La Terza Parte di Noi

di Gageta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Due anni dopo - Sherlock ***
Capitolo 3: *** Due anni dopo - John ***
Capitolo 4: *** La Terza Parte di Noi ***
Capitolo 5: *** Due mesi dopo - Hamish ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ebbene, dopo lo sclero post Ice Bucket Challenge di Benedict eccomi tornata ad infestare EFP :)

Fresca di vacanze (sono stata a North Gower Street ancora non ci credo *^*), parto alla carica con questa nuova… cosa.

Non saprei come definirla, mi sono praticamente buttata inseguendo i miei pensieri nei dormiveglia, scrivendo sull’iPod quando mi capitava, e questo è quello che mi è venuto fuori. Sono solo cinque capitoletti dove… beh. Sherlock e John li abbiamo visti in tutte le salse, avevo voglia di metterli anche in questa situazione enonmiprendoaltrecolpe.

Non mi sento di dire nient’altro, la storia spiegherà da sé, e nel caso potete sempre chiedere, ovviamente xD

Solo, questo mi tocca dirlo, Sherlock potrebbe essere molto un filino OOC ma, insomma, John e un figlio fanno il loro effetto. Ah, e soprattutto non ho tenuto conto della terza stagione (quella grande pugnalata al cuore).

E niente. La dedico a  MelaChan e Polla89 che hanno insistito tanto per leggerla (e che mi hanno dato preziosi consigli^^) e anche alle ragazze del gruppo Sherlockians per le nostre chiacchierate^^

Inoltre, come non dimenticarla, un immenso grazie alla mia carissima beta lalla_4 che mi sopporta e sostiene sempre nelle mie idee (e che voleva una parent!lock e l’ha avuta :P).

A chiunque vorrà leggere,

buona lettura!

 

 

 

 

 

La Terza Parte di Noi

Prologo

 

I

l legno è lucido, liscio al tatto, riflette la luce soffusa dell’alta lampada vicina, rivelando una lieve ammaccatura, una piccola rientranza in un piano altrimenti perfetto. Ad occhio distratto può sembrare un irrilevante difetto, che non guasta la bellezza dell'intatta superficie. Ma un difetto, un piccolissimo e all'apparenza insignificante errore può portare, in un sistema più grande e complesso, ad un primo cedimento, e, se non corretto fin da subito, alla caduta finale. Un'irrimediabile, e anche fin troppo breve, caduta finale.

Le lancette ticchettano, vicine e lontane, deboli e potenti, sfasate tra loro nel proprio ritmo personale, non sincronizzate. Il tempo scorre, inesorabile e lento, lentissimo nel susseguirsi dei secondi, dilatati all’infinito, nell’influenzabile impressione degli eventi che colpiscono, che lasciano il segno, che si vorrebbero proiettare all’infinito nel resto della propria esistenza.

Nell’attesa, il tempo è nemico di cuori spezzati, di animi legati (ancora per poco), di paure e angosce mai rivelate, trattenute. Sottigliezze invisibili agli occhi, difetti riuniti nel buio, nelle bolle d’aria costrette sul fondo, schiacciate dal peso dell’acqua che, infine, riescono a contrastare, risalendo verso l’aria sovrastante, loro compagna, nel ripristino originale dell’ordine naturale.

John respira, lascia che il fiato si risvegli, che i polmoni si dilatino nella ricerca d’aria, un’aria che non ha mai trovato così pesante, così piena di tensione e… insicurezza.

Tedioso.

Abbassa gli occhi alle sue mani, a quelle dita morbide, tozze ma delicate, le dita di un medico militare, di un collega, amico, amante.

La penna è ruvida sotto l’epidermide, una bic di semplice plastica, di sottomarca, una comunissima e usurata, unico elemento in disaccordo con la ricca stanza che li circonda, che nella sua anestetica semplicità colpisce per l’innegabile costo del mobilio lì attorno. È l’unica cosa che si è permesso di portare, l’unico richiamo a quella che ora è la sua vita. Semplice, logorata dall’acerbo degli ultimi mesi, incolore.

Non osa alzare gli occhi, John, non osa per paura di incontrare il freddo e falsamente distaccato sguardo del maggiore degli Holmes, di fronte a lui. Ringrazia che ci sia una scrivania tra loro, ringrazia che quella semplice barriera possa proteggerlo dalla sua presenza. Sa di non essere il benvenuto (non più), sa che in quegli occhi chiari, così diversi da quelli del fratello, è celato un profondo dolore, un dolore con il quale John non vuole avere a che fare. Sa che l’incondizionato amore fraterno che lo lega a Sherlock è lì, a ribollire, pronto a deformare quei lineamenti ora forzati in un’espressione tranquilla e ferma.

Si rigira la penna tra le mani, John, la rigira tra le dita, la picchietta piano sul legno lucido, riflette la luce sulla sottile facciata di quel solido esagonale, rivelando le scritte incise, incancellabili. Ne osserva la punta di sottile acciaio, l’inchiostro che è pronto per uscire, pronto a mettere fine a tutto.

Un'occhiata. Una porta che si chiude. La fine.

Non ha mai pensato a come sarebbe stata, a quando sarebbe arrivata. Non lo ha mai fatto in più di dieci anni, non ha mai creduto di averne bisogno. Ancora adesso, dopo mesi d'insonnia, John si chiede perché, da dove tutto sia partito, che cosa sia successo per farlo ritrovare in una situazione del genere.

Deglutisce, azzarda un’occhiata all’orologio da polso, alle lancette che ticchettano, di secondo in secondo, scandendo il tempo che lo prepara all’azione finale.

È in ritardo. Di dodici minuti e quaranta secondi. Non se ne sorprende, sa che non deve farlo. Non è stato puntuale neanche al loro matrimonio, perché dovrebbe esserlo ora?

Tedioso.

Sorride lievemente al pensiero, di riflesso, correggendosi subito quando se ne rende conto. Per chi gli sta di fronte, un minimo sorriso è solo motivo di odio, ancora più profondo di quanto già non sia.

Dovrebbe pensare al futuro, dovrebbe volerlo fare, dopo la sua scelta. Dovrebbe voler credere che sia la giusta cosa da fare, che non abbiano avuto altri modi per decidere, più tempo per valutare.

Non ne hanno avuto, comunque, è stata tutta una corsa veloce, diretta verso il traguardo, verso quella che ha tutti gli aspetti di una vittoria. Ci vuole credere, vuole che quella sia una conquista, non vuole piegarsi a quel sottile pensiero della sconfitta, non vuole credere che sia stata tutta una messa in scena, tutta una barriera eretta intorno a sé dai sensi di colpa. Non ne può più di sentirsi così, non è suo dovere sentirsi così.

Dovrebbe sentire rimorso. Dovrebbe pensare con nostalgia al loro passato, dovrebbe pensarci attentamente, anche in questi ultimi istanti in cui può ancora cambiare tutto.

Dovrebbe, John. Dovrebbe ma non vuole.

Alza il mento, alza fieramente lo sguardo, si raddrizza sulla poltrona e guarda un punto al di là di Mycroft, si fissa sulla parete rossastra della stanza. Del Diogene’s Club. Lo ha voluto Sherlock, come ha voluto che fosse suo fratello ad ufficiare la cosa.

Non ci ha parlato, non ha fatto nient’altro che rispondere con un laconico “ok” al suo messaggio di avviso.

Lo sai che preferisco i messaggi.

Il tempo di parlare è finito da molto, troppo, tempo. E nessuno sembra avere più la voglia di farlo, la forza di farlo. E in fondo, si convince, è meglio così.

Un rumore in lontananza, lo schianto di una porta che si chiude (o si apre?) passi frettolosi in avvicinamento, e poi lui è lì, avvolto nel suo cappotto nero (sempre lo stesso, tenebroso, cappotto nero), i riccioli ribelli che gli incoronano il volto, che oscillano dolcemente al ritmo del suo passo.

John non lo guarda, lo immagina. Potrebbe disegnare a memoria ogni tratto del suo volto, ogni espressione corrucciata che ha assunto in anni di convivenza, ogni striatura di quegli occhi dai colori impossibili (eterocromia, John, soltanto questione di geni). Il bianco latte della sua pelle, le labbra perfette che ha visto arrossire sotto la pressione dei suoi baci, il movimento fluido del suo corpo, le sue movenze, quando è sotto di lui, quando riempie lo spazio tutto intorno a lui, quando non c’è nient’altro che lui, solo lui.

Quando c’era si corregge con un debole sospiro.

C’è uno svolazzo al suo fianco, a destra nel suo campo visivo.

Sherlock si abbassa e scarabocchia la sua firma su un foglio, poi su un altro.

Dietro di lui, col fiatone, Lestrade li guarda con occhi spenti, rivolgendo con la testa un gesto di saluto a John.

Quando Sherlock si rialza non lo guarda. Rimane rigido al suo posto, ed è solo per sbaglio che John nota la sua mano stretta a pugno lungo il fianco.

Deglutisce, stringe un po’ più la penna tra le dita, poi firma anche lui, segue le tracce già lasciate da lui.

Ed è tutto lì.

Mycroft raduna i pochi fogli con espressione impassibile e annuisce piano, come un cenno a suo fratello.

John azzarda un’occhiata verso suo marito, ex marito, e lo vede sparire con uno svolazzo del cappotto, a passo quasi feroce, il volto una maschera di ghiaccio, priva della benché minima emozione.

Qualcosa dentro di lui si rompe definitivamente. Lo sguardo addolorato di Lestrade è solo una conferma in più.

John si alza con un sospiro stanco e gli occhi gli cadono sulla propria mano, focalizzandosi sull’anulare, sulla sottile striscia leggermente più chiara, ricordo presto invisibile di una vita passata.

Dentro di lui, soltanto amarezza.

 

~*~

 

La piccola figura se ne sta lì ormai da ore, appollaiata su quella panchina, le ginocchia al petto e le braccia strette intorno ad esse. Immobile.

I lunghi riccioli scuri gli incorniciano il volto, gli occhi chiusi nascondono il loro colore azzurro brillante, il volto pallido è contratto in una smorfia di contenimento.

Il sole splende alto nel cielo con la sola compagnia di qualche nuvoletta sparuta. Non un filo di foschia rovina la bellissima giornata, non un solo avvenimento è capace di turbare la tranquillità del luogo. Il vento soffia leggero tra le foglie della quercia di Regent's Park, sollevandone di tanto in tanto qualcuna prematuramente secca; con il suo tocco leggero è l’unico in grado di smuovere di qualche millimetro qualcosa nel ragazzo sulla panchina. I bei riccioli scuri ondeggiano, sospinti dal vento, e accarezzano il volto pallido del giovane.

Poi, all'improvviso, con un lieve tremore la figura sembra prendere vita. Con un lieve movimento delle palpebre i suoi occhi si spalancano e si posano sul vasto parco davanti a loro, tuttavia senza vederlo veramente. Le mani si contraggono in uno spasmo e si chiudono su loro stesse con forza. La mascella si contrae e le labbra esalano un debole sospiro.

Un singolo singhiozzo lo percuote, fa tremare le spalle fragili, schiacciate dal peso di tutto quello che sta accadendo. Può quasi sentirle le parole, tutte quelle non dette, quelle scritte e quelle che tante volte gli sono state ripetute: le può sentire vibrare nella sua testa, come un rombo lontano.

In realtà non sa niente Hamish, o quasi. Quello che sa è che è tutto sbagliato, e se a qualcuno interessa, quello è soltanto lui.

 

 

 

 

Note:

Giusto per precisare: in questo capitolo Sherlock ha quarantanove anni, John ne ha cinquantaquattro e Hamish otto. Siamo nel 2025. (Ho tenuto conto delle età di Benedict e Martin).

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Capitolo 2
*** Due anni dopo - Sherlock ***


Ed eccoci qui, primo capitolo. Alcune hanno incolpato John per il divorzio, vediamo cosa penserete dopo questo (ma il prossimo dovrebbe essere peggio). xD

E niente, vi lascio al capitolo.

Buona lettura!

 

 

Capitolo 1

Due anni dopo - Sherlock

 

Quando era piccolo Sherlock osservava sempre i suoi genitori, vedeva la felicità che li animava, l'affetto e l'amore nei loro occhi quando si scambiavano lunghi sguardi silenziosi. Sherlock li vedeva, e nella sua ingenuità di bambino pensava che gli sarebbe tanto piaciuto avere qualcuno che lo guardasse in quel modo, quando sarebbe stato grande anche lui.

Crescendo, affrontando i piccoli problemi di ogni giorno, scoprendo a poco a poco il mondo che lo circondava, si era presto reso conto che la vita non era così semplice come aveva sempre creduto, che se non sapevi come stare al mondo allora esso non aveva niente di bello da offrirti.

Così si era chiuso in se stesso, nei meandri di quello che andava pian piano a definirsi come il suo Palazzo Mentale.

Brillante, diverso, così terribilmente solo. Sherlock aveva voltato le spalle al suo cuore, aveva chiuso a chiave il lucchetto e si era lasciato alle spalle quei sentimenti di cui aveva sempre sentito tanto parlare, spingendoli in un angolo remoto della sua straordinaria mente.

Si era completamente disinteressato all'argomento, aveva permesso che la calcolatrice, fredda logica lo guidasse per la sua strada, senza mai voltarsi indietro a guardare.

Almeno fino a quando non era arrivato John.

Una coincidenza, il caso nell'immensità dell'universo, l'insignificante particolare che aveva cambiato tutto.

Coinquilini, colleghi, amici, migliori amici. Sherlock non era mai stato accettato e capito così da qualcuno in tutta la sua vita.

Era stato lì, tra le giornate passate in sua compagnia, tra i suoi sorrisi di puro divertimento e i suoi occhi caldi e accoglienti, tra l'enigma all'apparenza irrisolvibile di un caso e i suoi complimenti spontanei, naturali come un respiro. Era stato lì che una porta aveva ceduto, che un lucchetto si era incrinato, che qualcosa era crollato.

Sherlock Holmes si era innamorato.

Se ne era reso conto un giorno dei tanti, quando la minaccia di Moriarty si era fatta sempre più incisiva, quando Mycroft lo aveva avvertito del pericolo imminente. Una semplice mattina John si era alzato, gli aveva parlato, preparato il the, e Sherlock era rimasto a fissare cupamente la porta di casa una volta che se ne era uscito per andare alla clinica.

Tutto ad un tratto si era reso conto di quanto veramente gli importasse di John Watson, di quanto quell'umano, uno dei tanti, normalissimi umani, fosse riuscito a superare quella spessa barriera di ghiaccio che lo separava dal suo cuore, a penetrarla, ad avvolgerlo ed impadronirsene.

Preoccuparsi dei propri sentimenti non è un vantaggio.

Un giorno qualcuno gli aveva detto che aveva davvero un cuore, che un giorno glielo avrebbe bruciato. Solo in quel momento si era reso conto di cosa intendesse veramente Moriarty con quella frase, e all'improvviso aveva avuto paura. Perché a Sherlock non era mai importato niente della sua vita, non si era mai preoccupato di mantenersi, si era limitato semplicemente a sopravvivere. Ma ora, senza rendersene nemmeno conto, ne aveva assaporato la bellezza, l'aveva provata nella quotidianità di ogni giorno, l'aveva trovata in John, e sapeva che senza di lui niente sarebbe più stato lo stesso. Aveva qualcosa per cui vivere ora, aveva un cuore da proteggere, di cui prendersi cura.

Paura. Radicale, attanagliante paura. Si era fatta strada nel suo stomaco, come un boa, un serpente che una volta trovata la propria preda la avvolge nelle sue spire fino a soffocarla, ad ucciderla.

Per lui, per tutto quello che gli aveva insegnato, Sherlock aveva fatto quello che gli riusciva meglio: aveva usato il suo Palazzo Mentale, aveva giocato sul filo del rasoio con Moriarty. E si era buttato dal tetto del Bart's.

Successivamente aveva passato i due anni peggiori della sua vita. Aveva combattuto, ucciso a mani nude, mentito. Era scappato, aveva girato almeno tre continenti, era stato cacciatore e preda, torturato. I giorni si susseguivano tutti uguali tra loro, la caccia sembrava non dovere finire mai, e solo il pensiero di quello che lo aspettava a Londra, quando tutto sarebbe finito, lo aiutava a sopravvivere, a combattere fermamente nonostante la stanchezza.

JohnJohnJohnJohnJohn. Se lo ripeteva sempre, nella testa, come un mantra.

Per John, mentre il volto di quell'uomo sconosciuto diventava blu tra le sue mani.

Per John, quando il proiettile colpiva dritto al cuore la vittima del giorno.

Per John, quando un'altra sferzata della frusta lo colpiva, mandandolo in ginocchio ai piedi del torturatore.

John le aveva toccate quelle cicatrici, le aveva baciate una ad una quando avevano fatto l'amore per la prima volta. Se si concentrava, ancora adesso, Sherlock riusciva a richiamare alla mente ogni sfioramento che quelle labbra avevano avuto con la sua pelle, l'esatta pressione, la loro morbidezza.

Ogni momento con l’ex blogger era indelebile, lì, nella sua stanza personale. Soprattutto quei momenti immediatamente successivi al suo ritorno, quella manciata di anni che lo aveva visto protagonista delle attenzioni di John, quasi subito diventato amante, poi fidanzato, e infine marito.

«Mi vuoi sposare?»

Era iniziato tutto lì, da quelle semplici tre parole. Negli ultimi mesi Sherlock si era maledetto più volte per aver risposto di sì, si era più volte chiesto per quale motivo avesse accettato, cadendo tra le sue braccia con gli occhi lucidi e premendo le labbra sulla pelle calda del suo collo, mormorando quella semplice affermazione ripetutamente, finchè John non gli aveva circondato il volto con le mani e lo aveva baciato con uno dei suoi sorrisi più caldi sulle labbra.

Ricordava quel momento con ogni parte di se stesso, aveva memorizzato e categorizzato ogni più piccolo particolare, ogni più piccola emozione e sensazione, nella stanza del suo Palazzo Mentale dove raccoglieva tutti i suoi ricordi più felici (nel novantanove percento dei quali John era presente).

Quel giorno era stato uno dei tanti. Avevano appena risolto un caso, uno di quei semplicissimi casi che aveva richiesto appena quattro ore del suo tempo, e quando avevano varcato la porta del 221b, Sherlock si era ritrovato a fronteggiare il tavolino del suo salotto coperto da una sottile tovaglia rosso scuro, a sua volta sormontata da una candela, accesa, la fiammella che guizzava vivacemente illuminando di luce soffusa la stanza buia. Ricordava di aver deglutito a fatica e di aver chiesto con la voce più ferma che era riuscito ad emettere quale giorno fosse, sapendo già per certo di aver dimenticato una di quelle date che a John piaceva tanto ricordare.

«29 gennaio.» aveva infatti risposto lui, la voce sorprendentemente vicina al suo orecchio. Le sue labbra si erano poggiate sulla pelle del suo collo, depositandovi un bacio leggero e procurandogli un dolce brivido lungo tutta la spina dorsale, mentre con le braccia lo circondava da dietro, facendo aderire i loro corpi.

«Ed è in occasione di questo anniversario che voglio chiederti una cosa…» aveva continuato, aprendo una mano e mostrandogli la piccola scatolina di velluto tra le dita. Sherlock aveva spalancato incredulo gli occhi mentre John gli porgeva la domanda.

Quella stupida, dannata domanda.

Non aveva mai creduto a quello che molti chiamavano il sacramento del matrimonio. Primo tra tutti, per lui non aveva niente di sacro (Dio era solo l'illusione di uomini deboli incapaci di venire a patti con l'idea della morte, niente di più), e secondo non necessitava certo di un pezzo di carta per dimostrare di amare John follemente, totalmente, al di là di ogni sua più lontana speranza. Il matrimonio non aveva mai contato niente per lui, ma vedere la limpidezza dei suoi occhi, quell'incondizionata felicità che lo animava nel momento in cui glielo stava chiedendo, Sherlock non aveva potuto fare a meno di accettare, di sentire quella scelta anche sua, per John, sempre e solo per lui.

Forse era lì che aveva sbagliato.

«Ti amo…»

Chiuse gli occhi, li strinse e cercò di allontanare dalla mente quel lontano e dolce (doloroso, tremendamente doloroso) ricordo.

Reclinò la testa all'indietro, prendendo un respiro profondo, e si rilassò, lasciando correre la mente tra le stanze variopinte del suo Palazzo Mentale (quale meraviglioso luogo sicuro), cercando una pace che non trovava più da tempo.

«Ti amo…»

Proprio lì, su quel divano.

La noia, la completa mancanza di casi, la mente nello stallo, la ricerca di uno stimolo, uno qualsiasi, qualcosa che gli impedisse di cadere ancora una volta nell'infinito pozzo dei desideri, culla di rimorso e oscuri pensieri.

Quella volta c'era stato John ad accorrere in suo aiuto, quella volta (come tante, tantissime altre volte) John si era appropriato della sua libertà di marito e lo aveva fatto suo (per l'ennesima, bellissima volta). Sherlock ricordava di avergli detto che da quel momento in avanti sarebbe rimasto più spesso senza casi. John aveva riso.

Scuote la testa, lo Sherlock di adesso, stringe i pugni e abbraccia strette le ginocchia al petto, impedendosi di gemere. Sa dove tutti i suoi pensieri potrebbero portarlo, sa, ma vuole evitarlo. Sa anche che ora, come tutte le volte da due anni a questa parte, non riuscirà a fuggire, non riuscirà a seppellire quello stato di miserabile fallimento che lo avvolge, che stringe, non lascia respiro.

Così emette un sospiro, si abbandona a quei pensieri, si lascia avvolgere tra le loro spire, lascia che ritorni indietro di anni, ripercorrendo ogni più piccola sfumatura di momenti felici, rassicuranti. Quando riaprirà gli occhi e tornerà a dover fronteggiare la realtà, solo allora tornerà ad occuparsi del suo dolore perpetuo, tornerà a pensare ad un modo per ridiventare il freddo calcolatore che era una volta (prima di John, prima di tutto).

~*~

La stanza ha il soffitto alto, librerie stracolme di tomi ne coprono interamente le pareti, nascondono il muro alla vista, fuorché una striscia sopra l'entrata, una porta di legno nero con un battente. In quel piccolo spazio che è riuscito a ricavarsi ci ha attaccato un poster di grandi dimensioni, un collage di foto che ricordano tutti i momenti migliori della sua vita.

Ce n'è una con Redbeard, risalente alla sua infanzia: in quella foto Sherlock indossa un cappello nero e una benda sull'occhio, la spada che impugna nella mano destra è sollevata alta nel cielo, la bocca spalancata in un urlo. "All'arrembaggio" aveva detto, se lo ricorda ancora.

Quella è la foto più lontana nel tempo, successivamente vengono tutte le altre: una lo raffigura con il primo zaino pieno di libri sulle spalle e un sorriso che gli arriva fin quasi alle orecchie; in un'altra è vestito di nero e ha l'aria imbronciata, con il cappello da laureando che gli pende da una parte. Poi ce n'è una delle sue preferite: lui è seduto nel salotto del 221b, John gli stringe un braccio con un sorriso mentre con l'altro braccio stringe per le spalle un'arrossata Molly. Lestrade solleva in alto un bicchiere di champagne e la signora Hudson li guarda tutti, felice, senza degnare di uno sguardo la fotocamera.

Quelle successive sono oscurate, come bruciate, completamente nere.

In una compaiono lui e John, seduti sulla sua poltrona, un fagotto bianco tra le sue braccia. Ogni volta che Sherlock osserva il proprio volto sorride, dimenticando per un momento tutti i suoi problemi. Ricorda quel momento perfettamente, ha varie foto che lo ritraggono. Sono tutte lì, una in fila all'altra, e tutte riportano anche una serie di sensazioni ed impressioni tali che molte volte deve sforzarsi per girare la testa dall'altra parte e muovere la sua attenzione su qualcos'altro. Questa volta, invece, riesce a continuare il suo percorso senza intoppi.

Passa per un cambio di pannolino, una giornata sul lago di Hyde Park in barca, vari natali e prime volte.

Poi sente una presenza alle sue spalle.

Si gira velocemente, innervosito dall'intrusione, ma dietro di lui non c'è nessuno. Sospira, Sherlock, passa gli occhi sulle due poltrone al centro della stanza, che ricorda così tanto il salotto di Baker Street, poi spinge il battente ed esce, sigillando con cura la stanza del Palazzo Mentale per evitare che ne esca qualcosa, e apre gli occhi.

Hamish è in piedi davanti al divano che lo guarda corrucciato, con quell'aria assorta di quando si sforza di pensare a qualcosa ma non ci riesce bene.

«È già venerdì?» chiede Sherlock, passandosi una mano tra i capelli arruffati, e il bambino annuisce, esprimendosi poi in un sorriso.

Chissà da quanto tempo è lì che aspetta in una sua reazione: nel Palazzo Mentale ogni minuto sembra dilatato all'infinito.

«Vado a fare una doccia…» Sbadiglia, poi si dirige strisciando i piedi per la stanchezza verso il bagno, la divisa della squadra di calcio bagnata fradicia sulla schiena.

Sherlock sospira di nuovo e socchiude gli occhi.

Era stata una decisione di entrambi.

Sapeva che John aveva sempre voluto avere un bambino, e alla fine, dopo anni, aveva finalmente acconsentito, pur di vederlo contento. A voler dire proprio la verità, all'inizio non ne era convinto: non sapeva come comportarsi con le persone normali, figurarsi con un bambino; così si era rifiutato, anche dopo esplicita richiesta di John.

Quando però se lo era ritrovato tra le braccia se ne era completamente innamorato. Più volte John aveva scherzato sul fatto che, una volta abbastanza grande, Sherlock lo avrebbe lasciato e si sarebbe risposato con lui, con il loro bellissimo bambino. (E Sherlock si era più volte chiesto se stesse veramente scherzando.)

Semplicemente si era perso in quegli occhi azzurro scuro: se si sforzava un po' poteva quasi scambiarli per quelli di John, (l'eterocromia evidentemente non l'aveva ereditata), e il fatto che gli somigliasse non aveva nient'altro che contribuito.

Sherlock aveva insistito, voleva che fosse John a dare i geni, John voleva quelli di Sherlock; alla fine il caso gliel'aveva data vinta quando la moneta aveva segnato croce.

Ora Sherlock preferirebbe avere perso, per vedere in Hamish quello che non può più vedere in suo marito.

Sospira e si lascia trasportare dai suoi pensieri in una delle stanze costruite più di recente, là dove Hamish cresce ogni volta che lo desidera sotto ai suoi occhi. Riguarda i primi giorni, i compleanni, rivede il lento cambiamento nel suo rapportarsi agli eventi, a John, a suo figlio. Sembrano passati solo pochi giorni da quel lontano giorno di due anni fa, eppure il tempo è andato avanti, incurante del dolore di quella piccola famiglia di tre persone, distrutta come niente, quasi un soffio di vento a sollevare uno ad uno i granellini di sabbia di un castello abbandonato sulla spiaggia, fino a quando della piccola costruzione non ne rimane più niente.

Qualcosa nel loro matrimonio era andato storto, qualcosa di sottile e indefinito. E tra tutti, quello che ne soffriva di più, che ci rimetteva senza alcuna colpa, era sicuramente Hamish.

Sherlock non ricorda neanche come sia iniziata; ricorda un paio di litigi senza senso, poi lunghi silenzi, urla, e una porta che sbatte dietro le sue spalle. Se ci pensa, ci pensa bene, a fondo, non trova nessun segno.

Ma la verità, quella a lungo nascosta nel profondo dell'animo, tra le numerose pieghe dei ricordi, viene a galla, non importa quanto la nasconda a se stesso.

Sherlock ama Hamish, lo ama quasi quanto John, e lo sa, se ne rende conto. Eppure, al tempo, nonostante questo, nonostante se lo ripetesse sempre, qualcosa si era incrinato.

All'improvviso si era ritrovato solo, in una solitudine strana, forse una semplice impressione. Era stato come guardarsi allo specchio e improvvisamente scoprire che nonostante tutto l'impegno per prepararsi, per volersi vedere impeccabile, notava che il vestito era troppo largo. Bellissimo, ma fuori misura.

C'era amore, dappertutto, e gioia, mai noia, profondi e inspiegabili sorrisi, leggerezza nel cuore. Forse era tutto davvero troppo, lui non lo sa.

Sa solo che, ad un certo punto, si sentiva meglio fuori dal 221b. Passava intere ore dietro ai casi, uno dietro l'altro, con John che lo aspettava a casa, a prendersi cura di Hamish (mai insieme sulla scena di un crimine, non più).

Aveva cominciato a non tornare per cena. Aveva iniziato ad uscire senza avviso nel cuore della notte o a stare fuori fino alle tre del mattino senza un messaggio per dire dove fosse, a che ora pensasse di tornare. (Non voglio disturbare, si ripeteva, nello strenuo tentativo di mentire a se stesso).

Un paio di discussioni in cui non aveva fatto niente per spiegare, o lo aveva fatto rimanendo sul vago, non lasciando trapelare ciò che veramente si agitava sotto il suo petto. Voleva che andasse tutto bene, voleva che fosse tutto a posto; per John, per Hamish, per le scelte che aveva fatto e per le quali non sarebbe mai potuto tornare indietro.

Ma così non era, affatto.

E come per una sottile crepa che passa inosservata, una sottilissima linea frastagliata in un angolo buio di un edificio, che non viene stuccata, osservata con attenzione e curata, avevano tirato avanti, un giorno alla volta, fino a quando la crepa si era allargata troppo per essere ignorata.

E un muro aveva ceduto. Quello a fianco era crollato. L'edificio costruito con tanta attenzione e cura si era pian piano disintegrato.

I silenzi erano diventati interminabili, non c'era stato neanche più bisogno di urlare troppo.

E poi una notte era finita, una porta che si chiudeva. Il terreno che franava.

Era stato Sherlock a chiedere il divorzio, una rabbia cieca si era improvvisamente impossessata di lui. E tra tutti, solo Mary era riuscita ad approfittarsene.

Lo scroscio della doccia finisce e un'anta sbatte.

Sherlock pensa ad Hamish, a tutti gli sforzi, i capricci, i pianti alternati tra le braccia dei suoi due papà, la tristezza che sempre si cela nel suo sguardo ormai da due anni. Lui aveva tentato di tutto per ricongiungerli, quando nella sua ingenuità di bambino aveva compreso che qualcosa si era distrutto sotto ai suoi occhi. Aveva fatto di tutto, tra appuntamenti a sorpresa nei bar («Andrew ha detto che ci incontriamo qui tra dieci minuti, aspetti qui con me, papà?») a ricordi di anniversari con torte fatte in casa. Aveva costretto John a venire alla festa dei cinquant'anni di Sherlock, festa che aveva organizzato lui con l'aiuto dello zio Mycroft. Era forse l'ultima volta che erano stati insieme nella stessa stanza, lui e John.

L'ultima volta che lo aveva visto di persona era stato nello specchio retrovisore dell'auto, quando avevano bloccato una strada parallela a Baker Street a causa della troppa neve e Sherlock aveva dovuto uscire e andare a prendersi Hamish. Lo aveva visto da lontano, mentre allacciava il cappotto del bambino, poi era sparito dentro l'auto prima che Sherlock riuscisse ad avvicinarsi abbastanza per rivolgergli la parola.

Era il loro accordo, preso senza nessuno scambio di parole.

Nei fine settimana Hamish stava con Sherlock, che lo aiutava a fare i compiti, e per il resto stava con John, l'unico che se ne sapesse prendere cura come un vero genitore. E forse era per la maggiore libertà che Sherlock gli lasciava che Hamish aspettava sempre con ansia tutta la settimana, aspettando il momento in cui avrebbe potuto mettere piede al 221b.

Il piccolo provava una grande ammirazione per lui, lo aveva ricoperto di meriti nel suo tema "Il mio eroe". Sherlock non sapeva cosa ne pensasse l'ex marito in proposito, ma si sentiva lusingato di quelle attenzioni. Dopotutto, Hamish era figlio di John.

Esce finalmente dal bagno e lo raggiunge in salotto, raggiante nel suo pigiama azzurro con i draghi rossi. Gli balza addosso ridendo e Sherlock gli sorride in risposta, spettinandogli i capelli con una mano.

«Ordiniamo il take-away?» chiede con la sua voce squillante di bambino, e non appena il padre annuisce si getta verso il telefono, pronto a comporre il numero.

È la loro routine: venerdì sera Cinese o Giapponese, sabato Italiano. È sempre Hamish a ordinare, si diverte a parlare con i proprietari dei ristoranti che ormai lo conoscono e lo salutano sempre con allegria, e Sherlock lo lascia fare. Lui è così, sa farsi apprezzare da tutti. (Proprio come John).

Fanno sempre qualcosa di diverso dopo cena, quella sera è il turno delle deduzioni. Hamish sta diventando sempre più bravo e Sherlock ne è orgoglioso.

Dopodiché Hamish sbadiglia, e lui capisce che è l'ora di mandarlo a letto.

Sale sempre nella sua stanza quando è il momento (quella vecchia di John, è diventata sua quando è arrivato), lasciando un bacio sulla guancia del padre, ma poi torna sempre, durante la notte.

Sherlock si corica sempre dopo di lui, anche se ha qualche caso in corso, solo perché sa che dopo un'ora scarsa il bambino scende, controlla se si è addormentato, e quando ne è sicuro si arrampica sul letto e si stringe a lui.

Sherlock non può più fare a meno di quell'abbraccio: tra le sue braccia sottili, di bambino, è un po' come tornare indietro, tra quelle più forti e robuste di John.

Sherlock sa che Hamish è intelligente e crede che sappia quanto ancora soffre per la separazione. John forse è riuscito ad andare avanti, lui no.

A volte Sherlock fa finta di dormire e poi si addormenta veramente nel suo piccolo abbraccio. Altre, aspetta che si addormenti, poi si gira verso di lui, delicatamente, gli toglie una ciocca di capelli scuri dagli occhi e lo osserva da vicino con attenzione, a volte con gli occhi lucidi, poi lo circonda in un abbraccio, dolcemente, e si addormenta con il mento poggiato su quella piccola testolina.

Tante altre invece fa finta di dormire e poi lo spaventa di soprassalto, procurando una scossa di risa incontrollate nel suo corpicino. Qualche volta si fanno il solletico a vicenda, altre rimangono a pancia all'aria e Hamish gli racconta le sue piccole avventure, cosa gli fanno fare le maestre a scuola, come vanno le partite di calcio (lui non ci va mai) o come sono i suoi amici. Spesso gli racconta della sua vita con John, e Sherlock si lascia cullare dal suono dolce che quel semplice nome emette tra le labbra di Hamish. Lui sa che sono i suoi racconti preferiti e parla sempre con il viso schiacciato contro il suo petto, forse per non guardare quando qualche lacrima gli riga il volto, silenziosa.

Vorrebbe che ci fosse di nuovo John, qualche volta, lì al suo fianco, con il suo peso a incurvare il materasso, con il suo calore attorno a lui e le sue labbra sulla propria fronte.

Com'era una volta, come non lo sarà mai più.

Quella notte si addormenta cullato dal suono della sua voce.

~*~

Quel giorno è tutto veramente troppo per poterlo sopportare.

Sherlock entra nell'appartamento, sbatte la porta con rabbia e lì, sulla soglia, si prende la testa tra le mani e urla, roco, invocando pietà.

È il 29 gennaio, ancora, per la seconda volta senza di lui, e tutto, tutto, lo ricorda, lo riporta alla mente.

Ha appena risolto un altro caso, il marito (divorziato), geloso del nuovo amante della ex moglie (bionda), li ha uccisi tutti, figlio (di dieci anni) compreso. Ci ha impiegato più del solito, forse perché una certa scala verde continuava a girargli in testa. E poi è arrivata la tazza di caffè nero con due zollette, un bastone, un'espressione di puro sbigottimento.

Una volta iniziato il flusso di ricordi, finirlo è tutto un altro paio di maniche. E, ovviamente, non ci è riuscito.

È in casi come quello che, solitamente, si lascia andare alla sua più grande debolezza (da due anni a questa parte). A volte cerca di nasconderlo anche a se stesso ma la sua mente è difficile da ingannare: ormai ne è assuefatto, potrebbe tornare indietro solo grazie ad una grande forza di volontà, e al momento è l'unica cosa che gli manca.

Si dirige a grandi passi verso la sua stanza, irato, e quando apre la porta non si ferma neanche a richiuderla dietro di sé.

Apre l'asse del pavimento e ne tira fuori una scatoletta lilla, aprendola con cura nonostante le dita tremanti. La siringa è lì, vuota sotto i suoi occhi, i pacchetti di fine polverina bianca sotto di essa. Sono riposti meticolosamente, quasi un tesoro da preservare col passare dei secoli. È una delle poche cose che lo fanno stare bene, ora, come una volta. (John non c'è).

Respira faticosamente e guarda ancora giù, nel buco, scivolando come una carezza sulla trama colorata del maglione accuratamente ripiegato.

Stringe gli occhi e geme, soffia tra i denti.

Quando Hamish se ne va, se non c'è un caso a tenerlo impegnato, lo fa sempre. Stringe il maglione tra le braccia, a volte lo indossa pure, e con esso si abbandona alla droga, a quei sogni lancinanti. Altre lo prende e lo getta nel cestino accompagnato da un urlo, ripromettendosi di gettarlo via una volta per tutte in seguito. (Non lo fa mai).

Quel giorno è uno di quelli.

Poi la soluzione viene iniettata nelle vene e il respiro si placa, una sottile nebbia si dipana per le stanze del Palazzo Mentale, coprendo, lasciando poco alla vista, e Sherlock può finalmente riposare.

Si sta autodistruggendo, un pezzo alla volta, cade giorno dopo giorno, affonda.

E tutto quello che può fare è sperare che finisca al più presto. Una volta per tutte.

 

 

 

 

Note:

Il 29 gennaio secondo il blog di John è il giorno in cui si sono incontrati.

La scala verde e tutto il resto fanno riferimento proprio a quel giorno, quando vediamo che Sherlock invia un messaggio a Lestrade riguardo a della vernice verde (se non mi sbaglio) per un caso.

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Capitolo 3
*** Due anni dopo - John ***


Devo scusarmi per questo immenso ritardo ma ci sono stati vari problemi, tra cui uno anche familiare da parte di lalla, e proprio non ce l’abbiamo fatta a pubblicare prima.

Vi ringrazio per la smisurata pazienza ;)

Ringrazio anche coloro che seguono questa storia e soprattutto chi la recensisce, è sempre piacevole ricevere qualche commento <3

Un piccolo ringraziamento anche a MelaChan che mi ha aiutato con Lo Hobbit che io non ho letto *fugge*

Buona lettura!

 

Capitolo 2

Due anni dopo - John

 

John era sempre stato una di quelle persone che cerca la vita, che cerca un motivo, un obbiettivo per vivere, per trascinarsi avanti un giorno alla volta, senza rimpiangere il passato, senza mai guardarsi indietro.

In Afghanistan aveva imparato a non ripensare mai alle proprie scelte, a non ritornare mai sui propri passi e riconsiderare una via negata in precedenza. Non pensava mai al se, al cosa sarebbe successo scegliendo una diversa presa di posizione. Nell'esercito viveva alla giornata, non sapendo neanche se si sarebbe risvegliato il giorno dopo, e tutte le settimane perdeva svariati compagni, di cui molti, la maggior parte delle volte, erano sotto il suo comando. Due volte su tre era lui a dover combattere tra la vita e la morte, a dover prendere quelle decisioni che avrebbero salvato il suo paziente o che l'avrebbero irrimediabilmente condannato a miglior vita. E molte di quelle volte gli uomini morivano tra le sue braccia, sotto le sue cure.

Riconsiderare le proprie scelte lo avrebbero portato sicuramente alla pazzia e per questo John cercava, per quanto poteva, di tirare avanti stringendo i denti. Quel è fatto, è fatto.

Eppure, ora che l'Afghanistan era solo un punto sulla cartina appesa in sala, John non faceva altro che tornare indietro con i ricordi, che cercare nelle sue scelte una via di fuga da quella vita grigia, incolore, quella vita così priva di gioie, obbiettivi e motivi per tirare avanti.

Lo aveva avuto quel motivo, un altro viveva proprio sotto il suo stesso tetto, ma per la considerazione che ne riceveva più volte si era chiesto come avesse fatto a resistere per due anni in quello stato, come facesse tutt'ora a vivere (sopravvivere).

Certo, aveva un appartamento, piccolo ma con un tetto sotto cui ripararsi, aveva anche un lavoro che gli permetteva di mantenersi e qualche amico con cui andare a bere una birra ogni tanto, ma non erano poche le volte in cui si perdeva in strani desideri che comprendevano lasciare Hamish dal padre, con il quale pareva così felice, e rifugiarsi in qualche paese sperduto dall'altra parte dell'emisfero per dimenticare tutto e iniziare una nuova vita. Per la terza volta.

Il destino sembrava essersi messo di traverso sulla sua strada (non contro, ovviamente, una bella botta finale sarebbe stata troppo magnanima in confronto all'incespicare, cadere, rialzarsi e inciampare continuamente nella stessa situazione) e a John rimanevano ben poche alternative.

Non aveva mai desiderato la morte: gli sembrava la fine più semplice e senza inventiva che potesse immaginarsi. E John ormai sapeva di amare le situazioni più improbabili e rischiose, situazioni da cui qualcuno sano di mente si sarebbe tenuto ben alla larga, ma dalla quale lui sembrava essere inspiegabilmente attratto.

Prima c'era stato l'Afghanistan, poi era arrivato lui e come se non bastasse John aveva voluto tirarsi il martello sui piedi e avere pure un figlio. Un figlio che nella loro situazione era la cosa più lontana e improbabile che qualsiasi persona al di fuori di loro (lui) avrebbe potuto scegliere di avere.

Ma John aveva una vena masochista nella quale sembravano cadere anche tutti coloro che avevano la sfortuna di stargli intorno, e ora quello stesso figlio viveva una vita a metà tra due case, due genitori separati che non si parlavano più da due anni e che vivevano due vite completamente diverse. Il due era il loro numero preferito, a quanto pareva. Un tempo lo era stato con orgoglio, due fedi da mostrare a tutti coloro che li circondavano anche se proprio non era il momento. Quello stesso orgoglio che ora li faceva trascinare a testa alta ognuno per la sua strada senza nessun limite, qualcosa che li obbligasse a fermarsi.

«John…?»

Apre gli occhi di scatto, accorgendosi solo in quel momento di essersi appisolato con un libro di cui non ricorda nemmeno il titolo tra le mani. Si passa una mano sugli occhi, sbattendoli per tenerli aperti nonostante il sonno che li appesantisce, e focalizza l'immagine di Hamish, suo figlio, in piedi davanti a lui.

«Ti ha accompagnato la signora Linnane

Hamish storce il naso. «Lise.»

Un sospiro. «Sì, Lise…»

«L'acqua per la pasta ormai è per metà evaporata.» mormora, poi gli volta le spalle e si rifugia in camera sua.

John non si stupisce neanche del mancato saluto: i salti al collo con baci ricambiati mille volte per scherzo sono solo un lontano ricordo. Hamish ha solo dieci anni, è ancora un bambino, sia dentro che fuori. Lo vede sempre quando lo porta alle partite di calcio e lo osserva giocare con tanta euforia, lo vede alle feste di compleanno dei suoi compagni di classe e da come gioca e parla, lo vede alla sera quando apre la porta della sua stanza per dargli la buonanotte e lui fa finta di dormire, o dorme già, e lo osserva con tenerezza mentre si stringe su se stesso nel lenzuolo, il viso rilassato e gli occhi chiusi. Hamish è un bambino, ma con lui non lo è più. Si comporta come un uomo bello e fatto, lo guarda sempre storto e dall'alto in basso, forte della sua spietata intelligenza e di quelle tecniche di deduzione che Sherlock gli ha insegnato fin da piccolo. Molte volte John si sente a disagio in sua presenza, lui che invece dovrebbe educarlo e coccolarlo, così come aveva fatto per anni prima di tutto quel casino.

Ci sono giorni in cui Hamish è di cattivo umore: si piazza davanti alla televisione tutto il pomeriggio e si addormenta durante la pubblicità tra un cartone animato e l'altro. John lo sveglia sempre con dolcezza e ignorando le sue proteste lo prende in braccio e lo porta in camera sua: lo aiuta ad indossare il pigiama, a lavarsi i denti e poi gli rimbocca le coperte, depositandogli un bacio in fronte. Hamish sembra sempre evitare quei contatti, sembra sempre cercare tutti i motivi più stupidi o inventarsi scuse di sana pianta per ignorare il padre. Quel padre che si prende cura di lui nonostante tutto, che cerca ancora di aiutarlo a crescere come può (non come vorrebbe).

Certe volte (poche), Hamish si abbandona a lui e si lascia cullare nel sonno, o lo stringe un po' più forte rimane in quella posizione per ore sul divano, rifiutando di muoversi.

È in quei momenti che John si pente dei suoi pensieri nelle giornate storte, che si vergogna della sua fantasia di lasciarlo da Sherlock e andarsene. In quei momenti si chiede che cosa farebbe senza suo figlio, quel bellissimo bambino dai riccioli bruni e gli occhi azzurri che lo ha tenuto in piedi nottate intere con i suoi pianti, che da anni lo fa svegliare venti minuti prima solo per lasciargli libero il bagno appena si sveglia e la colazione pronta appena entra in cucina. È lui che lo ha mantenuto con i piedi per terra nonostante tutto il loro dolore, è lui quel motivo per cui John deve trascinarsi avanti, un giorno dopo l'altro, sempre nella stessa monotona routine.

Durante i weekend, quando non esce con nessuno (la maggior parte delle volte) si lascia cadere sul divano e lascia la televisione su un canale a caso mentre cade preda dei suoi pensieri. Si raggomitola come un bambino, a volte perfino piange in silenzio (troppo poche). Immagina sempre di fare la stessa cosa con Hamish al suo fianco e di farsi raccontare come è andata la giornata, come sono i suoi amici e per quale motivo la maestra gli ha promesso di regalargli la sua edizione scolastica di un libro di fisica per gli ultimi anni di scuola superiore. Quei libri che, almeno questo è quello che immagina, Hamish divora uno dietro l'altro nella sua cameretta. Immagina e, senza volerlo, scivola in ricordi lontani, legati ad una vita che sembra essere distante decadi e vicina di pochi giorni. Si lascia abbracciare da Sherlock, che, annoiato e assonnato, si accoccola vicino a lui in cerca di calore e attenzione (Sono meno interessante di un insulso gioco per pensionati?») e si lascia raggiungere da Hamish che, ridendo, balza loro in grembo. Ci sono loro due che gli fanno il solletico e poi lo fanno sedere in mezzo finché non si addormenta e lo portano nella sua stanza, dalla quale poi lui scende assonnato e si butta nel lettone. Ci sono loro tre, una famiglia perfetta, e niente a poterli dividere.

Quando si sveglia, invece, la realtà è sempre quella. Una televisione ancora accesa e un telecomando a terra mentre dalle finestre entrano le prime forti luci del mattino. E quando tutto svanisce John si tira in piedi a fatica e si mette a fare qualunque cosa, anche pulire per la decima volta in una settimana il mobile dietro al divano, pur di non pensare, di cacciare indietro ogni rancore.

Eppure ogni volta si chiede che cosa Sherlock stia facendo fare ad Hamish, se sono entrambi sani e salvi o se il detective l'ha trascinato in una delle sue scene del crimine e, cazzo, forse dovrei chiamarli per sapere se stanno bene. Non lo fa mai.

Hamish non racconta nulla, John non sa niente, e vanno avanti così.

Quando può (quasi sempre) John chiede di fare il turno anche nel weekend, preferendo rimanere a casa durante la settimana dove, almeno, c'è Hamish di cui prendersi cura.

Quella sera, quando si siedono a tavola, John tenta il solito approccio: chiede com'è andata la giornata e se la squadra è pronta per la prossima partita.

Le risposte sono laconiche, prive di argomento, e cadono nel nulla e nel silenzio, quel silenzio che ormai si è impossessato della sua vita.

Hamish non parla, ma questa è l'unica punizione che gli affligge. Per il resto è sempre educato - e di questo, nonostante tutto, John è orgoglioso: sparecchia, anche per lui, e quando non è il padre ad insistere lava pure i piatti (non hanno una lavastoviglie, per due persone è praticamente inutile).

John tenta sempre di aiutare, di coinvolgerlo in qualcosa, ma è sempre la solita storia: il rifiuto, le scuse, e Buonanotte, John.

Non lo chiama quasi mai “papà”. Una cosa che lo irrita più di ogni altra e che non manca mai di ricordargli nei momenti di buio, quando si arrabbia, quando non sa più cosa fare e urlare un po' contro quel bambino che lo tratta come uno sconosciuto nonostante tutto quello che ha fatto e continua a fare per lui sembra una buona scusa per svuotarsi di quel peso che lo opprime, schiacciandolo a terra.

Hamish rimane sempre con gli occhi bassi per tutta la sfuriata, poi mormora uno "Scusa" e si ritira in camera, tranquillo.

Ci sono momenti come quello in cui John non riesce a far altro che lasciarsi scivolare a terra in ginocchio, prendersi la testa tra le mani e soffocare tra le labbra un urlo di impotenza, rabbia e dolore.

Vorrebbe essere circondato da due braccia esili ma forti, vorrebbe essere riscaldato da quel petto piatto e compatto sulla schiena, vorrebbe le sue labbra vicino all'orecchio a mormorargli che va tutto bene, che è solo tutto un brutto sogno dal quale basta aprire gli occhi per uscire. Ma John spalanca sempre le palpebre e non vede nessuna iride cristallina a fissarlo, non avverte nessun abbraccio se non quello del silenzio assoluto, nessun calore se non quello che sale dal pavimento, l'aria riscaldata dell'appartamento di sotto.

Si chiede perché, a volte, e non trova mai risposta. Si chiede perché Hamish lo tratti in quel modo e una risposta la trova eccome, ma fa di tutto per raggirarla e non pensarci.

Si chiede che cosa gli abbia detto Sherlock in proposito perché lui non ha detto proprio niente e un po' se ne pente.

Forse Hamish ha una visione diversa di come sono andate le cose, forse lo incolpa di colpe non sue (almeno non tutte).

John sa che non ha mai sopportato Mary. Si ricorda i primi litigi, quando le aveva urlato addosso che non avrebbe mai fatto parte della famiglia, che lei non era nessuno per poterlo trattare come il proprio figlio.

«Io non ho una mamma! Io ho DUE PAPÀ.» erano state le ultime parole che Hamish le aveva rivolto, prima che Mary li lasciasse definitivamente. John aveva provato ad incolpare suo figlio per quella seconda rottura, per averli trascinati in un vortice da cui non sarebbero mai più usciti. Ma la verità era che non aveva mai creduto di avere possibilità con lei, che Hamish la volesse o meno. Non l'aveva neanche amata: era semplicemente stata uno scoglio a cui aggrapparsi e da cui ricevere una parvenza di vita in un momento difficile. Se ne era andata come era venuta, un sorriso dolce e rassicurante. «Non è colpa tua, John. E non ha colpa neanche Hamish. So che non prenderò mai il suo posto e non avrò neanche l'arroganza di provarci.»

Avevano condiviso la stessa casa per un mese scarso prima di capire che non sarebbero andati a parare da nessuna parte, ma a John quel mesetto era servito a mettersi in pari con la sua nuova vita, a fare i conti con quanto successo e a tentare di trovare un modo per tirare avanti.

«Buonanotte John.» la sua voce lo risveglia dai propri pensieri e l'uomo sorride al figlio, un sorriso debole, privo di forza.

Hamish indugia un attimo, aspettando, poi se ne va. Solo dopo qualche minuto si rende conto di non avergli risposto. È tentato di seguirlo e rimboccargli le coperte ma il pensiero del suo volto corrucciato che si volta dall'altra parte per non guardarlo lo fa desistere con una stretta al petto.

Rimane a fissare la parete dietro la televisione per una buona mezzora, oppresso da decine di pensieri che si affollano senza un ordine logico nella sua mente, prima di decidersi e trascinarsi nel letto, dove rimane supino a osservare il soffitto fino all'una passata.

Sdraiato con gli arti spalancati a stella non si accorge neanche del tempo che passa, secondo dopo secondo, inghiottendolo. Ascolta il silenzio della notte, il suono del proprio respiro, senza riuscire a chiudere occhio.

Si immagina la dolce melodia di un violino spargersi nell'aria, le note di Brahms risuonare nel salotto, fino ad arrivare deboli nella sua stanza.

Si ricorda le prime notti di Hamish, quando si svegliava piangendo e lui passava le ore a cullarlo e a raccontargli storielle sconnesse per addormentarlo con il suono della propria voce. Ricorda quando, una settimana dopo, Sherlock lo aveva visto stanco, gli occhi cerchiati per le ore di sonno perse e aveva insistito per alzarsi lui, non ricevendo proteste dal compagno. Poco dopo (o forse erano passate un paio d'ore?) il violino aveva cominciato a produrre quelle note conosciute, fino ad arrivare alle sue orecchie, e quasi di colpo gli strilli disperati si erano placati, fino a quando anche John si era lasciato andare a quel suono melodioso, addormentandosi seduta stante.

Quella notte, spinto da quei bellissimi ricordi, sprofonda in un sonno senza sogni.

~*~

«Papà?»

Una voce squillante e un grosso scossone lo riportano alla realtà con un sussulto e John spalanca gli occhi di colpo e balza a sedere, spaventato da quell'improvviso risveglio. Si ritrova Hamish con gli occhi spalancati di fianco al letto, la mano ancora stretta con vigore al suo braccio. Apre e richiude la bocca due volte, calmando il respiro, poi si stacca facendo qualche passo indietro.

«Che cosa è successo?» mugugna John, guardando interrogativo il figlio.

Lui lo guarda di rimando e una lacrima sfugge al suo controllo. «Sei in ritardo.» mormora, e fugge dalla stanza di volata.

John guarda accigliato la sveglia, poi balza in piedi.

Le otto e un quarto. Non è in ritardo, di più.

Si veste in tutta fretta e, rinunciando al bagno e alla colazione, si precipita fuori dalla stanza, intercettando Hamish proprio mentre sta aprendo la porta con le mani tremanti.

John lo nota, come ha notato il suono stridulo della sua voce e la lacrima poco prima, e poggiando una mano sulla porta lo blocca del tutto.

«Hamish?» Cosa succede? è la domanda sottointesa.

Il bambino non lo guarda e John si accorge solo in quel momento del forte tremore che lo scuote da capo a piedi.

Si inginocchia, preoccupato, e lo costringe ad alzare lo sguardo verso di lui con la mano. Uno sguardo velato di lacrime.

«Hamish…» mormora, mentre il bambino si spinge verso di lui e si stringe tra le sue braccia, lasciando cadere a terra lo zaino che teneva in mano fino a poco prima.

John lo abbraccia di rimando, passandogli una mano tra i capelli, stupito. «Che cosa succede?» questa volta lo dice davvero, facendo forza perché Hamish si stacchi e lo guardi in faccia da pari a pari.

«Non ti sei svegliato.» afferma, mostrando una sicurezza e un'arroganza che in quel momento non reggono.

«La sveglia non deve aver suonato.» sorride John, cauto.

Scuote la testa con vigore. «Ha suonato. Pensavo che ti fossi riaddormentato ma quando ha suonato la seconda volta…» singhiozza e tira su col naso.

John corruga la fronte e lo stringe nuovamente nell'abbraccio, nel tentativo di rassicurarlo. Con la stanchezza accumulata negli ultimi giorni e le ore piccole del giorno prima, non si stupisce più di tanto se non l'ha sentita, ma evidentemente Hamish deve essersi spaventato.

«Non- non voglio che voi moriate.»

A quell'affermazione spalanca gli occhi, e, tenendolo stretto a sé, si alza in piedi, lasciando che il bambino si aggrappi a lui, circondandogli la vita con le gambe.

«Si può sapere che cosa è successo?» dice poi, quando si è un po' calmato tra le sue braccia. «Ero stanco e dormivo talmente bene che non ho sentito la sveglia.» ridacchia, cauto. «Perché devi pensare a queste cose? Sono un medico, lo saprò se qualcosa non va. Uhm…?»

Hamish annuisce contro la sua spalla e poi si allontana da lui, stropicciandosi gli occhi. «Sono in ritardo.» borbotta, tirando su col naso.

John lo guarda per qualche istante, poi gli stampa un bacio in fronte. «Sai cosa ti dico?»

Hamish guarda in basso.

«Oggi rimaniamo a casa tutti e due e ci riposiamo, ti va?»

Il bambino lo guarda, incredulo, poi annuisce e John si sente riscaldare il cuore. Lo porta nel piccolo salotto e lo adagia sul divano, coprendolo poi con la sua coperta di lana preferita, mentre afferra il telefono e chiama la scuola e l'ambulatorio per prendersi un giorno di malattia, dopodiché torna in salotto e lo guarda dall'alto in basso, sorridendo dolcemente.

«Che cosa vogliamo fare? Guardiamo un film?»

Hamish si morde un labbro e annuisce. «Ma solo se guardiamo Lo Hobbit

Il sorriso gli si gela sulle labbra mentre suo malgrado annuisce e lo cerca nel cassetto del mobiletto.

«La desolazione di Smaug.» dice poi Hamish dal divano, e John solleva gli occhi al cielo. Ovviamente.

È il film (nonché libro) preferito di Hamish e non sembra far altro che ricordarglielo tutte le volte. Sa che nel ricordarglielo c'è un secondo fine, e John si chiede se non lo faccia apposta.

Fa partire il film e si siede sul divano anche lui, lasciando che il bambino, un po' titubante, gli si rannicchi di fianco con la testa poggiata in grembo. John gli passa una mano tra i riccioli ribelli e sorride lievemente al ricordo di quelle stesse dita tra i capelli di un uomo ben più grosso di Hamish, ma altrettanto fragile e magro, su un divano che non è quello.

John era sempre stato un appassionato dei libri di Tolkien, fin da bambino, e quando era arrivato Hamish aveva fatto di tutto per trasmettergli quella stessa passione, non del tutto approvata da Sherlock per la grande quantità di idiozie raccontate in esso, a quanto diceva lui. Tuttavia il piccolo se ne era innamorato e si era affezionato in particolare al gigantesco drago rosso di nome Smaug. La sera, prima di andare a letto, Hamish li costringeva quasi sempre a leggergli qualche capitolo qua e là del libro, facendogli alternare le voci. A John toccava sempre Bilbo, mentre Sherlock, con la sua voce profonda e penetrante, rivestiva le parti di Smaug. Hamish si divertiva come mai a sfidare il drago e finivano sempre per improvvisare delle parti, nelle quali chissà per quale motivo il bambino finiva sempre per volare via in groppa all'enorme bestia.

John guardava sempre i suoi due preziosi amori stretti l'uno all'altro girare per la stanza, con Sherlock che a momenti si divertiva quasi più del figlio. Era praticamente certo che il detective fosse follemente innamorato di quel suo cucciolo d'uomo e che avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Forse John qualche volta ne era stato anche geloso.

Il film si conclude con la voce di Ed Sheeran e John sbadiglia tra sé e sé, notando solo in quel momento che il piccolo si è addormentato.

Sorride e, dopo un attimo di indecisione, si sistema più comodo stando attento a non svegliarlo e si appisola anche lui.

~*~

Hamish rimane un po' cupo per il resto della settimana, quasi John è tentato di tenerlo a casa con sé un giorno in più, ma poi lui insiste per andare a scuola e si lascia convincere.

Il weekend arriva quasi subito e John nota con meraviglia che il bambino non ha quell'impazienza che lo accompagna sempre il venerdì alla prospettiva di passare due giorni a Baker Street.

Quel pomeriggio, quando John lo va a prendere a calcio per portarlo da Sherlock, Hamish se ne sta accucciato sul sedile con la fronte appoggiata al finestrino, l'espressione triste, tanto che si sente in dovere di chiedergli se vuole rimanere a casa con lui. Il bambino scuote la testa, senza troppa convinzione, e aspetta paziente di arrivare. Quella volta John scende dalla macchina e prima di lasciarlo andare lo stringe in un abbraccio, dandogli un buffetto sulla guancia. «Ci vediamo domenica sera, ok?»

Lui annuisce e John lo guarda fino a quando non sparisce dietro la porta del 221b.

Intravede solo un'ombra scura sulla porta, poi sospira e torna a casa, pronto a passare due interi giorni in completa solitudine.

~*~

Non fa che pensare ad Hamish, in quei giorni, al suo viso abbattuto e preoccupato e alla rivelazione di qualche giorno prima.

«Non voglio che voi moriate.»

Per quale motivo? Cosa intendeva dire? E perché voi?

Per quanto ne sapeva nessuno dei compagni di Hamish era rimasto orfano nell'ultimo anno, e neanche gli articoli di cronaca nera degli ultimi mesi avevano parlato di genitori uccisi nel sonno o cose del genere. Deve capire il perché delle sue preoccupazioni, se lo appunta mentalmente.

Neanche Sherlock aveva risolto un caso simile. Sapeva cosa combinava l'ex marito grazie ai giornali che non riusciva mai a evitare di comprare o di leggere, ed era l'unico modo per avere informazioni su di lui. Hamish non ne parlava mai, ovviamente, e l'ultima volta che lo aveva visto di persona era stato più di due anni prima, alla festa dei suoi cinquant'anni, dove Hamish lo aveva trascinato a forza anche se lo stesso Sherlock non aveva voluto organizzare niente né invitare nessuno, men che meno lui. Avevano passato l'intera serata ad ignorarsi, lì in quello stesso salotto che era stato spettatore della nascita della loro amicizia, del dolore di John, della felicità del ritorno di Sherlock e del loro amore improvviso e irruento. Lì Hamish aveva passato i suoi primi anni, disteso sul tappeto a giocare, Mycroft aveva bevuto il the con una felice signora Hudson al suo fianco che parlava del più e del meno, Harriet aveva fatto la conoscenza dei signori Holmes e Lestrade aveva avuto la sua cotta per Molly.

Ma era anche lì che tutto era finito, così come un giorno era iniziato.

Dio, no…

Il cielo quella sera è nuvoloso, John si aspetta che piova da un momento all'altro.

Si prepara una misera cena a base di pasta, poi va direttamente in camera sua e si siede sul letto, sfogliando un paio di album di fotografie. Li ha trovati per caso mentre sistemava la camera di Hamish e sospetta che il bambino le abbia rubate a Baker Street quando Sherlock ha, quasi sicuramente, pensato bene di buttarle via.

Non hanno mai fatto molte foto, Sherlock non amava molto l'idea. In tutte quelle in cui compare anche lui ha una faccia a metà tra il disgustato e l'annoiato, mentre solo John e, dove è presente, Hamish, sorridono alla fotocamera. Si ritrova a sorridere tra sé e sé quando vede le foto delle feste di Natale, con il piccolo che guarda gioiosamente il padre mentre barcolla con in mano un pacco regalo quasi il doppio di lui.

In una Sherlock sorride, gli occhi che gli brillano mentre tiene per mano un adorante bambino che gli indica il grande albero di Natale al centro di Trafalgar Square.

John si abbandona a quei ricordi lontani e così felici e non si accorge ancora una volta del tempo che passa.

Raggiunge le foto del loro matrimonio quasi con avidità. Guarda se stesso, felice come non mai stringere Sherlock e allungare il collo per baciarlo, le fedi nuove scintillanti alle loro dita. Scivola con gli occhi sui loro abiti lindi ed eleganti, neri, così come la sarta aveva loro consigliato, guarda le loro mani unite durante il breve pranzo che avevano organizzato da Angelo con i parenti più stretti e gli sguardi innamorati che si scambiano.

E si chiede nuovamente perché.

Perché dopo tutto quello, dopo tutto il dolore per la sua perdita e quell'amore infuocato che li aveva scossi entrambi dal torpore dopo il suo ritorno, si fossero ridotti così.

Non sapeva com'era cominciata, non lo sapeva proprio. Ricordava soltanto con certezza le coltellate al petto nel rendersi conto della sua assenza, il dolore arrivato come pugnalate con il suo silenzio e il letto vuoto alla sera prima di addormentarsi. I messaggi senza risposta, le domande ripetitive di Hamish, le litigate e le occhiate indifferenti che quegli occhi cristallini gli avevano rivolto.

E John, ripensandoci, soffre ancora, per la seconda (millesima) volta.

Passa due interi giorni a ricostruire passo dopo passo i giorni poco prima della catastrofe, a ricomporre nella sua testa i primi sorrisi di Mary sul lavoro, le deduzioni sprezzanti in proposito di Sherlock, e quel dolore e quella delusione che non facevano altro che crescere di giorno in giorno.

Finché non arriva, chiaro come il giorno.

«Dove sei stato?»

Sherlock ha appena acceso la luce del salotto, John è seduto nella sua poltrona con una tazza di the in mano e lo sguardo puntato sulla porta. Sono le tre di mattina passate e le occhiaie intorno agli occhi di John sono ancora più pesanti a causa dell'espressione dura e adirata con cui lo guarda entrare in casa.

«Un caso.» risponde sul vago, mentre si toglie con tranquillità estrema il cappotto e lo attacca dietro la porta.

«Un messaggio, Sherlock. Uno!» Si alza in piedi di scatto, gli occhi che mandano scintille, e il moro rimane in piedi di fronte a lui, impassibile.

«Si può sapere cosa ti prende? Si può sapere COSA SUCCEDE?» Neanche un battito di ciglia e ha già alzato la voce, fatto quattro passi in avanti e preso Sherlock per il colletto.

Il detective si libera con uno scatto repentino, mandandolo spalle al muro. Ed è lì, tra gli occhi lucidi e la voce tremante che lo urla.

«La nostra vita fa schifo.»

John si prende la testa tra le mani e fa due respiri profondi, ricacciando indietro le lacrime.

Si rivede mentre rimane senza parole, mentre sente le gambe improvvisamente molli e si accascia contro il muro. Lo rivede sgranare gli occhi alle parole che ha appena pronunciato, lo vede fare alcuni passi indietro, esterrefatto di averle dette ad alta voce. Lo rivede mentre alza uno sguardo inorridito verso di lui e, dopo aver preso il cappotto, scappa giù per le scale mentre John si accascia a terra, senza respiro, gli occhi spalancati sulla stanza buia di fronte a sé.

Ricorda di essere rimasto lì tutta la notte, ricorda Hamish scendere le scale al mattino e trovarlo ancora lì; di averlo portato a scuola come in trance, di essere andato al lavoro ed essersi messo a piangere dopo il secondo paziente della mattinata. Ricorda Mary, la sua espressione preoccupata mentre gli chiedeva cosa era successo, gli offriva un caffè e lo invitava a prendere qualcosa al bar sotto casa sua. I suoi sorrisi dolci, le sue parole rassicuranti, il suo cercare di confortarlo.

Ricorda di aver chiamato Mycroft per chiedergli di occuparsi di Hamish e poi di averla pregata di aiutarlo. Di averla baciata disperatamente, di aver sentito il suo sapore in bocca, di averla spogliata e essersi fatto strada dentro di lei nel suo letto senza smettere di piangere lacrime amare. Le sue carezze mentre lo abbracciava e si faceva raccontare tutto, il proprio sollievo nell'essere compreso e rassicurato.

Il volto di Sherlock che non lo abbandonava per un secondo.

Quando torna non suona, sale le scale con la testa altrove e si blocca sulla porta vedendolo seduto sulla poltrona. Sherlock spalanca gli occhi, fa per alzarsi e dire qualcosa, forse vuole scusarsi, ma poi i suoi occhi si posano su di lui, lo osservano, deducono. La sua figura sembra afflosciarsi improvvisamente, il volto trasfigurarsi, passare da agitato a sorpreso e rabbioso nel giro di pochi secondi.

Lo oltrepassa senza una parola, il volto una maschera di ghiaccio, e John non si volta per guardarlo uscire.

Sente solo la porta sbattere dietro di sé, e poi più nulla.

~*~

La pioggia batte prepotente sulla finestra, uno scroscio continuo, al di là solo buio, oscurità opprimente. Dal salotto sente i rumori provenienti dal bagno e dalla cameretta di Hamish, che si prepara per andare a dormire. Sono appena entrati in casa e John non si è nemmeno tolto la giacca fradicia di pioggia, perso completamente nei propri pensieri. Hamish non ha parlato per tutto il tragitto da Baker Street a casa, quindi non ha avuto particolari intoppi.

In silenzio, ascolta, in piedi in mezzo alla stanza, le mani in tasca e lo sguardo fisso sul vetro.

Poi sente dei passi felpati dietro di lui.

«Papà?»

La voce squilla incerta e John si volta, destandosi dai suoi pensieri. Guarda giù verso il bambino che sta torturando l'orlo della maglietta.

«Cosa succede?» chiede col tono più dolce che riesce a trovare.

Il bambino distoglie gli occhi dai suoi e si guarda i piedi, muovendo le dita nude sul pavimento. «Io…» esita. «Papà, Sherlock sta male.» alza la voce e scandisce bene le parole.

John per poco non si affloscia sulla sedia più vicina al suono di quel nome: è da tanto che non lo sente pronunciare ad alta voce e si è quasi dimenticato del suono che fa quando la lingua si arrotola sul palato. Socchiude gli occhi e lo guarda, vede il disagio che ha regnato sovrano sul suo volto per tutta la settimana scivolare via in un battito di ciglia.

Si chiede se ha imparato a leggere nel pensiero pure lui.

Sospira e guarda fuori dalla finestra, osservando il proprio riflesso contro l'oscurità dell'esterno. «Si sarà preso la solita polmonite dopo essersi buttato nel Tamigi.» esala con un filo di voce. Non è più un mio problema, dice un'altra voce nella sua testa.

«Tu non capisci!» strilla Hamish di colpo, e John sente il cuore stringersi in una morsa dolorosa. Si gira, pronto a fronteggiare un altro dei suoi pianti, ma lo sguardo che vede nei suoi occhi lo distrae: Hamish ha il volto contratto dalla rabbia, gli occhi lucidi, le mani hanno abbandonato la maglietta e sono strette a pugno lungo i fianchi. Una scintilla passa negli occhi, una scintilla di pura paura.

«Non voglio che voi moriate.»

John rimane imbambolato a fissarlo, senza avere le parole per replicare, ma ci pensa Hamish a portare avanti il discorso.

«È dimagrito, ha le occhiaie e gli occhi rossi, cerchiati di nero! È pallido e quando l'ho abbracciato mi è sembrato di sentire le ossa sotto la pelle!» urla, e comincia a piangere e dirotto.

John si muove in avanti. Vuole abbracciarlo, vuole stringerlo e rassicurarlo perché quello che vede non è uno dei suoi soliti piagnistei: Hamish è terrorizzato.

Il bambino fa un passo indietro e continua a parlare tra le lacrime. «Non ha mangiato il take-away né venerdì né sabato, quando sono andato da lui la prima notte mi ha cacciato.» qui tira su col naso, forse ricordando quel momento e chiedendosi per quale motivo l'abbia fatto. «La sera dopo quando sono sceso stava… stava piangendo…» conclude, stropicciandosi gli occhi per scacciare le lacrime e abbassando la testa, come se si sentisse a disagio nel raccontarlo, come se non volesse rivelare quella debolezza che aveva visto nel suo forte e coraggioso papà. «È colpa tua! È solo colpa tua!» urla ancora, poi si gira e scappa per il corridoio verso la sua cameretta.

John lo guarda andare via a bocca aperta. Ignora subito la rivelazione del take-away (più volte si era chiesto cosa mangiassero durante le loro sere, data la totale incapacità di Sherlock nel cucinare) e non si chiede neanche per quale motivo Hamish dorma con lui. Si focalizza subito sulle parole del malanno di Sherlock, chiedendosi che cosa diavolo stia facendo. E il pianto. Sherlock non piangeva mai. Lo aveva fatto una volta sola in sua presenza, quando lo aveva chiamato dal tetto del Bart's per dargli quello che doveva essere il suo ultimo saluto.

«Non voglio che voi moriate.»

Si chiede se si è lasciato all'abbandono, se in assenza di qualcuno che si preoccupi della sua salute abbia smesso di curarsi. Si chiede chi potrebbe aiutarlo e a chi chiederebbe aiuto se non a lui. Sa che se Hamish è così spaventato è perché Sherlock sta veramente male.

Improvvisamente ha paura anche lui.

Si aggira per la seguente mezzora per la casa, pensando a tutto e a niente, poi prende una decisione.

Sale nella cameretta e bussa piano alla porta. Nessuna risposta. Quando mai.

Apre con delicatezza e guarda la figura di suo figlio avvolta tre le lenzuola, stretto in un bozzolo nel buio più totale.

Sa che non sta dormendo.

«Vado a vedere cosa sta succedendo.» mormora, e il bambino si tira su di scatto. Ha gli occhi arrossati dal pianto e lo guarda con sorpresa. «Vengo anch'io!» balza giù dal letto e ha già una mano sulla maniglia dell'armadio quando John lo blocca.

«No, ho… ho bisogno di parlargli da solo. Io e tuo padre dobbiamo parlare.» Sospira, osservando con stanchezza l'espressione completamente persa di Hamish.

«Vai a letto, ne riparliamo domani mattina. Non aspettarmi alzato, potrei fare tardi.» sussurra, poi, dopo un attimo di indecisione, si gira ed esce. Sta per chiudere la porta quando Hamish la blocca con un piede scalzo. Guarda in su verso di lui con gli occhi grandi, carichi di aspettativa. «Digli che gli voglio bene. Un mondo di bene.» dice, la voce tremante.

John lo guarda e qualcosa cade dentro di lui. Lo guarda e vede tutta l'ammirazione che quel bambino prova per quell'uomo singolare, dai modi bruschi e dagli occhi azzurri (grigi e verdi) quell'uomo di cui si è perdutamente innamorato anni prima. Lo guarda e pensa che a lui, quel ti voglio bene, non lo ha più detto.

«Va bene.» è la sua risposta, e sente il suo sguardo penetrante sulla schiena fino a quando non svolta nel salotto.

Afferra la giacca e chiude la porta a chiave, due mandate, poi esce alla ricerca della macchina che non si ricorda dove ha lasciato.

 

Almeno, ha smesso di piovere.

 

 

 

 

*sbuca dalle tenebre*

La verità è che sono due idioti, diciamocelo…

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Capitolo 4
*** La Terza Parte di Noi ***


Spero che possa piacervi, perché è forse il capitolo più importante della storia e uno dei più difficili che abbia mai scritto.
Buona lettura!
Capitolo 3
La Terza Parte di Noi
 
Parcheggia giusto dietro l'angolo della strada e fa l'ultimo pezzo a piedi. Cammina lentamente, senza fretta, pensando a come potrebbe iniziare un discorso, a come potrebbe trattenere rabbia, sconforto, amarezza e… amore. L'amore, quel sentimento inconfutabile che lo ha fatto penare per anni, prima, e altri anni ancora, dopo, proprio quando sembrava andare tutto bene. Gli prudono le mani e il cuore aumenta il suo ritmo al pensiero che lo rivedrà. Non sa nemmeno quando è stata l'ultima volta che lo ha guardato in faccia, che lo ha baciato. Si ricorda perfettamente quelle labbra, così morbide, così aggressive sulla sua pelle quando volevano, e la dolcezza, la curva che assumevano quando sorrideva enigmaticamente o quando pronunciava il suo nome, dando una nota dolce alla "o" che si univa alla "n" attraverso l'"h".
Mary non aveva mai potuto competere con lui.
Si ferma davanti alla porta del 221b e la guarda. Osserva la porta nera e il batacchio, il numero in grandi cifre dorate e la fessura per le lettere. L'ha sempre visto in quei due anni, ogni dannato venerdì pomeriggio, quando accompagna Hamish. Ma non è mai entrato, l'ultima volta è stata al compleanno dei cinquant'anni.
Prende un respiro profondo e suona il campanello.
Niente.
Ci riprova e nessuno risponde. Rimpiange la signora Hudson per qualche secondo, poi tira fuori le chiavi ed entra, storcendo il naso al forte odore di chiuso e di polvere che aleggia nell'ingresso. Passa un dito sul mobile lì vicino e ce ne trova ben tre centimetri. Un'altra cosa da aggiungere alla lista delle cose da dirgli: chiamare un'impresa di pulizie.
Sale le scale, facendo attenzione al gradino scricchiolante, e si ferma davanti alla porta spalancata dell'appartamento.
Deglutisce. «Sherlock?» Muove un passo avanti e bussa sul legno, guardandosi intorno con aria affranta.
Il salotto è in completo disordine. Il tavolino è rovesciato sul pavimento, carte strappate abbandonate ovunque, il computer di Sherlock a terra, lo schermo fracassato.
Sente il sangue ghiacciargli nelle vene e muove altri passi avanti, entrando completamente nella stanza. Si guarda intorno, guardingo, l'adrenalina che comincia a scorrergli in corpo.
«Sherlock?» riprova, «Sono io, John…»
Ancora silenzio.
Per un attimo pensa che sia uscito, poi nota il suo cappotto nero a terra, strappato a metà, e l'ansia lo attanaglia. Non può essere uscito, non lo fa mai senza il cappotto, e per quale motivo quello stesso cappotto a cui teneva tanto è lì per terra come spazzatura?
Comincia dalla cucina, si affaccia appena ma la stanza è silenziosa, altra polvere che si accumula sui mobili. Percorre a grandi passi il corridoio e controlla in bagno, poi abbassa la maniglia (è solo di sfuggita che nota i chiodi saltati intorno alla serratura), ed entra in camera.
Sherlock gli dà le spalle, rannicchiato su se stesso nella vestaglia in posizione fetale. Per un attimo viene pervaso dal sollievo, poi gli viene il dubbio.
E gli occhi cadono su una scatoletta lilla a terra, rovesciata, alcune bustine di plastica con dentro polvere bianca aperte e completamente svuotate sul parquet.
Il cuore perde un colpo e improvvisamente la rabbia sale, mischiata al terrore.
Con un calcio del piede spedisce la scatoletta lontano, non sa nemmeno lui dove, e si avvicina al letto, prendendo l'ex marito per una spalla con vigore e rovesciandolo supino.
Quello che vede gli mozza completamente il respiro.
Sherlock è pallido, il volto incavato sembra urlare dolore da ogni centimetro quadrato di pelle, le occhiaie sono profonde e i capelli completamente spettinati. Ma ciò che lo lascia paralizzato, che gli rompe qualcosa dentro, è quello che Sherlock stringe tra le braccia magre (troppo) punteggiate di segni rossi. Anche quello è strappato ma John riconoscerebbe la trama di quel maglione anche solo da un filo di lana. È rosso, scarlatto prevalentemente, e su di esso sono ricamate due lettere, due semplici lettere circondate da un cuore.
John amava quel maglione, lo amava perché era stato proprio Sherlock a regalarglielo, a dire cosa scrivere alla signora Hudson, che si era presa l’impegno di sferruzzarlo ai ferri. Lo aveva lasciato a Baker Street durante il trasloco, non sopportando più la sua vista.
Perso completamente da quella visione non si accorge di Sherlock che apre gli occhi, intontito, che lo guarda attraverso le palpebre pesanti, socchiudendo e aprendo gli occhi a intervalli, come se credesse di essere ancora in un sogno.
John lo fissa, immobile, e quando due occhi cristallini si spalancano increduli su di lui non capisce più niente.
In un attimo il palmo della sua mano ha toccato la sua guancia, sferzando l'aria in un potente schiaffo che manda l’uomo con la testa girata dall'altra parte. Il corpo è scosso da un sussulto mentre John ansima in piedi al suo fianco, la mano ancora alzata.
Sherlock si gira e nei suoi occhi non c'è più alcuna traccia di sorpresa, solo lampi e scintille di rabbia ferina.
John è pronto a colpirlo un'altra volta, colto da un'improvvisa onda di adrenalina in corpo, ma una mano di Sherlock lo ferma prima che possa anche solo sfiorarlo e gli torce il braccio verso il basso.
John mugola di dolore e cade sul letto, rotolando sul materasso, e in un attimo il moro è sopra di lui, il volto trasfigurato.
Improvvisamente spaventato da quello sguardo, John non si accorge nemmeno della mano che sferza l'aria e lo colpisce alla guancia destra, poi alla sinistra. Prende fiato per un attimo, il volto in fiamme, e si ritrova i suoi occhi a pochi centimetri dal viso. «Come osi…» ringhia, un suono che mai aveva sentito uscire dalle sue labbra.
John non si muove, è completamente paralizzato, un po' dal corpo del moro che lo schiaccia sul materasso, un po' dall'attanagliante dolore (non fisico) che lo stringe all'altezza del petto.
Non trova la forza di reagire e incassa i colpi successivi, pugni mirati allo sterno, alla pancia, allo stomaco. Farfuglia qualcosa e si agita, cerca di afferrare quelle mani che non fanno altro che infliggergli dolore ed è solo allora che nota la vestaglia aperta davanti ai suoi occhi, la completa mancanza di abiti sotto di essa.
Si ribella ma Sherlock riesce a bloccarlo con un ginocchio sul torso e dopo pochi secondi di lotta rimangono a fissarsi negli occhi, ansanti.
«Ti prego…» sussurra John, il fiato che accarezza una sua guancia. Non riesce a far altro che implorarlo, a fare leva su quella parte di Sherlock ancora lì, da qualche parte in quei due profondi pozzi azzurri.
Sherlock ringhia, di nuovo, e con un colpo al volto lo manda per un attimo in panne. Forse perde i sensi, forse semplicemente il dolore è talmente lancinante da fargli perdere la percezione della realtà per qualche istante.
Quando riapre gli occhi intercetta i suoi, pieni di lacrime. Lo vede esitare, tendersi sopra di lui nel tentativo di finire quello che ha iniziato, poi viene scosso da un tremito e gli crolla addosso.
Ansimante, John lo guarda cominciare a singhiozzare sul suo petto, bagnandogli la camicia, e mentre calma il respiro lo osserva gemere di disperazione e dolore.
Sente gli occhi pizzicare ma non se ne cura. Tutto ciò che gli interessa è davanti a lui, ed è distrutto.
Lo tira su con le braccia, passa una mano tra i capelli sporchi e sudati e lo stringe, con forza, lo abbraccia possessivamente.
Chiude gli occhi e rimane lì, a prendere respiro dopo respiro e intanto stringe, stringe perché è l'unica cosa che può fare in quel momento mentre Sherlock non fa altro che tremare.
Poi i respiri si calmano, i singhiozzi e i gemiti si fanno più radi, e alla fine Sherlock si addormenta, silenzioso tra le sue braccia.
John trova il coraggio di muoversi e li rovescia entrambi su un lato, continuando a tenere saldo quel corpo provato tra le braccia, e lo osserva da vicino nel sonno, passando una mano tra i riccioli scuri della fronte e sul suo viso, le guance sporche rigate di lacrime salate. È stato male, ha sofferto, troppo. Ora capisce per quale motivo Hamish era tanto spaventato.
Lui, l'uomo impenetrabile, l'uomo che disdegnava tanto i sentimenti e prendeva sempre in giro John per il suo estremo romanticismo, era stato piegato e distrutto proprio da essi.
Senza accorgersene si ritrova con gli occhi lucidi e un nodo alla gola, mentre osserva quel volto tanto amato riposare profondamente poco sotto di lui. Si chiede da quanto tempo è che non dorme così, se un po' del merito sia suo, se il maglione che lo ha visto stringere sia una prova di quanto abbia odiato il divorzio.
Sospira, prende aria a pieni polmoni ed è quasi tentato di baciarlo nel sonno, ma qualcosa lo trattiene. Copre entrambi con la vestaglia blu e, chinato il capo del moro contro il proprio petto, appoggia il mento sulla sua fronte, e chiude gli occhi.
Solo un minuto, si dice.
 
Quando spalanca le palpebre nota subito la sua assenza. Il letto riporta ancora la sua forma, in qualche modo, la vestaglia lo copre ancora per metà ed è tutta spiegazzata. Non c'è alcuna traccia del suo calore. Chiude per un attimo gli occhi e richiama a sé il ricordo della sera prima, rabbrividendo alla stretta dolorosa che avverte all'altezza del petto. Rilascia il fiato in brevi sospiri, cerca di calmare il cuore che batte a mille.
Se non fosse per il forte dolore là dove è stato colpito con violenza, John potrebbe quasi pensare che sia stato tutto un sogno. Si siede con fatica, stringendo i denti al bruciore che quasi lo dilania, il dolore fisico (nell'anima). Scosta l’mprovvisata coperta con stanchezza e si alza, cercando l'equilibrio.
Si sistema gli abiti addosso, dandosi un aspetto vagamente presentabile, ed è pronto.
Con un respiro profondo cerca di calmare la morsa che gli stringe lo stomaco ed esce dalla stanza, il volto una smorfia innaturale.
Non sa cosa aspettarsi, e, quando infine lo vede, in cucina, avvolto nella vestaglia rossa e seduto a gambe accavallate al suo solito posto, con il viso nascosto dietro al giornale, non riesce a sorprendersi.
«Ti ho preparato il tè.» esordisce lui. Potrebbe essere il gesto di tutti i giorni, quell'accostamento di parole che lo lasciava col sorriso sulle labbra e quell'orgoglio misto ad affetto reciproco, ma il tono è freddo, fermo, non c'è un solo accenno di bontà in esso.
John scaccia il groppo in gola e raddrizza la schiena, si schiarisce la gola.
«Ho lasciato Hamish da solo, si chiederà dove sono finito.»
«Perfetto, buona giornata.» Di nuovo quel tono gelido, distaccato, niente in confronto ai singhiozzi disperati della sera prima. John vorrebbe veramente credere che si sia trattato tutto di un sogno.
Sherlock si alza con uno scatto repentino, afferra la tazza e con un gesto secco la rovescia senza tanti complimenti nel lavandino.
La morsa si stringe, e tutto quello che John riesce a fare è proseguire la sua strada verso la porta e sparire da quella casa il più velocemente possibile.
 
Hamish apre la porta con uno sbadiglio. È a piedi nudi, i pantaloni del pigiama troppo lunghi per lui (Sherlock, quel pigiama è di Sherlock) e la maglietta che potrebbe benissimo fasciare un corpo largo il doppio del suo.
Lo squadra dall'alto in basso con aria assonnata, così, sulla porta, e John si aspetta che lo ricopra di domande sulla salute di Sherlock. Invece lo sorprende, mugugna un "’Giorno" spazientito, strofinandosi gli occhi impastati di sonno, e non dice più una parola fino a quando non esce per andare a scuola, una ventina di minuti più tardi.
~*~
Mette a letto Hamish (o meglio caccia), poi cammina avanti e indietro per la cucina, i pensieri che non lo abbandonano neanche per un secondo dalla mattinata in ambulatorio.
È preoccupato: Sherlock non sta per niente bene e lui non ha fatto niente per chiedergli come stava, per dirgli di farsi una dormita e… la droga.
Si mette le mani nei capelli e prende due respiri profondi per calmarsi; l'agitazione non serve a nulla, lo ha imparato in Afghanistan. Si chiede dove sia Mycroft, quando serve.
Poi si chiede cosa ci faccia ancora in casa quando Sherlock potrebbe lasciarsi morire da un momento all'altro, e, scritto un veloce biglietto di avviso per Hamish, esce veloce, afferrando al volo il cellulare.
Baker Street è silenziosa, come il giorno prima. Non ha neanche provato a suonare, qualcosa gli dice che Sherlock non gli aprirebbe comunque.
Sale a due a due gli scalini ed entra nell'appartamento col fiatone, guardando in salotto e in cucina, sapendo comunque che non è lì.
Si affaccia alla camera, a disagio, e lo vede, seduto sul ciglio del letto che guarda l'armadio di fronte. Gira la testa e lo guarda, lo scruta con occhi cristallini, rossi e cerchiati.
Poi si tira indietro, strisciando sul letto, e spegne la luce.
John si ritrova ad avanzare senza aver dato il comando alle proprie gambe, e un attimo dopo agita le braccia in aria nel buio, finché due mani forti non lo afferrano e lo tirano giù. John cerca la sua bocca, con affanno. Vuole baciare le sue labbra, il suo ossigeno, ma tutto quello che sente è un corpo caldo che si agita sotto di lui e poco dopo li ribalta. John si ritrova per la seconda volta supino, ma non gli interessa. Vuole contatto, vuole lui, e tanto basta.
Rilascia un gemito, come un soffio, quando due labbra gli baciano il collo, avide, e John non riesce a fare altro che inarcarlo, buttare la testa all'indietro e lasciare che Sherlock gli sbottoni la camicia, un bottone alla volta, baciando con devozione ogni punto di pelle che viene scoperta.
Le mani si muovono con maestria, accarezzano, sfiorano, con una dolcezza e attenzione infinita.
Si chiede se quello non sia una sorta di scusa per la sera prima, se quelle mani lo stiamo curando per amore o per rimorso.
Ma non ha bisogno di chiedere, John, semplicemente affonda le dita in quel groviglio di riccioli e Sherlock si abbassa subito su di lui, baciando, toccando e leccando, e davvero John non resiste per più di due minuti. Viene con un gemito più roco degli altri e si rilassa sul materasso, ricercando il fiato.
Allunga le braccia verso il basso quando lo sente muoversi lì sotto e, afferratogli un braccio, lo tira verso di sé, pronto a ricambiare, ma Sherlock si abbandona al suo fianco, arpionandolo al materasso con i lunghi arti inferiori e affondando con la fronte nell'incavo tra il collo e la spalla.
John lo abbraccia stretto e vorrebbe dire le parole che si è scelto con cura per la strada, ma non ci riesce.
Si nutre di quel silenzio rotto dai loro respiri, del buio che li avvolge, e nasconde, che cancella per poco ogni problema, ogni incertezza, che li riconduce a quegli anni passati e tanto agognati, sofferti, sperati.
John nemmeno le ricorda quelle parole quando, spossato, si addormenta al suo fianco.
Così com'è stato, così come dovrebbe essere, così com'è.
 
 
La mattina dopo lui non è lì, di nuovo, e il risveglio è peggio del giorno prima.
Si chiede, ancora una volta, se per caso non stia vivendo in un sogno, se quello che Sherlock sembra diventare con lui in quella stanza la notte non sia solo una proiezione della sua mente sola.
Si veste, usa pure il bagno e pensa che quella mattina accetterà la tazza di the e parlerà con lui, di loro, di quello che sta passando e…
Lui non c'è. Non è in cucina, né in salotto o nella stanza di Hamish. Il cappotto che era a terra due giorni prima non è più lì e John non può fare altro che tornare a casa.
 
 
Hamish non viene nell'ingresso, quella mattina: lo accoglie al tavolo della cucina.
Sta bevendo il latte, una seconda tazza piena di fronte a lui, al posto di John, con tanto di cereali, così come gli piace.
John guarda quel piccolo sforzo, quel gesto che non gli vedeva fare da anni, e vorrebbe dirgli qualcosa, ma le parole non arrivano.
Hamish non fa domande sul padre, non dice niente.
Semplicemente, aspetta.
~*~
La terza sera è automatico.
Hamish si ritira in camera mezzora prima dicendo che deve andare a dormire presto perché il giorno dopo ha un sacco di cose da fare. John ascolta solo per metà.
Aspetta il tempo sufficiente seduto sul divano a fare zapping, senza veramente vedere quello che gli passa davanti agli occhi, poi, quando è sicuro che Hamish non abbia più bisogno di lui, afferra il cappotto ed esce. Si fida di lui: ha solo dieci anni ma è molto più saggio e intelligente di uno qualunque dei suoi compagni di classe. Forse anche più di tutti loro messi assieme.
Quel giorno non ha fretta, quasi si trascina per la strada. Ha la mente completamente annebbiata, non riesce a mettere insieme due parole. Vorrebbe pensare alla salute di Sherlock, ma tutto quello che gli viene in mente sono le due notti passate insieme, il suo pianto della prima sera e le carezze e i baci della seconda.
Sente qualcosa ribollire nel suo cuore, un sentimento sopito ormai da tempo farsi strada dentro di lui e riversarsi con forza e prepotenza in ogni gesto, ogni pensiero, ogni sguardo.
Si blocca davanti alla porta del 221b e rimane a fissarla per due minuti buoni. Non sa che cosa lo aspetta su, non sa neanche se Sherlock è in casa, ma alla fine qualcosa lo spinge ad entrare.
Non pensa a niente mentre sale le scale, non pensa a niente quando varca l'ingresso ed entra nell'appartamento. Sta quasi per svoltare a sinistra verso camera sua (loro) quando con la coda dell'occhio vede una chiazza blu nel salotto. Si gira di scatto, vagamente sorpreso, e osserva la figura allungata sul divano, il volto rivolto all'insù e gli occhi chiusi, le mani giunte sotto al mento come in preghiera.
Qualcosa di dolorosamente familiare si fa strada dentro di lui mentre lo fissa da lontano, rimane immobile e un improvviso imbarazzo lo assale.
Quella non è più casa sua, dopotutto, non ha il diritto di entrare e reclamare alcunché (neanche suo marito, che marito non lo è più).
«Speravo non venissi.»
Le labbra si muovono davanti ai suoi occhi come in un sogno, e si ritrova improvvisamente a serrare i pugni a quelle parole. Non capisce più niente, la sua testa è un ronzio inutile di domande senza risposta, di dubbi e frasi sconnesse. Che cosa vuol dire? Non è lui quello che è caduto tra le sue braccia sconvolto dai singhiozzi, non è lui quello che lo ha trascinato sul letto e lo ha baciato dappertutto.
Sherlock apre gli occhi e abbassa la testa, lo scruta da lontano, il volto impassibile.
Rimangono lì a squadrarsi a vicenda per diversi secondi, come due iene pronte a balzare l'una addosso all'altra nel tentativo di vincere la preda desiderata.
Poi il volto di Sherlock si addolcisce, i lineamenti si rilassano in un'espressione stanca e provata. «Che cosa stiamo facendo, John?»
Il suo nome tra quelle labbra, il suono della sua voce su quel nome. L'ira lo invade di colpo.
Si sente preso in giro, si sente come i primi mesi di silenzio prima del divorzio, un cane abbandonato sulla strada da un padrone indifferente. Almeno fino a quando Sherlock non spalanca le braccia, tendendole verso di lui, e sente il proprio stomaco ribaltarsi.
Esita sul posto, sentimenti contrastanti, poi semplicemente si lascia andare, cancella tutto e cade in avanti.
Si lascia accogliere dalle sue braccia, si lascia stringere mentre affonda nella sua maglietta, lo artiglia con le dita e lo respira, a fondo. Un singhiozzo gli sfugge dalle labbra ma non ci fa caso, tutto quello che gli interessa è il suo corpo magro sotto di lui, il suo odore che non è mai cambiato, il suo Sherlock.
Lo stringe talmente forte che potrebbe fargli male, ma in quel momento è l'ultima cosa che gli interessa mentre si preme contro di lui, cerca di affondare completamente nel suo abbraccio, di diventare una cosa sola, un tutt'uno, e fermare quel dolore che lo dilania.
Mentre il suo corpo è scosso dai tremiti Sherlock gli passa una mano tra i capelli, li pettina tra le sue dita, gli posa un bacio in testa e lo stringe come può. E John potrebbe morire lì, potrebbe rinascere. Potrebbe fare un sacco di cose ma non ha voglia di stare lì a pensarci. L'importante è Sherlock, la cosa più importante della sua vita, che ora è lì e non se lo lascerà scappare un'altra volta.
«Ti amo…» Sherlock lo mormora proprio nel suo orecchio e John spalanca gli occhi. Il mondo cade intorno a lui, rombi e tuoni lo assordano mentre, improvvisamente, realizza.
Si tira su a forza, spinge con i gomiti, annaspa, fino a quando non lo vede in faccia, non lo afferra per il colletto.
«No…»
I suoi occhi color del ghiaccio lo osservano velati di lacrime, lo trapassano da parte a parte.
«No…» ripete, invoca, prega. «Non è vero.»
È un respiro mozzato, un farfugliamento.
Sherlock scuote la testa e tenta di riprenderlo tra le proprie braccia ma John lo scuote via con uno scatto e si porta sempre più vicino a lui, tremante.
Rabbia, dolore, collera. Tristezza, pentimento, realizzazione.
«No, no… tu non… tu non l'hai più detto. Tu non… no…» trema, cerca aria. «Tu non c'eri più!» mezzo urla, mezzo singhiozza. «Non c'eri mai, non dicevi più niente, non sapevo mai dov'eri e se stavi bene, male, ucciso. NIENTE!» Ha la voce roca, un urlo disperato. «Come puoi, come hai potuto!»
«John…»
«No. Hamish. Hamish, come hai potuto? Soffriva, mi chiedeva dov'eri, mi chiedeva perché non c'eri. E io non potevo dirgli niente perché NON lo sapevo.»
«Mi dispiace.» Una lacrima gli riga il volto, respira a fatica.
«Ti ho- ti ho chiesto il perché. Ti ho chiesto spiegazioni…»
Sherlock scuote la testa, non vuole sentire nient'altro.
«Mi hai detto, mi hai urlato, che la nostra vita faceva schifo…» Ora piange apertamente anche lui, sente le lacrime bagnargli il volto.
«Lo so. Mi dispiace…» singhiozza, e John si stringe di nuovo a lui, strofina una guancia contro la sua spalla. «Fottuto bastardo.»
Lo sente deglutire e stringere un po' di più, poi parla, tra le lacrime. «Io non… non ce la facevo più.» Immerge il volto tra i suoi capelli biondo cenere. «C'era Hamish, e tu dovevi prendertene cura.»
«Eri geloso di Hamish?» John lo guarda, incredulo, una stretta al petto.
Sherlock scuote la testa. Quando parla, il labbro gli trema. «Io- io amo Hamish. Non potrei… non potrei mai. Lui è… è perfetto.» lo dice con affetto, gli occhi che luccicano di una luce sincera. «Ma non mi seguivi più come una volta. E Hamish era così felice quando lo accompagnavi a scuola, alle partite di calcio. Io non- non l'ho mai fatto. Non… avevo voglia.»
«Sherlock…» lo sussurra tra le labbra, improvvisamente comincia a comprendere.
Il moro scuote di nuovo la testa, le lacrime che gli bagnano il volto, senza controllo. «Non sono mai stato un buon padre.»
È il turno di John di scuotere la testa, con forza. «Hamish ti vuole bene. Ti vuole un mondo di bene.» dice, ripetendo ciò che gli è stato riferito due giorni prima. «Tu non hai idea… non me lo ha mai detto. Mai più.» Un singhiozzo. «Lui era felice con te, sempre. Tornava a casa sorridendo e quando mi vedeva… non c'era più. Era… È, sempre arrabbiato.»
«Non è solo questo!» Sherlock lo guarda con gli occhi spalancati, disperato. Vuole che John capisca, vuole buttare fuori quelle parole che lo opprimono ormai da fin troppo tempo. «Io… io non volevo tutto quello. C'erano giorni in cui volevo sparire, volevo scappare e andarmene. Era tutto… era tutto così, troppo.» L'ultima parola è solo un filo di voce mentre John gli prende il volto tra le mani e preme la fronte contro la sua.
«Perché.» esala in un respiro, gli occhi stretti con forza. «Perché…»
Sente Sherlock fremere sotto le sue dita. «Non… non ce la facevo più. Era come se fossi chiuso in una bolla a cui qualcuno toglieva mano a mano l'aria, come se… soffocassi.»
John riapre gli occhi e li stropiccia per togliere le lacrime e poterlo guardare bene. «Perché non me ne hai mai parlato.»
Sherlock lo osserva come da molto lontano, gli occhi velati di rabbia verso se stesso e dolore, nient'altro che dolore. «Non ce l'ho fatta.»
E John legge in quelle parole tutta la vergogna e la paura per i suoi pensieri, così diversi, così pieni di egoismo. Legge tutte le sue preoccupazioni, il terrore di non essere compreso e il tentativo di andare avanti anche se non resisteva più.
John lo capisce, lo comprende come ha sempre fatto e lo abbraccia, affonda col viso nell'incavo del collo. «Avrei dovuto accorgermene. Avrei dovuto insistere.» mormora, e sente Sherlock abbandonarsi nel suo abbraccio.
«È colpa mia. È solo colpa mia.» ammette il moro con voce roca, e poi non dice più niente per un bel po', lasciandosi andare senza remore, piangendo tutto quello che si è tenuto dentro per anni, soffrendo.
John lo bacia sul collo, preme le sue labbra contro la pelle nel tentativo di rassicurarlo.
«Mary era… era sempre premurosa. E io ero, ero solo.» inizia John, e Sherlock vorrebbe che si zittisse subito, che la smettesse di attribuirsi colpe che non sono sue.
«Lei mi ha visto distrutto e mi ha invitato a prendere qualcosa. E mi ha ascoltato, e io avevo bisogno- avevo…» si nasconde contro di lui e si blocca, incapace di pronunciare quelle parole.
«John…»
«No… lasciami… voglio- voglio spiegare.» Prende un respiro profondo e lo guarda negli occhi. «Mary era così dolce… e io ero distrutto. Avevo bisogno di te. Ma c'era lei e… Non ho fatto altro che pensare a te. Anche mentre facevamo sesso pensavo a te. Immaginavo che fossi tu.» Una nuova ondata di lacrime lo assale e John si ritrova ad abbracciarlo con tutta la forza che può, stringendolo per sentire il suo corpo sotto il suo, come accertandosi che sia veramente lì. «Non volevo tradirti. Non volevo…»
Ed è lì che Sherlock lo stacca a forza, gli prende il volto tra le mani e lo bacia, con foga, ricerca quelle labbra a cui non ha mai smesso di pensare.
È il loro primo bacio dopo anni e John ricambia subito con altrettanto ardore, ricerca la sua lingua e si riempie del suo sapore, in una danza precisa, coordinata, in un ballo di cui nessuno dei due ha mai dimenticato i passi.
«Ti amo.» Sherlock lo ripete ansimando quando si staccano, lo ripete quando John comincia a divorare di baci ogni punto che riesce a raggiungere di lui.
Si spogliano con lentezza, senza fretta, si tolgono indumenti uno ad uno mantenendo l'equilibrio sullo stretto divano. E finalmente, dopo anni, si ritrovano, rifanno l'amore come una volta, si muovono nella loro danza a tratti scoordinata, quella che gli faceva scappare piccole scosse di risa. Si muovono entrambi, formano un unico disegno, elaborato in ogni sua piccola parte, fino a quando non si ritrovano l'uno tra le mani dell'altro, travolti dalla potenza del loro legame, e infine, spossati, rimangono l'uno contro l'altro, stretti, un'unica entità, un groviglio inestricabile di braccia e gambe.
«Hamish voleva che tu lo sapessi.» mormora John contro il suo petto, accarezzando la pelle con un dito, disegnando cerchi e intrecci invisibili.
«Lui sapeva, lo ha sempre saputo. Lui sapeva e ha sempre tentato di darmi quello che non ricevevo più da te…» La sua voce è un tuono contro la cassa toracica e John chiude gli occhi, beato.
«Voglio che torniamo… torniamo ad essere noi due. Contro il resto del mondo.» Sherlock lo dice in un sussurro, accarezzando con devozione il suo volto, e John lo guarda con gli occhi che brillano. «E con Hamish. La… La terza parte di noi.» aggiunge poi, sorridendo debolmente. John si tira su a forza e raggiunge il suo volto, allungando il collo.
«E poi sono io quello romantico dalle frasi poetiche.» dice, rispondendo al sorriso. Si avvicina, sfiora la punta del suo naso con le labbra. «Ti amo anch'io, fottuto bastardo.» sussurra.
E sigilla quelle parole con l'ennesimo bacio, prima di addormentarsi stretto a lui.
 
Quando si sveglia Sherlock lo sta osservando dal basso, la felicità espressa negli occhi lucidi e brillanti, nelle piccole rughe che gli increspano la fronte, nell'espressione rilassata del suo volto.
John lo guarda con gli occhi socchiusi e sorride anche lui, gli passa una mano tra i capelli e gli stampa un bacio in fronte.
«Torna a casa, John.» dice, e non è una domanda.
John annuisce e si lascia andare un paio di lacrime mentre inverte le loro posizioni e ricomincia a baciarlo dall'alto, facendo sfuggire dalle labbra del suo uomo due brevi risate.
«Devo visitarti. Devi curarti. Sei dimagrito troppo…» mormora alla fine John, quando si sono calmati nuovamente. «Devi mangiare e dormire regolarmente, ma soprattutto lasciarti coccolare tutte le volte che ne ho voglia. E se sarà troppo, se la tua mente iperattiva non potrà sopportare la monotona vita quotidiana, ti troverai uno di quei casi complicati e io ti accompagnerò. Chiaro? Hamish è abbastanza grande per stare qualche ora da solo.»
Sherlock annuisce. «Ma solo se a cucinare sarai tu, solo se ti addormenterai al mio fianco, solo se tornerai ad essere il mio conduttore di luce.» mormora e ai “Sì” ridacchiati e ripetuti di John si apre anche lui in un sorriso.
«Lo sono sempre stato.» ribatte John, ed è la verità.
 
Quella mattina, quando John torna a casa, incrocia Hamish nell'ingresso. È pronto per uscire, lo zaino in spalla, il pranzo in una mano e l'ombrello nell'altra.
Si accorge solo in quel momento di avere la giacca umida di pioggia e la guarda. Ha la testa completamente libera da ogni pensiero, sulle labbra gli alleggia un vago sorriso e se ne rende a malapena conto.
Il bambino, invece, lo scruta attentamente per qualche secondo con gli occhi socchiusi, poi lo guarda dritto negli occhi.
E, sorprendentemente, sorride.

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Capitolo 5
*** Due mesi dopo - Hamish ***


Capitolo 4

Due mesi dopo - Hamish

 

 

C'è una leggera brezza quella sera, appena un soffio di vento che solleva di tanto in tanto la pesante tenda di seta che copre per metà l'ampia finestra spalancata. Fuori il cielo è limpido, non una nuvola lo oscura, e dopo una settimana di poggia ininterrotta finalmente la luna piena fa capolino nel cielo stellato, lassù, irraggiungibile.

Hamish respira a pieni polmoni quell'aria buona, frizzante, che sa tanto di casa, e, poggiato con i gomiti sul davanzale, guarda i tetti di Londra nell'oscurità della notte. Ogni tanto alza lo sguardo al cielo e sorride, riconoscendo tra quei lontani puntini bianchi le poche costellazioni visibili nonostante le luci della città, quelle che John gli ha insegnato a disegnare, unendo i punti numerati proprio come nei giornalini di giochi per bambini che comprava da piccolo.

Ha sempre amato le stelle, quello spazio lontano che solo pochi fortunati hanno avuto l'opportunità di vedere. John era rimasto particolarmente divertito da questa sua passione, tanto che aveva comprato apposta per lui delle stelline fosforescenti da attaccare sul soffitto, così che la sua stanza potesse ricreare almeno un po' il paesaggio spaziale. Ogni tanto Hamish, prima di andare a letto, si sdraia a pancia in su e le guarda, immaginando di essere un astronauta e di vedere la terra da lontano, con gli oceani blu, le foreste verdi e i deserti, le montagne marroni, con le due chiazze di purissimo bianco ai poli. Principalmente è a causa di questa fantasia che si è fatto regalare un bel mappamondo con il piedistallo, di quelli che girano con una leggera spinta delle mani. Hamish ha passato le ore ad osservarlo, ha esplorato interi continenti con la punta delle dita e ricreato l'orbita della luna e del sole, giocando con una torcia per simulare il passaggio dal giorno alla notte. Ha un intero scaffale di libri sulle stelle, sullo spazio e i pianeti, e anche qualcosa di astrofisica, quella branca della scienza che si occupa di un sacco di cose interessanti che Hamish vorrebbe imparare dalla prima all'ultima, ma che ancora, nonostante tutti i suoi sforzi, fa fatica a comprendere. John gli ha detto che è ancora un bambino ed è normale che alcune cose non le capisca appieno, e Hamish vorrebbe tanto crescere in fretta per poter apprendere tutto quello che ancora non può.

Odia non sapere, non riuscire a comprendere, ed odia gli adulti che non lo aiutano affatto nelle sue ricerche o non rispondono alle sue domande. Lo zio Mycroft è uno dei pochi che lo tratta quasi come un adulto e che risponde quasi sempre quando gli chiede qualcosa. Ma da quando John e Sherlock si sono separati Hamish non lo ha più visto spesso come una volta e le sue domande sono rimaste lì, a ronzargli in testa, la sua curiosità che non può essere soddisfatta in altro modo.

Hamish respira a fondo, poi trattiene il fiato e ascolta. Il silenzio.

In quei due anni c'è stato tanto silenzio nella sua vita, ma, per la prima volta dopo tanto tempo, non lo teme. Quello è un silenzio diverso dal solito, è tranquillo, di pace, un silenzio che, scommette, è quasi uguale a quello dello spazio, del vuoto assoluto.

Rabbrividisce all'aria fresca di inizio primavera e senza far rumore richiude la finestra, lasciando fuori il suo bellissimo cielo, e con passi leggeri si infila sotto le coperte e si stringe in un bozzolo, al calduccio.

Chiude gli occhi e rimane lì, ad ascoltare, a bearsi di quella bella serata, pensando agli ultimi due mesi e sorridendo, rassicurato dalla dolce atmosfera di casa che lo avvolge completamente, proteggendolo.

Dopo due anni passati in solitudine e tristezza, finalmente Hamish si sente completo, al sicuro e felice. Molto felice.

Perché è al 221b, e John e Sherlock sono lì con lui, i suoi due bravissimi papà.

Entra in casa, trepidante. Per tutto il giorno non ha fatto altro che pensare al sorriso e all'aria stranita di John quando è tornato a casa, quella mattina, all'aria persa con cui lo ha guardato prima che uscisse e si chiudesse la porta alle spalle. Sa che quelle tre notti fuori di casa le ha passate al 221b, sa che i suoi due papà hanno fatto quella cosa che fanno tutti gli adulti nella loro grande stanza, quella cosa che lui ancora non può capire cos'è. Lo ha dedotto, così come Sherlock gli ha insegnato, cercando nella sua testa, scavando tra i ricordi: come quella volta che era sceso perché non riusciva a dormire e li aveva sentiti ridere e fare alcuni versi strani; come quella in cui era entrato in cucina poco prima di andare a letto e li aveva visti baciarsi, e John lo aveva portato subito nella sua stanza e gli aveva dato il bacio della buona notte per tornare a "fare le coccole a papà"; come tutte quelle mattine in cui andava in bagno e trovava la porta che si apre sulla stanza dei suoi genitori chiusa a chiave; come tutte le volte che John entrava in cucina in vestaglia. Quelle mattine John aveva la stessa espressione, gli stessi capelli lievemente disordinati e lo stesso odore che corrispondono ai suoi ricordi.

Lo trova in cucina mentre butta dentro ad un borsone, alla rinfusa, tutto quello che trova di utile negli armadietti. Alza gli occhi e lo guarda, prima di aprirsi in un sorriso. «Prendi le tue cose. Torniamo a casa.»

Fa appena in tempo a concludere la frase che Hamish gli è saltato al collo e lo sta abbracciando stretto, affondando con il viso nel maglione color ocra. Prima di rendersene conto, sta piangendo. Lacrime di gioia.

John gli passa una mano tra i capelli, poi si inginocchia e lo guarda negli occhi, sorridendo in risposta al debole stiracchiamento di labbra di Hamish.

«Avete fatto la pace?» mormora il bambino tra le lacrime che gli rigano il volto, e quando John annuisce, sorridendogli dolcemente, torna ad abbracciarlo stretto. «Non voglio più stare qui.»

Si rigira nel letto e ripensa alla corsa che ha fatto in camera subito dopo, ai vestiti che ha buttato alla rinfusa nel grande borsone per fare più in fretta e alla sua impazienza durante il tragitto in macchina.

 

Quando entra nell'appartamento Sherlock è in piedi in mezzo al salotto che gli sorride stancamente. Hamish lascia cadere a terra il suo carico e corre tra le sue braccia, così come ha fatto prima con John, mentre quest'ultimo rimane sulla porta a guardarli. Il biondo sorride di riflesso, un tiepido calore gli inonda il petto a quella vista.

Hamish si stacca e fissa Sherlock, colmo di gioia, e, dopo aver gettato un'occhiata titubante verso John, si morde un labbro. «Stai bene, papà?» chiede, preoccupato.

Sherlock sorride debolmente e gli passa una mano tra i capelli. «Sto molto meglio, ora.»

«E starà ancora meglio d'ora in poi.» si intromette John, camminando verso di loro a passo sicuro. Passa una mano tra i capelli di suo figlio e trae a sé Sherlock con un braccio, stringendolo per la vita. Gli da un bacio in fronte, poi guarda in giù. «Domani facciamo un salto dal dottore, nel frattempo ho io la cura giusta.» Scompiglia i riccioli neri con la mano e ridacchia. «Tante, tantissime, coccole. Ok?»

Hamish ride e li stringe entrambi tra le braccia, affondando tra di loro, mentre Sherlock arrossisce lievemente e si china, appoggiando la testa sulla spalla del suo compagno.

«Siamo di nuovo una famiglia?» chiede poi Hamish, ingenuamente, guardando Sherlock dal basso della sua altezza. Il moro si adombra per un secondo e guarda John, incerto, e l’altro sotto quello sguardo passa dal felice all'addolorato nel giro di un millesimo di secondo.

Senza esitazione lascia andare Hamish per un attimo e gli incornicia il volto con le mani, tirandolo a sé in un profondo bacio per una ventina di secondi, stringendolo tra le braccia e assaporandolo, lentamente, dolcemente.

Per la prima volta Hamish non distoglie lo sguardo come ha sempre fatto in passato: questa volta guarda con gli occhi lucidi, vedendo in quel gesto tutto l'amore che c'è tra i suoi due papà e pensando che è stato proprio uno stupido per pensare che il baciare facesse un po' schifo. Ancora non capisce cosa ci sia di tanto bello nello scambiarsi saliva in quel modo, ma vedendo i suoi genitori in quel momento pensa che sia una delle cose più belle del mondo, e che se loro lo fanno, è perché si amano. Tanto.

John si stacca e guarda Sherlock, serio in volto. «Siamo una famiglia?» chiede nuovamente.

Una singola lacrima gli riga il volto mentre si apre in un sorriso sincero, per la prima volta senza incertezze. Annuisce. «Sì, lo siamo. Siamo una famiglia.»

Hamish ricorda l'abbraccio subito dopo, lo ricorda perché è così vivido nella sua mente, così bello e tangibile che sarebbe impossibile dimenticarlo. Il modo in cui lo hanno sollevato e tutti insieme si sono spostati sul divano, il modo in cui John e Sherlock lo coccolavano a turno e si guardavano: i sorrisi e le lacrime di commozione, i baci e le carezze continue.

Hamish ha passato uno dei pomeriggi più belli degli ultimi due anni quel giorno, e ancora adesso un grande calore si propaga al centro del suo petto quando ci pensa.

Ne sono passati molti altri di pomeriggi così.

Un giorno Sherlock ha fatto pure pace con lo zio Mycroft. Hamish sa che un anno prima hanno litigato, lo sa perché lo ha dedotto da come suo padre lo guardava quando pronunciava il suo nome. Non sa per quale motivo, ma sa che Sherlock deve avergli detto qualcosa di molto brutto e che quel qualcosa deve essere stata la goccia a far straripare il vaso.

John lo ha chiamato, cercando il suo aiuto per guarire Sherlock, e Mycroft non ha acconsentito fino a quando non gli ha parlato di lui, portando il fratello da uno dei migliori medici di Londra. Hamish ha spiato dal buco della serratura quando il minore degli Holmes ha chiesto di parlare col fratello, e John ha sorriso e fatto finta di niente nonostante gli avesse detto più volte che fosse maleducazione. Da lì ha visto Sherlock dire un paio di parole veloci, a voce talmente bassa che lui non le ha potute sentire, per poi avvicinarsi al fratello e stringerlo velocemente in un goffo abbraccio. Ha visto la faccia sorpresa di Mycroft, il rossore improvviso che gli imporporava le guance mentre rimaneva rigido sul posto e l’altro si staccava distogliendo in fretta lo sguardo, cercando di nascondere l’imbarazzo per quel gesto così inusuale tra loro.

«Grazie per tutto.» aveva detto Sherlock, puntando gli occhi sulla parete di fronte pur di non guardarlo in faccia.

«Nessuno avrebbe potuto farlo meglio.» Un sorriso sghembo sulle labbra.

«John avrebbe fatto sicuramente meglio se non fosse stato coinvolto.» aveva ribattuto l'altro, imitando il sorrisetto del fratello.

Hamish si era tirato indietro e aveva sorriso a John, annuendo piano al suo sguardo interrogativo. Erano entrambi scoppiati a ridere non appena i due erano usciti e neanche le minacce del governo inglese avevano potuto fargli confessare il misfatto.

Successivamente si erano trovati tutti insieme con Mycroft e Greg e avevano fatto un pic-nic a Green Park, nonostante il continuo lamentarsi del maggiore degli Holmes riguardo ad un certo accordo di importanza nazionale. Una volta Sherlock era venuto a vedere la sua partita di calcio contro una delle squadre più forti che avevano mai incontrato, e Hamish, rincuorato dal suo tifo, era riuscito a segnare in porta tra gli applausi dei suoi compagni; poi c'era stato l'ennesimo pomeriggio passato a guardare Il Signore degli Anelli, tra le risa per i commenti infastiditi di Sherlock sulla stupidità di alcuni personaggi, e anche un take-away giapponese una (nonostante John avesse degradato quel cibo alle poche serate in cui andava festeggiato qualcosa), o la cena che avevano avuto completamente gratis in un ristorante italiano quando John aveva voluto festeggiare un po' diversamente quello che sarebbe dovuto essere il loro dodicesimo anniversario di matrimonio, ma che dopo i due anni separati si era riscoperto essere il decimo.

Le fedi erano magicamente ricomparse alle dita dei suoi genitori un paio di settimane dopo la riunione, e Hamish aveva quasi il sospetto che Mycroft ci avesse messo la mano.

Quello che gli importava tuttavia era ben altro: gli anelli erano solo un piccolo segno della rivoluzione di quei giorni.

Sherlock aveva recuperato peso in pochissimo tempo, rassicurato dal nuovo clima di Baker Street, ed era tornato ad essere il solito detective orgoglioso ed arrogante (ma neanche troppo) di sempre.

Se prima John passava quasi tutto il suo tempo libero in casa a prendersi cura di lui, ora, quando tornava, Hamish lo trovava raramente lì. I suoi genitori tornavano sempre a casa insieme, a volte ridendo, a volte trafelati per chissà quale corsa o con qualche graffio sul volto, e il bambino li accoglieva con il broncio, la borsa del pronto soccorso sempre in mano.

Un giorno era riuscito a convincerli ed era andato con loro sulla scena di un crimine. Non si era mai divertito così tanto nella sua vita.

Inoltre quando John aveva detto che le coccole sarebbero state la prima medicina alla quale sarebbe ricorso non scherzava: non c'era un giorno in cui Hamish scendeva sbadigliando la mattina e li trovava entrambi in vestaglia (solitamente John con quella blu), o che non si ritrovasse sul divano sommerso dalle dita che gli facevano il solletico, strappandogli scosse di risa fino alle lacrime. Lui stesso contribuiva, abbracciandoli entrambi quanto più poteva ogni volta che gli veniva voglia, anche quando Sherlock era concentrato su un caso e lui gli saltava addosso da dietro: il moro non se la prendeva mai, anzi. Lo trascinava al suo fianco e gli raccontava quello che aveva scoperto, talvolta saltando in piedi e dicendo ad alta voce che era un genio, benché il bambino si fosse semplicemente limitato ad osservarlo ammirato.

Hamish ama la sua vita ora, la ama perché è completa, perché non manca niente all'appello. E in quel momento, stringendosi tra le sue coperte, si sente un po' solo.

Dopo essersi girato un paio di volte senza riuscire a prendere sonno, si alza definitivamente, rinunciando a cercare le ciabatte nel buio della camera.

Scende le scale, facendo attenzione ai gradini scricchiolanti, passa per la cucina e si infila nel corridoio. Con cautela afferra la maniglia della stanza dei suoi genitori e la tira giù, facendo attenzione a non fare rumore, e sospira di sollievo quando essa si apre sotto al suo tocco. Forse hanno rimandato le coccole al mattino.

Entra titubante, fermandosi per un attimo sulla porta.

Dormono entrambi: Sherlock è avvolto nelle lenzuola, stretto al petto di John, che lo circonda in un abbraccio, riposando con il mento appoggiato sul suo capo. Le mani sono intrecciate, le fedi che brillano sotto la fioca luce della luna, fuori dalla finestra aperta.

I loro respiri si alternano, tranquilli, rompendo il silenzio piatto della notte.

Hamish rimane per un attimo a contemplare quella scena, sorridendo inconsapevolmente, poi si avvicina al letto con passi felpati e allunga una mano verso John, scuotendolo gentilmente. Apre gli occhi qualche secondo dopo, mugugnando, e lo guarda tra le palpebre socchiuse, cercandolo nell'oscurità.

«Hamish?» chiede in un sussurro e il bambino si stropiccia gli occhi con una mano, facendo una smorfia triste.

«Non riesco a dormire…» mormora in risposta.

Sente un movimento al di là di John e poco dopo la voce baritonale di Sherlock si fa sentire. «È inutile che parlate a bassa voce, mi avete già svegliato

John ride e Hamish lo segue. Poi, rincuorato, si arrampica sul letto e si inserisce tra i due che, per niente sorpresi, lo accolgono tra le loro braccia, stringendosi intorno a lui come due cucchiai. Hamish si accoccola contento, chiudendo gli occhi.

«Come mai non riuscivi a dormire?» chiede John poco dopo, accarezzandogli amorevolmente la testa con una mano.

Hamish esita un attimo, poi sospira. «Mi sentivo solo…»

Sente Sherlock fremere al suo fianco e una mano poggiarsi sulla sua testa insieme a quella già presente. «Non sei solo Hamish. Non più, mai più.» mormora, la voce che si spegne in un sorriso.

«Non sei un po' troppo grande per venire nel lettone, Hamish William Watson-Holmes?» ridacchia John poco dopo, solleticandogli la pancia con un dito.

Hamish ride e quando si calma esala in un sussurro. «Devo recuperare due anni.»

Le parole si perdono nel silenzio, poi dopo una decina di secondi John allunga una mano sopra di lui, andando a cercare quella di Sherlock, che al fruscio iniziale ha già capito. Si incontrano a metà strada e si stringono, intrecciano le dita, per poi adagiarsi sul corpicino del loro bambino.

John gli lascia un bacio tra i capelli, Sherlock strofina la mano libera sulla sua guancia in una carezza.

Tutti e tre, inconsapevolmente, sorridono.

Fuori un soffio di vento alza da terra una foglia, la solleva e la fa volteggiare nell'aria, sopra la strada, sul marciapiede, e poi giù, fino ai gradini del portone del 221b, illuminato dai riflessi perlacei della luna.

È un edificio vecchio, ormai ha i suoi anni. Alla luce del giorno è possibile intravedere le sottili crepe che lo attraversano, che ne rovinano l'immagine. Se si guarda ancora più attentamente, si scorgono varie linee, come vecchie cicatrici, riempite con cemento fresco e ridipinte con cura.

È un edificio vecchio, ma non lo dimostra. Si è sgretolato, lentamente, è stato rimodellato, aggiustato.

Ne ha vista passare di gente per Baker Street, ne ha ospitata altrettanta, eppure è ancora lì, in piedi contro la furia del mondo che gli gira intorno.

È un edificio vecchio, ma è forte sulle sue fondamenta.

Non hanno mai ceduto.

~*~

 

 

Epilogo

 

«Papà?»

«Sì, Hamish?»

«Vi voglio bene. Un mondo di bene.»

John sorride rincuorato, stringe un po' di più la mano di suo marito nella sua. Sherlock lo guarda, gli occhi che brillano nel buio.

 

«Anche noi.»

 

 

Fine.

 

 

 

È andata a finire bene, quindi... ve lo aspettavate? <3

Vi svelerò un segreto. Almeno qui, in questo mondo in cui posso decidere io stessa della sorte dei miei personaggi, troverete raramente una mia storia finire male, specialmente se angst (a meno che questo non sia l'obbiettivo, in tal caso credo proprio di sì). Non sempre nella vita reale finisce tutto bene, ma è bello per lo meno sperare che possa farlo, in un modo o nell'altro.

E siamo a quota tre long concluse. Ragazzi, mi sento forte! xD

Grazie a tutti coloro che hanno preferito/seguito/ricordato e un grande abbraccio a coloro che hanno recensito. Grazie per aver speso qualche minuto del vostro tempo per lasciarmi un piccolo commento! (E che commenti, li ho adorati tutti dal primo all’ultimo!) *^*

Ringrazio anche la mia solita beta lalla_4, senza la quale oramai non mi sento più sicura a pubblicare^^

E con questo vi saluto, sperando che vorrete passare con me anche qualche prossima pazzia!

Au revoir <3

Gageta.

 

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