Cuori, quadri, fiori, picche: welcome to Wonderland

di syontai
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il corridoio bizzarro: 100 porte per 100 mondi ***
Capitolo 2: *** Fiori parlanti e animali dal pelo buffo ***
Capitolo 3: *** Tè, tè, sempre e solo tè ***
Capitolo 4: *** Un nuovo arrivo a corte ***
Capitolo 5: *** Maxi, il rivoluzionario ***
Capitolo 6: *** Humpty Dumpty e la biblioteca dai mille specchi ***
Capitolo 7: *** L'armatura di cristallo bianco ***
Capitolo 8: *** La trovata di Lena ***
Capitolo 9: *** Una canzone d’addio, o un arrivederci? ***
Capitolo 10: *** Il Duo di Picche ***
Capitolo 11: *** Eterni rivali a confronto ***
Capitolo 12: *** Il segreto del castello ***
Capitolo 13: *** La gabbia del coniglio ***
Capitolo 14: *** La scintilla nell’oblio dell’incoscienza ***
Capitolo 15: *** Cavalcanti fu il poeta e chi lo lesse ***
Capitolo 16: *** Scoccare la freccia, e colpire il bersaglio ***
Capitolo 17: *** La quadriglia dell’aragosta ***
Capitolo 18: *** La missione di Pablo ***
Capitolo 19: *** Partenza. Obiettivo: Fiori. ***
Capitolo 20: *** Salto nel vuoto ***
Capitolo 21: *** Il piano di Lara ***
Capitolo 22: *** Cuordipietra ***
Capitolo 23: *** Podemos ***
Capitolo 24: *** Il labirinto di spine ***
Capitolo 25: *** L'apprendista ***
Capitolo 26: *** Lotta contro il tempo ***
Capitolo 27: *** Intrappolati nel Tempo ***
Capitolo 28: *** Il Brucaliffo arriva a corte ***
Capitolo 29: *** Promesse infrante ***
Capitolo 30: *** Memorie di un innocente colpevole ***
Capitolo 31: *** Il peso della conoscenza ***
Capitolo 32: *** Trappola floreale ***
Capitolo 33: *** Fuga disperata ***
Capitolo 34: *** Fantasmi del passato ***
Capitolo 35: *** La maledizione di Javier ***
Capitolo 36: *** Buon Noncompleanno! ***
Capitolo 37: *** Happy Beginning ***
Capitolo 38: *** Ritorno alle origini ***
Capitolo 39: *** Il giudizio di Aliante ***
Capitolo 40: *** Ognun per sé ***
Capitolo 41: *** Lezioni di umiltà ***
Capitolo 42: *** Una partita a Croquet ***
Capitolo 43: *** La spada di Cuori ***
Capitolo 44: *** Un solo corpo, una sola anima ***
Capitolo 45: *** Esmeralda ***
Capitolo 46: *** La regina del Mana ***
Capitolo 47: *** Il riflesso di un addio ***
Capitolo 48: *** Separazione forzata ***
Capitolo 49: *** Il secondo addio ***
Capitolo 50: *** Nuestro Camino ***
Capitolo 51: *** Intreccio ***
Capitolo 52: *** Tentativo fallito ***
Capitolo 53: *** Tuffi nel passato ***
Capitolo 54: *** Fuga in miniatura ***
Capitolo 55: *** Al fuoco, al fuoco! ***
Capitolo 56: *** Il gioco degli scacchi ***
Capitolo 57: *** Il mondo in un libro ***
Capitolo 58: *** La scalata per la superficie e la caduta verso il fondo ***
Capitolo 59: *** Abbandonato ***
Capitolo 60: *** Specchi ostili ***
Capitolo 61: *** Un salvataggio all'ultimo incantesimo ***
Capitolo 62: *** Rincontrarsi ***
Capitolo 63: *** Impulsi ***
Capitolo 64: *** La strada facile ***
Capitolo 65: *** Le strade si dividono ***
Capitolo 66: *** A un passo dalla meta ***
Capitolo 67: *** Vicini alla verità ***
Capitolo 68: *** Se è il lieto fine che cerchi... ***
Capitolo 69: *** Il mondo di Carroll e Alice ***
Capitolo 70: *** Prima della battaglia finale: Algo Se Enciende ***



Capitolo 1
*** Il corridoio bizzarro: 100 porte per 100 mondi ***





Capitolo 1

Il corridoio bizzarro: 100 porte per 100 mondi

Violetta fissava il soffitto lasciandosi cullare dal caldo estivo. Amava stendersi sul letto e non fare nulla; poteva pensare…e volare con l’immaginazione. Il padre le aveva sempre detto che l’immaginazione era una cosa stupida, adatta ai bambini e basta. German Castillo, un uomo che si avvicinava ormai verso la quarantina, era sempre stato severo al riguardo. Il suo animo pragmatico gli impediva di vedere la bellezza che si potesse nascondere in un mondo fantastico e per questo si era sempre trovato in disaccordo con la figlia. Violetta Castillo, al contrario, amava sognare ad occhi aperti; teneva un diario in cui scriveva storie di draghi e cavalieri, principi e principesse che coronavano il loro sogno d’amore. Era bello poter evadere ogni tanto dalla monotonia quotidiana, per quanto le fosse possibile. Era così noioso stare chiusa dentro casa tutto il giorno! Il padre non voleva si mescolasse a quelli della sua età. Come se fosse nobile o cose del genere…era semplicemente la figlia dell’imprenditore più ricco della città. Si affacciò alla finestra, incantandosi a vedere dei ragazzi che giocavano in mezzo agli irrigatori, che in quella giornata così afosa erano una fonte di frescura alquanto agognata. Di lì a poco sarebbe venuta la sua istitutrice per le lezioni pomeridiane: geografia, storia e matematica erano le materie che avrebbe dovuto studiare; in realtà non ne aveva proprio voglia, o meglio, a lei tutte quelle nozioni interessavano, ma avrebbe tanto voluto studiare in una scuola come tutti gli altri. Prese un libro dalle mensole sopra il suo letto e cominciò a leggere. Amava leggere più di ogni altra cosa; era un’esperienza fantastica entrare nel libro, immaginarsi possibili interazioni con i personaggi, fantasticare sui possibili finali, sulle possibili storie d’amore. Quel giorno le capitò tra le mani ‘Orgoglio e Pregiudizio’ di Jane Austin. Ormai conosceva a memoria la trama e anche alcuni dialoghi per quanto l’aveva letto; era uno dei suoi libri preferiti, forse per il fascino di Darcy, forse per l’incredibile personalità di Elizabeth, detta Lizzy. Elizabeth non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, neppure da un nobile del rango pari a quello di Mr Darcy. La loro storia aveva del fantastico: il modo in cui aveva sciolto il cuore dell’uomo, in cui gli aveva fatto comprendere il significato dell’amore, in cui aveva fatto schiudere la sua vera natura, tutto questo la ammaliava ogni volta che sfogliava quelle pagine. Già, l’amore…difficile innamorarsi senza poter uscire da casa. Anzi, impossibile. Chiuse il libro di scatto e si alzò per controllare l’ora: aveva ancora una buona mezz’ora prima di ricominciare con la solita routine. Decise di scendere in cucina per convincere Olga, la domestica, a farle assaggiare uno dei suoi fantastici biscotti alle mandorle appena sfornati.
Scese velocemente le scale e dal piano di sopra si ritrovò nel salotto, al piano terra. Il padre, come al solito, doveva trovarsi nel suo studio insieme a Roberto, suo fidato collaboratore. Si diresse in cucina in punta di piedi per non essere ripresa da German. “Olga” sussurrò entrando in cucina e osservando con golosità il piatto pieno di biscotti fumanti appoggiato sul tavolo. “Niente da fare, Violetta cara” la bloccò la domestica agitando un frullino scherzosamente. Olga per lei era come una madre, poiché la sua era venuta a mancare quando aveva solo cinque anni; l’aveva sempre trattata con amore e gentilezza, ma sapeva anche essere severa nei suoi confronti quando ce ne fosse bisogno. “Dai, solo uno!” esclamò la ragazza supplicante, sentendo lo stomaco brontolare, risvegliato da quell’invitante profumino. “Non mi farai demordere, non stavolta almeno. Quei biscotti sono per qualcuno di speciale che viene oggi” disse misteriosa la domestica. Violetta sgranò gli occhi al sentire quelle parole: chi veniva a casa sua? “E di chi si tratta?” chiese curiosa, mentre prendeva un mandarino dalla fruttiera e cominciava a sbucciarlo. “Un ragazzo! Tuo padre te lo vuole far conoscere” rispose euforica. La solita Olga: incapace di tenere un segreto per sé nemmeno con tutta la volontà possibile. “Non ci posso credere!” esclamò Violetta furiosa. Il mandarino cadde per terra mentre lei continuava a fissare la domestica con odio. “Mai che mi dica nulla! Ma adesso mi sente” strillò mentre era diventata paonazza dalla rabbia. Corse verso lo studio di German, e senza nemmeno bussare si catapultò al suo interno. “Papà, si può sapere che ti è preso?” continuò adirata. “Non capisco di cosa stai parlando, tesoro” disse pacificamente l’uomo firmando una carta che Roberto gli stava porgendo, illustrandogli alcuni progetti per la costruzione di nuove strutture. “Oggi pomeriggio viene un ragazzo in questa casa su tuo invito. La smetti di cercare di farmi fidanzare con qualcuno che vada bene solo a te? Sono stanca dei noiosissimi figli dei tuoi soci in affari” sbuffò incrociando le braccia all’altezza del petto. “Non ti capisco, cara. Ti lamenti sempre del fatto che non conosci nessuno, io ho semplicemente cercato di farti incontrare qualche simpatico amico” si scusò lui come se fosse stato attaccato ingiustamente. Inutile, non capiva…anzi, non voleva proprio capire! Violetta sbatté il piede per terra con tono offeso e se ne andò in fretta e furia. Si avvicinò alla porta di casa, guardandosi intorno per essere sicura di non essere vista. Nessuno nei paraggi. Pensò di avere diritto come minimo ad una piccola ed innocua passeggiata per sbollire la rabbia ed essere pronta per quel tedioso appuntamento. Girò la maniglia di bronzo il più lentamente possibile, cercando di non fare rumore, poi uscì di casa silenziosamente. Si voltò intorno, osservando il giardino che circondava la sua casa, e continuò ad avanzare lungo il vialetto. Si sporse lungo la strada: il cancello che la separava dal resto della città, in ferro battuto con numerosi ghirigori, si stagliava di fronte a lei. Prima d’ora aveva sempre rinunciato all’idea di sormontarlo, poiché aveva paura della reazione del padre. Ma stavolta ne aveva tutte le ragioni: era arrabbiatissima. Non poteva credere al fatto che lui non le desse la possibilità di fare le sue scelte, di vivere la sua vita. Doveva anche decidere di chi si potesse innamorare! Era terribile. Elizabeth non si era mai fatta comandare da nessuno, e lei avrebbe seguito il suo esempio. Tirò fuori una chiave tutta arrugginita, che aveva sottratto al padre qualche giorno fa a sua insaputa, e la girò all’interno della serratura fino a quando non si sentì uno scatto.
Non appena si trovò sul marciapiede non riuscì quasi a credere a cosa aveva fatto. Respirò a pieni polmoni l’aria calda estiva e si girò intorno con lo sguardo per vedere se ci fosse qualcuno nei paraggi. Non c’era nessuno, tutt’intorno a lei era deserto. Cominciò a camminare, dando qualche calcio a un sassolino, il cui rumore provocato dal rotolare sembrò quasi rimbombare. “Che buffo” sussurrò lei, ancora scioccata per quello che aveva fatto. Sentì un rumore di passi…anzi, sembravano più dei saltelli; proveniva da una via che incrociava la sua in fondo. Non appena ebbe voltato l’angolo vide un ragazzo con delle orecchie bianche da coniglio e un batuffolo bianco spuntargli dal fondoschiena. Era un ragazzo moro, alto e dalla corporatura esile. E fin qui niente di…un ragazzo con delle orecchie da coniglio?! Un lampo di luce le fece chiudere gli occhi, e quando li riaprì notò che era stato causato da un orologio d’oro che teneva in mano. Ogni tanto controllava l’ora con un’espressione preoccupata. Osservò, vedendolo di profilo che aveva degli occhi azzurri come il ghiaccio. “Sono in ritardo!” esclamò il ragazzo continuando a saltellare lungo la via sempre più velocemente. “Deve essere un costume, non c’è altra spiegazione. Davvero realistico, però” borbottò a bassa voce la ragazza incuriosita. Decise di seguire quel bizzarro individuo e camminò dietro di lui. Non sapeva dove stesse andando e aveva abbastanza paura, ma non voleva perdere di vista quel coniglio; o meglio, quel ragazzo. Meglio ancora, quel ragazzo-coniglio. “Che buffo” ripeté studiando da lontano il candore delle orecchie lunghe e affusolate. Senza rendersene conto si ritrovò di fronte a un edificio con la scritta Studio 21. Si doveva trattare di una scuola, a giudicare dall’aspetto. Le pareti erano dipinte con colori vivaci, che la ipnotizzavano. Il ragazzo si fermò di fronte a un portone blu, poi l’aprì e scomparve al suo interno, come inghiottito. “E’ tardissimo!” esclamò prima di scomparire. Violetta si incuriosì sempre di più: cosa c’era all’interno di quella scuola? Forse una festa in maschera. Questo avrebbe spiegato lo strano costume del ragazzo misterioso; probabilmente era in ritardo per la festa, ecco il perché di tutta quella fretta. Ma certo, tutto si spiegava razionalmente. Eppure non riusciva a comprendere perché saltellasse invece di camminare. Vorrà calarsi nella parte, pensò dubbiosa. Sarebbe voluta entrare per dare un’occhiata ma le sembrò terribilmente scortese; non aveva nemmeno avuto l’invito. Poteva però fingere di essersi persa e con l’occasione avrebbe potuto tranquillamente partecipare alla festa. L’idea le piacque subito, ma le parole di suo padre riguardo l’educazione e il rispetto degli altri la frenavano. Al diavolo le regole e tutto il resto! Era ancora arrabbiata con German per il cattivo scherzo che le aveva combinato. Fece un bel respiro per prendere coraggio, poi si avvicinò alla porta di un blu elettrico e l’aprì.
Sembrava un normale corridoio. “Permesso?” disse lei bussando sulla superficie liscia della porta. Chissà che fine aveva fatto il bizzarro ragazzo-coniglio. Con mano tremante richiuse la porta dietro di sé e si incamminò, affacciandosi di tanto in tanto nelle stanze che davano sul corridoio; erano delle semplici aule di musica, con strumenti vari. Stava osservando un’aula color ciclamino, quando un oggetto di legno la colpì in testa. “Ahi!” strillò lei, massaggiandosi il punto in cui aveva ricevuto la botta. Si voltò e vide un flauto galleggiare a mezz’aria. “Stai più attenta a dove vai, pirata della strada!” strillò una vocina acuta, che sembrava provenire proprio dallo strumento. Non era possibile: era tutto così assurdo. “Mi scusi” sussurrò, non riuscendo ancora a credere di stare chiedendo scusa a un flauto. Si voltò per scappare via a gambe levate ma la porta blu non c’era più: al suo posto si estendeva il corridoio all’infinito. “Mi scusi, mi sono persa” disse rivolgendosi al flauto. Lo strumento emise un vigoroso sol e poi continuò a galleggiare fino a scomparire in lontananza. “Grazie tante!” disse lei con ironia. Subito si portò le mani alla bocca: sbaglio o aveva appena intrattenuto una mezza conversazione con un flauto? Anche maleducato per di più. Indietro non era possibile tornare, comunque. Poteva solo camminare e sperare di trovare un’uscita.
Mentre camminava sulle pareti non vi erano più le entrate per le aule di musica, bensì delle porte bizzarre in legno. La prima porta alla sua sinistra era azzurra a forma di delfino e sopra vi era la scritta: ‘In fondo al mar’. Spinta dalla curiosità, si avvicinò e la aprì. Davanti a lei vedeva solo il mare che si estendeva fino a perdita d’occhio. La porta sembrava essere sospesa a mezz’aria. Abbassò lo sguardo senza varcarla e notò dei coralli colorati nelle profondità cristalline dell’oceano; i colori andavano dal rosa, al viola, all’azzurro, e producevano una sorta di melodia, non sapeva come…Le sarebbe piaciuto raccogliere una conchiglia o una stella marina, ma ebbe paura di attraversare quella porta. Richiuse con cura la porta, ed andò avanti. Un’altra porta a forma di torta recitava sopra: ‘Mangiare senza ingrassare’. Le veniva da ridere per quelle buffe scritte, si fece coraggio e aprì anche quella. Quel mondo era il sogno di ogni goloso: una strada fatta interamente di caramello dorato si inoltrava in un bosco con alberi di zucchero, dove scorreva un piccolo fiumiciattolo di cioccolato bianco. Una mosca si avvicinò fino ad arrivarle ad un centimetro dal naso: era fatta di canditi. Un fiore lecca-lecca spuntò fuori dal nulla, mentre l’erba sembrava quasi finta a causa di quel verde brillante. Ne raccolse un ciuffo e dopo averlo annusato, lo assaggiò: menta! Era tentata di entrare, ma era così strano…e per di più il tempo prometteva pioggia. Dopo poco infatti cominciarono a piovere gocce di cioccolato fondente. No, era meglio non allontanarsi dal corridoio principale, non voleva perdersi. Dopo aver chiuso quella porta avanzò, succhiando lentamente quei ciuffi di menta così deliziosi e zuccherati. Mentre camminava dava un’occhiata alle varie porte che si alternavano, senza mai aprirle: una porta a forma di pipistrello con la scritta ‘Incubi di mezzanotte’, una a forma di zucca con incise le lettere dorate ‘La scarpa di cristallo: sogni avverati’. Tutte quella porte la ispiravano tantissimo. Una porta a forma di albero di natale la incuriosì, anche per quella buffa maniglia a forma di stella cometa.
Senza accorgersene arrivò alla fine del corridoio: eppure poco tempo prima le era sembrato che avrebbe dovuto camminare ancora a lungo; lo spazio era davvero strano in quel posto. Ma quel che la colpì fu ciò che vi era scritto sopra quella porta, che sembrava una carta da gioco, un asso di cuori per la precisione. “Una volta il Paese delle Meraviglie” lesse piano a bassa voce. E sotto c’era scritto qualcos’altro in piccolo: ‘Violetta Castillo, sei presente?’. “Si, che ci sono” esclamò lei nervosa e stupita. Chi si aspettava il suo arrivo? La scritta sulla porta si cancellò e subito ne apparve un’altra: ‘Presente, non essente’. Violetta la guardò meravigliata: ma che razza di magia era quella? Comunque per essere una porta era davvero pignola. “Sono presente, se è quello che preferisci” sbottò lei, con lo sguardo fisso. La maniglia girò da sola, e la porta si aprì di botto. Era tutto troppo scuro dall’altra parte, doveva essere notte. Sul terreno notò uno strano bagliore rossastro. Oltrepassò la porta e si chinò a raccoglierlo: era un rubino a forma di cuore. “Che strano…” borbottò voltandosi. Ma sul suo volto si disegnò un’espressione terrorizzata: la porta era scomparsa. “Dove sei, porta? Porta, devi ricomparire, mi hai lasciato qui!” cominciò a strillare guardandosi intorno. Tutto intorno quel buio le metteva davvero paura; doveva trovarsi in un bosco fittissimo, perché tutto intorno a lei si trovavano degli alberi maestosi e imponenti. Alcuni rumori e versi la fecero rabbrividire, quindi si acquattò addosso a un enorme tronco, e si lasciò cadere, circondando con le braccia le gambe portate al petto. “C’è nessuno?” chiese tremante, mentre il silenzio piombò nel bosco. “Nessuno non c’è” rispose una vocina acuta vicino a lei. “Quindi c’è qualcuno!” esclamò un po’ rincuorata. Allora non era sola: forse avrebbe ottenuto delle indicazioni per andarsene da quel posto orribile e tornarsene a casa. “No, nemmeno qualcuno c’è. Che nomi buffi nessuno e qualcuno!” esclamò la vocina, esplodendo poi in una squillante risata. “In effetti…” ribatté Violetta confusa. “Ma dove sei? Io non ti vedo” esclamò poi. Nel buio non riusciva a distinguere ad un palmo dal naso, e non riusciva a vedere nulla. “Sono a destra, anzi no a sinistra. Anzi, direi al centro” disse la voce. Centro? Cosa intendeva dire? Violetta si alzò e cominciò a tastare in giro, nel tentativo di trovare in questo modo l’interlocutore misterioso. “Puoi parlare ancora? Altrimenti non riesco a trovarti!” disse lei, appoggiandosi con la mano a un altro tronco. “Ci sei ormai” disse la voce. Un tenue chiarore le illuminò il viso: stava per sorgere il sole fortunatamente.  Eppure di fronte a lei non c’era nessuno. “Più giù” la riprese, costringendola ad abbassare lo sguardo. Eccolo! Ma era...una rosa?!





ANGOLO AUTORE: Ciao a tutti! Qualcuno lo sapeva, qualcuno no, ma sono qui con una nuova storia. Ne approfitto per dirvi che momentaneamente 'Amore Impossibile' non verrà aggiornata, per il semplice fatto che tre ff proprio non le reggo. Avevo un banner per questa storia, ma a parte che non so come si mette *imbarazzo* devo mettere la scritta *e non sa come si fa* e dovrei assestarlo, ma quando sarà pronto lo caricherò con molto piacere xD Detto ciò, vi dico che la storia parte molto allegra e contenta, ma non è così...il mio obiettivo è proprio quello di alternare momenti apparentemente sereni, con alcuni molto tosti, come potrete vedere dagli avvertimenti (per violenza, io intendo soprattutto quella psicologica). L'OOC è assolutamente vero, ma vedrete in seguito che i personaggi in fondo conservano parte della loro caratterizzazione originale (in fondo in fondo xD). Pooooi, la storia è principalmente Leonetta, le altre coppie...boh, ancora non ne sono sicuro, di certo Pablo e Angie qui sono sposati. So solo questo xD L'impostazione. Ah, sull'impostazione due paroline ce le spendo. I capitolo non saranno impostati nel modo tradizionale, ossia vari momenti in vari luoghi. Infatti ci saranno i cosiddetti blocchi narrativi alla Manzoni per intenderci. Per cui si passerà da un personaggio a un altro a distanza di capitoli, non di paragrafi, e ci saranno eventi temporalmente collocati in modo diverso, ma no problem, capirete tutto andando avanti. Penso che almeno all'inizio caricherò il capitolo una volta a settimana (penso il venerdì), ma non ho la certezza assoluta, quindi vedremo. Mi sto dilungando, e non voglio. I primi capitoli saranno molto nonsense (come già avete potuto notare) e seguono un po' il modo di fare di Carroll, con i giochi di parole ecc...da una certo punto in poi, cambierà tutto drasticamente, giusto per dirvi: non aspettatevi la favolina felice, perché...beh, lo scoprirete leggendo i prossimi capitoli xD Credo di aver detto tutto, grazie a chi mi segue/seguirà :D Alla prossima ;D 
P.S: in questa storia sto cercando di affinare il mio metodo di descrivere ambienti, personaggi, ecc...spero di riuscirci, ma ovviamente i consigli sono ACCETTATISSIMI (anzi, li pretendo ù.ù). Ultima cosa: la caratterizzazione di Violetta è VOLUTAMENTE un po' superficiale, perché...magari questo ve lo spiego più in là XD
P.P.S: i primi capitoli sono un po' più corti, poi si allungano, don't worry ;D 

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Capitolo 2
*** Fiori parlanti e animali dal pelo buffo ***






Capitolo 2

Fiori parlanti e animali dal pelo buffo

“Tu parli?!” esclamò Violetta incredula. La rosa, con i suoi petali ben spiegati, impreziositi dalla rugiada mattutina, emise un sospiro annoiato. “Che razza di modi…come parli tu, parlo io” rispose attorcigliando tra loro le foglie sul gambo, come se stesse incrociando le braccia in tono offeso. “Scusa, non volevo insultarti, solo che da dove vengo io i fiori non parlano” disse, chinandosi verso quella rosa rossa come il sangue. “Andiamo, è come dire che gli elefanti non volano” la rimproverò. I petali si richiusero come se per lei la conversazione fosse finita lì. “Ma gli elefanti non volano!” sottolineò Violetta, estremamente confusa. Già era strano parlare con una rosa, ma non poteva assolutamente darle ragione su quelle assurdità. Il fiore sbuffò innervosito. Meglio non continuare a provocarla. “Mi sai dire dove mi trovo, gentilmente?” chiese guardandosi intorno preoccupata. Con la luce del giorno che lentamente filtrava attraverso i rami di quel bosco incantato si sentiva più sicura: era in una piccola radura dove volavano pigramente farfalle variopinte di colori mai visti. Un piccolo coniglio sbucò da un cespuglio lì vicino guardandola con degli occhioni dolci. “Ti trovi qui, sciocca ragazzina” le rispose scorbuticamente. A quanto pare era ancora offesa per la sua osservazione sul fatto che parlasse. “Mi sai dire almeno se c’è un sentiero che posso seguire per uscire da qui?” chiese speranzosa. Si rialzò, guardandosi intorno, ma vedeva solo alberi ovunque; appoggiò la mano sulla corteccia dell’enorme quercia di fronte a lei, aspettando una risposta. La rosa voltò il suo gambo verso l’alto, come se intendesse studiare meglio quel personaggio, a suo modo di vedere alquanto bizzarro. “Segui il sentiero rosso fuoco per arrivare al Palazzo della Regina di cuori, è il Regno più vicino da dove ti trovi…” le suggerì maliziosamente. “E dove posso prendere il sentiero?” chiese timidamente. “Sempre dritta, non puoi perderti” le disse indicando una direzione con i petali. “Grazie allora!” esclamò sorridente, incamminandosi dove le era stato consigliato. Una volta arrivata al castello avrebbe chiesto dove trovare la porta per tornare nel suo mondo.
Violetta continuò a camminare senza meta, aspettando di poter vedere quel fantomatico sentiero rosso. Più avanzava, più la foresta si faceva intricata. I rovi e i rami bassi cominciarono a graffiarle le gambe, mentre la gonna che indossava le rendeva difficili i movimenti, andandosi ad impigliare continuamente. “Pantaloni, Violetta, pantaloni! Perché stamattina ti sei messa la gonna?!” borbottò tra sé e sé, rischiando di andare a sbattere con la faccia contro il ramo basso di un abete. “Stupide piante!” esclamò irritata. “Qualcuno è arrabbiato” disse una vocina che proveniva dall’alto. “Si, io sono arrabbiata, perché mi sono andata a fidare delle indicazioni di un fiore” esclamò ancora innervosita. “Fiori…hanno così poco senso dell’orientamento. Sarà perché non si muovono mai” disse la stessa voce alle sue spalle, facendole fare un salto. Si voltò ma non vide nessuno. “Ti diverti a nasconderti?” chiese. Nessuna risposta stavolta. Decise di riprendere a camminare e di dimenticare quella che doveva essere stata un’allucinazione uditiva. Nei libri aveva sentito parlare di quegli strani fenomeni chiamati allucinazioni uditive, che colpivano il senso dell’udito facendo credere al malcapitato di sentire voci inesistenti. Violetta amava leggere anche libri di scienza, e queste curiosità l’avevano sempre affascinata. Mentre continuava a convincersi di ciò, una coda violacea, che alternava strisce fucsia ad altre di un viola più scuro, apparve davanti al suo naso. Poco dopo il resto del corpo fece la sua comparsa, facendola arretrare per lo spavento. Era una ragazza, ma anche un gatto; che storia era quella? La figura era beatamente stesa mezz’aria come se fosse la cosa più naturale del mondo. “Cosa sei?” si lasciò scappare confusa e terrorizzata. “Anzi, scusa, chi sei?” si corresse subito dopo. Aveva paura che in quel mondo fossero tutti terribilmente permalosi, e non voleva replicare la conversazione con la rosa. “Piacere, io mi chiamo Camilla, ma tutti qui mi chiamano Stregatto” disse porgendole la mano con un sorriso a trentadue denti. Violetta rispose al sorriso timidamente, avvicinandosi per stringerle la mano, ma non appena fu abbastanza vicina, Camilla scomparve. Riapparve subito con il solito sorriso sornione qualche metro più in alto, su un albero, mentre la guardava con quei piccoli occhi marroni. Camilla era completamente ricoperta di pelo viola e fucsia tranne per il viso che era umano. Dalla testa le spuntavano due orecchie viola, mentre dei lunghi capelli ramati le incorniciavano il volto. “Camilla, mi potresti dire se per prendere il sentiero che porta al Castello di Cuori devo procedere dritto?” chiese con il massimo dell’educazione. “Forse si, forse no…” rispose lei con dolcezza. Quel tono così affettuoso per la prima volta da quando era finita in quel mondo assurdo era riuscito a rassicurarla e a tranquillizzarla; ma la risposta non era affatto delle migliori. “E’ un si o un no?” la interrogò in trepida attesa di indicazioni più precise. “Segui i cartelli e dovresti arrivare dove vuoi…” le consigliò indicandole uno strano cartello viola, comparso dal nulla. “Sempre se davvero vuoi andare in quel Castello” aggiunse in modo enigmatico, cominciando a scomparire lentamente. Violetta, piuttosto confusa, la guardò svanire finché non rimase solo il suo sorriso a mezz’aria, che si dissolse con un piccolo ‘puff’. Guardò pensierosa il ramo su cui poco tempo fa si era trovato quel bizzarro animale, quindi decise di proseguire dritto.
Dopo un bel po’ di cammino cominciò però ad accusare la stanchezza e si sedette sulle radici di un enorme albero, che sembrava essere un tasso; aveva fame e sete, e sentì lo stomaco brontolare. Il rumore si fece sempre più profondo. D’accordo aveva fame, ma adesso era un po’ troppo! Si voltò di scatto e si trovò a due centimetri da una bocca legnosa che russava beatamente. Si aggrappò ad una sporgenza, che scoprì essere il naso, e si alzò velocemente, spaventata. Ormai doveva essersi abituata a tutte quelle stranezze e invece proprio non ci riusciva. “Ronf!” esclamò l’albero muovendo le sue fronde, creando un leggiadro fruscio. A quel movimento alcune foglie caddero volteggiando, mentre gli scoiattoli, che si erano rifugiati tra i suoi rami, fuggivano spaventati, scendendo lungo il tronco. “Chi mi ha svegliato?” chiese con la voce ancora impastata per il sonno. “Non volevo, mi scusi!” esclamò la ragazza costernata. “Non importa, gentile signorina” la salutò con dolcezza l’albero; dalla corteccia profumata di fresco si formarono due rientranze che lasciarono mostrare due occhi lucidi e di un marrone chiaro. “Le assomiglia tanto…” mormorò tra sé e sé, come se Violetta fosse diventata invisibile. “A chi assomiglio, se posso permettermi?” chiese curiosa. Un corvo nero si posò sul ramo del tasso, e cominciò a gracchiare forte. “Maledetti uccellacci” imprecò l’albero infastidito. Scosse i suoi rami, facendolo così allontanare. “Cara signorina, mi scusi per questa spiacevole interruzione, dicevo che lei assomiglia molto ad Alice. Anzi, posso affermare con certezza che lei potrebbe essere uguale ad Alice. Meglio ancora, potrei dire tutto il contrario” sentenziò con un’aria saggia. Come tutto il contrario? A Violetta cominciò a girare la testa. “Ma quindi assomiglio o no a questa fantomatica Alice?” gli fece pressione per ottenere una risposta coerente. “Potrei dirle di si, ma mentirei sapendo di mentire, mentre se le dicessi di no, le direi una verità non vera, perché di verità al suo interno ve ne è ben poca” cominciò a riflettere il suo interlocutore legnoso, mettendola in difficoltà. “Lei mi sta dicendo che in entrambi i casi non mi direbbe la verità?” chiese, mettendosi seduta su un tappeto erboso lì di fronte. Quella conversazione, per quanto insensata, la affascinava molto. “Se sapessi qual è la verità, forse si, forse no. Ma di cosa stiamo parlando esattamente?” ribatté il tasso, con un vivo interesse. “Del fatto che somiglio o no a una persona” gli ricordò, grattandosi il capo. “Già, ma non penso sia questo il problema. Il nocciolo della questione è: cosa sappiamo noi della verità? Si può sempre toccare con mano, o dipende da ogni individuo?” domandò l’albero assorto. “Come ‘Uno, nessuno, centomila’, l’opera di Pirandello! Mi sta dicendo che la verità ha mille sfaccettature diverse, e non è unica?” chiese con gli occhi che le brillavano. Pirandello era sempre stato uno dei suoi autori preferiti, poiché aveva abbattuto i confini tra reale e fittizio, ed aveva rotto con gli schemi della sua epoca; un rivoluzionario insomma. “Direi proprio di si, signorina. E’ il motivo per cui prima di giudicare bene un individuo bisogna avere assunto anche il suo punto di vista, bisogna conoscerne il passato. Perché non tutto appare come è in realtà. A volte la corteccia più dura nasconde la linfa più limpida e chiara, la più ricca di nutrimento” precisò il tasso facendole l’occhiolino. Violetta sorrise: quel discorso le aveva infuso coraggio. Era la prima volta da quando era capitata in quel buffo mondo che si sentiva quasi tranquilla, meno angosciata. Ed era anche la prima persona, o meglio creatura, che la trattava bene, senza contare lo Stregatto, che era stato davvero enigmatico. “Sono belle le tue parole…” sussurrò gentilmente.
Improvvisamente la luce si fece più fioca; Violetta alzò la testa e vide dei nuvoloni addensarsi sopra di loro. “Tra poco pioverà! Sarà meglio cercare un luogo per ripararsi” esclamò lei con il naso rivolto all’insù per osservare i lenti movimenti di quelle nuvole grigie. “Se giri a destra, troverai una piccola casetta in legno, la casa del Cappellaio Matto; puoi provare a chiedere rifugio lì, e poi quando rispunterà il sole basterà tornare sui tuoi passi e riprendere il viaggio per raggiungere il luogo che vuoi raggiungere” concluse l’albero, mentre qualche piccola goccia cominciò a scendere, ticchettando sulle sue radici. Violetta annuì e ringraziò di cuore il tasso, per poi cominciare a correre. Tra gli alberi una piccola colonna di fumo attirò la sua attenzione: doveva venire da un camino! Si fiondò in quella direzione, e raggiunse una graziosa casetta in legno. Non ebbe tempo di notare altri dettagli perché stava per piovere sempre più forte, quindi stette sulla soglia e bussò ripetutamente, sperando che qualcuno venisse ad aprirle. “Chi è?” chiese una  voce da dentro. “Sono Violetta, e mi sono persa. Vi prego aprite!” la supplicò, bussando ancora alla porta in ciliegio. Si sentì il rumore metallico di un catenaccio, e la porta si aprì, mostrando un uomo bizzarro con un cappello a cilindro color prugna, e un completo giallo canarino. Aveva un sorriso ebete stampato sul volto, mentre delle ciocche nere della sua folta chioma riccia uscivano dal cappello e gli incorniciavano disordinatamente il volto. Gli tese la mano di scatto, sbattendogliela quasi in faccia: indossava dei guanti arancioni che odoravano di tè. “Piacere, sono Beto, il Cappellaio Matto” disse con una voce grave e impaziente. Violetta strinse la mano, ed entrò nella casa, mentre fuori il tempo imperversava e il vento ululava.
 
Due anni prima
Francesca camminava a testa alta nel suo abito lungo di un azzurro chiaro. Due brutti ceffi la stavano scortando nella sala del trono. La luce filtrava dalle ampie vetrate, andando a riflettersi sui capelli corvini della giovane ragazza, mentre il diadema argentato risplendeva letteralmente. L’uomo alla sua sinistra aveva una spada, mentre quello alla sua destra teneva in mano un’ascia, facendola penzolare minacciosamente. Non voleva mostrarsi impaurita, ma mantenne il contegno regale che i genitori le avevano insegnato ad avere sempre e comunque. Camminò con passo deciso, a ritmo. Un ragazzo gli venne incontro tranquillamente. “Conte Federico” disse l’uomo alla sinistra, facendo una piccola riverenza. Francesca lo guardò inorridita: come aveva potuto tradirla? “Sono solo venuto a controllare che non venisse fatto nulla di male alla regina” disse, evitando le sue occhiate piene d’odio. “Sei solo uno schifoso traditore” sussurrò lei freddamente. Federico le prese la mano e la baciò, ma Francesca si ritrasse subito disgustata. “La nuova regina la sta aspettando” disse ai due accompagnatori, mentre le guardie aprivano le porte in bronzo con incisi numerosi motivi floreali: non per niente quello era il regno di Fiori. “Fossi in te non mi comporterei in questo modo tanto altezzoso” ghignò l’uomo alla sua sinistra, avvicinandosi all’orecchio della ragazza. Il fiato caldo e pesante le fece venire il voltastomaco. Il suo odore nauseabondo gli faceva intuire che doveva trattarsi di un uomo proveniente dai bassifondi della capitale, o da qualche villaggio ridotto in povertà per le continue battaglie con l’esercito del regno di Cuori. Si era trattato di un colpo di stato organizzato da pochi individui, ma progettato fin nei minimi dettagli. Non appena le porte furono spalancate, percorse il tappeto rosso di velluto pregiato, ricamato ai bordi con dei filamenti d’oro. La stanza era ampia e luminosa; in fondo una giovane donna si trovava seduta sul trono. Sembrava molto a disagio, come se sapesse che quel posto non le spettava. I due strattonarono la prigioniera costringendola ad inchinarsi di fronte al trono. Intorno ad un fiore realizzato in quarzo nero, che si trovava sullo schienale, erano incastonati dei piccoli diamanti: il simbolo del regno. “Non ci credo…” disse ancora in ginocchio sollevando lo sguardo. Una ragazza con un abito rosa pallido e un’espressione nervosa, con dei capelli ricci e scuri sedeva sul trono. “Natalia…” sussurrò supplicante. “Regina Natalia” la corresse con voce rotta. Non ci poteva credere: come mai il suo posto al trono era stato occupato da sua cugina? Si era unita alla rivolta solo per spodestarla? Troppe domande affollavano la sua testa, in preda ad una terribile confusione. Natalia abbassò lo sguardo, concentrandosi sulle pieghe del suo abito, mentre il suo viso sembrava terribilmente sofferente. “Perché?” chiese semplicemente con gli occhi lucidi. Una lacrima scese sul tappeto, la prima di tante. “Portatela nelle segrete” ordinò con un gesto della mano, mentre prese da un vassoio d’argento, tenuto da un valletto al suo lato, un calice di cristallo con dentro del liquido rosso scuro. Francesca prima cercò di opporre resistenza, ma le sembrava tutto inutile. Scalciò e cercò di liberarsi dalla presa, ma quelle braccia forti e muscolose erano come una tenaglia che si stringeva con sempre più forza.
Venne trascinata via lungo le numerose scalinate, finché della luce non rimase solo un pallido riflesso; le mura ricche di stendardi nobiliari lasciarono il posto ad ambienti sempre più sobri. Un cancello di ferro arrugginito si stagliò di fronte a lei. L’uomo alla sua destra tirò fuori un mazzo di chiavi e girò la serratura finché un sonoro rumore metallico non si diffuse, andando a torturare lo orecchie della povera Francesca. Che ironia della sorte! Proprio lei che aveva fatto chiudere le prigioni a palazzo, istituendo le carceri cittadine, adesso era costretta a soggiornarvi a tempo indeterminato. Cominciò a percorrere uno stretto corridoio umido dove le gocce create dalla condensazione dell’aria ticchettavano, cadendo ed entrando a contatto con il pavimento spoglio. Francesca cominciò a sentire freddo e rabbrividì. “Freddo principessina?” ghignò uno dei due, tirando fuori un coltello affilato e facendolo scorrere per le pareti, creando un fastidioso stridio; tutto questo solo per farla sentire debole e impotente. “Ti piace il tuo nuovo alloggio?” chiese poi, indicandogli una delle numerose celle disposte una di seguito all’altra. La spintonarono dentro la prima che trovarono e risero sguaiatamente mentre chiudevano a chiave la sua unica possibilità di fuga. Stette due ore al buio sola con i suoi pensieri. Aveva paura per il suo regno, uno degli unici due baluardi della resistenza contro l’espansione di Cuori. Era rimasto solo Picche, ma non avrebbe retto mai una guerra contro i tre regni di Cuori, di Fiori e di Quadri. Già, perché era sicura che quel colpo di stato era stato progettato per far schierare la regina Natalia dalla parte delle Regina rossa, la temibile Regina di Cuori. Dopo qualche altro minuto uno dei due carcerieri le portò un lanternino a petrolio. “Per farti un po’ di luce” disse senza guardarla negli occhi. Gli occhi di Francesca erano scuri come la notte, ed esprimevano sempre pacatezza, ma questa volta no…questa volta c’era rabbia, odio, disprezzo. E pietà. In fondo aveva compassione di quelle che erano solo pedine di un piano più grande, un piano diabolico che aveva l’unico obiettivo di riunire il Paese delle Meraviglie sotto un’unica corona, come fu prima dell’arrivo di Alice, la Regina di Luce. “La cena sarà servita alle sette” disse con un sospiro, tirando fuori una piccola fiaschetta che a chilometri di distanza emanava odore di alcol di pessima qualità. L’uomo richiuse la cella, cominciando a bere. Non appena fu sola, appoggiò la schiena sulla fredda pietra delle pareti e si lasciò cadere senza forze. Si coprì il volto con le mani e cominciò a piangere; quando si fu calmata, si fece rapire dalla flebile luce, come se al suo interno vi fosse un mondo incredibile. La luce tremolante creava delle ombre che sembravano ipnotizzarla. “Saggio Brucaliffo…spero solo che tu abbia ragione” sussurrò, trascinandosi poi sulla brandina sconnessa e stendendosi nel tentativo di dormire, sapendo che gli incubi la avrebbero inevitabilmente assalita nel sonno. 











NOTA AUTORE: come promesso è arrivato il secondo capitolo. A me piace un sacco la scena di Francesca, nel senso che la trovo fatta bene, ma anche la prima parte non è male. Lo so, di solito sono quello che dice 'questo capitolo fa schifo', ma penso che in questa storia raramente lo dirò, perchè mi piace davvero tanto, sia l'idea, sia lo sviluppo che c'è nella mia testa. Come vi avevo annunciato il Paese delle Meraviglie è tutt'altro che allegro e felice come nella storia di Carroll. In corso c'è una guerra tra quattro regni. L'alleanza è tra Quadri e Cuori contro Fiori e Picche (rossi contro neri, insomma), ma dopo questo colpo di stato Francesca teme che Fiori si schieri dall'altra parte per avere una vittoria facile contro Picche, l'unico regno effettivamente libero rimasto, governato da un re giusto (vedremo chi :D). Il discorso con la quercia è importante, lo dico subito, perchè vi permetterà di comprendere meglio un personaggio che deve fare il suo ingresso nel prossimo capitolo. Si, signore e signori, Leon sta per fare il suo ingresso, un personaggio che forse inizialmente odierete (naaaaaahhh xD), ma che amerete come se non più di me LOL Si, Leon è il personaggio che preferisco in assoluto in questa storia, sia per il suo comportamente, sia per il suo carattere, ma anche, soprattutto, per l'evoluzione che avrà. Ma non anticipo nulla, lo vedrete molto presto :D E con Leon, la storia cambierà radicalmente, vi avverto. Nel frattempo abbiamo una Camilla-Stregatto, e un Beto-Cappellaio Matto, che più svitato non si può. Quanti incontri per la nostra Violetta :O E non finisce tutto qui. Gli intrighi di potere come avrete potuto capire sono all'ordine del giorno in questo mondo: tradimenti, alleanze, e subdoli piani. Siete sicuri di voler continuare? xD Scherzo, scherzo :D Al prossimo capitolo dal titolo: 'Tè, tè, sempre e solo tè'. Alla prossima e buona lettura ;D 

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Capitolo 3
*** Tè, tè, sempre e solo tè ***






Capitolo 3

Tè, tè, sempre e solo tè

“Forza entra!” la incitò l’uomo, alzando di poco il cilindro in testa in segno di saluto. Violetta non se lo fece ripetere due volte, ed entrò tutta intirizzita per il freddo e l’umidità della pioggia. Le pareti della casa, che consisteva in un’unica stanza, erano di un arancione acceso. La stanza era piccola, ma accogliente: al centro, un tavolo di legno rettangolare era apparecchiato con tazze e teiere in porcellana bianca, e alcuni vassoi d’argento pieni di biscotti. La tovaglia rossa era piena di briciole e di macchie. Un ghiro era seduto su una sedia, facendo penzolare la sua coda, mentre una lepre alta quanto un uomo e in posizione eretta stava sorseggiando una tazza di tè fumante; indossava una camicia azzurra tutta sbottonata, che lasciava intravedere il suo petto pieno di pelo di un bianco candido. Il ghiro invece sulla testa portava un berretto da notte verde e ronfava tranquillamente. “Chi abbiamo qui?” chiese la lepre con un leggero tic all’occhio. La sua mano tremava, come se fosse costantemente sovreccitato, facendo colare gran parte del liquido ambrato per terra o sulla camicia. “Mi chiamo Violetta, piacere” disse Violetta gentilmente, avvicinandosi e tendendo la mano, dall’altra parte del tavolo. L’animale la guardò buffamente per poi osservare molto semplicemente: “I tuoi capelli gocciolano”. Violetta rimase un po’ imbarazzata per quell’osservazione. “Lo so, purtroppo sono tutta bagnata a causa della pioggia” si giustificò con un timido sorriso. “Basta chiacchiere o ci perderemo l’ora del tè!” esclamò il Cappellaio, prendendo una sedia e mettendola vicino al camino, sul capo della tavola. “Come se il Tempo scappasse via…” sbuffò la lepre. “Sei sempre il solito brontolone! Abbiamo ospiti” lo riprese Beto con un sorriso a trentadue denti. L’uomo con lo strano cilindro e l’abbigliamento bizzarro prese una tazzina bianca e una teiera, poi con un gesto frettoloso versò del tè, rovesciandone buona parte sulla tovaglia. “Del tè per te” disse porgendole la tazza con un piattino. “Non ti ho ancora presentato i miei compari!” strillò, portandosi una mano sulla fronte come se avesse dimenticato la cosa più importante del mondo. “Lui è la Lepre Marzolina” disse indicando la lepre, che aveva cominciato a far vibrare i baffi non appena si fu sentito chiamato in ballo. “E quello che sta dormendo è il Ghiro, tra poco dovrebbe svegliarsi…” ipotizzò l’uomo, tirando fuori dalla tasca un cipollotto d’oro e controllando l’ora. La ragazza si sporse con lo sguardo e notò che quell’orologio non aveva le lancette. Impossibile. Come avrebbe fatto a controllare l’ora? Il Ghiro emise un lungo sbadiglio e aprì lentamente gli occhietti neri e ravvicinati. Fece schioccare la lingua sul palato, ancora assonnato. “Che bello, il Ghiro si è svegliato!” esclamò il Cappellaio Matto, battendo le mani felice. “Che ore sono?” chiese Violetta, buttando l’occhio verso la finestra per controllare il tempo atmosferico. “Le cinque, ed è proprio l’ora del tè” disse la Lepre, senza controllare l’orologio sulla parete che segnava proprio le cinque. “Come hai fatto ad indovinare?” chiese nuovamente incuriosita. “Sono sempre le cinque in questa casa!” ribatté Beto, versando il tè in due tazzine contemporaneamente. “Non è possibile, il tempo scorre, non si può fermare” lo corresse Violetta con tono di superiorità. Questi tre personaggi la infastidivano sempre di più. “Vuol dire che non hai mai offeso il Tempo. Con noi si è arrabbiato a morte!” disse il Cappellaio, rabbuiandosi di colpo. “Non è stata colpa mia, è stata colpa del Ghiro!” esclamò subito la Lepre, alzando le mani. Il Ghiro in tutta risposta sbadigliò nuovamente, poi avvicinò la zampa sul tavolo, prendendo un biscotto alle mandorle; lo avvicinò alla bocca e cominciò a mangiucchiarlo con estrema lentezza. “Il Ghiro non ha nulla da dire?” chiese la ragazza, decidendosi a sorseggiare il tè: era bollente e aveva un vago retrogusto dolce e zuccherato, come di miele. “Il Ghiro ha sempre qualcosa da dire. Dai, Ghiro, raccontale una storia, di quelle che prendono. E non tirare fuori battutacce sul Tempo, siamo stati puniti abbastanza” esclamò allegramente Beto, rizzandosi sulla sedia e prendendo anche lui un biscotto con gocce di cioccolato. La Lepre batté furiosamente il piede sul legno del pavimento. “Svelto, svelto, svelto!” lo esortò quest’ultima, prendendo una tazza di tè e bevendone il contenuto in un solo sorso. “Allora, si…” cominciò il Ghiro con la voce ancora impastata dal sonno. Violetta poggiò i gomiti sul tavolo e il mento sui palmi delle mani, pronta ad ascoltare interessata. “C’era una volta una bambina dai capelli dorati...” esordì con un piccolo sbadiglio. “No, no, e ancora no!” si intromise il Cappellaio Matto. “Non aveva i capelli fatti d’oro. Era solo bionda” lo corresse pignolo. “Ma era ovvio, l’avevo capito” disse Violetta, un po’ scocciata per quell’interruzione. “Puoi riprendere, gentilmente?” chiese educatamente. “Certo, certo…quindi c’era questa bambina con i capelli dorati, ma non per questo fatti d’oro. Si è inoltrata nel bosco dove ha incontrato lo Stregatto…”. “Camilla!” lo interruppe Violetta senza volere, parlando ad alta voce. “Shhhh!” la zittirono la Lepre e Beto all’unisono. “Si, Camilla, lo Stregatto…questa bambina si chiamava Alice. Si, proprio Alice. Alice era una persona davvero speciale, che dopo varie disavventure finì a corte dalla Regina di Cuori, che l’aveva invitata a una partita a croquet. Solo che il fenicottero rosa non voleva ascoltare la povera bambina, quindi…”. “Fenicottero rosa?” lo interruppe di nuovo. “Ragazzina, se mi facessi finire la storia, forse ti sarebbe tutto più chiaro” disse il Ghiro sempre più seccato. “Volevo solo capire cosa c’entrasse il fenicottero rosa con la partita a croquet” si giustificò la ragazza abbandonando la posa rilassata e irrigidendosi per l’imbarazzo. “Che ragazza senza cervello!” si intromise la Lepre. “Sapete come mai le fette biscottate cadono sempre con la faccia imburrata sul pavimento?” chiese all’improvviso Beto. I tre iniziarono un’accesa discussione su quanto fossero buone le fette biscottate, ma mentre il Ghiro protendeva per la marmellata, la Lepre sosteneva che solo il miele potesse accompagnare degnamente quella bontà di frumento. “No, no, e ancora no. Il burro con la sua cremosità è indispensabile” sentenziò con tono serio, salendo sul tavolo e cominciando a declamare le doti del burro, re della colazione perfetta. Violetta si ritrovò in mezzo a una conversazione stupida e senza alcun senso: nessuno dei tre avrebbe mai desistito dalle sue posizioni. E la storia ormai se la poteva anche sognare. Sbuffò impercettibilmente e si alzò lentamente, per affacciarsi alla finestra, mentre le parole dei tre le bombardavano il cervello. Finalmente sembrava aver smesso di piovere, e un timido sole era spuntato, facendo brillare il manto erboso che circondava la casetta di legno. “Vi ringrazio per l’ospitalità, io ora me ne andrei” disse Violetta, rivolgendosi ai suoi ospiti, i quali continuarono a non prestargli attenzione, troppo presi a litigare. La lepre aveva cominciato a lanciare tazzine ovunque, riducendole in frammenti una dopo l’altra. Beto aveva versato il tè addosso al Ghiro per farlo tacere. “E’ stato un…ehm…piacere?” sussurrò poco convinta, aprendo la porta di legno. Uscì e un odore di selvatico le diede per qualche secondo un senso di stordimento. Era pronta a riprendere il cammino, e questa volta sperava vivamente di non dover incontrare altri tipi strani.
“Chiamatemi Leon!” strillò una donna, seduta su un trono dorato. Un valletto al suo lato sinistro annuì e uscì di corsa dalla stanza ampia e luminosa, mentre quello alla sua destra continuava a reggere in mano uno specchietto con una cornice argentata. La donna si specchiò con superbia, mettendosi di profilo per far risaltare il suo naso piccolo e raffinato; si aggiustò la corona tempestata di rubini sul capo, esibendo uno dei suoi migliori sorrisi. I capelli castani e corti a caschetto risplendevano lisci come la seta grazie all’uso di numerosi balsami. Il suo volto era privo di rughe dovute all’età, sembrava al di fuori del tempo. Indossava un abito rosso scuro, con una collana di perle nere come la pece. Rivolse per un secondo lo sguardo alla sua mano, dove portava un anello della casata reale dei Cuori. Le porte si aprirono ed entrò un giovane ragazzo dai capelli castano corti, e degli occhi verdi profondi, ma apparentemente inespressivi. Il principe Leon avanzava sicuro di sé, come gli aveva insegnato la madre. Essere temuti per essere rispettati, era quella la prima regola del suo codice cavalleresco. Il suo sguardo incuteva proprio timore, odio e malvagità. Indossava un paio di pantaloni di cuoio nero, con il fodero della spada sempre in cuoio, allacciato alla cintura, anch’essa nera, che seguiva ogni suo passo. Una tunica rossa di seta leggermente scollata ricadeva morbidamente lungo il busto, lasciando comunque intravedere il suo fisico di guerriero. Sopra di essa portava un gilè in pelle marrone con alcuni simboli ricamati; il più significativo era un cuore nero ricamato all’altezza del petto. Non appena ebbe squadrato tutte le guardie della sala che si erano inchinate al suo cospetto, rivolse un rapido inchino alla Regina di Cuori per poi tornare a fissarla negli occhi scuri e cattivi. “Figliolo” disse la regina con un cenno della mano, per convincerlo ad avvicinarsi. Il ragazzo obbedì e si portò più avanti con cautela. “Madre” sussurrò, prendendo la sua mano e baciandola senza interrompere il contatto visivo. “Sua madre, Jade Lafontaine, regina di Cuori,  l’ha convocata per un compito di assoluta importanza, signorino Leon” spiegò il valletto che l’aveva chiamato, posizionandosi nuovamente alla sinistra della regina. “Attendo ordini” ribatté il principe freddamente, facendo scattare lo sguardo sullo specchio e incantandosi per qualche momento ad osservare il suo riflesso. “Leon, caro figliolo, erede del mio modesto regno, ancora una volta la stabilità del nostro comando è sotto una seria minaccia” esordì con tono serio. Leon annuì, intuendo già quale fosse il suo compito. Uccidere. Non faceva altro da quando aveva compiuto tredici anni, da quando era stato costretto a pugnalare il suo migliore amico, perché sospettato di tradimento nei confronti della corona. Le prime notti le aveva passate piangendo, mentre nella mente scorrevano velocemente le immagini dello sguardo privo di vita di quel ragazzino. Ma dopo…nulla. Aveva imparato a soffocare il dolore, a sopprimere i sensi di colpa, e la parte che avrebbe potuto rendere a suo avviso debole un uomo. “Di chi si tratta?” chiese semplicemente, posando la mano destra sull’elsa della spada. “Facundo Mirales, apparentemente un semplice contadino. Si è rifiutato di pagare le tasse più di una volta e sospettiamo sia coinvolto con quelli della rivolta. Si trova nel villaggio a pochi metri dal castello. Portalo nel bosco che circonda questa fortezza a ovest e uccidilo” gli ordinò con noncuranza la Regina. “Ogni tuo desiderio è un ordine, madre” esclamò Leon, facendo un altro piccolo inchino e voltandosi.
Si avviò lungo il buio corridoio solo con i suoi pensieri. Non c’era niente di più semplice e allo stesso tempo di più difficile che porre fine alla vita di una persona. Da piccolo anche solo il pensiero di uccidere qualcuno gli faceva tremare la mano che stringeva l’elsa della spada, ma grazie al continuo allenamento a cui la madre l’aveva sottoposto per farlo diventare il perfetto assassino e guerriero, non provava più nulla. Nulla di nulla. Era solo un gesto come un altro, niente di più. Il suo unico pensiero di rimorso era rivolto ai cari dell’assassinato; perché ci sono sempre persone che piangono la scomparsa di una vita. La vita di un uomo non è separata dalle altre, ma crea numerosi legami, intrecci. E’ come se ogni anima fosse una luce, e da essa scaturissero fili bianchi e lucidi,  che si vanno ad intrecciare con altri fili, con altre luci, con altre anime. Solo la sua anima poteva definirsi sola. Era continuamente solo; ma lui amava la solitudine, la vedeva come l’unico strumento per non provare compassione nei confronti del genere umano, o in generale di un essere vivente qualsiasi. Una macchina perfetta. Un ingranaggio solitario. Una luce priva di legami destinata a giacere nell’abisso più oscuro. Con quei pensieri che ormai lo accompagnavano quasi ogni giorno, scese la scalinata di pietra, scorrendo con la mano il ruvido corrimano, che portava alla sala d’ingresso. Calpestò con i suoi stivali in pelle neri i tappeti rossi e neri, facendo segno alle guardie di aprirgli la porta. La luce invase l’ingresso, fino a quando il giovane non decise di varcare la soglia. Si avviò velocemente alle scuderie alla destra del cortile del palazzo. “Signore…il suo cavallo è pronto” disse un umile stalliere, facendo un inchino. Leon annuì e montò il suo cavallo, un andaluso nero come la notte. “Buono, Settedicuori, buono” disse piano, carezzandogli il muso e dandogli una zolletta di zucchero. Preparò le briglie con calma, mentre continuava ad accarezzare la testa del suo destriero. Qualche minuto dopo il giovane cavaliere, accompagnato da altri due uomini, si diresse al galoppo verso il villaggio in questione. Il povero Facundo non poteva minimamente immaginare cosa il destino avesse riservato per lui.  
Violetta continuò a camminare, fino a quando finalmente i suoi piedi poggiarono su un sentiero rosso di pietra. “Ce l’ho fatta!” strillò entusiasta, avendo quasi perso la speranza. Seguì il sentiero con cura, finché gli alberi non si fecero sempre più radi, lasciando intravedere pezzi di cielo ampi. Il cinguettio degli uccelli la mise di buon umore, e sembrava che finalmente tutto stesse procedendo per il verso giusto. Non fosse per il fatto che si trovava in un mondo totalmente privo di senso e ordine, dove piante e animali parlavano, un mondo pieno di pazzi. D’un tratto il nitrito di un cavallo destò la sua attenzione. Si avvicinò e si nascose dietro un albero, osservando la scena: un uomo era in ginocchio, mentre un ragazzo castano con gli occhi verdi, il più bello che avesse mai visto, lo guardava dall’alto in basso, estraendo la spada. Ma cosa stava succedendo? Era abbastanza vicina per poter udire il discorso. “La prego, non ho fatto nulla di male. Non ho potuto pagare perché il raccolto non è stato buono!” si lagnò l’uomo con la voce tremante. “Sei accusato anche di tradimento nei confronti della corona” precisò il ragazzo dagli occhi verdi con uno sguardo severo e freddo. Le faceva venire i brividi quell’espressione, ma continuò ad osservare, affacciandosi di poco dal tronco dell’albero. I due uomini lo afferrarono per le braccia, e lo fecero alzare. “Facundo Mirales, io, principe di Cuori, futuro re di questo regno, eseguo l’esecuzione che mi è stata affidata” ribatté, sguainando la spada, che brillò, illuminata dalla luce del sole. Violetta rimase impietrita: non era possibile; quel ragazzo, che poteva avere si e no qualche anno in più di lei, stava per uccidere un uomo, trafiggendolo. Doveva intervenire…ma come? Non vedeva nessun modo per salvare quel povero contadino. Leon senza battere ciglio con un rapido colpo infilzò l’uomo all’altezza dello stomaco. Dalla bocca dell’uomo uscì un rivolo di sangue, mentre lo guardava con stupore e paura, quindi il povero contadino cadde a terra morto. Violetta chiuse gli occhi, mentre sentì il tonfo del corpo. Una lacrima le solcò il viso: come poteva una persona essere tanto crudele con un proprio simile? Non riusciva a trovare una spiegazione plausibile, né voleva farlo. Quando riaprì gli occhi, si perse ad osservare incredula gli occhi del giovane, che ancora non mostravano alcun rimorso per quell’ignobile azione. Estrasse la spada dal cadavere, e tirò fuori un fazzoletto candido con cui cominciò a pulire la lama. “Non gli hai fatto nemmeno dire le ultime parole” ghignò uno dei due uomini, che stava trascinando il corpo, lontano da quel luogo per abbandonarlo nel folto della foresta. “Avrebbe detto le solite cose che dicono tutti. Pensate a mia moglie, ai miei figli…le solite sciocchezze senza valore” esclamò Leon con amarezza. Violetta arretrò piano per non farsi sentire, ancora scossa per quell’esecuzione così crudele. Era inorridita…quel principe era una persona senza cuore. Aveva i brividi e stava tremando per la paura, mentre le scene della morte del contadino affollavano la sua mente con un impeto tale da stordirla. Inavvertitamente calpestò un ramo, rischiando anche di inciampare. Leon drizzò l’orecchio: “C’è qualcuno”. Fece una corsa verso il luogo da dove aveva sentito il rumore, ma non vide nessuno.
Violetta nel frattempo aveva cominciato a correre senza fermarsi con il cuore in gola. Sentiva un rumore di passi dietro, e aveva paura che quell’assassino volesse mettere a tacere anche lei. Non voleva morire. Voleva solo tornare a casa e poter riabbracciare suo padre. I passi si fecero sempre più vicini. Il fruscio delle foglie che cadevano si confondeva col rumore sordo degli stivali che colpivano con forza il sentiero rosso. Non ce l’avrebbe fatta, ormai era la fine di tutto. Si ricordò delle parole del saggio tasso: come poteva credere che quel ragazzo avesse la capacità di mostrare compassione, se non sembrava nemmeno un essere umano? Abbandonò il sentiero, cercando di raggiungere il folto della foresta per potersi nascondere; magari sarebbe riuscita a riottenere ospitalità dal Cappellaio Matto. Non mosse nemmeno qualche passo fuori dal sentiero che si sentì stringere il braccio con forza, e una voce fredda rimbombò nella sua testa: “Voltati”. Violetta deglutì e lentamente si voltò, cercando di mascherare la sua paura. Forse non sapeva che lei aveva visto, forse poteva ancora sperare di salvarsi. La prima cosa che avvertì fu la punta acuminata della spada puntata alla sua gola, e lo sguardo indagatore del giovane. La lama era ancora insanguinata per l’uccisione di Facundo, e il freddo della punta metallica le diede l’impressione che sarebbe morta di lì a qualche secondo. Ma anche in quel momento non poté non rimanere incantata dall’innaturale bellezza di quel giovane. “E adesso, se non vuoi morire, rispondi: chi sei tu? E cosa ci fai qui?” chiese Leon, guardandola con interesse. Indubbiamente la bellezza di quella ragazza avrebbe potuto incantare chiunque, ma non lui. Lui non aveva un cuore. Il principe di Cuori senza cuore. Che buffa coincidenza… Improvvisamente però per la prima volta, guardandola dritta negli occhi, sentì che la sua sicurezza stava subendo una leggera incrinatura. Non sarebbe riuscito ad ucciderla. E non sapeva il perché; non riusciva nemmeno lontanamente a immaginarlo. 







NOTA AUTORE: eccomi, come tutti i venerdì, pronto con un nuovo capitolo. Allora...Beto è un pazzo xD Comunque la scena del té mi piace un sacco e non è proprio senza senso. In un certo senso costituisce una critica alle discussioni inutili anche per le cose più stupide (quanto mi senso profondo...anche no xD). Violetta è l'unica che sembra conservare un briciolo di cervello in questo mondo di matti O.o Ma veniamo al mio personaggio preferito di questa ff: Leon. Leon, figlio di Jade, regina di cuori, è un personaggio particolare. Un assassino spietato e crudele, ma assolutamente non banale. Ha una storia alle spalle che lo hanno portato a comportarsi in questo modo, e questo penso che vi sia chiaro dalla sua descrizione durante il colloquio. Il primo incontro con Violetta è tutt'altro che allegro e felice :O Una spada puntata alla gola non promette molto bene, ma i due in un certo senso sono affascinati dall'altro, in un modo che non si sanno ancora spiegare (soprattutto Leon, come vedremo in seguito). Povero Facuno Mirales, un povero contadino, che riassume bene il clima dittatoriale che governa il regno di Cuori. Comunque, anche se accennata, la storia di Leon è stata lasciata volutamente vaga, perché si, e basta xD Per il resto, lascio a voi i commenti. Buona lettura a tutti e alla prossima ;D 
P.S: approfitto di questa capitolo e questa nota autore che io e una ragazza di EFP (tale 
MileyCyrus), in realtà più costei di me (visto che sono super impegnato...'mazza), abbiamo aperto un forum sulla Leonetta e più in generale sulla serie (ma soprattutto sulla Leonetta e Jortini). E' ancora agli inizi, però pensavamo fosse un'idea simpatica quella di scambiarci opinioni e roba simile, permettendo magari anche ai più timidi (tipo io...naaaah. Ok, in realtà si xD), di scambiarci opinioni e roba del genere. Per chi fosse interessato this is the site (è ancora agli inizi, ma chissà :D): http://leonettaitalianforum.forumcommunity.net/

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Capitolo 4
*** Un nuovo arrivo a corte ***






Capitolo 4

Un nuovo arrivo a corte



Era a cavallo dietro il giovane, che aveva sentito essere chiamato dagli altri due uomini Leon, o principe. Si strinse forte alla sua vita, poiché non era mai stata a cavallo ed aveva una paura tremenda. Leon sembrava scocciato da quel contatto così ravvicinato, ma non diede segni di fastidio né disse una parola. Il suo sguardo faceva intuire che era preso da altri pensieri, sembrava molto concentrato. “Dove mi stai portando?” chiese Violetta, rompendo il lungo silenzio. Leon non rispose, lo fece al suo posto l’uomo che galoppava alla sua destra su un baio marrone: “La stiamo portando al Castello di Cuori, signorina, dove la Regina deciderà della sua sorte”. “Secondo me la manda dritta nelle miniere di diamanti” sghignazzò l’altro poco dietro. Violetta rabbrividì: lavori forzati? Regina? Miniere? Che fine aveva fatto? Quel mondo la stava spaventando sempre di più, inoltre avvicinandosi all’enorme castello che iniziava a stagliarsi dopo aver raggiunto il limitare della foresta sentiva un profondo senso di inquietudine. La malvagità emanata da quella struttura si intrufolò nella sua mente. Il Castello di cuori era un enorme edificio, provvisto di due cinta murarie, una interna collegata direttamente alle pareti scoscese, e una più esterna, costituita da enormi blocchi di pietra squadrati di un grigio cupo. Il castello era il cuore di quell’enorme costruzione, con le sue due torrette laterali innalzate fino al cielo, e alcuni finestroni di vetro colorato di rosso e nero lungo le pareti. Sul tetto e sulle due cinte murarie numerose sentinelle facevano i turni per sorvegliare la pianura che si estendeva davanti e dietro. La posizione non sembrava molto svantaggiosa nonostante fosse costruito sulla pianura, poiché a sud e a ovest era circondato dalla foresta intricata. Più avanzavano più il castello sembrava imporsi minaccioso, cercando di invadere gli spazi celesti sopra le loro teste. Una sentinella li osservò dall’alto e mandò l’ordine di far aprire il  gigantesco portone in ferro battuto che si stagliava di fronte a loro.
Un rumore di serrature arrugginite e di ingranaggi che giravano senza sosta riempì quel silenzio insopportabile, lasciando intravedere uno spiraglio del cortile interno del castello.Non appena furono entrati Violetta si lasciò scappare un’ esclamazione di meraviglia, osservando i numerosi giardini che si estendevano quasi non avessero mai fine. Una via di ghiaia bianca portava all’ingresso sorvegliato da numerose guardie, anticipato da un piccolo tunnel scavato nella cinta muraria interna. Sopra di esso c’erano calderoni di peltro utilizzati per respingere i nemici con l’olio bollente. La strada principale si diramava al centro del cortile in due strade: a destra attraversava un piccolo boschetto che doveva portare in qualche altra zona, mentre a sinistra conduceva alle scuderie, come si poteva notare in lontananza, e ad una distesa polverosa con ammonticchiati numerosi manichini. Un campo di combattimento per allenarsi, molto probabilmente. La strada principale comunque sia si diffondeva anche sotto forma di stradine polverose lungo tutto il cortile, dove si trovavano numerosi cespugli ornati con rose rosse e piante di ogni tipo che creavano una piacevole ombra e frescura. Leon fece un cenno e due guardie accorsero per aiutarla a scendere da cavallo; il giovane scese subito dopo con un balzo, facendo smuovere un po’ di ghiaia. Le afferrò il braccio con forza. “Ahi!” esclamò Violetta con una smorfia di dolore. Non sembrò fare caso alla forza della presa e non le chiese scusa, non fece assolutamente niente. Solo dopo un po’ ammorbidì la stretta, e lei lo ringraziò con lo sguardo. Camminarono fino a raggiungere l’ingresso, ai cui lati troneggiavano due statue a grandezza d’uomo. Sulla sinistra sedeva sul trono un uomo giovane con uno sguardo rassicurante; portava una corona in pietra lavorata finemente, e con il braccio steso lungo il trono stringeva una rosa nella mano sinistra. La destra invece era impegnata a sorreggere uno scettro. Sulla destra una donna dallo sguardo ammaliatore era in piedi, con una gonna finemente lavorata; su di essa erano incisi numerosi cuori in cerchio: addirittura erano state scolpite le pieghe del vestito. Sembrava porgere all’osservatore con le mani unite un cuore, realizzato con un cristallo scurissimo. Le porte di legno si aprirono lasciando intravedere l’ingresso. Violetta seguì Leon e i due uomini al suo interno e subito rimase incantata dalla scena che si trovò di fronte.
Un enorme salone con in cima un lampadario di cristallo tempestato di diamanti, che catturò sin da subito la sua attenzione, si mostrò in tutto il suo splendore. La sala era circolare, e le pareti erano realizzate con numerosi materiali preziosi, che ricoprivano tutte le sfumature del rosso e del nero. In fondo alla sala, una scalinata in marmo bianco si stagliava di fronte a lei; i gradini erano larghi all’inizio, ma poi si assottigliavano sempre di più, accentuando il senso prospettico. Il corrimano era realizzato con cura, e appoggiava direttamente su alcune colonnine anch’esse di marmo bianco. Una volta superata la scalinata un portone bianco segnava la fine del percorso. Sulla destra e sulla sinistra della sala c’erano due porte; da quella sulla sinistra provenivano rumori di pentole e passi, quindi Violetta intuì che una volta oltrepassata vi fossero le cucine. Per un momento rivolse la sua attenzione al pavimento e rimase meravigliata alla vista di un mosaico maestoso, che rappresentava due enormi rose rosse che si intrecciavano. Leon le fece cenno di salire la scalinata e la ragazza obbedì agli ordini. Ogni gradino aumentava il suo senso di impotenza e perdizione. Era in un luogo sconosciuto, quasi fiabesco, che però le metteva inquietudine. Non vedeva l’ora di andarsene, ma qualcosa le diceva che uscire da quelle mura sarebbe stato quasi impossibile, se non su ordine della regina. E se fosse uscita dal castello sarebbe stato sicuramente per essere portata a lavorare nelle miniere del regno. Leon la guardava con la coda nell’occhio per studiare le sue reazioni, avanzando al suo fianco. Non sapeva perché, ma temeva profondamente quella ragazza, temeva quello sguardo così ricco di curiosità e paura. Sentiva quasi la complessità di emozioni che le impossessavano il corpo. Si accorse subito del fatto che le mani le stavano tremando. Sentì il forte impulso di mollare la presa su di lei, e di ordinarle di scappare, un impulso che tenne a freno con molta fatica. “Mi succederà qualcosa di brutto?” chiese Violetta, con lo sguardo che lo supplicava. Leon la fissò negli occhi ancora una volta, poi si voltò dall’altra parte come se stesse ponderando bene cosa dirle. “Non lo so…” rispose con tono impassibile. Violetta si fermò, come se improvvisamente fosse diventata di pietra. “Ho paura” disse semplicemente, mentre una lacrima scese lungo il suo viso. Lui ne aveva di più…era terrorizzato da quello strano desiderio di consolarla. No, non voleva. Lei era una prigioniera come tante, ed era compito della regina decidere della sua sorte. Le fece cenno di continuare a camminare. Violetta deglutì e annuì venendogli dietro, questa volta senza essere costretta da nessuno; sapeva benissimo che non aveva altra scelta. Alla fine della scalinata a destra e a sinistra si estendevano due corridoi esattamente identici. Leon girò verso sinistra  e lei fece lo stesso. Si ritrovò in un lungo corridoio illuminato unicamente da qualche rada finestrella e dal fuoco tremolante delle torce. Mentre avanzava vedeva un’infinità di porte in legno affiancarsi. A metà del corridoio una scalinata sulla destra, sembrava portare ad un piano ancora superiore. Sulla sinistra c’era un massiccio portone in quercia. Due battenti di bronzo a forma di cuore brillavano della luce di una fiaccola lì vicino. Sul portone vi erano incise alcune scene di battaglie. In basso a sinistra però c’era una scena particolare. Sedute su un tavolo c’erano due donne e al centro una ragazzina che teneva in mano due corone. Le due donne la guardavano con tono afflitto e rancoroso. Non capiva cosa volesse dire. In alto sulla pietra era stata scolpita la scritta ‘Γνῶθι σεαυτόν’. “Conosci te stesso” sussurrò lei con un sorriso. Leon rimase a fissarla abbastanza stupito delle sue conoscenze del greco. “Socrate” esclamò continuando a fissare quelle parole. Il principe annuì, poi le ordinò con un movimento del braccio di seguirlo. “Cosa c’è dietro quella porta?” chiese con una certa curiosità. Leon continuò a guardare dritto davanti a lei. Perché si ostinava a cercare di intavolare una conversazione? Non aveva paura di ciò che le sarebbe accaduto? “La biblioteca del castello”. “Che bello, una biblioteca! Io amo leggere” disse la ragazza, alzando lo sguardo sul soffitto in pietra. Il principe non riusciva a resistere, doveva chiederglielo: “Non hai più paura?”. Violetta lo guardò tristemente: “Certo che ne ho. Tantissima. Ma questo cambierebbe la mia situazione?”. Alogico e insensato, ma stranamente vero. Quella ragazza aveva ragione, eppure si sentiva incuriosito: voleva sapere di più sul suo conto. Per un momento sentì un leggero senso di dispiacere per le sorti della prigioniera pervadergli l’animo, ma lo represse subito. La sua era una luce priva di legami e così sarebbe rimasta per sempre. E non era stato costretto a vivere quella condizione, l’aveva scelta lui stesso.
Il portone di bronzo dorato si aprì, cedendo lo spazio ad un salone da ricevimento. Quella era la sala del trono. Un tappeto nero si stendeva dall’entrata e conduceva di fronte a un piccolo rialzamento dove era situato il trono. Il primo pensiero di Violetta alla vista della regina fu che l’impressione iniziale che aveva avuto sul castello si poteva benissimo riflettere sul suo proprietario. Quella donna emanava malvagità dallo sguardo e da ogni suo movimento lento. Il pavimento era di basalto e le pareti della stanza circolare erano nere come la pece. Tutt’intorno erano appese torce e fiaccole che illuminavano quella stanza che le diede l’impressione di essere finita in una mare di petrolio. Si fecero largo, accompagnati dalle guardie della sala del trono, fino a quando non arrivarono a qualche metro dal trono, quindi si inchinarono. Violetta era rimasta in piedi non sapendo come comportarsi. “Che insolenza! Tagliatele la testa” disse senza pensarci due volte con uno sbadiglio. Violetta sentì un groppo in gola e le lacrime accumularsi piano, aspettando il loro momento per uscire copiose. “Madre, non sapete ancora di cosa è accusata” tentò di difenderla il principe alzando il capo con uno sguardo nervoso.  “Ed è importante che io lo sappia?” tuonò con la sua voce stridula la regina, offesa dal tentativo del figlio di tenerle testa. Non era mai successo, e non si aspettava una reazione del genere. Leon rimase in silenzio, quindi annuì e si inginocchiò nuovamente: “Come voi volete, madre”. Violetta doveva prendere tempo, e cercò di ragionare a mente fredda. Implorarla avrebbe solo accresciuto il desiderio della regina di vedere la sua testa rotolare. La donna, continuava a picchiettare con la mano il bracciolo del trono, con fare impaziente. Portava numerosi anelli d’oro massiccio, alcuni con zaffiri, altri con smeraldi. La veste era semplice ed elegante: un vestito nero lungo, tempestato però di rubini. Sulla manica destra poté notare tre rubini, lavorati a forma di cuore, mentre sulla mancia sinistra ve ne erano solo due. Subito si ricordò della gemma trovata appena messo piede in quel mondo, e la tirò fuori dalla sua gonna, piena di strappi. La regina portò una mano alla bocca, stupita, mentre il figlio alzò lo sguardo quel tanto per capire che stesse succedendo. “Dove l’hai trovato?” chiese freddamente la donna, alzandosi dal trono e strappandole di mano quel tesoro. Violetta abbassò lo sguardo in segno di umiltà. “Nel folto del bosco che circonda il castello”. “Questa pietra mi è stata rubata tempo fa da un gruppo di gazze ladre. Mi hai reso un grande servizio restituendomela. Sarai graziata” esclamò lei con un sorriso maligno. “Portatela via, è libera!” strillò alle guardie, che scattarono subito sull’attenti. “Aspetti, non saprei dove andare…” sussurrò lei incerta. Doveva rivelargli che veniva da un altro mondo? Qualcosa le diceva di non farlo. No, per ora doveva rimanere al sicuro, poi avrebbe pensato a come andarsene di lì. “Sono orfana e speravo che sua maestà mi potesse concedere l’onore di lavorare qui a palazzo” esclamò facendo una piccola riverenza nel pronunciare ‘sua maestà’. La regina la guardò soddisfatta per il rispetto dovuto. “Si può fare. Bianconiglio segna tutto. Il mio nome è Jade Lafontaine, ma per te sono la regina di Cuori. E tu farai parte della mia corte” la rassicurò prendendo da un valletto un calice dorato. Si sentì uno scribacchiare e Violetta voltò lo sguardo; in fondo alla sala sulla destra un bel ragazzo, moro e dagli occhi azzurri, era seduto su un tavolinetto in legno e prendeva nota di tutto. Aveva un bel paio di candide orecchie bianche in testa. “Ma io ti ho già visto” esclamò la ragazza entusiasta. “Spiacente di deluderla, ma io non ricordo lei. Mi presento sono Thomas, il Bianconiglio” disse il giovane, tornando a concentrarsi sul foglio ingiallito davanti a lui dopo averle rivolto un’occhiata fugace. “Leon, la accompagni a mostrarle il suo alloggio?” disse la regina. Il principe scosse la testa. “Ho un importante allenamento che non posso rimandare, dovrete chiedere a qualcun altro, madre”. “Thomas, allora pensaci tu! Mostrale i suoi alloggi” sbraitò lei con un tono tutt’altro che gentile e pacato. Il giovane ragazzo balzò dalla piccola sedia su cui era seduto non appena si sentì chiamato, rischiando addirittura di inciampare; indossava una paio di pantaloni di iuta marroni e una maglia bianca con sopra un panciotto rosso, da cui fuoriusciva la catenella dorata di un orologio da taschino. Senza aspettare un secondo si avvicinò a lei quasi saltellando, poi le prese la mano e la trascinò via di corsa.
Ripassarono davanti alla libreria, scesero la scalinata in marmo e Thomas si diresse dalla parte opposta delle cucine. Violetta lo raggiunse mentre apriva la porta in legno massiccio, molto semplice e senza tante decorazioni. Al suo interno si diramavano moltissimi piccoli corridoi: sembrava una sorta di labirinto. “Qui ci sono gli alloggi della servitù” spiegò in modo conciso il ragazzo, facendole strada verso destra. Fecero numerose deviazioni, fino a quando non si trovarono di fronte a una piccola porticina. “Qui dentro è dove dormirai insieme a un’altra ragazza che lavora qui al castello. Dentro troverai anche una pianta dell’edificio e al più presto ti faremo avere una lista con i compiti che devi portare a termine” continuò con fare annoiato. Violetta annuì, facendogli capire che gli era tutto chiaro. “Grazie”. Le venne data una chiave in ferro che girò con forza per sbloccare la serratura. Una piccola stanza accogliente le rinfrancò lo spirito abbattuto. Due letti singoli erano addossati alla parete a destra dell’ingresso con due comodini in legno modesto. Sulla parete sinistra c’era un guardaroba un po’ tarlato, ma ancora decoroso. Una piccola finestra dava su un campo verde brillante con numerose aiuole e illuminava la stanza. “La sua compagna le spiegherà tutto” esclamò Thomas, senza scomporsi minimamente nemmeno per un secondo, prima di girare i tacchi ed andarsene. Violetta si stese subito sul suo letto, rimpiangendo la sua stanza con le sue cose. Una lacrima scese a quei pensieri, e preannunciava l’intenzione di un pianto liberatorio, ma non ne ebbe il tempo perché qualcuno entrò in quel preciso istante. Capelli biondo cenere e occhi vispi di un colore marrone chiaro. Una ragazza minuta più o meno della sua età, forse un po’ più piccola, fece il suo ingresso. Aveva un’espressione incuriosita e felice allo stesso tempo. “E tu chi sei?” chiese la ragazza, sedendosi ai piedi del suo letto, quello più vicino alla finestra. “Piacere, mi chiamo Violetta, e da oggi a quanto pare saremo compagne di stanza” si presentò educatamente, asciugandosi la lacrima, con una mano e cercando di mostrarsi sorridente. La bionda si accigliò leggermente, poi le porse un fazzoletto bianco che teneva nella tasca della gonna grigia. “Il mio nome è Lena”. “Che bel nome…” sussurrò Violetta. “Anche il tuo mi piace, trasmette tranquillità” esclamò la ragazza con un sorriso dolce. Le due si strinsero la mano, e cominciarono a parlare del più e del meno. “Quali saranno esattamente i miei compiti?” chiese Violetta, curiosa e preoccupata. Non era in grado di svolgere faccende pesanti o cose del genere, e non voleva suscitare le ire della regina. Lena ci pensò un po’ su. “Se sei in stanza con me immagino che dovrai fare quello che faccio io. Noi siamo tra quelle più fortunate della servitù, perché i nostri compiti sono i più semplici. Aiutare nelle cucine, portare le pietanze e cose del genere”. “Da dove vieni?” aggiunse subito dopo. Violetta rimase in silenzio: non sapeva che rispondere. Decise di essere sincera, almeno in parte. “Dalla foresta a sud del castello”. “Davvero? E sei cresciuta lì?” chiese Lena, prendendo un cuscino. Strinse l’oggetto soffice e vi poggiò il mento.  “Si…sono stata abbandonata da piccola, e alcuni abitanti del bosco mi hanno accudita” inventò al momento, sperando che la compagna si bevesse quella serie di menzogne. “E tu, invece?”. “Anche io sono orfana. Mia madre è morta dandomi alla luce, mio padre invece, che era un grande generale, è caduto in una battaglia contro il regno di Fiori. E’ grazie al suo prestigio e alla sua morte onorevole che mi hanno preso qui al castello” spiegò Lena con un filo di malinconia nella voce. “Mi dispiace…” ribatté Violetta. Si alzò del suo letto per sedersi vicino alla compagna di stanza e le passò il braccio intorno alle spalle per confortarla. Lena si riprese dalla tristezza in un istante. “Sto bene, sto bene…Sento che andremo davvero d’accordo io e te!”. Le due si sorrisero e si abbracciarono. Non si erano ancora nemmeno conosciute eppure già sentivano che un forte legame d’amicizia si era instaurato tra di loro.
Leon era sceso al campo d’allenamento e quel giorno si stava allenando a tirare con l’arco, cercando di centrare i bersagli posti a media distanza. Non riusciva a fare centro, eppure per lui doveva essere una passeggiata. Stava pensando a quella strana ragazza…c’era qualcosa di diverso in lei, come se non facesse parte del loro mondo. Si sentiva stanco e confuso, quando qualcuno gli si avvicinò goffamente per mettergli una mano sulla spalla. Il principe si girò tranquillamente fino ad incontrare degli occhi di un azzurro acquoso. “Ah, sei tu…” sussurrò lui con tono distaccato. “Ho saputo dalla regina che abbiamo un nuovo arrivo a corte” esclamò il misterioso individuo, tenendo lo sguardo fisso anche lui sul bersaglio. “Si, una ragazza, il suo nome è Violetta” rispose seccamente Leon, scoccando un’altra freccia. Mancato. “Mi chiedo perché sia giunta fin qui…Avrà uno scopo da compiere”. “Non è un’infiltrata dei rivoluzionari, se è questo che intendi. Non me ne ha dato l’impressione, altrimenti l’avrei uccisa” ribatté Leon, preparandosi al secondo lancio. Mancato di nuovo. “Non intendevo dire questo. Credo che porterà delle novità qui al castello, qualcosa di cui tutti abbiamo bisogno, di cui tu hai bisogno. Ho visto come la guardavi”. Leon arrossì impercettibilmente, ma continuò a concentrarsi. “Non ne sono innamorato, se è questo che intendi. Mi conosci ormai”. “Se non fossi Leon infatti direi che sei innamorato. Ma sei Leon, e sei incapace di provare sentimenti belli e puri come questi” lo rimproverò la misteriosa figura, avvolta in un mantello che copriva la sua forma ovale. Il giovane preparò la terza freccia. “Se sei venuto qui per rimproverarmi hai perso solo tempo” sibilò, prendendo la mira e cercando di concentrarsi. “Forse ho perso tempo, forse no. Forse anche tu hai perso tempo, cercando di essere chi non sei. Non ricordi più come eri un tempo? Io ricordo ancora il tuo sorriso, Leon”. Adesso era troppo. Leon digrignò i denti: “Ero un bambino, ero innocente. Sono cambiate molte cose”. Il silenzio calò sull’arena. L’uomo scoppiò a ridere. “Puoi cambiare chi sei, ma non chi eri né chi sarai, perché il destino ha sempre l’ultima parola. In futuro sarai un grande re, saggio e giusto. Lo sento”. Il principe fece tendere l’arco, e scoccò la freccia. Centro. “Io sarò re, quello è il mio posto” concluse lui, avviandosi verso il castello per un bagno caldo. “Hai molte cose da imparare prima di essere un grande re come tuo padre e sono sicuro che sarà proprio quella Violetta a insegnarti”. Il ragazzo si fermò. Era voltato di spalle, e stringeva i pugni adirato. Il ricordo del padre era troppo per lui. “Ho punto sul vivo, vero? Tu non sei così, e sei in tempo per cambiare” lo rassicurò la voce avvicinandosi da dietro. “Io sarò re, quello è il mio posto” esclamò il principe per un’ultima volta, prima di dirigersi all’interno del castello con passo svelto. “Che il dubbio ti accompagni sempre Leon, sempre…”.
Leon si chiuse dentro la sua stanza regale e si buttò a peso morto sul suo letto a baldacchino. Fissava il soffitto e pensava alle parole del suo amico. No, amico era una parola sbagliata, lui non aveva amici, piuttosto lo considerava un fidato consigliere. Quella ragazza, Violetta, sembrava essere di fondamentale importanza per lui, ma non era d’accordo. Era una ragazza come tante. L’amore rendeva deboli, lo sapeva bene, l’aveva vissuto sulla sua pelle attraverso il padre. E lui non voleva essere vulnerabile.
‘Le campane suonavano diffondendo un clima lugubre per tutta la vallata. Un bambino di dieci anni, castano con gli occhi verdi era in compagnia di un altro bambino moro con gli occhi scuri. Davanti a loro una decina di soldati con l’uniforme delle cerimonie tenevano una portantina con sopra una bara. Una donna con gesti plateali mostrava tutto il suo sconforto, piangendo e urlando il nome del suo amato venuto a mancare in guerra. Erano giunti al cimitero dei re, un’imponente giardino circondato da mura bianche di marmo. Al suo interno tra i salici e le margherite c’erano numerose lapidi con scritte dorate. Stava per iniziare la cerimonia per la morte di Javier Vargas, re di Cuori. “Leon, vieni un secondo qui” lo richiamò la madre, mostrando tutta la sua freddezza dopo quella manifestazione di dolore non sentita davvero. Il bambino dagli occhi verdi si allontanò dal suo coetaneo ed eseguì il comando impartitogli. “Tuo padre è morto perché ci amava, e questo l’ha reso debole e vulnerabile. L’amore è sempre un male, figliolo, sempre” disse la donna, rivolgendogli uno sguardo severo attraverso il velo nero che indossava. Leon annuì con un po’ di timore addosso. Si voltò e vide la bara di legno essere depositata in una buca lì vicino. Il padre era morto per proteggerli ed era stato ucciso dalle armate di Picche. Avrebbe vendicato la sua scomparsa e riportato il suo prestigio. Quella era una promessa’
Leon si rigirò nel letto e poco dopo si alzò. Si cominciò a togliere gli indumenti e si diresse in una stanza adiacente dove c’era una vasca di bronzo scintillante. Una giovane ragazza con i capelli raccolti la stava riempiendo con dell’acqua calda. Entrò nella vasca e si lasciò coccolare dai vapori bollenti. Finalmente tutti quei pensieri scivolarono via, si sentiva calmo e rilassato. L’ancella lo guardava trepidante, attendendo altri ordini. Leon si fece portare numerose essenze profumate per sentirsi ancora più rilassato. Adesso stava meglio; non c’era niente che un bagno non potesse risolvere. “Se ha finito, allora io andrei…” sussurrò la donna timidamente. Il principe scosse la testa. “Stanotte rimarrai nelle mie stanze”. La ragazza annuì tremante e si diresse sul letto a baldacchino. Leon uscì dalla vasca e si cinse i fianchi con un asciugamano bianco di seta. Raggiunse la donna che lo aspettava completamente senza vestiti. Si chinò verso di lei, baciandole il collo e sfiorando la sua pelle, mentre un senso di vuoto lo pervadeva. Non c’era modo di cambiarlo. Era e rimaneva un mostro. Un uomo senza cuore, che aveva imparato a sopprimere anche il sentimento d’amore trasformandolo in un semplice bisogno fisico. Leon, il principe di Cuori senza cuore. E Violetta? Violetta era solo una ragazza che avrebbe presto imparato a desiderare di stargli lontano. 
 








 
NOTA AUTORE: finale con nota angosciante e tenebrosa. Io amo la parte psicologica di Leon soprattutto, ma di tutta la storia in generale. Leon ha quasi paura di violetta, la sente come una minaccia, proprio perchè incuriosito e attratto da lei. Odio e amore, ma per adesso più odio che amore...se pensate che il passato di Leon sia solo questo, NON illudetevi, al povero Leon ne sono successe di cose, che verrano fuori più in là...ma già si intuisce che c'è qualcosa sotto nel momento stesso in cui dice di aver scelto lui stesso quella condizione. Scelto? Davvero? Parrebbe di si, ma non posso dirvi nulla, solo che altri oscuri segreti sono dietro l'angolo per essere svelati. Rileggendo questo capitolo mi sono seriamente gasato. Me lo ricordavo noioso, perchè molto descrittivo, e invece mi sono autosorpreso xD La conversazione di Leon con il tizio misterioso (che poi scopriremo chi è nel capitolo 6 -tanto per spoilerarvi roba random xD-) mi piace tantissimo, come anche il flash del ragazzo quando viene nominato il padre. Violetta e Lena fanno già amicizia, sentendosi accomunate in un certo senso da un passato simile (anche se quello di Violetta è una mezza verità...). Lena è un personaggio positivo, è una cosiddetta eroina, nel vero senso del termine. E' lei che tirerà fuori dai guai Violetta con la sua astuzia. Ma anche Violetta ci ha mostrato un lato sconosciuto: la sua freddezza nel momento del dialogo con la regina, la sua analisi attenta del vestito e il ricordo della gemma...ve l'aspettavata da un personaggio che sembrava in balia degli eventi dal primo capitolo? In effetti Violetta ha più assi nella manica di quanto sembri, è una ragazza dall'intelligenza spiccata, e nonostante le difficoltà e il dolore riesce comunque a mantenere la lucidità di pensiero. Ma sui personaggi mi dilungherei davvero una vita, perchè li adoro tutti, uno ad uno, anche Jade mi piace come personaggio *-* Ahhhhhhhhhh, sono così belli, e li ho creati con molta difficoltà, è dura cercare di farli agire nel modo più coerente al loro modo di essere. Oggi ho pubblicato perchè vorrei provare a pubblicare più spesso, vediamo se ci riesco :D Il prossimo capitolo si intitola 'Maxi, il rivoluzionario' e sarà incentrato completamente sul nuovo personaggio in questione Maxi, ma apparirà anche il saggio Brucaliffo...in che occasione? Lo scopriremo nel prossimo capitolo! Grazie a tutti voi che mi seguite, e alla prossima :D 

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Capitolo 5
*** Maxi, il rivoluzionario ***





Capitolo 5

Maxi, il rivoluzionario

“Fermati!” esclamò una delle guardie con la lancia tesa in alto. Un ragazzo con un cappello di iuta color grigio chiaro sfrecciava abilmente lungo la via trafficata della città, dove quel giorno si stava tenendo il mercato. Fece cadere un cesto di frutta, afferrando qualche mela al volo, infilandole nelle tasche, e continuando a correre. Un gruppetto di cinque guardie continuava a seguirlo, con le armature scintillanti che cigolavano durante i movimenti. I popolani cercavano in tutti i modi di fermarle, intralciando il loro passaggio. Da quando la regina Francesca era stata arrestata, e la regina Natalia aveva preso il suo posto, il corpo militare del regno non era più visto di buon occhio da nessuno. Il ragazzo che stringeva nella mano libera un sacco marrone, deviò verso una stradina stretta e buia. Illusi se pensavano di poterlo catturare. Lui conosceva tutti i vicoli e i passaggi della città. Con un salto si arrampicò su un muro, mentre sentiva la urla delle guardie che l’avevano rintracciato. Quando fu in cima al muro si rivolse con lo sguardo verso di loro e gli fece un pernacchia. “Viva la regina Francesca!” esclamò il giovane, per poi lasciarsi cadere all’indietro, evitando una delle lance scagliate con l’intenzione di ferirlo. Finì su un carro di fieno parcheggiato lì e pronto per essere diretto fuori città in campagna. “Ho un bel passaggio” sussurrò, nascondendosi bene e appisolandosi.
Il carro si mosse dopo poco, risvegliando il povero ospite indesiderato per i sobbalzi causati dalle buche della strada. Diede un’occhiata e si rese conto che era ormai fuori dalle mura cittadine, quindi spiccò un salto silenzioso, e si ritrovò in campagna, proprio vicino casa. Si incamminò fischiettando, e ammirando i campi coltivati di frumento. E’ quasi il tempo della raccolta, pensò il ragazzo. Fece scivolare la mano lungo le spighe dorate e ne respirò a fondo l’odore, mentre si dirigeva attraverso i campi in una piccola casa, con una macina lungo un fiumiciattolo. Le scarpe in cuoio un po’ trasandate cominciarono ad affondare nel fango morbido e fertile, mentre sentì una rana gracidare in vicinanza. Si avvicinò all’ingresso con una faccia solare, e bussò alla sgangherata porta di legno. “Sono io, Maxi” disse allegramente, bussando nuovamente, non ottenendo alcuna risposta. Un signore anziano aprì con un leggero colpo di tosse. I suoi occhi spenti e grigi si illuminarono alla vista del nipote. “Maximiliano!”. “Chiamami Maxi, nonno” lo implorò, entrando, senza curarsi di pulirsi le scarpe ricoperte di fango. Una giovane donna era stesa sul letto, accostato alla parete in fondo alla casa. Aveva il viso pallido e smunto, e respirava molto a fatica. “Buongiorno, madre. Come vi sentite oggi?” chiese Maxi, accorrendo e sedendosi al lato del letto, stringendo la mano fragile e ossuta della donna. La giovane donna fece un cenno d’assenso per rassicurarlo sulla sua salute, accompagnato da una tosse cavernosa. I suoi occhi erano scuri come la notte, e Maxi aveva preso proprio da lei questa caratteristica, mentre i capelli ricci e ribelli li aveva ereditati dal padre. Il padre, Fernando Ponte, era morto durante una rivoluzione. Lui non c’entrava nulla, era solo un povero negoziante, passato lì per caso. A quel ricordo Maxi strinse forti i pugni, ma poi chiuse gli occhi respirando piano e tornò a sorridere, per non procurare ulteriore dolore alla madre. Tirò fuori dal sacco una pagnotta e qualche mela. Il nonno si avvicinò con il bastone, zoppicando, e prese la pagnotta per poi appoggiarla al tavolo. Tirò fuori da un armadietto un lungo coltello affilato, e tagliò alcune piccole fette. “E’ quasi il tempo della mietitura” esclamò il ragazzo, alzandosi e afferrando una fetta di pane. Il nonno grugnì in segno di assenso, ma non sembrava molto preso dalla notizia. “Potremmo fare una buona raccolta quest’anno” continuò lui con gli occhi che brillavano. “In quanti ti hanno seguito oggi?” chiese improvvisamente l’anziano, succhiando leggermente la crosta della fetta, e avvicinandosi al camino spento. “Cinque, ma è stata una passeggiata” esclamò Maxi con noncuranza. “Mh…” annuì l’altro pensieroso. “Abbiamo finito le scorte di infuso per tua madre” constatò in seguito, passando la mano sulla mensola polverosa, sopra il camino. “Domani andrò di nuovo in città e ne ruberò un po’” disse Maxi con un sorriso forzato. In fondo la sua vita non era altro che cercare di arrangiarsi giorno per giorno. Era stanco di quella condizione? Si. Lui aveva delle aspirazioni: avrebbe voluto aprire una sua erboristeria e farmacia, poiché fin da piccolo coltivava la passione per le piante e le loro proprietà. Si, era stanco di rubare, ma nel suo futuro non vedeva altro. Non sapeva che tutto il giorno dopo sarebbe cambiato drasticamente.
L’alba si mostrò con la potenza dei suoi raggi, che filtravano dalle finestre, risvegliando Maxi, che si stiracchiò leggermente ed emise un forte sbadiglio soddisfatto. Senza svegliare nessuno, in punta di piedi, uscì dalla casa, dopo essersi vestito con gli stessi abiti del giorno prima: un paio di pantaloni di iuta, una larga maglia marrone chiara trasandata e una casacca grigia. Si diresse a piedi verso la città poiché questa volta gli mancava il passaggio del carro. Dopo tre ore buone di camminata, cominciò a scorgere il muro cittadino che interrompeva la vasta pianura. Le guardie all’ingresso erano mezze addormentate. Meglio, pensò il giovane. Senza fare rumore entrò nella città e si diresse all’erboristeria, che si trovava in prossimità dei cancelli che consentivano l’entrata a palazzo. Fiordibianco era un borgo abbastanza affollato già dalla prima mattina. A passo svelto e con lo sguardo basso continuò a camminare, inclinando di tanto in tanto il cappello in basso per coprirsi leggermente e non essere riconosciuto. Vide una squadra di cavalieri dirigersi dalla parte opposta alla sua. Non osava immaginare contro chi si stessero per abbattere. I cavalieri di fiori erano anche detti ‘I portatori della morte’, e non c’era bisogno di spiegare il perché. L’Ordine era stato istituito per volere della regina Natalia, non appena instaurato il suo regno. Aveva affermato che serviva un corpo militare per conservare l’ordine e l’equilibrio, ma in pratica ciò che facevano quei cavalieri era disseminare panico e miseria, proprio su ordine della regina stessa. Odiava quei cavalieri, con quelle armature così scure e quegli elmi dal pennacchio nero. Le spade erano realizzate con un cristallo nero, chiamato neranio, che conteneva poteri magici. Innanzitutto non poteva essere spezzato una volta forgiato. I metodi di lavorazione erano sconosciuti a tutti, solo alcuni fabbri a corte sapevano come poter lavorare quel misterioso materiale. Si riscosse a quei pensieri, e decise di fare un giro per le bancarelle del mercato. Un’anziana signora vendeva ciondoli portafortuna, e uno di essi attirò la sua attenzione. Era un trifoglio nero, realizzato con qualche umile materiale, che però aveva un fascino molto particolare. “Se lo vuoi è tuo” disse la donna, osservandolo con degli occhietti piccoli di un colore verde acqua. Prese il ciondolo con una mano rugosa e lo fece penzolare di fronte a lui. Maxi rimase incantato dallo scintillio di quel trifoglio. “Non ho soldi per pagarlo” disse lui subito, distogliendo lo sguardo. “E’ un dono” insistette lei con calma, prendendo la sua mano e mettendoci il regalo. Maxi subito si agitò: non poteva accettare una cosa simile! Probabilmente lei era più povera della sua famiglia. “Non posso accettarlo!” esclamò, ridandogli il ciondolo. “E’ un dono di una povera vecchia…” sussurrò l’anziana, accigliandosi e mostrando il suo sorriso sdentato per rassicurarlo. Maxi ci pensò un po’ su, poi decise di accettare il regalo per non recarle offesa. Prese il ciondolo e lo infilò al collo, facendo un breve inchino alla venditrice. “La ringrazio, allora”. “Sarà il simbolo di tutto ciò in cui credi, e ti porterà fortuna. Ti aiuterà a realizzare il tuo sogno” concluse lei, facendosi d’un tratto seria. Maxi annuì poco convinto, poi le rivolse un saluto e si avviò verso la farmacia: era il momento di portare a compimento il suo piano.
Poco dopo si ritrovò di fronte all’insegna con la scritta ‘Erboristeria’. Aprì la porta di vetro spingendo il pomello di giada. Il proprietario era un signore basso e grassottello, alle prese in quel momento con una cliente particolarmente difficile. “No, signora, no! Il dragoncello non è quello che serve a suo marito” ripeteva pazientemente, ascoltando le assurde richieste di una donna sulla cinquantina dalla parlantina facile. Maxi fece finta di aspettare il suo turno mentre osservava gli scaffali con sguardo meravigliato. Avvicinò la mano a un barattolo di vetro con la scritta ‘Tiglio’. Ecco, proprio quello che gli serviva per abbassare la febbre. Fece vagare lo sguardo fino a trovare anche il rododendro. Le mensole piene delle erbe più strane lo rapivano completamente. Succedeva sempre quando entrava in quel posto. Prese il barattolo come se volesse studiarne meglio il contenuto, quindi senza essere visto prese qualche ciuffetto di quella pianta medicinale, e la mise in tasca. Fece lo stesso con il contenitore di rododendro. Stava per uscire quando una voce lo fece paralizzare. “Ehi, ragazzo, non avevi bisogno di niente?” chiese il negoziante, dopo essersi finalmente liberato di quella terribile donna. “N-no. Penso che tornerò più tardi” rispose Maxi, cercando di fermare il tremolio delle mani. La sua voce era flebile, come se avesse preso un raffreddore fortissimo, ma il proprietario sembrò non badarci, e riprese le sue occupazioni, come classificare le nuove erbe arrivate, e passare la scopa sul pavimento per liberarlo dal fitto strato di polvere che si era depositato.
Maxi uscì dal negozio tirando un sospiro di sollievo. Stringeva nella tasca il suo bottino. Aveva una quantità sufficiente di tiglio e rododendro per preparare tisane per due o tre giorni, poi sarebbe tornato a rubarne ancora. Con quei pensieri decise di non passare per la via principale, quindi si avviò per un dedalo di stradine che si intrecciavano e si affiancavano. Sembravano un’intricata matassa di lana. Mentre camminava spensierato sentì lo stomaco gorgogliare. Era quasi ora di pranzo, e non si era portato nulla da mangiare. Sperò di riuscire a tornare presto a casa, per potersi mangiare una belle fetta di pane accompagnata da una succulenta mela. Già solo il pensiero gli faceva venire l’acquolina in bocca. Voltò a sinistra e alzò lo sguardo, godendosi la vista di quegli sprazzi di cielo, che cercavano forzatamente di mostrarsi al di là delle costruzioni in pietra. La strada era lastricata, segno che si trattava di una delle più importanti. Si bloccò a metà strada, girando ancora a sinistra. Se fosse andato avanti sarebbe finito dritto dritto al carcere cittadino, e non aveva intenzione di sfidare la fortuna a tal punto. Per un momento se la rise sotto i baffi: anche quel giorno non l’avevano arrestato. Raggiunse le mura cittadine in un batter d’occhio. Si stupì della velocità con cui aveva raggiunto la parte più periferica della città. Meglio così, sto morendo di fame, pensò il giovane, osservando le guardie del cancello che si erano sistemate intorno ad un tavolino a giocare con i dadi. Passò loro di fronte, senza che gli degnassero il minimo sguardo, e nel frattempo poté sentire parte della conversazione. “Quindi Antonio ha chiesto un’udienza alla regina Natalia?” chiese una dei tre uomini, sistemandosi il piccolo elmetto posizionato di sbieco. L’altra annuì schioccando la lingua e preparandosi a lanciare i dadi. “Strano, il Brucaliffo ha deciso di presentarsi al cospetto di sua Maestà, ben conoscendo i rischi che potrebbe correre” esclamò il terzo uomo, seduto su un piccolo sgabello trasandato. La prima guardia che aveva parlato sbuffò e scoppiò in una piccola risata secca. “Si vede proprio che sei un novellino. Lo sanno tutti che il Bricaliffo è un’autorità nel Paese delle Meraviglie. Nessuno lo può toccare, è come un saggio imparziale” spiegò con aria saccente. Maxi li osservò per un secondo, poi abbassò subito lo sguardo sulle sua scarpe. Aveva bisogno di un paio di scarpe nuove. Ormai il cuoio si era in parte lacerato. Ma come avrebbe fatto a pagarsene un paio? Non voleva rubare anche quelle, era troppo rischioso. Preso da quei pensieri attraversò la strada sterrata di campagna senza notare l’enorme nuvola di fumo che si stava alzando dai campi. La puzza di bruciato gli fece alzare di botto lo sguardo e il terrore si impadronì del suo volto: proveniva dai campi della sua famiglia. Senza pensare al fatto che fosse affamato e stanco, spiccò una corsa fino a raggiungere il campo di grano e la casa. O meglio, quello che rimaneva della casa. Le macerie erano ben visibili, alcune travi carbonizzate ancora fumanti giacevano disordinatamente. Di tutto l’edificio era rimasta in piedi solamente la porta sgangherata. Si avvicinò incredulo, leggendo il messaggio che era stato appeso con una freccia.
‘Su ordine della Regina Natalia Comello, 
il seguente possedimento è stato requisito dai cavalieri di Fiori, per poter essere affidato ai reduci di guerra non più in grado di combattere. Onore alla Regina, ora e sempre’ 
Maxi strappò con forza quel foglio di pergamena e lo buttò a terra con rabbia, mentre le lacrime imploravano di uscire libere. “Maledetti!” ringhiò furioso, entrando nell’abitazione. Un urlo gli morì in gola. I corpi carbonizzati della madre e del nonno. Non c’era più nulla di umano in loro. Sembravano solo dei pezzi di legno, anche loro. Quei bastardi non si sono curati nemmeno di vedere se vi fosse qualcuno all’interno della casa, pensò Maxi, stringendo i pugni. Si accasciò per terra, cominciando a piangere. Finalmente le lacrime. Le stava aspettando, pronto ad accoglierle a braccia aperte, pronto ad abbandonarsi ad esse. Il cuore era ferito, ma il suo orgoglio, la sua dignità umana era addirittura lacerata. “Madre…” sussurrò tremante. Mise le mani sul suo corpo incandescente senza preoccuparsi del dolore che gli stava procurando quel contatto. Tirò fuori dalla tasca le piante medicinali e le depose sul suo petto. Non riuscì nemmeno a guardare il corpo del nonno, era troppo dolore, troppo per un giovane ragazzo. Sentì un verso di un cavallo e si girò di scatto. Un cavaliere della morte scese dal suo destriero, e si tolse l’elmo facendolo passare sotto il braccio. “Ehi, tu marmocchio, che ci fai qui?” chiese con un ghigno malvagio. I capelli scuri contornavano il viso olivastro di un ragazzo che doveva avere più o meno la sua stessa età. Doveva essere stato appena iniziato all’Ordine dei Cavalieri di Fiori. Sfoderò la sua spada nera, e ne indirizzò la punta contro di lui. “Tu…sai che c’erano delle persone dentro la casa a cui avete appiccato l’incendio?” chiese, cercando di contenere la sua rabbia. “Non lo so, e non mi interessa, io ho solo eseguito gli ordini” ribatté il cavaliere annoiato. Lo guardò e si leccò il labbro superiore con una selvaggia gioia, poi fece un affondo. Maxi lo scartò di lato. Non sapeva che c’erano degli innocenti. Non gli interessava. Per lui le vite umane non avevano valore. Quello di fronte a lui non era un uomo, era solo un mostro. Tirò fuori dall’interno della casacca un pugnale con il manico di legno, intagliato finemente. Era un dono del padre e lo portava sempre con sé. Il cavaliere rise: una risata fredda e glaciale. “Davvero vuoi fermarmi con quello? Davvero speri di scalfire quest’armatura? Sei uno sciocco, ma uno sciocco coraggioso” disse ridendo. Alzò la spada velocemente, pronto a sferrare un altro colpo, ma Maxi si scaraventò su di lui urlando. Per un momento lo sguardo del cavaliere fu colto dall’incertezza. Un momento più che sufficiente. I due ruzzolarono lungo il terreno fangoso. La spada nera cadde a qualche passo da loro, mentre Maxi stava prendendo a pugni in faccia il giovane. Il suo sguardo non era più quello di un ragazzo impaurito, bensì era quello di un uomo colto da una rabbia incontrollabile. Il cavaliere rotolò di lato riuscendo a liberarsi della presa, e allungò il braccio nel tentativo di recuperare la spada, cercando di scorgerla attraverso il sangue che gli scorreva dalla ferita sulla fronte, coprendogli la visuale. Maxi sapeva che se avesse ripreso la spada sarebbe stata la sua fine. Non poteva nulla contro quell’arma invincibile. Con gli occhi ancora iniettati di sangue alzò il pugnale al cielo, facendolo brillare per un attimo e poi lo conficcò nella gola del suo avversario. Il giovane dalla nera armatura emise un gorgoglio, con il braccio tremante per lo sforzo. Il suo alito vitale si diffuse nell’aria, ed esalò l’ultimo respiro. Maxi si allontanò di scatto dal cadavere, profondamente scosso e nauseato. Si guardò la mano destra sporca di sangue. Sangue non suo. Aveva ucciso una persona, uno sconosciuto. L’aveva fatto per difesa e vendetta insieme. La testa gli girava, mentre le immagini dello scontro si accavallavano nella sua mente a rallentatore. Estrasse il coltello dalla gola del giovane, ed ebbe un conato di vomito. La lama, non più brillante, ma sporca di sangue, si imprimeva nella sua mente. Voleva dimenticare, ma non gli era possibile, adesso doveva pensare. Avrebbero presto scoperto il corpo del giovane, non vedendolo tornare. Non poteva tornare in città, sarebbe stato come firmare la propria condanna a morte. Raccolse la spada di neranio, e la mise nel suo fodero, quindi allacciò quest’ultimo alla cintura: gli sarebbe stata utile per difendersi in caso di attacco. Diede un ultimo saluto a sua madre e suo nonno, poi rivolse lo sguardo verso i boschi lì vicino. Lì sarebbe iniziata la sua nuova vita. Senza volerlo era diventato un ribelle, un rivoluzionario. Gli venne in mente la fine della pergamena trovata appesa alla porta della casa ridotta in cenere: ‘Onore alla regina Natalia, ora e sempre’. “Morte alla regina Natalia, ora e sempre” sussurrò con un’espressione decisa. Si incamminò con passo e incerto verso i boschi, la sua nuova casa.
Le campane risuonarono e le trombe a festa si fecero sentire per tutta la vallata. Fiordibianco era in fermento. Nessuno si aspettava l’arrivo del Brucaliffo così in fretta. Mancavano ancora undici mesi al centesimo anniversario del Liberatutto, il giorno in cui Alice aveva preso il controllo del Paese delle Meraviglie, governandolo con saggezza e giustizia. Le guardie si fecero da parte, facendo passare una carrozza bianca con il latte, trainata da cavalli neri come la pece. Il contrasto rendeva la scena quasi irreale, magica. I cavalli nitrirono lasciando che il passaggio venissero liberato. Uno scoiattolo grande quanto un uomo e dal pelo rossiccio, faceva da cocchiere, muovendo con grazia ed eleganza le redini. La carrozza avanzò lungo la via principale, mentre il mercato veniva smantellato in fretta e furia. I vetri della carrozza erano stati realizzati in neranio, era quindi impossibile scorgere la figura che c’era al suo interno. La vettura si fermò davanti ai cancelli che sorvegliavano l’ingresso al palazzo reale del regno di Fiori. Subito un cigolio preannunciò la loro apertura, che non tardò ad arrivare. Lo scoiattolo diede una piccola scossa alle redini, e i cavalli ripresero a muoversi attraversando i giardini lussureggianti.
Natalia cominciò a pettinarsi nervosamente nella sua camera da letto, fermandosi di tanto in tanto ad ammirare i suoi capelli ricci scuri. Sorrise leggermente giocando con una delle sue punte, ma poi tornò seria di colpo. Il Brucaliffo, una delle maggiori autorità del Paese delle Meraviglie, sarebbe venuto di lì a pochi momenti. Il suo arrivo era stato annunciato. Guardò dalla piccola finestra che si affacciava sull’ingresso e vide la carrozza bianca. Era il momento. Posò la spazzola, il cui manico d’avorio presentava finimenti dorati, e si avviò verso la sala del trono. Una volta uscita dalla sua stanza percorse una larga scalinata di marmo. Il conte Federico si affiancò a lei con un’espressione preoccupata. “Si sente pronta?” chiese premurosamente, porgendole la mano, con indosso un guanto nero vellutato. “Sono la Regina. Devo essere pronta” rispose con un sorriso gratificato. Con un cenno del capo le guardie spalancarono le porte della sala del trono. Si ricordò esattamente di come due anni prima aveva messo per la prima volta piede in quella stanza da regina e non da semplice ospite del palazzo. Francesca, sua cugina, marciva ancora nelle segrete. Il pensiero la fece rabbrividire. Ricordava ancora quando giocavano insieme nella stanza delle bambole della principessa. Adesso erano nemiche. La mano prese a tremare e gli occhi divennero lucidi. Ricacciò dentro le lacrime a fatica, ed assunse un’espressione impassibile. Avanzava rapidamente verso il trono lungo il tappeto da ricevimento, mentre lo strascico del vestito di un broccato blu frusciava leggermente, rompendo il silenzio di tomba che sovrastava il suo cammino. Si sedette sul trono passandosi la mano sul diadema argentato. Un valletto di corte si presentò al suo fianco sussurrandole all’orecchio che Antonio era arrivato. “Fatelo entrare” sussurrò con un fil di voce. Le porte si aprirono, facendo entrare una piccola comitiva formata da tre individui. A sinistra uno scoiattolo rosso muoveva i baffi nervosamente. Era il cocchiere, lo aveva intravisto dalla finestra. Non sembrava molto a suo agio. Stava torturando con le sue zampette un cappello di velluto bianco. A destra un ragazzo sulla ventina avanzava a passo sicuro, come se nulla lo potesse scalfire. Portava un paio di occhialetti a mezzaluna, dalla montatura pregiata. I capelli scurissimi, risaltavano ancora di più a causa dei vestiti bianchi. Natalia si sentì molto in soggezione, ma poi concentrò l’attenzione sulla figura al centro, Antonio, il Saggio, il Brucaliffo. Antonio era un uomo anziano, dalla pelle bluastra, e il viso dolce e rilassato. Era canuto e la sua veneranda età gli aveva conferito molto prestigio. Un paio di ali coloratissime gli spuntava dalla schiena con sfumature dal violetto al blu notte. I suoi piedi sembravano appena toccare il pavimento. Era una figura eterea, fuori dal tempo e dallo spazio. La regina si sentì come l’ultima delle serve al cospetto di una figura tanto imponente. Il suo portamento fiero e regale le faceva venire scosse di brividi. Si rese conto di non essere pronta ad affrontarlo. La sua sicurezza aveva vacillato, mentre la paura e il dubbio avevano preso possesso della sua anima.
“Regina Natalia” disse con tono stanco il Brucaliffo, inchinandosi lentamente. I due al lato fecero lo stesso. “Vi presento, Tobia, il mio fidato cocchiere, e Marco, mio personale assistente e fidato amico”. A quella parole lo scoiattolo squittì per il nervoso, mentre Marco si aggiustò gli occhiali con fare imperioso, avendo apprezzato la presentazione. Il giovane schioccò le dita e fece apparire un tremulo fuoco azzurrino con cui cominciò a giocare roteando le dita. “Benvenuto al mio palazzo. Immagino che siate qui per l’anniversario del Liberatutto” esclamò la regina con tono imperioso. “Esattamente, mia regina, anche se sono qui anche per altri motivi…” ribatté tranquillamente Antonio. “Le richieste del Brucaliffo sono ordini per tutti i sovrani, se non sbaglio”. “Bene, allora questo mi renderà il compito più semplice. Voglio che rendiate il trono a chi spetta secondo la discendenza stabilita dalla regina Alice tanti anni or sono. Desidero chiedervi che la regina Francesca recuperi il suo regno” ordinò. La sua voce stavolta era diversa: tuonava nella stanza vigorosa. Nata strinse il pugno e lo appoggiò sul bracciolo del trono: ecco una richiesta che non poteva esaudire. 










NOTA AUTORE: cercherò di aggiornare due volte a settimana (il lunedì e il giovedì/venerdì), ma non vi assicuro nulla, quindi abbiate comunque pietà di me nel caso non dovessi farcela, sappiate che ce la metto comunque tutta, visto quanto tengo a questa storia. Posso amare questo capitolo anche se non ci sono i miei personaggi preferiti? Ebbene lo amo questo capitolo. E avevo gli occhi lucidi anche se la parte di Maxi l'avevo letta circa tre-quattro volte...Maxi, il rivoluzionario inconsapevole, colui che ancora non ha avuto scelta. Le sue azioni sono state dettate da qualcosa di esterno, dalla sua condizione e nel finale dalla sua ira. Un personaggio ingabbiato in una condizione sociale da cui sembra impossibile fuggire. E' questo il profilo del rivoltoso che volevo dare al personaggio di Maxi. Maxi ha degli ideali? Non che noi sappiamo. Il suo agire sarà dettato puramente da vendetta a dispetto da quello che vi poteva far credere il titolo. La dittatura instaurata da Natalia non l'ha mai toccato, ma la morte della madre, il suo unico legame insieme al nonno è stato troppo per lui. E in questo quadro macabro, come quello della morte dei due e della morte del cavaliere, emerge la forte personalità del giovane. Un ragazzo capace di pensare a mente fredda, ma allo stesso tempo fin troppo impulsivo. Il suo odio per la regina è forte, troppo forte, e desidera la sua morte. Io amo il personaggio di Maxi, anche se prima che lo rivedremo passerà un po'...Natalia. Non è la Natalia del capitolo 2, che sembra fredda e distaccata. La facciata del capitolo 2 è stata distrutta e appare al suo posto una Natalia molto insicura, che non è pronta ad essere regina, che non sa affrontare l'autorità del saggio Brucaliffo alias Antonio. E non può esaudire le sue richieste. Perché? Non pensate che la nostra Nata ci nasconda qualcosa? Ebbene è proprio così...Ma non posso dirvi molto in verità. E nel prossimo capitolo mi ammazzerete tutti, lo so. Comunque il titolo del prossimo capitolo è: 'Humpty Dumpty e la biblioteca dai mille specchi'. E conosceremo un interessante personaggio, insieme alla comparsa di un'insopportabile Lara. Non giudicate subito Lara, per quanto sarà un'antagonista, cercate sempre di mettervi nella sua ottica. Lei fa parte di un meccanismo molto più grande, e forse non è così cattiva come vorrà mostrarsi...ma non posso dire nulla di più, scoprirete tutto nel prossimo capitolo, alla prossima ;D 
P.S: volevo dedicare questo capitolo a una grandissima fan Leonetta e Jortini che ho conosciuto. Voi non la conoscete forse, io si xD Il suo nome è Marianna, che ha subito alcune ingiustizie su twitter, e boh, ci tenevo a farle avere il mio appoggio ù.ù Tanto perché siamo in tema di ingiustizie in questo capitolo ù.ù Yes, il capitolo è tutto dedicato a te (lo so che è tristissimo ma...che ci posso fare, apprezza il gesto xD) 

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Capitolo 6
*** Humpty Dumpty e la biblioteca dai mille specchi ***





Capitolo 6

Humpty Dumpty e la biblioteca dai mille specchi

Erano passate ben due settimane al castello di Cuori, e grazie alle direttive di Lena, Violetta riusciva a stare dietro alle occupazioni di tutti i giorni. Su consiglio dell’amica evitava sempre il principe Leon quando lo scorgeva lungo un corridoio. “Ma perché devo stargli il più lontano possibile?” aveva chiesto una volta lei, dopo essere svicolata per l’ennesima volta ed aver evitato l’incontro con il principe. “Meno lo si incontra, meglio è. Il principe Leon è una delle persone più crudeli del Paese delle Meraviglie. Gira voce che si faccia il bagno con il sangue delle persone che uccide” spiegò l’amica, attraversata da un tremito mentre ne parlava. “E’ freddo e impassibile con tutti. Quando ti avvicini a lui sembra quasi di avvicinarsi al ghiaccio. E poi…”. Lena deglutì spaventata. Violetta si preoccupò, ma la incitò ad andare avanti. “Ogni notte sceglie una ragazza, una giovane, e la costringe a passare la notte con lui. Solitamente è la sua serva personale fornitagli dalla regina, ma non sempre va a finire così” concluse con lo sguardo spaventato. “A te è mai successo di essere scelta?” chiese l’amica, terrorizzata quanto lei al solo pensiero. “No, a me no. Ma sono una delle poche fortunate” esclamò Lena mentre si dirigeva nelle cucine attraversando il grande salone d’ingresso dalla scalinata di marmo. Senza accorgersene Violetta andò a sbattere contro una figura minuta. Alzò lo sguardo e vide una ragazza non troppo alta, dai capelli castani lunghi raccolti in una coda, con una cuffietta bianca, e un abito molto modesto di un grigio cupo. “Mi dispiace…” sussurrò Violetta mortificata. “Dovresti stare più attenta” sibilò la giovane sistemandosi una ciocca di capelli che non era stata raccolta dalla coda dietro l’orecchio. “E’ nuova, lasciala ambientare e pensa ai tuoi compiti” rispose a tono Lena, mettendosi davanti a Violetta. “Quando lo dirò al principe Leon, la farà cacciare subito per la sua sbadataggine” affermò con tono altezzoso e puntando i suoi occhietti malvagi su Violetta, ignorando le parole di Lena. “Solo perché sei la sua domestica personale, non vuol dire che presti attenzione a tutte le sciocchezze che dici. Sei una serva quanto noi, poche arie e più lavoro” ribatté l’altra battendo le mani per metterle fretta. Lara si allontanò inviperita, ma prima lanciò un’occhiata di sfida a Violetta. La ragazza la vide sbuffare e allontanarsi a testa alta. “Quindi lei è...?” chiese a bassa voce. Lena annuì con aria stanca. “Si, lei è la sguald…volevo dire la domestica del principe. E’ odiata da tutti al castello, ed è insopportabile, ma come ti ho detto questo a Leon non interessa. A lui interessa solo che sia bella e che possa dargli piacere a letto”. Era disgustata mentre diceva quelle parole, quindi aprì la porta che conducevano alle cucine, mostrando un lungo corridoio in pietra, con alcune torce, appese ai lati delle pareti. “Ma come può una persona essere così crudele e egoista?” mormorò Violetta più a se stessa che all’amica. “Un consiglio: stai lontana da lui” disse Lena, comprendendo le sue paure. Violetta annuì e continuò a camminare sempre pensando a quello che era successo. Quella Lara era insopportabile, vanitosa, e acida, ma dovette ammettere che aveva un bel corpo e delle belle forme. Possibile che un uomo, anzi un ragazzo, potesse farsi andare bene solo quello? Che fine aveva fatto l’amore che avrebbe dovuto legare due persone? Ponendosi quelle domande entrò nelle cucine. Si fece distrarre dallo sciabordare delle stoviglie e dai rumori di piatti che si ammonticchiavano sul ripiano di legno vicino all’entrata. Una donna piuttosto anziana, che i primi giorni Violetta scoprì essere la capo-cuoca, le diede i compiti del giorno: pulire i pavimenti, aiutare a lavare, dare una mano dove ce ne fosse bisogno insomma.
Finalmente giunse l’ora di pranzo. Dopo aver consumato il loro pasto nelle cucine, le due poterono ritirarsi nelle loro camere per un paio d’ore. Violetta si trascinò distrutta sul suo letto, per poi buttarsi su di esso sospirando rumorosamente. Lena scoppiò a ridere, e si sedette anche lei sul suo giaciglio tirando fuori un grosso sbadiglio. Prese un foglietto giallo che stava sul comodino. “Oh, no!” esclamò lei con aria stanca. “Che è successo?” chiese Violetta, girando la testa verso di lei, leggermente preoccupata. “Oggi pomeriggio a qualcuno tocca pulire gli specchi della biblioteca, ma io ho già delle faccende nella torre nord. Sarà una giornata bruttissima”. “Se vuoi ci penso io alla biblioteca” si propose con un sorriso. In fondo quella biblioteca le metteva curiosità. Non ci era mai entrata ma ogni volta che passava di fronte alla scritta di Socrate sentiva un’irrefrenabile curiosità. Una volta si era addirittura avvicinata fino a sfiorare la superficie in quercia, ma Lena l’aveva richiamata dicendole che dovevano andare nelle cucine ad aiutare per preparare la cena. Si riprese da quella sorta di stato di trance che aveva raggiunto alla parola ‘biblioteca’ e ritornò a fissare Lena. “Davvero, lo faresti? Mi faresti davvero un favore!” esclamò l’amica al settimo cielo. Annuì convinta e le rivolse un sorriso. Ancora una volta la curiosità aveva preso il sopravvento, facendole fare la scelta sbagliata.
Erano le quattro di pomeriggio e Violetta si diresse con una serie di pezzi di stoffa per pulire gli specchi. Che poi non riusciva a capire come mai ci fossero degli specchi in una biblioteca. Si ritrovò nuovamente di fronte al portone della biblioteca. Un fremito percorse il suo corpo mentre la mano lentamente si avvicinava al battente di bronzo. Prima ancora che potesse bussare, la porta si aprì lentamente mostrando un buffo essere. Era un…uovo. Si, un uovo era la proprio la parola che meglio l’avrebbe descritto. Era una figura ovale dalla pelle lucida e splendente; indossava un paio di pantaloni scuri, da cui sbucavano due gambe esili e tremolanti. Il buffo personaggio indossava un paio di occhiali a mezzaluna, e stava sorseggiando una tazza di tè fumante. Un cappello di un viola acceso gli contornava la testa calva. I suoi occhietti di un azzurro acquoso si muovevano qua e là di scatto, come se fossero costantemente alla ricerca di qualcosa. Una maglia bianca era avvolta da un mantello nero come la pece. “Tu non sei Lena” constatò con la sua voce cavernosa. “No, io sono Violetta, oggi prendo il posto di Lena” spiegò educatamente la ragazza, mostrando i panni per pulire i vetri. “Sei Violetta…quella nuova, la ragazza trovata nel bosco”. “Esatto, sono proprio io”. “Beh, se è andata così, un motivo in fondo ci sarà” mormorò l’uomo-uovo, sospirando tristemente. “Entra pure” disse seccamente, facendola entrare. Violetta spalancò la bocca per la sorpresa. Una stanza enorme si mostrò in tutta la sua maestosità. Il pavimento era costituito da una seria infinita di mattonelle in marmo bianche con raffigurati dei cuori neri alternati e ai lati del corridoio principali si trovavano delle enormi librerie in legno di ciliegio. Ogni scaffale aveva numerosi libri, intervallati di tanto in tanto da qualche specchio. Diede una rapida occhiata intorno e vide che dietro quelle librerie vi erano almeno altre tre quattro file di altrettante strutture. Un lettore accanito come lei poteva impazzire in quel posto. Alzò lo sguardo e osservò una grande cupola al centro della stanza dove erano impressi i quattro simboli delle carte: fiori, cuori, quadri, picche. La fine della sala terminava con delle ampie vetrate che illuminavano la sala creando un gioco di luce con gli specchi affissi. Vicino le vetrate c’erano dei semplici tavolini in legno, usati per la lettura, messi in fila lungo la parete. “Che meraviglia! E quanti libri!” esclamò lei sorpresa, osservando i vari scaffali e avvicinandosi curiosa. Estrasse un libro dalla copertina verde rilegato con cura. Una scritta dorata recitava ‘La storia di Alice’. Alice, Alice…dove aveva già sentito quel nome? Ma certo, era il nome della ragazza della storia che aveva cercato di raccontargli il Ghiro! Rivolse un’altra occhiata al soffitto, osservando i simboli di fiori e picche di cristallo nero che brillavano tetri e quelli di cuori e quadri che risplendevano per la luce emanata da quei rubini incastonati lungo il contorno. “Mi chiamo Humpty Dumpty” disse all’improvviso l’uomo, sbucando da dietro le sue spalle, e guardandola sommessamente. “Piacere, Humpty Dumpty” rispose lei con un piccolo inchino. “Chi è Alice? E cosa sono quei quattro simboli?” chiese poi indicando il soffitto e la cupola. “Non conosci la storia del Paese delle Meraviglie? Sei strana, ragazza” disse lui avviandosi verso una scrivania che si trovava sulla destra dell’ingresso, ma che lei non aveva notato. Tirò fuori un librone nero e lo aprì a metà, sollevando una nuvola di polvere. “Quindi?”. “Quindi cosa?” chiese Humpty Dumpty con aria di superiorità. “Non intendi raccontarmi della storia del Paese delle Meraviglie, o come diavolo si chiama questo posto?”. “Ah…quindi volevi che io ti raccontassi”. Violetta sbuffò impercettibilmente per non sembrare maleducata. In questo mondo qui nessuno è con la testa a posto, pensò incrociando le braccia all’altezza del petto, con il libro in grembo. Il bibliotecario prese un respiro profondo e cominciò a raccontare fissando la cupola con fare nostalgico. “Tanto tempo fa una giovane ragazza finì per sbaglio in questo mondo. Il suo nome era Alice, ed ebbe la fortuna di incontrare le migliori menti del mondo, come lo Stregatto o il Cappellaio Matto”. Le più grandi menti del mondo, eh, pensa le peggiori, si chiese Violetta, senza però osare interromperlo con quell’osservazione. Ormai le era chiaro che erano tutti molto suscettibili riguardo all’essere interrotti. “Alice però finì alla corte della regina rossa, da cui riuscì a fuggire per puro miracolo. A quell’epoca il regno era diviso dalla regina rossa e quella bianca. Alice tornò nel suo mondo lasciando la situazione invariata.
“Ma la storia non finisce qui. Qualche anno dopo attraverso uno specchio Alice raggiunse una dimensione alterata del Regno delle Meraviglie, in cui il mondo era ridotto a una scacchiera. Dopo numerose peripezie, riuscì ad arrivare al Castello dello Scacco Matto, e in seguito a un’antica profezia imprigionò le due regine sotto il suo volere. La profezia diceva che sedere al tavolo del crepuscolo l’avrebbe portata ad assumere il potere del Paese delle Meraviglie, e così è stato”. Violetta ricordò il piccolo intaglio sulla porta della biblioteca ed annuì. “Dopo aver ottenuto il potere su tutto il regno, lo fece tornare alla normalità, eliminando la scacchiera. Quindi governò per qualche anno con saggezza e giustizia. Il giorno della sua ascesa al trono è ricordato come il giorno del Liberatutto.
“Dopo un po’ di tempo, dovendo tornare nel suo mondo, decise di dividere il mondo in quattro regni. Il regno di cuori venne affidato agli eredi della Regina Rossa perché non portassero rancori, il regno di picche fu messo sotto il controllo degli eredi del Cappellaio Matto. Il regno di fiori ebbe come suoi sovrani i cosiddetti Portatori di Luce, ossia gli eredi della Regina Bianca. E infine il regno di quadri fu consegnato sotto la custodia degli incantatori, maghi dotati del dono delle pozioni. Sono loro che hanno creato le pozioni Cresciadismisura e quella Rimpiccioliscipiùchepuoi, delle quali dagli annali sappiamo si servì la stessa Alice in più di un’occasione”. “Ecco il perché dei quattro simboli” sussurrò Violetta. “E questi specchi?”. Humpty la guardò soddisfatto di quella domanda. “Devi sapere che prima della divisione, questo castello era il castello dove risiedeva la stessa Alice, e lei ha fatto costruire questi pannelli riflettenti per un motivo specifico. In questo modo è possibile osservare il proprio riflesso sugli scaffali” disse con estrema gioia. “Continuo a non capire” mormorò Violetta, un po’ confusa. Humpty le lanciò un’occhiata di rimprovero, ma poi si addolcì non appena iniziò a parlare. “Alice diceva sempre che tutti noi siamo come dei libri che attendono solo di essere scritti fino alla fine. E tutto questo…”, indicò gli specchi, “serve a ricordarcelo continuamente”. Violetta sgranò gli occhi per lo stupore. Quella frase la aveva lasciato un’enorme senso di tranquillità. Si avvicinò ad uno scaffale e osservò il suo riflesso che le sorrideva. Sono un libro che attende solo di essere scritto fino in fondo, si ripeté nella mente ancora affascinata. Ma che libro era lei? E a che pagina era arrivata? Cosa vagava nella mente di chi gestiva la sua storia? Ripose il libro dalla copertina verde, e decise di cominciare a mettersi al lavoro, quando sentì la porta della biblioteca sbattere dietro di lei. Si voltò e per un secondo incrociò quello sguardo così freddo e affascinante allo stesso tempo. Leon avanzava a passo sicuro nella sala, girovagando per le librerie senza aprire bocca. Indossava un paio di pantaloni verde bottiglia con una larga camicia bianca e un gilè dello stesso colore dei pantaloni. Per un altro secondo i loro sguardi si incrociarono quindi Leon fece un sorrisetto da far gelare il sangue, prese un libro e si mise seduto ad uno dei tavolini vicino alle vetrate per poi sfogliarlo pigramente. Humpty Dumpty si avvicinò al principe e gli parlò come un vecchio confidente. “Ancora strategie militari?” chiese con voce annoiata. Leon annuì pazientemente, mentre borbottava qualcosa su formazioni dell’esercito e cose simili, prendendo appunti mentali. “Non ti annoi a leggere sempre le stesse cose?” lo riprese nuovamente il bibliotecario. Leon alzò lo sguardo per rimproverarlo e poi fissò nuovamente Violetta, come se cercasse di capire cosa stesse pensando. “Non c’è altro di mio interesse qui dentro” si rivolse nuovamente al suo interlocutore, tornando poi a concentrarsi sulla sua lettura. La porta della biblioteca si aprì nuovamente ed entrò il Bianconiglio che era venuto a cercare il principe. “Signor principe, la regina la sta cercando!” esclamò lui, saltellando sul pavimento. “Non si può leggere in pace nemmeno per un secondo!” sbuffò il principe richiudendo il libro di botto. Violetta sorrise a quelle parole e tornò a spolverare gli specchi, sotto l’occhio attento del principe. Mentre usciva dalla biblioteca, si avvicinò a Violetta da dietro. “Non ti preoccupare, divertiti finché puoi, perché un giorno proverai solo paura per me” le sussurrò all’orecchio malizioso. Violetta ebbe una scossa di brividi e rimase paralizzata. Cosa intendeva dire? Perché voleva che lo temesse? Quando si voltò si stava già dirigendo fuori dalla biblioteca, seguendo il tic tac dell’orologio di Thomas.
Leon entrò nella sala del trono con la mano che sfiorava l’elsa della spada nel fodero. Percorse in fretta il tappeto inginocchiandosi di fronte al trono dove lo aspettava seduta la madre. “Leon, sono contenta che mi hai raggiunto con così tanta fretta, perché ti devo parlare…” disse la donna alzandosi lentamente e avvicinandosi. Il principe rimase con lo sguardo abbassato in segno di rispetto, e annuì. “Mia regina, per voi questo ed altro…” esclamò convinto. “Leon, voglio che a breve tu parta per il confine con una truppa ausiliaria per affiancare l’esercito di fiori e quadri vicino ai monti Cuorineri. Leon si rialzò con uno sguardo impassibile e freddo come il ghiaccio. “Ai vostri ordini, madre”. Si voltò e fece per andarsene. “Il giuramento, Leon”. Il ragazzo si voltò leggermente sorpreso. “Non vi fidate più di vostro figlio?”. “Mi fiderò sempre di te, figlio, ma voglio il giuramento per mostrarmi nuovamente il tuo desiderio di essere al mio servizio”. Leon estrasse un pugnale sul fianco destro, legato alla stessa cintola del fodero della spada. Si tolse il guanto nero dalla mano sinistra scoprendo il palmo, pieno di vecchi tagli ormai cicatrizzati. Guardò dritto negli occhi la regina e fece un taglio sulla mano, da cui lentamente uscì una macchia di sangue. “Prometti tu di servire sempre la tua regina, con onore fino alla fine dei tuoi giorni?” chiese con tono autoritario Jade. “Lo prometto”. “Prometti di mettere sempre avanti il bene del regno al tuo bene personale?”. “Lo prometto”. “Prometti di eseguire gli ordini che ti verranno assegnati per quanto discutibili e assurdi ti potranno sembrare?”. Leon passò l’indice della mano destra sulla ferita e leccò il sangue che vi si era depositato. Il sapore ferroso e amaro del sangue invase la sua bocca, dandogli una sensazione di disgusto. “Lo prometto”. “Ora e sempre?” chiese lei infine con un sorriso compiaciuto. “Ora e sempre” ripeté il principe convinto. Con l’assenso della regina uscì dalla sala del trono camminando a passo svelto. Forse era ancora in tempo. Non voleva perdere l’occasione che gli si era presentata, la possibilità di insegnare a quella Violetta il rispetto e il timore reverenziale che avrebbe dovuto avere nei suoi confronti. Si fermò un attimo a riflettere: perché ce l’aveva tanto con quella ragazza? Non l’aveva sfidato in alcun modo. O forse si, ma non sapeva come. La odiava perché aveva cercato di farlo crollare, aveva cercato di far scoprire il suo lato buono nel folto di quella foresta, e ci era riuscita. Lui non si era mai fatto problemi ad uccidere donne e bambini, in fondo non aveva mai visto alcuna differenza tra un valoroso guerriero e un innocente bambino. Entrambi ai suoi occhi meritavano lo stesso tipo di trattamento. Ma Violetta…non era riuscito a metterla a tacere. Si ricordò della lama che le aveva puntato alla gola, si ricordò della sua espressione dolce e allo stesso tempo terrorizzata. Subito aveva pensato che rappresentasse la purezza. E la odiava per questo, odiava sentirsi così corrotto al suo cospetto. Odiava provare timore del suo giudizio, e ogni suo sguardo era come se lo giudicasse, se lo mettesse alla prova. Non si era mai sentito tanto sotto pressione. Non dovrei farlo, non dovrei rovinarla in quel modo, pensò, preso da un inaspettato senso di giustizia. Non lo merita. Scacciò quei pensieri e sorrise malignamente al pensiero della ragazza completamente indifesa nel suo letto. Doveva imparare che lui era un mostro, non doveva pensare di poterlo cambiare. Lui era Leon, e lei rimaneva una serva. Lei non era nulla, lui era un principe. Lei provava amore nel suo sguardo, lui solo odio. Rifletté un attimo: avrebbe insegnato a quella ragazza come l’amore non esistesse, come fosse solo un’illusione. Le avrebbe fatto capire come avesse finora vissuto di nulla, le avrebbe mostrato che l’unica cosa che regnava nel suo cuore era la violenza e l’odio. Era una dimostrazione per lei…o per se stesso? Lentamente il dubbio si stava insinuando in lui, e non lo poteva sopportare. No, avrebbe distrutto quella ragazza, a costo di rimetterci la vita.
Era trascorso tutto il pomeriggio e Violetta era ormai stanca morta. Il tramonto con i suoi pallidi raggi di un arancione acceso filtrava attraverso le vetrate facendo brillare le gocce di sudore che le imperlavano la fronte. Aveva quasi finito: mancava un ultimo specchio. Nel frattempo Humpty Dumpty leggeva e parlottava tra sé e sé, riflettendo ad alta voce. Ad un certo punto chiuse il libro e si avvicinò a Violetta. “Ho visto come guardavi il principe” esclamò con un sorriso paterno. Violetta abbassò lo sguardo arrossendo. “C-come lo guardavo?”. “Dimmelo te” ribatté l’anziano personaggio, appoggiandola una mano bianca come il latte sulla spalla della ragazza. “Mi incuriosisce, ecco. Insomma sembra così freddo e severo, ma penso che non sia davvero così…è come se stesse indossando una maschera” disse, ricordandosi all’improvviso le parole del saggio tasso. Esatto, proprio una maschera. Era come se non fosse davvero lui, il principe Leon. Come se stesse prendendo parte ad una recita. Il bibliotecario sorrise e annuì. “Conosco Leon da quando era piccolissimo. Inizialmente era una vera peste, ma allo stesso tempo era dolce e affettuoso, poi…”. “Poi che è successo?” chiese curiosa Violetta, posando la pezza con cui stava pulendo l’ultimo specchio, avendo terminato il lavoro. “Non sono io a dovertelo dire…” sussurrò tetro l’uomo, rivolgendosi di nuovo verso la sua scrivania, e troncando così la conversazione. Con quel punto interrogativo nella testa, Violetta si congedò e uscì dalla biblioteca, passandosi una mano sulla fronte per asciugarsi il sudore: aveva proprio bisogno di una bel bagno rilassante e tonificante. Irrimediabilmente finì per pensare a Leon. Quel ragazzo lo incuriosiva parecchio, non sapeva in che modo. Quando lo vedeva il suo cuore cominciava a battere fortissimo e un senso di dolcezza e allo stesso tempo di paura la pervadeva. Era possibile innamorarsi di una persona che sembrava totalmente incapace di provare dei sentimenti come l’amore e l’affetto? No, non era possibile. Non fece in tempo a fare quelle considerazioni che si sentì stringere il braccio con forza. Il principe l’aveva afferrata per il braccio e la stava portando dall’altra parte del palazzo negli alloggi reali. Si assicurò che non ci fosse nessuno nei paraggi, quindi la fece indietreggiare fino a farle poggiare la schiena al muro del corridoio, intrappolandola con il suo corpo. “C-cosa volete, principe?”. Leon sorrise, potendo avvertire i brividi di paura che la ragazza stava avendo, quindi si avvicinò al suo orecchio. “Sei una bella ragazza” le sussurrò malizioso. La ragazza si irrigidì a quelle parole. Aveva paura per quello che le avevano raccontato. “Avrai sentito delle storie su di me, alcune anche raccapriccianti…”. “E’ tutto vero” concluse dopo un momento di silenzio. “Non vi credo” ebbe la forza di rispondere lei con gli occhi vitrei, mentre il suo corpo era incapace di emettere alcun movimento. “Beh, ti dovrai ricredere, mi spiace” disse per poi sfiorare con le labbra il suo collo e lasciandovi un bacio di fuoco. Violetta fece leva con le mani sul petto del giovane per allontanarlo, ma si sentiva impotente e indifesa. Non poteva fare nulla, era in balia del suo volere. Forse doveva urlare, si sarebbe stata l’idea migliore. “Se stai pensando di urlare è tutto inutile. Mi posso inventare una qualunque scusa. Posso dire che mi hai aggredito. A chi credi che crederebbero? A un principe o a una serva?” ghignò in modo malvagio. Violetta lo guardò sconvolta, cercando di trattenere le lacrime. Come era potuto succedere? Perché ce l’aveva tanto con lei? Non riusciva a comprendere, ma quando sentì nuovamente le labbra calde del principe avventarsi avidamente sul suo collo, una sensazione di nausea la colse all’improvviso. Leon si separò di scatto e sorrise nel vedere la sua espressione sconvolta. Era proprio l’effetto che voleva ottenere. E adesso mancava solo una cosa per farla cadere nel più oscuro oblio. Doveva ottenere un’ultima cosa da lei: la sua purezza. Era il migliore modo per distruggerla completamente. “Domani notte ti farai trovare nella mia stanza. E’ quella lì” disse indicando una porta in legno scuro come la pece. “E non provare a non presentarti. Sai benissimo che correresti dei brutti guai” la riprese anticipando i suoi pensieri. “Sarà divertente passare la notte con te, sarà un vero spasso sentire i tuoi gemiti interrotti unicamente dai singhiozzi del pianto. Sarà divertente farti mia” concluse il giovane con aria annoiata e stanca. “E adesso vattene!” esclamò rientrando nella sua stanza. Violetta si accasciò lentamente per terra lungo la parete con lo sguardo perso nel nulla. Aveva ancora i brividi, ma non solo di paura. Era come se ancora sentisse i baci di Leon lungo il collo, come dei marchi roventi. E le facevano uno strano effetto. In un certo senso desiderava sentire ancora le labbra del giovane principe sulla sua pelle, ma allo stesso tempo la realtà le oppresse il cuore con la sua crudeltà. Il giorno dopo si sarebbe dovuta concedere a lui, dicendo addio a tutto ciò in cui credeva. L’attesa di un amore profondo e sincero…non avrebbe potuto vivere quella gioia così grande nel ricevere un bacio pieno di affetto e passione allo stesso tempo. Era perduta. E mentre il sole tramontò lanciando i suoi raggi, con esso tramontò anche la speranza che fino ad ora aveva accompagnato la povera Violetta. 







NOTA AUTORE: Mi sto già odiando da solo in questo capitolo, quindi non metteteci il carico da undici :P Comunque, ecco due nuovi personaggi: Lara e Humpty Dumpty. Lara è un personaggio abbastanza odioso in questa storia, mentre Humpty è un vecchio saggio, uomo-uovo (chi ha letto il Paese delle Meraviglie sa chi è :D). Beh, dopo la presentazione parliamo della storia del Paese delle Meraviglie, finalmente venuta a galla: quindi Alice è già passata di qui xD Sono successe parecchie cose al suo arrivo, e per un breve periodo è stata anche regina, fino al momento di tornare nel suo mondo. Tanti misteri ancora da svelare...Nonostante tutto amo i pensieri di Leon: si sente in un certo senso minacciato, e teme Violetta. Ma per farsi temere a sua volta e poter sentirsi sicuro decide di compiere un'azione turpe (che gergo LOL), e quindi costringe Violetta a passare la notte con lui. Violetta dal canto suo, sente già qualcosa per Leon (e viceversa, ma per Leon è ancora tutto più oscuro), e un misto di emozioni diverse è oggetto dei suoi pensieri, che quindi risultano volontariamente stranamente confusionari. Il marchio dei baci è una figura teoricamente cupa, ma allo stesso tempo è una sensazione che quasi gli manca. Si, questa Violetta non sta molto a posto con il cervello, ma in questo mondo non si capisce più nulla per la povera ragazza! Nel prossimo capitolo dal titolo 'L'armatura di cristallo' invece conosceremo il re di Picche, con la sua consorte e la giovane figlia, che possiede un dono antico quanto pericoloso. E una profezia sconvolgerà le sorti di tutto il regno. Ma non posso anticiparvi di più, dico solo che nuovi tasselli si uniscono al quadro, e niente...spero che nonostante questo capitolo metta il magone (a me l'ha messo), vi piaccia lo stesso :3 Alla prossima, e buona lettura a tutti ;D 

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Capitolo 7
*** L'armatura di cristallo bianco ***





Capitolo 7

L’armatura di cristallo bianco

Dieci anni prima
Pablo si stava leggermente agitando. Lì di fronte a quell’altare bianco gli scorrevano rapide le immagini della sua vita fino all’incontro con la donna che stava per sposare. Voltò lo sguardo indietro e notò la miriade di ospiti importanti che attendevano, sollevando un lieve brusio con le loro chiacchiere. Niente di più sgradito per lo orecchie dell’uomo. Sapeva che il suo matrimonio era uno dei più discussi e famosi del regno di Picche: era pur sempre il re, e la notizia di una nuova regina aveva certamente portato una ventata di novità e pettegolezzi. Si sistemò meglio le pieghe del vestito, nervosamente; ci aveva ripensato, non aveva dubbi. Un Re mollato sull’altare sarebbe stata una vera barzelletta. Il prete stava osservando il piccolo gazebo in pietra che accoglieva sotto di esso l’altare di marmo, dove il tetto era costituito unicamente da quattro braccia in pietra che si intrecciavano. Lungo i pilastri che reggevano la volta dei rampicanti dai fiori rossastri diffondevano il loro profumo. Dietro c’erano numerosi file di presenti seduti in attesa, spezzate trasversalmente unicamente da un tappeto rosso pieno di petali bianchi. “Non arriverà” mormorò flebilmente con sguardo assente. Improvvisamente le trombe iniziarono a suonare e l’orchestra, posta in un angolo del giardino riccamente addobbato diede vita a una dolce melodia a tratti vivace. La musica era partita, e questo significava solo una cosa. Si voltò lentamente come se avesse quasi paura di vedere cosa stesse succedendo dietro di lui e la vide avanzare con grazia sul tappeto rosso. Era arrivata. Strinse nervosamente i pugni dando un’occhiata ai gemelli dorati, che avevano la forma del simbolo del regno, e si chiese se fosse stata una saggia idea sposarsi con la divisa regale. Certo che era stata saggia, faceva parte della tradizione. Si lisciò i pantaloni bianchi non avendo il coraggio di voltarsi di nuovo, e diede una sistemata anche alla giacca con le numerose spille dorate che rappresentavano i suoi titoli nobiliari. Cominciò a respirare velocemente, sentendo il continuo bisogno di aria, e avvertiva il petto che tentava disperatamente di tenere al suo posto il cuore con i suoi forti battiti. Una donna il cui volto era coperto da un velo bianco ma leggermente trasparente si posizionò al suo fianco, con lo sguardo basso e l’atteggiamento pudico. Tra le fragili mani, congiunte all’altezza del ventre, stringeva un piccolo mazzo di bucaneve. Pablo la osservò meravigliato: stava benissimo con quell’abito bianco dal lungo strascico e dai finimenti argentati. Sembrava una ninfa. O meglio lei era una ninfa, una ninfa dei boschi precisamente. “Scusa il ritardo” sussurrò la donna con la sua voce dolce e melodiosa; sembrava intonare una canzone ogni volta che parlava. “Non ti preoccupare, temevo solo che avessi cambiato idea”. La donna si voltò e riversò il verde dei suoi occhi in quelli di Pablo, che come al solito si sentì rapito da quella bellezza così innaturale. “Sai benissimo che non l’avrei mai fatto”. “Adesso però ne sono sicuro” osservò il giovane, facendo scivolare lentamente la mano fino a stringere la mano destra della donna. “Siamo qui riuniti per celebrare il matrimonio di Pablo Galindo, erede al trono e Gran Cappelliere, e Angie Saramego, principessa del popolo delle Ninfe della Palude di Jolly”. I due si guardarono sorridendo. Era finalmente arrivato il momento. Sembrava fosse passato ieri dal loro primo incontro. E ora stavano per legarsi indissolubilmente. “Prendete gli anelli” esclamò l’anziano prete, mostrando due fedi argentate sull’altare. Pablo afferrò quella a destra e la infilò all’anulare della mano destra della donna. “Con questo anello io sigillo la nostra promessa d’amore. E sarà il simbolo del nostro legame che durerà per sempre, come questo freddo e puro metallo” sentenziò in modo solenne il principe, sciogliendosi in un sorriso sollevato per essersi ricordato la formula della cerimonia. Angie abbassò lo sguardo sulla sua mano e una lacrima trasparente le rigò una guancia. Guardò quell’anello, simbolo del suo amore per Pablo, simbolo della sua rinuncia. Per aver scelto di sposare il principe di Picche, la donna era stata esiliata, perdendo così la possibilità di trascorrere la vita con la sua gente. Il padre l’aveva disconosciuta, la madre le aveva vietato di chiamarla in quel modo. Le era rimasto solo Pablo e l’amore che provava nei suoi confronti. Prese l’anello che poggiava ancora sull’altare e lo infilò al dito della mano sinistra del suo sposo. “Con questo anello io sigillo la nostra promessa d’amore. Sarò una moglie che si prenderà cura del nostro focolare, sarò la donna che ti starà accanto nel dolore e nella gioia. Sarò colei che vorrai sempre al tuo fianco, che ti consiglierà nel giusto, sempre e comunque. Sarò una donna fedele, come fedelmente brillerà questo freddo e puro metallo” esclamò con dolcezza la donna. “Bene, adesso siete uniti in questo vincolo che renderà i vostri destini indissolubili”. Uno scroscio di applausi circondò i due sposi, che lentamente si avvicinarono per unirsi in un dolce bacio. “Adesso sei mia moglie” le sussurrò all’orecchio dolcemente. Angie lanciò in aria il mazzo di bucaneve, che divenne un’ambita preda di tutte le donne non sposate presenti in quel matrimonio, e si strinse forte a lui, abbracciandolo con amore. I due si diressero dall’altra parte del giardino attraversando il tappeto rosso lentamente, mentre i complimenti e le urla di approvazione cadevano su di loro con forza. Finalmente intravidero, dopo aver attraversato delle siepi ben curate, dei gazebo bianchi che tremolavano mossi dal fresco vento che aveva cominciato a soffiare. “Ho proprio un po’ di appetito” scherzò Angie, levandosi quelle fastidiosissime scarpe argentate con un po’ di tacco, e cominciando a correre per il prato a piedi scalzi. Amava il senso di libertà che sentiva quando le piante dei piedi entravano in contatto con il terreno fresco, bagnato da una leggera rugiada. Nelle Paludi di Jolly non esistevano quelle che chiamavano scarpe, e capiva bene il perché. Cosa poteva esserci di gratificante nel dover sopportare continuamente quei pezzi di stoffa che fasciavano il piede impedendogli di respirare? Il principe notò qualche sguardo di disapprovazione degli invitati. “Quella donna manca di classe, non può essere la regina” sentì dire da una signora anziana in tono scorbutico. Sorrise: si, Angie non era come tutte le altre donne del regno, ma la amava proprio per quello. Con un gesto rapido si tolse le scarpe e cominciò a rincorrere la sua sposa, senza preoccuparsi della perplessità che si stava prendendo cura degli invitati che lentamente sopraggiungevano. Finalmente raggiunse Angie e la afferrò da dietro circondandole la vita con grazia per poi sollevarla da terra. Preso dalla foga però inciampò sullo strascico e cadde a terra seguito dalla donna. I due scoppiarono a ridere fragorosamente osservando il cielo e le nuvole che si muovevano lentamente. “Adesso cominceranno a dire che ho una cattiva influenza su di te” rise la giovane stringendosi a lui e guardandolo negli occhi. “Dicessero ciò che vogliono. Io sono il principe, loro i sudditi. E l’unico vantaggio nell’essere un principe è quello di poter ignorare le malelingue” spiegò Pablo, sporgendosi per darle un lento bacio. I due rimasero stesi in mezzo al giardino, mentre le persone prendevano posto sotto i gazebo. “Questo posto non è esattamente lontano da sguardi indiscreti". Con uno scatto il principe si alzò in piedi e tese la mano ad Angie per aiutarla ad alzarsi. Si avviarono al tavolo destinato agli sposi con i vestiti bianchi deturpati da macchie verdi e marroni.  Si sedettero tenendosi per mano e osservando la montagna di regali di nozze che si presentava di fronte a loro. Un pacco appariscente di un colore arancione acceso era in cima. Pablo sospirò comprensivo. “Beto” sussurrò, alzandosi in piedi e avvicinandosi al pacco. Lesse il messaggio assicurato al fiocco, ‘Per il mio pro-pro-pro-pro-pro nipote. Il bis-bis-bis-bis-bis zio Beto”. A causa della trappola temporale in cui il suo antenato Beto era finito, il Cappellaio Matto che aveva dato inizio alla loro stirpe era destinato a non invecchiare mai. Slacciò pazientemente il fiocco mezzo pasticciato e che odorava vagamente di tè, quindi aprì il pacco. “Una teiera” esclamò l’uomo con un sorriso imbarazzato, tenendo in mano una teiera alquanto semplice con nessun dettaglio di pregio. “Ti ho già detto che adoro Beto?” ridacchiò la donna. “E’ l’unico che non si preoccupa di formalità, ma fa i doni col cuore” aggiunse indicando una scritta incisa sul fondo. ‘Donata da Alice per la cortesia fatta, al Cappellaio Matto’. Pablo sorrise: un cimelio di famiglia! Era emozionato ad onorato per quel dono, voleva tanto ringraziarlo, ma non gli era permesso avvicinarsi alla foresta al limitare del Palazzo di Cuori. “Grazie zio, grazie di cuore” esclamò alzando la teiera stretta nella sua mano, creando un magico scintillio.

 

Presente
Niente, non riusciva a prendere sonno. Pablo si rivoltò sotto le coperte, alla ricerca di una posizione comoda. Tentativi inutili, visto che il fastidio che lo opprimeva non era fisico, bensì mentale. Si rimise supino e osservò il soffitto del baldacchino. Scostò una tenda verde smeraldo dal lato del letto, così da poter osservare le pareti bianche candide di poco illuminate dalla finestra che si trovava dalla parte opposta. Sentì Angie al suo fianco muoversi: probabilmente aveva avvertito la sua agitazione e si era svegliata. “Cosa c’è che non va?” le chiese la moglie, accarezzandogli la spalla e guardandolo con quegli occhi di un verde profondo. “Niente, torna a dormire…” mormorò Pablo sfiorando con le dita una ciocca dei suoi capelli, usando un tono di voce rassicurante. “Non sei mai stato bravo a mentire” ridacchiò la donna, dandogli un bacio sul petto. “Ho una brutta sensazione. Sta per succedere qualcosa di strano, me lo sento”. “Non preoccuparti inutilmente” disse la donna, tornando a distendersi sul suo lato, e cercando di riprendere sonno. Non preoccuparmi inutilmente? Sono un discendente di una delle più antiche famiglie del Paese delle Meraviglie, eccome se mi preoccupo!, pensò Pablo, alzandosi di scatto. Rabbrividì nel sentire i piedi poggiare sul freddo pavimento in pietra, quindi infilò dei sandali ai piedi del letto, e si avvicinò al baule addossato alla parete opposta del baldacchino. Tirò fuori una maglia e la indossò: fuori da quelle coperte di lana pregiata avvertiva il freddo pungente della notte. Uscì dalla stanza senza far rumore, quindi attraversò il corridoio, e si fermò di fronte a una porta massiccia in legno. La aprì con cura, cercando di non provocare il minimo rumore. Una piccola stanza regale ospitava al suo interno una giovane bambina di circa nove anni, profondamente addormentata nel suo enorme letto. Pablo si sedette su un lato e continuò a guardarla dormire, temendo il peggio da un momento all’altra. I capelli castani chiari della giovane, erano sparsi sul cuscino, e il suo corpo esile si muoveva impercettibilmente al muoversi del diaframma. Il suo nome era ricamato sul cuscino, con delle lettere in stoffa di un colore verde acqua: Cassidy. Quel nome non era stato scelto casualmente, nulla era un caso nel Paese delle Meraviglie, ma ogni minimo evento era stato scritto dal destino, e le profezie lo dimostravano. La profezia che riguardava Alice si era realizzata, e così quella che riguardava la sua famiglia. ‘Dal sangue di due antiche stirpi ne nascerà una nuova, in grado di mostrare al Paese delle Meraviglie quello che l’Oracolo di Apollo mostrava al mondo’. Le profezie nascevano in modo casuale, e nella grotta delle Antiche Rune ne comparivano di nuove, incise sulla pietra. Cassidy, come Cassandra, aveva subito la privazione della vista, in cambio di un nuovo dono, il dono di prevedere il futuro. La bambina cominciò ad agitarsi nel sonno, e il re se ne accorse subito, quindi le prese la mano e la tenne stretta nella speranza che si trattasse di un incubo, e non di una visione. Il fardello di poter prevedere il futuro era troppo grande per quella bambina, che ancora non comprendeva appieno il suo potere. “Va tutto bene” sussurrò Pablo. In quel preciso istante la bambina si alzò con il busto e aprì lentamente gli occhi. Il colore ambrato delle pupille lentamente si fece di un grigio argentato. Era proprio quello che temeva: una visione. La sua paura era fondata, quella notte sentiva che sarebbe successo qualcosa di eclatante, che avrebbe sconvolto le sorti dell’intero Paese delle Meraviglie. Cassidy cominciò a parlare con una voce vibrante e profonda. “Lei è tornata, la prescelta da Alice, colei che riporterà l’equilibrio su questo mondo. Un cuore spezzato e un potere dettato dal dolore. I quattro emblemi dei quattro regni subiranno le ire di una storia d’amore dalle sorti tragiche. La donna che più di tutti ha lottato cederà alle lusinghe della guerra e concluderà la sua storia. Lo scudo invincibile donerà la protezione, l’elmo splendente garantirà la saggezza, la corazza possente concederà la sua forza, e la spada dalle mille luci determinerà le sorti del mondo intero: distruzione o salvezza. I destini si intrecceranno, le forze si scontreranno, e al giovane dal puro cuore verrà richiesta una scelta, quella finale.”
La bambina scosse lentamente la testa e si afflosciò, addormentandosi nuovamente. Una profezia, una profezia sull’armatura d’argento. Pablo non capiva, c’era qualcosa di poco chiaro. Innanzitutto, non dava una sorte certa: distruzione o salvezza. Nessuna profezia metteva il destino nelle mani del diretto interessato, era strano, troppo strano. I respiri di Cassidy cominciarono a regolarizzarsi, mentre i suoi pensieri creavano un ronzio insopportabile. L’armatura d’argento…quanto tempo non se ne era più sentito parlare. Scattò in piedi, e uscì dalla stanza, sperando che la bambina stesse un po’ meglio.
Attraversava stanze e corridoi senza preoccuparsene. Sapeva dove doveva andare e non aveva intenzione di perdere tempo. Quando si trovò di fronte a un cancello di metallo con due sentinelle che facevano il turno, con le lance ben piantate a terra, fece un cenno per ottenere l’accesso ai sotterranei. Ogni scalino che scendeva si faceva sempre più scivoloso, a causa dell’alto tasso di umidità. La torcia che gli avevano consegnato all’ingresso era nella sua mano destra. La fiammella tremava lentamente, illuminando le pareti che si facevano ad ogni passo più strette. Continuava a pensare alla profezia senza prestare attenzione allo stridio proveniente dal fondo dei sotterranei. I destini si intrecceranno. Cosa intendeva dire? Decise di allontanare quelle domande e preoccuparsi di quello che concretamente poteva fare. L’armatura d’argento era stata l’armatura indossata da Alice il giorno del Liberatutto. Prima di abbandonare il Paese delle Meraviglie, aveva deciso che ognuno dei quattro regni ne dovesse conservare gelosamente un pezzo per ricordare l’equità e l’uguaglianza. Picche aveva ricevuto in dono la corazza, oggetto magico custodito nei sotterranei del Palazzo di Picche. Quando finalmente raggiunse il fondo si trovò in una stanza dove una creatura lo fissava con occhi di brace. Un piccolo drago di un blu elettrico sbuffava sonoramente, graffiando con le unghie giallognole il pavimento, e creando quel fastidioso e irritante rumore. La creatura ruggì sonoramente, volendo fin da subito mostrare la sua autorità in quella stanza piccola e buia. Al collo squamoso portava un collare nero collegato ad una parete attraverso anelli scuri come la notte, che si confondevano nell’aria. Un collare di neranio, pensò Pablo, ricordandosi del periodo in cui il commercio con il regno di Fiori era ancora in piena attività. “Buono bello” lo rassicurò il re, mentre delle volute di fumo uscivano dall’animale, nervoso per quell’intromissione non gradita. Dopo qualche minuto il piccolo drago parve calmarsi: d’altronde era stato Pablo in persona ad allevarlo e addestrarlo. “Bravo” disse, avvicinandosi e accarezzando piano il muso della bestia che adesso emetteva dei versi acuti e striduli, come se si fosse pentito di non averlo riconosciuto subito. L’uomo gli diede un’ultima carezza, quindi alzò la zampa e prese la chiave che scintillava sul pavimento. Una porta protetta da numerose serrature si trovava dall’altra parte. Vi era una sola combinazione possibile per aprirla, sbloccando una serratura alla volta. Pablo cominciò ad infilare la chiave e a girare in continuazione finché un rumore secco non gli fece capire di essere riuscito nel suo intento. Aprì piano la porta e si ritrovò di fronte all’oggetto dei suoi pensieri: una corazza di oro bianco che scintillava illuminata dalla luce della torcia. “Ecco la corazza” mormorò l’uomo, avvicinandosi lentamente. Il misterioso artefatto magico era poggiato su un piedistallo in pietra modesto e privo di decorazioni, deposto al centro della stanza. Pablo passò la mano sul freddo metallo e subito la ritrasse con un timore reverenziale. “Cosa mi nascondi?” chiese all’oggetto come se fosse capace di parlare. La scritta latina ‘vis’ sul lato destro significava appunto forza. “Devo forse riunire i pezzi, per poterli restituire alla legittima proprietaria?” si chiese l’uomo, girando intorno al piedistallo. Recuperare l’elmo un tempo sarebbe potuto sembrare facile, visto che il regno di Fiori era suo alleato, ma dopo l’ascesa al trono della regina Natalia, tutto era cambiato. Fiori si era avvicinato a Quadri, tagliando completamente i rapporti con il suo regno. Non riusciva a prendere una decisione, ed era sicuro che avrebbe passato tutta la notte in quella stanza, alla ricerca di un segno, o comunque finché non fosse sicuro di cosa fare.
“Non hai una bella cera, devi aver dormito male…” ipotizzò Angie, mordendo una mela rossa come il sangue, mentre il marito era seduto dall’altra parte della lunga tavolata alle prese con i suoi dubbi. “Stamattina mi sono svegliata e tu non c’eri” constatò con molto semplicità la donna, non avendo ottenuto una risposta alla prima domanda. “Ero da una parte” biascicò l’uomo, afferrando una fetta di pane e cominciando a spalmare una buona dose di miele. “Certo, se non ne vuoi parlare con tua moglie, va bene” ribatté la donna, fingendosi calma. Quel silenzio però non le piaceva per niente. Si alzò di scatto, senza preoccuparsi del rumore causato dalla sedia, e incrociò le braccia al petto. “Anzi no, non va bene affatto! Pablo, quando ci siamo sposati ci siamo fatti una promessa di fedeltà e fiducia, e non posso continuare a vederti così senza poter fare nulla!” sbottò Angie, lasciando intravedere la sua rabbia. Il re tremò: draghi, oggetti magici, e profezie non erano nulla in confronto alle ire di sua moglie. “Ma no, tesoro, non è niente d’importante” cercò di calmarla Pablo, mettendo avanti le mani. Angie scosse la testa: aveva solo peggiorato la situazione con quell’ennesima bugia. Fece il giro del tavolo e gli puntò il dito contro, tamburellandogli il petto. “Smettila, Pablo Juan Galindo!”. Se usava il suo secondo nome, Juan, allora la situazione era davvero grave. “D’accordo, d’accordo…ma smettila di sbraitare” si arrese il re, alzandosi in piedi e posando su un piatto di ceramica bianca la sua fetta di pane. Fece un respiro profondo e cominciò a raccontare tutto. Ad ogni sua parola la donna cambiò lentamente espressione, facendosi comprensiva. “Non so cosa fare” sussurrò infine con voce stanca Pablo, dopo aver terminato il racconto. Angie non disse nulla, ma annuì e abbracciò il marito, per poi scoppiare a piangere. “Cassidy ha avuto una visione?” chiese nuovamente, singhiozzando. “Si, ma vedrai che…”. “E’ piccola! Troppo piccola!” lo interruppe la donna per poi fuggire dalla stanza e raggiungere quella della figlia.
Angie entrò nella stanza, attenta a non far rumore: Cassidy era ancora profondamente addormentata. Cominciò a studiare i suoi lineamenti, mentre le lacrime continuavano a scendere. Sentì una mano appoggiata alla sua spalla. “Lasciamola dormire” le sussurrò Pablo all’orecchio cercando di trascinarla via.

 

Cinque anni prima
“Cassidy! Smettila di fare come ti pare!” la riprese Angie con un tono severo. Una piccola bambina sorridente si voltò dall’altra parte della stanza e corse fuori nel giardino del palazzo. “Torna subito qui” strillò la madre, spazientita. “Lasciala giocare, è solo una bambina” ridacchiò Pablo, indossando la corona e assestandola sul capo. Angie si avvicinò timorosa, poi aiutò il marito nell’ardua impresa di raddrizzare la corona. “Pensi che io sia troppo severa con lei?” chiese improvvisamente con un’espressione dubbiosa. “Sei solo una mamma apprensiva, non ci vedo nulla di male” scherzò il re, allacciandosi il mantello da cerimonia: quel giorno aveva numerose udienze e non aveva molto tempo da perdere, anche se una breve conversazione con sua moglie riusciva sempre a metterlo di buon umore. “Io non sono apprensiva! Sono una bravissima mamma, sicura di quello che fa” lo corresse Angie con tono irremovibile. “Non ho detto che non lo sia…”. “Pablo, mi stai contraddicendo?” chiese lei, battendo il piede nervosamente. “Veramente io…”. “Vedi?! Hai sempre qualcosa da ridire! Tipico atteggiamento da re” sbottò, non contenta. Il re sospirò e fece uno dei soliti sorrisi che potevano rassicurare anche il più sfortunato dei poveri. “Vedrai che nostra figlia crescerà sana e forte”. Ebbe appena avuto il tempo di dire quelle parole che una guardia entrò improvvisamente con una faccia sconvolta. “Sua maestà! La principessina Cassidy…”. Angie si fiondò fuori, nel giardino del palazzo e vide la figlia a terra con alcuni rami caduti. “Tentando di arrampicarsi è caduta. Ha avuto un brutto colpo in testa” esclamò la guardia, un giovane dai capelli biondi, continuando a seguire la regina, sconvolta. “Cassidy! Come stai?” chiese la donna con le lacrime agli occhi, piegandosi sulla bambina in ginocchio. Cassidy aprì lentamente gli occhi e aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiuse scioccata. “Che succede? Stai bene? Di’ qualcosa” singhiozzò la madre, non sapendo più cosa fare. “Mamma, dove sei?” chiese la bambina, iniziando a tremare. Angie afferrò la mano esile della figlia, pallida in volto. “Sono qui, tesoro! Sono qui…” sussurrò la donna, cominciando a temere il peggio. “Qui è tutto buio” piagnucolò la bambina, mentre alcune foglie cadevano dall’albero su cui aveva provato ad arrampicarsi. “Come tutto buio? Cosa vedi?”. “Io…vedo tutto buio. Non ti vedo più, mamma”. 








NOTA AUTORE: salve a tutti! Come vi avevo annunciato il nuovo capitolo ci presenta nuovi personaggi, Pablo, Angie e la loro figlia, Cassidy. NOn mi vorrei dilungare troppo (anche perchè devo studiare), dico solo che ho messo il capitolo perché lo avevo promesso ad una mia fidata e carissima collega, tale DULCEVOZ, a cui questo capitolo è dedicato :3 , essendo una Pangie al 100% :D In effetti anche se sono Germangie questa coppia è troppo tenera :3 Ma ok, andiamo oltre...Boh, che devo dire? Ah, non preoccupatevi voi che siete in ansia per Leon e Violetta, il prossimo capitolo è su di loro...e Leon comincerà a farsi un paio di domande, cercando di capire perché...NO, non posso spoilerarvi nulla xD Comunque, in questo capitolo è venuta fuori una profezia abbastanza oscura. Chi sarà il giovane dal puro cuore? I candidati per ora sono due: Maxi e...Leon? Insomma puro cuore lui, ce ne vuole xD Comunque, in tutto ciò...profezie, draghi ecc...e matrimonio Pangie, con tanto di momenti coniugali. Nuovi personaggi si aggiungono alla lista dei personaggi, e sappiamo che Pablo è il re di picche. Resta solo da scoprire chi sia a cpao del regno di quadri...voi chi pensiate che sia il re/regina? Per scoprirlo ci vorrà un po'...ma lo sapremo xD Comunque, non so se nelle prossime settimane riuscirò a pubblicare nuovamente due volte a settimane, probabilmente no, perdonatemi, ma è un periodo parecchio duro...comunque i momenti Leonetta torneranno nel prossimo capitolo, da titolo 'La trovata di Lena'. Se volete un assaggio...ma si dai, ve lo do, ve lo meritate per la pazienza che dovrete avere con me xD Buona lettura a tutti, comunque, e alla prossima :D
'Oltre ai soliti incubi c’era qualcos’altro che non riusciva a scacciare dalla sua testa: l’immagine di Violetta e del loro ultimo incontro. Ripensò al dolce sapore della pelle di Violetta, sensazione che accompagnava le sue labbra con insistenza. Quella ragazza stava diventando per lui quasi un’ossessione e non si sapeva spiegare il perché. Voleva distruggerla, ce l’aveva con lei senza motivo, ma allo stesso tempo si sentiva quasi attratto da quella ragazza. No, non l’amava, lui non provava amore, ma quell’attrazione che sentiva era dettata dalla curiosità, ne era sicuro.'

 

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Capitolo 8
*** La trovata di Lena ***




Capitolo 8

La trovata di Lena

Leon si svegliò di colpo. Ancora gli stessi incubi di sempre, non ce la faceva più. Doveva chiedere a Humpty Dumpty di aumentare le sue dosi di sonnifero da prendere la sera, ma non pensava che quelle terribili immagini continuassero a tormentarlo. Mosse la braccia fuori dalle coperte e si stropicciò gli occhi assonnati. Oltre ai soliti incubi c’era qualcos’altro che non riusciva a scacciare dalla sua testa: l’immagine di Violetta e del loro ultimo incontro. Ripensò al dolce sapore della pelle di Violetta, sensazione che accompagnava le sue labbra con insistenza. Quella ragazza stava diventando per lui quasi un’ossessione e non si sapeva spiegare il perché. Voleva distruggerla, ce l’aveva con lei senza motivo, ma allo stesso tempo si sentiva quasi attratto. No, non l’amava, lui non provava amore, ma quell’attrazione che sentiva era dettata dalla curiosità, ne era sicuro. Sentì le coperte muoversi al suo fianco e un lieve sbadiglio. Si era svegliata; non che gli importasse, ma non vedeva l’ora che lasciasse il suo letto. Lara si posizionò su un fianco, osservando le spalle larghe del principe e lo guardò dolcemente. “E’ tardi” sibilò Leon, senza guardarla negli occhi, con lo sguardo fisso sul baldacchino. “Lo so, ti chiedo perdono, ma stanotte non ho dormito molto” ridacchiò divertita. “Ti ho sentito agitarti nel sonno” aggiunse poi, facendosi seria. “Non sono questioni che ti riguardano” rispose secco Leon, sbuffando. Quella ragazza faceva troppe domande per i suoi gusti, stava iniziando a non sopportarla. Lara mosse la mano tremante verso di lui, e con un tocco impercettibile gli sfiorò i capelli. Leon si voltò di scatto e le afferrò la mano: sembrava furioso. “Non farlo mai più. Non voglio che mi tocchi” la intimò, ringhiando come un animale. Lara si allontanò spaventata, quindi annuì per fargli capire di aver compreso, e si alzò coprendosi con le coperte di un colore rosso scuro, tendente al bordeaux. “Ci vediamo stanotte, allora” disse, mentre frettolosamente cercava i vestiti finiti per terra. Leon scosse la testa, ma lei non lo poté vedere. “Per stasera ho altri programmi” esclamò lui con voce roca. Senza nemmeno accorgersene si inumidì le labbra passandoci la punta della lingua: ancora la sensazione di quel sapore così dolce e inebriante. Lo cacciò con la forza di volontà, ma il turbamento rimase. “Con quella nuova?” chiese Lara, senza riuscire a nascondere una punta di acidità. “Non penso che la questione sia di tuo interesse” esclamò Leon, alzandosi di scatto e afferrando i suoi vestiti, poggiati su uno sgabello vicino al letto. Emise uno sbadiglio vigoroso, stiracchiandosi un po’ e sciogliendo i suoi muscoli, e Lara si incantò a osservare quel fisico perfetto. Le numerose cicatrici sul petto e lungo la schiena gli conferivano ancora più fascino. “Non hai bisogno di quella lì, io potrei farti stare molto meglio, e lo sai” provò a convincerlo, facendo il giro del letto e posizionandosi al suo fianco con aria supplicante. “Sei noiosa” asserì il giovane infilandosi una maglia di cotone purissimo arancio scuro. “Ma, Leon….” mugolò la serva, rimanendoci male. Nonostante non avessero un rapporto d’affetto, non era mai stato così freddo e scortese nei suoi confronti. “Ho fame, penso che scenderò a fare colazione” tagliò corto subito, dopo essersi allacciato la cintura in pelle nera, da cui pendeva la custodia della sua spada. “Leon, stai lontano da quella serva. Non è come noi” lo avvertì Lara, dilatando le pupille e sgranando gli occhi. Leon fece un cenno con la mano, per farle capire che riteneva insignificante quell’affermazione. Sbatté con forza la porta, lasciando la ragazza sola con i suoi pensieri. Il principe non l’avrebbe mai considerata importante per lui, ma le stava bene così, le bastava poter stare al suo fianco, poter soddisfare i suoi desideri sempre e comunque. Nonostante non lo desse a vedere, sentiva che qualcosa era cambiato in lui quando aveva conosciuto quella Violetta. Non ne aveva ancora avuto conferma, ma se lo sentiva. Violetta era un ostacolo alla sua felicità, Leon era suo, di nessun altro, e quella serva avrebbe dovuto capirlo al più presto.
Lena si svegliò presto quel giorno: aveva tanto lavoro da fare, e poco tempo da perdere. Non appena ebbe aperto gli occhi, si rese conto che il letto di Violetta era rimasto completamente intatto, e la sua compagna di stanza non era ancora rientrata. Mentre si preparava per andare a fare colazione nelle cucine, continuava a buttare lo sguardo verso le coperte di lana candide, e la sua espressione si faceva sempre più preoccupata: aveva paura che quella povera ragazza fosse caduta vittima del principe Vargas. Si avvicinò al suo comodino e prese da un cestino un nastro azzurro che usò per legarsi i capelli. Il cestino era in vimini ed era l’unico oggetto rimastole della vecchia casa, dove aveva abitato con suo padre e sua madre. Sospirò al ricordare quei momenti di pura gioia, dove la sua innocenza di bambina era perfettamente coniugata ad una vita priva di preoccupazioni e difficoltà. La porta si aprì di colpo, facendola sobbalzare, e una figura spenta fece il suo ingresso.
Violetta aveva passato la notte in giro per il castello, consumando tutte le sue lacrime. Ogni tanto si fermava per il corridoio buio che stava attraversando e si toccava nervosamente il collo, dove Leon aveva impresso il suo marchio, quel bacio che al solo pensiero le faceva venire i brividi. Sentiva ancora le mani del principe sul suo corpo, e quella sensazione di nausea. Si era interrogata sul perché di quel comportamento, perché Leon dovesse avercela con lei, e alla fine si era data una risposta: la sua era pura e semplice malvagità. E nonostante tutto non riusciva a non provare pena per lui; nel suo sguardo leggeva dolore e sofferenza dietro quel perenne odio che voleva lasciar trasparire. Lena le aveva detto di stara attenta, di cercare di non incrociarlo, e lei non gli aveva dato retta. Era stata una sciocca superba, convinta di poter cambiare le persone con la sua sola presenza; adesso ne avrebbe pagato le terribili conseguenze. Il peso opprimente nel petto che l’aveva accompagnata per tutta la sera, non era sminuito affatto con il sorgere del sole, anzi…lo scorrere lento dei minuti la avvicinava sempre di più alla sera in cui avrebbe versato lacrime amare di dolore. Lena la stava osservando con le mani che ancora legavano il fiocco, senza capire il suo stato d’animo, ma intuendo che qualcosa di grosso era avvenuto.
“Va tutto bene?” chiese Lena, avvicinandosi e osservando le profonde occhiaie e gli occhi arrossati. Violetta non rispose ma si sedette sul letto, con lo sguardo fisso su un punto della stanza. La lingua era appiccicata al palato, e non riusciva nemmeno ad emettere un suono. La gola le bruciava per i numerosi singhiozzi, le membra le imploravano un po’ di pace e tranquillità, ma tutto quello le era impossibile. Perché le immagini di ciò che sarebbe successo quella notte erano come delle spine che si infilavano con forza nel suo corpo; e non c’era alcun modo di estrarle. Nella sua riflessione notturna aveva anche pensato a tutti i possibili modi per evitare di doversi concedere al principe: la fuga non era possibile, e non poteva sperare di evitarlo in eterno, prima o poi l’avrebbe costretta. Per un secondo un’idea assurda le era balenata nella mente: il suicidio. Ma l’aveva scacciata subito: voleva vivere, ci teneva a quel dono così prezioso, e non intendeva rinunciarci a causa di un essere spregevole come Leon. “Si può sapere che ti succede? Stamattina mi sono svegliata e non c’eri…hai passato tutta la notte fuori?” la interrogò Lena, agitandosi sempre di più. Aveva paura che fosse successo ciò che più temeva, la reazione della ragazza gliel’aveva fatto presagire. Violetta annuì e cercò di dire qualcosa ma gli uscì solo un flebile suono. “Ti porto qualcosa dalle cucine, va bene? Tu riposati, oggi mi occuperò io dei tuoi compiti” la rassicurò la ragazza, accarezzandole una spalla con fare materno e uscendo a passo svelto. Violetta si stese sul letto, e per la stanchezza si addormentò, sperando vivamente che fosse tutto frutto di un brutto incubo.  
Lena percorreva il corridoio che portava alle cucine con un’ansia crescente; i passi si facevano sempre più svelti, il suo nervosismo sempre più accentuato. Pane con la marmellata, acqua, un bicchiere di latte. Pane con la marmellata, acqua, un bicchiere di latte. Si ripeteva questa sorta di lista per la spesa per tutto il tragitto, non perché avesse paura di dimenticarsi qualcosa, ma perché così poteva tenere occupati i suoi pensieri in qualcosa di apparentemente superfluo. Senza rendersene conto andò a sbattere contro qualcuno proprio all’ingresso. “Stai attenta a dove metti i piedi!” esclamò con la sua vocina acuta Lara, squadrando la giovane serva. “Ah, sei tu” aggiunse subito dopo con gli occhi ridotti a due fessure. “Sloggia, sgualdrina” la richiamò Lena, stanca di quelle sue continue arie da superiorità. “Tu e la tua amichetta forse pensate di potermi fare le scarpe, ma puoi riferire a Violetta che non riuscirà a conquistare il principe Leon. Lui preferirà sempre e solo me!” esclamò la donna con fierezza. “Non ti capisco, ma certo è che sei completamente pazza, e un giorno questa tua ossessione per il principe ti porterà alla rovina, cara Lara” la intimò Lena, sbuffando. “Davvero non capisci? Vuoi dire che Violetta non ti ha detto nulla sulle attenzioni che Leon le rivolgerà stasera?” chiese maligna, puntandole il dito contro. Lena si portò una mano alla bocca, inorridita. Lo sapeva, lo aveva intuito fin da subito, ma sperava che Violetta stessa smentisse tutto con le parole. Senza degnare più attenzione alla sua interlocutrice entrò nelle cucine e afferrò un vassoio di bronzo poggiato in cima a una pila. Afferrò qualcosa da mangiare per lei e la sua compagna di stanza senza badarci minimamente. Con la testa era rimasta ancora alla conversazione avuta poco prima, e stava già pensando a una soluzione. No, Leon, non ce la farai, si ripeté decisa, mordendo con forza una mela verde, mentre con l’altra mano reggeva il vassoio.
Leon aveva ormai finito la sua colazione, consumata in completo silenzio e in solitudine. Jade non si era ancora svegliata e nella stanza era risuonato solo il tintinnio delle sue posate. Non gli interessava essere da solo: era sempre stato così in fondo. Dalla morte del padre la sua vita era cambiata. In meglio? In peggio? Nessuna delle due. Era cambiata, punto. Sospirò pensieroso, affacciandosi dalle ampie vetrate della biblioteca, e osservando il verde dei suoi occhi riflettersi. Gli erano sempre piaciuti i suoi occhi, il loro colore così particolare. Lui amava il verde, gli ricordava i campi, i prati sterminati, la natura selvaggia; in parole povere, la libertà. Apparentemente sembrava libero, ma non lo era. Delle catene invisibili avvolgevano il suo corpo e si inoltravano nella sua testa, controllandone ogni singolo pensiero. Non era libero di agire né di pensare, e quella condizione in fondo non gli dispiaceva. Se non era libero, non aveva responsabilità delle sue azioni, e uccidere diventava più semplice quando ti sentivi costretto a farlo. Era stata una delle prime lezioni che aveva imparato.
“Leon” lo chiamò una voce vecchia e stanca. “Humpty” rispose educatamente Leon, riponendo un libretto nero, che teneva in mano, usando l’indice come fermalibro. Si voltò di scatto verso il bibliotecario, che gli sorrise amorevolmente. “A cosa stavi pensando?” chiese l’uomo, sedendosi sul banchetto di lettura. “A niente” ribatté in modo vago il principe, posizionandosi sulla panca di fronte alla sua. “Ultimamente menti molto male” ridacchiò l’uomo divertito. “E con questo cosa vorresti dire?” lo interrogò l’altro, evidentemente stizzito. “Dico che l’arrivo di qualcuno ha scosso la stasi che ti aveva trascinato nella più completa e cieca obbedienza”. “Sei un vecchio pazzo” esclamò il giovane, tornando a concentrarsi sul libro. “Può darsi. Ma non c’è niente di male nell’ammettere che quella Violetta ti ha turbato in tutti i sensi” lo riprese con aria furba Humpty Dumpty, rialzandosi. Si avvicinò ad uno scaffale di una delle librerie e con l’indice scorse le rilegature polverose dei libroni. “Non penso proprio che mi abbia fatto alcunché quella ragazzina insignificante. Piuttosto sarò io a turbarla” ghignò Leon, pregustandosi la nottata che si stava lentamente avvicinando. Come sempre l’inevitabile profumo della pelle di Violetta, si impresse nei suoi sensi, dandogli un leggero brivido. “Se il tuo interesse per la giovane è così insignificante, perché nei tuoi occhi vedo del dubbio?” disse sorridendo il bibliotecario, estraendo un libro rosso fuoco; sembrava piuttosto recente. Il titolo in lettere dorate era in una lingua sconosciuta. “Ancora lo strapazzato!” sbuffò il giovane, prendendo con riluttanza quel tomo che gli stava porgendo l’anziano. “Lo strapazzato è la nobile lingua di noi uomini-uovo, e ti ho insegnato a leggerla fin da piccolo” si infuriò Humpty Dumpty, facendo un piccolo saltello. “D’accordo, d’accordo” si arrese, facendo roteare gli occhi. “Quel che cambia e quel che resta” lesse lentamente; doveva ancora prendere dimestichezza con quella lingua ormai morta. Nessuno la parlava più, tranne Humpty Dumpty, l’ultimo uomo-uovo. “Perfetto” affermò soddisfatto l’uomo, sfogliando velocemente le pagine giallognole. Leon ebbe il tempo di scorgere l’autore scritto in piccolo sulla copertina. “Ma l’hai scritto tu!” esclamò sorpreso il principe, che non si aspettava certo una sorpresa del genere. Humpty Dumpty ridacchiò soddisfatto di quell’affermazione. “Ecco, trovato” esclamò d’un tratto, voltando il libro verso Leon, e facendogli vedere un’immagine. Un giovane cavaliere era inginocchiato di fronte a una fanciulla dai capelli lunghi e dorati, e le baciava la mano candida in modo lieve. Una spada insanguinata era poggiata per terra, vicino cui giaceva la testa di una qualche creatura bestiale mozzata. “Che c’è scritto sotto?” gli chiese serio. Leon abbassò lo sguardo dalla figura e lesse quasi sussurrando. “Ciò che resta, ciò che nemmeno il tempo può smorzare”. “Ridicolo!” aggiunse poi ad alta voce, richiudendo il libro. Un’improvvisa immagine di lui che baciava la mano di Violetta, la quale arrossiva imbarazzata, attraversò la sua mente, ma la cacciò subito con la propria forza di volontà. Il bibliotecario sembrò leggergli dentro perché disse: “Sapevo che avresti capito”.
Leon si alzò di scatto con il volto funereo. “Mi hai annoiato, vecchio, ho di meglio a cui pensare. Mi vado ad allenare un po’” esclamò prima di uscire passo svelto dalla biblioteca. Non riusciva a capire cosa volesse dirgli Humpty Dumpty mostrandogli quell’immagine. E’ solo uno povero pazzo, pensò, mentre attraversava velocemente la sala d’ingresso e usciva all’esterno. Aveva solo voglia di esercitarsi un po’ al tiro con l’arco, e con la spada. Quando si allenava il suo corpo e la sua mente entravano in sintonia, e perdeva di vista tutto il mondo che lo circondava. Le armi erano diventate le sue uniche compagne, il suo unico modo per evadere la realtà. Afferrò la prima spada che si trovava nell’armeria, posta affianco al campo di addestramento, e la fece roteare nella mano destra con sicurezza. Stupido Humpty, e stupide chiacchiere. Sferrò un colpo, prendendo in pieno un manichino posto ai lati del campo con un grosso bersaglio rosso sulla stoffa e ne fuoriuscì un rivolo di sabbia. Lui non era cambiato per niente, lo sentiva. Diede un altro colpo che fece tremare il supporto in legno. Era stanco di farsi comandare da tutto e tutti. Si asciugò con una mano il sudore sulla fronte, e andò a prendere l’arco con le frecce. Quella sera avrebbe dimostrato al mondo che lui era il solito Leon, e che era impossibile redimere chi ormai si era completamente perso.
Lena era rimasta per tutto il tempo seduta accanto a Violetta, cingendole le spalle in un abbraccio rincuorante. Stava pensando a come risolvere quella situazione, non voleva che Violetta dovesse subire quella sorte. Violetta cercò di farla demordere da propositi assurdi: “Non c’è alcuna soluzione…stasera mi presenterò nella stanza di Leon, e…”. Deglutì al pensiero e ricominciò a singhiozzare. “No, io non lo permetterò!” esclamò decisa la ragazza, tornando a riflettere. “Leon tutte le sere si dirige nelle sue stanze, e si fa portare da Lara una sorta di sonnifero per la notte, che assume dopo aver…insomma, ci siamo capiti” riepilogò con calma. Conosceva abbastanza le abitudini del principe, anche se non nel dettaglio. Notte, sonnifero, Lara. Quanto odiava quella Lara! Era così superba, così insopportabile, si credeva una regina, mentre non era altro che una…Si riprese, costringendosi a tornare a pensare a una soluzione. Notte, sonnifero, Lara, stanze. Sonnifero! “Ma certo! Dovevo pensarci prima” disse tutta euforica Lena, alzandosi di scatto. “Non capisco…” mormorò Violetta, sempre più confusa. “Ho un piano, Violetta. Un piano che ha molte probabilità di successo come molte di fallimento. Sei disposta a provarci?” chiese seria la giovane serva, torturandosi alcune ciocche di capelli nell’attesa. Violetta ci pensò un po’ su, quindi annuì decisa. Doveva provarci, doveva dimostrare a Leon che non l’avrebbe avuta tanto facilmente.
Lena attraversò il corridoio che portava alla sala del trono, quindi svoltò a destra salendo una scalinata in pietra che la fece sbucare al piano superiore. Numerose porte si estendevano, intravide un’altra scalinata che portava a una delle torri del castello. Quello era il piano dei laboratori, dove i medici sperimentavano nuove cure o farmaci. Bussò alla prima porta sulla sinistra dove si poteva leggere la scritta ‘Medicinali: istruzioni per l’uso’. Un anziano con un camice bianco che arrivava per terra, impolverandosi, si affacciò mostrando i suoi occhialoni spessi che incorniciavano due piccoli occhietti grigiolini. “Cosa vuoi?” chiese burbero, grattandosi il capo canuto. “Mi servirebbe una forte dose di sonnifero. L’ha richiesta il principe Leon in persona” spiegò il più innocentemente possibile. “Non hai un mandato scritto” osservò l’uomo con disprezzo. “No…si tratta di un’emergenza. Se non arrivo in tempo sia io che te faremo una brutta fine” si giustificò, facendo un emblematico gesto di una testa mozzata. “Giovani! Stupidi e impazienti” borbottò il medico, liberando l’ingresso e avvicinandosi a un bancone in legno in fondo alla stanza. Il laboratorio era quasi completamente al buio, e l’aria malaticcia del medico faceva intuire che non era solito abbandonare spesso il suo luogo di lavoro. “Pfui!” sbottò il medico, prendendo in mano uno degli alambicchi e osservando con cura la sostanza liquida di un verde scuro al suo interno. Ne prese un altro e ne riversò la sostanza viola al suo interno. Un piccolo ‘puff’ determinato dalla reazione chimica, riscosse il torpore che aveva accompagnato Lena, non appena entrata lì dentro. “Quindi, quello è…” disse, indicando l’ampolla, che adesso aveva assunto una tonalità azzurrina. “Shhhh…Sto lavorando. Sto creando!” la riprese con impazienza. “Ma almeno sa come…”. Il medico la zittì di nuovo e tornò a lavorare. Erano ormai passate due ore, e finalmente sembrò aver finito. “Eureka!” esclamò soddisfatto. “Quindi il sonnifero è pronto?” chiese speranzosa Lena, non riuscendo più a stare lì dentro. “Il sonnifero? Quale sonnifero?” se ne uscì il vecchio, evidentemente perplesso. Lena per poco non esplose, ma fece un respiro profondo e decise di mantenere la calma: “Quello che devo portare al principe…”. Il medico si portò una mano sulla fronte. “Me lo potevi ricordare prima, ragazza!” esclamò, aprendo un armadio addossato alla parete, pieno di fiale e bottiglie. Prese una fiala di vetro riposta sullo scaffale più in alto, piena di un liquido trasparente. “Mi raccomando, non più di tre gocce. Già cinque gocce lo farebbero addormentare di sasso, all’improvviso” mormorò l’uomo, porgendole il medicinale. Lena annuì spazientita, prese la fiala ed uscì in fretta e furia da quel luogo buio e ammuffito. Cinque gocce erano proprio ciò che gli serviva.
Leon faceva su e giù per la stanza nervosamente. Era soddisfatto, profondamente soddisfatto. Di lì a qualche minuto Violetta si sarebbe dovuta presentare come d’accordo nella sua stanza, e avrebbe compiuto la sua opera. Sarebbe stato fantastico distruggere tutto ciò in cui credeva, voleva che provasse un dolore simile al suo, e non sapeva spiegarsi il perché. Forse vorresti che lei ti comprendesse, pensò all’improvviso, corrugando la fronte. No, non lo voleva affatto. Perché avrebbe dovuto? Perché ti senti legato a lei. Non è vero, non è così. Si sedette un attimo sul letto, ma poi scattò nuovamente in piedi, e si tolse la cintura a cui era legata la spada, preparandosi per il suo arrivo. Si avvicinò al camino acceso, approfittando del suo calore, e si perse a contemplare le fiamme crepitanti. Un improvviso senso di benessere lo avvolse e nei suoi occhi lo scintillio del fuoco si rese manifesto con una violenza incredibile. La legna ardeva e lentamente si riduceva in cenere, e Leon si incantò a quello spettacolo di distruzione. Il fuoco era lui, potente, affascinante, e distruttivo, mentre la legna erano coloro che tentavano di ostacolarlo o semplicemente incrociavano la sua strada. Lui non aveva pietà di niente e di nessuno.
Sentì qualcuno bussare alla porta, e distolse lo sguardo dal camino. “Avanti” esclamò con decisione. La porta si aprì, ed entrò Violetta, che stringeva nella mano tremante un calice di rame, con al suo interno quello che sembrava essere dell’ottimo vino rosso. Leon osservò la ragazza avanzare lentamente e fermarsi subito dopo, guardandolo negli occhi, già lucidi. Sorrise soddisfatto: era così fragile. Spezzare la sua volontà e la sua umanità era stato un gioco da ragazzi, fin troppo facile per i suoi gusti. Si era già stancato, e avrebbe smesso lì, se non fosse che già si stava pregustando una bella nottata, passata divertendosi come non mai. Non poté fare a meno di apprezzare le morbide curve di Violetta, che, per quanto nascoste dai vestiti volutamente larghi, non gli erano sfuggite affatto, anzi, erano quasi state il suo primo pensiero, vedendola entrare. Ma c’era una cosa che desiderava più di qualunque altra: sentire nuovamente il sapore della sua pelle. Era diventata una sorta di ossessione che non riusciva in alcun modo ad allontanare, era da quella mattina che ci pensava costantemente. Leon ammiccò con fare seducente, e si avvicinò alla ragazza, paralizzata per il terrore. Fece sfiorare lentamente le labbra con le sue, e riuscì ad avvertire i brividi di paura che la attraversarono. Si leccò il labbro soddisfatto, e si beò di quella situazione, posizionando con calma le mani intorno ai fianchi di Violetta. Con una rapida occhiata indicò interrogativamente il calice. “E questo?” chiese curioso, e intrigato allo stesso tempo. “E’…per renderti la serata più piacevole” mormorò la ragazza, mentre la vicinanza di Leon, per quanto sgradita, le provocò un lieve rossore alle guance. “Wow, non mi aspettavo tutta questa premura” ribatté il principe, sospettoso. “E’ avvelenato?” chiese, per poi scoppiare subito a ridere della sua battuta. Le tolse il bicchiere dalla mano e lo appoggiò sul comodino vicino al letto, quindi si avvicinò e depose un veloce bacio all’altezza del collo. Proprio come se lo ricordava: era un sapore divino, che ti faceva continuamente desiderare di averne ancora. “Sei strana, Violetta. Strana, ma affascinante. Non ti fare illusioni, non ti risparmierò per questo. Anche se sono sicuro che dopo un po’ la punizione non ti sembrerà poi così terribile” rise freddamente, guardandola dritta negli occhi. Violetta fece un respiro profondo: voleva piangere, voleva urlare, ma doveva cercare di contenersi, o il suo piano avrebbe fallito in partenza. “Non vuoi bere per brindare a questa notte?” chiese, tentando di nascondere il terrore che l’attanagliava. Leon scosse la testa, con un sorrisetto beffardo. “Ho voglia di altro questa notte, qualcosa di molto più dolce del vino” rispose, lasciandole una scia di baci lungo il collo, fino alla guancia. “Molto più dolce” ripeté, sussurrandole all’orecchio. 











NOTA AUTORE: sento già l'odio di voi lettori per come ho interrotto il capitolo xD Perdonatemi seriamente, ma un po' di suspense ci vuole proprio. La trovata di Lena era geniale, ma...non sembra aver funzionato! E adesso che succederà? Leon non sembra affatto intenzionato a fermarsi (come alcuni di voi avevano sperato), anzi...l'unica cosa buona è che sente un'attrazione fisica, ma ancora siamo lontani cento miglia da qualcosa che si avvicini all'amore. E' rimasto certamente turbato da alcuni dettagli di Violetta, come il sapore della sua pelle, che rimane un'ossessione per lui. E anche la scena nella biblioteca quando leggendo il libro datogli da Humpty (più Leonetta di lui non c'è nessuno xD *gli stringe la mano*) in cui si immagina per un secondo lui inginocchiato di fronte a Violetta che le bacia la mano è significativa. Leon comincia a sentire le sue certezza incrinarsi, ma non si arrende, è davvero testardo. Ah, tenete a mente gli incubi di Leon, hanno a che fare con il suo passato, che nel sonno, nell'incoscienza, non lo abbandona per niente, anzi lo tormenta continuamente! Tanti misteri ancora da svelare, ma questi capitoli introspettivi su Leon e Violetta li adoro, non so perché, mi piace approfondirne i pensieri in questo modo. Come sono belli, anche se ancora non c'è proprio da rallegrarsi xD Violetta è contraddittoria (in parte): soffre tantissimo per la condizione che la aspetta, ma rimane comunque affascinata dalla figura del principe, che la attrae in modo unico. E cosa più importante: oltre ad Humpty (che però conosce la storia), lei è l'unica ad aver capito da un solo sguardo che Leon ha qualcosa che non va. Qualcosa che nasconde, e nel prossimo capitolo il suo dubbio si tramuterà in certezza, come avremo occasione di vedere :D Lara è un personaggio negativo, ma non è del tutto cattiva. Anche il suo personaggio è interessante, anche se, giustamente, LO ODIO xD Lena invece è un geniaccio, e con la sua mente fredda agisce senza pensarci due volte. Ecco la nostra Lena, sempre pronta ad aiutare con la sua astuzia! Beh, sui personaggi e sulla storia non ho molto da aggiungere, aspetto di sentire la vostra :D Buona lettura a tutti, e grazie per il vostro continuo sostegno (anche su twitter) :D Alla prossima! ;D E al prossimo capitolo dal titolo: 'Una canzone d'addio o un arrivederci?'! :D

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Capitolo 9
*** Una canzone d’addio, o un arrivederci? ***



 

Capitolo 9
Una canzone d’addio, o un arrivederci?

Violetta deglutì. In quel momento l’unica speranza che le rimaneva giaceva su un ripiano in legno, completamente ignorato dal giovane principe, il cui corpo premeva sempre di più contro il suo. Una lacrima le solcò il viso, rendendosi conto di essere per la prima volta davvero impotente. E sentì montare dentro un odio mai provato per Leon. Si, quel ragazzo stava godendo della sua debolezza, della sua impossibilità di difendersi; le aveva negato la possibilità di giocare ad armi pari, e tutto questo le dava il voltastomaco. “Adesso mi odi…” mormorò con assoluta indifferenza Leon. “Non mi sembra che te ne importi qualcosa in fondo” rispose Violetta, abbassando lo sguardo, affranta. “No, hai ragione, non mi interessa. Anzi rende tutto più divertente. Percepire l’odio nei miei confronti, la paura che provi per me; non c’è niente di meglio”. “Non provi pena per nessuno? Nemmeno per gli innocenti?” chiese, ormai in preda alle lacrime. “Non esistono innocenti; non per me, almeno” rispose freddo il ragazzo, desiderando di porre fine il prima possibile a quella conversazione. Sentiva un fuoco ardergli dentro mai provato prima, un desiderio che andava ben oltre quello fisico. La bocca era secca, e più lambiva dolcemente con le sue labbra il collo di Violetta, più la sete aumentava. Si separò con gli occhi ancora socchiusi, mentre il battito del suo cuore accelerava. Era emozionato, e non riusciva a darsi una spiegazione. “Ho sete” biascicò con lo sguardo spaventato. Violetta lo guardava timidamente, sperando in cuor suo che approfittasse del calice pieno di vino, con il sonnifero. Che cosa gli stava succedendo, ancora non sapeva spiegarselo, ma doveva smetterla di sembrare un bambino impaurito. Lui era Leon Vargas, principe di Cuori, ed erede al trono del regno.
Afferrò il calice con calma e lo sollevò in aria facendolo scintillare. “Sdraiati” le ordinò con gli occhi ridotti a due fessure, evitando di incrociare il suo sguardo. “C-come vuoi” rispose, decisa a non far intuire nulla del suo piano. Leon la vide stendersi sul suo letto, e ghignò colmo di soddisfazione. Quella notte l’avrebbe ricordata per tutta la vita con estremo piacere; il momento di debolezza era passato, e di fronte a quella scena si sentì nuovamente pieno di orgoglio e forza. “Domani mattina sarà tutto passato, sempre che non mi desidererai ancora” concluse Leon, alzando un sopracciglio in modo eloquente e trangugiando in un solo sorso il vino rosso. Aveva un sapore più dolce del solito, ma non gli interessava, voleva solo placare quella sete infinita che sentiva dentro. Quella sete che, intuiva, solo Violetta avrebbe potuto fargli cessare. Avanzando lentamente osservò il corpo di Violetta, e per poco non rimase a bocca aperta. Anche attraverso i vestiti riusciva a scorgere la perfezione, l’armonia che governava ogni particolare del suo corpo. Lentamente, senza rendersene nemmeno conto, poggiò le ginocchia sul bordo del letto, sporgendosi verso la ragazza. Poteva avvertire il suo respiro frenetico, e quasi ebbe paura di sfiorarla per timore di rovinarla con la sua corruzione. Adagiò con cura il corpo su quello di lei, stando attento a non schiacciarla e le baciò la guancia con avidità, scendendo lungo il collo, e abbassando una spallina del vestito, per proseguire lungo la spalla. La testa cominciò a girargli, e la vista si fece offuscata. Strano, non pensava che quel vino avesse una gradazione così forte. Poco male, non gli interessava più di tanto. Si avvicinò al suo orecchio ansimando, riprendendo fiato dopo quella lunga serie di baci. “Ti stai divertendo?” chiese ironico, dando un piccolo morso. Violetta chiuse gli occhi e strinse i denti, cercando di sopportare tutto quello, e involontariamente inarcò di poco la schiena. “Non puoi immaginare” rispose fredda, contando i secondi che trascorrevano con una lentezza snervante. Finalmente sentì la presa di Leon allentarsi e il suo corpo fermarsi. Voltò lentamente la testa e si ritrovò a qualche centimetro dal viso del principe, profondamente addormentato. Mentre dormiva sembrava quasi un angelo, e per qualche secondo si perse ad ammirarlo. Ma per quanto potesse essere affascinante, non poteva rimuovere quelle terribile immagini. Non poteva, né voleva, rimuovere il pensiero di quello che le sarebbe potuto accadere. “Te lo sei meritato, Leon. E ringrazia che non ci fosse il veleno là dentro” mormorò, consapevole che il principe non potesse sentirla. Sentendosi schiacciata dal corpo del giovane, portò le mani all’altezza del suo petto e fece leva per spostarlo di lì. Dopo quella che le parve un’eternità, riuscì nella sua impresa, e si alzò dal letto, con il vestito tutto spiegazzato. Si rialzò in fretta la spallina e si avviò verso la porta per uscire, lanciando prima un’ultima occhiata al principe, ancora nel mondo dei sogni. “Una notte indimenticabile, Leon, proprio come volevi tu” sibilò con un piccolo sorrisetto compiaciuto, prima di lasciare definitivamente la stanza.
Lena faceva avanti e indietro per la stanza, riflettendo. Ormai la sua compagna doveva essere già tornata, eppure di Violetta ancora nessuna notizia. Non sapeva che fare, e quell’ansia la stava logorando dentro. Decise di mettere un po’ d’ordine nella stanza, per passare il tempo. Cominciò dai vestiti di Violetta; prese la gonna piena di strappi che indossava il giorno in cui era arrivata al castello, e pensò che era forse il caso di rammendarla. Un foglio ripiegato con cura su se stesso cadde a terra, attirando la sua attenzione. Lo raccolse e subito lo dispiegò attentamente, curiosa come non mai. Cominciò a leggere: note, pentagrammi, musica, parole. Era una canzone, una canzone bellissima. Che l’avesse scritta la sua compagna di stanza? “Y vuelvo a despertar, en mi mundo…” canticchiò a bassa voce, per studiarne la melodia. “Bellissima, questa canzone arriva dritta al cuore” mormorò dolcemente la giovane ragazza, portando il foglio al petto con sguardo sognante. Prima che il padre partisse per la guerra aveva imparato a suonare il piano. Le veniva bene, ci passava intere giornate, alzandosi solo per i pasti e per dormire. Mise il foglietto in una tasca della sua gonna trasandata e mosse le dita in aria come se davanti a lei si trovasse la tastiera del pianoforte.
‘Lena sbagliò ancora una volta una nota, e incrociò le braccia mettendo il broncio. “Stupida nota!” esclamò con voce acuta, alzandosi dallo sgabello e fissando quel piccolo pianoforte adirata. “Che succede?” chiese il padre zoppicando e raggiungendo la sua amata figlia. “Non mi viene la canzone” si lamentò mentre gli occhi si facevano lentamente lucidi. “Forse non l’hai provata abbastanza” ribatté il padre, accarezzandole il capo. “Ma…ma non mi viene!”. L’uomo si passò una mano dietro la testa, grattandola, incerto su cosa dire. Si incantò per un attimo ad osservare il colore dei capelli della figlia, così simile alla sua defunta moglie. Ogni cosa le ricordava Lena, anche la sua passione per la sua musica. E bramava vederla sorridere sempre e comunque, amava poter rivedere il sorriso della moglie attraverso quello della figlia. “Ogni nota è come un cucciolo. Deve essere accudita, coccolata, accarezzata” disse sedendosi sullo sgabello tranquillamente. Lena lo fissava con gli occhi sgranati, in attesa di una qualche magia. Perché era magia quella che produceva suo padre al piano. L’uomo premette un tasto bianco sorridendo, poi diede il via ad una melodia dolce e potente allo stesso tempo. Le dita scorrevano velocemente, quasi Lena non riusciva a stargli dietro con lo sguardo. “Un giorno capirai che la musica è amore, è armonia…”. “E magia” aggiunse la bambina con gli occhi luminosi. “E magia” confermò il padre, dandole un buffetto sulla guancia. “Papà, come si accarezzano le note?” chiese all’improvviso, ricordandosi quello che le aveva detto prima. Sentì una risata roca e profonda: “Lo capirai, figlia mia, è un’abilità che si acquisisce con il tempo”. Lena fece segno al padre di spostarsi, e si rimise al piano a provare con impegno. Voleva imparare a sentire la magia che riusciva a donarle il padre. Voleva imparare ad accarezzare le note, lasciarsi cullare da esse. Voleva volare sui pentagrammi. E l’avrebbe fatto, era un sogno che prima o poi avrebbe realizzato’
Riaprì gli occhi di scatto, leggermente rossa in viso. Un sogno che prima o poi avrebbe realizzato. Non era vero, era stato solo un'illusione. Lei non aveva più toccato un piano dal giorno della morte del padre, anche se sentiva la musica scorrere dentro di lei come fuoco bollente, che non vedeva l’ora di scatenare il suo vigore. I suoi pensieri tornarono subito alla canzone trovata e a Violetta. Un’idea balenò nella sua mente, un’idea folle che però non poteva non mette in atto. Voleva aiutare la sua amica a farla stare meglio, e quella canzone era lo strumento giusto.
Sentì la porta sbattere si voltò di scatto verso l’amica con il fiatone: doveva aver corso per i corridoi di notte. “Ha funzionato” disse molto semplicemente Violetta, buttandosi sul letto, e portando una mano al cuore. Batteva forte per la tensione e l’ansia, e per l’emozione. L’immagine di Leon profondamente addormentato albergava nella sua testa e non voleva saperne di andarsene. L’impulso di sfiorare anche solo per un secondo la guancia del giovane, di potergli accarezzare i capelli l’aveva tormentata durante tutto il tragitto. Avrebbe dovuto odiarlo, disprezzarlo, ma non ci riusciva. Arrossì al pensiero del corpo di Leon sopra il suo, dei suoi baci, e anche se sapeva benissimo che per il principe si era trattato di divertimento, lei aveva sentito qualcosa, come una scossa, e aveva paura che nonostante tutto fosse rimasta completamente affascinata da Leon. “Meno male, allora! Dovremmo festeggiare” esclamò allegramente Lena, con un sorriso compiaciuto. “Cosa intendi?” chiese Violetta, incerta, riscuotendosi di colpo e alzando il busto dal letto, mettendosi seduta. “Domani pomeriggio ho una sorpresa. Mi faccio sostituire nei miei compiti, e ti porto in un posto” rispose con fare misterioso Lena. “Dove?”. “E’ una sorpresa” disse la ragazza, fingendo di chiudersi la bocca con una cerniera invisibile. “D’accordo, come vuoi te” rispose semplicemente Violetta, ristendendosi con lo sguardo fisso sul soffitto. Non poteva essere così autolesionista da innamorarsi di colui che voleva distruggerla, della persona più terribile che avesse mai incontrato. E forse era così; forse non era innamorata. E allora perché non riusciva a togliersi dalla testa il suo profumo e quel volto addormentato che le ispirava dolcezza?
Leon si svegliò con un tremendo mal di testa. Si passò i polpastrelli delle dita sulle tempi, cercando di ricordare cosa fosse successo prima di crollare. Riuscì ad avere solo qualche flash confuso di lui che baciava il collo di Violetta ansimando, ma poi più nulla. Si guardò intorno nella stanza, alla ricerca di qualche indizio, ma non trovò nulla che potesse aiutarlo. La sua attenzione fu poi catturata dal calice che giaceva sul comodino vicino al letto. Gettò la testa all’indietro, sprofondando nel cuscino soffice, e si maledì cento volte. Aveva bevuto quella sera, e probabilmente aveva perso la testa a tal punto da addormentarsi. Violetta gli era scivolata dalle mani come acqua, e questo fatto lo mandava in bestia; lui non perdeva mai, non esisteva in nessun modo. Non aveva nemmeno il coraggio o la voglia di uscire da quella stanza, dopo quella sconfitta vergognosa. Leon Vargas, principe di Cuori, che si addormentava a letto come un bambino di fronte a una bella ragazza come Violetta. Si sentiva un incapace, un inetto. Sentì qualcuno bussare dall’altra parte. “Signorino Leon! Si svegli, sua madre la vuole vedere” esclamò una voce impaurita, che doveva essere quella di Thomas. Leon si alzò di malavoglia dal letto, e con la mano cercò di sistemarsi i capelli scompigliati senza curarsene più di tanto. Si stropicciò gli occhi, ancora un po’ frastornato, e si avvicinò a passo veloce alla porta con gli stessi vestiti del giorno prima. La aprì di scatto, trovandosi di fronte il povero Thomas, che sembrava quasi tremare per la paura; gli piaceva fare quest’effetto alle persone, eppure lo innervosiva il fatto che non ci fosse riuscito con una persona in particolare. Violetta al massimo avrebbe potuto ridere di lui, e questo non lo poteva sopportare. Digrignò i denti infastidito, al solo pensiero, quindi richiuse la porta dietro di sé con una forza tale da far sobbalzare il povero Bianconiglio, e si diresse alla sala del trono. Non capiva perché la madre ci tenesse tanto a vederlo a quell’ora, ma una cosa era chiara: non si trattava di una buona notizia.
Jade sbadigliò rumorosamente, lasciandosi assestare l’acconciatura da una serva. Amava i suoi capelli e il suo aspetto quasi più delle sue ricchezze, e ci teneva ad essere perfetta sempre e comunque. Era stata la sua bellezza a permettergli di sposare il re Vargas prima della sua morte, lo sapeva bene. Ma adesso c’era lei al trono e questo era quello che contava. Un altro sbadiglio accompagnò i suoi pensieri. Il portone del salone si aprì rumorosamente lasciando entrare Leon Vargas, in tutto il suo splendore. Ogni particolare di quel ragazzo le ricordava il defunto re, e questo la faceva ribollire di rabbia, perché non poteva sopportarne la vista. “Leon…figliolo” esclamò freddamente, osservando un anello dorato che portava all’indice destro con interesse. “Si, madre” la salutò con altrettanta freddezza il giovane. “Come ben sai, il tuo periodo di riposo è scaduto” osservò alzando lentamente lo sguardo e specchiandosi nel verde inespressivo degli occhi del principe. “Ne sono consapevole”. “Bene, allora capirai che è il momento di scendere sul campo di battaglia”. “Come desiderate, madre” rispose obbediente Leon. Non che gli importasse di partire in guerra, anzi non vedeva l’ora di lasciare quel castello. Amava combattere. Lanciarsi nella mischia, sentire l’adrenalina scorrere nelle vene ad ogni affondo con la propria spada, sentirsi invincibile: non c’era nulla di meglio. Sul campo di battaglia lo chiamavano ‘Cavaliere Nero’; la sua sola presenza indicava presagio di morte certa e violenta. La prima volta che era entrato in guerra aveva avuto quindici anni. Il ricordo di quella battaglia, la polvere che si alzava, il ghigno del guerriero che brandiva l’ascia. Un brivido di paura percorse il suo corpo, arrivando al suo cuore, che accelerò i battiti. “Tutto bene, Leon?” chiese Jade con gli occhi sgranati. Aveva visto un’ombra di paura negli occhi del giovane, e non se lo sapeva spiegare. Eppure pensava di aver fatto un lavoro perfetto, pensava di averlo addestrato nel giusto modo. Allucinazioni, si ripeté la donna, schioccando la lingua sul palato. La serva riconobbe quel comando e si affrettò a recuperare un vassoio posto vicino al trono. La regina prese una tartina che c’era su di esso e la mangiò con grazia e il mignolo alzato all’insù. Dopo qualche secondo fece una faccia disgustata, poi sputò tutto sul vassoio posto di fronte al suo viso, che si stava tingendo di rosso per la rabbia. “Cosa è questo schifo?!” urlò. “Signora, ma è il paté di gamberetti che lei aveva richiesto” rispose con tono flebile la giovane serva. “Gamberetti?! Gamberetti?! Io avevo chiesto gamberoni! Esigo che al cuoco venga tagliata la testa!” esclamò dimenandosi con le braccia. “E che la prossima volta impari ad obbedire a un mio ordine. Guardie!” strillò, fino a quando non accorsero due guardie dall’armatura rossa scintillante. “Decapitate il cuoco. E’ un ordine!” ordinò scuotendo il capo furiosa. Le due guardie si guardarono negli occhi confuse, quindi rivolsero un’occhiata a Leon, che alzò le spalle indifferente in tutta risposta. “Sarà fatto, maestà” esclamarono i due uomini all’unisono, prima di uscire dalla sala rumorosamente. Jade, continuò ad inspirare ed espirare con forza, ancora adirata, quindi si rivolse a suo figlio. “La tua partenza è fissata per domani all’alba. Preparati” concluse la regina, congedandolo con un gesto della mano.
Leon uscì dalla sala del trono sospirando rumorosamente. Aveva voglia di andare in biblioteca. Ridacchiò al pensiero delle ramanzine giornaliere che gli avrebbe fatto Humty Dumpty; Humpty era un suo fido amico e consigliere. Per quanto facesse finta di non apprezzare la sua compagnia, in realtà la bramava in continuazione. Lo faceva sentire meno solo, e solo alla presenza dell’anziano bibliotecario poteva ufficialmente dire di essere compreso da qualcuno. Stava per entrare quando vide la porta aprirsi, quindi si nascose appiattendosi alla parete per paura di incontrare Violetta, la ragazza che aveva deciso di evitare per non doversi sentire umiliato più di quanto non lo fosse già. “E’ una sorpresa, ti ho detto!” cantilenò Lena con un sorrisetto uscendo dalla biblioteca. “D’accordo, d’accordo, ho capito, non me lo vuoi dire” scherzò Violetta con una piccola risata. Humpty le seguiva con sguardo apparentemente assente. “Grazie di tutto, Humpty” disse la giovane bionda, saltellando per il corridoio. “Non c’è nessun problema, quella sala non è usata da anni” assentì Humpty. “Comunque sia, per evitarvi guai, mi apposterò all’entrata, quindi potete stare tranquille” le rassicurò con uno dei suoi saggi sorrisi, ricchi di significato. “Io sto ancora cercando di capire, però!” si intromise Violetta, incrociando le braccia e fingendosi offesa. “Dai, tanto ci mettiamo poco ad arrivare al posto della sorpresa” esclamò Lena, alzando le braccia esasperata dalla pressante curiosità della sua compagna di stanza. Leon vide la comitiva allontanarsi lungo il corridoio e decise di seguirli. In realtà non gli interessava particolarmente tutto quello, ma non aveva nulla da fare. Ammettilo che sei curioso, disse una vocina nella sua mente. Mai, a lui non interessava. Ammettilo che non riesci a stare lontano dalla ragazzina, insisteva prepotentemente. Leon si sentì messo in difficoltà da se stesso, ma decise comunque di vederci chiaro in quella faccenda così strana. Cercando di fare il meno rumore possibile e mantenendo una certa distanza, si avviò lungo il buio corridoio, fino a sbucare sulla scalinata che, una volta scesa, portava alla sala d’ingresso del castello. Le due ragazze avevano attraversato l’enorme portone bianco che conduceva alla sala dei ricevimenti. Stava per allungare una mano verso la maniglia, quando…
 “Leon” esclamò con semplicità Humpty sbucando da dietro e facendogli prendere un colpo. Leon si ricompose subito e lo guardò impassibile. “Humpty” lo salutò con un cenno del capo. “Ho saputo della tua imminente partenza, e non posso nasconderti il mio dolore”. “Come sei sentimentale!” esclamò il giovane, esplodendo in una risata glaciale. “Come mai stavi per entrare?” chiese l’anziano, osservandolo maliziosamente. Per la prima volta Leon si sentì colto con le mani nel sacco, e senza una via di uscita. “Io? Entrare?” rispose con indifferenza. “Si, stavi entrando. Che c’è? Sei curioso di sapere cosa vogliono combinare quelle due?” fece pressione l’anziano strizzando l’occhio e dandogli una piccola pacca sulla spalla. “A me non interessa affatto! E’ solo mio dovere controllare che tutto vada nel verso giusto in questo castello” ribatté offeso, incrociando le braccia e facendo qualche passo indietro. “Non c’è niente di male nel voler tornare bambini, nel voler cedere alla curiosità che ci permette di vedere il mondo in modo diverso, le persone in modo diverso”. “ E ora, permetti alla curiosità di innamorarti di Violetta, permetti al tuo cuore di tornare a battere per amore” concluse con un sorrisetto, poggiando la mano sulla maniglia, e aprendola di poco in modo da lasciare uno spiraglio.
“Lena, ma che ci facciamo qui?” chiese con voce tremante Violetta, avanzando timorosa fino al centro della stanza circolare. Quell’enorme salone le dava un senso di perdizione. Un lampadario di cristallo splendeva lucente sul soffitto, mentre la pareti dorate e di marmo bianco mettevano in risalto lo sfarzo e l’eleganza del luogo. Lena però procedeva sul fondo della sala dove si trovava un enorme vetrata trasparente che dava sulla parte posteriore del giardino che circondava il castello. A fianco, sulla destra, un pianoforte nero giaceva inutilizzato. La ragazza si voltò con un sorriso quindi le fece cenno di proseguire. “Si può sapere cosa hai intenzione di fare?” la interrogò nuovamente, sempre più confusa. Lena si sedette al piano e tirò fuori un foglietto di carta ripiegato, che suscitò un’esclamazione stupita dell’amica. “C-Come l’hai…dove…non capisco” balbettò Violetta, arrossendo violentemente. “Dovresti imparare a nascondere meglio le tue canzoni” disse Lena ammiccando, per poi cominciare a suonare incerta le prime note. Non appena sbagliò ritirò la mano affranta e si incupì di botto. “Che ti succede?” chiese la ragazza, vicina, sedendosi sullo spazioso sgabello. “Io…è tanto che non suono. Non sono molto brava, ma ci tenevo tanto a farti una sorpresa”. Violetta sorrise, quindi prese la mano di Lena e la riavvicinò alla tastiera. “Riprova” la incoraggiò. “Solo se tu canterai questa bellissima canzone” propose la giovane, recuperando il suo sorriso contagioso. “Affare fatto” disse Violetta, stringendo la mano della sua amica, e alzandosi in piedi. La musica partì e il ricordo di quando aveva composto quella canzone riemerse come se la stesse riscrivendo in quel momento esatto. Incomprensione, riscoprire se stessi, il desiderio di riprendere in mano le sorti della propria vita, di vivere nel vero senso della parola, tutti sentimenti che riempivano quelle note, che riecheggiavano su ogni pentagramma, su ogni parola. La voce le implorava di uscire per accompagnare la melodia riprodotta con tanto impegno da Lena. E uscì, in modo inaspettato, ma uscì.
Leon non se l’aspettava. Non si aspettava di avere quella reazione. Non per Violetta. Non appena la ebbe sentita intonare le prime parole, il suo cuore si fermò all’istante; i suoi occhi non potevano smettere di rimanere ammaliati, le sue orecchie lo imploravano di entrare nella stanza per bearsi ancora di più di quella voce melodiosa, unica, al di là di ogni sua più grande aspettativa. Il piede destro si mosse leggermente in avanti, attratto come una calamita.
‘Y vuelvo a despertar en mi mundo
Siendo lo que soy
Y no vai a parar ni un segundo
Mi destino es hoy’
Humpty lo stava guardando in modo strano. Lo sapeva, lo aveva capito sin da subito che Leon era diverso da quel che voleva far credere. Quelle pupille dilatate per lo stupore, quell’espressione completamente rapita, non potevano più mentirgli. “Ti piace la canzone?” sussurrò all’orecchio del principe. “Non…non è niente di che” rispose con un fil di voce Leon, mentre il suo corpo la pensava in modo diverso. I brividi che attraversavano il suo corpo, si trasferirono velocemente alle sue mani. “E’ molto bella invece” lo corresse l’anziano con una risatina. “Se lo pensi perché hai chiesto il mio parere?” ribatté infastidito il principe. Humpty fece finta di non aver sentito: “E che ne pensi di Violetta?”. “Non vedo cosa c’entri Violetta” ribatté con durezza, scostandosi di poco per guardare negli occhi il suo interlocutore. Il bibliotecario sorrise beffardo “Leon, ti piace, te lo leggo negli occhi”. “Sei un pazzo se lo pensi!” esclamò Leon, questa volta adirato. La canzone cessò e con essa le emozioni che aveva provato. Era tornato il vecchio Leon, ma in quei cinque minuti si era sentito strano, diverso. Non capiva perché la musica fosse finita, lui voleva ancora sentire, non riusciva a farne a meno. Voleva sentire la sua voce, la sua meravigliosa voce, che aveva risvegliato qualcosa nel suo animo. Deglutì leggermente, e si rivoltò per dare un’occhiata dalla porta, ormai completamente aperta. E si rese conto che era stata proprio la sua presenza ad aver interrotto l’oggetto del suo desiderio. Violetta l’aveva visto ed aveva intimato alla compagna di smettere di suonare, facendo piombare tutto nel più grigio e cupo silenzio. Il terrore dipinto sul suo viso gli riportò alla mente ciò che gli aveva fatto. Non se ne era pentito: la temeva, la odiava. E quello non poteva essere scambiato per amore; lui non provava amore. Violetta e Lena lo raggiunsero all’entrata, sconvolte. Non sapevano in che modo e perché le avrebbe potuto punire, ma sapevano che avrebbero corso dei brutti guai. “Io devo andare. Lena puoi aiutarmi con alcuni libri pesanti?” chiese Humpty, prendendo il braccio della serva, senza attendere una risposta, e trascinandola via per il corridoio che portava alla biblioteca.
Erano rimasti solo loro due, in un silenzio reverenziale. Violetta teneva gli occhi bassi, arrossendo per l’imbarazzo e la vergogna. Non riusciva a guardarlo, senza pensare a quello che era successo tra di loro, e senza odiarlo di conseguenza. E invece non voleva odiarlo, voleva solo capire cosa nascondesse quel ragazzo, voleva capirci qualcosa di più sul suo passato e sul suo presente. “Non ho intenzioni di punirvi. Per conto mio, non avete fatto nulla di grave” esordì Leon, dopo aver tossicchiato. “A cosa dobbiamo questa sua grazia?” chiese ironicamente Violetta, suscitando in lui un fastidio mai provato. Non si era mai sentito parlare in quel modo, e voleva fargliela pagare, ma aveva preso la decisione di non infastidirla più, per non dover subire ancora una volta un’onta come quella della notte passata. “Nessun motivo in particolare. Volevo solo…”. Si bloccò all’improvviso; ghignò momentaneamente e poi riprese a parlare. Aveva bisogno di sentire l’odio che quella ragazza provava per lui, voleva sentirglielo dire, e non sapeva per quale motivo ma già gioiva al pensiero. “Domani parto per una campagna militare” esclamò, suscitando la preoccupazione di Violetta. “Io…non lo sapevo, mi dispiace. Spero solo che voi possiate…”. “Morire? Lo puoi dire, non sai quante persone si augurano la mia morte; penso sicuramente tutti gli abitanti del regno. Uno più, uno meno non fa alcuna differenza” asserì, scoppiando a ridere. Violetta non seppe come riuscì a farlo, non sapeva cosa gli fosse successo, ma istintivamente allungò la mano, verso il suo viso, come se volesse accarezzarlo, ma la mano rimase in aria, fermata dallo sguardo di disapprovazione del principe. “Spero solo che possiate tornare sano e salvo. Non provo odio per voi, Leon, solo compassione”. Come previsto, Leon si adirò come non mai, e i suoi occhi si infiammarono: “Compassione?! Te la puoi tenere per te, la tua compassione. Se morirò, lo farò da guerriero. Se vivrò, spero solo di non dover più tollerare la tua presenza e la tua insolenza!”. Con queste ultime parole, il giovane girò i tacchi, evitando lo sguardo seriamente preoccupato di Violetta; preoccupato per lui. Mentre percorreva il corridoio che portava alla sue stanze, le parole di Violetta non gli lasciavano tregua. “E’ preoccupata per me…” mormorò tra sé e sé. “Anche dopo tutto quello che le ho fatto”. Come poteva quella ragazza perdonargli tutto? Come poteva augurargli la vita, quando lui aveva cercato di rovinargliela? Soffriva. Soffriva come mai aveva sofferto da tanto tempo. La odiava con tutto il suo cuore, perché stava riportando alla luce un Leon che aveva cercato di seppellire. “Spero di morire, Violetta. Spero di non dover più sostenere il tuo sguardo” sussurrò davanti alla sua stanza, aprendola con furia e rifugiandosi al suo interno. Per riflettere…e prepararsi per l’imminente partenza.
Violetta non capiva. Leon era stato freddo con lei, ma non l’aveva provocata, non l’aveva ferita come invece aveva fatto altre volte. Non sapeva spiegarselo, ma sembrava che qualcosa in quel ragazzo stesse cambiando e forse era merito suo. Era in camera sua, stesa sul letto e fissava il soffitto. Ripensò a quando aveva cantato con Lena, e ricordò l’espressione sorpresa di Leon, sperduta. Sembrava quasi un bambino sorpreso mentre mangiava della marmellata di nascosto. “In fondo sembra così dolce, quasi un bambino” le scappò a bassa voce mentre ci ripensava. Scosse la testa vigorosamente: Leon aveva cercato di essere il suo carnefice, non aveva cuore, era un mostro. O forse questo era quello di cui si voleva convincere. Perché giudicare era più facile di conoscere, come condannare era più facile che perdonare. Ma la curiosità ancora una volta prevalse: e se lei non avesse mai conosciuto il vero Leon fino a quel giorno, fino a quando non aveva letto il profondo dolore nei suoi occhi mentre la ascoltava cantare? 










NOTA AUTORE: Scusate, sto attraverando un po' di problemi in questo periodo, infatti, non mi tratterrò nella nota autore. Purtroppo è un brutto periodo dal punto di vista psicologico. Sto soffrendo di attacchi di depressione, e mi trovo in difficoltà per molte ragioni, ma ok, non voglio attaccarvi un pippone sulla mia vita (da schifo). Parliamo del capitolo, perchè nonostante tutto amo troppo scrivere ed è l'unica cosa che mi mette di buonumore. Parlando del capitolo, è uno dei miei preferiti. Sarà perchè si vede un piccolo cambiamento in Leon, sarà perché i due si stanno lentamente avvicinando, per quanto ne siano inconsapevoli, insomma, non so, mi piace davvero tanto. La storia di Lena poi mi fa impazzire, quel flash l'ho trovato dolcissimo, proprio come lei in questo capitolo :3 Insomma, amo poco il personaggio di Lena xD Per quanto riguarda Leon, finalmente il giovane principe avverte la crisi! Per un momento era il vero Leon, per la durata di quella canzone. E ormai è evidente che si sta innamorando di lei. Ho sempre gli occhi lucidi quando leggo di quella scena, quella in cui la sente cantare. Boh, mi commuovo facile, lo so, ma è così dolce come scena :3 Vabbè, passando avanti i due hanno un piccolo diverbio, che però li turba. Leon si sente in difficoltà ed avverte una cosa mai provata prima, il senso di colpa. Violetta è sempre più sicura che Leon si nasconda dietro una maschera, e vorrebbe saperne di più. Ma adesso Leon deve partire per una campagna militare...che succederà? Chiedo perdono per non aver risposto alle ultime recensioni, ma appunto, non sto messo bene in questo periodo, e non ce l'ho fatta. Mi dispiace, volevo comunque dire che ho letto le recensioni e sono bellissime, grazie davvero *O* Beh, non aggiungo altro, buona lettura a tutti, e alla prossima ;D 

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Capitolo 10
*** Il Duo di Picche ***




Capitolo 10

Il Duo di Picche

Maxi camminava per la Foresta Centrale. Era costretto ad attraversarla se voleva raggiungere il regno di Picche nella speranza di ottenere riparo e protezione. Aveva paura, era solo, me il desiderio di sopravvivenza, e la furia dettata dalla vendetta, non gli permettevano di fermarsi se non la notte, per l’eccessiva fatica. Prima di addormentarsi sotto un manto di foglie improvvisato per non finire congelato, stringeva il trifoglio nero e freddo, in un ultimo disperato tentativo di ottenere una qualche forza che lo spingesse a proseguire con la sua scelta. E pregava. Lui, che non aveva mai pregato, aveva scoperto un amore incondizionato per la fede. Forse lo faceva solo per non sentirsi solo, forse la sua era una disperata ricerca di qualcuno che potesse tenergli continuamente compagnia, che gli fosse vicino; ma pregava. E si rifugiava in quelle parole sussurrate senza dover pensare. Il solo salmodiare gli trasmetteva tranquillità, una tranquillità che gli rinfrancava spirito e corpo. Prese la custodia con la spada nera al suo interno, e la fece passare sotto il manto erboso, fissando gli sprazzi di cielo visibili, confortato dalle sole luci di alcune sparute stelle. Sono solo, pensò Maxi. Solo al mondo, e senza più nessuno. Nessuna famiglia, niente radici. E un albero senza radici alla prima scossa sismica crolla miseramente per quanto maestoso possa essere. Aveva bisogno di qualcuno, di uno scopo per continuare a vivere. Poteva continuare a nutrirsi di vendetta e rancore? Se lo avesse fatto sarebbe diventato ancora peggiore di coloro che avevano appiccato fuoco alla sua casa, spedendo all’aldilà i suoi amati cari. Ma non riusciva a desistere dal suo proposito di uccidere la fonte di tutto quel male: la regina Natalia. Si sentiva lacerato e non riusciva a prendere una decisione. Non vedeva l’ora di raggiungere il regno di Picche; almeno una volta giunto lì la situazione gli sarebbe stata più chiara. “Che devo fare? Che devo fare?” si chiese bagnando con le sue lacrime un ciuffo d’erba a stretto contatto con il suo viso, che nell’attesa paziente della rugiada mattutina si impossessò di quelle perle lucide, bramandole con gioia. E con l’angoscia e il dolore nel cuore, Maxi chiuse gli occhi, sprofondando in un sonno profondo, mentre delle lunghe ombre lo circondarono minacciosamente.
Un coltello risplendette con la luce della luna, brandito da un ragazzo dagli occhi scuri come la pece, e capelli corti ma poco curati. “E questo chi è?” chiese una ragazza al suo fianco. “Non ne ho idea…” rispose il giovane, giocherellando con il coltello, senza alcun timore. “Fratellino, cosa ne dobbiamo fare? Lo portiamo con noi? Sembra uno poveraccio” disse una figura alla sua sinistra. “Per ora, limitiamoci ad aspettare il suo risveglio domani mattina, poi decideremo il da farsi” sibilò cercando di non alzare troppo il tono di voce. “Hai ragione, mi sembra l’idea migliore” rispose la figura più distaccata dai due. “E’ ovvio che lui abbia ragione, tonto che non sei altro. Lui è il nostro capo. Stai parlando con tuo fratello, il leggendario Andres” rispose scocciata la ragazza, scostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e guardando con aria sognante il suo capo. La luce lunare illuminò il profilo di un giovane dal fisico atletico, dal viso costantemente teso, e con un vestito da popolano. Sembrava un ragazzo come tanti, non fosse per un inquietante particolare. Ciò che lo rendeva unico era la profonda cicatrice che gli solcava la guancia sinistra, come un marchio maledetto.
Maxi aprì gli occhi, e si ritrovò di fronte tre ragazzi che lo fissavano. O meglio, lo squadravano da capo e piedi dall’alto. Richiuse gli occhi, pensando si trattasse di un’allucinazione dovuta alla fame. Ieri sera non aveva toccato cibo, troppo preso dai suoi pensieri, e adesso sentiva lo stomaco brontolare. “Ehi! Si è svegliato, si è svegliato!” esclamò qualcuno, con una voce un po’ troppo forte e vigorosa per essere un’illusione. Non appena sentì un rumore di passi, scattò in piedi, facendo frusciare la sua coperta di foglie, che si sparsero sul terreno disordinatamente. Tirò fuori la spada dal fodero pronto a combattere, ma l’elsa era troppo pesante per lui. Ancora intontito per il brusco risveglio, diede un colpo alla cieca e cascò rovinosamente a terra, suscitando le risatine di una ragazza. “Dai, smettila di sghignazzare, Libi, non mi sembra il caso” la interruppe una voce seria, anche se comunque divertita. “E dai, Andres, ammetti che è stato divertente!” esclamò la ragazza, piegandosi in due con le lacrime agli occhi. Quella ragazza, che doveva chiamarsi Libi, non era molto alta, ma aveva uno sguardo astuto, e portava a tracolla un arco di legno, che, dall’aria vissuta, doveva essere stato utilizzato parecchio. Libi aveva i capelli castani scurissimi raccolti in una coda, uno sguardo attento e indagatore, occhietti vispi ed espressivi di un marrone chiarissimo. Era bassetta, e un po’ tozza, ma aveva delle belle curve, e un suo fascino da maschiaccio. In particolare ogni due per tre lanciava uno sguardo al ragazzo con una profonda cicatrice sulla guancia sinistra, che aveva chiamato Andres, come in cerca di approvazione. Il ragazzo sulla destra, invece, sembrava un topo da biblioteca: alto, esile, con un paio di occhialetti, e l’aria intelligente. Era quasi completamente uguale ad Andres nei lineamenti, ma non aveva quella strana cicatrice. “E dai, Andres, falla divertire un po’” gracchio l’altro ragazzo, cominciando a fissarsi la punta delle scarpe, intimidito, e sorpreso del suo stesso coraggio tirato fuori in quell’occasione. Andres alzò un sopracciglio con tono eloquente: “Serdna, non volevo che il nostro ospite si sentisse a disagio, tutto qui”. “Tutto bene?” chiese poi, avvicinandosi al ragazzo, ancora a terra, frastornato. Maxi si riportò a fatica in piedi: “Voi chi siete?”. Andres tese la mano con un sorriso non troppo tirato, né troppo disteso; quel giovane sembrava essere il sinonimo dell’equilibrio. “Che domande! Noi siamo la banda di rivoluzionari stanziati in questo bosco per controllare i movimenti dei Regni nemici a quello di Picche” spiegò Serdna aggiustandosi gli occhialetti. Libi si avvicinò al ragazzo e gli diede una scappellata: “Idiota! Non devi dire a tutti chi siamo e che facciamo. Potrebbe essere una spia…”. “Lo portiamo con noi al campo” la interruppe Andres, pensieroso. Libi aprì la bocca per parlare: “Ma Andres, ti ho detto che potrebbe essere una spia! Ha anche una spada di neranio, di quelle che vengono date ai Cavalieri di Fiori!”. Maxi corrugò la fronte: non che ci avesse capito molto in generale, certo era che quella ragazza sembrava una testarda in piena regola. Aveva l’impressione di essere incappato in qualcosa più grande di lui, e loro gliene avevano dato conferma: una banda di rivoltosi, al servizio del regno di Picche. Qualcosa gli diceva che se avesse cercato di fuggire Libi l’avrebbe steso con una delle frecce nella faretra che portava sempre a tracolla insieme all’arco. “E’ dei nostri. Non ho dubbi” sentenziò Andres, tendendo la mano a Maxi. “Non so chi sei, né perché sei qui. Ma il destino a volte fa delle scelte senza interpellarci, e questo sembra il tuo caso. Leggo il dolore nei tuoi occhi. Tu, come noi, hai perso qualcosa, qualcosa che non potrai mai più recuperare. E forse mediti vendetta, come abbiamo fatto tutti noi…ma c’è qualcosa che noi possiamo fare, qualcosa che non ci debba rendere meno uomini di quelli là” esclamò indicando fuori dalla foresta in direzione dei tre Regni di Fiori, di Quadri, di Cuori. “Noi siamo migliori di loro, non ci abbassiamo al loro livello. Combattiamo per un mondo migliore, per un futuro senza fazioni, né guerre. E so che in fondo tu vorresti essere dei nostri e…”. Maxi lo interruppe , portando la mano in avanti con il palmo rivolto verso Andres. Sapeva dove voleva arrivare, e la sua risposta era no. Era una faccenda troppo grande per un povero contadino. “Grazie, ma rifiuto. Non voglio avere problemi, adesso voglio solo raggiungere il Regno di Picche” si scusò Maxi, alzando le braccia in aria. “Lo sapevo. Si tratta di una spia” sibilò Libi, preparando l’arco. Andres la fermò con una sola occhiata infastidita, quindi tornò a fissare il giovane: sguardo determinato, fisico non troppo muscoloso, ma nemmeno troppo esile. “Perdonala. E’ una ragazza che non si fida molto degli sconosciuti” esclamò Andres alzando le spalle. “Quindi…posso andare?” chiese Maxi, tremando come una foglia. “Se lo vuoi, certo. Non saremo noi a fermarti, ma ne sei proprio sicuro? Sai già cosa farai una volta arrivato al Regno di Picche?” si intromise Serdna, interessato.
No, non lo sapeva. Diavolo, si sentiva continuamente costretto a prendere una sola strada, trovandosi le altre inaccessibili. Unirsi a quello strano gruppetto non gli andava a genio, ma sentiva di non avere altra scelta. Cosa avrebbe fatto una volta giunto alla corte di Picche? Se anche fosse riuscito ad ottenere un’udienza, nessuno avrebbe potuto fargli giustizia. Ma con Andres e gli altri, la giustizia se la sarebbe fatta da solo. Ed era tutto ciò che voleva. Non gli interessavano le questioni politiche, i giochi di potere tra i vari Regni. Tutto ciò che voleva era vendicare la memoria della madre e del nonno, ormai ne era consapevole. Ideali? Non sapeva cosa fossero. Libertà? Era un concetto troppo elevato per un giovane contadino. Giustizia? Non esiste la giustizia universale, esiste solo quella individuale, e lui non desiderava altro che farsi giustizia. Dopo quelle brevi riflessioni, alzò il capo tenuto chino con uno strano luccichio negli occhi: “Ci sto”. Libi e Serdna lo squadrarono, sorpresi di quel repentino cambio di idea, mentre Andres semplicemente incrociò le braccia silenzioso. “Bene. Allora, sei dei nostri. Benvenuto nella fazione dei rivoluzionari chiamato anche ‘Duo di Picche’. Ti troverai bene con noi, ragazzo!” esclamò con un sorriso, dopo qualche minuto. Maxi annuì poco convinto. Era ufficiale: aveva iniziato la sua vita da fuorilegge. E anche questa volta non aveva scelto, anche questa volta, come in passato, si era sentito costretto.
L’accampamento della fazione era situato nel folto della foresta, per non essere facilmente localizzato dalle truppe nemiche. Tra gli alberi con le loro fronde basse, Maxi si ritrovò di fronte ad una palizzata di legno, con delle torrette dove alcuni ragazzi facevano costantemente la guardia. Avevano più o meno la sua età, forse alcuni erano anche più giovani, e già impugnavano un arco come se niente fosse. “Tutti volontari” rispose Serdna, prima che lui potesse porre la domanda. Andres avanzò sicuro come sempre, e fece un cenno con la mano per farsi riconoscere dalle sentinelle. Un ragazzo dai capelli biondi e con un elmetto in testa, fece un cenno d’assenso e diede l’ordine di aprire le porte per lasciare entrare i nuovi arrivati. Maxi camminò molto lentamente, sempre più confuso, e scombussolato da tutte quelle novità.
L’interno dell’accampamento era proprio come lo immaginava. Numerose tende dall’aria umile erano piantate qua e là, mentre alcuni dei rivoltosi erano riuniti intorno a dei focolari a giocare a carte oppure con i dadi. Erano tutti ragazzi, con la luce della speranza negli occhi, con la consapevolezza che sarebbero potuti essere uccisi da un momento all’altro. Eppure ridevano, scherzavano e si spalleggiavano come nessuno. Maxi si chiese come fosse possibile, non riusciva a comprendere tutto quell’ottimismo e cameratismo in una situazione del genere. “Ehi, Libi, una lotta amichevole?” esclamò un giovane ad alta voce, con una lancia in mano. “Non vorrei spezzarti un braccio come l’ultima volta” rispose lei, ridacchiando; sembrava molto più rilassata all’interno di quel campo. Continuarono ad avanzare lungo alcune vie polverose che delimitavano determinate zone dell’accampamento, fino a raggiungerne praticamente il centro. Andres quindi si fermò di fronte a una tenda molto modesta, sbadigliando sonoramente: “Io penso mi concederò una o due ore di sonno, dato che stanotte abbiamo fatto veglia”. “Non ti preoccupare, mi occupo io di dare gli ordini per i cambi” si affrettò a tranquillizzarlo Libi, scattando come una molla. “Grazie, Libi, grazie davvero” la gratificò Andres, per poi avvicinarsi alla ragazza, depositandole un bacio sulla sua guancia, arrossata già solo per la vicinanza. Andres si voltò stiracchiandosi ed entrò nella sua tenda. “Io vado a fare qualche pianta delle nuove aree scoperte di questa foresta” esclamò il gemello di Andres, allontanandosi in fretta e furia.
Maxi e Libi continuarono a camminare in silenzio, quando il ragazzo decise di rompere la tensione che si stava creando. Era sicuro che Libi ancora non si fidasse completamente di lui, e d’altronde non la biasimava: anche lui non si sarebbe fidato di se stesso, se si fosse trovato con quella spada nera in mano. “Quindi…questo è l’accampamento” esordì con un po’ di imbarazzo rivolgendo lo sguardo in aria. “Già” rispose secca la giovane, mettendolo a tacere. Ma non si voleva arrendere: “Come fate a procurarvi da vivere?”. La ragazza si fermò seria e scocciata: “Abbiamo dei campi coltivati con piante selvatiche e tanto altro. Hai finito?”. “Semplice curiosità” borbottò Maxi, risentito. Libi gli si parò di fronte e gli poggiò una mano sul petto con sguardo fiero. “Senti, carino. Io non mi fido di te, né mai lo farò. Non so come hai fatto ad abbindolare Andres, ma con me non funziona. Prima o poi capiranno che io avevo ragione e che tu ci porterai solo guai” sibilò, prima di voltarsi di scatto. “La tua tenda è in fondo. Goditi la tua breve permanenza” concluse, per poi allontanarsi a passo svelto, e dirigersi verso la grandiosa palizzata difensiva. Maxi abbassò lo sguardo, affranto: non era proprio l’accoglienza che sperava di ottenere. Senza volerlo si era già creato un nemico. Sfiorò il tessuto ruvido della canapa che costituiva la tenda. “Ma come ci sono finito fin qui…Fino a ieri ero in viaggio per il Regno di Picche. E poi chi sono questi rivoluzionari?! Io non so niente di loro…potrebbero anche essere dei semplici ladruncoli. Ho agito troppo d’impulso” si disse Maxi, entrando nell’accogliente e modesta abitazione. Il tessuto spesso della tenda, rendeva l’ambiente interno tiepido, e gli metteva sonnolenza. In fondo quella notte aveva dormito malissimo e il giaciglio che si trovava ai suoi piedi  lo tentava terribilmente. Non succederà nulla di male, se mi faccio un sonnellino, pensò il ragazzo, accovacciandosi e tirandosi le coperte sopra un cumulo di fieno, con un telo sopra. Una volta sveglio, avrebbe cercato Serdna, e gli avrebbe chiesto qualche informazione. Quel ragazzo sembrava il più disponibile dei tre ad esaudire questa sua richiesta, e non vedeva l’ora di avere tutto più chiaro.
Erano passate appena due ore e Maxi era nuovamente in giro per l’accampamento, alla ricerca della tenda di Serdna. Si fece dare le indicazioni da un volontario che stava affilando un pugnale lucente, che gli segnalò con lo sguardo una tenda rossa fuoco, diversa da tutte le altre. Il giovane ringraziò, quindi si fermò di fronte a quella sgargiante abitazione. “C’è nessuno?” chiese ad alta voce il giovane. “Se stai cercando Serdna, è fuori l’accampamento” disse una ragazza di passaggio, con alcuni ciocchi di legno stretti tra le braccia. “Grazie mille” rispose il giovane, grattandosi il capo. La ragazza intuì i suoi dubbi e sorrise gentilmente: “Esci dall’entrata est, e prosegui dritto sul sentiero. Quando avrai incontrato un masso che non ti permette di andare avanti, sulla destra ti troverai una parete rocciosa, e un manto d’edera che ne ricopre una parte. Lì devi cercare un passaggio nascosto, e troverai Serdna. Si nasconde sempre lì quel geniaccio”. Maxi annuì, facendo capire che gli era tutto chiaro, quindi decise di andare a dare un’occhiata. Seguì alla lettera le indicazioni, e percorse la strada che lo portava all’uscita est. La vegetazione fuori dall’accampamento era talmente fitta da nascondere le palizzate di legno: in tal modo quella zona era completamente mimetizzata. Ecco perché non sono ancora stati spazzati via, pensò Maxi. Quella foresta era la più grande di tutto il Paese delle Meraviglie, e non doveva essere ancora stata esplorata completamente. Si trovava proprio nel bel mezzo del Paese ed era un punto di passaggio per tutti e quattro i regni, quello meno utilizzato in verità, proprio per la sua natura selvaggia. Durante la guerra, però, le truppe delle due fazioni, per passare inosservate da un regno a un altro, approfittavano della neutralità e dell’inospitalità di quella zona. La vegetazione era tropicale e lussureggiante, e le piante diffondevano i loro rami e il loro verde come se volessero continuamente conquistare terreno. Alcuni rami finivano per intrecciarsi ad altri, creando delle vere e proprie reti ingarbugliate. Il ragazzo decise di seguire il sentiero fangoso, per non correre il rischio di perdersi, e si destreggiò senza però riuscire ad evitare qualche graffio lungo le braccia e lungo le gambe. Finalmente si ritrovò a camminare con al fianco due pareti rocciose che delimitavano il sentiero, e il terreno si fece più molle ancora, segno che l’umidità stava crescendo. Quando si parò il famoso masso, impedendogli di proseguire dritto, Maxi si mise a tastare sulla sua destra tra i rampicanti alla ricerca di un passaggio. Finalmente il ruvido e spigoloso ricoprimento di rocce di vario genere, tutte tendenti al marrone scuro, lasciò lo spazio all’aria. Scostò velocemente il rampicante e vide un passaggio stretto, una sorta di fenditura. “Ma dimmi un po’ dove devo andare a cercare questo pazzo” sbuffò, prima di intraprendere quell’ardua impresa. Stringendosi sempre di più attraverso la fenditura, la attraversò a fatica e una volta fuori si ritrovò di fronte a una meraviglia della natura. Prima ancora di riuscire a raggiungere il posto, aveva sentito uno strano fruscio, che aveva attribuito a quello delle foglie, ma una volta messo nuovamente piede sull’erba, si ritrovò in una piccola rientranza, completamente circondata da pareti scoscese. Sul fondo una piccola cascata creava quello strano rumore, dando vita a un piccolo laghetto frequentato da qualche pigra papera, dalle piume violacee.
Serdna era seduto a gambe incrociate con numerose carte ripiegate, un foglio appoggiato su alcuni quadernini, e un pennino in mano. Attorno a lui era pieno di colori, e dalla sua faccia concentrata era sicuro che il ragazzo stesse tentando di rappresentare quel paesaggio con un dipinto. “Avvicinati” esclamò alzando appena il capo: anche se di spalle, aveva perfettamente avvertito la sua presenza. Maxi fece come gli era stato ordinato e si sedette vicino a Serdna. “Immagino tu voglia sapere qualcosa in più su di noi” disse con un sorriso amaro. “Immagini bene” mormorò in tutta risposta il giovane, sorpreso dell’incredibile e insospettata capacità intuitiva del suo interlocutore. “Se Tuideldum sapesse cosa sto per dirti” sghignazzò improvvisamente, appoggiando il suo disegno accuratamente sull’erba e fissando Maxi con sguardo indagatore. “Tuideldum?” chiese curioso. “Scusa, volevo dire Andres. Sai, noi siamo gemelli, e usiamo spesso dei nomignoli tra di noi”. “E tu come ti chiami?” domandò nuovamente. “Io sono Tuideldì. Io la mente, lui il braccio. Anche se Andres è un genio nelle strategie militari, di questo bisogna dargliene atto” spiegò sistemandosi gli occhialetti. “Ma non sei qui per questo…Tu vuoi solo sapere cosa lega tutti noi, perché combattiamo. Giusto?”. Maxi annuì nuovamente, leggermente dubbioso. Non sapeva se voleva sapere davvero la verità, non sapeva se voleva aggiungere altro dolore al suo, ma la curiosità prevalse su tutto, anche sul senso di riservatezza che avrebbe potuto riguardare i due fratelli. “Io e Andres siamo due cittadini del Regno di Picche. Ormai sono anni che non vediamo più la nostra famiglia, da quando siamo partiti per la guerra come volontari. All’epoca eravamo dei giovani infervorati da nobili ideali”. “Una manciata di polvere. Gli ideali non esistono, l’ho imparato sul campo di battaglia. In quel posto capisci come l’uomo può davvero diventare una bestia. E il tuo unico scopo non è la libertà, o sciocchezze del genere. Il tuo unico scopo è uccidere per non essere ucciso a tua volta. E senti il conato di vomito quando affondi la lama nel corpo del tuo nemico che ti fissa con gli occhi spenti, un’immagine che non ti abbandonerà mai, nemmeno per un istante, per tutta la vita. Pensi che forse quella persona che hai ucciso è scesa sul campo di battaglia per i tuoi stessi ideali. Non riuscivo nemmeno a piangere in mezzo a quel polverone dall’odore di sangue”. Serdna fissava la cascata con sguardo timoroso, Maxi poté addirittura giurare di averlo visto rabbrividire.
‘Serdna arretrò sul campo di battaglia, mentre il fumo gli permetteva solo di scorgere sagome indistinte. Sentì una mano posarsi sulla sua spalla, e scattò subito, sollevando la spada. “Fermati, Dì, sono io, Del” strillò Andres, fissandolo con uno sguardo inespressivo. Era rimasto scioccato quanto lui dalla durezza della guerra. “Moriremo” ribatté il giovane, lamentandosi come un bambino. Il sibilare delle frecce, in mezzo al campo di battaglia, il cozzare degli scudi e delle spade, quella sinfonia mortale gli martellava il cervello, senza permettergli di recuperare il sangue freddo. I corpi dei feriti, che emettevano lamenti, e dei morti, costituivano degli ostacoli alla libertà di movimento. Andres gli afferrò le spalle e lo scosse facendo tremolare la cotta che indossava: “Non dire scemenze. Noi vivremo”. Gli fece un cenno col capo e lo intimò ad avanzare in quella nuvola.’
“Non vedevo nulla. Sentivo solo urla intorno a me. L’indefinito fa più paura di una morte certa. Andres non sarebbe mai fuggito da un campo di battaglia come un codardo, ma pur di portarmi in salvo e risparmiarmi la vita, corse il rischio più grande di tutti. Tentammo la fuga”.
‘Il bosco era vicino. Mancava solo qualche passo per uscire da quell’Inferno. Improvvisamente un’orda di soldati irruppe verso di loro. Serdna sguainò la spada, ma il braccio gli tremava. Per quanto ci potesse provare non riusciva a combattere: lui non era portato per il combattimento. Perché aveva accettato quell’impresa? Accecato dalle sue stupide idee, aveva pensato di tornare come un eroe. Ma adesso desiderava una cosa soltanto: vivere. Andres si parò davanti a lui con un piccolo scudo rotondo e la lama puntata. “Muoviti, nel bosco, svelto!” lo intimò con una voce fredda. “Ma tu…”. “Io li tengo a bada” lo rassicurò voltandosi per un secondo solamente e rivolgendogli un sorriso. “Ci vediamo tra poco nel bosco. Non ti preoccupare, pensa solo a nasconderti” concluse, tenendo a bada il primo nemico. Serdna cominciò a correre, inciampando numerose volte a causa delle radici delle grandi querce. Non poteva abbandonare suo fratello. E allora perché continuava a correre, come se non sapesse fare altro? No, non poteva lasciarlo lì. Improvvisamente si fermò, quindi si voltò dall’altra parte, e dopo aver fatto un respiro profondo, ricominciò a correre, sempre più veloce. Sentiva la stanchezza impadronirsi di lui e delle gambe, ma non si fermò neppure per un secondo. Quando raggiunse il limitare del bosco, dove si era separato da Andres, rimase impietrito. Andres era steso a terra, ferito, mentre un ragazzo gli puntava contro una spada, con un ghigno malefico. Aveva l’elmo stretto attorno al braccio, sembrava completamente a suo agio in quella bolgia. Improvvisamente alzò lo sguardo imperioso dall’avversario che aveva appena sconfitto. I suoi occhi verdi brillarono maligni. “E ricordati il mio nome…”’
“Leon Vargas, principe di Cuori”. Una voce da dietro interruppe Serdna, e i due si voltarono curiosi. Con lo sguardo cupo, Andres era appena entrato in quella radura. “Leon Vargas, il tuo incubo” ripeté stringendo i pugni. 







NOTA AUTORE: ciao a tutti! Eccomi con un nuovo capitolo, che a me piace abbastanza, devo ammettere :D Ritorniamo alle vicende del nostro Maxi, che fa la conoscenza con Andres e Serdna (Andres scritto al contrario per chi non l'avesse capito xD), i due gemelli, che rimandano ai personaggi Tuideldum e Tuideldì di Carrol :D Due rivoltosi al servizio di Picche, insieme alla dura Libi, personaggio molto affascinante in questa ff (almeno per me xD). Si nota che è cotta di Andres, eh? Bene, bene, sono una coppia dolcissima :3 Ma passiamo oltre. Questo capitolo è molto transitorio, proprio perché ho dovuto introdurre questi personaggio, e l'inizio di una nuova storia per Maxi. Ed eccoci anche al punto che più mi preme sottolineare. Il passato, il presente, e il futuro di personaggi apparentemente scollegati come Maxi e Leon comincia a intrecciarsi, e Andres ne è in questo caso il filo conduttore. Adoro questi intrecci indiretti, sappiatelo xD Ed ecco che ripercorriamo la storia di Serdna e Andres, nel prossimo capitolo scopriremo anche il senso di quella misteriosa cicatrice ù.ù E niente, lascio a voi commenti veri e propri. Vi sembrano descritti bene i caratteri dei personaggi? A me sembra di si, ma se avete critiche o altro, ditemi e sarete ascoltati xD Allora niente, al prossimo capitolo, dal titolo 'Eterni rivali a confronto'. Buona lettura, e grazie a tutti voi che mi seguite/recensite (siete fantastici :D). Alla prossima ;D 

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Capitolo 11
*** Eterni rivali a confronto ***



 


Capitolo 11
Eterni rivali a confronto

“Non è una bella storia da raccontare” esclamò Andres, sedendosi vicino a loro. Maxi, che stava giocando con alcuni fili d’erba, fece oscillare lo sguardo da un fratello all'altro, cercando di capire qualcosa in più su quella situazione. Dove aveva già sentito il nome di Leon? Ma certo, il principe di Cuori! Ne aveva sentito parlare a Fiordibianco; su quel ragazzo giravano parecchie voci inquietanti: un giovane senza cuore, un assassino, uno spietato guerriero. “Che ti ha fatto Leon?” chiese d’un tratto ad Andres, poiché il racconto era stato interrotto. “Ti ricordi quando ti ho parlato di vendetta? Beh, sappi che ti capisco benissimo, capisco il tuo rancore, più di ogni altra cosa. Perché c’è un motivo per cui è nato questo movimento di resistenza. Si, combattiamo a fianco del Regno di Picche per riottenere l’equilibrio e la pace nel Paese delle Meraviglie, ma io ho uno scopo da realizzare. Io devo uccidere Leon Vargas” proferì nel più assoluto silenzio, interrotto unicamente dallo scroscio di acqua proveniente dalla cascata. Maxi rimase in silenzio, osservando la determinazione del giovane, e ammirandone la freddezza, caratteristica che gli era sempre mancata.
‘Andres si voltò per un secondo, giusto per essere sicuro che il fratello si fosse messo in fuga. Mosse lo scudo in avanti, parando il primo colpo venuto da un soldato di Quadri. Ne riconobbe l’armatura, con lo stemma del Regno. Fece un affondo, che però venne abilmente evitato. Doveva riuscire a penetrare la sua difesa, quindi cominciò a parare senza sosta, per elaborare una strategia. Ma prendere tempo in battaglia era un grande sbaglio, lo imparò a sue spese. Un altro nemico accorse, colpendo con una forza tale da farlo sbilanciare. Il rumore assordante della spada che colpiva lo scudo gli trapanò il cervello, mandandolo nel panico più totale. Andres cadde a terra, stringendo ancora il suo unico strumento di difesa, ma uno degli aggressori con un calcio glielo fece volare via, guardandolo con disprezzo.  “Fermi!” esclamò una voce alle sue spalle. Un giovane ragazzo scese da un cavallo nero e dalle corazze argentate. Si tolse l’elmo, sicuro di essere al di fuori del campo di battaglia, privo di pericoli. Il suo sguardo maligno, ma completamente inespressivo, fece accapponare la pelle al giovane soldato, steso a terra, indifeso. “Generale, lo abbiamo colto mentre tentava di scappare” provò a dire uno degli uomini che lo avevano assalito. Leon fece loro segno di tacere, quindi puntò la spada verso il volto di Andres, percorrendone con la punta la guancia. “Uccidimi” sibilò Andres, non riuscendo a sopportare quella situazione di impotenza e debolezza. “Troppo facile” esclamò Leon, affondando la punta della spada nella sua guancia con disinvoltura. I due uomini lo tenevano fermo, mentre Leon continuava a ridere divertito. Il freddo metallo entrò in contatto con la carne calda procurandogli un dolore lancinante, e Andres non riuscì a contenere un urlo. Leon proseguì nel suo lavoro, imperterrito, creando una profonda ferita per tutta la guancia. Quindi allontanò la spada, passò un dito lungo la punta e assaggiò il sapore del sangue di Andres. “Rimarrai vivo. Mi voglio divertire ancora con te. Se adesso ti lascio andare, un giorno ci rincontreremo e sarai abbastanza determinato per volermi uccidere. Perché mi odierai per averti risparmiato la vita” ghignò con lo sguardo basso, mentre un’ombra di odio oscurò i suoi occhi. Lo rialzò di scatto nell’udire l’arrivo di un’altra persona. Un ragazzo simile ad Andres sbucò dalla foresta, e si arrestò terrorizzato. “Alla prossima, allora. Da oggi siamo rivali, mi piace il tuo sguardo determinato e ribelle. Ricordati però che se mai dovessimo rincontrarci ti ucciderò, è una promessa” esclamò, montando in sella al suo cavallo, e ordinando con un gesto della mano alle due guardie di lasciare andare il povero prigioniero. Andres lo guardò allontanarsi a passo rapido, fino a scomparire nella nebbia mattutina. I reduci di guerra da entrambe le parti si aggiravano cercando di salvare più feriti possibili, e solo allora si rese conto dell’atrocità che era stata commessa su quella pianura, ora macchiata del sangue di innocenti. Le lacrime scendevano, mentre ancora a carponi si avvicinò al corpo di uno suo commilitone, freddo. Era un ragazzo come lui, erano tutti ragazzi, mandati al macello per una guerra inutile, che non sarebbe mai giunta alla fine. Le forze si equilibravano troppo perché si potesse concludere a favore di una delle due parti. “Perché, Andres, perché?” singhiozzò Serdna, avvicinandosi al fratello. Come lui, aveva aperto gli occhi; come lui, aveva capito quanto erano stati stolti. Non c’era nulla di bello, nulla di glorioso in tutto quello, solo dolore e morte. “Non lo so, fratello. Ma questo deve finire” esclamò il giovane alzandosi finalmente in piedi e gettando a terra l’elmetto che portava, insieme alla spada. “Noi la faremo finire, con il nostro aiuto”. “Io non voglio più scendere in campo” piagnucolò Serdna, tremando al solo pensiero. “Non lo farai, te lo prometto. Sarò solo io a combattere, e chiunque si vorrà unire a me” lo rassicurò Andres, con un sorriso. Si asciugò le lacrime con il braccio e un sorriso mesto dipinto sulle labbra. Il sangue scorreva liberamente lungo la sua guancia. Quella ferita gli era stata procurata da Leon, uno dei suoi nemici. Era il male racchiuso in una sola persona, ne era convinto. Quello sguardo freddo, quel ghigno soddisfatto, non se li sarebbe tolti dalla testa per tutta la vita. E quel senso di impotenza non l’avrebbe mai più abbandonato. “E’ l’inizio di una nuova era, Serdna, l’inizio della rivoluzione vera e propria” esclamò infine, leccando con la lingua parte del sangue che colava, e sentendone il sapore amaro, come monito per il futuro. La sua promessa sarebbe stata rispettata: avrebbe ucciso Leon con le sue mani.’
Maxi rimase in silenzio alla fine del racconto. Non sapeva che dire, sentiva solo di poterlo comprendere. Provava lo stesso nei confronti della regina Natalia, provava puro e semplice odio. Lui che era sempre stato innocuo e fondamentalmente pacifico, al solo pensare alla regina sentiva il sangue ribollire dentro di sé, insieme all’impulso di stringere forte l’elsa della spada tolta al giovane cavaliere di Fiori. “Si sta facendo tardi” osservò Andres, rialzandosi e dandosi alcune pacche sui pantaloni per pulirli dall’erba. “Libi è stata una delle prima a unirsi a noi. Ripongo moltissima fiducia in quella ragazza piena di risorse. Le affiderei la mia stessa vita” disse, mentre camminavano lungo il sentiero intricato che li avrebbe ricondotti al campo. “So che non ti vede di buon’occhio, me l’ha detto. Dalle tempo, è una ragazza piuttosto testarda” ridacchiò, scostando un ramo all’altezza del viso. “Ti piace quella ragazza, non è così?” domando Maxi, abbassando il capo per evitare lo stesso ramo. Anche se non poteva vederlo in faccia, era sicuro che Andres fosse rimasto imbarazzato da quella domanda. “Che razza di domande!” esclamò, evitando ulteriori interrogatori. Serdna si avvicinò al ragazzo con aria furba: “E’ cotto, il fratello”. “Io non sono cotto di nessuno! E ti ho sentito benissimo!” strillò l’altro, stizzito. “Non c’è niente di male a sentirsi innamorati” sentenziò Maxi, con un sorrisetto malizioso. “Anche perché Libi è cotta di lui, ma nessuno dei due sembra volerlo ammettere” insistette Serdna. “La volete smettere?!” sbottò il capofila, voltandosi rosso in viso. “Non è il momento per pensare all’amore” aggiunse serio. “Sei serioso, Del” parlò Serdna, ricevendo in tutta risposta un ramo in faccia, scaraventatogli dal fratello. “Ahi! Mi hai colpito in pieno” si lamentò, tastandosi il naso dolorante. “Bene, perché era proprio quello il mio obiettivo” ribatté l'altro, soddisfatto della sua azione. Maxi scoppiò a ridere, provocando ilarità in tutti. “Hai la risata contagiosa” sentenziò Andres, con un sorriso rasserenato. “Grazie, me lo diceva sempre anche mia…” ma si bloccò all’improvviso, nel ricordare la voce dolce della madre. “Tua madre?” chiese Andres, voltandosi con sguardo cupo. “Si” rispose secco, Maxi, chiudendosi in un silenzio insormontabile. “Adesso siamo noi la tua famiglia. E non ti abbandoneremo” cercò di rassicurarlo Andres, posando la mano sulla spalla del giovane.
Il falò intorno al fuoco era una sorta di rito giornaliero al campo. Maxi non sapeva come comportarsi, si sentiva scrutato da tutti i giovani volontari, che borbottavano qualcosa sul suo conto. Un nuovo arrivo così inaspettato e improvviso aveva fatto velocemente il giro di tutto l’accampamento. Per di più la notizia della spada nera che portava con sé aveva gettato il dubbio, rinforzato dai commenti di Libi nei suoi confronti. Erano quasi tutti riuniti intorno a un grande fuoco al centro dell’accampamento, quando all’improvviso Andres si alzò dal ciocco di legno su cui era seduto e si mise vicino a Maxi, porgendogli una ciotola con della zuppa fumante. “Non ti preoccupare, so che non sei un traditore, so che sei uno di noi” gli sussurrò all’orecchio, suscitando in Libi un’espressione sconcertata. Tutti rimasero in silenzio, quindi ripresero a banchettare leggermente sollevati. Si fidavano del loro capo, e se Andres era certo che Maxi non fosse un traditore, allora anche loro potevano stare tranquilli. “Perché ti fidi di me?” lo interrogò il ragazzo, visivamente confuso. “Non lo so, mi ricordi tanto me” ammise Andres, immergendo il cucchiaio di legno nella ciotola e dando un boccone veloce. “Mangia finché è calda” lo consigliò caldamente, spazzolando la sua razione come se nulla fosse.
Si alzò per avvicinarsi al pentolone e prenderne ancora, quando Libi lo prese in disparte, afferrandolo per il braccio. “Ehi, calma, calma” ridacchiò Andres, lasciandosi trascinare con un sorrisetto, lontano da occhi indiscreti. “Non capisci!” sibilò arrabbiata, mollando la presa e fermandosi dietro una tenda debolmente illuminata dal falò. “Non capisco cosa?” chiese il giovane, divertito. “Smettila di ridere! Come fai a fidarti di Maxi? Non sappiamo chi è, da dove viene…non sappiamo niente di lui. Potrebbe essere una spia. E quella spada nera…” tentò di spiegare la ragazza, gesticolando eccessivamente. “Ne abbiamo già parlato. Ti ho detto che non c’è da preoccuparsi, Maxi è a posto” ribatté tranquillo l’altro, guardandola dritta negli occhi. “Andres, non ti riconosco, pensavo che fossi un vero leader…” mormorò Libi, non riuscendo a reggere quegli occhi scuri che la scrutavano impazienti. “Ti piace Maxi, non è così?” domandò improvvisamente, senza riuscire a trattenersi. “Ma cosa ti inventi?! Non mi dire che sei gelosa del nuovo arrivato!” disse, senza riuscire a trattenere una risata. Libi, gli diede una spintonata amichevole: “Ridi pure, scemo”. Sembrava molto più rilassata ora che era sicura che tra Andres e Maxi non ci fosse nulla. Non sapeva nemmeno come avesse potuto equivocare così tanto la situazione. “Libi, non mi potrei innamorare di nessuno, il mio cuore appartiene già a qualcun altro” disse, accarezzandole la guancia, estremamente vicino. “D-davvero?” balbettò la ragazza, che ringrazio l’oscurità perché nascondeva il rossore del suo viso. Andres annuì con il capo, facendo sfiorare il naso con il suo, creandole una piacevole sensazione di solletico. Si allontanò di scatto, lasciandola profondamente delusa. “Non avrai davvero pensato che si trattasse di te? Sei più uomo di Maxi!” esclamò, facendole la linguaccia. Libi scoppiò a ridere, una risata amara che nascondeva la sofferenza per quelle parole. Lei sentiva qualcosa di profondo per Andres, ma sembrava che i suoi sentimenti fossero destinati a rimanere sepolti dentro di lei: “Vedi che sei proprio scemo?! Torna dalla tua donna, allora, il cui nome è avvolto da mistero”. “Alla fine di questa guerra, potrei anche dichiararmi” le sussurrò all’orecchio, soddisfatto per averla fatta innervosire. “Attenderò con ansia quel giorno” sbuffò, per niente allegra della cosa. Pensava solo a chi potesse essere la fortunata che aveva avuto la possibilità di ottenere lo spazio nel cuore del giovane, spazio che aveva sempre agognato. Ma per il leader dei ribelli, lei era solo un maschiaccio, un guerriero, un’amica fidata, niente di più. “Quant’è carina quando fa la gelosa” disse tra sé e sé Andres allontanandosi. Era Libi la ragazza per cui provava un forte sentimento, ma si era fatto una promessa: fino a quando quell’incubo non fosse finito non le avrebbe detto nulla. Non era quello il tempo per pensare all’amore. Aveva delle responsabilità, aveva la vita di numerosi ragazzi nelle mani, e non intendeva sacrificarne nemmeno una. “Ti amo, Libi” sussurrò prima di entrare nella sua tenda, mentre sentiva il suono della tromba per il cambio della veglia.
Dopo che Libi e Andres si furono allontanati Maxi consumò silenziosamente il suo pasto, senza farsi coinvolgere in nessuna discussione. In quel momento desiderava chiudersi dentro la sua tenda e dormire per dimenticare. Dimenticare tutto e tutti. Voleva solo ricordare i momenti spensierati passati con la madre e il nonno. Quando si trascinò nella tenda, e si mise sotto le coperte sorrise al ricordo dei momenti in cui era solito dormire nel letto della madre, abbracciandola. Un tepore immaginario lo cullò anche quella notte, perché in fondo lui non sarebbe mai riuscito a separarsi dal passato. Era troppo duro, e c’era qualcosa che non gli permetteva di andare avanti: la vendetta.
Uno squillo di tromba notturno e il rumore di passi e grida svegliò il ragazzo di soprassalto. Era ancora notte fonda, eppure c’era un trambusto incredibile. Sentiva alcuni dare ordini a destra e a manca, urlando a squarciagola. Si alzò a mezzo busto e si stropicciò gli occhi, mentre le fiamme delle torce emanavano barlumi rossastri sul tessuto della sua tenda. “Che cosa…” mormorò, ancora mezzo assonnato, quando qualcuno aprì con forza la tenda: era Serdna. “Sono arrivati” esclamò il ragazzo, con in mano una spada. Stava tremando e il suo volto esprimeva solo terrore. “Arrivati chi?” chiese il ragazzo, non avendo messo a fuoco la situazione. “Siamo stati localizzati. Siamo sotto attacco. Le truppe di Cuori ci stanno attaccando” esclamò. Maxi scattò in piedi, e si fiondò sulla sua spada di neranio, gelosamente custodita. “Andres dov’è?” chiese a Serdna, che in tutta risposta scosse le spalle. “Nel disordine generale, non ho idea di che fine abbia fatto. Non so se riusciremo a resistere all’attacco. Sono troppi, dannazione!”. “Devo andare da lui per aiutarlo” esclamò Maxi, sguainando la sua arma e correndo fuori dalla tenda.
La confusione e il panico regnavano sovrani. Ragazzi ancora non del tutto equipaggiati correvano da una parte all’altra, cercando armi o chiedendo spiegazioni come lui. Un attacco del genere in piena notte non era stato minimamente previsto, anche perché finora non erano mai stati localizzati da nessuno. La loro era sempre stata un’azione di rallentamento e indebolimento delle truppe nemiche che attraversano la foresta, con degli attacchi lampo. Colpivano e poi scomparivano, aiutati dalla natura selvaggia. Ma non si erano mai dovuti trovare a fronteggiare una situazione del genere, e non erano pronti, psicologicamente e strategicamente parlando. Maxi cominciò a correre, senza fermarsi in nessun caso fino a quando non raggiunse le palizzate in legno. In cima ad una torretta Andres stava controllando la situazione. Gli arcieri scoccavano frecce in continuazione nel tentativo di assottigliare il numero di nemici, ma dall’espressione del giovane leader non doveva essere abbastanza efficace. Maxi salì alcune scale in legno e raggiunse la sommità, affiancandosi ad Andres. “Com’è la situazione?” chiese, cercando di mantenere il sangue freddo. “Sono tanti, troppi…” rispose con occhio attento Andres, dopo aver fatto una breve stima. “Continuate con le frecce! Organizziamo un gruppo di resistenza, prima che distruggano completamente le nostre difese!” ordinò il giovane, estraendo la spada e portandola in alto per farsi notare dai suoi compagni. Rimase con l’arma a mezz’aria mentre i suoi occhi si colorarono di odio. In mezzo alle file nemiche sul suo destriero, e una torcia in mano, Leon spronava i suoi uomini, con urla fredde e impartendo ordini ovunque: “Non ci devono essere sopravvissuti, né prigionieri. Solo morti”.
Andres serrò i denti, non riuscendo a muovere nemmeno un muscolo. Eccolo lì, il suo rivale, che irrompeva ancora una volta nella sua vita, cercando di distruggere ciò che aveva con tanta fatica creato. “Non te lo permetterò. Non di nuovo, ti ucciderò” sussurrò, sotto lo sguardo impaziente di Maxi, che attendeva ordini. “Organizziamo una truppa di resistenza per tenerli a bada” urlò, scendendo velocemente dalla torretta e dirigendosi di fronte all’entrata principale. Un gruppo di ragazzi, male armati e con sguardo determinato gli venne incontro preparandosi. Le porte in legno tremavano sotto il rumore dei colpi di spada e delle botte che continuavano a dare i soldati nemici nel tentativo di farle cedere. “Tutti pronti?” chiese il giovane, indossando un elmetto, per darsi un minimo di protezione. “Andres!” esclamò Maxi, mettendosi al suo fianco. “Non sei costretto a combattere” esclamò lui, con un sorriso di gratitudine. “ E poi chi ti tira fuori dai guai?” ribatté l’altro, dandogli una pacca sulla spalla. Andres scoppiò in una risata secca: “Ma per favore! Il novellino crede davvero di saperci fare!”. Maxi abbassò lo sguardo, cercando di non pensare a quel che stava per fare. Il suo primo combattimento. Il rumore sordo del cancello in legno che dava i primi segni di resa si fuse con il battito del suo cuore, con l’adrenalina che gli scorreva nel sangue liberamente, con il tremolio delle mani. Strinse più forte l’elsa per farsi coraggio: voleva davvero aiutare Andres, l’unico che l’aveva fatto sentire amato e stimato. Voleva dimostrargli il suo valore, voleva combattere. Lui era un rivoluzionario, inconsapevolmente, ma lo era diventato, e quella era appena diventata la sua famiglia. “Lasciami Leon, però, quello lo voglio fare fuori con le mie mani, se non crepo prima” scherzò Andres, mentre dalla sua espressione chiaramente si intuiva la paura che lo stava cogliendo. Erano tra le prime file del gruppo di resistenza, il che voleva dire una sola cosa: sarebbero certamente morti.
Un fracasso allucinante annunciò la rottura della barriera, e l’irrompere dei primi nemici. Maxi mosse la sua spada nera scintillante, e colpì il primi soldato, trapassandogli l’armatura e uccidendolo all’istante. Andres gli rivolse un’occhiata eloquente, quindi fu troppo occupato con due soldati piuttosto abili per poterlo valutare nuovamente in battaglia. Leon irruppe con il suo destriero, e al suo passaggio mieteva vittime come se niente fosse, gettando l’intero accampamento nel panico più totale. “Serrate i ranghi! Non rompete le file per nessun motivo!” ordinò Andres, mentre il suo sguardo era puntato sul cavaliere; anche la spada di Leon era nera, come quella di Maxi. Neranio, la sua spada è di neranio!, pensò Andres, mentre evitava un fendente letale. Cercò di avvicinarsi sempre di più al suo unico obiettivo: improvvisamente le urla dei suoi compagni erano solo un suono ovattato, e a lui non importava affatto di quello che stava succedendo. Sentiva solo le parole che gli aveva rivolto Leon durante il loro primo incontro. Il principe scese da cavallo, e si gettò nella mischia, colpendo senza pietà. Ogni volta che muoveva la sua spada, si sentiva il tonfo di un corpo cadere a terra. Finalmente l’aveva raggiunto, finalmente l’avrebbe ucciso, e avrebbe posto fine alla sua vendetta. “Andres! Andres!” lo chiamò ripetutamente Maxi, messo alle strette da alcuni nemici. Per essere alle prime armi Maxi se la cavò abbastanza bene, tranne quando venne assalito da un energumeno, il doppio di lui. Solo il suo collo era scoperto, mentre tutto il resto del corpo era protetto da un’armatura metallica piuttosto resistente. Maxi riuscì a scalfirla come se fosse di plastica, ma il soldato mosse l’ascia in alto pronto a colpirlo, approfittando della sua difesa scoperta. Prima che potesse anche solo chiudere gli occhi pronto a morire, l’uomo si accasciò a terra, con una freccia conficcata nella giugulare. Libi lo guardò da lontano con l’arco ancora teso, poi si voltò e continuo a combattere tirando fuori un pugnale.
Andres si mosse sempre lentamente, come ipnotizzato, fino ad arrivare di fronte al principe, che aveva steso un altro dei suoi compagni. Leon si voltò di scatto, pronto a fare fuori l’ennesimo avversario, quando ghignò divertito. “Ci rivediamo” esclamò con freddezza, preparandosi per il combattimento. Solo un fendente e la spada del leader dei ribelli fu ridotta in frammenti. Quella spada magica era troppo forte, e lui non poteva nulla. Notò che anche l’armatura era nera. Quel guerriero era imbattibile, non poteva essere nemmeno scalfito. E ancora una volta Andres si sentì impotente, completamente impotente. “Ti avevo promesso che ti avrei ucciso” lo risvegliò Leon, con voce impassibile. Alzò la spada pronto a colpire, ma all’improvviso la riabbassò con una smorfia di dolore. Andres nella confusione generale cercò di capire cosa fosse successo, e vide Maxi dietro Leon con il fiatone per la corsa che aveva fatto. L’armatura di Leon era stata incrinata ferendolo superficialmente. “Tu, bastardo!” strillò il principe, voltandosi di scatto, per fronteggiare il nuovo nemico. Quello che successe fu completamente improvviso e inaspettato. Andres raccolse l’elsa della spada frantumata, e di slancio infilzò Leon di spalle, all’altezza della scapola destra, dove vi era l’apertura nell’armatura creata da Maxi. Un urlo disumano riempì l'aria circostante, e un rivolo di sangue uscì dalla bocca di Leon, che cadde a terra, privo di sensi. I soldati delle truppe di cuori, non appena videro il loro leader in quelle condizioni, presi dal panico, organizzarono una ritirata. Due soldati recuperarono il corpo di Leon trascinandolo via, protetti da una sorta di scudo umano. Uno squillo di trombe risuonò, diffondendo ancora più terrore tra le truppe nemiche. Tra il fuggi fuggi generale, e il sospiro di sollievo dei rivoltosi, emerse una figura imperiale, che avanzava sul suo destriero bianco dalle macchie grigie.
Andres si lasciò cadere sulle ginocchia, immergendo il suo volto nel polverone che si era alzato. I corpi dei suoi compagni morti si impressero nella sua mente, mentre il suo sguardo vuoto vagava alla ricerca dei reduci: Libi aveva il braccio che sanguinava, ma nel complesso sembrava stare bene, era solo molto stanca. Maxi era steso a terra, ansimante, cercando di recuperare un minimo di forze. Ma gli altri? Erano pochi i superstiti, ed era tutta colpa sua, del suo desiderio di vendetta. A causa di esso, aveva perso il comando della situazione, mandando i suoi uomini al macello. Non meritava di vivere, non meritava nulla. Cominciò a piangere come un bambino, in preda alla disperazione più profonda. Non era un leader, era solo uno stupido egoista. La guerra non l’aveva cambiato affatto, come invece aveva sempre pensato. “Aiuto…” mormorò flebilmente, senza rendersi conto che qualcuno si era fermato di fronte a lui. Andres notò appena un'ombra sul terreno, quindi alzò lo sguardo. Un uomo sulla trentina dall’aspetto regale, con una spada dorata nella mano, lo guardava ricco di compassione. Gli tese la mano per aiutarlo ad alzarsi, ma Andres non sembrava volerla afferrare. L’uomo non si mosse di un centimetro, fino a che con riluttanza il giovane non accettò. Solo dopo si rese conto di fronte a chi si trovasse, solo dopo comprese chi fosse. Lui non era degno nemmeno di tenergli la mano, infatti la allontanò con forza e si inchinò, maledicendo le lacrime che gli avevano offuscato la vista, non dandogli la possibilità di riconoscerlo. Non era degno nemmeno di baciare le scarpe a quell’uomo, il re di Picche, Pablo Galindo. Ma come mai era lì? Come mai era giunto in loro soccorso? Numerose domande si affollarono nella sua mente, prima che una stanchezza improvvisa non prendesse il sopravvento, facendogli chiudere gli occhi, ormai privo di forze. 









NOTA AUTORE: Capitolo ricco di azione ed emozioni! Altro che capitoli di transizione! Allora, parliamo di questo capitolo, che, effettivamente nel finale da i brividi. Allora, Andres riassume la sua storia, e ci spiega il perché di quella cicatrice. Leon l'ha designato come suo rivale, e le sue parole erano davvero inquietanti! Ma passiamo oltre...Libi era anche gelosa del particolare rapporto di Maxi e Andres, fraintendendo la situazione...che dolce, però :3 Io adoro Libi, e in queste vesti così decise, da maschiaccio, mi piace ancora di più. Non so perché, ma ce la vedo moltissimo in quei panni *O* Andres e Libi sono tenerissimi, e Andres ha suscitato un'immotivata gelosia nella ragazza. Mamma mia, quanto sono belli *O* BATTAGLIA FINALE...questa mi sa che nessuno di voi se l'aspettava, dite la verità. Mamma mia, rileggendola mi sono proprio angosciato per bene xD Leon viene ferito mortalmente, e Andres, accecato dall'ira, non ha saputo mantenere il comando dei suoi uomini, pagandone però il prezzo. E in questa desolazione interviene un personaggio a noi noto, il re di Picche. E' stato lui a venire in soccorso dei rivoluzionari salvandoli del tutto ù.ù Grande Galindo! Speravamo tutti in un tuo intervento (immagino, sopratttutto Dulcevoz, che aveva espresso i suoi dubbi sui rapporti tra ribelli e Picche...come vedi Pablo appoggia in pieno il movimento, ma lo vedremo meglio più in là :D). Ringrazio tutti per le bellissime recensioni e per continuare a seguire la mia storia...come andrà a finire per il povero (anche se è stato un po' cattivello LOL) Leon? Speriamo che sopravviva :S Ci sentiamo nel prossimo capitolo, dove torneremo dalla nostra Violetta. Il prossimo capitolo si intitola infatti 'Il segreto del castello'. Di che si tratterà? Lo scopriremo nel prossimo capitolo xD Grazie di tutto a tutti, alla prossima, e buona lettura! :D 
P.S: Littles, non sono riuscito a modificare la grandezza dell'immagine, perdonami xD (mi veniva strana LOL)

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Capitolo 12
*** Il segreto del castello ***




 

Capitolo 12
Il segreto del castello

Erano passate tre settimane dalla partenza di Leon, ma Violetta ogni volta che attraversava un corridoio immaginava di ritrovarselo di fronte da un momento all’altro. E non sapeva cosa pensare di questa sua fissazione, sapeva solo che in fondo gli dispiaceva non poter più studiare l’espressione del giovane principe, ed anche rimanere ammaliata dalla sua bellezza. Ma di una cosa era certa: ora che aveva capito più o meno come funzionavano le cose in quel castello doveva cominciare a cercare un modo per fuggire e trovare aiuto al di fuori di quelle mura per tornare nel suo mondo. Le mancava suo padre, German, e Olga, con la sua dolcezza materna e con i suoi dolci e biscotti che facevano venire l’acquolina in bocca. Ma come poteva fare? Aveva bisogno di un alleato, qualcuno che potesse darle una mano. Humpty Dumpty? Lui poteva essere un’idea. Doveva tentare.
La biblioteca come al solito era silenziosa, e non volava neppure una mosca. Ogni volta che entrava in quella sorta di santuario aveva i brividi, ma pensò che doveva assolutamente portare a termine il compito che si era prefissato. “Humpty” chiamò a bassa voce, senza trovare però l’uomo-uovo. Cominciò a girare per le librerie, e si voltò verso la panca su cui di solito Leon si sedeva per leggere. Smettila di pensare a quel ragazzo, si costrinse a ordinarsi Violetta, voltandosi dalla parte opposta. Il bibliotecario del castello sbucò da una libreria, arrampicato su una scala scorrevole. “Mi stavi cercando?” chiese gentilmente, scendendo con cura. La scala traballò per qualche secondo, facendogli perdere l’equilibrio, e l’uomo cadde, facendo un piccolo ‘crack’, e rotolando lungo il pavimento. Violetta accorse preoccupata: “Ti…ti sei fatto male?”. Dalla pelle biancastra dell’uomo, all’altezza di dove aveva preso il colpo, uscì un liquido trasparente. “Stupido albume” borbottò, rimettendosi in piedi. “Non fai niente per la ferita?” chiese la ragazza, ancora non del tutto tranquilla. “Oh, non si può fare nulla. Fa parte della natura degli uomini-uovo. Tutto ciò che succede al nostro corpo è definitivo. Non preoccuparti, tra un po’ questo liquido si seccherà e non mi darà più tanti problemi. Questo è il principale motivo per cui sono l’ultimo della mia razza: un uomo-uovo è davvero molto fragile” spiegò l’anziano, dirigendosi verso la sua scrivania. “Ma immagino che tu non sia qui per parlare dei miei acciacchi” aggiunse, passandosi una fascia bianca lungo la ferita da cui continuava a fuoriuscire albume in gran quantità. “Volevo chiederti un favore in effetti…” cominciò Violetta, cercando di prendere coraggio. Non era facile fidarsi di qualcuno là dentro, ma quello strano bibliotecario non le sembrava un subdolo traditore o qualcosa del genere; sentiva di poter parlare liberamente con lui. “Ecco, io…volevo sapere…se qualcuno fosse mai riuscito a lasciare il castello di nascosto” mormorò infine abbassando lo sguardo, e guardandosi le punte dei piedi. “Vuoi lasciare il castello?” domandò l’uomo, con aria cupa. “Si, perché?”. “Perché sai meglio di me che è impossibile andarsene da questo castello, eppure me lo stai chiedendo. Vuoi fuggire a causa di Leon?” la interrogò nuovamente il bibliotecario, sfiorandosi la pelle liscia all’altezza di quello che doveva essere il mento. “No, non è per lui, assolutamente!” si affrettò a rispondere la giovane, arrossendo leggermente. “Violetta, io ti chiedo di comprenderlo. Non di perdonarlo, solo di comprenderlo. Leon non è Leon, non almeno quello che ho conosciuto io, e…lo so, forse ti chiedo troppo”. “Cosa vuoi da me?” chiese Violetta, rialzando gli occhi di scatto. “Tu gli fai bene, gli fai bene più di quanto possa fargliene chiunque altro. Non mi chiedere il perché, ma con te è diverso. Forse tu non puoi rendertene conto, ma io, che l’ho visto in questi ultimi anni, si. Penso che in qualche modo, inconsapevolmente, tu possieda già la chiave del suo cuore, dei suoi pensieri. E ti prego di custodirla gelosamente, di non gettarla alle ortiche; Leon non lo merita” disse Humpty, guardandola supplicante. Violetta arretrò spaventata: cosa intendeva dire? Forse non sapeva di quello che le aveva fatto, forse non sapeva che aveva tentato di rovinarle la vita. “Tu non sai cosa mi ha fatto” sussurrò Violetta, non del tutto convinta. In fondo Humpty stava solo dando voce a quello che già lei pensava, ma ancora razionalmente rifiutava, ossia che potesse esserci qualcosa al di là di quel cuore di ghiaccio che possedeva il principe. “Ti ho già detto che non voglio che lo perdoni; sarebbe sbagliato e contro natura. Ti chiedo di capirlo, ti chiedo di restargli accanto nonostante tutto per aiutarlo. Forse ti ferirà, ti farà del male, non necessariamente fisicamente, ma lui ha bisogno di te. Se non sei pronta puoi non accettare, noi tutti lo capiremmo, io per primo. Ti sto chiedendo troppo, troppo per una giovane ragazza” sospirò il bibliotecario. “Si, mi stai chiedendo troppo” confermò la giovane, stringendo forte i pugni e ripensando al rancore che nutriva nei confronti di Leon. “Non mi aiuterai?” aggiunse subito dopo, con le lacrime agli occhi. “No, non lo farò. E non perché non voglia farlo, ma perché non posso” ripeté Humpty, voltandosi di scatto, afflitto. Sapeva di aver chiesto troppo a quella ragazza, ma doveva provarci, non poteva lasciare che le cose rimanessero immutate, non ora che aveva scorto un piccolo cambiamento in Leon. Violetta fuggì via, trattenendo le lacrime: la sua unica speranza si era dissolta. Ma non era solo questo a turbarla: le parole di Humpty non erano state semplici parole per lei, le avevano toccato il cuore, e adesso, sentiva che Leon non era chi si mostrava. E non era più solo un dubbio il suo, adesso si trattava una salda certezza.
Quel pomeriggio doveva spolverare la sala dei trofei, accompagnata da Lara. Non sopportava dover condividere dei compiti con lei, soprattutto perché la ragazza si divertiva a comandarla a bacchetta, solo perché era quella appena arrivata. “Mi raccomando spolvera bene quelle medaglie” le ordinò nuovamente Lara con aria di superiorità. Violetta annuì: non ci teneva a farsi una nemica all’interno di quelle quattro mura, anche se sospettava che la giovane serva ce l’avesse già con lei per qualche strano motivo, forse perché sapeva che lei si era presentata nelle stanze del principe in piena notte. Che si sentisse minacciata? Si avvicinò a un piedistallo con un busto in marmo intorno al cui freddo collo erano state sistemate numerose medaglie d’oro e d’argento. Cominciò a lucidarle con uno straccio, attenta a non fare danni. Come se non fosse contenta del risultato ottenuto, Lara si avvicinò a Violetta, con le mani sui fianchi: “So bene cosa state cercando di fare tu e le tua amichetta”. La ragazza, che fino a quel momento era stata troppo presa dal suo compito, si voltò titubante: non aveva intenzione di iniziare una discussione, ma riteneva tutto quello assurdo. “Non so di cosa stai parlando” disse in fretta, per poi rigirarsi. “Lo so io, però. E non fare l’innocentina, avevo capito fin da subito che nascondevi qualcosa” esclamò acida Lara, mettendosi di fianco al busto, nervosa. “Io…devo lavorare” la interruppe Violetta, cercando di mettere fine a quelle accuse completamente inventate. “E comunque quella sera con il principe non è successo nulla” aggiunse subito dopo, decidendosi a fissare Lara dritto negli occhi, e tenendo testa alla sua espressione di sfida. “Davvero? Conosco Leon meglio di quanto tu possa immaginare” disse con un ghigno, “E so che non è tipo che fa venire una ragazza in camera sua per fare quattro chiacchiere”. Violetta boccheggiò per un istante, ma poi rimase in silenzio: non poteva rovinarsi la sua unica carta vincente contro Lara per delle stupide provocazioni. “Era tutto ciò che avevo da dirti. Stai lontana da Leon, o subirai della amare conseguenze” sibilò la ragazza, sfiorando il suo viso con una carezza maligna, a cui Violetta si ritrasse disgustata. “Non penso che sia tu a dovermi dare degli ordini” ribatté senza riuscire più a controllarsi. Lara non si scompose minimamente, ma diede un colpetto al busto in marmo facendolo cadere a terra e riducendolo in mille pezzi. “Violetta, ti avevo detto di stare attenta!” strillò, consapevole che qualcuno era appena entrato nella sala, in seguito al frastuono che si era creato. “Ma, io…non ho fatto nulla. Tu…” cercò di giustificarsi Violetta, quando sentì dei saltelli dietro di lei. Thomas stava assistendo alla scena, completamente esterrefatto, osservando i resti del busto sparsi per terra. “Spero che la punirai a dovere. Solo perché è nuova non può permettersi queste mancanze” disse Lara con tono di rimprovero, allontanandosi a passo veloce. Mentre si allontanava Violetta poté scorgere un sorrisetto irritante dipingersi sul suo volto. L’aveva fatto apposta, il suo era un avvertimento. Ma non aveva tempo per pensarci, perché adesso aveva qualcosa di più serio da affrontare, ossia riuscire a venir fuori da quel problema con la testa ancora sulle spalle.
“Quello era il busto di Javier! Leon ci teneva tantissimo” esclamò Thomas, disperato, agitandosi qua e là senza sapere cosa fare. Di nuovo Leon. Rientrava sempre in tutto ciò che faceva, in un modo o nell’altro; era quasi una persecuzione. “Non si può aggiustare?” chiese stupidamente Violetta, ben conoscendo la risposta. “No! A qualcuno salterà la testa di sicuro per questo, e non sarò certo io” disse, puntando i suoi occhi sulla presunta responsabile. “Ma non sono stata io!” protestò Violetta. Il Bianconiglio osservò il suo orologio a cipolla, estraendolo dal taschino, e batté il piede destro nervosamente: “Che brutta situazione! Non voglio essere responsabile della tua decapitazione, ma non voglio nemmeno rimetterci le orecchie”. Violetta si recò all’angolo della sala prendendo una paletta di legno e una scopa, per togliere almeno i frammenti. “Che facciamo?” chiese trepidante la ragazza, mentre ripuliva quel disastro. “Sei sicura di non essere stata te?” la interrogò Thomas, mentre l’azzurro glaciale dei suoi occhi si illuminava, come colpito dai raggi del sole. Violetta annuì nuovamente, quindi lo lasciò alle sue riflessioni. “Allora è stata Lara, giusto?” ipotizzò il ragazzo, facendo vibrare i baffi per il disgusto. “Si, ce l’ha con me, e non so come comportarmi con lei” ribatté velocemente Violetta, contenta di non averla dovuta incriminare di persona. “Lasciala fare, non è la prima volta che si comporta così” mugugnò Thomas, eloquente. Dopo qualche minuto di silenzio aggiunse: “Ho avuto un’idea. Io possiedo le chiavi della stanza, e farò in modo che per un po’ non ci possa entrare nessuno”. “E poi?” lo incalzò Violetta, sperando che l’idea non finisse lì. “E poi basta! Non sono così pieno di idee da un momento all’altro, intanto ritardiamo un po’ il problema. Speriamo solo che non lo scopra Leon, piuttosto” rabbrividì Thomas, al solo pronunciare il nome del principe di cuori. “Ci tiene così tanto?” chiese Violetta. “Ti racconto una cosa, ma non riferirla a nessuno” sussurrò Thomas, avvicinandosi.
‘Thomas era in ritardo. Come sempre il suo orologio ticchettava incessantemente dandogli un senso di angoscia crescente. Tic tac, tic tac. Jade voleva vedere suo figlio e lui non sapeva proprio dove cercarlo; aveva provato ovunque, tranne nella sala dei trofei. Svoltò saltellando a destra e si diresse in quell’ultimo luogo. Ancora dieci minuti di ritardo e la regina di cuori gli avrebbe fatto tagliare la testa. Aprì la porta con mano tremante, e ciò che vide lo stupì. Leon era seduto per terra, con le gambe incrociate di fronte al piedistallo con sopra il busto di Javier Vargas. “Papà…” mormorò il giovane principe con lo sguardo basso e un sorriso amaro. Una lacrima stava solcando il suo viso, una lacrima di purezza, che lentamente scendeva. Non appena si rese conto di essere osservato si alzò di scatto in piedi, e si pulì il viso con la manica della maglia che portava. “Jade la sta cercando” si giustificò Thomas. “Eccomi, arrivo subito. E non una parola su quello che hai visto” sussurrò flebilmente Leon, dandosi alcune pacche sui pantaloni.’
“Come è morto il padre di Leon?” chiese Violetta, interrompendo il flusso di pensieri di Thomas. “E’ stato ucciso in battaglia, contro l’esercito di Picche. Un atto vile a mio parere. Un sicario ha agito nella notte ed ha ucciso il re. Quando lo hanno catturato, ormai Javier era stato pugnalato nel sonno. L’uomo ha ammesso di essere stato mandato dal Re di Picche in persona, Pablo Galindo” spiegò il Bianconiglio. “Mi dispiace, deve essere stata dura per il principe” disse Violetta, con le lacrime agli occhi. Per la prima volta cominciava ad avvertire il dolore provato da Leon, era come una morsa che non la abbandonava. Se avesse perso German per evento del genere anche lei ne sarebbe stata segnata, ma non sapeva perché sentiva che ci fosse qualcos’altro sotto. Leon aveva subito qualcosa di cui non era a conoscenza, qualcosa che lo aveva portato ad essere un uomo spregevole e senza cuore. Thomas, come se avesse capito la sue intenzioni, fece qualche saltello indietro. Forse era meglio non insistere, non in quel momento almeno, era già stata fortunata ad ottenere la fiducia del ragazzo, e non voleva giocarsela troppo in fretta. Sorrise rassicurante, ed ottenne in risposta un timido scambio di sguardi. Aveva un alleato, un alleato prezioso, il più strano che le fosse mai capitato.
“Thomas?!” esclamò Lena, perplessa. “Si, Thomas. Penso che sia una brava persona, no?” domandò Violetta. Lena, che era stata informata del piano di fuga, annuì con aria assente, non del tutto convinta: “Non è troppo vicino alla regina? Ci sarà da fidarsi?”. “Beh, non avevo molte alternative, e comunque ancora non gli ho chiesto di aiutarmi, devo prima capire se posso effettivamente riporre fiducia in lui. Non sono così avventata” la rassicurò Violetta, portando il vassoio con gli avanzi di insalata del pranzo nelle cucine. “Ecco, pensaci bene. E non mi riferisco solo a Thomas. Insomma, perché vuoi fuggire da questo posto? Alla fine hai cibo e alloggio, in cambio di lavoro, e poi mi hai detto che fuori di qui non hai nessuno. A me sembra una follia” ribatté la ragazza, mettendo in difficoltà Violetta. La bugia raccontata quando si erano conosciute aveva portato le sue fastidiose conseguenze. In effetti fuori da quel castello nessuno la aspettava, ma fuori da quel mondo c’era un padre premuroso che sicuramente stava soffrendo per la sua assenza. “Se è per Leon, l’abbiamo sistemato; che problemi ti può dare adesso?” continuò l’altra imperterrita, non riuscendo a trovare una plausibile motivazione per quel piano così azzardato. Violetta decise di cambiare discorso, e le si presentò un’occasione d’oro per farlo: “A proposito di Leon, sai qualcosa di lui? Humpty mi aveva detto qualcosa sul fatto che dopo la morte del padre erano cambiate parecchie cose”. Lena si fermò in mezzo al corridoio e si voltò verso Violetta con aria funerea: “Non sono questioni che ci riguardano”. “Ma tu lavoravi già al castello?” la interrogò Violetta, mentre sentiva la tensione nell’aria crescere vertiginosamente. “Si, ma…ci sono cose che non ci è concesso conoscere” concluse Lena, avanzando a passo svelto verso le cucine. E qualcosa le faceva credere che la conversazione al riguardo sarebbe finita lì.
Quel giorno sembrava interminabile, mentre numerose domande affollavano la testa della ragazza: era arrivata alla conclusione che in quel castello fosse successo qualcosa dopo la morte di Javier, e Leon fosse in qualche modo il fulcro intorno a cui girava il mistero che avvolgeva ogni singolo ambiente. E voleva conoscerlo, voleva sapere di che si trattasse, ma soprattutto voleva conoscere Leon, e più passavano i giorni più se ne rendeva conto. Forse perché era il suo pensiero fisso, forse perché non riusciva a dimenticare quella notte in cui i loro corpi erano così vicini, in cui le labbra del principe avevano sfiorato la sua pelle, creandole quei brividi. Forse perché il giorno prima della partenza aveva letto nella provocazione di Leon un disperato bisogno di sentirsi apprezzato da qualcuno. Leon le stava mandando dei messaggi di aiuto, o forse si stava inventando tutto? Era davvero possibile vedere qualcosa oltre quella maschera di fredda impassibilità? Il suo cuore le diceva di si, la sua parte razionale negava, negava e negava. Ma più si ripeteva che non fosse possibile che quel ragazzo potesse provare emozioni umane, più si rendeva conto di essersi voluta affidare ai giudizi altrui, per paura di sbagliarsi. E la scena di un Leon in lacrime di fronte al busto del padre forse era la prova più evidente del suo errore, del suo giudizio affrettato e immaturo. Violetta si stese sul letto, pensando e ripensando alle parole di Leon e senza rendersene conto prese sonno, accompagnata dal buio della notte.
Violetta avanzava sicura per la foresta. Non era la stessa foresta che aveva attraversato prima di raggiungere il Castello di Cuori. La vegetazione era molto diversa, più fitta, e selvaggia. Uno strano odore di fumo attirò la sua attenzione, seguito da un vociare sempre più diffuso. Si fece strada, sempre più confusa, e si trovò nei pressi di quello che sembrava essere un accampamento distrutto. Più avanzava più sentiva la testa pesante, ma non poteva fermarsi, era come se i piedi si muovessero indipendentemente dalla sua volontà, e le sembrava tutto assurdo. Un giovane con un medaglione a forma di trifoglio era piegato su un altro ragazzo che sembrava svenuto. “Allora, perché non si riprende? Dobbiamo fare qualcosa!” esclamò il ragazzo, dai capelli ricci e ribelli. Vicino a lui un uomo dalla corporatura non troppo esile, protetto da un’armatura scintillante e con in mano una spada dorata, si guardava intorno con sguardo colmo di dolore. “Quanti ne sono rimasti vivi di voi?” chiese all’improvviso, puntando i suoi occhi scuri su quelli del ragazzo. “Pochi, troppo pochi” si intromise una ragazza con un pugnale insanguinato in mano. “Libi, Andres…” mormorò il ragazzo, facendo sbiancare la guerriera, che si stese affianco al ferito. “E’ vivo, è solo svenuto…Ma mentre accorrevo con i rinforzi ho visto che la maggior parte dei soldati stava già ripiegando. Cosa è successo?” chiese il soldato, piantando la punta della spada a terra. “Non lo so, è successo dopo che Andres ha ferito il principe Leon e…” cominciò a parlare l’interpellato, venendo però interrotto. “Ferito?! Il principe Leon ferito?! E…è morto?” domandò nervosamente, non riuscendo a credere alle sue orecchie per la bellissima notizia. Violetta rabbrividì a quelle parole. Leon ferito? Addirittura morto? Quello strano sogno si era tramutato in un incubo, eppure le sembrava tutto così realistico, come se non fosse frutto della sua immaginazione. “Io non lo so…non lo so, davvero. Lo hanno trascinato via. Non so se sia vivo o morto” rispose il ragazzo, rialzandosi, e pulendosi i pantaloni sporchi di polvere con qualche manata. “Andres l’ha infilzato con la sua spada. O almeno quel che ne era rimasto” spiegò Maxi. Violetta cominciò inspiegabilmente a piangere per quelle parole. Era davvero tutto finito? Davvero non avrebbe più rivisto Leon? Avrebbe dovuto sentirsi sollevata, e invece era il contrario, il dolore al petto era troppo forte, troppo massacrante. Cominciò ad ansimare, mentre il respiro si faceva pesante, e il dolore aumentava sempre di più, sempre di più.
“Ferito?! Il principe Leon ferito?! E’…morto?”
“Andres l’ha infilzato con la sua spada. O almeno quel che ne era rimasto”
Violetta si svegliò di soprassalto. Si tastò la fronte sudatissima, mentre si girava attorno per essere sicura di essere nella sua stanza. Il silenzio era rotto unicamente dal respiro regolare di Lena, profondamente addormentata. Improvvisamente si sentì la gola secca, e la lingua impastata. Scese dal letto, attenta a non far il minimo rumore, e prima di uscire dalla stanza rivolse uno sguardo alla sua compagna di stanza. Lena era rannicchiata sotto le coperte, probabilmente sentiva freddo. In effetti in quelle stanze si congelava; prese la sua coperta e la mise sopra quella di Lena, in modo di darle un po’ di tepore. Lena sembrò rilassarsi nel momento stesso in cui la lana si adagiò sull’altra coperta. Violetta si avvicinò e depose un tenero bacio sulla fronte della compagna. “Grazie per tutto” sussurrò, per poi prendere una sorta di veste bianca e uscire di soppiatto. Voleva andare nelle cucine per prendere un bicchiere d’acqua, e forse ne avrebbe approfittato per esplorare meglio la topografia del castello. Attraversò il salone circolare d’ingresso, debolmente illuminato da qualche torcia che si stava lentamente spengendo a passo deciso, ma la sua attenzione fu ben presto catturata da una lunga ombra che si proiettava lungo le pareti. Alzando lo sguardo vide sulla destra, in cima alla scalinata, Thomas che si aggirava in modo sospetto con una piccola torcia in mano. “Che sonno!” esclamò assonnato, afflosciando le sue orecchie, ed emettendo un enorme sbadiglio. Violetta si appiattì contro la parete, curiosa di sapere cosa ci facesse il suo nuovo amico in giro per il castello a quell’ora. Non appena lo ebbe visto allontanarsi diretto verso la sala del trono, decise di seguirlo, senza però farsi notare, a distanza di sicurezza. Salì le scale lentamente, e sperò di non perdere di vista Thomas. Il corridoio in pietra era quasi completamente buio, ma la tremolante luce dell’assistente della regina rendeva possibile distinguerne le fredde pareti. A differenza di quel che pensava, però, Thomas non proseguì dritto per la sala del trono, ma si fermò nel bel mezzo, e girò a sinistra, aprendo il pesante portone della biblioteca. Che ci andava a fare lì dentro? Non ne aveva idea, ma la curiosità cresceva esponenzialmente insieme alla paura di essere scoperta. E allora non se la sarebbe cavata tanto facilmente come per la questione del busto di Javier Vargas. “Non puoi tirarti indietro. Non ora” si ripeté con determinazione, mentre si avvicinava tremando per l’emozione e il freddo contemporaneamente. Per qualche secondo la mano rimase sospesa, incerta sul da farsi. Aprire o non aprire? Non lo sapeva, ma sentiva che aprendo quella porta molte cose sarebbero cambiate. Fece un respiro profondo, e tirò il battente verso di lei, spalancando il portone. La biblioteca era completamente buia, e sembrava deserta. Violetta entrò timorosamente, facendo risuonare i suoi passi nell’aria; le librerie erano come dei giganti tenebrosi in quel momento, e mentre durante il giorno le davano sicurezza, in quel momento contribuivano a far crescere l’angoscia che sentiva. Aveva fatto tutto il giro dell’enorme biblioteca, ma niente, non c’era traccia di nessuno. “Thomas” mormorò flebilmente la ragazza, sperando vivamente in una risposta. Le sue parole si persero nel buio, inghiottite, così come lo era il suo corpo. I suoi occhi brillavano con il loro castano chiaro nell’oscurità. Qualcosa non andava in quel castello, ma non riusciva a capire cosa fosse. Di una cosa era certa: Thomas era scomparso nel nulla. 





NOTA AUTORE: eccomi con un nuovo capitolo! Un po' fine a se stesso questo capitolo, ma non per questo meno interessante a mio parere. Violetta sta iniziando a scoprire alcuni fatti interessanti, e sta rivalutando la figura di Leon, e questo per prepararci a uno dei miei capitoli preferiti (il 14, quando Leon torna <3) :D Anche se la ragazza rifiuta la proposta di Humpty, alla fine quasi se ne pente, perchè sente che il bibliotecario ha ragione sulla questione Leon. E il flash del momento di debolezza del principe ha dissolto ogni minimo dubbio. La sua ragione continua a negare, ma la consapevolezza pian piano arriva, e vedremo che succederà :D Una nuova alleanza è nata: Thomas e Violetta. Alleanza bizzarra, c'è da dire? Si potrà fidare? Certo, l'ha aiutata contro la questione di Lara, ma...come dice Lena è molto vicino alla regina :D Violetta però procede cautamente, e si districa all'interno di quel castello e dei suoi strani personaggi. Mi piace molto la situazione che si è venuta a creare. Davvero molto, anche se il capitolo non mi soddisfa in pieno, non è uno dei meglio riusciti :S Comunque dopo il sogno rivelatore sulla questione di Leon, che ci fa presagire che qualcosa di buono non è accaduto (:O), passiamo al finale da brividi. Thomas entra nella biblioteca e scompare nel nulla. Che cosa nasconderà quella biblioteca? E quale sarà il mistero che avvolge la figura di Leon, e l'intero castello? Tutti silenziosi complici di una questione misteriosa, chissà...che anche Lena sappia qualcosa? Non sappiamo, vedremo :D Aspetto vostri commenti su questo capitolo, ci vediamo al prossimo, dal titolo 'La gabbia del coniglio', dove troveremo ancora una volta il personaggio di Camilla con un enigmatico avvertimento. Ma non anticipo nulla, alla prossima ;D Buona lettura a tutti, e alla prossima ;D 

 

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Capitolo 13
*** La gabbia del coniglio ***





Capitolo 13

La gabbia del coniglio

“Thomas!” lo chiamò a lungo Violetta, inseguendo il Bianconiglio lungo i corridoi illuminati dalla luce pomeridiana. “Ciao, Violetta” si voltò il giovane, rivolgendole un cenno col capo. “Ciao! Senti, Thomas, ieri notte sei rimasto per tutto il tempo nelle tue stanze?” chiese direttamente, senza tanti convenevoli, aspettando una risposta sincera, che non sarebbe mai arrivata. “Ehm…si, certo che si, come mai?” ribatté il giovane, parecchio innervosito. Come mai quella buffa domanda? E perché quello sguardo indagatore? Improvvisamente le gambe iniziarono a tremargli, e le mani a sudare. I baffi biancastri seguivano il ritmo delle gambe, e non sapeva cosa fare, ma doveva inventarsi una scusa. “Hai sentito la regina che mi chiama?” la bloccò, prima che potesse chiedergli altro. Violetta si accigliò leggermente a quelle parole: “Veramente, io non sento nulla, e…”. Thomas non le diede il tempo di finire che fuggì via con alcuni saltelli rapidi. “Mi sta nascondendo qualcosa” asserì la ragazza, meditando profondamente. “Chi ti nasconde cosa?” si intromise Lena. “Niente, niente” rispose Violetta, con un mezzo sorriso. “Dormito bene?” chiese poi, cambiando argomento. Lena fece un sorrisetto eloquente: “Certo, grazie alla tua coperta. A proposito, stanotte mi sono svegliata e non ti ho trovata nel tuo letto”. Violetta cominciò a torturarsi le mani, incerta su cosa dire. Doveva rivelare della misteriosa scomparsa notturna di Thomas, o era meglio non dire nulla? Optò per la seconda scelta, non perché non si fidasse di Lena, ma perché non voleva che risultasse troppo complice, o almeno più del necessario, del suo piano di fuga. “V-Violetta” balbettò all’improvviso la ragazza, indicando una vetrata della sala da pranzo che stavano sistemando. Violetta si girò di scatto e la prima cosa che osservò fu una testa che fluttuava all’esterno con un sorriso sornione. “Camilla” esclamò Violetta, lasciando cadere il vassoio che stava portando in mano. Non se la aspettava quella sorpresa così strana. La testa del gatto scomparve, e al suo posto comparve un mano che indicava verso il basso. “Penso che ti stia dicendo di raggiungerla” azzardò Lena, con la testa inclinata, tentando di comprendere il senso di quei gesti. “Hai ragione, ma non posso andarmene così” borbottò, raccogliendo le posate argentate cadute dal vassoio, sparse disordinatamente. “Non preoccuparti, ci penso io, tu pensa a raggiungere lo Stregatto, è una grande personalità, per quanto stramba, e se ti vuole parlare deve essere successo qualcosa di serio” spiegò la ragazza, trascinandola fuori dalla stanza per il braccio e spingendola fuori con fare eloquente. “Ma…devo finire di sparecchiare, e…”. Lena la interruppe con un segno della mano: “Devo pur sdebitarmi per la coperta di stanotte”. Violetta stava per rispondergli ma le pesanti porte della sala da pranzo si richiusero velocemente, lasciandola sola in mezzo al corridoio. E ancora una volta avrebbe dovuto intrattenere una conversazione con lo Stregatto. Il pensiero la turbava parecchio, perché l’ultima volta le aveva fatto una strana impressione. Alzò le spalle e si fece forza per affrontare Camilla; la cosa buffa è che non sapeva come mai un personaggio tanto importante volesse parlare con lei.
Violetta non aveva mai visto i giardini intorno al castello. Buffo a pensarci visto che abitava lì al castello da parecchio ormai, ma per abituarsi ai pesanti ritmi ogni momento libero lo trascorreva riposando a letto, e quindi non aveva avuto il tempo di esplorare i dintorni. Non appena ebbe sceso i piccoli scalini all’uscita, venne accecata da un forte raggio di sole. Sulla sinistra la statua della regina di Cuori incombeva con la sua ombra sottile. Girò a sinistra e si inoltrò per una serie di piccoli viali, costeggiati da alte siepi che rendevano il percorso piacevole e fresco. L’unica difficoltà era nel destreggiarsi per quelle stradine, che non seguivano alcun disegno geomtrico, ma si incoricavano disordinatamente. In lontananza vide quello che sembrava essere l’ingresso di un labirinto e se ne tenne accuratamente alla larga non appena vide il districarsi di rovi e di rose rosse come il sangue. Lena le aveva insegnato che le rose rosse erano il simbolo che designava le aree riservate alla famiglia reale, e non aveva intenzione di finire nuovamente nei guai. Finalmente trovò il modo di girare attorno alle mura del castello, e riuscì ad arrivare sotto la sala da pranzo; ne riconobbe l'ampia vetrata e cominciò a guardarsi intorno alla ricerca dello Stregatto. “Ehi, sono qui!” esclamò una voce fin troppo conosciuta. Violetta seguì la voce, non riuscendo a trovarne la fonte, quindi il sentiero si affacciò sulla costa di un piccolo lago. Dall’altra parte di quello stagno, dall’acqua di un colore verde smeraldo, un padiglione di legno dipinto completamente di bianco si estendeva in tutto il suo splendore. Edere dalle varie sfumature verde scuro, avvolgevano i quattro sostegni, risalendo intrecciandosi e intaccando con il loro colore anche quella sorta di piccola cupola acuta sempre in legno. Violetta emise un piccolo verso stupito, e circondò il lago lentamente, sfiorando con le mani la siepe che contornava quel luogo magico, fuori dal tempo. Il gatto la stava aspettando sotto la struttura, che si affacciava sul lago. Violetta aprì il piccolo cancelletto che permetteva l’accesso al padiglione, e si avvicinò a Camilla che le sorrideva in modo enigmatico. “Bene, bene…è passato parecchio tempo” sentenziò la ragazza, dilatando leggermente le pupille, e fissandola attentamente con i suoi occhietti castani, come se fosse pronta a scattare all’attacco ad ogni minimo movimento. Fece ondeggiare lentamente la coda facendo dei cerchi sempre più piccoli, concentrici, che con il loro ritmo ipnotico attirarono l’attenzione di Violetta. “Già, parecchio tempo” rispose la giovane con un fil di voce, riprendendosi da quella sorta di trance. “Risposta sbagliata, significa che non hai capito nulla, ancora” la riprese il gatto, cominciando a levitare e distendendosi pigramente in aria. “Ma…ho solo ripetuto le tue parole” si difese Violetta, accigliandosi leggermente. “Ripeto: non hai capito nulla. O mi sbaglio?”. Quella domanda la stava spiazzando; cosa doveva aver capito? E perché tutto quel mistero? Perché non poteva dirglielo lei di cosa si trattasse? Forse era qualcosa di assurdo, forse pensava che non le avrebbe mai creduto, ma ormai era abituata a ben di peggio. La curiosità che la contraddistingueva prese ancora una volta il sopravvento: “Si può sapere di cosa stai parlando?”. Camilla sembrò non averla sentita e cominciò a riflettere ad alta voce: “Strano, persino Alice ci ha messo meno di te, e io ritenevo Alice abbastanza stupida, nonostante tutto. E poi ha lasciato quell’indizio davanti agli occhi di tutti. Ma forse ci vuole una certa dose di intelligenza, che non possiedi. Chissà”. Violetta si sentì alquanto stupida; più quella conversazione andava avanti, più non ci capiva. Non le piaceva sentirsi presa per scema, ma non sapeva in che modo dimostrare allo Stregatto il contrario. “Ehm…tutto qui quello che hai da dirmi, Stregatto?” chiese nel tentativo di porre fine a quell’incontro, che le stava solo confondendo le idee. “Non è affatto tutto qui” la riprese, proprio quando ormai si era voltata per andarsene. Con un piccolo schiocco il gatto apparve nuovamente di fronte a lei, sfiorandole il mento con la coda morbida. “Ricorda, Violetta. Tu sei speciale, nel tuo piccolo e nella tua poca intelligenza; tu hai qualcosa che a tutti noi manca, che noi saggi bramiamo da una vita, ma che non potremo mai ottenere. E non posso dirti di più, non voglio interferire troppo in questa storia. Solo in questa” spiegò Camilla, accentuando particolarmente le ultime parole. “Spiegati meglio!” la riprese Violetta, stufa di tutti quei discorsi criptici. Camilla cominciò lentamente a scomparire con un sorriso sornione. Quando rimase solo il volto le diede un ultimo avvertimento: “Fidati solo di ciò che puoi vedere, non di quello che ti dicono di vedere. Tu hai qualcosa che a noi manca”. Queste furono le sue ultime parole prima di scomparire del tutto. Rimase solo il suo sorriso sempre più largo, che poi raggiunse il resto del corpo nel nulla. 
Stava tornando nuovamente al castello, quando su una panchina in pietra lungo il viale principale non incontrò Thomas, che si torturava le mani osservando il terreno polveroso. Avrebbe voluto proseguire dritto ed evitare un’ulteriore conversazione per non risultare troppo pressante, ma il ragazzo in quel momento sembrava avere bisogno di qualcuno che lo ascoltasse e lo consolasse. E in fondo ormai potevano definirsi quasi amici, quindi a passi svelti si avvicinò al Bianconiglio. “Ehilà” salutò lei con un sorriso rassicurante, facendo scattare in piedi il giovane. “Non pensavo di essere così brutta da spaventarti” scherzò tendendogli la mano, visto che lo vedeva in precario equilibrio. “C-certo che no. Non sei brutta; sei carina” balbettò il ragazzo, diventando rosso fino alle punte delle orecchie. “Grazie” lo ringraziò Violetta, sinceramente lusingata per il complimento. “Mi accompagneresti a fare una passeggiata?” chiese poi, voltando lo sguardo verso il luogo da cui era appena venuta. “Ho scoperto un luogo fantastico, che non avevo mai visto”. “C’erano delle rose rosse?” domandò cautamente Thomas, facendo un passo indietro sospettoso. “No, nessuna rosa rossa” lo rassicurò, sicura che le sarebbe stata posta quella domanda. “A-allora ok, va bene” esclamò il ragazzo, drizzandosi con la schiena, gonfiando il petto con orgoglio e afferrando senza molte pretese la mano della ragazza, alquanto sorpresa. “Non devi essere teso, è solo una passeggiata” rise Violetta, allontanando la mano, e guardandolo teneramente. Thomas borbottò qualcosa di incomprensibile e annuì incerto. I due cominciarono a camminare l’uno accanto all’altro, ognuno preso dai suoi pensieri, quando Violetta decise di rompere il ghiaccio: “Come mai eri così giù di morale?”. Thomas non disse nulla, ma accelerò il passo, come se volesse terminare quella passeggiata al più presto. “Thomas!” lo rincorse lungo il viale, cercando di non farlo fuggire. Il Bianconiglio si fermò di fronte al labirinto, la cui entrata era tempestata di rose rosse che segnalavano il divieto di varcarla. “Si può sapere che ti prende?”. Il ragazzo si voltò con le lacrime agli occhi, mentre le mani strette in pugni tremavano incessantemente: “Non ti riguarda! Non ti riguarda!”. Nonostante stesse cercando di allontanarla nei suoi occhi si leggeva invece un disperato bisogno di aiuto. Senza ascoltare le sue urla, si avvicinò sempre di più, per poi abbracciarlo, consolandolo con delle morbide carezze lungo la schiena. Thomas dapprima spalancò gli occhi sorpreso, quindi si lasciò andare a un pianto disperato. Non riusciva a comprendere come quella ragazza potesse farlo sentire in quel modo. Non doveva fidarsi di lei, ma voleva farlo; e mentre quelle due forze combattevano dentro di lui, continuò a piangere, sperando solo che le lacrime potessero esaurirsi il prima possibile.
“Va un po’ meglio?” gli chiese dopo qualche minuto, separandosi piano. “Dipende…” mormorò il ragazzo, riabbracciandola di colpo e rabbrividendo. “Cosa ti è successo?” chiese Violetta preoccupata, ed agitata per quella strana situazione. Con uno scatto Thomas balzò indietro, come colto da una secchiata di acqua gelida. I suoi occhi si fecero ancora più scuri e tenebrosi, e il suo tono risultò glaciale e distaccato. “Niente. Assolutamente niente…” mentì tranquillamente. “Non prendermi in giro, fino a qualche secondo fa stavi piangendo a dirotto e adesso ti comporti in questo modo distante…che ti prende?”. Nessuna risposta. Il vento attraversò la distanza che li separava, che separava i loro sguardi, i loro visi. E quei pochi metri erano diventati in un attimo chilometri e chilometri. Violetta abbassò lo sguardo, sentendo ancora le disperate richieste di aiuto del giovane ragazzo. Senza guardarlo negli occhi, lo oltrepassò e si avvicinò all’entrata del labirinto, sfiorando con un dito una delle rose rosse. Quel silenzio stava danneggiando entrambi, e Thomas mosse un piede per andarsene, quando Violetta lo chiamò nuovamente, facendolo fermare: “Scusa, non volevo”. “Non fa niente” disse Thomas, voltandosi con un sorriso mesto. “Come mai non si può varcare quest’entrata?” chiese, cercando di cambiare discorso. Non si sarebbe arresa, avrebbe cercato di capire che cosa ruotasse intorno a Thomas, ma al momento non voleva peggiorare la situazione. “Questo labirinto è stato voluto dal defunto Re in persona, per la nascita del principe Leon. Ce lo portava sempre quando era piccolo, e anche oggi quando non vedi Leon nel campo d’addestramento e nelle sue stanze significa che gironzola all’interno di questo labirinto. Penso che lo conosca a memoria per quanto ci sta…” spiegò il Bianconiglio. “Ci è rimasto molto legato, allora” si azzardò a dire Violetta, osservando l’interno di quel labirinto, che forse nascondeva anche la chiave per i pensieri del principe Vargas. “Buffo, vero? Dipingono Leon come il cattivo della storia, ma forse semplicemente non assumono la prospettiva giusta. Io ad esempio so che il principe Vargas è un uomo d’onore e valoroso, anche se in apparenza può apparire tutto il contrario, e forse non si comporta nel modo migliore possibile” esclamò il ragazzo, osservando intensamente la sua interlocutrice, che al sentir nominare il nome di Leon avvertì un fremito. “Allora, qual è questo posto che mi volevi far vedere assolutamente?” le chiese gentilmente, interrompendo il contatto visivo, e guardando oltre le numerose siepi. Violetta si riscosse come da un sogno, e indicò verso destra: “Da quella parte, seguimi!”.
Il piccolo stagno si rivelò di nuovo a lei, mettendole una gioia inaspettata. Un’oca bianca nuotava spensieratamente, emettendo di tanto in tanto un verso acuto e stridulo. “Ah, lo stagno!” esclamò gioiosamente Thomas, come se fino a poco tempo fa non fosse successo nulla. Violetta lo squadrò confusa: c’era qualcosa di strano…adesso sembrava stranamente sereno, mentre fino a poco prima era sull’orlo della disperazione. Come poteva il suo umore cambiare tanto rapidamente? Senza dire una parola, si inginocchiò lungo la riva e osservò il suo riflesso interrotto da qualche ninfea che galleggiava pigra. “Come ti trovi al Castello, Violetta?” chiese d’un tratto Thomas, accovacciandosi sulle ginocchia come lei e guardandola dritta negli occhi. “Sinceramente?”. “Sinceramente” disse il ragazzo, sfiorando il pelo dell’acqua con il palmo della mano. “Ho incontrato delle persone fantastiche qui, Lena, te, Humpty, ma…”. Non riusciva a continuare, senza poter affrontare ancora una volta lo sguardo di disprezzo che le aveva riservato Leon nel loro ultimo incontro. E mentre quel ricordo la perseguitava, il pensiero di German preoccupato per lei, della povera Olga che piangeva la sua misteriosa scomparsa, delle persone a lei care, fu più forte e le diede la possibilità di andare avanti. “Ma non posso restare qui. Devo tornare da dove vengo” spiegò, lasciando volutamente un alone di mistero. Thomas annuì piano e si rialzò sempre guardandola intensamente: “Tu non sei del Paese delle Meraviglie, vero?”. La domanda si disperse nell’aria tra il frusciare delle siepi, e il sibilare del vento. Il silenzio non le era mai stato così sgradevole come in quel momento. Negare a quel punto era impossibile; l’aveva già capito, quella domanda era solo per avere un conferma, per metterla alla prova. Voleva forse essere sicuro di potersi fidare di lei, e non aveva molta scelta in quel momento. “Si, non sono di questo mondo” rispose infine, alzandosi piano, mentre il riflesso sull’acqua si fece sempre più sfocato e lontano. “Ti aiuterò a tornare nel tuo mondo” disse il ragazzo, tendendole la mano. Le aveva proposto un patto, un’alleanza. Stringendo quella mano avrebbe rischiato molto, Thomas avrebbe potuto tradirla in ogni momento, e la sua vicinanza alla regina era un motivo più che sufficiente per dubitare della sua parola. Ma ricordando il momento di debolezza di poco fa aveva capito che forse anche il giovane odiava quel posto quasi quanto lei. Forse anche di più, perché quella era la gabbia da cui non riusciva ad uscire, glielo leggeva negli occhi. Si, il castello era per lui una gabbia. La gabbia del coniglio.
Jade restava seduta sulla sedia in legno, verniciata d’oro, delle sue stanze, osservando lo specchio di fronte a lei. Ogni lato della parete aveva uno specchio, così la sua immagine non l’avrebbe abbandonata mai. Quella della bellezza era una fissazione per lei, una maniacale debolezza che la rendeva quasi folle. “Sei perfetta, mia regina” si disse, lisciandosi i capelli con il dorso della mano, e accarezzando il diadema che portava sul capo tranquillamente. Dopo il suo rituale giornaliero, si alzò pronta per dirigersi nella sala del trono. Ogni passo rimbombava per i tetri corridoi, infastidendola. Quella mattina il Bianconiglio era venuto nelle sue stanze implorandola di trovare un’altra soluzione. Che sciocca creatura! Non c’erano altre soluzioni, Thomas era tutto ciò di cui aveva bisogno per proteggere il suo tesoro, e non avrebbe corso nessun rischio. Si fidava di lui, era il figlio del Primo Bianconiglio, e nelle sue vene scorreva il sangue di una delle creature leggendarie del Paese delle Meraviglie. Sorrise perfidamente al ricordare le suppliche del suo servo, mentre lei scuoteva la testa in segno di diniego. Amava sentire quel potere sulle persone, poter decidere delle loro vite, poterle controllare. L’unica persona di cui aveva mai avuto timore era Leon, ma aveva trovato una soluzione anche a quello, e adesso il principe era il suo più fedele servitore. Per un momento dovette ammettere che pensava il suo progetto sarebbe fallito, e invece…ecco il prototipo del guerriero perfetto. Stava quasi per varcare le porte che conducevano alla sala del trono quando una guardia si precipitò a fermarla, sussurrandole qualcosa all’orecchio. La donna impallidì di colpo: non poteva essere, non poteva essere successo davvero. “Chiamate tutti i medici, subito! Non accetterò qualcosa del genere! Non permetterò che mio figlio muoia così!” sbraitò con la massima apprensione. La guardia con un cenno del capo obbedì e riferì che nel frattempo il principe era stato portato nelle sue stanze. Jade camminò a passo spedito, mentre l’ira e la preoccupazione crescevano a pari passo. Le porte della camera del principe si spalancarono, mostrando due soldati che stavano lentamente adagiando Leon sul letto. Jade aspettò che terminassero quel compito e che lasciassero la stanza, avvicinandosi alla finestra e fissando fuori da essa. “Qui abbiamo finito” disse uno dei due, avvicinandosi alla regina, e facendo un rapido inchino. La regina si voltò e nei suoi occhi scurissimi ancora brillava il riflesso dei raggi del sole: “Bene, lasciatemi solo con mio figlio”. Il suo tono di voce lasciava trasparire in minima parte la sofferenza e la paura che provava Jade. Anche se non poteva sopportare la vista del figlio, in quanto le ricordava l’odiato marito, il senso materno le impediva di rimanere serena di fronte al volto pallido del giovane, che ansimava con la bocca socchiusa. Delle gocce di sudore gli scorrevano libere sulla fronte, risaltando ancora di più quel colorito così anormale, cadaverico. “Non farlo, Leon. Non morirai, non sarai debole come tuo padre. Tu e la morte non siete fatte per stare insieme, lotta, come ti ho insegnato. Con odio” sibilò la donna avvicinandosi al capezzale del figlio e sfiorando il braccio olivastro del giovane adagiato sul materasso. In quel preciso istante due uomini con un camice bianco e delle valigette in pelle marrone fecero il loro ingresso, guardando impazientemente la fasciatura di fortuna attorno alla spalla di Leon. La macchia vermiglia si diffondeva lungo il tessuto, mentre il giovane digrignava i denti, con gli occhi chiusi e in uno stato di incoscienza, come scosso da mille brividi. “E’ in preda alla febbre scatenata dall’infezione” disse uno dei due, attendendo un cenno d’assenso dal collega. Leon aveva preso a sudare e il volto contratto in smorfie di dolore preoccupò ulteriormente i due esperti, chiedendo alla regina di uscire per lasciarli lavorare. Jade annuì, ma prima di lasciare la stanza si voltò un’ultima volta: “Salvatelo. Se non lo farete, allora non sarà solo lui a morire”. Il più giovane, circa sulla quarantina, fece tremare per lo spavento l’attrezzo metallico nella mano, probabilmente per estrarre eventuali frammenti della spada dalla ferita. “Ci riusciremo, regina” rispose l’altro, decisamente più anziano, e dal sangue più freddo. La regina fece un mezzo sorriso, come avvertimento finale, quindi uscì per tornare nella sua stanza. Il ricordo del re di Cuori gravava come una maledizione, per quanto provasse a rimuoverlo. Poteva ancora vederlo: quel volto disteso e solare, sempre pronto a regalare un sorriso a tutti, tranne che a lei. “Non me lo porterai via, mai!” sibilò nel corridoio deserto, portandosi le mani alla testa per l’improvviso mancamento. Leon era l’unico bene che le era stato donato da Javier, e non intendeva perderlo per nulla al mondo.
“Quindi ti piacciono le crostate ai frutti di bosco” indovinò Violetta, camminando sul bordo del lago, e avvicinandosi al padiglione. “Brava, hai indovinato!” esclamò divertito Thomas, finalmente scioltosi dopo la rigidezza iniziale. “Ma è stato facile! Mi hai dato troppi indizi” si difese la ragazza, lanciando un’occhiata al castello. Aveva una strana impressione, come se lì dentro stesse succedendo qualcosa di cui non era al corrente. “Cosa ti preoccupa?” chiese il giovane, mentre avanzava davanti a lei con un sorriso sereno. Violetta provò a ricambiare, ma un peso opprimente glielo impediva. Che le stava prendendo? Perché non riusciva a smettere di pensare al castello e al sogno fatto quella notte? D’altronde era solo un sogno, non aveva nulla a che fare con la realtà. Giusto? Il dubbio la stava logorando, e mentre annuiva con aria assente alle parole di Thomas, il suo sguardo era magneticamente attratto da quelle pareti grigie, così cupe e meste. Si era avvicinata al padiglione. Osservò il cancelletto di legno bianco che ne consentiva l’accesso e sospirò, ricordandosi della conversazione completamente senza senso con lo Stregatto. Appoggiò la mano su quella sorta di piccola maniglia, mentre Thomas non si perdeva un solo gesto, completamente ammaliato. Una scossa le fece ritrarre la mano, e sentì il mondo crollargli addosso. “Non entriamo?” chiese il Bianconiglio, alquanto confuso. No, qualcosa non funzionava in quel momento, qualcosa era fuori posto. Lei era fuori posto; era come se quel luogo la stesse implorando di tornare indietro. ‘Non è il momento adesso’ le stava dicendo. E avrebbe potuto ascoltare quella voce, come avrebbe potuto ignorarla. Ancora incerta sul da farsi, sentì in lontananza la voce di Lena che la chiamava ripetutamente. “Lena, sono qui!” strillò, per farsi sentire. Lena finalmente sbucò dall’altra parte del lago con il fiatone, e lo sguardo impaurito. Doveva aver corso per tutto il tempo pur di trovarla. Violetta si allontanò dal padiglione, avvicinandosi alla compagna e poggiandole una mano sulla spalla, preoccupata, mentre Thomas le rivolgeva uno sguardo interrogativo. “Che ti succede, Lena?” la interrogò, mentre il macigno nel petto che sentiva si fece sempre più opprimente. La ragazza cercò di parlare e prendere fiato contemporaneamente, finendo con l’emettere suoni incomprensibili intervallati da parole: “Leon…guerra…”. “Mi stai preoccupando, amica. Prendi fiato e parla chiaramente” la sollecitò, sentendo già il corpo in preda ai fremiti di paura. Lena seguì il consiglio, si fermò qualche secondo, poi rialzò il volto paonazzo per la sudata, e cominciò a parlare: “E’ terribile. Leon è tornato”. “Come terribile? E’ una buona notizia” esclamò Violetta nervosamente, interrompendo la sua compagna di stanza, che le mise una mano sul braccio facendola arrestare. “Violetta…Leon sta morendo”. 








NOTA AUTORE: buonasera! Come sapete il mercoledì ci tuffiamo nel Paese delle Meraviglie, dove succedono strane cose. Nonostante questi momenti Tomletta (di breve durata, visto il ritorno di Leon), il capitolo in fondo mi piace :D Allora, Camilla da un avvertimento alla ragazza, parlando in modo molto misterioso. Violetta ha qualcosa che gli altri non possiedono, che solo lei ha, ed è il suo punto di forza in quella storia...quella storia. Dice che persino Alice ha lasciato un indizio evidente, sotto gli occhi di tutti, che però la giovane non riesce a cogliere. E voi avete tratto qualche conclusione, o navigate in alto mare come Violetta. Se proprio non ne avete la più pallida idea, dico solo che sarà una sorpresa, e racchiude un po' tutto il senso di questa storia...ma lo vedremo, non preoccupatevi. Per finire Camilla mette in guarda Violetta e scompare. Nel frattempo Thomas nega di essersi mosso dalla sua stanza, e si mostra...instabile O.o Il suo umore cambia continuamente, e non sembra certo di nulla. Solo nel finale riesce a rilassarsi, in quel posto così speciale, e decide di aiutare Violetta a fuggire da quel posto. Nel frattempo, non perdete di vista il labirinto del castello, il posto tanto amato da Vargas, che ritornerà in seguito. Mi piace troppo che le rose rosse ne costituiscono un avvertimento...lo scopo di questa storia in effetti è di rielaborare alcune idee del Paese delle Meraviglie in modo originale, e spero che l'idea continui a piacervi :D 
Altro punto essenziale da tenere d'occhio è questa strana percezione che Violetta ha dei luoghi: è come se le dicessero come muoversi, come se la bloccassero, o la invitassero. Si muove come mossa da una voce invisibile, che può decidere se ascoltare o meno...affascinante e assolutamente non casuale :D Ma ci ritorneremo, ha a che fare con il mistero che nasconde lo Stregatto :D Thomas comunque nasconde qualcosa, e anzi sembra rivelare un odio effettivo per quel castello. Nel frattempo arriva Leon mezzo morto ç________ç Riuscirà a sopravvivere il nostro amato (adesso non troppo xD) principe? Lo scopriremo nel prossimo capitolo, che vi avverto subito darà il via ufficialmente alla nostra storia Leonetta :D Il titolo è: 'Una scintilla nell'oblio dell'incoscienza'. Visto che siete stati iper-pazienti, mi sembra giusto riportarvene un pezzettino piccolo :D (che avviso potrebbe essere soggetto a cambiamenti stilistici, ma dettagli xD)

'Violetta lo coprì per non farlo gelare, quindi aspettò le sue prime reazioni a quei cambiamenti climatici. Il respiro si regolarizzò, ma il turbamento non venne meno. “Che ti prende?” chiese disperata la ragazza, passandogli la mano sulla fronte e cambiando pezzo di stoffa. “Non voglio…non farmelo fare…NO!” strillò Leon, a notte fonda, con voce tremante, come se fosse prossimo ad un pianto disperato. Violetta provò a farlo tranquillizzare, ma Leon nell’agitazione le diede un colpo fortissimo al braccio, provocandole un dolore lancinante. “Leon…” sussurrò, implorandolo. Stava per arrendersi e si avvicinò alla porta per andare a chiamare il medico, quando qualcosa la fermò, una presenza intangibile, immateriale, e una voce: “Violetta…”. Si voltò di scatto, riconoscendo la voce del principe, e notò che la stava chiamando.'
 

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Capitolo 14
*** La scintilla nell’oblio dell’incoscienza ***



Capitolo 14
La scintilla nell’oblio dell’incoscienza

“Come dici?” chiese incredula Violetta. “Leon è ferito gravemente. Potrebbe morire da un momento all’altro” ripeté Lena, cercando di risultare il più chiara possibile. “Dov’è adesso?”. “Non ne ho idea, ma che hai intenzione di fare? Non vorrai mica aiutarlo!? Dopo tutto quello che ha fatto, non merita di ricevere nemmeno un secondo delle tue attenzioni” la riprese la ragazza, mentre la rabbia saliva al ricordo del dolore provato dalla sua amica a causa della crudeltà del principe. “Io…hai ragione, non so che mi stia prendendo” si difese Violetta, lanciando però continuamente uno sguardo verso le mura del castello, come se da quello che stesse succedendo dipendesse tutto. “Dobbiamo andare” le interruppe Thomas, con un’espressione seria, e prendendo Violetta per mano per condurla all’interno dello castello. Ogni passo che facevano Violetta sentiva che ogni pensiero nella sua testa si tramutava nel ricordo di Leon, del suo sorriso crudele, ma anche del momento in cui l’aveva sentita cantare. L’amore può essere così irrazionale?, si chiese mentre avanzava lungo le stradine fino a sbucare al sentiero principale. Le guardie erano tutte raccolte all’ingresso, e bisbigliavano qualcosa, preoccupate per la sorte del principe. “Eccovi, la regina aspetta tutti nella sala d’ingresso per un annuncio importante! Svelti, se non volete che vi faccia tagliare la testa” ordinò un uomo sulla quarantina sventolando la sua lancia e incitandoli ad entrare in fretta. La piccola comitiva annuì e si precipitò all’interno della fortezza.
Tutta la servitù era riunita nel salone e ognuno si guardava intorno con circospezione e anche una certa dose di diffidenza. Violetta notò che Lara non era presente. Una donna dai capelli biondi con alcune ciocche grigiastre, raccolti sotto una cuffietta bianca parlava animosamente con una giovane ragazza, piuttosto confusa. “La situazione non sembra delle migliori. Ho sentito dire da una delle inservienti che il principe potrebbe non superare neppure questa notte. Ovviamente la regina è distrutta. Ho dovuto portarle montagne e montagne di fazzoletti” spiegò, con aria di chi sapeva tutto quello che succedeva in quel luogo. Dava proprio l’impressione della tipica impicciona, con quegli occhietti scuri e vispi che saettavano da una parte all’altra nel tentativo di ricevere nuovi scoop. “Come cameriera della regina, sono alquanto addolorata ovviamente, ma, come si dice, sappiamo tutti che Leon prima o poi avrebbe fatto quella fine. Insomma, una persona così malvagia!” sbottò spazientita, in attesa del comunicato regale. Non la smetteva di parlare, forse per nascondere l’ansia, forse per dare fiato a quella bocca in grado solo di sputare cattiverie. Violetta sentiva già una profonda antipatia per quella figura che eppure non aveva mai visto tanto spesso in giro per i corridoi. La ragazza al fianco della donna rabbrividì: “Non dovrebbe parlare in quel modo del principe. Se qualcuno dovesse sentirla…”. “Si vede che sei arrivata da poco, e che non sai chi sono io!” sibilò la donna, sistemandosi meglio la cuffietta, e dandosi arie di superiorità; in qualche modo quella donna le ricordava Lara, anzi, forse era anche più insopportabile. “Lo so benissimo che siete la domestica personale della regina, la capo governante, signorina Jacqueline” snocciolò la giovane, come se fosse una lezione da imparare a memoria. “Chiamami Jackie, se preferisci, non mi piace che la gente mi chiami con quel nome così lungo” la riprese Jackie in tono sbrigativo, per poi tornare a parlare di ciò che più le premeva: le ultime novità del castello. “La povera Lara, la domestica del principe Leon, ha avuto un grave mancamento non appena ricevuta la notizia. Sono così preoccupata per la salute di quella giovane, così cagionevole. Una brava ragazza dal cuore d’oro e dalla grande sensibilità, l’ho sempre pensato” continuò imperterrita, senza preoccuparsi di chi aveva vicino. Violetta infatti a quelle parole strinse i pugni, e osservò la donna dire quelle parole a rallentatore: una sostenitrice di Lara, e quindi sfortunatamente una sua nemica. Lara pur di eliminarla avrebbe potuto ricorrere all’aiuto di quella donna, e non poteva assolutamente fidarsi. “Sono proprio curiosa di sapere qual è l’annuncio. Strano che non mi sia stato riferito prima del resto della servitù, data la mia posizione” esclamò sicura di sé e della sua importanza. “Probabilmente la regina non ricorderà nemmeno il tuo nome” sussurrò Violetta, ridacchiando compiaciuta. Per sua sfortuna l’udito attento di Jackie non fallì nemmeno quella volta, e la donna, si girò a rallentatore verso di lei. “Scusami?” domandò acidamente. Violetta si ritrovò faccia a faccia con quell’odioso personaggio, che sembrava la stesse incenerendo con il solo sguardo per quella sua presunta sfacciataggine. “Dicevo solo che se la regina è tanto preoccupata non deve aver pensato ad avvertirla” disse con sicurezza, cercando di rimediare al danno. La donna annuì, sufficientemente soddisfatta di quello che aveva detto, ma ogni tanto si rivoltava verso di lei, inquisitoria. Finalmente il brusio fu interrotto dalla sola presenza della regina in cima alla scalinata. Il Bianconiglio, come mosso da una molla, si fece largo tra i presenti e saltellò fino a posizionarsi alla destra di Jade. “Le condizioni di mio figlio non sono buone” esclamò con tono freddo e distaccato. Se stava soffrendo per il figlio, riusciva a nasconderlo molto bene, pensò Violetta, rapita come tutti nella sala dall’imperiosa aura che emanava la regina di Cuori. Dal corridoio sulla sinistra sbucò Humpty, con un libro in mano e l’aria triste. Doveva aver saputo anche lui di Leon, e probabilmente si era allontanato dalla sua amata biblioteca solo per avere qualche altra notizia in proposito alla salute del principe. Jade osservò per qualche secondo il nuovo arrivato, che si mise affianco a Thomas, posandogli una mano pallida sulla spalla, quindi continuò a parlare: “Potrebbe morire questa notte stessa”. Prese una pausa, per dare tempo alle persone in sala di reagire a quella notizia. Humpty sospirò nel silenzio e lanciò uno sguardo dall’alto della scalinata a Violetta. La ragazza rabbrividì sentendo l’azzurro dei suoi occhi puntati su di lei come per supplicarla, per cercare conforto. “Ho bisogno che qualcuno si offra per prestare le cure dovute al principe. Qualcuno che possa stare al suo fianco tutta la nottata e che chiami i dottori nel caso in cui la situazione peggiorasse eccessivamente. Attendo un volontario”. Quelle ultime parole rimbombarono nell’aria, riempiendo tutto l’ambiente circostante. Le domestiche e i servi si guardavano perplessi: chi poteva essere disposto ad aiutare una persona così spregevole? Jade intuì che nessuno si sarebbe offerto, e tornò a parlare, lasciando tradire un accenno di fastidio, che ben presto si sarebbe tramutato rabbia, era evidente: “Attendo un volontario”.
Violetta avrebbe voluto che la questione non la toccasse, ma non era così. E il modo in cui Humpty la guardava non le rendeva facile il compito di ignorare quella richiesta. Si offra quella Jackie, visto che idolatra tanto la regina, pensò acidamente Violetta, abbassando lo sguardo, e concentrandosi sul meraviglioso mosaico ai suoi piedi che mostrava due rose rosse intrecciate.
“Ti ho già detto che non voglio che lo perdoni; sarebbe sbagliato e contro natura. Ti chiedo di capirlo, ti chiedo di restargli accanto nonostante tutto per aiutarlo. Forse ti ferirà, ti farà del male, non necessariamente fisicamente, ma lui ha bisogno di te. Se non sei pronta puoi non accettare, noi tutti lo capiremo, io per primo. Ti sto chiedendo troppo, troppo per una giovane ragazza”
“Bene” esclamò compiaciuta Jade, applaudendo con regalità all’improvvisa volontaria. Lena si voltò dove la regina stava guardando, e con suo enorme stupore vide la mano tremante di Violetta alzata. La ragazza aveva ancora lo sguardo basso, ma il suo braccio si ergeva sempre più lentamente fino a stendersi completamente. “Tu sei pazza!” sussurrò Lena, mentre anche Jackie si era voltata e spalancava gli occhi, incredula quanto gli altri. “Lui ha bisogno di me” rispose lentamente la ragazza, voltandosi con gli occhi lucidi. “Lui ha bisogno di me” ripeté, non del tutto convinta, e tornando a sostenere lo sguardo di Humpty, che le sorrideva fiero. Ricambiò il sorriso con una certa tensione sul viso. “Non stai chiedendo troppo per una giovane ragazza, in fondo” mormorò,  consapevole che l’uomo non potesse sentirla, vista la distanza.
La sera stava già per avvolgere la luce del sole nelle sue spire, gettando la sua tetra ombra quando Violetta varcò nuovamente la stanza di Leon per assolvere al suo compito, e un brivido la percorse. Eccola di nuovo lì dentro, ma questo volta era Leon quello debole, quello in balia della sua volontà. Senza saperlo, il principe doveva affidarsi a lei. Non poté fare a meno di chiedersi se sarebbe stato favorevole a tutto quello. Uno dei due medici si stava sciacquando le mani in un piccolo catino, e su un telo bianco sulla cassapanca ai piedi del letto, giacevano alcuni attrezzi metallici sporchi di sangue. L’uomo prese un panno pulito e si asciugò le mani, strofinandole vigorosamente. “Abbiamo rimosso tutti i frammenti della spada. Brutta storia, davvero. La ferita è parecchio profonda, ma non dovrebbe aver leso dei tessuti vitali, per fortuna. Questo ragazzo sta lottando con tutte le sue forze” disse, indicando il volto sofferente di Leon, che digrignava i denti, e strizzava la palpebre, in uno stato di completa incoscienza. “Se stanotte dovessi avere problemi, mi trovi nella stanza affianco” si raccomandò, raccogliendo i suoi attrezzi con l’intenzione di disinfettarli. Fece un lungo sbadiglio, e si stiracchiò leggermente, controllando un’ultima volta la fasciatura che aveva dovuto rifare. “Cambiagli la benda ogni tre ore, non voglio rischiare che la ferita non sia pulita. Vieni che ti faccio vedere come si fa” la chiamò il medico, mettendosi al lato del letto, e scoprendo la coperta. Leon era solo con i pantaloni, e il torace completamente scoperto. La fascia partiva dalla spalla sinistra, gli copriva parte del petto e passava sotto l’ascella. Il colore rosso del sangue penetrava il tessuto, e creava una macchia che si espandeva lentamente. Violetta si soffermò per qualche secondo, osservando i perfetti lineamenti scolpiti del corpo del giovane; la pelle era di un rosa pallidissimo e lucida per il sudore. Le numerose cicatrici partivano dall’addome definito, e raggiungevano tutto il resto del busto. Una cicatrice particolarmente profonda gli tagliava trasversalmente il petto. Il diaframma si abbassava ed alzava così come il suo petto, gonfiandosi, a causa della respirazione difficoltosa. Violetta rimase incantata, volendo incoscientemente imprimere nella mente ogni particolare di quel corpo perfetto. L’uomo diede un colpo di tosse, facendola riscuotere da quella sorta di visione divina. Pensandoci bene, era la prima volta che vedeva un ragazzo senza maglietta e questo la imbarazzava terribilmente. Vivere rinchiusa per diciassette anni non la aveva aiutato affatto, e certe esperienze non ne aveva mai fatte. Non aveva nemmeno mai baciato un ragazzo. “Allora, ci sei?” chiese il medico, prendendole la mano a passandola lungo il braccio del principe, per poi fermarsi sulla fasciatura. Non appena ebbe sfiorato con il dito la pelle di Leon, così ruvida eppure piacevole al tatto, per un secondo fu come se non ci fosse alcuna mano che guidasse la sua, era come se quei gesti fossero dettati dalla sua volontà, e si rese conto di sentire improvvisamente caldo. Le sue guance erano diventate bollenti, così come la sua mano, che non appena passo dalla pelle sudata al tessuto della benda, fremette quasi in segno di disapprovazione. “Ma…ma non dovrebbe essere vestito? Coperto, insomma” si azzardò a dire Violetta, arrossendo violentemente, mentre cercava disperatamente di non perdersi ad ammirare quei pettorali scolpiti che si alzavano e abbassavano velocemente. “Sta per morire, non credo che sia una questione essenziale. Abbiamo preferito non spostarlo se non per assoluta necessità, anche la maglia gliel’abbiamo tolta strappandola, senza muoverlo, per poter disinfettare la ferita” rispose acidamente il medico, trattenendo uno sbadiglio. Erano ore che stava in quella stanza, badando al giovane principe, e non vedeva l’ora di poter chiudere occhio per qualche ora. “Allora, per cambiargli la fascia, semplicemente alzi delicatamente il braccio, così…”. Prese la mano della giovane e la guidò in ogni piccolo movimento. “Cerca di essere precisa e di non muoverlo inutilmente. Non vogliamo emorragie non necessarie, e soprattutto pericolose” sentenziò l’uomo, guardandola con la massima serietà, e gli occhi infossati. Violetta annuì e osservò attentamente il volto sofferente di Leon, in bilico tra la vita e la morte. “Lotta, Leon, fallo per tua madre…” sussurrò la giovane, per poi salutare il medico e posizionarsi con una sedia vicino al letto. Avrebbe vegliato tutta la notte sul giovane principe, e in fondo non gli dispiaceva. Sapeva che Leon non era la persona orribile che voleva far credere di essere; soprattutto dopo il racconto del Bianconiglio ne era sempre più convinta. Con un dito sfiorò lentamente il fianco del giovane, e sorrise alla sensazione di solletico che provava al contatto. “Tu che una madre ancora la hai” aggiunse dopo quel silenzio, intristendosi al pensiero di Maria, colei che le aveva dato la vita, morta prematuramente quando aveva appena cinque anni. Si accovacciò su un angolo del letto e continuò a fissare Leon, pronta a scattare al minimo segnale di pericolo.
Un urlo improvviso la fece riscuotere dallo stato di torpore. Leon urlava in preda a delle convulsioni; la febbre aveva raggiunto dei livelli altissimi e lo stava conducendo al delirio. Violetta entrò nel panico totale. Forse doveva andare a chiamare il medico, ma se poi non avesse fatto in tempo? Passò la mano sulla fronte del ragazzo e si rese conto che era bollente. Accorse alla tinozza di acqua fredda e prese degli stracci. Li immerse velocemente, li strizzò e ne posò uno sulla fronte del ragazzo, che però non riusciva a stare fermo, in preda alla convulsioni e ai brividi. Violetta lo coprì per non farlo gelare, quindi aspettò le sue prime reazioni a quei cambiamenti climatici. Il respiro si regolarizzò, ma il turbamento non venne meno. “Che ti prende?” chiese disperata la ragazza, passandogli la mano sulla fronte e cambiando pezzo di stoffa. “Non voglio…non farmelo fare…NO!” strillò Leon, a notte fonda, con voce tremante, come se fosse prossimo ad un pianto disperato. Violetta provò a farlo tranquillizzare, ma Leon nell’agitazione le diede un colpo fortissimo al braccio, provocandole un dolore lancinante. “Leon…” sussurrò, implorandolo. Stava per arrendersi e si avvicinò alla porta per andare a chiamare il medico, quando qualcosa la fermò, una presenza intangibile, immateriale, e una voce: “Violetta…”. Si voltò di scatto, riconoscendo la voce del principe, e notò che la stava chiamando.
La mano rimase sospesa verso la maniglia, ma il suo cuore la fermava, perdendo un battito dietro l’altro. Aveva inventato tutto, oppure Leon la stava davvero chiamando? Decise di rimanere qualche altro minuto al suo fianco e se la situazione fosse effettivamente peggiorata ancora sarebbe andata a chiamare il medico. Si risedette su quella scomoda sedia di legno, e si fece coraggio. Alzò di poco la coperta, e vi fece scivolare la mano, che in poco tempo si andò ad intrecciare con quella fredda del giovane. “Andrà tutto bene, Leon, te lo prometto” sussurrò dolcemente, per poi poggiare il capo all’altezza del ventre, osservando il principe che sembrava ancora agitato. Come una presenza intorno al suo corpo le fece sentire un piacevole tepore, il fruscio delle ali celesti si fuse con il suo respiro, creando una melodia unica e inimitabile, una melodia che ricordava bene. Si voltò di scatto e vide solo il buio intorno a lei. “Mamma…?” mormorò la ragazza, chiamando a bassa voce una persona inesistente, un fantasma, un angelo. Si voltò nuovamente verso Leon, e vide che era rientrato nel vortice del delirio, che lo portava sempre più a fondo, sempre più vicino alla morte. Prese una nuova pezza di acqua fredda e dopo averla strizzata bene, la poggiò sulla fronte del giovane, cambiandola con la precedente, ormai diventata bollente. Mentre compieva quelle azioni canticchiò la canzone che poco fa le era passata la testa, la canzone che le cantava sempre la madre prima di dormire:
‘Ahora sé que la tierra
es el cielo,
Te quiero, te quiero,
Que en tus brazos
ya no tengo miedo.’
Finalmente il volto di Leon si rilassò al sentire quelle note, quella voce…era come se l’equilibrio fosse tornato nella sua mente ancora annebbiata dalla febbre, era come se qualcuno fosse finalmente venuto a salvarlo da quel buio, quell’oscurità e quel male di cui aveva sempre avuto paura ma che aveva sempre abbracciato come la sua fede.
Plick. Pluck. Le gocce scorrevano inesorabili in quella gabbia, fatta di sottili fasci neri. Leon osservava il mondo esterno, avvolto dalle ombre, mentre la testa gli scoppiava. Le immagini scorrevano velocissime, e non aveva nemmeno il tempo di assimilare l’atrocità di una, che subito quella dopo lo tempestava come un flash. Stava impazzendo, e desiderava solo che tutto avesse fine. E alla fine successe. La testa si svuotò improvvisamente, e una mano candida attraversò le sbarre, afferrando la sua. Quel calore…lo aveva già conosciuto quel calore così piacevole; e poi quella voce. Non poteva sbagliarsi, la voce di Violetta non l’avrebbe potuta confondere tra mille. Senza saperlo si ritrovò tra la sue braccia, all’esterno, stretto a lei. Il suo profumo placava i suoi sensi, e improvvisamente tutto intorno non vi era più nulla. Non oscurità, solo vuoto. E senza più alcuna volontà, completamente rapito dalla voce di Violetta, si inchinò di fronte alla ragazza, facendo scorrere la mano tra la sua, apprezzandone il candore e il tepore. Quindi si avvicinò sempre di più con le labbra, sfiorandone la pelle, e lasciando un lieve bacio, lieve come neve sciolta, come la sensazione di frescura di un soffio di vento. “Sei il mio principe” disse Violetta, smettendo di cantare, con un sorriso solare, arrossendo per quella strana situazione. “Sarò ciò che vuoi, Violetta, ma ti prego, non smettere di cantare. Fallo per me” la implorò, rialzandosi lentamente in piedi, mentre tutto intorno prendeva velocemente colore. Violetta gli sfiorò il braccio con dolcezza, intonando ancora la canzone, con la sua voce pura come la limpida acqua che sgorga zampillando dalle sorgenti più nascoste. Arancione, viola intenso, rosso sangue, tutto gli appariva sfocato intorno. Si ricordò della vecchia immagine del libro, e sorrise scioccamente: possibile che si fosse veramente innamorato? Possibile che non riuscisse a togliere quella ragazza dai suoi pensieri?
La luce dell’alba con i suoi raggi irruppe a forza nella stanza. Leon aprì gli occhi per qualche secondo, prima di richiuderli frastornato da un mal di testa insopportabile, e da una strana spossatezza. Sentiva caldo e i brividi allo stesso tempo. Cercò di muoversi, ma la spalla gli faceva troppo male, quindi decise di rimanere disteso, e di riposarsi ancora. Ricordava poco di quello che era successo prima che perdesse i sensi. Era ancora troppo frastornato per pensarci. La mano destra era stretta attorno a qualcosa di caldo, e all’altezza del ventre avvertiva un peso leggero. Si decise ad aprire nuovamente gli occhi, sfidando la luce intensa, e vide i riflessi brillanti sui capelli leggermente mossi della ragazza, profondamente addormentata. Aveva il braccio destro disteso su di lui e la testa poggiata su di esso. Era bellissima, e sarebbe rimasto ore a guardarla, poi si rese conto che le loro mani erano strette. Sorrise quasi inconsapevolmente, e si ricordò del sogno che aveva fatto quella notte quando aveva riacquistato un po’ di lucidità. Non ne ricordava tutti i dettagli, ma era certo che ad un certo punto lui si fosse inchinato al cospetto di Violetta, come nell’immagine del libro che gli aveva mostrato Humpty Dumpty. Non ebbe il coraggio di sciogliere quella stretta, non voleva svegliarla e non voleva abbandonare quella mano. Mosse il braccio sinistro, rimasto illeso, fuori dalla coperta e sfiorò il più delicatamente possibile la guancia della giovane. La sensazione dell’accarezzare era proprio identica a quella del sogno, ma le emozioni erano più intense, più vive. Fece scivolare la mano sui suoi capelli, incerto sul perché sentisse il bisogno di agire in quel modo. Portò le dita alla narice ed ispirò il profumo intenso che emanavano quei capelli. Ma ciò che catturò la sua attenzione più di ogni altra cosa era la bocca socchiusa di Violetta, che non chiedeva altro se non di essere baciata. Le labbra sottili, ma non troppo, lo ipnotizzavano completamente, provocandolo. Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, per non cedere a nessuna di quella tentazioni. Ma che gli stava prendendo? Lui non era così, non lo era mai stato. Chiudendo gli occhi, il battito del cuore tradì comunque i suoi sentimenti. Cercò di muovere la mano destra per metterla sul petto e rendersi conto di quello che stava succedendo, ma si scordò che era ancora stretta in quella di Violetta, e in più il dolore sulla spalla e all’altezza del petto non glielo permetteva. Quell’impercettibile movimento comunque fece svegliare Violetta lentamente, che emise un piccolo sbadiglio, strizzando gli occhi più volte. Le immagini erano ancora un po’ sfocate, ma dopo qualche secondo si abituò alla fortissima luce, ed incontrò per un secondo lo sguardo di Leon. “Buongiorno” disse con un mezzo sorriso, sbadigliando nuovamente. “Che ci fai qui?” chiese direttamente Leon, senza perdere tempo. Voleva essere sicuro che non fosse successo quello che temeva. Non voleva avere debiti nei suoi confronti, voleva solo che fossero il più distante possibile. “Sono rimasta tutta la notte con te” rispose. Era sincera, lo leggeva nei suoi occhi, nella sua voce; e si maledì per quella sciocca domanda. Che sperava di ottenere allontanandola? Non lo sapeva, ma si sentiva debole al suo cospetto, ed era una sensazione altamente sgradevole. “Adesso puoi andare, ci penserà il medico a me” ordinò il principe, cercando di mettersi seduto sul letto. Ma quel movimento gli era impossibile a causa del ferita aperta, e sul suo viso si disegnò una smorfia di dolore. Due mani si poggiarono sul suo petto e lo spinsero nuovamente indietro facendolo tornare disteso. Violetta lo guardava seria, a qualche centimetro dal suo viso e non accennava a togliere le mani dal petto, impedendogli il più piccolo movimento. “Non devi fare nessuno sforzo” sibilò la ragazza, osservandolo attentamente. “E chi ti dice che quello sia una sforzo?” ribatté Leon, con aria di sfida. Ma un’occhiata di Violetta lo intimorì all’istante, facendolo sentire un cucciolo abbandonato. “Non ti muovere” scandì bene ogni sillaba. Si rese conto che le sue mani premevano sul suo petto nudo con insistenza, e non sapeva come reagire. “E come potresti impedirmelo?” continuò, lasciandosi guidare dal suo eccessivo orgoglio. Violetta non disse nulla, rapita da qualcosa, forse dal suo sguardo, non sapeva spiegarselo bene. Sapeva solo che i brividi di freddo erano sostituiti da un calore che premeva sulla pelle, ansioso di scatenarsi all’esterno del suo corpo. La porta si aprì, interrompendo quel momento, e Violetta con uno scatto si allontanò dal letto, arrossendo.
L’immagine del volto imbarazzato di Violetta tremolò lentamente, quindi vorticò fino a dissolversi nel nulla, restituendo il fondo bianco della tazzina. Il tè al suo interno era fumante, e Beto lo fissava soddisfatto. “Non dirmelo. Avevi ragione, e io non ti ho ascoltato” sbottò Beto, mentre Camilla ghignava beata, addentando un biscotto alle noci. “Nessuno ascolta mai i gatti parlanti, che brutta abitudine” lo punzecchiò lo Stregatto, muovendo la coda soddisfatto. “Ti ho già chiesto scusa per non averti creduto” esclamò spazientito il Cappellaio, scattando in piedi. “Quindi lei potrebbe farlo. Può liberarci tutti. Lo sta già facendo con quel giovane, strappandolo dal suo passato” ipotizzò Camilla, sorridendo in modo ebete. “Rimane da scoprire se lo strapperà al suo futuro, cara Camilla”. “Non pensi ci riuscirà? Intanto è l’unica che ne ha una possibilità. Non è di questo mondo” continuò la ragazza, afferrando un altro biscotto avidamente. Beto annuì, effettivamente convinto da quelle parole: “Spero solo che il suo destino si intrecci nuovamente con il mio, almeno potrei aiutarla con il principe”. L’uomo, si tolse il cappello e lo appoggiò sul tavolo, mostrando la sua capigliatura nerissima scompigliata. Prese con un timore quasi reverenziale la tazzina e ne osservò il contenuto. “E adesso, signorina Castillo, siamo curiosi di leggere il prossimo capitolo della sua storia” esclamò, bevendo il tè bollente tutto in un sorso. 










NOTA AUTORE: Amo poco questo capitolo, insomma. Io ho ancora i brividi, e lasciatemi piangere in silenzio. Ok, dovrei un minimo parlarne del capitolo, però xD Ma che devo dire? SI COMMENTA DA SOLO, INSOMMA. E' per ora il mio preferito :3 Ma chissà come mai :3 Allora, riassumendo: Leon sta in fin di vita, e Violetta, dopo aver fatto la conoscenza di uno sgradevole personaggio, si offre volontaria per accudire Leon, ricordando le parole di Humpty. In fondo la preoccupazione eccessiva che hai nei confronti del principe le fa pensare di provare qualcosa per lui, ma non ne è certa. SEH, NON E' CERTA. Violetta, la tua bava sul pavimento ne è la prova (non mi andava di fare una Nota seria). Shinebright anzi si congratula per il tuo eccezionale autocontrollo, scommetto xD Ma ok, passando oltre, ma quanto è dolce il sogno di Leon? Boh, io lo adoro. Ma non solo, anche il risveglio mi ha fatto tanto emozionare a livello di Leonettosità. MA VENIAMO ALLE COSE SERIE. Ecco il nostro Beto che torna, costretto a dare ragione a Camilla. Ma le sue parole se possibile sono ancora più enigmatiche. Ma molto molto interessanti, e forse più comprensibili xD Onestamente mi piace un sacco il momento finale, molto misterioso, e Beto spera di poter incontrare nuovamente Violetta (cosa che succederà, tra parentesi xD), per aiutarla con il principe. Come mai? I due fanno intuire che quello con Leon è un esperimento, o qualcosa del genere, ma non sappiamo a proposito di che cosa :3 Tutto verrà a galla, ma intanto godetevi il momento di mistero :3 E l'ultima frase con cui si chiude il capitolo è da brividi. Ora so che non dovrei dirvi nulla, ma...Non è un po' strano quest'utilizzo della parola 'storia' da parte dei due personaggi? (viene usato anche nel capitolo 13 da Camilla). Non è assolutamente casuale, ma non voglio che poi ci arriviate troppo facilmente, altrimenti addio sorpresa xD Vabbè, per ora la finisco qui, e ci vediamo al prossimo capitolo, di cui non do anticipazione, altrimenti mi ammazzate come per l'altra volta xD Si intitola 'Cavalcanti fu il poeta e chi lo lesse', e già dal titolo, potrete intuire dei personaggi su cui è incentrato il capitolo. Esatto, i nostri Leonetta, a cui devo dedicare questi due-tre capitoli (che sofferenza, guarda xD), perché come ho già detto adesso sta nascendo la loro storia d'amore, e per quanto sia improvvisa, consta sempre di una maggiore consapevolezza del principe durante questi capitoli :3 Ma già la vediamo che un pensierino su Violetta ce lo sta facendo. Eddai, Leon, ormai è chiaro che sei innamorato ù.ù Grazie di tutti voi che mi seguite, sono proprio contento che questa folle storia vi piaccia così tanto, e niente, alla prossima! Buona lettura a tutti! :D


 

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Capitolo 15
*** Cavalcanti fu il poeta e chi lo lesse ***





Capitolo 15

Cavalcanti fu il poeta e chi lo lesse

Il medico entrò, strabuzzando gli occhi, e per un secondo tutti rimasero fermi. Violetta guardava l’uomo spaventata, Leon osservava Violetta, ancora confuso per il fatto che si fosse allontanata in quel modo. L’uomo dal canto suo fece oscillare lo sguardo dall’uno all’altro dei presenti, quindi scosse la spalle sbadigliando, certo di aver visto male. “Il suo compito è terminato, signorina. Da qui in poi ci penso io” la congedò, posando la valigetta di pelle marrone sulla cassapanca, e preparando tutto l’occorrente con la massima cura e precisione. Violetta annuì, e con un piccolo inchino uscì dalla stanza, costantemente seguita dallo sguardo del principe, rapito da ogni suo gesto. “Come ci sentiamo oggi?” chiese il medico, posizionandosi vicino al principe e rimuovendo con cura le bende. “Bah…malridotto. Ma penso che sia normale visto che mi hanno infilzato come un spiedino, no?” ribatté acidamente il principe, nervoso per quell’interruzione. Mentre le parole tecniche e rassicuranti dell’altro gli riempivano la testa, cominciò a chiedersi cosa si dovesse provare dopo un abbraccio, un semplice e innocente abbraccio. Ma non con una persona qualsiasi, c’era una sola ragazza che avrebbe desiderato stringere tra la sue braccia in quel momento, la stessa persona che aveva vegliato su di lui tutta la notte. “Comunque, credo che il peggio sia passato. L’infezione è meno grave del previsto, e tempo qualche settimana e potrai tornare in piedi come prima. Per poter muovere il braccio come si deve però dovrebbe passare almeno un mese” spiegò il medico, perentorio. “Si, certo, come no…per chi mi hai preso, per un debole qualsiasi? Io potrei alzarmi anche adesso!” esclamò Leon, scostando le coperte con il braccio sinistro, e cercando di alzarsi. Nonostante lo sforzo, non riusciva a muovere la spalla destra, quindi si arrese per l’affanno. “Era solo un consiglio da medico”. “Un consiglio da idiota, vorrai dire. Ora vattene, e lasciami riposare, se non vuoi che ti faccia tagliare la testa. Anzi, te la taglierò io stesso se non ti muovi!” ordinò Leon. Il medico annuì tremando, quindi corse fuori impaurito. Leon sbuffò e si rintanò sotto le coperte, lasciando scoperto solo dal naso in su. Fissava il baldacchino, senza fare il minimo movimento; ormai si era arreso all’evidenza che era vulnerabile e che doveva stare attento e riposare per poter riacquistare le forze. Doveva essere quello il motivo per cui si era sentito strano con Violetta: era stata solo una debolezza fisica la sua; una volta rivista sarebbe stato tutto come prima. Annuì debolmente, mentre la dolce immagine della ragazza profondamente addormentata invase la sua testa, e più cercava di cacciarla, più non riusciva a pensare ad altro. “Ma che diamine mi sta prendendo?!” sussurrò tra sé e sé, sperando che si trattasse di un bruttissimo incubo.
Erano ormai passate tre settimane, e nonostante le raccomandazioni di coloro che lo visitavano Leon decise di lasciare la sua stanza. Non ce la faceva più a stare rinchiuso tra quelle quattro mura, completamente solo. Anche se Humpty lo veniva a trovare tutti i giorni, sentiva che qualcosa mancava, una sensazione di vuoto lo prendeva all’improvviso, gettandolo nella depressione. “Insomma, oggi ci alziamo?” esclamò Humpty, con in mano un libricino rosso; l’amico aveva preso la bruttissima abitudine di leggergli libri di poesie, visto che non poteva in alcun modo ribellarsi. “Oggi niente stupidi versi! Oggi finalmente un po’ di libertà!” esclamò raggiante il principe, facendosi aiutare a indossare una maglia bianca, la prima capitatagli sotto mano. “Non essere ansioso di uscire, devi fare comunque molta attenzione e non stancarti” si raccomandò Humpty, un po’ deluso per la seduta di poesie interrotta. Leon annuì con aria spensierata e corse fuori, spalancando la porta con il braccio sinistro. Finalmente poteva uscire, non vedeva l’ora. Anche perché era rimasto profondamente ferito dal fatto che Violetta non lo fosse venuta a trovare per niente. Se lo doveva aspettare, lui non aveva voce in capitolo sulle scelte della ragazza, soprattutto dopo quello che le aveva fatto, ma quella mattina, quando si era svegliato e l’aveva trovata addormentata vicino a lui, gli era parso che lei…fosse preoccupata per lui. “Ti sei sbagliato, non c’è altra spiegazione. E poi che ti importa di quello che fa o non fa” si ripeté a bassa voce, scendendo le scalinate che portavano al salone principale, aiutandosi con il corrimano in marmo. Sentiva già il fiatone per quel piccolo sforzo, ma voleva arrivare fuori, almeno per prendere una boccata d’aria. Le guardie ad un suo cenno aprirono le porte, facendo filtrare la luce mattutina, e il profumo di fresco che portava con sé il venticello leggero. Leon ispirò a pieni polmoni con un sorriso soddisfatto, felice di quel momento di libertà che aveva solo potuto immaginare guardando la finestra della sua stanza. Ma come il sorriso si era dipinto sul suo volto, altrettanto rapidamente scomparve sostituito da una smorfia di fastidio, alla vista di quella scena così poco gradevole.
Violetta avanzava al fianco di Thomas; i due parlottavano allegramente, senza riuscire a trattenere di tanto in tanto qualche piccola risata. Non si erano nemmeno accorti della sua presenza. Leon tossì piano, e i due alzarono lo sguardo nella sua direzione. Violetta si fece raggiante, e gli venne incontro, seguita dal Bianconiglio. “Coma stai oggi, Leon?” chiese premurosa. Leon ignorò la domanda e si concentrò su Thomas, squadrandolo da capo a piedi. L’altro si sentì piccolo piccolo al suo cospetto, ed era esattamente l’effetto che voleva ottenere; con aria altezzosa e un piccolo ghigno, ordinò: “Jade ti sta cercando. Era una cosa importante, non so bene di cosa si tratti però”. Il Bianconiglio scattò come una molla, e dopo averlo ringraziato per l’avvertimento cominciò a correre come un disperato, controllando continuamente l’ora sul suo cipollotto dorato. “Com’è squallido…” mormorò compiaciuto, contento per averlo allontanato da Violetta. Aveva inventato una bugia, una pura e triste menzogna, e adesso che era tornato lucido non capiva perché l’avesse fatto; riusciva solo a percepire il fastidio provato nel vederli insieme, nient’altro. Si voltò per andarsene, sospirando, quando Violetta lo chiamò facendo rivoltare. “Non dovresti trattare in quel modo Thomas solo per tuo divertimento. Non lo merita affatto” lo riprese. Leon si avvicinò tenendole testa, finché non furono ciascuno di fronte all’altro. Il ricordo del suo profumo quando quella mattina erano stati così vicini gli fece per un attimo perdere la testa, che scosse nervosamente per riprendersi. “Ah, si? E perché non lo meriterebbe? Devo forse ricordarti che io qui comando e basta, mentre voi obbedite?” ironizzò, scoppiando in una fragorosa risata. “Era preoccupatissimo per la sua salute, non dovesti comportarti come se non te ne importasse di niente e di nessuno” ribatté Violetta, rossa in volto per quella vicinanza. “Preoccupato, come no!” rise Leon amaramente, per poi guardarla nuovamente negli occhi con aria di sfida: “Preoccupato a tenerti compagnia, preoccupato come te, immagino”. “Pensi che non me importasse nulla? Non sarei stata tutta la notte ad accudirti se non me ne fosse importato” strillò Violetta, incredula per la reazione del principe. Non capiva come mai si comportasse in quel modo, come se ci fosse qualcosa che lo irritava. Se non avesse saputo che si trattasse di Leon avrebbe detto che era geloso di Thomas. Le veniva dal ridere al solo pensare un’eventualità del genere; Leon non era in grado di amare, figurarsi se fosse stato in grado di provare gelosia. Leon alzò le braccia in aria per l’esasperazione e sentì montare l’ira in un istante: “E’ per questo che non ti sei più fatta vedere? Non sei più venuta dopo quella mattina…Tu provavi solo pietà per me perché stavo morendo”. Violetta rimase sorpresa dalle sue parole, e spaventata allo stesso tempo per il modo in cui erano state dette: “Non sono venuta perché pensavo che non avresti voluto vedermi”. Il principe si voltò amareggiato: pensava di odiarla, ma stava male. Troppo male. E non sapeva spiegarsi come mai la sola presenza della ragazza gli facesse quell’effetto, lo facesse sentire così debole e insignificante. “Pensavi bene, allora” esclamò il principe affrettando il passo per allontanarsi da Violetta, ma l’eccessivo sforzo gli fece avere un breve capogiro. “Leon!” accorse la ragazza, passando il suo braccio sinistro intorno alla spalla in modo da aiutarlo a sorreggersi. “Sto bene” disse Leon, con un tono di voce poco convinto. “Non si direbbe” disse lei, guidandolo verso una panchina di pietra lungo il viale principale, e aiutandolo a sedersi. “Non mi piace sentirmi trattato come un bambino!” sbottò nervoso. Violetta si sedette accanto a lui, sorridendo. In fondo era simpatico quando non faceva altro che lamentarsi, senza poter fare nulla. Non fosse per il pensiero di quella notte da incubo… "Mi dispiace” disse infine guardandola dritta negli occhi. Non poteva essere solo la luce a rendere così intensi quegli occhi, a far risplendere quegli smeraldi ammalianti. Come se si fosse reso conto dell’effetto che le facevano, sorrise e distolse lo sguardo, fissando il viale. “Mi dispiace per come ti ho trattato qui al castello. Dopo tutto quello che ti ho fatto non meritavo il tuo aiuto. E invece…” deglutì, non sapendo come andare avanti. Per lui era già abbastanza difficile ammettere di aver sbagliato, ma da qui a mostrare la sua debolezza vi era un burrone pieno di paure e incertezze. “Invece?” chiese la ragazza, mettendolo alle strette. Lo vide preso da un panico crescente, e provò una forte tenerezza nei suoi confronti. Quella notte era successo qualcosa, non capiva cosa, ma Leon era una persona diversa. O forse adesso era più Leon di quanto non lo fosse mai stato. “Invece…mi hai aiutato, ecco tutto” mormorò il giovane, sfiorandosi con il braccio sinistro la benda attorno alla spalla destra. Violetta si avvicinò ancora di più sfiorando la sua mano, e i loro sguardi si incrociarono di nuovo. Leon si avvicinò timorosamente, senza interrompere quel contatto visivo. Ma il suo orgoglio gli impediva di andare oltre tutto quello, lui non poteva. E non solo perché guardandola ripensava a tutto il male che le aveva fatto, male che nessuno meritava meno di lei, ma soprattutto perché sapeva di non poter amare nessuno. Se lo avesse fatto il rimorso per tutte le colpe passate lo avrebbe ucciso, lacerato, e ormai non poteva tornare indietro. Non più, almeno. Prima che la ragazza potesse socchiudere anche solamente gli occhi, Leon si allontanò afflitto. “Scusa, non avrei dovuto” sussurrò, riacquistando la sua freddezza abituale; ma ormai era troppo tardi, Violetta aveva visto che in Leon c’era qualcosa che andasse oltre la sua disumana crudeltà, e le prime crepe di una maschera di acciaio scricchiolarono minacciosamente. “O meglio, non voglio” si corresse alzandosi in piedi lentamente, e tornando dentro il castello. Violetta rimase pietrificata a guardarlo andare via, sentendo ancora il respiro del giovane sul suo viso, sulla sua pelle. Ogni suo pensiero andava a quel momento così strano, eppure così magico, e fu come sentire le calda braccia di Leon avvolgerla teneramente. “Smettila di immaginarti tutto, Violetta” si disse, alzandosi dalla fredda pietra e dirigendosi nelle cucine per aiutare Lena.
Era passata una settimana da quell’ultima conversazione, e da allora Leon sembrava quasi avere paura di lei. Se la incrociava per un corridoio, abbassava lo sguardo e procedeva dritto per la sua via senza degnarla di uno sguardo, e senza nemmeno salutarla. Lei e un fantasma sembravano avere la stessa  visibilità per il giovane principe, che ogni giorno dai racconti di Humpty si faceva sempre più taciturno e riflessivo, anche più del solito. “Come te lo spieghi?” chiese un pomeriggio Violetta, spolverando alcuni libri della mensola. Humpty la voleva sempre ogni pomeriggio come sua aiutante, e in quel modo aveva l’opportunità di continuare a coltivare il suo amore per la lettura. “Pensi che debba essere io a dirtelo?” esclamò in tutta risposta l’uomo-uovo, soffocando una risatina acuta. “Bella questa storia…”. “Violetta, non cambiamo discorso, per favore. Sei abbastanza matura per capirlo da sola” la riprese ancora una volta il bibliotecario. Matura. Nessuno le aveva mai detto una cosa del genere. Per German era sempre stata solo una bambina anche un po’ viziata, e per nulla sveglia. Era un padre severo, e raramente la gratificava con qualche complimento. Per Olga invece era sempre la figlia che non aveva mai avuto, e la trattava con affetto materno. Era tra le sue braccia che si rifugiava quando German la strillava, era nella cucina che passava il tempo chiacchierando con lei, annusando vicino al forno, curiosa di sapere quale magia sarebbe venuta fuori. Ma anche lei la trattava come una bambina, non come una donna. “Lo pensi davvero? Pensi davvero che io sia matura?” esclamò all’improvviso, con un sorriso rilassato. “Sai sempre come agire, sai chi merita il tuo aiuto, e chi no, sai giudicare non in base alle apparenze. E per quanto male Leon ti abbia procurato tu l’hai saputo perdonare come nessuno avrebbe mai fatto. Si, Violetta, sei matura, più di quanto tu stessa pensi” ripeté con voce stanca Humpty, accarezzandole la spalla goffamente. “Ma continuo a non capire a cosa ti riferisci…” esclamò la ragazza, timorosa di perdere subito la fiducia dell’amico con quelle parole. “Leon ha una bruttissima sindrome, di quelle che non si possono curare, che possono condurre alla pazzia o anche peggio!” spiegò il bibliotecario, fingendosi preoccupato. “Davvero?! Non ne sapevo nulla! E di che si tratta?” chiese Violetta, stupidamente. “Assume vari nomi, ma io la chiamo in un solo modo: innamoramento acuto” disse eloquentemente Humpty, scoppiando a ridere. Violetta arrossì di botto, a fece cadere il libro che teneva in mano con cura, affrettandosi poi a raccoglierlo. “N-non penso che Leon potrebbe innamorarsi. E poi d-di chi? F-forse Lara?” balbettò incerta, mentre le mani le tremavano. “Ti ho appena detto che eri matura, non mi far rimangiare tutto” scherzò l’uomo-uovo, facendole un occhiolino. Il silenzio calò nella stanza, interrotto solo dal fischiettio di Humpty, che sorrideva soddisfatto dell’effetto ottenuto. In quel preciso istante le porte della biblioteca si aprirono e il principe Vargas entrò a passo svelto. Pensava di averla scampata anche per quel giorno, ma non si aspettava di trovarla ancora lì. Rimase fermo, come paralizzato di fronte a quella ragazza che lo stava rovinando. Non riusciva più a comprendere il senso delle sue stesse azioni, e si malediceva ogni secondo di più. Voleva muovere la gamba, ma non ci riusciva, come i suoi occhi non potevano smettere di rivolgersi da quella parte. Odiava perdere il controllo di sé, e sentiva che più passava il tempo più la situazione peggiorava. Riscossosi lentamente, avanzò guardando dritto davanti a sé, si voltò a destra, prese il primo libro nella sua visuale, e si sedette al solito posto, immergendosi immediatamente nella lettura. Humpty le fece un cenno, come per dirle di farsi avanti, quindi Violetta prese un grande respiro chiudendo gli occhi, e si avvicinò sempre di più, fino a sedersi di fronte a lui. “Ciao” salutò lei, dopo aver racimolato quel briciolo di coraggio che le rimaneva per rivolgergli parola. “Buonasera” rispose educatamente Leon, concentrandosi sempre di più sulla lettura, finché non si rese conto che da quando si era seduta stava leggendo sempre la stessa riga. Avrebbe potuto recitarla quasi a memoria, per quante volte l’aveva riletta, troppo preso a guardarla di sfuggita. I raggi del sole ne avvolgevano il corpo, esaltando il candore della sua pelle. Non aveva mai creduto all’esistenza degli angeli, ma se in quel momento gli avessero chiesto di descriverne uno, forse avrebbe parlato della spettacolare bellezza e dolcezza di Violetta; le mancavano solo un paio di ali e sarebbe stata perfetta. Solo dopo qualche minuto ebbe capito che gli stava rivolgendo parola, e si riprese dall’ennesimo incanto in cui era finito, solo guardandola, solo osservando i riflessi dei capelli castani che le scendevano morbidamente lungo le spalle. “E’ interessante quel libro?” domandò, curiosa, mentre lo sguardo le brillava. Forse voleva che in fondo quegli occhi splendessero per lui, ma era solo per quelle pagine imbrattate di inchiostro, per sua amara constatazione: “Poesie. Le odio, ma a forse di farmene leggere da Humpty, ormai ho preso l’abitudine anche di cambiare genere, diciamo”. “Che bello! Me ne potresti leggere una?”. Il silenzio si diffuse all’istante, mentre Leon continuava a guardare il legno consumato di quei tavolini, incerto su cosa rispondere. “Mi dispiace, non volevo essere invadente…” si scusò all’istante, intuendo l’imbarazzo del giovane principe. Davvero era in grado di ridurlo in quel modo? Sembrava non riuscire a parlare, ed era teso come una corda di violino. Studiò meglio il suo sguardo fuggente, e vide che dentro era lacerato. Era come se fosse sospeso su un filo, e fosse incerto se lasciarsi cadere o proseguire dritto guardando avanti. E sul fondo del baratro c’era lei: era lei a fargli perdere l’equilibrio, era lei a rendere sempre più sottile quel filo. “Perché lo stai facendo?” chiese Leon, rompendo l’intimo silenzio che si era creato. Violetta lo guardò accigliata: “Facendo cosa?”. “Perché ci tieni tanto a stare in mia compagnia? Ti ho fatto del male, no?” disse, accentuando quelle parole, come per sottolineare la fatica con cui le aveva tirate fuori. “Lo so. Ma…adesso sono cambiate molte cose” si azzardò a dire Violetta, con aria interrogativa. “Non è cambiato nulla. Sono sempre io, Leon” ribatté freddo l’altro all’istante. “Allora forse voglio conoscere meglio questo Leon. Forse potremmo essere buoni amici” esclamò l’altra, alzandosi e sedendosi vicino a lui. Leon si scostò di poco, per non essere troppo vicino, quindi tornò a concentrarsi sul libricino, osservandone ogni dettaglio. “Non puoi voler essere amica di uno come me” aggiunse piano. Violetta sfiorò la sua mano appoggiata sul libro: “Leggeresti una poesia per me?”. Aveva ignorato la sua affermazione, aveva ignorato il suo tentativo di allontanarla, di farsi odiare da lei. E dopo tutti quei tentativi non ce la faceva, stava cedendo al suo sorriso, ai suoi sguardi carichi di dolcezza; stava semplicemente cedendo. Respirò a fondo e iniziò dal primo verso:
“Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
e fa tremare di chiaritate l’are,
e mena seco Amor, sì che parlare
null’omo pote ma ciascun sospira?”
Sentì un groppo in gola. Quelle reazioni gli erano molto famigliari, fin troppo. “Che succede?” chiese la ragazza, triste per quell’interruzione. “N-niente” rispose Leon, mentre le mani iniziarono a sudare, e la lingua si appiccicava al palato, rendendo la sua voce impastata. Cercò di trovare la forza e continuò a leggere:
“Deh! che rassembla quando gli occhi gira!
Dical Amor, ch’i non savria contare;
cotanto d’umiltà donna mi pare
che ciascun’altra invèr di lei chiam’ira”
Quella poesia avrebbe potuto benissimo averla scritta lui; la sempre più pressante consapevolezza di ciò lo metteva a disagio, più di quanto non si sentisse già. Alzò di scatto lo sguardo e i suoi occhi furono intrappolati, ormai gli era impossibile cercare di sfuggirle, ed era la sensazione più bella del mondo: era completezza, era pace e tranquillità. Erano vicini, molto vicini, ma non gli sembrava mai abbastanza, per lui erano chilometri, e voleva accorciarli il prima possibile. Uno dietro l’altro. “Continua” lo supplicò, completamente rapita dalla voce profonda e calda con cui stava leggendo, dal sentimento che stava riversando in quelle parole. Leon la fissava in modo strano, unico. Non l’aveva mai guardata così, e sembrava quasi che quelle parole le stesse recitando a lei. Sembrava, perché era tutto talmente assurdo che non poteva crederci.
“Non si poria contar la sua piagenza,
ch’a lei s’inchina ogni gentil vertute,
e la beltate per sua dea la mostra.”
Ogni gentil vertute. Violetta era la sua donna angelicata, come diceva lo stesso poeta. E se avesse avuto le capacità per elogiarla, l’avrebbe fatto, forse vergognandosene, ma l’avrebbe fatto.
“Non fu sì alta già, la mente nostra .
e non si pose in noi tanta salute,
che propriamente n’aviam conoscenza”
Quelle ultime parole le aveva quasi sussurrate, con un mezzo sorriso, mentre senza rendersene conto le stava sfiorando la mano poggiata sulla superficie del piano di lettura. Era vicino, così tanto da poter scorgere il rossore delle sue guance, e il battito sordo proveniente dal petto. “La beltate per sua dea la mostra” ripeté, ammaliato. Il suono del suo respiro era una melodia soave, come la sua voce. E avrebbe voluto sentirla cantare, se il desiderio di baciarla non avesse prevalso. “Bella quella poesia” esclamò Humpty dietro di loro, facendoli balzare sui loro posti. “S-si, bellissima” balbettò Violetta, lisciandosi nervosamente le pieghe della gonna turchese. Il bibliotecario annuì, quindi tornò alle sue occupazioni, estremamente gioioso, tanto da canticchiare mentre controllava e aggiornava l’archivio.
“Penso che dovrei andare” disse osservando il panorama ingiallito dalla luce del tardo pomeriggio. “Mi piacerebbe tanto uscire di qui con qualcuno” esclamò improvvisamente, pentendosi immediatamente dell’audacia con cui si era azzardata a parlare. Leon la guardò interrogativo: “Che cosa significa ‘uscire con qualcuno’?”. Violetta si aspettava tutto, ma non quello: “Significa…ecco…che un ragazzo e una ragazza passano del tempo da soli, all’aperto, magari pranzando insieme, o non so…”. Il principe annuì, e quindi si alzò. Si inginocchiò, imbarazzato, prendendole la mano. “Che cosa stai facendo?” domandò, rossissima in volto. Leon si rialzò di scatto, guardando per terra: “Non si fa così?”. “Così cosa?”. “Non si fa così per chiedere ad una ragazza di uscire?”. “No, beh, non necessariamente” spiegò, mordendosi il labbro per la dolcezza dell’inchino del ragazzo. Sembrava un bambino perso in un bicchier d’acqua. “Ah…e…tu usciresti con me? Si dice così?” domandò nuovamente il principe Vargas, con voce tremante. “Mi farebbe davvero piacere. Magari quando starai meglio con la ferita” rispose Violetta, salutandolo con un cenno della mano, e avviandosi a passo spedito fuori dalla biblioteca. Leon si risedette afflitto: la verità è che probabilmente non ci teneva a stare da sola con lui, e con la scusa della ferita aveva rinviato tutto, nella speranza che se ne dimenticasse.
Humpty non appena ebbe visto la ragazza uscire e notando al volo il modo con cui Leon la guardava andarsene, si avvicinò cautamente fino a sbucare alle sue spalle. Si sedette di fronte a lui: “Problemi?”. “Ti è mai capitato di sentirti completamente privo di forze, come se tutta la tua volontà e voglia di andare avanti si fosse spenta in un secondo?” sbottò Leon, amareggiato. “Cosa intendi?” lo interrogò l’altro, evidentemente interessato dalla profondità che finalmente il principe stava cominciando a tirare fuori. “Non sempre si può avere ciò che si vuole, giusto? E’ questa la lezione, no? E allora perché anche prendendone atto, non si può guardare dritto davanti a sé e basta, senza crearsi tanti problemi?”. Leon si alzò, stringendo i pugni, il viso contratto in una smorfia di dolore, per lo sforzo eccessivo fatto. Humpty si posizionò di fronte a lui, e gli mise una mano sul cuore: “Sai cosa significa, Leon? Che sei innamorato…ed è la sensazione più meravigliosa e distruttiva del mondo”. Leon abbassò lo sguardo e fece qualche passo indietro, dondolando, come privo di equilibrio: “N-non è vero, non è come pensi!”. Il bibliotecario scosse la testa, aspettandosi questa negazione, ma doveva battere il ferro finché era caldo: “Smettila di far finta di essere cieco, e guarda in faccia alla realtà. Tu sei innamorato. Innamorato di Violetta”. 









NOTA AUTORE: Carico adesso che oggi sono stato a casa, e devo andare a studiare xD Infatti questa nota autore sarà breve, brevissima, praticamente nulla xD Allora, come avevo già detto questi capitoli sono incentrati sulla nascita e la crescita graduale del sentimento d'amore, soprattutto in Leon, che fino alla fine non vuole cascarci, ma nel finale crolla quasi del tutto *fa una ola* Solo che mal interpreta le parole di Violetta, pensando che la ragazza ha semplicemente declinato il suo invito (noooo, che cucciolo :3). Humpty fa da tramite tra questi due sfortunati innamorati. Violetta sente di avere di fronte un Leon diverso, e se ne sta innamorando. Leon è folgorato dalla ragazza, e soprattutto confuso, per non aver mai provato emozioni simili xD Notare che con gli altri rimane il solito crudele e acido principe. Riesce a essere se stesso solo alla presenza di Violetta. E' una cosa dolcissima :3 Mica vi aspettavate che Leon sarebbe cambiato tutto di botto, eh xD Ma comunque si sta lentamente arrendendo, e noi saremo pronti ad esultare alla sua resa xD Ringrazio tutti coloro che mi seguono, e leggono questa folle storia :3 Grazie di tutto, a tutti, buona lettura e alla prossima! by syontai :D :D 

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Capitolo 16
*** Scoccare la freccia, e colpire il bersaglio ***





Capitolo 16

Scoccare la freccia, e colpire il bersaglio

Era passato circa un mese da quando Humpty gli aveva messo quella maledetta pulce nell’orecchio, che avrebbe tanto volentieri scacciato. O meglio, la sua parte razionale avrebbe voluto scacciarla, ma il suo animo gli chiedeva continuamente di rievocare ogni momento trascorso intrappolato in quello sguardo così dolce; le parole di Humpty non facevano altro che aumentargli il battito cardiaco, avverando sempre di più quei presentimenti, dapprima fievoli, ma adesso talmente intensi da non poter più essere ignorati: Violetta gli piaceva, e anche molto. Era strano provare quelle emozioni nuove, e ne aveva timore. Aveva paura dell’effetto che solo la sua vista gli provocava nel corpo, era tutto così nuovo, così strano, e le sue certezze erano ormai crollate miseramente, insieme all’eccessiva sicurezza e alla presunta invulnerabilità che lo caratterizzavano. Quando osservava la luce del sole pensava involontariamente al suo sorriso; era la prima volta che qualcuno gli sorrideva in modo così autentico, ed ogni particolare di quel piccolo ma significativo gesto era impresso nel suo cuore. E nonostante ciò, o forse proprio per questo, non poteva sopportare il pensiero di incontrarla, di doverle rivolgere la parola, e continuava ad evitarla come la peste. Non riusciva a vivere in quel clima di terrore, ogni ombra che incrociava per il corridoio gli faceva venire la pelle d’oca. “Non posso andare avanti così, devo rimettermi ed andarmene da questo posto infernale” si disse tra sé e sé, sedendosi di fronte al caminetto spento della sua stanza, e portandosi la testa tra le mani. La spalla stava molto meglio, e la ferita si era quasi rimarginata finalmente, lasciando una profonda cicatrice biancastra, che avrebbe aggiunto alla collezione di quelle delle sue prime battaglie, quando era ancora inesperto. Non poteva negare che gli bruciava terribilmente quella sconfitta per mano del suo rivale; e quell’altro ragazzo mai visto che aveva una spada nera, l’unica che avrebbe potuto scalfire la sua armatura di neranio. Erano dei tipi pericolosi, avrebbero potuto creare problemi all’esercito di cuori, se Pablo li avesse messi a capo di qualche truppa del suo regno, ne era sicurissimo. Si alzò, recuperando il fuoco ardente della vendetta negli occhi e ruotò piano la spalla, per testarne la resistenza, soddisfatto del risultato: “Oggi si ricomincia con gli allenamenti, e poi potrò avere la soddisfazione di infilzare come due spiedini quei rivoluzionari”. L’ultima parola la disse con un misto di sdegno, sottile ironia e disprezzo.
La giornata era stata faticosa come sempre, e Violetta si portò una mano sulla fronte sudata, con l’ardente desiderio di un bagno caldo. Humpty le aveva dato da sistemare alcune librerie. Aveva passato tutto il giorno a togliere libri per spolverare scaffali, e poi rimetterli al loro posto con movimenti meccanici. “Finito?” chiese Humpty, che guardava con apparente svogliatezza dalla vetrata, che si affacciava sul campo di addestramento e dava un breve scorcio anche del viale principale, da cui qualche mese fa era venuta la giovane Violetta Castillo. “Domani vorrei portarti da una parte” le disse infine con un sorriso convinto. “Di che si tratta?” chiese la ragazza, scendendo da una delle scale che portavano ai ripiani più alti. “Non ti piacerebbe imparare a tirare con l’arco?”.
La proposta di Humpty era stata strana e inaspettata. Violetta richiuse la porta della sua stanza, ripensando alla sua risposta. ‘Ma certo, mi piacerebbe tantissimo!’ aveva detto tranquillamente, senza sapere che si sarebbe dovuta svegliare all’alba per non dare nell’occhio e non saltare nessuno dei compiti che le erano stati assegnati. Tutto per il suo romantico e patetico sogno di sentirsi come Giovanna D’Arco. Lena non era ancora tornata, forse era stata trattenuta nelle cucine, ma non aveva la testa per pensarci perché stava per crollare dal sonno. Si lasciò cadere sul materasso pensando di chiudere solo momentaneamente gli occhi e riposarsi un po’, invece si addormentò all’istante, crollando in un sonno agitato.
Il vento faceva frusciare l’erba della misteriosa radura, circondata da alberi i cui rami si intrecciavano come per indicare che non si potesse uscire da quel luogo. Si ritrovò in ginocchio, confusa e con la mente annebbiata, mentre davanti a lei una figura sfocata, ma familiare, era seduta per terra, con i gomiti appoggiati sul prato, e le sorrideva. Mosse le mani in avanti, sorpresa da quell’improvvisa cecità che le stava confondendo i sensi, finché non sentì di perdere il precario equilibrio raggiunto. Due braccia forti la sorreggevano, impedendole di cadere ulteriormente. Alzò il viso, e immediatamente accadde l’opposto: tutto intorno si fece sfocato, appariva nitido solo il personaggio che la stava stringendo a sé. “Devi fidarti di me” le sussurrò Leon, con gli occhi lucidi, che quasi brillavano di luce propria. Violetta annuì debolmente, e desiderò di rimanere in quel posto con lui, per sempre. La sicurezza che le mancava era arrivata, e in quel porto calmo sentiva di poter lasciare finalmente fluire liberamente le proprie emozioni. Il principe sorrise nuovamente, e le accarezzò una guancia con il dorso della mano destra, mentre con il braccio sinistro le circondava la vita in modo protettivo. Ritrovò l’equilibrio sorreggendosi al suo corpo, i cui muscoli erano tesi per mantenerla in quella posizione. Lentamente i loro volti si avvicinarono. Un calore inspiegabile avvolse il suo viso, mentre sorrideva e chiudeva lentamente gli occhi. Le calde labbra di Leon si impossessarono delle sue con avidità. Violetta sentì i brividi correrle non solo lungo la schiena, ma per tutto il corpo, mentre le mani si mossero automaticamente, fino a stringere tra i loro palmi il viso del giovane. Sentì la stretta di Leon aumentare, e il bacio si fece sempre più intenso, più desiderato. Leon le morse debolmente il labbro inferiore, facendola sospirare, quindi spostò lentamente una delle mani sul suo petto, desiderosa di sentire il battito del suo cuore, di potersi fondere con esso. Ma non appena la ebbe poggiata, la ritrasse spaventata: il vuoto, il nulla totale. Si staccò da quel bacio, e tutto si tramutò in incubo. I rami si allungarono estendendosi sul terreno, trasformandosi in scuri rovi che li circondarono, nel tentativo di intrappolarli. Guardò la mano che aveva ritratto e notò che era sporca di sangue; si voltò verso il principe, e inorridita si alzò, inciampando. Una macchia rossa scura si stava espandendo dall’altezza del cuore, e un rivolo di sangue uscì dalla bocca di Leon. Iniziò a piangere mentre il corpo cadeva all’indietro, disteso, morto. “No!” urlò; i rovi coprirono il cadavere, inglobandolo tra le loro spire. La creatura vegetale sembrava volerla attaccare, ma una flebile barriera invisibile la proteggeva. Le immagini di Leon morto però non la facevano sentire meglio, e i rovi si fecero così fitti, che tutto intorno fu l’oscurità.
“Basta, basta!” continuò a strillare, agitandosi nel sonno, mentre Lena la osservava incerta su cosa fare. Si sedette al suo lato, e le accarezzò una spalla, cercando di farla svegliare dolcemente: “Violetta, va tutto bene, è solo un brutto sogno. Svegliati”. La ragazza aprì gli occhi, quegli scuri occhi castani in grado di leggere ciò che sentivano le persone. E per un momento si chiese se non fosse stata anche in grado di capire Leon. Forse era l’unica. “Che ti prende?” chiese Lena. Violetta si mise seduta sul letto, sconvolta, con l’affanno e il cuore che le voleva uscire dal petto per l’angoscia provata. “Che ore sono?” chiese Violetta, guardandosi intorno. “E’ notte fonda ormai, stavo dormendo, ma ad un certo punto ho sentito un urlo agghiacciante, non potevo certo immaginare fosse il tuo” le spiegò la compagna di stanza, prendendole le mani. Rabbrividì: erano fredde come il ghiaccio. “Io…ho sognato che moriva! Leon corre un grave pericolo!” esclamò, scossa per le immagini del sogno, ancora vive dentro di lei. “Era solo un sogno! Il principe sta dormendo al sicuro nelle sue stanze, adesso” tentò di rassicurarlo l’altra, invano. Violetta si alzò di scatto, cominciando a piangere: “Non capisci…quando Leon è rimasto ferito, io lo sapevo già, l’avevo sognato”. “E’stato un caso, Violetta, solo uno stupido caso”. “Non credo al caso, e penso che Leon sia in pericolo, penso che morirà” sentenziò l’altra, lasciandosi trascinare dal braccio di Lena nuovamente sul letto. “Non succederà. Leon è troppo crudele per morire, è troppo forte” disse Lena, cercando di alleviare la tensione, con scarsi risultati. Violetta si distese su un lato, cercando invano di prendere sonno. Intervallava singhiozzi al respiro affannoso, finché la stanchezza non tornò a farsi sentire, e insieme alle materne carezze di Lena non riuscì nuovamente a sprofondare in un sonno profondo, questa volta senza sogni.  
La mattina dopo, come promesso all’anziano bibliotecario, Violetta si fece trovare al campo di addestramento all’alba. Humpty la stava aspettando con un arco in mano e delle frecce inserite nella faretra, e sorrideva allegramente. Lei invece era a pezzi: quel sogno l’aveva devastata e ancora poteva avvertire la consistenza del sangue sul palmo della mano. “Bene, vedo che ti sei presentata giusto in tempo” disse l’uomo-uovo, consegnandole l’arco e indicando con lo sguardo il bersaglio posto a media distanza sul terreno polveroso. “Come faccio a prendere la mira? Come posiziono l’arco?” chiese Violetta a ripetizione, mentre si destreggiava e cercava di allacciare la faretra lungo la vita. “Non ne ho idea, assolutamente” ridacchiò il bibliotecario, divertito. Non riusciva a crederci: che l’aveva portata a fare al campo se poi non sapeva come si facesse a tirare con l’arco? “Ma qualcuno potrebbe darti una mano” aggiunse poi, con aria furba. “Leon! Leon!” chiamò a gran voce il giovane principe, che alla vista di quei due da lontano, aveva voltato le spalle, sperando di non essere stato visto. Si maledì per aver accennato ad Humpty più volte degli orari in cui preferiva allenarsi; doveva aspettarsi un colpo basso del genere. Fece un profondo respiro, deciso a comportarsi nel modo più distaccato possibile, quindi si voltò nuovamente, con un’espressione fredda, costruita alla perfezione. Ma tutta quella fatica fu inutile, perché non appena Violetta alzò lo sguardo per osservare l’interlocutore del suo accompagnatore, si sentì mancare il terreno sotto i piedi. Humpty gli fece cenno di avvicinarsi a loro, e le sue gambe si mossero meccanicamente, mentre il cervello pregava affinché non arrivassero mai a destinazione. “Tutto bene, Leon?” chiese la ragazza, notando la sua espressione a metà tra l’inorridito e lo stupefatto, non appena furono vicini. “Niente. Odio quando qualcuno tocca gli attrezzi che uso per allenarmi” ribatté stizzito l’altro, interrompendo quel contatto visivo, che metteva a nudo la sua anima. E la sua anima era sua, solo sua; nessuno l’avrebbe violata, nessuno avrebbe potuto metterci mano. “Scusa, non volevo” mormorò Violetta umilmente, appoggiando l’arco a terra, creando una situazione di tensione. Humpty osservava con aria di rimprovero il principe, che nonostante la scena in biblioteca non era ancora deciso a lasciarsi andare; si avvicinò alla ragazza, raccolse l’arco, sfidando così l’autorità di Leon, e fece avvolgere la tremante mano di Violetta intorno al supporto in legno. Violetta non sapeva cosa fare, ma tenne stretto l’arco. “Non essere scortese, Leon. Ci sono io con lei, e non sta facendo nulla di male. Anzi, perché non le insegni te?” propose l’anziano, sedendosi su un ciocco poggiato a pochi metri. “Non ce n’è bisogno. Posso imparare da sola” si difese Violetta, tendendo l’arco con la freccia, e scoccando di colpo. La freccia si conficcò nel terreno, a poca distanza da dove era stata lanciata, e Leon scosse la testa divertito, avanzando lentamente, fino a trovarsi alle sue spalle. Sfilò una freccia dalla faretra e la posizionò. Il braccio destro si accostò a quello di Violetta, e posizionò le dita sulle sue. “Chiudi gli occhi, e ti spiego meglio” le sussurrò all’orecchio, facendole rabbrividire. Il petto del principe ormai aderiva alla sua schiena perfettamente, e poteva sentire ogni piccolo rumore proveniente da esso, come se provenisse dal suo corpo: il battito del cuore, il respiro controllato. “Questo è legno di maggiociondolo, molto flessibile, e quindi non necessita di una eccessiva forza per tenderlo. Prima ce ne hai messa troppa, e hai inserito male la freccia, con la punta verso il basso” spiegò pazientemente, coprendo con il palmo della sua mano il piccolo pugno di Violetta, concentrata a stringere l’arco. “E adesso rilassati, ti sento fin troppo tesa” ridacchiò il ragazzo, soffiando nuovamente nel suo orecchio. Violetta si lasciò cullare dalle parole calde pronunciate dal ragazzo, dalla sua dolcissima risata; non l’aveva mai sentito ridere in quel modo, autentico, vero. “Riapri gli occhi lentamente, e fissa unicamente il bersaglio, non lasciare che nulla ti distragga. Siete solo tu e il tuo obiettivo, nessun altro”. La testa di Violetta era vuota, completamente vuota. Non pensava a nulla e a nessuno, la voce di Leon le aveva estratto ogni singolo pensiero, lasciandole solo la pace dei sensi e il nulla.
La freccia sibilò con una velocità incredibile, mentre la punta acuminata si rifletteva negli occhi brillanti della giovane; si conficcò vicino al centro del bersaglio, con un tonfo sordo. “Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta!” esclamò, saltellando dalla gioia. Si voltò di scatto, lasciando cadere a terra l’arco, e si fiondò tra le braccia di Leon, tenendosi stretta a lui, e facendo passare le braccia intorno al collo. Leon rimase spiazzato, con lo sguardo vitreo, e fisso nel nulla. I capelli di Violetta gli ondeggiavano davanti agli occhi, e tutto il resto aveva perso importanza. Sentire quel corpo fragile che gli trasmetteva un calore mai provato, gli fece venire il desiderio di prometterle di proteggerla sempre e comunque da chiunque. Chi era lui per promettere però protezione? Un carnefice, un assassino. Non era stato nemmeno in grado di proteggere le persone che amava. No, non meritava nulla di tutto quello, non era giusto che si sentisse così felice, così appagato dalla presenza di Violetta. Lui era un mostro. Ma la luce della sua anima che giaceva nell’abisso, sollecitata in non sapeva quale modo, brillava con più forza, chiedendo a qualcuno di trovarla. Leon rafforzò la presa, quasi inconsapevolmente, e aspirò a fondo il suo profumo, un misto di essenza di rose e lavanda. Ma non era una profumo forte, invasivo, era semplicemente il suo profumo. E si rese conto che avrebbe desiderato svegliarsi ogni mattina con esso. Colto da un senso di colpa ancora più frustrante, si allontanò, girando i tacchi, con l’intenzione di dirigersi al castello, ma la mano di Violetta arpionata al suo braccio, non gli permise di fare un solo passo. “Leon, vedo che stai meglio con la spalla”. Il principe si voltò a rallentatore, pendendo dalle sue labbra, quelle meravigliose labbra rosee e sicuramente dal sapore dolce. Avrebbe tanto voluto assaggiarle, ma aveva paura che potesse sentirsene dipendente, e ancora un velo di orgoglio lo tratteneva. “Si, sto meglio” rispose tranquillamente, cercando il suo sguardo. Ne aveva bisogno, voleva sapere cosa stesse pensando. E quando lo trovò ne rimase ancora una volta incantato. Perché doveva fargli sempre quell’effetto? Perché si lasciava vincere così facilmente? “Bene, allora non dimenticarti la nostra promessa. Che ne dici di andare oggi per l’ora di pranzo al limitare del bosco? Porto io da mangiare” propose con un sorriso solare.
Non se l’aspettava affatto. Tutto, ma non quella proposta che in cuor suo aveva desiderato venisse posta fin dal giorno in cui si erano ritrovati a leggere insieme delle stramaledette poesie. “Va bene. Ci vediamo all’entrata all’una, quando il sole è in alto” rispose secco, per poi allontanarsi a passo lento, mentre Violetta lo osservava sorridendo sempre di più. Qualcosa era cambiato, non solo in Leon, ma anche in lei. E adesso ne era quasi certa, il fremito che gli aveva provocato la sua sola vicinanza, il desidero di abbracciarlo, di sentirsi al sicuro tra le sue braccia, non poteva essere frainteso: era innamorata. Non si trattava di una semplice cotta, non poteva smettere di pensare a lui. Era innamorata davvero sul serio, e prenderne consapevolezza in quel modo la spaventò un pochino, ma in fondo subito il suo cuore si sentì leggero come una piuma. Adesso rimaneva solo da pensare a preparare il pranzo da portare. Cominciò a correre verso il castello, mentre numerose idee sulle pietanze che avrebbe potuto preparare le affollavano la testa. Quel pomeriggio sarebbe stato speciale, lo sentiva. “Nessuno aiuta un vecchio e saggio, eh?” rise l’uomo-uovo, che per alzarsi dal ciocco rischiò di rotolare per terra. “D’altronde sono giovani. Così sognatori, ma soprattutto così innamorati”.
Leon batteva nervosamente il piede all’ingresso, tenendo d’occhio la scalinata. Non sarebbe venuta, e la sua era stata una perdita di tempo. Come poteva pensare che si sarebbe davvero presentata? Forse aveva deciso di prendersi gioco di lui…Il solo pensiero lo faceva ribollire di rabbia, e già nella sua testa stava cercando di decidere in che modo vendicarsi di quell’affronto, quando un rumore di passi lo fece voltare verso il salone d’ingresso. Violetta avanzava indossando un vestito turchese, dai ricami bianchi floreali, molto stretto sulla vita, che risaltava le sue forme. E in quel momento il vestito che indossava nella mente di Leon passò quasi in secondo piano. Non aveva mai fatto pensieri di quel tipo, ma in quella situazione gli sembrò impossibile non farne. Avanzava a passo svelto con un cestino di vimini in mano e le guance arrossate per la corsa che doveva aver fatto. Ancora una volta doveva ringraziare la sua cattiva fede per averlo messo sulla via sbagliata. “Scusa per il ritardo, solo che non sapevo…”. “Che indossare?” completò lui, sicuro della sua intuizione. “No, che preparare. Il vestito me l’ha prestato Lena, a lei sta un po’ grande” rispose Violetta, lisciandosi le pieghe, incerta, all’ingresso. Leon si riscosse dalla bellissima visuale che aveva davanti, e annuì alle parole pronunciate poco fa, dandosi dell’idiota per aver pensato che ci avesse messo così tanto per prepararsi, quando aveva impiegato tutto il suo tempo per cucinare qualcosa che potesse essere di suo gradimento.
“Mi dispiace per averti fatto aspettare” esclamò, mentre camminavano l’uno affianco dell’altro fuori dalle mura, dirigendosi lungo la verde vallata verso il limitare del bosco. “Non è nulla” disse Leon, avanzando sempre più velocemente per la destinazione. “A che ti serve quella spada?” domandò la ragazza, cercando di intavolare una qualche conversazione, pur di rompere quell’imbarazzo iniziale. “Se qualcuno ci dovesse attaccare…” eluse abilmente il tentativo Leon, stringendo l’elsa della spada, per infondersi sicurezza. “E perché dovremmo essere attaccati?”. “Fuori da quelle mura tutto è possibile” replicò il principe, indicando le imponenti strutture di difesa che estendevano la loro ombra sulla valle. Finalmente raggiunsero le prime tracce di vegetazione che si fece sempre più fitta ad ogni passo. “Dove stiamo andando?” chiese Violetta, incerta. “In un posto speciale” rispose l’altro, evasivo come sempre. Raggiunsero il viale rosso fuoco, e Leon le fece cenno di allontanarsi da esso, scostando alcuni rami bassi, per cavalleria. Violetta sollevò leggermente la gonna e chinò il capo lasciandosi nuovamente inghiottire dal folto della foresta da cui tutto aveva avuto inizio. “Siamo quasi arrivati” la informò il principe, lasciando tradire leggermente l’emozione che provava in quel momento. Quando l’ultimo ramo fu scostato, si trovarono su una piccola radura isolata nel bel mezzo della foresta. Il prato era intervallato da accorpamenti di fiori dai colori variopinti, e alcune farfalle volteggiavano pigramente da un fiore all’altro, mettendo in mostra le proprie ali. “Ti piace?” chiese dopo qualche minuto di silenzio, in attesa del verdetto, teso come non mai. “E’…perfetto. Sembra un piccolo paradiso” esclamò Violetta, stupefatta, guardandosi intorno. Il ricordo dell’incubo la investì congelandole il sangue. Quella radura…era esattamente quella del sogno!
“Qualcosa non va?” la interrogò il giovane, prendendo un telo di stoffa dal cestino di vimini e stendendolo con cura. “Se non ti piace, possiamo andare da un’altra parte” aggiunse subito dopo, notando l’espressione terrorizzata di Violetta, che non muoveva un muscolo. “No, è bellissimo” si affrettò a rispondere, sedendosi sul telo, e poggiando delicatamente il cestino. Prese alcuni panini con la carne, preparati con il massimo della cura, e ne tese uno a Leon, che si mostrò incerto se accettare o no quello strano pasto: “Questo cosa sarebbe?”. “Un panino” disse Violetta, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. “E…come si mangia questo…panino?” chiese Leon, prendendo in mano il panino che le era stato offerto e guardandolo da varie angolazioni. “E’ solo pane con dentro della carne; e ci ho aggiunto un po’ di salsa, per renderlo più saporito” spiegò la ragazza, prendendo il suo panino e dando un piccolo morso. “Devi solo morderlo come faccio io”. Leon annuì, sempre più confuso, quindi avvicinò il panino alla bocca e diede un morso piuttosto grande, facendo schizzare la salsa lungo la guancia. Arricciò il naso, infastidito, provocandole una risatina. “Aspetta, ci penso io” disse divertita, prendendo un fazzoletto di stoffa bianca. Si mise in ginocchio e si avvicinò al principe, che la guardava con un timore reverenziale. “Stai fermo, non muoverti” disse lei, poggiando una mano sulla spalla di Leon, e sporgendosi di poco per pulire lo schizzo rosso. Leon le afferrò il braccio non appena lo vide alzato verso di lui, facendole perdere di poco l’equilibrio. Si ritrovò Violetta addosso, con la mano sinistra stretta sulla sua spalla, e la destra appoggiata sul petto. “S-scusa” balbettò lei, diventando dello stesso colore di un papavero vicino a loro. Ed ecco che la scena del sogno si ripeteva esattamente nello stesso modo. Non sapeva come fosse possibile, ma poi si ricordò quello che succedeva dopo e cominciò a respirare a fatica, come se già sentisse le labbra di Leon sulle sue, che le impedivano ogni tipo di normale respirazione. “Perché lo stai facendo?” chiese Leon, sempre più vicino; la mano sinistra era piantata sul prato mentre la destra, attratta in quello che sembrava essere diventato per lei un luogo naturale, le circondava la vita delicatamente. “Facendo cosa?” chiese Violetta, sentendo lo sguardo profondo del principe puntato su di lei, uno sguardo che non riusciva a sostenere per l’imbarazzo. “Tu…sembra quasi che ci provi soddisfazione a mettermi in soggezione” spiegò rafforzando la stretta a portando i loro petti a coincidere. “Sto davvero parlando con Leon? Quel Leon? Che voleva rovinarmi, che provava gioia nel vedere gli altri soffrire?” sussurrò la ragazza, rabbrividendo nel sentire il calore del fiato del principe Vargas. “Mi stai portando alla rovina” disse il principe. Violetta stava per rispondere, quando qualcosa la trattenne. Leon stava chiudendo gli occhi, e lentamente si avvicinava. Poteva avvertire il naso che sfiorava il suo, il ciuffo dei capelli che si incontrava con i suoi, mescolando il castano chiaro con quello più scuro. E quella sensazione di solletico che provava le piaceva fin troppo. Aveva scoccato la sua freccia, trapassando il cuore del principe, impadronendosene, e non poté non sorridere al pensiero. L’odio che li separava non esisteva, ed era stato sostituito da un legame che in fondo c’era sempre stato ma che entrambi avevano rifiutato di considerare. La mano di Violetta salì lentamente fino a sfiorargli piano la guancia, e si intrecciò con l’altra circondandogli il collo. Chiuse anche lei gli occhi, sporgendosi e potendo sentire l’emozione di Leon invaderle l’animo. Era tutto perfetto, l’atmosfera era perfetta, il luogo era perfetto, la musica era perfetta. Musica?!












NOTA AUTORE: Auguri di Buon Natale a tutti! E mentre Leon ha capito che cos'è un panino e come si mangia (LOL), già vi vedo tutti pronti per la grande abbuffata natalizia xD Beh, come regalo, visto che è mercoledì, ho deciso di aggiornare nonostante sia un giorno di festa. Il capitolo era già pronto, quindi non mi ha creato nessun problema, l'ho solo riletto un po' di fretta, quindi se ci sono errori, perdonatemi, ma quando torno dall'orda dei parenti gli ridarò una letta e aggiusterò tutto, promesso :) In tutto ciò, finalmente si sta per compiere la storia d'amore di Leon e Violetta. Violetta è ormai certa di essere innamorata, e Leon dal canto suo, nonostante la paura, e nonostante non si senti degno di provare quelle strane emozioni, ha ormai ceduto, e lo si capisce dalla frase finale e da questo quasi bacio, in cui il principe non può accampare scuse: lo vuole eccome, questo bacio! GForhfil2f, comunque la scena del tiro con l'arco è la mia preferita, e l'avevo in mente dall'inizio della storia, dovevo solo capire quale fosse il momento adatto, e in questo capitolo ci sta proprio alla perfezione. Mi piace molto comunque la diffidenza che prova Leon quando aspetta Violetta, sicuro che l'abbia preso in giro! In fondo Leon ha ancora le tracce del principe freddo e spietato, che pensa male di tutti, e non cambierà il suo comportamento con gli altri. Sarà particolare vedere il solito freddo Leon a corte, e un Leon dolce e premuroso solo con Violetta. Beh, andando avanti capiremo di cosa sto parlando (anche se sono indietro con la stesura dei capitoli. Tragedia!). Detto ciò, vi ho detto questo perchè non stravolgerò completamente il personaggio di Leon fin da subito. Alcune sue vecchie caratteristiche almeno per un po' rimarranno, ma capirete tutto quello che voglio dire. Nel frattempo godiamoci questo bel capitolo, e ricordiamoci il terribile incubo di Violetta, ha una sua importanza :O Mi piace questo capitolo, mi piace un sacco :3 Ah, il finale che dolce! <3 Ma...cosa è questa musica, che non è quella dei loro cuori, è proprio musica! xD Beh, lo scopriremo nel prossimo capitolo dal titolo 'La quadriglia dell'aragosta'. Rivedremo in azione il vecchio caro Beto con la sua comitiva e...AHHHH, non posso dirvi altro xD Grazie a tutti voi che mi seguite, leggete questa storia e mi lasciate le vostre splendide recensioni *O* Grazie di tutto, e alla prossima! :D Buona lettura e BUONA NATALE! :D 
 

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Capitolo 17
*** La quadriglia dell’aragosta ***





Capitolo 17

La quadriglia dell’aragosta

La musica che proveniva dal folto della foresta da lieve si fece sempre più accesa. “N-Non la senti questa musica?” domandò Violetta a un soffio dalle labbra di Leon, il quale, come ripresosi da una fase di trance, la scostò da sé con forza. “Ma che diavolo mi sta prendendo!” borbottò, disinteressato al fatto che la ragazza potesse sentire tutto, cosa che avvenne. Altamente imbarazzata per quella situazione, si alzò di scatto, pulendosi la gonna dai petali di fiori e dai ciuffi d’erba. “Sarà meglio tornare al castello” aggiunse Leon, alzandosi senza guardarla negli occhi. “Se vuoi tu vai, io voglio sapere da dove proviene questa melodia” esclamò elettrizzata Violetta, aggirandosi curiosa per la radura, cercando di capire dove il suono aumentasse di intensità. “Non se ne parla! Non ti lascerò qui da sola” disse duro Leon, lasciando trapelare anche una nota di preoccupazione. “Nel senso…che potresti tentare la fuga” si affrettò a precisare, tendendo la mano verso di lei, per riportarla indietro. Violetta sorrise e gli afferrò la mano per trascinarlo fuori dalla radura, nel bosco. Mentre si lasciava trascinare, il principe osservava le loro mani strette, e si chiese se non fosse il caso di lasciarsi guidare da quelle strane emozioni che avvertiva ogni volta che la guardava, che si specchiava in quei limpidi occhi castani. E al solo pensiero sentiva il cuore fermarsi all’improvviso. Non era normale, assolutamente. “E’ una musica bellissima!” esclamò la ragazza, accelerando il passo, con dietro Leon che non capiva il perché di tutta questa euforia. Tendendo l’orecchio meglio, e concentrandosi sulla musica dovette ammettere che era una bella melodia: ritmo incalzante, dallo stile quasi celtico, e che faceva venire voglia di ballare. Si fermarono sotto una piccola tettoia di legno, che precedeva l’ingresso a una casa fin troppo nota alla giovane Violetta, che si arrestò di colpo. “Che succede? Non vuoi più sapere di più su questa musica?” chiese serio il principe Vargas. “Si, è solo che…in questo posto ci sono…tipi un po’ strani”. “Beh, allora torniamo indietro. Dovevi darmi ascolto fin da subito” si pavoneggiò l’altro, gonfiando il petto con aria di autorità. Amava avere ragione, sempre e comunque, provava una vera gioia quando la gente era costretta a riconoscergli il merito di aver saputo fin da subito consigliare la decisione giusta da prendere. Ma la reazione di Violetta ancora una volta lo fece rimanere a bocca aperta: “No!”. Leon scoppiò a ridere ironicamente: “Perché non ti arrendi mai? E’ così dura ascoltare i consigli degli altri?”. Gli dava enormemente fastidio il fatto che le tenesse testa in quel modo. Abituato com’era ad avere tutti ai suoi piedi, si irritava non appena qualcuno non lo trattava nel modo dovuto.
Avrebbe voluto ribattere ancora, per fargli capire che non aveva intenzione di seguirlo, quando la porta di legno si aprì cigolando. “Ma chi si rivede, vi stavo aspettando!” strillò Beto, martellandogli le orecchie. “B-beto” salutò timorosa Violetta, vedendosi in due secondi catapultata dentro la stanza, resa accogliente dal camino acceso. Al centro, sul tavolo da tè, c’era un giradischi in bronzo, che diffondeva la musica che li aveva tanto attirati. Il Ghiro e la Lepre Marzolina stavano saltellando, imitando una sorta di ballo. “Basta con questa stupida musica!” esclamò il Cappellaio, alzando la punta del giradischi, con fare stizzito. La musica si fermò e si sentì solo il canticchiare dei due compari dell’uomo. Il Ghiro quel giorno sembrava particolarmente attivo, e si scatenava anche senza accompagnamento musicale. Beto, agitatissimo come sempre, dall’enorme quantità di teina che scorreva nel suo corpo, prese una padella e gliela diede in testa con una violenza inaspettata; il povero animale traballò per un secondo, poi cascò a terra, e cominciò a ronfare nuovamente. “Ci voleva” sentenziò soddisfatto, riposando l’arma sul tavolo. Violetta si chinò preoccupata vicino al Ghiro, per sapere se stesse bene: “Ma…questa è una pazzia! Non si dovrebbe fare del male agli animali in questo modo”. “Lui ha la testa più dura di una noce, non preoccuparti, Violetta cara, hai altre questioni più importanti da affrontare” disse l’uomo, facendosi improvvisamente serio. Il suo sguardo saettò sul principe Vargas, rimasto all’ingresso, profondamente confuso. “Ehi, tu, stoccafisso, entra, mica mordiamo” sghignazzò la Lepre, prendendo una tazzina e bevendone il contenuto in un solo sorso. “Noi dobbiamo andare” ribatté Leon con la sua solita freddezza. “Meno male che c’è un camino, il tuo tono di voce è da brividi, amico” rise Beto, afferrando il braccio di Leon e trascinandolo dentro. “Ho qualcosa che fa per noi!”. Si avvicinò ad una mensola fissata alla parete e tirò fuori da una pila di dischi polverosi un disco di un colore arancione chiaro. Leon scoppiò a ridere, ma non era una risata malvagia, sembrava piuttosto una risata isterica: “Non crederete davvero che io mi metta a ballare con voi pazzi scatenati? No, io e Violetta torniamo al castello”. Il modo in cui aveva marcato il suo nome la fece rabbrividire, e i suoi occhi che le ordinavano di alzarsi e di seguirlo erano peggio di una doccia fredda. “Ma…solo un ballo” lo supplicò, alzandosi e avvicinandosi con un’espressione tenera. Amava ballare, quasi quanto cantare, e anche se profondamente squilibrati quei tre compari erano a loro modo simpatici, e soprattutto abbastanza innocui. “Non mi incanti con quella faccia” esclamò Leon, voltandosi dall’altra parte. Doveva mostrarsi forte, anche se quel viso così dolce faceva crollare in un secondo tutte le sue difese. Violetta, consapevole del potere che in quel momento aveva su di lui, sorrise maliziosa, si aggrappò alle sue spalle, e si avvicinò con la bocca al suo orecchio, in punta di piedi. “Per favore, uno solo. In fondo ancora non è buio” gli sussurrò dolcemente. Leon si irrigidì di botto, e chiuse gli occhi. Sospirò profondamente in segno di resa, e la ragazza lo abbracciò da dietro entusiasta: “Grazie Leon, grazie mille”. Le mani di Violetta gli cingevano il busto, con un affetto che non aveva mai provato, e che gli stava lentamente scaldando l’anima. Sentiva il volto appoggiato sulla schiena, il calore emanato dal suo corpo. Brividi di emozione correvano lungo il suo corpo, fino a raggiungere le punte delle dita, fino a sconvolgere ogni singolo neurone del cervello. “Ma dopo dritti al castello” precisò, per dimostrare di non essere stato completamente vinto. “Assolutamente si!” esclamò la ragazza, prendendogli la mano e cercando di portarlo al centro della stanza. Leon si ritrasse di colpo inorridito: “No, non ci siamo capiti! Non ho intenzione di ballare!”. “Dai, Leon! Altrimenti non mi divertirei” mormorò lei, arrossendo. L’aveva ammesso, aveva ammesso di provare qualcosa per Leon. Non nel modo tradizionale, non c’era stato alcun ‘ti voglio bene’ o ‘ voglio stare con te’, ma il suo cuore si era appena dichiarato intenzionalmente, e in maniera implicita. Non aveva mai battuto così forte, non le aveva mai mandato segnali così chiari, ed era giunto il momento di seguirli. Solo che Leon non sembrava voler ballare, forse non le interessava avere nulla a che fare con lei. E nonostante cercasse di sorridere quella situazione le faceva male: il principe continuava a fissarla di sbieco, non ancora consapevole di cosa quelle parole potessero voler dire. Per fortuna Beto agì in tempo, infilando il disco con un vigore tale che il giradischi quasi non cadde dal tavolo per l’urto. La musica cominciò a partire, vivace e coinvolgente, e Leon si sentì frastornato all’inizio, mentre subito dopo si trovò al centro di un cerchio. Il Ghiro, la Lepre, Beto e Violetta lo circondavano di spalle, ridendo come pazzi. “Ma che…?” imprecò, cercando di uscire da quella prigione. “E dai, sangue reale, lasciati andare. E’ la quadriglia dell’aragosta, chi non la balla ha una faccia tosta!” strillò Beto, sciogliendo il cerchio, e formando delle coppie. La Lepre ballava con Violetta, e Leon era in mezzo a Beto e il Ghiro che, una volta risvegliato, era ancora più scalmanato di prima. Il Cappellaio ghignò soddisfatto e fece un cenno alla Lepre, che si spostò di scatto, lasciando sola Violetta in mezzo alla stanza. “Cambio partner” sghignazzò l’uomo, dando una spinta a Leon, che rischiando di inciampare si ritrovò quasi tra la braccia di Violetta. “S-scusa”. Leon era profondamente mortificato per la situazione. La musica andava avanti, con un ritmo sempre più lento. O forse erano i loro cuori che registravano i rumori all’esterno più lentamente. Leon cercò di dire qualcosa, ma Violetta posò un dito sulle sue labbra: “Non rovinare questo bel momento. Voglio solo ballare con te”. Gli prese la mano, e gliela mise intorno alla vita teneramente, quindi posò la destra sulla sua spalla, e lo guidò con dei piccoli tocchi leggeri.
“Mi piace stare con te” esclamò d’un tratto il principe, seppur con un notevole impaccio nel seguire i suoi movimenti. La melodia adesso era romantica; ispirava dolcezza ed amore. Non capivano come la stessa musica potesse assumere tutte quelle sfumature. Beto sorrise disinvolto: non per niente aveva messo la Quadriglia delle Aragoste. Un brano magico in grado di adattarsi alle emozioni di coloro che lo ballavano. Violetta continuava a guardarlo dritto negli occhi, e si chiese come sarebbe stato bello vederli brillare per amore. Avrebbe tanto voluto che provasse i suoi stessi sentimenti, sentimenti che si erano lentamente manifestati, con una forza ormai devastante. La mano che le sfiorava il fianco, rafforzò timidamente la sua presa. Leon sorrideva impercettibilmente, rispondendo alla dolce espressione della ragazza. Si sentiva rilassato per la prima volta in vita sua: non sentiva i sensi di colpa per tutti i crimini commessi, non sentiva gli ordini della madre o il desiderio di sangue. Stringendo quella creatura così fragile desiderava stare con lei in quella casa per sempre. Anche a costo di sopportare la compagnia di quelli stranissimi tipi. “Mi sento strano quando sono con te” le confessò all’orecchio, senza riuscire ad evitare di ispirare profondamente, in cerca del suo profumo, solleticandole così la pelle. “Ed è qualcosa che ti fa stare bene?” chiese lei, non sapendo se volesse davvero conoscere la risposta. “Si, lo è” rispose semplicemente, sfiorandole la guancia con un dolce bacio. Violetta tremò quasi per quel gesto e non fosse per la forte presa che il ragazzo stava esercitando sulla sua vita, avrebbe potuto crollare sul pavimento in un istante. La musica finì di colpo, riportandoli alla realtà. “Non avrei dovuto, sono stato scortese” si scusò Leon, per il modo in cui era stato esplicito e irrispettoso. Per la prima gli importava davvero del modo in cui trattava qualcuno. Da piccolo aveva sempre prestato una pedissequa attenzione al galateo, che gli veniva insegnato ogni giorno. E anche adesso che era più adulto in pubblico si era sempre mostrato rispettoso, ma…con Violetta era diverso. Avrebbe potuto trattarla male, avrebbe potuto farne quello che voleva. E non l’aveva fatto. Ci teneva a quella ragazza, ci teneva davvero; e quel misto di nuove emozioni lo spaventava. Perché quel desiderio di voler stare sempre stare tra le sue braccia? Perché quel bisogno fisico di baciarla, come se fosse l’obiettivo di tutta la sua vita fin lì? Senza rendersene conto, ormai i loro corpi si toccavano, le sue braccia la stringevano con naturalezza a sé, e lo sguardo era fin troppo combattuto, se cedere o no alle lusinghe delle sue labbra socchiuse che lo chiamavano. Violetta se ne accorse, ma non disse nulla, in attesa di una sua mossa. Alla fine Leon cedette: chiuse lentamente gli occhi, e la baciò lentamente. All’esterno non era un bacio appassionato, ma dentro le loro anime si toccavano, e si conoscevano, attraverso quel semplice gesto. Leon ebbe una scossa che non aveva mai provato in vita sua. Non era adrenalina pura, non era nemmeno paura. Era qualcosa di diverso. E se fosse quello l’amore di cui tanto gli parlava Humpty? Sorrise. Il sapore era proprio come se l’era immaginato: una dolcezza sconfinata. O forse era anche meglio. Esercitò una pressione leggermente più forte, e la sentì fremere tra le sue braccia. Affondò ancora le labbra nelle sue, desideroso di conoscere ancora di più quella strana sensazione. Dopo un tempo indefinito, anche a causa della bolla temporale che avvolgeva quella casa, lentamente si separò e riaprì gli occhi di scatto, poggiando la fronte sulla sua. Voleva conoscere la sua reazione, sperava di non aver agito male, di non essersi lasciato andare per un pugno di mosche. Il suo enorme orgoglio non avrebbe retto un rifiuto. Violetta socchiuse gli occhi, come assaporando ancora quel momento, poi li aprì del tutto, e lo guardò. Lentamente un dolce sorriso si dipinse sul suo volto, e Leon capì. Completamente euforico la baciò ancora, e ancora. Erano baci veloci, dei semplici tocchi di labbra, ma bastavano a far perdere la testa ad entrambi. Si erano dimenticati perfino che qualcuno li stesse osservando.
Violetta ancora non riusciva a credere di aver dato il suo primo bacio. A Leon. Se qualche mese fa glielo avessero detto lei avrebbe semplicemente riso per quella paradossale, quanto sgradita, battuta. Eppure adesso le sembrava la cosa più naturale del mondo. Anzi, tutto ciò che era successo prima di quel bacio aveva perso importanza. Era come se avesse iniziato solo in quel momento la sua avventura in quel mondo. Ogni volta che Leon la baciava sentiva che attraverso il bacio le diceva tutto ciò che a parole non sarebbe mai riuscito ad esprimere. Avvertì il naso di Leon affondare nella sua guancia, solleticandola leggermente, e le venne da ridere. Il principe, come contagiato, ridacchiò anch’egli, e si separò a malincuore. Continuò a guardarla negli occhi, e le strinse la mano, per poi darle un bacio sulla guancia. Il rumore di applausi li risvegliò da quella sorta di sogno, e i due si allontanarono imbarazzati.
Beto li guardava al settimo cielo, mentre i due mostravano il loro amore, e annuì: si, Violetta ci era riuscita. E questa era la prova che gli serviva; doveva solo capire quando sarebbe stato il momento giusto di rivelarle tutto. Lo Stregatto lo aveva avvertito: doveva prima capire molte cose da sola, altrimenti non avrebbe compreso appieno l’importanza di ciò che si nascondeva dietro il Paese delle Meraviglie. Lo sguardo intenso e serio non sfuggì al Ghiro e alla Lepre, che compresero al volo l’oggetto delle riflessioni dell’uomo. Quasi saltarono sul posto quando sentirono il Cappellaio battere le mani vigorosamente, interrompendo il loro totale estraniamento. “Bravi, bravi!” esclamò, riacquistando la sua euforia classica per non destare sospetti. Non appena sentì il corpo di Leon allontanarsi, Violetta provò un brivido, nonostante la stanza fosse resa calda e accogliente dal camino acceso. Tenne fisso lo sguardo a terra, ma di sottecchi si rese conto che anche il principe stava facendo lo stesso. “Contento che vi siate divertiti. D’altronde la Quadriglia dell’aragosta tira fuori il meglio dalle persone” rise il Cappellaio. “Si è fatto tardi, è il caso di andare” si affrettò a dire Leon, dando una rapida occhiata alla finestra della casa che si affacciava sulla tettoia. Cercò conferma guardando Violetta, e si incantò nel notare il lieve rossore delle guance. Lei annuì, sempre a testa bassa, e i due si avviarono fuori di lì. Mentre stavano per uscire, Beto si avvicinò alla ragazza, e le sussurrò: “Brava, Violetta, tu sai far prendere una piega inaspettata alla storia. Ed è proprio ciò che ci serve”. Violetta si voltò di scatto verso il suo interlocutore, e lo guardò seria. Quelle parole…le sembrava tutto molto simile a ciò che le aveva detto lo Stregatto, ma non avrebbe saputo dire in che modo. Leon le prese la mano timorosamente, e la condusse fuori, nel fresco serale, mentre il ghigno che si dipinse sul volto di Beto si allontanava velocemente, così come l’intera casa.
“Qualunque cosa ti abbia detto, non ascoltarlo. E’ solo un pazzo” la rassicurò Leon, camminandole al fianco, senza lasciare la mano fragile stretta nella sua. “Forse hai ragione…” lo assecondò convinta, mentre avanzava a passo spedito per stare dietro a quello del principe. D’un tratto si fermarono e si voltò verso di lei, con sguardo sofferente; guardava prima le loro mani intrecciate, poi il suo viso, e poi di nuovo le mani. “Ti da fastidio?”. “A cosa ti riferisci?” chiese Violetta. “Se ti tengo la mano, intendo. Non voglio che ti perdi, o cose del genere. Si sta facendo buio, e la foresta può essere un posto pericoloso” si giustificò Leon, grattandosi il capo con la mano libera. “No…anzi, è bello che ti preoccupi per me”. Giurò di averlo visto arrossire, nonostante il buio, ma non glielo fece notare. Comprendeva la difficoltà con cui cercava di aprirsi a lei, e non intendeva forzarlo. “Non voglio che ti succeda qualcosa di male mentre sei con me. Ne va della mia credibilità” rispose Leon, cercando di sembrare il più naturale possibile. Violetta si avvicinò a gli diede un bacio sulla guancia: “Grazie”. I due ripresero a camminare, senza dirsi nulla, ognuno con lo sguardo rivolto dalla parte opposta. Ogni tanto si lanciavano un’occhiata fugace, per vedere cosa stesse facendo l’altro, e puntualmente ritornavano ad ignorarsi. Ma la mano di Leon stretta nella sua era comunque un gesto inequivocabile, per quanto la situazione agli occhi degli altri potesse risultare anormale. Leon non era il tipico ragazzo normale. Non che a lei dispiacesse, visto il modo in cui le tremavano le gambe quando incontrava i suoi occhi verdi, luminosi come il chiarore tenue della luna, e profondi come le torbide acque di un lago.
Lara osservava dall’alto di una torre due lontane figure avvicinarsi al castello. Il vento le scompigliava i capelli, e i suoi occhi esprimevano solo odio e invidia. Aveva subito riconosciuto Leon e Violetta, e vederli così vicini la irritava terribilmente. Quasi tremava di rabbia; dovette chiudere gli occhi e ispirare un paio di volte per recuperare un po’ di autocontrollo. Una donna si mise al suo fianco, e appoggiò la mano destra sul merlo, intenta a osservare la sua reazione. “Non ti facevo così possessiva, Lara” si insinuò Jackie, facendo seguire questa osservazione da una breve risata. “Eppure Leon insieme a te ha sempre avuto donne in abbondanza. Cosa è cambiato?” continuò imperterrita, allargando la ferita che lacerava il cuore della serva. “Questa volta è diverso. Non  si era mai allontanano dal castello con una compagnia femminile. Temo che quella Violetta lo abbia stregato in qualche modo” rispose Lara, fin troppo presa a seguire ogni loro piccolo movimento per prestare attenzione alle parole della donna. “Conosciamo tutti Leon, non è in grado di innamorarsi in alcun modo. E’ una macchina da guerra, progettata fin nei minimi dettagli dalla regina LaFontaine” spiegò la donna con fare ovvio. “Sappiamo entrambe che cosa è successo a quel ragazzo e il modo in cui gli sono stati strappati tutti i sentimenti”. Lara si voltò lentamente, e sostenne lo sguardo fiero di Jackie, per poi scrollare le spalle: “Fino a che punto si può davvero cambiare la natura di un uomo? E se in fondo Leon non fosse mai cambiato? Se ci avesse mostrato il suo lato disumano solo per nascondere e proteggere la parte di sé che non è stata contaminata dalla malvagità della regina?”. “Non dire queste sciocchezze senza fondamento, cara. Leon ha ceduto, lo sappiamo tutti; ha ceduto nel momento in cui ha ucciso una delle persone a cui teneva di più”. Lara annuì violentemente per convincersene: “Hai ragione, sono io che mi faccio troppi problemi. Rimane comunque il fatto che io quella lì non la sopporto”. “E allora liberatene, come hai fatto con tutte quelle che si avvicinavano al principe” ghignò la domestica della regina, sistemandosi una ciocca biondo cenere dietro l’orecchio, e provando a sistemarla dentro la cuffietta bianca che stava indossando. “Non sarà un gioco come le altre volte. Ho come l’impressione che Leon non voglia perderla, e non se la farà sfuggire facilmente. Che ci troverà in quella ragazza, poi” sbuffò la serva, amareggiata. “Trattieni la tua invidia, e non agire in modo imprudente. Sbaglio o mi avevi parlato di un busto di Javier finito in mille pezzi?”. Lara trattenne una risata amareggiata, mentre un lampo nero attraversò i suoi occhi scuri. Jackie le aveva dato l’idea giusta per liberarsi di quella serva da quattro soldi. “E Leon sarà mio” sussurrò fredda, rientrando all’interno del castello. Jackie annuì e lanciò un’ultima occhiata ai due giovani spensierati, che ormai avevano raggiunto le mura. “Violetta Castillo” sentenziò sprezzante, per poi seguire la sua compagna. Non avrebbe lasciato che quella ragazza dal passato incerto avesse influenza sul principe fino a tal punto.
Finalmente raggiunsero le mura. Violetta sentì la mano di Leon abbandonare la sua al freddo, e gli rivolse uno sguardo interrogativo. “Non voglio che al castello si sappia” spiegò Leon, intuendo i suoi dubbi. “Si sappia cosa?” chiese la ragazza, sorridendo dolcemente. Aveva capito a cosa si stesse riferendo, ma le sarebbe piaciuto che lui stesso glielo dicesse. Leon sembrò in notevole difficoltà. Cominciò a guardarsi nervosamente intorno e poi borbottò qualcosa di incomprensibile. “Non ho capito nulla!” rise la giovane, confondendolo ancora di più. “Che…ci sm bciti” disse Leon, stringendo i denti, e parlando a bassa voce. Violetta si avvicinò e gli stampò un bacio sulla guancia, poggiando le mani sulle sue braccia. Al solo tocco sentì i muscoli rilassarsi, e capì di avere un potere quasi devastante sul principe. “Ci siamo baciati” ammise di colpo, arretrando di qualche passo. “O meglio, io ti ho baciata”. “Ed è stato un male?” chiese lei, timorosa della risposta. “E’ stato un male?” le rivolse la stessa domanda, prendendole le mani, e guardandola negli occhi, quegli occhi per cui stava cominciando ad impazzire ancora più di prima. “Per me no, è stato uno dei momenti più belli della mia vita”. Arrossì dopo aver pronunciato quelle parole, e osservò il sentiero polveroso su cui si trovavano. Leon si avvicinò in modo reverenziale, e sfiorò lentamente le sue labbra, per poi toccarle nuovamente, come un’ape che si posa sul fiore dal nettare più dolce e dal profumo più inebriante. Si separò e le sorrise ad un soffio: “Voglio fidarmi di te. Non so come mai, va contro tutto ciò in cui credo. Ma…mi fai uno strano effetto, Violetta”. “Uno strano effetto?” ripeté la ragazza, senza riuscire a capire. “Non ho mai desiderato di baciare qualcuno prima d’ora. Mi succede solo con te” disse, per poi baciarla nuovamente, sempre a fior di labbra. I suoi baci erano strani: dolci, ma non appassionati. Non si era spinto oltre l’assaporare le sue labbra. Forse per lui era fin troppo strano, e non sapeva come agire. Forse preferiva semplicemente aspettare per fidarsi completamente. Senza dire nulla, i due si allontanarono dalle mura, sotto cui si erano messi per non essere osservati, e si fecero riconoscere dalle guardie per farsi concedere l’ingresso. 
Violetta sorrise tenuamente, mentre una strana luce si diffondeva intorno al suo corpo. Era lei. “E’ lei” confermò una voce profonda, cavernosa. “Se me lo dici tu, LI, allora mi fido” sussurrò la giovane Cassidy, volteggiando nel cielo azzurro, sopra il castello. La sue pelle era trasparente come l’acqua limpida, i suoi occhi si fondevano con le nuvole bianche che passavano velocemente, desiderose di percorrere tutto il Paese delle Meraviglie. “Brava, bambina, c’è un motivo se le redini della storia sono state affidate a te” tuonò ancora la voce. Lentamente sentì il suo corpo farsi pesante, e le palpebre si chiusero quasi automaticamente, per poi scivolare sempre più in basso, sempre più in fondo, nell’oblio.
“E’ lei!” strillò la bambina, alzando il busto dal letto con la fronte sudata. Come sempre intorno a lei c’era solo oscurità, ma avvertiva una presenza. Una mano grande e calda le sfiorò il viso con tenerezza, e si ritrovò tra le braccia di qualcuno. “Papà…sei tu?” domandò incerta, mentre alcune lacrime le rigavano il viso. Le emozioni provate durante il sogno, la sensazione di cadere da un’altezza inverosimile ancora turbavano il suo piccolo cuore. “Si, sono io, bambina”. La voce pacata dell’uomo la tranquillizzò subito, e lentamente alcuni ricordi del suo sogno riaffiorarono come tanti spezzoni isolati. Il puzzle si ricompose, e le indicazioni di LI tornarono vivide nella sua memoria, come un’incisione nell’acciaio. “Lei è qui, papà” disse, riacquistando un po’ di serenità, sentendo al tatto le morbide coperte di lana che la avvolgevano. “Lei chi?”. “Papà, è arrivata. L’erede scelta da Alice, colei a cui sono state affidate le sorti del Paese delle Meraviglie”.








NOTA AUTORE: Hola! Aggiorno oggi per due motivi: domani non ci sono a casa, e ne approfitto per farvi gli auguri per l'anno nuovo. Buon 2014 a tutti! :D Prima di tutto dedico questo capitolo a SHINEBRIGHT, visto che il 29 era il suo compleanno e io come un perfetto idiota me lo sono scordato xD Perdooooono :3 Comunque, commentiamo un po' questo capitolo. BACIO LEONETTOSO! Lo so, voi pensavate che visto che erano stati interrotti il bacio ce lo sognavamo, e invece no! Volevo solo tenervi un po' sulle spine xD Ok, io ho sclerato di brutto, di fronte alla tenerezza di Leon, ma anche di fronte alla dolcezza di Violetta. BASTA, MUOIO. Ma quanto sono belli *O* Bravo Beto! Anche se nel finale è un po' inquietante con quelle parole. Nulla a che fare con le insidie che stanno preparando Lara e Jackie, che ha paura che Violetta possa ottenere una sempre maggiore influenza al castello. Andatevene, belle, che nessuno mi caccia Violetta ù.ù Nel frattempo Cassidy ha una delle sue visioni, in cui visualizza l'Erede famosa di cui parlava la sua profezia. Ma chi è questo LI, che ha deciso di dare l'oneroso compito a Cassidy? Misteri su misteri si accavallano nella vostra mente, ed è un bene xD L'atmosfera di mistero è importante fino alla rivelazione cardine della storia :D Grazie a tutti voi che mi seguite e leggete questa storia. Buona lettura, E BUON 2014 A TUTTI! 
 

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Capitolo 18
*** La missione di Pablo ***





Capitolo 18 

La missione di Pablo
Andres provò ad aprire gli occhi, ma fu una fatica inutile. Non appena provava a mettere a fuoco, la testa cominciava a scoppiargli. Quanti giorni aveva passato in quel letto? Forse anche settimane, per quel che poteva sembrargli. Ma la forza di alzarsi non voleva proprio venirgli, come anche quella di mangiare. ‘Shock bellico’ lo avevano chiamato i dottori, ma lui sapeva bene di cosa si trattasse: profondo senso di colpa. Aveva lasciato morire i suoi compagni, tutto il suo progetto era fallito, e solo perché non aveva saputo mantenere il sangue freddo durante quella fatale battaglia. Gli occhi verdi di puro disprezzo per la vita umana ancora gli facevano accapponare la pelle e allo stesso tempo gli facevano salire un odio mai provato prima. La porta si aprì di colpo, e Maxi entrò a passo tremante, sedendosi ai piedi del letto: “Come stai, oggi?”. Nessuna risposta. Non che non se lo aspettasse; Andres non rivolgeva più parola a nessuno. “Libi si è rimessa del tutto da qualche giorno. Se ne è occupata la regina in persona! E’ una donna dolcissima, e dalla bellezza leggendaria. Ho anche visto il sovrano di sfuggita ultimamente. Pablo è molto taciturno, a volte scompare misteriosamente tra i meandri del castello, e si presenta solo durante i pasti” cominciò a parlare il ragazzo; ogni giorno aveva l’abitudine di fare il resoconto delle sue giornate al castello. Era circa una settimana che si trovava in quella reggia spettacolare, grande quasi quanto l’intera cittadina di Fiordibianco. “E’ strano fare quei pranzi pieni di pietanze di ogni tipo. Oggi Libi è venuta per la colazione e quasi è svenuta di fronte a tutte quelle prelibatezze!” rise il giovane, sentendosi uno sciocco a parlare da solo. Tanto lo sapeva cosa interessasse davvero ad Andres, quindi sospirò e gli diede ciò che voleva: “Serdna non sta migliorando. La ferita non è stata superficiale”. Giurò di aver visto il compagno rabbrividire. Da quando erano arrivati NerdiCorallo le condizioni di Serdna non erano migliorate, anzi…c’era un continuo via vai di fronte alla sua stanza, con servi che continuavano a portare bacinelle di metallo il cui contenuto era sporco di sangue. “Stanno facendo tutto il possibile, ma…”. Andres si decise finalmente a parlare: “Non dirlo”. Sapeva benissimo che probabilmente suo fratello non ce l’avrebbe fatta. Non era forte fisicamente, e non era abbastanza tenace e resistente. Perché non gli aveva dato ascolto ed era intervenuto nel mezzo della battaglia? Maxi gli aveva detto che era stato ritrovato all’interno di un accampamento, infilzato da una lancia in fin di vita. Nessun organo vitale era stato leso, ma l’infezione non era tardata ad arrivare, con tutte le sue disastrose conseguenze. “Se non supera questa notte, allora…è finita, Andres” mormorò Maxi, rialzandosi. Non riusciva nemmeno a guardarlo negli occhi, mentre lo diceva. “Lui ce la farà, è mio fratello” mentì consapevolmente Andres, tirando su le coperte, e ritirandosi nel suo solito silenzio. “Lo spero, amico mio, lo spero…” disse Maxi, uscendo dalla stanza.
Libi era euforica al pensiero di essere di nuovo in forze. Aveva esplorato subito gran parte del castello, meravigliata di essere in un luogo fiabesco come quello. Angie, la donna che si era presa cura di lei, nonché regina del Regno di Picche, l’aveva sempre trattata con dolcezza e affetto, non facendole mancare nulla nel periodo di ristabilimento, ma stare inchiodata a letto non era certo un piacere per una ragazza attiva come lei. Entrò nella sala da pranzo, e si sedette composta, osservando con disappunto la miriade di forchette scintillanti alla sinistra del piatto in ceramica bianca finemente lavorato. Angie entrò con leggiadria, e si posizionò alla sua sinistra, su un capo della lunga tavolata, riccamente apparecchiata. Le sorrise rassicurante, e aprì con cura un tovagliolo di stoffa bianca. “Sono contenta che ti sia rimessa” esclamò la donna. Libi la fissò incantata: non si era mai resa conto della perfezione che caratterizzava la figura della regina. I capelli lunghi e dorati come spighe di grano erano stati raccolti in una treccia, che le scivolava graziosamente dalla spalla sinistra. Il diadema quasi scompariva rispetto allo splendore emanato dalla bellezza della donna. Angie, forse non rendendosi conto di essere osservata, o forse conoscendo fin troppo quella sensazione, fece finta di nulla e fischiettando un motivetto si avvicinò il calice d’argento alla bocca, dopo averlo riempito d’acqua. Le mani erano piccole e affusolate, degne di un nobile lignaggio. Libi non poté fare a meno di guardare le sue mani fin troppo grosse rispetto a quelle della regina, e le unghie sporche, quindi arrossì fino alla punta delle orecchie. “Non pensavo fossi così taciturna” la riprese scherzosamente Angie, lanciando un’occhiata dall’altra parte della stanza, aspettando che le pietanze facessero il loro ingresso. “Non sono abituata a tutto questo” sussurrò la ragazza, osservando il suo riflesso sul piatto lucido. “Stanno tutti bene, vero?” chiese poi, riferendosi ai suoi compagni. Un’ombra sfiorò gli occhi di un limpido verde acqua della regina, che abbassò lo sguardo, cercando le parole adatte. “Il tuo amico dai capelli ricci si è ripreso. Si chiama Maxi, mi sembra…”. “E Andres?” la interruppe subito, lasciandosi prendere dall’ansia. La donna colse al volo il particolare legame che vi doveva essere tra i due e sorrise rassicurante: “Non preoccuparti, il tuo amato sta bene. Ancora un po’ scosso, ma sta bene. Mentre l’altro…”. Le parole si spensero non appena le porta si aprirono e irruppe una fila ordinata di camerieri che portavano vassoi fumanti in mano. E che camerieri! Si trattava di tanti pinguini di statura media, che avanzavano zampettando, e facevano ondeggiare pericolosamente i contenuti dei vassoi. “Cosa preferisci: carne o pesce?” chiese educatamente Angie. In quel momento li raggiunsero di corsa Pablo e Maxi. Il primo aveva addirittura l’affanno, e la regina alla sua vista indurì la mascella: “Ti sembra questo il modo di accogliere degli ospiti? Facendoli attendere per il pranzo e arrivando in ritardo?”. Pablo si sedette nervosamente all’altro capo del tavolo, incapace di sostenere lo sguardo della moglie. Libi sorrise di sbieco: aveva capito chi fosse a comandare in quella casa. “Mi dispiace” esclamò impaurito il Re di Picche, sospirando sonoramente. Angie annuì comprensiva, e rivolse un sorriso a Maxi, che aveva preso posto alla sua sinistra. “Oggi io e Libi faremo un giro in città” sentenziò la donna, riscuotendo la diretta interessata dalla grande abbuffata, mentre un pinguino-cameriere accanto a lei la guardava con disappunto. “Davvero?” chiese con il boccone ancora in bocca, e l’aria spaesata. “Certo, non vorrai mica stare qui a palazzo con questi stracci da vagabonda?” rispose semplicemente Angie, ancora impegnata a studiare l’espressione del marito, che faceva girovagare la forchetta nel piatto, senza infilzare nulla. Lo conosceva fin troppo bene, e qualcosa lo turbava. Ma non voleva fare domande a tavola, gliel’avrebbe chiesto in privato. Il pranzo proseguì senza intoppi, fino a quando il re si congedò frettolosamente, alzandosi da tavola senza toccare cibo.
Pablo si ritirò nelle sue stanze, meditando sul da farsi. Doveva a tutti i costi trovare il modo per riunire i pezzi dell’armatura, e allo stesso tempo trovare la cosiddetta erede di Alice. Dalla descrizione che le aveva fatto la figlia era una ragazza giovane che si trovava in un castello. Se si fosse trovata al castello di Fiori l’avrebbe saputo dai suoi preziosi informatori che era riuscito a infiltrare a palazzo. Rimanevano solo Quadri e Cuori. D’altra parte se fosse capitata al Castello di Cuori la regina non avrebbe esitato ad ucciderla per qualche stupido pretesto visto il suo caratteraccio e il suo risaputo odio per gli estranei. Si, doveva trovarsi nel Regno di Quadri. Per recuperare l’elmo dell'armatura avrebbe fatto affidamento alla sua spia all’interno di Fiori. Ma per Cuori e Quadri…aveva bisogno di un aiuto. Qualcuno di cui potersi fidare, coraggioso, fedele. Subito un’idea balenò nella sua mente: era assurda, assolutamente assurda. Ma d’altronde era pur sempre un parente di Beto, e la follia aleggiava nella sua natura. E il genio non scaturiva proprio dalla follia?
Libi passeggiava affianco alla regina per il mercato della città, scortate entrambe da una schiera di guardie dalle armature scintillanti. Non era abituata ad essere al centro dell’attenzione e si sentiva fuori luogo. Angie invece era perfettamente a suo agio, e di tanto in tanto scambiava due parole con alcune giovani reclute, per aiutarli a svolgere il loro compito in modo più sereno. Si avvicinò ad una bancarella e sfiorò l’impalpabile tessuto azzurrino esposto. “Bello, vero?” le sussurrò la donna all’orecchio, facendola sobbalzare. “Non è il mio genere” sorrise educatamente, allontanandosi dal banco, e tornando al centro della strada lastricata. Angie scosse piano la testa: “Perché dici che non ti starebbe bene? Invece penso sia il colore adatto a te”. “Sai, gli uomini vanno saputi prendere, mia cara Libi” continuò complice, ordinando ad una guardia di completare l’acquisto. “La mia sarta di fiducia te ne farà un abito delizioso”. Libi mise le mani avanti e abbassò lo sguardo: “Non penso sia necessario. Se indossassi una vestito del genere sembrerei una papera ridicola!”. Solo dopo si rese conto del gergo inadatto che aveva adottato. “Non credo proprio, mi dai l’idea di una ragazza piena di grazia” la incalzò la regina, rivolgendo un sorriso ad una donna che passeggiava per il mercato con il figlioletto. Libi scoppiò in una risata amara. “Anche io lo credevo, fino al primo ballo a cui mi aveva invitato Pablo. Ma la reazione di Pablito mi ha fatto capire che aveva gradito molto il modo in cui mi ero presentata” disse, avvicinandosi al banco della frutta e osservando alcune mele verdastre. “Come mai si occupa lei della spesa?” chiese Libi, incuriosita da quello strano personaggio. “Perché mi voglio occupare personalmente di ciò che mangerà mio marito. O meglio, di ciò che non mangerà, visto che è da un po’ di giorni che non tocca cibo, quel testardo lunatico” spiegò Angie, evidentemente scocciata dallo strano atteggiamento del re in quei giorni. “Stasera fagiano!” esclamò poi allegra. Libi rimase a fissare la regina incantata: aveva un controllo invidiabile, era felice del suo matrimonio e aveva un marito che amava e stimava. Avrebbe voluto avere anche lei una vita così. Pensò ad Andres e a ciò che si erano detti la sera dell’attacco. La verità è che la sua non era una storia destinata a finire con un lieto fine. La sua non era una favola, era la realtà. E lei non sarebbe mai stata Angie, nemmeno per una notte.
La pioggia batteva insistentemente sul volto di Andres, che teneva sulla spalla sinistra il bordo della bara d’ebano. Le rare lacrime salate si mischiavano all’acqua dolciastra; era sempre stato un ragazzo forte e avrebbe superato anche quello. Il dolore e il rimorso sarebbero stati compagni inseparabili, ed era giusto che fosse così. Alla cicatrice sulla guancia si aggiunse anche quella profonda ferita. Maxi era alla sua sinistra e portava l’altro bordo della bara, mentre Libi li seguiva con lo sguardo basso. La fossa era stata scavata in poco tempo e sopra di essa una lapide bianca, riportava a lettere dorate il nome di Serdna. La litania del prete non raggiunse nemmeno il suo cervello, troppo preso a pensare a cosa avrebbe fatto adesso della sua vita. Il vento ululava mentre il piccolo gruppetto rimaneva immobile, come se il tutto fosse un perfetto quadretto malinconico. Maxi tirò su con il naso un paio di volte, evitando di cedere al dolore. Nonostante non conoscesse bene Serdna lo sentiva come parte della sua nuova famiglia, allo stesso modo di Libi e Andres. Cercò di studiare l’espressione di Andres e ne avvertì all’istante la freddezza. Un brivido percorse il suo corpo, e spostò lo sguardo su Libi, che invece si stava abbandonando ad un pianto disperato. Nonostante sembrasse quella più forte in effetti era la più fragile, e lo dimostrava in quei momenti. Pablo osservava tutto con un apparente distacco: il pensiero della missione che aveva intenzione di assegnarli occupava completamente la sua mente. Si chiedeva se fosse giusto dare a tre ragazzi un compito così delicato, ma d’altro canto non aveva alternative. Rivolse lo sguardo al castello, poco distante, e fece per tornare indietro, lasciando i tre giovani al loro dolore.
“E’ dura perdere qualcuno che si ama…” mormorò Angie con gli occhi lucidi, osservando la scena dalla finestra. Aveva sentito la porta della sua camera da letto chiudersi, e non ci fu bisogno di voltarsi per capire di chi si trattasse. “Lo so, ma li renderà più forti” rispose Pablo incerto, alzando le spalle con rassegnazione. Era un Re, e a sue spese aveva imparato che la perdita di un singolo individuo era si tragica, terribile, ma non impediva al mondo di andare avanti. E lui in quanto guida di un popolo doveva andare avanti. Gli era stato affidato quel compito nel momento in cui aveva accettato la corona sul suo capo, e l’avrebbe portato avanti fino alla morte. “Pensi che la tua morte mi renderebbe più forte?” ribatté fredda la regina, stringendo i pugni. In quell’istante perse l’aspetto regale e pacato che aveva imparato ad assumere ed era tornata lo spirito libero che era sempre stata. “No, Pablo, la tua morte mi toglierebbe tutta la vita che mi scorre nel corpo. Prosciugherebbe ogni mio singolo pensiero. Morirei insieme a te, non materialmente ma spiritualmente” continuò, soffocando l’ira che cresceva dentro di lei, per quelle parole dette con leggerezza. “Ma io non morirò” la rassicurò avvicinandosi e stringendola in un abbraccio. Le accarezzava i lunghi capelli dorati, mentre la donna finalmente lasciava scorrere sul suo viso le prime lacrime. “Nemmeno quel ragazzo doveva morire, eppure è successo. E noi non siamo il destino, non sappiamo cosa ci riserverà il futuro”. Quelle parole trafissero Pablo come una lama, ma l’uomo fece finta di nulla, e intensificò invece il ritmo delle carezze lungo l’esile schiena della moglie. Era forse un uomo senza cuore nel voler dare a quei ragazzi un nuovo scopo per cui combattere? Difficilmente sarebbero tornati vivi, ma…non lo stava facendo per il bene di tutto il Paese delle Meraviglie? “Pablo, non vorrei mai dovermi separare da te. E se tu dovessi mancare…”. Stavolta il re non la lasciò finire; la scostò da sé e la baciò dolcemente, facendo risalire le mani fino a sfiorarle le guance. “Se dovessi mancare, tu prenderai le redini di questo regno, e sarai una regina fantastica, come è giusto che sia” rispose, guardandola negli occhi con una serietà glaciale e una dolcezza coniugale allo stesso tempo. “Ti amo, e rispetterò la tua volontà, per quanto potrà essere doloroso” disse Angie. I due rimasero a guardarsi per qualche minuto, finché la donna non prese la mano del compagno e non ne portò il dorso sulla sua guancia, assaporandone il contatto con gli occhi chiusi.
I lampi squarciavano la sala delle udienze di Pablo. Era una stanza non troppo grande, di forma ottagonale. Le pareti erano nere e spoglie, senza fregi o pietre preziose. Il clima austero doveva servire a far capire al suddito che in fondo il re era esattamente come loro dal punto di vista umano. Andres tuttavia non era interessato all’ambiente, bensì alla pioggia che ticchettava insistentemente sul vetro della finestra. Avvicinò la mano alla grata di ferro e sfiorò la superficie lisca e trasparente, perso in un altro mondo. Aveva sbagliato tutto nella vita. Tutto. Il suo riflesso appannato e poco chiaro mise fine ad ogni suo pensiero. Quel riflesso…Mancava solo un paio di occhiali e sarebbe stato perfetto. Sarebbe stato Serdna. Un rumore di passi lo fece voltare, distogliendolo da quella visione rincuorante e infernale allo stesso tempo. Il mantello nero e pesante di Pablo strusciava lentamente, mentre l’uomo studiava lo scettro dorato che teneva in mano. In cima il simbolo di picche scintillava minaccioso. Maxi, che fino a quel momento stava studiando lo scranno di un fine velluto nero, si allontanò di scatto e si avvicinò al compagno, con un certo timore; Libi invece sembrava completamente indifferente alla situazione. “Vi chiederete come mai siete stati convocati” disse Pablo sedendosi con calma, e guardandoli con quegli occhi scuri e limpidi, fonte di saggezza e conoscenza. “Oltre a rinnovarvi le mie condoglianze…”. Fece una pausa per osservare le reazione dei giovani: Libi fu colta da un tremito, Maxi sbiancò di colpo non appena pronunciate quelle parole, e Andres sosteneva il suo sguardo fiero. Non c’era rimorso, non c’era dolore. Solo il nulla. Sentiva che quel ragazzo era degno della sua fiducia, ma non sapeva se stava ancora parlando ad un uomo. Sembrava piuttosto un automa, privo di emozioni, lanciato di colpo nel buio, dopo essere stato abituato a vivere alla luce. Il fervore che lo contraddistingueva non si era solo affievolito, era stato completamente soppresso. Senza smettere di fissare il giovane, che sembrava tanto simile e allo stesso tempo tanto differente da quello che era stato lui un tempo, continuò a parlare: “Oltre a rinnovarvi le mie condoglianze, ho una richiesta da farvi. E non vi sto parlando da re, vi sto parlando da uomo libero”. Si rese conto di aver ottenuto la completa attenzione del trio, e ne fu felice. Doveva essere sicuro che avrebbero preso in seria considerazione la proposta. “Il mondo è in un pericoloso bilico, tra vita e morte, tra dolore e felicità. E’ sempre stato così; ma come sapete l’equilibrio che si era creato si è rotto nel momento in cui due dei Regni si sono alleati con l’intenzione di ottenere il potere. E ormai sospetto che anche il Regno di Fiori sia in combutta con Cuori e Quadri”. “Niente che non sappiamo già” ribatté Libi, ottenendo un’occhiata di rimprovero da Maxi. La ragazza si rese conto di aver aperto bocca in modo poco appropriato e rimase in silenzio. “Lo so, è questo il motivo per cui avete combattuto finora. E’ questo il motivo per cui…Serdna ha perso la vita”. Odiava far leva sui sentimenti umani, ma non aveva alternative, la situazione era fin troppo delicata. E doveva ricordare loro il motivo per cui era morto quel ragazzo in modo da essere sicuro nella riuscita dei suoi progetti. Diede un colpo con lo scettro sul freddo pavimento, e la stanza si colorò d’oro. Improvvisamente per tutte le pareti venne proiettata la mappa dell’intero Paese delle Meraviglie: i quattro palazzi risplendevano di una luce argentata, ognuno ad un polo opposto all’altro. Pablo si alzò in piedi e cominciò a girare per la stanza pensieroso. “E’ una questione complicata. Conoscete tutti la storia di Alice, vero?” chiese rivolgendo lo sguardo verso il soffitto e osservando l’enorme bussola proiettata che si muoveva imperterrita, come impazzita. I tre annuirono, ancora meravigliati per la strana magia a cui stavano assistendo. “Alice, una volta sconfitte le due regine, quella Rossa e quella Bianca, divenne la Regina dell’intero Paese per un breve periodo prima di decidere di scomparire nel nulla, senza dare alcuna indicazione ai successori, dicendo che ogni suo ordine sarebbe stato inutile. Invece chiese ad ogni membro delle quattro famiglie reali istituite di conservare un pezzo della sua armatura con cui aveva posto fine alla dittatura delle due regine. Un’armatura magica dai poteri sconosciuti. La leggenda narra che una volta uniti i quattro pezzi si avrebbe il potere di controllare l’intero Paese delle Meraviglie. Noi non crediamo che abbia una magia tanto elevata al suo interno, ma di certo il suo potere deve essere elevatissimo. Può essere un’arma determinante per la fine di questa guerra”. Evitò di accennare alla profezia, non pensava fosse il caso di diffondere una notizia tanto importante. “E cosa c’entriamo noi? Se l’armatura è stata separata un motivo ci sarà!” esclamò Libi, non riuscendo più a frenarsi. Pablo la guardò intensamente, quindi si concentrò sui quattro castelli che si distanziavano da una parete all’altra: “I pezzi sono stati separati per motivi ignoti, ma non è questo il punto. Il punto è che ogni pezzo è gelosamente custodito all’interno dei quattro castelli. Io ho bisogno di qualcuno abbastanza coraggioso da intrufolarsi negli altri tre e rubare l’elmo, lo scudo, e la spada”. Maxi e Libi trattennero il respiro, spaventati dal pericolo e dalle responsabilità di quella missione, solo Andres, rimaneva in silenzio, impassibile, come se nulla potesse scalfirlo. “Vi do quanto tempo volete per pensare se accettare o no la mia pro…”. “Ci sto” lo interruppe subito il leader, voltandosi per uscire dalla sala. “Ma, Andres, ci andremo a cacciare in un pasticcio!” cercò di trattenerlo Libi invano. Nulla avrebbe fermato il giovane, e se quello era il modo per porre più velocemente fine a quella guerra, allora sicuramente  avrebbe tentato l'impossibile. “Non voglio che nessuno subisca la stessa sorte di Serdna. Abbiamo giocato ai rivoluzionari e abbiamo perso” esclamò Andres, voltandosi, il volto contratto dalla rabbia e i pugni serrati. “Non siete costretti a venire, non ho bisogno di voi”. Lasciò la sala a passo lento, facendo risuonare le sue parole nella stanza. Parole fredde come il vento freddo del Nord, e accese come i tizzoni ardenti.
Maxi gli aveva detto che sarebbe venuto con lui. Non sapeva come mai quel ragazzo ci tenesse tanto a stare al suo fianco, ma lo apprezzava. Si gettò a peso morto sul letto, ripensando al funerale del fratello. Finalmente lontano da tutti, le prime lacrime cominciarono a scendere, libere di scorrere, libere di mostrare il suo dolore. I singhiozzi vennero subito dopo, rendendolo un bambino indifeso. L’aveva perso per sempre. “E’ permesso?” chiese Libi, aprendo lentamente la porta. Andres scattò in piedi e si asciugò il viso con la manica destra, ma gli occhi arrossati tradivano ogni sua emozione, le mani che tremavano mettevano in mostra la sua debolezza. “Ti…ti senti bene?” domandò, avvicinandosi. “Si, sto bene. Che ci fai qui?”. Libi lo esaminò con attenta curiosità, come si fa per studiare una specie sconosciuta. “Ero venuta a chiederti di ripensarci. Hai accettato senza nemmeno pensare alle conseguenze. Maxi mi ha detto che partirà con te…lo sai che non sopporto quel ragazzo, che non mi fido ancora di lui completamente, ma ammetto che ha del fegato; ma ho paura per te” spiegò Libi con calma. “Non essere sciocca, ho affrontato di molto peggio” ribatté duro il ragazzo, girandosi dall’altra parte e continuando ad asciugarsi le lacrime. “Ma non sai nemmeno a cosa andrai incontro! Andres, la morte di Serdna dovrebbe averti insegnato qualcosa, non dovrebbe averti reso più sciocco!” strillò la ragazza, nel vano tentativo di fermarlo. “Sai che c’è? Tu non mi capisci! Io voglio fermare questa guerra, e se mi proponessero di buttarmi in un burrone, se servisse, lo farei cento, mille, infinite volte. Ed è questo che non riesci a capire. Per te non è importante come lo è per me”. Libi lo guardò con disprezzo: “Ho perso i miei genitori in questa guerra. Non dire che per me non conta nulla che tutto questo finisca”. Con queste semplici parole se ne andò, chiudendo violentemente la porta dietro di sé. Andres sentì il suo cuore chiudersi insieme a quella porta. “Nessuno può capirmi” sussurrò, sedendosi sul letto e portando la testa tra le mani. Sapeva benissimo dei genitori di Libi, ma al confronto non gli sembrava un dolore paragonabile al suo. L’egoismo che lo avvolgeva, il pensiero che nessuno potesse comprenderlo, prevalevano con forza, creando una barriera che lo separava dal mondo esterno. L’unico spiraglio che poteva intravedere era nascosto nel sorriso della ragazza che amava, ma adesso qualcosa si era rotto. Pensare che fosse colpa sua avrebbe solo peggiorato la situazione; decise di dare la colpa al destino, di dare la colpa alla guerra, a tutto ciò che non dipendesse da lui. Perché in fondo gli riusciva più facile, e alleviava il suo dolore.






NOTA AUTORE: Hola! Capitolo molto triste ç____ç Ed ecco un Andres più IC, ma nel senso che lo intendo io, però :P Infatti, accecato dal dolore, decide di lanciarsi in un impresa assolutamente impossibile. La sua è follia, come dice Libi, ma...per porre fine alla guerra che gli ha strappato anche il fratello è disposto a tutto. E Maxi lo segue sempre e comunque. Il gioco cambia, e ogni personaggio sta facendo la sua scelta. Pablo...amo troppo questo personaggio. In bilico tra il bene comunque e la compassione che ha per quei ragazzi. Disposto a fare leva sul dolore di Andres, per ottenere ciò che vuole, ma allo stesso tempo preoccupato per quello che ormai è diventato il giovane leader. E la sua scelta di affidargli la missione di recuperare gli altri pezzi sembra dettata dalla follia, ma il re ha il suo piano e lo metterà presto in pratica. Il legame tra Angie e Pablo è molto forte, mi piace molto la scena del loro dialogo :3 Serdna è morto! D: Giuro, non volevo, ma mi serviva per l'evoluzione dei personaggi. Andres si avvicina parecchio a tratti ad un neo-Leon, ed è proprio ciò di cui ho bisogno ç_____ç Ma è morto ç________ç  Detto ciò, il dialogo finale sembra portare ad una frattura tra Libi e Andres. Ma adesso cosa succederà? Libi sceglierà di seguire Andres anche in questa folle impresa o semplicemente deciderà di separarsi dal trio? Prepariamoci ad una storyline ricca di avventura che proseguirà in contemporanea con quella più 'dolce' (molto tra parentesi) dei Leonetta. Mi piace come ho strutturato la storia e spero piaccia anche a voi :D Buona lettura a tutti, e alla prossima! Fatemi sapere che ne pensate della caratterizzazione del trio. Cambiamenti, pareri (anche negativi), perchè questi personaggi sono importanti tanto quanto Leon e Violetta ù.ù Grazie di tutto, e alla prossima! :D 
 

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Capitolo 19
*** Partenza. Obiettivo: Fiori. ***





Capitolo 19

Partenza. Obiettivo: Fiori.

Andres finì di preparare l’occorrente per il viaggio. I viveri bastavano per circa una settimana, dopodiché avrebbe dovuto procurarsi il cibo da solo. Non era un problema, era un cacciatore abbastanza abile. Controllò nuovamente lo zaino di iuta ancora semiaperto. Cime per ogni evenienza, una borraccia, un fagotto con pane e formaggio…non mancava quasi nulla. Allacciò il pugnale al fianco, e diede uno sguardo fuori dalla finestra della stanza. Il sole era sorto da poco, illuminando il borgo, protetto da spesse mura. Qualcuno bussò alla sua porta, interrompendo la contemplazione di quel paesaggio che avrebbe visto forse per l’ultima volta. “Avanti” rispose con voce atona, tornando ad occuparsi dei preparativi. “Si può?” chiese Libi, facendo il suo ingresso. Il ragazzo non alzò nemmeno lo sguardo, ma continuava meccanicamente a controllare che tutto fosse al suo posto. “Ho preso la mia decisione” continuò, abbandonando con la mano sinistra il legno della porta, e avanzando lentamente verso il leader. “Parto anche io con voi”. Andres fece un cenno di assenso, senza considerarla minimamente. “Ma continuo a non essere d’accordo con questa decisione avventata. Ci porterai alla rovina, Andres” esclamò convinta, stringendo l’arco nella mano destra. Finalmente Andres si decise a guardarla negli occhi, ma quello che vi lesse dentro fu strano. O meglio quello che vi lesse fu il nulla: non dolore, non rancore, nemmeno odio. Nulla. Andres era diventato proprio ciò che Leon aveva predetto: aveva rovinato la sua esistenza, e adesso della sua anima non era rimasto più nulla, se non alcuni frammenti sparsi che emettevano un flebile desiderio di tornare al loro posto. “E perché vieni, allora? Non ho bisogno di te” commentò sprezzante Andres. Libi divenne paonazza per la rabbia e per la vergogna, ma non voleva litigare, non di nuovo. Ne aveva abbastanza di quel rapporto burrascoso che si stava creando tra di loro, e che non faceva altro che separarli sempre di più. Gli sarebbe stato accanto, ma non avrebbe accolto le sue provocazioni. “Non sono affari tuoi, Andres, o forse mi vuoi fare da balia?” ghignò la ragazza, facendo poi per uscire. “Grazie Libi, per il tuo appoggio” le disse Andres con un sorrisetto per poi tornare alle sue occupazioni. “Non c’è di che, qualcuno ti dovrà parare il fondoschiena!” esclamò Libi, con finta indifferenza, richiudendo la porta dietro di lei. Chiusa la porta, si aprì il dolore nel petto che tanto cercava di nascondere. Non avevano più toccato l’argomento della morte di Serdna da quella volta. Si ricordava ancora la brutta discussione avuta, e il ricordo dei genitori morti. Forse in fondo Andres aveva ragione, lei non era abbastanza coraggiosa, non era abbastanza motivata per cercare di porre fine a quella guerra. Le sue incertezze la indebolivano, la sua fragilità ben nascosta la rendeva dura fuori, ma codarda dentro. Era quello che la rendeva così dipendente da Andres? Se avesse scambiato per amore il bisogno di avere una guida? Non lo sapeva. Adesso nei suoi occhi tutto era confuso. L’ammirazione che aveva per Andres si era lentamente sgretolata, lasciandola vulnerabile. Eppure non riusciva a stargli lontano, a non appoggiarlo sempre e comunque, anche in quella follia. Sicuramente me ne pentirò, pensò amareggiata, prima di cominciare a camminare lungo il corridoio.
“Arrivo! Eccomi!” strillò Maxi entrando di corsa nella sala del ricevimento, facendo tintinnare le due padelle appese allo zaino. Non appena entrato vide Pablo comodamente seduto sul trono. Alla sua sinistra vi erano Andres e Libi, evidentemente tesi. “Padelle? Pensi che stiamo per andare a fare una scampagnata?” commentò sarcasticamente la ragazza, con un sorriso maligno. Maxi borbottò qualcosa per ribattere, ma la sua attenzione fu improvvisamente catturata da due curiosi personaggi in piedi alla destra del Re. Erano due ragazzi, un uomo e una donna; il giovane aveva la pelle scura, e i capelli neri cortissimi; i suoi abiti da popolano stonavano terribilmente con l’inquietante ascia che maneggiava con estrema facilità, come se fosse una piuma. Vicino a lui una ragazza dai capelli biondi e mossi, non troppo lunghi, osservava i presenti con sguardo indagatore. Era esile, ma aveva un qualcosa di silenzioso e letale in ogni piccolo movimento. “Emma, non metterli in soggezione in quel modo. Quel bambino sta tremando come una foglia, non lo vedi?” ridacchiò il compagno, poggiando la lama dell’ascia a terra e sorreggendosi sull’impugnatura. “Quel bambino, come lo chiamate voi, è un nostro compagno!” ribatté Libi furiosa. Non aveva una grande considerazione di Maxi, ma solo lei poteva riprenderlo o trattarlo male. Pablo fece un gesto spazientito per ottenere il silenzio: “Non dovete litigare tra compagni di viaggio di già. Dovrete invece fare affidamento sul lavoro di squadra se volete ottenere qualcosa”. “Mi sono perso qualcosa, vero?” esclamò Maxi, sempre più confuso. Andres si allontanò dal trono e poggiando una mano sulla spalla dell’amico lo condusse fuori dalla sala senza dire una parola.
Continuarono a camminare senza una meta apparente. Finalmente fuori dal castello, Andres rallentò il passo, e iniziò ad ispirare a fondo, avvicinandosi ad una fontana in marmo, che ritraeva il simbolo di picche. Dalle tre punte del fiore nero sgorgavano zampilli d’acqua trasparente che veniva poi raccolta nell’enorme vasca. “La questione è più complicata del previsto” mormorò Andres, prendendo un ciottolo bianco e levigato e facendolo cadere nella vasca. Il sasso sprofondava velocemente, lasciandosi inghiottire dal verde opaco e scuro. “Il Re ci ha affidato due ‘guide’. O, come preferisco chiamarli io, due vigilanti. Non si fida completamente di noi, e in fondo lo capisco” spiegò, alzando le spalle in segno di resa. “Quelli vengono con noi?” domandò esterrefatto Maxi. “Si. Il Re ci ha spiegato che fanno parte dell’elite nelle arti del combattimento nonostante la loro giovane età. Due promettenti futuri assassini, in parole povere”. “Soprattutto due di cui Galindo si fida” aggiunse prendendo un altro ciottolo e ripetendo lo stesso gesto. “Beh, non abbiamo scelta, dobbiamo portarceli dietro, insomma” si arrese il ragazzo, poggiandosi sul bordo rialzato della vasca. “Si, ma volevo parlarti in privato proprio per questo. Maxi, c’è un motivo se quei due vengono con noi, oltre quello che ti ho già accennato”. Lo sguardo di Andres si posò sulla sua cinta, esattamente sul fodero della spada di neranio. Maxi comprese al volo a cosa si stesse riferendo: “Ancora per quella storia?”. “Non è facile riporre fiducia in qualcuno che possiede un’arma tanto pericolosa, nonostante tu abbia mostrato una lealtà considerevole, salvandomi anche la vita”. Maxi si staccò dal bordo, perplesso: “Quindi Pablo…non si fida di me?”. Il leader annuì piano: “Cerca di capirlo. Un ragazzo sconosciuto con una spada fin troppo pericolosa, che lo mette in relazione con Fiori. Anche io se dovessi affidare una missione tanto importante controllerei che tutto vada secondo i piani”. “Ma tu ti fidi di me, vero Andres?” gli chiese timoroso l’amico. La risposta avrebbe potuto ferirlo. Sentiva che Andres e Libi erano la sua nuova famiglia, eppure non era certo di essersi guadagnato con certezza la loro fiducia. “Mi hai salvato la vita, non potrei mai dimenticarlo…” rispose l’altro, dandogli una sonora pacca sulla spalla. “E ora prepariamoci a partire. Non voglio perdere tempo” concluse, tornando dentro le mura del castello.
“Ci avete messo una vita!” esclamò Libi a voce alta, provocando il nervosismo della sua cavalcatura, un meraviglioso baio grigio. “Scusa, dovevamo scambiare due parole” disse Andres in tono complice. I due salirono sui due cavalli destinatigli pronti a intraprendere il viaggio. Broadway, così si chiamava il ragazzo, e Emma li aspettavano fuori dalle mura con impazienza. “Ci avete messo un’eternità” sbuffò Emma, osservando le sue piccole mani affusolate. “La principessina non è paziente, dovete scusarla” ridacchiò Broadway, armeggiando nella casacca per poi tirare fuori una mappa ingiallita. “Principessa? E’ una nobile?” chiese Libi. Broadaway annuì, mentre la ragazza fece arretrare lentamente il cavallo. “Certa plebe non dovrebbe nemmeno avvicinarsi a me. Mi sono allenata duramente fin da piccola, per essere all’altezza dei miei avi, nonostante venissi considerata il sesso debole. Volevano chiudermi dentro casa a sfornare marmocchi. Patetici” continuò Emma con aria di superiorità. I primi attriti stavano cominciando a farsi sentire, soprattutto tra le due ragazze, che sembravano proprio non voler andare d’accordo. “Mi spiace non essere alla sua altezza, maestà” commentò sprezzante Libi, non tollerando che quella nobile da quattro soldi le si rivolgesse in quel modo. Andres fece finta di nulla e si avvicinò a Broadway per studiare la carta. “Penso che sia il caso di non prendere la via della foresta centrale. Troppo pericolosa e intricata” sentenziò quest’ultimo, facendo scorrere le dita sulla carta ingiallita. “Non sono d’accordo. Conosco bene la foresta, c’era la base dei rivoluzionari dentro di essa. Non saremmo notati da nessuno”. Broadway scosse la testa: “Dopo la batosta che avete preso penso che Cuori abbia messo degli avamposti per evitare che la foresta gli nasconda ancora brutte sorprese”. “E allora che consigli? Passare a sud di essa è impossibile, le strade sono tutte controllate dalle truppe di fiori, e non possiamo essere sicuri che siano dalla nostra parte. Anzi, Pablo teme una collaborazione con Cuori”. Maxi si avvicinò dall’altro lato. “E se procedessimo per di qua?” propose, indicando una zona scura, con delle montagne disegnate. “Amico, c’è un motivo se si chiamano Monti Neri. C’è una nebbia scura perenne formata da alcune sostanze calcaree, e pochi sono quelli che possono vantare di aver visto un Tuffo Oscuro e di essere ancora vivi” spiegò Broadway. “Un Tuffo Oscuro?” domandò Maxi, ricordando vagamente quel nome. “E’ il nome che si da alle eruzioni di questa strana sostanza, altamente tossica. Sono inaspettate e conducono alla morte istantanea, dicono. Quel terreno è troppo pericoloso”. “Talmente pericoloso che non incorreremmo in nessuna truppa nemica” fece notare Andres, pensieroso. “E’ una follia! L’unico percorso, il Passo del Tre di Fiori, è stato abbandonato anche dai pochi folli che osavano cimentarsi in quell’impresa, a causa delle frequenti frane” esclamò Broadway, per niente intenzionato a cambiare idea. “Io non vedo altre valide soluzioni. Se ce ne sono, ti prego illuminami”. Il silenzio calò tra i tre compagni, interrotto unicamente dalle continue provocazioni che si lanciavano Emma e Libi. “D’accordo, avete vinto, ma continuo a pensare che sia da pazzi” si arrese il compagno, ripiegando la mappa e infilandola in una delle tasche.
Il gruppetto si trovò la sera in un villaggio poco distante da NerdiCorallo. “Fermiamoci qua per la notte” ordinò Andres, scendendo da cavallo, e avvicinandosi a quella che sembrava essere un’osteria. Un garzone si occupò di prendersi cura dei cavalli, portandoli nella scuderia adiacente per i viaggiatori. Maxi si sgranchì con cura, e si avvicinò al resto della comitiva per poi fare il suo ingresso nella taverna. Una forte puzza di alcool fu la prima cosa che raggiunse i suoi sensi. Allegri compagni bevevano in quantità industriale da boccali di ferro, giocando a carte o ai dadi, e pronunciando qualche frase oscena. “Un locale di classe” disse divertita Libi, godendosi lo sguardo inorridito di Emma, che non fosse per la missione se ne sarebbe scappata a gambe levate. “Seguite noi, e non vi fermate a nessun tavolo. Non sono esattamente dei cavalieri qui dentro” bisbigliò Andres, per poi avanzare fino al bancone. Un vecchio oste con la barba bianca puliva dei bicchieri di vetro con uno straccio talmente sudicio da ottenere l’effetto contrario. I bicchieri erano così opachi da non riuscire a vederne nemmeno il fondo. “Ehi, tu!” esclamò Andres, dando una botta sullo sgangherato quanto polveroso bancone di legno. L’oste alzò lo sguardo, e sorrise mostrando i suoi denti giallognoli. Non era però un sorriso sincero, bensì ruffiano e mellifluo. “Ci servono due stanze per la notte” disse con calma, guardandosi intorno. L’uomo annuì, quindi prese dal grembiule due chiavi arrugginite e le lanciò sul bancone. “Sono dieci picchetti” ghignò tendendo la mano rugosa. Broadway si fece avanti, e tirò fuori un sacchetto di pelle, da cui estrasse delle monete di bronzo e d’argento con lo stemma di picche. Ne prese dieci d’argento e le porse al padrone dell’osteria, che sorrise soddisfatto dell’affare andato in porto. “Ehi, tu, ce ne presti una?” strillò ridendo sguaiatamente un uomo ad un tavolo vicino, con i capelli sporchi e folti e un sorriso sdentato. Si stava rivolgendo evidentemente a Maxi, che si trovava tra Libi e Emma. La prima ignorò completamente quel commento, abituata a ben di peggio, ma Emma non riuscì a mantenere il controllo. Avanzò a passo lento, tra le risate generali e l’euforia causata dal vino, e si fermò di fronte a colui che l’aveva provocata in quel modo. Mise un piede sul bordo della sedia, e si avvicinò con un sorriso ingannatore. Due secondi dopo, nessuno seppe spiegare come, l’uomo si ritrovò con un pugnale puntato contro il collo. “Non voglio perdere tempo con un ubriacone come te, ma non accetto queste volgarità. Se vuoi continuare a divertirti stasera, ti conviene lasciarci in pace. Lo dico per te” sibilò seria, dando poi un calcio alla sedia e facendo cadere l’uomo, che si rialzò traballando colto dal panico. Il silenzio era calato inesorabile nella stanza, e tutti osservavano Emma, che fece finta di nulla e tornò dalla comitiva. “Ho sonno” disse, emettendo un piccolo sbadiglio. “L-la stanza è l-libera” balbettò l’oste, indicando una scalinata di legno consunto. I cinque salirono e osservarono le due camere: sulla prima c’era un nove in ottone che però pendeva in basso formando un sei, l’altra addirittura non aveva il numero, era rimasta solo l’impronta dell’otto sul legno. “Roba di alta classe” la provocò Libi, aprendo la porta della stanza e indicando il materasso sporco di una sostanza verde, che sembrava essere muffa. “Non infierire” concluse Emma, entrando lentamente chiudendo gli occhi per non dover svenire sul colpo.
“Ed ecco la stanza dei campioni” strillò allegramente Maxi, rimanendo poi fermo sulla soglia. Se quella delle ragazze sembrava mal ridotta la loro era proprio una topaia. Lo sporco incrostava le pareti bianche e spoglie, e il ragazzo giurò di aver visto qualcosa muoversi sul pavimento. “Beh, mi aspettavo di peggio” commentò sarcasticamente Broadway, poggiando lo zaino a terra, e buttandosi sul materasso che scricchiolò minacciosamente sotto il suo peso. Maxi si sedette sul bordo e a tentoni cercò nel buio una lampada o candela sul comodino posto lì vicino. “Ma non si vede a un palmo dal naso! Nemmeno ci sta una candela?” si lamentò, mentre il leader chiudeva la porta cigolante, facendo piombare nel buio completo l’intera stanza. Proveniva solo la fioca luce della luna, che rendeva tutta l’atmosfera lugubre. Andres si stese sul letto sgangherato tra Maxi e Andres e fissava il soffitto pensieroso. “Secondo me questa missione finisce male, Andres” commentò impaurito Maxi, mentre Broadway aveva iniziato a russare. “Puoi tornare indietro se vuoi” lo rassicurò Andres, sempre con un’apparente freddezza. L’amico alzò lentamente il capo e lo scosse piano: “Non ci penso nemmeno. Non mi va di lasciarti di nuovo nei guai; senza di me sei spacciato”. Sorrise in modo buffo, quindi tornò a stendersi. “Buonanotte” sussurrò chiudendo gli occhi, posizionandosi di fianco. “Buonanotte” rispose Andres, senza distogliere lo sguardo dal soffitto.
Adesso Maxi capiva cosa significasse avere settant’anni con i reumatismi. Era stata una delle notti peggiori della sua vita. Nemmeno quando dormiva per terra nella foresta si svegliava in quello stato. La schiena era completamente indolenzita, tormentata per tutta la notte da un bozzo duro sul materasso. In più il continuo russare di Broadway non aveva certo contribuito a farlo stare meglio. “Sveglia dormiglione!” lo riprese allegramente quest’ultimo, saltando dal letto. Maxi fece leva sul bacino e compì una rotazione, soffocando qualche lamento. “Andres ci sta già aspettando fuori. Vado anche io, e non farci aspettare troppo!” esclamò chiudendo con forza la porta. Era da solo, solo con i suoi pensieri. Avrebbero presto ripreso il cammino, e avrebbero raggiunto i Monti Neri. Cominciava solo adesso a sentire la paura; quel posto veniva spesso paragonato agli Inferi. Le nubi nere che aleggiavano intorno alle montagne davano un’aria spettrale, e i racconti poco rassicuranti della presenza di creature raccapriccianti, oltre il pericolo offerto dai Tuffi Oscuri, non contribuivano certo a rassicurarlo. Una volta riuscito ad alzarsi provò a fare qualche piccolo movimento e la schiena fece un piccolo crack, provocandogli una fitta. “La prossima volta dormo insieme ai cavalli” esclamò affranto, recuperando il suo zaino per terra e preparandosi per continuare il viaggio.
Non appena uscito trovò i suoi compagni alle prese con i preparativi. Emma sola rimaneva ferma, seduta su un tavolino che sembrava sarebbe crollato da un momento all’altro. “Alla buon’ora” sbadigliò lei, osservandolo con aria di sufficienza. “Prova a dormire come ho dormito io e ne riparliamo” ribatté l’altro, evidentemente nervoso. Uscì fuori dalla locanda e vide Libi e Andres in piena attività, mentre Broadway studiava le carte e lasciava dei segni con l’inchiostro nero. “Sto tracciando un possibile percorso una volta superati i Monti Neri” rispose alla domanda di Maxi, senza staccare gli occhi dalla mappa. “Non dobbiamo andare a Fiordibianco? Io conosco bene quelle terre, ci sono nato” si offrì il ragazzo con un sorriso solare. Broadway rimase fermo, poi alzò lo sguardo in modo indagatore: “Quindi tu sei originario di Fiori, eh?”. Maxi deglutì e annuì, sapendo che in quel modo i sospetti sul suo conto sarebbero stati rafforzati ancora di più. “Interessante”. Andres si intromise tra i due per allentare il clima di tensione: “E quindi, come siamo messi con il percorso?”. Broadway cominciò a parlare, sempre fissando di sottecchi Maxi: “E’ complicato. Dobbiamo scegliere le vie meno praticate, per evitare brutti incontri con l’esercito di Fiori o peggio ancora con i Cavalieri”. “Avete finito di blaterare? Pensiamo a superare i Monti Neri, e poi ci occuperemo del resto!” li riprese Libi, con delle occhiaie pronunciate. “Dormito male anche te?” chiese Maxi, emettendo un vigoroso sbadiglio. “Prova tu a dividere il letto con una mezza sonnambula” rispose lei impaziente di proseguire. Prima arrivavano prima finivano. “Il primo obiettivo è comunque Fiordibianco, e conosco qualcuno lì vicino che potrebbe darci le informazioni di cui abbiamo bisogno”. Broadway fece un occhiolino astuto, per poi saltare in sella al suo cavallo. Emma lo raggiunse subito dopo mordendo una mela con aria assente. “Allora siamo pronti a partire?” fece cenno Andres. No, non sono pronto, pensò Maxi, titubante, mettendosi comunque in moto insieme agli altri, senza proferire parola.
Il vento freddo scuoteva le cime degli alberi, e il suo ululare ricordava quello dei lupi. Maxi batteva i denti per il freddo. Era il terzo giorno di viaggio e non avevo trovato più alcuna locanda durante il loro cammino, così avevano imparato a costruirsi dei rifugi temporanei per la notte. Andres aveva cominciato a cacciare la notte in compagnia di Libi ed Emma, che sembrava essere in continua competizione con la sua rivale. Anche in amore, pensò Maxi, osservando il modo in cui lanciava sguardi ad Andres, il quale sembrava completamente indifferente. “Oggi ci fermiamo qui” urlò Andres, osservando i piedi dei monti a poca distanza da loro. Le cime non si vedevano a causa di un’enorme nube nera, che sembrava aleggiare eterna, come se fosse parte integrante del paesaggio. Qualcosa sibilò in lontananza, forse il rumore provocato da un Tuffo Oscuro. Il gruppo si rifugiò in un boschetto lì vicino, sempre sormontati dai tenebrosi giganti di rocce. Maxi accese il fuoco con della legna secca trovata in giro e tirò fuori le sue padelle, molto rivalutate in quei giorni da Libi. “Vado a cacciare” esclamò Andres, prendendo un piccolo arco dallo zaino, che serviva unicamente a quello scopo. “Meglio che venga anche io” esclamarono in coro Libi e Emma. Le due si guardarono in cagnesco, quindi seguirono il leader del gruppo fuori dalla piccola radura, nel folto del bosco.
Andres fece cenno di tacere dopo qualche minuto, attirato da un fruscio vicino. I tre si appostarono dietro un albero, e aspettarono in silenzio. A Libi piaceva cacciare, e più di una volta era andata a caccia con Andres. I due avevano un perfetta sincronia e si intendevano alla perfezione. Eppure qualcosa stonava in quei giorni, ed era proprio la presenza di Emma a rendere tutto più difficile. Aveva visto il modo in cui guardava con ammirazione il ragazzo, lo stesso modo con cui lo faceva lei, e il pensiero di avere una rivale, oltre la misteriosa ragazza di cui le aveva parlato la sera prima dell’attacco al campo, le dava enormemente fastidio. Un coniglio dal pelo grigio zampettò fuori da un cespuglio drizzando i baffi e muovendo le orecchie ritmicamente. “E’ mio” sibilò Libi, tendendo l’arco, e aguzzando la vista. Era lontano più o meno una decina di metri, ma sapeva che non l’avrebbe mancato, nemmeno al buio. Era pronta a scoccare, quando venne spintonata indietro, e la freccia partì nel buio, facendo fuggire la povera vittima. Si voltò furiosa e vide Emma che la guardava con aria di sfida: “Scusa, non volevo”. Il modo in cui l’aveva detto, con quella finta innocenza mista ad un pizzico di ipocrisia le dava altamente sui nervi. L’aveva fatto apposta, per farla sfigurare e farla sembrare un’inetta davanti agli altri. Davanti ad Andres. “Se tu non mi avessi distratto forse l’avrei preso. Anzi, sicuramente l’avrei preso” sbottò lei con un tono di voce fin troppo alto. Andres le zittì con un cenno, e vide in lontananza un’altra preda: un cervo non troppo grande e piuttosto stanco. Sarebbe stato facile prenderlo, ma per non rischiare doveva andare da solo. Quelle due non erano di grande aiuto nel momento della caccia. Ci voleva il massimo del silenzio e dell'attenzione, ma Libi ed Emma sembravano disposte solo a litigare e a riprendersi tra di loro. “Me ne occupo io, voi restate qui” sussurrò, avanzando in modo rapido e scomparendo all’inseguimento dell’animale. “E brava la nostra arciera incapace. Non pensavo che Pablo avrebbe affidato un compito tanto importante a gente tanto inesperta. Un bambino timoroso e una ragazzina che non sa tenere un’arma in mano. Non fosse per Andres sono sicura che sareste entrambi morti e sepolti” ghignò la ragazza, recuperando l’occorrente per tornare alla radura. “Smettila di provocarmi. Che c’è, cerchi di rubarmi il posto?” disse Libi, stringendo i pugni. “No, non vorrei mai il tuo patetico posto da cagnolino agli ordini di Andres. Lui ti sfrutta a suo piacimento e a te non interessa. Non ci hai mai fatto caso? Sono pochi giorni che viaggio con voi, eppure me ne sono accorta subito”. “Non è così…Andres non sfrutterebbe mai nessuno. Non ne è capace” disse la mora incerta. Quelle parole l’avevano colpita per il modo schietto con cui erano state pronunciate. “Non ti costringo a credermi. Comunque su una cosa ti do ragione: Andres ha fascino, ha carisma. E’ un uomo interessante” concluse Emma maliziosa, allontanandosi a passo lento. Libi tremava di rabbia. Non solo aveva insinuato in lei il dubbio che in fondo Andres non provasse nemmeno un minimo di rispetto nei suoi confronti, ma adesso la stava anche provocando minacciando di portarglielo via. Si sentì impotente, come mai si era sentita, e guardando le fronde scure degli alberi, si chiese se non fosse il caso di ripensarci, di tornare indietro sui suoi passi. In fondo al castello Angie l’avrebbe accolta, le avrebbe procurato un’occupazione per pagarsi vitto e alloggio. La regina era una donna buona, l’avrebbe aiutata a ricostruirsi una vita, e lei sarebbe uscita da quell’incubo. Le costava così tanto dire di no ad Andres, anche se lui non le aveva chiesto nulla? Non sapeva che pensare, e si sentì sperduta, nel bosco, come una bambina. 









NOTA AUTORE: prima di tutto mi scuso per non aver risposto alle recensioni dello scorso capitolo >.<" Proverò a farlo oggi, appena ho tempo, perché erano talmente belle che meritavano una risposta, ma in questo periodo di esami è stata dura, e non ho avuto proprio tempo. Detto ciò, questo capitolo mi piace un sacco :D Ok, non è molto decisivo, ma ci sono risvolti interessanti, e l'arrivo di due nuovi personaggi. Parte il viaggio per recuperare i pezzi delle armature custodite nei vari castelli. Ma non senza attriti e incertezze. Maxi, oltre a temere che nessuno si fidi di lui, prova paura per la grande prova che lo attende nel superamento dei Monti Neri, luogo pericoloso e mortale, ma l'unico che non è sorvegliato dalle truppe di fiori. Libi ed Emma entrano subito in conflitto, non si possono proprio vedere! Libi inoltre sente che la sua ammirazione per Andres sta morendo, e si sente senza certezze. E' insicura, e non sa se sia il caso di tornare indietro. In fondo non è mai stata sicura di voler intraprendere quel viaggio. Broadway e Emma sono i due nuovi arrivi che fin da subito si mostrano dal carattere definito (o almeno io ho provato a definirlo xD): Emma è una ragazza orgogliosa, che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno, ma è anche subdola nel suo piccolo, e altezzosa. Un personaggio che odio, ma che allo stesso tempo mi piace, perchè non è una vera e propria cattiva ù.ù Broadway invece è molto calcolatore, e studia continuamente un piano. Su di lui, forse sapremo di più nei prossimi capitoli. E' anche molto riservato, anche se tende ad essere amichevole con tutti, e scherzoso. Tra Libi e Andres le cose non vanno bene purtroppo :S Comunque il viaggio continua? Cosa li attende ai Monti Neri? Ancora tante avventure, pericoli da affrontare, siamo solo all'inizio! Grazie a tutti voi che mi seguite, e non dimentichiamoci i nostri Leonetta...torneranno presto (credo), anche perché Violetta e Maxi sono entrambi essenziali in questa storia :D Grazie di tutto, a chi mi segue e recensisce sempre, mostrandomi il suo continuo appoggio :D Grazie a tutti, e alla prossima, buona lettura! :D 

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Capitolo 20
*** Salto nel vuoto ***




 

Capitolo 20
Salto nel vuoto

“Chi sei?” chiese Maxi. Era inginocchiato su un prato fiorito che si estendeva perdendosi all’orizzonte. Di fronte a lui un piccolo lago, la cui superficie era liscia come il marmo appena levigato. I suoi occhi erano magneticamente attratti verso il fondo di quest’ultimo, dove vi era il riflesso di una giovane, che lo guardava anche lei inginocchiata. Aveva un’aria curiosa, e i piccoli occhi color nocciola non distoglievano la loro attenzione da lui. La ragazza inclinò la testa leggermente di lato, con un sorriso enigmatico. Le sue mani erano piantate sull’erba, mentre alcune ciocche dei capelli castani, le scivolavano disordinatamente sulle spalle. Maxi rabbrividì, perdendosi in quello sguardo: quella ragazza lo incantava. Ogni particolare del suo viso si impressero nella mente. “Non lo so, Maxi, speravo me lo dicessi tu” sussurrò lei. Delle bolle d’acqua fuoriuscirono dal lago, trasmettendo la sua voce. Una voce calda e melodiosa, come quella di un usignolo. O forse era più giusto di una sirena, una pericolosa quanto intrigante sirena. “Come conosci il mio nome?” chiese, riscuotendosi dall’incanto. “Non lo so”. La risposta non cambiava, così come il tono con cui veniva data. Eppure delle lettere si disponevano davanti ai suoi occhi, invisibili a tutti, ma non a lui. Una V, una I…
“Maxi!” lo svegliò Brodway, versandogli la borraccia piena d’acqua gelida in testa. Maxi scattò in piedi, con i capelli ancora gocciolanti, e i brividi di freddo. “N-non è d-divertente” balbettò, asciugandosi dall’acqua fredda con le maniche della maglia. “Per me lo è stato un sacco!” rise di gusto l’altro, raccogliendo poi tutto quello che c’era intorno per la partenza. “Dov’è Andres?” chiese Maxi, non trovando l’amico nei paraggi. Libi era in un angolino della radura, piuttosto taciturna, e giocherellava con alcuni fili d’erba; Emma invece, sembrava aver cambiato atteggiamento adesso che il pericolo si avvicinava: sistemava la sua sella con un’attenzione e un silenzio innaturali. Nulla sfuggiva ad una sua indagine, ed ogni disattenzione veniva prontamente corretta. “Ha fatto la veglia per quasi tutta la notte, facendo i cambi con me ed Emma” spiegò Broadway, arrotolando le corde usate per costruire i ripari. Lo scricchiolare delle foglie secche avvertì tutti dell’arrivo di Andres, che si presentò con il volto pallido e trasandato. Con ogni probabilità aveva fatto in modo che gli altri riposassero molto più di lui. “Forse dovremmo ritardare la partenza” esclamò Libi, alzandosi. Aveva notato esattamente lo stesso, e stava facendo tutto il possibile per permettere ad Andres di riposare. La sua reazione fu agghiacciante; non si voltò nemmeno a guardarla: “Se vuoi prendertela comoda puoi anche non venire. Noi partiamo”. Emma sorrise soddisfatta e si affiancò al compagno con le briglie strette nella mano destra. Libi sbuffò impercettibilmente, ma non disse nulla, e raccolse lo zaino da terra. Gli passò al fianco a passo veloce e si mise a parlare con Broadway del percorso che avrebbero intrapreso una volta superati i Monti Neri come se nulla fosse. “Per entrare con facilità a Fiordibianco conosco qualcuno che fa al caso nostro. E poi abbiamo un asso nella manica a palazzo” rispose il ragazzo dalla pelle scura in modo complice. Una volta arrivati vicino ai monti, dovettero abbandonare i cavalli e procedere a piedi. Se un cavallo avesse perso il controllo durante il percorso nel luogo della nebbia eterna sarebbe stato un vero problema, e non potevano rischiare così tanto. 
Mentre camminavano il terreno si fece sempre meno pianeggiante e sempre più in pendenza. La vegetazione circostante si ridusse dapprima a dei radi cespugli che crescevano tra le rocce. Mentre camminavano avevano ormai raggiunto i pendii dei monti, e stavano imboccando un sentiero dissestato. Superarono i primi crepacci, mantenendosi sempre attaccati alla superficie ripida della montagna che si estendeva alla loro sinistra. Alla loro destra un’altra montagna impediva al sole di illuminare il cammino, quindi tutto sembrava avvolto in un crepuscolo perenne. Lentamente una nebbia scura si stava facendo strada per l’aria circostante, avvolgendoli ingannevole. “Comincio già a non vederci nulla” esclamò Maxi, portandosi una mano davanti al viso, per evitare che gli occhi lacrimassero eccessivamente. La nebbia era densa, ma non dava problemi di respirazione, era assolutamente inodore. “Non ti lamentare e cammina!” lo riprese Emma, scocciata. Maxi le fece il verso di nascosto, provocando una risatina alla vicina Libi, che era riuscita a intravedere la sagoma scura del ragazzo in mezzo alla nebbia. “Avviciniamoci tutti, e ognuno tenga la mano di qualcun altro, altrimenti è facile perdersi” ordinò Andres, incurante della tensione che regnava sovrana tra il gruppo. Alcune ombre lunghe si ergevano minacciose: le vette dei Monti che aleggiavano come spiriti in quella sorta di limbo. Strani rumori in lontananza, simili a dei lamenti rendevano il tutto più lugubre. Il braccio di Maxi era avvinghiato a quello di Libi, che non sembrava molto contenta della cosa; era comunque troppo presa ad osservare il modo in cui Emma ne approfittava per stare attaccata ad Andres per replicare. Broadway stringeva in modo saldo la mano di Andres, e i tre avanzavano avanti a loro, sempre più rapidamente. “Muoviti a stringere la mano di Emma prima che ce li perdiamo” la avvisò Maxi, rischiando di inciampare contro un sasso. “Piuttosto mi faccio amputare la mano! Non preoccuparti, non li perdiamo” ribatté Libi con fermezza, per mostrarsi sicura. Continuava a fissare le tre ombre davanti a lei, fondersi sempre di più con l’oscurità perenne. Ad un certo punto venne strattonata indietro da Maxi che era inciampato. “Scusa, non si vede niente qui” si scusò, massaggiandosi la gamba e rialzandosi. Libi non prestò attenzione alle sue scuse, occupata a cercare con lo sguardo gli altri. “Ehi, siamo qui!” gridò. La sua voce rimbombò nel nulla: le tre ombre che prima si trovavano davanti a lei si erano dissolte, fondendosi con l’oscurità presente.
“Li abbiamo persi!” imprecò la ragazza, disperata. Tutt’intorno non c’erano punti di orientamento, e anche tornare indietro sarebbe potuta rivelare un’impresa. Se avessero raggiunto la vetta della montagna, dove la nebbia era più rada, forse avrebbero potuto concludere qualcosa. “Dobbiamo andare avanti” sentenziò trascinandosi dietro il braccio di Maxi, che in tutta risposta fece leva sui piedi rifiutando di muovere un passo. “No, è una follia. Dovremmo tornare indietro, invece”. “Voglio vedere, se riesci a tornare indietro…” ribatté sarcastica, facendosi strada lentamente nella nebbia, attenta a dove metteva i piedi. Il rischio di appoggiare male il piede e di ritrovarsi il vuoto invece che il terreno era molto alto. “Seguimi senza piagnucolare!” disse, voltandosi di colpo, e notando l’espressione terrorizzata di Maxi. Sospirò e gli tese la mano, affidandola al buio. Sentì il ragazzo stringerla per farsi coraggio e avanzare insieme a lei, fino a quando un gracchiare vicino non li face trasalire. Dalla nebbia emerse un piccolo animale, che si trascinava a malapena: aveva una lunga coda nera, che si perdeva nella nebbia, e il corpo era tutto peloso, di un colore grigio sporco, che ben si adattava al resto dell’ambiente. Due occhietti neri e maligni si muovevano roteando, e studiando lo spazio circostante. L’essere si muoveva a tratti, mostrando la sua bocca di un rosso acceso, con una dentatura non indifferente. “Sembra innocuo” mormorò Maxi, arretrando comunque per sicurezza. “Io non lo credo affatto. Non lo toccare, stagli lontano” sibilò la ragazza, sfoderando l’arco, e posizionando una freccia pronta a colpire. Senza rendersene conto però un altro di quegli esseri, sempre dalla lunga coda nera, si era avvicinato versa destra, e in modo repentino aveva avvolto la caviglia di Maxi, buttandolo a terra. “Maxi!”. Il ragazzo cerco di rispondere, ma gli usci solo un urlo di dolore: l’essere lo aveva intrappolato con la sua coda ed era risalito lungo la gamba per poi morderlo con forza. Libi tentò di soccorrerlo, ma fu impegnata ad abbatterne uno con l’arco, che si stava avvicinando pericolosamente. Si rivoltò per aiutare l’amico ma con orrore si rese conto che era stato trascinato da qualche parte nella nebbia. Sentiva i suoi lamenti di dolore e le grida di aiuto, ma il cervello era annebbiato. Non sapeva in che modo agire: lasciare Maxi e continuare a fuggire, o cercare di salvargli la vita con il rischio di mettere in pericolo la sua? L’assenza di una guida, di qualcuno che le dicesse cosa fare si fece sentire in quell’esatto momento. Possibile che dipendesse così tanto da Andres da non essere in grado di prendere alcuna decisione per suo conto? Si rifiutava di crederlo. Chiuse gli occhi e si diede mentalmente della sciocca per quello che avrebbe fatto. Una palla al piede, ecco cos’è, pensò, prima di lanciarsi a capofitto dove provenivano le urla di terrore. Tirò fuori il pugnale e tagliò uno delle lunghe code nere degli esseri che scivolavano sul terreno. Un fiotto di sangue bluastro le schizzò il viso, ma continuò a correre, fino a quando non si fermò, le gambe paralizzate dal terrore, il fiato mozzato. Un enorme mostro, somigliante a un grosso ratto grigio ruggì clamorosamente, mostrando i denti giallognoli. Cumuli di bava gli scesero dalla sproporzionata bocca aperta. Il corpo era grigio e peloso, come quello delle creature che avevano incontrato, e seguendo i contorni del corpo, vide un’imponente e spessa coda nera, che si diramava in tante piccole code, ognuna collegata a uno degli esseri. Maxi era sospeso a testa in su, a pochi metri dagli occhi piccoli e ravvicinati del mostro. Erano di un color rosso sangue, e dal modo in cui si muovevano dovevano essere impazienti quanto il padrone di concludere quel pasto. “Aiuto!” frignò Maxi, non riuscendo a estrarre la spada di neranio, che cadde al suolo. Libi si riprese dallo shock causato dalla visione del mostro, quindi rinfoderò il pugnale, e preparò un’altra freccia; cercò di mirare proprio all’occhio. Tuttavia la nebbia rendeva difficile anche quella semplice operazione, e si ritrovò a correggere più volte la mira. “Stai fermo!” gli intimò la ragazza, cercando di non ferire il proprio compagno, che nel frattempo veniva sballottato qua e là. “E chi si muove! Non sono io qui che detta ordini!” strillò Maxi, mettendosi una mano davanti alla bocca, in preda a dei conati di vomito alla vista della maleodorante bocca del gigantesco ratto. La coda che gli stritolava la gamba continuò ad agitarsi, roteando vorticosamente. “Fa…” cercò di dire, tra un giro e un altro. “QUALCOSA!”. Libi serrò la mano attorno all’arco, e una goccia di sudore freddo scivolò dal viso, mentre cercava di concentrarsi. “Se ti prendo non te la prendere con me!” strillò spazientita, per poi scoccare la freccia, che si piantò proprio nell’occhio sinistro del mostro. Quest’ultimo cominciò a squittire in modo grottesco, mentre gli esseri sparsi per la salita emettevano versi disumani. Sangue caldo e blu fluiva a fiotti dall’occhio del ratto, mentre questo con la coda si abbatteva contro la parete rocciosa, dando inizio a una piccola frana. Un’altra freccia lo colpì in pieno petto, e il mostro si accasciò a terra, morto. Maxi si liberò a fatica del tentacolo, ancora frastornato per quello che era successo, e ovviamente parecchio scosso. “Ma…ci rendiamo conto? Ci rendiamo conto che stavo per morire per mano di un topo troppo cresciuto?” strillò il ragazzo, strabuzzando gli occhi. Lo stomaco gli si contorceva nel vedere la carcassa che emanava un odore pestilenziale, e si girò subito dalla parte della compagna, che stava riprendendo fiato per la corsa che aveva dovuto fare per evitare che il corpo le si sfracellasse addosso. “Grazie, Libi. Prego, di niente” disse Libi, impersonando prima Maxi e poi lei. “Grazie”. Cercò di dire altro, ma ebbe bisogno prima di prendere un profondo respiro. “Ma adesso ce ne andiamo di qui, questa era la prova che ci serviva per capire che non siamo in grado di sopravvivere da soli” sentenziò, con le gambe che ancora gli tremavano. “Io vado avanti” gli venne contro Libi, dando un’occhiata intorno. Quella nebbia cominciava ad ottenebrargli i sensi: sembrava di essere in un sogno, o meglio un incubo. C’era da impazzire in un posto del genere, e voleva uscirne il prima possibile. “Io torno indietro” disse il ragazzo con aria di sfida. Continuarono a fissare la sagoma dell’altro, aspettando che muovesse il primo passo, me nessuno dei due era effettivamente disposto ad agire per primo.
Passarono parecchi minuti, e Libi aveva incrociato le braccia al petto, mentre Maxi batteva il piede nervosamente, creando un rumore sordo. “Allora? Torna indietro!” lo riprese, facendolo trasalire. Il ragazzo recuperò il coraggio in un istante: “Sto aspettando che tu ti decidi a liberarti di me. In fondo è questo che vuoi, no?”. Le sue parole risultavano fredde come l’acciaio, eppure traspariva una sottile nota di sofferenza, che Libi non poté non cogliere. Forse era sempre stata troppo dura con quel ragazzo. In fondo aveva combattuto insieme a loro, aveva sempre prestato il suo aiuto, fino ad accettare questa folle impresa. E lei aveva saputo solo avere dubbi nei suoi riguardi, rivolgendogli parole di disprezzo. Sentì che doveva ricominciare daccapo; tese la mano tremante verso Maxi, distogliendo lo sguardo, provando vergogna per quello che stava per fare. “Se vuoi…possiamo ricominciare da capo. Da sola potrei davvero non farcela, ma con te…con te raggiungeremo gli altri”. Il ragazzo inclinò lo sguardo, incerto se prestare fede o no a quelle parole, ma poi un sorriso sincero spuntò sul suo volto, e strinse la mano con vigore. “Ci sto, ricominciamo da capo. In effetti anche io da solo potrei non tornare vivo, ma…se uniamo le forze, e mettiamo da parte i nostri diverbi, forse riusciremo a trovare Andres”. Libi annuì: un timido sorriso illuminò il suo volto in quelle tenebre. Stava riscoprendo una nuova sé, una sé che non dipendeva dalla gelosia o dalla rabbia. Una nuova Libi, che non era come l’aveva descritta Emma. Lei era in grado benissimo di cavarsela da sola; era forte e coraggiosa, lo era sempre stata fin da piccola. Non aveva bisogno di qualcuno che le ordinasse cosa fare.  “Però dobbiamo trovare un posto per la notte, e mettere qualcosa sotto i denti. Il ratto gigante mi ha fatto venire fame” scherzò Maxi, per poi scoppiare a ridere. La risata contagiosa coinvolse anche Libi, che scosse la testa, divertita. I due si accamparono, posizionandosi sotto una rientranza nelle rocce. Accendere un fuoco era impossibile in quelle condizioni, e inoltre non avevano legna a disposizione. Mangiarono un po’ di formaggio con del pane, e tirarono fuori due teli da usare come coperta per ripararsi dal freddo.
Era notte buia, e Libi non riusciva ancora a prendere sonno. Sentì il suo compagno agitarsi nel sonno, e all’inizio non prestò molto attenzione finché non lo sentì parlare. “V…I…O…”. Ripeteva quelle lettere come se fossero essenziali, come se fossero la risoluzione di un complesso rompicapo. “Maxi” sussurrò, nel tentativo di farlo svegliare, ma non funzionava. Il ragazzo si agitava sempre di più. “Chi sei?” diceva, mentre cominciava anche a sudare. Non sapeva che fare: che il mostro avesse avuto l’occasione di iniettargli qualche tossina nel sangue, facendolo delirare? Scostò la coperta, e si avvicinò per poi stringerlo forte in un abbraccio. Era un gesto che le era venuto spontaneo fare, pieno di affetto materno, che eppure non provava. Era tutto paradossale, assurdo. “Va tutto bene, Maxi, svegliati, svegliati!” sussurrò nel suo orecchio, sperando che la sentisse. Il ragazzo smise di agitarsi, ma il sogno rimaneva ancora vivido nella sua mente. La presenza di quella misteriosa ragazza dai capelli lunghi e dagli occhi sinceri continuava a tormentarlo, senza dargli una via di scampo. Non era la prima volta che finiva per sognarla: il suo nome. Il suo nome era un tormento che non aveva fine; e poi che c’entrava con lui? Non aveva mai visto una ragazza del genere. A Fiordibianco era sicuro di non aver avuto occasione di conoscerla; se ne avesse avuto l’occasione se ne sarebbe ricordato. E allora perché il destino sembrava essersi accanito contro di lui? Il respiro si regolarizzò, seguendo le pulsazioni di Libi, che gli trasmetteva calore in quell’abbraccio pieno di speranza. Perché la speranza ormai era tutto ciò che gli era rimasto.
Il risveglio fu piuttosto brusco. Non appena lui ebbe a malapena aperto gli occhi, Libi lo spintonò lontano, rossissima in volto. “Abbiamo…dormito abbracciati?” chiese Maxi, con voce impastata dal sonno. “Non farne parola con nessuno!” ribatté lei stizzita, cominciando a rimettere tutto dentro lo zaino. “Già, perché in questo posto desolato ci potrebbero essere orecchie indiscrete” ridacchiò l’altro, alzandosi e uscendo dalla piccola grotta per sgranchirsi un po’. “Dobbiamo rimetterci in viaggio” continuò imperterrita Libi, senza voler fare alcun accenno al discorso di prima, e cercando di spostare la conversazione su qualcos’altro. Maxi colse al volo quell’invito, sfoderando la spada di neranio con aria impaziente. “Non mi dire che adesso sai maneggiarla senza cascare per terra” ironizzò Libi, avvicinandosi e afferrandogli il braccio per evitare di perderlo di vista in quella nebbia. “Donna, io sono un vero uomo!” si pavoneggiò Maxi con aria fiera. Lei ridacchiò, cominciando a camminare e trascinandoselo dietro: “La categoria di uomini ne uscirà distrutta dopo questa tua affermazione”. “Leggo una sottile ironia mal riuscita”. “Sbagliato. Se ci sei arrivato allora è riuscitissima”. La discussione finì tra le risate, ma lentamente esse si spensero, messe a tacere dal luogo lugubre, che riservava un paesaggio sempre uguale. Dovevano avanzare lentamente per non rischiare di finire in qualche crepaccio, ed ogni passo doveva essere studiato. Ogni tanto Libi afferrava per la maglia Maxi, non appena faceva un passo troppo affrettato. L’ultima volta gli ebbe praticamente salvato la vita, visto che l’aveva afferrato proprio sul bilico di un burrone. Un sassolino che aveva colpito per sbaglio era caduto rimbombando per la vallata. La salita si faceva sempre più ripida, segno che stavano per raggiungere le vette più alte. Il sentiero si assottigliava sempre di più, e i segni di frequenti frane si fecero visibili. “Ci siamo…” sussurrò la ragazza, dando un’occhiata nei paraggi, del tutto inutile, visto che non vedeva a un palmo dal naso. Un boato risuonò all’improvviso, un profondo risucchio che sibilava minaccioso. “Tuffi Oscuri, ci metto la mano sul fuoco” disse poi, facendo un profondo respiro. “Speriamo di non finirci in mezzo. Non ci tengo a morire in questo posto”. Maxi annuì, consapevole che erano arrivati alla prova finale di quel luogo infernale. I Tuffi Oscuri erano il  principale motivo per cui la gente si teneva alla larga dai Monti Neri. Nessuno sapeva veramente che cosa facessero, ma certo era che chi tornava vivo da quei luoghi ne parlava come un’arma letale sfoderata dalla natura. I passi risuonavano, le mani dei ragazzi tremavano, mentre cercavano il più possibile di scorgere un segno, qualcosa che annunciasse la presenza di un Tuffo. Niente, tutto era profondamente silenzioso, fino a quando a qualche metro non sentirono di nuovo quel risucchio, e poi un vorticare di gas vicino. Più avanzavano, più i sensi si intorpidivano. La stanchezza si faceva avanti, si sentivano spossati, ma fermarsi in quel luogo era una follia: dovevano superare il pericolo, ammesso che ci fosse una zona in cui potessero effettivamente ritenersi al sicuro. Maxi si trascinava con gli occhi socchiusi, sentendo una sorta di soporifero potere che faceva leva sul suo corpo. Senza rendersene conto cominciò ad avanzare senza più fare attenzione a dove metteva i piedi. “Attento Maxi” biascicò la ragazza, cercando di venirgli incontro. Quando lo raggiunse impallidì: dove si era fermato uno strano gas nero stava cominciando a fuoriuscire, avvolgendo nelle sue spire il giovane inconsapevole. Senza riuscire a controllare i suoi movimenti, raccolse tutte le forze e corse verso Maxi, spingendolo via da quella trappola mortale. Un getto di gas nero fuoriuscì con un impeto tale da sollevarla di poco da terra, mentre i sensi lentamente si risvegliavano, scossi dal sibilare del Tuffo Oscuro. Era finita in mezzo a un ciclone nero, ed era impossibile uscirne. Ma non era una brutta sensazione come la descrivevano, anzi era un qualcosa di meraviglioso. Maxi urlava, ma a lei non giungeva alcuna parola, offuscata dal mare di tenebre che la stava cullando. Il getto dal terreno finì lentamente, lasciandola priva di quella pace di cui si stava beando. Il senso di vuoto e la tristezza improvvisamente presero il posto di quelle piacevoli sensazioni, e fu come precipitare in un incubo. Muovere i piedi era una fatica immane, davanti aveva ancora l’immagine del fluttuare in mezzo al Tuffo Oscuro. Il suo cervello non ragionava più, nessun pensiero razionale lo illuminava, immerso nel torpore. Tutto intorno era un prato fiorito, sentiva ancora le urla lontane di Maxi, ma non le interessava: i suoi genitori la chiamavano con insistenza, poteva sentirne le voci. Sentì qualcuno stringergli il braccio, ma lei lo strattonò facendolo ruzzolare a terra, svenuto. Non gli interessava, lei voleva solo ritornare in un Tuffo Oscuro, voleva solo sentirsi di nuovo libera. I genitori glielo stavano promettendo, volevano solo il suo bene. Continuò a camminare, pensando che presto quella fatica non sarebbe stata più necessaria. Ad ogni passo il cuore si alleggeriva, e in quel prato il profumo delle viole e delle margherite la riempivano di allegria. Un altro passo, un altro respiro di sollievo. Che c’era di bello in quella missione? Anzi…quale missione? Le immagini sfocate dei suoi compagni di viaggio sparirono nella mente coperte da una nebbia ingannatrice. La pianura fiorita si estendeva immensa, e lei affrettò il passo, mentre in lontananza i genitori le promettevano un abbraccio, le promettevano la possibilità di dormire per sempre, tra le spire di un Tuffo Oscuro. I suoi piedi si mossero da soli, e si trovò sul bordo di un crepaccio, che la sua mente rifiutava di vedere come tale. “Ti aspettiamo” dissero i due all’unisono, tendendo il braccio. Sarebbe stato così semplice afferrarlo, e tornare una famiglia, eppure qualcosa la frenava. Il ricordo di una persona, qualcuno a cui teneva molto. Aveva un strana cicatrice lungo una guancia, e per quanto non riuscisse a ricordarne il nome, lentamente il suo viso riacquistava tutti i particolari per ricordarlo. Lentamente tese la mano tremante verso di loro, mentre il ricordo di Andres si faceva sempre più forte, ma ormai era troppo tardi. L’equilibrio la stava abbandonando, e la mente fu di nuovo chiara. Di fronte a lei un crepaccio, ossa di uomini che erano caduti nel suo stesso tranello, che erano morti nella speranza di ottenere la pace come lei. Ma qualcuno la afferrò da dietro al volo, e il fondo del burrone non rientrò più nella sua visuale. Ancora indebolita per le strane visioni, cercò di mettere a fuoco attraverso la nebbia. Adesso era in braccio ad un ragazzo, che la portava a mo’ di sposa. Era alto e prestante, con un fisico invidiabile. Aveva una cicatrice l’ungo la guancia sinistra. “Andres…” sussurrò prima di svenire. I sensi la abbandonarono completamente, lasciandola nell’oblio. Ma qualcuno aveva vegliato su di lei, qualcuno l’aveva trovata in tempo. “Va tutto bene, Libi, adesso sei al sicuro” disse Andres, continuando ad avanzare, affianco a Brodway che aveva trovato Maxi, privo anch’egli di sensi.
“Libi!” strillò nella stanza, aprendo di scatto gli occhi. Violetta tremava come una foglia, mentre le immagini di una ragazza che stava per cadere in un burrone attraversava la sua mente. Lena accese una candela e la posò sul comodino, per poi sedersi vicino alla compagna. “Ancora quei sogni?” chiese, incerta sul da farsi. “S-si, ma stavolta era anche più reale del solito. Ho paura” mormorò la ragazza, portando le gambe al petto, e piagnucolando. “Che succedeva?”. “Una ragazza stava per morire, cadendo in un burrone. Era orribile, lei pensava…pensava che avrebbe riabbracciato i genitori, ma era tutta un’illusione!” spiegò tra un singhiozzo e un altro. “Violetta, questi sogni non sono normali. Dovremmo parlare con il medico di corte per farti prendere un sonnifero la sera prima di dormire”. “Ma…potrebbero essere importanti! Io…non voglio perdere questi sogni, sento che sono la chiave per qualcosa di importante”. Lena annuì dubbiosa, e la strinse in un caloroso abbraccio. “Sai, penso di capire cose stesse tentando di dirmi lo Stregatto” disse d’un tratto, incerta. “Davvero? Cosa?” domandò l’amica, sciogliendo l’abbraccio e sedendosi al bordo del letto. Ma non ottenne nessuna risposta. Il volto in penombra di Violetta da sofferente si era fatto pensieroso. Lentamente le tessere di un puzzle gigante si stavano posizionando al loro posto, ma ancora qualcosa le sfuggiva. La chiave per capire quei misteri non era ancora alla sua portata, ma sarebbe stato così ancora per poco.

















NOTA AUTORE: Hola! Devo dire che non avevo molta ispirazione per questo capitolo. Mi sono abbattuto più volte, soprattutto all'inizio che avevo scritto una cosa orribile, che ho prontamente modificato. Insomma, questo capitolo è stato un parto. Ma rileggendolo devo dire che ne sono soddisfatto. Spero solo che sia chiaro a tutti quello che è successo, perché la descrizione del Tuffo Oscuro è stata vaga, anche per lasciare un po' di mistero attorno, mistero che comunque verrà svelato da Andres. Insomma parliamo del capitolo, che ho tante cose da dire xD Maxi comincia a fare strani sogni che lo legano a Violetta. In effetti vi avevo detto che questi due personaggi sono in qualche modo legati, ma il motivo lo scopriremo solo più in là :P Ecco, il viaggio ricomincia e Libi e Maxi si perdono. CAVOLO. Perdersi nei Monti Neri. Insomma non è proprio una cosa molto bella. Sicuramente gli altri non sono tornati indietro per un motivo (che sarà comunque svelato in futuro), fatto sta che si ritrovano ad affrontare una pericolosa avventura con una sorta di ratto gigante D: E Maxi rischia di rimetterci la pelle D: Ma per fortuna interviene Libi e dopo secoli tra i due comincia a nascere un'amicizia sincera, anche se Libi si sente ancora troppo legata ad Andres, visto che ricorre spesso nei suoi pensieri. Allo stesso tempo la ragazza scopre di poter essere indipendente, mettendo fine ai dubbi che le aveva fatto venire Emma nel capitolo scorso. Maxi continua con gli strani sogni, e poi arriviamo al momento dei Tuffi Oscuri, getti di gas, proveniente dal terreno, che hanno una funzione di allucinogeno e ha degli effetti simili a quelli di una droga. Le sensazioni provate da Libi infatti fanno intendere quale effetto ha quel gas sull'essere umano, e nemmeno Maxi riesce a fermarla...Maxi no, ma Andres la salva al volo, risparmiandole una morte crudele. MA. Eccoci al turning point. Le vicende dei regazzi vengono contemporaneamente sognate da Violetta, la quale comincia a capire qualcosa del Mondo delle Meraviglie, anche se la chiave le sfugge. E la chiave metterà luce a molto misteri (qualcuno mi ammazzerà per tutto questo mistero, ma ok xD). Ecco, dal capitolo 21 torniamo alle vicende di Violetta, che dovrà superare un ostacolo piuttosto impegnativo: altro che Tuffo Oscuri, con Lara nei paraggi! Grazie come sempre a tutti voi che mi seguite, e spero che questo capitolo vi piaccia, a me stranamente piace un sacco, è ricco di avventura, ma non solo :P Grazie a tutti voi che mi seguite, e alla prossima! Buona lettura! 
 
 
 
 

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Capitolo 21
*** Il piano di Lara ***




 

Capitolo 21
Il piano di Lara

“Violetta, mi togli una curiosità?” chiese Lena, all’improvviso. Violetta, troppo impegnata a finire di apparecchiare la tavola, appoggiò il vassoio d’argento con tutte le posate per gli invitati al pranzo della regina, e annuì distrattamente senza alzare il viso nemmeno per un istante. “Leon è entrato da cinque minuti. Ed è già strano che si presenti in sala da pranzo in anticipo. Ma la cosa più strana è che non la smette di toglierti gli occhi di dosso”. Violetta per poco non fece cadere una forchetta che teneva in mano, e alzò di scatto lo sguardo. Era stata talmente presa nel suo incarico che non aveva proprio fatto caso a chi fosse entrato nella sala. Infatti Leon era lì, in tutto il suo splendore, con le spalle appoggiate ai finestroni di vetro. Una strana luce divina avvolgeva la sua figura, creata dalla rifrazione della luce. Non appena i loro sguardi si incrociarono, Leon si girò di spalle, osservando il paesaggio, come se nulla fosse successo. Nonostante ciò era impossibile non leggere una sorta di imbarazzo in quello che doveva essere un normalissimo movimento, e Violetta scosse la testa confusa: da quando erano tornati dalla loro gita nella foresta, qualcosa era cambiato. Leon da una parte sembrava volerla continuare ad evitare, dall’altra invece non la smetteva di cercarla, tanto da ritrovarselo praticamente ovunque. Quando era dentro quelle quattro mura mutava radicalmente atteggiamento, o almeno così sembrava. Era come sempre freddo, e non rivolgeva parola quasi a nessuno, se non per dare ordini. “Gli ospiti di Jade arriveranno a breve, dopo che ti sarai ripresa dall’incanto avrei bisogno di una mano” la riprese la ragazza, scostandosi una ciocca di capelli biondo cenere dietro l’orecchio e dando un’occhiata complessiva alla tavola apparecchiata per metà. “Forse dovrei andare a prendere qualche altra posata in cucina, credo non bastino” mormorò Violetta, persa nei suoi pensieri che avevano principalmente come oggetto il principe. “Forse è meglio che tu vada a riposarti, invece; ti vedo piuttosto pallida. Questi incubi non sono un bene, non capisco perché tu non voglia porgli fine” disse Lena. Violetta non rispose, studiando il profilo di Leon, immaginandosi tra le sue braccia, come quel giorno. Perché ad ogni passo che faceva per avvicinarsi  corrispondevano dieci passi che faceva indietro il ragazzo? Eppure la curiosità di conoscerlo prevaleva sempre sul suo buon senso. E forse non era più solo curiosità la sua, ma qualcosa di più grande di quello che pensasse; certo era che quella lontananza e quella freddezza le facevano male. “Hai ragione, non mi sento molto bene…sarà meglio che vada a riposare” esclamò, passandosi una mano sulla fronte per sentire se scottasse. Con passo un po’ traballante per la stanchezza uscì fuori della sala, sentendosi lo sguardo di Leon puntato addosso.
Superò la porta della biblioteca, e proseguì dritto fino al salone principale. Stava per scendere la scalinata, quando sentì un rumore sospetto; si voltò di scatto e si trovò Leon a qualche metro che la guardava preoccupato. “Dovresti stare attenta alla tua salute” disse lui all’improvviso apprensivo. Violetta ignorò la domanda e risalì qualche scalino trovandoselo di fronte: “Come mai mi segui?”. Leon continuò a fissarla quasi incantato, quindi distolse lo sguardo, concentrandosi sul pavimento. Dopo qualche minuto di silenzio, in cui sembrava chiaro che il principe non intendesse rispondere, Violetta sbuffò e si voltò di nuovo, per tornare nella sua stanza. “E’ che…mi è difficile starti lontano”. L’aveva quasi sussurrato, ma in quella stanza così grande sembrava che l’avesse urlato. La ragazza rimase paralizzata con la mano ancora appoggiata al corrimano. “Non ti capisco, Leon” disse infine, girandosi. Leon era a qualche centimetro da lei, e i loro sguardi erano ormai l’uno prigioniero dell’altro. Lui su uno scalino, lei su quello subito sotto, la mano che quasi tremava mentre si avvicinava al viso di Violetta, sfiorandolo in una carezza leggera come l’aria, quasi inesistente. “Io vorrei solo conoscerti” aggiunse, mentre si lasciava cullare da quello strano gesto d’affetto. Un lampo sembrò attraversare gli occhi di Leon, che fece un passo indietro, spaventato. “Ti vorrei portare in un posto, se me ne concedi la possibilità” disse infine, con un sorriso malinconico. “Lì forse potrai conoscermi un po’ meglio” concluse più a se stesso che a lei. “Stanotte presentati qui. Io ti aspetterò anche tutta la notte se necessario”. Violetta rimase sorpresa e spaventata al tempo stesso di quell’invito. Leon e la sera riportavano alla mente ricordi poco piacevoli, e non sapeva se quel ragazzo fosse cambiato a tal punto da potersi fidare. Qualcosa prevalse in lei, costringendola ad annuire prontamente. Aveva deciso di fidarsi, e non sapeva se fosse la scelta migliore; l’avrebbe scoperto quella sera stessa.
Le fiamme delle torce erano crepitanti, e si allungavano in indomite lingue di fuoco non appena uno spiffero di vento le minacciava. Violetta si affacciò dal corridoio della servitù sulla sala centrale, sperando che nessuna guardia stesse passando di lì in quel momento. Le venne in mente la notte in cui aveva deciso di seguire Thomas. L’aveva pedinato fino alla biblioteca e in un attimo era scomparso nel nulla; un altro elemento da aggiungere alla lista dei misteri di quel castello. Ma il mistero più grande rimaneva Leon, e anche il più affascinante a dire il vero. Non solo per la sua bellezza quasi irreale, ma anche per quel suo voler essere inavvicinabile; più la allontanava più se ne sentiva irrimediabilmente attratta. Il principe in questione la aspettava in cima alla scalinata, guardandosi intorno guardingo. Affrettò il passo, salendo di corsa, fino a raggiungerlo. “Sei venuta davvero” mormorò sorpreso. “Ne dubitavi?” chiese Violetta, guardandolo negli occhi. Leon scosse le spalle: “Non ha molta importanza, in verità”. “Forse non ne ha per te” lo corresse lei, prendendogli la mano. Il ragazzo la guardò come un attento osservatore, uno studioso di qualche misteriosa specie animale, poi abbozzò un sorriso. “Sei strana, Violetta”. Senza aggiungere altro, rafforzò la stretta della mano, e la condusse via da lì volgendo a destra. Gli appartamenti reali. Il sangue le si gelò nelle vene: forse si era davvero sbagliata. Forse Leon non era mai cambiato, e adesso voleva solo portare a compimento la sua opera crudele, ingannandola e facendola cadere nel suo tranello. Lentamente si lasciò trascinare lungo il corridoio, mentre alcune fiaccole si spengevano, inghiottite nel buio della notte. “Non devi avere paura” le disse il principe tentando di rassicurarla. Avvertiva il tremore della sua mano, e non appena si voltava a guardarla lo colpiva lo sguardo perso nel vuoto e pieno di timore. Conosceva quello sguardo: era lo stesso che avevano tutti di fronte a lui. Era in grado solo di incutere paura alle persone, ma questa volta voleva provare qualcosa di nuovo, una nuova sensazione. Non godere della gioia procurata dalla sua crudeltà, ma semplicemente rifugiarsi in quello che poteva donargli un semplice sguardo carico di affetto e di amore. Violetta in un modo o nell’altro, non cedendo al suo modo di essere, non lasciandosi corrompere da quel castello malefico, sembrava volergli dargliene l'opportunità.
Aveva paura, come non ne aveva mai avuta prima. Quella condizione così incerta, da non sapere quale sarebbe stato il suo destino quella notte, la paralizzava. Leon aveva tentato di rassicurarla, e per un momento era riuscita a regolarizzare il respiro pesante, il suo sguardo era tornato carico di dolcezza, ma non riusciva comunque a nascondere l’ansia. D’un tratto ecco stagliarsi la porta della stanza di Leon, minacciosa. Il battito cardiaco accelerò di colpo, ed ebbe il folle impulso di fuggire via, di liberarsi di quella stretta, visto che ancora gli era possibile. Chiuse gli occhi, sperando che non sarebbe mai successo. Lui è cambiato, non lo farebbe mai, si ripeté invano. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio, queste erano le uniche parole che le venivano in mente, ormai. Lo sentì svoltare a sinistra, riaprì gli occhi e la stanza si allontanò dalla sua visuale. Di fronte a loro c’era una stretta scala a chiocciola che doveva condurre in una delle numerose torrette del castello. Le fece un cenno, affinché lo raggiungesse, e abbandonandole la mano nella notte, prese a salire le scale di legno, che scricchiolarono non appena ebbe poggiato il piede. Si fece coraggio e cominciò a salire, seguendolo. Le scale sembravano non terminare mai, ogni passo accresceva le sue paure, nonostante il pensiero che non fosse successo quello che aveva temuto la consolava non poco. “Siamo quasi arrivati” disse con un filo di voce il principe, tirando fuori dalla tasca una chiave di bronzo. Dopo qualche minuto si trovarono di fronte a una porticina di acero, con affianco due piccole colonne che sorreggevano ciascuna un vaso di un colore azzurro chiaro. Una piccola finestrella illuminava il tutto con il tenue chiarore lunare, ma il buio continuava a regnare incontrastato. Leon infilò la chiave nella toppa e cominciò a girare concentrandosi sul vaso alla sua sinistra. Sorrise impercettibilmente: ricordava bene quel posto, e non poteva credere che vi avrebbe rimesso piede. I domestici avevano il compito di mettere ordine in quella stanza una volta a settimana, e fremeva dalla voglia di rivedere quel mare di cianfrusaglie così preziose. La porta si aprì cigolando con un rumore sordo, quindi il ragazzo entrò facendole cenno di aspettare; si avvicinò a un comodino e prese due pietre focaie, poi si rivolse a una parete dove vi era una torcia su un sostegno metallico. La stanza fu quasi completamente illuminata, ma la ragazza da fuori ancora non riusciva a capire cosa ci fosse dentro di così importante. “Adesso puoi entrare” la rassicurò, per quanto fosse possibile. Violetta entrò e le scappò un verso di stupore. Quello poteva essere considerato una sorta di paese dei balocchi all’antica: giocattoli in legno di ogni tipo erano ammonticchiati con un certo ordine. Un cavallo a dondolo attirò fin da subito la sua attenzione, ma c’era un po’ di tutto, da soldatini intagliati, a manichini sempre in legno, che giacevano privi di vita addosso a una parete. C’era perfino un telescopio, di quelli antichi. La sala era circolare e si rivelò molto più piccola che all’esterno. “Qui ci sono tutti i miei ricordi. Quelli felici, intendo” spiegò il principe, osservando la piccola feritoia che permetteva uno scorcio della pianura che circondava il castello. Violetta rimase incantata da ogni singolo oggetto che le mostrava, con una sorta di allegra malinconia. “E queste erano le mie preferite!” concluse raggiante, prendendo due spade di legno. “Ci giocavo spesso con…” iniziò a raccontare, per poi tacere di colpo, rabbuiandosi. Violetta gliene strappò una di mano, e partì la sfida. I due ridevano come matti, sfidandosi ad un finto duello. Mentre duellavano, Leon sorrideva allegro. Violetta per poco non si incantò a guardarlo: era completamente un’altra persona, rispetto alla figura seria e crudele che assumeva in pubblico. Leon si fece battere apposta, e la sua spada di legno finì per terra con un tonfo sordo. In un batter d’occhio si ritrovò la punta della lama di legno puntata alla gola. “Mi ricorda una certa situazione” ridacchiò Violetta, facendo riferimento al loro primo incontro. “E adesso che vorresti fare?” chiese, divertito. “Non sono esperta di combattimento, ma penso che ti risparmierò” annunciò lei con aria regale, pavoneggiandosi e abbassando l’arma. “E’ un errore risparmiare un nemico, lo sai?”. “Ma tu non sei un mio nemico, Leon”. Il silenzio accompagnò quell’ultima affermazione, e Leon giurò di averla vista arrossire in quel momento. Sfiorò la sua mano, togliendole la spada e appoggiandola a terra, e si avvicinò lentamente. Si stavano studiando, e la luce che brillava negli occhi di Violetta divenne improvvisamente anche la sua di luce. Vederla così serena, allegra e spensierata, gli alleggeriva il cuore, e il pensiero che quella notte l’avrebbe potuta passare solo con lei, ridendo e scherzando, lo rallegrava come non gli succedeva da tempo. Si voltò, ancora confuso, per il formicolio che sentiva alla base dei piedi, come se stesse per spiccare il volo da un momento all’altro, e raccolse un cannocchiale; si avvicinò alla feritoia e le fece cenno di raggiungerlo. Le cinse le spalle con un braccio, mentre con l’altro osservava il cielo stellato. “Guarda” le fece poi, passandoglielo.
Violetta pensò che non potesse esserci niente di più bello. In città non era possibile osservare uno spettacolo del genere, tutte quelle stelle che brillavano ininterrotte. Leon arretrò per permetterle di avere una visuale migliore, e rimase dietro di lei, con le mani che poggiavano dolcemente sulle sue spalle. “Ti piace?” le sussurrò all’orecchio, facendola rabbrividire. Le stelle sembravano quasi comporre delle scritte in lingue sconosciute e antiche; era impossibile non credere che ogni posto nel manto celeste non fosse stato già predestinato, e tutto quello non facesse parte di un ordine immutabile, un ordine deciso dalla natura all’alba dei tempi. “E’…una sensazione indescrivibile” disse emozionata. Abbassò il cannocchiale, e si voltò di scatto con gli occhi luminosi. Non pensava che fosse così vicino: il suo corpo imponente la intrappolava, e si ritrovò praticamente con la punta del naso sul suo collo. Alzò piano lo sguardo e avvertì un potente quanto devastante brivido quando si rese conto che ancora una volta i loro sguardi si cercavano e si attiravano come calamite. Si sentì legata: ogni movimento le sembrava superfluo e impossibile, se non quello di sporgersi ancora di più verso quel verde ipnotico, quanto maledettamente segnato dal dolore. Leon le sfiorò una guancia con il dorso mano, e il cannocchiale cadde a terra rumorosamente. Il suo respiro si mescolò con quello del principe, ansioso di fondersi completamente con esso. Chiusero entrambi gli occhi, lasciandosi andare; Leon fece scorrere la mani lungo le sue braccia fino a raggiungere le sue mani, stringendole con fermezza. Le loro labbra si sfiorarono, desiderose quanto timorose. Tuttavia un rumore dall’esterno di qualcosa in frantumi li fece sobbalzare, facendo sfumare quel momento dolce tanto atteso. Leon si avvicinò alla porta socchiusa, e scorse una figura scendere le scale velocemente, mentre uno dei due vasi era ridotto in frantumi: qualcuno li aveva visti. Si voltò verso Violetta con aria spaesata, mentre il terrore si impadroniva di lui: chi poteva essere stato? E cosa aveva visto effettivamente? Se l’avesse riferito a sua madre? Sarebbe stato punito in modo orribile, lo sapeva bene. “Che succede, Leon?” chiese la ragazza, preoccupata. “Qualcuno ci ha scoperti. Deve averci seguito fin quassù, eppure non mi era sembrato di vedere nessuno!” esclamò furioso come non mai. Non era arrabbiato con Violetta, era semplicemente arrabbiato con se stesso, per essere stato tanto sciocco quanto sentimentale. Non avrebbe dovuto aprirsi così tanto con Violetta, in questo modo nessuno dei due avrebbe corso alcun rischio, e invece adesso si trovavano sul filo di un rasoio. La guardò spevanteto, quindi si avvicinò a lei e la abbracciò forte. Spiegare il perché di quel gesto gli risultava impossibile, ma stringerla in quel modo, affondare la testa sulla sua spalla, inebriandosi del suo profumo lo tranquillizzava. Violetta si lasciò cullare, riuscendo finalmente a cogliere un barlume di sentimento in Leon. “Dobbiamo andare” sussurrò; spense la fiaccola con un potente soffio, le prese la mano e la condusse fuori. Chiuse la porta a chiave frettolosamente, quindi scesero le scale. “E’ stato sciocco portarti là” sentenziò mentre la riaccompagnava alla porta che conduceva agli appartamenti dei domestici. “Invece è stato divertente; mi dispiace solo averti fatto correre rischi…e non volevo” si scusò Violetta, aprendo la porta lentamente, per evitare rumori sospetti. Il principe non rispose, incapace di trovare una qualsiasi parola per rassicurarla. “Grazie” sussurrò, avvicinandosi e lasciandogli un candido bacio sulla guancia, prima di scomparire per il corridoio che portava nella sua stanza. Leon rimase imbambolato, guardandola allontanarsi. La tristezza e la solitudine sembravano avere trovato una cura nei sentimenti di affetto che provava per Violetta. Eppure non  riusciva a sfogarsi sul suo passato, un passato oscuro quanto doloroso. Allontanando quei pensieri distolse lo sguardo e salì la scalinata per tornare agli appartamenti reali, dove sperava che una notte priva di incubi lo aiutasse ad avere le idee più chiare.
Lara scese frettolosamente la lunga scala a chiocciola, per non farsi vedere, e cominciò a correre il più velocemente possibile, con gli occhi velati di lacrime di rabbia. Leon e Violetta. Insieme. Così vicini, e i loro sguardi così innamorati. Leon aveva ceduto, sebbene anche a lei sembrasse impossibile. Dopo tutto quello che la regina aveva fatto per renderlo l’uomo che era adesso…Scacciò via quei terribili pensieri, tornando a ciò che aveva visto. L’ira si impossessò di lei, e gioiva nell’aver quanto meno interrotto quel momento così patetico e nell’aver seminato il dubbio che qualcuno avesse potuto vederli; le rimaneva solo da raccontare tutto alla regina e godere delle loro sofferenze. Una volta finito con il principe, Jade l’avrebbe fatto tornare tra le sue braccia, come una marionetta. Una donna avvolta nel buio, eretta e fiera, la attendeva nel bel mezzo del corridoio. Lara sorrise biecamente, fermandosi di colpo. “Cosa ci fai in giro a quest’ora?” chiese Jackie, fingendosi incuriosita. Senza che la ragazza se ne potesse accorgere, fece scivolare una piccola fiala nella tasca, e continuò come se nulla fosse. “Avevo ragione io: quella Violetta ci farà le scarpe! Ho visto lei e Leon quasi sul punto di baciarsi” spifferò senza scrupoli Lara, mentre il suo sguardo si incattivì pericolosamente. Jackie sgranò gli occhi sorpresa, e rimase in silenzio. “Non te l’aspettavi, vero? Credevamo tutti che Jade avesse fatto un lavoro impeccabile, invece a quanto pare non è così. L’ha portata nella stanza dei balocchi” continuò imperterrita. Jackie serrò la mascella, sgranando gli occhi. “Lo sapevo io che non doveva dargli tutte quelle libertà, la regina. Quei giocattoli andavano bruciati insieme a tutti i ricordi del padre, e del suo passato insulso” disse infine, recuperando una calma glaciale. “Vieni nelle mie stanze, non mi fido a parlare qui. Ci potrebbero essere orecchie indiscrete”. Le due andarono nella sala principale, quindi si diressero agli alloggi della servitù. Destreggiandosi per il labirinto di corridoi, raggiunsero una spessa porta, protetta da un imponente catenaccio. Jackie con molta attenzione inserì la giusta chiave del mazzo che aveva tirato fuori dalla tasca, sbloccando così il meccanismo. La stanza della donna era molto semplice, priva di qualsiasi lusso o comodità. Un semplice letto era poggiato sulla parete sinistra, mentre nessuna finestra illuminava l’ambiente. Jackie avanzò fino al comodino, e armeggiò per accendere una candela. “Cosa intendi fare?” chiese poi in un sussurro, richiudendo la porta. “Raccontare tutto alla regina, e aspettare che quella ragazza venga punita come merita”. La donna scosse la testa piano: “Sei una stupida ragazzina. Non otterresti nulla in questo modo. Violetta passerebbe per la martire, e Leon farebbe di tutto per salvarla, se il legame è così forte come mi dici”. “Non lo so, ma non intendo stare con le mani in mano, e comunque lui ubbidirà agli ordini della madre. E se Jade ordinerà che le venga tagliata la testa, così sarà!” bisbigliò fitto Lara, accendendosi sempre di più. La stanza rimaneva nella penombra, si stagliava sovrano solo il volto autoritario di Jackie, che rifletteva sul da farsi. “No, se Leon ha perso la testa per quella ragazza potrebbe essere capace di ribellarsi, e non è quello che vogliamo. La nostra strategia deve essere più sottile”. Lara si accigliò: “Come mai ci tieni tanto ad aiutarmi?”. “Te l’ho già spiegato. Ho paura che quella ragazza possa avere una spiacevole influenza a palazzo attraverso il principe, e non permetterò che accada”. Le due donne rimasero in silenzio, lo sguardo di Lara immerso nell’ombra, quello di Jackie che brillava maligno. “Ho un’idea. Il busto di Javier” sentenziò dopo qualche secondo. “Ci avevo già pensato quando me lo suggeristi sulla torre, ma la stanza è chiusa a chiave. E ci scommetto ciò che vuoi che le chiavi le tiene quell’insopportabile del Bianconiglio” osservò Lara, sicura che non potesse essere l’alternativa giusta. “E’ solo un patetico coniglio, rubagli la chiave senza che se ne accorga, e poi con una scusa porta Leon nella sala dei trofei. Lì troverà il busto in frantumi, e tu lo persuaderai che è stata Violetta. La colpa potrebbe ricadere solo su di lei, visto che tutti noi sappiamo quanto ci tiene a quel pezzo di marmo senza valore!” spiegò Jackie con una punta di ironia sul finale. Lara sembrava incerta, fin troppo incerta. La donna la guardò severamente, poi continuò: “Ma se preferisci vedere quella patetica serva tra le braccia del principe fai come preferisci”. La noncuranza con cui quelle parole erano state pronunciate aveva riacceso la fiamma che bruciava in Lara, alimentata dal suo già pressante odio. “Hai ragione, potrebbe essere il modo migliore per togliersela dai piedi. Se Leon non la vorrà più vedere ci vorrà poco perché venga cacciata dal castello, o meglio ancora decapitata”. Jackie annuì soddisfatta, quindi accompagnò la sua nuova preziosa alleata fuori dalla stanza. “Grazie per i tuoi saggi consigli” disse la giovane, prima di incamminarsi verso la sua stanza. “Figurati cara, sono io che ringrazio te per la fiducia che riponi in me” sibilò l’altra, chiudendo velocemente la porta.
Tutto stava andando come progettato. Le pedine erano sulla scacchiera e lei stava conducendo il gioco. Era davvero fin troppo facile servirsi di quella Lara, troppo accecata dal suo egoistico amore per Leon per agire cautamente. E poi c’era Jade, un’altra pedina nelle sue mani. Tirò fuori la fialetta dalla tasca e ne osservò il contenuto grigiastro; aveva un modo tutto suo per ottenere il potere. Non era nobile, ma era astuta, e la sua astuzia stava gettando polvere su tutti, senza mai svelare il piano che aveva progettato fin dall’inizio. Quella sera c’era mancato poco che Lara la scoprisse, ma fortunatamente la ragazza era rimasta troppo scioccata da ciò che aveva visto per prestare attenzione all’importante oggetto che stava portando in mano. La fiala scintillò ammaliatrice: tutto procedeva secondo i piani. L’unica pedina fuori il suo controllo sfortunatamente era quella Violetta; troppo legata a Leon, non sarebbe stato conveniente averla come nemica. E per questo aveva fatto leva sulla gelosia e sul rancore di Lara per togliersela dai piedi. “Gelosia. Che farsene della gelosia quando si può avere il potere incontrastato?” sussurrò maliziosa, riponendo la preziosa fiala in un cassetto del comodino. Violetta avrebbe potuto costituire un problema per il piano, ma aveva già trovato la mossa più efficace per contrastarla, senza dover uscire allo scoperto. La sfida con quella ragazza era adesso ufficialmente aperta, ed era lei a dover fare la prima mossa.
Thomas si guardò intorno guardingo. I suoi occhi ben si abituavano al buio e riusciva a scorgere ogni possibile sagoma o a percepire il minimo movimento. Il silenzio attorno gli diede la prova di cui aveva bisogno per proseguire. Sospirò infelice, e aprì a fatica il portone della biblioteca. Tutto sembrava essere al suo posto, e in ordine, non fosse che la porta si richiuse dietro di lui di botto. Una guardia lo fissò minacciosa, mentre la regina si alzò dal tavolo del bibliotecario: un ghigno malvagio le deformava il volto, mentre una giovane sentinella reggeva una torcia per illuminare l’ambiente. “Sei pronto?” chiese la donna, incedendo lentamente. Gli afferrò il braccio e lo trascinò vicino a una delle librerie addossate alle pareti sulla destra. Spostò dei libri, secondo un preciso ordine che ormai il ragazzo conosceva a memoria: primo scaffale, terzo libro; quarto scaffale, libro dalla rilegatura argentata, posto all’estrema destra, e infine secondo scaffale, libro dalla copertina rosso fiammante, posto in mezzo. La libreria sembrò arretrare minacciosamente, scricchiolando per l’impressionante mole. Quando si fermò si era formato un piccolo incavo, che però sulla sinistra dava il via a uno stretto cunicolo oscuro. “Bene, sei qui per la dose settimanale” ridacchiò con gusto Jade, godendo dei brividi di paura di Thomas. Un sorta di stridio proveniva dal fondo, e il Bianconiglio sapeva già di cosa si trattasse: era ora di nutrire quella trappola infernale. 















NOTA AUTORE: Allora, di che stavamo parlando nello scorso capitolo? Di Tuffi Oscuri? Ma qui la nostra Violetta deve affrontare molto di peggio! Ma andiamo con calma, che tra intrighi e misteri bisogna un attimo fare un piccolo quadro. Tra Leon e Violetta le cose procedono lentamente ma il giovane sta imparando finalmente ad aprirsi, quasi suo malgrado. Da una parte tende a fidarsi, dall'altra sembra pentirsi di quelle scelte. La confusione in Leon è più che normale, e quando scoprirete l'oscuro segreto che aleggia intorno al suo personaggio penserete che è stato fin troppo umano! Povero Leon, cominciando a provare amore per Violetta, comincia a sentire i sensi di colpa per ciò che ha commesso in passato, proprio come temeva negli scorsi capitoli, quando rifletteva sul pericolo dell'innamorarsi. Ma proprio non ci riesce a starle lontano! :3 E a noi va bene così xD Se poi ci mettiamo una misteriosa stanza di giocattoli che costituiscono un piccolo Paradiso per Leon (e anche questo lo scopriremo perché...c'è un motivo per cui Leon è così legato alla sua infanzia), e un bacio mancato, abbiamo proprio gli ingredienti per una storia d'amore piena di alti e bassi che però si sta rafforzando sempre di più :P 
Parlando di baci mancati, ringraziamo tutti Lara (-.-") che non solo interrompe il momento dolce (ODIO PROFONDO), ma minaccia alla sua complice di raccontare tutto alla regina! E non penso che la regina la prenderebbe bene. Jackie sembra volerla consiglilare per il meglio, ma in verità si sta muovendo per conto proprio, approfittando della rabbia di Lara, e sente che tutto sta andando secondo i suoi piani. Una donna subdola ed egoista assetata di potere...ma cosa conterrà quella fiala di così pericoloso? Scopriremo anche questo :P
Nel frattempo facciamo anche un piccolo passo avanti con la storia di Thomas. Un passaggio segreto nella biblioteca che ancora non sappiamo dove conduce, ma di cui il ragazzo ha una paura incredibile! Ma qual è quest'oscura trappola che va 'nutrita'? E in che modo? Beh, beh, vi lascio con parecchi interrogativi in questo capitolo, e qualcuno mi ucciderà per questo. Dulcevoz, se vuoi fare fuori ora Jackie, aspetta di vedere cosa combina dopo! D: E' un'anti-Leonetta, peggio della innocua Lara, che di speranze con il principe non ne ha proprio! Ed è così perfida! D:
Ringrazio tutti voi che mi seguite sempre con affetto, mi fa piacere sapere che la storia continua a piacervi in questo modo! Beh, di mistero non ne manca, ma piano piano tutto verrà a galla :P Buona lettura, e alla prossima!

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Capitolo 22
*** Cuordipietra ***





Capitolo 22
Cuordipietra

Quella notte l’aveva sognata nuovamente. Non ricordava bene ogni dettaglio, ma ricordava perfettamente i lineamenti del suo dolce viso. Leon ancora mezzo addormentato, sonnecchiando, abbracciò uno dei tanti cuscini soffici che aveva sul letto, con un sorriso non da lui. Resosi conto di quello che stava facendo, sgranò gli occhi e scostò il cuscino con una smorfia, facendolo finire a terra. Stava diventando un debole, e la cosa non gli piaceva per niente; anni e anni di sforzi e duri allenamenti sembravano essere stati annientati in poco tempo. Si alzò, stropicciandosi gli occhi, e osservò l’altro lato del letto. Erano ormai parecchie notti che aveva rifiutato qualsiasi compagnia femminile, perfino Lara, anche se quest’ultima si mostrava sempre più determinata. Non aveva più voluto nessuno al suo fianco perché si sentiva vuoto come non gli succedeva da tempo; o meglio, lo era sempre stato, ma quella consapevolezza lo stava lentamente logorando. Il solo pensiero di anche solo sfiorare una qualsiasi ragazza diversa da Violetta gli dava il voltastomaco. Non sapeva come mai provasse quelle emozioni, e si chiese se forse non avesse ragione Humpty, se senza rendersene conto non si fosse innamorato. Accarezzò piano la coperta, seduto sul letto mentre osservava la parete di fronte a lui, perso nei suoi pensieri. Tante domande affollavano la sua mente: perché pensava sempre e solo a lei, anche quando non doveva, anche quando sapeva che fosse sbagliato? Perché non riusciva più a mantenere le distanze, mentre prima gli riusciva molto più semplice? Cosa lo rendeva così debole? E soprattutto, perché quando si svegliava la mattina immaginava di stringerla tra le sue braccia? Quest’ultima domanda poteva sembrare la più stupida, ma era quella che lo tormentava di più. Nonostante tutti i numerosi rapporti fisici che aveva avuto nella sua vita, non aveva mai, assolutamente mai, voluto avere dopo qualche contatto, come se lo ritenesse un gesto sconsiderato, eppure…con Violetta era diverso. Sognava di abbracciarla, di stringersi a lei, e di bearsi del suo buonissimo profumo. Sognava dei contatti semplici e ricchi di significati, che prima aveva sempre disprezzato. Ma i sogni erano e dovevano rimanere sogni. O forse no? La confusione ormai sembrava essere diventata sua inseparabile compagna, e quando si alzò si sentì parecchio stordito. Si voltò verso il pregiato comodino sovrastato da uno specchio circolare dalla cornice dorata. Osservò malinconico le cicatrici sul petto, e le toccò come se non ne fosse pienamente consapevole. Anche se era un ragazzo, per il regno era già un uomo, un guerriero, che aveva sulle spalle le sorti di una guerra. Era il cavallo di battaglia di Cuori, era il principe temuto tanto tra la sua gente quanto sul campo di battaglia. Era Leon Vargas, il principe di Cuori senza cuore…o almeno così gli era sembrato fino ad allora.
Violetta era allegra e quella notte non aveva avuto nessun incubo. La sua alquanto bizzarra felicità la attribuiva all’incontro avuto con Leon; le veniva addirittura da canticchiare, cosa che fece insospettire la sua compagna di stanza. “Come mai tutta questa allegria?” chiese Lena, lasciandosi contagiare e sorridendo di rimando. “Non lo so! Sento che da oggi molte cose cambieranno. Lena, posso farti una domanda?” ribatté la ragazza, sedendosi sul bordo del letto, stranamente pensierosa. “Certo!”. Lena si sedette vicino, prendendole la mano, e guardandola sinceramente. Era la prima e unica amica che aveva da quando viveva a palazzo, e in un certo senso si sentiva profondamente legata a lei. “Credi…tu credi…che le persone possano cambiare per amore?” mormorò particolarmente imbarazzata. La ragazza la guardò attentamente, non sapendo cosa rispondere, ma soprattutto curiosa: chi era quella persona che sembrava aver rubato il cuore a Violetta? “Non saprei…direi di si, se è qualcosa di profondo e inestinguibile, allora si, un cambiamento è possibile. Ma entro certo limiti” rispose puntando l’indice sulla bocca, come per pensarci meglio. “Ma chi è questo misterioso cavaliere?” chiese subito, con un sorriso malizioso. Violetta prese un cuscino e glielo lanciò addosso, con le guance incandescenti: “Ma nessuno! I-io…era solo per sapere. Una curiosità improvvisa” rispose con naturalezza, ma il tono tremante la tradiva fin troppo. Lena decise di non insistere, e prese un nastro azzurro, con cui legò i capelli fino ad ottenere una graziosa coda. “Preparati, che questa chiacchierata ci ha portato via un bel po’ di tempo! E poi pigrona come sei ci impiegheremo delle ore a sistemare la sala dei ricevimenti oggi!” ridacchiò, per poi evitare nuovamente il cuscino che le lanciò Violetta, in un gesto di stizza. “Io non sono pigra!” esclamò la ragazza offesa. Le due si guardarono un istante e poi scoppiarono a ridere. Violetta non aveva mai avuto un’amica, sempre chiusa dentro l’enorme villa Castillo, e invece in quello strano mondo aveva trovato Lena, una persona speciale, che le era sempre stata affianco nei momenti di difficoltà. E poi c’era Leon, che capiva sempre meno ma che sentiva di amare sempre più. Nonostante tutto il ricordo del padre, di Olga, erano troppo dolorosi; sentiva il bisogno di tornare nel suo mondo, in fondo quella non era la sua vita. Era capitata per sbaglio, senza quasi rendersene conto, nel bel mezzo di una sorta di favola, ma lei non c’entrava niente. Doveva cominciare a pensare seriamente ad un piano di fuga.
I passi veloci di Thomas risuonavano nel corridoio. Il Bianconiglio controllò il cipollotto d’oro, e si rese conto di essere in un ritardo mostruoso, tanto per cambiare. Stava per svoltare a destra, quando si ritrovò ad un centimetro da Lara che sembrava lo stesse aspettando. Era proprio tra lui e la stanza della regina, e non aveva tempo da perdere. Cercò di sorpassarla, ma lei lo bloccò mettendosi di fronte a lui, con aria determinata. “Che vuoi? Cerchi qualcosa? Io vado di fretta, di fretta!” esclamò Thomas; i baffi gli vibravano per l’ansia e nello sguardo si leggeva la solita paura di non arrivare in tempo che lo accompagnava costantemente. “Si, ti volevo chiedere un favore. Mi servono le chiavi per due delle stanze in cui alloggiano solitamente gli ospiti. E siccome la capo domestica non me le ha volute dare, e tu hai tutte le copie mi chiedevo se non potessi darmele” disse la ragazza, mostrando le sue doti di grande seduttrice. Gli passò una mano sulla spalla, ammiccando e facendogli addirittura l’occhiolino. Il Bianconiglio fece un passo indietro, stranito. Non si fidava di quella ragazza, ma d’altronde gli servivano due innocue chiavi, e non ci vedeva nulla di male. Tirò fuori dall’interno della giacca di velluto blu un mazzo di chiavi, e le fece tintinnare, alla ricerca di quelle che gli erano state richieste. Una volta trovate, fece una faccia soddisfatta, e aprì il meccanismo di metallo per estrarle. “Ah, un ragno!” strillò Lara, andandogli addosso volontariamente, con una scusa, e facendo cadere il mazzo. Tutte le chiavi caddero a terra fragorosamente, spargendosi per il pavimento. “Oh, dannazione!” imprecò Thomas, cominciando a raccogliere le chiavi. Lara adocchiò quella che le serviva: una grossa chiave arrugginita. La riconobbe grazie alla scritta ‘tropheum’ incisa nel metallo, quindi piegandosi per aiutare il povero Bianconiglio la fece scivolare per il suo prezioso piano all’interno di una tasca del suo vestito. “Mi dispiace, Thomas, sono stata una sciocca. Spaventarsi così per un ragnetto” si scusò, cercando di apparire seriamente dispiaciuta. In realtà non riuscì ad evitare di ghignare soddisfatta, ma cercò di nascondere il tutto con una smorfia di dolore non sentito. “Si, sei stata davvero una sciocca” rincarò la dose il ragazzo, rimettendo tutte le chiavi nel mazzo: erano tantissime e non poteva certo rendersi conto che ne mancasse una. “Beh, scusa!” rispose a tono Lara, mostrandosi acida. “Adesso si che sono in un ritardo imperdonabile!” piagnucolò Thomas, non badando alle parole della domestica. “Vorrà dire che chiederò le chiavi alla capo domestica” disse Lara, allontanandosi con una saluto, e ancheggiando lievemente. “Perditempo da quattro soldi” sbuffò Thomas, rimettendo il mazzo dentro la giacca, e muovendosi verso la stanza delle regina. Mentre camminava, Lara scorse la figura di Jackie, che doveva aver osservato a debita distanza tutta la scena. Aveva un sorriso soddisfatto, e puntava i suoi occhi maligni sulla tasca di Lara: “Vedo che alla fine sei riuscita a raggirarlo”. La ragazza sorrise con aria furba, e tirò fuori la chiave che scintillò davanti alla luce di una finestra, ignara dell’infelice compito che le era stato affidato. “E’ stato quasi più facile che rubare delle caramelle a un bambino. Quel coniglio è davvero tonto!” sghignazzò Lara, rimettendo la preziosa chiave al sicuro. “Bene, e adesso passa alla seconda parte del piano, ci sarà da divertirsi” sibilò Jackie, prima di voltarsi e allontanarsi compiaciuta: tutto stava procedendo secondo i piani, e lei sarebbe uscita vincitrice da quello scontro. “Mi dispiace, Violetta, ma questo è uno Scacco al Re. Anzi, sarebbe meglio dire al principe. E se tutto andrà secondo i piani, arriverà presto lo Scacco Matto” sussurrò con gli occhi ridotti a due fessure.
Leon entrò di corsa nella biblioteca, sperando di trovarla lì anche quella mattina. Aveva anche saltato la colazione, pur di non perdere l’occasione di poterla almeno vedere. Quando entrò però la delusione bruciò del tutto le sue aspettative: nella grande biblioteca si sentiva unicamente il fischiettare di Humpty, che stava mettendo a posto alcuni libri. “Oggi nessuno ti è venuto a dare una mano” constatò il principe, con finta indifferenza. Si sedette al solito posto, senza alcun libro davanti, semplicemente fissando il suo interlocutore, che in cima ad una scala continuava a fischiettare allegramente. Humpty non disse nulla, ma scese le scale, un piolo alla volta, e si avvicinò, studiando il volto incavato del giovane: era pallido e sembrava leggermente spossato. “Non hai mangiato stamattina” disse, per poi avvicinarsi al suo studiolo, una piccola scrivania posta vicino all’entrata. “Non avevo fame” rispose prontamente l’altro, portando una mano sullo stomaco, che invece la pensava in modo molto diverso. “E sei arrivato di corsa” continuò, prendendo un fagotto bianco, dentro un cassetto, e tornando vicino a Leon. “Volevo tenermi in allenamento”. “E come fai a tenerti in allenamento a stomaco vuoto?”. Leon batté un pugno sul tavolo leggermente alterato: “Ma insomma, questo è un interrogatorio?!”. “Mi piacerebbe pensare che questa corsa l’avessi fatta per me e il mio incredibile fascino” si pavoneggiò scherzosamente l’uomo-uovo. La tensione si allentò e Leon scoppiò in una risata nervosa, che nascondeva la paura che il suo amico avesse in realtà capito tutto. “E invece sei venuto qui per una ragazza. Dovrei ritenermi offeso”. Colpito e affondato. Humpty lo conosceva troppo bene, e sapeva interpretare ogni suo gesto o reazione nella giusta maniera. La risata del principe si spense in un istante, e tutto intorno calò il silenzio. “La sincerità è una delle qualità che deve avere un re. Ma non devi essere sincero con me, devi esserlo con te stesso”. L’uomo aprì il fagotto, tirando fuori del pane e del formaggio. “Non è un pranzo regale, ma se vuoi possiamo dividerlo” propose, prendendo un coltellino e cominciando a fare le parti. Leon gli fermò il braccio con un sorriso: “No, non potrei accettarlo. Vado nelle cucine e mi faccio preparare qualcosa, non devi preoccuparti”. Humpty annuì  e mentre si allontanava disse: “Leon, non c’è niente di male nell’amare una persona. Anzi…si dimostra più coraggio amando senza riserve che in qualunque altro modo”. Leon si fermò di colpo, pensando a quelle parole, che rispondevano ad ogni suo dubbio: dunque lui era un codardo? Si nascondeva dietro dei sogni, attribuendoli alla debolezza, mentre il suo inconscio cercava di parargli. Si avvicinò verso la scrivania in legno di Humpty, e osservò il librone che vi era appoggiato: era proprio quello che gli aveva fatto a vedere a suo tempo, con l’immagine del cavaliere che baciava la mano alla principessa. Sorrise impercettibilmente, quindi cominciò a sfogliarlo velocemente fino a raggiungere la pagina interessata. Prese un pezzo di carta ingiallita sul tavolo, intinse una piuma d’oca lì presente dentro il calamaio e scrisse qualcosa. Soffiò parecchie volte e lo avvicinò alla luce di una candela per far seccare l'inchiostro, quindi lo posizionò sulla pagina a mo’ di segnalibro e richiuse il libro. “Che cosa stai facendo, Leon?” chiese Humpty dall’altra parte della sala, ancora seduto. “Niente. Sto cercando di essere coraggioso” rispose con voce atona Leon, prima di lasciare definitivamente la biblioteca.
Non appena fu uscito, ebbe la sgradevole impressione di aver fatto la cosa sbagliata. Sarebbe dovuto tornare sui suoi passi, ma qualcosa glielo impediva. Ogni tanto si voltava nuovamente indietro verso la biblioteca, poi faceva un respiro profondo e continuava per la sua strada. “Leon” lo chiamò una voce femminile alle spalle. Non seppe spiegarsi perché ma si illuse che si potesse trattare di Violetta; si voltò di scatto, ma ancora una volta rimase deluso: era solo Lara. La ragazza lo raggiunse di corsa, con un’espressione preoccupata e affranta. “E’ successa una cosa terribile, Leon” disse lei, riprendendo fiato dalla lunga corsa. Doveva averlo cercato per tutto il castello, pensò il giovane, alzando le spalle, indifferente. “Principe Vargas per te” la corresse. La ragazza si irrigidì e assunse una buffa posizione; non l’aveva mai trattata in quel modo freddo, anche se non era mai nemmeno stato gentile. Lei lo aveva cambiato, quella stupida Violetta; gli aveva portato via l’uomo che amava, ma presto tutto sarebbe cambiato. Se prima anche avesse avuto qualche tentennamento, adesso si sentiva più risoluta che mai. “Vieni con me, è meglio che tu dia un’occhiata di persona” disse Lara, mentre gli occhi le si inumidirono, prestandosi alla sporca recita. Leon non sembrava volerla seguire, pensando ad una sciocchezza, quindi fece per continuare in direzione della sua stanza, per prepararsi per gli allenamenti. “Ti ha tradito, principe Vargas”. Sottolineò con disprezzo l’appellativo con cui era stata appena costretta a chiamarlo. Il giovane si bloccò di colpo: una paralisi dettata dalla paura e dallo sgomento. “A che ti riferisci?” chiese con un fil di voce. “Ti ha tradito. Ha solo giocato alle tue spalle. Ti ha ingannato”. Lara era ormai dietro di lui, e le sue parole erano ridotte ad un sussurro malefico che si insinuava seducente nella sua testa. “Di chiunque tu stia parlando, non ti credo” rispose deciso, scacciando con un gesto della mano ogni possibile dubbio. “Se non mi credi, perché non mi permetti di mostrartelo di persona?”. Leon si girò nuovamente, e sfidò lo sguardo implorante e subdolo della serva. “Spero solo per te che non sia una perdita di tempo” si arrese infine, limitandosi a seguire una ormai trionfante Lara.
Le stanze si susseguivano, così come i corridoi, finché non arrivarono di fronte a una porta che Leon ricordava fin troppo bene: la stanza dei trofei. Qualche giorno prima aveva provato ad entrarci, ma aveva trovato chiuso a chiave, e alle sue richieste di spiegazioni nessuna sapeva rispondere. Aveva anche provato a chiedere a Thomas, che però aveva giurato di non saperne nulla. “Sei pronto a vedere le prove del suo tradimento?” sogghignò la ragazza, per poi riacquistare un’espressione sofferente. Non avrebbe mai pensato che una semplice intimidazione a quella Violetta sarebbe potuta essere l’arma per liberarsi di lei definitivamente. Infilò la chiave nella serratura e cominciò a girare lentamente, mentre Leon seguiva quel movimento impaziente. Era stufo di quel giochetto, e non sapeva cosa potesse esserci di così importante per farlo sospettare di Violetta. Il meccanismo si sbloccò, quindi la ragazza si fece da parte, socchiudendo leggermente la porta: “Guarda tu stesso”. Il ragazzo senza attendere oltre, si precipitò nella stanza, e strabuzzò gli occhi. Miriadi di emozioni si alternavano nel suo animo, proprio come i frammenti di marmo bianco che costellavano il pavimento: rabbia, odio, frustrazione, dolore, nostalgia. Si accasciò per terra di fronte al supporto su cui un tempo riposava il busto del padre, l’unico ricordo tangibile che potesse avere di Javier Vargas. “Papà…” mormorò con voce spenta. Portò le mani al viso, lasciandosi avvolgere dal buio, mentre le lacrime scendevano silenziose. Non c’era più nulla che lo potesse legare al passato…adesso era davvero tutto finito. Non riusciva a rimettersi in piedi, il cuore era troppo gonfio di dolore. Scostò le mani dal viso, permettendo così alle lacrime di comparire alla luce, eleganti e terribili. Il suo sguardo mutò in un istante: l’antica fiamma della crudeltà arse con più forza di prima, l’odio sembrava nuovamente l’unico sentimento che potesse manifestare. Lara si avvicinò tentando di consolarlo, ma Leon le afferrò il braccio con uno sguardo di disprezzo, e lo allontanò con forza. Si rialzò e asciugò ogni traccia di debolezza con la manica della maglietta. Sentiva un gran bisogno di uscire da quella stanza, testimonianza dei suoi errori. Aveva sbagliato a fidarsi di quella serva. Aveva intenzione anche di rimuoverne il nome, dalla testa e dal cuore, anche se per il secondo gli riusciva molto più difficile. La odiava profondamente per aver distrutto uno dei suoi ricordi più cari, e il sentimento d’amore che prima lo aveva illuminato, che lo aveva accompagnato da appena sveglio fino ad allora, era ormai un ricordo sbiadito. Il suo sguardo saettava, la sua mente lavorava senza controllo. Aveva bisogno di vendetta, voleva vederla soffrire almeno la metà di quanto avesse sofferto lui. Credere di poter riporre fiducia in una persona era stata la sua rovina. Si era lasciato ingannare dalle parole di Humpty, dalla finta dolcezza della ragazza, ma era tutta una crudele apparenza. Quella consapevolezza era come un amaro risveglio, e i giorni passati erano sogni ormai infranti. “Chiudi questa stanza. Non voglio metterci piede mai più” ordinò all’improvviso, uscendo a passo veloce, come una furia, mentre una Lara terrorizzata annuiva tremando. Lo sguardo ricco di disprezzo verso tutti era tornato, ma questa volta le sembrava anche peggio. Se anche prima Leon avesse mostrato una parvenza di umanità sembrava tutto scomparso, di lui non era rimasto che un guscio vuoto, pieno di rancore e solitudine.
Violetta era passata in biblioteca per sentire se Humpty avesse bisogno di una mano. Non appena varcato l’accesso alla grande biblioteca insieme a Lena, le due trovarono Humpty, seduto sulla panca, assorto in una lettura alquanto impegnativa. Tra le mani stringeva un librone enorme, i piedi dondolavano, non toccando terra, mentre lui rimuginava borbottando qualcosa. “Humpty!” esclamarono le due in coro, avvicinandosi verso l’anziano, che alzò lo sguardo, e tolse gli occhialetti con cui era solito leggere. “Signorine” salutò cortesemente l’uomo-uovo, poggiando il libro e facendo leva sul suo corpo per scendere dalla panca. “Oggi è stata una giornata faticosissima” si lamentò Lena, sedendosi e sbuffando di colpo. Violetta era troppo presa a girare tra gli scaffali in cerca di qualche libro interessante per prestare attenzione alle continue lamentele dell’amica, che invece il povero Humpty ascoltava pazientemente ed educatamente. Il bibliotecario le permetteva di tanto in tanto di prendere qualche libro da leggere, sapendo quanto lei ci tenesse; ultimamente però non aveva trovato nulla che potesse interessarla particolarmente. “Hai qualcosa da consigliarmi?” sbucò da una delle librerie, con aria perplessa. Lena interruppe il suo monologo, piuttosto risentita, quindi ne approfittò per poggiare la testa sul tavolo, e chiudere gli occhi, in una sorta di dormiveglia. “Non preoccuparti, adesso torniamo in stanza…anche io sono distrutta” la rassicurò l’amica con un sorriso, per poi tornare a cercare la sua lettura. Humpty si alzò con sguardo furbo, e indicò il librone appoggiato sulla sua scrivania: “Quello potrebbe interessarti. Leon lo stava sfogliando stamattina”. Al solo sentire il nome di Leon, Violetta arrossì, e distolse lo sguardo osservando con un’apparente interesse la cupola che tanto l’aveva attirata la prima volta che aveva messo piede in quella stanza. “Se ti imbarazza tanto il nome di Leon, allora non dovrei nemmeno dirti che stamattina ha chiesto di te” disse il bibliotecario. Un sorriso furbo e accattivante gli illuminava il volto pallido, mentre continuava ad indicare il libro, attento che Lena non sentisse nulla di quel discorso. Violetta con una certa reticenza si avviò verso la scrivania, cercando di controllare i piedi, che volevano accelerare, mossi dalla curiosità. Chissà che libro aveva tanto interessato il principe Vargas; sperava solo non si trattasse di un altro mattone sulle strategie militari, o cose del genere. Sfiorò la copertina del tomo: il titolo era in una lingua a lei sconosciuta. Ma ciò che la incuriosì era un pezzo di carta che sporgeva da una delle pagine. Sfogliò il libro avidamente in attesa di raggiungere quella agognata pagina e rimase incantata nell’osservare l’immagine di un cavaliere inginocchiato di fronte alla principessa. Il pezzo di carta recava una scritta dalla calligrafia minuta ma elegante. In alcuni punti le lettere sembravano tremolanti; forse in quel momento chi stava scrivendo aveva la mano che tremava:
‘Stanotte eri nei miei sogni, Violetta. Eri bellissima, più di un angelo.
Leon’
Se prima ad Humpty era parso che lei fosse arrossita, adesso doveva essere un fuoco. Rilesse ogni parola, come se non ci potesse credere fino in fondo. L’aveva scritto davvero Leon? Le veniva da ridere, da piangere, e da esultare contemporaneamente: era un fiume di emozioni in piena che aveva ormai superato i suoi argini, e fluiva liberamente nel corpo. Le mani tremavano, il sorriso stampato sul viso non accennava a diminuire. Prese il foglietto e lo ripose accuratamente nella tasca del vestito. Lena nel frattempo si era svegliata di colpo, e con passo traballante si era avvicinata a lei. “Che ti succede?” chiese inavvertitamente, facendola sobbalzare. “N-niente…i-io mi sono ricordata di una cosa urgente. Ci vediamo dopo in stanza” si scusò lei, uscendo dalla biblioteca di corsa, con il cuore che batteva a ritmi folli, pulsandole nelle orecchie.
Lo cercava senza sosta, ed ogni minuto le sembrava un minuto sprecato che avrebbe potuto trascorrere tra le braccia di Leon. Quella sorta di dichiarazione, perché non poteva essere intesa in altro modo, era stata la più dolce e inaspettata delle sorprese. Improvvisamente il pensiero di German e Olga passarono in secondo piano, suo malgrado, troppo presa da quello del principe. Lo trovò lungo il corridoio che portava agli appartamenti reali, con l'attenzione rivolta verso i giardini del castello. Sembrava stranamente riflessivo, e lo sguardo non era quello che le rivolgeva sempre, ma al momento non ci fece attenzione. “Leon” lo chiamò avvicinandosi. Il ragazzo non si mosse, né rispose. “Io…le tue parole…” mormorò, non sapendo come continuare il discorso. Nulla, il principe non muoveva un muscolo, ma vide la mascella contrarsi leggermente. La luce che si rifletteva nei suoi occhi scuri, e verdi intensi, sembravano conferirgli un’aria fin troppo autoritaria. “Leon?”. Adesso lo chiamava incuriosita da quello strano atteggiamento. Il ragazzo continuò a far finta di nulla, ma il viso si contrasse in una smorfia disgustata. Fece per sfiorargli la spalla in un ultimo tentativo di chiamarlo, cercando di capire cosa fosse successo, perché fosse ridotto in quello stato, ma con una rapidità incredibile le afferrò il braccio, lasciandolo sospeso a mezz’aria. “Non toccarmi mai più!” ringhiò adirato. Il fuoco intenso dell’odio si scontrò con quel fiume che sentiva dentro, spegnendolo completamente. Adesso rimaneva una sola emozione che dominava incontrastata: la paura. “E’ stato un errore fidarmi di una squallida serva come te. Sei solo una delle tante persone che si volevano avvicinare nella speranza di ottenere qualche favore. Cosa volevi, Violetta? Volevi forse ottenere una via di fuga? O forse volevi avere una stanza più accogliente di quella che ti ritrovavi? Quale favore volevi?”. La sua voce era fredda, ma la delusione traspariva chiara come l’acqua. Una risatina incolore accompagnò quelle ultime affermazioni, mentre la confusione si accostò alla paura nell’animo della ragazza. “Non so a cosa ti riferisci” sussurrò terrorizzata. “Smettila! Smettila di fingere. Tu…non sei niente. Potrei distruggerti quando voglio. Potrei farti pentire il giorno in cui sei nata, e se non lo faccio è solo per il disgusto che provo nei tuoi confronti”. Ogni parola era sempre più nera, più crudele, e cancellava la dolcezza del messaggio che giaceva impotente nella tasca del vestito. Leon sembrava un’altra persona: che fine aveva fatto il principe che l’aveva portata in quella stanza piena di ricordi per lui felici, che le aveva dato la possibilità di ammirare il cielo stellato, che era stato quasi sul punto di suggellare quella notte con un bacio? Non riconosceva nulla di quel Leon, e pensò che forse si era sempre sbagliata. La sua superbia nel pensare di poterlo cambiare le stava costando cara: sentiva il cuore spezzarsi in due; le lacrime erano troppo intimorite e fragili per uscire, ma nonostante ciò cercavano disperatamente una via di uscita, una valvola di sfogo. “Che ti succede, Leon? I-io…perché mi parli così?” domandò con la voce che tremava, insieme al corpo. Per un momento Leon sentì qualcosa far leva dentro di lui, un forte senso di pietà, ma poi il ricordo del padre, di tutto ciò che lo rendeva felice, ritornò cancellando tutto. “Non ti rivolgere a me in questo modo, serva. Pretendo rispetto come si conviene” ribatté freddo. “Non devo spiegarti nulla, io non ti devo nulla. Anzi, io ti ho donato la mia fiducia, sbagliando, commettendo un errore che nemmeno un cieco avrebbe commesso. Io brucerò nelle fiamme dell’Inferno, ma subito dopo sarà il tuo turno” disse il principe, sputando ai suoi piedi, in segno di massimo disprezzo, e voltandosi per andarsene, lasciandole di scatto il braccio. Violetta, seppure umiliata, seppure derisa fino alla fine, gli corse dietro supplicandolo di spiegargli, e non si rese conto che non faceva altro che alimentare la sua ira. Leon non ce la fece più: la testa gli scoppiava; le parole di Lara, la stanza dei trofei, il busto, la delusione, quello che sembrava essere un sincero dolore provato da Violetta…tutto questo insieme per lui era troppo. Si voltò inferocito e alzò la mano; il suono di uno schiaffo risuonò nel silenzio serale. La fiamma delle torce tremolò, quasi a voler coprire quell’orrendo misfatto, mentre Violetta si portava la mano alla guancia rossa, colpita da quel palmo che prima le aveva riservato solo carezze e abbracci. Il principe si osservava disgusato la mano ancora formicolante: l’aveva colpita, le aveva fatto del male. La sentì singhiozzare e far uscire le prime lacrime, i suoi occhi spenti riacquistarono quel po’ di vita per aggiungere un altro atto di cui si sarebbe pentito, di cui avrebbe portato il peso. Infierire in quel modo su una ragazza innocente…no, lei non era innocente come aveva pensato. Era solo un’approfittatrice che rideva alle sue spalle, che si prendeva gioco di lui, che amava distruggere ciò che amava. Il muro che con tanta fatica aveva cercato di demolire tra loro due si eresse inespugnabile; non c’era nulla che lo avrebbe cambiato. “Vattene” sibilò, senza guardarla veramente negli occhi. Violetta lo supplicò con lo sguardo, le lacrime che ormai scendevano sicure del loro percorso, la mano che lasciava comunque intravedere il segno rosso della violenza sulla guancia. “Vattene” urlò questa volta. La ragazza si riscosse dall’incubo in cui stava versando, e senza degnarlo più di uno sguardo, corse via piangendo, dando libero sfogo a quel dolore che tanto l’aveva oppressa in quegli istanti. Leon la vide allontanarsi fiero di se stesso, ma anche con un folle impulso di fermarla e scusarsi, chiederle perdono in ginocchio. Per terra giaceva un pezzo di carta, forse lasciato da Violetta nel momento in cui era scappata via di corsa. Lo raccolse e leggendone il contenuto il suo cuore ebbe una stretta: erano le parole che le aveva scritto quella mattina. Ogni parola trasmetteva amore e dolcezza, tutto ciò che lui non possedeva più. In un giorno tutto si era stravolto, ed era tornato quello di sempre. Sua madre ne sarebbe stata felice…e lui? Quando avrebbe capito anche lui cosa significasse essere felici? 















NOTA AUTORE: Miei prodi Leonettiani, all'attacco contro Lara! *suona le trombe e sfila una spada* Cioè, il finale...piango ç.ç Ma andiamo con calma. Allora, succedono parecchie cose interessanti in questo capitolo. All'inizio sembra che tutto vada per il meglio, tutti sono felici, ma quella subdola riesce a rubare la chiave a Thomas astutamente, e ne approfitta per ingannare Leon, che poco prima aveva fatto una cosa dolcissima, acquisendo coraggio (grazie, Humpty <3) e finendo per dichiararsi proprio :3 Ma ecco CHE QUELLA COSA deve rovinare tutto. MH. Leon si sente deluso e tradito, e in fondo preferisce credere alle parole di Lara, preferisce pensare di essersi sbagliato, facendo così un passo indietro. Il dolore per la perdita dell'unico ricordo tangibile del padre poi lo distrugge...e quasi non risponde più delle sue azioni. Povera Violetta che pensava che tra loro le cose sarebbero andate a meraviglia, e invece...amara sorpresa D: Non commento troppo il capitolo, mi fa troppo male, lascio a voi questo sofferente compito ç_____ç Lara, tu non cantare vittoria, che me la paghi ù.ù *si prepara a scrivere cose atroci su di lei per farla soffrire* Volevo dire...sono uno scrittore serio xD Grazie a tutti voi che continuate a leggere, e...buona lettura (ç_____________ç). Alla prossima! :P 

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Capitolo 23
*** Podemos ***





Capitolo 23

Podemos

Le lacrime scorrevano più veloci di quanto correva. Avrebbe voluto fermarsi, capire dove stesse andando, ma la visuale gli risultava sfocata, e i piedi non avevano intenzione di ascoltarla. Come aveva potuto trattarla in quel modo? Si era sentita ferita: il modo in cui le si era rivolto, lo schiaffo che aggiungeva un’umiliazione fisica a quella provocata dalle sue parole. Tutto aveva improvvisamente perso un senso, e sebbene avesse creduto che in fondo Leon potesse nascondere un animo generoso e bisognoso d’amore oltre quella scorza dura e ruvida, adesso si rendeva conto di aver sbagliato. O meglio, forse Leon avrebbe potuto cambiare, ma non con lei. Un giorno avrebbe potuto incontrare davvero la persona in grado di rivoluzionare il suo essere egoista e crudele, ma quella persona non portava il suo nome. Non era Violetta. Andò a sbattere contro qualcuno involontariamente, e sperò con tutto il cuore che non fosse Lena: non voleva farsi vedere in quello stato pietoso. Peggio ancora sarebbe stata Lara, che avrebbe potuto solo ridere di fronte alle sue lacrime. “Ma che modi!” borbottò colui che sfortunatamente, o nel suo caso fortunatamente, si era messo involontariamente sulla sua strada. “Scusi, io…”. Ma le parole furono interrotte dai singhiozzi provocati dal pianto. “Violetta! Ma cosa…stai piangendo?” chiese Thomas, riscossosi dal colpo, e recuperando l’orologio dorato che era caduto a terra durante lo scontro. Controllò che fosse ancora funzionante, quindi lo inserì nella tasca del giacchetto, lasciandolo ticchettare al suo interno. “N-no” cercò di dissimulare la ragazza, asciugandosi prontamente il viso con la manica del vestito. Gli occhi arrossati e lucidi per il pianto erano tuttavia impossibili da nascondere. “Cos’è quel segno rosso? Chi ti ha fatto questo?”. Thomas si avvicinò premuroso, mentre i brividi si impadronivano del suo corpo. Sapeva cosa volesse dire provare del dolore fisico, sapeva cosa volesse dire quando nemmeno il tuo corpo ti appartiene più. Sapeva cosa volesse dire perdere qualsiasi tipo di libertà. Violetta si portò la mano alla guancia, e abbassò lo sguardo intimidita: “N-niente, non è niente”. Thomas scosse la testa, quindi le sollevò delicatamente il viso scoprendo il segno rosso. “E’ stato Leon, vero?”. Nessuna risposta. “E’ stato Leon” si rispose con aria stanca. “Quell’uomo è una bestia! E’ un animale” aggiunse dopo furioso. “Devi stargli lontano, per il tuo bene. Leon non è in grado di controllarsi, a volte, ma cerca di capirlo, lui…”. “Lui?” chiese Violetta, cercando di soffocare i singhiozzi. “Lui ha passato alcune situazioni orribili. Non lo giustifico per il suo comportamento, lo capisco” disse Thomas, per poi abbracciarla forte. Violetta si lasciò cullare dalle braccia esili del giovane. Era tutto molto diverso: sentiva un fievole e confortante tepore, ma non era nulla di paragonabile alle fiamme vive che provava anche solo perdendosi per un secondo negli occhi di Leon, nel verde oscurato da una perenne ombra misteriosa. E per quanto cercasse di odiarlo, non ci riusciva, qualcosa glielo impediva. “Ti aiuterò a fuggire da questo posto maledetto, te lo prometto” concluse il ragazzo, stringendola più forte. Violetta annuì debolmente e scoppiò finalmente a piangere liberamente. Sperava di poter uscire da quella prigione il prima possibile, non ce la faceva più. L’unica persona che avrebbe potuto trattenerla era la stessa che l’aveva ferita così profondamente, e adesso non le era rimasto più nulla che la legasse a quel castello definitivamente. Le dispiaceva non poter più rivedere Lena e Humpty, ma quella era la sua scelta definitiva.
Leon era rimasto da solo nella stanza da letto, ripensando alle azioni da lui commesse. Non la smetteva di osservare quella mano, colpevole. Il senso di colpa lo stava attanagliando, sebbene la ragione continuasse a ripetergli che avesse ragione, come un disco rotto. Si mise la testa tra le mani, sentendola scoppiare, e cercò di piangere, di sfogarsi, ma non ci riusciva. Qualcuno bussò prepotentemente, interrompendo il suo dolore; riacquistò subito un aspetto fiero e distaccato, prima di dare il permesso di entrare. Lara si fece avanti lentamente, aprendo la porta: aveva gli occhi arrossati, simulando un falso pianto. “Oh, mio principe!” singhiozzò la ragazza, sedendosi al suo fianco e abbracciandolo forte. Leon rimase con lo sguardo fisso contro la parete, mentre la ragazza continuava a dirgli quanto male avesse fatto a fidarsi di quella serva, che invece vedeva in lui solo un oggetto di scherno. “Ti ha preso in giro. Sempre! Non come me…” gli sussurrò, diventando improvvisamente audace. Si abbassò la spallina del vestito, convinta che il principe avrebbe ceduto al richiamo di un dolce conforto, e così fu. Leon non capì più nulla, si voltò verso di lei, e la baciò selvaggiamente: non c’era amore o passione in quel bacio, solo un profondo bisogno di dimenticare, e ancora una volta Lara si stava prestando a quello scopo nel modo più squallido possibile. Continuarono a baciarsi, arretrando sul letto, e si trovò sopra di lei, senza quasi più comprendere come avesse fatto. La ragazza, gli accarezzava il volto, ma per lui non significava nulla: era come se al posto delle mani di Lara ci fosse uno spiffero inconsistente. Era debole, ferito, vulnerabile, tutto ciò che odiava essere, e la sua unica consolazione risiedeva nel corpo di Lara. Si separò per prendere aria, e abbassò lo sguardo per slacciarsi la cintura velocemente, e togliersi i pantaloni, ma quando lo rialzò si scostò terrorizzato. Per un momento, un maledetto istante, aveva avuto l’impressione di scorgere il viso puro ed innocente di Violetta al posto di quello compiaciuto di Lara. Cominciò a sudare freddo, mentre la ragazza, non rendendosi conto del suo stato d’animo stava cercando di togliergli rapidamente la maglia. Tentò di baciarla nuovamente, ma ancora la sua mente gli giocò lo stesso scherzo; quello che doveva essere un modo per dimenticare stava diventando un incubo. “No!” esclamò deciso alla fine, allontanandosi e sedendosi al bordo del letto, incapace di credere a quello che stava facendo. Il vecchio Leon non avrebbe mai perso un’occasione del genere, non si sarebbe lasciato fermare in alcun modo, avrebbe dato sfogo a tutti i suoi istinti e bisogni. Ancora una volta Violetta gli stava mettendo i bastoni tra le ruote, e non riusciva ad accettarlo. “Leon, che ti succede?”. La voce di Lara, quasi stridula, venne avvertita da lui come dolce e melodiosa. Era la voce di Violetta che lo stava chiamando. Sembrava una maledizione quella che stava vivendo: destinato a rivedere in ogni persona l’oggetto della sua crudeltà…aveva un amaro sapore di favola, eppure lo stava vivendo in quel preciso istante sulla sua pelle. “Vattene, ti prego” la implorò, cominciando a tremare come una foglia. Quando sentì la mano di Lara toccarle la spalla, abbandonò la lucidità e si voltò verso di lei furioso: “Vattene, ho detto!”. La ragazza rimase sconvolta da tale reazione, e annuì debolmente, rivestendosi al meglio, e correndo fuori dalla stanza. Non ce l’aveva fatta, aveva la fallito la prova, che una volta superata gli avrebbe dimostrato che non era affatto cambiato. Si buttò sul letto, dando finalmente libero sfogo alle sue emozioni: rabbia, lacrime, odio, disprezzo e…amore. Qualcosa di assolutamente nuovo che non sapeva come trattare, ma che sentiva ormai parte di sé.
Il sole era alto all’orizzonte, con la sua luce mattiniera, quando Violetta si presentò in biblioteca. Proprio come aveva supposto, Leon non era nei paraggi, e questo la consolava non poco. Humpty era immerso in qualche sua solita lettura, ed alzò il capo non appena ebbe sentito la porta aprirsi. “Buongiorno” salutò allegramente, abbassando gli occhialetti per studiare la persona appena entrata. Si rese subito conto che qualcosa non andasse, e infatti si alzò preoccupato richiudendo il libro di botto. “Che cosa ti è successo?” chiese, notando che Violetta cercasse di nascondere qualcosa con la mano all’altezza della guancia. “Niente…sono solo stanca. Molto stanca, e…”. Humpty le diede una botta al braccio costringendola a mostrargli quello che adesso era diventato un livido di un tenue colore violaceo. “E’ stato Vargas?” chiese con voce incolore. Violetta non rispose, ma abbassò il capo, mordendosi il labbro inferiore incerta. Gli occhi di Humpty, di quel rassicurante azzurro acquoso, ardevano di rabbia. Sembrava un’altra persona, tanto gli tremavano le mani strette in pugni saldi come l’acciaio. “Figlio di una meretrice!” imprecò l’anziano, montando su tutte le furie. “Humpty!” lo riprese sconvolto, non avendo mai sentito un insulto provenire dalla bocca del pacifico uomo-uovo. “Ma questa volta mi sente” sbottò il bibliotecario, infilando gli occhiali per la lettura nel taschino della giacca, e correndo talmente veloce fuori dalla stanza sulle sue gambe piccole ed esili che sembrava sarebbe finito a rotolare da un momento all’altro. Violetta voleva seguirlo per fermare quel folle proposito che aveva avuto Humpty. Aveva paura che se la sarebbe potuta prendere anche con il povero uomo-uovo, e non voleva che accadesse.
Leon stava tranquillamente facendo colazione, anche se il cibo aveva un odore nauseante. Tutto aveva un odore nauseante quel giorno, perfino la sua stessa presenza. Non aveva chiuso occhio tutta la notte, ripensando al vergognoso gesto che aveva segnato la sua colpa. Quello schiaffo gli era uscito dalla parte peggiore del suo essere, e non sapeva se sarebbe stato capace di perdonarselo. Nonostante il ricordo del busto distrutto continuasse a tormentarlo, non poteva negare che il suo tentativo di rompere ogni rapporto con Violetta stava miseramente fallendo. O meglio, materialmente era riuscito ad allontanarla, a farsi temere come un tempo, ma dentro sentiva che i sentimenti per quella ragazza non si erano solo duplicati, ma addirittura si erano triplicati. E quella morsa non accennava ad allentare la sua presa, anzi, più il tempo passava più la situazione peggiorava. Cominciò a giocare con il cibo sul piatto, muovendo la forchetta con un moto circolare, e guardando il tutto in modo distaccato. L’uovo lo guardava colpevole, mentre la pancetta sembrava indicarlo allo stesso modo. Perfino il cibo lo giudicava adesso. “Non è stata colpa mia” sibilò rivolto al piatto, ben consapevole di stare parlando da solo. Un cameriere gli rivolse un fugace sguardo confuso, quindi tornò a fissare davanti a sé, immobile come una statua, in attesa di un qualsiasi ordine. Leon alzò gli occhi e si ritrovò a fissare il suo riflesso sulla caraffa argentata posta di fronte. Gli occhi incavati, il viso pallido come la luce lunare…non si riconosceva più. Una notte senza dormire lo aveva ridotto in uno stato pietoso. Aveva anche la carnagione più olivastra del solito, dovuto alla sua alimentazione quasi del tutto assente e disordinata. Aggiungendoci anche gli allenamenti che quel giorno lo aspettavano si chiedeva se sarebbe arrivato alla fine di quella dura giornata. Le porte si spalancarono e Humpty avanzò velocemente. Leon alzò un sopracciglio: il vecchio bibliotecario non lasciava mai il suo regno di libri, se non per un motivo della massima importanza. “Humpty” salutò con voce spenta il giovane, alzandosi e facendo cenno alla servitù di lasciarli da soli. Aveva proprio bisogno di un amico, qualcuno su cui fare affidamento per superare la terribile delusione. Quando anche l’ultimo cameriere fu uscito, si sciolse in un sorriso triste, a si preparò per sentirsi ricevere parole di conforto di cui aveva un disperato bisogno. “Leon Vargas! Tu sei un mostro” esordì Humpty indiavolato. Il sorriso gli morì sul volto, e fu presto sostituito da una sorta di smorfia. “Come ti sei permesso, eh? Come anche ha solo potuto pensare di alzare le mani su Violetta? Mi disgusti, come amico e come essere umano” continuò imperterrito, senza quasi nemmeno prendere fiato. “Ma, amico…” cercò di spiegarsi Leon, invano. “No, Leon! Io per te non sono più un amico, sono solo un vecchio conoscente…io non intendo avere più nulla a che fare con te! Pensavo che grazie a quella ragazza saresti cambiato, avresti imparato qualcosa sull’umiltà, sull’amore, e invece siamo punto e a capo! Che razza di uomo è colui che non è in grado di provare un sentimento d’affetto? Dimmi: che razza di uomo è?”. Il principe indurì la mascella, ispirando lentamente. Quelle parole non facevano altro che rendere più dolorosa la ferita che sentiva alla base del petto. “Non lo so, dimmelo tu” disse sprezzante, incrociando le braccia, e mostrando così la sua ostilità. “La risposta che mi sarei dovuto aspettare da un ragazzo arrogante come te, che pretende di capire tutto meglio degli altri. Ma ti avviso: forse ho sbagliato a riporre fiducia in te, ma di certo non sbaglio nel voler proteggere l’unica persona che non è stata inghiottita dall’oscurità di questo posto, che nonostante tutto ha mantenuto il sorriso e una vitalità che mi fanno quasi ringiovanire. Tu prova ancora a muovere un dito per farla soffrire, e parola dell’ultimo Uomo-uovo non avrò pace finché non avrò ottenuto vendetta”. “Mi stai forse minacciando?” chiese Leon, infastidito. “No, sto solo prendendo le giuste precauzioni perché un evento del genere non si ripeta”. “Non puoi darmi ordini, vecchio. Sono io che comando qui dentro” ghignò il principe Vargas, recuperando la sua autorità. Humpty resse il suo sguardo crudele, quindi si voltò pensando di aver detto tutto. “Ti stai sbagliando sul suo conto” lo fermò il ragazzo, poggiandogli una mano sulla spalla. “Lei ha distrutto tutto ciò che provavo cancellando il ricordo di mio padre. Ha distrutto il busto nella sala dei trofei”. “Penso che sia tu a sbagliare se la credi capace di una cosa del genere” disse l’altro. Il tono di Leon si fece quasi supplichevole all’improvviso, cercando un appoggio: “Mi ha ferito profondamente”. “Ti infliggi ferite non necessarie. Hai forse parlato con lei? Le hai chiesto spiegazioni? No, Leon, perché in fondo a te piace soffrire, ne provi un sadico piacere. Soffrendo pensi di essere sempre tu la vittima, di essere l’incompreso…Ma io ti comprendo benissimo e la tua rabbia insensata è dettata solamente dalla paura che stavi provando nell’innamorarti. Appena hai potuto hai fatto un passo indietro, come il più vile dei conigli”. “Io non sono vile!” sbottò il principe offeso. “Lei ha distrutto ciò a cui più tengo”. “Il che è tutto da provare…e se anche fosse? Lei ti stava donando ben di meglio di un semplice pezzo di pietra! Continuo a ripetere che non la credo capace di un atto del genere. Non farebbe mai una cosa così volontariamente. Può essere stato anche un incidente…e a quel punto che faresti? Metteresti tutto da parte per un incidente? Metteresti da parte l’affetto che lei ti ha donato incondizionatamente, senza che tu gliel’avessi chiesto, senza che te ne fossi dimostrato degno? Se fossi in grado di comportarti in questo modo, allora in te non c’è nulla che mi permetta di chiamarti uomo. Il passato è stato doloroso, lo so quanto te, ma non permettere che delle pietre rovinino qualcosa di tanto forte e bello. Non permettere al vecchio Leon di prendere il sopravvento su quello che io vedo essere il vero Leon. So che senti il senso di colpa per le tue azioni, e che in fondo sei pentito”. Leon arretrò lentamente. Si sentiva come un libro aperto per quell’uomo: indifeso come un libro tra le sue mani. Humpty sfogliava le pagine avidamente e ne leggeva il contenuto, leggeva le sue emozioni come solo un’altra persona era ormai in grado di fare. E ancora una volta il pensiero di Violetta tornò con prepotenza nella sua mente. “Cerca di capirmi, non posso. Sarebbe come insultare la memoria di Javier Vargas…”. “Se queste sono le tue ultime parole, allora la conversazione tra noi è finita” concluse duramente Humpty, rivolgendogli uno sguardo severo e comprensivo allo stesso tempo. Era lo sguardo di un padre, quel padre che non aveva mai avuto. Lo vide allontanarsi, il braccio ancora teso in aria, senza fare nulla per fermarlo nuovamente.
Thomas raggiunse Violetta nella biblioteca e i due cominciarono a parlare tranquillamente. Violetta doveva molto a quel ragazzo: cercava in tutti i modi di non farle pensare a Leon, e dovette ammettere che stava facendo un ottimo lavoro. Le risate dovute alla buffa caduta del ragazzo da una delle scale che portava ai ripiani più alti per qualche minuto avevano offuscato i tristi pensieri sul suo futuro in quel castello. “Invece di darmi una mano, lei ride!” scherzò il ragazzo, tirandosi su con un balzo, e facendole la linguaccia. “Scusa, ma eri talmente buffo!” ribatté Violetta con le lacrime per il ridere. “Macché buffo e buffo, io sono terribile. Interi eserciti si ritirano alla mia vista” continuò Thomas, dandosi alcune pacche sui pantaloni. “Senti…ma perché invece di stare qui dentro, al buio e in mezzo ai libri polverosi, non andiamo a farci una bella passeggiata?” propose poi, indicando le vetrate che promettevano una giornata soleggiata e ventilata. Violetta guardò incerta il paesaggio, lasciandosi tentare dai rami degli alberi che frusciavano invitanti, mossi da un leggero venticello. “Vorrei davvero, ma dovrei finire di pulire ancora quella sezione” disse indicando una parte della biblioteca. Una lunga libreria posta in fondo mostrava con dei minuscoli caratteri dorati la scritta ‘Animali fantastici e trappole mortali’. Thomas sbiancò di colpo: “Non ti conviene avvicinarti a quel postaccio!”. “Come mai?” domandò curiosa Violetta. “E’ solo che…l’ultima volta ci hanno trovato una tarantola enorme…non vorrei che ti spaventassi anche tu” balbettò lui, cominciando a picchiettare impaziente per il nervoso. “Comunque non posso uscire, devo finire un sacco di cose che…”. “Che posso tranquillamente fare io”. La voce di Humpty apparve lontana, e il bibliotecario in persona sbucò fuori da una libreria. “Ma non posso lasciarti questi lavori!”. “Certo che puoi! Oggi sarà meglio che ti divaghi un po’”. Le fece un occhiolino rassicurante, e alla fine la giovane, con qualche riserva, accettò.
Le piaceva passeggiare in compagnia di Thomas: insieme ridevano e scherzavano come due che si conoscevano da una vita, ma temeva di illuderlo. Il modo in cui la guardava ben si discostava da quello di un semplice amico; lo sguardo di un innamorato perso era difficilmente confondibile con altro. Però sembrava comunque rispettoso nei suoi confronti, non faceva alcuna pressione, semplicemente stava al suo fianco nella speranza che lei incoraggiasse i suoi sentimenti. “Mi piace stare a contatto con la natura” sorrise Violetta; alzò lo sguardo e socchiuse gli occhi accecata dal sole. “Anche a me… e in più a me piace stare con persone come te” mormorò Thomas, piuttosto imbarazzato. “Come me?” chiese incuriosita la ragazza con un sorriso. “Intendo solari, dolci…simpatiche. Insomma, in questo castello di solito ci si diverte ben poco” spiegò il Bianconiglio grattandosi il capo. Una campanula bianca sporgeva dal terreno, diffondendo il suo profumo; subito Violetta se ne sentì attratta, si chinò e la colse con cura. “Ti piacciono i fiori?”. “A chi non piacciono i fiori?” rispose naturalmente la ragazza. “Beh, alcuni fiori a me fanno venire l’allergia, non potrebbe mai piacermi in alcun modo!” ribatté Thomas. I due si guardarono per qualche secondo quindi scoppiarono a ridere. “Disturbo?” li interruppe qualcuno, con una voce fredda e distaccata. Leon era di fronte a loro, e li guardava dall’alto in basso. La mano era serrata intorno all’elsa della spada, e nessuno poteva sapere che l’avrebbe volentieri fatta calare sulla testa dell’accompagnatore di Violetta. “Nessun disturbo, principe Vargas” rispose frettolosamente il Bianconiglio facendo un lieve inchino. Violetta lo imitò suo malgrado, e sul suo viso si poteva leggere tutto il risentimento che provava per il ragazzo di fronte a lei. Leon si passò una mano sulla fronte sudata. “Avrei bisogno di un bagno caldo dopo questo faticoso allenamento. Porta gli ordini a una delle mie domestiche di farmi trovare dell’acqua calda nella vasca". “Sarà fatto”. “Bene…”. Fece saettare lo sguardo da una parte all’altra e poi si concentrò sul viso di Violetta, come se intendesse studiarlo a fondo. Cosa avrebbe dato per capire cosa stesse pensando di lui. Non che ci volesse un genio: lo disprezzava. E anche lui in parte si disprezzava per quello che aveva fatto, per le dure parole che le aveva rivolto. “Mi dispiace aver interrotto la vostra uscita…di piacere” disse, marcando bene le ultime parole. “Avete detto bene. Ogni tanto è bello poter rilassare la propria mente con persone gradite” rispose a tono Violetta, con aria di sfida, trovando quel coraggio che pensava non avrebbe mai avuto. “Deduco quindi che la mia intromissione mi renda una persona sgradita”. Lo sguardo del principe era duro, ma si leggeva qualcosa di diverso dal solito. Le sue parole erano affilate come coltelli e sembravano sfidarla ad un duello verbale. “Lo avete insinuato voi, non certo io” concluse la ragazza, inchinandosi per poi congedarsi. Thomas aveva colto la freddezza che regnava tra i due, e non poteva dimenticare il modo in cui quel ragazzo aveva fatto soffrire Violetta, quindi si mostrò altrettanto freddo e distaccato. Tutti e tre tornarono al castello, ognuno a distanza di sicurezza dall’altro, senza proferire parola. Finalmente al salone di ingresso le strade si divisero e Violetta provò una sorta di gioia nel percorrere da sola i corridoi che portavano alla sua stanza. Almeno non doveva più sentirsi lo sguardo di Leon puntato addosso come quello di un’aquila.
Era una giornata soleggiata, e le papere emettevano i loro versi striduli. Violetta era seduta e osservava la superficie di un lago, persa nei suoi pensieri quando una strana melodia le giunse alle orecchie, delicata e potente allo stesso tempo:
No soy ave para volar,
Y en un cuadro no se pintar
No soy poeta escultor.
Tan solo soy lo que soy.
Si alzò in piedi, guardandosi intorno, senza riuscire a capire da dove provenisse quella musica, unita alla voce più dolce che avesse mai sentito. Su una possente roccia ai lati del lago erano seduti due individui, uno di questi a lei ben noto. Leon era affianco a una donna vestita di bianco, dal volto coperto da un velo dello stesso colore del vestito, i capelli biondi e lisci che volavano disordinatamente. Era lui a cantare in quel modo, a donarle quella dolcezza nel cuore. Aveva paura ad avvicinarsi, ma non ne ebbe bisogno. Non appena la vide, Leon scese dal rocce sorridendo e le venne incontro.
Las estrellas no se leer,
Y la luna no bajare.
No soy el cielo, ni el sol…
Tan solo soy.
Le prese la mano speranzoso, mentre continuava a cantare, dipendente dai suoi sguardi. La fece volteggiare improvvisamente per poi stringerla a sé senza interrompere il dirompente contatto visivo che si era creato.
Pero hay cosas que si sé,
Ven aquí y te mostraré.
En tu ojos puedo ver…
Lo puedes lograr, prueba imaginar.
Era strano lasciarsi andare in quel modo. Almeno nei sogni sentiva che lei e Leon erano fatti per stare insieme; era una convinzione tanto assurda nella sua mente quanto certa nel suo cuore. “Leon…” sussurrò, mentre i loro visi si avvicinavano. Leon poggiò la fronte sulla sua, continuando a cantare.
Podemos pintar, colores al alma,
Podemos gritar iee eê
Podemos volar, sin tener alas…
Ser la letra en mi canción,
Y tallarme en tu voz.
Scolpirsi nella sua voce: era ciò che desiderava fare lei in quel momento. La donna misteriosa era ormai passata in secondo piano, anche se lei li osservava attenta. “Violetta, io ti amo” le disse il principe, sfiorandole lentamente una guancia, per poi ridurre lentamente ogni distanza. I loro corpi si attraevano irrimediabilmente, e allo stesso modo agivano le loro labbra, quasi tremanti. Quando si unirono in quel bacio tanto atteso, ogni fibra del suo essere avvertì una scossa. Violetta sentì il sapore che aveva un bacio vero, un bacio sentito da entrambi. Un bacio che assumeva solo la forma di un ricordo sbiadito nei suoi sogni, ma che lì, in quel momento, era talmente reale da poterlo avvertire.
Leon teneva in mano il pugnale sporco di sangue con sguardo inorridito. Tutt’intorno era buio, vi erano solo delle panche di legno in fila. Ma al centro della stanza giaceva riverso un ragazzo. Morto. Lì era tutto finito; con quel cadavere aveva messo fine anche alla sua vita. I tentativi di piangere erano inutili, perché la sua crudeltà glielo impediva. Gli usciva solo un pericoloso e inquietante ghigno, mentre osservava il sangue farsi lentamente strada sul pavimento. Quello era un incubo per lui ricorrente, era abituato a convivere con quel crudele passato che aveva forgiato Leon Vargas. Una mano lieve si poggiò sulla spalla, facendolo voltare di scatto con un ringhio e gli occhi iniettati di sangue. Una donna con un velo bianco e dai lunghi capelli biondi che le ricadevano ordinatamente sulla spalle, gli indicò un lato della stanza. Leon seguì la direzione che indicava il dito e dall’oscurità emerse una figura esile. “Violetta…” mormorò, lasciando cadere il pugnale a terra, che rimbombò vendicativo. “N-Non mi guardare così…” cercò di difendersi Leon, perdendo tutta la malvagità che aveva mostrato fino ad allora. Si sentiva indifeso come un bambino, e per poco non sarebbe scoppiato a piangere per il rimorso.
No soy el sol que se pone en el mar,
No se nada que este por pasar.
No soy un príncipe azul…
Tan solo soy.
Quella musica stava risuonando nella sua testa, ma nessuno intorno a lui stava cantando. Che stesse completamente impazzendo?
Pero hay cosas que si sé,
Ven aquí y te mostraré.
En tu ojos puedo ver…
Lo puedes lograr, (lo puedes lograr…)
Prueba imaginar.
Adesso invece Violetta cantava; la sua voce era limpida come l’acqua, le parole smorzavano il dolore nel cuore. Quella non era musica, era semplicemente amore tramutato in note, e non poteva sfuggire più. Perché adesso si sentiva schiavo, lui che era padrone di tutto. Si sentiva schiavo di un solo sguardo di Violetta, di un suo solo sorriso. La testa gli scoppiava, eppure i piedi si trascinavano faticosamente avanti.
Podemos pintar, colores al alma,
Podemos gritar iee eê
Podemos volar, sin tener alas…
Ser la letra en mi canción…
Un abbraccio era tutto ciò che desiderava avere in quel momento, e quando sentì Violetta fiondarsi tra le sue braccia, come se non aspettasse altro, si sentì in pace. Una pace che non aveva mai provato, che sentiva solo al suo fianco.
No es el destino,
Ni la suerte que vino por mi.
Lo imaginamos…
Y la magia te trajo hasta aquí…
“Se anche fosse stata la magia a portarti fin qui, sarò io a farti restare” le sussurrò mentre le accarezzava il capo, concedendosi il piacere che provava nel fare quelle carezze. E rafforzò la presa per farle capire che le sue non erano solo parole, ma una promessa. La promessa fatta in un sogno che si sarebbe conservata anche quando il sole sarebbe sorto.
Podemos pintar, colores al alma,
Podemos gritar iee eê
Podemos volar, si tener alas…
Ser la letra en mi canción…
Podemos pintar, colores al alma,
Podemos gritar iee eê
Podemos volar, si tener alas…
Ser la letra en mi canción…
Y tallarme en tu voz.
I due si svegliarono all’improvviso. Leon tremava, Violetta sentiva un gelo innaturale intorno al suo corpo. La notte oscurava le loro espressioni ma non le travolgenti emozioni che provavano. Quei sogni erano troppo vividi, troppo innaturali, per essere normali. Il principe volse il capo verso la finestra e si incantò a guardare il riflesso lunare e solo allora gli venne in mente, proprio come venne in mente a Violetta, che si rigirava nel letto cercando di prendere nuovamente sonno. La domanda che avevano non trovava risposta, la stessa identica domanda.
Chi era la misteriosa donna apparsa nei loro sogni?









NOTA AUTORE: E anche io vi faccio questa domanda: chi è la misteriosa donna che è apparsa nei sogni dei due innamorati, quasi fosse lei che voleva farli ricongiungere? E qui mi aspette le ipotesi più svariate (detective Dulcevoz non mi deludere, lo sai che Pablo ha in te molta fiducia :P). Ecco che carico un nuovo capitolo, ricco di dolcezza (?). 
Allora, mentre Violetta trova una sorta di amichevole conforto in Thomas, che poverino si trova involontariamente coinvolto in un triangolo che non si aspetta (Thomas in questa storia mi fa tenerezza, MA RIPETO: NO. VIOLETTA NO), Leon ha capito che ormai può fare ben poco, perché si sente costantemente con un senso di colpa opprimente, dovuto al suo diverso modo di essere. SCUSATE, ma la parte che io amo su tutti è Humpty incavolato con Leon, che impreca furioso. Io amo questo uomo-uovo, che cerca di svegliare anche quel capoccione di Leon. Ma senza di lui, noi Leonetta come faremmo? Non faremmo proprio xD E mentre Leon manifesta apertamente la sua gelosia nei confronti di Thomas (amo anche la scena dello scambio di fredde parole tra Leon e Violetta...io li amo sempre XD), e DOPO CHE HA RIFIUTATO LARA (LA GIOIA PURA), ecco che i due si ritrovano a fare due sogni che più diversi non potrebbero essere: lei in una radura felice e piena di sole, lui in una stanza buia con un pugnale in mano (COSA IMPORTANTE)...eppure le note della stessa canzone appare nei loro sogni...fatalità? Destino? O forse...o forse che? La misteriosa donna potrebbe avere a che fare con tutto questo. Ma di chi si tratta? Ipotesi? Considerazioni? Voglia di uccidermi per tutto questo mistero? Fate pure XD 
Detto ciò, vi auguro a tutti buona lettura, anche se questo capitolo non mi convince particolarmente...però alcune scene/espressioni mi piacciono :3 Vabbè, insomma, buona lettura, e alla prossima! :D

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Capitolo 24
*** Il labirinto di spine ***





 

Capitolo 24
Il labirinto di spine

“Tu continui a nascondermi qualcosa!” sbottò Lena, andando avanti e indietro con pile di lenzuola candide per sistemare le stanze degli ospiti. “Uff…queste visite inaspettate significano solo più sudore e fatica per noi” aggiunse dopo, stendendo il lenzuolo bianco, mentre Violetta apriva le finestre per far prendere aria alla stanza. “Ma si può sapere chi deve arrivare?” chiese la ragazza, incantandosi ad ammirare fuori il tranquillo panorama. La splendida visuale del giardino, offuscata da alcune nuvole vagabonde, veniva bruscamente interrotta dalle spesse mura, che le davano sempre più la sensazione di essere in una gabbia dorata. “Il Brucaliffo viene a fare visita alla Regina di Cuori. Sta facendo il giro di tutti i regni per l’Anniversario del Liberatutto. Il suo viaggio inizia con Fiori, poi Picche, Quadri, e si conclude proprio alla Reggia di Cuori, dove la stessa Alice aveva dimorato”. Lena si concentrò sul suo lavoro, ma poi si riscosse, ricordandosi di una cosa all’improvviso: “Ehi, ma tu stai cercando di cambiare discorso!”. “Io? Non lo farei mai! E chi sarebbe questo Brucaliffo?” domandò ancora Violetta, sudando freddo. Erano passati ormai dei giorni dal suo ultimo strano ed inquietante sogno, ma la melodia di quella canzone risuonava ancora nella sua testa quando meno se l’aspettava. Era come un tormento che non l’abbandonava, così come la voce di Leon che cantava la canzone, bassa e potente, dal fascino irresistibile. Non fosse che la realtà smentiva duramente la dolcezza con cui Leon la guardava in quel sogno. “Non puoi non conoscere il Brucaliffo, è una delle personalità più eminen…l’hai fatto di nuovo. Vuoi distogliere la mia attenzione di nuovo” la riprese Lena, fin troppo furba per cadere due volte nello stesso tranello. “Dai, a me puoi dirlo…” la supplicò, sedendosi su un angolino del letto appena sistemato e studiandola attentamente. “Thomas mi ha promesso che mi avrebbe aiutato a fuggire” disse infine Violetta, nascondendo però il più grande dei suoi tormenti: non voleva certo che venisse fuori tutta la storia con Leon, Lena l’avrebbe certamente disapprovata e rimproverata, ricordandole i suoi continui avvertimenti di stare lontana dal principe. “Continuo a pensare che sia una follia; nessuno è mai riuscito a uscire di qui senza il consenso di Jade in persona…e non penso che te lo darebbe tanto facilmente”. “Ma questo non è un posto adatto a me!” cercò di convincerla Violetta. “Perché non vieni via con me?”. “Non posso, il castello è tutto ciò che ho…non sono coraggiosa come te, Violetta”. Il silenzio accompagnò quell’ultima affermazione, e le due compagne rimasero a fissarsi negli occhi. Sembravano così simili, ma allo stesso tempo così diverse: Lena appariva forte, ma era troppo legata alla sua condizione, incapace di vedere una valida alternativa; Violetta era più fragile, eppure aspirava ad azioni che potevano sembrare sconsiderate. “Se anche dovessi cercare di fuggire, mi prometti che non dirai nulla a nessuno?” chiese la ragazza, ottenendo in tutta risposta un bagliore d’orgoglio negli occhi della bionda. “Non tradirei mai una mia compagna…”. L’aveva detto con serietà, eppure l’incertezza aleggiava. Il dubbio si stava insinuando in entrambe: si potevano veramente fidare l’una dell’altra?
“Perché le hai raccontato tutto?” la interrogò Thomas, lisciandosi i baffi nervosamente. Già il piano di per sé risultava rischioso, ma coinvolgere addirittura persone esterne poteva essere una condanna a morte. “Lena manterrà il segreto, credo…” cercò di giustificarsi Violetta con lo sguardo basso. “Credo?! Con i credo non ci facciamo un bel niente! Oh, poveri noi! Siamo rovinati…”. Il Bianconiglio saltellava qua e là senza fermarsi, in preda al panico. “Se racconta tutto a Jade, io…non ci voglio nemmeno pensare!”. “Smettila con questa storia, e dimmi piuttosto se hai scoperto qualcosa di utile per lasciare questo castello” lo riprese, cercando di mantenere basso il tono di voce. Il ragazzo si fermò, incerto se parlare o no. “Ho studiato i cambi delle guardie…non lasciano molti buchi, e quei pochi durano una manciata di minuti. Sembra una roccaforte, senza contare che l’unico modo per attraversare le mura e uscire è passare per l’entrata principale, ed è impossibile. Quella è costantemente sorvegliata” spiegò, evitando di entrare nel dettaglio. “La nostra unica speranza è quella di cercare una mappa dettagliata in biblioteca e studiarla nella speranza di trovare passaggi alternativi”. “Quindi la probabilità di uscire da qui è quasi nulla?” chiese lei, passando dallo speranzoso ad uno stato d’animo più arrendevole. Un battito di mani alle loro spalle li fece raggelare. “Ma bene, ma bene…una fuga romantica?” si intromise Leon, con un sorriso crudele. “Niente di tutto ciò” rispose a tono Violetta, scostando lo sguardo, per non dover incrociare quello del principe. Thomas al suo fianco tremava come una foglia, temendo già il peggio. “Dovrei farvi impiccare, o meglio ancora decapitare. Amo il tonfo delle teste che rotolano. Soprattutto se dotate di orecchie” disse il giovane dagli occhi verdi, sfiorando le morbide e pelose orecchie del Bianconiglio, il quale quasi saltò fino al soffitto a quel tocco. “Ti conviene saltare via, coniglio, o potrei riferire a Jade dei tuoi…progetti. E non penso che la prenderebbe bene” concluse fingendo uno sbadiglio annoiato. Il coniglio si drizzò terrorizzato, e mormorando delle scuse scattò lungo il corridoio. Violetta fece per andarsene, ma Leon le afferrò con forza il braccio. I due si guardarono per qualche istante, rapiti, mentre i ricordi del loro primo incontro, di quando Leon l’aveva trascinata per la prima volta nel castello con la stessa stretta, riaffiorarono pian piano. Il principe sembrava stranamente scosso da quel contatto, che interruppe subito dopo, abbassando lo sguardo, intimorito. “Con il vostro permesso andrei…ho delle faccende di cui occuparmi” sibilò Violetta, infastidita da quella situazione. Non voleva stare più vicino ad una persona tanto ignobile e ripugnante, che l’aveva illusa per poi trattarla alla stregua di un animale. “Aspetta!” la implorò alzando il tono di voce. Tutto si immobilizzò all’istante: Leon la guardava intensamente…all'improvviso le venne in mente quello strano sogno, e immaginò Leon avanzare, per poi cingerle la vita e rivolgerle parole d’amore. Peccato che fosse una squallida illusione, che già l’aveva tratta in inganno una volta. Leon era incapace di amare, lo aveva dimostrato, e ormai aveva imparato la lezione. “Perché vuoi andartene da qui?” domandò Leon, recuperando il contegno che si addiceva al suo lignaggio. “Non so a cosa vi stiate riferendo” rispose lei con cortesia, facendo un piccolo inchino. Al principe quell’atteggiamento di sottomissione dava solo sui nervi; voleva delle risposte, non degli stupidi inchini. “Rispondi, ho detto” insistette serrando i pugni. “Cosa vi succede, principe? Volete farmi imprigionare, per una sciocchezza come questa? Penso che ne sareste capace, ma non saprete nient’altro da me”. Lo stava prendendo in giro, lo raggirava come niente con le parole, colpendolo a ripetizioni con acute frecciatine. E il bello è che non poteva nemmeno prendersela apertamente, visto che gli stava mostrando rispetto e devozione. Finto rispetto. Devozione che celava solo disprezzo…era sempre stato circondato da persone del genere, ma non poteva accettare che Violetta facesse parte di queste. Lei era diversa, gli aveva fatto vedere le cose in modo diverso, perché doveva ora diventare come tutti? “Spero tu non lo faccia per me. Io…non ti disturberò più, lo prometto. Ma non andartene a causa mia, qui al castello hai la possibilità di…”. “Di fare cosa? Di servire la famiglia reale di cuori? Di servire gente che non rispetto? Di servire sua maestà, il principe?”. Le parole arrivarono taglienti come lame, e come lame ferirono la sua anima, già di per sé provata. “Questo potrei considerarlo un affronto, ritieniti fortunata se ti lascio vivere” mascherò il suo dolore con una freddezza ancor più innaturale. “Un giorno spero vi renderete conto di quello che avete fatto. Nessuno si può avvicinare a voi senza rimanerne mortalmente ferito…e una spada farebbe meno male al confronto. Ma in fondo vi piace essere temuto, no? Vi piace questo tipo di rispetto…ed è tutto ciò che avrete da me, ma non di più. Con permesso”. Con un rapido inchino la ragazza si voltò e si diresse verso il salone principale, lasciandolo di sasso. Aveva ragione, e questo lo infastidì ancora di più. Qualcuno lo raggiunse con aria supplichevole, e il principe sbuffò. “Cosa vuoi?” domandò per nulla desideroso di ottenere una risposta quella volta. “Principe Vargas, non merito di essere trattata in questo modo. Io non vi ho mai chiesto nulla in cambio…sono sempre rimasta al vostro fianco, sono stata fedele, e il vostro rifiuto mi ha ferito” disse Lara tutto d’un fiato, stringendogli la manica della maglia. Con una sola occhiata severa del ragazzo, mollò la presa, senza però demordere. “Pensate a quella serva che vi ha tradito? E’ subdola, mio signore. Non lasciatevi ingannare di lei di nuovo. Ci tengo alla vostra incolumità e ritengo che dovreste starle lontano!”. “Non penso sia una questione che ti riguardi, o sbaglio?” la corresse Leon, altamente scocciato. Adesso ci mancava anche la serva che continuava a ricordargli quella terribile situazione! Sapeva benissimo di non doversi più avvicinare a Violetta, eppure era più forte di lui, non ci riusciva a trattenersi; aggiungendoci le parole di Humpty e lo strano sogno fatto, le sue difese erano crollate ancora prime di essere erette. Stava tentando pietra dopo pietra di rinforzare il muro che lo separava dal mondo esterno, ma ogni macigno gli sembrava fin troppo pesante, e la sua barriera rimaneva estremamente debole e sottile. Era stato facile innalzarla di nuovo, fin troppo facile, era bastato lasciarsi nuovamente guidare dagli insegnamenti della madre, dubitare della buona fede della ragazza che si stava rendendo conto di amare, per allontanarla, convinto così di potersi risparmiare un sentimento tanto angosciante quanto pericoloso, come solo l’amore poteva essere. Si rendeva conto però di essere in trappola, che l’amore l’aveva già raggiunto suo malgrado, e non poteva più evitarlo…o forse semplicemente non voleva. Ripensò a tutti i bei momenti passati con Violetta, e il suo cuore si addolcì all’istante: le parole piene di veleno di Lara apparivano lontane, un semplice eco destinato a perdersi nel nulla. Un sorriso impercettibile si formò sul suo volto, ricco di malinconia e di rimpianto. Era ancora in tempo per cambiare tutto? Violetta avrebbe mai perdonato un suo gesto tanto ripugnante? “Voglio solo il vostro bene, in qualunque modo possibile…e continuo a mettervi in guardia…” concluse Lara, prendendo fiato, pronta a ricominciare. “Le tue sciocchezze mi hanno stancato, e fatto venire solo sonno. Ti prego di non rivolgermi parola se non sei stata interrogata espressamente” sbottò il principe, voltandosi dall’altra parte. Cominciò poi a camminare lentamente, lasciando sbigottita Lara con l’indice ancora alzato pronto ad accusare Violetta, e la bocca spalancata in attesa di sputare altre cattiverie. Qualcosa non stava funzionando nel suo piano per riconquistare Leon, e aveva bisogno di un’idea per eliminare definitivamente la contendente per il cuore del giovane Vargas. Proprio mentre stava passando una sentinella, le venne in mente un piano per incastrare Violetta. Un piano che non avrebbe potuto fallire, e che le avrebbe assicurato la sua testa su un piatto d’argento. Letteralmente.
Violetta entrò stanca morta nella stanza. Era passata da poco l’ora di pranzo, e già non ce la faceva più. Inoltre l’ultima conversazione avuta con Leon l’aveva resa strana, più pensierosa del solito. No, doveva essere arrabbiata con quel mostro, non poteva continuare a perdonargli tutto. Aveva perdonato anche fin troppo, ad essere sinceri, ed era giunto il momento di porre fine a quella storia, che non faceva altro che procurarle dolore. Sul comodino posto tra il suo letto e quello di Lena, era appoggiato un foglietto piegato accuratamente. La ragazza si avvicinò e la prima cosa che avvertì fu un profumo di rosa che aveva un non so che di inquietante e familiare. Il messaggio sembrava essere stato scarabocchiato ed era poco leggibile: ‘Pensi di conoscere davvero Leon Vargas? Sai cosa muove il suo odio? Se vuoi conoscere ogni risposta, fatti trovare al centro del labirinto del giardino’. La curiosità si accese all’istante di fronte a quelle parole enigmatiche. Voleva davvero sapere qualcosa in più sul misterioso mittente, ma allo stesso tempo ricordò quello che le aveva detto Thomas: l’entrata era tempestata di rose rosse, che indicavano divieto di accesso per la servitù. Si morse il labbro inferiore, facendo avanti e indietro per la stanza. Il cielo si rannuvolò ci colpo, mentre il vento cominciò a soffiare ululando adirato; questo la fece per un momento desistere, non fosse che non riusciva a stare ferma con le mani in mano, quando la chiave di tutto quel mistero la stava aspettando, in attesa solo di illuminarla. Prese un respiro profondo, e ripose il foglietto nella tasca della gonna: aveva preso la sua decisione.
Mentre camminava velocemente, per poco non si scontrò con Jackie che le rivolse un sorriso di circostanza, che mal celava un ghigno compiaciuto. Le pareti scorrevano, poi le porte si aprirono, lasciando il posto al giardino, la cui luce era stata quasi completamente inghiottita da scure nuvole cariche di piogge. Rabbrividì, mentre il vento graffiava la sua pelle, penetrando i vestiti; più avanzava, più le sembrava una follia, ma ormai non riusciva a tornare indietro sui suoi passi. Anche se aveva deciso di non avere più nulla a che fare con Leon, questo non le impediva di cercare di scoprire la verità sul suo conto, giusto? Non era un tentativo di avvicinarsi, di cercare di capirlo, era solo pura curiosità. E per pura curiosità stava affrontando quel preavviso di tempesta. Stava cercando di prendersi in giro? Prima che potesse rispondersi, cercando probabilmente di celare il suo vero stato d’animo, raggiunse l’entrata del labirinto. Le rose rosse venivano disturbate dai soffi di vento, e sembravano quasi parlare scosse qua e là; alcune ghignavano maligne, altre semplicemente muovevano i petali, come per avvertirla di non entrare. Alcune poi diffondevano il loro profumo intenso, lo stesso del biglietto, cercando di attirarla. Un fruscio la fece illudere che qualcuno fosse all’interno di quel dedalo verde, quindi mosse qualche passo avanti. “C’è nessuno?” quasi urlò, cercando di sovrastare quegli ululati provenienti dal nulla. Finalmente oltrepassò il varco, trovandosi catapultata in un altro mondo, fatto solo di rovi e larghi corridoi, le cui pareti erano talmente alte da sembrare infinite; le siepi infatti erano state curate solo in parte, e il loro lato selvaggio si manifestava in quell’estremo e disordinato tentativo di raggiungere il cielo. I rovi spuntavano dalle siepi, ricoprendo il terreno, e andando in alcuni casi a intrecciarsi. “Ma che razza di posto è?!” esclamò, evitando una grossa radice, nascosta dall’erba alta. “Ehi, sono venuta come da accordo!” strillò poi, cercando di attirare l’attenzione del misterioso informatore. Continuava a camminare senza meta, sperando in qualche indicazione per raggiungere il centro di quel mostro vegetale, che si richiudeva intorno a lei come una mortale trappola. Ad ogni passo si sentiva sempre più inghiottita, e quando si voltò dopo qualche minuto con l’intento di tornare indietro, era ormai troppo tardi: si era persa. Una goccia le cadde sulla punta del naso, scivolando poi fino a raggiungere il terreno, che l’assorbì avidamente. “Non riesco a raggiungere il centro, non potresti darmi una mano?” chiese terrorizzata, cominciando a tremare per il freddo. Avrebbe dovuto coprirsi di più, ma dall’esterno il labirinto non sembrava così grande, non avrebbe mai pensato di perdersi. Un rumore di passi la fece voltare di scatto, ma il personaggio che si trovò di fronte la lasciò perplessa. “Stregatto! Ma allora sei stata tu a mandarmi quell’avviso!” disse, avvicinandosi a Camilla, che prese subito a fluttuare, attenta a non farsi ferire dai rovi. Il suo sorriso enigmatico e sornione non rimase intaccato da quell’affermazione, ma la ragazza scosse la testa: “Sciocca ragazzina, sei caduta nella trappola”. Trappola? Improvvisamente cominciò a tremare più forte, mentre le gocce scendevano più velocemente, picchiettandole le spalle e la testa. “Ma di che stai parlando? E se non sei stata tu a mandarmi quel messaggio, che ci fai qui?” chiese Violetta. “Ad avvertirti, anche se in fondo non sono io a decidere come andrà avanti questa storia…attenta alle persone di cui puoi fidarti. C’è chi trama all’interno del castello, qualcuno assetato di potere che non aspetta altro che la giusta occasione per ottenerlo” disse la ragazza, allargando sempre di più il suo sorriso. “Non capisco nulla! Parla chiaro, io ho un appuntamento”. Camilla scoppiò a ridere, mentre le gocce di pioggia le attraversavano il corpo, che stava lentamente svanendo. “Oh, qualcuno ti ha dato un appuntamento? Spero per te che sia un appuntamento galante, anche se non credo proprio, Violetta Castillo” disse, prima di scomparire del tutto. Le sue parole però rimbombarono nell’aria: “Ti vogliono decapitare. Fuggi, ragazza, se non vuoi vedere la tua testa rotolare”. Alcune urla che dedusse provenire dall’ingresso del labirinto, ormai lontano, rimbombarono come dei lampi: “La serva si è addentrata nel labirinto. Trovatela!”. Un rumore di lance e di armature cigolanti le mise addosso il panico: era stata ingannata. Che sciocca era stata a fidarsi! Cominciò a correre, senza una meta, mentre la pioggia si fece sempre più fitta, impedendole una visuale chiara. Forse fu per quel motivo che non vide una grossa radice sbilenca che si allungava lungo il passaggio, facendola inciampare, o forse fu per l’improvvisa paura che non le aveva permesso di ragionare lucidamente. In ogni caso cadde affondando le mani nel terreno per evitare di ferirsi gravemente. Un dolore lancinante proveniente dalla caviglia adesso sanguinante, ferita da una spina piuttosto grossa, le fece scappare un piccolo lamento, che venne attutito da un tuono in lontananza. Le lacrime di sofferenza e di paura si fusero alla pioggia, rigandole il viso, impedendole di vedere una mano tesa verso di lei. Una voce calda però la fece riscuotere: “Alzati, dobbiamo scappare”. Alzò lo sguardo e per poco non le scappò un verso di stupore. Leon, completamente bagnato dalla testa ai piedi, con i capelli attaccati lungo la fronte, e un’espressione preoccupata, le stava ancora tendendo la mano, mentre gli occhi saettavano continuamente qua e là. Violetta annuì, troppo confusa e terrorizzata per fare domande, ma quando cercò di alzarsi ricadde a terra: la caviglia le doleva troppo, e non riusciva a stare in piedi più di qualche secondo, figurarsi se poteva camminare o peggio ancora correre. “Non ci riesco” esclamò, afflitta. Leon schioccò la lingua sul palato, come se se l’aspettasse, quindi si chinò verso di lei, fece passare un braccio sotto le gambe, e con l’altro le cinse la schiena; quindi la prese in braccio e si rialzò, con grande disappunto e imbarazzo di Violetta. Ma il clangore sempre più vicino le fece dimenticare ogni possibile forma di orgoglio. Si strinse con le braccia intorno al collo del giovane, che non la guardò nemmeno per un istante, intento a trovare un percorso per evitare le guardie. “Forse ce la facciamo. Manca poco” disse con un sorriso trionfante. Accelerò per quanto possibile il passo, e sentì il braccio muscoloso tendersi di più, cedendo alla fatica. Quando raggiunsero un determinato pezzo del percorso, Leon si fermò, rivolgendosi quindi verso le siepi. La raggiunse, e Violetta sentì le foglie della siepe solleticargli la caviglia sana. “Ma sei impazzito? Non vorrai attraversarla?”. Leon non disse nulla, ma sorrise ancora di più, con aria furba, quindi avanzò impavido, e la siepe quasi si scostò al suo passaggio, mentre lui sibilava qualcosa a bassa voce. “E’ un passaggio segreto” le spiegò con calma, mentre la siepe si richiuse dietro di loro, con un piccolo risucchio. “E come avresti fatto ad aprirlo?” disse mentre la pioggia ormai le faceva aderire i vestiti al corpo, cosa che non sfuggì al giovane principe, che per qualche istante la guardò incantato, prima di distogliere lo sguardo. “Dovremo aspettare un pochino che il pericolo sia passato. E comunque questa è erbicante, una pianta speciale, che risponde a determinati ordini in una lingua segreta. E’ il motivo per cui riesco a muovermi facilmente in questo labirinto” spiegò sedendosi a terra, incurante del terreno bagnato, e facendola mettere sulle sue gambe. “Questo è il centro del labirinto, e non c’è nessun modo per raggiungerlo, se non facendo spostare l’erbicante, per cui siamo al sicuro” soffiò, riprendendo fiato. Era un piccolo giardinetto circolare, cinto tutto intorno dalla erbicante, come l’aveva chiamata Leon. Violetta si rese conto di avere ancora le braccia avvinghiate intorno al collo del giovane, quindi sciolse la presa in fretta, rendendosi conto di quanto già tutto fosse alquanto assurdo. “Come mi hai trovata?” chiese a bassa voce, quasi sperando che non la sentisse. “Me l’ha detto Humpty…ha sentito Lara parlare alle guardie e rivelargli che tu eri al labirinto, senza il permesso della regina. Sei stata avventata, si rischia la pena massima per un gesto del genere” disse Leon, sfiorando con la mano destra l’erba intrisa d’acqua, totalmente preso da quell’azione. “Mi era arrivato un biglietto anonimo che mi chiedeva di presentarmi qui se volevo…”. Le parole le morivano in gola, quindi prese un respiro profondo, per poi continuare: “Se volevo scoprire qualcosa sul tuo conto, sul motivo per cui ti sei allontanato da me”. Leon la guardò dritto negli occhi: “Deve essere stata Lara…era l’unica a sapere che fossi qui. Meno male che Humpty ha sentito tutto, e che ti ho trovato in tempo”. “Sei stato gentile a salvarmi, ti devo la vita. Ma ancora non capisco perché mi hai ferito in quel modo, Leon”. Come un gesto riflesso, Leon le accarezzò piano la guancia, dove prima vi era stato impresso il segno della sua crudeltà, quindi la ritirò di colpo. “Ecco…ho pensato che tu avessi rotto il busto di mio padre, ma adesso non ha importanza, davvero”. “Non sono stata io, Leon,te lo giuro! Non ti avrei mai nascosto un errore così grande, soprattutto sapendo che avrebbe potuto ferirti”. Era talmente sincera che il principe annuì senza pensarci due volte. “Hai ragione, non avrei dovuto trattarti in quel modo. Sono un mostro” commentò lui, abbassando lo sguardo. Violetta non riusciva a credere al fatto che Leon si stesse scusando. Leon, che metteva sempre il suo enorme orgoglio in primo piano, le stava umilmente porgendo le sue scuse, e sembrava realmente pentito. Non sapeva cosa pensare, ma le sue mani tremanti per il freddo agirono per conto proprio, posandosi sulle guance del giovane, e alzandogli il viso. “Non so perché ma non riesco a non perdonarti…Sono una sciocca, ma non ci riesco”. Leon si illuminò di colpo, quindi tornò nuovamente serio, osservandola rapito. I loro volti gocciolanti erano vicini, mentre la pioggia continuava a battere sui loro corpi. “Mi perdoni davvero?” sussurrò, incerto. Pensava di stare sognando, di essere preso in giro, non credeva fosse veramente possibile mettere tutto da parte come se nulla fosse successo, anche dal canto suo. “Si, Leon, non so cosa mi spinge a farlo, ma voglio perdonarti. Lo desidero” rispose chiudendo lentamente gli occhi mentre le loro labbra rese bagnate dalle gocce d’acqua si sfiorarono, prima di combaciare. Leon chiuse gli occhi, mentre le mani di Violetta scivolarono fino alle sue spalle, per poi cingergli nuovamente il collo. Gli venne naturale accarezzargli timidamente la schiena, mentre la stringeva a sé. Violetta smise di avere freddo, al sicuro tra le braccia del principe, e quel bacio ardente le scaldava persino l’anima. Era molto diverso dal loro primo bacio, in cui Leon si era mostrato controllato; in quell’istante sembrava essersi lasciato andare, essersi lasciato guidare unicamente dai sentimenti che lo muovevano. Muoveva ora lentamente, ora con più vigore, le labbra sulle sue, assaporandone la consistenza come un cibo prelibato, con la stessa avidità di un viandante affamato. Violetta socchiuse appena la bocca, quel tanto per continuare quel gioco sensuale, e subito si ritrovò la lingua calda di Leon percorrerle il palato, provocandole uno strano solletico, per poi sfiorare la sua. Non si era mai chiesta quale potesse essere il sapore che avesse Leon, e si rese conto di non riuscire a classificarlo in alcun modo, mentre ci provava: era semplicemente qualcosa di inebriante, che la stordiva, impadronendosi dei suoi sensi. Si stavano baciando da troppo tempo ormai, il loro fiato non poteva reggere ancora a lungo, e difatti si separarono, continuando a lasciarsi piccoli baci intensi, come se sentissero di non poter stare l’uno senza l’altro. Riaprirono gli occhi, increduli, quindi senza aspettare un altro secondo, non appena sentirono il respiro regolarizzarsi nuovamente, ripresero a baciarsi con maggiore foga. I loro corpi finirono per aderire per la pioggia, e questo li fece rabbrividire ancora di più. Violetta ansimò, quando sentì Leon mordergli affettuosamente il labbro inferiore, lo stesso che si era morsa per l’indecisione prima di presentarsi al labirinto. Non avrebbe potuto prendere decisione migliore; nonostante i pericoli corsi, aveva trovato il suo cavaliere, e non poteva chiedere altro. “Non riesco a smettere di baciarti” sussurrò il principe, sfiorando nuovamente le sue labbra, ansioso. “Prometti che d’ora in poi ti fiderai di me?” disse lei tirandosi piano indietro con aria divertita, leggendo nel suo sguardo la delusione per essergli stata negata la possibilità di un altro bacio. Gli accarezzò i capelli dolcemente, mentre attendeva una risposta, ma gli occhi di Leon sembravano essersi incatenati alla sua bocca e non erano in grado di pensare ad altro. “Allora?” chiese lei, non ottenendo risposta. Il ragazzo si riscosse con un tremito, quindi si avvicinò nuovamente, questa volta con un sorrisetto. “Non ti prometto un bel niente, senza un premio…sono pur sempre un principe e pretendo uno scambio equo” disse leccandosi le labbra, già bagnate per la pioggia, con fare malizioso. “Voglio un altro bacio” aggiunse in un soffio, baciandole delicatamente la guancia. Nel frattempo aveva smesso finalmente di piovere, e il vento aveva placato la sua irrefrenabile ira, mentre un pallido sole cercava di ristabilire il suo regno di luce. I fili d’erba scintillavano come diamanti, così come i loro capelli e i loro visi. “Mi sembra corretto…” disse lei, arrossendo, mentre si lasciava cullare da quelle carezze e attenzioni. Senza attendere oltre, Leon esclamò con voce roca in fretta e furia un ‘Te lo prometto’ per poi prendersi avidamente il premio. Adesso che il tepore del sole rendeva tutto così piacevole nessuno dei due aveva una gran voglia di allontanarsi dal piccolo paradiso, ma la loro assenza avrebbe potuto alla lunga destare sospetti, e non era il caso, visto che quell’episodio aveva dimostrato fin da subito una certa ostilità di qualcuno nei confronti della loro relazione. Inoltre Leon non si sentiva pronto per rendere pubblico il suo amore ormai manifesto, per timore della reazione della regina, e per la differente condizione sociale. “Per ora sarà meglio fare tutto in segreto” spiegò dopo aver espresso quelle considerazioni a Violetta sperando di essere compreso. Lei annuì, per poi lasciargli un timido bacio sulla guancia. “Ma prima o poi voglio che il mondo intero lo sappia. Tutti devono sapere come sono felice, e chi mi ha reso tale” concluse, facendo sfiorare i loro nasi, e sorridendo come un bambino.
“Penso di poter camminare adesso!” esclamò Violetta, mentre Leon usciva dal labirinto, con lei in braccio. Il ragazzo scosse la testa, facendo scendere alcune gocce d’acqua. “Non ci penso nemmeno, hai preso una storta, e voglio che disinfetti prima la ferita. “D’accordo…non ti ho mai visto così preoccupato” scherzò lei. “Non mi era mai importato tanto di qualcuno, prima” rispose con semplicità Vargas, lasciandola senza parole. Quando raggiunsero la sua stanza, fortunatamente senza incontrare nessuno, cercò di mettersi in piedi, ma una debolezza improvvisa, la fece quasi cadere di colpo. Leon la prese al volo, e le sentì la fronte: “Non hai la febbre, ma credo che tu sia un po’ debole. Ti disinfetto la ferita e poi sarà bene che ti riposi”. La fece sedere, e la intimò di non muoversi, mentre si muoveva in giro per la stanza. Prese una caraffa d’acqua, vi intinse una fascia bianca, quindi la passò lentamente sulla ferita. Violetta gemette di dolore, a contatto con l’acqua fredda, ma un sorriso di Leon fu in grado di rassicurarla. Fece un nodo intorno alla caviglia, quindi guardò soddisfatto il risultato ottenuto. “Ecco fatto, e ora sotto le coperte!” le ordinò. Violetta obbedì senza riuscire ad evitare di fare battutine a proposito, ma non appena si fu messa sotto le coperte venne scossa dai brividi. “Avresti dovuto prima cambiarti d’abito…adesso hai bagnato tutto il letto” la rimproverò sedendosi sul bordo del letto. La ragazza non rispose, ma si limitò a battere i denti, mentre il corpo continuava a tremare. Leon sospirò, quindi si tolse la maglia, rimanendo così a torso nudo. In quel modo non avrebbe peggiorato ancora la situazione; si mise sotto le coperte al suo fianco, e la abbracciò dolcemente cercando di trasmetterle il calore del suo corpo. “Va un po’ meglio?” le sussurrò apprensivo. Violetta era rimasta troppo sconvolta per quel gesto per dire qualunque cosa, quindi si limitò ad annuire, poggiando il capo sul petto caldo, e sentendo il suono dei battiti del suo cuore cullarla come un’antica sinfonia che celava chissà quali segreti. Tra le braccia di Leon sentì la stanchezza farsi strada, mentre le sfiorava il braccio accarezzandolo con il pollice. Lentamente chiuse gli occhi, con un sorriso stampato sul volto, mentre Leon le baciò in modo protettivo la fronte. “Non ti lascerò andare mai più. D'ora in poi ci sarò io per proteggerti”. 








NOTA AUTORE: prima di tutto, buonasera xD Seconda cosa, perdonate il ritardo, ma con l'università mi è stato difficile aggiornare con facilità :) Terza cosa: LEONETTA! Ecco, andavano commentati come si deve. Ah, ho provato con un nuovo tipo di carattere, perché faceva molto professionale, ma se vi sembra troppo piccolo/quello che vi pare ditelo che torno all'originale xD Detto ciò...Leon finalmente lascia perdere tutte quelle storie, e salvando Violetta trova l'occasione giusta per dirle ciò che sente...E AMORE FU. Grugwuihef, quella scena è la mia morte, io lo dico subito :3 Tra parentesi per chi non lo avesse capito (ma nei prossimi capitoli verrà specificato), è stata Lara a cercare di incastrare Violetta, mandandola nel labirinto con quel biglietto e avvisando poi le guardie...ma quest piano le si ritorce contro, e la stessa Jackie le farà una lavata di capo alla serva ingenua e sciocca :P E ringraziamo tutti Humpty <3 Comunque tanto amore per tutti, e un bel momento Leonettoso finale per concludere tanti scleri...ah, tenete in considerazione l'arrivo del Brucaliffo, perché sarà abbastanza importante :D
Dal prossimo capitolo torneremo alla storia di Maxi...un nuovo personaggio, ossia un apprendista mago piuttosto particolare, si unirà al gruppo, e si comincerà a fare vivo un nuovo pericolo, che potrebbe scatenarsi in seguito a un terribile tradimento. E io vi lascio così perché sono una persona buona :D (non ammazzatemi xD)
Grazie a tutti per le bellissime recensione, e per continuare a seguire questa 'storia' (ormai non so più come definirla :P), e alla prossima! Buona lettura :D 

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Capitolo 25
*** L'apprendista ***





Capitolo 25

L’apprendista

Maxi si svegliò dentro una grotta, e Libi, che stava affilando un paletto di legno con un coltellino, fece un sorriso forzato per cercare di rassicurarlo. “Dove siamo?” chiese stordito, cercando di mettersi in piedi. Non ci riuscì, nonostante i numerosi sforzi, quindi decise di rimanere steso, portandosi una mano alla fronte, e rendendosi conto di avere un dolorante livido. “Siamo al sicuro…Andres e Broadway sono andati in esplorazione, per essere sicuri che siamo fuori pericolo, ma dovremmo aver superato la zona dei tuffi oscuri, per fortuna” spiegò lei, con la testa bassa. Mentre Maxi aveva dormito tutto il giorno, lei si era svegliata quasi subito e si era fatta raccontare da Andres l’accaduto. Non poteva ancora credere di essere stata tanto debole, nonostante le fosse stato più volte ripetuto che quei gas erano in grado di soggiogare anche le volontà più ferree. Sul fondo della grotta Maxi avvertì una presenza, ma non riuscì a scorgere nulla, nel buio più totale. “Chi altro c’è qui con noi?”. Libi lo guardò preoccupata: “Emma”. Tra i due calò il silenzio, interrotto bruscamente da un rantolo e un piccolo lamento.
“Io sono stata fortunata…sono rimasta sotto gli effetti di quel gas per pochi minuti, forse anche meno. Ma Andres mi ha raccontato quello che è successo al gruppo dopo che ci siamo divisi”. Prese un respiro profondo, socchiudendo gli occhi, in un estremo tentativo di interrompere quel racconto, ma si sentiva in dovere di continuare. In fondo erano una squadra, e nessuno meritava di rimanere all’oscuro. “Hanno raggiunto la zona dei Tuffi Oscuri, e la povera Emma è caduta nel mio stesso tranello…I gas emanati hanno al suo interno un veleno che alla lunga può rivelarsi mortale, così credo di aver capito. Quando la ragazza è stata colpita, Andres e Broadway hanno cercato di portarla via, ma lei è fuggita, addentrandosi nella piana. Gli altri due sono andati a recuperarla, e quando l’hanno trovata era svenuta, bianca come un cadavere. Ancora adesso non è guarita del tutto”. Maxi rimase attento durante tutto il racconto, trattenendo il fiato: “Quindi adesso sta ancora lottando tra la vita e la morte?”.
Libi annuì, abbandonando il paletto di legno. Nonostante non avessero mai avuto un rapporto particolarmente amichevole, le riusciva impossibile non provare un forte senso di angoscia. Correre il pericolo di vita per una missione dalle probabilità di riuscita così basse le sembrava una follia, una sadica volontà di porre fine alla propria vita. “Ci avviciniamo al palazzo di Fiori sempre di più…” disse Maxi, leggendo nella sua espressione pensierosa preoccupazione e incertezza. “Maxi, pensi che noi avremo davvero qualche possibilità?”. La loro conversazione fu interrotta da un rumore di passi: Andres e Broadway rientrarono evidentemente esausti. “Abbiamo fatto un breve sopralluogo. Tra qualche piede la nebbia si fa meno fitta, e c’è un pendio che porta ad una valle tra i monti, che non dovrebbe essere pericolosa…Penso che il peggio sia passato” esclamò Andres, avvicinandosi senza curarsi di nessuno al giaciglio di Emma, e inginocchiandosi al suo fianco. Le accarezzò piano i capelli, mentre Libi lo osservava ferita; non l’aveva mai visto preoccuparsi in quel modo per qualcuno, e pensare di non contare allo stesso modo di Emma, di non poter occupare un posto nel cuore del giovane al pari della rivale, le fece pizzicare gli occhi, che strofinò velocemente con la manica della maglia per evitare lacrime inutili che la rendessero ancora una donna. Era sempre stata trattata come un uomo, ed era come se quel modo di essere scorbutico e rude fosse ormai una parte di lei a cui non voleva rinunciare, perché le donava sicurezza. “Andrà tutto bene, ti salveremo. Mi senti? Ti salverò” promise Andres con voce calma, stringendo la mano bianca a sudata della ragazza, coperta da alcuni cumuli di foglie secche, tutto ciò che erano riusciti a trovare. La ragazza sembrava respirare appena, mentre gli occhi chiusi la facevano sembrare una bionda Biancaneve…senza nani, e senza teca di cristallo. I cappelli ricci le cadevano ordinatamente sulle spalle, mentre Andres glieli accarezzava con aria triste. Libi si sentì un terzo incomodo, e decise di uscire per qualche minuto dalla grotta, seguita a ruota da Maxi, che aveva colto il dolore della sua compagna. “Cosa ti prende?” le chiese, sfiorando la sua spalla nella nebbia; Libi si ritrasse di colpo, forse non l’aveva sentito mentre le seguiva. “Lui la vuole salvare…e chi salverà noi, Maxi?” si sfogò la ragazza, con le lacrime agli occhi. Maxi abbassò lo sguardo, comprendendo la sua preoccupazione. “Dovremmo fidarci di Andres” sentenziò alla fine. Accese ancora di più l’ira di Libi, che di fronte a quella scena nella grotta si era sentita come un’estranea. Andres non aveva mai dato nessuna attenzione a una qualsivoglia ragazza…che cosa aveva Emma per essere trattata in modo diverso? “Non mi fido di qualcuno che non riconosco”. “Non dovresti lasciarti accecare dalla gelosia, Libi, ti potrebbe portare in una direzione imprevedibile e ancora più pericolosa di quella che abbiamo preso noi”. La faceva facile, troppo facile…doveva arrivare qualcosa in grado di farle cambiare idea. O forse qualcuno.

Una carta venne fatta scivolare lungo il tavolo consunto da una mano rugosa. Un uomo sulla quarantina dalla barba scura e i capelli spettinati dello stesso colore, la prese tranquillamente, evidentemente per nulla sotto pressione. La aggiunse alle altre quattro che teneva in mano, e un sorrisetto enigmatico si dipinse sul suo volto. Fissò avidamente le monete d’oro e d’argento che lo separavano dal suo contendente, cominciando a contarle, e facendo i propri calcoli. Il suo rivale era un omaccione pelato e dai denti storti, con una giacca di pelle di montone, e un odore che ricordava lo stesso animale. Sorrise nuovamente, e prese una moneta d’oro dal sacchetto di pelle alle sua destra; lo lanciò con noncuranza, e la moneta rotolò tintinnando e andandosi ad aggiungere al resto del gruzzolo. “Rilancio con un quadrifoglio d’oro”. L’altro strabuzzò gli occhi, osservando attentamente le sue carte, quindi prese dubbioso alcune monete d’argento contandole una ad una, e annuì col capo, mettendo il tutto al centro del tavolo: “Ci sto”. Un gruppetto di curiosi, e compagni di bevute si erano riuniti tutt’intorno, attirati dall’enorme posta in denaro in palio. “Ar, ar” ridacchiò l’omone, mostrando le sue carte con aria soddisfatta: una coppia di cavalli e un tris di corone. Uno dei punteggi più alti di ‘Fante, cavallo e re’, che il più delle volte assicurava una vittoria schiacciante. Allungò le mani per riscattare il suo premio, ma la mano dell’uomo dagli occhi scurissimi gli impedì di prendersi le monete. “Non c’è storia amico, mi dispiace. E’ un buon punto, non dico di no, ma cosa pretendi di fare contro quattro corone?” sorrise, mostrando il suo punto. “Un taglio alla testa in piena regola!” esclamò uno degli spettatori, accompagnato da un brusio eccitato. Il taglio alla testa era il punto più alto che si potesse fare e consisteva appunto nell’avere quattro corone d’oro. “Hai barato!” grugnò l’altro, ripresosi in fretta dallo sgomento provocato dalla cocente sconfitta. Sbatté il pugno sul tavolo con rabbia, scuotendo tutte le monete e le carte appoggiate. “Ehi, amico, per chi mi hai preso…un mago, forse?” esclamò l’uomo, per poi scoppiare a ridere della sua battuta, accompagnata da tutti gli altri che additarono il perdente con ilarità, facilitata ancor di più dall’enorme quantità di birra che circolava nei loro corpi. Il suo sfidante boccheggiò qualcosa, nel tentativo di trovare qualche prova o, in caso, qualche valido insulto, ma si limitò ad osservare le monete che scomparivano dalla sua visuale, inghiottite dal sacchetto di pelle. “Tutti e soli i maghi del Regno sono al servizio della Regina, testa di rapa!” disse un vecchietto dai capelli bianchi e unticci, mentre si sganasciava dalle risate. Nel trambusto generale l’uomo uscì fuori con il portamonete ben rigonfio, mentre già dentro la taverna qualcuno si chiedeva che fine avesse fatto quel fortunato giocatore. Già, fortunato…Rise sotto i baffi, mentre con un gesto della mano, fece sparire la barba, e il suo aspetto si deformò velocemente, lasciando il posto ad un giovane dall’espressione vivace, e i capelli corti con un ciuffo leggermente sollevato. In quella notte senza luna, nessuno l’avrebbe notato, e lui poté tranquillamente mettersi in cammino verso un piccolo bosco poco distante, per poi raggiungere il cavallo legato ad una albero sul limitare. Anche quello era stato un bottino piuttosto ricco, e la sua magia per modificare la carta uscita era venuta alla perfezione; amava imbrogliare il prossimo con qualcuno dei suoi trucchetti e se questo gli permetteva anche di avere un bel gruzzolo, la soddisfazione era doppia. “Ehi, ehi, sono io, Domingus” sussurrò al cavallo, che avendo visto un’ombra avvicinarsi si era leggermente innervosito. Non appena ebbe riconosciuto il padrone si rilassò nuovamente, e avvicinò la lingua ruvida alla mano del giovane che teneva una zolletta di zucchero sul palmo. “Bravo, sei stato bravissimo” lo lodò il ragazzo, accarezzandogli piano il manto lucido. La prossima taverna era al confine tra i Regno di Fiori e quello di Picche, subito prima dei Monti Neri, e poi avrebbe potuto tranquillamente tornare alla sua dimora, vicino Fiordibianco. Non tutti i maghi erano stati assoldati da Natalia in difesa del suo palazzo, un mago era riuscito a cavarsela, o meglio un apprendista mago. Riuscito a fuggire per miracolo da quella che era passata alla storia con il nome di ‘leva magica’ stabilita dalla regina in persona, aveva deciso di usare il suo talento innato per continuare a errare da un paese a un altro, spillando denaro per condurre una vita dignitosa. Si era rifiutato di entrare a far parte dei giochi di potere del Regno, rimanendo distante sia dalla corona, sia dalla fazione che invece cercava in ogni modo di porre fine a quella tirannia, nel tentativo di liberare la regina Francesca. Lui conduceva la sua vita solitaria, e priva di uno scopo particolare, priva di ideali, e, parlandosi onestamente, non gliene poteva importare di meno di tutte quelle battaglie, di tutto quell’inutile sangue versato. Gli bastava potersi riempire la pancia con dell’ottimo stufato e una bella pagnotta calda per sentirsi appagato. E pensare che durante l’apprendistato gli avevano ripetuto migliaia di volte che la magia implicava tante responsabilità, tra cui quella di mediare tra il popolo e il sovrano! Se i suoi maestri l’avessero visto in quello stato l’avrebbe ro preso a bacchettate dalla mattina alla sera. Ma non c’era nessuno a giudicarlo, e questo gli permetteva di fare come voleva senza alcuno scrupolo. Tirò fuori un fazzoletto dalla tasca dove era stata accuratamente avvolta una fetta di torta di mele, pagata profumatamente nell’ultimo villaggio attraversato. Il tovagliolo di stoffa era ricamato con due iniziali viola, quelle del suo nome. Mangiò quell’ultima prelibatezza avidamente, quindi si scrollò i vestiti per far cadere le briciole. Si sedette con la schiena appoggiata sul tronco di un pino, e osservò la notte buia, facendo schioccare le mani e accendendo sull’indice una luce azzurrina. Sbadigliò sonoramente, osservando il cielo illuminato da sparute stelle.
‘Ogni stella è un pezzo di passato, Domingus, ricordalo bene’
Quella frase che gli aveva detto il padre gli era rimasta impressa come se l’avesse sentita appena poco fa dentro quella sudicia taverna. Il padre era un mago famoso, che purtroppo non aveva potuto avere scampo dalla leva magica, ed era rinchiuso tra le quattro pareti di quel palazzo. A volte si chiedeva se l’avrebbe mai rivisto, se l’avrebbe potuto mai più riabbracciare, o ricevere da lui una pacca piena di orgoglio per il sangue del suo sangue. Era sempre stato un uomo rigido e integerrimo, ma allo stesso tempo pieno di premurose attenzioni nei suoi confronti, nonostante fosse sempre stato…meno incline al lavoro serio. Per lui la magia era e rimaneva un gioco, un modo per piegare la natura a suo favore, per poter ingannare la realtà, deformandola a suo piacimento, ma il padre invece voleva che prendesse sul serio il suo dono.
‘Pensare che migliaia di persone hanno qualcosa in comune non è la cosa più strabiliante di tutte? Nonostante tutti siano differenti, nonostante ognuno abbia le sue afflizioni, le sue gioie, i suoi dolori, non è stupefacente il fatto che alzando il naso in su, ognuno vedrebbe lo stesso cielo? Incredibile che qualcosa di tanto grande, che riunisce sotto le sue ali tante persone, viene allo stesso modo sottovalutato, e quasi considerato per nulla. Invece di vedere ciò che ci accomuna, puntiamo sempre a evidenziare le differenze…’
‘…così ognuno avrebbe la possibilità di sentirsi superiore al prossimo’ concluse il ragazzo, sospirando.
La sera successiva e quella dopo ancora trascorsero allo stesso modo, tra un misto d’inganno e accenni di malinconici ricordi. Cambiavano i luoghi, le pianure si alternavo alle foreste, insieme ai campi di grano, ma come sempre quando alzava lo sguardo poteva osservare lo stesso cielo. Era quella la vera magia, come gli ripeteva sempre il padre? Seduto con le gambe incrociate, osservava il confine, quello segnato dai Monti Neri con aria curiosa. A volte si era chiesto come fossero gli altri Regni, ma subito il suo buonsenso e il suo desiderio di tenersi lontano dai guai prevalevano, facendogli pensare alla prossima truffa.
Fu allora che il suo sguardo fu attratto da una strana comitiva che avanzava silenziosamente, a passo lento. Riusciva a distinguere quattro sagome, di cui due trascinavano qualcosa, una sorta di carriola, non era in grado di dirlo bene. “Maxi, da adesso quella spada deve essere il più possibile nascosta, ci siamo capiti?” disse uno di quelli avvolti nell’ombra. Era la voce di un ragazzo, roca e bassa. Ecco un bel gruppetto da spennare, pensò allegramente il giovane, mentre modificava nuovamente il suo aspetto. I suoi capelli divennero biondi, e si fece crescere dei lunghi baffi con uno schiocco di dita. Tirò fuori un mazzo di carte, con un gesto della mano legò magicamente le briglie del cavallo ad un albero poco distante. Corse verso la strada principale, e si avvicinò impassibile. “Salve viaggiatori! Nessuno di voi vuole fare una partitina? Si può puntare quanto si vuole” esclamò, ma si bloccò di colpo osservando quel gruppo di ragazzi sporchi di terra, e dai volti incavati. Sembravano dei vagabondi, e non poteva esserci nulla che potesse interessargli. Il suo occhio cadde però su ciò che stringeva uno di loro, una spada nera…neranio! Quel materiale era preziosissimo e gli avrebbe fruttato sicuramente un sacco di soldi. “Mi dispiace, non abbiamo tempo da perdere” disse quello che probabilmente doveva essere il capo. Aveva un’inquietante cicatrice su una guancia, e il suo sguardo freddo e determinato lo spaventava da morire. Stringeva una delle due estremità di una barella di fortuna, ottenuta intrecciando rami, e coperta di foglie secche; su di essa una ragazza giaceva come morta. La sua carnagione era più bianca di quella della luna, e per quanto non fosse mai stato un esperto in pozioni e erbe magiche, era sicuro dei sintomi che aveva: quella ragazza stava morendo lentamente, preda di un veleno potente. “Lo vedo…” mormorò assorto. Un ragazzo dalla pelle scura lo scostò bruscamente dal tragitto e fece cenno ai suoi compagni di avanzare; certo con quell’ascia non aveva alcuna intenzione di fermarlo. Aveva bisogno di un’idea: con quella spada altro che imbrogli e raggiri, avrebbe fatto il colpo della sua vita. Lasciarsi sfuggire un’occasione del genere era da folli, e lui era troppo sveglio per non provare ad approfittarne. “E…se vi dicessi che conosco la cura che potrebbe guarire la vostra amica?”. Il capo si fermò, e si voltò di scatto.
“Dammi quella cura. Te la pagherò quanto vuoi” disse avvicinandosi al giovane mago, che scosse la testa con un sorriso irritante.
“No, mi spiace, ma io non voglio il denaro, io voglio quella spada…e inoltre un semplice scambio non mi regalerebbe alcuna soddisfazione, cosa che invece farebbe una bella sfida a carte”.
“Cosa intendi dire?”.
“Io metto in gioco la mia medicina, e tu metti in gioco quella bellissima spada. Chi vince prende il suo premio. Semplice ma divertente”.
Il tipaccio robusto dalla pelle scura, aveva tirato fuori la sua ascia digrignando. “Questo qui vuole prenderci in giro, Andres!”. Andres rifletté in silenzio. “Come facciamo a sapere che non ci stai mentendo?”.
“Parola di m…edico. Parola di medico” si corresse l’uomo, lisciandosi i baffi.
“D’accordo, allora giochiamo…se proprio non abbiamo alternativa. Maxi, sei d’accordo? La spada è pur sempre tua”. La concentrazione dei presenti fu sul più basso del gruppo, che annuì incerto. “Bene, e allora che la sfida abbia inizio!” ridacchiò l’uomo, invitandoli al bordo della strada, dove si ergeva un piccolo muretto in pietra, che la separava dai campi circostanti. Il ragazzo che doveva chiamarsi Andres si sedette a cavalcioni, di fronte a lui, che iniziò a mescolare minuziosamente. La spada giaceva tra i due, e non poteva fare a meno di fissarla di tanto in tanto con gli occhi che brillavano. Una semplice mano, il solito trucco, e poi quel tesoro sarebbe stato suo. Distribuì le carte: cinque al suo compagno e cinque a lui. Osservò la sua mano, che era decisamente, pessima ma con un semplice sguardo alcune immagini si modificarono magicamente. Una ragazza, il tipo spaventoso, e il possessore della spada, lo fissavano preoccupati: era la loro unica possibilità di salvare Emma prima che fosse troppo tardi. Emma infatti era peggiorata sempre di più, e nonostante tutti i villaggi al confine del regno attraversati, non avevano trovato nessuno che potesse aiutarli. Ognuno diceva che il veleno dei Tuffo Oscuri era mortale, e non aveva cura, eppure quel medico aveva affermato di avere la possibilità di far ristabilire la ragazza. Andres cambiò una carta, e si fece passare la nuova, osservandola dubbioso. “Che ci fate in giro a quest’ora di notte?” cercò di intavolare una conversazione il mago, fin troppo tranquillo agli occhi del suo sfidante.
“Potrei farti la stessa domanda”.
“Passeggiata serale…per digerire il capretto mangiato a cena”.
“Con un mazzo di carte?”.
“Beh, non è mai troppo tardi per una scommessa”.
“Non capisco perché questa sceneggiata…una ragazza sta morendo e la tua priorità è una stupida partita a carte!” esclamò arrabbiato Andres, stringendo sempre di più le carte che aveva in mano. Di fronte a lui l’uomo sorrideva gongolante: “Non è colpa mia. Dovevate stare lontani da quei luoghi. Chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Non fosse che aveva un disperato bisogno della medicina per Emma gli avrebbe già spaccato la faccia, senza farselo ripetere due volte, ma cercò di mantenere la calma. “Allora, ci vogliamo sbrigare?” sbottò il ragazzo innervosito. Il mago mise avanti le mani, poggiando le carte sul muretto: “Calma amico, non abbiamo tutta questa fretta”. Un ghigno malvagio si era dipinto sul suo volto, mentre con un po’ di concentrazione visualizzò le sue carte. Con un battito di ciglia la carta sulla destra si modificò all’istante, con un piccolo gesto della mano, lo stesso fece quella al centro. Andres lo guardava impassibile, mentre giocherellava con il tessuto della manica, impaziente. “Che hai?” chiese all’improvviso il mago con un sorriso soddisfatto: non avrebbe potuto perdere, aveva un punto buonissimo.
“Prima tu” disse Andres, con un tono eloquente. L’uomo con i baffoni annuì e fece vedere il suo punto. “Un taglio alla testa! Mi dispiace amico” esclamò entusiasta, facendo posare i suoi occhi sulla spada con sguardo avido. Fece per afferrare il cristallo nero finemente lavorato, me Andres lo fermò con la mano: “Ehi, non così in fretta”.
“Amico, non puoi fare un punto più alto di questo. Ho vinto” si difese l’uomo alzando le mani con aria innocente, mentre dentro se la rideva sotto i baffi. Andres mosse il dito a destra e a sinistra, canzonatorio. “Tu non hai vinto nulla…non hai visto il mio punto” esclamò ridacchiando. Il mago storse il naso, non capendo a che gioco volesse giocare, ma decise di dargli spago.
“E fammi vedere questo grande punto allora” disse incrociando le braccia al petto, e sbuffando leggermente. Andres fece scendere la prima carta: un fante. La seconda carta venne subito dopo: una corona. Non poteva aver vinto, eppure sembrava stranamente sicuro di sé…fece scendere un’altra carta: un’altra corona. E poi un altro fante.Al massimo avrebbe potuto fare un tris di corone e una coppia di fanti, ma non gli sarebbe bastata comunque. “Non sei curioso di vedere la mia ultima carta?” lo canzonò Andres, avvicinandogliela come un’esca. Il mago annuì tranquillo: era stanco di quei giochetti, ma anche divertito in fondo. La vittoria era sua, ed era ciò che maggiormente gli premeva; se poi per perdere tempo doveva dare retta a un pazzo, magari anche ubriaco, non gli interessava più di tanto. “Avvicinati” sibilò il ragazzo, con gli occhi scuri che brillavano vivi. L’uomo seguì quel comando, e Andres gli girò la carta davanti al viso: un cuore. Uno stupido cuore, la carta che valeva meno di tutte. Iniziò a ridere con le lacrime agli occhi, strappandogli la carta di mano. “Visto che non avevi speranze?! Bella partita amico, ma…” non fece in tempo a finire la frase che si beccò un pugno in piena faccia, che lo spedì dritto dritto nel mondo dei sogni.
Si risvegliò con un mugolio e un pesante cerchio alla testa. Era legato contro un albero, con il gruppetto di pazzi che lo guardava torvo. Cercò di liberarsi, ma le corde erano spesse e ben strette. “Che fine hanno fatto i tuoi baffi, eh?” lo interrogò Andres con aria furba. Il ragazzo dai capelli scuri sbiancò: perdendo i sensi, il suo camuffamento era svanito, e quindi dovevano anche aver capito che fosse un mago. “Un mago” mormorò il colosso dalla pelle scura, stringendo più forte l’ascia, e digrignando i denti.
“Ehi, tieni a bada il tuo amico, non ci tengo ad assaggiare quell’aggeggio” implorò verso Andres, indicando con lo sguardo la minacciosa arma. “Perché dovremmo?” lo interrogò l’altro, avvicinandosi e guardandolo storto.
“Senti…chiariamoci. Io non ho nulla contro di voi, ma i maghi in questo Regno non si toccano nemmeno con un dito. Siamo come sacri. E poi si è trattato solo di un piccolo scherzo, un innocuo gioco, non potete prendervela per questo”. Lo sguardo minaccioso della ragazza del quartetto lo fece tacere all’istante, soprattutto alla vista del pugnale allacciato alla cintura, per niente amichevole.
“Anche i maghi imbroglioni?”.
“Soprattutto i maghi imbroglioni. Porta sfortuna farli fuori” rispose il mago, prendendo un respiro profondo. Forse adesso aveva recuperato la concentrazione e poteva usare i suoi poteri per tentare la fuga. Chiuse gli occhi, e chiuse i palmi delle mani, concentrando la sua energia in questi ultimi. Andres si avvicinò, quindi lo punzecchiò con la spada.
“Inutile provarci”. E in effetti fu davvero inutile, era come se mancasse la connessione alla sua magia, la frequenza non prendeva, sentiva il vuoto dentro di sé. Si rese conto di avere qualcosa in bocca, che sputò prontamente. “Erbaluna” spiegò Andres, indicando delle foglie di un verde brillante a forma di mezzaluna. Il ragazzo imprecò, arresosi ormai alla sconfitta: l’erbaluna era una pianta che cresceva esclusivamente sui Monti Neri, ed aveva il potere di inibire temporaneamente i poteri di un mago. Era bastato fargliene un impacco da mettere in bocca per bloccarlo del tutto, e renderlo impotente.
“Lo uccidiamo?” chiese Broadway con un lampo di eccitazione, mentre sfiorava la lama dell’ascia con la punta del dito. “D’altronde non ci serve a nulla…è parecchio gracile” assentì il capo, dubbioso. “Ma rimane un mago…potrebbe esserci utile” si intromise Maxi. Tutti si voltarono verso di lui, e il mago in questione annuì prontamente: “Ascoltate il tappetto, se mi fate fuori, che ve ne viene?”.
“Maxi, questo è uno squallido truffatore…per di più poco capace! Ho capito subito che era un mago; troppo sicuro della vittoria. Doveva essere un baro oppure un mago, ma non ho visto strani movimenti di carte, quindi ho prospettato per quest’ultima ipotesi. E penso di averci preso” spiegò Andres, studiando lo sguardo del prigioniero: non sembrava davvero cattivo, ma non poteva permettersi che rovinasse l’effetto sorpresa che stavano cercando di ottenere, riferendo in giro di un gruppo di gente proveniente dai Monti Neri. Avevano fatto tanto per passare inosservati, viaggiando di notte, e fidandosi solo di determinate persone, che facevano parte della frangia rivoluzionaria di Fiori, fedele ancora alla regina Francesca.
“Il palazzo di Fiori è protetto da decine e decine di maghi, arruolati dalla regina Natalia…abbiamo bisogno di poter giocare ad armi pari!” continuò imperterrito Maxi, senza arrendersi. “Ma come facciamo a sapere che non ci tradirebbe alla prima occasione? Sono d’accordo con Andres, non possiamo fidarci” si intromise Libi, poggiando una mano sulla spalla del leader, che annuì soddisfatto di aver trovato qualcuno a suo favore. “Anche io sono d’accordo con il boss” esclamò Broadway, rimasto vicino alla barella di fortuna con Emma che respirava a fatica.
“E se tu e il mago faceste un Pactio?”.
“Un Pac…cosa?” esclamarono Andres e Libi in coro, mentre Broadway, scuoteva la testa sorridendo. Maxi prese un profondo respiro, quindi iniziò a spiegare.
“Un Pactio…un patto, insomma, come dice la parola stessa. Tutti i maghi al Palazzo Reale sono stati sottoposti ad un Pactio nel periodo della ‘leva magica’, quando vennero assoldati al servizio di Natalia, è la prima cosa che furono costretti a fare, minacciati di essere uccisi. Il mago mette a servizio i suoi poteri per un tempo determinato o indeterminato, e con una sorta di giuramento magico non può venire meno alla parola data, altrimenti verrebbe punito dalla sua stessa magia con una morte atroce. Possiamo chiedere al nostro prigioniero di fare un Pactio, così saremo sicuri che non ci tradirà mai”.
“Molti guerrieri in passato lo facevano con degli stregoni…è risaputo persino per chi non ha frequentato l’Accademia come me e Emma” disse Braodway, con gli occhi fissi su Maxi.
“Ma qui fate i conti senza il mago! Io non farò un Pactio” strillò il ragazzo dai capelli scuri, dimenandosi inutilmente. Andres si avvicinò calmo e gli puntò la spada alla gola: “E invece lo farai, se non vuoi finire pasto per gli animali del bosco. La carne di mago deve essere prelibata”.
“D’accordo, d’accordo, sei stato convincente…ma ad una sola condizione. Sarà un Pactio baratto. Io metto a disposizione i miei poteri e vi do una mano, ma in cambio voglio quella spada, una volta che avrò terminato il mio incarico” propose il mago, arrendendosi di fronte alla sua costretta decisione. Maxi annuì: “Sono d’accordo. Se avrà qualcosa in cambio mi sentirei meno in colpa a sfruttarlo”. “Se è d’accordo Maxi, allora va bene…anche se l’ultima cosa che vorrei è avere un ladruncolo in comitiva, devo ammettere che potrebbe rivelarsi un asso nella manica non indifferente”.
“Immagino che tu non abbia nessuna cura per Emma, visto che sei un bugiardo patentato” digrignò Broadway, minacciando con la sua ascia lo sventurato. “N-no…ma conosco qualcuno che potrebbe fare al caso vostro” balbettò il ragazzo, fissando terrorizzato il suo riflesso sulla lama.
“D’accordo, Libi, sciogli i nodi prima che il nostro amico lo faccia a pezzetti…faremo questo Pactio” disse Andres, sistemandosi al centro della radura nella foresta in cui si erano accampati. “Come si fa un Pactio?” chiese poi all’amico, che scosse le spalle.
“Non ne ho la minima idea! Ho solo proposto...Ci vuole una sorta di rito che non conosco”.
“E tu sai come si fa un benedetto Pactio?” chiese poi, rivolgendosi al mago, che sorrise divertito. “Ma che bello, non sapete come si fa un Pactio, eppure ne volevate uno! Questa è divertente!” cominciò a ridere senza più riuscire a controllarsi, finché Broadway, dopo aver ricevuto un cenno d’assenso da parte del capo, non gli diede una gomitata all’altezza degli stinchi, talmente forte da farlo piegare in due.
“Va bene, va bene, non siete gente a cui piace scherzare, l’avevo capito” disse per poi rimboccarsi le maniche della maglia. Prese un bastone per terra, e tracciò una figura, più precisamente una stella a cinque punte. Dentro di essa tracciò una circonferenza, e disegnò alcuni simboli incomprensibili.
Si fermò al centro e si rivolse ad Andres: “Allora, chi vuole fare il Pactio deve oltrepassare la stella e raggiungermi al centro del cerchio. Maxi fece per farsi avanti, ma Andres lo bloccò mettendogli una mano davanti al petto. “Vado io” sibilò, sotto lo sguardo preoccupato di Libi.
“Perfetto” disse il mago, vedendo il suo nuovo socio raggiungerlo a passo svelto. I due si trovarono l’uno di fronte all’altro, e si studiavano come due prede.
“Sidus sempiternus”. La stella tracciata colorò i suoi bordi con una strana luce dorata.
“Integer orbis”. Anche la circonferenza prese a brillare, ma con maggiore intensità.
“Io, qui presente mago Domingus, fedele servo della stirpe dei maghi, figlio del grande mago Domingus, offro i miei servizi a questo ragazzo, qui presente…il nostro patto si romperà quando io avrò adempiuto ai miei doveri, e avrò reso il servizio: aiutarli nella loro impresa con la mia magia”.
Andres annuì impaziente di terminare quella sorta di rito: sentiva uno strano formicolio che partiva dalle piante dei piedi e percorreva il suo corpo. “E ora, concludiamo il nostro patto, con il gesto di eterna fedeltà” sussurrò il mago, gli occhi persi nel vuoto, privi di qualsiasi emozione, mentre le mani vibravano quasi senza controllo. La luce si fece accecante, separandoli dagli altri, e il mago si avvicinò. “Bene, suggelliamo il patto” disse, afferrandogli le braccia, e sporgendosi sempre di più, fino a poggiare le labbra sulle sue. Andres sgranò gli occhi, sconvolto, ma non osò muovere un dito, terrorizzato.
Libi li guardava con un’espressione impossibile da decifrare: era diventata bianca come un lenzuolo: Andres stava baciando un ragazzo. Un ragazzo! Perfino uno stupido mago sembrava avere più fortuna di lei. Si voltò verso Maxi, che a stento riusciva a trattenere le risate, e continuò controvoglia ad assistere a quella scena mortificante.
Andres sentì finalmente il calore della bocca del ragazzo allontanarsi velocemente, mentre la luce scompariva così come era apparsa, e tutto ritornò alla normalità. Sentì una fitta incandescente sul palmo della mano, e vide incidersi su di esso una mezza stella. Il ragazzo gli mostrò il suo, facendogli vedere l’altra mezza stella sulla sua mano, per rassicurarlo.
“E Pactio fu! Ma non mi chiedere un altro bacio, eh. Anche se sono irresistibile, non sei il mio tipo” ghignò il giovane mago, emettendo un piccolo sbadiglio, e sedendosi con la schiena appoggiata al tronco dell’albero a cui poco prima era stato legato.
“Nessuno mi aveva detto che un patto prevedesse un bacio!” esclamò Andres disgustato, sputacchiando qua e là, cercando di togliersi quell’orribile sapore che sentiva. “E chi ne aveva idea! Però è stato divertente, peccato non aver potuto in nessun modo immortalare il momento” rise Maxi, beccandosi un’occhiata torva di Libi, non ancora del tutto ripresa, che di certo ne avrebbe fatto volentieri a meno.
“A proposito non sappiamo nemmeno il suo nome” gli fece presente l’amico, rinfoderando la sua spada nera, e preparandosi per il viaggio. Il mago si alzò con un sorriso incantatore: sembrava un ragazzino innocente, ma nascondeva un animo furbo e approfittatore: “Piacere, sono Domingus Junior, ma tutti mi hanno sempre chiamato DJ”.
 
La notte scese avvolgendo tutto nell’oscurità. Il silenzio era interrotto solamente dal verso di qualche civetta, e dal russare di Maxi. Un mantello frusciava in lontananza, scomparendo tra gli alberi. La figura continuava ad avanzare, fino ad arrivare a procedere di corsa. L’affanno tradiva la paura di ritardare a un incontro già stabilito. Improvvisamente smise di correre, sicuro di essere quasi arrivato, ma soprattutto rasserenato dalla lontananza dal luogo in cui si erano accampati. Un cappuccio scuro gli copriva il volto, da cui scendevano alcune gocce di sudore, causate dal clima torrido di quella notte. Un suono di un liuto attirò la sua attenzione; estrasse un piccolo flauto nero, e lo portò alla bocca, soffiando piano: il segnale concordato. Due uomini avanzarono, emergendo da dietro gli alberi, che si ergevano dritti e spogli. Un uomo dai capelli brizzolati, e un sorriso sghembo era accompagnato da un ragazzo dagli occhi verdi smeraldo, e un’aria arrogante, che doveva avere più o meno la sua età. “Allora, hai notizie da portarci?” lo interrogò con una voce cavernosa e grave il più anziano dei due. La figura incappucciata annuì semplicemente, tirando giù il cappuccio, senza smettere di fissare le due spade di neranio rinfoderate.
Broadway ghignò malvagio, mentre i due cavalieri lo osservavano impazienti. “Stiamo per raggiungere il castello. Ma dobbiamo stare attenti, hanno con sé un mago” spiegò sbrigativamente, afferrando al volo il sacchetto pieno di monete tintinnanti che gli era stato lanciato. “Bene…stanno cadendo dritti dritti nella trappola che gli è stata riservata” disse il giovane, incurante del fatto che un mago fosse insieme al gruppo, cosa che non sfuggì all’altro cavaliere, ben più saggio.
“Un mago? Sicuro di ciò che dici? I maghi sono tutti al servizio della regina”.
“Almeno così pare. Ha fatto un Pactio con Andres, il leader del gruppo. Potrebbe costituire un problema”. L’uomo scosse la testa, pensieroso: “Nessun problema, si tratterà di aggiustare le cose a nostro piacimento”.
“Come si chiama?” aggiunse subito dopo, mentre l’altro cavaliere, annoiato da quella conversazione, aveva sfoderato la sua arma, e si divertiva a fare cerchi sul terreno, seduto su un ciocco lì vicino. “Domingus Junior, se non ho capito male…”.
“Il figlio del vecchio Domingus!” si intromise il giovane in lontananza, sghignazzando. “Quello è un povero pazzo, perfino al castello è trattato come l’ultimo dei servi, seppur un mago”.
“Ripeto: non è un problema, e non intralcerà i nostri piani” mormorò l’uomo. Broadway tirò fuori una moneta dorata e la rigirò tra le mani astutamente.
“Tanto con questa mi potete seguire ovunque, quindi non ci dovrebbero essere problemi. Di certo non sarete colti di sorpresa”. 
“Quella moneta è il nostro asso nella manica, e non devi in alcun modo perderla di vista, chiaro? Ne va del nostro piano; se falliamo, sarà la tua testa a rotolare, mio caro ragazzo”.
“Non fallirete, e io avrò la mia ricompensa in denaro, molto più grande di qualche moneta” sorrise malignamente, facendo tintinnare il borsellino che gli era stato appena dato.
L’uomo annuì stringendogli la mano: la regina gli aveva detto che un rivoluzionario si era offerto di tradire la sua parte in cambio di denaro, ma non lo immaginava certamente così avido. Un rapace perennemente affamato sarebbe stato nulla in confronto. Il ragazzo dagli occhi verdi e la pelle bianco latte, si alzò e affiancò il suo collega più anziano. I due fecero incrociare le spade nere, segno che per loro la conversazione era finita. “Ricorda ogni parte del piano e vedi di non commettere sciocchezze” mormorò il cavaliere scomparendo nell’ombra. Broadway annuì, e ben presto si trovò da solo nella foresta di notte. Un ululato lontano lo riscosse dai suoi pensieri. Non aveva nessun rimorso nel condannare quel gruppo di pazzi, che forse speravano davvero di uscire illesi dalla missione. Non appena Pablo gliel’aveva assegnata il suo primo impulso era stato quello di fuggire; non voleva morire, ma di fronte a un ordine del re non ci si poteva opporre. La sua compagna Emma invece era stata fin da subito orgogliosa di essere stata scelta, a differenza sua. Non vedeva l’ora di far vedere a tutti quanto valesse, e l’idea della morte non la spaventava…tuttora ci combatteva rifiutandosi di morire, e tentando di sconfiggere il veleno. Una lotta inutile, perché senza una cura prima o poi li avrebbe abbandonati. Il suo piano per evitare di fare una fine del tutto simile aveva funzionato. Prima di partire si era messo in contatto con l’Ordine dei Cavalieri di Fiori, e in cambio di una lauta ricompensa si era offerto di fare da spia. In quel modo non ci avrebbe rimesso le penne, e ne sarebbe addirittura uscito con le tasche piene. Certo, quel mago lo spaventava…avrebbe potuto mettere a rischio la missione, ma se i cavalieri erano certi che non costituisse un problema, non vedeva perché lo avrebbe dovuto pensare lui. E poi non era un problema suo, una volta finito sarebbe scomparso senza lasciare tracce. E dietro di sé avrebbe lasciato una scia di sangue, innocente ma necessario per la sua sopravvivenza. Si rimise in cammino per raggiungere nuovamente la radura in cui si era accampati, e quando arrivò si trovò di fronte il volto oscurato di Andres.
“Come mai ti sei allontanato?” bisbigliò l’amico, con cipiglio severo.
“Avevo bisogno di essere sicuro che non ci fosse nessuno nei paraggi” rispose prontamente Braodway.
“Avresti potuto chiamarmi…ti avrei dato volentieri una mano”.
“Non volevo che ti svegliassi”. Gli mise una mano sulla spalla, e sorrise, ringraziando il buio che nascondeva la paura di essere scoperto. Non poteva permettersi un passo falso, e soprattutto il capo della missione doveva continuare a nutrire completa fiducia nei suoi confronti.
“Sei stato gentile, ma la prossima volta non esitare” disse Andres, voltandosi e ritornando al suo giaciglio, posto affianco alla barella su cui Emma ancora non dava cenno di una ripresa.
“Non lo farò, Andres, non lo farò”. 






NOTA AUTORE: Ciao a tutti! Capitolone ricco di sorprese e novità! :D Allora, la nostra povera Emma è in fin di vita, e anche se non nutre le mie simpatie devo dire che mi dispiace xD Nel frattempo ecco giungere il notro mago, il cui nome scopriamo solo alla fine, ossia Domingus Junior, anche detto DJ :P Eh, si, è proprio il nostro caro DJ, un tuffatore qualunque, messo però alle strette da quel gruppetto che lo spaventa terribilmente. E una volta scoperto il suo segreto è costretto a fare un Pactio con Andres (l'idea del Pactio è di un manga che leggo, 'Negima', anche se qui è stato appunto molto modificato), che prevede un bacio O.O Mamma mia, stavo morendo in quella scena, soprattutto mentre immaginavo la povera Libi, che deve assistervi xD Vabbè, passando a cose meno simpatiche...anche se abbiamo un nuovo membro, di cui ci possiamo fidare, per il semplice fatto che non li può tradire, o almeno non gli conviene, qualcun altro lo fa eccome per pura avidità e per salvarsi la pelle. Broadway...ecco, se prima vi era idnifferente adesso inisierete ad odiarlo insieme a me in questa fanfiction....grgrgrgrgrgrgr -.-"
Comunque, spero che il capitolo vi piaccia, fatemi sapere che ne pensate xD Grazie di tutto a voi che ancora seguite/leggete questa foll...questa storia e alla prossima! Buona lettura a tutti!
Syontai :D 

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Capitolo 26
*** Lotta contro il tempo ***





Capitolo 26

Lotta contro il tempo

La candela illuminava un’ampia scrivania in mogano, e si sentiva solo il rumore scricchiolante della piuma d’oca che scorreva con la punta sulla pergamena giallognola. Federico era chino su di essa, intento a scrivere senza sosta. Non riusciva a prendere sonno, e i suoi occhi sgranati, segnati da profonde occhiaie ne erano una testimonianza. Cessava di scrivere solo per intingere la punta della piuma nel calamaio alla sua destra e poi riprendeva imperterrito. Fiumi di parole, dove narrava ogni singola novità all’interno di quella fortezza, lo distraevano dal suo compito, ed era ciò che più desiderava. Ricordava bene l’espressione disgustata di Francesca quando aveva scoperto il suo tradimento: era anche colpa sua se era finita in quell’oscura prigione, e non sapeva se se lo sarebbe mai perdonato. Sospirò rileggendo la pagina scritta, poi la mise vicino alla candela, in attesa che l’inchiostro si seccasse. Aveva provato più e più volte ad andare a trovare la regina spodestata, per tentare di rassicurarla, per quanto gli fosse possibile, ma ogni volta lei mostrava di non volere intrattenere alcun tipo di conversazione con lui, e lo rendeva evidente girandosi dall’altra parte del giaciglio, quella rivolta verso il muro spoglio, quando lo vedeva arrivare. Spostò svogliatamente la sedia, alzandosi, e piegando con cura la lettera ormai asciutta. Uscì dalla sua stanza, attento a non far alcun rumore, e a non destare l’attenzione della ronda notturna. A passo veloce superò tutti i corridoi, passando davanti alla sala del trono; si soffermò solo qualche secondo di fronte ad essa, pensando a quante cose erano cambiate in due anni. Un’armatura cigolò rumorosamente, e si sentì afferrare la spalla da dietro, facendolo saltare per la sorpresa. Di sbiecò osservò un guanto nero in pelle, e tirò un respiro profondo.
 “Identificati. Chi sei? Che ci fai in giro in piena notte?” disse una voce cavernosa, che emanava un odore di whisky talmente forte da stordirlo. Ma le sentinelle ormai erano avvezze a far circolare un tasso alcolico più alto del normale, in quanto era proprio l’alcool a riscaldarli nelle notti più fredde, molto più di qualche torcia o tizzone ardente. Erano talmente abituate ormai, che riuscivano comunque a mantenere una lucidità ammirevole; d’altronde un fallimento o una svista per loro significavano morte certa.
“Federico Acosta” affermò tranquillo, facendo scivolare la missiva nella tasca destra della vestaglia, finemente lavorata. La guardia lo squadrò da capo a piedi, nei suoi occhi si leggeva sospetto, e timore per essere incappato in una persona fin troppo importante. “E posso sapere come mai, conte Acosta, è in giro a quest’ora di notte?” chiese con tono incolore.
“Da quando devo rendere conto dei miei spostamenti?” ribatté il conte, falsamente sorpreso.
“Da quando è sempre più forte il sospetto che tra queste quattro mura vi siano infiltrati dei rivoltosi” spiegò l’altro, imperterrito.
“Mi stai forse accusando di essere un volgare popolano stanco del regno fondato sulla giustizia e sul controllo dalla regina Natalia? Bada bene a ciò che rispondi, sono molto vicino alla corona, e mi basterebbe una sola parola, per assicurarmi che venga trasferito a badare alle entrate delle stalle”.
“Ha ragione, perdoni la mia impertinenza, signor conte. Cerchi di capirmi…dopo gli ultimi tentativi di spodestare la regina Natalia, e tutte le sommosse messe a tacere…la tensione è comunque presente, ed io e i miei uomini siamo continuamente sotto pressione. Pretendono da noi di trovare questi infiltrati, ma è come cercare un ago in un pagliaio!” si sfogò la guardia, rinfoderando l’arma che aveva tenuto sguainata, e fissando il suo interlocutore in cerca di comprensione.
“Ti chiedo perdono per le mie parole, sono stato piuttosto arrogante, e me ne rammarico”. Federico porse le sue scuse sinceramente, ed ottenne un sorriso riconoscente della sentinella. “Comunque intendevo solo fare una breve passeggiata per prendere sonno, anche se l’ora effettivamente non sembra essere quella più indicata” spiegò, ottenendo un cenno di assenso.
“Mi raccomando, non tardi troppo, signor conte. Nessun posto è sicuro da quelle belve” si raccomandò la guardia.
“Grazie, lo terrò presente”. Si congedò in fretta, ansioso di portare a termine il compito che si era prefisso quella notte. Mentre camminava lungo i corridoi, due lunghe ombre messe in risalto dalla luce della luna, salivano una lunga scalinata a chiocciola in pietra adiacente, che portava agli alloggi dell’elite dei cavalieri di Fiori.
“Avremmo dovuto minacciarlo invece di continuare a lasciargli così tanta libertà di azione”. La voce di un giovane cavaliere arrivò alle sue orecchie, facendogliele drizzare all’improvviso. Si acquattò ad una parete, e con la coda dell’occhio riuscì a scorgere due figure che salivano sempre di più, fino a raggiungere l’ultimo piano del palazzo.
“Non avremmo risolto nulla, invece! Fidati, porterà a termine il suo compito. Minacciarlo l’avrebbe messo solo sotto pressione, senza ottenere nulla” rispose il suo collega, molto più anziano di lui.
“Ma quindi è sicuro che quel gruppo di pazzi arriverà qui a breve? Natalia ha avvertito la regina di Quadri? Il piano deve essere portato a termine al più presto!”.
“Non preoccuparti, le truppe di Quadri si stanno già muovendo e il forziere sarà presto qui, per trasportare al sicuro il nostro tesoro” mormorò l’uomo.
Federico fece per voltarsi, ma involontariamente, rischiò di inciampare su una sporgenza di uno dei lastroni di pietra che costituivano il pavimento del corridoio. Il rumore non passò inosservato a uno dei due cavalieri, che si voltò di scatto.
“C’è qualcuno” sibilò, con gli occhi ridotti a due fessure. “Vado a controllare” ghignò il giovane, scendendo le scale di fretta. Federico si appiattì contro la parete, trattenendo il respiro. Se avesse cominciato a correre sarebbe stato ancora peggio, avrebbe fatto più rumore, e il cavaliere l’avrebbe trovato. E per quanto nobile potesse essere anche solo aver ascoltato parte di quella importantissima conversazione gli avrebbe assicurato una bella decapitazione. Sentì il rumore di passi che lentamente si facevano più vicini, e di una spada sguainata. Ne poté avvertire il cupo scintillare, sentiva già il freddo del neranio sfiorare lentamente la sua gola, ma rimase immobile. Cominciò a sudare freddo, mentre scorse il guanto di pelle fare capolino dallo spigolo.
“Si tratterà di un topo”. Il cavaliere tornò sui suoi passi, non avendo notato nulla di strano fin lì. Federico avrebbe voluto emettere un sospiro di sollievo, ma era ancora talmente teso che gli uscì solo un silenzioso rantolo. “Ecco, lascia i topi ai maghi, se ne sbarazzeranno loro con qualche diavoleria, è meglio riposare, perché il viaggio mi ha stremato” lo riprese l’uomo più anziano con voce alterata. Li sentì parlare del più e del meno, dall’assenza di vento che rendeva il clima di quella notte così afoso alle lamentele per il duro lavoro che gli sarebbe stato riservato il giorno dopo. Federico strizzò gli occhi, incredulo di tanta fortuna: non solo era riuscito a cavarsela per un soffio, ma aveva anche scoperto qualcosa di molto interessante, peccato che non avesse la più pallida a cosa si riferissero, e soprattutto quale ruolo avesse il regno di Quadri in tutta quella storia.
Si diresse verso l’uscita, stringendo con sempre più forza la lettera nella tasca della veste, e proseguì dritto, attraversando il sentiero principale, fino a raggiungere i cancelli reali. Un uomo avvolto da un cappuccio lo attendeva dall’altra parte, con la schiena appoggiata al muro. La ghiaia scricchiolò sotto i suoi piedi, mentre in lontananza avvertiva un gruppetto di sentinelle a guardia del cancello, riunite attorno a un tavolino a lanciare i dadi sotto la flebile luce di un mozzicone di candela. Invece di continuare dritto verso il cancello, deviò verso la destra, inoltrandosi nel verde dedalo di siepi e orchidee. Raggiunse poi il muro che separava il castello dalla cittadina, e raccolse una liscia pietra bianca posta lungo la riva di un laghetto artificiale. Tirò fuori uno spago dalla tasca e con esso legò la lettera al sasso.
“E anche stanotte toccano a noi turni serali. Ma la prossima volta mi lamento con il capo, che qui stiamo sempre noi al freddo e al buio” disse un uomo sulla quarantina, assestandosi l’elmetto in testa.
“Ringrazia piuttosto che stanotte non fa freddo, piuttosto…non tira un filo di vento!” si lamentò il suo compagno. I due procedettero tranquillamente, continuando a parlare del più o del meno, senza accorgersi che tra due siepi due occhi scuri non attendevano altro che se ne andassero. Federico si passò la mano sudata lungo la superficie liscia del ciottolo, osservando l’alto muro. Il verso di un corvo: il segnale convenuto. Prese la rincorsa e lanciò il sasso verso l’alto con tutta la forza di cui disponeva. Sentì il rumore della caduta dall’altra parte, e di nuovo il verso della cornacchia. Il messaggio era stato recapitato. Sorrise rincuorato, e finalmente apparve più tranquillo. Adesso doveva attendere la sera successiva per avere una risposta. Di certo i pensieri nel frattempo non sarebbero mancati, visto che la mente ripercorreva continuamente la discussione tra i due cavalieri. Una trappola, un tesoro, un trasferimento fatto di nascosto…cosa gli nascondeva la regina Natalia?
 
Il giorno dopo era troppo stanco per continuare a pensare alla faccenda della conversazione dei cavalieri. Passare notti insonni nel tentativo di adempiere a quel duro compito non giovava certo alla sua salute; il suo aspetto era pallido, e spesso si ritrovava a scattare ad ogni minimo rumore, come se si sentisse costantemente pedinato. Anche quella mattina era iniziata nel solito modo: appena sveglio si era diretto verso il catino, e dopo essersi specchiato per qualche secondo, aveva increspato la superficie dell’acqua gelida con le mani, gettandosene una generosa quantità sulla faccia, nel disperato tentativo di svegliarsi completamente. Quel giorno aveva deciso di andare a trovare la regina. Non Natalia. La vera regina, Francesca. In fondo lui non faceva altro che fare la spia per conto dei rivoluzionari, riferendo dei movimenti a corte. Era un gioco pericoloso, e per questo aveva dovuto appoggiare fin da subito il colpo di stato per non destare sospetti, ma adesso Natalia si fidava ciecamente di lui, visto l’aiuto che le aveva dato per prendere il potere, e godeva di una posizione piuttosto vantaggiosa.
Ma il suo cuore continuava a accusarlo di colpe che aveva commesso, che mai si sarebbe perdonato: Francesca, la sua dolce Fran, come la chiamava lui, essendo stati amici fin dalla tenera età, era in prigione e il pensiero di non poter fare nulla lo tormentava. Per di più lo considerava un traditore, e non gli era possibile smentirla, avrebbe corso un rischio troppo grande. E così giocava il ruolo dello spietato conte assetato di potere, pur di rimanere nella sua posizione e aiutare il movimento rivoluzionario. Qualcuno bussò alla sua porta, riscuotendolo all’improvviso. “Ana” disse lui in un sussurro, voltandosi verso l’esile figura che avanzava nella sua stanza. Una ragazza dai capelli castani lisci, che le ricadevano dolcemente lungo la schiena, e dal sorriso solare, dava un’idea di spensieratezza che ben si discostava dal suo modo di vestire: un abito lungo e nero, che aderiva perfettamente al suo corpo, e sembrava adattarsi elasticamente ad ogni suo movimento. Ana era una maga, e non una maga qualsiasi, era una delle più promettenti, e per questo al fianco della regina. La regina non possedeva la magia, e Ana si rendeva sua arma, donandole così indirettamente anche quel potere attraverso il Pactio. “Conte Federico” sorrise indulgente la ragazza, osservando il suo petto nudo. Il giovane imbarazzato corse a procurarsi una maglia, e la indossò sentendo ancora lo sguardo della maga addosso.
“Non ho alcuna fretta” lo rassicurò con freddezza Ana, facendo un passo indietro. Per quanto la ragazza fosse rinomata in tutto il castello, non solo per i suoi poteri, ma anche per la sua incredibile bellezza, era altrettanto risaputo il fatto che non si lasciasse toccare da nessuno, e per questo costituiva una sorta di bellezza irraggiungibile. Ogni contatto al di fuori di quelli da cerimonia, e al di fuori di quelli con la regina, veniva visto da lei come contaminante.
“So bene che non c’è fretta, ma non ci tengo a far attendere la regina, anche se prima avrei un favore da chiederti” esclamò Federico, facendo avanti e indietro alla ricerca dei suoi stivali.
“Se la tua richiesta sarà esaudibile, allora ti aiuterò”. Tipico di Ana: diretta e allo stesso tempo severa. Il suo sorriso si incrinò non appena sentita la richiesta, ma cercò di mantenerlo vivo, distogliendo lo sguardo dal Conte, e concentrandosi sul panorama offerto dalla grande finestra in fondo alla stanza da letto.
“Chiedo solo di fare una visita alle celle del palazzo prima dell’udienza della regina. Ho alcune cose di cui discutere…”.
“Con la regina Francesca. Federico, già è tanto che ti venga concesso di andarla a trovare ogni tanto, non credi di stare approfittando fin troppo della generosa grazia che ti ha fatto la nostra vera regina?” rispose Ana freddamente, mentre il sorriso che con tanta fatica aveva tentato di conservare svanì di colpo.
“La regina sa bene della mia fedeltà, non credo che costituisca un problema. D’altronde nonostante tutto, dovreste comprendere il mio legame affettivo con Francesca. Siamo cresciuti insieme”.
Ana ponderò bene quelle parole, quindi annuì ben poco convinta e fece un gesto della mano per scacciare ogni futile pensiero che le era sopraggiunto. “Allora ti aspetto direttamente nella sala delle udienze, ma fai presto, non vorrei che la regina se la prendesse con me per la tua incuranza”.
Federico attese che la ragazza avesse voltato l’angolo, quindi spiccò una corsa dall’altra parte: aveva intenzione di prendere una scorciatoia per impiegarci meno tempo.
“Federico, perché non mi aspetti mai?”.
La voce di una bambina vagava nella sua testa. E pensare che quella bambina, così fragile e delicata, sarebbe diventata regina, e avrebbe dovuto subire una terribile prigionia.
“Sei tu che sei lenta!”.
Correva, e mentre correva lo spettro di un bambino lo affiancava: occhi scurissimi, capelli di un castano chiaro, corti e spettinati. I suoi passi erano in perfetta sincronia con quelli dello spettro dei suoi ricordi, ne assaporava la risata gioiosa, così innaturale nel presente.
“Ma io sono una principessa. Tu dovresti aspettarmi! Tutti i cavalieri aspettano le principesse”.
Il bambino si voltò a fare una linguaccia prima di scomparire di colpo, ad un solo suo battito di ciglia. Rallentò il passo solo dopo aver sceso di corsa la scalinata, e regolarizzò velocemente il respiro affannato, fermandosi di fronte all’ingresso delle celle, dove due guardie stringevano nella mano una lancia minacciosa con la punta rivolta verso l’alto.
“Se vuoi un principe fatti aiutare da tuo fratello Luca, io non ho intenzione di stare dietro ai capricci di una ragazza. D’altronde lui sarà il futuro re, chi meglio di lui?”.
Sorrise amaramente mentre le guardie si lanciarono uno sguardo prima di farsi da parte e permettergli l’accesso. Odiava scendere nei sotterranei. Le celle erano tutte chiuse e vuote, inghiottite nel buio e divorate dall’umidità. Un uomo lo attendeva su uno sgabello, e non appena lo vide scattò in piedi barcollando.
“La signora non penso voglia ricevere visite” ghignò con tono sarcastico, prendendo la fiaschetta che aveva allacciata alla cintura e ingurgitando una bella quantità di whisky.
“Beh, sono io a volere avere un’udienza con lei” sibilò Federico, assolutamente impassibile, solo leggermente disgustato dalla rozzezza di quell’uomo.
“La visitate un po’ troppo spesso. Se cercate una compagnia femminile esistono i bordelli in città, non avete certo bisogno di venire fin qui a…”.
Federico non ci vide più dalla rabbia, e lo spinse contro il muro ringhiando. “Sarà anche una prigioniera, ma merita certamente più rispetto di un lurido cane come te. E farò finta di non aver sentito nessuna delle tue sporche insinuazioni, farò finta che ti siano uscite in un momento di poca lucidità. Ma stai attento, un’altra parola del genere, e farò in modo che un’altra cella venga adibita per qualcuno di molto meno degno della regina”. Non tollerava una simile mancanza di rispetto, soprattutto nei confronti di Francesca. Gli strappò un mazzo di chiavi nell’altra mano, mentre l’uomo lo fissava terrorizzato.
La serratura scattò, e Federico aprì la porta della cella. Seduta sul letto, in un angolino, con un vestito logoro e sporco, Francesca stava con il capo chino, i capelli le coprivano il viso. Ma nonostante tutto aveva un contegno che la contraddistingueva da una qualsiasi prigioniera, il busto era dritto e fiero, le mani poggiate sulle gambe, di un pallore quasi disumano.
“Che ci fai qui?” chiese senza tanti giri di parole, alzando di scatto lo sguardo: gli occhi incavati sembravano acquisire una nuova vita, dettata dal disprezzo, e Federico se ne sentì inondato, un brivido freddo gli corse lungo la schiena. La pelle era bianca come il latte, ma aveva una sfumatura verdastra: Francesca era malata, viste le scarsissime condizioni igieniche di quel postaccio, e il pensiero di non poter fare nulla, di doverla vedere in quello stato lo fece sentire sempre peggio. Era  sempre così, non riusciva a spiccicare una parola al suo cospetto, il senso di colpa e impotenza aveva sempre la meglio.
“Vattene”
“Francesca, io…”
“Vattene, ho detto”
“Tu non capisci”
“Io non capisco? Capisco fin troppo bene, invece. Ricordo tutto, Federico, il giorno in cui sono finita qui dentro. Ricordo il tuo tradimento come se fosse accaduto ieri, e ricordo la terribile fitta al cuore che mi ha provocato. Eri tutto per me, e perdere ogni certezza mi ha cambiato. Mi sento vuota, non perché sono costretta a stare tra queste quattro mura, ma perché non ho più nessuno di cui fidarmi. Non ho più te”. Glielo disse con una freddezza glaciale, ma le sue mani si strinsero sempre più alle vesti, tradendo le emozioni che le stavano dando la forza per dire quelle parole, per muovere le labbra e rivelare ciò che più la distruggeva. Federico le era di fronte, sembrava come fatto di pietra, lo sguardo fisso su di lei, e un forte di desiderio di urlare al mondo la verità. Ma non era il momento, non ancora. L’importante incarico che gli era stato affidato doveva essere portato a termine. Gli era stato detto che un certo Andres in compagnia di quattro persone sarebbe giunto a Fiordibianco e lui avrebbe dovuto trovare il modo per farli entrare a palazzo senza destare sospetti. Dopo avrebbe potuto cercare di far fuggire Francesca e di portarla in salvo.
“Dimmi solo una cosa: ci sono notizie di Luca?” domandò Francesca, osservandolo seriamente. Luca Fiorenero, fratello di Francesca, era il vero erede al trono del regno, ma una volta deceduto il padre, non sentendosi degno di succedergli, aveva subito abdicato in favore della sorella, scegliendo però di rimanere a capo dell’esercito, come se fosse il re, dopo aver ottenuto il favore della regina. I due fratelli rispecchiavano l’equilibrio che aveva sempre contraddistinto Fiori: Francesca rappresentava la saggezza, la giustizia, l’ordine interno, Luca la forza, l’astuzia, e l’ordine ai confini. Mentre Luca però era di ritorno dopo una delle numerose battaglie con Cuori e Quadri, ormai chiaramente alleati tra loro contro Fiori, era stato preda insieme ai suoi uomini di un’imboscata da parte degli autori del colpo di stato, ed era stato costretto a fuggire, insieme ai pochi reduci dell'attacco. Nessuno sapeva che fine avesse fatto, ma alcuni contadini di vari villaggi giuravano di averlo visto, come un fantasma, aggirarsi nei boschi. Quasi tutti però credevano che, gravemente ferito, il giovane Fiorenero avesse spirato in qualche grotta o luogo impervio e inaccessibile. 
“Nessuna novità, purtroppo” rispose debolmente il Conte, avvicinando la mano alla spalla della ragazza, scossa da un fremito a quelle parole. Forse avrebbe pianto di lì a poco, ma di certo non di fronte a lui, non avrebbe mai dato una soddisfazione del genere a un nemico. Sembrava fragile, ma la regina Francesca aveva una forza che, dopo due anni costretta a marcire in quella cella, non accennava a spegnersi.
“Era tutto ciò che volevo sapere” sussurrò Francesca Fiorenero, abbassando ancora di più il capo. Si chiuse in un silenzio insormontabile, e Federico capì che la conversazione era finita. Finita ancora prima che potesse dire qualunque cosa, prima ancora che cercasse di farle capire che non era sola, che l’apparenza non contava, che lui ci sarebbe sempre stato per lei. Non era sola, e doveva capirlo. Ma lei era una prigioniera, e lui si sentiva il suo carceriere. Non gli avrebbe creduto. Mentre girava le spalle, vide di fronte a sé le sbarre scure e arrugginite della cella, e pensò che un giorno avrebbe potuto distruggerle; avrebbe potuto salvare la sua principessa, e diventare il cavaliere che da piccolo si era sempre rifiutato di essere.
 
“Dovremo essere quasi arrivati” ansimò Dj, salendo in cima ad una collina. Si ricordava di quando era venuto in quel posto da piccolo. Quella pianura era stata consacrata agli Dei Bianchi, protettori del Regno, e vi vivevano i sacerdoti di Asteria. I sacerdoti, sebbene possedessero poteri magici, non potevano essere in nessun modo toccati dalla regina Natalia. Quella piana costituiva una sorta di terreno neutrale in cui chiunque avrebbe potuto trovare rifugio. Avevano dovuto allungare il tragitto che li avrebbe portati a raggiungere Fioridibianco, per poter chiedere ai sacerdoti una cura per Emma. Erano gli unici in grado aiutarli, e di certo non gli avrebbero negato soccorso.
“E’ stata una follia ritardare le tappe per raggiungere il castello. Perderemo solo tempo” disse Broadway, piantando l’ascia sul terreno, e scrutando la sterminata prateria di un verde brillante che si estendeva di fronte a loro. L’erba frusciava mossa dal vento, e creava numerose onde che si disperdevano all’orizzonte. 
“Se c’è anche una sola possibilità di salvare Emma, voglio tentare” esclamò Andres, affiancandosi al compagno e dandogli una pacca sulla spalla. Broadway sembrò infastidito da quel gesto amichevole, ma non disse nulla. “Adesso ci affidiamo anche a un ladro” borbottò tra sé e sé ricominciando a camminare.
“Guarda che ti sento, non sono mica sordo!” disse Dj, evidentemente furioso.
“Quanto manca ancora?” chiese Maxi, evidentemente stremato, che stava per stramazzare al suolo. Avendo dovuto allungare il tragitto avevano accorciato di molto i momenti di riposo, arrivando a dormire solo poche ore. La missione era troppo importante, e non potevano permettersi il lusso di perdere tempo. Emma per di più stava peggiorando sempre di più. Il viso aveva assunto un pallido colore violaceo, e respirava sempre più a fatica.
D’un tratto, Andres scorse qualcosa in lontananza, come tanti pilastri messi in cerchio. Dj sogghignò soddisfatto: “Vedete, uomini di poca fede? Ecco che il vostro mago vi ha portato nel posto giusto”. Continuarono a camminare, chiedendosi che razza di tempio fosse quello che vedevano in lontananza. Dietro Libi si era offerta di aiutare Andres a trasportare la barella con sopra Emma.
“Ce la faremo vedrai, Andres” lo rassicurò con un sorriso. Andres la guardò e ricambiò il sorriso, ma il suo era spento, privo di vita. Non era più la guida che conosceva, ne era ormai un pallido riflesso.
“Io…non potrei perdonarmi di perdere un mio compagno. Non di nuovo”.
Libi annuì, e tornò a guardare davanti a sé, in silenzio. Sapeva bene a cosa si riferiva: l’assalto all’accampamento, le migliaia di feriti e di morti, e poi la morte di Serdna. Tutto questo dolore aveva segnato il ragazzo, che avrebbe fatto di tutto per salvare la vita della giovane in bilico tra la vita e la morte, che scivolava sempre più verso quest’ultima. Forse aveva giudicato troppo in fretta l’interesse di Andres nei confronti di Emma; era stata in grado solo di vederla come una rivale, mai come una compagna. E non aveva considerato il fatto che mai Andres avrebbe lasciato indietro un compagno.
“Riesci a capirmi sempre” disse Andres, asciugandosi con una mano il sudore sulla fronte.
“Che intendi?”.
“Hai capito che nessuna parola mi avrebbe fatto stare meglio e sei rimasta in silenzio. Mi conosci meglio di chiunque altro, anche se in questo periodo ti ho avvertito distante” rispose Andres, evitando di guardarla negli occhi.
“Sei mio amico, mio compagno, e ti am…miro, ti ammiro molto” disse Libi, correggendosi all’ultimo. “E’normale che ti capisca, che ti conosca. Non dovresti sorprenderti di questo”.
“Hai ragione, a volte dimentico che intorno a me ci sono persone che mi vogliono bene, e che mi stanno accanto nel momento del bisogno” rispose Andres, per poi rivolgere l’attenzione verso lo strano tempio che si ergeva ora a qualche passo da loro.
Numerosi pilastri bianchi erano disposti in tondo a poca distanza l’uno dall’altro, e dentro si ripeteva concentricamente la stessa costruzione. Quei massi bianchi svettavano, e costituivano una sorta di parete inviolabile. Dj li condusse all’interno, e si ritrovarono di fronte al secondo cerchio. Un sacerdote piuttosto giovane dai capelli biondo cenere li accolse dopo aver abbracciato Dj. “Braco!” esclamò quest’ultimo, esplodendo in una risata gioiosa.
“Quanto tempo!”
“Lo so…diciamo che ho avuto qualche problema in questo periodo” disse il mago, sciogliendo l’abbraccio e indicandogli poi con lo sguardo i suoi compagni. “Vorrei tanto parlare dei vecchi tempi, ma…abbiamo bisogno urgentemente di avere un’udienza con i sette saggi”
“Vi stanno aspettando” disse l’iniziato ai voti, suscitando sorpresa in tutti.
“I venti non falliscono mai” aggiunse con aria imperscrutabile, parlando poi in una lingua sconosciuta che risultò incomprensibile a tutti, tranne a Dj che lo fissava e annuiva di tanto in tanto.
“Allora, che ha detto?” gli chiese Andres, avvicinandosi al compagno.
“Non ne ho la più pallida idea. Qualche invocazione agli dei, forse…tu annuisci e basta” bisbigliò il mago, fingendo un interesse nelle parole per lui prive di significato di Braco.
“Ma tu…”
“Io so fingere bene, Braco pensa che conosca questa noiosa lingua antica solo perché sono un mago, e noi maghi teoricamente dovremmo studiarla, ma…diciamo che con quei libri facevo altro” si difese Dj, ricordando i meravigliosi areoplanini di carta, costruiti con le pagine di quei libroni noiosissimi, che si divertiva a far levitare sul palmo delle mano.
“Non è bello ingannare gli amici”.
“Non mi fare prediche per favore…prova tu a parlare quella lingua, senza addormentarti sul dizionario o senza sembrare una scimmia rabbiosa”.
“Bene, Braco, illuminante come sempre, amico” esclamò poi ad alta voce , dando una pacca all’amico, che indossava una tunica grigio scuro, segno che ancora era un novizio.
Braco fu piuttosto soddisfatto della reazione, quindi li guidò dentro il secondo cerchio, attraverso due pilastri. Alcuni sacerdoti più anziani facevano da custodi, ma sembravano piuttosto tranquilli. Come aveva detto prima il mago, non temevano alcun attacco. Quel luogo era sacro, e violarlo avrebbe significato inimicarsi tutto il Paese delle Meraviglie. Un altro sacerdote li fermò dentro il quarto cerchio, pronti a varcare l’ultimo, rivolgendo una domanda al novizio, sempre in quella lingua sconosciuta. Braco disse qualcosa, e mostrò una sorta di lasciapassare, una girandola dorata, che portava al collo.
“Potete andare. Sono pronti a ricevervi” gli disse sorridendo velatamente, e facendogli cenno di passare tra i due pilastri, posti a distanza talmente ravvicinata da impedire una visuale completa di quello che vi era all’interno, se non un piccolo sprazzo di verde e azzurro.
“Broadway, rimani qui insieme ad Emma. Ci pensiamo noi”
Il ragazzo dalla pelle scura annuì poco convinto, ma poi accettò la decisione del capo. Nel frattempo il resto del gruppo aveva iniziato a percorrere lo stretto passaggio, fino a sbucare al centro di quel mastodontico complesso. Sette troni intagliati in pietra erano disposti in cerchio, poggiati sul prato, e al centro vi era una statua in pietra, con tre figure: un uomo reggeva in mano una clessidra di vetro, affiancato alla sua sinistra da una donna, il cui volto era coperto da un velo, e alla sua destra da un anziano che si reggeva a malapena su un bastone. “Gli Dei Bianchi” spiegò con poco interesse il mago, rivolgendo la sua attenzione invece alle sette figure incappucciate, che sedevano sui troni.
“Sappiamo qual è il vostro dubbio”
“Sappiamo che cosa cercate”
“Sappiamo chi siete”
“Sappiamo dove andrete”
“Sappiamo da dove venite”
“Sappiamo che cosa desiderate”
“Sappiamo quando morirete”
Ognuno dei saggi parlò con voce cavernosa, e quando finiva uno, subito interveniva l’altro, come se costituissero una sola voce. Libi rabbrividì, e cercò di scrollarsi di dosso il braccio di Maxi, che sembrava terrorizzato. In alto il cielo rispendeva di un azzurro intenso, ma non appena i sette saggi ebbero iniziato a parlare subito delle cupe nuvole avevano offuscato la brillantezza del sole.
“Siamo qui per salvare una ragazza innocente, vittima di un veleno che questa stessa terra ha generato” parlò con voce grave Dj. Tutti lo fissarono: era così serio nelle sue vesti da mago, forse perché sapeva di trovarsi al cospetto delle più grandi autorità nel Regno di Fiori.
“Innocente? Sai cos’è l’innocenza, giovane mago?” disse l’anziano vicino all’ingresso.
“L’innocenza vive all’interno di un individuo. Conosci l’animo di quella ragazza?” disse l’altro, seduto alla sua destra.
Dj scosse il capo: “No, io…”
“Lasciatela morire. Il suo destino è segnato. E’ stato segnato nella notte dei tempi, e per lei una morte atroce è stata prevista fin dall’inizio” gracchiò quello alla sinistra.
“Non lascerò morire un compagno!” gridò Andres, cominciando ad innervosirsi per il modo in cui erano trattati. Invece di aiutarli, mossi da compassione, si comportavano come degli egoisti superbi. Se erano questi i sacerdoti dei Dei Bianchi, allora non ne valeva la pena.
“Stai zitto, sciocco. Non osare metterti contro qualcosa più grande di te” tuonò un altro anziano.
Dj gli diede una botta con il braccio per non farlo ribattere: “Non vorrei che le persone da salvare divenissero due. Stai zitto e lascia parlare me”. Glielo disse tra i denti, quindi si rivolse verso gli anziani e schiarì la voce avvicinandosi alla statua.
“Signori. La nostra missione è delicata, e gli stessi Dei Bianchi ci hanno concesso il favore di arrivare fin qui sani e salvi. I pericoli che abbiamo superato sono stati tanti”.
“Lui non ha superato proprio un bel niente. Abbiamo fatto tutto da soli” sbottò a bassa voce Libi, beccandosi una gomitata di Maxi, che invece ascoltava silenziosamente.
“Ma adesso siamo di fronte ad una dura prova, e per superarla abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile. Ricordate, anziani, il vostro giuramento. Servire i più deboli, coloro che hanno smarrito il cammino della fede, e coloro che hanno bisogno di un aiuto divino, di speranza. Non pensate sia il caso di prestare fede al vostro giuramento?” disse Dj, guardando gli anziani uno ad uno. Non poteva leggere le loro espressioni a causa dei cappucci, ma era sicuro di aver colto nel segno. Sentiva uno strano brusio provenire dai saggi, che discutevano sul da farsi.
“Sei saggio, giovane mago…anche se non sei all’altezza ancora del nome che porti”
“Sono solo un apprendista”. Abbozzò un sorriso, e tornò vicino ai suoi compagni.
Uno degli anziani si mise in piedi e alzò le mani al cielo: “E sia. Avrete ciò per cui siete venuti. La medicina che vi serve è una pianta che cresce a sette leghe da qui; in due giorni al massimo arriverete a destinazion. Noi vi daremo ogni indicazione necessaria per trovarla. Portatela qui e vi prepareremo la cura”.
“Due giorni di viaggio?! Ci metteremo quattro giorni in tutto per avere la medicina. Non ce la faremo mai, per quel giorno Emma sarà morta” disse Libi, preoccupata. Andres strinse i pugni, cercando di soffocare la rabbia provocata dall’impotenza: “Non c’è un altro modo? Non è possibile procurarsi questa pianta da qualche altra parte?”.
Il sacerdote fece un cenno di diniego con la testa: “Mi dispiace, non ci sono altre soluzioni”.
“Ma allora Emma è spacciata!” esclamò Maxi.
“Non è detto” disse un altro anziano.
“Non possiamo certo volare!” strillò Libi, stanca di tutti quei giri di parole, senza arrivare a qualcosa di concreto.
“Avete solo bisogno di più tempo” mormorò l’anziano.
Dj sgranò gli occhi, rabbrividendo, e guardò verso la statua. La clessidra piena di sabbia al suo interno si era lentamente ribaltata e la sabbia scendeva inesorabile. Ne aveva sentito parlare, ma non pensava che avrebbe dovuto affrontarla.
I suoi compagni lo guardavano interrogativi, ma non ricevettero altro che uno sguardo terrorizzato.
“Dobbiamo…dobbiamo sfidare il Tempo”.
Una lotta contro il Tempo in piena regola, nel vero senso della parola. 












NOTA AUTORE: un capitolo pieno di novità, questo. Eccomi, e scusate il ritardo, ovviamente. Ho avuto un po' di problemi, e questo capitolo lo commento in fretta, anche perchè voglio sentire i vostri di pareri xD Riassumendo: non abbiamo solo Broadway che fa il doppio gioco, ma anche Federico, che rischia anche con la vita. Fa da informatore ed è suo compito far infiltrare il gruppo capitanato da Andres. Ed è anche palese il suo amore per Fran, pieno anche di rimorso per come è ridotta la poverina, anche a causa sua. Ma anche il suo personaggio verrà fuori meglio più in là :3 Nel frattempo sente un pezzo di conversazione interessante dei due cavaliere di ritorno dall'incontro con Broadway (ovviamente sono passati alcuni giorni xD). E viene fuori indirettamente la figura di Luca, personaggio che comunque avremo occasione di conoscere direttamente ù.ù 
Nel frattempo i nostri eroi cercano una cura per Emma e si imbattono al cospetto dei Sacerdoti, che alla fine accettano di aiutarli, ma...non il tempo non basta! Ed è allora che il capitolo finisce con questo atroce dubbio che vi lascio: in cosa consiste questa lotta contro il Tempo? Lo scopriremo nel prossimo capitolo, sicuramente :P Nel frattempo, ringrazio tutti per il grande aiuto e l'appoggio che mi fornite con le vostre splendide recensioni (ad alcune non ho potuto rispondere, ma intendo farlo al più presto), e niente...grazie di tutto, davvero :D Buona lettura e alla prossima!
syontai :D 

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Capitolo 27
*** Intrappolati nel Tempo ***





Capitolo 27

Intrappolati nel Tempo

I saggi erano in piedi e osservavano la statua senza muovere un passo. “Portate l’occorrente per il rito” disse uno. In pochi minuti entrarono alcuni novizi, tra cui Braco, tutto compreso nel suo compito. Reggevano dei calici dorati, con dentro un liquido violastro. Quattro calici per quattro sfidanti.
“Una volta bevuta la pozione sacra entrerete in contatto con il Dio Tempo” spiegò uno dei novizi, visibilmente emozionato. Doveva essere la prima volta che gli veniva affidato quel compito, e infatti la mano con cui reggeva la base del calice gli tremava incessantemente. “Una sorta di crisi mistica insomma” sdrammatizzò Maxi, beccandosi un’occhiataccia da Dj e tutti i sacerdoti.
“Questa è roba seria, si tratta di sfidare il Tempo, non bazzecole, e nemmeno fesserie. Sono sacerdoti e fidati che quella disgustosa pozione sarà l’ultimo dei tuoi pensieri, una volta al suo cospetto” deglutì il mago, ricordando tutti i racconti di maghi invecchiati prematuramente fino alla morte, o intrappolati in un luogo a vivere continuamente gli stessi eventi. E quelle erano solo alcune delle punizioni per chi provava a sfidare il tempo, fallendo miseramente.
“Alla salute” disse velocemente Andres, strappando il calice d’argento dalla mano di Braco, che lo fissò scandalizzato dopo aver guardato con aria sorpresa i saggi. Andres, osservò la superficie di quella pozione incresparsi ad ogni piccolo movimento. Aveva uno strano odore sgradevole, che avrebbe potuto benissimo assimilare alle fogne di una città, ma dopo aver fatto un respiro profondo bevve tutto in un sorso. Dj, Libi e Maxi con le dovute premure nei confronti del rito, a differenza del capo, presero in mano i loro calici, e dopo aver pronunciato una sorta di giuramento bevvero lentamente. Le nuvole nel frattempo si erano addensate proprio sopra le loro teste, e li minacciavano vorticando; una scossa invisibile attraversò il terreno, per poi concentrarsi al centro, sgretolando lentamente la pietra. Andres sentì la testa farsi pesante, quindi svenne, sotto lo sguardo incredulo dei compagni. “Lo hanno avvelenato!”. Sentì solo Maxi pronunciare quelle parole, prima di addormentarsi profondamente. Subito dopo anche Libi crollò, chiudendo gli occhi, e accasciandosi a terra. Maxi cercò con lo sguardo Dj, e lo vide particolarmente preoccupato; chiuse gli occhi e si stese a terra, aspettando che il sonno prendesse anche lui.
“Che sta succedendo Dj? Dj, rispondimi!” strillò il ragazzo, mentre i novizi abbassarono il loro cappuccio, rifiutandosi di intervenire in alcun modo: quello era un rito sacro e ogni intervento impuro avrebbe mandato tutto a monte. Il mago aveva chiuso gli occhi, mentre il suo respiro era rallentato, e respirava tranquillamente. Avvolto dalla fresca erba, sembrava addirittura un’immagine paradisiaca, ma Maxi non vedeva nulla di bello, nulla di divino in tutto ciò. Provava solo paura, si sentiva solo, e privo di una qualsiasi certezza. Aveva già provato quelle sensazioni, aveva imparato a conviverci prima di conoscere Andres e gli altri. Ma adesso non voleva rimanere solo di nuovo, e perdere coloro che amava. Si inginocchio ai piedi di Andres, e lo scosse piano, sperando di svegliarlo.
“Andres, Andres! Andiamocene di qui, svegliati!” continuò, scuotendolo sempre di più, fino a strattonarlo con forza. Il giovane però non muoveva un muscolo, e si lasciava agitare come una bambola di pezza priva di vita. Le palpebre si appesantirono, non riusciva più a rialzarsi a causa di quell’improvvisa spossatezza. E come se una fune lo trattenesse a terra, si adagiò piano sul terreno, chiudendo gli occhi. L’ultima cosa che vide prima dell’oscurità fu lo sguardo dei saggi puntato su di loro, e le mani alzate al cielo. Sembrava un saluto, forse un segno di speranza. O forse semplicemente un addio.
 
Non avrebbe mai pensato che potesse esistere tanta luce, più di quella emanata dal sole. Eppure quando aprì gli occhi, dovette richiuderli subito, rischiando di finire accecato. Il corpo era leggero, sembrava levitare, e in effetti si rese conto che non sentiva il terreno sotto i piedi. Socchiuse gli occhi, quel tanto per capire dove si trovasse, e si trovò di fronte a un uomo di mezz’età, che sorrideva furbo. Sedeva su uno scranno d’oro, e teneva in mano una clessidra dorata. Alla sua destra una donna coperta da un velo che frusciava come mosso dal vento, appoggiava la mano sulla spalla dell’uomo, perfettamente a suo agio. Un vecchio che sbatacchiava un bastone ritorto invece lo squadrava da capo a piedi.
“Tocca a me stavolta” disse il vecchio, ghignando, e mostrando i denti giallognoli.
“Passato, ti sei già occupato della ragazza e del mago” gli ricordò l’uomo, fissando la sua clessidra, e quindi rivolgendosi al giovane appena arrivato. “Benvenuto ragazzo, io sono il Tempo” mormorò appena con un sorriso enigmatico. Era perfettamente uguale alla statua che lo rappresentava nel tempio. Finalmente Maxi riuscì ad adattarsi a quella luce fortissima, e capì di trovarsi in mezzo al nulla. Tutto intorno c’era solo luce, sfavillante e calorosa, che lo avvolgeva come una coperta, e allo stesso gli dava idea di libertà. L’unico oggetto materiale in quella sorta di luogo al di fuori dello spazio era proprio il trono dorato su cui il Tempo sedeva imperioso.
“Sei anche tu qui per sfidarmi?” sibilò l’uomo, mentre un lampo d’ira percorreva i suoi occhi di un limpido blu notte. La clessidra iniziò a scorrere più velocemente, adattandosi all’umore del suo possessore.
“Io…dove sono gli altri?” chiese Maxi, guardandosi intorno a vuoto. Non c’era nessuna traccia di Dj, Libi e Andres.
“Stanno già affrontando la sfida” rise l’uomo, convinto fin da subito della sua vittoria. In pochi avevano osato sfidare il Tempo e quasi nessuno era riuscito nell’impresa. Odiava che qualcuno mettesse in dubbio il suo essere divino e le sue leggi inoppugnabili, e per queste proponeva sfide sempre più complesse e pericolose. Chi sopravviveva rischiava seriamente la follia, e passava la propria vita tormentato da terribili visioni, che avevano a che fare con il periodo trascorso nel Regno eterno del Tempo.
“Devo raggiungerli”
“Non puoi. Ognuno è coinvolto nella sua scommessa, e non accetto intromissioni di alcun tipo. E adesso ti domando nuovamente: perché sei qui?”
“Per sfidarti” rispose infine Maxi, trattenendo il fiato. Il ghigno dell’uomo si deformò in un infernale ringhio e strinse ancora di più la clessidra che teneva in mano.
“Bene” rispose freddamente, lanciando un’occhiata ai suoi due compagni. La donna al suo fianco, sorrise attraverso il velo candido, e rivolse uno sguardo fugace piuttosto rigido al vecchio, che invece sbuffava violentemente, ben sapendo come sarebbe andata a finire. Avrebbe sicuramente affidato a lei il compito di mettere alla prova quel giovane, e la cosa lo innervosiva parecchio. “Futuro, pensaci tu” soffiò appena il Tempo, scuotendo i capelli castani dorati, e lisciando le pieghe di un mantello trasparente come l’acqua. La donna sorrise euforica, mentre lentamente si toglieva il velo davanti: una bellissima ragazza dai lisci capelli rosso fuoco, e gli occhi di un verde smeraldo, si allontanò dal trono, avvicinandosi al ragazzo. Lo studiò attentamente, girandogli intorno.
“Ho il futuro adatto a lui” esclamò infine, cercando l’approvazione del Dio Tempo. Una volta ottenuta, il suo sorrisetto malizioso si allargò, e mosse le mani avanti a lui, formando degli strani cerchi. Maxi sentì i piedi poggiare a terra, anche se terra non c’era, il corpo era nuovamente pesante, la luce si affievolì finendo quasi per svanire, lasciando spazio a un campo di battaglia immerso nel crepuscolo. I raggi rossastri tingevano di sangue i corpi già privi di vita lungo quella piana, e i famosi Dei che prima lo avevano accolto si erano misteriosamente dissolti nell’aria, lasciandolo lì, da solo. Nel cielo apparve un’enorme clessidra dorata, che scorreva lenta e inesorabile.
“Benvenuto nel futuro” la voce tonante del Tempo risuonò nell’aria tutt’intorno. “Tutto ciò che vedrai accadrà veramente. Nessun inganno, nessuna frode, sarà tutto vero, parola di Dio. Cerca la porta di rame in questi luoghi e ritorna al punto di partenza. Per trovarla questo è il mio unico aiuto.
‘La porta è vermiglia,
allo specchio somiglia;
la morte l’abbraccia,
e l’occhio la scaccia.
Tre ore avrai,
o subir la punizione dovrai’
Buona fortuna”. Una risata diabolica lo frastornò completamente, prima di rimanere solo, solo con i suoi pensieri in quella piana, dove non vi era dubbio che nei paraggi si dovesse trovare la porta. Perché quel luogo sembrava essere l’Inferno riemerso sulla terra. E lì la morte imperversava sovrana, beandosi delle sue vittime.
 
Libi correva, lontano da quei ricordi che la facevano soffrire. Poteva ancora avvertire l’alito pesante del vecchio che l’aveva guardata con odio prima di farla sprofondare nell’oblio. “Rivivrai ciò che più temi” le aveva detto con aria saggia e crudele allo stesso tempo. Si portò le mani alle orecchie, nell’estremo tentativo di non udire ancora quella voce rimbombante. Non aveva ancora trovato quella maledetta porta, e il tempo scorreva inesorabile. La sua clessidra splendeva nel cielo e ormai più della meta della sabbia era scesa, ma ancora nessuna via di uscita. Avanzava tra le macerie.
‘Nel paese che hai lasciato,
troverai quel che hai dimenticato.
Se la porta vorrai trovare,
la lacrima saprai consolare.
E passato, presente insieme,
ti daranno l’oggetto di tanta speme’
Queste erano state le parole del Tempo. Non capiva a cosa si riferisse: lacrime, passato, presente…riusciva solo a vedere le rovine del villaggio dove aveva sempre vissuto prima dell’assalto delle truppe di Quadri al confine del Regno. I fumi maleodoranti e stordenti si fondevano con il cupo nero delle case bruciate. I passi suonavano sordi su quel terreno ormai arido, e la polvere si alzava continuamente, diffondendosi insieme all’odore di cenere. Gli occhi le pizzicavano, e la lingua le si era incollata al palato, mentre la gola andava a fuoco. Doveva uscire da quella via, prima di morire a causa di tutto quel fumo. Quando finalmente riuscì a intravedere la piana spoglia fuori dal villaggio, poco lontano scorse una figura minuta, che guardava nella sua direzione. Libi si bloccò, riconoscendo l’arco che portava a tracolla. Si vide riflessa nei suoi stessi occhi, e per poco non le scappò un urlo di stupore. Una Libi più giovane, di circa sedici anni, osservava quello che un tempo era la sua casa con le lacrime agli occhi; velocemente si passava la manica della maglia, strofinandosi il viso.
Ricordava perfettamente ogni singolo istante di quel giorno: era stata mandata a caccia dai genitori nella foresta, e quando era tornata del ridente villaggio dove viveva non era rimasta che cenere. Nessun reduce, solo morti e prigionieri. Mentre alla madre era stata riservata il primo di quei crudeli trattamenti, il padre era scomparso. Probabilmente era stato catturato, oppure semplicemente era fuggito. Chissà se lo avrebbe mai rivisto; anche adesso se lo chiedeva, mentre si inginocchiava di fronte alla ragazza, che era rimasta immobile a contemplare quell’orrendo spettacolo.
“Non piangere” soffiò lentamente all’orecchio del fantasma del suo passato, mentre si piegava in ginocchio e lo abbracciava. La ragazzina sembrava non accorgersi della sua presenza, e anzi, si scostò piano, come se avvertisse una presenza spiacevole.
“Lo troveremo” cercò di rassicurarla, ma le sue parole non erano udite. Una sottile membrana invisibile le relegava in due dimensioni completamente diverse. E poi apparve lui. Il suo salvatore, il suo eroe. A passi lenti un ragazzo con una cicatrice lungo la guancia si era avvicinato alla Libi del passato, avvolgendole le spalle con un braccio. Era accompagnato da Serdna, che continuava ad aggiustarsi gli occhiali imperterrito.
“Tutto bene, ragazzina?” le chiese con un tono pacato e dolce allo stesso tempo. Quei ricordi le spezzavano ancora di più il cuore. Ancora piegata sulle ginocchia osservava da lontana spettatrice se stessa che tanti anni fa decise di entrare a far parte dei rivoluzionari. Ma non doveva, né voleva, illudersi: quell’Andres nel presente non esisteva più; il forte desiderio di proteggere tutti che gli faceva brillare gli occhi era rimasto, ma della sua dolcezza, del suo essere affettuoso, non c’era più nulla.
“Come mai non parli?” domandò nuovamente, accarezzandole piano i capelli. “Non vedi che è scioccata?” lo riprese severamente il fratello indicando le macerie del villaggio. Andres annuì in silenzio, e prese una mela dallo zaino di viaggio.
“Prendi” le disse, facendo scivolare il frutto nella mano sporca di terra della ragazza. Libi li guardava da lontano e sentiva le mani tremargli, con il resto del corpo. Di lì a poco sarebbero entrati nel villaggio alla ricerca della sua casa per poi scoprire il cadavere della madre. Quello era il segno della svolta: da ragazzina sarebbe diventata donna, con tutti i suoi dolori e le sue consapevolezze. Sentì una forte fitta allo stomaco. Le lacrime si accumulavano insieme, e per quanto cercasse di trattenerle uscivano senza controllo. Forse erano quelle le lacrime da consolare, ma cosa avrebbe potuto aiutarla a riemergere da quell’abisso di tristezza? Alzò lo sguardo e si ritrovò di fronte ad Andres. Erano fermi uno di fronte all’altro, e per quanto lui non la vedesse sembrava studiarla attentamente. Che avvertisse la sua presenza? No, doveva essere una qualche illusione che si era fatta, o forse qualche inganno del Tempo per farle perdere la sfida…ma in che modo? Andres sorrise tra sé e sé, e continuò, passandole attraverso. Le loro labbra quasi si sfiorarono, e Libi ne sentì il gelo, ma poi tutto finì improvvisamente così come era iniziato. I tre si erano diretti lungo la via da cui lei era fuggita. Avrebbe voluto seguirli, ma una vocina le diceva di non farlo: avrebbe perso inutilmente tempo, mentre doveva cercare la porta. Il Tempo stava facendo di tutto per cercare di distoglierla dal suo obiettivo, ma non ci sarebbe riuscito, perché lei ci teneva alla sua missione. E il passato rimaneva tale, ciò che voleva davvero scoprire era il presente e il futuro. Cominciò a correre, mentre si asciugava le lacrime che le rigavano il viso, e un sorriso di sfida si dipinse sul suo volto.
“Dove sei, Tempo, adesso?” domandò orgogliosa, inoltrandosi nel folto di un boschetto, quello in cui era stata mandata a caccia il giorno dell’assalto. Aveva superato la sua sfida, era riuscita a chiudere di netto quel capitolo. Non si era lasciata tentare dal rivivere quel dolore, ed era andata avanti. Emma aveva bisogno di lei, e questo era ciò che più contava. Poco dopo però l’euforia lasciò il posto ad un ben più reale problema: era riuscita a consolare la famosa lacrima…ma come mai della porta non c’era alcuna traccia? Passato e presente fusi insieme: che cosa intendeva dire il Tempo con quelle enigmatiche parole? Passato…presente…Andres! Era tutta convinta di dover fuggire da quei ricordi per risolvere l’indovinello, e invece aveva fatto esattamente il contrario. “Maledizione!” strillò nel bel mezzo della foresta. Si voltò indietro sui suoi passi e cominciò a correre. Aveva fatto il gioco del Tempo, si era lasciata manovrare, e adesso la sabbia nella clessidra era quasi tutta scesa. Appena fuori dal limitare del bosco, rivide il villaggio distrutto. Rallentò il passo con il fiato corto, con l’occhio continuamente rivolto verso l’alto. Le restava pochissimo tempo…Tagliando per varie piccole vie pregò che non fossero ancora andati via. Non sapeva perché ma sentiva che Andres era la chiave per quell’enigma.
Sfiorò le pareti annerite della casa, mentre Andres, cingeva le spalle della Libi del passato. “Non ti lasceremo da sola, non preoccuparti” le disse, ricercando l’approvazione del fratello, che annuì senza pensarci due volte.
“Ci prenderemo noi cura di te” aggiunse Serdna, piegandosi in ginocchio, e coprendo con un bianco telo polveroso il corpo della madre della ragazza. Libi si avvicinò nel tentativo di imprimere nella mente ancora una volta i tratti del volto della donna, ma poi si ritrasse finendo spalle al muro. Si sentiva continuamente messa alla prova e rischiava di impazzire. “Andres…” balbettò lasciandosi cadere a terra. Il suo passato, il suo presente…Andres per lei rappresentava tutto: era stata la sua salvezza, era lui che l’aveva strappata ad una vita solitaria passata nell’odio e nel dolore. Piegò le ginocchia al petto, e cominciò a singhiozzare senza riuscire a trattenere le lacrime. Aveva davvero perso? Era tutto finito? La sabbia di lì a poco sarebbe scesa del tutto, e avrebbe perso la sfida. Affondò sempre di più il viso sulle ginocchia, volendo sprofondare, e piangeva. Piangeva, mostrando tutto il dolore che si era tenuto dentro. Alzò di poco lo sguardo e vide una mano tesa. Andres la stava aiutando, con un sorriso distaccato e rassicurante allo stesso modo. Ma non era il vero Andres, era quello del passato. Tutto intorno si era fermato, il tempo si era congelato.
“Libi…” la chiamo piano, facendole cenno di afferrare quella mano. Libi fu tentata di afferrarla, di farsi salvare ancora una volta, eppure temeva si trattasse di una trappola, una crudele trappola ordita dal Tempo per farla fallire. Forse rifiutando quell’aiuto, avrebbe trovato la porta…se fosse quella la vera prova che era tenuta a superare? La sua mano era a metà strada, e Andres continuava a sorridere. Passato e presente insieme…passato e presente insieme. In passato Andres l’aveva salvata, più di una volta, cosa avrebbe dovuto impedirgli di essere nuovamente la chiave della sua salvezza? Afferrò la mano con forza e si alzò in piedi, finendo tra le sue braccia.
“Brava” sussurrò il ragazzo, trasmettendole tutto il suo calore. La scostò piano da sé, e lentamente tramutò le proprie sembianze: le braccia si ersero a formare un arco acuto, divenendo nere come l’ebano. Il suo corpo si deformò, gonfiandosi e appiattendosi, mentre i piedi scomparivano fondendosi col terreno. Dove un secondo prima c’era Andres adesso si ergeva una porta, dello stesso colore della fuliggine. Libi si avvicinò e girò il pomello della porta. La socchiuse appena e una luce accecante, investì la stanza. Alzò un braccio per cercare di proteggere gli occhi, e avanzò senza esitare. In quello stesso istante l’ultimo granello dorato della clessidra scese disperdendosi tra i suoi simili.
 
“Non ce la farò mai!” si lamentò Dj, sbuffando. Era in una stanza che odorava di muffa, e ogni parete di quelle quattro mura, aveva ripiani su ripiani di libri vecchi e polverosi. Seduto su un piccolo sgabello osservava con un accenno di disgusto quella pila di libri appoggiata sul tavolo che il padre gli aveva ordinato di leggere, chiudendo poi a chiave lo studio. Passato aveva deciso di divertirsi, e così l’aveva scaraventato nel passato, costringendolo però a fare ciò che più odiava: studiare la magia.
‘Chi saggezza ha perso,
ritrovi il senso di un intelletto terso.
E se un libro non vorrai sfogliare,
dalla porta ti potrai solo allontanare.
Se capirai che studiare fa bene,
la chiave ti scorrerà nelle vene’
“Non potevano chiederlo a quel salame di Maxi?” sbuffò nuovamente aprendo il primo libro, un tomo di almeno centomila pagine. “E qualcuno mi spieghi come faccio in così poco tempo e consultare tutti questi libroni!”. Rischiava di buttare tutto all’aria dopo la prima pagina, figurarsi studiare tutta quella roba! Si allontanò dal tavolino, massaggiandosi le tempie, e si alzò di scatto, sollevando un nuvolone di polvere. “Eh, no, devo andarmene di qui!” esclamò, avvicinandosi alla porta. Schioccò le dita, e una nuvola azzurrina avvolse la porta. Spinse sul pomello, convinto che si sarebbe  aperta, e invece si ritrovò schiacciato contro il legno. Fece leva con sempre più forza, cercando addirittura di dare delle spallate alla porta, ma niente di niente. Non si era smossa di un millimetro, non aveva dato alcun segno di cedimento. “Oh, ma andiamo! Non funzionano nemmeno gli incantesimi!” strillò spazientito. Il bello della magia era che riusciva ad evitargli un sacco di problemi, che gli dava la possibilità di una scorciatoia, eppure in questo momento non poteva non odiarla, poiché era stata anche la causa dei suoi problemi. Alzò lo sguardo verso il soffitto alla ricerca di una finestra, ma la stanza era illuminata unicamente da un modesto candelabro di ferro con delle candele.
“D’accordo, ho imparato la lezione, è bello studiare!” esclamò rivolgendosi ad un ipotetico interlocutore invisibile. Ma che diavolo andava ad inventare, non ci credeva nemmeno lui! Fece un respiro profondo e si rimise seduto, riprendendo il libro. Subito starnutì, a causa dell’eccessiva polvere e dell’odore che gli pizzicava il naso. Dopo dieci minuti aveva finito a mala pena la seconda pagina, e si era già stufato. Mancavano ancora altri novecento libri dopo quello. I nervi gli stavano esplodendo, ma cercò di mantenere la calma. Quella stupida chiave di cui aveva bisogno non appariva ancora scritta, e buttò all’aria l’enorme libro che cadde rumorosamente, per poi prenderne un altro. Anche il secondo non diceva nulla di interessante, sebbene lo scorresse fin troppo velocemente, e avrebbe potuto benissimo essergli sfuggito qualcosa. Aveva troppo fretta per fare un secondo controllo, quindi prese il terzo libro, sperando che fosse la volta buona. Di nuovo niente di niente. Alzò lo sguardo e vide la sua clessidra segnare sempre meno tempo a disposizione: poco più di un’ora. Adesso si che era rovinato. Scaraventò per terra anche quella lettura, in preda ad una vera e propria crisi di nervi, mista ad un senso di fallimento. Che grande mago da quattro soldi che era! O meglio, apprendista. Lui che aveva più possibilità degli altri nel vincere la sfida era stato messo in trappola, sommerso da ciò che più odiava. Aveva un fortissimo desiderio di incendiare tutto in un colpo, e un sorriso perverso si disegnò sul suo volto al solo pensare all’enorme falò che avrebbe potuto creare. “No, devo studiare! Studiare!” si ripeté con un groppo in gola, più per la disperazione che per reale convinzione. Ma il tempo scorreva inesorabile, e il suo cervello era troppo fuso per mettersi all’opera. Eppure era certo che nessun mago, per quanto saggio e studioso, sarebbe riuscito a sfogliare tutte quella pagine per memorizzare ogni possibile soluzione al suo problema in poco tempo, quindi doveva esserci sotto un trucco, il Tempo non poteva giocare un colpo basso imponendo una sfida che non poteva essere obiettivamente vinta. Impossibile certo, ma non infattibile. “C’è una scorciatoia, vero?” si disse tra sé e sé con un piccolo ghigno: se c’era un modo per risparmiarsi quel supplizio lui certamente l’avrebbe trovato, era un vero e proprio esperto in quel genere di cose. Aveva solo bisogno di un’idea, e alla svelta.
‘Dj dondolava allegramente, in sella ad un manico di scopa magicamente sospeso a mezz’aria. “Dj, hai finito i tuoi compiti?” lo riprese una voce severa, che quasi non lo fece cadere per terra. “Papà, non c’è niente di più divertente di quelle stupide formule?” si lagnò facendo un rapido occhiolino e atterrando dolcemente.
“Quante volte ti ho detto che quelle formule sono essenziali per la tua formazione di mago? Oppure preferisci trasformarti in una capra invece di scagliare un fulmine?” lo fulminò il padre con lo sguardo, consegnandogli una pergamena piena si strani simboli e ghirigori.
“Le capre sono divertenti!” esclamò con un sorriso sornione, stringendo nella mano quella pergamena, a cui rivolgeva di tanto in tanto un’occhiata di disprezzo.
“Figliolo, dovresti prendere più sul serio il tuo dono…un giorno potrebbe salvarti la vita. Un mago ben addestrato è in grado di fronteggiare ogni pericolo. Astuzia, saggezza, costanza sono le qualità più importanti, non solo per chi possiede i poteri, ma per qualunque uomo” gli spiegò arruffandogli i capelli con dolcezza.
“Ma studiare è noioso!” si lamentò ancora il piccolo, allontanandosi da quel gesto di affetto paterno con una smorfia.
“Se qualcosa ti risulta noioso, a volte basta guardare tutto da una prospettiva diversa. Cerca il lato divertente in ogni cosa, così ti verrà tutto più facile. E non smetterai di sorridere” concluse il saggio mago, chiudendo la porta della stanza, e lasciando il piccolo Dj lì, da solo, con quella pergamena da studiare, e poca voglia per farlo. “Cosa c’è di divertente in delle macchie d’inchiostro?” si disse scocciato, perché si sentiva raggirato’
“Guardare tutto da una prospettiva diversa…” sussurrò il mago, mentre lentamente si faceva strada una curiosa, folle quanto geniale idea. Si tirò su le maniche della maglia, e cercò di concentrarsi. Chiave, eh? Ne avrebbe avute quante ne voleva di chiavi. Era l’ora di usare un bell’indice di ricerca. Non sapeva se sarebbe stato in grado di gestire così tante fonti, ma non vedeva molte altre alternative.
“Index librorum!” esclamò a bassa voce, serrando i pugni e accumulando tutta la sua energia all’interno di essi. Rilasciò l’energia di botto, e ogni rumore gli arrivò come ovattato. Le orecchie fischiavano, mentre i libri si disponevano ordinatamente intorno a lui, levitando, come per fargli festa. Le pagine scorrevano allegre, sollevando polvere su polvere, ma a Dj non faceva più alcun effetto, talmente era preso da quella magia. Le pupille si erano ridotte a due fessure, i muscoli erano completamente tesi, e sapeva bene che un piccolo attimo di deconcentrazione gli sarebbe costato molto caro. “Index: chiave”. Non appena ebbe finito di pronunciare quella parola, le pagine di tutti i libri scorrevano, e si illuminavano nel momento in cui compariva ‘chiave’ nel testo. “No, questo no…non mi sembra, almeno…” mormorò consultando tutti i testi, e facendo avanti e indietro, senza però abbandonare la concentrazione. Aveva focalizzato la sua ricerca giocando d’azzardo: si era solo affidato al suggerimento che gli aveva dato il Tempo, sperando che la chiave a cui faceva riferimento fosse effettivamente contemplata in uno dei testi lì dentro. Un piccolo libricino che era sommerso in mezzo a tutti qui volumi gli mostrò qualcosa di interessante. “La chiave del Tempo” sussurrò lui con aria furba. Davvero astuto il Tempo…e anche megalomane. “Capisco che è un Dio, ma questa se la poteva anche risparmiare” ridacchiò, prendendo al volo il volume, e lasciando perdere gli altri, che finirono a terra con un frastuono. La Chiave del Tempo, l’incantesimo per fuggire da una trappola temporale, era proprio ciò di cui poteva aver bisogno. “Tempus, hominis vitae dominus, tuam voluntatem exerceo, et tua spelunca habeat mea lux. Tempus deum invoco, et suam clavim peto” recitò solennemente, tendendo il palmo della mano verso l’alto. Una luce scintillante, una boato privo di rumore, e qualcosa di pesante e freddo si depositò sulla mano: una chiave scintillante, di cristallo purissimo. Dj tornò con aria trionfante alla porta chiusa magicamente e infilò il prezioso oggetto nella toppa, per poi girarla. “Dj vince sempre” esclamò allegramente, prima di attraversare il passaggio e tornare dove tutto era iniziato: il limbo dove l’attendeva il Tempo. E sperava che qualcuno avesse già completato la sfida oltre lui.
 
Maxi tremava di fronte alla vista di tutti quei corpi ammassati. “Ragazzi…c’è qualcuno?” implorò con voce flebile, nella speranza di veder spuntare di fronte a lui qualcuno dei suoi compagni. Cercò di rimanere calmo, ma ogni minimo rumore lo faceva sobbalzare. Lo accompagnava costantemente quella minacciosa clessidra in cielo che gli dava ancor più i brividi.
“Andres? Libi? Dj?” chiamò a voce un po’ più alta. Nessuna risposta, se non un corvo che gracchiava malignamente nei paraggi. Per di più non c’era nessuna traccia della porta rossa che l’avrebbe condotto via da quel posto orrendo. Aveva paura di rimanere lì per sempre se non fosse riuscito a trovarla nel tempo stabilito, e visti i racconti del mago a proposito delle strazianti punizioni imposte per chi aveva osato sfidare il Tempo senza uscirne illeso. Scansò con un salto un corpo disteso, dalla testa mozzata. Quello era un campo di battaglia, non c’erano dubbi. Alcuni stendardi stracciati erano a terra, aspettando che il vento li portasse via. Ma neppure un filo di vento soffiava in quella piana infernale. Riconobbe lo stemma di picche, e quello di cuori, e rabbrividì ancora di più al pensiero di quello che poteva essere successo poche ore prima in quello stesso luogo. Una luce in lontananza attirò la sua attenzione e fece per avvicinarsi, mentre il tramonto lasciava presto il posto alla notte. Il freddo gli penetrò le ossa, e sentì uno sbalzo termico spaventoso, ma continuò ad avanzare imperterrito. Quando però raggiunse la fonte di luce, si fermò di colpo impietrito. Ai suoi piedi giacevano due corpi, riversi uno sopra l’altro: uno era di un giovane dagli occhi verdi spalancati e un’espressione a metà tra lo stupito e l’inorridito. Aveva una profonda ferita al petto, che l’aveva condotto alla morte all’istante. Lo riconobbe quasi subito: era il principe di Cuori, quello che aveva ferito durante la battaglia per difendere l’avamposto. Non riusciva a non provare un forte senso di pietà a quella vista, mentre studiava il suo equipaggiamento. Un urlo si fermò in gola quando vide però anche il suo amico Andres con la gola recisa, riverso per terra, e gli occhi rivolti al cielo. Era morto. Maxi si guardò intorno, sperando di vedere qualcuno comparire per dirgli che si trattava di uno scherzo. Quella doveva essere la prova da superare, giusto? ‘Tutto ciò che vedrai accadrà realmente, parola di un Dio’. No, il Tempo gli aveva giurato che sarebbe tutto successo realmente, e la parola di un Dio, per quanto egli sia ingannevole e crudele, non poteva essere messa in dubbio. Ma chi era quell’assassino senza scrupoli che aveva fatto quella strage? Chi aveva vinto la guerra?
Tra i fumi comparve una figura. Maxi capì subito che l’armatura lucente era ciò che l’aveva attirato con il suo scintillio. L’elmo giaceva a terra, sporco di sangue, e una spada macchiata di un rosso brillante era sguainata pronta a colpire. Chi reggeva quella spada in mano era però una creatura dall’aspetto innocente. Una ragazza dai capelli castani, lisci, e smossi dal vento, guardava la scena con apparente distacco, e lo guardò poi negli occhi.
“Puoi vedermi?” mormorò Maxi. La ragazza era la stessa del sogno…ma non poteva essere stata lei a compiere quelle efferatezze, ne era certa. La giovane guerriera non disse nulla, rivolse il suo sguardo verso il principe di Cuori, ai suoi piedi e senza vita. Alzò la spada e con una gioia selvaggia lo infilzò completamente. Il suo odio si manifestava in quel gesto, crudele quanto ignobile. Non aveva pietà nemmeno per un cadavere.
“Smettila” urlò il giovane, cercando di ottenere la sua attenzione. Ma la sua voce si spegneva come una candela martoriata dal vento, e le sue parole erano vane. “Violetta, smettila!” urlò di nuovo, stupendosi di aver pronunciato il suo nome, senza neppure conoscerlo. Eppure era certo che dovesse chiamarsi Violetta...Si ritrasse, riconoscendo l’antica armatura di Alice, indossata dalla ragazza. La sua missione avrebbe portato a tutto quello? Sarebbe successo davvero? L’armatura di Alice sarebbe stata anche la loro condanna? La testa gli scoppiava, mentre sentiva ancora lo sguardo pieno di rancore di Violetta. Violetta avrebbe ucciso uno dei suoi più grandi nemici, ma non solo…avrebbe ucciso anche uno dei suoi più grandi amici. E non riusciva a sopportarlo. 








NOTA AUTORE: E qui sono tutti coinvolti nelle loro sfide! Finale da brividi, tra parentesi! Libi affronta il suo passato, e trova in Andres la chiave per vincere la sfida, mentre Dj riesce ad evitare una vita passata sui libri e vince la sfida giocando d'astuzia, e creando un incantesimo in grado di aiutarlo :P Ma...poi cè il finae...e qui sono cavoli per tutti (detto in modo molto volgare xD). Tempo ha detto che il futuro sarà proprio quello...quindi Violetta ucciderà Andres e Leon? MA TRA PARENTESI (ciò su cui mi focalizzo io da lettore): UCCIDE LEON? Non scherziamo xD Eppure...eppure è proprio così, il Tempo non mente su queste cose...e voi che ne pensate? La connessione tra Maxi e Violetta inoltre è parecchio strana...a cosa sarà dovuto? Ehehehehe, queste domande saranno svelate non prestissimo, in quanto...in quanto...in quanto non vi posso anticipare nulla xD Non aggiungo nulla, lascio a voi l'onere di commentare il capitolo :P Grazie a tutti voi che leggete e recensite, dandomi la grinta giusta per continuare questa strana storia xD Grazie davvero, e alla prossima! :P (Dulcevoz, non mi entrare in ansia...lo so che appena hai visto lo stendardo di picche mi sei entrata in panico per Pablito, che non compare in questa 'visione' xD). Grazie a tutti, e buona lettura! :D 

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Capitolo 28
*** Il Brucaliffo arriva a corte ***





Capitolo 28

Il Brucaliffo arriva a corte

Leon si sentiva parecchio a disagio. Stringere tra le braccia Violetta gli scatenava parecchie emozioni mai provate prima: imbarazzo, incertezza, e anche una fastidiosa sensazione di felicità. Bastava davvero così poco  per sentirsi bene, e si chiese come avesse potuto provare gioia nel tormentare quella creatura che adesso riposava beatamente con la testa appoggiata sul suo petto. Se chiudeva gli occhi poteva avvertire il suo respiro leggero, e quando la sentiva tremare la stringeva più forte, spinto dall’istinto di proteggerla, di farla stare al caldo. Se lei stava bene provava un senso di sollievo, e i muscoli tesi per la tensione si rilassavano di colpo. Le accarezzò piano il braccio, incantandosi nel provare quelle sensazioni. Sfiorava la sua pelle liscia, e in tutta risposta aveva dei brividi intensi. La sentì agitarsi di poco, e avvinghiarsi ancora di più al suo corpo, mugugnando qualcosa. “Papà…” sussurrò lei con un sorriso sereno. A Leon per poco non venne da ridere, ma poi tornò subito serio, e cominciò ad accarezzarle i capelli sempre con un certo timore, come se avesse paura di farle uno sgarbo. Il corpo di Violetta era così fragile e delicato che ogni movimento gli sembrava di troppo, sicuro che l’avrebbe svegliata, quindi cercò di restare il più immobile possibile, rigido come una statua.
“Papà…” chiamò di nuovo la ragazza, aprendo lentamente gli occhi, e incontrando quelli di Leon a pochi centimetri dal suo viso. Solo allora si rese conto di essere avvolta in un intimo abbraccio, il che la fece arrossire bruscamente. Strofinò la guancia sul suo petto, facendola divenire ancora più scarlatta, nel tentativo di divincolarsi educatamente, ma si ritrovò sempre più stretta tra le due braccia.
“Ti sei svegliata” constatò lui con molta naturalezza, anche se il tono di voce tradiva un certo imbarazzo. La liberò dall’abbraccio, e si rese conto che le ragazza era rimasta a fissarlo negli occhi. Passarono alcuni minuti, e Violetta si riscosse dalla fase di trance che aveva raggiunto, per rimanere seduta a letto sconvolta. Se prima aveva avuto i brividi di freddo, adesso sentiva un caldo insopportabile, e le orecchie quasi fumavano. Aveva dormito con Leon, e quel pensiero ricorreva continuamente, perseguitandola. La cosa peggiore è che al suo risveglio si era sentita così in pace, e il suo sguardo le aveva trasmesso talmente tanta dolcezza che non riusciva a non desiderare che la baciasse. Si strofinò il viso assonnato con le mani, e si voltò scandalizzata verso Leon, che la guardava confuso per tutta quell’agitazione.
“E Lena? Ti ha visto? Quanto ho dormito?” chiese a raffica, cominciando a districarsi tra l’ammasso di coperte. Il principe si mise al suo fianco, seduto sul letto, e le cinse piano le spalle con un braccio tentando di rassicurarla. Lo ritrasse subito dopo quando vide che Violetta si era voltata verso di lui, confusa e sconvolta per quel gesto.
“Hai dormito solo un paio di ore, e la tua compagna non ha ancora finito con i suoi compiti a quanto pare, perché non è ancora tornata. Non ci ha visti nessuno”. L’ultima frase l’aveva a mala pena sussurrata, consapevole dell’enorme rischio che stavano correndo. Prima si erano lasciati semplicemente guidare dai travolgenti sentimenti avvertiti in quel labirinto…ma adesso rimaneva solo l’incertezza e un reciproco imbarazzo.  
“Leon...” mormorò Violetta, voltandosi verso di lui, e mordendosi il labbro. Qualcosa era cambiato tra di loro, e non era certa che si trattasse di amore, certo era che non riusciva più a pensare a qualcosa che non avesse a che fare con Leon: i suoi abbracci, i suoi baci, il modo in cui l’aveva salvata. Leon, Leon e ancora Leon…Sentì di nuovo la mano di Leon farsi timidamente avanti lungo la sua schiena, ma questa volta non lo guardò preoccupata, lasciò che percorresse la colonna vertebrale fino a sentire un brivido lungo il collo. La dita calda di Leon si depositarono sulla sua spalla, e sentì il braccio avvolgerla nuovamente, questa volta con un po’ più di sicurezza. Leon si sporse lentamente dandole un candido e casto bacio sulla guancia.
“Questo cosa significa?” chiese con un sorriso timido, abbassando lo sguardo.
“Non saprei dirti nemmeno io cosa significa, ma sentivo il bisogno di farlo. Ho sbagliato?”. Era preoccupato, lo leggeva nei suoi occhi, così limpidi ed espressivi. Poteva essere davvero quello lo stesso Leon che aveva conosciuto appena messo piede nel castello di cuori?
“No. E’ solo che…” si bloccò non appena avvertì il braccio di Leon abbandonarle la schiena, ma poi la sua mano le sfiorò piano la guancia, costringendola a fissarlo dritto negli occhi. Si avvicinò sempre di più, schiudendo lentamente le labbra, e chiudendo gli occhi. Il desiderio che aveva di baciarla era palpabile, ed aveva deciso di trovare il coraggio per agire. Voleva farle capire che aveva intenzione di cambiare al suo fianco. Non avrebbe lasciato che qualcuno gliela strappasse via, o la allontanasse da lei, come invece aveva fatto Lara. Se ripensava a quella serva gli ribolliva il sangue nelle vene. Avrebbe trovato il modo per farle scontare ogni singolo attimo di dolore che aveva patito, ma adesso la sua volontà era diretta a ben altro. Sentiva il respiro scostante della ragazza, e il suo cuore che si agitava frenetico mano a mano che si avvicinava. Affondò piano le labbra nelle sue, e si lasciò coinvolgere dalla loro dolcezza. Le dita le solleticavano il collo sotto l’orecchio, mentre con il pollice accarezzava lentamente la guancia. Prima che potesse anche solo pensare a rendere il bacio più intenso, più passionale, sentì qualcuno bussare, e si scostò di colpo, facendo saettare lo sguardo verso la porta. Violetta, che aveva ancora gli occhi chiusi con un dolce sorriso, li aprì di scatto, e tentò di dire qualcosa, ma il panico le impediva persino di muoversi.
“C-chi è?” balbettò appena, mentre il principe era scattato in piedi atleticamente e aveva afferrato la maglia che era caduta a terra, per poi indossarla in fretta e furia.
“Sono io, Lena!” si lamentò una voce stanca dall’altra parte della porta. Sembrava distrutta, e sentì un colpo che indicava forse il peso che Lena aveva scaricato sul legno.
“Io…non posso aprirti!” esclamò la ragazza, alzandosi e camminando e indietro, mangiandosi le unghie, mentre Leon controllava di non aver nulla lasciato fuori posto. Le fece un cenno di assenso, e le schioccò un altro bacio sulla guancia, guardandola in modo complice. Violetta sorrise, dimenticandosi per un istante della situazione in cui si era cacciata, fino a quando non sentì Lena bussare incessantemente.
“Ti prego, apri, sto crollando in piedi dal sonno!”
“Subito. Ma non subitissimo, perché…perché…ho fame”.
“E questo cosa importa?”
Si chiese anche lei che c’entrasse quella scusa con il non poter aprire subito. Era la prima cosa che le era venuta in mente e Vargas la guardava a metà tra il divertito e lo stupefatto. Le fece cenno di tacere, e si appiattì alla parete, adiacente a quella della porta, quindi con lo sguardo le indicò di aprire. Violetta deglutì profondamente e aprì lentamente la porta; Lena la scostò distrutta, illuminandosi alla vista del suo letto, perfettamente intatto e accogliente. Erano ore che sognava di potersi riposare sotto quelle coperte e già si immaginava con la testa immersa nel cuscino, ma nel tragitto vide il letto di Violetta sfatto, e toccò le coperte che erano umide, quasi bagnate. Osservando meglio la ragazza, notò che anche i suoi capelli non erano del tutto asciutti.
“Che hai fatto?” chiese avvicinandosi. Leon nel frattempo aveva la porta schiacciata sulla faccia, con le spalle sulla parete, e respirava a fatica, cercando di non fare il minimo rumore.
“Niente” disse Violetta, guardando con la coda dell’occhio dalla parte del principe, che quatto quatto stava uscendo dalla stanza. Lena stava per voltarsi verso l’entrata, ma Violetta l’abbraccio di colpo, impedendogli così di scoprire Leon, che riuscì a defilarsi per un pelo.
“Si può sapere che ti prende?” chiese l’amica, liberandosi da quella presa soffocante.
“Ehm…volevo dirti che ti voglio bene!”
“Grazie…credo” borbottò, guardandosi attorno guardinga. L’amica si comportava in modo fin troppo strano, e cercava qualcosa fuori posto, che le spiegasse il perché di tutta quell’agitazione.
“Non avevi fame?” aggiunse Lena, indicando un vassoio completamente vuoto, posato sul comodino. “E allora perché non c’è niente da mangiare? Pensavo che avessi ritardato ad aprire perché stessi mangiando, ma allora mi sbagliavo”. Il suo tono era fin troppo sospettoso, e Violetta si sentì sotto processo. Avrebbe potuto farle tante domande, e a tutte quelle non avrebbe saputo darle risposta. Si costrinse a sorridere nervosamente, ricordandosi di non far entrare mai più Leon in quella stanza: troppo rischioso.
“Oh, beh, sono troppo stanca per pensarci su” sbadigliò Lena, tornando a guardare languidamente il suo giaciglio. Prima di buttarsi a capofitto tra le coperte, però si rivolse alla compagna di stanza con una punta di eccitazione, visibile a malapena in mezzo a quell’aria stanca. “E’ confermato l’arrivo del Brucaliffo tra ben due giorni. Che significa due giorni di inferno per noi…ma almeno potremo vedere il Brucaliffo. Ogni anno, per un motivo o per un altro non ne ho mai avuto la possibilità”. Violetta annuì, mentre Lena si lasciava finalmente cadere sul materasso, rilasciando un sospiro di sollievo.
“E come mai hai i capelli tutti bagnati?” se ne uscì all’improvviso, con gli occhi socchiusi.
“Ero in giardino quando ha iniziato a piovere senza sosta. Ora pensa a riposarti, però” mormorò Violetta, guardandola dolcemente, mentre a Lena si chiudevano gli occhi del tutto. Era stata fortunata, molto fortunata, ma per quanto avrebbe potuto continuare quella storia? Inoltre stava perdendo di vista il suo vero obiettivo, ossia tornare nel suo mondo. Qualcosa la tratteneva. O meglio, qualcuno.
 
La servitù era in pieno fermento. Cameriere andavano su e giù vivacemente portando a termine i preparativi per accogliere il Brucaliffo. Il clima era di festa, eppure era risaputo che la tensione tra il Brucaliffo, che appoggiava la linea essenzialmente pacifista di Picche, e il Regno di Cuori avrebbe potuto raggiungere ben presto un punto di rottura. Quell’incontro era perciò della massima importanza, e da esso sarebbe dipeso ogni rapporto diplomatico con gli altri Regni. La regina Jade si aggirava per le stanze nervosamente, e non perdeva occasione per riprendere qualche serva, e affidare qualche compito impossibile in modo da poter infliggere punizioni a raffica.
“Sbrigati, se siamo fortunate lo vedremo arrivare!” strillò Lena, correndo a più non posso. Violetta cercava di starle dietro, ma aveva già il fiatone, e dovette fermarsi un momento, appoggiandosi con la schiena al muro. L’amica si fermò e la sollecitò con un solo sguardo ricco di determinazione e rimprovero. Violetta fece un respiro profondo, e nonostante l’affanno riprese a correre, con la mano sul cuore. Erano tutti riuniti sulla sommità della scalinata, e si era già formata una fila della servitù che cercava di avere una buona visuale. I portoni erano spalancati, e un tappeto di un colore rosso scuro con i bordi neri ricamati, si srotolava dal salone d’ingresso, proseguendo fino alla sala del trono. Jade era al centro della sala, e anche se non sembrava era parecchio tesa. Al suo fianco il figlio Leon sembrava invece tranquillo, anche troppo. Violetta si rese conto che di tanto in tanto la osservava sottecchi, e le venne naturale cercare di nascondersi da quegli occhi verdi, che la mettevano continuamente a disagio. D’un tratto uno squillo di trombe destò l’attenzione dei presenti, e dopo poco entrarono un vecchio accompagnato da un giovane ragazzo dall’aria un po’ troppo arrogante e superba. L’anziano indossava una lunga tunica molto semplice, senza particolare ricami, e una mantellina argentata che frusciava leggermente. Il suo accompagnatore invece stringeva un librone sotto il braccio destro, e scrutava attentamente tutti i presenti. I suoi occhiali a mezzaluna scintillavano ammalianti. Leon sembrò sorpreso, quindi esclamò a gran voce “Marco!” per poi abbracciarlo con forza. I  due si scambiavano sorrisi e si davano delle pacche sulla spalle. Jade sorrise conciliante, senza però distogliere lo sguardo dal suo vero obiettivo. Tra lei e Antonio si stava svolgendo la battaglia, e per ora entrambi volevano agire cautamente, limitandosi a studiare meglio l’avversario.
“La ringrazio per averci accolto con tanta generosità…” cominciò a parlare Antonio, dilungandosi in ringraziamenti su ringraziamenti, accompagnati da complimenti per il modo in cui era tenuto il castello. Nel frattempo però per Leon e Marco quelle questioni non erano di nessuna importanza. Cresciuti fin da piccoli insieme, il principe aveva perso le notizie del suo amico subito dopo la morte di Javier, che aveva segnato una svolta nella sua vita, tutt’altro che positiva.
“Amico, ma che ci fai al seguito del Brucaliffo?” chiese curioso Leon, senza smettere di sorridere. Tutto ciò che gli dava la possibilità di ricordare i bei tempi del passato era ben accetto nel suo cuore.
“Lunga storia, Leon…è cambiato tutto quando ho scoperto di avere i poteri. Beh, quando è successo purtroppo noi già avevamo perso i contatti” spiegò cautamente Marco. La sua famiglia era sempre stata molto legata al re di Cuori, e alla sua morte aveva preso le distanze per non incorrere nell’ostilità della regina. Conti di una piccola regione del Regno, avevano sempre mostrato la loro lealtà, seppur storcendo di tanto in tanto il naso e facendo intendere il loro dissenso. “In parole povere i miei genitori hanno fatto pressioni affinché mi dedicassi unicamente agli studi da mago. E quando si è trattato del momento giusto sono riuscito a entrare nella cerchia degli accompagnatori del Brucaliffo, grazie alle mie doti”. Mentre parlava Marco gonfiava il petto orgoglioso, e si guardava attorno con aria di superiorità. Leon sorrise leggermente, per poi tornare serio come si conveniva: Marco era sempre il solito gradasso.
“Quindi saremmo grati di poter dimorare nelle nostre stanze” concluse Humpty, riportando i due al presente, dopo aver rivangato i tempi passati. Il mago annuì prontamente, pronto ad esaudire ogni richiesta dell’anziano saggio, e anche Jade fece un live cenno della mano per congedarli prima del dovuto. Come primo incontro andava più che bene, e avrebbe avuto altre occasioni per studiare il suo presunto nemico. Marco e Antonio salirono le scale lentamente, nel silenzio generale, e con un’enorme quantità di occhi puntati addosso. Il mago continuava a esternare il proprio stato sociale, non degnando di uno sguardo nessuno, ma guardando dritto davanti a sé, finché non vide Violetta, e non ne rimase completamente affascinato. Violetta dal canto suo si sentì parecchio in soggezione quando si rese conto che la fissava interessato. Anche fin troppo interessato per i suoi gusti. Sembrava le stesse facendo una scansione completa, e quando le passò vicino le rivolse anche un sorrisetto amichevole. Leon che veniva subito dietro notò tutto, e non ne rimase affatto felice. Ringraziò il cielo che Violetta avesse abbassato lo sguardo, senza ricambiare, con aria di imbarazzo, ma non gli piaceva per niente l’atteggiamento intraprendente di Marco. Per di più il fatto che si trattasse di un suo amico rendeva tutto più sgradevole. Sarebbero stati in quel castello per una settimana, e forse era il caso di fare un discorsetto al mago. Ignorò completamente le occhiate seducenti di Lara, che cercava costantemente di farlo ricadere nel vecchio Leon. Ormai era cambiato, e nulla lo avrebbe fatto tornare sui suoi passi, se non fosse stata Violetta stessa a chiederglielo; ma sapeva che non lo avrebbe fatto, e le era grata di quello. Lo aveva strappato da una vita solitaria e basata sul rancore, sul disprezzo, restituendogli la luce. Forse nemmeno lei era consapevole del miracolo che aveva compiuto, e non poteva immaginare quanto le doveva. Avrebbe fatto di tutto, anche rischiare la vita, per renderla felice. In fondo doveva ricambiare in qualche modo la felicità che lei gli stava donando senza riserva alcuna. Si vedevano poco, e di nascosto, ma anche un secondo in sua compagnia gli sembrava un secondo di Paradiso. A volte restavano semplicemente zitti, guardandosi negli occhi timidamente. Nessuno dei due sapeva cosa significasse quel sentimento così strano e privo di logica, lo stavano scoprendo insieme, e questo lo rendeva ancora più spensierato. Non era messo alla prova da nessuno, non doveva sentirsi a disagio con lei, non doveva allontanarla. Era tutto più semplice quando era con lei, anche se il senso di colpa nell’averle nascosto parte del suo passato gravava ancora come un macigno. Allontanò quel pensiero, concentrandosi solo sul modo per avvertire Marco di stare lontano dalla sua Violetta, senza che l’amico sospettasse qualcosa. Mentre camminavano verso gli alloggi reali gli si affiancò sempre con la sua espressione severa e impassibile.
“Ho avuto la sensazione che qualcosa abbia attirato la tua attenzione nella sala principale. O forse qualcuno” insinuò liberamente, forzando un sorriso privo di sentimento.
“Hai ragione, amico. Al castello avete la creatura più bella di questo mondo! Non avevo mai visto una ragazza più bella e dall’aspetto più dolce. Vorrei scoprire il suo nome” disse Marco, girandosi verso il principe con aria sognante. Probabilmente non metteva in conto che la presunta ragazza potesse opporgli resistenza, dato il suo fascino. Si passò una mano tra i disordinati e folti capelli scurissimi, e lo implorò di avere qualche informazione in più sulla giovane.
“E’ giunta qui da qualche mese, credo. Ma di più non so dirti, non mi interesso di queste cose” spiegò Leon, cercando di parlare nel modo più cauto possibile, in modo da non far intendere le sue intenzioni. “Anche se girano alcune voci sul suo conto” aggiunse poi con un lampo crudele negli occhi.
“Che aspetti? Racconta, voglio sapere tutto su quella bellissima serva!” quasi strillò il mago, con una punta di eccitazione, fermandosi di colpo, e lasciando andare avanti Antonio e i domestici addetti a mostrargli la stanza che gli era stata adibita.
“Non c’è molto da dire…ma dicono che abbia una sorta di protettore. Un tipo di alto rango, a quanto pare. Non vuole che nessuno la tocchi” disse Leon, mantenendo un autocontrollo invidiabile. Anche lui se ne stupiva, ma d’altronde era abituato a non lasciar trapelare i suoi sentimenti.
“E chi sarà mai? Tu lo devi conoscere, se è così importante! Che cambi protetta, perché quella ragazza mi ispira un amore mai provato prima” si alterò l’altro, furioso come non mai che gli venisse impedito un serio corteggiamento prima ancora di ricevere un rifiuto.
“Certo che lo conosco, ma non posso dirti di chi si tratta. Ci tiene affinché tutto rimanga ben segreto. E’ stato lui a farla assumere qui al castello come serva, e vuole che nessuno le torca un capello. Pensi che altrimenti io me ne sarei stato con le mani in mano?” mentì il principe, soddisfatto per la bella storia che era riuscito a tirare su. In effetti nonostante non si sentissero o vedessero da molto tempo, Marco, come tutti, sapeva bene della vita dissoluta e della pessima condotta del principe di Cuori, e non faticava a credere che se avesse voluto e potuto Leon l’avrebbe condotta tranquillamente al suo letto senza troppe cortesie.
“Potresti avere ragione, forse allora è meglio non inimicarsi qualcuno del genere. Che figura ci farei con i miei genitori! E data la mia delicata posizione, poi!” bisbigliò con ben poca convinzione. Nonostante gli avvertimenti, sentiva dentro il bisogno di rivedere quella ragazza. Gli piaceva e non poco. Avrebbe lasciato credere a Leon e al misterioso protettore di abbandonare le speranze, ma di nascosto l’avrebbe cercata in ogni singola stanza del castello. Leon sembrò non completamente soddisfatto della risposta, ma scrollò piano le spalle, e diede una forte pacca all’amico. “Bravo, ti conviene”. Il tono serio con cui glielo aveva detto fece sospettare Marco: perché si preoccupava tanto per una serva? Doveva avere un rapporto molto stretto con il protettore della giovane. Non ci capiva molto, ma era troppo preso dai suoi pensieri felici che coinvolgevano quella ragazza, per cui aveva preso ben più che una semplice sbandata.
 
Humpty ormai era quasi un confidente fidato per Violetta. Nonostante gli avvertimenti di Leon, poiché la sua estrema allegria in quei giorni era parecchio evidente, e il saggio uomo-uovo non era certo stupido, alla fine aveva ceduto e rivelato tutto sulla presunta relazione clandestina con il principe Vargas. Humpty ne era rimasto più che felice, rivelando che in fondo l’aveva sempre sospettato. Il suo appoggio e il suo sostegno in effetti erano stati fondamentali, soprattutto per l’avvicinamento tra i due, e il conseguente riappacificamento.
“Come mai questo ritardo? Ancora Leon?” ridacchiò Humpty, accogliendo nella biblioteca una Violetta con l’affanno. Non appena sentito il nome di Leon, diventò rossa per l’imbarazzo, e scosse più volte la testa in segno di diniego.
“Veramente ho fatto ritardo con la cucina…” si giustificò, dirigendosi verso lo scaffale più vicino e sfiorando le copertine dei libri, fino ad osservare il suo riflesso in uno dei tanti specchi. Nonostante fosse rossa in viso aveva un sorriso costantemente dipinto sul volto. Non poteva credere fosse veramente tutto merito di Leon, eppure era così. Il giorno in cui si era trovata in quel labirinto era stato così ricco di emozioni che ancora non si era ripresa del tutto, ma soprattutto non riusciva ancora a credere al modo in cui il principe le prendeva la mano, in cui le rivolgeva teneri sorrisi, al di fuori di quelle mura, o semplicemente lontano da occhi indiscreti. Era un’altra persona, e ancora non era abituata a quel cambiamento. Stava bene, bene davvero. E aveva anche completamente dimenticato il piano che aveva iniziato ad escogitare con Thomas per fuggire da quel luogo. In fondo lì dentro aveva tutto ciò che la rendeva felice, e il pensiero della sua vera casa stava lentamente sbiadendo, come le immagini di German,Olga, Roberto…le sembrava tutto così lontano dal suo presente. I ruoli si erano scambiati: ciò che le sembrava irreale era divenuto la sua realtà, mentre ciò che prima aveva ritenuto realtà stava scemando, sostituito da ricordi sbiaditi.
Un rumore destò la sua attenzione: Humpty stava cercando di raggiungere uno scaffale in alto, in piedi su una piccola scaletta, alta non più di qualche metro. La sua mano reggeva un libro abbastanza voluminoso che rendeva molto precario il suo equilibrio.
“Ci penso io!” esclamò Violetta, facendosi avanti, e dandogli la possibilità di scendere. Humpty accettò di buon grado l’aiuto, mentre si massaggiava la schiena e indicava il ripiano fuori dalla sua portata.
“Non preoccuparti, ce la faccio benissimo” disse lei, salendo i gradini della scaletta che tremò sotto il suo peso, scricchiolando minacciosamente. Humpty nel frattempo si era andato ad occupare di altre faccende, ed era scomparso dietro ad un’enorme libreria sul lato opposto della biblioteca. Violetta si sporse sempre di più, arrivando sulla punta dei piedi. Dal basso non le sembrava così alto…e invece adesso faceva fatica anche lei. Il libro poi non aiutava certo il suo equilibrio, anzi, la faceva ondeggiare sul posto in cerca di un po’ di stabilità. Un ‘crack’ netto dal basso le fece capire che la scaletta si era rotta, e si aspettò una bella caduta, ma qualcuno la strinse forte tra le braccia appena in tempo, sollevandola a mo’ di principessa. “G-grazie” mormorò, osservando meglio il suo salvatore. Era il giovane accompagnatore del Brucaliffo, che l’aveva guardata attentamente il primo giorno. Aveva un sorriso smagliante, e si ergeva a fiero paladino.
“A-adesso puoi mettermi giù” gli fece notare Violetta, osservando il pavimento con un estremo bisogno di poggiare i piedi a terra. Non le piaceva che quel ragazzo continuasse a tenerla in braccio in quel modo.
“E’ stato un piacere salvarti da una rovinosa caduta” le disse con dolcezza, senza però decidersi a liberarla da quella stretta. Si incantò a fissarla in quegli occhi spauriti che lo evitavano nervosamente. Violetta probabilmente avrebbe voluto ribattere, implorandolo nuovamente di metterlo giù, ma fu bloccata dal sentire un colpo di tosse in vicinanza. Con la porta ancora aperta, Leon e Thomas erano appena entrati nella biblioteca e osservavano attentamente la scena. Il Bianconiglio sembrava veramente scoraggiato e abbattuto: che possibilità avrebbe mai potuto avere con un mago di quel livello? Nessuna. Leon invece era stranamente tranquillo di fronte a quella situazione. Nascondeva un lieve sorriso ironico; negli atteggiamenti sembrava sempre lo stesso, ma il modo in cui si era irrigidito come un palo non appena entrato aveva tradito il suo sgomento. E soprattutto la sua gelosia, che imperversava in ogni cellula del suo corpo, implorandolo di strappare Violetta dalle braccia dell’amico e dare il via ad una lotta sanguinosa.
“Spero di non avervi…disturbato” disse Leon, con aria fredda. Violetta non appena lo vide, si divincolò maggiormente, cosicché che Marco fu costretto a lasciarla andare e a poggiarla a terra con più delicatezza possibile.
“Figurati, amico! Stavo facendo la conoscenza di…”
“Violetta” completò la frase il principe, scatenando una forte curiosità nel mago.
“Non mi avevi detto di conoscere il suo nome. Anzi a dire il vero mi avevi detto di non sapere nulla sul suo conto”.
Thomas e Violetta osservavano la scena da spettatori, non sapendo in che modo placare le acque. Violetta in particolar modo si sentiva oggetto di quello scontro, ed era l’ultima delle sue intenzioni. Anche perché non voleva dare false speranze a quel ragazzo, seppure gentile, che l’aveva salvata dalla caduta.
“Mi sarà passato di mente” osservò Leon con un mezzo sorriso, prima di stringere l’elsa della spada con noncuranza. Ma ogni suo gesto era ben calcolato, e quel semplice movimento bastò a turbare il mago, che strinse il pugno destro, pronto a richiamare tutta la sua magia se ce ne fosse stato bisogno.
“Capisco” osservò subito dopo, senza abbassare la guardia. Era come se non si fossero mai conosciuti: inspiegabilmente Leon lo considerava un suo nemico. Che fosse interessato anche lui alla serva? No, altrimenti gliene avrebbe parlato. Insomma, se avesse voluto divertirsi con quella Violetta perché nasconderglielo?
“Che cosa sta succedendo qui?” si intromise Humpty, sbucando fuori all’improvviso con gli occhi mezzi chiusi. A quanto pare l’anziano si era appisolato in qualche angolo remoto della biblioteca e tutto quel frastuono lo aveva clamorosamente ridestato.
“Stavamo parlando. Solo questo” rispose Leon, per poi voltarsi e uscire velocemente dalla stanza, sotto lo sguardo di disapprovazione del bibliotecario. Thomas nel frattempo si avvicinò al mago con aria affranta.
“Mi scuso a nome del principe, non so che cosa possa essergli preso. Non è da lui essere così aggressivo con i suoi amici” cominciò a parlare il moro, gesticolando nervosamente. Marco fece un gesto della mano, come a dire che per lui quella discussione non era stata assolutamente un problema.
Violetta, che era rimasta paralizzata accanto al ragazzo, aveva seguito con lo sguardo il principe Vargas uscire, non sapendo cosa fare. Non poteva inseguirlo subito, o tutti avrebbero sospettato che Leon avesse agito per pura gelosia. In parte provava un sottile senso di soddisfazione nel sapere che non volesse vederla in compagnia di nessun altro, ma allo stesso tempo aveva paura. Paura che quello stupido equivoco potesse allontanarli come già era successo.
“Devo andare…nelle cucine” inventò la ragazza, lasciando tutti ammutoliti, perché interrotti nel bel mezzo di un discorso atto a cercare di capire le motivazioni del comportamento irrispettoso di Leon. Senza attendere un segno di congedo, o qualsiasi altra parola che le potesse far perdere tempo fuggì letteralmente. Non appena fuori dalla biblioteca però si chiese dove avrebbe potuto trovare Leon. Il castello era grande e avrebbe potuto impiegare l’intera giornata prima di trovarla. L’arancione che irrompeva dalle finestre, dettato dal tramonto, le fece constatare che con molta poca probabilità il principe avesse deciso di fare una passeggiata per sbollire la rabbia. Le veniva in mente un solo luogo possibile, e decise di cominciare proprio da lì. Ricordava la strada a menadito, sperava solo che Leon non l’avrebbe cacciata, o allontanata. Non avrebbe potuto sopportarlo. Non di nuovo.
 
Leon osservava verso l’alto dalla feritoia della torretta, stringendo in mano la spada di legno con cui quella famosa notte aveva giocato insieme a Violetta. Aveva lasciato la porta aperta, con la chiave ancora inserita nella toppa, tanto nessuno lo avrebbe cercato in quel posto isolato. Il cielo mostrava le prime avvisaglie dell’arrivo della notte. Un colpo sul legno della porta lo fece voltare, e si ritrovò all’ingresso Violetta, che respirava faticosamente.
“Leon…” mormorò lei, avvicinandosi supplichevole. Il ragazzo in tutta risposta fece qualche passo indietro, impaurito. Perché era venuta a cercarlo? Perché continuava a guardarlo in quel modo, come se fosse la persona più importante per lei?
“Non c’è bisogno che tu dica nulla” rise amaramente Leon, facendo cadere la spada. “ In fondo rimango un mostro ai tuoi occhi. E’ giusto che cerchi qualcuno più…umano di me”.
“Leon, che discorsi fa? Non crederai davvero che mi interessi quel ragazzo?”
“In fondo è anche un buon partito, potresti sistemarti bene con lui…sposarlo, e vivere felice. Lontano da questo posto” continuò, come se lei non avesse detto nulla.
“Mi stai ascoltando? Si è trattato di un equivoco”. Leon la sfidava con lo sguardo, e continuava a parlare del futuro meraviglioso che avrebbe potuto avere, con al suo fianco un uomo buono e giusto. Non sembrava volesse darle ascolto, anzi si stava auto convincendo che tra loro potesse finire nel modo più semplice possibile, senza dolore o rimpianti. Fece qualche passo avanti, e Leon inclinò lievemente il capo, non capendo come mai non si allontanasse. L’aveva cambiato, non era più in grado di nascondere i suoi sentimenti, e il tono amareggiato di quelle parole l’avevano tradito. Violetta seppur timidamente si fermò solo quando furono pochi centimetri a separarli. Lentamente allungò la mano e sfiorò la guancia del ragazzo, che aprì la bocca nel tentativo di dire qualcosa, ma stavolta non uscì alcun suono. La mano si ancorò sulla sua spalla, e lei si alzò in punta di piedi, facendo sfiorare prima i loro nasi, poi le loro labbra. Leon le circondò la vita con un gesto automatico, stringendola così in modo possessivo. Continuavano a guardarsi negli occhi, non pienamente consapevoli delle loro azioni. Eppure qualcosa li guidava, qualcosa che non dipendeva da loro…il cuore parlava e loro agivano semplicemente.
Violetta si avvicinò chiudendo gli occhi, e Leon poté sentirla tremare mentre accostava le labbra alle sue. Lo baciò dolcemente, quindi si separò aprendo di scatto gli occhi e aspettando una reazione. Leon continuava a stringerla a sé, e quando la guardò sorrise. Era un sorriso di sincera felicità. Era felice, felice semplicemente di essersi sbagliato. Ancora una volta aveva dimostrato quanta fatica facesse a fidarsi di qualcuno, ma ancora una volta Violetta si era mostrata diversa rispetto agli altri, era l'unica in grado di capirlo. Poggiò la fronte sulla sua, senza smettere di sorridere, e cercò di trovare le parole per farle capire quanto nulla di ciò che aveva visto contasse dopo quel bacio. Non gli uscivano e decise che sarebbe stato più facile dimostrarglielo in un altro modo. Rapidamente la baciò di nuovo, rafforzando la presa. Voleva sentirla vicina e sua. Completamente sua. Con quel bacio stava esprimendo tutte le sue emozioni, riusciva a dirle tutto ciò che provava, ma che non trovava il modo per dirle. Il viso incandescente di Violetta era come un piacevole focolare davanti cui trovare ristoro dopo una giornata passata tra i ghiacciai. Le sue labbra calde e dal dolce sapore risvegliavano in lui ogni volta qualcosa di selvaggio che lo spingevano a cercare un accesso nella sua bocca in modo avido. Violetta rispose al bacio, e rimasero avvinghiati a lungo, fino a quando non sentirono il bisogno di prendere aria.
“Ho bisogno di te…non mi lasciare” sussurrò il principe, fissandola dritto negli occhi, e ottenne la risposta nella dolcezza del suo sguardo.
“Non lo farò. Ti chiedo solo di fidarti…solo questo” rispose Violetta, accarezzandogli piano la guancia. Sorrise al modo in cui Leon sembrava godere di quella carezza, e gli diede un leggero bacio.
“Mi fido…non permetterò più a me stesso di ostacolare ciò che provo per te”. 












NOTA AUTORE: Hola a tutti! Speravate di esservi liberati di me, eh? E invece no! In clamoroso ritardo, ma ci sono, e sono qui per il nuovo capitolo che come aveva anticipato rivede come protagonisti i Leonetta e tutti i personaggi all'interno del famigerato Castello. Ancora del Brucaliffo si sa poco, e va bene così, come saranno chiare più in là le sue intenzioni. Sappiamo solo che è sostenitore di Pablo...nel frattempo invece, tra Leon e Violetta le cose vanno bene fino all'arrivo di Marco che mette tutto in discussione, con la sua intenzione di prendersi Violetta, ignaro dei sentimenti che l'amico prova per la ragazza. E tutto finisce con un episodio ricco di tensione, ossia quello del salvataggio di Marco...e della discussione avuta con Leon. Violetta ha paura che Leon possa allontanarla di nuovo per un malinteso, ma per fortuna ormai Leon non ha più segreti per lei, e i suoi sentimenti sono più che chiari. Dopo un flebile tentativo di Leon di allontanarla, il ragazzo capisce che non riesce a stare senza di lei, e le chiede di non lasciarla. Io amo particolarmente il fatto che non riesca a esprimere a parole quello che sente e lo fa con quel bacio *sclera felice* Detto ciò, fateci caso...ancora non si sono detti un 'Ti amo'...chissà come mai, ehehehe. Presto molte cose verranno svelate...E insomma il capitolo finisce con i Leonetta più uniti e dolci che mai! *sclera di nuovo* Nel prossimo capitolo vedremo come se la passano gli altri personaggi al castello, tra cui Lara, Jackie e Jade, e soprattutto sapremo qualcosa in più sul passato del principe Vargas...cuoriosi, eh? Bene, allora...grazie a tutti, e al prossimo capitolo! Buona lettura :P 
Aw, dedico questo capitolo a SHINEBRIGHT, che è tornata sul fandom con una nuova storia (ANDATELA A LEGGERE, SCIOCCHI)! *fa festa* E perché ama i Leonetta...e Leon. E qui c'è tanto Leon e Leonetta xD (e poi Leon geloso è la cosa più bella del mondo xD)

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Capitolo 29
*** Promesse infrante ***





Capitolo 29

Promesse infrante

Jade era seduta di fronte a un’enorme specchio dalla cornice argentata, dove erano incise rose che si intrecciavano continuamente in un groviglio infinito. La regina osservava il suo riflesso evidentemente sovrappensiero, mentre alle spalle Jackie era intenta a pettinarla con gran cura e paziente precisione. Teneva nella mano la spazzola d’avorio e guardava di tanto in tanto lo specchio, immaginandosi al posto della Regina di Cuori. Si, le sarebbe piaciuto vivere nel lusso, anche se sapeva che a causa della sua condizione sociale non le sarebbe mai stato possibile, però agognava qualcos’altro con molta più intensità, il potere. Era tutto ciò che voleva, e il pensiero di poter reggere sulle sue mani un intero regno la eccitava terribilmente. Osservò la miriade di pietre preziose gettate alla rinfusa sul ripiano in legno subito sotto lo specchio, e storse di poco il naso, per poi tornare a dedicarsi completamente al suo lavoro. Jade alzò la mano per ordinarle di smettere, e si alzò con grazia, senza interrompere quel contatto visivo, finendo poi per sfiorare lo specchio.
“Pensi che ci sia davvero un varco dietro uno specchio?” domandò poi scioccamente, facendo sgranare gli occhi alla sua domestica personale. “Non credere che sia pazza” sibilò subito dopo, con il suo tipico accenno di disprezzo.
“Non lo credo affatto, vostra maestà, solo non capisco il senso della vostra domanda” si difese la donna, facendo un passo indietro.
“La leggenda dice che la seconda volta Alice passò attraverso uno specchio per raggiungere il Paese delle Meraviglie. Lei non era di questo mondo” spiegò la regina, scandendo bene ogni singola parola, ancora completamente ammaliata dallo specchio e soprattutto dal suo riflesso.
“Mia signora, non penso proprio che attraversando uno specchio ci sia un altro mondo. Non penso nemmeno che si possa attraversare uno specchio, a dire il vero” rispose con assoluta sincerità Jackie, prendendo un calice dorato posto sulla mensola sopra il camino della stanza, tempestato di smeraldi e rubini.
“E’ questo il tuo problema, non pensi” ribatté acidamente la regina, mentre l’altra, rossa in viso per quel non troppo velato insulto, riempiva con mano tremante il calice della medicina, prescritta dal medico di corte, contenuta in un piccolo recipiente color verde bottiglia. Senza che la vedova Vargas se ne accorgesse, prese una fiala dalla tasca e ne versò parte del contenuto velocemente, per poi avvicinarsi alla padrona e porgerle con dolcezza la medicina. Jade la guardò con sufficienza quindi le strappò di mano il calice e bevve tutto d’un fiato. Sembrò rilassarsi di colpo, e il suo sguardo freddo e crudele si addolcì quasi all’istante. Solo dopo seppe che quel cambio improvviso era dovuto a quello che le avrebbe detto.
“Che ne pensi del mio Leon? Non è perfetto?” domandò curiosa. Jackie alzò gli occhi al cielo, quando fu sicura di non essere vista. Ogni sera la regina le faceva sempre quella domanda: era così fiera della macchina senza sentimenti che era riuscita a creare. Davvero era orgogliosa per aver strappato l’anima ad un giovane ragazzo che viveva appieno la sua adolescenza, caratterizzata dall’innocenza? Nonostante ciò era d’accordo sul fatto che quel giovane Vargas fosse il guerriero perfetto, adatto sia per il clima di terrore che intendeva instaurare la regina, sia per i suoi scopi che ancora non erano emersi a galla.
“E’ un degnissimo erede” rispose con semplicità, facendo sì che Jade sorridesse ancora più felice. Quella donna era ormai sul bilico della follia, sospettosa perfino della sua stessa ombra. Era proprio questa la sua continua paura, che le aveva fatto credere persino che il giovane Leon un giorno l’avrebbe spodestata, a farle prendere dure decisioni, che l’avevano segnata profondamente. La notte aveva gli incubi, tormentata dal ricordo del marito defunto. Colpe su colpe l’avevano resa vanitosa, convinta che la sua bellezza esteriore avrebbe adombrato e nascosto ciò che conservava nella sua anima corrotta. E proprio servendosi di quelle paure, di quelle piccole manie e fissazioni aveva messo a punto il suo piano per avere Jade nelle sue mani. L’avrebbe manipolata come un burattino, a suo piacimento.
“Nessuno prenderà il mio posto!” sibilò con aria ammaliante la regina, senza nascondere un sorrisetto irritato. Prese la corona poggiata con cura su un cuscinetto di velluto rosso e la strinse al petto. “La corona è solo mia”. Aveva pronunciato quelle parole con una tale avidità da farle pensare che in passato quella donna dovesse essere stata perfino più subdola e ambiziosa di lei. Chissà con quale raggiro aveva fatto credere all’allora giovane Javier Vargas di provare amore nei suoi confronti, quando era chiaro che Jade amasse solamente se stessa. La parola ‘erede’ non le era piaciuta affatto, e la reazione ne era la prova. Il solo pensiero di invecchiare e di non essere più in grado di regnare la mandava in bestia, e la rendeva ancora più pazza e pericolosa.
“Ma certo che no, mia signora” la rassicurò Jackie, facendo un lieve inchino, per poi prendere un portacandele e dirigersi nella sua stanza in modo da lasciare che la regina potesse riposare. O almeno quello avrebbe lasciato credere a Jade, perché era sicura che quella notte stessa il suo piano avrebbe avuto inizio.
Richiuse la porta e si avviò per il buio corridoio illuminato fiocamente solo dalla sua candela, la cui fiamma lottava per non essere spenta dagli spifferi che giravano voraci. Le ombre si proiettavano al suo passaggio, dalle forme sgraziate e allungate, per poi essere nuovamente immerse nell’oscurità. Sentì un rumore di passi dietro di lei, e si girò incuriosita, con il cuore in gola: chi mai avrebbe potuto girare per il castello a quell’ora?
“Lara” salutò infine, tirando un profondo sospiro di sollievo nel vedere che si trattava solo della serva fissata con il principe Vargas.
“Ho bisogno del tuo aiuto…Leon continua a ignorarmi, per non dire che mi disprezza, ed è tutta colpa di quella serva, Violetta! Non la sopporto più, devi aiutarmi a liberarmene, ti prego” sussurrò Lara, attenta a non farsi sentire. Aveva pedinato la donna fino agli appartamenti della regina, e aveva aspettato che uscisse per poterle poi chiedere il suo aiuto. Ma rimase a bocca aperta quando Jackie scosse la testa seria.
“Non avrai un bel niente! Sei stata sciocca a impulsiva ad agire in quel modo. Quel patetico piano del labirinto…hai agito senza i miei suggerimenti, e adesso ti meriti tutto ciò che ti sta capitando. Leon ha capito che sei stata te a cercare di incastrare Violetta, e probabilmente sospetta di te anche per la questione del busto del padre. Non hai alcuna speranza, cerca piuttosto di fare il tuo lavoro in silenzio, e di non dargli altri motivi per farti decapitare. Ne hanno anche troppi”.
Lara strabuzzò gli occhi, e cominciò a tremare come una foglia, al pensiero di essere decapitata. Deglutì sfiorandosi il collo, non riuscendo a immaginarsi priva della testa. “Ma…tu non glielo permetterai, vero?” chiese con un fil di voce, spaventata per un possibile rifiuto.
“Cercherò di aiutarti, sebbene non lo meriti…ma se mai avrò bisogno di un aiuto pretendo che tu mi restituisca l’enorme favore” sibilò Jackie, allontanando la candela dal  volto della giovane serva, per non doverne guardare la patetica espressione sofferente. Stupida ragazzina, e pensare che le stava anche simpatica. Ma aveva completamente perso la testa per il principe, e risultava un anello debole nel suo futuro piano, qualcuno di cui non si poteva fidare. Nonostante tutto, però, provava una gran pena per Lara, il cui cuore spezzato le aveva impedito di agire a mente fredda, portandola a commettere una vera e propria sciocchezza.
“Farò tutto ciò che vuoi, lo sai, di me puoi fidarti!” esclamò sollevata Lara, fiondandosi tra le braccia della donna, e abbracciandola forte. Jackie osservava la scena con un accenno di disgusto, ma la lasciò fare, puntando la sua attenzione a tenere in equilibrio la candela.
“Brava ragazza, anche perché ormai non hai alcuna speranza con Leon…senza il mio aiuto almeno”. Una luce di speranza si accese in Lara a quelle parole, e non appena la donna le fece cenno con la mano di tornare nella sua stanza, accolse l’ordine al volo, biascicando ancora ringraziamenti su ringraziamenti. Ovviamente lei non aveva alcuna intenzione di fare alcunché per l’amore impossibile della giovane, ma aveva bisogno di tenersela buona, e non aveva fatto altro che dirle quello che voleva sentirsi dire. La strada per il potere era ormai spianata, solo una persona ancora rendeva il suo piano incompleto: Violetta. Non aveva messo in conto il legame che la legava a Leon. Pensava che si fosse trattato di un semplice invaghimento, ma si era sbagliata di grosso, perché più tentava di allontanarli più sembravano uniti. Non aveva alcune esperienza in fatto di amore, né intendeva averne, ma era abbastanza certa che sarebbe stata un’ardua sfida separare quei due. Una sfida da cui non poteva esimersi in alcun modo.
 
Violetta presidiava insieme a Lena alla colazione quella mattina, e avvertiva la tensione perfino dagli angoli più remoti di quell’enorme salone. Concentrò la sua attenzione sul lampadario di cristallo appeso sopra il tavolo da pranzo, per evitare i continui sguardi di Marco, che sembrava non aver affatto rinunciato alla sua opera di conquista, anzi era più agguerrito e determinato di prima. A questo si aggiungevano le occhiate furiose di Leon, che stringeva la forchetta come se si trattasse del collo del mago. Per poco non gli sarebbe scivolata dalla mano per la forza che ci stava mettendo. Nel frattempo Antonio e Jade si scambiavano i soliti formalismi che si usavano a palazzo, ma era chiaro a chilometri di distanza che non vi era nulla in quelle parole gentili che potessero di fatto risalire al vero. Jade sorrideva con i denti stretti, e di tanto in tanto riprendeva Leon per qualche comportamento che lei riteneva irrispettoso, come la sua espressione imbronciata.
“Leon, devi essere più cortese e accogliente nei confronti dei tuoi ospiti” esclamò ad un certo punto, dall’altro capo della tavola, senza ottenere alcuna risposta. Fece finta di nulla e tornò a conversare con il suo ospite d’onore. Lei e il figlio occupavano i due capi opposti, Antonio sedeva alla destra della regina, poiché era evidente che i due avevano quasi lo stesso potere, mentre Marco era alla sinistra del principe. Sembrava aver completamente dimenticato il brutto episodio alla biblioteca, sebbene ogni tanto si limitasse a rimanere in silenzio, come se rimuginasse a qualcosa di importante. Violetta ad un cenno della regina si avvicinò ai due ragazzi in modo da portare via i piatti con gli avanzi del pasto, e quando fece per prendere quello di Marco il ragazzo le sfiorò la mano in modo talmente audace da farla arrossire, tutto sotto gli occhi di un furioso Leon, che di lì a poco avrebbe potuto scatenare un vero inferno.
“Avete dimenticato questo” le disse il mago con aria furba indicando un calice dorato.
“Potreste avere ancora sete…” rispose a bassa voce Violetta con lo sguardo basso, non riuscendo a sostenere quella situazione tanto opprimente. Rifletteva bene su ogni parola da dire per cercare di non risvegliare la gelosia di Leon, anche se per quello bastavano a sufficienza gli atteggiamenti fin troppo galanti di Marco. Il ragazzo negò prontamente e le offrì il calice. Non appena Violetta l’afferrò da esso fuoriuscì una rosa bianca, richiamata dalla magia. Leon scattò in piedi all’improvviso, afferrando i lembi della tovaglia con le mani, così da costringersi a non dare inizio a una rissa ben poco dignitosa.
“Che ti prende, Leon? Mi sembri strano…” osservò la regina, inclinando lievemente il capo, con un pezzo di pane ancora nella mano affusolata. Leon fissò per qualche secondo il vuoto davanti a sé, quindi si riscosse e si grattò il capo con aria poco regale.
“Ecco, io…avevo pensato di fare un’escursione a cavallo nel pomeriggio dopo gli allenamenti di stamattina, e mi chiedevo se Marco volesse accompagnarmi” spiegò il principe con naturalezza. La sua idea era stata geniale, almeno per un pomeriggio avrebbe tenuto lontano quel sanguisughe dalla sua Violetta. Non ce la faceva più a vederlo corteggiarla tanto apertamente. Aveva i nervi a fior di pelle, e sentiva il cuore pulsare sangue all’impazzata impedendogli di pensare lucidamente. Marco accettò entusiasta l’invito dell’amico, sottolineando il suo interesse a vedere come erano cambiati i dintorni del castello dai giorni dell’infanzia.
“Vado ad allenarmi” concluse Leon con un mezzo inchino, uscendo poi a passo svelto dalla sala. Si diresse velocemente al campo di allenamento, senza guardare in faccia a nessuno, pensando che in quel modo avrebbe potuto sfogare alla perfezione la sua rabbia. E pensare che un tempo quel damerino di Marco era stato perfino suo amico! Adesso non riusciva a provare un minimo di quell’antico affetto nei suoi confronti, sentendosi minacciato in continuazione. Provocazioni su provocazioni di giorno in giorno rischiavano di farlo impazzire. Erano passati solo tre giorni dal suo arrivo al castello, eppure contava con ansia i giorni rimanenti, nella speranza che lasciasse ben presto la tenuta di Cuori, prima che lo facesse lui in maniera tutt'altro che educata e diplomatica. Si tolse il giacchetto di pelle, che lanciò su un ciocco di legno ai lati dal campo, quindi si diresse in una piccola casetta di legno, che svolgeva il ruolo di armeria. Infilò la chiave che portava sempre con sé nel lucchetto arrugginito, e quando sentì lo scatto, si precipitò all’interno. Prese una spada addossata alla parete e cominciò a farla ruotare, testandone la presa e la pesantezza. Annuì soddisfatto della scelta, e già si immaginava a sferrare colpi su colpi su un manichino imbottito di sabbia pensando che si trattasse di Marco, quando notò in disparte, lontano dalle altre armi, un oggetto particolare. Era l’arco che aveva tenuto in mano Violetta quella mattina in cui le aveva insegnato a tirare con l’arco. Sospirò piano, e si avvicinò piano a quel cimelio tanto importante, ricco di ricordi belli quanto nostalgici. Così si era innamorato di Violetta, così aveva detto addio al vecchio Leon, era tutto partito da una notte trascorsa in preda una febbre delirante, e dai numerosi tentativi di Humpty di avvicinarli. E adesso che si sentiva così scoperto,  così privo di difese, emergevano i ricordi più strazianti del suo passato, sotto forma di frammenti.
‘Leon venne portato nella sala del trono, confuso’
Si, si sentiva confuso come non mai. La avvertiva ancora adesso quella paura mista a sgomento.
“Conducetelo nelle segrete”
La voce di Jade, sua madre…le guardie che lo trascinavano via, in cella, dove avrebbe trascorso due anni della sua vita.
“Madre! Perché? Che vi ho fatto, madre?”
“L’ho fatto perché ti amo Leon, e voglio il tuo bene”
Sangue.
Odio.
Buio.
Si ritrovò ai piedi di quell’arco, in ginocchio, respirando a fatica. Sentiva ancora il senso di oppressione, e si portò una mano al cuore, che sembrava essersi fermato di colpo.
“Non voglio…” piagnucolò quasi, portandosi le mani alla testa per allontanare voci inesistenti che gli parlavano, o forse urlavano.
“Non è difficile. Devi ucciderlo”
Una volta.
Due volte.
Poi imparò a non provare più nulla.
“Leon?”.
Una voce lo fece riemergere da quella spirale di tenebre in cui stava lentamente scendendo, e d’un tratto gli sembrò di tornare a respirare di nuovo. Il cuore tornò a battere al suo ritmo abituale, mentre il suo colorito pallido si riaccese all’istante. Era ancora inginocchiato, e non aveva osato voltarsi. Sapeva benissimo di chi si trattava, e farsi vedere in quello stato non gli piaceva per niente.
“Leon?”. Ancora quella voce che lo chiamava, che ancora una volta lo salvava. Sembrava che fosse destinato ad essere salvato da Violetta. Non pensava di poter arrivare a dipendere così tanto da un altro essere umano, e invece eccolo in silenzio, pronto a sentirsi chiamare nuovamente per udire la sua dolce e rassicurante voce. Sentì una mano fragile accarezzargli piano la spalla, e trovò la forza per alzarsi, senza riuscire ancora a voltarsi.
“Lo so che non avrei dovuto seguirti in questo posto, ma mi eri sembrato strano, e volevo accertarmi che stessi bene” disse Violetta con tono supplichevole. Non poté certo vedere l’accenno di sorriso che si era dipinto sul volto del principe, nel sapere della preoccupazione della ragazza nei suoi confronti.
“Invece è stato un bel gesto da parte tua”. Mentre parlava si voltava a scatti fino a incontrarne lo sguardo a un palmo dal naso. Nei suoi occhi leggeva tutto ciò di cui aveva bisogno in quel momento, e la strinse a sé senza alcun preavviso, lasciandole poggiare la testa sul petto. Aveva un gran bisogno di quell’abbraccio, un sospiro di sollievo gli uscì dalla bocca, mentre il peso che sentiva nel suo cuore svaniva così come era arrivato. Violetta si separò dall’abbraccio e gli accarezzò la guancia con tenerezza.
“Sento che c’è qualcosa che mi nascondi” sussurrò la ragazza, leggendo la conferma ai suoi dubbi nell’improvvisa freddezza del principe di fronte alle parole appena pronunciate.
“Ma voglio che tu sappia che non sei da solo. Ci sono io con te, e posso aiutarti” aggiunse, senza smettere di sfiorargli la guancia, ipnotizzata da quel gesto. Leon anche sembrava completamente attratto, non solo dalle carezze che gli stava facendo, ma anche dal modo in cui lo guardava. Non era abituato a essere l’oggetto di preoccupazione e affetto di qualcuno, e non si sentiva mai abbastanza all’altezza, non si sentiva mai completamente degno di essere amato. Violetta voleva dimostrargli il contrario. Cominciò a muovere qualche passo in avanti, facendola arretrare. Poggiò la fronte contro la sua, e si fermò solo quando fu sicuro che la ragazza non potesse più procedere indietro, a causa della spessa parete in legno. Senza smettere di guardarla con la mano chiuse la porta dell’armeria, e le accarezzò i capelli con un sorriso malinconico. Per la prima volta Violetta non aveva paura di quel sorriso, come non aveva paura di rimanere sola in un luogo isolato in compagnia di Leon. Sapeva che non le avrebbe più fatto del male, ci avrebbe messo tranquillamente la mano sul fuoco.
“Mi stai già aiutando, più di quanto tu stessa immagini” soffiò ad un centimetro dalle sue labbra, socchiudendo gli occhi. Sentì le mani di Violetta serrarsi intorno al collo, spingendolo ancora di più verso di lei; sembrava agire inconsciamente, poiché, nonostante tutto, aveva ancora quel lieve rossore sulle guance dettato dal pudore e dalla vergogna. Era uno degli aspetti che più lo facevano impazzire, e senza nemmeno rendersene pienamente conto si ritrovò a baciarla con passione, intrappolandola alla parete con il suo corpo. Il sapore delle labbra di Violetta lo stordiva quasi, impedendogli di pensare lucidamente. Non aveva chiuso la porta a chiave, qualcuno avrebbe potuto entrare e coglierli in flagrante, ma era più forte di lui, non riusciva a resistere alla continua tentazione di vederla, senza però poterla nemmeno sfiorare con un dito, per non destare sospetti. Razionalmente doveva separarsi, non lasciare che si lasciassero andare in quel modo, e sperava che Violetta trovasse quella forza che a lui mancava, ma il tempo passava e nessuno aveva mostrato la minima intenzione di interrompere quel momento unicamente loro. Leon fece scendere le mani lungo i fianchi, accarezzandoli piano, mentre Violetta stringeva la presa sul suo collo, cercando una vicinanza sempre maggiore, nonostante i loro corpi ormai fossero incollati da molto tempo. 
“Leon…” sussurrò appena lei, non appena si furono separati, e prima che Leon cominciasse a darle tanti piccoli baci sulla guancia, scendendo pericolosamente lungo il collo. Mentre rendeva il collo oggetto delle sue dolci attenzioni il principe Vargas si ricordò di quell’incontro, del modo in cui aveva tentato di corromperla, di rovinarla. Continuava a pensare che non si sarebbe dovuto meritare una seconda opportunità con quella ragazza, eppure gliel’aveva concessa. Il sapore della sua pelle era come un ricordo affievolito dal tempo che si riaccendeva all’improvviso, gli era rimasto impresso fin da subito. La dita di Violetta affondarono nei suoi capelli stringendoli timidamente. Leon risalì con decisione lasciando baci sempre più intensi e ricchi d’amore, fino a poggiare la fronte contro quella della ragazza, con gli occhi socchiusi, e il fiato corto. Sentiva le mani stringersi sulle sue spalle, e una voce calda richiamarlo da quell’intimità tanto sognata.
“Non avrei mai pensato di stare così con te…” disse Violetta, con un velo di incertezza. Era anche emozionata, lo capì dal brivido che le aveva attraversato il corpo mentre parlava. L’aria vibrava sulle sue labbra, ne avvertiva il fiato caldo, dolce e invitante. Senza aspettare oltre tornò a baciarla, questa volta con più impazienza e ferocia. Violetta rispondeva al bacio con pari ardore, anche se si sentiva ancora fin troppo impacciata e a disagio. Quando sfiorava anche solo il corpo di Leon arrossiva violentemente e si ritraeva, come se si fosse pentita di quel gesto. Perciò quanto poggiò la mano sul petto del principe, facendo leva per allontanarlo, e sentendo il battito del suo cuore a una velocità spaventosa, la ritrasse di scatto, vergognandosi di se stessa per i continui timori che aveva. Per di più, nonostante il cambiamento di Leon, aveva paura del suo temperamento insolito, del modo in cui allontanava tutti, nella speranza di nascondere qualcosa. Come se leggesse i suoi pensieri Leon si separò aprendo di scatto gli occhi.
“Che succede?” mormorò con aria incerta, osservando la mano di Violetta, ancora sollevata a mezz’aria.
“Niente, io…” cercò di spiegare diventando rossa fino alla punta delle orecchie, cosa che fece sorridere Leon teneramente. Prese la sua mano, e la portò nuovamente sul petto, all’altezza del cuore.
“Chiudi gli occhi”.
Violetta eseguì gli ordini, e sentì il viso di Leon avvicinarsi all’orecchio, lo poteva dedurre dal fatto che le soffiasse piano sul lobo. Più si avvicinava più Violetta percepiva i battiti di Leon aumentare di intensità. Si fecero più sordi e più rapidi, e mentre prima riusciva a scandirne il ritmo, adesso non ne era più in grado.
“Adesso capisci?” le soffiò all’orecchio con voce roca. Si allontanò lentamente, e i battiti tornarono regolari. Violetta riaprì gli occhi, e lo guardò confusa.
“Mi succede perché tu mi provochi emozioni che non avevo mai provato. Emozioni che mi spaventano terribilmente, ma allo stesso di cui non riesco a fare a meno” spiegò accarezzandole i capelli con aria assente, mentre evitava il suo sguardo per non doversi sentire giudicato in alcun modo. Per lui era difficile cercare di far capire a qualcun altro ciò che provava, soprattutto perché anche lui faceva fatica a rendersene conto.
“Non pensavo che potessi dire queste cose…soprattutto non credevo le avresti dette a me” disse Violetta, sinceramente stupita, e incapace di aggiungere altro.
“In verità non pensavi le avrei mai dette a un qualsiasi essere umano, ammettilo” scherzò il giovane, piantando un palmo sulla parete a un centimetro dal suo viso. Stava cercando di sdrammatizzare, per nascondere l’essenza della sua anima che era celata in quelle parole.
Violetta scoppiò a ridere, e Leon si incantò a guardarla: aveva una dolcezza innata, che risplendeva nei suoi occhi, e si diffondeva dal suo sorriso. Non c’era un particolare del suo viso che non ritenesse perfetto, e degno di essere immortalato per sempre.
“Forse un tempo lo pensavo, ma adesso…è così strano, Leon. Prima eri diverso, e adesso d’un tratto sembri un’altra persona. Faccio ancora fatica a crederci…”.
Leon accennò un sorriso, che scomparve al pensiero di qualcosa. Un appuntamento che aveva quel giorno e che non poteva proprio rimandare.
“Nel pomeriggio devo andare a cavallo con Marco” disse più a se stesso che a Violetta, storcendo il naso, e concentrandosi su come avrebbe cercato di allontanare nuovamente il mago dalla ragazza che in quel momento gli prendeva il viso tra le mani, costringendolo a guardarla negli occhi.
“Leon, non commettere sciocchezze” esclamò seria.
“E’ lui che mi provoca con tutte quelle moine nei tuoi confronti. Io non ci sto ad essere trattato come un imbecille qualunque!” rispose Leon adirato, senza però smettere di fissarla intensamente. La presa sul suo viso si indebolì trasformandosi quasi in una leggera carezza. Fece finta di non aver sentito e scosse la testa, al solo pensiero che il principe avrebbe potuto commettere una follia che poi gli sarebbe costata cara.
“Ti chiedo di promettermelo: non voglio che tu faccia niente a Marco. E prima che tu dica qualcosa, non è perché provi qualcosa nei suoi confronti…lo dico per te”. Leon ascoltava attentamente, e quindi annuì sconfitto.
“Te lo prometto”. Il silenzio accompagnò quella promessa, e Violetta lo abbracciò di slancio, per poi stampargli un bacio sulle labbra.
“Grazie Leon! Grazie” mormorò al settimo cielo, rincuorata dal fatto che non avrebbe dovuto stare in pensiero per quello che sarebbe potuto accadere in sua assenza.
“Lo faccio solo per te” borbottò lui, sorpreso per quella dimostrazione di gioia, ma anche appagato da quel bacio e quell’abbraccio.
“Però promettimi che stasera dopo quella tortura che mi aspetta ci sarai tu ad aspettarmi. Voglio stare un po’ da solo con te” disse con tono supplichevole, prendendole le mani. Violetta accettò l’invito allegramente.
“Ti aspetto al salone principale allora. Quando sarà buio” le disse, lasciandole piano la mano, mentre si allontanava.
Violetta sgattaiolò quindi fuori dall’armeria, e lui aspettò qualche minuto prima di uscire, in modo da non destare sospetti se qualcuno fosse nelle vicinanze. Avrebbe mantenuto la parola, nonostante tutto era sempre stato un uomo d’onore, e non avrebbe torto un capello a quel maghetto da quattro soldi. Ma il desiderio di dargli un bel pugno in faccia si ripeteva con insistenza nella sua mente.
 
Le luci della notte avevano avvolto interamente il castello, illuminato dalle solite torce lungo i corridoi. Violetta conversava tranquillamente con Lena nella stanza, guardando di tanto in tanto fuori dalla piccola finestra, per vedere se fosse già notte fonda.
“Dovresti desistere dalla tua idea di fuggire dal castello. Andrai incontro a morte certa, e ci tengo troppo a te…non voglio perderti” disse Lena, catapultandola di nuovo con la mente, che vagava lontana, tra quelle quattro mura.
“Starò attenta, Lena, non devi preoccuparti…” cercò di consolare l’amica, che tentava di nascondere la lacrime con orgoglio. Non voleva perdere la sua compagna di stanza, la prima persona con cui si fosse trovata bene in vita sua. Era sempre stata trattata male al castello, allontanata da tutti per il semplice difetto di essere fin troppo sincera, tanto da dire sempre ciò che pensava anche quando poteva essere pericoloso. Era stato il padre a insegnarle a non mentire mai, e a non sottomettersi al volere di qualcuno che non fosse la regina solo per compiacerlo.
“Sei la mia famiglia, adesso” le disse, scoppiando poi a piangere. Violetta per la prima volta capì la sua amica, e si sentì una sciocca ad aver tenuto in così poca considerazione i suoi sentimenti. Si alzò a circondò le spalle della minuta Lena con un braccio attirandola a sé.
“Non piangere…io non ti abbandonerò. Non lo farò” sussurrò accarezzandole piano il capo con l’altra mano.
“Quindi non lascerai più il castello?” balbettò la ragazza, tra un singhiozzo e l’altro, asciugandosi la lacrime con la manica del vestito.
“No, non lo farò” rispose con semplicità Violetta, alzandosi dal letto, e dandole le spalle. Le mancava la sua vita, ma d’altronde non se la sentiva di abbandonare tutto in quel modo. Non voleva abbandonare Leon, che sembrava dipendere così tanto da lei, e non voleva lasciare Lena, che la vedeva quasi come una madre. Insieme si facevano forza, e senza di lei, aveva paura che Lena non avrebbe mai più fatto uno dei suoi meravigliosi sorrisi e avrebbe perso la vitalità di sempre. Il suo sacrificio le sembrava giusto, e mise da parte la sua felicità per dedicarsi alle persone che amava. Nonostante l’affetto provato nei confronti del padre, altre persone avevano più bisogno di lei in quel momento.
Non appena fu sicura che si fosse addormentata, Violetta uscì fuori dalla sua stanza, lisciandosi le pieghe di un semplice vestito color turchese. Aveva quasi raggiunto il salone principale, e fremeva dalla voglia di correre incontro al suo Leon, e farsi cullare dai suoi abbracci. I passi risuonavano sordi, mentre un alone spettrale avvolgeva il corridoio. Sentì qualcuno parlare a voce alta con un tono concitato in prossimità dell’ingresso, e poi un colpo che la fece sobbalzare. Con il cuore in gola rallentò l’andatura dei passi, osservandosi le caviglie che tremavano. Quel rumore inquietante le rimbombava ancora in petto, e più avanzava più si ripeteva di tornare in camera. Spinse la porta che dava sull’ingresso, e non appena varcata si portò una mano alla bocca inorridita. Avrebbe voluto urlare, ma non ci teneva a peggiorare la situazione. Gli occhi le iniziarono a pizzicare, mentre le mani gelide sul viso coprivano la sua espressione terrorizzata. A metà della grande scalinata, in piedi con lo sguardo fisso sul vuoto, Leon appariva sconvolto con la mano che stringeva lo scorrimano in marmo. Sembrava completamente imbambolato, una statua di marmo.
“Leon…” mormorò lei, senza muovere un passo. Leon la guardò con una freddezza glaciale, mentre nei suoi occhi si leggeva il panico più totale.
“Io…non volevo” disse con un filo di voce, reggendosi in piedi a stento. “Non volevo”.
Ai suoi piedi, sul pavimento, riverso per terra, con il corpo in una posizione sgraziata, innaturale, c’era il corpo di Marco. Sembrava una marionetta priva di vita, i cui fili erano stati tagliati improvvisamente. La luce della luna illuminava la due grandi rose che si intrecciavano, testimoni di quell’orribile misfatto. Schizzi da sangue sembravano volerle intaccare, ma era tutto inutile, anzi le rendevano ancora più superbe, e le davano un’aria letale insieme alle tenebre della notte.
Cosa aveva fatto Leon? Perché non aveva mantenuto la promessa?








NOTA AUTORE: Tzan, tzan! Eccomi con un nuovo e inquietante capitolo...o meglio, il finale è inquietante! Comunque in questo capitolo conosciamo meglio il personaggio di Jade, e il perché della sua vanità, unito ad un'avidità che stupisce la stessa Jackie (tra parentesi la partaccia fatta a Lara mi è piaciuta un sacco...ecco, Lara, basta fare danni e stattene buona ù.ù Anche se pare che Jackie non voglia il bene dei Leonetta :/). La donna, che in alcuni momenti addirittura rasenta la follia per la sete di potere, è fin troppo fragile in fondo, psicologicamente volubile, e proprio su questo si affiderà il piano della subdola Jackie. Ma soprattutto la regina del lavoro fatto al suo Leon...che lavoro? Il passato di Leon verrà fuori con ogni probabilità nel prossimo capitolo, per ora abbiamo solo una serie di flash, quando il principe si chiude nell'armeria, dopo aver quasi dato di matto per la gelosia, di nuovo! xD Povero Leon, che si sente sempre più inghiottito nel passato, non fosse per Violetta, che definisce sua salvatrice. I due si concedono un dolce momento (hfvghc3frc *^*), e poi Violetta si fa fare una promessa, che il principe alla fine decide di accettare. Una promessa che però sappiamo nel finale non viene mantenuta. Violetta scopre Leon in cima a metà scalinata, mentre ai suoi piedi sul pavimento giace Marco...vivo o morto? Questo ancora non lo sappiamo. Fatto sta che qualcosa è successo...qualcosa che potrebbe anche mettere a rischio i rapporti con il Brucaliffo! Un mistero che verrà svelato nel prossimo capitolo quello del finale, che ci lascia un po' perplessi. Davvero Leon ha agito in quel modo rompendo così la promessa? E perché uno abituato a uccidere a destra e a manca rimane tanto sconvolto da quella situazione? Per la promessa? O c'è anche dell'altro? Lo scopriremo nel prossimo capitolo...grazie a tutti voi che mi seguite e continuate a leggere questa storia un po' particolare...e alla prossima! :P 

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Capitolo 30
*** Memorie di un innocente colpevole ***





Capitolo 30

Memorie di un innocente colpevole

Leon si lasciò cadere a peso morto su uno scalino in marmo, e si portò la testa tra le mani, per non farsi vedere. Si vergognava di se stesso, si sentiva sporco dentro, e non era la prima volta che provava quello strano senso di disgusto personale: era già successo in passato, quando ancora pensava di poter mantenere una coscienza anche nel cambiamento voluto dalla regina. Aveva dovuto sopprimerla per continuare a vivere, altrimenti probabilmente avrebbe finito per impazzire del tutto. Non badò minimamente a Violetta, che si era avvicinata al corpo di Marco, e si era chinata per sentire se fosse ancora vivo, pensava solo alla promessa infranta, al maledetto momento in cui aveva spinto Marco giù per le scale, dopo un’accesa discussione.
 
Marco saliva la scalinata al suo fianco, lanciandogli occhiate sospettose.
“Penso di aver capito perché tu non vuoi che mi avvicini a Violetta” disse a metà, con apparente tranquillità. Leon si immobilizzò di colpo, stringendo i denti, e voltandosi a rallentatore verso il mago.
“Non so proprio di cosa tu stia parlando” si difese subito, senza pensarci nemmeno un secondo.
“E’ ovvio che vorresti quella ragazza tutta per te, ma lei ti sfugge come l’acqua tra le mani. E no, uno come te non è degno di lei, della sua purezza”. Marco aveva pronunciato quelle parole con rabbia, forse perché aveva intuito fin troppo. Leon non ci pensò due volte ad accorciare le distanze per risultare ancora più minaccioso.
“Non ti riguarda ciò che faccio o che non faccio. Tu sei solo di passaggio, e ad essere sincero, non vedo l’ora che tu metta piede fuori da questo castello!” sbraitò, lasciandosi pervadere da un’ira profonda nei confronti di quel ragazzo così altezzoso, che pretendeva di sapere tutto su tutti. Non capiva che la realtà era molto più complessa, e soprattutto non a direzione unica. Ma Marco vedeva solo ciò che voleva vedere, e questo lo mandava in bestia.
“Io non me ne andrò senza quella ragazza” sentenziò il mago con tono solenne, sostenendo lo sguardo di sfida del principe, che si accendeva sempre di più. Tra i due l’aria vibrava, consapevole della rivalità che animava i due.
“La porterò via da te. Tu saresti in grado solo di ferirla” continuò Marco, non appena si fu reso conto che Leon fosse più titubante e meno spavaldo.
“Arrivi e vuoi fare anche il padrone di casa! Stai molto attento, io non mi intrometto nelle tue questioni, tu non farlo con le mie”.
“Lo faccio se riguarda un’innocente!”
I toni si fecero sempre più accesi. Ad ogni accusa si alternava una risposta aggressiva, e cominciarono a venire fuori le minacce.
“Non la avrai mai, Leon, guarda in faccia alla realtà! Lei non è come te, per fortuna, e non lo sarà mai” disse Marco, afferrando Leon per la maglia e scuotendolo. Forse sperava di farlo desistere, forse pensava davvero quelle parole. Vargas però ebbe un lampo di furia, e liberandosi dalla presa, spinse giù dalle scale il mago, che ruzzolò fino al pavimento, cadendo con un tonfo. Ebbe bisogno di qualche minuto per mettere a fuoco ciò che era successo, e proprio in quell’istante sentì il rumore di una porta che si apriva al salone di ingresso. Incontrò lo sguardo terrorizzato di Violetta, e fu come morire dentro. Aveva paura. Paura di lui.
 
“E’ ancora vivo” sospirò sollevata Violetta, allontanandosi dal petto di Marco, che a quanto pareva aveva deciso di aggrapparsi alla vita fino alla fine. Leon alzò di poco lo sguardo, gli occhi spenti, ma ravvivati da una flebile luce di speranza.
“Dobbiamo andare a chiamare un medico, presto!” lo incitò Violetta, rimanendo al fianco del mago, e guardandolo con aria colpevole. In parte anche lei provava uno strano senso di colpa, per non essere stata più diretta nel rifiutare il corteggiamento del giovane, ma allo stesso tempo data la sua posizione non sapeva in che altro modo avrebbe potuto agire. Leon era ancora seduto, immobile, e le sue parole non dovevano averlo smosso di un centimetro.
“Leon, un medico!” cercò di chiamarlo nuovamente, invano. Che cosa gli era preso? Aveva il volto deformato in una smorfia di dolore e sofferenza, ma ancora una volta non riusciva a capire nulla del perché di quella reazione. Il principe si riscosse all’improvviso e annuì con forza, salendo con ampie falcate la scalinata e dirigendosi negli appartamenti reali.
Passarono i minuti, e la situazione di Marco era abbastanza stabile, nonostante respirasse un po’ a fatica. Di punto in bianco le porte si aprirono e gli stessi due medici che si erano occupati di Leon irruppero con una barella appresso. Avevano un’espressione seria e tesa, mentre vi poggiavano sopra Marco con delicatezza, ma allo stesso tempo con una velocità incredibile, propria di chi è esperto nel suo mestiere e sa il fatto suo. Leon era in disparte, e fissava tutto da lontano, abbassando lo sguardo non appena incrociava quello sconvolto di Violetta. La ragazza salì la scalinata per raggiungerlo, ma il principe Vargas, con la chiara intenzione di tenerla lontana, si avviò lungo gli appartamenti reali.
“Leon!” lo chiamava a voce alta Violetta, disposta perfino a rompere il silenzio perpetuo della notte pur di fermare il ragazzo, che avanzava a passo spedito. Nessuno poteva fermarlo, nemmeno Violetta. Non meritava nulla, e quella notte ne era stata la prova. L’aveva delusa, ed era ciò che più pesava in cuor suo. Che avrebbe pensato? Che fosse sempre lo stesso Leon? Lo avrebbe allontanato? Gli avrebbe rivolto parole di disprezzo? Con le mani che tremavano e il cuore gonfio di ira, rivolta unicamente verso se stesso, aprì la porta della sua stanza, e si sedette sul letto, senza preoccuparsi più di nulla. Respirò profondamente, lasciando che i battiti tornassero regolari: nella mente risuonava ancora la voce di Violetta, che lo rincorreva. Sperava che non lo avesse seguito fino alla sua stanza, che si fosse fermata prima, perché non poteva farsi vedere in quello stato, e il solo pensiero di ciò che avrebbe potuto dirgli lo distruggeva.
“Vattene” mormorò flebilmente, udendo un rumore di passi e un respiro affannoso.
“Che ti succede? Io…non capisco”. La voce di Violetta era innocente. Era ciò che lui avrebbe sempre voluto essere. Ma non aveva mai avuto scelta. O meglio una scelta l’avrebbe avuta, ma era stato troppo vigliacco per prenderla in considerazione, e ormai era troppo tardi.
“Non c’è niente da capire. Voglio restare da solo. Da solo!” urlò. Violetta richiuse la porta dietro di sé, senza prestargli attenzione. Aveva paura, e molta. Leon sembrava fuori di sé, gli occhi iniettati di sangue, mentre ogni suo muscolo non riusciva a rimanere rilassato. Era come un gatto selvatico pronto a sferrare un attacco contro chiunque si fosse avvicinato, dopo aver sfoderato i suoi artigli.
“Leon…”. Si sedette accanto a lui. Leon esitava a guardarla negli occhi, e continuava a fissare dritto davanti a sé un punto buio e imprecisato della stanza. Violetta senza dire altro lo attirò a sé, stringendolo forte tra le braccia; rimasero così, teneramente abbracciati e in silenzio, lasciandosi cullare unicamente dai sentimenti che li univano. Un legame che si rafforzava ogni giorno di più, e che rendeva Leon dipendente da quell’apparente fragile ragazza. In apparenza lui sembrava forte e sicuro, mentre lei quella incerta e timida, eppure era il contrario. Si rese conto che aveva bisogno di Violetta come di nessun altro. La strinse ancora più forte a sé, seppellendo il volto nell’incavo del collo, e lasciandosi solleticare dai suoi capelli. Le lacrime iniziarono a scendere inaspettatamente, e cominciò a singhiozzare come un bambino.
“Calma, va tutto bene…Marco sta bene, è vivo, non è successo nulla” gli sussurrò con amore, accarezzandogli la schiena, mentre lasciava che sfogasse il suo dolore.
“Io…sono un vigliacco. Sono davvero un mostro, Marco ha ragione” disse, cercando di frenare le lacrime, inutilmente. Fiumi e fiumi tenuti dentro per tanti anni uscivano senza più controllo. Ormai aveva rotto gli argini, e si era lasciato andare, privo di forze, affidandosi unicamente alla forza che avrebbe potuto trasmettergli Violetta.
“Non è così”.
“Non ho mantenuto la promessa” ribatté all’istante, allontanandosi per guardarla negli occhi. La ragazza rimase sorpresa nel vederlo in quello stato: gli occhi arrossati, e un forte bisogno di parlare, sfogarsi. Era diverso da come era sempre stato, eppure lei non provava solo un forte senso di compassione, si rese conto di provare qualcosa di molto più profondo: lo amava, e non era un amore flebile, ma talmente forte da stordirla e da lasciarla senza parole. Gli accarezzò piano la guancia, e sorrise amaramente.
“Era solo una stupida promessa. Per me quel conta è che tu volessi mantenere la parola”.
Leon scosse la testa: “Era importante, serviva per dimostrarti quanto ho bisogno di te, quanto voglio che tu mi stia accanto…”. Tacque, vergognandosi della debolezza che stava mostrando e in tutta risposta ottenne un dolce bacio.
“Anche io ho bisogno di te, Leon…ho bisogno dei tuoi abbracci. E sento che voglio conoscerti…perché più volte mi hai dimostrato che dietro il principe Vargas c’è un ragazzo dolce e buono. Voglio conoscere quel ragazzo, a tutti i costi”.
Leon si sentì trafitto da una lancia, e per poco non credette di perdere i sensi. Aprirsi con lei equivaleva a ripercorrere duri ricordi, alcuni dei quali rinchiusi nell’inconscio per non doverli rivivere. Erano quelli a svegliarlo nel cuore della notte, a farlo impazzire a causa degli incubi.
“Non…non so se posso. Non lo so…” balbettò Leon, perdendosi nei limpidi occhi color nocciola della ragazza, che continuava ad accarezzargli il viso con dolcezza. Si tranquillizzò, e dopo un profondo sospiro chiuse gli occhi: stava per rivivere il suo incubo, il suo passato.
 
Il giorno successivo al funerale, Leon era rimasto tutto il giorno nella sua stanza, fissando la finestra con aria assente; si sentiva privo di una guida saggia e importante come solo Javier Vargas poteva essere, e il suo destino appariva vago, incerto, non fosse per il profondo affetto e l’assoluta fiducia che nutriva nei confronti della madre. Si stropicciò gli occhi lucidi, perché come gli aveva insegnato il padre, un vero uomo non piange mai. E adesso che lui non c’era più, intendeva far tesoro di ogni suo consiglio o insegnamento.
Non uccidere.
Mostra sempre pietà.
Cerca di essere saggio, e ricorda che ciò che ci distingue dalle bestie non è solo l’intelletto.
Tre semplici regole che aveva deciso di considerare sue massime personali. La porta si aprì di botto, e due guardie irruppero con le lance sguainate.
“Principe Leon, sua madre desidera tenere un’udienza con voi” disse bruscamente una, afferrandolo per il braccio. Il ragazzino tentò di divincolarsi da quella stretta così forte, e gli uscì un gemito di dolore quando l’uomo in tutta risposta lo strattonò ancora più violentemente.
“Mi hai fatto male” mugolò Leon altezzoso, pretendendo maggior rispetto per il nuovo erede al trono.
“Ed è solo l’inizio, piccoletto” rise sguaiatamente l’altra. Sentiva che qualcosa era cambiato con la morte di Javier, e un tremito di paura lo avvolse, provocato dal ghigno malvagio e inquietante delle due guardie.
 
Leon si bloccò. Stava rivivendo in quel preciso istante tutto il tragitto fatto, trascinato dalle guardie, ignaro di quella che sarebbe stata la sua sorte.
“Continua” lo esortò la ragazza, lasciando che lui riversasse tutto quel terrore dentro di lei. Avrebbe condiviso quell’enorme peso. Non era questione di essere pronti a farlo, lei non lo era. Ma allo stesso tempo la necessità di poter sapere tutto di Leon, per poterlo amare davvero, completamente, era più forte, e non gli permetteva di fare un passo indietro.
 
Leon venne trascinato nella sala del trono. Le guardie lo fecero inchinare a forza, con la stessa dignità di un prigioniero, e non gli venne nemmeno permesso di alzare lo sguardo, per poter mostrare il suo sdegno alla madre.
“Leon…ho bisogno che tu mi faccia un favore”. Non c’era affetto, né amore, in quelle parole, e si rese conto che Jade, l’attuale regina, avesse solo recitato la parte della madre amorevole. Adesso aveva mostrato il suo vero volto, pieno di meschinità e crudeltà, e il regno era nelle sue mani.
“Di cosa avete bisogno, madre?” chiese con voce strozzata. “Farò di tutto per compiacervi per quanto mi sarà possibile”. Silenzio.
“Bene. Ho bisogno di qualcuno che sia il mio braccio. Non posso regnare da sola questo regno, senza qualcuno di fidato. Sto parlando di te, figlio mio”. Il suo tono benevolo celava i peggiori mali, ma questo Leon non poteva ancora saperlo. Ancora.
“Conducetelo nelle segrete”. Leon sgranò gli occhi, mentre le guardie lo facevano rialzare, e lo allontanavano dal trono.
“Madre! Perché?Che vi ho fatto, madre?”
“L’ho fatto perché ti amo, Leon, e voglio il tuo bene”.
Non riusciva a crederci, sembrava solo un brutto sogno, ma non appena si ritrovò al buio in una cella, capì che si trattava di una terribile e inquietante realtà.
I giorni passavano, e Leon li passava perso nell’oscurità che non gli permetteva di scorgere il soffitto. Steso su uno sporco giaciglio, l’umidità del luogo gli penetrava le ossa. I primi tempi piangeva e chiedeva aiuto urlando  in continuazione, nella speranza di muovere a pietà i suoi carcerieri, ottenendo solo risa di scherno in risposta. Quando ebbe esaurito le lacrime, rimaneva solo in silenzio, senza dire più nulla, con l’angoscia nel cuore. La sua situazione era incerta, non sapeva se la madre lo avrebbe voluto morto o chissà cosa; certo era che si sentiva ogni ora più logorato. Sentì lo stomaco brontolare, e si mise una mano sulla pancia, nel tentativo di placarlo. Veniva nutrito un giorno si e l’altro no, e per questo era diventato esile come un spina di grano. Il volto pallido e emaciato dava l’idea che se non fosse morto di fame, qualche malattia avrebbe comunque posto fine alla sua vita. La porta si aprì dopo tanto tempo, e le due guardie si misero ai lati dell’ingresso, lasciando entrare Jade.
“Mi spiace che tua debba vivere in queste condizioni, Leon” disse la donna, sinceramente dispiaciuta. “Ma è tutto necessario alla tua formazione”. Vivere? Leon si chiedeva ormai che cosa significasse quella strana parola. La mente era annebbiata a causa della fame, e ogni pensiero gli dava delle fitte alla testa.
“Fatemi uscire da qui, vi prego…” supplicò il ragazzo, prostrandosi ai suoi piedi con il volto schiacciato a terra, in cerca della grazia. La donna si voltò di scatto, e lo lasciò lì da solo, di nuovo. La porta della cella si richiuse con uno scatto, e Leon tornò al suo giaciglio, certo che ormai di non avere più speranze: era nelle grinfie di Jade.
“E’ quasi pronto” disse alle guardie, che annuirono serie.
 
“Ero pronto, capisci?” singhiozzò Leon, mentre Violetta annuiva senza però sapere che il peggio dovesse ancora arrivare. Già le sembrava terribile quello che il povero principe aveva dovuto attraversare, e sentiva il forte impulso di piangere insieme a lui.
“Pronto per cosa?” domandò, temendo già la risposta.
“Mi aveva privato di tutto…tutto. E non parlo solo di beni materiali. Ero pronto a diventare quello che lei mi avrebbe ordinato di essere”.
 
Quando per la prima volta Leon vide la luce del sole, rischiò di esserne accecato. Quanto tempo era trascorso? Aveva ormai perso il conto dei giorni trascorsi in quel lurido buco, e ogni suono gli appariva confuso, uno stridio indistinto. Fu portato in una piccola stanza nel castello, facendo attenzione che nessuno della servitù lo vedesse: erano in pochi a conoscenza del trattamento che la regina aveva avuto in mente per il figlio, e tutti sapevano solo che il giovane Vargas era molto cagionevole di salute in quel periodo, tanto da non lasciare mai le sue stanze.
La piccola stanza era di pietra, e non vi era alcun mobile o arredamento, se non un piccolo tavolino in legno. Era spoglia, e i lastroni di pietra sporgevano minacciosi. Sul tavolino un coniglio bianco dalle chiazze nere, era stato legato per le zampe, attorno a dei chiodi con un fil di ferro. Accanto all’animale che tremava terrorizzato giaceva un coltello.
“Uccidi il coniglio” dissero in coro le due guardie, chiudendo la stanza a chiave. Leon scosse la testa deciso. Non uccidere: era una delle massime del padre, e non aveva intenzione di tradirlo.
“Non posso” disse, avendo più paura del coniglio stesso per ciò che avrebbero fatto di fronte al suo rifiuto. Venne percosso con il bastone della lancia, e scortato nuovamente nella cella. Il ragazzo si accasciò sul giaciglio gemendo per il dolore delle ferite, mentre già dei lividi violacei gli costellavano  il braccio e la schiena.
Anche il secondo giorno venne portato nella stanza, e gli venne ordinato lo stesso. Ancora una volta rifiutò, e dopo essere stato nuovamente picchiato, si ritrovò come sempre nella buia cella, a cercare di sopportare il dolore. Aveva fame, freddo, e non riusciva quasi più a muoversi, tanto era indolenzito, e per un secondo pensò di lasciarsi morire. Ma ebbe paura, e si tirò indietro da quella folle decisione.
Il terzo giorno andò diversamente. Senza sapere come, Leon provò odio per quel coniglio, a causa del quale continuava ad essere picchiato. La massima diceva di non uccidere, ma in fondo si trattava di un animale, no?Poteva fare un’eccezione, e afferrò il coltello con ira. Affondò la lama nel corpo del coniglio e vide gli occhi neri dell’animale spalancarsi, mentre esalava l’ultimo respiro. Quella sera Leon avrebbe mangiato della carne di coniglio per cena.
Il giorno dopo uccise un altro coniglio, e mentre lo faceva non provò nulla. Nulla di nulla. Pensava solo che almeno sarebbero stati contenti, che forse per premio lo avrebbero finalmente liberato. Sapeva che era solo un’illusione, ma era quell’illusione a non fargli provare rimorso per ciò che faceva. In fondo uccidere era un gesto meccanico, e lui stava solo imparando il trucco per apprendere quell’arte senza però doverne subire le conseguenze.
Un giorno tutto cambiò: invece del solito animale impaurito, nella stanza ad attenderlo c’era un vecchio legato ad una sedia. Aveva i capelli bianchi e lunghi, il volto incavato come il suo: che fosse anche lui un prigioniero? Non ebbe nemmeno il tempo di darsi una risposta, che gli venne passato da uno dei suoi carcerieri un coltello.
“Uccidilo” gli ordinò con tono incolore. Leon lasciò cadere l’arma, e arretrò inorridito, mentre il vecchio chiudeva gli occhi, temendo la sua sorte.
“Non posso…è un uomo!”
“Un uomo, un coniglio…che differenza fa?” sghignazzò la guardia, punzecchiandolo con la punta della lancia. Il ragazzo scosse la testa, e chiuse gli occhi, aspettandosi la punizione che non tardò ad arrivare.
Lui voleva davvero rispettare la massima del padre, davvero. Ma non era così forte da sopportare tutto quello. Era solo un ragazzino, e la prospettiva di uscire da quella cella era troppo allettante per lasciarsela sfuggire. Quel vecchio sarebbe morto comunque, prima o poi, mentre lui aveva ancora una vita da vivere. Cercava di convincersi che non c’era niente di male in quello che avrebbe dovuto fare, e iniziò a riversare il disprezzo che nutriva per sé stesso nel vecchio.
“Ha uno sguardo cattivo. E per colpa sua io sono ancora qui” si diceva tra sé e sé, rannicchiato in un angolo della sua prigione. “Non ho ragione?” chiese a un interlocutore inesistente. “Certo che ho ragione”. E fu così che uccise anche l’anziano. Impresse nella mente lo sguardo implorante della sua vittima, e lo confrontò a quella del coniglio: improvvisamente non ne vedeva la differenza. La realtà si stava deformando sotto i suoi stessi occhi; le massime del padre si dissolvevano lentamente, mentre ogni giorno Leon faceva la stessa identica cosa: privare un essere vivente della vita. Dopo l’anziano non finì lì. Ci furono altri vecchi, uomini, persino una donna. Alcune volte fu più difficile di altre, ma alla fine portava sempre a termine il compito. Le notti non dormiva, tormentato dai fantasmi  che inevitabilmente non lo abbandonavano, e crollava solo per il troppo sonno. Era anche lui un fantasma, il fantasma di un uomo.
 
Il giorno in cui era finita la sua prigionia lo ricordava come un giorno maledetto e benedetto allo stesso tempo. Non appena fuori venne portato nelle sue stanze, venne lavato con cura, e gli venne portato un lauto pranzo. Si lasciava condurre come un burattino, lo sguardo era ormai spento, la volontà annullata. Se gli avessero chiesto di suicidarsi, forse l’avrebbe fatto. Ancora non aveva visto sua madre, e a stento ne ricordava i lineamenti. Gli occhi che ancora conservavano il loro verde brillante erano quasi perennemente socchiusi, a causa della forte luce del sole a cui non era abituato. Ad aiutarlo a ripercorrere quei ricordi dolorosi c’era Violetta. Gli teneva la mano, facendogli forza, e sebbene era evidente quanto fosse angustiata per quella storia, sembrava intenzionata a voler ascoltare tutto, fino alla fine.
“Erano molto gentili con me in quei giorni, talmente tanto che ero sicuro che in fondo stessero solo aspettando il momento per rinchiudermi in quella cella di nuovo, dove non so nemmeno io quanto tempo avevo passato, certamente troppo”.
“Leon…se non vuoi andare avanti con il racconto…ti capisco”. Violetta tremava di paura per quello che gli avevano fatto, e temeva che non fosse finita lì. Leon era stato torturato non solo fisicamente, ma anche psicologicamente, rendendolo una bestia senza sentimenti. Gli avevano instillato odio ogni giorno sempre di più, odio nei confronti di tutti, anche di se stesso. Era arrivato a disprezzare coloro che avrebbe dovuto uccidere per non sentire il peso della colpa. Gli avevano strappato tutto, anche il ricordo del padre, dei suoi insegnamenti.
Leon non disse niente, semplicemente strinse più forte la mano, e respirò profondamente.
“Hai detto di volermi conoscere…e anche io voglio che tu sappia” mormorò Leon. Aveva paura che dopo la storia del suo passato, Violetta non avrebbe mai più voluto vederlo. E aveva bisogno del suo appoggio a tutti i costi.
 
Venne condotto nella stanza della madre, e non ci fu bisogno che i carcerieri lo strattonassero come l’altra volta. Procedeva da solo, barcollando, non ancora ripresosi del tutto dalla prigionia, ma in condizioni decisamente migliori: il colorito della sua pelle sembrava essersi acceso di un fievole rosa, nonostante l’espressione del suo volto fosse quella di un morto. Privo di qualsiasi emozione, incapace addirittura di pensare, fece il suo ingresso nella camera della regina, e si ritrovò di fronte Jade seduta su un lato del letto, che aspettava la sua visita con un sorriso indulgente.
“Il mio bravo e forte Leon” disse con dolcezza, facendo cenno alle due guardie di lasciarli da soli. Non appena le porte si furono richiuse, Leon alzò lo sguardo, tenuto basso, con un lampo di ira e frustrazione.
“So cosa stai pensando…pensi che sia colpa mia. Ma io l’ho fatto solo per te, figlio mio, per renderti più forte. Con te il Regno non subirà mai tentennamenti”. Il ragazzo spense la rabbia in un istante, e si lasciò circuire dalle sue parole. Forse aveva ragione, forse c’era bisogno di un uomo come lui perché il Regno non crollasse sotto le spinte dei dissidenti.
“Madre…era necessario?” disse il principe con un tremito, al solo ricordo di tutte le orribili azioni commesse.
“Si, Leon, lo era. Per il tuo bene…tuo padre sarebbe fiero di te, dell’uomo che sei diventato”. Menzogna, pura menzogna, e lo sapeva bene, ma perché non illudersi che fosse quella la verità, che fosse il volere di suo padre? Almeno i rimorsi sarebbero stati meno soffocanti. Più si illudeva, più diventava ciò che non voleva essere e che non era mai stato. Il principe si inginocchiò di fronte alla madre e le baciò la mano, in segno di totale sottomissione. Non sapeva più chi era, ma sapeva quale era il suo compito, il suo scopo. Jade gli porse un piccolo pugnale dal manico dorato, e gli indicò la mano che stringeva la sua.
“Voglio che tu mi faccia un giuramento, Leon”. Il ragazzo afferrò il pugnale rapidamente si incise un profondo taglio sul palmo della mano, soffocando un gemito di dolore, che rimaneva nulla in confronto a ciò che aveva dovuto subire.
“Prometti tu di servire sempre la tua regina, con onore fino alla fine dei tuoi giorni?”
“Lo prometto”
“Prometti di mettere sempre avanti il bene del regno al tuo bene personale?”
“Lo prometto”
“Prometti di eseguire gli ordini che ti verranno assegnati per quanto discutibili e assurdi ti potranno sembrare?”
“Lo prometto”
“Ora e sempre?”
“Ora e sempre”
Il giuramento fu sigillato, e Jade in tutta risposta gli diede ciò che sapeva il figlio desiderava più di ogni altra cosa: il conforto di una madre. “Vieni, figlio mio” disse, allargando le braccia, e permettendo a Leon di gettarsi tra di esse. Non versò una lacrima in quel freddo abbraccio, perché ormai aveva imparato che piangere rendeva solo più deboli. Quando piangeva le guardie si divertivano a picchiarlo con più forza, e quel ricordo era per lui come un insegnamento.
“C’è qualcos’altro che devi fare. Considerala una sorta di prova di fedeltà” gli sussurrò all’orecchio con tono glaciale. Leon si irrigidì di poco, ma poi si separò annuendo.
“Tutto ciò che vuoi,  madre” sentenziò Leon inespressivo. Era la sua prova di iniziazione.
 
“Conobbi Felipe che avevamo solo cinque anni, ma stringemmo subito amicizia. Lui era il figlio di uno dei cuochi a palazzo, e aveva ottenuto il permesso di vivere al castello. Eravamo molto diversi, sia fisicamente che caratterialmente” si lanciò nel racconto Leon, fissando intensamente Violetta.
“Lui moro con gli occhi scuri, io castano con gli occhi chiari. Io ero introverso e anche un po’ timido, mentre lui era un tornado per la vivacità che gli esplodeva nel corpo. Mia madre aveva sempre disapprovato la nostra amicizia, ma mio padre mi consentiva di frequentarlo come il figlio di un nobile. Non ci separavamo mai, era come un fratello per me…”. Si interruppe all’improvviso. Violetta sentì la stretta aumentare, ma non disse nulla, semplicemente lasciò che il silenzio gli desse il coraggio per continuare. Non l’avrebbe abbandonato, non quando era ormai chiaro che avesse bisogno di lei come l’aria.
 
“Non ce n’è alcun bisogno!” strillò Leon, allontanandosi dalla madre per quell’assurda richiesta.
“Invece si, Leon…Felipe è stato visto in compagnia di persone poco raccomandabili. E se avesse intenzione di detronizzarmi? Non capisci che quel ragazzo è un pericolo per la stabilità del regno?”.
“Potrei parlarci, non è necessario…” cercò di farla desistere inutilmente, e ricevendo solo un diniego dietro l’altro.
“In questi tempi l’abbiamo tenuto lontano. Le sue richieste continue di vederti mettevano a dura prova la mia pazienza, ma l’ho tollerato solo perché sapevo fosse una persona a te cara. Ma adesso non si può andare avanti in questo modo. Felipe deve morire, e sarai tu ad ucciderlo”. Leon sentì il mondo crollargli addosso: non poteva rifiutare, aveva fatto un giuramento, e allo stesso tempo non poteva davvero uccidere il suo amico, compagno fedele. Annuì meccanicamente, e allontanò ogni sentimento. Lui aveva una missione, e l’avrebbe portata a termine. Felipe era l’ultimo ostacolo da rimuovere per una vita priva di sofferenze.
Jade sorrise tra sé e sé; ovviamente quella storia era tutta una menzogna: il figlio del cuoco, che già aveva provveduto a far allontanare non appena quella storia si fosse conclusa, non era stato visto con nessun personaggio sospetto. Non era un rivoluzionario, non tramava contro la corona, ma era necessario affinché le ultime barriere mentali di Leon crollassero miseramente. Nonostante fosse ormai chiaro che la volontà del giovane era stata annullata con il suo paziente gioco, quell’ultimo passo avrebbe reso il suo addestramento definitivo. Erano passati tre anni dalla morte di Javier, e finalmente aveva il suo personale assassino.
la Grotta
“Sei qui” mormorò Felipe, alzandosi in piedi. I suoi occhi nerissimi risplendevano ardimentosi. Era sempre stato coraggioso, ed adesso sapeva che era giunta la sua ora, ma non aveva intenzione di implorarlo di risparmiargli la vita, né voleva dare alcuna soddisfazione a colei che era dietro tutto questo. Voleva solo lasciare qualcosa a Leon su cui riflettere, affinché ci fosse in futuro una speranza per lui di uscire da quel circolo vizioso di odio e vendetta.
“So già cosa devi fare” disse, per poi continuare a fissare l’effige del Dio Spazio. Si voltò verso Leon, e sorrise amaramente: “E so che non ti tirerai indietro. Un tempo eri più codardo”. Leon strinse il pugnale che teneva nella mano, incapace di muovere un muscolo.
“Sappiamo entrambi che non hai altra scelta…ma c’è qualcosa di cui ti devi ricordare. Le massime di tuo padre; un giorno ti dissi che erano sciocche e inutili, ma una in particolare deve rimanere nella tua testa, Leon”. Il principe al solo sentire nominare quelle famose regole, si sentì colto alla sprovvista e preso dal terrore mosse di scatto il pugnale, conficcandolo nel cuore di Felipe. Il ragazzo ricadde per terra, accasciandosi, mentre fiotti di sangue deturpavano quel luogo sacro. Teneva ancora in mano il pugnale, e lo guardava inorridito. Un fantasma in più che lo avrebbe tormentato nel sonno.
Cerca di essere saggio, e ricorda che ciò che ci distingue dalle bestie non è solo l’intelletto.
Forse quella era la sua unica salvezza, ma non capiva in che modo delle parole potessero portarlo in salvo, dopo tutti gli abomini che aveva commesso. Tutto perse di significato, il bene e il male invertirono la loro posizione nella sua testa, ciò che sembrava sbagliato, assolutamente ingiusto, divenne necessario. E in quel vortice di distruzione Leon perse se stesso.
 
Delle lacrime brillanti come cristalli scesero lungo la guancia di Leon. Violetta finalmente era vicina a quello che provava, e poteva condividere quell’enorme peso che gravava sulla sua coscienza. Ma adesso cosa le avrebbe impedito di avere paura di lui? Prima che potesse dire qualunque cosa, Violetta si gettò tra le sue braccia facendolo cadere supino sul letto. Lo teneva talmente stretto che sembrava non avrebbe voluto lasciarlo più, e forse era davvero così. Leon dal canto suo si aspettava tutto, ma non quello. La sentì singhiozzare, mentre le accarezzava piano i capelli. Sentiva il corpo di Violetta, scosso dal pianto, accanto al suo, e la strinse ancora più forte.
“Leon…è orribile quello che ti hanno fatto, quello che sei stato costretto a fare!” balbettò, mentre piangeva ancora più forte. Lo sapeva, aveva sempre intuito che dietro quella freddezza si nascondesse ben altro, ma tutta quella crudeltà era troppa per il suo cuore. Non avrebbe mai immaginato che Leon si fosse trovato in situazioni tanto dure, non solo per uno della sua giovane età, ma per un uomo qualunque.
“Va tutto bene…” la rassicurò il principe, intimorito. Pensava che l’avrebbe odiato e invece eccola lì, tra le sue braccia, che tentava in tutti i modi di consolarlo, di fargli sentire quell’amore che gli era sempre mancato. Si sentiva come paralizzato, ma il benessere che gli donava quella ragazza nonostante tutto rimaneva unico.
“E poi non sono stato costretto da nessuno…avrei sempre potuto lasciarmi morire. Sono stato un codardo”. Violetta smise di piangere e si separò dall’abbraccio guardandolo negli occhi con severità.
“Non dire queste cose…essere attaccati alla vita non è un sinonimo di viltà. Non è mai stata colpa tua, Leon. Ti hanno fatto vedere quello che volevano che tu vedessi. Ti hanno manovrato, hanno approfittato di te…”. Leon prestava attenzione a quelle parole, e ne dipendeva completamente. Mai nessuno lo aveva difeso in quel modo. Tra quei pochi che ne erano a conoscenza, solo Humpty aveva cercato di mostrargli quanto in realtà fosse Jade stessa ad aver sbagliato, ma non gli aveva mai prestato attenzione.
Violetta accostò piano le labbra alle sue, baciandolo dolcemente, e Leon dimenticò il suo passato in un istante. Quando si separarono, Violetta poggiò la testa sul suo petto, mentre le cingeva la vita con le braccia.
“Posso rimanere con te stanotte?” si azzardò a chiedere la ragazza, sollevando di poco il capo. Leon le diede un bacio sul capo, e annuì, facendola accoccolare su di lui. Le gambe dei due erano intrecciate, e i loro corpi adagiati l’uno sopra l’altro.
“Speravo me lo avresti chiesto, lo speravo tanto”.














NOTA AUTORE: Partendo dal presupposto che amo questo capitolo dal punto di vista dei contenuti (e concedetemelo ogni tanto xD), dal punto di vista stilistico ero sicuro sarebbe venuto molto peggio, e invece mi sorprendo di me stesso. In realtà ero incerto se essere un po' più crudo nella descrizione del passato di Leon, ma non l'ho fatto per due motivi:
1) il rating era arancio, e già mi sembra di battermela sul filo del rasoio
2) mi sembrava assolutamente inutile insistere su particolari che alla fine non aiutavano a capire dove volevo che il lettore concentraste la sua attenzione, ossia sulla tortura non fisica, quanto psicologica a cui viene sottoposto Leon. 
Detto ciò, ecco spiegati i motivi per cui forse vi sembra un po' più 'soft' il capitolo (per me rimane tostissimo, ma poi sono punti di vista xD). Non mi dilungo nella spiegazione del cambiamento di Leon, nè mi soffermo sulle tappe della sua 'formazione' anche perché mi piacerebbe capire come ognuno di voi ha vissuto questi piccoli frammenti del passato di quello che si rivela essere in assoluto uno dei personaggi più complessi, tra i 'buoni' (che poi tanto buono non è, nè sarà...ma dettagli). Comunque ci ho tenuto anche a mettere in risalto il profondo legame tra Violetta e Leon, che fa forza a quest'ultimo permettendogli di raccontare qualcosa che altrimenti non sarebbe riuscito a fare...Dubbi, perplessità, critche? Che vi aspettavate, che non vi aspettavate? Cosa condividete del personaggio, cosa non condividete? Dai, qui vi voglio attivi e propositivi, è un personaggio tutto da analizzare e da criticare (?) :D La scelta di un suicidio che non riesce a prendere...insomma ci sono tante cose che possono essere oggetto di critiche, ma anche di riflessione, e vi voglio sentire dire la vostra! Ok, adesso mi dileguo che ho scritto anche troppo nella Nota Autore (e non è da me xD). Grazie a tutti voi che continuate a seguirmi, e alla prossima! Buona lettura a tutti :3

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Capitolo 31
*** Il peso della conoscenza ***






Capitolo 31

Il peso della conoscenza

Maxi finì sul terreno polveroso, in ginocchio, e chino per terra, per non dover vedere quella scena orribile.
“Ti piace il futuro?”. Una voce gelida risuonava nella mente, la stessa voce che l’aveva sfidato: il Tempo stava ridendo del suo dolore, convinto ormai di averlo messo in trappola.
“Basta!” sibilò il ragazzo, alzandosi in piedi e correndo dal lato opposto. Le immagini scorrevano davanti ai suoi occhi, confondendolo. Cadde a terra, ma si rialzò, senza voltarsi. Cadde nuovamente, e nuovamente si alzò. Non sopportava quel peso, non riusciva a capire come avrebbe potuto guardare negli occhi Andres, senza leggervi in essi la morte, se mai fosse riuscito a uscire da quella trappola infernale. Il tempo scorreva, e la clessidra galleggiava minacciosa, affiancata dalla luna piena, di un cupo giallognolo. Non avrebbe mai superato la sua sfida, e questo perché non era stato abbastanza forte da sopportare quella visione. Sperava che almeno i suoi compagni fossero riusciti a scamparla, e che riuscissero comunque a convincere il Tempo a dargli una mano per salvare Emma. In quanto a lui, era sempre stato un ladruncolo senza grandi aspettative, se non quella di aprire una propria erboristeria, e quella era la fine adatta a lui, la fine di un codardo. Non riusciva nemmeno più a piangere, troppo scosso dal tetro futuro che gli si parava davanti. Si fermò di fronte a un piccolo lago, ma non appena si inginocchiò per attingervi dell’acqua, fu costretto ad indietreggiare. Sul fondo galleggiavano alcuni cadaveri, e il lago era tinto di un rosso acceso, che risplendeva diabolico alla luce lunare. Non era possibile nemmeno scorgervi il fondo, per quanto l’acqua era stata resa torbida. Ebbe un conato di vomito, che trattenne a stento, e tornò a osservare la superficie. In alto un debole rintocco gli fece intendere che il tempo scorreva inesorabile. Quindici minuti a disposizione. Chissà se a quell’ora Andres aveva già vinto la sua sfida, o se magari avesse scoperto anche lui quel terribile futuro.
‘La porta è vermiglia,
allo specchio somiglia’
Maxi osservò il suo riflesso, che tremolava sulla superficie. Possibile che la porta fosse in quel lago? In fondo era una sorta di specchio. Cercò di aguzzare la vista, ma non riusciva a scorgere nessuna porta nel fondo. Era anche vero che non si riusciva a distinguere nulla e lì sotto avrebbe potuto esserci anche un castello sommerso per quel che ne sapeva. La sola idea di immergersi tra tutti quei cadaveri lo nauseava, ma il tempo scorreva, e non vedeva molte altre alternativa. Dieci minuti. Con riluttanza si tappò il naso e si avvicinò alla riva. Immerse un piede, e poi l’altro, quindi lentamente scese, sempre più giù, immergendosi. I vestisti si tinsero di un tenute colore rossastro, e non appena solo la testa era rimasta sul pelo dell’acqua, diede un’ultima occhiata al cielo. Sette minuti.
Sott’acqua era impossibile vedere a un palmo dal naso. Il lago era parecchio profondo, tanto che dopo un po’ Maxi smise di toccare, e fu costretto a nuotare, muovendosi rapidamente con le braccia. Si ritrovò a pochi centimetri da un cadavere dagli occhi spenti, e fu tentato di urlare, ma sarebbe morto annegato, e non si poté concedere quel lusso. Scostando il corpo, continuò a procedere alla cieca. In quel momento nel bel mezzo del fondo fu chiaramente visibile una porta rossa, che ben si adattava al colore del sangue miscelato con l’acqua dolce. Maxi velocizzò le bracciate e raggiunge con la mano il pomello dorato. Spinse ma la porta rimase chiusa. L’ingranaggio sembrava essere arrugginito, e fu costretto a piantare i piedi sul fondo, spingendo verso di sé con tutta la forza in corpo. Un piccolo cigolio attutito dalla pressione dell’acqua, e una serie di piccole bollicine che risalivano velocemente gli fece capire che non doveva mancare molto. Cinque minuti.
Una mano gli afferrò il piede, cercando di allontanarlo. Era bianca e melmosa, ed era ricoperta di sangue. Un corpo tentò di ghermirlo, e più tentava di divincolarsi, più si ritrovava invischiato in un groviglio di cadaveri, che avevano miracolosamente ripreso vita, e tentavano di impedirgli la fuga. Il bisogno di aria cominciò a farsi percepire, e Maxi si ritrovò a scalciare nel tentativo di liberarsi, sebbene quei corpi privi di una volontà fossero piuttosto tenaci. Il pomello della porta si fece sfocato, mentre Maxi strizzava gli occhi, con le guance gonfie d’aria, per un ultimo tentativo. Tre minuti. La mano si strinse intorno al freddo oro, e tirò verso di sé. Due minuti. Un cardine finì per cedere, e la porta si inclinò di poco, risucchiando l’acqua al suo interno, fino a creare un vortice. Anche l’ultimo cardine si ruppe e la tavola di legno rosso finì risucchiata dalla sua stessa creazione. Nonostante le prese dei cadaveri, Maxi finì scaraventato al suo interno, finché un improvviso bagliore non lo accecò del tutto. Un minuto. La clessidra scomparve nel nulla, e la creazione di Future si dissolse come schiuma di mare.
 
Le pareti di quell’arcana sala da pranzo erano bianche. Non un bianco con tonalità che potevano variare dal beige al giallo, bensì semplice, puro. Una tavola lunga era già stata apparecchiata. C’erano quattro posti su un capo di essa, e tre persone conversavano tranquillamente, bevendo da dei calici dorati. Sui loro volti era dipinta preoccupazione, ma non appena lo videro sorrisero allegramente, facendogli cenno di sedersi al loro fianco.
“Avevamo cominciato a temere che non ce l’avessi fatta” disse Libi con un sorriso, riservandogli il posto affianco al suo. Non appena Maxi si fu seduto, sul suo calice si incise la scritta ‘Maxi, Tempi victor’. La tavola era riccamente imbandita, piena di pietanze invitanti, alcune dall’aspetto curioso, che non aveva mai visto, ma non per questo meno succulente. I piatti dei suoi amici erano sporchi, questo voleva dire che loro avevano già fatto man bassa, e lui aveva già l’acquolina in bocca. Si allungò verso un vassoio in ceramica bianca con delle patate soffocate, ma i compagni lo fermarono.
“Dovrebbe stare per arrivare” disse Andres, mentre Dj e Libi cominciarono a lanciarsi nel racconto delle loro mirabolanti prove. Maxi ascoltava silenziosamente, preso dai duri ricordi della sua di prova, che niente aveva a che fare con un passato tormentato come quello di Libi, o con la bolla temporale in cui era finito Dj. Non riusciva a guardare Andres negli occhi, e preferiva tenerli fissi sul piatto lucido, osservando il suo riflesso nitido.
“Andres non ha voluto parlarci della sfida che è toccata a lui” sbuffò la ragazza, una volta finito il racconto. Era particolarmente agitata e non riusciva a smettere di parlare. Non era da tutti sconfiggere il Tempo, ed essere ancora vivi per raccontarlo. Pochi si potevano vantare di essersi seduti al tavolo dei vincitori, e lei era tra questi.
“Te l’ho già detto…era solo una sorta di prova fisica. Qualche fiamma qua e là” rispose con tono evasivo Andres, giochicchiando con la sua forchetta. Era stranamente pensieroso, e non si era nemmeno accorto di Dj che gli aveva fatto una domanda.
“Cosa?” disse distratto, facendo stranire tutti i presenti per quella deconcentrazione che non era tipica del loro leader.
“Dicevo…una volta salvata Emma, dobbiamo continuare per il Castello di Fiori, giusto?” chiese nuovamente il mago. Sembrava particolarmente impaurito al pensarsi dentro quel castello, ma nessuno osò chiedergli perché. Andres fece per rispondergli, ma dal nulla apparvero il Tempo seguito dai suoi fedeli servitori, Passato e Futuro.
“Devo complimentarmi con voi per aver superato le mie sfide” digrignò il Tempo, tutt’altro che felice, anzi parecchio deluso. In fondo sperava che almeno uno della comitiva cadesse nei suoi tranelli, e invece eccoli tutti disposti intorno alla tavola, profondamente soddisfatti, con quei sorrisetti che non facevano altro che innervosirlo sempre più. Ma una promessa era una promessa, e una divinità non veniva mai meno alla sua parola. La sua unica soddisfazione era quella di aver insinuato del dubbio, e soprattutto di aver giocato un po’ con loro paure.
“Quindi ci aiuterai?”. Libi scattò in piedi, e il silenzio avvolse la sua domanda. Si risedette con le orecchie in fiamme, e fissando nuovamente il piatto davanti a sé.
“Certo. Era la mia parola” rispose il Tempo, osservando i presenti alzarsi uno ad uno. “Voglio conferire unicamente con il vostro capo” aggiunse subito dopo, rigirandosi tra le mani una catenina dorata, con una piccola clessidra dello stesso materiale. Passato e Futuro scortarono i vincitori fuori dalla sala, tutti tranne Andres, che invece rimase di fronte al Tempo. Era ancora vagamente perso nei suoi pensieri, ma la tensione di trovarsi di fronte a un Dio aveva pur sempre il suo effetto. Gli occhi gialli dell’uomo incutevano timore, e la sua espressione severa era resa ancora più tenebrosa da un piccolo sorriso vittorioso. Nonostante tutto aveva avuto la sua soddisfazione, prendendosi la rivincita forse più inaspettata di tutte.
Fece ondeggiare il mantello, e porse al ragazzo la catenina.
“Con questa avrai tutto il tempo di cui hai bisogno per salvare la tua amica. Ma attento, ragazzo, perché l’effetto della magia inizia non appena metterai piede nel posto da cui sei venuto, e cesserà nel tempo stabilito” spiegò autoritario. Andres tentennò un po’, forse temendo la possibilità di una sfida celata, ma poi l’afferrò e fece un cenno di ringraziamento.
“Posso andare dagli altri?” chiese fiero, mentre metteva la catena al collo. Sfiorò la piccola clessidra, e abbassò lo sguardo, oscurato da qualche pensiero improvviso.
“Certo…ma tu sai cosa succederà. Hai visto il futuro che spetta ai tuoi compagni” sibilò il Dio, posandogli una mano sulla spalla con una risata crudele.
“Non è stato divertente, è stato orribile, ma quel futuro non si avvererà” ribatté Andres, scoprendosi una manica, e mostrando un braccio pieno di bruciature con un gemito di dolore. Deglutì a fondo, e ritirò giù la manica, stringendo i denti.
“Sai che succederà ciò che hai visto, e ciò che hai vissuto. Il Futuro non fallisce mai. Mai”. La voce del Tempo echeggiò per la stanza, mentre il ragazzo scuoteva lentamente le testa. Non avrebbe lasciato che succedesse, lui l’avrebbe evitato. Nessun sacrificio avrebbe coinvolto uno dei suoi compagni.
“Li proteggerò tutti. Uno ad uno” concluse Andres, superando il Dio, che lo squadrò incuriosito per la tenacia che mostrava quel mortale, e per la sua ostinazione a non credere all’evidenza.
Con quelle ultime parole Andres uscì dalla stanza, seguito con lo sguardo dall’uomo dagli occhi sfolgoranti, anche più del sole, e dai capelli di un tenue castano, costantemente mossi da un vento inesistente.
“Lo vedremo, Andres, vedremo se non sarà come ho predetto per te”.
 
Erano passati quattro giorni, e dopo aver fatto il viaggio per trovare gli ingredienti adatti alla cura di Emma, finalmente i sacerdoti avevano preparato il famoso medicinale miracoloso. Non appena gli venne somministrato Emma sembrò rinascere in punto di morte. I suoi occhi si aprirono di scatto, così come le mani strette in pugni. Il colorito della pelle si riaccese di colpo, e annaspò un po’ prima di tornare a respirare normalmente. Poiché la ragazza avrebbe dovuto attendere al tempio per almeno altri due giorni in modo da rimettersi completamente, e poter almeno camminare senza continui capogiri, si era deciso che colui che avrebbe dovuto farli infiltrare al castello di Fiori li avrebbe raggiunti lì in modo tale da escogitare un piano. Fortunatamente FiordiBianco era distante solo alcuni giorni a cavallo, quindi il loro alleato non avrebbe destato sospetti. Si era accesa inoltre una nuova rivalità: sembrava infatti che la bionda non avesse affatto preso bene l’inserimento di un nuovo membro del gruppo senza la sua approvazione, se poi ci asi agigungeva il fatto che si trattava di un mago, era ancora peggio. Emma odiava la magia più di ogni altra cosa, aveva sempre pensato che fosse qualcosa di diabolico, che andasse estirpato, e Picche, dove la magia era quasi assente, non fosse per la regina, che proveniva però dalle Palude di Jolly, che infatti non riscuoteva la sua completa approvazione, era il suo Regno ideale. Quando era venuta a conoscenza del Pactio era diventata viola dalla rabbia, e da lì il suo trattamento nei confronti di Dj era peggiorato. Libi osserva le continue arrabbiature di Emma divertita, affiancata spesso da un Maxi sempre più cupo in volto.
“Da quando siamo tornati, non dici mai una parola…prima era difficile farti stare zitto un secondo” ironizzò la ragazza, seduta su una roccia rialzata, poco fuori dal tempio, mentre si godeva uno degli ennesimi maltrattamenti di Dj, costretto a correre di qua e di là per soddisfare ogni esigenza della bionda, che adduceva ad ogni ordine il pretesto che fosse assolutamente necessario per la sua completa guarigione. E si divertiva a richiedere le cose più impossibili.
“Che ha chiesto questa volta?” sghignazzò il ragazzo, sedendosi affianco, e godendosi la leggera brezza mattutina.
“Un pollo. Dj sta per impazzire, poverino” rise Libi, aspettando il momento giusto per intervenire e placare i bollenti spiriti. “Ma stai eludendo la mia domanda…cosa hai visto nella tua sfida?”.
Maxi rimase in silenzio, torturando l’elsa della spada, rinfoderata. Il cristallo nero si riflesse nei suoi occhi scuri, e la compagna capì che insistere sarebbe stato vano. Rompere quel muro del silenzio non le era possibile, inoltre era certa che di qualsiasi cosa si trattasse non doveva essere particolarmente piacevole, e non le dispiaceva essere ignorante di tanto in tanto.
In lontananza si vide un cavallo, un baio grigio, avanzare velocemente. Andres uscì dall’entrata del tempio ed andò incontro alla figura in lontananza, che si avvicinava sempre più. Un mantello viole scuro, dai bordi rossi, sicuramente pregiato, volteggiava, inghiottito nel vento, mentre la persona in cima al cavallo, era chinata in avanti, protesa, cercando di mantenere un’andatura sostenuta. L’animale cominciò a rallentare su ordine del padrone solo in prossimità dell’imponente tempio. Il misterioso cavaliere aveva il volo coperto da un lembo del mantello, ma due occhi scurissimi, come il carbone, scrutavano tutti i presenti, che si erano radunati intorno a lui.
“Tienimi il cavallo” ordinò con voce autoritaria, passando le redini a Maxi che era alla sinistra. Con un balzo atterrò con precisione, senza scomporsi un secondo, e lasciò che la sua identità venisse fuori, lasciando tutti basiti. Si trattava di un giovane, dai lineamenti un po’ spigolosi, ma comunque di una bellezza innaturale. I capelli corti e di un castano scuro erano rialzati sulla fronte formando un curioso ciuffo, ma l’espressione severa e affaticata lo rendeva tutto tranne che buffo.
“Federico Acosta, per servirvi” disse il ragazzo, afferrando le briglie da un Maxi ancora scosso, e avanzando verso i sacerdoti. Non li guardava in faccia, a quanto pare non era tanto interessato all’esito di quella missione quanto ad altro.
“Sei tu che ci farai entrare al castello?” lo interrogò Andres, sospettoso. Osservò gli indumenti dello straniero ed era chiaro che fosse un nobile. Quanto ci si poteva fidare di qualcuno così vicino alla corona?
“Pablo mi ha spiegato tutto…e so della vostra missione” disse semplicemente Acosta, facendosi strada tra i corridoi di pietra. Come se avesse intuito i suoi dubbi, si affrettò ad aggiungere: “No, non ho nulla che vi possa assicurare di essere degno di fiducia, ma non vi resta che credere alla mia parola, e al fatto che sia riuscito a trovarvi”. Si precipitò nella prima stanza aperta, scavata nella roccia, e tirò fuori una pianta del castello di Fiori, che appoggiò su un tavolo. Broadway, Libi, Maxi, Emma e Andres lo fissavano confusi.
“Questa è la pianta. Tra pochi giorni al castello si terrà una festa, e io ho fatto in modo di procurarvi gli inviti. Voi due vi fingerete un conte con la moglie, di cui mi sono assicurato l’assenza per non crearci problemi” spiegò velocemente, indicando Andres e Libi, che si guardarono per qualche istante, prima di distogliere lo sguardo imbarazzati. Emma osservava il tutto con aria disgustata, e alzò prontamente la mano.
“Io propongo di fingermi la contessa. In fondo sono figlia di nobili, e chi meglio di me conosce le buone maniere a corte?” propose, lanciando una frecciatina alla mora, che drizzò la schiena, sentendosi chiamata in causa. Federico invece sospirò, e si portò una mano alla fronte. C’era qualcosa di strano in quel ragazzo, qualcosa di anormale. Voleva perdere meno tempo possibile, ma il motivo era ancora ignoto.
“No, non funzionerebbe. Ti confonderai tra la servitù…proprio perché sei figlia di nobili esiste la remota eventualità che anche alla corte di Fiori tu sia conosciuta da qualcuno. Troppo rischioso. Allora, il piano è questo. Ci intrufoleremo nel castello, e io vi porterò nell’ala a cui viene proibito l’accesso e in cui credo si celi ciò che cercate”. Si fece improvvisamente pallido: il bello doveva ancora arrivare.
“Una volta lasciati lì, voi recupererete il famoso oggetto dell’armatura, ma da lì in poi vi dovrete arrangiare da soli” concluse, indicando alcuni punti sulla mappa. Da un piccolo borsino in pelle che portava a tracolla tirò fuori una copia fedele della carta che possedeva lui.
“Studiatela, memorizzatela. Le vie di fughe sono qui e qui”. Indicò una lunga scalinata che portava probabilmente alle cucine e agli appartamenti della servitù, e il salone principale, ben più rischiosa come via di fuga. “Sul retro vi ho scritto tutti gli orari del cambio di guardia. Dovrete memorizzare anche quelli”. Ripiegò tutto ciò che aveva tirato fuori con cura, e lo ripose nel borsellino.
“Stasera faremo delle prova per i novelli sposi, nonché nobili. Dovrò fare in modo che siate quanto meno credibili”. Indicò con lo sguardo un baule che era stato portato dai sacerdoti, prima legato su un fianco del cavallo. La stanza si svuotò lentamente, mentre tutti borbottavano qualcosa sulla comprensibilità o meno di quel piano tanto grossolano quanto pieno di rischi. Ma d’altronde la missione si era fin da subito ricca di incognite e non dovevano fare altro che aspettare e sperare.
“Broadway, ti è caduta questa!” strillò Maxi, rincorrendo il compagno con una moneta dorata. L’altro sgranò gli occhi e gli strappò di mano la preziosa moneta, che doveva essergli scivolata dalla tasca. Maxi rimase sorpreso dalla foga con cui Broadway aveva ripreso ciò che era suo, ma non vide il terrore che aveva attanagliato l’amico al pensiero di poter essere stato scoperto per un suo errore.
“Cosa ti spinge ad aiutarci?”. Erano rimasti solo Federico e Andres nella stanza, e il silenzio logorava il conte Acosta, sinceramente spiazzato da quella domanda.
“Ho sempre fatto il doppio gioco fin da quando Natalia ha preso il potere; già allora avevo numerosi contatti con Pablo Galindo, re di Picche. Ho continuato a restare a palazzo perché sapevo che avrebbe avuto bisogno del mio aiuto presto o tardi…e quel giorno è arrivato”.
“Ma non è solo questo…c’è dell’altro”. Minuto di silenzio. Federico ponderava la risposta da dare.
“Stai cercando di farmi un interrogatorio?” scoppiò a ridere il conte, celando tutto il suo dolore dietro gli occhi scuri in un’espressione imperturbabile, ma anche divertita.
“Voglio solo conoscere colui a cui affiderò la mia vita e quella dei miei compagni. Non mi sembra così sbagliato” rispose il leader serio. Federico scosse la testa, quindi tornò a fissarlo dritto negli occhi.
“C’è qualcuno che devo salvare”. Con quelle ultime parole, uscì dalla stanza. E Andres capì che ci aveva visto giusto: quel ragazzo gli nascondeva qualcosa, e forse era quel qualcosa l’unico motivo che lo avesse spinto ad aiutarli.
Federico era stanco di indossare una maschera. Ci aveva provato ad identificarsi con essa, ma aveva fallito miseramente. E bastava anche il solo pensiero della Regina Francesca a demolirlo come persona. Era sempre stato un ragazzo deciso, in grado di non guardare in faccia a nessuno per i suoi scopi, ma Francesca…lei era la sua debolezza. Più lo odiava, più si sentiva ferito, ma l’amore che sentiva nei suoi confronti non si era affatto affievolito con il passare del tempo, anzi era diventato talmente devastante da rischiare di farlo impazzire per il dolore. Il suo piano era semplice e conciso: approfittare del caos che si sarebbe scatenato con la scoperta dei rivoluzionari, perché prima o poi sarebbero stati scoperti, viste le numerose ed infallibili difese a protezione dell'elmo magico, per liberare Francesca e tentare la fuga insieme a lei. L’avrebbe portata al confine con il Regno di Picche, nella speranza di non essere scoperti.
 
“Libi è in ritardo” sbottò Federico, facendo avanti e indietro nella stanza dove il giorno prima aveva iniziato ad illustrare il piano. Picchiettava con una bacchetta di legno sulla mano, innervosendosi sempre di più. Non c’era tempo da perdere, doveva essere tutto perfetto prima della sera della festa organizzata dalla regina di Fiori. Nata era sempre stata molto attenta ai dettagli, e per questo non poteva trascurare nulla di nulla. Libi entrò di corsa nella stanza, col fiatone.
“Scusate il ritardo…” ansimò, piegandosi sulle ginocchia e cercando di riprendersi dall’affanno.
“No, cominciamo già male” disse il conte, dandogli una bacchettata sulle gambe e facendola rizzare in piedi. “Schiena dritta, e portamento fiero. Su con quelle spalle, guarda dritto davanti a te, non fissare il pavimento, non nasconde niente di interessante”. Federico si presentò fin da subito come un insegnante severo e inflessibile. Dopo aver dato loro alcune nozioni di base sul comportamento, e sul giusto modo di salutare un invitato a corte, gli passò dei tomi, dicendogli che dovevano impararne il contenuto a memoria; erano tutte le più importanti linee genealogiche di Picche.
“Dovrete conoscere alla perfezione in particolare quella degli Herrero, visto che vi fingerete i coniugi Herrero” spiegò aprendo uno dei due libri e mostrando un albero genealogico ricco di nomi minuscoli e articolati. Libi deglutì: studiare non era mai stato il suo forte, anche se fin da piccola si era mostrata molto vivace intellettualmente. Ma dalla scuola del suo villaggio natale, dove tutt’al più si imparava a fare i conti, a tutte quelle nozioni da digerire in poco tempo…non si sentiva affatto in grado di assolvere al compito che le era stato assegnato.
“Perfetto” rispose al posto suo Andres.
“Ci sarà anche della musica e si potrà ballare. Come ve la cavate con il valzer?”. Entrambi diventarono tesi, e arrossirono, quindi scossero la testa.
“Io non so ballare, sono una frana” mormorò il leader, per la prima volta intimidito.
“Non ho mai imparato” rincarò la dose la mora, lasciando il conte Acosta sbalordito.
“D’accordo, d’accordo, vi insegnerò io” disse l’altro, spostando il tavolo che si trovata al centro della stanza, e facendo un cenno ai due presenti, affinché si posizionassero dove diceva lui.
“Non è difficile, basta fare un passo dietro, uno avanti, e uno di lato” spiegò, posizionando la mano di Andres, sul fianco di Libi. Entrambi non proferivano parola, e guardavano in punti imprecisati della stanza, pur di non rendere palesi le proprie emozioni. La mano di Andres tremava, ma Libi se ne accorse appena, troppo presa a non lasciarsi guidare dall’istinto, che le chiedeva di gettarsi tra le braccia del ragazzo. Si ricordò delle attenzioni che Andres aveva riservato in passato ad Emma, a cui aveva poi trovato una motivazione che nulla aveva a che fare con l’amore. E lei? Lei cos’era per Andres? Davvero era relegata all’amica, alla confidente, con cui poteva sfogare tutta la sua frustrazione e il suo dolore per la perdita del fratello? Il loro rapporto era sempre stato costituito da alti e bassi, da arrabbiature continue, finite sempre con una risata sincera da parte dei due, ma mai come in quel periodo sentiva Andres tanto distante. Federico batté le mani, riscuotendola di colpo.
“Adesso io vi segnerò i tempi battendo le mani, e voi vi muoverete in base ad esso. Ricordate che vi ho detto, e seguite sempre i movimenti dell’altro”. Cominciò a battere nuovamente le mani, prendendo dei tempi predefiniti, gli stessi di un valzer. Andres si mosse, impacciato più che mai, e calpestò il piede dell’amica, che trattenne un urlo.
“S-scusa” si scusò, balbettando. Non aveva mai visto Andres tanto confuso e mortificato in vita sua, e per poco non le venne da ridere. Sembrava un cucciolo indifeso. Era in grado di fare fuori i mostri più inquietanti, poteva vincere pericolose sfide contro un Dio, ma non era in grado di eseguire un semplice ballo. Forse era proprio quello che lo rendeva tanto speciale, e così simile a lei.
“Non preoccuparti, devi solo rilassarti” gli bisbigliò all’orecchio. Per farlo poggiò le mani sulle sue spalle e si alzò in punta di piedi. La presa del ragazzo si fece più salda, portando i loro corpi a poca distanza l'uno dall'altro. Andres la guardava rapito da qualcosa, qualcosa che vedeva nei suoi occhi. Libi non seppe che cosa dire, rimase semplicemente paralizzata.
“Riproviamo” li interruppe il conte Acosta, facendoli avvampare. La seconda volta le cose andarono un po’ meglio, anche se Andres rimaneva fin troppo impacciato. Dopo ben due ore di prove si poteva dire che erano in grado di ballare un valzer, e per quel giorno Federico si ritenne soddisfatto.
 
I due bambini osservavano il salone addobbato per le feste. Francesca aveva gli occhi che brillavano, emozionata al solo pensiero della musica e dei balli che avrebbero vivacizzato la tenuta quella sera.
“Non vedo l’ora che un principe mi inviti a ballare” esclamò elettrizzata, sognando ad occhi aperti. Federico ridacchiò e fece qualche passo indietro.
“Penso che una ragazza maldestra come te gli cascherebbe come minimo addosso!” la canzonò, facendola diventare rossa di rabbia.
“Sei solo invidioso, perché il mio sposo sarà incredibilmente perfetto” rispose a tono.
“Chi, il tuo amico invisibile?” sghignazzò l’altro sull’orlo delle lacrime per il gran ridere.
“Io…io…”. Francesca non sapeva come ribattere, ma continuava a stringere i piccoli pugni, e a guardare adirata l’amico. Come si permetteva a trattarla in quel modo e a prendersi gioco di lei?
Una manona si poggiò sulla sua testa arruffandole i capelli.
“Che succede qui?” domandò un ragazzo, nella sua tenuta regale. Aveva i capelli scurissimi, e una barba ben curata. I suoi occhi erano più scuri di quelli del figlio dei conti Acosta, e li scrutavano dall’alto divertiti.
“Luca!”. Francesca era ormai certa di aver trovato il suo protettore. Luca, il fratello, aveva sempre esaudito ogni sua piccola richiesta, non avendo mai nascosto il debole che aveva per la sorellina. Era molto protettivo nei suoi confronti, e la difendeva a spada tratta sempre e comunque, anche quando commetteva delle malefatte poco ben viste dai genitori. Francesca si aggrappò alla gamba di quello che le pareva quasi un gigante, e  cominciò a piagnucolare.
“Federico mi tratta male. Dice che nessuno mi sposerà mai!”. Luca scoppiò a ridere, e prese in braccio la sorellina, facendola volteggiare.
“Purtroppo per te, sorellina, Federico ha ragione. Non ti sposerai mai, perché io non permetterò a nessuno di avvicinarsi al mio tesoro!” esclamò, schioccandole poi un bacio sulla guancia.
“E in quanto a te” disse poi rivolgendosi al bambino, che già si aspettava una bella sgridata. “Quando vedrai la mia sorellina crescere, capirai che è il fiore più bello e delicato di tutti, e che per questo va protetto da chi vuole coglierlo”. Federico arrossì fino alla punta delle orecchie, mentre il principe di Fiori gli faceva un occhiolino volutamente ambiguo. “Se non l’hai capito già, visto che stai sempre in compagnia di questo mostriciattolo” aggiunse divertito, facendo volteggiare ancora la piccola Francesca.
“Non sposerei mai una ragazza tanto…scorbutica” disse Acosta. Fece la linguaccia e scappò via, seguito dalla voce dell’amica che lo chiamava. Le insinuazioni di Luca gli avevano dato non poco fastidio. Si divertiva a far prendere alla principessa dei piccoli colpi, nascondendole delle rane sotto il cuscino, o con altri divertenti scherzi. A lui non piaceva Francesca. Insomma…erano ancora piccoli, e per di più non andavano quasi mai d’accordo. Poteva l’amore essere non solo irrazionale, ma anche tanto stupido?
 
Salvarla da quella prigione era ormai il suo chiodo fisso, e non pensava ad altro. Voleva rivivere con lei quei ricordi, voleva vederla sorridere, voleva che le urlasse contro come quando erano piccoli. E sa da piccolo aveva pensato che l’amore fosse stupido, adesso si aggrappava ad esso disperatamente; era l’unica fonte di energia che gli aveva impedito di impazzire. Il suo crudele doppio gioco, seppur necessario, aveva condannato all’infelicità l’unica persona che per lui contava davvero. La sua stanza, fatta preparare dai sacerdoti, era, come aveva immaginato, molto semplice e sobria. A parte il letto c’era solo un modesto armadio, con un piccolo sgabello. Federico si tolse la giacca di velluto, e si gettò sul letto a peso morto. Quella giornata era stata durissima, ed era solo all’inizio. Quei due erano tanto vicini a somigliare dei nobili quanto la possibilità che Picche e Cuori si alleassero. Sospirò, e tornò a concentrarsi sul suo obiettivo: salvare Francesca.
 
Dj era chiuso nella sua stanza, a meditare. Si avvicinava sempre di più il giorno in cui avrebbe messo piede nel castello di Fiori, la prigione di tutti i maghi. E di suo padre. Se si fossero incontrati avrebbe dovuto combattere contro di lui, entrambi vincolati da un Pactio…Ma non era solo il pensiero del padre a terrorizzarlo. Avrebbe rivisto una persona, a cui in passato era stato molto legato, ma che aveva tradito il loro ordine, alleandosi spontaneamente con la regina Natalia ancora prima che prendesse il potere.
“Chissà se la incontrerò” mormorò, guardandosi i palmi delle mani. Sentiva una forte magia fluirgli nelle vene, e si sentiva più sicuro della sue abilità da quando era dentro quello strano quanto variegato gruppo. Ma sarebbe stato abbastanza per batterla?
Sebbene fosse maturato come mago la risposta era più che ovvia: no, non sarebbe stato in grado di farcela. E forse non ce l’avrebbe mai fatta. 














NOTA AUTORE: Allora, capitolo interlocutorio, ma pieno di domande...ripercorriamo le tappe più importanti. Maxi supera la sua sfida, ma nonostante la vittorie del gruppo sul Tempo c'è tutt'altro che da stare allegri. Non solo Maxi vede qualcosa nel futuro, ma anche Andres, qualcosa di cui non siamo a conoscenza, ma che riguarda i suoi amici. E per chiarire questo dubbio, dovremo aspettare di arrivare alla mini-saga di quadri...e per allora molte cose saranno cambiate. Ma non anticipo nulla ù.ù Fatto sta che riescono a portare a termine il salvataggio di Emma, che già non vede di buon occhio Dj, e si diverte a strapazzarlo, povero :( Ma ecco arrivare anche Federico, che entra in scena, ed è colui che deve far infiltrare i ragazzi, per recuperare il fatidico elmo, un pezzo dell'armatura di cristallo. Ohhhh, finalmente ci avviciniamo all'azione ragazzi. Ci saranno scontri e improvvisi combattimenti, prepariamoci, ma a Fiori ci attende tutt'altro che una tranquilla festa a palazzo :P Mentre Federico continua a ripercorrere il SUO piano, Dj teme non solo il padre, ma anche qualcun altro in quel castello...chissà di chi si tratta. Molti scontri e incontri nel prossimo capitolo :P Grazie a tutti voi che leggete/recensire, e ci tengo a scusarmi visto che non ce l'ho fatta a rispondere alle vostre splendide recensioni, ma non ho proprio avuto tempo :/ Chiedo perdono, spero che non accada più :( Vabbè, buona lettura a tutti, e alla prossima! 
syontai :D 

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Capitolo 32
*** Trappola floreale ***






Capitolo 32

Trappola floreale

La sera delle festa era giunta, e il gruppetto capitanato non da Andres, bensì da Federico, il giorno prima era arrivato a Fiordibianco e avevano alloggiato alla taverna, definendo gli ultimi dettagli del loro piano. Alla luce di una lampada ad olio, riuniti intorno a un tavolino in fondo alla sala confabulavano, ripassando ciascuno i propri spostamenti.
“Io, Maxi ed Emma, quindi, ci confonderemo con la servitù” esclamò Broadway, guardando i suoi compagni negli occhi uno ad uno. Andres annuì.
“Esatto. Dj invece verrà con noi e si fingerà il nostro consigliere”. Il mago fece un respiro profondo e cercò di balbettare qualcosa, ma venne fermato dal conte Acosta, che invece guardava insistentemente un punto preciso della mappa.
“Durante la festa ci saranno dei fuochi d’artificio voluti dalla stessa regina Natalia, e tutti gli invitati si affacceranno sul balcone che si affaccia sulla piazza principale, quella di fronte all’ingresso. Dovrete approfittare di quel momento per sgattaiolare via senza che qualcuno si accorga della vostra assenza. A questo punto arriva la parte più pericolosa, perché quell’ala del castello, dove dovrebbe essere custodito l’elmo è stata resa inaccessibile da parecchi anni. Precisamente da quando la regina di Fiori è stata deposta”. Prese una pausa, in cui il ricordo di quel giorno orribile prese inevitabilmente il sopravvento. “Ci sono guardie che controllano che nessun curioso possa metterci piede. Di quelle ve ne dovrete occupare voi, ma forse con i fuochi d’artificio non attirerete l’attenzione”.
“Io, veramente…” tentò di dire Dj, ma venne nuovamente bloccato, questa volta da Maxi.
“Dovremmo darci un luogo d’appuntamento” disse, riferendosi ad Andres.
“Io vi consiglio qui”. Federico indicò un punto del palazzo, vicino all’ingresso. "Questo punto è accessibile sia attraverso la scalinata che conduce al ricevimento, alla quale i coniugi Herrero prenderanno parte, sia dalle cucine, dove voi vi intrufolerete come servitù. Tutto chiaro?” concluse, ripiegando la cartina con cura, e infilandola in un taschino interno della giacca di velluto verde bottiglia.
“Ma vi stavo dicendo che io…”. Il mago boccheggiava, ma un profondo sbadiglio di Andres, non gli permise ancora una volta di cominciare il discorso che intendeva fare, sebbene lo ritenesse di massima importanza.
“Insomma, domani sarà una vera e propria caccia al tesoro!” mormorò il capo, alzandosi in piedi e stiracchiandosi. “Proprio per questo penso che dovremmo andare tutti a dormire, ci attende una giornata piuttosto movimentata” ironizzò, prima di allontanarsi dal tavolo, e percorrere la scricchiolante scala di legno che conduceva alle stanze della locanda.
Broadway fu uno dei primi a chiudersi nella sua stanza, e tirò fuori la moneta dorata, che si rigirò tra le mani. Il suo lasciapassare e la sua fonte di ricchezza. Prese un calamaio posto su uno scrittoio della stanza, e sebbene l’inchiostro si stesse quasi per seccare, vi intinse la piuma d’oca. Scrisse una lettera sulla superficie dorata dell’oggetto. Qualche secondo dopo la lettera venne completamente assorbita, e la moneta tornò priva di schizzi d’inchiostro, come prima che vi appoggiasse la punta della piuma. S…T…Trascorse tutta la notte a scrivere una lettera dietro l’altra, finché non fu soddisfatto delle informazioni date e non potesse così coricarsi. Il giorno dopo avrebbe dovuto giocarsi abilmente le proprie carte, perché il suo ruolo di spia sarebbe venuto fuori prima o poi, e per allora doveva essere pronto.
 
Dall’altra parte della città, nel castello, un cavaliere di Fiori si rigirava una moneta dorata tra le mani, identica a quella di Brodway, mentre un altro si appuntava ad una ad una le lettere che comparivano su essa. “S…T…” cominciò ad elencare quello più giovane, incitato dal suo compagno più anziano.
“Sta facendo un buon lavoro” ghignò il giovane, lasciando trapelare nello sguardo un lampo di eccitazione.
“Gonzalo, pensa piuttosto a continuare a dettarmi le lettere”.
Gonzalo represse un altro ghigno, cercando di sembrare più serio, per fare buona figura di fronte al suo superiore. La dettatura continuò, lettera per lettera, fino a quando la moneta, da incandescente che era diventata non tornò gelida.
“Stanno arrivando…Domani…Herrero…Travestiti…Ala Inaccessibile” rilesse attentamente il cavaliere che aveva scritto fino a quel momento.
“Quindi hanno intenzione di agire domani, durante il ricevimento della regina Natalia!” esclamò Gonzalo febbricitante, mentre un lampo maligno attraversava i suoi occhi verdi.
“Troveranno una brutta sorpresa” disse l’altro sbadigliando, prima di alzarsi e afferrare la pergamena.
“Dove va, capitano?”.
“A riferire alla regina ciò che abbiamo scoperto”.
Dette quelle ultime parole il capitano dell’Ordine dei Cavalieri di Fiori, lasciò la piccola stanza debolmente illuminata da una candela tenuta al sicuro dagli spifferi grazie ad un portacandela le cui pareti tonde e lisce di vetro permettevano una buona illuminazione.
Il corridoio risuonava unicamente dei suoi passi, mentre attraversava i corridoio del palazzo per raggiungere la stanza della regina, nell’ala nord-ovest. Nella sua mente mille pensieri vorticavano in cerca di ordine, ma più ci pensava più i vari tasselli di quel complicato rompicapo si mescolavano, confondendolo più di prima. Nonostante fosse ai vertici della piramide sociale di Fiori, ancora molti oscuri meccanismi non gli erano chiari, e la presenza di alcune importanti personalità, tenute volutamente nascoste, non aiutava certo a capire.
Bussò alla stanza delle regina, e quando solo dopo un po’ sentì un flebile ‘Avanti’ il capitano capì che la donna non dovesse essere sola. Non appena entrato infatti, la vide seduta ai piedi dell’enorme letto a baldacchino, che tra tendaggi e coperte copriva quasi tutte le tonalità dell’azzurro, in compagnia di una ragazza dai lunghi capelli biondi e mossi, raccolti in una treccia ordinata. Sul capo indossava un diadema argentato, e i suoi occhi erano scuri e profondi. Indossava un semplice vestito violetto che però aderiva perfettamente al suo corpo, quasi come una seconda pelle. Era la classica donna che con il suo fascino come arma poteva essere un sinonimo di pericolo. Le mani piccole e affusolate poggiavano sulle gambe con grazia, e il controllo che aveva di ogni sua emozione era invidiabile. Non appena vide entrare l’uomo, la donna emise un risolino compiaciuto, ma per nulla sciocco. Era in grado di incutere timore e rispetto anche solo con una risata, intrisa di dolcezza e veleno.
“Il nostro capitano è arrivato” trillò, lanciando poi uno sguardo ben poco promettente a Natalia, che fece un cenno all’uomo, che si era inchinato, di alzarsi.
“Mia signora” salutò prima la regina di Fiori, e poi si rivolse alla sua compagna. “Regina Ludmilla”. Ludmilla Ferro era la regina di Quadri, e quasi tutti erano a conoscenza del suo passato torbido quanto volutamente poco chiaro. In seguito alla morte dei genitori per una grave malattia, che gli aveva lentamente prosciugato la linfa vitale, Ludmilla poteva ben vantarsi del titolo delle regina più giovane nella storia del Paese delle Maraviglie, insieme a Francesca, ormai deposta. Amava indossare gioielli sopra ogni cosa, e le sue pietre preziose preferite erano indiscutibilmente i rubini. Quella sera però, in assoluta semplicità, portava solamente una collana di zaffiri, non appariscente, ma comunque molto elegante, con un piccolo delfino argentato, simbolo della sua casata, insieme al simbolo del Regno.
“Ludmilla stava per ritirarsi nelle sue stanze” si affrettò a spiegare Natalia. Non muoveva un muscolo, ma il tremolio delle mani tradiva il suo terrore. Il capitano aggrottò la fronte, ma non disse nulla. Quale relazione poteva mai esserci tra Natalia e Ludmilla? Da quando però la vera erede al trono era stata deposta effettivamente i rapporti tra Fiori e Quadri erano di gran lunga migliorati, fino a diventare fedeli alleati, ma non capiva cosa portasse le due donne a conversare insieme a quell’ora della notte nella stanza della regina. Dimenticò ogni sospetto, e si concentrò su quello che più gli premeva: riferire del piano che avevano scoperto grazie alla spia.
“Hanno intenzione di rubare l’elmo di Fiori, mia signora. E lo faranno esattamente domani”. Consegnò la pergamena con scritto quello che erano riusciti a scoprire.
“Non è molto dettagliato” notò Ludmilla, buttando l’occhio su ciò che vi era scritto. Natalia strinse il foglio che teneva in mano, ma non disse nulla.
“Ti avevo detto, mia cara, di anticipare l’arrivo dei miei uomini per portare quell’elmo al sicuro, ma non hai voluto darmi retta! Non saranno qui prima di tre giorni” osservò indispettita, prima di scattare in piedi.
“Mi scusi se mi permetto, ma credo che l’elmo sia un cimelio di Fiori, e dovrebbe rimanere all’interno del castello, dove…”. Il capitano non finì il discorso, incenerito con lo sguardo dalla Ferro, che guardava Natalia con fare oltraggiato.
“Non mi interessa! Nel mio castello lo scudo è al sicuro grazie alle mie doti e alle mie abilità innate di incantatrice, ma qui…che protezione potete dargli qui?” sbottò con furia.
“I maghi al mio servizio hanno creato una realtà illusoria” spiegò la regina. “Una sorta di mondo all’interno del castello. E lì l’elmo è custodito con cura, non riusciranno mai a prenderlo. Ho fatto piazzare numerosi trappole”.
Ludmilla alzò le mani al cielo stizzita, quindi prese un respiro profondo per calmarsi.
“D’accordo, d’accordo! Spero per te che l’elmo rimanga al sicuro, almeno fino a quando non arriveranno i miei uomini. Ricorda, Natalia, mi devi quell’oggetto magico fin dal principio, e abbiamo portato avanti le trattative anche troppo a lungo per quel che mi riguarda”.
Natalia annuì con aria affranta, quindi congedò l’uomo che ben poco aveva capito di quella conversazione. Rimasero solo le due donne a studiarsi vicendevolmente.
“Sto già facendo tutto ciò che mi hai chiesto. Ho rispettato la tua volontà, promettendoti fedeltà, e facendo in modo che anche il mio popolo ti fosse fedele. Che altro vuoi da me?”. La regina di Fiori era sull’orlo delle lacrime, ma questo non sembrò smuovere affatto l’animo insensibile della Ferro, che rispose con un sorriso sghembo.
“Tu hai voluto il mio aiuto, e tu ne pagherai le conseguenze”. Si avvicinò pericolosamente alla donna, che nel frattempo si era alzata, e le sfiorò un ricciolo, avvicinandosi all’orecchio con crudele malizia.
“E non sarò soddisfatta finché quell’elmo non sarà nelle mie mani” sibilò minacciosa, per poi allontanarsi con un falso sorriso indulgente.
“Poi sarò libera di gestire il Regno a modo mio?”.
“Devo congedarmi, domani devo partire assolutamente per raggiungere il Regno di Cuori” sbadigliò la donna, ignorando la precedente domanda.
“Il mio consigliere arriverà tra tre giorni, recupererà l’elmo che tu gli darai, e dopo essersi assicurato che la transazione sia andata a buon fine, mi raggiungerà sul confine. Non deludermi, Natalia, o di Fiori vedrai solo le macerie e un Regno sul filo della distruzione” la avvisò, salutandola con un cenno della mano, e uscendo dalla stanza.
Natalia si gettò sul letto, e diede sfogo alle sue lacrime. In fondo se l’era meritato; era finita nelle grinfie di quella ragazza senza cuore per una sua scelta. Accecata dalla gelosia e dall’orgoglio aveva agito senza pensare alle conseguenze, che adesso si concretizzavano davanti a lei, mettendola dinanzi a una strada a senso unico. Non aveva più scelta, era in trappola.
E mai come quel momento avrebbe desiderato poter tornare indietro nel tempo, e cambiare quel maledetto ‘accetto’ che l’aveva condotta alla rovina.
 
Andres attendeva impaziente in una carrozza, presa a nolo dal conte Acosta, che Libi fosse pronta. Indossava un elegante abito blu notte che però lo metteva notevolmente a disagio. Continuava ad assestarsi il morbido colletto di velluto nero, e si stirava le maniche infastidito. Portava anche una cappa nera, i cui lacci intorno al collo, terminavano con due gemelli argentati, con incastonati due zaffiri. I cavalli nitrivano, più impazienti di lui, e Maxi si era improvvisato cocchiere, affiancato da Broadway.
“Ma quanto ci mettono Federico e Libi ad arrivare?” sbuffò il primo, tenendo le redini, e cercando di trasmettere sicurezza ai cavalli.
“Mancano anche Emma e Dj” notò l’altro.
Come se fosse stata appena invocata, Emma fece il suo ingresso nella carrozza. Era arrabbiata e nervosa, come se avesse preso un cazzotto allo stomaco, ma non avesse avuto il tempo e la possibilità di rispondere a dovere. Andres si affacciò dalla carrozza, e capì il motivo di tutto quel nervosismo: come non poteva essere gelosa di quello spettacolo? Di fronte a lui, affiancata ai lati da Dj e il conte Acosta, Libi appariva in tutto il suo splendore. Indossava un abito di un lucente turchese, che le fasciava morbidamente il busto, prima di aprirsi in una gonna non troppo ampia, da cui si intravedevano delle scarpette argentate. Intorno al collo risplendeva un collier di diamanti, mentre i capelli, resi ancora più lisci e scuri del solito, forse grazie all’intervento di Dj, erano raccolti in un elegante chignon. Chiunque avrebbe scambiato quella ragazza per un membro dell’alta società. Più si faceva avanti più Andres deglutiva e sentiva le mani sudare senza controllo. Mai aveva visto Libi come una vera e propria donna, dal fisico atletico ma non sgraziato, alle labbra rosate, rese più invitanti con un filo di rossetto. La ragazza traballò un po’, ritrovando poco dopo l’equilibrio, e continuò a camminare, cercando di non curarsi degli sguardi puntati addosso, soprattutto quello di Andres, che sembrava essere rimasto impalato come uno stoccafisso. Il ragazzo scese i due scalini della carrozza e fece un goffo inchino, prendendole la mano, avvolta da un guanto bianco di stoffa finissima. Lasciò su di esso un delicato bacio, guardandola negli occhi, e la vide avvampare. Nessuno dei due sapeva cosa dire, e rimasero l’uno di fronte all’altro, cercando di non far notare quanto si sentissero attratti l’uno dall’altro.
“Stai…bene” si decise a dire infine.
“G-grazie…anche tu stai molto bene” rispose Libi.
Una serie di fischi da parte di Maxi la fece diventare ancora più rossa se possibile.
“Libi, ma sei uno schianto!” urlò il cocchiere, facendo innervosire i cavalli, che nitrirono scalpitando. Andres lo incenerì con lo sguardo, e si schiarì la gola.
“Sarà meglio andare. Non dimentichiamoci della nostra missione”.
Libi annuì, scostandosi un ciuffo ribelle dal viso, e portandolo dietro l’orecchio. Certo, con quel vestito, non sapeva come sarebbe potuta essere utile nel caso si fosse scatenata una battaglia, ma Dj fortunatamente aveva trovato un modo per aiutarla. Quella era la sua serata, il suo turno di essere una principessa, ma non avrebbe dimenticato che aveva uno scopo. E a costo di pagare il prezzo con la vita, avrebbe fatto in modo che i suoi compagni recuperassero l’elmo magico.
La carrozza avanzava silenziosamente, una volta aperti i cancelli del palazzo, lungo il viale, e deviò appena per dirigersi verso le scuderie. Federico nel suo elegante abito viola acceso tirò fuori tre inviti, e ne porse due ad Andres.
“Questi sono per te e la tua consorte. Gli inviti per la festa per i coniugi Herrero, ossia voi” sottolineò il conte, lanciando uno sguardo verso un punto preciso dell’edificio.
Emma guardò quegli eleganti inviti al ricevimento passargli sotto il naso, e finire tra le mani del capo, che guardava il loro nuovo alleato con un misto di compassione e fierezza.
“La salverai”.
“Scusa?” chiese Federico, stupefatto.
“La persona che deve essere salvata. La salverai, perché noi ti aiuteremo”. Il nobile scosse la testa.
“Voi avete una missione, e io la mia. Non potete permettervi perdite di tempo”.
“Non saremmo qui senza il tuo aiuto!”
“Io l’ho fatto per un mondo migliore, non per voi. L’ho fatto perché credo negli ideali di Pablo, perché spero che quando questo incubo sarà finito, la giustizia regnerà nei quattro Regni” spiegò Federico. I suoi occhi brillavano ardimentosi. Andres si stupì delle parole del ragazzo: non vedeva lo stesso rancore che provava lui, lo stesso odio per quel mondo morente, al contrario assomigliava a lui quando aveva ancora degli ideali, e lo invidiava per non aver vissuto le atrocità di una guerra.
Non ebbe il tempo di rispondere che la carrozza si fermò e le porte si aprirono, mostrando due valletti incaricati di accogliere gli ospiti e accompagnarli all’entrata del palazzo.
“Si comincia” mormorò per poi sciogliersi in un sorriso indulgente, pronto a recitare la parte di un giovane nobile con il solo pensiero di passare una serata in compagnia tra musica e buon cibo. Porse gli inviti al primo valletto, un uomo un po’ tozzo sulla cinquantina, con una rada barba grigiastra.
“Ma certo, gli Herrero” esclamò con un sorriso di circostanza.
I due vennero fatti scendere dalla carrozza, insieme a Dj, indicato come personale consigliere e accompagnatore.
“Per quanto riguarda gli altri componenti della servitù, è stato preparato un lauto banchetto nelle cucine” disse l’altro valletto, rivolgendosi a Maxi, Broadway e Emma, che seguirono l’indicazione data e si avviarono all’entrata di servizio per raggiungere le cucine, vicino alle scuderie. Federico porse il suo invito, e venne accolto con molte reverenze e inchini, segno che Acosta era molto benvisto dalla regina Natalia. Il gruppetto venne condotto attraverso l’ampio e lussuoso salone d’ingresso per una lunga e stretta scalinata. Svoltando a sinistra raggiunsero una sala predisposta per la festa: era un enorme salone pieno di luce, dal cui soffitto pendeva un raffinato lampadario di cristallo, i cui bracci si allungavano verso il basso con alcuni pendenti a forma di goccia. I tavoli erano addossati lungo una parete, e tra calici dorati, pregiati vassoi, e posate scintillanti, cibi di ogni tipo si alternavano invitanti, tanto che Andres, nonostante avesse lautamente cenato prima di presentarsi al castello, sentì un brontolio alla base dello stomaco. Brocche cariche di vino rosso e bianco fino all’orlo avrebbero fatto la felicità dei frequentatori delle locande, mentre già alcuni ospiti erano raccolti in gruppetti a conversare amabilmente tra di loro. In fondo alla sala vi era una piccola rientranza a cappella dove era stata sistemata un’orchestra che eseguiva dolce musica dal vivo come intrattenimento. La regina Natalia era ferma in un angolo della stanza, con un calice in mano, mentre qualche nobile vicino le parlava di chissà quale sciocchezza. Non sembrava davvero presente quella sera, ma la mente viaggiava verso pensieri lontani. Come riscossa dalla vista di un fulmine, si riprese di colpo, e rivolse un sorriso alla minuta signora che le stava facendo i complimenti per l’ottima riuscita della serata.
Un anziano signore con un panciotto bianco e lindo si arricciava continuamente i baffi bianchi con le dita, lamentandosi della dura situazione che stava affrontando con le sue sole forze. Andres riuscì a cogliere alcuni frammenti della conversazione, nonostante la sua attenzione fosse puntata su altro.
“Purtroppo è l’ennesima volta che subiamo un’imboscata. Non ne posso più! Se stasera la regina non mi concede almeno un reggimento per mettere a tacere quei briganti da quattro soldi, giuro che impazzirò!”. Si lamentava con voce grave, mentre gli ascoltatori borbottavano parole d’assenso.
“Non ci credo! Il Nord del Regno non è più un posto sicuro come un tempo” si intromise una signora che sventolava velocemente un ventaglio di stoffa. Aveva un naso lungo e affilato, e Andres trattenne una risata immaginando al suo posto un coltello affilato, di quelli per affettare i pomodori.
“La regione di cui sono luogotenente poi è diventata un luogo invivibile! Sono ovunque, spuntano dal nulla, e poi scompaiono altrettanto improvvisamente. Rubano derrate, intralciano i mercanti…una piaga vera e propria!”. Il signore continuò a lamentarsi, ma Andres aveva seguito Libi verso i tavoli del banchetto, e riuscì solo a scorgere ad un certo punto lo sguardo inorridito della donna che seguiva il racconto, mentre batteva il ventaglio sempre più rapidamente.
“La gente muore di fame, e si lamentano se ci sono i briganti” borbottò, affiancando la sua ‘consorte’ di fronte a un vassoio di arrosto con un sugo rossastro, probabilmente al vino rosso.
“Non siamo qui per fare i difensori del popolo e non farti riconoscere” bisbigliò la ragazza con freddezza, servendosi come se nulla fosse successo.
“Io certe cose non le tollero!” sbottò Andres, incrociando le braccia al petto.
Senza che potesse aggiungere altro Libi lo trascinò in un angolo della sala, osservando i motivi geometrici del pavimento. Avevano già parecchi sguardi puntati addosso, forse perché nessuno pensava che i coniugi Herrero fossero così giovani, ma d’altronde erano anni che non si presentavano alle feste indette dalla famiglia reale. Erano sempre stati restii alla vita a palazzo, e avevano preferito ritirarsi in campagna, affittando i loro numerosi e vasti terreni ai contadini in cambio di una parte del raccolto e di una piccola quantità d’oro.
La serata trascorse normalmente, fino a quando la regina non si decise a venirgli incontro. Li salutò educatamente, e dopo avergli rivolto uno sguardo indagatore si allontanò. Pensavano di averla scampata, fino a quando la donna non si avvicinò pericolosamente ad una guardia; cominciò a parlarci fittamente, guardandoli di tanto in tanto. Andres rimase freddo di fronte a quella situazione, a differenza di Libi che cominciò a tirargli il braccio in preda al panico.
“Ci hanno scoperti, dannazione!” disse tranquillamente, arretrando piano. Federico Acosta era già sparito dalla circolazione, e non sapeva che fine potesse avere fatto. Ormai il piano non si poteva cambiare, era un dato di fatto. Continuò ad arretrare piano, poi si defilarono dalla sala, iniziando a correre. La guardia nel frattempo aveva annuito, e si era apprestata a seguirli. Erano come topi in trappola, e anche se avessero raggiunto l'Ala del palazzo che era stata resa inaccessibile si sarebbero trovati in difficoltà di fronte alla magia che avvolgeva quel luogo.
Libi e Andres corsero fino al bivio da cui erano venuti, ma invece di scendere la scalinata e raggiungere il salone d’ingresso proseguirono dritti, mentre si scambiavano qualche osservazione.
“Non ci credo, eppure non abbiamo commesso alcun errore!” esclamò Libi, raccogliendo alcune pieghe della gonna per facilitare i movimenti.
“Penso che lo sapessero già…non so come, ma sembrava che fossero preparati per il nostro arrivo” constatò l’altro, tirando fuori dalla tasca dell’elegante pantalone una miniatura della mappa del castello.
“Non dovremmo aspettare gli altri?” chiese Libi. Non appena arrivati infatti Dj non aveva perso tempo, e aveva deciso di raggiungere Maxi e Broadway nelle cucine.
“Con le guardie alle costole? Non ti sembra strano che in una sala da ricevimento ci sia una guardia del palazzo? Sapevano tutto! Qualcuno deve aver parlato”. I vari tasselli si riunivano nella sua mente ed era ormai chiaro che erano stati traditi.
Un rumore di passi e un clangore metallico li avvertì dell’arrivo della guardia, che infatti non si fece attendere e si avvicinò tendendo la lancia verso di loro.
“Dovete seguirmi per un interrogatorio” sogghignò, con uno sguardo maligno. Un lampo di luce rossa e cadde a terra, privo di sensi.
“Vi siamo mancati?”. Dj sbucò fuori da un angolo del corridoio, e si osservò soddisfatto la mano da cui era partito l’incantesimo ancora di un tenue colore rossastro. Maxi gli venne subito dietro, insieme ad Emma.
“Non finisce qui…penso che si accorgeranno presto della sua assenza, dobbiamo proseguire!” ordinò il capo, facendo annuire tutti i suoi compagni. Mentre correvano, con Libi leggermente indietro per il vestito ingombrante, Maxi si rivolse direttamente ad Andres.
“Braodway è scomparso nel nulla. L’abbiamo cercato ovunque…”.
L’altro annuì, e respirò profondamente: tutto lasciava credere che fosse proprio Broadway il traditore, ma decise di tenersi per sé quelle considerazioni.
“Stiamo per raggiungere il Pentagono…” mormorò continuando a correre, senza guardarsi indietro. Il nome era dovuto alla forma geometrica della stanza, e lì Acosta aveva ipotizzato potesse essere custodito il pezzo dell’armatura, in quanto il luogo più facile da proteggere e privo di passaggi segreti nel castello. Dj si fermò davanti alla comitiva, e fece cenno a tutti di imitarlo.
“Qui c’è una barriera” esclamò; strappò un pezzo di stoffa del suo abito, lo appallottolò per bene e lo lancio di fronte a sé. La stoffa vorticò a mezz’aria, senza avanzare, e lentamente si consumò riducendosi a polvere. Una superficie lattiginosa e dalla consistenza gelatinosa aveva inglobato la palla e l’aveva distrutta. Immaginava che si sarebbe trovato di fronte a trappole del genere, e per fortuna era preparato.
Portò le mani in avanti, e i suoi occhi scuri lampeggiarono di blu, mentre tutta l’energia magica che gli fluiva nel corpo si concentrò in un solo punto, all’altezza del cuore. “Cancellorum Abruptio” sussurrò, fissando intensamente davanti a sé. Non avvertì nulla.
“Allora?” chiese Maxi, guardandosi continuamente dietro, per paura che irrompessero le guardie.
“Non è facile…è una magia molto più potente della mia. Eppure questo tipo di barriere dovrei riuscire a romperle facilmente” spiegò rassegnato, per poi prendere un respiro profondo e riprovare.
“Cancellorum Abruptio”. Nulla, la superficie lucida della barriera rimaneva intatta. Nel frattempo un rumore di passi li fece sobbalzare.
“Dj, devi fare presto”. Andres aveva estratto un pugnale che aveva nascosto all’interno della tunica, e si era messo di spalle per cercare di difenderlo da eventuali attacchi.
“Ma…è troppo potente, io…”.
Libi si era messo al suo fianco, sorridendogli dolcemente. “Noi ti proteggeremo, Dj, ma abbiamo bisogno di te, ti prego”. Il mago annuì, e puntò lo sguardo su un sacchetto che aveva tirato fuori la ragazza.
“Capisco” disse, tirandosi su le maniche. Pronuncio qualcosa a bassa voce, e il vestito di Libi mutò radicalmente. La gonna si lacerò davanti, e si avvolse intorno alle gambe, cambiando materiale a diventando pelle. L’intero vestito si trasformò in una sorta di divisa, che permetteva una certa libertà di movimento. Dal sacchetto della ragazza delle piccole armi in miniatura si ingrandirono fino a tornare alla loro grandezza naturale. Maxi strinse la sua spada nera, mentre Libi caricava una faretra. Emma invece recuperò due pugnali gemelli, e si mise al fianco di Andres.
Dj era rimasto allibito: talmente tanto rischiavano in quella missione da decidere volontariamente di mettere a repentaglio la loro vita. Le urla si fecero sempre più vicine, ma Dj allontanò ogni pensiero, e chiuse gli occhi, voltandosi di fronte alla barriera. La magia più potente permeava attraverso essa, e nonostante i suoi allenamenti durante la permanenza al tempio, non era convinto di farcela. Eppure nelle sue vene scorreva il sangue di una tra le più antiche quanto potenti famiglie di maghi. Recuperò la concentrazione e raccolse nuovamente la magia, condensandola in un solo punto della sua anima.
Sentì il rumore delle spade che si scontravano, ma non si voltò. I suoi compagni glielo avevano ordinato, e non sapeva se fosse per il Pactio o per il semplice rispetto che aveva nei confronti del loro sacrificio, ma non aveva intenzione di disubbidire.
Maxi colpì una guardia, la cui armatura si frantumò come fosse fatta di vetro. La spada dei Cavalieri di Fiori rimaneva la loro arma vincente, e lo stesso Andres si mostrò una letale macchina da guerra, colpendo ripetutamente le sentinelle che arrivavano, ora con colpi di pugnale, ora con un rabbioso corpo a corpo. Libi scagliava frecce a raffica, e visto quanto poco largo era il corridoio non mancava un bersaglio. Emma era una vera e propria furia e con l’agilità di un vero assassino sgozzò l’ultima delle sentinelle che erano accorse. Una campana risuonò nella notte: doveva essere il segnale d’allarme. Se fossero intervenuti maghi o cavalieri sarebbero morti sicuramente prima ancora di mettere le mani sull’elmo, dovevano affidarsi completamente al mago e sperare che facesse in fretta.
“CANCELLORUM ABRUPTIO”. Schegge invisibili schizzarono in aria, sciogliendosi al solo contatto con l’aria. Dove prima splendeva la barriera adesso c’era solo il proseguimento del corridoio, fino ad un portone di bronzo, non troppo imponente. Era decorato con alcuni motivi floreali incisi non particolarmente rifiniti, anzi piuttosto grezzi.
Quando lo raggiunsero Dj si pose di fronte alla porta e con un solo sguardo fece sbloccare la serratura, liberandola di ogni trappola che potesse esserci. Dopo quel notevole sforzo divenne improvvisamente pallido. Per poco non inciampò sui suoi stessi passi, ma quando gli venne offerto aiuto rifiutò senza mezzi termini. Avrebbe recuperato le energie di lì a poco, ma adesso non dovevano perdere tempo. Andres spinse i pesanti battenti e la porta si aprì, mostrando loro il Pentagono. La stanza era spoglia, le pareti di grezza pietra, e prive di qualunque ornamento, così come il pavimento, ma aveva una piccola finestra di vetro sul soffitto, da cui partiva un fascio di luce che illuminava il centro della stanza, dove su un basamento di pietra poggiava un elmo dall’aria antica.
“Tombola!” esclamò Maxi, indicando il prezioso oggetto con l’aria di chi aveva ricevuto un graditissimo regalo di Natale. Andres annuì, ma rimase vigile, poi si voltò verso il mago.
“Avverti qualche trappola?” chiese, senza muovere un passo.
“Non sento nulla di nulla…sembra quasi che questo posto non esista nemmeno” rispose Dj con aria sorpresa. Emma scrollò le spalle e fece qualche passo in avanti. Mise il piede su un lastrone di pietra, sotto lo sguardo terrorizzato di tutti, ma non successe nulla.
“Allora, che stiamo aspettando? L’elmo non si prende da solo” sbuffò impaziente continuando a camminare. Possibile che il Pentagono non riservasse altre trappole? Quella domanda tormentava Andres, mentre con il naso all’insù scrutava ogni possibile angolo della stanza.
Prima che potesse raggiungere una qualche conclusione sentì il pavimento tremare, e fece un enorme fatica per rimanere in equilibrio. Dj che era al suo fianco imprecò qualcosa, ma il rombo non gli permise di sentire nulla. Il piedistallo su cui giaceva l’elmo si stava rapidamente allontanando. Anzi, se osservava bene, era il pavimento che continuava ad allargarsi a dismisura. La pareti si allontanavano, come respinte da una qualche forza, e voltandosi dietro anche la porta appariva sempre più piccola. Dal pavimento poi cominciarono a fiorire piante di ogni tipo, mentre un’erbetta verde brillante ben curata cresceva rapidamente. Alberi dalle fronde maestose distrussero i lastroni di pietra, allungando i rami verso il soffitto che nel frattempo era scomparso lasciando il posto ad un cielo di un azzurro limpido. Rimasero tutti vicini tra di loro, nonostante ogni volta si allontanassero inevitabilmente.
“Che succede?” esclamò Libi terrorizzata, stringendo ancora più forte la faretra. Quando finalmente la trasformazione si fu arrestata, si trovarono immersi in una radura, circondati da enormi alberi, tra cui numerose querce secolari.
“Siamo finiti…in una foresta” rispose Maxi, alquanto perplesso e spaventato.
La foresta risuonò come di una musica antica, e i cinque ragazzi si trovarono nel bel mezzo di quello che un tempo era il Pentagono. 












NOTA AUTORE: Ecco un po' di movimento finalmente! Allora, allora...il nostro gruppo di rivoluzionari si è intrufolato nel Palazzo di Fiori, ma ha trovato pane per i suoi denti, per colpa di Broadway che sembra essere scomparso nel nulla (ma purtroppo non è così >.<"). Sospettando di un tradimento con un po' di difficoltà superano la barriera magica che gli impedisce l'accesso al Pentagono, su cui è stato lanciato un incantesimo di realtà illusoria, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, per cui adesso si ritrovano nel bel mezzo della foresta, e vi dico subito che non sono soli...e in mezzo a tutta quella vegetazione che nasconde chissà quali pericoli si trova l'elmo che tanto cercano! Ma questo capitolo è interessante anche per la breve apparizione di un nuovo personaggio, tale Ludmilla Ferro. E abbiamo FINALMENTE scoperto chi è a capo del quarto regno...si tratta proprio della bionda Ferro, che sembra tanto subdola quanto astuta. Tiene in pugno Natalia, e vuole a tutti i costi l'elmo...per quale motivo? E soprattutto come mai Natalia si trova in trappola? Domande che troveranno risposta nel prossimo capitolo...a me piace un sacco Ludmilla in questa storia, anche se avete capito che non sta dalla parte dei buoni xD 
E niente...non ho da aggiungere nulla, dite la vostra :P Grazie a tutti voi che seguite, e alla prossima! Buona lettura :D 

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Capitolo 33
*** Fuga disperata ***





Capitolo 33

Fuga disperata

Andres si guardò intorno e con sollievo vide che nessuno si era perso in mezzo a quell’incantesimo. Maxi barcollava stordito, ma stava bene, e Dj si era lasciato cadere a terra a causa di un forte malessere. Tutto intorno si avvertiva un innaturale silenzio.
“Non è una foresta vera e proprio, non si sente nessuno verso di animali” disse Andres, chinandosi per terra e afferrando una manciata di quella strana terra rossa.
“Perché questa è una realtà illusoria” mormorò Dj, afferrando un bastone e riportandosi in piedi. “Si tratta di una realtà che non esiste, una sorta di squarcio nello spazio che può essere riempito come si vuole…In questo modo è possibile dilatare le distanze. Siamo ancora nella stanza, ma è come se fosse stata resa almeno venti volte più ampia”.
“Non pensavo che la magia potesse arrivare a così tanto…” si intromise Maxi a bocca aperta. Una vasta gamma di colori stravaganti caratterizzava ogni pianta di quella foresta. Fiori di specie sconosciute ammaliavano con il loro profumo, ma nessuno sembrava farci caso. Si erano ritrovati in mezzo ad un dedalo verde, proprio quando sembrava che ormai l’elmo fosse nelle loro mani.
“Non si può infatti!” esclamò rabbioso Dj. “E’ una magia pericolosa, e come tutte le magie potenti richiede un prezzo elevatissimo. E la linfa vitale degli alberi…”. Gli occhi si oscurarono di colpo, e Andres desiderò non sapere. Ma era troppo tardi, il mago aveva ormai iniziato il discorso. “Ogni essere vivente di una realtà illusoria richiede una vita reale. Una vita in cui scorra la magia. Ci troviamo nel bel mezzo di un genocidio” terminò con un fil di voce. Ormai privo di forze, si lasciò cadere a terra, e scoppiò a piangere. Emma sembrò profondamente colpita dalla disperazione del mago, sebbene non volesse darlo a vedere, e serrò i guanti neri che portava.
“Troviamo questo benedetto elmo e andiamocene” disse con freddezza, ma Libi le si parò di fronte.
“Non vedi che Dj non riesce a proseguire?”. Le due si scrutarono come fa il cacciatore con la sua preda, poi Emma distolse lo sguardo, fissando un fiore dai petali blu notte.
“Prima ce ne andiamo da questo luogo, prima potrà riprendersi” ribatté l’altra. Fece per avviarsi fuori dalla radura, quindi si voltò verso i suoi compagni per capire se la pensassero come lei. Dj si alzò e annuì, dirigendosi verso di lei.
“Penso che Emma abbia ragione, dobbiamo andarcene da qui il prima possibile. Cerchiamo l’elmo” ordinò Andres, senza guardare negli occhi Libi, visibilmente delusa che nessuno fosse dalla sua parte. Dj era debole, e respirava a fatica, non avrebbe sopportato un viaggio troppo lungo…e se si fosse anche trovato a dover usare la magia? Sarebbe riuscito a tener testa a un mago adulto? Arrendendosi di fronte alla decisione comune degli altri, Libi si incamminò insieme agli altri nel folto della foresta. Rami incantati tentavano di ghermirli impedendogli di continuare, ma Andres con fermezza assestava colpi di pugnale decisi. Il caldo afoso si sostituì a un freddo glaciale, e la vegetazione stessa cambiò: ai faggi e alle querce si sostituirono pini e abeti. Un gelido vento soffiava implacabile, cercando di respingerli. La natura era completamente contro di loro, ma i ragazzi continuarono ad avanzare.
“Non sentite anche voi questo fruscio?” chiese Maxi, battendo i denti per il freddo. Sollevò lo sguardo verso l’alto, e inorridì, mentre tutti proseguivano ignari.
“FERMI!” strillò, portandosi poi la mano alla bocca. Tutti si voltarono verso di lui, e un sibilo fendette l’aria. Gli aghi di pino schizzarono dai rami come richiamati e si fiondarono sui ribelli.
“Sono solo agh…AHI!” Andres si sfiorò il braccio su cui si era conficcato uno di quegli aghi letali. Lo afferrò e lo strappò dalla carne emettendo un gemito. Era della stessa consistenza dell’acciaio. Libi fu ferita alla gamba, e cadde a terra, tenendosi stretta il polpaccio da cui il sangue macchiava il terreno. Gli aghi si prepararono ad una pioggia in piena regola, avendo ormai localizzato gli assalitori, e vibrarono sui rami, ansiosi di procedere. Andres si gettò a terra, per proteggere il corpo di Libi, mentre Maxi e Emma si scambiavano uno sguardo terrorizzato. L’aria fu di nuovo attraversata da quella pioggia letale, e proprio quanto tutti pensarono di venire infilzati da una miriade di aghi, un rumore ovattato fece aprire a tutti gli occhi. Dj era di fronte a tutti, gli occhi accesi di un vivido rosso, con la mano tremante tesa in avanti. Di fronte a lui un’onda di ghiaccio aveva travolto gli aghi micidiali, intrappolandoli.
“Grande mago!” esclamò Emma, con un sorriso rincuorato. Maxi anche tirò un sospiro di sollievo, mentre Andres teneva ancora stretta a sé Libi.
“Va tutto bene?” le chiese osservando il suo sguardo sofferente. La ragazza tentò di alzarsi, ma ricadde a terra, e Andres cercò di stenderla in modo tale che non provasse troppo dolore. Si rivolse poi ai suoi compagni. “Voi proseguite, io penso a proteggerla”.
“Sei impazzito? Pensa se un’altra ondata di quei cosi ti attacca! Non puoi rimanere qui!” si intromise Emma, evidentemente alterata.
“Ma Libi non può muoversi, rischieremo”. Dj, respirando a fatica, fece un cerchio con dei rami sparsi per terra intorno a Libi, e ordinò ad Andres di entrarci dentro.
“Sensuum occultum scutum” sibilò, mentre i due venivano avvolti come da un mantello incantato, che scomparve nel nulla.
“Così sarete al sicuro e nessuno potrà sentirvi o vedervi. Se ho ben capito gli aghi reagiscono solo se percepiscono una presenza esterna…” spiegò il mago, rivolto agli altri, che osservavano il punto da cui Andres era scomparso insieme all’amica.
“E’ ancora qui, ma è al sicuro” li rassicurò, zoppicando avanti, con lo sguardo spento. Si sentiva sempre più prosciugato, e a stento poteva parlare senza biascicare.
Annuendo, Emma e Maxi si misero ai lati, e gli fecero da appoggio, per continuare ad avanzare. Mentre avanzavano Dj si rese conto che la ragazza lo fissava di tanto in tanto, perplessa e affascinata allo stesso tempo.
“Perché lo stai facendo? Potevi fermarti anche tu insieme al padrone del Pactio” gli chiese dopo un po’, mentre finalmente il paesaggio mutò di nuovo, lasciando il posto ad una foresta tropicale, dove l’umidità nell’aria premeva sulla loro pelle, dandogli un senso di soffocamento.
“Perché…ho una questione da risolvere” disse con un mezzo sorriso, per poi tornare cupo. Provò a fargli altre domande, ma ormai il ragazzo si era chiuso in un silenzio insormontabile. Piccole palme affiancavano enormi baobab o piante di caucciù. La terra era talmente fertile da essere molle, e i piedi affondavano nel fango. Un suono ripetuto e malinconico giungeva lontano. Era un motivetto di quelli che i nonni cantavano ai nipoti, facendoli trotterellare sulle loro gambe stanche, ma per Dj fu come se qualcosa si fosse risvegliato.
“Sta giocando con noi” osservò impassibile, liberandosi della presa dei due amici, e prendendo un respiro profondo.
“Di chi stai parlando?” domandò Emma, corrugando la fronte.
“FUGGITE!” urlò. I due non colsero il messaggio, ma scattarono una corsa appena in tempo, perché poco dopo un’enorme palla di fuoco si fece strada dall’alto, precipitando come una meteora.
“Delphinus argenteus”. Dalle punte delle dita dei sottili fili argentati scaturirono, andandosi ad unire e formando un delfino scintillante. La creatura emise un verso acuto, e si scaraventò verso la palla di fuoco, trasformandosi in un vortice di acqua cristallina. La palla di fuoco venne spenta, e insieme ad essa l’acqua evaporò creando sottili nuvole biancastre. Un rumore di passi alle sue spalle gli gelò il sangue nelle vene.
“Ti stavo aspettando”. Una voce tagliente quanto la lama di una spada proveniva da dietro.
“Ana” mormorò appena, voltandosi di scatto, e pronunciando velocemente una formula. Una lancia infuocata comparve dal nulla diretta verso la ragazza, che deviò abilmente il colpo creando una barriera trasparente fatta di aria. I due erano a qualche metro di distanza, e si studiavano come due nemici, aspettando il momento giusto per attaccare. E pensare che un tempo erano stati tanto legati; entrambi promettenti studenti delle arti magiche, avevano fin da subito stretto amicizia, nonostante i due caratteri totalmente diversi. Ana aveva un ideale di perfezione da raggiungere, nei suoi studi come nella sua vita. Non desiderava solo il potere, ma credeva che tutto gli essere umani, nella loro imperfezione, non potessero autogestirsi, e avessero bisogno di una coscienza superiore, una coscienza che poteva essere raggiunta solo con l’ausilio della magia. E così mentre lui da piccolo giocava con scope volanti o piccole sfere d’acqua, Ana passava intere giornate nelle biblioteche, imparando a menadito ogni incantesimo, anche quelli più letali. Aveva una padronanza tale che nessuna magia le risultava troppo complicata o impossibile. Quel suo atteggiamento unito ad una dote naturale, avevano fatto in modo che risultasse uno dei più giovani maghi nella storia ad aver conseguito l’addestramento, e il suo potere era ben visto, in quanto l’intera razza dei maghi vedeva in lei la possibilità di conseguire un mondo migliore. Il tradimento di Ana fu quindi come una coltellata in pieno petto, e ancora non risultavano del tutto chiari i motivi che l’avevano spinta ad accettare la proposta di Natalia di sua spontanea volontà.
“Ti vedo cambiato…non giochi più con delle stupide scope. Adesso giochi a fare l’eroe” ghignò la ragazza. “Hibernalis tempestas”. Un tormenta glaciale, si abbatté su Dj che per poco non venne scaraventato in aria.
“Solis donum” esclamò porgendo le mani al cielo. Un raggio splendente lo investì pienamente, rinvigorendolo all’istante, e proteggendolo dalla tormenta. Una frusta oscura comparve nella mano di Ana, che subito la lanciò. Il laccio nero, come se agisse di vita propria, si serrò intorno al polso di Dj. “Damnatorum lamentum” sibilò Ana. Una fitta di dolore partì dal polso, fino a raggiungergli le tempie. Dj cadde a terra in ginocchio, sopraffatto dalle urla che si sovrapponevano nella sua testa. La fonte di quel dolore era la robusta frusta nera nelle mani della ragazza.
“Fa male, vero?” sorrise amabilmente. La sua espressione aveva subito une leggera incrinatura, mentre soffocava un lamento. “Fa male anche a me…è una magia maledetta”. Respirava più affannosamente, ma le urla di dolore di Dj che stramazzava a terra le fece comunque spuntare un sorriso vittorioso. “Ma quello che voglio è vederti morire implorando pietà” concluse trionfante. Si spense subito non appena si rese conto che la figura di Dj tremolava leggermente, prima di svanire a in una nuvola di fumo. Un’illusione, era stata ingannata da una stupida illusione. Come aveva fatto a raggirarla? Urlò di rabbia, mentre la frusta sveniva nel nulla. Non doveva essere molto lontano, per aver avuto il controllo di quella magia per tutto quel tempo. E lei l’avrebbe trovato.
 
Maxi per poco non inciampò in una grossa e biforcuta radice dall’aspetto infernale, ma si rimise subito in piedi, recuperando l’equilibrio, e continuò a seguire la compagna.
“Spero che Dj se la stia cavando…” disse, facendo annuire l’altra. Un urlo disumano risuonò nell’aria, e i due sobbalzarono. Corsero più veloce che potevano, evitando misteriose piante che si frapponevano sulla loro via, e saltando ogni ostacolo che si presentasse a terra. In mezzo a tutto quel verde, all’improvviso si stagliò un imponente struttura. Aveva la forma di una piramide, dagli enormi blocchi di pietra disposti con precisione, mentre la punta era dorata.
“L’elmo potrebbe trovarsi qua dentro…” mormorò Emma, asciugandosi il sudore dalla fronte. Avvertiva un silenzio ancora più innaturale, e poi un leggero fruscio; scattò tutto intorno come un felino, ma quello che vedeva era solo vegetazione, folta e invadente. Fece per avanzare cautamente, ma Maxi la fermò per il polso.
“Potrebbe essere pericoloso, forse dovremmo aspettare che Dj…”.
“Dj ha altro da fare, e non possiamo stare qui a temporeggiare, io dico di entrare”. Il compagno annuì, ancora un po’ titubante, e insieme si avviarono verso l’imponente struttura.
 
Stava ormai correndo da più di dieci minuti, inciampando di tanto in tanto per la fatica. Ana doveva ormai aver scoperto il suo trucchetto e prima o poi l’avrebbe trovato, non era tipa da arrendersi facilmente. L’idea di usare un’illusione durante la bufera di neve per poter fuggire era stata geniale, ma aveva solo rallentato l’inevitabile scontro. E ora che aveva avuto un assaggio dei suoi poteri magici, era certo di non poter vincere, soprattutto in quelle condizioni. L’urlo disumano di Ana arrivò come un rintocco di campana alla sua mente, annebbiata dalla fatica e dal clima torrido. Accelerò sempre di più, fino all’esaurimento delle forze, mentre in lontananza si ergeva una colonna di fumo. Faceva sempre più caldo. Saltò un tronco ricoperto di muschio, e continuò a correre, non sapeva nemmeno lui verso dove, ma doveva mettere più distanza possibile tra lui e Ana. Un crepitio sempre più diffuso giunse alle sue orecchie. Si voltò appena in tempo per vedere la foresta dietro di lui completamente in fiamme. Creature di fuoco correvano liberamente da un tronco a un altro incenerendolo, mentre il fuoco si espandeva dove loro mettevano piede. Si voltò e la disperazione mise le ali ai suoi piedi. Sperava che Andres e Libi non fossero stati coinvolti nell’incendio, sperava che Maxi e Emma fossero al sicuro e fossero riusciti a recuperare il fantomatico elmo. Le sue erano solo speranze, ma era tutto che gli rimaneva in quel panorama tutt’altro che rassicurante. Ah, e ovviamente sperava di non morire.
 
Federico scese velocemente le scale, verso la prigione del castello, mentre le guardie procedevano nel senso opposto, e non gli prestavano minimamente attenzione, troppo prese a correre in soccorso di fronte all’allarme che da qualche minuto ormai risuonava costantemente per tutte le aree del castello. Non era rimasto nessuno in quelle buie segrete, e quando ne fu del tutto sicuro, tirò fuori un mazzo di chiavi. Erano delle copie che era riuscito ad ottenere con molta astuzia, sottraendo una notte le originali a una delle guardie che era di turno, colta da un attacco di sonno. Le mani gli tremavano per le emozioni ed ogni piccolo rumore aveva un effetto devastante sui battiti del suo cuore. Finalmente raggiunse le sbarre della prigione della regina, e frettolosamente armeggiò vicino alla serratura per sbloccarla. Dall’altra parte però qualcuno lo guardava con aria confusa, come se non fosse veramente sicuro di chi si trovasse davanti.
“Federico?” sussurrò Francesca, affacciandosi alla grata; le mani si aggrapparono al freddo metallo, mentre il ragazzo alzò lo sguardo, e fece un sorriso timido ma rassicurante allo stesso tempo. Riscossosi come da un sogno, girò con forza la chiave, che emise uno scatto che rimbombò per l’aria, coperto dal rumore degli allarmi.
“Che sta succedendo?” chiese, mentre le afferrava la mano e la trascinava fuori.
“Stiamo fuggendo. Ti porto al sicuro” rispose il conte Acosta evasivo. La sensazione di poter nuovamente stringere quella mano tanto fragile e delicata era bellissima: un misto di brividi e pelle d’oca. Mentre salivano i grossi scalini in pietra, umidi e scivolosi, sentì la ragazza tremare, per poi arrestarsi. Si voltò verso di lei, ma Francesca lo evitava. Aveva ancora paura, e una fitta di dolore gli attraversò lo stomaco.
“Non ti fidi di me?” le disse, sfiorandole il braccio, ma lei si ritrasse.
“Come potrei farlo?”. La risposta era sincera, se la doveva aspettare, ma questo non impedì di provare un dolore indicibile: mille volte meglio essere torturati a morte, che risultare indegno della sua fiducia.
“Lo so…ti ho fatto del male, ma…devi credermi, non avrei mai voluto. Quando saremo fuori di qui, ti spiegherò tutto” tentò di convincerla. I rumori risuonavano lontani, urla, allarmi…era tutto appartenente ad un altro mondo. Nessuno si sarebbe accorto di loro, ne era certo. Facendo affidamento alla notte avrebbe potuto salvarla. Le accarezzò dolcemente la guancia, continuando a implorarla. Francesca annuì, più per rassegnazione che per altro, e si affrettò a seguirlo. Forse avrebbe davvero riassaggiato la libertà, dopo quegli anni di prigionia, forse avrebbe anche potuto mettere fine a quella dittatura che da tanto tempo ormai stava distruggendo i valori paterni voluti per il regno di Fiori.
 
I corridoi erano bui e stretti, e si respirava a fatica. Maxi si sentiva soffocare, ma spinto dalle parole di Emma continuò ad avanzare in quella che all’interno aveva preso l’aspetto di un’antica tomba. Lamenti che si perdevano nel buio lo facevano rabbrividire, ma la ragazza insisteva dicendo che dovessero essere allucinazioni per allontanare chi si spingeva fino a quel labirinto di pietra avvolto dall’oscurità. Le pareti erano piene di scritte dal carattere antico, simili a piccoli graffiti, mentre il pavimento era solido, ma ad ogni loro passo si alzava una nuvola di polvere dall’odore nauseabondo.
“Ci sarebbe voluto quel mago da strapazzo per un po’ di luce” osservò la ragazza. Dietro sentì ancora una volta un rumore sospetto. Si voltò appena in tempo per vedere un luce in lontananza sparire di colpo. “Qualcuno ci sta seguendo…dobbiamo essere più veloci” sussurrò al suo compagno, che stava poco più avanti, facendolo quasi saltare sul posto. Procedettero sempre più velocemente, ed ogni volta che svoltavano Emma si girava indietro per essere sicura che nessuno li stesse seguendo, ma con tutta quell’oscurità non ne era sicura. Un altro bagliore lontano attirò la sua attenzione, ma questa volta era più vicino. Li stavano raggiungendo.
“Muoviti!” sibilò, spintonando il compagno, che in tutta risposta accelerò il passo, ritrovandosi a correre nel buio. Era un’esperienza terribile: era come andare alla cieca, con il continuo rischio di sbattere la faccia contro la pietra, con le pareti che si facevano sempre più strette mano a mano che si addentravano.
“Ti ho mai detto che soffro di claustrofobia?” ironizzò il ragazzo, deglutendo, mentre Emma scuoteva il capo con disappunto. I due sbucarono dopo quelle che sembrarono ore in una piccola stanza, al centro dell’edificio, illuminata dalla punta dorata, che sembrava emettere una luce proprio. E al centro, sul famoso piedistallo, brillava l’elmo magico, finalmente davvero a poca distanza da loro. Maxi si avvicinò, mentre Emma rimase indietro. Attento ad ogni suo passo avanzò, e prese l’elmo con estrema cautela. Fu come se i suoi occhi si tingessero di azzurro. Tutto intorno prese a vorticare, mentre immagini confuse si sovrapponevano una dietro l’altra. Vedeva Andres e Libi abbracciati, vedeva Dj che fuggiva disperato nel folto della foresta, vedeva la regina Natalia che faceva avanti e indietro pallida nella sua stanza. Vedeva tutto; nulla era al di fuori della sua conoscenza, tutto ciò che accadeva in quel preciso istante scorreva prima nella sua testa. Vedeva anche Emma, con puntato alla gola un pugnale, mentre tentava di divincolarsi da due braccia robuste. Si voltò, e gli occhi da azzurri e limpidi tornarono scuri, come se un’improvvisa macchia nera si fosse diffusa sulle sue pupille prima chiare.
“Chi sei, e cosa vuoi?” digrignò il giovane, mentre Emma tentava di parlare, inutilmente, a causa della forte presa di colui che le puntata l’arma alla gola. La figura si fece lentamente avanti, fino ad essere illuminata dal tenute chiarore della stanza. Broadway sorrideva maligno, con l’ascia  allacciata alla sua cintura.
“Dammi quell’elmo” ordinò, fino a stringere sempre di più il braccio con cui stritolava la gola della ragazza.
“Broadway?!” esclamò sconvolto Maxi, facendo qualche passo indietro, fino ad urtare lo stesso piedistallo da cui aveva preso l’oggetto magico che ora teneva stretto.
“Idiota, non darglielo” strillò Emma in un rantolo, rischiando poi quasi di soffocare.
“Dammi quell’elmo” ringhiò l’altro.
“Perché l’hai fatto? Perché ci hai tradito in tutto questo tempo?”. Maxi aveva le lacrime agli occhi. Non aveva dimenticato cosa era successo alla sua famiglia a causa della regina Natalia, e il solo pensiero di aver avuto un suo servitore come compagno di viaggio lo disgustava. Provava nausea di tutto e di tutti, aveva fatto talmente tanta fatica a fidarsi di quello che considerava la sua famiglia, e invece in tutto questo tempo era tenuto d’occhio dai suoi acerrimi nemici. Una furia incontrollata si impossessò del suo corpo.
“Per denaro, Maxi…il denaro è ciò che ancora rimane di decente in questo mondo ormai alla rovina. L’ho fatto per poter vivere i miei ultimi giorni come un signore” ghignò Broadway. “Ma non mi fido di questa gente qui, voglio quell’elmo in modo da poterlo rivendere e guadagnarci un bel gruzzolo. E poi scomparirò dalla circolazione”. Maxi tentennò, ma non mollava la presa sul prezioso oggetto che custodiva al suo interno non solo un enorme potere magico, ma anche le speranze di tutti i suoi compagni. Le speranze di Andres.
Il terreno tremò sotto i loro piedi, facendoli cadere a terra, e Emma ne approfittò per sfuggire alla presa, mollando una gomitata al traditore che la teneva come ostaggio. Un’enorme lastra di pietra scese inesorabile bloccando l’entrata e chiudendoli dentro quella stanza, priva di vie d’uscita.
“La trappola!” imprecò Emma, fiondandosi sulla lastra e cercando di scalfirla con la punta del pugnale, con scarsissimi risultati. Broadway era rimasto a terra, privo di sensi, avendo sbattuto per terra. Il pavimento continuava a tremare sempre più forte, mentre le pareti si restringevano inesorabilmente.
“Finiremo schiacciati” si disperò Maxi, cercando di fermare il lento meccanismo che portava le pareti a chiudersi su di loro.
“Dammi la tua spada” ordinò Emma. Non appena le fu consegnata la spada di neranio la mise in orizzontale fino a quando le pareti non arrivarono a premere una sulla punta, l’altra sull’elsa. Il meccanismo sembrò fermarsi. Ai loro piedi giaceva ancora Broadway con gli occhi chiusi.
“Neranio…indistruttibile” spiegò la bionda, mentre sentiva un leggero scricchiolio. Gli ingranaggi si stavano consumando, visto che le pareti non riuscivano più a muoversi. La trappola mortale sembrò cedere di fronte all’indistruttibilità della spada, e le pareti stesse cominciarono a sgretolarsi come se fossero fatte di sabbia a causa della troppa pressione; da una fenditura di una di esse si tornava nel labirinto. Emma afferrò la spada e la ritirò dopo aver preso la mano di Maxi, quindi lo spinse nella fenditura e ci si lanciò anche lei. Il meccanismo riprese a funzionare e le pareti ripresero il loro inesorabile percorso fino a coincidere.
“E’…morto?” domandò Maxi, riferendosi ad alcune schizzi di sangue per terra.
“Se l’è cercata” rispose freddamente Emma, indicando con lo sguardo l’elmo. Non avrebbe mai pensato che Bradoway, che era stato suo compagno di combattimento in tante di quelle esercitazioni all’Accademia, nascondesse l’animo di un traditore. Era ancora scossa dalla quella rivelazione, e quasi non provava alcuna emozione di fronte alla sua morte. “Dobbiamo raggiungere Dj, e andarcene da questo posto infernale” concluse, riaddentrandosi nel labirinto, sopprimendo il dolore di un’amica tradita. Perché Broadway era sempre stato il suo unico amico, l’unico che l’avesse accettata per quello che era, che aveva saputo amare i suoi pregi e i suoi difetti; e di difetti ne aveva non pochi.
 
Dj era ormai era allo stremo delle forze, e non poteva esaurirle del tutto, o non sarebbe riuscito nemmeno a ritardare Ana, ma sarebbe stato spazzato via al primo incantesimo. E invece doveva guadagnare tempo. Avvertì un crepitio, e chiuse gli occhi, prendendo un respiro profondo. Di fronte a lui comparve Ana, con un’espressione indispettita, e gli occhi che ardevano di sfida.
“Non è così che dovrebbe comportarsi un mago…fuggi come una donna” sentenziò disgustata, per poi puntare un dito contro il diretto interessato. “Sagitta magica!”. Un fulmine dorato saettò dal dito e si scagliò contro il mago.
“Paries aerialis” ribattè prontamente, creando una barriera condensando l’aria circostante, che deviò verso sinistra il fulmine diretto al suo cuore.
“Quanto pensi di poter evitare i miei colpi?” sibilò la ragazza, mentre nelle sue mani condensava una sfera fatta di vento. Dj conosceva quell’incantesimo: consisteva nel creare un potente proiettile fatto di vento, tagliente come un rasoio, e nulla poteva la sua barriera di fronte a una magia così micidiale. Sentiva la fatica farsi sempre più ingombrante, ma non poteva ancora cedere. Aveva ideato un piano per fuggire, ma doveva conservare al meglio i suoi poteri per fare quello che intendeva: era una pura follia, ma non aveva in mente altre idee. Uno scudo di ghiaccio fermò solo in parte la sfera di vento, di un azzurro limpido, che ridusse quella difesa in frammenti, e ferì il mago al braccio. Ana ne approfittò per scagliare un’altra saetta che colpì l’avversario in pieno stomaco. Sputando sangue e saliva, Dj si rialzò, ringraziando la barriera che aveva lanciato in fretta e furia, che gli aveva impedito di morire fulminato.
“Domingus…mi stai deludendo”. Ana era divertita, ma l’odio che provava nei suoi confronti la rendeva ancora più crudele. Era sempre stata una ragazza fondamentalmente sadica, e amava ingannare le persone con la sua magia, per poi vederle divincolarsi al suo interno in preda al terrore, come un ragno che osserva la sua preda invischiata nella ragnatela. Dj raccolse le forze e provò a lanciare un debole incantesimo congelante, facilmente bloccato da Ana. Un rumore di passi e dietro di lui comparvero Maxi e Emma. Il ragazzo aveva stretto tra le mani l’elmo magico, e a quella vista la maga impallidì: non sapeva ci fossero altri intrusi oltre al suo vecchio compagno di studi.
“DATEMI QUELL’ELMO” tuonò, infuriata. “Vulcani spiriti, vestram potentiam invoco: ignea columna!”. Dal nulla, una colonna di fuoco circondò Maxi, Emma e Dj, i quali arretrarono fino a trovarsi ciascuno alle spalle dell’altro.
“Una volta che avrò spento quest’incantesimo, dovrete darmi del tempo per meditare alla fuga” spiegò a bassa voce. Tossì per aver ispirato una grande quantità di fumo, e i due lo guardarono allibiti.
“E Andres e Libi?” lo interruppe Maxi, sconvolto.
“La missione prima di tutto, ricorda!” lo riprese Emma. Maxi annuì, ma non era pienamente convinto. L’elmo gli dava un visuale completa, e in quel momento avvertiva qualcosa: Andres e Libi si stavano spostando e venivano verso di loro.
“Fidatevi dell’elmo…arriveranno a breve” disse. Dj e Emma si guardarono negli occhi, quindi decisero di assecondare quella folle visione. In fondo si trattava pur sempre di un oggetto dai grandi poteri magici.
“D’accordo…Infinitae altitudinis draco”. La colonna di fuoco scomparve, sovrastata da un enorme drago trasparente, che poi si dissolse ruggendo, con il muso rivolto verso l’alto, e gli occhi zaffiro, che si trasformarono in tante gocce d’acqua.
Ana sorrise come se si aspettasse una mossa del genere, quindi fece ondeggiare i lunghi capelli color miele, pavoneggiandosi ancora prima di vincere. “Sai benissimo che questi trucchi ti salveranno solo per poco, mago da strapazzo”. Una luce diabolica scintillava negli occhi scurissimi, mentre Dj si era messo in disparte, coperto da Maxi e Emma. “Adesso conti anche di farti proteggere da questi due…Illuso!”. Congiunse le mani in una preghiera, e subito la luce tutt’intorno venne inghiottita, lasciando solo un tenue bagliore.
“Tartari…”. Dal terreno uscivano volute di fumo nero, che si allungavano come tentacoli mortali verso di loro.
“Vindicta…”. Dj impallidì, e per poco non si sentì svenire: conosceva bene quell’incantesimo, era stato proibito tanti anni or sono, non solo perché poteva portare il mago in questione alla morte, ma anche perché ritenuto fin troppo diabolico e letale. Si fondava sul richiamo delle ombre dell’aldilà, che obbedivano solo ai comandi di una forte volontà; in caso contrario avrebbero condotto il malcapitato con sé nell’oltretomba. Ma se fosse stata in grado di servirsi di poteri tanto grandi, come quelli della morte, allora per loro sarebbe stata la fine, prima ancora che mettesse a punto il suo piano.
“Dovete fermarla!” strillò il mago, consapevole che erano troppo distanti, e mai sarebbero arrivati in tempo. Mentre Ana pronunciava quell’incantesimo, lui si occupò del suo, e sapeva benissimo che sarebbe stata una questione di secondi.
“Aeternus Serpens…”. Un serpente di un bianco pallido le avvolse la gamba sibilando minacciosamente. Il rito stava procedendo esattamente come previsto, e la sua mente era ancora integra, ma stava risucchiando completamente le sue energie. Con la vista offuscata vide il mago muovere velocemente le labbra sussurrando qualcosa. Che cosa aveva in mente? Non le interessava, ormai nulla avrebbe potuto fermarla.
Maxi indossò l’elmo, e ancora una volta infinite visioni da parte di tutto il paese delle Meraviglie lo investì come un’onda. Riusciva a vedere tutto di tutti, e concentrandosi attentamente percepì anche i movimenti di Andres e Libi, che adesso erano molto vicini. Non appena riaprì gli occhi, diventati nuovamente cerulei, vide alle spalle di Ana, che continuava a formulare il suo incantesimo, Andres con la spada sguainata, e Libi che si reggeva a mala pena in piedi. Non sapeva come avessero evitato la trappola degli aghi mortali, ma era contento di vederlì lì, in loro aiuto. Il capo del gruppo tentò un affondo, ma la maga evitò il colpo, svanendo in una nuvola oscura. Ricomparve qualche metro più in là, con gli occhi spalancati e la bocca aperta, come posseduta.
“Neptunus, maris regis, potentiam tuam invoco. Orbi spiriti, caeli voluntas…”. Una litania agli altri incomprensibile, che Dj ripeteva continuamente. La sua mente raggiunse la prima barriera che avvolgeva il palazzo e la infranse al primo colpo, raggiunse la seconda e la infranse. Il suo potere fluiva come non mai, e si sentiva rinascere. Era qualcosa di più grande di lui, era come avvertire la natura ridursi a una semplice marionetta nelle sue mani, poteva muoverla come voleva, plasmarla fino a fargli prendere le sembianze che più gli servivano. Era la forza della disperazione? Il vento soffiò nel buio, un vento freddo, di morte. L’incantesimo di Ana stava per compiersi.
“TERRAE MOTUS!”. Il terreno tremò sotto le parole del mago, e una fenditura si aprì con un boato. Un terremoto in piena regola, di quelli fortissimi, stava scuotendo l’intera foresta, e con essa tutto il palazzo di Fiori. L’illusione crollò all’istante, e si ritrovarono nel Pentagono, intorno al piedistallo, ora vuoto.
“Saltate” ordinò il mago, mentre tutti lo fissavano sconvolti. Indicò ripetutamente la spaccatura, che raggiungeva le fondamenta del palazzo, e che aveva diviso assirittura l'edificio in due.
“Ci stai chiedendo di suicidarci, forse?” strillò Emma, che ancora tremava come una foglia.
“Fidatevi e saltate”. Tutti si guardarono, quindi Andres annuì, e prendendo per mano Libi, che zoppicava, con la gamba protetta da una fasciatura di fortuna, guardò Maxi. I due si diedero uno sguardo di approvazione, quindi si lanciarono, insieme ad Emma che chiuse gli occhi per non dover vedere. Dj rivolse un ultimo sguardo e Ana, che lo fissava furente.
“FERMO!”. Recitava sempre più velocemente l’incantesimo, ma il mago non ci pensava più. Facendo ricorso a tutte le energie rimase, richiamò ancora una volta lo spirito di Nettuno, simbolo del mare e delle maree, e sperò con tutto se stesso di aver fatto bene i calcoli, quindi si lanciò anche lui nel vuoto. E proprio mentre pensava che il suo piano non avesse funzionato, una spaventosa e potente corrente d’acqua lo colse a mezz’aria, scaraventandolo via e trascinandolo lungo il suo corso. Il colpo fu talmente forte da fargli perdere i sensi. E l’ultima cosa che vide fu l’elmo scintillante sulla testa di Maxi, anche lui dentro quella magica onda d’acqua da lui invocata. Ana, ormai arresa, richiamò l’incantesimo, e si affacciò per vedere cosa fosse successo. Rimase senza fiato nel vedere una gigantesca onda che si stava abbattendo inesorabilmente sul castello, e su tutto Fiordibianco. Ma soprattutto non riusciva a credere che gli fossero davvero sfuggiti di mano. Con l’elmo. Tutti gli equilibri erano ormai stati spezzati, e l’ipotesi di una guerra non solo tra i vari Regni, ma anche interna allo stesso Regno di Fiori si faceva sempre più concreta. Ma a lei tutto quello non interessava: pensava solo alla sua vendetta. Avrebbe trovate Domingus Junior un giorno, e l’avrebbe ucciso senza pietà.










NOTA AUTORE: Eccomi, eccomi! Allora, capitolo ricco di azione questo! Infatti, riassumendo in breve ecco cosa è successo: Federico approfitta della confusione per liberare Francesca, Maxi e Emma recuperano l'elmo, e Braodway cerca di ostacolarli, ma a causa delle sua eccessiva avidità ci rimette la vita...Il capitolo però è incentrato su una sfida magica, quella tra Dj e Ana. I due si fronteggiano abilmente, ma il mago punta più che altro a difendersi, proprio per poter attuare il piano finale, quello di fuga. E mentre Ana tenta di usare un antico incantesimo proibito per concludere lo scontro, Dj spezza tutte le difese del palazzo, e riesce addirittura a provocare un terremoto in grado di spezzare il palazzo in due. L'illusione crolla quindi miseramente, e si ritrovano scaraventati nel Pentagono. Facendo affidamento alle sue ultime energie, richiama una gigantesca onda, provocando una sorta di maremoto, e così lui e i suoi compagni vengono trascinati via dall'onda chissà verso dove, ma almeno fuori dalle grinfie di Natalia e di Ana...L'elmo rivela avere poteri in grado di osservare tutto ciò che succede nel presente...e così Maxi può vedere tutto quello che succede...E il capitolo dell'elmo sembra essersi concluso...ma Fede e Fran? Che fine hanno fatto? E i nostri eroi? Saranno al sicuro ora che hanno recuperato un pezzo dell'armatura? Si dirigeranno verso quadri per recuperare lo scudo, o cercheranno la spada di Cuori? Quante domande, eheheh. Tutte domande che troveranno risposta andando avanti con la storia :D Grazie a tutti voi che continuate a leggere e a seguire questa storia, grazie davvero, sono commosso :') Grazie di tutto, alla prossima e buona lettura :3

 
 
 
 
 
 

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Capitolo 34
*** Fantasmi del passato ***





Capitolo 34
Fantasmi del passato

Jade si rigirava sotto le coperte, pesanti come macigni, tormentata da qualcosa, o meglio qualcuno. Il sudore le imperlava la fronte, e non riusciva a trovare la quiete di cui aveva bisogno per dormire. Aprì gli occhi scatto, allargando le pupille come i felini, e cercando di vedere nel buio della notte. Aveva il terribile e insensato timore che le ombre che tanto la tormentavano potessero uscire fuori dai suoi sogni e trovarsi lì in quella stanza, magari sotto il letto, o forse nascosto in qualche angolo oscuro e fuori dalla sua visuale. Si sfiorò con calma una ciocca di capelli, e si girò di lato tentando di prendere sonno, invano. Un rumore di passi improvviso la fece rabbrividire, ma si sforzò di pensare a qualcos’altro. Non aveva fatto nessun progresso con il Brucaliffo, tutto era rimasto immutato dal loro incontro…sperava che l’anziano si scoprisse di più, che lasciasse intendere che appoggiava senza riserve il progetto di Pablo, affinché a tutti e quattro i Regni venisse lasciata piena autonomia. Il cuore le martellava in petto, non appena sentì come un soffio di vento all’orecchio. Chiuse gli occhi, mormorando qualcosa a denti stretti. Il silenzio era interrotto da spifferi che la circondavano; si sentiva dentro l’occhio di un ciclone, in trappola, e la tensione raggiunse il culmine. Si sollevò a mezzo busto, ansimando, mentre tutto intorno tutto era tornato immerso nell’immutabilità della notte. Un’ombra era proiettata sul pavimento, spezzata unicamente dai grandi lastroni squadrati. Qualcuno bussò. Il rumore rimbombò nell’aria, muovendo ancora di più il panico che giaceva incontrollato nel cuore della donna.
“C-chi è?” domandò, rimanendo al sicuro nel suo letto, senza smuoversi di un millimetro. I muscoli della faccia erano tesi così come quelli del corpo. Lanciò un’occhiata allo specchio alla sua sinistra, e rabbrividì. Una Jade decisamente più giovane, dai capelli che le ricadevano morbidamente sulle spalle, restituiva un sorriso inquietante.
Allucinazioni. Dovevano essere unicamente allucinazioni, dovute alla stanchezza. Chi bussava dall’altra parte della stanza, chiunque fosse, non aveva risposto alla sua domanda, ma in tutta risposta bussava sempre più violentemente. Il ghigno del suo riflesso si fece più accentuato, e si deformò fino a diventare diabolico. Lo specchio stesso si stava deformando, ora allungandosi, ora sciogliendosi come il ghiaccio esposto al sole. Ormai il bussare si fece talmente martellante da sovrastare i suoi stessi pensieri, e la pelle era travolta dai brividi. Una sostanza nera e putrida le colò sul viso, scendendo dall’alto. Le pareti trasudavano quella sostanza, che diffondeva il suo maleodorante tanfo in tutta la stanza. Alzò lo sguardo, e una goccia nera le scese sulla fronte; aveva la consistenza del catrame ed un odore molto simile ad esso. Quando lo riabbassò l’ombra era ai piedi del letto, proiettata lungo la parete, allungata e minacciosa. Lentamente stava prendendo sembianze umane, e due occhi di brace illuminarono la stanza. Aveva artigli al posto di mani, e feroci zanne affilate gli deformavano il volto rendendolo un essere demoniaco. Un urlo le si fermò in gola, nel vedere quell’essere che ululava alla luna. Il demone non appena la vide, si staccò dalla parete, rimanendo inconsistente come l’aria, e si avvicinò a lei con sguardo severo. Tratteneva la sua rabbia a stento, ed era certa che l’avrebbe voluta sbranare se solo qualcosa non glielo impedisse. “Che vuoi?” domandò singhiozzando, cercando di coprirsi con le coperte. L’ombra gliele strappò con un solo gesto e si avvicinò ringhiando. Un frutto della sua immaginazione, un frutto della sua immaginazione…lo ripeteva in continuazione ma tutto intorno a lei era fin troppo reale. I tratti dell’ombra si fecero più definiti, i solchi del viso, le rughe che gli delineavano la fronte, ma il ringhio disumano rimase immutato. Jade tremò ancora di più nel riconoscerlo.
“Javier…”. Lo pronunciò appena, troppo presa dal panico, ma era certa di chi si trovasse davanti. “Javier, io non…che cosa vuoi?”. Lacrime di paura scorrevano silenziosa, mentre tutto intorno la stanza venne inghiottita dal buio. L’uomo non disse nulla, ma sorrise semplicemente, e le sfiorò con un artiglio il piede. Urla di dolore, di sofferenza, le rimbombarono nella mente. Leon portato in cella sotto il suo sorriso trionfante, il suo ideale di creare l’assassino senza sentimenti di cui servirsi, portava con sé il suo carico di colpa, e in più c’era la morte di suo marito…
“Basta!” implorò, piangendo. Tutto quel dolore, tutte quelle colpe…le sue mani divennero rugose, i capelli imbiancarono, e l’incubo della vecchiaia si manifestò in tutto il suo orrore. Ciò che più temeva era forse la conseguenza delle sue azioni?
“BASTAAAAA!”.

Violetta dormiva tranquillamente abbracciata a Leon, ma un senso di angoscia la colse all’improvviso. Il principe la stringeva con forza, e aveva un’espressione sofferente. Cominciò ad agitarsi, e la ragazza si staccò guardandolo preoccupata. Blaterava qualcosa nel sonno, e implorava continuamente che non lo costringessero a fare qualcosa. Adesso sapeva bene di che si trattava, e si sentiva vicina al suo dolore. Quel periodo di prigionia l’aveva lacerato, e tentare di conservare qualcosa di umano nonostante tutto doveva essere stato come lottare contro se stessi. Spietato quanto fragile. Strinse la sua mano, e vi depositò un piccolo bacio. Non sapeva se Leon la amasse veramente oppure vedesse in lei una salvezza da quello che era stato un passato tormentato, ma lei era certa dei suoi sentimenti, era certa di volergli stare accanto, di voler dormire abbracciata a lui tutta la notte. Amava tutto di lui, e ora che sapeva che in fondo Leon non era mai stato crudele di natura, ma era il risultato di uno spietato progetto, si sentiva sollevata. Provava tanto di quell’odio nei confronti di Jade per aver ridotto Leon in quello stato, in continua lotta con la sua coscienza… Si stese al suo fianco, e gli accarezzò la guancia con cura, sussurrandogli parole dolci all’orecchio. “Nessuno ti costringerà più a fare nulla…”. “E’ solo un sogno”. “Ti amo”. Quell’ultima frase le uscì involontariamente, e lei stessa sgranò gli occhi al rendersi conto di quello che aveva detto. Lo sentì muoversi accanto, e lo vide riaprire gli occhi lentamente, pieni di malinconia e nostalgia. Fece leva sui gomiti per alzare il busto, e dopo aver abituato gli occhi al buio, si voltò verso Violetta, confuso.
“Ti ho svegliato, vero?” chiese con voce impastata. Aveva i capelli ancora arruffati, a causa di tutta quell’agitazione nel sonno. La ragazza scosse la testa imbarazzata, senza spiccicare una parola. Quegli occhi verdi la ipnotizzavano, e ogni facoltà oltre a quella del respirare veniva completamente annichilita.
“Non c’è bisogno che tu menta, ci pensano già tutti quelli intorno a me…” mormorò il principe, lasciandosi cadere nuovamente, e fissando il baldacchino. Il calore del corpo di Violetta che si stringeva a lui gli scaldava persino l’anima, e il freddo avvertito nella cella dove aveva passato così tanto tempo gli sembrava quasi innaturale.
“Tu credi che tutti ti mentano? Io penso che abbiano solo paura” disse Violetta, accarezzandogli dolcemente il viso.
“Paura…menzogne…in fondo nella mia vita ho visto solo questo, no?” constatò amaramente il principe Vargas, sbuffando. Incrociò le braccia al petto, mentre lottava per non riprendere sonno: non voleva fare di nuovo quegli incubi, anche se questa volta era stato diverso. Proprio quando pensava di stare per sprofondare la voce di Violetta l’aveva tenuto in bilico, gli aveva impedito di cadere in quel vortice a cui era ormai abituato. “Ho sentito che mi parlavi…mi fa bene la tua voce, ha il potere di farmi stare bene” disse, voltando lo sguardo verso di lei, e facendola arrossire. Non poteva crederci. Se aveva sentito la sua quasi dichiarazione d’amore sarebbe sprofondata in un oceano di vergogna. Leon, che era abituato ad avere ogni donna al suo completo servizio, che se ne poteva fare di una bambina come lei? Lui così maturo e astuto, lei fragile e insicura. “Ma non ricordo le ultime parole” aggiunse un po’ dispiaciuto. Violetta emise un sospiro di sollievo, e fece un gesto con la mano per scacciare qualcosa, forse tutti i pensieri che erano scaturiti da quella paura.
“Non era nulla di importante, davvero” sorrise forzatamente, mentre Leon girò completamente il busto verso di lei. Si trovarono occhi negli occhi, i corpi stretti l’uno all’altro.
“Mi consola il fatto che tu non sia una bugia. Sono stanco delle bugie. Invece tu mi guardi in un modo diverso, nessuno l’aveva mai fatto prima. Sei sincera con me”. Con delle semplici parole ingenue aveva il potere di scatenare in lei una confusione totale. Nemmeno lui forse si rendeva conto della dolcezza che si nascondeva dietro esse, semplicemente cercava di essere sincero, proprio come i bambini. Possedeva un’ingenuità che entrava in netto contrasto con la facciata a cui era abituata. Aveva ancora la mano sulla sua guancia calda, e con un sussulto si rese conto che anche Leon gli stava accarezzando la guancia, leggermente bollente. Il principe accostò la fronte alla sua, e la guardò languidamente.
“Come fai ad essere sicuro che anche io non ti stia mentendo? Avrei potuto veramente rompere quel busto, eppure mi hai dato fiducia senza nemmeno sapere chi sono…” disse con un groppo in gola. In fondo lei stava veramente mentendo, vivendo una vita non sua. Quel mondo non era il suo, e nemmeno quel ragazzo; la sua realtà era ben diversa, e non prevedeva tutto quello. Non si aspettò un sorriso malinconico di Leon, che scosse di poco la testa.
“So chi sei. Sei quella che sta dando un nuovo senso alla mia vita. Per la prima volta sento di avere uno scopo, qualcuno da proteggere” rispose con gli occhi che brillavano nella notte. Non avevano mai parlato a cuore così aperto, e forse quel ‘Ti amo’ non sarebbe stato poi così fuori luogo, ma ormai era tardi per tornare indietro e sentiva ancora un forte senso di colpa: Leon con lei si era confidato, aveva rivissuto il suo passato con dolore, ma le aveva donato tutto se stesso in quelle parole, e lei? Non aveva nemmeno avuto il coraggio di dire la verità, di metterlo di fronte all’eventualità che forse un giorno si sarebbe svegliato senza di lei, senza poterla più vedere. Abbassò lo sguardo, colpevole, ma il fiato caldo di Leon sul suo naso la costrinse a rialzarlo; le stava sfiorando lentamente con le labbra la punta del naso, facendola rabbrividire.
“Posso darti un bacio?” le chiese d’un tratto, socchiudendo gli occhi, e avvicinandosi sempre di più. Violetta avvampò, ma non disse nulla, quindi Vargas sorrise. “Lo prendo per un si”. Le loro labbra si cercarono vagando nell’aria, e quando si incontrarono diedero vita ad un bacio dolce e appassionato. La mano dalla guancia percorse tutto il profilo del corpo di Violetta, quindi si posizionò sulla sua schiena, attirandola maggiormente a sé. La ragazza invece gli accarezzava timidamente il collo, e Leon dovette ammettere che quel tocco delicato lo faceva sentire in Paradiso. La fece distendere sul letto, e adagiare sotto di sé, e neppure per un secondo le loro labbra si separarono; sembravano essere ormai incollate, desiderose di restare unite fino a quando fosse possibile, assaporandosi le une con le altre. Affondò le mani sulle coperte, mentre sentiva il corpo di Violetta tremare sotto il suo. Si separò guardandola negli occhi e la vide sorridere debolmente. Una carezza leggera raggiunse la sua guancia, e non poté fare a meno di ricercarla con tutto se stesso. Con la sua bocca trovò e si impossessò del collo di Violetta, mentre i capelli gli solleticavano il viso. Il sapore di quella pelle per lui era sempre stato una debolezza, fin dall’inizio, ma adesso che se ne sentiva a tutti gli effetti quasi proprietario, ogni occasione in cui poteva sentirlo era di puro piacere. Fece scorrere lentamente le labbra lungo il collo, diede un piccolo morso, che la fece sussultare e sospirare allo stesso tempo, quindi continuò a riempirlo di baci. Violetta strinse le mani intorno alle sue spalle, e si godette quelle attenzioni in silenzio; avvertì una sensazione di freddo quando Leon abbassò la spallina del vestito, ma essa venne subito attenuata dai baci ardenti di Vargas.
Avrebbe continuato in quel modo in eterno. Riempiendola di baci avrebbe voluto semplicemente liberarsi di quel vestito, come anche del suo. Avrebbe voluto che i loro corpi potessero donarsi calore a vicenda, semplicemente toccandosi. Avrebbe voluto farla sua quella notte, che aveva segnato la sua completa resa. Si era scoperto completamente con lei, non sapeva cosa lo avesse spinto a farlo, ma era successo; e la cosa strana era che non se ne pentiva affatto. Ma non era solo la fiducia a renderlo così impaziente. Lui la desiderava davvero, come non aveva mai desiderato nessuna in vita sua. Lara e tutte le altre ragazze non avevano mai contato nulla, non erano state che uno svago quasi necessario. Con Violetta era diverso. Avvertiva il suo corpo, e sognava che fosse completamente suo; ogni suo respiro immaginava che fosse sulla sua pelle facendolo impazzire. Gemette debolmente solo lasciando che la mente vagasse con l’immaginazione, ma poi sgranò gli occhi tenuti chiusi, riacquistando lucidità. Che cosa stava facendo? Ci stava ricascando. Si stava lasciando andare ad un istinto, quando aveva di fronte l’unica persona di cui gli importasse veramente. Si separò a malincuore, respirando a fatica, e Violetta aprì gli occhi tenuti chiusi con un po’ di timore. Le diede un tenero bacio e si lasciò cadere sul suo fianco.
“Perdonami, non avrei dovuto…” si scusò, attorcigliando una ciocca di capelli intorno al suo dito. Si lasciò ipnotizzare da quel gesto, e cercò di evitare il suo sguardo, temendolo ricco di rimprovero. Violetta non disse nulla, ma gli prese il viso tra le mani e lo condusse al suo, baciandolo dolcemente.
“Non devi scusarti di nulla” gli sussurrò, abbracciandolo, e chiudendo gli occhi. Leon, rimase a guardarla tutta la notte, e si chiese se fosse possibile per una volta estendere la notte. Non voleva che arrivasse il giorno, che la luce gli strappasse quel momento che gli donava pace ed equilibrio. La abbracciò più forte mentre la guardava dormire. Un angelo l’aveva raggiunto per portarlo in salvo, e chi era lui per rifiutare quell’aiuto?
Ma il sole non accolse le sue preghiere. I fastidiosi raggi gli ricordavano continuamente che avrebbe dovuto svegliarla, anche se aveva persino il timore di sfiorarla. E poi non aveva alcuna intenzione di rovinarsi quello spettacolo. Percorse delicatamente con la punta della dita ogni singolo dettaglio del viso, fino a fermarsi alle labbra socchiuse. Ti amo. Ecco le parole che il suo cuore implorava di urlare, ma non ne era capace. Lui non sapeva amare, e forse aveva bisogno di imparare. E se avesse scoperto di non riuscirci? Un brivido gli percorse la schiena, sentendo il lento respiro della ragazza armonizzarsi con il suo battito cardiaco. Era confuso, non sapeva che cosa potevano rappresentare quelle strane emozioni, ma ne aveva bisogno come l’aria. Violetta si stiracchiò ancora con gli occhi chiusi, e le sfuggì uno sbadiglio.
“Buongiorno” disse appena, abbozzando un sorriso. Leon provò a sorridere a sua volta, ma si sentiva un completo ebete, quindi rispose al buongiorno con evidente imbarazzo.
“Sei tutto spettinato” osservò Violetta, con una piccola risata, cominciando ad accarezzargli i capelli, come si fa con un cucciolo randagio. E a quello di un cucciolo si poteva paragonare lo sguardo riconoscente e innamorato di Leon, che arrossì, cercando di non pensare a quella magnifica risata. Si ricordò di non averla più sentita cantare da quella notte, quando in preda al delirio, la sua voce lo aveva cullato, ridonandogli la serenità. Avrebbe voluto chiederle di cantare per lui, ma se ne vergognava, la considerava un’altra forma di debolezza.
“Lena si chiederà che fine ho fatto” sentenziò Violetta, mordendosi il labbro per la preoccupazione.
“E tu inventa una scusa” rispose senza pensare il principe Vargas, troppo preso dal modo in cui gli accarezzava i capelli, scostandogli una ciocca dalla fronte.
Violetta fece una smorfia. “Ti devo ricordare che sono una pessima bugiarda? Non saprei che raccontargli…”.
“E dovresti vedere in che condizioni si trova Marco” aggiunse timidamente. Leon, come previsto, si irrigidì di colpo, e assunse un’espressione neutra.
“Non ne ho voglia”.
“Leon, ma…”.
“Non ne ho voglia ti ho detto” ringhiò quasi. Violetta rimase in silenzio, scostandosi di poco da lui.
“Scusa…” mormorò. Gli occhi erano lucidi, ed era sicuro che stesse cercando di trattenere le lacrime. Leon sbuffò e si intristì all’istante.
“Rovino sempre tutto, vero? Sai perché non voglio vedere Marco? Perché le sue parole ancora mi fanno male. Ha ragione, dannazione. Chiunque si avvicina a me finisce scottato, o comunque se ne pente per la vita” spiegò Leon girandosi dall’altra parte e fissando un punto imprecisato della parete. Due mani gli accarezzarono lentamente le spalle, e di colpo la rabbia si spense così come era arrivata. Il corpo esile di Violetta si accostò al suo, facendolo rabbrividire e sentì il respiro sul collo diffondere il suo calore costantemente.
“Hai ragione, mi spiace averne parlato” gli sussurrò ingenuamente. La sua voce era talmente intrisa di innocenza, che Leon chiuse gli occhi per fondersi con essa. Tutto ciò non aveva senso, lui non poteva cedere di fronte a qualche parola dolce, anche se suonava sincera.
“No…perdonami tu. Oggi stesso parlerò con Marco” disse incerto.
“Sicuro? Non sei costretto in alcun modo”.
“Devo porgergli le mie scuse. Non voglio che pensi che lo abbia fatto di proposito”. Non fece in tempo a finire di parlare, che rischiò di soffocare, a causa dell’euforica stretta della ragazza, che per poco non gli saltò addosso. Sorrise inevitabilmente mentre Violetta gli tempestava la guancia di baci, e prese un respiro profondo. Non se la sentiva di andare a parlare con Marco, ma aveva già infranto una promessa, non intendeva farlo una seconda volta.
Fece per l’ennesima volta avanti a indietro di fronte alla porta della stanza dove riposava Marco. I medici lo avevano rassicurato sulla sua salute: nonostante la brutta botta in testa la perdita di sangue era stata minima, e il ragazzo se l’era cavata per un pelo. Se fosse caduto da un punto di poco più alto avrebbe rischiato certamente la morte. Parecchio sollevato da quella notizia, impallidì comunque quando seppe che aveva già riacquistato conoscenza, e che adesso stava a letto solamente per ristabilirsi del tutto. Fece per bussare, ma poi ci ripensò per la terza volta, e riprese a fare avanti e indietro. Doveva trovare le parole giuste per mettere tutto a posto. Era ormai ovvio che Marco avesse capito: il suo comportamento era stato fin troppo aggressivo non appena aveva cominciato a parlare del suo amore per Violetta, e non doveva essere poi tanto difficile fare due più due. Immerso in quelle riflessioni non si rese conto che la porta era aperta, mentre una Lena piuttosto confusa lo guardava interrogativa. Aveva in mano delle bende macchiate di sangue, e l’aria di chi era stato svegliato in fretta e furia.
“Principe Vargas” salutò con un mezzo inchino abbassando lo sguardo. Leon la fissò stupefatto: se non ricordava male doveva trattarsi della compagna di stanza di Violetta. Perché il caso andava sempre a suo sfavore? Temette che Marco dovesse aver già raccontato alla serva il motivo di quell’incidente.
“Dovrei parlare con Marco…è importante”. Lena si voltò impercettibilmente per controllare da lontano le condizioni di salute del paziente, e vedendolo con gli occhi ben aperti, fece un segno di assenso con la testa. “Cerchi di non fargli fare movimenti, preferirei si risposasse” lo avvertì la ragazza con fierezza per poi avanzare velocemente per il corridoio. Leon oltrepassò la soglia a si ritrovò subito un paio di occhi scuri puntati addosso. La stanza era piccola ma accogliente, e Marco appariva tremendamente buffo sommerso da coperte di ogni tipo, con la testa appoggiata su una quantità indefinita di cuscini soffici. Marco lo fissava insistentemente, e sembrava che di lì a poco avrebbe iniziato a sbraitare. Ma rimase di sasso di fronte al tono di voce freddo con cui si rivolse a lui qualche secondo dopo.
“Buongiorno Leon”. Faceva finta di nulla, e se non fosse stato per la fascia bianca che portava all’altezza della fronte, e un accento sarcastico, avrebbe finito per pensare che aveva avuto una forte amnesia, o che lui stesso aveva avuto una serie di allucinazioni. Il principe fece qualche passo in avanti, senza sbilanciarsi troppo, e senza rispondere al saluto; fece solo un rapido cenno col capo.
“A cosa devo la tua gradita visita?” continuò con fare ironico il ragazzo, allargando le braccia con un sorriso stampato sulla faccia. “Dobbiamo parlare di quello che è successo” si decise finalmente il ragazzo dagli occhi verdi, guardandosi nervosamente le scarpe. Rialzò lo sguardo fiero in pochi istanti: non voleva mostrarsi debole di fronte a nessuno, tanto meno di fronte a Marco.
“Già…hai la coda di paglia, Leon? Sei qui per essere sicuro di poter comprare il mio silenzio? Non vuoi che riveli la tua relazione, immagino. D’altronde chissà che disonore sarebbe per tua madre, e che rischi correrebbe la tua amata” sbottò con disprezzo. Era visibilmente deluso, ed irato, e Leon non seppe dargliene torto; l’aveva pur sempre spinto da una scalinata.
“Hai sbagliato, amico, sono qui per scusarmi…”.
“Le hai già fatto del male? L’hai già ferita” ringhiò Marco, interrompendolo subito. “Non le farei mai del male!” ribatté Leon, adirandosi anch’egli. Ancora una volta sentì il forte impulso di mettergli le mani addosso, e fargli rimpiangere ogni singola sillaba da lui pronunciata, ma si limitò a ridurre gli occhi a due fessure.
Marco sospirò, e la sua collera scemò, lasciando al suo posto una forte nostalgia. “E’ una creatura di una dolcezza e una bellezza disarmante”. Gli occhi gli brillavano, e le mani tremavano. “Lo so bene” rispose l’altro, disarmato di fronte a un tono tanto pacato, mentre prima sembrava che si sarebbero azzuffati da un momento all’altro. “E intendo proteggerla da quelli come me, Marco. Io voglio…proteggerla”. Si sorprese lui stesso del modo tranquillo in cui stava parlando, ma sembrava che tra i due le cose si fossero completamente stabilizzate. Forse entrambi avevano capito che litigando avrebbero ottenuto ben poco, e avevano deciso di mettersi a parlare civilmente.
“Da quelli come te? Leon, sembri diverso dalle voci che circolano sul tuo conto. E mi sembri sincero” parlò Marco. “Non sono cambiato affatto, e lo dimostra la ferita che ti ritrovi”. Leon era serio: era disposto a prendersi ogni responsabilità in merito, e a pagare con le punizioni che gli avrebbe riservato Jade al solo sapere dell’accaduto.
“Oh, ma tu non c’entri niente…stavo tornando dalla cavalcata, e per sbaglio ho appoggiato male il piede sul gradino. E’ stato un incidente” si affrettò a dire Marco facendo un occhiolino.
“Perché lo stai facendo? Perché improvvisamente siete tutti buoni con me?” chiese il principe Vargas incuriosito.
“Non saprei. Forse anche io mi devo far perdonare qualcosa. Sono stato più mostro io di quello che potresti essere te con le mie parole dettate dalla gelosia”. Leon non rispose. Non trovava le parole adatte, non sapeva come ringraziarlo per la sua comprensione; in fondo era pur sempre allievo del Brucaliffo e doveva aver appreso da lui come comportarsi in certe situazioni con saggezza. Nei suoi occhi vedeva il dolore per aver perso una persona di cui si era perdutamente innamorato, ma c’era anche dell’altro: compassione. “Prenditi cura della mia Violetta” disse con una mezza smorfia di dolore il mago, socchiudendo gli occhi, e aprendosi in un sorriso. Il principe annuì e cominciò a chiedergli di più sulla sua salute.
Dall’altra parte della porta socchiusa, Lena aveva teso l’orecchio da un po’ di tempo, ed era più confusa che mai. Era tornata perché aveva dimenticato alcune bende, ma non volendo interrompere la discussione tra il principe e Marco era rimasta ad origliare. Le erano arrivate solo poche frasi spezzate ma in alcune di esse c’entrava Violetta, e un dubbio atroce le si presentò nella mente. Si torturò le mani incerta su come agire. Prima che Leon lasciasse la stanza, ebbe l’accortezza di allontanarsi verso la biblioteca: doveva parlare con Humpty per confermare le sue ipotesi. Violetta non l’avrebbe mai fatto, giusto? Non avrebbe accettato di stare con un uomo tanto ripugnante, per quanto bello e affascinante. Continuava a ripeterselo costantemente, ma l’atteggiamento evasivo della sua compagna di stanza in quel periodo sembrava suggerirle tutto il contrario. Camminava e pensava, e ogni passo scandiva una nuova considerazione in proposito. Un passo. Gliel’avrebbe detto altrimenti, ne era sicura. Un passo. No, in fondo sapeva bene che lei avrebbe disapprovato. Un passo. Ma Violetta con lei era sempre stata sincera, le aveva anche rivelato del piano per fuggire che aveva deciso di ideare con il Bianconiglio. Un passo. Questa volta era diverso, si trattava di Leon. Un passo. In effetti Lara in quei giorni era diventata seriamente insopportabile, sia con lei, sia con Violetta. Un passo. Allora perché non aveva detto nulla? Semplice, forse aveva paura di quello che il principe avrebbe fatto una volta scoperto che aveva spifferato tutto. Era inutile continuare a lambiccarsi con tutte quelle ipotesi, c’era solo una persona che avrebbe potuto dissipare ogni suo dubbio.

Thomas sfogliò l’enorme librone su uno dei tavolini illuminati dalla grande vetrata alla sua destra, nella speranza di scoprire qualcosa di interessante. Erano giorni ormai che tentava senza sosta di trovare quella benedetta via d’uscita che avrebbe permesso a lui e a Violetta di fuggire dal castello, ma finora era stato tutto vano. Sbuffò di fronte all’ennesimo buco nell’acqua e chiuse con violenza il libro sollevano una nuvola di polvere, che lo fece starnutire.
“Thomas!” lo chiamò una voce da dietro, facendolo sobbalzare di colpo. Odiava quando gli facevano prendere quei colpi senza alcun preavviso. Lui era sempre stato una persona metodica e precisa: aveva il suo fidato orologio per prestare fede ai suoi impegni, e il ticchettio delle lancette scandiva anche la sua vita in modo regolare. Niente sorprese, pericoli, o follie, questo era il suo motto, prima di incontrare Violetta. Entrando nella sua vita aveva sentito uno strano stimolo, ed ora si era addirittura ritrovato a cercare di organizzare un piano per fuggire. Il brivido di quell’avventura era forte ed emozionante, ma allo stesso modo era altrettanto estenuante la paura che provava al pensiero di poter essere scoperto. La sua vita era sempre stata come un orologio, sempre funzionante, efficiente, affidabile, sicuro. Quando si voltò vide Lena, in ginocchio sulla panca dietro la sua, che aveva preso a picchiettargli la spalla con insistenza. Era stranamente seria, e questo lo preoccupò non poco.
“Buonasera, Lena…” rispose educatamente, mentre le ragazza senza tante cerimonie, si alzò e si sedette di fronte a dove stava lui. Guardava di tanto in tanto la grande vetrata, e poi lo studiava. Quel continuo andirivieni lo stava parecchio innervosendo, ma si tranquillizzò riuscendo a trovare in quel gesto qualcosa di armonico e ritmico, proprio come lo scandire delle lancette.
“Tu sai qualcosa che io non so?” domandò Lena, scrutandolo attentamente. Thomas pensò che quella domanda era stata posta in modo fin troppo vago, ed era curioso di sapere a cosa fosse riferita. “Dipende di chi stiamo parlando”.
“Oh, andiamo, non fare questi giochetti” sbuffò la ragazza, spostando indietro i capelli lungo la schiena con la mano. Fece un respiro profondo, quindi decise di essere più diretta: “Non pensi che Violetta ci nasconda qualcosa? E che magari c’entri il principe Vargas?”. Crick. Qualcosa si incrinò nel meccanismo perfetto, e il Bianconiglio si ritrovò a fissare il vuoto, come se esso fosse in grado di rispondere alla domanda della sua interlocutrice. Il vetro dell’orologio che tanto aveva venerato nella sua vita sembrò ridursi in frammenti, e la batteria che mandava avanti il tutto si arrestò di colpo, quasi come il suo cuore.
“Tu dici?” riuscì a dire dopo poco, sorpreso di essere riuscito a spiccicare parola, nonostante il suo cervello fosse ormai disconnesso e la sua mente vagasse altrove. In effetti anche lui qualche dubbio l’aveva avuto, ma conoscendo Leon non si era più posto il problema. Forse si era lasciato sfuggire la situazione di mano, ma insomma, mai avrebbe pensato ad una possibile relazione segreta tra il principe Vargas, e Violetta, che ben si distingueva per dolcezza e bellezza. Era come cercare di catturare la luce: impossibile. Lena annuì, assorta quanto lui, e i due rimasero in silenzio a guardarsi intorno, in cerca di qualche spiegazione, qualche ipotesi, che potesse essere ben condivisa dall’altro. “Io credo che Violetta non starebbe mai con uno come Leon. Stiamo parlando del principe e sappiamo come è fatto” disse Thomas, mostrandosi sicuro. Ma allora perché quelle continue manifestazioni di aggressività nei confronti di Marco, che aveva fin da subito avuto un colpo di fulmine per la bella Violetta? Spiegarselo era impossibile, ma non voleva tirare fuori un argomento tanto delicato, forse perché non voleva sentirsi dire la verità. Gli piaceva credere che tra lui e Violetta ci fosse una connessione particolare, l’aveva sentita fin da quella passeggiata fatta insieme fino al lago. E doveva rimanere così, almeno nella sua mente. Quell’abbraccio gli aveva restituito la vita e gli aveva dato uno scopo, e adesso era per lei che si metteva un gioco completamente, non tanto per se stesso. Come poteva un orologio sentirsi completamente realizzato se non c’era nessuno ad usarlo?
“Mh…non ne sarei sicura. Oggi ho sentito Leon e Marco parlare di Violetta, e devo dire che comincio a nutrire i miei sospetti” esclamò la ragazza, rivelando poi tutto quello che aveva sentito, anche se non tutto era chiaro. Si parlava solo di proteggere Violetta, ma non capiva chi dovesse farlo e soprattutto perché.
“Beh, potrebbe essere qualunque cosa” cercò di sviare l’altro, tenendo lo sguardo basso. Non poteva crederlo, e continuava a ripetersi scuse di ogni tipo. Alcune erano valide, fin troppo verosimili, altre erano semplicemente assurdo. Ma in fondo gli andavano bene tutte perché si concludevano con ‘Violetta e Thomas insieme’. Non credeva sarebbe stato così doloroso e ingannevole innamorarsi di una persona, soprattutto quando il sentimento non veniva chiaramente ricambiato.
“Ma Leon non può stare con lei!” strillò poi colto da un improvviso attacco d’ira, che spaventò persino Lena. “Perché lui…”. Non fece in tempo a finire la frase che con la coda dell’occhio vide Violetta entrare nella biblioteca e dirigersi verso di loro con aria spensierata. Lena colse la palla al balzo, e scattando in piedi si diresse verso l’amica.
“Violetta, ci devi delle spiegazioni” cominciò la ragazza, sospettosa e pronta a cogliere ogni minima reazione. Violetta si sorprese del tono autoritario con cui l’amica si rivolgeva a lei, ma non poté fare altro che annuire.
“E’ vero che tra te e Leon c’è qualcosa? E rispondi sinceramente”. Il silenzio accompagnò quella domanda, mentre anche Thomas si alzò e affiancò Lena, in attesa di una risposta convincente. Violetta sentì tutti quegli occhi puntati addosso che le venne da tremare. Essere sincera? Non essere sincera? Tradire Leon? Non tradirlo? Che cosa doveva fare?







NOTA AUTORE: Purtroppo vado di frettissima, dico solo che questo capitolo mi piace tantissimo *^* Stranamente xD Comunque: Jade ha degli inquitanti sogni/visioni/allucinazioni, ma più avanti tutto vi sarà più chiaro ù.ù Leon e Violetta sono troppo rghwiu3iugrh3rgf *^* Ma quelli li lascio commentare a voi, perché poi sembra che io sono di parte ù.ù :P E infine alla riconciliazione di Marco e Leon, si aggiunge però un problema: Lena comincia a sospettare. E Violetta che farà? Metterà in primo piano la sua amicizia con Lena, o il suo amore per Leon? Eh, lo scopriremo nel prossimo capitolo ù.ù Grazie a tutti, davvero, perchè mi seguite, leggete, e/o recensite. Davvero grazie mille, buona lettura a tutti! 
syontai :D 

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Capitolo 35
*** La maledizione di Javier ***





Capitolo 35
La maledizione di Javier

Capita spesso che quando si cade in una buca e ci si sbuccia una gamba rialzandosi a fatica il malcapitato continua a ripetersi di essere stato fortunato, e osservando la profondità del fossato tira un sospiro di sollievo: avrebbe potuto benissimo rompersela la gamba. Così avrebbe dovuto fare Violetta, se il panico non avesse preso il sopravvento. E mentre si torturava nervosamente le mani, faceva balzare lo sguardo impaurito da Lena a Thomas. Soprattutto quest’ultimo sembrava in ansiosa attesa di una risposta, e batteva ritmicamente il piede, facendo prevalere la sua natura di coniglio. A questo punto sentiva di avere una sola possibilità: negare, negare fino alla morte.
“Lena, ma che razza di sciocchezze tiri fuori?” esclamò contrariata, incrociando le braccia offesa. Odiava mentire, e si rendeva conto che nonostante ciò stesse mentendo ormai a tutti: Leon non sapeva chi fosse veramente, Lena non sapeva della sua relazione con Leon, e Thomas…Thomas era ancora convinto che lei volesse fuggire da quel castello. Il ragazzo emise un sospiro di sollievo, e si afflosciò sulla panca da cui era scattato in piedi: era stato solo un falso allarme. Lena gli aveva messo una pulce nell’orecchio, e invece avrebbe dovuto fidarsi della sua dolce Violetta. L’orologio era stato riparato in tempo record, e aveva ripreso a funzionare come sempre, nonostante avesse perso alcuni ticchettii.
“Dico solo che ho sentito Leon e Marco parlare di te…e che motivi avrebbe il principe Vargas per parlare di una serva?” la interrogò Lena. Negare, negare. Violetta si morse il labbro non sapendo cose rispondere.
“Ho chiesto io a Leon di parlare con Marco”. Una voce da dietro li fece sobbalzare, e con passo traballante Humpty si intromise sbucando da un angolo buio della biblioteca.
“Ho semplicemente consigliato al principe di chiedere al suo ospite di far cessare le fin troppo premurose attenzioni nei confronti di Violetta. Mi sembrava giusto agire così, e mi spiace non avervi avvertiti della mia intenzione” spiegò con calma l’uomo-uovo. Violetta annuì forzatamente di fronte a quella grande invenzione, che però sembrò essere sufficiente ai due.
“Ah, mi ero preoccupata per nulla, allora” trillò allegramente Lena, tornando la persona solare di sempre. Abbracciò l’amica di slancio, rischiando quasi di soffocarla. “Scusa per aver dubitato di te, d’altronde so che mi avresti detto tutto altrimenti”. Violetta e si lasciò stringere da Lena. Quando si separarono dall’abbraccio anche Thomas le sorrise, del tutto rincuorato. Tutti avevano creduto alle parole di Humpty, senza sapere quanto in realtà fosse complice in quella storia. Lui aveva sempre creduto in quello strano colpo di fulmine, aveva visto fin da subito uno spiraglio di luce nell’animo buio di Leon, e aveva saputo sfruttarlo fino in fondo. Aveva tenuto aperto quello spiraglio, aspettando pazientemente che arrivasse Violetta e lo squarciasse sempre di più. La sua attesa non era stata vana, ma doveva ancora intervenire per fare in modo che tutto procedesse nella giusta maniera. Violetta si congedò velocemente, e mentre si allontanava con grandi falcate, sentiva ancora tutta la tensione provocata dalla domanda di Lena.
‘E’ vero che tra te e Leon c’è qualcosa?’. La verità è che non lo sapeva dire con certezza. Provava qualcosa di forte per lui, ma si poteva dire altrettanto? Temeva che non la vedesse allo stesso modo, che il suo amore fosse un inganno, dovuto solo al fatto che grazie a lei aveva ritrovato se stesso. La testa le scoppiava, mentre riviveva l’opprimente interrogatorio di Lena nella biblioteca. Un paio di occhi chiari ed espressivi apparve nel bel mezzo del corridoio. La scrutavano ansiosi, eppure trasmettevano serenità e pace. Fu un incontro silenzioso, sufficiente a lasciarle un grandissima scarica di brividi alla schiena. Era rimasta ferma, ma poi si riscosse, e guardandosi riflessa in quelle grandi pupille limpide, avanzò così come l’uomo dall’altra parte del corridoio. Antonio le passò affianco a un soffio dal braccio, e proseguì nel verso opposto. Una sensazione di gelo colse Violetta: una donna dai lunghi capelli biondi dorati, in una veste bianca, una grotta, una catena dall’aspetto immutabile che si attorcigliava intorno alla caviglia della donna. Un velo che volteggiava misteriosamente impediva di scorgere il volto. Fu solo un attimo, e come se avesse ricevuto una secchiata di acqua gelida, i suoi occhi tornarono a vedere ciò che la circondava. Si voltò di scatto me il Brucaliffo era scomparso. Che cosa le era preso? Chi era la misteriosa donna della visione? Ricordava di averla già conosciuta in una determinata occasione, ma tutto le sfuggiva, e la mente stessa sembrava opporsi alla sua volontà di ricordare.
“La tua compagna di stanza ha origliato?!” esclamò Leon, preoccupandosi ulteriormente. Erano dentro la stanza in cima alla torre, quella dei giocattoli con cui il principe aveva trascorso la sua infanzia, tutto ciò che intendeva ricordare del suo passato. Si erano dati appuntamento quel pomeriggio su richiesta di Vargas, per spiegarle come erano andate le cose con Marco. Ma il sollievo iniziale era durato ben poco, di fronte alla notizia della ragazza.
“Ho negato fino all’ultimo…e poi per fortuna è intervenuto Humpty, perché Lena mi stava mettendo alle strette”. Leon annuì in silenzio, e si rilassò notevolmente quando sentì pronunciare il nome del suo vecchio amico.
“Bene, allora è tutto risolto” disse, accarezzandole le braccia con le mani, e guardandola negli occhi. Eppure Violetta non era ancora tranquilla: in parte ripercorreva lo strano incontro con il Bianconiglio, in parte sentiva che le stesse nascondendo qualcosa. Forse doveva cominciare a rendere più manifesti i suoi pensieri, e smetterla di rimuginare sulle cose. Doveva fare come Leon, doveva essere sincera, e non nascondergli nulla.
“C’è qualcosa che dovrei sapere su di te, Leon? Qualcosa che non mi hai detto?”. Il principe si irrigidì parecchio a quella domanda, ma tentò di dissimulare il fastidio con un sorriso forzato. Quella era la prova che le serviva. Passarono dei minuti, e Leon sembrava sempre sul punto di parlare, ma poi ci ripensava e rimaneva in silenzio, mordendosi il labbro di tanto in tanto. Violetta continuava a guardarlo seria, e si scostò piano, lasciando che le mani di Leon finissero per accarezzare l’aria.
“Tu vuoi stare con me?” le chiese ferito. “Non voglio che ti senta costretta a ricambiare i sentimenti di uno come me”. Era sempre così: Violetta si lasciava ammaliare dalle sue parole, dalla sua voce, e senza nemmeno rendersene conto, si ritrovava stretta a lui mentre si scambiavano un dolce bacio. Nessun pensiero lucido le attraversava il cervello, e quando lo sentì mordere debolmente il labbro inferiore, sentì il corpo andarle a fuoco. Mai aveva provato il desiderio fisico di accarezzare le spalle di qualcuno, di affondare le mani nei suoi capelli. Poggiò le mani sul suo petto e lo scostò di colpo, notando il sorrisetto compiaciuto del principe.
“Non hai risposto alla mia domanda”
“Non lo ritenevo necessario. Il bacio ha parlato al posto mio” le disse con aria eloquente, alzando il sopracciglio.
“Allora ti meriti un’altra domanda” ribatté Violetta, sostenendo il suo sguardo cristallino. Sapeva che non gli avrebbe mai mentito, e allo stesso tempo sentiva il bisogno di una risposta, per poter fare chiarezza nella loro relazione, se così poteva definirsi.
“Se è questo il tuo ordine, ho intenzione di esaudirlo” rispose prontamente il principe, drizzando la schiena fiero.
“Quali sono questi sentimenti che dovrei ricambiare?”. Incredibile come bastassero poche parole a demolire l’orgoglio e la sicurezza di un uomo, Leon ne era la prova vivente. Sul suo volto un’emozione in particolare prevaleva tra tutte: il panico totale. Non era abituato a farsi rivolgere domande così personali, e a meno che lui stesso non esprimesse il suo stato d’animo, nessuno osava mai indagare. E adesso quella domanda gravava sulla sua testa come un macigno appeso al soffitto con un filo, che gli sfiorava i capelli. Se ne sentiva oppresso, ma i suoi piedi gli impedivano di fuggire. E a cosa sarebbe servito fuggire da se stessi? In fondo la domanda di Violetta era legittima e lui avrebbe dovuto saper dare una risposta. Lo avrebbe voluto con tutto se stesso, ma non ci riusciva. Mentire avrebbe significato rovinare la meravigliosa connessione che aveva con lei, avrebbe reso tutto falso, e come aveva già detto, era stanco delle menzogne.
“Non…non lo so”. Abbassò lo sguardo, deluso da se stesso. Come aveva potuto farle questo? Con una risposta del genere che cosa avrebbe potuto prendere in cambio? L’amore si dona solo in cambio di amore, e si sentiva un egoista a pretenderne, quasi un bambino capriccioso. Eppure lo desiderava con tutto se stesso, desiderava quell’amore, voleva che fosse suo, solo suo.
Violetta però gli accarezzò la guancia, e lo guardò sorridente. Che ci trovava da sorridere quando lui le aveva appena detto che non era certo di sentire qualcosa per lei? Lo sorprendeva continuamente, e sempre si stupiva della sua dolcezza e della sua determinazione. “A volte sembri proprio un bambino!” rise dandogli un buffetto. Leon la intrappolò tra le sue braccia, e scoppiò a ridere anch’egli.  Rimasero a guardarsi per un po’ di tempo, e Violetta non poteva credere che non ci fosse amore tra di loro, lo sentiva nel suo corpo. Avvertiva come delle gelide onde invisibili che la facevano rabbrividire, solo non sapeva se anche per Leon fosse lo stesso. Quanto avrebbe pagato per sapere ciò che stava pensando in quel preciso istante! Il riflesso dorato dell’occhio del cannocchiale appoggiato su un tavolino le riportò alla mente lo strano incontro con Antonio, e si ricordò che altro doveva domandare.
“Sai per caso dove alloggia il Brucaliffo? E se è possibile parlargli?” chiese d’un tratto, sorprendendo lo stesso Vargas, che la guardò con aria sospettosa.
“Certo che so dove alloggia…o meglio, dove alloggiava! Sono partiti proprio questo pomeriggio, me l’ha detto Marco, che nonostante le raccomandazioni dei medici non aveva voluto far rinviare la partenza” spiegò tranquillamente. “Ma come mai tutto questo interesse per il Brucaliffo?”.
‘Chi esser tu?’
‘Alice, mi chiamo Alice’
“Niente. Semplice curiosità” rispose prontamente l’altra, sbiancando di colpo. Adesso anche le voci ci si mettevano a confonderla. Alice. Ecco di nuovo comparire il suo nome. Sembrava fosse una costante inevitabile in quello strano mondo. Ma cosa c’entrava lei con quella ragazza che ormai aveva lasciato il Paese delle Meraviglie da tanto tempo?
“Va tutto bene?”. Leon la guardava preoccupato, e le poggiò la mano sulla fronte. “Non sembra che tu abbia la febbre, ma sei pallida”. Violetta fece cenno di si, e con una scusa se ne andò di corsa, respirando a fatica.
‘Neanche affatto’.
‘A forza di ingrandire e rimpicciolire non è facile sapere chi sono’
‘Sciocchezze!’
Ma lei non aveva mai sentito qualcosa del genere! Perché stava rivivendo ricordi non suoi?
 
Dopo quella notte passata in bianco, in preda ad incubi demoniaci, Jade non riusciva a pensare lucidamente. I suoni arrivavano ovattati, e i colori si mescolavano di fronte ai suoi occhi, prendendosi gioco di lei. Gli oggetti si allungavano, i corridoi si restringevano di colpo, e provava un acuto senso di angoscia crescente. In un batter d’occhio si ritrovò nella carrozza predisposta per lei, per il viaggio che doveva fare quel giorno. Un villaggio vicino aveva subito alcune scorrerie da parte di un gruppo di briganti, ed era sua intenzione fare maggiore luce sulla vicenda. La luce attraversava fievolmente il vetro opaco, che quindi non arrivava a disturbarle gli occhi. Jackie sedeva alla sua sinistra, e faceva passare continuamente la mano sul velluto blu notte di cui era rivestito l’interno della carrozza. I paesaggi scorrevano, e di tanto in tanto si sentivano dei balzi a causa di alcuni tratti dissestati della strada. La domestica la osservava di sbieco, notando alcune sue stranezze, ma faceva per lo più finta di nulla. Aveva fatto un salto enorme quando era entrata nelle scuderie, sostenendo che un’ombra era venuta a prenderla. Ci volle qualche minuto per tranquillizzarla e convincerla del fatto che l’ombra proiettata altri non era che di un cavallo. Mentre saliva sulla carrozza ancora tremava e ci volle parecchio tempo prima che si ricomponesse. Cercava di pensare ad altro, magari c’era la possibilità che il lento e ritmico cigolio della carrozza aiutasse a conciliarle il sonno, ma non appena con gli occhi socchiusi fece per osservare il finestrino un ghigno malefico la fece ridestare di colpo e cacciare un urlo disumano. Il cocchiere fermò subito il mezzo di trasporto, e la scorta di cavalieri tutta intorno si ritrovò intenta a domare i cavalli, infastiditi da tutto quel baccano. Uno dei cavalieri scese con un balzo e corse fino alla carrozza aprendo lo sportello con il fiatone.
“Cosa succede?” chiese a Jackie, riferendosi alla regina, mezza svenuta, che tentava di blaterare qualcosa. La serva alzò le spalle e scosse la testa, tirando fuori una fialetta di cristallo da una bisaccia che si portava dietro con tutte le medicine della regina. La stappò e un odore forte e intenso investì l’intero abitacolo. Senza alcuna esitazione la portò sotto le narici di Jade, che storse il naso, riacquistando lentamente i sensi.
“Mia regina…vi sentite bene? Pensate sia il caso di tornare indietro?” la interrogò il cavaliere, facendo una smorfia di fronte a quel forte odore salmastre. “Forse sarebbe il caso” intervenne Jackie.
“Mi vuole uccidere! Vuole vendicarsi! Javier…” blaterava la donna, senza ormai più traccia di senno nello sguardo. Sembrava stesse vivendo ancora quegli incubi che tanto la tormentavano. A quel nome i due si scambiarono un’occhiata interrogativa, ma quando non fu vista Jackie si specchiò al finestrino e una donna trionfante nel fiore degli anni le sorrideva di rimando. Il suo piano stava funzionando alla perfezione, ed era solo all’inizio. Si voltò di nuovo e cercò di apparire preoccupata, mentre il cavaliere cercava di far rinsavire la regina, la quale continuava a straparlare sul fatto che Javier fosse ancora vivo e stesse cercando di ucciderla.
“Lui mi prenderà, lo so…è sempre più vicino! E voi siete inutili!” ringhiò la donna, divincolandosi dalle attenzioni del giovane cavaliere, e scaraventandosi fuori dalla carrozza; rischiò di inciampare mentre scendeva il piccolo gradino, e cominciò a guardarsi intorno, spaventata e adirata, mentre i cavalieri la fissavano straniti.
“Beh? Che fate, dormite? Voi dovete proteggermi, proteggermi! Stavo per morire, e nessuno di voi ha mosso un dito!” sbraitò, mentre tutti si guardavano confusi. Faceva su e giù, quasi non pienamente consapevole delle sue azioni. Era completamente impazzita, questo si dicevano con lo sguardo gli uomini tutto intorno a lei, e questo loro atteggiamento le dava ancora più fastidio. Vedeva risate di scherno ovunque, dita che la puntavano per deriderla. Magari sarebbe anche circolata la voce che la regina stava cominciando a perdere la capacità di governare a causa dell’età. Ma lei non era vecchia, e avrebbe fatto di tutto per non esserlo mai.
“Mia signora, ma nessuno si è avvicin…”.
“Osate mettere in dubbio la mia parola? Pretendo rispetto! Io sono la regina, voi i miei servitori. E se dico che qualcuno mi ha aggredito, allora è così! Darò l’ordine di tagliare la testa a chiunque metterà in discussione la mia parola. E farò sbattere in galera tutti voi se dovessi subire un altro attacco e non essere difesa come si conviene!”. Jade era fuori di sé dalla rabbia e dalla paura. Il silenzio accompagnò il suo ordine…in fondo chi l’avrebbe mai potuta contraddire. Alcuni borbottii preoccupati giunsero poco dopo, mentre Jade risaliva nella carrozza, dove Jackie aveva osservato la scena in un compiaciuto silenzio.
“Avete ragione, mia regina. Il corpo di guardia pensa sempre di avere ragione, ma non possono mettere in dubbio quello che voi avete visto”. La donna la guardò con sufficienza, ma allo stesso tempo approvazione. Si, aveva bisogno di approvazione per essere sicura di non essersi inventata tutto. La carrozza riprese a muoversi, ma la tensione era rimasta nell’aria. Jackie colse l’occasione al volo per cominciare a parlare di un argomento che le premeva particolarmente.
“A proposito, mia regina…volevo parlarvi di Leon”. Jade fece un cenno per farle capire che aveva ottenuto la sua attenzione, a quel punto la domestica prese un profondo respiro e continuò: “So che il principe riserva particolari attenzione a una serva del castello. Attenzioni che non ha mai avuto per nessuno. Girano molte voci in proposito, e mi sono riservata di non parlarvene fino a quando non ne avessi avuto prove” disse con un tono mellifluo.
“Di attenzioni mio figlio nei confronti dell’altro sesso ne ha sempre avute…è sempre stato molto attento in questo” sorrise maliziosamente l’altra, sfiorando una ciocca di capelli che le contornava il viso regolare. “Quindi non mi stupisco affatto di queste voci. Avrà deciso di prediligere una ragazza per un po’ di tempo. Non ci vedo niente di male”. Jackie scosse il capo, fingendosi logorata, mentre dentro pesava nel modo giusto le parole così da insinuare almeno il dubbio nella regina, senza doversi scoprire troppo.
“Qualcuno della servitù li ha visti in giro in orari poco consoni…nella torre dove Leon ama trascorrere del tempo da solo” disse, accentuando quelle ultime due parole.
“E con questo? Avrà voluto fare qualcosa di diverso…sarà stanco delle solite cose, povero ragazzo” sogghignò la donna, intendendo chissà quali perversioni. La carrozza ebbe un lieve sobbalzo, e le due donne si tennero strette al corrimano di legno che si trovava ai lati dei sedili.
“Penso che il principe si stia facendo prendere troppo da questa serva…e non in senso buono”. Non fece in tempo a finire che la risata stridula di Jade riempisse l’aria circostante.
“E’ semplicemente ridicolo! L’amore e Leon non sono più compatibili da molto tempo. Anche quella tua amichetta, Lana”. “Lara” la corresse la donna, con impazienza. “Come preferisci. Anche Lara ha imparato che Leon non potrebbe mai ricambiare l’amore di qualcuno. E’ come un nubifragio nel deserto: un’assurdità”.  Jade era talmente convinta di quello che stava dicendo che nessuno avrebbe potuto farle cambiare opinione neanche l’evidenza dei fatti.
“Forse avete ragione voi, maestà”.
“Vorrei ben vedere” ribatté la regina infastidita.
“Ma vi consiglio di considerare l’eventualità. Cosa potrebbe succedere se Leon si innamorasse di una serva? Mia signora, tutti i vostri progetti andrebbero all’aria come un castello di carte. In fondo è sempre meglio prevenire che curare, non credete?”. Jade non sembrava affatto disposta a mettere a rischio la sua reputazione al castello solo per un sospetto, nonostante ciò si sentiva spinta da una forte curiosità: chi mai poteva essere questo presunto pericolo per il suo piano, messo in atto fin dalla nascita del futuro erede?
“Il nome, voglio sapere il nome” disse secca, senza voler ascoltare altre chiacchiere inutili. Jackie si mise subito sulle difensive: “Ovviamente non vi è alcune prova certa che sia una faccenda seria, potrebbe trattarsi come dite voi dell’ennesimo passatempo del principe, ma…”
“Ho detto che voglio sapere il nome”. Jade la atterrì con il solo sguardo: anche se stava vivendo un vero e proprio incubo, non aveva perso la sua grinta che l’aveva caratterizzata fin da giovanissima, quando senza pensarci due volte aveva accettato la proposta di matrimonio di Javier Vargas, il quale si era invaghito di lei fin da subito, grazie a quel talento naturale che le era stato donato e che mai avrebbe permesso che qualcuno le togliesse: la sua bellezza.
“Violetta”. Quel nome le fu completamente nuovo: non ricordava tutti i nomi della servitù, e sebbene ne avesse un vago ricordo quella serva le era quasi estranea.
Violetta. Si ripeteva quel nome, come ossessionata, mentre la carrozza rallentava fino a fermarsi del tutto, segno che erano arrivati a destinazione. Sentì i cavalli nitrire, ed ogni rumore suggeriva quel nome. Quando aprirono la portiera per farla uscire, la donna sollevò di poco la gonna e scese lo scalino, facendo una smorfia di fronte a tutto quel fango e a tutto quello sporco. Si trovavano nel bel mezzo di un piccolo praticello, appena fuori dal villaggio, e la strada principale era polverosa, ma soprattutto deserta. Che fine aveva fatto il mercato? Il cocchiere passò un piccolo ombrellino di fine seta bianca a Jackie, che lo aprì per riparare la regina da sole. Il bianco delicato e i fini ricami stridevano con l’abbigliamento della regina, tendente al nero delle tenebre, le stesse che avvolgevano il suo cuore. Violetta. Un fiore piccolo e delicato di un colore chiaro, dai petali appena aperti, attirò subito la sua attenzione. La ragazza aveva lo stesso nome di quel meraviglioso fiore, che si affacciava timidamente da un ciuffo d’erba giallognola. In quel clima desolato e in rovina ecco la violetta che ricordava al mondo che tutto era possibile, anche una rinascita. E che non era mai troppo tardi. Mentre si dirigevano verso la piazza del villaggio, scortata su tutti i lati dai cavalieri, passò vicino a quel fiore, e gli rivolse un ultimo sguardo. Con una gioia perversa schiacciò la violetta, e proseguì oltre. Nessuno avrebbe fatto rinascere Leon, e sebbene non avesse alcuna prova da quel giorno sarebbe stata molto più attenta a quello che succedeva al castello.
Non c’era davvero anima viva in giro, e le guardie si guardavano incuriosite. La piazza del villaggio anche era deserta, e un silenzio sovrannaturale dominava il tutto. L’insegna di un’osteria cigolava a intermittenza. Sul legno ormai tarlato era stata dipinta una papera dal becco giallo consumato, e vi era la scritta ‘Dall’anatra d’oro’. Una delle guardie si allontanò e bussò ripetutamente all’entrata chiusa della taverna in attesa di qualche risposta.
“Qualcuno risponda, ordini della regina!” ripeteva continuamente l’uomo. Stava quasi per arrendersi quando sentì il rumore di una finestra che si apriva al piano superiore. Un vecchio sulla sessantina, probabilmente il padrone della taverna, si affacciò con circospezione. Non appena li vide si aprì in un sorriso sdentato luminoso e ricco di gratitudine, quindi chiuse la finestra e si precipitò al piano terra. Un continuo trafficare di lucchetti e catene fu presto seguito dall’apertura della massiccia porta della taverna.
“Finalmente dei soccorsi!” esclamò l’oste, invitandoli ad entrare. Dopo aver ottenuto la conferma che il posto fosse sicuro la regina seguì la sua scorta all’interno dell’osteria, che aveva un forte odore di muffa e stantio. L’uomo riemerse dalla penombra della cantina portando alcune boccali e dell’idromele. Solo in seguito si accorse della presenza della regina, e per la sorpresa fece cadere la bottiglia, la quale andò in mille pezzi, spargendo tutto il suo contenuto sul pavimento sudicio.
“La regina di cuori!” strillò con voce stridula, facendo un inchino talmente esagerato che per poco la punta del naso adunco non toccò terra. Jade fece un gesto, cercando di non prestare attenzione a quello spettacolo pietoso e di non pensare a quel luogo così privo di ordine e pulizia.
“Raccontateci cosa è successo…come mai nel villaggio non si vede nessuno in giro?” chiese un cavaliere, facendo un passo in avanti, e facendo capire all’uomo che il suo saluto era stato ben apprezzato dalla regina.
“E’ successo tutto in fretta. Era una giornata come le altre, e già stavano montando i banchetti per il mercato del giovedì. C’era aria di festa, sa, è il periodo in cui si festeggia l’anniversario del Liberatutto. Io stavo lucidando i boccali perché in giorni come questi molta gente viene qui per ubriac…”. Rivolse uno sguardo terrorizzato alla regina. “Volevo dire, festeggiare, appunto. Ed avevo appuntamento con un uomo dietro l’osteria, proprio davanti l’uscita sul retro, perché mi doveva vender…”. Si corresse nuovamente. “Scambiare due chiacchiere. So benissimo che il mercato clandestino è contro la legge, che credete, e io ovviamente non ho niente a che fare con certe cose” si affrettò a giustificarsi, sebbene tutto lasciasse credere a ragione il contrario. Il cavaliere alzò gli occhi al cielo, e fece finta di nulla, facendo poi pressioni perché continuasse il racconto. “Insomma, stavo tornando nell’osteria, quando ho sentito un baccano incredibile provenire, proprio dalla piazza, e ovviamente sono accorso per sapere di che si trattava. Quando sono arrivato c’era il vero e proprio inferno e non scherzo! Cavalli imbizzarriti, e uomini che si coprivano con le maschere, e che urlavano ‘A morte la regina, viva la libertà’. Rovesciavano tavoli, mandavano tutto all’aria, e ovviamente la gente, spaventatissima, fuggiva a più non posso. Hanno anche fatto razzia in giro, assaltando i forni, e portando via tutto quello che trovavano in giro. Tutti, spaventatissimi, si sono barricati dentro casa, e tuttora hanno paura ad uscire. Ed è ben comprensibile visti quei briganti indemoniati!” spiegò tutto infervorato.
“Manderemo una scorta di sentinelle per questo villaggio, fino a quando i banditi non verranno catturati e decapitati” ordinò il capo dei cavalieri, ottenendo ringraziamenti su ringraziamenti da parte dell’uomo, che insistette per riempirli di vivande.
In quel momento lungo il muro un’ombra si proiettò di fronte alla regina, la quale sbiancò di colpo. Javier Vargas, di nuovo. Sorrideva diabolico, allargando le fauci, come pregustandosi la sua vendetta. Gli artigli si prolungarono come oscuri tentacoli sul pavimento, che tentavano di ghermirli, ma Jade cacciò un urlo, fuggendo fuori dall’osteria in preda al panico. Voci infernali la tormentavano, e non riusciva a liberarsene. Voci che imploravano vendetta, che richiedevano sangue. Il suo sangue. Inciampò e cadde al centro della piazza, mentre portava le mani alle orecchie, senza però immaginare che quelle voci venivano da dentro di lei, e più cercava di zittirle più quelle urlavano senza pietà. Si ritrovò a piangere, e ad implorare perdono, ma le ombre la circondavano sempre più inesorabili, e coprivano di insulti le sue richieste. Sentì il petto lacerarsi e l’aria mancare, ed ebbe la sensazione di morire, ma delle braccia la afferrarono per le spalle, riportandola alla luce del sole. Aprì piano gli occhi e vide Jackie inginocchiata di fronte a lei, che la chiamava ripetutamente.
“Mia signora! Vi sentite bene?”. No, niente affatto. Più passava il tempo più si sentiva tra le grinfie del defunto marito. E di lì a poco sarebbe impazzita completamente, ne era certa, se già non era successo.
“Io…Javier…”. Ormai quel nome era una condanna, e allo stesso tempo una fissazione perenne. Perché era stato sicuramente lui a mandarle quella maledizione, in qualche modo. Sapeva che quell’uomo tanto buono in apparenza nascondeva un animo crudele. Adesso si ritrovava in mezzo a tutte quelle sofferenze, e non sapeva come uscirne. Dei cavalieri accorsero, ma lei scostò ogni aiuto, permettendo solo alla sua domestica di aiutarla ad alzarsi. Doveva trovare un modo per liberarsi del demone del marito e degli incubi che egli scatenava, o qualcosa le diceva che la morte nulla sarebbe stata in confronto a quel continuo supplizio.
 
Erano trascorsi già alcuni giorni dalla partenza del Brucaliffo, e con la partenza di Marco per un po’ Violetta e Leon si sentivano stranamente al sicuro. Il loro segreto era ormai tra loro due e Humpty, e nessun altro aveva dato loro modo di credere il contrario. Anche se Lara continuava a trattare con disprezzo Violetta, e Lena era sempre sospettosa, tutto sembrava procedere normalmente. Jackie appariva e scompariva quando meno uno se l’aspettava e la ragazza cominciò a credere che Lara le avesse parlato dei suoi sospetti, perché fissava continuamente lei, e non perdeva occasione di dare cenni di assenso alle continue rimostranze di Lara. “Quest’ala del castello spettava a te, e guarda quanta sporcizia”. “Non si lavano i piatti in quel modo”. “Anche se sei una serva incapace, questo non significa che tutti i compiti più semplici debbano andare a te”. Ormai era abituata a tutti quegli insulti, e Lena non perdeva mai l’occasione per difenderla, riuscendo così a tenerle testa, ma il clima stava diventando fin troppo teso, tanto da raggiungere un punto di rottura quel pomeriggio stesso.
Violetta aveva terminato i suoi compiti, ed era quasi il tramonto. Era vero che non era bravissima nelle pulizie, ma il sudore sulla fronte e le braccia che le facevano male dimostravano comunque che ce la metteva tutta. Lara aveva espresso il suo disappunto in modo alquanto esplicito sul fatto che fosse sempre lei a pulire la biblioteca, ritenendolo un compito di poco conto, e da allora, con l’approvazione di Jackie, le erano stati affidati lavori talmente pesanti, che appena tornava nella sua stanza e si stendeva sul letto si addormentava all’istante. Erano passati solo pochi mesi da quando era arrivata, eppure le sembrava trascorsa una vita. Si osservò le mani e sorrise: erano ancora lisce grazie ad uno strano balsamo che le aveva dato Lena, e nonostante la fatica era soddisfatta di come se la stava cavando con le sue sole forze. German l’aveva sempre considerata incapace persino di rifarsi il letto, e invece pian piano stava imparando a fare di tutto, e non vedeva l’ora di mostrare a Olga tutto ciò che sapeva una volta tornata a casa. Sempre che ci fosse mai riuscita. Qualcuno le strattonò il braccio costringendola a voltarsi, e si ritrovò faccia a faccia con Lara, che appariva ancora più minacciosa del solito.
“Finora abbiamo scherzato, e sto ancora facendo finta di nulla, ma presto i tuoi giochetti verranno allo scoperto, e allora sarò in prima fila quando ti taglieranno la testa” ringhiò la ragazza, pregustandosi già la scena, visto il sorriso crudele che le si era disegnato sul volto.
“Parli di cose senza senso, Lara, e se ora mi permetti io…”.
“No, non ti permetto un bel niente. Goditi Leon, finché dura, perché non sarà così ancora per molto. E tu per prima ti allontanerai dal principe, prima che lo faccia lui stesso, trattandoti come un oggetto, proprio come ha fatto con me. Leon si stanca in fretta, è la sua natura”.
“Non…non ti credo” rispose decisa Violetta, anche se i suoi dubbi e le sue paure venivano pienamente espressi dalle parole piene di cattiveria di Lara. E se quel rapporto fosse solo a senso unico, se solo lei provasse quel devastante sentimento d’amore per Vargas, mentre per lui fosse un gioco? Non poteva crederci, e anche se il cuore le urlava un categorico no, la testa continuava a lavorare e a porre tutti quegli ostacoli.
“Credimi, non è per te. Leon non è per nessuna…per il semplice fatto che lui non ama. L’ho provato sulla mia pelle, e sarà divertente vedere come si servirà anche di te”.
“Già. Sarà davvero divertente”. Appoggiato al muro, poco distante, Leon aveva assistito tutta la scena, immerso nell’ombra. I suoi occhi brillavano di rabbia, era ferito nell’orgoglio e allo stesso tempo si leggeva dell’altro: che fosse paura? Di qualunque cosa si trattasse non era nulla in confronto al terrore che si leggeva negli occhi di Lara, la quale cercava di balbettare qualcosa in sua difesa.
“Ti avevo già detto di non avvicinarti a me, ma temo di dover estendere il mio invito anche per quanto riguarda Violetta. Non devi avvicinarti a lei, mai più. Non osare anche solo guardarla negli occhi”. La voce di Leon era fredda e pacata, ma lasciava presagire una vera e propria tempesta.
“Ma io…”.
“Non ti ho chiesto di parlare. Tu e le tue sporche minacce non sono gradite alle mie orecchie, e nemmeno a quelle della mia…di Violetta” si corresse, leggermente imbarazzato, ma comunque ancora adirato. Lara non poté fare altro che annuire e dopo un inchino si allontanò profondamente umiliata, lanciando occhiate di disprezzo a Violetta.
Quando fu sicuro che fossero soli Leon si avvicinò a Violetta e la studiò per qualche istante. “Non devi crederle. Insomma…tu non le credi, giusto?” chiese, mentre tutto le fu più chiaro. Quella paura che prima si era manifestata nel suo sguardo era riferita a lei: temeva che prestasse fede alle parole di Lara e che finisse per credergli. Violetta cercò le mani del giovane, e le strinse tra le sue in un gesto spontaneo, guardandolo negli occhi. Scosse la testa in segno di diniego con un timido sorriso. La luce del tramonto attraverso un finestrone illuminava i loro volti, mentre i loro corpi rimasero immersi nella penombra. Erano vicini, sempre più vicini, e continuavano a guardarsi negli occhi.
“Non dovrei…” sussurrò appena con la bocca semiaperta.
“Già…non dovresti…potrebbe vederti qualcuno...” rispose con ben poca convinzione Violetta. Il corridoio era veramente deserto, parte della servitù doveva già essersi ritirata nelle proprie stanze. Prima che potessero aggiungere qualcosa Leon premette dolcemente le labbra sulle sue. Si separarono quasi subito, accontentandosi di quel rapido bacio, che non erano riusciti a reprimere. Ed entrambi cominciarono ad avere paura: se non riuscivano più a nascondere quel desiderio che provavano di stare insieme, di baciarsi o abbracciarsi, come potevano sperare che il loro segreto rimanesse al sicuro?
“Violetta!”. Lena la chiamava in lontananza, e dopo averle scoccato un bacio sulla guancia, Leon prese la strada opposta a quella da cui proveniva la voce, quasi correndo. Quando la sua compagna di stanza la raggiunse, del principe non c’era traccia già da un po’.
“Meno male che ti ho trovato, amica! Ho visto Lara nei paraggi e avevo paura che se la fosse presa nuovamente con te, ma da come si comportava mi sa che ha trovato pane per i suoi senti questa volta!” rise la ragazza, evidentemente contenta. Violetta rise forzatamente, sapendo che Lena era ben lontana dalla verità.
“Ma non sono qui per questo…mi dispiace per averti fatto quell’interrogatorio giorni fa riguardo a Leon. Non voglio che tu cada nel suo tranello, lo sai. Non è un uomo, è un mostro. E pensare che si deve anche sposare a breve! Insomma, fossi nella futura moglie, ci penserei due volte…il Regno e il denaro non valgono così tanto da passare la vita accanto a un uomo del genere”.
Violetta aveva lo sguardo perso nel vuoto, ed era bastata la parola ‘sposare’ a mandarla in trance. Sposare? Leon si stava per sposare? E quando aveva intenzione di fargli sapere una cosa tanto importante? Come aveva potuto tenerle nascosto il suo matrimonio? Faticava a respirare, tanto forte era stato il colpo subito.
“Si…sposa?” chiese con un po’ di esitazione, tremando come una foglia. Non provava solo dolore, era anche frustrata, e arrabbiata.
“Beh, si, è uno dei matrimoni più attesi, in realtà…il suo matrimonio con la regina di Quadri, Ludmilla Ferro, è stato deciso da tantissimi anni ormai, e in questo modo i due regni di unirebbero! E’ un evento storico per il Paese delle Meraviglie” disse la ragazza, spaventata per l’improvviso pallore di Violetta. “Tutto bene?”.
Il mondo le era appena crollato tra le mani. Quanto false potevano essere state le promesse di Leon? Stentava a credere che potesse esserci mai stato qualcosa di vero. Sembrava tutta una grande messa in scena, e lei era l’unica che non ne era stata informata. Ogni certezza si era trasformata in un grande interrogativo, ma solo di una cosa poteva essere veramente sicura: se Leon pensava di usarla in qualche modo, allora si era sbagliato di grosso.










NOTA AUTORE: Come al solito sono di corsa (tanto per cambiare, eh...), quindi commento molto rapidamente. TANTA LEONETTA PER TUTTI *^* Scusate, ma qui ce la meritiamo, perché dopo tutti i casini che sono successi un po' di scene loro ci volevano ù.ù Allora, oltre alla loro dolcezza (e si sa), parliamo in breve di quello che succede: strano incontro senza scambio di parole tra il Brucaliffo e Violetta, che però risveglia in quest'ultima alcuni ricordi non suoi...bensì della famosa Alice O.o Chissà come mai, e che connessione continua ad esserci tra lei e Alice...si accettano scommesse xD Jade intanto continua a tremare, e a sentirsi inseguita dall'ombra di Javier...e la situazione peggiora facendola profondare nella pazzia completa, mentre comincia a mettersi in guardia, 'grazie' a Jackie (MA VATTI A FARE UN GIRO) nei confronti di Violetta...ahi, ahi, cominciano ad emergere i problemi al palazzo :/ Le voci girano, e Lara poi non esita a straparlare, arrivando anche a mettere in guardia Leon sulla sua cattiveria...ma qui c'è un momento che amo, ossia quello in cui Leon la mette proprio a tacere e la manda a casuccia sua ù.ù Ecco, a nanna Lara, che è tardi, e domani devi svegliarti presto ù.ù Un fugace momento Leonetta che fa molto 'amanti segreti' xD E passiamo al finale che ci lascia un po' a bocca aperta: a quanto pare Leon è già 'impegnato'. AH. Ecco, forse questa non ce l'aspettavamo. Insomma, quindi...ahhh, non posso anticiparvi nulla, se non il fatto che Ludmilla farà la sua comparsa in questa storia in modo un po' più decisivo ù.ù Insieme ad un misterioso personaggio (lascia un po' di mistero). Ah, e ovviamente speriamo che i Leonetta risolvano, perché se litigano di nuovo shinebright viene a casa mia, mi cerca, e mi ammazza, e io voglio vivere ancora qualche altro annetto xD Grazie a tutti, e niente, buona lettura! 
syontai :D 

 

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Capitolo 36
*** Buon Noncompleanno! ***






Capitolo 36

Buon Noncompleanno!

Il profumo delle bianche campanule raccolte in un piccolo bouquet era la nota dominante che invadeva i suoi sensi. Tutto intorno c’era aria di festa, eppure un religioso silenzio sovrastava quella prateria immensa, mossa appena da un lieve venticello. Non sapeva perché, ma sentiva un’ansia crescere dentro di lei, e il mazzolino che stringeva in mano subiva le conseguenze della sua impazienza. Il vestito che indossava sembrava essere stato creato apposta per il suo corpo: era di un bianco candido, ma sopra il busto, e sulle spalle il tessuto era più fine, di seta purissima, quasi trasparente, e ricamato con motivi floreali. Il respiro affannoso si infrangeva sul velo che non le permetteva di avere una visuale completa, ma creava una sorta di atmosfera opaca e poco chiara. Chi stava aspettando con tanta fretta, talmente tanta da iniziare a sudare freddo? Un rintocco lontano catturò per poco tempo la sua attenzione, poi tutto fu di nuovo inghiottito nel nulla. Qualcuno le afferrò la vita da dietro, e sobbalzò non poco per il timore, finché non sentì una voce calda sovrastare perfino quel profumo che tanto l’aveva attratta.
“La mia principessa non vede l’ora di sposarmi” disse Leon stringendola forte a sé. Violetta si voltò di scatto e sorrise inconsapevolmente, mentre il principe, come rapito, le accarezzava i capelli, raccolti da un lato, e resi luminosi più del solito. Vargas non nascose affatto il suo apprezzamento nei confronti dell’abito da sposa che tanto aveva sperato di vedere, e si morse il labbro senza smettere di guardarla incantato.
“Sei in ritardo. Che razza di principe sei, Leon Vargas?” scherzò Violetta, cercando di alleviare la tensione che cresceva sempre di più dentro di lei, mentre a differenza sua lo sposo sembrava stranamente calmo. Alzò il velo con cura, attento a non sgualcirlo, e allo stesso tempo le mani scorrevano lungo il tessuto con la stessa impazienza che aveva provato prima lei nell’attesa.
“Del titolo di principe non me ne faccio nulla, mi basta essere l’uomo che ami” sussurrò Leon, dandole poi un dolce bacio. Le sfiorò una guancia con il pollice durante quella manifestazione d’amore, e quando si separarono sorrise. Mai aveva visto Leon sorridere in quel modo: era un sorriso ricco di felicità pura che la lasciava folgorata per la sua bellezza. Per l’occasione il principe indossava l’uniforme con gli stemmi del Regno: un paio di pantaloni di pelle semplici e neri, e una cintura di cuoio dove  rilucevano alcune piccole spille dorate, e sul cui lato era legato il fodero della spada. Portava una maglia scura pregiata appena visibile al di sotto della maglia di ferro. Sul capo faceva sfoggio di una semplice corona argentata senza pietre preziose incastonate. Il sole accarezzava i loro volti, mentre si guardavano innamorati come non mai. Si, per una volta ne era sicura: negli occhi di Leon si leggeva puro amore nei suoi confronti, ed era talmente devastante che neppure il fuoco avrebbe potuto essere altrettanto distruttivo. “La nostra prima notte di nozze sarà bellissima” le promise tutto d’un fiato, quasi non riuscisse a contenersi per l’emozione. E anche lei al solo pensiero di dormire con Leon, di potersi rifugiare tra le sue braccia ogni qual volta ne sentisse il bisogno, si fece rossa in viso. Non fosse che qualcosa la turbava, rovinando ogni suo progetto futuro.
“Leon…ma tu non devi già sposarti?”. Il vento si fermò, e il sorriso sul volto di Leon si spense, mentre una figura dietro di loro apparve dal nulla. “Già, io devo sposarmi, ma voglio farlo con te” disse sicuro, mentre una lunga ombra offuscava la distesa.
“Principe Vargas, sono arrivata”. Una ragazza affascinante, dalla lunga treccia bionda, ancheggiò fino a raggiungerli. Il vestito era uguale a quello di Violetta, e sembrava indispettita. Non appena vide che avevano le mani strette le une con le altre serrò le labbra, facendole diventare sottilissime. “E lei chi è?” domandò inquisitrice con aria imperiosa. I tratti della donna le apparivano sfocati, e non riusciva a memorizzarli ma solo la voce la infastidiva.
“Lei è…” cercò di spiegare Leon, ma non gliene venne dato il tempo. La donna lo strappò via afferrandolo per il braccio. Rapidamente il clima mutò: nuvoloni neri e gonfi di pioggia slittarono nel cielo, proiettando la loro cupa ombra sulla terra. Una strana nebbia fitta si diffuse pian piano, sollevandosi e avvolgendo nelle sue spire Leon e la sua futura moglie, quella vera, che si stavano incamminando verso una meta sconosciuta. Il giovane si voltava di tanto in tanto e la guardava: forse voleva raggiungerla, mollare tutto e correrle incontro, ma qualcosa glielo impediva. Violetta non riusciva a stare lì ferma, senza fare nulla, ed ebbe la folle intenzione di corrergli dietro, se qualcuno non avesse cercato di fermarla, prendendole il polso da dietro.
“Non ne vale la pena”. Quel ragazzo le era familiare: aveva i capelli arruffati e ricci e gli occhi scuri e intensi nascondevano molto dolore, ne era sicura. Ma quelle parole non fecero altro che alimentare la sua rabbia.
“Lasciami!” strillò, sperando così di attirare anche l’attenzione di Leon, ormai lontano; quest’ultimo si voltò nuovamente con un’espressione mesta, e abbassò il capo in segno di sconfitta, quindi si lasciò inghiottire dalla nebbia. Più tentava di divincolarsi, più Violetta si ritrovava impossibilitata a muoversi a causa della salda presa del ragazzo. “Che cosa vuoi da me?” gli si rivolse contro come una belva. Perché non le aveva lasciato inseguire il suo Leon? Lei non voleva perderlo, ma era anche vero che era stanca di combattere. Lara, Jackie…era stanca. Voleva un po’ di serenità, non chiedeva poi tanto, eppure quello strano mondo non era intenzionato a concedergliela.
La presa di Maxi si indebolì e al suo posto una mano candida gli sfiorò il polso, lasciandole i brividi.
“Non permettere a nessuno di ostacolare il tuo lieto fine”. Musica pura che si trasformava in parole soavi le trasmisero tranquillità. Tutto intorno vorticava, e i colori si mescolavano, creando variopinti uccelli che mostravano le loro ali con orgoglio. “Perché sarai tu sola con le tue scelte a stabilire il futuro…ecco il tuo dono, Violetta”.
Ecco il tuo dono Violetta.
Alice.
Violetta si svegliò con un sussulto e il respiro affannoso. Un altro di quei sogni così realistici. Quella voce…l’aveva già sentita da qualche parte. Era forse comparsa in qualche altro sogno? Si voltò verso il letto di Lena, e nel buio sentì l’amica respirare profondamente. Invidiava Lena per quel sonno così sereno, mentre lei adesso non si azzardava più a chiudere occhio, per paura di rivivere quell’incubo. Eppure era iniziato tutto nel migliore dei modi: la pianura soleggiata, il matrimonio con Leon…il matrimonio. Quelle immagini di pura gioia le scorrevano ancora davanti agli occhi, e mai, mai si era chiesta cosa avesse provato suo padre il giorno delle nozze con la ormai defunta moglie, ma adesso per la prima volta si sentiva vicina a quelle sensazioni. Conosceva da così poco tempo Leon, e aveva dovuto lottare duro per poter scoprire la sua vera natura, e già desiderava potersi considerare sua consorte, come una bambina sognatrice? Strinse forte il cuscino tra le braccia, e prese a fissare il soffitto. Si sentiva veramente immatura e fare sogni del genere, ma non poteva certo porre limiti al suo inconscio, e in un certo senso ne era riconoscente. Dopo la notizia che le aveva dato Lena, almeno poteva concedersi il lusso di vivere nei sogni qualcosa che non avrebbe mai vissuto nella realtà. Ma neppure nella dimensione onirica le era concesso più di un solo attimo di felicità, che la misteriosa sposa di Leon era intervenuta a reclamare ciò che era suo di diritto. Già…suo di diritto. Ancora non aveva digerito quella batosta, e sentiva un peso opprimente sullo stomaco, che era certo non sarebbe andato via fino a quando non avrebbe parlato con Leon. Non sapeva cosa aspettarsi, se delle scuse, o delle semplici spiegazioni, non sapeva come sarebbe stato il loro rapporto da quel momento in poi, ma era certa di volerlo affrontare. Avrebbe pensato a cosa fare la mattina dopo, quella notte però non riusciva a smettere di rfilettere, e se ogni pensiero avesse prodotto rumore, probabilmente anche Lena avrebbe passato la notte insonne proprio come lei.
Quando voleva Leon sapeva davvero essere introvabile. Aveva cercato ovunque: al campo di allenamento, e in tutti i luoghi in cui era solito andare, si era fermata perfino di fronte al labirinto di rose, senza però trovare il coraggio di entrarvi, visti i precedenti. Aveva l’incredibile capacità di scomparire proprio quando aveva qualcosa di importante da dirgli. Incrociò Thomas mentre rientrava nel castello, che le rivolse un gioioso saluto. Dal giorno dell’interrogatorio con Lena sembrava veramente sollevato, e ogni motivo era valido per cercare di stare in sua compagnia. Non che a Violetta dispiacesse, ma temeva che mal interpretasse la sua cortesia e il suo sincero sentimento di amicizia, e per questo a volte cercava di declinare educatamente quegli inviti. Quella mattina però, fortunatamente, il Bianconiglio era preso da ben altre preoccupazioni e la sua propensione a invitarla a fare passeggiate o a rinchiudersi in biblioteca per continuare le ricerche sulla fuga non trovava alcun adito.
“Hai visto Leon?” chiese lei, mentre Thomas, avendola salutata appena, si fermò di colpo, scrutandola pensieroso.
“Come mai vuoi parlare con il principe?” ribatté il ragazzo, avvicinandosi con un certo sospetto. Una scusa, aveva bisogno di una scusa. “Ordini della regina…devo riferirgli un messaggio”. Sperava di aver colto nel segno, ma Thomas non cessava di sbattere prepotentemente le palpebre, per poi tornare a fissarla di sbieco.
“Solitamente ordini del genere sono affidati a Jackie”.
“La regina ha incontrato me, e visto che non ha tempo da perdere mi ha ordinato di trovare Leon”. Alla parole ‘tempo’ il Bianconiglio ebbe un sussulto, e si ricordò dell’infinità di compiti che avrebbe dovuto portare a termine quella mattina, a partire dal parlare con le sentinelle per riferire i nuovi turni di guardia. Ovviamente aveva scritto tali orari anche su una pergamena custodita in un cassetto chiuso a chiave del comodino della sua stanza, in modo da poterli sfruttare per una loro eventuale fuga.
“Mh…se non è al campo di allenamento, potrebbe anche essere nel suo studio” spiegò Thomas. Dopo avergli dato indicazioni precise per raggiungere la stanza, cominciò a correre disperatamente verso le mura, guardando di continuo l’orologio. Ancora una volta, tanto per cambiare, era in ritardo.
Violetta non sapeva nemmeno dell’esistenza di quel piano. Era passata tante volta di fronte alla sala da pranzo, ma mai si era resa conto della presenza di una piccola scala sulla destra che conduceva in alto. Erano scalini in pietra bassi che giravano intorno a un pilastro. Piccole feritoie permettevano di avere una scarsa visuale del giardino che circondava il castello, ma almeno grazie ad esse l’ambiente risultava sufficientemente illuminato. Quando però raggiunse il piano superiore le sembrò di essere tornata nel buio della notte, se non per la presenza di alcune fiaccole. Fece un respiro profondo di fronte a una porta in legno d’acero, e si decise a bussare.
“Avanti”. La voce di Leon era parecchio annoiata, e non appena la sentì il cuore le balzò in gola. Si chiese se non fosse il caso di non entrare, e di scappare a gambe levate, ma ormai doveva farsi coraggio e andare avanti. Entrò in quello che era un piccolo e modesto studio dalla pianta quadrata. Librerie di legno pregiato circondavano tutte le pareti, da cui emergevano pergamene di tutti i tipi in mezzo a vecchi libroni. Leon stava scribacchiando di malavoglia qualcosa, intingendo rapidamente la piuma d’oca in un piccolo recipiente di cristallo pieno di inchiostro, e lasciando che esso scorresse liberamente sul foglio. Non appena alzò lo sguardo scattò in piedi, e si illuminò di colpo. Subito dopo però si rese conto della sua reazione esagerata e con un colpo di tosse cercò di mantenere un po’ di contegno.
“E’ bello che tu sia venuta…qui” disse con un po’ di esitazione, cercando termini consoni alla situazione, anche se in quel momento il suo cervello mandava sempre meno impulsi, facendolo sentire solo e soprattutto parecchio stupido. Cercò di aggirare il piccolo scrittoio che li separava ma per venirle incontro diede una botta con la gamba allo spigolo, e gli sfuggì un gemito di dolore.
Violetta in un’altra occasione sarebbe scoppiata a ridere e non avrebbe aspettato un solo secondo ad abbracciarlo, e a lasciarsi cullare dalle sue dolci parole. Ma quel peso che aveva sentito durante la notte era cresciuto sempre di più, e non poteva tenerselo dentro.
“Ho saputo che ti sposerai”. Tagliente come una lama quell’affermazione raggiunse il cuore di Leon, che alzò lo sguardo atterrito e spaventato. “Volevo congratularmi” aggiunse ironica.
“Non è come credi…te l’avrei detto, ma non era poi così importante” tentò di giustificarsi con ben poca convinzione.
“Non era importante? Leon, tu ti sposi! E io…e noi…”. Era talmente arrabbiata da non riuscire a trovare le parole, ma anche Leon stava cominciando ad alterarsi.
“Noi cosa? Perché dobbiamo rovinare tutto per uno stupido matrimonio? Io voglio stare con te!”. Era estremamente confusa, ma non gliel’avrebbe data vinta in quel modo: non sarebbe cascata ai suoi tranelli per tenerla buona, non ora che la questione era così seria…che pensava, che sarebbe stata la sua amante? Davvero era così sicuro che avrebbe messo da parte la sua dignità solo per lui?
“Non penso che dovremmo più vederci…stiamo sbagliando” mormorò, mentre il suo sguardo esprimeva tanta di quella delusione da trapassare Vargas da parte a parte. Il principe non riuscì più a contenere la sua ira e cominciò a gesticolare mentre le urlava contro: “Va bene! Come vuoi tu! Ero io a sbagliarmi nel credere che tu fossi diversa dagli altri! Non mi hai nemmeno chiesto cosa ne penso io di questa storia, non sai che la mia futura ‘sposa’ non ricordo più che aspetto abbia, dato che l’ultima volta che l’ho vista avevo dieci anni…non sai che io questo matrimonio non l’ho mai voluto. Non l’ho scelto io, perché io non potrò mai scegliere, capisci?”. Violetta scuoteva la testa, incredula, e corse via, forse impaurita dalla sua reazione. Temeva che il vecchio Leon prendesse il sopravvento? Il rumore della porta segnò il culmine, e Leon per la rabbia diede un pugno allo scrittoio, che fece addirittura cadere il calamaio posto sul bilico. L’inchiostro gli sporcò gli stivali, ma non gliene importava nulla. Ancora una volta la sua vita era capace di riservargli solo delusioni. Solo ora si era reso conto di aver reagito fin troppo male, e non biasimava certo Violetta nel volergli stare lontano; non riusciva ancora a contenere la rabbia, e a volte credeva di trasformarsi in un mostro assetato di sangue. Si lasciò cadere sulla sedia e si portò la testa tra le mani, mentre cercava di trattenere quelle poche lacrime che volevano uscire. Respirò profondamente, ma presto i respiri si trasformarono in singhiozzi.
‘Ero io a sbagliarmi nel credere che fossi diversa dagli altri’. No, lei era diversa davvero, e lui l’aveva persa. Forse per sempre. Il suo stupido orgoglio aveva preso il sopravvento, e invece di spiegare la situazione aveva finito per aggredirla.
‘Non penso che dovremmo più vederci…Stiamo sbagliando’. Era facile per lei. Lui non riusciva a starle lontano, non ce la faceva proprio. Allo stesso tempo voleva rispettare la sua decisione, per quanto ingiusta la ritenesse.
 
Odiava ammettere di aver sbagliato, eppure era così. Quando Leon le si era rivoltato in quel modo aveva capito che si era comportata esattamente come tutti gli altri; l’aveva giudicato, l’aveva allontanato a causa di alcuni pregiudizi che si era fatta, forse condizionati da quello che era il vecchio Leon. Sentiva che era ormai troppo tardi per chiedere scusa, e forse era stato un bene mettere fine a quella relazione che si rendeva sempre più pericolosa di giorno in giorno. Incrociare Leon per i corridoi era un vero e proprio supplizio, eppure lui non l’aveva mai fermata per alcun motivo, seppure nel suo sguardo apparisse ogni sorta di supplica. La guardava a volte languidamente, a volte con un’impercettibile nota nostalgica, sempre cercando di non darlo a vedere a nessuno. Odiava manifestare le sue debolezze, e questo Violetta lo sapeva bene, ecco perché da ogni dettaglio sul suo volto riusciva a risalire a un’emozione, cosa che per chiunque altro sarebbe stata impossibile. In quei giorni aveva riflettuto molto sulla strana donna che era apparsa nel suo sogno, e il suo istinto le diceva che doveva trattarsi di Alice. Il problema è che per quanto provasse a chiedere informazioni tutti rispondevano che erano secoli ormai che la ragazza era tornata nel suo mondo, lasciando il Paese delle Meraviglie, e che le sue domande apparivano perciò alquanto sciocche. Perfino Humpty, per quanto avrebbe voluto aiutarla, aveva dovuto convenire che ricercare una persona leggendaria scomparsa da ormai troppo tempo, era come cercare un ago, non in un pagliaio, bensì in cento pagliai straripanti di fieno. Di colpo però si ricordò di qualcuno in particolare, che le aveva detto qualcosa a proposito di Alice.
“Cara signorina, mi scusi per questa spiacevole interruzione, dicevo che lei assomiglia molto ad Alice. Anzi, posso affermare con certezza che lei potrebbe essere uguale ad Alice. Meglio ancora, potrei dire tutto il contrario”.
‘…questa bambina si chiamava Alice. Si, proprio Alice. Alice era una persona davvero speciale, che dopo varie disavventure finì a corte dalla Regina di Cuori, che l’aveva invitata a una partita a croquet. Solo che il fenicottero rosa non voleva ascoltare la povera bambina, quindi…”
La quercia e il ghiro. Avevano nominato Alice per due motivi diversi, eppure entrambi sembravano saperla lunga sul suo conto. Avrebbe voluto parlarci, ma come uscire indisturbata da quella prigione dorata, senza far insospettire nessuno? Stava scendendo la scalinata principale quando a metà incrociò con lo sguardo Leon, che procedeva  nella direzione opposta. Non appena la vide, Vargas esitò appena, e provò a dire qualcosa, ma, forse ritenendolo inutile, abbassò lo sguardo e continuò a salire uno scalino dietro l’altro, in un religioso silenzio. Avrebbe potuto fermarlo, e forse avrebbero raggiunto un chiarimento, ma non era certa che tutto sarebbe stato come prima. E per cosa poi? Per una relazione ondivaga che rischiava di essere scoperta ogni secondo mettendo in pericolo entrambi? Lei razionalmente non poteva. Il suo cuore le urlava il contrario, e metterlo a tacere era sempre più difficile. Non sapeva che Leon potesse essere entrato così dentro la sua anima, lasciando un’impronta tanto grande. Stava per uscire quando incrociò anche Thomas, e un sorriso spontaneo le comparì sul volto: aveva un piano. 
“Se non torniamo prima del tramonto manderanno una pattuglia a cercarci, io te lo dico” borbottò Thomas, ormai al limitare della foresta. Non sapeva nemmeno lui come fosse riuscito ad ottenere un lasciapassare, eppure eccolo stringere nella mano una piccola lamina di metallo con inciso il simbolo del Regno di Cuori.
“Devo solo trovare qualcuno…se vuoi puoi aspettarmi qui” esclamò la ragazza, avanzando senza paura nella fitta selva, che metteva parecchia paura al compagno.
“F-forse è meglio” balbettò il Bianconiglio, tremando dalla testa ai piedi, al rumore sordo di un qualche animale lontano. Violetta annuì e cominciò a seguire il cammino rosso brillante; inevitabilmente le venne in mente il primo incontro con Leon. Chi avrebbe mai detto che le cose sarebbero cambiate a tal punto? Non doveva pensarci. Scacciò quei ricordi, e soprattutto l’immagine di Leon, dei suoi occhi che brillavano alla luce del sole, che le chiedevano di essere salvato; e lei si stava tirando indietro, per paura. Era una vigliacca, ma tutto era contro di loro, e non ce la faceva più a combattere per qualcosa che forse sarebbe scemato per conto suo. Il bosco si richiudeva sopra di lei, e pian piano le sembrò di tornare in quei giorni, quando la porta che l’aveva condotta lì si era dissolta nel nulla. Lì era iniziata la sua avventura, ed ora era tornata per cercare delle risposte. La colonna di fumo che proveniva dalla casa del Cappellaio Matto fu per lei una sorta di guida…la probabilità di ritrovare la vecchia quercia in quel vasto bosco era quasi nulla, ma almeno avrebbe potuto parlare con il Ghiro in tutta tranquillità. Sempre nella speranza di non uscire pazza dalle mille stramberie di quel gruppetto.
Raggiunse nuovamente il portico dell’accogliente casetta, e notò che la porta era stata verniciata con un rosso brillante. Si sentiva ancora odore di vernice fresca, quindi dovevano aver fatto quel lavoro da poco tempo. Già si udivano numerosi schiamazzi e urla selvagge che non lasciavano presagire nulla di buono, ma non aveva tempo da perdere, il sole già stava dando cenno di avvicinarsi alla linea dell’orizzonte. Bussò una volta, ma nessuno venne ad aprire. Due volte, tre volte. Niente. Il vetro della finestra vicino si infranse, e una tazzina schizzò a velocità supersonica, mancandola di poco.
“Mancato, testa di rapa!” strillò una voce ben nota all’interno della casetta. La porta si aprì di schianto e Beto sghignazzò alla vista della giovane. In testa aveva un cappello pieno di colori sgargianti che si diffondevano a macchie su tutto il tessuto, e portava un paio di occhiali sbilenchi sporchi di briciole.
“Buon Noncompleanno!” disse euforico, stringendola in un forte abbraccio da cui probabilmente non sarebbe uscita viva, se la Lepre non lo avesse richiamato dentro. Senza aggiungere altro la trascinò all’interno, e chiuse la porta dandole un forte colpo con il piede, mentre rideva a più non posso.
“Buon Noncompleanno!” fecero in coro Beto e la Lepre, correndo intorno al tavolo da tè, mentre il Ghiro dormiva beatamente con un buffo cappello da notte da elfo, che terminava con un vaporoso pon pon rosa. Violetta sorrise forzatamente, cercando di mostrarsi educata il più possibile, nonostante già avesse una gran voglia di fuggire da quella gabbia di matti.
“Certa gente è proprio maleducata” borbottò il Cappellaio, senza scomporsi un attimo, e afferrando al volo una teiera che gli aveva lanciato il compare, per poi versarsi una quantità di tè ben maggiore della capacità della tazzina. Bevve tutto d’un fiato, quindi fece un cenno entusiasta alla Lepre, che prese una mazza da baseball. La lanciò con foga, e quest’ultima la colpì frantumandola all’istante.
“Punto per la Lepre!” rise sguaiatamente Beto. Poi si rivolse di nuovo alla sua ospite con una faccia seria: “Davvero una gran maleducata!”.
“Si può sapere che cosa ho fatto di male, di grazia?” ribatté Violetta acida. Non aveva voglia di mettersi a litigare, ma non poteva accettare che le desse della maleducata senza alcun motivo.
“Ma non è difficile, ragazza!” cominciò Beto, sedendosi sulla sedia, che già provata da chissà quali pericolose azioni da parte dei suoi possessori, si sfasciò all’istante, lasciando l’uomo con il sedere per terra, il che provocò altre innumerevoli ed interminabili risate. Beto poi fece cenno di fare silenzio e si alzò con fare imperioso, risultando comunque parecchio goffo. “Noi” marcò bene la parola. “Noi ti abbiamo fatto gli auguri di Noncompleanno, ma tu? Tu no, signorina sgarbata”. Alzò la punta del naso con fare offeso. Noncompleanno? E che festa era? Violetta ripassò a mente tutte le festività che conosceva: festa di compleanno, Natale, Pasqua, al più poteva considerare tra quelle anche Santo Stefano e Capodanno, ma poi non ne ricordava altre. Si sentiva presa in giro, perché Noncompleanno era anche un nome fin troppo buffo per una festa.
“E che festa sarebbe?” domandò, alzando il sopracciglio con aria confusa.
“Ma questa ragazza è davvero ignorante oltre che maleducata!” si intromise la Lepre, guardandola con astio. Beto lo zittì dandogli uno scappellotto sulla schiena, e continuò a fingersi profondamente offeso.
“Non conosci la festa di compleanno, forse?”.
“Certo che la conosco”.
“E allora, sciocchina, non puoi non conoscere il Noncompleanno, che si festeggia quando non è il tuo compleanno! E oggi è anche il mio Noncompleanno!” esclamò lasciandosi trascinare nuovamente dall’entusiasmo.
“Ma è un’assurdità! Allora dovremmo festeggiare tutti i giorni, tranne quello del nostro compleanno…e poi dovremmo festeggiare anche quello, perché sarebbe il giorno del nostro compleanno” riassunse brevemente il suo ragionamento la ragazza.
Beto sbuffò e un ciuffo volò verso l’alto per poi tornare ad afflosciarsi sulla sua fronte. “E per quale motivo non dovresti festeggiare tutti i giorni?”.
Quella domanda inizialmente la spiazzò, quindi ci pensò un po’ su, e trovò da sola una risposta convincente: “Perché altrimenti si sminuirebbe il significato del festeggiamento, no? E’ una follia vera e propria!”. Beto aprì la bocca per ribattere, ma uno sbadiglio attirò l’attenzione di tutti i presenti. Il Ghiro aveva aperto i suoi occhietti assonnati, e stava allungando con una lentezza logorante il braccio per afferrare la teiera.
“Ghiro, proprio di te avevo bisogno! Spiegale per favore che il Noncompleanno è una festa importante!” si lamentò Beto. Sembrava un bambino, mentre si inginocchiava di fronte alla sedia dell’amico appena svegliatosi, e lo implorava di ricevere una mano in quella discussione che non aveva né capo né coda.
“Io dico che ha ragione chi non ha ragione. E siccome la ragazza ha ragione, allora non ha ragione, perché se avesse ragione, allora avrebbe la ragione di avere ragione, e a ragione aggiungerei! E allora cadiamo un vero e proprio assurdo. Insomma, la ragazza non può avere ragione!” esclamò con fare concitato, prima di chiudere nuovamente gli occhi. Violetta, che a quel punto non aveva alcun interesse a far prevalere la sua opinione si avvicinò al Ghiro, mentre Beto già stava dando il via ai festeggiamenti per aver vinto quella sfida.
“Ghiro…” lo chiamò piano, sperando che l’animale si risvegliasse dal suo perenne letargo. Il Ghiro riaprì gli occhi, e si ritrovarono faccia a faccia. Violetta prese posto sulla sedia di fianco, e sfiorò piano il suo pelo ispido.
“Vuoi sapere di Alice, giusto?” chiese l’altro con gli occhi lucidi, di un nero vivissimo.
Come l’aveva capito? Che fosse capace di leggerle nel pensiero? L’animale sorrise mestamente, e si guardò intorno, timoroso di qualcosa.
“Come sai che cosa voglio chiederti?”. La sua domanda era dettata da sincera curiosità, e non era riuscita a trattenerla, per sua fortuna il Ghiro sembrò abbastanza comprensivo, a dispetto di tutti i personaggi che le era capitato di incontrare in quel bosco.
“Ragazzina, ti stai immischiando in una questione molto più grande di te…e penso che sia presto. Se lo Stregatto ha preferito non dirti ancora nulla…”.
“Camilla?!” lo interruppe sorpresa, non aspettandosi che uscisse fuori proprio quel nome.
“Ma certo…non sai che…?”. Stava per aggiungere qualcosa ma Beto li interruppe con un sorriso nervoso cominciando a dire cose assurde e senza senso, finché il Ghiro non tornò ad appisolarsi.
“Ghiro! Ghiro!” cercò di richiamarlo Violetta, ma invano. Nel frattempo in tutta fretta Beto aveva tirato fuori un pacchetto giallo dall’aria festosa, e glielo porse.
“Per il tuo Noncompleanno. Mi raccomando conservalo con cura, potrebbe esserti utile!”. Per essere una consegna dei regali fu piuttosto frettolosa. Prima che potesse ribattere qualunque cosa Beto la accompagnò alla porta, adducendo come scusa il fatto che si fosse fatto tardi, e che altrimenti non avrebbe ritrovato la strada del ritorno. E in effetti il rossore del tramonto aveva già invaso l’intera foresta. Voleva dire qualcosa, magari per convincerli a risvegliare il Ghiro per continuare quella conversazione, ma le venne sbattuta letteralmente la porta in faccia. Beto le urlò dall’altra parte un ‘Buona fortuna!’, e si ritrovò sola soletta a ripercorrere il sentiero rosso, mentre si passava tra le mani il pacchetto. Prima di arrivare da Thomas decise di aprirlo, e quindi slacciò il sottile filo argentato, che lasciò scoperta una piccola scatolina di legno finemente lavorata. Lo aprì e al suo interno vi trovò un piccolo fungo.
“Un fungo?!” esclamò sorpresa, mentre lo tastava con cura. Era molto gommoso, ed aveva delle lamelle di un colore che tendeva all’arancione, mentre il cappello era di un marrone chiaro con alcune macchie più scure. Era pulitissimo, non una macchia di terra sporcava il gambo bianco, ma rimaneva comunque un regalo molto strambo da fare. Beto le aveva caldamente consigliato di conservarlo, e in fondo non le costava nulla farlo, anche se il suo primo pensiero era stato quello di buttarlo nel mezzo del manto erboso della foresta.
 
Quella sera, nonostante ci fosse il divieto di aggirarsi fuori dal castello, si trovava troppo piena di pensieri per riuscire a dormire. Decise di uscire solo per qualche istante, per prendere un po’ d’aria, e poi sarebbe tornata dentro. Ma mentre camminava, immersa in alcune riflessioni, che giravano tutte intorno al misterioso personaggio di Alice, non si rese nemmeno conto di aver raggiunto il lago che per la prima volta aveva scoperto in compagnia di Thomas. Ricordava bene quel giorno, era il giorno in cui Lena le era corsa incontro per avvertirla del ritorno di un Leon morente. Poteva ancora sentirla quella voce affannata e spaventata. Bagliori fuggenti apparivano e scomparivano sulla superficie dell’acqua, inseguendosi ininterrottamente, provocati dalla luna, che sembrava voler essere coperta da un fitto manto di nuvole. Una leggera pioggerellina si fece subito sentire, e il suo istinto la portò a cercare riparo sotto il padiglione. Non appena ebbe raggiunto il cancelletto di legno, ancora una volta cavernosi sussurri sembravano volerla avvertire.
‘Non è ancora il momento’
‘Non ora’
‘Non è il giorno giusto’
Troppi pensieri, e adesso ci si mettevano anche misteriose voci che le davano ordini. Era già successo, ma allora gli aveva dato minore peso. Con un piccolo sbuffo ignorò completamente quei consigli e si ritrovò a passeggiare all'interno del padiglione. Intorno alle colonne che sorreggevano il tetto, delle edere rampicanti salivano fino in cima. Parte del padiglione si affacciava direttamente sul lago, e senza pensarci neppure un secondo si appoggiò con i gomiti, sulla ringhiera di legno, e si portò il viso tra le mani. Le gocce ticchettavano incessanti, turbando l’apparente calma del lago, e le ninfee si lasciavano trasportare senza alcuna preoccupazione. Tutto intorno il buio. Le sembrò di sentire un rumore di passi poco distante, ma non ci fece particolarmente caso. Un leggero scricchiolio sembrò volerla riscuotere, ma anche quel richiamo fu vano. Alice…che mai poteva avere Alice a che fare con lei? In più si aggiungevano altri interrogativi: come mai Camilla non voleva che lei sapesse? E cosa le stava dicendo il Ghiro in suo proposito? Per di più Beto le era sembrato fin troppo strano, più del solito, non poteva non credere che lui sapesse tutto, ma non avesse voluto che anche lei fosse a conoscenza di determinati fatti. Una rana gracchiò per poi tuffarsi con un piccolo tonfo. Quella leggera pioggia sembrava aver smesso, e allungò la mano verso l’esterno per esserne sicura. Non voleva ripetere l’esperienza del labirinto in cui per poco non si era presa un malanno in piena regola. Non fosse stato per Leon…per poco non si morse la lingua tra i denti, arrabbiata come non mai. Perché finiva sempre per pensare a lui, anche quando apparentemente non c’entrava nulla? Sembrava albergare costantemente tra i suoi pensieri, e non aveva mai pensato che allontanarsi dal principe le avrebbe fatto così male. Ma era stato un bene per tutti: in fondo il matrimonio era stato solamente la punta dell’iceberg, un pesante e pericoloso insieme di paure e incertezze. Aveva donato certezze a Leon, ma a costo di perderne, a costo di mettere in pericolo la sua stessa vita; perché se Jade avesse anche solo sospettato qualcosa temeva che una corda avrebbe stretto il suo collo prima ancora che potesse implorarla. E poi per cosa? Forse Leon non era innamorato, forse cercava solo un conforto, e il suo rischio sarebbe stato doppiamente inutile. Non aveva senso rischiare per qualcuno che non provava un sentimento forte nei suoi confronti, giusto? Suonava tutto più come una sorta di auto convincimento che altro. Sospirò, aggiungendo anche la voce Leon alla lista delle sue preoccupazioni. Il legno della ringhiera però cedette di colpo, e per poco non le scappò un urlo, mentre perdeva lentamente l’equilibrio. Ma qualcuno la afferrò da dietro, stringendola prontamente a sé, e Violetta si ritrovò a fissare i pezzi di legno che galleggiavano sul pelo, facendo su e giù.
“Lo avevo detto che quel legno era marcio e che andava cambiato!” digrignò tra i denti il suo salvatore. Non appena sentì la sua voce, arrossì all’istante, e si voltò di colpo, ritrovandosi a pochi centimetri dal volto di Leon. Aveva la bocca semiaperta per quanto era rimasta sconvolta dal vederlo lì, di fronte a lei, che la stringeva ancora con forza, nonostante ormai fosse salva. Dopo attimi interminabili, si divincolò dalla stretta, e Leon la lasciò fare, continuando a guardarla con un’espressione dolce.
“Mi hai seguita, di nuovo. E’ una tua abitudine pedinare le persone, anche di notte?” chiese, cercando di apparire fredda e distaccata, sebbene il suo cuore le stesse suggerendo tutto il contrario. Vargas non si mosse di un passo, e si grattò la testa, fissando verso il basso. L’aveva evidentemente messo in difficoltà.
“Facevo fatica a prendere sonno…e ho pensato di fare una passeggiata, quando ti ho visto uscire; non ho resistito e ti ho seguito” ammise colpevole, alzando di poco le spalle. Diretto e conciso, proprio tipico di Leon. Non era tipo da girare intorno ad un argomento, ma ancora non le risultava chiaro perché avesse deciso di pedinarla.
“Beh…ti devo ringraziare. Di nuovo. Mi hai risparmiato un bagno notturno” disse, abbassando anche lei il capo. “Vado a dormire” aggiunse subito dopo, intendendo porre fine a quell’assurdo incontro. Leon la fermò per un braccio, facendola voltare nuovamente verso di lui. Si ritrovarono ancora una volta a guardarsi incantati. Leon fissava di continuo i suoi occhi per poi percorrere ogni tratto del suo viso, e fermarsi di colpo sulle labbra. Risalì fino ad incrociare nuovamente il suo sguardo. Ogni volta che sentiva quel verde ricercarla, implorarla, le gambe cedevano di colpo, e come se fosse in grado di leggerle il pensiero, Leon fece scorrere il braccio libero lungo la vita, attirandola lentamente a sé.
“Perché mi eviti?” le chiese con voce roca, mentre la mano con cui l’aveva fermata risalì lentamente il braccio sfiorandole una ciocca di capelli.
“Avevamo preso una decisione”.
“La decisione l’hai presa solo tu”.
“E tu dovresti rispettarla”. Un minuto di silenzio, sufficiente a farle credere di aver vinto. Non sapeva di quanto si stesse sbagliando.
“Ci ho provato, ma non ci sono riuscito”. A questo punto però la curiosità ebbe il sopravvento, e con un sussurro trovò appena la lucidità di dire: “E come mai? Non dovrebbe essere difficile per uno come te…potevi chiamare Lara, o qualche altra…”. Leon si innervosì particolarmente al solo sentire quel nome, e la sua espressione divenne quasi un ringhio, ma poi si ricompose, prendendo un respiro profondo. Ormai il petto di Violetta sfiorava il suo, ed ogni reazione del corpo non poteva sfuggire all’altro. Così quando si rese conto di quanto forte batteva il cuore della ragazza, si aprì in un mezzo sorriso. Non era troppo tardi, doveva solo ammettere quello che provava;dopo ore e ore di iutnerminabili riflessioni era finalmente giunto ad una semplice conclusione.
“Proveresti mai a chiedere ad un uomo di smettere di respirare?” le chiese serio, attendendo con ansia una risposta di qualsiasi tipo.
“Non vedo cosa c’entri…”. Forse stava anche per ribattere ma un solo sguardo di Leon la fece tacere. Si trovavano ancora stretti l’uno all’altro, ed era strano parlare in quel modo, ma nessuno dei due sembrava farci caso, troppo presi da quello che stavano dicendo, da quei battiti frenetici che i loro cuori facevano come se tentassero di riunirsi. Leon non si era mai sentito più emozionato in vita sua, e ben sapendo dove voleva andare a parare, sperava solo che lo credesse sincero, perché lo era. Per la prima volta si stava aprendo del tutto, senza alcun tentennamento, senza incertezze. Le stava donando il suo cuore, e si sentiva particolarmente strano.
“Mi sono sentito allo stesso modo; da quella mattina mi sono sentito morto dentro, e solo quando ti vedevo in giro al castello mi sembrava di tornare a vivere…”.
Per la prima volta Leon non andava al sodo, e non sapeva se ridere o lasciarsi guidare dalle sue parole, in paziente attesa di una conclusione. Ma l’impazienza aveva sempre la meglio nel suo animo. “Che cosa stai cercando di dirmi, Leon?” le uscì d’un tratto. La domanda era stupida, ma per Leon era l’occasione giusta, quella che doveva cogliere al volo.
“Non è facile per me, ma tu lo sai meglio di chiunque altro…solo che io…lo sai, ho bisogno di te, davvero”. Ma non era finita, lo sentiva. Le parole gli stavano per uscire, parole mai dette, ma sentite fin dal profondo. Quello forse era il posto ideale: avvolti nella notte, nessuno avrebbe potuto giudicarlo, o riconoscere quel Leon che tanto era temuto per la sua crudeltà. Ma lei si, lei poteva vederlo, poteva leggere i suoi pensieri con un solo sguardo, e leggeva le sue emozioni come se fossero un libro aperto. E allora perché tacerle la dedica di quel libro? Perché nasconderle la prima pagina, quella che tutti sfogliano e di cui nessuno si cura? E senza alcun preavviso, a dispetto di tutto quello che si era preparato nella mente, di tutte le continue riflessioni che l’avevano portato a quella conclusione, il silenzio fu rotto da quelle due semplici parole.
“Ti amo”.









NOTA AUTORE: Ciao a tutti, e scusate per il ritardo. So che molti mi vorranno male per come si interrompe il capitolo, ma purtroppo ci stava tutto, e così vi lascio anche con un po' di dubbio su come reagirà Violetta (autore crudele che non sono altroooo *sogghigna*). Mh...cercando di riassumere perchè sono in ritardo con la pubblicazione, e non voglio dilungare l'attesa...dopo un sogno bellissimo (*^*), rovinato sul più bello, dove compaiono anche Maxi, che si rivela 'ostile' ai Leonetta; ma oltre Humpty...QUALCHE SANTO CHE APPOGGIA LA LEONETTA? Fermi tutti, dalle parole della donna, alias Alice (ormai è quasi chiaro, su xD), che si diverte a turbare Violetta (?), sembra che lei sia dalla nostra parte *fa una ola per Alice*, e in più fa una strana e oscura rivelazione a Violetta per quanto riguarda un dono che possiede...Mhhhhh *riflette* No, aspetta io so di che si tratta xD Comuuuuunque, c'è un litigio tra Leon e Violetta, in cui sembra che la ragazza voglia porre fine alla loro storia (la sofferenza nello scrivere quel pezzo...la sofferenza pura). Violetta prova a parlare con il Ghiro, ma scopre solamente che lo Stregatto sembra nasconderle qualcosa...mh...*lo aggiunge alla lista degli interrogativi* 
E POI MOMENTO FINALE, E LEON SI DICHIARA *O* Ok, io amo particolarmente quella scena, non chiedetemi perchè, ma il modo in cui è successo, i dialoghi...no, niente, scleri miei, fate finta di nulla xD Come sempre ringrazio tutti voi che recensite, e che continuate a seguire questa storia (di cui stiamo per raggiungere il punto vivo xD). Oh, insomma, grazie a tutti, e...alla prossima! Buona lettura :D
syontai :D 
 
 
 

   

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Capitolo 37
*** Happy Beginning ***





Capitolo 37
Happy Beginning

La pioggia sembrava aver smesso di battere sul terreno e sull’acqua, forse anch’essa sorpresa dalle parole appena uscite dalla bocca di Leon, che, nonostante fosse sempre più stupito di sé stesso, non poté non inorgoglirsi di fronte al coraggio appena dimostrato. Ma nessuna reazione era paragonabile a quella di Violetta: felicità, confusione, ma soprattutto incredulità, si alternavano come in una corsa di cavalli che procedevano alla pari. E non appena il muso di uno passava avanti, ecco che l’altro stirava con più forza i muscoli delle gambe per prevalere. Leon rafforzò la stretta, facendola sussultare.
“Non ti credo” sussurrò, abbassando lo sguardo. Quelle parole ebbero il potere di congelare il mezzo sorriso sul volto del principe.
“Perché non dovresti credermi? Che motivo avrei di mentirti?” sbottò Leon, evidentemente infastidito. Quando aveva deciso di dichiararsi aveva avuto quasi la certezza che Violetta, che si era dimostrata in grado di risvegliare il suo cuore in letargo da tanto tempo, gli avrebbe donato in tutta risposta quell’amore di cui aveva bisogno. Nel suo sguardo aveva letto quel sentimento devastante, nel cuore lo aveva sentito urlare il suo nome, ed era certo di non essersi sbagliato. Ma adesso con quella risposta si era sentito crollare il mondo addosso, e si chiese se forse non si fosse inventato tutto e non si fosse illuso.
“Non credo alle tue parole per il semplice fatto che tu stesso hai detto di non sapere cosa sia l’amore, e…”.
“E cosa? Sono sempre stato sincero con te, non vedo perché non dovrei esserlo adesso. Se non ricambi quello che provo, va bene, ma per favore non mettere in discussione la mia onestà” replicò duro, ricercando il suo sguardo fuggente. “Dici che non so che cosa sia l’amore…e forse è vero, ma non è amore quello che ti ho dimostrato fino ad ora? Il semplice fatto che io sia qui, che abbia deciso di parlarti, sfidando il mio orgoglio, non è anche questo amore?”.
“Non necessariamente” rispose Violetta, avvertendo il respiro affannoso di Leon sul suo viso.
“E questo non è amore?” sussurrò, ricercando le labbra della ragazza a facendole combaciare con le sue. Cominciò a baciarla con dolcezza, sfiorandole la guancia con il dorso della mano, mentre con l’altra teneva stretta la presa intorno alla vita. Per un attimo il cervello di Violetta si annebbiò, e tutto intorno perse significato. Il senso delle cose le sfuggiva tra le mani, i pensieri si dissolvevano, dopo essere stati bruciati e ridotti in cenere. Fu un attimo sufficiente a rispondere a quel bacio, a sentirlo fluire nel corpo, che lentamente acquistava calore. Ma la ragione si riaccese dal nulla; sgranò gli occhi, e facendo leva sul petto di Leon, lo respinse. Il principe sbatté le palpebre più volte, non riuscendo a capire cosa fosse successo: sembrava andare tutto così bene, con quel bacio pensava di averla convinta, di averle fatto capire quanto ci tenesse a lei. Cosa la frenava ancora?
“Non è giusto, Leon…Ti devi sposare” disse scuotendo lentamente il capo.
“Ti ho già detto che di quel matrimonio non me ne importa nulla! A me importa solo di quello che abbiamo noi due” cercò di convincerla nuovamente, alzando con decisione il tono di voce. Violetta posò la mano sul suo braccio, e lo convinse a sciogliere la presa. Sentirono improvvisamente il gelo della notte avvolgere nuovamente i loro corpi, una volta separati. Mosse qualche passo verso di lei, ma Violetta arretrò, continuando a scuotere il capo.
“Sii felice” gli augurò con sincerità, prima di voltarsi e uscire dal padiglione. “Sarà impossibile senza di te”. La voce ferita di Leon da dietro la trafisse da parte a parte, e sentì gli occhi riempirsi di lacrime, le stesse che da giorni tentava di celare con il suo buonsenso. Più si allontanava, più avvertiva il suo sguardo carico di rimprovero e delusione. Si, l’aveva deluso, ma che altro avrebbe potuto fare? Come poteva accettare l’idea del suo Leon che si univa in matrimonio con un’altra? Non poteva agire diversamente, doveva allontanarlo. All’inizio avrebbe sofferto molto, è vero, ma forse poi sarebbe davvero riuscito a dimenticarla, magari anche grazie alla sua futura moglie. Nonostante il pensiero l’atterrisse ancora di più, continuava a procedere imperterrita verso il castello. La sottile pioggerella che c’era stata quella notte aveva diffuso umidità nell’aria, e ogni suo respiro si condensava in una piccola nuvoletta, pronta a dissolversi non appena emessa. Il problema era che l’unico ad aver dimostrato coraggio era Leon. Era un uomo ormai formato, seppur fosse giovane, e sapeva come comportarsi in ogni situazione. L’aver ammesso ciò che provava gli faceva doppiamente onore, e la stima nei suoi confronti era sempre più grande; mentre lei era solo una ragazzina che si atteggiava ad adulta, ma poi alla prova dei fatti risultava inconsistente e vuota. Non era in grado di prendere decisioni importanti, non sapeva rischiare. Pensava di essere cresciuta in quel posto, di aver scoperto una Violetta più forte, più matura, e invece era solo apparenza, crollata come un castello di carte di fronte alle sempre più pressanti difficoltà. Brava, Violetta, brava, si ripeteva arrabbiata, mentre pur di non sentire ancora la voce di Vargas nella testa cominciò ad accelerare il passo fino a correre, ottenendo però l’effetto contrario. Era quasi di fronte al portone, e per fortuna non c’era nessuna guardia di pattuglia nei dintorni in quel momento. Una volta entrata sarebbe tornata nella sua stanza, e, al sicuro nel suo letto, probabilmente avrebbe lasciato che quelle maledette lacrime trovassero una valvola di sfogo.
Ti amo.
Quanto odiava Leon per quelle due parole. Lo odiava profondamente, perché aveva reso tutto estremamente difficile. Anche perché lei non l’amava, non doveva amarlo; e invece non riusciva nemmeno a dirsele parole tanto false. Leon con il suo dolore, la sua dolcezza inaspettata, la sua sincerità, le era entrato talmente dentro nell’anima, che si era quasi fuso con essa, e non riusciva a liberarsene. Il suo nome era un’ossessione, così come la sua voce, e il doverlo guardare a distanza era un supplizio ingiusto. Nell’antichità questo genere di punizione era riservato a chi oltraggiava gli dei, a chi commetteva peccato di ‘ubris’, tracotanza. Ma lei che colpe aveva? Perché doveva sentirsi così incompleta, con la consapevolezza che ciò che le mancava era tanto vicino quanto irraggiungibile? Aveva appena aperto il portone, ma poi lo richiuse con un piccolo tonfo. Stava facendo soffrire entrambi con la sua decisione. Era vero, non poteva accettare quel matrimonio, ma non poteva nemmeno accettare di stare lontana dalla persona che amava.
Quando Violetta se ne fu andata Leon si sentì perso. Mai la notte gli aveva fatto così paura, mai gli aveva donato così tanta angoscia da lasciarlo senza difese. Il buio sembrava volerlo inghiottire, e sentiva un’oppressione inspiegabile. Per qualche minuto rimase sotto il padiglione, ad osservare i pezzi di legno, resti della pericolante ringhiera che si affacciava sul lago, che galleggiavano. Per quanto potessero cercare di affondare c’era sempre una spinta che li riportava a galla, mentre lui non aveva questa fortuna. Se affondava, non c’era speranza di risalire, e poteva solo procedere inesorabilmente verso il fondo. Sfiorò una delle colonne che sorreggevano la copertura, e senza alcuna cura uscì da quel posto. Da quel giorno lo avrebbe considerato maledetto, simbolo della fine della sua felicità, che era stata fin troppo breve. Si era sentito talmente vivo al fianco di Violetta, che adesso il pensiero di un futuro senza di lei, poteva essere quasi peggiore della morte, l’unico nemico che avesse temuto in vita sua. Ecco cosa succedeva quando si apriva il proprio cuore: si rischiava di rimanere feriti a morte. Sospirò appena e si sedette sulla riva del lago, osservandone i leggeri bagliori. Portò le braccia intorno alle ginocchia, e rimase in silenzio, lasciando che il verde dei suoi occhi si riversasse nel nero della notte. Un senso totale di sconforto lo colse all’improvviso, e non sapeva se avrebbe trovato la forza per alzarsi e tornare nella sua stanza. Afferrò una manciata di ciottoli sul terreno, e li lanciò uno ad uno nell’acqua, ipnotizzato dai cerchi concentrici che formavano quando entravano a contatto con la superficie del lago. Mai aveva creduto che si sarebbe ridotto in quello stato. Altre volte erano stati distanti, altre volte aveva sentito il vuoto causato dalla sua assenza, ma quella notte era diverso; sentiva di averla persa per sempre. Un altro sasso cadde sul fondo, sotto lo sguardo attento di Leon. Prese un respiro profondo, e abbassò il capo, rigirandosi un piccolo ciottolo bianco tra le dita.
Era talmente preso dai suoi pensieri che si era completamente estraniato dall’ambiente esterno, e solo quando avvertì una mano che gli toccava piano la spalla si riscosse, come se prima fosse stato immerso in un sonno profondo. Si voltò e vide Violetta al suo fianco, in piedi. Fece per alzarsi di corsa, ma Violetta fu più veloce, e si inginocchiò, guardandolo negli occhi.
“Leon, perdonami”. Il principe la guardò confuso, ma non ribatté: non voleva illudersi, non volevi aprirsi come aveva fatto prima, per paura di ricevere un’altra ferita. “Ti amo” aggiunse subito dopo, mentre alcune lacrime, questa volta di felicità e sollievo cominciarono a scorrere, prontamente raccolte dal pollice di Leon, che era rimasto a bocca aperta, e la guardava sorpreso. Le fragili mani di Violetta, che erano appoggiate sulle sue spalle, risalirono lentamente, accarezzandogli il viso. Leon chiuse gli occhi: quanto le erano mancate quelle dolci carezze; voleva che non finissero mai, che proseguissero lungo tutto il corpo. Un sospiro gli uscì dalla bocca, ed esso fu subito catturato dalle labbra di Violetta, che si posarono sulle sue con passione. Lentamente si distese sul manto erboso, e Violetta gli fu sopra. Le mani del principe percorrevano il suo corpo, donandole più brividi di quanto avrebbe potuto fare il freddo. Più si baciavano, più i loro respiri si mescolavano, confondendo i loro sensi, e più la passione divenne vivida. Il corpo le mandava dei segnali, era come se le stesse implorando di unirsi a quello di Leon; ne aveva un bisogno fisico enorme, e quasi se ne vergognava. Il braccio di Leon le avvolse la vita e rapidamente invertì le posizioni, con una furia incontrollata che non aveva mai visto. Nei suoi occhi leggeva le fiamme che ardevano impazienti, e la sua espressione seria dimostrava l’enorme sforzo che stava compiendo per non lasciare che esse prendessero il sopravvento. Avrebbe dovuto sentirsi sollevata di questo, eppure parte di lei sperava che lasciasse scatenare quel fuoco, voleva poterlo vedere, toccare, farsi incantare da esso. Dopo aver atteso qualche secondo, con il solo intento di prendere aria, tornò a baciarla, con sempre più foga, talmente tanta che non sembravano curarsi del freddo, del buio…di nulla. Nulla poteva scalfire quell’amore che li univa, nulla poteva frenare il desiderio che avevano di baciarsi e di farsi cullare dalle carezze dell’altro. Leon si posizionò meglio tra le gambe di Violetta, con enorme imbarazzo di quest’ultima, mentre le mordeva con ardore il labbro inferiore. Il petto del ragazzo la schiacciava completamente, e il cuore gli batteva ad un ritmo talmente forsennato, che le sembrava fosse dentro il suo corpo. Leon interruppe il bacio, ma solo per fare in modo che la sua bocca si dedicasse ad altro. Scese lentamente lungo tutto il collo, dando piccoli morsi alternati a baci, e poi risalì fino all’orecchio. Ne morse il lobo con vigore, e la sentì sospirare.
“Non voglio sposare nessuno che non sia te” sussurrò appena, mentre sentì la stretta di Violetta sul suo corpo farsi più salda. “E sarà così, te lo prometto”. Si separò per guardarla negli occhi, e le sfiorò piano i capelli, sparsi disordinatamente sul terreno. Le diede un piccolo bacio sulla punta del naso e appoggiò la fronte sulla sua. 
“Puoi ridirlo?” chiese infine, vergognandosene quasi. Era così bello sentirglielo dire che pensava non se ne sarebbe stancato mai.
“A cosa ti riferisci?” chiese Violetta divertita. Leon fece una smorfia strana, e si posizionò meglio sul corpo di Violetta affinché entrambi stessero abbastanza comodi. “Ecco…mi riferivo a quello che mi hai detto. E’ stupido, ma vorrei risentirlo”. La ragazza sembrò pensarci su, finché non si illuminò, capendo finalmente cosa voleva tanto sentirsi ripetere. Portò le braccia intorno al suo collo, e lo attirò a sé dandogli un dolce bacio. Non appena si furono separati, con un sorriso rilassato e gli occhi ancora chiusi, si sporse fino al suo orecchio.
“Ti amo, Leon”.
 
Jade era turbata. Gli incubi continuavano a perseguitarla, e Javier non voleva lasciarla in pace. Aveva chiamato a corte medici, maghi, guaritori, ogni persona che aveva sentito essere esperta in questo genere di affezioni, eppure nulla, nessuna cura era stata individuata per il suo male. Le ombre erano sempre più concrete nella sua mente, e nemmeno le medicine per il sonno del medico di corte, che prendeva ogni notte con l’aiuto di Jackie servivano a qualcosa, anzi le sembrava che peggiorassero solo le sue visioni. Era il momento di andare a dormire, e la domestica stava sistemando le ultime cose. Tremava al solo pensiero di rimanere sola in quella stanza e il minimo rumore la faceva sobbalzare.
“Posso andare?” chiese Jackie, fingendosi inconsapevole di ciò che tanto turbava la regina. “O forse avete bisogno di altro?” aggiunse con una vena maligna. La regina la guardò con aria persa, gli occhi solcati da profonde occhiaie, che a mala pena riusciva a coprire grazie ai mille espedienti che conosceva per curare la sua pelle. Inclinò la testa leggermente di lato, e assunse un’espressione interrogativa. “Come scusa?” biascicò, mentre lungo le pareti già spaventose ombre diaboliche si allungavano mostrando le loro fauci. Cercò di mantenere la calma, ma il terrore si manifestava dal modo in cui le mani tremavano.
“Chiedevo se avevate bisogno di altro, perché in caso contrario mi ritirerei” disse con un sorriso la donna, avvicinandosi al candelabro dorato per spegnere le fiamme delle candele.
“NO!” urlò Jade, frapponendosi tra lei e il candelabro. La luce. Aveva bisogno della luce per non permettere a quegli esseri di avvicinarsi. “Preferite la luce accesa? Potevate dirlo subito” replicò l’altra con un sorriso forzato. “N-non ho bisogno di nulla. Puoi andare” balbettò la regina, rimanendo a guardare la domestica che chiudeva la porta dietro di sé.
Era rimasta da sola, insieme alle sue paure. Si avvicinò al letto con il candelabro in mano, che poi poggiò sul comodino, e con il corpo stravolto dai brividi, si mise sotto le coperte, chiudendo gli occhi e respirando con calma. Un urlo disumano però la fece scivolare nuovamente nel panico. Le ombre ridevano sguaiatamente di lei, e la indicavano con odio. Occhi infuocati brillavano sulle pareti, e Jade ritirò la mano dalla coperta inorridita, vedendola sporca di una strana sostanza viscida. Finora non le avevano mai fatto del male, e ormai si era quasi convinta che fossero solo un frutto della sua mente; nonostante ciò non riusciva a non avere paura, non riusciva a scacciare quelle voci malevoli e cavernose.
Oltraggio.
Vergogna.
Vendetta.
Le ombre avevano iniziato ad intonare quella sorta di coro pieno di crudeltà, e tra di esse apparve la ben nota ombra di Javier Vargas. Imponente si ergeva tra tutte, e si mostrava come la più assetata di vendetta e di sangue.
“Tu, maledetto!” strillò la donna, scostando le coperte ancora piene di quella sostanza viscida che all’aspetto ricordava il catrame. “Devi finire all’Inferno!” ingiuriò, una volta scattata in piedi, indicando la figura proiettata. L’uomo non disse nulla, ma gli occhi rossi brillavano minacciosi, quindi si separò dalla parete e si stagliò di fronte a lei. La mano tremolava di fronte alla luce della candela, ma si avvicinava pericolosamente al suo collo. Jade non riusciva nemmeno a urlare, per quanto il terrore si era impossessato del suo corpo.
“Hai torturato mio figlio!” urlò l’ombra, lacerando l’aria con la sua voce profonda. Il pavimento subì una scossa, e avida di prendersi quell’anima maledetta, il terreno aprì la bocca, mostrando le fiamme. Delle mani l’afferrarono cercando di trascinarla nelle profondità della terra, e a nulla valsero i suoi tentativi di resistenza. Si aggrappò con tutta la forza che aveva ad ogni mobile vicino, ma essi sembrarono fatti d’aria, e le sfuggivano.
Paga.
Soffri.
Pentiti.
Le voci rimbombarono sempre di più, finché dietro l’ombra non comparve una figura incappucciata. “Paga. Soffri. Pentiti”. Aveva una voce stranamente melodiosa che ben poco si addiceva a quell’ambiente infernale. La figura ad un cenno dello spettro di Javier si tolse il cappuccio e Jade impallidì: quell’aspetto esile, quell’espressione innocente. Capelli castani e leggermente mossi le contornavano il volto e occhi che riprendevano lo stesso colore, ma con tonalità poco più chiare, la guardavano con vivo interesse. Non ne era sicura, ma solo un nome le venne in mente in quella situazione: Violetta. Cosa ci faceva quella mocciosa in compagnia del suo defunto marito? Perché osservava con avidità dietro di lei? Mentre le mani che fuoriuscivano dalla terra continuavano a tenerla ferma, Violetta avanzò in direzione del suo comodino e prese la corona che si trovava alla destra del candelabro. Si rigirò il prezioso oggetto tra le mani, e ghignò pericolosamente. Jade allungò la mano per fermarla ma fu tardi e assistette alla scena peggiore della sua vita. La ragazza con incredibile solennità si mise la corona sul capo e si guardò allo specchio per osservarne l’effetto.
“Adesso sono io la regina” esclamò con un sorriso. Jade inorridì al solo sentire quelle parole, mentre le fiamme diruppero nella stanza accecandola.
Tastò il cuscino, mentre seduta sul letto si trovò sola. L’immagine di quella ragazzina che indossava la corona sotto il suo naso, sebbene non le spettasse, ruotava ancora nella sua testa, analizzandola in ogni suo particolare, come se fosse sicura che in quel modo avrebbe trovato una spiegazione razionale a ciò che aveva visto. Il respiro ansante andava allo stesso passo dei battiti del cuore, ancora scosso dall’ultima visita dello spirito di Javier. Ogni volta era sempre peggio, e non riusciva a scampare alle grinfie di quella maledizione. Sentiva di stare impazzendo, o forse era già pazza, non aveva davvero importanza. Solo un obiettivo che lentamente si sarebbe trasformata in ossessione prese piede: liberarsi di Violetta.
 
La teiera sbuffò, emanando un sottile fil di fumo, che ben presto si disperse nella cucina. Alla sola luce di una fiaccola, accesa per l’evenienza, Violetta si chiese se l’acqua fosse abbastanza calda, quindi da una piccola ciotola prese delle erbe profumate e insecchite, che sapevano di camomilla, avvolse intorno ad esse un sottilissimo pezzo di stoffa pulito, creando un rudimentale filtro e lo immerse attenta a non scottarsi con la teiera bollente. Prima di andare a dormire lei e Leon avevano deciso di prendere un tè caldo per liberarsi di quel freddo che sentivano a causa della loro avventura notturna nei pressi del padiglione. Era stato il ragazzo stesso a farle quella proposta, essendosi reso conto che tremava in continuazione, e, sebbene lui fosse stato abituato a sopportare ben di peggio, aveva finto di avere freddo per convincerla ad andare nelle cucine. L’aveva presa per mano, l’aveva condotta lungo lo scuro corridoio fino a raggiungere lo spazioso locale e poi si era messo con le spalle al muro vicino all’entrata, rimanendo ad aspettare. Sapeva che non sarebbe stato di alcun aiuto in quel compito, non essendo affatto capace ai fornelli, e inoltre vederla così concentrata in quello che faceva era per lui uno spettacolo fin troppo bello per non sentire il dovere di goderselo in disparte. Quando incrociavano i loro sguardi e Violetta notava il modo in cui la guardava, come se fosse una splendente fonte di luce ammaliante nel bel mezzo delle tenebre, subito lo riabbassava arrossendo, e per poco non rischiò anche di rovesciare la teiera. Con le braccia conserte, e uno sguardo penetrante, Leon restava addossato alla parete, senza muovere un passo, ma cercando continuamente i suoi occhi. Ancora non aveva ben realizzato quello che era successo. Leon Vargas amava Violetta. Da quando sotto il padiglione gli era uscito quel ‘Ti amo’ si sentiva strano, a volte perfino a disagio, ma una strana sensazione continuava a fargli formicolare la nuca…e per la prima volta capì cose volesse dire essere felice. Non quella felicità passeggera che si esprimeva con un sorriso, destinata a svanire non appena esso moriva; si trattava di qualcosa di molto più profondo e complesso, che nemmeno lui riusciva a comprendere appieno. Non scherzava quando aveva detto che avrebbe fatto in modo di annullare quel matrimonio; c’era solo una persona che aveva intenzione di sposare, con cui voleva costruire una famiglia, con cui voleva passare il resto dei suoi giorni, e gli era entrata nel cuore in modo talmente impetuoso che non riusciva più nemmeno a immaginarsi senza di lei. Il suo nome era Violetta. La ragazza si avvicinò alla credenza e si mise in punta di piedi, prendendo due tazze basse di ceramica azzurra. Leon non si perse un minimo movimento e sorrise apertamente quando vide che inconsciamente si stava passando la lingua sul labbro superiore, fin troppo concentrata a versare il tè, ormai pronto, senza combinare un disastro. Si staccò dalla parete con una piccola spinta e a passo felpato si diresse alle sue spalle. Non appena ebbe posato la teiera con aria sollevata le circondò la vita con le braccia, facendola sussultare, e poggiò il mento sulla sua spalla.
“Che brava cuoca!” disse con aria divertita, osservando le due tazze fumanti piene del liquido ambrato. Violetta scoppiò a ridere nervosamente, sentendo il corpo di Leon da dietro aderire sempre di più al suo, mettendola notevolmente a disagio. Per Leon quelli erano gesti naturali, eppure lei ancora non riusciva a non arrossire o a cominciare a fissare in diversi punti dell’ambiente circostante con apparente e improvviso interesse.
“Anche Lena, che è una frana in cucina, riuscirebbe a fare di meglio, fidati” esclamò voltandosi verso di lui. Leon con la punta del naso le sfiorò la guancia, e vi depose un debole bacio.
“Io non saprei nemmeno da dove iniziare” ridacchiò, soffiando piano sul suo collo. Si rese subito conto del fatto che la pelle lentamente si stesse facendo più calda e stesse diventando rossa per l’emozione, e si rifugiò in quel calore, dimenticandosi del mondo esterno. Il suo profumo lo inebriò completamente, come sempre, e si ritrovò a sfiorare l’aria con le labbra, a pochi millimetri dal suo collo, come se volesse che gli rimanesse impresso, come se volesse assaggiarlo concretamente.
“N-non è difficile…” balbettò la ragazza, arrossendo sempre di più. Le labbra di Leon premettero sul suo collo e salirono lentamente fino alla guancia.
“Violetta, io…” stava per dire qualcosa, ma si interruppe e di colpo, pensieroso. Sembrava che un dubbio atroce lo stesse tormentando.
“Che cosa ti succede?” domandò Violetta, preoccupandosi subito. Leon scosse la testa con un sorriso, e tornò a poggiare la testa sulla sua spalla. “Niente…solo che ho avuto paura di perderti per sempre”. Quelle parole si spensero sul finale, e Violetta sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Come aveva potuto? Leon aveva messo da parte tutto, si era praticamente prostrato ai suoi piedi…e lei aveva saputo deluderlo. Per fortuna aveva fatto in tempo a tornare indietro sui suoi passi, e a riconoscere la forza fin troppo devastante dell’amore che sentiva nei suoi confronti. Nonostante i numerosi pericoli a cui andavano incontro era sicura che fosse stata la scelta giusta. Aveva vinto la paura, che vedeva opporsi ad essa una forza e una determinazione sempre maggiore, rinforzata dalle parole di Leon, dalla sua sola presenza. Si voltò e rimasero per un tempo indeterminato a fissarsi negli occhi. Violetta avrebbe voluto dire qualcosa, rispondere alle sue dolci parole, ma non gli usciva nulla. Con la bocca socchiusa nel tentativo, quasi sobbalzò quando sentì il dorso della mano di Leon accarezzarle piano la guancia. Entrambi chiusero gli occhi, e si avvicinarono sempre di più.
Leon aveva sempre pensato che le parole fossero inutili, e mai come in quel caso ne era convinto. Nessuna parola avrebbe potuto esprimere le sue emozioni in quell’istante, e il solo sguardo di Violetta per lui valeva più di una dichiarazione in piena regola. Desiderava solo un suo bacio più di ogni altra cosa, e quando era quasi riuscito ad esaudire le richieste della sua mente e del suo cuore, la porta della cucina si spalancò. Violetta lo scostò subito, terrorizzata, ma ormai era troppo tardi. Davanti a loro, completamente sconvolta, Lena rimaneva sulla soglia, facendo saettare lo sguardo da Violetta a Leon, che ancora la stringeva a sé con molta naturalezza, nonostante si fosse irrigidito non appena l’ebbe vista. Era pallida e a stento sembrava riuscire a rimanere in piedi. Leon si separò dalla ragazza, e la guardò a bocca aperta. L’aveva già vista in giro per il castello, ma non ne ricordava il nome. E in fondo non gli importava nemmeno conoscerlo, ciò che era veramente importante era che quella persona li aveva colti in flagrante.
Lena non sapeva se fuggire o rimanere, ma le gambe non erano in grado di muoversi quindi si sentì priva di opzioni. Si voltò indietro, verso il lungo corridoio, e si chiese se sarebbe stata abbastanza veloce prima che Leon la fermasse, ma non appena ebbe dato l’intenzione con il solo sguardo di scappare, il principe con un balzo si frappose tra lei e l’uscita, mettendola in trappola. Non aveva un’espressione crudele, solo seria e forse anche un po’ arrabbiata. Era strano, diverso dal Leon che aveva imparato ad evitare, ma attribuì il tutto allo spavento, che stava deformando la sue percezione della realtà. Violetta invece non aveva ancora mosso un passo, ed era rimasta a guardarla.
“Violetta…che cosa hai fatto?” mormorò Lena, scuotendo lentamente la testa. Era caduta anche lei nel tranello di Vargas, si era lasciata irretire, ed adesso permetteva che approfittasse di lei in quel modo. Aveva tanto disprezzato Lara per il suo comportamento privo di valori, ma si chiese se a quel punto non avesse sempre avuto una Lara come compagna di stanza, e il solo pensiero la inorridì. In fondo, quanto poteva dire di conoscere Violetta? Le aveva tenuto nascosto altro? Chi era veramente? Domande su domande le si affollarono nella testa, che sentì improvvisamente troppo pesante. Sperava vivamente si trattasse di un incubo, ma sapeva bene che non era così; quella notte si era svegliata, e non trovando la sua compagna di stanza sotto le coperte, era uscita preoccupata alla sua ricerca, ma mai avrebbe creduto di trovarla in compagnia del principe Vargas. E non erano possibili fraintendimenti: Violetta era sul punto di baciarlo prima che entrasse in cucina.
“Leon…posso rimanere sola con Lena?” chiese con voce bassa Violetta, dopo un tempo che a Lena parve lunghissimo. Il principe annuì nervoso. “Rimango nel corridoio, se dovesse arrivare qualcuno” aggiunse prima di uscire. Era chiaro che aveva intenzione di rimanere nelle vicinanze, non tanto per evitare che qualcuno li scoprisse quanto per essere pronto a intervenire qualora le cose si fossero messe male. Le due sembravano essere amiche, e si ricordò di quella volta che era stato costretto a fuggire dalla stanza di Violetta perché la compagna era tornata. Solo allora la ricollegò alla figura di Lena, vista quel giorno solamente di sfuggita. Non appena ebbe ottenuto un cenno di assenso da Violetta, se ne andò, lasciandole sole. Lena la guardava più confusa che mai: come diamine aveva fatto ad ottenere un controllo del genere su Leon? Il principe non aveva mai obbedito agli ordini di qualcuno che non fosse la regina, ed era sicura che non avrebbe mai acconsentito alla richiesta di Violetta, presentando come ragionevole pretesto il fatto che fosse padrone di quel castello, e invece era successo tutto il contrario. Il terrore crebbe sempre di più nel cuore di Lena: quella notte stava diventando un susseguirsi di eventi paradossali e incomprensibili. Aveva paura di Leon, aveva sentito la fiducia nei confronti di Violetta spezzarsi, ma adesso si era aggiunto qualcos’altro: aveva paura della persona che si trovava in quella stanza. Quanto conosceva davvero Violetta?
“Ti posso spiegare tutto” esordì frettolosamente quest’ultima, cercando di stringere le mani nelle sue. Lena arretrò di qualche passo, continuando a scuotere la testa, incredula.
“Credevo che tra noi non ci sarebbero stati segreti, che mi avresti detto tutto!” strillò Lena, riacquistando coraggio pian piano, motivata soprattutto dalla rabbia che provava.
“Non mi avresti capita…avresti cercato solo di allontanarmi da…”. Non riusciva a terminare la frase, forse perché aveva ancora timore ad ammettere di fronte a qualcuno che fosse innamorata di Leon, che lo amasse.
“Da Leon? E’ ovvio, Violetta, perché stiamo parlando un mostro!”
“Lui…è cambiato”
“Tu non hai minimamente idea della persona che è, e sei un’ingenua se pensi di essere riuscita nella grande impresa di cambiare la sua natura. Io vivo qui da molto tempo e so che non è possibile. Non capirai mai il terrore delle nuove arrivate che incrociavano lo sguardo affamato di Leon. Mi fa schifo il solo pensiero!”. Lena non riusciva più a fermarsi, nonostante Violetta stesse dando i primi segnali di un certo nervosismo a quelle parole.
“Se non vuoi credermi almeno rispetta la mia scelta. Ti prego, non dirlo a nessuno” la supplicò, leggendo però nel suo sguardo un duro rifiuto. Tentò nuovamente di sfiorarle le mani, ma Lena non glielo lasciò fare nemmeno quella volta.
“Devi stargli lontano, è per il tuo bene. Non voglio che tu soffra”. Il suo tono era diventato sorprendentemente dolce, era chiaro che avesse attribuito tutta la colpa a Leon, e credesse che lei si fosse lasciata ingannare. Credeva davvero di poterla salvare, ma quella richiesta era per Violetta come una condanna. Non poteva stare lontana da Leon, proprio ora che tra di loro le cose sembravano aver raggiunto una sorta di equilibrio. Non poteva, ma soprattutto non voleva.
“Non posso”. La dolcezza di Lena si spense non appena ebbe sentito quelle parole.
“Tu devi!”. Il silenzio di Violetta fu eloquente: non avrebbe mai seguito il suo consiglio. Prese un respiro profondo e chiuse gli occhi: non avrebbe mai voluto arrivare a tanto, ma era convinta di doverla salvare. “Se non ti allontanerai da lui, mi costringerai a dire tutto alla regina, e sarà lei stessa a prendere gli adeguati provvedimenti”.
Violetta assunse un’espressione sconvolta e il sangue le si gelò nelle vene. Stava cercando forse di minacciarla? Aveva sempre saputo che Lena fosse tenace, ma non credeva sarebbe arrivata a tal punto.
“Non puoi farlo…” disse più a se stessa che alla sua interlocutrice. Non poteva rovinare tutto, non ora che finalmente erano felici. Non ora che Leon le aveva promesso che avrebbe annullato quel matrimonio maledetto, non ora che sentiva l’irreprimibile bisogno di stare al suo fianco. Non ora che l’amore che provava era arrivato ad un punto di non ritorno.
“E’ per il tuo bene, Violetta” si scusò Lena, uscendo poi di corsa dalla stanza.
Bene.
E’ giusto.
Così deve andare.
Di nuovo quelle voci, le stesse sentite nei pressi del padiglione. E sembravano gioire delle sue sventure. Piena di sconforto nel cuore, uscì dalla cucina, e incrociò lo sguardo di Leon.
“L’ho vista scappare via, ma non sapevo se fermarla oppure no” disse, non sapendo cosa fare, ma intuendo che le cose non fossero andate per il meglio. Violetta non disse nulla, solo si rifugiò tra le sue braccia, singhiozzando in modo sommesso. Il principe la strinse forte. Voleva infondergli il coraggio che le mancava, voleva che sapesse che lui c’era, sempre e comunque. D’ora in avanti non sarebbe più stata sola, avrebbero affrontato tutto. Insieme. “Ehi, non posso vederti così” le sussurrò all’orecchio, scostandole una ciocca indietro, mentre ricercava i suoi occhi, tenuti bassi. La abbracciò di nuovo, sentendo il cuore subire una terribile fitta: non aveva mai sofferto così tanto per un’altra persona…che anche quella fosse una conseguenza dell’amore? Non ne era sicuro, ma voleva proteggerla da tutto e da tutti. Finché lui era in quel castello non le sarebbe successo nulla di male, di questo ne era certo.
Violetta trovò la calma di cui aveva bisogno, mentre Leon la stringeva a sé, e le mormorava parole di conforto. Aveva smesso di piangere, e il respiro che si infrangeva sul suo petto si regolarizzò entrando in una strana sintonia con il battito del cuore del ragazzo. Da piccola era solita rifugiarsi tra le braccia German ogni volta che soffriva, e l’uomo, inizialmente un po’ rigido, le donava l’affetto di cui aveva bisogno, fino a quando non stava di nuovo bene; ma quella volta era diverso. Leon aveva un potere ancora più grande su di lei, e non sapeva spiegarsi come fosse possibile. Se c’era lui anche il più grande ostacolo appariva inconsistente, come fatto d’aria, tuttto appariva più semplice, e nonostante lui non fosse consapevole del modo in cui la faceva sentire, quando si stringeva a lui aveva l’impressione di trasmettergli quel disperato bisogno dei suoi abbracci che provava. Rimasero abbracciati nel buio. Ormai non le importava se sarebbero stati scoperti. Ormai nulla aveva più senso.
Il suo destino era nelle mani di Lena, e non prometteva affatto bene.
 
Lentamente tutto si modifica.
Lo sapeva bene. Nulla avrebbe fermato il corso della storia, nemmeno lei. Ma era convinta che il futuro non fosse nelle mani di nessun’altro all’infuori di coloro che vivevano il presente. Sistemò meglio la cavalcatura, e si assicurò che fosse tutto pronto. Nessuna scorta, nessuna protezione. Quella missione richiedeva la più completa libertà di azione; sarebbe stata dura portarla a termine, avrebbe dovuto mettersi in gioco, rischiare tutto. Chiedere perdono. Ma aveva bisogno del loro aiuto sopra ogni cosa, e che le venisse ripristinato l’antico prestigio di cui godeva. Voleva che un privilegio in particolare le venisse nuovamente conferito. Poteva salvarlo, poteva salvare tutti, eppure aveva sempre tentennato fino all’ultimo, fino alla partenza di quei ragazzi. Non poteva lasciare che degli innocenti si lanciassero in un’impresa impossibile e restare a guardare, senza fare nulla; non era nella sua natura. Salì sul dorso del cavallo, e guardò per un’ultima volta il palazzo.
“Mi dispiace…ma devo farlo. Per il bene di tutti, anche per il tuo” sussurrò con aria regale. Il suo sguardo ardeva ricco di determinazione, e il cavallo nitrì impaziente, tenuto prontamente a bada dal suo padrone. La luna brillava con il suo tenue chiarore, mentre le ultime luci del palazzo si spegnevano, lasciando intendere che ormai anche gli ultimi servitori si fossero ritirati nella loro stanza. Avrebbe voluto salutare la sua famiglia un’ultima volta prima di partire, ma non c’era tempo da perdere, e sicuramente tutti avrebbero disapprovato la sua scelta. Era e rimaneva uno spirito libero, intraprendente. Si lasciava guidare dall’istinto ed agiva in base ad esso. Senza più voltarsi indietro, spronò il cavallo, che partì alla carica, libero di sentire l’aria fresca della notte. La donna si alzò il cappuccio di velluto viola, mentre la mantellina dello stesso colore svolazzava creando onde scure che si perdevano nel buio. Dopo qualche minuto Angie scomparve, inghiottita dall’oscurità. 




NOTA AUTORE: Nota autore molto frettolosa, perché non voglio farvi attendere troppo xD Insomma, nonostante un inizio un po'...triste, i Leonetta si riprendono subito, perché Violetta alla fine cede, e capisce di non poter stare senza Leon, nonostante quel matrimonio sia ancora lì, ad attendere Leon. Non commento la loro dolcezza, perché altrimenti la nota autore diventa più lunga del capitolo, e sono cose che non si fanno (?), fatto sta che qui capita una cosa bella e due disgrazie, è sempre così. Shiebright, che tanto sperava nelle ombre affinchè tenessero impegnata la regina, mi sa che adesso ritira tutto, perché esse hanno alimentato ancora di più il timore che ha nei confronti di Violetta...ha paura che lei sia capace di toglierle la corona da sotto il naso, e d'ora in avanti cercherà ogni possibile pretesto per togliersela dai piedi. Qui cominciano i primi attriti tra Jade e Leon...ma capiremo tutto andando avanti nella storia ù.ù
Per quanto riguarda poi Lena...CHE COSA FAI, RAGAZZA. NO. NO. E ANCORA NO. Lena, ancora sconvolta, pensa di fare il bene di Violetta, ma è lontana mille miglia dalla verità D: Speriamo solo che venga convinta in tempo a non parlare D: Anche perchè tramuterebbe in certezza i sospetti di Jade insinuati da Jackie .-. 
Intanto Angie parte per una missione misteriosa, di cui sapremo di più nel prossimo capitolo. Il finale ha a che fare con un breve spezzone sulla sua partenza, ma verrà approfondito tutto nel prossimo capitolo :D
Grazie a tutti voi che nmi seguite, e...beh, non so che dire, al prossimo capitolo, e buona lettura! :3
syontai :D 

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Capitolo 38
*** Ritorno alle origini ***




 

Capitolo 38
Ritorno alle origini

‘Caro Pablo,
al tuo risveglio non ci sarò. Ti conosco come nessun altro e so che entrerai nel panico più totale, come sempre. Ti voglio innanzitutto rassicurare: sto bene. Quando hai deciso di affidare l’impresa di recuperare tutti i pezzi dell’armatura a quei ragazzi, mi sono sentita impotente. Loro erano giovani, pieni di forza e speranza, e hanno deciso di rischiare. Ed ogni volta che ero seduta sul trono sentivo le loro voci. Forse sarà inutile, forse non riuscirò ad ottenere nulla, ma devo provarci. E’ arrivato il mio momento per me di affrontare ciò che temo di più. E’ arrivato il mio momento di agire. Non lo faccio solo per gli altri, lo faccio anche e soprattutto per me. Lo faccio perché non posso vedere il mio popolo soffrire, lo faccio perché ti amo, Pablo, e amo la mia piccola Cassidy. Voglio che almeno lei possa dire ‘la guerra è finita, ed è stato anche per merito di mia madre’. Credi che sia egoista? Non voglio negarlo. Ogni azione umana nasce  da un briciolo di egoismo, o almeno la penso così. Ti ricordi il nostro primo incontro? Forse anche allora sono stata egoista. Semplicemente volevo innamorarmi, volevo fuggire dalla mia prigione. E con il tuo aiuto ci sono riuscito, mai potrò esserti più riconoscente. Non ti dirò dove sono diretta, non voglio che tu venga a cercarmi. Hai un regno da mandare avanti, e una grande responsabilità, ricordalo bene. Il futuro dell’intero mondo è nelle tue mani, e penso che mai è stato in mani più capaci.
Ti amo, non dimenticarlo mai, la tua regina,
Angie.’
Ricordava quella lettera a memoria. Le venne quasi da sorridere al pensiero dell’espressione che avrebbe fatto Pablo. Sicuro per prima cosa sarebbe andato su tutte le furie, e forse si sarebbe precipitato alle scuderie in pigiama nel tentativo di raggiungerla. Ma ormai era l’alba ed era sicura di aver messo abbastanza distanza tra lei e il palazzo di Picche. Avrebbe voluto rivolgere un ultimo saluto alla sua bambina, ma già era stata una fortuna trovare il tempo per scrivere quelle poche righe prima di partire. Le pianure del Regno di Picche erano caratterizzate da sterminati campi di grano, e alcune casette di campagna poste a distanze più o meno ravvicinate l’una dall’altra. Erano pochi i centri abitati, e le città erano ancora di meno. Si trattava di un popolo pacifico dedito per lo più all’agricoltura, ma nonostante ciò aveva un copertura militare non indifferente. La combinazione di questi due fattori, uniti al grande spirito patriottico che sentivano i sudditi raccolti sotto la corona di Pablo, aveva permesso al Regno di resistere ai continui attacchi al confine da parte di Fiori. Inoltre erano quelli più avvantaggiati dal punto di vista strategico. Il confine con quadri era quasi completamente protetto, perché tra i due si estendeva la palude di Jolly, verso cui era diretta. La palude oltre ad essere un luogo inospitale, non solo a causa della vegetazione e del clima, ma soprattutto a causa delle pericolose belve mortali che vagavano al suo interno: Behemoth giganti, serpi velenose, addirittura idre rintanate in grotte buie pronte a sfoderare i loro attacchi qualora la preda da lei scelta si trovasse nelle vicinanze; colpendola ripetutamente a morsi, trascinava la vittima ormai priva di vita all’interno della sua tana, consumandosi il pasto in tutta tranquillità. Solo una volta aveva visto un’idra; era successo da piccola, e un cacciatore l’aveva salvata, portandola al riparo appena in tempo. Ricordava ancora quei mille fanali piccoli e gialli che la scrutavano maligni, e arrabbiati perché le era stato tolto il pranzo da sotto il naso. Disavventure che potevano capitare spesso vivendo in un luogo tanto selvaggio quanto irto di pericoli. Poiché il versante nord era protetto, Pablo poteva concentrare le forse delle resistenza lungo il confine con la foresta centrale, dove prima si era concentrata la forza rivoluzionaria di Andres, con il compito di indebolire il nemico, prima di scontrarsi con le truppe di Picche, e a est, a nord dei Monti Neri. A sud e a ovest il Regno era circondato dal famoso deserto del Nulla. Il deserto del Nulla, era una piana desolata, che si perdeva a vista d’occhio, il cui terreno era completamente di sabbia. Circondava i quattro Regni isolandoli da un ipotetico mondo esterno. Per questo il Paese delle Meraviglie era stato diviso solamente in quattro Regni. Alcuni esploratori nel corso degli anni avevano tentato di superare il deserto del Nulla, ma nessuno era mai tornato indietro per riferire della riuscita della spedizione.
In vista di ciò non aveva alcun timore a dirigersi lungo la Palude di Jolly, sicura che non avrebbe subito nessun attacco a tradimento. A pochi giorni di marcia si trovava Ortogaria, a metà tra la capitale di Picche e il suo obiettivo; lì si sarebbe fermata per poi continuare il viaggio dopo aver fatto scorta di provviste. Sospirò al pensiero di incontrare i suoi genitori, il suo popolo: sicuramente sarebbe stata trattata come una straniera, ed era pronta a sentire il dolore che avrebbe provato nel momento in cui i genitori avrebbero fatto finta di non conoscerla. Era stata esiliata, e questo comportava anche che il suo ricordo dovesse essere almeno in apparenza cancellato dalla vita collettiva e personale di tutti. Il suo nome non doveva essere pronunciato, i suoi cari non dovevano mai accennare all’avere avuto una figlia. Dovevano vivere come se non fosse mai esistita. Raramente un membro del suo popolo poteva essere riammesso dopo che la sua memoria ne era stata cancellata, tuttavia non era impossibile. Bisognava sostenere una sorta di prova, i suoi nonni lo chiamavano ‘Tribunale degli Antenati’, ma si erano poi rifiutati di aggiungere altro, adducendo come pretesto il fatto che fosse ancora troppo piccola; inoltre, dicevano, sicuramente non avrebbe mai dovuto tentare di essere reintegrata. Il suo futuro era già stato deciso, e doveva essere all’interno di quel terreno inospitale e selvaggio. Da piccola l’idea non le era dispiaciuta, ma crescendo il pensiero di essere costretta a seguire gli ordini dei suoi genitori era diventato più opprimente di una stretta prigione. Poi aveva conosciuto Pablo, e tutto era cambiato. All’inizio aveva creduto che fossero troppo diversi per poter avere un qualsiasi tipo di rapporto diverso dalla diffidenza e dall’odio, invece dopo poco si era dovuta ricredere. Tempo fa il pensiero di essere sua moglie le avrebbe fatto uscire una risata secca e ironica, ma le persone cambiano, o più semplicemente mostrano un loro lato sconosciuto. Semplicemente lei aveva visto in Pablo ciò che serviva per completarla, e ora le sarebbe stato impossibile immaginarsi a fianco di un altro uomo. Una folata di vento la colpì in pieno viso; con la mano sinistra strinse con più forza il cappuccio, mentre la destra era occupata a tenere salde le redini. Il cavallo nitrì, rallentando il passo, ormai esausto. Nonostante le carezze di Angie sul capo, e lungo le orecchie, era chiaro che non sarebbe riuscito ad andare di quel passo; necessitava di un po’ di riposo, e anche lei sentiva improvvisamente una forte sonnolenza. Deviò dalla strada principale, e si fermò vicino a una fattoria. Riuscì con molta fortuna ad ottenere accoglienza per la notte da una giovane coppia di contadini, particolarmente cordiale; evitò di farsi riconoscere, e rifiutò quindi l’invito di togliere la mantellina e di mettersi vicino al camino, ma consumò il suo pasto con il cappuccio abbassato. Meno gente sapeva che la regina era in viaggio, più semplice sarebbe stato per lei giungere alla Palude di Jolly senza alcun intoppo. Il cavallo venne accudito nella stalla, e lei stessa insistette per dormire al suo fianco. Non intendeva approfittare troppo dell’ospitalità dei padroni della fattoria. Faticò a prendere sonno quella notte, pensando a ciò che ancora l’attendeva. Più si allontanava dal palazzo di Picche, più le sembrava di tornare indietro nel tempo, e non le piaceva affatto.
 
Ortogaria all’ora di punta era piena di gente che faceva avanti e indietro con carri pieni di merce. Era uno dei crocevia del Regno di Picche, e gente di ogni parte si ritrovava in quel caotico borgo, parlando a gran voce, e girando per il mercato lungo la strada. Dopo una settimana di viaggio Angie aveva finalmente raggiunto la cittadella. Una bassa cinta di mura circondava la pianta della città, il che dimostrava che era talmente interna al Regno che mai avrebbe sospettato attacchi di alcuna sorta. La strada era lastricata, ma alcuni tratti erano un po’ dimessi, testimoni del fatto che erano molto praticate.
Giunse ad una modesta ma decorosa osteria, e si guardò intorno: tutti i tavoli erano occupati da persone di ogni tipo. Alcuni mangiavano di gusto, sorseggiando del vino rosso, altri semplicemente giocavano a carte o ai dadi, attorniati da curiosi e spettatori, altri ancora si lanciavano in discorsi impegnati che avevano a che fare con la situazione attuale tra i quattro Regni, per nulla rassicurante. Picche era famosa proprio per la libertà di parola concessa a tutti i cittadini, per cui tutti si sentivano liberi, e a volte anche in dovere, di dire la propria. Era stata resa possibile dai discendenti della famiglia reale la creazione di un decreto, il quale stabiliva che in casi estremi era possibile addirittura destituire il re su volontà popolare, ma fino ad ora non era mai successo in anni e anni di storia.
Angie chiese un tavolo, e gli venne indicato l’ultimo disponibile, all’angolo dell’osteria. Era un posto perfetto per ascoltare i discorsi senza però essere notata. Si sedette tenendo abbassato il cappuccio, e ringraziò cortesemente la moglie dell’oste che le aveva portato delle posate pulite, un bicchiere di vetro, e una caraffa d’acqua. Nel frattempo la discussione tra una comitiva di uomini si stava accendendo sempre di più.
“Continuo a credere che il Re non sia pronto a fronteggiare questa situazione, abbiamo bisogno di qualcuno di polso, e più esperto” esclamò con fervore un uomo di campagna con un cappello di paglia calato sul capo, e lo sguardo vispo. Il compare alla sinistra gli diede un pacca sulla schiena, manifestando il suo assenso, ma quello di fronte a lui, sbatté il pugno sul tavolo, facendo sobbalzare tutti.
“Togliete Pablo, e possiamo dire addio al relativo benessere che stiamo vivendo! Alcuni di noi non si rendono nemmeno conto che siamo in guerra, grazie ai suoi tentativi di tenere fuori le terre di Picche dal conflitto” rispose a tono, sorridendo poi soddisfatto della sua inattaccabile opinione. Ma anche in quel versante il suo oppositore aveva qualcosa da ridire.
“E’ proprio questo il problema! Pablo tiene troppo alle persone, vuole proteggere tutti, ma così finirà per esaurire le forze! Non capisce che a volte bisogna sacrificare qualcuno se si vuole vincere la guerra. Dovrebbe pensare meno a noi, e più a vincere il prima possibile”.
Angie sorseggiò l’acqua fresca in silenzio. Inutile dire che entrambi avevano una parte di ragione: in effetti Pablo si era sempre dimostrato magnanimo, ed era una sua grande dote quella, aveva sempre dimostrato di tenere al suo popolo più che alla sua stessa vita; allo stesso tempo la sua bontà era anche la più grande debolezza che potesse avere. Combattere ad armi pari contro Regni che non si facevano tanti scrupoli era impensabile, eppure il Re continuava a giocare sulla difensiva. E quella strategia non avrebbe retto a lungo, perché Cuori e Quadri avevano un dispiego di forze fin troppo elevato, e con il colpo di stato a Fiori Pablo si era visto mancare un possibile prezioso alleato.  Più volte aveva cercato di convincerlo a cambiare idea, ma in tutta risposta aveva ottenuto una smorfia infastidita, e un continuo tentativo di cambiare discorso. Pablo era un grande re, ma era anche un gran testardo. Venne riscossa dal continuo vociare proveniente dal tavolo vicino, dove la discussione era andata avanti.
“Comunque sia, io continuo ad appoggiare Galindo, vedrai che la sua strategia si rivelerà vincente!” affermò con certezza assoluta l’uomo, alzando il mento orgoglioso. Non soddisfatto del silenzio che aveva ottenuto continuò a parlare, con sempre più intraprendenza. Come un fabbro batteva il ferro incandescente appena uscito dalla fornace frettolosamente, per conferirgli la forma desiderata prima che si raffreddasse, così l’uomo accavallava parole su parole, rendendosi conto di aver catturato l’attenzione di tutti. “Pablo combatte per la libertà, e noi combattiamo con lui! Che razza di uomini saremmo se credessimo giusto agire come Quadri o Cuori? Saremmo al loro stesso livello, delle bestie che non vedono l’ora di farsi assoggettare da un tiranno!”. I suoi occhi azzurri brillavano alla luce delle candele ardimentosi.
Angie rimase a fissarlo incantata. Quel ragazzo aveva qualcosa di magnetico, sembrava credere davvero in ciò che diceva, molto più di tutti i sostenitori che era solita sentire a palazzo. Erano persone come loro che avevano dato vita ai movimenti rivoluzionari e di brigantaggio negli altri regni, nel tentativo di ostacolarli. Erano quelli i giovani che si arruolavano con un sogno, con degli ideali. Erano il braccio e il cuore di Pablo, e solo ora lo vedeva con certezza. Fermò una delle cameriere e si fece portare una piuma d’oca con dell’inchiostro e una pergamena. Non appena venne esaudita quella strana richiesta, la donna fissò nuovamente il ragazzo, e si lasciò guidare unicamente dal suo ardore, che aveva coinvolto tutti gli animi dell’osteria, intenti a brindare in onore di quelle sagge parole. Dal freddo della notte, dal cupo grigio della guerra, c’era un fuoco che donava coraggio a chi gli stava intorno, e quel ragazzo ne rappresentava una delle tante scintille. Riaccendeva la speranza, rinfrancava gli spiriti. La sua mano si mosse da sola, scrivendo frasi con la sua calligrafia un po’ tondeggiante, poi andò a capo e continuò a scrivere. Scriveva, leggeva, e cancellava alcune parti, per poi riscriverle. Solo la prima frase rimase immacolata: ‘Algo se enciende’.
Il giorno dopo Angie riprese il suo viaggio, e mentre attraversava la valle si voltò un’ultima volta indietro per dare un’occhiata a Ortogaria, prima che sparisse dalla sua vista. Da quel punto in poi il territorio si fece più ostile, e i centri abitati sempre più radi. Si stava evidentemente avvicinando al confine. Dopo circa cinque giorni la vegetazione si fece man mano più fitta e selvaggia e una sottile nebbia biancastra le impediva di scorgere in lontananza. Gli zoccoli del cavallo quasi affondavano sulla terra fangosa, e ricca di nutrimento. Senza quasi nemmeno accorgersene avevano varcato il confine tra Picche e la Palude di Jolly; lo testimoniavano gli alberi dai rami contorti che si intrecciavano tra di loro quasi a formare un varco. Il sentiero silvestre si interruppe subito dopo, lasciandoli nella palude.
Grandi stagni dall’acqua melmosa e verdastra coprivano il territorio a chiazze, e alcuni di essi erano talmente vasti che non si riusciva a vedere dove terminassero, anche a causa della nebbia sempre più fitta. Dall’acqua fuoriuscivano alcune piante palustri dai fusti sottili e bianchi, come mani di antichi giganti sepolti negli abissi che tentavano di liberarsi. Il verso di una civetta interruppe il silenzio, e Angie sobbalzò. Era strano da dire, ma nonostante fosse passato tanto tempo si sentiva ancora a casa. La vegetazione lussureggiante era la vera padrona della Palude, tanto da essere considerata da coloro che vi abitavano quasi come una sorta di divinità. Di tanto in tanto in lontananza si vedevano alcune pareti rocciose piene di caverne di diverse dimensioni. Per molti inesperti quello poteva sembrare il posto più sicuro, mentre altro non era che una condanna a morte certa. Quello era l’habitat delle idre, e una volta nei paraggi, era impossibile sfuggire alla loro morsa.
Angie ricordava ancora molto bene la strada per arrivare al villaggio, e decise di procedere a piedi, tenendo ben salde le redini del cavallo. La salita di un piccolo e basso colle, che nascondeva alla vista gran parte della vallata fu parecchio faticosa, resa ancora più dura dai rami bassi delle piante. Il clima era umido e afoso, e sentiva già il sudore sulla pelle, che si concretizzò in tante goccioline che le scendevano dalla fronte. Eppure procedeva inesorabile, ben consapevole che la parte più difficile dovesse ancora venire. A metà strada si tolse le scarpe che indossava e le lanciò in un piccolo stagno vicino. Il suo popolo avrebbe ritenuto quel simbolo di civiltà come un affronto nei confronti della tradizione imposta dagli antichi, e l’ultima cosa che avrebbe voluto era inimicarsi tutti ancora prima di richiedere il ripristino dei suoi diritti. Ninfa. Il suo popolo chiamava ninfe le donne del posto, da un’antica lingua, e il suo significato era ‘giovane fanciulla’. Si credeva infatti che la Palude fosse stato il frutto del sacrificio di alcune creature mitologiche, giovani ragazze immortali che si erano immolate per difendere un cacciatore vittima di un’igiustizia. Alcuni tratti della leggenda si modificavano, ma tutti conoscevano la storia del cacciatore Aliante.
Aliante viveva di caccia e pesca, e amava stare in solitudine, in armonia con la natura. Per questo aveva un rapporto di sincera amicizia e affetto nei confronti delle ninfe, protettrici dei boschi e di tutto ciò che la madre Terra aveva messo al mondo. Un giorno Aliante venne convocato dalla regina di Cuori di quei tempi. Allora il conflitto tra la Regina di Cuori, detta anche Regina Rossa, e la Regina Bianca era fortissimo, e ancora non era arrivata Alice per portare la pace nel Paese delle Meraviglie. La Regina impose ad Aliante di uccidere il cervo della regina Bianca, e a nulla valsero le proteste di quest’ultimo. Uccideva animali solo per necessità, ma non voleva rompere l’equilibrio della catena imposta dalla natura, togliendo la vita ad un animale per pura vendetta. Aliante uscì dal castello, e si diresse nella sua casa, vicino alla foresta centrale. La regina, offesa per quell’affronto ordinò alle guardie di trovare il cacciatore e ucciderlo. L’uomo quindi si trovò circondato da spietati assassini, e proprio quando credeva che nulla avrebbe potuto salvarlo, le ninfe si ersero di fronte a lui, proteggendolo. Crearono un territorio che potesse essere ostile per coloro che avevano deciso di oltraggiare il protettore della natura, e allo stesso tempo un rifugio per gli animali feriti, o che semplicemente desideravano la libertà. Lo stesso Aliante venne trasformato in un salice secolare perché sfuggisse alle grinfie dei soldati, simbolo del luogo. Le ninfe si trasformarono in alito di vita, e permisero che alla palude di crescere rigogliosa e selvaggia. Così nacque la Palude di Jolly.
Alcune colonne di fumo anticiparono la visuale del villaggio. Le case si mimetizzavano con l’ambiente circostante, con i loro mattoni di fango e i tetti di sterpaglie. Alcune anziane donne erano sedute su sedie di vimini, e osservavano il via vai di gente che c’era ogni giorno. Privo di mura, solo un fossato che poteva essere attraversato attraverso un ponte di legno, proteggeva le dimore. Angie camminò fingendosi noncurante, mentre già sentiva gli sguardi indagatori delle sentinelle addosso. Nonostante ciò non la fermarono…che l’avessero riconosciuta? Dopo aver attraversato il ponte, si ritrovò immersa in mille ricordi, che tornarono alla luce, nonostante per tanto tempo avesse tentato di nasconderli con tutta la volontà possibile.
Le donne lavoravano ceste, intrecciando lunghi fili d’erba, o si occupavano semplicemente di preparare un pasto per la loro famiglia, mettendo in calderoni di peltro ogni tipo di vegetale, alcuni dall’aspetto strano. I bambini erano intorno ad un focolare, intenti ad ascoltare a bocca aperta le massime e gli insegnamenti dei saggi anziani, mentre un gruppetto di uomini si preparava per andare a caccia, e controllava di avere tutto l’occorrente. Tra di essi c’era un volto molto familiare, e la donna impallidì all’istante.
“Angie!” la salutò con apparente entusiasmo, beccandosi occhiate torve dai suoi compagni. L’uomo storse il naso, e allontanandosi dalla folla le venne incontro con un sorriso.
“Jeremias” salutò lei con evidente imbarazzo, mentre il cacciatore, ignorando ogni divieto e tradizione la abbracciò forte. Jeremias sarebbe dovuto essere il suo sposo, se fosse rimasta in quel villaggio. I due erano cresciuti praticamente insieme, come fratello e sorella, e alla notizia del matrimonio voluto dalla famiglia, nonostante il dissenso iniziale, avevano pensato che in fondo avrebbero potuto formare una famiglia fantastica. Non era necessario l’amore quando vi era una tale complicità, così si erano detti. Questo accadde prima che Angie conoscesse Pablo, e Jeremias per primo l’aveva aiutata a capire che quello che nutriva per lo straniero fosse amore. Adesso erano cresciuti entrambi, era passato tanto tempo, eppure sentiva ancora un forte legame d’affetto che li univa. E quando Jeremias le diede una strofinata sul capo in segno di rimprovero, come quando erano piccoli, allora si sentì finalmente a casa.
“Smettila!” si lamentò con un sorriso, mentre l’altro rideva allegro.
“Mi sei mancata tanto, davvero” esclamò leggermente imbarazzato.
“Anche tu, Jeremias”. Rimasero uno di fronte all’altro, mentre Angie tentava di ignorare le occhiate di disprezzo e ostilità di tutti gli altri. Avvertendo la tensione che si respirava nell’aria, l’uomo l’attirò subito in disparte. I due scomparirono in un piccolo vicolo, e presero a camminare in silenzio.
“Alla fine mi sono sposato” esclamò l’uomo, abbassando l’arco che teneva in mano, pronto per andare a caccia. Angie annuì a mala pena, mentre con la mente già pensava all’incontro con i suoi genitori.
“Sono contenta che tu abbia trovato una buona moglie” sussurrò, vagando con lo sguardo, alla ricerca della sua vecchia casa. “Anche io…ho messo su famiglia, e ne sono fiero, ma a volte mi chiedo come sarebbe stato se tu non fossi mai partita”. Angie alzò lo sguardo sorpresa, e incontrò quello serio e perplesso di Jeremias. A volte anche lei si era chiesta cosa sarebbe successo se fosse rimasta lì, se non avesse seguito Pablo, ma subito si era convinta che di qualunque altro futuro si fosse trattato non sarebbe mai stato unico come quello.
“Ci saremmo sposati…e mio padre ne sarebbe stato felicissimo. Chissà quando mi rivedrà che cosa dirà adesso invece” disse prendendo un respiro profondo. Jeremias sembrò irrigidirsi di colpo: “Tu…non sai che è successo?”.
 
Il campo dietro il villaggio era pieno di cortecce infisse sul terreno, che recava strane scritte. Angie vagava in cerca di quella di suo padre. Non poteva credere che nessuno l’avesse informata della sua morte, sentiva talmente tanta rabbia nei confronti di quello che un tempo era stato il suo popolo, e per un po’ si convinse a fare un passo indietro, non fosse che la missione continuava a premere sulla sua coscienza. Jeremias le veniva dietro, o almeno provava a stare dietro al suo passo. Non l’aveva mai vista così arrabbiata in vita sua, ma d’altronde sapeva che Angie era molto istintiva, e forse avrebbe dovuto aspettarselo. La donna si arrestò di fronte a una vecchia corteccia di salice, e si chinò noncurante del fatto che in questo modo la veste si sporcasse di fango. Sfiorò la superficie ruvida, e vide un piccolo fiore sbocciato da poco al suo fianco. Era bianco con alcune venature viola. Le era stato tolto anche l’addio al padre…mai si era sentita tanto svuotava come in quel momento.
“Nessuno mi aveva detto nulla” mormorò con voce spenta, mentre una lacrima le bagnò la guancia, scendendo ripida, e depositandosi sul terreno.
“Lo sai, Angie, è la legge. Nel momento in cui decidi di abbandonare la Palude, è come se non ne avessi mai fatto parte. E questo ha tutte le sue conseguenze” tentò di spiegare Jeremias, cogliendo un sottile filo d’erba e portandolo alla bocca; soffiò piano e produsse un suono acuto e mesto. La donna si alzò di scatto irrigidendosi.
“Jeremias, proprio tu mi vieni a farmi la predica con queste cose? Tu per primo stai rompendo le leggi semplicemente parlandomi!” strillò, facendolo sobbalzare.
“E’ diverso Angie, adesso sei qui, sei tornata”.
“Mi stai dicendo che sei d’accordo con tutto questo?”.
“Certo che no. Ma sono queste le regole, e sono state imposte fin dai tempi più antichi” si difese il cacciatore, seppure con poca convinzione.
“E quindi la tradizione permette di stabilire che cosa sia giusto e cosa no? Pensi che sia giusto che una figlia non abbia potuto dire addio al proprio padre? Anzi…pensi che sia umano?”. Angie tremava, scossa dai singhiozzi, mentre continuava a urlare, attirando alcuni spettatori nelle vicinanze.
“Angie, io…no, non lo è. Ma non sei tu a decidere come funzionino le cose. E poi sei stata tu a rinnegarci, ricordalo!” sbottò Jeremias, confuso, ma anche arrabbiato. Era lei che aveva deciso di andarsene, e adesso veniva da loro a fargli la paternale? Avrebbe potuto restare al fianco del padre, ma aveva fatto una scelta, e in fondo avrebbe dovuto prevederne le più ovvie conseguenze. “Non tutti agiscono d’impulso come te…hai fatto una scelta, perché non sai accettarla del tutto?”.
Non si rendeva conto che più parlavano più Angie si accendeva di rabbia. La sua missione stava lentamente passando in secondo piano, in quel momento chiedeva solo vendetta. Vendetta per riempire quel dolore che sentiva dentro. Lasciò il suo compagno impalato e si diresse in tutta fretta nel villaggio. La gente continuava a scrutarla, alcuni anche a causa delle urla che avevano sentito provenire da fuori, ma nessuno osò dire nulla, sia per l’antico divieto, sia per la paura della furia incontrollata che si leggeva negli occhi della donna.
La sua abitazione risiedeva nella parte più interna della città: lì si trovavano tutte quelle dei capi della tribù. Suo padre faceva parte dei saggi che reggevano il villaggio, che oltre a svolgere funzione giuridica, ossia risolvere le contese tra gli abitanti, e religiosa, avevano anche potere decisione in ambito militare. Fortunatamente il suo popolo aveva deciso di rimanere nella Palude senza mai uscirne, e quindi la loro neutralità veniva premiata con il non essere coinvolti in alcuno scontro. Ogni casa poggiava su basse piattaforme in legno rialzate, con alcuni scalini, sempre in legno, che conducevano all’ingresso. Non c’erano porte, e l’interno dell’abitazione era perciò visibile già prima ancora di mettervi piede. Angie non si fece alcuno scrupolo, riconoscendo la sua passata dimora, a salire gli scalini a due a due, stringendo i pugni, e non preoccupandosi degli sguardi dei più anziani. Irruppe in una stanza buia, poco illuminata, se non dalla luce che proveniva dalle finestre. Una donna anziana era china su un tavolo, lavorando abilmente una massa informe, che riconobbe subito come pasta di creta. Sembrava non essersi quasi accorta dell’incursione di un intruso, non fosse che la lunga ombra della giovane Saramego ferma davanti alla porta, non venne proiettata davanti al suo viso.
“Mamma…” sussurrò Angie, trattenendo a stento le lacrime, che fin dalla visita al cimitero del villaggio premevano sulle sue pupille, appannandole la vista. La donna continuò a lavorare, senza alzare lo sguardo, ma le mani le tremavano visibilmente. Stava cercando di ignorarla, come avevano fatto tutti, tranne Jeremias, ma si leggeva il forte desiderio che provava di abbracciarla forte. La pasta venne sbattuta con vigore, e tornò a lavorarla, affondando le dita ossute nel morbido impasto.
“Mamma” la chiamò ancora, invano. Fece per avvicinarsi, ma la donna alzò il palmo della mano sporco, davanti a sé, come per chiedere di non continuare. Più si avvicinava più il dolore della madre si faceva forte, più quell’abbraccio agognato da entrambe diventava irreprimibile. Angie era arrabbiata anche con lei, non poteva negarlo, ma non appena la ebbe vista sembrava tutto essere svanito nel nulla. Rimaneva solo un gran bisogno di lasciarsi cullare dalla dolce voce materna. Voleva raccontarle della piccola Cassidy, del marito Pablo, di come andava la sua vita, e voleva poterlo fare in assoluta serenità. Ma il crudele velo invisibile della tradizione le separava. Leggi ingiuste la avevano strappata ai suoi cari. Quanto vanaglorioso era la sua gente! Credeva che allontanarsi da quella palude significasse lasciarsi corrompere, e non capiva invece che rimanere chiusi nella loro ottusa convinzione avrebbe decretato la loro fine. Quel gesto non la fermò, non avrebbe lasciato che ancora una volte le venisse strappato un amore di cui non si era mai rivelata indegna, se non agli occhi di un popolo superbo. Ricordava che la madre, Angelica, era l’unica ad aver mostrato apertamente la sofferenza per il suo esilio. Era sempre stata una donna buona, ed era chiaro che quelle leggi non riuscivano a reprimere il suo cuore giusto e gentile.
Appoggiò la mano sul tavolo, e la madre involontariamente la sfiorò. Due paia di occhi chiari finirono per studiarsi. Era passato talmente tanto tempo, che Angie per un momento stentò a credere che fosse sua madre: aveva delle profonde rughe lungo il viso, e i capelli un tempo di un lucido castano chiaro, adesso presentavano numerose ciocche grigie. Aveva versato tante lacrime dalla sua partenza, lo sapeva, e non aveva potuto ottenere il conforto di nessuno. Il padre, sebbene fosse sempre stato affettuoso con lei, era stato rigido e irremovibile, e Angie ricordava bene quei due opposti che convivevano pacificamente. “Non mi ignorare, madre”. I singhiozzi del pianto le impedirono di supplicarla ancora, e Angelica sentì una stretta al cuore. Senza pensarci passò il pollice ruvido sulla sua guancia, asciugandole le lacrime.
“Angie…sei tornata” gracchiò la donna, superando il tavolo per venirle incontro. Sua figlia era diventata bellissima, ed era ancora nel fiore degli anni. A stento ricordava quello sguardo furbo, a volte anche un po’ malandrino, e allo stesso tempo intenso. Aveva ripopolato i suoi ricordi con immagini di una Angie bambina, aveva vissuto con quei fantasmi, e vederla ora in carne ed ossa, così cresciuta, così donna, la rendeva fiera e allo stesso tempo nostalgica. Le era mancata tanto la sua Angie. Nemmeno il tempo di dire altro e si ritrovò la sua bambina tra le braccia, che piangeva sommessamente. Le sfiorò i capelli con cura reverenziale, e si disse che adesso avrebbe potuto morire felice. Non le importava che avesse sposato uno straniero, gli altri che le avevano imposto di dimenticarla non potevano capire il profondo legame che una madre continuava a nutrire per la propria figlia.
“Figlia mia!” esclamò, liberandosi finalmente di quel peso. Non poteva fingere che non esistesse. Lei era lì, era tornata, e non avrebbe mai più finto di non provare quell’amore che una madre naturalmente sentiva per la propria figlia. Angie si separò con un mezzo sorriso, ma poi il ricordo della visita alla tomba del padre si fece vivo nella sua mente.
“P-Papà…”. Angelica non la lasciò finire, e con un respiro profondo, attirò nuovamente la figlia a sé in un nuovo abbraccio. “Anche lui non ha mai smesso per un istante di volerti bene. Lo sentivo la notte, alzarsi e andare nella tua stanza vuota. Siamo stati e saremo sempre la tua famiglia” la consolò la madre, accarezzandola il viso, e la schiena.
Quelle parole non fecero altro che accentuare il dolore di Angie, che respirava a fatica. Sentì qualcuno correre alle sue spalle, e Jeremias si presentò con il fiatone dentro la casa.
“ Ti ho seguito di corsa…non voglio che tu ce l’abbia con me”.
Angie sorrise incerta, e si asciugò le ultime lacrime. “Non ce l’ho con te, testa vuota!” scherzò, dandogli uno strattone sulla spalla, che l’amico ricambiò scherzosamente.
“Non mi hai ancora detto perché sei qui, e non credo sia una visita di piacere la tua” si intromise Angelica. Angie si voltò e inconsciamente cominciò a sfregare le mani lungo la veste, sporca di creta a causa degli abbracci della madre.
“Io…sono qui perché ho bisogno di raggiungere la Grotta delle Antiche Rune. Ho bisogno di capire che futuro ci attenderà” spiegò la donna.
I due rimasero con gli occhi spalancati, ed erano sul punto di parlare, ma fu Jeremias per primo a esprimere le perplessità di entrambi: “Sei forse impazzita? Solo i membri del nostro popolo possono entrare in quel luogo sacro, e dopo numerosi riti di purificazione! E non è nemmeno concesso a tutti…Poi si trova in un luogo inospitale e quasi inaccessibile”.
“Lo so benissimo! Ti devo ricordare che da piccola mi avevano portato in quel posto anche se non sono potuta entrare nella caverna?” sbottò Angie senza mezzi termini.
Angelica fece cenno a Jeremias di tacere e tentò di dissuadere la figlia con la sua saggezza e moderazione: “Figliola, sai bene che non puoi entrarvi…non fai più parte della Palude”.
“Ma esisteva un modo per essere reintegrati, giusto?”. La madre assunse un’espressione cupa, mentre l’amico sembrava confuso.
“Sappiamo tutti che le scelte degli anziani sono definitive e irrevocabili, che diavolo stai dicendo!” la riprese Jeremias. Ma Angie non si curava più del cacciatore, troppo presa a studiare l’espressione sconvolta di Angelica. Era stato suo padre a parlarle di una possibilità di redenzione da parte di un esiliato, anche se richiedeva grande determinazione.
“Lo so che te ne ha parlato, ma…Angie, ci sono cose che è meglio dimenticare” sussurrò Angelica, portando le mani in una bacinella di terracotta riempita con acqua fresca per pulirsi le mani sporche di creta.
“Esiste un modo?!” esclamò sconcertato Jeramias, rimanendo a bocca aperta.
“Ma è una follia…comunque si, la decisione degli anziani può essere messa in discussione, ma solo da chi è più saggio di loro”.
“Nessuno è più saggio di loro”.
Angelica scosse la testa. “Ogni famiglia ha diritto a fare in modo che il proprio parente esiliato sia giudicato da loro stessi…o almeno da quelli di loro che sono ritenuti più influenti degli anziani”.
Angie annuì e posò la mano sulla spalla della madre: “Io lo farò”.
“Ma si può sapere di che stiamo parlando?”.
Il sole venne coperto da una nuvola passeggera, e tutto sprofondò in un cupo grigiore. Il silenzio accendeva la curiosità di Angie e Jeremias. Nessuno sapeva in cosa consisteva quella prova, solo i membri più anziani ne erano a conoscenza, e preferivano non farne mai parola con nessuno.
“In passato si chiamava ‘Il giudizio di Aliante’” disse infine con un sospiro.
“E in cosa consiste?”.
“E’ un processo vero e proprio. Con un’accusa e una difesa. E a seconda di come esso finisce il giudice in questione, Aliante stesso, consultandosi con gli antenati dell’esiliato in forma di spirito, decide se egli è degno oppure no di rientrare a far parte della tribù” spiegò brevemente, mentre evitava lo sguardo della figlia.
“Adesso come viene chiamato?” chiese la donna, confusa più che mai.
“Il tribunale degli antenati” rispose secca Angelica, con voce stanca.
“Ci sarà anche mio padre?” domandò ancora Angie, avvertendo i brividi lungo la schiena. Si trattava di una sorta di seduta spiritica, in cui essi decidevano della sua sorte, e il solo pensiero la terrorizzava. Ma altre possibilità non ce ne erano, e più passava il tempo più la guerra fuori da quella Palude imperversava minacciosa.
“Lui…si, tesoro, ci sarà. E non sarà facile convincerlo della tua redenzione. Non sarà facile affatto”. Un vento improvviso e gelido soffiò all’interno della casa, per poi svanire così come era giunto. Tante prove erano contro di lei, soprattutto il matrimonio con Pablo, ma il coraggio non le era mai mancato, e a volte anche le missioni impossibili potevano rivelarsi più semplici del previsto. Non era una donna che si tirava indietro, non lo era mai stata.
“Portami dagli anziani. Voglio che sappiano che intendo sostenere il giudizio di Aliante”. 








NOTA AUTORE: si, questo capitolo è un po' noiosetto, ne sono cosciente, ma è necessario per due ragioni:
1) Volevo un attimino soffermarmi sul personaggio di Angie, così che possiate conoscerlo meglio, anche in vista di ciò che succederà nel prossimo capitolo
2) Ci sono alcune parti che volevo venissero quanto meno spiegate. Ad esempio tutta la storia sui confini dei regni. Io ho una cartina abbozzata su come sono fatti, ma voi no, quindi ho ritenuto quanto meno necessario farvi capire un po' quale posto sta dove, ecco tutto xD Si tratta di una sorta di quadrato, con al centro la foresta centrale, quella dove stava Andres: a sud-ovest c'è Picche, a sud-est c'è Fiori, a nord-est c'è Cuori, e a nord-ovest c'è Quadri. Ecco...così avete anche meglio in mente il viaggio di Maxi e gli altri.
Detto ciò...non ho molto da commentare, tranne il fatto che c'è un particolare in questo capitolo che avrà un significato più in là: Algo se Enciende. Questa canzone in questa storia avrà un ruolo molto particolare, ma lo scoprirete voi stessi :3 Già l'occasione in cui viene composta è molto particolare :D 
A me piace particolarmente l'incontro con Angelica, che si sforza di ignorare la figlia, rispettando le leggi, ma alla fine cede a quello che è il naturale legame tra madre e figlia. Angelica è un personaggio minore in questa fanfiction, ma a me piace tantissimo, e un po' di spazio ci tenevo a darglielo ù.ù E anche il pensiero di Angie a proposito dell'ingiustizia di alcune tradizioni, che stabiliscono addirittura che un uomo debba comportarsi in modo inumano mi piace molto. E' un discorso che reputo anche attuale in certe circostanze, ma non starò qui a parlarne xD Comunque già tergiverso troppo, e no, Dulcevoz, per te non è ancora finita xD Nel prossimo capitolo vedremo in cosa consiste questo 'Tribunale' e vedremo se Angie potrà accedere alla Grotta delle Antiche Rune...anche se questa mini-storia è secondaria, e si svolge in contemporanea al recupero dell'elmo, e alla vicende di Cuori, non perdetela troppo di vista, perchè più in là sarà fondamentale ù.ù Niente, mi sono dilungato anche troppo xD Grazie come sempre a voi che seguite/leggete/recensite questa storia :D Buona lettura a tutti, e alla prossima! :D 

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Capitolo 39
*** Il giudizio di Aliante ***



 

Capitolo 39
Il giudizio di Aliante

Se durante il giorno l’afa era insopportabile, di notte questa portava un senso di oppressione indefinito su tutto il corpo, e Angie a stento procedeva spostando i rami più bassi; di tanto in tanto si fermava per prendere dei respiri profondi e asciugarsi con il dorso della mano la fronte sudata, quindi riprendeva il cammino, seguita da un gruppetto di anziani, i cui volti pallidi e smunti assumevano un colore perlaceo di fronte alle fiamme delle torce.
“Manca ancora molto?” chiese con fatica, prima di rimettersi in marcia. Nessuno rispose. La madre e Jeremias erano stati finora gli unici ad averle rivolto la parola, e già solo per questo erano stati considerati meritevoli di biasimo da parte di tutti. Quando Angelica aveva riferito agli anziani il proposito della figlia di sostenere il giudizio di Aliante, tutti erano rimasti sbalorditi di fronte a tale richiesta. Dapprima rifiutarono, poi si lasciarono convincere a dare una possibilità all’esiliata.
“Grazie molte” borbottò ironica, accelerando il passo. Di tanto in tanto le indicavano la via da seguire, senza dire una parola, e la seguivano come un’ombra. Strani rumori simili a latrati in lontananza la fecero rabbrividire, ma ogni qual volta mostrava segno di esitazione gli sguardi severi dei saggi la costringevano a proseguire. Arrivò di fronte a una cascata smeraldina, che scrosciava melodiosa da un’altura rocciosa. Alla sua destra un antico salice dimorava con le sue possenti radici, che si sollevavano da terra per alcuni tratti, creando sinuosi serpenti di legno. Alcune lucciole svolazzavano pigramente in gruppo per poi disperdersi non appena si furono rese conto della presenza di estranei. Sebbene quella sorta di radura fosse a dir poco spettacolare, tutto sarebbe risultato normale, non fosse per la presenza, di fronte al salice, di un trono di legno intarsiato. Uno degli accompagnatori le indicò con fare imperioso proprio quel misterioso trono, e Angie, titubante, lo raggiunse a passo lento. Più avanzava, più un’antica musica le risuonava nelle orecchie: erano voci giovani ed eteree di fanciulle, che intonavano un canto in un lingua sconosciuta. Si sedette, e quando si voltò per chiedere agli anziani se andava bene così per il rito, si rese conto di essere rimasta da sola. Il cielo era privo di nuvole e la luna brillava intensa, proiettando la sua luce sul pelo dell’acqua e su tutta la radura. Luci azzurrine fluttuavano su e giù nell’aria, arrivando persino a sfiorarle l’orecchio. I braccioli del trono erano duri, e ad Angie, abituata a ben altro, dava fastidio tenervi le braccia, eppure non si mosse di un dito, temendo che ogni sua azione avrebbe potuto essere usata contro di lei nel famoso Processo. Un uomo si materializzò improvvisamente alla sua destra: era magro e alto, un po’ allampanato, e cercava invano di mantenere un’espressione seria; infatti era talmente emozionato che più volte fu costretto a chiudere gli occhi e a respirare profondamente per calmarsi. Non appena cominciò a parlare, Angie si rese conto che quella era la voce di uno spirito. Ogni parola appariva risucchiata nel finale, e vi era una leggera inflessione cavernosa nel tono di voce.
“Entri il giudice” esclamò solennemente, indicando il salice di fronte a lei. Dalla corteccia emerse una figura, fatta interamente di legno. Lentamente la materia si modificò facendogli assumere delle sembianze umane, e il legno divenne trasparente, se non addirittura evanescente, non lo sapeva dire con certezza. Capelli lunghi e sparsi sulle spalle, un’aria severa, un fisico muscoloso di un giovane nel fiore dell’età, ecco come si presentava Aliante. Dal nulla, apparve un trono ai piedi dell’albero, e vi si sedette, rimanendo in un totale silenzio.
Lo spirito entrato per primo si schiarì la voce e proseguì: “Entri l’accusa”. Un gruppetto di spiriti si fece largo dalla destra dell’albero secolare, e si posizionò a destra di Angie, abbastanza lontani. Era capitanato da un uomo piuttosto anziano, i cui baffi bianchi tremolavano sotto la luce della luna.
“Papà” mormorò sorpresa Angie, portandosi una mano alla bocca. L’annunciatore le rivolse uno sguardo torvo. Fece un piccolo colpo di tosse e con aria appena sufficiente annunciò: “Entri la difesa”.
Due spettri comparvero al suo fianco: un uomo e una donna. Erano entrambi anziani, e sdentati. L’uomo aveva un enorme pancione, e sorrideva in modo ebete tutto intorno. Il suo volto ispirava tenerezza e comprensione, e Angie non si sorprese che fosse stato uno degli unici a difenderla. Guardandolo meglio si rese conto che aveva dei tratti fin troppo familiari.
“Nonno Palestro!” esclamò di colpo, ricordando improvvisamente. Lo spettro si voltò verso di lei, e annuì sorridendo. Lo spirito della donna anziana si avvicinò con fare materno, e cominciò a cercare di tirarle la guancia, senza però riuscirci. La mano infatti sprofondava nella pelle, e dava alla donna una sensazione di gelo sgradevole. “E nonna Tirenia” aggiunse con un leggero tremolio nella voce.
“Ma come è diventata dolce e bella la mia nipote!” esordì l’anziana sogghignando con aria svampita.
L’annunciatore fece infine entrare la giuria, composta da sei dei suoi antenati, alcuni dei quali Angie non riconobbe. Essi si disposero in cerchio intorno ad Aliante, attendendo un suo ordine. Due di essi li conosceva molto bene grazie ai racconti del padre: quello al lato sinistro che si teneva la testa mozzata tra le mani, infatti, era un suo lontano prozio che venne sbranato da un’idra. Quello alla destra invece era zuppo dalla testa ai piedi, e i capelli scuri erano appiccicati sulla fronte. Tirava su con il naso di tanto in tanto mentre goccioline trasparenti cadevano dal suo corpo svanendo nell’aria. Era ancora giovane quando finì morto annegato in un torrente. Avevano tutti un’espressione tesa e cupa, mentre Aliante la guardava dritto negli occhi. Ad Angie sembrò di vedere nelle sue pupille la forza della natura, la sua essenza selvaggia. Gli occhi scuri, resi opachi dall’alone che lo circondava, avevano un fondo verde, un fondo che sembrava non avere mai fine. Angie fu costretta a distogliere lo sguardo, per non rischiare di finirne ipnotizzata.
“Direi che possiamo cominciare” la riscosse il padre con voce atona, senza rivolgerle uno sguardo. Non sapeva come si sarebbe svolto il processo, ma sentiva che per avere qualche possibilità doveva riuscire a convincere suo padre. Aliante fece cenno di dare inizio al processo. Uno specchio comparve tra lei e l’accusa, dalla superficie liscia e argentata. La cornice era di ebano e si fondeva con la notte, per cui non era possibile vederne distintamente i dettagli, ma Angie dedusse comunque che non dovesse essere particolarmente lavorata.
“Comincio col dire che il mio legame di parentela non influirà per nulla sul mio modo di procedere. L’ho rinnegata come figlia”. La voce del padre era dura e priva di qualsiasi emozione, e Angie sentì già gli occhi farsi lucidi. “Tutto ha avuto inizio con l’arrivo dello straniero” aggiunse con disprezzo indicando lo specchio. Sagome indefinite si muovevano al suo interno, fino a prendere man mano consistenza. Angie rimase a bocca aperta a osservare e a lasciarsi trascinare dai ricordi del passato.
Un ruggito in lontananza. Il rumore dei suoi passi attutito dal fango. I capelli che ondeggiavano nel vento, accentuando la libertà di cui lei stessa era espressione in un solo sguardo. Teneva in mano l’arco ma sperava di non doverlo usare: odiava combattere, odiava anche il solo pensiero di procurare ferite o sofferenze. Slittò lungo una discesa, priva di alberi, e si ritrovò quasi tra le fauci di un drago di Palude. Aveva la pelle marrone scura, che si mimetizzava con l’ambiente, e ruggiva minaccioso. Ai suoi piedi giaceva riverso in una pozza di sangue un giovane dai capelli neri come la pece; aveva il volto sporco di fango, e la spada era a terra, lontana dal suo proprietario. L’animale era grande si e no quanto due cavalli, ma aveva un lunga coda possente. Gli occhi erano di un giallo spento, e mostrava le fauci per spaventare ulteriormente il suo avversario: non intendeva assolutamente rinunciare alla sua preda. Angie fece un balzo indietro e alzò l’arco pronta a colpire, sebbene non volesse ricorrere alla violenza. Il drago in tutta risposta alzò le zampe anteriore ed emise una voluta di fumo, tra cui si scorgevano delle scintille roventi. Era un avvertimento: ‘vattene o attacco’, questo era il significato.
“Già qui vediamo però il modo in cui Angie tiene alle creature della Palude, tanto da non volerle attaccare” esclamò Palestro, bloccando lo scorrere dei ricordi nello specchio. Un brusio di sottofondo invase la radura: chi annuiva con aria assente, e chi invece scuoteva la testa, ritenendola una prova non sufficiente. “Andiamo avanti” ordinò Aliante, indicando la superficie cristallina, che si sbloccò e riprese a mandare le immagini del passato.
La freccia ferì l’animale alla zampa, ma non era stata lei a scoccarla. Dietro Jeremias era accorso in tutta fretta, e vedendola in pericolo aveva deciso di agire.
“Tu sei pazza! Avresti potuto rimetterci la vita!” la rimproverò duramente, mentre il drago emise un gemito di dolore e mosse le ali riuscendo nel tentativo di fuga. Angie non si preoccupò minimamente del biasimo dell’amico, e corse invece ai piedi del giovane ferito. Lo scostò piano e per un momento rimase affascinata dai suoi tratti, così diversi da tutti gli uomini che aveva conosciuto fino a quel momento. Aveva i capelli sporchi di sangue, e il pallore sul volto era segno che le ferite non erano affatto superficiali.
“Dobbiamo aiutarlo” sentenziò Angie, afferrandogli un braccio, e facendo cenno a Jeremias di caricarselo.
“Dobbiamo lasciarlo qui, invece! Uno straniero nel villaggio…ti rendi conto di quello che potrebbero fargli? Sai benissimo che non sono ammessi estranei. E poi è stato uno sciocco ad avventurarsi nella Palude” sbottò il cacciatore, voltandosi dall’altra parte e incrociando le braccia.
“Pensala come vuoi, ma io senza di lui non mi muovo”.
Jeremias si voltò e lesse negli occhi dell’amica la solita determinazione di fronte a cui ormai era abituato a cedere. Sospirò e alzò le mani in segno di resa. Angie, per la contentezza, lo abbracciò con forza, e il cacciatore sorrise. Cosa non si faceva per amicizia?
Lo specchio divenne nuovamente limpido e cristallino, mentre il vociare generale degli spiriti si era fatto più intenso. Palestro stava iniziando a sudare freddo: la difesa non poteva dire nulla in quell’occasione perché Angie aveva già infranto una regola salvando lo straniero, e poco contava se aveva cercato di non ferire il drago in quell’occasione. Inoltre in vita era sempre stato un uomo buono, forse anche troppo, tanto che alcuni lo ritenevano un debole. E di fronte alle parole infervorate dell’accusa c’era ben poco da fare, per quanto stesse cercando di ridimensionare la portata degli eventi.
“Questo è stato il primo errore di mia figlia, se mai ne ho avuta una” pronunciò solennemente lo spettro del padre di Angie, provocando in lei una fitta di dolore sempre più acuta. Non solo l’aveva ripudiata in vita come figlia, ma adesso cercava anche di negarle la possibilità di rientrare a far parte del suo popolo.
“Beh, se l’errore è stato salvare una vita umana, ben venga quest’errore!” si intromise Tirenia, con aria fiera, sfiorando con la mano la spalla di Angie.
“In effetti, sebbene contro le leggi, non possiamo dire che sia stata un’azione grave. Ha semplicemente agito con umanità” disse uno della giuria, lisciandosi i folti baffi di un grigio fumoso.
“Ma non è finita qui!” ribatté adirato il padre, indicando nuovamente lo specchio e ricercando l’assenso di Aliante, che annuì grave. “Andiamo avanti, e capirete quanto Angie sia stata ingrata nei confronti della gente con cui è cresciuta”.
la Palude
“Vai a vedere se si è ripreso, Angie”. Una voce proveniente dalle stanze adiacenti lo colse di sorpresa, e sentì un rumore di passi nella sua direzione. Finse di dormire, fino a quando non avvertì la presunta Angie nella sua stessa stanza. Ne percepiva la presenza, sentiva il suo respiro regolare. Una candida mano gli sfiorò la guancia, e non aspettandosi una cosa del genere, Pablo sobbalzò finendo seduto sul letto, mentre una giovane ragazza fece un salto indietro, spaventata.
“Io…scusa, non volevo svegliarti”. Aveva una voce dolce e melodiosa, e si trovò a desiderare di sentirla parlare ancora.
“Non preoccuparti…ma avvicinati, non riesco nemmeno a vederti in mezzo a questo buio. A chi devo la mia vita?”. La giovane fece qualche passo in avanti, e Pablo venne subito colpito da quegli occhi limpidi e chiari, massima espressione di bellezza e sincerità. Non credeva nelle creature celesti, ma in quel momento avrebbe cambiato rapidamente idea se gli venisse detto. Angie piegò la testa di lato, curiosa, mentre una cascata di morbidi capelli dorati le sfiorava la spalla. Di fronte al suo sgomento le scappò un sorriso che represse subito, abbassando lo sguardo.
“Mi chiamo Angie…ma non sono stata io a salvarti, è stato un mio caro amico, il suo nome è Jeremias”. Pablo annuì, cercando di tirarsi su, ma i muscoli indolenziti glielo impedivano. Si tastò la fronte e scoprì che era stata fasciata. Angie si sedette al suo fianco, fermandolo. “E’ meglio che non ti alzi”. Con il suo solo tocco Pablo si sentì completamente vinto, e si lasciò guidare nuovamente verso il basso finché i suoi occhi non finirono per puntare al soffitto. Angie continuava a guardarlo come si guarda  una nuova specie appena scoperta.
“Sono così interessante?” domandò ridendo, cercando di accomodarsi meglio sul giaciglio.
“Più che interessante…strano” rispose Angie, lasciandosi sfuggire un altro sorriso. Come riusciva quell’uomo a farle perdere il controllo delle sue emozioni? Non era in grado di nasconderle,, sebbene lo conoscesse appena, e non sapeva spiegarsi il perché. L’uomo rimase perplesso di fronte a quella risposta schietta, e si incantò nuovamente a guardarla negli occhi.
“E tu sei molto bella” si lasciò scappare. Angie sollevò il capo stupefatta, e Pablo si affrettò a distogliere lo sguardo, rendendosi conto di averla messa ulteriormente in imbarazzo con le sue stupide parole. “Volevo dire…sei stata molto gentile ad aiutarmi a rimettermi. Oggi stesso partirò così da non creare problemi. Devo raggiungere il villaggio della Palude”. Angie scoppiò a ridere, una risata che lo prese completamente.
“Beh, non dovrai viaggiare più di tanto. Sei nel posto giusto” disse sibillina, rialzandosi in piedi. Stava per uscire dalla stanza, quando si voltò proprio sulla soglia. “Non so il tuo nome”.
“Pablo. Mi chiamo Pablo”.
Il vento soffiò sul gruppo nella radura, e lo stesso Aliante bloccò il flusso di ricordi per permettere ad accusa e difesa di analizzarli e usarli a loro favore.
“Beh, c’è da dire che la ragazza ha mostrato parecchio interesse” borbottò l’uomo che reggeva in mano la propria testa. Vi furono alcuni consensi vari.
“E’ ovvio che ci sia stato interesse visto che alla fine l’ha sposato” ribatté Tirenia, dando una gomitata al marito, nonché compagno nella difesa, affinché intervenisse.
“Ma non ha nemmeno tentato di porre un limite a tutto ciò!” commentò sprezzante il padre di Angie.
“No, qui vi sbagliate!”. Angie era intervenuta, e non staccava lo sguardo dal padre, che ricambiava furente. “Io…ci ho provato”. Un risucchio alla sua destra la fece voltare. Il paesaggio dentro lo specchio era cambiato, ma le immagini avevano ripreso a muoversi.
Era convinta di odiarlo. Dopo qualche giorno la sua curiosità si era forse trasformata in disprezzo? Probabilmente. Ma quell’uomo faceva davvero di tutto per farla uscire di nervi. Era così pieno di sé, era convinto che tutto gli fosse dovuto, e non faceva che guardarli con aria di superiorità, sicuro che a mala pena loro fossero in grado di leggere e scrivere. Li considerava dei primitivi, e sebbene tutti cercassero di portare rispetto a quello che si scoprì essere il figlio di un Re, lei era sempre stata schietta e sincera, e mai avrebbe potuto fingere qualcosa che non sentiva in nessun modo.
Quel giorno Pablo era riuscito a ottenere un colloquio con gli anziani. Angie stava cercando di origliare nei pressi dell’edificio dove si svolgevano gli incontri, quando lo vide uscire a passo svelto, a dir poco infuriato, dopo aver lanciato un’occhiata omicida dietro di sé.
“Maledetti trogloditi” borbottò tra i denti, senza nemmeno curarsi della presenza della ragazza. Due scelte si presentavano di fronte a lei: ignorarlo, e non sarebbe stato difficile visto quanta poca considerazione aveva di quello straniero, o seguirlo. Ma perché avrebbe dovuto corrergli dietro? Perché parte di lei si perdeva in quegli occhi scuri, che le nascondevano la sua anima. Angie era sempre stata brava a giudicare le persone, non le sfuggiva mai nulla, eppure quel principe per lei rimaneva un grande punto interrogativo. Forse per quello lo detestava? Perché era l’unica persona di cui non riusciva a farsi un’idea precisa?
“Certo, disprezzarlo!” commentò duramente il padre di Angie, senza nemmeno guardarla negli occhi. “Sappiamo tutti che dietro si nascondeva ben altro”.
“Qualcosa di cui la giovane non era consapevole! E non si può certo incolparla di essersi innamorata, anche se della persona sbagliata” disse Tirenia, mentre Palestro assisteva inerme a quella discussione, non sapendo in che modo sostenere la moglie.
“Comunque sia finora la suddetta imputata non ha agito male” disse l’ombra della giuria, morta per affogamento, dopo aver starnutito vigorosamente.
“Non possiamo certo giudicare qualcosa del genere…” rincarò la dose una donna giovane alla sua sinistra. Aliante alzò il palmo della mano, ottenendo il più assoluto silenzio. Indicò nuovamente la superficie, e i ricordi ripresero, inesorabili, ricordi per cui Angie al solo rivivere sentiva una stretta allo stomaco.
Poco fuori dal villaggio il bosco, prima di farsi nuovamente folto, aveva un sentiero scosceso completamente in salita, che portava in cima ad una collinetta. Angie osservò le impronte degli stivali di Pablo che conducevano proprio da quella parte. I suoi piedi avevano deciso per lei, e senza perdere nemmeno un secondo cominciò a percorrere la stradina fino in cima. Giunta fin lì, seduto di spalle, con le braccia intorno alle ginocchia, il giovane uomo osservava il tramonto che pian piano faceva sprofondare l’intera Palude nel crepuscolo. Solo in quel momento si rese conto che non sapeva cosa dire. Fece per tornare indietro, quando sentì la voce di Pablo dietro di lei.
“Puoi rimanere. Non ho alcun problema”. Sempre quel tono arrogante. Come le dava su i nervi.
“Forse non voglio rimanere” rispose lei, alzando il mento con fare orgoglioso.
“E allora non rimanere” concluse Pablo semplicemente, scrollando le spalle.
Angie sbuffò, e pur di non dargli quella soddisfazione, tornò indietro sui suoi passi, e si sedette al suo fianco. Gli occhi Pablo brillavano lucidi, neri come non mai, in contrasto con il chiarore del tramonto.
“Come avrai capito non è andata proprio come prevedevo…” esordì senza guardarla.
“Non tutto può sempre andare come vogliamo” lo riprese severa Angie.
“Ho sempre pensato di poter ottenere quello che desideravo. Fin da piccolo sono stato abituato così. Ma adesso mi sento solo…inutile”. Sospirò, e i due rimasero a contemplare il panorama, che veniva inghiottito dalla sera.
“Perché invece non provi ad imparare da questo fallimento?”
“Perché non posso fallire. Mio padre ha grandi aspettative su di me” ribatté Pablo, come se la ritenesse la cosa più ovvia del mondo. Angie tacque: quella situazione le ricordava il rapporto con suo padre, davvero simile sotto molti punti di vista. La scrutò assorto, e in quel momento Angie avrebbe pagato tutto l’oro del mondo, e forse anche di più, per sapere cosa stesse pensando. Scosse lievemente la testa, dandosi della sciocca: che cosa avrebbe mai potuto leggere in quella testa, se non arroganza e presunzione?
“Secondo me siamo molto simili, anche se non credo di stare tra le tue simpatie. O forse è proprio per questo” riprese lui con un sorrisetto beffardo. Angie scoppiò in una risata fredda, cercando di sviare completamente i suoi sospetti. Lei stessa l’aveva pensato, ma non voleva assolutamente dargli ragione, piuttosto si sarebbe tagliata la lingua.
Pablo poggiò la mano sulla sua, e improvvisamente diventò rossa, senza riuscire a comprendere il perché. Un senso di protezione e sicurezza inondò il suo corpo con impeto, ed era bastato solamente quel contatto.
“Non negare che in fondo provi un certo interesse per me. Io non lo nego” disse, avvicinandosi di poco. Avrebbe voluto allontanarlo, ma qualcosa glielo impediva, e con stupore si rese conto che proprio il suo cuore, su cui aveva sempre fatto affidamento, aveva imposto quel divieto. Abbassò meccanicamente lo sguardo, ritrovandosi a fissare il collo del principe. Avvertì il fiato sulla sua bocca. Aveva un profumo delicato, così diverso dagli odori a cui era abituata, intensi e selvaggi. Forse fu proprio quello a farle abbassare per un secondo le difese, e quando sentì le labbra di Pablo premere sulle sue, non si mosse. Non rispose al bacio, ma neppure lo respinse. Il mondo si era completamente capovolto, o almeno il suo, e quel bacio era stato la ruota motrice di quella rivoluzione. Con esso giunse anche la confusione più totale. Era convinta di non sopportarlo, ma era davvero così? Forse aveva ragione Pablo, forse pensava di odiarlo solo perché entrambi erano simili, e le differenze sociali, di razza, non erano nulla in confronto al legame che la vita aveva imposto su di loro. Pablo gli prese il viso tra le mani, continuando a baciarla con delicatezza, quasi temesse di farle del male, quindi si separò e aprì gli occhi, tenuti chiusi. Angie anche riaprì i suoi, e improvvisamente le pupille di Pablo le apparvero più chiare. Tutta quell’oscurità per lei era diventata luce, era come se adesso avesse imparato a conoscerlo e quello che vedeva le piaceva fin troppo. I difetti improvvisamente non significavano più nulla, e anzi si rese conto che si completavano con i suoi. Pablo si avvicinò nuovamente, e le lasciò un dolce bacio. Fu solo un tocco leggero, che accese in entrambi un fuoco tenuto spento. Si lasciarono andare ad un nuovo bacio più intenso degli altri due, e questa volta Angie rispose con fin troppa passione, lasciando sorpreso perfino il giovane. Lo allontanò poi di colpo, mordendosi il labbro inferiore. Non poteva. Tradire il suo popolo, solo per quella che era sicura essere una semplice infatuazione momentanea. Aveva dei doveri nei confronti della sua famiglia, che l’aveva allevata fin da piccola.
“Angie…” sussurrò, facendosi improvvisamente serio. Il sorriso che l’aveva accompagnato durante tutti quei baci, quei momenti di intima dolcezza, era svanito nel nulla, ed era rimasta unicamente la preoccupazione.
“Devo andare” disse Angie, senza guardarlo più negli occhi. Facendo leva sulle braccia si alzò in tutta fretta. Non si voltò neppure quando la chiamò di nuovo. Voleva solo dimenticare quel bacio, voleva dimenticare quegli occhi che l’avevano rapita per un magico istante. Ma dimenticare non sembrava essere una possibilità che il destino intendesse offrirle.
“Ahhhh, ma quanta dolcezza!” sospirò Palestro, congiungendo le mani, mentre gli occhi grigiastri si fecero sempre più opachi. Si era addirittura commosso nel vedere quella scena! Angie cercò con lo sguardo Tirenia, ma si rese conto che anche lei emetteva sospiri, con sguardo languido. Una difesa ben poco utile, pensò, portandosi una mano sulla fronte, afflitta.
“E non è finita qui, signori della giuria”. Il padre conduceva la causa con estrema abilità, e tutti erano catturati dalle sue parole. Le cose si mettevano sempre peggio; anche quelli che inizialmente tentennavano stavano prendendo posizione, e qualcosa le diceva che non era esattamente a suo favore.
“Tu lo ami! Non c’è davvero niente di difficile da capire, Angie” esclamò Jeremias, seduto ai piedi del letto dove lei era stesa a singhiozzare a pancia in giù. Erano passati alcuni giorni da quel bacio, giorni in cui aveva fatto di tutto per non doverlo vedere. Il peso della colpa gravava sulle sue spalle, e non aveva osato riferire a nessuno di quello che era successo, tranne che al suo amico più stretto ovviamente. Quest’ultimo, dopo aver analizzato attentamente la situazione, aveva raggiunto quella conclusione, che non la faceva certo stare meglio. Quel giorno Pablo sarebbe partito. Aveva portato a termine il suo compito, fallendo, e doveva tornare dal padre per riferirgli gli esiti della missione. Non l’avrebbe rivisto mai più. Mai più. Quelle due parole la torturavano lentamente, quasi godendo del dolore che le procuravano.
“Come fai a dirlo?” chiese infine con un fil di voce, tirandosi su e sedendosi al fianco dell’amico, che la guardava con dolcezza. “Lo leggo nei tuoi occhi” rispose semplicemente. Poggiò la mano sulla sua, e la strinse con forza, per poi avvicinarla alla sua bocca e lasciarvi un tiepido bacio.
“Ricorda che ti conosco come nessun altro. Anzi…ricordati di me e basta”.
“Certo che lo faccio…dove pensi che vada?” ribatté la donna scherzando.
“Devi andare con lui. Non è questo il tuo posto, non lo è mai stato”. Angie sgranò gli occhi, scuotendo la testa. “Vai a parlare con gli anziani. Digli che vuoi lasciare il villaggio  e raggiungi Pablo, a quest’ora si starà preparando; sei ancora in tempo” spiegò in fretta l’amico, sentendola rabbrividire per la paura. Non aveva il coraggio sufficiente, non poteva farlo.
“Sei abbastanza forte per farlo, Angie” la incoraggio Jeremias, come se fosse capace di leggerle i pensieri.
“Dopo questo commovente siparietto, Angie Saramego non ci ha pensato due volte. E’ venuta da me e dagli altri saggi, e ha rinunciato alla sua posizione…” osservò sprezzante lo spirito del padre. 
“Papà, smettila di trattarmi come un’estranea, smettila!” esplose infine Angie. Si alzò addirittura dal trono e si diresse verso l’accusa senza alcun timore. Si mise di fronte allo spirito, e lo guardò negli occhi.
“Non osare chiamarmi con quel nome!” tuonò l’altro, alzando le mano e creando una parete cristallina che la scaraventò a terra. “Caius Saramego! Per te sono solo questo”.
Caius Saramego. L’aveva guardato negli occhi e gli aveva detto che voleva lasciare il villaggio. Le avevano chiesto perché, e di essere sincera nella risposta. Non riuscì a sostenere il suo sguardo quando rispose che aveva scoperto di nutrire un profondo sentimento per lo straniero.
Vattene e non tornare più, quello le aveva detto il padre, e lei con le lacrime agli occhi era fuggita. Gli anziani le si erano rivolti con disprezzo, e l’avevano fatta sentire contaminata. Poteva un sentimento così puro come l’amore farla stare tanto male?E mentre correva il suo corpo fremeva dal desiderio di un abbraccio di Pablo. Si era resa conto di non averlo mai potuto provare. Le si era sottratta per codardia, ma adesso aveva bisogno di lui. Ora che aveva rinunciato a tutto per lui. Mentre lo cercava fu colta dal terrore: e se non l’avesse trovato? No, ce l’avrebbe fatta. Se si fosse sbagliata? Se Pablo dopo poco si fosse stancato di lei? Che scelta avventata era stata la sua! Aveva ceduto di fronte alle parole di Jeremias, e si era lasciata guidare dal cuore, ma indietro non sarebbe potuta più tornare. Il suo futuro era unicamente nelle mani dell’uomo per cui aveva abbandonato tutto.
Superò di corsa il ponte di legno, mentre le guardie la scrutavano in modo strano. Che già sapessero? No, nessuno sapeva. Leggeva nei loro sguardi giudizi sprezzanti che ancora non potevano esserci. Ancora.
Poteva vedere la sua figura allontanarsi, mentre teneva per le redini un cavallo che gli era stato donato per il viaggio. “Pablo!” urlò. Nessuna risposta. Forse non l’aveva sentita. Corse sempre più veloce, quasi le sembrava di sfiorare appena l’erba sul terreno. Lo sforzo era massimo, così come il suo desiderio  di raggiungerlo. “Pablo!”.
Il ragazzo si fermò di spalle, inclinando leggermente la testa di lato, e aspettò che lei lo raggiungesse.
“Pablo…”. Improvvisamente il vigore con cui prima l’aveva chiamato si era spento, ed era diventato una flebile supplica.
Il giovane si voltò di scatto e le afferrò il polso. “Che cosa vuoi da me?” sibilò, lasciando trasparire un velo di confusione in mezzo a tutto quell’orgoglio. “Dopo quello che è successo ti ho cercato continuamente, ma mi evitavi. Pensavo non volessi saperne di me…e invece eccoti corrermi incontro. A che gioco stai giocando, Angie?”.
“Ho solo avuto paura”.
“Paura di che? Di affezionarti a me? Paura che ti facessi del male? Che razza di mostro pensi che io sia?Angie, guardami negli occhi e dimmi cosa vedi”. Angie obbedì, e rimase a fissare gli occhi scuri del principe, che scintillavano ammalianti.
“Vedo un uomo…”.
“Esatto! Vedi un uomo. E io in te vedo una donna, non vedo il membro di un popolo rintanato nelle sue tradizioni, in una Palude lontana dal mondo. Ciò che ci lega è al di fuori di dove viviamo, e di chi siamo”.
“Che cosa ci lega, Pablo?” domandò con un filo di voce Angie. Come scosso da quella domanda l’altro lasciò la presa sul suo polso, e si passò una mano tra i capelli, spettinandoli. Era nervoso, spiazzato, o forse semplicemente non sapeva rispondere.
“Io so cosa mi lega a te. Sei qualcosa a cui non posso rinunciare” mormorò, prendendo coraggio e avvicinandosi. Le sfiorò le braccia con le mani, ma poi subito si tirò indietro.
“Anche tu lo sei per me”.
“Non ti credo, dimostralo”. Pablo era sospettoso, e in effetti non aveva tutti i torti. Tutti quei giorni in cui lui l’aveva cercata e in cui le si era negata rintanandosi nella sua casa non erano affatto rassicuranti, e per nulla facili da dimenticare.
“Ho abbandonato tutto per seguirti” rispose Angie con sicurezza, perdendosi nell’espressione stupefatta del principe. Prima che potesse rispondere, si fiondò tra le sue braccia, e gli stampò un bacio sulle labbra. Lo sentì stringerla forte a sé, mentre ricambiava  quel bacio con ardore.
“Sei stata molto coraggiosa, o forse molto stupida. O entrambe” disse Pablo con dolcezza lasciandole un bacio sulla guancia, e abbracciandola.
Mai come in quel momento si rese conto di quanto le parole di Pablo fossero vere. Era stata davvero coraggiosa e allo stesso tempo stupida nel sottoporsi a quel giudizio. Affondò le mani nel terreno, e si rialzò barcollando per poi tornare da Palestro e Tirenia.
“Non intendo negare le mie colpe” iniziò, alzando le braccia per attirare l’attenzione. Gli occhi di Aliante erano fissi su di lei, mettendola in soggezione. “Ma continuo a credere che non possano essere ritenute tali. Ho agito d’impulso, forse è vero, ma non mi si può accusare di ingratitudine nei confronti di coloro che mi hanno cresciuta”. A quelle parole rivolse uno sguardo carico di sfida al padre. “E credo di avere il diritto di rientrare a far parte di un popolo che non ho mai voluto abbandonare”. Palestro cercò di imitare un applauso goffamente, perché le sue mani si incrociavano senza produrre alcun rumore, mentre la giuria bisbigliava.
Aliante rivolse lo sguardo a Caius, che scosse il capo. “Non ho nulla da aggiungere”.
Le sei anime della giuria raccolsero da terra una foglia argentata, del mondo degli spiriti, e si fecero lentamente avanti. La prima depose la fogli ai piedi di Caius. Un voto a suo favore. Angie strinse i pugni. L’uomo dalla testa mozzata invece venne verso di lei, e lasciò cadere la sua foglia. La testa le fece un occhiolino e poi si diresse insieme al corpo di nuovo vicino ad Aliante. Uno pari. Caius ottenne il voto del ragazzo che era annegato, mentre Angie con molta sorpresa ricevette quello della donna, che eppure durante tutto il processo sembrava averla squadrata con aria tutt’altro che amichevole. Il penultimo voto andò al padre, e l’ultimo a lei. Avevano pareggiato. La giuria sembrava essere divisa in due, e quindi il verdetto finale spettava ad Aliante. Lo spirito si alzò, e con lui soffiò un vento innaturale. Tutto intorno vorticava, ed Angie era ipnotizzata da quegli occhi che sembravano celare dietro di sé l’infinito.
“Io, Aliante…”. La voce era possente, pari a quella di un Dio. “Protettore di questa Palude”. Tutt’intorno le anime abbassarono il capo come atto reverenziale. “Ti dichiaro indegna di tornare a far parte del tuo popolo”. Quelle parole ebbero l’effetto di un macigno. Aveva fallito. Alzò lo sguardo supplicante, ma ormai Aliante si era voltato dall’altra parte.
Nulla, il suo viaggio non era servito a nulla. Le gambe cedettero di colpo, e gli occhi si spensero, privi di vita. Le voci rimbombavano nella sua testa, le grida di Andres, Libi, e tutti gli altri. Libi…si era affezionata davvero a quella ragazza, per lei era diventata come una seconda figlia. Il pensiero di non poter fare più nulla la tormentava. Insieme al dolore cresceva di pari passo l’ira: come potevano essere così indifferenti di fronte a una richiesta d’aiuto?
“Siete dei mostri! Lì fuori c’è una guerra, e voi pensate solo a preservare qualcosa che con il tempo dovrà morire da sé!” strillò fuori di sé. Il padre le rivolse uno sguardo di sufficienza prima di svanire nel nulla. Tutti scomparvero uno ad uno. Tirenia non aveva nascosto le sue lacrime, e Palestro cercava di consolarla con un abbraccio. Furono gli ultimi a sparire. “Grazie comunque” gli disse Angie rivolgendogli un sorriso in cui però non c’era alcuna gioia. Non dimenticava che erano stati gli unici ad offrirsi di difenderla, nonostante non fosse servito a nulla. I due la guardarono: la compassione che provavano per lei era enorme, così come il vuoto che sentiva dentro. Impresse nella mente i loro sguardi, l’amore che li univa anche dopo la morte, la loro gentilezza e bontà, e si disse che forse non tutti erano da condannare. Le voci insistevano, il mondo crollava, e lei non se ne rendeva conto. Sentì una voce in lontananza, e due braccia sorreggerla, mentre gli occhi le si chiudevano di colpo. Aveva freddo, tanto freddo. E sonno.
“Angie…Angie!”. Quella voce era l’unica per la quale volesse ancora vivere.
“Pablo…” sussurrò, prima di cadere in un sonno profondo. 










NOTA AUTORE: Metto subito avanti le mani perchè sto male in questi giorni e non so bene che cosa è uscito fuori, davvero...Tra parentesi non posso rimanere troppo a commentare il capitolo. Comunque alla fine Angie sostiene questo benedetto processo, e nonostante le cose sembravano essersi quasi aggiustate, e avesse convinto metà della giuria, alla fine il verdetto di Aliante è definitivo, e non le viene concesso il diritto di tornare a far parte del suo popolo. Arrabbiata, ferita e distrutta la povera Angie perde i sensi, ma qualcuno corre in suo aiuto, e si tratta proprio di Pablo :3 Ma come l'ha raggiunta? E come Angie spiegherà la situazione? Pablo se la sarà presa per essere partita senza dire nulla? Lo scopriremo nel prossimo capitolo! :3
Grazie a tutti voi che leggete/seguite/recensite, davvero, mi fa tantissimo piacere, e sapere che questa storia particolare vi prenda per me è uno stimolo ulteriore a continuare :3 Grazie davvero di tutto, e alla prossima :D Saluti, 
syontai :D 

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Capitolo 40
*** Ognun per sé ***





 

Capitolo 40

Ognun per sé

Odiava ammetterlo, ma era contenta che Pablo l’avesse raggiunta. E mentre da una piccola ciotolina di legno sbeccata sorseggiava un ricostituente, ottenuto dalla miscela di numerose piante sparse per la palude, aspettava con ansia che il marito finisse di parlare con la madre. Come aveva sospettato era infuriato nero, ma la sua rabbia era dettata per lo più dalla preoccupazione. Chiusa dentro la sua stanza, era ancora sconvolta per quello che era successo la notte prima. Non aveva ottenuto un bel niente, e il suo viaggio era stato inutile. Ne prese sempre maggiore consapevolezza, e si sentì una sciocca. Che cosa mai sperava di ottenere? Credeva davvero che il padre avrebbe messo da parte il suo orgoglio e la sua estrema attenzione per le leggi della Palude?
“Come le avete anche solo permesso di fare una cosa tanto sciocca? Poteva rimetterci la vita! Una seduta con gli spiriti!”. Le urla di Pablo nella stanza adiacente erano fin troppo forti, e almeno la obbligavano ad interrompere i suoi tristi pensieri. Angelica tentava di spiegare, e parlava talmente piano che non riusciva a capire tutto, ma era chiaro che stesse marcando il fatto che era stata la figlia a insistere tanto per una cosa del genere. Roteò gli occhi esasperata, e cercò di mettersi in piedi, ma le venne un capogiro, e proprio in quel momento la porta si aprì rivelando i due. Pablo era ancora rosso in faccia, e la guardava con una severità che le ricordava molto quella del padre, mentre Angelica si era fatta piccola piccola di fronte alle accuse del re, e stava in un angolino dell’uscio, accennando un sorriso nel vedere che si fosse ripresa.
“Se ci potessi lasciare da soli sarebbe l’ideale” disse Galindo con tono finalmente più pacato all’anziana donna, che con un cenno di assenso, ritornò alle sue mansioni di casa. Non appena la vide allontanarsi l’uomo chiuse la porta e si fiondò al lato del letto, osservando attentamente ogni particolare del suo viso.
“Vedo che ti sei ripresa” sentenziò con voce atona, storcendo la bocca, e evitando di guardarla negli occhi. Angie gli fece cenno di sedersi al suo fianco, e subito Pablo ubbidì, nonostante si sentisse notevolmente nervoso e anche un tantino arrabbiato. Strinse la sua mano, e la portò alla guancia, per poi chiudere gli occhi. Quanto le era mancata la sensazione della pelle del marito sulla sua. Tante notti si era sentita sola nel suo giaciglio gli occhi le si inumidivano, sentendo la mancanza del consorte, ma adesso che lo aveva di nuovo accanto il cuore le esplodeva in petto per la gioia. Non le importava che fosse offeso con lei, era pronta a prendersi una bella dose di rimproveri, ma se era lui a farglieli le andava bene.
“Mi sei mancato tanto…”. Pablo irrigidì la mascella a quelle parole. Solo al sentire quella voce così dolce, quelle parole tanto sentite, aveva voglia di lasciarsi tutto alle spalle e di baciarla con foga, ma un minimo di orgoglio lo aveva, e intendeva conservarlo.
“Si può sapere che ti è preso? Andare via, senza dire nulla a nessuno, lasciando una misera lettera!” esplose poi l’uomo, scostando la mano dalla guancia di Angie. Mai lo aveva visto così infuriato come in quel momento, e in effetti non gli si poteva dare torto. Non si era comportata affatto come una buona moglie, sebbene continuasse a credere di aver agito nel modo migliore possibile.
“Se te ne avessi parlato non mi avresti permesso di venire fin qui” rispose, tenendo alto lo sguardo fiero. Non si era mai sottomessa a nessuno, era uno spirito ribelle, e Pablo aveva imparato ad amarla anche per il suo essere scostante. Aveva intenzione di spiegargli i motivi che l’avevano spinta ad andare alla Palude, ma subito venne anticipata. “Vorrei anche vedere! Attraversare il Regno, da sola, senza scorta, per addentrarti in questa sorta di giungla…certo non ti avrei dato questa libertà! Non sai quanto sono stato preoccupato, non puoi nemmeno immaginarlo; ero fuori di me, e ho subito intuito che avessi deciso di tornare in quest’inferno”.
“Ma io dovevo tornare! Pablo, sono stanca di non poter fare nulla per i miei sudditi, sono stanca di rimanere chiusa in quelle quattro mura mentre le persone muoiono per difendermi. Sono stanca!”. Le lacrime iniziarono a scendere dapprima silenziose, poi accompagnate da alcuni singhiozzi. Pablo finalmente si decise a guardarla negli occhi, e un forte senso di compassione lo invase. Non poteva vedere la sua Angie disperarsi tanto, e sapeva che prima o poi la pressione a cui era stata sottoposta l’avrebbe fatta impazzire. Era il momento però di farle capire che la loro forza era la forza di tutto il Regno. “Credi che sia stato felice di mandare quei ragazzi allo sbaraglio, in una missione così pericolosa? Credi che non pianga nel vedere le famiglie distrutte da questa guerra? Non lo faccio davanti a nessuno, ma quando sono solo Angie, a volte arrivo a desiderare di morire”. La voce gli tremava, e il corpo era scosso dai brividi. “Ci penso ogni notte, ogni istante della mia vita…penso che mentre faccio colazione, mentre cammino, c’è gente che sta sacrificando la propria vita, per difendere un ideale. Ho voglia di abbandonare tutto e seguire queste persone, perché la penso come loro, ma so che i miei obblighi me lo impediscono. Essere re non significa solo comandare un esercito, assumersi le responsabilità delle glorie e delle sconfitte. Se non scendo in campo o non faccio nulla non è per vigliaccheria. So che non posso perché la gente ha bisogno di un riferimento, e se io perdessi la vita in azioni avventate si troverebbero priva di una guida. Gli equilibri in una guerra sono instabili, e noi sovrani siamo più importanti che mai per mantenerli”. Angie si chinò verso di lui, ricercando la sua espressione piena di dolore. Si stava liberando del peso che portava tutti i giorni, e si sentì una sciocca; l’aveva abbandonato, seguendo un istinto, mentre lui continuava a lottare per dare stabilità.
“Non riuscivo a rimanere a guardare. Non ce l’ho fatta”. Non valeva nulla, lo sapeva bene, ma aveva bisogno di essere sincera con Pablo.
“Nessuno può capirti meglio di me. Alcune notti penso di non farcela più, vorrei solo sparire dal mondo. Noi siamo un simbolo, Angie. Io e te. Siamo ciò che tiene unite terre tra loro lontane contro una minaccia comune”.
Noi siamo un simbolo. Tutto assunse un aspetto diverso. Un simbolo. Cosa significava essere un simbolo? Ma soprattutto, quali responsabilità comportava? Grazie a Pablo lo stava scoprendo, e non era certa che gli piacesse. Essere un simbolo significava a rinunciare ad alcune libertà, e lei odiava sentirsi costretta. Per una volta però non contava quello che voleva, semplicemente si era trovata ad essere qualcuno che non aveva scelto di essere, ed era pronta a sostenere Pablo come e più di prima.
“Ci sono io con te”. Pablo annuì e in pochi secondi si ritrovò ad essere cullato dalle sue braccia. Erano stesi l’uno accanto all’altro sul letto, e Angie gli accarezzava i capelli con dolcezza. Continuava a ripetergli che non l’avrebbe più lasciato da solo, che avrebbero affrontato tutto insieme. “Affronteremo tutto. Insieme”.
 
Federico si massaggiò il capo, ancora dolorante. Ci volle qualche secondo prima che riuscisse a rimettersi in piedi e con questa miracolosa azione arrivarono anche le imprecazioni. Era stato un vero e proprio ingenuo. Davvero credeva che Francesca sarebbe venuta con lui senza cercare di fuggire? Probabilmente ancora non si fidava di lui, e pensava che l’avrebbe portata nuovamente in prigione. Maledizione, borbottò tra i denti, cercando di ricordare che cosa era successo. Stava cercando di capire dove dovessero procedere, rimasto con la mente al gruppetto che cercava di raggiungere il Pentagono. Non aveva fatto in tempo a voltarsi verso la regina deposta per sapere se fosse pronta a proseguire a piedi quando sentì un colpo fortissimo in testa. L’ultima cosa che ricordava era il rumore di un bastone che cadeva a terra, prima di perdere i sensi. Doveva aspettarselo, probabilmente nemmeno lui si sarebbe fidato al suo posto. Finalmente riusciva a mettere a fuoco ciò che gli stava intorno, mentre si massaggiava le tempie e il bozzo che aveva sulla testa. Gli lacrimavano gli occhi per il dolore, ma non aveva tempo da perdere: doveva raggiungere Francesca prima che si cacciasse in quale guaio; il regno di Fiori non era affatto sicuro, pieno di bande di briganti e sicari. Provò a chiamarla più volte con la voce impastata mentre sbandava a destra e a sinistra, come un ubriaco.
Correva, correva finché ne aveva la forza. Più distanza riusciva a mettere tra lei e Federico, meglio era. Era stanca di tutti, stanca di essere una prigioniera. Mentre correva si sentiva libera, ed era una sensazione che non provava ormai da tanto tempo. Ogni tanto era costretta a fermarsi, perché tutti quegli anni di prigionia l’avevano resa debole fisicamente, ma appena ne aveva la possibilità ricominciava a correre. Acosta l’aveva ingannata più volte, ed era certa che l’avrebbe fatto di nuovo, per questo non appena l’aveva visto abbassare le difese aveva raccolto un bastone piuttosto massiccio e pesante, l’aveva colpito in testa senza attendere un secondo, ed era fuggita via. Non si era pentita affatto di quella scelta, anzi era sorpresa del coraggio che aveva mostrato. Si aggirava all’interno di un boschetto da parecchi minuti ormai, e aveva perso il sentiero principale. Avrebbe dovuto preoccuparsi, ma si sentiva stranamente tranquilla: se riusciva a stare lontana da Federico tutto sarebbe andato per il meglio, ne era sicura. Sentì un rumore di foglie secche pestate, e delle voci non troppo lontane, quindi si appiattì contro il tronco di un maestoso abete, rischiando di inciampare tra le sue radici.
“Non ho ancora sentito ringraziamenti per quello che ho fatto” sbottò un ragazzo, zuppo dalla testa ai piedi. In realtà, come ebbe modo di notare in seguito, tutto quel singolare gruppetto era fradicio. Quando si era allontanata dalla città aveva visto un’onda gigantesca comparire dal nulla e abbattersi su di essa. Lei e Federico l’avevano evitata di un pelo, ed erano rimasti per un po’ di tempo ad osservare l’acqua scrosciare per la vallata prima di mettersi in viaggio.
“Ringraziamenti? Ringraziamenti per aver rischiato di farmi morire spiaccicata contro i cancelli del Palazzo?” disse ironica una ragazza, dai capelli biondo cenere. 
“Avevo calcolato tutto nei minimi dettagli! Non è colpa mia se a Miss Voglio-morire-infilzata-dalle-guardie non è sembrata la soluzione migliore. Non avevo molto tempo per escogitare di meglio! E rompere le difese magiche di quel luogo è stato tutto tranne che uno scherzo!”. Difese magiche, magia…doveva trattarsi di un mago! Francesca si portò una mano alla bocca inorridita. Tutti i maghi erano sotto il servizio di Nata e lui non doveva fare eccezione. Ma allora perché erano in fuga se erano dalla parte della regina? L’unica spiegazione che le balenò in mente era che la stessero cercando per riportarla in cella.
“Comunque sia, non importa, abbiamo l’elmo!”. La voce era allegra, nonostante stanca. Strinse i pugni: no, non erano alla sua ricerca. Non appena ebbe sentito nominare l’elmo di Fiori, aveva allontanato quell’ipotesi. Doveva trattarsi di una banda di ladri. E grazie all’aiuto del mago avevano ben pensato di fare il colpo della vita.
“Ma voi come avete fatto a trovarci?” chiese quello stesso, rivolgendosi ad una giovane coppia; la ragazza aveva il braccio intorno alle spalle del compagno e saltellava, gemendo di tanto in tanto per il dolore.
“Non è stato difficile. Gli incantesimi si vedevano in lontananza…deve essere stata dura per Dj fronteggiare quella strega! Comunque sia il fuoco che ha scatenato è stato piuttosto utile per mettere fuori gioco quegli alberi dagli aghi mortali” spiegò brevemente quest’ultimo.
“Fuoco infernale…avrei dovuto pensarci io! Purtroppo però non so maneggiare bene quel tipo di incantesimo” esclamò sconsolato il mago.
“Maxi, perché non provi di nuovo quell’oggetto? Almeno per essere sicuri che funzioni ancora” si intromise la bionda.
“Mica è di cartapesta! Stiamo parlando di un potente oggetto magico, l’acqua non gli fa mica male” esclamò con tono sicuro il mago, beccandosi una gomitata in piena pancia, che lo fece piegare in due dal dolore. “Emma…era necessario?”.
“Per farti stare zitto questo ed altro”. Il gruppetto si fermò a pochi passi dall’albero che la nascondeva, e Francesca sperò fino all’ultimo che non la trovassero.
“Wow! Vedo tutto quello che succede. Tante informazioni, troppe…è un’esperienza incredibile”. Quello che avevano chiamato Maxi aveva indossato l’elmo della sua famiglia, e non riusciva ad accettarlo. Come osavano quei profanatori da quattro soldi mettere le mani su un oggetto così prezioso, e per lei tanto importante? Spinse la schiena sempre più contro il tronco, cercando di resistere alla tentazione di uscire allo scoperto, fino a farsi male. “C’è qualcuno!”. Quell’esclamazione la riscosse dai suoi propositi, ed iniziò a sudare freddo. “Dietro quell’albero!” esclamò Maxi, togliendosi subito dopo l’elmo, e indicando in quella che temeva essere la sua direzione. Francesca chiuse gli occhi, e rallentò il respiro. Non si riferiva a lei, non si riferiva a lei…più se lo ripeteva più le sembrava inverosimile; chi altro poteva essere nascosto dietro un albero nei paraggi? Le sue incertezze svanirono non appena si sentì afferrare il braccio, e venne strattonata fuori dal suo nascondiglio, rischiando di inciampare.
“E tu chi sei?” domandò uno dei ragazzi, quello con l’inquietante cicatrice lungo la guancia. Tentò di divincolarsi, ma la stretta di quel tipo era salda come l’acciaio.
“Lasciatemi stare! Non si tratta così una donna!” strillò, cercando di attirare la parte femminile della compagnia. La mora scosse le spalle, mentre la bionda aveva tirato fuori il pugnale e se lo passava tra le mani, completamente disinteressata a quella scena. Il ragazzo con l’elmo sotto braccio si avvicinò con aria confusa, e non appena la vide sbiancò di colpo. In tutta fretta abbassò il capo e abbozzò un inchino.
“Maxi, ma che stai facendo?”. La mora lo guardò stranita, mentre il mago aveva acuito lo sguardo e la fissava intensamente, con un mezzo sorriso.
“Che cosa state facendo voi! Lei è l’unica e legittima erede al Trono, la regina Francesca!” spiegò l’altro, senza alzare lo sguardo, e rimanendo inginocchiato, in attesa di un suo segnale per rialzarsi. Dj anche si fece avanti e affiancò Maxi, per poi fare uno svolazzante inchino.
Andres mollò di scatto la presa e la guardò evidentemente a disagio. “Ma come mai siete qui? Vi sapevamo intrappolata da Natalia nelle segrete del castello” domandò il mago, corrugando la fronte. Non si era sbagliato, quella era la regina Francesca in carne ed ossa, non si trattava di una semplice somiglianza.
“Sono stata liberata” rispose con un sussurro, evitando lo sguardo indagatore dei presenti.
“E chi ti ha salvato?”. Fu proprio Andres a rivolgere quella domanda. Ricordava che Federico avrebbe approfittato del trambusto causato dalla loro infiltrazione al castello per liberare una persona a lui cara.
“Nessuno. Sono fuggita da sola” ribatté evasiva Francesca. Il gruppetto si congedò per qualche secondo e si mise in cerchio, discutendo sul da farsi.
“Cha facciamo?” esordì Dj, bianco in volto per tutto lo sforzo che aveva fatto nel tentativo di recuperare l’elmo.
“E’ ovvio. La lasciamo qui. Sarebbe solo una palla al piede la principessina” ghignò Emma, rinfoderando il pugnale. Sembrava davvero certa che quella fosse l’unica soluzione possibile, ma Maxi e il mago si scambiarono uno scambio sconcertato.
“Non possiamo lasciarla qui! Lei è la nostra regina…quella autentica!” si difese quello, stringendo l’oggetto sotto braccio; ottenne subito un cenno di assenso del compagno che gli diede subito manforte. “Esatto! Io non ce la faccio a lasciarla qui. Almeno portiamola al sicuro!”.
“Per una volta sono d’accordo con Emma…non possiamo perdere tempo, abbiamo una missione” si intromise con forza Libi. Emma prima la guardò sorpresa, poi sorrise beffarda, contenta di aver ottenuto l’appoggio della rivale.
“Immagino che la decisione finale spetterà al capo” disse il mago, puntando quindi il suo sguardo su Andres, seguito poi da tutti gli altri. Prima che potesse rispondere un colpo di tosse li costrinse a voltarsi. Francesca si era avvicinata, fino ad essere a pochi passi da loro, e doveva aver ascoltato tutto.
“Non intendo in alcun modo intralciarvi. Vi chiedo solo di non abbandonarmi qui…se mi insegnerete a combattere potrei esservi di aiuto! Imparo molto velocemente. E…potrei esservi utile con la vostra missione! Insomma, so fare tantissime cose, anche se non si direbbe”. Francesca parlava a raffica, senza dare loro il tempo nemmeno di controbattere. “E so anche cucinare!” aggiunse con un sorriso.
“Beh, nessuno si lamenta mai della zuppa che preparo io!” esclamò Emma. Dj divenne verde, e Maxi imitò l’atto di vomitare. Libi stessa rivolse gli occhi al cielo con un’espressione disgustata, e Andres addirittura fece finta di non aver sentito. “Quindi mi state dicendo che non vi piace?!” proseguì adirata. “Quando nessuno ne chiede dell’altra due domande potresti fartele” si lasciò scappare Dj, venendo incenerito con un solo sguardo. Emma chiuse gli occhi, poi li riaprì di scatto e senza che potesse prevederlo diede nuovamente una gomitata sulla pancia al mago, che si piegò in due gemendo.
“Allora, posso venire con voi?” chiese speranzosa la regina.
“Potrebbe tornarci utile”
“Sarà una palla al piede”
Tutte quelle opinioni lo frastornavano e non sapeva a chi prestare ascolto. “D’accordo, d’accordo, può venire con noi” disse alla fine, ottenendo consenso da una parte e disapprovazione dall’altra. Francesca sorrise raggiante, e si mise al fianco di Emma provando a scambiare due chiacchiere, smorzate subito dalle risposte in monosillabi di quest’ultima, evidentemente scocciata da quella che riteneva essere solo una bambina viziata. “Vogliamo aggiungere qualcun altro a questa sorta di circo? Il mago da quattro soldi già lo abbiamo” proferì sospirando. Ovviamente Dj non prese molto bene quel non troppo velato insulto, e si sentì in dovere di rispondere, ma Maxi gli fece cenno di non dare il via all’ennesima litigata. Andres e Libi invece procedevano un po’ distaccati dal resto del gruppo, evitando di guardarsi negli occhi.
“Volevo ringraziarti per avermi salvato” cominciò la ragazza, trovando dopo qualche minuto il coraggio. Zoppicava al suo fianco, e ogni tanto si reggeva sulla spalla del compagno.
“Non c’è di che” rispose secco l’altro, senza molte cerimonie. Di nuovo silenzio. Si sentiva ancora molto a disagio, al ricordo della serata trascorsa insieme prima che la loro copertura saltasse. Com’era bella con quell’abito elegante, una vera dama! Scosse la testa cercando di non pensarci, ma più di provava meno ci riusciva. Gli sembrava di essere nel tentativo di spegnere un incendio con solo un cucchiaino d’acqua. “Nient’altro?” aggiunse con apparente freddezza. Libi si fermò e lo fissò sconcertata: un attimo prima gli salvava la vita, rischiando la sua per proteggerla, e l’attimo dopo faceva finta di nulla. Una volta le diceva che dovevano tornare buoni amici, e la volta dopo la trattava come un’estranea. Continuava a non capirci nulla, tutta quell’incertezza le dava sui nervi. Voleva che la situazione fosse chiara una volte per tutte, a costo di insistere e risultare noiosa.
“Beh…in realtà si. Volevo sapere come mai hai rischiato tanto per salvarmi. Un gesto tanto…”.
“L’avrei fatto per chiunque, non solo per te”. Colpita. Ma non aveva intenzione di demordere, non era il tipo.
“Non si tratta solo di questo”. Il silenzio calò nuovamente, stabilendo un nuovo scenario. Andres sembrava seriamente in difficoltà ed era chiaro che volesse evitare quella conversazione più di ogni altra cosa.
“Andres…penso sia venuto il momento di dirti la verità. Io…ecco, io…”.
Un urlo li fece sobbalzare, e quando accorsero videro Fran attaccata al braccio di Emma, mentre guardava un serpente che sibilava minaccioso, nascosto tra le foglie secche.
“E’ solo una biscia” cercò di tranquillizzarla Maxi, facendola solo scuotere il capo. Qualcuno accorse alle loro spalle fino a raggiungere il gruppo, che si voltò di scatto al sentire un rumore di passi, pronti a difendersi da eventuali attacchi, ma subito i volti tesi si rilassarono alla vista di Federico.
“Francesca!” disse lui, senza degnare gli altri di un solo sguardo, e fiondandosi dalla sua amata, che alla sola vista divenne rossa di rabbia. E di fronte alla rabbia di Francesca, anche il serpente più velenoso e temibile sarebbe fuggito, infastidito da quel frastuono.
“Tu stammi lontano, smettila di seguirmi!” strillò, mollando con uno strattone il braccio di Emma, e andando verso il conte Acosta per affrontarlo testa a testa.
“Ma io…”.
“Tu niente! Non credere che solo perché mi hai liberato allora mi fidi di te! Tutt’altro! Avrei dovuto colpirti più forte con quel bastone”. Andres rimase a bocca spalancata: addirittura aveva messo KO il conte per poter fuggire dalle sue grinfie? Si doveva essere perso molti passaggi, perché non ci stava capendo nulla. “Quindi vi conoscete?” se ne uscì, incontrando lo sguardo infuriato della regina, e quello rassegnato di Federico.
“Certo che lo conosco! Questo maledetto infame mi ha fatto rinchiudere nelle segrete!” ribatté la ragazza, guardandosi intorno in cerca di un’arma con cui difendersi. Non trovando nulla, sbuffò arrabbiata, e si mise a braccia conserte, come una bambina a cui era stato negato un gioco prezioso.
“Ti ho già spiegato che non avevo scelta…avevo bisogno che Nata si fidasse di me. Ma adesso sei libera!”.
“Libera di non averti tra i piedi” commentò rapidamente, guardando i suoi nuovi compagni in cerca di un appoggio. Senza che però se l’aspettasse tutti erano già intorno a Federico, a parlargli amichevolmente e a dargli pacche sulle spalle.
“Non mi dire che è questa ragazza dal carattere difficile che dovevi salvare!” scherzò Andres.
“Preferisco definirla vivace!” rispose l’altro con un sorriso a trentadue denti. Francesca cercò di sbracciarsi per ottenere la loro attenzione, ma sembrava essere diventata invisibile di fronte ad Acosta. Diede un calcio ad una pigna, sbuffando nuovamente.
“Hai visto che onda ha creato DJ?”.
“Ehi, era l’unico modo per fuggire”.
Tutti chiacchieravano spensierati, e Francesca si sentì nettamente fuori luogo. Soprattutto non poteva sopportare che i suoi ‘amici’ portassero rispetto per quel traditore maledetto. “Beh, ora che l’avete salutato possiamo andare?” li interruppe facendosi largo tra il gruppetto, e sfidando Federico con aria compiaciuta.
“Vuoi andare con loro?” le chiese sinceramente preoccupato.
“Certo”. Era proprio quello che voleva, dimostrargli che non dipendeva in alcun modo da lui, e che già era pronta a rendersi utile per qualche buona causa. O almeno sperava si trattasse di una buona causa, perché in effetti non sapeva nulla di quel gruppo.
“Scordatelo, non ti permetterò mai di correre tutti questi pericoli”. Si trovavano faccia a faccia ed entrambi emanavano scintille dallo sguardo.
“Non dicevi lo stesso mentre marcivo in una galera” sbottò Francesca, inarcando un sopracciglio. Sentiva la mano fremere dalla voglia di dargli un pugno in pieno viso, ma si trattenne solo perché si riteneva una persona civile.
“Era diverso! Comunque lì dentro eri al sicuro. Invece affrontare un viaggio di punto in bianco, correndo tutti i rischi annessi…puoi scordartelo. Adesso tu vieni con me e ti porto al Regno di Picche, o in qualche villaggio sicuro”. Federico era irremovibile: non le avrebbe permesso di commettere una sciocchezza. Quel gruppo era destinato a morire, lo sapeva bene. Solo per recuperare un pezzo dell’armatura dovevano aver rischiato di lasciarci le penne…
“Non ero al sicuro! Ero in trappola, che è ben diverso”.
“Per quanto avete intenzione di continuare a battibeccare? No, perché io avrei un certo languorino” osservò Emma, anche se era estremamente divertita da quel piccolo sipario che avevano messo su i due.
Federico le lanciò un’occhiata di fuoco, quindi tornò a fissare Francesca. Perché doveva essere sempre tutto così difficile? Perché non poteva fidarsi di lui e basta, invece di cercare di aggredirlo quando meno se l’aspettava?
“Non puoi decidere per me, quindi non ti resta che andartene” si sentì rispondere con tono acceso.
“Ho deciso. Vengo con voi”.
“COSA?!” esclamarono tutti in coro. “No, Andres, sta diventando davvero ridicola questa situazione” si lamentò Emma.
“Non posso lasciare Francesca da sola, devo proteggerla…E inoltre non saprei dove andare, visto che ormai al Palazzo sospetteranno di me” spiegò brevemente, mentre Francesca lo guardava inorridita. Aveva fatto di tutto per non dover stare vicino ad Acosta, e il pensiero di un lungo viaggio in sua compagnia le dava il disgusto. Ma tanto i suoi compagni non avrebbe mai accettato una cosa del genere, e già si pregustava il secco no di quello che aveva sospettato essere il leader.
“D’accordo” disse Andres, alzando le spalle. “No, non puoi farlo!” urlò subito lei, agitando le braccia. “Mi dispiace, ma gli devo parecchi favori…e questo è il minimo che posso fare. Ma appena uno di voi due ci intralcia, potete considerarvi entrambi fuori” ribatté l’altro con fermezza, facendoli annuire.
“Non preoccuparti. Vedrò di starti lontano” la rassicurò Federico, con un sorrisetto vittorioso.
“Sarà meglio per te” sibilò la regina, cominciando a camminare in testa al gruppo per uscire dal bosco. A quanto pare quella bastonata aveva fatto impazzire il conte Acosta se era sicura che lei l’avrebbe mai perdonato. “Vivesse nella sua illusione” concluse tra sé e sé, mentre gli altri la intimavano di rallentare.
Il terreno degradava dolcemente, fino a quando non si trovarono sulla sporgenza di un bassopiano. Ai loro piedi c’era una piccola discesa a strapiombo rocciosa, e lì erano state scavate alcune nicchie. Venivano infatti usate dai pastori per passare la nottata quando portavano il gregge a pascolare per più di un giorno. Tutti concordarono nel fermarsi per mangiare e riposare in uno di quei rifugi, e ognuno si prese il suo posto. Federico era rimasto in silenzio durante tutto il tragitto nonostante i tentativi di Maxi e Dj di scherzare un po’. Una volta sistematisi, Andres raccontò a Francesca lo scopo della loro missione, e ogni singolo dettaglio. Poiché si era unita spontaneamente a loro, e potendosi fidare ciecamente della regina, grazie anche alle assicurazioni di Federico, riteneva giusto metterla al corrente dei loro piani.
“Quindi stiamo andando a Cuori in questo preciso istante?” chiese la ragazza, ingenuamente, ringraziando con un cenno Maxi che le passava una ciotola con la coscia succulenta di un coniglio che erano riusciti a cacciare durante il giorno.
Andres era seduto su un masso appena fuori dal rifugio, ed era intento a spiegare ai due il viaggio a cui si sarebbero dovuti preparare. Aveva tracciato sul terreno con un esile fuscello una mappa abbozzata del Paese delle Meraviglie marcando con delle linee ondulate il percorso che aveva progettato.
“Una volta raggiunto il castello di Cuori, tenteremo di recuperare la spada magica, uno dei quattro artefatti, e ci dirigeremo a Quadri”. Al solo sentire nominare quella parola Francesca rabbrividì. “Il Regno di Ludmilla Ferro” mormorò appena. Andres la guardò interrogativo, e lei si fece coraggio.
“La conosco poco, ma circolano voci poco piacevoli sul suo conto. Insieme a me è forse la più giovane regina salita al trono da cento anni a questa parte. Un’abile preparatrice di pozioni dicono. D’altronde i suoi antenati eccellevano in quell’arte, e pare che nella biblioteca del castello vi siano alcuni incantesimi sconosciuti persino ai maghi più saggi di Fiori. Non mi stupirei se avesse protetto lo scudo con qualcuno dei suoi trucchi. Dicono anche che abbia avvelenato i genitori per diventare regina”. Dj si era avvicinato e subito si fece pensieroso: altre trappole magiche, ma qualcosa gli diceva che stavolta le sue conoscenze e i suoi poteri sarebbero stati ben poco utili. Maxi invece si rigirava l’antico elmo tra le mani. Due piccole ali di bronzo erano incise ai lati, una delle quali  recava la scritta ‘sapientia’.
“Attento ad usarlo” gli fece il mago, facendolo riscuotere di colpo. “E’ molto potente, ma anche difficile da usare, come avrai notato”.
“Quando lo indosso…vedo tutto. E’ una sensazione stranissima, è come avere un paio di occhi ovunque”. Era perplesso e si vedeva bene. Un’idea gli frullava in mente da un po’, ma non sapeva se avrebbe davvero funzionato.
“Usalo con moderazione, mi raccomando”. Dj fece un occhiolino, e dopo aver sbadigliato profondamente si avvicinò al suo giaciglio, vicino a Libi.
Quando tutti chiusero occhio, Maxi faceva avanti e indietro, essendosi proposto per il primo turno di guardia. Non avrebbe dovuto farlo, ma la tentazione era fortissima. Il fumo del fuoco spento gli stuzzicava le narici, ricordandogli la cena di quella sera. Più sentiva il terreno scricchiolare sotto i suoi piedi, più arrivava ad una conclusione: era un’occasione unica e non poteva farsela sfuggire. Non aveva mai provato a concentrare la sua attenzione su un luogo che non fosse vicino a lui, ma sentiva di dover tentare. Afferrò l’elmo, chiuse gli occhi e lo indossò.
Immagini di ogni tipo, uomini in locande, eserciti che si muovevano. Tutto scorreva confuso davanti ai suoi occhi.
Voglio trovare solo quella persona.
Faceva fatica a ricordarne il nome, eppure l’aveva sognata così tante volte. Quella ragazza bellissima, da sogno, era realmente esistente? Se si trovava in quel Paese l’elmo avrebbe dovuto trovarla. Violetta. Si, si chiamava Violetta. Il nome risuonava chiaro nella sua testa, e concentrò la sua attenzione su ogni singola lettera, sui vaghi ricordi che aveva della ragazza. Quando riaprì gli occhi si ritrovò in una stanza buia. Si guardò le mani e vide che esse sparivano nell’oscurità, così come il suo corpo. Era una sua proiezione, che l’elmo stesso aveva costruito per esaudire il suo desiderio. Il silenzio era rotto unicamente dai singhiozzi del pianto. Stesa sul letto, una figura minuta emetteva quei suoni strozzati, e Maxi si avvicinò cauto. Illuminato dalla luce della luna, il viso di Violetta sembrava essere stato adornato di perle, talmente tanto risplendevano le sue lacrime. Continuava a fissare il letto di fronte al suo, dove dormiva un’altra persona, con aria affranta, e piangeva sempre più forte. Maxi avvertì una stretta al cuore, e nonostante ciò, non poté non rimanere incantato dalla sua bellezza, dal suo essere indifeso. Si sedette ai piedi del letto, e continuò a guardarla. Avrebbe tanto voluto far sparire quelle lacrime, non sapeva perché, ma lo desiderava e basta. Chi la stava facendo soffrire così? Lui non l’avrebbe mai permesso, l’avrebbe protetta sempre e comunque.
“Non piangere” le sussurrò, ben sapendo che sarebbe stato tutto inutile. Lui non era in quella stanza, non materialmente almeno, era la magia dell’elmo che gli permetteva di stare al suo fianco. “Non piangere” ripeté con dolcezza, scandendo bene le parole. Sfiorò la guancia della ragazza con il dorso della mano, e tutto venne risucchiato nel nulla. Di nuovo si ritrovò in un universo di immagini che stavolta scorrevano talmente violentemente, infiltrandosi nella sua testa, da farlo impazzire.
Si sfilò l’elmo velocemente, e per poco non perse l’equilibrio. La testa gli faceva ancora male: voci, azioni, luoghi. Tutto talmente impresso e fumoso allo stesso tempo che non riusciva quasi a mettere a fuoco il luogo in cui si trovava. Si lasciò cadere a terra, respirando affannosamente. Ecco cosa si provava ad usare l’elmo per troppo tempo. Aveva perso la concentrazione e la magia dell’oggetto aveva preso il sopravvento. Doveva smettere di usarlo, non poteva più vedere Violetta o avrebbe potuto rischiare grosso, anche con la vita. Ripensò alla ragazza, che piangeva, e alla stretta al cuore che gli aveva provocato. Ripensò al calore che gli aveva donato solo guardandola. No. Non poteva rinunciarci. Doveva imparare a controllare quell’elmo. Aveva bisogno di quella visione, di quella ragazza. Non sapeva perché, ma ne aveva bisogno.
 
Un piccolo accampamento al confine tra Cuori e Fiori era illuminato solo da alcune sparute torce, che usavano le guardie per vegliare nei dintorni. Un uomo a cavallo raggiunse il limite dell’accampamento. Rivolse due parole alle guardie, e scese da cavallo, porgendo le redini ad una di esse. Mentre camminava velocemente per raggiungere la tenda posta al centro, sudava freddo. Ludmilla non l’avrebbe presa bene, affatto. Si sfilò i guanti bianchi con cura, e li allacciò alla cintura, in modo tale da essere pronto per ottenere l’udienza senza troppi indugi. Difatti non si fermò nemmeno di fronte alla guardia reale, mostrando solamente un lasciapassare. Non appena fu dentro quasi fu stordito dal profumo intenso ed inebriante di incenso che dominava l’aria. Su un piccolo baldacchino soffice, Ludmilla era leggiadramente distesa e lo guardava indulgente.
“Che splendide notizie mi porti, mio fedele consigliere?” domandò con voce acuta, ma profonda e sensuale allo stesso tempo.
“Ci sono dei piccoli problemi…niente che non si possa risolvere”. Quella risposta non piacque affatto alla Ferro, che storse il naso infastidita. Nonostante ciò non si spense il sorriso sulle sue labbra, anzi si accentuò, provocatorio. “Di quali problemi parli?”.
“L’elmo…non c’è più”. Il sorriso le morì all’istante e fu presto sostituito dall’ira. “Quella sciocca regina! Lo sapevo che mi avrebbe giocato un brutto scherzo, ma questa volta me la paga!”.
“A meno che non abbia inscenato un furto e non abbia deciso di distruggere la sua reggia non credo che sia stata lei. L’elmo è stato rubato. Da un gruppo di sconosciuti che si è introdotto a tradimento nel palazzo a sentire le guardie”. Ludmilla strinse le labbra che divennero sottilissime, e cercò di non esplodere. Non poteva rinunciare a quell’oggetto, non poteva! Il suo piano aveva subito un ulteriore rallentamento, come se già non avesse fin troppe difficoltà. Il consigliere intuì le sue paure, quindi le sorrise rassicurante, e si inchinò ai suoi piedi. Le prese la mano con dolcezza, e gli depose un rapido bacio, tutto questo senza interrompere il contatto visivo. Ludmilla arrossì compiaciuta, e si tranquillizzò dopo qualche secondo. “Come farei senza di te…sei unico” sussurrò lei, ritirando la mano con uno scatto, e giochicchiando con la cinta dorata che teneva la sua veste bianca leggera.
“Troverò il modo di riprenderlo. Fidati di me. Piuttosto dovremmo pensare al viaggio per andare a trovare il tuo futuro sposo. Non mancano che pochi giorni”. La donna sbuffò quindi rivolse uno sguardo al cielo, scocciata. “Non me ne può importare di meno di quel principe da quattro soldi, mi serve solo per mettere le mani su quella spada! E lo sai bene questo”.
“Lo so, ma almeno fingiti contenta di queste nozze di fronte a tutti” ghignò il consigliere.
“Ovvio, sarò solare e pronta ad indossare l’abito bianco”. Il ragazzo si alzò, e con un breve inchino si congedò.
“Buonanotte, mia regina” le disse prima di uscire. Ludmilla chiuse gli occhi e gli lanciò un bacio con la mano.
“Buonanotte, Diego”. 







NOTA AUTORE: Chiedo scusa per l'enorme ritardo con cui aggiorno ma mercoledì ho avuto un impegno, chiamasi anche esame, e non ho avuto proprio tempo...fatto sta che non sono per niente soddisfatto del capitolo dal punto di vista stilistico (per me è un grandissimo NO), ma siccome sono in ritardo non ho avuto il tempo materiale di mettermi a rivederlo e assestarlo come si deve (che poi non è detto che ci sare riuscito, quindi-). Comunque sia, Pablo e Angie si riappacificano (<3), e si scopre un po' di più il personaggio di Galindo, un personaggio di fondo molto fragile, che però si mostra forte per il bene comune. 
Nel frattempo volano scintille per i Fedencesca, che si uniscono al gruppo *^* Ahahahaa, e poi volevo sapere quanti di voi stanno shippando EmmaxDj in questa storia, perché a me fanno seriamente morire, non lo so, ce li vedo troppo (soprattutto Dj :P). Nel frattempo Maxi usa l'elmo per entrare in 'contatto' con Violetta, e sembra che se ne sia innamorato a prima vista (e qui parte la rivolta di tutti i Leonetta xD)...per di più nel finale scopriamo perchè Ludmilla vuole sposare Leon...vuole la spada :/ E viene a galla anche un nuovo personaggio, che qui vediamo solo di sfuggita...si tratta proprio del nostro Diego *^* E...non vi anticipo che cosa combinerà questo personaggio, lo scoprirete da voi :P Come vi sempre vi ringrazio per l'enorme appoggio che mi date sempre, e niente...alla prossima! :P
syontai :D 

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Capitolo 41
*** Lezioni di umiltà ***






Capitolo 41

Lezioni di umiltà

Pensava di aver versato tutte le lacrime del mondo, e invece scopriva di averne sempre di nuove. Non riusciva a smettere, e non sapeva se le facesse più paura il fatto che da un momento all’altro Lena avrebbe potuto parlare, allontanandola irrimediabilmente da Leon, o che Jade avrebbe potuto punirla severamente, anche condannandola a morte. Ma forse quell’ipotesi era un po’ troppo esagerata. I singhiozzi sembrarono non scuotere minimamente Lena, voltata dall’altra parte, mentre fingeva di dormire profondamente. Con la mente riattraversava la discussione avuta con la compagna di stanza: in effetti forse era stata un po’ troppo dura, ma era ancora decisa a raccontare tutto alla regina. Doveva implorarla di tenere lontano il principe da Violetta, non poteva permettere che la ferisse con la sua cattiveria. Nonostante la sua determinazione, ancora alcuni fatti, alcune sensazioni non le erano chiare, e anzi la confondevano. Leon era sembrato diverso quella sera, addirittura pareva sinceramente affezionato a Violetta. Ma ovviamente faceva parte della parte che stava interpretando per conquistare l’innocente Violetta. Si, pensava ancora che l’amica fosse innocente, e che fosse stata raggirata in pieno. Eppure l’aveva avvertita di stare lontana da Vargas! Chiuse gli occhi, ma la sua mente in compenso lavorava in continuazione, e i pensieri ronzavano instancabili. Doveva trovare il momento giusto per parlare con la regina…il giorno dopo? Forse era troppo presto. Inoltre sperava ardentemente che Violetta, intimidita dalla sua minaccia, ponesse fine di sua volontà a quella relazione maledetta e pericolosa.
Leon quella notte non aveva dormito affatto. Era stato fatto chiamare per parlare con sua madre, ma la sua attenzione era altrove. Riusciva a portare guai a tutti, anche alle persone a cui teneva di più. Per colpa sua adesso Violetta era in pericolo, tutto per il suo egoismo. Credeva di poter essere felice, ma la sua felicità comportava l’infelicità della persona che amava. E allora a che serviva? L’avrebbe protetta contro tutto e tutti, ma non si era mai opposto a qualche decisione di Jade, e il solo pensiero lo terrorizzava. Se l’avesse nuovamente rinchiuso in quella maledetta cella? Non voleva tornare a sopportare quei tormenti, non avrebbe potuto reggere un solo secondo. Si rivolse a Thomas e chiese il motivo di quella chiamata, ma in tutta risposta l’altro scrollò le spalle, continuando ad osservare l’orologio a cipolla. Le lancette si muovevano inesorabili e anche a causa dei numerosi tic del ragazzo anche Leon si sentiva nervoso. Non appena le porte si aprirono si trovò al cospetto della madre, comodamente seduta sul trono. Due paggi erano ai suoi lati, e le facevano aria sventolando voluminosi ventagli colorati. Uno di loro si passò una mano sulla fronte sudata per la fatica, ma non appena la regina lo guardò infastidita, poiché aveva diminuito il ritmo, tornò ad agitare le braccia il più velocemente possibile per eguagliare il compagno di sventure. Jade puntò la sua attenzione sulle porte che si erano aperte e sorrise nel vedere Leon.
“Figlio caro! Attendevo con ansia il momento in cui parlarti, e finalmente è arrivato”. Quel tono mellifluo fece rabbrividire il giovane Vargas, che ricambiò il sorriso forzatamente. Un rapido inchino e i due tornarono a guardarsi con intensità, mentre Thomas saltellava fino al suo piccolo scrittoio in fondo alla sala; si mise seduto e cominciò a scribacchiare qualcosa con aria assorta. Leon sperava con tutto il cuore che Lena non avesse ancora parlato della sua relazione con Violetta. Era ancora mattina, e, a meno che appena sveglia non fosse corsa dalla regina a informarla dell’accaduto, quell’incontro non doveva avere nulla a che fare con Violetta.
“Ti volevo informare dell’arrivo imminente della tua futura sposa, Ludmilla Ferro”. Leon per poco non si strozzò con la sua stessa saliva, e divenne di un colore violaceo, nel tentativo di nascondere tutto il suo disappunto e rammarico per quella notizia. 
“Credete ancora che quel matrimonio sia necessario? Non abbiamo bisogno di alleati, possiamo benissimo fare a meno del suo esercito e cavarcela da soli” si affrettò a rispondere il ragazzo, agitando le braccia, mentre cercava di convincere la madre delle sue intenzioni. Ad un gesto stizzito di Jade i due paggi smisero di sventolare e si affrettarono a mettersi in disparte, mentre lei stessa si alzò, piegando gli angoli della bocca in un sorriso distorto.
“Mio caro Leon! Mio impetuoso e istintivo principe! L’aiuto che ci può fornire quadri non è affatto di poco conto, e tu stesso dovresti saperlo bene, avendo passato tanto tempo sul fronte”. I suoi occhi divennero due fessure, mentre alle spalle di Leon vide entrare Jackie. Ma non era lei a metterle sgomento, quanto il fatto che dietro la sua domestica le prime ombre già irrompevano nella stanza. Cercò di ignorarle, ma i suoi nervi stavano per esplodere, e sentiva che presto sarebbe diventata pazza.
“Sai bene quanto odi queste cose…un matrimonio! Sarà una costrizione, e io non voglio rinunciare alle mie libertà…” disse vago. Il tono acceso lo tradiva, ma sperava che la madre non sospettasse nulla del suo cambiamento, o avrebbe pensato che l’addestramento non sarebbe stato sufficiente, e l’avrebbe condannato ad atrocità ancora peggiori di quelle della sua infanzia. 
“Ma Ludmilla la pensa esattamente come te! Tu sarai libero di fare quello che vorrai, così come sarà libera lei…sarà solo un'unione formale. Potrai avere anche tutte le amanti di cui sentirai il bisogno, anche se credo non ne avrai bisogno” ridacchiò maliziosa la madre, avvicinandosi al figlio, e ammiccando. Leon per poco non sobbalzò e abbassò lo sguardo pensieroso. Come fargli capire che non era sufficiente? Lui non voleva sposare Ludmilla, perché le sue intenzioni erano altre. Era da quella sera trascorsa nelle cucine, prima che Lena li interrompesse che ci pensava. Tutta la notte si era beato di quell’idea, e non riusciva più a rinunciarvi, tanto desiderava diventasse concreta. Si, voleva un matrimonio; ma non con Ludmilla. Aveva intenzione di chiedere la mano di Violetta, sperando ovviamente che accettasse. Dall’esterno chiunque l’avrebbe considerata un’avventatezza bella e buona, ma non gli importava. Era sicuro che anche tra vent’anni l’unica persona con cui avrebbe voluto trascorrere ogni istante della sua vita sarebbe stata lei, e quindi perché aspettare?
“Leon…tutto bene?” chiese la donna, dopo qualche minuto di silenzio. Leon annuì col capo, ma non ci volle molto per capire che nascondeva qualcosa. E purtroppo temeva di sapere di che cosa si trattasse. Aveva sottovalutato quella serva e adesso le stava portando via la sua arma. Ma non avrebbe permesso che quel gioco continuasse oltre.
“Si, ero solo sovrappensiero”
“Non è da te, Leon. C’è qualcosa di cui vuoi parlarmi?”. Il principe scosse la testa. “Niente. Stavo solo pensando a cosa organizzare per quando Ludmilla sarà al castello” mentì senza guardarla negli occhi.
“Ottima idea, figliolo, devi darle l’impressione che tieni a quel matrimonio almeno quanto lei”. Gli fece un gesto per dirgli che era stato congedato. Proprio mentre Leon stava per uscire però esclamò alle sue spalle: “Ti consiglio di non affezionarti troppo alla servitù…per il tuo bene”. Quelle parole furono per il ragazzo come una doccia gelida. L’aveva capito. O almeno sospettava qualcosa. Doveva parlarne con Violetta, non poteva tenerla all’oscuro di quel pericolo.
Scese velocemente i gradini della scalinata e vide Violetta inginocchiata in un angolo del salone centrale, mentre puliva parte del pavimento, con gli occhi gonfi di lacrime. Leon notò con piacere che la fortuna era dalla sua parte, perché stranamente in quel preciso istante l’ambiente era completamente vuoto a parte loro due. Spiccò una rapida corsa, e si diresse sicuro verso la sua amata, che, non appena lo vide, mollò lo straccio per pulire e gli corse incontro, per poi abbracciarlo con forza. Il cuore le chiedeva di non lasciarlo andare mai più, e quando sentì Leon ricambiare con pari intensità si lasciò andare a un sospiro liberatorio.
“Ti amo” gli disse velocemente, stampandogli un bacio sulle labbra. Leon la strinse ancora più a sé, quindi riprese a baciarla con sempre più passione, riversando in quel gesto tutto quello che non aveva il coraggio di dirgli. Non si era mai sentito vigliacco come in quel momento: avrebbe voluto chiederle la mano, ma aveva paura di essere respinto, o di essere considerato un pazzo. “Anche io” sussurrò riprendendo fiato, per poi rivolgerle uno sguardo complice.
“Andiamocene da questo posto. Voglio stare da solo con te”. Violetta rise, e scosse la testa. “Non posso, come vedi ho da fare” esclamò indicando il secchio pieno di acqua saponata e lo straccio.
“Solo per pochi minuti” la supplicò, mettendosi quasi in ginocchio. La ragazza dapprima rifiutò, ma di fronte ai continui tentativi di convincerla, fu costretta a cedere. Attenti a non farsi vedere da nessuno si diressero nel loro ritrovo, la torre dove si trovavano tutti i ricordi di Leon. Non appena entrati, Leon le fece cenno di seguirla, si sedette sul pavimento di pietra, con la schiena poggiata sul muro, e fece sedere la ragazza sulle sue gambe. Senza dire una parola iniziarono a baciarsi con dolcezza; ma più il tempo passava più si sentivano inclini a quella passione che li stava divorando. Tutto il tempo che non avevano potuto trascorrere insieme veniva consumato in quei baci dati di sfuggita, lontano dai giudizi degli altri. Potevano avere contro Lena, potevano rischiare l’ira di Jade, ma non riuscivano comunque a stare lontani l’uno dall’altro. Leon le cinse la vita con le braccia, e sentì il corpo rabbrividire. Erano così vicini, e si sentiva libero quando stava con lei. Eppure dovevano comportarsi come due che commettevano un qualche grave misfatto.
“Non sono sicura di poter rinunciare a tutto questo” sussurrò Violetta con gli occhi ancora chiusi, a un palmo dal viso del principe, che non smetteva di sorridere. Le diede un dolce bacio, e la fece accoccolare sul suo petto, mentre le accarezzava i capelli.
“Noi non dovremo rinunciare a un bel niente” le disse con tono fermo.
“Leon, ma Lena…”
“A Lena ci penserò io”. Violetta si scostò spaventata. “Tu cosa? Non voglio che le faccia del male, non se lo merita…è sempre stata un’amica leale”. In tutta risposta Vargas scoppiò in una risata fredda e inespressiva: “Leale?! Violetta, vuole dividerci, e io non lo posso permettere! Non voglio permetterlo”. Sentiva l’ira scorrergli nelle vene, e i suoi sensi si affinarono come quelli di una belva pronta ad attaccare. Se in quel momento non avesse ancora stretto il corpo fragile di Violetta, probabilmente sarebbe scattato in piedi e si sarebbe diretto da quella serva per costringerla a tacere, con le buone o con le cattive. Ma come sempre Violetta aveva il potere di spegnere la sua rabbia, solo sfiorando il suo viso con una carezza. La sua volontà si annullava all’istante, e ogni azione dipendeva dalle sue parole. Se gli avesse chiesto di uccidere l’avrebbe fatto senza timore. E non ubbidiva per paura o perché la sua persona era stata annullata, lui voleva farlo solo per renderla felice. Talmente forte era il sentimento che provava nei confronti di quella ragazza da credere che non fosse mai abbastanza quello che faceva per lei e da sentire il bisogno di dimostrarlo continuamente, perché ne fosse convinta anche Violetta. Non sapeva però che l’intensità del suo amore forse era addirittura minore di quella che avvertiva Violetta al suo fianco.
“E’ solo confusa, sono sicura che non dirà tutto a Jade senza averne prima parlato un’altra volta con me. Ti prego solo di non farle del male”. Leon sbuffò, ma il solletico che gli procurava la punta del naso di Violetta che si sfregava dolcemente contro il suo, fece svanire subito la sua espressione scocciata.
“Niente intimidazioni o minacce” sussurrò lasciandogli un leggero bacio sulle labbra, rendendole appena umide. Quella sensazione a Leon piaceva fin troppo; sentire il suo sapore, ma non fino in fondo, come qualcosa che aleggiava nell’aria, lo rendeva irrequieto e allo stesso tempo felice.
“Perché no? Non voglio che mi strappi via qualcosa a cui tengo. La cosa a cui tengo di più” sibilò Leon, ricordandosi della pericolosa situazione a cui erano sottoposti, e lasciando che si risvegliasse quel fastidioso mostro alla base del petto. Respirò profondamente, e ad ogni secondo che passava la belva veniva lentamente relegata in fondo, nel suo inconscio, anche se lottava strenuamente per rimanere a galla.
“Non sembri lo stesso Leon che ho conosciuto”
“Perché non lo sono più”.
Rimasero in silenzio a specchiarsi ciascuno negli occhi dell’altro, e forse l’avrebbero fatto per il resto della loro vita, se il tempo non picchiettasse continuamente alle loro spalle, ricordandogli che al di fuori di quella stanza il mondo andava avanti, e che lo stesso dovevano fare loro. Andare avanti, lottare con le unghie e con i denti.
“Amo questo Leon…anzi, amo Leon e basta” rise lei, rialzandosi, e dandosi delle energiche pacche lungo la gonna grigia con lo sguardo basso. A volte si sentiva ancora in imbarazzo a manifestare così i suoi sentimenti, soprattutto quando si trattava di Leon, le cui reazioni erano sempre inaspettate. Vargas sorrise come un bambino a quella rivelazione, e distolse lo sguardo da lei, fin troppo incerto su cosa dire. Tanto valeva però cominciare con le brutte notizie.
“Mia madre mi ha dato la notizia: tra pochi giorni Ludmilla sarà qui, al castello. Mi dispiace, io…speravo di poter impedire il matrimonio prima ancora che succedesse”. Il viso di Violetta si fece cupo, mentre si dirigeva verso la porta.
“Violetta, aspetta!”. Prima che potesse uscire le corse incontro e la abbracciò da dietro, affondando il viso tra i suoi capelli. Mille parole volavano in silenzio tra i due, senza che nessuno aprisse bocca. Non ve be era alcune bisogno: la connessione che avevano parlava al posto loro. “Qualunque cosa succeda…” le sussurrò all’orecchio, chiudendo gli occhi. Violetta ebbe un fremito, e sentì il respiro accelerare di colpo, intenzionato a mantenere il passo con i battiti frenetici del suo cuore. “Qualunque cosa ti dicano…Fidati solo di me”. Era ciò che voleva fare, fidarsi di Leon, e di nessun altro. Ma aveva paura della piega che avrebbero potuto prendere gli eventi, e più passava il tempo più temeva per loro. Violetta si voltò di scatto, e specchiandosi negli occhi del principe, gli stampò un bacio sulle labbra, per poi separarsi subito dopo con un sorriso dolce.
“Te lo prometto…non lascerò che nulla di ciò che dicono possa separarci. E’ successo troppe volte”. Vargas annuì e il suo viso finalmente si fece rilassato. Lentamente il corpo di Violetta si allontanò dal suo, fino a quando l’unico contatto non fu quello tra le loro dita ancora intrecciate. Perché doveva lasciarla andare? Perché non poteva tenerla accanto a sé? Era un pensiero egoista, lo sapeva bene, ma non riusciva a tollerare il fatto che non potesse averla solo per sé. Il mignolo di Violetta sfiorava ancora il suo palmo, per poi separarsi del tutto, e si sentì improvvisamente solo. Solo con i suoi pensieri. Con le sue intenzioni. Si, aveva preso la sua decisione. Avrebbe parlato con Lena, e l’avrebbe convinta ad appoggiare il loro amore. Non poteva permettere che rovinasse l’unica cosa bella che fosse capitata nella sua vita.
 
Erano passati due giorni, e i preparati per l’arrivo di Ludmilla era in pieno fermento. Forse era per questo che a causa del continuo via vai di gente per le scale e i corridoi Leon ancora non era riuscito a parlare con la serva. Incredibile come alcune persone avevano lo speciale talento nel non farsi trovare, e la rara capacità di comparire nel momento meno adatto. Per poco non rischiò anche di andare addosso ad un donnone parecchio in carne alle prese con una cesta piena di biancheria, mentre si aggirava come un segugio. Parecchie volte veniva richiamato da Jade per qualcosa da definire, ma lui si limitava a presenziare a quegli accorgimenti con aria assente. Aveva ben altro a cui pensare rispetto alla disposizione delle stanze per la regina di Quadri e la sua corte. Thomas invece correva da una parte all’altra con liste che toccavano il terreno e per poco non lo facevano inciampare: liste degli acquisti per le cucine, liste dei vestiti da far confezionare, liste delle cose ricordare, addirittura gli era stata affidata una lista in cui erano menzionate tutte le liste perché non gliene sfuggisse nessuna. Se c’era chi per poco non rischiava l’esaurimento nervoso, dall’altra parte Humpty sembrava più rilassato e tranquillo che mai. La notizia dell’arrivo della regina Ferro non l’aveva toccato per niente, e si aggirava con un sorriso sornione che andava da una parte all’altra della faccia rotondeggiante. A chi gli chiedeva il motivo di tanta gioia rispondeva in modo vago, senza lasciar trapelare nulla. Violetta gli aveva riferito dei propositi di Lena, e lui l’aveva subito rassicurata, dicendole che conosceva molto bene Lena e che mai avrebbe preso una decisione tanto avventata senza pensarci e ripensarci. Per quanto forte e decisa quella ragazza rimaneva comunque molto legata alle persone a cui si affezionava; non avrebbe voluto vederle rovinate e infelici, per quanto giuste ritenesse le sue intenzioni. In ogni caso aveva bisogno di scambiare due parole con Lena, e cercare di farla desistere prima che potesse concretamente prendere in considerazione la sua idea. Quindi nel castello ben due persone erano interessante alla figura apparentemente insignificante di Lena, nelle cui mani era però concentrato il potere di decidere di ben due vite, e della loro relativa sicurezza.
Humpty non si sorprese comunque più di tanto quando aprendo le porte della biblioteca si ritrovò di fronte una Lena in lacrime, scossa dai singulti. Le mani tremavano e stringevano quello che un tempo doveva essere un fazzoletto bianco, ma che adesso aveva assunto una tonalità giallognola. Era evidentemente scossa e l’uomo-uovo sapeva di essere come un padre per lei, il padre che aveva perso quando era troppo piccola.
“Humpty, io non posso farcela a tenermi tutto dentro. E’ successa una cosa orribile!” esclamò, soffiandosi poi vigorosamente il naso colante, mentre continuava a piangere a dirotto. Humpty le accarezzò una spalla comprensivo, e la fece sedere su uno dei panchetti adibiti alla lettura, vicino agli enormi finestroni di vetro. Lasciò che Lena si sfogasse ancora un altro po’, e poi sospirò intensamente; la ragazza, poggiata sulla sua spalla, aveva finalmente ripreso a respirare regolarmente, e fu pronto a iniziare la sua opera di convincimento.
“Non puoi capire di che si tratta! E’ talmente assurdo che nemmeno mi crederesti” iniziò a parlare Lena, fissando il panorama fuori, ingiallito dal sole pomeridiano. La panca scricchiolò appena al dondolare di Humpty avanti e indietro, mentre cercava le parole adatte per dirle che lui sapeva già tutto, e che non era necessario che temesse di non essere creduta.
“Beh, potresti dirmi intanto di chi si tratta” la incoraggiò, continuando a mantenersi vago. “Violetta, e…Leon!” esclamò Lena, lasciandosi andare ad un altro pianto disperato. Humpty attese pazientemente che si riprendesse di nuovo, quindi cominciò a fissare il soffitto con finto interesse: “E cosa mai avranno fatto due giovani di tanto grave da lasciarti così sconvolta? Li hai visti forse litigare?”.
“Magari, Humpty! Almeno sarei sicura che non c’è alcun interesse da parte del principe per la mia amica! E invece no…ho visto ben di peggio” sussurrò appena la ragazza. Si guardò in giro guardinga, per essere sicura di non essere ascoltata; nonostante la biblioteca fosse vuota, non si fidava: in quel castello anche i muri avevano orecchie. Si avvicinò all’orecchio dell’uomo-uovo, e con tono sommesso gli disse: “Ho visto quei due…e si stavano…baciando”. Sicura di aver fatto scoppiare una vera e propria bomba la ragazza si allontanò subito, aspettando con impazienza la reazione di Humpty. Sicura come era che avrebbe assunto un’espressione sconvolta e arrabbiata, rimase a bocca aperta quando lo vide sogghignare e borbottare tra sé e sé: “Dovrebbero stare più attenti, però”.
“Tu lo sapevi?!” strillò Lena, per poi tapparsi la bocca. La sua voce risuonò nell’ambiente, e dovette attendere qualche secondo affinché il suo eco cessasse. Humpty non disse nulla, ma annuì leggermente, scatenando la confusione e la frustrazione della ragazza, che a questo punto si sentiva sola contro tutti. Lo sapeva anche quello che aveva sempre considerato suo mentore, e lei invece era rimasta all’oscuro di tutto. “E come mai non me ne hai parlato?” disse, cercando questa volta di non urlare, sebbene la rabbia la invitasse a fare il contrario.
“Proprio per evitare che tu ti comportassi in questo modo avventato. Violetta mi ha riferito tutto” spiegò l’uomo, sistemandosi gli occhialetti da vista che portava di tanto in tanto. Il mondo si era capovolto e Lena a quanto pare non ne era stata informata: adesso l’uomo più saggio del castello appoggiava quella relazione? Doveva essere in preda a qualche stregoneria. Forse Leon aveva chiesto a Marco prima di lasciare il castello di lanciare un incantesimo per ottenere l’assenso incondizionato di Humpty. Per quanto l’ipotesi risultasse fin troppo fantasiosa persino per la sua mente ricca di immaginazione, in quel momento era pienamente convinta che le cose dovessero essersi svolte così.
“Non puoi essere d’accordo con tutto questo! Vuoi il male di Violetta? Leon è in grado solo di fare questo: farle del male. E’ un uomo cattivo, e…”. Humpty non le permise di continuare e le portò una mano alla bocca. Gli occhi azzurri scintillavano, accesi da chissà quale emozione; infatti il volto non lasciava trasparire nulla, e gli occhi erano gli unici a manifestare ciò che si rivoltava all’interno dell’uomo-uovo. “Cattivo? E su quali basi definisci Leon ‘cattivo’? Quanto conosci Leon Vargas, Lena?”.
“Ma-ma...”. Era chiaro che non si aspettasse quella domanda. Era palese che Leon fosse una brutta persona, malvagia ed egoista. Di che prove aveva bisogno per dimostrarlo? Le sembrava di dover spiegare perché l’uomo aveva bisogno di respirare. Insomma, era così e basta. “Non puoi farmi una domanda del genere. Non puoi difenderlo dopo tutte le cattiverie compiute qua dentro! Certa gente non può cambiare” tentò di difendersi Lena, seppur tentennando. In bilico su un precario filo procedeva chiusa nella sua convinzione, mentre la benda che teneva sugli occhi le impediva di vedere davanti a sé. “Ti faccio questa domanda perché quello che tu hai visto non è Leon”.
“No, certo! Ho visto un ragazzo che gli assomigliava terribilmente. La sua crudeltà è risaputa da tutti, e non è una persona di cui fidarsi. Le farà del male, e io non voglio”. La porta si spalancò, facendoli sobbalzare, presi come erano nel discorso, e Leon avanzò a passo sicuro, illuminandosi di colpo non appena vide Lena. E pensare che era venuto in biblioteca per confidarsi con il suo vecchio amico! A quanto pare la fortuna per una volta aveva deciso di girare a suo favore; si fermò in mezzo alla sala, non sapendo se continuare a camminare fino a raggiungere la ragazza, e imporgli subito la sua decisione, o se aspettare che finissero di parlare. In fondo Humpty era dalla sua parte, e tutto quello che le stava dicendo non poteva che essere a suo favore.
“Perché non lo chiedi direttamente a lui?” concluse evasivo Humpty, facendo un piccolo saltello per rimettersi in piedi, e dirigendosi verso l’uscita. Quando incrociò Leon gli fece un occhiolino per incoraggiarlo quindi continuò dritto verso l’uscita, trascinandosi i pesanti battenti della porta dietro di sé. Lena fece per alzarsi ma Leon alzò il palmo della mano verso di lei, per farle cenno di rimanere seduta.
“Ti ordino di non riferire nulla a mia madre”. Forse aveva iniziato nel modo sbagliato. Troppo autoritario fin da subito. Beh, però quello era il motivo per cui era lì: impedirle di rovinare la sua felicità. “E’ una minaccia o una richiesta?” domandò Lena con lo sguardo basso, ma allo stesso tempo fiero e determinato.
“Nessuna delle due. E’ un ordine” sibilò Leon, riducendo gli occhi a due fessure. Già che stesse mettendo in discussione la sua autorità in quel modo lo faceva uscire fuori di sé, se poi pensava al fatto che nelle sue mani c’era ciò a cui più teneva si sentiva ancora più arrabbiato. “Ovviamente penso non ci sia altro da aggiungere” disse Leon. Si voltò soddisfatto di come avesse posto fine a quella sorta di conversazione, ma la voce irritante di Lena gli fece gelare il sorriso sulle labbra.
“Penso che allora dovrete minacciarmi, perché non ho intenzione di ubbidire”. Le mani presero a tremargli, e per poco non si mise a gridare dalla rabbia, ma prese un respiro profondo e tentò ancora una volta a controllarsi. Lo aveva promesso a Violetta. Controllare la sua rabbia, e la sua aggressività, era un modo per dimostrarle che stava cambiando, o che almeno ce la stava mettendo tutta. “E se fosse una richiesta?” gli uscì all’improvviso, lasciando sorpreso persino lui stesso. Lena alzò lo sguardo con un’espressione vagamente sorpresa, e scosse la testa: “Penso che vi convenga minacciarmi. In quello non potete essere sconfitto”.
“Vincere in questo modo non mi piace più” rispose con un sorriso Leon, facendo qualche passo in avanti. Più lui avanzava più Lena si immobilizzava, e quando fu a pochi passi sembrava che tutti i muscoli della ragazza fossero stati congelati all’istante.
“Potete ingannare Violetta, potete ingannare Humpty, ma non contate sul fatto che io caschi nello stesso tranello” sentenziò la serva, incrociando le braccia. In verità aveva davvero paura. Era sola con Leon, e chissà quali crudeltà avrebbe potuto compiere su di lei, per farla tacere. Una goccia di sudore dalla fronte le scivolò lungo la guancia, ma Leon non sembrò accorgersene, intento a sfidarla con i suoi profondi occhi verdi.
“E se la mia richiesta divenisse una supplica?” chiese il principe, abbassando di colpo lo sguardo per la vergogna. “Una supplica?” ripeté stupita l’altra, in preda ad uno sgomento sincero. Leon annuì forzatamente, quindi si fermò di fronte alla panca, e guardandola di sottecchi, si inchinò poggiando il ginocchio destro a terra, e tenendo alzato il sinistro. Congiunse le mani a mo’ di preghiera, e le rivolse uno sguardo sofferente. “Ti…prego”. Lottava con tutte le forze per sopprimere il suo orgoglio, e se quel gesto di pura umiltà e sottomissione fosse stato sufficiente a convincerla a non raccontare tutto a Jade, allora si, si sarebbe inchinato al suo cospetto non una volta, bensì centinaia di volte.
 “Ma che cosa fate? Alzatevi!” esclamò Lena, evidentemente a disagio, con le orecchie di un rosso acceso. “Non lo farò finché non mi darai la tua parola. Ti supplico di non dire nulla a mia madre, non capirebbe…”. Lena si sentiva al di fuori della realtà, in qualche mondo parallelo, dove Leon non era effettivamente Leon. Si ricordò poi delle parole di Humpty: che stesse veramente cambiando? Quel gesto all’apparenza insignificante invece era di particolare rilievo. Leon stava rinunciando a tutta la sua dignità, sottomettendosi ad una serva; per di più lo stava facendo per Violetta, per loro due. Non intravedeva nulla del principe egoista e sprezzante che aveva incontrato di sfuggita per il castello, bensì un uomo, fatto di carne e sentimenti. Che cosa strana. L’unico pensiero che le venne da fare fu quello. Era troppo strano, troppo irreale, troppo fantasioso, troppo fiabesco per essere vero. Ma Leon era lì che attendeva una risposta, e il fatto che l’avesse colta di sorpresa non lo turbava minimamente. Le sue priorità erano altre; batteva impaziente la punta del piede sul pavimento, e quel rumore rimbombava fastidiosamente.
“D’accordo! D’accordo non dirò niente! Non so nemmeno perché vi sto promettendo questa cosa, ma voglio solo che vi alziate” sbottò Lena all’improvviso, scattando in piedi, e aggirando il ragazzo che, non appena ricevuta la fantastica notizia, per poco non ebbe un infarto, tanto il cuore batteva per la gioia. Prima che Lena potesse allontanarsi, scattò davanti a lei e con un sorriso da parte a parte la abbracciò fortissimo, rischiando quasi di farla soffocare.
“Grazie, non te ne pentirai!” disse Leon, senza lasciarla andare dalla sua morsa, per quanto lei ci provasse con tutte le sue forze. “Me ne sto già pentendo” rispose con un affanno Lena, cercando ancora di divincolarsi.
“Ma se dovessi rendermi conto che in qualche modo la state facendo soffrire, allora spiffererò tutto senza pietà” precisò alzando il mento. Era talmente orgogliosa che non avrebbe mai ammesso di aver agito male, ma quelle tacite scuse furono comunque colte al volo da Vargas, che annuì con forza, per poi stringerla nuovamente in un altro abbraccio mortale. “Grazie, grazie di cuore” sussurrò il principe, sollevato da quel peso che si era tolto.
Le porte si aprirono e Violetta entrò in fretta e furia, rimanendo poi di sasso di fronte a quella scena, che non sapeva davvero come interpretare. Leon stava abbracciando la sua compagna di stanza; già di per sé quell’evento era fuori di ogni logica, ma non si trattava solo di quello. Le dava particolarmente fastidio, e non sapeva spiegarsi il perché, che Leon ci stesse mettendo tutta quell’enfasi. Qualcosa si agitò alla base dello stomaco, ed ebbe l’impressione che quella stanza enorme fosse diventata improvvisamente piccola. Troppo piccola per tutti e tre. Nel suo mondo aveva provato sensazioni simili solo quando German prendeva uno dei suoi libri preferiti in prestito senza chiederle il permesso. Peccato che in questo caso fosse ancora peggio perché il libro in questione era Leon, ed era uno di quei libri nuovi fiammanti da cui non si sarebbe separata per nulla al mondo, visto quante peripezie aveva dovuto affrontare per comprarlo. Si schiarì la voce con un colpo di tosse, e i due si voltarono verso di lei, leggermente a disagio. Leon però subito sorrise, e alzò la mano come per salutarla.
“Io me ne vado” borbottò Lena, sopportando a mala pena le occhiate intense che le stava rivolgendo Violetta. Facendosi piccola piccola, con il volto di un colore rosso acceso, accelerò il passo fino ad uscire, chiudendo le porte.
“Oggi la biblioteca sembra davvero un porto di mare” esclamò allegramente il principe, incrociando le braccia, e scuotendo il capo. “Vanno e vengono tutti, e…”. Si bloccò di fronte all’espressione sospettosa e arrabbiata di Violetta. “Tutto bene?” chiese poi, aggrottando la fronte.
“Tutto benissimo” rispose lei evasivamente, cominciando a dare occhiate fugaci ai libri dello scaffale vicino parecchio interessata.
“Non si direbbe”. Leon si era posizionato al suo fianco e la stava studiando, appoggiando una spalla allo scaffale. “Attento, Leon, queste librerie sono delicate” lo ravvisò, togliendogli l’appoggio, e scostandolo con poca delicatezza, per continuare la sua ricerca.
“Si può sapere che ti prende?” chiese il principe allargando le braccia. Violetta che teneva in mano un libricino verde lo fece cadere con un tonfo e lo guardò adirata.
“Che mi prende? Leon, tu non abbracci le persone senza un motivo. E soprattutto non abbracci ragazze! E per quanto possa costarmi dirlo, Lena è una bella ragazza, dolce, premurosa…”. Parlava sempre più velocemente, mentre le guance divennero di un colore rossastro. Succedeva sempre così: quando si agitava o si innervosiva parlava veloce, le parole si alternavano incessanti, prima nella mente, e poi sulla punta della lingua. Leon appoggiò un pugno sullo scaffale in alto: “Sei gelosa”. Era talmente sicuro delle sue parole, che a Violetta dava ancora più fastidio.
“Gelosa di cosa? In fondo ti stai anche per sposare, quindi posso benissimo sopportare un banalissimo abbraccio tra te e…”. Prima che potesse aggiungere altro si trovò avvinghiata a Leon, mentre si scambiavano un bacio ricco di furia e passione, con le spalle appoggiate sul legno della libreria. Sospirò profondamente mentre Leon le accarezzava con dolcezza i fianchi, mentre le  mani erano saldamente ancorate sulle sue larghe spalle.
“Pensi di risolvere tutto così?” sussurrò Violetta, mentre Leon sorrideva impercettibilmente per il tono rilassato con cui adesso le si rivolgeva.
“Finché funziona…” ridacchiò Leon al suo orecchio, stuzzicandolo appena con qualche dolce bacio. Portò tra i denti il lobo e lo morse con malizia. La ragazza scoppiò a ridere, e Leon chiuse gli occhi assaporando quella risata. Era tutto ciò di cui aveva bisogno, se non di più. Non vedeva l’ora di darle la splendida notizia; ne sarebbe stata felice anche lei. Ma non osava interrompere quella risata, non osava interrompere quel momento tanto intimo quanto dolce di cui erano protagonisti.
 
Jade ascoltava con aria persa le parole di Jackie, e annuiva appena, lasciandosi sprofondare nello schienale di velluto rosso. Vero. Aveva ragione, i preparativi per l’arrivo di Ludmilla erano piuttosto a rilento, e non andava bene. Le diceva che le terre circostanti erano sempre più frequentemente sotto attacco dei briganti. Vero anche quello. Ma più che mandare alcune truppe per dei sopralluoghi che altro poteva fare? Dimostrazioni di forza, proponeva la domestica. Un ottimo suggerimento, un ottimo suggerimento davvero. Cercò di annotarselo, ma la testa le doleva terribilmente, quindi rinunciò persino a quell’impresa. Le parole della donna le tamburellavano la mente, e non faceva altro che annuire. Tutto ciò che Jackie le diceva le appariva assolutamente logico e necessario.
“E dovreste cercare di fare qualcosa per Leon, mi è sembrato particolarmente strano in questi giorni” concluse la donna con noncuranza. Aveva ragione ancora una volta. Ma soprattutto era interessata alla teoria che si celava dietro quelle parole.
“Perché lo affermi con tanta certezza? A me è parso sempre lo stesso Leon” mentì la regina, aspettando con ansia una risposta.
“Dite? Io credo che sia troppo preso da quella serva per prestare le dovute attenzioni al matrimonio con la regina di Quadri” insinuò con melliflua maestria. Jade fu costretta ad annuire, perché pensava esattamente lo stesso. Violetta stava rovinando anche il matrimonio, e lei aveva bisogno di quell’alleanza con Ludmilla. “Vedrò di metterla subito al suo posto…altrimenti la allontanerò dal castello, o lo condannerò a morte. A me la scelta”. La regina sorrise diabolicamente, e Jackie fece finta di essere d’accordo, anche se sperava che Jade fosse più astuta e non agisse troppo apertamente. In fin dei conti comunque, se avesse visto che le cose non procedevano come voleva lei, avrebbe potuto benissimo convincere Jade a fare come diceva lei. La sua volontà stava venendo meno a causa della persecuzione delle ombre, e già sentiva la gioia selvaggia del potere nelle sue mani. “Vi conviene per ora agire con cautela, e non lasciare intravedere da subito le vostre intenzioni ben poco amichevoli nei confronti di Violetta” sussurrò Jackie. Aveva ragione di nuovo, pensò Jade, schioccando le dita della mano destra per farle capire che aveva afferrato il concetto. Il loro dialogo fu ben presto interrotto da un affannato Tomas che si precipitava nella sala del trono, gesticolando alle guardie di lasciarlo passare.
“Che succede, Bianconiglio?” chiese con aria annoiata Jade, studiando le sue unghie lunghe e lucenti.
“Mia signora, hanno anticipato il loro arrivo! Ludmilla è già qui con tutta la sua corte” esclamò il ragazzo in preda al panico, mentre si toccava le orecchie in preda all’ansia. Nonostante l'assoluta e inaspettata notizia Jade sorrise furba: Ludmilla amava cogliere di sorpresa. Una ragazza di spirito, adatta al suo Leon. Insieme avrebbero formato una coppia perfetta, e per di più, il carattere forte della regina di Quadri avrebbe fatto bene al principe, che ultimamente si stava rivelando strano. Così diverso dal solito Leon. Così…umano. Si, umano era l’aggettivo giusto. E non andava assolutamente bene. 











NOTA AUTORE: chiedo perdono per il ritardo, ma io pensavo di dover aggiornare domani, e si, sono veramente pessimo. Fatto sta che ho riletto tutto molto in fretta, quindi probabilmente potrebbe essermi sfuggito qualcosa :/ Questo capitolo l'ho letteralmente PARTORITO xD Comunque sia, in fondo non mi dispiace, perchè oltre alla mia Leonetta *sparge petali di rosa* si vedono un po' diversi personaggi in azione, prima dell'arrivo di Ludmilla, soprattutto Jade, quasi totalmente in pugno di Jackie (D:), e Lena, che finalmente si è convinta di fronte al profondo gesto di umiltà di Leon (a cui si ispira il titolo del capitolo) a tacere, almeno per il momento :3 Vado di frettissima e non vi voglio annoiare con parole inutili, quindi...buona lettura a tutti, e alla prossima! Grazie a tutti voi che seguite ancora questa storia e che mi sopportare :3 Con affetto,
syontai :D 

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Capitolo 42
*** Una partita a Croquet ***






Capitolo 42

Una partita a Croquet

Il castello di cuori, completamente arroccato, e circondato unicamente dalla natura le dava un’aria di campagna assolutamente inguardabile. Dal finestrino della carrozza Ludmilla osservava la distesa verde ai suoi lati e rimuginava sul da farsi. Diego, che era seduto davanti a lei, si era addormentato durante il viaggio, e per lasciarlo riposare aveva cercato di non fare il minimo rumore; credeva comunque che nemmeno una palla di cannone sarebbe riuscita a fargli aprire gli occhi. Il paesaggio era talmente monotono che si sentì anche lei in preda ad una terribile sonnolenza. Nemmeno per tutto l’oro del mondo sarebbe andata a vivere in un posto tanto isolato. Per fortuna dopo il matrimonio avrebbe vissuto a Quadri con il suo consorte, e ovviamente nelle sue mani avrebbe stretto ciò che le premeva di più, la spada di Cuori. Doveva solo definire gli ultimi dettagli del patto con Jade, e quello era l’unico motivo che potesse spingerla ad addentrarsi in un posto tanto scialbo e sciatto. Le strade per di più erano terribilmente scomode, e alcuni tratti non erano neppure lastricati. La regina doveva essere assolutamente priva di senso artistico e di eleganza. Si sistemò meglio sul capo il cappellino turchese, attenta a non sgualcire le due piume nere, lunghe e dritte, che lo adornavano sull’estremità inferiore. Fece scorrere la mano lungo i capelli biondi e lisci, raccolti elegantemente. Odiava i lunghi viaggi, nonostante la sua carrozza fosse fornita di soffici schienali di velluto, e sfiorasse la perfezione in ogni suo dettaglio. I dettagli. Per Ludmilla Ferro, regina di Quadri, ogni dettaglio era fondamentale e nulla sfuggiva al suo occhio attento.
Il tempo non scorreva mai e aveva terminato di compiere persino tutto ciò che potesse procurarle interesse nel suo vestito e nella sua acconciatura. Persino le mani affusolate che tanto amava mirare e rimirare avevano perso ogni attrattiva nei suoi confronti; aveva sempre avuto poca pazienza sin da piccola. A dodici anni non ne poteva più di aspettare che i genitori morissero in modo da poter indossare la corona, e quindi aveva provveduto lei stessa ad accelerare i tempi, versando una generosa dose di veleno nei loro calici. Nessuno aveva sospettato di lei, ovviamente: era troppo furba e astuta per farsi scoprire. Tutto ciò che possedeva era frutto dei suoi capricci. Quando schioccava le dita ogni suo desiderio veniva realizzato, eppure con il tempo si era resa conto che non le bastava più. E sfogliando i libri del reparto segreto della biblioteca del palazzo aveva fatto una scoperta tanto inquietante quanto esaltante. Ecco perché intendeva recuperare tutti i pezzi dell’armatura di Alice; quel segreto lo conosceva solo lei, e nessuno poteva sapere quanto fossero importanti quegli artefatti, al di là del loro potere magico e del loro valore storico. Quando la carrozza si fermò il cuore cominciò a battere frenetico: finalmente era arrivata. La spada era sempre più vicina, sempre più a portata di mano, e mancava davvero poco per impadronirsene. Ma ogni passo era studiato, ogni azione doveva essere attentamente ponderata. Doveva agire con cautela, mostrarsi accondiscendente di fronte alle richieste di Jade, e allo stesso tempo decisa sulle sue condizioni. Nulla che non potesse fare. Dal finestrino vide una guardia fare cenno alle altre di aprire il cancello. Tra le urla delle sentinelle e lo stridere delle catene, che azionavano l’apertura delle porte, Diego fu costretto a svegliarsi e dopo essersi stiracchiato a dovere si passò una mano tra i capelli con gli occhi socchiusi.
“Vedo che il viaggio è stato di tuo gradimento” ridacchiò Ludmilla, incantandosi di fronte ai lineamenti del giovane. Anche appena sveglio aveva quel fascino tenebroso a cui non riusciva a resistere, neppure volendo.
“Mai dormito così bene” gracchiò Diego, sedendosi composto, e accavallando le gambe, mentre la carrozza era ancora ferma. “Devo pensare che la mia compagnia ti annoia?” insinuò Ludmilla, con un sorrisetto maligno. “Quello mai, mia regina” rispose l’altro puntandole gli occhi scuri e indecifrabili addosso come un faro di tenebre.
“Spero che la permanenza qui sia breve” commentò annoiata la regina, cambiando prontamente discorso. L’altro alzò le spalle e si limitò a rimanere in silenzio. Entrambi sapevano che sarebbero rimasti quanto era necessario, né un secondo di più né un secondo di meno. La carrozza si rimise in movimento, e l’intero ambiente fu oscurato per un solo attimo dalle spesse mura mentre le attraversano, per poi essere ricondotto alla luce. Non appena lo sportello venne aperto, di fronte all’entrata, Diego fece un balzo fuori e le porse la mano come un vero cavaliere, per invitarla ad uscire. Di fronte alle occhiate curiose della servitù del castello Ludmilla fece così il suo ingresso trionfale. Porse la sua mano, avvolta in un guanto di velluto di un acceso azzurro, e lasciò che Diego la strinse; il suo consigliere abbassò il capo mentre scendeva gli scalini della carrozza, e subito uno dei suoi servitori aprì un ombrellino che ben si intonava con il suo vestito celeste lucido. Un vestito semplice, privo di troppi fronzoli, che aveva fatto confezionare su misura, da uno dei migliori sarti del Paese delle Meraviglie. Dei semplici ricami bianchi sui lati e sul petto erano sinonimo di eleganza e raffinatezza. Osservò compiaciuta le reazioni di tutti coloro che le stavano intorno, fino a quando tra di essi emerse Jade, nervosa e impaziente.
“Ludmilla Ferro” salutò con estrema semplicità la donna, abbassando solo di poco il capo. Jade era solita invidiare qualunque donna si mostrasse giovane e bella, e per questo aveva provato fin dalla sua apparizione al castello un certo fastidio per Violetta…ma quando osservava Ludmilla, il suo corpo aggraziato e leggiadro, il suo sguardo affascinante e ammaliante, i suoi tratti degni di una nobile, si accendeva letteralmente di gelosia.
“La mia futura suocera!” trillò la ragazza, facendosi largo, e andando incontro alla regina a passo spedito, trattenendo un risolino per le sue parole. Fingersi ingenua non serviva a nulla, tutti sapevano quanto potesse essere diabolica e crudele, ma le piaceva far finta di essere buona e innocente, era una maschera alla quale non era in grado di rinunciare. Le due si squadrarono per qualche secondo quindi finsero una sorta di abbraccio a mezz’aria. Ludmilla subito dopo fece un inchino, alzando le pieghe della voluminosa gonna con tanto di un breve strascico. Dovette ammettere, quando vide Leon scendere le scalinate del castello, che quello che un tempo era un moccioso fastidioso, adesso era diventato un avvenente uomo. Non che nutrisse alcun interesse per quello che doveva essere tutto muscoli e niente cervello, ma almeno avrebbe reso meno spiacevole il matrimonio. Diego, che teneva le braccia incrociate di dietro, indurì fin da subito la mascella alla vista del principe, e poi concentrò la sua attenzione sull’esile figura che apparve subito dietro, cercando di non farsi notare. Una ragazza carina tutto sommato, anche se non era per niente il suo tipo: dall’aspetto sembrava essere dolce e ingenua, e il solo pensiero gli fece venire il voltastomaco. Però rimaneva interessante, e per di più l’aveva vista guardare di sottecchi Leon, quindi nascondeva sicuramente qualcosa. Come Ludmilla aveva una missione da portare a termine, anche lui aveva la sua. Avrebbe agito nell’ombra e si sarebbe avvicinato a quella ragazza che aveva dedotto essere molto vicina al principe Vargas, per saperne di più sul suo conto, e per avere un’utile fonte di informazioni. Leon subito si mise alla destra della madre, e sfiorò appena con le labbra il guanto di Ludmilla, durante l’inchino.
“Siete molto bella” disse Leon senza alcun entusiasmo. Jade rimase sorpresa da quella reazione: avrebbe almeno giurato che uno pizzico di malizia avrebbe attraversato il principe durante quell’affermazione, o che almeno fosse rimasto freddo e distaccato, e invece era come…spento. La stessa Ludmilla sembrò inizialmente a disagio, per poi esibire un sorriso tiratissimo: “Grazie per il complimento”.  Era tutto artefatto, non vi era alcun interesse da parte dei due sposi per l’altro, eppure erano costretti a portare avanti quella recita, ognuno per i suoi motivi.
La regina di Quadri emise un piccolo sbadiglio, portando poi avanti la mano, scusandosi di quel gesto poco dignitoso con un semplice sguardo rammaricato: “Sono molto stanca per il viaggio”.
Jade ordinò subito a Thomas di mostrare agli ospiti i loro alloggi, sostenendo che effettivamente il viaggio era stato lungo e faticoso.
“Domani se vi farà piacere io e Leon avevamo pensato di fare una partita a Croquet” esclamò Jade allegramente. Ludmilla si illuminò in volto non appena sentito quell’invito. “E’ tantissimo che non gioco a Croquet! Mi farà davvero piacere”. A quel punto accadde qualcosa di inaspettato. La regina di Cuori si voltò verso la schiera di serve pronte ad esaudire ogni suo ordine. “Mi farebbe piacere che anche Violetta giocasse con noi”. Leon divenne pallido, e i suoi muscoli si fecero tesi, mentre le ragazze si spostavano una ad una dalla traiettoria di Jade, mostrando la sua preda. Ma Violetta era stanca di giocare al gatto e il topo, e si mostrò decisa. Probabilmente questo infastidì la regina che sperava di averle messo abbastanza paura addosso e invece si era ritrovata una ragazzina caparbia. Ma quello era solo l’inizio: era venuto il momento di dichiararle guerra.
 
Il campo di croquet era situato sul retro del castello e consisteva in una distesa sterminata di piccole collinette verdi brillanti su cui erano stati conficcati degli archetti di legno dai colori sgargianti. I partecipanti si disposero in fila, seguendo Jade verso l’unico archetto nero dell’intricato percorso, che doveva essere il punto di inizio. “E dove sarebbero le mazze?” chiese a bassa voce Violetta a Leon, che camminava al suo fianco guardingo; Vargas non disse una parola, troppo preso a controllare che non ci fosse qualcosa di insolito. Quell’invito a cui Violetta ovviamente non aveva potuto sottrarsi l’aveva insospettito, unita poi alla frase nel momento del congedo del loro ultimo colloquio, aveva i nervi a fiori di pelle. Sarebbe scattato sull’attenti anche di fronte al fruscio provocato da un innocuo scoiattolo. “Le mazze? Ah, le mazze!” disse riscuotendosi dalla sua riflessione in cui aveva messo in conto tutti i possibili pericoli del caso. “Beh, le mazze sono un po’ particolari…” si affrettò a spiegare il principe, ma prima che potesse farlo, due valletti portarono su un carretto di legno alcune gabbie in cui dei fenicotteri rosa strillavano furiosi. La regina consegnò la sua corona ad uno dei due, e si tirò su le maniche del vestito, per poi afferrare uno dei pennuti, che si dimenava invano, scalciando con le gambe simili a degli stecchi. Jade senza battere ciglio strozzò la creatura, facendola sputacchiare, quindi la scaraventò a terra, facendola sbattere con il capo. Come se avesse ricevuto una scossa il fenicottero si paralizzò e divenne come di marmo. “Cosa fate tutti lì impalati? Prendete la vostra mazza, che voglio iniziare a giocare!” esclamò con fare autoritario. Leon e Ludmilla scattarono sull’attento e ognuno scelse il suo fenicottero, mentre Violetta osservava la scena allibita. Odiava vedere gli animali maltrattati, e non aveva il coraggio di eseguire la procedura della regina.
“Non si potrebbe giocare con una mazza di legno?” chiese con voce flebile, facendo si che tutti si voltassero verso di lei. Leon la guardava spaventato, temendo la reazione della madre, mentre Ludmilla appariva addirittura divertita. Jade però era indecifrabile: la fissava con la bocca semiaperta e un ghigno dipinto sulle labbra.
“Ma cara, è proprio questo il bello del gioco!” strillò la regina. Non sembrava affatto arrabbiata per quella richiesta, piuttosto colpita. Vargas però la conosceva bene, e sapeva che stesse tramando qualcosa. “Comunque se è una mazza di legno che vuoi…portategliene una” ordinò a uno dei valletti che corse a perdifiato verso il capanno degli attrezzi per poi portare una lunga mazza affusolata rossa fiammante. Vennero portate delle palline colorate, e ognuno scelse la sua: Leon ne prese una blu elettrica, Ludmilla rossa viva, Jade verde, e Violetta invece optò per quella viola. Dopo i preparativi iniziò il gioco; dalla cima della collinetta ognuno colpì la propria pallina, la quale rotolava verso il basso, disperdendosi in mezzo a quel dedalo di archetti. I giocatori si misero a seguire il proprio percorso, determinato dagli archetti del colore della pallina.
Violetta e Ludmilla avevano un percorso molto simile, e molto presto si trovarono da sole, con in lontananza Jade che già stava iniziando ad alterarsi perché non era riuscita ad azzeccare il colpo fin da subito. Uno dei servitori spostò l’archetto per far passare la pallina, e la regina si placò soddisfatta. Sebbene fosse una mossa sleale, nessuno osava mettersi a discutere, pur di non far adirare Jade.
“Ho saputo che tu e Leon avete una certa confidenza” esclamò Ludmilla, assestandosi il vestito, e mettendosi in posa pronta per colpire. Violetta si guardò intorno, non sapendo se si stesse riferendo a lei, ma nonostante il suo sguardo assorto nel gioco non poteva che essere lei l’interlocutrice designata. “Sono solo voci infondate” si affrettò quindi a rispondere Violetta, raccogliendo la sua pallina, finita fuori percorso, e rimettendola al punto prima che sferrasse il suo colpo di mazza. Ludmilla ridacchiò e diede un piccolo colpetto alla pallina, che scivolò dolcemente verso l’archetto, prese il palo interno e lo attraverso senza alcuna difficoltà.
“Mia cara, ho imparato che molto spesso le voci sono sinonimo di verità”. La guardò con la coda nell’occhio, e riprese a camminare per proseguire nel gioco. “In ogni caso, non è una cosa che mi da alcun fastidio” aggiunse voltandosi verso di lei con un sorriso sottile.
Poiché Violetta non sapeva che rispondere fu lei a portare avanti il discorso: “Oh, Violetta, non mi dire che non sai come funzionano certe cose! Dopo il matrimonio non ho alcuna intenzione di assolvere ad alcuno dei cosiddetti doveri coniugali; meno vedrò Leon, meglio starò, e se tu costituissi un modo per tenerlo chiuso nelle sue stanze, potrei solamente adorarti”. Violetta arrossì e scosse la testa: “Ma io non potrei mai…”.
Ludmilla la stoppò alzando la mano con fare regale: “Non voglio sentire scuse, soprattutto se frutto di bugie. Le parole sanno essere tanto false! Non appena ci saremo sposati ti potrà portare con sé, e voi vivrete la vostra storiella, duri quanto duri”. Il suo tono si fece poi improvvisamente minaccioso: “Ma non provare ad impedire questo matrimonio. Non ho alcuna intenzione di rinunciare alla possibilità di entrare in possesso di uno dei beni più preziosi di questo mondo”. Subito tornò sorridente e solare, e le indicò la pallina. “Devi colpire” le fece notare allegramente. Violetta deglutì e tornò a concentrarsi sul gioco, cercando con tutto il cuore di ignorare le parole di Ludmilla: Leon avrebbe interrotto quel matrimonio, ne era sicura. Per quanto le regina di Quadri potesse farle paura e la avesse quasi minacciata, la fiducia che provava per il principe era molto più forte. Lo guardò in lontananza mentre si passava una mano sulla fronte sudata, a causa del sole cocente, e le venne da sorridere. Le aveva chiesto di fidarsi di lui, e l’avrebbe fatto.
“Mi spieghi come mai hai deciso di invitare una serva ad uno dei nostri giochi?” domandò Leon freddo alla madre, avvicinandosi a lei rapidamente. Non gli piaceva il fatto che fosse lì e soprattutto che fosse rimasta sola con Ludmilla; non voleva che le mettesse in testa strane idee.
“Ma come, Leon! Pensavo che ti avrebbe fatto piacere” rispose lei con finta innocenza, osservando con vivo interesse le due al di là del campo. Avrebbe voluto essere lei a poter minacciare la giovane serva di persona, ma Ludmilla andava più che bene. La sera prima le aveva parlato della relazione del principe con Violetta, e adesso provava una gioia selvaggia nel vederle parlottare in lontananza. Chissà che si stavano dicendo! Una volta finito il gioco probabilmente avrebbe cercato di estorcerlo alla regina di Quadri, ma certo era che Violetta aveva trovato un osso duro.
“Non so di cosa tu stia parlando. Tra un po’ non ricordo neppure il suo nome, tanto mi è insignificante” esclamò il ragazzo. “Puoi provare a mentire con chi vuoi, ma sono tua madre, e certe cose le capisco da me” sibilò la donna, posando a terra il suo fenicottero per riprendere fiato.
Leon sbuffò: “Quindi non ti fidi della mia parola! Con quella ragazza mi diverto come con tutte le altre”. Cercava di essere determinato, ma soprattutto credibile, non sapendo che la regina ormai era venuta a conoscenza di tutto.
“E se io la condannassi a morte?” domandò di colpo Jade, cogliendolo di sorpresa. Leon mantenne però il sangue freddo, e si limitò a scrollare le spalle. “Nessuno te lo impedirebbe”.
“Ma davvero!” rise la madre, con aria maligna. “Attento Leon, non mi sfidare. Così come è arrivata potrebbe andarsene. E da un giorno all’altro potresti non ritrovarla mai più”.
Vargas serrò la mascella, e strinse i pugni. In quel momento avrebbe desiderato semplicemente afferrare una spada e affondarla nella carne di sua madre per quelle parole intrise di cattiveria. Lo stava minacciando, ma lui sarebbe stato più forte. Per una volta non contava solo il suo interesse, c’era di mezzo anche la salvezza di Violetta.
“Non se ne andrà perché non ne avrà bisogno. Ha qualcuno che la protegge, che la vuole in questo castello”.
“Verresti forse contro a un mio ordine, Leon? Tutto l’addestramento non è forse servito a nulla… deve essere ripreso e intensificato?” ribatté la donna.
“Non ho fatto il mio nome”. Questa volta fu Leon a sorridere trionfante, leggendo sul volto di Jade la confusione totale. “Non ci sono altre persone che possono mettersi contro la mia volontà…nemmeno tu potresti, anche se il tuo interesse per quella serva sembra ti stia facendo credere il contrario”.
“Non ti illudere di amarla”. Leon non le diede minimamente ascolto a sferrò il colpo con la mazza. La sua pallina attraversò tre archetti insieme, avvicinandosi sempre di più al paletto finale da colpire per vincere la partita. Dall’altra parte Ludmilla e Violetta erano rimaste parecchio indietro, e quindi la sfida finale era tra lui e sua madre. “Non potresti capire” rispose secco l’altro.
“Con lei ti senti diverso? Sono tutte sciocchezze, Leon! Sono apparenze destinate a morire non appena non la vedrai più. Tu ti stai convincendo di provare qualcosa per quella serva”. Le parole di Jade arrivavano alle sue orecchie come zanzare fastidiose, che cercavano di intrufolarsi nella sua testa. Ma stavolta era diverso, stava riuscendo a chiuderle fuori, a lasciare che la loro persuasione crudele non avesse effetto. “Devi tornare l’uomo di un tempo”.
“Sono sempre lo stesso, madre”. Le sue risposte erano secche e prive di qualsiasi emozione. Era sempre stato bravo a nasconderle, lei stessa gliel’aveva insegnato, ed adesso stava pagando il prezzo di quegli insegnamenti. Jade afferrò il suo fenicottero ed arrabbiata colpì la pallina nera, che con un colpo secco arrivò a toccare quella di Leon. Si trovavano l’una affianco all’altra, e persino tra di loro aleggiava rivalità e discordia. Nulla che potesse essere paragonabile ai loro proprietari in ogni caso. Leon cominciò a camminare, seguito dalla regina, che con tono altezzoso lo guardava disprezzandolo. Ecco il frutto di Javier Vargas! Ecco a cosa era servito soffrire le pene che le stavano procurando le ombre capitanate dal defunto re…a nulla. Solo adesso si rendeva conto di quanto avesse sottovalutato la situazione. Credeva che il suo addestramento fosse stato infallibile, e invece Violetta aveva rovinato tutto. Aveva scardinato le difese del ragazzo, che lei stessa per anni e anni aveva provvisto a rinforzare. Possibile che quello che sembrava il prototipo del guerriero perfetto fosse crollato come un castello di carte di fronte a un bel faccino? Non riusciva a capacitarsene, certo era che voleva Violetta fuori dal castello. Anzi, voleva vedere la sua testa rotolare. L’unica cosa che rotolò invece fu la pallina di Leon che colpì il paletto, decretando la sua vittoria. Il principe soddisfatto si voltò verso la madre, con un sorriso tagliente: “A quanto pare ho vinto”. Il riferimento alla conversazione avuta poco tempo prima non doveva essere un caso, e lei incassò quella botta senza colpo ferire. Mentre Ludmilla e Violetta accorrevano per congratularsi con Leon, ciascuna un po’ per le sue, e piuttosto pensierosa, Jade meditava. Meditava su quanto odio serbasse nei confronti di Violetta, e del suo stesso figlio. Era certa che finché ci fosse stato il principe al castello non le sarebbe stato possibile nemmeno avvicinarsi alla serva. Ora che era un uomo, non le era più possibile condizionarlo…persino imprigionarlo avrebbe potuto rivelarsi inutile. Finché quella ragazza era al castello, avrebbe potuto torturarlo, avrebbe potuto imprigionarlo, e lui non avrebbe fatto una piega. Se avesse fatto condannare la ragazza la lealtà del figlio sarebbe venuta meno all’istante, e lei aveva bisogno di qualcuno di cui potersi fidare ciecamente, che reggesse le redini dell’esercito. Mentre consegnava il fenicottero al servitore che aveva avuto il compito di sovrintendere il gioco, rifletteva sulle parole di sfida del figlio: Leon credeva di averla avuta vinta, ma lei aveva ancora parecchi assi nella manica. Sorrise malignamente tra sé e sé: per quanto Leon sarebbe stato in quel castello? Non per sempre. E allora avrebbe colpito senza pietà; aveva un piano, e doveva solo pazientare. Aspettare senza scoprire le sue intenzioni, ecco cosa doveva fare.
 
Distesi nella radura in mezzo al bosco, Leon e Violetta osservavano le nuvole che scorrevano rapide sopra le loro teste, l’uno accanto all’altro. Erano fuggiti di nascosto anche quella volta, grazie all’astuzia del principe nel distrarre per qualche secondo le guardie. Solo un leggero venticello caldo soffiava sui loro corpi, e rendeva il manto erboso simile a un mare verde, pieno di piccole onde. I fili d’erba si piegavano di fronte alla volontà del vento solleticandole il viso, e per un momento Violetta ebbe l’impressione che si trattasse di una carezza di Leon. Chiuse gli occhi per un secondo, e quando li riaprì si mise ad indicare entusiasta una massa bianca e informe sopra le loro teste che proiettava la sua ombra su buona parte della radura.
“Un cuore!” esclamò tutta contenta, mentre Leon fissava l’oggetto perplesso: “A me sembrano uno scudo e una spada”. Un minuto di silenzio, poi entrambi scoppiarono a ridere.
“Io continuo a ripetere che è un cuore” proseguì convinta, mentre Leon faceva segno di no col dito. “Non la vedi l’elsa?” disse, indicandole un punto indefinito nel cielo. “A me quella sembra più una punta…”. Stava per continuare a difendere la sua tesi, quando d’un tratto si trovò il corpo di Leon premere sul suo.  Con un balzo il principe si era messo sopra di lei, e la guardava a metà tra l’arrabbiato e il divertito. “Visto che adesso non puoi controbattere, io ho ragione. E’ una spada con uno scudo”. In effetti non aveva torto: più tentava di divincolarsi, più si sentiva intrappolata dal corpo muscoloso di Leon, e il suo viso sembrava essere stato irretito da quegli occhi verdi magnetici.
“D’accordo, hai vinto…ti piace vincere sempre, eh?” sbottò Violetta, aspettandosi che Leon di fronte alla resa, ritornasse disteso al suo fianco, pavoneggiandosi della sua forza e della sua capacità di persuasione, invece il fatto che non stesse muovendo un dito la stranì non poco. Il corpo del principe si mosse impercettibilmente sul suo, strusciandosi appena, ed arrossì all’istante, mentre Leon sembrava completamente preso dai suoi occhi, dal suo viso, dalle sue labbra. Era completamente preso da lei, in ogni suo piccolo aspetto. Concentrò l’attenzione sul suo braccio, che sollevò sopra la testa, facendolo poi distendere sull’erba; con la mano lo percorse, soffermandosi su quella pelle delicata, che era in grado di accendere nella sua mente pensieri infuocati. Intrecciò le dita una ad una, e le strinse forte la mano, mentre lentamente si avvicinava alle sue labbra, toccandole appena, e avvertendone la dolcezza persino senza averle pienamente assaporate. Solo in un’altra situazione si erano trovati in un momento tanto intimo, e alla fine Leon era riuscito a reprimere quella parte di lui che non faceva altro che desiderare quel fragile corpo, che col cuore aveva promesso di proteggere. Ma più passava il tempo più gli riusciva difficile, ed ora gli sembrò di dover compiere uno sforzo disumano. Cercò di non pensare alle cosce di Violetta che gli serravano la vita, cercò di non pensare al modo innocente in cui lo guardava, attizzando sempre più quel fuoco che controllava a fatica.  Ma più provava ad allontanare quei pensieri, più quelli tornavano con una forza duplicata, e si sentì esplodere. L’ultima cosa che vide prima di aggredire le sue labbra in una bacio rovente fu il caratteristico rossore delle guance della ragazza, che tanto lo faceva impazzire. Il problema fu che a quel punto il suo corpo decise di ignorare tutti i comandi che si era imposto: alzava e abbassava la schiena, strusciandosi contro di lei, e guidandola in un bacio come mai se lo erano dati prima d’ora. Le loro mani ancora affondavano nell’erba fresca, il che creava un curioso contrasto con il calore che sentivano dentro. Con il braccio sinistro Leon cominciò a percorrere il contorno del suo profilo, e provò un’immensa gioia nel constatare che quel semplice tocco la faceva rabbrividire. Non vi fu zona della bocca di Violetta che non venne esplorata da Leon, non vi fu secondo che non avesse cercato la sua lingua per accarezzarla, e guidarla dolcemente. Si separò solo per un secondo, e fissò quelle mani che erano rimaste intrecciate. Sciolse lentamente la presa, guardandola negli occhi, come in attesa di un consenso. In fondo ai suoi occhi vividi, ottenne quello che cercava, quindi si impossessò completamente del corpo di Violetta. A volte lo accarezzava con delicatezza, a volte invece lo stringeva con forza, trasmettendole quel desiderio di possesso che sentiva. Sobbalzò appena quando le braccia di Violetta gli cinsero le schiena, mentre le mani scorrevano su di essa, riscaldandolo ancora di più di prima. Le dita calde della ragazza poi si appropriarono dei suoi capelli, con cui iniziò a giocare come una bambina. Completamente inerme, lasciò che Violetta facesse leva sul suo petto e invertisse le posizioni.
Prima di allora non aveva mai sentito alcuna forma di desiderio fisico nei confronti di qualcuno. Si era sempre limitata a sognare amori di tipo puramente platonico e ideale. Ma con Leon si rendeva conto che era impossibile non fare certi pensieri, e non sapeva se dipendesse dalle particolari posizioni che avevano in quel momento, o fosse qualcosa di più profondo, che risiedeva già da parecchio tempo dentro di sé e che solo ora stava iniziando a manifestarsi. I secondi passavano eppure non erano mai stanchi l’uno dell’altro, e i loro baci ne erano la testimonianza. Mentre lasciava scorrere timidamente le mani lungo le spalle e il petto, il tessuto della maglia appariva ai suoi occhi come un ostacolo fastidioso che non le permetteva di accarezzare la sua pelle; e quella rinuncia le sembrava improponibile. Strinse inconsapevolmente la maglia, come se desiderasse strapparla da un momento all’altro. Si ricordò della notte in cui aveva badato a lui, di quella volta in cui aveva lasciato che si accoccolasse sul suo petto per riscaldarla e cullarla. Aveva bisogno del calore della sua pelle, di poterlo sentire in modo tangibile, concreto. Abbandonò quel pensiero a forza, ma le mani, testimoni dei suoi desideri, non furono in grado di trattenersi e gli presero il viso, mentre continuava a baciarlo, con sempre più intensità, e anche con una dose di aggressività di cui non si era mai sentita capace. Si separò con il fiatone e i capelli scompigliati, e lo guardò con amore, per poi dargli un bacio sulla punta del naso. Proseguì lungo la guancia, e più gli lasciava dei teneri baci, più fremeva lei stessa. Quando abbandonò la guancia, Leon divenne irrequieto: era chiaro che desiderasse provare ancora quelle sensazioni. Violetta si fece coraggio, quindi lentamente si accostò al suo collo e vi depositò un leggerissimo bacio. Non appena con le labbra toccò la sua pelle ruvida, Leon abbassò istintivamente il diaframma e gonfiò il petto, per poi sospirare beato. Quel suono talmente buffo ma allo stesso tempo intenso, fece sorridere Violetta, che risalì fino a che i loro visi non furono separati da un sottilissimo filo d’aria. Appoggiò la fronte su quella del principe, mentre lui le cingeva la vita, e ancora aveva un’espressione compiaciuta, come se stesse rivivendo quel bacio, la sensazione delle sue labbra morbide sulla pelle che adesso gli avevano creato un’ulteriore dipendenza. Violetta gli sussurrò qualcosa all’orecchio, ma a Leon quella meravigliosa voce arrivò lontana, quasi incomprensibile. Aveva gli occhi chiusi, e semplicemente godeva di quel contatto che avevano, del suo respiro frenetico sul viso e sul collo. Non appena li riaprì però insieme ad essi anche la passione si riaccese, e nuovamente riprese a baciarla, in modo più dolce, ma non per questo meno intensa. Avvinghiati si lasciarono guidare dai loro corpi, che presero a rotolare sul prato, scambiandosi continuamente posizione. Con i vestiti sporchi di terra, e fili d’erba tra i capelli continuarono semplicemente a lasciare che il loro amore si esprimesse; non si rendevano conto di aver attraversato un labile confine, che li metteva di fronte una salda consapevolezza. Violetta per prima non aveva capito quanto desiderasse Leon fino a quel momento; tuttavia in mezzo alle sensazioni confusionarie che mai aveva provato, e che non riusciva a razionalizzare, non era in grado di lasciarsi andare del tutto, qualcosa la frenava. Di nuovo Leon era adagiato sopra di lei, con la testa immersa tra i fiori e i suoi capelli.
“Ludmilla…ha voluto parlare con me” disse all’improvviso ricordandosi di quella spiacevole conversazione. Leon scattò sulle braccia, appoggiandosi poi sui gomiti e guardandola negli occhi. “Ho notato, e non sai quanto avrei voluto essere lì per ascoltare. Non volevo chiederti di cosa avete parlato perché…non sapevo se me l’avresti detto…non volevo che ti sentissi costretta, insomma” ribatté impacciato, sollevando di poco, per non fare pressione con il suo corpo
“Mi avevi avvisato del fatto che avrebbero provato ad allontanarmi da te…anche se la regina di Quadri non è particolarmente interessata a te, tiene a quelle nozze più di ogni cosa, e non so perché”. Leon sbatté le palpebre perplesso e scosse la testa: nemmeno lui era al corrente del patto che vi era dietro, sapeva solamente dell’alleanza militare, e credeva che quel matrimonio servisse per consolidarla. “Comunque non ha intaccato la mia fiducia” aggiunse sfiorandogli la guancia con il dorso della mano. “E quello che provo per te”. Leon a quelle parole divenne rosso in viso, e mai Violetta l’aveva visto tanto imbarazzato come in quel momento. “Ti ho fatto sentire a disagio?”.
Leon la guardò e le stampò in tutta risposta un bacio sulle labbra: “Assolutamente…anzi, sei la persona che più mi fa sentire a mio agio in questo mondo. E’ quello che ho cercato di far capire a mia madre, anche se non è servito a nulla”. A quel punto iniziò a raccontarle di come Jade l’avesse minacciato, e di come lui si fosse ribellato ai suoi ordini. Non l’aveva mai fatto, e il solo ripensarci lo faceva sentire fiero e orgoglioso, come se avesse vinto una battaglia con le sue sole forze.
“Tu…le hai detto che mi avresti protetto”.
“Perché è quello che farò” confermò prontamente Vargas. Violetta si morse il labbro inferiore per la preoccupazione: “Stai rischiando troppo”.
Leon stranamente sorrise, e sfregò dolcemente il naso contro il suo. “Per me non sarà mai troppo. Io ti devo tutto” sussurrò, per poi lasciare che Violetta lo stringesse forte in un abbraccio. Ci teneva a ribadire la sua promessa, perché la amava. E l’amore sapeva essere la fonte di coraggio più forte dell’universo. Non erano soli, avevano amici preziosi, e sentiva di poter fare affidamento su di loro. Una cosa era certa: non avrebbe rinunciato alla sua Violetta per nessuna ragione al mondo.
 
Quien le pone limite al deseo, cuando se quiere triunfar”. Ludmilla canticchiava stranamente felice, nonostante le cose non stessero andando esattamente come sperasse. Ma non poteva lamentarsi, il piano procedeva, a rilento ma procedeva; e presto o tardi sarebbe stata la regina Vargas. Non aveva nulla contro quella Violetta, ma non doveva assolutamente intralciarla nei suoi propositi. Si sfilò un fermaglio dai capelli, lasciando ricadere una cascata bionda e lucente, e lo poggiò sul comodino continuando a cantare. Già, lei voleva trionfare, non desiderava altro, e in possesso di quei quattro oggetti nessun limite sarebbe stato posto ai suoi desideri. Si lasciò cadere sul letto e fissò il baldacchino con aria sognante. Non si era resa conto però che già qualcuno era nella stanza, rintanato in un angolo della stanza con un medaglione in mano.
“Perfetto” sibilò la figura, riponendo l’oggetto nella tasca dei pantaloni. Ludmilla scattò in piedi tesissima, ma subito si rilassò quanto riconobbe lo sguardo malandrino e astuto di Diego.
“Mi hai fatto prendere un colpo!” si lamentò con un sorriso, sistemandosi la vestaglia sgualcita.
“Mi dispiace, mia regina, ma volevo informarti che forse abbiamo trovato l’elmo. E non dovrebbe essere difficile recuperarlo a questo punto”. Non ebbe neanche il tempo di prendere aria e continuare a parlare che Ludmilla lo interruppe eccitatissima: “Davvero? Lo sapevo! Lo sapevo che nelle tue mani tutto sarebbe andato per il meglio”. Si fiondò tra le braccia del ragazzo, stringendolo con forza.
“Mancano solo la spada e la corazza, e poi avrai l’armatura a tua completa disposizione” le sussurrò, accarezzandole i capelli con voce calda e rassicurante.
“Lo so bene…anche se ho paura per la spada. Non vorrei che mi venisse riservata qualche sorpresa come è successo con la regina Natalia”.
“Non devi preoccuparti. Da domani comincerò a stringere un rapporto confidenziale con quelli della servitù, e allora verrò a conoscenza di tutti i segreti di questo posto. Soprattutto penso che quella serva, Violetta mi pare che si chiami, nasconda parecchie cose interessanti”. Ludmilla si irrigidì al solo sentir nominare quel nome, e si allontanò di scatto, incrociando le braccia al petto.
“Violetta! E’ una bella ragazza, ma non capisco cosa ci troviate tutti!” sbottò voltandosi dall’altra parte. Diego scoppiò in una breve risata compiaciuta, quindi si avvicinò pericolosamente alle sue spalle, cingendole la vita da dietro.
“Hai forse paura di qualcosa?” le soffiò appena all’orecchio, per poi lasciarvi un piccolo bacio. “Assolutamente no!” ribatté l’altra; orgogliosa fino al midollo, mai avrebbe ammesso che quello che era nato come un gioco stava diventando per lei piuttosto pericoloso. Odiava sentirsi coinvolta emotivamente, eppure Diego era riuscito a svelare quella sua debolezza. Non era solo il suo fidato consigliere; era iniziato tutto quasi per noia. Appena salita al trono aveva trovato tra la servitù quel giovane: era sveglio, acuto, e particolarmente affascinante. Non ci era voluto molto per farlo cadere ai suoi piedi, irretito dal suo fascino. La notte Diego sgattaiolava sempre più spesso nella sua stanza, e rotolandosi tra le coperte, tra baci famelici e gemiti appassionati, avevano trovato un’affinità fisica formidabile. I suoi pensieri durante il giorno andavano alla notte precedente, e le sue aspettative erano solo per quella successiva. Dentro il suo letto al castello aveva vissuto forse gli attimi più belli della sua esistenza, ma il suo orgoglio le avrebbe impedito di ammetterlo persino con se stessa. Quella che era partita come una semplice dipendenza fisica si era trasformato in qualcosa di molto più travolgente e misterioso della passione. Sotto le coperte, abbracciati, Diego aveva iniziato a parlare delle sue aspirazioni, della sua ambizione, e ne era rimasta affascinata. Quel ragazzo che le era parso fin troppo diverso da lei, mostrava invece tanti punti di contatto che lo rendevano simile. Iniziarono a sentirsi quasi uguali. In cambio della compagnia che le dava aveva deciso di riconoscere la sua astuzia e intelligenza, e l’aveva promosso a suo consigliere; Diego aveva così iniziato ad entrare sempre più nelle sue grazie, e tutti a corte ne erano a conoscenza. Il giovane stesso si sentiva completamente coinvolto nel suo compito, e si era mostrato il più fedele, l’unico di cui potesse fidarsi. Avrebbe affidato la sua stessa vita a Diego.
Non l’amava, o almeno così credeva. Venire a sapere delle sue numerose storielle da poco conto certamente non le faceva piacere, ma a lei bastava che rimanesse al suo fianco e non l’abbandonasse mai. Ludmilla si voltò e Diego subito non perse tempo, baciandola con ardore. Fece scorrere le sue mani sui cordoncini della vestaglia, sfilandole la veste. Il freddo della notte si impossessò del corpo nudo della regina, scaldato unicamente dalle braccia di Diego, che la accarezzava senza fermarsi un solo istante. Quando era tra le braccia di Diego era troppo vulnerabile, così si ripeteva sempre. E ogni volta metteva a tacere quella vocina interiore che la metteva in guardia. Il ragazzo la fece arretrare, e la depose sul letto rapidamente per poi salirle sopra.  
“Ho appena avuto un’idea su come farti passare le preoccupazioni di stanotte” disse seducente sulle sue labbra. Ludmilla gemette inerme, e annuì, con gli occhi chiusi, e il corpo che ribolliva dentro. Diego era la sua più grande dipendenza e debolezza. E forse proprio per questo insieme erano inarrestabili. Anzi, indistruttibili.
 











NOTA AUTORE: Eccomi! Pensavate di esservi liberati di me! *non sa cosa sta dicendo* No, vabbè, sarà che nella storia sono tutti mezzi matti ma io non riesco a fare una Nota Autore come si deve xD Comuuuuunque, io ci provo. Allora, sono successe parecchie cose in questo capitolo, e tante ancora ne devono succedere. Come potevamo immaginare l'arrivo di Ludmilla ha portato parecchie notvità e ha rimescolato le carte in tavola: Ludmilla è un personaggio che generalmente amo, e in questa ff in questa veste mi piace un sacco. Che poi alcuni tratti del carattere per me sono molto simili a quelli della serie xD E' un cattiva (?) anomala, mettiamola in questi termini. E il perché vuole quei quattro oggetti verrà fuori più in là...è un motivo importante che ha a che fare con il segreto cardine della storia :3 Fatto sta che Ludmilla non sembra per niente interessata a Leon (buon per noi), e Diego vuole stringere 'amicizia' con Violetta per avere informazioni (ma anche lui non si fila molto Violetta -doppio buon per noi-). Durante la partita a croquet Ludmilla parla con Violetta, mettendola in guardia, e c'è il primo scontro tra Leon e Jade. Jade sembra uscirne sconfitta, ma ha un piano in mente...aiuto! D: 
Poi non commento la scena Leonetta, perché mi distrugge emotivamente (Ali, so che mi vuoi bene e che mi perdonerai xD). IO NON CE LA FACCIO, MI FANNO MORIRE. E finalmente Violetta comincia ad avvertire qualcosa di più nei confronti di Leon *tossisce e fa il vago* Ci avviciniamo a una scena che- non anticipo nulla xD Ohhhh, le vostre supposizioni sulla Diemilla erano esatte: i due hanno addirittura una storia, e Ludmilla ne sembra molto presa. E' una storia particolare la loro, che a volte sembra più un'alleanza e altre volte invece è passionale come una storia d'amore. Ma vedrete, vedrete...io amo la Diemilla, e ovviamente li volevo in questa storia xD :3
Bene, credo di essermi dilungato abbastanza...commenti, pareri, tutto ben accetto ovviamente, ma ringrazio anche chi legge solamente, perché mi fa enormemente piacere :3 Grazie a tutti di cuore, e al prossimo capitolo! Buona lettura :3 
syontai :D 





 

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Capitolo 43
*** La spada di Cuori ***





Capitolo 43

La spada di Cuori

Erano passati solo pochi giorni da quando Ludmilla era giunta al castello, e da quando Lena aveva deciso di mantenere il loro segreto. La compagna di stanza inizialmente non era riuscita ad evitare di esporle continuamente i suoi dubbi, ma bastò solo vederli un attimo insieme, le bastò studiare quello sguardo così diverso di Leon, quell’aria felice, per ritirare tutto e appoggiarli in pieno. Riusciva quasi ad avvertire anche lei l’amore che provavano, come delle onde positive e rilassanti, e così da contraria divenne una delle sostenitrici più forti della loro storia d’amore, insieme ad Humpty. Violetta avrebbe potuto tranquillamente paragonarla ad una tifosa ultras della sua squadra del cuore, e sebbene fosse contenta di aver ottenuto l’appoggio dell’amica a volte tutto il suo entusiasmo le metteva paura. “Ti rendi conto? Leon non aveva mai preso la mano di nessuna in quel modo!” continuava a ripetere frenetica, avendo assistito in prima persona a quella scena che a suo dire doveva essere considerato quasi un miracolo.
“Ti ho già detto di non urlare in questo modo almeno mille volte” sibilò la ragazza, trascinando Lena nelle cucine. “Non posso fare a meno di essere elettrizzata! Violetta, ti rendi conto che potresti addirittura diventare regina, sposandolo?”. Violetta si bloccò nel bel mezzo del percorso che portava allo sciabordare di pentole e allo sfrigolare delle padelle. Matrimonio? E chi aveva parlato di matrimonio? Suo padre le aveva spiegato un milione di volte che prima di sposarsi avrebbero dovuto passare almeno dieci anni. Poi scherzando concludeva sempre dicendo che nessuno avrebbe toccato la sua bambina nemmeno con un dito. Pensandoci bene, non era sicura si trattasse di uno scherzo. In ogni caso per una ragazza che aveva appena capito cose volesse dire amare, parlare di matrimonio le sembrava eccessivo. “Ma…tu pensi che lui voglia sposarmi?”. Dentro di sé sperava che la risposta fosse no, anche se in parte vedersi con un vestito bianco mentre si scambiava una promessa eterna con Leon non era poi una brutta visione. Casualmente quell’immagine divenne preponderante rispetto alla sua parte razionale. Lena poi annuì talmente violentemente da farla quasi sobbalzare: “Tu che credi? E’ ovvio! Visto come è preso, il principe non perderà tempo e annullerà le altre nozze per poterle chiedere a te”. “E io farò da testimone” aggiunse con aria sognante congiungendo le mani a mo’ di preghiera. Ultimamente stava diventando fin troppo sognatrice, pensò Violetta, scuotendo la testa rassegnata.
“Non potrei mai sposare Leon” disse, mordendosi il labbro inferiore. Non si trattava solo dell’essere sicuri del sentimento che provava per il principe, perché di quello ne era a conoscenza anche fin troppo bene. Si trattava di altro: lei non apparteneva a quel mondo, e più passava il tempo più la sua felicità le sembrava artefatta. Tornare da suo padre sarebbe stato come risvegliarsi da un sogno: un avvincente, inquietante, misterioso, ma anche bellissimo sogno. E anche Leon faceva parte di quella realtà inesistente, suo malgrado. Lena invece a differenza sua era così spensierata, convinta più che mai dopo il cambiamento di Leon che l’amore potesse trionfare su tutto, anche congiungendo mondi tra loro lontani. “E perché? Fidati che la richiesta arriverà prima che te ne renda conto!” la incoraggiò l’altra, aprendo la porta della cucina, dove una schiera di cuoche faceva avanti e indietro dal camino, ai ripiani ricchi di ingredienti e ortaggi. C’era chi tagliuzzava minuziosamente le verdure, chi le metteva a bollire, e di tanto in tanto assaggiava il risultato con un mestolo di legno. La capocuoca dirigeva tutti i movimenti e teneva sotto controllo la situazione.
“Certo, se poi darai a Leon dei motivi in più…potrebbe farti la richiesta anche il giorno dopo” aggiunse Lena maliziosamente al suo orecchio, per poi assumere un’espressione angelica. Angelica per modo di dire, perché dalla risata beffarda di fronte al colore rosso delle sue orecchie era certa che avesse voluto intendere proprio quello che lei aveva capito. In disparte si limitava ad osservare il lavoro nelle cucine, aspettando che allestissero poi la cena delle servitù; non sembravano essere le uniche ad attendere, perché anche un giovane vestito molto elegantemente, che faceva parte del seguito di Ludmilla faceva lo stesso. Il nome non lo ricordava affatto, ma notò da subito come Lena fosse rapita da quella bellezza tanto misteriosa. Eppure…Diego, si chiamava Diego. Non lo conosceva, eppure sapeva che il nome fosse quello. Come era possibile?
“Diego” sussurrò tra sé e sé, sentendo come il nome suonasse e provando ad immaginarselo sul moro; un po’ come si provavano i vestiti insomma. Si trattava di vedere se calzasse bene, male, oppure a pennello. E quest’ultimo era il caso di Diego.
“Si?” chiese il giovane, voltandosi verso di loro e sorridendo amabilmente. Violetta pensò che dovesse averla sentita e si fosse sentito chiamato, e questo accentuò ancora di più le sue perplessità: come aveva fatto ad indovinare il suo nome? “Non volevo chiamarti…solo che…”.
“La mia amica voleva dire che le farebbe piacere fare la sua conoscenza. Io sono Lena” si intromise Lena, presentandosi subito. Diego anche si presentò subito dopo e cominciò a parlare un po’ del più
e del meno. “Preferisco non cenare con tutta quella gente che ti osserva e con dieci forchette diverse davanti. Inoltre quelle conversazioni altolocate non fanno per me…preferisco di gran lunga il clima semplice della servitù!” disse, spiegando il motivo per cui si trovava nelle cucine, anziché nella sala da pranzo, visto l’importanza della carica che ricopriva. Il suo sorriso caloroso e i suoi modi gentili subito fecero una buona impressione sulle due amiche, che lo considerarono una persona degna di fiducia e di amicizia. Mentre parlava era molto a suo agio, conquistandosi così le attenzioni e le lodi perfino delle cuoche che da poco avevano finito i preparativi per la cena.
 Lara osservava la scena dall’altra parte della stanza, disgustata. Tutti i nuovi arrivati avevano sempre occhi solo per Violetta…che cosa poteva mai avere di così unico e affascinante? Inoltre le bruciava ancora il modo in cui Leon le si era rivolto nella loro ultima discussione, prendendo palesemente le difese di Violetta. Solo il nome bastava per farle venire un attacco di stizza e cieca rabbia. Fino a quel momento aveva mantenuto la parola ed era sottostata alle minacce del principe, tenendosi sempre a distanza dalla sua protetta, ma le cose stavano per cambiare. Il piano di Jackie stava proseguendo, e presto avrebbe avuto il suo riscatto. Dopo tutto quello che avevano condiviso come aveva potuto Vargas trattarla in quel modo? Si era giocato dei suoi sentimenti, l’aveva usata, e lei non era tipo da farsi usare senza pretendere nulla in cambio. Le bastava così poco in fondo, voleva solo il suo affetto, il suo amore. E forse ci sarebbe anche riuscita, se non fosse arrivata quella ragazzina incapace a rovinare tutto. Gliel’aveva tolto, e non avrebbe trovato tregua fino a quando non si fosse vendicata. Lena le lanciava di tanto in tanto sguardi divertiti, ma appena se ne rendeva conto, subito quella alzava il mento e si voltava dall’altra parte, tornando ad ascoltare con interesse i racconti di Diego. A volte scoppiavano tutti e tre a ridere per chissà quale battuta del giovane consigliere, che oltre ad essere affabile si rivelò essere un grande intrattenitore.
“Avreste dovuto vedere la sua faccia quando gli hanno tolto l’invito dalla mano…una vera figuraccia!” sghignazzò Diego, tenendosi la pancia e quasi piegato in due. Riuniti tutti intorno alla grande tavolata per la servitù ognuno si serviva la sua porzione, e scoppiava a ridere contagiato da tutta quell’allegria che mai si era vista nelle cucine. Diego aveva espressamente richiesto di sedersi vicino a Lena e a Violetta, con grande gioia della prima e un po’ di imbarazzo della seconda. A Violetta parve strano tutto quell’entusiasmo da parte dell’amica, che sembrava pendere da ogni singola parola di Diego. “Dominguez” disse quando gli venne chiesto quale fosse il suo cognome. “Non penso qualcuno di voi lo conosca, perché non faccio parte di alcun albero genealogico importante” si affrettò ad aggiungere, di fronte ai borbottii curiosi partiti non appena aveva risposto.
“E come hai fatto a diventare così importante? Raggiungere il titolo di consigliere della regina…” domandò Lena completamente presa dal sorriso smagliante di Dominguez. Si, Lena aveva preso una bella sbandata, e lei, Violetta, non era l’unica ad essersene accorta. A suo parere anche Diego aveva capito, e non stava affatto rifiutando quelle attenzioni, anzi le incoraggiava prontamente, senza però esporsi più di tanto. All’improvviso Dominguez le apparve molto meno simpatico, e anzi, dava l’idea di stare recitando in modo impeccabile. Ma probabilmente era l’unica ad avere quel sospetto perché tutti lo trattavano come uno di famiglia; ridevano e scherzavano con lui senza alcun problema. Di tanto in tanto però si era ritrovata le occhiate indagatrici di Diego addosso, e cominciò a sospettare il motivo di quella recita. Diego aveva un unico interesse in quelle cucine, e sedeva proprio al suo stesso posto.
Con una scusa Violetta si congedò dalla tavolata, intenzionata a dirigersi direttamente nella sua stanza. Non gli piaceva averlo vicino, aveva qualcosa di strano. Insieme a lei anche Lara e Diego si alzarono e cominciarono a seguirla, primo tra i due Dominguez, e Lara poco dietro.
“Ho detto o fatto qualcosa che potesse infastidirti?”. Diego le aveva preso il braccio costringendola a voltarsi prima ancora che potesse intrufolarsi nell’area degli alloggi dei domestici. Violetta non sapeva che rispondere; non poteva certo attirarsi così la sua antipatia solo per qualche sospetto, quindi si costrinse a scuotere la testa, indicando poi con lo sguardo la mano con cui Diego le aveva afferrato il polso. Subito il consigliere sciolse la presa e borbottò qualche scusa per il suo comportamento impulsivo.
“Ero solo molto stanca…per questo volevo andare a dormire presto. Non c’è alcuna antipatia nei vostri confronti”. Diego alzò l’angolo della bocca, sorridendo amaramente: “Sei l’unica che continua a darmi del ‘voi’, e questo mi fa capire che la buona impressione che hai avuto all’inizio è cambiata radicalmente dopo qualcosa che hai visto o sentito”. Violetta avrebbe voluto rispondere che andava tutto bene, ma non ne ebbe il tempo che sopra le spalle di Diego vide in lontananza la figura di Lara che sorrideva beffarda. Ci mancava solo che architettasse qualcosa anche lei, oltre alla compagnia, mossa da chissà quale interesse, di Dominguez. Ma che aveva da sorridere in quel modo? Spostò lo sguardo verso destra e in cima alla scalinata vide che tutti gli ospiti si stavano ritirando nelle loro stanze accompagnati da Leon, il quale era rimasto fermo come un palo con lo sguardo rivolto verso di loro.
“Qualcosa non va?” chiese Diego, notando il suo sguardo terrorizzato. Si voltò e guardò verso l’alto: vicino a Leon, Ludmilla lo teneva sotto braccio ed aveva il sorriso ancora congelato sul viso.
“Adesso devo proprio andare” sussurrò Violetta, allontanandosi di corsa. Leon si riscosse di colpo di fronte alle continue chiamate della madre, e annuì appena con la solita espressione impassibile. Lara invece si godeva la scena soddisfatta, e venne raggiunta dal nulla da Jackie che era comparsa apposta per godersi la scena: quel Diego stava portando parecchi sconvolgimenti all’interno del castello, e questo tornava ovviamente a suo favore.
 
“Hai saputo della serata che ha organizzato stasera Jade? Addirittura ha fatto rimettere in sesto la sala da ballo per l’occasione”. Mentre parlava Lena rimetteva in sesto i cuscini con un’attenzione maniacale: era la prima volta che le era stato affidato il compito di mettere in ordine la stanza della regina, e un solo errore avrebbe potuto comportare il rotolamento della sua testa. Violetta annuì con aria assente; nel frattempo disfaceva il letto e faceva prendere aria alle lenzuola.
“Tutti quegli abiti eleganti…tutto quello sfarzo! Come mi piacerebbe esserci!” esclamò Lena emozionata per l’evento, e anche un po’ intristita dal fatto che non avrebbe potuto presenziarvi.
“Eh?” chiese Violetta, sovrappensiero; ancora ripensava all’espressione combattuta di Leon quando l’aveva vista in compagnia Diego. In effetti forse erano un po’ troppo vicini mentre parlavano ed essendo sera avrebbe potuto essere un comportamento fraintendibile ma ci teneva a chiarire con Vargas prima che qualcuno potesse mettere in giro voci malevoli, come ad esempio Lara.
“Meriteresti di essere invitata da Leon per stasera” esclamò Lena, sollevando un cuscino ed agitandolo in aria. “Non fosse per quell’arpia della regina…e so che non dovrei dirlo, per fortuna qui non ci sente nessuno. Ma mi stai ascoltando?”. Violetta alzò lo sguardo e scosse la testa sconsolata.
“Sono due giorni che non lo vedo ormai; a questo punto penso che abbia deciso di rendere contenta la madre e di sposare Ludmilla”. Il sorriso sulla faccia di Lena scomparve; inarcò le sopracciglia, arrabbiata: “Violetta! Ti sembra il caso di piangersi addosso in questo modo? Dopo tutto quello che hai passato a causa di Leon, dopo tutta la fatica che hai fatto per cambiarlo, adesso molli tutto solo per delle supposizioni?” cominciò a parlare, alzando pericolosamente il tono della voce. Si avviò a passo spedito di fronte all’imponente armadio bianco posto vicino alla finestra e lo aprì per poi cominciare a rovistare senza curarsi del fatto che se fosse stata sorpresa avrebbe potuto rischiare una terribile punizione. Ma Lena era una ragazza sveglia e avrebbe sicuramente inventato una scusa per l’occasione. Tirò fuori un abito lungo e semplice rosso scuro; sul corpetto erano tessute alcune rose nere che si intrecciavano, ma non erano eccessivamente lavorate, così che non saltassero troppo all’occhio. Soddisfatta dell’esito della ricerca, si avvicinò all’amica, la portò di fronte ad uno degli innumerevoli specchi che costellavano la stanza, e le mise davanti il vestito con disinvoltura e aria sognante.
“Ti immagini con un vestito del genere addosso? Faresti morire d’invidia persino Ludmilla, persino la regina di Cuori…e di fronte a tutta questa bellezza non credi forse che Leon cederebbe all’istante?” le sussurrò all’orecchio. Violetta era rimasta incantata dal suo riflesso. Non si era mai immaginata vestita in quel modo, ma dovette ammettere che le piaceva da morire. Una cintura fatta di piccoli rubini all’altezza della vita brillava nei suoi occhi ipnotizzati. Era così bello! La presenza di Lena venne sempre meno, fino a quando non la sentì più al suo fianco. Reggeva il vestito con la destra, mentre la sinistra si lasciava catturare dalla gonna leggera. Piegò la testa di lato, e osservò la cascata di capelli invadere morbidamente il tessuto e parte delle rose nere. Nemmeno a Carnevale, quando si mascherava da principessa, aveva mai posseduto un vestito del genere, e al solo pensiero di separarsene quasi provava una sottile sofferenza. Un vestito perfetto, un ballo, un principe…quelli erano sogni che era solita fare quando era bambina, quando leggeva le favole e passava il dito continuamente sulla scritta ‘E tutti vissero felici e contenti’. Non c’era però nulla in quella realtà che le facesse pensare ad una simile eventualità.
“Ha ragione Lena, ti sta d’incanto”. Voltandosi di scatto, vide Leon appoggiato allo stipite della porte, con le bracca incrociate e lo sguardo fisso costantemente su di lei. Si guardò intorno per un po’: Lena era scomparsa. “E’ uscita dicendo che doveva andare a prendere qualcosa…ma mi sembrava piuttosto una scusa” rispose divertito nell’osservare la faccia sconvolta della ragazza che si sentiva letta nel pensiero.
“Dovresti indossarlo” suggerì subito dopo tornando ad osservare il suo riflesso. Si staccò dallo stipite e a passo lento la raggiunse. Le sfiorò la vita con la mano e si posizionò dietro di lei, studiando anch’egli i dettagli del vestito.
“Non potrei mai. Ci mancherebbe solo che Jade mi scoprisse con questo indosso. Avrebbe un motivo in più per desiderare la mia morte” scherzò Violetta, lasciando però trasparire una nota amara. Eccome se avrebbe voluto indossare quell’abito! Ma i pericoli erano già troppi e onestamente non se la sentiva di rischiare per un semplice capriccio. Sentì la mano di Leon percorrere la sua schiena con cura, giocando di tanto in tanto con i lacci del vestito e immediatamente la bellezza di quell’abito passò in secondo piano, sovrastata dal ricordo delle emozioni che aveva vissuto in quella radura. Il tocco del principe aveva il potere di donarle i brividi, di farla arrossire, di provocare tutte quelle reazioni inconsapevoli nel suo corpo. Era una ragazzina che si stava affacciando a un nuovo mondo, più adulto, ma soprattutto misterioso, e in modo completamente inaspettato. Leon non solo la stava guidando per mano in quel viaggio, ma lo stava compiendo lui stesso per la prima volta al suo fianco. Era evidente dal modo in cui le parlava, dallo sforzo che compieva per non affrettare le cose. Si, quel fuoco appariva sempre nei suoi occhi, come un incendio scoppiato nel mezzo di una prateria, e mentre prima forse era solo curiosa di vederlo scatenarsi, adesso ne sentiva un bisogno assoluto. Si voltò di scatto e incontrò lo sguardo concentrato di Leon che prima era rivolto alla sua schiena.
“Sei arrabbiato?”. Non riuscì a trattenersi da quella domanda che gli premeva più di ogni altra cosa. Leon inclinò la testa di lato e aggrottò la fronte: “Di cosa stai parlando?”.
“Quando mi hai visto con Diego…ecco, sembravi arrabbiato” disse flebilmente, abbassando di scatto lo sguardo. Sentì la presa su di lei farsi più forte, ma non le fece male; anzi, in un certo senso le donava un senso di protezione che ricercava sempre tra le braccia di Leon.
“Avrei dovuto essere felice? Quel tipo è poco raccomandabile…non mi piace per niente”. Il tono era deciso e fermo, incrinato appena da una vena di gelosia, che però le fece spuntare un sorriso spontaneo.
“Non ti darà fastidio solo il fatto che…” cominciò a parlare Violetta, poggiando con cura l’abito sul materasso candido, e tornando a guardare Leon.
“Non dirlo! Non ci provare” la avvisò l’altro, riducendo gli occhi a due fessure.
“Che si fosse avvicinato a me…per parlare” concluse la ragazza, a un centimetro dalla sua bocca, mentre a stento riusciva a trattenere una risata. In tutta risposta Leon le prese i fianchi e cominciò a farle il solletico. Non sapeva se lo soffrisse o no, ma quello gli sembrava un buon momento per scoprirlo, e quando le sentì scoppiare a ridere con le lacrime agli occhi, mentre cercava di dimenarsi fu soddisfatto di constatare che i suoi sospetti corrispondessero a verità.
“Basta, ti prego” lo supplicò invano Violetta, ma Leon non si sarebbe fermato per nulla al mondo. Solo sentire quella risata armoniosa era un motivo valido per continuare in eterno. Mentre senza alcuno sforzo cercava di trattenerla e continuarle a farle il solletico, perse l’equilibrio e cascò di schiena sul letto, tenendosi stretto il corpo di Violetta. Si ritrovarono a fissarsi negli occhi, e Leon lasciò la presa; Violetta appoggiò le mani sul suo petto, e si erse leggermente, avvicinando però il viso verso il suo. Il principe si poggiò velocemente sui gomiti, per facilitarle il compito, e lasciò che le labbra della ragazza lo catturassero ancora una volta. La dolcezza di quel bacio era infinita, così come era il desiderio di ciascuno dei due che potesse essere sempre così. Si separarono quasi in un sussulto; si stavano esponendo ancora una volta di fronte a un pericolo non indifferente, per di più se fossero stati colti di sorpresa in un momento del genere nelle stanze di Jade la loro colpa sarebbe stata perfino aggravata. Violetta scattò di lato, prendendosi la testa tra le mani e scuotendola piano, la mente era ancora annebbiata dal calore del corpo di Leon su cui fino a poco tempo prima era distesa. Vargas le poggiò una mano sulla spalla, comprendendo i suoi pensieri e le sue paure, quindi la strinse forte in un abbraccio, facendole poggiare il capo sul petto, mentre le accarezzava i capelli. Non riusciva a vederla in quello stato: per colpa sua Violetta era divisa in due. Da una parte ricambiava quell’amore che ormai era inevitabile sopprimere, dall’altra provava paura, e non era da biasimare. Era forse lui l’egoista nel volerla avere ancora al suo fianco? Se non si fosse innamorato di lei, forse le avrebbe risparmiato tanti dolori. Se si fossero limitati a stare distanza, non sarebbe mai successo nulla. Ma quella volta l’aveva sentita cantare, ed era cambiato tutto troppo in fretta. Adesso non poteva più tornare indietro. L’amore poteva essere anche tanto egoista? In fondo anche lui soffriva, sebbene non lo desse a vedere: da quando era cambiato gli incubi erano peggiorati, il senso di colpa era diventato talmente logorante da distruggerlo. La sua unica luce risiedeva in quella piccola creatura che stringeva tra le sue braccia e che non voleva lasciare andare. Senza di lei a quest’ora sarebbe stato perso.
Jackie si nascose dietro il muro esterno alla stanza, cercando di non farsi vedere; aveva potuto osservare quasi tutta la scena, ed era combattuta sul da farsi: raccontare tutto a Jade non sarebbe servito a nulla, visto che sembrava che tra lei e il principe ci fosse una sfida in corso, per il momento vinta da quest’ultimo. No, questa volta aveva intenzione di agire per conto proprio e aveva trovato quello che faceva per lei.
 
Quella sera la servitù finì prima i suoi compiti, dopo aver allestito la sala da ballo, e aver aiutato ai musicisti provenienti dalle città vicine a predisporre ogni singolo strumento per la festa, tirando fuori gli ottoni tenuti al sicuro in qualche sperduto magazzino del castello e lucidando il pianoforte fino a renderlo lucido come uno specchio. Quando Lena e Violetta però aprirono la porta della loro stanza non si aspettavano certo quella sorpresa. Sul letto, appoggiato con cura, c’era proprio il vestito che quella mattina avevano preso ‘in prestito’ dal guardaroba di Jade per provarlo e fantasticarci su. Violetta rimase interdetta, invece Lena, immaginando tutto, si precipitò in tutta furia, scrutando attentamente intorno, e sopra l’abito, per poi estrarre con un sorriso trionfante un bigliettino ripiegato con cura.
“Lo sapevo!” esclamò eccitata, saltellando sul posto, mentre teneva stretto quel piccolo pezzetto di carta, che tra le mani ben poco sicure di Lena avrebbe presto fatto una brutta fine. “E’ un invito di Leon per stasera! Sarete come principe e principessa” aggiunse, passandole il biglietto, e poi buttandosi sul suo letto con un sospiro felice. Violetta aprì con mani tremanti il messaggio, e quando riconobbe la firma di Leon il suo cuore fece una doppia capriola. Eppure un sospetto fin troppo forte aveva raggiunto la sua testa: e se anche quello non fosse altro che un modo per farla cacciare in qualche guaio, come era successo per il labirinto?
‘Mi faresti l’onore di essere la mia principessa? Voglio che tutti possano ammirare quello che ho visto io stamattina’. Si portò una mano al cuore sollevata: si, era Leon. Chi altri poteva sapere di quello che era successo quella mattina nella stanza di Jade? Nonostante ciò quell’invito le sembrava fin troppo rischioso, anche per Vargas stesso. Come gli era venuto in mente di invitarla? Presentarsi a quella festa già sarebbe stato imbarazzante di suo, con quell’abito poi, che Jade avrebbe potuto riconoscere come suo!
“Ovviamente non andrò, e stasera approfitterò della festa per riportare questo vestito nella stanza della regina” esordì, sedendosi sul cuscino, e continuando a fissare con desiderio quel vestito: quanto era bello! Più lo guardava, più ne rimaneva affascinata. Alcuni dettagli poi che aveva rimosso gli fecero desiderare ancora di più di indossarlo.
“Tu cosa?”. Lena, che era rimasta stesa a pancia in giù, subito si drizzò nuovamente in piedi, scioccata e arrabbiata per quella notizia. “Non puoi buttare al vento questa occasione che hai! Potrai finalmente far vedere al mondo che hai sciolto il cuore di ghiaccio di Leon Vargas. Non uno qualsiasi, parliamo di Leon Vargas! Il temibile Leon Vargas!”. Proseguiva infervorata, come se da quel discorso dipendesse qualcosa di essenziale per la sua vita. Nonostante le sue reazioni esagerate la spaventassero a morte, Violetta dovette ammettere che la sua compagna di stanza sapeva essere molto convincente, ed ebbe l’impulso anche lei di scattare in piedi e seguire quei consigli all’istante. “Ci vado!” esclamò infatti, quasi inconsapevolmente, ottenendo un appoggio incondizionato di Lena.
Non passò neppure un minuto però che cambiò idea. “Non ci vado. Non posso. Ho paura!”. Altri minuti in cui Lena le fece forza, mentre la liberava delle vesti da lavoro, e la aiutava a indossare il vestito di Jade. Probabilmente la donna lo doveva aver indossato quando era giovane, perché le stava davvero alla perfezione. Mentre Lena le pettinava i capelli, sedute sul letto, fu tentata di mollare tutto, poi di nuovo pensò che doveva trovare il coraggio di andare. La sua mente faceva avanti e indietro come su un tavolino da ping-pong da una parte all’altra, da un ‘ci vado’ a un ‘non posso andarci’. Si guardò allo specchio, e non si era mai vista così: Lena aveva fatto anche un ottimo lavoro con i capelli, raccogliendoli di lato; le scivolavano delicatamente sulla spalla, e non erano mai stati tanto curati, nemmeno quando si trovava nel suo mondo. Odiava passare il tempo a pettinarsi, la riteneva una cosa stupida e inutile, ma vedendo l’effetto ottenuto dovette ricredersi.
Ancora una volta ebbe un attacco di panico e pensò di non presentarsi più; ma quando le venne sbattuta la porta letteralmente in faccia, mentre faceva marcia indietro si ritrovò con le mani legate. Poteva ancora sgattaiolare nella stanza di Jade e mettere tutto a posto? Non sapeva come, ma non poteva presentarsi a quella festa. Stava appunto per cercare un’alternativa valida per evitare quella porta quando Diego le si fece incontro con un sorrisetto sicuro di sé. Gli occhi per un istante gli brillarono, ma subito quella luce si perse nel buio.
“Ma quanta bellezza! Ci onorerai della tua presenza?” chiese, porgendole il braccio con fare galante. Si avvicinò maliziosamente al suo orecchio, facendola avvampare: “Qui non ci vede nessuno…il tuo Leon non ci creerà alcun problema”. Si allontanò e le fece l’occhiolino rinnovando poi l’invito, che Violetta non si sentì di rifiutare. Ormai le sembrava inevitabile entrare in quella sala, ma almeno non l’avrebbe fatto da sola. Per quanto strano e anomalo, c’era Diego al suo fianco, e questo le dava in qualche modo sicurezza.
Le porte si aprirono di fronte a un gesto imperioso di Dominguez, e subito venne abbagliata da una luce fortissima, proveniente dall’enorme lampadario appeso al soffitto illuminato con centinaia di piccole candele per l’occasione. Dai bracci argentati sporgevano tante piccole gocce di cristallo che creavano riflessi al cui interno venivano racchiusi i colori dell’arcobaleno. Non c’era tanta gente, ma non appena entrati si sentì talmente tanti sguardi addosso che le sembrava di essere in mezzo ad una folla pressante. Su tutti svettava Leon, che per l’occasione indossava dei pantaloni di velluto verde bottiglia aderenti, e una veste di un azzurro tenue con una giacca piena di bottoni dorati e ricami argentei. Teneva in mano, o meglio stritolava, un calice di vetro, riempito con del liquido rossastro. Non le staccava lo sguardo di dosso, e probabilmente davanti alla sorpresa di vederla lì con quel vestito, aveva prevalso ben altro. Violetta cercò di fingersi indifferente, e avanzò fino a raggiungere il centro della sala, dove Diego con un inchino le propose di ballare. La musica partì lenta e dolce, e Diego le circondò la vita con un braccio, conducendola in una sorta di valzer. “Guardano tutti noi” ghignò con soddisfazione Diego, facendo un lieve inchino col capo.
“Mi sento parecchio a disagio…non dovrei essere nemmeno qui!” rispose la Castillo, guardandosi intorno terrorizzata.
Leon osservava la scena a dir poco furioso. Non riusciva a sentire neppure quello che le stava dicendo una nobile con cui fino a poco fa stava intrattenendo una conservazione, e onestamente non gliene importava proprio nulla. Con la coda nell’occhio osservava ogni loro singolo movimento, e si rese conto di non essere l’unico a farlo: anche Ludmilla pareva innervosita dallo spettacolo che aveva messo su Diego. Ma nessuno poteva uguagliare la rabbia che provava Jade in quel momento. Persino lui, che fortunatamente era a debita distanza dalla madre, la avvertiva; non solo una serva si era presentata ad una festa senza un invito, ma adesso osava anche indossare quello che riconobbe subito come uno dei suoi vestiti. Quello era proprio un guanto di sfida che le era stato gettato in faccia, e da quella guerra non poteva né voleva esimersi. Ricordava ancora ciò che le avevano mostrato le ombre, e quell’incubo assunse un’aria sempre più concreta, al punto che per un  momento le sembrò di vedere la sua corona sul capo della giovane. Fece addirittura cadere la tartina che aveva in mano sotto lo sguardo allibito di alcuni invitati che le erano vicini. Si poteva quasi dire che le fumavano le orecchie per quanto erano diventate rosse per la collera. Ciò che più la mandava in bestia era il fatto di non poter agire: se l’aveva invitata Diego allora non poteva alzare un dito. Ma gliel’avrebbe fatta pagare in ogni caso, almeno per la storia del vestito. Eccome se gliel’avrebbe fatta pagare. Fece qualche passo in avanti, intenta a interrompere la musica e tutto, ma gli ospiti si misero in mezzo, contenti che finalmente qualcuno si fosse deciso ad aprire le danze. Leon approfittò subito di tutta quella confusione per farsi strada fino a raggiungere i due che continuavano a ballare indisturbati. Diego le aveva sussurrato all’orecchio qualcosa ed adesso lei rideva. Con i muscoli della faccia tesi al massimo, diede un piccolo colpetto alla spalla del consigliere di Quadri, che subito si voltò disponibile.
“Principe” lo salutò, staccandosi subito dalla sua dama, e rivolgendogli un debole inchino, sempre con quel sorrisetto beffardo. Leon sentiva che il suo pugno aveva un forte desiderio di spegnere quell’espressione divertita e provocatoria, ma non voleva certo far scattare un incidente diplomatico solo per la sua gelosia e possessività. Però non poteva nemmeno lasciare che continuassero a ballare spensierati, facendogli saltare letteralmente i nervi. C’era solo un’opzione, che era anche quella che il suo cuore gli stava suggerendo da quando l’aveva vista, e da quando il suo cervello si era completamente disconnesso di fronte a quello splendore. Il suo splendore. Si, ci teneva a ribadire che fosse suo e di nessun altro.
“Volevo chiedere alla damigella di concedermi un ballo” spiegò dopo un interminabile silenzio, in cui Violetta lo guardava confusa. “Sempre che non crei disturbo a nessuno dei due, ovviamente” si affrettò a dire, mentre Diego già aveva alzato le mani con aria rassegnata in chiave chiaramente ironica, e si stava dirigendo verso il tavolo dove venivano servite tartine, per procurarsi qualcuna di quelle prelibatezze.
Leon fece cenno come per chiederle il permesso anche solo di toccarla. Violetta si avvicinò con le guance in fiamme, e lasciò che il principe le cingesse la vita. Non era la prima volta che lo faceva eppure quella volta era diverso: era davanti a tutti. Era vero che nessuno li degnava di particolare attenzione, ma per lei era comunque motivo di imbarazzo e allo stesso tempo di compiacimento. Leon l’attirò prontamente a sé, facendo aderire i loro petti, e rimasero a fissarsi negli occhi per troppo tempo, dimenticandosi persino della musica. Rendendosi conto di aver esagerato, rallentò la stretta, e cominciò a muovere qualche passo. Odiava ballare più di ogni altra cosa, ma insieme a Violetta non si trattava più di qualcosa che avesse a che fare col ballo. Era come se gli fossero spuntate delle ali, e si muovessero sulle nuvole; perso nei suoi occhi poteva vedere i riflessi del cielo; solo nella sua mente certo, ma bastava a farlo sentire libero. Libero come una colomba, libero come l’acqua scrosciante di una cascata. Semplicemente libero. Sentì il bisogno di stringerla nuovamente, e stavolta lo fece.
Violetta poggiò il capo all’altezza del cuore del principe, che sentiva battere. Batteva per lei, e il solo pensiero le fece spuntare un sorriso. In fondo Lena aveva ragione: era stato merito suo se Leon avesse sciolto il suo cuore di ghiaccio, merito della sua tenacia. Le mani dalle spalle, gli circondarono il collo, lasciandosi cullare dal suo abbraccio.
“Non so perché tu sia qui, ma sei bellissima” le sussurrò dolcemente Vargas, facendole alzare lo sguardo.
“Non mi hai invitato tu?”. Leon scosse la testa allibito quanto lei: “Non avrei mai fatto una cosa tanto rischiosa! Dobbiamo ringraziare Diego se mia madre non ha mosso un dito. Pensavo ti avesse invitato lui” disse, con evidente stizza al pensiero che Dominguez avesse chiesto a Violetta di essere la sua dama.
“Ma allora…hanno cercato di tendermi una trappola? Non è possibile, solo tu e Lena sapevate di questo vestito” mormorò Violetta, rimanendo nella convinzione che solo Leon avrebbe potuto mandarle quel biglietto.
“A quanto pare non era così…e se quel Diego non la smette di fissarci lo infilzo come uno spiedino” digrignò Vargas tra i denti. La musica cessò, per poi riprendere più allegra e incalzante. Fu in quel momento che Leon le prese la mano, guidandola al di là dello spazio adibito per danzare. Violetta lo seguì confusa, fino a che il ragazzo stesso non pose fine ai suoi interrogativi. “Andiamo solo in un posto dove poter parlare indisturbati” la rassicurò guardando dritto davanti a sé con indifferenza, lanciando un ultimo sguardo di disprezzo a Diego, e sbattendo dietro di sé il portone.
Ludmilla cercava Leon in mezzo alla folla, ma lo vide solo per un attimo allontanarsi in compagnia di Violetta. Quella serva…le dava enormemente fastidio che avesse ballato col suo Diego, ma non intendeva rovinare tutto per il senso di gelosia, che mai aveva provato prima di allora. Aveva un solo obiettivo. Continuava a ripeterselo come una formula magica per ottenere ciò che voleva. Si avvicinò lentamente a Jade che ancora era rimasta profondamente scossa dalla presenza di Violetta, e soprattutto del fatto che avesse addirittura ballato con suo figlio. Vide però Jackie, alla sua sinistra sogghignare soddisfatta, e immaginò che dovesse esserci qualcosa che le nascondeva. Non aveva tempo di pensarci però, perché quella serata era l’occasione per consolidare il loro accordo.
“Mi chiedevo” intervenne, ottenendo l’attenzione della regina “Come potrei essere sicura che il nostro patto verrà rispettato da entrambe le parti. Io per certo so che sposerò Leon e manterrò fede alla nostra alleanza, ma come faccio a sapere che abbiate ancora con voi ciò che cerco?”.
Jade sventolò una mano in aria annoiata. “Bazzecole! Hai la mia parola, che altro ti serve?”. Ludmilla non batté ciglio, e si fece ancora più vicina.
“Voglio vedere la spada” sibilò decisa; Jade rimase sbigottita, e già immaginava che avrebbe opposto resistenza, adducendo assurdi pretesti, e invece semplicemente annuì. “Mi sembra corretto. Vieni con me” le ordinò, facendosi largo, fino ad uscire dalla sala da ballo, seguita da Ludmilla e Jackie.
La biblioteca era deserta e alla luce di alcune fiaccole Ludmilla rimase in disparte su ordine di Jade, sorvegliata a vista da alcune guardie. Quell’imponente ambiente di notte assumeva un aspetto spettrale, e le vennero i brividi.
“Fatto” esclamò la regina, facendole cenno di seguirla. Dove prima si trovava una libreria c’era uno stretto corridoio di pietra. Seguita da una sentinella, rischiò un paio di volte di inciampare in qualche lastra di pietra dissestata, e imprecò tra sé e sé. Ma dove la stavano portando? Lei aveva chiesto di vedere la spada, non di finire in un luogo del genere. Questo dimostrava ancora una volta che Jade sapeva essere veramente priva di classe. Allontanò schifata con la mano i resti di una ragnatela fatta a pezzi: lei lo scudo almeno lo aveva custodito in un posto degno del suo valore. Stava per chiedere quanto ancora mancasse quando una flebile luce gialla e un ruggito in lontananza non le diede un’implicita risposta. Erano quasi arrivati. Sentì il sudore scorrerle verso la fronte, e allo stesso tempo l’eccitazione nel vedere uno degli antichi cimeli del Paese delle Meraviglie. Desiderava così tanto quella spada che poteva già sentire il freddo metallo dell’elsa tra le dita.
“C’è un qualche mostro?” chiese, sentendo quei sibili e boati. Jade si voltò: la perfidia nel suo volto era accentuata dalla luce della torcia. “Molto di peggio, ma vedrai con i tuoi occhi”.
Non appena entrati la luce dirompente dorata la costrinse a proteggersi la vista con il braccio. Quando le sembrò che l’intensità fosse diminuita o che comunque potesse essersi abituata, lo abbassò piano, per la prima volta in vita sua impaurita. Un gigantesco cobra dorato occupava quasi tutta la stanza, e la testa raggiungeva persino il soffitto. Ma ciò che la sorprese è che non si trattava di una creatura realmente esistente, poiché la sua pelle era trasparente; sembrava più un fantasma ad essere sinceri. Tra le sue spire su un piedistallo giaceva la spada, protetta da una teca di vetro.
Su una parete della stanza era appoggiata un’enorme siringa di vetro, ma non sapeva in che modo potesse entrarci con quel prodigio. Il serpente spalancò le fauci, e mostrò la lingua biforcuta, sibilando e stridendo. La coda vibrò per qualche istante, prima di tornare immobile. Jade osservava compiaciuta la scena, e poggiò una mano sulla spalla della Ferro.
“Tranquilla, non ti farà nulla” disse notando il terrore che si era impadronito della regina di Quadri. “Ammira, ammira la perfezione della mia creazione. Perché questo è il mio personale protettore della spada, e nulla può distruggerlo” sorrise sorniona, allargando le braccia, e indicando la piccola stanza buia. A quel gesto, il cobra si serrò ancora di più intorno alla spada, quasi sentisse gli ordini della padrona, e volesse dimostrarle di stare svolgendo il suo compito più che adeguatamente. 












NOTA AUTORE: Nulla di ciò che direte o farete mi farà venire meno dalla consapevolezza che questo capitolo non solo è scritto con i piedi (e mi sanguinano gli occhi solo a rileggerlo, solo che avrei dovuto riscriverlo tutto, e non potevo, mi ci sarebbe voluto un mese per tirare fuori qualcosa di buono, ma va bene, siate indulgenti), ma è pure noioso...mi scuso con i lettori, che dopo questo capitolo si saranno praticamente addormentati, ma guardate il lato positivo, abbiamo trovato un nuovo sonnifero :D Detto questo, riassumo brevemente la situazione che si è delineata. Violetta è stata incastrata (di nuovo), e indovinare un po' da chi (per chi indovina tanti dolci xD) e con l'aiuto di chi (se non ci arrivate lo saprete nel prossimo capitolo). Pooooi, Leon e Violetta sono la mia unica gioia in questo capitolo, insieme ad una Lena che è diventata una tifosa utlras dei Leonetta, mentre fino a pochi giorni prima era contraria O.O Ma si sa, l'amore è l'amore, e alla fine ha capito secondo quale ottica deve vedere le cose *fa un applauso a Lena* Diego nel frattempo si guadagna le simpatie di tutti, ma non di Violetta, che sospetta qualcosa. Ballano anche insieme -.-" MA POI ARRIVA LEON, ed è la gioia massima :3 Quanto è teneroso quando è geloso <3 Vabbè, detto ciò arriviamo alla parte più interessante. La spada. Cuori. Cobra gigante. Ma non sappiamo che cos'è. In effetti non si tratta di una vera e propria creatura, perchè come avrete capito ha a che fare con Thomas, e nel prossimo capitolo saà spiegato tutto per benino :3 Grazie a tutti voi che mi seguite, che leggete questo capitolo (che brucerò non appena sarà possibile), e niente, alla prossima! Buona lettura *ironico* 
syontai :D 

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Capitolo 44
*** Un solo corpo, una sola anima ***





Capitolo 44

Un solo corpo, una sola anima

“Che cosa sarebbe?” balbettò la regina, che eppure di fronte alla magia non aveva mai battuto ciglio. Ma le gambe quasi cedettero di fronte al terrore che le mettevano gli occhi cavi del serpente, ipnotici e mortali.
“E’ una creatura nata dalla magia. Non esiste davvero, ma è la personificazione di una barriera magica. Non ti avvicinare, risucchia l’energia vitale. E ovviamente non ti conviene nemmeno provare ad attraversarla, ti disintegrerebbe all’istante. Neppure la più potente delle magie potrebbe distruggerla o aiutare ad eluderla” spiegò con fierezza Jade. “Una volta terminato l’accordo potrai avere quella spada”. Nonostante all’inizio fosse rimasta sconvolta da quel serpente, Ludmilla si mostrò fredda e determinata, e anzi sentiva le mani pruderle per l’impazienza. Quanto voleva quella spada! Era così vicina e allo stesso tempo lontana, da innervosirla ulteriormente.
“Affrettiamo queste benedette nozze allora!” sbottò acidamente, lasciando sorpresi tutti nella stanza, prima tra tutti la stessa Jade. Come mai quell’irrispettosa regina voleva la spada di Cuori? Che cosa le nascondeva di tanto importante? La stava forse raggirando, costringendola a cedere un oggetto tanto importante? Si voltò verso il custode della spada, ed osservò attentamente la teca: no, non c’era nulla di cui preoccuparsi veramente. Per quanto potente, quella spada non avrebbe reso il suo esercito invincibile, e invece lei doveva vincere quella guerra. Voleva il Regno di Picche ai suoi piedi, sentire la voce supplichevole di Pablo che la implorava di essere risparmiato. Non desiderava altro.
“E quella a cosa serve?” chiese Ludmilla, avvicinandosi alla siringa di vetro posta sulla parete adiacente a quella in cui si erano appiattiti loro.
“Non toccarla! Quella siringa serve per estrarre il sangue da cui è stato possibile generare questa magia” spiegò Jade, mettendosi in mezzo per non permetterle di procedere oltre.
“Sangue? Questa barriera si alimenta con…del sangue?”. Ludmilla era vivamente sorpresa: conosceva parecchi sortilegi ed era sempre stata abile con il maneggiare alambicchi pieni di strane e colorate sostanze, ma mai le era capitato di avere a che fare con del sangue per un incantesimo del genere.
“Non sangue qualsiasi, ovviamente. Serve il sangue di una delle più antiche creature del Paese delle Meraviglie, un tipo di sangue che scorre in ciascun antenato della ormai perduta stirpe dei Bianconigli. Il sangue di Bianconiglio ha il potere di annullare qualunque magia, ed è a sua volta un’arma mortale”. “Quindi voi possedete uno di questi…Bianconigli?” domandò Ludmilla, interessata. Ancora non sapeva come non potesse essere venuta a conoscenza di una simile formula.
“Lavora per me a palazzo. Ovviamente è costretto a mantenere il segreto. Quando gli viene prelevato il sangue subisce degli sbalzi emotivi parecchi forti, ma è per lo più irrilevante” aggiunse con voce annoiata.
“E non hai paura che tenti la fuga?”
Jade scoppiò a ridere crudelmente: “Nessuno può fuggire da questo posto, e se anche ci riuscisse non passerebbe un giorno che lo troverei”.
“La barriera è quindi invincibile finché avrai il possesso del Bianconiglio?”
“Ovvio” mentì la regina di Cuori. In realtà un modo per aggirare l’incantesimo c’era, ma aveva fatto in modo che non potesse verificarsi, e aveva tenuto unicamente per sé quel segreto.
“E se qualcuno cercasse di uccidere la fonte di tale magia?” cercò di metterla in difficoltà Ludmilla.
“Quel ragazzo è sorvegliato da decine di guardie a sua insaputa mattina e sera. Non succederà nulla. Inoltre non ho paura che mi faccia qualche scherzo, perché non è nient’altro che un codardo. Un coniglio di dato e di fatto”. Rise di gusto per la battuta, quindi fece un cenno alle guardie, affinché le scortassero nuovamente fuori.
 Ludmilla diede un’ultima occhiata alla spada, sicura che questa volta sarebbe stata al sicuro. O almeno così sperava.
 
“Dove stiamo andando?”. Niente, Leon non le diede alcuna risposta, solo si guardava intorno a procedeva a passo spedito tenendole la mano e trascinandola dietro. “Va bene, Leon, non rispondermi” continuò a parlare, sentendosi completamente ignorata. Vargas procedeva dritto, svoltando a volte di colpo. Si fermava, guardava a destra e a sinistra, e poi proseguiva. Stava quasi per domandargli nuovamente dove fossero diretti, quando all’improvviso la fece finire spalle al muro.
“Qui non ci disturberà nessuno” soffiò appena sulle sua labbra, prima di baciarla appassionatamente. Poggiò i palmi sulla parete, intrappolandola con le sue braccia. Le morse il labbro inferiore con forza, facendole emettere un debole lamento, come se intendesse rimproverarla di qualcosa. E in effetti era proprio così. “Che ci facevi con Diego?” chiese serio, subito dopo essersi separato con gli occhi puntati nei suoi. Ogni secondo che passava lo rendevano ancora più incerto e nervoso, ed era chiaro dal modo in cui prima si accostava al suo corpo, e subito dopo si separava.
“Nulla! L’ho incontrato davanti alla sala da ballo, e…mi ha invitato ad entrare con lui. Tutto qui, davvero”. Gli sfiorò la guancia con una carezza ricca di affetto e sincero dispiacere per avergli fatto pensare a chissà cosa.
“Non…non senti nulla per lui, vero?”. Quella domanda a bruciapelo la colse di sorpresa, un po’ per l’imbarazzo con cui era stata posta, un po’ per l’assurdità del suo contenuto. Era davvero la paura di perderla tanto grande da fargli temere l’eventuale presenza di un rivale? Non voleva che avesse dubbi su ciò che li legava, lei almeno non ne aveva. Gli prese il viso tra la mani e lo condusse lentamente verso il suo, facendo appena sfiorare le loro labbra. Erano calde e sapevano di lui. Non si era mai soffermata troppo fino ad ora su quei piccoli dettagli, troppo presa dalle intense emozioni che le provocava, ma immersi nell’oscurità, quelli apparvero amplificati, così come la morbidezza e la dolcezza della bocca del principe che la chiamava irresistibile.
“Non ti fidi di me?” gli chiese, accarezzandogli il viso. Leon aveva chiuso gli occhi, e si lasciava condurre come un cieco faceva col proprio bastone.
“Io…io mi fido” balbettò a fatica; il fiato le si infranse sul viso, con la consistenza e la freschezza di una tiepida nuvola. Sentì il corpo del principe fremere dalla voglia di baciarla, e lo lasciò fare, perdendosi anch’essa in quel desiderio. La mano destra di Leon accarezzò piano il suo profilo, abbassandosi sempre di più, attratta dalla sua coscia. Non appena la ebbe sfiorata però, deviò bruscamente traiettoria tornando ad accarezzarle il fianco. Violetta sapeva che Leon stesse cercando di trattenersi, ma sapeva anche che da parte sua invece stava succedendo tutto il contrario. Più Vargas esitava, più lei sentiva il bisogno di sentirsi sua. Quando il corpo di Leon aderì al suo, sentì le fiamme scorrerle nelle vene, e un desiderio insopprimibile di togliergli quella giacca, di sfilargli la maglietta, di baciare la sua pelle. La ragione prevalse sui suoi istinti, facendola sentire stupida e infantile. Leon si stava comportando come un cavaliere, evitando di approfittare di lei, sebbene il vecchio principe avrebbe potuto trovare innumerevoli occasioni, e lei se ne usciva con quei pensieri.
“Va tutto bene?” chiese Leon, con il respiro irregolare, separandosi di scatto. Aveva avvertito il corpo di Violetta diventare come rigido, e per questo pensava di essersi spinto troppo oltre. Era l’ultima cosa che voleva fare, e cercò di rimediare alla sua irruenza, imponendogli un freno. Le accarezzò piano i capelli, e le spostò una ciocca dietro l’orecchio, percorrendone il contorno con il dito non appena compiuta quell’azione. La vide scuotere lentamente la testa con le guance in fiamme, e sorrise spontaneamente. Da quando si era accorto di amarla aveva imparato a sorridere sempre più spesso, e quando vedeva che esso veniva ricambiato, si sentiva ancora più leggero e felice. Violetta gli circondò la schiena con le esili braccia, e si tuffò in un abbraccio che le fece dimenticare ogni singola preoccupazione. Leon le accarezzava i capelli piano, e le sussurrava qualcosa di dolce all’orecchio. La sua voce era in grado di cullarla, di farla stare bene. Le accarezzava dolcemente la schiena, e le lasciava di tanto in tanto dei baci sul capo, stringendola ancora più forte.
“Lo senti?” le disse a voce bassa, accarezzandole la guancia con il pollice. Violetta assunse un’espressione interrogativa, e Leon le stampò un dolce bacio sulle labbra. “Con quest’abbraccio volevo trasmetterti tutto quello che provo per te…”. Abbassò gli occhi arrossendo, e Violetta ricercò il suo sguardo fuggente. Non avrebbe permesso che fuggisse per tutto l’oro del mondo; amava quando Leon risvegliava quell’animo tenero da bambino che per tanti anni era stato tenuto prigioniero dentro di lui, e che solo adesso stava tornando ad emergere. “L’a-l’amore che provo per te, insomma” aggiunse come se fosse una cosa di poco conto.
“Oh, Leon!” esclamò con le lacrime agli occhi saltandogli praticamente addosso. Leon rimase rigido come un palo, non sapendo in che modo dovesse comportarsi. Si sentiva sempre così stupido di fronte a lei, ma anche solo stringendola in un abbraccio il cuore gli si apriva di colpo mostrandogli particolari del suo carattere di cui lui stesso non era a conoscenza. La amava. Non in modo superficiale, era qualcosa di profondo e oscuro, come un abisso sconosciuto, che però celava forse i tesori più ricchi, quelli di antichi vascelli affondati. Aveva paura di scendere sempre di più in quel mare nero, però non poteva farne a meno, attratto dalla dolce voce di una sirena. La sua Violetta era tutto ciò di cui aveva bisogno, il resto era superfluo. E mentre lei ricambiò a parole l’amore che sentiva nei suoi confronti, ancora stretti l’uno all’altro, si promise per l’ennesima volta che mai l’avrebbe lasciata andare. Mai.
 
Ludmilla fissava in cagnesco Diego, una volta soli nella stanza, e faceva avanti a indietro di fronte a lui, cercando le parole giuste per cominciare a riprenderlo. Dominguez dal canto suo non provava né caldo né freddo per quella scenata di gelosia, perché sapeva bene di avere un forte ascendente sulla regina, quindi rimase semplicemente fermo, con le braccia distese lungo i fianchi e l’aria innocente.
“L’hai portata al ballo!” esclamò adirata, mentre lanciava una delle scarpe che si era tolta dall’altra parte della stanza in un gesto di stizza.
“Era già vestita per la festa…ci sarebbe venuta comunque” rispose prontamente l’altro, scompigliandosi il ciuffo scurissimo che gli stava iniziando a coprire la fronte. Si tolse i gemelli con il simbolo del regno che aveva sulla manica all’altezza dei polsi e li gettò sul letto, per poi sedersi e incrociare la gambe.
“Non so a che gioco tu stia giocando, ma a me non piace per niente! Essere gentili e farsi la servitù amica per raccogliere informazioni è un conto, aiutare l’amante del principe ad intrufolarsi alla festa per il mio arrivo, è tutt’altra cosa” sbottò, sciogliendosi i capelli con un colpo deciso, e sistemandoli dietro le spalle. Diego si alzò e le prese la mano, così che la ragazza si fermasse.
“Forse hai ragione, forse ho esagerato, ma se Jade non si fosse innervosita così tanto per la vista di Violetta, tu forse non avresti ottenuto il permesso per vedere la spada. A proposito ti sembra ben protetta?”. Era davvero bravo a cambiare discorso. Ludmilla tornò col pensiero a quella stanza, a quel serpente gigante che custodiva il magico oggetto, e tutta la rabbia della serata svanì, sostituita da un’eccitazione sempre crescente.
“Si, l’ho vista, e devo dire che Jade sa il fatto suo in quanto a protezioni. Ha costruito una barriera magica potentissima, che non penso possa essere spezzata. Nemmeno un mago come Ana riuscirebbe a fare qualcosa”.
Diego fischiò sorpreso, e alzò gli occhi al cielo. “Allora siamo in una botte di ferro!” esclamò con un sorriso vittorioso.
Ludmilla lo zittì, sedendosi al lato del letto, e prendendo una spazzola d’avorio dal comodino. Spazzolava con cura i suoi capelli dorati e lucenti, mentre lo sguardo era fisso allo specchio che aveva di fronte. “Come procede piuttosto il recupero dell’elmo?”. Il consigliere rimase in silenzio, facendola preoccupare ulteriormente.
“Ne abbiamo perso le tracce”. Ludmilla impallidì, e il mondo le crollò addosso: come era stato possibile? “Come è successo?” chiese con freddezza. La finestra si spalancò di colpo, e un vento gelido invase la stanza, spegnendo con un prepotente soffio tutti i mozziconi di candela rimasti accesi. La rabbia si era impossessata della sua mente, ma era preparata a tutto. Non avrebbe lasciato che essa predominasse rovinando il suo piano, il cui carattere fondamentale era costituito dalla pazienza.
“Lo ritroveremo”. Quelle erano le parole che voleva sentire, aveva bisogno di conferme, di certezze, e lui era in grado di fornirgliele sempre e comunque. Diego si alzò e si diresse verso l’uscita; proprio mentre stava girando la maniglia della porta, Ludmilla lo chiamò.
“Diego, perché non rimani qui con me stanotte?” gli chiese innocentemente, distendendosi e chiudendo gli occhi, aspettando che il ragazzo la raggiungesse. Il consigliere però scosse la testa, e aprì la porta.
“Meglio di no, mia regina” disse con tono distaccato. Ludmilla allora si rimise seduta corrucciata.
“Non ti starai innamorando della ragazzina?” lo punzecchiò infastidita, aspettando una risposta, che sperava ovviamente essere una smentita. Essa non tardò infatti ad arrivare: “Affatto. Ma ho alcune cose da portare a termine, se vogliamo recuperare quest’elmo prima che ci scompaia da sotto il naso”. Il consigliere indicò il medaglione che teneva stretto nella sinistra, e le fece l’occhiolino. Ludmilla sbuffò ma con un gesto della mano gli fece segno di congedarsi. Quando la porta si fu richiusa, rimase sola con i suoi pensieri. Non poteva negare di avvertire ancora il bruciante sospetto che Diego le stesse nascondendo qualcosa, eppure si fidava di lui come di nessuno. Si rotolò tra le coperte, colta dalla noia, e fissò la finestra che si era dimenticata di chiudere. Un solo obiettivo le ronzava in testa: avere quella spada. Leon era suo, quel matrimonio era stato già deciso, e nulla avrebbe dovuto rovinare il suo piano.  
 
Lena non trovava proprio pace fino a quando non otteneva ciò che voleva. Erano riuscite a rimettere a posto il vestito dove l’avevano trovato, ovviamente dopo averlo risistemato a dovere, e proprio quando lei aveva fatto capire che era stanca di cercare guai, ecco che l’altra la trascinava di peso in biblioteca, a suo dire per fare un piccolo saluto ad Humpty. Come se non l’avessero incontrato poche ore prime mentre si dirigevano a fare colazione. Tanto per cambiare le nascondeva qualcosa e la foga con cui voleva andare dall’uomo-uovo non prometteva nulla di buono. Piuttosto i suoi timori erano per la reazione che avrebbe potuto avere la regina di Cuori dopo averla vista alla festa, perché era certa di aver attirato l’attenzione di tutta la sala, Jade in primis. Leon le aveva assicurato più e più volte che aveva messo le cose bene in chiaro con sua madre e che quella mattina ci avrebbe parlato per essere sicuro che quell’episodio non avesse alcuna conseguenza. Senza Leon poteva considerarsi senza testa da un bel pezzo, ne era sicura.
Appena entrate, a conferma dei suoi sospetti, Lena rivolse appena un fugace saluto al bibliotecario, e cominciò ad aggirarsi tra gli scaffali in cerca di qualcosa in particolare. Frugava qua e là, rimettendo a posto piccoli libricini che tirava fuori, apriva e poi richiudeva insoddisfatta.
“Eppure ero sicura che fosse qui…” mormorò, finendo per tossire di fronte alla nuvola di polvere provocata dall’apertura dell’ultimo volume. Violetta chiese più volte se avesse bisogno di una mano per cercare, ma l’amica sembrava non stare nemmeno a sentirla, troppo presa dai suoi tentativi di ricordare dove potesse aver messo quel libro che tanto tempo fa aveva letto più e più volte. Si sedette sulla panca e incrociò le braccia sul tavolo per poi posarvi il capo sbuffando. Stava quasi per addormentarsi quando qualcosa rimbombò a qualche centimetro da lei facendole prendere un colpo. Lena, che aveva sbattuto un pesante librone, appariva finalmente felice, e addirittura entusiasta. “Ce l’ho fatta!” esclamò, incurante di averle fatto venire quasi un infarto. La copertina era gialla e rilegata semplicemente. Non c’erano decorazioni, solo troneggiava il titolo scritto con delle lettere di metallo laccato: ‘Tecniche di seduzione’. Violetta prima divenne cadaverica, poi dal bianco il colorito del suo viso passò al rosso acceso.
“Lena!” urlò scandalizzata. La ragazza non demorse, e si sedette al suo lato, passandole una mano sulla spalla con eloquenza: “Violetta, non vorrai mica dirmi che non ci hai mai pensato”. Violetta, di fronte a quelle insinuazioni, non poté fare altro che tacere: ci aveva pensato eccome, anche più di una volta, e ogni volta aveva deciso di lasciar perdere, convinta che tanto prima o poi avrebbe lasciato quel castello, e con esso anche il ricordo di Leon. Invece il tempo passava e lei era ancora lì, innamorata sempre di più del principe di Cuori. Mentre Lena sfogliava le pagine emozionata come una bambina, ogni tanto scoppiava in una risatina complice e le dava una piccola gomitata.
“Oggi vado a fare spese per te al villaggio qui vicino…magari con la scusa di accompagnare la cuoca…” ipotizzò, portandosi l’indice al mento riflessiva. Violetta, ormai su un altro pianeta, non le prestò minimamente ascolto e Lena prese tutto come un si, quindi annuì ancora più elettrizzata, e riprese a sfogliare le pagine curiosamente.
“Oh! Questa è interessante! Parla di una regola importantissima quando due persone si spogliano. Un capo alla volta, uno per uno, serve per acuire il desiderio”. Sembrava una seduta medica a cui Violetta era stata costretta a partecipare. Avvampò non appena realizzò quello che Lena aveva letto, e la sua immaginazione aveva fatto il resto, quindi chiuse quel libro con impazienza, e il terrore negli occhi.
“Stanotte potrai metterla in pratica” trillò Lena, stritolandole il braccio. Violetta si voltò dall’altra parte cercando di pensare ad altro…Stanotte? Cosa? Quando? Perché?
“Che stai dicendo? Io stanotte dormo nella mia stanza con te, come tutte le notti” sottolineò in seguito, facendo sogghignare la compagna, che fece cenno di no col dito.
“Perché continui a negare che ti piacerebbe che Leon…che voi due…insomma, hai capito” rise Lena.
“Anche fosse, io non sono pronta, e nemmeno lui!” la riprese e tornò a concentrarsi su qualcos’altro, qualsiasi altra cosa sarebbe andata bene. Leon le sfilava lentamente il vestito, mentre le lasciava dei dolci baci lungo tutto il collo, il tutto illuminato unicamente dalla tenue luce di una candela. Dannazione, ci era ricascata. Cominciò a toccarsi nervosamente le punte dei capelli, e Lena si sentì come la vincitrice di un premio cavalleresco, il più importante di tutto il Regno.
“Non ti preoccupare, con il mio aiuto, sarà una serata perfetta per voi due…sempre che tu lo voglia. O forse pensi ancora di non essere pronta? Di certo Leon non lo vedo reticente di fronte a queste cose, da quello che so”. Lena aveva ragione: sapeva che il principe con lei cercasse di contenersi, ma conosceva anche i precedenti, lei stessa aveva avuto la sfortuna di stare per sperimentarli in passato. E se si fosse ritrovata ad avere paura? Leon sarebbe stato comprensivo nei suoi confronti, oppure l’avrebbe allontanata, considerandola solo una ragazzina immatura?
“Hai ragione…devo provare” si lasciò sfuggire con un tono flebile Violetta, facendosi sempre più piccola, di fronte all’entusiasmo indomabile di Lena.
“Giusto! Finché non ci sarai in mezzo, non potrai capire come reagirai…e se lo ami tanto come si vede vedrai che verrà tutto nel modo più naturale possibile. Tu e Leon sembrate i personaggi di una favola, anche se l’inizio non era proprio con il tipico principe e la tipica principessa”.
Violetta adesso però nutriva alcune perplessità e sentiva il bisogno di esternarle. “Come mai hai cambiato idea così di colpo? Perché adesso fai tutto questo? Prima odiavi Leon, lo consideravi una bestia e adesso…”.
Lena la interruppe quasi con una vena di vergogna, ma allo stesso modo gli occhi le brillavano per l’emozione: “Sai perché conosco questo libro? Le prime volte che venivo qui non sapevo mai cosa leggere. Era tutto scritto troppo difficile, e io non ero ancora molto brava; in seguito Humpty mi ha insegnato, ma all’inizio…facevo difficoltà”. Ci fu un momento di silenzio.
“Ho trovato questo libro e mi sono appassionata. Dentro si trova un po’ di tutto, non solo quello che ti ho letto oggi. E da lì ho iniziato a sognare che qualcuno mi trovasse in questo castello e mi portasse via da qui. Ma io non ero una principessa rapita e costretta a lavorare, io ero semplicemente Lena. Il mio unico principe era mio padre e l’ho perso” singhiozzò, strusciandosi poi il viso con le mani per non mostrare le lacrime e asciugarle. “Per una che ha sempre sognato l’amore, vederlo davanti ai propri occhi è come viverlo lei stessa. Almeno per me è così. E’ vero, non mi fidavo di Leon, e ho fatto fatica a crederci fino alla fine, ma i miracoli esistono, e tu, Violetta, hai compiuto un miracolo sul principe. Lui non è più lui”.
“Io credo che il vero Leon sia sempre stato questo” la corresse Violetta, ricordando la triste storia del suo passato. Le salì nuovamente un moto di odio nei confronti di Jade, ma ancora più forte era la compassione nei confronti dell’amica, che in fondo non si era mai sforzata veramente di capire. Lena aveva perso tutto, e sperava continuamente in qualcosa che la portasse via da lì, da quel posto che odiava. Finora aveva aspettato invano. Era come se attraverso di lei stesse vivendo quella libertà che non le era mai stata concessa, quell’amore che aveva desiderato, leggendo tra le righe di ogni pagina di quel libro. Non voleva coronare quel sogno solo per lei, adesso voleva farlo anche per Lena. La strinse forte in un abbraccio, e lasciò che si sfogasse, che piangesse, mentre continuava a ripeterle di non lasciarsi sfuggire l’opportunità di essere felice, ora che le si era presentata. Doveva lottare con le unghie e con i denti, anche per chi quella possibilità non l’aveva mai vista.
“Voglio solo che tu sia felice…e sarebbe un onore per me servirti da regina” le sussurrò Lena, mentre Violetta le accarezzava la schiena.
“E se lo ami…Violetta, non demordere. Ti prego, lui ha bisogno di te, si legge nei suoi occhi”. Gli occhi di Leon: il verde della speranza e della maledizione che gravava su di lui. Una maledizione che si era sempre portato dentro, che non aveva condiviso con nessuno, fino a quando non era arrivata lei, e aveva sopportato quel peso, lasciando che parte dell’animo addolorato del principe si riversasse dentro di lei.
 
Leon camminava per ogni angolo della stanza, il nervosismo che se lo mangiava vivo. Il caminetto era ancora acceso, e pensò fosse il caso di lasciarlo così per tutta la notte. Fece un giro della camera da letto per controllare che tutto fosse a posto, quindi si sedette. Scattò nuovamente in piedi, non riuscendo a stare fermo un secondo. Aveva fatto profumare persino la sua camera per l’occasione. Quel pomeriggio aveva incontrato Lena e Violetta, e le due gli avevano detto che il letto di quest’ultima si era rotto e che avrebbero dovuto attendere il giorno dopo affinché venisse riparato. Non ci aveva pensato due volte ad accettare la proposta di Lena di ospitare l’amica nella sua stanza, ma adesso era completamente in panico. E se non fosse venuta per paura? Certo, alcuni ricordi di quel posto non erano affatto piacevoli, se riferiti al vecchio principe, ma ve ne erano altri che portava scolpiti nel cuore. Si passò un mano sulla fronte, e la sentì sudare freddo. Il solo pensiero di dormire con Violetta lo mandava fuori di testa. Non intendeva assolutamente fare nulla che non fosse abbracciarla teneramente tutta la notte. Non avrebbe chiuso occhio, troppo preso a infonderle attraverso carezze e dolci baci tutto l’amore che sentiva per lei. E si stupiva perfino di quanto potesse essere sdolcinato. Da quando Violetta gli aveva rapito il cuore non riusciva a non fare pensieri del genere appena si ritrovava a ricordare i momenti trascorsi insieme. Quando qualcuno bussò alla porta per poco non saltò sul posto, talmente tanto era teso. Si precipitò, aprì la porta e rischiò di svenire di fronte alla bellezza della ragazza. Quella sera sembrava ancora più affascinante, più luminosa, aveva qualcosa di diverso, qualcosa che la rendeva irresistibile, ancora più di quanto non lo fosse già. Leon vide che indossava un vestito semplice, come quelli che portava sempre, mentre dandosi uno sguardo si rese conto di essere impresentabile: si era dimenticato di cambiarsi in modo decente. Portava ancora i pantaloni di pelle neri che usava per andare a cavallo il pomeriggio, e una maglietta bianca di lino dalle maniche lunghe con alcuni lacci alle estremità. Sorrise nervosamente, poi si fece da parte per invitarla ad entrare. Non appena fu dentro chiuse la porta, e le stampò un bacio sulla guancia per salutarla. Si sentiva talmente confuso ed emozionato come se fosse la prima volta che dormissero insieme. In effetti era la prima volta che succedeva da quando si erano resi conto di amarsi alla follia, e da quando avevano dichiarato il loro amore apertamente. Violetta non lasciò nemmeno che l’abbracciasse e si diresse alla finestra, da cui si affacciò con lo sguardo. Sembrava particolarmente agitata anche se non lo dava per niente a vedere. Leon invece era rimasto impalato in mezzo alla stanza, non sapendo che fare. Cominciò ad avere paura: che dovesse dirgli qualcosa di spiacevole? Che intendesse sottolineare il fatto che non potevano continuare in quel modo? Gli veniva quasi da mangiarsi le unghie delle mani, e non lo faceva da quando suo padre lo aveva ripreso apertamente di fronte a tutti per quell’orribile vizio.
“Leon…” lo chiamò di spalle. Il principe scattò sull’attenti, e fece qualche passo in avanti. “Potresti…potresti aiutarmi a…a sciogliere i lacci qui dietro del vestito?” chiese indicando la schiena. Vargas sgranò gli occhi e pensò di aver capito male: che gli aveva appena chiesto la sua Violetta? Gli ci volle qualche minuto per reagire, quindi sentì le mani tremare. Eppure in passato si era trovato in tante situazioni come quelle, se non addirittura di gran lunga più torbide. La raggiunse dopo qualche passo incerto, e le sfiorò delicatamente i fianchi con le mani, affondando il viso tra i suoi capelli, e lasciandovi un bacio, che si perse in mezzo a quel castano, reso luminoso dai riflessi che provocava il fuoco acceso del camino. Spostò le sue attenzioni al collo, dandole tanti piccoli baci, mentre lentamente sfilava il primo nodo proprio sotto l’attaccatura dei capelli.
“Sei sicura di volerlo?” le chiese con voce incerta all’orecchio, mentre il respiro già diveniva un affanno. Violetta in tutta risposta gli prese la mano sinistra che teneva sospesa in aria, e la poggiò sul suo fianco, inclinando leggermente il capo indietro. Leon fece aderire il suo corpo a quello della ragazza per qualche secondo, strusciandosi appena, quindi si separò lentamente, e sciolse un altro nodo. A tatto sotto quel vestito sentiva un altro tessuto, molto più leggero, morbido e sofisticato, come seta. Continuò con la sua opera, e ad ogni laccio di cui si disfaceva le lasciava un bacio appassionato sul collo, seguito da un piccolo morso. Dove si posavano le sue labbra la pelle diventava rossa e ardente, e Leon non si lasciò sfuggire nulla di quella magnifica sensazione. La assaporò come si faceva con un frutto succoso, fece scorrere le labbra su di essa, e ne ispirò il profumo. Violetta cominciò a rabbrividire, e sapeva bene che non era per il freddo. Ammiccò senza che lei la potesse vedere, e completò la richiesta che le aveva fatto la ragazza, ricco di entusiasmo. Spinta dalla forza di gravità la veste scivolò via, come se anch’essa sapesse di essere solo un intralcio quella notte. Leon confermò i suoi sospetti iniziali: la ragazza indossava un sottile completo nero di seta, leggermente trasparente, che le arrivava fino alle cosce. Le sue fantasie si accesero all’istante, e fu come se il fuoco non fosse abbastanza caldo per il suo corpo, e nemmeno l’acqua gelida fosse in grado di abbassarne la temperatura anche di un solo grado. Violetta lo stava provocando, senza forse nemmeno esserne cosciente, e sentì il forte impulso di stringere quel corpo, di toccarlo senza alcun impedimento. Si passò la lingua sulle labbra, inumidendole appena, e si morse il labbro inferiore, rendendosi conto che per quanto ci provasse il desiderio che aveva di lei stava prendendo il sopravvento.
Violetta avvertì le mani dai fianchi scivolare lentamente fino al ventre che prese ad accarezzare con cura. Quel vestito provocante gliel’aveva procurato Lena, imponendole di indossarlo sotto il vestito abituale, per sorprendere Leon, e dovette ammettere che aveva funzionato: era più che piacevolmente sorpreso di quella novità. Non aveva osato chiedere dove l’avesse comprato, e soprattutto quanto le fosse costato, perché era sicura che Lena avrebbe potuto spendere benissimo tutti i suoi risparmi pur di rendere quella notte indimenticabile per l’amica, e non avrebbe sentito neppure una lamentela o un ma. Chissà come aveva fatto a nasconderlo alla cuoca. No, in quel momento era l’ultimo dei suoi pensieri. Leon sembrava del tutto preso da lei. Improvvisamente Vargas la fece voltare e si trovarono occhi negli occhi. Con un’occhiata maliziosa e divertita allo stesso tempo cominciò a farla arretrare finché non incontrò la parete. A quel punto sentì di averla completamente per sé, e avvertì l’adrenalina scorrergli nel sangue a mille, raggiungendo il cervello e mandandogli mille impulsi al secondo. Gettò una rapida occhiata dietro di sé, quindi si allontanò da Violetta lasciandola interdetta. Raggiunse il letto, e scostò le coperte e il lenzuolo bianco, fino ad arrotolarli ai piedi del materasso. Soddisfatto del risultato, tornò da lei, che nel frattempo era rimasta di sasso ad osservarlo, senza muoversi di un centimetro. Le sorrise beffardo, tornando a bearsi del dolce sapore delle sue labbra. Mentre sfiorava e accarezzava il profilo del suo corpo, insinuò la lingua irruente nella sua bocca, e lasciò che vi facesse ciò che desiderava. Violetta la morse, la intrecciò con la sua, mentre le mani presero ad accarezzargli i capelli, scompigliandoli con tenerezza. Leon fece scattare la sua gamba destra, afferrandole la coscia, e allacciandola intorno alla vita. Con un movimento fluido diede una leggera spinta, e si separò con un debole gemito, mentre Violetta lo guardò con la mente annebbiata da quel gesto istintivo. La mano di Leon passò appena sopra il suo seno, quindi risalì fino alla spallina, con cui iniziò a giocare, prima di cercare di farla scendere, mentre continuava a lasciare che i loro baci si susseguissero uno dietro l’altro, ciascuno più ardente e appassionato di quello precedente. Violetta a quel punto si ricordò della regola che le aveva detto Lena, e fece leva sul corpo di Leon, allontanandolo da sé. Sentì il suo sguardo confuso addosso, e le venne da sorridere. Vargas si grattò il capo con imbarazzo.
“Ti ho fatto sentire a disagio, vero?” le domandò, arrabbiato con se stesso per essere stato troppo impetuoso e istintivo. Quando Violetta posò un indice sulla sua bocca facendolo tacere, però, non capì più nulla. “Chiudi gli occhi” mormorò appena la ragazza, con gli occhi che scintillavano. Come ipnotizzato Leon eseguì gli ordini, e davanti a sé comparve solo l’oscurità. Le mani di Violetta presero a percorrergli interamente il busto, e un sospiro gli uscì secco, non riuscendo a trattenerlo in alcun modo. Come avrebbe potuto quando ogni cellula del corpo al solo sentire quel tocco gli urlavano di afferrarla e farla sua lì, in quel preciso istante? La sentì ridere canzonatoria di fronte alla sua reazione, e anche lui si sciolse in un mezzo sorriso. Tornò subito serio non appena sentì le mani soffermarsi sui bordi della maglia, continuando a provocarlo maliziosamente. Strinse i denti e istintivamente alzò le braccia al cielo, lasciando che gli sfilasse l’indumento. Se prima aveva caldo adesso era anche peggio, e sentire le mani di Violetta accarezzarlo in quel modo non aiutava di certo.
“Non stai aprendo gli occhi, vero?” gli domandò con finta innocenza all’orecchio. Leon annuì, nonostante per un momento effettivamente avesse pensato di venire meno a quegli ordini. Desiderava leggere la sua espressione in quel momento, capire cosa stesse provando. Violetta dal canto suo stava finalmente cominciando a lasciarsi andare. Superato l’imbarazzo iniziale si sentiva finalmente libera di condividere quella notte con il principe. L’aveva sognato, a volte immaginato con un po’ di timore, e invece adesso aveva raggiunto uno stato di equilibrio, e seguendo il consiglio di Lena lasciava semplicemente che tutto accadesse con i suoi tempi per renderlo il più naturale possibile. Fece scorrere le dita della mano destra dal petto all’addome, rabbrividendo al contatto delle numerose cicatrici che il ragazzo aveva. I muscoli reagivano prontamente al suo tocco, tendendosi di colpo, per poi rilassarsi non appena la mano passava oltre. Continuò a sfiorarlo in quel modo, lasciando che la traiettoria seguisse le linee dell’addome, e poi quelle del petto. Leon aveva ancora gli occhi chiusi e un’espressione rilassata. Doveva piacergli molto tutto quello, e in effetti anche lei stava scoprendo un’irrimediabile attrazione nei confronti di quelle carezze che gli stava donando. La mano sinistra scorse dietro, tenendosi alla sua schiena, e lentamente si avvicinò con il viso, accostandolo sotto il suo mento. Lesse nel modo in cui serrava i pugni il desiderio di aprire gli occhi, forse avvertendo il suo respiro sulla pelle, ma non lo fece, e questo rasserenò ancora di più Violetta. Osservò per qualche secondo la cicatrice che aveva appena sotto la spalla sinistra, di un rosa acceso; era l’ultima che gli avevano inflitto, quella che aveva segnato il loro effettivo avvicinamento. Fermò la mano destra all’altezza del cuore, e il corpo di Leon si irrigidì irrequieto. Un gemito risuonò soffocato quando cominciò a lasciargli una scia di baci affettuosi lungo la cicatrice. Leon stava facendo davvero di tutto per contenersi, e quando lentamente risalì fino alla spalla, e infine sul collo, i baci da timidi e teneri si erano fatti più accesi e intraprendenti.
Leon a quel punto abbandonò ogni forma di resistenza. Aprì gli occhi di scatto, la prese per i fianchi e la attirò a sé, cogliendola di sorpresa. Sentiva il tessuto del vestito sulla pelle, e per quanto fosse leggero e morbido, cominciò a infastidirlo, perché ostacolava il contatto dei loro corpi.
“Hai aperto gli occhi” sussurrò Violetta, dandogli una piccola botta sulla spalla a mo’ di rimprovero.
“E tu mi hai provocato” rispose a tono l’altro. Notò che teneva lo sguardo fisso sul suo petto con la bocca semiaperta, e si inorgoglì al pensiero che la sua amata provava tutto quell’interesse per lui dal punto di vista fisico. Le prese il viso tra le mani e lo condusse al suo in un dolce bacio, che dopo poco si fece infuocato, più del camino che ormai stava cessando di compiere il suo dovere. Si separò di colpo, lasciandole ancora il suo profumo e il suo sapore nell’aria, e una gran voglia di lui; quindi si chinò e con sua grande sorpresa, la prese in braccio a mo’ di sposa. Violetta allacciò prontamente le braccia intorno al collo, guardando in basso con un po’ di paura. Odiava sentirsi mancare la terra sotto i piedi, ma era sicura che mai Leon l’avrebbe lasciata cadere. “Sai che non ti lascerei mai andare, vero?” disse, leggendo ancora una volta i suoi pensieri.
“E perché non dovresti?”.
“Perché sei la mia principessa” rispose semplicemente Leon, stampandole un bacio sulle labbra. A passo lento si diresse verso il letto, divertendosi a solleticarle il viso soffiandovi sopra flebilmente. Più si avvicinavano più il desiderio di entrambi aumentava di intensità. Violetta cominciò a cercare i baci di Vargas con sempre più assiduità; quando incontrava le labbra di Leon le catturava tra le sue, mordendole e assaporandole. Il principe la depose sul materasso, e si stese al suo fianco, intrecciando le loro gambe, senza smettere di baciarla neppure per un secondo. Tentò di nuovo di abbassarle la spallina del vestito, e questa volta ottenne libero accesso. La lasciò scorrere lungo la spalla, mentre la guardava negli occhi con un sorriso rassicurante.
“Va tutte bene” mormorò con voce roca, chinandosi verso di lei, e lasciandole una serie di baci lungo tutta la spalla. Lentamente la accompagnò nella sua discesa per il braccio, e fece lo stesso con l’altra spallina, quindi si mise in ginocchio sul letto, e le sfilò il vestito. Più quello scorreva, lasciandogli finalmente ammirare il corpo nudo di Violetta, più sentiva l’eccitazione raggiungere il massimo concepibile. Non c’era nulla in quel corpo che avrebbe cambiato, nulla che avrebbe tenuto lontano dai suoi baci e dalle sue carezze. Cogliendo l’occasione si stese sopra di lei, poggiandosi sul materasso con i gomiti, senza però lasciare ancora che i loro corpi entrassero in contatto. Cominciò lasciandole un bacio sulle labbra, che Violetta accolse con tutta se stessa, mentre le mani erano andare a stringersi sulla sua schiena. Poi scese lungo il collo, che già tante volte aveva assaggiato, ma di cui mai riusciva a saziarsi del tutto. Raggiunse il seno, che toccò appena con la punta della lingua, e proseguì fino al ventre, a cui si dedicò maggiormente, alternando a baci appassionati dei morsi ricchi di desiderio. Il corpo di Violetta tremava sotto le sue attenzioni, e Leon sorrise soddisfatto quando la sentì sospirare, mentre il respiro si faceva sempre più irregolare.
Non si era mai trovato tanto coinvolto di fronte a una situazione del genere, tanto preso dalla bramosia del corpo di una ragazza, e di unirlo al suo. Di solito era sempre risultato impassibile di fronte all’atto fisico d’amore, considerandolo un semplice bisogno naturale che dovesse trovare una qualche valvola di sfogo. Questa volta non era un bisogno, non si trattava di un istinto; o meglio, quello c’era, c’era sempre stato fin dalla prima volta che l’aveva vista, ma insieme ad esso qualcosa di nuovo e sconosciuto era presente in lui quella sera. I ruoli sembravano essersi invertiti: adesso era lui ad avere paura, paura di rovinare tutto, paura di non essere all’altezza di una ragazza tanto pura, paura di se stesso e di quello che avrebbe potuto fare.
“Leon” sussurrò dolcemente, riscuotendolo da quei terribili pensieri. Risalì rapidamente il suo corpo, ispirandone il profumo e tornò a far sfiorare i loro visi. Sotto la guida delle mani di Violetta, fu costretto ad adagiarsi sul suo corpo; per primo fu l’addome ad entrare in contatto con la pelle della ragazza, e subito avvertì una scarica di brividi incontrollabile. Desiderarla era la cosa più naturale del mondo, possederla rimaneva ancora un recondito desiderio che quella notte però aveva deciso di prendere prepotentemente concretezza.
Le sembrò che Leon la stesse avvolgendo come una fiamma che circondava il ramoscello prescelto per poi nutrirsi di esso, consumandolo lentamente. Ansimò quando sentì ogni centimetro della pelle di Leon sulla sua, esercitando una dolce pressione. Il principe si mosse appena per sistemarsi meglio, ma lo sfregamento provocato la fece quasi impazzire, e prese a mordersi il labbro con vigore, pur di non lasciare uscire quel gemito di puro desiderio che provava. Le soffiò prima sul collo, poi le lasciò un debole bacio sulla guancia, e la guardò con tutta la dolcezza del mondo, mentre le accarezzava la vita con una mano, e il mento con l’altra.
Gli scostò il ciuffo dalla fronte, e delineò il profilo del suo viso con l’indice, cercando di scolpire quel momento nella mente: non voleva dimenticarlo mai più. Leon notò subito la bocca socchiusa di Violetta mentre compieva quell’azione; non appena fu sicuro che avesse finito si fiondò sulle sue labbra, assaporandole ancora e ancora. Con dei movimenti lenti e ritmici cominciò a muoversi appena sul suo corpo, e Violetta si ritrovò sempre più avvinghiata a lui. Si separarono con un gemito, ed entrambi si sorpresero di quanto potesse essere bello avvertire il desiderio che l’altro provava nei suoi confronti. Un desiderio fisico, carnale, che li metteva di fronte a una sola scelta possibile.
Violetta percorse la schiena di Leon sfiorando la sua colonna vertebrale, e lo sentì ansimare ancora mentre si dedicava al suo collo; nel frattempo le mani del principe vagavano sul suo corpo, senza riuscire a trovare un punto su cui riposarsi. Si fermò solo quando incontrò i pantaloni del giovane, che si scostò appena, sorpreso dal fatto che si fosse interrotta. Gettò uno sguardo dietro di sé, e si rese conto di indossare ancora quell’indumento scomodo. Le dita della ragazza cominciarono a seguire il percorso tracciato dalla cintura marrone scura cercando il modo di toglierla, ma Leon fu più rapido e si rimise in ginocchio sul letto. Avvertì un brivido di freddo, e fu sicuro che anche per Violetta fosse accaduto lo stesso. Lanciò la cintura per terra, senza curarsi minimamente di dove sarebbe potuta andare a finire, e sentì il suo sguardo addosso. Le chiese nuovamente una sorta di tacita conferma, e si soffermò ad ammirare il suo corpo, bianco e pallido alla luce della luna. Il fuoco del camino stava per spegnersi, ma ormai non ne sentiva alcun bisogno. Le bastava stringerla a sé tutta la notte, per essere sicuro di non soffrire il freddo, anzi avrebbe dovuto preoccuparsi del caldo soffocante. Si tolse i pantaloni e le mutande in un colpo solo, spingendoli con un calcio ai piedi del letto, quindi tornò a distendersi sopra di lei, non riuscendo più a tollerare il pensiero di starvi lontano. Violetta gli intrappolò la vita tra le coscia, e Leon sentì arrivare il momento tanto atteso, il momento in cui sarebbe stata sua. Si baciarono ancora accarezzandosi, scoprendo il corpo dell’altro, e lasciando che tutto ciò succedesse con la massima naturalezza e amore. Vargas afferrò il lenzuolo e lo tirò sopra di loro fino alla vita, mentre le gambe di Violetta si sfregavano contro le sue, in un atteggiamento che pareva quasi di lusinga. E per poco avrebbe lasciato che quelle lusinghe andassero oltre. Le lasciò dei baci sul seno dapprima delicati, poi sempre più accesi, alternandovi dei leggeri tocchi con la punta della lingua. La sentì stringergli i capelli e dimenarsi sotto di lui, ma non si fermò, sicuro che provasse piacere nel ricevere anche quelle attenzioni più audaci, proprio quanto lui lo provava nel dargliene. Più si dimenava, più si infiammava di desiderio per lei. Poggiò i gomiti all’altezza della testa di Violetta, e rimase a fissarla per qualche minuto, per poi ricercare il suo profumo, affondando il viso tra i suoi capelli sparsi sul cuscino, e baciando anch’essi.
“Amore mio” le sussurrò appena all’orecchio, mordendole il lobo con delicatezza. Le mani di Violetta si fermarono salde sulle sue spalle, e inarcò di poco la schiena, facendo sì che il contatto tra i due si facesse ancora più forte e intenso. Per un momento ebbe nuovamente paura, ma cedette a quell’istinto che gli chiedeva unicamente che quell’unione fosse del tutto definitiva. Senza più riuscire a contenere quel forte bisogno fisico che sentiva, si apprestò a penetrarla, mentre Violetta, intuendo la sua mossa, si ancorò al suo collo, stringendolo e chiudendo gli occhi. Leon compì quel gesto lentamente, temendo di farle male. Era l’ultima cosa che voleva fare, per cui cercò di essere il più attento possibile. Digrignò i denti soffocando un lamento di piacere, e pregò con tutto se stesso che non stesse provando dolore a causa sua. Non se lo sarebbe mai perdonato, non avrebbe mai più dovuto soffrire, men che meno per sua mano. Aveva paura a guardarla negli occhi, aveva paura che lo giudicasse male, eppure lui aveva fatto solo quello che aveva sentito nel profondo, che il suo cuore gli aveva suggerito. Infine non resistette e alzò il viso: Violetta aveva gli occhi chiusi, e un’espressione contrita dal dolore. Leon precipitò nel panico. Si affrettò a darle un bacio tenero sulla punta del naso, che le fece sgranare gli occhi. A Leon sembrarono ancora più scuri e profondi, e si sarebbe perso in essi se il terrore che sentiva non avesse preso il sopravvento.
“Stai soffrendo” constatò rauco, mentre attendeva una conferma con la sua risposta. Tutto ciò che ottenne fu una carezza sulla guancia e un bacio. Lo guardò e sorrise, mordendosi poi il labbro inferiore, in preda ad un forte dolore. “Finiamola qui, non posso vederti in questo stato” disse irremovibile, cominciando a ritrarsi, ma lei lo fermò.
“Non farlo. Leon, è sopportabile. Voglio solo…che questa notte accada quel che deve accadere” rispose con tono dolce Violetta, tenendolo stretto in un abbraccio. Leon rimase sorpreso: quale donna avrebbe preferito soffrire per coronare quel sogno d’amore? Perché il dolore non la spaventava? Era così diversa da lui, che nonostante fosse forte e indistruttibile all’apparenza altro non era che un codardo. Non solo gli stava insegnando ad amare, ma perfino ad essere forte.
“Sarà la notte più bella della tua vita” le promise fiero, ed era davvero intenzionato a mantenere la parola. Avrebbe fatto in modo che dimenticasse quello spiacevole inizio, talmente forte sarebbe stato il piacere che le avrebbe procurato. Si mosse appena dentro di lei, e le dita di Violetta finirono per artigliargli la schiena. Non gli faceva male, era abituato a ben altro, e anzi lo eccitava ancora di più. L’avrebbe amata fino a quando non avrebbero raggiunto l’esaurimento delle forze. L’avrebbe amata anima e corpo.
Violetta sentiva il corpo tremare, in preda a degli spasmi che mai aveva provato fino a quel momento. Era tutto talmente nuovo che non sapeva se fosse normale la sua reazione, e in fondo non le interessava. Nelle sue orecchie risuonava ancora la voce cavernosa di Leon che le prometteva la notte più bella della sua vita. Non sapeva di stare già compiendo la sua promessa, semplicemente con il suo atteggiamento dolce e premuroso. Non si era mai sentita tanto desiderata in vita sua, e in modo direttamente proporzionale l’attrazione che provava per Leon si era centuplicata. Quando aveva sentito i loro corpi finalmente unirsi il pensiero del dolore era passato in secondo piano, occultato dalla forza dell’amore nei confronti del principe. Vargas diede una leggera spinta, e le sembrò di toccare il cielo con un dito. O meglio, il cielo si era degnato di scendere sulla terra, rifugiandosi sotto le lenzuola e assumendo le sembianze di un giovane dagli occhi verdi. Il dolore divenne solo un ricordo lontano, rimpiazzato dalle spinte sempre più audaci, ma comunque ricche di cautela. Strinse le gambe intorno alla vita di Leon, impedendogli una qualunque via di fuga, che sapeva ormai non ci sarebbe più stata. Gemette mentre Leon si dedicava imperterrito a fare in modo che tutto si svolgesse in modo graduale e allo stesso modo intenso per entrambi. In quello sguardo determinato e ricco di fuoco vivo riconosceva un principe esperto nell’arte dell’amore, che metteva in atto ogni conoscenza e precauzione possibile.
“Tutto a posto adesso?” le chiese affannoso, sospirando continuamente sulla sua pelle. Violetta annuì, per poi chiudere gli occhi, e lasciare che si prendesse cura di lei, che le mostrasse tutto ciò di cui era capace. Non gli poneva limiti né freni, non voleva che si sentisse costretto dalla sua inesperienza, quindi rimase inerme di fronte alla sua volontà di ferro. Lo sentì accompagnarla con i gemiti, mentre i loro corpi arrivarono a sfregarsi sempre più velocemente. Leon si stava lasciando andare, le stava mostrando la sua forza, la sua natura selvaggia, che per tanto tempo aveva desiderato di poter ammirare. Quasi inconsapevolmente iniziò a muovere il bacino, accogliendo le sue spinte e accompagnandole con dolcezza, attutendone la forza. Vargas la guardò piacevolmente sorpreso, e scoppiò in una risata breve, trascinandola con sé in quello che sembrava un puro gesto di follia in un momento intimo del genere. Ma d’altronde quella era la notte dove le follie apparivano come tenui luci pronte a illuminarsi al solo tocco dei due amanti.
Leon cominciò a sudare a causa del caldo atroce che gli faceva ardere persino le orecchie e le punte dei capelli. Una goccia di sudore gli scese dalla fronte e scivolò lunga la guancia, per poi scorrere lungo il petto, e depositarsi sul ventre di Violetta, che si contrasse non appena avvertita. Continuando a donarle tutto il suo amore, e spingendo con sempre più vigore, cominciarono a scambiarsi dolci parole, promesse di cui solo loro e la notte sarebbero stati testimoni. Infine però esse diventarono inutili, sostituite solamente dai lamenti di piacere di entrambi. Leon accostò la fronte sudata su quella di Violetta, guardandola negli occhi imperioso, mentre martellava con impeto. Il suo corpo era lucido e madido di sudore, ma la ragazza continuava a stringerlo incurante, lasciandogli di tanto in tanto baci sul collo, e lungo il viso, sebbene essi fossero spezzati dal loro respiro irregolare e dai loro gemiti. All’amore si era sostituita infine una selvaggia passione, e Violetta si stupì di quanto Leon fosse tenace e resistente, in netto contrasto con la sua fragilità fisica. Il principe cominciò a spingere con tutta la forza rimanente che sentiva in corpo, affondando le mani sul materasso, mentre le lenzuola gli si appiccicavano al corpo. Si trattenne dall’istinto di urlare durante l’atto, e contrasse tutti i muscoli sempre di più, fino a quando non sentì raggiungere l’apice. Diede un’ultima vigorosa spinta, e inarcò la schiena verso l’alto, stringendo i denti per poi arrivare a liberare quell’urlo che aveva cercato di trattenere, seguito da Violetta, la cui voce anche in quell’occasione assumeva un tono dolce e melodioso. Si accasciò su di lei, cercando di respirare profondamente; ansimava di continuo, e la ragazza gli accarezzava la schiena teneramente.
Uscì da dentro di lei, prestando attenzione fino alla fine, e rimasero a guardarsi negli occhi, senza riuscire a reprimere un sorriso rilassato. I cuori pulsavano ad una velocità inverosimile, e il calore che emanavano voleva invitarli a rimanere stretti l’uno all’altro. Voleva dirle che l’amava ma era talmente affannato che non gli uscivano le parole; per dimostrarglielo comunque le diede un tenero bacio sulle labbra, dalla consistenza di una morbida pennellata. 
Si separò da lei con cautela per non farle male, e Violetta tremò ulteriormente, avvertendo l’addome sudato di Leon staccarsi piano, subito dopo il petto, e lasciandola unicamente avvolta dal lenzuolo bianco.
Leon era rimasto steso di schiena alla sua sinistra, con la mano sul ventre che faceva su e giù continuamente. Ancora non aveva realizzato. Non si era mai sentito tanto vivo. Al solo pensiero di aver condiviso il letto con donne come Lara sentiva un moto di disgusto nei confronti di se stesso. Dopo quello che era successo quella notte, non avrebbe voluto nessun’altra che non fosse Violetta. Mentre teneva lo sguardo rivolto verso l’altro si chiedeva cosa avrebbe dovuto fare: abbracciarla? Lasciarla dormire per conto suo? Forse non voleva essere disturbata…ma lui aveva bisogno di stringerla a sé, di sentire il suo profumo, di avvertire la morbidezza della sua pelle. Le dita fremevano, sentendo già la nostalgia di quelle carezze e di quei contatti. Girò di poco la testa, quel tanto per osservarla, e vide che era di schiena, voltata dall’altra parte. Seguì con lo sguardo la colonna vertebrale, finendo per respirare ancora più frenetico per l’agitazione, fino a quando non la perse di vista, nascosta dal bianco acceso del lenzuolo. Avrebbe speso tutte le sue ricchezze pur di sapere cosa stesse pensando in quel momento, se si fosse pentita oppure no. Però di una cosa era certo: i suoi propositi di quella sera non erano cambiati, e desiderava unicamente che quella notte riposasse tra le sue braccia.
Violetta osservava la parete davanti a sé, logorandosi dentro al solo pensiero che forse Leon non aveva sentito nulla. Per lei era stato qualcosa di indescrivibile, sensazioni mai provate prima l’avevano investita con la forza di un treno, e ancora se le sentiva addosso. Il fuoco bruciava scorrendole nelle vene, e provava la stessa febbricitante alta temperatura di un malato in preda a terribili visioni. Non aveva nemmeno il coraggio di guardarlo negli occhi, non ci riusciva. Adesso che era tutto finito cosa sarebbe cambiato? Cosa sarebbe rimasto intatto? E se davvero Lena avesse ragione, e Leon volesse sposarla? Se invece avesse solo voluto divertirsi e fosse riuscito nel suo intento? In entrambi i casi era nei guai. Cercò di regolarizzare il respiro, mentre l’ansia imperterrita la divorava. D’un tratto il petto sudato del principe aderì alla sua schiena, e poi tutto il resto del corpo. Le sue mani arrivarono a circondarle la vita, accarezzandole in modo protettivo il ventre. Sentì un odore acre e selvatico invaderle le narici. Era il suo odore, l’odore di Leon, e per quanto fosse talmente forte da stordirla più di quanto non lo fosse già, si rese conto di amare anch’esso. Tutto ciò che lo riguardava la faceva completamente impazzire. Ogni sua preoccupazione si sciolse di fronte alla presenza tangibile di Leon, di fronte al suo modo dolce di stringerla, mentre soffiava piano sulle sue spalle, lasciandole qualche sparuto bacio. Salì fino al collo che solleticò appena con la punta del naso, e poi si avvicinò al suo orecchio. Violetta rabbrividì, ma non cercò di divincolarsi, un po’ per la stanchezza, un po’ perché era esattamente ciò di cui aveva bisogno. Il lenzuolo li copriva quasi fino alle spalle, e si accovacciò sempre di più in modo da sentire la pelle sudata di Leon attaccarsi alla sua quasi in modo avido.
“Buonanotte, principessa” le sussurrò appena, lasciandole un ultimo bacio, prima di far ricadere il capo dietro di lei, all’altezza del collo, per poi affondare il viso tra i suoi capelli. Il suo respiro finalmente tornato regolare le faceva il solletico sul collo, eppure le fu impossibile non prendere sonno, serena. Stretta tra le sue braccia non c’era alcuna preoccupazione, era rimasto tutto fuori da quella stanza, da quel letto. Chiuse piano gli occhi, e il battito del suo cuore si armonizzò con quello del principe, che sentiva come un suono lontano; era rilassante come lo scrosciare distante di una cascata, e si godette quella particolare ninna-nanna, senza interrogarsi sul futuro, per la prima volta da quando era in quel mondo. Contava solo il presente, che prendeva il nome di un principe. Un principe che un tempo forse aveva agito nel modo più sbagliato possibile, che si era perso, ma che grazie a quel profondo legame che li univa aveva riscoperto la capacità di amare, ed era stato in grado di dimostrarglielo in ogni singola occasione, anche quella.
Leon.
Forse l’unico che avrebbe mai amato in tutta la sua vita.
L’unico che avrebbe lasciato un’impronta indelebile nel suo cuore.









NOTA AUTORE: sono di frettissima, quindi commento di frettissima (per Rio: la risposta alla recensione te la faccio all'ora di pranzo che prima non posso :(). Detto ciò, succedono tantissime cose, e non so da dove partire a commentare. Ok, in realtà che interessa a noi succede SOLO una cosa in particolare (jugfrygfryf *^*). Mi scuso se la scena non è venuto alla perfezione, e in effetti come sempre le mie aspettative vengono sempre un po' deluse da ciò che immagino, ma- insomma, magari è venuta benino, e mi farebbe piacere :3 Detto ciò, amiamo tutti Lena (fa una standing ovation), e capiamo anche un po' di più perché ha finito per appoggiare tanto la Leonetta (amore mio, Lena :'( Qualcuno la deve salvare :(). Diego nel frattempo continua con i suoi magheggi e si scopre il segreto di Thomas...e quello è importante, teniamolo tutti presente ù.ù Nel prossimo capitolo si torna alla nostra amata compagnia, che farà un incontro...particolare :P Detto ciò, I MIEI LEONETTA ALLA FINE. SCUSATE. Scusate ma un po' di scleri ci stavano bene nella nota autore. Mi sono impegnato tantiassimo per quella scena, soprattutto per cercare di rimanere negli schemi del rating arancione (no, perché quando penso a scene loro così si va direttamente al rosso xD). Spero che il capitolo vi piaccia, e si, vi volevo sorprendere con un aggiornamento lampo :3 Buona lettura, e grazie a tutti! :D
syontai :D 

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Capitolo 45
*** Esmeralda ***




 

Capitolo 45
Esmeralda

“Maxi! Maxi!”. Prima fu solo una voce lontana, poi si fece talmente tanto insistente che era impossibile non prestargli attenzione. Erano passati parecchi giorni dalla prima volta che si era deciso a usare l’elmo, e da allora approfittava dei turni di guardia la notte per continuare ad allenarsi. Il più delle volte ricercava quella ragazza, Violetta, e semplicemente le sedeva accanto mentre dormiva, ma più in là aveva imparato a tenere sotto controllo diverse zone anche contemporaneamente. Nonostante ciò, come gli aveva detto Dj, gli effetti si facevano sentire: non riusciva a tenere l’elmo in testa più di qualche minuto senza sentire una terribile fitta alla testa, e quell’emicrania tornava a scatti durante il giorno quando meno se l’aspettava. A volte crollava dal sonno, e ci volevano gli strattoni poco delicati di Emma per svegliarlo. Questa volta era stato Andres a svegliarlo. Quando aprì gli occhi si rese conto di essere disteso ai piedi di una grande quercia, e il suo amico era inginocchiato affianco con un’espressione preoccupata. Si mise in ginocchio facendo leva sulle braccia e si stiracchiò apertamente, emettendo un vigoroso sbadiglio.
“Mai stato meglio, perché?”. Andres non disse nulla, ma continuò a guardarlo torvo, e si sentì come se la sua testa fosse stata aperta, e i suoi pensieri venissero estratti con accuratezza in cerca di una spiegazione. Ma il leader si limitò a scrollare le spalle e a rimettersi in piedi.
“Stiamo per ripartire” disse senza smettere di togliergli gli occhi indagatori di dosso. Si erano fermati in quanto Francesca aveva avuto un mancamento. A causa di tutto quel periodo in un luogo chiuso in condizioni ben poco sane, capitava frequentemente che perdesse di colpo i sensi, e Federico ogni volta la prendeva al volo, e faceva fermare la comitiva per farla riposare, senza curarsi di tutte le lamentele di Emma, che ribadiva il fatto che stessero solo perdendo tempo.
“Ormai non possiamo lasciarla qui, in mezzo al Regno” rispondeva piccata Libi alla bionda, che in tutta risposta si voltava dall’altra parte e sbuffava. Dj ultimamente era sempre per conto suo, taciturno, e raramente si faceva coinvolgere in qualche conversazione come un tempo. La notte riviveva continuamente il suo scontro con Ana, e si rendeva sempre più conto di quanto fosse stato fortunato a cavarsela rimanendo illeso. I suoi poteri magici e il suo sangue freddo erano stati messi a dura prova, ma capiva anche che il dislivello tra lui e la maga fosse fin troppo elevato. Per quanto odiasse ammetterlo, aveva bisogno di studiare per sviluppare ancora di più le sua abilità e conoscenze.
Dopo alcune ore di viaggio arrivarono sulla sommità della collina da cui si estendeva quella che in tutto il Regno di Fiori era conosciuta come Foresta di Oberon. La fitta selva che si estendeva fino a perdersi al di là dell’orizzonte era l’unica via a loro disposizione per evitare i centri abitati e le strade controllate dalle guardie del Regno. Inoltre, una volta attraversata, avrebbe permesso loro di trovarsi in prossimità del Regno di Cuori, dove era custodita la famosa Spada. La particolarità della Foresta di Oberon consisteva in particolare nella cospicua presenza di laghi. Piccole, grandi, o addirittura sterminate distese d’acqua dolce costellavano il terreno, invadendo con macchie di un cristallino azzurro la fauna presente dalle mille tonalità di verde. Maxi osservò il paesaggio incantato: nonostante i numerosi viaggi il padre non l’aveva mai portato così lontano per ammirare quel posto magnifico, che tutti sapevano nascondere al suo interno parecchi pericoli, essendo ricco di creature magiche e la magia stessa aleggiava nell’aria. Si lasciò abbagliare dalla luce del sole, alto nel cielo, quindi si voltò verso i suoi compagni con un sorriso emozionato.
“Non vedo l’ora di entrare in quella foresta”. Dj scosse la testa: “Non vorresti davvero, se conoscessi tutte le storie che ci sono dietro. Si, all’apparenza sembra un Paradiso, tutto molto bello…ma devi stare attento. Creature magiche, anche pericolose si celano nei posti più impensati”. Si voltò dove prima si trovava Maxi e non lo vide. Per nulla placato da quelle parole, il ragazzo correva con sottobraccio l’elmo per raggiungere la foresta, seguito da tutti gli altri che però non avevano alcuna intenzione di correre dopo tutte le fatiche del viaggio. “Nessuno ascolta il mago?” urlò Dj, facendo una rincorsa in discesa per raggiungere Emma, che a mala pena gli rivolse uno sguardo di sufficienza, scrollando le spalle.
“Senti, Francesca…” cercò di parlare Federico, ma la ragazza, non appena si fu sentita chiamare, si ancorò al braccio di Libi e finse di stare intrattenendo una conversazione estremamente interessante. Libi per suo conto non sapeva come comportarsi, e si limitava ad annuire alla raffica di parole della regina, che doveva averla presa particolarmente in simpatia. D’altronde tra lei ed Emma, che non perdeva occasione per criticarla, era piuttosto naturale che Francesca preferisse la sua compagnia. Federico rimase indietro sconfortato, e venne affiancato da Andres.
“Chi voglio prendere in giro, non mi perdonerà mai!” cominciò a sfogarsi, guardando avanti a sé rabbioso. “E io che mi sono messo a fare questo viaggio rischioso solo per poterla proteggere! Me ne potevo restare al castello di Fiori, per i fatti miei, zitto e buono”. Andres lo guardò accigliato: sapeva bene che era solamente arrabbiato, e non pensava veramente ciò che stava dicendo. Sicuramente potendo tornare indietro sui suoi passi si sarebbe comportato esattamente allo stesso modo, ma non gli sembrava il caso di farglielo notare. Acosta aveva preso addirittura a sbracciarsi in un continuo sfogo di rabbia, di cui tutti furono comunque testimoni, anche Francesca, che abbassò lo sguardo, ma non osò voltarsi dietro. Sembrava che finalmente il conte si fosse sbollito quando un urlo di donna li fece quasi sobbalzare. Proveniva proprio dal limitare della foresta, talmente fitta che non si riusciva a vedere cose stesse succedendo. Senza perdere tempo iniziarono a correre, scostando felci gigantesche, e bassi rami biforcuti, per poi trovarsi in mezzo ad un vero e proprio labirinto di alberi dal fusto lungo e sottile, che univano le loro chiome formando una sorta di tetto verde. Appiattita contro uno di quei bianchi tronchi una donna tremava di fronte alla presenza di un’aquila dalle piume ramate, che le svolazzava intorno intonando un grido intimidatorio. Al fianco della donna, né troppo giovane né troppo anziana, un uomo biondo si era rannicchiato alla sua sinistra, tremando come una foglia. Andres estrasse la sua spada e si fece sotto, lanciandosi nel combattimento. L’aquila tentò di ferirlo a suon di artigliate, ma dovette ben presto cedere di fronte ai fendenti del giovane ragazzo, letali quanto precisi. Quando la lama per poco non gli trafisse l’ala, capì subito di essere incappata in una preda troppo tenace, e dopo aver lanciato un ultimo stridio si lanciò verso l’alto, scomparendo dopo poco. La donna era rimasta paralizzata, con gli occhi spalancati, e le gambe le cedettero di colpo, cadendo a terra su di esse. L’uomo invece subito si precipitò da Andres ringraziandolo per averli salvati da quella bestiaccia.
“Io e mia moglie siamo venuti qui in cerca di riparo dopo l’ultimo attacco al confine con il regno di Picche, pensando che fosse un posto sicuro” spiegò, presentandosi subito dopo con il nome di Matias. Libi si avvicinò alla donna e aiutò ad alzarsi.
“Mi chiamo Esmeralda” disse questa, mettendosi in piedi un po’ a fatica, troppo scossa dagli ultimi eventi. “E vi devo la vita” aggiunse, avvicinandosi ad Andres, e abbracciandolo di cuore.
“Sarà meglio raggiungere nuovamente il villaggio di Hariat…”. Matias prese con dolcezza la mano della moglie, e dopo aver rivolto un breve saluto ai giovani, fecero per andarsene, ma Andres li trattenne, correndogli praticamente dietro.
“Aspettate!”. I due si voltarono confusi. “Il villaggio di Hariat si trova poco a sud del confine, e lì imperversa la guerra, non vi conviene dirigervi lì. Dovreste venire con noi e appena troveremo un posto sicuro voi vi fermerete, mentre noi proseguiremo il nostro viaggio”.
Emma però si intromise nel discorso: “No, eh! Questa non è la settimana delle opere di bene! Abbiamo già aiutato la regina di Fiori, e quell’altro ragazzino, non possiamo caricarci anche una famigliola in difficoltà. Ti rendi conto che se ci metteremo ad aiutare tutti quelli che incontriamo non arriveremo mai a Cuori? Li abbiamo salvati, che adesso se la cavino da soli!”.
“Ha ragione la vostra amica, non vogliamo esservi di intralcio nel vostro viaggio”. Gli occhi di Esmeralda per un secondo si soffermarono sull’elmo che Maxi teneva sotto braccio, quindi tornarono a puntarsi su quelli del leader del variegato quanto particolare gruppetto. Andres gettò un’occhiata di rimprovero a Emma, che intuendo l’antifona sbuffò sonoramente, raggiungendo a grandi falcate gli altri compagni.
“Nessun problema per noi…in ogni caso continueremo il nostro viaggio, ma almeno avrete una scorta in grado di proteggervi” concluse, tendendo la mano al biondo. Matias la strinse con foga non finendo di ringraziarlo per la sua generosità e bontà d’animo. Il viaggio quindi riprese con due ospiti in più. Più si addentravano nella foreste, più la vegetazione si faceva fitta e impenetrabile. Sembrava persino che i rami degli alberi volessero dirgli di stare alla larga. Alcuni alberi addirittura non esistevano al di fuori di quella foresta, come ad esempio una quercia dalle foglie gialle brillanti. Al tramonto raggiunsero un piccolo lago nelle cui acque sembrava divampare un incendio a causa dei raggi rossastri del sole.
“Direi che per oggi potremmo anche fermarci qui” esclamò Libi, guardandosi intorno in cerca di un punto riparato. Maxi invece ammirava tutto intorno estasiato, non riuscendo ancora a credere che quel posto potesse nascondere pericoli. Era troppo perfetto. Anche lo specchio d’acqua dalla superficie irregolare si sposava perfettamente con l’ambiente circostante. Matias e Esmeralda si offrirono di andare a raccogliere la legna nei dintorni, e nessuno ebbe da obiettare.
Neppure la forte luce del tramonto scalfiva la fitta ombra della foresta. Esmeralda procedeva a passo deciso, senza preoccuparsi minimamente di raccogliere i sottili ramoscelli che incontrava lungo il suo cammino, a differenza di Matias, che aveva già accumulato un cospicuo fascio di legnetti secchi perfetti per ardere.
“Oh, un altro!” esclamò l’uomo allegramente, piegandosi per raccogliere un altro ramoscello. Esmeralda si voltò per guardarlo con disapprovazione. Uno stridulo suono attirò la sua attenzione. L’aquila che li aveva attaccati planò piano fino a depositarsi sulla spalla della donna, che gli accarezzò le piume dell’ala con cura. “Hai fatto un ottimo lavoro”. La voce le tremava, e Matias assunse un’espressione cupa. Sapeva bene quanto Esmeralda stesse soffrendo per quella situazione, e ogni giorno si era ripromesso di aiutarla a non pensarci. Un po’ come lei lo stava aiutando a recuperare ciò che gli era stato sottratto. Un silenzio malinconico li accompagnò a lungo, fino a quando qualcosa non brillò nella tasca di Matias. Estrasse un medaglione rifinito e con una pietra verde incastonata al centro. Dentro quell’oggetto prezioso un volto li scrutava e attendeva pazientemente novità.
“Avevate ragione. Stanno tentando di attraversare la foresta di Oberon”. Diego fece un ghigno al di là della superficie limpida e trasparente.
“E l’elmo? Hanno l’elmo?”. Questa volta fu Matias ad annuire. “Perfetto. Dovete recuperarlo il prima possibile, addirittura stanotte stessa se possibile. Gli aiuti arriveranno a breve, la posizione è quella del medaglione?”.
“Si. Ma a quel punto voi manterrete fede al patto, vero?” si assicurò Esmeralda, diventando pallida di colpo.
Diego scoppiò in una fredda risata. “Ovvio. Avrete ciò che desiderate...Sempre che io abbia l’elmo nelle mie mani”.
“Non erano questi i termini dell’accordo! Dovevamo solo condurvi dai ladri dell’elmo!” sibilò Esmeralda stringendo i pugni. “Beh, l’accordo è cambiato. Se non vedrò l’elmo…non avrete la vostra ricompensa. Molto semplice”. Erano caduti nel tranello, ed erano stati raggirati. L’avrebbe dovuto capire, lei, regina delle truffe, eppure la disperazione l’aveva resa cieca fino a quel momento: quel Dominguez li teneva in pugno. L’aquila emise un verso infastidito e alzò una zampa, mostrando gli artigli acuminati.
“Il tuo animale da compagnia può sbraitare quanto vuole, ma queste sono le mie ultime parole”. Il volto di Diego svanì in mezzo al verde della pietra, e i due si trovarono di nuovo nel silenzio dei loro pensieri e delle loro preoccupazioni.
“Non abbiamo scelta”. Fu Matias e parlare, raccogliendo il fascio che aveva appoggiato a terra per estrarre il medaglione. Esmeralda annuì sospirando, quindi diede un piccolo colpetto all’aquila, che la guardò triste. I loro occhi erano dello stesso colore, e si trasmettevano a vicenda il dolore. Quei ragazzi erano stati ingenui, ma non poteva non provare pietà per loro, nonostante fosse una truffatrice professionista. “Devi andare, ora” disse all’animale, che in tutta risposta affondò ancora di più gli artigli sulla sua spalla. Le accarezzò il becco acuminato. “Lo sai che non puoi rimanere…se avrò bisogno di te, farò un fischio”. L’aquila sembrò capire finalmente che era arrivato il momento di separarsi, e spiccò il volo, non senza aver prima guardato con rimprovero la sua padrona. Ma Esmeralda non era solo la sua padrona.
“Buonanotte, Ambar”.
 
Dopo cena, in cui tutti con grande sollievo si erano risparmiati la cucina di Emma, la quale aveva dovuto ammettere che Francesca fosse molto più abile di lei, Federico aveva deciso di esplorare un po’ i dintorni. Di sonno non ne aveva, ma al suo posto aleggiava tanta nostalgia e un senso di irrequietezza. Lui aveva bisogno del suo perdono, non poteva nemmeno pensare di chiudere occhio senza. Dopo aver girato lo specchio d’acqua nera e scintillante si era reso conto che vicino a dove si erano fermati loro c’era un piccolo corso d’acqua che alimentava il lago. Si decise a seguirne il corso per raggiungere la sorgente. Più avanzava più si addentrava nel folto della foresta, e di tanto in tanto si guardava indietro per essere sicuro di poter ritrovare la strada. Alcuni rami erano spezzati o piegati, segno che qualcuno prima di lui avesse fatto lo stesso percorso. Quando la vegetazione si fece più rada, per poco non rischiò di inciampare contro un sasso ricoperto di muschio che si era mimetizzato con l’ambiente. A pochi passi scorreva ancora il fiumiciattolo. Lì vicino era piegato con cura un vestito, che all’inizio Federico non riconobbe. Appoggiò il piede sul terreno molle, e sbirciò cautamente da alcune foglie di enormi felci. Gli si mozzò il respiro; la regina Francesca si stava bagnando ai piedi della sorgente, immersa fino alla vita, e nonostante l’avesse vista solo di schiena, sentì uno strano fuoco alle orecchie. Osservò quella pelle candida bagnata non solo dall’acqua della polla ma anche dalla luce della luna e deglutì profondamente. Ma quanto era impudente, non poteva certo rimanere a guardare! Per quanto volesse allontanarsi, gli occhi e il cuore sembravano volerlo ancorare lì, e si sentiva i piedi affondare sempre più, come se fosse incappato nelle sabbie mobili. Francesca nuotò con calma fino ad una roccia che sporgeva, lasciando che i capelli la seguissero sul pelo dell’acqua. Federico non riusciva a credere che nonostante tutto quel tempo chiusa in una prigione fosse rimasta così bella e affascinante, e per poco non fu tentato di chiamarla, ma lasciò perdere quel proposito, pensando al conseguente imbarazzo che ne sarebbe venuto per entrambi. Inoltre Francesca avrebbe avuto un motivo in più per avercela con lui, e non era il caso. Si voltò con lo sguardo basso, e fece un passo indietro, ma Francesca avvertì la sua presenza.
“C’è qualcuno?” chiese con voce impaurita, incrociando le braccia al seno per la vergogna. Non rispose. Francesca aguzzò lo sguardo e riconobbe la sua sagoma sebbene fosse di spalle e nascosta dal buio e dalle piante. “Federico?”. Il conte Acosta si voltò di nuovo, e incrociò lo sguardo terrorizzato della ragazza.
“Non volevo, davvero. Stavo andando via” si scusò subito, facendola annuire lentamente.
“E’ tanto che non avevo la possibilità di farmi un bagno” commentò secca Francesca, facendogli ancora una volta sentire il macigno della colpa. Non sapeva se lo facesse consapevolmente, forse si, ma sentiva di meritare quella punizione, nonostante le sue intenzioni fossero state sempre le migliori. Non poteva ottenere il suo perdono, ma l’avrebbe protetta sempre e comunque. A passo lento si avvicinò, immergendo le scarpe nell’acqua, quindi si sedette sulla roccia alla quale si era avvicinata a nuoto, e la squadrò con le mani che si tormentavano a vicenda.  
“Tornando indietro, forse avrei agito diversamente” le disse con voce tremante.
“Forse?”.
Acosta prese un respiro profondo. “Sapevo che me ne sarei pentito per tutta la vita…eppure l’ho fatto lo stesso, spinto dalla necessità. Non so…non so bene se sarei riuscito a ignorare il bisogno che aveva Picche di una spia all’interno del palazzo di Fiori”.
“Ero sicura mi avessi tradito, e non c’era giorno in cui non ripensavo al momento in cui mi hai consegnata a Natalia”. Federico si sporse di poco verso di lei, e la guardò attentamente, quindi sorrise mestamente.
“Nemmeno io lo dimenticherò mai. La delusione nei tuoi occhi è stata come una lama nel petto”. Non riusciva ancora a crederci. Finalmente lui e Francesca stavano parlando. Non litigando, solo parlando. Da una parte era talmente felice che avrebbe desiderato che la sua vita finisse lì, in quel preciso istante, dall’altra però affrontare le sue paure lo rendeva fragile e impaurito. Sapeva che Francesca aveva un cuore d’oro, e forse l’avrebbe davvero perdonato, ma lui si sarebbe mai liberato di quell’opprimente senso di colpa? Non ne era sicuro.
“Ho un’idea” esclamò poi la regina con un sorriso enigmatico. “Perché non entri in acqua anche te? E’ caldissima!”. Federico avvampò in un secondo, non riuscendo a comprendere come Francesca potesse ritenere quella proposta naturale e addirittura amichevole. Scosse la testa, evitando di guardarla negli occhi. “Ma cosa stai dicendo! Insomma, non posso…” borbottò, voltandosi dall’altra parte e incrociando le braccia al petto.
“Federico, ti conosco da quando siamo bambini! Non c’è alcun bisogno di vergognarsi” rise la ragazza; lo cominciò a schizzare giocosamente, e più rideva, più quella risata lo tentava a cedere dalle sue posizioni. Con un mezzo sorriso, si alzò in piedi, restando di spalle. Fece il giro della sorgente, osservando di sbieco gli zampilli d’acqua che sgorgavano dalla parete rocciosa.
“Dove vai? Che fai, hai paura?” lo canzonò la regina. Quella notte sembrava che il passato avesse preso il sopravvento. Era come quando erano piccoli, come se tutto non fosse mai successo. Federico stesso si sentiva più leggero, nonostante il dolore non lo abbandonasse mai del tutto. Senza rispondere alle sue provocazioni si sfilò la maglia. Il sorriso di Francesca si spense, sostituito da una punta di imbarazzo, che eppure mai aveva sentito al fianco di Federico. Solo ora che effettivamente Acosta si stava spogliando, osservando solo la sua schiena nuda, si rese conto che non erano più due bambini. Quando erano piccoli a volte si erano ritrovati a fare il bagno insieme, nonostante la disapprovazione e lo stretto controllo di Luca, che pedinava Federico con lo sguardo come un mastino. Erano cambiate tante cose da allora. Federico era un ragazzo che si stava apprestando a diventare un uomo; il conte si voltò e si tolse il resto dei vestiti, guardandola intensamente. Aveva un fisico esile e asciutto, e Francesca cominciò a credere che l’acqua calda stesse diventando ancora più calda. Non voleva ammettere che in realtà era il suo corpo a fremere di fronte a quella vista, seguendo da lontano le linee del suo corpo. Senza che il contatto visivo tra i due si interrompesse il ragazzo cominciò ad avanzare lentamente, fino ad immergersi nell’acqua fino alle spalle.
Mentre la raggiungeva era sicuro che Francesca non smettesse di guardarlo, e il rossore sulle sue guancia lasciava intendere un apprezzamento sul suo corpo da cui non staccava gli occhi di dosso. Sembrava quasi dispiaciuta quando si era immerso nell’acqua scura in modo che rimanesse scoperta unicamente la testa. Con un sorriso rilassato si immerse del tutto, e riemerse col viso bagnato, con i capelli attaccati sulla fronte. 
“Hai ragione, è davvero calda” mormorò Federico, dando qualche bracciata, e raggiungendola. Improvvisamente per Francesca quella vicinanza era davvero troppa. Si pentì di avergli fatto quell’invito, e si guardò intorno nervosamente, cercando di non incrociare quegli occhi scuri, che aveva paura fossero in grado di scrutarle anche l’anima.
“Proprio come quando eravamo piccoli” rise Federico, un po’ nervoso per la situazione. Non c’era la stessa innocenza tipica dell’infanzia, erano cresciuti, e se ne stavano rendendo conto proprio in quel momento. Trovandosi faccia a faccia, le sfiorò la guancia con il dorso della mano, e notò con piacere che Francesca non si era ritratta al tocco. Il fortissimo amore che provava per lei prese il sopravvento, e chiuse gli occhi. Nessun rumore turbava la loro quiete, se non le pulsazioni frenetiche dei loro cuori. Avvertì il respiro caldo di Francesca, prima di incontrare le sue dolci labbra. Il bacio sembrava sprigionarsi da quella sorgente e diffondersi anche oltre, come se quel luogo non fosse sufficientemente adatto a contenerlo. Francesca era rimasta immobile, poggiando le mani tremanti sulle spalle del ragazzo, che le trasmetteva sicurezza. Alle sensazioni del presente si fusero le immagini del passato, e una tremenda confusione le annebbiò la mente. Stava baciando un traditore? Un amico? Nessuno dei due? Chi era per lei Federico? Oltre lo spesso strato di odio che aveva alimentato nei suoi confronti in cella, qualcosa di sconosciuto aveva preso a battere insistentemente, e non capiva se dovesse ignorarlo o lasciare che avesse il sopravvento. I loro corpi iniziarono a sfiorarsi e dovette ammettere che nonostante la paura le sembrava la cosa più naturale del mondo. Delle urla li fecero uscire da quel vortice che li stava sempre più risucchiando, facendoli staccare di colpo. Non appena le loro labbra si separarono Francesca avvertì il caldo trasformarsi rapidamente in gelo. Non poteva non essere grata di quell’interruzione, perché in questo modo avrebbe avuto modo di riflettere sull’accaduto. Che cosa provava lei per Federico?
“Viene dal lago!” esclamò Acosta, impallidendo. I due uscirono velocemente dall’acqua e si rivestirono più in fretta possibile; nonostante Federico si fosse voltato per lasciarle un po’ di intimità nel rivestirsi, aveva visto che di tanto si grattava il capo nervoso, senza riuscire ad evitare di guardare di sbieco. Corsero con i vestiti che aderivano alla pelle bagnata, senza preoccuparsene, fino a raggiungere il loro ritrovo, dove stava infuriando una vera e propria battaglia.
Tre uomini con un’armatura avevano attaccato i rivoluzionari, e adesso stavano fronteggiando Libi, Emma e Andres. Esmeralda era scomparsa, e invece lungo la riva due persone si rotolavano in un combattimento. Uno era certamente Maxi, mentre l’altro solo dopo riconobbe essere Matias.
Andres abbatté facilmente il suo nemico, quindi si voltò indietro verso Maxi pronto a dargli una mano, ma un’aquila gli impedì di soccorrere l’amico, svolazzandogli intorno e graffiandolo con i suoi artigli.
In lontananza Esmeralda stava arretrando con un’espressione sconvolta. Qualcosa gli diceva che lei e Matias c’entravano con quell’imboscata notturna. “Io la fermo” disse Federico. Francesca annuì, e lo vide correre nel tentativo di raggiungere Esmeralda. Lei rimase ferma a osservare la scena spaventata, quindi raccolse un bastone e si avvicinò lentamente alle spalle di un guerriero con un’enorme mazza ferrata che stava dando parecchio filo da torcere a Emma. Era grande almeno quattro volte la ragazza, un vero e proprio energumeno. Senza pensarci due volte gli diede una legnata in testa facendolo barcollare, e Emma lo finì. Ci fu uno sguardo d’intesa tra le due.
“Forse non sei così male…con le bastonate te la cavi bene” ironizzò la bionda per poi andare ad aiutare Libi. I nemici però continuavano ad arrivare, e la situazione stava degenerando.
Maxi continuava a sferrare calci in aria, mentre Matias tentava di strappargli l’elmo di mano. “Molla!”. L’uomo sembrava davvero determinato a soffiargli quel prezioso oggetto, ma Maxi non era da meno, e insieme rotolarono in acqua, sempre sulla riva. “Serve a me!” digrignò, sferrando un pugno all’uomo che barcollò per qualche secondo, senza però permettergli una via di fuga. In mezzo al combattimento a mani nude l’elmo gli scivolò di mano, finendo nel fondo basso. Matias diede un destro al ragazzo che fu colto di sprovvista e non fece in tempo a parare il colpo. Cercò afferrare l’elmo, ma questo sfuggì alle sue mani, scorrendo lungo il terreno a una velocità pazzesca.
“Ma che diavoleria è questa!”. La superficie del lago si incrinò e al centro si generò un potente vortice. Dj che aveva appena messo KO un nemico guardò la scena inorridito: il lago aveva preso in qualche modo vita. La magia che permeava quel luogo aveva permesso anche alla natura di mostrare la propria forza.
“Ignis felim invoco!”. Una gatto di fuoco volteggiò sopra la sua testa, per poi seguire il suo dito che puntava sul lago. Corse rapidamente, trasformandosi in una sorta di proiettile rosso e arancione, ma dall’acqua emersero dei tentacoli trasparenti che intrappolarono la creatura da lui evocata facendola divincolare invano. Ci voleva qualcosa di più potente per quell’entità, ma Dj si sentì con le mani legate: non era molto abile nelle magie del fuoco, e men che meno in quelle del ghiaccio. Andres cercava di scacciare l’aquila, ma era del tutto inutile: come un rapace famelico dopo un fendente nell’aria tornava all’attacco con sempre più furia, senza lasciargli un attimo di respiro.
“L’ELMO!” urlò Dj, cosicchè tutti potessero rendersi conto della gravità di ciò che era accaduto: il prezioso oggetto era entrato in possesso di quel lago incantato, che aveva intenzione di custodirlo come un tesoro nelle profondità dei suoi abissi. Maxi riemerse tossendo, mentre le acque si ritiravano pronte a scagliare contro di lui un poderoso cavallone. Matias giaceva a pochi passi da lui, privo di sensi, colpito con forza da un’onda gigantesca. Non restava che una cosa da fare. Si liberò della spada di neranio, fin troppo pesante per quelli che erano i suoi scopi, e nuotò fino al centro dello specchio d’acqua, cercando di resistere al vortice che risucchiava tutto. Uno scintillio proveniva dal fondo, e si immerse completamente dopo aver preso un profondo respiro. Gorghi trasparenti dalle forme di tentacoli minacciosi tentavano continuamente di fermarlo. L’elmo si trovava in profondità, ancorato al fondo, e protetto dal vortice al centro del lago. Uno dei tentacoli lo prese per la caviglia, facendolo sussultare proprio mentre era vicino all’oggetto. Tentò di divincolarsi, ma la stretta aumentava sempre di più, e la pressione esercitata dall’acqua rischiava seriamente di schiacciarlo.
“Celer congelatio”. Il tentacolo si congelò per poi essere distrutto in mille pezzi. Alle sue spalle Dj gli sorrideva eloquente dentro una bolla trasparente al sicuro da ogni attacco. Lo afferrò per una mano e lo trascinò all’interno del globo trasparente, dove si respirava tranquillamente.
“Non potevi usare subito un trucchetto del genere?” lo riprese Maxi tossendo e sputando acqua. Dj scrollò le spalle. “Avrei potuto, ma poi non ci sarebbe stato il divertimento nell’averti salvato la vita” scherzò con aria seria, per poi tornare a fissare l’elmo.
“Questo lago ha deciso di fare il cattivello, non mi sta tanto bene” disse il mago, arrotolandosi le maniche della tunica scura che indossava, mentre gli occhi brillavano di una luce misteriosa. Maxi non aveva mai visto attentamente un mago prima di un incantesimo, e l’aria stessa sembrava vibrare di fronte alle radiazioni della magia.
“Nella peggiore delle ipotesi verremo trasformati in pesci” lo avvisò, prima di chiudere gli occhi e stendere le mani di fronte a sé.
“Neptune, terrae aquarumque deus, aquas apere, et maris sollicitudinem dissolve”. Non appena ebbe finito di pronunciare quelle parole una luce azzurra illuminò le profondità, poi la massa d’acqua, come sotto qualche comando si ritrasse, creando due muri alti e imperiosi, all’interno del quale nuotavano pesci di ogni sorta. Il lago era completamente diviso in due da un corridoio e Maxi rimase a bocca aperta di fronte all’ennesimo miracolo compiuto dal mago.
Dj sbuffò, passandosi una mano sulla fronte sudata. Le energie lo stavano abbandonando: contrastare la volontà delle acque era stata una vera e propria impresa, e gli sarebbe stato impossibile  ricorrere alla magie per qualche ora. “Vai, prendi l’elmo!” biascicò, sorreggendosi a malapena, mentre la linfa vitale scorreva fuori di lui, mantenendo innalzata quella barriera che gli permetteva di raggiungere l’agognato oggetto. Maxi con un balzo saltò fuori dalla barriera, corse fino all’elmo, lo afferrò, e tornò dal compagno, che non appena lo vide nuovamente al suo fianco emise un sospiro di sollievo. Non avrebbe potuto reggere un minuto di più. Le acque si richiusero rimbombando e scrosciando e finirono sballottati a lungo, mentre le onde tentavano di penetrare le loro difese. Con molte difficoltà e i tentativi di Dj di ricorrere alle sue ultime forze, riuscirono a raggiungere la riva, mentre le superficie ribolliva, come scossa da fremiti di rabbia. Andres con l’aiuto di Emma e Libi era riuscito a tenere a bada l’uccellaccio, e tentava allo stesso tempo di difendersi dai nemici che spuntavano di tanto in tanto dal folto della foresta. Federico aveva rinunciato a inseguire Esmeralda, che si era volatilizzata nella notte, e perfino Matias era scomparso. Quando tutti videro che l’elmo era nuovamente al sicuro emisero un sospiro di sollievo, e misero fuori gioco l’ultimo soldato.
“Devono averci trovato a causa di quei due” esclamò Andres affannoso, senza riuscire a dare un calcio in aria ricco di rabbia. Aveva proprio ragione Emma: doveva smetterla di aiutare tutti, finiva solo per rendersi vulnerabile. Che colpa ne aveva se era così buono e inadatto per una missione tanto delicata come quella? I compagni si raggrupparono intorno a lui, decidendo sul da farsi. Non potevano certo rimanere lì, ma viaggiare di notte era una follia altrettanto buona.
“Cerchiamo un altro riparo…” ordinò il capo, facendo assentire tutti che prepararono le loro cose. Libi si mise in spalla il suo arco, quando notò un movimento sospetto provenire da un cespuglio vicino. Un arciere tese l’arco sbucando con un grido disumano.
“Lunga vita alla regina Natalia!” strillò, scoccando la sua freccia verso quella che riconobbe essere la regina di Fiori deposta, simbolo delle speranze di un popolo ormai in ginocchio. La freccia sibilò, e Libi fu altrettante rapida nello scoccare la sua in modo da colpire in pieno petto l’uomo, conducendolo rapidamente alla morte. Quando sentì un tonfo si sentì morire, e si maledì per non essere stata più veloce. Doveva avercela fatta quel maledetto. Si voltò di scatto e con sua enorme sorpresa vide una Francesca spaventata ma illesa. A terra giaceva Federico, proprio lungo la traiettoria del colpo, con la freccia conficcata su un fianco.
 
“Dobbiamo fare qualcosa!” ripeté per la quarta volta Francesca, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal volto morente di Federico, il cui corpo di tanto in tanto era mosso da spasmi.
“Non era una semplice freccia” sentenziò Dj, alzandosi dopo aver esaminato la salute del ragazzo. “E’ intrisa di un veleno potentissimo…sicuramente creato da qualche mago abile nell’uso delle pozioni”.
“Quindi? Non possiamo certo lasciarlo morire qui!” si intromise di nuovo Francesca, scattando in piedi e agitando le braccia in cerca di attenzione.
“Ma cosa possiamo fare in un bosco che neppure conosciamo? Se anche ci fosse una cura non la troveremmo mai”. Libi aveva ragione, e tutti rimasero in silenzio senza avere nulla su cui ribattere per restituire la speranza svanita. Ai piedi di un salice piangente, avevano depositato il morente Federico e si stavano consultando. Dj fin da subito, provato dal fortissimo uso di magia di quella notte, aveva detto che avrebbe avuto bisogno di almeno due o tre ore per ricorrere ai suoi poteri, per cercare di rallentare il corso del veleno, ma non era certo in grado di guarirlo.
Andres si allontanò dagli altri, seguito da Libi, pieno di dubbi e paure. Quando fu sicuro di essere solo con l’amica esplose in un turbine di frustrazione.
“Non posso pensare che Federico stia andando incontro alla morte e che io non possa fare nulla! Lui ha fatto tanto per noi!” sbottò dando un calcio per terra, con il volto contratto in una smorfia di dolore.
“Andres…l’ha fatto per proteggere la persona che ama. Non potevi immaginarlo, né potevi impedirlo”.
“Già, io non posso impedire mai nulla” rispose amareggiato, sedendosi per terra, e incrociando le gambe, con la testa tra le mani e lo sguardo fisso nel vuoto.
“Hai salvato Emma…non lo ricordi più?”.
“Non è quello che intendo dire, e lo sai bene”. Ci fu un attimo di silenzio, poi Libi si avvicinò e si inginocchio al suo fianco. Gli poggiò la mano sulla spalla, e sentì che tremava. Non tremava solo di rabbia, era certa che quel dolore che si portava dentro stesse esplodendo di nuovo.
“Sai che non è stata colpa tua”. Era tanto tempo che non toccavano quell’argomento, la morte di Serdna. Era come se fino ad ora avessero fatto un tacito accordo, quello di non parlarne, e lei l’avesse irrimediabilmente rotto. Ma dopo tutte le peripezie affrontate era una ferita ancora troppo vivida.
“Tuideldì” gli disse con un sorriso rincuorante. Andres la osservò intensamente, quindi scosse la testa: “Quel soprannome appartiene al passato, lo sai”.
“Non puoi agire per vendetta, non puoi cancellare quello che è successo…finirai per impazzire!”.
Andres si rialzò. Non la stava ascoltando, non voleva farlo. “Tu non puoi capire”.
Era sempre così. Lei non poteva capire. Era la sua amica fidata, eppure non lo poteva capire. “Ci sto provando da tanto, e forse è vero, non posso capirti!”.
Nell’aria aleggiava aria di sfida, e forse Andres avrebbe colto al volo quell’occasione per sfogare tutto ciò che sentiva dentro, ma delle voci attirarono la loro attenzione.
“Non posso crederci, abbiamo fallito!”. Era un uomo, e la sua voce era fin troppo familiare.
“Matias” digrignò Andres tra i denti. I due si appostarono dietro un albero, e non appena avvertirono il rumore di passi dei due, gli furono addosso, incastrandoli a terra. Libi puntava l’arco addosso ad Esmeralda, mentre l’aquila volava nei dintorni non sapendo in che modo salvare la padrona. Matias invece era sovrastato dal peso di Andres che l’aveva inchiodato, puntandogli un pugnale alla gola.
“Eccoli i traditori” li sbeffeggiò il leader, mentre Matias fissava la lama che aveva puntata addosso terrorizzato.
“Ehi, non volevamo, ci hanno costretto!” esclamò l’uomo, tentando di mettere le mani in avanti, con scarso successo.
“Stai zitto, idiota!” lo ammonì Esmeralda.
“Non possiamo rimetterci le penne solo perché il signor Dominguez vuole quell’elmo! Noi dovevamo solo portarceli e poi svignarcela, ma la situazione è degenerata”
“Per colpa vostra un nostro compagno sta morendo avvelenato, e noi non possiamo farci nulla” li interruppe Libi con disprezzo.
“Beh, qualcosa si potrebbe fare…mio padre è un taumaturgo, e io so come risolvere i problemi dovuti ai veleni magici. Ma in cambio voglio che ci risparmiate la vita” esclamò Matias, congiungendo le mani a mo’ di preghiera.
“Come facciamo a poterci fidare di nuovo?” chiese Andres, intenzionato a non commettere per la seconda volta lo stesso errore.
“Vi diremo il motivo per cui abbiamo cercato di ingannarvi, ma lasciateci in vita, per favore!”. In tutto quel tempo Esmeralda era rimasta in silenzio, dritta e fiera persino di fronte a una freccia puntata contro di lei. Quella donna aveva un sangue freddo ammirabile.
“Allora, che cosa possiamo fare per aiutare Federico?” domandò Libi.
“La risposta risiede in questo posto, siete davvero fortunati. Ciò di cui avete bisogno è il Mana”.
Andres e Libi si guardarono preoccupati: che cos’era il Mana? 







NOTA AUTORE: Mamma mia, un capitolo pieno di avvenimenti questo! In effetti un po' ci mancavano diciamolo (anche se dopo il capitolo Leonetta siamo tutti ancora in fase sclero -io almeno lo sono xD-). Comuuuunque, succedono un po' di cose, nuovi personaggi misteriosi che si rivelano dei traditori...e allo stesso tempo dicono di non aver avuto altra scelta...chissà come mai. E ovviamente, c'è un dettaglio che riguarda il motivo di Esmeralda che è già chiaro dal nome dell'aquila. Ma sto dicendo anche troppo xD Ecco che cosa ci faceva Diego con il medaglione, lo usava per entrare in contatto con i due truffatori ù.ù 
Il recupero dell'elmo è andato fallito, Dj ha ancora una volta messo in atto le sue capacità (amore mio <3 *lo abbraccia*), e Fede e Fran sono sulla via della pace finalmente. Addirittura Fede approfitta di quel momento così particolare per baciarla *^* AIGH4UGH4UTGHU Poi si sacrifica anche per lei ricevendo la freccia avvelenata, e adesso anche lui, come in passato Emma se la rischia sul filo del rasoio. Matias, in cambio della salvezza, rivela che per curare qualcuno dal veleno magico serve un certo Mana...e ci lasci così in sospeso! (o meglio, io lo faccio xD).
Riuscirà la compagnia a salvare Fede? Che storia nascondono Matias e Esmeralda, al servizio di Quadri? Quante domande, che troveranno tutte risposta nel prossimo capitolo! :3 Grazie a tutti per seguire questa storia, e alla prossima! :3 Buona lettura :D
syontai :D 

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Capitolo 46
*** La regina del Mana ***





Capitolo 46

La regina del mana

“Il mana! Ma certo, potrebbe essere una soluzione. Il Mana è un tipo di energia spirituale che si trova nel mondo, ed è alla base della magia stessa”. Seduti in cerchio, i ragazzi discutevano sul fantomatico Mana che secondo Matias avrebbe portato la salvezza a Federico, e Dj stava appunto spiegando di cosa si trattava.
“E in cosa differisce dalla magia?” chiese Emma interessata. Ricevette un paio di occhiate eloquenti, visto che proprio lei aveva sempre dimostrato un astio incredibile contro tutto ciò che avesse a cha fare con la magia e addirittura nei confronti del loro stesso compagno dotati di poteri.
“E’ difficile da spiegare…beh, la magia è qualcosa di insito in tutti gli uomini, ma solo alcuni sono in grado di svilupparla, e questa loro capacità viene fuori fin da quando si è molto piccoli. Essa si serve del mana presente nella natura per prendere forza, e senza questo sarebbe talmente debole da risultare limitata e addirittura pericolosa per lo stesso mago. Ma il mana non si può catturare, è un’entità invisibile che riveste il Paese delle Meraviglie! O almeno non secondi i miei studi”.
“Che sono stati quasi inesistenti” precisò Emma, dando un colpo di tosse, senza curarsi di nascondere quel commentino agli altri.
“Ehi, le cose importanti le so! A livello di incantesimi sono quasi imbattibile…è sulle cose teoriche che purtroppo non mi sono mai applicato…provaci tu a studiare quei libroni ammuffiti con simboli incomprensibili” si difese il mago terreo. “E come erano prolissi gli autori! Un vero incubo”. Rabbrividì al solo ricordare tutta la polvere che sollevavano quei mattoni, e tornò a concentrarsi su quel che dovevano fare.
“Questo se non conoscete le cascate di Mana” si intromise Matias, rimasto fuori dal cerchio, ripreso da un’occhiataccia di Esmeralda. Tutti fecero saettare lo sguardo verso Dj, che in tutta risposta alzò le spalle con un filo di vergogna. “Potrei aver saltato il paragrafo in cui ne parlavano…o forse tutto il capitolo, non so”.
“Le cascate di Mana sono cascate sotterranee da cui si genera il mana. In quella fase è ancora liquido e perciò può essere imbottigliato. Il Mana da solo è più potente di qualsiasi magia di guarigione voi conosciate”.
“Mana liquido? Mai sentito” sbottò Dj.
“Sono troppe le cose che non hai sentito” lo zittì Emma, lasciando poi parlare Andres. Continuava a guardarlo in un modo adorante che a Libi personalmente dava fastidio, ma d’altronde non era certo quello il momento per pensare a scenate di gelosia. Andres rifletté qualche secondo, quindi si alzò, seguito poi da tutti gli altri. “E perché mai dovremmo fidarci di quello che dici?”.
“Ti ho dato la mia parola” piagnucolò il biondo, sperando così di fargli pietà, ma ottenne solo disapprovazione da Esmeralda, che dopo aver gettato un’occhiata all’aquila, posizionata su un ramo poco sopra di loro, si fece avanti pronta a consegnarsi spontaneamente alla volontà di coloro che l’avevano catturata. Ma non prima di essersi difesa. Era una truffatrice, era vero, ma pur sempre con un briciolo di orgoglio.
“Siamo al servizio di Quadri contro la nostra volontà” iniziò a dire, facendo calare il silenzio intorno a sé. “Io e Matias non siamo sposati, si trattava solo di una menzogna. Mio marito è morto tanto tempo fa, mentre la compagna di Matias…beh, è parte del motivo per cui siamo qui. Siamo stati un duo di truffatori eccellenti, sempre pronti a spillare soldi al primo ingenuo di passaggio”.
“Avrei smesso dopo il matrimonio” la interruppe Matias. “Proprio per questo abbiamo deciso di fare il nostro ultimo colpo, con l’aiuto della mia piccola bambina, Ambar” continuò Esmeralda senza battere ciglio. “Era iniziato tutto alla perfezione, credevamo di aver puntato un giovane ricco a cui sottrarre le sue ricchezze con qualche astuzia, e proprio quando eravamo riusciti nel nostro intento, quel ragazzo, di nome Diego, ha estratto una piccola fiala, facendola cadere sul terreno. Il suo contenuto è evaporato, e ha avvolto la mia Ambar, trasformandola in aquila” spiegò brevemente, alzando lo sguardo verso l’animale che sentitosi chiamare in causa emise un verso stridulo.
“E hanno preso la mia Marcela!” strillò disperato il biondo, agitando le braccia. “Diego ci ha incastrati…non sapevamo certo che fosse il consigliere del re! Ha detto che eravamo dei miserabili ladruncoli ma che avremmo potuto comunque essergli utili. L’unico modo per riavere mia figlia e la sua promessa sposa era di aiutarlo a recuperare quell’elmo” indicò l’oggetto che aveva tra le mani Maxi.
“Forse dovremmo fidarci”. Inaspettatamente fu proprio Emma a dire quelle parole, senza staccare lo sguardo da Esmeralda. Quella donna aveva una forza dirompente, un orgoglio che quasi la atterriva. Era quello che avrebbe voluto essere sua madre. Invece a lei era toccata una donna fragile, limitata dalle continue malattie e paure. Una madre da cui lei stessa aveva deciso di allontanarsi. Voleva essere diversa, e per questo era entrata nell’Accademia di Picche dove si formava la scorta di Pablo. Aveva impiegato tanto tempo per convincerli a entrare in quel circolo esclusivo, perché essendo donna nessuno aveva intenzione di concederle un simile privilegio, ma alla fine aveva dimostrato una grinta e una volontà tale da permetterle di guadagnarsi un suo posto all’interno dell’Accademia. Suo padre da una parte si era mostrato fiero, dall’altra invece la disapprovava per il suo sesso. La madre invece come sempre non aveva espresso un’opinione. Nulla. Ma ad Emma non interessava più nulla di quel fantasma che aveva sempre ritenuto assente nella sua vita. Trovandosi ora di fronte a quella figura così piena di forza ed energia, Emma non poté non provare un moto di adorazione nei confronti di una donna disposta a tutto per salvare la propria figlia.
Tutto intorno continuavano a fissarla: lei era sempre quella scettica, quella che non si fidava di nessuno. Che cosa l’aveva portata a comportarsi così? Solo Andres sembrò accettare tacitamente le motivazioni di Emma mai espresse, e le si avvicinò poggiandole una mano sulla spalla, e annuendo. Libi rimase in un freddo silenzio, e si limitò a rigirarsi l’impugnatura dell’arco tra le mani.
“Una delle nostre prossime tappe è al Palazzo di Quadri…il servizio che ci avete reso sarà ripagato” disse Andres, porgendo la mano a Matias, che la strinse con un po’ di timore, per poi sciogliersi in un sorriso riconoscente.
“Nessuno mi riporterà mai la mia Ambar…” esclamò Esmeralda con durezza, porgendo il braccio in aria, e lasciando che l’aquila vi trovasse riparo come su un trespolo. L’alba era giunta da un pezzo, e i primi timidi raggi del sole facevano capolino tra il folto verde, creando macchie di luce sul terreno.
“Io credo in questi ragazzi. Avrebbero potuto ucciderci e invece non l’hanno fatto. E voglio pensare che manterranno la promessa che ci stanno facendo”. Esmeralda mosse appena il capo in un cenno di assenso quindi si allontanò dagli altri, parlando amorevolmente all’aquila, che in tutta risposta muoveva le ali dando l’impressione di stare per spiccare il volo da un momento all’altro.
“Io rimango qui…vi sarei solo di intralcio e rallenterei la vostra ricerca”. Francesca finalmente era uscite dal mesto silenzio che l’aveva caratterizzata da quando avevano preso la decisione di recuperare il Mana. I suoi genitori le avevano spesso parlato di quell’essenza primordiale alla base del mondo. Dagli antichi diari dei suoi avi aveva appreso che generalmente il mana non poteva essere racchiuso in un corpo umano…ma qualcuno nel mondo c’era riuscito. Crescendo però quella persona aveva rischiato per impazzire, e per questo aveva cercato con tutte le forze di trovare un modo per contenere quel potere, creando infine un sigillo. Quel sigillo avrebbe protetto anche tutta la sua generazione e non sarebbe mai stato infranto, a meno che il richiedente non volesse spontaneamente fare ricorso al mana. Ma questa persona era sempre rimasta sempre all’oscuro di tutti, e persino i suoi genitori le avevano detto di non saperne nulla in proposito.
“Devo rimanere anche io…rallenterò il corso del veleno. Ma dovrete comunque fare in fretta, niente soste di piacere” ribatté pallido Dj, asciugandosi con una mano la fronte sudata. I suoi poteri erano al limite. Non aveva riposato quasi per niente, e si sentiva estremamente debole, ma avrebbe ricorso anche fino all’ultima briciola di magia per aiutare quella che adesso era diventata una strana famiglia, la sua famiglia. “Quindi a partire saremo io, Maxi, Libi e Emma…Matias verrà con noi per indicarci il luogo” disse Andres, ma l’uomo subito mise in avanti le mani.
“Non so dove si trovino le cascate di mana, so che una di queste sta nella foresta, nel sottosuolo, ma non ho la più pallida idea del luogo preciso”.
“Beh, non c’è problema, ci penso io!” esclamò Maxi, indossando in un secondo l’elmo. Il mago lo osservava attentamente, ed era diventato tutto d’un tratto serio. Eppure non capiva perché era tanto contrario al fatto che si esercitasse per usare quel prezioso e utile oggetto. Gli alberi gli vorticavano intorno, prima di divenire masse informi di colore, che pian piano svanivano lasciandolo sospeso nel vuoto. Si sentiva leggero come una piuma, e non appena aprì gli occhi, essi non riflettevano più la realtà che lo circondava. Lo scrosciare di una cascata aveva sostituito il sussurrare delle fronde degli alberi. Una figura evanescente era ai piedi della cascata e osservava i colori variopinti e vaporosi, che sostituivano la tipica acqua, evaporare e diffondersi nell’aria svanendo. Era di spalle e  indossava una semplice tunica bianca; non poteva guardarla negli occhi ma lo colpirono i lunghi capelli color ebano.
“Vi sto aspettando”. Una voce melodiosa risuonò per la grotta, facendo vibrare impercettibilmente le pareti. Tutto tornò a vorticare, eppure lui non aveva deciso di tornare indietro. Che stava succedendo? Possibile che l’elmo stesse sfuggendo al suo controllo? Si ritrovò in una stanza buia da lui fin troppo conosciuta. Il cuore gli batteva forte per l’emozione, ed era altrettanto certo che fosse stato lui a condurlo lì. Quella era la stanza di Violetta. Si avvicinò e la vide dormire per qualche secondo. Sorrise istintivamente, e si preparò a tornare indietro, per riferire ai suoi amici che adesso era in grado di condurli alla cascata, quando la sentì mormorare qualcosa nel sonno.
“Leon…”. Quel nome fu come una doccia gelida. Leon? Leon Vargas? L’uomo che aveva distrutto tutte le speranze di Andres e Serdna? Quello che aveva ferito a morte? Che ruolo aveva in quella storia? Non capiva in che modo quella ragazza tanto dolce e graziosa potesse avere a che fare con un mostro del genere. La stava sicuramente tenendo prigioniera. L’odio e la rabbia lo avevano accecato, non permettendogli di scorgere il sorriso che la ragazza aveva fatto nel pronunciare quel nome. Leon. Un altro crimine si era aggiunto alla sua lunga lista.
“Io ti salverò”. Si accostò a lei, e osservando il suo viso rilassato le scoccò un bacio sulla fronte. Non l’avrebbe lasciata in balia di un uomo tanto malvagio, l’avrebbe portata via con sé. Poi fu tutto buio.
Respirava a fatica, e i suoi compagni lo guardavano ansiosi di sapere qualcosa. “So dove si trova la cascata” rispose a stento, beccandosi una pacca sulla schiena da parte di Andres.
“Ma qualcuno ci attende lì, o almeno così ha detto…sembrava un fantasma. Potrebbe trattarsi di un pericolo”.
“E noi lo affronteremo!”. Andres sembrava ottimista, ma subito Libi smorzò quell’ondata di entusiasmo. “Ma se ha a che fare con la magia non possiamo farci nulla! Dj deve stare con Federico”.
“Tutti a fare affidamento su questa stupida magia!” sbuffò Emma, ancheggiando davanti a Libi, e squadrandola da capo a piedi, per poi tirare fuori il suo pugnale. “Faremo alla vecchia maniera di nonna Emma” ghignò. Prese il suo zaino da viaggio e attese che gli altri facessero lo stesso. Matias ed Esmeralda sarebbero rimasti con Francesca e Dj: dinanzi alla presenza del mago avrebbero potuto creare ben pochi problemi se anche ne avessero avuto l’intenzione.
“E certo, è facile parlare dopo che la magia ti ha salvato il fondosch…”. Dj si bloccò fulminato dallo sguardo furioso di Emma, e si inginocchiò vicino a Federico in silenzio, borbottando di tanto in tanto qualcosa.
 
“Tu credi nei colpi di fulmine, Andres?” chiese Maxi mentre erano in cammino. Il primo passo era raggiungere le Grotte di Artemisia, un complesso roccioso dalle innumerevoli gallerie, poi avrebbero cercato quella che conduceva alla cascata di Mana.
“Innamoramento al primo sguardo? Tutte scemenze” ribatté secco l’altro, piegandosi e osservando il terreno: Libi ed Emma erano rimaste indietro e loro avanzavano per controllare se il cammino fosse sicuro.
“Beh…non ne sono sicuro, io credo di essermi innamorato in questo modo”. Andres inarcò il sopracciglio, e lo squadrò con un po’ di diffidenza. Simulando una voce piatta e incolore chiese: “Si tratta di Libi?”. Provava un moto di fastidio al pensiero che si potesse trattare della sua amica apparentemente senza un perché…e sebbene in realtà esso fosse ben chiaro, continuava ad accantonarlo.
Maxi scoppiò a ridere, facendolo sentire un completo idiota. “Ma quale Libi! Si tratta di una ragazza…che vedo spesso nei miei sogni”. Calò uno strano e teso silenzio tra i due, fino a quando Maxi non si decise a parlare di nuovo. “Quindi tu ami Libi?”. Andres arrossì fino alla punta delle orecchie, e non distolse lo sguardo da davanti, evitando quello dell’amico.
“Che razza di idiozie spari? Io e Libi siamo come…fratelli”. L’amico scoppiò a ridere, spiazzandolo in modo inaspettato. “Da come vi guardate non si direbbe!”. Stizzito, avrebbe voluto chiedergli cosa intendesse dire, ma il buonsenso prevalse e fece finta di nulla, lasciando cadere il discorso. Uno scintillio rosa gli passò davanti agli occhi, e poi uno rosso.
Estrasse la spada, guardandosi intorno e lo stesso fece Maxi. Nel frattempo Libi e Emma li avevano raggiunti a fatica; vedendoli in posizione di attacco, si guardarono intorno in cerca del nemico.
“Che succede?” domandò Emma, guardinga. I due la guardarono e scrollarono contemporaneamente le spalle. “Non ne ho idea, ma ho visto qualcosa passarmi davanti”. Non fece neppure in tempo a terminare la frase che qualcosa lo sollevò all’improvviso, trovandosi così a mezz’aria.
“Andres, puoi volare!” osservò sbigottito Maxi. I suoi piedi si staccarono da terra come se essa esercitasse una forza repulsiva nei suoi confronti, e in poco tempo anche lui galleggiava in aria, come se stesse in acqua.
“Ma che razza di stregoneria è questa?”. Emma era nervosa e si osservava continuamente i piedi, temendo che prima o poi quella magia avrebbe toccato anche lei. Mille lampi colorati le sfrecciarono davanti al viso, rilasciando una polvere dorata che in un primo tempo la fece starnutire. Le braccia vennero spinte verso l’alto insieme al resto del corpo; si attaccò a un ramo basso, temendo di continuare a volare fino al cielo, mentre disperata rovistava in cerca del pugnale, sebbene intuisse che a ben poco le sarebbe servito.
Libi era affascinata. Di qualunque cosa si trattasse non sembrava pericolosa. Riuscì a distinguere tra quei bagliori dei piccolissimi uccelli, simili ai colibrì, tutti di colore diverso: viola, rosso, azzurro, blu, arancione…sembrava anche che stessero ridendo di loro; forse li ritenevano degli essere buffi. Uno degli esserini si fermò sulla punta del suo naso, quindi liberò le ali tenute raccolte; il becco divenne sempre più piccolo e arrotondato, fino ad essere una bocca dai denti bianchi splendenti. Le piume sulle ali si dissolsero mostrando due esili braccia. Per la prima volta Libi vide una fata. L’essere magico sorrise malizioso e scoppiò in una dolce risata acuta, facendo poi cenno alle compagne di raggiungerlo. Un tripudio di colori la stordì, facendola sentire leggera come una piuma. E proprio come una piuma galleggiava nell’aria, assaporando la sensazione di libertà che ne derivava.
“Fate” disse ai compagni con un sorriso rilassato, mentre si metteva a pancia in su, e si lasciava guidare dalla leggera brezza.
“Questa foresta è piena di magia!” esclamò Maxi con una punta di eccitazione, nuotando nell’aria per raggiungere Emma. Acute risatine aleggiavano ovunque, e sembravano provenire dagli stessi alberi. Uno splendido pettirosso planò verso di loro, facendo lo slalom tra i tronchi degli alberi, e piroettò a mezz’aria, mutandosi in una giovane ragazza dalla statura di una bambina. Aveva delle ali rosso fuoco, e un vestito del medesimo colore, che brillava ai raggi del sole. I capelli blu notte erano ricci e scompigliati; dall’espressione non doveva aver avuto una giornata delle migliori.
“Ragazze, smettetela!”. Svolazzava di qua e di là con fare furioso, rilasciando una polvere dorata ad ogni battito di ali. Una ad una le altre fatine vennero fuori, beccandosi i rimproveri di quella che doveva essere la loro guida. La fata-pettirosso si voltò verso di loro e si mostrò davvero mortificata. “Oh, ma che situazione imbarazzante! Mi dispiace…sono la regina delle fate eppure non riesco a tenerle a bada per più di un secondo, che queste malandrine scappano via in cerca di qualche malcapitato con cui giocare”. Fulminò con lo sguardo le sue suddite e si avvicinò ad Andres rammaricata. “Mi spiace davvero per questo contrattempo spiacevole e imperdonabile. Invece di portare la gioia della Primavera nel Paese delle Meraviglie queste indisponenti non sono ancora all’altezza del loro compito come le loro compagne più anziane” spiegò. Un battito di mani e si ritrovarono tutti con i piedi per terra, ancora leggermente scossi e spiazzati da quell’esperienza volante. “Non vi preoccupate, stiamo bene…l’importante è che le intenzioni non fossero cattive” rispose Libi per tutti, sorridendo e scuotendo la testa.
“Oh, quello mai!” esclamò la fata-pettirosso. “Sono solo molto giovani e prive del senso di responsabilità di una vera fata”. Ne prese una per le ali, che sembrava volere ancora dimenarsi e divertirsi e le diede una bella scrollata, facendola poi barcollare nuovamente al suo posto.
“Ce ne sono tante di creature come voi?” domandò Maxi, guardando quei misteriosi esseri uno ad uno.
“Ma certo! Questa foresta brulica di magia: unicorni, budini viventi, capricorni, grifoni, draghi…” cominciò ad elencare sulle punte delle dita.
“Ci saprebbe indicare la strada per le Grotte di Artemisia?”. Libi aveva rivolto quella domanda inconsapevolmente; eppure si erano affidati all’elmo.
“Beh, spero non ci stiate andando adesso, perché la direzione è completamente sbagliata!”. Maxi sbiancò di colpo, osservando l’oggetto magico tra le mani, e lo sguardo di tutti i suoi compagni fu puntato su di lui. Come aveva potuto suggerirgli la direzione sbagliata? Forse Dj aveva ragione, la magia dell’elmo gli stava sfuggendo dalle mani. Prima lo trascinava nella stanza di Violetta senza che glielo avesse chiesto, poi addirittura gli dava indicazioni errate. Per fortuna Libi aveva chiesto alla fata per sicurezza! Improvvisamente capì di aver dimezzato le possibilità di far rimanere in vita Federico e un senso di colpa immenso lo attanagliò.
“Grazie mille! Dobbiamo proprio scappare adesso”. Andres era scattato sull’attenti pronto a correre; mentre faceva cenno agli altri di seguirlo rapidamente, la fata-pettirosso gli urlò dietro qualcosa. “Attenti al grifone Rampante! Ha un caratteraccio e non ama ricevere ospiti!”.
 
Dopo il gruppetto di fate incontrarono tantissime creature diverse, tra cui alcune stranissime: volpi dal pelo rossiccio e tre code soffici, gelatine colorate con dei piccoli occhietti neri e maligni da cui cercarono di tenersi il più alla larga possibile. Persino gli animali comuni avevano qualche segno particolare, come ad esempio una colonia di lontre che emetteva volute di fumo dalla bocca. Continuarono a correre, evitando tronchi obliqui, e sassi ricoperti di muschio, fino a quando la natura non finì inevitabilmente per rallentarli. Nessuno aveva ancora osato chiedere a Maxi come avesse potuto usare in modo erroneo l’elmo e lui stesso si era preposto di chiedere spiegazioni a Dj il prima possibile. Le parete rocciosa era ripida e scoscesa, e piena di grotte disposte in file.
‘Da questa parte’. Limpide e decise le parole volarono nell’aria, perdendosi in un soffio di vento. Andres aguzzò lo sguardo e indicò una grotta poco distante da loro. “Viene da qui”. Non appena fu vicino al cunicolo si affacciò appena, ma dinanzi a sé vi era solo oscurità. “Non si vede nulla” constatò, riemergendo dal buio e voltandosi verso i compagni.
“Che facciamo?” chiese Libi, serrando il pugno intorno all’impugnatura dell’arco. Prima che Andres potesse rispondere un’ombra li oscurò completamente. Intravide una forma di ali, e puntò una freccia verso l’altro, ma rimase a bocca aperta di fronte alla creatura che li stava sovrastando. Aveva sempre creduto che i grifoni fossero delle leggende, protagonisti delle storie raccontate intorno al fuoco la notte per mettere paura ai bambini. Ma quella creatura aveva appena ribaltato la sua convinzione: metà uccello, metà felino. Un corpo possente grigio con alcune striature più scure che possedeva un paio di ali piumate color argento. Il becco era lungo e appuntito, gli artigli affilati come coltelli. Emise uno stridio talmente forte da rimbombare per tutte le grotte vicine, facendole venire la pelle d’oca.
“Di qui non passa nessuno senza il mio consenso!” ululò il grifone planando dolcemente e poggiando le zampe a terra per poi osservarli minaccioso. Aveva dei profondi occhi di un giallo brillante con delle sfumature arancioni. Ruggì, poggiando a terra la zampa anteriore destra e sollevando una nuvola di polvere.
“E adesso questo come lo fermiamo?” bisbigliò Emma ad Andres, osservando i muscoli tesi e possenti dell’animale.
“Chiediamo solo uno scambio!”. Rampante rimase basito di fronte a quella richiesta: tutti i viaggiatori in cui si era imbattuti o scappavano a gambe levate o tentavano inutilmente di fermarlo. Chi era quel folle che voleva contrattare con un grifone? Digrignò i denti, ma si limitò a far capire che avevano catturato la sua attenzione. Ma poi se li sarebbe mangiati tutti, e avrebbe cominciato dal piccoletto, che sembrava particolarmente succulento.
“Tu farai una richiesta e noi la esaudiremo, in cambio ti chiediamo di farci passare. Dobbiamo aiutare un amico”.
“Amicizia! AH!” sbottò il grifone. Subito un velo di tristezza avvolse il suo sguardo. Un amico. Quello che gli era stato tolto tempo fa. “Ed esaudirete ogni mia richiesta?” domandò famelico, osservando con insistenza Maxi, che già immaginava come un bel pezzo di gustosa bistecca.
“Basta che non debba sacrificare la vita di nessuno dei miei compagni”. Il grifone si infastidì sempre di più, eppure non voleva attaccarli. Non subito almeno. Era tanto che non scambiava due chiacchiere, e quel ragazzo sembrava abbastanza sveglio.
“Amicizia…di questa bella parola molti in questo mondo si nutrono, attribuendo ad essa i maggiori gesti di coraggio e nobiltà d’animo. Tutte frottole! E’ qualcosa destinato a morire, come il Paese delle Meraviglie”. Parole piene di amarezza gli uscirono dal becco senza che lo volesse. Stupidi ragazzini, stavano riaprendo delle brutte ferite nel suo cuore. Eppure nello sguardo determinato di Andres vedeva qualcosa. Improvvisamente un grifone e un uomo non erano poi tanto diversi. Rampante ed Andres erano due facce della stessa medaglia, una medaglia dal passato ricco di delusioni per entrambi.
“Non so perché parli in questo modo, ma sappi che non è così. L’amicizia è qualcosa di reale, molte volte mi è stata salvata la vita da amici sinceri”. L’animale sbuffò, ma non osò interrompere il contatto visivo.
“Ma certo! Amici sinceri…che sciocco illuso! Ma mi piaci, ragazzo, penso che sarai l’ultimo che mangerò” ghignò Rampante, ruggendo ancora una volta per intimorire le sue prede. Andres non batté ciglio, ma estrasse semplicemente la sua spada. Perché non aveva paura di lui? Insomma, lui terrorizzava la gente, era sempre stato così. Tutti avevano paura di lui, animali o uomini che fossero.
Un grifone e una tartaruga. Due amici ritenuti inseparabili. Rampante aveva sempre creduto che tra lui e il suo amico non potesse mai succedere nulla che potesse allontanarli. Insieme si divertivano a raccontarsi storie, ricreavano antiche musiche con strumenti donati dalla magica foresta. La loro preferita era senza dubbio la Quadriglia dell’Aragosta, in grado di variare il proprio ritmo in base all’umore di chi la ballava o la suonava.
“Oggi è una bellissima giornata”. Tartalenta era una tartaruga speciale, sul cui guscio erano incastonate antiche pietre, tra cui due smeraldi lucenti. Rampante annuì, senza fare eccessivamente caso alle sue parole. “Allora io vado. Ci vediamo dopo per un altro giro con la Quadriglia dell’Aragosta”. Lo vide sparire lentamente tra le basse fronde degli alberi. Non lo rivide mai più.
Si era sentito ingannato. Aveva cercato per anni per tutta la foresta ma sembrava essere scomparso nel nulla. Non esistevano gli amici, erano solo onde passeggere che davano solo incertezza e instabilità nel momento in cui passavano oltre. Nessuno l’avrebbe mai convinto del contrario, nemmeno quei ragazzi, ma era stanco. Non voleva combattere; perché per una volta non risparmiargli la vita? Non come atto di gentilezza o amicizia, parola che tanto odiava, quanto per semplice e pura stanchezza fisica. Avvertì anche un leggero brontolio allo stomaco, e sorrise beffardo. Avrebbe accettato il patto, in fondo sarebbe stato divertente cambiare per una volta. Era stanco di sbranare e combattere…stanco di ricordare ogni giorno l’amico che l’aveva abbandonato.
“Ho fame” sbuffò semplicemente, spiccando un salto fino ad atterrare qualche metro più in alto su una sporgenza della parete di roccia, e indicando loro di seguirlo. Si arrampicarono e lo raggiunsero dopo qualche minuto.
“Cosa dovremmo fare?” chiese Maxi, tremando alla vista di un mucchietto di ossa in bella mostra all’ingresso. Come potevano fidarsi di un grifone? Avrebbe potuto sbranarli in qualsiasi momento.
“Voglio una zuppa” disse Rampante, sedendosi sulle zampe posteriori e guardandoli fiero. Tutti si guardarono tra di loro perplessi.
“Non guardate me, non sono capace nemmeno a cucinare un coniglio catturato, figuriamoci una zuppa!” esordì Libi, mettendo avanti le mani.
“Io di zuppe non ne so niente…ci pensava mio nonno” diede manforte Maxi con una vena malinconica. L’odio nei confronti della corona di Fiori si riaccese e ci volle tutta la forza di volontà del mondo per relegarlo nuovamente in fondo al suo cuore.
“Nemmeno io sono capace”. Andres ricordava che a quelle pensava sempre Serdna, vantandosi di essere un cuoco provetto; mentre girava con il mestolo la brodaglia nel calderone lo punzecchiava continuamente, intimandolo a cercare una buona moglie in grado di supplire la sua completa incapacità ai fornelli. Una nota amara si impossessò di lui, e il suo volto si scurì, cosa che non sfuggì a Libi, la quale rimase in disparte. Sapeva a chi stava pensando, non aveva alcun dubbio in proposito, voleva fargli capire che doveva guardare avanti, non solo per lui, ma anche per il fratello la cui vita era stata interrotta prematuramente. Ma non intendeva continuare a litigare con lui, non lo sopportava, e se avesse tirato fuori l’argomento non sarebbe potuta finire in altro modo.
Emma si guardava intorno e cominciava a sentirsi fin troppo osservata. Mise le mani sui fianchi e avvertì una sorta di supplica collettiva nell’aria.
“Ma come, eppure la mia cucina non vi è mai piaciuta!” sbottò offesa, alzando il mento in su.
“E infatti te lo chiediamo solo perché noi non sapremmo nemmeno da dove iniziare, tu almeno puoi preparare qualcosa che assomigli alla zuppa…per quanto riguarda l’aspetto”. Libi le lanciò una frecciatina, facendola infuriare ancora di più. Le piaceva sentirsi indispensabile per il gruppo, e dall’arrivo di Dj tutti erano sempre pronti a lodare le sue doti, ignorandola completamente. Quel mago la oscurava e per questo si divertiva a insultarlo o a punzecchiarlo.
Andres, che era rimasto in disparte di fronte all’insistenza di Libi e Maxi, si fece avanti e guardò dritto negli occhi la bionda. “Fallo per noi. Non abbiamo tempo da perdere…fallo per Federico”. Emma sostenne il suo sguardo, ma non disse nulla. “Fallo per me”. Gli occhi di Emma si illuminarono, rubando però la luce a quelli di Libi, che si sentì sprofondare negli abissi più oscuri. Non poteva averlo detto. Non poteva credere che potesse nascere qualcosa tra lui e Emma. Le gambe volevano cedere, ma il suo cuore era più forte. Tutte le motivazioni che l’avevano spinta fin lì svanirono nel nulla, sostituite dalla stessa tenacia sperimentata durante l’avventura con Maxi sui Monti Neri. Non aveva bisogno di un leader. La verità è che non aveva bisogno di Andres, forse non aveva mai avuto davvero bisogno. Prese un respiro profondo e attese come tutti la risposta di Emma, che a quel punto annuì messa alle strette dalle circostanze. Abbracciò un po’ goffamente Andres, e quando si separò era rossa in viso. Era strano vedere Emma comportarsi come una qualsiasi ragazza della sua età. Dopo aver dato loro una lista degli ingredienti da procurarsi nella foresta, osservò il calderone che giaceva sopra un piccolo treppiedi di ferro. Sotto doveva essere acceso il fuoco. Sapeva bene di non essere una cuoca provetta, ma non poteva faro altro che provarci con tutta se stessa.
Gli ingredienti furono portati in tempi rapidissimi e Emma ci mise tutta la buon volontà del mondo. La zuppa aveva un poco invitante colore grigiastro e l’odore stesso non dava l’idea di qualcosa di gustoso, anzi tutto il contrario. Maxi divenne verde e si tappò il naso, respirando a fatica, Andres rimase paralizzato e Libi fece tre passi indietro fino a trovarsi all’aperto. Il grifone però non fece alcun segno di disprezzo, si limitava ad osservare la zuppe che bolliva famelico. Non appena Emma ebbe dichiarato che era pronta Rampante, si portò il calderone tra le zampe e si scolò tutto in un batter d’occhio.
“Ecco fatto, adesso ci sbrana” mormorò Maxi all’amico non riuscendo a fare il minimo movimento per la paura. Dopo aver mangiato quello schifo che speranze avevano di sopravvivere? L’animale si sarebbe arrabbiato a morte, e loro ci avrebbero rimesso le penne.
“MA…”. Il potente vocione di Rampante risuonava nella grotta, facendoli rabbrividire. “E’ LA COSA PIU’ DELIZIOSA CHE ABBIA MAI ASSAGGIATO!”.
“Ma sta scherzando?” si lasciò scappare Maxi, venendo subito incenerito con lo sguardo dai suoi compagni. Non era il caso di mettersi a discutere con un grifone dei propri gusti per così dire eccentrici. “Ne vorrei proprio dell’altra” continuò Rampante senza prestare attenzioni alle parole dell’altro, e guardando il fondo del calderone con aria triste.
“Quando riusciremo a salvare il nostro amico torneremo e te ne porteremo dell’altra!” esclamò Andres divertito. Rampante si ricordò del patto che aveva fatto e li lasciò andare per raggiungere la Cascata di Mana. “Ma non penso che vi piacerà quello che vedrete” sospirò infine, rintanandosi nel fondo della grotta, fino a quando anche i suoi occhi gialli come due fanali non furono inghiottiti nel buio. Con quelle criptiche parole si misero in cammino, scesero fino a terra e individuarono nuovamente il cammino che la voce misteriosa gli aveva indicato prima di incontrare il grifone. Era quasi completamente in discesa e il fatto di non riuscire a vedere a un palmo dal naso metteva loro ancora più agitazione addosso.
Un flebile bagliore apparve in fondo al tunnel, che diventava sempre più forte e insistente ad ogni passo. Sbucarono in una grotta profonda dalle pareti scoscese e il soffitto molto sopra di loro. La luce proveniva da quella che doveva essere la Cascata di Mana, da cui però fuoriusciva appena qualche goccia sparuta che si dissolveva subito nell’aria.
 “Non è possibile. Non è questa…” mormorò Maxi, guardandosi intorno spaesato. Che razza di imbroglio era quello?
“E’ come se si fosse prosciugata” constatò Libi, avvicinandosi alla parete e tendendo le mani verso l’alto. Le gocce nemmeno la raggiungevano. Come avrebbero fatto a raccogliere del mana da portare a Dj?
“Ma come è possibile che l’elmo mi abbia dato una visione sbagliata! Questo posto è completamente abbandonato”.
“Sono stata io a portarvi qui”. Una presenza dietro di lui gli fece gelare il sangue nelle vene. Quella voce…angelica e potente allo stesso tempo della stessa limpidezza di un cristallo. Lo spirito di donna della visione.
“Non so chi tu sia, ma dicci che fine ha fatto il Mana, ne abbiamo bisogno” gridò Andres, in preda al panico. Il tempo stringeva.
“Il Mana è stato consumato…la guerra che imperversa su questo Mondo lo sta lentamente distruggendo. Nel futuro un mondo privo di magia e vita attende tutti noi, ma non è ancora detta l’ultima parola. C’è una speranza”.
“Lo so, riunendo i pezzi dell’armatura!” sbotto il ragazzo, irritato dal sorriso sereno sul volto della donna, che le ricordava qualcuno.
“Non basta. I pezzi dell’armatura devono essere saputi usare nel modo giusto. La profezia parla di una giovane che proviene da un mondo diverso dal nostro. Il suo nome è Violetta”.
Maxi spalancò la bocca, ma non disse nulla. Non voleva che sapessero del suo debole per una ragazza che non aveva mai neppure incontrato.
“Ma la prescelta non sarà sola…ci sarà anche la mia erede al suo fianco. Colei nelle cui vene scorre il mio sangue di regina”.
“Non ci interessa! Noi dobbiamo salvare il nostro amico!”.
La donna sorrise imperscrutabile. “Ma tutto è collegato, nulla sfugge al destino del Paese delle Meraviglie, alle sue leggi perfette”.
“Chi sei? Cosa vuoi da noi?” chiese Libi con voce tremula. Non appena si specchiò nei suoi occhi capì ancora prima di sentire la risposta. Non era possibile, eppure erano identiche…lei e Francesca erano due gocce d’acqua.
“Sono la regina bianca. O almeno quello che ne rimane”.
 
Francesca era disperata. Perché i suoi amici non arrivavano? Si guardò intorno ma non si vedeva nulla in vicinanza. Dj aveva la fronte imperlata di sudore, ed era seduto con gli occhi chiusi al lato di Federico mentre ripeteva una litania tutta uguale. Qualche volta una rivolo di sangue scuro usciva dalle labbra del conte, ma per il resto non vi era alcun segno di vita. “Devono arrivare presto, maledizione!” biascicò il mago, per poi prendere un respiro profondo e ricominciare a pronunciare la formula da capo.
“Arriveranno, mi fido di loro” disse Francesca, congiungendo le mani e chiudendo gli occhi. Aveva bisogno di un miracolo. Al più presto.
 
“Nei tempi dei tempi, quando solo io e la Regina Rossa regnavamo su questo mondo, fui mossa dalla sete di conoscenza e di potere allo stesso modo della mia avida sorella, e trovai il modo per impossessarmi del Mana. Potersi servire del Mana direttamente rende la creatura magica più potente del mondo intero”. La Regina Bianca prese una piccola pausa e continuò: “Non sapevo certo degli effetti collaterali…la vita si abbrevia, il Mana si nutre dell’anima del corpo che la intrappola. Quell’esperimento fu di avviso a tutti: non era possibile controllare qualcosa di tanto potente. Riuscii a imporre un sigillo su di me e sulle generazioni future, perché ormai il Mana si sarebbe tramandato anche nei corpi dei miei successori”.
“Francesca possiede il Mana dentro di sé? E perché non l’ha mai usato prima?” chiese Libi.
“Nessuno lo sa…è un segreto che si è perso nei tempi dei tempi. E’ l’unico modo per non spezzare il sigillo”
“Come si spezza il sigillo?”
“Con la volontà”.
 
Francesca si inginocchiò vicino a Dj, e lo guardò terrorizzata. Lui scosse semplicemente il capo. “E’ solo questione di minuti ormai, non c’è niente che possa salvarlo”.
Una lacrima le solcò una guancia, e scorse rapida fino al petto. Solo poche ore prima aveva ricevuto il suo primo bacio ed era stato Federico a donarglielo con tutto l’amore possibile, come un fiore appena colto, di quelli che le portava quando la mattina quando la veniva a trovare ed erano piccoli. Sempre Federico aveva donato il suo corpo per proteggerla, per fare in modo che continuasse a vivere. Una campanula. Perché le era venuto in mente quel fiore. Dentro la sua anima quel fiore sembrava essere cresciuto. La campana era chiusa, ma al suo interno qualcosa si smuoveva.
 
“Sarà Francesca a salvarlo. Ma poi voi dovrete salvare lei. Una volta rimosso il sigillo potrebbe succederle di tutto. Il Mana è imprevedibile. La morte è solo una delle tante ipotesi”.
“Come mai sei qui? Perché volevi parlarci a tutti i costi?”. Andres la guardava sospettoso, e non capiva ancora quale fosse il punto.
“Io dovevo semplicemente avvisarvi” sussurrò la Regina Bianca. “Dopo aver commesso quel delitto contro la natura, cercando di controllare il Mana, alla mia morte la mia esistenza fu relegata come spirito a difesa e guardia di ciò che avevo bramato con tutta me stessa”.
Libi deglutì: ecco il perché di tutta la storia. La voleva avvertire dell’imminente risveglio dei poteri di Francesca, ma soprattutto dell’esistenza di un prescelto che avrebbe posto fino a quella sanguinosa guerra. Chi era quella Violetta? Talmente tante domande affollavano la sua testa, ma non riusciva a dare loro un ordine.
 
Con il dito sfiorò la superficie vellutata del fiore bianco come il latte. Esso sembrò rispondere alla sua carezza emanando un dolce profumo. Ma lei doveva salvare Federico…perché perdeva tempo all’interno della sua immaginazione? La campanula però la chiamava e la rassicurava. Va tutto bene, le ripeteva con il suo profumo. Lentamente la corolla sembrò volersi schiudere, ma era ancora trattenuta da qualcosa. Lì dentro giaceva qualcosa, e non sapeva perché ma le serviva. Le serviva per salvare Federico. E avrebbe fatto di tutto per schiudere quel fiore. Cercò di aprirlo, ma ancora non era sufficiente. Ne aveva bisogno, assoluto bisogno. La campana si schiuse tintinnando mostrando una luce bianca e accecante.
Aprì gli occhi. Era piegata verso Federico aveva le mani appoggiate sul suo petto, le quali brillavano luminose. Dj la guardava pallido in viso, e a metà tra lo stupefatto e il terrorizzato. Quella non era magia. Non aveva usato nessuna formula, non aveva avuto bisogno di alcun gesto della mano. Quello era Mana. Non riuscì a trattenersi.
“Regina Francesca, v-voi…p-possedete il Mana”. Francesca lo osservò mai nei suoi occhi baluginava un riflesso lattiginoso. Sembrava non averla sentita del tutto, ma dalle sue mani la luce bianca aumentava sempre più di intensità.
Federico aprì gli occhi sussultando.  









NOTA AUTORE: Per una volta mi ritengo soddisfatto di questo capitolo...a parte alcuni intermezzi comici succedono cose parecchio interessante. Tenete d'occhio il flash di Rampante che tornerà più in là (spoiler). Comunque, partiamo un po' a commentare i nostri personaggi. Nel finale abbiamo un vero e proprio colpo di scena: Francesca è in grado di salvare Federico spezzando il sigillo imposto nei tempi antichi dalla Regina Bianca, rappresentato dalla campanula. In tutto ciò Maxi pensa di dover salvare Violetta dalle grinfie di Leon (e non c'ha capito una mazza, ad essere diretti), Libi sente qualcosa spezzarsi tra lei e Andrs...(e infatti nel prossimo capitolo...succede una cosa triste :() e Andres invece rimane impassibile a tutto *FACEPALM* Parlando di altre cose...il Mana! Insomma Fran salva Fede ma si mette in pericolo D: Riparte il viaggio...verso Cuori. AHI AHI O.O Cominciano i casini per tutti, io lo dico *spinge Maxi in un burrone* Volevo dire- niente xD Quanto amo Rampante comunque  :') (non c'entra niente, ma volevo dirvelo xD). Beh, non ho molto da aggiungere, tranne che per una volta mi sento soddisfatto xD Grazie a tutti voi che mi seguite, e alla prossima! :3
syontai :D 

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Capitolo 47
*** Il riflesso di un addio ***






Capitolo 47
Il riflesso di un addio

Federico si alzò con il busto respirando a fatica e guardando fisso davanti a sé. Aveva appena visto la morte passargli davanti e si sentiva provato fisicamente e psicologicamente. Quando incrociò lo sguardo vuoto di Francesca ebbe un momento di panico. I suoi occhi avevano qualcosa di strano, dei strani riflessi bianchi baluginavano intorno alle pupille scure e dilatate. 
“Francesca…” sussurrò, pensando di essere in preda a qualche allucinazione. Non riusciva a tenere gli occhi aperti, e ricadde supino, in preda a dei brutti giramenti di testa. L’ultima cosa che sentì fu la voce della ragazza che lo chiamava. Il suo tono era dolce e preoccupato e non poté trattenere un sorriso beato, mentre si rifugiava pigramente nel mondo dei sogni. 
“Lascialo riposare ora”. Dj aveva appoggiato la mano sulla sua, guardandola terreo. Non se lo aspettava, non poteva credere che proprio la Regina Bianca avesse cercato di intrappolare il Mana, facendo ricadere quella maledizione sulla sua discendente. Francesca sembrava essersi ripresa, era solo leggermente più pallida del solito, ma per il resto non mostrava alcuno di quegli strani sintomi precedenti; non si era nemmeno resa conto di ciò che aveva fatto, era chinata su Federico, mentre gli accarezzava la guancia con tenerezza. La ragazza non aveva prestato minimamente attenzione alle sue parole e continuava imperterrita ad accudire Acosta, senza staccare mai lo sguardo. 
“Francesca, adesso sta bene” la rassicurò il mago, circondandole le spalle con un braccio e allontanandola di poco dal conte. “Forse è il caso che provi a riposare”. La regina alzò gli occhi scuri e colmi di tristezza e annuì, stendendosi al fianco del convalescente, e appoggiando il capo sul suo petto. Dj si arrese: non c’era comunque modo di smuoverla da lì. Con la scusa di andare a prendere dell’acqua si trascinò Matias ed Esmeralda poco lontano, per valutare la situazione. 
“Possiede il Mana” constatò freddo, mentre la mente lavorava in cerca di una soluzione. Ma come ben sapeva, per quelle questioni così complesse era necessaria una conoscenza teorica della magia che lui non aveva mai posseduto. Fin quando si trattava di esibire qualche trucchetto scagliando palle di fuoco o creando scudi di ghiaccio era tutto semplice, ma quell’essenza ancestrale era fuori dalla portata di qualsiasi mago formato, figurarsi un apprendista che aveva concluso i suoi studi frettolosamente. 
“E’ un pericolo per voi e per se stessa! Non saprete mai cosa aspettarvi ora che ha rimosso il sigillo”. Matias sembrava estremamente preoccupato. 
“Dovreste liberarvene” si decise a dire Esmeralda. 
“Vorresti ucciderla? Ammesso che sia possibile…non scherziamo! Quella ragazza è una sorta di mina vivente, se provassimo a toglierle la vita non sapremmo cosa ci potrebbe succedere” esclamò Dj, scartando subito quell’idea. 
“Ma io non pensavo di ucciderla…solo di trovare un modo per metterla fuori gioco finché non avrete una soluzione diversa”. 
“Le cascate di Nefertiris!” esclamò Dj, come colto da un lampo di genio. I due lo guardarono come se avesse parlato in una lingua sconosciuta. 
“Ma si, sono delle cascate che si trovano nel Regno di Cuori, vicino al territorio delle miniere. Chi si getta nella sue acque raggiunge un sonno incantato, che somiglia alla morte. In questo modo il Mana non dovrebbe procurarle danni o farle commettere follie…almeno fino a quando non avrò raggiunto il Tridente”. Il Tridente era la più grande biblioteca del Paese delle Meraviglie, piena zeppa di libri magici, e il suo nome era dovuto alla bizzarra forma della costruzione, ossia un bastione alto e sottile che si diramava poi in tre torrette. “Ma si trova a sud di Fiordibianco, significherebbe tornare indietro”. Sfortunatamente non avevano sufficiente tempo e inoltrarsi nuovamente nel Regno di Fiori dopo aver appena rubato l’elmo non era affatto una scelta saggia. 
“Ma anche se riusciste ad addormentarla non è detto che il Mana non agirebbe…rimane comunque un rischio per voi” ribatté Esmeralda, che si stava finalmente lasciando prendere dalla conversazione. 
“In tal caso ci sarò io ad agire”  concluse Dj con una scrollata di spalle. “So bene che non è un grande piano, ma finora è l’unico che mi viene in mente”. 
“Si tratterebbe solo di allungare un po’ il percorso mentre siete diretti a Cuori”. 
“Già, tanto ormai siamo abituati ad allungare” rise nervosamente Dj, prendendo un bastoncino per terra, e lasciandolo ardere tra le mani. Stava pensando a come avrebbe potuto raggiungere il Tridente. Ma questo avrebbe significato separarsi dal gruppo e finché non avessero recuperato tutti i pezzi dell’armatura era chiaro che avevano bisogno del suo aiuto. Chissà la Regina di Quadri quante trappole magiche aveva allestito per proteggere lo scudo. E Cuori? La regina del regno, Jade Lafontaine, moglie del defunto sovrano, rispettato da tutti per la sua saggezza e benevolenza, era una donna assetata di potere che sicuramente aveva trovato qualche infallibile modo per salvaguardare la sua spada. Lentamente ai suoi piedi la sabbia assunse le sembianze di una mappa abbozzata. La sua mente modellava la terra, creando diversi possibili percorsi. Poche certezze aveva con sé, tranne una: per salvare Francesca era necessario raggiungere il Tridente.
Un fruscio lo distolse dai suoi pensieri e vide sbucare da dietro un cespuglio una folta chioma riccia.
“Maxi!” esclamò, andando incontro all’amico, seguito da tutti gli altri. 
“E’ vero? Francesca possiede il Mana? Ha salvato Federico?” chiese Andres, senza preoccuparsi della faccia sconvolta del mago, il quale non capiva come potesse conoscere tutte quelle informazioni. 
“Si, ma…come lo sapete?”. Maxi iniziò a raccontare tutto dal principio senza omettere alcun dettaglio e riferendo parola per parola quello che la Regina Bianca aveva detto loro. Dj aveva ascoltato in silenzio, annuendo di tanto in tanto, e grattandosi il mento con aria perplessa. Subito dopo aveva raccontato loro di ciò che aveva visto, del miracolo compiuto del Mana, dell’idea di raggiungere le Cascate di Nefertiris, della soluzione che poteva essere rappresentata dal Tridente.
“Per quanto riguarda le Cascate sono d’accordo…dobbiamo proteggere la Regina e se quel sonno può essere una soluzione temporanea allora non vedo altre alternative” decise Andres.
“Il sonno incantato proteggerà Francesca, ma non noi…se il Mana dovesse manifestarsi dovremo essere pronti a fronteggiarlo senza farle del male. Insomma, i rischi non mancherebbero!” spiegò però Dj con una punta dubbiosa. 
“E quando mai siamo privi di rischi noi!” sbuffò Emma con un mezzo sorrisetto, mettendo a tacere il mago. Libi nella conversazione era rimasta in silenzio e sembrava presa da altro.
“Tutto bene, Libi?” chiese. Libi si riscosse come da un sogno, con uno strano sorriso enigmatico. 
“Non potrebbe andare meglio”. E con quella risposta criptica si mise l’arco in spalla e raggiunse il loro rifugio. 

Maxi era in disparte, mentre cercava di intagliare qualcosa che doveva assomigliare a una coroncina di legno. Più sgrezzava l’oggetto più si incantava di fronte a quel piccolo modellino. Avrebbe regalato quell’oggetto alla persona che amava nel momento in cui l’avrebbe riconosciuta. Poteva forse trattarsi di quella ragazza che vedeva grazie all’elmo? Violetta? Sentiva che erano legati da un filo invisibile, un legame che poteva solo rafforzarsi. Dall’ultima visione il suo odio per Leon era aumentato: non solo si trattava di un suo nemico, ma adesso teneva rinchiusa dentro il castello quella dolce creatura, e lui non riusciva a permetterlo. Osservò l’elmo ai suoi piedi e distolse lo sguardo: come aveva potuto l’oggetto portarlo dalla parte sbagliata? Per un momento aveva pensato fosse stata la Regina Bianca a confondere la sua visione, nel momento in cui gli aveva mostrato la cascata di Mana rigogliosa, ma poi si era detto che non poteva trattarsi solo di quello. Dj lo raggiunse e si sedette al suo fianco, guardando l’elmo magico che riluceva misterioso. 
“Emma mi ha detto che hai sbagliato direzione nonostante ti fossi servito della magia dell’elmo” esordì. “Carina quella” aggiunse indicando la coroncina tra le mani del giovane. 
“Grazie, è da un po’ di giorni che ci lavoro” rispose l’altro, evitando di parlare dell’altro argomento. Alzò la testa con un sorrisetto: “Da quando Emma ti fa delle confidenze?”. 
Dj scosse la testa, evidentemente imbarazzato. “Non cercare di cambiare argomento…ti avevo detto di prestare attenzione al potere dell’elmo”. 
“Non mi era mai successo prima” disse Maxi, omettendo però la visione improvvisa nella stanza di Violetta. 
“Questi oggetti sono stati forgiati tanto tempo fa da maghi che conoscevano ogni singolo aspetto della magia. Indistruttibili incantesimi vennero fusi con metalli preziosi e nobili dando vita ad armi magiche in grado di ribaltare le sorti di una guerra”.
“Ma non è ciò a cui si riferisce la Regina Bianca, giusto?”. Maxi aveva colto nel segno: c’era dell’altro. Perché solo quella Prescelta doveva usarle? Che ci fosse un segreto dietro l’Armatura di cristallo? 
“Questi oggetti hanno un’anima tutta loro, in modo da renderli completamente autonomi. Quando l’elmo ti ha dato delle indicazioni sbagliate probabilmente in te ha visto confusione e incertezza, e si è nutrito di esse per portarti fuori strada”. 
“Quindi l’elmo può dare anche agire per conto proprio?”.
Dj annuì e si portò uno stelo d’erba alla bocca, soffiandoci piano. Un suono stridulo e soffocato si diffuse nell’aria. “Sono le controindicazioni della magia. Non solo, a volte sfrutta la forza e l’energia di chi lo usa, sottraendogliene dopo l’utilizzo. E’ per questo che ti ho detto di fare attenzione”. 
“Ultimamente Libi mi sembra strana” aggiunse, alzandosi in piedi e dandosi qualche manata sui pantaloni per liberarli della polvere e del terriccio. 
“Tu dici? Non me ne sono accorto…in fondo a te non interessa, giusto? Tu vuoi solo la spada di neranio, e sei vincolato da un Pactio”. Quelle parole lo colpirono per la semplicità con cui erano state pronunciate. Il quadro era così semplice agli occhi degli altri. Si, forse non avrebbe dovuto interessarsi delle apparenti stranezze dei suoi compagni; lui era lì solo in seguito a un accordo infrangibile. E il gioco non valeva nemmeno la candela. Qualcosa lo spingeva a preoccuparsi dei suoi compagni di avventura, ma aveva ragione Maxi. In fondo non era lì solo per interesse?

Libi osservava quelle poche righe scritte di fretta e si convinse che andassero più che bene. Non doveva loro alcune spiegazione, non voleva dargli alcun addio. Il suo desiderio era di sparire come un’ombra e tornare a vivere nel bosco vicino al suo villaggio ridotto in cenere. Controllò per un’ultima volta l’interno dello zaino: aveva abbastanza provviste per due o al massimo tre giorni, poi si sarebbe procurata il cibo cacciandolo. Si mise lo zaino in spalla e prese l’arco che aveva appoggiato alla base di un tasso. Emma era andata a caccia, Maxi e Dj erano rimasi vicini a Federico e Francesca, Andres era scomparso misteriosamente non appena avevano messo piede nel rifugio, seguito da Matias ed Esmeralda. Scrollò le spalle con assoluta indifferenza e si chiese unicamente dove avrebbe potuto lasciare la lettera. La mano si strinse intorno ad essa e tutta la determinazione avuta fino a quel momento crollò in un istante. Ma lei non poteva continuare in quel modo, non poteva vivere nel riflesso di un amore non corrisposto, un amore a senso unico che non poteva portare a nulla se non al dolore. Tutta la sua devozione doveva finire. 
“E’ così che si saluta un amico?”. Una voce la fece drizzare sul colpo; si voltò a rallentatore fino ad incrociare lo sguardo amareggiato di Andres. 
“Con una stupida lettera? Che c’è, avevi paura che ti convincessi a ripensarci?” continuò, avanzando lentamente. 
“Sei talmente orgoglioso che non l’avresti mai fatto” sorrise lei, infilando la lettera nella tasca.
“Puoi darmi dello stupido se vuoi”. Lo avrebbe fatto davvero volentieri, gliel’avrebbe anche urlato in faccia, ma la consapevolezza che non avrebbe cambiato assolutamente nulla la trattenne. Non servirebbe a nulla, Andres, pensò tra sé e sé, cercando di tenerlo lontano con delle tacite suppliche. “Ma non capisco perché mai dovresti lasciarci”. La ragazza impallidì: si doveva aspettare quella domanda. Nessuno poteva capirlo tranne lei. Nessuno era in grado di esprimere quel forte sentimento che lentamente la stava devastando. Persino lei faceva fatica. 
“Tu non puoi capire” rispose con un mezzo sorriso amaro, ricordandogli le sue stesse parole nella loro ultima discussione. Andres colse il riferimento, perché scoppiò in una risata fredda e priva di gioia, una risata che le fece accapponare la pelle. “Mi mancherai, Libi”. Erano talmente vicini che quegli sguardi fugaci erano diventati ormai come dei fari luminosi talmente tanto erano intensi. La mano le tremò e la porse ad Andres. Una stretta di mano tra amici, questo era ciò che voleva. Serviva a dimostrarle che poteva lasciarsi tutto alle spalle, che avrebbe potuto riprendere da prima di incontrare Andres. Il ragazzo rimase impassibile ma non fece nulla per stringerla. 
“Immagino che nulla di ciò che potrei dirti ti farebbe cambiare idea. Sei libera di fare ciò che vuoi della tua vita e non dovevi nemmeno intraprendere questo viaggio. Tu come Maxi”. 
No, qualcosa avrebbe potuto dirlo e sarebbe magicamente cambiato tutto. Dal nero al bianco in un istante, con due semplici parole. “Hai detto bene. Nulla mi farà tornare indietro dalla mia decisione”. Era stanca di aspettare qualcosa che non sarebbe mai arrivato, stanca di tendere le mani in attesa che scendessero dei fiocchi di neve quando il clima tutto intorno era arido e secco e neppure una nuvola macchiava il cielo terso. I miracoli non esistevano, non quelli che non avevano a che fare con la magia. Andres annuì e si fece ancora più avanti timorosamente. Senza nemmeno esserne pienamente consapevole si trovò quasi stritolata tra le braccia di Andres, che con quell’abbraccio sembrava stesse cercando di trattenerla fino alla fine. Ricacciò dentro una lacrima di tristezza e si lasciò cullare dal ragazzo. Si sentiva davvero in colpa nel lasciare tutti nel bel mezzo di una missione così rischiosa quanto importante per il Paese delle Meraviglie, ma lei aveva bisogno di trovare la sua strada, e non era quella. In fondo non si era mai sentita fondamentale per il gruppo: avevano Dj, che con la sua magia avrebbe potuto benissimo colmare la sua assenza. 
“Saluta gli altri per me…spiega loro che…insomma…”. Avvertì un singhiozzo. Non poteva stare piangendo, non poteva essere. Non piangeva da quando aveva saputo della morte di Serdna. 
“Ti auguro tutto il meglio” le sussurrò all’orecchio con voce tremante, prima di voltarsi di scatto e alzare il braccio all’altezza del viso, forse per asciugare le lacrime. O forse semplicemente non voleva vederla scomparire all’orizzonte. In ogni caso, dopo aver preso un respiro profondo la ragazza rivolse il suo sguardo a sud. Avrebbe riattraversato la foresta di Oberon e sarebbe tornata ai piedi dei Monti Neri, nella speranza di trovare un modo più sicuro per varcarli e tornare nel Regno di Picche, la sua patria. “Addio. Forse un giorno ci rivedremo”. In realtà non sapeva se sperarlo, ma quelle parole le erano uscite dal cuore. Un giorno, una volta finita la guerra…l’avrebbe rivisto? Se lo domandava ad ogni passo, che si faceva pesante come un macigno di cui era impossibile liberarsi, sebbene lei ci stesse provando con tutta se stessa. Addio. Addio. Addio. 

“Allora, questo è il piano…”. Il silenzio circondava Andres, che dopo aver riferito agli altri della partenza di Libi si era gettato a capofitto nella missione, senza smettere di pensare ad altro. 
“Ma si può sapere almeno perché se ne è andata?” si impose Maxi, ancora scioccato per la notizia. Tutti intorno annuivano con la testa, tranne Emma che era rimasta abbastanza in disparte e guardava la scena con indifferenza. 
“Ha ragione Maxi! Non puoi dirci semplicemente ‘se ne è andata’ e poi cambiare discorso in questo modo”. Francesca era ancora più carica da quando aveva scoperto di possedere il Mana. Dj l’aveva avvisata dell’enorme pericolo che correva. Le aveva parlato dell’idea che aveva avuto e, sebbene il pensiero di cascare in un sonno profondo la spaventasse a morte, se fosse servito ad aiutarli a controllare la situazione non avrebbe potuto fare altro che accettare. Per quanto fosse in quel gruppo da poco si era già affezionata a Libi e non poteva ancora credere che se ne fosse andata.
“E’ stata una sua libera scelta, smettetela di prendervela con Andres” intervenne Emma, affiancando il leader. 
“Ma lui avrebbe potuto fermarla!”
“Avrebbe dovuto!”
“Insomma, Libi era un pezzo forte della squadra”. Quel continuo parlottare stava cominciando a fargli venire un gran mal di testa: quella giornata sembrava interminabile. 
“Ha ragione Emma…non potevo certo costringerla a rimanere qui se lei non voleva” disse Andres, cercando di porre un punto a quella storia, sollevando invece ancora più malcontento.
Federico si reggeva grazie a delle stampelle di fortuna, ma non sembrava del tutto ripreso da quella brutta ferita. La testa gli girava di tanto in tanto, ma ogni volta che si rendeva conto che Francesca lo guardava preoccupata esibiva un sorriso a trentadue denti e cercava di mantenersi dritto con la schiena, per farle vedere che era benissimo in grado di farcela a restare in piedi. 
“Raggiungeremo le cascate di Nefertiris, così la regina potrà cadere nel sonno profondo, a quel punto Dj ha ideato un modo per trasportarla con noi durante il viaggio, e limitare i danni che potrebbe creare il Mana”. 
“Chiamasi anche teca di cristallo con qualche incantesimo difensivo di basso livello, ma abbastanza duraturo. In parole povere: se il Mana vorrà bruciarci il sedere ci vorrà un bel po’di tempo” spiegò il mago brevemente, ottenendo un’occhiataccia di Emma. “Se pensi che io mi accolli una teca di vetro sulle spalle puoi anche cominciare a pensare a un piano alternativo”. 
Dj si avvicinò con una buffa espressione che forse doveva essere seducente: “Tranquilla, piccola, va bene che non sei esperta di magia, ma almeno dovresti sapere che con queste nostre manine possiamo far levitare gli oggetti”. Le mostrò le mani divertito e aggiunse: “E siamo anche degli ottimi massaggiatori”. Emma divenne rossa dalla rabbia e dall’imbarazzo e qualche secondo dopo Dj si ritrovò il segno rosso di uno schiaffo in piena guancia. 
Andres si prese qualche secondo per lasciare sfogare le risate per il fallimento che aveva rimediato Dj, e riprese a parlare: “A quel punto partiremo per la volta del Castello di Cuori, che non dista troppo dalle Cascate”. 
“Si, si, la storia è chiara. Prendiamo la spada, il mago rischia la vita contro trappole magiche mortali, eccetera eccetera” mugugnò Dj, gemendo per il dolore che ancora provava. 
“Guardatelo come si vanta!” ridacchiò Maxi, tornando subito serio di fronte all’espressione dura di Andres. 
Non appena la seduta si fu sciolta, Federico raggiunse Francesca. Era seriamente preoccupato per il destino della ragazza: il Mana era una bomba ad orologeria nel corpo di una persona. Sapere poi di non poter fare nulla per proteggerla lo mandava in bestia. 
“Francesca, non puoi accettare una cosa del genere! E se poi non ti svegliassi più?”.
“Dj ha detto che basta l’essenza di elleboro per risvegliare una persona e mi ha assicurato di averne fatta una scorta più che abbondante qui nella foresta” rispose la regina con un sorriso rilassato. 
“Non vuol dire niente! Potrebbe succedere di tutto!” esclamò il conte, seguendola zoppicando, con l’aiuto delle stampelle. La ragazza continuava a non ascoltarlo e anzi sembrava piuttosto interessata a una fila di rondini che si erano posate su un basso ramo vicino a loro. Acosta fu costretto a mettersi in mezzo, sbracciandosi per attirare nuovamente l’attenzione. “Possibile che tu non abbia paura?”.
“Certo che ne ho”. Il sorriso di Francesca non si smorzò neppure di fronte a quell’atroce consapevolezza. Un sonno profondo in cui non avrebbe potuto rivedere le persone a lei care, in cui non avrebbe potuto abbracciare Federico. Ma il pensiero di poter fare del male a se stessa e ai suoi amici era anche peggio. Dj le aveva assicurato che la teca incantata avrebbe contenuto e limitato gli effetti del Mana verso l’esterno, e lei, visto che la sua coscienza sarebbe stata tenuta al sicuro non avrebbe subito alcun danno interno. I rischi erano comunque molti, ma quello era l’unico modo per ridurli al minimo.
“Matias ed Esmeralda che faranno?” chiese, tentando disperatamente di non approfondire quella discussione. Federico sembrò cogliere al volo la sua richiesta e seppur a malincuore l’accettò. “Andres ci ha parlato e gli ha spiegato che ovviamente non possiamo portarceli dietro. Raggiungeranno il villaggio di Knightking a sud della foresta e aspetteranno che la guerra si concluda, poi potremo aiutarli a ritrovare Marcela e a cercare di far riassumere sembianze umane ad Ambar”. 
“Dj non può fare nulla per lei?”.
Acosta scosse la testa. “Pare che la stregoneria che la tiene imprigionata nel corpo di quell’animale sia troppo forte. Per di più se ho capito bene è stata usata una pozione, e le magie provocate da esse sono molto diverse da quelle che usa un mago…la situazione è molto più complessa di quello che sembra”. Francesca sembrò leggermente sconfortata, ma non si lasciò abbattere e prese un profondo respiro pronta  a partire per raggiungere Cuori. 
Il percorso lungo la foresta era tortuoso, ma finalmente dopo un po’ di tentativi riuscirono a recuperare l’orientamento e a procedere dritti verso nord. Dj era parecchio teso: sulle sue spalle adesso gravava anche la responsabilità nei confronti della Regina di Fiori, e le occhiatacce piene di avvertimenti da parte di Federico di certo non aiutavano a farlo stare meglio. Maxi dal canto suo aveva finalmente capito che sarebbe stato meglio non usare l’elmo per un po’ di tempo, anche se la tentazione di rivedere la sua Violetta non accennava a diminuire. Dalla partenza di Libi tutti si erano spenti, ma il cambiamento più grande l’aveva avuto Andres. La sera si rifiutava di rimanere a parlare con gli altri e si offriva volontario per fare il primo turno di guardia. Si rivolgeva a loro solo per dare ordini e metterli al corrente della vicinanza o meno del primo obiettivo, ossia le cascate di Nefertiris.
Le Cave di Cuori erano le più grandi fonti di materiale grezzo come diamanti, rubini e tante altre pietre preziose. Essendo tanto importante per il commercio di Cuori, basato sull’esportazioni di tale materiale, era anche parecchio sorvegliato, da una scorta di soldati chiamati ‘I Fanti di Cuori’. 
“Un po’ come i Cavalieri Neri” bofonchiò Maxi, ricordando il suo ultimo incontro con un membro di quel famigerato e nefasto ordine cavalleresco. 
“No, non hanno armi speciali come le spade di neranio, sono solo molto allenati allo stesso modo degli studenti dell’Accademia” spiegò Emma. Il terreno era diventato duro e secco e da esso si alzava una lieve polvere rossa. Affacciandosi da una piana videro numerose grotte attraversate da ferrovie, su cui viaggiavano carrelli ad una velocità sostenuta. Sebbene fosse ancora distanti si sentiva già il rumore dei picconi che cozzavano contro le rocce. I prigionieri di guerra avevano riempito sempre di più le cave rendendole gremite di gente. Le guardie indossavano una divisa caratteristica rosso scuro e oltre alla spada che tenevano rinfoderata sul fianco destro avevano una lunga frusta nera che usavano sia per scandire i tempi che per picchiare i lavoratori negligenti. 
“Ma questa è una barbaria…” sibilò Francesca, osservando in lontananza i segni rossi sulle spalle di alcuni prigionieri, dal viso spento e logorato dalle fatiche. Come Regina non avrebbe mai permesso qualcosa del genere, quello sfruttamento di manodopera era vergognoso. Strinse i pugni talmente forte che le nocche divennero bianche, me essi si sciolsero non appena sentì la mano di Federico sfiorare la sua. “Faremo finire tutto questo, fidati di me” le disse con un sorriso dolce, stringendo poi la mano a intrecciando le dita una ad una. La ragazza alzò lo sguardo perdendosi nei suoi occhi scuri, poi annuì con forza, trattenendo le lacrime. Era sempre stata sensibile alle richieste del suo popolo e contraria a quel tipo di violenza. Quando le avevano raccontato della creazione dell’Ordine dei Cavalieri Neri era diventata rossa di rabbia, con il profondo desiderio di strappare tutti i ricci di Natalia uno ad uno. Ancora ricordava la crudeltà con cui l’aveva fatta finire dietro le sbarre, ma anche il velo di paura che nascondeva. In fondo non riusciva ad odiare sua cugina, nonostante tutto, era sicura che si nascondesse qualcosa dietro la corona che portava. Andres la fece riscuotere dai suoi pensieri, mentre indicava a tutti un percorso abbastanza sicuro che aggirava completamente le Cave. Il terreno degradava in quel punto, ma era nascosto da una serie di cespugli di rovi rinsecchiti e da alcune pareti di roccia che costituivano le numerose alture del territorio. 
“La aggireremo da sinistra” sussurrò il capo, intimando a ciascuno di muoversi molto silenziosamente. Passo dopo passo avevano compiuto più di metà dell’opera con grande sollievo da parte di tutti. Emma si piegò sulle ginocchia e studiò la conformazione del terreno per essere sicura che non riservasse loro sorprese poco piacevoli. “E’ sicuro” esclamò infine, affiancando gli altri. Proprio quando però erano sicuri che il pericolo fosse passato sentirono un rumore di passi nella loro direzione e uno dei Fanti Rossi sbucò davanti a loro, probabilmente in mezzo ad una ricognizione. 
“Maledizione” digrignò Andres tirando fuori la spada, cosa che fece anche il suo avversario. Sicuramente avrebbe dato l’allarme a sarebbe iniziato un combattimento, e ci mancava solo che Francesca rischiasse la vita in quello scontro. Quella ragazza era importante per la riuscita della missione, gliel’aveva detto la Regina Bianca. Prima che potesse muovere anche un solo passo Emma fu molto rapida, si fiondò silenziosamente sul nemico, scaraventandolo a terra con un calcio prima che potesse reagire. Gli strappò la frusta di mano, gliela avvolse in modo che non potesse dire una parola e la tenne stretta. A quel punto si fece avanti Dj che con un paio di formule lo mandò subito KO. 
“Possiamo ufficialmente dire che servi a qualcosa, piccoletto” ghignò Emma, toccando la punta del naso di Dj con l’indice, che il mago scostò infastidito. “Ehi, siamo praticamente alti uguali!” sbottò offeso, beccandosi un calcio sugli stinchi da parte della bionda. “Non dire a una ragazza che si destreggia nelle arti del combattimento che è bassa. Mai”. E dopo quelle parole pronunciate con veleno si diresse dagli altri, pronta a proseguire il cammino. Fortunatamente quello fu l’unico inconveniente dell’attraversamento delle cave e quando furono ufficialmente fuori pericolo tirarono un sospiro di sollievo. Di fronte a loro si estendeva nuovamente una foresta e dallo sguardo preoccupato di Dj Francesca capì che quello era l’ultimo luogo che avrebbe visto per un po’ di tempo.

“Ho paura” disse improvvisamente la ragazza, mentre lei, Federico e il mago si districavano tra una serie di rovi dalle spine acuminate. Gli altri erano rimasti indietro per essere sicuri di non essere seguiti. Dj aveva espressamente richiesto che fossero in pochi a venire alle Cascate e se non fosse che Federico si era dimostrato irremovibile avrebbe fatto a meno anche della sua presenza. Gli aveva detto che avrebbe potuto essere uno spettacolo poco piacevole, ma non c’era stato verso per farlo demordere e alla fine aveva dovuto acconsentire. Il mago si occupava di tenere lontane le trappole magiche all’interno di quel luogo sacro per gli sprovveduti. “Ma credo che sia normale, no?” sussurrò, tremando come una foglia. Federico avanzava al fianco, stringendo sempre più la sua mano. Non riusciva ancora ad accettarlo: era appena uscita da una dura prigionia e adesso sarebbe stata di nuovo prigioniera, questa volta di un sonno incantato. 
“E’ la cosa più normale del mondo…siete molto coraggiosa, Francesca” esclamò il mago, voltandosi indietro verso di loro e rivolgendole un sorriso luminoso. 
“Ehi, tu”. Federico ancora non lo vedeva di buon occhio per l’idea che aveva avuto e ormai aveva imparato a convivere con quei toni aggressivi. “Pensa piuttosto a come proteggerai la Regina”. 
Dj sbuffò: era l’ennesima volta che gli faceva quella raccomandazione in modo intimidatorio, ma più che promettergli che avrebbe fatto tutto il possibile che altro avrebbe potuto fare? Scostò con una mano l’aria, e il rovo davanti a lui si attorcigliò verso l’alto, non costituendo più un ostacolo. Lo scrosciare dell’acqua divenne sempre più ingombrante nell’aria e arrivava come un indistinto sovrastarsi di voci sovrannaturali.
“Adesso fate attenzione, non fate nulla a meno che non ve lo dica io” si premurò il mago. “Come conosci questo posto?” chiese Francesca non riuscendo a contenere la sua curiosità. 
“Diciamo che ci sono dei posti che i maghi devono assolutamente conoscere. Sono i luoghi dove la magia ha avuto inizio” rispose misterioso il giovane con un sorrisetto. Scostò una fitta parete d’edera, e i due si trovarono in un cunicolo, che attraversava la parete di roccia grigia. A quel punto lo scrosciare era talmente forte che non riusciva a sentire nemmeno quello che le diceva Federico, che eppure si trovava a due passi. Quando uscirono poggiava i piedi su una sottile striscia di terra rialzata circondata dall’acqua cristallina. Lo spettacolo tutt’intorno era incredibile: le cascate li circondavano completamente, l’acqua zampillava cristallina, mentre la schiuma bianca dalla cima scemava sempre di più. Raggiunsero il centro di quel cerchio azzurro, rimanendo affascinati da quella visione quasi celestiale. “Sembra di essere in cielo” sussurrò la ragazza entusiasta allargando le braccia. Sorrise serena: se quello era l’ultimo luogo che avrebbe visto per un po’, allora andava bene, il sacrificio le sarebbe sembrato meno duro, o almeno sperava. 
“Le Cascate di Nefertiris” disse Dj allargando le braccia, per presentargli l’oggetto del loro viaggio. 
“Le facevo più imponenti” sbottò Acosta, cercando di smorzare l’entusiasmo. Ma gli occhi di Francesca brillavano dell’azzurro delle acque, proiettata già al rito che avrebbero compiuto. 
“Non abbiamo molto tempo…Francesca, devete solo camminare fino ad immergervi completamente nelle acque”. Dj poggiò le mani sulle vesti della ragazza, facendone svanire completamente i colori. “Il bianco è il colore della purezza” le sorrise triste, per poi scostarsi e lasciarla camminare. La regina si voltò prima verso Federico e con il tacito permesso del mago si apprestò a salutarlo. Gli accarezzò delicatamente la guancia, lasciando che il dorso scivolasse proprio come l’acqua che li circondava. 
“Non dovevi salvarmi…tutto questo non sarebbe successo. Avrei preferito morire”. Francesca non disse nulla, non ne aveva alcun bisogno. I suoi occhi stavano parlando per lei, e Federico si sentì morire dentro: per quanto non li avrebbe più visti splendere della luce della vita? Una lacrima sfuggì al suo controllo, ma rapidamente Francesca posò le labbra sulla sua guancia, catturandola e facendone tesoro, insieme ai ricordi che avrebbe portato con sé nel suo sonno. 
“Arrivederci, Federico” sospirò, voltandosi lentamente. Dj annuì e sollevò le mani sul suo capo. Una coroncina di tante foglie trasparenti intrecciate tra di loro le circondò il capo, in netto contrasto con i suoi capelli scuri.
“Adesso siete pronta”. I piedi nudi toccarono l’acqua fredda ed ebbe già l’impressione che non fossero più in grado di sostenere il peso per la stanchezza. Continuò a sprofondare e le vesti divennero sempre più pesanti, intrise di quell’acqua magica. Prima di immergersi completamente le sembrò che l’acqua stesse brillando. Il freddo divenne semplicemente insensibilità, gli occhi si chiusero come se le palpebre fossero oggetto di una calamita. Si sarebbe svegliata un giorno, in mezzo ai suoi amici, rifugiandosi tra le braccia di Federico. Si era dimenticata qualcosa di importante…qualcosa di essenziale. No, era solo quel prepotente sonno a farglielo credere. Ripensò un’ultima volta a Federico. Il Mana vibrava nel suo corpo, insoddisfatto di quella nuova condizione che si stava raggiungendo e sorrise serena. Si, avrebbe funzionato. Ma che cosa doveva ricordare? Si, qualcosa di importante. Non aveva detto a Federico che l’amava, ecco cosa aveva dimenticato di fare. Avrebbe dovuto dirgli del suo affetto che si era trasformato in un amore talmente potente da farle rinunciare a tutto, persino alla vita, per lui. A poco valsero le piccole bolle che fuoriuscirono dalla sua bocca, mentre bisbigliava quelle due parole. Ti amo. Il buio si impadronì dei suoi occhi così come della sua mente. 

Il buio. Una ragazza che si immergeva nell’acqua per qualche strano motivo. Ma non stava succedendo in quello stesso momento. Quello sarebbe accaduto nel futuro. No, nel presente stava accadendo tutt’altro. Una freccia scoccata e un ragazzo che si parava nel bel mezzo della traiettoria. No, quella era il passato. Quella ragazza…era la stessa dell’acqua. Immagini del presente e del futuro si accavallavano nella sua mente, e non riusciva a dare loro un senso. 
La storia procede nel giusto modo, nonostante la tua interferenza. 
La voce cavernosa che aveva già sentito altre volte sembrava soddisfatta del fatto che lei non avesse interferito in alcun modo. Ma che intendeva dire? Che aveva lei a che fare con tutto quello? L’angoscia prese possesso di lei e si sentì quasi soffocare fino a quando non aprì gli occhi, ansimando di colpo. 
Violetta ne aveva fatti di sogni strani ma quella notte le era sembrato diverso. Avvertiva il senso di panico e la paura provata quando quel ragazzo aveva preso la freccia sul fianco. Tastò lentamente le coperte, ricordandosi poi che quello non era il suo letto. Leon l’abbracciava ancora da dietro, e teneva la testa nascosta tra i suoi capelli sparsi sul cuscino. Con le labbra le sfiorava dolcemente il collo e il suo alito caldo le solleticava piacevolmente la pelle. Il suo petto, ancora sudato, aderiva perfettamente alla schiena, trasmettendole tranquillità con il battito controllato del cuore. Era profondamente addormentato e stranamente gli incubi non lo avevano ancora iniziato a tormentare. Rafforzò di poco la stretta sulla sua vita, mugugnando qualcosa nel sonno, per poi riprendere a dormire tranquillo. Violetta sfiorò la mano di Leon e chiuse gli occhi, decisamente più serena. Quel sogno così movimentato l’aveva turbata parecchio, ma tra le braccia di Leon si sentiva protetta. Si accoccolò contro il giovane, cercando di stare attenta a non svegliarlo e lentamente riprese sonno con un sorriso. E mentre precipitava nuovamente nel buio del sonno, il precedente sogno perdeva sempre più dettagli e le parole della misteriosa voce si persero nel nulla, spente nella mente, ma vivide nel cuore. 















NOTA AUTORE: Un capitolo con parecchi avvenimenti. Allora in parole povere: Libi lascia il gruppo *piange* NO, LIBI NON ANDARE *la insegue disperato* ANDRES, FAI QUALCOSA PERO', FERMALA ç.ç Poooi, si scopre qualcosa sul potere dell'elmo, tutt'altro che sotto il controllo di Maxi (e l'avevamo capito -.-"). E la mia Fran...no, vabbè, il dolore. Per salvare tutti (anche lei) da se stessa accetta di cadere in un sonno profondo e dormire in una teca di vetro, fino a quando Dj non trovi il modo per lbierarla della maledizione rappresentata dal Mana ç.ç AW, IL SUO ADDIO CON FEDE. Io sono fragile. Ho amato davvero la scena di quando si immerge nella cascata e si ricorda di non aver detto a Federico di amarlo (anche se penso sia chiaro anche a lui xD) *^* AMORE MIO ç.ç 
Ma ecco che gli eventi passati e futuri (alcuni di questi avvenimenti accadono nel futuro per la storyline di Violetta) appaiono nella mente del giovane e 'qualcuno' è soddisfatto del fatto che in fondo lei non è d'intralcio in quella storia...ma cosa intende dire? Che cosa rappresenta questa voce? AW, CHE POI SI RISVEGLIA ABBRACCIATA A LEON (è la sera del famoso capitolo 44 ancora xD) <3 Auiehf3iurruf, nel prossimo capitolo tornano appunto i Leonetta che sono una cosa troppo dolce, e niente, li amo :') Va bene, basta scleri xD Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, buona lettura, e alla prossima! :3
P.S: anticipo shinebright. Maxi per me è un GROSSO NO. 
syontai :D 

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Capitolo 48
*** Separazione forzata ***


Capitolo 48
Separazione forzata

Leon aprì gli occhi di scatto, come se fosse sicuro che di lì a poco sarebbe dovuto scattare in piedi per scendere sul campo di battaglia. Ma invece della scomoda brandina era beatamente steso sul soffice materasso della sua stanza; invece di impugnare una spada affilata, tra le sue braccia stringeva forse la creatura più innocente e fragile di tutto il mondo. Rafforzò la stretta, quasi temesse che potesse scivolargli tra le mani, mentre lui aveva bisogno di sentirla lì, al suo fianco. Con Violetta quella notte Leon aveva raggiunto la felicità pura: travolto da qualcosa che trascendeva dal suo corpo, sebbene esso stesso gli avesse procurato un piacere immenso, aveva per la prima volta esplorato ogni possibile aspetto dell’amore, e si sentiva finalmente completo. Quel vuoto che era sempre esistito dalla morte del padre, diventando una vera e propria voragine, non esisteva più e doveva quel miracolo a Violetta. Scostò di poco le coperte, lasciando che l’aria fredda della mattina risvegliasse i suoi sensi e scorresse sulla pelle bollente, facendolo rabbrividire. Si accostò ancora di più alla ragazza, sciogliendo la presa con il braccio destro, mentre il sinistro rimaneva irremovibile sul suo ventre, continuando a reclamarne il possesso, e le sfiorò delicatamente la spalla, liberandola poi dei capelli sparsi. Ora che si era innamorato, non sapeva come avrebbe più potuto vivere senza quel sentimento tanto appagante e piacevole. Era davvero un peccato svegliarla, un crimine contro natura: dormiva così beata, accucciata al suo fianco, i loro corpi in un tiepido contatto che mai avrebbe voluto interrompere. Avvicinandosi al suo orecchio, si prese qualche secondo per ispirare a fondo il suo profumo. Violetta si mosse appena avvertendo l’aria catturata e poi in seguito emessa dal ragazzo con dei respiri profondi.
“Ehi” sussurrò piano strofinando con dolcezza il naso contro il contorno dell’orecchio. Violetta si divincolò  ridacchiando di riflesso, ancora addormentata, ma lui la tenne stretta con il braccio libero esercitando pochissima forza. Sorrise inconsapevole del modo in cui riusciva sempre a farlo stare bene. Aveva bisogno dei suoi baci, delle sue carezze, della sua magnifica voce, e per quanto fosse bello stare lì a guardarla dormire, non riusciva a resistere di fronte alla tentazione di svegliarla. Era davvero tanto egoista strapparla al sonno che aveva in quel momento il privilegio di specchiarsi in quei occhi dolci? Era invidioso persino di qualcosa di immateriale come il sonno. Si morse il labbro inferiore alla disperata ricerca di un modo delicato per svegliarla, ma più ci si lambiccava meno idee aveva. Una canzone? Beh, si, una canzone avrebbe potuto essere romantica. Forse. Non era molto esperto di quelle cose e aveva paura di fare un enorme buco nell’acqua. Però ci voleva una canzone dolce e melodiosa, non bastava certo un inno militare…come un lampo gli vennero in mente alcune strofe di una canzone sognata non troppo tempo fa. Per di più in quel sogno c’era anche Violetta, era successo prima che si riconciliassero all’interno del Labirinto. Si sporse al suo orecchio, cantando in un sussurro una strofa della melodia.
No soy el sol que se pone en el mar,
No se nada que este por pasar.
No soy un príncipe azu…
Tan solo soy.
Violetta avvertì una voce suadente raggiungere i suoi sensi per poi stravolgerli completamente. La prima cosa che sentì fu il freddo, in ogni caso sopportabile, attenuato dal corpo caldo di Leon affianco al suo. Aprì lentamente gli occhi, emettendo un piccolo sbadiglio. I brividi che le procurava Leon mentre accarezzava con le dita il suo braccio, come se cantando stesse sfiorando i tasti di un pianoforte, la fecero scuotere fin da subito dal torpore del sonno. Sbatté più volte le palpebre, mettendo velocemente a fuoco la stanza che la circondava, quindi si voltò fino a incontrare il sorriso luminoso di Leon a pochi centimetri dal suo viso. Era talmente incantata dalla sincerità che si sprigionava da quel sorriso e da quegli occhi di un verde acceso che quasi non si era accorta della mano che era risalita per accarezzarle la guancia con il dorso. “Buongiorno” soffiò prima di baciarla teneramente a fior di labbra. Con naturalezza Violetta avvolse il braccio intorno alle sue spalle, accarezzandogli la base del collo. “Buongiorno” rispose lei, avvampando di colpo al sentire il corpo nudo di Leon contro il suo. La canzone che l’aveva svegliata…sbaglio o non le era affatto nuova?
“Qualcosa non va?” le chiese preoccupato notando la sua aria assorta. Perché si agitava sempre in quel modo quando qualcosa sembrava sfuggire al suo controllo? Aveva bisogno di sapere cosa stesse pensando in quell’esatto momento. “Che cosa ti preoccupa?”.
“Q-quella canzone che hai cantato per svegliarmi…ecco, mi era sembrato di averla sognata; in quel sogno noi la cantavamo insieme” balbettò, volendo sprofondare per la vergogna. Avrebbe pensato sicuramente che fosse pazza invece lo vide scoppiare in una breve risata, i suoi occhi si illuminarono di fronte al falso allarme e le braccia, diventate tese, si rilassarono notevolmente, senza però mollare la presa su di lei.
“Anch’io l’ho sognata, uno dei sogni più belli della mia vita” spiegò con il cuore che stava letteralmente impazzendo per l’emozione. Non riusciva più a tenere a freno ciò che provava, era impossibile, come cercare di arginare un fiume in piena con qualche sacchetto di sabbia. Violetta si sciolse in un sorriso rasserenato e lasciò che Leon la baciasse di nuovo, assaporando le sue labbra calde. Mentre affondava le dita tra i suoi capelli, il principe l’attirò a sé, in modo tale che neppure un filo d’aria potesse separare i loro corpi e la fece voltare completamente verso di sé, fino a ritrovarsi stesi su un fianco. Il petto di Leon scorreva libero sul suo, facendola sospirare tra le sue labbra, mentre le braccia erano tornate entrambe a cingerle la vita, intrappolandola. Il braccio destro si staccò solo per un istante per coprirli nuovamente con le coperte e stare così al caldo.
“E non è stata l’unica volta che ti ho sognato” ammiccò tra un bacio e l’altro. “Ah, si?”. Le sembrava così assurdo che qualcuno addirittura finisse per sognarla, quasi innaturale; non capiva che il modo in cui Leon la guardava era già per lui sognare ad occhi aperti. “Si…alcuni sogni erano simili a quello che stiamo vivendo adesso”. Così stretti, Violetta poteva avvertire i brividi che provava mentre le parlava in quel modo.
“Tu mi hai mai sognato?” le domandò con evidente imbarazzo. Violetta avvampò e nascose velocemente il viso in fiamme sul suo petto, rannicchiandosi sempre di più. Ispirò a pieni polmoni quell’odore forte e selvatico di cui si era sentita fin da subito dipendente e lo sentì accarezzarle timidamente la schiena. “Non devi preoccuparti se non è così, la mia domanda è stata indiscreta, perdonami, io…”.
“Si” ammise con un filo di voce la ragazza, senza alzare lo sguardo e rimanendo, aggrappata alle sue spalle. Leon si scostò appena ricercando i suoi occhi, e quando li trovò sorrise. Solo lui sapeva quanto quel gesto fosse ricco di sincerità e amore, solo lui era in grado di capire quanto l’aveva cambiato. Senza di lei sarebbe stato perso, si sarebbe sentito continuamente privo di qualcosa, e avrebbe forse concluso che quel qualcosa era la morte. Invece aveva scoperto cosa gli mancasse: un amore sincero, forte, completo. E anche se erano tante le volte in cui le aveva detto di amarla, non gli sembrava mai abbastanza. “Ti amo” disse infatti nuovamente, dandole un bacio sulla fronte, per poi scendere lentamente giù e sfiorare con le labbra le guance incandescenti. Violetta alzò il capo e quando si ritrovò le labbra di Leon premere con dolcezza sulle sue, si lasciò nuovamente guidare dalle sue braccia, che la fecero distendere sul letto con lui sopra. “Sempre di più” aggiunse con un leggero affanno, prima di baciarla nuovamente, questa volta con ardore e impazienza. Le mani di Violetta scorrevano sul petto e sulle spalle, e quando toccavano le sue vecchie ferite sembrava quasi fossero in grado di curarle magicamente. Il desiderio che aveva provato quella notte si accese di nuovo, lasciandolo stupito dell’effetto che erano in grado di resuscitare in lui quei piccoli tocchi. Se quella notte aveva agito con cautela per paura di farle del male, adesso che la sentiva sua, unicamente sua, non avvertiva più alcun freno, solo il fortissimo desiderio che aveva di lei, dei suoi baci, del tepore del suo corpo, della morbidezza della sua pelle.
“Leon…Lena…devo andare…” ansimò Violetta, mentre il principe era sceso lasciandole baci lungo tutto il collo e si stava dedicando ad esso con cura, dandole dei morsetti affettuosi. Vargas si avvicinò all’orecchio serio: “Oggi sei solo mia, e non ti farò mettere piede fuori da questo letto senza il mio consenso”. Dette quelle parole con voce roca, riprese a baciarle il collo, intenzionato a completare la sua opera. Mordeva e succhiava la sua pelle avidamente e con diligenza, come se quel compito fosse di vitale importanza. Violetta tentò di fare una debole resistenza, ma il corpo di Leon la intrappolava del tutto impedendole il minimo movimento.
“E se qualcuno lamentasse la mia assenza…Lara, o peggio ancora, Jackie?” sussurrò preoccupata. Gemette non appena ricevette un morso un po’ più forte sotto forma di rimprovero. Leon si scostò con un sorriso beffardo e un’aria superba che l’aveva sempre contraddistinto. “Nessuno oserà dirti niente finché ci sarò io qui dentro. Inoltre Lena cercherà sicuramente di coprire i tuoi compiti”.
Violetta scosse la testa. “Leon, non è bello approfittare degli altri in questo modo. Lena ha già dei lavori durissimi da portare a termine…non posso permetterlo”. Leon non era abituato a ribattere di fronte a tanta bontà d’animo, per il semplice fatto che nessuno in quel castello gliene aveva mai dimostrata. In effetti forse il suo volere costringerla lì, dentro quel letto, poteva sembrare un atto di egoismo, probabilmente lo era davvero, ma senza di lei si sentiva solo, di amici sinceri aveva solo Humpty, ma anche lui a volte non era abbastanza. Tutti quegli anni di solitudine adesso stavano cercando un riscatto e sentiva il profondo bisogno di stringere tra le sue braccia la persona amata.
“Ho bisogno di te” le disse guardandola negli occhi. Lesse un improvviso stupore, sostituito poi dalla compassione e dall’amore. Come poteva resistere di fronte a quella faccia affranta? Sembrava un bambino a cui era stato negato un abbraccio dalla madre. “Ti prego” aggiunse a bassa voce poggiando la fronte contro la sua e specchiandosi nei suoi occhi castani che brillavano ancora più del solito. La vide mordersi il labbro indecisa: mentre il cuore le ordinava categoricamente di cedere di fronte a quello sguardo dolce e triste, la testa ogni tanto cercava invano di farla ragionare.
“Solo la mattina” rispose con decisione con un mezzo sorriso mentre Leon divenne di colpo euforico. Riprese a baciarla intensamente, volendo sfruttare fino in fondo ogni minuto che quella mattina gli avrebbe concesso, quando sentì bussare alla porta della sua stanza. Sbuffò innervosito e alzò appena il capo, rivolgendosi al punto da cui veniva il fastidioso e inopportuno rumore.
“Chi è?” gridò scocciato. “L’acqua calda” rispose una voce dal corridoio. Vargas sembrò ricordarsi solo quel giorno che tutte le mattine riempivano la vasca per il bagno caldo. Certo sarebbero potuti arrivare anche in un altro momento, pensò, stendendosi sul letto con assoluta indifferenza. Violetta invece, morendo per l’imbarazzo al solo pensiero di poter essere vista nel letto con Leon, si tirò le coperte fino alla testa, volendo sprofondare, o magari diventare magicamente invisibile. Il principe le gettò un’occhiata confusa, ma poi diede una voce per farli entrare. Un gruppetto abbastanza nutrito della servitù entrò sorreggendo enormi bacinelle di bronzo da cui si elevava del vapore biancastro. Osservarono per qualche istante il rigonfiamento al lato di Leon, quindi semplicemente scossero la testa in un moto di disapprovazione, credendo che come al solito Vargas si fosse dato ad una notte di piaceri con qualche serva del castello. Il principe non fece nemmeno caso a tutto quello, impaziente che terminassero al più presto il lavoro, a costo di mettersi a versare lui l’acqua calda. Già sentiva la terribile assenza del tepore che gli davano le carezze di Violetta e sapere di averla lì, a qualche centimetro, ed essere allo stesso modo troppo lontano dal suo corpo lo faceva innervosire. Seduto sul letto, con il lenzuolo che gli arrivava fino alla vita, e con le braccia incrociate al petto, alzò un sopracciglio senza dire una parola per congedarli non appena ebbero riempito la vasca con l’ultima goccia. Quando la porta si fu richiusa, si immerse sotto le coperte, e cercò nuovamente Violetta al buio, trovandola e avvolgendola tra le sue braccia.
“Amore, se ne sono andati” le disse riempiendola di baci per compensare il tempo perso. “Non pensavo ti facessi il bagno in una semplice vasca, credevo avessi un bagno di lusso separato dalla tua camera” osservò sinceramente sorpresa, mentre Leon le lasciava baci rapidi sulla guancia. Si separò con un’aria ironicamente ilare. “Mia madre non vuole che mi abitui troppo al lusso, così da non sentire troppo la differenza quando mi trovo in tenda negli accampamenti”. 
“Deve essere dura”. Rimasero qualche secondo ad osservarsi sotto le coperte, mentre i loro respiri si mescolavano. Leon arrotolò una ciocca dei suoi capelli intorno all’indice, assorto nei suoi pensieri. Annuì quasi senza prestarci attenzione, mentre i suoi occhi divennero privi di espressione. “La vedi questa?” chiese infine, indicando la cicatrice più grossa di tutte, che gli percorreva trasversalmente il petto raggiungendo l’addome. Dal contorno scuro doveva essere di vecchia data. Violetta percorse con un dito la cicatrice, mentre Leon la osservava indecifrabile. “E’ stato il ricordo della mia prima battaglia…ero solo un ragazzino buttato su un campo da combattimento e non c’è allenamento che può aiutarti in mezzo a quell’inferno, solo la volontà di sopravvivere. Non solo…tutte le notti sotto le coperte pensavo che era tutto inutile, che sarebbe stato meglio morire, perché non avevo comunque nessuno da cui tornare”.
“Adesso hai me” lo interruppe Violetta, alzando lo sguardo e studiando le sua reazione. Il dolore nei suoi occhi al solo rievocare quei ricordi scomparve, sostituito da un guizzo di gioia. Si, la sua vita stava prendendo finalmente forma, donandogli uno scopo, qualcuno per cui desiderare di vivere. Annuì più di una volta e le sorrise: “Si, adesso ho te…”.
“Vuoi farti un bagno con me?” le chiese d’un tratto, arrossendo leggermente. Per fortuna sotto le coperte il suo imbarazzo poteva essere quanto meno nascosto. Non sapeva perché aveva fatto quella richiesta, solo che immergersi nell’acqua calda lo aveva sempre rilassato, allontanandolo da tutte le preoccupazioni che lo attanagliavano, e gli piaceva l’idea di condividere quell’intimo momento con la ragazza che amava.
Violetta era confusa di fronte a quella proposta e si vergognava profondamente di fare un bagno con Leon, non fosse che le immagini della notte precedente le suggerivano che di vergogna avrebbe dovuto essercene ben poca. Il principe scoppiò in una leggera risata nervosa: “Non devi imbarazzarti, saremo solo noi due, come questa notte”. Gli prese il viso tra le mani e lo condusse al suo, trascinandola in un bacio in grado di soddisfare tutto il loro ardore. Le morse il labbro inferiore, con un sorrisetto compiaciuto. “Toccata” soffiò, tirandosi leggermente indietro. Intuendo il gioco Violetta cercò le sue labbra, che Leon le lasciò catturare con estremo piacere, e fece lo stesso, mordendo però con più vigore. Leon sospirò e scoppiò a ridere: non si era mai divertito così tanto al fianco di una ragazza. Erano giochi teneri, non c’erano spade di legno o cavalli a dondolo, ma erano in grado di donargli pace e benessere. Era ancora immerso nei suoi pensieri, quando Violetta si avvicinò all’orecchio; vi soffiò dentro trattenendo una risatina: “Si, Leon…voglio fare un bagno con te”.
Come scosso da un fulmine, Leon balzò seduto, allontanando da sé le coperte e guardandola sorpreso: non pensava che alla fine avrebbe veramente accettato e la cosa lo riempiva di felicità. Con uno sguardo indicò la piccola stanza attigua e le fece cenno di seguirla. A passi veloci superarono il pavimento gelido, e salirono due piccoli scalini di legno che conducevano ad un livello sopraelevato sempre dello stesso materiale su cui era poggiata la vasca di bronzo: in questo modo il calore non si sarebbe disperso a contatto con il pavimento. Leon scavalcò agilmente la vasca, quindi le porse la mano. Violetta la strinse ed entrò anche lei, rabbrividendo di piacere per l’acqua calda in cui erano immerse le gambe. Leon si sedette per lungo, appoggiando le braccia sui bordi della vasca e reclinò appena il capo all’indietro sospirando, quindi con un cenno la invitò a sedersi tra le sue gambe, cosa che la ragazza fece con cautela per paura di scivolare. Si immerse lentamente e si appoggiò con la schiena al petto di Leon, la testa appoggiata poco sotto il suo mento. Leon le diede un bacio sui capelli e la guardò mentre teneva gli occhi chiusi e si rilassava, nonostante il rossore sulle guance non accennasse a scomparire. Allungò la mano sinistra a un tavolino pieno di boccette e di accessori vari, mentre su un angolo erano impilati dei panni bianchi piegati accuratamente. Prese una fiala azzurra e ne versò il contenuto: subito un forte profumo di pino invase la stanza, mentre la superficie dell’acqua veniva increspata dalla schiuma bianca. La schiena della ragazza aderiva completamente al suo corpo, facendogli una dolce pressione che, insieme al piacere dell’acqua calda, lo stava mandando completamente in Paradiso. I muscoli si rilassarono intorpiditi mentre il vapore gli accarezzava il viso e i sensi si affinavano per cogliere il più possibile di quel momento. Con il braccio sinistro cinse la vita di Violetta da dietro facendola sussultare appena, quindi si avvicino al suo orecchio e prese a mordicchiarlo in un modo tale che scoppiò a ridere. 
“Così mi fai il solletico!” lo riprese con gli occhi che lacrimavano, mentre si dimenava, tenuta ben stretta da Leon. “Mi dispiace, ma amo troppo sentirti ridere per smettere” rispose l’altro con un tono ilare. Affondò il viso sul suo collo ridendo, e quando le risate si furono esaurite, rimase in silenzio, assaporando quell’istante, scolpendolo nella mente. Si separò sporgendosi fuori quanto bastava per prendere una soffice spugna, quindi le chiese gentilmente il permesso di insaponarla; ottenne un timoroso assenso. Immerse l’oggetto nell’acqua finché non gli risultò abbastanza imbevuto, quindi lo passò con delicatezza sulle spalle, osservando la schiuma bianca depositarsi sulla pelle candida.
“Ti piace o vuoi che smetta?” le sussurrò con una nota di desiderio nella voce. Violetta aveva gli occhi chiusi, e non appena aveva sentito quelle carezze smettere di colpo il sorriso sulle labbra si era leggermente smorzato. “Continua” sospirò. Aveva quasi il suono di una supplica e Leon ne fu profondamente soddisfatto. Fece scorrere la spugna lungo tutto il corpo, senza ignorare neppure un lembo di pelle, godendosi il modo in cui il corpo di Violetta reagiva al tocco, a volte rabbrividendo a volte semplicemente con dei sospiri intensi. Quando raggiunse la schiena, certo di aver terminato il suo compito lasciò lentamente cadere la spugna al suo fianco e la sostituì con le sue stesse mani che presero ad accarezzarle la schiena  con dolcezza; Violetta non si ritrasse di fronte a quella novità, anzi sembrò ricercare quelle carezze anche più di prima. Le dita scivolavano sulla sua pelle liscia e bagnata percorrendo le spalle, scendendo fino ai seni e fermandosi intorno ai fianchi. “Questo è perché voglio prendermi cura di te, sempre” le disse. Violetta si voltò verso di lui con un sorriso per metà dolce e per metà provocante e Leon si sentì mancare il fiato. In un secondo si trovò con il mento che sfiorava il pelo dell’acqua e Violetta seduta a cavalcioni su di lui, con le gambe serrate intorno alla vita.
“Anche a me piacerebbe prendermi cura di te” ammise con un filo di voce.
“Fallo” rispose semplicemente Leon, chiudendo gli occhi, per non farla sentire a disagio. Mentre con la destra recuperava la spugna, con la sinistra gli accarezzava teneramente una guancia.
“Non voglio perderti, Leon. Mai” sussurrò con gli occhi lucidi al pensiero che prima o poi sarebbe tutto finito, per sempre. Quel mondo, quella vita, non le appartenevano. Aveva un padre, una famiglia e per quanto per amore di Leon si sentisse capace di mollare tutto e rimanere lì, tra le sue braccia, non voleva causare sofferenza alle persone che la amavano. Vargas abbozzò un sorriso, sospirando subito dopo. Passò la spugna intorno al collo, sulle spalle, lungo il petto con dei movimenti circolari. Lentamente si distese su di lui, facendo scivolare il corpo insaponato sopra il suo. Leon non riuscì a trattenere un breve gemito a la strinse in un dolce abbraccio, mentre lei poggiava il capo affianco al suo, lambendogli la guancia con la punta del naso.
“Ti desidero anche più di prima, principessa” le disse con schiettezza Leon, guardandola avidamente. “Anche io, mio principe…”.
“Bene, perché abbiamo tutta la mattina” ridacchiò il principe, facendo leva con le braccia sul corpo di Violetta per scostarla. “Andiamo?” aggiunse seducente. Violetta annuì e un po’ a malincuore abbandonò quell’acqua bollente dal profumo fresco di pino. Si avvolse rapidamente un panno alla vita e ne avvolse un altro intorno al corpo della ragazza. Corsero fino al letto, attenti a non scivolare, e si lasciarono cadere sul materasso ridendo come due bambini, mentre si davano baci innocenti ma ricchi di amore. Leon le salì sopra, reggendosi sui gomiti. Violetta si sporse per baciarlo ancora, e nel frattempo le mani scesero sciogliendo il nodo dell’asciugamano bianco che scivolò al loro lato. Vargas anche si liberò dell’unico indumento che la teneva distante dal suo corpo. Intrecciò la mano sinistra con la sua un dito alla volta, guardandola fissa negli occhi.
“Sarai solo mia per sempre?” le domandò, accendendo le sue voglie non appena sentì il corpo di Violetta tremare sotto il suo.
“Per sempre”. Non mentiva, il suo cuore non le apparteneva più, era definitivamente prigioniero dei suoi occhi verdi, del suo sorriso smagliante, quanto pieno di dolore. “Per sempre” ripeté, consapevole di quanto quell’amore presto avrebbe potuto rivelarsi una maledizione. Ma il suo corpo non voleva ascoltarla, voleva semplicemente farsi cullare dal principe, voleva che il suo vero padrone lo usasse e lo proteggesse come un tesoro prezioso. Tra i gemiti di un amplesso appassionato si ritrovarono nuovamente a ripetere quell’intimo giuramento, la cui forza sarebbe stata messa a dura prova prima di quanto potessero pensare.
 
Jade tremava per la rabbia. Aveva dato l’ordine di bruciare il vestito che aveva indossato Violetta non appena lo aveva ritrovato nell’armadio. Si era resa conto di aver sottovalutato la situazione: Leon non rispondeva più ai suoi ordini, circuito dal bel visino della serva, e per di più si andava ad aggiungere lo smacco subito durante il ballo in onore di Ludmilla Ferro. Si sedette sul bordo del letto con la corona tra le braccia che aveva preso a cullare come se fosse un neonato bisognoso di attenzioni. “Non ti preoccupare…non permetterò che ti metta le sue sudice mani addosso” prese a sussurrare, fissando dritto davanti a sé. L’orologio a pendolo che si trovava addossato a un angolo della stanza ticchettava inesorabile e scandiva non solo i suoi pensieri, ma anche le sue paure. Le ombre. Tic. Javier. Tac. Violetta. Tic. Strizzò gli occhi all’improvviso scuotendosi dal torpore e poggiò con estrema delicatezza la corona sul comodino. Leon era l’unico ostacolo in quel castello che non le permetteva di far decapitare la giovane. Eppure per quanto potesse ribellarsi aveva dei doveri, un giuramento a cui prestare fede. Ogni singola mossa prese piede nella sua testa, rivelando così il meccanismo di un piano geniale quanto diabolico. Aveva ancora bisogno del figlio per sedare le rivolte, per far capire che era lei a comandare, quindi non poteva attirarsi le sue ire, né poteva permettere che morisse. L’unica strada da percorrere aveva come obiettivo tramutare l’amore che Leon provava per Violetta in odio puro. Doveva disprezzarne non solo il nome ma anche il ricordo; e allora tutte le sue fatiche in passato non sarebbero state vane. “Davvero credevi di poter diventare regina, mia cara ragazzina?” ghignò astutamente osservando il suo stesso riflesso, gli occhi che baluginavano accesi dalla follia.  “Davvero volevi provare a togliermi tutto? Sei una sciocca se speri di averne anche una sola possibilità! Mi riprenderò Leon, conserverò la mia corona e a te rimarrà solo la morte”. Una risata fredda e spiritica animò le pareti della stanza, facendola sobbalzare, senza nemmeno rendersi conto che era  stata lei stessa a provocarla. Non aveva fatto uccidere Javier per nulla, non lo aveva certo sposato per amore. Non poteva accettare che tutto le fosse tolto, per di più da una serva di cui non si sapeva nulla. Si richiuse la porta alle spalle trovandosi di colpo di fronte a una ragazza dai capelli castani scuri…conosceva il suo nome, gliene avevano parlato in tanti: era la compagna preferita di Leon per le sue serate. Prima dell’arrivo di Violetta, ovviamente. Laura, Lira, Lera… “Lara” disse infine, soddisfatta di essersene ricordata. La ragazza scattò sull’attenti sentendosi chiamare. Fece un inchino svolazzante tenendo lo sguardo fisso sul pavimento. “Ai suoi ordini, signora”.
“Stavi forse origliando?” chiese infastidita, guardandosi attorno con aria sospetta.
“Assolutamente no, mia signora!” si affrettò a rispondere la ragazza, rialzando il capo e scuotendo la testa. “Ho solo sentito una risata, ed ero curiosa di sapere che cosa stesse acc…”
“Nessuno ha riso” sentenziò fredda la Regina, cominciando ad incedere lentamente sotto le occhiate sconvolte di Lara. Le rivolse un sorriso benevolo, macchiato di crudeltà, forse perché la sua mente era già proiettata al piano da mettere in atto.  “Ogni cosa tornerà al posto che le spetta” sussurrò tra sé e sé, facendo istintivamente sorridere Lara: non pensava che Jackie sarebbe davvero riuscita nella sua impresa, eppure eccola lì, la regina di Cuori completamente impazzita. Era riuscita ad origliare qualcosa ed era certo che presto non avrebbe più dovuto preoccuparsi della rivale, perché in fondo Leon sarebbe tornato da lei strisciando, distrutto dal dolore. Ed era destino che questo succedesse, lei e Leon erano destinati a rimanere uniti. Doveva solo riferire alla sua alleata che tutto stava procedendo per il giusto verso, che presto si sarebbero liberati di quella ragazza che si era impadronita del cuore di Leon, diventando fin troppo potente e pericolosa, oltre che intoccabile. Non si era dimenticata della sfuriata che le aveva fatto Vargas non appena era venuto a conoscenza delle minacce che aveva fatto a Violetta. Credeva che si sarebbe fermata lì, che non avrebbe fatto niente per cercare di riprenderselo? Se lo aveva creduto non la conosceva affatto. Leon non era il solo ad essere possessivo, continuava a ritenere il principe una sua proprietà e Violetta l’aveva oltraggiata a morte appropriandosene. Riscossa da un’inattesa euforia si mise a camminare a passo spedito, canticchiando. 
La porta della camera di Jackie era socchiusa e fino all’ultimo era incerta se bussare oppure no. Diede un piccolo colpetto alla superficie di legno mormorando un ‘Permesso?’, ma non ottenne nessuna risposta, quindi a passi lenti entrò nella stanza con circospezione. Non c’era nessuno e tutto era perfettamente in ordine; il letto era spartano con le coperte grigie ben tirate, la cassapanca ai suoi piedi era chiusa con un lucchetto di ferro. Chissà che cosa c’era all’interno, pensò curiosamente la ragazza, rimanendo in mezzo alla stanza incerta se aspettare Jackie o andarsene via per non essere colta a curiosare tra gli effetti personali della donna. Si avvicinò al comodino e cercò di aprirne i cassetti, me erano tutti chiusi ermeticamente tranne uno; dentro di esso c’erano una marea di fogli imbrattati di scritte, probabilmente erano brutte copie di missive che la domestica doveva mandare per ordine della regina. Sul fondo però c’era un foglietto giallo su cui era stato schizzato un disegno: alcune radici scure erano minuziosamente disegnate con delle frecce che si dipartivano da esse ai cui estremi erano stati scritti di fretta appunti dalla calligrafia illeggibile. Con mano tremante cercò di decifrare l’unica parola comprensibile perché scritta in maiuscolo e stampatello. Non era una grande lettrice e faceva fatica a distinguere le lettere, ma in quel caso non le sembrava troppo difficile.
“Mandragola” sussurrò leggendo, accigliandosi. Di che diamine si trattava?
“Cosa ci fai qui?”. La voce di Jackie proveniente alle sue spalle le fece raggelare il sangue nelle vene. Richiuse il cassetto velocemente, sperando con tutto il cuore che il buio della stanza l’avesse aiutata a non farsi beccare. “Ti stavo cercando” si voltò, facendo smuovere la massa castana di capelli con un sorriso, o meglio un ghigno. Mandragola…la sua testa lavorava ancora su quella parola? A cosa le serviva? 
“Bene, mi hai trovato” ribatté acida la donna, sedendosi sull’unica sedia della stanza e accavallando le gambe in attesa. Lara continuava a fissarla imbambolata, mentre il suo cervello lavorava: aveva come l’impressione di essersi messa in mezzo a qualcosa di troppo grande e pericoloso. Lei rivoleva solo Leon, ma la situazione le stava sfuggendo di mano. Non era però quello il momento per pensarci, Jackie attendeva ancora che parlasse e dalla sua faccia si intuiva che la pazienza sarebbe presto arrivata al limite.
“Ho sentito Jade parlare da sola nella sua camera. Sembrava come impazzita, diceva che avrebbe eliminato Violetta” spiegò a stento la ragazza, cercando di trasmetterle l’inquietudine che le aveva messo la Regina in quello stato; la donna non batté ciglio, ma al contrario un sorriso le increspò le labbra.
“Jade aveva proprio bisogno di una bella smossa e l’idea del vestito da far trovare a Violetta è stato il modo perfetto…adesso lei si sentirà minacciata e cercherà in ogni modo di eliminare quella ragazzina; tutto questo senza che io muova un dito” sorrise senza alcun rimorso per ciò che aveva detto. Era talmente bello potersi servire delle debolezze della Regina, ritrovandosi così il potere tra le mani! Anni di pazienza, con il solo intento di raggiungere una posizione di rilievo, così da essere la domestica personale della regina, stavano finalmente dando i loro frutti. Quella Violetta aveva provato a rovinare tutto conquistando Leon, il risultato di un fallimentare esperimento. Ma una volta tolta di mezzo quella sciocca ragazzina, ignara del potere che aveva all’interno di quel castello, avrebbe potuto circuire Jade a suo piacimento e sarebbe stata la padrona assoluta di Cuori. Se poi la guerra che stava sconvolgendo i quattro regni fosse andata a buon fine ben presto si sarebbe trovata a capo di tutto il Paese delle Meraviglie. C’era un altro dettaglio che però era curiosa di conoscere. “Che mi sai dire del consigliere di Quadri?”.
Lara rimase per qualche secondo interdetta: che c’entrava adesso Diego con il togliere Violetta di torno? “Penso che nutra un certo interesse per Violetta…ma nulla di più. Sembra piuttosto che voglia studiarla. Il fatto che abbia rovinato il nostro piano alla festa è del tutto indipendente”.
“Ma il nostro piano ha funzionato anche meglio del previsto!” continuò Jackie, ancora più soddisfatta: allora Diego non era lì per romperle le uova nel paniere, aveva dei progetti tutti suoi, di cui a lei non importava proprio nulla perché alla fine dei giochi solo lei ne sarebbe uscita vincitrice. “L’importante è che Jade agisca in modo sensato, altrimenti dovrò intervenire io…ma anche se pazza quella donna è piena di idee geniali quando vuole” ghignò, fissando la compagna spaventata. Si sfregò le mani con impazienza: era ancora in gioco, anzi, tutto stava andando avanti in maniera stranamente favorevole.
“E Leon? Leon tornerà da me?” domandò Lara; non le importava nulla di Diego o di tutti quegli intricati giochi di potere, voleva solo tornare ad occupare il posto che le spettava al fianco di Vargas. “Leon si sposerà con Ludmilla e se tutto andrà come previsto sarà tuo. Alla Regina di Quadri non credo faccia differenza sapere che il principe abbia un’amante, trattandosi solo di un matrimonio di convenienza” sbuffò la donna senza un minimo di entusiasmo. Figurarsi se a lei interessava davvero dell’obiettivo di Lara, aveva solo bisogno di qualcuno che si sporcasse le mani al posto suo, per il resto non era affare che la riguardasse. Voleva solo che Leon tornasse quello di prima, ma a quello ci avrebbe pensato sicuramente Jade. Per il momento era solo curiosa di sapere che cosa avrebbe inventato la regina per eliminare quello che sembrava essere un amore indistruttibile.
 
Lo scribacchiare di Thomas sulla sua piccola scrivania era l’unico rumore udibile nella stanza. Jade era seduta sul trono, sempre più infuriata. Leon si era addirittura rifiutato di andare da lei quella mattina perché, a suo dire, aveva troppi impegni. Una scusa bella e buona, visto che non era uscito dalla sua stanza neppure per fare colazione. Un tempo sarebbe stato puntuale ad una sua chiamata, pronto a servirla, ma le cose erano cambiate drasticamente senza che se ne accorgesse.  In quel tardo pomeriggio primaverile la porta si aprì così da far fare il suo ingresso al principe Vargas, ancora tutto spettinato.
“Madre” salutò con aria svogliata. Si portò le mani dentro le tasche degli stretti pantaloni di cuoio, chiedendosi solo in parte che cosa volesse Jade da lui. La sua fantasia vagava ancora tra quei lenzuoli candidi, che custodivano le promesse d’amore che si era fatto con Violetta. Già sentiva la nostalgia del suo profumo e dalla sua voce e non era passata che una manciata di ore. Amore o dipendenza che fosse, aveva un estremo bisogno di stringerla almeno in un abbraccio, di sfiorare le sue labbra con ardore. Ma non poteva certo declinare le richieste della Regina, per cui di mala voglia si era costretto ad andare alla Sala del Trono.
Jade drizzò il naso all’insù non appena lo vide così trasandato, addirittura con un sottile strato di barba, al suo cospetto; non solo le mancava di rispetto con la sua sola presenza, ma neppure si era degnato di inchinarsi. La stava sfidando apertamente, avendo capito che ormai era un uomo forte e deciso, e che i suoi trucchetti non sarebbero più stati sufficienti ad ammansirlo. Ma questa volta aveva in mente molto di meglio per fargli capire chi aveva il coltello dalla parte del manico.
“Leon, sai che ho sempre piacere di vederti qui al castello” esordì, certa di aver attirato tutta la sua attenzione già solo con quelle parole. “Ma penso sia giunto il momento per te di riprendere il servizio in difesa del tuo popolo”.
“Difesa? Quale difesa? Siamo noi ad attaccare!” ringhiò Leon infuriato. Non poteva crederci, voleva rimandarlo in quell’Inferno. In passato non si era mai sottratto a un simile dovere, ma adesso era diverso, adesso aveva Violetta e non voleva certo perderla solo per un conflitto che non l’aveva mai riguardato. Non si era mai rispecchiato nelle cause che portavano avanti la guerra, non si era mai rivisto in tutto quel rancore sebbene se ne fosse nutrito fino a quel momento.
“Non la pensavi così fino a poco tempo fa…” sibilò maligna Jade, facendo scorrere le dita lungo il bracciolo ricoperto di velluto dello scranno.
“Non le farai del male!” strillò il giovane, mentre le vene alla base del collo gli pulsavano per la rabbia. “Non capisco di cosa stai parlando…” mormorò innocente la donna.
“Fai anche finta di non capire…non ti permetterò di toccarla neppure con un dito! Io…la sposerò” sentenziò con decisione Vargas, stringendo con forza i pugni e guardandola in modo deciso. “E sarà una regina di gran lunga migliore di te”.
Quelle parole si conficcarono nella carne della donna, accendendone ancora di più la furia e la folla. Nonostante ciò in apparenza rimase impassibile: “Non capisco perché pensi sempre che io nutra rancore nei confronti delle persone. Sarò più che felice di acconsentire alle vostre nozze, annullando quelle con Ludmilla…ma in cambio voglio che tu mi faccia un favore”.
“Quale?” chiese Leon sorpreso. Le stava davvero venendo incontro in modo che potesse essere felice? Forse aveva capito che non poteva separarlo dalla persona che amava…era pur sempre sua madre.
“Dovrai partire per un’ultima campagna…a quel punto, una volta tornato, potrai fare ciò che vuoi. Anche sposare quella serva”.
Leon scoppiò in una risata fredda: “Puoi scordartelo! Credi davvero che mi fidi di te? Tu la farai uccidere”.
“Per quale motivo? Per mettermi contro mio figlio, ben sapendo che potrebbe benissimo fomentare una rivolta contro di me? Mi credi tanto stupida?”.
Leon pensò attentamente a quelle parole: effettivamente non aveva tutti i torti. Sapeva quanto potesse risultare determinato e lei stessa gli aveva insegnato ad essere spietato e vendicativo. 
“Scegli, Leon: puoi decidere di non partire e sposare Ludmilla, perché io farò in modo che tu non possa più stare con la tua Violetta, oppure portare a termine questo piccolo compito ed essere felice con la persona che ami, senza nessun ostacolo, senza impedimenti”.
Leon guardò dritto davanti a sé, con le spalle al muro. Thomas aveva smesso di scrivere ed letteralmente sconvolto da ciò che aveva scoperto: Leon e Violetta insieme? Come era potuto accadere? Era rimasto talmente di sasso da non rendersi conto del cenno di assenso del principe Vargas e del sorriso soddisfatto di Jade, che non aspettava altro per mettere in atto il suo piano.



NOTA AUTORE: Purtroppo non posso rimanere a commentare che il mio pc sta in manutenzione e sto usando quello di famglia e- a voi non interessa insomma xD Commentando brevemente: I MIEI LEONETTA SONO BELLISSIMI (tanto per cambiare) Poi, Jade sta tramando, e ha messo in atto il suo piano, mentre all'ombra Jackie se la ride...E' riuscita a convincere Leon a partire per un'ultima volta e in cambio gli promette di non opporsi al suo matrimonio con Violetta e di annullare le nozze con Ludmilla..ci sarà da fidarsi? ma soprattutto, cosa ha in mente? O.O Lo scopriremo nei prossimi capitoli! *^* Grazie a tutti voi che seguie questa storia, buona lettura e alla prossima! :3
P.S: non posso mettere il banner perché sta sull'altro PC
P.P.S: Tenete a mente la promessa che si fanno Leon e Violetta perché oltre a farmi sclerare (e pure tanto), tornerà più in là (AMORI MIEI). 

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Capitolo 49
*** Il secondo addio ***


Capitolo 49
Il secondo addio

Non appena Leon fu uscito dalla stanza Thomas ebbe la forte tentazione di seguirlo. I suoi piedi fremevano sul pavimento liscio, ma era sicuro che il principe l’avrebbe certo trattato male di fronte alle possibili domande che gli avrebbe fatto per saperne qualcosa di più, quindi abbandonò il suo proposito rassegnato e tornò a concentrarsi sui documenti che doveva ricontrollare per conto della regina. Un sigillo scarlatto con lo stemma di Fiori spiccò imperioso in mezzo alle scartoffie e con aria piccata sfilò il documento e indossò un paio di occhialetti striminziti per analizzarlo meglio. Era una missiva di Natalia, pensò, osservando la svolazzante firma in fondo, piena di ghirigori che ricordavano un campo di fiori appena sbocciati. Il fronte a Fiori non era messo affatto bene, un contrattacco ben studiato di Picche li aveva costretti a retrocedere di qualche metro, ma confidavano di recuperare presto terreno. Non si spiegava ancora come potesse essere nata un’alleanza così vasta che comprendesse Fiori, Cuori e Quadri, anche se con quest’ultimo le trattative erano ancora tutt’altro che concluse. Era chiaro, anche se non ne conosceva il motivo, che Fiori avrebbe seguito Quadri in ogni decisione, per cui la situazione era in un equilibrio instabile che avrebbe potuto avere mille risvolti. Ludmilla e Jade tenevano le redini della guerra, in cui l’unico nemico per ora era Pablo. Alzò gli occhi azzurri dal tavolino e si rese conto di essere rimasto da solo: non si era nemmeno accorto che Jade era uscita, talmente tanto era stato compreso nel suo lavoro. Si stiracchiò, drizzando le orecchie bianche e scattò in piedi. Era così confuso da non sapere da dove iniziare a fare domande. Sicuramente cominciare dalla diretta interessata, ossia Violetta, non era una brutta idea, ma provava una sorta di fitta dovuta alla delusione: non poteva credere che anche quella dolce ragazza fosse rimasta irretita dal fascino misterioso e pericoloso di Leon Vargas. Mosso dalla tristezza, chiuse svogliatamente il libro pieno di annotazioni importanti, mentre si chiedeva da quanto andasse avanti quella storia. Sicuramente da prima che arrivasse Marco al castello. Era strano che Leon però mettesse a rischio tutto per quella ragazza, non l’avrebbe fatto nemmeno per se stesso; il principe eseguiva solo gli ordini, non prendeva mai decisioni.
Saltellò fino al portone principale, senza dire una parola. Si sentiva solo il suono dei suoi passi rimbombare nella sala del trono. Qualche minuto dopo camminava ansiosamente cercando di raggiungere la biblioteca per parlare con Humpty. Alla fine aveva infatti preso la decisione di chiedere consiglio al vecchio saggio del castello, l’unico di cui sapeva di potersi fidare ciecamente. Dall’altra parte alla sua stessa andatura procedeva inesorabile Lara, e i due si fermarono di fronte all’enorme portone in quercia, studiandosi a vicenda. “Che ci fai tu qui?” chiesero all’unisono, rimanendo sorpresi dal tempismo con cui avevano parlato.
“Devo parlare con il bibliotecario”.
“Devo consultare un libro”.
Entrambi fecero spallucce ed entrarono nella biblioteca del castello, un po’ a disagio. Thomas ricordava a stento l’ultima volta in cui si erano rivolti parola, non che questo gli facesse un’effettiva differenza. Non aveva mai sopportato quella Lara. La ragazza probabilmente la pensava allo stesso modo perché alzò lo sguardo impettito e si immerse in mezzo alle librerie gigantesche, nel reparto che si occupava di tutte le piante conosciute nel Paese delle Meraviglie. Che le fosse improvvisamente venuto il pollice verde? Si costrinse a tornare a pensare al motivo per cui era lì, anche se un moto di curiosità lo spingeva a pedinare con lo sguardo ogni mossa di Lara.
“Cosa vuoi, figliolo?”. La figura tondeggiante di Humpty, emerse da una scaletta che sfrecciò cigolando fino a raggiungerlo. Bella domanda: da dove cominciare? Aspettò impaziente che l’uomo-uovo scendesse gli scalini uno ad uno, mentre la vecchia preferenza di Leon aveva preso a sfogliare su uno dei tavoli da lettura un libro ammuffito e malandato.
“Ho avuto modo di ascoltare una conversazione a dir poco sconvolgente!” esclamò. La sua voce rimbombò tra i corridoi della biblioteca raggiungendo anche le orecchie sempre all’erta di Lara. “Ho scoperto  che Leon e Violetta sono coinvolti in una sorta di…relazione?” disse abbassando notevolmente il tono di voce. Non sapeva nemmeno lui se definirla relazione, anzi non sapeva un bel niente.
“Ma ragazzo, pensavo che ormai fosse di dominio pubblico!” ridacchiò Humpty, di fronte allo sbalordimento del Bianconiglio. “Insomma, quando ne è venuta a conoscenza Lena ero certo che non sarebbe riuscita a tenersi il segreto per più di un giorno”. Thomas sgranò ancora di più gli occhi, tanto che le pupille sembravano volergli uscire. “Anche Lena sapeva? Sapevate tutti? E non avete fatto nulla per impedirlo? Ma siete tutti impazziti! Mica vi sarete dimenticate chi è Leon Vargas, spero!”
Humpty scosse le spalle e si girò dall’altra parte, immergendosi completamente nei suoi compiti, mentre Thomas lo fissava sbalordito: no, la conversazione non poteva finire lì! Cominciò a seguire il bibliotecario in ogni suo piccolo movimento, affacciandosi tra lui e gli scaffali traboccanti.
“L’ha costretta a fare qualcosa? Le ha fatto del male? Insomma, Humpty, stiamo parlando di Vargas!”.
“Questo non è al posto giusto…” mormorò perplesso l’uomo-uovo, estraendo un piccolo libricino e spostandosi in un altro reparto. “Prestami attenzione!” lo riprese Thomas, dando un’occhiata disperata al cipollotto: il tempo scorreva e aveva tanti doveri quel giorno; nonostante ciò la questione di Violetta gli premeva più di tutte, anche per capire se le sue intenzioni riguardo al piano di fuga su cui si stava concentrando fossero cambiate.
“Che vuoi che ti dica! Violetta è molto più al sicuro tra le braccia di Leon che in qualsiasi altro posto, questo te lo posso assicurare”. Thomas rise seccamente: “Stiamo scherzando, spero! Devo considerare una fortuna che Leon parta a giorni, allora”.
Humpty rimase immobile come una statua di cera, lucida e impassibile. Il tempo si era inspiegabilmente fermato, o almeno aveva preso a rallentare sempre di più. Persino Lara aveva alzato lo sguardo dalla sua lettura, catturata da quelle parole dette con un tono di voce troppo alto. “Quando è stato deciso?” chiese Humpty, voltandosi lentamente. I suoi occhi erano avvolti da una preoccupazione sempre più forte, le mani tremavano.
“Poco fa…Jade glielo ha proposito e lui ha accettato. Una sorta di accordo” si limitò a dire il moro, scosso dalla reazione del vecchio. Lara si alzò e con la coda nell’occhio scappò via, con il libro stretto al petto. Nemmeno lei si aspettava che Leon partisse nuovamente per la guerra e si sentì raggirata: non voleva che il principe rischiasse la vita, lui doveva stare al sicuro in quel castello, insieme a lei. Ma questa volta anche lei aveva un piano, non intendeva sottostare al volere di Jackie senza sapere che cosa stesse pianificando. E così a passo veloce si diresse nella sua stanza, con la viva speranza che quel tomo soddisfacesse la sua curiosità a proposito della Mandragola.
“Spiegami tutto a proposito di quest’accordo di cui parli” ordinò il bibliotecario, conducendo il Bianconiglio dove fino a poco tempo prima era seduta Lara. Doveva subito parlarne con Violetta, ma prima voleva essere sicuro che si trattasse di una decisione già presa. “Ma, Humpty, non capisco che cosa ci sia di tanto importante”.
“Tu parla e basta!” lo intimò spazientito. Thomas impallidì: non l’aveva mai visto così arrabbiato e preoccupato. Prese un respiro profondo e riferì ogni singola parola, chiedendosi in cuore se stesse facendo davvero la cosa giusta.

“Leon!”. Leon si bloccò di colpo, non appena ebbe sentito quella voce affannosa alle spalle. Le braccia lungo i fianchi si tesero inspiegabilmente, prese da una terribile paura: poteva aver già saputo? Scosse la testa, ma quel pensiero rimaneva ancorato nella sua mente e non trovava il coraggio per voltarsi e guardarla negli occhi, per dirle che sarebbe partito. “Leon”. Il suo nome, stavolta sussurrato, giungeva sempre più vicino, lo poteva percepire. Una mano gli sfiorò la spalla e lui l’afferrò rimanendo di spalle, stringendola con dolcezza. Il corpo di Violetta si accostò al suo, per poi abbracciarlo da dietro, le braccia esili strette intorno alla vita. Leon rimase impalato, mentre i brividi gli correvano lungo la schiena come se gli avessero versato dell’acqua gelida. E la sensazione era identica: rigenerante. Il respiro si frammentò, rotto dalla delicatezza di quel momento, e la determinazione mostrata fino a quel momento di fronte a Jade crollò miseramente. “Violetta”. Quel nome gli uscì naturale così come lo era respirare. Violetta in tutta risposta rafforzò la stretta, facendo risalire la braccia e incrociandole al suo petto. Teneva la guancia schiacciata contro la sua schiena, con lo sguardo rivolto verso il fascio di luce del tramonto che entrava da una feritoia.
“Quando?”. La domanda lo spiazzò, sicuro che avesse già saputo tutto. Sospirò rassegnato, ma non rispose. “Quando parti?” chiese di nuovo con voce spezzata.
“Tra due giorni, all’alba” rispose Leon asciutto, sentendo la stretta farsi ancora più forte dopo quelle parole.
“Non partire”
“Sai che non posso farlo…”. In punta di piedi Violetta si avvinghiò a lui, appoggiando il mento sulla sua spalla, pensierosa. “Ho paura, Leon”. Vargas poteva avvertire il riflesso dei suoi occhi, velati di lacrime, solo guardandoli di sfuggita con la coda dell’occhio. Anche lui per la prima volta aveva paura: paura di non incrociare di nuovo il suo sguardo, paura di non poter assaporare più le sue labbra morbida, e si, paura anche di non poter più sentire la pelle calda e liscia di Violetta a contatto con la sua. Ma doveva essere forte, doveva trasmetterle sicurezza. Si voltò rapidamente, lasciandola spiazzata, e la guardò intensamente. Osservò la bocca socchiusa per la sorpresa e vi appoggiò le labbra morbidamente, accarezzandole con il dorso della mano sinistra la guancia calda, mentre con la destra le teneva la schiena, spingendola sempre di più verso di lui. Leccò lentamente il contorno della sua bocca, sottolineandole il possesso. Il cuore accelerò ancora di più quando Violetta gli prese il viso tra le mani, guidandolo inerme in quel dolce bacio. Era questo l’effetto che gli faceva: lo rendeva completamente inerme, un burattino nelle sue mani.
“Aspettami” sussurrò il principe ansimando, le labbra ancora umide e ricche del suo sapore, da cui era scaturita una dipendenza indomabile fin dal loro primo bacio.
Violetta si morse il labbro annuendo: “Te l’ho già promesso”.
Il pensiero di stare tutto quel tempo senza di lei lo mandava letteralmente fuori di testa per la frustrazione, ma doveva resistere, doveva riuscirci. E allora Jade gli avrebbe permesso di averla al suo fianco per sempre, di proteggerla e trattarla come una regina. “Voglio che tu passi queste ultime notti al castello insieme a me”. Il tono era calmo e piatto, ma tradiva il timore di un rifiuto.
Violetta si sciolse in un sorriso solare annuendo. “Andiamo” gli sussurrò con voce calda, facendo sgranare gli occhi al giovane principe per la piacevole sorpresa. Pensava che in qualche modo si sarebbe opposta, ritenendolo sconveniente, ma nel suo sguardo leggeva la sua stessa necessità: approfittare di tutto il tempo che il destino gli aveva messo a disposizione, ogni singolo minuto della notte e dell’alba, perché il giorno per loro costituiva ormai un divieto da quando Ludmilla era al castello. Inclinò piano la testa di lato, pensieroso, quindi le depose un dolce bacio sulla guancia.
“Dovresti dirlo a Lena, non vorrei che si preoccupasse…rimane la tua compagna di stanza” esclamò serio, prendendole la mano e giocando a intrecciare le loro dita, per poi sciogliere il groviglio e ricominciare da capo. “E da quando Leon Vargas pensa agli altri?” lo canzonò Violetta compiaciuta.
Leon le intrappolò la vita tra le braccia, scoppiando a ridere. “Da quando me l’hai insegnato tu”. Si sporse per baciarla nuovamente, ma questa volta trovò un ostacolo: l’indice di Violetta si frappose, ponendosi con fermezza sulle sue labbra, socchiuse e insoddisfatte. Il dito scorse lentamente verso il basso, lasciandolo a bocca aperta; quel gesto l’aveva non solo colto di sorpresa, ma soprattutto aveva acceso in lui l’eccitazione pura: era talmente sensuale, accompagnato dalla sua espressione innocente, il candido viso illuminato dal rossore che lottava per emergere sempre di più. In quel momento desiderava solo avventarsi avidamente sulle sua bocca, mordendole le labbra e facendo scorrere con una lenta agonia la sua lingua contro il palato, per poi prenderla in braccio e portarla nella sua stanza. Invece rimase fermo impalato, con le braccia distese lungo i fianchi e lo sguardo incatenato nelle sue iridi di un tenue castano chiaro.
“Niente baci, principe Vargas…dovrai resistere fino a stanotte” lo riprese scherzosamente, fingendo di essere seria e autoritaria. Si allontanò con un sorrisetto che lo derideva completamente, eppure non gli importava nulla: aveva ancora stampata quell’espressione stupita e il respiro mozzato gli rendeva ancora più difficile pensare razionalmente. Violetta inarcò un sopracciglio eloquente, mentre lui aggrottò la fronte, risvegliatosi appena da quell’incanto, e si vide rivolgere un cenno spiritoso della mano. Vinto completamente da una donna: ma come si era ridotto? Non ne aveva idea, ma mentre lei si allontanava già contava i secondi prima di poterla rivedere nuovamente.

La cena al castello era stata domata da un silenzio tombale: si sentivano tintinnare unicamente le posate d’argento e i calici riempiti di vino rosso corposo. Ludmilla era seduta alla sinistra di Leon e più volte provava a intavolare una qualche conversazione che però finiva miseramente ancora prima di iniziare. Vargas infatti sembrava più introverso del solito, lanciava solo di tanto in tanto occhiatacce alla madre, per poi concentrarsi sul piatto con svogliatezza.
“Quando torneremo al mio castello per preparare le nozze farò in modo che Leon abbia un campo tutto suo dove allenarsi” esclamò civettuola Ludmilla, tentando di prendere sottobraccio il futuro sposo, che si sottrasse farfugliando qualche scusa.
“Mi sembra un’ottima idea…” replicò Jade, posando il coltello inclinato sul bordo del piatto e esaminando la reazione poco entusiasta del figlio. “Non lo pensi anche tu, Leon?” chiese poi, rivolgendosi al diretto interessato. Vargas alzò lo sguardo quel tanto per osservare l’espressione compita della madre e scosse le spalle con indifferenza. Fortunatamente quel patetico teatrino sarebbe finito una volta tornato dalla sua missione. Non poteva sopportare un altro minuto al fianco della Regina di Quadri: nonostante il suo fascino, lo infastidiva la sua presenza accompagnata da un sorriso falso e ingannevole. “Figliolo, non potresti essere un po’ più entusiasta?” lo riprese la madre, facendosi improvvisamente seria. Un rumore assordante e graffiante fece sobbalzare i presenti: Leon si era alzato in piedi di scatto, con lo sguardo dritto e fiero, e le mani appoggiate tranquillamente sulla tovaglia bianca di lino.
“Penso che mi congederò” sibilò il giovane. “Sono stanco di questa situazione ridicola” concluse poi, allontanandosi dal tavolo. Accennò un segno di saluto con il capo e si fece aprire le porte della sala da pranzo per poi precipitarsi fuori senza guardare in faccia a nessuno.  
“Che cosa gli è preso?” domandò Ludmilla preoccupata, quando Vargas fu ormai uscito.
“Nulla di importante, cara…è impaziente di unirsi in matrimonio con voi, ma non è abituato a manifestare troppo le sue emozioni. Inoltre ha scoperto di dover partire di nuovo per la guerra, e…”. Ludmilla serrò le labbra in una linea sottile: “Come partire? Significa che le nozze sono ritardate? Di nuovo?”. La sua impazienza era visibile e Jade divenne sempre più sospettosa: possibile che quella spada fosse così preziosa? Si, aveva un potere magico non indifferente, la sua lama era in grado di tagliare qualunque cosa, ma non era poi così essenziale. Soprattutto sfoderarla in quella guerra avrebbe significato solo esporla alla possibilità che venisse rubata e non voleva certo perdere il cimelio più importante, simbolo del prestigio di Cuori. “Ma si tratta solo di un mese o due, Ludmilla” si difese la donna, appoggiando il tovagliolo di stoffa al lato destro del piatto, e guardando il calice pieno con aria compiaciuta.
“Vado a cercarlo” sibilò la ragazza, ottenendo un rapido e noncurante cenno d’assenso da parte della sua ospite. Con passo rapido e inferocito uscì alla ricerca di Leon: doveva fare pressioni affinché acconsentisse a sposarla prima della partenza, le andava bene anche l’indomani. Era stufa di quel castello, della padrona che lo abitava e del suo figlio viziato e fuori di testa. I tacchi delle sue scarpe risuonavano sulla pietre sconnesse di un corridoio poco illuminato. Due ombre non troppo lontane discutevano animatamente. Cercò di appiattirsi alla parete per non attirare l’attenzione e la questione Leon passò in secondo piano di fronte alla curiosità di saperne di più di quei due personaggi, un uomo e una donna.
“Pensi davvero che io lo sappia? E se anche lo sapessi non lo verrei certo a dire a te” ghignò astutamente una voce conosciuta. Il cuore le balzò in petto mentre il suo respiro si ridusse a un silenzioso rantolo.
“Sui libri non ho trovato nulla…e tutti sanno che la tua regina è un’esperta di pozioni e cose del genere! Te lo chiederò un’altra volta: a cosa serve la mandragola?”.
Diego rise piegandosi in due e poggiando le mani sulle ginocchia: “Sei carina, ragazzina, ma non abbastanza da convincermi a dirti qualcosa. Poi perché lo vorresti sapere? Stiamo parlando di una pianta poco conosciuta nel Paese delle Meraviglie…”.
La ragazza con cui stava discutendo ebbe un attimo di esitazione, quindi riprese a parlare, con un tono molto più concitato e nervoso. “Non devo renderti conto di nulla, io! E non pensare che non ti tenga d’occhio; forse il tuo incantesimo funziona con tutte le servette come Lena, ma io non sono come lei e ad un tuo passo falso…”. Mimò il gesto di una decapitazione e Diego rise ancora più forte. “Non ho nulla da nascondere” scosse la testa distrattamente e appoggiò la mano al muro, intrappolando la sua interlocutrice al muro. Incrociò le gambe appoggiandosi alla parete e per qualche minuto dominò il silenzio, che Ludmilla sentiva rotto unicamente dalle palpitazioni frenetiche del cuore.  “Invece credo che tu sappia parecchie cose di quello che succede qui” sussurrò con voce calda e soffice il consigliere di Quadri: lo scintillio dei suoi occhi era evidente anche in quel buio pesto ed era chiaro che stesse per attaccare.
La ragazza, il cui volto non era riconoscibile lo spinse via, strattonandolo e gli urlò contro di non provare ad avvicinarsi mai più. Diego ridacchiò e la vide andare via per poi fischiettare spensierato. Era arrivato il suo momento di agire. Dopo aver preso un respiro profondo si staccò dalla parete, permettendo così al giovane di riconoscere una sagoma vicina.
“Ludmilla?” mormorò piegando la testa di lato e socchiudendo gli occhi per cogliere ogni minimo particolare dell’ombra che si ritrovava davanti.
“Si, Diego”. Non appena ebbe sentito la sua voce sembrò rilassarsi notevolmente e le rivolse uno dei suoi sorrisi astuti e maliziosi. “Pensavo stessi ancora cenando con il principino” le fece presente con aria vagamente infastidita.
“Cosa voleva quella?” chiese senza dare alcuna spiegazione. Diego si strinse sulle spalle, scuotendo la testa: “Niente di importante…mi ha preso per un catalogo di piante magiche, credo”. Scoppiò a ridere per quella battuta, ma subito si ricompose, rivolgendole un’occhiata fredda e calcolatrice. “Mandragola. Mi chiedo come una serva conosca una pianta tanto potente e magica”.
“Non sei tu il cacciatore di informazioni? O forse stai perdendo semplicemente colpi” lo punzecchiò, dandogli una pacca sulle spalla. Diego la catturò tra le braccia e il suo sorriso emerse dalle tenebre, mostrando lo splendido bianco dei denti. “Ti faccio vedere io come non perdo colpi” sogghignò, baciandola poi avidamente. Ludmilla avrebbe voluto allontanarlo, davvero l’avrebbe voluto…non le era piaciuto il modo con cui ci aveva provato con la ragazza di poco prima, sebbene sapesse che si trattava di una recita per irretirla e ottenere così informazioni preziose. Ma Diego le faceva perdere la testa per la gelosia: se c’era qualcosa che non sopportava era condividere qualcosa di suo. E Dominguez era una sua proprietà, fine della discussione. Lo allontanò dopo un tempo indefinito, senza però riuscire a liberarsi della sua stretta, che anzi si fece molto più opprimente e vogliosa. Diego scese lasciandole una scia di baci sul collo, quindi risalì con una velocità studiata, passando a tormentarle l’orecchio bollente.
“Che c’è, piccola gelosa regina, non vi fidate di me? Perché dovreste sapere che per voi io rinuncerei tranquillamente a tutto, anche alla vita”. La regina sospirò, reclinando il capo all’indietro. Quelle parole erano in grado di darle il massimo appagamento: cieca obbedienza, fiducia incondizionata. Ecco ciò che voleva. Con Diego era tutto diverso, sentiva di aver trovato l’altra metà di cui aveva sempre sentito il bisogno. Lui la capiva, le dava ragione, la accondiscendeva, ma sapeva anche intervenire al momento giusto, consigliandole nel modo migliore. Se c’era qualcosa che desiderava più di Diego erano gli elementi che costituivano l’armatura di cristallo. Il Paese delle Marviglie…non era altro che un piccolo tassello di un ordine superiore. Lei avrebbe passato tutte le barriere piegandole alla sua volontà e sarebbe diventata la padrona di tutto: della vita, della morte, del tempo. Di tutto.

Violetta aprì di scatto gli occhi. La luce del mattino aveva invaso la stanza illuminando le bianche e soffici lenzuola bianche aggrovigliate intorno ai loro corpi. Era talmente intorpidita da non riuscire a muovere neppure un muscolo, quindi si limitò a strofinare la guancia contro il petto nudo di Leon sui cui aveva il capo adagiato. Leon soffocò una risata con gli occhi chiusi, ancora profondamente addormentato, a causa dei capelli che gli solleticavano la pelle. Il principe era completamente disteso supino, coperto fino alla vita dalla matassa indefinito delle lenzuola. Le braccia le circondavano la schiena, tenendola stretta a lui in segno di amore e possesso. Violetta non voleva assolutamente svegliarlo, talmente era bello vederlo addormentato e felice, con un sorriso beato e rilassato sul volto; allo stesso tempo però non riusciva a resistere alla tentazione di sfiorare il suo corpo con le dita: con un movimento lento e circolare cominciò ad accarezzargli la parte del petto su cui non era appoggiata, seguendo le linee delle cicatrici con estrema attenzione. Scese di poco e con l’indice disegnò tanti piccoli cerchi lungo le linee dell’addome, facendo lo stesso anche intorno all’ombelico. Sembrava quasi stesse formando un disegno geometrico. Si fermò quando raggiunse, più in basso, il bordo della coperta e sfiorò la rada peluria bionda e soffice. Chiuse gli occhi e sospirò, lasciando trasparire la triste consapevolezza che per un motivo o per un altro presto non avrebbe potuto assaporare ancora un risveglio del genere. Quel pensiero le metteva solo una grande agonia, che cercò di cancellare avvinghiandosi a Leon. Quella notte forse era stata addirittura più bella della precedente: non c’era stato tanto timore e imbarazzo, ma solo un gran desiderio di abbandonarsi ciascuno all’altro. Leon era stato meno controllato e più istintivo, più uomo; per tutta la notte non avevano fatto altro che altro che rotolarsi sul letto lascivi, le labbra impiegate in baci esigenti e appassionati. L’aveva presa più di una volta, alternando la dolcezza ad una primitiva furia, e lei stessa aveva goduto di ogni istante in cui la loro pelle entrava in contatto, in cui sentiva il petto di Leon schiacciarla piacevolmente durante le sue spinte instancabili. Ricordava i suoi occhi verdi accendersi come mossi da una forza sconosciuta. Non aveva smesso per un secondo di pronunciare il suo nome, con voce vellutata, e le aveva detto di amarla come non pensava avrebbe mai amato qualcuno. Sono incappata in un bel guaio, pensò, mordendosi il labbro, e avvampando mentre i ricordi della notte precedente irrompevano nella mente e fluivano lungo tutto il corpo donandole una sensazione di benessere e soddisfazione. Alzò la testa, sostenendola con il mento e si perse a contemplarlo: un bellissimo guaio. Come avrebbe mai potuto dirgli addio? Sapeva che prima o poi sarebbe dovuto succedere in ogni caso, ma non riusciva a rinunciare a lui. E allora non farlo, le sussurrò una vocina impudente nella sua testa. Non poteva essere così egoista da mettere davanti quell’impetuoso sentimento all’affetto di suo padre, senza nemmeno poterlo salutare, dirgli che stava bene…che era tra le braccia della persona che amava. Violetta non riusciva a pensare a un posto più sicuro delle braccia di Leon. Con una lentezza struggente depose un lungo bacio all’altezza del cuore, affondando le labbra sulla sua pelle e assorbendone il caldo sapore. Si spostò verso l’alto senza separarle dalla loro ambrosia e raggiungendo la base del collo, su cui si rifugiò ghiottamente. Vargas mugolò qualcosa, scuotendo la testa, per poi scoppiare in una risata breve. “Mhhh…mi fai il solletico! Basta!” esclamò contrariato, sebbene il modo in cui la sua schiena si inarcasse verso di lei, in cerca di più attenzioni, intendesse dire il contrario. Violetta soffiò poco sotto il suo orecchio e sentì i brividi raggiungergli persino gli alluci dei piedi. Le afferrò i polsi e con un movimento fluido invertì le posizioni, tenendoli stretti e guardandola avidamente.
“Non pensavo ti piacesse giocare scorretto” ghignò, mordendole il labbro inferiore. Non appena Violetta tentò di approfondire il bacio però Leon si allontanò con aria falsamente corrucciata. “Ma siamo in due a saperlo fare” sussurrò appena, dandole un rapido bacio, e tirandosi nuovamente indietro non appena ebbe sentito la lingua di Violetta fare pressioni.
“L-Leon” mormorò fissandolo intensamente negli occhi. Vargas negò la supplica che leggeva negli occhi scuotendo la testa con un sorriso pericoloso e rafforzò la stretta sui polsi intrappolati sul materasso all’altezza della testa. “Non dovresti mai sfidarmi. Mai”. Si strusciò appena contro il corpo di Violetta, facendola avvampare e ansimare. Leon studiò quella reazione con una gioia profonda: ogni suo respiro accelerato gli apparteneva, perfino il rossore delle guance. Solo lui poteva donarle tutto quello, ne era orgogliosamente consapevole. La baciò di nuovo, questa volta con una passione ardente, liberandola dalla presa, e sprofondando dolcemente su di lei, stretto tra le sue braccia, che gli circondavano il collo, e gli accarezzavano la schiena.
“Io tornerò. Tornerò solo per te” le promise con il fiato corto, tornando poi a baciarla, considerando pressoché inutile ogni altra parola. Si strinsero come se non fosse mai abbastanza, gemendo ed accarezzandosi con la stessa rispettosa attenzione che si tiene in un rito. Qualcuno bussò. Leon strizzò gli occhi, ma non si separò dalla sua amata, sperando che se non fosse arrivata alcuna risposta lo scocciatore si sarebbe arreso. Si erse sopra di lei, piantando i palmi sul materasso e tenendosi sulle braccia possenti. “Violetta…” ansimò, assaporando le sue dolci labbra, e avventandosi su di esse con maggior bisogno. Il colpo alla porta si ripeté.
“Leon, dovresti…” provò a parlare Violetta, ma Leon la fece tacere con un tenero e affrettato bacio. “Shhhh…” le sussurrò, cercando di ignorare la sgradita interruzione.
“Principe Vargas!”. La voce di Thomas era inconfondibile e Leon lo maledì talmente tante di quelle volte da perdere il conto. “Che vuoi Mangiacarote?” urlò in modo da farsi sentire dal servitore. Violetta gli diede uno schiaffetto sulla spalla a mo’ di rimprovero e Leon si sciolse automaticamente in un sorriso non appena tornò ad incrociare il suo sguardo. Strusciando con il naso le percorse la mandibola, sospirando, quindi tornò ad osservarla, poggiando la fronte contro la sua. Fece sfiorare la punta del naso con la sua, senza accennare a smettere di sorridere.
“Smettila di essere così bella e dolce…mi fai perdere la testa” le ordinò autoritario. Violetta scoppiò a ridere e si interruppe solo quando vide che Leon era diventato stranamente serio e teso. “Amo la tua risata, sarà una delle cose che più mi mancheranno”.
“Ti amo, Leon…non credevo di poterti amare così tanto”. Vargas sgranò gli occhi sorpreso, quindi si rabbuiò ancora di più di fronte a quella rivelazione. Anche lui la amava alla follia, ma il destino li stava separando ed aveva paura che mai più li avrebbe fatti riunire. No, non doveva pensarci: aveva affrontato tante pericolose battaglie, uscendone indenne, perché non avrebbe dovuto riuscirci anche quella volta? Doveva essere positivo.
“Leon!”. All’ennesima chiamata Leon si arrese e si lasciò cadere sul letto, accolto subito da un abbraccio amorevole e materno di Violetta da cui non avrebbe mai voluto separarsi. “Vostra madre vuole definire i dettagli del vostro viaggio!”. Vargas sbuffò e si sedette al bordo del letto, grattandosi la testa confuso. Stava per alzarsi quando Violetta lo trattenne da dietro, abbracciandolo, e lasciando scorrere le mani sul suo petto. Avvicinò la bocca al suo orecchio, soffiandovi piano. Leon emise uno strano verso gutturale, desiderando unicamente abbandonarsi di nuovo su quel materasso.
“Ti aspetto qui” disse, depositando dei piccoli baci lungo il contorno dell’orecchio. Il respiro di Leon si fece ancora più affannato. “Sarò più veloce della luce, allora” rantolò con un filo voce. Come folgorato scattò in piedi e si mise in cerca dei vestiti da indossare per l’udienza con la madre. Mentre vagava per la stanza, Violetta lo guardava completamente persa in ogni dettaglio di quello che le sembrava una divinità: dai capelli scompigliati alle cicatrici lungo il corpo. Non c’era nulla in Leon che non le facesse nascere quell’irreprimibile desiderio di fare l’amore con lui. Nascose quei pensieri arrossendo, e buttandosi in mezzo ai cuscini con un’occhiata corrucciata: non sarebbe morto. Sarebbe tornato da lei, ne era sicura. Doveva pensare unicamente a quello.
“Io vado, a dopo” la salutò Leon con un cenno del capo e un sorriso sbieco, prima di aprire la porta e uscire in tutta fretta.

Uscito dalla sala del trono la rabbia non accennava a diminuire: non voleva partire, non voleva lasciare Violetta. Aveva paura anche che in sua assenza potesse succedere qualcosa. Inaspettatamente non tornò subito nella sua stanza, ma deviò verso l’ingresso, scese uno ad uno gli scalini, trotterellando, tenendosi al corrimano. Non era la prima volta che si dirigeva nell’ala destinata alla servitù, ma ogni volta si sentiva sempre a disagio quando vi metteva piede. Aveva bisogno di parlare con Lena, voleva essere sicuro che lei vegliasse al posto suo: non si fidava di nessun altro a parte Humpty, con cui avrebbe parlato dopo la serva. Bussò nervosamente di fronte alla camera di Lena e Violetta ma non ottenne alcuna risposta. Fece una strana smorfia pensierosa: che cosa doveva fare? Le sue mani fremevano dall’agitazione, impaziente di poter tornare tra le braccia di Violetta. “Cercavi me?”. La voce acuta e anche piuttosto sorpresa di Lena gli fece fare automaticamente un sospiro di sollievo. Si voltò e avvertì tutto il suo stupore nel trovarlo lì, di fronte alla sua stanza.
“Devo parlarti” riuscì a dire poco dopo con voce metallica. I muscoli del corpo erano tesi e all’erta come un gatto pronto a spiccare un salto, ma rimase fermo a fissarla negli occhi scuri. Lena accennò un breve inchino e tornò a guardarlo con un sorriso sghembo: in fondo sapeva che cosa dovesse dirgli e mai quel principe le aveva fatto tanta tenerezza come in quel momento. Sembrava davvero sperduto, inghiottito da una perenne agitazione. E sebbene riuscisse a nascondere benissimo questa fragilità al suo occhio attento non sfuggiva nulla. Violetta era davvero riuscita in quella che sembrava un’impresa impossibile, aveva sciolto il suo cuore di ghiaccio, svelandone tutta l’essenza. “In mia assenza dovrai prenderti cura di Violetta, insieme ad Humpty. Dovete essere i miei occhi e le mie orecchie: se dovesse succedere qualcosa voglio che mi venga riferito da uno di voi due tramite una lettera”. Quello era il tono di chi non ammetteva repliche, che ben si addiceva ad un re. Forse Humpty aveva ragione quando le aveva detto più volte che Leon avrebbe potuto essere un buon re, anche se all’inizio non lo credeva possibile.
“Lo farò con piacere…sapete quanto tengo alla mia amica” rispose la giovane, riferendosi anche alla sua comprensibile reazione di quando li aveva scoperti insieme. Si era ritrovata ad appoggiarli quando avrebbe dovuto solo contrastarli. Ma lo sguardo di Leon si illuminava alla vista dell’amica, lo vedeva diverso, più sincero, più umano. Qualunque cosa avesse fatto, Violetta era stata una medicina per quel ragazzo e adesso si fidava completamente di Vargas.
Leon sorrise impercettibilmente e si passò una mano tra i capelli, scompigliandosi il ciuffo, incupito dai suoi stessi pensieri. “So che farete di tutto per proteggerla, ma Jade…Lei mi ha dato la sua parola. Io…non avevo scelta” mormorò sconclusionatamente.
“Di cosa state parlando?” chiese Lena curiosa: sapeva che Leon sarebbe partito per la guerra, ma non aveva idea di tutto quello che vi era dietro, dell’accordo stipulato dai due.
“Una volta tornato potrò…sposarla. Potrò sposare Violetta” spiegò con leggera enfasi il principe, alzando lo sguardo luminoso, pieno di speranze per il futuro: il futuro che voleva poteva davvero realizzarsi e non si sarebbe arreso per nulla al mondo. Lena scoppiò in una risata gioiosa non appena l’ebbe sentito pronunciare quelle parole e lo abbracciò in preda ad un eccesso di felicità. Subito si separò, ricomponendosi, rossa per l’imbarazzo e si affrettò a chinare il capo in segno di rispetto. “Ne sono felicissima!” esclamò vivacemente, ancora non del tutto ripresa dalla splendida notizia. Leon sorrise, altrettanto in imbarazzo, sistemandosi le pieghe dell’abito: “Anche io. Molto”. Non sapeva che altro aggiungere, davvero. “Non voglio che Violetta lo sappia, deve essere una sorpresa. Gli chiederò la mano quando sarò tornato” si raccomandò subito dopo, temendo la reputazione di Lena di una che non riesce a mantenere i segreti, neppure con tutta la buona volontà del mondo.
“La farai felice, lo so”. Non si aspettava certo tutto quell’entusiastico appoggio da parte di Lena, ma gliene fu profondamente grato, perché gli restituiva un po’ di coraggio. “Lo spero tanto”.

Un altro giorno era passato e anche quella mattina Violetta dormiva avvolta tra le coperte del letto di Leon. Aveva pianto molto quella notte e Leon, accogliendola in un confortante abbraccio le aveva asciugato ogni singola lacrima, a volte con il pollice a volte depositandogli dei dolci baci. Aveva cercato di rassicurarla in tutti i modi, avevano reclamato il loro possesso fisico nei confronti dell’altro, si erano amati come le notti precedenti, ma questa volta con un’amara consapevolezza: quella avrebbe potuto essere la loro ultima notte. Non voglio che tu te ne vada. Quante volte gli aveva ripetuto quelle parole, nella vana speranza che bastassero a farlo restare lì con lei. Solo con Leon riusciva a sentirsi al sicuro. Aprì gli occhi lucidi di dolore e angoscia ma il letto era vuoto: dove di solito dormiva Leon c’era solo un misero biglietto. Un biglietto di addio: perché Leon non l'aveva svegliata e non le aveva permesso di specchiarsi ancora una volta in quegli occhi verdi, nel suo sorriso? Avrebbe dovuto essere arrabbiata di aver perso quell'occasione, ma in realtà sentiva solo un fortissimo peso all'altezza del cuore. Afferrò avidamente il biglietto con le mani che tremavano. Stava per leggerlo, quando dietro di lei sentì una strana presenza.
“Violetta”. Quella voce. Si voltò di scatto e per poco non fece un salto per lo spavento. 










NOTA AUTORE: so che tutti voi soffrirete con me in questo capitolo. Leon alla fine è partito, e ha lasciato un biglietto...che leggeremo nel prossimo capitolo e- *si rannicchia in un angolo e piange* Se ne è andato ç.ç Ok, adesso sto calmo *si dispera* Okaaaaay, ci sono molte cosa da dire in questo capitolo, anche se non succedono tante cose sconvolgenti :3 Allora, Lara indirettamente è un personaggio che interagisce con un po' tutti, e lo scopriamo in questo capitolo. Prima di tutto vediamo l'astio/indifferenza che ha nei confronti di Thomas, e il suo intento di non soccombere del tutto al piano di Jackie: ci riuscirà? Lo vedremo :P Poi la troviamo a parlare con Diego, che si rifiuta di dirle ciò che sa (sempre che sappia qualcosa)...e scopriamo qualcos'altro del rapporto tra lui e Ludmilla, ma soprattutto del suo piano. Padrona di tutto...che si intende? Come può farcela con l'armatura? Scopriremo anche questo (non mi ammazzate xD). Fatto sta che l'armatura è molto più di ciò che sembra, anche Jade si chiede cosa se ne può mai fare di una spada, per quanto potente possa essere (abbiamo scoperto il potere della Spada di Cuori :3). E poi i miei Leonetta...do a tutti il permesso di piangere/sclerare. Perdonate se in questi capitoli ho parlato prevalentemente di loro, ma il fatto è che non li vedremo insieme per molti, TROPPI, capitoli, e quindi- dovevo rimediare adesso ç.ç Niente, chiudo qui, spero che il capitolo vi sia piaciuto, e alla prossima! :3 Buona lettura a tutti :P
syontai :3 

 

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Capitolo 50
*** Nuestro Camino ***


Capitolo 50
Nuestro Camino

Natalia camminava spedita verso il Pentagono; sul capo la corona si manteneva miracolosamente in equilibrio tra la folta capigliatura riccia. Era seguita da uno stuolo di guardie, comandanti e consiglieri. Chiudeva poi la fila un piccolo gruppo di maghi dalle lunghe tonache grigie. Erano passati solo pochi minuti dal terremoto che aveva completamente stravolto Fiordibianco, spaccando a metà la reggia di Fiori come se fosse fatta di creta. Le crepe infestavano ogni parete, ogni angolo del pavimento. Nulla si era salvato di fronte alla furia di quella potente magia. Le porte del Pentagono erano state sventrate e dentro giaceva per terra, seduta sulle ginocchia, Ana. Teneva lo sguardo basso, ma era visibile un ghigno folle. Un ghigno pericoloso. Nata però non badò minimamente alla stanza ridotta a una cripta in rovina, la sua attenzione era tutta per il piedistallo al centro, completamente vuoto. Non poteva essere successo. Non l’elmo. Si guardò intorno terrorizzata, nella vana speranza che il prezioso oggetto le rotolasse incontro, ma quel miracolo non avvenne. Ora come avrebbe fatto a ripagare il suo debito nei confronti di Ludmilla? Maledetto il giorno in cui aveva deciso di vendersi per conseguire i suoi scopi! La sua ingenuità e stupidità le stava costando la vita. Fece un cenno con la mano, pallida in viso, e due guardie si avvicinarono ad Ana, prendendola sotto le ascelle e cercando di rimetterla in piedi. La ragazza alzò il palmo della mano e i gli uomini vennero scaraventati a metri di distanza.
“Non ho bisogno di aiuto” biascicò Ana. Dopo aver scagliato quella magia le mani le sanguinavano, ma lei non era affatto sorpresa: aveva provato a lanciare un incantesimo maledetto e la sua anima ne era stata
 provata. “Sto bene”. Lentamente si mise in piedi barcollando mentre un ciuffo di capelli le copriva parte del viso e l’occhio destro.
“Come hai potuto lasciargli prendere l’elmo?” strillò la regina con voce stridula, ottenendo un’occhiata sanguinaria della suddita. La maga prese dei profondi respiri, quindi si avvicinò alla parete demolita che dava una visuale completa della città. Da lì aveva visto allontanarsi l’onda magica richiamata da Dj. Un sorriso freddo, privo di sentimenti, le animò il volto: non se lo sarebbe mai aspettata da quel patetico ragazzino. E pensare che si era sempre rivelato uno scansafatiche; da dove aveva tirato fuori tutta quella forza? Lei aveva impiegato anni e anni di studio per ottenere un livello simile. Un rivolo di sangue scuro le uscì dalla bocca e si affrettò a ripulirlo con la manica. Nata le ripeté la domanda, ma non ritenne necessario darle una risposta: quel disastro parlava per lei. “Ho bisogno di andare in biblioteca. E’ ancora in piedi?”. Nata rimase a bocca aperta a fissarla, poi annuì: “Fortunatamente si è salvata…l’ala est non è stata colpita dal terremoto come quella ovest”. “Ma ora non sei in grado di sostenere alcuno sforzo. Riposa” aggiunse un po’ timorosamente, ma la maga scosse la testa lentamente. “Vado. Devo. Vendicarmi” sibilò, mettendo un piede avanti all’altro per trascinarsi alla sua meta. Non riuscì nemmeno a mettere naso fuori dalla stanza che cadde a terra con un tonfo. Nata si affrettò a dare ordine che Ana venisse portata nella stanza e affidò le cure mediche ad uno dei maghi che l’avevano seguita, quindi si portò una mano sulla guancia pensierosa. Era fredda come il marmo.
I giorni passavano e le notizie non miglioravano: per ordine di Diego aveva mandato una truppa alla foresta di Oberon dove avrebbero dovuto ritrovare l’elmo. Non si chiese come mai il consigliere di Quadri sapesse dove si trovavano i ladri: avevano mezzi molto potenti e gliel’avevano dimostrato più di una volta. Sfortunatamente al suo cospetto erano tornati solo pochi superstiti per riferire che l’assalto non era andato secondo le aspettative e che con l’aiuto della notte e dell’intricata foresta i fuggitivi erano riusciti a far perdere le tracce. Ludmilla le aveva mandato un messaggero in cui esprimeva tutto il suo biasimo arrivando a minacciarla di muovere guerra contro di lei; sentiva che di lì a poco sarebbe scoppiata a piangere in mezzo ai consiglieri, ma fortunatamente per ora si limitava a sfogarsi al sicuro tra le quattro mura della sua stanza. Non doveva mostrare debolezza o i già precari equilibri dopo la cacciata di Francesca sarebbero stati messi a dura prova. Chissà se Ana aveva fatto progressi nella sua ricerca. Da quando si era ristabilita con la salute aveva passato intere giornate chiusa nella biblioteca del palazzo, senza metterci naso fuori; si faceva portare persino il cibo là dentro. Era curiosa di sapere a cosa stava lavorando, ma quando la andava a trovare veniva sempre tenuta all’oscuro. Adesso però aveva assolutamente bisogno di sapere cosa stesse architettando: ne andava del suo Regno. Raccolse quante più pieghe possibili dell’ampia gonna turchese e camminò velocemente, rinunciando persino alla scorta, che in quei tempi era diventata necessaria. Si fermò di fronte a una porta di cristallo scuro e osservò il suo riflesso evanescente: profonde occhiaie le solcavano gli occhi e il viso sembrava piuttosto smunto. Si guardò attentamente attorno spaventata: che anche la servitù si fosse resa conto del suo cambiamento? Già poteva sentire le voci circolare per Fiordibianco. ‘La regina è così strana: che stia nascondendo qualcosa?’. ‘L’avevo detto che non era adatta ad essere regina. Non è in grado di fronteggiare i tempi duri!’. Nel riflesso una lacrima accesa scivolò lungo la guancia fino a cadere sul pavimento. Eppure l’aveva desiderato così tanto! Fin da piccola aveva sognato di indossare la corona e spesso giocava con Francesca a fare le regine, senza ancora sapere che solo una di loro avrebbe potuto avere quel privilegio e che quel qualcuno non era lei. Francesca era discendente diretta dei precedenti sovrani e dopo Luca sarebbe stato il suo turno. Ricordava bene il giorno in cui aveva incontrato Ludmilla Ferro. Fu la sua salvezza e la sua maledizione insieme. Salvezza perché grazie a lei sarebbe uscita dal suo essere invisibile agli occhi di tutti, maledizione perché l’avrebbe tenuta stretta a lei grazie al ricatto. Se non le fosse stata fedele avrebbe fatto sapere a tutti che era stata lei a condurre alla morte i genitori di Francesca, con un veleno speciale che non lasciava alcuna traccia. Era stata lei a organizzare un’imboscata nei confronti di Luca, sebbene avesse rinunciato alla corona, per non avere altri ostacoli. E pazientemente, molto pazientemente, aveva fomentato il malcontento tipico di un Paese in guerra, aiutata poi militarmente dalle truppe di Quadri. Era stata lei a voler essere regina, ma solo adesso si stava rendendo conto che Ludmilla la voleva lì per suo interesse e il suo aiuto non era stata affatto disinteressato. Si trovava con le mani legate e non riusciva a tollerare quella sottomissione forzata. Le ci volle qualche secondo per sciogliere quel groppo in gola che le era venuto al pensiero e fece scorrere la mano lungo la maniglia lavorata in modo tale da sembrare la coda di un drago. Una volta dentro rimase inorridita di fronte alle librerie di legno per terra con i libri sparsi sul pavimento a causa delle scosse. Era passato del tempo ma i lavori procedevano a rilento: c’erano ancora tanti problemi da risolvere in città. Attenta a non calpestare nessuno di quei tomi preziosi si fece strada fino a raggiungere la parete opposta all’entrata, dove era stato aperto il passaggio segreto che conduceva in un piccolo studio. Scese i tre scalini uno ad uno e piegò la testa per non sbattere il capo contro una trave di legno. Ogni parete della piccola stanza era stracolma di libri e pergamene diligentemente ripiegate e sistemate secondo un ordine preciso. Al centro c’era una semplice scrittoio dove Ana era immersa in una lettura parecchio impegnativa a giudicare dall’espressione concentrata e accigliata.
“Ana” sussurrò Nata, avvicinandosi al tavolino. La maga alzò a malapena lo sguardo con un ghigno raccapricciante alla luce dell’unica fonte di luce della stanza, ossia una candela la cui fiamma tremolava. “Ana, la situazione è tragica…abbiamo perso l’elmo. Di nuovo”. La maga scrollò le spalle come se l’intera faccenda non le riguardasse e scorse con il dito la pagina ruvida e giallognola su cui prima si stava concentrando.
“Devi fare in modo che cerchino di raggiungere Quadri” sibilò Ana. Quadri? Che c’entrava adesso il Regno di Ludmilla? “Se hanno intenzione di prendere gli altri pezzi penso proprio che ci andranno…anche se non sono molto chiare le loro intenzioni” rispose perplessa, girandosi i pollici con fare ben poco regale.
Ana alzò lo sguardo e un lampo maligno attraversò i suoi occhi scuri. “Bene”.
“Che cosa hai in mente?”. Natalia fremeva dalla voglia di saperne di più ed era certa che era proprio a quello che stava lavorando ininterrottamente. “Diciamo un trappola” sorrise Ana diabolicamente.
“Di che sorta?” chiese la regina con un’agitazione crescente. La maga scosse la testa pensierosa e tornò immergersi nella sua lettura. La conversazione era finita lì.
 
“Camilla!” esclamò Violetta, cercando di coprirsi come meglio poteva di fronte alla faccia maliziosa dello Stregatto, steso ai piedi del letto, che sembrava alquanto divertito. “Non lo leggi?” chiese Camilla senza alcuna traccia di disagio indicando il biglietto che teneva stretto nella destra.
“Lo leggerò dopo, quando sarò da sola” rispose Violetta, diventando sempre più rossa e sottolineando l’ultima parola. “Cosa ci fai qui?” chiese poi con un tono di voce più alto di un’ottava. Camilla fece il suo enorme sorriso misterioso e cominciò a fluttuare a mezz’aria stiracchiandosi ed emettendo un vigoroso sbadiglio.
“Mi dispiace che Leon non sia più qui, ma come ben sai le cose dovevano andare in questo modo” sospirò senza però smorzare il suo sorriso. “Ora che Leon non è qui le cose si complicheranno parecchio, Violetta”. Un raggelante silenzio calò nella stanza dopo quell’affermazione. Violetta si sporse al lato del letto per raccogliere la vestaglia da notte con cui si era presentata nella stanza di Vargas la sera prima e la indossò frettolosamente: si sentiva fin troppo a disagio a cercare di coprirsi con le lenzuola mentre Camilla la guardava con apprensione.
“Tu sai come finirà questa storia, vero? Nessuno ti ha accennato del futuro che riguarda te e Leon?” domandò improvvisamente seria. Violetta scosse la testa sempre più confusa: ma di che stava parlando? Come poteva conoscere il futuro prima che si realizzasse?
“La storia si è abituata in fretta al tuo cambiamento…Violetta, tu salverai il Paese delle Meraviglie, ma ad un prezzo. Leon sarà inghiottito nell’odio, finirà per impazzire e anche tu verrai coinvolta in questa terribile spirale di devastazione”.
Violetta distolse lo sguardo sprezzante: non credeva ad una sola parola. Non le avrebbe mai creduto. Leon un tempo era stato un assassino crudele, un guerriero spietato, ma sapeva che era cambiato. Srotolò il foglietto sotto lo sguardo intenso di Camilla e riconobbe subito la scrittura di Leon.
‘Non ho mai avuto tanta paura di dire addio a qualcuno, come è successo stamattina con te. Non potevo guardarti negli occhi, altrimenti non avrei più lasciato questo castello. E invece devo farlo. Ricordati la nostra promessa, non infrangerla mai, ti prego. Io la porto scolpita nel cuore, spero che per te sia lo stesso. Non avere paura, non piangere. Non merito le tue lacrime di compassione, rimango pur sempre un mostro, nonostante tutto.
Tuo, sempre.
Leon Vargas’
E così ancora si considerava indegno del suo amore. Un mostro. Calcò quella parola con l’indice con l’intenzione di cancellarla dalla sua mente.
“Cosa dice?” sussurrò Camilla, atterrando dolcemente di fronte a lei, con le gambe incrociate. “Leon non è un mostro…è stato costretto a comportarsi come se lo fosse” ribatté Violetta, ignorando la precedente domanda.
“Capisco”. Lo Stregatto sospirò e per la prima volta un velo di tristezza gli oscurò i grandi occhi espressivi. “Ma non potrai fermare il destino che è stato scritto per voi. O forse si, chi lo sa”. Lentamente la figura cominciò a svanire, circondata da un alone opaco.
“Non andare! Devi spiegarti…che cosa intendi dire?”. Violetta allungò il braccio ma non avvertì la consistenza morbida del pelo dell’animale, bensì un vento alito gelido gli intirizzì le dita, facendole ritrarre la mano spaventata.
“Assicurati solo di avere sempre il regalo di Beto con te…è importante”. Camilla le rivolse un sorriso incoraggiante, ma nulla poteva spegnere i terribili presentimenti che aveva su Leon. Di colpo le venne in mente il terribile sogno in cui loro due erano su una radura e Leon le moriva tra le braccia. Era stato solo un incubo. Se lo ripeteva continuamente mentre si stendeva nuovamente . Appoggiò la testa sul cuscino, osservando il lato del letto dove solitamente riposava il principe e per un attimo le sembrò di scorgere il suo sorriso timido. Non poteva sopportarlo; avrebbe voluto abbracciarlo un’ultima volta, imprimere nella mente il profumo della sua pelle, accarezzargli il viso mentre la guardava con un misto di dolcezza e stupore. Una lacrima le sfuggì al controllo. Non erano una lacrima di compassione, era una lacrima di dolore. Subito seguì un singhiozzo che preannunciava il pianto e non riuscì più trattenersi.
Una volta tornata nella sua stanza, Lena le aveva fatto tante domande, ma lei non aveva trovato la forza per rispondere a nessuna di esse.
“Leon è partito all’alba” disse poi, tirando su la coperta del suo letto. “Ha avuto paura di dirti addio”. Violetta non rispose, cercando di concentrarsi su quello che stava facendo. Si sistemò la tenuta da lavoro; mai come in quel momento aveva desiderato immergersi nei lavori giornalieri. Aprì il cassetto e osservò intensamente la scatolina di legno che le aveva consegnato Beto durante la sua ultima visita. Perché Camilla voleva che tenesse sempre il fungo a suo portata? Con una certa riluttanza prese lo strano regalo e lo infilò nella capiente tasca della gonna grigia. Ancora una volta ebbe uno strano presentimento, che però allontanò a forza. Quel giorno avrebbe dovuto occuparsi della biblioteca e la cosa le metteva addosso un certo buonumore: era tanto che non entrava in quel posto e gli era mancato scambiare due chiacchiere con il saggio Humpty quindi si avviò a passo allegro fino all’enorme portone di quercia che aprì con cura. A passo felpato si introdusse nell’ambiente, ricercando con lo sguardo il custode dei libri, senza però scorgerlo. Si avvicinò a uno scaffale, incantata dal riflesso restituito da uno degli specchi posto tra i libri. Alice diceva sempre che tutti noi siamo come dei libri che attendono solo di essere scritti fino alla fine. Di nuovo quello strano presentimento. Assorta nei propri pensieri solo dopo intravide lo sguardo paterno e affettuoso di Humpty sulla superficie liscia dello specchio. Si morse il labbro nervosamente e si affrettò a voltarsi così da guardare direttamente negli occhi limpidi e quasi trasparenti l’uomo-uovo. Lo raggiunse con una lentezza quasi studiata e si inginocchiò di fronte a lui, in modo tale che i loro visi fossero alla stessa altezza, poi si slanciò tra le sue braccia, stringendolo forte.
“Andrà tutto bene…se prima Leon vendeva cara la pelle, ora che ha un motivo per combattere sarà indistruttibile” ridacchiò mestamente Humpty, separandosi dall’abbraccio e accarezzandogli la guancia con dolcezza. “Humpty, sono così confusa! Stamattina quando mi sono svegliata ero in compagnia dello Stregatto” spiegò rapidamente, per poi lanciarsi in un racconto dettagliato, riferendo parola per parola. Il bibliotecario annuiva di tanto in tanto, ma per lo più ascoltava attentamente. Quando Violetta ebbe finito di parlare aveva le guance rosse ed un leggero fiatone.
“Non posso credere che Leon tornerà quello di un tempo. Anzi, se le previsioni di Camilla sono esatte, la situazione sarà anche peggiore. Ma cosa potrebbe spingerlo a tanto odio?”. Violetta non distolse lo sguardo neppure un secondo e lo seguì passo dopo passo nella biblioteca; Humpty camminava e pensava, camminava e pensava, e a volte finiva per esprimere i suoi pensieri a voce più alta del normale. Erano finiti in un vecchio reparto di libri, era abbastanza evidente dall’enorme quantità di polvere che rivestiva non solo i tomi, ma anche gli scaffali. Quanto tempo era che nessuno puliva quella zona remota della biblioteca? Humpty non aveva mai fatto richiesta di addentrarsi fino a lì, e lei semplicemente si era limitata ad eseguire gli ordini, sebbene a volte le fosse venuto l’irrefernabile desiderio di curiosare in giro.
“Il fatto è che se Camilla ha detto qualcosa del genere l’ha fatto a ragione. Lo Stregatto è molto saggio e sa muoversi bene tra le primordiali colonne che reggono il nostro mondo. Che si sia riferita a qualche profezia? Potrebbe essere...ma allora perché ritiene che tu possa evitare quel destino?”. Humpty si era avvicinato ad uno scaffale e in punta di piedi aveva afferrato un tomo, il quale per poco non gli sarebbe caduto in testa riducendolo ad un uovo strapazzato. Violetta si affrettò ad aiutarlo e fu allora che notò una cosa strana. Per quanto la biblioteca fosse grande tutti gli scaffali erano stati doverosamente riempiti di libri e non vi era alcun buco. A volte qualcuno prevelava dei libri, per lo più i consiglieri di Jade o la famiglia reale, ma essi venivano rimessi al loro posto nel giro di pochi mesi. In quell’ala della biblioteca c’era uno spazio vuoto, uno spazio che non era più stato riempito. Si trovava alla destra del posto dove prima stava il libro che aveva preso Humpty, ma era talmente sottile da sembrare una fenditura, per di più esistente da parecchio vista la consistente quantità di polvere che si sollevava anche solo respirandovi vicino. Allungò la mano nel buco stretto e buio, senza che il bibliotecario se ne accorgesse, e trovò un pezzo di pergamena: era deteriorata e dava l’impressione che con uno strattone si sarebbe disgregata nell’aria. Su un lato era scritto un nome con una calligrafia elegante, ma alcuni tratti di inchiostro si erano scoloriti. Chissà da quanto tempo si trovava lì! Comincilò a cerare di decifrare la scritta, e subito distinse una grosso e voluminosa ‘C’ all’inizio. La seconda lettera era completamente illegibile, mentre la terza e la quarta erano inequivocabilmente due ‘r’. Che si trattasse di un carro? L’idea non la convinceva affatto: non poteva trattarsi di una parola che indicasse un oggetto comune. La lettera dopo era una ‘o’. Avrebbe voluto continuare a decifrare, ma Humpty era tornato all’angolo di lettura e la chiamava a gran voce, evidentemente preoccupato. Ripiegò accuratamente il foglietto e lo mise in tasca sperando con tutto il cuore che si conservasse.
 
Ludmilla guardava attentamente i bagagli che venivano caricati. Non ne poteva più di quel luogo orribile ed era contenta di potersene andare. Storse il naso al pensiero che sarebbe dovuta recarsi al Palazzo di Fiori per controllare di persona le mosse di Natalia, quindi prese a sventolare il piccolo ventaglio con più vigore. Era passata una settimana dalla partenza di Leon e nonostante i tentativi di affrettare la conclusione del patto, Jade si era mostrata fin troppo irremovibile. Per di più l’elmo era misteriosamente scomparso e la spada da sola con lo scudo sarebbe stata inutile. Adesso il suo nuovo obiettivo era diventato rintracciare quella banda di furfanti e mettere le mani su ciò che le spettava di diritto. Diego la affiancò mentre controllava che i servi di Cuori facessero il loro dovere.
“E’ stato un soggiorno interessante” sogghignò con aria attenta. Si voltò verso Ludmilla portandosi una mano sotto il mento pensieroso. “E’ stata una perdita di tempo!” sbottò in tutta risposta la regina, guardandosi intorno con disgusto.
“Non del tutto...quella Violetta ha qualcosa di interessante. Di diverso. E’ solo un’impressione, ma...ad esempio, come faceva a conoscere il mio nome prima ancora che mi presentassi?”.
“Nulla di così eccezionale, in fondo sei conosciuto! A me quella Violetta sembra solamente un’arrampicatrice sociale. E’ chiaro che vuole Leon solo per indossare la corona”.
“In fondo anche tu però vuoi il principe per interesse” disse a voce bassa il consigliere, facendola rimanere sbalordita: da quando in qua difendeva quella serva? La cosa stava iniziando a infastidirla più del dovuto e già stava progettando di prolungare il suo soggiorno e trovare il modo per versare una buona dose di veleno nel bicchiere di Violetta. Prese un respiro profondo per allontanare quella reazione impulsiva...freddezza, aveva bisogno di freddezza e distacco.
“Ringrazia quel po’ di considerazione che ho nei tuoi confronti, Dominguez, perché questi affronti non li tollero” sibilò scocciata, voltandosi di scatto verso la carrozza. Ad un cenno del cocchiere Diego si mise alla sua destra e le porse il braccio con fare galante. Ludmilla, con assoluta indifferenza, lo afferrò e si lasciò condurre fino alla carrozza. Proprio in quel momento poco vicino dalla parte opposta alla loro passava un gruppetto di ragazzi, tutti e tre dai capelli scurissimi, che si guardava attorno con aria spaurita. Erano scortati dalla guardie che si trovavano di solito all’ingresso, i quali li punzecchiavano di tanto in tanto con le punte delle lance. Non si preoccupò molto di quei tre, anche se gli sembravano vagamente familiari, quindi salì sulla carrozza e diede l’ordine di partire. Con uno scalpitare sostenuto i cavalli si mossero fino al portone che si aprì ad un segnale convenuto dal cocchiere.
“Pensate sia stata una buona idea presentarsi così, senza nemmeno camuffarsi?” sussurrò Maxi a Dj e Andres, mentre squadrava una delle guardie dall’aspetto tutt’altro che cordiale. Il loro piano era piuttosto semplice: infiltrarsi come dei semplici viandanti in cerca di riparo e protezione. In fondo il villaggio successivo distava intere giornate e non c’erano osterie lungo il cammino, per cui la menzogna poteva risultare perfino credibile. “Se stessero circolando delle informazioni sul nostro conto? Se sapessero come siamo fatti?”. Maxi sembrava terribilmente agitato, un po’ per il rischio che stavano correndo, un po’ perché c’era la vaga possibilità che di lì a poco avrebbe incontrato la ragazza dei suoi sogni. “Maxi, mi stai facendo salire il nervoso! Mamma mia, datti una calmata!” rispose Dj cercando di non dare nell’occhio. Era stata una mossa rischiosa la loro, ma...che altre possibilità avevano? Non aveva abbastanza forza per reggere un camuffamento per tutti e tre abbastanza a lungo, soprattutto perché sarebbe stato meglio conservare le energie per spezzare le barriere che proteggevano la spada di Cuori. Inoltre era abbastanza certo che Nata non avrebbe mai fatto diffondere la notizia del furto dell’elmo, perché sarebbe stato uno smacco per tutto il regno, dando così un forte segno di instabilità. Già la voce che era circolata del disastro naturale che si era abbattutto su Fiordibianco aveva dato adito a parecchie voci, tutte poco rassicuranti per la regina di Fiori. Oltre a questo, non restava loro che sperare in un bel colpo di fortuna, perchè la certezza assoluta delle sue considerazione non l’aveva. Sorrise nervosamente a una sentinella, che osservò con parecchio disgusto i suoi vestiti strappati e logori. Sempre meglio che gironzolare con una bara di cristallo che ti fluttuava a qualche metro di distanza. Federico e Emma erano rimasti al limitare della foresta vicina, rimanendo a custodire il corpo apparentemente privo di vita di Francesca, protetta da una bara magica rinforzata con un incantesimo dell’invisibilità identico a quello usato all’interno del palazzo di Fiori usato per proteggere Libi e Andres. Ovviamente aveva fatto in modo che lui e i suoi compagni ne fossero immuni.
“Ma ci stiamo praticamente avventurando nella tana del lupo, per di più senza elmo!”. Si beccò una gomitata in pieno di stomaco da parte di Andres. “Se continui a blaterare ci fai scoprire sicuro, Maxi” bisbigliò il capo, entrando nel salone principale.
“Sicuri di voler ancora un’udienza con la regina? Non credo vi convenga” esclamò il capo delle guardie guardandoli con un ghigno divertito. Fissò poi la spada nella custodia che aveva Maxi e tornò di colpo seria. “Quella non deve andare oltre...consegnatela”. Con parecchia stizza il ragazzo consegnò l’arma e si guardò intorno spaesato. Quel castello era magnifico e raccapricciante allo stesso tempo. Era come se la luce venisse inghiottita dalle mura restituendo una perenne penombra. Non avrebbe voluto vivere in un posto così angusto neppure per tutto l’oro del mondo. I tre si lasciarono guidare fino a raggiungere la sala del trono, quindi vennero scortati al suo interno. La regina Jade inctureva timore alla sola vista e Maxi sentì le gambe farsi molli. Andres gli lanciò un’occhiata di incoraggiamento, ma le mani continuavano a tremare. Però intorno a lui non c’era nessun paio di occhi verdi che lo scrutavano. Impallidì: e se Leon li avesse visti? Di certo avrebbe riconosciuto Andres, se non perfino lui. Come potevano non aver pensato a un dettaglio così importante? Avrebbe voluto dirlo ad Andres, ma si sentiva circondato da orecchie indiscrete e fu costretto a tenersi tutto dentro. Jade li guardava come solo una sovrana sapeva fare, dall’alto in basso, con un’evidente punta di disprezzo. “Popolani” sbottò come se fosse stata interrotta nel bel mezzo di un gioco che amava.
“Mia signora, sono dei viandanti provenienti dal Regno di Fiori, chiedono gentilmente ospitalità per una notte” spiegò una delle guardie più anziane, che sebbene fosse coperto dall’armatura era evidente stesse tremando per paura della reazione della donna.
“Non mi interessa, li voglio fuori dal mio castello” sentenziò la donna agitando la mano per farli portare via. Le guardie già stavano per spingerli fuori dalla sala, quando Dj tentò un ultimo disperato approccio. Osservò per un secondo il volto stanco e affaticato della regina e notò delle profonde occhiaie scure...che fosse vittima dell’insonnia? Eppure la donna emanava come delle vibrazioni, le stesse delle magia. Un sortilegio! Jade era vittima di un sortilegio: non poteva metterci la mano sul fuoco, perché non si era mai trovato di fronte ai sintomi di una maledizione perenne, ma ne era abbastanza certo. E quella era proprio la carta giusta da giocarsi.
“Io sono un medico, uno dei più richiesti!” esclamò, sperando che Jade cascasse nel tranello. La donna infatti sbiancò e le sue labbra si serrarono in uno smorfia inorridita. La sicurezza della regina svanì di colpo mostrando una donna insicura e attanagliata da qualche male. Frettolosamente ordinò alle guardie di fermarsi. “Loro sono i miei assistenti...mi stavo dirigendo a Cuori su richiesta di Ludmilla Ferro” inventò di sana pianta. “Ludmilla non era diretta a Fiori?” lo interrogò la regina, non del tutto convinta.
Dannazione, pensò Dj. “Ehm...no, infatti non mi reco lì per la regina! Bensì per un suo stretto confidente, colpito da una maledizione! Sono specializzato nella cura di morbi procurati dalla magia”. Jade si sporse sempre di più dal suo trono assottigliando lo sguardo e Dj si sentì piccolo e indifeso. “Dimostralo”. Il silenzio calò nella sala di fronte alla richiesta della donna. Maxi osservava la scena terrorizzato, mentre Andres riusciva a sembrare come sempre impassibile, come se fosse uno spettatore esterno. Il mago non aveva intenzione di ricorrere alla magia, a che sarebbe servito? Le maledizioni non possono essere curate con un incantesimo, per di più un uomo dotato di poteri era sempre una ghiotta preda per persone assetate di potere come Jade. “Ad esempio, mia signora, voi siete affetta da una malattia. Lo dimostrano chiaramente le vostre occhiaie, le pupille dilatate e il colorito pallido. Per di più non credo si tratti di una malattia comune, perché deduco dai sintomi che va avanti da un bel po’. Siete stata sicuramente maledetta, e io penso di poter trovare una cura che faccia al caso vostro”. Jade lo ascoltava attentamente, ma non rispose subito. Si rivolse quindi verso un paggio alla sua sinistra, ritto e immobile come un palo. Aveva gli occhi piccoli e scuri e una folta capigliatura castana tenuta in ordine, insieme a tutto il completo elegante che indossava. “Mostrategli gli alloggi...Ma il medico rimane qui, noi due dobbiamo parlare” ordinò con tono eccessivamente pacato per la sua natura. La verità è che temeva si trattasse di un altro ciarlatano, tutte promesse e niente fatti. In fondo però tentare non le costava nulla.
“Siete senza attrezzatura” notò acidamente. Dj sorrise imbarazzato: “La verità è che Ludmilla mi aveva promesso che...”. Non fece nemmeno in tempo a finire la frase che la regina alzò la mano rivolgendogli contro il palmo con il tono di chi non accettava ulteriori chiacchiere. “Rimarrete qui finché non lo deciderò io. Vi pagherò tre volte tanto e non accetto un rifiuto, e potrete disporre di tutto ciò che troverete al castello...se vi dovesse servire qualcosa ne farete espressa richiesta a me. Ci penserò io a mandare una corriera al Palazzo di Quadri per metterli al corrente della situazione, ci vorranno pochi giorni”. Andres lanciò un’occhiata eloquente: avevano a disposizione poco tempo per poter rubare la spada, ma quello era pur sempre meglio del loro piano originario. Anzi, non poteva definirsi neppure un piano. Vennero congedati tutti tranne il mago che rimase a parlare con la regina, probabilmente del modo in cui avrebbe dovuto operare.
Non appena uscito dalla sala del trono Maxi si paralizzò alla vista della ragazza dei suoi sogni, Violetta. Era uscita da una stanza vicina con una ragazza non troppo alta, probabilmente una sua amica. Incrociò gli occhi castani di Violetta e gli sembrò di avvertire una scarica di pura adrenalina lungo tutto il corpo. D’un tratto non aveva più paura di quel posto orribile, solo la presenza della ragazza lo faceva completamente estraniare da tutto, persino dalla sua missione. Fece qualche passo in avanti, ma le guardie intercettarono la direzione piazzandosi davanti. “Ehi, tu, devi seguirci” sbottò una di esse, facendo voltare impercettibilmente il paggio che li stava guidando. Una volta raggiunta la scalinata Violetta e l’altra ragazza si diressero nella sala d’ingresso mentre loro proseguirono dritto verso l’ala del palazzo riservata agli alloggi reali e degli ospiti.
“Strano che non abbiate incontrato la regina Ferro...fino a poco tempo fa è stata qui a castello”.
“Una vera sfortuna” mormorò a denti stretti Andres, continuando a studiare l’aria sperduta e trasognata dell’amico. “Ehi, va tutto bene?” gli chiese quando fu sicuro di non essere sentito. “L’ho vista, Andres. Non credevo sarebbe mai successo! Penso di essermi innamorato” spiegò Maxi senza giri di parole, tornando a quel breve incontro. Anche Violetta l’aveva visto e aveva assunto un’espressione indecifrabile. Sembrava sconcertata dalla sua presenza. Che anche lei l’avesse sognato? Era il destino a volerli insieme, ne era convinto. E lui avrebbe favorito questa bella spinta data dalla sorte, portandola via con sè una volta fuggiti. Aveva promesso che l’avrebbe liberata dalle grinfie di Leon, e così sarebbe stato. “Attento, amico. Non perdere di vista il motivo per cui siamo qui” si raccomandò Andres serio. Vedere Maxi così innamorato da una parte gli faceva piacere dall’altra gli dava una fastidiosa morsa allo stomaco, perchè anche lui era stato innamorato. Eppure si era lasciato scivolare quell’amore tra le dita, preferendo mascherarlo con l’indifferenza, o tutt’al più con una buona e solida amicizia. Ma ogni giorno che passava ripensava all’addio che si era dato con Libi, e si chiedeva cosa sarebbe cambiato se avesse lasciato cadere le sue difese mostrandogli i suoi effettivi sentimenti. Forse nulla, forse tutto. Provava un fortissimo rimorso e niente gli impediva di credere che avesse fatto un grande errore. Ma non poteva essere così egoista da pensare solo a se stesso quando il destino di un mondo intero era nelle mani sue e della sua missione. Serdna sicuramente sarebbe stato dalla sua parte, avrebbe appoggiato la sua decisione. O no? Gli mancava qualcuno con cui confidarsi. Maxi era un amico a cui teneva molto ma non capiva determinate situazioni, per lui era sempre tutto estremamente semplice. Per Dj era tutto uno scherzo. Federico lo conosceva da troppo poco tempo per esporsi in confidenze private. Non riusciva più a tenersi tutto dentro e sentì un forte bisogno di piangere. Ecco cosa gli mancavano, le lacrime. Doveva piangere, doveva liberarsi. Quando gli venne mostrata la stanza che avrebbe condiviso con gli altri due amici desiderò solo una cosa: stendersi sul letto e pensare.
 
Violetta stringeva al petto la lettera che gli era arrivata quel giorno. Leon era giunto finalmente al fronte in cui era stato richiesto il suo intervento, e stava bene. Da quando la missiva era arrivata quella mattina la portava sempre in tasca e appena aveva un momento libero la rileggeva. In quelle parole scritte con l’inchiostro si percepiva l’amore, la speranza, e anche il dolore nel dover stare separati. Leon aveva condiviso una parte della sua anima, mettendola nero su bianco, e lei la custodiva gelosamente. Aveva preso una terribile decisione: una volta tornato avrebbe detto a Leon la verità, sul fatto che lei non fosse di quel mondo e insieme avrebbero preso una decisione. Lena continuava a dirgli che al ritorno avrebbe avuto una bellissima sorpresa, ma subito dopo si rifiutava di dire qualcosa di più, con un sorriso eloquente stampato in faccia.
‘Cara Violetta,
qui le cose vanno bene. Vorrei aggiornarti sulla situazione qui al fronte, ma sarebbe davvero sgradevole da parte mia sprecare questo poco inchiostro a mia disposizione solo per procurarti dolore. Non scherzavo quando mi sono ripromesso che non avrei mai più permesso che tu soffrissi, men che meno per causa mia. La prima notte già ho sentito la tua assenza...allungavo le braccia sperando di poterti stringere a me, e invece incontravo solo l’aria. Fredda e invisibile aria. Senza di te mi sento indifeso ed era tanto tempo che non mi sentivo così, tu sai bene a cosa mi riferisco. Avrei voluto avere una tua immagine da portare con me, ma in fondo a me basta ricordare il tuo sorriso per dimenticare tutti gli affanni.
Voglio guardarti.
Voglio sognarti,
e vivere con te ogni momento.
Voglio abbracciarti.
Voglio baciarti.
Ti voglio accanto a me,
perché quello che sento è amore.
Sei tutto per me.
Leon’
“Violetta?”. Lena interruppe la rievocazione della splendida lettera, che stava provocando di nuovo in lei un misto di emozione e turbamento. Sembrava quasi una lettera d’addio, ma lei sapeva che Leon non sarebbe morto. Ne era sicura.
“Non è strano quel ragazzo che si è fermato a fissarti?” chiese con noncuranza, aprendo la porta della loro camera. Violetta annuì, riportando la sua mente a quello strano incontro, anche se la voce dolce a vellutata di Leon che le leggeva quella lettera prendeva sempre il sopravvento nella sua mente. In effetti quel tipo le era davvero familiare e subito si ricordò: quel ragazzo era apparso nel suo sogno quando lei aveva saputo del matrimonio di Leon e Ludmilla, dicendole che non valeva la pena di lottare per il principe. La dava uno strano senso di inquietudine la sua presenza lì al castello. “Chissà che ci fa con quel suo amico così affascinante. Quello con la cicatrice intendo” si lanciò Lena, che fortunatamente si era abbastanza ripresa dalla partenza di Diego per cui si aveva avutouna colossale sbandata. Lena usciì subito dopo per andare a prendere una brocca d’acqua e Violetta ne approfittò per tirare fuori dal cassetto il foglietto trovato giorni fa...lì vicino c’era un foglio con cui aveva fatto diverse prove, ma nessuna delle parole che aveva trovato la convinceva pienamente. Quasi senza più alcuna speranza si mise a scrivere delle lettere a caso...Carro. Di nuovo carro. Eppure era certa di distinguere due lettere quasi uguali subito dopo. Carross. Carrott. No, non le dicevano nulla. La mano si mosse da sola disegnando una l. E poi un’altra. Rimase basita di fronte al suo stesso lavoro.
Carroll.













NOTA AUTORE: Eccomi! Chiedo perdono se non ho potuto aggiornare, ma- mi si era rotto il computer :/ Per di più con quello nuovo non riuscivo a scaricare word, è stata una messa impresa (ora ce l'ho fatta, alleluia!). Chiedo perdono anche per non aver risposto alle ultime recensioni, appena ho tempo proverò a farlo, fatto sta che le ho lette e ovviamente le ho adorate; ho comunque preferito dare la priorità all'aggiornamento rispetto alle risposte perché non era corretto farvi aspettare oltre :P Detto, questo, come sempre vi ringrazio per seguire questa storia, vi ringrazio per le vostre parole sempre cariche di affetto, che mi spronano ad andare avanti, vi ringrazi- dovrei parlare del capitolo? Mhhh, in realtà parla molto da solo...Ana sta preparando una brutta sorpresa per i nostri rivoluzionari, e viene fuori la storia di Nata. Ecco perché è alla mercè di Ludmilla! D: Poooi, Maxi è arrivato a palazzo e si è preso una sbandata per Violetta (non che non l'avesse già prima ma- niente, ci rinuncio con quel ragazzo), mentre Andres ripensa a Libi (ç.ç). Poooi, viene fuori un nuovo indizio per il nostro rompicapo: CARROLL! Spero che sappiate tutti chi è, altrimenti vi prendo a pizze (?). Per chi non lo sapesse è l'autore di 'Alice nel Paese delle Meraviglie' e ovviamente il suo nome è li perché- *si interrompe la connessione* Avete capito insomma, no? :P (Ali mi ammazzerà un giorno, io lo so xD). FHUGHGUH4G, LO SAPETE CHE MI FANNO SCLERARE ANCHE SE NON CI SONO I MIEI LEONETTA? La lettera! *^* Riconoscete la parte finale? Ebbene si, è una strofa di Nuestro Camino tradotta *^* Mi piaceva troppo l'idea e suonava bene con il contesto, e quindi eccola lì xD Spero solo che il capitolo vi piaccia, e- e niente, cominciano tempi duri :( Alla prossima! E buona lettura! 
syontai :3
P.S: per chi se lo stesse chiedendo...si, ci stiamo avvicinando al finale, potete esultare xD Visto che io scrivo capitolo per capitolo non so obiettivamente quanto manca, conto di finire in una decina (?) di capitoli. Non voglio sparare cavolate, quindi non prendetelo troppo per vero xD 




 
 
 
 

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Capitolo 51
*** Intreccio ***


Capitolo 51
Intreccio

Violetta si sentì incredibilmente stupida: come aveva fatto a non pensarci? Lo Stregatto, Il Cappellaio Matto, Alice...ecco perché le era tutto così familiare. Lei quella storia la conosceva già! Da piccola aveva letto più volte Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo Specchio. Tutto si riconduceva a quel fantastico mondo che improvvisamente aveva preso le sembianze di una scacchiera in balia del caos completo. Spazio e Tempo nella storia di Attraverso lo Specchio non esistevano o erano deformati in modo inverosimile: un passo poteva corrispondere a chilometri, un secondo poteva passare in un anno. Nella confusione totale però ricordava che nel finale Alice avesse riportato l’ordine...questo si andava a ricollegare con la storia che le aveva raccontato Humpty. Ripiegò il vecchio foglietto dentro quello più recente dove aveva scritto ‘Carroll’ e lo ripose in tasca insieme alla scatolina con il fungo. Ancora si chiedeva a cosa mai potesse servirgli, ma lo Stregatto era stato chiaro: portare il regalo di Beto sempre con sè. Sebbene pensasse che Camilla fosse pazza aveva deciso di seguire il suo consiglio.
Lena tornò nella stanza in un batter d’occhio con un vassoio di metallo, una brocca d’acqua di vetro e due bicchieri. “So perché hai quello sguardo” disse sospirando, mentre poggiava con cautela il vassoio sul comodino che divideva i loro letti. Violetta si riscosse solo allora di tutti quei dubbi e domande che aspettavano impazientemente di trovare una risposta e cercò di non mostrare il suo turbamento. Lena era stata una buona amica, sempre. Anche quando aveva scoperto di Leon e aveva fatto intendere che avrebbe raccontato tutto alla regina, in qualche modo le era venuta incontro, dandole tempo sufficiente per farle cambiare idea. Il legame che le univa era forte, avevano vissuto parecchie avventure insieme e avevano imparato a spalleggiarsi e ad aiutarsi l’un l’altra. Quando le aveva raccontato del piano di Thomas e lei aveva espresso il suo disappunto non l’aveva comunque mai costretta a rimanere con lei, e aveva apprezzato tantissimo quel gesto altruista. A proposito del Bianconiglio...quel ragazzo era sempre più strano! Quando lo incrociava nelle sue abituali mansioni non le rivolgeva nemmeno un saluto ma la superava con lo sguardo basso come se non esistesse. Da Humpty aveva appreso che Thomas era venuto a conoscenza della sua relazione con Leon ed era evidente che non l’avesse presa troppo bene. L’unica cosa che le aveva saputo dire l’uomo-uovo era stata: “Dagli solo il tempo di accettarlo”. I suoi sospetti riguardo all’amicizia del moro che però puntava ad essere qualcosa di più divennero quindi fondati. Eppure aveva provato in tanti modi a fargli capire che tra loro due non poteva esserci nulla! Lena continuava a fissarla e si aspettava una replica, che stava tardando. “Perché?” chiese Violetta, guardandola negli occhi. La tranquillità che le trasmetteva il colore degli occhi di Lena era inspiegabile. Una calmante naturale per l’anima. Lena era una ragazza vivace, eppure su di lei aveva un effetto di quiete, stabilità. Quando la sera si raccontavano ciò che accadeva durante il giorno era come liberarsi di tutte le paure e si sentiva di nuovo a casa. Ma non era a casa, e quel pensiero le faceva venire un groppo in gola. Lei non voleva lasciare Leon. Non voleva. Non poteva.
“Leon tornerà sano e salvo, ne sono certa, ma non angustiarti, Violetta! Fa male a te e anche a me nel vederti in questo stato” esclamò Lena con voce pacata ma allo stesso tempo preoccupata. Aveva notato che in quei giorni mangiava meno del solito, che faceva gli incubi la notte e si svegliava urlando. Gli incubi la tormentavano ogni notte, e ognuno di essi finiva con Leon infilzato da una spada. Il carnefice rimaneva nell’ombra, di questo si vedeva solo la mano e un sorriso mesto che emergeva dall’oscurità. In quell’istante si svegliava e tastandosi il viso si rendeva conto di aver pianto durante il sonno. Aveva paura di quelle visioni perché le sembravano troppo realistiche.
“Hai ragione”. Non se la sentiva di parlarle dei suoi brutti presentimenti, in fin dei conti non si trattava della realtà. L’ultima volta che aveva visto Leon ferito in un sogno però era stato portato in fin di vita al castello. Rabbrividì. Non sarebbe successo di nuovo. Senza nemmeno cambiarsi d’abito per la notte si lasciò cadere sul materasso, mentre Lena, pensando di aver fatto un buon lavoro, si apprestava ad andare a dormire.
Fissava di continuo quelle mani strette mentre girava in tondo su un prato verdeggiante e apparentemente infinito. Quel paio di occhi che le erano di fronte sorridenti rispecchiavano lo stesso colore e anzi sembravano anche più accesi. Giravano e ridevano proprio come due bambini, facendo completo affidamento sulla salda stretta dell’altro. D’un tratto Leon interruppe il gioco, fermandosi e dandole un strattone; rapidamente le mise un braccio intorno alla vita, attirandola a sè. Violetta si ancorò alle sue spalle, rapita dal suo sguardo di fuoco. “Insieme supereremo tutto” sussurrò il principe, addentandole con delicatezza il labbro inferiore per poi coinvolgerla in un bacio appassionato. Chiuse gli occhi, travolta da un turbine caotico di emozioni. “Insieme” pronunciò la stessa parola, ma il tono era diverso, la voce era diversa. Aprì gli occhi e sussultò mentre un ragazzo dagli occhi scuri, di statura più bassa, la abbracciava con altrettanta dolcezza. Quello era il ragazzo del castello.  Tentò di divincolarsi e riuscì infine a sfuggire alla stretta; Maxi chinò appena il capo di lato, assorto. “Cosa c’è che non va, Violetta? Noi ci amiamo!”. Fece un passo avanti e Violetta arretrò di due, inorridita. Che fine aveva fatto Leon?
“I-io...”. La figura davanti a lei tremolava, assumendo a volte le sembianze di Leon, a volte quella del ragazzo dai capelli ricci e gli occhi scuri. Sembrava un’ologramma impazzito: si alzava a abbassava aumentando sempre più la frequenza dello scambio di persona.
“Non ne vale la pena” diceva Maxi. “Non dimenticarmi” esclamava Leon. Una litania insopportabile. Cosa aspettava a svegliarsi? Lei voleva fuggire da quello che era diventato ancora una volta un incubo, più terribile degli altri.
“AIUTO!”. Si svegliò di soprassalto, guardandosi intorno terrorizzata. Il cuore le batteva ancora fortissimo per lo spavento, e nel buio riusciva ancora a scorgere il volto di Leon trasformarsi in quello del ragazzo visto al castello e viceversa. Si mise seduta e portò le gambe attorno alle braccia, sinoghiozzando. Aveva bisogno di Leon in quel preciso momento. Aveva bisogno dei suoi abbracci a volte un po’ goffi, ma sempre sinceri, delle sue parole affettuose, del suo comportamento da bambino spensierato che le faceva dimenticare tutti i problemi, del suo desiderio di proteggerla.
“Tutto bene?” chiese Lena, che si era svegliata per il suo urlo ed era accorsa al suo letto. Violetta teneva ancora affondata la testa tra le gambe e si limitò ad annuire impercettibilmente. La compagna di stanza le accarezzò piano il capo, sperando che così potesse calmarsi, mentre la rassicurava a bassa voce.
 
“Domani devo parlarci” sentenziò con decisione Maxi, mettendosi sotto le coperte, mentre Andres si stava sciacquando il viso con una bacinella posta su un tavolo di legno. “No, non devi” rispose l’altro, afferrando un asciugamano bianco e strofinandolo forte all’altezza prima degli occhi e poi della bocca.
“Ma...devo capire che cosa ci lega!”. “Non vi lega un bel niente, Maxi...inoltre siamo nel bel mezzo di una missione, e non voglio che tu possa mandare tutto all’aria solo perché ti sei invaghito di un bel faccino. Fine della discussione” ordinò Andres. Maxi scattò in piedi, innervosito: perché il suo amico continuava a non capire che Violetta per lui era importante? Faceva di tutto per non vedere che tra di loro c’era un legame intenso, indistruttibile; perfino i sogni lo avevano dimostrato. Da quando Libi se ne era andata il loro capo era diventato insopportabile.
“Bel faccino? E che ne vuoi sapere tu! Pensa piuttosto al fatto che hai lasciato andare via Libi! Sei un vigliacco”. Maxi aveva sfogato tutto il suo risentimento nei confronti di Andres e del suo comportamento. Addirittura non voleva nemmeno che si nominasse il nome della ragazza e se veniva fatto diventava scuro in volto e si rintanava in un angolo lontano da tutti. Maxi si voltò soddisfatto, credendo di essere così riuscito ad azzittire l’amico, ma Andres con uno scatto repentino lo fece girare e lo afferrò per il colletto della maglia, facendolo finire in punta di piedi.
“Non sono affari tuoi” ringhiò furioso il ragazzo, scuotendolo per poi dargli uno spintone. Maxi però non si arrese e rispose alla spinta con un’altra ancora più aggressiva. Dj, che fino a quel momento era rimasto in un angolo della stanza a pensare, li guardò con indignazione, cercando poi di fare da intermediario. Si mise tra i due allibito e allungò le braccia per tenerli lontani.
“State buoni tutti e due! Avete entrambi la vostra parte di ragione” li fulminò con lo sguardo il mago, ma i due sembravano non volerlo ascoltare troppo intenti a squadrarsi e a preparare un attacco. “Non fatemi ricorrere a metodi brutali e comportatevi da persone civili!”. Maxi non lo ascoltò minimamente e cercò di oltrepassarlo con uno scatto, mentre un ringhiante Andres lo attendeva con i pugni tesi. Dj sibilò qualcosa a bassa voce a una fune invisibile legò i piedi e le mani di Maxi, che finì a terra come un salame con un tonfo.
“Ben ti sta!” rise di gusto Andres, piegato in due e con le lacrime agli occhi, mentre lo additava. Dj schiccò le dita della mano sinistra e la bacinella con cui prima si era sciacquato il viso gli riversò addosso tutto il suo contenuto. “Ma cosa...” sputacchiò Andres dopo essersi fatto quella doccia fuori programma.
“Dovete smetterla di litigare! La verità è che qui sto facendo tutto io, sembra che sia l’unico che sa che siamo in bilico...un passo falso e siamo tutti fregati. E per quanto i vostri discorsi possano essere interessanti potete tenerveli per quando saremo fuori da qui, magari con la spada di Cuori. Capito?”. Maxi cercò di rimettersi in piedi, ma con scarsi risultati e finì per rimanere seduto con aria scocciata. “In fondo a te che ti importa di quello che facciamo? Sei qui solo per il Pactio e la spada”.
Dj sbuffò: certo che erano proprio due teste dure. “Si, sono qui contro la mia volontà e non vedo l’ora che tutto questo finisca per avere la spada, che ora non è nemmeno in nostro possesso. Ma non mi dare del mercenario, perché a differenza vostra sono l’unico che qui sta pensando seriamente a come prendere quella spada...e fidati che sforzarsi al massimo delle proprie capacità non rientra nel Pactio”. Andres aveva perso il coraggio di rispondere, perché il mago aveva maledettamente ragione. Da quando Libi se ne era andata aveva perso i contatti con il resto del gruppo e non si era reso conto di tutto quel malcontento. Dj invece aveva pensato a tutti, aveva risolto il problema del Mana, aveva fatto in modo che venissero ospitati al castello e stava cercando di capire dove si nascondesse la spada. Si sedette sul bordo del letto matrimoniale che avrebbe dovuto condividere con l'amico, passandosi una mano tra i capelli bagnati. Il mago nel frattempo aveva sciolto l'incantesimo che teneva Maxi intrappolato per terra, e il ragazzo si passò le mani sui polsi massaggiandoli.
Andres sospirò, combattuto interiormente, quindi si decise a risolvere la questione: “Dj ha ragione...dobbiamo collaborare e smetterla di farci la guerra per queste sciocchezze. Su una cosa però non transigo: non voglio che ti avvicini a quella ragazza, Maxi. Non conosciamo le sue intenzioni, non sappiamo se sia una spia della regina, o semplicemente una serva. Magari qualche mago ha fatto in modo che te ne invaghisca o che provi qualcosa di fronte quando la vedi. Non possiamo rischiare nulla, lo capisci questo?”.
Maxi annuì senza dire nulla: non aveva intenzione di ascoltarlo; lui sapeva che Violetta era prigioniera del principe Vargas, ma rivelarlo avrebbe voluto dire spiegare perché aveva deciso di utilizzare così tante volte l’elmo. E sapeva bene che era anche a causa di quello che l’oggetto l’ultima volta gli aveva dato indicazioni sbagliate. Soffiò una ad una le fiamme di un candelabro d’argento a otto bracci, intenzionato a porre così fine alla discussione. “Adesso però ho sonno, sarà meglio andare a dormire” disse, mettendosi sotto le coperte e assaporando il morbido materasso...quanto tempo era che non dormiva in un vero letto! Dj sbadigliò e si rannicchiò nel piccolo letto che si trovava sulla destra, addossato alla parete. Era contento di essere riuscito a risolvere quel diverbio, perché già dalla mattina successiva avrebbero dovuto iniziare le ricerche senza però destare sospetti. Se la spada era protetta da una qualche magia era certo che l’avrebbe localizzata. Mentre Andres già cominciava a ronfare di gusto, alla luce della luna si chiese se mai avrebbe rivisto suo padre. Al Palazzo di Fiori non l’aveva incontrato e non ne aveva avuto più notizia...che fosse morto? Prima di scivolare in un sonno profondo però era sicuro di sentire Maxi parlare tra sè e sè mentre dormiva. “Lei...è mia. Violetta è mia”.
 
Dj fissava la libreria davanti a sé con insistenza. Era certo che dietro ci fosse una passaggio perchè emanava una grande concentrazione di energia provenire dal muro. E a meno che non avesse preso un enorme abbaglio non c’erano altre possibilità: la spada si trovava lì. Ma come si apriva quel passaggio? Tentò di estrarre a caso alcuni volumi, ma poi li rimetteva al loro posto deluso.
“Cosa ci fate qui?”. Una voce melodiosa lo fece saltare sul posto e per poco non gli venne un infarto. Quando si voltò incontrò lo sguardo di una ragazza molto bella: sembrava una principessa nelle vesti da serva. I capelli castani lucenti, il colorito pallido ma non cadaverico. Non sapeva spiegarselo, ma provava una sorta di timorosa reverenza nei suoi confronti. Si grattò il capo, cercando una scusa adeguata e per fortuna non gli ci volle molto: “Sono qui per prendere alcuni libri che mi potrebbero essere utili...sono il nuovo medico di corte che ha avuto il compito di occuparsi della salute a rischio di vostra maestà”.
Violetta lo squadrò ancora qualche minuto, quindi si rilassò e si sciolse in un sorriso amichevole. “Il mio nome è Violetta...qualunque cose le dovesse servire può chiedere a me” si presentò con un inchino appena accennato. Dj ricambiò il saluto, facendo uno svolazzante inchino e tornò a guardarla negli occhi imbarazzato: Maxi aveva ragione, era proprio una creatura incantevole. Non che ne fosse innamorato, ma doveva ammettere che quella ragazza aveva un fascino particolare, un qualcosa di ammaliante. Si ricordò poi del racconto di Andres nella grotta: Violetta. Era lei la predestinata a salvare il Paese delle Meraviglie, eppure sembrava una semplice ragazza innocente. Possibile che la apparenze ingannassero così tanto e dietro si celasse un’abile guerriera?
 “Vi ringrazio per la cortesia, ma io e i miei colleghi cercheremo di essere il meno possibile di fastidio durante la nostra permanenza”.
“Non sapevo che la salute di Jade fosse a rischio” osservò Violetta, facendosi sempre più interessata. Era vero che German le aveva sempre insegnato a non gioire delle disgrazie altrui, ma era altrettanto vero che la regina stava facendo di tutto per allontanarla da Leon e non dimenticava il modo in cui aveva cercatto di renderle la vita impossibile. L’immagine di un giovane ragazzo dagli occhi verdi e spenti chiuso dietro le sbarre gli attraversò la mente e l’odio crebbe ancora di più. Non aveva mai desiderato la morte di qualcuno in quel modo; doveva vergognarsene? Forse si, ma non ci riusciva.
“Nulla che non si possa risolvere” esclamò Dj, spegnendo così il suo entusiasmo. “CHE CI FATE QUI?!”. I due si voltarono all’unisono e si trovarono di fronte il Bianconiglio, pallido e tremante, che guardava prima loro, poi la libreria, e poi di nuovo loro.
“Siamo nella biblioteca, Thomas” rispose con semplicità Violetta, ancora scossa da quell’urlo che le aveva fatto accapponare la pelle. “Dovete stare lontani da qui! Non è sicuro!”. Thomas era bianchissimo e le orecchie vibravano per la paura.
Il mago rimase a fissarlo, ed era come se avvertisse in quel ragazzo la stessa energia che aveva sentito prima. Ma non era possibile, come poteva la magia risiedere in quel coniglio? O ragazzo, insomma, non contava. Tolse frettolosamente il disturbo ma invece di andarsene si nascose in un angolo, sperando di carpire qualche frammento di conversazione interessante.
“Thomas, ma si può sapere che ti prende? Smettila di essere così agitato e guardami!”. Violetta continuava a scuotere uno scioccato Thomas, i cui occhi azzurri erano come paralizzati, sospesi in una qualche dimensione fuori dal tempo. “Nessuno deve venire qui...mancano solo due notti. Due maledette notti. Non voglio tornarci, capisci? Ogni volta è un incubo e mi sembra di perdere il controllo, di morire e rinascere. Provo tanto dolore” vaneggiò il Bianconiglio, accasciandosi a terra perso.
“Va tutto bene...Va tutto bene”. Violetta si inginocchiò di fronte a lui, accarezzandogli con dolcezza la guancia. “Non va bene affatto!” Thomas le scostò la mano di colpo, infuriandosi. “Non mi avevi detto che non avevi intenzione di venire via con me. Non mi avevi detto di Leon” spiegò, alzandosi in piedi e fissandola con amarezza.
“Voglio spiegarti”.
“Ma non c’è nulla da spiegare, hai saputo solo prendermi in giro! Io ho conservato il tuo segreto, non ne ho mai parlato con nessuno e tu invece non facevi altro che ridere alle mia spalle!” strillò il Bianconiglio e senza lasciarle il tempo di replicare corse via alla velocità della luce, lasciando Violetta in preda a mille rimorsi. Thomas aveva ragione, aveva sbagliato a comportarsi in quel modo, facendogli credere di essere d’accordo con il suo piano fino all’ultimo. Ma le cose erano cambiate in modo talmente improvviso! Con il morale a terra più del solito, si diresse fuori dalla biblioteca nella speranza di non doverci pensare più.
“Un segreto, eh...” sussurrò Dj, piuttosto interessato da quella conversazione ascoltata. Sbucò fuori dal suo nascondiglio, tornando a meditare sulle parole di Thomas. Leon Vargas anche c’entrava in quella storia, chi l’avrebbe mai detto. E poi c’era la questione delle due fonti di magia identiche, una proveniente da dietro la biblioteca, l’altra proveniente dal corpo del Bianconiglio. Era piuttosto confuso da tutte quelle informazioni frammentarie ed aveva bisogno di tempo per pensare. Ma solo dopo aver visitato Jade; non ci teneva ad arrivare in ritardo al cospetto della temibile regina di Cuori. 
 
A Nord del castello di Cuori si estendeva la cittadina di Sterdings, un piccolo crocevia per i mercanti e dove si poteva trovare veramente di tutto. Se eri alla ricerca di qualunque cosa, dal cibo al vestiario, Sterdings era la città che ti avrebbero consigliato. Con la guerra ovviamente aveva subito degli arresti, ma riusciva comunque a mantenere la sua buona nomea. Come tutte le città che si rispettavano non mancavano i truffatori e i ciarlatani che si approfittavano della buona fede dei viandanti per vendergli ogni tipo di carabattola, spacciandola per chissà quale oggetto di valore. Jackie si aggirava per le sue vie con un cestino di vimini coperto da una tovaglietta rossa a scacchi blu e bianca. Si guardava in giro con aria annoiata, procedendo a passo svelto. Odiava dover mettere piede a Sterdings ma quello era l’unico modo per procurarsi ciò di cui aveva bisogno. Aveva lasciato Lara, che si era offerta di accompagnarla, con le altre serve alle prese con le spese per il castello e si era confusa tra la folla in modo tale da far perdere le tracce. In pochi minuti avrebbe sistemato la faccenda. Si guardò intorno guardinga, quindi svoltò rapidamente a destra, in un vicolo stretto, appiattendosi ad una delle pareti sporche e sudicie. Attese qualche secondo di non aver attirato l’attenzione di nessuno quindi riprese a camminare con tranquillità, stando attenta a non strusciare con il vestito. Gli edifici erano bassi e malridotti, costruiti in pietra, con delle piccole finestrelle dai vetri rotti. Si aveva la costante impressione di essere osservati, ma Jackie era ormai talmente abituata da non farci caso. Il vicolo si interrompeva con un muro scuro e pericolante, ma alla sua sinistra c’era una porticina spessa con una piccola feritoia all’altezza degli occhi. Bussò due volte, e un paio di occhi grigi comparve dal nulla dietro la feritoia.
“Parola d’ordine?” gracchiò la voca di un uomo anziano. Jackie drizzò la schiena, stizzita. Giustamente, anche se ormai tutti la conoscevano lì dentro, volevano assicurarsi che non si trattasse di qualcuno che aveva preso le sue sembianze. Capiva perfettamente tutte quelle misure di sicurezze, per quanto fossero fastidiose. “Nercorvo”. Non ci fu nessuna risposta, solo il rumore di tanti catenacci che cadevano per terra. La porta si aprì mostrando un vecchio con i capelli grigi disordinati e il colore degli occhi identico. Un grigio ferro, sembrava quasi metallo fuso. Si reggeva in piedi grazie ad un bastone ritorto la cui testa mostrava due serpenti intrecciati che cercavano di azzannarsi.
“Jackie, è un piacere vederti, cara...sono arrivati dei denti di girasole freschissimi, ma vedi tu stessa” ghignò il vecchietto. La stanza era sommariamente addobbata e tutti i mobili erano coperti di polvere, segno che non venivano mai utilizzati. Il proprietario si diresse con passo traballante verso la parete di fronte all’ingresso e scostò un dipinto che raffigurava un’idra intenta a divorare la sua preda, la quale tentava invano di fuggire terrorizzata. Un cunicolo buio si celava dietro il quadro e l’anziano fece cenno alla donna di andare avanti. Jackie avanzò senza timore e dopo qualche passo nell’oscurità più completa finì dentro un’enorme stanza piena di banchetti di negozianti bizzarri. In realtà anche la merce era fuori dal comune: barattoli con occhi tutti uguali in salamoia che schizzavano da una parte all’altra, animali strani chiuse dentro delle gabbie, come delle salamandre rosso fuoco che emenavano un alito glaciale, o draghi con due teste che litigavano tra di loro; c'erano anche lunghe e spesse corde che si annodavano in aria formando un cappio. Una signora grassa e panciuta fermava i visitatori mostrando loro fiale sottili con ogni genere di intruglio. “Amore, confusione, oblio...ho filtri di tutti i tipi. Ogni pezzo viene solo novanta monete d’oro!”. Jackie strabuzzò gli occhi: che razza di prezzi! Nonostante ciò rimase in silenzio e proseguì dritta: le risse per commenti malevoli scoppiavano molto frequentemente al Mercato Nero della Palude. Si fermò di fronte a un piccolo banchetto piuttosto scarno, con solo delle erbe rinsecchite; dietro di esso un uomo avvolto in un mantello nero ronfava beatamente su uno sgabello, facendo schioccare la lingua sul palato.
“Gregorio” lo chiamò con freddezza. Non ottenendo nessuna risposta, prese a strattonarlo con insistenza, finché l’uomo non fu costretto a saltare in piedi, con gli occhi anccora chiusi per il sonno. “Ci sono, ci sono!”. Si girò intorno spaesato e per poco non rischiò di incaìiampare nel suo stesso mantello scuro, facendo tintinnare alcune bottiglie polverose di idromele che giacevano a terra. “Bene, sono qui per il solito”. L’uomo assottigliò lo sguardo pigro e borbottando qualcosa di incomprensibile sparì dietro una tenda color muschio. Tornò con un ciuffo di radici nere strette nel pugno dalle foglie di un verde spento. “Eccoti la tua Mandragola introvabile, dritta dritta dalla tana di un’idra...non sai che faticaccia è stata trovarla. Come minimo pretendo dieci monete d’oro per questo lavoretto. Se poi consideriamo che è anche merce di contrabbando...”.
Jackie alzò un sopracciglio tirando fuori dalla tasca un borsellino di pelle con un laccio di stoffa bianca. “Dieci monete? Pensavo fossimo rimasti d’accordo con sei. Ricordati che solo io ti compro questa merce, tra parentesi piuttosto scottante” sogghignò la donna, facendo tintinnare le monete dentro il contenitore.
“Sei monete? Pretendi che io rimanga qui a fare la fame?” sbottò Gregorio, assumendo un’espressione cattiva. “Sono il tuo unico fornitore e pretendo che il prezzo si alzi”.
“Facciamo sette”
“Otto”.
Jackie ci pensò un po’ quindi si arrese all’evidenza: aveva bisogno di quelle radici per preparare l’infuso da somministrare a Jade. La maledizione di cui era vittima si indeboliva se non le veniva somminstrato periodicamente quell’infuso. Gli consegnò le otto monete d’oro pattuite con riluttanza e mise il suo acquisto nel cestino. “Perfetto. Grazie mille, Gregorio, alla prossima”. L’uomo grugnì in tutta risposta e tornò ad appisolarsi infilando il denaro guadagnato nella testa e sognando un’interminabile scorta di idromele in arrivo.
Jackie uscì con circospezione e si mescolò in mezzo alla folla, abbassandosi inizialmente un cappuccio per non essere subito riconosciuta. Quando si fu allontanata abbastanza se lo tolse e si sistemò con un gesto rapido ed esperto i capelli, raccogliendoli da una parte. “Jackie!”. Lara le venne incontro con la solita aria spaesata di quando si ritrovava a girare per le vie di Sterdings. Ogni volta le parlava del suo timore di perdersi in quella che definiva una bolgia infernale. “Non ce la faccio più! Ho preso le uova come mi avevi chiesto, ma non sono riuscita a trovare le altre cose della lista...dove eri finita?”.
“Ero in giro” rispose evasivamente e strinse più forte l’impugnatura del cestino.
Lara annuì e si lanciò in un racconto arricchito di particolari inventati sulle sue avventure in quella città. “Sono mancata solo per qualche minuto!” la zittì poi, dirigendosi innervosita insieme alle altre. Lara iniziò a fissare insistentemente il cestino che portava. Qualcosa le diceva che il suo contenuto era molto interessante ed era giunto il momento di farle capire che lei non era la schiava di nessuno e che se voleva continuare ad avere la sua collaborazione avrebbe dovuto metterla al corrente del piano. Anche se il suo obiettivo era riavere Leon non le stava bene che venisse tenuta all’oscuro di tutto; si fidava di Jackie solo fino ad un certo punto, sapeva che era una donna subdola e infida, l’aveva dimostrato con i suoi continui tentativi di far allontanare Violetta dal castello. Era ora di farle capire chi aveva il coltello dalla parte del manico.
La carrozza arrivò al Palazzo di Cuori in mezza giornata e come sempre alcune cuoche anziane della compagnia avevano passato il tragitto lamentandosi delle continue buche incontrate per strada che sentivano tutte sulla schiena. Quando furono finalmente nel cortile interno Jackie sembrò particolarmente contenta di potersi ritirare nella propria camera, lontana da occhiate indiscrete e da chiacchiere insopportabili. Con estrema soddisfazione si immerse nel silenzio della stanza e poggiò il cestino sul comodino, poi da sotto il letto tirò fuori un piccolo recipiente con un pestello e una fiala. Tolse con cura la tovaglietta e il suo ghigno perfido si trasformò in una smorfia di terrore e rabbia nel vedere che al posto delle radici di Mandragola c’erano delle semplici e comunissime uova.
 
Violetta si era fermata di fronte al Labirinto di cui una volta era stata prigioniera e sorrise spontanemente sfiorando i petali vellutati di una delle rose rosse poste all’ingresso. Carroll. Quel cognome le ronzava in testa in continuazione. Cosa c’entrava il famoso scrittore inglese con quel mondo impazzito? Si ricordò di quando aveva chiesto al Ghiro qualche informazione su Alice e di come Beto avesse impedito che l’animale rispondesse alle sue domande. Il Cappellaio sembrava a conoscenza di molte cose eppure aveva deciso di non dirle nulla; non era il solo a comportarsi in modo strano comunque, perché lo Stregatto era forse il personaggio più assurdo e controverso che le fosse mai capitato di incontrare.
“Non si pensa mai a voce alta male delle persone!” esclamò qualcuno alla sua sinistra. Camilla per la prima volta non galleggiava in aria, ma poggiava i piedi saldamente per terra, e aveva ancora una volta il suo misterioso sorriso a trentadue denti.
“Buonasera Camilla” rispose educatamente, ignorando la sua uscita assolutamente priva di senso. Che adesso fosse in grado anche di leggere nel pensiero? La ragazza dai capelli rossi non disse nulla, ma si mise a braccetto della ragazza, mentre la coda si agitava pigramente come un serpente, arrivando perfino ad accarezzarle il mento. Le due iniziarono a camminare dirette verso il laghetto artificiale.
“Cosa pensi di questa storia, Violetta? E di questo mondo?” domandò Camilla all’improvviso. Che domanda buffa! Come mai le stava chiedendo le sue impressioni proprio quel giorno quando avrebbe potuto farlo tanto tempo fa?
“Non saprei dirlo...sembra quasi di essere in uno spettacolo teatrale. E’ tutto anormale, artificioso. Stavo pensando che potrebbe esserci un collegamento con Alice e Carroll”. Lo Stregatto si fermò e la guardò con aria soddisfatta. “Allora forse non sei tanto meno intelligente di Alice. Esatto, Violetta, Carroll è la chiave che va usata per aprire le porte dei segreti di questo mondo. Carroll è quello che potrebbe definirsi il creatore...ma forse è ancora presto per te vederlo sotto queste vesti. Non so se sei pronta per accettare la realtà. Nessuno di noi lo era”.
“Ti riferisci a Beto?”.
Camilla annuì. “La pazzia sembrava essere l’unica strada possibile per evitare di cadere vittime di questo mondo crudele e del suo destino. Nessuno ci ha creduto, nessuno ha prestato fede alle nostre parole e abbracciare la follia è stata la nostra salvezza. Abbiamo svuotato il cervello di tutto ciò che è razionale, dando ai pensieri un nuovo significato. Nulla accade per caso, purtroppo...Alice è stata la nostra guida, ci ha messo al corrente del pericolo e ci ha dato la possibilità di scegliere”.
Le siepi si interruppero bruscamente mostrando la superficie liscia e verdastra dello stagno. Un tiepido ricordo le si affacciò alla mente: lei e Leon stesi sull’erba che dicevano finalmente addio alle incomprensioni e si dimostravano il loro amore. Stare lì da sola, senza il principe, le metteva un senso di disagio e sconforto. “Hai già parlato della possibilità di scegliere se non sbaglio. Ne parli spesso”. Lo Stregatto accentuò ancora di più il suo inquietante sorriso.
“Osserva il tuo riflesso e dimmi cosa vedi” aggiunse in tono solenne. Violetta si affacciò, seguita da Camilla che le teneva le spalle. Un viso smunto e affaticato resistuiva la sua occhiata perplessa. “Non ti ricorda nulla?” le sussurrò all’orecchio. Violetta aggrottò la fronte, prendendosi qualche minuto per pensarci, ma poi le venne in mente dove aveva provato già quello strano presentimento: di fronte agli specchi della biblioteca. Le parole di Alice unite a quelle dello Stregatto sembravano volerla condurre passo passo verso una verità assoluta, qualcosa che secondo Camilla avrebbe cambiato drasticamente il suo modo di vedere le cose, non necessariamente in meglio. Dei cerchi concentrici a poca distanza dal suo riflesso fecero tremolare la superficie e una ninfa spinta dalla corrente ruppe l’incanto, trasformando l’immagine in un ammasso di colori.
“Violetta, non ti sei mai chiesta perché noi continuiamo a guidarti con le nostre parole, per quanto strane ti possano sembrare? Vogliamo che tu capisca tutto, ma non possiamo essere noi a dirtelo, perché non ci crederesti. Le vere idee geniali non sono mai frutto delle menti di altri. Capire è credere”. La voce di Camilla sembrava sempre più lontana, eppure sentiva ancora la stretta sulle spalle. Ebbe un improvviso senso di vertigini e spossatezza; per un secondo credette che sarebbe caduta in un quella pozza di cui non si riusciva a distinguere il fondo. La superficie era il mondo delle Meraviglie, il fondo era la sua essenza. Ma quello che succedeva nel fondo si ripercuoteva sulle superficie.
“Violetta...”. La ragazza si voltò di scatto, non riconoscendo più la voce di Camilla; al suo posto c’era il ragazzo che aveva incontrato il giorno prima in corridoio. Lo stesso del sogno. Aveva paura di lui, temeva che potesse mettersi in mezzo tra lei e Leon, sebbene non avesse fatto ancora nulla. “Non avere paura, mi chiamo Maxi” si presentò il giovane con un leggero imbarazzo. Tese la mano, che rimase a mezz’aria di fronte a una diffidente Violetta. La abbassò dopo qualche minuto: a quanto pare non era intenzionata a fare la sua conoscenza. “Non ti ho seguito!” si affrettò ad aggiungere, temendo che lei pensasse che volesse molestarla. In realtà l’aveva seguita davvero non appena aveva messo piede fuori dal giardino, ma come avrebbe potuto motivarlo?
“Sarà meglio che vada” mormorò Violetta con freddezza, cercando di tornare sui suoi passi, ma Maxi si mise in mezzo impedendole l’accesso al sentiero con le siepi. “Preferirei che noi parlassimo”.
“E di che dovremmo parlare? Non vi conosco nemmeno” sorrise nervosamente Violetta, sostenendo lo sguardo determinato di Maxi. Quel ragazzo non avrebbe ceduto per nulla al mondo, neppure se si fosse messa ad urlare, idea che per un attimo le era passata per la testa. Ma avrebbe anche rischiato per essere presa per pazza, in fondo non la stava nemmeno sfiorando.
“Lo so che può sembrarti assurdo...ma io ti conosco. Ti ho sognato”. Violetta impalldì di colpo e il mondo prese a vorticarle intorno con una velocità spaventosa. Aveva bisogno di reggersi a qualcosa per non crollare a terra. I suoi sogni...possibile che quel ragazzo avesse provato lo stesso? Che cosa stava a significare? “Stai bene? Dalla tua faccia sembra che abbia visto un fantasma” si preoccupò Maxi, prendendole con gentilezza il braccio, mettendolo intorno al suo collo e portandola al padiglione. Aprì il cancelletto con l’altra mano e Violetta si stupì di come quella volta nessuna voce l’avesse dissuasa dall’andare in quel posto. Che fosse giunto il momento? Si, si rispose. Qualcosa le diceva che era venuto il suo momento. Ma sotto quel padiglione nulla era più lo stesso. Quel posto era suo e di Leon, e vedeva Maxi come un fastidioso intruso. Il ‘Ti amo’ di Leon sussurrato in piena notte risuonava ancora tra quelle colonne ed era una melodia affascinante, meravigliosa. Si allontanò da Maxi che ancora le faceva da supporto e tornò a guardarsi intorno, come nella speranza che Leon sbucasse fuori dal nulla e le dicesse che la partenza era stata tutto uno scherzo.
“Lui non è qui, è partito. Me l’hanno riferito durante la colazione” disse a denti stretti Maxi, con un cipiglio severo. Leon. Quel nome per lui era una condanna: il pallore sul viso di Violetta era sicuramente dovuto alla paura che provava nei confronti del principe e vederla così spaesata gli fece venire il forte desiderio di abbracciarla. Questa volta avrebbe potuto farlo, e non sarebbe stata una carezza persa nel vuoto, sarebbe stato un abbraccio vero, sincero. Si avvicinò con quelle intenzioni, ma Violetta fece un passo indietro, terrorizzata. Non le piaceva quello che stava succedendo, non le andava giù quel momento così intimo e riservato tra loro due, che si erano conosciuti solo attraverso dei sogni, per di più sgradevoli, almeno nel suo caso.
“Preferirei non parlarne”. Cercò di sfuggirgli ancora una volta, ma Maxi fu più veloce: le afferrò il braccio e la attirò a sè. Notò che erano alti quasi uguali, e quei pochi centimetri di differenza erano dati unicamente dai ciuffi ricci dei capelli.
“Qui non sei al sicuro” sussurrò deciso, guardandola intensamente. Gli occhi di Maxi erano scuri e indecifrabili: non rusciva a leggervi le emozioni, come invece era in grado di fare con quelli verdi e sinceri di Leon. Leon era una libro, che una volta aperto, era riuscita comprendere, mentre quel ragazzo per lei rimaneva un mistero, un sogno che aveva preso concretezza. Aveva ragione: non era al sicuro. Ma solo perché Leon non era lì con lei. Deglutì quando sentì il dorso ruvido della mano di Maxi sfiorarle la guancia, quasi avesse paura di sciuparla. “Devo veramente andare”. Gli prese la mano e la allontanò con uno strano senso di tristezza nel leggere l’espressione sconsolata e confusa del ragazzo. Fuggì via nascondendosi il viso con il braccio e lasciandolo lì. Le lacrime scendevano ininterrotte. Troppi ricordi, troppi momenti dolci, troppe paure. E ormai ogni emozione, ogni pensiero era completamente incatenato ad un ragazzo dagli occhi verdi. “Leon, ho bisogno di te”.











NOTA AUTORE: Partiamo dal fatto che mi sento un verme a non aver avuto il tempo per rispondere alle vostre bellissime recensioni, ma credetemi se vi dico che in questa settimana non ho avuto nemmeno il tempo di respirare (non toglie il fatto che mi sento estremamente in colpa). Spero di poter rispondere alle vostre prossime recensioni (se ce ne saranno)...e continuo a rinnovarvi le mie scuse. Le ho lette tutte le recensioni, e come sempre vi ringrazio di cuore per continuare a seguire questa foll- questa storia volevo dire xD Non posso nemmeno fermarmi a commentare, pensate come sto messo ç.ç Grazie a tutti voi che continuate a seguirmi, spero che la storia vi continui a piacere, e alla prossima! Buona lettura (si fa per dire, il capitolo è scritto in modo orribile ed è pure noioso, e Maxi rompe :/). 
syontai :D 

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Capitolo 52
*** Tentativo fallito ***


Capitolo 52
Tentativo fallito

Jackie non sapeva nemmeno più dove stava andando, tanto era animata dalla rabbia. Il suo unico obiettivo era trovare Lara e farsi restituire le mandragole. C’era poco da scherzare con quella merce...Liquidò in fretta ogni richiesta da parte della servitù e si ritrovò a cercare in ogni angolo delle cucine, delle stanze, si azzardò perfino ad affacciarsi alla sala del trono, ben sapendo che la probabilità di trovarla lì era notevolmente bassa. Dopo innumerevoli ricerche la trovò in giardino, sul lato nord-est del castello, appena sopra il campo di allenamento, seduta su una panchina di pietra, all’ombra di un ciliegio circondato da cespugli di rose bianche. Aveva gli occhi socchiusi e si godeva l’ombra e la frescura dell’albero, forse ignara del fatto che lei si fosse già accorta dello sporco trucco. Incespicò in mezzo all’erba del prato, che necessitava di una ricca potatura e si trovò faccia a faccia con Lara, che ancora non si era resa conto della sua presenza. Una piccola fontana frusciava alla sinistra della panchina: un putto rannicchiato, con le braccia che tenevano strette le ginocchia al grembo e le ali raccolte, dalla cui bocca aperta usciva un rivolo di acqua. Tutto intorno si susseguivano sentieri di ciottoli che si intersecavano disordinatamente, senza un vero e proprio disegno geometrico, interrompendosi solo di fronte alle imponenti mura, parecchi chilometri più in là. Strinse forte il pestello che nascondeva dietro la schiena, reprimendo la forte tentazione di usarlo come arma per porre fine alla vita di quell’impicciona. Ma dando una rapida occhiata era chiaro che le mandragole non erano lì con lei e ne aveva bisogno. Inoltre non poteva rischiare che avesse dato disposizioni affinché venisse riferito tutto a Jade in caso le fosse successo qualcosa.
“Lara”. Subito richiamò le attenzioni della serva, che sollevò il capo gongolante e mostrò un sorriso rilassato. Sapeva di avere in pugno la sua alleata, la situazione si era ribaltata a suo favore. “Penso tu abbia qualcosa che mi appartenga” continuò con indifferenza Jackie con le labbra livide e ridotte a una linea sottile e gli occhi ardenti d’ira. Lara si alzò, sempre con un irritante sorrisetto, e si avvicinò alla fontana, per poi aggirarla agilmente e appoggiarsi con i gomiti sul bordo.
“Non so di cosa stai parlando...d’altronde non so neppure tu cosa stia macchinando e ad essere sincera sono stanca di essere tenuta all’oscuro di tutto quello che succede al castello. A cosa ti serve la Mandragola?”. Quella domanda così diretta la spiazzò completamente e prima che potesse pensare a qualche scusa, Lara riprese a parlare. “Attenta alla tua risposta, ho il modo di far arrivare quella sorpresina dritta alla regina e non penso che un medico ci metterà tanto a capire quale sia il suo utilizzo”. Jackie aprì la bocca per ribattere ma fu costretta ad ingoiare ogni singola parola: aveva sottovalutato quella ragazza e la sua cieca infatuazione per il principe e così aveva abbassato la guardia, non credendola capace di arrivare a minacciarla. “Il tempo passa e ancora non hai detto una parola...quanto intendi farmi aspettare, Jackie? Perché io non ho intenzione di attendere così tanto” insistesse la giovane serva, passando l’indice sulla superficie dell’acqua e compiendo dei movimenti circolari, mentre la fontana gorgogliava e riempiva così quel silenzio inesorabile.
“Va bene, hai vinto, ti racconterò tutto”. Jackie sapeva riconoscere una sconfitta e Lara era riuscita ad anticipare le sue mosse in modo parecchio astuto; aveva capito che nascondeva qualcosa da chissà quanto. Si mise seduta sulla panchina e si guardò intorno: non voleva certo che il suo segreto venisse udito da qualcun’altro; già per lei era uno sforzo disumano rivelarlo a quella che considerava una sciocca ragazzina. “La Mandragola è una pianta rarissima che si trova esclusivamente nella Palude di Jolly. Le sue radici servono per preparare una soluzione molto particolare e poco nota, in grado di gettare sulla vittima a cui viene somministrata una sorta di maledizione. Le radici infatti contengono un potente allucinogeno capace di realizzare le paure più grandi di una persona, facendole così vivere un incubo ad occhi aperti. Queste ombre costituiscono un tormento eterno di cui è impossibile liberarsi, a meno che non venga interrotta la somministrazione dell’intruglio. In tal caso esse sparirebbero con il passare del tempo. A lungo andare inoltre le visioni della Mandragola portanto alla follia”. Lara alzò un sopracciglio visibilmente sorpresa: aveva immaginato che la pazzia di Jade fosse stata causata da qualcosa, ma non pensava certo che la sua alleata avesse escogitato un piano tanto astuto e geniale. Se la regina non fosse stata più in grado di avere il controllo delle sue azioni, Jackie, sua intima confidente, sarebbe diventata di fatto colei che avrebbe preso le decisioni, insinuando i suoi pensieri in quelli di Jade e facendole credere che fossero frutto della sua testa. “Non male la tua idea, ma non penso che questo mi porti qualche vantaggio, sfortunatamente” esclamò Lara, con uno strano scintillio negli occhi. Jackie si mantenne fredda e risoluta, ma dentro stava letteralmente impazzendo: e adesso? Sicuramente la ragazza avrebbe richiesto un prezzo per il suo silenzio, sperava solo non si trattasse di qualcosa di impossibile da realizzare. Ancora non era in grado di manipolare Jade completamente a suo piacimento, quindi non era certa di poter rendere felice la sua ricattatrice.
“Sarò chiara e diretta, Jackie...prima ti ho detto di rivolere Leon ed è ancora così. Ma non mi basta, ora che sono venuta a conoscenza del tuo piano”. Prese qualche secondo di pausa, godendosi l’angoscia che traboccava dalle pupille dilatate di Jackie. “Io voglio sposarlo. Lo pretendo e mi sembra uno scambio equo: il mio silenzio per questo matrimonio”.
“Davvero credi che Leon ti sposerebbe?” sbottò innervosita l’altra. Quella richiesta non era del tutto infattibile ma non era nemmeno una passeggiata.
“Non mi interessa quello che vuole il principe, qui parliamo di quello che voglio io. E tu mi aiuterai, se non vuoi finire senza testa”.
Jackie si costrinse a ingoiare quell’ennesimo boccone amaro: non aveva scelta. Doveva fare in modo che Jade annullasse il matrimonio con Ludmilla e costringesse Leon a sposare una serva...le sarebbe servita una buona dose di fortuna per un’impresa del genere. La regina di Cuori teneva molto all’alleanza con Quadri e il loro accordo si fondava su quel matrimonio. Come avrebbe fatto a spezzarlo? Doveva cominciare ad agire sulla mente di Jade e portarla a seguire ogni suo ordine. Si, poteva farcela, ormai era un bel po’ di tempo che era sotto l’effetto della Mandragola e un tentativo per vedere fino a che punto fosse ormai priva di senno non era un’idea tanto malvagia. “Perfetto, comincerò a parlare con la regina per convincerla a far sposare Leon con te...mi ci vorrà qualche mese”
Lara storse il naso: “Così tanto?”. “Questo è il massimo che posso fare...non faccio mica miracoli!” la riprese Jackie inacidita, facendola sussultare. Quella donna continuava a incuterle un certo timore, anche se era certa di aver ottenuto ciò che voleva, ossia Leon. Già poteva pregustarsi la scena: la faccia sconvolta di Violetta mentre lei e il principe Vargas si scambiavano la promessa di eterna fedeltà; questo prima che venisse decapitata con sua estrema gioia, ovviamente. Però Jackie rimaneva pericolosa: era infida e fidarsi ciecamente di lei corrispondeva a scavarsi la fossa da sola.
“Non ho ancora capito il perché della tua fissazione con Leon...lascialo marcire nel suo amore, che presto verrà distrutto completamente. Capisco il tuo rammarico nell’essere stata accantonata in quel modo, ma perché insistere così tanto?” le chiese all’improvviso.
“Io e Leon ci siamo sempre capiti. Ci siamo aiutati e io gli ho dato tutto, ottenendo in cambio il nulla. So bene che lui può essere felice solo al fianco di Violetta, ed è proprio ciò che desidero per la mia vendetta. Lo voglio infelice insieme a me. Voglio leggere nel suo sguardo il dolore per non aver avuto ciò che desiderava, proprio come è successo a me quando ho capito che non avrei mai ottenuto il suo amore”. Si, meritava quel destino. Voleva vederlo soffrire, ormai non desiderava altro. Così avrebbe imparato cosa significava essere proprietà di qualcuno e rimanerne segnati per sempre. Lo amava, di un’amore profondo, logorante, ma quel sentimento che tanto veniva decantato le portava solo infelicità, perché quando lo guardava negli occhi leggeva una luce che non le apparteneva; quella luce apparteneva solo a Violetta e la invidiava per questo. Era contenta di potersi riscattare, anche se qualcosa le diceva che le strada da lei presa sarebbe stata irta di pericoli.
 
“Se Maxi prova a fare ancora rumore, giuro che lo butto dalla finestra” sibilò Dj, rivolto ad altre due persone avvolte nell’ombra. Era notte fonda nel castello ed era giunto il momento per loro di fare una prima perlustrazione. Con parecchia fortuna avevano evitato i turni di guardia e si erano infilati prima dentro una stanza stretta piena di armature gettate alla rinfusa e poi erano sgattaiolati fin dentro la biblioteca. Avevano rischiato di essere beccati quando Maxi al buio stava per inciampare nella stanza a causa di uno scudo addossato a un elmo. C’erano voluti i pronti riflessi di Andres per prenderlo al volo ed evitare una catastrofe.
“Scusate, ma non sono un gatto, e al buio non vedo un tubo!” rispose piccato Maxi, avvicinandosi alla tenue fiammella che risplendeva poco sopra l’indice del mago. “Questo non significa che puoi sentirti libero di comportarti come un elefante!” ribatté Dj, mentre esaminava gli scaffali della strana libreria da cui sentiva provenire una forte energia: estraeva un libro e osservava attentamente nel foro sperando di cogliere qualche indizio. Non sembrava un meccanismo difficile: doveva solo trovare gli interruttori per aprire il passaggio. Andres faceva la guardia vicino all’entrata della biblioteca per essere sicuro che non sopraggiungesse nessuno. Scartò subito quelli più polverosi: era convinto infatti che Jade controllasse che la spada fosse al suo posto periodicamente e si concentrò su quelli più curati; se infatti l’unico scopo di quei tomi era nascondere un meccanismo e farne da contrappeso non erano certo letti spesso. Scorse l’indice della mano sinistra alla ricerca di titoli noiosi e comuni che non invogliassero alla lettura, mentre con quello della mano destra continuava a farsi luce; ne trovò una decina parecchio promettenti. In una mezz’ora trovò quegli che gli interessavano e infatti togliendoli uno ad uno si sentiva il click di un meccanismo. Quando estrasse l’ultimo si sentì un rumore soffocato, poi la libreria schizzò in avanti rischiando di travolgerlo e scivolò di lato mostrando l’ingresso di un passaggio buio.
“Mi sento un genio!” esclamò il mago, voltandosi soddisfatto verso gli altri. Andres cercò di scrutare oltre quel buco, ma non si vedeva assolutamente nulla. Un bagliore dorato però illuminava il fondo: che fosse il riflesso di una luce? Forse la Spada di Cuori poteva illuminarsi. Scosse la testa incerto e si rivolse ai suoi compagni: “Entriamo?”. Di fronte a quel futuro ignoto tutti presero a guardarsi scossi da una profonda paura di ciò che si sarebbe potuto celare una volta attraversato il corridoio. Maxi deglutì quindi fece cenno di si, seguito da un altrettanto timoroso Dj, che temeva di non essere di alcuna utilità in quel frangente. La fonte di energia magica che avvertiva era forte e antica, qualcosa che sembrava trasmettersi dalla notte dei tempi. Gli procurava dei brividi lungo la colonna vertebrale e addirittura sembrava volersi insinuare nella sua testa per dissuaderlo. O forse per attirarlo nella trappola, non riusciva a dirlo con sicurezza. La luce divampò sempre di più nello stretto corridoio di pietra, pieno di ragnatele e polvere, tanto che Maxi starnutì. Dietro di loro l’ingresso rimaneva aperto, quindi c'era sempre la possibilità di tornare sui propri passi qualora se la avessero dovuta vedere brutta. Il bagliore dorato era sempre più insistente diventando addirittura accecante. Isintivamente si portarono le braccia davanti al viso per proteggersi e quasi rischiarono di inciampare addosso ad un piccolo scalino che conduceva dentro la stanza più strana e spaventosa che avessero mai visto.
Sembrava la realizzazione di un incubo. Priva di porte e finestre, la stanza era semplice e spoglia dalla pianta rettangolare. In fondo c’era una teca di vetro con dentro la spada di Cuori, ma acciambellato intorno ad essa un enorme serpente dorato, dalle sembianze di un fantasma, dormiva pigramente, facendo uscire la lingua biforcuta in un sibilo sommesso. Nel buio completo la luce proveniva unicamente da quell’essere mostruoso. “Oh, dannazione!” si lasciò scappare Andres a bassa voce, mentre osservava il corpo del guardiano che doveva superare certamente i dieci metri. Dj era rimasto a bocca aperta e in un religioso silenzio: di qualunque cosa si trattasse lui non ne aveva mai sentito parlare. Cercò di ripassare a mente tutto ciò che sapeva sulle creature magiche ma da nessuna parte era contemplato un enorme serpentone dorato. Forse erano ancora in tempo a scappare a gambe levate, ma arrivati fin lì almeno un tentativo per cercare di prendere la spada gli sembrava doveroso. D’un tratto gli venne in mente la favola dei topolini che gli raccontava il padre e in quella stanza si sentì proprio un topo in trappola.
“Chi ci prova?” domandò con voce tremante Maxi, che dovette fare un notevole sforzo per pronunciare quelle tre parole. Era sicuro che di lì a poco le gambe sarebbero crollate sul pavimento seguite da tutto il resto del corpo, ma non voleva apparire sempre come il debole della situazione, anche perché di pericoli ne avevano affrontati parecchi fino a quel momento. Andres fece per proporsi, ma il sibilio proveniente dalla creatura gli fece uscire solo aria. “Ci vado io, ho capito” concluse, cercando di darsi un tono, ma fallendo miseramente al solo fissare per un secondo dalla parte della teca. In punta di piedi, cercando di fare più attenzione possibile, Maxi si avvicinò sempre di più, fino a raggiungere il corpo dorato del serpente. Fece un altro passo ed ebbe un breve capogiro. Più avanzava più si sentiva debole e incapace di controllare i suoi movimenti. Qualcosa gli risucchiava le forze come una sanguiuga. Si voltò verso i due compagni con gli occhi socchiusi e l’equilibrio instabile e vide che lo stavano incitando in silenzio. La vista si fece appannata e quando trovò la forza per focalizzarsi nuovamente sul fondo della stanza, Andres e Dj si stavano sbracciando. Erano arrivati addirittura ad urlare qualcosa di incomprensibile. Silenzio, o il serpente si sveglia!, pensò intimandoli con lo sguardo. Non riusciva nemmeno a parlare, gli sembrava uno sforzo immenso. Si girò di nuovo e con estrema sorpresa vide solamente la lucente teca dentro cui giaceva la spada. Beh, ormai aveva praticamente fatto; mosse la mano a rallentatore chiedendosi come mai non riuscisse a mettere forza nella braccia e con la coda dell’occhio si rese conto perchè i suoi compagni erano tanto spaventati. Due occhi dal colore del miele, ipnotici e profondi lo osservavano con vivo interesse. Il serpente giaceva con la testa alla sua altezza e lentamente lo intrappolava tra le sue spire. Non sentiva lo stritolamento, ma era come se un veleno mortale gli venisse iniettato alla base delle gambe e la cosa peggiore era che non riusciva a muoversi. Ripensò alla morte della madre e del nonno, ripensò ai suoi propositi di vendetta nei confronti della regina Natalia e si sorprese di quanta strada era riuscito a fare, ma a quanto pare quella era la sua fine. Aveva sperato in una morte un po’ più gloriosa di quella, l’idea di essere ammazzato da una serpente di notte in una stanza segreta non era proprio confortante. Dj si fece avanti e corse fino a raggiungerlo, quindi pronunciò una formula che non riuscì a comprendere e una luce azzurra scaturì dalla sua mano, frastornandolo. Il custode fissò quella luce per qualche secondo e il mago lo afferrò per il braccio trascinandolo a fatica lontano. Il sangue tornò ad affluire al cervello e la vista tornò ad essere nitida, più si allontanavano.
“Ma cosa...” imprecò Dj, non appena si fu reso conto che l’incantesimo da lui lanciato non aveva avuto alcun effetto sulla creatura: avrebbe dovuto addormentarla e invece era solo vagamente intorpidita, nemmeno per merito suo. Un sibilo acuto gli fece accapponare la pelle: quella sorpresa non era stata di suo gradimento. L’animale si erse con il dorso fino a tocccare il soffito e mostrò le fauci come avvertimento di un attacco imminente.
Impedimentum Ventosum”. Un vento forte cominciò a soffiare dal nulla circondando i due e tentando di proteggerli. Era come se un ciclone avesse devastato la stanza e loro si trovavano proprio nell’occhio. Il serpente però non sembrò affatto impressionato e con una codata penetrò la difesa senza difficoltà e li scaraventò addosso a una parete. Dj si risollevò rapidamente, seguito da Maxi. Era ancora sconvolto: non solo aveva superato una delle sue barriere difensive più potenti senza battere ciglio, ma era riuscito anche a colpirli materialmente sebbene sembrasse un fantasma. Non si era mai sentito indifeso prima d’ora come in quel momento. Si morse l’interno della guancia, trattenendo un urlo terrorizzato di fronte alla consapevolezza che erano spacciati. Andres però lo afferrò per il braccio risoluto. “Dobbiamo andarcene di qui” esclamò con una freddezza impressionante, come se non si fosse reso conto che erano di fronte a un gigantesco mostro in grado di risucchiargli le energie e di respingere ogni sua magia. Indicò il corridoio, mentre osservava il serpente che faceva ondeggiare la testa quasi in segno di scherno. Forse non li avrebbe attaccati, forse era stato creato solo per proteggere la spada e non per uccidere. Altrimenti non si sarebbe spiegata l’assenza di catene per tenerlo relegato là dentro. Infatti mentre attraversavano la stanza, appiattiti alla parete la creatura si limitava ad osservarli attenta, pronta a scattare al primo passo falso. A tentoni trovarono il corridoio che li avrebbe portati in salvo e cominciarono a correre, mentre la luce si fece sempre più fioca e tornarono immersi nell’oscurità.
“No, ragazzi, parliamone! Un serpente del genere dentro un castello!” ebbe la forza di dire Maxi, accasciandosi sul freddo pavimento della biblioteca e cercando di riprendere fiato.
“Io non capisco come faccia a proteggere una spada...si tratta di un fantasma, o no?” si chiese il mago, con il respiro ancora irregolare per la corsa fatta.
“A me le sue fauci sono sembrate un motivo sufficiente per voler stare alla larga da quel coso” disse nuovamente Maxi, con gli occhi sgranati per il terrore.
“Quello senza dubbio, ma...non è possibile che abbia attraversato così la mia barriera, è come se la magia non avesse alcun effetto. Ma è impossibile! Insomma perfino l’incantesimo più potente deve avere un punto debole; non esiste una magia invincibile!”. Andres continuava a fissare insistentemente il punto da cui erano venuti. “Sarà meglio richiudere tutto. Non dobbiamo far capire a nessuno che abbiamo provato a introdurci lì dentro per prendere la spada”. Era deluso dal disastroso fallimento, ma almeno non era successo nulla di irrimediabile. Il solo pensiero di essere stato vicino ad uno degli oggetti magici che gli servivano per portare a termine la missione però gli faceva perdere la lucidità.
“Andiamo, così non va proprio!”. Andres, che proprio quel giorno aveva compiuto quattordici anni, quella che veniva definita l’età della comprensione, si rialzò imbestialito e incrociò le braccia al petto offeso. Quanto gli dava fastidio quel tono da saputello di Serdna. E dannazione, non era nemmeno il maggiore, erano gemelli!
“Se pretendi di imparare a combattere in un modo tanto rozzo...beh, non farai molta strada, fratello” sghignazzò Serdna, raccogliendo la spada di legno, costruita alla bell’è meglio. Il cortile della fattoria in cui abitavano era ormai dominato da erbacce selvatiche che crescevano disordinatamente; arrivavano perfino a coprire il recinto. “Senti chi parla! Serdna, hai le abilità fisiche del nonno...anzi, forse lui sarebbe perfino più agile” rispose a tono Andres, strappandogli l’arma di mano e menando dei fendenti a caso in aria. Il fratello sospirò, quindi si sedette poco vicino, a gambe incrociate, per studiare i suoi movimenti e analizzare cosa sbagliava. Esattamente come prima Andres diede troppa enfasi ad un colpo e finì sbilanciato in avanti, tornando di nuovo con il muso a terra. “Ahi” gemette, massaggiandosi la gamba dolorante e rialzandosi a fatica. Serdna lo guardava in modo eloquente ma comprensivo, mentre si sistemava gli occhiali circolari in modo che non gli scivolassero in avanti mentre tracciava qualcosa sul terreno con un ramoscello. Voleva far finta di nulla, ma la verità è che era curioso di sapere che cosa stesse scrivendo, quindi si avvicinò a passo lento, fino a scorgere delle figure geoemtriche, alcune intersecate tra di loro. Sotto c’erano numeri e lettere, ma di quelle cose lui non ne aveva mai capito nulla: era Serdna il genio di famiglia, lui invece aveva ereditato una discreta forza fisica unita all’agilità di una pantera. “Se tu cambiassi perno mentre sposti il peso in avanti, magari con un piccolo salto, probabilmente non perderesti l’equilibrio” si limitò a dire il fratello, alzandosi e porgendo la mano. Con un po’ di esitazione Andres gli consegnò la spada di legno, a cui era affezionatissimo e rimase a fissarlo mentre imitava, in modo molto meno fluido, i suoi precedenti movimenti. Quando fu il momento dell’affondo che gli aveva fatto perdere l’equilibrio, spostò il piede destro e con un piccolo balzo fece slittare il sinistro in avanti rimanendo così con la punta della spada dritta. Andres aprì la bocca per lo stupore: non riusciva a credere che perfino nelle arti del combattimento servisse il cervello, eppure grazie ai suoi calcoli il fratello aveva corretto l’errore che continuava a commettere.
“Se ti trovi di fronte ad un insuccesso non devi demordere, nè devi intestardirti. A volte si tratta solamente di trovare la chiave nascosta”.
“E che ci faccio? Ci apro un forziere con dentro un tesoro?” sghignazzò Andres, prendendolo in giro. L’altro lo guardò male per qualche secondo quindi scoppiò a ridere anche lui. In fondo era sempre stato così: erano due opposti, che però si completavano.
Al buio riusciva ancora a scorgere i due gemelli del passato che si rotolavano per terra a causa del troppo ridere, ma questo non lo aiutava certamente a stare meglio. Nella vita, quando sbagliava, c’era sempre stato Serdna a riprenderlo, a consigliargli la giusta via. Adesso era lui a dover consigliare agli altri cosa fare e non si sentiva all’altezza: Dj sembrava ancora sconvolto per non essere riuscito a scalfire il serpente con la sua magia, Maxi invece continuava a tremare per il terrore. Non era il momento di perdersi nei ricordi: la sua squadra aveva bisosgno di lui. A volte si tratta solamente di trovare la chiave nascosta. Come aveva detto il mago ogni incantesimo ha il suo punto debole, semplicemente in quel caso era stato ben nascosto. “Sarà meglio muoverci, prima che vengano a controllare anche qui dentro” sussurrò ai suoi compagni che annuirono distrattamente. Per prima cosa dovevano tornare nella loro stanza sani e salvi.

Quella poteva definirsi la più strana riunione che era mai stata fatta a casa del Cappellaio Matto. Seduti intorno alla tavolata gli ospiti sorseggiavano silenziosamente il proprio te, a parte la Lepre Marzolina che invece era troppo agitata per prestare attenzione alle buone maniere. A capotavola sedeva Antonio, piuttosto stressato per il lungo viaggio che aveva dovuto fare in seguito alla chiamata dello Stregatto, che sedeva alla sua sinistra. Alla sua destra invece c’era Marco, che da quando era entrato in quella casa era certo di essere finito in una gabbia di matti. Ancora si chiedeva come mai il suo maestro avesse deciso di andare a trovare quella gente fuori di testa, ma aveva rinunciato a cercare di ottenere una risposta. Si limitava a estraniarsi da qualunque tipo di conversazione. Il Ghiro sedeva sopra una montagna di cuscini e sbuffava sopra il pon-pon del suo cappello da notte che gli copriva la visuale. Beto era intento a parlare con un vaso sul tavolo, dove si trovava una rosa scarlatta, i cui petali si piegavano fino a formare una bocca. Purtroppo il tasso non aveva potuto presenziare alla riunione a causa delle radici che non gli permettevano di muoversi, ma aveva sottolineato il suo desiderio di poter partecipare e per questo aveva dato la sua delega alla rosa, imponendogli di farsi anche come suo portavoce.
Fuori era buio pesto, e diversi candelabri intervallavano piatti di porcellana bianchi con sopra tartine o biscotti appena sfornati. “Nocciole!” strillò eccitato il Ghiro afferrandone uno con soddisfazione. La zampa avida infilò il biscotto in bocca in un solo boccone e le guance dell’animale si gonfiarono mostruosamente.
“Non capisco perché la ragazza si ostini a non capire!” esclamò la rosa. “La prima volta che l’ho incontrata mi era sembrata abbastanza all’altezza di Alice e lo pensa anche il Tasso”.
“Le uniche persone che ci sono arrivate finora si possono contare sulle punta delle dita” si intromise Antonio con la sua solita voce pacata. “Non possiamo aspettarci certo un miracolo. Camilla dice che comunque sta facendo progressi. Marco, potresti gentilmente attendere fuori? Abbiamo questioni molto importanti di cui discutere”.
“Vuole davvero che la lasci solo con...questi?”. Marco indicò con un’occhiata eloquente e altezzosa i presenti, ma il suo maestro fu irremovibile e facendosi una bella scorta di tè e biscotti, uscì fuori dalla casa, ringraziando il cielo che quella notte non fosse gelida come le ultime.
Non appena se ne fu andato calò un silenzio di tomba, quindi Camilla si alzò con l’aria di chi aveva appena ricordato un impegno importantissimo, e prendendo la tazza la fece vorticare al centro del tavolo. Il vapore che si levava da essa formò delle lettere dapprima sfocate, poi sempre più nitide.
“Conoscete tutti la profezia di colei che ci salverà, o almeno così si crede, dalla distruzione. In essa viene nominato un giovane dal cuore puro e penso che tutti voi concorderete sul fatto che si stia parlando di Leon”.
La Lepre Marzolina per poco non cadde dalla sedia. “Leon? Quel Leon? Ma quello è solo un rompiscatole, che non sa nemmeno divertirsi! Inoltre da quel che so è anche un assassino, non vedo proprio nulla di puro!”. Antonio agitò la mano con indifferenza: “Diciamo che il suo cuore è stato purificato dalla salvatrice, ma andiamo avanti”. Guardò Camilla con benevolenza, che dopo uno dei suoi sguardi stralunati, tornò a fissare la tazza che non la smetteva di girare, producendo parola sempre diverse che si disponevano una accanto all’altra.
“La vera e propria profezia però non è completa...noi la conosciamo interamente, dopo aver interrogato la figlia del Re di Picche. Si parla di un cuore spezzato e di un potere dettato dal dolore. E sarà proprio Leon a scegliere il destino della Prescelta”.
“Quindi siamo certi che Leon possa scegliere!” esclamò Beto, entusiasta. Antonio annuì: “Me ne ero già accorto quando sono venuto al castello. Marco mi ha raccontato del suo pentimento...un aspetto che Leon Vargas ha sempre dimenticato. E tutto succede grazie all’influenza di Violetta. Non capisco però in cosa consista questa scelta”.  
“Il problema non si pone più, perché una nuova profezia è stata incisa nella Grotta e credo che non sia possibile che venga fraintesa”. La tazza smise di girare e in aria rimasero le parole fumose, che formavano una frase: ‘Un amore distruttivo porterà uno dei due contendenti alla morte’. Nessuno disse nulla. Il Ghiro rimase a bocca spalancata di fronte a quella novità e tutti si scambiavano sguardi agitati, tutti tranne Antonio, che tirò fuori dalla tasca una pipa. La accese con un solo lampo nello sguardo e in pochi minuti grandi cerchi di fumo si sollevarono fino al soffitto. “Questo potrebbe costituire un problema. Dobbiamo quindi sperare che sia Leon a morire”. Sospirò, rivolgendo le sue attenzioni nuovamente a Camilla. “E Alice che cosa ci consiglia?”.
“Dice semplicemente di fidarci della Prescelta. Per ogni novità ci farà sapere”.
“E allora è quello che faremo”. I presenti annuirono, ma dell’atmosfera di festa di poco tempo prima non era rimasto più nulla. Adesso erano tutti angosciati dopo quella seconda profezia che metteva in discussione tutta la speranza riposta nella Prescelta.
Camilla si risedette, per la prima volta nessun sorriso sornione illuminava il suo viso. Ripensava al giorno in cui Antonio gli aveva chiesto di seguire il gruppo di rivoluzionari per aiutarli ed essere sicuro che compiessero la loro misssione. La Grotta della Profezia aveva predetto che Ana li avrebbe uccisi con i suoi poteri magici, ma grazie al suo aiuto invisibile Dj era riuscito a spezzare tutte le difese e a fuggire. Lei aveva ancora un margine di scelta, così come Antonio e Beto. Ed era successo grazie ad Alice. Adesso i rivoluzionari erano lì al castello, ma aveva interferito già troppo: adesso non c’era nulla che potesse fare per loro. Antonio gli aveva consigliato di smetterla perché sia lei che Beto stavano perdendo sempre più consistenza, riducendosi a dei fantasmi. In fondo a lei non importava di sparire per sempre, almeno avrebbe ottenuto la pace dopo quell’inferno. Con uno schiocco delle dita scomparve e si ritrovò sul tetto della capanna, stesa sul dorso a osservare le stelle. Quel mondo le aveva strappato l’unica cosa di cui le fosse mai veramente importato. Alice non era ancora giunta nel Paese delle Meraviglie quando aveva conosciuto un giovane boscaiolo di nome Sebastian. Da piccola era solita nascondersi dietro gli alberi per spiarlo e scomparire nel nulla quando lui si voltava dalla sua parte per poi riapparire sopra un ramo. Una volta però si era accorto della sua presenza e aveva cominciato a gran voce a chiamarla, dicendole che non le avrebbe fatto del male. Ma lei non si fidava degli altri e perciò rimase in disparte ad osservarlo. Sebastian, o Seba, come preferiva farsi chiamare le lasciava di tanto in tanto qualcosa da mangiare con un fiore sempre diverso: una rosa, una violetta, un girasole, un dente di leone. Cominciò a prenderci gusto e durante il giorno si divertiva ad indovinare che cosa avrebbe potuto regalarle.
Ma era inevitabile che si tradisse. Quando credeva che se ne fosse andato, al tramonto, allungò una mano per afferrare una pagnotta avvolta in un fazzoletto blu, con vicino un papavero, ma incontrò la mano di Sebastian, che le afferrò il polso, con un sorriso soddisfatto. ‘Ti ho preso’, aveva detto.
“Che cosa stai facendo?” una voce la chiamava in cima al tetto, distogliendola da quei ricordi dolorosi. Camilla non rispose, si limitò a sedersi con le gambe incrociate, osservando la sguardo folle ma allo stesso tempo paterno di Beto. “Pensavo e ricordavo”.
Il Cappellaio Matto capì subito a cosa si riferiva e a passo lento si sedette di fronte a lei, guardando le stelle che si distinguevano dalle fronde e che facevano a gara per fare capolino. Intrecciò le dita delle mani pensieroso. “Questo mondo è stato molto ingiusto con te, come lo è stato con me”.
“Tu intrappolato in una catapecchia e io invece che vago da un posto ad un altro...senza poter essere felice”. Camilla scoppiò a ridere ironicamente; prese la sua coda viola e cominciò a lisciarla con la mano destra. “Nessuno può capire quella ragazza meglio di me...lei non sa che dovrà ucciderlo. Non sa che lo perderà per sempre”. Una folata di vento freddo li avvolse e Beto rabbrividì.
“Se non avessimo incontrato Alice sarebbe stato molto peggio...costretti nei nostri ruoli, incapaci di poter fare qualunque cosa desiderassimo. Si, abbiamo dovuto pagare con la nostra sanità mentale, ma non è stata una scelta di cui mi pento”.
“Essere pazzi per essere liberi” lo canzonò Camilla, soffocando una risata. Se fosse venuta prima a conoscenza della verità avrebbe potuto salvare Sebastian dal suo triste destino? Probabilmente no, ma almeno ci avrebbe provato con tutte le forze.
 
Lena si stropicciò gli occhi, svegliandosi di colpo. Pensava fosse dovuto ad uno dei soliti incubi della sua compagna di stanza, ma il letto affianco al suo era vuoto. A metà tra il preoccupato e l’assonnato scattò in piedi, ma rischio di inciampare tra le coperte e ringraziò il cielo che fosse notte così da non dover sopportare la visione dei suoi capelli sicuramente paragonabili a un cumulo di fieno. Cercò invano di reprimere uno sbadiglio, ottenendo così che gli occhi le lacrimassero. Lasciò la sua stanza, ma non appena ebbe messo piede fuori avvertì dei tremendi brividi di freddo. Mentre sbucava nel salone principale si chiedeva come mai non si fosse portata uno scialle o qualcosa in grado di proteggerla da quel gelo. Di fronte a lei c’erano le porte che conducevano alle cucine. Si morse il labbro in cerca di una soluzione; una cosa era certa, doveva agire in fretta, perché le misure di sicurezza nel castello erano strettissime. Per di più Jade cercava solo un pretesto per incolpare Violetta di qualunque cosa e trovarla in giro in piena notte le avrebbe offerto l’occasione su un piatto d’argento. I denti battevano per il freddo e prese a sfregarsi le braccia con energia. Sebbene alcune fiaccole illuminassero la stanza tutto era immerso in un silenzio di tenebra. Non appena le arrivò alle orecchie un rumore di passi, si nascose in un angolino della stanza a destra della scalinata, in modo da poter vedere chi stesse per arrivare dalla zona est. Tre figure si muovevano silenziosamente e tra di loro, aguzzando la vista, ne riconobbe uno, il ragazzo dai capelli ricci che si era fermato ad osservare Violetta. Era pieno di polvere di calcinaccio, come se fosse andato a sbattere contro un muro e avanzava barcollando. Gli altri due invece si muovevano spediti senza battere ciglio e di tanto in tanto tendevano l’orecchio per essere sicuri che non stesse arrivando alcuna sentinella.
Perchè un medico dovrebbe muoversi di notte in compagnia dei suoi assistenti?, si chiese tra sè e sè, storcendo la bocca. Non si voleva immischiare in quella storia, perché non le piaceva affatto, quindi decise che avrebbe aspettato che fossero passati per tornare alla ricerca della sua amica.
Peccato che Andres avesse l’occhio abituato al buio e si rese subito conto che qualcosa non andava. “Qui c’è qualcuno” mormorò al mago, attento a non farsi sentire. Riconobbe una figura rannicchiata e scese le scale rapidamente, afferrando una torcia lungo una parete e puntandola contro l’angolo buio. “E tu chi sei?” domandò sprezzante, completamente spiazzato da quella ragazzina bassa e esile dai capelli biondo cenere. Notò che stava rabbrividendo, non solo per la paura, ma anche per il freddo.
“Faccio parte della servitù...stavo cercando una persona...”. Lo sguardo del ragazzo si addolcì e le porse la mano, afferrandola. Era fredda e tremava. “Dovresti bere qualcosa di caldo” le consigliò vivamente, trascinandola insieme ai suoi due compagni nella cucina, dove cominciò a prepare un tè.
“G-grazie” balbettò Lena. Non era abituata a tutta quella gentilezza e si sentiva parecchio a disagio. Continuava a torturarsi le mani perchè si trovava in una stanza da sola con tre estranei, alla ricerca di un’amica scomparsa nel nulla. Quella notte si stava rivelando davvero insolita. Non appena strinse tra le mani la tazza di ceramica con il tè, sentì un moto di sollievo inondargli il colpo ed emise un sospiro. Avvicinò il bordo alla bocca e sorseggiò piano: era dolce. Probabilmente quel ragazzo con la cicatrice ci aveva aggiunto anche un po’ di miele. In ogni caso era squisito ed era proprio ciò di cui aveva bisogno. “Va meglio?” chiese uno degli altri due, il medico. Annuì senza dire nulla e abbassò lo sguardo sulla tazza. Di nuovo tutte quelle attenzioni a cui non era abituata: si sentiva nervosa. L’unico che non la stava degnando di uno sguardo era il ragazzo moro dai capelli ricci e lo sguardo assorto. Aveva due occhi di un castano lucido, scurito da chissà quali pensieri. Era seduto su uno sgabello e poggiava un gomito su un piano di legno.
“Non ci siamo presentati. Io sono Andres...questo è Dj, il medico di vostra maestà, e l’altro è Maxi”. Indicò i due colleghi e tornò a fissarla con uno sguardo penetrante. Tempo aveva fatto alcuni apprezzamenti su Andres, e tuttora continuava a pensare che fosse affascinante, ma la metteva in soggezione. Quella cicatrice nascondeva un dolore tutt’altro che fisico e non era certa di voler indagare più a fondo. “Il mio nome è Lena” ebbe la sola forza di dire, prima di posare la tazza su un ripiano vicino ad una tinozza. “E sto cercando la mia compagna di stanza. Stanotte mi sono svegliato, ma non c’era. Voi forse l’avete incontrata” sussurrò speranzosa. Maxi alzò lo sguardo, improvvisamente interessato.
“Non abbiamo incontrato nessuno, mi dispiace” ribatté Dj, scrollando le spalle. Lena si abbattè per quella risposta, non che ci avesse sperato veramente, però la sua ricerca in quel modo ripartiva da zero.
“Sai dirci il suo nome?”. La domanda proveniva da Maxi, che aveva le braccia conserte e un’espressione severa. Prima di allora non aveva detto una parola e per questo Lena trasalì nel sentire la sua voce di colpo.
“C-certo...si chiama Violetta”. Quel nome ebbe un effetto devastante all’interno della cucina: Maxi sbiancò e sgranò gli occhi, Dj guardò con un accenno di terrore e proeccupazione Andres, il quale non aveva smosso un muscolo. Il ragazzo ricambiò lo sguardo e annuì, irrigidendo la mascella. Quel gruppo le stava sicuramente nascondendo qualcosa ma non aveva il coraggio di chiedergli cosa. Erano già stati fin troppo gentili con lei...non meritavano certo l’interrogatorio di un’impicciona!
Andres si passò i polpastrelli delle dita sulle tempie con aria stanca, ma risoluta. “Dobbiamo trovarla”. 









NOTA AUTORE: Premetto che sono una persona orribile perché non sono riuscito a rispondere alle vostre bellissime recensioni. Davvero, io vi imploro di perdonarmi, ma questo mese per me è stato e credo sarà un inferno, già mi sembra un miracolo che riesca ad aggiornare settimanalmente, e quindi niente, vi porgo le mie più sincere scuse. Venendo a noi, comunque (si, potete lanciarmi i pomodori), questo capitolo è diverso dagli altri, perché troviamo un po' tutti tranne Violetta che teoricamente è il personaggio principale. Lara ha incastrato Jackie, Andres e i suoi compagni hanno fallito la missione (e per il dispiacere di molti il serpente non si è mangiato Maxi xD) e per di più abbiamo una prima interazione tra Lena e il trio, PARECCHIO IMPORTANTE. In più il finale ci lascia un po' appesi (tanto per cambiare) perché non si capisce se l'assenza di Violetta sia dovuta al fatto che è in pericolo. Anche il blocco della riunione a casa di Beto è importante, e dovrebbe darvi alcuni importanti indizi e frammenti su questa storia complicatissima (ma io so che a voi piace arrovellarvi su queste cose...io ci ho messo settimane a metterla a punto, ma ok xD). Detto questo, vado di frettissima, vi ringrazio per le recensioni bellissime e spero che anche questo capitolo vi piaccia....grazie a tutti, e buona lettura! :3
syontai :D 

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Capitolo 53
*** Tuffi nel passato ***


Capitolo 53
Tuffi nel passato

Leon affondò il viso sul cuscino, ansimando. Sentiva l’affanno e la stanchezza, eppure sebbene fosse appagato non gli sembrava mai abbastanza. Rosicchiò e baciò con dolcezza il collo di Violetta, sovrastandola con il suo corpo. Le mani fragili della ragazza che gli percorrevano le schiena, soffermandosi alll’altezza delle scapole, gli provocarono dei sospiri infranti dal respiro irregolare. Il ventre di Violetta tremò leggermente al bollente contatto con il suo addome e gli uscì un mugolio indistinto, un miscuglio di amore e desiderio che prendeva una forma concreta con il suono della sua voce.
“Leon...” sussurrò Violetta, incastrando le dita tra i suoi capelli e tirandoli leggermente. Come se si fosse trattato di un richiamo, Vargas seguì il profilo del mento, per poi raggiungere le sue labbra e impadronirsene con furia. Qualcosa di bagnato raggiunse la sua punta del naso e si scostò confuso. Socchiuse la bocca, stupito di fronte alle lacrime che le bagnavano il viso. Era stata colpa sua? Le aveva fatto male incoscientemente? Le baciò le guance umide una ad una e il sapore salato si addolcì mescolato a quello della sua pelle. Poi fece scorrere le mani intorno al suo corpo, stringendola rassicurante. “Non”. Le scoccò un bacio sulla fronte. “Piangere”. Il suo tono era autoritario, ma a mala pena nascondeva l’angoscia che provava. Violetta gli sfiorò una guancia e annuì: come aveva finito per innamorarsi a quel punto? Fino ad allora aveva sempre pensato a fuggire da quella gabbia che la teneva intrappolata e invece proprio lì dentro aveva trovato una persona a cui si era scoperta legata indossolubilmente. Non poteva rinunciare a Leon, non ci riusciva. Quello era il momento giusto per dirgli la verità, per spiegargli che lei non era di quel mondo, ma allo stesso tempo sentiva di appartenere a lui, solamente a lui.
“Non voglio perderti”. Leon sorrise di un sorriso gioviale, quasi quello di un bambino. Sentirle dire quelle parole nonostante tutto gli provocava una gioia immensa. Nessuno gli aveva mai fatto capire che la possibilità di essere amato non era solo un’utopia. Quelle parole non gliele aveva mai detto nessuno. “Lo so” sussurrò con voce roca. In realtà non era vero: aveva sempre la costante paura di perderla, pensava che un giorno lo avrebbe allontanato per quello che era. Continuava a sentirsi una persona orribile nonostante tutto. L’amore lo aveva sì cambiato, ma insieme ai miglioramenti aveva riportato a galla il rimorso seppellito. Sfiorò le sue labbra con ardente desiderio: era l’unico modo che conosceva per alleviare ogni dolore e dimenticare chi era. Quando era con lei gli incubi gli stavano a debita distanza, come se ne avessero paura. Si avvicinò incerto al suo orecchio, lasciando dietro di sè una scia di languidi baci. “Voglio amarti ancora”. Mosse il bacino verso di lei, facendole socchiudere gli occhi. “E ancora” gemette, ottenendo il consenso per le sue intenzioni dal modo in cui Violetta gli graffiava la nuca.
Violetta aveva le gambe raccolte e strette al petto osservando attentamente due spade di legno che giacevano l’una sopra l’altra, incrociandosi. Aveva sentito il bisogno di chiudersi in quella stanza, sulla sommità della torre, perchè in quel modo Leon le sembrava meno lontano. Altri incubi, altri risvegli inquietanti, e sempre la stessa scena. Solo che ogni volta si arricchiva di dettagli che le rimanevano impressi nella mente: una mano emergeva dell’ombra e infilzava con la spada Leon, facendolo stramazzare a terra. Del sogno ricordava questa volta anche un paio di occhi castani lucenti, che somigliavano terribilmente ai suoi. Era rannicchiata nell’unico posto che potesse aiutarla a tranquillizzarsi, una stanza semicircolare in cui erano ammonticchiati svariati giocattoli. Represse un singhiozzo cercando di cancellare l’immagine degli occhi verdi di Leon privi di vita, macchiati dal sangue del delitto. Tentò di rimettersi in piedi, ma le gambe le tremavano e la vista era appannata a causa delle lacrime trattenute. Sperava solo che Lena stesse ancora dormendo, non voleva farla preoccupare. Un po’ esitante raccolse una delle due spade di legno, stringendola al petto, come se fosse un amuleto prezioso e uscì dalla stanza, chiudendola a chiave. Gliene aveva procurata una copia Leon, perché le aveva detto che quel posto sarebbe stato sempre e solo loro, di nessun altro. Era il rifugio da tutte le cattiverie perpetrare in quel castello, era l’unico modo per sopportare le ingiustizie che subivano in continuazione. Scese le scale al buio, tastando con il piede lo scalino in basso prima di scenderlo. Proprio per quell’operazione così complessa, per cui ad aiutarla c’era solo la luce fioca della luna che trapassava le feritoie,  ci mise parecchio a raggiungere il corridoio noto che portava anche alle stanze di Leon. Nessun cigolio di armature. Questo significava nessuna sentinella; all’andata aveva rischiato di essere scoperta ed era riuscita a scamparla solo all’ultimo secondo per miracolo. Nel buio non si rese conto però di un’altra persona che si aggirava circospetta quanto lei.
“Ahi!”. I due finirono l’uno contro l’altro, dando una capocciata. Violetta si tastò la testa dolorante, sperando con tutto il cuore di non essere incappata in uno dei tirapiedi della Regina di Cuori. Rapidamente estrasse la spada di legno e la puntò al petto dello sconosciuto. L’ombra di fronte a lei però rimase in silenzio: sembrava sorpresa, quasi sconvolta. “Violetta?”. Riconobbe subito la voce di Maxi e non riuscì a trattenere un singhiozzo al pensiero di quello che era successo al padiglione vicino al lago. Il ragazzo le sfiorò il braccio: “Va tutto bene, Violetta?”. Forse fu solo per la disperazione, per la paura del buio che la circondava, per il bisogno che sentiva di piangere, ma a Violetta quel contatto fece bene davvero. Sentiva di poter riversare su di lui quel fiume in piena di paure e sogni angoscianti. Lasciandosi guidare dalla sua mano le sembrò assolutamente naturale il modo in cui Maxi la abbracciava e le accarezzava il capo e la schiena.
“Non preoccuparti, ci sono io”. Violetta alzò il capo di scatto, sicura di aver sentito la voce di Leon e per un secondo si illuse di riconoscere un baluginio verde, ma fu solo una produzione della sua mente, desiderosa che quell’abbraccio gliel’avesse dato il principe Vargas. Non aveva la forza di pensarci, semplicemente affondo nuovamente la testa sopra la sua spalla, trattenendo le lacrime. “Lena si è preoccupata tantissimo per te...”. Quel nome la fece riscuotere e si rese conto che quella notte aveva commesso una sciocchezza: non solo aveva messo in pericolo se stessa, ma aveva fatto preoccupare la sua amica che tanto aveva fatto per lei. Non si spiegava comunque come mai Maxi si fosse messo alla sua ricerca. Decise di non chiederglielo, perché la risposta avrebbe potuto essere scontata o mal interpretata. Aveva paura del suo modo di muoversi con Maxi, perchè aveva ormai capito che quel giovane avesse per lei un debole. Le sembrava di essere tornata al periodo in cui Marco era al castello, costantemente a disagio. Ma questa volta era anche peggio, perchè sembrava che i sogni volessero legarli indissolubilmente. Lui credeva in quel legame, mentre lei non ci riusciva. Tendeva a sminuirlo, perché sebbene la sua mente tentasse di convincerla che qualcosa avrebbe potuto nascere tra di loro, il cuore rimaneva fermamente legato a Leon. Mentre camminavano solo i loro passi erano udibili e nonostante la strada non fosse molta le parve che la stessero percorrendo a rallentatore. Maxi non diceva una parola e guardava fisso di fronte a sè, ancora scombussolato da quell’abbraccio che mai si sarebbe aspettato venisse ricambiato.
“Niente?” chiese Dj mentre Andres scendeva gli scalini con il capo basso. Più passava il tempo più Lena si disperava ed era difficile cercare di trattenerla dal cercare l’amica. Solo il rispetto che nutriva nei loro confronti la frenava, unito alla gentilezza nel volerla aiutare. “Non possiamo permettere che la Prescelta scompaia sotto il nostro naso” sibilò Andres all’orecchio del mago, che in tutta risposta scrollò le spalle. “Eccoli” strillò Lena in preda all’euforia, portandosi subito dopo la mano alla bocca e sperando che nessuno l’avesse sentita. Si catapultò addosso a Violetta, strappandola con uno strattone da Maxi. La stritolò talmente tanto che la ragazza diventò rossa per mancanza di circolazione sanguigna. “Non farmi più preoccupare in questo modo! Ma si può sapere dove eri finita? Violetta, queste cose non si fanno!”. Violetta inventò una scusa, a cui tutti credettero tranne la sua compagna, che si limitò a scuotere il capo in silenzio. Mosse un passo in avanti e si sentì come inghiottita dal sonno e dalla stanchezza, tanto che per poco non cadde a terra, sorretta all’ultimo da Andres e Dj, mentre Maxi la guardava allarmato. E fu proprio il suo sguardo preoccupato l’ultima cosa che vide prima di chiudere gli occhi.
Si risvegliò con una terribile fitta alla testa, ma nonostante tutto era in grado di distinguere la stanza in cui si trovava. Non le era affatto familiare: era grande e ben arredata, con mobili pregiati. Alla sua destra vedeva una piccola branda: poco sopra di essa c’era una finestra arcuata con delle grate di ferro che sembravano dei rami intrecciati. Alzò di poco la testa, abbastanza per vedere una grande cassapanca di legno intarsiato ai piedi del letto. Sul muro di fronte era addossato un comodino con due candelabri d’argento a otto bracci. Vicino c’era anche un tavolino dalle più umili origini su cui era appoggiata una bacinella di bronzo. Nessun indizio però di chi abitasse la stanza. Si mise a sedere con le gambe incrociate, avendo così una visuale completa. Non si era accorta che seduto ad un angolo c’era uno dei tre ragazzi da poco arrivati al castello. Per la precisione era il medico, che la guardava intensamente. “La bella addormentata è sveglia” scherzò, alzandosi con uno scatto e massaggiandosi la schiena. “A differenza di quanto si crede per quanto possano essere di lusso le sedie di legno rimangono di una scomodità indescrivibile” borbottò, facendola inevitabilmente sorridere.
“Maxi e Lena avevano insistito per rimanere con te...ma ho preferito prendermi io questo compito. Sai quanta angoscia ti avrebbero trasmesso al tuo risveglio?” ridacchiò. “Maxi soprattutto. Gli voglio tanto bene ma a volte sa solo peggiorare le situazioni delicate”.
“Sto bene, grazie” mormorò Violetta, seguendo attentamente ogni mossa di Dj, che era felice di aver avuto un’altra occasione per studiarla meglio. Era lei la Prescelta, doveva avere qualche particolare abilità, forse era in grado di usare magie sconosciute e potentissime. Ma perché non avvertiva nulla di magico in quel corpo fragile e minuto? “Bene. Erano tutti molto preoccupati per te...”. Rimasero a lungo in silenzio, consapevoli che la conversazione avrebbe potuto anche finire lì. Violetta però continuava a fissare la sua mano destra e indicò l’alluce.
“Quell’anello è di una persona che ti sta aspettando a casa?”. Dj arrossì e scosse la testa: un’ombra malinconica gli attraversò lo sguardo. “No, è un regalo di mio padre”.
Suo padre. Aveva sperato di incrociarlo al Palazzo di Fiori per essere sicuro che stesse bene sebbene fosse sotto l’influsso del Pactio, ma dopo aver accantonato quel desiderio si era reso conto che era stato meglio così: quanta delusione avrebbe provato Domingus nei suoi confronti sapendo che per anni aveva vissuto come un ladro qualunque? Rivedere Ana gli aveva ricordato il giuramento che avevano fatto prima di intraprendere gli studi e il dono che gli era stato fatto dai propri genitori: Ana aveva ricevuto una piuma d’oca incantata, in grado di far allargare i propri orizzonti e la propria saggezza, lui aveva avuto quell’anello. Era di ferro, pesante, con delle lettere antiche incise a fondo. Un anello per guidarlo sempre nella giusta direzione. A pensarci bene nel periodo in cui truffava le persone l’anello doveva essersi fatto una vacanza, perché non gli aveva suggerito proprio niente. Ma nessuno lo aveva mai notato, era perfino di poco valore...come mai invece era saltato subito all’occhio di Violetta? Era come se sapesse che per lui era importante, che aveva un significato profondo.
“E tuo padre non è più con te?” chiese la ragazza, sfiorandosi una guancia apprensiva. Dj scosse la testa: “Diciamo che ci siamo dovuti separare”.
“E’ successo anche con il mio. Ma non preoccuparti, lo ritroverai, ne sono sicura”.
“Sei molto fiduciosa, Violetta...ma non per tutti c’è un lieto fine”. Sospirando si sedette ai piedi del letto, con lo sguardo basso. La ragazza gli sfiorò la spalla, cercando di consolarlo. Chissà che peso opprimeva il povero medico. La porta venne aperta lentamente e fece capolino Maxi, che aspettò un cenno di assenso di Dj per entrare. Tra le mani portava un mazzolino di fiori di campo, sicuramente raccolti di nascosto nel giardino del castello.
“Quanto ho dormito?” chiese Violetta al medico, rendendosi conto che la luce del giorno era troppo fievole per essere mattutina.
“Un bel pò, a dire il vero. Ma è meglio così, prima eri troppo pallida, adesso sembri molto più in forze. Non che prima tu non fossi altrettanto bella, ma adesso...insomma...si, adesso stai meglio” farfugliò Maxi, sistemando i fiori su un vaso di vetro soffiato. Le mani gli tremavano per l’emozione, ma riuscì comunque a compiere quell’operazione delicata senza schizzare con l’acqua o far finire il recipiente in pezzi. Poggiò il vaso tra i due candelabri e la guardò speranzoso, sperando che il regalo fosse di suo gradimento e la sistemazione fosse piacevole. “Sono molto belli” rispose Violetta in un sussurro, alzandosi lentamente. Il ragazzo si precipitò da lei prima che Dj potesse muovere un passo, chiedendole se avesse bisogno di un appoggio per camminare, ma Violetta stava bene e continuava a credere che il gesto della notte prima fosse stato folle e stupido. Con quell’abbraccio non aveva voluto incoraggiare le speranze di Maxi ed era chiaro che lui nutrisse un forte sentimento per lei, che però non ricambiava.
Lena era convinta che avrebbe dovuto rifiutare in modo più decisivo gli approcci maldestri di Maxi. “Qualcuno dovrebbe dirgli che sei già promessa...insomma, che sei già impegnata. E non con uno qualunque, stiamo parlando di un principe!” esclamò, strappando con forza e decisione un’erbaccia vicino alle siepi. Si sfilò il guanto di pelle marrone e si passò il dorso della mano sulla fronte sudata. Violetta non potè fare a meno di annuire alle parole di Lena, particolarmenta presa dal suo lavoro di giardiniera. Quando si impegnava così tanto le ricordava la sua domestica, Olga, che non solo faceva continuamente avanti e indietro per la casa occupandosi di tutto, ma lo faceva sempre con il sorriso. Si chinò anche lei per togliere delle foglie secche e alcune radici, ma intanto pensava alla sera prima: Lena si era preoccupata così tanto per lei e non le aveva nemmeno dato uno straccio di spiegazione. “Non fare sforzi eccessivi, sei ancora debole” la ammonì l’amica, scostandola gentilmente e riprendendo il suo lavoro.
“Ieri sera ho avuto un altro di quegli incubi” iniziò a raccontare e subito ottenne l’attenzione di Lena, che si tirò in piedi, guardandola con comprensione. “Non sapevo come fare. Non volevo svegliarti, sei già troppo buona con me. Così sono andata in un posto che era solo mio e di Leon”.
Nel sentire quel nome l’amica abbassò lo sguardo, come se anche solo quello bastasse a infondergli un timore reverenziale. Quando lo rialzò nei suoi occhi limpidi si rispecchiava la dolcezza di una madre. “La paura di perderlo ti sta divorando e non è questo che vorrebbe per te. Dovresti pensare invece al vestito bianco per quando vi sposerete”.
“Non scherzare, Lena, io sto parlando di cose serie!”.
“Non scherzo, Leon ha intenzione di chiedere la tua mano non appena sarà tornato. Vi sposerete e vivrete per sempre felici e contenti...come è giusto che sia” si lasciò scappare Lena, pentendosi subito dopo di aver rivelato quel segreto: aveva promesso al principe che non ne avrebbe fatto parola con nessuno, e invece ancora una volta la sua bocca larga aveva parlato più del dovuto.
“Di cosa stai parlando? Lena, che cosa non so?”. Era ormai troppo tardi per rimangiarsi tutto, quindi fu costretta a riferire della conversazione avuta con Leon, della promessa fatta, dei suoi propositi. Ecco perché gli aveva chiesto di aspettarla, ecco perché aveva sempre ribadito quella reciproca appartenenza tra di loro. Leon voleva passare il resto della sua vita con lei, e quindi in un modo o nell’altro gli avrebbe spezzato il cuore.
“Non posso crederci...” . Cadde sulle ginocchia, prendendosi la testa tra le mani. Le tempie pulsavano e se non fosse per il fatto che aveva pianto già troppo in quei giorni probabilmente altre lacrime sarebbero scese in quel momento. La cosa peggiore non era che Leon volesse sposarlo, ma la consapevolezza che dentro di sé sentiva qualcosa smuoversi e sussurrarle all’orecchio ‘Lo vuoi anche tu’. Ma lo conosceva da così poco, non poteva volerlo sposare davvero!
‘Mai dare confidenza ai ragazzi. Gli dai una mano e quelli si prendono tutto il braccio’. Le parola di German per il suo sedicesimo compleanno risuonavano nella sua testa. A lei sembrava successo il contrario: in quel mondo assurdo e fuori da ogni schema si era aggrappata a Leon e lo aveva fatto suo, senza preoccuparsi delle ovvie conseguenze.
“Perchè ti disperi così tanto? Leon ti ama e nulla potrebbe esserci di più bello se non amare ed essere amati”. Lena si inginocchiò di fronte a lei, togliendogli le mani una ad una.
“Non posso sposarlo!”.
“Violetta, non ti capisco, come puoi non volerlo sposare? Insomma, mi sembrava di capire che foste felici insieme, tu stessa me l’hai detto. Ti ha detto qualcosa che ti ha ferito? Hai cambiato opinione di lui?”.
Violetta scosse la testa: non era così facile da spiegare. Non è vero, era lei che cercava di nascondere la verità a tutti, anche quando era ormai evidente.
“Io non sono di questo mondo e prima o poi dovrò abbandonarlo”. Lena si portò una mano alla bocca sconvolta. Non era la risposta che si sarebbe aspettata. Quante bugie c’erano state dietro le sue parola? Avrebbe potuto alzarsi ed andarsene via, lasciandola sprofondare nel dolore, perchè odiava essere ingannata. Ma a volte l’affetto sapeva essere più forte dell’orgoglio ferito.
 
La notte del Coniglio. Questo era il nome che Jade aveva dato all’unica volta al mese in cui doveva donare il proprio sangue per rinvigorire il serpente nascosto nella biblioteca. Rabbrividiva al solo pensiero di doversi inoltrare lungo il corridoio. Poi c’era il prelievo che gli procurava un dolore atroce per tutto il corpo e lo faceva stare male per giorni...sbalzi di umore, malessere, nausee continue. Era un incubo che durava da ben due anni e si stupiva di come fosse riuscito a non impazzire del tutto. A testa bassa ripercorreva le tappe della sua prigionia: era un caldo pomeriggio di maggio, quando suo padre gli stava mostrando il campo di carote coltivato da loro. Il loro avo, il primo Bianconiglio, per anni al servizio della Regina Rossa, aveva deciso di ritirarsi e la sua richiesta era stata approvata da Alice in persona, ottenendo una casa e un terreno non troppo distanti dal castello di cuori. Quello che doveva essere un tranquillo pomeriggio si era però trasformato in un incubo. Alcuni soldati di cuori avevano fatto irruzione nella loro terra, riferendo dell’ordine di Jade di portare al castello un Bianconiglio. Non entrambi, uno solo. Il padre ci aveva riflettuto a lungo e alla fine si era proposto volontario. La notte sarebbe stato scortato al castello.
Ci aveva pensato a lungo e aveva deciso che il padre era troppo debole e affaticato per compiere quel viaggio. Afferrò alcuni capi di abbigliamento, delle provviste per il viaggio e le infilò in uno zainetto di iuta. La regina di Cuori voleva un Bianconiglio, non le interessava chi fosse quindi avrebbe potuto prendere il posto del padre. In punta di piedi si diresse verso l’uscita; il silenzio tutto intorno era spezzato unicamente dal russare proveniente dal piano di sopra. Raramente usciva di notte e non aveva mai lasciato quel piccolo appezzamento, per cui solo il viaggio che avrebbe dovuto compiere gli metteva addosso paura ed eccitazione allo stesso tempo. Il padre si sarebbe preoccupato tantissimo non vedendolo più, ma aveva lasciato un biglietto sul suo comodino prima di uscire. Strinse forte l’orologio a cipolla dorato, simbolo della nobile casata dei Bianconigli, fedeli unicamente al volere di Alice, e saltellò fuori, annusando con incertezza l’aria umida tutta intorno. Si diresse nel luogo dell’incontro stabilito e mentre camminava si sentiva osservato. Raggiunse l’albero cavo, sotto il quale lo aspettavano le guardie. Le contò mentalmente e si rese conto che ne mancavano due.
“Non doveva venire tuo padre?” disse senza troppe cerimonie un uomo, togliendosi l’elmetto. Era chiaro che aveva paura di fallire la sua missione e non voleva rischiare di aver fatto un viaggio a vuoto. Dai racconti dei viandanti e del padre aveva saputo che l’attuale regina di Cuori era nota per la sua spietatezza nei confronti non solo dei nemici, ma anche dei suoi stessi sudditi. Deglutì a fondo e alzò gli occhi azzurri, sfidando lo sguardo aspro e diffidente del soldato. “Avete detto che avete bisogno di un Bianconiglio, e io lo sono” sussurrò Thomas con decisione. La spiegazione sembrò convincere l’uomo, che fece cenno agli altri di scortarlo fino ad una carrozza vicina. Per un momento rimase sorpreso di fronte a quel lusso, inconsapevole che sarebbe stato anche la sua rovina. Era affascinato da tutti i particolari di quella carrozza, non era mai salito su una di esse. Distolse lo sguardo dai cavalli, che avevano iniziato a nitrire a disagio, e venne invitato a salire. I sedili erano comodi e imbottiti. Ad un cenno il cocchiere fece scocchiare la frusta e iniziarono a muoversi. Nonostante fosse notte e si sentisse stanco non esitò ad affacciarsi dal finestrino entusiasta. In fondo quella chiamata a corte non era nemmeno tanto male, aveva aiutato il padre e allo stesso tempo avrebbe fatto un viaggio fantastico. Quanto oro si celava dietro le mura del castello di Cuori? Quante ricchezze? Non vedeva l’ora di scoprirlo. Guardò indietro per salutare un’ultima volta la sua casa, nascosta ormai da un fitto manto di alberi. Un nuvola di fumo però si ergeva poco sopra le punte delle chiome silvestri. Il sorriso spensierato morì, sostituito da un terribile sospetto. Ne volevano solo uno, non avevano specificato quale sarebbe stata la sorte dell’altro. Cercò di forzare lo sportello, in preda al panico, ma venne tenuto a bada da uno degli uomini al servizio di Jade. “Qualcuno ha appiccato un incendio! Torniamo indietro, salvate mio padre!”.
“Mi dispiace, ragazzino, ringrazia piuttosto che quella sorte non sia toccata a te”. Tentava di divincolarsi con più forza, ma non c’era nulla da fare. Ad un segnale del capo quello che lo tratteneva lo lasciò andare ma solo per colpirlo in testa con l’elsa della spada, facendolo accasciare, svenuto. Stretto nella mano l’orologio che ticchettava inesorabile.
Solo più in là aveva compreso perchè avevano eliminato suo padre: volevano che non avesse nessuno da cui tornare. Doveva rimanere legato a quel castello di sua volontà, doveva arrivare a considerarlo la sua famiglia, l’unico posto in cui poteva essere al sicuro. E per tanto tempo era stato così, fino all’arrivo di Violetta. Si, l’amava, ma non lo tormentava più il fatto che il suo amore non venisse corrisposto; grazie a lei aveva compreso il senso del voler essere liberi, di poter scegliere sempre il proprio destino. Non chiedeva altro se non la libertà. Non aveva mai smesso di pensare al suo piano di fuga e finalmente rovistando tra vecchie piante dell’edificio di tanti anni fa era arrivato a qualcosa di concreto: aveva trovato un modo per evadere da quella gabbia. Forse Violetta non sarebbe venuta con lui, ma sentiva il dovere di informarla dei suoi progressi, poi lei stessa avrebbe deciso cosa fare. Chiuse un quadernino nero su cui aveva preso velocemente degli appunti, facendo schizzi di alcuni punti del castello e uscì dalla sua stanza. Non appena mosse un passo incrociò il medico appena arrivato, Dj, si chiamava. Aveva subito pensato che si trattasse di un nome buffo, ma non aveva mai fatto commenti a tal proposito, per non inimicarsi nessuno. Quel ragazzo non gli piaceva affatto: non solo era troppo giovane per avere esperienza nel campo della medicina, ma poi si aggirava sempre con l’aria di chi stava macchinando qualcosa. Ad esempio, anche adesso si chiedeva cosa ci facesse proprio fuori dalla sua stanza, come se lo stesse aspettando.
“Buonasera” salutò educatamente Dj con un gesto della mano appena accennato. Thomas annuì ma non disse nulla. Non si fidava: lo stava forse studiando? Aveva capito il suo segreto? Non poteva esserci riuscito, i sintomi dell’instabilità di verificano solitamente i primi giorni dopo il prelievo, che sarebbe dovuto avvenire quella notte, anche se aveva progettato la sua fuga prima che accadesse. “Desideravate qualcosa?” chiese con tono incolore.
“Assolutamente...ma penso che tu possa essermi utile in qualche modo” spiegò Dj, avvicinandosi e guardandosi intorno.
“Non vedo com...”. Non fece tempo a finire la frase che cadde a terra privo di sensi. Dietro Andres reggeva uno dei candelabri della loro stanza, con cui aveva messo il Bianconiglio KO.
“Dovevi proprio essere così diretto? Insomma, stavamo parlando! E poi ti avevo detto di aspettare il mio segnale” sbuffò il mago, schioccando le dita. Delle funi invisibili sollevarono Thomas, facendolo finire a mezz’aria.
“Manca poco al tramonto...se stanotte vogliamo tornare in quella stanza e tu credi che abbiamo bisogno di questo coniglio, non c’è tempo per le chiacchiere”.
Dj lo guardò con ironia, quindi scosse la testa con un sorrisetto: “Come devo fare con questi rivoluzionari! Tutti muscoli e niente cervello. Piuttosto vai avanti a controllare che la via sia libera. Ci manca solo che mi vedano mentre faccio levitare un roditore in camera nostra”. Mentre osservava Andres avanzare rapidamente con il volto inespressivo, teso per il fatto che di lì a poco avrebbero potuto fare ritorno dal serpente. Gli aveva chiesto di fidarsi del suo istinto di mago e lui gli aveva semplicemente riferito della strana sensazione che avvertiva anche adesso: quel ragazzo emetteva una strana energia, la stessa che aveva avvertito nel serpente. Se dovevano fidarsi dei suoi poteri, allora dovevano portarsi dietro Thomas, perché era sicuro sarebbe stato in grado di svelare il segreto del custode della spada. Ma prima avrebbero dovuto farlo cantare.
Thomas si risvegliò legato ad una sedia come un salame. Di fronte a lui il medico con i suoi due assistenti lo guardavano attentamente. Tentò di divincolarsi, ma i nodi erano stretti e finiva solo per farsi del male. “AIUTO!” provò ad urlare, ma a quella richiesta Dj scoppiò a ridere. “Amico ho insonorizzato la stanza con un incantesimo. Fossi in te non mi affaticherei per nulla”.
Thomas impallidì: un mago! Ma cosa ci facevano lì? E cosa volevano da lui? “Siete dei ladri?”.
“Diciamo che non è del tutto sbagliato” rispose il più basso dei tre. “Vogliamo la spada di Cuori”.
“V-voi sapete della spada?” balbettò il Bianconiglio, sempre più confuso.
“E’ il motivo per cui siamo qui...abbiamo bisogno del pezzo dell’armatura” ribatté Andres con freddezza.
“Non posso fare nulla per voi. Sapete meglio di me che è protetta ed è impossibile prenderla”. Thomas batteva i denti per la paura: aveva avuto ragione a sospettare di quei tre, non che ora gli fosse di aiuto in qualche modo. A quelle parole lo guardarono torvo, ma lui aveva detto la verità. La prima volta che gli era stato estratto il sangue per eseguire l’incantesimo gli era anche stato spiegato che non poteva essere spezzato e che era in grado di vanificare ogni magia. Quella notte il serpente doveva essere nutrito, quindi era piuttosto debole, ma sempre in grado di fronteggiare quel gruppetto, perchè la magia non contava nulla.
“Beh, noi crediamo che tu possa esserci in ogni caso di aiuto...”. Andres venne interrotto da qualcuno che bussava alla loro porta. Fece un cenno a Maxi, che scattò subito, tendendo l’orecchio per sentire di chi si trattasse. Lo distolse dopo qualche secondo. “E’ Violetta, si è presentata all’appuntamento, ma non è da sola, è venuta con la sua amica”.
“Bene, falle entrare” esclamò Dj. Andres prese uno straccio e lo premette sulla bocca di Thomas, perché quando la porta sarebbe stata aperta l’incantesimo insonorizzante non avrebbe avuto effetto. Violetta e Lena entrarono e rimasero sconvolte di fronte alla visione di Thomas legato e imbavagliato. La porta si richiuse dietro di loro con uno scatto e il Bianconiglio fu di nuovo libero di parlare.
“Che cosa state facendo a Thomas?”. Vioetta era sconvolta e si era precipitata dall’amico, con l’intento di liberaro, ma Andres si mise in mezzo, fissandola truce.
“Abbiamo bisogno del suo aiuto per un motivo importante”.
“Niente giustifica il fatto che l’avete legato!”. I due si stavano sfidando con rabbia e nonostante ci fosse da aver paura Violetta aveva tirato fuori un’inspiegabile coraggio. Thomas le era sempre stato vicino, era stato un amico leale, che non aveva mai rivelato i suoi segreti e vederlo ridotto in quello stato la faceva arrabbiare ancora di più.
Dj capì che era il momento di spiegarle il motivo per cui le aveva chiesto di presentarsi nella loro camera. Si era deciso a rivelarle quello che la Regina Bianca gli aveva detto nella grotta. Avevano bisogno che venisse con loro, dovevano portarla sana e salva al Palazzo di Picche.
“Dobbiamo parlare...”. “Da soli” aggiunse guardando nella direzione di Lena, che si sentì un’estranea in mezzo a quel gruppo di persone.
“Non c’è nessun segreto che nasconderei a Lena” ribattè Violetta con fermezza, stringendo la mano dell’amica per infonderle coraggio.
Il mago sospirò: quella ragazza era veramente testarda quando ci si metteva. “La questione è delicata...”. Lanciò un’occhiata ad Andres che annuì senza pensarci due volte. Anche lui era d’accordo: se volevano che collaborasse con loro doveva essere messa al corrente di tutto.
“Già che ci siete, spiegatemi anche cosa volete da me!” ebbe la forza di urlare Thomas, visto che l’attenzione si era spostata da lui a Violetta.
“Abbiamo bisogno di te per superare il serpente!” rispose secco Maxi, senza degnarlo di attenzione. Era completamente coinvolto dalla piega che aveva preso quella conversazione. Violetta avrebbe potuto considerarli dei pazzi e invece aveva bisogno che si fidasse di loro. Di lui. L’avrebbe protetta da tutto e da tutti, perfino dal temibile Leon.
“Durante il nostro viaggio ci siamo imbattuti nello spirito della Regina Bianca” cominciò a parlare il mago. Lena trattenne il fiato, Violetta non sapeva che pensare: la Regina Bianca non faceva parte del racconto che gli aveva fatto Humpty? Ma perché il suo spirito era ancora legato a quel mondo? Aveva talmente tante domande da fare, ma decise di aspettare che avesse finito quello che aveva da dire. “E lei ci ha chiesto di trovare una Prescelta, perché grazie a lei la nostra missione non sarà vana”. Dj non riusciva a continuare, timoroso delle conseguenze che quella rivelazione avrebbe potuto avere sulla ragazza. Fu Andres a completare il discorso al posto suo: “Ha fatto il tuo nome, Violetta”.
 
La carrozza di Quadri sfrecciava tra le verdi praterie del Regno di Fiori, diretta verso Fiordibianco. Ludmilla ancora non l’aveva fatta pagare a Natalia e stava seriamente meditando di toglierle ogni libertà. L’aveva fatta agire di testa proprio ed ecco che aveva perso l’elmo.
“Finché noi avremo lo scudo, nessuno potrà riunire l’armatura, lo sai bene. Smettila di angustiarti”. Diego cercava di confortarla, ma non riusciva a stare tranquilla, non sopportava che le persone commettessero errori. Gli errori erano sinonimo di imperfezione e un suo piano non poteva non essere perfetto. La carrozza si fermò di botto, rischiando di catapultarla in avanti, se Diego non fisse intervenuto afferrandola per la vita.
“Ma come si permette a fermarsi in questo modo!” sbottò la regina, sempre più arrabbiata. Uno dei cavalieri della scorta si avvicinò timoroso. Già aveva sentito le strilla di Ludmilla e non ci teneva proprio a subire una condanna con il solo fine di farle sbollire la rabbia. “Mia signora...sono arrivati dei messi dal fronte capitanati dall’Asso”. La Ferro lo guardò sorpresa e confusa: l’Asso era una delle sue armi segrete, un assassino senza scrupoli, ottenuto dalla fusione delle sue pozioni con la magia più nera. Faceva i lavori più sporchi senza sottrarsi e non aveva bisogno di compiacerlo in alcun modo. Per arrivare a contraddire un suo ordine e prendere l’iniziativa di venirle incontro però doveva essere successo qualcosa di grave. Si fece aprire lo sportello e mise piede nell’erba umida, in cima ad una squallida e vuota collina. Tre cavalli neri galoppavano senza sosta e subito riconobbe lo stendardo del suo Regno portato da quello sulla destra. Nonostante fosse lontano e portasse il cappuccio riconobbe subito l’Asso, che guidava gli altri due. Il suo cavallo era il più grosso e il più forte, era stato anche il più difficile da addomesticare e tuttora dava segni di irrequitezza, per cui tutti gli altri dell’esercito si erano rifiutati di cavalcarlo. In pochi minuti i messaggeri raggiunsero la sommità del colle e scesero dai loro cavalli.
“E’ un piacere rivederti” disse Ludmilla, non lasciando trasparire neppure una goccia di quel piacere di cui parlava. Se era arrivato a volerle parlare non dovevano essere buone notizie. L’uomo incappucciato si inginocchiò, tenendo lo sguardo basso e rimase in quella posizione mentre parlava. “Hanno sfondato le linee a nord e siamo stati costretti a retrocedere...Picche non vuole mollare”. La voce era un sussurro infernale e perfino Diego arretrò di qualche passo, innervosito.
“Tutto quello che hai da dirmi è questo?” sbottò Ludmilla.
L’Asso scosse la testa. “Si tratta di una Profezia...ne siamo venuti a conoscenza in un villaggio della Palude di Jolly. C’è una Prescelta in questo mondo, ed è qui per salvarlo”.
“Salvarlo?! Lei non salverà un bel niente, perché sarà tutto nelle mie mani” protestò la Regina, stringendo i pugni e affondando le dita nel velluto pregiato dei guanti color pervinca.
“Abbiamo messo a ferro e a fuoco l’intero villaggio, ma nessuno conosce il nome della Prescelta. Dicono che esso è custodito nei meandri della Grotta delle Profezie. Abbiamo mandato qualche uomo lì dentro, ma sono tutti tornati in preda alla pazzia, parlando di visioni e di fantasmi”.
Questa non ci voleva: un altro contrattempo che ritardava il suo progetto. “Sicuramente saranno voci...non abbiamo le prove di una tale profezia”.
“Dicono di averla incisa nella Grotta. Non penso ci sia da scherzare” ribattè l’Asso, alzandosi lentamente.
“Il libro è custodito al sicuro nel mio castello. Senza quello nessuno sa di ciò che nasconde il Paese delle Meraviglie. La ragazza non costituirà un problema” sentenziò, cercando di tranquillizzare più se stessa che gli altri. L’uomo si tolse il cappuccio, rivelando le sembianze di un giovane, dagli occhi scuri e spenti, immersi nel vuoto. Le labbra erano sottili e piegate in un sorriso sghembo, la carnagione era olivastra. Al collo, dove era allacciata la cappa, nera come i suoi capelli, un filo nero era cucito sulla sua pelle, e risaliva fino al mento e lungo la guancia destra per poi scomparire nuovamente.
“Strano che non conosca nemmeno il nome del mio servitore più fidato. Ormai per me sei Asso e basta” rise Ludmilla. L’Asso scosse la testa, senza interrompere il suo sorriso innaturale.
“Mi chiamo Sebastian, mia regina”.  







NOTA AUTORE: Premetto che sono una persona orribile perché non ho la forza di rileggere l'ultima scena, quindi sicuramente qualcosa mi è scappato perchè con questa nuova tastiera gli errori mi scappano :') Ma fate finta di nulla, tanto c'è la scioccante rivelazione finale, e quindi- ma io devo commentare.
IL FLASHBACK INIZIALE *si accascia a terra* Leon sente sempre di non meritare le lacrime di Violetta, e scopre sempre di più la sensazione del sentirsi amato, mentre Violetta- beh, lei è messa maluccio. Soffre parecchio in questi capitoli, ed è solo all'inizio D: Detto questo, tralascio l'abbraccio di Maxi e Violetta, che per me è un grossissimo no, e passo alla scena tra Dj e Violetta...oddio, ma lo sapete che mi piacciono un sacco come amici? Non avranno molte scene loro due insieme, ma questa è forse la più significativa *^* E poi arriva Maxi -.-" Quello c'è sempre, figuriamoci .-. Che poi non ha capito che Violetta non lo vuole, e anzi, non sa come spezzargli il cuore ù.ù Poi tra Lena e Violetta arriva il momento delle confidenze, e Lena scopre il motivo per cui Violetta non può pensare a delle nozze tra lei e Leon. AHIA D: 
Nel frattempo capiamo qualcosa di più del personaggio di Thomas, che in fondo è tenero dai :D Il suo passato è tutt'altro che allegro...però risulta utile ai rivoluzionari, e infatti...che sia questa la chiave per risolvere l'enigma? 
Andres poi rivela a Violetta che lei è la Prescelta...e nel finale conosciamo un personaggio che non ci aspettavamo di poter conoscere...si tratta proprio di Seba? Ma cosa nasconde quel ragazzo? E come mai Camilla sa di averlo perso? Forse crede che è morto? Io lo so, voi no, ma mi piace sentire le vostre ipotesi, quindi buttatevi :') Grazie a tutti per continuare a seguire quest'intricata storia, e non vi preoccupate, ci avviciniamo sempre di più al gran finale :3 Grazie a tutti, e alla prossima!
syontai :3 

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Capitolo 54
*** Fuga in miniatura ***


Capitolo 54
Fuga in miniatura

Nonostante la spiegazione dettagliata di Andres al riguardo Lena continuava a non capire. O forse quelle erano troppe informazioni per un solo giorno: solo qualche minuto prima aveva saputo che la sua amica non apparteneva a quel mondo e adesso veniva fuori che la Regina Bianca aveva indicato Violetta come colei che avrebbe deciso le sorti del Paese delle Meraviglie. Il suo primo pensiero fu che erano tutti e tre pazzi. Più Andres, che era il loro capo, andava avanti con il racconto più se ne convinceva. Voltandosi però verso l’amica notò che era incredibilmente seria. Non poteva davvero credere a quell’infinita quantità di bugie! E allora perché non ribatteva? Perché ascoltava in silenzio?
“...e questo è il motivo per cui siamo qui. Abbiamo bisogno di quella spada, così come abbiamo bisogno di te, Violetta”.
“Ma probabilmente si tratta di un’altra ragazza che si chiama Violetta!” si intromise Lena, senza riuscire a tacere.
“Non ne conosciamo molte che vengono da un altro mondo”. Dj non aveva saputo tacere di fronte alla risposta della biondina. Portò una mano sulle tempie e chinò la testa di lato, cercando di capire in che modo avrebbero dovuto agire d’ora in poi. Il piano era cambiato perché non potevano lasciare quella serva a piede libero: avrebbe potuto raccontare tutto. Portarla con loro avrebbe costituito un ulteriore rallentamento, ma nessuno di loro aveva abbastanza fegato per metterla a tacere. In fondo era un’innocente che aveva saputo più del dovuto.
“D’accordo, verrò con voi”. La voce di Violetta risuonò chiara alle orecchie del mago, che strabuzzò gli occhi, sorpreso. Non si aspettava tanta accondiscendenza, in realtà si aspettava una marea di domande e un diniego a primo impatto. Forse Violetta sapeva più di quanto non desse a vedere. “Ma prima devo essere sicura che una persona sappia della mia partenza”.
“Non abbiamo altra scelta, dobbiamo fuggire stanotte! Il serpente è più debole e l’assenza di Thomas verrà avvertita a lungo andare” disse Maxi, ottenendo dei cenni di assenso da tutti, tranne da Lena, ancora troppo sconvolta, Thomas, che ancora non stava capendo nulla del suo ruolo in tutto quello, e Violetta, persa nei suoi pensieri. Nei suoi occhi si leggevano incertezza e paura: quanto tempo sarebbe passato prima che Jade l’avrebbe fatta eliminare? Non si fidava della parola della regina, non si sentiva al sicuro in quel posto senza Leon. Ma come poteva lasciarlo quando gli aveva promesso che l’avrebbe aspettato?
“Gli scriverò una lettera e la lascerò in un posto al sicuro in modo che solo lui la possa trovare” esclamò Violetta decisa.
“D’accordo, direi che non possiamo impedirti di salutare le persone a cui tieni” la rassicurò Andres.
“Ho un’altra condizione: Lena e Thomas verranno con me”. A quelle parole per poco a Maxi non venne un colpo, mentre il loro capo non batté ciglio, come se si aspettasse una richiesta del genere. Era una ragazza fedele agli amici, non era difficile capirlo.
Lena si avvicinò a Violetta terrorizzata. “Tu vuoi fidarti di loro? Io-io...ho paura. Non so se è un bene che io venga con te. Forse dovresti lasciarmi qui e...” le sussurrò all’orecchio con discrezione, senza però smettere di fissare la cicatrice di Andres, che se prima le era apparsa tanto affascinante adesso le incuteva timore. “Scordatelo! Ho paura di quello che potrebbe farti Jade dopo la mia fuga. Potrebbe pensare che tu sappia dove sono diretta e magari arrivare a torturarti. Non posso permetterlo”.
“Avrete bisogno di me per scappare da qui...sono l’unico a conoscere il modo” borbottò il Bianconiglio, indicando con lo sguardo le corde. Maxi lo slegò dopo qualche minuto e il moro si alzò, stiracchiandosi.
Violetta si disinteressò completamente di quello che si stavano dicendo in quel momento, la sua attenzione era attirata da una pergamena posta su un piccolo scrittoi tra i due letti. Si sedette sulla brandina e prese la piuma d’oca appoggiata, intingendola poi nel calamaio posto sull’estremita. Lena le aveva insegnato a scrivere con l’inchiostro e all’inizio non era stato per niente facile, anzi...più volte aveva finito per fare dei pasticci illegibili, ma adesso ci aveva preso abbastanza la mano. Un fiume di parole riempì la pergamena bianca, rassicuranti, tenere, forti, insicure. Nessun lato di quello che provava in quel momento veniva tenuto all’oscuro. In fondo quella lettera era indirizzata a Leon e con lui sapeva di dover essere sempre sincera. Una volta finita deglutì a fondo e gli diede una rapida riletta, poi si rivolse agli altri che non si erano nemmeno accorti di quello che stava facendo, a parte Maxi forse, che la guardava di tanto in tanto con apprensione.
“Io vado...appena ho finito torno”. Andres annuì e questo fu come un lasciapassare per tutti. Violetta uscì dalla stanza, seguita da Dj che non voleva rischiare le succedesse qualcosa di male proprio ora che l’avevano trovata e convinta a seguirli.
Nella biblioteca conobbe Humpty Dumpty e subito gli fu simpatico. Era un uomo, o un uovo a seconda dei punti di vista, saggio e spiritoso. Ma soprattutto era leale e fu per quello che Violetta gli rivelò tutto. “Hai ragione a voler fuggire...riferirò tutto a Leon”.
“So che lo farai” gli sorrise Violetta, poi mostrò la lettera, ancora aperta, e la ripiegò sotto i suoi occhi. “Ma ho bisogno che Leon legga ciò che ho da dirgli”. Inutile dire quanto quelle parole sconvolsero il mago. Del principe Vargas erano giunte parecchie voci, alcune dal caratteristico sapore di leggenda, ma nessuna di queste era rassicurante. Leon portava la morte dove indicava con la punta della spada, eppure quei due ne parlavano come se fosse una persona...normale. A costo di sbagliarsi di grosso, credeva anche che tra Leon e Violetta ci fosse qualcosa di più che un rapporto di conoscenza o di amicizia, lo capiva dal suo sguardo angosciato e dal fatto che ci tenesse tanto che quella lettera raggiungesse il suo destinatario. “La lettera sarà al sicuro” esclamò l’uomo-uovo aggirandosi tra gli scaffali fino a prendere un libro. Lo aprì e vi mise dentro il messaggio di Violetta per poi richiuderlo e rimetterlo a posto. “Nessuno si avvicinerà a questo libro senza il mio consenso...ma non credo che ce ne sarà bisogno. Non si verrà a sapere”.
Una delle sentinelle però aveva sentito tutto, appiattita alla parete appena fuori dalla biblioteca. Sebbene le porte fossero chiuse infatti era riuscito ad origliare la conversazione e non poté fare a meno di pensare alla lungimiranza di Jade. Aveva capito che la ragazza avrebbe provato a fuggire ed era pronta a sfruttare la mossa a suo favore.
Ma le trame della regina di Cuori non erano visibili agli occhi di Violetta e degli altri; quest’ultima poi era sicura che Leon, non appena venuto a conoscenza della sua missione, l’avrebbe cercata per aiutarla e combattere al suo fianco. Per Jade non c’era più alcuna speranza, il regno che aveva messo in piedi basandosi sulla paura e la tortura era destinato a crollare per mano del suo stesso figlio, ne era convinta. Lasciarono la biblitoeca a cuor leggero, ma il pensiero di quello che li attendeva la notte stessa non li sollevava.
“Thomas ci ha detto che il serpente viene nutrito a mezzanotte in punto...noi per quell’ora dovremo essere fuori dal castello. Quindi dobbiamo prepararci a scappare. Violetta, sarò sincero con te...Lena e Thomas potranno venire con noi, ma se dovessero trovarsi in difficoltà noi non torneremo indietro per aiutarli. Siamo qui per te e per la spada. La missione è più importante di tutto” disse il mago.
“Non ce ne sarà bisogno, filerà tutto liscio” replicò Violetta, fingendosi sicura per i suoi due amici, ma in realtà dentro aveva paura per quello che sarebbe potuto andare storto. Troppe incognite, troppe incertezze, e affidarsi al caso non era proprio il suo forte. Ma di una cosa era sicura: non avrebbe lasciato nessuno indietro. Nessuno.
La serata trascorse in silenzio nella camera di Dj, Andres e Maxi. Thomas ripassava i turni di guardia e la via di fuga ideata, che si basava su un vecchio passaggio segreto, che aveva scoperto essere proprio nei pressi del padiglione sul lago. Dj invece prendeva respiri profondi e guardava in direzione del Bianconiglio come se da un momento all’altro lui stesso potesse trasformarsi nel serpente a guardia della spada. Lena era quella più in disparte di tutti, non guardava nessuno, non aveva voluto nemmeno toccare cibo.
“Sai che dopo aver preso la spada dovremo andare nel castello di Quadri? La nostra missione non finisce così” esclamò Maxi, sedendosi accanto a Violetta sul letto.
“Me ne ha parlato Dj” rispose secca la ragazza, mordendosi il labbro inferiore, lo sguardo rivolto verso il cipollotto d’oro che Thomas aveva in mano. Maxi si incantò di fronte a quel gesto tanto semplice. Quelle labbra gli ispiravano dolcezza e morbidezza, gli ricordavano i fiori di pesco che crescevano vicino alla casa dove era vissuto. Con una morsa nello stomaco alle delicate immagini dell’infanzia si sostituì la crudezza di un presente dove sua madre e suo nonno non erano presenti. Andres e gli altri ormai erano la sua famiglia e per loro avrebbe fatto di tutto, perché si senteva in debito. In quel preciso istante Andres diede un colpo di tosse e quello significava solo una cosa: era giunto il momento. Avrebbero rischiato la vita per prendere un prezioso oggetto e sperare di porre così fine a una guerra che stava devastando il Paese delle Meraviglie. I propositi erano nobili, ma guardando in faccia alla realtà aveva solo terribilmente paura, come tutti là dentro.
“Sei ancora in tempo per cambiare idea”. Andres si rivolse a Lena, che si fece esitante di fronte a quella possibilità. Ma poteva davvero tutto tornare come prima? La sua amiciza con Violetta non l’avrebbe permesso. Chissà che cosa avrebbe fatto la regina Jade per vendicarsi su di lei...avrebbe potuto punirla per la faccenda del vestito, o chissà per cos’altro. No, quel posto non era più sicuro per lei. Scosse la testa, sebbene con una nota di incertezza, e rispose con voce tremante. “Io vengo”. Andres annuì e le mise un braccio dietro la schiena, trascinandola fuori dalla stanza. Non era ancora notte fonda, ma il castello era già silenzioso e i corridoi completamente deserti. Lentamente si diressero nella biblioteca e l’ultimo ad entrare richiuse la porta cercando di non fare il minimo rumore. Violetta gettò un’occhiata nervosa verso uno scaffale e tirò un sospiro di sollievo nel riconoscere la copertina del libro in cui si trovava la sua lettera. Quando si voltò di nuovo verso i suoi compagni però rimase a bocca aperta: dove prima si trovava una libreria c’era l’entrata di un passaggio stretto scavato nella pietra.
“Forse è meglio che voi due ci aspettiate qui...” esclamò Andres, indicando lei e Lena. “Non appena saremo usciti di qui, dovremo essere molto veloci”. Detto questo, insieme ai suoi due compagni con l’aggiunta di Thomas si addentrò nel cunicolo.
Il Bianconiglio al suo fianco tremava. Sicuramente quel posto non era per lui piacevole, doveva essere una sorta di incubo. Gli aveva detto che quel serpente si nutriva del suo sangue, il sangue di un’antica creatura magica che era pura magia e per questo non poteva essere scalfito da essa. Dj non aveva ancora elaborato un piano, ma era certo che Thomas fosse la chiave di tutto. In qualche modo sarebbero riusciti a servirsene per recuperare la spada.
Il sibilo del serpente divenne di nuovo l’unico suono perfettamente distinguibile, tutt’intorno il nulla. La luce li abbagliò e per poco Andres non inciampò in un oggetto per terra, posto all’ingresso. Abbassò lo sguardo: si trattava di una grossa siringa dall’ago lungo e acuminato. Gli diede un calcio ed essa finì in fondo alla parete. “Immagino che non abbiamo nessun piano” disse rivolgendosi al mago, che rispose con un sorrisetto nervoso, pietrificato dallo sguardo ipnotico del cobra maestoso, che fissava i nuovi arrivati con interesse. La sua luce era più fioca ma rimaneva comuque accecante e bastava semplicemente l’imponenza del custode a incutere timore.
“Che devo fare, distrarlo?” domandò il Bianconiglio, sebbene la sua stessa idea non lo allettasse affatto.
“E io nel frattempo provo a prendere la spada, d’accordo, procediamo!”. Maxi non attese nemmeno il via e si lanciò di corsa verso il serpente che mimò una smorfia divertita e fece uscire la lingua biforcuta sibilando. Alla sua destra Thomas avanzava con lo sguardo terrorizzato, affiancato da Dj che si teneva pronto a lanciare qualche incantesimo di evenienza e Andres, che aveva sguainato un pugnale, sebbene fosse inutile contro un mostro incorporeo. Il serpente non tolse gli occhi di dosso da Maxi e nel frattempo mosse la coda colpendo Andres e gli altri: fu come se una tonnellata di pietra gli fosse stata scagliata sullo stomaco, quasi non riusciva a respirare a causa dell’impatto e si accasciò a terra insieme al mago, mentre Thomas sembrava stranamente illeso. “Che cosa è successo?” strillò, appiattendosi alla parete. Andres si tirò in piedi a fatica, tenendosi lo stomaco con le mani. Gemette e digrignò qualcosa tra i denti. “A te non ha fatto nulla?”. Il Bianconiglio scosse la testa terrorizzato. Dall’altra parte della stanza, Maxi lottava con le unghie e con i denti per avanzare, ma oramai le gambe non resistevano più, quindi cedette inginocchiandosi. Provava un senso di fastidio perfino nel dover respirare. Sambrava la scelta migliore quella di accasciarsi a terra e rimettersi alla volontà del cobra, ma le urla disperate di Thomas non gli permettevano di mollare. Era troppo facile mollare e lui finora aveva sempre preso la strada più difficile. Si rimise in piedi a fatica e non potè non leggere una traccia di scherno nelle pupille dilatate del serpente, che abbassò il capo fino a che la punta della lingua non raggiunse il viso di Maxi, il quale rimaneva fermo, immobile.
“Vuoi farmi fuori? Accomodati, perché io non me ne vado senza quella spada” mormorò con voce spezzata il ragazzo. Andres si trascinò al suo fianco: “Siamo in due allora”.
“Questi stupidi atti di eroismo...” borbottò Dj sputando sangue mista a saliva mentre si metteva alla sinistra di Andres. Aveva un braccio rotto e qualche costola stava dando segno di cedimento, ma finché riusciva a reggersi in piedi avrebbe cercato di proteggere i suoi amici. Il Pactio che c’era dietro non c’entrava più nulla: per un motivo o per un altro provenivano tutti da un passato doloroso da cui volevano fuggire. Non era più solo e soprattutto aveva uno scopo.
Il Bianconiglio rimase appiattito guardando i tre eroi fronteggiare il serpente, ma era chiaro che avrebbero ceduto a breve. La loro linfa vitale fluiva via sempre più velocemente, e lui non sapeva che fare. Il cobra si preparò ad attaccare, ma Maxi scartò di lato e le fauci affondarono nel pavimento creando una scossa in tutta la stanza. Dj formulò ad alta voce incantesimi di protezione, visto che non poteva fare altro. Sembrava quasi stessero combattendo contro l’aria, con la differenza che loro potevano essere colpiti, mentre lo spettro rimaneva illeso. Eppure lui non si sentiva più debole, era solo paralizzato dalla paura, ma per il resto sembrava immune dagli effetti mortali della creatura. Approfittando del fatto che Maxi e gli altri stavano cercando di fronteggiarlo testa a testa si avvicinò lentamente arrivando a sfiorare con la mano il corpo del serpente gigante, avvolto intorno alla teca. E proprio come se si trattasse di aria riuscì ad attraversarlo, ritrovandosi di fronte alla spada di Cuori con sua enorme sorpresa. Il serpente non si era minimamente della sua presenza, come se fosse invisibile ai suoi occhi. O forse lo era davvero. Rimosse uno dei quattro vetri della teca argentata e afferrò la spada. Subito avvertì una forte scossa lungo tutto il braccio che si diramò nel resto del corpo attraverso piccoli brividi. Gli occhi scintillarono dorati, riflettendo l’aura che si diffondeva dalla lama perfetta e liscia. Quando la sollevò in aria fu come se tutto il potere del mondo si fosse concentrato sulla punta; la agitò appena in aria e lame argentate si scagliarono intorno alla stanza, andando a scavare le pareti in profondita. Il cobra si voltò, sconvolto dal fenomeno, ma non riconobbe un ladro, bensì qualcos’altro. Abbassò il capo per fiutarlo e ad una sola occhiata torva del Bianconiglio si acciambellò intorno alla teca, sebbene il suo contenuto fosse stato rubato.
“E’ in grado di controllarlo...ed è perfino immune alla sua magia!” esclamò Maxi, arretrando con l’affanno, fino a lasciarsi cadere a terra esausto.
“La magia del sangue...tanto piena di incognite. Penso che il serpente lo riconosca come colui che gli ha dato la vita. Il fatto che la magia del custode non abbia effetto su di lui deriva proprio dal fatto che il suo sangue ne è immune. Una magia contorta che però ha mostrato di avere un punto debole” spiegò il mago, sorpreso di avere ancora fiato per parlare. “Adesso arriva la parte più difficile, dobbiamo lasciare il castello” li esortò Andres, facendo un cenno a Thomas di raggiungerli. Il ragazzo arrivò, incredulo del fatto che stesse reggendo tra le mani un oggetto tanto prezioso. I suoi occhi erano tornati azzurri, ma dentro sentiva ancora la forza e la rabbia della spada. I quattro percorsero il più velocemente possibile il corridoio e uscirono a fatica. Non appena Violetta li vide sporchi, polverosi, con del sangue che gli usciva dalle ferite sul viso ebbe un tuffo al cuore. Per fortuna erano tutti vivi.
“Dobbiamo andare!”. Lena si avvicinò a Dj, aiutandolo a camminare mettendogli un braccio intorno alle spalle, mentre Andres e Maxi sembravano essere in grado di riuscire a farcela da soli. Quando però raggiunsero le scale videro che un numeroso manipolo di sentinelle si era stabilito proprio di fronte all’ingresso e sembrava li stesse aspettando. Rimasero nascosti dietro la parete, ma altre vie di uscite non c’erano e non erano nelle condizioni di affrontare tutte quelle guardie, che avrebbero trovato sicuramente il modo per dare l’allarme agli altri. Ma aspettare lì non era possibile: si avvicinava inesorabilmente la mezzanotte e avrebbero scoperto del furto della spada.
“Per il tuo Noncompleanno. Mi raccomando conservalo con cura, potrebbe esserti utile!”. In quell’istante le risuonò in testa la frase di Beto quando le aveva consegnato il fungo, che portava sempre con sè dopo il consiglio di Camilla. Lo tirò fuori dalla tasca e lo osservò con un po’ di timore. Non capiva in che modo potesse esserle utile, se non mangiandolo. Guardò gli altri e poi prese un respiro profondo: forse l’avrebbero presa per pazza per quello che avrebbe proposto, ma non vedeva altre alternative, più il tempo passava più si avvicinava la loro ora. “Questo potrebbe essere la nostra salvezza” disse indicando il fungo. Nessuno disse nulla, talmente tanto erano presi dal panico. Persino Andres, che era sempre freddo e controllato, sembrava aver perso ogni speranza. Senza aggiungere altro diede un piccolo morso al fungo: la consistenza era gommosa e aveva un retrogusto di terra, di selvatico. Più masticava più esso sembrava opporre resistenza; quando lo ebbe completamente ingoiato, i suoi compagni le sembravano stranamente alti. Guardandosi le mani però si rese conto che era lei a stare rimpicciolendo. In un attimo era alta quanto il corrimano della scalinata, un secondo dopo aveva le stesse dimensioni di un fagiolo e il cappello del fungo alla sua destra era il doppio di lei.
“Ma che magia è questa?” sussurrò sconvolta Lena, prendendo in mano il fungo e osservando preoccupata la sua minuscola amica.
“Un fungo raccolto nella palude dove vive il Brucaliffo...l’espediente più semplice per rimpicciolirsi” disse il mago. Il fungo cambiò colore: una metà, quella dove Violetta aveva morso, rimase marrone chiara, mentre l’altra divenne blu. “La parte blu è per ritornare alle dimensioni originarie, credo” constatò Dj, rigirandosi l’oggetto tra le mani. Inaspettatamente diede un morso vicino a dove lo aveva dato la ragazza e anche lui si restrinse, fino a diventare della stessa statura di Violetta. Quando Thomas si rimpicciolì la spada si adattò alla mano del possessore diventando grande quanto uno stuzzicadenti. Uno dietro l’altro si passarono il fungo per far si che la magia facesse effetto, e quando l’ultimo si ritrovò vicino alle scalinate, che apparivano enormi, Dj fece una magia cosicché anche il fungo diventasse microscopico. “Con gli oggetti le magie di rimpicciolimento funzionano” spiegò, mettendosi la metà blu, l’unica rimasa, in tasca. Le scale apparivano ora come enormi gradoni insormontabili e tutto intorno era esageratamente enorme.  
“Saliamo sul corrimano e poi lo usiamo come uno scivolo” propose Andres, e visto che nessuno aveva idee migliori cominciarono ad arrampicarsi sulle colonnine fino a raggiungere la liscia superficie del marmo. Violetta altre volte da piccola era salita su uno scivolo, ma quella fu comunque l’esperienza più emozionante e pericolosa fatta in tutta la sua vita. Il vento le sferzava il viso mentre rapidamente acquistava velocità, e per un po’ fu costretta perfino a chiudere gli occhi per il fastidio. Davanti a lei c’era Dj e dietro tutti gli altri. Solo quando raggiunse la fine della discesa si chiese però come avrebbe fatto a fermarsi. Provò a rallentare poggiando le mani e facendo forza in preda al panico, ma la velocità era troppo forte ed ottenne solo di scorticarsele. Quando abbandonò il marmo chiuse gli occhi aspettandosi lo schianto, ma non avvenne. Uno scivolo invisibile, creato dal mago proseguiva a spirale facendoli così scendere dolcemente. Atterrarono proprio vicino alle sentinelle, che non li degnarono di uno sguardo. Troppo impegnati a guardarsi intorno in cerca di nemici notturni nessuno si era curato di dare un'occhiata al pavimento. Ma forse anche in quel caso li avrebbero scambiati per insetti e non li avrebbero scoperti. Approfittando del fatto che le porte fossero accostate appena per favorire il cambio di guardia riuscirono ad uscire dal castello e si ritrovarono nel giardino, che ai loro occhi sembrava più che altro una foresta interminabile.
“Dalla padella alla brace” gemette Maxi, sedendosi per riprendere fiato.
“Ma chi si vede qui...un gruppo di topolini?”. Camilla era apparsa davanti a loro con il solito ghigno e un’aria spensierata.
“Camilla, devi aiutarci a raggiungere il lago, è importante!” esclamò Violetta, avanzando tra tutti e arrivando fino alla zampa dello Stregatto che si alzò paurosamente, per poi riabbassarsi, quasi avesse intenzione di schiacciarla. “Spostati, ti ucciderà!” strillò Maxi, ma la ragazza rimase ferma. Per quanto fosse pazza, lei si fidava di Camilla, e sapeva che non le avrebbe fatto male, perché il Paese delle Meraviglie aveva bisogno di lei.
“Schiacciandoti ti risparmierei un destino ben peggiore, Violetta” sussurrò con aria stanca Camilla, svanendo e ricomparendo qualche metro più in là. “Ma neppure io posso intromettermi così tanto da distruggere una vita...la storia è ormai delineata”. Si piegò in ginocchio e aprì i palmi delle mani, permettendo così a tutti di salire e approfittare di un passaggio. Con uno schiocco secco tutto intorno si dissolse, davanti a loro avvertivano solo lo sguardo guardingo dello Stregatto.
L’umidità dell’acqua e il gracchiare delle rane furono le prime sensazioni che investirono i loro corpi. Si ritrovarono in mezzo all’erba alta lungo le rive del lago, dello Stregatto non c’era più alcuna traccia. La campana posta su una delle torri del castello rintoccò dodici volte: era giunta la mezzanotte. Ognuno diede un morso alla parte arancione e tornarono alla dimensione originaria.
“Da questa parte” fece strada Thomas, raggiungendo il padiglione e superandolo. Dall’altra parte c’era un piedistallo circondato da un cespuglio pieno di spine e sopra un leone dalle dimensioni di un cane che si alzava sulle zampe anteriori e ruggiva. “Dovrebbe esserci un meccanismo ai lati” disse tastando il marmo bianco di cui era fatto l’animale. La zampa sinistra si mosse in avanti e il piedistallo arretrò silenziosamente mostrando una rozza scalinata scavata nel terreno e nella pietra. “L’aveva fatto costruire Javier nel caso il castello fosse finito sotto attacco per far fuggire la sua famiglia. Non è mai stato utilizzato e nessuno a parte il re ne era a conoscenza; ci sono voluti mesi perché lo scoprissi attraverso vecchie piante del castello” spiegò il ragazzo dando alcuni colpi di lama per tagliare i rovi che coprivano il passaggio. Uno alla volta scesero gli scalini. In lontananza si sentivano squilli di tromba e grida: avevano scoperto della loro fuga. In realtà sembrava che sapessero già del loro intento, visto il modo in cui si erano addensati all’ingresso per evitare che qualcuno potesse uscire. Violetta abbassò il capo perchè il cunicolo era stretto e basso e sentì dietro di lei Lena frignare qualcosa a proposito del fatto che avrebbero dovuto restare al castello e non immettersi in un pericolo tanto grosso. Non l’aveva mai vista così fragile e insicura, ma in fondo quella era sempre stata la sua casa fin da piccola; per quanto potesse essere una prigione per lei quello era un posto sicuro. Invece su di lei pendevano le continue minacce silenziose di Jade ed era troppo rischioso rimanere lì a lungo. Dietro di loro il passaggio si richiuse automaticamente, lasciandoli in balia dell’oscurità, avanzando verso un’uscita che non sapevano dove li avrebbero portati.
Sbucarono dietro un enorme roccia in mezzo alla foresta dove Violetta per la prima volta aveva messo piede nel Paese delle Meraviglie. Poco lontano nell’aria c’era la solita colonna di fumo della casa del Cappellaio Matto. Era stato lui a donarle il fungo, ma come faceva a sapere che le sarebbe stato utile? Beto le nascondeva molte cose, ma adesso era forse giunto il momento di avere qualche risposta e quella era l’ultima occasione che le era rimasta. Non potevano indugiare a lungo, ma la foresta di notte era un buon posto per nascondersi e prima che le guardie fossero arrivata fin là forse avrebbero messo abbastanza distanza.
“Andiamo da quella parte”.
“Veramente...lì c’è del fumo. Potrebbero essere nemici” la fermò Andres.
“Non preoccuparti, è un amico dello Stregatto, che ci ha appena aiutato. Devo chiedergli dei chiarimenti, è necessario” spiegò Violetta sperando che la capissero. Stranamente tutti annuirono: a quanto pare le sue decisioni avevano una notevole influenza all’interno del gruppo. “D’accordo, ma prima dobbiamo fare una cosa. Ci sono delle persone che dobbiamo presentarvi”.
Ai piedi di un acero non troppo distante Violetta vide un ragazzo dai capelli castani e spettinati; aveva l’aria di uno che non dormiva da parecchio tempo. Al suo fianco una ragazza bionda con i capelli ricci e corti si guardava attorno con un pugnale sguainato e un elmo sotto braccio. Quando li riconobbero, dapprima fissarono i nuovi arrivati guardinghi, poi non appena ebbero riconosciuto Andres, tirarono un sospiro di sollievo.
“Ehi, amico!” si fece avanti il ragazzo, abbracciando il capo e dandogli delle sonore pacche sulla schiena. “Federico...tutto bene?”.
Federico era bianco e pallido, ma si sciolse in un sorriso tirato: “Non andrà bene finché non potrò vederla sana e salva”. Violetta non capiva a chi si stessero riferendo, ma Dj si inginocchiò ai piedi dell’albero agitando la mano. Come se stesse togliendo un velo invisibile scoprì una bara di cristallo, che al suo interno racchiudeva una ragazza vestita di bianco profondamente addormentata. I capelli corvini erano raccolti in egual misura sfiorandole le spalle e sul capo aveva un diadema. Sebbene nessuno glielo avesse detto capì subito che si trattava di una principessa, se non addirittura di una regina. “Come mai dorme?” chiese d’un tratto.
A quel punto la bionda sembrò essersi veramente accorta di loro. “Che bello, abbiamo messo su un asilo di mocciosi adesso” osservò sprezzante nei confronti di Lena, Thomas e suoi.
Andres non badò minimamente a quell’osservazione e riprese gli zaini nascosti dietro un cespuglio per riprendere il viaggio. “Il suo è un sonno incantato. Serve a proteggere se stessa e tutti noi...è una storia un po’ complicata, ma dentro di lei giace un’energia antica e primordiale che potrebbe costituire un pericolo per chi si trova nelle vicinanze”.
Violetta osservò silenziosamente l’esile figura addormentata, che sembrava riposare tra le braccia della morte. “La magia è in grado di fare questo alle persone?”. La domanda le uscì spontanea e si sentì davvero una bambina, proprio come aveva detto la ragazza di poco prima. “La magia è un’arma come tutte le altre, Violetta. Può fare del bene, ma può essere anche una condanna” rispose il mago. Si sentiva talmente legata a quella ragazza che nemmeno conosceva, le sembrava di poterne leggere il dolore, lo stesso dolore riflesso negli occhi di Federico. L’amore che li legava ai suoi occhi superava le barriere di quella teca, superava perfino il confine tra il sonno e la veglia, tra la vita e la morte.
Mentre tornavano sui loro passi, tutti insieme, Maxi si affiancò al mago. Sembrava teso e a disagio.
“Quando siamo fuggiti dal castello non ho potuto recuperare la spada di neranio” ammise con un filo di voce. Si ricordava del patto fatto con Dj per cui una volta conclusa l’avventura avrebbe dovuto consegnarli la preziosa arma.
“Non importa. E’ vero, la spada faceva parte del mio accordo, ma le cose cambiano e...non ho più bisogno di quell’oggetto” ribattè tranquillamente l’altro. Era vero, aveva trovato qualcosa di più importante: era riuscito a riempire un vuoto di cui si era sempre sentito vittima. Aveva trovato un modo per redimersi di fronte a quegli anni passati a fare il ladruncolo, mettendo al servizio la sua magia per scopi molto più nobili dei precedenti. Dietro di loro Federico era al fianco della teca che proteggeva la principessa del Regno di Fiori, la quale avanzava a mezz'aria grazie alla magia del mago, e ogni tanto le parlava come se potesse risponderle da un momento all'altro. Quella condizione lo stava distruggendo, era peggio di quando aveva fatto in modo che dinvesse prigioniera. Voleva vederla di nuovo sveglia, voleva potersi specchiare nel suo sorriso, e lasciarsi contagiare dalla sua vitalità, perché il mondo senza di lei gli appariva grigio e triste. 
Violetta era rimasta affianco a Lena e conduceva il gruppo alla casa dello Stregatto. Ormai non mancava molto. Thomas le veniva dietro spaventato; non appena si voltava, incrociava lo sguardo minaccioso di Emma, il che non lo rassicurava affatto.
“Eccoci!” raggiunsero la veranda della casa di legno di Beto sani e salvi. Le luci provenienti dalle finestre risplendevano soffuse illuminando la notte. Bussò più volte ma non ottenne alcuna risposta.
“Beto! Beto, aprici!” sibilò, mentre gli altri la guardavano confusi. Poco dopo la porta si aprì con uno scatto, mostrando il Cappellaio Matto. Aveva delle profonde occhiaie segnate e quasi saltò sul posto non appena la vide. “Giusto, mi aveva avvertito Camilla, non c’è molto tempo, entrate! Il tè è già pronto!”. Senza aggiungere altro tornò dentro, rischiando di inciampare addosso a una sedia.
“Lo sa che non possiamo fermarci...per un tè?” domandò Andres perplesso mentre varcava la soglia. Violetta non rispose, rapita dalle fiamme sgargianti del camino. Non le aveva mai viste così vivide e accese, eppure non faceva più freddo del solito. Beto li fece accomodare lungo la tavolata, che quella notte sembrava interminabile. Il Ghiro e la Lepre Marzolina avevano già preso il loro posto e stavano conversando di quanto fosse tardi sebbene per loro il tempo non passasse mai. Beto indicò un vassoio argentato con tazze tutte uguali piene di tè fumanti, a parte una, che era di un colore rosa chiaro.
“Quella è tua” dichiarò l’uomo agitato, controllando che la porta fosse ben chiusa. Violetta non potè fare a meno di notare che era più strano del solito e non lo credeva possibile. “Bevete, bevete!” ordinò in tono perentorio, quasi minacciandoli. Uno ad uno ciascuno prese la sua tazza, semplice di ceramica bianca, mentre a Violetta toccò quella diversa, come le aveva detto Beto.
“Volevo chiedere...” cominciò a parlare Violetta, ma venne zittita da un’occhiataccia della Lepre. “Prima bevete!” disse, agitando la zampa. Ognuno diede un sorso alla bevanda, sperando che in quel modo si calmassero, e infatti dopo che l’ebbero fatto Beto si rilassò di colpo.
“Adesso che abbiamo bevuto...” annunciò Violetta, asciugandosi le labbra con un tovagliolo di raso rosa, “Penso sia il momento di parlare di alcune questioni. Prima di tutto, del ruolo che ho io in questa storia”.
“Pazienza, mia cara” sussurrò Beto. Un tonfo le fece alzare gli occhi dalla tazza: Maxi era crollato con la testa sul tavolo. Subito dopo lo seguirono Thomas, Lena, Federico e Dj.
“Ma cosa diavolo...ci hai avvelenati?” ringhiò Andres, alzandosi dalla sedia. Non riuscì però ad aggiungere altro, perché crollò a terra. Emma sembrava l’unica ad essere rimasta sveglia, ma non passò un secondo che sprofondò anche lei sulla sedia con le braccia conserte e una faccia di quelle poco rassicuranti, come a dire ‘anche se dovessi morire il mio fantasma ti perseguirebbe fino alla fine’.
“Eccoci qui, finalmente!” esclamò allegramente Beto, sedendosi al capo opposto della tavola dove si trovava Violetta. “Non sono morti, tranquilla, sono solamente nel mondo dei sogni. Ma era necessario, dovevo parlarti” aggiunse, osservando il volto vitreo della ragazza che guardava prima i suoi compagni e poi la tazza che teneva in mano. Beto le aveva deliberatamente dato una tazza diversa per essere sicuro che non cadesse preda del sonnifero nel tè. Era un pazzo e lei cominciò a pentirsi di aver preso la decisione di interrogare il Cappellaio Matto. Avrebbero dovuto proseguire verso Quadri senza fermarsi, ma il bisogno di risposte le aveva annullato il giudizio.
“E così adesso sai di essere la Prescelta...sai anche del destino che grava sulle tue spalle?”. Violetta scosse la testa. “Meglio così, penso che il momento giusto perché tu lo sappia debba ancora arrivare” borbottò Beto. Fece slittare un vassoio di vimini con dentro ogni sorta di biscotto. “Biscotto?”.
“Ti aspetti che io accetti qualcosa da te dopo che hai fatto addormentare tutti i miei amici? In questo modo verremo catturati” domandò sbigottita la ragazza, allontanando il vassoio da sotto gli occhi.
“Ripeto, l’ho fatto perché era necessario. E non preoccuparti, non state perdendo tempo. Io non posso allontanarmi da questa casa e questa casa non può superare i confini di Cuori secondo le leggi dettate dal Tempo, ma questo non mi impedisce di portarti il più vicino possibile al regno di Quadri”. A un suo segnale la Lepre e il Ghiro scattarono in piedi e presero dei grossi ventagli azzurri stipati in un armadio, quindi li usarono per sventolare il fuoco che crebbe ancora più rigoglioso. Una scossa attraversò il pavimento e Violetta vide tutto gli oggetti della stanza ondeggiare avanti e indietro. Se non fosse impossibile avrebbe giurato che la casa si stesse muovendo. Dimenticando ogni buona maniera si alzò e si precipitò alla finestra e constatò che la sua supposizione impossibile era invece vera: la casa si stava sollevando pian piano e acquistava quota. “Come ti ho detto, non devi preoccuparti...viaggiare a casa è comodo e efficace” ridacchiò Beto, versandosi una generosa quantità di tè nella sua tazzina. Violetta si risedette, non trovando altre alternative. Il pensiero di stare per lasciare il castello di Cuori la rincuorava e la affliggeva allo stesso tempo, ma lo sguardo penetrante di Beto non le dava il tempo di rimuginare sulla sua scelta. Si aspettava che dicesse qualcosa? In realtà sperava che lui avrebbe iniziato a parlare, perché per lei era tutto un mistero e non ci stava capendo più nulla. Non sapeva nemmeno da dove iniziare a fare domande.
“Ehm...quale destino avrei io?”.
“Decidere del nostro futuro. Ma Violetta, io non mi aspetto domande, mi aspetto risposte. Tempo fa sei venuta fin qui per chiedermi di Alice e lo Stregatto mi ha detto che sei ad un passo dal capire quale dramma caratterizza il Paese delle Meraviglie. Un fato che non può essere spezzato, a meno che non intervenga te”.
Di nuovo frasi criptiche e misteriose. Non potevano dirle chiaramente cosa non andava in quel mondo? Quando aveva trovato il foglietto di Carroll aveva pensato davvero di aver raggiunto la soluzione, ma quei giorni erano stati pieni di imprevisti e azione, non aveva più avuto il tempo di pensarci.
“Violetta, non ti sei mai chiesta perché noi continuiamo a guidarti con le nostre parole, per quanto strane ti possano sembrare? Vogliamo che tu capisca tutto, ma non possiamo essere noi a dirtelo, perché non ci crederesti. Le vere idee geniali non sono mai frutto delle menti di altri. Capire è credere”. Lo Stregatto forse aveva ragione: capire è credere. Se solo lei ci fosse riuscita a capire qualcosa! Ma Beto sembrava molto tranquillo e a suo agio, pronto ad accogliere ogni sua ipotesi.
“E’ tutto strano...voi parlate del Paese delle Meraviglie come se ogni cosa fosse già scritta. Come se non fosse altro che un libro che ha preso vita”. Si aspettava che il Cappellaio Matto scoppiasse a ridere, invece si limitò a finire di sorseggiare, quindi appoggiò la tazza sul piattino con aria estremamente compiaciuta.
“Ottima osservazione, signorina Castillo. Davvero un’ottima osservazione”. 













NOTA AUTORE: Allooooora, mi rendo conto che questo capitolo non è un granché: un po' perché è incentrato tutto sulla fuga, un po' perché non succedono molte cose eclatanti (okay, in realtà ne succedono parecchie ma sh), un po' perchè non è stato scritto come avrei voluto (tanto per cambiare). Ma riscriverlo era praticamente impossibile visto che non ho mai tempo, ergo ho dovuto accontentarmi e pubblicare. La parte più difficile per me come autore è riuscire a far esprimere tutte le sensazioni dei personaggi, perché ognuno ha una sua storia, e sarà un bel problema, fidatevi XD Conto di farcela se non in modo eccellente almeno in modo dignitoso. Le trame ormai si sono fuse in un'unica trama, tranne per la storyline di Leon che rimarrà per voi un mistero almeno fino al prossimo capitolo quando cominceremo ad intuire qualcosa...perchè se sperate che Jade si sia fermata qui, vi sbagliate tutti di grosso. Il suo piano anzi sta andando anche meglio del previsto, e lo scopriremo nel prossimo capitolo. Venendo a noi, la fuga, il recupero della spada, il ricongiungimento con Fede, Emma e Fran (aw, ci erano mancati :D), e poi...Beto! Mamma mia, Beto in questo capitolo è davvero inquietante, però è anche parecchio d'aiuto. Inoltre sembra finalmente disposto a parlare con Violetta (solo con lei, badate bene) di quello che costituisce l'essenza del Paese delle Meraviglie, essenza che è venuta fuori in un finale sconvolgente. Per chi non ci fosse ancora arrivato, nel prossimo capitolo, che sarà molto spiegone, verrà tutto a galla (o almeno quasi tutto...per la figura di Alice e la sua storia dovremo aspettare un po'), ma qualcuno di voi avrà già capito quanto l'ultima frase di Violetta sia in realtà la chiave per tutto. E dopo tutte le ipotesi che sono uscite fuori, quella frase è davvero tutto e racchiude il senso della storia. Ma non mi dilungo oltre, perché le mie Note Autore stanno diventando noiose...per la Leonetta (tema che mi sta a cuore), preparatevi tutti a soffrire. Solo questo T.T Grazie a tutti voi lettori che mi seguite, e dopo pranzo rispondo alle recensioni, non preoccupatevi (o comunque entro fine giornata :P). Grazie a tutti, alla prossima! Con affetto,
syontai :3 

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Capitolo 55
*** Al fuoco, al fuoco! ***


Capitolo 55
Al fuoco, al fuoco

Il fuoco crepitava nel camino, mentre la Lepre e il Ghiro lavoravano ininterrottamente per fare in modo che la fiamma rimanesse viva. Finalmente Beto sembrava essere disposto a rivelarle i segreti di quel mondo, e per un momento Violetta ebbe paura, paura che la verità fosse troppo difficile per lei da accettare.
“Stai dicendo che mi trovo dentro un libro?” domandò scettica, decidendosi a prendere un biscotto di marzapane. Era particolarmente dolce, ma aveva un sapore buonissimo, aveva lo stesso sapore dei biscotti che le preparava Olga quando era piccola.
“Non avrei saputo dirlo meglio. Si, Violetta, ti trovi dentro una favola, una storia senza fine in cui tutti noi non siamo altro che pedine. Ogni nostra scelta, ogni nostra azione è in realtà dettata da una volontà superiore, da uno ‘scrittore’, se così vogliamo chiamarlo”. Fece una lunga pausa per osservare il cielo buio, che lentamente stava cedendo il posto alla mattina. L’alba era vicina. “Quando sei arrivata qui, l’entità che per comodità chiameremo scrittore ha cercato di darti un ruolo, quello della Prescelta e ti ha creato una storia da seguire. Ha deciso tutto di quello che sarebbero state le tue azioni, perfino di chi ti saresti dovuta innamorare”.
“Maxi” sussurrò Violetta, osservando attentamente il ragazzo con i capelli ricci che dormiva tranquillo, con la testa appoggiata sul tavolo. Beto annuì. “Lo scrittore è intervenuto nei tuoi sogni quando l’ha ritenuto opportuno, ha cercato di indirizzarti dalla parte giusta, probabilmente ti ha anche parlato”. Violetta si ricordò delle voci che aveva sentito, che davanti al padiglione le avevano consigliato di non andare avanti. Forse quel luogo non era destinato a lei e Leon, ma a lei e Maxi.
“Poi è successo qualcosa che non aveva previsto. Hai cambiato la trama in modo inaspettato facendo in modo che Leon si innamorasse di te, penso che questo non fosse previsto. Lo scrittore è qualcosa di determinato, necessario, e ogni volta che tu modifichi il suo volere esso si adatta come meglio può, senza però far venire meno le sue intenzioni originarie”. A Violetta stava scoppiano la testa: cosa voleva dire? Se tutti erano dei personaggi costruiti secondo una volontà trascendente, anche l’amore che legava lei e Leon era fittizio?
“E...Leon? Quindi lui non mi ama davvero?” domandò con voce flebile Violetta.
“Ohhh, allo scrittore sarebbe piaciuto che lui ti odiasse. Dovevi essere disperata e vedere in Maxi la tua unica possibilità. Sarebbe nato tra voi due un amore vero e sincero, indistruttibile. Poi tu avresti seguito il tuo futuro, quello che il Tempo si limita a far rispettare”.
Che futuro le era stato riservato? “Il futuro, il presente, il passato si mescolano nei tuoi sogni...perché essi mutano continuamente pur di mantenere ciò che è stato deciso”.
“Tu hai detto che Leon avrebbe dovuto odiarmi, eppure non è così...”.
“Era la prova che mi serviva per capire che tu fossi la persona giusta. Il cambiamento di Leon ha portato con sè a sua volta diversi cambiamenti, avendo ripercussioni perfino sull’alleanza tra Quadri e Cuori. Violetta, ciò che ti rende diversa da tutti noi è la possibilità di scegliere, cosa che a noi è negata. Nel momento in cui agisci in un certo modo o prendi una determinata decisione tutto ciò che ti è intorno ne subisce le conseguenze. Leon, Lena, Thomas...ognuno a modo suo, grazie alla tua presenza, è stato libero di scegliere la sua strada. Almeno fino ad ora”.
Violetta si alzò e si diresse nuovamente alla finestra, seguita da Beto con lo sguardo. Avrebbe dovuto credere che fosse tutto assurdo, e forse tempo fa l’avrebbe fatto davvero. Ma Camilla aveva ragione: rivelarlo in passato era un conto, lei avrebbe pensato che Beto fosse pazzo, e invece adesso tutto tornava, tutto aveva un senso. Il significato dei suoi sogni, la strana connessione che sentiva al fianco di Maxi. Certo, alcune cose ancora non le comprendeva: dove era finita Alice? Era ancora in quel mondo? E perché proprio lei era stata scelta?
“So che cosa ti stai chiedendo, ma purtroppo a quelle domande non posso darti risposta, solo Alice in persona potrà farlo”. Beto l’aveva raggiunta di spalle e la guardava attraverso il riflesso del vetro.
“Quale futuro mi è stato riservato?” chiese in un sussurro. “Sono sicura che ne sei al corrente, Camilla mi ha mostrato più volte di sapere cosa mi aspetta”.
“Sicura di volerlo sapere?”.
Violetta annuì. In realtà dopo le parole dello Stregatto, le preghiere affinchè lei non dovesse affrontare ciò che era stato deciso, non era del tutto convinta, ma sapeva anche che era suo diritto, e suo dovere, sapere tutto ciò che era possibile.
“Una giovane veggente ha avuto una visione, e ciò che ha predetto è finito inciso nella Grotta delle Profezie.
‘Un cuore spezzato e un potere dettato dal dolore. I quattro emblemi dei quattro regni subiranno le ire di una storia d’amore dalle sorti tragiche. La donna che più di tutti ha lottato cederà alle lusinghe della guerra e concluderà la sua storia. Lo scudo invincibile donerà la protezione, l’elmo splendente garantirà la saggezza, la corazza possente concederà la sua forza, e la spada dalle mille luci determinerà le sorti del mondo intero: distruzione o salvezza. I destini si intrecceranno, le forze si scontreranno, e al giovane dal puro cuore verrà richiesta una scelta, quella finale’
Questa era la profezia prima che lo scrittore si fosse reso conto che le cose erano cambiate. Il giovane dal cuore puro probabilmente doveva essere lui”. Indicò Maxi, quindi si concesse un secondo per permettere a Violetta di riordinare le idee e seguire il suo ragionamento. “I quattro emblemi ovviamente sono i pezzi dell’armatura, dopo viene specificato ed è il motivo per cui Pablo li sta cercando: consegnarli alla Prescelta. Il cuore spezzato e il potere dettato dal dolore forse era il tuo; tutti noi credevamo che sarebbe stato Leon a infliggerti quel dolore. La donna di cui parla la Profezia rimane all’oscuro, non sappiamo a chi potrebbe riferirsi. Ma questo non conta, perché tutto è cambiato con l’aggiunta di una nuova profezia. Lo scrittore ha mischiato le carte in tavola, tutto per fare in modo che la storia continui a proseguire nel modo da lui indicato”.
“La morte di Vargas era prevista fin da subito…il suo destino è segnato, non può sfuggire alla decisione della storia, così dice il nuovo verso: ‘Un amore distruttivo porterà uno dei due contendenti alla morte’. Leon morirà per mano tua”.
Violetta spalanzò la bocca, scuotendo la testa dapprima lentamente, poi con sempre più decisione. Mai, mai avrebbe nemmeno sfiorato Leon con l’intenzione di fargli del male, non sarebbe mai potuta accadere una cosa del genere. “La profezia non si realizzerà…non lo ucciderò mai”.
“Potrebbe accadere senza che tu lo voglia. La storia inluisce più di quanto immagini. Lo scrittore è implacabile: se una cosa deve succedere, succederà. E se fosse Leon ad uccidere te? Non possiamo permetterlo, sei l’unica che può salvarci”. Sfiorò la superficie del vetro e vide riflessi nel suo sguardo due baluginii verdi familiari. Erano i suoi occhi. Due ali bianche e imponenti catturarono la sua attenzione: un gabbiano maestoso volteggiava al fianco della casa, seguendo il loro volo. Un mondo in cui tutto era già deciso, in cui le azioni erano determinate e fili invisibili reggevano le menti e i corpi delle persone. Non avvertì nemmeno che qualcuno tra i suoi compagni si stava sveglaindo.
Andres sbattè più volte le palpebre e provò a rimettersi in piedi, ma le gambe erano intorpidite. Allungò la mano per prendere il pugnale nascosto sotto la giacca di pelle marrone e vide che Beto era di schiena e parlava a Violetta. La testa gli stava scoppiando, l’ultima cosa che ricordava era il sapore dolce-amaro del tè.
“Quando Alice ci aprì gli occhi abbiamo capito che non potevamo continuare in quel modo. La pazzia era l’unico modo per me e altri personaggi di questo mondo per conservare la nostra identità…”. Prima che potesse continuare però si ritrovò la lama del pugnale puntata al collo.
“A che gioco stai giocando, Cappellaio?” ringhiò Andres, afferrando l’uomo e tenendolo stretto.
“Lascialo stare! Non è come sembra” tentò di fermarlo Violetta, mentre Beto rideva nervosamente. “Ci sta aiutando per raggiungere il Regno di Quadri”. Andres non disse nulla né mosse un dito. Osservò solamente il cielo che scorreva dall’altra parte della finestra. Nel frattempo un sonoro sbadiglio li avvertì che anche gli altri lentamente si stavano svegliando.
“Fidati di me, non ci farebbe mai del male. Mi sta aiutando”. A quelle parole Andres mollò la presa, facendo incespicare Beto. Il Cappellaio scoppiò a ridere stupidamente, mettendosi una mano davanti alla bocca e saltellò come se stesse imitando un ridicolo ballo.
“Ma…che è successo?” domandò Maxi, alzandosi con un vigoroso sbadiglio e stiracchiandosi.  Violetta non rimase ad aspettare che Beto desse spiegazioni agli altri sul perché li avesse addormentati. Sapeva che avrebbe inventato qualche scusa: in fondo capiva bene che nessuno di loro era pronto per capire che la loro vita non era mai stata completamente nelle loro mani. Avrebbero negato fino alla fine un’eventualità del genere, lei stessa aveva fatto molta fatica per comprendere. Aprì la porta a si ritrovò sulla veranda che si affacciava sul cielo. L’arancione chiaro dell’alba stava svanendo, spodestato dai raggi chiari e intensi del sole. Un parapetto di legno circondava la veranda e lei vi si appoggiò con cautela, dando una veloce occhiata verso il basso e distogliendo subito lo sguardo pallida. Aveva sempre sofferto di vertigini fin da quando era piccola. Si sfregò le braccia intorpidite dal freddo: là fuori soffiava un vento gelido. Stava ancora assimilando le parole di Beto, associandovi le sue esperienze nel Paese delle Meraviglie. Le voci sentite erano dello scrittore, questa misteriosa entità, un Dio meccanico che si limitava a far rispettare la trama. Ma lei aveva il potere di sottrarsi a questa volontà deterministica, poteva scegliere. Sospirò appena e tornò a fissare l’orizzonte che si spalancava sterminato di fronte a lei. In basso stavano superando un piccolo villaggio: probabilmente nessuno degli abitanti si sarebbe reso conto di quel puntino che si muoveva a chilometri di altezza sopra di loro.
“Fa freddo, vero?”. Maxi le stava porgendo una coperta marrone pesante e voluminosa. Violetta la prese e se la avvolse intorno alle spalle, annuendo senza dire nulla. Maxi avrebbe dovuto conquistare il suo cuore, ma era arrivato tardi. E adesso capiva anche il perché di quella strana connessione che sentiva: lo scrittore voleva che il loro legame fosse predestinato, voleva qualcosa di unico e definitivo. Eppure per quanto non potesse negare che Maxi avesse un carattere dolce e premuroso, il senso di appartenenza che sentiva nei confronti di Leon era comunque troppo forte, quasi inestinguibile.
“Quel pazzo ha detto di averci voluto addormentare tutti per scherzo…per poco Emma non lo linciava vivo! In effetti è stato un colpo risvegliarsi su una casa volante” scherzò Maxi, appoggiandosi anche lui con le braccia conserte sul parapetto, i ricci che svolazzavano al vento. Rimasero in un imbarazzante silenzio, fissando ognuno davanti a sé con l’aria di chi cercava in ogni modo di rimandare quella che era una conversazione inevitabile. “Quindi…viaggeremo insieme, giusto?”.
Violetta non sapeva che rispondere. Dopo le parole di Beto aveva paura di qualsiasi sua azione o gesto, perché era convinta che non avrebbe fatto altro che alimentare l’infatuazione che aveva Maxi per lei.  “Si…che tipo è Andres? Mi sembra molto misterioso e duro nei confronti degli altri”.
Gli occhi di Maxi si illuminarono, per poi essere oscurati da un velo di mera tristezza. “Non è sempre così freddo, lo stai conoscendo in un periodo un po’ particolare. Ha perso il fratello e l’unica persona che lo poteva rendere felice non è qui con noi”.
“Mi dispiace”. Istintivamente Violetta fece per prendergli la mano, ma la ritirò subito, maledicendosi per cascare sempre nella trappola rappresentata da quel ragazzo: provava tanta compassione nei suoi confronti. Maxi fece finta di nulla e continuò a fissare davanti a sé. “Almeno lui ha qualcuno che può restituirgli la felicità…non come me che sono solo”.
“Non hai una famiglia?” chiese Violetta, spostandosi una ciocca che le era finita davanti agli occhi. L’altro scosse la testa rassegnata. “Non più” mormorò. Di nuovo silenzio. Sempre più intenso, sempre più opprimente.
“Sembra che tu abbia trovato una famiglia…i tuoi amici, intendo” cercò di rincuorarlo Violetta, mordendosi il labbro inferiore. Maxi ricercò la sua mano sulla superficie di legno e la strinse, quindi si sciolse in un timido sorriso.
“Credo che tu abbia ragione. Violetta, io…”. Prese un respiro profondo, pronto per una volta a mettersi in gioco ed esprimere i suoi sentimenti. Non si era mai innamorato in vita sua, quindi la situazione era per lui del tutto nuova, non sapeva nemmeno da dove iniziare quella che doveva essere una dichiarazione impacciata. Stava per aprire di nuovo bocca, ma la porta della casa si aprì, mostrando Dj, che si stiracchiava intervallando qualche sbadiglio. Nel vederli assunse un’espressione interrogativa e si innervosì non poco nel vedere quelle mani strette: non era una questione di gelosia, ma non gli andava a genio che Maxi si intromettesse nella vita di quella ragazza, che gli aveva fatto capire di aver già trovato l’amore. E per quanto ancora non riuscisse a capire come esso potesse portare il nome di Leon, nei suoi continui girovagamenti aveva imparato a non farsi troppe domande. Si era solo ripromesso di non farne parola con gli altri, visti i trascorsi di cui era venuto a conoscenza tra Leon e Andres.
“Non volevo disturbare. Ma sarebbe meglio rientrare, qui fa molto freddo”. Guardò intensamente Violetta. “Molto”. La ragazza sembrò quasi ringraziarlo con lo sguardo e subito si affrettò dentro, da dove proveniva il vociare generale tra cui spiccavano le minacce di Emma nei confronti di Beto.
Violetta era contenta di rientrare e di potersi in qualche modo distrarre dai discorsi di Lena, che, una volta superato il disagio e la paura, sembrava pronta più che mai ad affrontare quell’avventura. Ripeteva di essere spaventata a morte, soprattutto da quella cicatrice che aveva Andres, ma allo stesso tempo sosteneva di essere pronta finalmente per quell’avventura. In un angoletto invece era seduto Federico, con le braccia che gli circondavano le gambe raccolte. Al suo fianco era appoggiata per lungo la teca di cristallo, dentro cui riposava la principessa Francesca. Era l’unico che non prendeva parte a nessuna discussione, ma rimaneva solo, guardando davanti a sé un punto indefinito. Si girava verso la teca, abbozzava un sorriso triste, quindi tornava a fissare il nulla.
“La ama. E l’amore è anche dolore” disse Emma, avvicinandosi a lei. Era intenerita da quello spettacolo a cui aveva assistito tutti i giorni in cui Andres e gli altri erano al castello. “Non penso che riuscirei ad amare qualcuno allo stesso modo. Guardalo, sembra un fantasma. Non dorme, non mangia, non si allontana da lei anche se sa che non potrà dirle nulla. Che non potrà fare nulla. L’impotenza lo sta distruggendo”. Si allontanò subito dopo per prendere un biscotto su un piatto e approfittare di prendersela con Dj perché non aveva saputo riconoscere il sonnifero nel tè con i suoi ‘mistici poteri’.
“Un attimo di attenzione!”. Andres fece tintinnare una tazzina di ceramica con un cucchiaino di argento. Si mise al centro della stanza e subito ottenne l’attenzione generale, perfino dei padroni di casa. “Volevo solo ringraziarvi di essere tutti qui. Abbiamo una missione da portare a termine, è vero, e siamo ancora a metà strada ma questo non ci impedisce di dare valore al coraggio dimostrato fino ad ora. Soprattutto vorrei ringraziare Dj per le sue tempestive azioni dentro il Castello di Cuori”.
“Ehi, io sono sempre la stella qui, non solo in alcuni momenti!” lo rimbrottò il mago. Tutti scoppiarono a ridere, soprattutto quando Emma gli pestò il piede dandogli del vanaglorioso.
“Certo, lo sappiamo…ma vorrei ringraziare anche quella persona senza la quale non saremmo qui. Perché con il suo coraggio e la sua arguzia siamo usciti vivi da quella trappola mortale. Grazie mille, Thomas!”. Il Bianconiglio per poco non saltò in aria dallo stupore. Non si sarebbe mai aspettato dei ringraziamenti: ad essere sinceri, a parte Violetta, nessuno gli aveva mai mostrato la minima gratitudine. Si fece avanti timoroso verso Andres, brandendo la spada che lui stesso aveva recuperato. Tutti intorno applaudevano e fischiavano rumorosamente. Recuperando un po’ di coraggio alzò le spalle orgoglioso e zampettò fino ad Andres, che gli diede una pacca sulle spalle. “Grazie amico, ti dobbiamo molto”. Thomas non sapeva che dire, ma decise di rimanere zitto per non rovinare quel momento che avrebbe impresso per sempre nella sua mente. Aveva fatto qualcosa di giusto, qualcosa di eroico, senza quasi nemmeno rendersene conto. Alzò la spada in aria e tutti urlarono euforici. Quello era il suo posto, dove poteva rendersi utile. Dove nel suo piccolo, avrebbe potuto essere un eroe.
Violetta si unì ai festeggiamenti, seppure la mente tendesse a tornare alla conversazione avuta con Beto. Il cambiamento di Thomas poteva essere imputato alla sua presenza al castello, alle sue parole di conforto, al suo esserle amica? Mentre ci pensava, si rese conto che ancora una volta in quel gruppo qualcuno era assente. E quel qualcuno era seduto al solito angolo della stanza, con il solito sguardo perso. Federico sembrava non avere più alcuna sensibilità rispetto a ciò che lo circondava.
 
Le guardie facevano avanti e indietro di corsa, ma nonostante l’allarme avesse messo tutti sull’attenti, degli intrusi non c’era più nessuna traccia. Jade strepitava e dava ordini a destra e a manca. “Tagliate la testa a tutti! A tutti!” urlava, lanciando tutto quello che le capitava a tiro nella sua stanza. Addirittura arrivò a scagliare una spazzola dal manico argentato contro uno specchio che andò in frantumi. Dai frammenti sembrò fuoriuscire un’ombra che la guardava malefica. Javier. Non faceva altro che tormentarla e adesso se la stava sicuramente ridendo al pensiero che colei che l’avrebbe spodestata era riuscita a farla franca.
“Non ho perso, se è quello che credi” sostenne, sfidando gli occhi di brace dello spettro. “Perché in ogni caso mi riprenderò Leon, nostro figlio. E allora vedremo chi riderà per ultimo”. L’ombra scomparve non appena entrò una delle sentinelle, d’aspetto giovane e forte. Era pallido e la faccia non prometteva nulla di buono.
“Mia signora…hanno preso la spada”. Jade sgranò gli occhi incredula: le mani tremavano per la rabbia. Impossibile. Non poteva essere accaduto. La spada era protetta ed il custode aveva un solo punto debole. Ma…Thomas era ancora al castello, giusto?
“All’appello mancano non solo Violetta e il medico con i suoi asssistenti, ma anche Thomas e una serva di nome Lena.” aggiunse il giovane, intimorito. Tutte le speranze della regina crollarono miseramente: se il Bianconiglio era fuggito allora…non riusciva nemmeno a pensarci. Quella spada era l’unico strumento in suo possesso per stringere una solida ed effettiva alleanza con Quadri, in modo da non essere pugnalata alle spalle dalla subdola Ferro. Era la sua unica assicurazione e l’aveva persa. “Nessuno deve venire a conoscenza di questo furto. NESSUNO. E ora portatemi nella stanza della biblioteca, voglio vedere con i miei occhi”. Sena dire altro, per paura della reazione della regina, il giovane eseguì l'ordine e la condusse nella stanza nascosta. 
Il serpente giaceva a terra, privo della linfa vitale. Si stava indebolendo sempre più e presto sarebbe scomparso del tutto, ma a lei non interessava. La sua attenzione era sulla teca aperta e vuota. L’avrebbe fatta pagare a tutti. Violetta per prima. Aveva deciso la sua fine già da tempo, ma aveva sempre esitato ad attuarla per paura della reazione di Leon. Alla sua partenza aveva assunto un sicario per ucciderla quando meno se lo sarebbe aspettato; e invece era riuscita a scappare.
“Voglio che ordini ai tuoi compagni di prendere delle torce e di presentarvi qui il prima possibile” sibilò la regina, mentre usciva dalla stanza segreta e sbucava nuovamente nella biblioteca. “Quella sciocca mi ha reso tutto più semplice. Dovrei quasi ringraziarla”.
Jackie l’aveva raggiunta di corsa, ancora con la veste da notte e reggeva un portacandela. “Mia signora, cosa succede?”.
“Ti ricordi di quella conversazione che ha origliato uno dei miei servitori?”. Si riferiva a quella in cui Violetta e il medico avevano parlato con Humpty, chiedendogli di nascondere la lettera. La donna annuì. “La lettera è qui dentro”. Allargò le braccia per indicare l’ambiente immenso della biblioteca.
“Ci vorranno secoli per trovarla…a meno che Humpty non parli” suggerì Jackie.
Jade scosse la testa. “Quello stupido uovo è troppo fedele. Mantiene le promesse fatte, lo so. Non ci dirà nulla, neppure torturandolo”.
“E allora cosa intendete fare?”. Jackie si bloccò di fronte allo sguardo diabolico e penetrante di Jade, mentre con un braccio la conduceva fuori dalla stanza. “Ora lo vedrai”.
Un manipolo di uomini arrivò con le torce: nessuno aveva capito a cosa servissero, ma si erano affrettati ad eseguire gli ordini per non far infuriare ancora di più la regina.
“Bruciate tutto” sibilò la regina, indicando l’interno. Rimasero tutti interdetti per quelle parole e nessuno osò muovere un passo. “Non mi avete sentito? BRUCIATE TUTTO, HO DETTO!”. Di fronte a quel tono minaccioso nessuno osò ribattere e uno dopo l’altro entrarono nella biblioteca. Fecero scorrere le torce lungo i libri, aspettando che essi prendessero fuoco. In poco tempo scoppiò una vera e propria reazione a catena: librerie, tomi, tutto venne inghiottito in un incendio colossale; le fiamme ardevano alte, fameliche. Gli uomini riuscirono in preda al panico e subito si diedero da fare per spegnere l’incendio, che in poco tempo aveva fatto il suo dovere, ossia distruggere ogni singolo libro. Vennero versati secchi pieni d’acqua, sacchi di sabbia, tutto ciò che potesse smorzare la potenza distruttrice del fuoco. Era come se un enorme falò fosse stato acceso, le vetrate riflettevano la luce rossastra, dominando la notte. Jade osservava quella scena di devastazione profondamente soddisfatta, con un ghigno malefico. Gli occhi brillavano maligni, e perfino Jackie ne ebbe paura. La situazione le stava sfuggendo di mano, non aveva fatto i conti con la pazzia che già caratterizzava quella donna, con la sua sete di potere e di vendetta. Quel biglietto sarebbe stato ridotto in cenere e mai Leon avrebbe potuto leggerne il contenuto.
Humpty accorse, seguendo la scia di gente che passava secchi d’acqua, fino a raggiungere quello scempio. Gran parte dello scibile del Paese delle Meraviglie era stato custodito da lui gelosamente e di tutto il suo lavoro non era rimasto nulla. Affranto e desolato, ma soprattutto arrabbiato, avrebbe voluto chiedere spiegazioni per tutto quello, ma non ci riusciva, davanti a lui solo cenere, fumo e fiamme. Avrebbe voluto intervenire, fare qualcosa, ma nulla poteva essere salvato. Il sorriso di Jade fece ancor di più crescere in lui la rabbia: come si permetteva di distruggere tutto? Quella era la sua vita, si era rintanato in quell biblioteca, in quei libri, cercando di istruire Leon, cercando di far crescere in lui un senso di umanità sebbene sembrasse ormai un’impresa impossibile. E in un certo senso era riuscito a salvarlo, anche grazie a quei libri. “Cosa state facendo?”. Era una domanda sciocca, ma era tutto ciò che era gli era uscito di bocca.
“Ti liberiamo del tuo lavoro gravoso” sorrise Jade; era impossibile non sentire il veleno nascosto in quelle parole. “Le mura hanno orecchie, mio caro Humpty, e so che hai aiutato Violetta a nascondere qualcosa”. L’uomo-uovo si raggelò: aveva origliato la loro conversazione. Ma talmente tanto era il suo odio, da incendiare un’intera biblioteca per un'innocente lettera?
“Ti credevo un servo fedele” disse con disprezzo Jade, puntandogli il dito contro. Subito due guardie lo immobilizzarono per la braccia, e per quanto Humpty scalciasse a si dimenasse, era del tutto inutile, era in trappola.
“Condannatelo a morte per tradimento nei confronti della corona. Tagliategli la testa!”. Humpty la guardò supplicante, ma non disse nulla. Aveva ancora il suo orgoglio, il suo onore, e mai avrebbe implorato Jade di risparmiarlo.
“Mia signora…ha lavorato per tanto tempo al castello, non merita una fine del genere” intervenne Jackie. Per quanto quel bibliotecario non le fosse mai stato simpatico, considereva quella morte inutile sangue versato. Potevano fare in modo che Leon non potesse parlare con Humpty senza doverlo uccidere.  “Consiglio di rinchiuderlo in cella e fare in modo che il principe Vargas non gli si possa avvicinare”.
La regina di cuori la fissò con astio per avere messo bocca alle sue decisioni, ma in fondo aveva ragione: Humpty lavorava lì al castello da tantissimo tempo. In fondo provava anche un po’ di pietà nel dovergli infliggere quella pena.
“Hai ragione. Portatelo nelle celle, ma voglio che sia sorvegliato giorno e notte, e che a Leon non sia permesso fargli visita. Per essere sicuri però tagliategli la lingua” ordinò con noncuranza Jade, facendo un gesto con la mano, perché venisse portato via. Humpty all’inizio piantò i piedi a terra, cercando di opporre resistenza, ma le due corpulente guardie erano più forti e riuscirono a vincerlo in poco tempo.
“Potrebbe anche tornarci utile in futuro, soprattutto se non potrà dire una sola parola”.
 
Camilla uscì dalla Grotta delle Profezie. Ancora frastornata da ciò che aveva scoperto, si sedette per terra tentando invano di riordinare le idee. Sebastian è vivo. E’ vivo.
Che aveva aspettato Alice a dirglielo? Per tanti anni aveva creduto che fosse morto. Certo, sapeva bene che del suo Sebastian non era rimasto più nulla, ma era comunque sconvolta.
“Ma sei un gatto!” rise Sebastian indicando la sua coda. Camilla incrociò le braccia al petto, inarcando un sopracciglio: che osservazione stupida!
“I gatti non parlano” ribattè, sbuffando. Il ragazzo annuì, arrossendo corrucciato; forse non pensava di farla arrabbiare dicendo quelle cose. “Ti ringrazio per la tua genilezza in ogni caso” disse Camilla. Fece schioccare le mani e sparì all’istante, comparendo sul ramo di un albero al di fuori della visuale di Sebastian, il quale si alzò in piedi per nulla spaventato da quella magia.
“Ti aspetterò domani allo stesso posto!” disse a gran voce, prima di prendere l’ascia che usava per tagliare la legna e tornarsene a casa.
Camilla riaprì gli occhi tenuti chiusi: e lei si era presentata. Come una sciocca ragazzina innamorata era andata quel giorno e quello dopo ancora. Trovava Sebastian curioso e divertente, non riusciva a stargli lontano, ma aveva paura di quando si sarebbe ‘svegliata’, di quando la follia sarebbe riemersa in lei, come le aveva detto il Brucaliffo quando era solo una bambina.
Lo Stregatto poteva essere assimilato a una fenice. Non si riproduceva, non ne esistevano diversi esemplari. Alla sua morte dalle ceneri rinasceva, dando il via ad un ciclo infinito. Lo stesso succedeva allo Stregatto: quando egli moriva subito rinasceva. Il ‘nuovo’ Stregatto non ricordava nulla del suo passato fino al momento della rivelazione, che non poteva essere prevista né calcolata. Allora semplicemente tutta la conoscenza dei suoi avi tornava viva nella sua mente. Esperienze, ricordi non suoi, consapevolezze…come una lampada accesa, con la furia di un tornado sconvolgeva completamente l’esistenza dello Stregatto. Per questo in un certo senso ricordava di aver conosciuto Alice, perché il suo avo era stato la guida della ragazza la prima volta in cui aveva messo piede nel Paese delle Meraviglie.
Camilla non era riuscita a tenersi tutto e aveva raccontato a Sebastian del suo segreto. Un giorno non sarebbe stata più la stessa, la testa invasa dagli spiriti di coloro che erano venuti prima di lei. Aveva creduto che si sarebbe allontanato e invece in cambio ricevette il dono più inaspettato di tutti: un bacio. Seduti sotto un abete maestoso, Sebastian non aveva esitato a mostrare i suoi sentimenti. Fu la sensazione più strana e meravigliosa del mondo. Era come volare, ma sensa levitare, senza sentire il proprio peso e combattere contro la forza di gravità. Ebbe paura che la rivelazione sarebbe potuta arrivare in quel momento, rovinando tutto, ma non accadde. Per la prima volta pensò di poter essere felice. Ma presto avrebbe capito che la felicità poteva durare solo un attimo, perché l’attimo dopo sarebbe scomparsa, lasciandola sola.
Ricacciò dentro una lacrima. No, lei non avrebbe pianto. L’aveva fatto solo una volta in vita sua: quando Sebastian era stato portato via dalla sua famiglia dalle guardie del Regno di Quadri e lei non aveva potuto impedirlo. Era rimasta in un angolino, lontana da tutti, ad osservare la scena, impotente, mentre le lacrime scendevano copiose. Ecco, le avevano portato via la sua felicità. Di nascosto aveva seguito il suo viaggio, ma proprio quando erano giunti a destinazione come un fulmine a ciel sereno arrivò la rivelazione. Le vite di tutti gli Stregatti, i loro sacrifici, le loro speranze, si incatenarono alla sua anima mettendola al corrente della verità che caratterizzava il Paese delle Meraviglie. Si trovava in un libro, una mera storia.
“Camilla”. Non appena si sentì chiamata, scattò in piedi, guardandosi intorno. Lo sapeva che sarebbe successo, che l’avrebbe incontrato. Dalle profondità della palude emerse un giovane armato, con una spada nera e lucente. Neranio.
“Sebastian” salutò fredda.
“Un tempo mi chiamavi Seba”. Non c’era aria di risentimento e tristezza in quelle parole: la sua voce era graffiante, spenta.
“Cosa ci fai qui?” chiese, ignorando la sua osservazione. “La Grotta delle Profezie. Ho un compito da portare a termine lì dentro”. Lo Stregatto scoppiò a ridere: “Non puoi entrare, lo sai. La magia ti ricaccerà fuori. Non hai speranze”.
Sebastian rise freddamente. “Lasciami passare, Camilla, e lo scopriremo”.  Gli occhi di Camilla brillarono, e quando il ragazzo provò a fare un passo in avanti venne catapultato indietro, da un blocco invisibile.
“So che non sei il vero Sebastian e non ho alcun problema ad ucciderti”. Mentiva. Quel viso la turbava ancora, nonostante i fili neri cuciti sulla sua pelle gli ricordavano continuamente che del suo Sebastian non era rimasto più nulla.
Quel campo era una sorta di prigione. Del filo spinato tutto intorno, con le sentinelle a guardia delle uniche uscite disponibili che controllavano tutti i movimenti. Edifici bassi puntellavano la pianura. Al centro invece c’era un edificio grigio e tetro, alto più di dieci metri. Uomini con un camice bianco entravano e uscivano continuamente. Camilla storse il naso: era lì che avevano portato Sebastian. Lentamente sfumò nell’aria e si ritrovò dentro. Giravano tutti con vestiti grigi e logori, ma tra di essi non riconosceva l’unica persona per cui era lì. Una guardia la vide e diede l’allarme, quindi fu costretta a fuggire, sparendo e ricomparendo chilometri più in là.
“Sai che non potrai fermarla, alla fine la regina di Quadri ottiene sempre ciò che vuole” sibilò Sebastian, tirandosi nuovamente in piedi. Non era neppure adirato, la sua era una semplice constatazione.
“La tua regina crede di poter ottenere il comando di tutto ciò che le circonda, ma non andrà in questo modo, la profezia parla chiaro”. L’espressione di Sebastian si indurì, le braccia tese con la spada impugnata e le gambe piegate. Tentò un altro attacco ma ancora una volta venne rispedito indietro.
Una volta eretta la barriera, sicura che non sarebbe stata scalfita dal neranio né da qualunque altra arma che non contenesse la magia tornò dentro, ignorando le urla di Sebastian, che la richiamava indietro. La voce era la sua, lo spirito no. Appoggiò una mano alla parete umida, piena di scritte incise nella roccia. Più avanzava più il buio la inghiottiva. Ma non aveva paura, tante volte era entrata nella Grotta. Dalle stalattiti che si erano formate sul soffitto roccioso scivolavano alcune gocce d’acqua che poi cadevano sul terreno dove si erano formate delle piccole pozze. Una flebile luce azzurrina risplendeva nel profondo antro.
“Nessuno ti disturberà” sussurrò, inchinandosi di fronte a un trono scolpito nella roccia. Sulla parete dietro c’erano alcuni nomi incisi, che poi erano stati sbarrati. Affianco ad essi erano stati disegnati degli uomini stilizzati. Solo un nome era rimasto integro. Il disegno al fianco rappresentava una bambina minuta. Erano solo accennati, ma quegli occhi sembravano in grado di leggerle dentro.
“Hai aiutato la ragazza?”. Sentìì un tintinnare di catene, ma non si voltò per guardare in faccia la sua interlocutrice. Era un voce di donna profonda, sensuale, ma anche segnata da qualche inspiegabile dolore. Annuì, mentre sfiorava una ad una le lettere che aveva di fronte a sé. “E’ fuggita dal castello, è libera. Credo che Beto le abbia spiegato ciò che era necessario. Era pronta”. Una folata di vento freddo le fece capire che la conversazione si era conclusa. Per l’ultima volta diede un’occhiata alla scritta che aveva davanti. Cassidy. 










NOTA AUTORE: Prima di tutto chiedo perdono per il ritardo, ma sono stato malato, per di più questo finesettimana dovrei anche fare una cosa, quindi- non so veramente quando sarà il prossimo aggiornamento, proverò a portarmi avanti con il nuovo capitolo in questi giorni, ma con l'università (e le lezioni che già devo recuperare visto che sono stato male) sarà un vero casino. Detto queso...capitolo in cui finalmente si comincia a capire qualcosa. Visto che era particolarmente ingarbugliata la cosa, spiattellarvi tutto nel capitolo mi sembrava eccessivo, quindi una piccola parte sarà riservata all'incontro tra Violetta e Alice. Ma finalmente capiamo tutto: il Paese delle Meraviglie è un libro, un bellissimo libro tra l'altro (mio -okno-), la cui storia è stata scritta, ma Violetta arrivata in quel mondo ha portato una ventata di novità. Le sue scelte, le sue azioni, hanno condizionato coloro che le circondavano, liberandoli dalla loro staticità (soprattutto per quanto riguarda Leon e Thomas...ma anche Lena nel suo piccolo). Ma lo scrittore non si arrende e ha previsto per lei un futuro tutt'altro che piacevole. E così colleghiamo a tutto il futuro mostrato dal Tempo (che lui stesso ha detto dovrà assolutamente accadere -e ora sappiamo perchè-). All'inizio la Profezia doveva riferirsi a Maxi, ma poi con il cambiamento della trama l'attenzione si è spostata su Leon, e per questo viene aggiunto il verso finale. Perché secondo la storia Leon deve morire, e punto. In tutto ciò, capisco che questo capitolo potrebbe generare confusione, quindi invito a prendere un attimo di riflessione e a farsi uno schema, o comunque rivedersi determinate parti dei capitoli scorsi così da avere il discorso più chiaro. Ah, ovviamente per ogni dubbio potete anche chiedere a me. Il mistero dei sogni e delle voci sentite al padiglione comunque sono risolte: pare che il padiglione fosse stato destinato a lei e Maxi, e invece- invece niente, viva la Leonetta! 
Nel frattempo, per quanto riguarda Jade...immaginavamo che stesse complottando qualcosa ed adesso sappiamo che aveva intenzione di uccidere Violetta (per poi forse inscenare la sua fuga). Non solo, visto che non ci è ruiscita, è riuscita comunque ad adattare il suo piano e così il suo obiettivo, quello di fare in modo che Leon odi Violetta sembra moooolto più facile. Della serie: prepariamoci a soffrire. Devo dire che il dolore vero per me è stato scrivere la parte del povero Humpty :(
Nel finale capiamo qualcosa in più sul passato di Camilla, e su Seba, ma ancora manca un tassello per completare la sua storia. Nel frattempo nella Grotta delle Profezie (quella della Palude di Jolly, che poi era dove voleva andare Angie se ricordate bene), Camilla parla con una misteriosa interlocutrice (nemmeno troppo xD) e alla fine vede sulla parete inciso il nome di Cassidy, la piccola figlia Pangie...che cosa vorrà dire? A cosa serve quella parete? (io sento da qui Dulcevoz che inizia a disperarsi, quindi la tranquillizzo subito: niente di grave xD-). Nota autore bella grande per un capitolo-chiave per capire questa storia, quindi- beh, buona lettura a tutti :3 Con affetto,
syontai :D 
P.S: Cercherò stasera di rispondere alle vostre bellissime recensioni, la mia priorità era aggiornare perché ero in ritardo e non mi sembrava rispettoso :) 

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Capitolo 56
*** Il gioco degli scacchi ***


Capitolo 56
Il gioco degli scacchi

Leon fissava la scacchiera di fronte a lui con aria assorta. Prese in mano l’alfiere, ma poi lo riposò sulla casella dove si trovava prima tornando a riflettere. Era seduto a gambe incrociate sul pavimento con l’attenzione completamente rivolta verso i suoi pezzi bianchi, per lo più dimezzati. Dall’altra parte della scacchiera spolverata alla ben’è meglio Violetta osservava divertita la scena; quando Leon era sovrappensiero gli si formavano delle rughe sulla fronte che trovava estremamente dolci.
“Se vuoi possiamo cambiare gioco” propose con un sorrisetto, indicando con lo sguardo la marea di giochi che li circondava nella stanza circolare. Leon alzò lo sguardo, fulminandola. Alcune cose del carattere di Leon erano immutabili, come ad esempio il suo spirito agguerrito e la sua incapacità nell’ammettere una sconfitta. “E’ normale che ci metta così tanto, ho appena imparato…pensavo fosse più semplice, a dire il vero” sbuffò Vargas, appoggiando il mento sulla mano. Spazientito perché non era riuscito a trovare una soluzione che lo soddisfacesse prese in mano il cavallo e lo mosse in avanti, andando ad affiancare un pedone nero.
“Sicuro della tua mossa?” domandò Violetta, cercando di metterlo sull’attenti. Vargas però non la ascoltò minimamente, anzi sembrava fiero del suo spostamento strategico del cavallo. “So benissimo che stai cercando di farmici ripensare così che io possa commettere un errore”. Violetta scosse le spalle, ruotando gli occhi al cielo: quanto poteva essere orgoglioso? Piuttosto che accettare un aiuto avrebbe preferito tagliarsi una mano. Prese l’alfiere e gli fece percorrere buona parte della diagonale in cui si trovava. Leon fissava la scena terrorizzato con gli occhi spalancati.
“Scacco matto” disse lei semplicemente, lasciandolo di stucco.
“M-ma…io…credevo mi stessi imbrogliando!” si difese il principe, incrociando le braccia al petto, evitando di guardarla negli occhi, umiliato dalla bruciante sconfitta.
“Quando imparerai a fidarti?” gli chiese divertita, inconscia di aver toccato un nervo scoperto. Leon si fece scuro in volto, rimettendo a posto i suoi pezzi in modo distratto. Violetta aggirò la scacchiera procedendo a gattoni, fino a sedersi alla sua sinistra. Si chiese che cosa avesse detto di sbagliato per farlo adombrare in quel modo. Il principe infatti teneva lo sguardo basso, pensieroso, mentre sistemava alcuni pedoni in fila. “Che ti succede?”. Gli appoggiò una mano sulla spalla, preoccupata e lui alzò gli occhi puntandoli sui suoi.
“Preferisco non fidarmi di nessuno. Riporre fiducia nelle persone è uno sbaglio” rispose senza battere ciglio.
“Non sempre ci si può affidare solo alle proprie forze. Al nostro fianco dobbiamo avere persone che possano capirci, aiutarci nei momenti difficili”. Non riusciva ancora a scacciare il dolore che leggeva sul suo viso, quello di un ragazzino che aveva perso il padre e che non aveva potuto contare sull’appoggio di nessuno, anzi, la madre, la persona che più di tutte avrebbe dovuto essergli vicina, aveva visto in lui solo uno strumento per conservare il potere. Gli sfiorò una guancia costringendolo a guardarla dritto negli occhi, a un palmo dal naso. “Puoi contare su di me. Sempre”. Colta dall’imbarazzo per quelle parole, non aggiunse altro, ma si limitò ad appoggiare la guancia sulla sua spalla, chiudendo gli occhi. Sentì il soffio caldo di Leon sulla sua fronte. Le circondò la vita per un braccio e la attirò ancora più a sé.
“Ho bisogno di te, lo sai” le sussurrò, dandole un debole bacio sui capelli.
Era come se ci fosse stato un accordo e lei l’avesse rotto. Aveva promesso a Leon che non l’avrebbe abbandonato, lo aveva implorato di fidarsi di lei e ci aveva messo tanto a scavare nella sua anima per portare alla luce una persona in fondo buona e umile, seppur all’apparenza fredda e insensibile. Scosse la testa. Basta negatività. Leon avrebbe letto la sua lettera e avrebbe capito che era stata costretta a fuggire dal castello. Sicuramente Humpty gliel’avrebbe fatta avere. Era mattina e tutti si erano organizzati per dormire. Il fuoco continuava a scoppiettare nel camino e Violetta si chiese con che strana magia quel fuoco potesse far volare una casa, ma poi rinunciò a cercare una spiegazione logica: in quel mondo non esisteva nulla di razionale. Ognuno si era trovato uno spazio sul pavimento dove passare la notte. Erano passati ormai dieci giorni dalla loro partenza e Beto aveva promesso loro che in massimo due settimane avrebbero raggiunto il confine con il Regno di Quadri. Stavano tutti dormendo tranne lei e Federico, rintanato nel suo solito angolo. Accarezzava la superficie liscia della teca al suo fianco. Prese un respiro profondo: voleva conoscere meglio Federico, capire il suo dolore per poterlo aiutare a renderlo un fardello meno gravoso, per quanto difficile l’impresa si potesse rivelare. Si alzò in piedi e prese una teiera sul tavolo. La poggiò vicino a Federico, che la osservava senza perdersi il minimo particolare, fino a quando lei non tornò con due tazzine e non si sedette al suo fianco.
“Pensavo potessi gradire del tè…” cominciò lei, versando il liquido ambrato in una tazzina e porgendogliela. Federico la prese e sorseggiò lentamente. Se beveva non si sentiva costretto a parlare, ed era ciò che voleva. Poteva essere anche colei che li avrebbe salvati, ma finché Francesca continuava a dormire lui non si sentiva al sicuro. Ricordava il suo sguardo prima di immergersi nelle acque incantate. Sapeva che lei non avrebbe voluto cadere in quel sonno incantato, perché amava la libertà; e nonostante Dj continuasse a ripetergli che non avevano avuto altra scelta, era sicuro del fatto che avrebbe dovuto salvarla in ogni caso. “Vieni dal Regno di Fiori?” gli chiese Violetta. Federico annuì appena.
“Mi hanno raccontato tutta la storia. Mi dispiace”. Il ragazzo posò la tazzina con noncuranza e le lanciò uno sguardo freddo.  “Ma Dj mi ha detto che custodisce la cura per risvegliare Francesca!”.
“Sai perché sta dormendo? Per proteggere tutti noi…non posso permettere di rovinare così il suo sacrificio”.
“Ma non è questa la via! Potremmo trovare un altro rimedio, così che non sia costretta a dormire. E se il mago non riuscisse a trovare una soluzione? Dovreste tenerla in trappola per sempre”
“Senza un rimedio valido non possiamo rischiare”.
“E chi vi dice che non ci sia?”. Beto era in piedi di fronte a loro, senza che se ne fossero accorti.
“Che ne può sapere un pazzo che non ha mai messo piede fuori casa di queste cose?” ribattè piccato Federico.
“Infatti io non so nulla, ma qualcuno che della magia ne conosce ogni singola particolarità potrebbe fare al caso vostro. Sto parlando ovviamente del Brucaliffo”. Violetta sgranò gli occhi: parlava dell’anziano signore che aveva dimorato per alcuni giorni al palazzo di Cuori! Sospettava che lui sapesse anche a proposito di Alice e della fine che aveva fatto, ma prima di potergli domandare qualcosa lui aveva anticipato la partenza, lasciando il castello in tutta fretta.
“E dove possiamo trovarlo?”. Federico era scattato in piedi, rinvigorito improvvisamente. Se c’era anche solo una possibilità per liberare Francesca di quel fardello, l’avrebbe rincorsa fino alla morte. Conosceva il Brucaliffo solo di fama, sapeva che era estremamente saggio. Avrebbero potuto risparmiarsi il lungo e pericoloso viaggio per il Tridente.
“Oh, beh, il Brucaliffo non ha una dimora fissa. Lui viaggia continuamente. Se siete fortunati lo troverete però nella sua foresta”. Federico si precipitò ad afferrare la cartina appoggiata sul tavolo. Era stato tratteggiato con l’inchiostro il tragitto che avrebbero dovuto percorrere per raggiungere il Palazzo dove era custodito lo scudo magico. “E dove diavolo si trova?!” sbuffò Federico, non riuscendo a trovare la destinazione suggerita.
“Si trova vicino al Deserto del Nulla. Non è segnato sulle carte”. Betò si avvicinò con aria gioviale e intinse l’indice nella marmellata di pesca spalmata sulla fetta biscottata. Lo piantò sulla cartina sul bordo di essa. “Qui”. Il ragazzo fissò con rinnovata energia la macchia lasciata dal dito del Cappellaio Matto.
“Posso farcela! Posso salvarla!” strillò entusiasta, abbracciando Beto. Si diresse poi da Violetta che gli sorrideva incoraggiante. “Tutto merito tuo. Mi hai ridato speranza, ed era ciò di cui avevo bisogno”. Senza darle il tempo di dire nulla la stritolò in un abbraccio. Quando si separarono Violetta vide alle spalle di Federico Maxi, svegliato come tutti gli altri dalle urla di gioia del conte, che li guardava con un misto di gelosia e invidia. Lena osservava Maxi con aria di rimprovero. Era convinta che tra i due sarebbe cominciata una guerra senza esclusione di colpi. Un boato scosse l’intera casa, facendoli cascare tutti per terra.
“Cosa succede?” domandò Thomas in preda al panico, tenendo stretta la spada. La luce proveniente dalla finestra venne improvvisamente oscurata. Violetta pensò ad una nuvola. Si avvicinò tremando. Un’ala munita di artigli passava al loro fianco, e fece in tempo a scorgere due occhi rossi e abbaglianti, prima di subire un altro scossone.
“Di che si tratta?” chiese Andres, sebbene la risposta sembrasse parecchio ovvia: un drago. I draghi erano quasi estinti nel Paese delle Meraviglie e ci si poteva considerare fortunati per questo. Erano gli animali più aggressivi e letali del loro mondo: le loro fiamme erano inarrestabili e bastava un loro colpo d’ala per creare una tormenta d’aria. “E’ un drago” replicò Emma con un’invidiabile fermezza sebbene dentro stesse morendo dalla paura.
“Questo è male! I draghi sono refrattari alla magia” si intromise Dj, barcollando per poi cadere nuovamente dopo un’altra scossa.
“Oh, no, questo non è un drago qualsiasi. Il Ciciarampa!” strillò Beto, riconoscendo fin da subito la leggendaria creatura che la stessa Alice aveva sconfitto, relegandola in un profondo antro con delle catene che la tenevano intrappolata. Il Ciciarampa era stato una delle più temibili armi di distruzioni della Regina Rossa, ma dopo la guerra tra i Bianchi e i Rossi non se ne era più sentito parlare. Fino a quel momento almeno. “Bene, adesso ce la vediamo anche con i pezzi grossi” si lamentò Emma, sfilando il pugnale e reggendosi a stento in piedi.
“Non penso voglia attaccarci, sembra piuttosto che stia cercando di tenerci lontani. Come se fosse un blocco aereo imposto dalla regina di Quadri”. Un colpo secco e l’intera veranda venne tranciata di netto, sfracellandosi in aria. “Non è molto amichevole però”. Il drago si aggrappò alla casa, afferrandola per gli artigli e occupando un’intera facciata. Azzannò il tetto, lacerandone una parte: Violetta osservò inorridita i denti acuminati comparire dal soffitto; da essi colava un liquido verde e denso, che non appena toccò il pavimento formò una macchia scura e sfrigolante.
“E’ una sostanza acida” osservò Emma. “Aggiungiamola alla lista delle cose letali di questo mostro, allora” ribattè Maxi, per nulla rincuorato da quella notizia. Thomas sguainò la spada compiendo dei movimenti circolari in aria. Lame taglienti fatte d’aria compressa si scagliarono in direzione del muso dalle cui narici uscivano fili di fumo nero. La bestia emise un lamento infastidito: la spada magica non aveva ottenuto alcun effetto, se non quello di innervosirlo ulteriormente. Una lingua di fuoco mandò in fiamme ciò che restava dal tetto e il drago ruggì. Maxi osservò l’elmo: in che modo avrebbe potuto essergli utile in quel momento? La risposta era che non avrebbe potuto fare nulla per aiutare gli altri. Se solo fossimo in un posto sicuro, pensò, chiudendo gli occhi e aspettandosi il corpo andare in fiamme dopo il nuovo attacco del Ciciarampa. L’elmo però prese a vorticare nelle sue mani, finchè fu per lui impossibile tenerlo in mano. Il pavimento di legno si deformò, mentre al centro apparve una spirale azzurra sopra la quale risplendeva l’oggetto magico. Tutto veniva attirato dentro di essa, tranne Beto, la Lepre e il Ghiro, legati a quella casa dalla maledizione del Tempo.
“Che cos’è?” urlò Federico, cercando di sovrastare il sibilio del vento che veniva risucchiato dentro il portale appena comparso.
“Non lo so, ma è meglio di dove ci troviamo ora!” rispose Emma, osservando la superficie increspata azzurra. Prese un respiro profondo e si tuffò dentro di essa, scomparando dalla visuale degli altri. Andres osservò la scena allibito, quindi si precipitò anche lui nella spirale.
Dj schioccò le dita e la teca in cui riposava Francesca si sollevò a mezz’aria. Nel frattempo le fiamme invasero la casa, che perdeva sempre più quota. Il drago si staccò rimanendo in volo e osservando l’invasore rispedito a terra. Lena afferrò la mano di Violetta, implorandola di seguirla. Osservò Beto, che si inchinò con rispetto: “Felice di avervi servito…Non preoccupatevi per noi, in qualche modo ce la caveremo”. La Lepre Marzolina e il Ghiro annuirono, per poi spronarli ad attraversare il portale. Thomas prese l’altra mano di Violetta, per infonderle coraggio, mentre nell’altra teneva stretta la spada e tutti e tre si lasciarono andare, gettandosi nella luce azzurra. Prima di cadere in quell’oceano senza fondo Violetta sentì le voci indistinte degli altri in quella casa, le urla, il crepitare delle fiamme, il rumore del legno che si sfracellava. Poi semplicemente si ritrovò sospesa in un limbo privo di dimensione. Non sapeva dove si stesse dirigendo, non sapeva neppure dove si trovava a dire il vero. Sarebbe mai uscita da lì? Lena e Thomas erano spaventati quanto lei. Nessuno di loro aveva dimistichezza con la magia, per cui quel tunnel infinito che procedeva verso il basso poteva benissimo una trappola in cui sarebbero rimasti per sempre. La magia dell’elmo si era rivelata davvero potente, dando loro la possibilità di fuggire dalle grinfie del drago, ma li avevano messi di fronte all’ennesima incertezza e paura. Scendevano sempre di più, prendendo velocità e tutto intorno a loro comparvero gli oggetti più disparati: pianoforti a coda, letti, porte, tutto galleggiava come se la gravità valesse solo per loro. Thomas dovette scostarsi per evitare una statua che a Violetta ricordava vagamente la Statua della Libertà di New York in miniatura. Dopo quello che le parve un tempo infinito avvertì il suono di un risucchio che arrivò a fracassarle i timpani. Si portò le mani alle orecchie, lasciando così la presa dei due amici, che fecero smorfie altrettando infastidite per quel disturbo sonoro.
L’atterraggio non fu per niente piacevole: caddero da almeno un metro di altezza a terra e nonostante il fogliame della foresta avesse attutito il colpo Violetta non potè fare a meno di provare un dolore atroce. Si tirò su un piedi a fatica e a pochi passi vide Lena che faceva lo stesso, addirittura più stordita di lei. Thomas era ancora a terra, la spada subito affianco, disteso, che non sapeva se ringraziare il cielo di essere ancora vivo oppure preoccuparsi del fatto che gli faceva male ogni singolo osso che aveva in corpo. Decise di prestare più attenzione al primo pensiero, che almeno era di consolazione. Tutto intorno c’era un silenzio innaturale.
“Dove siamo finiti? E dove sono gli altri?” chiese Lena in un lamento. In effetti non c’era traccia di Andres, né di Emma. Per di più non sapevano nemmeno se gli altri fossero riusciti a scampare al pericolo. Violetta era preoccupata persino per Beto: era riuscito a salvarsi anche se non poteva lasciare quella casa? Sperava vivamente di si, in fondo grazie a lui aveva avuto delle spiegazioni, per quanto ancora confuse nella sua testa. Non aveva però il tempo per pensarci: dovevano trovare il modo di riunirsi agli altri.
 
Leon era stanco di combattere. Non aveva mai detestato tanto stare in quell’accampamento. Per di più non aveva più ricevuto notizia di Violetta e la cosa lo stava preoccupando. Neppure Humpty, che era solito informarlo di tutto, aveva scritto qualcosa per lui. Forse era il suo essere diffidente nei confronti degli altri ad allarmarlo così tanto, e non fosse per la cieca fiducia che riponeva nel suo amico e in Violetta, probabilmente sarebbe già partito alla volta del castello di Cuori, ignorando qualsiasi ordine della madre. Entrò nella sua tenda ordinando alle sentinelle di non disturbarlo. Erano due giorni che non chiudeva occhio e almeno un paio di ore per riposare erano necessarie. Il suo alloggio era certamente migliore degli altri, era pur sempre un principe nonché comandante di quella divisione, ma rimaneva un ambiene spartano. Certo lui era abituato ad essere privo di ogni lusso, ma gli mancava un po’ essere servito e riverito. Con un po’ di fatica riuscì a liberarsi senza bisogno di chiedere aiuto la cotta di maglia. La guardò con disprezzo: sapeva di morte. Un tempo tutto quello non gli faceva nessun effetto, ma adesso aveva cambiato il suo modo di vedere le cose. Era accaduto tutto improvvisamente e sapeva bene di chi fosse il merito. Mancavano ancora un paio di settimane e poi sarebbe stato completamente libero. Libero di sposare Violetta. Si gettò a peso morto sulla brandina in un angolo e osservo il telo che gli faceva da soffitto. Si stese poi di fianco, osservando fisso di fronte sé: che stava facendo in quel momento? Era al sicuro? Perché non gli scriveva? Doveva sapere che stesse bene. Gli aveva già mandato un paio di lettere, ma per il resto non aveva avuto i mezzi e il tempo per buttare giù qualche riga. Però l’aveva rassicurata, cosa che lei non stava facendo. Ehi, smettila di pensare male di tutto e di tutti, gli sussurrò la vocina interiore. Non credeva fosse possibile sognare ad occhi aperti, eppure il desiderio che aveva di rivederla stava riuscendo persino in quell’impresa. Lo guardava, stesa al suo fianco, con un sorriso divertito e innocente. Era il suo sorriso ad averlo fatto cadere nella trappola, quel sorriso l’aveva stregato. Violetta chinò il capo verso di lui, strofinandolo dolcemente contro il suo petto e gli lasciò un bacio all’altezza del cuore, che per quanto fosse solo frutto della sua immaginazione, attraversò la maglia e si scolpì sulla sua pelle come un marchio rovente. Quando provò a stringere il corpo inesistente, preso da quelle meravigliose sensazioni, si ricordò però che di fronte a lui non c’era nessuno. Amareggiato provò a chiudere gli occhi, ma anche in quel caso aveva la continua impressione di avvertire il suo profumo. Per un secondo addirittura gli sembrò che i suoi capelli gli solleticassero la punta del naso. Sbuffò e si girò dall’altra parte, senza ottenere un miglioramento. Prese a girarsi in tutte le posizioni, ma proprio non c’era verso. La sua mente era sempre proiettata verso Violetta.
“Principe!” gridò una delle guardie, entrando di corse nella tenda. Nella mano aveva una missiva che portava lo stemma reale, a cui però il principe non fece caso.
“Vi avevo chiesto solo due ore! Cosa succede adesso?” protestò Leon. In parte avrebbe voluto veramente prendersi un po’ di tempo per riposare; era anche vero però che quello che avrebbe dovuto dargli ristoro stava diventando un vero e proprio supplizio per il suo cuore, quindi si concentrò sulla situazione attuale, su ciò che stava accadendo sul campo di battaglia. Da quando era arrivato il suo battaglione avevano guadagnato parecchio terreno contro le truppe di Picche ma la situazione era tornata di nuovo in una situazione di stabilità: non riuscivano né a retrocedere né ad avanzare. Nonostante infatti la loro superiorità numerica infatti, i nemici avevano dalla loro parte una conoscenza superba del territorio e un’invidiabile abilità tattica. Un soldato semplice di Picche avrebbe potuto perfino prendere il posto dei loro strateghi. Inoltre quegli uomini erano molto più motivati di loro. Sapevano bene che in gioco non c’erano solo le loro vite, ma la loro libertà. Ammirava i suoi nemici per la loro tenacia, ma allo stesso tempo non si faceva nessuno scrupolo ad aliminarli uno ad uno: in una guerra non c’era il tempo per lodare l’avversario. Il giovane soldato, quasi sicuramente un rampollo nobile mandato dai genitori a farsi le ossa sul campo da battaglia, era rimasto in silenzio, intimorito dal tono alterato del principe. La sua reputazione era nota a tutti e anche solo il suo nome continuava a far tremare perfino i suoi alleati. Sbuffò, roteando gli occhi in aria, quindi si ricompose e con un gesto della mano lo invitò a parlare. Il ragazzo, vestito di tutto punto e pronto per fare il suo turno di guardia gli porse la missiva con uno scatto della mano e Leon la guardò sorpreso. Subito il suo pensiero era andato a Violetta, ma poi aveva visto lo stemma regale e la sua felicità si spense all’istante. Jade. Ringraziò educatamente il giovane e gli chiese di lasciarlo solo. Si sedette sul letto, e strappò la busta perplesso, dopo aver tolto il sigillo di ceralacca rossa con due rose che si intrecciavano. Con gli occhi scorse il contenuto della lettera e dalla tristezza passò nuovamente alla gioia, questa volta incontenibile. Non poteva crederci, era al settimo cielo. Non solo sua madre aveva ribadito che avrebbe mantenuto fede al patto, permettendogli di sposare Violetta, ma addirittura gli dava il permesso di rientrare in anticipo. La lettera diceva perfino che sarebbe potuto partire il giorno stesso, e lui non aveva intenzione di rifiutare quell’invito. Si precipitò fuori dalla tenda ancora in preda all’euforia, correndo ad avvisare affinché preparassero subito dei cavalli per lui e per la scorta reale.
“Torno da te, come promesso” sussurrò felice Leon, sicuro che in un angolo del castello Violetta lo stesse aspettando.
 
“Dalla vegetazione così esotica direi che si tratta della Foresta Centrale. Se procediamo verso nord-ovest dovremmo raggiungere il Regno di Quadri” osservò il Bianconiglio, studiando una palma dalle foglie lunghe e spesse, mentre si liberava di alcuni arbusti a colpi di spada. Ancora non riusciva ad usarla al meglio, d’altronde era la prima volte che maneggiava un’arma, ma faceva il possibile. Subito dietro di lui venivano Violetta e Lena, che si guardavano attorno spaesato: quello era il regno della natura, nessun essere umano sembrava avervi messo piede.
“Come facciamo a vedere se stiamo procedendo nel verso giusto?” domandò Lena, per nulla rassicurata dal piano dell’amico. Thomas indicò un albero, il cui tronco aveva delle chiazze verdastre su un fianco. “Il muschio cresce sempre sul lato nord, è risaputo” spiegò il ragazzo per nulla scocciato nell’esporre le sue conoscenze. Anzi, la cosa lo riempiva di piacere e soddisfazione. Mentre camminavano Lena ne approfittò per parlare con Violetta della loro nuova compagnia e di quello che avrebbero dovuto fare in futuro.
“Non so come sia possibile tornare nel tuo mondo…l’unica che è riuscita a venire e tornare è stata Alice, ma di lei non si sa più nulla. Spero solo di raggiungere il palazzo di Picche e di ricevere accoglienza…è l’unico posto in cui mi sentirei al sicuro”. Lena rabbrividì al pensiero di essere una sorta di fuorilegge.
“Federico vuole parlare con il Brucaliffo per aiutare la sua amica. Credo che ne approfitterò per chiedergli se esiste un modo per andarmene da qui” rispose Violetta, scostando una voluminosa felce che stava all’altezza della faccia.
“Ma se te ne andrai…come farai con Leon?”. La domanda di Lena era più che lecita, ed era la stessa che lei si faceva da un bel po’ di tempo. Separarsi sarebbe stato doloroso, ma non c’erano alternative. Se anche Leon sarebbe potuto venire con lei, non gli avrebbe mai chiesto di lasciare tutto per lei. E non rimanere in quel mondo non era una possibilità da prendere in considerazione: German sarebbe morto dal dolore sapendo di aver perso per sempre la sua figlia. Avrebbe potuto credere che lei fosse morta o fosse stata rapita. Con la sua scelta gli avrebbe rovinato la vita e non voleva. “Non lo so” rispose nel silenzio più assordante. Lena si fermò, prendendole il braccio. Thomas era qualche metro più avanti e ancora non si era reso conto della loro sosta.
“A me quel Maxi non piace per niente” le disse sottovoce. “Sembra che voglia avvicinarsi troppo a te…penso che nasconda qualcosa”. Violetta si morse il labbro, costretta a non ribattere: la verità è che non le avrebbe mai creduto se le avesse riferito tutto il racconto del Cappellaio Matto, da cui derivava la spiegazione del debole che il ragazzo aveva per lei. Lena però sembrava determinata e sapeva che non avrebbe reso vita facile a Maxi. In fondo la ringraziava per questo, così non sarebbe stata costretta a spezzargli il cuore.
“Ha perso la sua famiglia, si sente molto solo…” tentò di ammansirla, facendole solo incrociare le braccia al petto con un cipiglio infastidito.  
“Ragazze, qua la vegetazione si sta facendo più rada, per fortuna non eravamo capitati nel folto della foresta” sospirò di sollievo il Bianconiglio, invitandole a seguirlo con un gesto della mano. Le due ripresero a camminare, e in effetti poterono constatare che le piante prima monumentali erano sempre meno imponenti, fino a ridursi a degli alti fusti sottili. “Speriamo solo di trovare gli altri!” esclamò Violetta, ricordandosi di essere rimasta priva di protezione e sola in un mondo sconosciuto e pericoloso. Per lo meno Andres le dava idea di sicurezza e Emma con le spade era un vero portento, da quello che aveva potuto vedere. Invece Lena non sapeva nemmeno come si impugnasse un’arma e Thomas…beh, per quanto ci provasse, non poteva certo definirsi una guardia del corpo valida. Sbucarono su una valle, soleggiata. In lontananza si vedevano delle rovine.  
“Siamo salvi!” esclamò Lena, correndo ad abbracciare Thomas, che le aveva condotte fuori da quel labirinto infernale. Violetta però non si sentiva affatto tranquilla: nell’aria serpeggiava qualcosa. In lontananza sulla sinistra c’erano nuvole di fumo, che indicavano la presenza del fronte di guerra, al confine tra Quadri e Picche. Chissà se Leon si trovava lì o era stato mandato da qualche altra parte. Non poteva azzardarsi ad andare all’accampamento di Cuori, Andres le aveva fatto capire che doveva stare lontano dalla guerra finché non fosse giunto il momento opportuno, ossia quando avrebbero riunito tutti i pezzi dell’armatura. Non poteva rischiare la vita, quindi rinunciò in partenza al suo proposito. Ma non era solo quello a turbarla. Nell’aria avvertiva qualcosa, come una presenza, che investiva tutta la valle, incantandola col suo canto in piena armonia con la natura. Una voce solenne ripeteva le stesse note, era un inno che si susseguiva in eterno. E proveniva proprio da quelle rovine. Senza curarsi dei suoi amici che la chiamavano, Violetta cominciò a dirigersi verso le rovine. Non erano le voci del libro che altre volte le avevano consigliato di agire in un determinato modo, di tenersi lontana da determinati luoghi. Era qualcosa di rassicurante, le ricordava tanto il canto di sua madre, morta tanti anni prima a causa di una malattia improvvisa che l’aveva resa sempre più debole. Si, assomigliava tanto al canto di Maria, che rimaneva un ricordo impresso nella sua mente nonostante la giovane età.
“Violetta!”. Thomas la fece riscuotere da quell’improvviso trance e si ritrovò a camminare sul marmo antico e rovinato da numerose crepe. Torrioni inquietanti si ergevano qua e là, ridotti in macerie. Il marmo da bianco divenne nero. Poi dopo parecchi passi divenne nuovamente bianco. Bianco, nero, bianco, nero. Passarono alcuni minuti prima che si rendesse conto di stare camminando su un’enorme scacchiera. Un corvo di poggiò su un blocco di pietra squadrato e gracchiò, tenendoci a chiarire che quella era la sua casa e che non erano benvenuti gli stranieri.
“Qui è dove si è tenuta la battalgia finale in cui Alice sconfisse definitivamente la Regina Bianca e la Regina Rossa. Il giorno del Liberatutto” osservò ammirato Thomas, sfiorando con la mano alcune pareti sgretolate, in piena adorazione.
“A me questo posto fa un pochino paura, però”. Lena, che procedeva con una certa diffidenza, si ricordava dei racconti di spettri e creature soprannaturali che popolavano quei luoghi antichi. Lei aveva sempre avuto paura dei fantasmi. Il sole venne oscurato da una nuvola grigia e una densa nebbia si alzava più avanzavano. Un silenzio di tomba calò tra di loro, facendoli rabbrividire tutti tranne Violetta che accorreva a quell’accorato richiamo. D’un tratto la musica cessò. Si voltò per capire se fosse stata colpa dei suoi amici, ma non li vide più. In mezzo a quella nebbia ne aveva perso completamente le tracce.
“Lena! Thomas!” prese a chiamarli a gran voce, ma rispose solo un suono in lontananza, e non poteva giurare sul fatto che si trattasse di loro. Mosse un passo indietro, ma incontrò con le mani una superficie liscia. Intorno a lei la nebbia si diradò mostrando uno specchio antico. Era lungo, dall’appoggio e la cornice di legno di ciliegio. I suoi occhi si specchiarono nell’azzurro intenso dello specchio e per poco non emise un urlo per lo spavento. Non c’era il suo riflesso. Al suo posto una ragazza dai capelli biondi e un fiocco azzurro in testa la guardava sorridendo e le porgeva la mano.
 
“Dove diavolo è finita? L’abbiamo persa!”. Thomas si guardava attorno disperato, non riuscendo a capacitarsene: un secondo prima era davanti a loro, un secondo dopo era scomparsa. Lena era inciampata, slogandosi la caviglia ed erano stati costretti a fermarsi. Nonostante le proteste della ragazza per rimettersi in piedi e cercare l’amica il Bianconiglio l’aveva costretta a stare a riposo. In effetti da quando erano capitati nella foresta non si erano riposati neppure un attimo, troppo presi dalla foga di ricongiungersi con gli altri…chissà dove erano finiti a proposito. L’ultima cosa che ricordava era che Dj aveva fatto levitare la teca che teneva al sicuro Francesca, e poi…le fiamme, il fumo, un urlo. A chi apparteneva quell’urlo? Gli occhi lacrimavano a causa di quella nebbia fastidiosa, mentre Lena si era seduta, tenendo stesa la gamba che le faceva male.
“Lasciami qui, Thomas, e vai a cercare Violetta!” lo implorò Lena, emettendo un gemito di dolore. “Ci manca solo che ci perdiamo tutti e tre!” sbottò il Bianconiglio. “Aspettiamo che la nebbia si diradi…Violetta non è stupida e non appena si sarà resa conto che non ci siamo tornerà sui suoi passi o si fermerà ad aspettare come noi che si possa vedere”. Si sedette di fronte a Lena incrociando le gambe e tirò fuori il cipollotto d’oro appartenuto al padre. Appoggiò lo spada al fianco, e se lo passò tra le mani. Non aveva mai pensato a cosa avrebbe fatto dopo essere fuggito. Da una parte ammirava tantissimo Andres e il suo spirito da leader combattente, ma sapeva anche che non avrebbe mai potuto ricoprire un ruolo simile. Era e rimaneva un codardo. Leon aveva il carisma, la capacità di combattere, lui no. Sarebbe stato solo una palla al piede per tutti…quindi che fare?
“Lena, tu cosa vuoi fare una volta finito tutto questo?” le domandò spontaneamente. Vide negli occhi di Lena la sua stessa confusione e incertezza, ma non ci mise molto ad ottenere una risposta.
“In realtà spero solo di trovare un lavoro al Palazzo di Picche…non sono mai stata una ragazza dai grandi propositi” ridacchiò amareggiata la ragazza, mentre si massaggiava la caviglia dolorante.
“Tu mi ci vedi a combattere in un esercito?”. Chiuse gli occhi aspettando di sentirsi preso in giro, ma non sentì nulla. Raprì prima il destro, poi il sinistro, e vide che Lena non sembrava affatto intenzionata a deriderlo. “Se è quello che desideri, perché no?”.  
“E’ questo il punto! Da quando ho questa spada mi sento invincibile, non penso ad altro che a combattere, ma temo che non sia un mio desiderio, come se fossi influenzato” sospirò. “Inoltre non ne sarei sicuramente all’altezza”. Lena gli prese la mano, scuotendo la testa. “Non capisco perché continui a sottovalutarti così. Da quello che mi hanno raccontato e che ho visto sei stato incredibile ed è stato merito tuo se sono riusciti a recuperare la spada”.
“E’ diverso, solo io potevo prendere quella spada! Non è mai stato merito mio”. Ecco, l’aveva detto. Non era stato davvero merito suo, lo sapeva bene, era stata solo fortuna. Chiunque al posto suo avrebbe potuto prendere la spada, era solo una questione di sangue, non di coraggio.
“Credi che chiunque dopo aver visto un serpente alto non so quanti metri sarebbe rimasto in quella stanza invece di fuggire a gambe levate? Perché continui a sminuirti? Accettalo, Thomas, sei una persona coraggiosa” disse Lena, accennando un sorriso. Thomas inclinò il capo di lato: non era un codardo? Quello che le aveva detto aveva senso, e forse era addirittura vero. “Quindi se è quello che vuoi, si, Thomas, puoi combattere come tutti gli altri”. Era la notizia più bella che potesse dargli. Preso dalla felicità, la abbracciò di slancio, rischiando di farla cadere per terra. Si separarono un po’ in imbarazzo: non avevano mai parlato in quel modo in anni e anni che si conoscevano. Stava per ringraziarla, quando sentirono qualcuno annaspare a pochi passi da loro.
“Violetta?” sussurrò Thomas, alzandosi in piedi e avanzando a tentoni nella nebbia, girandosi continuamente per essere sicuro di non perdere di vista Lena. Fece un passo, e sentì qualcuno afferrarlo da dietro. Sguainò la spada e fece per combattere, ma si fermò non appena riconobbe la sagoma di fronte a lui. Era Maxi. Si teneva il braccio e aveva il labbro sanguinante. Era davvero ridotto male, a stento si reggeva in piedi. Indossava l’elmo di Fiori, forse perché non gli fosse di intralcio.
“T-Thomas…”. Dalla bocca gli uscì un rivolo di sangue misto a saliva, che si affrettò a pulire con la manica del braccio, lasciando libero l’altro, che gli doveva fare un male atroce a giudicare dalla smorfia di dolore.
“Che succede, Maxi? Va tutto bene?”. Lo aiutò a reggersi in piedi e insieme raggiunsero Lena, che nel frattempo si era alzata, e cercava di camminare. Il dolore alla caviglia sembrava essersi affievolito, per sua fortuna. Maxi era ancora stordito e non riusciva a parlare. Ruotò gli occhi tutto intorno rabbrividendo. “L-la n-nebbia. Dobbiamo uscire da qui, dobbiamo andarcene”.
“Non possiamo, dobbiamo cercare Violetta!”. Il ragazzo sgranò gli occhi di fronte alla risposta di Lena e scosse la testa sempre più forte. “No, no, NO! La troverà, troverà tutti noi!”
Thomas pensava che stesse delirando: qualsiasi cosa gli fosse successa doveva essere terribile.
“La nebbia…è sua. E’ sua, serve a nscondersi” continuò a blaterare Maxi, tremando.
“Maxi, ma di che parli!”.
“Un mostro…terribile. E’…affamato. Vuole divorarci. La nebbia è per cogliere di sorpresa le sue vittime. Dobbiamo andarcene di qui!” 




















NOTA AUTORE: Hola a tutti! Finale da brividi! Innanzi tutto mi scuso come sempre per il ritardo, per non aver risposto alle recensioni e tutto. Il problema è che lo studio sta diventando davvero pesante, sarà perché se tutto va bene prendo la laurea triennale quest'anno *incrocia le dita*, sarà che i corsi stanno diventando sempre più tosti e i professori sempre più esigenti...insomma, perdonatemi, davvero. Cerco di fare il possibile, e so che non è abbastanza, ma io ci provo, posso dire solo questo. Detto questo, non mi posso soffermare troppo a commentare, ma qualcosa va detto. A parte il finale inquietante (almeno per me lo è), il gruppo si è diviso in seguito alla magia dell'elmo che ha rivelato un nuovo potere di cui nessuno era a conoscenza...che anche la spada nasconda qualcos'altro? Lo vedreeeemo :3 Nel finale Violetta si trova a tu per tu con l'immagine che credo abbiate capito tutti essere un Alice molto giovane...mentre gli altri si ricongiungono a Maxi, scoprendo così di essere caduti nella trappola di un mostro feroce. Degli altri invece non si sa proprio nulla: che fine hanno fatto Andres e Emma? E gli altri? A chi appartiene quell'urlo che ricorda Thomas? Qualcuno ha perso la vita nello scontro con il drago? Ovviamente, voi non sapete nulla (e lo scopo è proprio questo), e va bene così per ora xD
Mi prendo un secondo per commentare la scena di Leon...PARTE IL DOLORE PURO. Meno male che all'inizio c'è quel flashback dolce, perché poi per il resto...D: Adesso che Leon è pieno di aspettative e tutto felice...*piange* Cosa succederà? Anche questo lo vedremo (purtroppo :'(). E niente- ancora tanta azione per i nostri amici, adesso addirittura separati e finiti chissà dove. Ahhhhhhhhh, quante cose ancora! Nel prossimo capitolo capiremo qualcosa sul passato di Alice e- niente, basta chiacchiere, che qui spoilero troppo (e Ali se ne approfitta xD)...grazie a tutti voi per il supporto, per recensire o anche semplicemente leggere. Grazie di cuore! :3 Con affetto,
syontai :3 

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Capitolo 57
*** Il mondo in un libro ***


Capitolo 57
Il mondo in un libro

“Tu sei Alice?”. La figura riflessa scosse la testa. Una folata di vento all’interno dello specchio le scompigliò i capelli di un biondo dorato. La gonna turchese che indossava venne sollevata appena sopra le ginocchia.
“Sono solo un ricordo” sussurrò la ragazza, senza smettere di sorridere. Violetta rimase a fissare incantata l’Alice del passato che di tanto in tanto si voltava indietro, da dove proveniva il vento. Allungò la mano fino a sfiorare la superficie trasparente dura e fredda. Essa si deformò al suo tocco, creando delle increspature concentriche. Alice, o almeno il suo fantasma, la invitò a raggiungerla dall’altra parte. “Non c’è molto tempo” la esortò tendendo la mano. Violetta affondò il braccio nello specchio, riuscendo a stringere la mano della ragazza, che la attirò a sé, facendola sprofondare nel vuoto. Sembrava di galleggiare dentro un oceano, trasparente, limpido e immenso. L’unica differenza è che riusciva a respirare normalmente.
Atterrò senza nemmeno accorgersene nello stesso luogo in cui poco prima c’era lo specchio, ma la nebbia si era diradata; al suo posto splendeva un sole ardente. Il cielo terso era offuscato dal fumo che proveniva nelle vicinanze, insieme ad un odore acre e nauseante. Sulla scacchiera c’erano schizzi di sangue vermiglio e al centro due fazioni erano separate da un misterioso guerriero, che indossava un’armatura scintillante. Si avvicinò piano, ma nessuno le prestava attenzione. Una donna vestita di bianco e capelli corvini fissava con astio colei che si trovava di fronte a lei, una bionda e attraente regina dal diadema argentato che faceva sfoggio del suo abito rosso fuoco. La Regina Bianca e la Regina rossa. Dove era finita? Quello doveva essere il giorno del Liberatutto! Ma allora il cavaliere che si trovava nel mezzo e separava le due contendenti…non fece nemmeno in tempo a pensarlo, che quello si sfilò l’elmo, facendo ricadere una cascata dorata lungo le spalle.
“Alice” digrignò la Regina Rossa. “E pensare che avevo avuto la possibilità di farti tagliare la testa a suo tempo! Che occasione sprecata”. Alice non badò a quelle parole piene di odio, ma piantò la spada di fronte a sé, gli occhi azzurri che lampeggiavano imperiosi.
“Questa guerra finisce qui. Ho raccolto tutti i pezzi dell’armatura, ho sconfitto il Ciciarampa, ho impedito che ci fosse un ulteriore scontro. Avete quasi condotto il Paese delle Meraviglie alla rovina, è disoronevole”. Violetta non si perdeva nemmeno un dettaglio di quella scena. Se Alice le aveva voluto mostrare quel frammento del passato doveva essere successo qualcosa di veramente importante.
“La ragazza ha ragione. Dovremmo mettere da parte le nostre discordie e pensare al bene del Regno” intervenne la Regina Bianca.
“Sorella, credi davvero che la pace nel Paese delle Meraviglie possa durare per sempre? Le ostilità riprenderanno come sempre, la guerra è un evento necessario che si ripete ciclicamente nel tempo” rispose con tono solenne la Regina Rossa.
La scena cambiò. Erano tra la mura di un castello, sedute tutte e tre intorno ad una tavola rotonda con dei lunghi candelabri che illuminavano l’ambiente. Non c’era alcun banchetto in corso, piuttosto sembrava che stessero studiando qualcosa di insolito.
“E’ accaduto subito dopo che ho tolto l’armatura…non so come sia potuto succedere, dalla spada è uscito un fascio di luce e subito dopo ho trovato questi”. Violetta si avvicinò, sicura di non essere vista, e vide due tomi dalle copertine di pelle identiche e la scritta a caratteri dorati ‘Alice nel Paese delle Meraviglie’. Sotto la prima scritta c’era una mezzaluna argentata, sotto il secondo invece un sole dorato. “C’è un nome…Lewis Carroll. L’ho letto ed effettivamente parla di quello che mi è successo. Come ne è potuto venire a conoscenza?”. La Regina Bianca intrecciò le dita, meditando a fondo, mentre la sorella osservava avidamente i due libri.  “Sono completamente uguali a parte le piccole differenze della copertina” precisò subito dopo la ragazza.
“Che ne pensate? Chi può conoscere questo mondo a parte noi?”.
La scena svanì riprendendo subito consistenza. Era ancora notte, ma questa volta si trovava in mezzo a un corridoio. L’allarme suonava incessante e le guardie accorrevano. “Un furto! Un furto! Uno dei libri è stato trafugato!”. Alice ascoltò quella terribile notizia con lo sguardo terreo. Nessuna delle due regine mancava all’appello, eppure lei avrebbe scommesso che solo la Regina Rossa avrebbe potuto fare qualcosa del genere. Nessuno a parte loro tre era a conoscenza dei due libri. “Del ladro non si ha nessuna traccia”. La guardia la parlava ma lei ascoltava con aria assente. Violetta invece era sempre più confusa: che cosa rappresentavano di così importante quei libri? Ma soprattutto che fine avevano fatto? Uno era stato rubato e se ne erano perse le tracce, ma quello in possesso di Alice? Si ricordò della scritta trovata nel fondo di un vecchio scaffale della biblioteca. Lewis Carrol…era rimasto solo quel frammento del libro?
Tutto intorno vorticò, trasferendola in una piccola stanza illuminata dal camino, il cui fuoco gettava ombre intorno alle fiamme crepitanti. Da una finestra che dava sull’esterno Violetta si rese conto che era passato del tempo. Fiocchi bianchi svolazzavano in aria, in mezzo al vento gelido e alla neve fitta che scendeva. Alice era in piedi di fronte al camino, stringendo in una mano il libro, mentre dall’altra chiusa in un pugno si scorgeva un foglietto. Violetta lo riconobbe subito: era quello che aveva trovato nella biblioteca di Cuori. Mosse la mano avanti, poi si ricordò che nessuno poteva vederla né sentirla. Era come un fantasma, perso in quell’oceano di ricordi confusi, di frammenti che presi da soli risultavano incomprensibili. Alice sembrava pensierosa, quindi gettò il libro nel fuoco, lasciando che le fiamme lo divorassero man mano.
Perché bruciare quel libro?
Che cosa voleva evitare Alice con quel gesto?
Che fine aveva aveva fatto la copia rubata?
Violetta aprì gli occhi e si ritrovò in ginocchio, immersa nella nebbia. Dello specchio non c’era più alcuna traccia. Si rialzò in piedi, ancora stordita, prima di ricadere sulla ginocchia. Non riusciva nemmeno a muoversi, talmente tanto si sentiva affaticata. La pietra risuonava di un ticchettare confuso, ma ci vollero diversi secondi prima che Violetta se ne potesse rendere conto.
“Violetta!”. Riconobbe la voce in lontananza, ma proveniva dalla parte opposta in cui aveva sentito i rumori. “Violetta, corri!”. Maxi. Ma come poteva chiederle di scappare se non riusciva neppure a strisciare via? E poi come mai era tanto preoccupato per lei? Dalla nebbia emerse una zampa nera e pelosa. Poi un’altra e un’altra ancora. Dopo un po’ ne perse il conto, l’attenzione rivolta verso quel corpo lucido e tondo sempre nero da cui si ergeva un corpo di donna. Aveva i capelli scuri e gli occhi completamente bianchi, dalla bocca semiaperta si diramava un sottile strato di nebbia. Quella creatura mostruosa era per metà ragno per metà donna, anche se di umano non aveva proprio nulla. Tentò di arretrare scalciando, ma fu tutto inutile: una viscida sostanza biancastra le intrappolò il piede al pavimento. Tentò più volte di liberarsi di quella ragnatela, ma era ormai in trappola. Proprio in quell’istante dietro di lei spuntarono Lena ancora zoppicante, Maxi, che era riuscita a localizzarla grazie all’elmo, e Thomas, che brandiva la spada magica. Subito il Bianconiglio si lanciò contro il nemico, infuriato. Non c’era più nulla di pacifico e innocuo in lui, era come se fosse un’altra persona. Maxi riconobbe l’anima della spada che si serviva di Thomas per soddisfare la sua sete di sangue. La creatura però dopo lo stupore iniziale evitò il colpo del Bianconiglio e con una zampata lo scaraventò a qualche metro di distanza. Lo chiamò a gran voce, ma non ottenne alcuna risposta. Si mise a correre verso l’amico, con l’elmo in testa, e quando lo raggiunse vide che era svenuto. Imprecò. Sarebbe riuscito ad usare due oggetti contemporaneamente senza che essi gli succhiassero via la vita? Non appena vide però l’essere avanzare verso Violetta smise di pensare e strappò di mano la spada a Thomas. La forza, l’energia…era un mix devastante e potente. Prese consapevolezza del fatto che nessuno avrebbe potuto opporgli resistenza: era invincibile. L’elmo gli stava donando tutto ciò di cui aveva bisogno per agire a mente fredda, mentre la spada era il fulcro della sua forza. Con uno sguardo astuto corse fino a raggiungere il mostro, che si voltò con un sorriso di sfida. Prima che potesse colpirlo, Maxi mozzò una delle zampe, evitando il fiotto verde che ne fuoriuscì, macchiando il pavimento. Un urlo simile più a un rantolo risuonò nella nebbia. Scartò un colpo inflitto da una furia cieca e affondò, questa volta non riuscendo a colpirlo. Lena nel frattempo aveva zoppicato fino a Violetta, cercando di aiutarla a liberarsi. La donna-ragno si ritirò nell’ombra, aspettando il momento giusto per attaccare, ora che non era vista. Non sapeva che Maxi in realtà grazie all’elmo era in grado di vedere qualunque punto del Paese delle Meraviglie, e dopo qualche secondo riuscì a seguire i suoi movimenti. La lama della spada brillò di una luce abbagliante, venendo avvolta da quell’alone sempre più splendente. Puntò la spada di fronte a sé, e corse con sicurezza verso la nebbia, entrandoci, fino a quando non incontrò l’ostacolo. Il mostro emise un rantolo, mentre il suo corpo veniva trafitto. La sua corazza era stata distrutta in un solo colpo. Si accasciò a terra, mentre Maxi estrava la spada, intinta di una sostanza verde. La luce però ripulì l’arma, come se rifiutasse ogni cosa che potesse contaminare la lama. La nebbia si diradò pian piano, mostrando nuovamente la scacchiera gigante. “Ci siamo liberati della regina” sospirò, sedendosi a terra ansante. Si sentiva debolissimo, forse perché aveva fatto eccessivamente ricorso alla magia dell’elmo e della spada, ma almeno era riuscito a salvare la vita a Violetta e agli altri. Tenere gli occhi aperti gli faceva male, quindi li chiuse, e prima che se ne rendesse conto perse i sensi.
Si svegliò, disteso sotto l’ombra di un cespuglio. Vicino a lui c’era Lena, che ancora si lamentava per la caviglia. “Oh, sei sveglio” esclamò la bionda senza alcuna enfasi. Probabilmente aveva sperato che morisse nel sonno o qualcosa del genere. Nonostante gli avesse salvato la vita sapeva di non andarle a genio, anzi probabilmente lo detestava. Si tastò le tempie, poi i capelli. Non aveva l’elmo addosso. Sollevò il busto di scatto, rimanendo seduto, sospirando di sollievo non appena lo vide alla sua destra. “La spada?” chiese con la voce impastata.
“L’ha presa Thomas non appena si è ripreso. Lui e Violetta sono andati a cercare qualcosa da mangiare” rispose asciutta Lena, sistemandosi meglio sotto l’ombra.
Maxi sentiva il grande bisogno di alzarsi e andare a cercare Violetta per parlarle. Non poteva andare avanti in quel modo, lei doveva sapere di ciò che provava. Soprattutto ora che aveva compreso appieno i rischi che avrebbero corso durante il viaggio. Si alzò in piedi a fatica, squadrando la sua compagna, che lo degnò appena di uno sguardo.
“Da che parte si sono diretti?”
“Che ti importa? Adesso devi pensare a riposare” rispose Lena, insospettendosi subito di fronte a quella domanda. Non nascondeva certo di non sopportare Maxi, come non nascondeva la sua ostilità ogni volta che lui provava ad avvicinarsi a Violetta.
“Vorrà dire che proverò a cercarli senza il tuo aiuto”.
Detto quello si mise in cammino, raggiungendo un piccolo boschetto vicino. In lontananza udiva il fruscio dell’acqua che scorreva e pensò che c’erano buone probabilità di trovare lì Violetta. La fortuna ancora una volta fu dalla sua: la vide infatti mentre era chinata su una polla, intenta a riempire due borracce che si portavano dietro durante il viaggio. Si sentì molto meno determinato di fronte a quell’abbagliante scena. Gli tremavano le gambe e non riusciva a smettere di guardarla incantato. Violetta si rimise in piedi e si voltò, sobbalzando per la sorpresa nel vederlo lì. Di tutto il discorso che si era preparato ricordava solo qualche parola vaga, per il resto era il nulla totale. Violetta gli sorrise e anche quelle poche parole svanirono dalla sua testa.
“Grazie per averci salvato la vita” disse Violetta riconoscente. Il silenzio fu rotto dalla sua dolce voce e Maxi avrebbe voluto spiegarle che non c’era bisogno di alcun ringraziamento, perché l’avrebbe fatto anche cento volte pur di vedere il suo sorriso. Mosse qualche passo verso di lei, incerto. “Sei l’ultimo che è entrato nel vortice visto che hai l’elmo…come stanno gli altri?”.
Maxi scosse la testa. “C’era fumo ovunque, non so nemmeno se sono riusciti tutti ad entrare nel varco…mi ricordo solo un urlo straziante, ma poi mi sono lanciato dentro”. Non era lì che voleva andare a parare in ogni caso; quella conversazione era infatti partita con ben altri intenti. “Devo parlarti…” esclamò con voce impastata. La ragazza non si smosse minimamente e sembrava serena, eppure sentiva che in qualche modo era riuscito a metterle agitazione addosso. Era affrettato, forse anche idiota, ma non poteva più tenerselo dentro. Le prese con decisione le mani, avvicinandosi ancora di più. Che parole avrebbe potuto usare? Nessuna gli risultava sufficiente ad esprimere ciò che provava quando era vicino a lei, come in quel momento, in cui il cuore gli batteva talmente forte da assordargli le orecchie. Si convinse che i fatti avrebbero parlato al posto suo. Si specchiò per un secondo nei suoi occhi timorosi, quindi come un lampo, quasi per timore di essere respinto, sfiorò le sue labbra con l’intenzione di baciarla. Si sentiva come se avesse dovuto saltare nel vuoto. Una parte di sé aveva paura, un’altra invece era scossa dalla pura adrenalina che gli scorreva nelle vene. E così, senza avere ripensamenti, senza più alcun dubbio su quello che provava, la baciò.
 
Andres era ancora steso prone, non riuscendo a muovere un muscolo. Era dell’idea che qualche costola fosse rotta, perché faceva fatica perfino a respirare tanto era forte il dolore. Emma era stata davvero imprudente a saltare in quel portale magico e lui era stato altrettanto sciocco e impulsivo a gettarsi insieme a lei. Gli occhi aperti fissavano il cielo, limpido e terso, di un colore rosato. Il sole stava tramontando. Per quanto tempo aveva perso i sensi? Aveva sopportato ben di peggio, ma lo stesso ebbe un momento di panico. Era finito in chissà quale luogo, magari anche pieno di nemici. Ed Emma? Strizzò le palpebre, richiamando tutte le sue energie per tirarsi in piedi. Come aveva immaginato, si rivelò un’impres atitanica. Il dolore alle costole era sempre più fitto, sempre più lacerante. Si portò una mano sul fianco, gemendo. Si trovava nel bel mezzo di una strada lastricata, completamente deserta. Tutto intorno c’erano case di pietra, che sembravano disabitate. Il vento cominciò a soffiare, sollevando una nuvola di polvere, che lo investì, facendolo tossire più volte, mentre gli occhi lacrimavano. Di Emma nessuna traccia. Era forse un villaggio abbandonato? Ciuffi d’erba secca crescevano qua e là, invadendo la strada. Cominciò a vagare nei dintorni sperando di incontrare qualcuno che potesse dirgli almeno dove fosse finito. Forse è lo stesso che aveva fatto Emma. Deglutì: doveva trovarla assolutamente. Arrancando e annaspando si trovò di fronte all’insegna di un’osteria. Scricchiolava orribilmente, mossa dal vento, e sopra vi era il disegno scolorito di una zucca. Bussò, sapendo in anticipo che si sarebbe rivelato inutile: nessuno rispose. La porta era sbarrata con delle assi di legno, così come le finestre. Si armò di coraggio e diede una forte spallata alla porta, che per fortuna cedette al primo colpo. Il dolore si infittì ancora. Aveva bisogno di qualche farmaco, oppure di un guaritore o un medico. La stanza era ampia e vuota. I tavolini rotondi erano disposti in file ordinate, alcuni coperti con dei teli bianchi, altri invece lasciati in balia della polvere. Le assi del pavimento scricchiolavano sotto i suoi piedi; riconobbe un pianoforte in fondo alla sala. Si fece avanti fino al bancone, dove erano capovolti dei bicchieri con accanto uno strofinaccio. Una nota solitaria lo fece sobbalzare. Intorno non c’era nessuno però il piano non poteva aver suonato da solo. Si voltò impaurito e questa volta venne riprodotto un intero motivetto. Si voltò di nuovo ma ancora una volta l’unico essere vivente lì dentro era lui.
“Mi state prendendo in giro? Fatevi vedere!” sbottò spazientito. Come se le avesse invocate, diverse ombre trasparenti si materializzarono intorno a lui. Dietro il bancone un uomo corpulento con un bel paio di baffi argentei ripuliva un bicchiere inesistente, mentre uomini e donne di ogni età, parlottavano tra loro. Al piano era seduto una signora dall’aria distinta che indossava un paio di occhialetti a mezzaluna e aveva i capelli raccolti in una crocchia. Riprese a suonare lo stesso motivo, nonostante le dita scorressero attraverso i tasti.
“Abbiamo un ospite” esclamò l’oste allegro, mostrando i buchi tra i denti. “Oggi deve essere giornata, dopo la biondina”. Emma. Andres scattò come un animale, piantando le unghie sul bancone, e fissando l’oste che continuava a pulire come se non avesse detto nulla di che.
“Avete visto Emma? Dove era diretta?”.
“Nello stesso posto in cui sei diretto te” si intromise un giovane, ghignando. Andres lo fissò confuso, cercando di capire a cosa si stesse riferendo. “Devi essere davvero un pazzo per venire nella città fantasma” proseguì, lasciando ancora più interdetto il suo interlocutore.
“Città fantasma? Che cosa intendi?”.
Tutto intorno calò il silenzio, lo sguardo dei presenti fisso su di lui. Era una domanda tanto sciocca, forse? Non ne aveva mai sentito parlare, non sapeva nemmeno in quale dei quattro Regni si sarebbe dovuta collocare.
“Allora non conosce nemmeno la maledizione a cui sta andando incontro!” fece il verso una vocina stridula, proveniente da una bambina dalla trecce lunghe fino alle spalle. Un mormorio diffuso si levò tra i fantasmi: chi annuiva preoccupato, chi scuoteva la testa incredulo, chi alzava le spalle noncurante.
“Di che maledizione parlate?” domandò Andres, rabbrividendo al solo pensiero di quello che avrebbe potuto succedergli. Essere coraggioso era un conto, avere a che fare con la magia era tutta un’altra storia. Il pugnale che aveva appresso non poteva essergli di alcuna utlità di fronte alla stregoneria.
“Quella lanciata dalla regina di Quadri. Ti trovi in quella che un tempo era una ridente cittadina di nome Rosdasso, la cui unica sfortuna fu quella di ospitare un gruppo di rivoluzionari” mormorò la voce spenta del giovane. Andres si sedette sullo sgabello, pronto ad ascoltare il resto della storia. Il piano aveva smesso di suonare, tutto interno era tornato a calare un’inesorabile silenzio di tomba. “E’ stata gettata una maledizione su queste vie, su queste abitazioni. Tutti gli abitanti vennero ridotti a degli esseri immateriali, degli spettri. Ludmilla Ferro ci ha accusato di tradimento ed è questa la sorte che ci è stata riservata. Non si può tornare indietro in nessun modo…i fantasmi rimangono tali, inoltre non è possibile fuggire. Molti di noi hanno tentato, ma si sono risvegliati nella piazza principale. E’ una prigione eterna”. Non era finita lì, percepiva l’esitazione dello spettro a continuare il racconto. “La prima volta che venne un forestiero cercava un luogo dove poter riposare la notte. Il giorno dopo però si è risvegliato come uno di noi”. Andres impallidì: rimanere lì l’avrebbe trasformato in un fantasma, e non sarebbe più potuto andarsene, rimanendo intrappolato come gli altri. Si guardò le mani e vide che erano più pallide del solito. Chiese conferma al fantasma che annuì tristemente. “Si, ti stai già trasformando…devi andartene di qui prima che sia troppo tardi”.
“E Emma?” chiese, alzandosi di scatto in piedi.
“La tua amica si trova in una delle camere del piano di sopra. E’ debole…”. Andres non gli fece nemmeno terminare la frase, scattò fino alle scale che conducevano di sopra quindi le percorse velocemente, per poi ritrovarsi in un corridoio fiocamente illuminato da una finestra circolare sul fondo. Aprì le porte una ad una, mentre nel frattempo l’ansia e la paura crescevano. Doveva fare in fretta, altrimenti sarebbero rimasti in quella città fantasma per sempre. A così tanto potevano arrivare i poteri della regina di Quadri? Aveva paura di sapere in che modo lo scudo fosse stato protetto. Dj avrebbe potuto contrastare una maledizione di quella portata? Non era convinto. Ludmilla Ferro con i suoi intrugli e le sue pozioni sapeva essere ben più abile di un mago adulto. Il dolore alle costole si fece più debole…a quanto pare la sua trasformazioni in spirito lo allontanava dai sensi e dal suo corpo. Con un colpo, aprì l’ultima porta, dopo averle provate una ad una, e vide distesa su un letto sfatto Emma, profondamente addormentata. I suoi capelli biondi si confondevano con il bianco delle lenzuola e Andres pensò che per lei fosse ormai tardi. Quando però si avvicinò per prenderla in braccio si rese conto che era ancora tangibile. Però pesava pochissimo, gli sembrava di sollevare una piuma.
“Andrà tutto bene” le ripeteva, ma non sapeva se fosse più un modo per rassicurare se stesso che altro. Cercava di correre lungo la via, ma era stanco e affamato, senza energie. Gli sembrava di trascinarsi, mosso da chissà quale forza motrice. Erano passate solo poche ore e già su stava facendo buio. Con il calare delle tenebre li raggiunse anche il freddo notturno, ma Andres non sentiva nulla. Non sentiva il suo corpo, era come se non ne possedesse uno. La maledizione stava facendo sempre più effetto, e l’uscita dalla città gli sembrava irraggiungibile. In quell’intricato incrocio di vicoli, non capiva più nulla, proseguiva verso sud nella speranza che prima o poi ne sarebbe uscito. La pareti esterne delle case diventavano ostacoli oscuri e maledetti e Andres sentiva sempre più la pressione del tempo che scorreva senza dargli tregua. Un’uscita, aveva bisogno di un’uscita. Inciampò per la stanchezza e finì con Emma a terra con un rantolo. Il sangue gli scorreva dalle nocche, ma non provava alcun dolore. E invece avrebbe voluto poter urlare per la sofferenza, avrebbe voluto sentirsi nel suo corpo. Fatalità del destino: chiunque avrebbe pagato oro per non dover sottostare all’essere mortale insito nella natura umana, ma quelle condizioni rendevano la benedizione ricercata una condanna eterna. Si rialzò a fatica, caricandosi nuovamente Emma in braccio. Non c’era più traccia di determinazione in lui, solo esasperazione e voglia di sopravvivere.
“Non vorrai mica addormentarti qui?”. Andres sbarrò gli occhi, riconoscendo di fronte a sé la tremolante figura del fratello. Serdna aveva le braccia incrociate al petto, con un sorriso sardonico e la solita espressione di chi la sapeva di gran lunga più di tutti.
“Il mio sacrificio non è servito mica a farti marcire come un fantasma per l’eternità” lo riprese severo, facendolo rabbrividire. Sotto braccio teneva le sue immancabili carte, di cui qualcuna di tanto in tanto sfuggiva al suo controllo e si perdeva nel vento sfumando fino a sparire.
“Hai ragione fratello” sussurrò a bocca aperta, non riuscendo a capire se solo un frutto della sua immaginazione, o quel fantasma fosse effettivamente di fronte a lui. Però era proprio la motivazione di cui aveva bisogno per riprendere il cammino. Aveva promesso a se stesso davanti alla tomba di Serdna che l’avrebbe riscattato ponendo fine a quella guerra e avrebbe fatto tutto il possibile per mantenere la parola data. Si trascinò avanti con il sudore che gli imperlava la fronte, portando i muscoli al massimo sforzo possibile. Lo spettro non lo abbandonava, ma gli rimaneva affianco, spronandolo e dicendogli dove voltare.
Dopo una notte passata a destreggiarsi per i vicoli contorti della città finalmente raggiunsero le porte che segnavano l’uscita dalla cinta muraria. La loro salvezza. Fece adagiare Emma fuori dalla città e la sua carnagione tornò a colorarsi di un rosa pallido. Subito dopo si voltò verso il fratello, che era rimasto dall’altra parte.
“Non puoi venire con noi, vero?” gli chiese con la voce rotta. Rivedere Serdna era stato si un bene, ma riapriva una ferita profonda che mai si era rimarginata del tutto. Era l’unica persona che gli era rimasta affianco sempre, fin da piccoli. Era tutto ciò che aveva, e con la sua morte sentiva di aver perso ogni punto di riferimento. Si era gettato a capofitto in quell’impresa, senza pensarci due volte, senza considerare i rischi a cui sarebbe andato incontro. Aveva tentato di allontanare ogni ricordo, ma non aveva capito che era proprio il passato condiviso con il fratello ad essere la sua unica forza.
Il fantasma scosse la testa, rispondendo seppur tacitamente alla sua domanda.
“Sei solo frutto della mia immaginazione? O sei davvero tu?”. Come poteva pretendere che un miraggio rispondesse non lo sapeva, ma aveva bisogno di una conferma. Forse la maledizione aveva reso quella città un limbo tra i vivi e i morti. Il sole stava sorgendo e rimanendo fuori dalle mura sarebbe rimasto al sicuro, ma la tentazione di riabbracciare il fratello era forte. Diventando un fantasma avrebbe potuto passare l’eternità con lui? Non era quello che avrebbe voluto. Serdna non gliel’avrebbe mai permesso.
“Qualunque risposta sarebbe per te solo motivo di sofferenza. Non pensare a me, ormai sto bene. Pensa a quello che puoi fare per i vivi, non al modo in cui vuoi ritrovare i morti. Io vivrò quando tutto questo sarà finito, vivrò nella pace che tu contribuirai a creare”. Serdna sembrava nostaligico, ma allo stesso tempo appagato. Andres sorrise: si, stava bene. Quando i primi raggi di sole si abbatterono dietro di lui, l’ombra scomparve. Si rese conto di stare piangendo, ma non per il dolore, bensì per la gratitudine. Serdna l’aveva aiutato, ne era sicuro. Non poteva essere un miraggio, quel posto gli aveva dato l’opportunità di rivedere quella che aveva sempre considerato la sua famiglia. L’elmo l’aveva portato a casa, il posto più al sicuro del mondo. Serdna sarebbe stato per sempre la sua sicurezza.
Uno sbadiglio lo fece riscuotere e si inginocchiò vicino ad Emma per aiutarla a rialzarsi una volta che si fosse ripresa. “C-cosa succede?” balbettò la ragazza, socchiudendo le palpebre e coprendosi con una mano dalla luce mattutina. “Ricordo di essermi addormentata in una locanda abbandonata, ero così stanca…”. Andres sorrise sfiancato, sedendosi in ginocchio, e riprendendo fiato.
“Non ricordi nulla?”. Emma scosse la testa. Era meglio così. Con un po’ di fatica l’aiutò a rimettersi in piedi, e cominciarono a percorrere la strada su cui si trovavano pronti a fermarsi al primo villaggio che avessero incontrato per chiedere informazioni si dove si trovassero. Nel traggito Andres le spiegò la storia della maledizione, ma omise volutamente la parte in cui Serdna interveniva ad aiutarli. Era una cosa sua, un incontro intimo che non si sentiva di condividere con nessuno. Si fermarono dopo qualche ora per riprendere fiato, consci della stanchezza che li sovrastava.
“E gli altri?” chiese ad un certo punto, staccandosi dalla borraccia che aveva afferrato avidamente. Andres scosse le spalle. “Non ne ho idea, mi sono svegliato in quella città, ma di certo se ci fossero stati anche loro Dj avrebbe trovato il modo per avvisarci”.
“Probabilmente con qualche fuoco d’artificio” ghignò la ragazza, facendosi poi pensierosa. “Ricordo solo di essermi svegliata e di averti visto a pochi passi da me, privo di sensi. Poi sono andata in cerca di aiuto e non ricordo altro”. Emma si sfregò le braccia, battendo i denti. In effetti faceva parecchio freddo, forse perché si trovano a nord e lì il clima era molto più austero e rigido. Erano troppo stanchi per continuare il viaggio, era meglio fermarsi a riposare. Quando lo propose alla sua compagna, lei all’inizio fece parecchie resistenze, ma alla fine cedette di fronte alla prospettiva di qualche ora di riposo. Si allontanarono dalla strada, percorrendo le vaste tundre ai lati, in cerca di un riparo. Gli unici alberi che costellavano quelle vaste piane erano rinsecchiti e privi di foglie. Di tanto in tanto dalle buche emergevano marmotte che si affacciavano curiose, prima di tornare al sicuro nelle propria tana.
“Oh, santo cielo” esclamò Andres, a bocca aperta. Di fronte a loro si stagliava una catena montuosa che continuava all’infinito. Erano talmente che le vette non si riuscivano a distinguere a causa della nebbia. Avevano raggiunto i confini del Paese delle Meraviglie, dietro quelle c’era il famoso e misterioso Deserto del Nulla. “Direi che abbiamo sbagliato direzione” disse Emma, intirizzita per il freddo. Il vento soffiava impalcabile, talmente forte che temettero fosse in grado di sollevarli.
“Se continuiamo di là”, Andres indicò le montagne, “dovremmo trovare un riparo; ci fermeremo quanto basta per poter recuperare le forze”.
“Stai scherzando? C’è un motivo se la gente sta lontano da quei posti, altro che Monti Neri!” provò a fargli cambiare idea Emma, sbracciandosi davanti a lui. Non si era certo salvata per un pelo tante volte per finire pasto di qualche creatura famelica.
“Beh, qui siamo in mezzo al nulla, se hai altre idee, sei la benvenuta” ribatté l’altro, tirando fuori il pugnale per ogni evenienza. Emma roteò gli occhi al cielo, quindi lo seguì senza dire nulla. In poche ore raggiunsero una piana frammentata da sporgenze rocciose, ai piedi di uno dei monti. Andres ispezionò diverse aperture, sia per controllare se fossero già abitate sia per verificare che all’interno non fossero troppo umide. Dopo qualche tentativo fallimentare ne trovò una che sembrava fare al caso loro. Era spaziosa, ma non troppo profonda. Per di più nelle vicinanze c’erano degli alberi da cui avrebbe potuto prendere la legna per accendere il fuoco.
“Vado a procurarmi la legna e poi penso al cibo” disse a voce asciutta.
“Scordatelo, non sono messa così male da non sapere come si caccia un coniglio. Tu pensi al fuoco, io al resto”. Ribattere di fronte alla testardaggine di Emma sarebbe stata solo una perdita di tempo, quindi Andres si costrinse a prendere un respiro profondo e ad annuire.
In poco tempo raccolse un bel fascio di rami, che posizionò in un mucchietto. Prese due bastoncini che gli sembravano abbastanza secchi e li sfregò tra loro fino a che le scintille provocate dallo sfregamento non fossero sufficienti ad appiccare un piccolo fuoco. Emma tornò dopo poco con una grassa marmotta imprudente, con un’espressione vittoriosa. Andres sorrise: quella ragazza aveva sempre mille risorse. Dopo la cena, i due rimasero uno di fronte all’altro, con le mani tese verso il fuoco, mentre lentamente la notte calava intorno a loro.
“Se la caveranno” lo rincuorò Emma, leggendo le sue preoccupazioni inespresse. Il ragazzo si passò una mano sui capelli scuri, esasperato, quindi tornò a fissare le fiamme. Avrebbe dovuto essere il loro capo, avrebbe dovuto proteggerli. Soprattutto Violetta, perché lei era il tassello essenziale per porre fine a quella guerra. E invece se ne doveva stare lì con le mani in mano. Non si rese conto che Emma si era spostata, sedendosi al suo fianco, con le braccia che circondavano le ginocchia. Lo fissava in modo enigmatico e Andres si chiese se all’esterno risultasse così nervoso come si sentiva dentro. “Hai fatto sempre tutto il possibile, Andres, non devi rimpiangere nulla, non avevi altra scelta”.
“Non avrei dovuto seguirti nel vortice…dovevo rimanere con Violetta e proteggerla. Lei è troppo importante” rispose Andres, trovando il coraggio di guardarla negli occhi. Pensava che con quelle parole l’avrebbe ferita, invece lei si limitò ad abbozzare un sorriso.
“Non mi sono mai fidata di nessuno. Ho sempre pensato di potercela fare da sola, con le mie sole gambe. I miei genitori mi disprezzavano, non capivano che la mia scelta era stata dettata dal desiderio di essere libera, indipendente. Prima di conoscere Broadway io ero sola” spiegò con noncuranza, sebbene una traccia di dolore le attraversò gli occhi. Senza l’aiuto di nessuno era diventato uno degli elementi più importanti dell’Accademia, tanto che Pablo le aveva affidato quella missione di vitale importanza. Nonostante tutti quei successi, era sola. Il suo unico amico si era rivelato un traditore e non aveva nessuno a cui appigliarsi. Andres pensò che erano molto simili: entrambi alla ricerca di qualcuno in grado di dargli una sicurezza. Per un momento si incantò a guardarla negli occhi, ma si riscosse quasi subito, girandosi dall’altra parte. Si sentiva strano, bene e male allo stesso tempo: Emma lo capiva, non a fondo come Libi, ma lo capiva. Non c’era nulla di sbagliato se tra loro fosse nato qualcosa, ma allora perché quella strana sensazione allo stomaco, come se fosse un traditore? Aveva allontanato Libi per non avere legami affettivi e adesso stava lasciando ad Emma aperta la porta del suo cuore…si sentiva un codardo e un’ipocrita. La mano fredda della bionda si posò sulla sua guancia, invitandolo a voltarsi di nuovo. Gli occhi di Emma erano scuri, profondi, e si riconobbe in quell’oscurità. Erano davvero troppo simili.
“Adesso non mi sento più sola” sussurrò la ragazza, improvvisamente imbarazzata, il che la rendeva parecchio strana. Non aveva mai visto Emma come una donna, alle prese con i suoi sentimenti, con le sue debolezze. Era stregato dalla sua voce, ma non capiva il perché. Un flash improvviso lo fece adombrare: la visione del Tempo. Il futuro. Lui sapeva a che cosa sarebbero andati incontro e ne soffriva ogni santo giorno. La malefica eredità che il Tempo gli aveva lasciato gravava ancora su di lui. “E nemmeno tu lo sei”. Fuori si sentiva l’imperversare di una tempesta. La pioggia scrosciava e i lampi investivano l’esterno della grotta di una luce improvvisa e sovrannaturale.
“Ho bisogno di dimenticare chi sono” rispose Andres, chiudendo gli occhi di fronte alla carezza di Emma. Era così dolce potersi lasciar cullare da qualcun altro, qualcuno che per lui provava una pura adorazione.
Emma annuì, comprensiva, quindi si avvicinò sempre di più, poggiando le labbra sulle sue. Andres la strinse con il braccio libero, riversando in quel bacio tutta la sua sofferenza, tutto il suo bisogno di essere amato. E ora che Libi se ne era andata per sempre, Emma era la sua unica possibilità di vivere qualcosa che fosse paragonabile all’amore. Ipocrita, gli diceva la sua vce interiore. Infimo. Traditore. Allontanò quelle voce, spegnendo il cervello, e concentrandosi solo in quel bacio, che rese volutamente aggressivo, violento. Emma non si ritrasse e questo gli diede ancora maggior soddisfazione. Una soddisfazione vuota, sorda, priva di una vera gioia. Serviva solo a nascondere quella crisi che sentiva montare dentro di lui, quel pensiero negativo che lo seguiva come un’ombra. Perché ogni cosa si stava sgretolando tra le sue mani e Emma gli sembrava la cosa più concreta che potesse capitargli in quel momento. 








NOTA AUTORE: Perdonate il ritardo! *arriva correndo* Non ho avuto nemmeno il tempo di ricontrollare la seconda parte, confido di farlo tra oggi e domani, solo che non volevo ritardare ancora nella pubblicazione, già sono in un ritardo spaventoso. Allora, sono successe parecchie cose, OLTRE IL BACIO DI MAXI CHE- NO. E anche il bacio di Emma e Andres è un altro no, questo capitolo è pieno di no .-. Ma succede qualcosa di importante...un nuovo mistero legato alla figura di Alice. Il libo del Paese delle Meraviglie! Una copia è stata rubata: perchè? Un'altra invece è stata bruciata dalla stessa Alice...il mistero si infittisce! Scusate per il commento un po' scarno, ma devo andare a finire di stu- stu- studiare -.-" Buona serata a tutti, e alla prossima! Buona lettura, e grazie a tutti voi che mi seguite e/o recensite, 
syontai :3 

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Capitolo 58
*** La scalata per la superficie e la caduta verso il fondo ***


Capitolo 58
La scalata per la superficie e la caduta verso il fondo

Tutto intorno a lei solo frammenti di cristallo. Ci vollero dei secondi prima che riuscisse ad abituare gli occhi di fronte a quel buio pesto. Sdraiato contro una parete, che mugolava dolorante, c’era un’ombra. Perché non ricordava nulla? Una bisaccia di pelle era gettata ai suoi piedi. Era stata svuotata di fretta perché tutto il suo contenuto era riversato sul pavimento. Piccole fiale, ciuffi d’erba, fiori secchi. Che strano, sebbene si sforzasse non riusciva ancora a capire dove si trovasse. Il suo nome? Le sfuggiva come l’acqua in quel momento. Prese un respiro profondo, allontanando il panico crescente. Si alzò traballante: le gambe erano ancora intorpidite. Tastò tutte le pareti, fino a quando non sentì il freddo metallo delle sbarre intorno a cui strinsero meccanicamente le dita. L’angoscia ricrebbe: quello spazio era chiuso e angusto e in più la persona stesa contro il muro non aveva mosso ancora un muscolo. Non ebbe il coraggio di avvicinarglisi per paura di scoprire che in realtà fosse un cadavere. Sarebbe toccata anche a lei quella sorte?
Francesca. Si, quello era il suo nome. Emerse dall’oblio in modo inaspettato. Sulla testa portava una diadema: era una regina? Le sembrava di aver già vissuto una situazione simile di prigionia. Era stata imprigionata da sua cugina Natalia per la corona. Un altro ricordo, lentamente stava riacquistando la memoria, che però si interrompeva con il frusciare delle cascate di Nefertiris. Si osservò i palmi delle mani e quasi sobbalzò: era sveglia! Non era un sogno, perché il sonno magico non presentava la possibilità di viaggiare oniricamente.
“Aiuto” sussurrò rivolta verso l’esterno, sperando in qualche anima buona. “Aiuto!” ripetè, alzando il tono di voce. La terza volta che chiamò soccorsi stava urlando. Qualcosa strusciò dietro di lei. Il sangue le si gelò nelle vene: si era completamente dimenticata della persona con cui condivideva la cella, perché di una cella si trattava, era chiaro. Un colpo di tosse e un rantolo che somigliava vagamente al suo nome. Terrorizzata, si appiattì contro le sbarre, continuando a urlare.
“Vi prego, vi prego!”. Ma mentre la paura la spingeva a cercare un modo per uscire la curiosità fatale le fece voltare la testa nella direzione delle mura sudice.
“Francesca”. Quella voce. La paura si dissolse come neve rimpiazzata dall’angoscia e dalla preoccupazione. Si precipitò da Federico, inginocchiandosi al suo fianco. Gli passò una mano sui capelli arruffati, le labbra piegate in una smorfia di terrore. Osservò le sue mani strette in un pugno con i rimasugli di una pianta, probabilmente estratta dalla bisaccia. 
“Non dovevi svegliarmi, non dovevi!” disse con voce tremante, mentre già le prime lacrime premevano per uscire, impetuose. Federico appoggiò la testa all’indietro e tossì di nuovo.
“Non…avevo scelta. In questo modo potrai fuggire e trovare chi ti potrà aiutare, il Brucaliffo”. 
“Fuggire da dove? Dove ci troviamo?”. Acosta gemette di dolore e quando Francesca gli toccò la gamba esplose in un urlo agonizzante. 
“Il drago…l’acido. Ce l’avevamo quasi fatta, ma mi ha colpito”. Francesca si buttò tra le sue braccia, piangendo e singhiozzando. Era stata colpa sua. Federico stava facendo di tutto per salvarla e lei finora era stata completamente inutile. Si, gli aveva salvato la vita, ma non poteva essere considerato un vero e proprio merito, visto che il Mana costituiva un pericolo per tutti, compresa lei stessa. Senza perdere tempo si liberò dall’abbraccio e strofinò una manica del vestito bianco che indossava sul viso asciugando tutte le lacrime. Non era quello il momento per abbattersi e disperarsi: anche se era stata svegliata avrebbe fatto tutto il possibile per contenere il potere del Mana, a costo di morire. Poggiò entrambi i palmi delle mani sul punto dove il tessuto dei pantaloni era stato lacerato. Lasciò che l’energia defluisse dal suo corpo. Era la cosa più naturale del mondo e sentì la pressione crescere sempre di più dentro di lei. Per un secondo le sembrò di non riuscire neppure a respirare, le orecchie le ronzavano, cantando una canzone antica. Poi fu il silenzio e si rilassò di colpo. La ferita era sparita, ma Federico non sembrava tranquillo.
“Ti fa ancora male?” chiese Francesca preoccupata. Scosse la testa. “Non sento nulla”. Quelle tre parole furono pronunciate con una tale solennità da farle venire i brividi.
Fece per alzarsi, ma ricadde, strusciando contro il muro. Riprovò ancora e ancora, ma era come se la gamba non rispondesse più al suo comando. Nonostante fosse ormai chiaro che aveva perso l’uso della gamba non volle arrendersi a quella certezza. Si dimenò tentando di rimettersi in piedi, ma finiva solo per agitarsi come un bambino. Gli occhi si spensero e neppure la calda carezza di Francesca lungo il viso riuscì a donargli un po’ di pace.
“E’ colpa mia! Non dovevo cercare di aiutarti, sono solo un pericolo” mormorò lei tristemente. Acosta non poteva accettare che pensasse questo di lei, quindi le prese il viso tra le mani con ferocia, costringendola a guardarlo negli occhi.
“Non dirlo più! Non di fronte a me. Non puoi controllare il Mana e in ogni caso probabilmente avrei perso l’uso della gamba, almeno non hai prolungato la sofferenza”. Si rivolse a lei con sicurezza, tranne quando accennò alla sua disabilità fisica.
“Che fine ha fatto Dj?” chiese voltando lo sguardo verso la bisaccia gettata alla rinfusa.
“Lo ha preso Ana”. A Francesca si gelò il sangue nelle vene: la fama di quella maga la precedeva ed era temuta per la sua spietatezza e crudeltà. “Sei l’unica che può farci uscire…” aggiunse prendendo un respiro profondo.
La regina annuì, quindi si rialzò in piedi. A passo lento si fermò solo quando si trovò di fronte alle sbarre. Questa volta però non aveva paura di essere rimasta da sola. C’era Federico con lei, che l’aveva svegliata per evitare che rimanessero rinchiusi in quella prigione. Dove poggiava i piedi la polvere si alzava creando un nuvola bassa e piatta che sembrava quasi frapporsi tra lei e il pavimento. Le mani si tinsero di bianco, ma un filo nero le avvolse facendole sgranare gli occhi. Che cosa stava succedendo? C’era qualcosa di diverso nel Mana. Qualcosa di diverso in lei. Avvertì una leggera fitta di dolore, che si spense all’istante, come se fosse solo l’avvertimento di un cambiamento imminente. Le sbarre vibrarono, smosse da una forza inesistente, e si piegarono in direzioni opposte fino a creare al centro un varco. Grazie all’aiuto di Francesca Federico riuscì a rimettersi in piedi e a camminare, anche se doveva usarla come supporto. Quando però uscirono dalla gabbia si trovarono di fronte ad un labirinto su più piani. Tutti i corridoi erano sospesi sul vuoto dentro un gigantesco pozzo senza fondo. In basso c’erano altri livelli con vie che si intersecavano conducendo alle celle scavate nelle pareti del pozzo. Non si riusciva a distinguerne il fondo.
Federico scosse la testa: neppure lui aveva la più pallida idea di dove fossero finiti. L’unica cosa che potevano fare era avanzare fino ad incontrare il primo bivio. Mentre camminavano per sbaglio Francesca diede un calcio ad un sasso che cascò di sotto. Si aspettò dopo qualche secondo il rimbombo nel momento in cui avrebbe toccato terra, ma esso non arrivò mai. Deglutì, cercando conforto nello sguardo rassicurante di Acosta che cercava in tutti i modi di mantenere il sangue freddo per non peggiorare le cose. Arrivati alla fine si diramavano due scalinate: una conduceva al piano superiore, l’altra invece al piano inferiore. Francesca alzò lo sguardo nella speranza di scorgere uno spiraglio di luce ma proprio come sotto anche sopra c’era solo buio. Sopra o sotto? Era ragionevole credere che si trovassero dentro una torre, ma allora perché il sasso non aveva toccato il fondo? Il fenomeno non si spiegava in ogni caso anche se si trovassero nel sottosuolo.
“Da che parte andiamo adesso?” chiese sperando che Federico avesse avuto un’idea illuminante. Il ragazzo scosse la testa. “Non ne ho idea”.  Un urlo agonizzante e dei lamenti squarciarono il silenzio, portando con sè il terrore e la fretta di prendere una decisione. Potevano essere dei prigionieri come loro oppure qualcosa da cui avrebbero voluto tenersi lontano, era meglio non scoprirlo.
“Francesca, tu possiedi il Mana! Dovresti poter capire dove si trova Dj, visto che la magia e il Mana sono tra loro strettamente legati. Il primo dipende dal secondo, giusto?” esclamò Federico, sollevato di aver avuto quel lampo di genio.
Francesca si diede della sciocca per non averci pensato prima. Cercò di affinare i sensi, ma non capiva ancora come poter controllare il Mana per riuscire a fargli fare ciò che voleva. Si ritrovò a chiudere gli occhi, aprendoli di tanto in tanto come se sperasse che una luce abbagliante li guidasse verso l’uscita. “Niente?” chiese Federico, abbassando le spalle sconfortato.
“Non so come mai, non ci riesco! Prima, quando ti ho guarito o ho aperto le sbarre non ho dovuto pensarci su, è successo e basta. Ma adesso…non so come mai, non funziona” si lamentò lei, vergognandosi per quell’insuccesso. Federico però la sorprese abbracciandola di colpo. Si separò in modo impacciato, sempre tenendosi con il braccio intorno alle spalle.
“Non devi mai perdere la speranza, mai. Ci sarò sempre io per ricordartelo” le sorrise imbarazzato e per Francesca fu come se il sole avesse invaso quel luogo oscuro, diffondendo la sua luce in ogni direzione. Un brivido le percorse la schiena; si sentiva leggera, come distesa su un prato fiorito, lo sguardo perso nel cielo limpido, la mano stretta in quella di Federico. Una scala fatta di raggi dorati saliva a chiocciola sempre più su e non si riusciva a distinguerne la fine. Si perse a contemplarla, ignara del fatto che quel sogno era ben diverso dalla triste realtà. Con un brivido venne richiamata dalla voce di Federico, preoccupato per quel suo improvviso estraniamento. Francesca si sentiva sicura di una cosa: dovevano salire. “A sinistra” disse con un filo di voce, per poi procedere nella direzione indicata. Federico non obiettò nulla, fidandosi ciecamente del suo istinto, e insieme salirono la scalinata di pietra scolpita rozzamente che portava al livello superiore. Ad attenderli però c’era una guardia, che indossava un’armatura imponente, il cui volto era coperto dalla visiera dell’elmo. Non appena li vide grugnì qualcosa, prima di puntargli contro la lama. Federico la spinse via affinché non fosse sotto tiro. “Vattene, scappa!” disse, cadendo in ginocchio, senza più un sostegno. Francesca rimase a terra con lo sguardo fisso su di lui, che eppure continuava a supplicarla. Perché continuare a salvarle la vita se lei era un pericolo per tutti? Perché lasciarla con quel tormento quando la morte avrebbe potuto essere per lei una vera liberazione? I palmi graffiati che avevano attutito la caduta le facevano male, ma mai come il dolore che sentiva in petto nel vedere l’uomo protetto dall’armatura nera alzare la spada per infliggere il colpo di grazia. Di nuovo l’energia le scaturì nel corpo, senza che lei l’avesse chiamata. La luce esplose per un istante per poi sparire così come era venuta, inghiottita nel buio. L’avversario giaceva a terra di fronte a Federico, che ancora non riusciva a credere di aver assistito ad una delle devastanti manifestazioni del Mana. Il ferro emetteva volute di fumo e l’elmo era rotolato via. Dentro quell’armatura non c’era nessuno, era vuota.
“Magia” digrignò il ragazzo tra i denti. Francesca però era terrorizzata e si osservava le mani sconvolta, rigirandole. C’era mancato pochissimo ed aveva paura di ammetterlo, ma quel potere le stava completamente sfuggendo dal controllo: avrebbe potuto colpire anche Federico e doveva ringraziare il cielo che non fosse successo. Era come se attingendo al Mana la sua coscienza interrompesse il flusso di pensieri e perdesse i sensi. Non ricordava nulla, se non un lampo di luce improvviso. A pochi passi da lei c’era un’altra cella e solo in quel momento si rese conto che un paio di occhi scuri la stava osservando.
“C-cosa siete?” mormorò una voce stanca dall’altra parte delle sbarre, che aveva assistito a tutto lo scontro. “Vi volete sbarazzare di noi?” proseguì la voce. Era una donna, ma aveva un tono duro, diretto. Da esso trapelava orgoglio e dignità, nonostante la sua condizione di prigionia.
“Ti sbagli, tutto il contrario” tentò di rassicurarla Francesca, alzando le mani. “Come possiamo liberarti?”.
La donna, la cui figura era ancora avvolta dalle tenebre, rimase per qualche secondo in silenzio, quindi puntò un dito ossuto fuori dalle sbarre indicando l’armatura stregata. “C’è una cinta con un mazzo di chiavi lì. Una di quelle apre la serratura”.
“Non sappiamo se può essere pericolosa! O peggio, una trappola!” si intromise il conte Acosta. Francesca però non lo ascoltava: quella donna le ispirava fiducia. Doveva aver sofferto molto, rinchiusa in quell’inferno senza luce. Raccolse il mazzo di chiavi ancora fumante, su cui era dipinto in rosso un numero: 10. Le chiavi erano tutte diverse tra loro: alcune erano grosse e arrugginite, altre sembravano addirittura nuove. Su ognuna di esse era inciso un numeretto seguito da una lettera. 1A, 3C, 7D…Sopra la cella della donna c’era la scritta 8B. Non ci mise molto a trovare la chiave con quella stessa cifratura, quindi la girò con sicurezza nella serratura, che emise un cigolio prolungato prima di scattare. La porta si aprì e ne uscì una donna dagli abiti stracciati e delle profonde fosse al posto delle guance. Doveva essere almeno qualche mese che si trovata lì rinchiusa. La donna barcollò, facendo ondeggiare dei lunghi capelli scuri. Alcune lacrime di felicità le illuminarono il viso sporco, prima che ad esse si sostituirono paura e preoccupazione. Si precipitò nuovamente dentro la cella, lasciando Francesca attonita.
“Tartalenta, Tartalenta! Siamo liberi finalmente!”. Per un po’ non ebbe nessuna risposta, ma subito dopo ci fu un lungo e profondo sbadiglio. Insieme alla donna, avanzava una tartaruga che si reggeva su due zampe per mezzo di un bastone raggrinzito come la sua pelle. Il guscio era di un colore scurissimo e Francesca indovinò che dovesse essere verde. Presentava delle profonde concavità ai lati, rendendo la figura più slanciata di quel che fosse in realtà. Si rivolse poi ai due stranieri: “Grazie per averci salvato, grazie di cuore. Mi chiamo Marcela, mentre il mio amico è Tartalenta…ci siamo conosciuti in questa prigione” spiegò la donna, facendo un breve inchino a Francesca, che arrossì, non più abituata ad un segno di riverenza da parte di qualcuno. Tartalenta non diceva nulla, ma delle lacrime silenziose gli uscivano dagli occhi chiari e limpidi mentre Marcela parlava. Francesca rimase commossa dal dolore della tartaruga, quindi si chino di fronte a lui, sfiorando la sua pelle ruvida.
“Mi hanno tolto tutto…” spiegò l’animale trattenendo a stento un singhiozzo.
“Le sue pietre” si affrettò a spiegare Marcela, notando la confusione sul volto dei loro salvatori. “Le aveva incastonate sul guscio, ma prima ancora di farlo finire in cella gliele hanno strappato via. Sembra che avessero al loro interno una forte magia”.
La pena che provava Francesca per quei due prigionieri era immensa: una donna sola, forse strappata dalla sua famiglia, una tartaruga a cui era stato tolto ciò a cui più teneva, insieme alla sua libertà. Che cosa poteva giustificare delle azioni del genere?
 
Diego osservava il suo riflesso verdastro nella pietra incastonata nel medaglione. Del suo gemello non se ne era saputo più nulla: Matias ed Esmeralda erano scomparsi senza lasciare traccia. Peggio per loro, pensò sbuffando. Almeno non avrebbe dovuto liberare quella donna di cui il biondo era invaghito, quella tale Marcela, e quella bambina tanto insopportabile sarebbe rimasta un’aquila. Osservò fuoi dal finestrino della carrozza, che si fermò all’improvviso di fronte a quella che un tempo doveva essere stata una città fiorente, ma che adesso era ridotta ad un cumulo di macerie. Un imponente edificio sormontava di cui erano rimasti in piedi solo alcuni muri. Le rovine di Telhalla, l’ultima città delle ninfe prima che la guerra tra la Regina Rossa e la Regina Bianca spazzasse via l’intera razza. Era stata proprio la Regina Rossa a voler attuare quel genocidio, convinta che le ninfe fossero alleate di sua sorella. Le ninfe erano infatti quelle stesse creature che avevano creato la Palude, ma del loro essere leggendario era rimasto solo il ricordo. La paura poteva condurre alle malvagità più grandi; era la paura che muoveva Ludmilla, quella di non poter avere il controllo di se stessa. Era arrivato in quelle rovine solo per ritirare un antico artefatto di cui si era persa la memoria, ma che lui aveva scoperto grazie ai suoi studi al Tridente. Anche se non era un mago gli era concesso maneggiare tutti i tomi di quel luogo ricco di conoscenza, grazie ad un lasciapassare speciale che Ludmilla si era fatta donare dalla regina Natalia. Ordinò alla scorta di rimanere in prossimità delle rovine. Non si fidava di nessuno e voleva che non si venisse a sapere dell’oggetto che era venuto a prelevare. Inoltre era un abile spadaccino, avrebbe saputo affrontare un attacco a sorpresa da parte di chiunque.
La natura aveva ormai inglobato quell’antica città, considerandola sua di diritto. Piante dal fusto sottile spuntavano dove prima doveva esserci la strada lastricata, di cui era rimasto ben poco. Il muschio si annidava un po’ ovunque sui muri rimasti ancora in piedi, unici testimoni della passata esistenza di case e botteghe, il cui colore era a mala pena visibile, soffocato dai rampicanti molesti. Il silenzio tutto attorno non lo spaventava, anzi, lo rendeva molto più a suo agio rispetto a quando si trovava per le vie della capitale del Regno di Quadri. Estrasse un pugnale dalla fodera sul fianco destro, mentre la spada la teneva sul sinistro, e si preparò mentalmente ad ogni eventuale sorpresa sgradita. Raggiunse incolume una scalinata dissestata che conduceva al palazzo della città. Un tempo lì risiedeva la famiglia reale delle ninfe, i parenti di quelle giovani che si erano sacrificate per proteggere il cacciatore che era poi diventato lo spirito della Palude di Jolly. In quel posto dall’aria solenne mito e storia si fondevano in una soluzione intrisa di mistero e fede. Non appena mise piede dentro il salone d’ingresso gli sembrava di essere tornato indietro in un tempo indefinito: squilli di tromba, risate soavi, voci che cantavano a cappella, diffondendo la loro musica in tutte le sale. Proprio all’ingresso c’erano due piedistalli ridotti a pezzi, in cui si riconoscevano le figure sinuose di due delfini. Gli occhi, un tempo illuminati da chissà quali pietre preziose erano cavi, dando l’idea di scheletri abbandonati al loro destino. Scheggie di vetro e i resti di un lampadario troneggiavano al centro della stanza. Diego passò di lato rivolgendo solo delle fugaci occhiate ai dintorni: ancora nessuna traccia di ciò che cercava. Girò a destra e raggiunse la sala del trono, arresasi ormai di fronte alle intemperie. Il tetto, un tempo costituito da una cupola, era crollato da tanto tempo a giudicare dell’inselvatichimento generale. Senza perdere tempo esaminò ogni centimetro quadrato di quella stanza, ma dopo poco perse di già la pazienza. Nessuna traccia di ciò per cui era venuto. Imprecò tra i denti ma non si perse d’animo e riprese le ricerche.
“Solo macerie, nient’altro che macerie” sibilò il ragazzo, rimettendosi in piedi dopo aver controllato il trono in fondo alla stanza, scolpito nella pietra, nella speranza di trovare qualche meccanismo nascosto. Ma le ninfe erano furbe, non lasciavano certo la loro magia incustodita. Proprio quando stava per arrendersi del tutto si rese conto che stava calpestando un antico mosaico, rimasto miracolosamente intatto. Un enorme cerchio bianco che invadeva quasi completamente l’intero pavimento, coperto da chiazze verdi di muschio ed erbacce, mostrava due creature simili a serpenti che si rincorrevano in cerchio, tentando ciascuno di azzannare la coda dell’altro. Intorno a loro c’erano pesci e animali marini.
Viverne del mare. Creature ormai estinte dall’alba dei tempi, quando ancora il Paese delle Meraviglie non poteva considerarsi civilizzato. Che amarezza constatare che un popolo antico come quello delle ninfe, il cui sapere si tramava da quando se ne aveva memoria, era stato annientato dalla stupidità umana. In quella cruda riflessione però si rese conto che quel mosaico era troppo ben conservato. Troppo per essere passato così tanto tempo e aver subito un saccheggio. Si mise in ginocchio, passando la punta della lama in una fenditura tra due tasselli. Il coltello incontrò quasi subito un ostacolo che produsse un rumore sordo. Metallo. Quel mosaico posava su una piattaforma di metallo. Era pronto a scommettere che la magia aveva impedito che quell’operta d’arte si deteriorasse così da tenere nascosta l’esistenza di una stanza sotto la sala del trono. C’erano anche alte possibilità che si sbagliasse: forse quel tesoro era veramente perduto per sempre. Non gli restava che aprire quella gigantesca botola per scoprirlo.
Non c’era nessuna leva, niente che potesse aprirla. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte: si sentiva così vicino eppure così lontano. Serviva il richiamo della magia per accedere a quella stanza? Tirò fuori il medaglione con incastonato lo smeraldo e lo lasciò penzolare in aria. Non successe nulla. Quando però si decise ad appoggiarlo sul mosaico, la sua luce venne come catturata dagli occhi dei due draghi che si tinsero di un verde maligno. Le fauci si aprirono ancora di più, deformando i loro musi in ghigni diabolici, quindi uno dei due ruotò fino a sovrapporsi all’altro, mostrando una scala a chiocciola stretta ed angusta. Lo smeraldo strappato a quella stupida creatura, intriso di un potere magico ancestrale, aveva fatto al caso suo. L’unico suo cruccio era aver perso il suo gemello affidandolo a quella coppia di ladruncoli. Scese rapidamente gli scalini con l’ansia che si accentuava ad ogni passo. L’ultimo scalino era appena rialzato e poggiava su una stanza dal soffitto basso di pietra. Tutto intorno era buio. Afferrò una torcia posta su una parete e con qualche difficoltà riuscì ad accenderla. L’aria era talmente umida da risultare soffocante, difatti la fiamma si fece sempre più fievole. Ma fu sufficiente per raggiungere l’oggetto che stava cercando. Allungò la mano con un brillio avido negli occhi: eccola. L’arma che gli avrebbe permesso di porre fine alla guerra a favore della sua regina.
 
Marcela aveva loro spiegato che quella prigione era stata voluta dai genitori di Ludmilla, l’attuale regina di Quadri, per potersi disfare di tutti i loro oppositori. Era costrituita sottoterra e della sueperficie era visibile solo un innocuo edificio in pietra all’apparenza abbandonato. Sui prigionieri venivano condotti anche alcuni pericolosi esperimenti.
“Non certo come succede nel Centro di Ricerca. Girano storie terribili sul suo conto” disse la donna, rabbrividendo al solo dover nominare quel posto terribile.
Avevano ormai fatto la metà della strada, cercando di nascondersi al passaggio delle armature stregate. Il più delle volte però erano stati costretti a scontrarsi. Francesca comunque con i suoi poteri riusciva ad annientarle senza problemi. Era il fatto che le stesse sfuggendo di controllo a preoccuparla: le mani le bruciavano ed era come se il Mana fremesse per fuoriuscire. L’essenza della magia che voleva tornare a circolare nella natura. Il suo contenitore umano non poteva essere sufficiente a trattenerla a lungo. Fu proprio nella loro perenne e disperata ascesa verso la luce che accadde. Fu come perdere i sensi, o forse acuirli a tal punto da non sentirsi più nel proprio corpo.
Era in una stanza. Il soffitto era basso, la pareti sudicie. Francesca non riusciva a capire come fosse finita in quel posto, avvertiva solo i brividi sulla pelle. Lungo le pareti c’erano alcuni scaffali pieni zeppi di alambicchi, alcuni vuoti, altri riempiti con sostante dai colori inquietanti. Un gemito soffocato le fece distogliere lo sguardo da una piuma d’oca appoggiata al fianco di alcuni rotoli ripiegati. Si avvicinò confusa ad una croce di legno, usata per le torture. Legato per i polsi e le gambe, tenute divaricate, c’era un ragazzo che teneva lo sguardo basso, mentre ansimava. Sudore misto a sangue gli colava dalle ferite sul viso e sul torso nudo, messo a dura prova e pieno di tagli più o meno profondi. Ebbe paura di chi fosse il prigioniero, ma ebbe la terribile certezza di conoscerlo.
“Rieccomi…come sono scortese a lasciare il mio ospite di punto in bianco”. Una voce femminile, venata da una nota crudele, la colse di sorpresa. Fece in tempo a scorgere il fruscio di un mantello scuro prima che la figura si immergesse in un angolo buio della stanza. Sentì il tintinnare di oggetto metallici e la donna tornò visibile alla luce di una candela posta su un tavolo vicino alla croce di legno. Lunghi capelli lisci, raccolti da un lato e coperti appena da un cappuccio nero. In mano teneva un coltellino, con cui giocava amabilmente. “Devo ringraziare Ludmilla per avermi concesso di usare questo posto…non mi aspettavo che usassi la magia in questo Regno, ma così è stato più facile localizzare la direzione che avresti voluto prendere e dirottarti qui. Devo ringraziarti” disse ancora la donna, quindi con velocità piantò velocemente la punta del coltello su un fianco del prigioniero, che urlò. Un urlo pieno di disperazione e impotenza. Fu allora che lo vide negli occhi. Le sue pupille scure dilatate, ma prive di forza, il viso contratto dalla sofferenza. Era Dj.
“Francesca! Francesca, che cosa ti prende?”. Federico le scuoteva le spalle e trasse un sospiro di sollievo quando la vide muoversi e sottrarsi a quegli scossoni.
“Dobbiamo salvare Dj!” esclamò esasperata, guardandosi intorno febbrilmente alla ricerca di qualche indizio che la portasse dal loro amico mago, in preda a quei terribili supplizi.
“Lo so, Francesca…lo salveremo” provò a rassicurarla Federico, ma Francesca sapeva che non era abbastanza. Doveva agire, doveva trovare il modo di condurli tutti in salvo. Erano quelli i doveri di una regina, proteggere chi aveva intorno. Però continuavano a vagare alla cieca, in una disperata ascesa verso l’altro, verso la luce.    
 
Le carte erano dispiegate sul tavolo della sala delle riunioni intorno a cui erano riuniti i maggiori esponenti delle forze militari di Picche. Pablo illustrava a tutti la strategia difensiva, sotto lo sguardo afflitto dei presenti. La guerra non stava andando a loro favore. Sebbene fossero riusciti a mantenere le linee fino a quel momento, le forze di Quadri e Cuori insieme erano numericamente schiaccianti. Il fronte a nord-est era stato infranto e le truppe avevano dovuto fare terra bruciata dietro di sé.
“Se spostassimo la maggior parte delle forze all'entrata delle Gole potremmo sperare in un contrattacco” pensò ad alta voce, sollevano parecchi borbotti diffidenti.
“Sua maestà, questa è una follia, significherebbe lasciarli entrare e prendere metà del Regno di Picche. Le Gole si trovano qui, non possiamo perdere tutto questo terreno”.
Angie assisteva in silenzio in fondo alla sala, tentata più volte di intervenire per aiutare suo marito, ma la sua intemperanza era già costata troppo. Nonostante la strigliata iniziale Pablo la aveva perdonata quasi subito e i due erano tornati più uniti di prima. Facendo tesoro delle parole del Re aveva imparato a celare le paure, la debolezza, per mostrarsi forte e sicura di fronte al suo popolo. Era la sua famiglia ad averle concesso quella forza che sembrava essere inesauribile. Ricordava ancora con amarezza il momento in cui il padre le aveva voltato le spalle, mentre la madre, che non l’aveva mai dimenticata né rinnegata di sua volontà, era rimasto il suo unico legame con il passato. Angie non riuscì ad aspettare che finissero di parlare e si precipitò fuori dalla stanza. Lasciare metà del suo Regno in balia degli invasori era per lei come una pugnalata al cuore. Le mancava l’aria al solo pensiero di campi ridotti in cenere, di migliaia di fuggitivi che avrebbero cercato in tutti i modi di raggiungere la capitale, credendola l’unica ancora di salvezza. Chiuse gli occhi e il cuore riprese a battere regolarmente: aveva imparato a non agire d’istinto, non erano quelli i tempi per potersi permettere un errore, e questo Pablo gliel’aveva fatto capire. Nonostante le buone intenzioni la sua fuga era stata una sciocchezza, adesso ne era consapevole. Aprì con foga la porta che aveva di fronte e in punta di piedi si sedette sul grande letto dove la piccola Cassidy era seduta con la schiena poggiata su morbidi cuscini. Diventava ogni giorno più bella: i suoi occhi erano di un colore ambrato che sembrava una curiosa fusione del colore degli occhi dei suoi genitori. I capelli castano chiaro lasciati liberi sulle spalle incornicivano un visino pallido e magro. Dal giorno dell’incidente la bambina usciva sempre più di rado, per paura di quello che potesse succederle all’esterno, oppure che una qualche visione la cogliesse all’improvviso. Gli occhi però erano spenti, fissi sul vuoto, non c’era nulla della vitalità tipica di una ragazzina della sua età.
Senza dire nulla Angie le strinse la mano e sentì scorrere in lei nuovamente la forza per affrontare l’ennesima difficoltà che le era stata posta di fronte. Con l’altra le sfiorò la guancia, calda e morbida, e sentì un moto di commozione salirle come un groppo in gola. Le lacrime velarono i suoi occhi stanchi, ma cercò di trattenere i singhiozzi per non far preoccupare la bambina.
“Dov’è papà?” chiese Cassidy, scuotendo la testa e tendendo l’orecchio nella speranza di coglierne la presenza. “Adesso ha da fare…ma verrà presto, non preoccuparti” rispose lei sommessamente.
“Picche è molto fortunato ad avere papà come re, vero?”.
“Si, lo è…ripongono tutti molta fiducia in lui, io per prima”.
“Meno male, allora”. La voce di Pablo fece voltare Angie in direzione della porta e lo vide sull’uscio, con l’aria stanca, ma non per questo demotivato. Ostentava un sorrisetto di sfida, quel sorrisetto che era sempre stata una sua caratteristica ifin da giovane, quello che lei all’inizio aveva preso in odio ma di cui poi si era profondamente innamorata; perché nonostante tutto in quel sorriso vedeva un uomo astuto, intelligente, pragmatico e allo stesso tempo pieno di incertezze celate. L’uomo non indugiò troppo, si sedette vicino alla moglie, guardandola con tenerezza, quindi si rivolse alla figlia.
“Tuo padre è tanto forte perché ha una famiglia su cui può sempre contare”. Le diede un buffetto sulla guancia, e la bambina sorrise tristemente.
“Come sempre devi metterci in mezzo qualche massima, altrimenti non sei contento! Smettila di fare l’uomo saggio, non hai nemmeno i capelli bianchi” sghignazzò Angie, drizzando la schiena e guardandolo con finto rimprovero.
“Questa me la paghi!” la avvisò Pablo scherzosamente e si lanciò sulla consorte, torturandola con il solletico. Tutto di fronte a Cassidy che rideva di cuore. Mentre si dimenavano sul letto al suo fianco, i due genitori si sorrisero: la risata della loro piccola era rara come un fiore nel deserto, eppure era il suono più bello che potesse essere generato nella natura. Angie anche non riusciva a smettere di ridere, non per la situazione, bensì per il solletico, intrappolata ormai da Pablo.
“Non sai che bisogna sempre trattare con rispetto un re?” le disse, senza riuscire a trattenere una risata anch’egli.
Un vassoio cadde a terra, facendoli sobbalzare e videro un ragazzino intento a raccogliere tutto ciò che era cascato, ossia un paio di mele e alcuni biscotti, rosso in viso. “S-scusate, i-io…” balbettò tentando in qualche modo di scusarsi. Il sorriso di Pablo si accentuò ancora di più perché in quel ragazzino vedeva molto di se stesso: stessi capelli scuri e disordinati, stesso sguardo acuto e brillante. Il colore degli occhi era però di un azzurro chiaro, quasi trasparente.
“Non devi preoccuparti” lo rassicurò Angie, chinandosi per aiutarlo a prendere quello che era caduto. I biscotti erano ormai immangiabili, con grande rammarico del piccolo servitore che non aveva mai visto a palazzo. “Può capitare a tutti una distrazione. Come ti chiami? Non ti ho mai visto a palazzo”.
Il ragazzino si irrigidì, sempre più in imbarazzo. Era evidente che non sapesse in che modo rivolgersi alla regina. Prese un profondo respiro, abbassando lo sguardo. “Sono Fidel, il figlio del fornaio. E’ stato mio padre a mandarmi qui visto che mi aveva chiesto una mano e…vi prego, non ditegli del disastro che ho combinato!” disse tutto d’un fiato.
“Non preoccuparti. E ti ringrazio per il pensiero gentile che hai avuto nei confronti di mia figlia” esclamò Pablo, intuendo che quel vassoio fosse stato indirizzato per la piccola Cassidy. Fidel alzò per un secondo lo sguardo, incrociando quello della principessa, i cui occhi sembravano aver acquistato una luce strana. Tutti nel Regno sapevano del tragico incidente che aveva privato della vista l’unica erede per il Regno di Picche e lui stesso era rimasto affascinato dai numerosi racconti leggendari che circolavano intorno alla sua figura.
“Ho pensato solo che…potesse farle piacere” sussurrò Fidel. Era sempre stato un ragazzo avventato e aveva semplicemente pensato di farle quel regalo, senza certo immaginare che si sarebbe trovato al cospetto di tutta la famiglia reale.  
“E hai pensato bene, vero Cassidy?”. La principessa, sentendosi rivolgere quella domanda dalla madre, annuì appena, distogliendo subito lo sguardo. “Anzi, se vorrai potrai venirla a trovare quando vorrai!” aggiunse Angie entusiasta. Aveva notato che Fidel di sottecchi puntava sempre lo sguardo verso il letto, senza avere il coraggio di muovere un passo in avanti. Di fronte a quell’invito l’imbarazzante incidente sembrò passare in secondo piano e il ragazzo ne rimase sorpreso: lo stavano trattando in un modo strano, come se fosse un loro amico. Sapeva che Pablo era un uomo altruista e pieno di virtù, ma non immaginava certo che si sentisse così vicino al suo popolo.
“Se me lo vorreste concedere…potrei farlo. La prossima volta potrei portare un libro, ho imparato da poco a leggere! Dopo aver terminato i miei doveri, si intende…”. Ottenendo l'assenso della donna per la sua proposta, si congedò frettolosamente con un inchino e scappò via, biascicando ancora altre scuse per quello che aveva combinato.
“Che te ne pare di Fidel?” chiese Angie al marito, mentre si allontanavano della stanza della figlia. Dopo quella breve parentesi di serenità era il momento di tornare al loro compito, carichi di una nuova energia.
“Penso sia un bravo ragazzo e sono felice che Cassidy potrebbe aver trovato un compagno di giochi, arguto, intelligente…”.
“E che un giorno potrebbe diventare tuo genero” completò la frase la donna, ridendo sotto i baffi e preparandosi alla reazione del re che non tardò ad arrivare.
“COSA?! NO. Assolutamente no! Lei è troppo giovane e lui…che ne sappiamo di lui? Angie, pensi che sia interessato? Dobbiamo barricarla dentro la stanza, non si deve avvicinare! Se prova a rimettere piede qua dentro gli aspetta un bel discorsetto a quel dongiovanni in miniatura!” disse Pablo fermandosi e poi ricominciando a camminare. Si sbracciava a sembrava che fosse stato vittima di una grande ingiustizia.
“Ma smettila tu, non farai proprio un bel niente!” rise di gusto Angie, prendendolo a braccetto e conducendolo di peso alla sala del trono. Pablo sbuffò rassegnato: non si era mai dovuto confrontare con le gelosie di un padre, però non riusciva a sopportare che il cuore della sua bambina potesse diventare di qualcun altro. Aveva il forte impulso di tornare indietro per parlare con Cassidy e scongiurarla di non vedere più quel Fidel, ma sua moglie aveva ragione: non poteva mettersi in mezzo; era un ciclo destinato a ripetersi che in fondo ogni genitore viveva e forse era il segno che le cose stavano finalmente cambiando. Si strinse ancora di più a sua moglie, che ricambiò facendogli forza: si, le cose sarebbero cambiate.









NOTA AUTORE: PERDONO! Vi chiedo perdono per il ritardo e per il capitolo che forse non è un granchè, diciamo che è un po' interlocutorio, visto che dei protagonisti della storia non si sa nulla...per ora. Allora, Fran è stata svegliata da Federico e i due si trovani intrappolati nelle prigioni di quadri, dove Ana ha preso il povero Dj per torturarlo :( Nel loro tentativo di uscire incontrano Marcela e un personaggio di nostra conoscenza (in un certo senso), Tartalenta! L'animale però è abbattuto perché gli sono state rubate le pietre preziose sul suo guscio...tra di esse ci sono gli smeraldi che Diego aveva usato per i due medaglioni! A proposito di Diego...il consigliere entra in possesso di un'arma pericolosa, che è sicuro gli permetterà di vincere la guerra...di che si tratta? D: A proposito di guerra...sull'altro fronte Pablo è sempre più determinato a vincere quella guerra, anche se dovrà sacrificare metà del regno :/ Pablo e Angie trovano la forza per mostrarsi forti di fronte a tutti gli altri nel legame della famiglia che li unisce, e soprattutto grazie all'amore che provano nei confronti della figlia. Ma attenzione, potrebbe esserci un mini-pretendente per Cassidy, non molto ben visto da Pablo xD Anche se lui per primo all'inizio simpatizzava per il piccolo Fidel, dopo i dubbi che gli ha insinuato Pablo ha cambiato leggermente idea xD Ahahaha, Pablo alla fine come sempre deve cedere di fronte alle parole di Angie...si completano proprio quei due, riescono sempre a farsi forza l'un l'altro :3 Ma chiusa quella simpatica parentesi Pablo si sente richiamato ai suoi doveri e si prepara allo scontro finale sempre più imminente...che succederà? 
Riusciranno i protagonisti a recuperare l'ultimo pezzo, che risiede nel Palazzo di Quadri? L'arma di Diego sarà davvero così letale? E Andres e Emma? Fran e Fede riusciranno a salvare Dj? Fran controllerà il Mana, che sembra già stare per sovrastarla? Quante cose da scoprire ancora! Grazie a tutti voi che mi seguite con affetto, e vi chiedo perdono per il ritardo, spero la prossima volta di aggiornare in tempo :3 Grazie a tutti, anche per la comprensione, e alla prossima! Buona lettura, 
syontai :3 

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Capitolo 59
*** Abbandonato ***


Capitolo 59
Abbandonato

Leon scese da cavallo, liberandosi della spada, che gettò a terra con noncuranza: non ne avrebbe più avuto bisogno. Attraversò di corsa tutto il giardino, senza prendere fiato neppure per un secondo. Aveva così tanta voglia di abbracciare Violetta che neppure i tentativi di accoglienza da parte delle guardie, fatti di cerimoniosi inchini, riuscirono a fermarlo. Arrivò addirittura a scostare in malo modo una delle sentinelle che si era messa tra lui e l’entrata del castello. Una volta dentro fu sommerso da dolcissimi ricordi, tutti legati all’unica persona che aveva avuto desiderio di vedere in quei giorni. Si aggirava come preso dalla follia della febbre, per poco non andò anche a sbattere contro una domestica che portava un cesto di panni e che sembrò parecchio sorpresa del suo rientro. Prima ancora che le potesse chiedere di Violetta, però, la donna era scomparsa. In giro non c’era nemmeno Thomas…avrebbe voluto domandare almeno a lui, vista la sua amicizia con la ragazza. Amicizia che ad essere sincero non gli andava molto a genio. E Lena? Lena dov’era finita? Di solito si vedeva sempre in giro per il castello, magari nel bel mezzo di un battibecco con Lara. Si precipitò nella sua stanza, nella speranza di trovarla lì, ma c’era solo il letto preparato in vista del suo ritorno. Non si arrese e di corsa raggiunse la sommità della torre dove più volte si erano incontrati clandestinamente, salendo i gradini di legno a due a due. Niente neppure lì. Per un momento venne colto dal panico, ma subito cercò di rasserenarsi: probabilmente non gli era stato detto del suo arrivo. O forse gli avevano assegnato un lavoro più duro del solito. Sospirò, incrociando le braccia al petto, pensieroso. Poteva sempre andare da Humpty per salutarlo. Con quell’unica rassicurazione, scese le scale lentamente, come se sperasse che Violetta raggiungesse di corsa il loro posto. Nel tragitto per la biblioteca non incontrò nessuno, ma quando si trovò di fronte al portone di bronzo aperto rimase di sasso.
I suoi passi risuonavano sordi e aridi. Anni e anni di sapere erano ridotti in cenere. La stessa cenere che in quel momento si trovava sotto i suoi piedi. Nel mezzo dei milioni di domande che si affollavano nella sue testa serpeggiava un terribile presentimento: in sua assenza doveva essere successo qualcosa di molto grave. Si inginocchiò e afferrò una manciata di cenere, quindi la lasciò cadere lentamente di fronte ai suoi occhi, in una scia grigia e imperfetta.
Qualcuno bussò e lui si voltò di scatto. Era uno degli attendenti di Jade e lo guardava senza proferire parola. Il suo sguardo furioso e confuso pretendeva spiegazioni, ma nulla ruppe quella barriera di silenzio.
“Chi ha fatto questo? Come è potuto accadere?” chiese con voce tremante di rabbia. L’uomo non rispose alla sua domanda. “Vostra madre vi sta aspettando” Lo invitò con un gesto della mano ad uscire da quella stanza ormai spoglia, priva di tutto ciò che la rendeva viva. Perfino i soffitti erano stati anneriti dall’incendio e l’immensa decorazione al centro aveva subito l’attacco di macchie scure e dannose. Scostò con impazienza l’attendente e si diresse a passo spedito alla sala del trono. Avrebbe voluto evitare di incontrare Jade così presto, ma a quanto pare non aveva altra scelta se voleva sapere che cosa diamine era successo in sua assenza. Le guardie ritirarono le lance non appena lo videro arrivare e gli aprirono le porte, profondendosi in un lungo e rispettoso inchino. Imprecò di fronte a tanti stupidi ossequi, che se un tempo riteneva dovuti adesso non facevano altro che accrescere il suo odio per quel castello.
Seduta sul trono, Jade indossava un vestito completamente nero, mentre con un fazzoletto bianco si asciugava gli occhi inumiditi. Non appena lo vide represse a stento un singhiozzo e si portò una mano alla bocca. Si alzò in piedi e si precipitò dal figlio, abbracciandolo con disperazione.
“Madre” sussurrò Leon, sconvolto da quel gesto di affetto così slanciato. Avrebbe voluto ricambiarlo, ma nulla in lui gli dava un motivo valido per farlo. Quella donna non l’aveva mai amato e lo sapeva bene. Non l’aveva mai visto come un figlio, bensì come un’arma.
“Sei tornato”. Jade lo strinse con forza senza decidersi a lasciarlo. Fu Leon a posarle le mani sulle braccia e ad allontanarla con un certo disagio. La donna socchiuse la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscì alcun suono. “E’ comprensibile che mi tratti in questo modo, Leon. Ho sbagliato con te…”.
Il principe non capiva più nulla: per tanti anni aveva sognato che sua madre smettesse di trattarlo con freddezza, ma ormai aveva perso completamente le speranze e adesso si trovava a sentirla pronunciare delle scuse nei suoi confronti. “Ho ricevuto il messaggio e sono tornato prima” precisò Leon, come se cercasse di giustificare la sua presenza in qualche modo.
“Leon, è successa una cosa terribile”. Da quel momento per Leon fu come trovarsi sul bordo di un baratro e una forza lo stesse spingendo indietro per farlo cadere. E per quanto provasse a resistergli, per quanto il cuore tentasse di opporsi, sapeva bene che la caduta era inevitabile.
“Un gruppo di ladri si è introdotto nel castello e ha rubato la spada di Cuori, il nostro cimelio di famiglia” cominciò a parlare Jade, fingendosi profondamente scossa. Leon tirò un sospiro di sollievo: finché si tratta di una stupida spada, a lui cosa importava? Certo, era un oggetto importante, a cui sua madre teneva molto, ma si sorprese nel pensare che la cosa non lo toccasse minimamente. Erano altre le cose che gli stavano a cuore ed erano state l’unico motivo per cui era partito un’ultima volta per la guerra. Stava cercando alcune parole di circostanza per consolare la madre, rimasta ferita da quel furto a tradimento, quando la donna riprese il suo discorso, interrotto unicamente per rendere ancora più devastante l’effetto che il seguito avrebbe avuto sul figlio. “Violetta era una di loro”. La devastante trappola era scattata in tutta la sua crudeltà e Jade faticò non poco a mantenere un’espressione afflitta, mentre dentro di lei si pregustava ogni singolo cambiamento sul volto di Leon: gli occhi sgranati, la bocca socchiusa in un pallido tentativo di ribattere, i lineamenti tesi.
“E’ arrivata qui in cerca di accoglienza solo per aiutare quei furfanti ad infiltrarsi nel castello! Si è avvicinata a noi, a te, solo per questo!” esplose la regina, muovendosi in modo poco regale avanti e indietro. Leon scosse la testa, portandosi una mano sulla fronte. Tutti i sensi si perdevano in un mare di ricordi, di promesse, mentre il seme del dubbio si insinuava nella sua mente. Perché tante volte aveva creduto troppo strano che una ragazza come lei si innamorasse di uno come lui, un ragazzo che non aveva nulla di quelli della sua età. Eppure ogni volta Violetta l’aveva rassicurato e alla fine si era convinto che fosse possibile, che quel sentimento fosse sincero. E lo credeva ancora. Fu proprio quella certezza, che già però si sgretolava sotto la sua presa, a infondergli quel po’ di spavalderia e arroganza sufficiente a farlo scoppiare in una sonora risata. Una risata intrisa di follia che gli gelava il sangue nelle vene. Jade lo guardò come se fosse diventato completamente pazzo.
“Pensi davvero che io ti creda? Sono sicuro che Violetta non farebbe mai qualcosa del genere, non hai alcuna prova” commentò sprezzante Vargas. Non era vero, non era sicuro più di nulla.
“E’ fuggita insieme ai ladri, non ti basta? Con lei sono andati anche Thomas e una serva, li hanno presi come ostaggi!” insistette la madre, facendolo irrigidire. “Hanno appiccato l’incendio alla biblioteca per creare un diversivo e fuggire con la spada”.
Leon provò un fortissimo senso di vertigini, come se una voragine si fosse aperta proprio sotto i suoi piedi, e una caduta infinita lo accompagnava inesorabile. Tutto tornava. Aveva sempre sospettato che Violetta gli nascondesse qualcosa, ma non pensava certo che si fosse servita di lui in quel modo. Il loro sentimento era stato sincero, puro, o almeno così era stato per lui. Non poteva pensare che alle sue spalle Violetta potesse aver riso di lui, della sua ingenuità. Neppure si accorse che le porte si fossero spalancate nuovamente e quando si voltò ebbe un puro moto di orrore.
Humpty veniva trascinato esausto fino ai piedi del trono, sorretto da due guardie. I vestiti erano laceri e gli occhi azzurri che gli avevano sempre trasmesso tanta calma in un vicino quanto remoto passato presentavano i tipici contorni rossi di chi aveva versato troppe lacrime. Venne fatto inginocchiare con delicatezza ai piedi della regina e Leon raggiunse il lato destro dello scranno sconvolto. “Per farti capire di cosa sono stati capaci…” sentenziò Jade, facendo un cenno della mano alle guardie, che arretrarono. Humpty singhiozzava sommessamente, rimanendo in silenzio, e Leon fu tentato di chinarsi per vedere come stesse, non fosse che l’etichetta glielo impediva.
“Cosa ti è successo?” chiese Leon apprensivo, senza riuscire a reprimere l’ansia di voler sapere. Sperava che quell’uomo che con lui era stato tanto paziente avrebbe smentito tutto, ma se era stato mandato a chiamare dalla madre sicuramente non era certo per placare i suoi peggiori incubi. Humpty si sforzò di dire qualcosa, ma nessun suono uscì dalla sua bocca, solo un rantolo confuso. Fu Jade a parlare al posto suo. “E’ inutile, non può parlare…lo hanno torturato e gli hanno tagliato la lingua. Quando lo abbiamo trovato era troppo tardi, era stato chiuso in una stanza del castello perché non potesse dare l’allarme e smascherarli”.
Le parole di Jade risuonavano sorde nella sua mente, andando ad appesantire il suo corpo, ad offuscare i suoi pensieri, a distruggere tutte le sue speranze. Come avevano potuto fare quello ad un uomo buono come Humpty? Come aveva potuto Violetta fare questo a lui, lui, che tante volte si era confidato con lei, che le aveva dimostrato di amarla davvero? Si era preso gioco dei suoi sentimenti e non riusciva ad accettarlo.
“Violetta è davvero fuggita con quei ladri?”. Gli occhi di Humpty si riempirono di lacrime e l’uomo annuì, sebbene tentasse in qualche modo di fargli capire che c’era dell’altro, che doveva scavare fino a superare l’apparenza di ciò che era accaduto. Ma quella risposta bastò a Leon affinché il suo cuore si congelasse di colpo. Devastato fin nel profondo, non c’era più nulla di umano che valesse la pena di essere coltivato. Si sentiva esattamente come il mostro di un tempo, un essere senz’anima, senza cuore.
Dopo quel colloquio Leon si rinchiuse nella sua stanza dando ordine di non disturbarlo per nessun motivo. Si sedette ai piedi del letto e gettando un’occhiata verso i cuscini poteva ancora vedere il suo riflesso sbadito rotolarsi tra le coperte, tenendo stretta tra le braccia Violetta. Poteva sentire lo schioccare dei loro baci, che erano per lui la più crudele delle punizioni, poteva sentire quelle promesse tanto vane e tanto vuote. Promesse di un amore mai esistito, non da parte di Violetta almeno. Lui era convinto di averla amata davvero, sebbene avesse da poco fatto i conti con quel sentimento tanto strano. Lacrime miste di dolore e rabbia gli bagnarono il visto, mentre faticava a mantenere il controllo dei suoi gesti, talmente tanto era fuori di testa. Strinse talmente tanto i pugni che le unghie delle dita affondarono nella carne, procurandogli un dolore in cui trovò rifugio e conforto. Il dolore lo aveva sempre accompagnato nella sua crescita, era stato la madre che Jade gli aveva imposto con tutte le punizioni inflitte. No. Non sapeva amare. Solo adesso si rendeva conto di quanto tutto fosse stato falso. Era stato un idillio giunto al suo termine ed ora era tornato nella cruda realtà, dove lui non aveva alcuna possibilità di essere felice. Si alzò in piedi, incapace di stare fermo e si avvicinò alla finestra che dava sul giardino. La luce illuminò un viso pallido e freddo, tanto diverso da quello che aveva avuto il piacere di accogliere poco tempo prima. “Riuscirò a dimenticarti” sussurrò, incrociando le braccia al petto e tirando un sospiro profondo.
Passarono tre giorni e il proposito di Leon di rimuovere ciò che era accaduto negli ultimi mesi dovette confrontarsi con i continui ricordi che quella stanza gli suscitavano. Vargas non usciva mai dalla sua camera, se non raramente per mangiare. Cacciava chiunque provasse a entrare in malo modo e a tavola era taciturno e scortese. “Ha bisogno di tempo” aveva detto Jackie alla regina, che si era limitata ad annuire. La pazienza non era mai stato un tratto fondamentale del suo carattere, tutt’altro, ma sapeva bene che con quel ragazzo l’unica cosa da fare era saper aspettare. Leon avrebbe strisciato ai suoi piedi, riconoscendola come l’unica persona che non l’avesse mai tradito. Per un attimo soltanto sentì i rimorsi di una madre che per anni e anni avevano tardato a farsi sentire, ma essi svanirono di fronte all’immagine gloriosa di un Paese delle Meraviglie unito sotto un’unica corona, la sua.
“Mia signora” esordì Jackie, sedendosi affianco alla regina, che aveva appena finito di squadrare l’uscita della sala da pranzo che Leon aveva superato a grandi falcate per tornare nella sua stanza. “A proposito di Leon…ormai il matrimonio con la Ferro è destinato a saltare visto che vi è stata rubata la spada”. Jade la incenerì con lo sguardo, poiché le era stato ricordato quel fatto che ancora le bruciava. La merce di scambio le era stata sottratta da sotto il naso e il suo più grande desiderio era di vedere le teste di quel gruppo di ladri rotolare ai suoi piedi. “Per quanto questo mi addolori, penso che Leon dovrebbe in ogni caso prendere moglie. Potrebbe aiutarlo a superare questa situazione di stallo”. Jade le prestò vagamente attenzione, convinta da quelle parole. Si, Leon aveva bisogno di una distrazione, qualcosa che non gli facesse pensare a Violetta e lo aiutasse ad accrescere il suo disprezzo.
“Chi proporresti?” chiese la regina.
“Una serva che lavora qui al castello…si chiama Lara. Penso che sia la più indicata a…”. Non riuscì nemmeno a finire di parlare che un mare di risate la sommersero. Alla regina addirittura lacrimavano gli occhi per il ridere. “Una serva, questa è buona! Non se ne parla nemmeno, non me ne verrebbe nulla da un matrimonio così poco vantaggioso”. Jackie si morse la lingua per il nervoso: che credeva di ottenere? Era ancora presto per manipolare in modo così netto la regina e per di più lei stessa riteneva quella proposta una follia. Se solo non fosse stata ricattata da quella serva impicciona…
“Forse avete ragione, la mia è stata un’idea dettata dall’ingenuità” si affrettò a controbattere la donna, ottenendo un’occhiata di derisione. “Dettata dalla stupidità, vorrai dire” la corresse Jade. Jackie divenne rossa dall’imbarazzo e dalla rabbia: non si era mai sentita umiliata in quel modo in tutta la sua vita. Odiava Jade, che aveva tanto poco cervello quanta arroganza. Fremeva dalla voglia di rivelarle il suo piano per renderla una povera pazza in balia della sua volontà, ma non poteva tradirsi in quel modo. Sorrise invece forzatamente, sollevando la caraffa di cristallo e versando dell’acqua nel calice della regina. Lo prese per la base e approfittando di un attimo di distrazione della donna vi versò un po’ della sua pozione. Ancora una volta avrebbe dovuto ingoiare gli insulti di Jade, ma presto avrebbe ottenuto la sua vendetta. Jade non sembrò accorgersi dello sguardo maligno della serva e si limitò a sorseggiare l’acqua, che le risultò fresca, anche se dal sapore strano. Ma forse se lo stava solo immaginando.
 
Violetta allontanò Maxi con uno spintone, guardandolo sconvolta. Non sapeva nemmeno in che modo commentare quel gesto, ma forse la sua faccia colma di disapprovazione riusciva benissimo a quello scopo. Aveva sempre creduto che Maxi avesse un debole per lei e le parole di Beto gliel’avevano confermato. Quell’amore era costruito, finto e forse un tempo avrebbe potuto cadere in quella trappola, ma dopo aver avuto la possibilità di innamorarsi veramente nella sua mente tutto appariva chiaramente come un’enorme bugia. Maxi dal conto suo si sentiva umiliato: non pensava di essere respinto in quel modo. Eppure la connessione tra di loro…non poteva essere un caso, no? Facendosi coraggio poggiò le mani sulle sue braccia, quasi all’altezza delle spalle, e si sporse nuovamente, ma questa volta Violetta arretrò rapidamente, ripresasi dalla sorpresa.
“Maxi, io non…”.
“Hai ragione, ho esagerato, non avrei dovuto essere così diretto” si difese Maxi alzando le mani, rosso per l’imbarazzo.
“Non è assolutamente per questo” disse Violetta, cercando le parole adatte, anche se era certa che nulla potesse aiutarla in quel momento, quello in cui avrebbe dovuto sbattergli in faccia la cruda realtà. “Ti sono grata per tutto quello che hai fatto per noi…”.
“L’ho fatto soprattutto per te” ci tenne a precisare il ragazzo, abbassando lo sguardo
“E per questo te ne sarò riconoscente di cuore! Ma io…non provo nulla se non affetto nei tuoi confronti. Un affetto che si può provare tra amici”.
Con quell’ultima parola era sicura di averlo demolito del tutto, ma cos’altro poteva fare? Essere chiara era l’unico modo per proseguire il viaggio senza fraintendimenti. Maxi però sembrava non volersi arrendere: “Adesso per te è così, ma forse con il tempo…non puoi saperlo. Non puoi concedermi una possibilità?”.
“Non posso” rispose direttamente Violetta. C’era ancora quella promessa, tutto ciò che le rimaneva. Perché anche se non avrebbe potuto aspettare Leon fisicamente al castello, lo avrebbe aspettato comunque col cuore. Maxi stava per chiederle il perché, ma qualcuno sbucò all’improvviso da un cespuglio: era Thomas.
“Vi ho trovati finalmente!” esclamò sollevato, passandosi una mano sulla fronte. Nella mano destra teneva alcune foglie spesse e lunghe e un bastoncino. “Ho trovato l’occorrente per fare una fasciatura a Lena, almeno per permetterle di camminare”. Violetta ringraziò mentalmente l’amico per aver interrotto quella conversazione, che stava prendendo un brutta piega. Maxi avrebbe capito il perché della sua risposta? Oppure avrebbe provato ad affrontarla nuovamente? Con quelle domande, raccolse le borracce che le erano cadute e si inginocchiò ai piedi del torrente per riempirle.
In religioso silenzio e in fila indiana tornarono dove avevano lasciato Lena, che non appena li vide fece per alzarsi in piedi faticosamente. Thomas però saltellò più in fretta, facendola distendere e cominciando a medicarla per poi applicare la fasciatura.
“Mio padre mi aveva insegnato a riconoscere le piante mediche principali” disse indicando un fagotto di erbe che aveva tirato fuori dalla tasca. Nonostante le lamentele di Lena Thomas concluse il suo lavoro alla perfezione.
Furono costretti a rallentare la marcia per il castello di Quadri dove speravano di trovare gli altri ad attenderli. Più volte Lena li aveva pregati di lasciarla in un villaggio di strada, perché poi in qualche modo se la sarebbe cavata da sola.
“Non se ne parla nemmeno, come pensi che accoglierebbero una straniera in tempi di guerra come questi? Siamo vicini al fronte…non possiamo rischiare” rispose una volta Thomas, mettendola a tacere. Tra Violetta e Maxi le cose si stavano svolgendo nel peggiore dei modi. Lui la cercava continuamente e approfittava di tutti i momenti in cui rimanevano più o meno soli per riprendere il discorso, mentre lei cercava di sviare in ogni maniera. Violetta era sicura che prima o poi avrebbe dovuto affrontarlo, ma non ci riusciva in quella situazione di incertezza. E per quanto suonasse egoista, aveva bisogno di Maxi per raggiungere sana e salva la destinazione, glielo aveva dimostrato durante il combattimento alle rovine.
“Dal tuo racconto quindi c’era uno specchio che ti ha mostrato alcuni frammenti del passato” disse una sera Thomas, cercando di fare un rapido schema del regno di Quadro tracciato con un sottile ramoscello. “Non ne avevo mai sentito parlare a dire il vero…si tratterà di qualche stregoneria. Però potrebbe essere stato messo lì da qualcuno che è dalla nostra parte”.
“Oppure semplicemente poteva trattarsi di una trappola ordita da quel mostro” provò a ipotizzare Lena, che allungò le mani verso i resti del fuoco che avevano dovuto spengere per non essere localizzati da nessuno durante la notte. Si erano fermati nei pressi di una vecchia fattoria abbandonata e Maxi si era proposto per fare il turno di guardia, così i tre nel frattempo ne stavano approfittando per fare il punto della situazione.
“Non credo che le due cose fossero collegate. Però avevo letto di un posto nel Regno di Quadri, dove si trovano degli specchi magici. E se fosse un indizio? Forse quel qualcuno vorrebbe che lo raggiungessimo lì”.
“Mi sembra un po’ troppo azzardato, Thomas. Cosa ne sappiamo di questo posto?” domandò Lena, per niente convinta dall’idea dell’amico.
L’altro sembrò pensarci un attimo prima di tracciare una linea un po’ tremolante sul terreno, scostando la paglia rimasta del fienile. “Significherebbe solo allungare di qualche giornata. Che cosa ne dici, Violetta?”.
Violetta, sentendosi chiamata in causa, sussultò appena. Si sentiva smarrita. Da quando era arrivata nel Paese delle Meraviglie aveva sempre avuto come riferimento il castello di Cuori, fuori di lì lei non sapeva proprio come muoversi. Trappole, magia, mostri terribili…era come sentirsi catapultati negli incubi che faceva da piccola, con l’unica differenza che quel sogno stava durando da fin troppo. Neppure il pensiero di Leon riusciva a consolarla, anzi non avere sue notizie le metteva ulteriore ansia addosso. Per quanto riguardava lo specchio trovato alle rovine, era e rimaneva un mistero. Però se si trattava di Alice, non doveva temerla, o almeno questo le aveva fatto capire Beto.
“Penso…forse dovremmo andare lì. Alice potrebbe averci voluto dire qualcosa”.
Thomas e Lena rimasero in silenzio, ma poi fu quest’ultima a prendere la parola, timorosa. “Alice non era tornata nel suo mondo? E anche se fosse rimasta qui nel Paese delle Meraviglie dovrebbe essere morta ormai, no?”. Lena aveva ragione, poteva lei credere in un fantasma e seguirne maniacalmente delle ipotetiche impronte che potevano essere state equivocate? Però la presenza di Alice era tangibile, reale, l’aveva sentita nei sogni, l’aveva avvertita anche al castello in più di un’occasione. Beto voleva che la trovasse, ma se non aveva nemmeno la più pallida idea di dove iniziare a cercare!
“Non so come spiegarlo, ma penso che dovremmo andare lì”. I suoi due amici si guardarono all’inizio un po’ perplessi, poi si voltarono verso di lei e annuirono. “Il posto di cui parlo è l’Isola Riflessa che si trova in mezzo al fiume Emuif. Domani studieremo meglio un piano, adesso dovremmo pensare a riposarci” concluse saggiamente il Bianconiglio, stendendosi sul giaciglio preparato alla bene e meglio.
Violetta provò a prendere sonno, ma la mente era tormentata da quello che le stava succedendo tutto intorno. Si girò dall’altra parte e incrociò gli occhi di Lena, stesa su un fianco. Sembrava avere paura quanto lei, forse anche di più. La luce della luna filtrava a malapena in quel capannone e Maxi non era ancora rientrato per chiedere il cambio. Non poté fare a meno di pensare che forse aveva voluto di sua volontà staccarsi da tutti per poter riflettere.
“Non riesci a dormire?” le chiese Lena. Violetta annuì, stringendosi nelle braccia.
“E’ per Leon? Sei preoccupata per lui?”.
“Non si tratta solo di lui…stiamo facendo un viaggio che non sappiamo dove ci porterà e quello che desidero io è di tornare a casa, di poter riabbracciare mio padre. Mi manca tanto”. Lena chiuse gli occhi e sospirò impercettibilmente, quando li riaprì sembravano accesi di una fievole e tiepida fiamma.
“Anche io ho paura. Molta. Ma avevi ragione quando volevi convincermi a fuggire da quel castello. Prima non sapevo cosa significasse vivere, cosa fosse l’avventura. Mi piace viaggiare con voi. A volte vorrei tornare tra quelle quattro mura al sicuro, ma so che per me è iniziata una nuova fase ed è tutto merito tuo”.
Nel momento in cui agisci in un certo modo o prendi una determinata decisione tutto ciò che ti è intorno ne subisce le conseguenze. Leon, Lena, Thomas...ognuno a modo suo, grazie alla tua presenza, è stato libero di scegliere la sua strada. Le parole di Beto si accordavano perfettamente con quello che le stava dicendo Lena. Ma se gli altri erano in grado di capire quale era la loro strada, a lei sembrava di brancolare nel buio. Fu una canzone appena sussurrata proveniente dalle labbra socchiuse di Lena a farle ritrovare una pace che credeva perduta, che era certa potesse avere solo al fianco di Leon. E proprio sul bilico dell’incoscienza provocata dal sonno ebbe come l’impressione di sentire le labbra del principe di Cuori premute sulla fronte.
 
Andres si svegliò tirandosi su di colpo. Aveva ancora il fiatone, procuratogli da un incubo. Fiamme. Fiamme ovunque che lo avvolgevano. Ma non volevano lui, e lo sapeva bene. Al suo fianco sentiva il respiro regolare di Emma, che era rimasta rannicchiata stretta a lui. Non sapeva nemmeno lui come interpretare il suo gesto la sera prima. Follia, disperazione…che cosa lo aveva spinto a baciare Emma? Non la amava, lo sapeva, eppure sul suo volto vedeva disegnato un sorriso sereno e non poté fare a meno di intenerirsi. Le voleva stare accanto, lo voleva davvero. Emma poi non gli procurava alcun problema, non era come Libi che tentava continuamente di sbattergli in faccia la realtà, che gli diceva quanto fosse cambiato. Si, era cambiato, e forse proprio per questo tra loro non aveva funzionato. Il vecchio Andres era perfetto per Libi, ma il nuovo non poteva averci nulla a che fare.
“Va tutto bene?”. Emma si era appena svegliata con un vigoroso sbadiglio e lo guardava con aria confusa. Era diverso dall’Andres che l’aveva baciata la sera prima, era come se fosse tormentato da qualcosa. Tutti i suoi pensieri furono stroncati dal ‘si’ secco di Andres. “Dovremmo riprendere il viaggio…seguiremo la catena di monti ancora per un po’, poi scenderemo a sud e raggiungeremo il castello di Quadri”. Emma annuì e lo osservò alzarsi, mentre dava delle forti scrollate sui pantaloni e sulla casacca. Ebbe la tentazione di chiedergli se magari si fosse pentito. Per lei non sarebbe stato un problema fare un passo indietro, non voleva certo costringerlo. Allo stesso tempo però avvertiva quel classico egoistico proposito di voler essere felice che l’amore portava con sé. Si convinse quindi che si sarebbe fermata solo nel momento in cui Andres le avesse detto di farlo. Per metterlo alla prova, gli afferrò le spalle con un po’ di impaccio e gli stampò un bacio sulle labbra, fredde e morbide allo stesso tempo. Quando si separò non vi era alcuna traccia di rifiuto nell’espressione di Andres, che anzi si aprì in uno sparuto sorriso. Però continuava a non sentirsi tranquilla, anzi si sentiva sempre più agitata. Decise di tenere per sé quei timori non appena il ragazzo le porse la mano. Avevano un viaggio a cui pensare.
Il terreno arido e spoglio era continuamente flagellato da folate di vento invernali. I due avvertivano il freddo congelargli le ossa, sebbene si fossero coperti come meglio potessero, e stringendosi ai loro mantelli procedevano poco alla volta. In lontananza si scorgeva un piccolo villaggio, ma decisero di non fermarcisi: le provviste erano più che sufficienti e avrebbero corso un rischio inutile sostandovi. Andres si chiese se la notizia del furto della spada fosse ormai trapelata. La notte faceva troppo freddo per proseguire, quindi non appena videro una locanda furono seriamente tentati di approfittarne. In fondo si trattava solo di mantenere i cappucci e fingersi semplici viandanti. Non appena entrarono un forte odore di alcol li stordì. Risate sguaiate e allegri avventori popolavano quella calda e accogliente osteria. C’era anche un manipolo di soldati seduti qua e là con dei boccali di birra in mano.
“Una stanza, per favore” disse con voce roca Andres all’oste dietro il bancone, che li squadrò per un attimo prima di tirare fuori un librone con una penna d’oca. “Nome e cognome?”.
“Nicolas Garnier e…”. “Palu Garnier, sua moglie” completò Emma. L’uomo si limitò ad annotare tutto, quindi prese una chiave di bronzo che teneva in una portachiavi appeso alla cintola e gliela passò, in cambio di qualche moneta. “Primo piano, stanza quattro”. Andres lo ringraziò con un cenno della mano. Mentre passava di fronte ai soldati con lo stemma di Quadri abbassò ancora di più il cappuccio e trascinò Emma con sé nella loro stanza. Non era niente di eccezionale, ma tutto sommato confortevole. Andres non riusciva a ricordare da quanto tempo non dormiva su un letto e quando si sedette sul materasso gli sembrò di sognare a occhi aperti. Emma si sedette vicino a lui, nel silenzio più totale.
“Spero di riuscire a trovare presto gli altri…e che stiano tutti bene” disse Andres, infilandosi sotto le coperte senza tante cerimonie. Emma fece lo stesso sul lato destro del letto.
“Ce la farai…in fondo sei il nostro capo” sorrise la ragazza, dandogli un bacio sulla guancia. Andres si volle illudere e credere alle sue parole. Non si sentiva affatto un buon capo, non era stato in grado di proteggere i suoi compagni. Non era stato in grado di aiutarli quando il drago li aveva attaccati, non aveva saputo elaborare un piano. E adesso erano separati in un regno che nessuno di loro conosceva bene, ma che era risaputo essere il più misterioso di tutto il Paese delle Meraviglie. Lentamente riuscì a prendere sonno, sebbene con il timore di non essere all’altezza della missione. E di nuovo le fiamme presero con forza il dominio sui suoi sogni.
L’odore del legno bruciato, il crepitare del fuoco, le urla. Era tutto così realistico. Andres si girò a destra e a sinistra, strizzando gli occhi chiusi e sperando che quel sogno finisse. Qualcuno lo scuoteva per le spalle, chiamandolo con veemenza.
“Andres!”. Il ragazzo aprì gli occhi e si mise seduto, stordito. Emma lo guardava terrorizzata. Era notte fonda eppure fuori brillava una strana luce. Inoltre dalla porta provenivano grida disperate. Un odore aspro e forte stravolse i suoi sensi: fumo. Non ci volle molto per collegare: la locanda stava andando a fuoco. Scattò in piedi, seguito da Emma e insieme afferrarono tutto quello che avevano. Non appena aprirono un’ondata di fumo gli venne addosso. Tossendo e annaspando percorsero il corridoio ormai in fiamme.
Il salone sembrava essere diventato l’Inferno. Travi in fiamme cadevano dall’alto, mentre in giro erano sparsi feriti e morti. Non riusciva a capire come fosse potuto accadere, sentì solo lo scalpitare dei cavalli all’esterno. Stando attenti a non rimanere preda del fuoco che avanzava riuscirono a uscire dalla locanda e si ritrovarono nel bel mezzo di un’azione di guerriglia. Andres le conosceva bene. I soldati combattevano contro alcuni uomini che indossavano cappucci o maschere. Un uomo a cavallo coordinava le azioni e li spronava, menando fendenti contro gli avversari. Chi erano quei tizi? E cosa volevano? La notte venne dilaniata da un ruggito poderoso e dall’alto planò vicino a loro un’animale fiero e possente, che riconobbe subito: Rampante. E in groppa a lui, con il viso preoccupato e pallido, i cui occhi luminosi fendevano il buio, gli tendeva la mano una ragazza. Una ragazza con lunghi capelli corvini che svolazzavano disordinati.
Libi era tornata. 











NOTA AUTORE: capitolo molto doloroso con una nota finale di speranza...come noi tutti pensavamo Leon è tornato con una brutta sorpresa e adesso crede che Violetta si sia servito di lui per tutto il tempo. In un certo senso se ne è anche convinto visto che ha sempre avuto dei dubbi sul fatto che Violetta potesse amare uno come lui...Quello che Leon non sa, o meglio che sa meglio di noi, è che per lui è impossibile dimenticarsi di Violetta, e anche se adesso Leon subirà un altro brusco cambiamento non dobbiamo perdere la speranza :3
Per quanto riguarda Maxi...non si arrende il ragazzo .-. Violetta a quel punto stava per parlargli di Leon, ma Thomas li interrompe. Inoltre la sera stessa il gruppo decide di fare tappa all'Isola Riflessa credendo di poter trovare un indizio sullo specchio trovato nelle Rovine. 
E poi finalmente torna un personaggio che amo: la mia Libiiiiii <3 Eheh, credevate che se ne sarebbe stata via per sempre? E invece no, è tornata! :3 Ah, ricordatevi degli incubi che fa Andres, ha a che fare con la sfida contro il Tempo dell'inizio della storia di cui ancora non sappiamo nulla :3 Ma in realtà vorrei sentire anche vostre ipotesi in proposito :3 Grazie a tutti voi che mi seguite, anche se non ho mai tempo per rispondere leggo sempre le vostre recensione con le lacrime agi occhi per la riconoscenza, giuro. Spero solo che questo capitolo vi sia piaicuto :3 Alla prossima! Con affetto,
syontai :3 

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Capitolo 60
*** Specchi ostili ***


Capitolo 60
Specchi ostili

Qualcuno bussò alla porta. Leon non mosse un dito né diede il permesso di entrare. Era seduto per terra, con la schiena appoggiata al letto e lo sguardo fisso sul soffitto. Ci stava provando davvero a dimenticarla, ma più credeva di farcela più ricadeva nel baratro dei ricordi. Ricordi deformati ormai dalle nuove scoperte fatte. Il battere incessante sul legno della porta lo fece innervosire non poco: cosa volevano adesso da lui? Non capivano che avesse bisogno di stare da solo? Senza il suo permesso un piede coraggioso s’introdusse nella sua stanza e Leon lo incenerì con lo sguardo.
“Permesso?”. Alzò lo sguardo e riconobbe la faccia spaventata di Lara, che reggeva in mano un vassoio con qualcosa da mangiare: delle fette di pane col miele, un calice con del vino, perfino dei biscotti appena sfornati e una tazza di tè.
“Non ho fame” rispose lui sgarbatamente, tornando a guardare il soffitto. La ragazza fece per avvicinarglisi, ma Leon scattò in piedi rapidamente facendola sobbalzare. “Vattene. Voglio stare da solo” ringhiò con gli occhi pieni di rabbia e rancore.
Lara divenne paonazza, ma non si smosse, anzi, continuò a ripetersi che quello era il suo momento, che avrebbe dovuto essere coraggiosa. La sua occasione per riavvicinarsi a Leon era arrivata e non poteva perderla. “Sapevo che ti avrebbe fatto soffrire. Quella Violetta non merita…”. Non fece in tempo a finire la frase che il vassoio le volò dalle mani, colpito ferocemente da Leon con il pugno, cadendo a terra e rimbombando. Tutto il contenuto era riversato a terra, in mezzo a schegge e frammenti di ceramica. Ma Lara non ebbe il tempo di osservare tutto quel disastro, perché non riusciva a smettere di fissare le iridi verdi, dilatate dalla rabbia che si diffondeva in ondate, investendola e atterrendola. “Non nominarla mai più di fronte a me. Non voglio sentire quel dannato nome!” urlò con tutto il fiato che aveva in gola in un disperato atto di sfogo.
Lara annuì sconvolta e corse via, senza preoccuparsi nemmeno di raccogliere il vassoio: non aveva mai provato così tanta paura di fronte al principe. Ancora adesso, al sicuro dalla sua furia sentiva la pelle d’oca. Quello non era un uomo, era un mostro. Le cose non stavano andando affatto come previsto; pensava che dopo la fuga e il tradimento della serva Leon l’avrebbe riconsiderata. Ma quello non era Leon, non era neppure minimamente paragonabile al principe che aveva conosciuto prima dell’arrivo di Violetta. Poteva solo sperare che con il tempo si sarebbe calmato prima di tentare un altro approccio.
Leon richiuse la porta con forza e questa volta girò la chiave nella toppa, sicuro che in quel modo nessuno l’avrebbe disturbato. Violetta. Violetta. Quel nome faceva nascere dentro di lui emozioni contrastanti: un amore reso ancora più intenso dalla nostalgia e dall’assenza, ma soprattutto un feroce odio che non poteva, e non voleva, controllare. Aveva un bisogno immenso di sfogarsi e ripensò alla spada che aveva gettato non appena aveva messo piede al castello. Era stato così sciocco da allontanare la sua natura, così stupido da credere di poter vivere senza di essa. Ma no, la lama lucente della spada era l’unico modo per convogliare la sua ferocia in qualcosa di utile. E voleva scendere in battaglia, voleva sentire il sapore della terra sul palato. Perché la guerra era oblio, ed era ciò a cui aspirava più di ogni altra cosa.
Lentamente riprese ad allenarsi con sempre più assiduità. Colpiva i manichini mozzandone la testa, e non era contento finché il rivestimento non era ormai lacero e inutilizzabile. Con il polso si deterse la fronte sudata, quindi riprese ad assalire l’avversario successivo. Non conosceva stanchezza, era come un animale messo in gabbia che lottava fino all’esaurimento totale delle forze.  
“Vedo che stai reagendo nel giusto modo”. Una voce alle sue spalle lo sorprese appena, ma subito dopo riprese a menare fendenti, uno più preciso e letale dell’altro. “Non pensavo che avreste mai messo piede in questo posto” ribatté tra un colpo e l’altro senza battere ciglio. Una leggera ironia però traspariva dalla sua voce e Jade la colse subito. La regina non riuscì a reprimere un sorriso di fronte a tutta quell’aggressività.
“Volevo sapere di cosa ti stessi occupando…ma soprattutto volevo conoscere le tue intenzioni sul futuro. E’ sbagliato che una madre si preoccupi per il proprio figlio?”. Leon sorrise sprezzante e non rispose, tornando a concentrarsi sul manichino. Sul tessuto logoro della testa del suo avversario inanimato ebbe come l’impressione di vedere qualcosa, o meglio qualcuno. Un bagliore luminoso castano. Per un attimo la lama esitò in aria, prima di affondare sul terreno. “Il mio futuro? Tornare a combattere”. E vendicarmi di tutti coloro che si sono presi gioco di me, aggiunse tra sé e sé. “Quello che so fare meglio”.
Jade si avvicinò con aria rasserenata e gli posò una mano sulla spalla. A quel tocco per poco Leon non sussultò, talmente tanto era concentrato sul nemico da abbattere. “So che ancora fa male quella ferita e mi odio per essere stata io in parte a procurartela, accogliendo quella ragazza che eppure mi sembrava innocente e sperduta. Purtroppo non ci si può fidare delle apparenze”. Leon deglutì e rimase a specchiarsi negli occhi scuri della madre, pozzi senza fondo in cui non riusciva a leggere una briciola di affetto nei suoi confronti. Eppure le era vicino, lo supportava, era l’unica persona che non lo aveva mai abbandonato. Prima suo padre, poi Violetta. Tutte le persone che amava erano destinate a lasciare un solco profondo di dolore nella sua anima. Senza dire nulla strinse con forza il braccio della madre, appigliandosi a lei come sua ultima speranza. Jade non si sottrasse a quella morsa, ne parve solo stupita e rincuorata allo stesso tempo.
“Permettimi di trovare quei ladri ed ucciderli con le mie stesse mani. Ti riporterò la spada”. La voce di Leon subì una leggera incrinatura. Se si fosse trovato di fronte Violetta come avrebbe reagito? Sarebbe riuscito ad essere spietato anche con lei? Quando Jade gli ripeteva che l’amore era una debolezza aveva ragione, solo ora se ne rendeva conto.
“Non ancora, Leon…non sei abbastanza lucido, sei accecato dall’odio e allo stesso tempo dal desiderio di rivederla. Ma quando sarà il momento, allora si, potrai recuperare la spada, orgoglio del nostro Regno”. Lo sguardo implorante del figlio non la mosse minimamente, anzi la innervosì non poco. In fondo vedeva che Leon non era tornato quello di prima, continuava a tenere accesa dentro di lui una debole fiamma, riflesso di una tenue speranza che ancora albergava nel suo cuore. E per quanto avesse cercato di schiacciarla, soffocarla, reprimerla, era ancora lì, a ricordarle l’infinità di leggerezze commesse da quando Violetta era giunta al castello. Non era però troppo tardi per rimediare, perché sapeva che prima o poi Leon avrebbe ceduto alla cruda realtà dei fatti.
 
Ancora quel sogno. Terribile, crudele proprio come lo ricordava. La spada che trafiggeva il petto del principe, la mano nascosta nell’ombra. Ma questa volta emerse dalle tenebre un viso sottile, sofferente. Il suo viso. La mano che stringeva l’elsa tremava incessantemente. Leon la guardava con odio e disprezzo prima di lasciar cadere la sua arma e accasciarsi a terra. Mi dispiace. Quelle parole si ripetevano come un’eco, perse nella landa desolata dove si trovavano.
Violetta si svegliò di colpo e tastandosi il viso scoprì di aver pianto durante il sonno. Quel sogno era la prova che sempre di più si avvicinava l’epilogo di quella storia, lo scontro che tanto era stato deciso da quel maledetto autore. Però molti tasselli ancora mancavano all’appello, c’erano ancora molte cose che non le erano chiare circa l’esistenza del Paese delle Meraviglie. Alice era la chiave finale per risolvere quel mistero, ma come trovarla? L’idea di Thomas di dirigersi verso l’Isola Riflessa non era affatto sbagliata, sebbene non fosse priva di pericoli. Dopo due giorni di viaggio avevano finalmente raggiunto le rive del fiume Emuif e si erano limitati a seguire il suo percorso fino a che la sera del giorno prima non avevano visto il profilo scuro e misterioso dell’isola tra le acque torbide. Si erano fermati per la notte di comune accordo così da raggiungere la loro meta il giorno dopo.
“Va tutto bene?”. Maxi era piegato con le ginocchia verso di lei e la osservava cupo, mentre gli altri ancora stavano dormendo. Violetta si limitò ad annuire, voltandosi dall’altra parte per non farsi vedere così sconvolta.
“Mentirmi non ti farà stare meglio” disse il ragazzo a bassa voce, rialzandosi in piedi e andando a ispezionare un po’ in giro. Violetta rimase rannicchiata, immobile come una statua. Maxi aveva ragione. Non aveva senso continuare a mentire, come non aveva senso tutto quel viaggio. Aspettò in silenzio che Thomas e Lena si svegliassero, poi fece lo stesso fingendo di aver dormito fino a quel momento.
“Per raggiungere quell’isola ci dovrebbe essere un traghettatore…non dovremmo metterci molto, l’isola si percorre tutta in nemmeno mezzo giornata” disse il Bianconiglio passando ad ognuno una mela raccolta quella mattina stessa.
Thomas aveva ragione: avvolto dalla nebbia c’era un piccolo molo che la sera prima gli era sfuggito. Alcune barche malandate galleggiavano pigramente, sbatacchiando tra loro. Su una di esse, la più grande, c’era un uomo anziano, dai capelli bianchi e sporchi che gli coprivano quasi completamente la fronte. Indossava una vecchia tenuta da pescatore malridotta. Non appena li vide il suo sguardo si illuminò: a quanto pareva non aveva molti clienti.
“Dovete raggiungere l’altra riva?” chiese, scattando in piedi e cercando di far apparire la sua imbarcazione più sicura di quanto non fosse in realtà. Thomas si fece avanti, con qualche moneta, anche se gliene erano rimase ben poche. “Dobbiamo andare all’Isola Riflessa”.
L’uomo tacque e si fece per un momento pensieroso. “Strano. Nessuno vuole mettere piede in quel postaccio. Girano brutte voci in proposito”. Lena subito lanciò un’occhiata supplicante a Violetta, quasi volesse implorarla di rinunciare a quel folle proposito e a continuare il loro viaggio.
“Che voci?” domandò Maxi, incerto.
“Si parla di spiriti…alcuni non sono mai tornati indietro per raccontarlo, altri dicono di aver visto avverarsi i loro peggiori incubi” rispose con voce solenne l’uomo, facendoli rabbrividire.
“Insomma, puoi portarci, si o no?” sbottò Maxi spazientito.
“Certo, finché non devo metterci piede io, va tutto bene” sghignazzò il vecchio, per poi cominciare a fare tutti i preparativi, canticchiando tra sé e sé.
 
Il viaggio non fu per niente lungo, ci misero per lo più un paio d’ore. “Verrò a riprendervi questa sera allora. Sempre che torniate vivi” ghignò il vecchio, prima di rimettersi a remare con vigore e con un’evidente fretta di lasciare quel posto. In effetti l’Isola, immersa in quel silenzio innaturale, avrebbe messo i brividi anche alla persona più coraggiosa del mondo.
“Bene, adesso non possiamo nemmeno tornare indietro” deglutì Lena. Un rumore sinistro proveniente dal profondo dell’isola li fece impallidire.
Con parecchio timore si decisero a inoltrarsi verso l’interno. Alla sabbia della piccola spiaggia venne presto sostituita la ghiaia. Gli alberi alti e spogli sembravano quasi giudicarli e osservarli con sufficienza. Il tutto veniva reso ancora più inquietante dagli infiniti specchi che si trovavano lungo la via, alcuni piccoli e circolari erano addirittura appesi ai rami e agli arbusti.
“Secondo la leggenda fu proprio uno di questi specchi a riportare Alice nel Paese delle Meraviglie” spiegò cautamente Thomas, rivolgendosi a Maxi, che estrasse la spada di Cuori. Il Bianconiglio infatti, dopo la terribile esperienza alle rovine, aveva deciso di non brandirla più per non rischiare così di essere vittima della furia dell’arma. Maxi invece sembrava invece abituato all’interferenza di quegli oggetti magici, forse grazie a tutta la pratica fatta con l’elmo.
Violetta. La ragazza si arrestò nel sentir pronunciare il suo nome. Gli alberi sembravano chiamarla, il vento stesso. Tutto intorno il suo nome si ripeteva in maniera regolare e mentre i suoi compagni continuavano a camminare lei rimase indietro, inoltrandosi nella foresta che si richiuse su di lei come a volerla inghiottire.
Violetta. Violetta. Come se un incantesimo avesse spezzato quel rapimento perpetrato dalla natura, si ritrovò in ginocchio in una radura, circondata da specchi e alberi, spietati alleati in quel luogo dove magia e natura si fondevano. “Violetta”. Ancora una chiamata, ma questa volta reale. Non una voce qualsiasi, la sua voce. Alzò lo sguardo e ciò che vide le fece dimenticare qualsiasi paura. Di fronte a lei Leon la guardava con aria interrogativa, con il capo lievemente piegato e le labbra piegate in un sorriso beffardo.
“Leon! Mi hai trovato!”. Violetta incespicò un po’ prima di rimettersi in piedi e corrergli incontro. Rimase ferma solo a qualche centimetro da lui, per assicurarsi che non fosse tutto frutto della sua mente, ma quel verde vivido pieno di stupore, quell’espressione accigliata, i capelli un po’ arruffati come li aveva impressi nella mente l’ultima volta che aveva potuto sfiorarli. Tutto sapeva di Leon. Un Leon concreto, reale. Le lacrime che iniziarono a scorrerle sul viso lavavano via giorni di dolore e incertezze. Lo strinse in un abbraccio che aveva sognato per tante notti agitate. Con le braccia allacciate al collo, poteva sentire il suo profumo, poteva sfiorare davvero i suoi capelli, lasciandoli scorrere tra le dita. Leon però era rigido, con le braccia lungo i fianchi e un’espressione enigmatica. Se ne accorse non appena sciolse l’abbraccio, ma l’euforia di averlo ritrovato era tanta, troppa. Gli prese il viso tra le mani e lo baciò lentamente, assaporando quel momento, sentendolo scorrere nelle vene come un fluido magico in grado di alleggerire non solo il corpo, ma anche l’anima, tormentata da paure ed angosce che finalmente sembravano essersi dissolte. Leon rimase freddo, insensibile a quel bacio. Poi all’improvviso i suoi occhi si accesero di rabbia e la sua espressione si indurì. La scostò via con rabbia, guardandola con disprezzo.
“Leon?”. Le sembrava così diverso dal ragazzo di cui si era innamorato, quasi una bestia. Vargas non rispose, sguainò solamente la spada. Violetta si riscosse da quel sogno durato fin troppo poco e pian piano la radura circostante tornò a circondarla. I rami si contorcevano in un ghigno malefico, come se stessero ridendo di lei, del suo essersi illusa così tanto.
 
Maxi correva, fuggendo dallo spettro che lo inseguiva spietato. Non era possibile, come poteva aver raggiunto quell’isola maledetta? Aveva perso di vista Lena e Thomas, che si erano ritrovati atterriti quanto lui di fronte alla comparsa di tre figure avvolte dalla nebbia: un uomo con grandi orecchie da coniglio, che Thomas con un filo di voce aveva chiamato padre, un altro che indossava una divisa militare, alla cui vista Lena era scoppiata piangere improvvisamente, e poi lei. Lei che aveva popolato i suoi incubi era tornata. Per quale motivo? Voleva ricordargli quanto fosse stato un pessimo figlio? Voleva forse raccontargli ogni dettaglio dello straziante dolore che l’aveva condotta alla morte?
“Maxi”. La spettro si parò davanti e Maxi capì che era inutile fuggire: l’avrebbe sempre trovato. Ero uno spettro che si era sempre portato dentro e che adesso aveva trovato il modo di uscire allo scoperto.
“Cosa vuoi?” chiese con le lacrime agli occhi, abbassando repentinamente lo sguardo.
“Come hai potuto lasciarmi? Come hai potuto dimenticarti di me e del mio desiderio di essere vendicata?”. Il fantasma emetteva continuamente rantoli. Accadde in un attimo: la figura si sciolse in una pozza cristallina di un argento che sembrava avere vita propria, quindi si solidificò nuovamente, mostrando questa volta una ragazza dai capelli castani dorati e un’aura di odio tutto intorno a lei.
“Sei un codardo? Come credi che potrei amarti?”. Violetta gli rivolgeva quelle parole di accusa. Maxi si rese conto allora che quella era solo un’illusione, un malvagio sortilegio che rappresentava la paura di essere odiati dalle persone amate. “Capito? SEI SOLO UN PATETICO CODARDO!”. Quell’urlo gli fece accapponare la pelle: non aveva mai visto Violetta tanto furiosa con lui, tanto frustrata. La ragazza raccolse un frammento comparso per terra dal nulla, una scheggia di vetro trasparente, e la puntò minacciosamente contro di lui.
“Sai che c’è, Maxi? Che non ti amo e non ti amerò mai, non mi innamorerei di uno squallido essere come te” osservò freddamente la ragazza, osservando compiaciuta l’arma che teneva in mano. Maxi non sapeva cosa fare: anche se quella creatura non poteva essere Violetta, non riusciva a non sentirsi debole e impotente di fronte a lei. I suoi occhi risplendevano gelidi come diamanti purissimi, la sua pelle candida sembrava aver assorbito la luce del sole, brillando diafana.
“T-tu non vuoi uccidermi” balbettò Maxi, arretrando fino a finire contro il tronco di un albero. Violetta scoppiò a ridere, quindi tornò seria in un istante: le emozioni si alternavano al suo interno come fiammate improvvise.
Al fianco della ragazza ricomparve lo spettro della madre, che osservava la scena con distacco. Si rivolse poi a Violetta, ignorando completamente che il figlio fosse in pericolo di vita: “Riportalo da me”. Come obbedendo ad un ordine Violetta sollevò il frammento appuntito verso l’alto a rallentatore.
“Non potete…” mormorò Maxi, afferrando nervosamente l’elsa della spada. Sarebbe riuscito ad estrarla in tempo e a colpire chi aveva davanti? Non ne era sicuro, la paura era troppa, il senso di fallimento enorme, che si apriva ai suoi piedi come una voragine. Davvero aveva deluso sua madre? E Violetta…era così indegno del suo amore? Scosse la testa e si specchiò negli occhi della madre, occhi spiritici e folli. Con un urlo di incoraggiamento estrasse la spada in un attimo e trafisse Violetta. Il suo corpo però non perse sangue, numerose crepe invece si inseguirono sulla sua pelle, raggiungendo il viso dall’espressione inorridita. Frammenti di vetro esplosero come una mina, rischiando di accecarlo o di conficcarsi nella sua carne. Come aveva pensato si trattava solo di un’illusione, creata da qualche specchio stregato di quell’isola. E lo stesso valeva per sua madre. Bastò uno sguardo sicuro per far sparire lo spirito della madre che si dissolse in una polvere argentata. Maxi si ritrovò solo lungo il viale che attraversava la foresta, respirando a fatica dopo tutto quello che aveva dovuto attraversare. Ce l’aveva fatta, aveva sconfitto la sua paura. Poi come un lampo si ricordò degli altri: doveva avvisarli prima che fosse troppo tardi e che per qualcuno di loro l’isola diventasse la sua tomba.
 
Mille frammenti argentati lo investirono di colpo. Thomas portò istintivamente il braccio in avanti per proteggersi da quella scarica. Del padre non era rimasto che una pioggia di cristalli. Delle sue accuse false e risentite solo l’eco lontano.
Hai pensato solo a te stesso, avresti potuto salvarmi. Avresti dovuto sacrificarti. Ma Thomas non ci aveva messo molto a capire che si trattasse di una malefica illusione: suo padre non gli avrebbe mai parlato in quel modo, non era nel suo carattere; andava contro tutto ciò che gli aveva insegnato sul comportarsi in modo onesto e altruista. Quella notte, mentre la carrozza si allontanava dalla casa in fiamme, aveva pensato che non si sarebbe mai potuto perdonare per il suo gesto egoista, però era anche sicuro che suo padre, se avesse saputo che cosa sarebbe successo, avrebbe fatto di tutto per salvarlo. Gli avrebbe consegnato quell’orologio dorato, che aveva trafugato nella notte, perché portasse avanti il nome della famiglia. Contemplò quello spettacolo in ossequioso silenzio: tutto intorno a lui si dipingeva di argento. Ma rapidamente si rese conto che per allontanarsi dal passato aveva perso di vista i suoi compagni. Come avrebbe potuto ritrovarli? Il sole splendeva alto sopra di lui, segno che erano a metà giornata. Al tramonto il traghettatore sarebbe venuto a riprenderli e a giudicare del tipo non avrebbe badato a quanti si sarebbero presentati pur di lasciare in fretta quel posto. Corse più che poteva, schivando gli ostacoli che la natura gli metteva davanti. Era strano sentirsi così coraggiosi e sapere che non era dovuto all’influenza di un oggetto magico. Perché era stato in grado di affrontare i suoi fantasmi senza l’aiuto o le parole di incoraggiamento di nessuno. Aveva letto la falsità negli occhi di chi aveva voluto farsi passare per suo padre. Un urlo proveniente dalla direzione opposta da lui presa lo fece fermare. Poteva riconoscere la voce di Lena. Senza perdere tempo si voltò dall’altra parte, facendo partire una vera e propria corsa contro il tempo. Doveva riuscirci, doveva salvarla.
Gli arbusti sembravano volerlo rallentare ma Thomas riuscì a uscire da quell’intricata prigione, ritrovandosi nuovamente lungo la sottile fascia di sabbia che circondava l’isola. Le onde si infrangevano regolarmente contro la costa e con i piedi immersi fino alle caviglie nell’acqua scura, Lena si guardava alle spalle, tentando invano di arretrare. Di fronte a lei un uomo dall’aspetto evanescente. Thomas lo aveva riconosciuto subito: prima di scappare, inseguito dal fantasma del padre, era comparso anche quell’uomo, vestito come un soldato e alla sua vista la ragazza era scoppiata a piangere. I solchi delle lacrime ancora erano visibili sulle sue guance, ma non c’era traccia di tristezza sul suo volto, solo di un muto e inspiegabile terrore. Non appena vide Thomas, Lena fece per cercare di raggiungerlo ma lo spirito si mise in mezzo minaccioso.
“E’ così che ripaghi la mia morte? Fuggendo e rischiando la vita insieme a questa gente? Ho dato la vita per fare in modo che tu rimanessi al sicuro, Lena”. La voce grave e tonante dello spirito risuonò per la spiaggia, rotta unicamente dall’implacabile infrangersi delle onde. Lena arretrò di un altro passo, facendo in modo che ora l’acqua le cingesse la vita.
“Padre, io…non ero felice” disse con appena un filo di voce, tacendo subito di colpo.
“Felice? Pensi che io sia stato felice di partire per la guerra? Sei una sciocca ragazzina che sa pensare solo a se stessa!”. Lena tacque di fronte a quella verità che tante volte aveva tentato di mascherare. Si prese il viso tra le mani, singhiozzando. Suo padre aveva ragione. Lei stava rischiando la vita quando lui avrebbe voluto vederla al sicuro. Teneva a lei più che alla sua stessa vita. Non meritava nulla, aveva disprezzato quella che riteneva una prigionia, senza sapere che per la gente là fuori, sul fronte, la sua condizione poteva essere considerata una salvezza. Aveva dimenticato l’amore di un padre. Intorno a lei emersero dall’acqua enormi spuntoni di vetro, che la intrappolarono come in una gabbia, mentre l’acqua saliva rapidamente di livello.
“Meriti di morire in questo posto, guardando negli occhi il padre che ti ha amato” disse il fantasma.
“Lena, non ascoltarlo!”. Thomas fece per raggiungerla, ma era come se una forza lo stesse trattenendo. Era impotente di fronte alla fine dell’amica. Urlò di rabbia, cadendo a terra per la frustrazione e affondando le mani nella sabbia. Doveva salvarla, Lena era una delle poche persone che avevano creduto in lui, glielo doveva. “Non è veramente tuo padre, non cercherebbe mai di farti morire, lui voleva sempre e solo proteggerti! Così come voglio farlo io ora” gridò, combattendo contro il vento, contro la debolezza, contro tutto.
L’acqua aveva raggiunto il mento di Lena, ma neppure il freddo gelido che lentamente quasi la assiderava le impedì di ascoltare quelle parole e di trarne la forza necessaria. Thomas era un vero amico, qualcuno di cui potersi fidare, qualcuno che in quel momento le stava assicurando protezione. Quella stessa protezione che le mura del castello di Cuori le avevano promesso. Ma l’estrema fiducia nei confronti del Bianconiglio le diceva che forse quella promessa era anche meglio.
“Vedi, papà? Sono in buone mani, non sono sola!” ebbe la forza di ribattere sputando l’acqua dolciastra che ormai le raggiungeva la bocca, invadendola. La figura del padre tremolò appena e Lena capì che Thomas aveva ragione: suo padre non avrebbe mai permesso che questo accadesse. Non la avrebbe mai lasciata a morire in un posto del genere. Non l’avrebbe mai lasciata a basta. Le lacrime si mischiarono all’acqua scura, come se la sua intenzione fosse quella di purificarla. La gabbia si ritrasse e con essa il livello dell’acqua. Ma la figura del padre non era scomparsa, era ancora lì, minacciosa. Bastò uno sguardo colmo di dolore e determinazione a smorzare i contorni del suo profilo, fino a renderlo una massa grigiastra e indistinta che si disperse, trascinata dal vento e dalle acque.
Thomas recuperò la capacità di muoversi e tempestivamente scattò in piedi, correndo verso Lena, e la raggiunse tra la schiuma bianca e argentata, senza curarsi del freddo che tormentava il suo corpo.
“Ce l’hai fatta!” esclamò, senza riuscire ad evitare di sorridere, sebbene la situazione non lo suggerisse affatto.
Lena si asciugò l’ultima lacrima, cominciando a tremare sia per il gelo che per le forti emozioni a cui era andata incontro. Senza pensarci due volte si lanciò tra le braccia del Bianconiglio, ritrovando un po’ di serenità. Rimasero così, in silenzio, nella speranza che Maxi e Violetta fossero stati fortunati quanto loro.
 
“Leon, che ti succede?”. La disperazione in quelle parole era tangibile, così come quella nei suoi occhi. Che cosa era successo al suo Leon? Perché la respingeva in quel modo, trattandola addirittura come un nemico?
Vargas non distolse lo sguardo neppure per un secondo da lei e si sentì come una preda di fronte al suo cacciatore. Ma Leon non le avrebbe mai potuto fare del male, di quello ne era convinta.
“Hai infranto la nostra promessa” sibilò il ragazzo a denti stretti.
“Ho dovuto farlo…”. “SILENZIO!”. Leon era davvero alterato, non l’aveva mai visto così furioso in tutta la sua vita. “Non me ne faccio nulla delle tue ridicole scuse” esclamò risentito per poi sputare a terra disgustato. Fece passare un dito sulla lama della spada, come per accertarsi che fosse abbastanza affilata e sorrise bieco.
“Quando avevi intenzione di dirmelo?”. Il suo sorriso spavaldo si affievolì, lasciando il posto a una rabbia controllata e fredda. “Quando avevi intenzione di dirmi che tutto ciò che mi avevi promesso erano una sporca menzogna? Quando mi avresti detto che non appartieni a questo mondo e che per questo lo lascerai?”. Violetta sgranò gli occhi sconvolta: come lo aveva scoperto? Non aveva idea di chi potesse essere stato a parlare, tutti coloro che lo sapevano erano lì con lei. Eppure Leon adesso ne era a conoscenza. Il peso di avergli mentito ingiustamente si affievolì ma un ben più pesante macigno prese il suo posto: la consapevolezza che Leon la odiasse, che la considerasse una traditrice.
“Avevi promesso che non mi avresti mai abbandonato. Erano solo parole per te?”.
“No, che non lo sono. Leon, io ti amo, lo sai bene”. Violetta aveva ritrovato un po’ di determinazione, sebbene dentro si sentisse morire.
 “Amore è fiducia, Violetta. E io nei tuoi confronti non provo altro che odio, perché è tutto ciò che mi è rimasto”. Violetta si lasciò cadere sulle ginocchia, annientata dalle parole di Vargas. Perché sapeva di meritare quel disprezzo: aveva alimentato un’illusione, un amore che non poteva avere un lieto fine. E proprio come di fronte ad una decapitazione sentì incombere su di lei la vendetta di Leon. Non aveva forze per scappare, per cercare di difendersi, per implorarlo. Nulla sarebbe servito a restituire ciò che aveva ormai perso per sempre. La lama si sollevò in aria descrivendo un cerchio perfetto, pronta ad abbattersi su di lei. Chiuse gli occhi, concedendosi quel breve attimo per assaporare il buio che presto l’avrebbe inghiottita del tutto. Ma il colpo non arrivò. Quando riaprì gli occhi vide Maxi che si opponeva con la spada di Cuori al principe. Leon lo squadrava con sincera sorpresa, mentre Maxi non riusciva a credere al significato della presenza del principe in quell’isola. I due separarono le spade arretrando con un balzo, per poi cominciare a studiarsi.
“Violetta, qualsiasi cosa ti abbia detto o fatto è solo un riflesso generato da uno degli specchi di quest’isola”.
“Stupidaggini” ribatté Leon con sicurezza. “Altrimenti potrei fare questo?”. Si lanciò come una furia sul suo avversario sopraffacendolo con fendenti sempre più precisi e letali. A nulla valse l’enorme potere della spada che scorreva nel braccio di Maxi che disperatamente tentava di tenergli testa.
“Lascialo stare, Leon!”. Violetta si alzò in piedi e corse verso Leon, ma lui le diede una gomitata respingendola indietro e facendola cadere.
“Non ti immischiare, stupida ragazzina”. Quello non poteva essere Leon. Semplicemente non poteva. Non l’avrebbe mai trattata in quel modo. Si sfiorò appena il labbro sanguinante provocato dal brusco colpo, e rimase inerte ad osservare quello scontro.
Leon stava avendo la meglio. In poco tempo finì quasi per disarmarlo e con un colpo bene assestato con l’elsa lo colpì allo sterno. Maxi annaspò arretrando ma andò a sbattere contro il tronco di uno quegli alberi spogli che circondavano la radura. “Leon…”. La voce supplichevole di Violetta che chiamava il suo nemico e una sola domanda nella testa: perché? Perché cercava di fermare Leon, facendo appello a una parte buona che lui sapeva non esistere? Gli sembrò tutto chiaro: Violetta lo amava. Lo amava di un amore che a lui non avrebbe mai riservato. Ecco perché l’aveva respinto, era innamorata di quel mostro. Quell’amara consapevolezza lo rodeva dentro perfino in punto di morte. Non riusciva a tollerare il disgustoso sorrisetto che Leon gli rivolgeva.
“T-ti prego, non farlo”. Violetta sfiorava la spalla del principe, che tuttavia rimase impassibile a quella richiesta accorata.
“Ti riesce così difficile capire che per voi due è finita? Nulla mia farà cambiare idea”. Violetta non seppe che fare. Maxi era spacciato e subito dopo sarebbe toccato a lei. Leon si stava prendendo tutto il tempo del mondo, godendosi il terrore nei loro occhi.
“Non è chi credi!” provò a dire Maxi. Violetta fu disposta a credergli. Proprio prima che Leon sferrasse il colpo, velocemente si diresse verso lo specchio affianco all’albero dove era stato intrappolato Maxi e raccogliendo un sasso lo ruppe. Quindi raccolse uno dei frammenti più grossi e acuminati. Non sapeva se ne sarebbe stata in grado, il cuore le martellava nel petto, ma era sicura che quello non potesse essere Leon. Lo sapeva e basta. Si slanciò verso di lui e prima che se ne rendesse conto gli piantò il frammento nel petto. Vargas emise appena un verso di stupore e si sgretolò come fosse fatto di sabbia argentata.
Nonostante avesse sconfitto quell’illusione qualcosa continuava a turbarla. Era come se quell’incontro fosse per lei un avvertimento. Si convinse che era solo una sua impressione senza alcun motivo di essere, quindi si rivolse a Maxi, ma il suo sguardo era fuggente, non riusciva a guardarla negli occhi. 
“Maxi, dovremmo parlare di quello che hai visto…io…”. Non era facile spiegargli come fosse potuto accadere che si innamorasse di Leon, nemmeno lei era in grado di dirlo a parole.
“Andiamo, non c’è nulla da spiegare”. Maxi la riportò alla realtà con tono crudo e amareggiato e non poté far altro che seguirlo per evitare di perdersi nuovamente in quell’isola che non vedeva l’ora di lasciare.
 







NOTA AUTORE: Capitolo parecchio avventuroso questo, e anche pieno di colpi di scena :3 Prima abbiamo Leon che tratta male Lara e la caccia via *seguono delle ole di gioia*, anche se- Jade ce l'ha fatta, è riuscita a circuire il povero Leon, che adesso è pronto a ritornare a combattere :( Povero Leon, le sue scene sono sempre tristissime ç.ç E infine ci troviamo in questa misteriosa isola tutt'altro che pacifica...chissà che Thomas non abbia preso un granchio quando pensava di trovare qualche indizio in quel posto xD Fatto sta che ognuno di loro si ritrova ad affrontare un'illusione: dei riflessi creati dagli specchi dell'isola che rappresentano la persona che più amano, però deformata, ossia piena di odio nei loro confronti. Ognuno di loro affronta perciò una paura che si era sempre portato dentro: Lena pensa di aver mandato all'aria i sacrifici del padre con quella fuga, Thomas invece rivive l'egoismo di quella scelta fatta tanto tempo fa. Maxi affronta la madre e una Violetta alquanto inquietante (O.O), mentre Violetta si ritrova con Leon...e qui partono i peggio pianti ç.ç Vabbè, in realtà si tratta solo di un riflesso, ma noi sappiamo che purtroppo la realtà non è troppo diversa, proprio come lo avverte Violetta dopo lo scontro...insomma, in questo capitolo abbiamo avuto modo di conoscere un po' meglio i nostri protagonisti, alle prese con paure che a noi non erano state mostrate, ma che in quell'isola sono diventate realtà :3 Grazie a tutti voi che seguite/recensite/leggete questa storia un po' strana e diversa da quelle che si leggono generalmente nel fandom xD Vi auguro buona lettura di cuore :3 Alla prossima! :3
syontai :3

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Capitolo 61
*** Un salvataggio all'ultimo incantesimo ***


Capitolo 61
Un salvataggio all’ultimo incantesimo

Leon prese la mano di Violetta conducendola lontano da occhi indiscreti. Non aveva voglia di condividerla con nessuno, approfittava avidamente di ogni momento che poteva trascorrere con lei. Solo con lei. La sentì ridacchiare, come se lo stesse schernendo per l’impazienza che stava dimostrando in quel momento. E difatti essa prese il sopravvento, tanto che non appena svoltato l’angolo, sicuro che quell’ala del castello fosse poco frequentata, intrappolò rapidamente la ragazza tra le sua braccia, facendola arretrare per quanto fosse possibile. Quando la schiena di Violetta aderì perfettamente alla parete Leon si gustò quell’attimo di trionfo nell’averla lì, tra le sue braccia. In quel momento non poteva desiderare nient’altro. Gli occhi di Violetta, intrappolati, così come il resto del corpo, dalle sue iridi smeraldo, che indugiavano su ogni tratto del suo viso, in particolare sulle sue labbra e su quel timido sorriso che le rendeva ancora più irresistibili. Si arrese quasi subito e accostò la fronte alla sua, chiudendo gli occhi e godendosi appieno ogni sensazione, prima di sfiorare le sue labbra. Erano calde. Calde, delicate, morbide. Affondò la lingua tra di esse, lasciò che la sua bocca ne reclamasse il possesso, mentre le mani di Violetta risalivano lentamente accarezzandogli le braccia, per poi fermarsi esitanti sulle sue spalle. Leon rabbrividì al contatto delle dita con il collo, un brivido di piacere che lo travolse, interrompendo ogni contatto con il cervello. La strinse a sé con più forza e la sentì gemere tra le sue labbra. Si separò continuando però a lasciarle dei piccoli baci. Come dirle che in quel momento avrebbe voluto fare l’amore con lei più di ogni altra cosa? La desiderava, anima e corpo. Ma era quest’ultimo a manifestare gli effetti di un desiderio tanto forte. Violetta sorrise, le mani che scivolavano lascive sul petto, per poi fare leva su di esso allontanandolo di poco. Una distanza che gli risultava insopportabile. Violetta non disse nulla, si limitò a sorridere, quindi gli prese la mano, conducendolo per il corridoio. Prima camminava lentamente, poi aumentò il ritmo fino a correre. Leon si ritrovò a correre insieme a lei, cercando di capire il motivo di tanta fretta, ma soprattutto dove volesse portarlo. La stretta si fece più debole, il principe si rese conto che non riusciva a stargli dietro, era troppo veloce. Ma non voleva lasciarla. Svoltarono a destra e la mano di Violetta abbandonò la sua in un gesto che nella sua mente si ripeteva al rallentatore, ma che sapeva essere durato un attimo appena. Poi si ritrovò da solo. Davanti a lui non c’era nessuno.
“Violetta! Violetta!”. L’eco della sua stessa voce era tutto ciò che animava l’ambiente. Violetta se ne era andata, l’aveva abbandonato. E sentiva ancora il sapore del suo dolce bacio. Sentiva tutto in modo così vivido che lo stupore iniziale venne amplificato, trasformandosi in paura, in dolore. Si lasciò cadere sulle ginocchia, con la testa tra le mani, mentre la pareti continuavano ad echeggiare il nome della ragazza che gli aveva fatto toccare con mano la felicità più pura, per poi negargliela come l’essere più crudele.
Leon si svegliò, con il cuore in subbuglio, completamente cosciente. Ricordava tutti i dettagli di quel sogno, da quelli più dolci a quelli più dolorosi. Si rigirò tra le coperte, che come macigni sembravano intrappolarlo. Sbuffò e chiuse gli occhi, sperando così di prendere nuovamente sonno, ma non appena lo fece subito le immagini di quel bacio, di quella corsa disperata, di quel senso di abbandono totale tornarono a fargli visita. Non poteva pensare al suo sorriso che provava un dolore pari a quello di centinaia di pugnali conficcati nel petto. Si mise seduto di scatto, guardandosi intorno disperato, con quell’assurda speranza di vederla lì, in piedi nella sua stanza, che tornava da lui, al sicuro tra le sue braccia. Non poteva continuare con quell’illusione, non poteva vivere in quello stato. Non riusciva a dimenticarla, quello ormai gli era chiaro. L’amore che provava nei suoi confronti era troppo forte, troppo autentico. Ma allo stesso tempo sentiva di odiarla per come si era presa gioco di lui. L’amore non era solo una debolezza, era anche una punizione infernale. Quel supplizio non avrebbe avuto fine, a meno che…c’era qualcosa che avrebbe potuto cancellare tutto. Si, la morte di Violetta avrebbe potuto aiutarlo a liberarsi di quella maledizione. In quell’assurdità Leon vedeva la luce flebile di una speranza. La speranza di poter tornare la persona di un tempo, senza scrupoli, senza cuore. Violetta però non doveva solamente morire. Avrebbe dovuto ucciderla con le sue stesse mani per provare a se stesso che ormai più nulla lo legava a quella ragazza. Nulla che non potesse essere spezzato.
 
Più salivano più Francesca perdeva la cognizione del tempo. I piani si succedevano all’infinito e come sempre su ognuno di essi c’era un custode ad aspettarlo. Tra Federico ferito, la vecchia tartaruga stanca e Marcela altrettanto sfinita erano costretti a fare molte pause per riprendere le forze. Ma Francesca non riusciva a stare ferma senza fare nulla, non dopo aver visto ciò che stavano facendo a Dj. Ogni minuto poteva essere quello fatale e il solo pensiero la terrorizzava. Sperava che la magia del mago la potesse guidare, ma la scia che aveva deciso di seguire alla cieca continuava a salire verso l’alto, in una spirale che però sembrava non avere fine.
“Una cosa non capisco” disse ad un tratto Federico, sorprendendo tutti, visto che in quegli ultimi tempi era stato stranamente taciturno. “Se ci stiamo avvicinando all’uscita perché il numero di guardie non è aumentato? Continua ad esserci un’armatura incantata per piano, ma come siamo riusciti a fare fuori le altre perché non dovremmo riuscirci con queste?”. Marcela e Tartalenta annuirono, ma Francesca si irritò di fronte a quell’osservazione: che cosa intendeva dire, che non aveva fatto abbastanza? Che gli aveva fatto perdere solo tempo?
“E magari sai anche darci una spiegazione per tutto questo!” sbottò innervosita. Federico sgranò gli occhi di fronte al tono che aveva usato, decisamente aggressivo nei suoi confronti, e provò a rimettersi in piedi, ricadendo a terra con un gemito. Sospirò, convinto che non si sarebbe mai abituato a non avere più la stessa autonomia di un tempo.
“No che non ce l’ho, volevo solo dire che era una cosa strana, tutto qui”. Nonostante la calma infusa in quelle parole, Francesca non si tranquillizzò affatto. “Allora la prossima volta, tieniti per te le tue osservazioni, a meno che non siano fondate. Riprendiamo” disse, voltandosi dall’altra parte di scatto. Forse aveva esagerato. Si, aveva decisamente esagerato, ma non poteva evitare di avercela con lui. Mentre lei cercava in tutti i modi di salvare Dj Federico aveva solo da ridire sul modo in cui li stava guidando.
“Regina”. Francesca ebbe un fremito non appena si sentì chiamare con quell’appellativo; erano ormai lontani i tempi in cui indossava la corona ed era a capo del Regno di Fiori. Subito le venne in mente il colpo di stato attuato da Natalia e il finto tradimento di Federico: ecco un’altra cosa che ancora non riusciva a perdonargli del tutto. In un certo senso l’aveva usata e sebbene sapesse che l’aveva fatto solo per non destare sospetti e servire Re Pablo, si chiese con quale coraggio l’aveva fatta rinchiudere in una cella se l’amava come aveva fatto intendere con quel bacio al chiaro di luna. La voce che l’aveva chiamata era di Marcela, che si era affiancata a lei. Le sorrise stancamente prima di puntare l’attenzione sulla lunga scalinata che li attendeva. “So che la mia opinione non conta molto…” esordì timidamente la donna, abbassando lo sguardo in modo reverenziale.
“Invece è essenziale che ognuno faccia la sua parte…sentirò volentieri ciò che hai da dirmi” la interruppe subito Francesca, posandole una mano sul braccio per farle forza.
“Mi sembra di aver capito che oltre che fuggire stiamo cercando di salvare un vostro amico. Ecco, credo che sia normale avere paura di non farcela, di arrivare troppo tardi. Però quella paura non deve allontanarci dalla ragione”.
“Se ti riferisci a quello che è successo prima, io…”. Francesca tentennò, improvvisamente in imbarazzo.
“Federico mi sembra una persona leale, sincera, coraggiosa. Chiunque vorrebbe avere una persona come lui al suo fianco” continuò sicura Marcela, per niente sorpresa del lieve rossore che aveva suscitato sulle guance della regina. Ma Francesca non rispose, si limitò a scrollare appena le spalle e a procedere. La scia di luce deviò improvvisamente, e invece di andare verso la solita scalinata, si fermò sul bordo della passerella prima di gettarsi nel vuoto. Francesca si fermò sconvolta e confusa allo stesso tempo. Avevano fatto tutta quella fatica per salire e adesso le indicava tutt’altra direzione? Si affacciò e riuscì a distinguere la scia che scendeva dritta fino a interrompersi ad un punto indefinito in basso.
“Che cosa succede?” chiese Federico, appollaiato al guscio robusto della tartaruga, che si mostrò altrettanto preoccupata nel vedere la loro guida lì, ferma, con lo sguardo perso nel vuoto.
“Non capisco…” mormorò confusa.
“Da che parte dobbiamo andare?” la interrogò nuovamente il ragazzo. Seguì a rallentatore la mano di Francesca che si sollevava per poi indicare il basso.
“D-dobbiamo saltare, almeno credo”. Tutti rimasero in silenzio, nessuno osava proferire parola. Marcela si affacciò per vedere quanto fosse profondo, ma come prima non si riusciva a distinguere il fondo, solo un’infinità di scale e pianerottoli che costellavano la parete circolare, come una spirale.
“Che aspettiamo? Saltiamo, no?”. Era stato proprio Federico a parlare, ostentando un sorriso spavaldo, mentre la gamba sana tremava al solo pensiero.
“Non hai paura?” chiese Francesca, sconvolta.
“Non immagini quanta” sorrise il conte Acosta, zoppicando fino a lei. Le strinse la mano e Francesca si sentì infondere di una strana forza. Tutto il malumore che li aveva accompagnati nelle ultime ore sembrava misteriosamente svanito: c’erano solo lei, Federico e la sicurezza che le trasmetteva anche solo con quel piccolo gesto. “Ma mi fido di te” sussurrò il ragazzo, guardandola teneramente. Tartalenta e Marcela erano rimasti ad osservarli, per nulla convinti.
“Dovete fidarvi” gli disse Federico, cercando di essere il più convincente possibile. Tese la mano libera, e sebbene non se l’aspettasse fu proprio Tartalenta ad afferrarla porgendogli la sua zampa rugosa. Marcela fece un passo indietro, dubbiosa.
“Non possiamo lasciarti qui, lo sai” spiegò Francesca, supplicandola con lo sguardo. La donna era terrorizzata e sapeva bene quanto la paura potesse minare la lucidità di una persona. A lei era successo spesso in quella cella, quando era stata imprigionata.
“Andatevene invece! Perché io non ho intenzione di saltare” esclamò decisa Marcela. “Preferisco essere abbandonata…non ho più nulla. Probabilmente il mio Matias non ci sarà ad aspettarmi”.
Matias…come mai quel nome non le era nuovo? Ma certo! Il furfante che insieme ad Esmeralda aveva provato a truffarli durante il loro viaggio per raggiungere il Palazzo di Cuori.
“Io ho incontrato a Matias, e non è vero quello che dici. Lui ti sta cercando senza sosta. Io so che c’è un’uscita. Mi fido del Mana che porto dentro di me, come mi fido di Dj. Sono sicura che in qualche modo lui ci stia guidando. Ma non posso abbandonarti, non sono disposta a lasciare nessuno”.
“Nemmeno una come me? Io sono solo una donna come tante altre…non sono speciale, non ti potrei aiutare ad ottenere ciò che cerchi” ribatté Marcela, cercando di continuare a mostrarsi fredda, sebbene il suo sguardo già lasciava intendere segni di cedimento. 
“Nessuno” ripeté Francesca convinta. “Ti condurrò dalla persona che ami, se me lo permetterai”.
“Solo ad una condizione” disse la donna, stavolta con un sorriso furbo che le increspava le labbra. Le si avvicinò all’orecchio, sussurrando qualcosa. Francesca sgranò gli occhi per un istante e sembrava le fosse stato chiesto qualcosa di folle, addirittura più folle che lanciarsi nel vuoto senza sapere se ad attenderli c’era la morte o la salvezza.
“Come ti viene in mente di chiedere una cosa del genere?” sbottò la regina esasperata.
“Abbiamo un patto?” sorrise Marcela. Francesca annuì appena, quindi tornò a fissare sotto di sé. Il buio completo. Ecco a cosa stavano andando incontro. Ognuno strinse la mano del compagno vicino e insieme si sentirono più uniti, traendo da quell’unione il coraggio necessario per fare un passo avanti. Francesca alzò il piede all’unisono con gli altri, e prima di lasciarlo cadere nel vuoto rivolse un’ultima occhiata a Federico, completamente assorto in quello che stava facendo, con una goccia di sudore che gli imperlava la fronte. Prima che potesse richiamare la sua attenzione, si trovava già nel mezzo di quella caduta spericolata senza fine.
E davvero sembrava non avere mai fine. L’aria fredda e umida le sferzava il viso, sollevandogli i capelli, tutto intorno a lei vorticava paurosamente. Per un secondo ebbe paura che Marcela lasciasse la presa, ma al contrario essa era ancora più salda. Si sforzò di non urlare, sebbene il panico richiedesse quella valvola di sfogo, e attese pazientemente che quella tortura avesse fine. Non morire, non morire, tutto ma non morire…questo si ripeteva, nella speranza che la sua storia non finisse effettivamente con quell’atto di follia. Tenne gli occhi chiusi, ripetendo quella muta preghiera fino a che le parole non presero a ripetersi al di fuori del suo controllo.
Il mondo si capovolse all’improvviso. Sentiva il brivido delle vertigini, ma allo stesso tempo il sollievo di sentire i piedi poggiare su qualcosa di solido. Non aveva importanza di che si trattasse, l’importante era avere un supporto. Quando aprì gli occhi essi erano puntati sul soffitto sotto di lei. O sopra di lei? Era tutto sottosopra. Passò qualche secondo prima che intorno a lei la stanza ruotasse, facendole sentire finalmente il piacere di essere sottoposti alla forza di gravità. Il pavimento su cui poggiavano era pieno di specchi poggiati a terra. Quello su cui si trovavano loro rifletteva al suo interno esattamente il punto da cui si erano lanciati, visto dal basso. Federico mosse un piede in avanti e si guardò intorno, per poi specchiarsi su uno specchio vicino: un altro corridoio della prigione, non troppo differente da quelli che avevano visitato, ma perfino più oscuro.
“Una prigione dentro lo specchio” mormorò piano, chinandosi e passando un dito sulla superficie trasparente sotto i suoi occhi. Essa si increspò appena, per poi tornare all’aspetto originario.
“E a cosa servirebbe?” chiese Marcela, che era rimasta sconvolta da quella rivelazione: tutto quel tempo era rimasta intrappolata dentro lo specchio. Ecco perché non ricordava assolutamente nulla di come fosse finita in quel posto. Quando Federico e Francesca le avevano chiesto di una possibile uscita infatti, le era venuto un immenso vuoto nella testa.
“Penso siano varchi…sono l’unico modo per entrare e uscire dalla prigione, e ognuno di essi ha la sua copia dentro la torre, in chissà quali posti. Noi ne abbiamo attraversato uno ed eccoci qui”.
Francesca aveva prestato attenzione solo fino a metà del discorso, perché un dubbio ben più atroce la stava attanagliando: e se Dj fosse in una stanza di quella prigione infinita? Però la luce l’aveva condotta fuori, quindi questo doveva voler dire che Dj non era intrappolato in quegli specchi.
“Specchi usati come varchi…mi chiedo come Ludmilla ci sia riuscita. Che io sappia l’unico specchio in grado di far viaggiare tra diverse dimensioni venne usato da Alice per tornare nel Paese delle Meraviglie, ma non venne mai ritrovato” proseguì Federico, affascinato e allo stesso tempo spaventato dalla portata di quella scoperta. “Fino a che punto sarà arrivata la magia in possesso della regina di Quadri?” sussurrò tra sé e sé.
“L'uscita!” esclamò Francesca d’un tratto, indicando la porta blindata in fondo alla stanza. Il gruppo si avvicinò alla porta, piena di lucchetti, mandate e catenacci. Federico tese l’orecchio, ma la superficie era troppo spessa, quindi non si riusciva a distinguere alcun rumore. Rivolse un’occhiata delusa a Francesca: “Non ho idea di cosa potrebbe aspettarci lì fuori”.
“Dovremmo prima pensare a come uscire” disse Marcela, ottenendo un cenno di assenso di Tartalenta.
“Questo non è un problema” sorrise tristemente Francesca, facendogli cenno di allontanarsi. Federico però non mosse un passo indietro. La fissava intensamente, con un’espressione seria e tesa.
“Non voglio che tu ricorra al Mana se non è necessario” esclamò.
“Finché non avremo Dj con noi sono l’unica in grado di usare la magia; e per quanto possa farmi male e possa essere imprevedibile sono disposta a provarci. Ho fatto una promessa”. Guardò per un attimo Marcela che sorrise speranzosa. Fu proprio quel sorriso e far nascere dentro di lei una determinazione ancora più forte: voleva salvare il suo amico, voleva che quella povera donna, intrappolata in quella terribile prigione senza via di uscita, potesse essere felice al fianco dell’uomo che amava. Era il suo orgoglio di regina, il suo istintivo desiderio di proteggere tutti, di fare per loro il meglio possibile, a permetterle di non curarsi del dolore che il Mana le procurava scorrendo nel suo sangue, appropriandosi della sua anima per divorarla. Quando sollevò la mano essa risplendeva della sua tipica luce bianca. Non si sorprendeva più di fronte alla manifestazione dei suoi poteri, ormai ne era pienamente consapevole. Ciò che però temeva ancora era il fatto che le potessero sfuggire di controllo, come l’ultima volta in cui aveva rischiato di ferire Federico a morte.
Il ferro battuto iniziò a tremare, scosso violentemente, fino a piegarsi con un lento stridulo. I cardini furono sventrati e la porta cadde con un tonfo verso l’esterno. Fuori quella stanza passavano persone con camici bianchi e rotoli di pergamena sotto braccio. Qualcuno invece portava delle valigette nere, sigillate accuratamente. Di fronte a quel frastuono tutti si voltarono verso di loro e li squadrarono dapprima con sorpresa, poi con timore e nervosismo.
“Avvisate le guardie!” urlò uno in mezzo alla massa. Tra i camici bianchi emersero delle lance acuminate, puntate contro di loro.
“I prigionieri stanno tentando la fuga!” esclamò a gran voce un uomo sulla cinquantina e un paio di baffi voluminosi, rivolgendosi ad una delle guardie che portava cucito all’altezza del petto lo stemma di Quadri.
“E novità delle novità, riusciranno anche nel loro intento”. Tutti alzarono la testa verso l’alto, da dove proveniva la voce e rimasero senza parole di fronte alla ragazza con la coda di gatto e il pelo viola che se ne stava beata a pancia in giù, guardandoli con aria di sufficienza e un divertimento mal celato. Come le guardie si fecero avanti, lo Stregatto planò verso Francesca e gli altri. Una nuvola di fumo viola esplose nell’aria, e quando tutto intorno si fu diradato, dei prigionieri non c’era più alcuna traccia.
 
“Davvero puoi fare questo?” esclamò Federico incredulo, guardandosi le mani. Non riusciva a credere di essere appena stato teletrasportato. Era successo tutti in un attimo. Ricordava che quando aveva viaggiato nel varco creato dall’elmo il dolore alla gamba era stato talmente lancinante da fargli quasi perdere del tutto i sensi.
“Certo che può, si tratta dello Stregatto, una delle creature leggendarie del Paese delle Meraviglie” lo riprese severamente Tartalenta con voce roca. Francesca provò un brivido di emozione incrociando lo sguardo di Camilla, che aveva preso a studiarli uno ad uno con aria vagamente interessata. Quindi si avvicinò a lei, sempre di più, fino a quando le punte dei nasi non si toccarono.
“Quindi sei tu la chiave” disse semplicemente Camilla, esibendo un sorriso a quarantadue denti.
“Chiave? Non so di cosa parli…”.
“E ci mancherebbe!” la schernì lo Stregatto, soffocando una risatina.
“Potremmo parlare dopo di questo? Dove siamo finiti?” chiese Marcela, molto più presa dal pericolo in cui si trovavano per prestare attenzione alle criptiche parole di Camilla.
“Si direbbe un’altra prigione…” mormorò con aria affranta Tartalenta, riferendosi al soffitto basso e sbilenco e alle pareti strette. Era un corridoio dall’andamento storto, che si restringeva dall’alto e ai lati, fino a diventare quasi una strettoia. Non c’era nessuna illuminazione, ma dal fondo proveniva una luce fioca.
“Credo di sapere dove ci troviamo…” mormorò Francesca. Quel posto le era molto familiare e avrebbe scommesso il suo Regno che raggiungendo la fine del corridoio avrebbero trovato il loro amico mago.
“Non potevi portarci qui da subito?” chiese sprezzante Federico allo Stregatto che in tutta risposta lo fulminò con lo sguardo.
“Credi forse che io possa viaggiare tra i mondi attraverso gli specchi? Non faccio mica miracoli! Ho aspettato che usciste per darvi una mano, ma se volete vi riporto lì e…” fece il gesto di chi sta per schioccare le dita e tutti impallidirono: d’altronde era risaputo che lo Stregatto fosse di un carattere pazzo e volubile e avrebbe potuto benissimo rimandarli in pasto alle guardie di Quadri.
“NO!” esclamarono in coro, tentando quasi di saltarle addosso per impedirle di mettere in atto quella minaccia. Camilla ridacchiò e scomparve; a mezz’aria era rimasto solo il suo ghigno. “State attenti, ho sentito dire che Ana non faccia sconti a nessuno…e io ovviamente non ci tengo a battermi con una maga” li avvisò la bocca a mezz’aria prima di sparire insieme al resto del corpo.
“Dalla padella alla brace” esclamò esasperata Marcela, cercando ancora una volta una conferma nello sguardo di Francesca. Sapeva bene che lei sarebbe andata fino in fondo per salvare l’amico, ma che possibilità avevano? Uno zoppo, una vecchia tartaruga, una persona normale…l’unica in grado di fronteggiare Ana era Francesca ma lei stessa si era mostrata titubante circa i suoi poteri.
“Ormai ci siamo, tornare indietro è una follia…”. Federico si era apertamente schierato dalla parte di Francesca. La missione era importante, ma per la sua riuscita era necessario l’aiuto di un mago e Dj era l’unico a disposizione. Si sentiva un po’ meschino a fare un ragionamento tanto pragmatico, ma d’altronde Pablo era stato chiaro: la missione era più importante di ogni altra cosa. Probabilmente se Dj non fosse stato un mago a malincuore avrebbero dovuto lasciarlo in quella sorta di prigione.
Tartalenta annuì, aggrappandosi a Marcela per reggersi in piedi. Francesca avanzò davanti a tutti, mentre Federico le veniva subito dietro; si arrangiava come poteva, reggendosi alle pareti.
Sbucarono dopo breve tempo in una stanza debolmente illuminata dalle candele. La stessa della visione, constatò Francesca, sicura di essere arrivata alla meta. In fondo si udivano dei lamenti deboli. “Dj!” esclamò Francesca avanzando rapidamente verso la fonte di quei lamenti. Il mago era ancora incatenato a quella che sembrava una ruota della tortura, ma era ridotto anche peggio di come lo aveva visto nella sua visione: aveva il labbro spaccato che sanguinava continuamente, insieme a tutti i tagli sul viso e lungo il corpo. Dalla bocca pendevano pezzetti verdi di una qualche pianta.
“Erbaluna…” mormorò Federico zoppicando al suo fianco. “Annulla i poteri di un mago” spiegò brevemente, osservando le catene a cui era stato legato Dj. Sembravano essere parecchi resistenti. Il prigioniero quando li vide ebbe un breve fremito, per poi far ricadere la testa in avanti, in preda all’incoscienza.
“Svelti prima che torni!” li riprese Marcela continuando a guardarsi indietro terrorizzata. Francesca annuì, quindi passò una mano sulla prima catena che gli teneva ferma la gamba destra. Essa si sciolse come fosse neve, emettendo una sottile voluta perlacea. Ripeté la stessa operazione per gli altri arti immobilizzati, quindi Dj cadde a terra con un tonfo, fino a quando Marcela e Tartalenta non riuscirono a sorreggerlo a malapena. Francesca prese nuovamente a respirare lentamente, mentre l’eccitazione per quel salvataggio le scorreva nelle vene. Ora però che erano riusciti a liberare il mago una nuova domanda riempiva la sua testa: come avrebbero fatto ad uscire da quel posto? Ci erano arrivati con la magia, ma non aveva la minima idea di come avrebbero potuto lasciarlo. Che fine aveva fatto lo Stregatto? Proprio ora che ne avevano bisogno più che mai. Erano ancora in tempo.
“Stregatto?” provò a chiamarlo. Nessuno rispose al suo appello, si sentiva solo il crepitare delle fiamme, che lentamente si innalzarono sottili, diventando addirittura più lunghe delle candele da cui avevano preso vita.
“Non pensavo che avrei avuto così tanti ospiti”. Dalle tenebre emerse una figura bassa e aggraziata allo stesso tempo. Portava un lungo mantello nero, con un cappuccio calato sul volto. “Perdonate il disordine, non sono abituata” disse Ana con un sorriso sinistro.
“Lasciaci andare, altrimenti…”.
“Altrimenti cosa? Sei solo una sciocca ragazzina che continua a creare problemi all’unica e legittima regina, Natalia” proruppe la ragazza, facendo comparire un globo nero tra le mani. “Non so come tu abbia fatto a lasciare le mia prigione, ma non ho alcun problema ad eliminarti!”. In una frazione di secondo scagliò quella sfera contro Francesca, che mise avanti le mani, nella flebile speranza che il Mana agisse per conto suo pur di difendere quello che riteneva essere il suo contenitore. Difatti, una barriera argentata si eresse, fatta di sottili fili che uscivano dalle punte delle dita. Ana la osservò prima confusa e sorpresa, poi pensierosa. Sicuramente non si aspettava una risposta al suo incantesimo.
“E così abbiamo scoperto di avere la magia, eh?” la derise Ana, socchiudendo gli occhi fino a ridurli a due fessure. “Cerberi Ungues”. Dalla mano si scatenò un lampo che ruggendo si scagliò contro la barriera, lacerandola proprio come se fosse dotato di artigli. I fili esplosero in tanti scintillii bianchi splendenti.  “In ogni caso non è sufficiente” rise sicura Ana.
Francesca rabbrividì: questa volta non bastavano dei semplici trucchetti. Stava affrontando una maga, per di più potente, e mentre lei non sapeva nulla del campo della magia, la sua rivale dimostrava di padroneggiare ogni tipo di incantesimo con la più assoluta tranquillità e sicurezza. L’idea di salvare Dj era stata fatta senza considerare quel dislivello che però si stava facendo sentire pesantemente. Gli sguardi dei suoi compagni erano fissi su di lei e non sapeva come fare a dire loro che ancora una volta avrebbe deluso le loro aspettative.
“Ho passato anni sui libri, anni a cercare di carpire ogni segreto che la magia tentava di tenermi nascosto, e tu credi di spaventarmi con qualche effetto appariscente?”. Ana parlava con rabbia, ma anche superiorità. Francesca era convinta che quella per loro era la fine, non c’era nulla che avrebbe potuto fare per fermarla.
Basiilisci Invocatio!”. Da dietro di lei comparve una figura allungata, alta quanto lei. Un corpo lungo e sinuoso di un verde spento scivolava lentamente, mostrando i suoi occhi gialli e accesi come fanali. La lingua biforcuta fuoriusciva ritmicamente sibilando e aveva il muso leggermente schiacciato.
“Ha invocato una creatura magica” disse Tartalenta, rabbrividendo di fronte allo sguardo mortifero del mostro.
“Francesca, devi usare i tuoi poteri al meglio, non puoi continuare a difenderti”. Il tono usato da Federico era rassicurante e severo allo stesso tempo. Francesca avrebbe voluto, ma cosa poteva fare? Non poteva rischiare di ferire gli altri lasciando fuoriuscire il Mana. C’era sempre quella paura a frenarla.
“Ce la farai” esclamò Federico, come se fosse in grado di leggerle nel pensiero. E forse era davvero capace di carpire i suoi pensieri dal suo sguardo, dal modo in cui osservava spaurita la creatura che avanzava strisciando verso di loro senza fare nulla. Francesca annuì. Le dita si intrecciarono tra loro come se fossero guidate da una volontà maggiore, facendo congiungere le mani in un atteggiamento di preghiera. Le pupille si dilatarono e da lì in poi sprofondò nell’oblio.
Federico capì subito che Francesca era caduta in una sorta di trance e per poco non trasalì quando la sentì dire parole apparentemente prive di senso, ma dal suono antico e armonioso. In lontananza udì il rintocco insistente delle campane, che si fece sempre più forte fino ad assordarlo. Quando si portò le mani alle orecchie venne inondato da una luce bianca e catapultato all’indietro addosso alla parete vicina. Un calore insopportabile torturò il suo corpo, finché il bagliore non si affievolì altrettanto rapidamente di come era nato. Il pavimento era completamente annerito, tranne un cerchio di cui Francesca occupava il centro. Tutti erano stati scagliati all’indietro. Tartalenta aveva perso i sensi e giaceva al fianco di Dj, mentre Marcela sembrava essersi leggermente ripresa e si guardava intorno terrorizzata. Dove prima si trovava la creatura era rimasto solo un cumulo di cenere, mentre Ana si era salvata scagliando all’ultimo secondo un incantesimo di protezione, che però era stato facilmente mandato in pezzi.
“C-com’è possibile?” ansimò la maga, sentendosi svuotata di ogni forza. Non riusciva a capire come avesse potuto la regina di Fiori evocare un incantesimo tanto potente con così poco sforzo. Cosa nascondeva quella ragazza? Il suo sguardo inespressivo era raggelante, le mani unite ancora in quella mistica preghiera che faceva appello alla forza distruttiva della natura.
“Francesca!” la richiamò Federico. La ragazza all’inizio non si voltò verso di lui, poi le sue iridi tornarono a brillare scure. Improvvisamente iniziò a tremare senza motivo. Intorno a lei l’aria vibrava ad ogni suo respiro.
“Sarebbe un piacere studiarti nel mio laboratorio…mi hai incuriosito” sogghignò Ana, ritrovando la sua spavalderia.
“Mi sono persa qualcosa?”. Un sorriso le comparve davanti, prima di scomparire e riapparire di nuovo al fianco di Francesca. Lentamente si delineò la figura dello Stregatto.
“Non ti riguarda!” sibilò la maga, lanciandole contro un raggio oscuro. Camilla prese la mano di Francesca e si smaterealizzò insieme a lei per poi ritrovarsi in un angolo della stanza, vicino a Federico e gli altri. “Tenetevi tutti per mano” gli ordinò Camilla, improvvisamente seria. Federico strinse la mano di Francesca, mentre la sinistra venne afferrata da Marcela che a sua volta teneva Dj sotto braccio e con le dita stringeva la zampa rugosa di Tartalenta. L’aria schioccò più volte, e tutto si dissolse intorno a loro. L’ultima cosa che sentirono fu il grido, colmo di una rabbia implacabile, di Ana, che non solo aveva perso il suo prigioniero senza avergliela fatta pagare fino alla fine, ma non aveva potuto nemmeno catturare Francesca per saperne di più del segreto che la rendeva tanto speciale.
Si ritrovarono tutti su una collinetta, a qualche lega dal Laboratorio che era ancora in fermento per la fuga dei prigionieri. “In quel posto si compiono terribili esperimenti. La prigione in cui siete stati è solo una sorta di contenitore delle cavie” spiegò Camilla con una smorfia.
“Beh, non dobbiamo perdere tempo…gli altri ci aspettano al castello di Quadri sicuramente” disse Federico, godendosi gli ultimi raggi di sole che scomparivano all’orizzonte.
“Federico, dobbiamo aspettare prima che Dj si rimetta” intervenne Francesca. Il ragazzo convenne, ma stabilì che si sarebbero fermati solo per un paio di giorni, ben nascosti per non essere rintracciati dalle guardie. Lo Stregatto appariva parecchio affaticato da quel viaggio che aveva dovuto fare, infatti li avvertì che avrebbe trascorso la notte con loro per recuperare le forze e ripartire il mattino dopo.
Intorno a un debole fuoco ognuno consumò silenziosamente il proprio pasto, rimediato da Camilla, per ringraziarli dell’ospitalità: qualche frutto, un coniglio e alcune erbe commestibili.
“Come mai quando ti ho chiamato non sei comparsa?” chiese Francesca in disparte allo Stregatto, stravaccato sul ramo di un albero.
“Il perché non posso certo dirtelo, sappi solo che mi è stato ordinato di fare così…” rispose con aria evasiva Camilla, voltandosi poi dall’altra parte e dandole le spalle, segno che per lei la conversazione era finita lì.
“Ehi”. Marcela le sfiorò lentamente il braccio, facendola scattare sul posto. Le due si sorrisero per un istante. “Ce l’abbiamo fatta” sussurrò la donna, con gli occhi lucidi per l’emozione.
Francesca non riuscì a fare altro che annuire, pensando ancora alla breve conversazione avuta con Camilla. Chi poteva averle ordinato di tardare a soccorrerli? Ma soprattutto perché?
“Ricordati della nostra promessa” aggiunse Marcela. Francesca si riscosse e avvampò di colpo, gettando lo sguardo verso Federico, che si era addormentato vicino a Dj, che per fortuna aveva ferite abbastanza superficiali. Sospirò per poi rivolgersi di nuovo alla sua interlocutrice: “Certo, una promessa è una promessa”.



















NOTA AUTORE: Ciao a tutti! A parte che vi chiedo perdono per i miei frequenti ritardi (ma credetemi che non ho veramente tempo in questo periodo- sigh), passo a commentare velocemente il capitolo per lasciarvelo :3 Un capitolo pieno di azione, incentrato su Francesca che finalmente riesce a fuggire con gli altri dalla prigione, che in realtà non era altro che un riflesso dentro una serie di specchi...La prigione di specchi inoltre da direttamente sul Laboratorio, lo stesso che ha fatto esperimenti sul povero Seba...Grazie a Camilla il gruppo riesce a liberare Dj, e sempre grazie a quest'ultima riescono a fuggire dalle grinfie di Ana (ogni volta la gente sfugge ad Ana per un soffio, povera ahahah). Francesca ha dato libero sfogo ai suoi poteri per fermare la creatura invocata dalla maga, e alla domanda del perché Camilla ha ritardato ad aiutarli, le viene detto che si è trattato di un ordine- ma da parte di chi? E per quale motivo? Fatto sta che Francesca è letteralmente la 'chiave' della storia...in un senso che capiremo più in là. La sua maledizione è necessaria e- oddio, basta o spoilero troppo XD In questo capitolo poi abbiamo visto la complice amicizia nata tra Marcela e Francesca, e soprattutto il sequel della love story tra Fede e Fran che procede tra alti e bassi xD
E POI IL DOLORE- ME LO SONO LASCIATO PER ULTIMO. A parte che quel sogno per me è un fiume di feels. E DOVEVO SCRIVERLO ANCHE SE FACEVA UN MALE CANE. Perchè il povero Leon- *piange* Solo che non è affatto bella la decisione che ha preso: pensa che liberandosi fisicamente del legame che lo unisce a Violetta riprenderebbe ad essere quello di un tempo. AIUTO. Sembra anche parecchio determinato (anche se la ama ancora, è palese *^*)...come proseguirà per la sfigatissima (in questa ff hanno tutti contro .-.) Leonetta?
Grazie a  tutti per continuare a leggere e apprezzare questa ff, alla prossima! :3 Con affetto,
syontai (E BUON 2015! :3)
 

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Capitolo 62
*** Rincontrarsi ***


Capitolo 62
Rincontrarsi

Per i primi due minuti in groppa a Rampante Andres per la prima volta aveva provato la vera ebbrezza del volo. Intorno a lui l’aria si faceva più rada, poteva sentire addirittura il soffice contatto con le nuvole. Ma bastò anche solo rivolgere lo sguardo verso il basso per spezzare quella magia: erano molto, troppo in alto. Strinse per l’agitazione ancora di più la manciata di piume con cui si reggeva al grifone, mentre le braccia di Emma rafforzarono la presa intorno alla sua vita. Davanti a loro invece Libi era rimasta impassibile, con lo sguardo fisso verso l’orizzonte. Non lo aveva degnato di uno sguardo, non gli aveva rivolto una parola. Semplicemente gli aveva detto di salire in groppa così da salvarlo da quell’inferno che si stava scatenando alla locanda. Le fiamme dell’incendio adesso però apparivano come un bagliore lontano nell’immenso mare nero in cui si trovavano a galleggiare come per magia. Le ali possenti dell’animale planavano tranquille, battendo dei potenti quanto eleganti colpi solo quando perdevano quota.
Andres si chiese cosa avrebbe dovuto dire a Libi una volta atterrati. L’avrebbe ringraziata, certo, ma avrebbe voluto avere anche delle spiegazioni. Era convinto che la ragazza avesse deciso di intraprendere la sua strada, e per quanto fosse felice di constatare che non fosse così, voleva chiederle il motivo per cui aveva cambiato idea. Sentì Emma rabbrividire dietro di lui, e si rese conto che in effetti si gelava, ma era stato talmente assorto da non averci fatto minimamente caso. “Tra poco atterreremo!” urlò Libi per contrastare il rumore provocato dallo sferzare del vento, senza voltarsi verso di loro e indicando semplicemente una radura adatta a quella manovra.
Verso sud si vedevano in lontananza alcune guglie esili e sottili, che si attorcigliavano maestose in un gioco contorto. Il palazzo di Quadri appariva infatti da lontano come un mostro famelico che agognava l’ascesa al cielo. Che rappresentasse le alte aspirazioni che la famiglia reale del Regno avevano sempre avuto? La visuale si abbassò precipitosamente, seguendo la traiettoria del grifone che puntava verso il basso. Quando furono a pochi metri da terra, aprì di colpo le ali tenute raccolte, facendoli sbalzare, per poi poggiare dolcemente le zampe sul suolo.
“Grazie come sempre…”. Libi scattò giù con un salto e grattò l’orecchio dell’animale, che grugnì scocciato, sebbene nascondesse una profonda gioia per quella carezza.
“L’ho fatto per te, non certo per loro” sbottò Rampante incenerendo con lo sguardo Andres e Libi, che cercavano di scendere dalla sua groppa senza fare un capitombolo.
“Non essere così severo” lo riprese amorevolmente la ragazza. Chiuse gli occhi per un istante e si ricordò di tutta quella solitudine che l’aveva accompagnata, fino a quando non si era imbattuta nuovamente in Rampante. Insieme avevano condiviso tanto, avevano imparato a capirsi in pochissimi giorni. Non come aveva fatto Andres, che l’aveva semplicemente lasciata andare. Molte cose erano cambiate e si sentiva diversa, aveva imparato a prendere le proprie decisioni senza dipendere dalla volontà di qualcun altro. Aveva seppellito quei sentimenti che la avevano fatto stare tanto male; eppure il moto di fastidio nel vedere le attenzioni che Andres riservava ad Emma non riusciva proprio a scacciarlo. Non aveva sempre ribadito lui che in tempi di guerra non c’era posto per l’amore? Scosse la testa: non riusciva a capirlo, e non le interessava più nulla. Lo avrebbe aiutato a recuperare lo scudo e a mettere fine a quella sanguinosa quanto inutile guerra.
Andres era seduto con le gambe incrociate e le braccia che facevano leva sul manico del pugnale piantato a terra. Si era proposto subito per il primo turno di guardia, sentendo un gran bisogno di riflettere per conto proprio. Doveva ammettere che la ricomparsa di Libi lo aveva destabilizzato parecchio, non solo perché credeva non l’avrebbe mai più rivista, ma anche perché non riusciva a nascondere quanto le fosse mancata fino a quel giorno. Tentare di sopperire la sua assenza con Emma era stato sciocco ed egoista. Emma non meritava di essere usata in quel modo, nonostante il suo caratteraccio. Tirarsi indietro però sarebbe stato come darle la conferma di quello che era accaduto in realtà: lui l’aveva usata. Forse era stata anche la compassione a muoverlo, perché lui sapeva cosa il futuro avrebbe riservato loro. La visione che il Tempo gli aveva crudelmente concesso era stata terribile e neppure per un secondo lo abbandonava. Ma aveva promesso che avrebbe protetto i suoi compagni, e l’avrebbe fatto anche a costo della vita, anche a costo di sfidare l’inevitabile.
Con un gesto secco estrasse il pugnale e cominciò a passarselo tra le mani. In ogni caso non si accorse di una figura ferma alle sue spalle. Uno scricchiolio sospetto però lo fece sobbalzare, richiamando sull’attenti tutti i suoi sensi. Inarcò un sopracciglio, quindi sospirò, portandosi una mano sulla fronte. “Libi?” disse in un sussurro. La figura sembrò titubante, quindi si mosse e si parò di fronte a lui. Gli occhi scuri della ragazza sembravano risplendere, sebbene il merito fosse della biancastra luce della luna.
“Non riuscivo a dormire” si scusò lei, sedendosi subito dopo di fronte a lui. “Se vuoi posso darti il cambio”.
Andres la fissò per qualche secondo senza dire nulla. “Come mai sei tornata indietro?”. Non seppe dire come quella domanda gli fosse sorta in modo così spontaneo. Dal primo momento in cui l’aveva vista se l’era chiesto. Perché? Quello nella foresta doveva essere per loro un addio, pensava davvero di poterla fare finita con quell’attrazione che sentiva nei suoi confronti, distogliendolo dal suo obiettivo.
“Non saprei” cominciò a rispondere la ragazza, senza battere ciglio. Era ovvio che si aspettasse quella domanda, solo forse non nel cuore della notte e non posta tanto direttamente. “Vorrei poterti rispondere, ma la verità è che non so cosa mi abbia spinto a cercarvi. Incontrare Rampante di nuovo mi ha fatto ricordare la sua storia. Lui ha perso un amico a cui teneva tantissimo, mentre io ho deciso volontariamente di allontanarmi dalle uniche persone in questo mondo che mi potessero far sentire a casa. Ho convinto Rampante a intraprendere un viaggio con me, gli ho donato uno scopo, e ha ricominciato a vivere dopo anni trascorsi in quella grotta a rimpiangere un passato che non sarebbe più tornato. Quando ho raggiunto il Palazzo di Cuori però era tardi…dal continuo andirivieni di guardie e soldati ho capito che eravate fuggiti. Sono tornata sui miei passi credendo di non avere ormai più alcuna possibilità, quando ho visto una casa volante”.
Andres, che non ricordava quasi nulla di quel momento, vinto dal sonnifero che gli aveva abilmente somministrato il Cappellaio Matto, si limitò ad ascoltare in silenzio.
“Ho seguito quella casa più per disperazione e curiosità che altro…non ero certa che al suo interno vi avrei trovato, ma che altre possibilità avevo? Nel frattempo Rampante continuava a cercare di dissuadermi, perché ci stavamo avvicinando al Regno di Quadri”.
“E poi c’è stato l’attacco del Ciciarampa al confine…ci siamo salvati per miracolo solo grazie al potere dell’elmo” la interruppe finalmente Andres, sentendo ancora sulla pelle il terrore provato in quel momento, convinto che niente avrebbe potuto salvarli.
“Lo so” confermò Libi. “Quando la casa è precipitata sono accorsa nel punto dell’impatto e tra le macerie ho trovato tre tipi alquanto buffi, miracolosamente illesi”.
“Il Cappellaio Matto e gli altri stanno bene, quindi?” le chiese, sgranando gli occhi. Pensava che per loro non ci fosse alcuna effettiva speranza di sopravvivere.
“La condanna che gli ha inflitto il Tempo non gli permette di invecchiare, come non gli permette di morire. Diciamo che a parte qualche osso rotto sono ancora sani e salvi. La casa, simbolo della maledizione a cui sono sottoposti, è stata distrutta, quindi devono trovare un’altra dimora che diventi la loro prigione. Appena avranno varcato la soglia di una qualsiasi casa non potranno più uscire da essa. Da quello che so Beto voleva raggiungere il suo unico parente, Pablo, per aiutarlo nella resistenza”.
“Ma come ci hai trovati?” la incalzò il ragazzo, interessato.
“Io…non lo so, davvero. Semplicemente vagavo per queste terre con Rampante e vi abbiamo visto in mezzo a quell’incendio”. Libi sembrava sconvolta quanto lui. Il caso gli aveva dato una mano non indifferente, sempre che di esso si fosse trattato.
“Bene. Adesso che intenzioni hai?” la interrogò Andres, incerto se desiderasse o meno conoscere la risposta.
“Sono venuta per aiutarvi, ve l’ho già detto. Ho capito che posso sentirmi utile solo insieme a voi”. Lo disse con una tale sicurezza, guardandolo dritto negli occhi, che ad Andres vennero i brividi. Non l’aveva mai vista così decisa, così combattiva. Libi non era più una ragazza, era una donna. Era cresciuta tantissimo, a differenza sua che si era limitato a seguire le tracce sanguinose di una missione quasi impossibile. Mancava solo un pezzo dell’armatura, forse il più difficile da recuperare; era così vicino eppure così lontano dal raggiungere il suo obiettivo. Il ringhio del grifone addormentato, che mosse le ali, riadagiandole di botto, spezzò l’audacia dei loro sguardi. “Ti lascio il posto allora” mormorò il ragazzo, alzandosi e cercandosi un rifugio abbastanza sicuro dove provare a prendere sonno. Sapeva che sarebbe stato inutile, non sarebbe riuscito a chiudere occhio. Nella mente roteava ancora quello sguardo, quel paio di occhi scuri di tenebra che ardevano.
Quella fu l’unica conversazione che ebbero Andres e Libi per i restanti giorni. Il viaggio procedeva tranquillo, sebbene il timore di ritrovarsi circondati da eventuali nemici si faceva sempre più concreto. Bisognava inoltre sperare che gli altri fossero tutti illesi: avrebbero potuto aspettarli al più qualche giorno nei pressi del castello, poi avrebbero dovuto mettere in atto il loro piano. Se solo ne avessero avuto uno di piano.Si trattava di una vera e propria missione suicida: avevano rischiato molto infiltrandosi al castello di Cuori, quindi riutilizzare la stessa carta sarebbe stata una follia; Jade aveva sicuramente sparso la voce di truffatori che si presentavano a corte con le migliori intenzioni per poi scappare via con i loro tesori. E per quello non c’era bisogno di riferire del furto della spada, notizia che sicuramente non era trapelata dalle quattro mura del palazzo di Cuori, per salvare le apparenze. E per di più questa volta non avevano nemmeno un alleato come Federico alle dipendenze di Ludmilla che potesse aiutarli. Già dal giorno successivo avevano deciso di non viaggiare più in volo a Rampante, un po’ perché adesso erano in tre e costituivano un peso non indifferente, un po’ per non dare nell’occhio. L’animale però li seguiva con passo lento ed aria fiera, lanciando di tanto in tanto un’occhiata di disprezzo ad Andres, che ogni volta era costretto a non voltarsi indietro in modo da non incontrare tutto quell’astio. Libi conduceva il gruppo, ma era ben felice di stare in disparte, per non dover vedere il modo in cui Emma si teneva stretta al braccio del leader. Dopo il quarto giorno, quando ormai le guglie del palazzo di Quadri gettavano quasi un’ombra minacciosa su di loro, una tenue luce azzurra comparve di fronte a loro. Andres tirò fuori il pugnale, ben conscio che di fronte alla magia sarebbe stato completamente inutile. La luce però non sembrava minacciosa, anzi, gli volteggiò intorno per qualche secondo, per poi svoltare verso destra. Arretrò appena, come per invitarli a seguirla, quindi proseguì.
“Che facciamo?” chiese Emma, da sempre scettica di fronte alla magia.
“Se fosse stato un mago al servizio di Natalia a creare quella luce ci avrebbe già attaccato, non avrebbe avuto bisogno di ricorrere a un tranello…” disse Libi, senza però tenere abbassata la punta della freccia, pronta ad essere scagliata. Dopo un po’ di riserve, il gruppo decise di affidarsi a quella guida luminosa e iniziarono a seguirla per l’intricato dedalo verde da cui erano usciti appena un attimo prima. Sbucarono in una radura ben nascosta dalla natura.
“Andres!” la voce squillante della regina Francesca lo sorprese non poco. Era in ginocchio e vicino a lei, in piedi, con un bastone a fargli da appoggio, c’era Federico.
“Dj, ha funzionato!” disse poi, rivolgendosi al mago, disteso al suo fianco, pallido e sudato, che con un sospiro di sollievo richiamò la luce azzurra, facendola scomparire.
“Non ce la facevo più” disse con un mezzo sorriso Dj, chiudendo gli occhi. “Non è una magia difficile, ma nelle mie condizioni…”. Andres notò infatti che l’amico era ridotto parecchio male.
“E’ una storia lunga” esclamò Federico, intuendo subito le sue preoccupazioni. In disparte c’erano una donna e una tartaruga che li guardavano intimoriti. Il conte spiegò brevemente che erano stati tenuti prigionieri da Ludmilla e che erano rimasti con loro dopo la fuga, non avendo un altro posto dove andare.
“Tartalenta!”. Il potente ruggito di Rampante squarciò l’aria, mentre il suo vecchio amico, una volta riconosciutolo, si sciolse in un sorriso stanco ma ricco di felicità. Dai grigi e limpidi occhi del grifone sfuggì una lacrima, che racchiudeva tutto il dolore nel credere che l’amico lo avesse abbandonato, ma adesso era lì, malridotto, e il destino aveva offerto loro una seconda occasione. Con un balzo si trovò di fronte alla tartaruga, muovendo il becco in basso verso di lui, come per accertarsi che si trattasse effettivamente del suo amico e non di un’altra persona.
“R-Rampante…” balbettò con voce roca Tartalenta, allungando le braccia lentamente verso di lui.
“Non credevo ti avrei mai rivisto”. Rampante espresse quel suo pensiero con tutta l’amarezza che albergava nel suo cuore. Quanto tempo gli era stato strappato, quanti possibili sorrisi erano stati cancellati, solo perché gente senza scrupoli aveva voluto impadronirsi degli smeraldi magici incastonati nel carapace dell’animale.
“Neppure io, amico mio, neppure io…”.
“Sono cambiate tante cose nella nostra foresta” biascicò il grifone, tentando di riportare alla memoria tutti i momenti vissuti insieme. Ma molti di essi erano ormai sbiaditi o deformati dal rancore che l’aveva accompagnato per tutti quegli anni.
“Me lo mostrerai tu stesso, ho bisogno di tornare nella mia casa”. A quelle parole Rampante si rizzò fiero e lanciò uno sguardo carico di apprensione verso Libi, che era rimasta a fissare quella scena in silenzio come tutti gli altri. La ragazza rimase immobile per qualche secondo, quindi sorrise comprensiva. “E’ giusto che tu faccia ritorno nella tua casa…Hai avuto la giusta ricompensa per avermi aiutato, da qui in poi ce la caveremo da soli”.
“Ma…avevamo deciso…” balbettò l’animale, incredulo.
“Il patto che abbiamo fatto è sciolto, considera il tuo compito terminato”.
Rampante sembrò leggermente turbato, gli occhi grigi vivaci saettavano da Libi a Tartalenta, quindi annuì con aria severa, piegando le zampe anteriori e chinando il capo a mo’ di inchino.
“Mi ricorderò per sempre del tuo animo nobile, Libi. Spero solo che i tuoi vecchi compagni possano dargli valore che merita”. E dicendo quelle parole lanciò un’ultima occhiata indagatrice a Andres, che fece un passo indietro a disagio.
Libi osservò la figura del grifone scomparire all’orizzonte. Era talmente assurdo e allo stesso tempo indispensabile che sentimenti tanto semplici e puri come l’amicizia potessero ancora manifestare la propria forza in tempi come quelli. Una forza capace di sconfiggere anche le distanze, anche la cupidigia degli uomini al potere. E lei, sarebbe stata abbastanza forte da superare la fitta al cuore che provava ogni volta che incrociava lo sguardo impassibile di Andres?
 
Il giorno dopo una seconda luce azzurra li raggiunse, seguita dal rumore di passi sul manto di foglie secche della foresta.
“Speriamo solo che sia stata una buona idea” borbottò una voce inconfondibile. La prima cosa che videro fu un paio di orecchie bianche e di occhi blu profondi. Non appena li vide, Thomas si bloccò esterrefatto, quindi si voltò indietro e lanciò un urlo euforico. “Sono qui! Sono tutti qui!”. Emersero a quel punto anche gli altri membri del gruppo: Violetta, Maxi e Lena.
“Non posso crederci” sussurrò Violetta, sgranando gli occhi non appena li ritrovò tutti lì, in quella piccola radura nascosta. Si stupì come tutti di vedere Francesca sveglia; inoltre le fu presentata in quella baraonda Libi, che sembrava una ragazza veramente in gamba. Non si interrogò sul perché non l’avesse conosciuta prima, visto che tutti sembravano avere grande confidenza con lei. Poi fu il turno di Marcela, che le raccontò brevemente la sua triste storia.
“Grazie al nostro mago siamo tutti qui” esclamò Federico, con un sorriso tirato.
“Moribondo, ma ancora tra voi” sottolineò Dj, alzando le braccia verso il cielo in modo plateale.
“Perfetto, ora pensiamo a come recuperare lo scudo”. Fu Maxi a rompere quello spirito gioviale dovuto all’essere di nuovo tutti insieme. Non sembrava affatto felice di essere lì, non fosse per Andres e la tacita promessa che li univa avrebbe abbandonato tutto e tutti. La delusione per quell’amore non corrisposto era troppo forte, quasi insopportabile, e dover convivere con quello sguardo dolce che era arrivato ad odiare e amare alla follia era peggio di una tortura. Per questo desiderava solo portare a termine quella missione per poter prendere la sua strada, magari ricominciando da capo.
Violetta sembrava intuire la sua rabbia e forse in fondo la comprendeva anche; non aveva fatto nulla per cercare di parlargli, sapeva che sarebbe stato inutile. Maxi aveva eretto un muro tra loro due. Non capiva se non accettasse più il fatto che lei non corrispondesse o piuttosto che il suo rivale altri non fosse che Leon, il più temuto e odiato. Nessuno lo conosceva come lei, nessuno era in grado di comprendere il legame che li univa, eccetto forse Lena.
“Dopo aver recuperato lo scudo io e Federico ci dirigeremo nella foresta al confine dove abita il Brucaliffo” prese la parola Francesca. “E’ l’unico che può aiutarmi”.
Violetta sentì uno strano impulso: qualcosa le diceva che doveva andare anche lei. Si ricordò della strana sensazione provata durante il fugace incontro con il saggio anziano, icona delle leggende del Paese delle Meraviglie. “Vengo anch’io” le uscì fuori, più rivolto a se stessa che agli altri.
“Non so se sia una buona idea. Penso che dovresti venire con noi a Nerdicorallo, Pablo vorrà sicuramente parlarti” disse Andres, ottenendo un cenno d’assenso da parte di Emma e Maxi.
“Credo invece che dovreste fidarvi dell’istinto che guida la Prescelta” asserì Dj, riuscendo finalmente a mettersi in piedi, anche se un po’ barcollante. “Un mago che vi faccia da guida nella foresta del Brucaliffo vi sarà utile. Ci penso io”. Detto questo strizzò l’occhio a Violetta, che non poté che essergli grata con tutta se stessa. Dj aveva sempre appoggiato le sue follie, credendo in lei fino in fondo. Era qualcosa di più simile ad un amico che avesse. Neppure Thomas la capiva così al volo, eppure avevano avuto molto più tempo per conoscersi.
“In ogni caso adesso dovremmo pensare allo scudo”.
“Maxi ha ragione, non abbiamo tempo da perdere” esclamò Emma.
Andres concordò, esponendo subito dopo il piano d’azione. “In questi giorni io e Libi ci occuperemo di fare perlustrazione in modo da vedere gli orari del cambio di guardia. Inoltre dovremmo cercare di capire se esiste qualche passaggio segreto che ci risparmi parecchie fatiche. Di solito tutti i vecchi edifici ne hanno uno, così che in caso di assalto la famiglia reale potesse essere portata al sicuro”.
“Come quello del castello di Cuori, insomma” si azzardò a ipotizzare Thomas, strizzando gli occhi, cosa che faceva spesso quando era sovrappensiero.
“Ci affidiamo davvero alla speranza che si apra magicamente davanti a noi un corridoio che ci porti direttamente dallo scudo?”. Nessuno si era aspettato che Lena prendesse parola in quel modo, e soprattutto con quel tono irritato. “Voglio dire, non penso che la regina di Quadri sia stata così sprovveduta da non piazzare trappole in questi possibili passaggi segreti”.
“Inoltre le arti magiche di Ludmilla Ferro non possono essere messe a confronto con la mie, sono completamente differenti. Non so se potrei essere particolarmente d’aiuto stavolta” osservò il mago.
Federico simulò un colpo di tosse così da attirare l’attenzione: “Diciamo le cose come stanno: siamo tutti troppo stanchi per formulare qualcosa che possa somigliare anche vagamente a un piano. Io direi che oggi dovremmo pensare unicamente a recuperare le forze. Non sarà un giorno a fare la differenza, ormai siamo tutti qui”. Un brusio percorse il gruppetto, che alla fine si sentì costretto a concordare con la proposta del conte Acosta seppur di mala voglia.
“Sante parole!” sospirò Dj, ricadendo disteso a terra con un sospiro beato.
“Maxi…”. Maxi si voltò impercettibilmente verso Violetta, che gli si era subito avvicinata una volta sciolta la riunione, probabilmente per chiarire. “So che forse non vorrai parlare, ma ti chiedo solo di ascoltarmi”. Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, irrigidendosi subito.
“Mi dispiace, sono stanco, sarà meglio rimandare” rispose asciutto, raggiungendo a passo svelto Andres, e cominciando a parlottare vivacemente con lui.
“Lascialo perdere, manca di cervello” tentò di rassicurarla Lena, sfiorandole il braccio e accennando una carezza.
“Ha ragione ad avercela con me, credo. Lo capisco”
“Non essere così buona, Violetta! Semplicemente deve mettersi l’animo in pace e capire come stanno le cose…”.
Lena forse aveva ragione, ma lei non ne era convinta. Sapeva che non era colpa di Maxi, Beto le aveva spiegato come stessero realmente le cose. Quell’amore che lui credeva di provare era inesistente, un artificio. E lei non avrebbe dovuto incoraggiarlo in nessun modo. Avrebbe dovuto essere chiara fin da subito, adesso era tardi e Maxi ce l’aveva a morte con lei. Si sedette in un angolo, con le gambe strette al grembo. Era in momenti come quelli che sentiva più che mai l’assenza di Leon. Si interrogava spesso su come sarebbe stato il loro prossimo incontro; se tutto era andato come previsto e Humpty era riuscito a far avere a Leon la lettera, o semplicemente gli avesse parlato, allora il principe aveva sicuramente compreso la difficile situazione in cui si era trovata. Non si era mai resa conto di quanto dipendesse da lui, di quanto la sola distanza potesse ferirla e debilitarla. Provò a distrarsi osservando Andres intento ad accendere un fuoco, accanto ad Emma che lo guardava con ammirazione. In disparte la ragazza che aveva conosciuto solo quel giorno, Libi, si occupava di tirare fuori le provviste che aveva messo da parte per il viaggio e di razionarle insieme a Marcela. Non le sfuggì comunque che di tanto in tanto si voltava verso Andres, per poi scuotere la testa e continuare il suo compito. Violetta non si intendeva molto di questioni amorose, anzi prima di Leon non aveva neppure avuto la possibilità di sfiorare un ragazzo, ma era chiaro che tra Libi e Andres ci fosse qualcosa che andava oltre la semplice collaborazione. Ma anche Libi, proprio come lei, sembrava destinata a soffrire a causa di quel sentimento. Di pene lei ne aveva passate tante, ricordava ancora il suo primo incontro con Leon: un misto di paura e ammaliamento l’aveva colpita fin da subito perdendosi in quegli occhi di un verde intenso ma allo stesso tempo vuoto. E quando aveva cercato di farla finire nel suo letto con la forza? La notte che ne seguì fu una delle più terribili della sua vita. Poi però era cambiato tutto e nel giro di un attimo avevano finito per innamorarsi, per dipendere l’uno dall’altro. Dopo tanti ostacoli e tante resistenze imposte dagli altri, erano riusciti a capire quanto era impossibile stare lontani, addirittura erano arrivati a fare l’amore, e il solo ricordare quei giorni la fece sorridere e arrossire allo stesso tempo.
“Pensieri felici, vero?”. Francesca si sedette al suo fianco, cercando di sistemare la gonna bianca e lunga in modo tale che non la intralciasse.
“Nulla di che, sua maest-“
“No, ti prego, non cominciare con quei titoli! Siamo tutti compagni di viaggio qui, Francesca andrà più che bene” la riprese subito Francesca, sfiorandosi una ciocca di capelli scuri, per poi guardare in direzione di Federico e Marcela che si occupavano della salute di Dj al posto suo. “Cosa speri ti dica il Brucaliffo?” chiese senza mezzi termini.
Violetta rimase in silenzio di fronte a quella domanda: la verità è che non sapeva se avrebbe potuto veramente aiutarla, ma il suo famoso istinto le diceva che quella era la strada giusta da seguire. Certo, era stato proprio quello stesso istinto a portarla in un’isola stregata in cui avevano rischiato la vita…
“Mi spiego meglio. Il Brucaliffo è la mia unica speranza rimasta in questo mondo. Ma tu hai un futuro glorioso davanti a te, gli altri mi hanno raccontato” spiegò Francesca, abbassando lo sguardo nervosamente, probabilmente temendo che lei la considerasse un’impicciona.
“E’ più complicato di quel che sembri, in verità” sospirò Violetta. “In ogni caso sento che il Brucaliffo possieda alcune conoscenze necessarie per capire meglio la storia delle profezie e del Paese delle Meraviglie. Penso addirittura che sappia qualcosa di Alice”
“Ma Alice è morta!” esclamò Francesca, scioccata da quella dichiarazione. Violetta non poté far altro che annuire con aria assente: tutti le ripetevano che era impossibile che Alice fosse viva. Ma allora chi l’aveva guidata fino ad allora? Ricordava addirittura chiaramente alcuni sogni in cui era apparsa, facendole forza e ripetendole che doveva combattere per salvare Leon dalle grinfie della madre.
“Forse, ma…è difficile da spiegare”.
Francesca si limitò a posare una mano sul suo braccio. “Provaci”. E come un fiume in piena le parole uscirono, disperate perché tenute dentro tanto a lungo. Non riferì di quello che aveva scoperto grazie a Beto, ma raccontò dei sogni, della strana presenza che avvertiva da quando era nel Paese delle Meraviglie. Non tacque nemmeno di quello che era successo tra lei e Leon, e quando ebbe finito di raccontare quella parte non ottenne il minimo accenno di sdegno, solo una limpida commozione dell’animo. “Capisci? Non posso non pensare che qualcuno mi stia guidando. E se Alice non fosse veramente morta? Magari con qualche incantesimo…non lo so. Credo di stare impazzendo”.
“La pazzia nel Paese delle Meraviglie è abbastanza all’ordine del giorno, ma è il modo migliore per capire come funzionano le cose qui. Io non credo tu sia pazza, credo che a differenza di tutti noi sia la più vicina alla verità”.
“Allora posso venire con voi per parlare con il Brucaliffo?” domandò timorosamente Violetta. Francesca a quella richiesta fece una smorfia buffa: “Non te l’avrei certo impedito, non sono una tiranna come Jade! Era solo una curiosità, tutto qui. E ti ringrazio per essere stata sincera con me”.
“Chissà che la chiave per svelare questo mistero non salti fuori quando meno ce l’aspettiamo!”. A quelle parole la ragazza sbiancò paurosamente, diventando dello stesso colore del vestito prima che entrasse nella torre-prigione di Quadri. “La chiave…” mormorò tra sé e sé, fissando il vuoto.
“Qualcosa non va?”. A quella domanda Francesca esibì un sorriso tirato, cercando in ogni modo di evitare il suo sguardo. “Certo, certo…meglio che vada a vedere se serve una mano”. Si alzò in piedi, lisciando le pieghe del vestito con l'ulteriore scopo di ripulirlo dai fili d’erba che erano rimasti impigliati.
“Ah, Violetta” disse voltandosi a metà strada con aria furba. “Adesso che condividiamo questo segreto, possiamo dire di essere amiche, giusto?”. “Non ho mai avuto delle amiche…” aggiunse tristemente la mora, portandosi l’indice sul mento, come se stesse cercando di ricordare qualcosa che potesse confermare il contrario.
“Ma certo!” asserì con enfasi Violetta. Francesca le piaceva: dietro l’atteggiamento regale che le era stato imposto fin da piccola c’era una giovane donna vivace e piena di voglia di vivere. Peccato per quel continuo velo di tristezza che derivava dalla maledizione che gravava sempre di più sulle sue spalle. Federico, che aveva seguito la loro conversazione a distanza con attenzione, distolse subito lo sguardo non appena le due ebbero finito di parlare e si erano allontanate. Violetta lo guardò per qualche secondo: nei libri aveva sempre letto che l’amore era il sentimento più bello e complicato del mondo. Ma adesso si chiedeva se non fossero semplicemente gli esseri umani a complicarlo.
 
Leon rischiava di impazzire tra quelle quattro mura. Non ne poteva più di stare al castello di Cuori, quel posto era pieno di ricordi che gli facevano troppo male, lacerando il suo cuore continuamente. Era ancora deciso a recidere il legame che ancora lo univa a Violetta, per quanto il ricordo dei loro dolci baci, del modo in cui si erano amati senza alcun limite, rimaneva impresso nella sua mente e quello era impossibile da scacciare. Neppure gli sfiancanti allenamenti riuscivano a placare la sua frustrazione, neppure trattare tutti come vermi insignificanti lo faceva sentire meglio. La sua fama di giovane spietato e senza scrupoli era tornata a splendere luminosa, ma l’insoddisfazione rimaneva la sua ombra. Più volte aveva chiesto di poter parlare con Humpty, ma con la scusa che l’uomo-uovo fosse ancora sotto shock gli era stato impedito anche solo di vederlo. L’unica magra consolazione di quei giorni bui era che almeno Lara dopo quel tentativo di riavvicinarsi a lui aveva capito che dovesse stargli alla larga. Quel giorno tuttavia si sentiva particolarmente propositivo ed aveva deciso di intrufolarsi nella stanza del suo vecchio amico per cercare di avere qualche risposta. Possibile che una parte di lui non volesse arrendersi all’evidenza? E possibile che lui gli stesse dando adito con così tanto ardore? Sapeva solo che nonostante tutto non riusciva a credere che Violetta lo avesse ingannato così abilmente. Forse era partito con l’intento di ingannarlo, ma poi si era innamorata veramente di lui. Storie su cui si fermò a fantasticare per un attimo, che gli fu sufficiente per trovarsi di fronte ad una porticina che gli arrivava appena alle spalle. Ai lati c’erano due guardie, che non appena lo videro si scambiarono un’occhiata nervosa.
“Signor Principe…le abbiamo già spiegato che non le è permesso entrare” disse una con voce ferma, fingendo una sicurezza che non possedeva. Leon sorrise indulgente, ma quello che doveva essere un sorriso rassicurante si trasformò in un ghigno perfido.
“Siete solo dei sottoposti, non avete alcun diritto di ordinarmi alcunché” esclamò con aria quasi annoiata.
“Ma sua signoria, lo faccia per rispetto al bibliotecario. E’ ancora molto scosso…”
“Sarà lui a cacciarmi se lo vorrà” concluse Leon torvo, e dal modo in cui si fece in avanti, tenendo la mano sull’elsa della spada era chiaro che la conversazione era finita. La guardia più anziana fece un cenno alla più giovane che si fece da parte e si diresse a passo svelto per il corridoio chissà dove.
Leon bussò un paio di volte, quindi strinse il pomello d’ottone che girò con uno scatto, aprendo la porta e chinandosi per entrare.
La stanza di Humpty era una copia in miniatura del luogo in cui viveva. Tante piccole librerie si alternavano a comodini su cui erano poggiati ordinatamente pile di fogli ingialliti dal tempo. C’erano persino delle mensole su cui si trovavano dei libricini. Ne prese uno per curiosità e provò a sfogliarlo, ma era scritto troppo fitto per i suoi gusti. Dopo averlo riposato, superò quella sorta di atrio e si trovò in una stanza dal soffitto basso, tanto che per poco non lo sfiorava con il capo. Alle pareti erano appesi alcuni ritratti di antenati di Humpty, dalle cornici più varie: alcune rettangolari semplici, altre circolari e più lavorate. Su un letto a due piazze in ferro battuto era steso Humpty, il cui colorito si mimetizzava alla perfezione con le lenzuola bianche. Non appena lo vide sembrò ancora più terrorizzato di quanto potesse esserlo già. Gli fece cenno con le mani di andare via.
“Non posso, Humpty. Io ho bisogno di essere sicuro…”. Leon si sedette sul bordo del letto, con la testa tra le mani. Non riusciva a vedere l’amico ridotto in quello stato, era come una morsa al cuore. Il pensiero che poi ci fosse Violetta dietro tutto questo lo faceva sentire ancora peggio. “Non avrei mai dovuto avvicinarla. Non avrei dovuto lasciare che mi raggirasse in questo modo”. Non voleva piangere, ma la sua voce tradiva un profondo dolore. L’uomo lo osservava con estrema pietà, mentre cercava di dire qualcosa. Ma nulla usciva dalla sua bocca se non un mugolio distinto.
“E’ stata lei, Humpty? Ti prego, dimmi la verità, ho bisogno di saperlo”.





















NOTA AUTORE: eccomi tornare vivo (?) e vegeto dalla sessione d'esami! E lo so che tutti speravate di esservi liberati di me, ma mi dispiace informarvi che non è così xD Un capitolo parecchio riassuntivo che getta le basi per l'ultima fase della missione del gruppo di Andres, ponendo così fine ad una storyline parecchio interessante, che però getta subito le basi per un successivo viaggio di Federico, Francesca, Violetta e Dj alla volta della foresta dove abita il Brucaliffo. Nel frattempo tra Libi e Andres le cose continuano ad andare male (e se quello è cocciuto che possiamo farci...). Abbiamo una prima interessante interazione tra Violetta e Francesca, e le due sembrano intendersi da subito :3 Rampante e Tartalenta si sono finalmente rincontrati, e così possiamo finalmente concludere la storyline di Rampante :3 Che teneri i due amici :D Per quanto riguarda Maxi adesso fa anche l'offeso -.-" E poi finale che ci lascia col fiato sospeso...Leon non si arrende e continua ancora a sperare fino alla fine che Humpty smentisca tutto, anche se ormai sembra essersi arreso all'evidenza, il suo è più un tentativo disperato. Come finirà? Humpty riuscirà a trovare il coraggio per ribellarsi al volere di Jade? Quanti interrogativi :P Che dire, grazie a tutti voi che continuate a leggere, e alla prossima! :3 Buona lettura,
syontai :3 

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Capitolo 63
*** Impulsi ***


Capitolo 63

Impulsi

“Perché avrebbe dovuto mentirti?”. Leon si paralizzò nel sentire quella voce alle sue spalle. Si voltò a rallentatore, incontrando lo sguardo severo della madre. Jade era in fondo alla camera e lo osservava con severa disapprovazione. “E’ così che rispetti i miei ordini, Leon? Uno degli uomini che era stato preposto alla sorveglianza è venuto a riferirmi delle tue minacce” continuò la regina, infastidita al solo pensiero che la sua autorità fosse stata messa in discussione in quel modo.
“Madre, io...”.
“Hai mancato di rispetto a me e a Humpty, che aveva bisogno di riposo assoluto, senza alcun motivo valido!” lo sgridò Jade, rossa in volto. Leon rimase in silenzio con lo sguardo basso, consapevole di essersi meritato quei rimproveri; qualunque punizione gli avrebbe inflitto lui l’avrebbe tollerata senza dire una parola. Per di più non aveva pensato al suo povero amico, probabilmente ancora sconvolto per l’aggressione subita, e al fatto che avesse bisogno di riposo.
“E’ vero, ho sbagliato...” mormorò il principe, fissando il pavimento in pietra dalle lastre irregolari.
“Dovresti smetterla di pensare a quella ragazza, non ha fatto altro che ingannarti, non merita la tua attenzione di alcun tipo”. Jade si fece improvvisamente comprensiva, addolcendo per quanto possibile la sua voce stridula. Leon annuì appena, quindi si alzò e si avvicinò alla regina, sfiorò la mano avvolta nel guanto di velluto nero e vi depose un bacio appena accennato prima di congedarsi dalla stanza.
L’unico rumore che si avvertì fu il richiudersi della porta, seguito dallo strisciare delle lance sul terreno per portarsi in posizione verticale. Jade sorrise. C’era mancato così poco perché tutto il suo piano saltasse in aria! Sarebbe stato meglio eliminare Humpty finché Leon era via e addossare la colpa a Violetta, ma aveva bisogno di un testimone che confermasse la sua menzogna, e il povero bibliotecario era l’unico di cui suo figlio si fidasse ciecamente. Osservò quasi con disprezzo il ritratto di uno degli antenati di Humpty, appeso sopra la testata del letto. Era un quadro rettangolare dalla cornice semplice, senza intarsi o decorazioni. Dalla tela un uomo-uovo dai lunghi baffi scuri le rivolgeva uno sguardo piccato di malcelata superiorità. Nella mano destra stringeva una penna d’oca, a ricordare il suo ruolo di intellettuale. Scorse poi gli altri volti, nessuno di essi a lei familiare, quindi finalmente puntò la sua attenzione sugli occhi acquosi di Humpty.
“Mi dispiace di averti coinvolto in tutto questo, ma non avevo alternative; la situazione mi stava sfuggendo di mano e non potevo permetterlo”. Prese un pausa quanto bastava per assaporare l’espressione atterrita e sconvolta dell’uomo-uovo.  Amava percepire il terrore nelle sue vittime, qualcosa che poteva incutere solo grazie al potere, grazie alla corona che portava sul capo. Leon invece era un’insulsa copia del padre, un uomo tanto buono quanto sciocco. Era stato un supplizio vivere all’ombra della sua magnanimità, riconosciuta solo per la sua bellezza e per essere la consorte del re. L’arrivo di Leon aveva reso poi la sua vita ancora più infernale: era amatissimo da Javier, parecchio introverso con gli estranei, ma allo stesso tempo dallo spirito spericolato e avventuriero. Liberarsi del marito le era sembrata quindi una ferrea necessità di cui tuttora non si pentiva affatto. Aveva anche fatto in modo di far addossare la colpa di quell’omicidio a Re Pablo, dando il via ad un conflitto calcolato nei minimi dettagli.
“So cosa stai pensando: quale orribile madre può volere l’infelicità del proprio figlio?”. Humpty non mosse neppure un muscolo, sembrava una statua di sale. “Ma hai tralasciato un particolare. Non nutro il minimo affetto per lui, anzi lo odio profondamente” confessò la regina, congiungendo le dita delle mani con soddisfazione.
“Non ho alcun problema a dirti questo, perché tanto non potrai dirlo a nessuno...inoltre non uscirai mai più da questa stanza. Goditi il tuo meritato riposo, Humpty” concluse la regina con un sorriso soddisfatto. Mentre usciva poteva udire accenni di singhiozzi tristi, sconsolati, di chi aveva ormai perso ogni speranza. Humpty si era visto negata la possibilità di dire tutta la verità, schiacciato ormai dal peso che derivava dalla consapevolezza che quel segreto sarebbe morto con lui. Non poteva fare più nulla per Leon, e Jade tirò un sospiro sollevato. Non si era aspettata una mossa del genere da Leon, dettata sicuramente dalla disperazione. In ogni caso il rischio era stato troppo alto, un secondo più tardi avrebbe potuto essere fatale. Non aveva altra scelta: era il momento per il principe di partire e lasciare quel castello.
 
 
Era strano sentire le cucine silenziose, prive dello sciabordare dei piatti e degli ordini urlati dalla capocuoca. Ma a notte fonda quel posto generalmente pieno di vita risultava spento e addirittura faceva venire i brividi. Nell’aria aleggiavano ancora i profumi delle pietanze preparate durante il giorno e nel caminetto addossato alla parete dalle ceneri si levavano sottili fili di fumo. Camminare era perciò per Lara l’unico modo per scacciare l’ansia e far passare velocemente il tempo. Le pentole e i paioli in bronzo rilucevano cupi, quando la porta delle cucine si spalancò all’improvviso, facendola trasalire.
“Jackie, finalmente!” esclamò Lara sconvolta, portandosi una mano al cuore. Subito dopo recuperò la sua espressione infuriata, battendo nervosamente il piede a terra. “E’ parecchio che ti aspetto. Il tempo passa e la situazione non sta cambiando...Non avevamo un accordo noi due?”. Era passata quasi una settimana dall’ultima volta in cui aveva tentato di avvicinarsi a Leon, venendo brutalmente respinta. Da allora il principe era diventato un chiodo fisso, si era sentita tanto umiliata da alimentare continuamente il fuoco della vendetta. Voleva che Leon vivesse nell’infelicità; doveva toccare il fondo e solo allora avrebbe potuto ritenersi soddisfatta. Il primo passo per ottenere ciò che voleva era sposare Vargas, ma per riuscirci era indispensabile il consenso della regina di Cuori. Avendo però scoperto il piano terribile e geniale di Jackie per sottomettere Jade alla sua volontà le aveva chiesto un aiuto in cambio del suo silenzio. A lei non interessavano affatto i giochi di potere, e anzi non voleva assolutamente farsi coinvolgere in piani troppo rischiosi, visto quanto si era esposta in passato per cercare di liberarsi di Violetta.
“Ci vorrebbe una scorta interminabile di mandragole per convincerla a far sposare il suo unico erede con una serva!” sbottò Jackie nervosamente, ben sapendo di non avere comunque altra scelta se non quella di aiutare la sua passata alleata.
“Non mi interessa, sono stufa di aspettare!” esplose Lara.
“Calmati, sbraitare non ti servirà a nulla” tentò di placarla la donna, guardando di tanto in tanto alle sue spalle per paura che qualcuno avesse sentito le urla di Lara.
“Non finisce qui, Jackie. Ti do tempo un mese, un solo mese. E ricordati che se proverai a ingannarmi ti farò affondare insieme a me” sibilò Lara, puntandole il dito contro con fare minaccioso. Le rivolse un’ultima occhiata ammonitrice, quindi si precipitò a passo svelto e furioso fuori dalle cucine per tornare nella sua stanza.
Jackie rimase qualche minuto ad aspettare in modo da non destare sospetti: se fosse uscita insieme alla ragazza infatti qualcuno avrebbe potuto vederle e non le nìandava a genio l'idea di offrire al resto della servitù qualcosa di cui spettegolare. Lara a differenza sua non pensava a nulla, agiva d’impulso e basta. Quando l’aveva scelta come sua alleata non si era resa conto di quel suo enorme difetto, ma adesso si pentiva amaramente di quella sua ingenuità. Il pendolo situato in un angolo scattò la mezzanotte e la donna finalmente poté rassicurarsi.  Rifece il percorso di prima a ritroso, ma proprio quando mise piede nell’enorme salone d’ingresso circolare incontrò l’ultima persona che avrebbe immaginato di trovare in un orario tanto insolito.
“Jackie?”. Leon era già appoggiato al corrimano pronto a salire il primo scalino, quando la vide. Non appena  i loro occhi si incrociarono ognuno lesse nell’altro la paura di essere stati colti in flagrante.
“L-Leon” balbettò l’altra, non riuscendo a muovere neppure un passo. Il principe l’avrebbe certamente riempita di domande e sebbene lei avesse sangue freddo, non era certa di riuscire a convincerlo dell’assoluta innocenza di quella passeggiata notturna. Allo stesso tempo anche Leon non sembrava del tutto con la coscienza a posto, ne era un segno la mano stretta quasi convulsamente al marmo. “Che ci fa sua maestà sveglia a quest’ora?” domandò, facendolo innervosire.
“Non ti devo certo delle spiegazioni” rispose burbero. Resosi conto però di destare ancora più sospetti con quel suo atteggiamento scontroso, si limitò ad alzare le spalle sospirando. “Perdona il tono, sono solo molto stanco...Non riuscivo a dormire e ho pensato di fare una passeggiata in giardino, tutto qui” aggiunse educatamente, per quanto gli fosse possibile. Jackie sapeva di non essergli mai risultata simpatica, e la cosa era reciproca, ma fin da quando si erano visti la prima volta tra loro sembrava esserci stato un patto di tolleranza dell’uno nei confronti dell’altro.
“E tu, Jackie? Come mai eri in cucina?” chiese Leon in risposta alla sua sfacciataggine, mettendola in difficoltà.
“Avevo voglia di un bicchiere d’acqua” disse rapidamente, consapevole che ogni secondo trascorso avrebbe potuto smascherarla. Leon si accigliò, probabilmente non del tutto convinto, ma scosse la testa tra sé e sé. Aveva altri pensieri per la testa in quel momento.
“Buonanotte allora” concluse evasivamente il ragazzo. Non attese neppure che Jackie rispondesse; salì la scale rapidamente e percorse meccanicamente il corridoio che l’avrebbe portato alla sua stanza da letto. Era ancora sorpreso per quello strano incontro, ma soprattutto sperava che Jackie non avesse visto da dove proveniva. Che l’avesse visto venire invece dagli alloggi della servitù? Non poteva permettere che Jade venisse a sapere di questa sua avventura notturna o sicuramente avrebbe capito. Violetta era diventata per lui peggio di un’ossessione. Ricercava ostinatamente qualche indizio che provasse la sua innocenza; anche se ormai si era da parecchio arreso all’evidenza dei fatti, una parte di lui non riusciva ad accettarlo e addirittura lo costringeva a togliersi ore di sonno per portare avanti le sue folli ricerche. Quella notte era stato nella camera che Violetta divideva con Lena per cercare qualche indizio che la scagionasse o al contrario ne confermasse la colpevolezza. Non appena entrato però fu investito da una marea di ricordi, uno più doloroso dell’altro.
“Ecco fatto, e ora sotto le coperte!” le ordinò. Violetta obbedì senza riuscire ad evitare di fare battutine a proposito, ma non appena si fu messa sotto le coperte venne scossa dai brividi. “Avresti dovuto prima cambiarti d’abito…adesso hai bagnato tutto il letto” la rimproverò sedendosi sul bordo del letto. La ragazza non rispose, ma si limitò a battere i denti, mentre il corpo continuava a tremare. Leon sospirò, quindi si tolse la maglia, rimanendo così a torso nudo. In quel modo non avrebbe peggiorato ancora la situazione; si mise sotto le coperte al suo fianco, e la abbracciò dolcemente cercando di trasmetterle il calore del suo corpo. “Va un po’ meglio?” le sussurrò apprensivo. Violetta era rimasta troppo sconvolta per quel gesto per dire qualunque cosa, quindi si limitò ad annuire, poggiando il capo sul petto caldo, e sentendo il suono dei battiti del suo cuore cullarla come un’antica sinfonia che celava chissà quali segreti. Tra le braccia di Leon sentì la stanchezza farsi strada, mentre le sfiorava il braccio accarezzandolo con il pollice. Lentamente chiuse gli occhi, con un sorriso stampato sul volto, mentre Leon le baciò in modo protettivo la fronte. “Non ti lascerò andare mai più. D'ora in poi ci sarò io per proteggerti”.
Come poteva arrivare ad odiarla se era lui stesso ad aggrapparsi a quei dolci ricordi che parevano ormai fin troppo lontani? Più si ripeteva che era stata tutta una menzogna più la voragine che sentiva nel petto si faceva profonda, ma non riusciva a rimuovere la profonda gioia provata in quei giorni. Quanto l’aveva amata e quanto tuttora l’amava nessuno avrebbe potuto capirlo, neppure lui trovava una spiegazione. Sapeva che se l’avesse incontrata avrebbe dovuto ucciderla, se l’era promesso, ma ci sarebbe riuscito una volta che si fosse specchiato nuovamente quei meravigliosi occhi luminosi e pieni di vita? Violetta era tutto ciò che gli mancava e che pensava non avrebbe mai potuto avere. Non aveva trovato in ogni caso nulla di nulla nella camera delle due ragazze, le sue ricerche non conducevano mai a nulla di buono. Non poteva continuare a stare lì, tormentato da pensieri che non facevano altro che debilitarlo. Si, era diventato un debole.
“Vattene via. Lasciami in pace” sibilò rivolto al vuoto, raggomitolandosi sul letto. Non aveva altra scelta: doveva parlare con Jade e convincerla a fargli abbandonare quel castello maledetto.
 
Libi si guardò attorno ripetutamente, con l’arco imbracciato pronta a scoccare una delle sue frecce. Grazie ad alcune lezioni che le aveva dato Rampante aveva imparato a creare anche una miscela velenosa con cui intingeva le punte delle frecce in modo da renderle letali. Era nei pressi di uno dei quattro ingressi, che si trovavano uno su ogni lato, ma l’intera cinta di mura era circondata da un fossato riempito di acqua stagnante, e per superarlo doveva essere abbassato il ponte levatoio. Per non parlare dell’elevato numero di sentinelle che dalle varie torrette erano pronte a dare l’allarme di fronte alla minima azione sospetta. Imprecò tra i denti quando si rese conto che il tratto di cespugli che le permettevano di muoversi senza essere vista veniva bruscamente interrotto dalla strada. Si fermò e rimase ad osservare, chiedendosi che fine avesse fatto Andres. Non appena erano giunti nei pressi del castello, le aveva detto di dividersi per controllare l’intero perimetro in modo più dettagliato e rapido. Il terreno scricchiolò dietro di lei e in quella manciata di secondo Libi sentì il cuore rallentare, i muscoli tendersi e la mano stringersi intorno all’impugnatura dell’arco. Si voltò di scatto, sfilando rapidamente una freccia dalla faretra e puntandola di fronte a lei.
“Ah, sei tu” mormorò, abbassando l’arma e squadrando Andres che aveva alzato le mani in segno di resa.
“Qualche novità?”. Libi scosse la testa e indicò la strada davanti a sé. “Da qui in poi è impossibile muoversi senza essere visti. Inoltre se provassimo a superare il fossato verremmo infilzati come spiedini prima ancora di poter raggiungere l’altra sponda”.
“La regina di Quadri ha pensato proprio a tutto” sentenziò Andres, sfiorandosi il mento spigoloso con il dorso della mano. “Eppure siamo così vicini...”.
“Gli altri non prenderanno molto bene questa notizia. Sembra che la nostra missione finisca qui” disse Libi, rimettendosi l’arco in spalla e scrollando le spalle. Non era il tipo che si arrendeva facilmente, anzi era una ragazza molto tenace, l’aveva dimostrato quando non si era arresa nella ricerca di Andres e gli altri, ma era chiaro che stavolta la riuscita era praticamente impossibile.
“Non penso proprio. Ho un piano. E’ molto rischioso, ma...non vedo altre alternative”.
“Oh, bene, e immagino che anche stavolta vorrai fare l’eroe e andare a rischiare la vita per conto tuo”. Andres guardò Libi di sbieco: perché si ostinava sempre ad andargli contro? Che gli costava rispettare una sua decisione? Non voleva mettere a repentaglio la vita degli altri, non poteva sopportare un altro sacrificio inutile come quello di Serdna.  Non seppe dire quanto a lungo riuscì a reggere lo sguardo duro di Libi, ma quando girò il capo verso destra per interrompere quel dannoso contatto visivo gli sembrava fossero passati secoli.
“Risposta esemplare, Andres, risposta esemplare” sibilò la ragazza, passandogli accanto e scostandolo bruscamente con una spallata. Andres non capiva il perché di tanto astio nei suoi confronti; non era stato lui a cacciarla, né era stato lui a cercarla per chiederle di tornare. Aveva rispettato la sua scelta dall’inizio alla fine e non l’aveva giudicata in nessun momento, quindi non meritava quel trattamento. Nervosamente si grattò il braccio, mordendosi il labbro in preda a parecchi dubbi. Non era certo al cento per cento, ma forse Libi gli parlava in quel modo o peggio ancora lo evitava solo perché aveva visto che tra lui e Emma c’era qualcosa. Ma aveva le mani legate, e questo Libi sembrava non averlo capito.
 
“Guardalo...ha anche il coraggio di fare l’offeso! Ha la testa più vuota di quella di Lara!” sbuffò Lena, gettando a terra con stizza il cumulo di rami secchi che aveva raccolto per il fuoco di quella sera. Il mago aveva protetto la radura con degli incantesimi difensivi e di camuffamento, per cui non correvano alcun rischio di essere localizzati. Thomas alzò lo sguardo e le fece cenno di sedersi affianco. “Non ha mica capito che è arrivato tardi! Mi chiedo come si possa essere tanto ottusi” continuò la ragazza, ignorando l’invito del Bianconiglio e squadrando Maxi da lontano, che nel frattempo stava parlando con Dj.
“Penso solo che si sia sentito ferito, anche io lo sono stato...”
“E quindi? Per questo deve sfogare la sua frustrazione su Violetta? Continua a provocarla, ignorandola di proposito, ti sembra corretto?” lo interruppe Lena furiosamente, indicando senza alcun ritegno il ragazzo, che sentitosi chiamato in causa non poté non voltarsi verso di lei. Quella ragazza lo infastidiva terribilmente, ma in fin dei conti non gli interessava cosa avesse da dire. Aspettava solo il momento giusto per raccontare ad Andres della relazione tra Leon e Violetta, in questo modo sicuramente il suo amico l’avrebbe cacciata dal gruppo. Solo il sentir pronunciare il nome di Vargas avrebbe fatto perdere il controllo ad Andres.
“...E’ solo questione di tempo prima che Andres non provi a commettere qualche sciocchezza”. Si costrinse a concentrarsi su ciò che gli stava dicendo Dj; il tempo per la sua vendetta sarebbe arrivato, adesso aveva cose più importanti a cui pensare.
“Tu credi voglia usare l’elmo per entrare nel Palazzo di Quadri da solo?” riassunse brevemente Maxi, grattandosi il mento, dubbioso. Certo, il loro capo aveva avuto modo di conoscere l’enorme potere dell’elmo, che però era altrettanto difficile da usare. Il mago glielo aveva ripetuto più volte quando aveva cercato di usarlo per poter vedere Violetta all’interno del castello. Il pensiero di ciò che aveva fatto per lei, di quanto aveva rischiato anche solo per un suo sorriso, gli provocò una fitta allo stomaco. “Non può arrivare a tanto!”. Cercò di scartare quell’eventualità, ma pensandoci bene Dj aveva ragione. Andres era disposto a tutto per recuperare lo scudo, ma non avrebbe mai voluto che qualcun altro rischiasse la vita oltre lui.
“Capisco che non voglia portare tutti...Federico ad esempio non potrebbe essere di alcun aiuto, come anche Lena e Thomas”.
“E Violetta” aggiunse prontamente Maxi, facendo assumere all’altro un’espressione di rimprovero.
“Quella ragazza è la chiave di tutto, è più utile di tutti noi messi insieme. In ogni caso, se ho imparato a conoscere bene Andres...”.
“Che cosa state dicendo su Andres?” chiese Emma, alle loro spalle, avendo ascoltato quell’ultima parte di conversazione. Dj lanciò un’occhiata a Maxi, come per avere una conferma di ciò che aveva pensato. Emma era in gamba, aveva sangue freddo e con le armi se la cavava egregiamente. Era un elemento da non sottovalutare per il suo piano. Senza pensarci troppo fece cenno alla ragazza di avvicinarsi e quando fu sicuro che nessun altro li stesse ascoltando cominciò a esporre il suo piano.
 
Era notte fonda e Andres si muoveva silenziosamente, osservando con attenzione i compagni in mezzo a cui si trovava. Francesca dormiva profondamente rannicchiata a terra, la mano stretta in quella di Federico. Quei due riuscivano a farsi forza in ogni occasione, persino la più dura. Avevano attraversato tanti ostacoli che li avevano visti separati, ma adesso erano più uniti che mai. Poco lontano c’erano Libi, Marcela, Lena e Thomas. Si avvicinò a quest’ultimo, sfilandogli la spada da sotto il braccio. Il Bianconiglio grugnì appena per poi girarsi dall’altra parte, continuando a sonnecchiare. Dai racconti di Maxi e gli altri aveva compreso l’enorme potere che aveva quella spada, in grado di soggiogare persino la mente di chi la impugnava. Per questo decise di tenerla nel suo fodero: l’avrebbe usata solo in casi estremi. Dj e Maxi invece riposavano con la schiena poggiata al tronco di un albero: il mago aveva il capo poggiato sulla spalla del compagno ed entrambi dormivano profondamente. Stretta nella mano di Maxi c’era una borsa di pelle voluminosa, dentro cui doveva trovarsi l’elmo. Chissà se Dj aveva lanciato su quella borsa un qualche incantesimo o se Maxi stesse solo facendo finta di dormire, mentre in realtà era con i sensi all’erta...Dopo aver esitato per qualche istante allungò la mano e strinse con delicatezza le cinghie della borsa sulla spalla del ragazzo.
“Mh...” mormorò Maxi, agitandosi appena dopo aver avvertito il contatto, seppure lieve, di un estraneo. Lentamente Andres, fece scivolare via le cinghie, e alzò appena il braccio dell’altro per poter prendere la borsa. L’aprì con mano, tremante e sgranò gli occhi: dentro c’erano solo un mucchio di sassi, nient’altro. Che fine aveva fatto l’elmo?
“Cerchi questo?” sussurrò qualcuno alle sue spalle, facendolo letteralmente sobbalzare. Emma teneva l’elmo con una mano, mentre con l’altra gli puntava il dito contro con fare accusatorio.
“Sapevamo che avresti cercato di usarlo”. Andres si voltò di nuovo di scatto e vide Dj e Maxi alzarsi rapidamente, per porre fine a quella messinscena. 
“Voi non potete capire...è l’unico modo. Non si può entrare in quel maledetto castello!” sibilò Andres esasperato, attento a non alzare troppo il tono di voce per non spaventare gli altri.
“E cosa pensi di risolvere andando da solo?” domandò Emma.
“Io...non posso permettere a nessuno di voi di venire, capito?”
“No che non capiamo!” si intromise Maxi, allargando le braccia. “Ti abbiamo seguito fino a qui, non abbiamo mai messo in discussione i tuoi ordini, abbiamo tutti un motivo per volere quello scudo al sicuro nel regno di Picche. Che cosa cambia dalle altre volte?”.
Andres non poteva più reggere quella pressione. Si sentiva come schiacciato, la verità costava troppo in ogni caso. Rivelare il suo peggior incubo era come deluderli. Ma loro non avevano visto ciò che aveva visto lui. Anche se non era sicuro dell’immagine avvolta dal fuoco, lui sapeva che nessuno a parte lui poteva mettere piede in quel castello. Con uno scatto cercò di afferrare l’elmo, ma Emma lo scartò rapidamente di lato, rischiando di farlo sbilanciare.
“Capisco che non vuoi lasciare gli altri da soli, senza una guida. Ma in ogni caso avrai bisogno di me. Come pensi di trovare lo scudo là dentro senza l’aiuto della magia?” osservò il mago, prendendogli il braccio e guardandolo intensamente.
“E l’elmo non è tanto facile da usare. Però io possiedo abbastanza esperienza...”. Maxi pronunciò quelle parole con amarezza, ricordando i giorni in cui aveva usato quell’artefatto di nascosto unicamente per vedere la ragazza di cui si era follemente innamorato. Ma Violetta era stata chiara e aveva distrutto ogni sua speranza sull’Isola Riflesso, portandolo sul ciglio di un baratro. Lasciarsi cadere e venire inghiottito dalla rabbia e dal rancore era così facile ed una voce dentro lo implorava di seguire questa strada. Ma la luce dello sguardo di Violetta vinceva quelle tenebre e non riusciva ad odiarla nonostante tutto.
“Hai bisogno anche di me” disse Emma, facendo sbiancare Andres che si mise a scuotere la testa nervoso. “Non voglio nessuno con me”.
“Io invece penso che dovresti accettare il loro aiuto”. Un’esile figura emerse dalle tenebre, con le braccia strette al petto e lo sguardo timoroso. Violetta. Andres non riusciva a capire come una persona tanto fragile e innocente potesse essere la salvezza di tutto il Paese delle Meraviglie, ma lei era la Prescelta, la Regina Bianca era stata chiara. “E...vorrei venire anche io” aggiunse, impallidendo al solo pensiero di ciò che aveva appena detto.
“Questo è ridicolo!” fece per strepitare Maxi, ma venne subito messo a tacere da Dj che indicò gli altri compagni della comitiva, che stavano ancora profondamente dormendo.
“Penso non sia una brutta idea. Così vedremo il valore della Prescelta” sogghignò Emma, con un’evidente vena ironica. Prese il coltello che teneva sulla cinta della casacca e glielo passò con diffidenza. “Potrebbe servirti”.
“Non diciamo sciocchezze, qui nessuno va da nessuna parte!” esclamò sottovoce Andres, cominciando ad arrabbiarsi terribilmente. Il suo piano era semplice, ma adesso si stava complicando terribilmente. Ammise con se stesso che l’aiuto di Maxi e Dj era fondamentale per quella che si rivelava di suo come una missione suicida. 
Mentre Violetta si passava ancora l’arma tra le mani, incredula, Maxi la guardava con astio e non riusciva a credere che se la sarebbe ritrovata in una missione tanto delicata. Sarebbe stata sicuramente d’intralcio, e poi non voleva che rischiasse la vita in quel modo. Si passò nervosamente le mani tra i capelli, incerto sul da farsi. Era ancora in tempo per raccontare tutto ad Andres, in questo modo lui sicuramente l’avrebbe allontanata.
“Andres, io...” fece per dire qualcosa, ma l’espressione tesa di Andres non lo incoraggiò affatto.
“D’accordo. Non mi sembra di avere altra scena. Ma ad un mio ordine voi usate l’elmo e tornate qui” si arrese il ragazzo, deciso comunque a perseguire i suoi scopi, senza dover avere l’aiuto di nessuno. Maxi, Dj e Emma si scambiarono un’occhiata, quindi annuirono con convinzione.
“A lei ci penso io. Non oseranno nemmeno sfiorarla” disse Dj, indicando con lo sguardo Violetta, che abbozzò un sorriso grato.
Senza perdere altro tempo si misero tutti in cerchio. Andres guardò da lontano la figura di Libi addormentata su un lato. Forse quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe vista e non aveva neppure la possibilità di dirle addio. Sospirò, voltandosi poi verso Emma e rivolgendole un sorriso tirato. La bionda gli strinse la mano, cercando di infondergli coraggio. “Supereremo anche questa” sussurrò, alzandosi in punta di piedi e schioccandogli un leggero e impacciato bacio sulla guancia. Andres annuì, poco convinto. Emma era rude, ma in fondo teneva veramente a lui, forse addirittura lo amava. Maxi indossò l’elmo, rompendo gli indugi. Chiuse gli occhi, concentrandosi, pregando l’artefatto di condurli dentro le mura, possibilmente sani e salvi. Il terreno prese a vorticare, inghiottendoli mano a mano. Quando il vortice si richiuse su se stesso, Libi aprì gli occhi di scatto.
 
Un pendolo, un letto a due piazze con i pomelli d’ottone. C’era di tutto in quel buco, buio e sempre più stretto. Violetta aveva sperato di non dover rivivere la sgradevole sensazione di una caduta senza fine, e invece si ritrovava nuovamente a pregare che finisse il prima possibile. Per poco non rischiò di andare addosso a un enorme armadio nero, che per fortuna le vorticò accanto salendo verso l’alto. O forse era lei che scendeva troppo in fretta? Non ebbe il tempo nemmeno di rifletterci su che si ritrovò scaraventata a terra. Il pavimento era liscio e levigato, illuminato da una tenue luce verdastra. Si rimise in piedi, ancora in preda ai capogiri, e subito si guardò attorno in cerca degli altri. Un sospiro di sollievo le uscì spontaneo quando li vide al suo fianco, frastornati ma illesi. Le torce che illuminavano quel lungo corridoio di marmo nero emettevano delle lingue di fuoco verdi brillanti. Lungo le pareti c’erano anche alcuni dipinti antichi e un busto di marmo di cui riconobbe subito il soggetto: la regina di Quadri. Il volto inespressivo illuminato da un freddo sorriso era perfino più spaventoso di quello di Ludmilla Ferro. Violetta sfiorò con l’indice le pareti e si rese conto che erano lisce e levigate in modo impeccabile tanto quanto il pavimento. Nulla di quell’atmosfera dava un’idea rassicurante o accogliente; anzi, la stregoneria applicata al fuoco delle torce sembrava quasi voler avvertire chiunque di stare alla larga.
“Dove ci troviamo?”. Andres ruppe il silenzio, rivolgendo quella domanda a Maxi, che ancora indossava l’elmo. L’altro in tutta risposta scosse la testa, confuso. “Non ne ho idea...ho chiesto solo di entrare nel castello ma...qualcosa interferisce. Non riesco a visualizzare nulla, non riesco nemmeno ad avere un’idea generale della pianta”.
Andres annuì: non si aspettava certo che fosse semplice, anzi. Ludmilla non era affatto un’ingenua, era molto astuta e aveva preso sicuramente provvedimenti contro intrusi provvisti di magia. Il potere dell’elmo non era stato annullato, era troppo potente, ma le sue capacità erano state limitate e inibite. Andres estrasse la spada e rimase all’erta, corrugando la fronte.
“Non capisco” mormorò Dj, guardandosi intorno in preda al panico. “Non sento nulla. Non percepisco la magia dello scudo, nulla di nulla. E’ come se qualcosa mi ronzasse continuamente in testa impedendomi di concentrarmi”. Aprì il palmo della mano e tentò di farvi apparire una fiammella, ma non accadde nulla. Persino la sua magia in quel luogo non aveva alcun effetto. Era completamente inutile, anzi temeva che sarebbe potuto essere solo d’intralcio per la sua missione. Come poteva essere stato tanto ingenuo da non prevedere che Ludmilla avrebbe in qualche modo reso inutilizzabile la magia? Senza l’elmo e i suoi poteri come potevano trovare lo scudo in quel dedalo di corridoi e stanze?
Violetta si morse il labbro, capendo come si sentisse Dj in quel momento. Ignorò completamente le imprecazioni pronunciate a denti stretti da Andres e si chiese cosa avrebbe dovuto fare. Mai come in quel momento le servivano le indicazioni dell’autore impartite attraverso quella voce cavernosa. D’altronde il futuro per lei era stato deciso, quindi in qualche modo avrebbe dovuto riuscire a riunire i pezzi dell’armatura. Ma Beto le aveva anche detto che lei con le sue scelte, usciva dagli schemi della storia e per questo si rendeva artefice del suo destino. Forse l’Autore avrebbe preferito che lei fosse rimasta con gli altri? Lo scudo sarebbe stato recuperato in qualche altro modo, sacrificando Andres, Dj, Maxi e Emma? Il terrore si fece strada nel suo cuore, cancellando ogni barlume di lucidità.
“Forse dovremmo...andare di là” disse Maxi indicando avanti. Fu proprio quando vennero pronunciate quelle parole, che la misteriosa voce si fece finalmente sentire. No.
“No” ripeté Violetta. Tutti la squadrarono sorpresi. “Dobbiamo andare dalla parte opposta” mormorò indicando con la mano tremante dietro di loro.
“Lo dici solo per andarmi contro, e non mi sembra questo il cas...”.
“Smettila due secondi, Maxi! E’ ovvio che ce lo sta dicendo con cognizione di causa, giusto Violetta?” esclamò Dj, ignorando lo sguardo inceneritore di Maxi che era stato interrotto da lui. La ragazza annuì, rimanendo in silenzio. “Io mi fido. Non abbiamo un piano, siamo in un posto pieno di nemici e non oso immaginare che altro ci aspetta. Lei è la Prescelta, penso che sappia quello che sta facendo” continuò il mago, schierandosi apertamente dalla parte di Violetta, che si sentì rincuorata di quell’appoggio. Maxi in tutta risposta incrociò le braccia al petto, sospirando rumorosamente: era chiaro che Andres avrebbe dato retta a Dj, e di conseguenza anche Emma, a meno che lui non avesse parlato. Era forse quello il momento di dire tutta la verità circa Violetta e Leon? Si costrinse a pensare che la missione fosse più importante di una stupida vendetta personale, quindi tacque.
“Se le cose stanno così, guidaci” sussurrò Andres, parecchio a disagio. Non era abituato a cedere il comando a qualcuno. Quando lui e Serdna avevano messo su il movimento di resistenza era sempre stato chiaro a tutti che il suo dovesse essere il ruolo del leader. Di tanto in tanto lasciava prendere decisioni importanti anche a Libi, ma solo perché di lei si fidava ciecamente. Ma Violetta non era Libi, Violetta era una ragazza recuperata per caso coinvolta in una profezia che riguardava il destino del Paese delle Meraviglie. Quel peso era troppo grande per una ragazzina tanto fragile, che non sapeva nulla dei conflitti che la circondavano. Per questo era sempre diffidente nei suoi confronti, ma in quelle circostante sentiva di non avere scelta.
Violetta fece qualche passo in avanti, superando le occhiate scettiche di Emma e cercando di puntare la sua attenzione su Dj, che la incoraggiava con un sorriso tirato, in netto contrasto con la situazione drammatica in cui si trovavano. Se prima avanzò con qualche insicurezza, tenendo la mano poggiata alla parete sinistra, senza nemmeno rendersene conto cominciò a seguire un percorso prestabilito. Prima ancora che potessero avvertire il suono delle armature di qualche sentinella avevano già svoltato in un nuovo corridoio buio e silenzioso. Violetta credeva che sarebbero dovuti scendere fino a raggiungere le viscere del castello. Aveva sempre pensato che fosse il luogo per eccellenza dove nascondere qualcosa di importante, o almeno così aveva carpito dalle numerose letture di tesori nascosti e storie cavalleresche ed eroiche. Ma invece che scendere loro continuavano a salire, scalino dopo scalino. Sembrava non si arrivasse mai, fino a quando non si trovarono di fronte a un portone di legno che sbarrava loro l’ingresso. Andres fece un cenno a Emma, che annuì piazzandosi su un lato della porta. Quindi la aprì lentamente, per poi sbarrarla di scatto e aggredire un eventuale nemico. Si trovò invece su uno spiazzo circolare, protetto da merli leggermente arcuati.
“Siamo…fuori” constatò Maxi, uscendo e guardandosi intorno: era notte fonda e non si vedeva a un palmo dal naso. Si voltò indietro per cercare una qualche spiegazione logica ma il fiato gli si mozzò in gola. Intorno al torrione da cui erano usciti si avvolgeva una scalinata di cristallo che si perdeva tra le nuvole. Quanto in alto erano arrivati?
Violetta lo raggiunse osservando il suo viso pallido. Quando si girò rimase anche lei a bocca spalancata di fronte a quello spettacolo, così come tutti gli altri.
“N-non vorrete salire, vero?” balbettò Maxi, sentendo le gambe farsi di ricotta.
“Dopo di te” sogghignò Dj, facendo un pomposo inchino e indicando il primo scalino. “Vado io” disse senza indugio Andres, procedendo spedito. Prima di incominciare la scalata si rivolse agli altri: “Adesso potete anche tornare dagli altri, poss farcela da solo”.
Le facce eloquenti di Dj, Emma e Maxi e quella risoluta di Violetta sembravano però una risposta tutt’altro che affermativa. Strinse forte l’impugnatura della spada con l’intenzione di usarla anche contro i suoi compagni se necessario, ma il coraggio gli mancava. Non poteva ferirli, anche se sapeva che gli avrebbe sicuramente salvato la vita in quel modo. Abbassò lo sguardo e cominciò a salire sentendo dietro di lui i passi di coloro che, lo sapeva bene, non lo avrebbero mai lasciato solo.
Violetta non aveva mai provato tanto freddo in vita sua. Era come una sottile pioggia di lame taglienti che si conficcavano nella pelle. Non era naturale e probabilmente anche quello era opera di Ludmilla come la scalinata che procedeva verso l’alto. Improvvisamente la visuale le fu completamente annebbiata dal vapore della nuvola che stavano attraversando, tanto che si sentì incerta persino su dove mettere i piedi. Quando con il capo riemerse rimase incantata da quello che si ritrovò davanti. Era come se si fosse ritrovava catapultata nell’Olimpo dell’antica Grecia: un imponente tempio di cristallo si ergeva dinanzi a loro, con tanto di colonne in stile dorico, e sembrava che la struttura poggiasse esattamente sulla nuvola. Alla fine della scalinata però si rese conto che invece a reggerne il peso era un immenso pavimento trasparente decorato con dei fregi naturalistici.
“Però…quanta mania di grandezza!” esclamò Emma, strocendo il naso di fronte a tutta quella magnificenza. Violetta non poté non constatare che il tempio rispecchiava alla perfezione lo stile di Ludmilla: eleganza, lusso, potere. Di fronte all’entrata c’era una statua alta almeno tre metri che poggiava su un piedistallo quadrato. Raffigurava proprio Ludmilla Ferro, vestita con una lunga tunica e i capelli raccolti da una parte. Nella mano destra reggeva uno specchio, mentre nella sinistra una fiaccola. Il suo sguardo era penetrante e incuteva timore solo a guardarla. Le labbra erano piegate in un sorriso di disprezzo.
Il gruppo avanzò lentamente, aspettandosi una trappola da un momento all’altro, ma non accadde nulla. Andres salì i dieci scalini che portavano all’ingresso, seguito dagli altri. “Ho una brutta sensazione…” mormorò Maxi, allarmato. Non appena varcata la soglia, Maxi e Violetta si immobilizzarono. L’ambiente era diviso in tre navate lunghe con archi a tutto sesto sorretti da colonne. In fondo c’era un altare di pietra e dietro di esso un arco, protetto da fiamme dorate. Violetta mosse un passo in avanti e si immobilizzò sul colpo, rimanendo pietrificata. Le sembrava di essere tornata a vivere un incubo e il cuore le saltò in gola. Sulle pareti erano appesi specchi deformati dei tipi più svariati, specchi che le erano fin troppo familiari. Violetta guardò Maxi, e riconobbe in lui la stessa traccia di terrore. Quegli specchi provenivano dall’Isola Riflesso. 









NOTA AUTORE: Buonaseraaaa! Mi scuso per non aver aggiornato per un'eternità, ma se sapeste cose mi è successo...:( Il senso di fondo è che mi è stato rubato il portatile e oltre alla depressione per quello che mi è successo si è aggiunto il fatto che il capitolo che avevo quasi finito è stato completamente perso...ma non pensiamo a queste cose tristi, pensiamo al capitolo (se ci sono errori, mi scuso, con questa tastiera non sono ancora abituato...in ogni caso ho dato una letta, ma se vedete qualche errore non esitate a segnalarmeli :3). Alloooora, Jade come sempre è riuscita a evitare che la verità venisse a galla, anche se ci mancava davvero poco...apprendiamo anche del suo odio per il marito e per il figlio che tanto le ricorda Javier...vissuta all'ombra del Re ha pensato bene di eliminarlo così da avere il potere che tanto ama nelle sue mani. Nel frattempo Lara da un ultimatum e Jackie, che nel cuore della notte incontra Leon. Tutti e due hanno qualcosa da nascondere e fanno finta di nulla, credendo ciascuno alla scusa dell'altro. Povero Leon...:( Sta attraversando un periodo terribile, ma è chiaro che ancora sente qualcosa per Violetta...dai, Leon, non puoi cedere, continua a tenere accesa quella fiammella :3
Nel frattempo Andres litiga con Libi (e qui Ali immagino avrà qualcosa da dire sulla sua evidente ottusità), ma non riesce a mettere in atto il suo piano perché era stato previsto dal mitico Dj :P Alla fine a intraprendere la missione per riprendere lo scudo sono Emma, Andres, Dj, Maxi e Violetta (a sorpresa xD). Ed è proprio Violetta a salvare la situazione quando tutto sembrava perduto :3 Dopo una pericolosa scalata notturna il gruppo si ritrova in un tempio che sembra quasi poggiare sulle nuvole...E dentro di essi li attendono la prima delle due trappole (SPOILEEEEEER) , ossia gli specchi dell'Isola Riflesso, con cui Violetta e Maxi hanno già avuto a che fare, e di cui portano ricordi poco piacevoli- e la seconda sfida...diciamo che si può intuire da questo capitolo qualcosina, ma chissà se ci arrivate :P Spero che questo capitolo vi piaccia, e perdonate ancora il ritardo, spero non succeda più qualcosa del genere :/ Grazie a tutti voi che seguite/recensite la storia, e alla prossima! Con affetto,
syontai :3

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Capitolo 64
*** La strada facile ***


Capitolo 64
La strada facile

Angie posò la tazzina dopo aver dato un lungo sorso di tè. In effetti il profumo di rosa che emanava la miscela le servì a distendere i nervi, ma si sentiva ancora agitata.
“Ve meglio?”. La donna sollevò lo sguardo, annuendo appena. Era la prima volta che incontrava Beto; quando aveva bussato alla porta della piccola abitazione in legno che Pablo aveva fatto costruire per il suo lontano antenato in un angolo del giardino del palazzo, aveva pensato che sarebbe stata accolta da un uomo saggio e anziano e invece si era ritrovata di fronte a un uomo non troppo giovane, ma ancora nel fiore degli anni, che le aveva afferrato il braccio dopo un rapido inchino, trascinandola dentro. Sperava di trovare lì Pablo, visto che era tutto il giorno che sembrava essere sparito nel nulla, ma adesso che le era chiaro che non si trovava lì dentro non sapeva in che modo congedarsi senza sembrare scortese. Accettare un buon tè al cui infuso era stata aggiunta l’essenza dei petali di rosa, ottima per rilassarsi, le era parso il minimo. Beto aveva l’aria di un pazzo e se non fosse sicura che era innocuo probabilmente sarebbe scappata a gambe levate non appena visto. Non che i suoi compagni ispirassero più fiducia: il Ghiro era praticamente assente, continuamente perso nel suo mondo o stravaccato su una sedia in preda al suo ennesimo sonnellino ristoratore; la Lepre Marzolina al contrario aveva numerosi tic nervosi e di tanto in tanto si sentiva un colpo provocato dal piede che batteva sul pavimento di legno.
“Grazie mille per il tè” disse dopo qualche secondo di silenzio. Il modo in cui la osservava, come se le stesse leggendo l’anima, la metteva a disagio. In quella stanza non contava l’autorità che la corona le conferiva: davanti a Beto si sentiva ancora quella ragazzina ribelle che spesso veniva rimproverata dal padre.
“Siamo noi a dover ringraziare te e Pablo per l’ospitalità che ci avete offerto. Non so per quanto ancora il Tempo sarebbe stato clemente nei nostri confronti, se non avessimo trovato una nuova dimora” sorrise l’uomo. Angie deglutì silenziosamente: che cosa di tanto terribile avevano fatto Beto e gli altri per meritare una punizione del genere? Immaginò che chiederlo avrebbe riportato alla memoria di Beto ricordi terribili, quindi accantonò la sua curiosità.
“A proposito di Pablo…oggi è venuto a trovarti?” chiese Angie, approfittando del fatto che il suo interlocutore avesse tirato fuori il nome del marito.
“Si, proprio questa mattina. Era venuto per accertarsi che tutto andasse bene, immagino. E ovviamente mi ha chiesto cosa sapevo della profezia”.
“Quella pronunciata da Cassidy” confermò la donna, mordendosi il labbro inferiore. Non c’erano segreti tra lei e Pablo, per questo era stata informata di ciò che era successo. Il Cappellaio Matto annuì alzandosi in piedi con uno scatto, improvvisamente euforico: “Vostra figlia ha un grandissimo dono, voluto dal Libri Index, è un grande onore!”.
“Libri Index?”. Angie non aveva mai sentito parlare di questa persona, se di una persona si dovesse trattare. E pensare che credeva di conoscere ogni personalità influente del Paese delle Meraviglie.
“Non me ne stupisco affatto, nessuno lo conosce” aggiunse Beto, strizzandole l’occhio e risiedendosi compostamente.
“E hai parlato con Pablo di questo Libri Index?” lo incalzò la donna, sentendosi ancora più confusa. Che cosa intendeva dire con il fatto che sua figlia fosse stata scelta? Sapeva della profezia che riguardava l’incrocio di due grandi razze, ma pensava che fosse stata una decisione del destino.
“Non tutte le verità devono essere svelate e ci sono molte cose che Pablo non può e non deve sapere”.
Angie non stava capendo più nulla: a quale verità si riferiva? E perché loro non potevano venirne a conoscenza? Stare in quella casa l’avrebbe solo fatta impazzire come i suoi abitanti. Doveva cercare Pablo e parlargli, il resto passava in secondo piano.
“Io ora andrei…”. Angie si alzò lentamente con un sorriso di circostanza, a cui Beto rispose alzando la tazza da tè in segno di saluto. “Torni anche a trovarci quando vuole, sua maestà!” strillò la Lepre Marzolina, spingendola praticamente fuori dalla porta e richiudendola di botto.
Angie si grattò il capo confusa: quella visita non le aveva dato alcuna risposta, l’aveva solo riempita di nuovi interrogativi. Pablo però le aveva detto che Beto molto spesso era solito straparlare e dire cose senza senso…era anche quello il caso? Sentiva che ci fosse qualcosa di vero nelle parole del Cappellaio Matto, ma la luce del crepuscolo annichilì completamente ogni sua riflessione, talmente tanta era l’ansia di non aver ancora trovato suo marito da nessuna parte. Si diresse di nuovo al castello, passando attraverso un viale circondato da viticci che si intrecciavano tra loro formando archi silvestri. Qua e là facevano mostra dei piccoli fiori viole accesi, appena sbocciati. Adesso poteva benissimo capire come si doveva essere sentito Pablo quando si era svegliato e aveva scoperto della sua fuga. Più il tempo passava più temeva potesse essergli accaduto qualcosa di terribile. 
Senza quasi nemmeno accorgersene era già al sicuro tra le mura del palazzo, riflettendo cosa potesse aver spinto Pablo a sparire così, all’improvviso, da un momento all’altro. Aggirandosi di qua e di là senza una meta precisa, si trovò proprio di fronte alla stanza della figlia. Dietro lo stipite della porta, appiattito contro il muro in modo da non essere visto e con lo sguardo rivolto verso l’interno della stanza c'era proprio Pablo. Stava quasi per chiamarlo ad alta voce, ma l’uomo l’anticipò, facendole cenno di tacere. Da dentro proveniva un vociare concitato e Angie si avvicinò al marito di soppiatto, poggiandogli una mano sulla spalla e sporgendosi così da vedere anche lei quello che stava succedendo.
“Non esiste sempre il lieto fine, come nelle favole!” esclamò la bambina seduta sul letto, incrociando le braccia al petto. Fidel era seduto per terra di fronte a lei, con le gambe incrociate e aveva poggiato il libro di favole alla sua sinistra, con un’espressione accigliata.
“Questo succede quando non si crede possa esserci un lieto fine” rispose eloquentemente il ragazzino, stuzzicandola volontariamente.
“Se fosse come dici te allora non esisterebbero le guerre e tutti vivrebbero in pace!” rispose a tono Cassidy. La sua affermazione venne seguita da un lungo silenzio, prima che Fidel balbettasse qualcosa per cercare di cambiare argomento e tornare alla lettura. Pablo era rimasto a fissare la figlia, sentendo quelle parole trafiggergli il petto. La guerra aveva annullato le speranze di una generazione futura, e non poteva non sentirsi in parte colpevole. Esistevano però persone come Fidel, che si rifiutavano di arrendersi e cercavano un modo per fuggire la realtà. Quando lentamente scandiva le sillabe delle parole, gli occhi brillavano e non esisteva più nulla per lui al di fuori di quelle pagine ingiallite, che improvvisamente diventavano il suo mondo.
“Pablo…”. Angie si dimenticò persino di chiedere al marito dove fosse stato fino in quel momento, di fronte all’afflizione che gli vedeva provare in quel momento. L’uomo si voltò impercettibilmente verso di lei, sentendosi chiamato. Abbassò lo sguardo, prendendogli la mano e spostandola via dalla sua spalla.
“Ho bisogno di stare da solo” mormorò l’uomo. Senza aggiungere altro le passò affianco e Angie provò un brivido di freddo: Pablo non sembrava più lui, era un’altra persona, inghiottito nel vortice di disperazione che stava ormai divorando tutti senza alcuna pietà. Ma lei non poteva permettere che succedesse, non poteva permettere all’uomo che amava di diventare solo uno spettro di ciò che era. Sospirò profondamente e lo seguì a distanza, vedendolo poi ritirarsi nella loro stanza. Prese coraggio ed entrò senza neppure bussare: trovò l’uomo seduto ai piedi del letto, con il volto tra le mani, chiuso in un disperato silenzio. Si sentiva solo il rumore dei suoi respiri affannosi, probabilmente nel tentativo di non piangere.
“Dove sei stato?” gli chiese, sedendosi al suo fianco e accarezzandogli dolcemente la schiena.
“Nei sotterranei”. La risposta non la stupì affatto: Pablo stava cercando in tutti i modi di capire in che modo l’armatura avrebbe potuto aiutarli. Sperava di poter trovare un indizio nel pezzo custodito all’interno del palazzo. “E non è servito a nulla, capisci? E’ solo un inutile pezzo di ferro! Ho paura che affidandoci troppo a una profezia perderemo la guerra. Non posso permetterlo!” ringhiò Pablo, alzando il viso di scatto, con gli occhi che bruciavano di odio per se stesso.
“Non c’è nulla che io possa fare” concluse l’uomo, spengendosi all’istante.
“Questo non è vero!” esclamò Angie. “Pablo, senza di te il Regno non sarebbe mai stato in grado di organizzare una resistenza valida”.
“Non basta…L’hai sentita anche tu, vero? Nostra figlia non crede più in nulla”.
“Quando tutto questo finirà le insegneremo di nuovo a sperare” disse la regina, stringendogli la mano. “Però adesso devi pensare a riposare. Non ti gioverà rimanere in questo stato”.
“Come se fosse facile” ribatté il re, lasciandosi sfuggire una risata amara. “Non riesco nemmeno a ricordare l’ultima volta in cui sono riuscito a dormire tranquillamente”.
Angie annuì. Non aveva mai voluto farglielo pesare, ma durante la notte si rendeva conto del suo sonno agitato. A volte addirittura lo sentiva alzarsi e fare qualche passo prima di risedersi con un sospiro affranto. Sperava che col tempo riuscisse a riposare tranquillamente, ma comprendeva perfettamente le sue ansie e le sue paure. Però le parole di Pablo nella palafitta della sua città natale non si erano spente nel suo animo, anzi lo infervoravano ancora di più, donandole uno scopo. Pablo aveva ragione: avrebbero affrontato tutto insieme, e prima o poi quell’incubo sarebbe finito.
“Ho un’idea…stenditi”. Pablo sollevò lo sguardo di scatto, diventando paonazzo e strabuzzando gli occhi. “A-Angie, ma…”.
“Che hai capito!” rise Angie, dandogli un colpetto alla spalla. Si incantò quando Pablo accennò un mezzo sorriso. Era tanto che non le era stato permesso osservare quella luce nello sguardo di Pablo, la luce di un uomo che era dovuto invecchiare troppo presto a causa delle circostanze avverse ma che ancora nascondeva dentro di sé la vivacità e la gioia di vivere di un giovane. Senza chiederle nulla del perché di quella richiesta si stese sul letto, raggiunto da Angie che si sistemò al suo lato. Gli accarezzò teneramente i capelli, sfiorandogli la guancia ruvida. Poggiò l’altra mano sul petto, accarezzandolo e cullandolo col solo movimento delle dita. Pablo chiuse gli occhi, decisamente più rilassato, ma ancora rigido.
Angie sorrise teneramente e accostò le labbra al suo orecchio, cominciando a intonare una dolce melodia.
Si te sientes perdido en ningún lado
Viajando tu mundo del pasado
Si dices mi nombre yo te iré a buscar
 
Si crees que todo está olvidado
Que tu cielo azul está nublado
Si dices mi te iré a encontrar
 
Es tan fuerte lo que creo y siento
Que ya nada detendrá este momento
El pasado es un recuerdo
Y los sueños crecen siempre crecerán
 
Ya verás que algo se enciende de nuevo
Tiene sentido intentar cuando estamos juntos
Algo se enciende de nuevo
Tiene sentido intentar cuando estamos juntos
Cuando estamos juntos
Podemos soñar

L’uomo finalmente cedette alla stanchezza e il battito del suo cuore rallentò seguendo quella canzone appena sussurrata, che Angie aveva scritto in una fredda serata alla taverna, ispirata dal discorso di un giovane ardimentoso. Gli accarezzò la barba, premendo le labbra sulla sua fronte. Chiuse gli occhi e si accoccolò al suo fianco, accennando un sorriso. Pablo aveva ritrovato la pace, anche se solo per un breve lasso di tempo, ed era stato anche merito suo, del suo amore. Insieme potevano davvero farsi forza, neppure la più terribile delle disgrazie avrebbe potuto abbatterli. Non finché erano insieme.
"Ti amo, Angie". La voce sonnolenta di Pablo la raggiunse quando ormai stava per addormentarsi. Sorrise, decisamente più rilassata dopo quella dichiarazione.
"Anch'io ti amo" soffiò appena, rannicchiandosi ancora di più, prima di addormentarsi al suo fianco. 
 
Violetta respirò profondamente, osservando attentamente i frammenti dello specchio ai suoi piedi. Ancora una volta aveva dovuto affrontare la visione di Leon, e sebbene questa volta si fosse sentita pronta per un attimo il cuore le aveva implorato di cedere di fronte allo sguardo magnetico del principe, di fronte alla sua bellezza innaturale, quanto scavata da immense sofferenze. Il corpo aveva avuto l’impulso a slanciarsi in avanti e a rifugiarsi tra le sue braccia, esattamente come era successo nell’Isola Riflesso. Al suo fianco Maxi era pallido e si reggeva a stento in piedi: anche lui aveva rivisto sua madre, ma almeno non in compagnia di Violetta. Qualcosa era cambiato nel suo cuore dopo tutto quello che era successo? Non ne era sicuro, ma si sentiva diverso. Gli archi di cristallo scintillavano sopra le loro teste, come divinità disinteressate alle loro pene. Dj giaceva a terra in una pozza di sangue, circondato da schegge scintillanti, esausto. Grazie alle indicazioni di Violetta era riuscito a sconfiggere la sua più grande paura. Per un momento aveva esitato di fronte alla figura del padre, a differenza di Emma che aveva assalito Broadway-riflesso senza pensarci due volte. In effetti il compagno era stato il suo unico amico, e forse per questo la persona che più si era radicata nel suo cuore, ma era anche colui che li aveva traditi, e per lei questo significava solo essere indegni ai suoi occhi. In ogni caso, sia lui come Emma erano riusciti a sconfiggere il maleficio, sebbene lo scontro li avesse messi a dura prova psicologicamente e fisicamente. Violetta si voltò verso Andres e lo vide alle prese con qualcuno che aveva le sue stesse sembianze: sembravano due gocce d’acqua, solo la cicatrice li contraddistingueva.
“Volevi tanto rivedermi, ed eccomi qua”. La voce cavernosa del riflesso riecheggiò in quel santuario di cristallo e tutti si voltarono nella sua direzione, puntando la loro attenzione sulle sorti di quello scontro. Nessuno di loro aveva la forza per prestare soccorso ad Andres e probabilmente sarebbe stato inutile: era una sfida che Andres avrebbe dovuto vincere da solo. “Da quando mi hai visto in quella città popolata da spettri non pensi ad altro, ammettilo” continuò Serdna, facendo roteare il manico dello spadone che aveva in mano. Di fronte a lui Andres continuava a tenersi sulla difensiva con il fiatone. Aveva sfoderato la spada magica che avevano recuperato a Cuori non appena era iniziato lo scontro, ma sembrava non avere alcun effetto sul suo rivale. Inoltre quelle parole dette come se dovessero rivelarsi un’accusa non facevano che deconcentrarlo, distogliendolo dal suo vero obiettivo. Serdna aveva ragione, tante volte aveva pensato al loro incontro in quella città, chiedendosi cosa sarebbe successo se avesse scelto lui invece che rimanere nel mondo dei vivi. Una domanda che non avrebbe mai più trovato risposta. Adesso rivederselo di fronte, sebbene sotto forma di illusione malefica, lo destabilizzava, non riusciva nemmeno a pensare a una contromossa a quegli affondi così precisi e potenzialmente letali.
“Andiamo fratello, sai fare solo questo?” ghignò Serdna, continuando ad attaccare senza sosta. “E pensare che tu eri quello capace con la spada, mentre io ero il cervello”. Andres si sentiva sperduto e nonostante sentisse la voce dei suoi compagni che gli intimavano di non mollare, che gli urlavano che quello non era il suo vero fratello, una parte di lui non voleva crederci.
“Andres!”. Alle sue spalle avvertiva la voce di Maxi, che sovrastava le altre,  persino i suoi stessi pensieri. “So cosa significa perdere qualcuno a noi caro…Ho avuto l’occasione di conoscere Serdna: era una persona giusta, intelligente, e soprattutto ti voleva bene come solo un fratello sa fare. Non vorrebbe vederti vivere una vita sempre e solo a metà”.
Un colpo di spada gli recise la manica della maglia colpendolo solo di striscio. Una sottile scia vermiglia gli si formò fino al gomito. Gli era bastato solo quell’attimo di deconcentrazione per rischiare di essere ferito a morte. Maxi aveva ragione: continuava a stare in quel limbo che vedeva da una parte la morte, dove lo attendeva Serdna, e dall’altra la vita, che lo reclamava a forza. Più volte aveva addirittura sperato di trovare la pace a quel conflitto interiore e gettandosi a capofitto nel pericolo aveva sfidato più volte la morte, addirittura cercandola e abbracciandola. Non si era reso conto fino a quel momento quanto la sua vita fosse invece un dono prezioso e che lui dovesse custodirlo gelosamente non solo per sé, ma anche per il fratello. Il braccio si mosse da solo, parando il colpo e roteando su se stesso, per poi affondare. La lama penetrò il riflesso all’altezza del petto. Si formarono tante piccole crepe che raggiunsero le pupille dilatate di Serdna, il quale esplose in tanti frammenti di vetro.
Subito dopo l’esplosione il silenzio regnò sovrano nel tempio. Violetta, crollò sulle ginocchia, ma bastò un’occhiata severa di Emma a farla riscattare in piedi. Non poté fare a meno di chiedersi se Andres avesse visto il riflesso di Leon e avesse intuito qualcosa, ma il ragazzo sembrava non essersi accorto di nulla, o almeno era quello che dava a vedere. Dj le poggiò una mano sulla spalla, per farle forza. Violetta annuì, rispondendo a quel tacito incoraggiamento e lentamente si mosse per raggiungere l’altare. Più avanzava più le fiamme sembravano imponenti e minacciose, ma nonostante la paura la sua mente lavorava senza sosta, ponendosi mille e più interrogativi. Il fatto che lei avesse già affrontato gli specchi nell’Isola Riflesso era stato un caso oppure qualcuno aveva cercato di metterla in guardia, di aiutarla a superare quella temibile trappola una seconda volta? Qualcosa le diceva che dietro ancora una volta c’era Alice. Quel nome la tormentava, perché era sicura fosse la chiave per comprendere ogni cosa, ma allo stesso tempo era introvabile. Come si poteva parlare con una persona scomparsa secoli fa?
Sull’altare era poggiato un calice dorato con un liquido rossastro. Dietro di esso divampavano le lingue di fuoco dorato, che si alimentò non appena avvertita la sua presenza, arrivando a toccare il soffitto. L’arco era di pietra e non era annerito dal fuoco, segno che si trattava di una magia.
“E queste fiamme?” domandò Andres, posizionandosi alla sua sinistra e osservando quello spettacolo con parecchio nervosismo. Il mago sentì lo sguardo dei suoi compagni addosso, in attesa di un suo responso, quindi trasse un respiro profondo e mosse la mano in avanti, cercando di avvertire una qualche vibrazione, un indizio per cercare di decifrare i segreti di quello che sembrava essere un incantesimo arcano.
“Non scorgo segni di pericolo, sembra solo un’illusione, nulla di più” disse Dj, scrollando le spalle confuso. Non avvertiva assolutamente nulla, eppure salendo in quella torre i suoi poteri si erano in un certo senso risvegliati all’improvviso. Nei suoi occhi si rifletteva ogni singolo schizzo dorato e nessuno di essi lo metteva in allerta.
“Che sia solo ornamentale?” ipotizzò Emma, spiazzando tutti. “Insomma, guardate dove ci troviamo! Un tempio di cristallo sopra una nuvola! Non mi stupirei se servisse solo a fare scena” si affrettò ad aggiungere a mo’ di scusa.
“In effetti…” concordò Maxi, grattando nervosamente il medaglione con il simbolo di Fiori che aveva ricevuto in dono il giorno dell’incendio.
“Non fidatevi. E’ pericoloso, all’inizio non sentirete nulla, ma dopo le fiamme saranno in grado di bruciare la carne”. Andres era rimasto in silenzio fino all’ultimo, ma si era reso conto che il tempo stringeva e non potevano sapere se quel luogo venisse periodicamente passato in rassegna dalle guardie. Dovevano recuperare lo scudo e fuggire il prima possibile.
“Non capisco come tu…Aspetta. E’ questo quello che ti ha fatto vedere il Tempo? Quello di cui non ci hai mai parlato?”. Dj aveva rivolto quella domanda con la massima serietà, mentre Violetta osservava la scena confusa. Non capiva nemmeno di che cosa stessero parlando.
“Di qui in poi procedo da solo” esclamò freddamente Andres, posizionandosi di fronte a loro e allargando le braccia. Ma era troppo tardi, perché Emma lo aveva già scavalcato e aveva allungato il braccio, lasciando che la fiamma lo avvolgesse.
“NO!”. L’urlo disumano di Andres riecheggiò nella stanza, ma ormai era troppo tardi. Emma gli sorrise, quindi prese un respiro profondo ed entrò nel fuoco dorato, attraversando l’arco e scomparendo.
“NON DOVEVA SUCCEDERE, MALEDIZIONE!”. Andres sembrava fuori di sé, in preda al panico, quindi aggirò l’altare con un balzo e attraversò anch’egli l’arco senza indugiare neppure per un istante. Maxi lo seguì subito dopo, trattenendo il fiato per tutto il tempo impiegato per raggiungere la soglia e sparire oltre essa.
“Vado anch’io. Forse è meglio che tu rimanga qui. Se quello che ha visto Andres si realizzerà e ne ha così tanta paura…”. Prima che potesse finire però Violetta lo interruppe. “Vengo anch’io. Io…le cose possono cambiare”. Sapeva che solo lei poteva modificare il futuro con la sua sola presenza ed era proprio quella la sua speranza. Se Andres aveva avuto una visione solo lei aveva il potere di fare in modo che non si avverasse.  Dj non disse nulla, non le fece domande su quello che aveva appena detto, semplicemente distolse lo sguardo, rivolgendolo all’arco. Cominciò a camminare a passo svelto, chiudendo gli occhi e storcendo il viso in una smorfia, come se si aspettasse di provare un dolore atroce che però non sopraggiunse.
Violetta era rimasta sola, in preda ad una paura che non aveva mai provato prima d’ora. Fino ad ora non si era mai dovuta affidare completamente alle sua capacità, aveva sempre avuto qualcuno al fianco a spalleggiarla o a difenderla. Adesso invece dipendeva tutto da lei e non sapeva se ne sarebbe stata in grado. Mosse una mano in avanti per sfiorare il fuoco, ma subito la ritrasse terrorizzata. Non ci riusciva, era completamente paralizzata dal terrore. Si era mostrata sicura con il mago, ma adesso di quella sua spavalderia mostrata fino a prima non era rimasto nulla. Non voleva morire, non voleva che tutto finisse in quel posto sperduto tra le nuvole. Aveva ancora tante cose da fare: rivedere suo padre, ad esempio. Tornare nel suo mondo per vivere una vita normale. Riassaggiare per almeno un’ultima volta i biscotti alle nocciole di Olga, per poter scolpire nella mente il loro sapore. Studiare, leggere, vivere una vita normale. Rivedere Leon. Non il suo riflesso, non la sua immagine onirica; volevo poterlo rivedere in carne ed ossa, poterlo stringere tra le sue braccia. Gli mancava tutti di lui, i suoi baci, le mani che scorrevano audacemente sul suo corpo. E solo ora, in quel riflesso abbagliante che si profilava davanti a lei, capiva quanto fosse forte il bisogno che aveva di sentire al suo fianco quel ragazzo dagli occhi verdi. Furono proprio quei lampi smeraldo a occupare la sua mente mentre teneva gli occhi chiusi. Quando il palmo della mano sfiorò il fuoco avvertì solo un piacevole tepore. Che Emma avesse ragione e si trattasse solo di un abbellimento? Trattandosi di Ludmilla avrebbe potuto anche essere così, ma lei sapeva quanto subdola e diabolica potesse essere la regina di Quadri. In ogni caso non aveva altra scelta, quindi con passo tremante si immerse tra le fiamme, per poi oltrepassare l’arco.
Non appena ebbe varcato la soglia il tempio di cristallo intorno a lei scomparve e si ritrovò invece in una grotta spaziosa. Dal soffitto pendevano stalattiti e spuntoni di roccia. Davanti a lei si snodava un sottile corridoio oltre il quale c’era il vuoto. Non riusciva a scorgere nessuno dei suoi compagni, solo una luce in fondo. Facendosi coraggio cominciò ad avanzare, cercando di non abbassare lo sguardo. Il corridoio era tortuoso e molto spesso deviava bruscamente.
Dopo qualche minuto che camminava in solitudine si passò una mano sulla fronte sudata. Come mai faceva così caldo là dentro? Più il tempo passava più il caldo si faceva soffocante, e fu per lei una gioia non indifferente vedere finalmente la fine di quel corridoio. Su un’isola di roccia addossata alla parete della grotta c’era un piedistallo su cui poggiava lo scudo. Dietro di lui c’era la statua di un gargoyle di roccia appena abbozzata.
“Andres…?” chiamò sottovoce per paura di risvegliare qualche creatura mostruosa. Si portò una mano alla bocca, terrorizzata. Davanti a lei giacevano i corpi dei suoi compagni, avvolti in fiamme dorate che però terminavano con delle lingue nere come la pece.
Non sapeva che fare, come spegnere quelle fiamme. Il primo pensiero fu di cercare dell’acqua, ma si diede subito della stupida. Quelle non erano semplici fiamme, e poi come avrebbe trovato dell’acqua in un posto del genere? Corse verso il mago e si inginocchiò ai suoi piedi. Aveva gli occhi chiusi, relegato in un sonno profondo, ma dall’espressione era chiaro che stesse soffrendo. “Dj, svegliati, ti prego!”. Nella disperazione non si rese subito conto del fatto che le sue mani erano state anch’esse invase dal fuoco, ma prima che potesse accorgersene una spossatezza profonda la colse, non permettendole neppure di alzarsi. Provò a chiamare ancora una volta il nome del mago, il secondo dopo fu già troppo tardi. Cadde anche lei a terra, in preda al delirio delle fiamme che le annebbiavano le mente.
 
Una distesa infinita di erba si fondeva con l’orizzonte di un azzurro limpido. Nulla di quel posto ricordava la grotta vista fino a poco prima. La luce era la sovrana assoluta e una dolce melodia risuonava nell’aria circostanta. Violetta respirò a pieni polmoni: sapeva di fresco.
Bel posto, vero?
Violetta si girò di scatto indietro, da dove credeva provenisse quella misteriosa voce, eppure non c’era nessuno. Le ricordava la voce di Leon, profonda, bassa e dal tono solenne.
Ti piacerebbe vivere qui…per sempre?
Scosse la testa. Doveva essere la sua immaginazione a parlarle in quel modo. Abbassò lo sguardo, sentendosi improvvisamente il terreno mancare da sotto i piedi, sostituito da una distesa d’acqua cristallina. Cadde nell’acqua tiepida e avvertì un movimento lieve ed elegante alle sue spalle. Qualcuno l’afferrò da dietro, riportandola immediatamente a galla. A fatica si sedette sulla riva e cercò subito con lo sguardo chi l’aveva salvata. Una coda argentata emergeva dall’acqua, insieme alla figura di una donna, dai capelli come i suoi. Addirittura dai suoi stessi occhi. Il viso assomigliava tremendamente al suo.
Ma tu vuoi salvare i tuoi amici, giusto? Non puoi perdere tempo
Finalmente quella voce si stava rendendo utile! Non era la stessa che l’aveva guidata all’interno del castello, ma sembrava comunque al corrente dei fatti. “In effetti è proprio così. Come posso uscire da qui?”.
Potrei anche farti uscire, ma poi? Non saresti comunque in grado di salvarli. Non hai alcun potere di farlo.
E ancora una volta la voce aveva ragione. Lei non era in grado di fare nulla, non riusciva neppure a salvare se stessa, figurarsi qualcun altro. La sirena che la osservava sorrise, e in quel sorriso vi lesse una determinazione che avrebbe voluto avere anche lei. La capacità di poter salvare gli altri.
“Ma…ma io posso cambiare le cose. Me l’ha detto Beto”
Potrebbe avere torto, non credi? L’essere umano è debole per natura e per lui non è facile sfuggire  a ciò che ha in riservo la sorte. A meno che non abbia il potere di farlo.
“E tu sai come fare?”  chiese Violetta, osservando la sua copia con la coda di pesce svanire con un colpo di coda nelle profondità dell’acqua azzurra. La osservò rimpicciolire sempre di più fino a diventare un puntino e sparire inghiottita nel blu denso.
Molto meglio cara ragazza, io posso darti proprio ciò che cerchi. Posso darti il potere.
Quella proposta non era naturale, sotto doveva esserci qualcosa, ma aveva forse altre alternative? Si rendeva conto della sua profonda debolezza. “E poi potrò salvare gli altri?”
Potrai fare tutto ciò che desideri.
“Come faccio a sapere che non mi stai mentendo?”
Posso darti un assaggio di ciò che sarai in grado di fare.
Avvertì un soffio gelido alle spalle che la fece rabbrividire, quindi tutto tornò immobile esattamente come prima.
Fatto. Potrai cambiare la realtà a tuo piacimento. Non mettere in dubbio la mia parola, avrai davvero il potere e potrai sconfiggere le fiamme che adesso ti stanno conducendo alla morte. Puoi fare una prova se vuoi.
Violetta si guardò i palmi delle mani incerta: non si sentiva affatto diversa da come era prima. Mosse il dito in avanti e l’acqua si congelò all’istante. Sgranò gli occhi in preda alla sorpresa. Era diventata un mago come Dj?
La magia è solo una sciocchezza in confronto a quello che sarai in grado di fare. Potere completo. Potrai salvare tutti.
Sembrava davvero una buona idea, inoltre quella voce tanto simile a quella di Leon la rassicurava. Forse per una volta qualcuno stava davvero cercando di aiutarli. Forse la stessa Alice. Fece roteare il dito e tanti piccoli fiocchi di neve ne scaturirono, volteggiando leggiadri.
“Violetta, non farlo!”. La ragazza si voltò di scatto, sentendosi chiamata, e si sorprese della presenza di Francesca. La sua espressione terrorizzata non lasciava presagire nulla di buono.
“Francesca, che ci fai qui?”.
“Non lo so nemmeno io, ma devo impedirti di accettare quella proposta. Ti condurrà solo alla morte” commentò funerea la ragazza, inginocchiandosi vicino a lei. “So che la tentazione è forte, ma non devi ascoltare quella voce. Ho avvertito anche gli altri”.
“Hai visto Andres? E Dj? Anche Emma e Maxi?” chiese Violetta, aggrappandosi al suo braccio. La regina annuì: “Si, e gli ho detto esattamente quello che ho detto a te. Non so se mi abbiano ascoltata, non riesco a rimanere a lungo nello stesso posto”.
“Non ho altra scelta, devo accettare, altrimenti non riuscirò ad uscire di qui e aiutare gli altri”.
“Violetta, il potere non è solo una benedizione; guarda il mio caso. La Regina Bianca credeva che usare il Mana sarebbe stato il modo per sconfiggere la sorella, eppure esso si è rivoltato contro di lei, condannando tutti noi discendenti. Non puoi uscire da questo posto finché non credi di potercela fare”.
Violetta non sapeva che pensare. Che quella di Francesca fosse solo un’illusione per fare in modo che non lasciasse quel posto? Di chi doveva veramente fidarsi? “Non scegliere la strada facile, non dubitare di te stessa e delle tua capacità” continuò Francesca. Quegli occhi scuri erano davvero quelli di Francesca? Non sapeva cosa scegliere. Fino a qualche secondo fa era sicura della decisione da prendere, ma adesso la regina le stava mostrando tutto sotto un’altra prospettiva. Cercò di leggere nello sguardo di Francesca qualcosa che la tradisse, che le dimostrasse che non era la stessa ragazza con cui aveva parlato solo una volta, ma che le era sembrata subito una persona a cui avrebbe potuto affidarsi completamente, eppure traspariva solo sincerità dal suo volto. La mora non aggiunse altro e la strinse forte in un abbraccio. Violetta rimase sorpresa da quel gesto, Francesca non le era mai sembrata un tipo espansivo che rendesse facilmente manifesti i propri sentimenti. La stringeva quasi con disperazione, singhiozzando.
“Non voglio perdere l’unica amica che ho. Io credo in te, tutti noi crediamo che tu ce la possa fare” le sussurrò all’orecchio. Fu solo quell’eco lontano che rimase di Francesca, svanita nel nulla così come era apparsa.
Il tempo passa e i tuoi amici si avvicinano sempre di più alla morte.
“Francesca…era così reale” mormorò Violetta, sentendo ancora addosso il calore di quell’abbraccio pieno di amore. Un tipo di amore che fino a quel momento aveva provato solo tra le braccia di Leon. Erano diverse le manifestazioni di quel potente sentimento, più andava avanti in quell’avventura più se ne rendeva conto. Non ascoltava neppure più la voce, perché ormai aveva scelto. Si sarebbe fidata di Francesca, nel bene o nel male. Si alzò in piedi decisa, e si voltò indietro tornando sui suoi passi. La voce continuava a parlare, a suggerirle di lasciar perdere, ma lei era ormai concentrata unicamente sul suo obiettivo. Non le importava quanto ci avrebbe messo, lei sarebbe riuscita a uscire da quel posto e così avrebbero fatto gli altri.
Sciocca, senza il mio aiuto non uscirai mai da questo posto!
“Aspetta a parlare” disse tra sé e sé la ragazza, raggiungendo l’unico albero in tutta la valle. All’apparenza era solo una normale quercia imponente, dalle radici aggrovigliate che uscivano dal terreno. Nulla lasciava presagire a una via di uscita, ma se c’era una cosa che aveva imparato era che il Paese delle Meraviglie sapeva essere pieno di sorprese. Sorrise quando trovò la buca di un coniglio. Leggendo Alice nel Paese delle Meraviglie si era ricordata del modo in cui la ragazza era arrivata la prima volta in quel mondo. Mise il piede nella buca, che eppure sembrava piccola e stretta. Dietro di lei sentiva le urla di rabbia della voce, ma era ormai troppo tardi. Era già caduta nella buca.
 
Violetta aprì gli occhi di scatto, gemendo di dolore. Il corpo era cosparso di diverse bruciature, ma almeno era libera dalle fiamme. Chissà cosa sarebbe successo se avesse accettato la proposta della voce…rabbrividì al solo pensiero. Forse era meglio non pensarci. Sentì un colpo di tosse secco, proveniente dal mago, che si era messo seduto, con gli occhi ancora sbarrati per lo spavento. Violetta era sicura che Dj avrebbe ascoltato il consiglio di Francesca, era un ragazzo intelligente e sveglio, non si sarebbe mai fatto abbindolare in quel modo. Aveva solo alcuni lievi scottature sul viso, segno che si era ripreso quasi subito dalla maledizione.
“Che…cosa è successo?” provò a chiedere Maxi, ancora in stato confusionale. Anche lui aveva deciso di rifiutare quella proposta e in qualche modo doveva essere riuscito a trovare una via d’uscita.
“Un incantesimo potentissimo…Il fuoco brucia la tua carne e si alimenta del bisogno di potere che risiede nell’animo della vittima”.
Quella sembrava una trappola perfetta in stile Ludmilla. Una donna tanto malvagia quanto pragmatica sapeva bene che di fronte alla proposta di diventare invincibili molti uomini avrebbero ceduto. Probabilmente lei stessa non se lo sarebbe fatto ripetere due volte, se solo la sua astuzia fosse stata inferiore alla sua cupidigia.
“AHHHH!”. L’urlo proveniva da Andres, che si stringeva il braccio, in preda ad un dolore atroce. Fino all’ultimo era stato tentato di accettare la proposta della voce, per questo le sue ferite erano così profonde. Non sapeva certo che gli sarebbe toccata una sfida del genere, la visione datagli dal Tempo aveva a che fare solo con alcuni spezzoni avvenuti dopo il suo risveglio. Nonostante il dolore si mise in piedi, guardandosi nervosamente intorno e accertandosi che fossero tutti vivi. Ma Emma era rimasta distesa a terra, con la bocca socchiusa e le fiamme che erano diventate quasi completamente nere.
“No, non può essere! No!”. Andres si inginocchiò ai piedi della bionda, scuotendola più volte. Nulla. Ecco chi era la figura avvolta tra le fiamme nere che lui aveva visto morire nella visione che gli aveva offerto il Tempo. Ricordava solo le urla disumane di una ragazza, nient’altro. “Dj fa qualcosa, dannazione!” sbottò rivolgendosi al mago come una belva. Le fiamme si scurirono sempre di più.
“I-io…”. Il mago non riuscì a dire altro, scosse semplicemente la testa. Non c’era niente che lui potesse fare per Emma, per quanto lo desiderasse con tutto se stesso. Nessuna magia l’avrebbe salvata, quella maledizione era stata creata con una pozione, di cui non conosceva neppure gli ingredienti. Violetta si portò la mano alla bocca, non riuscendo a dire nulla, non le uscivano neppure le lacrime. Perché? Emma non era certo una di quelle persone che ispirassero simpatia, ma in fondo era una persona leale e sincera, che aveva mostrato il proprio coraggio più di una volta. Maxi non riuscì a rimanere impassibile di fronte a tutto quello. Poggiò una mano sulla spalla della ragazza, che si voltò verso di lui. Non disse nulla, ma quel gesto sembrò bastare ad entrambi.
Emma aprì gli occhi di scatto, neri e inermi. Dalla bocca risalì un gemito che divenne sempre più forte, fino a trasformarsi in un urlo di dolore. Andres la strinse più forte a sé, piangendo silenziosamente. Pregava che ancora non fosse troppo tardi, che in qualche modo ce l’avesse fatta, come sempre. Fu costretto a lasciare la presa solo quando il calore divenne davvero insostenibile per le sue mani sanguinanti e rimase come gli altri a fissare inerme quell’enorme lingua di fuoco nera che aveva inghiottito la loro amica. Ma quello spettacolo raccapricciante non era nulla in paragone alle urla che rimbombavano nella grotta e che non lo avrebbero mai abbandonato, lo sapeva bene. Quando le fiamme si ritrassero, lasciarono solo i resti carbonizzati di quella che un tempo era Emma. 











NOTA AUTORE: Eccoci a questo capitolo dal finale triste e raccapricciante. Un'altra della compagnia ci ha abbandonato, e devo dire che la sorte toccata ad Emma forse è anche più terribile di ciò che è successo a Broadway. Inoltre a suo modo Emma era un bel personaggio, con del carattere. E' vero che era il terzo incomodo tra Libi e Andres, ma era anche una ragazza capace che non si è risparmiata fino all'ultimo. Da qui in poi le cose prenderanno un piega molto movimentata: avremo due ultimi viaggi: Federico, Francesca e Violetta dal Brucaliffo, e gli altri che tornano a Picche, preparandosi per quella che si rivelerà essere la battaglia finale. Ehhh, si, non manca ormai molto alla fine di questa storia, ma ancora parecchi quesiti devono essere risolti, anche se altri hanno finalmente trovato una risposta. Compare il nome del Libri Index, di cui ancora non sapevamo nulla. A chi si riferisce Beto? Finalmente scopriamo in cosa consisteva la visione di Andres, che se ricordate bene tornò reduce dalla prova del Tempo con delle dolorose scottature. Sappiamo anche che voleva proteggere i suoi compagni, non sapendo bene chi avrebbe potuto morire (anche se intuiva si trattasse di una ragazza). Nel prossimo capitolo scopriremo come ha fatto Fran a entrare in contatto con i ragazzi del gruppo, tra parentesi. La prova finale consiste in delle fiamme che si nutrono dell'mabizione e della sete di potere individuale. Mentre grazie alla mitica Fran Maxi, Andres, Dj e Violetta (tra parentesi, mi è piaciuta tantissimo la scena di Fran e Violetta, a cui è ispirato il titolo del capitolo) riescono a salvarsi, Emma cede alle lusinghe del maleficio e finisce vittima delle fiamme. Lo scudo è lì, a portata di mano, l'ultimo pezzo per portare a termine la missione...che cosa succederà adesso? Lascio Dulcevoz nel suo mare di scleri per la scena Pangie (consoliamoci un po' :3), e vi do appuntamento al prossimo capitolo! Grazie a tutti voi che mi seguite, soprattutto Sweet Trilly e Dulcevoz che mi fanno sempre sentire il loro appoggio anche nei momenti più difficili. Grazie ancora di cuore, e alla prossima!
P.S: Auguri di Buona Pasqua a tutti :3 

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Capitolo 65
*** Le strade si dividono ***


Capitolo 65
Le strade si dividono

Francesca si riscosse dal sonno con un urlo.
“Francesca, che ti succede?”. Federico anche si era svegliato di botto, come tutti gli altri, guardandola con preoccupazione.
“Andres, Violetta…sono in pericolo, io…ci ho provato, giuro! Mi sono trovata lì, ma non so come sia potuto succedere!”. Federico annuì, anche se era chiaro che non avesse capito nulla, ma forse pensava solo fosse stata preda di un incubo. 
“Lo sapevo! Lo sapevo! Quell’idiota se ne è andato via senza dire nulla”. Libi camminava avanti e indietro, seguita con lo sguardo dal resto della comitiva. Strinse forte l’impugnatura dell’arco con il forte impulso di spezzarlo in due, immaginando che si trattasse del collo di Andres. Come aveva potuto lasciarla lì per andare incontro a morte certa? Era chiaro che aveva a che fare con un idiota incosciente.
“Se anche dovesse tornare vivo ci penserebbe Libi a farlo fuori una volta per tutte” sussurrò Thomas a Lena, facendola ridacchiare. Marcela, seduta accanto a loro, trattenne anche lei a stento le risa, ma ben preso tutta quell’ilarità si tramutò in ansia e preoccupazione. All’appello mancavano anche Emma, Maxi, Dj e Violetta.
Francesca stava rannicchiata, ancora chiaramente sconvolta, mentre Federico la stringeva forte a sé. “Va tutto bene, deve essersi trattato di un brutto sogno…”.
“No, era troppo reale! Loro erano in pericolo e io sentivo di doverli salvare. Non ci capisco più nulla, so solo che sono preoccupata che non ce l’abbiano fatta”.
“Adesso dobbiamo stare calmi. Francesca, raccontami quello che hai visto” disse Libi con tono autoritario. Sapeva bene che in assenza di Andres lei era l’unica a poter prendere le redini del gruppo. Francesca aprì bocca per cominciare a raccontare, ma una folata di vento fortissima colpì la radura, prima che un vortice viola comparisse sopra le loro teste. Violetta, Maxi, Dj e Andres caddero a terra, con l’erba alta che attutì la loro caduta. Andres stringeva ancora la spada, Maxi indossava l’elmo, che si sfilò subito per massaggiarsi le tempie e il mago aveva invece in mano lo scudo che aveva appena recuperato nel Palazzo di Quadri.
“Eccoli gli incoscienti!” sbottò Libi. “Ma che fine ha fatto Emma? Avrei due paroline da dire anche a lei…”. Non ottenne alcuna risposta, solo degli sguardi tormentati e afflitti, e allora capì: avevano perso un compagno. Nel frattempo Andres si era appena rimesso in piedi. Si avvicinò a lei, con lo sguardo basso, il viso rigato dalle lacrime che ancora scendevano silenziose. Rimasero in quella situazione per qualche secondo, quindi il ragazzo la abbracciò di slancio, stringendola con talmente tanta forza che per poco Libi non si sentì soffocare. Ricambiò la stretta, mentre alle sue orecchie arrivarono alcuni singhiozzi indistinti. I nuovi arrivati, che conoscevano appena la bionda, non potevano far altro che rimanere in un religioso e rispettoso silenzio, mentre Maxi e Dj, ora al sicuro, si sentivano liberi di esternare il loro dolore. Maxi si avvicinò ad Andres e Libi, ancora abbracciati, poggiando una mano sulla spalla dell’amico e lasciando anche lui che le lacrime gli bagnassero il viso. Dj invece cadde a terra in ginocchio, coprendosi con le mani il volto. Non riusciva a piangere, troppo assordante era il dolore che provava in quel momento. Ricordava le numerose volte in cui Emma lo aveva trattato come il suo servo personale, ricordava il suo disprezzo per la magia, ed era stata proprio quest’ultima a porre fine alla sua vita. Sentiva dentro una rabbia accecante che a stento riusciva a controllare; voleva distruggere tutto, trovare Ludmilla e infliggerle la stessa terribile sorte toccata ad Emma.
“E’ stata molto coraggiosa” mormorò Violetta, sedutasi in ginocchio al suo fianco.
“Si…era piena di difetti, ma non si poteva certo darle della codarda” rispose Dj dopo essersi sfregato violentemente il viso. Rimasero in silenzio. Non c’erano parole che potessero essere di conforto, non c’era nulla che potesse restituirgli la speranza per la compagna morta. Solo un pensiero ormai lo animava: portare i pezzi dell’armatura a Pablo.
“Per quanto riguarda il viaggio tuo e di Francesca, non credo di riuscire a venire con voi”.
Violetta annuì, aspettandosi quel cambio di decisione. Aveva capito che Dj era stato molto legato a Emma ed era quindi per lui importante che lo scudo, per il quale si era sacrificata la bionda, arrivasse a destinazione senza intoppi, così come gli altri artefatti.
“Non preoccuparti, Dj. Andrà tutto bene, sicuramente non troveremo ostacoli”. Nonostante avesse detto quelle parole con il massimo dell’ottimismo, non riusciva completamente a crederci nemmeno lei. Dj le dava un senso di sicurezza, protezione. Ma come sarebbe stato il viaggio con due quasi completi estranei in una terra dove perfino la creatura più innocua poteva rivelarsi un pericolo mortale?
 
Diego raggiunse il campo al confine in pochi giorni, dopo essersi recato al Tridente per conoscere appieno il potere dell’oggetto recuperato a Telhalla, o almeno ciò che era rimasto della gloriosa città. Di lì a poco avrebbero incontrato le truppe di Cuori, al comando del giovane ma valoroso Leon. Non era stato l’unico ad aver espresso il suo stupore nel sentir pronunciare quel nome, viste le sue passate chiare intenzioni di tenersi lontano dal conflitto. Qualcosa doveva essere cambiato, ed era pronto a scommettere tutto ciò che aveva in possesso che Violetta aveva a che fare con quel repentino cambio di rotta. Ludmilla gli aveva fatto sapere tramite un corriere che presto lo avrebbe raggiunto. Si era infatti fermata a lungo dalla regina Natalia per motivi a lui sconosciuti. Ma non era solito fare domande, la regina di Quadri gli avrebbe spiegato tutto una volta incontrati. L’Asso di Quadri, o Sebastian, gli aveva riferito del suo scontro con lo Stregatto e già si era fatto diverse ipotesi su ciò che si nascondeva all’interno della Grotta, così gelosamente difeso da Camilla e dal popolo indigeno che abitava la Palude di Jolly. Un suono di tromba risuonò nei pressi del campo non appena fu smontato da cavallo, segno che era arrivata la delegazione di Cuori. Quando Ludmilla non era presente era lui a farne le veci, quindi dopo aver consegnato le redini ad un soldato si diresse a passo svelto alla tenda delle riunioni, doveva sapeva a breve sarebbe giunto anche Leon.
L’ambiente all’interno era abbastanza confortevole. Un tavolino era sistemato al centro, con sopra alcune mappe della zona, e dei segni di inchiostro su ciascuna di esse, per lo più frecce, cerchi, croci e scarabocchi. Alcuni sgabelli erano disposti tutti intorno e Diego prese subito post su uno di essi, studiando la situazione. Quadri grazie al recente aiuto delle truppe di Cuori, che con il ritorno di Leon sembravano essersi rinvigorite, avevano guadagnato parecchio terreno, conquistando la sottile striscia al di sotto delle Paludi di Jolly. La loro avanzata dalla Foresta Centrale era quindi proceduta senza alcun intoppo, nonostante la strategia di Pablo di fare loro terra bruciata stesse mettendo a dura prova la resistenza dei loro uomini. Le tende all’ingresso vennero sollevate, facendo filtrare la luce. Diego riconobbe subito il principe Vargas, nella sua tenuta militare, con un mantello rosso fuoco. I suoi occhi verdi inespressivi indugiarono appena su di lui, prima di tornare a fissare davanti a sé.
“Vostra maestà”. Diego scattò in piedi, salutandolo con un mezzo inchino, a cui Leon rispose con il solito cenno del capo piccato. Il giovane principe appariva come insofferente, era chiaro che non amasse stare lì, ma allo stesso tempo lottava sul campo di battaglia con tenacia, come se quella per lui fosse una sorta di medicina amara che però andava presa.
“Niente convenevoli, per favore” rispose il giovane, sedendosi sullo sgabello, affiancato da due guardie del corpo. “Con la sorte a nostro favore domani anche il villaggio vicino capitolerà senza troppa resistenza. Ci avviciniamo al nostro obiettivo” riassunse Diego, indicando la capitale del Regno di Picche.
“Voglio che mi lasciate affrontare il Re. Devo vendicare la memoria di mio padre”. Leon era secco, categorico, non lasciava trapelare nulla del suo stato d’animo.
“Il vostro desiderio sarà senz’altro esaudito” asserì il consigliere con un sorrisetto spavaldo. Leon annuì, quindi si alzò in piedi. Che volesse solo mettere in chiaro quell’aspetto?
Le tende si aprirono di nuovo, stavolta mostrando la figura trafelata, ma pur sempre elegante e superba, di Ludmilla. “Perdonate il ritardo, ci sono stati dei rallentamenti. Mi sono assicurata il non intervento di Fiori in questa guerra. Inoltre l’Ordine dei Cavalieri di Fiori appoggerà la nostra causa e farà parte delle forze di cui potremo disporre” sogghignò la regina, squadrando con interesse i due ragazzi dentro la tenda. Leon non battè ciglio, sembrò solo lievemente sorpreso, Diego invece come sempre la gratificò con un sorriso carico di ammirazione. Lei e Diego rimanevano una squadra formidabile. Come negli Scacchi lei era la Regina e Diego l’alfiere. Insieme erano una combinazione imprevedibile e letale.
“Bene, non penso ci sia altro da aggiungere…” disse Leon, tentando di congedarsi, ma Ludmilla si frappose tra lui e l’uscita, con un lampo di gioia selvaggia negli occhi.
“Ti vedo strano, mio caro…”.
“Nulla che ti riguardi”. Leon la schivò abilmente passandole affianco, ma Ludmilla non era ancora pronta a lasciare andare la sua preda.
“Che abbia a che fare con la povera e dolce Violetta?” chiese la regina, fingendosi apprensiva, mentre un sorriso ancora pià accentuato le increspò le labbra. Leon si bloccò di colpo, stringendo i pugni. Quel nome fu per lui peggio di una pugnalata, e non appena Ludmilla l’ebbe capito cominciò a sperare nuovamente di poter entrare in possesso della spada di Cuori. In fondo il matrimonio non era stato annullato, e ora che la serva era fuori dai giochi aveva molte più possibilità di sposarlo.
“Non conosco più nessuno con quel nome” rispose Leon, per poi uscire senza voltarsi indietro. La bionda non riusciva a credere ai suoi occhi: cos’era successo? Aveva pensato che sarebbe dovuta entrare in azione per eliminare Violetta dai giochi e invece ci aveva pensato lei stessa. Le cose non avrebbero potuto andarle meglio.
“A quanto pare Leon è pronto per finire nelle tue trame” soffiò Diego al suo orecchio, facendola sobbalzare. Non si era nemmeno accorta di quanto si fosse avvicinato.
“Oh, Diego, mi fai sembrare così cattiva”. Ludmilla incrociò le braccia al petto, fingendosi offesa, ma profondamente divertita. Diego mosse qualche passo indietro, avvicinandosi poi alla bisaccia che portava sempre con se, da cui estrasse una pergamena ingiallita.
“L’ho recuperata dal Tridente. Spiega il funzionamento della nostra arma per la vittoria”. Detto questo la lanciò al volo alla regina, che la afferrò impaziente. Ludmilla srotolò subito il foglio, leggendone attentamente il contenuto.  “Bene, era proprio ciò che cercavamo” esclamò, decisamente soddisfatta.
In quel preciso istante il medaglione che portava al collo, con un grosso rubino circolare, emise un leggero bagliore che le fece dimenticare tutti i suoi successi. Da trionfante sentì come il terreno mancarle sotto i piedi. Non poteva essere successo eppure quel rubino era stato progettato per informarla nel caso in cui lo scudo venisse trafugato.
“L’hanno preso! Non posso crederci!” urlò Ludmilla, su tutte le furie. Era diventata paonazza di rabbia, non riusciva a controllarsi. Senza lo scudo non aveva più alcuna possibilità di rimettere insieme i pezzi dell’armatura e quello era il suo vero obiettivo. La guerra che aveva intrapreso contro Pablo era unicamente per prendere l’artefatto custodito dal re di Picche. Ma adesso si ritrovava con nulla in suo possesso. Sfregò con forza il medaglione e si scaraventò fuori dalla tenda, seguita da un Diego piuttosto allarmato. Non appena fu uscita Sebastian la raggiunse, in attesa di un nuovo ordine, e non si arrestò neppure di fronte all’espressione adirata della regina.
“Riportalo. Ora” sibilò Ludmilla, continuando a sfregare il prezioso gioiello.
Sulla cima del castello di Quadri, all’interno del tempio di cristallo, nelle profondità della grotta antica, uno stridio squarciò l’aria e due occhi di brace emersero dal buio. Due possenti ali di pietra reggevano una figura tozza, appena abbozzata. Il Gargoyle emise un altro terribile verso gutturale quindi si lanciò verso l’uscita, per compiere il dovere per cui era stato risvegliato.
 
 
Federico aveva creduto che non si sarebbe mai abituato a zoppicare in quel modo, eppure durante il viaggio per raggiungere la Foresta di SuPerGiù ebbe modo di constatare con enorme piacere di non essere di intralcio per Violetta e Francesca. Era passato ormai solo un giorno da quando si erano separati dal resto del gruppo in un’occasione spiacevole. Prima che le strade si dividessero avevano celebrato una sorta di cerimonia funebre in onore di Emma, accendendo una pira. Poi Andres e gli altri si erano diretti verso sud, mentre loro avevano continuato verso ovest, ai confini del Paese Delle Meraviglie.
“Spero che gli altri non si trovino in pericolo” disse Violetta. Le piaceva stare con Francesca e Federico; conoscendoli meglio li trovava affabili e per niente altezzosi nonostante il loro rango. Però quando li vedeva lanciarsi timidi sguardi d’amore non poteva fare a meno di pensare a Leon. Voleva solo sapere che stesse bene, nient’altro. Sapeva quanto fosse importante il viaggio per raggiungere la dimora del Brucaliffo, ma quanto sarebbe durato quell’eterno vagare per il Paese delle Meraviglie? Si fermò, osservando il lontananza una colonna di fumo scuro.
“Deve trattarsi di briganti. Da quanto mi ha raccontato Andres è abbastanza frequente nei Regni di Quadri e Cuori” spiegò Federico, allarmandosi di colpo: se li avessero incontrati sarebbe stato un bel problema. Nessuno di loro tre era in grado di fronteggiare con la spada un nemico e non potevano rischiare che Francesca ricorresse ai suoi poteri, visto quanto già riusciva a controllarli a stento. Era stata una fortuna che Francesca si fosse lasciata immergere nelle acque delle cascate di Neferteris perché, a dire di Dj, era stata proprio quella a salvare la vita al mago e agli altri dentro il castello. Infatti probabilmente l’acqua delle cascate era uno degli ingredienti usati da Ludmilla per il suo maleficio, e per questo Francesca, grazie anche ai suoi formidabili quanto imprevedibili poteri, era stata in grado di intervenire. Ma la fortuna avrebbe potuto non sorridergli per sempre, lo sapevano bene.
“Non ci conviene continuare per la strada principale, nascondiamoci nella foresta!” suggerì il conte, indicando la vegetazione ai lati della via lastricata. Senza indugiare neppure un secondo di nascosero nel piccolo boschetto e si rannicchiarono dietro una fila di cespugli, riprendendo fiato per qualche secondo e aspettando che succedesse qualcosa. Lo scalpiccìo dei cavalli precedette delle risate e urla sguaiate. Alcuni uomini incappucciati a cavallo passarono rapidamente, roteando in aria mazze, asce e torce.
“Se ne sono andati…almeno credo” mormorò Francesca, facendo capolino e guardandosi intorno. Violetta la seguì, annuendo incerta. “Non ho mai incontrato dei briganti…e non ci tengo proprio a farlo ora!” sospirò la castana.
“In ogni caso, con questi abiti strappati, non penso ispirireremmo neppure un ladruncolo di strada” ironizzò il conte Acosta per sdrammatizzare la situazione. Non poteva ammettere che il viaggio si stesse facendo più rischioso del previsto e quindi cercava di rinfrancare gli animi.  
“A cosa stai pensando?”. Leon chinò il capo verso di lei. Erano seduti schiena contro schiena, godendosi i raggi del sole pomeridiano. Dentro il labirinto era impossibile che qualcuno venisse a disturbarli, per di più erano in una zona remota che solo Leon conosceva.
“Io? A Niente” rispose evasivamente Violetta, circondando le gambe con le braccia e continuando a guardare di fronte a lei la siepe perfettamente potata.
“Menti molto male” ridacchiò il principe. Violetta deglutì: non riusciva a trovare il coraggio di dire tutta la verità a Leon. Più volte ci aveva provato, ma le parole le si fermavano in gola. Rivelare di provenire da un’altra realtà, completamente diversa, significava porre fine a quel meraviglioso sogno. E dopo tutti gli ostacoli affrontati le sembrava davvero ingiusto che finisse così presto. “Però d’accordo, non voglio insistere…anche se lo sai che odio quando non si risponde a una mia domanda” osservò Leon serio. Con la mano cercò la sua a tentoni, per poi stringerla e intrecciare le dita.
“Vorrà dire che ti dirò io a cosa stavo pensando” mormorò il castano, facendo un mezzo giro e portandosi il palmo della sua mano alle labbra, lasciandoci un delicato bacio. “Devi restituirmi ciò che mi hai rubato” continuò, baciandole le nocche una ad una.
“Non sono una ladra, Leon, e penso che tu lo abbia capito” ribatté Violetta, avvampando di fronte a quel gesto tanto dolce e intimo.
“Invece si, mi hai tolto tutto. Io…non sono più io. E non so spiegarmelo, so solo che mi piace tantissimo non sentirmi me stesso”.
“O forse questo è il vero te che non vedeva l’ora di venire allo scoperto”. Avvicinò la mano alla guancia del principe e la accarezzò, avvertendo la barba appena accennata. Leon sorrise e scosse la testa, divertito. Quando puntò nuovamente gli occhi su di lei, quegli occhi verdi raggelanti e incendiari allo stesso tempo, sembrava di nuovo quel Leon impassibile abituato a sopprimere le proprie emozioni.
“Senza di te non sono più nulla” soffiò appena Leon, per poi far combaciare le proprie labbra. Violetta si aggrappò alle sue spalle, lasciando che il braccio del principe la spingesse contro il suo corpo. Quelle parole ancora le risuonavano nella nella testa. Leon le aveva affidato il suo cuore, le sue speranze e le sue parole, e le sembrava solo di ingannarlo. Epppure quell’amore tanto devastante che provava per lui le impediva di farle sentire il senso di colpa.

“Tutto bene, Violetta? A cosa stai pensando?”. Violetta trasalì di fronte a quelle parole, come se stesse rivivendo ancora quel frammento di passato che le aveva attraversato la mente come un uragano, turbandola profondamente. Senza di te non sono più nulla. Quella lontananza prolungata le faceva capire che valeva anche per lei: pensava continuamente a Leon, tutto glielo ricordava. Anche per lui valeva lo stesso? Anche lui stava soffrendo così tanto per la loro separazione? Doveva ricongiungersi a lui il prima possibile.
“Sto bene” rispose Violetta a Francesca, cercando di non dare a vedere quanto fosse rimasta turbata.
“Lo troveremo. Fidati di me” disse la mora, alludendo al principe di Cuori. Violetta si sentiva rassicurata da Francesca, sembrava essere in grado di leggerle dentro, e il fatto che tra di loro non ci fossero segreti di alcun tipo rendeva quel legame ancora più forte. Annuì con decisione e insieme aiutarono Federico a rimettersi in piedi per riprendere il cammino.
Fortunatamente dopo quell’incontro quasi ravvicinato con i briganti non ci furono altri imprevisti fino a PedonRosso, ridente cittadina al di là della quale si estendeva la misteriosa foresta di SuPerGiù, dopo la quale, secondo i racconti dei pochi esploratori che erano riusciti ad attraversarla, si estendeva il Deserto Infinito. PedonRosso era una meta apprezzata soprattutto da esploratori e appassionati della storia antica; infatti era una delle città più antiche fondate nel Paese delle Meraviglie, avvolta da un’aura di leggenda mista a realtà. Le stradine che si intrecciavano disordinatamente erano di un colore rosso fuoco, mentre le case di mattoni avevano le pareti esterne ocra. Dovunque ti voltassi potevi trovare qualche viandante che cercava di farsi dare indicazioni per qualche sito storico di particolare rilievo o circa i pericoli della foresta di SuPerGiù.
“Mi ci sono addentrato una volta” stava raccontando un anziano signore con un bastone da passeggio e una folta barba bianca ad un giovane occhialuto. “Ma appena esci dal sentiero principale sei spacciato, è impossibile orientarsi. Se poi cerchi di ottenere un’udienza con il Brucaliffo perdi solo tempo. Lo riesci a trovare solo se lui vuole essere trovato, altrimenti puoi stare lì dentro gli anni e non vederne neppure l’ombra”.
“Non è molto rassicurante” bisbigliò Francesca all’orecchio di Federico, che in tutta risposta scrollò le spalle. “Beh, abbiamo con noi la Prescelta, non credo che il Brucaliffo si rifiuterebbe di vederla” disse il conte, guardandosi intorno per qualche modesta locanda dall’aspetto accogliente. “Quella dovrebbe andare bene” esclamò, indicando un’insegna penzolante che raffigurava un’oca con un uovo d’oro deposto su un nido.
Una volta entrati si fecero subito assegnare una stanza e si disposero intorno ad un tavolino rotondo per consumare la cena.
“Allora, è deciso, domani chiediamo in giro per avere informazioni, magari potrebbe essere utile comprare qualche mappa se ne hanno”. Detto quello, Federico mangiò voracemente la sua porzione di patate, per poi rivolgere la sua attenzione allo stufato.
Francesca concordò, mentre Violetta si rigirava tra le mani il foglietto che aveva trovato nella biblioteca di Cuori. Carroll. Che c’entrava lui con quel mondo? Che in qualche modo l’avesse visitato e poi, una volta tornato, avesse deciso di mettere per iscritto ciò che aveva visto? Che legame c’era con il libro di Alice nel Paese delle Meraviglie? Trovare il Brucaliffo avrebbe potuto darle nuove risposte e forse tra di esse c’era anche il modo per tornare nel suo mondo, una volta finito tutto. Sperava anche che la povera Francesca, che si sforzava in tutti i modi di non far pesare la sua difficile situazione, trovasse il modo di controllare il Mana. Più il tempo passava più rischiava di perdere il controllo delle sue azioni e di se stessa. Se il Brucaliffo non avesse saputo come aiutarla la regina di Fiori sarebbe stata spacciata. Nessuno intorno a quel tavolo voleva pensare al peggio, tutti speravano che Antonio potesse dare loro tutte le risposte di cui avevano bisogno.
“Vado a dormire”. Violetta si alzò in piedi, decisamente presa dai troppi pensieri per riuscire a portare avanti una conversazione spensierata.
I due compagni le diedero la buonanotte e la guardarono mentre saliva le scale al piano di sopra, dove si trovavano le stanze. “Pensi che abbia paura?” chiese Francesca seria, guardando poi Federico.
“Paura? Di cosa?”.
“Di quello che potrebbe dirle Antonio. Non sempre la verità è ciò che vogliamo davvero sapere”.
Federico allungò la mano sul tavolo, stringendo quella della ragazza; Francesca abbassò lo sguardo, osservando quella stretta, incantata. Aveva promesso a Marcela che avrebbe rivelato a Federico ciò che provava per lui, ma non ce ne era stata neppure l’occasione: non si erano fermati neppure un secondo, né erano mai rimasti da soli loro due. Tutto intorno la stanza era in penombra, illuminata unicamente dalle lampade ad olio disposte su ciascun tavolo e si sentivano i mormorii degli altri avventori, ma per lei era come se non esistesse nessun altro a parte il giovane che in quel momento le stava stringendo la mano.
“E’ bello che ti preoccupi per gli altri, ma con me puoi anche smettere di fingere” mormorò Federico. “So che hai paura più di tutti noi messi insieme”.
Francesca a stento trattenne le lacrime di fronte a quell’affermazione. Federico aveva ragione, come sempre. La paura di non riuscire ad ottenere ciò di cui aveva disperatamente bisogno la attanagliava ogni secondo di più. A volte addirittura le mancava il respiro, e non sapeva se fosse a causa del mana o del terrore al pensiero che da un momento all’altro avrebbe potuto finire consumata da quella magia tanto potente che risiedeva nel suo corpo.
“Ma non sei sola. Io non ti abbandonerò mai, finché non troveremo una soluzione, insieme”.
“E se non ci fosse? Se non avessi più alcuna speranza?” disse Francesca con un singhiozzo.
“Dj pensava che al Tridente avrebbe trovato il modo…”
“Pensava, Federico, pensava! Non era sicuro di nulla, proprio come noi” la interruppe la regina, sconsolata. Non avevano certezze, questo lo sapevano bene tutti, e lei più di tutti aveva bisogno di una rassicurazione, di qualcuno che potesse dirle con tutta sicurezza che le cose sarebbero andate bene, nonostante tutto.
“Non dobbiamo smettere di sperare”.
“Sembra facile, ma non lo è affatto! E poi hai sentito cosa dicono della foresta di SuPerGiù? Sarebbe un miracolo anche solo trovare la casa del Brucaliffo”. Francesca cominciò a parlare di tutti gli imprevisti che avrebbero potuto mettersi sulla loro strada senza prendere fiato neppure per un momento. Federico provò a interromperla, senza alcun successo. A quel punto si decise, prese un respiro profondo, e fece la prima cosa che gli passasse per la testa per farla tacere: le prese il viso tra le mani e la baciò. Francesca sgranò gli occhi, quindi li chiuse, limitandosi a seguire i suoi movimenti. In quel luogo tanto lontano da casa, dove nessuno pareva riconoscerli, nessuno trovò qualcosa di sconvolgente in quel bacio, solo la passione di due ragazzi innamorati.
“Finito con le preoccupazioni?” soffiò Federico sul suo viso, allontanandosi rapidamente. Francesca fece un sorriso nervoso, quindi annuì e abbassò lo sguardo. Quello era il secondo bacio che lei e il conte si erano scambiati; i ricordi del primo bacio, dato sotto il chiarore della luna, erano quasi completamente affievoliti, ma grazie a quella sera avevano ripreso a brillare intensamente. “Finché ci sarò io, farò in modo che vada tutto per il verso giusto, te lo prometto” aggiunse, stringendole nuovamente la mano.  L’attirò a sé, circondandole le spalle con un braccio, e facendole poggiare la testa sul suo petto. Il futuro era ancora pieno di incertezze per loro, ma Federico era sicuro del fatto che sarebbe stato fedele alla sua regina per sempre. E non si sarebbe arreso tanto facilmente, fino a quando non fosse riuscito a far rinascere sul suo viso quel sorriso di cui tanto si era innamorato.
 
La mattina del giorno successivo fu impiegata dai tre per cercare di ottenere informazioni, ma tutti gli abitanti continuavano a sconsigliare di mettere piede nella foresta di SuPerGiù. Fortunatamente un antiquario tirò fuori da un baule polveroso una mappa appena abbozzata, risultato dell’esperienza dei pochi avventurieri che erano riusciti a tornare indietro, e si dimostrò disposto a vendergliela per pochi soldi. In più aggiunse un diario ingiallito dal tempo, appartenuto a uno di quei fortunati reduci ormai deceduto. “Potrebbe esserci qualcosa di utile” borbottò il venditore, non vedendo l’ora di liberarsi di quelle cianfrusaglie. Una volta usciti dal negozio compresero che sarebbe stato inutile rimanere a PedonRosso, e dopo aver acquistato le provviste per il viaggio, lasciarono rapidamente la città, dirigendosi verso est.
Attraversarono i vasti campi arati, fermandosi il meno possibile, fino a quando non intravidero una verde distesa interminabile: la foresta di SuPerGiù.
“Bene, direi che il bello comincia ora” esclamò Federico, estraendo dalla sacca il diario che avevano comprato e cominciando a sfogliare le prime pagine. “Che strane parole, leggete” disse il giovane, porgendo il diario a Francesca e Violetta che faticarono non poco a decifrare la calligrafia sottile e minuta, il cui inchiostro per di più era quasi scolorito.
‘Giorno Decimo,
sono stato attaccato ancora da quelle strane creature. Ho scoperto che non amano il fuoco.
I fiori viola sono letali, quelli blu invece permettono di volare. La foresta di SuPerGiù ha le sue leggi e per sopravvivere bisogna conoscere. E’ un mondo molto diverso da quello che siamo abituati a vedere’

“Un mondo molto diverso da quello che siamo abituati a vedere…” ripeté Francesca, riconsegnando il diario al conte Acosta.
“Beh, adesso sappiamo che dovremo evitare i fiori viola” intervenne Violetta, che dopo aver passato l’intera serata a cercare di capire il ruolo di Carroll, aveva deciso di mostrarsi più fiduciosa.
“Qui ci sono anche degli schizzi della vegetazione…non sembra molto diversa da quella del Paese delle Meraviglie, in ogni caso” disse Federico.
Un frastuono risuonò tutto intorno a loro e prima che potessero muovere un passo si ritrovarono circondati da alcuni uomini minacciosi a cavallo: alcuni portavano una benda, altri ostentavano un ghigno malefico, mostrando le lame delle loro armi. Non ci volle molto per capire che non avevano affatto buone intenzioni.
“Briganti” disse Federico, sgranando gli occhi. Pensava che non avrebbero corso rischi, e invece eccoli completamente alla mercé di quei farabutti. 
“Due signorine e uno zoppo” disse quello che sembrava essere il capo. “Sembra quasi l’inizio di una barzelletta”. La sua battuta fu subito seguita da risate sguaiate, prima che l’uomo alzasse la mano per farli tacere, in ogni caso compiaciuto per aver riscosso successo tra i suoi uomini. Era tozzo e basso, con un paio di voluminosi baffi neri. I suoi occhi piccoli color pece erano particolarmente interessati alle borse che le sue prede portavano con sé. Quando però incrociò con lo sguardo Francesca il suo viso si illuminò ancora di più.
“Ma chi abbiamo qui! Addirittura un membro di sangue reale! Forse pensava che non l’avrei riconosciuta, regina Francesca?” ghignò l’uomo, facendo impallidire la mora. Violetta cercò di pararsi davanti a lei, così come Federico, ma ormai era tardi. Se prima avevano anche solo una possibilità di uscirne illesi, adesso non avevano più alcuna speranza di poter continuare tranquillamente il loro viaggio.
“Questo significa un riscatto considerevole, giusto Milton?” disse un uomo mingherlino, alla sinistra del capo. Milton annuì, estraendo silenziosamente la sua spada, dalla lama sottilissima. “Voi venite con noi”. Fece un cenno ad alcuni briganti, che scesero da cavallo estraendo tre sacchi.
“Prendete solo me, lasciate andare loro” implorò Francesca; sebbene fosse terrorizzata al pensiero di essere rapita da quei brutti ceffi, non voleva che la sua condizione si rivelasse una condanna anche per Violetta e Federico.
“No, no, potrebbero esserci utili. Adesso vi portiamo tutti dal capo, e lui deciderà cosa fare di voi” sibilò Milton. Non appena ebbe finito di parlare ai tre venne messo un sacco in testa e vennero legati. Tre briganti li strattonarono a piedi, mentre gli altri procedevano a cavallo a passo d’uomo.
“Mi dispiace…” sussurrò Francesca, abbattuta e spaventata.
“Tranquilla, non è colpa tua. Siamo stati ingenui, pensavamo di averla scampata” la rassicurò Federico.
Vennero condotti alla cieca per almeno un’ora, fino a quando non sentirono sotto i piedi lo scricchiolare delle foglie. Violetta pensò che probabilmente avevano raggiunto il limitare della foresta.
“Chissà se il capo se ne fa qualcosa. Non penso che gli interessino i riscatti” disse uno degli uomini al compagno, che rimase in silenzio. Queste furono le uniche parole scambiate per tutto il viaggio. Dopo averli fatti girare su loro stessi parecchie volte per fargli perdere l’orientamento, ai tre vennero finalmente tolti i cappucci: erano in una radura poco illuminata, tutto intorno a loro uomini dalle facce poco rassicuranti, che li squadravano ferocemente. Al centro un giovane alto, la cui identità era coperta da una maschera di ferro, con solo le fessure per gli occhi, aveva appena finito di impartire degli ordini e guardava uno ad uno i suoi compagni. Non appena Milton e gli altri si fecero avanti, il giovane dalla maschera si voltò verso di loro, rimanendo poi a fissare Francesca. La ragazza riconobbe in lui qualcosa di familiare, ma non sapeva bene dire di cosa si trattasse. Forse erano quegli occhi scuri e cupi, o i capelli neri scompigliati, in ogni caso era come se l’avesse già incontrato.
Milton si avvicinò al capo e gli sussurrò qualcosa all’orecchio, e quello in tutta risposta fece un cenno di diniego con la testa, bisbigliando qualcosa e voltandosi di colpo.
“Dovete seguirlo, ma non provate a scappare, vi riprenderemmo prima che possiate muovere un passo” disse Milton, intimando agli altri di stare lontani. “Vi vuole parlare”.
Francesca col cuore in gola guardò prima Federico, poi Violetta, e insieme seguirono la misteriosa figura. Gli altri briganti continuavano a guardarli minacciosi, come se vedessero in loro delle prede succulente. Che tutti avessero riconosciuto Francesca e non vedevano l’ora di poter chiedere il riscatto? Federico sperò con tutto il cuore che non fosse così, non riusciva nemmeno a immaginare cosa avrebbero potuto farle. La foresta di SuPerGiù era stranamente silenziosa, ma a parte quello non c’era nulla di anormale o pericoloso in essa: sembrava esattamente come tutte le altre incontrate prima. Il capo dei briganti si fermò, gettando una rapida occhiata dietro, per essere sicuro di non essere stato seguito dagli altri. Incrociò le braccia al petto, continuando a fissarli in silenzio. Non sembrava intenzionato a dirgli nulla, a dire il vero. Federico a quel punto pensò fosse saggio provare a negoziare la loro libertà in cambio di qualsiasi cosa: prima di tutto doveva assicurarsi che sarebbero rimasti tutti e tre illesi.
“Penso sarebbe giusto sapere cosa avete intenzione di farci” cominciò a parlare, facendo un piccolo balzo in avanti. Il giovane mascherato non disse nulla, ma l’ombra di un sorriso divertito gli illuminò gli occhi. “Siamo vostri prigionieri, potremmo almeno sapere che cosa ci attende?” chiese il conte, non ottenendo ancora una volta alcuna risposta. Francesca poggiò una mano sulla spalla di Federico, prima di parlare: “Credo che il mio amico stia cercando di dirvi che se ci risparmierete la vita ve ne saremo eternamente grati”. Quando la regina iniziò a parlare, il capo dei briganti la guardò intensamente, evidentemente interessato a ciò che diceva.
“Intendete farci del male?” chiese spaventata Violetta. Il ragazzo estrasse il pugnale, facendola impallidire, ma poi lo conficcò a terra con un gesto secco. Nessuno dei tre disse più nulla, rimasti esterrefatti.
“Non pensavo ti avrei rivisto, Francesca”. La mora rimase completamente paralizzata: quella voce. Era leggermente contraffatta a causa del metallo, ma risvegliò in lei la certezza che quel ragazzo lo aveva già incontrato in qualche occasione. “Non dici niente?”.
La ragazza scosse la testa, confusa: “Non saprei cosa dire…I-io vi conosco?”. Il giovane si lasciò scappare una fragorosa risata, arrivando a piegarsi in due. Gli occhi avevano preso a lacrimargli per il ridere.
“Non ci credo!” sbottò il capo, continuando a ridere di gusto. Si portò le mani davanti alla maschera, sfilandola lentamente, e mostrando i lineamenti allungati e spigolosi del giovane. Francesca rimase sbalordita: non poteva essere lui, non era possibile.
“Luca!” esclamò, portandosi la mano alla bocca, come se le fosse appena uscita un’assurdità. Eppure davanti a lei, con un sorriso enorme e le braccia allargate verso di lei, c’era proprio la persona che aveva creduto morta per tanto tempo.
“Non dai un abbraccio al tuo fratellone?” disse Luca, con gli occhi che scintillavano di gioia ed emozione. 














NOTA AUTORE: Buonaseraaaaa :3 Capitolo un po' interlocutorio sotto molti punti di vista, ma necessario dopo tutta l'azione dello scorso capitolo ù.ù Allora, in questo capitolo abbiamo visto come procede il viaggio di Violetta, Francesca e Federico, mentre Andres e gli altri stanno tornando a Picche, ma a quanto pare anche loro avranno i loro problemi...Ludmilla fino alla fine non demorde D: Finalmente rivediamo anche Leon! :3 Anche se l'occasione non è per niente delle migliori...:( Inoltre sembra davvero intenzionato a dimenticare Violetta :( Tutta colpa di Jade, Ali pensaci tu! ù.ù Rivediamo anche personaggi come Diego e Sebastian, di cui avevamo un po' perso le tracce :P La pericolosa arma nella mani di Diego sembra essere pronta ad essere scatenata: di che si tratterà? Nel frattempo Fran, Fede e Violetta continuano il loro viaggio (e qui abbiamo un dolcissimo flashback Leonetta: l'astinenza da parte dell'autore -ossia io- comincia a farsi sentire xD), ed è l'occasione per Francesca per mantenere la parola data a Marcela, anche se il primo passo l'ha fatto ancora una volta Federico :3 Secondo bacio Fedencesca! :3 E chissà che finalmente i due abbiano capito di amarsi senza troppe preoccupazioni :P Proprio quando però hanno raggiunto la foresta di SuPerGiù, il trio viene catturato dai briganti, di cui sapremo qualcosa di più...apparentemente il capo sembra essere il 'caro' Milton, ma in realtà dietro tutti c'è niente di meno che...Luca! Un vero e proprio colpo di scena :3 Grazie a tutti voi che continuate a seguirmi, scusate se non riesco a rispondere alle recensioni, ho sempre pochissimo tempo purtroppo (ç.ç), ma sappiate che le leggo sempre con tantissimo affetto :3 E grazie ancora a chi segue questa pazza storia, che ha ancora alcuni colpi di scena da rivelare :P Grazie di cuore a tutti, e alla prossima! Buona lettura :3 Con affetto,
syontai :3

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Capitolo 66
*** A un passo dalla meta ***


Capitolo 66
A un passo dalla meta

Era passata ormai una settimana dal giorno in cui si erano divisi, una settimana dalla morte di Emma, e Andres ancora non riusciva ad accettare che il Tempo fosse riuscito ad ingannarlo in quel modo. Fino all’ultimo aveva creduto di poterli salvare, era stato tanto presuntuoso da credere di poter cambiare il destino, ma adesso si rendeva conto solo della sua estrema stupidità. L’orgoglio l’aveva resa cieco, il desiderio di recuperare lo scudo aveva superato ogni altra aspirazione, e anche se fino all’ultimo aveva cercato di proteggere i suoi compagni era sicuro di non aver fatto abbastanza. Nessuno gliene avrebbe fatto una colpa, di questo era certo, ma rimaneva il fatto che per colpa sua la vita di Emma era stata consumata da quelle fiamme infernali. La rabbia che provava nei confronti di se stesso veniva alimentata dalla spada di Cuori, che teneva nel suo fodero, allacciata alla cintura. Maxi gli aveva descritto gli effetti che quell’arma aveva sulla psiche umana: faceva credere al possessore di poter fare qualunque cosa, annullava le paure, si nutriva di esse.
“Andres”. Libi si era affiancata a lui, mentre gli altri si trovavano indietro, parlottando del più e del meno per tenersi compagnia. Andres si voltò impercettibilmente dall’altro lato, continuando a guardare dritto davanti a sé. Ora più di prima sentiva di non poter stare con Libi, per quanto lo desiderasse ardentemente. “Non voglio che ti prenda la colpa di quello che è successo come hai fatto con Serdna. Credi che siano morti per colpa tua, mentre…”.
“Mentre non è così, è questo che vuoi dire? Ti sbagli di grosso”.
“Oh, beh, ovviamente fare l’eroe tormentato è una cosa che ti si addice alla perfezione, non c’è che dire!” sbottò Libi. Andres si indurì ancora di più a quelle parole, e Libi capì che forse aveva esagerato. Cercò di stargli dietro, poiché aveva accelerato il passo solo per chiudere quella conversazione. “Non intendevo parlare in quel modo, solo...Insomma, mi fa male vederti così”. Gli afferrò il braccio, costringendolo a fermarsi.
“Sai che puoi contare sempre su di noi”. Il ragazzo annuì, con aria assente. “Soprattutto su di me”. Bastò quella frase appena sussurrata e farlo voltare nella sua direzione. L’attrazione tra loro due era sempre stata forte e allo stesso tempo spesso confusa con un’amicizia molto stretta. Non riuscivano ad essere chiari l’uno con l’altro, o meglio, Libi in un certo senso aveva provato più volte a fargli capire che l’affetto che provava nei suoi confronti era molto più di quello di una semplice amica o di una sorella. Lo amava e nulla avrebbe potuto cambiare quella dura realtà. Non era stato solo colui che l’aveva salvata da un futuro senza alcuno scopo se non la sopravvivenza, Andres l’aveva accolta, le aveva fatto coraggio, le aveva insegnato a combattere. E in quegli attimi in cui i loro occhi si studiarono, nostalgici, le difese di Libi crollarono del tutto. Le bugie che si era raccontata in quel periodo perdevano forza, svanendo nel nulla. Perché era così difficile amare qualcuno che però si rifiutava di darle una possibilità per un motivo o per un altro?
“So di poter contare su di te. Sei la persona di cui più mi fido e a cui più tengo” mormorò Andres, accennando un sorriso impacciato. Libi arrossì, sentendo il viso avvampare. Prese coraggio e si sporse verso di lui, che reagì sgranando gli occhi, per poi deviare la direzione che puntava dritta alle sue labbra sulla guancia. Vi depose un debole bacio, reggendosi sulle sue forti spalle, quindi lo guardò con dolcezza.
“Adesso ti meriteresti un bello schiaffo. Te ne devo ancora far pagare tante” lo schernì con una faccia buffa. Andres scoppiò a ridere, e per la prima volta gli sembrò di essere tornato indietro nel tempo, quando tra lui e Libi c’era una complicità incredibile, inferiore solo a quella che aveva con il fratello. Le era mancato tanto quel loro modo di scherzare e prendersi in giro, più di ogni altra cosa. Solo lei avrebbe potuto strappargli un sorriso in quel momento.
“Quando vuoi sono qui” ribatté frettolosamente, rimasto in silenzio a lungo, troppo preso a fissarla.
“Bene, ci conto, eh!” ridacchiò la ragazza, dandogli una pacca sulla spalla, imbarazzata. Non sapeva mai cosa pensasse Andres, e questo spesso la mandava in bestia, ma di una cosa era sicura: le era mancato essere al suo fianco.
“Non te l’ho mai detto prima, ma grazie per essere tornata. Ho bisogno di te” mormorò Andres, piegando la testa di lato.
“Ci sarò sempre, Andres, non ti...non vi lascerò più” si corresse Libi, stringendo nervosamente l’impugnatura dell’arco, che si era caricata su una spalla. Era vero, non l’avrebbe lasciato più, qualunque cose fosse successa. Non le importava più se non avrebbe mai corrisposto i suoi sentimenti, ciò che la rendeva felice più di ogni altra cosa era il merito di aver fatto scomparire l’ombra cupa triste e affranta che da troppo tempo ormai impediva agli occhi di Andres di brillare.
 
Camilla sapeva bene che se mai avesse avuto la sfortuna di imbattersi nuovamente in Sebastian, non avrebbe potuto evitare lo scontro come l’ultima volta. Continuava a ripetersi che quello non era lo stesso ragazzo di umili origini conosciuto per sbaglio in un pomeriggio afoso d’estate, eppure non riusciva ad ignorare la fitta che provava solo pensando allo sguardo freddo e inespressivo della persona che amava. Provava una grande pena al pensiero che Violetta avrebbe dovuto attraversare un dolore simile, se non peggiore. L’Autore aveva ormai fatto la sua mossa, le pedine erano ciascuna al posto giusto, e l’adempimento della profezia era sempre più vicino. Violetta avrebbe dovuto fare la sua scelta, certo era che non ci sarebbe più potuto essere un mondo per entrambi, il principe di Cuori e la Prescelta. Se anche la ragazza si fosse rifiutata di ucciderla, Leon sicuramente l’avrebbe sconfitta, facendo sprofondare il Paese delle Meraviglie nell’abisso. Uno schiocco di dita e dal ramo d’albero in cui si trovava atterrò leggiadramente sul pavimento di una stanza immersa nel caos.
“Ma che piacevolissima sorpresa” strillò Beto, correndo a prendere una sedia per accogliere l’inattesa ospite. Lo Stregatto si limitò a fissarlo con la solita espressione enigmatica, quindi si accomodò al tavolo, osservando l’altro capo, dove non sedeva nessuno.
“Oh, il Brucaliffo non lo vedremo per un po’” esclamò il Cappellaio Matto, estraendo dal taschino della giacca color prugna un cipollotto d’oro, che aprì con uno scatto. “Sarà già alle prese con Violetta, immagino...”. Inaspettatamente richiuse l’orologio e lo intinse nel tè, per poi lanciarlo in aria con noncuranza.
“Ho seguito il consigliere di Quadri a Telhalla. Ha preso l’arma”.
“Oh, beh, c’era da aspettarselo, ma ancora non dovrebbe essere in grado di usarla, no?”.
Camilla scosse la testa, mentre osservava quasi indispettita Beto sorseggiare il suo tè. “E’ stato al Tridente e si è portato con sé un manoscritto, sicuramente ha trovato il modo di usarla. E questo non era esattamente nei piani”.
Il Cappellaio Matto fece schioccare la lingua sul palato, sorpreso per quella notizia, ma affatto spaventato. “Giustamente la regina di Quadri può muoversi liberamente in questa partita; se non sbaglio anche lei sa. Ma non dobbiamo preoccuparci: l’Autore non faticherà tanto a rimetterla al suo posto, nonostante la trama stia notevolmente cambiando”.
“O forse era nei piani dell’Autore che lei sapesse! Fin da subito si è servito di lei, ingannandoci tutti” si azzardò a dire lo Stregatto, osservando poi la mensola di fronte a lei, stracarica di tazze di porcellana e piattini abbinati. Era chiaro ormai che Ludmilla era a conoscenza della natura del Paese delle Meraviglie, ma ancora non erano riusciti a capire quali fossero le sue reali intenzioni. Il secondo libro doveva essere comunque nella sue mani. Una copia l’aveva bruciata Alice, ma l’altra era stata trafugata tantissimi anni fa. Non le era troppo difficile credere che gli antenati dei sovrano di Quadri l’avessero preso, credendo si trattasse di un potente artefatto magico.
“Forse. O forse Ludmilla Ferro è effettivamente sfuggita alle grinfie dell’Autore, e questo potrebbe essere un problema”. Camilla rimase stupita di fronte a quell’affermazione di Beto, che lasciava intravedere un’ombra di dubbio nei suoi intricati ragionamenti. Finora avevano sempre agito come se fossero gli unici a conoscere la verità, ma ora avevano un compagno, che a differenza loro non aveva abbracciato la follia, o almeno questo era quello che dava a vedere. In ogni caso sentiva di dover tentare qualcosa per aiutare Violetta ad affrontare l’ardua sfida che la attendeva. Non le interessava se questa sua folle azione fosse stata decisa da una volontà superiore oppure no, voleva credere fino all’ultimo che Violetta avrebbe sconfitto un futuro già deciso. Beto sembrò comprenderla subito, perché alzò un sopracciglio, divertito. “Immagino che la tua visita di cortesia sia già finita. Peccato, la prossima volta ti farò assaggiare qualche biscotto che ha preparato il Ghiro, vero?” disse rivolgendosi all’animale addormentato su una sedia, che si limitò a sonnecchiare, borbottando qualcosa e girandosi dall’altra parte.
Camilla annuì, quindi fece roteare dolcemente la sua coda. Quando essa finì di compiere un giro, dove prima era seduto lo Stregatto adesso si levava un sottile filo di fumo violaceo.
 
Dj mosse il palmo della mano, evocando una flebile fiammella. La magia stava lentamente tornando a scorrere nelle sue vene, nonostante fosse rimasto per settimane quasi privo di poteri. Alcuni avevano attribuito la sua inibizione al dolore provocato dalla perdita di Emma, ma lui sapeva che non si trattava di quello. Le mura del palazzo di Quadri erano intrise di un misterioso potere che aveva completamente neutralizzato i suoi poteri, rendendolo pressoché inutile durante il recupero dello scudo. Nel periodo in cui si era ristabilito avevano dovuto prestare molta più attenzione a dove si fermavano per le soste, per timore di essere scoperti. Quel giorno per la prima volta, con la coda nell’occhio, aveva visto Andres sorridere a Libi, mentre camminavano, ed era bastato quel semplice e naturale gesto a fargli capire che la vita poteva riservargli ancora tante bellissime sorprese e che non doveva perdersele per nulla al mondo. Ammirava molto tutti quelli con cui viaggiava: il coraggio di Andres, la sincerità di Libi, l’intuito di Maxi, la vivacità di Lena e l’umiltà di Tomas, la determinazione di Marcela. Di quest’ultima l’aveva particolarmente colpito la speranza che la donna continuava a nutrire, nonostante quel lungo periodo di prigionia. Era sicura che prima o poi avrebbe rincontrato il suo Matias e la capitale di Picche era un buon posto per cominciare la sue ricerche, essendo ormai l’unico baluardo in cui si rifugiavano tutte le vittime della guerra.
“Posso?”. Dj alzò lo sguardo e vide Marcela con una ciotola che lo guardava con premura. Guardò accanto a sé e vide che si era isolato dal resto del gruppo, intorno al fuoco; fece un cenno di assenso a la donna si accomodò affianco a lui.
“Avete scoperto che poteri ha?” chiese, dopo una cucchiaiata di zuppa, risultato del ritorno acclamato di Libi ai fornelli, indicando infine lo scudo che il mago stringeva al petto. Dj scosse la testa, sospirando: “Non ne ho proprio idea. La spada ha degli influssi che possono essere negativi o positivi sul carattere e sul modo di percepire le cose di chi la possiede, oltre ad avere un incredibile potere d’attacco. L’elmo invece è più tattico, o almeno così potremmo definirlo: indossandolo non solo si può vedere cosa succede anche nell’angolo più remoto del Paese delle Meraviglie, ma si può anche viaggiare attraverso lo spazio. L’arrivo a destinazione non è sempre sicuro, penso dipenda dalla chiarezza che si ha sulla posizione in cui si intende effettivamente finire. Lo scudo da questo punto di vista rimane ancora un’incognita” spiegò il mago, cercando di essere il più dettagliato e il meno noioso possibile. Marcela seguì con molto interesse quel discorso, quindi rivolse la sua attenzione alla superficie liscia di bronzo dell’arma. Allungò un dito per toccarla, ma poi lo ritrasse, quasi avesse paura che si scatenasse qualcosa di terribile al solo contatto. Una scritta in piccolo era stata appena incisa su un lato dello scudo: fortitudo.
“Che cosa farai una volta che avrai raggiunto la capitale di Picche?” chiese il mago per cambiare argomento e allo stesso tempo fare un po’ di conversazione. In fondo non sapeva in che modo la donna avrebbe trovato Matias. Lo avevano lasciato in un villaggio al confine tra Cuori e Fiori, che però avevano saputo essere stato evacuato per la guerra. Quindi ritrovare l’uomo non era affatto facile, avrebbe potuto essere ovunque. Avevano anche pensato di provare a usare l’elmo, ma Maxi non ricordava ogni dettaglio fisico di Matias, e Marcela non sapeva usare l’oggetto.
“Cercherò notizie sul suo conto, sperando di trovarlo lì, altrimenti dovrò intraprendere un viaggio...” cominciò a raccontare Marcela, ma venne interrotta da un urlo graffiante che lacerò l’aria. Il mago scattò subito in piedi, tendendo la mano davanti a sé e pronunciando una breve formula. Il fuoco che avevano acceso si spense all’istante e tutti si misero in posizione: Libi puntò subito l’arco verso l’alto, dopo aver estratto una delle sue letali frecce, Andres estrasse la spada di Cuori, guardandosi intorno, mentre Maxi indossò rapidamente l’elmo e sfoderò un pugnale dalla lama ricurva, che aveva rimediato nell’ultimo villaggio in cui si erano fermati. Tomas e Lena corsero verso Marcela, sotto la folta chioma dell’albero, mentre Dj tentò di visualizzare il tipo di nemico che era in procinto di attaccarli. Di nuovo le grida rabbiose del mostro risuonarono, facendogli accapponare la pelle. La creatura, favorita dalla notte, scese in picchiata, ma Andres lo scacciò con un fendente dato alla cieca. Libi scoccò la freccia che centrò fortunatamente il bersaglio, ma essa finì in pezzi non appena toccò il corpo del mostro con un frastruono.
“Impossibile” sibilò Libi, sconcertata.
“Non riesco a distinguerne nemmeno i contorni, certo è che è molto veloce e arrabbiato” mormorò il mago, stringendo con forza lo scudo. Non capiva in ogni caso perché ce l’avesse con loro, di qualunque cosa si trattasse. Non ebbe il tempo di pensarci perché fu costretto a lanciare una sfera azzurra di fronte a sé, per evitare un attacco a Maxi, il quale in ogni caso riuscì a schivarlo grazie al potere dell’elmo. Due occhi di fuoco per un attimo illuminarono le tenebre, per poi fondersi nuovamente con esse. La creatura tornò in volo con dei colpi possenti di ali, quindi artigliò un ramo d’albero, che si trovava proprio sopra le testa di Dj, il quale alzò lo scudo per proteggersi. Il ramo però lo schiacciò col suo peso facendolo finire a terra e ruzzolare qualche passo più in là.
“Non possono farcela in questo modo!” disse Lena, rimanendo ancorata con la schiena al tronco con la paura di muovere anche solo un passo. Tomas non disse nulla, ma non appena vide che il mago era a terra dolorante e che stava per subire un altro attacco, con uno scatto uscì dal loro rifugio e scattò verso l’amico, frapponendosi tra lui e il colpo. Gli artigli affilati affondarono nella carne del braccio che aveva sollevato, lacerandola. Fiotti di sangue schizzarono da tutte le parti, macchiando la superficie brillante dello scudo. Tomas finì scaraventato a terra, con il sangue che continuava a scorrergli.
“Non vuole noi” constatò Libi, guardando verso l’alto, alla disperata ricerca del nemico. Fin da piccola aveva avuto sempre una vista eccellente, ma era impossibile distinguere qualcosa in quel buio fitto. “Vuole lo scudo” esclamò infine. Andres annuì, quindi con un ringhio si precipitò ad accorrere il mago, seguito da Maxi. Il giovane si preparò a colpire ancora una volta, ma la lama della spada incontrò un ostacolo ben più resistente, sbalzandolo. “Ma di che cosa diamine è fatto? Respinge tutti gli attacchi” imprecò, rimettendosi subito in posizione di difesa. Continuare a proteggere Dj e lo scudo a lungo sarebbe stato impossibile, ma non sapevano come riuscire a colpire. 
“Se continueranno così, moriranno” strillò Lena con le lacrime agli occhi, mentre lo sguardo correva verso il corpo ancora inerme di Tomas. Il Bianconiglio l’aveva aiutata a superare la sua paura sull’isola Riflesso e per questo sentiva di avere un debito nei suoi confronti, ma cercare di aiutarlo avrebbe intralciato gli altri, per cui non poteva far altro che rimanere lì a guardare, immobile.
Marcela era stranamente calma. Analizzò la situazione per qualche altro secondo, facendo saettare i suoi occhi astuti dalle ferite che aveva Tomas, al punto in cui si udiva il battito delle ali. Se non ricordava male poteva trattarsi di una sola creatura, ma aveva bisogno di un’altra prova per poterlo affermare con certezza.
“Dj, puoi illuminare la radura per qualche secondo?” urlò la donna, sperando con tutto il cuore che il mago non avesse perso i sensi. Il viso preoccupato di Dj fece capolino dallo scudo. “Anche più di qualche secondo, spero...Lux aeterna!”.
Una piccolo globo luminoso gli comparve sul palmo della mano e il mago lo scaraventò in aria. Quando ebbe raggiunto qualche metro di altezza il globo esplose, illuminando tutto l’ambiente circostante con una luce bluastra. Il mostro si riparò con un braccio, e quando lo ritirò mostro le fauci acuminate con uno stridio.
“Come immaginavo...è un gargoyle!”. Lena si voltò verso Marcela, sgranando gli occhi, chiaramente sorpresa dal fatto che la donna conoscesse quella creatura. “Il corpo di pietra respinge ogni attacco e solitamente è legato a un padrone, che può evocarlo quando ne ha bisogno. Inoltre non si arrende fino a che non ha portato a termine il suo compito”. Il gargoyle sollevò le braccia tozze ruggendo, mostrando gli artigli ancora sporchi del sangue di Tomas.
“Immagino che la magia gli faccia il solletico” borbottò il mago, ottenendo un cenno di assenso.
“E’ una creatura antica, forgiata prima ancora che la magia approdasse in questo mondo”. Il gargoyle attaccò e Libi mise l’arco davanti a sé per proteggersi. Bastò un solo colpo a ridurlo in pezzi.
“Ci serve un punto debole!” strillò Andres, parandosi davanti a Libi per difenderla da attacchi successivi. La ragazza lo scostò con il braccio, tirando fuori il pugnale. “Non ho bisogno di essere salvata, grazie per il pensiero” esclamò rivolgendogli un sorrisetto. Andres scoppiò a ridere, senza però smettere di osservare i movimenti del nemico. Lentamente intanto la luce evocata dal mago veniva meno, quindi gli rimaneva poco tempo. “Sempre la solita. Il giorno in cui ammetterai che hai un disperato bisogno di me probabilmente a Maxi crescerà la barba”.
“Ehi, non tiratemi in mezzo” si lamentò il più basso del gruppo, sbuffando.
“Questo perché non ho bisogno di nessuno, tanto meno di te” ribattè Libi orgogliosa. Prima che Andres potesse rispondere, il gargoyle si lanciò nuovamente in picchiata.
“Ripeto: un punto debole!” ripeté Andres, disperato.
“Dj, ripeti dopo di me: Argeftis Otrois Not
Il mago la squadrò perplesso, non riconoscendo la lingua in cui Marcela gli aveva formulato l’incantesimo da usare, ma decise di fidarsi, in fondo tentare non costava nulla. Ripetè quella strane parole e un suono sordo scaturì nell’aria. Il gargoyle si fermò a mezz’aria, completamente immobile. Un cerchio dorato lo intrappolò, stringendogli le ali, quindi il mostro sparì risucchiato da esso.
Per un po’ calò il silenzio, mentre Lena era accorsa ad aiutare Tomas, il quale per fortuna aveva solo perso i sensi.
“Quella formula...mai sentita, in nessuno libro. Come facevi a sapere tutte quelle cose?” chiese Dj a Marcela, facendosi portatrice di un quesito che in effetti tutti si stavano ponendo. La donna sorrise imbarazzata: “Mio padre era il guaritore del nostro villaggio, per questo conosceva tutte le creature magiche che hanno popolato il Paese delle Meraviglie fino ad oggi. Diciamo che non amavo molto le faccende domestiche e preferivo consultare i suoi libri. Sono unici nel loro genere, non ci sono copie esistenti, neppure al Tridente. I gargoyle fanno parte delle Evocazioni. Molto difficili da fare, serviva una particolare pozione e un particolare oggetto a seconda del tipo di creatura che si voleva richiamare. Ma per ognuna di esse esiste anche una sorta di frase-chiave che serve per riportarli al sonno; le conoscono in pochi proprio perché altrimenti le Evocazioni non sarebbero di grande utilità...”.
“Per fortuna che non amavi le faccende domestiche, allora!” disse Dj, per poi cadere sulle ginocchia e scoppiare a ridere. Maxi anche si sciolse in un sorriso rilassato, ora che il pericolo era passato, mentre Libi osservava con dispiacere i resti del suo arco. La ragazza si piegò a raccoglierli con cura, pezzo dopo pezzo, affiancata da Andres, che decise di aiutarla in quell’arduo compito. Inavvertitamente le loro mani si sfiorarono e rimasero per qualche secondo ad osservarsi, incantati, prima che Libi ritraesse la sua, arrossendo. Si rimise in piedi, borbottando un ‘grazie’, e si avvicinò agli altri.
Andres non riusciva ancora a capire che cosa provasse realmente per Libi. La considerava solo un’amica a cui doveva tanto, oppure c’era dell’altro? Forse era il dolore dettato dalla morte di Emma a distorcere i suoi sentimenti, ma l’attaccamento che sentiva nei confronti di Libi stava diventando troppo forte per essere ignorato nuovamente. Osservò i frammenti di legno che aveva raccolto, squadrandoli pensieroso. Sentiva di dover provare a ricucire il suo rapporto con Libi; e forse aveva anche una mezza idea su come iniziare a farlo.
 
Leon gettò la spada insanguinata a terra, il viso sporco di terra e polvere. Un’altra vittoria che non faceva altro che allargare il vuoto che sentiva nel petto. Quando combatteva smetteva di provare emozioni e avvertiva l’ebbrezza di essere tornato lo stesso di un tempo, ma quando posava la spada, quando lo scontro finiva, si sentiva sempre più amareggiato e svuotato. Un catino era stato fatto preparare per il suo arrivo e lui vi immerse le mani per sciacquarsi poi vigorosamente il viso. Ora che un altro villaggio era stato preso rimaneva solo da conquistare il forte di Assopigliatutto e poi avrebbero avuto strada libera fino alla capitale del regno di Picche. L’unico pensiero che lo animava in quel periodo era la speranza di poter vendicare la morte del padre restituendo a Pablo lo stesso favore. I ricordi legati a Violetta si stavano pian piano affievolendo, o almeno questo era quello di cui si era convino. Ma la reazione al vederla nuovamente davanti a sé in carne ed ossa, quella non riusciva a prevederla in alcun modo. Se una parte di lui l’avrebbe perdonata anche solo per essere tornata da lui, l’altra parte, quella orgogliosa e testarda, nutriva ancora disprezzo per il modo in cui si era presa gioco dei suoi sentimenti.
“Tic, toc, c’è qualcuno in casa?”. Leon si voltò di scatto verso dove proveniva la voce, portando istintivamente la mano alla cintura. Si maledì mentalmente per aver lanciato la spada a terra, fuori dalla tenda, ed essere così indifeso.
“Immagino tu sappia chi sono” ghignò la voce, lasciandolo interdetto. Di fronte a lui comparì prima una coda, poi il corpo di una ragazza e infine un paio di buffe orecchie viola da gatta.
Leon annuì, confuso. Era la prima volta che si trovava al cospetto dello Stregatto, ma era una personalità talmente conosciuta nel Paese delle Meraviglie insieme al Brucaliffo che era impossibile non averne mai neppure sentito parlare.
“A cosa devo questo onore?” chiese il principe con voce incolore, facendo saettare lo sguardo nella tenda in cerca di qualcosa che potesse fargli da arma. Non sapeva che intenzioni avesse lo Stregatto, ma non appoggiava quella guerra né Jade, e questo bastava a renderlo un suo nemico.
“Se avessi potuto farti fuori, mio caro, credimi, lo avrei fatto tanti anni fa insieme a tua madre. Purtroppo i miei poteri sono limitati ed esiste un divieto che mi impedisce di privare il Paese delle Meraviglie di un qualsivoglia essere vivente. Grandi poteri, grandi limitazioni” sorrise Camilla, sorniona.
Leon incrociò le braccia al petto, improvvisamente più rilassato, ma non ancora tranquillo. “E allora cosa ti spinge a presentarti al mio cospetto?” chiese con una punta di arroganza. Camilla allargò il suo sorriso e si sedette sul tavolo di legno, mentre passava il dito sulla superficie dell’acqua che poco prima aveva usato per ripulirsi.
“E’ il contrario. Sei tu ad avere la fortuna di trovarti in mia presenza” ghignò lo Stregatto, passandosi lentamente la lingua sulle labbra.
“E a cosa devo quest’onore?” chiese il principe, sprezzante. Non accettava che nessuno lo facesse sentire inferiore, neppure lo Stregatto in persona. Non ottenendo alcuna risposta, sbuffò irritato e fece per uscire dalla tenda.
“Sono qui per raccontarti una storia...parla di una ragazza che tanto tempo fa, ma non troppo, è arrivata nel Paese delle Meraviglie da un’altra dimensione. Non vuoi sapere come si chiama?”.
Leon si bloccò sul posto proprio quando ormai lo spiraglio di sole dell’uscita gli illuminava il volto con una striscia di luce tremolante. Aveva un orribile presentimento; era certo che di qualsiasi cosa si trattasse di lì in poi le cose non sarebbero affatto migliorate. Allargò le braccia e si voltò con un’espressione beffarda: “Non lo so e non mi interessa! Soprattutto non capisco perché lo stai venendo a dire a me!”.
“Si chiama Violetta”. Quelle tre parole spezzarono ancora di più la tenacia di Leon, che da sicuro di sé divenne allibito. Violetta non era del Paese delle Meraviglie? Da dove veniva? Perché non gliene aveva mai parlato? Si rafforzava ancora di più in lui la convinzione che la sua storia con quella ragazza fosse stata solo un’enorme menzogna.
“E io dovrei crederti?” chiese con la voce che vibrava dalla rabbia.
“Sei libero di non farlo, ma sarà lei stessa a spiegarti quando vi rincontrerete...”.
“Quando ci rincontreremo sarò felice di accoglierla con la mia spada”.
“Sei stato ingannato e sei talmente cieco da non rendertene conto...Non allontanare l’unica persona che dovresti avere vicino in tempi come questi”. Camilla si addolcì, parlando con compassione, come farebbe una madre col proprio figlio. Ma Leon quell’amore materno non l’aveva mai conosciuto e non riconobbe nulla di esso nel consiglio che le stava dando lo Stregatto. Perdonare Violetta gli era ancora più difficile dopo aver scoperto che gli aveva mentito due volte. Non solo sul loro amore, persino sulla fiducia che avevano promesso di riporre l’uno nell’altro. A lei aveva aperto il suo cuore, mentre Violetta aveva conservato per sé i propri segreti.
“Non sono io che l’ho allontanata, è lei che mi ha abbandonato!” sbottò con rabbia il principe, stringendo i pugni fino a quando le nocche non diventarono bianche. Avrebbe voluto fare tutto a pezzi, tagliare la lingua a quel gatto, proprio come avevano fatto con Humpty. Il pensiero dell’amico gli procurò un’ulteriore fitta alla testa.
“Il destino vi ha volutamente separati per mettervi alla prova...” provò a intervenire Camilla, ma Leon ormai non l’ascoltava più. Le scintille d’ira che balenavano nei suoi occhi erano una risposta sufficiente alle sue parole, che riteneva vuote e prive di sincerità.
“Sei venuta da parte sua?”. La freddezza del suo tuono era solo sintomo di una relativa quiete prima che la tempesta si scatenasse in quella tenda. Gli puntò contro il dito, minaccioso. “RISPONDI!”.
Camilla rimase a fissarlo, sgranando gli occhi. Probabilmente non si aspettava quella reazione, o che la conversazione andasse in quel modo. Leon era talmente accecato dall’odio da non riuscire più a distinguere la verità, e sapeva bene che la colpa fosse soprattutto della madre, la regina di Cuori. Schiocco le dita un attimo prima che Leon provasse a metterle le mani addosso, sparendo nel nulla, non sapendo che quello che aveva fatto con le migliori intenzioni, aveva solo acuito l’odio del principe. Quel disastroso odio che avrebbe portato il Paese delle Meraviglie alla rovina.
 
Jackie non sapeva del motivo per cui era stata convocata da Jade. Certo era che dalla partenza di Leon la regina di Cuori si era notevolmente tranquillizzata, nonostante continuasse ad essere vittima del potere mandragola. Ma qualcosa in quegli ultimi tempi era cambiato, era come se Jade fosse lentamente diventata immune all’effetto del siero che le somministrava giornalmente. Mancava poco tempo e sarebbe trascorso esattamente un mese da quando aveva ricevuto la minaccia di Lara. Quella serva la aveva in pugno, ma contava di riuscire a liberarsene non appena Jade avesse raggiunto la pazzia completa. La sentinelle che controllavano l’accesso alla sala del trono la guardarono appena prima di aprire le porte e abbassare le lance. In un angolo c’era sempre il solito tavolino di Tomas, occupato ormai da un uomo esile che però dimostrava di essere particolarmente veloce a scrivere. Riempiva fogli su fogli con diligenza: proclami della regina, annunci di taglie per la cattura di fuorilegge del paese di Cuori. Non batteva ciglio un momento e non alzava lo sguardo dal foglio se non per prendere una nuova pergamena e ricominciare a scrivere.
Jade, seduta sul trono con un atteggiamento posato, quel giorno aveva deciso di sfoggiare uno dei suoi abiti migliori, di velluto rosso, abbinato ad un collier di diamanti talmente splendenti da abbagliare. Indossava poi un anello con un rubino grande quanto una pietra, i capelli raccolti in una crocchia e acconciati egregiamente. Non appena la vide fare il suo ingresso nella sala del Trono alzò appena un sopracciglio, stringendo le mani sui braccioli, prima di sorridere indulgentemente. Jackie si inginocchiò, aspettando che la regina gli facesse cenno di rialzarsi, cosa che non avvenne prima di qualche minuto. Odiava mostrare la dovuta sottomissione alla corona, che riteneva degna di stare solo sul suo capo; in particolare attendeva con ansia che la regina non fosse più capace di intendere e di volere, così da poterla manovrare a suo piacimento.
“Mi avete fatto chiamare, mia signora?” chiese con lo sguardo basso Jackie. Le guardie che si trovavano ai lati del trono rimanevano ferme come statue, il che rendeva quell’atmosfera ancora più cupa e lugubre.
“Così è stato. Ora che Leon è finalmente intento a eseguire gli ordini della sua regina, ho avuto modo di pensare parecchio...” cominciò Jade con molta tranquillità.
Pensare...come se sapessi cosa significa, brutta strega, pensò Jackie, sospirando interiormente di sollievo in ogni caso poiché il tono della regina non era adirato.
“E sono arrivata alla conclusione che sicuramente la malattia che mi ha gravato per tanto tempo dovesse essere il risultato di una qualche maledizione” proseguì la regina con un sorriso mellifluo. A Jackie si gelò il sangue nelle vene. Non voleva dire nulla, non aveva alcuna prova di accusarla. Di cosa, poi? Si era sempre occupata personalmente di pulire con attenzione i calici usati per somministrarle la pozione, non c’era nulla che potesse lasciar intendere la sua colpevolezza.
“Mia regina, è chiaro che qualcuno aveva intenzione di minare la solidità di questo Regno. Una qualche spia di Picche, infiltratasi abilmente tra queste mura, senza dubbio” rispose Jackie, fingendo un sincero stupore e una preoccupazione che non aveva mai mostrato per nessuno.
Jade aprì la bocca, assecondando l’espressione sorpresa della domestica, quindi scosse la testa con snervante lentezza. “L’avevo pensato anche io, ma poi sono giunta a una conclusione diversa. Per questo in queste ultime sere non bevo ciò che mi somministri e ne mando invece il contenuto nel laboratorio, dove hanno fatto una curiosissima scoperta".
Il cuore di Jackie le si fermò in gola, gli occhi furono presi da uno scatto di nervosismo. Non poteva averlo fatto, lei era sicura che la regina non si fosse accorta di nulla e aveva abbassato momentanamente la guardia, presa anche dalle pressioni che continuava a farle Lara. “Q-quale? Sempre se posso chiederlo, mia signora” balbettò la donna, tradendosi ormai del tutto. Il suo piano era stato scoperto, la corona che portava Jade sul capo sarebbe rimasto per sempre un pallido miraggio.
“Certo che ti è concesso domandarlo. Hanno trovato della mandragola. Inutile che ti spieghi le proprietà di questa prodigiosa pianta, credo che tu le conosca molto meglio di me. La cosa ancora più buffa e divertente è che sono riusciti a risalire al venditore di queste mandragole, che ha confermato, sotto mio gentile invito, di avere una sorta di ‘accordo’ con una donna, la cui descrizione corrisponde a...a chi corrisponde secondo te?” chiese gentilmente la regina, con un lampo maligno negli occhi.
“N-non saprei”.
“Alla tua, Jaqueline. Alla tua” sentenziò freddamente Jade. Il silenzio calò nella stanza, rotto unicamente dallo scribacchiare che proveniva dal fondo.
“Deve trattarsi di un errore, io...”.
“BASTA NEGARE!” esplose la regina, scattando in piedi, piena d’ira.
Jackie si zittì subito, trattenendo a stento le lacrime. Aveva sempre saputo che il suo piano avrebbe comportato tanti, troppi, rischi, ma solo ora che si trovava lì, con la vita che ormai aspettava solo di essere stroncata dal colpo d’ascia di un’esecuzione, che si rendeva conto di quanto grande fosse stata la posta in palio. Era stata accecata dal desiderio di poter indossare una corona, e proprio quel pezzo di metallo aveva decretato la sua fine.
“Ti accuso di tradimento nei confronti della tua regina, e per questo verrai portata in cella fino a quando non stabilirò che ti venga tagliata la testa”. A nulla valsero i singhiozzi disperati della donna, che venne portata via dalla sala tra lamenti e preghiere, le quali non toccarono minimamente Jade, rimasta immobile a osservare con selvaggia gioia i deboli tentativi di Jackie di divincolarsi dalla presa delle guardie.
Lara si affacciò da una stanzetta con lo straccio in mano, attirata come altri membri della servitù dalle urla che si propoagavano per il corridoio. Quando poi vide passare di fronte a sé Jackie, scortata dalle guardie, si rese conto subito dell’accaduto. Rimase completamente paralizzata al pensiero che avrebbe potuto fare la stessa fine dell’ormai passata alleata. Quando Jackie la vide i suoi occhi si colmarono d’ira, tanto che diede uno strattone a una guardia, per tentare di aggredirla. “TU! MALEDETTA! E’ COLPA TUA! SE IO CADO TU DEVI CADERE CON ME!” strillò come un’ossessa, tentando di afferrarla. Lara arretrò con un’espressione inorridita.
“Non ho idea di cosa stia parlando” mormorò con un filo di voce a mo’ di scusa alle guardie e agli spettatori che erano accorsi per osservare la scena.
“ME LA PAGHERAI!”. Jackie venne di nuovo afferrata e resa innocua, e quasi Lara fu sollevata di sapere che tra loro ci sarebbero state delle grate a separarle. Nessuno prestava fede a un traditore, quindi con ogni probabilità se la sarebbe cavata, anche se Jade era imprevedibile. “TU E I TUOI RICATTI! NON AVRAI MAI CIO’ CHE DESIDERI, SCHIFOSA SERVA!”. Le urla continuavano a seguirla, persino nella stanza in cui si era nuovamente rintanata. Si sedette e guardò il mucchio di argenteria che quel giorno le spettava di lucidare. Prese una caraffa d’argento e vi passò il panno. Quando ebbe finito osservò il suo riflesso, pallido e ancora scosso. Forse Jackie aveva ragione:era solo una serva e pensare di poter sposare Leon era stata una follia, che l’aveva fatta spingere troppo in là. Jackie non sarebbe più stata una minaccia per nessuno, e per quanto le potesse dispiacere della sorte dell’amica, non poté fare a meno di ripetersi che al posto della donna avrebbe potuto esserci lei. “Mi dispiace...sapevi a cosa andavi incontro” sussurrò la ragazza, tamponandosi il sudore sulla fronte con il palmo della mano. Posò la caraffa e afferrò un candelabro per poi strofinarlo con vigore. Il giorno dopo la quotidianità l’avrebbe completamente assorbita di nuovo e per quanto odiasse il suo stile di vita, almeno poteva dire di viverne ancora una, cosa che a breve Jackie non avrebbe più potuto dire. 











NOTA AUTORE: Buonsalve! Capitolo pieno di novità e di personaggi, e anche il prossimo avrà alcune sorpresine...in ogni caso, tornando a noi. Avvicinamenti tra Libi e Andres, aw. Libi non l'ha ancora perdonato del tutto e Andres ancora fa fatica ad ammettere i suoi sentimenti, ma ci stiamo arrivando, dai :3 Nel frattempo grazie all'indispinsabile Marcela il gruppo riesce a neutralizzare il gargoyle, mandato da Ludmilla. Invece abbiamo un primo dialogo tra Camilla e Leon, che però finisce nel peggiore dei modi :( Infine il piano di Jackie è stato scoperto e la donna viene rinchiusa in prigione, accusata di tradimento, mentre Lara capisce che a rischiare troppo si finisce per fare la fine di Jackie...spero che il capitolo vi sia piaciuto, grazie a tutti voi che seguite, leggete, e...se lasciate una piccola recensione è sempre un piacere :3 A tal proposito ringrazio tantissimo Dulcevoz e Sweet Trilly e mi scuso se non riesco sempre a rispondere (diciamo quasi mai), ma purtroppo il tempo è poco...in ogni caso le leggo sempre con tantissima gioia, mi rallegrano tantissimo! :3 Alla prossima, e buona lettura! Con affetto,
syontai 

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Capitolo 67
*** Vicini alla verità ***


Capitolo 67
Vicini alla verità

Francesca corse incontro a Luca, che con una risata la strinse prontamente forte a sé, facendola volteggiare. Federico era ancora sconvolto dal fatto che il principe di Fiori fosse vivo, visto che ormai le speranze sul suo conto si erano spente da parecchio tempo.
“Luca, sei vivo!” strillò Francesca, credendo di stare sognando. Tante volte, chiusa nelle segrete del palazzo aveva sognato che suo fratello arrivasse per portarla in salvo, e anche se non era successo potersi rendere conto di averlo lì, in carne ed ossa, rappresentava la realizzazione di tutte le sue preghiere. Dopo che l’entusiasmo della giovane regina si fu spento, si radunarono tutti e tre intorno a Luca con migliaia di interrogativi in testa. Violetta trovava che Luca fosse un bel ragazzo: alto, dal fisico esile ma allenato per sopportare tutte le fatiche, una barba nerissima che gli contornava il viso insieme ai capelli altrettanto scuri. Aveva poi un sorriso smagliante, di quelli contagiosi.
“Come è successo?” chiese poi Federico, rendendosi così portavoce di tutti e tre. “Insomma...eri ferito. Sei scomparso nel nulla e adesso ti ritroviamo a capo di una banda di briganti”.
Luca gli lanciò un’occhiata torva, rivolgendosi poi dolcemente a Francesca: “Non appena ho saputo di quello che ti avevano fatto non sai quanto avrei voluto venire a salvarti...ma purtroppo so bene che il palazzo di Fiori è inespugnabile. Ho comunque studiato giorno e notte un piano per riportarti da me”.
“Per fortuna grazie a Federico sono riuscita...”.
“Ah, il traditore” sibilò Luca, tornando a osservare, questa volta con puro disprezzo, il volto scavato di Federico, che in tutta risposta abbassò lo sguardo al suolo.
“Non è come sembra” si intromise Francesca. “Anche io l’ho odiato a lungo, ma poi ho capito che l’ha fatto solo per poter aiutare tutti noi”.
Il principe incrociò le braccia al petto, per nulla convinto, ma poi liberò un sospiro di sollievo. “L’importante è che tu sia qui”. Dopo che la sorella gli ebbe chiesto nuovamente come fosse finito con dei compagni del genere, Luca cominciò a raccontare: effettivamente aveva riportato una ferita parecchio grave, ma i suoi uomini lo avevano nascosto per dargli la possiiblità di riprendersi. Sfortunatamente le truppe di Fiori, ormai fedeli a Nata, lo avevano localizzato e li avevano attaccati. Luca era stato spinto a fuggire e ad abbandonare il campo di battaglia, per poi ritrovarsi a vagabondare per il Paese delle Meraviglie, fino a quando non incappò un gruppo di briganti disorganizzati. Messosi a capo di quelli, aveva da allora cercato di sabotare tutti i movimenti delle truppe di Cuori e Quadri, seguendo un po’ l’esempio di Andres. Certo, non erano azioni diversive di grande effetto, ma almeno riusciva in qualche modo a rendersi utile alla causa.
“In tanti aspettano il tuo ritorno, Francesca. Hanno capito che la corona ti spetta di diritto e che Natalia è solo un’usurpatrice” spiegò infine Luca. “Molti soldati ti sono rimasti fedeli, potresti ancora...”. Francesca però scosse la testa.
“Adesso non è il momento. Luca, ho bisogno del tuo aiuto”. Luca sapeva bene che con Francesca insistere sarebbe stato pressocché inutile, quindi rimase in silenzio, aspettando di sentire la richiesta.
“Dobbiamo trovare il Brucaliffo. Non ti sto chiedendo di venire con noi, abbiamo bisogno solo di alcune provviste, nient'altro”
“Siete pazzi se pensate di trovarlo! Non avete sentito nulla sulle storie della foresta di Supergiù?” domandò Luca, inquisitorio e con sguardo severo. Era chiaro che non voleva che sua sorella mettesse piede in quel luogo maledetto. “Ve lo proibisco assolutamente”.
“Luca, non ho scelta, devo assolutamente parlare con il Brucaliffo. Porto dentro di me una maledizione che grava sulla nostra famiglia da secoli e più passa il tempo più perdo il controllo, più mi avvicino alla morte. E’ questo che vuoi, fratello mio?”. Francesca tremava come una foglia mentre parlava a Luca, il quale la fissava sbalordito. Neppure lui doveva essere stato informato dai genitori del pericolo che si celava mansueto dentro il corpo della sorella.
Violetta e Federico osservavano la scena in disparte, consapevoli di quanto in quel momento la loro presenza fosse di troppo. Era chiaro che Luca si sentiva in difficoltà: quelle parole cambiavano tutto. Se da una parte avrebbe voluto risparmiare a Francesca i pericoli della foresta, dall’altra non poteva permettere neppure che si consumasse lentamente fino a morire. Violetta sapeva che alla fine Luca avrebbe dovuto lasciarli andare: l’amore di un fratello era il più saggio dei consiglieri e neppure l’istinto di protezione poteva intromettersi.
Luca rimase in silenzio a riflettere per qualche altro secondo, quindi annuì. “Bene, accordato. Partiremo domani, all’alba, oggi stesso nominerò qualcuno che possa sostituirmi fiché non ci sarò. Ma adesso devi spiegarmi tante cose, sorella” dichiarò con tono solenne, prendendole la mano, e allontanandola dagli altri due, verso una costruzione in legno poco distante.
“Luca, non è necessario...i tuoi uomini...” balbettò Francesca.
Luca si fermò di fronte a lei, posandole le mani sulla spalle. La scrutò intensamente con la massima serietà. “Ricorda bene. Nessuno, e ripeto nessuno, vale per me quanto la tua vita. Nessuno. Io verrò con te, il discorso finisce qui”.
Francesca si sentì sollevata. Nonostante Violetta e Federico avessero fatto di tutto per non farle pensare al suo destino, solo in quel momento, guardando negli occhi il fratello che era certa avrebbe dato volentieri la vita per lei, sentiva che forse per lei c’era davvero una speranza. E se c’era davvero una modo per liberarsi da quella maledizione, insieme l’avrebbero trovato.
 
Natalia vedeva il Regno sgretolarsi sotto le sue mani e la colpa era tutta di Ludmilla Ferro. I sudditi cominciavano a nutrire riserve nei suoi confronti, considerandola solo come un burattino nelle mani della regina di Quadri. I pochi sostenitori con cui aveva attuato il colpo di stato cominciavano a chiedersi se effettivamente fosse stata una buona idea e lei non poteva fare nulla per fargli cambiare idea. Continuava a mantenere il potere con la forza, ma ora che Ludmilla aveva deciso di servirsi dell’Ordine di Fiori non poteva contare più neppure su quella. All’inizio il nome di Francesca veniva appena sussurrato, per paura di essere uditi da spie, ma adesso la si reclamava a gran voce, senza più preoccuparsi delle conseguenze. Le ricostruzioni del palazzo procedevano senza sosta e anche questo era mal visto dal popolo, che le consideravano un enorme spreco di forze, tempo e denaro.
“Non so se posso accettare”. Alcune scintille schizzarono fuori dal camino dentro cui ardeva la legna accesa. Nata era vestita in modo modesto. Il suo rango non aveva risparmiato il padre dalla febbre del gioco dei dadi, portandolo sul lastrico. Proprietà, gioielli, tutto andato perduto. La madre si era gravemente ammalata e li aveva abbandonati da poco tempo. Nata temeva che presto il padre l’avrebbe seguito, caduto com’era in una depressione da cui sembrava non avere speranze di uscita. Il futuro la spaventava, ma cercava di non pensarci, concentrandosi nelle faccende, poiché avevano dovuto licenziare tutta la servitù. Poi un giorno come tanti altri la giovane regina di Quadri, Ludmilla Ferro, si era presentata nella loro umile dimora, per farle una proposta.
“Non hai nulla da perdere, mi sembra” esclamò la bionda, guardandosi attorno con disgusto. Le pareti erano annerite dalla fuliggine e il pavimento aveva effettivamente bisogno di una ripulita, ma Nata non riusciva a stare dietro a tutto. La ragazza sospirò: in fondo aveva motivo per avercela con sua cugina Francesca e la loro famiglia. L’avevano lasciata lì a marcire, rifiutandosi di aiutare il padre con i debiti. E quella piccola casa di campagna, eredità da parte della madre, era tutto ciò che gli era rimasto. “Io posso assicurarti che in pochissimo tempo potrai indossare la corona del Regno di Fiori. Ti darò i miei uomini per attuare il colpo di stato e poi immagino che tu abbia ancora qualche amico a palazzo, giusto?
Nata annuì, seppure con poca convinzione. Ancora non si fidava ad accettare l’aiuto di quella donna. Sapeva che nessuno faceva nulla per nulla e attendeva solo di sentire il prezzo di quell’accordo. Ludmilla aveva nel frattempo tirato fuori dalla tasca un sottile fiala il cui vetro era di uno strano color verde bottiglia e dentro ondeggiava appena un liquido scuro, di cui non riusciva a distinguere il colore. “Questo veleno è la chiave di tutto. In questo modo potrai toglierti di mezzo la famiglia reale. Poi il resto verrebbe da sé. Nessuno potrebbe sospettare di te, il veleno non lascia alcuna traccia” spiegò attentamente la regina di Quadri, sorridendo rassicurante.
Gli occhi di Nata brillarono: tutti i suoi sogni erano racchiusi in quella fiala, tutto i suoi desideri. La tentazione di cedere era fortissima ma ancora qualcosa la tratteneva. “E cosa vorreste in cambio?” domandò la mora.
“Favori. Ma non parliamone ora, non è nulla di cui dobbiamo preoccuparci ora. Accetti oppure no il mio accordo?”.
Nata annuì, scacciando ogni timore e incertezza.

Da quel giorno la sua vita era cambiata e all’inizio non aveva pensato alla conseguenza delle sue azioni. Una volta morti ‘misteriosamente’ i genitori di Francesca, il Regno si era notevolmente indebolito, passando per un breve periodo nelle mani di Luca, che però non si ritenne adatto al ruolo di re e cedette il trono alla sorella. Francesca, nonostante fosse giovane e inesperta, era riuscita amare fin da subito dai suoi sudditi, ma c’era ancora parecchia instabilità nel Regno e Nata ne aveva approfittato per attuare il suo colpo di stato, con l’aiuto di Ludmilla.
“Mia regina”. Ana la fece sobbalzare, presentandosi al suo cospetto con un profondo inchino. La sala del trono era vasta quasi quanto la sua passata dimora, di forma romboidale, più lunga che larga. Il pavimento era di puro cristallo lucente, e proprio sotto il trono risplendeva un mosaico che raffigurava lo stemma di fiori. “Ho saputo dello spostamento dei cavalieri di Fiori e vi chiedo umilmente di permettermi di raggiungerli”.
Nata sembrò piuttosto sorpresa della richiesta: per giorni Ana non aveva messo piede dal suo studio, lavorando a chissà quali incantesimi di natura proibita. La giovane maga era stata la prima a stringere il Pactio di sua spontanea volontà, con la promessa di avere l’accesso a tutti gli antichi testi magici custoditi nel palazzo di Fiori. “Sai bene di far parte della mia ristretta guardia personale. Non penso sia saggio che ti allontani dalla tua regina, soprattutto in tempi come questi” esclamò Nata, lasciando trasparire da quelle parole tutta la proeccupazione che stava provando.
“Lo so bene, ma non l’avrei chiesto se non fosse per un motivo più che urgente. Tra le linee del nemico potrebbe comparire un mago, un certo Domingus Junior...l’unico sfuggito al tuo controllo. E solo io posso fermarlo”.
“E cosa ti spinge a credere che solo tu ne sia in grado? Ho altri maghi su cui poter fare affidamento...ad esempio il padre di questo ribelle”.
Ana strinse i denti, ma non perse le staffe, per quanto odiasse che la sua parola venisse messa in discussione. “Vi chiedo di fidarvi di me. Quel ragazzo è un serio pericolo. Devo ricordarvi ciò che è riuscito a fare a questo Palazzo?”.
Nata rabbrividì, ripensando al suo meraviglioso palazzo diviso completamente in due. Aveva superato ogni difesa magica, creando prima un terremoto e poi uno tsunami dal nulla. Un potere tanto devastante avrebbe dovuto essere al suo servizio, e invece gli era sempre stato descritto come un ragazzo che non amava applicarsi nello studio e persino scansafatiche, per cui quando era scomparso nel nulla non si era creata il problema di cercarlo. Ignorava invece che si trattasse di un concentrato di talento innato.
“Permesso accordato” si arrese infine Nata, afflosciandosi sul trono. Non riusciva a reggere tutte quelle pressioni, quelle richieste. La vita da regina non era fatta per lei e pian piano se ne stava rendendo conto. Non c’era più però alcuna via di uscita per lei, era caduta nella trappola di Ludmilla e non sarebbe più stata in grado di tirarsene fuori.
 
“Strano, stranissimo!” mormorò Violetta, guardandosi intorno completamente affascinata. Non riusciva ancora ad abituarsi alle stranezze che il Paese delle Meraviglie continuava a riservarle. Luca li aveva condotti sempre più nel folto della foresta, fino a quando non si erano trovati di fronte a un cartello di legno: ‘Foresta di Supergiù’. Subito dietro di esso si estendeva in lunghezza a perdita d’occhio una striscia bianca. Sembrava fosse fatta di gesso, ma quando si chinò per grattarlo non si staccò neppure un granello bianco dal terreno.
“Preparatevi. Le cose vi sembreranno parecchio diverse da qui in poi” li mise sull’attenti Luca, prendendo poi per mano Francesca. Violetta li vide attraversare la striscia bianca e sparire all’improvviso.
Federico impallidì, rivolgendole uno sguardo terrorizzato, quindi zoppicò con il bastone fino a superare anche lui la striscia. Violetta si posizionò al suo fianco, per non dover rimanere da sola. Con decisione fece un passo avanti, e quando lo riposò tirò un sospiro di sollievo. Intorno a lei non le sembrava ci fossero tantissime differenze, aveva solo un leggero capogiro. “Violetta!” la chiamò Francesca, parecchio scossa. Fece per raggiungerla, quando di fronte a lei si parò un mostro verde. Aveva delle enorme chele e degli occhietti neri famelici; dal capo si diramavano due sottili antenne. Aveva letto numerosi libri sugli insetti e quell’animale aveva tutto l’aspetto di una mantide religiosa fin troppo cresciuta. In ogni caso egli non badò molto a lei, perché le passò oltre con assoluto disinteresse. “Ma è enorme!” mormorò con un fil di voce a Francesca, raggiungendola.
“Non è lui ad essere grande, siamo noi ad essere piccoli. Guarda dietro di te”.
Violetta si voltò e spalancò la bocca: quella che prima era solo una sottile scia biancastra adesso aveva le dimensioni di un rigagnolo. La vegetazione intorno a lei, che aveva scambiato per normali alberi altro non erano che steli d’erba. Era già rimpicciolita un’altra volta, quando era fuggita dal castello di Cuori, ma questo non le impedì di rimanere frastornata dalla natura che la sovrastava.
“Non rimanete lì, dobbiamo muoverci” li richiamò Luca, mettendosi a capo del gruppo. Marciarono per diversi giorni, all’ombra di giganteschi funghi dai colori sgargianti, con il pressante ronzio delle api che di tanto in tanto volavano raso terra, attirate poi dal nettare che si nascondeva all’interno delle corolle dei fiori. Quando si fermavano per riprendere le forze Luca tirava fuori delle spade di legno che si era portato dietro appositamente per allenare Francesca e Violetta. Secondo lui in tempi di guerra tutti dovevano essere in grado di maneggiare una spada, almeno per potersi difendere. Più volte il giovane principe si era congratulato con Violetta per il modo in cui maneggiava la spada o per come eseguiva le tecniche quasi alla perfezione al primo tentativo. “Sicura che non hai tenuto in mano una spada vera e propria?” le domandava di tanto in tanto il ragazzo, sinceramente stupito. Alla risposta affermativa di Violetta, sorrideva e strizzava un occhio per poi riprendere con un blando assalto, abilmente scartato. Federico osservava gli allenamenti in disparte, nostalgico. Un tempo anche lui avrebbe potuto parteciparvi, ma adesso con quella gamba inutilizzabile gli sarebbe stato impossibile brandire una spada e duellare.
“Non avrei mai pensato di dire che Violetta sarebbe stata così brava! Ha un’aria così innocente...” esclamò Francesca stanca, posandosi alla spalla del conte.
“Avrei dovuto essere io a proteggervi, o per lo meno a insegnarvi a difendervi” sbottò Federico.
Francesca si morse il labbro, osservando il bastone ricurvo su cui si poggiava il ragazzo. “Io...insomma, Federico, tu...”.
“So benissimo di essere storpio. E’ questo che stai cercando di dirmi, vero?” la anticipò l’altro, incenerendola con lo sguardo.
“No, io...E’ difficile, non ne abbiamo mai parlato prima” mormorò la principessa, stringendo con forza la mano destra di Federico. Lentamente se la portò alla guancia, guardandolo con così tanta dolcezza che l’espressione dura di Federico si ammorbidì all’istante. “Non voglio che finiamo sempre per litigare” soffiò la mora, socchiudendo gli occhi e godendosi il tocco ruvido della mano di Federico, il quale, in tutta risposta scosse la testa.
“Hai ragione, perdonami. E’ così frustrante, mi sento inutile. Devo solo abituarmi a questa situazione, ogni volta che credo di esserci riuscito ecco che ci ricasco...Ma ce la farò, promesso”.
Un tonfo li fece voltare istantaneamente verso il luogo del combattimento, dove una Violetta euforica esultava apertamente per essere riuscita a disarmare Luca. Il principe invece continuava ad avere lo sguardo fisso su di loro, con un misto di rabbia e sgomento.
Dopo quell’episodio Luca era diventato molto più freddo. Si limitava a camminare avanti agli altri e quando Francesca gli correva incontro per cercare di parlargli per spiegargli quello che aveva visto, lui borbottava qualcosa come ‘Ho capito anche fin troppo bene’.
“Penso che non l’abbia presa bene” si arrese, tornando insieme agli altri due compagni.
“Ma no, non mi dire!” ironizzò Violetta, trattenendo a stento una risata. Cercò di rimanere seria, mentre Federico la guardava con aria di rimprovero. “Devi solo dargli il tempo di accettarlo. Per lui deve essere difficile, si è appena riunito a te, ti vede ancora come la ragazzina di qualche anno fa...E poi rimane pur sempre un fratello maggiore, geloso per natura!”. I tentativi di rincuorare Francesca da parte dell’amica andarono a buon fine, perché si sciolse in un sorriso, sebbene non si sentisse del tutto tranquilla. Sperava solo che prima di raggiungere il Brucaliffo avesse avuto un’opportunità di parlare con il fratello. 
 
“Di questo passo non troveremo mai la casa del Brucaliffo” sbuffò Violetta, sedendosi a terra esausta.
“Se si sposta continuamente come dicono penso sia più facile che sia lui a trovare noi” aggiunse Francesca, massaggiandosi i la caviglie dolenti. Luca era rimasto in disparte e Federico non sapeva se fosse quello il momento giusto per spiegargli ciò che era successo tra lui e la sorella. Si allontanò dalle due ragazze e, in preda a mille incertezze, zoppicò fino a raggiungere il principe di Fiori, che con le braccia conserte fissava all’altezza dell’orizzonte. Alla loro altezza si distinguevano pochi sprazzi di cielo rosato che si proiettavano sul terreno smosso. Uno di essi sembrava una mezzaluna e Luca risiedeva al suo interno. Colpito da quella luce incuteva ancora di più un timore riverenziale, come se ci si trovasse al cospetto di una divinità. Non appena il moro si fu accorto della sua presenza, scosse la testa, indurendo la mascella e guardandolo con fare circospetto, come se non lo avesse mai visto in vita sua.
Federico, seppure si sentisse a disagio, lasciò che quell’esame procedesse in silenzio.
“Sai che Francesca è la persona a me più cara, vero? Per me la famiglia è tutto. E’ parte del credo della famiglia reale di Fiori” esordì Luca, fissandolo con durezza. Se fosse o no vero che aveva lo scopo di intimidirlo, Federico non lo seppe dire.
“Dovresti sapere, Luca, che agisco sempre con onore. E non oserei mai ferirla...”.
“Anche perché io ti spezzerei l’altra gamba se tu provassi a farlo” ribatté Luca, con un sorriso bieco. Federico sapeva bene che quella non era una semplice minaccia, bensì una promessa.
“Sono successe tante cose, ma il legame che unisce me e Francesca è...bello. Speciale”.
“Non so di cosa tu stia parlando, so solo che lei è la mia sorellina e che nessuno può avvicinarsi a lei senza il mio consenso”.
Federico non seppe ribattere, ma rimase in silenzio, cercando di trovare delle argomentazioni più valide di quelle presentate fino a quel momento. A salvarlo da quel vicolo cieco ci pensò Violetta, che li chiamò a gran voce, dicendo loro di raggiungerle subito. Quando i due tornarono nel posto in cui le avevano lasciate, le trovarono in compagnia di un giovane pallido dagli occhi grandi ed espressivi. Era vestito completamente di nero e indossava un mantello bianco candido. I capelli color ebano erano scompigliati e ribelli. Mentre Violetta e Francesca erano sedute, lui era l’unico rimasto in piedi, che si guardava intorno con fare circospetto. Non appena li vide sembrò tranquillizzarsi, tanto da regalare loro un sorriso mite.
“Lui è Marco, l’assistente di Antonio, il Brucaliffo” disse Violetta, scattando in piedi e facendo le presentazioni. Marco si esibì in un rapido inchino rispettoso, quindi tornò a guardarli e stavolta dal suo sguardo traspariva una leggera impazienza.
“Antonio mi ha mandato per riferirvi che è disponibile a incontrarvi” esclamò frettolosamente il mago. “Non c’è tempo da perdere, seguitemi”. A grandi passi si fece strada fino ad arrivare ai piedi di una quercia imponente. Anche senza essere delle dimensioni di una noce era chiaro che quello era un albero secolare, tra i più alti della foresta. Quando fu sicuro di essere stato seguito e dopo essersi fatto strada tra le radici che emergevano dal terreno, sfiorò con una mano la corteccia dell’albero e su di essa si incise una porticina molto semplice dalla forma tondeggiante.
“E’ qui che vive il Brucaliffo?” domandò Violetta, guardandolo con curiosità. In tutta risposta Marco sorrise indulgente. “La casa del Brucaliffo è qui e da nessuna parte. Per trovarla basta avere la chiave” disse, voltandosi subito dopo verso Francesca, la quale era rimasta colpita da quelle ultime parole. “Avrai tutte le rispose che cerchi” aggiunse Marco, riferendosi proprio a lei. La mora divenne rossa, riuscendo a stento a trattenere lo stupore: che fosse in grado di leggere nella mente? O forse semplicemente Antonio gli aveva parlato di lei? Molto probabilmente si trattava della seconda ipotesi, ma sentiva ancora lo sguardo penetrante di Marco addosso, facendola rabbrividire.
Il tronco era cavo all’interno e non si riusciva a distinguere a un palmo dal naso, fino a quando una serie di luci si accesero, piccole fiammelle racchiuse in candelabri a forma di goccia appesi lungo la parete circolare, che si estendeva in altezza a perdita d’occhio. Una scala a chiocciola conduceva in altre stanze, scavate nel tronco cavo. Al centro c’era una poltrona rosso fuoco, su cui Antonio con una camicia da notte nera lucida sprofondava gambe all’aria. Un piccolo tavolino stracolmo di libri impilati era posto vicino al narghilè. Dalla bocca del Brucaliffo uscivano cerchi di fumo concentrici che si perdevano nell’aria, diffondendo un profumo esotico di incenso.
“Maestro”. Marco era l’unico a sentirsi perfettamente a suo agio in quella situazione e velocemente raggiunse il Brucaliffo, guardandolo con estrema soddisfazione per essere riuscito a portare a termine il suo compito. Antonio alzò lo sguardo e subito si rivolse a Violetta: “Chi esser tu?”.
“Violetta” mormorò la ragazza, abbassando il capo in segno di rispetto.
“Niente affatto!” sbottò Antonio, agitando la mano come per allontanare quella risposta che non gli era piaciuta affatto. Un po’ a fatica si alzò, barcollando e borbottando qualcosa, quindi si aggiustò gli occhiali. “Voi due, seguitemi” disse l’uomo, indicando Violetta e Francesca. Federico e Luca scattarono sull’attenti, per niente inclini a fidarsi del saggio anziano. Marco però si parò di fronte a loro, serissimo. “Non farà loro del male, non dovete preoccuparvi”. Nonostante quella rassicurazione non li convincesse appieno non poterono far altro che rimanere a guardare Violetta e Francesca che salivano le scale a chiocciola insieme al Brucaliffo, fermandosi solo parecchi piani più in alto.
“Francesca, puoi aspettarmi fuori un attimo per favore?” chiese gentilmente Antonio. La mora annuì, sentendo sempre di più l’adrenalina scorrerle nelle vene: era vicina a una risposta, quella che attendeva da tanto, troppo tempo. Un secondo in più o un secondo in meno non avrebbe cambiato l’inevitabile, ma sentiva il bisogno impellente di sapere. Se le aveva chiesto di aspettare forse la sua situazione non era poi così terribile, giusto? O forse stava solo cercando di illudersi?
Violetta si trovò in una piccola stanza accogliente, ma completamente vuota. Non c’era un mobile, una decorazione, assolutamente nulla, solo le piccole luci intrappolate alle pareti così come all’ingresso.
“Sei venuta per il nostro ultimo incontro, se non sbaglio”.
“Lo ricordi?” domandò Violetta, accigliandosi. Era stato solo un incontro fugace, erano passati per il corridoio e una serie di ricordi non suoi l’avevano investiti.
“Come non avrei potuto! So chi sei e qual è il tuo destino dal primo momento in cui hai messo piede in questo mondo...Ho dovuto fare in modo che tu ti ricordassi di cercarmi e quei ricordi mi sono sembrati il modo giusto per riuscirci”. Violetta tacque: quindi ciò che le era successo in quel corridoio era stato opera del Brucaliffo. Aveva addirittura il potere di entrare nelle menti delle persone?
Isintivamente mise la mano in tasca tirando fuori quel frammento ingiallito e spiegazzato ritrovato nella biblioteca del castello di Cuori. Lo porse silenziosamente ad Antonio che vi gettò appena un’occhiata per poi sorridere. “Carroll. Un grande artista, uno scrittore eccezionale! E’ merito suo se tutto questo esiste...”.
“Quindi confermi ciò che ha detto il Cappellaio? Mi trovo veramente in un libro?”.
“La realtà è molto più complessa di quello che appare. Certo, tutto quello che vedi esiste grazie alla penna di Carroll, ma con Alice le cose sono cambiate...credo che tua sia pronta per parlarle, non posso dirti molto”.
“Alice è ancora viva?” chiese Violetta, sgranando gli occhi. Allora aveva avuto ragione fin dall’inizio: Alice era sempre stata dietro ogni sua azione e ora ne aveva la conferma. “Dove posso trovarla?”.
“Raggiungi le paludi di Jolly e lo Stregatto in persona ti condurrà da lei. Io, Camilla, Beto e i suoi amici siamo gli unici ad essere al corrente della sua esistenza. Ricorda: non dovrai farne parola con nessuno” la avvisò Antonio, agitando l’indice con tono severo. “Lei risponderà a tutte le tue domande molto meglio di quanto possa fare io...e ora mi faresti il piacere di scambiare due parole solo con la principessa di Fiori?”. Violetta annuì e si avvicinò alla porta, facendo per aprirla, quando il Brucaliffo parlò di nuovo: “Ricorda, Violetta...hai un potere che nessuno di noi possiede, puoi cambiare il destino, non solo il tuo, bensì anche quello degli altri. Ma non devi fare in modo che questo potere ti renda diversa da quello che sei. Ricorda sempre quali sono i tuoi obiettivi, perché il tuo lungo viaggio sta per finire”. Violetta avvertì un brivido lungo la schiena, mentre spingeva il pomello della porta, trovandosi di fronte a Francesca, che era rimasta esattamente dov’era, con una faccia pallidissima.
Si fece da parte, accarezzandole teneramente la spalla. La mora sussultò a quel tocco, ma non si sottrasse, anzi lasciò che esso gli desse una forza di cui non si sentiva più portatrice. La paura l’aveva annientata poco a poco e quella speranza flebile era tutto ciò che gli era rimasto insieme a Federico. A passo lento, raggiunse Antonio, che le circondò le spalle con un braccio, chiudendo la porta dietro di sé. Violetta guardò verso il basso, dove Marco tentava di intrattenere Luca e Federico con qualche racconto, ma entrambi erano tesissimi. Il tempo passava inesorabile e la porta era ancora chiusa. Violetta continuava a fissarla: Antonio non l’aveva trattenuta a lungo tanto quanto l’amica e questo non faceva altro che preoccuparla sempre di più. Quando finalmente Francesca uscì dalla stanza, accompagnata da Antonio sembrava sollevata e sconvolta allo stesso tempo.
Scesero le scale in silenzio e subito Luca si precipitò dalla sorella, studiandola attentamente. “Tutto a posto? E’ tutto risolto?”. Francesca cercò uno sguardo di conferma da parte di Antonio, quindi deglutì e annuì: “Non ancora, ma presto...presto sarà tutto finito”. Quindi si rivolse a Violetta: “Il Brucaliffo mi ha detto qual è la nostra prossima meta. L’ultima prima di raggiungere gli altri”.
Antontio accompagnò il gruppo fino alla porta che aprì lentamente, mostrando un paesaggio diverso da quello da cui erano venuti. “Quando uscirete vi ritroverete quasi subito fuori dal bosco, nelle vostre dimensioni usuali” sorrise Antonio, rispondendo ai taciti dubbi dei suoi ospiti.
“Sarà meglio andare, allora” ribattè Federico, che non vedeva l’ora di lasciare quel posto stranissimo, abitato da persone altrettanto strane e misteriore. Francesca, dopo i dovuti ringraziamenti ad Antonio, attraversò la porta, affiancata a sinistra da Federico e a destra da Luca, che ogni tanto gli lanciava occhiae minacciose.
“Violetta”. Marco la trattenne per un braccio, mentre l’anziano Brucaliffo era già sparito per le scale, intrufolatosi in una delle numerose stanze. “Non mi sono mai scusato come avrei dovuto...per quello che è successo al castello di Cuori. Ho lasciato che i miei sentimenti prendessero il sopravvento, sono stato uno sciocco”.
“Non è stata colpa tua...”.
“Invece si! Per di più ho lasciato che i pregiudizi nei confronti di Leon mi accecassero...Lui ha bisogno di te. Molto più di qualunque essere vivente su questo mondo” esclamò deciso il mago, arrossendo appena. “La Profezia purtroppo dice che uno dei due ucciderà l’altro, ma non lasciare che questo accada”.
“Io non lo ucciderei mai, e neppure lui lo farebbe” rispose Violetta, stringendo i pugni e ricordando i numerosi avvertimenti che le aveva dato Beto a proposito della Profezia.
“Purtroppo le cose non sono così semplice. Le persone cambiano, Violetta, ma Antonio mi ha insegnato che c’è sempre una speranza, perché per quanto odio possa accecare un uomo i ricordi che ci donano il cuore non possono essere cancellati in nessun modo”. Violetta sorrise, stringendo la mano di Marco, che lentamente l’abbracciò. “Salvaci” le sussurrò all’orecchio, quindi le lasciò un lieve bacio sulle guancia e si girò dall’altra parte, probabilmente troppo in imbarazzo per ciò che aveva fatto. Violetta aveva sempre creduto Marco un ragazzo arrogante e spavaldo e invece si era dovuta ricredere: c’era tanta saggezza in lui, tanta gentilezza. Antonio aveva visto in lui qualcosa che nessun’altro era stato in grado di vedere, ma adesso a lei quelle qualità apparivano chiare e limpide. Marco non era stato l’unico ad affidarsi a pregiudizi sbagliati; in quel viaggio aveva imparato che molto spesso le persone non erano come apparivano. “Adesso vai” mormorò il ragazzo, sempre di spalle, grattandosi il capo.
“Grazie, farò tutto il possibile...davvero”. Violetta si voltò prendendo un respiro profondo: la sua avventura stava giungendo al termine, ma prima aveva bisogno di alcune ultime risposte, e solo Alice avrebbe potuto dargliele.
 
“Non se ne parla, non ho alcuna intenzione di dormire vicino a questo qua!” sbuffò Luca, indicando Federico, che si era già preparato il suo giaciglio, su cui si lasciò cadere a peso morto, annaspando.
“Luca, non essere infantile! Hai deciso di accompagnarci, quindi vedi di cominciare ad adattarti e di farci finire questo viaggio tranquillamente” lo riprese Francesca, dandogli uno spintone verso il conte Acosta, che si raggomitolò di spalle, aspettando di prendere sonno.
“Ma lui...io...voi...e va bene! Ma quando saremo di nuovo a casa ci saranno parecchie cose di cui dovremo parlare” si lamentò il principe di Fiori, incrociando le braccia al petto e andando ad assicurarsi che il fuoco fosse stato spento a dovere.
“Che tono autoritario, proprio da regina!” ridacchiò Violetta, avvicinandosi alla mora che fece una piccola smorfia, per poi sospirare. “Questo viaggio sta per trasformarsi in un Inferno! Luca è sempre stato gelosissimo di me e ora che ha capito come stanno le cose...è tanto che non lo abbia sfidato a un duello mortale”.
Violetta annuì: anche se era figlia unica, capiva perfettamente come ci si sentisse ad avere una persona cara particolarmente protettiva nei propri confronti. German nemmeno le aveva dato la possibilità di andare in una scuola, assumendo un’istitutrice. A pensarci bene, da quando era nel Paese delle Meraviglie, si sentiva diversa, come se improvvisamente fosse cresciuta tutto d’un tratto. Aveva affrontato situazioni complicate, a volte perfino pericolose, e ne era sempre uscita viva. Aveva incontrato tutti i generi di persone, da quelle avide e approfittatrici come Ludmilla, ad altre generose e altruiste come Lena. A pensarci bene, quando Antonio le aveva chiesto chi fosse, forse aveva sbagliato a dare quella risposta. La Violetta che era atterrata nel Paese delle Meraviglie era solo una figura sbiadita di un passato che sembrava fin troppo lontano. Ricordando del suo incontro con il Brucaliffo le venne spontaneo chiedersi che cosa mai avesse detto a Francesca. La ragazza era stata infatti sempre molto evasiva e si era rifiutata di rispondere alle loro molteplici domande per tutto il tragitto.
“Per fortuna le Paludi di Jolly non sono lontane, quindi forse riusciremo ad evitare inutili spargimenti di sangue” continuò la mora.
“E’ tanto che ci penso...come mai non ci hai raccontato di quello che ti ha detto il Brucaliffo?” chiese Violetta, senza più riuscire a trattenere quella bruciante curiosità. Francesca impallidì, guardandosi intorno, come se avesse paura di essere osservata.
“Se te lo dicessi interferirei con quello che è il tuo scopo...fidati, non vorresti sapere ciò che mi ha confidato” rispose, guardando davanti a sé, ma senza incrociare lo sguardo dell’amica.
“E’ così grave?”.
“Tutt’altro! E’...un bene sia per me che per te. Finalmente potrò controllare il Mana...ma smettila di chiedermi come e perché, non è ancora il momento!” si irritò notevolmente Francesca, entrando nel panico.
Violetta non capiva che cosa ci fosse tanto importante dietro quel silenzio, ma insistere sarebbe stato inutile. Francesca era una persona non solo determinata, ma anche leale, e se il Brucaliffo le aveva fatto promettere di non dire nulla non l’avrebbe mai fatto. Non poteva far altro che rallegrarsi per il fatto che almeno la maledizione del Mana sarebbe potuta essere spezzata, anche se non aveva la minima idea di come fosse possibile.
“Ehi, questo qui mi ha dato un calcio” sbottò Luca, che si era steso affianco a Federico e già si stava lamentando.
“Spiegami com’è possibile visto che ho perso l’uso di una gamba” borbottò il conte Acosta, avendo quasi dimenticato di avere a che fare con un principe.
“Beh, hai ancora l’altra...per ora” lo minacciò Luca, girandosi dall’altra parte.
“Ti prego, dimmi che andranno d’accordo” sussurrò Francesca, alzando gli occhi al cielo. “Ma che dico, non succederà mai. Luca lo vedrà come una minaccia fino alla fine”.
Violetta trattenne a stento una risata, quindi accarezzò dolcemente il braccio dell’amica, facendole un occhiolino. “Non si sa mai, ricorda che siamo nel Paese delle Meraviglie, e tutto è possibile. Il viaggio non è ancora finito”. Già, il viaggio non era ancora finito. Ma tutte le risposte di cui aveva bisogno erano vicine e una volta ottenute era certa che tutto sarebbe volto precipitosamente al termine. Forse era solo una stupida impressione.
 
Una goccia limpida cadde sul terreno umido con un sordo tintinnio. Camilla osservava davanti a sé, le numerose scritte sulla grotta. Parole a volte incomprensibili, a volte piazzate in modo tale da formare frasi di senso compiuto, sembravano solo il delirante sfogo di un folle. Ma era la follia che aveva permesso loro di vedere la verità, che gli aveva dato la chiave per fuggire da una vita già decisa dall’inizio alla fine. E quella caverna era il luogo dove la follia prendeva concretezza. “Arriverà presto” disse lo Stregatto, continuando a fissare la parete. Delle catene strisciarono sul terreno. Un bagliore dorato illuminò per un attimo la stanza.
Ti aspettavo da tanto, Violetta. Quelle parole si persero nel nulla, inconsistenti come l’aria. 






NOTA AUTORE: Premetto che non ho potuto rileggere l'ultima parte (e davvero, non ce la faccio, magari lo faccio domani), e mi sento uno schifo ad aggiornare con un capitolo del genere, con questo ritardo e senza nemmeno aver ricotrollato completamente il capitolo, ma purtroppo dovete credermi se dico che non ho nemmeno il tempo per respirare e ho fatto davvero fatica a scrivere (più che mettermici un po' dopo cena, non posso veramente). Quindi niente, apprezzate lo sforzo in ogni caso :') La storia si sta avvicinando al finale come avrete capito, nel prossimo capitolo conosceremo finalmente la misteriosa figura di Alice, a quel punto penso manchino altri 3 o 4 capitoli+ epilogo...un po' mi dispiace che questa storia sia finita, ci sono affezionatissimo, però ho tante altre storie in mente e non è giusto non dargli spazio :3 Spero che abbiate gradito questa sorta di Odissea nel Paese delle Meraviglie, grazie a tutti voi che continuare a leggere e seguire nonostante tutto, mi fa piacere sapere che questa storia appassioni alcuni di voi :3 Grazie di cuore! Con affetto,
syontai :3

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Capitolo 68
*** Se è il lieto fine che cerchi... ***


Capitolo 68
Se è il lieto fine che cerchi...

 
L’ultima volta che Andres si era trovato al cospetto di Pablo gli era stato offerto di intraprendere un viaggio pericoloso che avrebbe potuto costargli anche la vita. Accecato dal dolore per la perdita del fratello, aveva accettato senza pensarci neppure un secondo. Aveva considerato quella missione come un modo per riscattarsi, con l’illusione di riuscire ad allontanare da sé il senso di colpa per la mote di Serdna. Al contrario, quel dolore si era radicato talmente a fondo nel suo essere da impedirgli di pensare ad altro. Poi era stata la volta di Emma e il senso di responsabilità lo aveva gettato in un baratro senza fondo. Solo da poco, grazie a Libi, aveva ritrovato la capacità di guardare in faccia la vita senza rifuggerla o nascondersi. Quando si era abbandonato ad Emma era stato per disperazione, per l’orrore di ciò che aveva visto e provato; adesso tuttavia, libero da costrizioni, riusciva finalmente a guardare in faccia la realtà. Provava nei confronti di Libi qualcosa di molto più forte della gratitudine, dell’amicizia che li aveva tenuti stretti. Già in tempi lontani si era promesso di dichiarare alla ragazza quell’attrazione che sentiva, solo che allora i suoi sentimenti erano molto più confusi.
“Lena ha ottenuto la possibilità di lavorare al castello, sono così contenta per lei!” esclamò Libi, raggiungendo Andres in una piccola stanza accogliente dove era stato detto loro di attendere l’arrivo del re. Maxi, seduto e con l’aria assente, alzò lo sguardo dall’elmo che teneva sulle  gambe: anche se Lena non aveva mai attirato le sue simpatie, era contento che fosse riuscita a trovare il modo per rendersi utile al castello. “E Thomas che fine ha fatto?”.
“Ha accompagnato Lena nella sua nuova stanza...penso che anche lui abbia comunque intenzione di fermarsi qui” rispose Marcela, riprendendo a fissare fuori dalla finestra. Non riusciva a rimanere ferma lì dentro al pensiero che da qualche parte in quella città poteva trovarsi il suo Matias.
Un tonfo riscosse tutti i presenti nella sala: Dj si era lasciato scappare lo scudo che era caduto a terra. “Scusate, questo coso pesa parecchio” mormorò imbarazzato il mago, cercando di rimetterlo in piedi e poggiandolo contro la parete. Dj si mise a contemplare il risultato, compiaciuto, quando due colpi secchi alla porta lo fecero sobbalzare. Chi era seduto scattò in piedi, mentre chi era già in piedi si mise sull’attenti.
Quando la porta si aprì si trovarono al cospetto della regina di Picche, Angeles, chiamata dal popolo Angie in tono amorevole. “E’ passato parecchio tempo” esclamò Angie, sorridendo e rivolgendosi ad Andres, Maxi e Libi. Guardò invece con notevole curiosità, ma allo stesso tempo con gratitudine, Dj e Marcela. “Il Re arriverà a breve, sono venuta ad assicurarmi che steste tutti bene”.
“Purtroppo Broadway e Emma...loro non ce l’hanno fatta” disse Andres, facendosi portavoce del gruppo. Nonostante tutto omise volontariamente la parte del tradimento del loro compagno, perché la sua memoria non venisse infangata. Era stato accecato dal denaro e dalla possibilità di salvarsi da quella missione suicida, non se la sentiva di accusarlo anche dopo la sua morte.
Il sorriso di Angie si spense e la sua espressione si fece subito cupa. “Io...capisco...Sarà meglio che mi occupi di informare le famiglie della perdita” balbettò la donna. Andres leggeva nel suo sguardo l’incredulità di ancora non riusciva a fare i conti con la guerra e con la morte. Quando sentì parlare delle famiglie non poté non pensare a quella di Emma, che l’aveva sempre disprezzata, ritenendola inferiore solo per il suo sesso. Voleva che sapessero quanto era stata valorosa e indispensabile per la riuscita della loro missione. 
“I genitori di Emma dovrebbero essere fieri della loro figlia. Senza di lei probabilmente non ce l’avremmo mai fatta”.
Angie annuì, gli occhi che brillavano di una viva tristezza.
“Dj, tutto bene?” domandò Libi, preoccupata. Il giovane mago era diventato improvvisamente pallido. Lui più di tutti aveva sofferto la morte di Emma e il solo ricordo gli faceva più male di ogni altra cosa. Il suo sguardo cadde sullo scudo, ottenuto a scapito del sangue della ragazza.  “Si, scusate...ero sovrappensiero” rispose Dj, abbozzando un sorriso per rassicurare l’amica, che in ogni caso decise di lasciar stare, seppure affatto convinta.
“Scusate se vi ho fatto attendere”. Pablo fece il suo ingresso con l’aria assorta, ma subito dopo la sua attenzione fu catturata dai tre scintillanti antichi cimeli: lo scudo, l’elmo, la spada. Il fulcro della magia del Paese delle Meraviglie era racchiuso in quella stanza. “Portatela qui” sibilò l’uomo, rivolto a una delle tre guardie che lo avevano scortato. L’uomo annuì e fece un mezzo inchino per poi uscire dalla stanza. Dopo pochi minuti rientrò, seguito da altri due uomini che reggevano una portantina di legno con una teca di vetro. Al suo interno, deposta su un soffice cuscino di velluto scarlatto, giaceva l’ultimo pezzo: la corazza. Dj, prese lo scudo e si avvicinò, seguito da Maxi e Andres con l’elmo e la spada. Fortitudo, Vis, Virtus e Sapientia erano le scritte incise su ciascuno di questi oggetti, che avvicinati tra loro sembravano vibrare. In pochissimo tempo però quello strano effetto scomparve, lasciando tutti delusi.
“Non è successo nulla” constatò Libi.
“Qualcosa è successo...hanno vibrato!” esclamò Maxi, che seppur sfiduciato, tentava di cacciare l’idea che forse quel viaggio irto di pericoli fosse stato completamente inutile.
“Oh, benissimo, sconfiggeremo i nemici a suon di vibrazioni! Tanto vale mettersi a cantare allora” continuò la mora, sbuffando.
“Ricordate tutti che nelle nostre mani possono essere delle semplici armi dai poteri magici, ma solo la Prescelta può usarli al massimo delle loro possibilità” concluse Dj, appoggiando lo scudo a terra.
“Spero allora che ci raggiunga presto. Nerdicorallo e il Regno di Picche non potranno reggere ancora per molto. Vi ringrazio per i mille pericoli che avete dovuto affrontare, stasera festeggeremo il vostro ritorno, ma adesso sfortunatamente sono richiesto altrove” sentenziò Pablo, uscendo di fretta, seguito da Angie che mai aveva visto il marito così turbato, neppure nei momenti più bui della guerra.
 
“Grazie per avermi accompagnata fin qui” disse Marcela, guardando le pareti di quello stretto vicolo in cui erano finite lei e Libi.
“Non c’è nessun problema, davvero. Andres è scomparso, Dj è chiuso in biblioteca e Maxi si sta ancora riprendendo dal viaggio” sorrise la mora, toccandosi la spalla istintivamente, dove di solito portava l’arco a tracolla. La ritirò con una leggera traccia di delusione: da quando erano arrivati aveva chiesto ad Andres, l’unico che si intendesse di armi della compagnia, di aiutarla a rimpiazzare il suo vecchio arco, ma il ragazzo aveva sempre qualcosa di improrogabile da fare. Così era passata una settimana e lei ancora non aveva fatto il suo acquisto. In compenso quella mattina, che era iniziata come tutte le altre, aveva subito una piacevole svolta quando aveva visto le lacrime di gioia sul volto di Marcela. La donna aveva parlato con una delle spie del sovrano di Picche, il quale le aveva assicurato che Matias si trovava a Nerdicorallo. Dopo essersi fatta dare le indicazioni per raggiungere l’abitazione dell’uomo, aveva subito chiesto a Libi di accompagnarla, tanto emozionata quanto piena di timori: c’era il rischio che Matias avesse voltato pagina, credendola morta? Poco tempo prima erano stati sul punto di sposarsi, ma adesso tutto le appariva incerto. Anche per questo non se la sentiva di andare da sola, aveva bisogno di qualcuno che le infondesse coraggio e in fondo Libi le sembrava la persona giusta, in mancanza di Francesca, con cui aveva instaurato un legame più profondo, anche per il fatto che le aveva salvato la vita.
Si fermò di fronte a un’abitazione un po’ dimessa, con una porta di legno consumata che ne impediva l’accesso. Con il cuore in gola bussò una volta. Nessuno venne ad aprire. Dalla bocca non le usciva neppure un filo di voce per chiamare il suo amato.
“Forse non è in casa. Sarà meglio provare più tardi, penso che tra poco pioverà” esclamò Libi, indicando i nuvoloni neri sopra le loro teste. Marcela abbassò lo sguardo, afflitta, quindi annuì e si voltò di spalle per seguire il consiglio della ragazza, affrettandosi a coprirsi con il cappuccio del mantello. Mosse appena un passo quando si udì il cigolio della porta che si apriva.
“Che volete?”. Era la voce di una donna. A Marcela si fermò il cuore in gola. Matias aveva preso la sua decisione, ne era convinta. Aveva scelto di ricominciare da capo, e in quel nuovo inizio lei non era inclusa. Una lacrima di rabbia e impotenza le rigò il viso. Lei non aveva smesso neppure per un istante di amarlo, nella speranza di poterlo rincontrare, ma quel forte sentimento non era ricambiato, non più.
“Esmeralda!” salutò Libi, avvicinandosi alla donna sul ciglio della porta; su una spalla era appollaiata Ambar, la figlia tramutata in aquila, che rivolgeva uno sguardo imperioso ovunque. La ragazza mora prese per mano Marcela, costringendola a voltarsi. “Lei è Esmeralda, una compagna di sventure di Matias...a proposito, Matias è in casa?”.
Il cuore di Marcela si alleggerì appena nel sapere che Esmeralda non era chi credeva che fosse; ma questo non cancellava affatto i suoi timori.
“No, Matias non c’è, ma dovrebbe stare per tornare. Se volete entrare...” disse cordialmente Esmeralda, invitandoli con un ampio gesto. Le due diedero un’ulteriore occhiata al cielo plumbeo, quindi non se lo fecero ripetere due volte.
La casa non era molto grande e anche un po’ spoglia, ma confortevole. C’erano due stanze, la più grande adibita a sala da pranzo, con tanto di camino per cucinare. Di fronte ad esso c’era un giaciglio sfatto, con ciuffi di paglia sparsi sulla coperta. La stanza accanto aveva un piccolo letto, con vicino un trespolo.
“Gradite del tè?” chiese Esmeralda, chinandosi sul camino per accenderlo. Libi e Marcela si guardarono, pallide: con tutte le volte che Beto le aveva invitate a prendere un tè durante la loro permanenza, avevano sviluppato una sorta di repulsione per quella bevanda. Rifiutare però le sembrò scortese, quindi si limitarono a rimanere in silenzio, gesto che la donna interpretò come un assenso. Riempì un bollitore di rame e lo mise sul fuoco, attenta a non scottarsi.
“Come vi dicevo Matias dovrebbe tornare a breve...il suo turno di lavoro è quasi finito”. Per poco Marcela non cadde dalla sedia nel sentire quella notizia: “Lavoro?!”. Non aveva mai visto Matias nemmeno sollevare un forcone per il fieno, non ce lo vedeva proprio a spaccarsi la schiena in un qualunque lavoro pesante. Era vero che le aveva promesso che una volta sposati avrebbe messo la testa a posto, ma vista la sua inclinazione per la truffa non credeva sarebbe mai successo davvero.
“Con la guerra in corso c’è mancanza di manodopera. Matias non è un soldato che potrebbe fare la differenza sul campo di battaglia, ma si occupa insieme a pochi altri delle riparazioni che necessita la città” spiegò Esmeralda, guardando verso il giaciglio improvvisato, che sicuramente doveva appartenere proprio al biondo in questione. “E’ molto gentile con me e Ambar, non ci fa mancare nulla. Pensate che si sveglia all’alba e lavora fino a quest’ora, senza neppure un’interruzione! Torna sempre distrutto, poverino”.
“Prima di venire sono passata da Dj...mi ha detto di riferirti che sta lavorando ad un modo per spezzare l’incantesimo lanciato su tua figlia. La biblioteca di Picche è piena di libri interessanti, anche se rimane convinto di dover andare al Tridente. Credo abbia intenzione di partire” disse Libi, colpita dallo sguardo ansioso della donna per quella notizia, che evidentemente non vedeva l’ora di poter riabbracciare la propria bambina. Marcela assistette a quella conversazione senza comprendere appieno di cosa stessero parlando, la mente ancora ferma alle parole di Esmeralda. Il suo Matias era diventato un uomo, pronto a prendersi la responsabilità del benessere di altre persone. Era così strano immaginarlo in quelle vesti, ma questo cambiamento accresceva in lei il desiderio di rincontrarlo. Un desiderio che la stava consumando minuto dopo minuto. Con la tazza del tè ancora in mano, si voltava continuamente verso l’uscita, nella speranza che Matias varcasse la soglia.
Quando finalmente la porta si aprì Matias entrò con le spalle basse e l’aria di chi aveva si sarebbe retto in piedi ancora per poco. Nemmeno notò che c’erano degli ospiti, a stento riusciva a tenere gli occhi aperti. “Sono...a...casa” farfugliò. Quando riuscì a mettere a fuoco la stanza però notò che c’era una donna con il cappuccio calato seduta di profilo e vicino a lei Libi. “Matias, che bello rivederti!” esclamò Libi, alzandosi e salutandolo con una pacca sulla spalla.
“A cosa devo questa visita?” domandò Matias, strizzando gli occhi, come succedeva sempre quando era nervoso.
“Adesso ti spiego...c’è una persona che è venuta apposta per te”. Libi si scostò sorridendo, e indicando con il braccio la donna incappucciata.
Marcela tentava di nascondersi il più possibile, non trovando il coraggio di mostrarsi. Aveva desiderato così tanto quell’incontro, ma adesso aveva terribilmente paura. Aveva paura che quel periodo di lontananza avesse cancellato per sempre le loro promesse. Matias era cambiato, ne aveva avuto la prova, ma non poté temere che anche i suoi sentimenti fossero cambiati. Libi rimase tra i due, Matias che fissava di sottecchi la donna che non aveva ancora riconosciuto, e l’altra che si abbassava sempre di più il cappuccio nervosamente. Esmeralda osservava la scena da esterna, avendo intuito quale fosse la personalità della misteriosa ospite dai racconti del suo compagno di truffe, ma non disse comunque nulla.
Alla fine Marcela con un sospiro si arrese all’inevitabile confronto. Si alzò lentamente, sempre con lo sguardo basso, quindi lentamente si voltò verso Matias, che non appena la vide rimase a bocca aperta. “M-M-Marcela...” balbettò l’uomo, senza riuscire a dire nient’altro.
“T-Tu, io credevo...insomma, ti avevano preso e io...non sapevo più...Marcela...”. Riprovò a parlare dopo qualche minuto, ma uscivano solo parole sconnesse. “Ti avrei cercato solo...non sapevo dove potessi essere, io...non sapevo che fare, credevo di averti perso!”.
Marcela si sentiva terribilmente male: continuava a guardarla come un morto tornato in vita da un momento all’altro. Non erano quelle le parole che avrebbe voluto sentirsi dire, non era tutto come l’aveva immaginato. Forse era stato uno sbaglio voler piombare a tutti i costi nella vita di Matias: che fosse stata tanto egoista da non voler vedere le possibili conseguenze delle sue azioni? “Mi hanno liberata, Matias, e adesso sono qui...Non per forzarti a tenere fede alla tua promessa, non devi preoccuparti di questo”.
“Ma cosa dici? Sono solo sorpreso, nulla di più! Ho fatto di tutto per poterti riavere, ma ti tenevano in trappola e io non sapevo come trovarti”. Matias si era avvicinato, prendendole le mani e accarezzandone il dorso. Marcela si lasciò cullare da quella ruvida carezza, mentre in lei si riaccendeva una speranza. “La mia promessa è stata fatta per durare in eterno, Marcela. Intendo ancora sposarti”. Venne interrotto dal singhiozzo della donna, seguito da alcune lacrime di gioia. Marcela si aggrappò a lui, che la strinse con forza e disperazione, sussurrandole di stare tranquilla, perché adesso erano insieme e nulla avrebbe potuto più separarli in quella città. Fronte contro fronte si ripeterono il vecchio giuramento che si erano fatti, ben consapevoli che tante cose fossero cambiate, ma che qualcosa del loro vecchio mondo era pur sempre rimasto intatto.
Libi rimase in disparte ad osservare la scena e per un momento giurò di aver visto persino scendere una lacrima lungo il viso dell’impassibile Esmeralda. Riscossasi come da un sogno, sentì di essere di troppo in quella stanza: Matias ed Esmeralda avevano sicuramente tantissime cose da raccontarsi, non voleva imporre la sua presenza incomoda. Con una scusa si congedò, per poi ritrovarsi a camminare per le strade grige della città. Un tuono in lontananza la fece sobbalzare e affrettò il passo.
Le guardie le rivolsero appena un cenno quando attraversò uno dei cancelli del palazzo reale. L’avevano vista girovagare molto in quei giorni quindi non si stupivano del suo continuo andirivieni. Piccole gocce d’acqua scesero dapprima rade, poi sempre più fitte, dal cielo plumbeo, battendo sul viale lastricato che tentava di percorrere correndo e stando attenta a non scivolare. Per guardare dove metteva i piedi finì addosso a qualcuno, a cui istintivamente si aggrappò per non cadere.
“Ehi, attenta!” esclamò Andres, stringendola a sé con naturalezza. Libi per un momento rimase a fissarlo incantata, quindi gli afferrò il braccio, allontanandolo con stizza.
“Non avrei rischiato di cadere se tu non ti fossi in mezzo” rispose piccata la ragazza.
“Per caso ce l’hai con me per qualche motivo?” domandò Andres, confuso.
“Qualche? Ho una lista di motivi per avercela con te, tra cui il fatto che sono giorni che non fai che evitarmi di continuo. Ma sai cosa? Ho rinunciato a capirti, Andres, ci ho rinunciato davvero!” strillò lei, con le lacrime agli occhi. Ringraziò il cielo che la pioggia nascondesse la sua debolezza, perché odiava ridursi in quello stato per un ragazzo che continuava a farla soffrire. Prima Emma, poi l’allontanamento, poi il riavvicinamento ed ora questo. Non appena nasceva in lei la speranza di aver fatto un passo in avanti, ecco che puntualmente le sue aspettative venivano deluse. Cercò di evitarlo di lato, ma Andres fu più veloce, afferrandola per la vita e bloccandola.
“Aspetta, aspetta! So di aver sbagliato con te, ma...vieni con me, ti prego”. Libi lo fissò allibita, guardando verso l’alto. Davvero le stava chiedendo di seguirlo chissà dove in mezzo a quel temporale? Era impazzito, non c’erano dubbi. Ma per quanto fosse arrabbiata non riusciva a dirgli di no mentre la guardava in quel modo supplicante.
“Sei un ruffiano” sbottò alla fine, senza riuscire comunque a trattenere un mezzo sorriso, e tendendogli la mano. Andres sorrise, scostandosi i capelli bagnati incollati sulla fronte. Le prese la mano con dolcezza, conducendola lontano dall’entrata del palazzo. Libi non aveva il coraggio di chiedergli dove la stesse portando e per un certo verso il fatto che si trattasse di una sorpresa la elettrizzava tantissimo.
Raggiunsero di corsa il piccolo cottage del Cappellaio Matto, aggirandola completamente. “Ci siamo!” esclamò d’un tratto. Le lasciò la mano per andare a prendere qualcosa che era poggiato sulla parete esterna posteriore della casa. Quando si avvicinò di nuovo, Libi spalancò la bocca per lo stupore: tra le mani reggeva un arco nuovo fiammante. Libi lo prese con mani tremanti, non per il freddo bensì per l’emozione che stava provando in quel momento: l’impugnatura era anche più leggera del suo vecchio arco; le estremità terminavano con delle piccole spirali intagliate.
“Lo so che non è il luogo né il momento adatto per dartelo, ma...sono giorni che provo a fartene uno come si deve e mi sono dovuto far aiutare da una mano esperta. Non vedevo l’ora di dartelo, però non ti trovavo e...adesso sono un po’ agitato a dire il vero” ridacchiò nervosamente Andres, con lo sguardo fisso sul terreno.
Libi ancora non riusciva a credere che fosse vero: quello era il vecchio Andres, quello che amava con tutto se stessa, quello che riusciva a sorridere nonostante tutto. Di slancio lo abbracciò e rimasero stretti a lungo, incuranti della pioggia che batteva sui loro corpi. Quando si separarono, Libi in punta di piedi gli lasciò un bacio sulla guancia. “Sei un buon amico, Andres, il migliore”.
L’espressione di Andres si indurì, come se gli avessero dato la peggiore delle notizie. La guardò dritto negli occhi e Libi si sentì intimidita dall’ardore che emanava quello sguardo. “Non va bene, non va bene affatto” mormorò, posandole le mani sulle spalle senza interrompere il contatto visivo. “Non posso esserti amico. Per tanto tempo ho cercato di ignorare e nascondere quello che sento, ma solo da poco tempo mi sono reso conto dello sforzo inutile di cui si è trattato. Ma adesso devo andare avanti fino alla fine, l’ho capito”. Prese fiato e continuò: “Libi, tu mi fai stare bene. Ho bisogno di te”. Libi stava per ribattere qualcosa, ma Andres fu più rapido, le prese il viso tra le mani, facendo combaciare le loro labbra. Si staccò subito, confuso dal suo stesso gesto che eppure gli era uscito così naturale.
Libi rimase a bocca aperta, con ancora il sapore di quel bacio tanto sognato, appena intaccato dalle umide gocce di pioggia. Non le uscivano parole, non riusciva neppure a muoversi. Il suo desiderio, quello espresso fin dal giorno in cui l’aveva incontrato, si era avverato senza che nemmeno se ne rendesse pienamente conto. Il ticchettio della pioggia sfumò nell’atmosfera, fino ad estinguersi del tutto, lasciando tanti piccoli diamanti di rugiada su ogni stelo d’erba. Andres chinò il capo, contrariato; si scostò i capelli di lato, provocandosi così una piccola pioggia sul viso. “Mi ero immaginato una reazione un po’ diversa” mormorò alla fine.
“Provaci tu ad aspettare questo momento da una vita, e poi ne riparliamo” ebbe la forza di dire Libi, sciogliendosi in un sorriso luminoso. Il ragazzo rispose al sorriso, rianimandosi di colpo. Senza attendere un ulteriore consenso la baciò nuovamente, questa volta in modo irruento, e venne corrisposto immediatamente. Libi si aggrappò alle sue spalle, lasciando che le circondasse la vita e la stringesse a sé.
“Sono stato uno sciocco” soffiò Andres, separandosi di nuovo.
“Oh, si, lo sei stato” confermò la mora dopo aver finto di averci pensato su.
“Ehi!” si lamentò Andres, senza però riuscire a reprimere una risata. “Potresti andarci piano con me”.
“Potrei, ma non lo farò. Ricorda che una ragazza arrabbiata e ferita può essere molto pericolosa”. Libi gli fece un occhiolino, scoccandogli un bacio sulla guancia per poi arrossire subito timidamente.
“Adoro la tua ironia” esclamò Andres con un’espressiona a metà tra il divertito e l’incantato.
“ E tutto sommato io amo la tua stupidità” concluse Libi, rifugiandosi tra le sue braccia. Rivolse uno sguardo fugace all’arco che aveva lasciato cadere a terra, sorridendo. Si ricordò di quella ragazza che appariva tanto forte, ma allo stesso tempo era stata incapace di rivelare i suoi sentimenti al ragazzo che amava; molte cose erano cambiate, lei era cambiata. Non credeva più che avrebbe potuto essere felice solo con Andres, ma di una cosa era certa: con lui poteva esserlo davvero.
 
“Ecco la Grotta!”. Francesca, dalla cima dell’altopiano su cui si erano accampati, si sbracciava indicando verso la Palude di Jolly.
“Come fai a sapere che è proprio quella?” chiese Federico, aggrottando la fronte.
“Me ne ha parlato il Brucaliffo...ha detto che l’avremmo vista subito non appena arrivati al confine. Mi ha detto anche che gli abitanti del posto non vogliono che gli stranieri ci entrino, lo considerano un luogo sacro; ma non dobbiamo proeccuparci, lo Stregatto ci guiderà”.
“Camilla è qui?” chiese Violetta. Francesca scrollò le spalle: “Così pare”. Luca si avvicinò alla sorella e studiò la situazione: “Domani in giornata dovremmo raggiungerla, non è troppo lontana”.
“Sarà protetta da qualche trappola?” si interrogò Federico, che ne aveva ormai abbastanza di tranelli e pericoli.
“Da quel che so, nella Grotta riescono ad entrare solo gli abitanti della Palude di Jolly...tutti gli altri che hanno provato ad entrare sono fuggiti a gambe levate, farfugliando cose incomprensibili. Lì dentro si rischia di impazzire” raccontò Francesca. La principessa di Fiori non aveva voluto parlare di ciò che lei e il Brucaliffo si erano detti, ma non sembrava spaventata da ciò che la attendeva. Probabilmente Antonio le aveva illustrato un modo per spezzare quella maledizione mortale. Però come mai non aveva voluto condividere con loro quella buona notizia? Con quel dubbio che si rifiutava di abbandonare i suoi pensieri Violetta si distese, sospirando e osservando il cielo terso che si stava scurendo sempre più. Quel viaggio che le era sembrato interminabile stava per avere fine e forse avrebbe capito per quale motivo si trovava lì, nel Paese delle Meraviglie. Nulla accadeva per caso in quel mondo, ormai lo aveva capito, ma si chiedeva cosa c’entrasse lei in quella macchina dagli ingranaggi allineati, ognuno al proprio posto.
“Stai pensando a lui?” chiese Francesca, sedendosi al suo fianco.
“Lui?” domandò confusa Violetta, sollevandosi sui gomiti.
“Parlo di Leon, ovviamente. Ultimamente lo nomini sempre mentre dormi” sorrise Francesca, guardandola con aria furba. “Cominci ad agitarti e lo chiami continuamente. Dopo un po’ ti calmi, però...cosa ti spaventa tanto?”.
“Il riflesso dello specchio. E...se Leon mi odiasse veramente? Continuo a immaginare quello sguardo freddo. Mi mette i brividi addosso”.
“Credo che tu ti stia preoccupando inutilmente. Da quello che mi hai raccontato Leon ti ama veramente, non è una cosa che si cancella facilmente. Sono sincera, quando me ne hai parlato, sono rimasta sorpresa. Ho sentito tante storie sul principe di Cuori, una più terribile dell’altra...alcune persino assurde, come il fatto che facesse il bagno nel sangue dei suoi nemici. Ma giudicare senza conoscere è uno dei più grandi errori che un sovrano possa commettere...inoltre questa è la prova che le persone possono davvero cambiare con la giusta motivazione”.
“La giusta motivazione?”.
Francesca scoppiò a ridere, per poi scuotere la testa. “Come sei ingenua, sei tu la sua motivazione! Credi che davvero si sarebbe sforzato ad essere migliore se non avesse avuto qualcuno al suo fianco che lo incitasse in tal senso?”.
“Spero che tu abbia ragione, davvero” sospirò Violetta, ridistendendosi. Il cielo era già un manto stellato, e subito le venne in mente di quando Leon le aveva fatto osservare le stelle con il cannocchiale nella torre. Il pensiero di aver affrontato tutte quelle sfide senza di lui non faceva altro che rendere più acuto il dolore dovuto alla loro separazione. Però Francesca le aveva restituito una tenue speranza: se davvero Leon l’amava così tanto come credeva Francesca, allora si, forse tutto sarebbe stato possibile.
Il mattino si svegliarono tutti alla luce dell’alba. Dopo aver tentato di cancellare il più possibile i segni del loro passaggio, cosa che avevano imparato a fare grazie all’esperto Luca, si misero in cammino. Per tutto il tragitto non volò una parola, erano tutti troppo tesi e in ansia per parlare. Quando finalmente raggiunsero la radura che circondava la Grotta trovarono un solco sul terreno circolare.
“Non temete, voi potete entrare” disse una voce conosciuta. Camilla emerse dalla buia entrata, facendo ondeggiare la coda come ad invitarli. “E’ un antico incantesimo per tenere lontani ospiti sgraditi. Antico quasi quanto le profondità di questa grotta”.
“E’ qui che...?”. A Violetta si fermarono le parole in gola, non riuscendo a credere che il momento tanto atteso fosse finalmente giunto.
Camilla annuì. “Si, Alice è qui...e ti sta aspettando”. Finalmente. Era tempo che la verità venisse fuori, per quanto terribile potesse essere. Strinse il foglietto su cui sbiadito era ancora scritto Carroll. Attraversarono il solco sul terreno senza che succedesse nulla e seguirono lo Stregatto che pian piano finì inghiottito nuovamente nell’oscurità dell’antro.
Dalle pareti trasudavano umidità e storia. Le pareti incise da scritte che si sovrapponevano l’un l’altra attribuivano un’inquietante aura di mistero a quel posto. Raggiunsero in breve tempo la fine della grotta, che si concludeva con un’ampia stanza, dal cui soffitto pendevano stalattiti di grandezza colossale. Una folata di vento gelido li colpì da dietro, ma quando si voltarono terrorizzati si resero conto che non c’era nessuno.
“Violetta”. Quella voce. La stessa dei suoi sogni, quella che l’aveva esortata a non mollare con Leon, quella che l’aveva spinta a tirare fuori il proprio coraggio. Si girò di nuovo lentamente e la prima cosa che vide fu una spessa catena ancorata al terreno. “Finalmente sei arrivata”. Una donna bionda, con un lungo vestito bianco lacerato, tendeva le mani verso di lei. I suoi occhi brillavano di un azzurro glaciale, che contrastava con la sua carnagione candida; i capelli le ricadevano morbidamente sulle spalle e intorno a lei brillava un’aura biancastra.  Com’era possibile però che nonostante fosse passato tanto tempo non dimostrava più di trent’anni? C’era qualcosa di strano in Alice, in quel suo sorriso enigmatico e in quello sguardo profondo. Luca estrasse istintivamente la spada, ma essa finì a terra, strappatagli di mano, come attirata dal terreno stesso.
“Qui le armi non sono permesse, è un luogo sacro” sibilò Camilla con un verso felino.
“Non è possibile, Alice non può essere viva!” esclamò Federico, attonito. Non si aspettava certo di trovare nel fondo di una grotta la leggendaria eroina del Paese delle Meraviglie.
Violetta invece vide finalmente ogni cosa con chiarezza: era stata lei fin dall’inizio. Era sicura che fosse stata lei a portarla in quel mondo, era stata lei a guidarla, a non farla cadere nei tranelli che aveva incontrato durante il tragitto. Si avvicinò quasi barcollando e mostrò il biglietto con la scritta Carroll. “L’hai scritto te?”.
Un lampo di tristezza balenò negli occhi di Alice, che annuì. Si sedette quindi su una roccia che sporgeva dal terreno, facendo stridere le catene con quel suo movimento. “Se è il lieto fine che cerchi...” iniziò, “Questa è la mia storia”.  








NOTA AUTORE: Perdonate davvero il mio orribile ritardo! Purtroppo sono in piena sessione estiva e...mancano pochi esami per finire la triennale, quindi- diciamo che ho passato le giornate sui libri e quando finivo ero troppo stanco perfino per pensare. Comunque pian piano sono riuscito a tirare giù il capitolo, che preannuncia il capitolo chiave della ff, il capitolo in cui finalmente capiremo tutto quello che è successo e perché. Preparandoci allo scontro finale che ormai è sempre più vicino. Tanti momenti dolci, a partire dai Maticela e...FINALMENTE! Non potete capire la mia gioia nello scrivere quella scena di Andres e Libi, era ora!! Nel finale invece incontriamo la misteriosa Alice, che eppure sembra essersi mantenuta stranamente giovane. Pronti a scoprire il segreto che cela Alice? :P Tra il prossimo capitolo e quello dopo ancora ci dovrebbe essere il tanto atteso incontro Leonetta...dovremo essere pronti anche per quello, non ci aspetta nulla di buono :( Lentamente le cose stanno tornando al nostro posto e alcune storie secondarie si concludono...Lena e Thomas hanno trovato un posto al castello di Picche, dove possono considerarsi al sicuro (non si sa nulla su qualcosa che potrebbe essere nato tra loro, chissà :P), Marcela ha finalmente incontrato il suo Mati mentre per Ambar Dj si sta impegnando molto...chissà che presto non trovi una soluzione :P Lascio a voi ulteriori commenti, alla prossima! Grazie a tutti quelli che seguono la ff, facendo anche supporto morale su twitter. Mi spronate a fare tutto il possibile per portare avanti la storia tra mille problemi, grazie di cuore! :3 Alla prossima, e buona lettura!
P.S: avrei dovuto aggiornare ieri, ma avevo un'emicrania assurda post-esame. Perdonatemi :') 
 

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Capitolo 69
*** Il mondo di Carroll e Alice ***


Capitolo 69
Il mondo di Carroll e Alice

“Guarda che ho trovato, non è buffissimo?”. Sul tavolo di mogano due manine candide depositarono un piccolo bruco che si dimenava convulsamente, probabilmente in preda allo spavento.
L’uomo scosse la testa divertito, allontanando la pila di fogli su cui stava scrivendo dall’animaletto. “E’ davvero affascinante, Alice. E gli hai già dato un nome?”.
La ragazzina scosse la testa, arricciandosi una ciocca bionda attorno al dito. “Vorrei che fosse un nome originale, ma non me ne viene in mente nessuno...che ne dici di...Brucaliffo?”.
“Mi sembra perfetto, davvero” sorrise l’uomo, tornando poi a osservare il foglio in cima, bianco: aveva promesso all’editore una storia affascinante, ma non riusciva proprio a tirare fuori nulla di buono. “Non dovresti tornare da tuo padre, adesso?”. Henry, il padre di Alice, era il nuovo rettore della Christ Church, e Charles poteva affermare senza ombra di dubbio di avere con lui un buonissimo rapporto.
Charles si appuntò distrattamente la parola ‘Brucaliffo’ su un angolo del foglio, facendoci poi il buffo scarabocchio di un bruco.
“Hai ragione, papà mi starà sicuramente aspettando. Ma noi ci vediamo domani, vero Charles?” domandò Alice speranzosa, dandosi delle manate sulla gonna per cancellare le tracce di quell’avventura selvaggia alla ricerca del bruco.
“Certo, come sempre”. Accompagnò la bambina all’uscita, e nel mentre Alice si era già lanciata in un racconto di tutto quello che aveva fatto. “E poi sono caduta nella tana di un coniglio! Mi sono quasi sbucciata, ma per fortuna non era nulla di grave”. Charles annuì durante tutto il tragitto, preso dai suoi racconti. Doveva trovare una storia affascinante, che potesse catturare l’attenzione di una casa editrice, ma la sua immaginazione era completamente spenta. Salutò Alice, che allegramente prese a correre verso casa, e si rinchiuse nuovamente nel suo studio. Aveva bisogno di un’idea...e se avesse creato un mondo in cui non vi era alcuna logica? Un mondo pieno di personaggi divertenti e buffi, fuori dal comune, che avrebbero messo in discussione tutto ciò che era ritenuto normale? Qualcosa come... “Il paese delle Meraviglie” sorrise tra sé e sé, appuntandosi quell’idea. Ecco, quello poteva essere un inizio.
 
“Altro tè, Ghiro?” domandò Alice al pupazzo di stoffa accomodato su una sediolina di legno. L’autunno era alle porte e il giardino era coperto da un tappeto di foglie che variavano dal giallo al rosso. Alice prese la teiera e fece finta di versare il tè nella tazzina del suo ospite inanimato. Non appena alzò la testa e vide in lontananza Charles, scattò in piedi con un sorriso smagliante. “Charles, sei in tempo per il tè!”. L’uomo, avvolto in un cappotto scuro e con un taccuino in mano, si avvicinò.
“Non fa un po’ freddo per stare all’aperto?” le domandò bonariamente.
“Cosa hai portato?” chiese Alice, notando i numerosi ritagli di giornale che teneva sotto braccio.
“Niente di interessante” rispose Charles evasivo. Di recente era venuto a conoscenza della pericolosità di alcune sostante usate per fabbricare cappelli e aveva raccolto altre informazioni, avendo avuto l’illuminazione per uno dei suoi primi personaggi: il Cappellaio Matto. Si portò una mano alla testa, colto da un improvviso attacco di emicrania.
“Tutto bene, Charles?” esclamò Alice, proeccupata, aggrappandosi al suo cappotto.
“Si, ho solo un po’ di mal di testa, tranquilla...” mormorò l’uomo. “Adesso vado a parlare con tuo padre...Lo sai a proposito che sto scrivendo una storia?”.
Gli occhi di Alice brillarono di una viva curiosità. Era proprio quella voglia insaziabile di conoscenza che affascinava tanto Charles. Il protagonista del suo racconto avrebbe dovuto essere esattamente come lei: coraggiosa, vivace, curiosa. “Davvero? Voglio leggerla subito!”.
“Appena sarà conclusa...che ne dici se chiamassi la protagonista proprio come te?”.
Alice spalancò la bocca per la sorpresa, quindi annuì più volte, felicissima. “Sarebbe meraviglioso! Non vedo l’ora di sapere cosa farà questa Alice!”.
“Vivrà tantissime avventure, proprio come te!” esclamò Charles, facendole l’occhiolino e accarezzandole il capo con dolcezza.
Alice nel Paese delle Meraviglie: si, il titolo sembrava perfetto.
 
I fulmini lacerarono l’aria preannunciando una tempesta. Era notte fonda e Charles si stupì alquanto quando sentì qualcuno bussare alla sua porta con veemenza. Quando l’aprì Henry, il padre di Alice, si fiondò dentro senza tanti complimenti, seguito da un agente della polizia. “Dimmi dov’è! Dimmi dov’è finita mia figlia!”
Charles lo guardò con estrema confusione, non riuscendo a capire a cosa si riferisse.
“Alice Liddell è scomparsa da stamattina. E’ uscita per andare a giocare in giardino e non è più tornata” spiegò l’agente con una calma glaciale.
“E’ stato lui senza dubbio! Ho sempre pensato che avesse un rapporto fin troppo complice con Alice! L’ha rinchiusa da qualche parte, deve essere un pazzo maniaco!” strillò Henry, rosso di rabbia. Henry era un uomo mingherlino dai tratti tipicamente inglesi, e proprio come tutti i tipici inglesi era sempre molto posato, ma quella notte era fuori di sé.
“Non ho idea di dove possa essere finita...” si difese Charles, gettando uno sguardo sul manoscritto appena finito: ‘Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll’. Ripensò alla promessa fatta: avrebbe dovuto far leggere la sua storia ad Alice, ma adesso lei era inspiegabilmente scomparsa.
“Dovete interrogarlo agente, dovete farlo parlare! La mia bambina deve essere qui da qualche parte!”
“Signore, mi deve seguire in centrale: è indagato per la scomparsa di Alice Liddell”.
 
“Ma Alice Liddell venne ritrovata il giorno dopo ai piedi di un salice. Raccontava di aver vissuto in un mondo fantastico, straordinario, un mondo che assomigliava terribilmente a quello descritto da Carroll” raccontò la donna incatenata con un sorriso amaro. “Tutto venne dimenticato, dicendo semplicemente che Charles le aveva riempito la testa di fantasie assurde. Poi i mal di testa di Charles divennero sempre più frequenti, e il mondo che lui stesso aveva creato prese il sopravvento sulla sua volontà. Così scrisse un altro libro e Alice sparì di nuovo”.
“Attraverso lo specchio” mormorò Violetta, ottenendo un cenno di assenso. “Alice ristabilì l’ordine nel caos della guerra, ma proprio quando fu pronta a tornare indietro scoprì che quel mondo altro non era che la creazione di un uomo. Quindi comparsero i due libri: erano due coppie esattamente identiche, che narravano la storia avvenuta fino a quel momento e persino ciò che sarebbe accaduto dopo. Le pagine bianche si riempivano mano a mano da sole e quando Carroll morì l’entità chiamata Autore prese il suo posto per impedire che questo mondo morisse con la parola ‘Fine’. Quella notte uno dei due libri venne rubato e Alice decise di distruggere l’altra copia, dopo aver strappato la prima pagina con il nome dell’autore”.
“Quindi l’Autore è indispensabile per la sopravvivenza di questo mondo?”.
Alice annuì. “Esiste un’arma, di cui allora Alice non era a conoscenza, che potrebbe permettere di deviare questo corso. L’arma si ottiene riunendo i quattro pezzi dell’armatura, ma solo qualcuno che non è di questo mondo può sfruttarne il suo potere appieno. Ecco perché sei qui”.
Violetta capiva a stento quel racconto assurdo: come aveva fatto un uomo a creare una realtà del genere? Che cosa lo rendeva speciale rispetto ai suoi simili? Le sembrava di vedere quella piccola e vivace ragazzina vagare sperduta per quei boschi intrisi di mistero e di creature pericolose. “Perché io? Perché non qualcun altro?”.
“Perché la storia potesse seguire una piccola deviazione era necessario che il nuovo personaggio fosse il più possibile simile ad Alice. Era necessario che la storia si ripetesse da capo: il Bianconiglio, l’inseguimento, la caduta. Ho forzato per quanto mi fosse possibile le linee della storia in modo da farti entrare”.
“Ma chi sei tu? Continui a parlare di Alice in terza persona, come se tu non fossi lei” si intromise Federico, trovando quel filo di coraggio necessario a farle la domanda.
“Alice ha lasciato questo mondo tanto tempo fa, ma la sua immagine è rimasta qui, per tutto questo tempo, assumendo il ruolo di Libri Index” rispose Camilla, al posto della donna. “Il Libri Index è l’indice del libro, conosce ogni singolo evento che è accaduto o che deve ancora accadere. Parte della sua conoscenza è trasferita in un personaggio secondario, detto Profeta”.
“E quelle catene?” domandò con timore Francesca.
“Le catene sono il simbolo del mio stretto legame con questo mondo. Un legame che non si può spezzare. Io sono solo il riflesso dell’Alice che fu” .
“Io non ho capito proprio niente” borbottò Luca, tesissimo, con lo sguardo rivolto verso l’arma a terra.
“Ecco perché Thomas non ricorda nulla! E’ stato solo manovrato per farmi entrare nella storia...e scommetto che la deviazione all’isola Riflesso è stata fatta per non farmi cadere nel tranello del Castello di Quadri...era tutto programmato per farmi arrivare qui!” esclamò Violetta, sgranando gli occhi. Era tutto chiaro finalmente: quel lungo viaggio, la ricerca, gli specchi...Alice l’aveva sempre messa alla prova, senza mai abbandonarla. L’aveva sostenuta al castello di Cuori, le aveva consigliato di non desistere con Leon.
“Non c’è molto tempo, Violetta, devi partire. La Profezia è destinata a compiersi, ma so che tu riuscirai a eludere questo destino. Forse l’Autore non avrà il finale che aveva programmato per te”.
La morte di Leon nel sogno per mano sua...era forse quello un tentativo dell’Autore di farle capire come le cose sarebbero andate? Alice le aveva dato tutte le rispose di cui aveva bisogno: non era speciale, la parola Prescelta non la rendeva diversa da qualunque altro essere umano. Era solo una ragazza come tante altre, eppure la libertà in quel mondo la rendeva un essere al di sopra di tutti gli altri. E a detta di Alice, solo lei poteva ristabilire un vero ordine, qualcosa che in passato Alice non aveva mai pienamente ottenuto. Credendo che l’ordine si riferisse alla pace, non aveva mai tentato di scavare più a fondo, ma quando aveva capito come stavano le cose era troppo tardi: i pezzi dell’armatura erano ormai gelosamente custoditi dai quattro passati sovrani. Così, sconfitta, era tornata nel mondo da cui proveniva, lasciando però un’impronta indelebile nella storia, un’impronta che aveva preso forma e tentava per quanto gli fosse possibile di rimediare a quell’antico errore. Era così difficile riordinare tutte quelle nuove informazioni, ma sapeva in ogni caso che il suo obiettivo era ben chiaro: raggiungere Nerdicorallo.
“Dobbiamo andare” disse Violetta, rivolta ai suoi compagni.
“Violetta” la chiamò ancora la figura eterea. “Gli specchi non erano solo una prova per aiutarti a uscire illesa dal castello di Quadri. Ciò che hai visto di Leon deve servirti a capire di fronte a chi l’Autore vuole farti trovare. Del Leon che conosci potrebbe essere rimasto ben poco. Non sottovalutare nessun nemico: Ludmilla, proprio come te, conosce tutto a proposito del Paese delle Meraviglie, è stato il suo antenato a rubare il secondo libro. E, come te, conosce il potere che ha l’antica armatura. La battaglia che sta per preannunciarsi sarà la più terribile mai esistita in questo mondo, ma devi promettermi che cercherai di riuscire dove Alice aveva fallito”.
“Te lo prometto”. Violetta si avvicinò pian piano tentando di sfiorare Alice, ma il contorno della spalla si dissolse. Era un riflesso: Alice era davvero presente, ma era solo un ricordo lasciato lì per rimettere a posto le cose.
“Non ce la faremo mai, dovremo attraversare il campo di battaglia ed è troppo pericoloso. Per aggirarlo ci vorranno settimane in più” disse Francesca, mordendosi il labbro e cercando un qualche modo per evitare quel problema.
“Sarò io a portarvi a Nerdicorallo...sono l’unica in grado di farvi arrivare lì in men che non si dica” si propose Camilla con il suo solito sorrisone.
“Devo parlare con Leon” disse Violetta, rivolgendosi poi allo Stregatto. “Puoi portarmi da lui?”.
“Vi porterò prima a Nerdicorallo, poi sarai libera di prendere la tua decisione...ma loro devono essere al sicuro”. In particolare indicò Francesca, che sbarrò gli occhi, sicura che anche lo Stregatto fosse a conoscenza del suo destino.
Violetta annuì, ritenendo giusto quel compromesso. Strinse la mano di Camilla, sentendo la stretta di Francesca sulla mano libera. Formarono una specie di catena umana, quindi ci fu uno schiocco improvviso. La caverna intorno si dissolse, così come anche la figura di Alice, che si era rivelata la vera artefice di quell’avventura.
 
Ludmilla richiuse il pesante libro, dopo averlo sfogliato più volte. La scritta dorata ‘Alice nel Paese delle Meraviglie’ riluceva appena con il fuoco delle torce. Era notte fonda all’accampamento, ma lei non riusciva a prendere sonno. Aveva letto e riletto ogni singola pagina, nella speranza di carpire qualche altro indizio a proposito. Si parlava della battaglia, da cui Picche sarebbe dovuta uscire vittoriosa. Si parlava dei pezzi dell’armatura rinchiusi nel palazzo di Nerdicorallo e della Prescelta che avrebbe dovuto uccidere Leon, ma da qualche tempo a questa parte il futuro si riscriveva continuamente, quindi non sapeva se era prudente fidarsi. Le parole si cancellavano e riscrivevano continuamente, e sapeva bene il perché: la prima volta era successo quando lei aveva iniziato a leggere quel libro, tramandato di generazione in generazione. Con la consapevolezza di ciò che l’Autore aveva scritto era stata in grado di evitare parecchi spiacevoli ostacoli. E non appena eludeva una trappola del destino, la storia si riscriveva, dovendosi attenere ai fatti accaduti.
“Non riuscite a dormire?”. Diego si affacciò all’interno della tenda reale con un’espressione preoccupata.
Ludmilla sorrise, quindi sospirò affranta. Aveva bisogno dei pezzi di quell’armatura per essere libera, per ergersi al di sopra dell’Autore, al di sopra di tutti. Il potere era sempre stato un richiamo troppo forte, fin da piccola, e servirsi di pedine come Jade Lafontaine per lei era stato facile. Cuori era in piedi solo grazie alla sua benevolenza, mentre Fiori era completamente alla sua mercè.  “Mi permettete di mostrarvi qualcosa, mia signora?” proseguì il consigliere tendendole la mano. Ludmilla accettò l’invito con un po’ di diffidenza, ma il ghigno vittorioso di Diego fu per lei più rassicurante di qualsiasi parola.
Non appena ebbero messo piede fuori dalla tenda, una guardia gli puntò contro la lancia, per poi abbassarla meccanicamente dopo averli riconosciuti. “Asso” salutò educatamente Diego, con un’espressione impassibile mentre nella tasca si rigirava continuamente qualcosa. Sebastian si irrigidì subito sentendosi chiamare, quindi si inchinò con lo sguardo basso. “Vieni con noi” gli ordinò Diego, facendogli cenno di alzarsi. Il combattente eseguì il comando e prese una torcia per fargli luce.
“Perché stiamo uscendo dall’accampamento?” domandò Ludmilla, storcendo il naso di fronte alle sterpaglie attraverso cui si stavano facendo strada. Alzò la gonna leggera per quanto potesse, ma il vestito sarebbe rimasto irrimediabilmente danneggiato da quella passeggiata notturna. “Spero che sia per un buon motivo. La mia sarta è rimasta al castello e non potrà farmi un abito nuovo” sbottò nervosa.
“Varrà ogni sacrificio” sussurrò Diego, ammiccando. “Ho decifrato le pergamene, so come usare l’Arma. E ve ne darò una dimostrazione”. Ludmilla aprì la bocca estasiata, quindi allungò il passo per rimanere tra i due uomini.
“E li hai visti? Sono comparsi?” domandò in preda all’eccitazione. Non riusciva a credere che Diego fosse riuscito anche in quell’impresa. Era sempre pieno di sorprese il suo consigliere. Acuto, brillante, ed estremamente capace, Diego era l’unica persona in grado di non deluderla mai.
“Non l’ho ancora mai usato...volevo che foste la prima ad assistere”. Dalla tasca estrasse una siringa, un antico strumento musicale composto da canne di lunghezza decrescente da destra verso sinistra. A differenza delle siringhe comuni però questo strumento era completamente fatto di cristallo. “Pronta mia signora?”.
Ludmilla annuì, fremente e non si lasciò distrarre neppure per un secondo mentre Diego si portava alla bocca la siringa, pronto a suonarla. La fiamma della torcia che reggeva Sebastian tremò appena, per poi tornare ad ardere vivida. Ben presto la valle desolata si riempì di un lamento ancestrale, di note che si rincorrevano l’un l’altra in una continua lotta per prevalere. Diego soffiava all’interno delle canne con estrema maestria, senza neppure fare una pausa.
Lunghe ombre si proiettarono sul terreno, per poi ergersi da esso e mettersi in piedi. Avevano sembianze simili a quelle di uomini, però fatti completamente di tenebre. I contorni tremolavano appena, fondendosi nella notte e si riuscivano a distinguere solo grazie alla luce proiettata dalla torcia. Erano a centinaia, riuniti intorno a loro, attratti da quel canto.
“L’immortale Popolo Ombra” bisbigliò la regina di Quadri, con gli occhi che brillavano avidi. Tante leggende erano state narrate sul Popolo Ombra, ritenuto addirittura una fantasia dei loro antenati. Le Ombre avevano abitato il Paese delle Meraviglie non appena venne creato, fino a quando non dovettero fronteggiare gli invasori. Erano creature diaboliche, della stessa sostanza degli incubi, senza volto, in grado di far fuori un esercito senza alcuno sforzo. Secoli fa le Ninfe però erano riuscite a intrappolare quelle creature in un’altra dimensione, dentro la siringa d’argento.
“Sai cosa significa questo, Diego?” esclamò la regina in preda all’eccitazione.
“Posso controllarli” rispose furbamente Diego, indicando con lo sguardo lo strumento musicale. Soffiò due note appena, seguite da un motivetto veloce. Non appena le prime note uscirono dalle canne, le ombre cominciarono a vorticare, unendosi tra loro fino a creare un turbine oscuro. 
“La vittoria è nostra, Diego, adesso nulla potrà più fermarci” ribattè Ludmilla, battendo le mani di fronte alla loro nuova arma. Grazie alle Ombre avrebbero potuto finalmente dare una svolta a quella guerra che sembrava non finire più a causa della tenacia di Picche.
“Non credi che anche Pablo potrebbe avere un asso nella manica?”.
“Lo sfido! Galindo, è il momento di giocare...cosa hai intenzione di fare contro di loro?” rise Ludmilla, in preda ad una gioia folle, accentuata dal desiderio sempre più impellente di mettere le mani sull’antica armatura.
 
“Andres, muoviti! Sono passati dieci minuti da quando ci hanno avvisato del loro arrivo!”. Libi correva da una parte all’altra della stanza, febbriccitante, mentre Andres era rimasto prone sul materasso del letto, sbuffando. Si passo una mano sui capelli scompigliati, accompagnando quel gesto svogliato con un sonoro sbadiglio.
“La prescelta è qui e tutto quello che sai fare è sbadigliare? Per di più è quasi ora di cena, non fare il dormiglione!” lo rimproverò bonariamente la ragazza, mettendosi in spalla l’arco che Andres le aveva regalato. Non riusciva a fare a meno di portarlo ovunque andasse, intriso com’era di ricordi che eppure ancora le sembravano frammenti dei suoi sogni. E invece era successo davvero, Andres le aveva dichiarato ciò che sentiva per lei, sebbene avesse quasi perso le speranze. Poiché dal letto non giunse alcun segno di vita, afferrò un cuscino panciuto dalla poltroncina di velluto blu e glielo lanciò con forza, colpendono in testa.
“Ahia!” si lamentò Andres, drizzandosi subito e guardandosi attorno. “Ti prego, dimmi che non sarai così tutte le mattine a venire”.
“Solo se non me ne darai motivo”. Andres si voltò in tempo verso di lei per vedersi ricevere la linguaccia, e in tutta risposta scoppiò a ridere. Era tanto, troppo tempo che non si sentiva così bene. Si era tolto un enorme peso dal cuore e sembrava che il vecchio Andres, quello sempre allegro e ottimista, persino di fronte ai pericoli più mortali, avesse finalmente ripreso il suo posto e il merito era tutto di Libi, che gli aveva finalmente ricordato chi era: un ragazzo che si portava dietro tanti dolori e tante morti ma che non per questo aveva rinunciato a vivere. Lei l’aveva salvato quando era convinto ormai di aver perso ogni cosa, prima semplicemente standogli vicino, poi dandogli quell’amore di cui aveva sempre avuto bisogno. Sapeva di essere stato uno sciocco e, ripensando a tutto quello che aveva fatto, Libi non aveva avuto tutti i torti ad avercela con lui.
Si infilò rapidamente la prima casacca trovata, e si lanciò davanti alla porta bloccando Libi. “Prima di andare, volevo ringraziarti di nuovo”. Di fronte all’occhiata confusa della mora, non potè fare a meno di sciogliersi in un sorriso intenerito. “Più andavo avanti in questa missione più dimenticavo chi fossi. Grazie per avermi ricordato chi è Andres”.
Libi gli accarezzò una guancia, trattenendo a stento lacrime di commozione. “Ogni volta che avrai bisogno ti ricorderò del ragazzo di cui mi sono innamorata”.
Uscirono dalla stanza mano nella mano. Con l’arrivo di Violetta le cose sarebbero cambiate radicalmente; Pablo infatti puntava tutto su quella ragazza, la Prescelta, e avrebbe approfittato della sua presenza per tentare un attacco decisivo. Senza esitare neppure un attimo raggiunsero la piccola stanza dove erano stati accolti appena arrivati; le guardie, spalancarono le porte permettendo loro di entrare. Seduta su una poltrona c’era Violetta con una tazza fumante tra le mani e lo sguardo terrorizzato, ma allo stesso tempo vispo e attento. Lena era corsa dalle cucine e le era affianco tenendole la mano, con Thomas dietro di lei, che si era finalmente del tutto ripreso dal periodo di prigionia al Castello di Cuori. Poi c’era Dj che aveva un’espressione stanca insieme ad un paio di occhiaie scurissime. Quanto era diverso dal giovane mago che avevano incontrato, il quale usava il suo dono solo per truffare il prossimo! Anche ora che il Pactio era sciolto aveva deciso di rimanere per combattere, con l’intento di vendicare la memoria di chi aveva perso la vita a causa della guerra, prima tra tutti Emma. Durante il loro soggiorno Dj si vedeva solo nelle ore dei pasti, poi tornava a chiudersi nella biblioteca, che seppure non fosse fornita come il Tridente, aveva comunque parecchi testi interessanti a suo parere. Maxi invece era in disparte rispetto al gruppo, amareggiato: sicuro non aveva ancora superato l’amore non corrisposto nei confronti di Violetta. In più erano presenti i coniugi reali: Pablo era elettrizzato e guardava con impazienza i pezzi dell’armatura disposti in fila di fronte alla Prescelta; Ange invece sembrava solo estremamente curiosa nei confronti di quella ragazza che non aveva mai visto.
“E Federico? Francesca?” chiese Andres, preoccupato dal non vederli nella stanza.
“Stanno riposando nelle loro stanze, insieme all’erede al trono di Fiori, Luca Florente” rispose solennemente il re di Picche, sperando che il tempo per le chiacchiere fosse già finito. 
“Stai bene? Hai visto Leon? Come sei arrivata?”. Lena la tempestava di domande a raffica, e, considerando tutto il tempo in cui era stata in apprensione per l’amica, si stava anche trattenendo.
“Forse dovremmo lasciarla riposare un po’” si azzardò a dire Thomas, prendendo per le spalle la biondina e trascinandola indietro di qualche passo.
“Veramente...devo ripartire. Ho bisogno di vedere una persona” rispose evasivamente Violetta, alzandosi in piedi e abbassando lo sguardo sperando di essere congedata.
“Ma veramente...”.
“Penso che non sia il caso di fare pressioni alla Prescelta. Rispettiamo la tua volontà” si intromise Angie, mettendo a tacere il marito che era sbiancato sentendo le parole della ragazza per poi rivolgersi dolcemente alla diretta interessata.
“Io...bene. Tornerò in un lampo”. Mentre continuava a rassicurare gli altri, Violetta cercava di farsi coraggio. Alice le aveva detto che avrebbe trovato un Leon molto diverso da quello che aveva lasciato. Ma nessuno avrebbe potuto cambiare la persona che amava, ne era sicura. Una parte del suo Leon doveva esserci ancora e aveva bisogno di fare un tentativo per riportarla fuori. Non appena uscita, si trovò faccia a faccia con lo Stregatto che per la prima volta da quando l’aveva conosciuto, sembrava seriamente preoccupato. Camilla infatti la guardò dritto negli occhi: “Sei sicura?”.
Violetta annuì: nessuno avrebbe potuto più decidere per lei in quel mondo. Ora che era finalmente tutto chiaro, sentiva finalmente di poter prendere in mano il proprio destino. Strinse con disperazione la zampa di Camilla: “Portami da lui”.
 
“Non capisco il perché di questa visita”. Leon sollevò appena lo sguardo, intento com’era a impartire ordini allo scudiero per farsi allacciare le cinghie dell’armatura. “Questo posto non è adatto a voi, madre”.
Jade sventolò altezzosa un ventaglio di stoffa decorato con cuori rossi e neri, quindi passò rapidamente in rassegna la tenda del figlio, priva di tutte le comodità senza le quali lei non sarebbe riuscita a sopravvivere neppure un giorno. “Su questo hai assolutamente ragione, figliolo” sbottò Jade, perdendosi per un secondo nell’enorme disgusto che aveva provato non appena messo piede nell’accampamento. “Ma avevo bisogno di vederti...mi hanno riferito di alcuni tuoi comportamenti strani, e siccome tengo alla tua salute, dovevo assolutamente verificare”.
“Non ho nulla di strano” rispose Leon, rimanendo comunque evasivo. Come poteva spiegare che cosa provava quando la donna di fronte a lei non era stata capace nemmeno di amare il suo unico figlio?  
“E’ ancora per quella ragazza?”.
Il principe scrollò le spalle, indifferente, quindi scosse la testa. Jade però non si lasciò affatto fermare da quel silenzio caparbio, anzi si sentì ancora più obbligata a intervenire con le parole, anche a costo di rigirare il coltello nella ferita provocata al cuore di Leon.
“Sono sicura che a quest’ora lei starà ridendo di te, vantandosi di come è riuscita a raggirarti. E’ questo che vuoi essere, uno zimbello?”.
Vargas contrasse la mascella contrariato. Una furia cieca si impadronì di lui e ci volle tutta la sua forza di volontà per trattenerla. Era stato ingannato dall’unica persona di cui si fosse mai fidato in vita sua, e non c’era nulla che avrebbe potuto permettergli di dimenticare. Combattere gli permetteva di sprofondare per qualche istante nell’oblio, i lamenti dei feriti e il sangue che lento scivolava sulla lama della sua spada gli occupavano la mente, ma poi non appena si ritirava nella tenda sprofondava di nuovo nell’inferno. Poteva provare così tanto odio e amore allo stesso tempo per un singolo individuo? Non riusciva a cancellare quei magici momenti vissuti insieme a Violetta, ma il suo cuore gridava vendetta, assordandolo e impedendogli di trovare pace.
“Non ho alcuna intenzione di farla passare liscia a quei ladri, sia chiaro, ma adesso ho una guerra da combattere” rispose secco Leon, rinfoderando la spada dopo averla pulita con un panno bianco.
“Non ho intenzione di distrarti dal tuo obiettivo e lo sai bene. Dico solo che dovresti smettere di pensare a quell’insulsa ragazzina, non merita la tua sofferenza”.
“Vi consiglio di riposare, madre. Avete fatto un lungo viaggio per arrivare fin qui e vi renderete conto molto presto che i ritmi di un esercito sono pesanti anche per chi non deve combattere” si congedò Leon, sorridendo forzatamente. Era stanco di sentirsi dire che Violetta l’aveva solo usato. Aveva accettato quella dura realtà, ma non riusciva ancora a farci i conti. Chinò il capo in segno di rispetto e Jade non poté far altro che farsi scortare fuori dalla tenda fino alla sua abitazione.
Ma Leon non aveva alcuna intenzione di riposare e non appena si fu assicurato che la madre si fosse ritirata cominciò a girare senza meta per le stradine dell’accampamento. Vide la regina di Quadri allontanarsi furtivamente in compagnia di Diego e del suo servitore, che tutti chiamavano Asso, ma decise di non seguirli. Non capiva cosa potesse aver spinto Jade fuori dalla sicurezza del suo castello, a meno che non fosse convinta che di lì a poco la guerra sarebbe finita. Mai come in quel momento sentiva il bisogno dei saggi consigli di Humpty Dumpty; pensare che non avrebbe mai più potuto sentire la sua voce pacata aggiungeva un peso alla sua coscienza già sporca. Era stato lui a far entrare Violetta al castello, e quindi indirettamente era il responsabile di tutto ciò che ne era scaturito. Nessuno gliene faceva una colpa, tranne Jade, che continuava ad accusarlo velatamente di essere stato uno sciocco ingenuo che si era lasciato incantare da un bel viso. Eppure la prima volta che l’aveva vista, quando i loro occhi si erano incrociati, gli era sembrato di avere di fronte una creatura innocente e indifesa. In lui era salito l’impulso di intimarla a fuggire da lui, però allo stesso tempo non riusciva a lasciarla andare.
Senza nemmeno rendersene conto raggiunse la palizzata che circondava l’intera area. La guardò quasi con sconforto, come se si sentisse prigioniero là dentro, quindi sospirò e tornò indietro. Neppure quella passeggiata serale era servita ad alleggerirlo un po’, anzi aveva risvegliato altri ricordi di cui avrebbe voluto fare a meno. Di fronte all’ingresso della sua abitazione le sentinelle sembravano parecchio turbate e parlottavano tra loro, scuotendo il capo. Non appena lo videro, una di essere si fece avanti, facendo un profondo inchino. “Mio signore, noi...ha insistito tanto, non sapevamo che fare. Lo Stregatto era lì e ci ha detto di farli entrare, poi è scomparso”.
“Non sto capendo nulla, spiegatevi meglio” sbottò Vargas, rabbrividendo nel sentire il nome dello Stregatto. Il loro unico incontro non era stato affatto amichevole, anzi si poteva dire che avesse quasi provato ad uccidere una delle figure più eminenti del Paese delle Meraviglie.
“Ha chiesto un incontro con voi. Noi abbiamo detto che non era assolutamente possibile, ma è stato tutto inutile”.
“Ma hai appena detto che lo Stregatto è andato via. Chi c’è dentro?” chiese Leon, corrugando la fronte.
“La sta aspettando. Ha chiesto di conferire con voi...”.
Varhas perse la pazienza e scostò la sentinella con una spallata, sollevando poi l’apertura della tenda. In lontananza sentì l’uomo che finalmente si decise a fare un nome. “Violetta Castillo, mio signore”.
Rimase paralizzato sulla soglia, seguendo con lo sguardo la ragazza che era seduta sul letto e che era scattata in piedi non appena lo ebbe visto.
“Leon...”. Quella voce lo chiamava piena di speranza e di promesse. Una voce maledetta che più di una volta lo aveva irretito.
Non era un sogno.
Non era un’illusione.
Violetta era  lì, in carne ed ossa. 










NOTA AUTORE: Buonasera! Ebbene si, sono vivo (mi dispiace per voi) xD Tra problemi di studio e familiari, purtroppo il capitolo è andato un po' a rilento, ma...bisogna ammettere che è parecchio ricco di notizie interessanti ù.ù Mentre i due schieramenti cominciano a giocarsi le ultime carte (Ludmilla con il Popolo Ombra e Pablo che, poraccio xD, non ha potuto nemmeno rivolgere una parola alla Prescelta :') Però Angie sa che la Leonetta è più importante e si mette in mezzo :P), da una parte FINALMENTE troviamo Alice, o meglio, quello che è rimasto dopo il passaggio di Alice, che deve porre rimedio al suo errore del passato che consiste nel non aver saputo sfruttare appieno il potere dell'armatura ù.ù E da qui una serie di flashback che ci fanno intuire come sono andate le cose, con tanto di spiegazione (e io spero che si sia capito, perché- ammetto che è un tantino contorto xD). Oltre a una tenera scena di Andres e Libi (AWAWAWAW- ce la meritavamo, su), ecco finalmente lo scontro/incontro finale...della reazione di Leon non sappiamo nulla, perché fino alla fine l'abbiamo visto parecchio combattuto- quindi vi lascerò con questa bellissima dose di ansia/angoscia fino al prossimo capitolo :P I MIEI FEELS LEONETTA. Ragazzi, era da un secolo che non scrivevo una scena con loro due, non venitemi a dire che scrivo solo di loro perché sono seriamente in astinenza :') Mamma mia, che faticaccia xD Spero che il capitolo tutto sommato vi piaccia (almeno un pochetto :3), e niente- alla prossima, buona lettura, e grazie a tutti quelli che mi supportano qui su EFP e su twitter, siete delle persone dolcissime, e questa storia esiste soprattutto grazie a voi <3 Vi ringrazio anche per l'enorme pazienza con cui attendete l'aggiornamento :P Con tantissimo affetto,
syontai :3 
P.S: Per chi non lo sapesse Lewis Carroll è uno pseudonimo. Il nome dell'autore è Charles Dodgson- Inoltre Charles conobbe veramente Henry Liddell con la figlia Alice, che divenne rettore dell'università. Questo per dirvi che mi sono attenuto il più possibile alla storia effettiva di Charles. Charles infatti soffriva di emicrania (come si vede in uno dei flashback) e per un periodo venne accusato di pedofilia (e mi sono rifatto a questo per l'ultimo flashback, con le accuse per aver rapito Alice Liddell). Insomma, è stato un po' faticoso mettere tutto insieme, ma tutto sommato è venuta fuori una bella ricostruzione, dai :3

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Capitolo 70
*** Prima della battaglia finale: Algo Se Enciende ***


Capitolo 70
Prima della battaglia finale: Algo Se Enciende


Violetta aveva aspettato dentro quella tenda per un tempo che le sembrò pari a un’eternità, sola con i suoi pensieri. Lo Stregatto avrebbe atteso un suo ordine per intervenire in caso di pericolo, eppure lei non riusciva a concepire che Leon le potesse fare del male volontariamente.
Bastò anche quel minimo fruscio a farle alzare lo sguardo attenta, fino a incrociare gli occhi verdi e smorti di Leon, che eppure ebbero un guizzo di vita alla sua vista. Si alzò e per un momento le gambe sembrarono avere intenzione di cedere del tutto. Il cuore scattò in gola, manifestando l’emozione che trapelava già dal sorriso appena accennato. “Leon...” mormorò, quasi non credesse di essere riuscita finalmente a ritrovarlo. Era lì, in carne ed ossa, non era il riflesso di uno specchio, non era un’illusione dettata dai suoi sogni.
Leon aprì bocca, ma da essa non uscì alcun suono. La mano scese lentamente sul fianco, tastandolo, quindi il suo sguardo saettò sulla custodia che aveva lasciato ai piedi del letto prima di uscire. Fece un passo indietro, pallido. Attendeva che la rabbia e l’odio lo investissero, per vendicarsi così di tutto il dolore che aveva provato, ma non sentiva nulla. Ogni suo sentimento era stato spazzato via, rimpiazzato da un famelico vuoto che lo divorava.
“Che ci fai qui? Cosa vuoi?” chiese in tono aggressivo, con una punta di sincera curiosità e stupore.
Violetta non disse nulla, ma si avvicinò a lui, mentre una lacrima di commozione gli bagnò il viso. Ma ad ogni suo passo, Leon si innervosiva sempre più, irrigidendosi. Quando poi si trovò a qualche centimetro da lui, allungò la mano, sfiorando la guancia del principe con il dorso. “Dovevo parlarti” ammise infine.
“Hai preso la spada, che altro cerchi?” ribatté con disprezzo Vargas, afferrandole il braccio e ponendo fino a quella carezza, che eppure tante volte aveva agognato.
“Sono qui per te, Leon. La lettera che ti ho lasciato spiega...”
“BASTA MENTIRE!” esplose Leon, allontanandola con uno strattone. “Ormai ho capito chi sei, non devi più fingere con me” commentò amareggiato e infuriato il principe.
Violetta non riusciva a credere a quelle parole tanto intrise di cattiveria: perché la trattava in quel modo? Era sicura che Humpty gli avesse fatto avere la sua lettera, ma Leon non sembrava affatto felice di vederla, anzi tutto il contrario. Era come se lei rappresentasse il suo incubo più profondo; avrebbe voluto abbracciarlo, fargli capire che non c’era nulla di più vero dei giorni trascorsi insieme al castello, ma si sentiva inchiodata al terreno, completamente inerme. E Leon infuriava su di lei come una tempesta da cui era impossibile sottrarsi.
“Ti sei presa gioco di me, mi hai ingannato e sei fuggita con la spada e quei ladri. Con che coraggio ti presenti nuovamente?”.
Le parole di Leon la ferivano come lame taglienti, e per quanto si sforzasse di non dar loro importanza era tutto inutile. Ora capiva le parole di Alice: aveva lasciato un ragazzo che si era sacrificato per amore e al suo ritorno trovava un principe ferito nell’orgoglio, che si era visto negare la sua unica possibilità di essere felice. Provò un forte senso di colpa, perché in fondo quel cambiamento era colpa sua. Non avrebbe dovuto lasciarlo, anche se si era vista senza altre alternative avrebbe dovuto essere fedele alla parola data. “L-lasciami spiegare” balbettò, mentre lacrime dal sapore del fiele si susseguivano sul suo volto.
“Perché dovrei crederti dopo che mi hai mentito per tutto questo tempo?”. Leon era freddo, crudele, replicava con una cattiveria tale che Violetta avrebbe solo voluto raggomitolarsi e piangere, lontano da tutto e da tutti. Ma Vargas sembrava quasi gioire della tortura che gli stava infliggendo: forse la riteneva una giusta punizione per colei che aveva tradito la sua fiducia e il suo amore. Perché questo era ai suoi occhi: una sporca traditrice.
“Non ti ho mentito...”. Trovò appena quella flebile forza per difendersi da quelle accuse insensate. Non riusciva a riflettere lucidamente, davanti a sé vedeva solo una belva feroce che giocava con la sua preda infliggendole dolore, prima di massacrarla del tutto.
Leon sembrò aver ritrovato la sua spavalderia: si, all’inizio era rimasto sconvolto dalla sola presenza di Violetta, ma adesso non poteva far altro che gioire selvaggiamente di ogni lacrima versata a causa delle sue parole. In un angolo remoto provava una fitta di dolore nel vederla in quello stato, ma essa si confondeva nel mare di confusione che gli annebbiava i sensi. “Quindi non è vero che vieni da un altro mondo, o sbaglio?”.
La falsa innocenza riversata in quella domanda, diede a Violetta il colpo di grazia. La terra si aprì sotto i suoi piedi, inghiottendola; annebbiata dalle sue stesse lacrime riusciva solo a vedere la profonda delusione sul volto del principe. Delusione, rabbia, ma anche soddisfazione per essere riuscito a farle male esattamente come aveva fatto lei.
“Non dici nulla? O forse non c’è nient’altro da dire?” la incalzò il castano, avanzando verso di lei e incrociando le braccia al petto. Abbassò lo sguardo e sputò ai suoi piedi, in segno di enorme disprezzo. “Vattene. Ora”. Scandì quell’ordine lentamente, fiero di non essere cascato nuovamente nella trappola tesa da quella ragazza.
“No”. Violetta serrò i pugni e sollevò lo sguardo sfidandolo. Aveva fatto un lungo viaggio per arrivare fin lì e non aveva intenzione di cedere; prima o poi Leon avrebbe dovuto capire che il forte sentimento che li univa non era così vile e interessato come credeva.
Vargas all’inizio sgranò gli occhi, sentendo la sua determinazione vacillare per un istante. “Interessante” sibilò Leon, aggirandola di lato e dandole le spalle. Si avvicinò al letto lentamente, chinandosi. “E cosa vorresti fare? Sei sola e indifesa, mentre io...beh, basterebbe che schioccassi le dita e le guardie sarebbero qui per arrestarti”. Estrasse la spada dal fodero che aveva raccolto, sguainandola con estrema indifferenza.
“E perché non le hai ancora chiamate, allora?” chiese Violetta, girandosi per guardarlo dritto negli occhi.
Leon rimase in silenzio: aveva colto nel segno.
“Perché mi sono ripromesso che avrei vendicato di persona tutti quelli a cui hai fatto del male”. Puntò la spada verso di lei, studiandone la reazione. Violetta però non era spaventata, il suo sguardo carico esprimeva bensì solo un forte senso di pietà; Leon era ancora quel bambino sperduto che non riusciva a trovare la propria strada, che si vedeva privato di ogni possibilità di essere sereno.
La lama di neranio scese lungo la gamba e la ferì superficialmente all’altezza del polpaccio. Il metallo bevve il sangue della Prescelta, che si inginocchiò a causa dell’improvviso dolore acuto. “E’ solo un assaggio” commentò Leon, respirando profondamente. L’aveva ferita e in lui non c’era alcuna traccia di rimorso; meritava quello e persino di peggio. Lo sguardo infuriato e compiaciuto indugiò su di lei, aspettando di cogliere un lamento di dolore o una smorfia di sofferenza, ma Violetta si sforzò di non dargli quella soddisfazione. 
“Chi ti ha fatto questo...” disse fissando il terreno. Non era Leon il ragazzo che l’aveva ferita, non poteva esserlo. Al suo posto un mostro aveva preso le sue sembianze.
“Sei stata tu”.
“No...”.
“Si, sei stata tu con le tue promesse, le tue inutili promesse! Mi sono illuso che potessi veramente amarmi, che vedessi in me qualcosa che gli altri non avevano mai visto. Mi sono sbagliato, tu volevi solo quella maledetta spada, non vedevi l’ora di abbandonarmi. Quanto devo esserti sembrato patetico?”.
Non ottenne alcuna risposta. La mano stretta intorno all’elsa cominciò a tremare convulsamente per la rabbia. “Rispondi!”. Ancora silenzio.
“Proprio come temevo”. Lo Stregatto comparve al lato di Violetta, sconvolto. “Hai avuto una possibilità, Leon, e l’hai sprecata a causa del tuo stupido orgoglio e delle sciocchezze che ti hanno messo in testa. Nulla ti restituirà ciò che hai appena perso” sentenziò solennemente.
“Non potrò perdere ciò che non ho mai avuto” rispose freddamente Leon, alzando la spada pronto a mettere a segno il colpo fatale. Nel pieno di quella sorta di esecuzione, però, il principe ebbe un attimo di esitazione. E quell’istante fu sufficiente a Camilla per afferrare il braccio di Violetta. Con un secco schiocco le due svanirono, lasciando al loro posto un sottile filo di fumo viola, e il colpo andò a vuoto.
Leon però non si lasciò prendere dalla disperazione per non essere riuscito ad ucciderla. Avrebbe avuto un’altra occasione, lo sentiva, e quel giorno non si sarebbe lasciato impietosire da niente e da nessuno.
“La prossima volta che ci vedremo, Violetta, preparati a morire” sussurrò Leon, lasciando cadere la spada a terra e fermandosi a fissare il punto dove fino a poco tempo prima Violetta lo aveva supplicato.
 
“Non vedete che sta riposando? Avete la grazia di un elefante!”. Una voce severa ma conosciuta rimbombò nella sua testa, facendole venire una forte emicrania. “Due viaggi nel Paese delle Meraviglie in così poco tempo...non c’è da stupirsi se è stremata”.
Violetta aprì gli occhi gradualmente, tentando di abituarsi alla luminosità dell’ambiente, cosa che non le riuscì bene fin da subito. “Oh, si è svegliata!” trillò la stessa voce che l’aveva riscossa a forza dal sonno. Ai lati del letto su cui era stesa, vicino a lei, erano sedute Francesca e Lena, che subito le rivolsero un sorriso radioso, mentre appiattiti contro la in un angolo c’erano Andres, Maxi e Dj, probabilmente intimoriti dagli avvertimenti di Lena.
“Non certo per colpa nostra...” si difese prontamente il mago, ottenendo cenni di assenso dai suoi compagni.
“Nessuno vi sta accusando” asserì Francesca, stringendo poi con dolcezza la mano di Violetta. “Tu come ti senti?”.
“Bene...” mentì Violetta, cercando appoggiarsi sui gomiti. Non era tanto la lieve ferita sulla gamba, che era stata subito disinfettata e fasciata con cura, a farla sentire debole, quanto il disprezzo con cui Leon gliel’aveva procurata. Il pensiero di averlo perso per sempre era inaccettabile e pesava più di un macigno. Era stata troppo ingenua nel credere che Jade non avrebbe architettato qualcosa per riportare il figlio dalla sua parte, ma aveva comunque sperato che rincontrandosi le cose sarebbero cambiate nuovamente. L’odio incontenibile del principe l’aveva però atterrita. Un orologio a pendolo segnò le undici di mattina. Doveva aver dormito davvero troppo.
“Appena ti sarai ripresa, re Pablo vorrebbe parlare con te...” disse Andres, abbozzando un sorriso di incoraggiamento. Alla fine era stato messo al corrente, come tutti gli altri, dello speciale rapporto che avevano condiviso la Prescelta e Leon. Non poteva certo immaginare di aver viaggiato con una potenziale nemica, ma guardandola in quello stato aveva capito che anche lei, come molti altri, era stata vittima di quel mostro senza cuore. Inoltre il conto in sospeso che aveva con il principe di Cuori non aveva a che fare con tutta quella storia, quindi si era semplicemente deciso a buttare giù il boccone amaro. Inoltre da quando lui e Libi stavano insieme i suoi propositi di vendetta erano passati in secondo piano.
“Posso andare anche adesso” disse Violetta, tentando di mettersi in piedi e sfidando il forte capogiro che le era venuto. Tutti scattarono in avanti offrendosi di aiutarla, ma lei fece cenno di no con la mano.
“Ti trovi già nell’ala degli alloggi reali, basta che percorri il corridoio e bussi alla porta che si trova in fondo. Lì ti aspetta Pablo” spiegò Francesca accuratamente.
“Se hai bisogno qualcuno di noi può accompagnarti” aggiunse rapidamente Lena, che era balzata in piedi non appena la sua amica si era alzata.
Violetta declinò educatamente quella proposta, insieme alla decina di offerte successive da parte degli altri. Probabilmente Camilla aveva messo al corrente tutti di ciò che era successo, perché nessuno aveva osato chiederle di Leon.
Una volta fuori si appoggiò alla porta con un sospiro. Finalmente sola. Per la prima poté soffermarsi a guardarsi intorno: era in un corridoio ampio e lungo, reso luminoso dalle grandi vetrate ai lati. Lungo il pavimento era stato srotolato un tappeto verde bottiglia, dello stesso colore dei smeraldi incastonati in fila sul soffitto. Mosse i primi passi incerta, intimidita da tutta quell’imponenza, fino a quando non sentì la voce di una bambina. Si avvicinò cautamente, fermandosi a ridosso di una stanza, la cui porta era aperta. Seduta su un letto a baldacchino, con lo sguardo fisso davanti a sé, c’era una ragazzina dai capelli castani chiari che le ricadevano sulle spalle con indosso una camicia da notte bianca. In piedi di fronte a lei c’era un ragazzino dall’aria vispa e amichevole, la punta del naso sporca di fuliggine.
“Ho fatto il prima possibile. Ti ho portato anche dei biscotti, li ha fatti papà!” esclamò il ragazzino, porgendole un pacchetto di stoffa accuratamente ripiegato, da cui proveniva un forte odore di zenzero e miele. Violetta sorrise tra sé e sé, nostalgica: le ricordava tanto il profumo che sentiva provenire dalla cucina quando Olga tirava fuori dal forno dolci di ogni tipo; poi prontamente German si intrufolava cinque minuti dopo per il primo assaggio.
“Papà ancora non ci crede quando gli dico che sono amico della principessina, dice che me lo invento per sgattaiolare via con una scusa” rise sotto i baffi il ragazzino, mentre la compagna di giochi a tentoni tastò il materasso fino a prendere il dono che le era stato fatto. Sorrise riconoscente, mantenendo comunque una certa compostezza, tipica di chi faceva parte di una famiglia reale. “Grazie mille, Fidel”.
Violetta decise di proseguire, ma non appena mosse un piede, sentì un paio di occhi dorati puntati verso di lei.
“C’è qualcuno, vero?” domandò la piccola nobile. Fidel, che ancora non si era accorto della sua presenza, si voltò verso l’ingresso e rimase calmo, seppur sorpreso. “Si, una ragazza”.
Violetta si sentì come se avesse spiato una conversazione importante, anche se non era quello il caso. Il caldo sorriso della giovane però le fece emettere un sospiro sollevato, mentre la tensione si allentava. “Perdonate il disturbo. Piacere, sono Violetta” disse lei, facendosi coraggio ed entrando. Tese la mano alla ragazzina, che però non si mosse di una virgola, quindi la ritrasse. Aveva forse sbagliato a presentarsi o a trattarla con tanta confidenza? In effetti avrebbe dovuto inchinarsi, a pensarci bene.
“Mi chiamo Cassidy”. Non le ci volle molto per capire che la piccola Cassidy non la guardava dritto negli occhi, bensì fissava un punto indefinito dietro di lei, e allora le fu tutto chiaro.
“Il mio nome è Fidel, sono il figlio del fornaio” si presentò il ragazzino, con una punta di orgoglio, gonfiando il petto.
“Sei un’amica di mio padre?” domandò Cassidy, inclinando lievemente la testa di lato.
“Chi è tuo padre?”.
“Pablo. E’ il re del regno di Picche, credo che tu lo conosca. Tutti lo conoscono, è un uomo buono e giusto” rispose la principessina senza battere ciglio.
“Allora si, diciamo che sono una sua amica”.
“Cassidy, non dovresti disturbare la nostra ospite”. Violetta si voltò verso il corridoio, da cui proveniva quella voce, e riconobbe la bellissima donna che aveva visto la prima volta al palazzo di Picche. Aveva subito intuito che fosse la regina di Picche: era rimasta vicino al marito in quella stanzetta senza quasi mai proferire parola, ma una maestosità tanto fulgida non poteva rimanere inosservata. Il diadema che portava sul capo con orgoglio, fatto di finissimi rami argentati che si intrecciavano tra loro aveva fugato poi ogni dubbio.
“Non mi ha arrecato nessun disturbo, vostra altezza, davvero” esclamò Violetta, alzandosi e facendo un mezzo inchino. Angie sorrise, quindi le porse la mano.
“Io e Violetta adesso dobbiamo andare da tuo padre, tesoro” disse rivolgendosi a Cassidy, che assunse un’espressione neutra, certamente delusa nel profondo dall’aver appena perso una nuova compagna di giochi, ma consapevole del fatto che dovesse trattarsi di qualcosa di importante.
“Tornerai a trovarmi? Ci terrei di cuore, vorrei tanto conoscerti” domandò speranzosa a Violetta.
“Si, senza dubbio” rispose l’altra, ottenendo un cenno di assenso da parte di Fidel. Sentì la tenera mano della regina stringersi attorno alla sua, trascinandola lentamente fuori dalla stanza.
“Devi scusarla, ma Cassidy è sempre stata affascinata dalle persone che non conosce. Il suo amore nel fare nuove conoscenze è davvero senza limiti!” scherzò Angie, rallentando il passo, e guardando dritto davanti a sé con aria nostalgica.
“Il Re mi ha mandato davvero a chiamare?” domandò Violetta, cercando di smorzare il disagio che sentiva a causa di quel silenzio.
“Mio marito è impaziente di conoscerti meglio...Diciamo che la tua fama ti precede, Violetta. O preferisci farti chiamare Prescelta?”.
“Violetta va benissimo, grazie” si affrettò a rispondere con enfasi, tastandosi le orecchie bollenti, che sicuro dovevano essere diventate scarlatte. Si perse a contemplare lo splendido abito bianco della regina di Picche, pieno di veli trasparenti sovrapposti che frusciavano graziosi. Si muoveva con una tale leggiadria che sembrava quasi che i piedi non toccassero il terreno. 
“Pablo crede che ormai tu possa essere la nostra unica speranza. Rischiamo ormai l’assedio a giorni; siccome non siamo abbastanza attrezzati per resistervi dobbiamo prevenire quest’eventualità. L’esercito di Picche marcerà contro il nemico al completo, è l’ultima occasione che abbiamo per mandarli via dalle nostre Terre”.
Violetta rimase per tutto il tempo ad ammirare la freddezza e la mente pragmatica che si celavano dietro quel viso candido e dolce.  In men che non si dica raggiunsero la porta in fondo al corridoio, ornata con scritte incise dall’aria solenne di cui non riusciva a comprendere il significato. Angie si fermò e le rivolse un sorriso incoraggiante, quindi bussò tre volte.
“Avanti” rispose una voce stanca dall’altra parte.
“Entra pure, non avere timori” la rassicurò la regina, dandole un amichevole colpetto sulla spalla per spronarla.
“V-voi non venite?” balbettò inevitabilmente Violetta. Le aspettative di tutti erano riversate su di lei, ma se Pablo si fosse mostrato deluso? Una parte di lei era ancora convinta di non essere quella di cui tutti sostenevano di aver bisogno per vincere la guerra.
“Pablo vuole parlarti da solo...ma non preoccuparti, è solo ansioso di conoscerti”
Lo studio di Pablo era piccolo e di pianta ottagonale. Al centro c’era un’elegante scrivania in mogano, dalla quale pendevano cartine su cartine, con sopra delle croci segnate. Pablo, seduto dietro di essa, le stava studiando con attenzione, rimuginando tra sé e sé. Violetta con la coda dell’occhio notò che in un angolo della stanza erano stati adagiati con cura i pezzi dell’armatura, probabilmente in attesa del suo ritorno.
“Dunque...Violetta!” esclamò l’uomo con un sorriso tirato; poggiò la piuma d’oca con cui stava scribacchiando disordinatamente su un angolo della cartina che aveva di fronte a sé, quindi si alzò, congiungendo i palmi delle mani, quasi stesse pregando. “Ci tenevo tanto a conoscerti di persona...dopo tutto il mio Regno è nelle tue mani”.
“Mi ha detto la Regina che vi state preparando per assalire il nemico con tutte le vostre forze, è vero?” chiese Violetta, intimorita al solo pensiero che in mezzo a quel bagno di sangue potesse trovarsi Leon. Non riusciva ad odiarlo nonostante tutto, nei suoi occhi era ancora riuscita a cogliere un barlume di dubbio, di incertezza. Non si fidava più di lei, ma forse non si fidava più nemmeno di tutto quello che lo circondava. Era solo e sperduto, per questo era tanto irato.
Pablo si massaggiò lentamente le tempie, quindi annuì stancamente. “Non possiamo reggere un assedio, quindi dobbiamo tentare il tutto per tutto. Li affronteremo in campo aperto, non abbiamo altra scelta”.
Violetta però non riusciva più a seguire le spiegazioni tecniche di Pablo, attirata com’era dai quattro pezzi dell’armatura che scintillavano ammalianti. Era come se una voce la stesse invitando a seguirla, una voce che prometteva distruzione e salvezza allo stesso tempo. Non si rese neppure conto che il Re aveva smesso di parlare, prendendo a fissarla con una circospezione ricca di aspettative. I piedi si mossero da soli, diretti verso la parete, la mano sfiorò inconsapevole la superficie liscia dello scudo che rimandava il suo riflesso. Una piacevole sensazione di calore fluì nel suo corpo, scorrendo nelle vene, ma quella sensazione durò un attimo. Qualcosa sembrava dirle ‘Non è ancora il momento’.
Pablo la raggiunse, raccolse la spada e gliela porse: “Mi ha riferito il principe Luca che ha avuto modo di insegnarti come maneggiare una spada...o sbaglio?”.
 
Pablo aveva ritenuto opportuno che Violetta partecipasse alla battaglia finale. Non avrebbe dovuto combattere, semplicemente essere presente per rinfrancare il morale delle truppe. Violetta rimase sconvolta da quella richiesta: non aveva mai avuto modo di vedere un vero e proprio scontro armato; nonostante questo le numerose letture in proposito e i racconti di Leon non la invogliavano certamente a provare quell’esperienza. Eppure la disperazione di Pablo era tangibile, e sapeva, nonostante non sentisse suo il ruolo di Prescelta, di essere ormai un’icona di speranza.
 
“So bene che la mia richiesta possa averti sconvolto, ma ti chiedo solo di pensarci. Rimarresti fuori dal campo di azione dei nemici e avresti una scorta armata di estrema fiducia”. Dopo diversi minuti di silenzio in cui avevano camminato l’uno affianco all’altro, Pablo proferì quelle parole con una nota di ansia nel voler avere una risposta al più presto. “Inoltre continueresti ad allenarti in questi giorni nell’uso della spada se può farti sentire più sicura”.
Violetta non rispose, ancora confusa per tutta quella marea di avvenimenti che stavano prendendo il sopravvento su di lei. Ancora più terribile e crudele era la sensazione che due occhi verdi la seguissero ovunque. Pablo aprì speranzoso le porte di una sala abbastanza spaziosa dove tutti erano riuniti: Angie, che sedeva sullo sgabello, accarezzando appena i tasti di un pianoforte a coda di mogano, Andres, Libi, Maxi, Dj, Luca, perfino Lena e Thomas. Tutti gli occhi furono puntati verso di loro non appena le porte vennero aperte, carichi di interrogativi. Per ore si erano chiesti cosa si sarebbero detti il re di Picche e la Prescelta, ma dal lungo silenzio che aleggiava era chiaro che non sarebbe stata fatta parola di quell’importante incontro. Ben presto la tensione lasciò però il posto a un profondo sconforto: non c’era alcuna buona notizia. Che speranze avevano di sconfiggere un esercito tanto numeroso? Perfino Pablo, che da sempre cercava il lato positivo in ogni situazione, si trovava ormai con le spalle al muro. Oltre al soffocante assedio che stava subendo il suo Regno avvertiva su di sé il peso del non essere all’altezza. Poggiò amareggiato una mano sulla spalla della moglie, in cerca di conforto. Angie, dal canto suo, sentiva il proprio animo ardere di una forza sconosciuta; una parte di lei aveva terribilmente paura, ma era proprio quella disperazione a permettere alla flebile scintilla che si era accesa con l’arrivo di Violetta di brillare più intensamente che mai. Con un gesto pacato, sistemò degli spartiti che aveva preparato. Le note erano uscite con una tale facilità che Angie era convinta che quella canzone altro non fosse il riflesso di ciò che provava, di come il ritorno alle proprio origini per cercare di aiutare il marito l’avesse cambiata. In quel suo viaggio aveva avuto modo di tastare con mano quanto la sua gente tenesse alla libertà e quanto fosse disposta a sacrificarsi per essa. Perché ancora non era finita, loro avrebbero lottato fino all’ultimo respiro.
“Se ti senti perso da qualche parte...” sussurrò Angie, mentre le sue dita si muovevano leggere sul pianoforte. Intonò soavemente una melodia sconosciuta a tutti tranne che a lei. Le parole uscivano dapprima timide, poi sicure e ferme, senza intaccare però quel canto etereo.
 
Si te sientes perdido en ningún lado
Viajando tu mundo del pasado
Si dices mi nombre yo te iré a buscar
 
Istintivamente si trovarono tutti in cerchio ad ascoltare silenziosamente. Era come se quei versi li unissero. Diverse storie, passati contorti, convergevano in quell’unico desiderio.
 
Si crees que todo está olvidado
Que tu cielo azul está nublado
Si dices mi te iré a encontrar
 
Es tan fuerte lo que creo y siento
Que ya nada detendrá este momento
El pasado es un recuerdo
Y los sueños crecen siempre crecerán
 
Ya verás que algo se enciende de nuevo
Tiene sentido intentar cuando estamos juntos
Algo se enciende de nuevo
Tiene sentido intentar cuando estamos juntos
Cuando estamos juntos
Cuando estamos juntos
Podemos soñar
 
Si no sientes que nadie te espera
Que no encontraras la manera
Si dices mi nombre yo te iré a buscar
 
Si crees que solo un recuerdo
Y que tu interior esta desierto
Si dices mi te iré a encontrar
 
Es tan fuerte lo que creo y siento
Que ya nada detendrá este momento
El pasado es un recuerdo
Y los sueños crecen siempre crecerán
 
Ya verás que algo se enciende de nuevo
Tiene sentido intentar cuando estamos juntos
Algo se enciende de nuevo
Tiene sentido intentar cuando estamos juntos
 
Ooh oooh ooh oooh
 
Ya verás que algo se enciende de nuevo
Tiene sentido intentar cuando estamos juntos
Algo se enciende de nuevo
Tiene sentido intentar cuando estamos juntos
 
Ooh oooh ooh oooh .
 
Dopo che Angie finì di cantare la prima volta, si unirono a lei al ritornello per poi ricominciare da capo. Le loro voci si fondevano perfettamente sollevando un unico canto. Il cerchio si fece sempre più raccolto, le mani strette come se fossero tutti fratelli. Non contava chi era il padrone, chi era il servo, chi era ricco, chi era povero. In quella guerra ognuno avrebbe dovuto fare affidamento all’altro, dando tutto se stesso. E la musica, che tanto sembrava estranea in un clima teso e disperato, sembrò infondere loro forza. Quando le ultime note giunsero quella sorprendente energia rimase sospesa sopra le loro teste.
Nel frattempo quella stessa sera la guerra ebbe inizio. 







ANGOLO AUTORE: Ebbene non sono morto (pare...). Purtroppo il mio ritorno su EFP è stato ritardato dalla mancanza di tempo (che tuttora non so bene come riuscirò a trovare *ride istericamente*), dallo studio -sono in vacanza dal 25 luglio- e da un'assenza totale di ispirazione che mi ha anche un po' buttato giù. DETTO CIO', non credo che molti seguano ancora questa storia, forse sarebbe più saggio cominciarne di nuove, ma io odio le cose lasciate a metà e quindi mi sembrava doveroso concludere tutte le ff lasciate a metà prima di poter intraprendere nuovi cammini (ispirazione permettendo). Spero vivamente di continuare ad aggiornare periodicamente, senza sparire di nuovo (lo spero davvero, mi mancava tanto il fandom di EFP), e niente- giusto una precisazione. Lo so che non è da me vantarmi (e non lo farò mai più) ma sono davvero fiero di come ho reso la scena iniziale di questo capitolo (i feels spezzati male). L'angst Leonetta per quanto crudele è comunque strabello, ma quella scena in particolare- boh, ne sono innamorato (e mi sento anche fierissimo dei dialoghi in quella scena, giuro non c'è nulla che non mi piaccia, non succede mai). Detto questo, come già avevo annunciato secoli fa, ci sarà il capitolo sulla guerra finale (che credo riuscirò a concludere in un capitolo), poi ci sarà il capitolo finale e un epilogo, aka 3-4 capitoli. Inoltre credo che revisionerò tutta la ff per assestarla e 'limarla' dove credo sia necessario.
Fine degli aggiornamenti (?), e buona lettura :P

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