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La
luce di un mattino tutto nuovo illuminò il volto di Erwin,
rilassato e addormentato, il corpo nudo coperto da lenzuola sottili.
Levi aveva aperto gli occhi da molto prima che il sole sorgesse, e
aveva potuto godere di tutte le sfumature che la neonata luce aveva
dipinto sui lineamenti del compagno.
Non
dormiva molto. Non lo aveva mai fatto, ma da qualche anno a quella
parte era diventato ancora più difficile convivere con quei
dannati incubi, con le immagini che affollavano la sua mente non
appena rimaneva solo con se stesso.
“Hai
già fatto abbastanza”, aveva detto ad Erwin, ma
quell'espressione non rendeva esattamente l'idea di quanta
gratitudine Levi provasse per lui – non esistevano termini per
esprimerla, e se fossero esistiti lui non sarebbe comunque stato
capace di pronunciarli. Si alzò appena, sentendo i muscoli
scrocchiare a causa della rigidità della notte e scostando le
lenzuola per scendere dal letto. Eseguì paio di esercizi per
riscaldare il corpo, mentre si muoveva per la stanza con passo
leggero, raccattando tutti i vestiti che Erwin aveva lasciato cadere
sul pavimento alla rinfusa la sera prima – pessima abitudine,
secondo lui. Di cattivo esempio per i ragazzi.
Mentre
chiudeva meglio le tende per far sì che il sole non svegliasse
Erwin almeno per un paio d'ore ancora non potè fare a meno di
notare la data segnata dal calendario digitale sul comò della
stanza, tra fotografie dei piccoli e documenti di entrambi. 22 Marzo.
Non che avesse davvero bisogno di sapere che giorno fosse – ne
era dolorosamente consapevole – ma leggerlo rendeva i ricordi
molto più reali e vicini. Si avvicinò al calendario e
lo abbassò lentamente, in modo che lo schermo di questi fosse
rivolto verso il legno e non verso di lui. Lo specchio dietro al comò
gli restituì l'immagine di un uomo terribilmente stanco, più
spaventato di quanto avrebbe mai voluto ammettere.
-
Stai invecchiando. - mormorò; e sussultò appena, nel
sentire come la sua voce stessa suonasse roca e vecchia. Calò
lo sguardo di nuovo sul comò e lasciò scivolare le dita
verso un foglio bianco e una penna lì a fianco, per poi
chinarsi meglio a scrivere qualche breve parola. Erwin avrebbe
compreso. Quel giorno non necessitava di spiegazioni – voleva
solamente che fosse sicuro di dove si sarebbe trovato.
Posò
il foglio sul proprio cuscino, nella direzione in cui sapeva Erwin
avrebbe guardato non appena avesse aperto gli occhi, e si voltò
per prendere i vestiti preparati la sera prima su una sedia e uscire
dalla stanza. Sarebbe stata una giornata incredibilmente lunga.
*
* *
Come
Levi aveva previsto, la prima cosa che Erwin notò svegliandosi
fu la sua assenza, e la presenza di un biglietto di scuse. L'uomo si
stropicciò gli occhi per mettere meglio a fuoco le parole che
il compagno gli aveva lasciato, per poi posare il biglietto sul
proprio comodino ed alzarsi.
Sarebbe
stata una giornata impegnativa, ma almeno avrebbe avuto passarla a
casa coi ragazzi e non alla clinica. Affondò un'ultima volta
il volto nel cuscino, prima di rialzarsi e stendere i muscoli
intorpiditi dal sonno. Sul volto sentiva la poco familiare sensazione
di un accenno di barba, che doveva essergli cresciuta durante i
giorni di viaggio. Non era particolarmente spiacevole – si
chiese cosa ne avrebbero pensato a lavoro, e cosa ne avrebbero
pensato i bambini. Il loro giardiniere aveva barba e baffi, ed Erwin
era sicuro si fosse lamentato almeno una volta perchè i
bambini tendevano a chiedergli di abbassarsi per tirarglieli.
Gli
bastò un'occhiata al suo riflesso per decidere che la barba
non gli donava affatto. - Sembro un sessantenne con brutte
intenzioni. - borbottò, inclinando il collo per scrocchiarlo.
- E parlo anche da solo, come un sessantenne con brutte intenzioni. -
Si
alzò dal letto, dirigendosi in fretta verso il bagno e
procedendo ad eliminare ogni traccia della barba incolta; una ventina
di minuti dopo abbandonava la stanza vestito di tutto punto. Il
corridoio che portava alla scalinata principale era deserto, ma dal
piano di sotto arrivavano le voci dei bambini, probabilmente intenti
a fare colazione; si fermò ad ascoltarle in silenzio,
osservando il giardino della tenuta e sorridendo appena. Levi era da
qualche parte là fuori, e vi sarebbe rimasto fino a sera
tarda. Ricordava perfettamente le prime volte in cui era ricorso
quell'anniversario, e la paura irrazionale di non vederlo mai più
sulla porta di casa.
Era
una paura morta con gli anni e l'abitudine, riflettè. Non
aveva nulla da temere.
Un
movimento agli angoli della sua visuale attirò la sua
attenzione: l'arrivo del postino, povero ragazzo. Si fiondò di
sotto preoccupato per la sua salute, correndo in maniera molto poco
matura per il corridoio e giù dalle scale e rallentando solo
una volta uscito dalla porta principale, nel vialetto d'ingresso –
ma era troppo tardi. Ebbe una fugace visione del giubbotto blu del
ragazzo, prima che questi venisse seppellito sotto una montagna di
pelo e latrati canini.
-
Hanji! - urlò a pieni polmoni, correndo ad aiutare il povero
malcapitato. Affondò le braccia nel pelo dell'enorme
Leonberger impegnato a lappare il volto del ragazzo, tirandolo
indietro. Alle sue spalle, appoggiata alla cassetta delle lettere,
Hanji rideva di gusto. - Ti ho detto mille volte di tenere i tuoi
cani al guinzaglio! -
Hanji
smise di ridere e fischiò appena; il Leonberger si voltò
verso la propria padrona e le corse incontro, scodinzolando felice e
poi toccando con il muso la testa dell'altrettanto mastodontico
Mastino Italiano che sbuffava annoiato ai piedi di Hanji. - Ma a
Sawney e Bean Colby piace tanto! - si giustificò, carezzando
la testa di Bean (il Leonberger). Erwin scosse la testa, allungando
la mano al ragazzo e aiutandolo ad alzarsi.
-
Mi... mi chiamo Moblit, signora. - Erwin fissò il ragazzo
mentre si sistemava il cappellino caduto a terra e spolverava la
giacca. Era rosso in volto, ed Erwin non seppe decidere se lo era a
causa della caduta e dell'assalto di Bean o c'era qualcos'altro.
Moblit si voltò poi verso Erwin, consegnandogli un pacco
rimasto miracolosamente intatto e salutandolo con un cenno del capo.
- Buona giornata ad entrambi. - augurò, tornando alla sua
bicicletta a capo chino.
Erwin
rimase a guardarlo mentre pedalava via, spostando poi lo sguardo su
Hanji, impegnata a sorseggiare da una tazza di caffè con la
figurina stilizzata di Nikola Tesla disegnata sopra. - Ho perso il
conto delle denunce che quel ragazzo non ci ha ancora rivolto, sai? -
borbottò, riabbassando le maniche della camicia.
Hanji
fece spallucce. - Io ho l'impressione che non gli dispiaccia troppo.
Che ti ha portato? -
Erwin
esaminò il pacco, sorridendo appena nel vedere da dove
arrivasse. - Non importa. I ragazzi sono in casa? -
-
Hanno finito di fare colazione e li ho spediti a fare i compiti, sì.
- annuì Hanji. La sua curiosità sul pacco di Erwin ebbe
la meglio, e si avvicinò per guardarlo; fece in tempo ad
intravederne la provenienza, prima che Erwin le sfuggisse,
incamminandosi sul vialetto di casa per tornare dentro.
-
Najaf? - rise Hanji. Chiamò a sé i cani, che la
seguirono dietro all'uomo. - Che ti mandano dall'Iraq, dottor Smith?
-
Erwin
si fermò nell'ingresso e si voltò a sorriderle. Fu solo
dopo un paio di secondi che Hanji si rese conto che il suo sorriso
non era rivolto a lei, ma al giardino ormai alle loro spalle.
-
È una lunga storia. - si giustificò Erwin.
Per
una volta sensibile all'argomento, Hanji si limitò a sorridere
furbescamente all'interno della propria tazza di caffè. Non
chiese altro.
*
* *
Sette
anni prima
Nei
pressi di Najaf, Iraq
Mentre
era sdraiato con il volto rivolto al cielo roseo, qualcosa tornò
in mente a Levi. Un pensiero stupido, venuto da una parte di sé
che non credeva nemmeno esistesse più.
“Non
ho mai visto un cielo così bello.”, pensò. E
probabilmente non ne avrebbe più rivisti.
Il
fianco aveva smesso da tempo di fargli male, ma sapeva che se solo
avesse provato a spostarsi sarebbe tornato, più forte che mai.
Non poteva permettersi di rimanere lì, però: c'era
troppo silenzio, il terreno tremava per le esplosioni troppo vicine.
Strinse i denti e affondò le dita nel terreno sabbioso,
tirandosi su in preda ai più dolorosi spasmi che avesse mai
provato. Sentiva la scheggia di metallo esplosa con la bomba
infilarsi sempre più a fondo sotto il suo costato, squarciarlo
e aprirlo come un animale al macello. Non poteva permettersi di
rimanere lì.
Doveva
trovare Farlan ed Isabel.
Si
voltò per strisciare a pancia in giù sulla terra,
tossendo e vomitando sangue nel processo. Allungò il braccio
in avanti tremando – l'esplosione lo aveva sbalzato dietro una
serie di rocce che gli impedivano la visuale sulla città, ma
se soltanto fosse riuscito ad aggrapparsi e tirarsi su, se soltanto
fosse riuscito ad arrivare più in alto, ad assicurarsi che i
suoi amici stessero bene...
Tastò
a vuoto fino a che la sua mano non trovò la pietra; poi,
chiusi gli occhi, vi si aggrappò con tutte le forze e si
trascinò in avanti, cacciando un urlo nel sentire la scheggia
muoversi dentro di lui, il sangue scorrergli via dal corpo e
ricoprire il terreno. L'urlo si trasformò ben presto in un
incoraggiamento a se stesso – come se urlare fosse l'unico
motivo per rimanere sveglio e cosciente, per andare avanti –
nonostante la sordità improvvisa gli impedisse quasi di
sentire la propria voce. E all'improvviso la superficie scavata della
roccia era sotto di lui, un vento caldo alitava sul suo volto; Levi
lasciò la presa per aggrapparsi a un punto più in là
e vi rimase saldamente aggrappato nonostante la sorpresa iniziale del
sentire qualcosa di caldo e morbido al posto della pietra.
Sarebbe
svenuto presto, ma doveva almeno provare ad aprire gli occhi, doveva
provare a trovarli. Lo fece, e un mondo di devastazione gli si aprì
davanti. Il fumo impedeva quasi di vedere chiaramente, ma Levi
avrebbe preferito avesse coperto anche quel poco che c'era di
visibile; frammenti di corpi ricoprivano il deserto fino a dove fosse
possibile guardare, e in quel quadro macabro e scarlatto non c'era
posto per distinzioni di genere – i cadaveri erano
sparpagliati, alcuni vestiti della divisa scura dei marines, altri
delle vesti semplici e colorate dei civili. Alcuni corpi erano troppo
ustionati perchè Levi riuscisse a capire a chi erano
appartenuti, altri lo fissavano da orbite prive di vita, imputandogli
una colpa.
Sei
stato tu.
Tu
hai azionato la bomba.
Tu
hai premuto il grilletto.
In
preda alla paura più primordiale e allucinata, Levi abbassò
lo sguardo sul punto in cui si era appoggiato. Due occhi scuri e
pieni di lacrime lo fissavano spaventati; la parte inferiore della
mascella era spostata in maniera più che innaturale, il corpo
pieno di graffi e ustioni.
La
mano di Levi era stretta attorno a quella piccola e scura della
bambina, ma per poco – fu in quell'attimo che gli ultimi
legamenti rimasti attaccati al braccio si spezzarono con un rumore
secco. Non seppe mai se avesse immaginato quel rumore o l'avesse
sentito veramente, ma rimase ad ascoltare la voce della bambina
mentre quella moriva qualche metro sotto di lui, rantolando e
piangendo ogni lacrima che fosse ancora in grado di piangere. E quei
lamenti erano tutto tranne che immaginari.
Ebbe
la forza di svenire soltanto quando lei aveva smesso di piangere da
un pezzo, e l'unico rumore udibile era quello delle bombe ancora
inesplose, in lontananza.
*
* *
Riaprire
gli occhi richiese più coraggio di quanto Levi ne avesse mai
avuto in vita sua – e non se ne sarebbe mai vantato, ma ne
aveva avuto. Non potè esimersi dal farlo quando sentì
delle pinze afferrare il pezzo di metallo nel suo corpo ed iniziare
ad estrarlo; cacciò un altro urlo, alzandosi di botto.
-
Ah... no, dannazione! Ti prego, rimani giù! - sentì
urlare. La vista era sfocata, e Levi sentì una mano premere
contro il suo petto e rimandarlo su qualunque superficie fosse
sdraiato prima ancora di aver compreso dove si trovasse. La mano si
spostò dal suo petto alla sua bocca e vi infilò uno
straccio a forza, ignorando le proteste e le urla soffocate di Levi.
-
Mi dispiace trattarti così, ma devi capirmi. Abbiamo finito
gli anestetici, sto... sto facendo il possibile. - spiegò la
voce. Aldilà del dolore personale, Levi ne percepì
l'ansia e la preoccupazione, e cercò di rimanere il più
fermo possibile. - Ti ringrazio. -
Levi
non si preoccupò di trattenersi dall'urlare, mentre l'uomo
tirava la scheggia via dal suo corpo; alzò appena il capo in
tempo per vederla, un pezzo di metallo affilato lungo almeno una
ventina di centimetri. Ruotò gli occhi all'indietro e svenne
per un'altra decina di minuti. Quando tornò in sé
l'uomo stava finendo di suturare la ferita – Levi sentiva le
sue dita correre sulla propria pelle lacerata, lo sentiva mormorare
frasi in inglese e pregare divinità che non potevano aiutarlo.
- Dio, non farmene perdere un altro... - borbottò. Levi
abbassò le palpebre, in qualche modo consapevole che il
vederlo sveglio avrebbe distratto l'uomo dall'attenzione che stava
mettendo nel curarlo. Al buio, lo sentì festeggiare piano
quando un ragazzino iracheno entrò ad annunciargli qualcosa.
Un attimo dopo una maschera in lattice venne posizionata sul suo
volto – Levi aprì gli occhi prima di addormentarsi, e
tutto quel che vide furono capelli biondi e due occhi azzurri, pieni
di lacrime.
Riprese
i sensi qualche ora dopo, a giudicare dalla luce più bassa e
cupa della sera. Il dolore non era minimamente diminuito, ma ora era
sordo, faceva di sottofondo a tutti gli altri pensieri che occupavano
la sua testa. Aveva ripreso conoscenza da solo qualche minuto quando
sentì qualcuno avvicinarsi al suo letto – richiuse gli
occhi come d'istinto, per lasciare che il dottore facesse il suo
lavoro. Le dita dell'uomo sistemarono i bendaggi sul suo costato, per
poi passare a controllare delle ferite alla testa che Levi quasi non
si era accorto d'avere; si costrinse a rivelarsi sveglio quando lui
gli alzò appena il capo e aprì le palpebre per
constatare il suo stato.
La
voce dell'uomo era profonda e rimbombava, come fosse lontano metri e
metri. - Come ti senti? - chiese piano. Levi strizzò gli occhi
e scosse piano la testa, e lui ripetè la domanda un po' più
forte. Levi non rispose comunque, scopertosi inabile a parlare.
Il
dottore doveva essersene accorto, perchè gli porse un
bicchiere d'acqua appoggiato da qualche parte oltre il suo letto.
Alla fine fu più quello che cadde sulle sue guance e sul
cuscino che quello che riuscì a bere, ma per una volta non vi
badò; non aveva smesso di fissare il tendaggio che faceva loro
da tetto, né le ombre degli elicotteri rumorosi sopra di loro.
-
Sai dirmi come ti chiami? -
Lasciò
vagare lo sguardo sul volto del dottore. Era un occidentale dai
tratti del volto duri e gli zigomi alti – sembrava tedesco, ma
il suo accento era molto più simile a quello inglese. Gli
ripetè la domanda in arabo, e Levi scosse la testa.
-
Levi Ackerman. - rispose. Il tempo di parlare, sentì l'acqua
risalirgli in gola e si alzò di scatto per vomitare accanto al
suo letto, mentre l'uomo mormorava qualcosa dispiaciuto e lo aiutava
a rimettersi sdraiato, passandogli un fazzoletto sulle labbra. Levi
scosse la testa, evitando di guardarlo negli occhi. Stava odiando
quel dolore, e odiando il suo corpo per quanto poco si stesse
dimostrando in grado di affrontarlo.
-
Levi. - ripetè l'uomo, tornando seduto e massaggiandosi le
tempie. Sembrava stanco morto, eppure attese paziente che Levi
riprendesse a parlare.
Lui
chiamò sé i ricordi, immagini confuse e difficili da
riordinare.
-
Levi Ackerman. - ripetè. Il suo stesso nome suonava estraneo –
come se il soldato fosse morto, scomparso. - Tenente della
tredicesima divisione GCE della USMC. Al comando dell'operazione
Alpha contro le truppe Afghane appostatesi attorno a Najaf. -
L'uomo
sembrò impressionato; incrociò le braccia sul petto e
lo fissò intensamente. - Un Marine. - constatò.
Levi
annuì. Il silenzio che cadde tra di loro dopo quelle parole
suonava come una condanna a morte sulle teste di tutti coloro che
Levi conosceva, che ricordava.
-
Sono l'unico sopravvissuto. - mormorò. Non si sorprese del
proprio tono apatico, né la intese come domanda. L'uomo chinò
il capo e si alzò, incamminandosi verso l'uscita della stanza,
lontano dalla vista di Levi.
-
Ho azionato io la prima bomba. - sussurrò. Lo sentì
fermarsi – lo immaginò sull'uscio, una mano sulla tenda,
l'altra stretta a pugno attorno al fianco.
-
Lo immaginavo. - lo sentì rispondere. - Si capisce dal tuo
sguardo. -
Non
si dissero altro, e Levi attese di scivolare di nuovo in un sonno
chimico popolato da incubi.
*
* *
Il
dottore si chiamava Erwin Smith e, come Levi aveva compreso, era
inglese. Glielo spiegò – assieme a un'altra novantina di
annedoti poco interessanti e decisamente fuori luogo – mentre
procedeva a controllare che le suture sul suo fianco non stessero
infettandosi, imbottendolo di medicinali. Sarebbe sembrata quasi una
visita dentistica, non fosse stato per l'odore di sangue che
aleggiava per tutta la stanza, e soprattutto per i nervi di Levi
pronti a cedere in qualunque momento.
-
Senti, signor dottore. - sbraitò a un certo punto. - Non so se
tu sia abituato a conversare coi cadaveri, ma inizierai presto a
farlo se non stai attento alla ferita. -
Appena
sorpreso da quell'interruzione, Erwin alzò il capo ed abbassò
gli occhialini dal naso al petto. - E invece sopravviverai, signor
marine. - sorrise. - E no, effettivamente non ci sono abituato.
Non sono un medico di guerra, ma un volontario. Lavoro con i ragazzi
e le loro famiglie, di solito, e loro... -
Rimase
a rimuginare sulle sue parole, evitando di incontrare lo sguardo
impassibile e pesante di Levi. Si massaggiò il volto e rilassò
sulla sedia. - Beh, immagino la situazione sia cambiata. -
Levi
si riscoprì a odiare ogni sillaba pronunciata dal dottor
Smith; non perchè l'uomo fosse fastidioso – lo era, nel
suo entusiasmo e nella sua attenzione e nella cura che metteva nel
guarirlo – ma per la frase che aveva pronunciato poco prima.
Per la certezza che si sarebbe salvato; nessuna incapacità di
camminare, nessun arto andato perduto, niente di niente.
Prima
o poi si sarebbe rialzato per scavare due fosse vuote per Isabel e
Farlan e sarebbe tornato a combattere. Gli avrebbero rimesso in mano
un fucile, il tasto d'avviamento per uccidere di nuovo decine di
innocenti e di soldati impegnati soltanto a fare il loro lavoro. E
tutto questo perchè il dottor Smith lo aveva salvato.
Aveva
ogni motivo di detestarlo.
-
Chi mi ha portato qui? - si ritrovò a chiedere, senza nemmeno
guardarlo in volto. Osservava interessato quella porzione di cielo
rosato visibile dalla finestrella della sua stanza, l'immobilità
del mondo fuori.
-
Amir. - mormorò il dottore. - È un ragazzino del
villaggio. Lui e i suoi fratelli erano lontani dalla linea di fuoco
quando siete arrivati, ma sono tornati indietro appena le bombe hanno
smesso di esplodere. Ti hanno trovato dietro a delle rocce e portato
qui. Se non fosse stato per lui, probabilmente saresti morto a causa
dell'emorragia nel giro di poche ore. -
Levi
annuì piano. Amir – quante volte aveva sentito nomi
simili, in quei mesi di servizio e anche prima? I soldati della sua
divisione – no, buona parte dei soldati erano soliti scherzare
su quanto quella gente sembrasse tutta uguale, tutta pronta a
combattere per una causa persa e idiota. Non sembravano volersi
rendere conto della spietata, ironica evidenza – tutti loro
combattevano per cause perse e idiote. Non si era mai sentito parte
di quella massa di idioti, nonostante combattesse al loro fianco.
E
così, Amir. Questo Amir era diverso. Era il ragazzino che
aveva deciso se sarebbe vissuto o morto, e aveva deciso senza sapere
niente di lui, senza giudicarlo.
-
Non ti sto chiedendo di essergli grato. - sentì dire al dottor
Smith. - Probabilmente in questo momento ti senti confuso,
arrabbiato... -
-
Risparmiami i libri di psicologia. - Levi si lasciò scivolare
più in basso sul materasso rigido. - Non sto pensando di
ammazzarmi. -
-
Non volevo dire questo. - fu la risposta. - Credo tu stia pensando
che non meriti di essere sopravvissuto. Sei un Marine, dopotutto. -
Levi
evitò di rispondere, ma questa volta il suo sguardo non
vacillò da quello azzurro dell'uomo. Fu lui il primo a
scostarlo, per tornare alle sue medicazioni con rinnovata fermezza. -
Come si chiamava? - chiese.
-
Non voglio parlare di me. -
Le
dita del dottore premettono sulla ferita con molta poca cura. Levi
scattò in su e lo fissò inviperito. - Come si chiamava?
- ripetè Erwin, il fantasma di una risata nella voce. Levi
cercò di ignorare quell'eco – in parte perchè lo
trovava incredibilmente fuori luogo, in parte perchè non era
mai stato bravo a tirare ganci con la mano sinistra e la destra era
ancora fuori uso e dolorante. Scosse la testa, raccogliendo le parole
da usare - Si chiamavano Isabel Magnolia e Farlan Church. - cominciò.
Solo pronunciare i loro nomi innescò una serie di ricordi
caldi, domestici; i loro volti sorridenti, i loro abbracci. Il tempo
passato assieme. - Erano la cosa più simile a una famiglia che
abbia mai avuto. -
Sentiva
che parlarne ancora avrebbe sporcato il loro ricordo, quelle memorie
che erano sue e sue solamente. Si limitò a rispondere alle
domande di Erwin: come si erano conosciuti (non lo ricordava; erano
sempre stati assieme), come si erano uniti all'esercito (era stata
una decisione di Levi, e loro l'avevano seguito), com'erano (non
c'erano parole che facessero loro giustizia. Non ce ne sarebbero mai
state).
-
Io non ho mai avuto amici. - rivelò Erwin. Come se Levi gli
avesse chiesto qualcosa. - E nemmeno fratelli. Siamo sempre stati
solo io e mio padre. -
Levi
non potè fare a meno di esibire una smorfia, al ricordo
dell'unica figura paterna che avesse mai avuto. Ma quelli erano
ricordi ancora più intimi, e non desiderava condividerli con
il dottore. Lui non sembrava della stessa opinione; era
straordinariamente aperto ed estroverso, nonostante stesse
praticamente avendo una conversazione con sé stesso. Poi il
suo sorriso tranquillo mutò in qualcosa di più
profondo, che attirò l'attenzione di Levi. - Lo odiavo. -
sussurrò appena. Sembrava quasi non lo vedesse; come se il
ricordo l'avesse riportato indietro, oltre quella tenda, oltre quel
deserto.
Per
un momento Levi fu quasi in attesa di sapere il perchè di quel
sentimento, ma il racconto di Erwin si interruppe nell'attimo in cui
un ragazzo sulla ventina spuntò sull'uscio e chiamò il
suo nome. Riportato alla realtà dal nuovo arrivato, Erwin si
congedò con un sorriso mesto.
*
* *
La
notte gettò Levi in uno stato febbricitante e un dolore che
non aveva mai provato in vita propria; a volte si ritrovava a
contorcersi su se stesso, in attesa di ritrovarsi in una posizione
che potesse far scomparire il dolore lancinante e incurante della
possibilità che i punti della ferita si aprissero. Urlò
senza emettere alcun suono fino a non sentire più nemmeno i
muscoli del volto. Era perso in quella condizione, e nella sua mente
si susseguivano allucinazioni miste a ricordi.
I
loro volti. Il braccio della bambina che si strappava con un rumore
ai limiti dell'osceno. Il giorno in cui era stato investito tenente.
La risata amara di suo zio quando aveva annunciato che sarebbe
diventato un soldato, e quel suono che si trasformava in urla
infantili...
Quando
la mano estranea si posò sul suo petto non ebbe neanche la
forza di dimenarsi a causa della paura; cercò il contatto
umano come mai aveva fatto prima d'ora in vita sua, stringendosi
contro le dita che lo sollevavano e aggrappandosi al braccio che lo
stringeva mentre il dottor Smith iniettava qualcosa nel suo braccio.
Non
era sicuro che si fosse trattata di un'allucinazione – ma
mentre singhiozzava in quell'abbraccio che in altre circostanze
avrebbe odiato, gli era sembrato di sentire Erwin fare lo stesso.
*
* *
-
La signora Jaeger è entrata nel nono mese di gravidanza. -
Levi
abbassò il giornale e fissò Erwin. - Beh, yuppi-yee.
Mandale dei cioccolatini e una bottiglia di vino da parte mia. -
Erwin
rise di gusto, abbandonando la borsa coi medicinali a fianco del
tavolo e sedendosi nel posto accanto a quello di Levi. Erano passate
poco meno di due settimane da quando lo avevano portato lì, ma
aveva ripreso a camminare da cinque giorni solamente, e con delle
grucce. Ora sedeva in una specie di saletta per i degenti con tanto
di televisore, unica compagnia due anziani impegnati a discutere
animatamente in dialetto.
-
Ma no, è una bella notizia. Quando... beh, quando il marito è
morto temevamo che il dolore avrebbe portato a un aborto spontaneo
che non c'è stato. E ora invece scoppia di salute e si prepara
al parto. - sospirò un momento, in attesa di una risposta da
parte di Levi...che era di nuovo immerso nella lettura del giornale.
- Fammi indovinare. Non ti piacciono i bambini? -
Un
grugnito in risposta. Erwin posò un dito sulla carta e la
piegò in modo da avere una visuale sul volto di Levi, distorto
da una smorfia orripilata. - Davvero non ti piacciono i bambini? -
mormorò, la delusione negli occhi, nel cuore e nel labbro
sporto in fuori in maniera ridicola e infantile.
Levi
scosse la testa. - Parliamo d'altro, dottore? Per esempio di quando
mi lascerai uscire da questa trappola per topi formato gigante? -
Erwin
si rilassò sulla sedia, portandosi una mano dietro la nuca e
grattandola. - Non posso permetterti di lasciare l'ospedale finchè
non sarai completamente guarito. L'USMC è già stato
avvisato circa le tue condizioni, ma i ribelli bloccano la strada tra
Najaf e la vostra base. -
-
Non che i fottuti Stati Uniti d'America muoverebbero mai il culo per
un solo superstite... - mormorò, voltando pagina. L'operazione
Alpha era stata un disastro totale, e avrebbero rigettato tutta la
colpa su di lui se Erwin non lo avesse dichiarato immediatamente
incapace di comprendere e di volere. Gli era costato un pugno sulla
spalla, ma Levi aveva apprezzato il favore. Il Governo non avrebbe
addebitato la morte di un intero squadrone a un pazzo.
-
Anche questo è vero. - Erwin rivolse la propria attenzione al
telegiornale, che annunciava una serie di bombardamenti a nord-est di
Najaf. Levi lo vide aggrottare la fronte e mormorare qualcosa
sottovoce, ma non indagò oltre. Quando si voltò di
nuovo verso di lui, era tornato il se stesso abituale. - Allora,
davvero non ti piacciono i bambini? -
Levi
evitò di pensare all'ultima volta che aveva effettivamente
interagito con un bambino, o a braccia strappate dai propri corpi.
Represse quel ricordo in una parte di sé, optando per una
risposta antipatica. - Creature abominevoli. Io non sono mai stato un
bambino. -
Erwin
gettò la testa indietro e rise. Lo faceva spesso –
ridere. Sembrava trovare tutto divertente e meritevole di una sana e
piena risata, ma Levi non ci aveva molto a capire che si trattava di
un modo per nascondere quanto in realtà nulla di ciò
che lo circondava fosse minimamente divertente. Era una specie di
meccanismo di autodifesa, o una manovra adottata per i pazienti e poi
rimastagli appicicata addosso. - No, in un certo senso neanche io. -
ammise, abbassando lo sguardo. - Quando tuo padre non fa altro che
trascinarti tra un campo feriti all'altro, non hai molto tempo per
pensare a dover essere un bambino. A cinque anni gli passavo gli
strumenti, a sette sapevo suturare ferite minori e ad otto conoscevo
i principi di almeno trecento diversi medicinali. -
Quindi
aveva passato tutta la sua vita a fare quello? Levi schioccò
le labbra, piegando il giornale e riponendolo sul tavolino in
plastica. - Mio zio mi ha messo un'arma in mano la prima volta quando
avevo sei anni. - rivelò, per nessuna ragione particolare.
Forse gli piaceva solamente vedere gli occhi azzurri di Erwin
sgranarsi per la sorpresa, interessarsi. - Mi diede questo
coltellino svizzero e mi disse di andare a squartare il cane dei
vicini così che la smettesse di abbiare dalla mattina alla
sera. Fu mio nonno a fermarmi. Il vecchio era l'unico sano in una
famiglia di pazzi. -
Erwin
aveva poggiato i gomiti sul tavolo e lo ascoltava rapito. - E dei
tuoi genitori che mi dici? - domandò. Levi afferrò le
grucce abbandonate vicino alla sedia e si alzò in piedi,
puntando poi una di esse verso il naso di Erwin.
-
Ti è scaduta la licenza sulla mia vita privata, dottore.
Rinnovala, sarà per un'altra volta. -
Di
nuovo quella risata forzata. Levi alzò gli occhi al cielo,
sistemando le grucce per allontanarsi da lui al più presto..
ma lo sentì al suo fianco in un battito di ciglia, pronto ad
aiutarlo. Scosse la testa deciso, consapevole che avrebbe dovuto
farcela da sé. Era già abbastanza l'essersi mostrato
tanto debole durante una delle prime notti, ed era grato che Erwin
non avesse mai sollevato l'argomento; ma se avesse contato troppo
sull'aiuto non sarebbe mai guarito del tutto. Inoltre il dottore
tendeva a perdersi in sproloqui infiniti, e se fosse riuscito ad
arrivare in camera da solo almeno Levi avrebbe potuto chiuderlo
fuori.
Non
ebbe bisogno di gareggiare contro di lui a lungo, tuttavia. - Ora del
controllo generale. - mormorò Erwin, guardando l'orologio che
teneva al polso. - È stato un piacere conversare, Levi, ma
devo scappare. -
-
Il piacere è tutto tuo. - borbottò Levi, ma il dottore
era già scomparso dietro l'angolo. E a dire il vero, si
riscoprì grato che non l'avesse sentito: poteva essere
particolarmente noioso, ma era comunque una presenza amica in quel
mondo sconosciuto. Levi iniziava ad abituarsi a lui.
*
* *
Comprese
che qualcosa era andato storto ancora prima che Erwin facesse
irruzione nella sua stanza, qualche minuto dopo l'una. Il piccolo
personale dell'ospedale era in preda a un'agitazione mai vista prima,
e il primario non si vedeva da nessuna parte; masticava poco il
dialetto della gente del posto, ma doveva essere successo qualcosa
con la signora gestante.
Quando
poi Erwin ricomparve, era raggiante nonostante avesse le mani sporche
di sangue praticamente fino al gomito. Si diresse al lavabo della
camera come fosse quello del suo ufficio, sotto lo sguardo lievemente
attonito di Levi. - È un maschietto, un bel bimbo energico. -
annunciò. Levi scosse la testa, alzando gli occhi al cielo, ma
lui non parve farvi caso. - Ci ha fatto penare un po', ma alla fine è
venuto fuori. -
-
Risparmiami i dettagli, te ne prego. -
-
Devo andare a controllare la signora Jaeger. - si asciugò le
mani in un panno accanto al lavabo e gli rivolse il sorriso
entusiasta di un bambino alle prese coi regali di Natale, per poi
riscomparire nel corridoio.
-
Ma cos'hai, un solo lavandino in tutto l'ospedale? - gli urlò
dietro Levi, scuotendo la testa incredulo. Altro che compagnia, quel
tizio l'avrebbe mandato fuori di testa se solo fosse rimasto un altro
giorno in quel posto. Si alzò e per una volta ignorò le
stampelle, sentendosi in grado di camminare senza il loro aiuto. Se
quel folle aveva intenzione di andare a disturbarlo ancora e fargli
perdere quel poco sonno che riusciva ad avere, tanto valeva dargli
una mezza delusione e fuggire nella saletta comune.
La
familiare sensazione della plastica consumata sotto il culo aveva un
che di confortevole. Nel silenzio totale concentrò le proprie
attenzioni sul televisore. Da qualche parte qualcuno aveva urlato, ma
era un rumore tanto familiare che non vi aveva fatto neanche caso.
Aveva lasciato che il crepitio dello schermo lo catturasse,
cullandovisi fin quasi ad addormentarsi; a svegliarlo era stato un
rumore forte e improvviso, vicino a lui. Era scattato in piedi alla
ricerca di un qualunque oggetto da utilizzare come arma, rilassandosi
appena nel notare che si trattava del dottor Smith.
Doveva
aver passato ore su quelle sedie, perchè qualcuno aveva spento
il televisore e l'unica luce che illuminasse la stanza era quella
della luna. Dipingeva strane ombre sul volto dell'uomo, che non
guardava nella sua direzione ma verso un punto imprecisato nel muro,
le mani unite appena davanti al naso e i gomiti poggiati sulle
ginocchia. Levi rimase a fissarlo, stranamente rapito dal suo
silenzio. Non sembrava nemmeno lui, eppure aveva la netta sensazione
che l'uomo che stava guardando fosse il vero Erwin, quello nascosto
dietro la facciata del buon dottore e le risate esagerate. E in segno
di rispetto a quella rivelazione, attese di capire cosa lo stesse
turbando tanto.
-
Non ho mai sopportato il silenzio. - rivelò, lo sguardo ancora
perso da qualche parte. - Casa mia era piena di silenzi, dopo la
morte di mia madre. Una casa troppo grande, troppo vuota. Credo sia
stato quello il motivo per cui mio padre decise di portarmi con sé
in Medio Oriente, condannandomi a una vita di sacrifici. Non che la
situazione cambiò molto, dato che a malapena mi rivolgeva la
parola se non per chiedermi di aiutarlo o infilarmi nella testa... -
Levi
era arrivato addirittura a risedersi, senza smettere di fissare Erwin
incuriosito. Eccolo qui, il vero dottore. Un uomo con una vita
distrutta, una realtà che per qualche distorto motivo non gli
dispiaceva.
-
Quando avevo sedici anni decisi che ero stufo. - proseguì. -
Litigai con mio padre. Non fu il nostro primo scontro verbale, ma fu
il peggiore. All'epoca non c'erano blocchi territoriali di sorta,
questo paese era un luogo vagamente più pacifico, e mi ci
volle poco a prendere la decisione di ritornare in Inghilterra. Il
resto fu...come un sogno. Per la prima volta passavo i miei giorni
nella civiltà per un periodo più lungo dei radi momenti
in cui io e mio padre eravamo tornati a casa. Per la prima volta ero
circondato da menti brillanti quanto la mia, all'università;
conoscenti che preferivano la mia presenza a quella dei loro
pazienti. Mi laureai prima ancora di rendermene conto, e quando ebbi
quel foglio in mano...ebbi paura. Ora dovevo finalmente decidere se
diventare l'uomo che era mio padre o farmi una vita lì,
dov'ero stimato e rispettato. Scelsi la seconda opzione, ma decisi
anche di mettere a posto le cose con l'uomo che era comunque stato
accanto a me come figura paterna, per quanto distratta e spesso
assente. E quando riuscii a mettermi in contatto con l'ospedale per
cui lavorava... -
Non
ci fu bisogno che concludesse la frase. Invece di farlo, Erwin scostò
finalmente lo sguardo dal nulla e guardò Levi negli occhi.
Levi li trovò incredibilmente familiari e caldi, e ci volle un
attimo perchè ricollegasse quell'immagine alla prima cosa che
aveva visto dopo aver riaperto gli occhi in seguito al bombardamento:
due enormi occhi azzurri pieni di lacrime. E in quegli occhi, una
verità terribile quanto la morte. La morte di suo padre, la
morte di Isabel e Farlan, e la morte della signora Jaeger, che Levi
non aveva mai visto. Ma per quale altro motivo Erwin avrebbe dovuto
trovarsi lì, tanto sconvolto? Quando aprì di nuovo la
bocca per parlare, la sua voce suonava tanto rotta da toccare anche
l'animo di un uomo stoico come Levi. - Non so perchè te lo sto
dicendo. - ammise, soffocando le proprie labbra dietro una mano. -
Non ti conosco nemmeno. -
Levi
allungò piano una mano verso di lui, per poi ritrarla
rapidamente. Era un'immagine pietosa, un uomo tanto grande e forte
scosso dai singhiozzi troppo deboli, echi di scuse mai rivolte, di
rimorsi e ferite troppo profonde per essere curate. Erwin lo aveva
tenuto mentre era nelle stesse condizioni, cullato fino al sonno, ma
lui non sarebbe mai riuscito a fare lo stesso. Non ne era capace, e
basta. Erwin sembrò comprendere, evitando ogni approccio
fisico e calmando piano il proprio pianto silenzioso.
-
Il bambino è vivo? - si ritrovò a chiedergli, senza
nessuna ragione particolare. Era il meglio che potesse fare:
distrarre Erwin dalle proprie colpe, convincerlo che esisteva
qualcos'altro per cui vivere. Era una bugia fin troppo evidente per
entrambi – Erwin era troppo cresciuto per credervi, e Levi
aveva imparato a convivere con le proprie colpe fin dalla più
tenera età.
-
Sì. - annuì, apparentemente di nuovo in sé. -
Sì, se ne stanno occupando le infermiere. È in salute,
e se la caverà. -
-
Certo. - Levi annuì assieme a lui, distogliendo lo sguardo e
portandolo verso la finestra. Pensò a come il conflitto
sarebbe solamente peggiorato nei mesi successivi, a quanti
bombardamenti avrebbero seguito il raid di qualche settimana prima.
Il bambino era europeo, ma quante probabilità c'erano che un
qualche lontano parente se la facesse fino a Najaf per riportarlo con
sé? Il frugoletto sarebbe stato fortunato a vedere l'alba dei
propri cinque anni.
-
Credo dovrei andare a vedere come sta. - ammise Erwin, alzandosi
piano. - Vorresti... uhm... venire con me? -
Levi
non lo guardò. Sentiva nuovamente quella sensazione di
assoluto disgusto da qualche parte nei pressi del suo stomaco, ma se
poteva fare davvero un favore a Erwin, allora era quello. Il dottore
era un figlio di puttana con dei seri problemi personali, ma lo aveva
riportato in vita dal mondo dei morti. - Certo. - ripetè.
Almeno per una volta, avrebbe stretto i denti e sopportato.
Seguì
la grande figura del dottore per corridoi di un reparto dell'ospedale
che non aveva mai visitato, fin troppo consapevole dei mostriciattoli
che vi si nascondevano. Non aveva mai davvero amato i bambini, ma
dopo il bombardamento provava nei loro confronti qualcosa diverso –
vero e innegabile terrore. L'idea era talmente ridicola da
farlo quasi ridere. In prossimità della nursery iniziò
a rallentare il passo, restio ad avvicinarsi davvero a quel luogo.
Ebbe anche dei ripensamenti riguardo la sua gratitudine nei confronti
di Erwin, ma proprio nel punto di esprimerli una donna in camice aprì
la porta della nursery con in braccio un bimbo addormentato. Levi si
irrigidì di colpo, mentre Erwin si faceva avanti per scambiare
due parole con l'infermiera e la sollevava dal peso del neonato,
ricevendo un rapido ringraziamento. Quando si voltò verso di
lui, aveva di nuovo quell'accenno di una luce negli occhi. Pur
spaventato e confuso, Levi decise che ciò che illuminava Erwin
tanto era semplice autogratificazione.
-
Puoi tenerlo, se vuoi. - offrì. Levi fece mezzo passo
indietro, badando bene di non farsi notare dall'altro. - Sta
dormendo, per cui non si muoverà. Basta che tu stia attento a
non premere troppo sulla testa, sono molto fragili... -
Fragili.
Quella parola richiamò alla mente di Levi un'immagine che
soffocò in un battito di ciglia, inspirando e facendosi poi di
nuovo avanti. - Va bene. - decise, tendendo mani leggermente tremanti
in direzione del piccolo. Poteva farcela. Era sopravvissuto a uno zio
psicotico, a anni di guerra. Era sopravvissuto.
Erwin
sorrise comprensivo e posò piano il bambino tra le sue
braccia, indicandogli come posizionarle. Sperò che non avesse
sentito il tremore che lo scuoteva piano, ma il suo sguardo rivelò
altrimenti. Levi sentì il nodo allo stomaco ultimarsi quando
Erwin fece un passo indietro, abbandonandolo con quella piccola,
stupida palla di carne. E ora che avrebbe fatto? Erwin sembrava così
lontano, e il bambino – il bambino aveva la pelle olivastra
arrossata e grossi ciuffi di capelli neri sulla testolina, ed era
così stupidamente inoffensivo, così innocente, che per
un attimo Levi si chiese davvero di che diavolo avesse avuto paura.
Solo
per un attimo. L'istante successivo, il neonato aprì le labbra
e il suo volto si contrasse in un unico movimento, e dalla sua gola
salì un lamento gutturale. L'istante dopo, nella mente di Levi
quel lamento basso si trasformò in urla disperate; e quello
dopo ancora, si rese conto che era ancora nascosto dietro a un sasso
come un verme inutile, e la pelle del piccolo era troppo simile a
quella del braccio di una bambina sconosciuta e morente, e non
riusciva a respirare e doveva allontanarsi da lui il prima
possibile...
-
Levi, no! -
La
voce di Erwin lo riportò alla realtà, come già
aveva fatto tempo prima. Si rese conto solo allora di quanto il
bambino avesse rischiato di scivolare dalle sue braccia, e di come
lui fosse corso in avanti per levarglielo dalle mani prima che
accadesse l'inevitabile. Fece un passo indietro, scacciando dalla sua
testa gli ultimi rimasugli di quella visione – le ultime grida,
le ultime esplosioni. Erwin lo fissava genuinamente sconvolto, il
bimbo stretto al petto in lacrime. Non ebbe scuse per lui, o
giustificazioni. Si fece indietro come un animale braccato, fino a
raggiungere la fine del corridoio.
-
Me ne vado. - mormorò. - Domani stesso. -
Non
era sicuro che Erwin avesse sentito, ma non gli importava; ripercorse
i propri passi fino a raggiungere la propria stanza, e vi rimase
chiuso dentro senza dormire fino all'alba.
*
* *
Lo
aveva sentito. Entrò nella stanza mentre Levi chiudeva il
borsone che già una settimana prima lui stesso gli aveva
portato per raccogliere i vestiti che l'ospedale era stato in grado
di fornirgli, e gli porse le grucce. Levi scosse la testa.
-
Ne farò a meno. - mormorò, evitando di guardarlo in
volto. Era sicuro che vi avrebbe trovato compassione, e avrebbe fatto
volentieri a meno anche di quella.
-
Prendile. - insistette Erwin. - Ti dichiareranno inabile appena
metterai piede nell'infermeria, ma queste e il rapporto che ho qui
potrebbero aiutare. - agitò una cartelletta, che Levi afferrò.
Continuò comunque ad ignorare le stampelle.
-
E se volessi continuare ad operare sul campo? - domandò a
nessuno in particolare. Erwin rimase in silenzio, camminando poi fino
a quando Levi fu costretto a guardarlo per bene. Non aveva mai notato
quanto fosse alto rispetto a lui, o quanto sembrasse autoritario e
pacato assieme. Forse era riuscito a picconare la facciata del
dottore simpatico abbastanza perchè Erwin si dimostrasse per
ciò che era anche alla luce del giorno.
-
Tu non vuoi tornare sul campo, Levi. - dichiarò, abbastanza
deciso per farla suonare come la verità assoluta. - Ho visto
cosa ti è successo. Ho chiuso quel torace, ma non ho studiato
per curare ciò che hai in testa. Eppure so che riprendere una
pistola in mano non ti aiuterebbe a migliorare la situazione. -
Levi
grugnì, innervosito da quanto Erwin suonasse come la voce
della ragione. Si mise il borsone in spalla, evitando di
rispondergli. - Saranno qui in mezz'ora. - rivelò. - La
situazione si è calmata abbastanza da permettergli di venirti
a prendere. Sei fortunato. -
Per
qualche motivo, sembrava quasi dispiaciuto del fatto. Levi ignorò
nuovamente le sfumature del suo tono, annuendo e dirigendosi
all'ingresso della stanza. Fu allora che Erwin lo fermò,
riprendendo a parlare.
-
So che ti senti spaesato e non vedi alternative, ma... sto
pianificando di tornare in Inghilterra. Lì ho... ho molte
conoscenze. Posso farti trovare un lavoro, se lo desideri. -
La
mano sulla maniglia esitò per un solo istante, considerando
l'offerta. Una posizione stabile, un lavoro concreto, una casa
normale...erano tutte cose così fuori dall'ordinario, per lui,
che la visione scomparve in una nuvola di fumo. - Non sono
interessato. - rispose, voltandosi un'ultima volta, appena in tempo
per scorgere la delusione sul volto di Erwin. - Allora addio, signor
dottore. -
Non
rimase ad attendere una risposta. Tra il cigolio della porta e i suoi
stessi passi, tuttavia, gli parve di udirne una comunque. Qualcosa di
incredibilmente simile a un “A presto, Levi”.
Non
rivide Erwin mentre aspettava fuori dalla clinica, nel caldo del
deserto iracheno. Il veicolo militare arrivò prima ancora che
potesse rivalutare l'offerta del medico e tornare a chiedergli
informazioni, allontanandolo per sempre da lui. Si ritrovò a
sfogliare la propria cartella clinica mentre tornava alla base, tanto
per distrarsi e prepararsi a ciò che gli avrebbero detto, ma
finì solamente per perdersi nell'osservare la calligrafia
perfetta di Erwin, o la sua zelante firma tanto tipica di un dottore
da sembrarne quasi una parodia. L'ultima pagina era vuota, ma Levi vi
trovò un foglietto attaccato con un solo piccolo pezzo di
scotch; lo staccò curioso, ben attento a non farsi notare dai
propri colleghi.
Sul
foglio, nella stessa calligrafia perfetta del resto della cartella
clinica, erano segnati un indirizzo e un paio di numeri di telefono.
Sotto quel sole tanto simile a quello sotto cui aveva causato la
morte di decine di persone, spaventato a morte dal proprio futuro,
Levi Ackerman trovò incredibilmente difficile non sorridere a
causa dell'incredibile testardaggine del dottor Erwin Smith.
*
* *
Due
anni e sei mesi dopo
Liverpool,
Inghilterra
-
E va a farti fottere, idiota! - fu l'ultima cosa che Levi sentì
prima che Sam Winters sbattesse la porta del retro del locale alle
sue spalle, lasciandolo definitivamente senza un lavoro. Scrollò
le spalle, sperando che né il giubbotto in pelle né la
maglia bianca che indossava sotto si fossero sporcati quando aveva
tirato un cazzotto al suo capo – lo stronzo se l'era meritato,
ovvio. Non era così scemo da andare a prendere la gente a
pugni per un motivo qualunque, ma la rinnovata promessa di non
consegnargli lo stipendio, sommata a quella dei precedenti due mesi,
era stata abbastanza perchè anche Levi perdesse le staffe. E
comunque era un lavoro di merda, non è che avesse perso tanto.
Si
incamminò per strade che erano diventate familiari al punto da
apparire noiose. Qualche bar stava trasmettendo quella stupida
canzone di Rupert Holmes, Escape o roba del genere; un ragazzo
chiaramente ubriaco nonostante fossero appena le sei di sera cantava
le parole nella maniera più stonata che Levi avesse mai avuto
la sfortuna di sentire, e una ragazza rideva di lui, forse nella
speranza che fosse all'altezza del protagonista della canzone. Levi
passò di fronte a una macchinetta delle sigarette, gettando
un'occhiata tentata ai pacchetti ben allineati nel macchinario. Per
un periodo, dopo aver abbandonato l'esercito, era stato un fumatore
accanito. Era stato il periodo peggiore – quello degli attacchi
di panico giornalieri, quello in cui si chiedeva spesso perchè
diavolo fosse rimasto a Londra senza mai nemmeno utilizzare i numeri
sempre ben riposti in un angolo del suo portafogli. Ma era un periodo
passato, e anche il fumo era un vizio passato; superò la
macchinetta e si diresse invece in direzione del suo appartamento,
deviando dalla strada normale solamente per una capatina dal
meccanico.
L'officina
aveva il solito odore sgradevole. - Schultz! - chiamò ad alta
voce, restio ad entrare in quel luogo pieno di olii e sporco. Non
ricevendo risposta, sospirò rumorosamente e superò le
grosse porte rosse. Gunther, il capo meccanico, spuntò
sorridendo da dietro una delle macchine.
-
Devo ammetterlo, capo, mi diverte sempre un po' il fatto che un ex
Marine abbia paura di mettere piede dentro un'officina. Non sei stato
nel deserto, tu? -
-
La sabbia non è appiccicaticcia, e non ci vogliono tre
risciacqui per toglierla dai vestiti. - rispose. Una bugia solo in
parte – aveva odiato il deserto tanto quanto odiava qualunque
posto gli lasciasse una sensazione di sporco addosso. - La moto è
pronta? -
Gunther
fece un mezzo inchino, indicando con la mano libera un angolo del
garage. - Il rumorino che ti infastidiva tanto è scomparso. -
annuì. - Ricordati di dargli una controllata ogni tanto, non
si sa mai. -
-
Ottimo. - Levi vi si avvicinò e ne sfiorò il serbatoio
scuro, voltandosi poi verso Gunther. - Quanto ti devo? -
Lui
fece un gesto vago con la mano. - So che non stai messo bene coi
soldi, capo. Nessun problema. - Levi aggrottò le sopracciglia.
Non compredeva appieno il rispetto che molti dei suoi vicini avevano
sviluppato nei suoi confronti – non aveva fatto molto per
meritarselo e non l'aveva cercato, ma loro gli si erano affezionati
comunque.
-
In quel caso ti ringrazio, perchè quel bastardo di Winters mi
ha appena buttato fuori. - rivelò. Gunther emise un lamento
basso, grattandosi la nuca mentre consegnava a Levi le chiavi della
sua moto.
Gli
rivolse un sorriso comprensivo che, di nuovo, lasciò Levi
lievemente turbato. Persino il soprannome che gli avevano dato –
capo – non era assolutamente una novità, eppure
lo lasciava sempre basito. - Ho sentito di un riccone che cerca una
specie di guardia del corpo, tuttofare... con un curriculum come il
tuo dubito che il tipo passerebbe più di due secondi a
considerare l'idea di prenderti. -
Levi
valutò la prospettiva. Un lavoro valeva un altro – era
così che aveva vissuto per quasi tre anni, e non era la
peggiore vita che potesse vivere. Non sentiva la mancanza
dell'esercito, e non aveva raccontato a nessuno perchè lo
avesse lasciato, ma non importava granchè. Agli occhi della
società non era un fuggitivo quanto più una vittima –
i tempi in cui i soldati erano rispettati e quelli rimandati a casa
visti come disertori era passato da tempo. - Va bene. - decise,
riportando le proprie attenzioni su Gunther. - Ha un numero di
telefono o un indirizzo, il tipo? -
Gunther
telefonò al proprio collega per saperlo, e gli consegnò
entrambi un paio di minuti dopo. Avrebbe anche potuto evitare di
farlo – Levi conosceva entrambi a memoria. Erano stipati in un
angolo del suo portafogli, scarabocchiati su un pezzo di carta
vecchia di quasi tre anni. Si concesse un sorriso amaro solamente
quando fu lontano dall'officina di Gunther, dopo averlo ringraziato;
un lavoro valeva davvero l'altro, ma l'idea di ricontattarlo non lo
entusiasmava troppo. C'era un motivo per cui aveva evitato Erwin
Smith in tutti quegli anni – ed era la paura di riscoprirsi
spaventato da lui tanto quanto il giorno in cui aveva abbandonato
Najaf.
*
* *
“Un
lavoro vale l'altro” fu
la frase che continuò a ripetersi per tutto il – troppo
breve – tragitto in moto dalla periferia di Liverpool alla
Tenuta Smith, una villona abbastanza dimessa sei chilometri fuori dal
centro cittadino, circondata da acri e acri di giardino lasciato a sé
stesso. Erwin non aveva esagerato nel descriverla come una casa
troppo grande e troppo vuota. Anzi, riflettè osservando
l'enorme cancellata in ferro battuto e premendo un dito sul citofono,
forse si era risparmiato sui dettagli.
Un
crepitio, poi una voce che per quanto distorta e statica Levi
riconobbe con un brivido involontario sulla schiena. - Sì, chi
è? -
Levi
considerò per un attimo il dietrofront; ma arrivati a quel
punto, decise, sarebbe stato da idioti. - Sono qui per l'annuncio. -
si limitò a rispondere. L'attimo dopo sentì un rumore
forte separare la cancellata e permettergli l'ingresso. Persino il
vialetto in pietre bianche, che un tempo doveva essere stato
l'orgoglio del proprietario, ora era sporco e lasciato andare. Levi
lo percorse il più lentamente possibile, indugiando poi di
nuovo sulla porta d'ingresso.
-
Al diavolo. - borbottò, bussando pesantemente alla porta.
Quando quella si aprì, per un attimo chiuse gli occhi –
il tempo di godersi un ultimo raggio di sole e di immergersi nella
speranza che il suo passato non era tornato a tormentarlo. Il
silenzio attonito in cui rimase lo costrinse ad aprire gli occhi.
Era
cambiato. Erano dettagli minuscoli, ma gli ci volle un solo sguardo
per individuarli praticamente tutti. Aveva un lieve accenno di barba
sulle guance, lo sguardo stanco e spento, i vestiti decisamente
meglio tenuti di quelli che indossava all'ospedale di Najaf, ma
comunque bisognosi di una stirata che chiaramente Erwin non aveva
dato loro. Anche lui perse qualche secondo ad analizzare la figura
sulla porta, incredulo.
Levi
fu il primo a parlare. - Mi congelerò il culo, se non mi fai
entrare. - dichiarò, acido. Vide le sopracciglia folte di
Erwin aggrottarsi.
-
Non è esattamente così che immaginavo un dipendente
rivolgersi al proprio datore di lavoro. -
-
Ho firmato un fottuto contratto? -
-
No. -
-
Allora non sei il mio capo. -
-
Ma hai detto di essere qui per l'annuncio. -
-
Signor dottore. - Levi accentuò ogni lettera,
sporgendosi un po' di più verso Erwin ad ogni sillaba. - Hai
intenzione di farmi entrare o no? L'indirizzo me l'hai fatto avere
perchè mi ci pulissi il culo? -
Erwin
sospirò, ma si fece da parte. - Grazie. - borbottò
Levi, attendendo che l'altro richiudesse la porta e lo raggiungesse
all'interno. Grande non era nemmeno lontanamente l'aggettivo
giusto per descrivere la villa. Immensa o mastodontica
sarebbero stati più appropriati: l'ingresso era una specie di
torretta principale, da cui si dipanavano varie scalinate e che
ospitava almeno due o tre porte che dovevano dare su saloni da pranzo
o stanze simili. Aveva l'aria di essere uscita da un qualche film in
costume, nonostante fosse stata chiusa o abbandonata per anni. - Ti
tratti bene, dottore. - mormorò, voltandosi verso Erwin.
-
Grazie. - sorrise appena, dondolando sul posto. Sembrava in
imbarazzo. - E tu come stai? -
Levi
fece una smorfia. - Potrebbe andare meglio. - fu tentato di dire che
non sarebbe nemmeno stato lì non fosse stata per la
prospettiva di un lavoro, ma non voleva tirare troppo la corda.
Forse. Non ancora, sicuramente.
Rimasero
in silenzio, entrambi restii a proseguire la conversazione. Fu Erwin
a riprenderla, evidentemente insofferente a quell'attesa. - Sei
davvero qui per il lavoro o è solo una scusa campata in aria?
-
-
No, sono qui per il lavoro. - ammise Levi, appoggiandosi a una
cassettiera polverosa e resistendo a malapena alla tentazione di
starnutire. - Mi ha avvisato un conoscente, e al momento sono
disoccupato...pensavo sarebbe stata un'ottima opportunità per
usare quel numero di telefono. -
Erwin
alzò un sopracciglio, ma non sottolineò il fatto che
Levi non aveva usato nessun numero di telefono. Incrociò le
braccia sul petto, indicando con la testa la porta sulla sinistra. -
In quel caso vieni, ti faccio vedere la casa. Il lavoro consiste
soprattutto nel prendersene cura, non so se ti piacerà. -
-
Oh, quanto mi conosci. - mormorò Levi, seguendolo all'interno
di una saletta scarsamente illuminata, ancora più polverosa
dell'ingresso. Si chiese distrattamente da quanto tempo Erwin fosse
tornato dall'Iraq. Non era interessato a chiederglielo personalmente,
né voleva scatenare ricordi seppelliti da tempo.
-
Come ti ho detto, il lavoro è simile a quello di un
maggiordomo. Consiste nel prendersi cura della casa, pulirla...sto
anche pensando di ristrutturare alcune zone. - spiegò Erwin,
indicandogli il divano – uno dei pochi punti puliti dell'intera
stanza. - Non proprio un lavoro da ex Marine, giusto? -
Levi
si lasciò cadere sui cuscini imbottiti, guardandosi attorno. -
Ho lavato i piatti in una bettola fino all'altroieri. Non mi
sottovaluterei, se fossi in te. - lo avvisò. All'improvviso
Erwin sembrava imbarazzato, come fosse restio ad accettare l'idea di
avere attorno Levi. Strano. Due anni prima sembrava restio a mollarlo
due secondi in pace.
-
Ci sarebbe un'altra cosa... - mormorò piano. Levi si fece
avanti per ascoltarlo meglio, ma qualunque cosa Erwin fosse in
procinto di dire venne interrotta da un rumore improvviso: una
risata, seguita da piccoli passi irregolari. Come in un sogno –
un incubo – Levi fissò il volto di un bambino sui
tre anni affacciarsi al salone e poi correre in direzione dell'uomo
sul divanetto di fronte a quello su cui lui era seduto, all'urlo di
“Papà!”. Dovette attendere un secondo per trovare
le parole da rivolgere ad Erwin.
-
NO. - fu tutto quello che riuscì a biascicare dopo un'attenta
riflessione. Vide i lineamenti dell'altro quasi crollare in
un'espressione che implorava pietà, mentre il marmocchio si
arrampicava sul divano scalciando e poi sul suo braccio.
-
Eren è un bambino molto responsabile. - si giustificò,
allontanando piano il bimbo in procinto di mordergli un dito. - Non
c'è bisogno che tu stia a guardarlo continuamente. -
-
Non voglio guardare Elena nemmeno con un binocolo, figurarsi
stare rinchiuso con lui tutto il giorno. - protestò,
allontanandosi nell'angolo più distante del divano. Il
piccoletto alzò due grandi occhi verdi nella sua direzione e
gli sorrise. Gli mancavano entrambi gli incisivi. - E non mi hai mai
detto di essere padre. -
Erwin
prese in braccio il bimbo, che si accoccolò contro di lui,
affondando il nasino nella sua giacca. - Non...non è mio
figlio. Non hai ancora capito? - Levi scosse piano la testa, confuso.
- Eren è... è il figlio della signora Jaeger. È...
-
Levi
scattò in piedi, rifugiandosi nell'apparente sicurezza del
retro del divano. Quel cosino impegnato a succhiare le coccole via
dal suo possibile datore di lavoro era lo stesso cosino che anni
prima aveva dato il via a una serie di attacchi di panico che gli
erano costati la carriera militare – dare la colpa a quelli era
stato molto più semplice che dare la colpa a se stesso. Scosse
la testa, dirigendosi verso le porte e ignorando il neonato bisogno
di portarsi le mani alla gola per ritrovare il respiro, scavando via
l'ansia con le proprie unghie. Non era il primo attacco, non sarebbe
stato l'ultimo, ma non poteva accadere di nuovo davanti ad Erwin, non
voleva la sua compassione, non...
-
Devo andarmene. - riuscì ad annaspare. Con la coda dell'occhio
vide Erwin abbandonare il bambino sul divano e tentare di
raggiungerlo, allungare una mano nella sua direzione. Lo evitò
voltandosi e scostandolo via, ma il movimento coincise con un
capogiro da paura; Levi crollò a terra, rimproverandosi
mentalmente. Doveva sembrare un idiota. Sembrava sicuramente un
idiota. Non voleva alzare lo sguardo, non voleva essere compatito.
Doveva davvero andarsene...
Un
paio di mani troppo piccole si posarono sul suo volto e lo rivolsero
verso l'alto. Levi non riuscì a reagire, né ad
allontanarsi da quel tocco: terrorizzato a morte, rimase a fissare il
piccolo volto del bambino e i suoi occhi privi di pena, quasi
divertiti. Le sue mani erano fredde contro la sua pelle troppo calda,
così simili e così diverse da quella della bambina di
Najaf che Levi fu in grado di dimenticarsene, per un momento
soltanto. Le dita premettero contro le sue guance in maniera quasi
comica, e il bimbo sorrise di nuovo a bocca aperta.
-
Non avere paura. - disse. Aveva una vocina che Levi non seppe
definire, troppo impegnato a controllare il proprio respiro per
concentrarvisi. Non vedeva più Erwin, non vedeva più la
stanza; ma gli occhi verdi del bambino – gli occhi verdi di
Eren – erano incredibilmente difficili da abbandonare,
lo inchiodavano alla realtà. - Anch'io ho paura, ma quando
papà mi fa così la paura mi passa. -
Le
mani di Eren lo abbandonarono per un solo istante, e in quello dopo
erano nuovamente attorno a lui – una affondata nei suoi
capelli, l'altra ancorata alla sua spalla. Levi sgranò gli
occhi, mentre il bimbo carezzava la sua testa con lenti movimenti
circolari. Non aveva mai permesso a nessuno di abbracciarlo in quel
modo; o meglio, nessuno l'aveva mai fatto. Stava cercando di
soffocare i singhiozzi causati dal panico, ma l'essere escluso alla
vista di Erwin da quell'abbraccio gli concesse di abbandonarsi alle
lacrime solo per un breve momento. L'attimo dopo Levi si allontanò
piano da quel tocco, e il bambino lasciò cadere le braccia
lungo i propri fianchi, un ghignetto sulle labbra e le guance rosse
di soddisfazione.
Levi
attese che il suo respiro fosse tornato normale, prima di alzare lo
sguardo. Lui lo guardava in silenzio, esterrefatto. La sua
espressione mutò in un sorriso tranquillo, mentre Eren
trotterellava di nuovo verso di lui. Levi si alzò e si
ricompose, tossendo per darsi un contegno – ma scoprì
che nei modi di Erwin non c'era il minimo accenno di pietà per
lo spettacolo di poco prima. Aveva un'espressione rigida e composta
che gli ricordò quella che aveva avuto sotto la luna, una
notte di due anni e mezzo prima.
-
Hai intenzione di accettare il lavoro? -
Non
fece commenti sul fatto che i suoi attacchi di panico fossero solo
peggiorati da quando se n'era andato da Najaf; nessuna domanda
riguardo eventuali terapie, nessuna insistenza. Levi si prese un
attimo per considerare l'idea, poi annuì.
-
Ci penserò su. -
E
sapevano entrambi che l'avrebbe fatto davvero.
*
* *
Presente
Tenuta
Smith
Erwin
alzò una mano per ripararsi dalla luce del sole al tramonto;
era uno spettacolo meraviglioso, vederlo calare dietro gli alberi del
giardino. Sapeva dove sarebbe dovuto andare – conosceva quel
posto, dato che aveva aiutato a costruirlo – ma indugiava sulla
strada, consapevole della piccola figura che lo seguiva convinta di
passare inosservata.
-
Eren. - chiamò, quando non potè più ignorare le
capriole nell'erba e le corse a perdifiato per nascondersi dietro il
tronco di un albero. Il ragazzino venne allo scoperto, le mani unite
a mò di pistola tese davanti a sé. - Cosa stai facendo?
-
Eren
sembrò pensarci un attimo. - Sono un ninja. - rivelò
poi, emettendo suoni di presunti spari con la bocca.
-
I ninja non usano le pistole. - lo corresse Erwin, tornando indietro
per posare una mano sui suoi folti capelli castani. Eren abbassò
le mani deluso, ma dimenticò subito le proprie aspirazioni,
avendo individuato ciò per cui aveva seguito suo padre.
-
Ecco papà! - esclamò, correndo via dalla presa di Erwin
e verso la figura seduta all'ombra di un albero, di fronte a due
lapidi. Levi dovette averlo sentito, perchè si alzò in
tempo perchè Eren crollasse contro le sue gambe e Levi lo
abbracciasse. Quando Erwin li raggiunse, vide che aveva sul volto un
sorriso sincero, nonostante stesse rimproverando Eren per essersi
rotolato nell'erba. Tossì appena per attirare la sua
attenzione, e Levi si voltò a guardarlo.
-
Mi spiace se ti abbiamo disturbato. -
-
Non fa nulla, avevo finito. - rivelò lui, voltandosi verso le
due lapidi. Erano circondate da fiori freschi, e nella penombra del
tramonto Erwin ripensò al giorno in cui aveva scoperto Levi
intento ad incidere i nomi dei suoi fratelli in quelle pietre. Aveva
fatto un ottimo lavoro: non aveva mai conosciuto Isabel e Farlan, ma
era sicuro che quel posto sarebbe piaciuto ad entrambi.
-
Hai parlato con gli zii, papà? - domandò Eren. La mano
di Levi si strinse attorno alla sua e lui annuì piano,
portando poi la propria attenzione sulla scatolina tra le mani di
Erwin. Lui gliela porse.
-
Sono venuto a chiamarti soprattutto per questa. - spiegò,
mentre Levi se la girava tra le mani, curioso. - Ci ho messo un po' a
trovarle, ma alla fine ce l'ho fatta. Spero ti possa far piacere. -
Levi
aprì la scatola, e per un momento soltanto Erwin fu sicuro di
aver visto un misto di stupore e terrore sconvolgere i suoi
lineamenti. Le sue dita si strinsero attorno al contenuto del
pacchetto, due catenine di quelle date in dotazione ai militari.
Carezzò le piastrine con reverenza, alzando poi lo sguardo su
Erwin.
-
Come sai che sono quelle vere? - sussurrò. Erwin sorrise
piano, indicando le incisiosi sul retro di entrambe le piastrine.
-
Ho visto l'incisione dietro la tua. Ho pensato che l'avrei trovata
anche sulle loro, e avevo ragione. - spiegò.
Levi
ricordava il giorno in cui Farlan aveva proposto a lui ed Isabel di
incidere quelle due ali dietro le rispettive piastrine. Non c'era
stato un motivo – era sembrata un'idea stupida, e Farlan era
pieno di idee stupide che in qualche modo riusciva sempre a mettere
in atto. Strinse la mano attorno al metallo freddo, beandosi di
quella sensazione. Non c'era bisogno che ringraziasse Erwin. Non
l'aveva mai fatto, non a parole. Si avvicinò a lui mentre Eren
carezzava piano le magnolie sulla tomba di Isabel, e lo vide chinarsi
piano per baciarlo nella maniera delicata e attenta in cui solo Erwin
riusciva a baciare. Lasciò vagare la mano libera sulla nuca
del più grande, mentre la mano sinistra di Erwin si posava sul
suo fianco, in prossimità della grossa cicatrice che lui
stesso aveva chiuso, salvandolo da morte certa.
-
Stai bene? - domandò Erwin. Levi fu grato della preoccupazione
nella sua voce – non era pietà, non era compassione: era
qualcosa che avevano compreso e coltivato nel corso degli anni,
qualcosa che era felice di aver conosciuto grazie a lui.
-
Sto bene. - confermò, annuendo piano contro la fronte di
Erwin. Gettò un ultimo sguardo sulle due tombe – e su
Eren, troppo distratto da un ape per guardare nella loro direzione. -
Andiamo a casa. -
___________________________________________________
Vi
capita mai di tradurre delle frasi mentre scrivete? All'improvviso le
ultime parole di questo capitolo suonano come “Let's get
home”, che è il motivo per cui ho intitolato la fic
così. Mi rendo conto che sia una scelta un po' strana, ma
tutto considerato è il titolo più inerente che abbia
mai dato ad una storia, ed è tutto dire ahahahahah
Insomma,
ce l'ho fatta! Dopo...troppi mesi, ho aggiornato la mia long eruri.
Siamo appena all'inizio degli avvenimenti, ma spero di aver dato
un'idea di come sia la relazione di Erwin e Levi, e di avervi
incuriosito circa come sono arrivati a provare questi sentimenti uno
nei confronti dell'altro. La storia proseguirà in questo modo,
anche se nei capitoli successivi il presente sarà molto più,
ehm, presente (?).
Mi
dispiace per l'inaccuratezza generale di alcuni punti della trama –
il conflitto in Iraq, i termini medici o militari, gli attacchi di
panico...ho cercato di dare il meglio riguardo tutto, e spero suoni
credibile. Non vedo l'ora di scrivere il terzo capitolo, che dovrebbe
introdurre la storia di Jean, Marco o Ymir – devo ancora
decidere – e soprattutto qualche approfondimento circa il
personale della Tenuta Smith, o il lavoro di Erwin. E più
Moblit. Sicuramente più Moblit.
La
canzone che Levi sente (Escape, di Rupert Holmes) è davvero
molto carina, e descrive molto l'atmosfera che ho voluto immaginare
per Liverpool. Vi consiglio un ascolto :D
Per
quanto riguarda il resto, lascio i miei contatti nel caso vogliate
contattarmi su una piattaforma diversa da EFP/AO3. Ci risentiamo al
prossimo capitolo!
-
Joice
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