How To Train Your Sherlock 2

di Tomi Dark angel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un Mondo Da Risanare ***
Capitolo 2: *** Oltre I Confini ***
Capitolo 3: *** Ricordati Di Me ***
Capitolo 4: *** Cambi Di Programma ***
Capitolo 5: *** Ultimo Respiro ***
Capitolo 6: *** I'm Not Sherlock ***
Capitolo 7: *** L'Eredità Di Un Figlio ***
Capitolo 8: *** La Galassia Tra Le Mani ***
Capitolo 9: *** Angolo Di Paradiso ***
Capitolo 10: *** Io credo nei miracoli, lo giuro! ***
Capitolo 11: *** L'Alfa ***



Capitolo 1
*** Un Mondo Da Risanare ***


Ebbene, rieccoci. Vi ricordate di me? Proprio così, sono io. John Watson. Ex militare, eroe della più grande battaglia tra uomini e draghi che il mondo abbia mai avuto la fortuna di vedere e compagno dell’ultima Furia Buia esistente nell’intero universo. Che cos’è una Furia Buia? Andiamo! Non avete letto la storia precedente? Le Furie Buie sono… be’, draghi. Non draghi come gli altri, certo… ma draghi. E fidatevi; non esistono creature più straordinarie nell’intero universo. Dio, perché l’ho scritto? Se Sherlock lo legge, se ne vanterà fino al tramontare delle ere… ok, ormai la frittata è fatta.
Torniamo a noi.
Perché sono di nuovo qui? Per raccontare una storia, come al solito. Per raccontare, per ricordare… per far sì che il passato non vada perso. È giusto così, dopotutto, e alla fine capirete il perché. Perciò, meglio cominciare dall’inizio:
Questa è Londra, il segreto meglio custodito di questa parte di… be’… nulla. Sì, forse non sarà il massimo della bellezza, ma questo mucchio di rocce e palazzi riserva un bel po’ di sorprese. La maggior parte della gente di solito ha passatempi come leggere o sferruzzare caldi maglioni invernali. Noi invece, preferiamo fare una cosa che ci piace chiamare… CORSE DI DRAGHI!!!
 
How To Train Your Sherlock
2
 
-Sbrigati, Mycroft!-
Vento. Velocità. Euforia. L’aria si contorce ferita mentre ali affilate, gigantesche, massicce calano svelte per tagliare il vento in un sali e scendi ripetuto, continuo, instancabile. Corpi grossi come montagne sovrastano il cielo, lo oscurano sfondano ogni barriera d’umana velocità.
-Andiamo, Noah!-
I muscoli si tendono, qualcosa scintilla prezioso alla luce dorata del sole, che accoglie gloriosa i giganteschi spalti circolari che popolano il centro dell’arena. La gente esulta, scaglia in aria i pugni, grida euforica ad ogni passaggio dei tre giganteschi corpi da rettile che velocissimi seguono il percorso, oltrepassandosi, spintonandosi, tuffandosi in splendide acrobazie aeree. La creatura più veloce, una dragonessa dalle scaglie di lucente rubino, stringe tra gli artigli una minuscola pecora bianca, grossa poco più di una squama. Non la uccide, non la mangia. Al contrario, la chiude tra le zampe come in una prigione d’inespugnabili dita e artigli acuminati.
-C… coraggio, Irene!- urla il piccolo uomo in armatura di cuoio che giace aggrappato convulsamente a uno dei corni ricurvi della dragonessa. Ha la faccia contratta in una smorfia sofferente, la pelle sbiancata, gli occhi serrati, ma il suo drago non decelera. Al contrario, Irene sforza i muscoli, sbatte forte le ali e vittoriosa, si accosta fulminea a uno dei tre giganteschi cesti che giacciono appesi in fila contro una staccionata. Lascia cadere la pecora, sbatte le ali, si innalza al cielo in strettissime spirali che capovolgono violentemente lo stomaco del suo cavaliere.
Mike stringe più forte il corno, respira a fondo dal naso e combatte strenuamente la nausea che soverchiante cerca di sopraffarlo.
-Non vomiterò, non vomiterò, non vomiterò…-
Dagli spalti esplode un boato di puro giubilo quando la dragonessa compie sulle loro teste un giro d’onore, facendo risplendere le magnifiche scaglie di rubino e gli artigli d’avorio che ferini sfiorano le teste degli spettatori in un’aggressiva carezza di ringraziamento.
Ma si è distratta un istante di troppo.
Una catapulta d’acciaio scaglia in aria una minuscola pecora nera. Gli spettatori si voltano come un sol uomo, la fissano belare disperata e compiere un arco scuro nell’aria pulita del mattino.
Un istante, l’ansito di un respiro…
-SÌ!!!-
Una freccia violetta taglia l’aria velocissima, stringe gli artigli intorno al piccolo corpo della pecora e infine s’innalza in cielo, fulminea, quasi non vista perché appena più piccola degli altri draghi. Due identiche teste cornute stringono i denti, tendono i lunghi colli muscolosi irti di punte acuminate sui dorsi mentre, aggrappata a uno dei corni che spuntano dal cranio sinistro, una ragazza dai lunghi capelli castani ride felice, scagliando in aria un pugno vittorioso nello stesso istante in cui Noah lascia cadere la pecora nel cesto più vicino.
-E questa conta per dieci! ABBIAMO VINTO, NOAH!!!-
Dagli spalti esplode un nuovo oceano di grida elettrizzate che felici s’innalzano al cielo, disturbando la quiete del mattino. Sulle teste degli spettatori, passano i tre mastodonti, talmente grandi da oscurare l’intera città con le ali gigantesche, tese di muscoli e tendini massicci. Le membrane appaiono quasi trasparenti, le scaglie gettano sul pubblico un turbinio prezioso di cristalli sfaccettati.
Dalla tribuna più alta, un uomo sulla sessantina solleva una mano artigliata per decretare la conclusione della sfida. Ha lunghi capelli striati di grigio, intervallati da due splendide corna ricurve, occhi chiari, zigomi alti e taglienti, labbra carnose. A partire dai lati del collo, si snoda una fitta rete di squame lucenti che eleganti scivolano lungo i tendini sporgenti, tuffandosi poi alle spalle del colletto rigido della lunga veste blu notte che abbraccia quel corpo ancora statuario, ancora bellissimo e incontaminato dalla reale anzianità. La coda, irta di punte acuminate sul dorso, scudiscia lenta e morbida intorno alle zampe posteriori, in tutto e per tutto simili a quelle di un drago, per poi innalzarsi verso le ali ripiegate sulla schiena, che massicce sbocciano dalla schiena lasciata nuda dalla veste, svettando gloriose verso il cielo come splendide tende di seta luminosa.
Edarion Holmes. Padre degli attuali principi, marito di una delle più grandi leggende che il passato abbia mai visto e attuale regnante della prima e ultima alleanza che riunisce al suo cospetto uomini e draghi. È padre della sua razza, basta guardarlo: splende di gloria repressa, respira magnificenza, il corpo s’intreccia armonioso tra regno umano e draconico. Lì dove la guerra da poco trascorsa ha lasciato un segno, giace una profonda cicatrice all’altezza della guancia. Serpeggia lungo lo zigomo, scivolando aggressiva verso la mandibola, dove si ferma.
-Fantastico, Molly. Bravissima! E bravissimo anche tu, Noah.- esclama sorridendo quando Molly e Noah lo oltrepassano, scatenando una nuova ondata di grida estasiate.
È tutto perfetto, tutto ben strutturato. Le gare, Londra, l’armonia che giace serena su ogni singolo abitante della città. Tutto. Ma manca qualcosa. O meglio, qualcuno.
-Dov’è mio figlio?- domanda a bassa voce, rivolto all’uomo seduto al suo fianco.
Philip Anderson lo fissa di sfuggita, indeciso sulla risposta da fornire.
–Ecco…-
 
-WOHOOO!!!-
Velocità. Tanta, troppa. Il vento che graffia la pelle, l’odore di libertà, il bacio del sole sulle carni. Il mondo si srotola intorno a loro, spiega arti d’acqua pulita che limpida si stende all’orizzonte, intrecciando arti marini all’azzurro sbiadito di un cielo senza nuvole. È un incontro gentile, armonioso, che quasi fonde acqua e aria, cielo e mare in un dipinto senza tempo ma lavorato in ogni singolo dettaglio di luci ed ombre da anonimo artista senza volto.
Sull’acqua sottostante, dove le ali del drago affondano iridescenti ad ogni battito, sollevando sulle loro teste un arco lucente di goccioline simili a diamanti, splende danzante una miriade di cristalli brillanti, intrisi di riflessi arcobaleno.
John Watson solleva lo sguardo per spingere la vista a nord, dove giganteschi crepacci di roccia s’innalzano spavaldi dall’acqua, svettando diroccati verso il cielo. Sono rocce frastagliate, consumate dall’acqua e dal tempo, ma sbucano irte di minacce ad ogni singolo tratto d’oceano per decine di metri, nascondendo a malapena l’esplosione di smeraldo che più in là s’inerpica lungo la sporgenza rocciosa che svetta sul mare, sbocciando tuttavia da un fitto arrampicarsi d’alberi.
John sorride euforico prima d’appoggiare il mento sulla spalla del suo mezzo di trasporto preferito. Inspira grato il profumo di spezie e vaniglia che impregna quel corpo così caldo, nervoso di muscoli contratti e scaglie acuminate.
Se avesse dovuto dare un volto all’angelo più bello di Dio, figlio del mattino e della sera, del cielo e della terra… John lo immaginerebbe proprio così.
A volte, guardando lo spiegarsi dell’aurora boreale o le imponenti Cascate del Niagara, l’uomo crede di aver scoperto il vero significato di imperscrutabile bellezza. Le sette meraviglie del mondo, il sorriso di un bambino, la risata di una donna innamorata. Queste sono bellezze di indubbia grandezza. Ma niente, niente al mondo o nell’universo, può eguagliare l’inquietante perfezione di quel viso ultraterreno.
Nessuna creatura terrestre è così bella, nessuna creatura terrestre possiede quei tratti affilati, dagli zigomi alti, scolpiti nella madreperla della pelle intrisa di riflessi quasi argentati. Gli angeli stessi potrebbero aver scolpito quelle labbra cesellate, morbide, dipinte da artista divino e accarezzate dai capelli ricci, corvini e luminosi, vivi di una distratta eleganza che li abbandona scompigliati sulla fronte e sul viso del loro proprietario. Tuttavia, ogni magnifica sfaccettatura di quel viso annega in una meraviglia ben più grande che abbraccia il cuore di John in una stretta soffocante, sottomessa, innamorata.
Cristallo. John non può descriverli altrimenti. Quegli occhi brillano dei più morbidi, variopinti riflessi che qualsiasi spettro di colori abbia mai posseduto. Il mondo intero nasce e muore in giovinezza e vecchiaia attraverso quello sguardo, insieme a quelle sfumature sfuggenti, indescrivibili, senza tempo. Occhi del genere potrebbero spezzare il mondo con un semplice sguardo, plagiare qualsiasi animo, riavvolgere il nastro delle ere per cambiarlo nella sua interezza.
Un fascio di sole dorato accarezza le squame variopinte, tinte di un nero brillante, intriso di riflessi arcobaleno e d’aurora boreale. Ogni più prezioso cristallo del mondo non eguaglierebbe minimamente lo splendore di quei diamanti oscuri accuratamente sovrapposti, che sinuosi scivolano ai lati del collo, separandosi all’altezza delle clavicole in due identiche ali che abbracciano le spalle e le braccia, scivolando sulla schiena, lungo i fianchi, fino ad abbracciare le gambe in tutto e per tutto identiche a quelle di un rettile. Cosce possenti, muscolose, che introducono ad arti nervosi, muniti di zampe artigliate, bestiali. La coda scudiscia nell’aria, le corna ondulate rilanciano riflessi adamantini sul viso e sulle acuminate ma piccole punte che seguono la linea della mandibola.
Infine, ci sono le ali.
Ampie oltre ogni dire, possenti, forti di vele gigantesche che sembrano voler abbracciare il mondo per proteggerlo o spazzarlo via. Ali possenti, ali che più di una volta hanno sostenuto il mondo intero. Ali che adesso, trasportano John in un oceano lontano di sogni e libertà, di vento e profumi esotici, laddove l’uomo ancora non è giunto.
John allarga le braccia, cattura il vento con una risata euforica mentre un nuovo ventaglio di goccioline iridescenti s’innalza verso il cielo, spinto in aria dalle ali possenti della Furia Buia.
-Non comportarti da bambino, John.- lo rimprovera la calda voce di Sherlock. –Rischi di cadere se ti agiti tanto. E sappi che, in tal caso, ti lascerei affogare.-
John vorrebbe ascoltarlo, davvero. Ma è troppo felice, troppo libero, troppo leggero. Intreccia le gambe con quelle di Sherlock, lascia scivolare le mani lungo le braccia del drago ben più che umanoide che lo trasporta sulla schiena. Chiude gli occhi, respira a fondo l’odore del suo drago mescolato al profumo del mare sottostante.
Qualcosa risale velocemente verso la superficie, catturato dai bruschi movimenti della Furia Buia ormai troppo vicino all’acqua. Bestie massicce dai corpi longilinei balzano oltre l’azzurra serenità dell’oceano, bucando giocose il mare che le accoglie e rilanciando al sole i riflessi impazziti della pelle iridescente che ricopre quei colli così lunghi, quelle teste triangolari, quelle membrane lucenti di polvere di stelle.
I draghi d’acqua inarcano i corpi a mezz’aria, offrono al cielo le pinne anteriori in un saluto mattutino che vuole rivolgersi invece al mondo intero.
Sherlock punta dritto verso di loro, scende ancora fin quasi a toccare con mano il pelo agitato dell’acqua. Poi, all’ultimo momento, chiude le ali, ruota su se stesso e con sinuosa eleganza passa sotto i ponti arcuati dei corpi in caduta libera dei draghi.
John ride quando uno spruzzo d’acqua gli urta il viso, bagnandogli anche i capelli. Scrolla la testa, spargendo goccioline tutto intorno mentre Sherlock accelera ancora, tanto da poter sfruttare lo spostamento d’aria per aprire le acque sottostanti in due identiche ali azzurrine.
John gli dà un colpetto sul fianco, protendendosi verso l’orecchio di Sherlock.
-Che ne dici, proviamo a…-
-No.-
-Suvvia, Sherlock! Cosa può andare storto?-
-Tutto. Devo ricordarti cosa è successo l’ultima volta?-
-Non fu colpa mia! Quel cespuglio di rovi non doveva neanche esserci, lì!-
-John, quello fuori posto eri tu, non un banalissimo cespuglio di rovi. A rigor di logica, le piante non si spostano da sole.-
Nonostante le proteste tuttavia, Sherlock sbatte forte le ali, catturando una corrente ascensionale che lo spinge verso l’alto. Il suo corpo si adatta al cambiamento, asseconda con leggeri movimenti dei fianchi ogni battito d’ali, ogni virata.  
John si sporge emozionato oltre la spalla tornita di Sherlock per fissare estasiato il mondo che placido si stende come morbido tappeto ai loro piedi. Immense distese d’azzurro che dolci s’intrecciano col pallido smeraldo degli alberi, riflessi cristallini d’acqua baciata dal sole, monti assopiti che sereni riposano accucciati sulla terra.
Quello è il loro mondo. Quello è il pianeta che passo dopo passo, stanno ripulendo dalla guerra, dal sangue, dall’odio. Non è facile, ma John finalmente può vedere la bellezza laddove ha creduto di non poterla vedere mai più.
-Pronto?- esclama per sovrastare il ruggito del vento.
Sherlock rallenta considerevolmente, quasi smette di sbattere le ali, ma non manca di catturare qualsiasi placida corrente ascensionale volta a tenerlo in equilibrio sul tetto del mondo. Stringe le labbra, assottiglia lo sguardo.
-Cambierebbe qualcosa se dicessi di no?- sbotta infastidito, ma John sorride e lentamente allenta la stretta sul corpo di Sherlock. Sente i suoi muscoli irrigidirsi sotto il lungo cappotto nero che indossa, vede i tendini del collo farsi più nervosi, pronti a scattare.
-Andrà bene.- lo rassicura.
Poi, semplicemente si lancia.
Un senso di vuoto alla bocca dello stomaco, la totale gelida assenza del corpo di Sherlock sotto il suo, il ruggito del vento nelle orecchie. Improvvisamente, John comincia a precipitare. Non ha paura, non teme lo schianto col mare che velocemente gli corre incontro, pronto ad abbracciarlo. Sente che Sherlock è alle sue spalle, pronto a riprenderlo, impedendogli di cadere così come ha sempre fatto.
Allarga le braccia, e improvvisamente delle ali di sottilissima seta nera che collegano le braccia al bacino si gonfiano possenti, schioccando catturano il vento e issano il corpo di John verso il cielo.
Alle sue spalle, Sherlock allarga le ali e lo imita, senza tuttavia distanziarsi troppo.
John sforza i muscoli delle braccia, combatte imperioso contro il vento che cerca di fargli perdere l’equilibrio. Non demorde mai, non si rilassa finché non cala lo sguardo sul mondo sottostante che per la prima volta, l’uomo può guardare dall’alto, volando su ali proprie, funzionanti, resistenti quasi quanto quelle di un drago.
-È belliss…-
Qualcosa va storto all’improvviso, violento e inaspettato. Una brusca folata di vento lo destabilizza, fa oscillare pericolosamente le ali improvvisate che fremono di fatica, troppo sottili per resistere un istante di troppo.
-Oh, no! SHERLOCK!!!-
John comincia a precipitare all’improvviso, avvinto alla forza di gravità che impietosa lo trascina in basso, verso lo spuntone più alto delle rocce che sbucano dall’acqua impetuosa del mare. Chiude gli occhi, piega le ginocchia e invano cerca di anteporre le braccia davanti al viso per proteggersi dall’impatto.
Inutile. Banale. Sta precipitando dal tetto del creato stesso: non sopravvivrà.
Vorrebbe chiamare Sherlock, vorrebbe voltarsi e capire perché il suo drago non l’ha ancora afferrato. Sherlock non è mai stato così lento, dannazione. È una Furia Buia!
Le rocce si avvicinano vertiginosamente. Niente rallenta la caduta, niente la arresta. A John non resta che chiudere gli occhi e prepararsi a morire.
Ma l’urto non arriva.
Due braccia muscolose gli circondano la vita, un corpo caldo preme contro il suo mentre mani esperte lo voltano a mezz’aria per poi premergli il viso contro il petto scoperto e ancora caldo del suo salvatore.
Due ali gigantesche si chiudono protettive su di loro come spiriti guardiani, una coda rovente di calore li abbraccia in una stretta inscindibile, meni gentili lo afferrano, bloccandolo un istante prima dell’impatto.
Lo schianto col terreno svuota i polmoni di John di tutta l’aria accumulata, ma le membrane tanto setose quanto resistenti delle ali impediscono che su di lui venga esercitato il minimo graffio. Lo proteggono, lo abbracciano, arrestano qualsiasi ferita il terreno possa infliggergli. John serra gli occhi e nasconde il viso contro il petto del compagno, inspirando disperatamente il suo profumo speziato per tranquillizzarsi.
Tutto finisce così com’è iniziato. Sherlock e John restano immobili, ancora stretti in un abbraccio soffocante. Il mondo pare fermarsi, qualsiasi orologio blocca le lancette lì, in quell’istante cristallizzato nel tempo. Cade il silenzio, spezzato soltanto dal mare che imperterrito continua a infrangersi contro le rocce.
John respira ancora il profumo di Sherlock, stringe forte il suo cappotto, intreccia le gambe con le sue in un disperato tentativo di contatto, di calore. Ha guardato la morte in faccia per l’ennesima volta, sfiorandola stupidamente, quasi toccandola a causa della sua avventatezza. Ha creduto di perdersi, di smarrire il sentiero della vita. ma qualcuno l’ha afferrato, strattonandolo verso il cielo, verso nuovi respiri puliti, sereni, vivi.
Sherlock. Il suo Sherlock.
Lentamente, le ali di Sherlock si schiudono, rivelando i loro corpi intrecciati come il più prezioso dei tesori. La coda allenta la stretta, le braccia di Sherlock quasi lo liberano, ma John non vuole separarsi da lui. Al contrario, lo stringe più forte, rifiutandosi di alzarsi.
-Scusa.- mormora contro le sue scaglie tiepide, rassicuranti, profumate di paradiso.
Sherlock respira a fondo, sbatte forte le palpebre per mettere a fuoco il cielo sulle loro teste. Mantiene la calma, così come ha sempre fatto, così come si è sempre imposto. Stringe John tra le braccia, assapora il suo respiro. Un attimo, ancora un attimo.
Non è stato abbastanza veloce… ha rischiato di perderlo. Il tutto, perché non riusciva a misurare le distanze. Sherlock non sta bene. Non è giusto che a pagarne le conseguenze sia un inconsapevole umano. John poteva morire.
-Sherlock?-
John si solleva appena per guardarlo in viso, ed è allora che Sherlock si perde affascinato in quello sguardo così caldo, così innamorato… di lui. Occhi che sanno di mare, occhi che sanno di cielo e vita. Occhi umani che umanità hanno saputo insegnare.
Sherlock ha studiato quel viso così tante volte da poterlo disegnare ad occhi chiusi. Conosce quelle labbra, quello sguardo, quei tratti gentili d’uomo testardo che non ha mai smesso d’amarlo e d’insegnargli amore. Ogni giorno, in qualsiasi istante della giornata, John popola il mondo di Sherlock con semplici respiri caldi di vita, con tocchi gentili, con sorrisi di giovane uomo che ha visto la guerra e finalmente apprezza la pace. Sherlock lo studia, impara da lui come un bambino imita il genitore per muovere i primi passi.
Grazie a John, Sherlock impara a vivere ogni giorno.
-Tutto bene?- chiede John, e per un istante, Sherlock è tentato di dirgli la verità.
Vorrebbe confessargli il motivo che lo spinge a rifiutare continuamente l’incoronazione.
Vorrebbe confessargli che qualcosa non va.
Ma non può. Perciò, Sherlock tace e al contrario annuisce. Si alza lentamente in piedi, scrollandosi di dosso lo sguardo inquisitorio di John.
Slam, slam, slam.
Le porte si chiudono una dopo l’altra nel suo Mind Palace, lasciandolo solo nel corridoio novantatre. Una serratura in particolare scatta minacciosa, sigillandosi imperscrutabilmente per nascondere, per celare, per impedire che la realtà venga fuori. Sherlock siede davanti alla porta, chiude gli occhi, giunge le mani sotto il mento e si rilassa. Logica, pace, silenzio. Adesso sta bene.
-Sherlock?-
John lo raggiunge sul bordo della scarpata, affiancandolo e sporgendosi appena per guardarlo in viso. La coda di Sherlock gli cinge la vita, abbraccia con dolcezza quel corpo caldo d’umanità.
-Non ti sporgere. Se cadi, non ti riprendo.-
Ma John ride di una risata divertita, serena, priva di paura. Si sporge verso lo strapiombo, cercando di saltare nel vuoto, ma la coda lo trattiene imperiosa e senza sforzo, sollevandolo da terra come un bambino inerme.
John si dimena giocoso, picchietta sulle punte acuminate che seguono il dorso della coda squamosa del drago, ma alla fine si accascia ridendo, felice come mai in vita sua.
-Visto? Non mi lasceresti mai cad…-
Ma improvvisamente, la coda scatta fulminea come cranio di serpente: lo lancia in aria senza sforzo, si avvolge intorno a una delle sue caviglie e in un istante, John si trova a penzolare a testa in giù sullo strapiombo, a metri e metri dal mare che minaccioso si abbatte contro la scarpata irta di rocce.
-SHERLOCK HOLMES!!! METTIMI GIÙ!!!-
John grida, si dimena, per qualche istante cede al panico. Sherlock arriccia un angolo delle labbra nella sua familiare parvenza di sorriso, ma alla fine cede al buonsenso e ritrae la coda. Lancia in aria John una seconda volta, lo guarda agitare le braccia in aria, un istante prima di stringergli i fianchi con delicatezza. John si aggrappa a lui, stringe forte il cappotto tra le dita e finalmente riassapora il piacere della terra sotto i piedi.
Respira a fondo, espirando poi dalle labbra per far sì che quei ricci così scompigliati, così morbidi, danzino al ritmo del suo ansito leggero. Li fissa ipnotizzato, si bea della stretta morbida di Sherlock intorno alla vita.
-Sei un bastardo.- sbotta, cercando di fingersi arrabbiato.
-Lo so.-
Sherlock si siede lentamente e John lo imita, accomodandosi tra le sue gambe divaricate. Appoggia la schiena sul suo petto e sorride quando il braccio di Sherlock gli circonda la vita protettivo, leggero, gentile come ali di farfalla.
Entrambi fissano l’orizzonte, scrutano il cielo terso d’azzurro striato di bianco. Un drago vola libero nel cielo, diretto verso Londra, mentre nel mare, giganteschi corpi di rettili marini sgusciano sinuosi sotto la superficie, facendo emergere di tanto in tanto riflessi cangianti di pinne colorate. Cielo e mare sono vivi, terra e fuoco riposano quieti negli animi di chi li abita.
Quello è il mondo che hanno salvato dalla guerra, quello è il mondo che poco a poco stanno ripulendo dalle sue stesse malattie. John ricorda le fiamme sovrastare le foreste, il sangue arrossare l’acqua, il cielo tingersi di fumo nerastro. Grida, tante grida. E dolore. John ha perso tanto, a causa di quella maledetta battaglia. I suoi amici, la sua casa, la sua famiglia. Tutto per un errore, tutto per un fraintendimento dovuto alla paura di una freccia scoccata per sbaglio sul drago sbagliato.
Poi però, è arrivato lui; la splendida creatura che adesso lo stringe tra le braccia. Ha raccolto John dalla sua miseria, gli ha insegnato nuovamente a camminare, ha ricostruito minuziosamente ogni pezzo barbaramente massacrato del suo essere. E infine, tra le sue giovani zampe artigliate, John si è visto rinascere.
-Sherlock?-
-Mh?-
-Seriamente… scusa se ti ho fatto preoccupare, prima.-
Sherlock espira dal naso, scompigliandogli i capelli con una folata di profumata aria calda. John si riscalda, preme dolcemente contro il suo petto e lentamente si accuccia tra le sue braccia. Si sente a casa, si sente protetto. Ha visitato il tetto del mondo, toccato il paradiso, visto il sorgere dell’alba e la nascita della luna, ma niente nell’intero universo può essere paragonato alla bellezza di uno dei rari abbracci che Sherlock gli concede. Sono regali preziosi e senza tempo, benedizioni che John apprezza e memorizza in un cassetto gelosamente custodito tra le sue memorie più care.
Sherlock non ha bisogno di rispondergli. Non dice ad alta voce che l’ha già perdonato, non dice che la colpa reale del pericolo appena trascorso è sua. Non vuole spiegarsi, non è giusto che John sappia. Non ancora, almeno.
Lentamente, Sherlock appoggia la fronte sul capo del suo umano e lo stringe a sé, combattendo contro le sue debolezze, contro i tremiti convulsi che rischiano di scuotergli le membra.
Stanza ventiquattro, corridoio quindici. Logica, pace.
Sherlock si è indebolito, e questo John non lo sa. Sherlock tace, e questo John non riesce ancora a capirlo. Ma non è ancora il momento di disperarsi, perché qualcosa smuove l’immobilità del momento e un brivido freddo striscia lungo la spina dorsale di Sherlock mentre una sensazione di lontana familiarità lo pervade, spingendolo a guardare oltre, a ovest, dove ancora giacciono le terre inesplorate.
Qualcosa in lontananza ruggisce, ed è un suono talmente potente da far vibrare la terra sotto i loro piedi e il cielo sulle loro teste.
John si alza di scatto, quasi perde l’equilibrio per sporgersi oltre la scarpata nel disperato tentativo di guardare meglio. Nessuno ruggisce così forte, a parte Sherlock. Sembra un richiamo di Furia Buia, ma è impossibile: le Furie Buie non esistono più. Di loro, è rimasto un unico esemplare maschio che giace adesso alle sue spalle, seduto sull’erba.
-Cos’era?- chiede John, assottigliando lo sguardo verso le terre lontane.
Silenzio. Nessuna risposta.
-Sherlock?-
John si volta, cerca con lo sguardo la figura longilinea del compagno, ma Sherlock non è più lì. Al contrario, John lo scorge poco lontano da lui, accucciato sul bordo della scarpata, come pronto a scattare. Ha le narici dilatate, le ali frementi, le pupille feline sottili come non mai. I muscoli sono tesi al punto che ogni nervo, ogni tendine emerge nevrotico sottopelle come minaccioso segnale di pericolo. John non l’ha mai visto così, nemmeno durante l’ultima battaglia che li ha resi famosi.
-Che… Sherlock, tutto bene?- domanda, avvicinandosi cautamente.
Sherlock non si muove, non reagisce. Resta immobile come una statua, lo sguardo vitreo, le scaglie lucenti alla luce dorata del sole. Ma quando parla, la sua voce è la stessa che John conosce, calda e profonda come gli abissi della terra: -Dobbiamo andare.-
-Dove?-
-A casa. Adesso.-
John sente che non è il momento di chiedere spiegazioni.
Qualcosa si sta muovendo, nelle terre inesplorate. Qualcosa che Sherlock sente di conoscere, qualcosa che silenzioso sguscia fuori dal suo passato come spirito senza nome, senza volto, senz’anima. Qualcosa che il suo stesso Mind Palace ha seppellito a doppia mandata nelle sue segrete più oscure, sigillandolo in un angolo lontano dai ricordi, dal presente e dal futuro.
 
Angolo dell’autrice:
Dunque… eccoci qui, alla fine. Il sequel sui nostri draghetti preferiti. Ammetto di aver promesso ben altre storie al riguardo, ma… sì, forse mi sono un po’ troppo affezionata a questi personaggi. In ognuno di loro c’è un piccolo pezzo di me, una parte che ho faticato mesi per costruire. Per questo, sono di nuovo qui e vi tendo la mano, gente: se non siete stanchi di volare in mia compagnia, è ora di ripartire. Ci aspettano terre lontane, ben più lontane dell’ormai nota Londra, o delle familiari lande dei draghi.
Stavolta, oltrepasseremo i confini delle terre conosciute, scopriremo creature nuove e guarderemo ancor più a fondo in ognuno dei personaggi. Ammetto che io stessa non so come continuerà la storia: come al solito, i personaggi seguiranno il loro percorso, e io mi limiterò a descrivere ciò che accade poiché, come ho già detto, io sono soltanto una narratrice e nient’altro. Io osservo, niente di più. Perché, ricordate: basta credere che i sogni, quelli veri, esistano davvero se solo scegliamo di dar loro vita. Dunque, levate gli occhi al cielo e guardate! Sherlock e John sono pronti a ripartire, e io con loro. Voi, invece? Avete fatto le valigie?

Tomi Dark Angel
 

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Capitolo 2
*** Oltre I Confini ***


Ricordi. Dolci, gentili, malati, insani. Sono una parte di noi, una piccola porzione del nastro registrato che giace in ogni essere vivente. Spesso si riavvolge, manda avanti, cade in pausa. Ma non sempre è nostra giurisdizione decretare quando essi debbano rinascere davanti ai nostri occhi, ricordando quella parte di storia che credevamo invece dimenticata.
Sherlock Holmes se ne rende conto solo adesso: i ricordi sono quella porzione di lui che lo stesso Mind Palace non può contenere completamente. Camminando per i corridoi candidi, illuminati dall’interno e intervallati da porte ordinatamente numerate, Sherlock avverte sussurri di voci lontane che lo chiamano, che premono per uscire. Ombre arcane camminano alle sue spalle, danzano non viste intorno a lui, quasi lo accarezzano come amanti vogliose in disperata richiesta di attenzione. Ma lui non può fermarsi. Ricordare non è un bene, ricordare non serve a nulla.
Avanza lentamente, sfilando tra le porte sussurranti, intrise di ricordi e dati pericolosi, necessari, che Sherlock non ha ancora cancellato.
-Non dovresti essere qui.- Dice una voce alle sue spalle. Sherlock conosce bene quel timbro così simile al suo, così reale, così… giovane. Quello è un ricordo che Sherlock ha cercato inutilmente di cancellare. Ha sfondato la stanza che lo racchiude, ha distrutto l’intero corridoio che ancora adesso, ristrutturato, custodisce quella porta maledetta. Ma niente: quel volto, quella voce, quel corpo… sono ancora lì. E Sherlock si odia per questo.
-Neanche tu.- risponde senza voltarsi. Stringe i pugni lungo i fianchi, respira a fondo per aggrapparsi alla calma serafica che l’ha sempre contraddistinto.
“Tu sei il più umano di tutti, figlio mio”, aveva detto una volta sua madre Nevora, ma per Sherlock non è mai stato un complimento. Essere umani rende sentimentali, essere umani rende deboli. E lui non ha intenzione di diventarlo. Non vuole.
-Ma come?- Il ragazzo alle sue spalle esplode in una risata gioiosa, intrisa di vita, che scuote di tremori le fondamenta del Mind Palace. –Mi ci hai messo tu, qui!-
Sherlock serra gli occhi, respira ancora. Poi…
 
-Sherlock?-
Un richiamo, una voce lontana e molto familiare. È un timbro caldo, gentile, che sa di casa e di umana pazienza.
Calore. Un fuoco scoppietta a poca distanza.
Casa. Qualcuno si siede al suo fianco, sul tappeto, senza interrompere ulteriormente le sue riflessioni. Quel silenzio, Sherlock lo conosce bene.
John.
Solleva lentamente le palpebre, sbatte le ciglia, cerca di focalizzare l’ambiente. Non ha bisogno di chiedersi da quanto tempo è seduto lì, nella serenità della sua amata biblioteca, perché l’avanzare ormai inoltrato delle tenebre risponde silenziosamente ad ogni sua domanda. Quando Sherlock ha chiuso gli occhi per entrare nel suo Mind Palace, era appena mezzogiorno. Adesso invece, è praticamente notte e John siede al suo fianco avvolto in una lunga vestaglia di seta blu notte. Lo fissa di sottecchi nel vano tentativo di non farsi scorgere, ma Sherlock è sempre stato un ottimo osservatore. Vorrebbe fingersi infastidito, ma non ci riesce, non con John, perciò si limita ad arricciare un angolo delle labbra in un sorrisetto arrogante
-Mi stai fissando, John.-
John sussulta leggermente e imbarazzato rivolge lo sguardo davanti a sé, dove giace lo splendido nucleo di fiamme blu e nere che guizzano lascive nell’incavo del caminetto. Producono morbido fumo argentato che profuma di vaniglia e spezie, e non bruciano nemmeno: al contrario, diffondono un calore gentile, quasi solare, che inonda di luce e dolce accoglienza l’intera casa.
Quello è l’animo di Sherlock che brucia. Quello è il calore di una Furia Buia che non smette mai di battere, di ardere tiepido sotto il tetto accogliente della casa che il suo padrone ha sempre amato. Laddove chiunque asserirebbe che Sherlock sia un robot senz’anima, John saprebbe la verità: lui ha visto e ancora guarda il morbido guizzare di fiamme ardenti, vive, calde d’umanità rinata e figlie dell’uomo che ha accanto. E John, quell’umanità la ama dal profondo del cuore.
-Stai bene?- chiede dolcemente, senza però arrischiarsi a toccarlo. Sa che Sherlock non ama l’imposizione di qualsiasi contatto fisico, specie se è appena uscito dal suo Mind Palace. Forse sta ancora ragionando, forse la sua mente è altrove, e John non vuole disturbarlo ulteriormente. Lo conosce da tre anni, ed è abituato a quel silenzio. All’inizio lo infastidiva, ma adesso ha imparato a rispettarlo, ad amarlo, a bearsi di esso e della familiare figura immobile che composta siede sul tappeto, davanti al fuoco, ferma e bellissima come una statua.
-Non fare domande stupide, John. Sto sempre bene.-
Bugia.
Sherlock non sta bene, e questo John lo vede. Da quando sono tornati dalla loro ultima escursione, Sherlock si è chiuso in se stesso: parla poco, non mangia, beve appena. Ma John non può costringerlo a parlarne, e non vuole invadere i suoi spazi. Si limita a stargli vicino, così come ha sempre fatto e così come farà sempre.
Lentamente, si stende sul tappeto, incrocia le braccia dietro la testa e fissa il soffitto a cupola sulle loro teste. Vetro. La cupola è fatta di vetri colorati e cristalli intrecciati in una decorazione floreale astratta. L’oro e l’argento che intervallano ogni fiore, s’intrecciano morbidi intorno alle corolle, lungo gli steli, fin dentro i pistilli, fino ad arrivare ai bordi rinforzati della cupola. Da lì, i metalli si mescolano al diamante, che trasforma la parete circolare, dal diametro quasi incalcolabile, in un oceano di riflessi e schegge di luce colorata, cangiante, variopinta. Lungo il perimetro del muro, giacciono immobili statue di marmo alte sei metri e raffiguranti draghi impennati, con ali gigantesche ripiegate dietro le schiene massicce e occhi vuoti, ma che paiono scrutare i presenti con giudizio di antichi guardiani.
Gli scaffali sono d’ebano scuro, rifinito da arabeschi argentati che s’inerpicano morbidi tra i libri ordinatamente affiancati, puliti, così colorati nelle splendide copertine giovani e anziane, lisce o ruvide, appena comprate o ingiallite dal tempo.
John ricorda di aver visto quella biblioteca una volta, nei ricordi di Sherlock. Non era proprio così allora, ma insieme, loro due hanno voluto ricostruirla a modo loro. Adesso, è la stanza più vissuta della casa, quella dove spesso Sherlock e John passano giornate intere a leggere o a vagare per gli infiniti scaffali, o dove si addormentano alla fine della giornata, stretti in un caldo abbraccio, al cospetto di quel fuoco così caldo, così gentile e profumato che per John ha sempre e solo il significato di casa.
Che giunga il giorno o che sia notte, quel posto avrà sempre una magnifica parvenza di cielo stellato. I cristalli riflettono la luce, l’espandono in tanti diamanti sfaccettati che mirabili si stendono sul pavimento, sui libri, sugli scaffali, sulle statue. Per John è come un sogno ad occhi aperti, uno spettacolo al quale non rinuncerebbe mai.
-John?-
-Mh?-
Per la prima volta dopo ore intere di immobilità, Sherlock volta il capo e lo guarda. Nei suoi occhi serpentini si riflette il bagliore delle stelle e della luna, del sole e dell’arcobaleno, dei cristalli e dei diamanti.
Lo fissa, studia il corpo allenato del compagno. Le parole sono lì, sulla punta della lingua. Confessare, dirgli tutto, lasciarsi andare almeno per quella volta. Sarebbe così sbagliato, sentirsi deboli? Forse no, forse…
-Niente.-
Sherlock si rilassa, chiude gli occhi. Lentamente, circonda i loro corpi con la lunga coda squamosa, creando intorno a loro un cerchio protettivo, sicuro, caldo. John piega le ginocchia, si volta verso di lui mentre con calma, Sherlock si stende. Lascia che quel piccolo umano lo tocchi, lascia che la sua mano scorra dietro la schiena, stringendolo in un abbraccio protettivo, innamorato, gentile… un abbraccio che sa di fiducia. La stessa che Sherlock sta inesorabilmente tradendo.
 
Alcuni pensano che la notte sia il regno delle streghe, del male, dell’omicidio e dei misteri più fitti. L’oscurità che cala, il silenzio che sovrano padroneggia su ogni cosa, su ogni anima, abbracciando di segreti amanti notturni e assassini seriali. La notte cela il male, nasconde ciò che di malato cammina sulla terra.
E Sherlock Holmes è il male, in questo momento. Bugiardo, traditore, nascosto dall’oscurità che come cappa mefitica abbraccia lo splendore delle sue ali, delle squame lucenti d’acciaio, delle corna lucide.
Sbatte forte le ali, si leva alto nel cielo, oltre le nuvole, lì dove né uomini né draghi potranno individuarlo. Volare non è mai stato così spiacevole per lui. Il vento è gelido, il silenzio assordante e rotto a intervalli regolari dal tagliare netto delle ali che feriscono l’aria ad ogni battito, ad ogni più piccolo movimento. Il corpo è leggero, ma l’anima lo appesantisce come macigno maledetto, schiacciante, che ad ogni istante pare farsi sempre più ingombrante, sempre più feroce.
Sensi di colpa? Non è da lui provarne.
Ha abbandonato John a casa. Si è alzato dal loro caldo tappeto profumato per allontanarsi, per capire, per rassicurarsi. Ne ha bisogno, ma non può mettere alla prova la scarsa resistenza di un fragile essere umano. È necessario, è logico così. E lui, la logica la conosce bene. L’ha adoperata in ogni situazione, in ogni istante della sua misera vita, e grazie ad essa, Sherlock non ha mai sbagliato.
Anche adesso, vuole credere che quella decisione non sia un errore madornale.
Sale di quota, si libra leggero nell’aria. Sotto di lui, si stende un fitto tappeto di nuvole nere, fitte, che indisturbate galleggiano a mezz’aria nel benestare di quella notte senza luna. Solo le stelle, piccole e luminose come minuscoli punti luce, brillano in cielo di un bagliore candido, ammiccante, prezioso come polvere di diamanti.
John avrebbe commentato il paesaggio, avrebbe fissato curioso ogni morbida curva delle nuvole, ogni più piccola aura luminosa emanata dalle stelle circostanti. Invece, Sherlock è solo, e il caldo silenzio che regna sovrano, ne è la prova.
Per John. Lo fai per John…
Vira a destra, piega appena un’ala per adattarsi alla corrente ascensionale più vicina. Volta il capo ripetutamente per imporsi una vista a trecentosessanta gradi, così come è sempre stato in passato. Si spinge lontano, oltre la frontiera di qualsiasi territorio esplorato.
Non è mai andato così lontano, non ha mai lasciato casa sua per un tragitto così lungo. Ma adesso deve, e ha poco tempo per farlo. Perciò, sfreccia alla velocità della luce, accelera, sforza le ali finché i colori circostanti non si confondono in uno spettro che sbianca, si contorce, muta in sfumature cangianti, sensazionali, mai viste. Sherlock sparisce, fondendosi con l’aria e il cielo, sfidando il vento e il mondo intero. Il corpo si fa leggero, senza peso, e subito, ogni cellula si trasforma in velocità, in aria e luce che incontrastabili oltrepassano qualsiasi limite il corpo imponga.
Libertà. Sherlock è libero. Non sente più il peso del corpo, dei pensieri. Anche quelli lo rincorrono senza raggiungerlo, ed è bello. Ogni problema sparisce, il mondo intero si ripiega su se stesso, sottomesso alla velocità incontrastabile dell’ultima Furia Buia che fiera padroneggia cielo e terra, mari e monti, presente e futuro.
Sherlock si accorge di aver oltrepassato il confine solo quando il vento si fa ancora più freddo, quasi glaciale, e a nord si ode frullare d’ali di civette artiche. Non ci sono animali invernali, nei pressi di Londra. Non in questa stagione.
Lentamente, morbide fasce d’aurora boreale spiegano le ali come figlie d’aquila imponente. Spazzano via il banco di nubi, danzano iridescenti in un cielo che velocemente si tinge di ogni possibile sfumatura. I colori si susseguono, si rincorrono, sfumano e mutano quasi danzando tra i cristalli di neve che dolcemente piovono dal cielo, oscillando aggraziati nell’aria.
Sherlock rallenta, sforza la vista per studiare i piccoli movimenti che mutano i colori dell’aurora boreale. È diversa da qualsiasi altro fenomeno Sherlock abbia mai visto: le sfumature non si collegano tra loro, ma al contrario, si intrecciano danzando con colori ben diversi dai loro predecessori.
L’aurora boreale allunga le sue appendici, morbide come vestigia di seta, verso il mare di zaffiro che a dispetto del gelo, non presenta alcun iceberg, né tantomeno sporgenze ghiacciate. No. Si stende per miglia e miglia, inghiottito all’orizzonte dai bagliori dell’aurora boreale, abbracciando ogni sottile cristallo di neve che poggia sulla superficie brillante come di specchi riflettenti.
Sherlock pensa a John e a come reagirebbe a quella vista. Comincerebbe a guardarsi intorno, curioso come un cucciolo, sbarrando gli occhi ad ogni cambiamento di colore sulle loro teste, ad ogni cangiante riflesso sul mare intriso d’arcobaleno.
Bello? Sì, quel posto è davvero bellissimo. Lì è dove cielo e acqua s’incontrano, lì è dove ogni colore del mondo si riflette sulla volta celeste, anziché sulle scaglie rifulgenti di un piccolo drago. Stavolta, la tela variopinta del più grande artista dell’universo è lì, intorno a Sherlock, davanti ai suoi occhi indifferenti di freddi studi calcolatori.
Cala di quota, finché le zampe squamate non s’accostano alla morbida superficie dell’oceano. Un piede affonda, e all’istante si ricopre di gelidi strati ghiacciati. Sherlock resta indifferente, ignora la sensazione di freddo che lo sfiora appena. Al contrario, si concentra sull’ambiente circostante, che visto dal basso appare glorioso oltre ogni immaginazione, col suo cielo d’aurora boreale e il suo oceano iridescente.
Cerca. Studia. Indaga.
L’aurora danza ancora, splende, si ripiega su se stessa… lasciando scoperto per una frazione di secondo, qualcosa di enorme e frastagliato come spuntone di roccia, che sbuca dall’acqua per svettare imponente verso il cielo.
Trovato.
L’errore, l’anomalia a lungo cercata. In effetti, Sherlock non credeva di trovarla così facilmente. Si sarebbe aspettato di dover cercare a lungo, notte dopo notte… e invece, eccolo lì, davanti ai suoi occhi.
Sherlock sbatte appena le ali, affondandone le punte nel mare ghiacciato e sollevando in aria due perfetti archi di goccioline di cristallo, tanto gelide quanto pulite. Non aspetta che lo sfiorino, non ne ha il tempo. Al contrario, sfreccia verso la meta designata, lasciandosi alle spalle una scia iridescente laddove la zampa sinistra ha continuato ad affondare nell’oceano, tagliandone la superficie. I fiocchi di neve lo sfiorano, gli bagnano i capelli e ricoprono di brina le corna adesso luminose di splendidi riflessi.
Sherlock sbatte ancora le ali e si issa verso il cielo, incontro a quello che si rivela essere ben lontano da un banale spuntone di roccia.
Alta almeno trenta metri, tanto da svettare minacciosa contro il cielo, vi è un’esplosione cristallizzata di ghiaccio. Piccoli spuntoni che sbucano dall’acqua e, ingrandendosi, s’innalzano in alto, oltre le nuvole, tra fiocchi di neve e riflessi luminosi dell’aurora boreale che si specchia sulla superficie trasparente.
Sherlock non ha mai visto niente di simile, ne è certo. Nessuno dei suoi dati identifica quella vista mastodontica che, a giudicare dalle dimensioni, deve essere opera di un drago gigantesco, anche per gli standard di una Furia Buia. Di certo, non è una scultura fatta dagli uomini. Troppo perfetta, troppo lineare. Nessuna mano umana avrebbe potuto modellarla con tanta scaltrezza.
Porta dodici, corridoio nove: dati scartati. Improbabile.
Non è opera di un drago che Sherlock conosce. Di tutte le sue conoscenze, nessuna sputa ghiaccio.
Porta duecentottantanove, corridoio quarantatre: dati scartati. Improbabile.
Uno dopo l’altro gli usci si chiudono, sbattono sugli infissi, sigillando informazioni inutili, impossibili, improbabili. Nessun dato gli torna utile, nessun ricordo può aiutarlo. Non ha mai visto niente del genere, e questo è inquietante perché soltanto adesso, Sherlock comprende che lì, oltre i confini delle loro terre, ci sono draghi ben più pericolosi di quanto ordinaria mente umana abbia mai potuto concepire. Data l’inclinazione e l’altezza degli spuntoni ghiacciati, Sherlock può dedurre che la bestia abbia colpito dal basso e da una distanza non troppo ravvicinata.
Quindi? A quanto ammonterebbe la gittata totale del suo soffio ghiacciato? E quanto è grosso realmente il drago in questione?
Lentamente, Sherlock atterra. Poggia le zampe sul ghiaccio bruciante, affonda le unghie per impedirsi di scivolare e pianta le punte acuminate delle ali negli spuntoni vicini. Tocca la liscia superficie ghiacciata, la studia da vicino, sforza lo sguardo per carpirne ogni sfaccettatura, ogni possibile indizio… finché non vede qualcosa. Al centro dell’oceano di spuntoni, vi è una distesa libera, dove qualcuno ha spezzato faticosamente le punte ghiacciate per creare una specie di spiazzo circolare, informe, disordinato. Umani, di questo Sherlock è sicuro.
Studia, deduci…
Sforzando ancora gli occhi, Sherlock distingue piccole tracce di sangue argentato sugli spuntoni vicini allo spiazzo e segni d’artigli nei dintorni. Alcune punte sono spezzate, come se qualcosa di grosso fosse caduto proprio lì e avesse lottato per liberarsi.
Una lotta. Un drago catturato.
-Ma che…-
-ADESSO!!!-
Uno scricchiolio, il frusciare di qualcosa che taglia l’aria a velocità vertiginosa. Sherlock spalanca le ali in una frazione di secondo, balza in aria, sforza i muscoli per catturare la corrente ascensionale più vicina. Ruota a mezz’aria, si sposta di lato e per pochi millimetri evita il morso della rete d’acciaio che lo oltrepassa, veloce come freccia scagliata dall’arco.
-Via, via!-
Sherlock si lascia cadere in picchiata, sfiora la pallida superficie ghiacciata dell’acqua mentre altre due reti si scagliano su di lui, coprendogli la visuale per qualche istante. Riesce a scartare di lato, evitando con un avvitamento obliquo la trappola di destra, ma qualcosa va storto: la rete di sinistra lo raggiunge non vista, figlia di un punto cieco che Sherlock ha creduto di poter controllare.
Errore. Fatale errore.
La rete lo abbraccia, chiude su di lui una morsa d’acciaio gelido, violento, tramortente. Le ali restano impigliate negli uncini che ricoprono ogni nodo dei fili intrecciati della rete, il corpo s’immobilizza con le braccia strette al petto e la coda che disperata si dibatte in cerca di equilibrio. Gli uncini stridono contro le scaglie, incidono la pelle, gli stringono la gola e i fianchi. Il sangue argentato schizza violento sulle stalattiti di ghiaccio mentre Sherlock precipita a peso morto verso l’acqua ghiacciata, immobile, che paziente attende il suo arrivo.
Lo schianto con l’oceano giunge violento, graffiante, tanto aggressivo da sottrargli il respiro per alcuni istanti. Sherlock annaspa, inarca istintivamente la schiena e spinge forte contro gli uncini che continuano a dilaniargli la carne, affondando ad ogni più piccolo movimento.
Poi però, giunge la pace. C’è silenzio. Nessun rumore, nessuna sofferenza. Il gelo anestetizza qualsiasi ferita, annienta il dolore, soffoca ogni debolezza con implacabile rapidità. I suoni si fanno ovattati, il mondo rallenta la sua corsa. Perfino il corpo attende qualche istante prima di cominciare la sua lenta discesa verso il fondale.
È bello. Sembra quasi di galleggiare a mezz’aria, trasportati dolcemente da correnti ascensionali che non richiedono neanche lo sforzo fisico di muscoli alari in tensione. Sherlock si abbandona, lascia che i primi respiri di mare ghiacciato gli pervadano i polmoni ancora caldi, ancora incredibilmente adattabili all’ambiente. Assapora il ghiaccio, si lascia accarezzare dal morbido gelo che lo abbraccia come madre amorevole, gentile. È come essere a casa, laddove nessuna preoccupazione può raggiungerlo, laddove il mondo smette di esistere … laddove le braccia di John possono cingerlo e cullarlo in ogni istante, senza stancarsi mai.
John.
 
-Che stai facendo?-
Una voce. Calda, profonda, roca di sofferenze patite e battaglie trascorse. Una voce umana, viva, che dolcemente gli sfiora le orecchie. Sherlock apre gli occhi sul corridoio immacolato del suo Mind Palace e osserva quasi ferito il fastidioso candore che lo pervade. Se non fosse per le porte lignee che intervallano l’assenza di colore, tutto quel bianco gli consumerebbe gli occhi e i nervi, facendolo impazzire. Ma non lì: quella è casa sua, il suo rifugio sicuro. Quello è il suo personale palazzo d’ingegno e logica.
-Sherlock.-
Qualcuno preme la schiena contro la sua, impedendogli di voltarsi. Sherlock avverte la bassa statura dell’uomo alle sue spalle, annusa il suo profumo di pulito, così familiare da farlo quasi sorridere. Non ha bisogno di guardarlo per riconoscerlo.
-Non dovresti essere qui, John. Da quale porta sei uscito, stavolta? Cominci ad annoiarmi.-
Ma John sorride, e Sherlock lo avverte nel suo respiro, nella sua voce. È bello sentirlo sorridere.
-Come se la cosa ti infastidisse davvero! Mi fai uscire tu dalla mia stanza.-
-Non è vero.-
-Sì che lo è. Questo è il tuo Palazzo, genio. E io sono una parte di te, altrimenti non abbatterei così in fretta le tue argomentazioni. Quindi, piantala di litigare con te stesso e vedi di uscire da questa situazione del cavolo.-
Sherlock non risponde. Chiude gli occhi, si affida all’udito per riconoscere il sottile gocciolio dell’acqua che velocemente allaga i primi piani, salendo su, sempre più su. Lui non può affogare, ma le sue informazioni forse possono. In effetti, Sherlock non lo sa. Non riesce neanche a capire se stia morendo oppure no.
-Sono moribondo?-
John ride, stavolta apertamente. Getta il capo all’indietro, solleticandogli la nuca coi corti capelli biondo cenere.
-Certo che no. Sei una Furia Buia, accidenti! Però devi risalire, e in fretta. Almeno, fallo prima che i cacciatori capiscano che sei sopravvissuto all’annegamento e decidano di scendere a prenderti.-
 
La schiena urta il fondale, il corpo si rilassa, la testa s’adagia sulla sabbia morbida, galleggiante, che come spettro dorato si leva a mezz’aria per qualche istante.
John.
Sherlock sbarra gli occhi, alza lo sguardo verso la superficie. La scorge lontana, distante come sogno irraggiungibile.
John.
 
-La superficie è lontana. E io sono intrappolato.-
Sherlock scorge un movimento alle sue spalle, avverte il frusciare di capelli sulla pelle e capisce che John ha affondato entrambe le mani nella bionda chioma arruffata.
-Se non fossi parte integrante del tuo fattore logico, ti prenderei a calci in culo. Ragiona come un drago, per una volta. Sii una bestia, sii una Furia Buia. Non hai bisogno di studiare quella maledetta rete per capire che puoi romperla facilmente!-
Sherlock esita, non accetta l’idea di dover abbandonare la sana logica per liberarsi. È sbagliato, lo sente. Non ci riuscirà.
-Sherlock.-
Due mani calde gli stringono i polsi, dita gentili sfiorano la pelle mista a scaglie in carezze senza tempo, che lentamente scivolano nei ricordi di Sherlock, nei suoi pensieri, mescolandosi alla realtà.
-Puoi farlo, sai? Tu sei nato libero. Perciò lotta per mantenere quella libertà… devi tornare a casa.-
 
John.
Realtà e Mind Palace si confondono, si mescolano, con forza richiamano Sherlock alla coscienza totale della situazione. Sbatte le palpebre, si abbraccia di ricordi lontani, sereni, che anche per uno come lui hanno significato qualcosa di importante. Non l’ammetterebbe mai ad alta voce, non lo confermerebbe nemmeno a se stesso… ma ha bisogno di lui. Ha bisogno di John, nella sua voce, della sua dolcezza innata di fragile essere umano. Così piccolo, così morbido e sottile, ma anche così incredibilmente forte, tanto da poter sostenere il mondo per pura bontà d’animo. Stupido, piccolo umano.
“Devi tornare a casa”.
Casa. John lo aspetta, John ha bisogno di lui. Sherlock non può lasciarlo solo, non adesso.
Lentamente, i muscoli si risvegliano dal torpore del gelo. Si gonfiano, fanno crepitare le squame che lentamente si adattano ai tendini in rilievo, ai pugni serrati, al capo rovesciato all’indietro nello sforzo supremo di stringere i denti mentre gli uncini si conficcano più a fondo nella carne. Fa male, ma Sherlock non si ferma. Sforza ogni muscolo del corpo, si affida alla maledetta forza animale che dal primo istante di vita l’ha contaminato, rendendolo bestia e uomo, frutto di ragione e follia.
Le braccia spingono contro la rete, gli artigli delle zampe posteriori si chiudono implacabili sui fil di acciaio che invano cercano di resistere alla pressione. La coda scudiscia nevrotica, si impiglia nei magli della rete e strattona una, due, tre volte.
Improvvisamente, la rete cede. Gli uncini vengono strappati via dalla carne, graffiano la pelle, stridono contro le scaglie, ma Sherlock è finalmente libero. Distende gli arti, spiega le ali insanguinate e lentamente, ricopre l’intero fondale di riflessi d’oscuro arcobaleno che il mare getta sulle membrane setose, ma resistenti come diamanti. Piccoli cristalli luminescenti splendono sulla sabbia come frammenti di colorato caleidoscopio danzante, circondando la figura adesso eretta di Sherlock. Ha le squame brillanti di luce repressa, il capo reclinato all’indietro, l’espressione distesa. È libero. E ha intenzione di rimanere tale fino alla fine.
Le ali si abbassano, così immense da oscurare a vista d’occhio il fondale dorato. Le punte affondano nella sabbia, sollevano il corpo verso l’alto e lo spingono su, verso la superficie, verso il cielo.
Quando la testa di Sherlock s’innalza dall’acqua, il calore che lo aggredisce è quasi soffocante, anche per un drago come lui. Ma non importa.
Sbatte forte le ali, le affonda un paio di volte nell’oceano per recuperare un brandello di equilibrio. Un ventaglio di goccioline di cristallo piove sul suo corpo, punteggiandolo di gelo, e due identiche onde tutt’altro che discrete si levano ai lati del suo corpo, scatenate dalle immense masse delle ali che affondano di nuovo.
Sherlock salta, sfruttando gli ultimi brandelli di energia per uscire dall’acqua. Buffo che ci riesca al primo tentativo, ma è così: il corpo si leva in aria, le ali si adattano alla corrente ascensionale più vicina che bruscamente sospinge Sherlock in cielo, verso le nuvole, lontano dai cacciatori e da quel nuovo mondo che ha saputo aggredirlo e quasi ucciderlo.
Sparisce nell’abbraccio dell’aurora boreale, figlio del vento e della luna, padre di una razza della quale tuttora si rifiuta di prender comando.
 
Angolo dell’autrice:
Ed eccoci col nuovo capitolo! Ammetto di averlo pronto già da un po’, ma preferisco non correre con la pubblicazione, altrimenti mi troverò a correre di nuovo per scrivere in tempo nuovi capitoli, e sarebbe un massacro.
Sherlock: non ci interessa.
Non… che ci fai vestito da pollo?
Sh: è per un caso.
Sei… sicuro? Ehm… ok, io… non ti guardo, giuro… e non riderò. *Si prende a cazzotti per non ridere* Spa… spazio ai rin… grazia menti! BWAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH!!!
Tony Stark: ehi, Tony! Bentornato! Non preoccuparti, non sei obbligato a recensire ogni capitolo. Se non te la senti, non importa, ma spero che ti siano piaciuti comunque! E sono felice che le descrizioni riguardanti il capitolo precedente ti abbiano soddisfatto. (Il cespuglio di roviii!!! Nd John)( John, hai rotto i tre quarti. Espatria.) Grazie per il commento e a presto!
Luna moontzuzu: che dire? La tua recensione mi ha fatto salire le lacrime agli occhi, davvero. Ogni volta mi stupisco dell’apprezzamento che riceve questa storia… in effetti, ho sempre paura di pubblicare perché non so mai se saprò soddisfarvi, perciò ogni volta, per riuscire a pubblicare lotto innanzitutto con me stessa. E leggere recensioni del genere… non puoi capire quanto mi commuova. È bello. E, davvero, non so come ringraziarti per ciò che scrivi, per l’emozione che traspira dalle tue parole, per il tuo entusiasmo che mi fa sorridere così tanto. Comunque, dall’ultima guerra sono trascorsi due anni, ma ci vorrà tempo per risanare il mondo: calcola che Sherlock e gli altri devono ripulire secoli e secoli di battaglie. Drago Bloodwist? Farà tutto da solo, così come fanno gli altri. Io narro e basta: non so cosa accadrà, non so come andrà a finire… semplicemente, scrivo tutto sul momento, ispirandomi a ciò che vedo intorno a me. Detto ciò, non posso che ringraziarti di nuovo per tutto, con la speranza di non deluderti mai, fino alla fine. Grazie a te, di cuore.
Sonia_0911: anche io, guardando Dragon Trainer 2 al cinema, ho fatto un po’ di confusione coi miei stessi personaggi. Strano a dirsi, ma forse è stata la parte in cui Sdentato si schianta a mare, perdendo di vista Hiccup, che mi ha convinto a scrivere il seguito. Bizzarro, no? In ogni caso, sono felice che tu sia pronta a partire, perché stavolta andremo molto più lontano, oltre i confini già esplorati nella storia precedente. Ready? Set, go!!! A prestissimo, e grazie!!!
Wibbly: tu non sei una nullità. Sei una delle persone più gentili con le quali ho avuto a che fare. È anche grazie a te che ho scritto il seguito. Perché so che ci tenevi, perché so che forse ti avrebbe fatto piacere tornare a leggere di Sherlock e John sotto queste vesti. Quindi, anche a te dedico i miei sforzi, te li meriti. E, con questo, spero che apprezzerai anche questo capitolo. Grazie di cuore e a presto. *Si inchina*

Tomi Dark Angel

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Capitolo 3
*** Ricordati Di Me ***


Noah non ha mai amato la solitudine. Ha conosciuto bene ogni suo aspetto, ne ha testato personalmente gli effetti, ha toccato con mano l’amara carezza del silenzio mortifero che solo l’assenza di una gentile compagnia saprebbe dare. Per lunghi anni, è sopravvissuto da solo, appellandosi alle sue uniche forze di cucciolo abbandonato: ha imparato a cacciare, a volare, ad andare avanti senza piegarsi a niente. Il mondo l’ha sottoposto alle prove più dure, e lui è andato avanti, figlio di quella solitudine che ha sempre detestato.
Il silenzio uccide l’anima, Noah lo sa bene.
Tuttavia, ci sono momenti in cui si desidera restare da soli, istanti di vita che si possono assaporare soltanto nella pace e nell’assenza di una sana compagnia. Noah non ama quei momenti, ma come chiunque altro, è soggetto ad essi. Li sopporta, lascia che essi scorrano nella serenità di un mondo che continua a girare pacifico, indifferente alle pene dei piccoli esseri che lo abitano.
È per questo che adesso, mentre lacrime di cielo cadono sottili su di lui, Noah giace accucciato sulla riva più lontana del Tamigi. Da quella parte del versante, Londra è ancora a pezzi, perciò la gente non s’accosta. Lì, tra macerie ancora sporche di sangue e vetri infranti, giacciono gli ultimi rimasugli della Grande Guerra. Noah vi giace sopra, accasciato come vittima sacrificale, inspirando l’odore di muffa e morte, di passato e presente. Chiude gli occhi, ricorda quei momenti ancora così vicini, ancora così tremendamente reali.
Lui, in quella battaglia, ha perso tutto. La famiglia, gli amici, la sua casa. Grazie ad essa, lui un infanzia degna di questo nome non ce l’ha. Quando era poco più che mero infante, perse i suoi genitori. Subito dopo, i suoi parenti l’abbandonarono e i suoi amici sparirono. Solo. Noah rimase solo alla mercé di una guerra senz’anima e senza motivi, battaglia sanguinaria di inconsapevoli automi volti semplicemente ad uccidere senza motivo. A volte si domanda ancora cosa provino quegli assassini rimasti in vita le cui zanne o semplici mani appaiono sporche di sangue innocente. Li ricordano, i volti di coloro che hanno ammazzato con tanta noncuranza? Li ricordano i pianti dei sopravvissuti? La ricordano, quella guerra? Per molti, è troppo facile dimenticare.
Improvvisamente, uno spostamento d’aria. Qualcosa di grosso e pesante taglia il vento e la pioggia, il cielo e l’acqua, il silenzio e l’immobilità della pace.  
Noah annusa l’aria, solleva lo sguardo nello stesso istante in cui il profumo di spezie e vaniglia gli sfiora le narici. Riconosce quell’odore, riconosce quella sagoma in lontananza… ma qualcosa non va. Non è da Sherlock sbattere le ali così in fretta, a meno che…
 
-Sherlock, queste non sono ferite da quattro soldi. Le hai praticamente su tutto il corpo.-
Molly Hooper si passa una mano tra i capelli sciolti, che malamente s’abbinano con la vestaglia legata in vita e l’espressione stravolta. Noah l’ha buttata giù dal letto all’alba, dopo aver quasi sfondato la finestra per trascinarsi dietro uno Sherlock gravemente ferito e coperto di sangue. Vederlo in quelle condizioni è stato il risveglio peggiore della sua vita, ma alla fine Molly ha dovuto sopprimere il terrore, l’insicurezza e la sensazione di essere finita in un incubo per poter ricucire pezzo dopo pezzo i brandelli sfasciati della pelle devastata di Sherlock.
Non ha mai visto niente di simile: è come se qualcosa di sottile ma affilato si fosse insinuato molteplici volte nella carne della Furia Buia per poi lacerarla violentemente, con rabbia animale, feroce, quasi inimmaginabile. Ha dell’assurdo che Sherlock abbia volato a lungo con quelle ferite addosso, ma a giudicare dal tremore che scuote i muscoli alari, il drago deve aver affrontato un viaggio abbastanza lungo da sfiancarlo davvero. Stupido? Sì. Assurdo? Anche.
Molly ricuce dolcemente una ferita particolarmente violenta che gli squarcia la spalla. Tocca quella pelle nuda, bollente, liscia e priva d’imperfezioni come mai quella di un umano potrebbe essere.
Non ha mai toccato Sherlock Holmes in quel modo. È strano, è… bello. È come toccare un frammento di sogno, uno splendido pensiero proibito e infine resosi tangibile. Per Molly, Sherlock è sempre stata la perfezione irraggiungibile, la creatura costruita da Dio stesso, il figlio di qualsiasi sogno nascosto. Lo ha sempre guardato da lontano, l’ha spiato come timida creaturina che s’accosta non vista al più splendido degli dei. Lei lo adora, lei lo ama. Respira la sua aria, il suo profumo, il suo mondo. E questo le basta. Ma nei sogni, almeno lì, non le è proibito sfondare barriere, sfiorarlo così come sta facendo ora. Mai in vita sua avrebbe pensato che un semplice desiderio potesse avverarsi, seppur in maniera tanto bizzarra.
-Ecco, non ti muovere. Sei bravissimo.- si lascia sfuggire dolcemente mentre infila l’ago nella pelle morbida della mandibola. Tira con cura, lascia che il filo scorra sottopelle e ricucia quella ferita dilaniante, che mai avrebbe dovuto sfiorare un essere tanto bello.
-Non sono un cane, Molly. Sono padrone del mio corpo, e se devo impedirmi ogni movimento per consentirti di curarmi, così sarà.-
Molly arrossisce, pudicamente abbassa lo sguardo sulle mani che lavorano per tagliare il filo e liberare l’ago.
-Sc… scusami.-
Sherlock non risponde, ma nota con la coda dell’occhio che Noah, appoggiato allo stipite della porta, stringe i pugni. Punta i quattro occhi violetti sulla parete di fronte, ingombra di mensole e libri, contrae la mandibola, ma non parla.
-Ecco, ho finito.- interviene dolcemente Molly, spingendo indietro la sedia per lasciare a Sherlock un margine di spazio che gli consenta di alzarsi.
Molly non l’ha mai invitato a casa sua ma, adesso che lui è lì, la cosa le fa uno strano effetto: è abituata ad avere Noah alle costole, certo, ma essendo ancora cucciolo, il piccolo drago a due teste non ha una coda così spessa né ali così imponenti da oscurare l’intera casa, seppur ripiegate. In effetti, la differenza tra un piccolo e un adulto, è assolutamente lampante, adesso che Molly può confrontare il suogiovane drago a Sherlock.
-Sherlock… quanti anni hai?-
Dovrebbe chiedergli cosa gli è successo. Dovrebbe chiedergli come si è procurato quelle ferite. Invece, la domanda che fuoriesce è ben diversa.
Vuole conoscerlo. Vuole conoscere Sherlock per davvero, soltanto una volta. Non azzarderà molto perché, oltre a piacerle, la Furia Buia la intimidisce. Però, almeno per una volta, vorrebbe trovare il coraggio di parlargli come una sua pari.
-Perché me lo domandi?-
Sherlock la guarda, trapassandola coi meravigliosi occhi di vetro. Molly si sente impalata, studiata, come se qualcosa le scavasse nevriticamente nell’anima. Stringe forte i bordi della sedia per farsi coraggio prima di parlare di nuovo.
-Per curiosità, niente di più.-
Sherlock continua a fissarla, e per un attimo Molly pensa che non risponderà alla sua domanda. Troppo personale, forse? Non avrebbe dovuto azzardare tanto…
-Troppi. Di certo, supero i trecento.-
A Molly va la saliva di traverso. Comincia a tossire convulsamente, piegata in due dallo sforzo mentre Sherlock inarca un sopracciglio e sbuffa infastidito in attesa che la ragazza si calmi.
-T… trec… ento?-
-Sì. E non sono il più vecchio.-
Molly tossisce ancora, poi inspira lentamente, con cautela, cercando invano di mantenere la calma.
Trecento anni. Anzi, più di trecento.
-Più di… aspetta, non sai quanti anni hai esattamente?-
-A un certo punto, smettiamo di contarli.-
-Ma… insomma, voi non invecchiate?-
Sherlock non risponde e abbassa lo sguardo, finalmente esausto. Rilassa i muscoli, avvolge la coda intorno alla sedia come barriera protettiva. Vorrebbe chiudere le ali, riposare, lasciare che il sonno compensi la violenta perdita di sangue, ma non può: John lo aspetta, e forse si è già svegliato. Cosa avrà pensato nel trovare il gelo della sua assenza accanto?
-Penso che tu debba riposare, Sherlock. Hai perso molto sangue, e…-
-No. Devo tornare a casa.-
Da John. Sempre da John. Molly non può impedirsi di sospirare. Non riuscirà a trattenerlo, questo lo sa bene. Ma sa che Sherlock non riuscirà a mantenere troppo a lungo un equilibrio stabile. Rischia di perdere i sensi durante il volo, e questo non la rassicura.
-No.-
Molly si blocca nell’atto di sollevare una mano per attirare l’attenzione di Noah, ancora appoggiato allo stipite della porta. Inaspettatamente, ha mantenuto il silenzio per tutto quel tempo, e questo sorprende Molly.
-C… cosa no?-
Sherlock scuote il capo e lentamente si alza sulle zampe possenti, muscolose, animali. Gli artigli graffiano il pavimento, la coda scudiscia per mantenere un equilibrio stabile mentre il suo proprietario raggiunge la finestra.
-Non c’è bisogno che Noah mi accompagni. Non ho bisogno di una balia.-
Sherlock appoggia una mano sullo stipite della finestra, s’immobilizza. Ha i pantaloni lacerati in più punti, la pelle coperta di sangue e ferite ricucite. Eppure, anche in quelle condizioni non può che apparire bellissimo.
-Grazie, Molly Hooper.-
È un sussurro, un basso mormorio di labbra che si schiudono, ma a Molly sembra quasi un sogno sentire quella voce profonda sussurrare il suo nome.
Molly. Molly Hooper.
Vorrebbe rispondere, vorrebbe stringergli la mano. Ma, quando schiude le labbra per parlare, Sherlock Holmes è sparito e con lui, anche Noah, che tuttavia ha sbattuto la porta uscendo di casa.
 
Sbattere le ali è faticoso, pesante, difficile. I muscoli bruciano, la pioggia lo riempie di un ingente peso supplementare che si accumula sulla pelle, tra i capelli fradici, sul pantalone lacero e ancora sporco di sangue. Eppure, nonostante questo, Sherlock non si è mai sentito meglio. Ha bisogno di John, ha bisogno di vederlo e di sentirlo al sicuro in sua presenza. Allontanarsi da lui gli brucia l’anima, gli accorpa la sensazione di abbandonarlo a un destino incerto dove il mondo intero potrebbe calare su di lui e ferirlo prima del suo ritorno.
Accelera ancora, sbattendo le ali con forza. Taglia l’aria, la sottomette al suo volere di signore del vento. Infine, lascia che il corpo scivoli verso la meta, laddove casa sua, posta in cima a una cascata i cui riflessi cristallini si specchiano sui massi che la confinano, compare ammiccando, grazie alle pareti bagnate dalla luce del sole.
Ci è voluto del tempo per rimetterla a nuovo, ma alla fine, Sherlock ce l’ha fatta. Non ha chiesto aiuti, non ha accettato assistenza da parte di nessuno. S’è piegato al peso della fatica, rimettendo insieme i cocci distrutti di un passato irrecuperabile. Ha raccolto ogni pietra, spostato ogni memoria, osservato come la sua vita cambiava del tutto lì, dove ogni cosa era iniziata.
Aveva ricostruito la cupola pezzo dopo pezzo, incastrando i vetri con minuziosa precisione, senza badare ai tagli che gli coprivano le dita. Sua madre Nevora aveva amato quel pezzo della casa.
Aveva innalzato nuovamente il portico di marmo bianco, adesso abbracciato da fiorenti tralci d’edera e sostenuto da colonne a forma di draghi impennati che circondano l’intera casa d’una protezione quasi arcana. Il giardino è curato, le mura dell’abitazione tinte del verde dei rampicanti che armoniosamente abbracciano il marmo, senza tuttavia soffocarne le decorazioni d’oro e d’argento. 
Le finestre d’indubbio stile gotico s’innalzano verso il cielo, sottili ed eleganti, decorate da splendide vetrate colorate. Accanto al portone d’accesso, pesante ma inciso di morbide volute, vi sono altre due statue, nuovamente di draghi, che sorvegliano l’entrata. Accucciati, colli ricurvi, un’unica zampa a testa sollevata verso l’alto a sostenere una lanterna adesso spenta.
Casa, finalmente.
Sherlock sbatte ancora le ali, talmente grandi da oscurare l’intera sporgenza rocciosa. Atterra quasi con malagrazia, zoppica leggermente, esausto, ma quando la porta si apre e John compare nel suo campo visivo, ogni fatica sparisce dal suo corpo.
-Dove cazzo sei st… Sherlock! Che ti è successo?!-
John lo raggiunge, scruta con occhi sbarrati la sua pelle ancora sporca di sangue, le sue ferite ricucite, i graffi che gli percorrono le ali. È un medico, John Watson, e sa riconoscere certe ferite: sono identiche a quelle che durante la guerra causavano gli arpioni ricurvi, quando i militari colpivano un drago tra una scaglia e un’altra, ferendolo.
Hanno usato degli arpioni su di lui? No, quelle ferite sono troppo piccole. Quindi… uncini? Forse.
-Sherlock…-
John lo fissa in viso, improvvisamente si rende conto dell’umana stanchezza che lo pervade.
Sherlock non si stanca mai. Sherlock ha una resistenza stoica, imbattibile, senza tempo. Eppure adesso, qualcosa lo lacera dall’interno, e gli effetti di quel qualcosa si scorgono solo nei suoi occhi, quando tra un battito di palpebre e un altro, scintille d’anzianità s’attardano a sparire. C’è qualcosa che non va, John lo percepisce. E alla fine, John si arrende perché semplicemente, non riesce a vedere Sherlock in quello stato.
Allunga una mano bagnata di pioggia, gli sfiora i capelli fradici, appiccicati sulla fronte. È un tocco gentile d’angelo caritatevole, che né accusa né ferisce. Scorre lungo gli zigomi, sulle labbra, giù per il collo, spingendo il drago ormai esausto a chiudere gli occhi, ad inspirare la stessa aria del suo John, mista a quel profumo così umano e così familiare che per lui significa solo e soltanto casa.
Lentamente, gli incubi della notte trascorsa si dissipano, svaniscono al tocco gentile dell’unico angelo tra le cui mani Sherlock rinasce ogni volta, sbocciando come fiore delicato i cui tralci mai avvizziscono, mai appassiscono.
Senza rendersene conto, inclina la testa e lascia che il suo peso gravi sulle mani esperte di John. L’umano lo tocca, lo riscopre, sfiora quelle ferite ancora così giovani, così dolorose. Capisce che Sherlock è stanco, che non riesce a parlare, a spiegarsi, ma a John va bene così: potrebbe aspettare in eterno, se solo si trattasse della nobile creatura che ha dinanzi.
Dolcemente, fa scivolare il braccio intorno alla vita di Sherlock, aiutandolo a raddrizzarsi. Lo conduce verso casa, ben attento a non scivolare sul fango e sull’erba bagnata di pioggia battente. Sono fradici tutti e due, John ha freddo, ma la sua prima preoccupazione è Sherlock.
Entrano, e John si chiude la porta alle spalle con un calcio. Trascina Sherlock al piano di sopra, fino al bagno che personalmente, l’umano adora con tutto se stesso: quello è un piccolo angolo di paradiso dove finanche lavarsi i denti può racchiudere una sottile scintilla di serenità. Sherlock l’ha costruito secondo i gusti del suo popolo, che ha sempre visto l’intrecciarsi di natura e artificio come una delle più grandi opere d’arte. Bizzarro che il risultato finale non si allontani mai da questo pensiero corrente, perpetrato nei secoli e giunto fino ai giorni odierni.  
La stanza ha una forma circolare, con pareti intarsiate di volute vitree e cristalli di ogni genere, piccoli ma lucenti come minuscole stelle strappate al cielo. L’edera sbuca dal soffitto, intrecciandosi intorno all’unico grande cristallo la cui luce racchiusa all’interno illumina di bagliori naturali l’intera stanza, riflettendo morbidi scintillii su ogni pietra, su ogni voluta di vetro, fino ai pezzi effettivi del bagno, anch’essi costruiti in vetro e argento intarsiati di cristalli. Al di sopra del lavandino vi è uno specchio sagomato, in un angolo un piccolo sgabello di diamante che poggia le sue tre stilizzate zampe leonine su un pavimento di marmo decorato.
Infine, vi è la vasca: sfonda il pavimento, affossandosi come una grossa conca profonda un metro. I bordi sono ricoperti di violetti fiori di vetro soffiato, che morbidi intrecciano i gambi in un’armoniosa decorazione che abbraccia l’intero perimetro della vasca, la cui superficie liscia di diamante si decora di tante decorazioni luccicanti.
Alla finestra, vi è una tenda di seta argentata che momentaneamente copre la visuale della pioggia che dolcemente batte contro il vetro.
John trascina Sherlock fino allo sgabello, costringendolo poi a sedersi. Lascia che appoggi la schiena contro il muro, perdendosi qualche istante a osservarne il viso esausto, che raramente si abbandona a quegli atti di debolezza.
Se possibile, in quelle condizioni Sherlock appare ancora più bello e triste di quanto sia mai stato in passato, come un meraviglioso angelo dalle ali spezzate.
-Resta qui. Mi occuperò di te.-
John gli bacia la fronte bagnata, poi corre ad aprire il rubinetto della vasca. Lentamente, mentre l’acqua mormora placida il suo pallido quanto arcano sciabordio, John torna da Sherlock: lo trova con gli occhi chiusi, la testa appena reclinata all’indietro, le corna che quasi affondano nella preziosa parete alle sue spalle. Pare dormire, ma John sa che Sherlock non si addormenta mai realmente. Si è sempre domandato il perché, ha sempre cercato di spiegarsene il motivo, ma la verità… la verità è che lui non conosce affatto il suo compagno. Sa quando qualcosa si agita nella sua mente preziosamente strutturata, ma non capisce mai di che si tratta.
Anche adesso, John sa che Sherlock sta visitando il suo Mind Palace. Quasi riesce a sentirlo sfilare tra i corridoi, oltre le soglie di molteplici camere ricolme di dati, informazioni, immagini. Eppure, pur sapendo ciò, John non potrà mai capire quale porta avrà aperto la Furia Buia. A cosa sta pensando davvero?
-Sherlock?-
John posa una mano sul braccio per metà squamato del compagno, spingendolo ad aprire lentamente gli occhi. Sherlock lo fissa con fare assente, ed è allora che John capisce che in realtà, la Furia Buia non è più lì.
John sospira. -Va bene, ho capito.-
Lentamente, gli sfila i pantaloni sbrindellati e li getta con malagrazia sul pavimento. Non si ferma ad osservare il corpo gloriosamente nudo del compagno per semplice timore di incantarsi come ogni volta. Conosce a menadito quei pettorali ampi, quegli addominali appena accennati, quei fianchi stretti, quelle cosce possenti d’animale che morbidamente intrecciano le squame al liscio avanzare di pelle pallida di madreperla. Ama ogni parte di quel corpo, ogni anfratto di quell’anima di ghiaccio che più di una volta s’è azzardato a sfiorare.
Sherlock, il suo Sherlock.
Dolcemente, John fa scivolare il corpo di Sherlock nella vasca. Guarda la lucentezza dei cristalli riflettersi sulle scaglie nere, intrise di un infinito quanto prezioso spettro di colori, e ricorda quando conobbe Sherlock la prima volta. Allora John lo trovò bellissimo come un angelo e nobile come il più antico e potente degli dei. E adesso, dopo due anni, nulla è cambiato. Anzi. Se è possibile, Sherlock appare ancora più abbagliante.
John fa scorrere le dita bagnate tra i capelli del compagno, lascia che pallide goccioline d’acqua scivolino benedette su quel viso apparentemente addormentato. John vorrebbe baciarlo, lo vorrebbe davvero. È quasi una tentazione irresistibile, e per questo John deve lottare con se stesso per impedirsi di compiere eventuali sciocchezze: sa che Sherlock non gradirebbe un eventuale contatto fisico, adesso che è nel suo Mind Palace.
-Mi stai fissando, John.-
John sussulta, quasi stringe il pugno mentre massaggia delicato il collo liscio di Sherlock, badando a tenersi lontano dalle squame taglienti che popolano la nuca.
-Sei…? Pensavo fossi nel tuo Mind Palace!-
Sherlock apre un occhio scintillante, dalla sottile iride verticale. Lo fissa indifferente, calcolatore, studiando le sue reazioni. –Questo non mi estranea completamente da ciò che succede nel mondo esterno, John. Posso essere sia qui che lì.-
John s’immobilizza, fissa quell’occhio di cristallo che lentamente trapassa più e più volte il suo animo. Si sente esposto, John, e non ama che Sherlock lo studi in quel modo.
-Smettila di guardarmi così.-
-Ti imbarazza?-
-Mi infastidisce.-
-E ti imbarazza.-
-SHERLOCK!!!-
Suo malgrado, John sorride. Per puro dispetto, gli scompiglia energicamente i capelli, facendolo grugnire infastidito. Sherlock fa scattare le ali, che seppur ripiegate, riempiono totalmente il bagno in altezza e ampiezza. John si sente spingere e, mentre un colpo alla schiena lo sbilancia, gettandolo nella vasca con tutti i vestiti, non gli sfugge il piccolo sorriso di soddisfazione che illumina il volto di Sherlock.
John cade nell’acqua troppo calda, ma che sa di Sherlock e profuma di lui, del suo essere, del suo corpo bollente. Si lascia avvolgere in vita dalla coda poderosa del drago e riemerge dall’acqua. Scrolla il capo, fissa Sherlock in viso… e gli schizza la faccia con una poderosa manata alla superficie bagnata che li abbraccia.
Per qualche istante, Sherlock lo fissa sorpreso, ma subito dopo la sua coda trascina John sott’acqua per qualche istante, prima di sospingerlo nuovamente verso l’alto.
Quando riemerge, trova Sherlock col gomito appoggiato al bordo della vasca, il capo inclinato sostenuto dalla mano e gli occhi puntati su di lui in uno sguardo di arrogante divertimento.
È bello da mozzare il fiato, come un dio lontano e irraggiungibile, sfuggente più dell’aria tra le dita. John vorrebbe toccarlo, ma non s’azzarda. China lo sguardo sui suoi vestiti bagnati, adesso appiccicati alla pelle e resta in silenzio, ascoltando l’umido sgocciolare dei loro corpi grondanti d’acqua.
-Non posso rispondere alle tue domande, John. Non adesso.- dice improvvisamente Sherlock, spingendolo a sollevare lo sguardo.
-Perché? Sherlock, cosa mi nascondi? Ti ho mai dato motivo di non fidarti di me? Ti ho mai spinto a dubitare, ad allontanarti? Se ho sbagliato qualcosa, ti prego, dimmelo. Ho bisogno che mi perdoni, se mai vorrai accusarmi di qualcosa. Ho bisogno che non mi nascondi più niente, così come stai facendo da quasi un anno, ho bisogno… ho bisogno di te. Per favore…-
John china il capo, dolcemente s’azzarda ad appoggiare la fronte sulla spalla ancora umida di Sherlock. S’avvale della sua solida presenza, respira il suo profumo, rilassa i muscoli semplicemente perché lui è lì, al suo fianco, e non l’ha ancora respinto.
Ma proprio in quel momento, Sherlock non appare presente all’ambiente in cui si trova. Fissa il muro davanti a sé, ragiona velocemente sulla situazione.
John ha capito qualcosa. John sa decifrarlo meglio di quanto abbia calcolato in precedenza. Non sa se sentirsi stupido per averlo sottovalutato o grato al suo umano per l’attenzione che gli riserva ogni giorno, pur mantenendo il silenzio in attesa che sia lui ad esprimersi.
Come può una creatura tanto gentile accostarsi da uno come lui? Come si sfiora realmente un cristallo delicato come John?
 
-Cosa ti spaventa?- chiede una giovane voce di ragazzo alle sue spalle.
Lì, nel Mind Palace, dove Sherlock avanza lentamente tra porte e corridoi di dati importanti e insulsi, utili o inutili, qualcuno lo segue a distanza di sicurezza, muovendosi in silenzio ma con pazienza serafica, instancabile.
Sherlock riconosce il passo, ricorda chiaramente quell’odore, quell’incessabile palpitare di un cuore che ormai, nel presente e fuori dalla sua testa, ha smesso di battere anni fa. Ma per ora, Sherlock non può fermarsi. Non rallenta, non si ferma. Non ha tempo da perdere, adesso che si tratta di John.
Solleva una mano e con un deciso scatto del polso apre la porta alla sua destra di schianto, senza neanche toccarla.
-Perché non la porta di sinistra, Sherlock?- dice il ragazzo alle sue spalle. –Perché hai bisogno di voltarti anche solo per guardarla?-
Sherlock continua a ignorarlo. Imperterrito, oltrepassa la soglia della stanza e lascia che i ricordi in essa contenuta lo avvolgano.
Inutili dati… non servono in quella situazione.
Come reagirebbe una persona normale, adesso? Come si… abbraccia una creatura tanto bella quanto fragile come John Watson? Potrebbe spezzarsi? Potrebbe andare in frantumi lì, tra le sue braccia?
Sherlock cerca, scava, freneticamente si guarda intorno per trovare una disperata via d’uscita. Non ha dati, non ha informazioni. È tutto inutile; lui non sa cosa significhi confortare qualcuno, abbracciarlo, stringerlo al petto con dolcezza. Lui non è John, lui non riesce ad essere umano…
-Basta.-
Una mano artigliata, coperta di squame, si poggia sulla sua e la stringe. Sherlock china lo sguardo, fissa glaciale quelle dita ancora troppo corte, quel palmo ancora troppo piccolo che gentilmente s’azzarda a toccarlo. Lentamente, quasi reagendo per istinto a quel tocco così caldo, così familiare, rilassa i muscoli e chiude gli occhi, leggermente rasserenato.
-Tu sai come si fa.- mormora il ragazzo alle sue spalle prima d’appoggiare stancamente la fronte contro la sua schiena. Sherlock dilata le narici, inspira dolcemente il suo odore che gli riporta alla mente tanti ricordi di bambino, tante memorie del passato. Profuma di muschio e pioggia appena caduta dal cielo. –Mi hai abbracciato tante volte, Sherlock… non lo ricordi? Quando eravamo bambini e io avevo paura dei tuoni, o quando piangevo per essermi sbucciato il ginocchio… ti prendevi cura di me, nonostante avessimo la stessa età. Mi proteggevi, mi schermavi dal mondo intero, e le tue ali erano tanto grandi da respingere qualsiasi sofferenza, qualsiasi difficoltà… ricordati di me, Sherlock. Ricordati di noi e riconduci alla memoria ciò che già sai.-
-No, ho bisogno di dati. Devo sapere come muovermi, come impedirmi di ferirlo, come…-
-I tuoi dati ce li ho io, Sherlock. Sono io l’informazione che ti serve. Segui i miei, di ricordi.-
 
E stranamente, Sherlock ubbidisce. Reagisce automaticamente, ubbidiente, fiducioso in qualcosa che non sa spiegarsi, perché dopotutto, a dargli il giusto suggerimento è il suo Mind Palace, la sua coscienza. Ed è come risvegliarsi da uno splendido sogno per cadere infine in una realtà ben più gentile. Sherlock non apre gli occhi, non pare risvegliarsi dal suo stato attuale di trance, ma per la prima volta dopo secoli … ricorda che un tempo, lui sapeva esternare il suo affetto. Non è sempre stato tutto grigio, no. Qualcosa è cambiato in lui, qualcosa che non ha mai saputo affrontare.
 
-Ricorda come mi abbracciavi… ricordami, Sherlock. Tu sai già farlo.-
 
Lentamente, le braccia di Sherlock si risvegliano, scivolano da sole intorno alla vita di John. È quello il loro posto, quello il naturale incastro che Dio stesso ha affidato a quegli arti possenti, corazzati di scaglie luminose come polvere di stelle. Appare naturale per Sherlock appoggiare il mento sul capo di John, chiudere le ali su di loro, ritrovare quella scioltezza nello sfiorarsi che soltanto poche volte ha saputo riscoprire in se stesso.
-Sherlock?-
La voce di John è intrisa di piacevole sorpresa, ma Sherlock non vi bada. Pensa soltanto alle sue dita che sfiorano delicate quel corpo così fragile, eppure così forte. Il corpo che ama, l’uomo che… ama? Lui ama John? Non gliel’ha mai detto, e forse lo farebbe se solo non fosse così poco da Sherlock abbandonarsi a simili smancerie. No, per parlare ci sarà tempo, tanto, tutto quello che desiderano. Saranno sempre lì entrambi, perché niente potrà accadere alla piccola, fragile creatura che Sherlock proteggerà fino alla fine, oltre lo scorrere del tempo e delle ere, dal male del mondo e degli uomini.
 
Nel suo Mind Palace, qualcuno ride di una risata argentina, divertita, felice. Un ragazzo saltella sul posto, ma ancora una volta, Sherlock non s’azzarda a guardarlo.
-Te l’avevo detto!- urla, battendo forte le mani estasiato.
 
È un piccolo passo, un gentile tendersi di mano che Sherlock allunga verso John in uno sforzo che per lui appare quasi sovrumano. Ancora adesso, dopo due anni di serena convivenza, i sentimenti per Sherlock risultano ancora difficili, ostici, innaturali come sarebbe ai suoi occhi un grosso cane a sei teste. Eppure, lui si sforza perché è giusto così, perché John lo merita, perché John osserva, comprende e in silenzio si preoccupa per lui, evitandosi tuttavia di porgli domande che condurrebbero al litigio. Rispetta i suoi tempi e i suoi spazi, così come fece allora, quando si conobbero anni fa. Paziente, determinato, testardo. Umano.
Semplicemente John.
E, così come è da lui agire, ancora una volta l’uomo comprende lo sforzo di Sherlock, capisce le sue difficoltà e resta in silenzio, apprezzando ogni piccolo gesto così com’è. Semplicemente, sorride contro la sua spalla e lo stringe a sua volta con più forza, abbracciando con dita sicure quelle ali massicce adesso chiuse su di loro a formare uno splendido cielo incantato dove sogno e realtà si mescolano in un’unica benedizione di serenità che poggia leggiadra su di loro.
-Sherlock?-
-Mh?-
-Grazie.-
 
Angolo dell’autrice:
Foooorse sono un pelino in ritardo, ma questo imbecille di pc ha ben pensato di eliminarmi il capitolo il giorno stesso della pubblicazione. Dovevo pubblicarlo due giorni fa, porca miseria!
Sher: guarda che sei stata tu a cliccare per sbaglio sul tasto “No” quando è uscita la richiesta “Salvare le modifiche al capitolo?”
Silenzio! Ero distratta per colpa tua! Piantala di girarmi nudo per casa, mamma ha già avuto una sincope per colpa tua!!!
Ehm… ecco, torniamo a noi. Ringrazio di cuore coloro che hanno reso possibile il continuo di questa storia, con l’aggiunta di Carlo, un amico speciale che legge e commenta personalmente ogni mio capitolo con l’entusiasmo di chi ama davvero ciò che sta leggendo. Grazie a tutti voi:
Sonia_0911
Wibbly
Tony Stark
Luna moontzuzu
Grazie a voi che con pazienza avete recensito i miei capitoli con tanta gentilezza da farmi quasi piangere. Purtroppo mi commuovo facilmente a volte, ed è tutta colpa vostra, mannaggia a voi! Grazie e a prestissimo!

Tomi Dark Angel
 
 
 

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Capitolo 4
*** Cambi Di Programma ***


-Ripetimi dove stiamo andando.-
-Non te l’ho detto, John. E no, non ho intenzione di dirtelo.-
-Neanche un indizio?-
-No.-
-E perché ci sono anche Noah e Molly?-
-Perché ce li siamo trovati alle calcagna di punto in bianco e tu mi hai detto di non seminarli.-
John sorride alla risposta secca di Sherlock. Gli stringe le braccia intorno al collo, affonda il viso nell’incavo tra spalla e collo per ripararsi dal soffiare incessante del vento che poco a poco, con l’aumentare della quota, diventa sempre più freddo. Inspira il profumo della sua Furia Buia, si bea del calore emanato da   quel corpo, adesso premuto contro il suo. L’urtare incessante dei muscoli alari contro le gambe non lo infastidisce, ma John deve indossare degli spessi bendaggi per evitarsi lividi in caso di virate improvvise. A prima vista potrebbe apparire scomodo, ma non è così, non per John. È così abituato a volare in quella posa, aggrappato al collo di Sherlock e con le gambe intrecciate alle sue, che ormai quasi si addormenta durante il tragitto. Sa bene che, se pure allentasse la presa su di lui, Sherlock stringerebbe le mani artigliate intorno ai suoi polsi per tenerlo aggrappato a lui, in equilibrio. Non lo farà cadere, mai.
L’imponente drago a due teste, che stranamente pare niente affatto cresciuto durante gli ultimi due anni, li affianca. Le due teste cornute, entrambe coronate da corna massicce dall’aria micidiale, fissano lo sguardo violetto sulla strada, schizzando a tratti verso il basso nel vano tentativo di ricostruire e riconoscere il percorso che stanno seguendo.
Sulla sua groppa, aggrappata a una delle punte cervicali, siede Molly. Indossa un giubbotto di lana, ha il viso coperto per metà da una sciarpa e le mani abbracciate dai guanti. Di lei, si vedono solo gli occhi color nocciola che, timidi e non visti, ogni tanto si posano su Sherlock.
Ripensa a quell’unica volta in cui ha potuto sfiorare liberamente quella pelle lunare, quel viso privo d’imperfezioni, quel corpo allenato che tanti sogni ha saputo popolare, che tanti incubi ha saputo costruire. L’ultima volta, Sherlock si è fatto toccare per pura necessità, ma Molly è certa che se riprovasse a sfiorarlo per motivi ben diversi, probabilmente la Furia Buia le staccherebbe la mano. A parte questo tuttavia, la stessa Molly non lo farebbe mai: è cresciuta insieme a John, è sopravvissuta alla guerra grazie a lui. Non lo ferirebbe in maniera così meschina. Mai. Qualunque sogno proibito ella nutra, resterà nel cassetto fino alla fine, fino alla morte. Per John, per Sherlock, per se stessa. Per la loro serenità.
-Sherlock, seriamente: stiamo volando da troppo tempo. Dove accidenti ci porti?- urla John per sovrastare il ringhio del vento. Si guarda intorno, fissa lo strato di nuvole perlacee che compatte, coprono quasi interamente la vista sottostante. Nuvole vaporose, morbide come zucchero filato, leggere, informi.
Quante volte, da bambino, John ha perso tempo a fissare le nuvole all’affannosa ricerca di forme riconoscibili da identificare? Allora sognava di toccarle, di accostarsi a quelle matasse di zucchero filato galleggiante anche solo per poterne saggiare la consistenza con le dita corte di bambino. Gli era sempre apparso come un desiderio lontano, un sogno irrealizzabile, una meta che non avrebbe mai sfiorato. Adesso invece, John addirittura le sovrasta le nuvole e, nonostante siano passati due anni dal suo primo volo, a volte ancora fatica a crederci.
Fatica a credere nel miracolo che ha tra le mani, fatica a credere che quel sogno sia reale. Il vento che profuma di vaniglia, il freddo che gli morde la pelle, l’adrenalina che scorre nelle vene. Il mondo visto dall’alto, sovrastato, abbracciato da un unico sguardo incantato che pare spingersi oltre l’immaginario, oltre qualsiasi confine mai delineato dall’uomo. Tutto questo è semplicemente Sherlock, il miracolo che per pura casualità ha voluto incrociare solo e soltanto John Watson. Perché proprio lui? John se lo domanda tutti i giorni.
-Comincia a fare un po’ freddo, o sbaglio?- domanda Molly, innervosita.
Noah emette  un basso grugnito, che si condensa all’istante in una candida nuvoletta di vapore.
-Ci siamo.-
Improvvisamente, Sherlock comincia a calare sensibilmente di quota. Appesantisce il corpo, scudiscia leggermente la coda per equilibrare il peso. Quando poi s’accosta esageratamente alle nuvole, sbatte le ali un’unica volta per diradarle. Il vento prodotto è così violento, così implacabile, che all’istante le nuvole spariscono nel nulla, soffocate dalla stretta del vento e dalla grandezza di ciò che improvvisamente si srotola imponente davanti agli occhi di John.
Luce. Colori. Acqua.
Di meraviglie paesaggistiche, John ne ha viste anche troppe. La sua stessa casa, arpionata in cima a una splendida cascata, rientra nella cerchia di bellezze straordinarie alle quali John non riuscirà mai ad abituarsi. Dovrebbe essere abituato. Eppure, quel paesaggio… è qualcosa che sfonda di netto ogni più fervida immaginazione.
Il cielo sparisce, annegato nella brillante aurora boreale che stende le sue propaggini di luce cangiante in ogni direzione, come un telo immenso e ancora in via d’espansione volto ad abbracciare il mondo intero. I colori danzano, si ripiegano come vestigia di seta, si contorcono e poi mutano in sfumature diverse, inimmaginabili, che John ha saputo osservare soltanto sulle ali arcobaleno di Sherlock.
In basso, sotto di loro, vi è un mare sconfinato, avvolto da un sottile strato di nebbia che ammanta l’ambiente di un’atmosfera sognante, vaga, bellissima. Sull’acqua si riflettono chiaramente i colori e le loro sfumature, al punto da ricreare uno specchio perfetto del cielo che confonde e rimescola il sopra e sotto come due gemelli posti uno innanzi all’altro. John potrebbe tuffarsi in quell’oceano e avere la certezza di fare il bagno in una splendida tavolozza in continuo mutamento.
-Ma… questa è neve?- mormora Molly, rivolgendo il palmo guantato verso il cielo. Leva il naso, ride come una bambina quando un cristallo ghiacciato le si posa tra gli occhi, congelando la pelle in quell’unico, minuscolo punto.
Solo allora John si rende conto che effettivamente, Molly ha ragione: la neve piove leggiadra dal cielo, danzando a mezz’aria prima di affogare nell’oceano di colori che ha trasfigurato il mare.
-Sherlock… è splendido.- mormora con voce rotta dall’emozione. Si preme una mano sulla bocca spalancata, fissa con occhi sbarrati di bambino l’ennesima meraviglia che il mondo ha saputo costruire lì, davanti ai suoi occhi.
Sherlock non risponde, non reagisce. Semplicemente, si guarda intorno alla ricerca del gigantesco iceberg di spuntoni che l’ultima volta ha rischiato di essere la sua tomba. Non avrebbe dovuto portare John laggiù, alla mercé di uomini armati di reti e uncini, ma di menzogne, il suo compagno ne sopporta anche troppe. John merita di sapere, perché quegli umani rappresentano una minaccia che potrebbe coinvolgere tutti loro, se solo i cacciatori decidessero di spingersi più a sud, verso Londra. Sherlock potrebbe annientarli seduta stante, ma è quasi certo che quelle persone non caccino draghi per semplice sport. C’è qualcosa dietro, qualcosa di grosso. E, se si trattasse di una minaccia ben più grande di quanto appaia realmente, allora John deve sapere.
Sherlock non è interessato a difendere Londra, poiché rifiutò la corona così come sua madre gli sconsigliò di fare anni addietro, ma John… a John interessa difendere i suoi amici, perché è nella sua indole, così com’è nella indole di Sherlock proteggere il suo umano. E, qualunque sarà la scelta di John, Sherlock vorrà rispettarla e seguirla come fosse sua.
-Sherlock.- chiama allora John, con una punta di dubbio nella voce. –Seriamente… perché siamo qui?-
Molly e Noah lo guardano, otto paia d’occhi fissi su di lui nel vano tentativo di scavare, di comprendere. Ma Sherlock risulta spesso un libro aperto solo agli occhi di John.
-Perché è qui che sono stato ferito l’ultima volta. Fate attenzione.-
Guarda Noah, che gli rilancia un’occhiata interrogativa, intrisa di domande: cosa devo aspettarmi, adesso?
Sherlock non sa rispondere. Altre reti? Uncini? Arpioni ben più grandi e forse micidiali? No, quei cacciatori non miravano ad ammazzare i draghi, ma a catturarli. Forse, il pericolo più grande potrebbe nascere dalla probabile presenza di sedativi.
Sherlock vorrebbe sentirsi forte, vorrebbe poter avanzare con maggiore sicurezza. Purtroppo però, sa bene di essere lui l’anello debole: se i cacciatori in questione lo rivedessero, saprebbero riconoscerlo e, di conseguenza, conoscerebbero anche la sua debolezza, ossia il punto cieco che scopre la parte sinistra del corpo.
John.
-Da che parte, Sherlock?-
La voce di John brucia di rancore, segno che probabilmente ha percepito la vicinanza di coloro che hanno quasi ammazzato il suo compagno. Non è un buon inizio, considerato che Sherlock dovrà impegnarsi ad allontanare un più che incazzato John da quei maledetti cacciatori. Ma è tardi per tirarsi indietro.
Lentamente, Sherlock cala di quota. Volta il capo a destra e a sinistra, aguzza l’udito, scudiscia la coda, pronta a intercettare e distruggere qualsiasi rete si accosti a John. John: la sua priorità, il suo diamante. Niente dovrà intaccarlo, non una goccia di sangue spillerà dal suo corpo. Sherlock ha deciso così, e così sarà.
Lentamente, la Furia Buia piega un’ala e vira appena verso destra. Non scarta, non azzarda movimenti bruschi. Vorrebbe confondersi col sottile strato di nebbia che pare avanzare in maniera compatta verso di loro, lenta e invasiva come strato di sogno sempre più fitto, sempre più accecante. Dannazione.
-Ci vedete, in mezzo a questa nebbia?- domanda allora Molly, esprimendo ad alta voce le preoccupazioni di Sherlock.
Noah lo guarda, chiede silenziosamente se gli è concesso spazzare via quel debole fastidio con un unico, possente battito d’ali. Certo, sarebbe una mossa tanto utile quanto stupida: se i draghi vedessero i cacciatori, sicuramente i cacciatori vedrebbero loro.
-Non…-
Un sibilo, il segnale che Sherlock attendeva. Il suo corpo risponde, reagisce istintivo a un pericolo già avvertito in precedenza: velocemente, le ali si ritraggono con uno schiocco, facendo precipitare la Furia Buia e John verso l’oceano, veloci come proiettili. John si aggrappa, serra le labbra per non urlare e in un unico fluido gesto, stringe le dita intorno al calcio della pistola che s’appende alla cintura dei jeans. La estrae nell’esatto momento in cui Sherlock spalanca le ali di scatto, arrestando la caduta a un centimetro dall’acqua. La coda s’abbatte nell’oceano, scatenando un’onda gelida che tuttavia non sfiora nemmeno il corpo di Sherlock, già impegnato a scattare lateralmente per poi risalire velocissimo in spirali vertiginose.
Un’altra rete li sfiora, costringendo Sherlock ad avvitarsi a mezz’aria, aprendo e chiudendo incessantemente le ali come lame di forbice in movimento. Sforza i muscoli, snuda gli artigli, volta il capo a destra e a sinistra per proteggere il suo unico punto cieco. Non si lascerà toccare, non ora che c’è John con lui.
Reagendo a questo istinto, il corpo di Sherlock si trasforma in vento, i muscoli si gonfiano nello sforzo di intrecciarsi ad ogni più piccolo movimento aerodinamico. Le ali sbattono, sottomettendo l’aria al loro volere e catturando qualsiasi corrente ascensionale pronta a sospingere Sherlock e John lontani dal pericolo, dalle reti, dalla prigionia.
-Sherlock!-
Un urlo, seguito dallo schianto poderoso di un corpo massiccio che s’abbatte contro una massa dura come la pietra. Qualcuno tossisce di dolore, un drago nelle vicinenze emette un ruggito disperato di bestia in trappola.
-Molly!- urla John, e a quel grido disperato, Sherlock reagisce di conseguenza. Come da copione, si trasmuta in puro strumento al servizio del più piccolo volere di John: ripiega le ali, sfreccia più veloce della luce verso la fonte di quei suoni raccapriccianti che anziché diminuire, aumentano d’intensità ad ogni istante.
Niente al mondo è più veloce e distruttivo di una Furia Buia, dicono le leggende. Niente può abbattere queste bestie poderose, figlie del fulmine e del vento, del fuoco e dell’acqua. Niente arresterebbe la loro furia animale semmai qualcosa la scatenasse.
John capisce cosa vuol dire soltanto allora, quando Sherlock atterra pesantemente sulla gelida pedana congelata di quella che sembra una pura esplosione cristallizzata di ghiaccio alta come un grattacielo. Sfruttando lo slancio del corpo velocissimo, quasi invisibile ad occhio umano, Sherlock affonda le zampe nel suolo, generando nel ghiaccio uno schianto devastante che produce un cratere profondo almeno due metri. Finissima polvere bianca si solleva, galleggiando a mezz’aria per qualche istante prima di venir spazzata via dalle ali che imponenti si spalancano di scatto, tagliando alla base tutti gli spuntoni nelle vicinanze e dando inizio a un crollo a catena che schiaccia senza appello gli umani nelle vicinanze.
Molti cacciatori cadono in acqua, altri ancora scivolano nel cratere, dove Sherlock li finisce a colpi d’artigli o spezzandogli le ossa con la coda poderosa.
John cade a terra, resta immobile al cospetto della gelida furia di Sherlock, il cui volto appare immobile, immutato, quasi robotico mentre intorno a lui il sangue schizza e la gente muore velocemente, fatta a pezzi o stritolata. Non s’impressiona, non s’arresta, non accenna a muovere un brandello di pietà. È la macchina perfetta, il più temibile strumento di battaglia mai esistito, capace di fermare gli oceani con le mani e di abbattere i monti con le ali. Nessuno può opporsi alla sua gelida furia, niente è abbastanza forte da resistere alla possanza di quelle ali poderose. Il mondo intero si inginocchierebbe all’inarrestabile rabbia assassina di quegli occhi senz’anima.
Se non conoscesse Sherlock, John avrebbe paura di lui. Per questo non può biasimare i cacciatori sopravvissuti che s’affannano alla ricerca di un rifugio o di una ormai inesistente via di fuga. Ogni passaggio è collassato, ogni più piccolo viottolo dove nascondersi è stato inghiottito dal crollo delle stalattiti ghiacciate: in pratica, i cacciatori sono rimasti incastrati nella loro stessa trappola. Condannati a morte? Forse. Dipende tutto da John: lui è l’unico in grado di fermare Sherlock e la sua furia omicida. Gli basta un gesto, e il sangue smetterà di scorrere.
-Basta così!- urla una voce, e subito Sherlock s’immobilizza. Leva lo sguardo su un uomo coperto di tagli, zoppicante, ma che stringe un braccio intorno al collo di Molly. –Fermatevi subito, o le spezzo il collo con le mie mani.-
L’uomo li fissa con pupille dilatate, frutto di terrore e adrenalina mescolati. Preme il petto contro la schiena di Molly, che poco a poco, stretta nel suo abbraccio mortifero, comincia a sbiancare. John si specchia nei suoi occhi di bambina, osserva quel viso tanto familiare, tanto gentile, che per lui significa casa e passato.
Molly non ha mai ferito nessuno. Molly è innocente come agnello condotto alla macellazione proprio lì, tra le braccia di un maledetto cacciatore di draghi troppo impegnato a preservare la sua stessa vita per preoccuparsi dell’unica ragazza che col trascorrere degli anni e delle sofferenze, è riuscita a preservare se stessa e la sua innata dolcezza. Molly ha visto morire sua madre, ammazzata dagli stessi draghi che non ha mai voluto accusare o ferire. Ha imparato e insegnato il perdono, così come ha saputo conservare la sua fedele amicizia nei confronti di John, tanto diverso da lei, tanto lontano dai suoi ideali.  
Non Molly. Ti prego, non Molly.
John la fissa in volto, ignora il suo cenno di diniego che vorrebbe spingerlo ad agire nonostante le circostanze. Piccola, coraggiosa Molly Hooper. Così terrorizzata dalla morte, eppure così stoicamente fredda al pensiero di morire.
Ma John non può perdere anche Molly. Insieme a Mrs Hudson, è ciò che resta della sua famiglia passata, del suo trascorso di bambino.
-No… basta, ci arrendiamo.- mormora John, chinando il capo e di riflesso, anche Sherlock richiude le ali, ferma la coda, distende appena i muscoli. Reagisce al semplice volere di John perché sente che è giusto così… e perché Sherlock stesso non è uno stupido.
Fissa Noah, così grosso da coprire il resto della pedana e metà delle stalattiti di ghiaccio circostanti. È abbracciato da una maledetta rete uncinata che affonda i piccoli spuntoni tra le scaglie che ricoprono il corpo, nelle ali morbide, fin dentro i muscoli del collo. Non si muove, quasi non respira. Però, i suoi quattro occhi violetti si spostano su Molly, la fissano con una sorta di celato desiderio. Il petto si alza e si abbassa velocemente, i muscoli si gonfiano, spingendo contro gli uncini nel disperato tentativo di liberarsi. Ma Noah non è abbastanza forte, non ancora. Bizzarro, però: quelli della sua razza dovrebbero essere già maturi, alla sua età.
Porta venti, corridoio settecentoquarantanove.
Velocemente, Sherlock studia la corporatura ancora sottile di Noah, ricostruisce i segni già evidenti di maturazione psicologica che il drago dimostra da mesi ormai. Ma quelli come lui non crescono come gli altri. In effetti, i draghi a due teste devono attendere la maturazione di parecchi organi doppi, a cominciare dai due cuori, volti a sostenere due diversi cervelli, quindi non sono veloci come la stragrande maggioranza dei loro stessi simili …
 
-Cerchi questo?- domanda una voce alle sue spalle. Ancora una volta, Sherlock non ha bisogno di voltarsi per riconoscerne il proprietario. Non vuole guardarlo in faccia, non se la sente. Forse, nel suo Mind Palace, quel ragazzo una faccia non ce l’ha nemmeno.
Solleva una mano oltre la spalla, distende le dita in attesa che il suo ormai coinquilino psicologico gli passi il fascicolo ingiallito dal tempo.
-Non dovresti essere ancora libero.- obbietta Sherlock distratto mentre sfoglia le pagine sottili, sfibrate e ormai fragili come cristallo già crepato.
-Sei tu che me lo permetti.- ride l’altro, e stavolta, Sherlock non può ribattere perché sente che ha ragione, perché sa che in fondo, è colpa sua se quell’individuo è libero di vagare per la sua testa.
-Trovato.-
L’altro non risponde.
 
-Non te lo consiglio.- mormora Sherlock mentre con calma s’inginocchia accanto a John. Gli afferra una mano, la stringe in segno di avvertimento e all’istante, John reagisce come il soldato che è stato: ubbidisce agli ordini, irrigidisce i muscoli in attesa di nuove direttive, ma già pronto a scattare.
-Sono io che vi sconsiglio di muovervi.- ringhia l’uomo, innervosito. Fissa la coda di Sherlock che lentamente si solleva, contrae la mascella al sentore di pericolo immediato e istintivamente, stringe ancora il braccio attorno alla gola di Molly.
La ragazza annaspa, sbarra gli occhi terrorizzata, ma non tenta alcuna ribellione. Fino alla fine, si rifiuta di ferire il prossimo, e questa consapevolezza uccide John lentamente perché sa che Molly morirà a causa della sua stessa innocenza, immacolata come bambina.
John vorrebbe reagire, vorrebbe sottrarla all’abbraccio mortifero di quell’uomo. Ma si fida di Sherlock, e sa che egli non saprà tradirlo. Per questo John non si muove, per questo non reagisce e impotente, resta a guardare.
-Davvero? Immagino che tu sopravviva così, dopotutto: minacciando gli altri, ammazzandoli, camminando sui loro cadaveri. Non posso biasimarti.-
-Non giudicarmi, drago! Non sai nulla di me!-
Ma Sherlock lo guarda, scava a fondo nella sua anima, fissa quegli occhi di un verde slavato, spettrale, quasi incantatore. L’occhiata che gli rivolge è così insistente che l’uomo si vede costretto a chinare lo sguardo, bruscamente sottomesso.
-So che sei cresciuto nei boschi, solo e senza famiglia per anni, fino alla tarda età. So che probabilmente hai perso i genitori o qualche persona cara in un incendio, perché le tue reti sono progettate per serrare il muso dei draghi più grossi e impedir loro di sputare fiamme e ti terrorizza l’idea che io lo faccia, perciò usi il corpo di Molly come scudo. Indossi un cappotto bagnato fradicio nonostante il freddo che probabilmente rischia di assiderarti, ma preferisci sentirti resistente o quantomeno immune alle fiamme e patire il freddo. So che hai imparato a cacciare per sopravvivere in passato, e adesso utilizzi il tuo stesso talento per guadagnare soldi sporchi, probabilmente dettati dai contrabbandieri. So che qualcosa, forse un drago, ti ha ferito al fianco sinistro perché il busto si ripiega a una bizzarra angolatura, ben attento a non distendersi, come se la pelle cicatrizzata tirasse in un punto ben preciso, esattamente tra la penultima e la terzultima costola. Devo continuare o mi fermo qui?-
L’uomo freme, sbarra gli occhi. Schiude le labbra come se cercasse le parole adatte per esprimersi, ma tutto ciò che gli riesce è boccheggiare stordito, ormai al limite della sopportazione: la corda sta per spezzarsi.
-Mi hai stancato.-
Il braccio si stringe ancora, e stavolta Molly non respira più. La sua gola si chiude, il corpo freme di una sofferenza soverchiante che poco a poco la annienta, facendone a pezzi l’anima e il corpo.
-Sherlock!-
John urla, tende i muscoli, ma ancora non si muove. La mano di Sherlock si stringe sulla sua, i suoi occhi serpentini fissano insistentemente qualcosa alle spalle dell’uomo…
Poi, improvvisamente, si scatena l’esplosione.
Una colonna di fiamme violette abbraccia il corpo di Noah, che ruggisce di un dolore talmente acuto da costringere John a coprirsi le orecchie. Una bollente onda d’urto li investe, spazzando via l’uomo e Molly, entrambi sbalzati in aria come marionette di gommapiuma.
Sherlock chiude le ali su John, se lo stringe al petto e lo protegge dal calore che in pochi istanti, scioglie il ghiaccio sotto i loro piedi. La pedana esplode, gli spuntoni rimasti si trasmutano in purissima acqua bollente e crollano uno dopo l’altro con schianti disastrosi.
John urla, sente il terreno mancargli sotto i piedi… ma improvvisamente, le braccia di Sherlock gli stringono la vita e strattonano verso l’alto. Le ali sbattono per combattere il vento furioso che li aggredisce ancora e ancora nel feroce quanto inutile tentativo di spazzarli via.
-Molly!-
John tende una mano verso la colonna di fuoco che s’allarga sul pelo dell’acqua, dilatando le appendici violette, scudisciando di lingue sottili come fruste. Il calore inonda l’aria, sciogliendo a mezz’aria la neve che imperterrita continua a cadere dall’alto.
-MOLLY!!! Sherlock, dobbiamo…-
Ma stavolta, Sherlock non reagisce al volere di John. Al contrario, si avvita a mezz’aria, preme il capo di John contro il suo petto e, dando le spalle alla nuova ondata di calore bollente, lo protegge da eventuali ustioni.
Quando tutto finisce, l’aria odora ancora di bruciato. I fiocchi di neve continuano a evaporare e sottilissima cenere violetta galleggia placida a mezz’aria. Della gigantesca pedana non vi è più traccia, a parte un minuscolo rimasuglio circolare del diametro di circa un metro. Piccolo, sottile, fragile… ma abbastanza forte da sorreggere due corpi ormai adulti.
-Ma che…-
Molly tossisce stordita, inspira quasi grata l’odore di violette selvatiche che le solletica le narici. Non sa cosa è successo, ma tutto ciò che ricorda è l’informe esplosione di fuoco che l’ha travolta, spazzandola via con facilità disarmante.
Sono morta?
 Se è così, allora morire è davvero una bella sensazione. Avverte il calore di una stretta gentile intorno al corpo, e la sua trachea adesso è libera di respirare senza sforzo. Bizzarro, innaturale. I morti dopotutto, non respirano.
Qualcosa le accarezza le labbra con delicatezza. Un sospiro rilassato, l’accentuarsi della stretta intorno al suo corpo.
-Sta bene.- asserisce una voce musicale, vibrante come cristallo, che Molly non riconosce. È un timbro singolare, che rende quasi cantata ogni parola.
Lentamente, Molly apre gli occhi. Sbatte le palpebre alla luce cocente dell’aurora sulle loro teste, inspira nuovamente quel profumo fresco di pulito e fiori. Quell’odore… lei lo conosce. Sì, ne è certa. Ma a chi appartiene?
-Molly?- chiama la voce, e Molly rabbrividisce perché il suo nome non è mai apparso così musicale, così giusto sulle labbra di qualcuno. Quando poi mette a fuoco il proprietario di quel più che curioso timbro argentino, il fiato le si blocca in gola.
L’uomo che ha davanti dimostra all’incirca trent’anni ed è… bizzarro. Bizzarro e bellissimo.
Ha i capelli mossi e lunghi fino alle spalle di un viola così scuro da apparire quasi nero, talmente brillante da spiccare sulla pelle lattea che ricopre un viso dai tratti morbidi, gentili, quasi angelici. Incisa all’altezza della fronte e seminascosta dalla lunga frangetta scompigliata, vi è un arabesco viola scuro che pare circondargli il capo di un elegante quanto curioso fregio tatuato. Molly non riconosce quel simbolo intrecciato di linee sinuose ed eleganti, ma ne rimane subito affascinata. In effetti, quel colore così scuro, così intenso, contrasta perfettamente con gli occhi serpentini, di un violetto chiarissimo, che quasi sfiora il bianco. Sulla sommità del capo spicca un palco di corna ricurve, da stambecco forse, che pare collegarsi direttamente col fregio inciso sulla fronte. Ai lati del collo, sbocciano le caratteristiche squame, violette come gli occhi, che scendono lungo le spalle larghe, scurendosi pian piano, fino a sfiorare il nero lungo i fianchi e i dorsi delle mani artigliate, fino alle zampe muscolose di drago che…
-Sei nudo!-
Molly arrossisce furiosamente e si copre gli occhi, imbarazzata. Per tutta risposta, lo straniero scoppia a ridere e scuote il capo, facendo ondeggiare i disordinati capelli violetti.
-Sì, stai bene.-
-Sì, grazie, io … oh, no!- Molly scatta in piedi, liberandosi energicamente dalla stretta dello sconosciuto. Si guarda intorno terrorizzata, gli occhi lucidi, il volto cinereo. Barcolla, ma si impedisce stoicamente di crollare. Raggiunge il bordo della pedana, fissa l’acqua sottostante alla disperata ricerca di qualcosa.
-Noah!- grida, guardandosi intorno. –Noah!-
-Molly…- chiama lo straniero, ma Molly non lo ascolta. Al contrario, solleva il capo e guarda in alto, dove Sherlock e John galleggiano ancora avvinghiati a mezz’aria, tenendola d’occhio.
-Sherlock! Dobbiamo cercare Noah!-
-Molly…-
-Sherlock! Vi prego, facciamo qualcosa! Devo trovarlo, io…-
-Molly!-
Ma Molly continua a ignorare lo straniero. Ancora nel panico, si sfila il giubbotto e flette le ginocchia, pronta a saltare in acqua. Spicca un balzo, tende le braccia verso l’oceano e trattiene il respiro… ma l’impatto non arriva.
Un’immensa ala violetta, intrisa di candide venature e riflessi madreperlacei s’infila tra lei e l’oceano, adagiandola su un mare di seta profumata.
-Cosa…-
-Molly Hooper, mi vuoi ascoltare?- sbotta allora lo straniero, ritraendo l’ala gigantesca, poco più piccola di quella di Sherlock.
Molly lo guarda, specchiandosi in quegli occhi chiarissimi, ipnotici, che si distinguono dalla cornea soltanto grazie al bordo appena più scuro dell’iride.
-Non posso. Lei non capisce! Il mio amico…-
Ma stavolta tocca all’uomo ignorarla: la accosta a sé, cercando di non ridere all’imbarazzo di Molly, ancora a disagio per la sua nudità, e dolcemente le sfiora una guancia con l’indice artigliato.
-Guardami, Molly. Guardami bene: davvero non mi conosci?-
Molly allora assottiglia lo sguardo, inclina il capo. Osserva meglio quei tratti angelici, morbidi, diametralmente opposti a quelli spigolosi di Sherlock. Se paragonati, quell’uomo e la Furia Buia potrebbero apparire come angelo e demone, entrambi bellissimi, entrambi pericolosamente vicini a divorarti l’animo e il cuore.
Poi improvvisamente, qualcosa scatta nel cervello di Molly. Non sa cosa la spinge a pronunciare quel nome, non sa cosa insinua una parvenza di dubbio nel suo cuore, né tantomeno vuole credere che ciò che sta per dire rasenti la realtà. Eppure…
-Noah?-
L’uomo sorride, ed è allora che Molly lo riconosce davvero.
-Ciao, Molly Hooper.-
 
Angolo dell’autrice:
Zan zan zaaan!!! *musichetta tragica* Ok, brutta storia. Brutta, brutta, brutta. Ammetto che Noah sarà l’ennesimo potenziale problema che mi toccherà gestire, ma spiegherò la situazione a (schiva pomodoro marcio) tempo (schiva cocomero) debito (schiva lavatrice)! Ehm… sì, torniamo a noi. Sherlock, difendi la casa dall’assedio dei lettori inferociti! E ancora devono leggere il continuo… (borbotta)
Dunque, tornando seri:  ringrazio profondamente e come al solito i miei draghetti recensori che ancora una volta incoraggiano il continuo di questa storia!
Fatelfay
Sonia_0911
Tony Stark
Wibbly.
Grazie di cuore a ognuno di voi e a prestissimo!

Tomi Dark Angel

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Capitolo 5
*** Ultimo Respiro ***


Una volta, quando era piccola, Molly Hooper lesse su un libro che, scientificamente parlando, la vita scorre seguendo ritmi costanti, moderati, quasi invisibili ai sensi dei soggetti stessi. Essi non si accorgono di crescere, di mutare, poiché il corpo esegue un processo lento e calcolato, lineare, definito. È sempre stato così per chiunque, nel corso dei secoli, e Molly ha avuto modo di sperimentarlo sulla sua stessa pelle: si è accorta di essere mutata fisicamente solo quando, a vent’anni, ha avuto modo di guardarsi attentamente allo specchio dopo una doccia tiepida. I fianchi non erano più quelli di una bambina, le gambe erano più lunghe, le forme più morbide. Stava diventando una donna, e neanche se ne era accorta in precedenza.
Non è stato bello cambiare in quella maniera, ma è una cosa naturale che prima o poi accade a tutti. O almeno… così la pensava Molly fino a qualche minuto fa.
-Molly?-
Noah inclina lentamente il capo, facendo scivolare sulla fronte la scompigliata frangetta scura. La fissa con cautela, cerca di studiare ogni sua mossa, ogni suo più piccolo movimento. Si aspetta che svenga? Forse, e forse è possibile, perché in effetti, Molly non si sente molto bene. Quello non è lo stesso bambino che ha stretto tra le braccia poche ore prima, non è lo stesso che ha combattuto impavido l’ultima grande guerra contro Moriarty, non è lo stesso che per giorni l’ha guardata e baciata innocentemente sulle guance. Non può essere. Semplicemente, non è logico, non è naturale. Noah non ha trent’anni… ne ha otto.
O forse no?
-Noah?!-
Sherlock e John calano lentamente di quota. Le ali della Furia Buia si tendono, catturano il vento per equilibrarsi e sostenere a mezz’aria due corpi ancora intrecciati, ancora scossi dall’esplosione di fiamme che li ha investiti: gli abiti di Sherlock fumano, i capelli di John sono scompigliati più del solito. Di certo, una cosa del genere non gli capita tutti i giorni.
Dolcemente, senza sbattere le ali, Sherlock cala ancora per poter adagiare John sulla stretta pedana di ghiaccio. Lascia che l’umano scivoli sul solido terreno, con una gentile quanto fugace carezza libera il braccio dalla stretta intorno al suo fianco. Non atterra a sua volta, ma anzi, comincia a guardarsi intorno, scandagliando l’ambiente coi lucenti occhi di vetro cristallino. Non appare impressionato dalla nuova forma che ha assunto Noah, non si stupisce dell’uomo che adesso lo fissa coi gravi occhi violetti.
-Noah…-
John tende una mano, accarezza con cautela la pelle liscia del drago. Fa scivolare le dita lungo la mandibola ancora accennata di morbidezza, sul collo dai tendini nervosi, laddove un tempo sbucava una seconda testa gemella.
-Cosa… che fine ha fatto l’altra testa?- domanda, fissandolo negli occhi adesso divertiti.
-Quando cresciamo, la seconda testa diventa retrattile. È un po’ come… non so, forse come le ali. Alcuni draghi, come Mycroft, riescono a ripiegarle all’interno del corpo. Io, al contrario, posso ritrarre una delle due teste. Non è molto comodo, in effetti.-
Molly tossicchia, una mano premuta sulla bocca e gli occhi che insistenti cercano di restare immobili sul viso di Noah anziché scivolare lentamente lungo il suo corpo nervoso e ormai gloriosamente nudo.
-Quindi è questo che ti è successo? Sei… semplicemente cresciuto? Ma non è possibile! Tu hai appena otto anni!-
Noah la fissa in silenzio, e il suo sguardo è talmente indecifrabile che Molly distoglie gli occhi dopo appena una manciata di secondi.
-Quanti anni ha Sherlock, Molly? Quanti ne dimostra, esattamente?- chiede allora con durezza non sua, ben lontana dall’atteggiamento sempre dolce e allegro del vecchio Noah. È come se improvvisamente qualcosa si fosse sviluppato nel suo cervello di bambino, modificandolo e rimodellandolo in fattezze adulte, rinate in anzianità ed esperienze vissute.
-Molly. Rispondimi.-
Istintivamente, Molly ubbidisce. Guarda Sherlock, ancora impegnato a scandagliare l’acqua con lo sguardo. Non fa caso a lei, ma Molly è certa che sappia di essere osservato attentamente.
Quanti anni dimostra Sherlock?
-Io credo… trentacinque, quaranta… non lo so.- risponde timidamente. Stringe le mani in grembo e abbassa lo sguardo, incapace di guardare Noah ancora una volta.
Poi capisce.
-Oddio.- esala John al suo posto. Fissa Noah con occhi sbarrati, la mascella contratta, le mani strette in pugni nervosi. –Noah… quanti anni hai veramente?-
Noah sorride di un sorriso paziente, gentile, quasi paterno. A guardarlo, nessuno direbbe che quell’individuo è cresciuto improvvisamente da un istante all’altro, accantonando in pochi minuti il suo aspetto di bambino.
-Otto.-
-Noah…-
-Otto… ai vostri occhi. Ma io sono nato poco dopo l’inizio della grande guerra. Ho più di cento anni.-
Cento anni. Cento.
Improvvisamente, si spiegano tante piccole cose: lo sguardo anziano che Noah ha sempre esposto sin da bambino, i suoi discorsi ben più profondi di quelli che farebbe cucciolo. Ora, ogni cosa ha un senso logico.
-Tu… voi crescete così? Insomma, non attraversate un periodo di adolescenza, o cose simili?- chiede John, con voce roca.
-Non tutti. È la mia razza che sviluppa in questo modo. Ho diversi organi doppi, tra cui due cuori. Essi battono in maniera discorde da sempre per pompare sangue in maniera regolare, ma l’unico istante in cui si armonizzano avviene esattamente durante l’ultima fase di crescita. È doloroso, ma il mio corpo sviluppa molto più lentamente degli altri, poiché posseggo ossa e organi doppi. Alla fine, il fuoco da cui sono nato mi riforgia in un aspetto diverso, ma ben più resistente. Le ossa si spiegano, la pelle si tende e le ali s’ingrandiscono per sostenere funzionalmente un corpo ben più pesante di quello di un bambino. Cresco fisicamente di vent’anni in un istante, ma non è una bella cosa… brucia da morire.-
Noah si strofina una mano artigliata sul braccio nudo, a disagio. Ripensa al dolore provato durante la crescita, alle ossa che bruciavano, alla pelle vecchia che si consumava per fare spazio alla nuova, più ampia e più liscia.
-Noah?- chiama allora Molly con timidezza. Lo guarda di sottecchi, a disagio, come se avesse a che fare con un estraneo: adesso è pienamente consapevole di aver trattato da poppante un adulto in un corpo di bambino. Non ha mai chiesto nulla a Noah: non la sua età, non della sua infanzia. Niente. In effetti, a ben pensarci, lei non l’ha mai conosciuto davvero, e questo la fa vergognare perché al contrario, Noah conosce tutto di lei. In due anni di puerile curiosità e domande irriverenti, era riuscito a sapere ogni cosa del suo passato, della sua famiglia, della sua infanzia. Si è sempre interessato, l’ha sempre ascolta. Sempre.
-Stai bene, Molly? Non ti ho fatto male, vero?- domanda lui, spingendola a scuotere violentemente il capo. Apre la bocca per rispondere, per non apparire una stupida impacciata così come è sempre stato, ma all’improvviso un corpo cade dall’alto e s’abbatte gemendo sul bordo della pedana, quasi rischiando di cadere in acqua una seconda volta.
-Ahi…- sbotta il cacciatore prima di alzarsi a sedere sotto gli sguardi attenti di Noah, John e Molly. Alle sue spalle, Sherlock cala di quota e John si chiede quando accidenti si è spostato per estrarre l’umano dall’acqua e praticamente lanciarlo lì al loro fianco. Se non avesse visto Sherlock trasformarsi pochi istanti prima in una bestia assassina, probabilmente John prenderebbe quel gesto per una movenza quasi caritatevole: impedire che il cacciatore sopravvissuto si congeli nel gelido mare tinto di colori appare normalmente come un atto di pietà, ma non se si parla di Sherlock Holmes.
-Chi è stato a congelare quell’agglomerato di case?- chiede infatti con una freddezza senza tempo, glaciale, capace di congelare John più della neve che continua a cadere dal cielo.
Poi però, il significato di quelle parole lo coglie all’improvviso, inquietandolo molto più della voce minacciosa di Sherlock: agglomerato di case? Quell’ammasso di ghiaccio, eternamente cristallizzato in una colossale esplosione… racchiude delle abitazioni? Case vere di veri umani? John non vuole pensare cosa sia rimasto degli effettivi abitanti del posto. Brandelli? Statue? Non lo sa, ma di certo non deve essere stato piacevole.
-Come… - Il cacciatore tossisce, sputando un grumo d’acqua e sangue. -… come hai fatto a capirlo?-
Sherlock sbuffa dal naso, emettendo dalle narici una sottile nuvoletta d’argento che s’inerpica danzando lungo il suo viso, offuscando per brevi istanti gli occhi gelidi, machiavellici.
-Sto aspettando una risposta.-
Con lentezza, appoggia una zampa artigliata sul bordo più estremo della pedana, inclinandola appena verso l’oceano. Resta in volo, sbatte appena le ali, ma John capisce che non esiterebbe a richiuderle di scatto per rovesciare la pedana e prendere i suoi amici al volo, lasciando tuttavia affogare il cacciatore.
Questo lato di Sherlock lo inquieterebbe profondamente, se John non avesse conosciuto più che bene il suo smisurato senso di umanità. Ai suoi occhi, Sherlock è un eroe umano, ma con istinti di bestia: se provocato, egli reagisce così come reagirebbe un drago qualunque. È nella sua natura, e John lo capisce perché infondo, quando era un soldato, ha ammazzato a sua volta anche più persone di Sherlock stesso.
Il cacciatore fissa Sherlock con odio, trattenendosi dal digrignare i denti per la frustrazione.
-Noi.- risponde seccamente. –Qui ci vivevamo noi. Io e i miei compagni di caccia. Questo era il nostro quartier generale, il luogo dove tenevamo i draghi prima di portarli da lui.-
Sherlock aggrotta le sopracciglia, assimilando i dati necessari. Non ci sono evidenti tracce di altri cadaveri di draghi, il che segnala che probabilmente, chi ha attaccato non mirava a loro. Ha voluto liberare i prigionieri, punendo fatalmente i loro carcerieri. Probabilmente, quell’uomo e i suoi compagni sopravvissuti, se la sono cavata perché durante l’attacco erano fuori a caccia. Un colpo di fortuna? Sicuramente. Nonostante l’atteggiamento egoista dell’uomo che ha davanti, Sherlock è certo che se si fosse trovato sul posto, consapevole dell’attacco, avrebbe avvisato metà dei suoi compari per spingerli alla fuga semplicemente perché da solo non sarebbe sopravvissuto alla fame dovuta all’assenza di lavoro. In solitudine infatti, la sua carriera di cacciatore sarebbe finita.
-Lui chi?- sbotta John, risvegliandolo dai suoi pensieri. Lui chi? Già, il cacciatore ha nominato un lui.
-State scherzando, vero?- Il cacciatore li fissa uno ad uno, alla ricerca di una risposta. No, è evidente che nessuno di loro scherza. –Non sapete di chi sto parlando? Siete draghi e cavalieri… dovreste conoscerlo e temerlo già da tempo.-
Un’ombra di consapevolezza gli trapassa gli occhi azzurro intenso, profondi come l’oceano. –Da dove venite, esattamente?-
Molly è tentata di rispondere, ma Sherlock pigia appena la zampa sulla pedana, inclinandola ancora.
John rischia di scivolare, ma Noah abbraccia lui e Molly con la coda squamata, trattenendoli per la vita.
-Il nome.- ringhia Sherlock mentre il cacciatore scivola sul bordo della pedana fin quasi a cadere in acqua. –Il nome, ho detto.-
-Augustus Magnussen!!!-
 
Crack. Qualcosa scatta all’interno del Mind Palace. Una massa di ricordi s’agita nei corridoi, distende i morbidi drappeggi di memorie per sfiorargli i gomiti, gli avambracci, fino alle mani. Una porta lontana, sigillata, vibra di potenza al suono di quel nome.
-Sherlock.- Il ragazzo alle sue spalle compare di nuovo, immobile e non visto. Ancora una volta, Sherlock non si volta perché non vuole, perché non riesce a guardarlo in viso. Eppure, per la prima volta, la presenza invasiva di quel personaggio fuggito dalla sua stanza e a lui ben noto, quasi lo rassicura. C’è qualcosa che non va. Non  è normale che il Mind Palace vibri così. Qualcosa preme per uscire dalla sua porta, e non è un bene. I ricordi possono essere pericolosi, specialmente se riguardano un soggetto altrettanto pericoloso.
Sherlock chiude gli occhi, sforza la mente per sigillare a tripla mandata la porta che già si schiude, emettendo bassi sussurri di ricordi lontani, imbizzarriti come stallone fuori controllo. Li sente premere contro il legno della porta, vogliosi di invadere il Mind Palace e il cranio di chi l’ha costruito. Ma i ricordi non dovrebbero uscire dalle loro stanze, o sarebbe il caos…
-Sono qui.-
Invasione. Qualcosa va storto.
 
-Sherlock?-
John fissa il drago sbarrare gli occhi, improvvisamente vitrei. Nota ancora una volta la postura rigida, la pupilla sottile che poco a poco pare restringersi ancora di più fino a diventare un’unica linea dallo spessore quasi invisibile.
Sherlock trema, stringe i pugni fino a conficcarsi gli artigli nei palmi. Sangue argentato cola dalle mani serrate, piovendo leggero nel mare colorato di riflessi e affogando in silenzio come vittima senza voce.
-Sherlock!-
John tende una mano, cerca di raggiungerlo quando lo vede piegarsi in due in un gesto aggraziato, quasi elegante… ma intriso di mefitico incubo. Si afferra la testa tra le mani, sporca di sangue le tempie e conficca gli artigli nella carne con tanta violenza che per un attimo, John teme che Sherlock stia cercando di bucarsi il cranio a unghiate.
-Sherlock!!!- John grida, si dimena, ma la coda di Noah lo trattiene senza sforzo. Il drago sa che, se lo lasciasse andare, John si lancerebbe a testa bassa nel mare ghiacciato pur di raggiungere Sherlock. Non può permetterlo, o John morirebbe assiderato.
 
-Lascia che ti aiuti, Sherlock. Sono qui, fidati di me…-
-Esci dalla mia testa!-
 
-Esci dalla mia testa!-
Sherlock grida, ed è un urlo così forte, così lacerante, che per un attimo i presenti trattengono il fiato e il tempo pare fermarsi. Il mare s’immobilizza come preda spaurita, l’aurora boreale freme di pietà, la neve comincia a cadere più fitta. John non ha mai visto Sherlock così sofferente, così spiazzato. Se non lo conoscesse, penserebbe che in questo momento Sherlock abbia paura, una paura folle, di quelle che ti fanno agire irrazionalmente nel momento sbagliato.
Noah lo fissa dal basso, gli occhi sbarrati che scandagliano le reazioni dell’altro. Vede i suoi muscoli contrarsi, le ali vibrare di un dolore quasi fisico, quando Noah sa bene che in realtà la guerra vera si tiene adesso nella testa di Sherlock: deve essere successo qualcosa di brutto, molto brutto al Mind Palace.
Tutto finisce così come era iniziato. Il corpo di Sherlock s’inarca, il capo si rovescia all’indietro e subito un fiotto di sangue gli bagna le labbra e il naso. Qualcosa si spezza nella sua testa, qualcosa scombussola totalmente il suo mondo interiore. Sherlock smette di sbattere le ali e crolla svenuto, sporco di sangue, col viso cinereo di chi ha visto e toccato la morte ripetutamente senza tuttavia farsi abbracciare del tutto.
Morto? No. Ma sicuramente, la morte sarebbe stata un’opzione migliore.
 
Sussurri. Lontani, attutiti, come echi di remoti e ormai perduti passati. Qualcuno cammina da qualche parte, una voce maschile mormora al suo fianco, qualcosa lo tocca all’altezza del viso per svegliarlo.
Ma lui non può svegliarsi. Forse è morto, forse non è mai nato. In effetti, non ricorda nemmeno come si chiama.
-Sherlock, svegliati!-
Sherlock? Chi è Sherlock? Che parola ridicola. Parola… forse è un nome. Il suo? Questo il drago non lo sa.
Lentamente, con più coraggio di quanto ne possegga realmente, la creatura solleva le palpebre e si guarda intorno.
Oh.
Di certo, il paradiso non se lo sarebbe mai aspettato così. Sicuramente non è all’inferno perché non sente nemmeno dolore. Non sente assolutamente niente, se non la freddezza del nero quanto invisibile pavimento che lo accoglie. Intorno a lui, galleggianti nel vuoto oscuro a mezz’aria, vi sono degli specchi. Alti e sottili, contornati da dorate cornici mosse da arabeschi sinuosi. In cima a ognuno, vi sono delle parole: Paura, coraggio, forza, amicizia, dolore, rabbia…
Emozioni.
Ogni specchio è nominato da una diversa emozione. E lui è lì, al centro, attorniato da sentimenti che non ricorda di aver mai provato o vissuto. In effetti, lui non ricorda assolutamente niente. Non sa nemmeno come ci è arrivato lì.
-Dove sono?- mormora la creatura, alzandosi lentamente in piedi. Scopre di essere nudo, coperto di pelle e squame, come bizzarro incrocio d’uomo e bestia. Sono davvero suoi, quegli arti così mal assortiti?
Sbatte le palpebre, ma vede sfuocato. L’occhio sinistro è praticamente cieco, perciò la creatura si tocca la palpebra con dita tremanti di inquietudine. Anche l’altro occhio non sembra in ottime condizioni. Che gli è successo? È nato così? No, forse no: non si comporta come qualcuno abituato a non vedere.
-Scegli bene.- sibila una voce atona e senza tempo, che inizialmente fa sobbalzare la creatura. Si guarda intorno, scava nell’oscurità con occhi tremanti di sforzo, ma non vede niente.
-Chi parla?-
-Scegli bene.-
La creatura indietreggia di un passo, poi torna a guardarsi intorno. Specchi. Ne sono tantissimi, forse troppi. Che significa “scegli bene”? Cosa dovrebbe farci con uno specchio?
-Scegli bene.-
Lentamente, gli occhi della creatura scivolano sulla superficie riflettente più vicina. Legge la parola incisa a lettere argentate sulla sommità dell’arco, e poco a poco capisce: scegli uno specchio. Scegli un’emozione.
Come è più logico che sia, la creatura avanza verso lo specchio più lontano, quello con su scritto la parola “Felicità”. Chi non vorrebbe essere felice, dopotutto?
Stende una mano verso la superficie, cerca di toccarla, ma una voce alle sue spalle lo blocca.
-Non da quella parte.-
Una creatura magrissima e ammantata di nero lo fissa in silenzio, il volto nascosto dal cappuccio e le mani scheletriche, prive di pelle, muscoli e nervi, stese lungo i fianchi. Il drago sbatte le palpebre per mettere a fuoco il nuovo arrivato, convinto che le pallide ossa di quelle mani siano nient’altro che mera illusione. Tuttavia, per quanto si sforzi, le ossa sono ancora lì, così come il loro proprietario.
-Cos è questo posto?- domanda allora il drago, accennando agli specchi per rimarcare il suo sconcerto.
Lentamente, l’incappucciato intreccia le mani in grembo e siede con calma sul nero che sembra sostenerlo a mezz’aria come una sedia invisibile.
-Cosa pensi che sia, figlio mio?-
-Non sono tuo figlio.-
Da sotto il cappuccio, la creatura sembra sorridere di un sorriso raccapricciante che il drago non è ansioso di vedere.
-Oh, sì che lo sei. Lo siete tutti e, nonostante mia sorella agisca diversamente, tra voi io non faccio differenze: innanzi alla Morte siete e sarete sempre tutti uguali.-
Il drago inclina la testa, fissa quasi incantato l’elegante figura incappucciata che quieta continua a fissarlo da sotto il cappuccio.
-Sei la Morte?- domanda, pur conoscendo già la risposta.
-Perché domandi se già sai, figlio mio?- risponde infatti quella. Il drago sente di doverla temere. Sente di dover indietreggiare e quantomeno impedire che lo tocchi. Un semplice sfiorarsi potrebbe ammazzarlo, questo lo capisce dall’oscura aura di potere che emana dalle vesti di seta nera. Già. Dovrebbe avere paura.
Paura.
Ma lui non sente niente, a parte l’inquietante senso di confusione e scombussolamento che gli stringe i nervi in una morsa d’acciaio.
-Non mi hai ancora spiegato che posto è questo.-
La Morte inclina il capo al punto da piegarlo a novanta gradi rispetto al collo. Se fosse umana, probabilmente avrebbe mandato in frantumi le ossa cervicali.
-Non lo riconosci, figlio mio? Non riconosci ciò che rimane del tuo Mind Palace?-
Il drago si guarda intorno spaesato. Mind Palace. Che cos è?
-Non riconosco questo posto.-
Ancora una volta, la Morte pare sorridere da sotto al cappuccio.
-Non è innaturale che qualcosa non vada in te, adesso. Dopotutto, è appena crollata la tua intera struttura nervosa. Non hai saputo controllarla, non hai saputo sostenere il panico di un’invasione indesiderata nella tua testa. Il Mind Palace è un’arma potente e profondamente strutturata, ma non è facile mantenerne il dominio. Basta una distrazione, un istante di panico, e tutto cadrà.-
Il drago si guarda intorno, inquieto. -È successo questo? Sto per morire?-
La Morte non risponde ma anzi, continua a fissarlo in silenzio, come per spingerlo a trarre le sue logiche conclusioni.
-Scegli bene.-
Voltandosi verso gli specchi, il drago rabbrividisce.
Scegli bene. Scegli bene. Come si sceglie un’emozione? È chiaro che chiunque voglia essere felice, conoscere la serenità e la calma. Perché allora la Morte gli ha impedito di varcare la soglia dello specchio che ha davanti? Perché il drago ha la sensazione che l’incappucciata alle sue spalle l’abbia appena… aiutato?
Ma soprattutto: perché ha la sensazione che dalla sua scelta dipenderà la sua stessa sopravvivenza?
 
-Non esiste! Un drago non soffre di collassi nervosi!-
John urla, stringe forte i pugni lungo i fianchi, si guarda intorno alla disperata ricerca di un appoggio, di qualcuno che abbia pietà di lui e del fato del suo compagno.
Sono tutti riuniti lì, come ai vecchi tempi. Irene, Mycroft, Molly, Greg, Mike, Anthea, Noah, Edarion… ci sono tutti. Ma c’è qualcosa di diverso, stavolta: una presenza oscura aleggia tra loro, negli occhi di ognuno, nel corpo di chi già avverte la presenza dell’oscurità permeare i muri della casa.
Mycroft appare posato come al solito, ma John non può impedirsi di notare la sua mano artigliata, stretta convulsamente sul manico già fragile dell’ombrello. I suoi occhi racchiudono l’acciaio più resistente, implacabile e freddo come diamante, ma alle spalle della barriera da essi eretta, qualcosa spinge per uscire: emozioni? Forse. Conoscendo Mycroft, John non saprebbe rispondere con sicurezza.
-John.- chiama allora Edarion, e la sua voce appare barbaramente incrinata, prossima alla rottura, come fragile specchio già coperto di crepe. Ha la morte negli occhi, antica memoria di padre che con le sue stesse mani tentò in passato di ammazzare quello stesso figlio ora moribondo, ora sull’orlo del baratro. –Non possiamo più aiutarlo.-
Una condanna. Poche parole di gelido giudizio, fredde d’un implacabilità che incrina la psiche di John, spingendolo d’un passo più vicino alla follia. Si volta lentamente verso Sherlock, mentre ricordi di un passato doloroso gli affollano la mente.
Lo rivede mentre lo stringe burberamente a sé con l’ala per proteggerlo dalla pioggia e dalla neve.
Lo rivede mentre lo solleva come un burattino, rovesciandolo a mezz’aria, divertito dalle proteste che quel gesto faceva scaturire.
Lo rivede. Rivede Sherlock e la vita che adesso la morte gli sta negando.
Irene chiude gli occhi e volta il capo dall’altra parte mentre Molly scoppia in lacrime e abbraccia Noah, i cui occhi sbarrati sembrano ancora non realizzare appieno le parole di Edarion.
Sherlock. Il suo protettore, suo padre… non tornerà più. L’ha cresciuto, e l’ha visto sviluppare la sua nuova forma un istante prima di collassare. Noah non gli ha mai chiesto cosa pensasse del suo nuovo aspetto. È stato il suo mentore, il suo angelo guardiano. E adesso, quelle stesse ali che tanto spesso lo proteggevano, sono immobili, spezzate, troppo pesanti per levarsi ancora una volta.
Sherlock Holmes non avrebbe volato di nuovo.
-No…-
John indietreggia, raggiunge il letto dove Sherlock giace pallido e abbandonato come marionetta senza più fili a sostenerla. John si china, gli afferra il viso tra le mani, appoggia la fronte sulla sua. Prega Dio d’aver pietà, prega il mondo intero di non lasciare andare quel bellissimo angelo.
Sherlock ha combattuto per la pace, ha piegato il capo innanzi alla pietà anziché alla violenza. È un giusto, uno dei grandi che tanto spesso il suo popolo ha saputo idolatrare. Non si è spezzato davanti a niente: non dinanzi a una guerra, non dinanzi alla potenza devastante di Jim Moriarty, suo acerrimo nemico. Alla fine, il virus è sempre stato nella sua testa, e John non l’ha mai capito.
-Mi dispiace…- singhiozza amaramente, stringendolo tra le braccia. Lo sente freddo, abbandonato, così diverso dall’inarrestabile, maestosa creatura con la quale ha convissuto per tanto tempo. Stringe gli occhi brucianti di lacrime, gli bacia i capelli più e più volte. –Avrei dovuto proteggerti… scusami, Sherlock… perdonami, se puoi.-
-John…-
Un sospiro, un pallido richiamo troppo flebile, troppo diverso dalla voce possente alla quale John è abituato. Quel richiamo non appartiene a Sherlock, eppure sono state le sue labbra esangui a chiamare John Watson.
John si allontana da lui per guardarlo in viso, ma quando s’accorge che qualcosa è cambiato in Sherlock, il cuore gli sprofonda in basso, giù verso gli abissi più reconditi dell’inferno stesso: l’occhio sinistro. Il bellissimo occhio sinistro di Sherlock è… vacuo, slavato, come pallida imitazione della preziosa punta di diamante che mai più tornerà come prima.
D’improvviso, i ricordi delle ultime settimane aggrediscono John, ricordandogli di come Sherlock voltasse spesso la testa a sinistra per guardarsi intorno, o di come pareva non percepire più il senso della profondità. Ricorda la sua ultima caduta, quando Sherlock tardò a raggiungerlo. John aveva pensato a uno scherzo, o a una delle piccole rivincite che Sherlock era solito prendersi su di lui, ma la realtà adesso gli appare lampante come un faro dinanzi a quell’unico occhio irrimediabilmente cieco. In quel frangente, Sherlock non era semplicemente riuscito a raggiungerlo perché non percepiva chiaramente la distanza che li separava.
-Va… vai a no… rd.- mormora Sherlock, i cui occhi adesso paiono ciechi entrambi, perché entrambi fissi su un orizzonte lontano che John non riesce a vedere. –Tro… va… il mi… mio rifl… esso.-
John singhiozza più forte, stringe i pugni sulle squame di Sherlock fino a incidersi profondamente la carne, che adesso sanguina meno del suo cuore spezzato.
Per un attimo, gli occhi di Sherlock si schiariscono, fissandosi sul suo volto come se l’ultima cosa veramente importante, l’ultima cosa che volesse concedersi di guardare, fosse il viso di John. Arriccia un angolo delle labbra in quel suo sorriso familiare, arrogante, che per poco riconduce John alla splendida creatura che ha conosciuto e amato sin dal loro primo incontro.
Poi, improvvisamente, Sherlock spinge lo sguardo oltre la sua spalla, verso la luce dell’alba che poco a poco comincia a filtrare. I caldi fasci solari si riflettono nei suoi occhi, scaldando gentili quelle iridi che poco a poco si fanno più fredde, più lontane, spinte alla deriva da una forza che nemmeno il grande Sherlock Holmes può arrestare.
-Madre…?-
Con questa ultima parola, Sherlock si accascia, gli occhi ancora semiaperti fissi sull’orizzonte lontano, ormai per lui irraggiungibile. Il corpo si rilassa, la testa s’abbandona pesante contro la mano di John che la sostiene strenuamente.
Un urlo lancinante squarcia il silenzio dell’alba nascente, respingendo di dolore quella luce calda che non s’estende al gelo perpetuo ormai aggrappatosi all’anima lacerata di John Watson.
E intanto, da qualche parte, la Morte sorride.
-Scegli bene.-
 
Angolo dell’autrice:
Che finale del cacchio. No, sul serio. Io stessa avrei preso a testate la tastiera quando l’ho scritto. Ma, ehi! Le esigenze di copione si rispettano, no?
Sherlock: VATICAN CAMEOS!!!
Che cazz… SHERLOCK!!! Smettila di lanciare cose dalla finestra! Hai appena colpito la vicina e… è il pc di mia madre quello che hai lanciato di sotto?
Sher: mi sembra ovvio che NO, IL VIOLINO NO!!!
Ora, visto che sto affogando negli impegni fino al collo, mi vedo costretta a passare subito ai ringraziamenti!
Wibbly: sì, Noah è cresciuto bene. E adesso crescerà anche meglio, anche se a modo suo. È arrivato il momento di studiare un po’ meglio questo personaggio, credo. Ahahahahah, David-Noah XD No, Noah è parecchio più muscoloso di David, o in uno scontro tra draghi basterebbe uno sputo per atterrarlo. Esigenze di copione! Dai, resuscita! Spero che questo capitolo ti sia piaciuto! A presto!
Sonia_0911: sono felice che questo capitolo ti sia piaciuto! Spero di aver risposto a qualche tua domanda con questo capitolo, ma sono certa di averne anche create più di prima. A volte io stessa ho problemi a seguire il filo della storia, quindi chiedi a Sherlock cosa sta combinando perché io non lo so. Sono d’accordo con te: se Molly resiste a Noah, allora vi munisco personalmente di manganelli giusto per farla rinsavire. Un bel pestaggio non ha mai fatto male a nessuno. A presto, e grazie per il commento!

Tomi Dark Angel

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Capitolo 6
*** I'm Not Sherlock ***


Quando tutto va male e il mondo pare capovolgersi, rivoltarsi a fondo come putrido guanto di fragile tela già pronta a strapparsi, non c’è molto da fare. Ci accartocciamo su noi stessi, lasciamo che il nostro mondo vada in rovina semplicemente perché ormai troppo deboli per sostenerne il peso. Ci sono momenti in cui gridiamo “basta”, momenti in cui cadiamo in ginocchio e pensiamo di restare zoppi in eterno. Per alcuni probabilmente, sarà così per davvero. Per altri invece no.
Noah è nato tra le minacce, nel dolore di una vita che pare non averlo mai accettato. Ha sempre lottato, ha sempre combattuto per restare in piedi e anche adesso, si rifiuta di cedere.
Fallimento.
Non è riuscito a proteggere Sherlock. L’ha guardato morire, ha chinato il capo dinanzi a qualcosa più grande di lui. Gli sembra quasi di avergli voltato le spalle. L’ha tradito quando aveva più bisogno di lui.
Con un ringhio, Noah ruota su se stesso e abbatte la coda. Non è ancora abituato alla sua nuova forza, ormai quadruplicatasi rispetto al giorno prima, ma quando il tavolino di casa sua si polverizza sotto la micidiale massa di scaglie e punte acuminate, quasi sorride soddisfatto. Afferra l’armadio con una sola mano, affondando le dita nel legno, e lo scaglia dall’altra parte della stanza, contro il muro, che all’istante s’infossa sotto il peso dell’impatto.
Vorrebbe gridare Noah, ma non ha voce per farlo.
Vorrebbe piangere, ma non ha più lacrime.
Vorrebbe tornare indietro nel tempo, ma non gli sarà concesso.
“Piantala di fare il moccioso, pulce”. Una voce mormora nella sua testa, ed è così simile a quella di Sherlock che Noah è costretto a sedersi sul letto per non collassare. Si preme le mani sul viso, morde a sangue quelle labbra ancora nuove, ma anche così tremendamente familiari. Sottili scie argentate gli scorrono lungo il mento quando le zanne acuminate penetrano nella carne, fendendola con la facilità di un coltello che affonda nel burro.
“Sei noioso. Non ha senso abbattersi così. Come fate tutti quanti ad essere così… illogicamente emotivi?”.
-Ma è stata proprio l’emotività a distruggerti, vero?-
Noah sorride tristemente, lasciando scivolare le dita sul volto. Appoggia i gomiti sulle ginocchia, intreccia le dita tra loro con ritrovata calma. Ha bisogno di Sherlock. Ha bisogno dei suoi consigli, della sua razionalità, della pace che gli ha sempre trasmesso quella voce profonda come gli abissi della terra e degli oceani.
Inspira a fondo, abbassa lo sguardo sulle sue mani adesso grandi e affusolate, troppo simili a quelle di Sherlock.
-Scusami, Sherlock… scusa.-
Noah torna a coprirsi il viso e s’immobilizza, fermo per ore intere, finché la schiena non comincia a far male e il sangue che cola lungo il mento quasi si secca. Affloscia le ali esausto, distrutto come dopo una battaglia e capisce improvvisamente di non avere più la forza per alzarsi in piedi semplicemente perché ogni fibra del suo corpo è stanca nel profondo, anziana come mai lo è stata prima d’ora.
La porta si apre, qualcuno si ferma sulla soglia. Noah ha ancora il capo chino, gli occhi chiusi, ma impercettibilmente quasi sorride quando intercetta l’odore familiare di girasoli che sin da bambino ha imparato a riconoscere.
-Ti ho sentita.-
Molly Hooper entra timidamente nella stanza, guardandosi intorno con fare intimidito. Occhieggia il tavolo sbriciolato, l’armadio fatto a pezzi, il muro sfondato. Il vecchio Noah non sarebbe stato capace di farlo, ma il ragazzo che ha davanti… lui sì. Le basta osservare gli artigli massicci, i muscoli poderosi, la coda spessa e adesso accasciata stancamente tra le coltri.
-Ti ho cercato dappertutto.- dice, ma Noah sembra non ascoltarla. Solleva lo sguardo, fissandola impassibile mentre i denti tornano a mordicchiare il labbro, riaprendo la ferita. A Molly basta uno sguardo, e il suo istinto da crocerossina si contorce, risvegliandosi.
-Che ti sei fatto?-
Molly allunga una mano, sfiora quasi inconsapevole le labbra carnose di Noah. Lo vede irrigidirsi, fissarla con tanta intensità da costringerla ad abbassare lo sguardo imbarazzata. Chiude gli occhi per non guardare la maglietta attillata che indossa Noah, cerca di distogliere l’attenzione dai muscoli nervosi delle braccia.
Che ti succede? È Noah!
-Posso… potrei medicarti?- domanda timidamente, torcendosi le mani appoggiate in grembo. Inspira lentamente per calmarsi, si sforza di rilassare il corpo, ma più Noah la fissa, più la tensione sale. Vuole aiutarlo, vuole fare qualcosa. Vuole sentirsi utile, almeno stavolta.
Se chiude gli occhi, rivede lo sguardo di Sherlock farsi pallido, lontano, spento.
Se chiude gli occhi, rivede il frutto della sua incompetenza spegnersi al suo cospetto.
Se chiude gli occhi, Sherlock muore di nuovo.
Prima che riesca a fermarlo, un singhiozzo sfugge alle labbra serrate di Molly. Calde lacrime le scivolano lungo il viso, accarezzano gentili quella pelle così umana, così fragile, come cristallo in procinto di frantumarsi. Lacrime ricolme di colpa, lacrime che da sole, pesano più del sole stesso.
Non dovrebbe piangere. Non sta a lei soffrire fino a quel punto, non con accanto il figlio adottivo di Sherlock. Noah è cresciuto grazie a lui, Noah è sopravvissuto alla vita perché Sherlock lo aiutò ad andare avanti. Eppure, Noah non piange. Le lacrime, le versa Molly.
-Scu… scusami. Non dovrei…-
-A lui piaceva la notte.-
Improvvisamente, Molly smette di piangere e solleva lo sguardo. Incontra il viso di Noah, i cui occhi adesso puntano lontano, verso la finestra che mostra loro un banale stralcio di cielo. Non sorride, ma pare più tranquillo, come se stesse osservando qualcosa di bello, ma anche incredibilmente triste.
Cosa ricorda? Il suo passato, i suoi momenti vissuti con Sherlock? La sua vita, se così la si può chiamare?
-Amava le stelle, nonostante odiasse studiarle. Sai, lui diceva che conoscere il sistema solare fosse inutile, e forse era davvero così per quelli come noi. Ricordo di averlo preso in giro, sai? Una sera in particolare, io ridevo di lui, ma lui non si arrabbiò…  quella volta… fu sotto le stelle che scelse di abbracciarmi.-
Noah sorride debolmente, i pugni stretti le labbra tremanti di una sofferenza lontana e senza tempo. I suoi occhi invecchiano, il viso si contrae per trattenere le lacrime.
-Non sapevo come reagire, sai? Non lo credevo capace di una cosa del genere.-
“Sei uno stupido ragazzino…”
-Mi diede dello stupido ragazzino e mi scompigliò i capelli. Poi… ricordo che guardò il cielo e nei suoi occhi si riflesse la potenza del creato intero, brillante di una forza che ritenni sconfinata.-
“Ma sei un bravo ragazzo, devo ammetterlo.”
-Era lui il mio pilastro, la mia forza, il mio domani. Era mio padre e grazie a lui io…- Noah sorride, mentre una calda lacrima di diamante gli scivola sulla guancia, morbida di dolore, senso di perdita, abbandono, debolezza. -… ero felice! Lì, tra le sue braccia. Nessuno mi abbracciava mai, sai? Lui almeno, non l’aveva mai fatto. Forse fu per questo che mai come quella volta, capii di essere suo figlio.-
Debolmente, Noah chiude gli occhi e china il capo, sconfitto. Combatte per non spezzarsi, lotta per restare in piedi ma poco a poco si piega, morbido come argilla modellabile tra le mani del suo macabro artista.
È una forma di dolore profondo, che oltrepassa lo scorrere del tempo e abbatte ogni più piccolo cambiamento. Quella sofferenza non muterà mai e mai abbandonerà l’animo di Noah.
“Si vive per essere forti, ragazzino. La debolezza può solo abbatterti, e questo non deve accadere. Combatti sempre, sii un drago. E forse un giorno, la tua costanza sarà ricompensata”.
Ricompensa.
Come in risposta a quella voce lontana, echeggiante, che solo nella testa di Noah sorge sovrana, uno scintillio oscuro emerge dalla tasca di un paio di jeans buttati in un angolo. Sono pantaloni troppo piccoli per lui, gli stessi che Noah ha indossato l’ultima volta che Sherlock è entrato in casa di Molly. Ferito, zoppicante, esausto.
Non è possibile.
Come in trance, Noah si alza lentamente. Cammina verso quell’innocuo paio di pantaloni che tuttavia adesso appare minaccioso come il più feroce dei nemici. Noah ha paura perché quello scintillio lui lo riconosce, ma non vuole credere di aver ragione.
-Noah?-
Molly lo richiama preoccupata, si alza per seguirlo nello stesso istante in cui Noah si inginocchia e infila una mano artigliata, ferita e tremante nella tasca lucente dei jeans. Quando le dita stringono qualcosa di freddo e duro che Noah non aveva mai notato prima, tutto il suo corpo vibra di terrore e incredulità.
“Un giorno forse, la tua costanza sarà ricompensata…”
Noah non vuole crederci. Non è possibile che quella pietra sia davvero ciò che pensa. Sherlock non può averla data a lui, allora così piccolo, così innocuo, così scavezzacollo.
Un pensiero attraversa fulmineo la mente di Noah mentre le ultime luci del crepuscolo muoiono sulle sue squame di violetti riflessi. È un’idea talmente raccapricciante che per un istante Noah si sente devastato, morto esattamente come Sherlock poche ore fa. Non riesce a crederci, ma sa che è così.
Quando si recò da Molly per vedersi curare le ferite, Sherlock già sapeva che sarebbe morto di lì a poche ore.
Ha programmato tutto nei minimi dettagli, senza lasciare niente al caso, così come è sempre stato nel suo stile. Ma questo. Questo và oltre ogni aspettativa di Noah semplicemente perché Sherlock è un pazzo se crede di potergli affidare un compito simile.
-Noah… che cos è?- domanda Molly, inginocchiandosi al suo fianco. Fissa ipnotizzata la mano stretta a pugno di Noah, che tuttavia non riesce a soffocare lo splendore del cristallo appena estratto dalla tasca dei jeans. È stato lì per tutto quel tempo e lui non se ne è accorto. Come ha fatto Sherlock a infilarglielo in tasca indisturbato?
Noah ha un flash, ricorda chiaramente di aver stretto Sherlock a sé per costringerlo a camminare fino al letto di Molly. L’ha sostenuto, gli ha parlato mentre barcollava e perdeva sangue… poi, qualcosa gli aveva sfiorato il fianco e Sherlock aveva alzato la mano per strofinarsi gli occhi in un gesto comunemente insospettabile.
È stato allora. Allora Sherlock passava a Noah la più grande responsabilità della sua vita. Allora Sherlock accettava che di respiri gliene restavano ancora pochi. Allora Sherlock cominciava a tessere la sua ingegnosa tela di ragno per far sì che ciò che era accaduto alla morte di Nevora non si replicasse di nuovo.
-Ma è… bellissima.-
Molly si preme le mani sulla bocca mentre Noah schiude le dita per rivelare una splendida gemma dai riflessi intrisi d’aurora boreale. È di forma romboidale, cristallina, lucente come stella piovuta dal cielo e pare racchiudere in sé tutta la luce degli astri. Molly non ha mai visto una pietra così bella.
Il sole tramonta, gettando su di loro un ultimo sprazzo di luce morente.
Noah si volta, fissa l’orizzonte con occhi adesso ricolmi degli stessi riflessi emanati dalla pietra. Bruciano di rabbiosa decisione, e per un attimo, Molly distingue in quello sguardo implacabile qualcosa di familiare. Sono occhi di cristallo quelli, occhi che hanno saputo piegare il mondo e gli esseri viventi, occhi che hanno visto e assorbito la luce e le tenebre del mondo intero.
Molly indietreggia prostrata mentre un fremito scuote la terra nello stesso istante in cui Noah torna a stringere la pietra in una stretta rabbiosa, non sua. Le sue pupille si assottigliano, le ali si ripiegano rinate sulla schiena e le scaglie sembrano emanare una luce nuova, sbocciata dagli anfratti più oscuri dell’anima del loro padrone.
-Noah…? Che succede?-
Il drago abbassa lo sguardo su Molly, trapassandola con occhi intelligenti, troppo simili a quelli di Sherlock. Quelli non sono occhi normali. Quelli sono gli occhi di un sovrano.
-Sherlock Holmes mi ha nominato suo erede.-
 
Irene Adler respira lentamente per trattenere le lacrime.
Lei non piange. Lei non è così debole.
Eppure, quel piccolo stupido drago ha saputo insinuarsi in lei, nelle pieghe del suo animo, come meschina cimice addestrata a fare questo e nient’altro. Irene è rimasta imbrigliata, indebolita, quasi inconsapevole che gli occhi di Sherlock Holmes la osservavano e la capivano meglio di chiunque altro. Ha attirato la sua lealtà, ha prostrato in ginocchio la sua smodata vitalità di drago bestiale per accostarla a un’umanità ben più grande dapprima sconosciuta ai suoi occhi.
Irene è cambiata nell’istante in cui Sherlock ha iniziato a studiarla davvero. Le ha teso una mano invisibile, mai ritratta, che lei ha afferrato inconsapevolmente, prostrandosi al suo cospetto.
Esausta, Irene si passa una mano sul viso e china il capo. Fa male, brucia da morire. Non si è mai sentita così… è come se le avessero strappato un pezzo d’animo per calpestarlo implacabilmente dinanzi ai suoi stessi occhi.
-Che cosa hai fatto, stupido cervellone…-
Le sembra di sentire ancora le urla di John. Sono andate avanti per ore intere, insistenti, implacabili, strazianti come grida di cucciolo strappato alla madre. Quei suoni non andranno più via. Resteranno impressi nella sua anima fino alla fine, fino all’ultimo respiro. E Irene le ascolterà anche nel sonno, semplicemente perché non avrebbe mai creduto che un banalissimo umano potesse produrre suoni tanto raccapriccianti. Se dovesse dare un suono alla sofferenza vera, Irene vi attribuirebbe le grida di John.
Si afferra la testa tra le mani, sospira, cerca di recuperare un barlume di controllo. Poi, qualcosa cambia e lei solleva lo sguardo: una familiare profumo di spezie e vaniglia le invade le narici, forte come non mai. È una scia che conduce lontano, a nord, verso le terre sconosciute. Ma non è possibile. Oppure sì?
 
-Mycroft, per favore, parlami! Dici qualcosa!-
Gregory Lestrade sbraita, gesticola impazzito per dar sfogo all’inerzia del momento. Fissa con insistenza Mycroft Holmes, comodamente seduto sulla poltrona. Non ha voluto abbandonare la casa di suo fratello, spiegando di voler tenere d’occhio John che continua a piangere e urlare da quasi un giorno nella stanza accanto. Non ha permesso a nessuno di spostare il corpo, si è rifiutato di lasciarlo andare.
“Lui avrebbe fatto la stessa cosa”, aveva detto. “Vi prego, diamogli una possibilità. Sherlock non è morto!”
Stupido, piccolo umano. Sempre fiducioso della stupidità di Sherlock, sempre aggrappato alla vita come cucciolo appena nato. Almeno un poco, Mycroft lo invidia: anche nel dolore più soverchiante, John emana sempre un’aura di forza sovrumana che spinge finanche i draghi a rispettarlo. Nella sua umana fragilità, ha saputo costringere gli altri ad ubbidirgli, impedendo che il corpo di Sherlock venisse smosso anche di un centimetro. Continua ad aver fiducia in lui, continua a crederci davvero. Mycroft al contrario, non ci riesce. Suo fratello è sempre stato troppo fragile, troppo umano. Forse è per questo che non ha mai né accettato né rifiutato davvero il trono: sentiva che la sua vita sarebbe giunta alla fine.
Eppure, quelle ultime parole… Sherlock le ha dette rivolgendosi a lui. Mycroft lo sente, perché conosce a menadito il tono che suo fratello ha sempre usato per parlargli, e prima di morire Sherlock ha usato esattamente quella voce. Guardava John, ma parlava con Mycroft. Possibile? Cosa sa Mycroft che gli altri non sanno?
“Cerca il mio riflesso”.
Per la prima volta, quelle parole scatenano in Mycroft un brivido dubbioso, quasi spaventato. Riflesso. Cosa significa “cerca il mio riflesso”? Sicuramente Sherlock non parlava di uno stupido specchio.
-Mycroft!- Greg urla ancora, facendolo sobbalzare. Mycroft lo guarda impassibile, specchiandosi negli occhi lucidi di pianto dell’ispettore. Se fosse avvezzo alla parte sentimentale di ogni essere vivente, capirebbe prima di chiunque che Greg sta soffrendo come un cane. In realtà tuttavia, Mycroft non riesce a capire. Lui non capisce mai, non come Sherlock, e forse Irene ha ragione a chiamarlo Iceman.
-Smettila di renderti ridicolo, Gregory. Non è succ…-
-NON DIRMI CHE NON E’ SUCCESSO NIENTE!!!- L’urlo che prorompe dalle labbra di Greg è violento, aggressivo, intriso di una rabbia animale. Mycroft inarca un sopracciglio, piccato. –È morto tuo fratello, Mycroft! Dannazione, tuo fratello! Sherlock!-
-Non vedo perché si debba inalberare questo stupido teatrino, tuttavia.-
Greg digrigna i denti, poi abbatte un pugno contro il muro. Mycroft sente lo scricchiolio sinistro di ossa danneggiate, ma non rotte. Sa che la mano adesso fa male, brucia come fuoco. Ma continua a non capire perché si comporti così. Gli umani non possiedono un briciolo di autocontrollo.
-Gregory, ti stai comportando da stupido. Basta così.-
Ma Greg singhiozza, stringe i denti, serra i pugni come se stesse per colpirlo. Dall’altra stanza, il pianto di John pare aumentare d’intensità in risposta alle loro urla.
-Non ti importa nulla di lui! Non ti è mai importato di tuo fratello! Come puoi essere così freddo? Era Sherlock!-
Greg si volta verso la finestra, appoggia le mani sul davanzale per prendere aria e darsi una calmata. Respira a fondo, con affanno, come se stesse lottando contro una feroce bestia interiore.
Mycroft lo guarda, inclinando il capo senza capire. Osserva la schiena ampia di Greg, fissa il suo riflesso slavato nelle vetrate delle finestre aperte.
Riflesso.
“Cerca il mio riflesso”.
 Nelle terre sconosciute? Perché?  Cosa può trovarsi laggiù?
Mycroft chiude gli occhi, ragiona, affonda nel suo Mind Palace. Sherlock era convinto che lui disponesse della risposta. Eppure, Mycroft sente di non avere abbastanza dati, di non sapere niente.
-Myc?-
Voce di bambino alle sue spalle. Non ci sono bambini a piede libero nella sua testa. A meno che…
Mycroft si volta, fissa lo sguardo su un bambino pallido, dai capelli ricci e le ali sottosviluppate, rattrappite come cartapesta. Sherlock?
-Non dovresti essere qui.- dice Mycroft, pur sentendo in realtà che mandare via quello stralcio di ricordo non è una buona idea se vuole arrivare a capo della matassa.
Il bambino inclina il capo, ondeggiando intorno ai piccoli fianchi troppo magri la coda ancora corta, ancora coperta di semplice pelle anziché di squame. Pelle? Sherlock non ha mai avuto una coda del genere.
-Torna nella tua stanza, Sherlock.- ordina con voce impassibile, vibrante di fermezza, ma il bambino si rifiutò di ubbidire. Rimase immobile, col capo inclinato, guardando interessato un Mycroft adesso stupefatto, dall’aria corrucciata. Non è normale che un semplice ricordo non risponda ai suoi ordini… o sì?
-Io non sono Sherlock.-
 
Io non sono Sherlock.
IO NON SONO SHERLOCK.
Mycroft spera di aver pensato male. Ci spera davvero, perché una soluzione esiste davvero, seppur totalmente inesistente e altrettanto inapplicabile.
“Cerca il mio riflesso.”
Un riflesso. E Sherlock aveva guardato lui, come se per una volta avesse creduto davvero nelle capacità intellettive di suo fratello. Aveva creduto in lui, gli aveva affidato tutto il resto. Il domani di un popolo, il domani di John. Le sue ultime speranze.
-Non ci posso credere… ha intuito tutto.-
Lentamente, sotto lo sguardo stupefatto di Greg, Mycroft si alza in piedi e allarga le ali, invadendo l’intera stanza, soffocando ogni spazio di prezioso bronzo di seta. La luce colpisce le sue corna ricurve d’ariete, brilla sulle scaglie e sui muscoli alari come cascata d’oro colato. Greg lo vede chiudere gli occhi, stringere i pugni di una rabbia animale mista a speranza. Capisce che Mycroft sta lottando selvaggiamente contro se stesso, contro le sue stesse emozioni. Non l’ha mai visto così provato.
-Stupidi ragazzini capricciosi e senza cervello.- ringhia allora Mycroft, riaprendo gli occhi. Le pupille sono sottili, gli occhi gelidi come ghiacciai.
The Iceman. L’uomo di ghiaccio. Irene non ha mai avuto più ragione di così.
-Mycroft?- chiama debolmente Greg, e allora Mycroft lo guarda gelido, trapassandogli l’anima con gli occhi. Mai come in quel momento appare più bestia che umano, e questo non è da Mycroft.
-Credo di aver capito, Gregory.- annuncia infine. –Spero solo di sbagliarmi.-
“Io non sono Sherlock”.
 
Angolo dell’autrice:
Ehm, sì… qualcuno ha già la soluzione?
Sher: spero per loro di no. E’ una follia. Chi l’ha scritto il copione?
Tua sorella. SECONDO TE?! Genio, ci sono io alla tastiera!
Sher: allora si spiegano tante cose.
Fingerò di non aver sentito. Torna a fingerti morto dall’altra parte, o ti ammazzo davvero. Torniamo a noi… spazio ai ringraziamenti!
Wibbly: sì, Sherlock è morto. Morto morto. Però sì, prima o poi disegnerò Noah e ti taggherò nel disegno, ok? Lo sapevo che scrivendo dei due cuori di Noah qualcuno avrebbe pensato al buon Dottore! * Applaude felice * Comunque, a breve chiarirò tutto. O forse no. Ma dopo questo capitolo forse qualcosa si inizia a capire. Grazie del commento e a presto!
Sonia_0911: be’? Tutti dicevano che non potevo ammazzare il protagonista, ma Sherlock era troppo fastidioso. In un modo o nell’altro dovevo toglierlo di mezzo! Dunque, in sé e per sé il Mind Palace non ha ceduto a causa del nome ascoltato (Magnussen), ma per via dell’improvvisa invasione subita. Come già spiegato dalla Morte, un Palazzo Mentale è un’arma micidiale, ma altrettanto fragile. Sherlock ha bisogno di un grande autocontrollo per gestirlo, ma a quanto pare qualcosa gli ha fatto perdere la testa. Chiarirò tutto, promesso, ma credo che qui qualcosa si comincia a capire. Cos… cavolo, davvero ho scritto una cavolata riguardo gli anni di Sherlock? ma perché non ragiono quando scrivo! Scusa! Grazie per la recensione e per l’accorgimento! A prestissimo!
Fatelfay: dovevo pur ammazzare qualcuno! Ero in astinenza da omicidio, non è colpa mia! Sherlock è stata la prima vittima capitatami a tiro. Colpa sua, mi stava tra i piedi. (Moffat style) Cooomunque, adesso è il momento di lasciare spazio a tutti gli altri. Conosciamo un po’ Sherlock, ma Noah e i suoi vi sono un po’ ignoti, nonostante la storia precedente. Spero di poter rimediare adesso e di farmi perdonare per l’improvviso omicidio. A presto, e grazie!

Tomi Dark Angel

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Capitolo 7
*** L'Eredità Di Un Figlio ***


Profumo. Odore di pulito, misto all’inconfondibile aroma di delicati fiori di prato. È un odore familiare, che sa di casa e di serenità. Molly lo associa alla pace più pura e a giovani risate di bambino. Le ricorda bei momenti vissuti a mezz’aria, sulle ali del vento, dove l’unica prerogativa obbligatoria per lei era vivere, abbracciare il mondo, urlare euforica, libera di ogni timidezza. Ma perché quell’odore è lì?
Molly si muove appena, sfiora distrattamente una superficie ruvida ma calda. Per reazione, qualcosa la stringe dolcemente, coprendola di morbido tepore come fragile coperta di sogno. Molly non ricorda di avere una coperta così soffice a casa, né tantomeno sa di essersi addormentata. È strano, perché le pare quasi di sognare. Non ha avuto incubi, non si è contorta nel sonno, né ha ricordato la guerra. È la prima volta che le accade, in realtà.
Gentilmente, un raggio di sole le bagna il viso e lei schiude le palpebre come piccoli germogli di rosa in sboccio. Cerca di schiarire la vista, si guarda intorno con occhi offuscati e ancora stanchi, e quasi le viene un infarto quando non riconosce l’ambiente che la circonda. Quella non è casa sua, ne è certa.
Abbassa lo sguardo con cautela, posandolo stordito sulla morbida ala di seta che la abbraccia come un sacco a pelo soffice di impalpabile nuvola e zucchero filato. È una membrana calda, gentile, che la avvolge senza stringere. Molly non ha mai toccato qualcosa di così morbido e profumato. E soprattutto… familiare.
Lei conosce quell’ala. L’ha curata tante volte, l’ha toccata tanto spesso. Ma non la ricorda così morbida, né così bella, percorsa com’è da pallidi riflessi di ametista e fugace madreperla. Pare un pezzo di sogno, un intarsio prezioso di pietre fuse e colate infine su morbido drappo di seta evanescente mista a resistente velluto.
Dolcemente, Molly si alza a sedere, facendo attenzione a non svegliare il proprietario dell’ala. Lo trova seduto al suo fianco, la schiena poggiata al muro e il capo chino. Tra le mani, stringe il brillante cristallo estratto dalla tasca dei suoi stessi jeans, ultimo lascito di Sherlock Holmes come eredità presso il futuro di un regno che sarebbe passato infine all’attuale proprietario di quella pietra.
Noah re. Molly ancora non riesce a crederci. Lo ha visto crescere troppo in fretta, sbocciare come morbido fiore di luna dinanzi ai suoi stessi occhi. Ricorda ancora il calore di quella colonna di fuoco, il suo primo bellissimo sorriso, quei capelli lunghi scompigliati dal vento. Quel ragazzo non può essere il suo bambino. No, Molly ancora non riesce a crederci.
Noah non è così.
Noah non ha un viso così affilato, così nobile.
Noah non è così… bello.
Prima di riuscire a trattenersi, Molly allunga una mano tremante, timorosa, quasi spaventata e sfiora dolcemente la fronte di Noah, laddove i capelli coprono quasi totalmente il fregio inciso nella pelle come sottile tatuaggio. È un bel simbolo, di un viola scuro, che spicca sulla pelle nivea del ragazzo. Quando Noah era bambino non c’era.
-Come stai?-
La voce di Noah la fa trasalire bruscamente, spingendo Molly a sbilanciarsi all’indietro. L’ala del drago la accoglie, s’inarca per impedirle di sbattere contro la testiera del letto e quasi la solleva senza sforzo a mezz’aria. Noah apre un occhio brillante, dalla pupilla verticale, per fissare Molly in tralice. Un angolo delle labbra si arriccia in un sorriso troppo simile a quello di Sherlock, al punto che per un attimo Molly sente il cuore stringersi in una morsa d’acciaio e gli occhi riempirsi di lacrime.
-Molly?-
Noah continua a fissarla in silenzio, il sorriso attenuato, lo sguardo indecifrabile. Sembra così cresciuto, così diverso. Anche psicologicamente, Molly fatica a riconoscerlo.
-Io… sto bene, scusa.- risponde lei in fretta, cercando di sviarlo dalle lacrime che premono per uscirle dagli occhi. Noah pare capire e torna a serrare le palpebre, appoggiando il capo al muro con un sospiro rilassato. Non la guarda più, sembra ignorarla, ma Molly nota che adesso la sua schiena è dritta e il corpo teso come corda di violino.
-Tu… ehm… cosa hai intenzione di fare adesso?- domanda lei, ingoiando a fatica un groppo di nervosismo.
-Non lo so.- risponde Noah insicuro. Per un attimo, Molly rivede nel suo viso quella traccia di bambino che ha creduto persa. –Non so niente, Molly. Ieri ero soltanto un ragazzino, un cucciolo ancora in fasce insicuro e senza un domani. Sai, avevo difficoltà finanche a volare.-
Un sorriso triste, taglia le labbra di Noah, spingendolo a socchiudere gli occhi verso un orizzonte lontano che Molly non riesce a vedere. Sembra esausto, improvvisamente troppo anziano.
-Ero piccolo, e felice di esserlo. Il brutto della mancata adolescenza è proprio questo… che improvvisamente cresci e non sai nemmeno perché. Come fa il tuo corpo a capire che sei pronto? Come fa il mondo ad accettare il tuo nuovo aspetto? Ti vedi adulto all’improvviso, ma non lo sei davvero. Io non sono pronto, non sono degno di un regno del genere. Perché Sherlock ha affidato tutto questo a me e non a John?-
-Perché suo figlio sei tu.-
Noah la fissa stupito, ma Molly non rialza lo sguardo. Ha i pugni serrati, la schiena curva, gli occhi bassi come se si vergognasse d’aver parlato. Appare quasi misera, ma Noah sa che non è così: Molly Hooper è la persona più buona e coraggiosa che abbia mai conosciuto.
-Sei tu il futuro, Noah. Sherlock era un re mancato, ma se avesse scelto di salire al trono, nessuno avrebbe cercato di fermarlo. Fino a prova contraria, Edarion è un sovrintendente, ma niente di più: il sovrano era Sherlock, e in qualità di suo figlio… il legittimo erede sei sempre stato tu. E anche io… anche io credo che… insomma… credo che il nostro popolo non potrebbe essere in mani migliori.-
Molly si stringe nelle spalle con semplicità, come se avesse detto qualcosa di terribilmente scontato. Quando rialza lo sguardo, fissa Noah con un piccolo sorriso di scuse, timido e delicato come ali di farfalla.
-I miracoli esistono, Noah. E tu sei il miracolo più grande che Sherlock abbia mai ricevuto, John a parte. Sei quel pezzo che gli è sempre mancato, e credo che questa… questa pietra… sia in realtà il modo più bello per dimostrartelo.-
Molly parla con semplicità disarmante, come un bambino che spiega a suo padre che Babbo Natale esiste, e perché. Per lei questa è una realtà lampante, viva, chiara come il sole, e si stupisce quando Noah la fissa come se la vedesse per la prima volta. Nota il suo sguardo farsi lucido, le mani artigliate stringersi sulla pietra con foga, come se volesse farla a pezzi.
Per un attimo, Molly ha paura che reagisca male alle sue parole, ma quando alla fine Noah si scioglie in un sorriso dolce, sereno, che le gonfia il cuore di emozioni contrastanti, sente che va tutto bene.
-Vieni qui.-
Noah tende una mano verso di lei, senza staccarle gli occhi di dosso. Molly vede i suoi muscoli tendersi ad ogni movimento sotto la pelle nivea, che poco a poco si fonde con scaglie di brillante ametista. Un raggio di sole brilla su di lui, illuminandogli gli occhi di una luce gentile, angelica, che Molly non conosce ma della quale si fida automaticamente.
Lentamente, le dita di lei si intrecciando con quelle di Noah. Sono calde al contatto, gentili, delicate come piume d’angelo. Molly non si sarebbe mai aspettata un tocco del genere da mani così grandi, artigliate, taglienti di squame affilate. Eppure, non un graffietto deturpa la sua pelle quando lui la tira gentilmente verso di sé.
Molly si lascia trascinare, scivola imbarazzata tra le gambe adesso aperte di Noah e poggia la schiena contro il suo petto caldo, ampio, che pare fatto apposta per accoglierla. Arrossisce quando le braccia longilinee di Noah le cingono i fianchi con dolcezza, senza stringere o esagerare. Non è un contatto pretenzioso, non è invadente. Al contrario, la sua pelle la sfiora appena, e di questo Molly è felice perché teme che Noah si accorga del leggero tremito che la pervade.
-Grazie, Molly.- mormora lui, sfiorandole la spalla col fiato caldo di fiamme trattenute. Espira dal naso, solleticandole il collo di aria profumata, gentile, che quasi la fa ridere per il solletico. –Grazie.-
Noah china il capo e appoggia la fronte sulla spalla di Molly, così come faceva sempre da bambino quando lei lo accoglieva tra le braccia. Allora le posizioni erano invertite, e Noah si accoccolava contro il petto di Molly con aria fragile, sperduta, come fatto di vetro. Lei lo accarezzava per ore finché il cucciolo non si addormentava, e in quei momenti Molly si sentiva utile, felice, perché per brevi istanti sentiva di stringere tra le braccia un piccolo miracolo.
Adesso, non è così semplice abbracciare Noah. È cresciuto, e improvvisamente è più massiccio di lei. Eppure… è sempre Noah. Molly lo capisce in quel momento, quando l’insicurezza di lui richiama a sé un passato di bambino solo e insicuro. Noah è sempre lì, non è mai andato via. Eppure, allo stesso tempo Molly non riesce a concepire il pensiero che il suo bambino e quel ragazzo fatto e finito siano la stessa persona.
È Noah. È semplicemente Noah.
Alla fine, dopo minuti interi di titubanza, Molly appoggia il capo al suo petto e solleva una mano per affondarla nei folti capelli scuri di lui. Lo accarezza così come faceva quando Noah era piccolo, ondeggiando le dita sulla cute con leggerezza di farfalla. Lo sente sospirare contro la pelle, avverte i suoi muscoli rilassarsi e le braccia abbandonarsi con stanchezza anziana, che non gli appartiene. Tra le dita stringe ancora la gemma, adesso premuta sull’addome di Molly.
-Sii te stesso, Noah.- mormora lei. –Scegli ciò che è meglio per te e vivi. Te lo meriti… l’hai sempre meritato.-
Stavolta, Noah non risponde.
 
-No, Mycroft. È escluso.-
Edarion stringe i pugni, serra gli occhi in un’espressione di scarsa tolleranza. Cerca di ignorare il figlio che caparbio insiste da circa quattro ore su un argomento impossibile e assolutamente fuori dalla loro portata. È una speranza vana, l’ultimo appiglio dei disperati. Ed è folle.
-Padre, non ho intenzione di desistere. Sherlock si è lasciato alle spalle indizi talmente semplici che tu stesso dovresti scorgere. Ti risulta così difficile?-
-Non essere stupido, Mycroft. Stiamo parlando di una cosa impossibile, e per quanto io voglia crederti…-
-Tu non vuoi credermi, è evidente. Si tratta di tuo figlio.-
-Credi che non lo sappia?!-
Edarion scatta in piedi, fissa allucinato il suo primogenito ancora immobile, ancora impassibile dinanzi alla sua rabbia trattenuta. Si sente ferito, Edarion. Ferito e inutile. Soffre come un cane, ma in qualità di sovrano non può darlo a vedere: dinanzi alla morte di un figlio, non gli è concesso piangere perché le lacrime rendono vulnerabili, insulsi, fragili come vetro. Edarion non può permettersi tanto, non adesso che tutto intorno a lui si accartoccia, cade, appassisce.
Sherlock se n’è andato e lo ha lasciato solo lì, nella miseria di un compito che non gli è mai spettato realmente. Dove sono adesso i desideri di sua moglie? Dov’è la sua volontà, la sua guida, la sua dolce saggezza? Dov’è la sua forza?
Edarion quasi si accascia sulla sedia, stremato. Non si è mai sentito così vecchio in vita sua. Adesso le catene del regno gravano su di lui, e lui deve fare ciò che è giusto. Mycroft è il suo unico erede, perciò non può permettergli di lanciarsi in un’impresa folle e senza senso. Lo tratterrà lì ad ogni costo perché senza un erede, si rischierebbe un replay dell’accaduto anni addietro alla morte di Nevora. Sarebbe il caos, sarebbe la guerra. E Sherlock avrebbe lottato per niente.
-Basta così: non andrai, Mycroft, e questa è la mia ultima parola.-
Edarion si alza in piedi e gli volta le spalle. Intreccia le mani dietro la schiena, lasciando che la massa possente di ali ripiegate nasconda il tremore che pervade le dita.
-Non posso perdere anche te, figlio mio.- ammette infine a mezza voce, ma sa che Mycroft lo ha sentito.
Cade il silenzio, un silenzio imbarazzato, pesante, che sa di mille cose non dette. Gli occhi di Mycroft si addolciscono appena, lasciando trasparire quella scintilla di umanità che in suo fratello è invece divampata come indomito incendio.
-E io non posso perdere mio fratello.-
Edarion si irrigidisce, stringe la presa delle mani finché gli artigli non penetrano nella sua stessa carne e le scaglie stridono tra di loro come ferro contro ferro. Respira a fondo, registra il significato della breve ammissione di suo figlio.
Mycroft non ammette di amare suo fratello. Mycroft non ammette di provare amore in alcun modo. È una cosa innaturale come fiore che sboccia da un ghiacciaio. Eppure, di tanto in tanto, anche i miracoli accadono.
-Mycroft… è una follia.-
Ma Edarion è ormai convinto di non poter fermare suo figlio. Sa che Mycroft si spingerà a nord, oltre i confini e oltre i suoi limiti, laddove Sherlock ha toccato l’inizio della fine. Perderà il suo unico erede e il mondo cadrà nella violenza una seconda volta. Tante fatiche, tante morti… per niente.
-Non posso concederti di andare.- dice alla fine Edarion, voltandosi per affrontare il figlio. Lo guarda negli occhi, quasi vacilla dinanzi alla gelida determinazione dell’altro. –Mi dispiace, ma a costo di tagliarti le ali, dovrò impedirti di partire. Perdere anche te significherebbe sputare su tutto ciò per cui Sherlock si è sacrificato.-
-E tu ne sai quanto di sacrificio?-
Edarion stringe i pugni e scudiscia la coda nervosamente.
-Non giudicarmi. Anche tu non c’eri quando Nevora cadde e il mondo sprofondò nel caos. Siamo colpevoli alla stessa maniera.-
-Ti sbagli, e tu lo sai.-
In quel momento la porta alle loro spalle cigola e un corpo misero, sbrindellato d’anima distrutta si staglia sulla soglia.
-C’è una… speranza?-
John Watson solleva lo sguardo vuoto, senza luce, esausto di troppe lacrime versate. Il viso è scavato, la pelle fragile come carta velina e carne di vecchio. In poche ore pare aver consumato ogni anno di vita rimastogli, ogni respiro sereno della sua esistenza. È stanco, fatto a pezzi, come scultura di vetro caduta e sbriciolatasi infine tra mani troppo rudi per trattare tanta fragilità. La voce è roca, eco lontana di se stessa.
Basta così poco per ridursi a uno spettro? Basta così poco per dimenticare se stessi? Pare di sì, e John ne è la dimostrazione.
-Non c’è speranza, John.-
La voce di Edarion è fredda, perentoria, degna di gelido sovrano. Spezza di forza ogni speranza di John, ogni più piccolo appiglio di sopravvivenza che ancora lo spinge a respirare. Ed è per questo che in reazione all’ultimo affondo definitivo nel cuore già smorto di minuscoli frammenti spezzettati, a John cedono le ginocchia. La schiena si piega, gli occhi si chiudono, il pavimento s’accosta troppo in fretta al volto ormai ingrigito di totale assenza di colori.
Cade, John. Cade nell’abisso.
Cade, John. Cade perché non ha altro in cui sperare.
Cade, John… cade. Ma non tocca terra.
Mani possenti di giovane uomo lo afferrano, coda squamata di violetti riflessi gli cinge la vita in una presa salda, decisa, inamovibile. Quel sostegno non viene a mancare, quel sostegno lo raddrizza con dolcezza antica e senza tempo, gentile di tocchi delicati.
-No.- ringhia una voce, e in quel momento il terreno pare tremare di paurosa contemplazione mentre due identici pezzi d’unica scacchiera si fronteggiano, entrambi avvezzi ad un unico ruolo.
Un raggio di luna piove dall’alto delle vetrate superiori e bagna d’argento una figura alta e slanciata di giovane uomo eretto, fiero come aquila reale. Fissa Edarion con fermezza, il viso alto, la postura rigida e inamovibile. Le sue ali si allargano appena, abbracciando l’ambiente e la giovane ragazza umana al suo fianco.
-Oh, John…-
Molly afferra l’amico, lascia che dolcemente scivoli disteso tra le sue braccia, adagiato al suolo come fragile marionetta già spaccata. Alle sue spalle, Noah continua a fissare Edarion, la coda scudisciante di avvertimento, gli artigli lucenti di minaccia. 
-No.- ripete, ed è una parola definitiva, che s’intride di implacabile potenza. Le ali vibrano di calore, allargandosi appena un altro po’ e spandendo nell’aria un odore familiare di fiori di campo. La sua ombra si dilata, abbraccia quella di Edarion, che accuratamente lo scruta. Fissa il suo volto troppo cresciuto, il petto nudo e palpitante di vita, i jeans che stretti gli fasciano le gambe.
-No.-
Noah lo raggiunge, si ferma. Allarga appena le dita, strette intorno a qualcosa che brilla come stella scesa in terra. All’inizio Edarion pensa che si tratti di una squama baciata dalla luce della luna, ma non è così.
Quella pietra è troppo piccola.
Quella pietra è troppo stretta e allungata.
Quella pietra è un pezzo di storia che Edarion aveva ormai dato per disperso.
-Dove hai preso quella?- domanda lentamente, alzandosi in piedi. Scruta Noah in viso, scava alla ricerca di una risposta, ma non trova nulla. Gli occhi dell’altro sono freddi e implacabili, improvvisamente troppo simili a quelli di Sherlock.
Non è un bene.
Edarion vorrebbe indietreggiare, ma un gesto come quello implicherebbe soltanto il suo timore. E lui non può mostrarsi intimorito. È un sovrano, un re del suo tempo… seppur sovrintendente in attesa di un re che non tornerà mai. In attesa di un figlio, in attesa di un morto.
-Mi è stata data da chi di diritto.- dice Noah, e in quelle parole implica qualcosa di troppo grosso, qualcosa di orribile che rischia di spezzare Edarion lì davanti agli occhi di tutti. Se è vero ciò che dice…
-Perché?- mormora, vibrante di dolore. –Perché Sherlock avrebbe dovuto…-
-Devo davvero spiegarti ciò che hai già capito da solo, Edarion?- Noah inclina il capo, mentre alle sue spalle lentamente John solleva il capo e due grandi lacrime sgusciano lungo il viso. Dove trova la forza di piangere ancora? Non lo sa nemmeno lui. -Sherlock… sapeva?-
Noah annuisce. –Ha sempre saputo, John. Tu lo conoscevi, sapevi anche tu in fondo al cuore. C’è sempre stata una cosa di cui Sherlock era certo… tutto muta nella storia e nelle vite di coloro che ne fanno parte. Lui ha affrontato il suo cambiamento, e così come al luna muore ogni giorno per poter permettere al sole di sorgere, così Sherlock ha disposto a sua volta la nascita di una nuova alba. Non è così sprovveduto, non è così stupido. Nulla è lasciato al caso.-
Noah si raddrizza, avanza ancora fino a portarsi faccia a faccia con Edarion. Leva una mano, lascia che lo splendore della pietra si rifletta sul suo volto improvvisamente esangue, prostrato, come schiavo in presenza del padrone.
-Sherlock mi ha lasciato il comando, e tu dunque farai lo stesso.-
Edarion china il capo e la schiena, le ali s’abbassano impotenti, la coda s’immobilizza ancorata al terreno. Indietreggia di un passo, allontanandosi da Noah come fragile creatura ferita. È un confronto animale, il fronteggiarsi di due possenti alfa. Il mondo intero fremerebbe dinanzi al loro scontro, ma qualcosa mormora all’orecchio dei presenti che Noah non perderebbe una lotta contro Edarion, padre di Sherlock Holmes.
Dunque, ormai è decisione ben diversa quella dell’uomo che adesso indossa la corona: farsi da parte o morire. E Noah lo ucciderebbe davvero, perché il volere di Sherlock lo spingerebbe a farlo.
-Non ho mai compreso il volere di mio figlio.- mormora allora. –Forse non l’ho mai neanche conosciuto davvero.-
E così, innanzi agli occhi stralunati di John, Molly e Mycroft, qualcosa finalmente cambia. Edarion s’inginocchia, depone la corona, china il capo. Semplicemente, decide di arrendersi e vivere. Attende in silenzio, aspetta che la corona gli venga sottratta dal capo, ma ciò non accade. Noah stringe la pietra, si volta verso la finestra aperta, dalla quale filtra un candido profumo di vento e umidità. Appoggia le mani al davanzale, fissa l’orizzonte. Poi, infine, si volta verso i presenti e sorride.
-Le cose stanno per cambiare. Sherlock ci aspetta e se c’è ancora una speranza per tutti noi e per lui… è giusto che sia io a prendere il comando. Mia è la decisione, mie sono le scelte che vi faranno avanzare o retrocedere da qui in avanti. E io dico che andremo a nord, perché questo è l’ultimo volere di mio padre.-
 
Angolo dell’autrice:
Ebbene, eccoci col nuovo capitolo. Non ho molto tempo perché purtroppo i corsi mi stanno risucchiando l’energia vitale e a breve credo che comincerò a strafarmi di cerotti come Sherlock… solo che i cerotti saranno al caffè.
Dunque, mi sembra d’obbligo scusarmi per il leggero ritardo. Però… Sherlock, smettila di fare paracadutismo dal tetto di casa! I vicini si lamentano!
Ehm… dicevo? Ah, sì! Ringrazio di cuore coloro che hanno reso possibile il continuo di questa storia con le loro pazienti recensioni, capitolo dopo capitolo, esternando un entusiasmo commovente che non sarei mai riuscita ad aspettarmi. Grazie di cuore a:
Kcolrehs_41175 (smettila di cambiare nomeee!!!!)
Sonia_0911
Fatelfay
Luna moontzuzu
Grazie di cuore, draghetti recensori! E a presto!

Tomi Dark Angel

 

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Capitolo 8
*** La Galassia Tra Le Mani ***


“Ero solo come un cane… e ti devo così tanto. Un ultimo miracolo, Sherlock, per me: NON… ESSERE… MORTO. Per me, soltanto smettila, basta con questa farsa.”
 
Non è facile ricordarsi che il mondo ruota intorno a un’asse fissa, appena inclinata, che gestisce un moto continuo e uniforme mai immobile, mai mutato. Ci sono momenti nella vita in cui quello stesso moto pare fermarsi, trattenere il respiro, come bestia tramortita ormai immobile e in attesa dell’ultimo ansito prima di morire.
John Watson si sente esattamente così, anche adesso che si libra leggero sul dorso di Irene Adler, oltre le nuvole, lungo una scia nebulosa di scuro zucchero filato. Fa freddo, le nubi sono grigie come vedova vestita a lutto per commemorare l’intramontabile perdita della sua stella più bella, del suo domani, di suo marito. John si chiede se dovrebbe vestirsi anche lui così, ma non spera di sopravvivere abbastanza a lungo da potersi cambiare d’abito.
Vuole raggiungerlo e dirgli che è uno stupido.
Vuole raggiungerlo e dirgli che gli dispiace.
Vuole raggiungerlo semplicemente perché senza Sherlock, il suo posto non è più lì.
Irene accelera, vira appena di lato piegando un’ala scarlatta, che nella semioscurità della cappa di nubi sottostante si rifrange in migliaia di scintille lattiginose, vermiglie, che danzano come rosse odalische su un suolo di fragili nuvole. Al loro fianco, vi sono Noah e Molly.
Il drago vola stringendola tra le braccia, esibendo ancora la sua più fragile forma umanoide. Ora che ci pensa, John non lo ha mai visto in forma completa da quando è cresciuto, ma forse è meglio così: ricorda la terribile mole di Sherlock quando davanti ai suoi occhi raggiunse in un istante la sua completa stazza di drago. Era gigantesco, grande come due, forse tre metropoli messe insieme, e le sue ali oscuravano il sole anche da ripiegate.
Però era bello. Era il suo Sherlock, la sua anima.
John stringe gli occhi, pensando alle troppe cose non dette. Gli ha mai detto di amarlo davvero, senza riserve, senza esitazioni? Gli ha mai detto quanto si fidi di lui? Gli ha mai detto che la sua morte per John sarebbe significata la decaduta totale, inarrestabile, verso un abisso troppo vicino alla morte, troppo vicino al suicidio?
Sherlock queste cose non le ha mai sapute. E John non gliele ha mai detto perché fino alla fine ha pensato di avere un’eternità dalla sua parte, un domani che per loro non sarebbe mai giunto. Ha guardato la luce troppe volte, abituandosi al suo calore, all’abbraccio della sua gentilezza, e quando alla fine è rimasto al buio si è sentito cieco, paralizzato, non più avvezzo al gelo e alla solitudine.
Ha urlato.
Ha pianto.
Ma la luce non è più tornata.
John è così assorbito dai suoi stessi pensieri che non si accorge di un dettaglio: Noah si è fermato e adesso si guarda intorno allarmato. Dilata le narici, annusa l’aria interessato, irrigidisce le ali. Qualcosa non và, e poco a poco lo avverte anche Irene: un odore troppo noto, troppo fuori luogo. Non può essere lui.
-Noah?- chiama Molly mentre il suo drago retrocede preoccupato, gli occhi sbarrati, le mani strette su di lei come ultima barriera disperata da erigere prima dell’apocalisse. Come Irene, ha le narici dilatate per carpire qualsiasi odore fuori posto.
È allora che scoppia l’inferno, così veloce che John non concepisce nemmeno l’accaduto.
Uno spostamento d’aria, qualcosa che emerge dalle nubi veloce più della luce, più del suono, più di qualsiasi creatura mai esistita o rimasta in vita. Un proiettile gigantesco sfiora Irene all’ala destra, prima di sparire di nuovo. Lei vacilla, tenta di sottrarsi all’abbraccio soffocante di nubi che, circondandola e quasi accecandola, la rendono un facile bersaglio. Dovrebbe scendere di quota, ma niente le dà la certezza che sotto di loro non ci sia il nemico vero e proprio, in attesa di una mossa falsa.
Troppo rischioso.
Perciò, Irene e Noah fanno l’unica scelta che rimane: si tuffano a capofitto in un rettilineo fulmineo, che taglia il vento e fa bruciare le ali. Le grosse vele variopinte si chiudono sui loro corpi, nascondendo John e Molly alla vista mentre la barriera del suono vacilla, ma non permette loro di oltrepassarla.
Loro non sono Sherlock. Loro non possiedono la sua velocità, la sua grazia, la sua possente scioltezza. Non sono Furie Buie. E il loro aguzzino sembra saperlo.
Improvvisamente, una massa imponente di scaglie buca le nubi al loro fianco. Noah spalanca le ali e si ferma, catturando il vento in un’arrestata disperata che fa schioccare dolorosamente i suoi muscoli troppo tesi, troppo forzati. Digrigna i denti, stringe Molly fino a farle male, ma la cosa che li attacca non riesce a sfiorarli.
Irene e John sono meno fortunati. Qualcosa le graffia l’ala, facendola ruggire di dolore. Gocce argentate di sangue piovono dall’alto, bagnando i quattro lunghi tagli trasversali che germogliano sulle membrane alari troppo fragili, troppo morbide per poter resistere a un dolore tanto grande.
Irene strilla ancora, cerca disperata di mantenere la quota. Ma la disperazione non basta. Qualcosa emerge nuovamente dalle nubi, afferra John per un braccio e lo fa sparire. Lui non ha neanche il tempo di gridare, di reagire, di invocare aiuto; forse in realtà, non ha mai voluto farlo. Forse può ancora raggiungere Sherlock in tempo, rivederlo.
Fa che possa chiedergli perdono.
L’ala di Irene perde troppo sangue, fa troppo male. Improvvisamente, i muscoli vengono a mancare, sembrano spezzarsi tutti insieme e cedono. Lei precipita con un ruggito disperato, le zampe tese verso il cielo, gli occhi sbarrati ricolmi di disperazione non sua. Ha perso John. Ha fallito l’ultimo compito affidatole da Sherlock, le sue ultime volontà di re.
“Proteggetelo. Qualunque cosa accada, proteggetelo.”
E lei non lo ha fatto. Si è lasciata ferire, tramortire, uccidere da un nemico che non ha nemmeno visto.
Fallimento.
Qualcuno grida il suo nome, tenta di raggiungerla, ma è troppo lento. Noah non riesce ad accostarsi all’acqua semplicemente perché qualcosa lo afferra per la coda e lo fa sparire, trascinandolo via come bambola di pezza. È un aguzzino invisibile, troppo veloce, troppo astuto, che conosce la zona meglio di loro. E questo sembrano saperlo tutti.
Irene lo sa quando si schianta in acqua, sfondando di schiena i ghiacciai sottostanti.
Noah lo sa mentre stringe disperato il suo unico e più prezioso tesoro nel vano tentativo di proteggerlo da ferini artigli troppo spessi per essere spezzati.
John lo sa mentre si abbandona ferito all’oblio, sorridendo gentile all’abbraccio del silenzio che potrebbe ricondurlo da Sherlock, a casa, lontano da quell’incubo e dal dolore soffocante che poco a poco gli lacera ampi brandelli d’anima.
 
-Che cosa stai facendo?-
Voci. Sussurri indistinti, lontani, come echi di passati scomparsi e mai tornati. Voci remote di ricordi, suoni di passi e di respiri ormai estinti. Qualcuno ride da qualche parte; un bambino singhiozza sofferente; una donna scherza spensierata. Sono tutti pezzi unici, rari, di vite vissute. John forse rientra in uno di quei ricordi. Forse. Non lo sa.
-Dove sono?-
Avanza nell’oblio, cerca di orientarsi laddove soltanto voci lo assordano, lo confondono, lo spingono a premersi le mani sulle orecchie. Cade in ginocchio, stringe gli occhi come un bambino mentre un uomo singhiozza disperato, quasi gridando al mondo il suo dolore. È un pianto possente, che sa di troppe lacrime trattenute. John lo conosce bene. Per quanto ha pianto lui in quel modo, nelle ultime ore?
-Basta… ti prego!-
John urla, tenta invano di sovrastare il pianto soverchiante che lo stordisce sempre di più, in un avanzare inarrestabile verso la follia. Quella non è la morte così come l’ha desiderata. Lì non c’è Sherlock, il suo Sherlock. Ora lui è solo e al buio, fragile come un bambino, senza il suo drago. L’inferno forse è fatto così.
Ma forse… non tutti i desideri espressi sono destinati a svanire in pallida polvere di nulla. Alcuni si avverano, spiccano il volo, abbracciano d’incantevole pietà chi disperato prega ancora che qualcosa avvenga. John Watson è una di quelle fortunate persone.
Due mani calde di fuoco covato s’appoggiano sulle sue, premute sulle orecchie. Un profumo dolce di spezie e vaniglia lo sfiora mentre il calore familiare di un corpo gentile preme sulla sua schiena.
Improvvisamente, pianti e urla s’arrestano, soffocati da un palese senso di stupore che blocca il tempo, congelando gli attimi in quei tocchi sottili di dita intrecciate.
John tenta di girarsi, ma le mani evanescenti di Sherlock Holmes lo trattengono, ancora premute ai lati della sua testa. Allentano appena la presa per consentirgli di ascoltare, e quando quella voce tanto calda gli sfiora l’orecchio in un tocco d’angelo celestiale, John sente il corpo reagire, risvegliarsi come bambino appena venuto alla luce. La pelle si ricopre di brividi, sul suo viso sboccia un sorriso, i muscoli si rilassano. Va tutto bene.
-Non voltarti.- dice Sherlock prima di lasciarlo andare. Si fida ciecamente di lui, spera che John ubbidisca e lo stia a sentire.
E John semplicemente lo fa.
-Perché?-
-Perché, piccolo idiota, non dovrei nemmeno essere qui. Mi sono introdotto nella tua testa vuota attraverso il contatto che col tempo abbiamo stabilito inconsciamente come coppia. Sappi che se non arredi questo posto, lo faccio io con teschi e bersagli a cui sparare in caso di noia.-
John sorride di un sorriso triste mentre calde lacrime affiorano agli angoli degli occhi come piccole gemme in sboccio. Riascoltare quella voce è come bere da una fonte fresca e purissima dopo troppo tempo trascorso in disidratazione. È una voce che sa di ricordi sussurrati, di momenti paradisiaci che non torneranno più, se non nella sua testa. Non può nemmeno guardarlo in faccia, ormai. Gli è proibito da un fato che sembra avercela con lui.
-Non dovevo lasciarti morire.-
Sherlock sbuffa. -Non mi hai ucciso tu, John. Quindi, ti prego, non essere più stupido del solito. Questo posto già è abbastanza deprimente.-
Si interrompe per brevi attimi, quasi trattenendo il respiro mentre un pensiero si fa spazio in lui. –Hai mai visto la galassia, John?- domanda all’improvviso.
John scrolla il capo tristemente mentre Sherlock si volta per aderire la schiena alla sua. Fa scivolare la mano artigliata in quella così morbida dell’umano, lo stringe di un calore confortante che tuttavia John non proverà mai più da sveglio. Vorrebbe morire lì e subito soltanto per potersi voltare a guardarlo in faccia, soltanto per potergli dire le troppe cose non dette che ha trattenuto troppo a lungo a causa della sua stessa stupidità.
-Guarda.-
John sente il fruscio di un movimento, intravede il braccio squamato d’arcobaleno del suo drago stendersi in un gesto ampio, imperioso, che fa vibrare il buio.
Dapprima è una semplice scintilla nel buio, come fugace punto luce nell’oscurità. Zampilla, poi si estingue.
-Ma che…-
-Zitto e guarda, John, o potrei ripensarci.-
Il punto luce si accende di nuovo, ma stavolta non è solo. Al suo fianco ne germoglia un altro, poi un altro ancora, finché intorno a loro non cominciano a splendere centinaia di migliaia di lucciole guizzanti. L’oscurità si rischiara poco a poco, come dipinta ad ampie pennellate da invisibile mano d’artista. Un reticolo di colori nebulosi, coagulati in pallide nuvole soffici, distorte come pezzi d’argilla in procinto di modellazione, sboccia poco a poco, spiegandosi in ali sempre più grosse, sempre più immense. John si trova a poggiare i piedi su un’invisibile superficie di cielo colorato d’oro, azzurro, verde e viola intenso. È un intreccio di colori costruiti attraverso una ragnatela di stelle fitte e molto vicine tra loro, uno spettacolo senza precedenti che lo lascia senza fiato.
Ha davanti la grandezza dell’universo.
Ha davanti la costruzione minuziosa di una nebulosa vera, di quelle che si vedono soltanto sui libri o in televisione.
E Sherlock l’ha costruita per lui, nella sua testa, con facilità disarmante.
-Ti presento la nebulosa di Orione.-
John spalanca gli occhi e la bocca, stende una mano per stuzzicare ammirato una propaggine di universo verde acqua. Quella reagisce modellandosi al suo tocco, stiracchiandosi a suo indirizzo così come farebbe normalissima nuvola. È un mondo nuovo, che illumina il viso di John di tanti colori diversi, più di un arcobaleno o di un’aurora boreale.
-Ma tu non odiavi queste cose?- Sorride.
-Zitto, o cancello tutto.-
-No, ora mi spieghi da quando ti interessano le nebulose.-
Sherlock sembra ponderare una risposta, forse in cerca di una scusa plausibile, ma sa che John carpirebbe qualsiasi menzogna. Alla fine, capitola con un sospiro.
-Da quando piacciono a te.-
Il sorriso di John si allarga mentre altre lacrime ormai inarrestabili sgorgano dagli occhi. Singhiozza piano, senza tuttavia smettere il sorriso radioso che gli illumina lo sguardo e il viso improvvisamente ringiovanito, come di vecchio tornato bambino. Sherlock ha questo effetto su di lui: lo riporta all’infanzia, lo abbraccia di una serenità puerile che con la sua morte sembra invece sparita per sempre.
-Non ti ho mai dato niente, Sherlock.- mormora all’improvviso. –Hai sempre meritato molto di più, e invece io… AHIA!!!-
Sherlock gli ha stretto la mano così forte da fargli scrocchiare tutte le dita.
-Tu finisci la frase e ti spezzo il polso.-
John sbuffa, ben sapendo che Sherlock non lo farà. Avverte la sua stretta attenuarsi, la nebulosa intorno a loro tremolare in tutti i suoi colori sgargianti, che sfumano in vortici di materia e stelle coagulate.
-Sai… prima di morire ho incontrato una vecchia amica.- Sherlock tentenna, ripensando alle sue parole. John se lo immagina con gli occhi splendenti levati al cielo, laddove iridi chiare come specchi possono racchiudere e rifrangere i colori dell’intero universo in migliaia di diverse sfaccettature. –Ok, forse non era proprio un’amica. Non ci ho mai parlato molto con la Morte.-
John trasale, ma non apre bocca.
-E’ una creatura piuttosto intelligente, sai? Forse è per questo che non mi ha mai irritato. Sappi soltanto che conosceva la Vita meglio di chiunque altro, e la trattava come una sorella. Disse che alla fine, essa non ci ha mai trattato in maniera equa. È vero. C’è chi ha avuto tutto o chi niente. Io ad esempio… ero partito con un niente di fatto. Persi mia madre, la mia famiglia, la mia gente. Mi spezzarono le ali, e il peso della vita cominciò a trascinarmi giù, laddove una rete d’acciaio lanciata da uno stupido umano semplicemente finì il lavoro.-
Sherlock si interrompe, respira a fondo prima di continuare: -Ero praticamente già morto. La Morte aveva ragione. Sua sorella non ci ha mai trattati equamente. Ci fa a pezzi, ci straccia come carta troppo fragile, poi semplicemente ci volta le spalle. Funziona così, e noi dobbiamo farcelo bastare. Però … credo di aver capito adesso. C’è un motivo per cui Morte e Vita sono nient’altro che due facce di una stessa medaglia. La Morte è soltanto un traguardo finale che dovremo tagliare tutti, prima o poi. Ma la Vita? Lei ci addestra, John. Tutto qui. Ci dona una possibilità, ci aiuta a scegliere come andare avanti e in che modo arrivare dall’altra parte. Quando moriamo, scegliamo noi come andarcene. Possiamo spirare a testa alta come degli eroi, oppure no. La Vita ci insegna questo, anche se nel peggiore dei modi. Quando ti conobbi… io stavo morendo, ma a testa bassa. Non credevo nell’esistenza degli eroi, e se anche fossero esistiti allora… non sarei stato uno di loro. Questo, finché non incontrai il tuo sguardo.-
La nebulosa vibra di fragilità, poco a poco comincia a sfumare. Con un brivido di terrore, John capisce che sta per svegliarsi.
-Eri un soldato, John. Eri già un eroe che andava avanti, che combatteva fino alla fine semplicemente grazie alla consapevolezza che anche l’ombra più nera dovrà passare. Credevi nel nuovo giorno, nel sole, nelle storie che parlano di eroi e draghi da uccidere. Io ero il drago… ma tu, piccolo umano, mi hai trasformato in un eroe. Bizzarro come si possano cambiare certe favolette per bambini, no?-
John avverte il sorriso nelle sue parole, singhiozza forte quando sente la sua stretta svanire. Vorrebbe trattenerlo, vorrebbe morire con lui semplicemente per potergli stare accanto. Questa è un’ombra che nessun eroe può sconfiggere. Il drago della solitudine non si può abbattere, non se si avvale dell’assenza di Sherlock, dell’unica cosa che conta.
-La mia bilancia di vita sei stato tu, John. Il mio allenatore più grande. Grazie a te, ho abbracciato la Morte come una vecchia amica e sono andato via a testa alta. Grazie, John Watson. Grazie di cuore, grazie per avermi insegnato che gli eroi esistono davvero. Grazie per avermi insegnato cos’è la Vita.-
L’universo sfuma, la voce di Sherlock si allontana come eco indistinta, inafferrabile, remota. John ha paura di restare solo e al buio.
-Non lasciarmi!- grida con tutte le sue forze. Cerca di voltarsi, ma improvvisamente Sherlock lo abbraccia. Affonda il viso nell’incavo del suo collo, intreccia le mani artigliate davanti al fragile petto pulsante di vita umana. È caldo, profuma di pulito.
-Ci vedremo ancora, John.- mormora. –La mia è una promessa… ma, fino ad allora, sii il soldato che ho sempre amato. Combatti, e ricorda anche al mondo che gli eroi esistono davvero.-
John si accascia tra le sue braccia, singhiozzando forte. Non parla più, non ne ha più la forza. Quando Sherlock svanisce e lui si sveglia, sente che in qualche modo il loro è stato un addio definitivo, intriso ancora una volta di troppe cose taciute.
 
-Grida? Perché accidenti grida?-
Qualcuno parla, una mano lo sfiora all’altezza della spalla. John si dimena nella semi incoscienza, gridando sconclusionato tutta la sua bruciante solitudine. Avverte l’assenza di Sherlock, le sue ultime parole, la sensazione che forse non lo vedrà mai più.
E improvvisamente, anche quelle voci perdono un senso, perché nessuna delle due s’accosta anche solo lontanamente al timbro familiare della metà ormai squarciata del suo animo.
-Che gli hai fatto?-
-Proprio niente! Non l’ho nemmeno toccato, guarda!-
-Non dire stupidaggini! Gli sei stato vicino per…-
-Non è colpa mia se questo qui ha deciso di esercitarsi per diventare un futuro tenore! A proposito, credo che abbia ottime possibilità…-
-SHERLOCK!!!-
John sbarra gli occhi all’improvviso, si dimena, tenta invano di afferrare il ricordo di una serenità scomparsa. Ansima forte, il capo rovesciato all’indietro, lo sguardo spiritato… gli occhi fissi in due iridi chiarissime, inconfondibili, come fatte di purissimo cristallo sfaccettato. Quel taglio singolare, quelle sopracciglia regali, quella pelle di un candore madreperlaceo. John conosce a menadito quel volto. E sa che LUI non dovrebbe essere lì. Sherlock Holmes è morto. Eppure, contemporaneamente, adesso è lì dinanzi a lui, e lo fissa stranito come farebbe un perfetto sconosciuto.
-Sherlock?-
 
Angolo dell’autrice:
Tre volte. Ho dovuto riscrivere il capitolo tre maledettissime volte perché il mio pc ha ritenuto intelligente cancellare tutto ripetutamente! *Lancia pc dalla finestra*
Sher: o magari è successo perché non hai ritenuto saggio salvare?
Zitto o ti ammazzo di nuovo!
Sher: non è colpa mia se sei stu… NO, IL VIOLINO NO!!!
Ehm… dicevamo? Ah, sì        ! Spazio ai ringraziamenti!
Sonia_0911: tranquilla, ti capisco benissimo. Hai tanto da fare, ma il capitolo è sempre qui e non scappa. Fai con calma! Anzi, grazie mille per la pazienza delle tue recensioni che non manchi mai di lasciare! Eheh, credo che si cominci a capire cosa abbia spinto Sherlock a insistere per mandare i suoi amici a nord, giusto? Ma forse c’è bisogno di qualche altro chiarimento. Pazienza, arriveranno. Grazie del commento e a prestissimo!
Kcolrehs_41175: Sherlock mancava anche a me, ma come vedi forse non è sparito del tutto! C’è speranza, anche se non sarà esattamente come la immagini! Eheh, grazie per la fiducia, per i commenti e per avermi seguito fin qui. Le tue recensioni aiutano il continuo di questa storia, quindi grazie di cuore e a presto!

Tomi Dark Angel

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Capitolo 9
*** Angolo Di Paradiso ***


-Ragazzo? Ti senti bene?-
Una voce, il timbro ovattato di un suono appena più acuto dell’originale. È un rumore fastidioso, che stona col volto che ha davanti. Quella voce non è abbastanza profonda. Quella voce gli appare distorta, come ascoltata attraverso una radio difettosa. Non è il suono giusto, John Watson questo lo sa. Lo sa perché conosce bene il viso che ha davanti, nonostante i capelli poco più lunghi del normale, lo sa perché quello è il volto che ama, la creatura che lo ha lasciato appena due giorni prima.
E non dovrebbe essere lì. Non è giusto, non è naturale. È tutto troppo distorto, troppo macabro, malato. Sherlock è morto e John è vivo. Eppure, il drago è lì davanti a lui e lo fissa in silenzio, gli occhi indagatori, la mano poggiata sulla sua spalla.
-Credo che abbia battuto la testa.- dice una voce femminile alle spalle del drago.
-Non è colpa mia!- sbuffa lui, piccato.
-Non ho detto che lo è, Sherrinford.-
-Non l’hai detto, però lo hai pensato!-
Quando il drago alza la voce, John si riscuote dallo stordimento iniziale. Sente il terrore vibrargli nel petto, contro le costole, pulsante come un secondo cuore più che funzionante. Non riesce a staccare gli occhi dal drago, e il suo imbarazzo aumenta quando si accorge che, così come lo era Sherlock quando lo incontrò la prima volta dopo la cattura, anche egli è nudo.
E anche il corpo non può che somigliare in tutto e per tutto a quello del compagno di John.
Longilineo, flessuoso, possente. Muscoli intrecciati di nervi e vene in rilievo, avvolti dalla pelle sottile come carta velina, preziosa di bagliori madreperlacei. Quel corpo, John lo ha toccato ed esplorato troppe volte per impedirsi di notare l’esagerata somiglianza che c’è con quello di Sherlock. Quel corpo ha gli stessi nei, le stesse cicatrici, gli stessi fasci muscolari. E anche le stesse scaglie lucenti d’oscuro arcobaleno che come minuscoli punti luce irradiano bagliori contro le pareti della caverna rocciosa, coperta di stalattiti… e piena zeppa di draghi selvatici.
-Cazzo, cazzo, cazzo…-
John indietreggia strisciando fino a premere la schiena contro la parete fredda e umida di rugiada alle sue spalle. Si appiattisce, respira lentamente mentre draghi mai visti prima lo fissano di rimando, gli occhi brillanti come macabre scintille di avvertimento nella semioscurità.
Provare a difendersi sarebbe una follia. I draghi sono troppi e troppo grossi e John è stordito e… dannazione, con sé ha solo una pistola. Non se ne fa niente di qualche stupido proiettile se dall’altra parte c’è un intero branco di maledettissimi rettili alati. Altro punto a suo sfavore: John non conosce le loro abilità. Non sa se sputano fuoco o veleno, se sono veloci o lenti, se sparano punte acuminate o chissà quale altra diavoleria. Tentare di attaccarli sarebbe un suicidio.
Abbassa lo sguardo sul sosia di Sherlock, che finora non si è mosso. Se ne sta accovacciato, i gomiti poggiati sulle ginocchia, gli occhi indagatori fissi nei suoi. Per qualche motivo, John sente che se i draghi lo attaccassero, lui non lo proteggerebbe. È uno di loro, è selvatico esattamente come le creature che lo circondano.
Eppure, è Sherlock.
I draghi avanzano, stringendo il cerchio mortifero di scaglie e punte acuminate che lo circonda. Alcune bestie si sono addirittura arrampicate sul soffitto, e adesso lo fissano dall’alto, coi capi reclinati all’indietro. No, reagire non è decisamente una buona idea.
-S… Sherlock…-
-Io non sono Sherlock.-
Il sosia di Sherlock lo fissa, inclina il capo. Le corna ad anelli baluginano sinistre e bellissime, le scaglie splendono di grandezza così come John le ha sempre ricordate. Quello non è Sherlock. Ma continua a somigliargli in maniera esponenziale.
Improvvisamente, un rumore alle spalle della creatura spezza l’impasse della situazione. Qualcuno cammina, si staglia imponente alle sue spalle. Deve essere una donna, John lo capisce dal fisico sottile e dalle spalle strette. Ne sarebbe maggiormente sicuro se soltanto il seno emergesse dalla sinistra armatura che indossa, ma il pettorale le comprime il petto, sagomandosi al corpo come una gabbia.
La donna appoggia una mano sulla spalla del sosia di Sherlock… Sherrinford? Lei lo ha chiamato così, prima.
-Me ne occupo io.-
Dà una spinta e scavalca con un agile balzo la creatura, che continua a fissare John senza muoversi, come se lo stesse studiando. Forse non sarà Sherlock, ma il suo sguardo trasuda intelligenza esattamente come quello del defunto compagno di John.
“Ci rivedremo ancora”, aveva detto.
Improvvisamente, un macabro sospetto si insedia in John come un seme maligno che poco a poco sboccia di certezze, idee, conferme.
Non può essere un caso che Sherlock li abbia spinti a nord e che, stranamente, durante il tragitto abbiano incontrato il sosia spiccicato della Furia Buia. Sherlock non si è mai occupato di casi, e per lui i casi non esistono. Lo disse, una volta.
John fissa lo sguardo sulla donna che poco a poco si avvicina. Non la vede in volto, ma i riflessi cangianti della fioca luce riflessa dalle scaglie di Sherrinford rigettano sulla sua armatura dei bagliori sinistri, quasi paurosi. L’involucro si adatta perfettamente al corpo magro e longilineo di giovane donna, coi suoi fianchi stretti e le spalle piccole. Placche d’argento sovrapposte si modellano ai fianchi per consentirle movimento, mentre gambali e bracciali di cuoio le coprono braccia e gambe. Gli spallacci sembrano artigli ricurvi, l’elmo un teschio di drago. Ha corna piccole e ricurve d’avorio, zanne che cadono a coprire il volto, un muso appena accennato che sporge di poco all’altezza del naso di chi lo indossa. I fori per gli occhi sono taglienti, sagomati in un’espressione minacciosa che John non vorrebbe mai provocare. Da essi, sbucano due occhi chiari dal colore indistinto, che pare verde. John non può esserne certo. In mano, la donna stringe un bastone lungo, di pietra, dalla punta scolpita a forma d’artiglio stretto intorno a un cristallo lucente.
Cerca di indietreggiare ancora, prova a schiacciarsi maggiormente al muro. Non vuole mostrarsi troppo intimorito, ma ha la sensazione che quel bastone faccia male e lui non ha intenzione di testarne l’utilizzo. A maggior ragione, se accompagnato da un elmo irto di zanne.
La donna piega le ginocchia, cerca di guardarlo dal basso. Si accosta ancora, mentre il semicerchio di draghi intorno a loro si stringe. Sherrinford non si muove.
Poi, improvvisamente… la donna si ferma. John la vede irrigidirsi, sbarrare i grandi occhi dalle ciglia lunghe e bionde. Lo fissa in volto con un’intensa sorpresa che quasi lo spinge a distogliere lo sguardo.
-Non è possibile…-
John trattiene il respiro quando lei indietreggia, come a volerlo guardare da un’altra prospettiva. Si sposta di lato circospetta, china il volto, lo inclina, ma John è sempre lo stesso.
Poi, a sorpresa, la donna tende una mano calda e troppi piccola per toccargli il volto.
È un tocco amico, piacevole, femminile. Ma non ha niente a che fare col dolce calore di un drago, di Sherlock. John sente di riconoscere quelle dita sottili, quella pelle olivastra, quegli occhi dal colore indefinito. È una sensazione bizzarra, perché tutti coloro che John conosceva, in realtà sono morti durante la guerra. Perché quella donna dovrebbe essere diversa? Perché è diversa?
-Ci… conosciamo?-
Lei balbetta, lentamente si ritrae. Poi solleva il viso.
-John. John Watson.-
Al sentire il suo nome pronunciato con tanta sicurezza, John sbarra gli occhi. Quella donna lo conosce davvero, e lui conosce lei. Non è una semplice sensazione, non più.
-Chi sei?-
-Per quanto possa essere stato imperdonabile il mio comportamento…-
Lentamente, la donna afferra l’elmo e se lo sfila.
 -… sappi che una così vecchia amica non dimentica facilmente il volto di chi ha voluto bene in passato.-
Una cascata di capelli biondi cade lungo la schiena, il viso tirato e non giovanissimo della donna si svela. John la fissa, cerca di sovrapporre i tratti di un ricordo a quegli zigomi alti, alle labbra sottili, allo sguardo stanco ma sereno. Lui conosce quella donna, ma non riesce a collocarla nella cerchia delle sue vecchie conoscenze. Deve essere qualcuno che risale alle sue amicizie antiche, ma anche questa teoria svela dell’assurdo: una sua amica di vecchia data… lì? In mezzo ai draghi selvatici? Non ha senso.
-John.- mormora. –Sono io.-
Quella voce. John la conosce, ma non sa perché.
-John.-
Un ricordo, un morbido sussurro di bambina. Qualcuno grida il suo nome, un piccolo corpo si allontana, stretto tra macabri artigli di diamante.
“JOHN!!!”
John si ricorda bambino, si rivede intento a correre tra i detriti di Londra nella disperata speranza di raggiungere il piccolo tesoro che gli stanno portando via. Ricorda le sue stesse lacrime, ricorda quel maledetto masso che lo fece inciampare e cadere mentre la sua amica veniva trascinata via in volo da una macabra bestia nera…
La sua amica. Aveva un nome, e forse ce l’ha ancora. Si chiamava…
-Mary Morstan.-
La sua espressione si oscura improvvisamente, si fa vacua, lontana, come se stesse pensando a qualcos’altro. E forse è effettivamente così.
-Allora è vero.-
John si allontana appena dal muro, la curiosità ormai più forte di qualsiasi timore. Più guarda quella donna, più scorge in lei quei ricordi di bambina che non lo hanno mai abbandonato, in passato come nel presente. La ricorda ancora, la sua amica d’infanzia, così come ricorda i momenti terrificanti in cui una grossa bestia nera, simile a un’ombra devastante, la afferrò tra gli artigli per trascinarla via ancora urlante, come piccola trota pescata all’amo dal più abile dei pescatori.
-Mary? Sei… veramente tu?-
John tende una mano, prova a toccarla, ma lei si ritrae. Indietreggia, scivola sinuosa verso Sherrinford, i cui muscoli adesso sono tesi, in allerta, come se il drago fosse in procinto di scattare. Fissa la donna, in attesa di un comando o di un suggerimento, il che conferma a John quanto lui e Sherlock siano diversi: Sherlock Holmes si sarebbe mosso autonomamente e in maniera assolutamente esatta, senza attendere ordini da nessuno.
-Seguimi.- mormora la donna, voltandosi.
Gli altri draghi si ritraggono, Sherrinford si sposta di lato quasi gattonando, come un felino che tiene d’occhio la preda.
-Seguimi, John.-
E John la segue. Si infila in una piccola galleria di roccia, innervosendosi quando alle sue spalle sente avanzare Sherrinford. La massa delle sue ali chiude totalmente l’uscita dietro di lui, come a volergli impedire una via di fuga. John vorrebbe indietreggiare perché è al buio, perché sente l’oscillare di affilate stalattiti di roccia sulla sua testa. Se una di queste cadesse, non è certo che Sherrinford lo proteggerebbe. Ma forse è meglio così: raggiungerebbe Sherlock, se morisse.
Improvvisamente, un piccolo puntino luminoso compare nel suo campo visivo. Si allarga poco a poco, mentre il trio si accosta all’uscita, scavalcando rocce e acquattandosi quando il soffitto si fa basso.
-Volevo dirtelo, John.- mormora Mary. –Volevo avvisarti, ma non avresti capito… forse non capiresti nemmeno adesso.-
-Di cosa stai parlando?-
Mary raggiunge l’uscita, sparisce nell’abbraccio di una luce folgorante che improvvisamente ferisce gli occhi di John. È come avere un gigantesco faro puntato in faccia.
John si copre il viso, sbatte le palpebre, cerca di schiarire la vista. Inizialmente, si affida agli altri sensi, almeno per provare a orientarsi. Mare. Profumo di oceano e… fiori. E aghi di pino appena spiccati. E legna arsa. Sono così tanti gli odori che John si sente più stordito di prima.
Suoni. Sciabordio d’acqua contro rocce. Rumore di vento leggero e masse che tagliano l’aria. Ali. Qualcuno sta volando. E ruggendo. E scudisciando la coda.
Draghi.
Improvvisamente, John apre gli occhi… e trattiene il fiato dinanzi all’imponente magnificenza che ha davanti.
Fino a quel momento, ha creduto di aver visto di tutto. Ha osservato il mondo dall’alto e dal basso, è annegato nell’aurora boreale, si è tuffato nell’oceano insieme a Sherlock… ma nessuna meraviglia può surclassare l’ineguagliabile bellezza che ha davanti.
Ghiaccio e pietra, cielo e oceano. L’ambiente è immenso, circondato da massicce pareti di ghiaccio alte fino al cielo, come mastodonti appuntiti, dai bordi irregolari e pesantemente frastagliati. John le vede stiracchiarsi come diamanti luminosi, bucate a intervalli da stalattiti di zaffiro, di oro, di ametista e di qualsiasi altro cristallo o materiale grezzo sia mai esistito. Geoidi minerali sfaccettati di cristalli variopinti emergono come punti luce dal ghiaccio, riflettendo tutto intorno un’intricata ragnatela di luci che rimbalzano tra i cristalli, cambiando colore a seconda della pietra colpita.
Lungo le pareti, sul ghiaccio e tra i minerali, sgusciano le piante. Edere rigogliose, rampicanti fioriti, boccioli di rose e di gemme che John non ha mai visto in vita sua. È un’accozzaglia colorata di elementi luminosi talmente vari e vasti che John non sa nemmeno dove guardare.
Questo, finché non posa gli occhi su tutto il resto.
John poggia i piedi su un grosso spuntone di roccia madreperlacea, simile a tanti altri che sbucano sotto di lui, nascendo dallo sciabordare torbido della gigantesca cascata che fora un lato della parete ghiacciata più vicina. L’acqua piove dall’alto, metri e metri d’acqua che si tuffa scintillando come diamante nel piccolo oceano sottostante.
Dal centro esatto di esso, nasce una colonna di madreperla più grande, frastagliata, coperta d’edera, fiori e cristalli preziosi. John la vede innalzarsi verso l’alto, fin quasi ad eguagliare l’altezza spropositata della cascata. Sulla sua sommità, vi è una statua marmorea di drago alta otto metri. Impennata sulle zampe posteriori, col lungo collo ripiegato e le zampe anteriori strette intorno al diamante più grosso che John abbia mai visto. È così luminoso da parere un punto luce, come una torcia volta a illuminare perpetuamente le pareti di cristallo e l’acqua purissima che piove dall’alto.
Poi, ci sono i draghi veri. Quelli che vivono, respirano, volano disordinati intorno a loro. Bestie variopinte, luminose più di qualsiasi cristallo, potenti più di qualsiasi cascata. Sono centinaia, di qualsiasi specie e John ne ha visti così tanti solo durante la guerra, quando Sherlock chiamò a sé le potenze del suo mondo.
-Che posto è questo?-
John avanza lentamente, timido, sconcertato. Si guarda intorno, sfiora con le dita una gigantesca ametista che sbuca dalla parete ghiacciata. Dovrebbe fare freddo, ma non è così.
-Ti… piace?-
Mary si avvicina titubante, il corpo avvolto dall’armatura ma silenzioso come quello di un gatto. Alle sue spalle, Sherrinford giace ancora nudo, appoggiato alla parete, e fissa John con interessa.
John si volta, guarda Mary in viso e sorride. –È meraviglioso.-
Quello è il mondo di Sherlock, del suo Sherlock. Un mondo dove i draghi vivono selvaggi, dove la natura li protegge. Un mondo sereno, che il suo compagno avrebbe amato osservare e studiare.
-J… John?-
Una calda lacrima scappa dalle ciglia e scivola sul suo viso, bagnandogli il viso di tristezza cristallina, pulita. Vorrebbe guardare quel mondo attraverso gli occhi di Sherlock, ma glielo hanno portato via.
-Tutto bene?- domanda Mary, sporgendosi per guardarlo in viso.
John scrolla il capo, siede lentamente sul bordo dello spuntone roccioso. Poi, anziano di troppe emozioni vissute e troppi dolori sofferti, solleva lo sguardo sul paradiso che lo attornia. Pensa a Sherlock, ai suoi occhi, al suo entusiasmo quando scopriva qualcosa di nuovo.
Il suo drago, il suo angelo.
John si riprende con un sobbalzo, fissa Sherrinford ancora immobile alle spalle di Mary. Lo squadra, cerca di convincersi che quello non è Sherlock, il suo Sherlock. E questo gli fa rabbia, perché Sherlock non c’è più, mentre il suo sosia è in circolazione. Non è giusto, non è leale.
-Chi sei tu?-
Sherrinford sorride, l’accenno di canini affilati ad accarezzargli le labbra carnose, le stesse che John ha baciato tante volte e che invece non potrà sfiorare mai più.
-Non si vede?- Sherrinford si raddrizza, china il busto con fare teatrale e lo fissa attraverso la cortina scura di capelli scompigliati. –Sherrinford Holmes, gemello di Sherlock e ufficialmente ultimo rimasto della mia razza.-
 
Angolo dell’autrice:
Sono in ritardo. Di nuovo. Porco gatto!
Mrs Hudson: cos’hai contro i gatti?
Niente, era un modo di dir…
Mrs H: I GATTI SONO CREATURE MAGNIFICHE, VA BENE?! MAGNIFICHE!!! I DUGONGHI SONO ORRIBILI, INVECE!!! PRENDITELA CON LORO!!!
John: credo che abbia preso le pillole sbagliate, stamattina… inveisce contro i dugonghi da ore, ormai. Cosa le hanno fatto?
Mi fate scrivere!? Espatriate, tutti e due!!!
Ecco, torniamo a noi… ah, sì! Un ringraziamento speciale a coloro che come al solito con immensa pazienza hanno recensito e reso possibile la pubblicazione del nuovo capitolo!
Kimi o Aishiteiru
Kcolrehs_41175
Luna moontzuzu
Sonia_0911
Grazie di cuore, davvero! E a prestissimo!

Tomi Dark Angel
 

 

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Capitolo 10
*** Io credo nei miracoli, lo giuro! ***


“MOLLY!!!”
“NOAH!!!”
Vento sulla pelle, paura, disperazione. Una mano artigliata la afferra per un polso, strattona, la spinge contro un petto ampio e muscoloso. Noah spalanca le ali nel disperato tentativo di riprendere quota, ma qualcosa va storto. Si ode uno strappo, una delle vele di sinistra si contorce dolorosamente. Noah ringhia nell’orecchio di Molly, le circonda la vita con la coda massiccia mentre precipitano ancora. Chiude le ali su di lei, piega l’ala sana per ruotare a mezz’aria ed esporre la schiena allo schianto con l’acqua improvvisamente dura come roccia cristallina. Farà male, brucerà come fuoco. Lui potrebbe anche spezzarsi la schiena. Ma a Noah va bene così, perché Molly sarà salva.
Nessuno si sarebbe aspettato che il drago li avrebbe lasciati andare a mezz’aria, senza tornare indietro a riprenderli o a ucciderli. Semplicemente, ha mollato la presa su di loro per afferrare John e sparire nel nulla, ombra tra le ombre, così come era arrivato.
E adesso loro precipitano disperati, Molly trema e Noah prega un Dio nel quale non crede davvero che John sia salvo, che stia bene. Sherlock lo prenderebbe a calci in culo, se fosse ancora vivo. Noah avrebbe dovuto proteggerli, occuparsi di John… ma non l’ha fatto. Ha protetto Molly, al caro prezzo di Irene e John.
Dove sarà lei?
Dove sarà lui?
Perduti. Forse perduti per sempre. E la colpa è di Noah e della sua incapacità di pensare tatticamente. Non li ha muniti di protezione, non si è preoccupato di organizzare un degno piano di difesa, semplicemente perché ha dato per scontato che nessuno li avrebbe attaccati davvero.
Idiota.
-Trattieni il respiro.- mormora all’orecchio di Molly, e lei ubbidisce. Lo stringe con forza, blocca le sue stesse vie respiratorie.
Poi, giunge lo schianto. Violento, doloroso, che schiocca aggressivo contro la spina dorsale di Noah. L’acqua è troppo fredda, e li abbraccia di una stretta che fortunatamente anestetizza momentaneamente il dolore che Noah già avverte, seppur più leggero, strisciargli sottopelle. Ma, ciò che è peggio… è che non riesce a muoversi. Non sente più le gambe, e poco a poco anche le braccia stanno perdendo di sensibilità. È come se una malattia insidiosa gli stia spezzando uno alla volta tutti i legamenti, tutti i tendini, giù fino alle ossa.
Crack, crack, crack.
Noah sbarra gli occhi, non respira. Tenta di muovere le zampe, cerca di scudisciare la coda… non funziona. Il suo corpo è immobile, abbandonato, pesante come macigno gettato nello stesso mare dove adesso lui e Molly affondano.
Molly, la sua Molly. No. Non anche lei. Noah ha già perso Sherlock, poi Irene e John. Ha fallito miseramente con loro, e la gemma che durante l’aggressione è caduta chissà dove, rappresenta solo il suo ennesimo fallimento. Ha perso tutto: l’ultimo regalo di Sherlock, i suoi amici, i suoi ideali. Ogni cosa affonda con lui, sparisce mentre Noah si lascia andare. E fa male, brucia da morire. Per un attimo ha pensato di esserne degno, di potercela fare. Ma forse la vita stessa non fa per lui. Solo e senza famiglia, cresciuto troppo in fretta, figlio di una guerra che gli ha strappato i genitori. Niente vita, niente serenità. Per lui no. Ma per Molly… Noah non ha intenzione di fallire anche con lei. Il suo ultimo gesto, la sua ultima preghiera, saranno per quel piccolo miracolo che per anni si è occupato di lui, giorno dopo giorno, crescendolo, donandogli il sorriso e la gioia di vivere. Dopo Sherlock e John, Molly è la persona più importante che Noah abbia mai avuto. È lei il suo cristallo vero, e brilla di luce propria con un’intensità che fa quasi male. Ha illuminato abbastanza della vita di Noah, e adesso è ora che quel cristallo sparisca, che sia libero di percorrere la sua strada: lui ha visto, amato, e forse vissuto abbastanza.
Con le ultime forze rimaste, Noah allenta la presa su Molly e la afferra per le spalle. La allontana da sé per guardala negli occhi, quelle iridi grandi e scure, lucenti di terrore e lucente umanità. Sono stelle del Vespro, piccoli punti luce che alla sera e all’alba brillano ancora e ancora, prime a sorgere e ultime a tramontare. Quegli occhi, Noah li ha amati dal primo momento in cui li ha visti.
Vorrebbe parlarle, vorrebbe spiegarle perché non può seguirla in superficie. Semplicemente, non ce la fa. Non cammina più. Qualcosa è andato storto nella sua schiena, e l’impatto forse gli ha spezzato la spina dorsale. Se anche riuscisse a risalire, Molly dovrebbe poi trascinarlo a riva come un peso morto, e da sola non ce la farebbe. Eppure, Noah sa che ci proverebbe lo stesso, fino alla fine, lottando con tutte le sue forze. Così, troppo stanca per nuotare, alla fine annegherebbe anche lei.
No.
Noah affonda una mano nei capelli fluttuanti di Molly, ne accarezza le ciocche leggere, sfiora innamorato quei fili scuri che tante volte da bambino ha sognato di poter accarezzare.
“Non posso seguirti”.
Socchiude gli occhi, si riempie lo sguardo della vista della sua unica vittoria. Una vita per una vita: Molly sarà salva, e questa è l’unica benedizione che Noah accetta prima di andarsene.
“Sii libera. Sii felice. E impara a volare con le tue sole ali… quelle sono sempre state più grandi delle mie, anche quando non credevi di averle”.
Noah la guarda ancora, dolcemente sorride. E improvvisamente, il dolore sembra sparire.
“Io credo in te, Molly Hooper”.
Si protende verso di lei, le sfiora le labbra con le sue in un semplice tocco di bambino, una carezza gentile che sa di paradiso e inferno, di cielo e terra, di passato e presente. Un bacio semplice, senza pretese. Ma, nella sua semplicità, esso appare anche tremendamente infelice. Infelice perché quello è l’ultimo gesto di Noah, infelice perché lui riesce a dichiararsi soltanto adesso, dopo anni e anni di affetto silenzioso.
“Sii libera. Vivi!”
Molly sbarra gli occhi, li fissa in quelli socchiusi del drago che ha dinanzi. Non ha mai visto dei riflessi violetti così belli. Eppure… c’è qualcosa di strano in lui, nel suo sguardo improvvisamente sereno. Perché non si muove?
“Vivi, Molly!”
E improvvisamente, Noah la spinge verso l’alto con l’ultimo slancio di energie.
“Salva il mondo. Combatti così come io non ho potuto fare. Io credo in te, Molly”.
Molly tende una mano verso Noah, grida, e anche attraverso l’acqua lui riesce a sentire l’eco della sua disperazione. Ma va bene così.
“Sii libera!”
Noah chiude gli occhi, pregando un’ultima volta, ricordando la forza della ragazza che ama, il suo volto, i suoi occhi. Crede in lei e nelle sue capacità, ci crede con tutte le sue forze. Se c’è qualcuno che può trovare gli altri e porre fine a questa storia, quella è Molly.
“Io credo nei miracoli. Credo nel tuo essere un miracolo, Molly. Lo giuro”.
Ma Noah non è il solo a pregare, ad aver fiducia. Molly capisce che la pressione è troppa, che non riuscirà a scendere verso Noah. Ma non lo lascerà lì, costi quel che costi. Lotterà come ha sempre lottato lui, lotterà come ha sempre fatto quel bambino ancora troppo piccolo ma che durante la guerra lottava come la più feroce delle bestie. Lotterà, perché Noah le ha insegnato così. Non John… non Sherlock. Non Sherlock Holmes!
Molly si guarda intorno, ode l’eco di un grido silenzioso sfiorarle le orecchie. Noah urla senza aprir bocca, le grida di aver fiducia in lei. E lei semplicemente risponde perché a sua volta… crede nei miracoli. Crede in Noah e in Sherlock che è ancora lì e li protegge.
Chiude gli occhi, si porta le mani al petto. Poi, comincia a pregare in silenzio.
“Io… credo nei miracoli”.
E Molly ci crede davvero, così come Noah crede in lei. Crede nei miracoli, crede nella carità di Sherlock e nella forza della sua anima. Non l’ha mai visto andar via davvero, semplicemente perché John è rimasto in vita… e Sherlock non abbandona John. E non abbandona i suoi amici.
“Io credo nei miracoli. Lo giuro!”
Molly grida, leva al cielo le sue preghiere. Chiama Sherlock, chiama il suo re, il suo amico. E lo chiama in qualità di Dio misericordioso.
“Io credo nei miracoli. LO GIURO!!!”
Improvvisamente, qualcosa freme, il mare vibra di una eco silenziosa. Il grido di Molly si estende per leghe e leghe, s’insinua nei boschi e nelle città, nell’acqua e nella terra. Il cielo accoglie le preghiere, le riflette ai quattro angoli dell’universo. Chiede aiuto per lei, chiede pietà per quella vita che poco a poco soffoca e si spegne nel sacrificio di un amore perduto.
“IO CREDO NEI MIRACOLI!!! LO GIURO!!!”
E stavolta Molly grida davvero, a pieni polmoni, cacciando tutta l’aria di cui dispone. Non ha abbastanza ossigeno per risalire in superficie, ma non le importa. Senza Noah, non sopravvivrebbe lo stesso.
Una seconda eco, un altro grido alla pietà. Si espande ancora e ancora, oltre gli oceani, fino alle orecchie e al cuore di chi anche solo accidentalmente, sa ancora ascoltare.
“Io credo nei miracoli. Lo giuro”, urla quella voce. E lo ripete di continuo, come un mantra o una preghiera che non accetterà un rifiuto come risposta. E non sarà solo Molly a lottare per vederla esaudita. A Londra, lontano da lì, Mrs Hudson si affaccia, leva gli occhi al cielo.
-Io credo nei miracoli… lo giuro.- mormora, guardando su, dove sa che Sherlock ormai dimora come anima ancora in vita, ancora pulsante. Più in là, Mike Stamford ode un’eco, e non sa cosa esattamente lo spinge a pregare all’improvviso, occhi al cielo e cuore aperto. Sorride, scaglia un pugno in aria… e urla: -IO CREDO NEI MIRACOLI, LO GIURO!!!-
Intorno a lui, la gente si ferma, lo fissa, poi guarda il cielo. Ma è un bambino a sorridere, a vedere un baluginio di oscuro arcobaleno su, tra le nuvole, laddove il leggero cimitero dei draghi dimorerà in eterno. Ed è forse la semplice forza di crederci, la giovane energia di bambino a fargli cominciare un mantra continuo, urlato, al quale si aggrega lo stesso Mike: -Io credo nei miracoli, lo giuro, lo giuro. Io credo nei miracoli, lo giuro, lo giuro…-
I draghi nelle vicinanze atterrano all’improvviso, si arrampicano sulle costruzioni rinforzate, levano le grosse teste al cielo. Poi, uno alla volta, si trasformano in umani iridescenti, muniti di coda, ali e scaglie. E tutti insieme, si uniscono al coro.
Credono nei miracoli, ci credono davvero. Implorano aiuto, implorano giustizia.
Edarion si affaccia dal palazzo, grida anche lui. Poco dopo, Greg Lestrade si distrae, rovescia il caffè per la folla che grida al cielo le sue preghiere. Si chiede cosa stia succedendo, teme che qualcosa li stia attaccando… ma quando guarda Mycroft, seduto a gambe accavallate sul davanzale della finestra e lo sente mormorare a sua volta il suo mantra, l’umano capisce che qualcosa sta cambiando.
Il mondo si raccoglie al cospetto di un unico grido, un pezzo alla volta. Nelle foreste gli animali fissano il cielo, nell’acqua le bestie marine si bloccano e ascoltano. Uno alla volta, nella rispettiva lingua, anche loro supplicano e piegano il capo al cospetto di quell’unico ordine che improvvisamente si sovverte, cambia, rinasce a nuovo volto.
-IO CREDO NEI MIRACOLI, LO GIURO, LO GIURO!!!-
Da qualche parte nell’oceano, Irene Adler giace viva, sanguinante e aggrappata a uno scoglio. È stanca, ha paura… ma anche lei trova la forza per chiedere aiuto al cielo.
-Io credo nei miracoli, lo giuro, lo giuro… coraggio, dolcezza.-
Ma è ancora più lontano, oltre l’oceano e racchiuso in uno scrigno di ghiaccio, che l’unico valente ago della bilancia spalanca gli occhi lucidi di lacrime e leva il volto al cielo. John Watson scatta in piedi mentre i draghi, Sherrinford e Mary si immobilizzano in ascolto.
-Stanno pregando. Il mondo…- mormora Sherrinford, ma non fa in tempo a finire che Mary lo interrompe e sorridendo scaglia un pugno in aria, luminosa di umana aspettativa.
-Io credo nei miracoli, lo giuro, lo giuro!- urla, e comincia a ripeterlo più e più volte, senza fermarsi mai, come una bambina che guarda l’orologio il giorno della vigilia natalizia, nell’attesa di veder scoccare la mezzanotte. –Io credo nei miracoli, lo giuro, lo giuro!-
Sherrinford si guarda intorno, fissa i draghi improvvisamente immobili, improvvisamente in attesa. L’acqua in fondo alla cascata vibra, come se qualcosa stesse per emergere. Ed è allora che Sherrinford affianca John, sorridendo genuino, sereno, come se stesse parlando silenziosamente con qualcosa… o qualcuno.
-Coraggio, fratellino.-
Annuisce a indirizzo di John, gli poggia una mano sulla spalla e ammicca.
-È il tuo momento, Romeo. Forse è ora di fare la differenza.-
John non ha bisogno di chiarimenti per sapere che il mondo si sta unendo, che per un’unica vita, la gente forse è disposta a lottare davvero. Quello è il mondo che ha accolto Sherlock, quello è il mondo che lo ha visto morire ma che non lo ha mai dimenticato davvero. John lo sente vivere in quelle preghiere, ascolta il suo nome che sottointeso si propaga oltre gli oceani, oltre i cieli, fino all’esercito di Augustus Magnussen.
John sorride, il luccichio di una lacrima sul viso. –Coraggio, Sherlock. Aiutalo, ti prego… aiutaci tutti. Io credo in te, miracolo mio, miracolo del mondo.-
Sherrinford gli stringe la mano, la chiude a pugno sulla sua, stretta a sua volta. Poi, scaglia il loro intreccio di dita in cielo, violento come un pugno rivolto a quanto di malvagio è nel mondo.
Perché il male non si porterà via anche Noah.
Perché il male non li ferirà di nuovo, mai.
Loro hanno una difesa, loro hanno Sherlock Holmes. E questo vale più di qualsiasi altro esercito mai esistito, incluso quello di Magnussen.
-IO CREDO IN SHERLOCK HOLMES, LO GIURO, LO GIURO!!!-
Il mondo si raduna, implora, leva al cielo le sue suppliche. Tutto, per un’unica vita tanto fragile, ma tanto gentile. Noah ha salvato il mondo, una volta. Sacrificò se stesso, antepose al suo stesso benessere i suoi ideali. E la Terra ha bisogno di lui così come un disidratato ha bisogno d’acqua. No, il mondo non vedrà spegnersi un altro sovrano, né un altro giovane uomo. C’è vita, c’è speranza. E la gente lo dimostra urlando, pregando, implorando il predecessore di Noah di compiere il miracolo.
E alla fine… il miracolo avviene. Perché a volte basta pregare, basta chiedere, e un piccolo cambiamento finalmente sboccia.
La schiena di Noah tocca il fondale, s’inarca abbandonata e ormai inerme ad ogni visibile ansito di vita. Molly Hooper grida ancora, prega… ma qualcosa la urta all’improvviso, spingendola di lato.
Dopo la guerra, i draghi marini sembravano scomparsi nel nulla. Svolsero il loro compito, poi s’inabissarono, e nessuno li vide più. Tuttavia, nessuno che abbia visto ha mai dimenticato la reale maestosità di quelle creature acquatiche. Molly ancora le rivede nei sogni, iridescenti come ali di libellula, possenti di muscoli e pinne massicce. Sono signori del loro regno, signori degli oceani e dell’acqua che piove dal cielo.
Molly ricorda. E sa che quella creatura grande quanto due intere metropoli ha combattuto come sovrano del suo popolo nell’ultima grande guerra di due anni fa.
Il drago ha la pelle azzurrina, percorsa di riflessi argento e oro, come carne iridescente di un pesce. La schiena è percorsa da un’unica, lunga membrana argentea intervallata da ossa appuntite, sottili, che svettano verso l’alto come piccoli pugnali. I muscoli sono definiti, sporgenti, e le zampe palmate. La coda è un intreccio di pinne natatorie e membrane fluenti come acqua che danzano abbandonate intorno alla pinna centrale, più grossa e più massiccia. Poi, c’è la testa. Lunga, dal muso affusolato, percorsa da creste e piccole punte d’argento. Ha occhi blu zaffiro, dalla pupilla verticale.
Molly sbarra gli occhi, fissa la creatura mentre con dolcezza afferra Noah e lo trascina verso l’alto, verso di lei. Quando il drago la raggiunge, Molly si aggrappa con le ultime energie residue e lascia che le loro teste buchino la superficie dell’oceano.
Aria. Ce n’è troppa. Brucia i polmoni, invade le narici, corrode i sensi. Molly se ne sente sopraffatta e quasi perde la presa sulla pelle scivolosa del drago per un giramento di testa.
Tossisce, cerca di respirare normalmente. Dopo un po’ ci riesce. Anche il cervello si riattiva, ma lo fa con calma, quasi pigramente, e lei si sente ancora troppo stordita per riemergere dallo stato di prostrazione in cui verte.
Poi, il drago brontola come per dirle qualcosa. E Molly ricorda.
-No… Noah…-
Raggiunge nuotando il corpo di Noah, sostenuto dalle fauci appena schiuse del drago marino. Molly avverte il respiro della bestia sulla pelle, ma non si innervosisce per la vicinanza esagerata di quelle zanne poderose al suo viso. Sa che se il drago volesse potrebbe inghiottirla in un colpo solo, ma non le importa. Tutto ciò che vede adesso è Noah, col suo viso esangue e i capelli appiccicati al viso. Ha gli occhi chiusi, le labbra serrate, le ali abbandonate metri e metri sotto di lui come splendide propaggini di ametista. Le squame brillano come pietre preziose alla luce del sole.
-Noah.- Molly lo afferra per le spalle, gli stringe il viso con entrambe le mani. Lo guarda in volto, lo scuote, lo chiama.
-NOAH!!! Svegliati!-
Urla, urla al cielo ancora una volta.
Noah non respira, e Molly improvvisamente ha paura di nuovo. Non può aiutarlo lì, al centro dell’oceano, col solo aiuto di un drago marino a disposizione. È già tanto che la bestia li abbia riportati in superficie.
-NOAH!!!-
Molly lo abbraccia forte, urla il suo nome. Poi gli bacia le tempie, le guance, le labbra. Lo richiama alla vita con tutte le sue forze, piangendo mentre lo bacia, singhiozzando aria sulla sua bocca adesso appena schiusa.
-Svegliati. Non andartene, non adesso!- supplica, abbracciandolo ancora. Affonda il viso nei suoi capelli, respira sul suo collo, si graffia le dita sulle squame taglienti. Ma non importa, perché sangue e acqua per lei sono la stessa cosa, adesso che Noah non c’è più. Sangue ed acqua, come vita o morte.
Senza di lui, Molly non andrà avanti.
-Restituiscimelo, ti prego.- mormora al cielo. –Mi hai aiutata, quindi perché portarmelo via ora?-
Il drago grugnisce, liberando una zaffata d’alito che odora di oceano e sale.
“Non dovresti essere così rumorosa, Molly Hooper”, mormora una voce alle sue spalle. “Mi dai fastidio”.
Non può essere.
Molly si volta, incrocia lo sguardo di una figura evanescente placidamente ritta sul pelo dell’acqua. Indossa un lungo cappotto nero e ha le mani in tasca, come se fosse capitato lì per caso. La fissa con incredibili occhi di vetro, limpidi come acqua cristallina.
-Sherlock Holmes…-
La creatura sorride, facendo vibrare di riflessi le ali luminescenti e la coda massiccia. Molly non l’ha mai visto sorridere, ma vederlo non le provoca più quel brivido che gli aveva sempre attribuito quando era nelle vicinanze. Perché? Cosa è cambiato?
-Non… non è possibile. Tu sei…-
“Morto?”
Molly annuisce, arrossendo vistosamente. Sherlock Holmes sospira esasperato.
“Secondo te chi te l’ha mandato Idillian?”
-Chi?-
“Il drago marino, stupida”.
Molly guarda il drago alle sue spalle, ma quello non sembra allarmato dalla presenza di Sherlock. Sbuffa un saluto dal naso e incredibilmente arriccia le commessure labiali in un sorriso animalesco.
“Mi hai chiesto aiuto, Molly Hooper, e io te l’ho fornito. Ma io non resuscito i morti”.
Molly singhiozza, una mano premuta sulla bocca. –Vuoi dire che…?-
“Certo che no, stupida”.
Sherlock sbuffa dal naso, esasperato, ma Molly trae un tremante sospiro di sollievo. Stringe Noah a sé, pianse ancora, affonda il viso nei suoi capelli. Lo sente freddo e distante come un morto, ma se Sherlock dice che era ancora vivo, gli crede.
-Grazie a Dio… grazie….-
Si volta nuovamente verso Sherlock, ancora fermo sul pelo dell’acqua. Li fissa con malcelata tristezza, lo sguardo distante, l’aria stanca.
“Non potrò essere al vostro fianco ancora per molto. I rimasugli della mia anima si tratterranno solo fino a un certo punto. Poi, dovrete andare avanti da soli”.
Molly respirò profondamente per calmarsi. –John non continuerà senza di te.-
“Lo so”.
Molly lo guarda, ma tutto ciò che vede in Sherlock è semplice e pacata sincerità.
-Non puoi abbandonarlo… ha bisogno di te.-
Non avrei mai voluto farlo, Molly Hooper”, risponde Sherlock, e Molly capisce che quello è forse uno dei rari momenti in cui Sherlock Holmes apre il suo cuore, morbido di emozioni ancora vive, pulsanti e mai defunte. “Ho imparato la vita da John, e con lui ho vissuto ciò che avevo da vivere. Va bene così. Ho capito come sarebbe finita quel giorno, durante il nostro penultimo viaggio. Io già sapevo, e sono pronto. Ma lui non lo è. So che non sarà facile andare avanti, ma deve farlo, perché la vita non è giusta e perché la guerra dovrebbe avergli insegnato che nessuno è immortale, nemmeno io”.
Sherlock spinge lo sguardo in lontananza, come se stesse osservando qualcosa che soltanto lui riesce a vedere. Nonostante la semitrasparenza del suo corpo, il bacio della luce solare riflette sulle sue scaglie il caratteristico riflesso di oscuro arcobaleno, lontano e bellissimo così come Molly lo ricorda.
“Io ho fatto la mia parte, e la mia storia finisce qui. Ho vissuto abbastanza per vivere davvero e ho imparato abbastanza da ciò che la vita ha saputo darmi. Ho conosciuto la morte, Molly. Credo di aver compiuto il giro completo delle lancette del mio orologio. La mezzanotte è scoccata e per questo io non potrò rispondere ogni volta ai vostri richiami. Non sono la vostra balia, è ora che lo capiate”.
Guarda Noah, lo fissa intensamente. E all’improvviso, i suoi occhi si riempiono di un orgoglio talmente marcato, talmente vivo, che Molly quasi non riconosce il suo viso. Sherlock guarda Noah come un padre fisserebbe il figlio appena laureatosi col massimo dei voti. È fiero di lui, è sicuro di aver fatto la scelta giusta.
“Sarà un grande sovrano”, mormora. “Saprà accettare il suo ruolo così come io non ho mai fatto. Questo piccoletto mi ha insegnato più di quanto avessi mai potuto immaginare, e me ne rendo conto solo adesso. Non sono bravo coi sentimenti… io no”.
Il suo sguardo torna a spingersi lontano, e Molly capisce che in quei momenti, Sherlock pensa a John.
“Lui era bravo. Lui sapeva sempre cosa fare o cosa dire. Però, mi ritengo abbastanza intelligente da sapere di aver fatto la scelta giusta con Noah”.
A sorpresa, Sherlock sorride di un sorriso luminoso, vivo, chiaro come raggio di sole tra fasci di nubi temporalesche. È un sorriso che gli schiarisce lo sguardo, è un sorriso che pare ringiovanirlo di secoli e millenni. È il sorriso di un padre, è il sorriso di un uomo finalmente sereno.
“Aiutalo a regnare, Molly Hooper. Aiutalo a compiere le scelte giuste, aiutalo a crescere. Ha ancora tanto da imparare, ma sono certo che saprai aiutarlo. Aiutalo, e aiuta John”.
-Non posso sostituirti, lo sai. John continuerà a cercarti, aspetterà, ma non ti volterà mai le spalle.-
“So anche questo, ma devi provarci. È l’ultima cosa che ti chiedo, è il mio ultimo desiderio. Sii regina del tuo regno, ma non dimenticare gli antichi re decaduti. Tra di essi, c’è anche il tuo migliore amico, colui che ha sconfitto il più feroce dei draghi per difendere la pace e gli ideali in cui credeva. Ricordalo, Molly, e restagli accanto”.
Lentamente, l’immagine di Sherlock comincia a sbiadire. Molly vede il mare stendersi alle sue spalle, il cielo, la brina ghiacciata. E ha paura di restare da sola, con Noah svenuto e un drago marino come unico appiglio.
-Non lasciarmi!-
Ma Sherlock non smette di sorridere. Tende una mano, schiude le dita. E, al centro del suo palmo, si presenta la familiare quanto splendida gemma che Noah credeva di aver perso durante l’attacco di Sherrinford.
Molly afferra la pietra, se la stringe al petto con la mano libera, gli occhi colmi di lacrime non versate.
“Ci rivedremo, Molly Hooper. Forse per l’ultima volta, ma ci rivedremo. Io non dimentico chi mi è amico, così come non dimentico il mio popolo. Vi guiderò di nuovo, lotterò per voi e con voi. Poi, sarò libero di intraprendere la mia strada… e il mondo che conoscete finalmente vedrà una nuova alba, tinta di tiepido oro o del rosso sanguigno del sangue degli innocenti. Starà a voi decidere cosa accadrà. Il mondo lo plasmiamo con le nostre azioni, dopotutto… cosa fa di un uomo, un uomo? Forse come muore, o come viene alla vita? No, Molly. Sono le scelte che fa… non come inizia le cose, ma come decide di finirle”.
Ed è lì, alla luce del sole che poco a poco comincia a tramontare, che Sherlock svanisce, si dissipa come aria pulita e profumata di spezie e vaniglia. Sorride ancora, forse per l’ultima volta, ma nemmeno per un istante abbandona l’aria di regalità che lo ha sempre contraddistinto. Molly capisce allora di poterlo seguire in capo al mondo, prima e dopo la morte, semplicemente perché quello è un re che mai morirà nelle leggende, un re che più della madre ha saputo sacrificare se stesso per ciò che è meglio per tutti.
Un re. Il suo re, il re dei draghi. L’ultima grande bestia sopravvissuta allo scorrere delle ere, l’ultima leggenda che mai morirà tra scritti e canti, tra racconti e disegni, tra ricordi e sorrisi di chi l’ha realmente conosciuto.
Un re. Il suo nome è Sherlock Holmes.
 
Angolo dell’autrice:
Un parto. Questo capitolo è stato un parto. Tuttavia, è importante nel suo piccolo. La scena di Molly che prega per Noah e coinvolge il mondo intero in un’unica grande implorazione, è tratta da un film che guardavo quando ero piccola ma che qualcuno forse ha visto. Chi sa dirmi quale?
Sher: finiscila con queste stupidaggini. Io sono morto, qui.
E morto ci rimani! Così impari a mangiarti l’ultimo sandwich rimasto nel piatto!
Sher: avevo fame.
Non mi interessa! C’era il mio nome, scritto su quel tramezzino!
Coff coff… torniamo a noi. Spazio ai ringraziamenti!
Kcolrehs_41175: suvvia, almeno in questo capitolo Sherrinford si è rifatto! Non è cattivo come sembra, e lo dimostrerà molto presto. E anche Mary non è male. Sherlock non è ancora scomparso del tutto, ma il suo tempo stringe ed è abbastanza intelligente da lasciare la situazione in mano a chi sa gestirla. Ma è ancora tutto da vedere! A presto!
Sonia_0911: sì, Sherlock ha un gemello. Sherrinford è presente anche nei libri, ma se non ricordo male, lì è il gemello di Mycroft. Credo. Purtroppo ho letto i libri anni fa e non li ricordo benissimo. Per spiegare il pezzo che hai citato: “Sherlock non si è mai occupato dei casi. Per lui i casi non esistono”. Sherlock crede che ogni cosa, ogni avvenimento, siano soggetti alla pura e semplice logica. Nessun caso è casuale, nessun caso sfugge alla ferrea logicità del mondo e degli schemi che egli stesso ha costruito nella mente. Spero di esserti stata d’aiuto! E grazie mille per il commento, a prestissimo!

Tomi Dark Angel
 
 
 

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Capitolo 11
*** L'Alfa ***


Rivangare il passato non è facile. I ricordi graffiano, fanno male, abbagliano gli occhi di una luce che ferisce e lacera le retine, accecando di un dolore animale chi non può più vedere un barlume di felicità.
John si sente così mentre parla con Mary, mentre ricorda Sherlock attraverso parole troppo insulse che non lo rispecchiano davvero. È come descrivere il sole. Parli dei raggi, della luce, del calore che emana, ma non è mai abbastanza. Come si descrive la lucentezza abbagliante di quelle squame? Come si descrive il colore innaturale di quegli occhi cristallini che non possono più vedere? Semplicemente, non si può. È impossibile, e John se ne rende conto adesso, mentre il cielo sopra le loro teste si schiarisce dei bagliori di un’alba tinta d’oro e vermiglio.
-Lui… era la mia vita. E io l’ho perso.- mormora John alla fine. Si copre il volto con vergogna, respira a fondo mentre lacrime d’amarezza gli accarezzano la pelle. –Non sono stato abbastanza accorto, non ho fatto abbastanza per salvarlo. Lui se n’è andato guardandomi negli occhi, e io non ho fatto niente. Ho ucciso la cosa più bella che il mondo abbia mai avuto modo d’ospitare. C’è un perdono per un peccato tanto grande, Mary? Esiste da qualche parte un paradiso per quelli come me?-
Mary non lo guarda, non commenta. Semplicemente, gli stringe una mano e sorride.
-Credo proprio di sì, John. E sai perché? Perché il paradiso ce lo procurano loro.- Accenna verso Sherrinford che vola in lontananza, libero e leggero come il suo gemello era stato un tempo in vita. –Ci perdonano, ci insegnano a vivere e a volare. E sì, sono certa che Sherlock ti aspetta, da qualche parte lassù. I draghi sono creature splendide e senza tempo, le cui anime mai abbandonano davvero la loro metà. Sherlock sarà sempre una parte di te, e quella parte un giorno vorrà riunirsi al resto. Quindi… sì, raggiungerai Sherlock lassù, un giorno. Il mondo ti ha già perdonato, e credo adesso che tu debba perdonarti a tua volta.-
John non ci crede. Non vuole pensare che il mondo sia così benigno, non dopo che tutti loro hanno lasciato morire Sherlock.
Scuote il capo.
-Mi dispiace, Mary, ma non ci riesco. Ho perso una parte di me quel giorno, e così sarà fino alla fine. Sono destinato a vivere nell’incompletezza.-
-Sherlock non lo avrebbe voluto.-
-Non so cosa avrebbe voluto Sherlock, perché a causa mia non posso più parlarci. Lui mi ha salvato la vita tante volte, ha fatto in modo che tutto andasse sempre bene… e io l’ho guardato morire.-
John si copre gli occhi, piega la schiena come un vecchio affannato dai troppi anni di vita. Non ce la fa più. Non senza Sherlock.
Vuole cambiare argomento, vuole distrarsi, ma non riesce a pensare ad altro. Mary però, provvede al posto suo.
-Sai come sono sopravvissuta quando ci lasciammo?-
John la guarda, quasi sorride. –No, ma mi piacerebbe ascoltare la tua storia.-
-Durante l’attacco di tanti anni fa… eravamo bambini, ricordi?-
-Fin troppo bene.-
E John ricorda davvero. Ricorda la paura, l’odio, la rabbia per aver perso la sua più cara amica.
-Durante l’attacco, corsi tra le macerie alla ricerca di un riparo. Gli ordini dei militari erano stati chiari, quindi era meglio non restare in strada mentre i draghi le inondavano di fiamme. Mi diressi verso una casa aperta, diroccata per metà, ma ancora abbandonata. Entrai, salii le scale alla ricerca di un letto sotto cui nascondermi… ma ciò che trovai non me lo sarei mai aspettata davvero.-
Mary fissa Sherrinford, lo guarda librarsi nel cielo con leggerezza antica e senza tempo, morbida, viva come un tempo erano stati i movimenti di suo fratello. John lo guarda a sua volta, e lo trova così simile al suo Sherlock, così simile al pezzo mancante della sua anima, che i pezzi già devastati del suo petto cominciano a fremere e a sbriciolarsi, lentamente, uno dopo l’altro.
-Lui.- mormora Mary. –C’era lui, John. Così bello, così lontano. Seduto ai piedi di una culla. E con un bambino umano in braccio.-
Mary sorride quando Sherrinford si tuffa in basso, lucente alle prime luci dell’alba come il più splendido dei tesori. Brilla come suo fratello, brilla come un Holmes.
-Forse è stato allora che ho iniziato a capire. Non sono così diversi da noi, John. Quella creatura aveva i miei occhi, le mie movenze, la dolcezza di un padre che fa giocare suo figlio ancora in fasce. Ricordo che Sherrinford proteggeva entrambi con le ali, schermandoli dalla caduta delle macerie. Ed era una delle cose più belle che avessi mai visto. Poi… tutto andò in pezzi. Lui mi vide, posò il bimbo nella culla e si trasformò, mandando quasi in pezzi la casa… e tu entrasti nella stanza.-
John ricorda quei momenti. Ebbe paura, una paura terribile. Aveva visto quella bestia ancora troppo piccola per essere adulta col muso a un passo da Mary, pronto a vomitarle addosso un fiume infernale. La fissava, schioccava le fauci. E John aveva perso la testa. Si era lanciato sul drago nell’esatto momento in cui la bestia afferrava Mary e si levava in volo, trascinandola via mente John gridava il suo nome, piangeva, pregava. All’inizio, pensò che le sue preghiere fossero state semplicemente ignorate. Adesso, sa che qualcosa è accaduto.
Mary è lì.
Mary vive tra i draghi.
Mary è felice.
-Questo… tutto questo l’hai costruito tu?-
-No.- Mary scuote la testa, poi indica qualcosa in basso, verso l’acqua che ribollisce sotto di loro. Si alza in piedi. –Devo farti vedere una cosa, John.-
Mary gli tende la mano, lentamente lo aiuta ad alzarsi.
Camminano lungo la sporgenza rocciosa, muovendosi tra i cristalli e i fiori, tra rivoli di rugiada e geoidi lucenti che come punti luce emergono dalla roccia, ammiccando brillanti verso di loro.
Sherrinford si avvicina, sbatte appena le ali per calare di quota e poggiare un piede animale sulla roccia, proprio accanto a John. Mantiene l’equilibrio così, i muscoli tesi, nudo e crudo così come la natura l’ha creato. È selvaggio, non è Sherlock. Eppure, quando John lo conobbe, Sherlock era esattamente così.
-Gli somiglio, vero?- Sherrinford atterra al suo fianco, lentamente richiude le ali. Sorride sbieco, una punta di tristezza a velargli lo sguardo, gli occhi lontani verso un ricordo che cerca disperato di mettere a fuoco.
-Sì.- ammette John. –Sei identico a lui.-
Sherrinford lo guarda di sottecchi, e improvvisamente appare nervoso, impacciato. Abbassa gli occhi, stringe le labbra. –Io… com’era?-
-Eh?-
-Parlami di lui.-
-Non… non lo ricordi?-
Sherrinford appare triste, stanco. –No. A volte provo a ricordarlo, ma non ci riesco. Mi guardo allo specchio e mi chiedo… lui è cresciuto così? Mi somiglia, o io somiglio a lui? Cosa abbiamo di diverso, cosa abbiamo in comune?-
John sorride, intenerito dal leggero rossore che tinge le guance di Sherrinford. È così umano, così diverso da suo fratello. Sotto questo aspetto, non si somigliano per niente, perché Sherlock non sarebbe mai arrossito in quel modo senza vergogna.
-Be’, lui era… Sherlock. Soltanto Sherlock.-
John sorride, guarda verso il cielo. Ripensa al suo Sherlock, ai momenti trascorsi insieme. Allora sembrava tutto così giusto, così vivo. Il mondo funzionava bene, traboccava di luce. Ma è stato solo quando Sherlock è morto, che John ha capito che in verità, la luce era lui. Niente di più, niente di meno.
-Visivamente, vi somigliavate molto.-
Sherrinford sorride imbarazzato, improvvisamente così umano, così apparentemente fragile da sembrare quasi puerile. I suoi occhi luccicano, il viso pare illuminato di morbida luce personale. È bello. E John capisce solo adesso di essere stato uno stupido.
Lui ha perso un compagno.
Sherrinford ha perso un fratello.
Entrambi hanno perso qualcosa, ma John non ha mai realmente considerato la faccenda sotto questo punto di vista. Per lui Sherrinford è stata la banale imitazione del suo Sherlock. Non ha mai considerato i suoi sentimenti, le sue debolezze, la sua umanità. E di umanità, gli Holmes ne hanno tanta, anche se non la dimostrano mai. Sherrinford non è diverso.
Come da molto lontano, a John pare di udire un sussurro. Sente Sherlock parlare, consigliargli, affiancarlo silenziosamente. E alla fine, John sorride. Tende una mano, stringe quella di Sherrinford, che lo guarda allucinato, gli occhi sbarrati in un’espressione di pura sorpresa.
-Non chiederti chi di voi due sarebbe migliore. So che lo stai facendo.-
-Co… come lo sai?-
Una punta di tristezza attraversa gli occhi di John. –Gli somigli, te l’ho detto.-
Finalmente, Sherrinford ricambia il sorriso. Ha i denti più affilati e meno umani, ma guardarlo è come rivedere Sherlock durante quei rari momenti di relax che solo in presenza di John si permetteva di concedersi. Quando sorrideva, il volto gli si illuminava di una luce personale e bellissima, come bagliore tenue di stella mattutina.
John ci ripensa, e sente il petto stringersi in una morsa dolorosa. Sherrinford gli stringe la mano in risposta, richiamandolo alla realtà. Sorride.
-Più ti guardo, piccolo umano, più capisco cosa abbia visto mio fratello in te.-
John arrossisce. –Non ho mai capito se Sherlock abbia visto realmente qualcosa di buono in me. A volte penso che abbia immaginato tutto.-
-Mio fratello non era uno stupido. Nessuno degli Holmes lo è. Credevo lo sapessi.-
-Sì, ma…-
-Allora non dubitare di lui.-
Sherrinford gli lascia andare la mano e si volta, facendogli cenno di proseguire. Non si guarda più indietro, non lo fissa più. Perciò, John si limita a seguirlo tra le rocce, in alto, verso la cascata. Avanzano, scavalcano gemme preziose, s’inerpicano sempre più in alto, verso il cielo, in una scalata di rocce ed edera, diamanti e cristalli.
Alla fine, giungono in cima allo spuntone.
-Vai avanti, John.- lo esorta Mary. Lei e Sherrinford indietreggiano, John avanza.
E improvvisamente, dalle acque emerge qualcosa. Una massa enorme, che riempie l’ambiente con la sola grandezza della testa. Nessuna creatura è tanto grossa. Sherlock era gigantesco, Moriarty era immenso. Ma questo… questo è diverso. Questa bestia pare grande quanto il sole, massiccia come un iceberg, indistruttibile nella sua massa di muscoli e scaglie. John non riesce a vederne il corpo perché probabilmente questo sprofonda nell’entroterra.
Quella bestia è forse la più antica che il pianeta ricordi. Quella bestia è tempo, giorni, ore, minuti. Ha guardato la nascita del mondo, l’ha visto sbocciare e fiorire. E, nella sua immensità, non ha osato intaccarne il regolare corso di sviluppo. John arriva a pensare che le enormi zampe abbiano contribuito forse a modellarne i monti e i vulcani come un bambino che gioca con la plastilina.
La bestia stiracchia il collo da rettile, le scaglie di un bianco madreperlaceo grosse come navi da crociera, le punte di zaffiro sottili ed eleganti che come un prezioso ornamento di luce corrono lungo la colonna cervicale.
Il drago ha un muso lungo e affusolato e la mandibola contornata da spuntoni sottili ma non discreti. Sulla sommità del naso sbuca una fila di membrane azzurrine, lunghe quanto tutto il muso. Le corna sono ondulate, di zaffiro, dello stesso colore degli occhi.
Gli occhi.
Così antichi, così giudiziosi. John si sente così piccolo al loro cospetto, così fragile, così puerile. Quante ere hanno osservato quelle iridi da rettile? Quante nascite, quante morti? Quella bestia non è come Sherlock. È più antica, più grossa, più… selvatica. Non parla, non ha niente di umano. John non riesce a immaginarsi l’immensità sconfinata di quella mole pressata in un corpo da uomo. Sarebbe sbagliato, innaturale. Perché quella bestia è un drago. Un drago vero, antico, selvaggio, così come era la sua razza agli albori delle ere. Forse, è l’ultimo rimasto.
John abbassa lo sguardo intimorito. Gli tremano le gambe e deve combattere l’istinto di fuggire. Nessun coraggio da soldato può aiutarlo al cospetto di quella splendida creatura.
-Io… io…-
Il drago sbuffa appena dalle narici, ed è come se un gelido tornado investisse John. Il vento lo spinge all’indietro, lo fa cadere e rotolare tra le rocce. Lui non si azzarda a rialzarsi. Sente che da un momento all’altro, il drago lo inghiottirà come un moscerino insignificante e di lui non resterà che un ricordo.
-Gli piaci.-
Mary lo raggiunge, si inginocchia per aiutarlo a sedersi.
John si arrischia a fissare nuovamente il drago, che stavolta non pare intenzionato ad atterrarlo di nuovo. Lo fissa ancora per qualche istante, trapassandogli l’anima e il corpo con due limpidi occhi di creatura ultracentenaria. Poi, s’immerge nuovamente e sparisce tra le profondità dell’acqua e della terra, silenzioso come si è innalzato, maestoso come nessuna creatura esistente.
Finalmente, John si ricorda di respirare.
-Cosa… cosa ho appena visto?-
Mary ride. –Un alpha, John. L’alpha. Forse l’ultima grande bestia rimasta su questa Terra. Lui ha creato questo rifugio e lui protegge tutti noi.-
-Credevo che… credevo che Sherlock forse un alpha.-
-Lo era.- Sherrinford si accovaccia al suo fianco, gli occhi fissi sull’acqua sottostante. –Ma non era così antico. Anche uno come mio fratello sarebbe stato costretto a piegarsi al cospetto di quella creatura.-
John ne dubita, perché Sherlock si era inchinato solo dinanzi alla morte. È rimasto in piedi, saldo e austero fino alla fine. No, non si sarebbe inchinato a un essere vivente.
-Sherrinford…-
-Mh?-
-Sherlock… lui ha saputo di te più tardi, durante uno dei nostri ultimi viaggi. Perché? Dove sei stato per tutto questo tempo?-
Domanda sbagliata.
Il volto di Sherrinford si adombra, i suoi occhi si scuriscono di rabbia e tristezza repressi. Stringe i pugni, contrae la coda e le ali, come se stesse per esplodere. Per qualche istante, John teme che accada davvero.
Poi però, Sherrinford si rilassa. Le dita si distendono, il respiro si calma, la coda non si agita più. Guarda John, sorride con tristezza profonda, antica, che ricorda troppi dolori subiti e tanta solitudine accumulata.
-Vieni.-
Sherrinford gli tende una mano artigliata.
-Voglio farti vedere delle cose.-
John esita, fissa incantato quella mano così simile a quella di Sherlock. Vuole fidarsi, ma sente che così in qualche modo tradirebbe Sherlock stesso. Affidarsi a un altro drago, per quanto simile a lui, è una buona idea? John spera di sì. Vuole crederci, vuole capire perché Sherlock lo ha mandato proprio lì.
Si fida di Sherlock. E Sherlock si fidava di Sherrinford.
-D’accordo. Mostrami.-
John afferra la mano di Sherrinford, e finalmente, almeno per qualche istante, si sente meno solo.
 
Angolo dell’autrice:
Feste maledette. Non ho mai il tempo per continuare la storia! Abbiate pietà di me…
Sher: no. Fatela fuori.
Ce l’hai ancora con me?
Sher: mi hai ammazzato. E per vendicarmi ho usato le tue scarpe come bersagli durante i momenti di noia. E i momenti di noia saranno molti, visto che QUALCUNO mi ha radiato dalla storia.
Brutto…! Ok, sono calma… non tentarmi, o potrei diventare più bastarda di qualsiasi scrittore mai esistito! E ora fai gli auguri di Natale e futuro felice anno nuovo, o il mio di bersaglio sarà il TUO violino.
Sher: io non… quello era Moriarty. Vestito da… renna?
Ehm… no? Sto ancora aspettando gli auguri…
Sher: auguri… credo… quello non può essere Moriarty. JOHN, TOGLITI QUEL COSTUME DA ELFO!!!
AUGURI A TUTTI QUANTI!!! E grazie di cuore ai santi recensori che non si stancano mai di leggere i miei deliri e di scrivere poi un bellissimo commento! Un bacio speciale a voi e un ringraziamento dal profondo del cuore! Grazie! E buone feste! A presto!

Tomi Dark Angel
 

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