stavano raccontando. A fine storia si mise a pensare, soprattutto al piano che il francese aveva messo in piedi. “Allora Kiku, cosa ne pensi? Ti posso assicurare che tutto quello che ti abbiamo detto è vero. Ci serve il tuo aiuto in una parte cruciale del piano per aiutare Francis” gli disse Arthur. “Penso che sia un piano fattibile. Si, ho deciso, vi aiuterò, in nome della nostra amicizia. Però, avrei un favore da chiederti” ripose il giapponese, con tono gentile, “Certo, sempre che sia nelle mia possibilità” gli rispose Arthur. “Qualche settimana fa Francis è venuto a parlarmi per cercare una scappatoia al tuo problema sull’avere l’approvazione di una prole e nella discussione mi ha detto che tuo nonno aveva tanti libri. Potrei dar loro un’occhiata se li troviamo?” . Arthur annuì non avendo nulla in contrario. Rimasero a discutere dei dettagli del piano finché non fu ora di andare per Arthur. “Kiku, io ho da chiederti un favore personale invece” disse Alfred, non appena il compagno se ne andò.


Piccolo Angolo dell'Autrice:
Salve a tutti :D Eccomi finalmente con questo nuovo capitolo di questa storia. Mamma mia, sembra quasi uno di quesgli incubi in cui più corri e più la strada si allontana ahahahaha. Purtroppo ho avuto un serio blocco dello scrittore ma spero comunque che sia buono e scusate se è un pò lunghetto (Se fossi andata avanti a scrivere sarebbe lungo il doppio XD) 

 

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Capitolo 6
*** Far accadere un Miracolo ***


Era la notte della vigilia della realizzazione del fatidico piano. Avevano fatto tutti i preparativi necessari e avevano pure stabilito il punto d’incontro: le porte della città alle undici di notte del giorno seguente. Sarebbero fuggiti col favore delle tenebre. Quella notte né Arthur né Alfred avevano molto sonno: i due erano svegli nonostante l’ora tarda, abbracciati l’uno all’altro, sotto le leggere coperte verde giada del loro letto. “Riesci a crederci? Domani finalmente saremo tutti liberi” disse Alfred con eccitamento, “In realtà fatico un po’. In fondo, avrei un solo rimpianto” gli rispose l’inglese. “Un rimpianto? Di che stai parlando?” gli chiese l’altro, alzando leggermente la testa dal braccio che aveva dietro di essa. “Beh, alla fine tutti avranno ciò che più desiderano: Francis riavrà suo figlio, Kiku potrà leggere tutti i libri che vuole e tu potrai finalmente vivere come un ragazzo. Ma sai, il mio più grande sogno, altre a poter stare con te fino alla fine dei miei giorni, è poter avere un bambino. Ma come ben sai, non è possibile” gli rispose Arthur, con la testa appoggiata tra la spalla e il petto del compagno. L’americano gli accarezzò i capelli e alla fine disse “E… se un modo esistesse?”. Arthur sgranò gli occhi per poi dire, con la gola quasi secca “C-cosa?”. Non credeva alle sue orecchie: un modo per poter eludere i controlli nonostante tutto? Però, quando la tempesta che quelle parole avevano causato in lui si placò, una consapevolezza lo attraversò. “A-aspetta però a dirmi il come. Se ci penso mi viene da sorridere per la felicità, però… nonostante tutto mi sono reso conto che se quel bambino fosse solo figlio mio, ottenuto tramite una portatrice, non mi andrebbe bene” “Cosa intendi?” gli chiese l’americano, con aria dubbiosa. Arthur arrossì fino alla punta dei capelli prima di dire “P-perché… p-perché voglio che sia il figlio di entrambi. Il nostro bambino, non il mio o il tuo. Cioè, so che è impossibile, ma sarebbe davvero bello se potesse essere così” “Appunto, e se ti dicessi che questo tuo desiderio potrebbe realizzarsi?” gli disse Alfred, alche Arthur gli chiese di spiegarsi. “Sai che il mio DNA è completamente mutabile, no? Beh, dopo aver letto la lettera di tuo nonno ho cominciato a farmi alcune domande e alla fine mi è venuta in mente una soluzione. Però, per potersi realizzare ho bisogno dell’aiuto di Kiku” “Cosa intendi dire?” “Intendo che, potremmo usare una soluzione che potrebbe essere definita fuori dagli schemi. Se prendessimo una della mie cellule riproduttive maschili e ne cambiassimo il codice genetico per farla diventare femminile il tuo desiderio potrebbe davvero realizzarsi”. Arthur rimase senza parole: quella soluzione gli sembrava davvero assurda, quasi impossibile, ma voleva credere alle parole del suo ragazzo. “Ma- ma come intendi fare? Anche ammesso che fosse possibile, un bambino ha bisogno di nove mesi in una donna per potersi sviluppare come si deve. Noi non potremo avere a disposizione una portatrice prima di tutto, secondo, non esistono incubatrici così potenti da permettere ad un feto di vivere e crescere in un ambiente artificiale. E se anche ci fosse, noi domani notte ce ne andremo, quindi sarà comunque inutile” disse Arthur, dando voce a tutti i suoi dubbi, ma si bloccò quando vide una strana luce negli occhi dell’altro, uguale a quella di Francis quando aveva dei piani infallibili in mente. “Andiamo allo studio di Kiku, domani all’alba. Ti spiegheremo tutto noi. Fidati di me, voglio riuscire a realizzare il tuo desiderio come regalo di ringraziamento per tutto quello che stai facendo per noi” gli disse convinto l’americano. Arthur gli si avvicinò per posargli un bacio leggero sulle labbra dicendo “Va bene, mi fido di te my hero”.


All’alba del giorno dopo, i due si svegliarono con uno strano senso d’ansia per ciò che quella giornata avrebbe portato loro. Si prepararono per uscire in fretta e si diressero da Kiku senza fare colazione. Alfred avvertì Kiku che stavano arrivando tramite un sms scritto in codice. Il giapponese li fece entrare da una porta nascosta nota solo al personale interno: a causa dell’orario la maggior parte delle telecamere erano spente o impostate per registrare solo rumori e non immagini, così, i tre dovettero fare attenzione a camminare in silenzio fino allo studio di Kiku, la cui telecamera si era “misteriosamente” rotta il giorno prima. “Qui dovremmo essere al sicuro da orecchie indiscrete” disse il giapponese, chiudendo la porta col minimo rumore possibile. “Adesso che siamo qui, potreste spiegarmi quale sarebbe esattamente il vostro piano?” chiese loro Arthur con un filo d’impazienza. “Devi sapere che il padre di Alfred ha lasciato davvero alcuni documenti importanti qui, solo che è stato abbastanza abile da nasconderli. Infatti noi abbiamo trovato i suddetti fogli sotto una tegola del pavimento del suo ex ufficio. Al suo interno c’erano scritte alcuni suoi progetti su delle cose che potrebbero rivoluzionare questo mondo” “Che tipo di progetti?” chiese l'inglese “Se stessimo a spiegarteli tutti perderemmo tempo, che è già molto limitato” s’intromise Alfred. “Comunque, in alcuni dei suoi appunti è riportato un pezzo di una sua conversazione avuta con un vecchio amico di famiglia. Dice che questo altro scienziato avesse avuto un sogno la notte dopo che il nipote era nato e che quindi lo aveva aiutato ad elaborare alcune tesi interessanti che riguardano la modifica del DNA “dell’umano perfetto” a scopo riproduttivo e a come mantenere il feto anche senza una portatrice. Abbiamo deciso di portare via con noi questi documenti e di distruggerli perché, se finiti in mani sbagliate, potrebbero condannare per sempre tutti noi” riprese Kiku “Ho capito. Va bene, non chiederò altro. Cosa devo fare?” disse infine Arthur. Kiku gli spiegò con cura cosa pretendeva la procedura, stando attento a non farlo imbarazzare, anche perché era un argomento alquanto imbarazzante per chiunque. Ma anche dopo tutta la spiegazione, sia Arthur che Alfred si scambiarono uno sguardo carico di parole per farsi coraggio e lasciarono che il giapponese facesse il suo lavoro. La parte che richiese più tempo ed impegno da parte sua fu cambiare il codice genetico, controllando che fosse stabile e senza errori. Per tutto il tempo, i due amanti si tennero la mano attraverso la tenda che li separava, per farsi coraggio e ricordarsi che sarebbe andato tutto bene. Quando ebbero finito tutte le procedure e gli accertamenti, Kiku disse loro che non c’era niente di cui preoccuparsi, ma che per questioni di comodità e per non dare nell’occhio, era meglio se recuperavano “l’esperimento” poco prima della fuga: prima di allora se ne sarebbe preso cura lui. Ma nonostante tutto Arthur non poteva fare a meno di sentirsi teso. Durante la giornata entrambi fecero i “preparativi” per la loro partenza: entrambi si licenziarono dal loro lavoro, dando come spiegazione che la loro vita privata stava prendendo più tempo del previsto. Arthur passò il suo ultimo giorno di università tra le lacrime delle sue compagne di corso e il dispiacere di professori e amici. Aveva fatto domanda di rinuncia agli studi e quelli erano i suoi ultimi giorni di scuola. Anche Francis si era ritirato e anche lui fu sommerso di gente che lo salutava. Ritornando a casa, l’inglese trovò il suo compagno, che lo aspettava al tavolo della cucina, apparecchiato con due piatti ancora caldi del piatto preferito del britannico. Arthur si stupì, visto che di solito cucinava lui, tranne quando l’altro non si portava dietro del cibo precotto o simili. “Essendo il nostro ultimo giorno qui, pensavo di trattare la cosa come un’occasione speciale” si giustificò l’americano. Nel pomeriggio i due prepararono le valigie con la massima cura possibile e pulirono l’appartamento. La sera controllarono di aver preparato tutto e Arthur volle uscire a fare un giro della città per vederla un’ultima volta. Avrebbe davvero voluto che Alfred non dovesse vestirsi da ragazza per quell’ultima uscita, ma non potevano farsi scoprire proprio mentre erano ad un passo dalla riuscita del loro sudato piano. Girarono tutta la città passando per i loro posti preferiti, tenendosi per mano per tutto il tempo, senza dare importanza al luogo in cui erano, come a voler dare alla città un tacito segno del loro amore. La loro ultima meta fu il caffè della loro prima uscita insieme e,proprio come l’ultima volta, si sedettero al tavolo più vicino alla ringhiera del balcone. “Posso farti una domanda Al?” chiese l’inglese da dietro la sua tazza di the. “Dimmi pure” gli rispose l’americano con una punta di curiosità “Come mai mi hai portato qui quel pomeriggio?” “Perché venivo qui fin da ragazzino ogni volta che ero triste o agitato. Il paesaggio mi calmava sempre, ma ho sempre pensato che se ci fossero stati degli animali sarebbe stato ancora più bello. Ti ci ho portato perché prima di tutto eri triste, secondo perché volevo condividere con te il posto che preferisco di più in assoluto di tutta la città” disse Alfred, prendendo una delle mani che l’altro aveva sul tavolo e accarezzandola col pollice. Rimasero a guardarsi negli occhi ancora per un po’, prima che il cameriere robot li interrompesse, posando davanti all’americano un piatto pieno di ciambelle e una tazza di caffè nero caldo, che spargeva una gradevole fragranza nell’aria circostante. Il tramonto che faceva da cornice al loro piccolo momento privato era splendido, forse uno dei più belli che entrambi avessero mai visto. Incredibilmente, Arthur propose al compagno di mangiare al suo ristorante preferito quella sera. “Ma Arthur, non dici sempre che quelle sono solo schifezze?” chiese confuso l’americano “Si, ma… stasera è speciale no?” gli rispose tutto timido l’inglese. Passarono una serata stupenda, per poi tornare a casa stanchi. Si cambiarono mettendosi i vestiti che avrebbero usato per il viaggio e si sdraiarono sul letto della loro camera da letto, sopra le coperte, uno tra le braccia dell’altro, chiacchierando per cercare di tenere lontana l’ansia crescente che stava in loro. Poco prima dell’ora fatidica, i due ricevettero un sms da Kiku, dicendo loro di passare in laboratorio per poi dirigersi al punto di ritrovo dove Francis li aspettava. Presero i loro bagagli e uscirono dall’appartamento. Gli occhi di Arthur si riempirono di lacrime non appena girò la chiave per chiudere la porta una volta per sempre: nonostante tutto, quella era sempre la casa in cui aveva vissuto per tanto tempo, in cui aveva abitato con suo nonno, nel quale lui e Alfred avevano fatto l’amore per la prima volta. Era un posto molto speciale per lui e lo sarebbe sempre stato. Afferrò la mano che il suo compagno gli tendeva, finalmente libero di non dover sembrare una donna e si diressero verso il luogo dell’incontro con Kiku. Furtivi come gatti, si avvicinarono all’edificio e si misero ad aspettare il complice vicino all’entrata segreta. Kiku comparve sulla porta pochi minuti dopo, trasportando con sé un oggetto avvolto da un telo nero e un fagotto che si dimenava leggermente. “Cosa c’è lì sotto?” gli chiesero i ragazzi, ma Kiku li liquidò dicendo loro che non era il momento adatto per dare spiegazioni. I tre salirono sulla macchina del giapponese e si diressero al punto di ritrovo per raccogliere il francese e tentare di fuggire. “Allora, hai quello che ti ho chiesto?” chiese Francis a Kiku “Si. Ecco la planimetria dei confini della città”. I quattro la studiarono bene e decisero che la porta ad est era quella meno sorvegliata. Arrivarono nei pressi di quell’uscita nel giro di un’ora ma la trovarono ben sorvegliata: c’erano almeno 8 soldati armati di fucili con puntatori al laser a guardia del piccolo cancello che li separava dalla libertà. Armandosi di coraggio, diedero il via al piano. Kiku tirò fuori il suo fidato computer portatile e si mise ad hackerare (con grande successo) le telecamere di sicurezza e i sensori di movimento che si trovavano nella zona. Alfred si occupò di acciuffare una delle guardie che si erano allontanate delle altre (dopo aver ricevuto una falsa segnalazione da Francis, in merito ad un intruso all’interno del perimetro) e, dopo avergli dato una bella lezione, si sostituì a lui. Una volta lì, con uno stratagemma ben architettato, fece allontanare le guardie dalla porta, per poi dare ai suoi compagni il segnale per procedere. I quattro coraggiosi ragazzi attraversarono di corsa il varco, ma il fagotto che Kiku aveva portato si mise a piangere, attirando purtroppo l’attenzione delle guardie, che cominciarono ad inseguirli. Kiku guidava più veloce che poteva, cercando di seguire il tracciato di strade ormai abbandonate da tempo, nel tentativo di seminare i loro inseguitori, che sembravano non voler mollare la presa. In più, a complicare ulteriormente la situazione, le guardie si misero a sparare contro la jeep nera, così Arthur fu costretto a ribattere col fucile che avevano preso alla guardia svenuta. Stavano andando molto bene, ormai li stavano distanziando quando Kiku cominciò a sterzare bruscamente: un proiettile era riuscito a bucare una delle loro ruote, facendogli perdere velocità. Nell’impatto, il pc del giapponese volò fuori dal finestrino. Fortunatamente, l’inglese riuscì a prendere le ruote delle macchina degli inseguitori, che furono costretti a fermarsi. “Kuso!” esclamò Kiku, accorgendosi della scomparsa del suo portatile, una volta che si fermarono a distanza sufficiente da considerarsi fuori pericolo. Si erano fermati per sostituire la ruota danneggiata e assicurarsi che la macchina non avesse subito altri danni. “Cos’è successo Kiku?” chiese preoccupato Francis. “Ho perso il mio portatile. Maledizione, è probabile che lo abbiano trovato quei maledetti” rispose Kiku. Ripartirono in fretta, soprattutto perché il giapponese disse loro che il loro tempo era agli sgoccioli. Si diressero verso la costa ad est del continente, proprio dove la mappa segnava la posizione del laboratorio del nonno di Arthur. Una volta lì, scesero dalla jeep, Kiku col misterioso oggetto e il fagotto, mentre l’inglese apriva la porta e lasciava che gli altri entrassero. “Non pensi sia tempo di spiegazioni Kiku?” disse Alfred. Il giapponese annuì e si diresse verso il francese. “Congratulazioni amico mio, è proprio un piccolo sano” gli disse, porgendogli il fagotto nero, che si rivelò contenere il figlioletto del francese, che dormiva beato. Francis non la smetteva di piangere dalla gioia di riavere suo figlio, lo strinse forte al petto, rischiando di bagnare anche lui con le sue lacrime. Gli altri poterono che sorridere alla scena e i due amanti si presero persino per mano. “Quanto a voi due…” cominciò il giapponese, prendendo a due mani l’oggetto avvolto dal telo nero. I due gli prestarono completa attenzione mentre l’amico toglieva il telo. Sotto di esso c’era una strana scatola metallica con delle fialette e un misuratore di temperatura attaccati, di forma rettangolare e di color grigio metallico.
 
“Che cos’è questa cosa Kiku?” chiese Arthur, mentre sia lui che il suo compagno ricevevano l’oggetto dalle mani del giapponese. “Avevo promesso delle spiegazioni, no? Negli appunti del padre di Alfred abbiamo trovato dei progetti per costruire un’incubatrice che potesse garantire la sopravvivenza ad un feto anche in un ambiente artificiale. Mi ci sono volute due settimane per costruirla e proprio perché era un progetto complesso sia io e Alfred abbiamo deciso di non dirti niente finché non ci fossimo accertati che la macchina fosse pienamente funzionante. Penso che sia andato tutto bene, l’embrione è stabile ed ha sia nutrimento che calore sufficiente per sopravvivere per tre settimane abbondanti. Se nascerà o meno, sta solo alla fortuna, ma vi auguro di poter diventare papà” disse loro lo scienziato, felice per averli potuti aiutare. Arthur quasi non voleva tenere quella scatola per paura di farla cadere per l’emozione. Era al settimo cielo. Dopo che si furono riposati un momento, ripresero con la seconda parte del piano: la partenza dei due innamorati. L’aereo era davvero un vecchio macinino militare, ma era conservato così bene che farlo partire non richiese molta fatica. “Che cosa farete adesso” chiese Alfred agli altri due suoi amici. “Beh, nessuno di noi due può tornare in città ormai: Francis ha riottenuto Matthew, che era un prezioso soggetto per la loro ricerca se non proprio quello determinante per scoprire come creare in laboratorio “l’umano perfetto”. Se tornasse lo ucciderebbero. Nemmeno io posso più tornare: anche ammesso che riuscissi ad eludere le guardie di un settore qualunque, quelle guardie avranno sicuramente recuperato il mio pc. Che anche se incredibilmente danneggiato, può sempre essere usato per risalire a me. Penso che rimanere qui sia la nostra unica scelta. Però mi sembra un posto molto pulito per essere abbandonato” disse Kiku, “Beh, il nonno era leggermente fissato con le pulizie. Non mi stupirei se fosse venuto qui senza dirmi nulla o avesse programmato qualche macchinario per tenere tutto in ordine e fornire viveri e acqua. Essendo uno stakanovista credo che ci passasse un sacco di tempo qui dentro, quindi non dovreste avere molti problemi” gli rispose Arthur. I due si prepararono per il viaggio, portandosi con loro due taniche di benzina per ogni evenienza, un po’ di provviste, sistemarono la piccola incubatrice i modo che non potesse assolutamente cadere e si misero gli zaini in spalla, pronti a partire. Alfred strinse calorosamente la mano ai due soci, con un sorriso splendente, ringraziandoli per tutto mentre Arthur non poté fare a meno di scoppiare in lacrime, ringraziando di cuore Kiku e abbracciando più forte che poteva il francese. “Mi mancherai da morire old chap” gli disse, alche il francese, sorridendo tra le lacrime gli disse “Sono sicuro che ci rivedremo. Mattie deve ancora chiamarti zio infondo e non vedo l’ora di sentire il tuo bambino chiamarti papà e chiamarmi zio a sua volta”. Dopodiché, sia Kiku che Francis, rimasero a salutare i due ragazzi, mentre l’aereo cominciava ad avanzare. “Ah, Kiku. Un’ultima cosa!” urlò l’inglese per sovrastare il suono del motore dell’aereo. Lanciò al giapponese una chiave verde e una di bronzo urlando “La verde è quella della biblioteca mentre quella di bronzo è di tutto il laboratorio e le sue funzioni e meccanismi! Fatene buon uso e buona fortuna!”. Infine, l’aereo accelerò per poi staccarsi da terra e dirigersi sempre più in su nel cielo, diretto verso est, verso la misteriosa seconda città.


L’aereo era ormai a secco di carburante, ma per fortuna i due avvistarono terra in fretta. Riuscirono ad atterrare con un po’ di fortuna, ma completamente indenni. I due presero le loro cose e si affrettarono a raggiungere la città che era segnata sulla mappa. Impiegarono un giorno intero di cammino ed arrivarono che erano esausti. Vennero accolti da alcune persone che sembrava non parlassero la loro lingua. Arthur prese la lettera di suo nonno e la consegnò ad una delle persone che li stavano osservando. Questo aprì la busta e dopo averne letto parzialmente il contenuto, sparì tra la folla, chiamando qualcuno probabilmente. I due ragazzi si reggevano a malapena in piedi, provati dai precedenti due giorni in cui non avevano chiuso occhio per arrivare più in fretta alla meta. Alla fine, la folla si divise in due e un anziano con un pappagallo su una spalla si avvicinò loro. I due si stupirono più alla vista dell’animale che dell’uomo: avevano visto i pappagalli solo nei libri di biologia. “Chi voi essere?” chiese loro l’anziano “E perché voi essere qui a Terenzi con lettera di buon vecchio Alibert?”. Arthur aprì la bocca per parlare, ma il suo compagno fu più veloce di lui. “Io non so se voi avete letto la lettera di Alibert, ma questo ragazzo è suo nipote, Arthur Kirkland. Siamo scappati da Darfel perché in grande pericolo. Noi siamo una coppia. Ma vi prego, prima di interrogarci, aiutateci. Il feto del nostro bambino sta morendo. So che voi siete svegli come i nostri scienziati, quindi vi prego aiutateci”. “Se voi rispondere a nostre domande dopo, io promette che mia gente aiuta voi”  disse l’anziano, dopo averci riflettuto un po’ su. Entrambi i due ragazzi annuirono vigorosamente e giurarono sul loro onore. Allora, il vecchio diede qualche ordine nella sua lingua e degli uomini aiutarono i due ragazzi a reggersi in piedi e uno di loro prese la piccola incubatrice per portarla dove il piccolo feto sicuramente sarebbe stato al sicuro. I due ragazzi volevano fidarsi di quella gente. Appena il loro bambino fu in salvo, entrambi cedettero e svennero per la fatica e la stanchezza. Tre giorni dopo, riaprirono gli occhi in un ambiente bianco che puzzava di medicinali. “Un ospedale eh” pensò l’inglese, tirandosi su a sedere, per poi cercare con lo sguardo il suo amato. Lo trovò in piedi vicino alla finestra, intento a chiacchierare con un piccolo passerotto che si faceva accarezzare con piacere. “Sai vero che nelle storie è la principessa che parla agli animali, non il principe” lo prese in giro, sorprendendolo con un abbraccio da dietro. “Vedo che ti sei finalmente svegliato my love. Come stai?” gli chiese l’americano, avvolgendolo in un abbraccio prima di baciarlo con dolcezza. “Mai stato meglio. Questo posto sembra davvero meraviglioso” gli rispose, per poi stupirsi nel guardare il magnifico scenario che si spandeva davanti ai suoi occhi: Un’intera metropoli completamente in simbiosi con la natura. Pieno zeppo di alberi e animali di ogni sorta. Era una delle cose più belle che Arthur avesse mai visto. Il piccolo passerotto sembrò dispiaciuto che l’americano avesse smesso di fargli le coccole, così provò a fargliele l’inglese. Le piume dell’uccellino erano davvero piacevoli al tatto. L’americano rimaneva abbracciato al compagno, anche se quest’ultimo si era girato dandogli le spalle. Alfred affondo il volto nell’incavo tra il collo e la spalla del suo amato e assaporò il profumo della sua pelle e dei suoi morbidi capelli color del grano. Erano finalmente liberi e quella sensazione, la sensazione di non essere più un animale in gabbia gli stava dando alla testa: ora che non doveva più provare paura o preoccupazione, il suo cuore era libero di riempirsi completamente dell’amore che provava per Arthur. Avrebbe voluto farlo suo nuovamente su quel letto d’ospedale, ma un’infermiera entrò nella loro stanza, per poi uscire a chiamare qualcuno, tutta rossa in viso. I due ebbero a malapena il tempo di ricomporsi (anche se continuavano a tenersi per mano) prima che l’anziano che avevano visto all’inizio entrasse. “Allora ragazzi? Come voi sentire oggi?” “Molto meglio, grazie signor…?” chiese l’inglese. “Voi potere chiamare me Ian. Vecchio Alibert spiegato me alcune cose in sua lettera, anche se io conoscere lui da molto tempo io continuo a essere stupito quando lui prevede cose in sogno” rispose il vecchio, ridendo giovialmente. Il vecchio Ian li mise a loro agio e li spinse a raccontagli la loro storia con cura. I due ragazzi allora si misero a spiegare tutto, sia perché erano scappati, sia perché erano in pericolo, sia chi li aveva aiutati, sia come si erano conosciuti. Alla fine della storia Ian fece loro un grande sorriso e disse loro “Se voi non essere come malvagi capi di Darfel che vuole noi come schiavi, allora Terenzi da voi suo benvenuto. Prometto che mi prenderò cura di voi. Voi imparerete nostra lingua e io aiutare voi a cercare una bella casa. Riguardo a vostro bambino… Voi stare tranquilli. Lui essere al sicuro. Tu avere avuto ragione Alfred, nostra tecnologia molto buona, così noi potere mantenere vostro feto in vita fino a nascita”. I due espressero la loro gratitudine, che era più grande di quello che l’anziano potesse immaginare.

Dopo essere stati dimessi dall’ospedale, i due ragazzi vennero aiutati da Ian nel trovare una casa accogliente e ne trovarono una davvero bella: Era molto grande, con ben due stanze enormi da letto, un soggiorno ben arredato, una bella cucina e un giardino magnificamente verde. Decisero di comune accordo che avrebbero vissuto bene lì, anche quando sarebbero finalmente diventati in tre. In pochi giorni in cui erano stati lì si erano accorti che quella città e la gente che ci viveva era straordinaria: c’era un libertà incredibile. La gente era gentilissima ed educata, la criminalità quasi inesistente. Vivevano in totale comunione con la natura e gli animali, cosa che sembrò loro una cosa al limite della fantascienza. Erano anche incredibilmente avanzati in fatto di tecnologia e le malattie mortali non esistevano da loro. La prima notte che trascorsero in quella notte fu la più carica di eccitazione per loro: senza dover più pensare a niente, erano liberi di amarsi, anche nella società. Infatti, una delle particolarità che l’anziano aveva detto loro, era che le coppie dello stesso sesso erano apprezzate e avevano gli stessi diritti di quelle normali e che tutti erano liberi di creare una famiglia a loro piacimento. “Avresti mai immaginato che saremmo riusciti a raggiungere questo posto?” chiese Alfred, prendendo fiato dopo un lungo bacio passionale. “No, nemmeno nei miei sogni più belli my darling” gli rispose Arthur, per poi attirarlo a sé abbracciando il suo corpo nudo. Era la loro prima notte di vero amore in quella casa e non poterono non sorridere quando l’alba salì, illuminando i loro volti pieni di gioia e stanchezza per la notte insonne e stancante. Ma quello non fu solo il primo giorno in quella casa, fu il loro nuovo giorno della loro nuova vita insieme.


Piccolo Angolo dell'Autrice:
Ed eccomi di nuovo qui, stavolta più in fretta delle ultime volte. Devo dire che questo capitolo dovrebbe essere una specie di finale vero vero di tutta la storia, quindi il prossimo capitolo sarà una specie di "Cosa accade dopo la fine", ma che comunque rimane molto importante ai fini della trama ;) Scrivere questo capitolo è stato leggermente più facile di quelli iniziali, forse perchè volte scene le avevo immaginate da un bel pò. Spero si stato scritto bene e che sia piaciuto (Per chi non avesse una buona infarinatura di giapponese, il "kuso" usato da Giappone, qui viene usato per dire "Merda")

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Capitolo 7
*** Una nuova vita ***


Quel giorno Arthur e Alfred erano andati in riva al mare per passare un bel finesettimana da soli. Ormai vivevano a Terenzi da quasi un anno e si erano ben ambientati, quasi abbattendo pure il muro della lingua dopo un po’ di studio. Adoravano vivere lì, era tutto fantastico e la loro felicità cresceva ogni giorno un po’ di più, soprattutto in quegli ultimi due mesi, visto che presto sarebbero diventati papà. Stesero una tovaglia sulla sabbia calda, sotto un albero che offriva riparo dal sole cocente e, dopo averci appoggiato sopra le loro cose, si tolsero i vestiti e andarono a nuotare. Ian aveva parlato loro di quel tratto di spiaggia che era spesso deserto e in pochi lo conoscevano. La mattinata volò in fretta tra Alfred che cercava d’insegnare al suo amato a nuotare, schizzi, gare di apnea, ricerca di conchiglie e qualche occasionale gara di nuoto (in cui una ciambella celeste aiutava l’inglese a stare a galla) e verso l’una, i due decisero di pranzare e riposarsi all’ombra dell’albero. Alfred stava dormendo con la testa sulle gambe dell’altro ragazzo mentre quest’ultimo era immerso in un libro che lo stava appassionando sin dalle prime righe. La sua attenzione fu attirata da uno strano rumore proveniente dalle fronde della foresta vicina. Si mise sull’attenti e svegliò il compagno. “È già ora di andare?” gli chiese l’americano ancora assonnato “Ho sentito dei rumori provenire dal bosco” gli rispose l’inglese con una leggera agitazione: e se le autorità di Darfel li avessero trovati? Non ci avevano mai pensato, ma era comunque una possibilità. “Rimani qui, vado a vedere” disse l’americano, alzatosi in piedi, dirigendosi verso l’origine del rumore. Dopo pochi attimi di silenzio, nei quali l’americano era sparito oltre le fronde, Arthur lo sentì gridare il suo nome, più di una volta, chiedendogli di accorrere da lui. L’inglese impallidì di colpo, pensando che fosse accaduto qualcosa al suo amato, così si precipitò subito da lui, per poi rimanere molto più sbalordito di quanto potesse aspettarsi: il suo amato ragazzo era in compagnia di Kiku e Francis. Quest’ultimo teneva in braccio un bambino dai capelli biondo miele e dagli occhi violacei, che stava attaccato forte al suo papà per l’imbarazzo di stare con persone che non conosceva. I quattro furono felicissimi di rincontrarsi dopo tanto tempo. I due innamorati li condussero verso il loro posto sotto l’albero e dopo che tutti si furono seduti, cominciarono a far loro domande come com’erano arrivati fin lì e cose simili. “Dobbiamo ammettere che non è stata un’impresa facile” ammise Kiku “Ma tramite alcune vecchie apparecchiature del nonno di Arthur siamo riusciti a trovare le coordinate di questa città”. “La parte più difficile è stata raggiungerla. Mais abbiamo avuto la fortuna di trovare un vecchio motoscafo in un porto abbandonato lungo la costa. Così abbiamo fatto le valigie e abbiamo pensato di passare per un salutino” continuò il francese, che non riusciva a smettere di sorridere. “Ma adesso diteci, come avete vissuto questi ultimi mesi” chiese loro Alfred con tono allegro. “Beh, non male a dire il vero. Arthur aveva ragione, suo nonno era davvero organizzato. C’erano per davvero alcuni macchinari che pulivano gli spazi del laboratorio, che raccoglievano frutta e verdura o che si occupavano di proteggere la casa. C’erano anche una serra, qualche cisterna per l’acqua pluviale e una biblioteca immensa. Per non parlare del laboratorio poi: semplicemente stupendo” disse Kiku “Ma diciamo che non siamo rimasti con le mani in mano per molto però. Ogni tanto andavamo in esplorazione all’esterno dell’edificio per vedere se non c’erano altri villaggi o animali feroci. Purtroppo non abbiamo mai trovato niente, solo città abbandonate. Erano davvero delle visioni tristi” “Però, il piccolo Matthew si divertiva a giocare con i robot che pulivano la casa. Pensate che ha imparato a camminare inseguendo uno di loro. Però, è un bambino estremamente timido. Non capisco proprio da chi abbia preso” disse il francese, ridendo, mentre il piccolo si nascondeva dietro la sua schiena, gettando qualche occhiata ai due estranei ogni tanto. Francis lo acchiappò e, facendolo sedere sulle sue ginocchia, gli presentò i suoi amici. “Il ragazzo con in capelli biondi e gli occhi verdi è il migliore amico di papà. Si chiama Arthur. Mentre il ragazzo con gli occhiali è il suo ragazzo. Si chiama Alfred. Mathieu, mi aspetto che li chiamerai zii, va bene?”. Il bambino aveva appena un anno e tre mesi, ma sembrò capire le parole del padre. “E voi due invece? Che avete fatto?” chiese loro il giapponese. “Beh, in quasi nove mesi ci sono successe un sacco di cose. Abbiamo imparato la lingua locale per esempio e stretto un po’ di amicizie sia col capo della città sia con altre persone. Abitiamo in una bella casa sul versante ad ovest della collina che si trova all’entrata della città, dovreste vederla, è enorme. Sia io che Arthur andiamo a scuola al momento” disse l’americano agli altri due “Io ho cominciato a studiare per diventare uno scienziato come mio padre, mentre Arthur è al suo ultimo anno per diventare uno storico”. “E che ci dite del vostro bambino, sta bene?” chiese Kiku “Si, quando siamo arrivati era in pericolo di vita, però adesso sta bene. Però non sappiamo se sia un maschio o una femmina: in questa civiltà non scoprire il sesso del nascituro prima della nascita è considerato un gesto di buona fortuna” gli rispose l’americano. “Ma non è solo questa la notizia più bella” s’intromise Arthur “Dovete sapere che… beh… ecco… noi… noi ci sposeremo la prossima settimana” disse loro, arrossendo più di quanto avesse mai fatto in vita sua. Fu solo allora che i due notarono l’anello con un piccolo zaffiro e uno smeraldo all’anulare sinistro dell’inglese. Pure l’altro era in imbarazzo, anche se si vedeva di meno. Sia Kiku che Francis non poterono non esprimere una grande sorpresa. “Mais c’est magnifique!” esclamò il francese, mentre Kiku fece loro delle calorose congratulazioni: erano sinceramente contenti della notizia. Matthew guardò sia il suo papà sia il giapponese e, vedendoli entrambi felici, fece una risata timida e batté un paio di volte le sue piccole manine paffute.

Era quasi il tramonto quando i due innamorati condussero i loro amici da Ian, per informarlo dei due nuovi arrivati e chiedergli se potevano restare. Mediarono tra le due parti finché non raggiunsero un accordo: l’anziano fu più che felice di ospitare due cari amici del nipote di Alibert. Nonostante le difficoltà iniziali, i tre nuovi arrivati riuscirono ad ambientarsi alquanto in fretta, anche se le differenze linguistiche erano una sorta di ostacolo. Kiku riuscì a trovare impiego come medico nell’ospedale principale e anche una bella casa vicino al suo posto di lavoro. Francis invece tornò a studiare, alla stessa università di Arthur, ma per diventare un professore di lettere. S’incontravano solo durante le lezioni condivise. A volte l’inglese e il suo compagno aiutavano Francis a prendersi cura di Matthew facendogli da baby-sitter ogni volta che ne aveva bisogno. Il piccolo si era affezionato incredibilmente ad Alfred e i due giocavano molto spesso insieme. Sia lui che suo padre abitavano verso la periferia della città, un posto calmo pieno di piante e fiori meravigliosi. Nonostante vivessero un po’ lontani, i quattro cercavano d’incontrarsi più spesso che potevano. Una sera, mentre stavano cenando tutti e cinque a casa del francese, Alfred fece una richiesta ai due amici: “Beh, è una cosa che riguarda il nostro matrimonio. Io e Arthur ne abbiamo parlato e abbiamo deciso quasi subito. Vorreste farci da testimoni ragazzi?”. I due non ci pensarono due volte e accettarono.

Le nozze furono celebrate quattro giorni dopo, di mercoledì, lo stesso giorno in cui si erano conosciuti per la prima volta. Entrambi indossavano uno smoking bianco, con l’unica differenza che Alfred aveva una rosa rossa all’occhiello mentre Arthur aveva un bouquet di rose rosse. Il luogo della cerimonia era una chiesetta di campagna, che le piante rampicanti avevano reso ancora più bella. Al suo interno, sotto il maestoso crocifisso di legno che stava leggermente più indietro e in alto rispetto all’altare, c’erano dei cespugli di roselline selvatiche. Ad abbellire l’atmosfera c’era anche la luce del sole: l’interno della chiesa era ben illuminato e i due giovani sposi avevano scelto il tramonto per la celebrazione. I cori dei bambini erano magnifici e la musica fu la più adatta che avessero mai potuto sognarsi. Sull’altare, scambiarono i loro voti e, dopo aver scambiato gli anelli e firmato le carte per ufficializzare il tutto, la cerimonia finì. Entrambi gli sposi scoppiarono in lacrime per la gioia e si abbracciarono stretti. “Bacio! Bacio! Bacio!” il pubblico fece un’ovazione nella loro lingua esprimendo queste parole, alle quali gli sposi non si ritrassero. Quello che si scambiarono su quell’altare fu, con molta probabilità, il loro bacio più dolce. Quando tornarono a casa, Alfred insistette per prendere il suo novello sposo in braccio per poi portarlo in braccio oltre la soglia di casa. Alla fine l’inglese cedette e l’americano lo prese in braccio. Oltrepassò la soglia di casa ma, invece di metterlo subito giù, lo lasciò andare solo sul letto della loro camera, per consumare quel fresco matrimonio.
 

Erano sposati da due settimane e la loro vita non poteva essere più felice. Era una giornata particolarmente calda e i due sposi novelli non avevano molta voglia di stare in casa, così decisero di uscire. Scelsero di andare nel parco vicino alla casa di Francis e magari fargli una visita prima di tornare a casa. I due si tenevano per mano mentre camminavano per i sentieri del parco. Sentire le risate dei bambini o il cinguettio degli uccelli, una volta così surreale per loro, erano diventati alcuni dei rumori che amavano di più. Oltre a loro c’erano anche altre coppiette, composte da ogni tipo di coppia che aveva in comune solo l’amore che si rifletteva nei loro occhi. Dopo un po’, tra risate e chiacchiere varie, i due decidettero di sedersi su una panchina, all’ombra di una grossa quercia. La situazione sembrò incredibilmente familiare all’inglese, che ammutolì all’istante: all’improvviso glie era tornato in mente il suo famoso sogno ricorrente, che era identico alla situazione che stava vivendo attualmente. E se anche quello fosse stato solo un sogno? Chiuse forte gli occhi mentre l’ansia gli attanagliava lo stomaco. Riaprì gli occhi lentamente, timoroso di quello che avrebbe potuto vedere. Quando i suoi occhi misero a fuoco l’ambiente, una sconcertante consapevolezza gli attanagliò il cuore: era nel suo appartamento di Darfel, solo, esattamente come nei giorni prima del suo incontro con Alfred. Girò la testa verso la sveglia: segnava le 8 del mattino del 19 Giugno 21xx. “Quindi… quindi era tutto un sogno…?” si chiese l’inglese, colto dal dolore più forte che avesse mai potuto provare. Le sue gambe cedettero e si ritrovò a piangere tutte le sue lacrime sul freddo pavimento di legno. “Ehy, my love, wake up. Arthur, did you fall asleep?” gli sembrò la voce del suo amato americano, ma com’era possibile se era sveglio nella realtà? Pensò si trattasse solo di un’allucinazione. Pianse finché non si addormentò per la stanchezza.

Quando si svegliò, sentì di avere la testa appoggiata a qualcosa. Pensò si trattasse del pavimento, visto che vi si era addormentato sopra, ma, quando riaprì gli occhi, le lacrime accorsero nuovamente ai suoi occhi: in realtà non si era mai svegliato a Darfel. Era ancora a Terenzi e la prova era il fatto che il suo amato era lì accanto a lui, seduto sulla stessa panchina. “Ehy, perché piangi? Non preoccuparti, sono almeno due giorno che non dormi per lo studio, non mi sono arrabbiato per il fatto che ti sei addormentato qualche minuto fa” gli disse l’americano, con un sorriso consolatorio. Arthur gli si gettò al collo, abbracciandolo così forte che a momenti l’altro ragazzo non provava dolore. Non smise di piangere finché non fu abbracciato forte a sua volta. “Ma che è successo?” gli chiese. “Niente, niente. Ho fatto un brutto sogno” gli rispose l’inglese, asciugandosi le ultime lacrime. Gli raccontò tutto e lo sguardo dell’americano si fece molto più dolce. “Non accadrà mai che al tuo risveglio tu possa ritrovarti là tutto solo. Non importa cosa, ti avrei trovato comunque e in ogni caso mi sarei innamorato di te. E anche se dovesse accadere, ti troverò ancora e per ogni volta che sarà necessario. Tu mi salverai ogni volta e ogni volta io ce la metterò tutta per fa si che il tuo sogno si realizzi e portarti qui in salvo. Quindi, my love, non piangere più, alright?” gli disse Alfred, accarezzandogli una guancia che, da candida divenne di un rosso acceso. L’inglese annuì e tra i due calò il silenzio, mentre si guardavano negli occhi. Lentamente, i due cominciarono ad azzerare la distanza tra le loro bocche, ma ebbero appena il tempo di sfiorarsele che un rumore intenso e fastidioso disturbò i ragazzi: era il cellulare di Arthur. Il ragazzo rispose al volo. A chiamarlo con tanta urgenza era l’ospedale: ormai il bambino stava per nascere. Per poco non lasciò cadere il telefono. “Alfred, sbrigati, dobbiamo correre! Il bambino sta per nascere!” esclamò, alche anche suo marito scattò in piedi. Corsero a rotta di collo fino all’ospedale dove il loro bambino era ricoverato fin dal loro arrivo nella città. Un’infermiera li accolse e capì con un po’ di difficoltà perché i due ragazzi erano lì, soprattutto perché per la fretta, i due parlavano fittamente la loro lingua d’origine. Calmandosi un po’ riuscirono a farsi capire e la ragazza li accompagnò velocemente al reparto di maternità. Il dottore gli fece indossare un paio di camici sterili, ma poterono assistere all’apertura dell’incubatrice (che ormai era diventata bella grossa) solo da lontano, in modo da non ostacolare il lavoro del dottore e delle infermiere. A maggior ragione nel loro caso, perché non avevano mai tirato fuori un bambino da un’incubatrice come quella. A momenti Alfred non sveniva per l’emozione. “Congratulazioni! Sono due bellissime gemelle!” disse loro il medico. Dopo essere state separate dal cordone ombelicale, lavate e avvolte con degli asciugamani, le infermiere le diedero in braccio ai loro papà. “Come le chiamiamo?” chiese Alfred al marito. “Che ne pensi se quella tranquilla la chiamiamo Alice?” propose l’inglese, mentre la bambina che teneva in braccio scalpitava. “Alice è un bel nome. E per l’altro nome… che ne pensi se la chiamiamo Amelia?”. Arthur concordò. Alice e Amelia Kirkland Jones sarebbero stati i nomi delle due bambine, una che riposava tranquilla tra le braccia di papà Alfred mentre l’altra sembrava voler già giocare con papà Arthur. Qualche giorno dopo fu loro concesso di portare a casa le due bambine. Gli altri due loro amici andarono a trovarli non appena seppero della grandiosa notizia: festeggiarono per gran parte del pomeriggio. Infine, quella notte, i due innamorati, finalmente rimasti soli con la loro famiglia appena formata, furono liberi di sentirsi stanchi per tutte le emozioni provate in quei pochi giorni. Le bambine piangevano, così l’inglese le mise sul loro letto, tra di loro e insieme a suo marito cantarono una ninna nanna alle bambine finché non si addormentarono. I due si diedero la mano prima di addormentarsi a loro volta. Non erano mai stati così felici in vita loro e le cose non avrebbero potuto andare meglio.



Piccolo Angolo dell'Autrice
E alla fine siamo arrivati alla fine XD Mi spiace che sia il capitolo più breve di tutta la storia, ma spero comunque che possa piacere comunque. Piccole precisazioni sulla storia ehehehe Avevo finito di scrivere il capitolo già ieri pomeriggio ma ho deciso di pubblicarlo oggi perchè è passato un mese esatto dalla pubblicazione del primo capitolo \(^w^)/ In più, se volete notarlo, il giorno in questione era un mercoledì (esattamente il giorno del primo incontro dei due protagonisti) (A cuccia Adam, non è una coincidenza XD) Per il resto, beh, volevo ringraziare chi mi ha seguita e incoraggiata e alcune mie amiche in particolare per avermi sopportata mentre scrivevo ahahahahah Si, lo so, è un pò lungo, ma stavolta posso dire che mentre scrivevo molto spesso mi sono trovata più come lettrice che come scrittrice XD Che altro potrei dire? Beh, grazie mille ^w^ e alla prossima <3 

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