Picking up the pieces.

di Alaska__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** O1 • Niklas/Chloe ~ «Test di gravidanza» • ***
Capitolo 2: *** O2 • Sothy/Aibek ~ «Scommetto che non hai mai baciato nessuno». «Perché, tu sì?» • ***
Capitolo 3: *** O3 • Finnick/Johanna ~ «Finnick fa una lavata di capo a Johanna» • ***
Capitolo 4: *** O4 • Franziska/Jonathan - «Non ti senti mai in colpa per tutti quei ragazzi morti?» • ***
Capitolo 5: *** O5 • Rue/Thresh ~ «Ma tu non ti stanchi mai?» • ***
Capitolo 6: *** O6 • Keith/Blight ~ « Gatti » • ***



Capitolo 1
*** O1 • Niklas/Chloe ~ «Test di gravidanza» • ***


Prompt: Test di gravidanza.
Personaggi: Niklas Brauer; Chloe Olsen. [ OCs ]
Coppia: Niklas/Chloe; Fidanzati.
Rating: Verde.
Genere: Introspettivo; Slice of life.
Lunghezza: One-shot [ 1348 parole ]
Avvertimenti: //
Note: Niklas e Chloe sono due miei OC, entrambi del Distretto 9. Vi lascio una breve spiegazione su chi sono.
Niklas Brauer: Vincitore dei sessantaseiesimi Hunger Games. Orfano di madre, che morì nel darlo alla luce, per buona parte dell'infanzia ha vissuto con il padre alcolizzato, che aveva il brutto vizio di picchiarlo. L'uomo morì durante una rissa, lasciando Niklas da solo. Il bambino venne portato a casa di suo Yezekael Sparrow, vincitore della quarantonovesima edizione, eroinomane che non riusciva a curarlo, lasciandolo crescere allo sbaraglio. A circa tredici/quattordici anni, Niklas brucia - insieme al suo migliore amico Mark - il granaio del Signor Roth, un ricco proprietario terriero. Il suo amico viene preso e catturato dai Pacificatori, cosa che fa diventare Niklas autolesionista - in quanto vuole "punirsi" per la morte del suo amico e di sua madre, morti entrambi - secondo lui - per causa sua. A diciotto anni viene Mietituto per i sessantaseiesimi Hunger Games, che riesce a vincere contro ogni previsione.
Chloe Olsen: vorrei che la sua storia rimanesse segreta per un po'. xD Per intanto, vi basti sapere che è la figliastra dell'odiatissimo Singor Roth e che è rimasta praticamente da sola - sua madre, sua sorella e suo padre sono morti.

Ringrazio moltissimo darkangel98 per il prompt. ♥




 





Picking up the pieces 



I. Test di gravidanza


 
Si stropicciò gli occhi, sdraiato sul morbido letto della sua stanza nell’appartamento al nono piano. I capelli biondi erano quasi più spettinati del solito, ma poco gli importava. Il suo tributo era appena morto – l’unica cosa che contava era questa. Per quella che era ormai l’ottava volta, Niklas non era riuscito a salvare un ragazzino innocente, vedendolo morire, trafitto dal coltello della ragazza del Distretto 2.
Ormai ci era quasi abituato. Un mentore doveva sopportare anche questo, era parte del loro duro lavoro.
Aprì gli occhi, osservando il soffitto sopra di lui. Il giorno dopo sarebbero tornati a casa, lui e Karen, senza i due ragazzini che erano stati con loro fino a quella mattina. L’altra mentore lo aveva lasciato poco prima, augurandogli – anche se con voce rotta – la buonanotte.
Lo squillo improvviso del telefono spezzò il silenzio della sua stanza. Niklas allungò di malavoglia il braccio verso il comodino. Si mise a sedere, portando la cornetta all’orecchio destro.
Non ebbe neanche il tempo di dire «Pronto?» che una voce femminile lo travolse.
«Niklas? Niklas? Sei tu vero?»
Sorrise. «No. È il senza-voce che ti parla». Poteva quasi sentire il ringhio arrabbiato di Chloe – la sua ragazza – nel sentire quella risposta. Non lo avrebbe mai ammesso di fronte a lei o di fronte a qualcun altro, ma gli mancava, malgrado i suoi mille difetti – i quali, secondo Niklas, non facevano che renderla ancora più interessante.
«Deduco che sia tu, considerato il tono gentile e simpatico». La voce di Chloe – dall’altra parte della cornetta – aveva una nota sarcastica, ma Niklas avvertì anche una certa agitazione, nelle parole della ragazza.
«Mi hai chiamato per dirti che ti manco?» Sorrise beffardo, tornando a sdraiarsi sul letto. «O vuoi fare del sesso telefonico?» Ridacchiò, ma Chloe non parve condividere la sua gioia.
«Quando la smetterai di fare l’imbecille, Niklas, dovrei chiederti una cosa importante». La ragazza sospirò in modo preoccupante e il sorriso di scherno del Vincitore scomparve dal suo volto.
«Ti è successo qualcosa?»
«No, ascol-»
«È successo qualcosa a mio zio?» Era la paura di Niklas, quella: temeva che qualcuno dei suoi cari stesse male mentre lui era via; suo zio in particolare. Non erano rare le volte in cui aveva persino paura di entrare in casa sua e di trovarlo riverso sul pavimento, stroncato da un’overdose.
«No! Fammi parlare!»
Il venticinquenne ammutolì, ben sapendo come reagiva Chloe quando si arrabbiava. «Parla».
«M-mi servirebbe una cosa» balbettò la ragazza. «Una cosa che si trova solo a Capitol City».
Niklas aspettò che proseguisse, ma l’unica fonte di rumore tra loro era il ronzio del telefono.
«Se magari mi dicessi cosa ti serve, potrei prendertelo».
Sentì Chloe fare un sospiro ancora più pesante del precedente. Poteva quasi immaginarla: in piedi accanto al telefono, nel salotto della loro casa al Villaggio dei Vincitori, con i capelli biondi legati in una pratica coda di cavallo e l’aria agitata. Sorridere gli venne spontaneo.
«Un test…» iniziò la giovane.
«Un test?» Niklas inarcò le sopracciglia, sentendo ritornare il silenzio di poco prima.
«Di gravidanza».
Il Vincitore si mise a sedere di scatto, sgranando gli occhi azzurri. La mano cominciò a tremargli in maniera convulsiva.
Un test di gravidanza.
Non rispose, fissando un punto nel buio con insistenza. Magari è solo un accertamento, magari non è davvero incinta si ripeteva, cercando di dare un senso a quelle parole.
Lui. Padre.
«Ehilà? Cerco un certo Niklas Brauer, è sicuro che sia lì?»
Il venticinquenne si riscosse dallo stato di apatia in cui era caduto. Scosse il capo con aria agitata.
«Sei… incinta?» Dire quella parola gli faceva paura, come se pronunciarla rendesse il tutto più reale. Non che fosse triste, in caso Chloe fosse incinta. La cosa di cui aveva più paura era vedersi con un bambino in braccio – lui, che quasi non sapeva neanche badare a se stesso.
«Non lo so, Niklas. Secondo te perché faccio il test?»
«Io… te lo prendo domani. Ma com’è possibile che tu sia incinta?» Il suo tono di voce – di solito basso e leggermente rauco – aveva assunto una nota stridula.
«Non lo so. Non so neanche se sono incinta, ti ho detto. Evidentemente…» La voce di Chloe, invece, aveva assunto un tono di scherno. Poteva quasi vederla sorridere con aria maliziosa. «… quando si tratta di sesso non sei così tanto bravo come dici di essere».
Il ragazzo arrossì, ringraziando il cielo che non ci fosse nessuno a vederlo. «Domani. Test di gravidanza. Lo prendo» tagliò corto.
«Bravo! A proposito, mi dispiace per il tuo tributo». Niklas si sentì leggermente più rincuorato, nel sentire quelle parole, nonostante i chilometri che dividessero lui e Chloe.
«Ormai ci sono abituato». Liquidò la cosa con una scrollata di spalle.
«Tanto lo so che dici balle. Ne riparliamo meglio quando torni, d’accordo? Ora devo andare a dormire».
«Va bene. Buonanotte e sogni d’oro». Fece per appoggiare la cornetta, ma la voce di Chloe lo costrinse a tenerla appoggiata all’orecchio.
«Niklas! Mi manchi, sai?»
Il Vincitore sorrise. «Anche tu» ammise, prima di poggiare la cornetta sul telefono e tornare a riflettere. Oltre al problema dei tributi morti, ora ne aveva un altro.
 
*
 
«Chloe, quanto cavolo ti manca?»
La voce spazientita di Niklas era attutita dalle mura e dalla porta del bagno che li divideva. Chloe alzò gli occhi al cielo, con impazienza, lanciando uno sguardo al test di gravidanza che aveva appoggiato sul lavandino.
«Ti ho detto che ci vuole un attimo, Niklas» replicò, alzandosi e appoggiando le mani sul marmo freddo, accanto all’aggeggio che il suo ragazzo aveva portato per lei da Capitol City. Lo sentì sbuffare, ma fece finta di niente.
Un sorriso di scherno si aprì sul suo volto, mentre ripensava alle condizioni in cui si era presentato a casa Niklas, quel giorno. Il pensiero di diventare padre lo spaventava – glielo si leggeva nei suoi occhi azzurri che di solito avevano una lucentezza da ragazzino, nonostante i ventisei anni che avrebbe compiuto a dicembre.
Chloe portò una mano all’altezza del ventre, toccandolo delicatamente, quasi avesse paura di far del male a quella piccola creaturina che – con ogni probabilità – stava crescendo lì dentro. Il pensiero di diventare madre spaventava anche lei, ma era contenta di aver qualcuno a cui badare, qualcuno a cui voler bene di nuovo, oltre a Niklas, dopo che la vita le aveva portato via le persone a cui teneva di più al mondo.
Non era sicura di aspettare un bambino, ma i sintomi c’erano tutti – le nausee che arrivavano nei momenti meno opportuni, ad esempio. Solo il giorno prima le era venuto da vomitare mentre stava cercando di prepararsi qualcosa da mangiare, ed era stato proprio in quel momento che si era resa conto di non avere il ciclo da almeno un mese.
«Allora?»
Questa volta, Chloe si diresse verso la porta del bagno, spalancandola con furore – Niklas era un bravo fidanzato, nonostante tutto, ma certe volte le faceva venire i nervi a fior di pelle.
«Alleluia» commentò, quando vide la faccia di Chloe, ma il suo sorrisetto sparì subito non appena la ragazza gli puntò un dito al petto.
«Primo: devi darmi il tempo di pisciare, se vuoi che io scopra se sono incinta!» strillò.
«D’accordo, adesso calm-».
«Secondo!» Chloe non gli diede nemmeno il tempo di replicare. «Ci vuole un attimo ora che quel marchingegno si muova per farmi vedere se sono incinta o meno».
«Ho capi-».
«Terzo!» Niklas andò a sbattere contro il muro dall’altra parte del corridoio. Sebbene Chloe fosse molto più bassa di lui, in quel momento pareva sovrastarlo. «Hai fatto il danno e adesso aspetti».
«Io non ho fatto nien-».
«Quarto: mai far incazzare una donna incinta, specialmente se si tratta di me. Chiaro?»
Il giovane abbassò lo sguardo, per poi rialzarlo subito dopo e portare due dita all’altezza del sopracciglio destro. «Agli ordini, capo».
Chloe gli fece la linguaccia e girò i tacchi per tornare nel bagno. Chiuse rumorosamente la porta dietro di sé, dirigendosi verso il lavandino. I suoi occhi verdi dardeggiarono subito in direzione del test di gravidanza.
Sul piccolo schermo posto al centro dell’oggetto c’era una parola: pregnant – incinta. 


 

Alaska's corner

Eccola qui, la prima storia di questa raccolta. Ammetto che è proprio senza pretese, anche perché mi veniva da ridere mentre scrivevo. xD
Comunque, non ho idea se esistano o meno i test di gravidanza a Panem - almeno nei Distretti, specialmente in quelli poveri come il 9. Quindi, ho inserito la prima scena, per giustificare la cosa.
Per quanto riguarda il telefono nell'appartamento dei Tributi... altra cosa che non so. La Collins non lo fa sapere nella saga, ergo sono andata a caso.
Ringrazio ancora darkangel98 per il prompt! ♥
Vi invito ad entrare nel nostro guppo: fidatevi che è divertente :D
Un abbraccio,
Alaska. ~

 

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Capitolo 2
*** O2 • Sothy/Aibek ~ «Scommetto che non hai mai baciato nessuno». «Perché, tu sì?» • ***


Prompt: «Scommetto che non hai mai baciato nessuno». «Perché, tu sì?»
Personaggi: Sothy Galbraith e Aibek Ford. (OCs)
Coppia: Sothy/Aibek; alleati. 
Rating: verde.
Genere: Introspettivo, malinconico, fluff. 
Lunghezza: flashfic (334 parole).
Avvertimenti: //
Note: Sothy e Aibek sono due miei OC, del Distretto 3 lei e del Distretto 6 lui. Vengono estratti - rispettivamente a quattordici e dodici anni - per partecipare ai sessantacinquesimi Hunger Games, durante i quali si alleano. Sothy è una ragazzina davvero intelligente, con un quoziente intellettivo sopra la media. Aibek è un semplice ragazzino, orfano di padre, che sogna di volare sulla luna (?).

Ringrazio tantissimo Kary91 per il prompt ♥ Spero che ti piaccia e scusa ancora se ho fatto fare una brutta fine a questa coppietta *///*








Picking up the pieces 



II. «Scommetto che non hai mai baciato nessuno».
«Perché, tu sì?»


 
Gli occhi chiari di Sothy erano rivolti ad un punto imprecisato del bosco – forse il tronco dinnanzi a lei, coperto di muschio, oppure la terra appena smossa poco prima, mentre cercava di estrarre una radice commestibile.
Aibek la osservava di sottecchi, mangiucchiando una delle misere strisce di carne essiccata che gli Strateghi avevano inserito nello zaino preso dalla ragazzina del Distretto 3 alla Cornucopia.
Guardava i suoi occhi, Aibek, così grandi e così grigi, come il cielo del Distretto 6 quando il fumo delle officine si levava verso le nuvole, e come gli occhi di suo padre – che in quel momento erano chiusi e lo sarebbero stati per sempre.
«Pensi al fidanzato, Galbraith?» Il dodicenne la sbeffeggiò, punzecchiandole il braccio destro con un dito. Sothy parve risvegliarsi dall’apatia in cui era caduta pochi minuti prima, voltandosi di scatto verso il suo alleato.
«Che hai detto?»
«Ho detto», Aibek sogghignò, divertito all’idea di farla arrabbiare, «se stai pensando al tuo fidanzato».
La quattordicenne alzò gli occhi al cielo, con aria stizzita. «Non ho un fidanzato» ribatté piccata, piantando il tacco del suo scarpone destro nel morbido terreno.
«Scommetto che non hai mai baciato nessuno» ghignò il tributo del Distretto 6.
La sua alleata inarcò un sopracciglio. «Perché, tu sì?»
Il dodicenne arrossì, abbassando lo sguardo e tornando a mangiucchiare la striscia di carne essiccata. Non aveva mai baciato nessuna ragazza – non aveva fatto in tempo, prima di essere estratto per gli Hunger Games.
I suoi occhi si posarono sulle labbra di Sothy – che, nel frattempo, era tornata ad essere sovrappensiero. Aveva una bocca piccola, ma sembrava morbida.
Chissà che sapore hanno le labbra delle ragazze.  
Forse – si disse Aibek – prima della sua morte avrebbe potuto chiederle di baciarla, giusto per provare.
«E se bacio te?»
«E se baciassi te» lo corresse Sothy, con la voce che pareva provenire da un altro pianeta e gli occhi grigi ancora fissi su un punto poco lontano da lei.
Aibek sbuffò.
Non l’avrebbe mai avuta vinta con quella ragazzina. 


 

Alaska's corner

Penso non ci sia molto da spiegare, oltre a quello scritto nelle note iniziali x3
Sothy e Aibek hanno partecipato all'edizione in cui ha vinto Finnick, quindi sì, sono morti entrambi. Non si sono mai baciati, poi, ma alcuni lettori li shippavano ed effettivamente sono carucci come coppietta. Lei è un po' saccente, quindi potrebbe sembrare antipatica, ma in realtà è molto dolce. ♥
Torno a stilare la classifica per i venticinquesimi HG.
Alaska. ~

 


 

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Capitolo 3
*** O3 • Finnick/Johanna ~ «Finnick fa una lavata di capo a Johanna» • ***


Prompt: Finnick fa una lavata di capo a Johanna. 
Personaggi: Finnick Odair; Johanna Mason. 
Coppia: Finnick/Johanna; amici. 
Rating: verde.
Genere: introspettivo, malinconico. 
Lunghezza: one-shot [ 909 parole ].
Avvertimenti: //
Note: penso ci sia poco o nulla da dire. I Johannick li shippo solo come bromance, infatti nella raccolta non vedrete mai loro due come una coppia di innamorati. 
La OS qui sotto è ambientata durante i settantatreesimi Hunger Games e fa riferimento alla mia long Hurricane of fire. Precisamente, è da collocarsi subito dopo che è morta Anya, il tributo di Johanna.

Ringrazio tantissimo vero_91 per il prompt ♥




 






Picking up the pieces 



III. 
Finnick fa una lavata di capo a Johanna


 
Finnick Odair entrò con passo marziale nell’appartamento al settimo piano, senza neanche aspettare che la porta dell’ascensore si aprisse completamente, consentendogli, così, un passaggio più agevole.
Il posto era silenzioso e in penombra. I raggi del sole filtravano attraverso le tapparelle abbassate, rendendo l’appartamento ancora più cupo di quanto già non fosse.
Una senza-voce puliva un tavolino, con le maniche della lunga toga rossa leggermente sollevate, per permetterle di lavorare con più facilità. Nel vedere entrare il Vincitore dei sessantacinquesimi Hunger Games, levò il capo, sbarrando gli occhi azzurro ghiaccio in un’espressione sorpresa e allarmata.
Finnick, dal canto suo, le lanciò una breve occhiata, premurandosi che ella non andasse a chiamare qualcuno. Che lui sapesse, erano i tributi a non poter spostarsi da un appartamento all’altro, non i mentori. Johanna – con tutte le visite che gli faceva al quarto piano – sembrava non dar peso alle possibili conseguenze, andando a salutarlo e chiacchierare ogni volta che poteva.
Il ventiduenne percorse un buio corridoio, trovandosi dinnanzi ad una porta chiusa. Senza ombra di dubbio, era quella di Johanna Mason. Le altre erano tutte aperte. Solo quella di Blight – che stava preparando le valige – aveva la porta semichiusa. A Finnick si strinse il cuore nel vedere il Vincitore indaffarato con tutti i suoi vestiti, pronto per tornare a casa di lì a poche ore. Erano partiti in quattro, due mentori e due tributi, e si erano ritrovati ad essere ancora in due.
Si sentì quasi in colpa, poiché entrambi i suoi tributi erano ancora vivi e lui, al contrario dei Vincitori del 7, non doveva ancora preparare un funerale, e presentarsi alle famiglie dei caduti.
Fatto un veloce cenno di saluto a Blight, spalancò la porta della camera di Johanna, senza nemmeno bussare. Non sarebbe servito: lei non gli avrebbe dato il permesso di entrare, o, nel peggiore dei casi, lo avrebbe mandato a quel paese nel modo più volgare che il Distretto 7 potesse offrire.
La Vincitrice dei settantunesimi Hunger Games era seduta sul suo letto, le cui lenzuola erano sgualcite e gettate ai piedi del materasso. Aveva le ginocchia al petto, circondate dalle sue braccia magre e il mento appoggiato.
Per un solo istante, Finnick rivide la Johanna che aveva finto di essere debole pur di non farsi uccidere, quella ragazzina di diciassette anni che voleva solo tornare a casa. Le parve davvero una Vincitrice – nel vero senso della parola, una sopravvissuta.
Scosse la testa, passandosi una mano tra i suoi scompigliati capelli color bronzo. Non era lì per piangere o per farsi prendere dai sentimentalismi, ma per parlare con Johanna.
La diciannovenne alzò lo sguardo, e i suoi occhi scuri incontrarono le iridi verdemare del mentore del Distretto 4, in un misto di tristezza, rabbia e anche – forse – un po’ di sollievo per essere stata raggiunta da qualcuno nel buio della sua stanza.
«Che cazzo vuoi, Odair?» domandò, distogliendo lo sguardo e tornando ai suoi soliti modi bruschi – quelli che, Finnick lo sapeva, nascondevano la vera Johanna, quella che soffriva sempre per la sua vittoria agli Hunger Games, per aver perso tutto.
«Parlare». Il ventiduenne si sedette sul letto, accanto a lei.
«Se vuoi fare una chiacchierata dolce e amichevole… beh, hai sbagliato sia momento che persona». Johanna lo fulminò con lo sguardo, mantenendo la posizione in cui Finnick l’aveva trovata poco prima, al suo ingresso.
«Johanna, devi smet-»
«Ti ho detto che non ho voglia di parlare!»
«Ascoltami!» Finnick alzò la voce, afferrando la sua interlocutrice per un braccio pur di costringerla ad ascoltarlo.
Le iridi scure di Johanna si rivolsero alla mano abbronzata del giovane e, improvvisamente, si fece silenziosa.
«Devi smetterla di urlare certe cose rivolte a Snow» esordì Finnick, scostando la sua mano e appoggiandola questa volta sul morbido materasso dove si erano posizionati. La diciannovenne aprì la bocca per replicare, ma il Vincitore del Distretto 4 la fermò, alzando l’indice della mano destra. «Sta’ zitta. Lo sai che non va bene fare certe cose».
«E cosa dovrei fare, eh?» C’era rabbia, nella voce della giovane, ma Finnick non vi badò. L’aveva già vista anche in condizioni peggiori di quella.
«Fare il tuo lavoro. Istruire i tributi. Non è bene insultarlo così, davanti a tutti. Potrebbe fartela pagare».
Una risatina sarcastica interruppe le parole del giovane, mentre cercava di andare avanti con il suo discorso.
«Farmela pagare?» Johanna gli rivolse un sorrisetto amaro, abbandonando la posizione in cui si era seduta poco prima. «Finnick, me l’ha già fatta pagare! Ha ucciso  tutta la mia famiglia, mi ha tolto tutto. Come potrebbe farmi ancora del male?»
«Non lo so» ammise il ventiduenne, abbassando il capo e rivolgendo i suoi occhi all’intricato disegno formato dalle righe del pavimento. «Ma in qualche modo lo farà. E chissà che non cerchi di ucciderti».
«Tanto è il suo hobby preferito, uccidere dei giovani innocenti» replicò Johanna, abbassando il tono di voce.
«E tu non devi urlare contro di lui ogni volta che ne hai l’occasione». Finnick si alzò, scompigliando i capelli della giovane, la quale – arrabbiata – allontanò la sua mano.
«Io faccio quel che voglio, Finnick Odair. E ora torna giù dal tuo amico, visto che la vostra Sirenetta è ancora viva».
Il Vincitore le rivolse una lunga occhiata, tra il compassionevole e l’arrabbiato, prima di salutarla con un atono «ci vediamo» e uscire dalla stanza.
Fare delle lavate di capo a Johanna Mason era la cosa più difficile del mondo – forse anche più difficile della vittoria agli Hunger Games. 

 

Alaska's corner

Eccoci! Innanzitutto, spero vi sia piaciuta e vorrei ringraziare ancora vero_91 per avermi promptato la storia ♥
È da un po' che voglio scrivere una Johannick!Friendship, in particolare una OS su come è nata e si è evoluta la loro amicizia. 
Comunque, ho già detto che la storia è ambientata durante i settantatreesimi Hunger Games, dopo che è morta la ragazza a cui Johanna doveva badare - una ragazza che è una mia OC, a cui lei era molto affezionata. Farà poi la sua comparsa in una futura OS. :D
Vengono fatti degli accenni anche a un certo amico di Finnick e a una Sirenetta del Distretto 4, che sarebbero rispettivamente Conn (Connor) - il migliore amico di Finnick, Vincitore dei sessantottesimi Hunger Games - e Serena - il tributo femminile del Distretto 4 per quell'anno, chiamata da tutti Sirenetta perché il suo nome inizialmente doveva essere Sirena e perché ha imparato a nuotare velocissisimamente. Tralasciamo il fatto che suo padre è fissato con le sirene, insomma. 
Spero vi sia piaciuta :D
Un abbraccio,
Alaska. ~ 

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Capitolo 4
*** O4 • Franziska/Jonathan - «Non ti senti mai in colpa per tutti quei ragazzi morti?» • ***


 
Prompt: «Non ti senti mai in colpa per tutti quei ragazzi morti?»
Personaggi: Franziska Madison; Jonathan Kidman. [ OCs ]
Coppia: Franziska/Jonathan; madre/figlio. 
Rating: verde. 
Genere: Introspettivo, malinconico, triste. 
Lunghezza: one-shot [ 1.318 parole ].
Avvertimenti: spoiler eventuali per chi non conosce i due OC (?).
Note: Come ho già accennato, Franziska e Jonathan sono due miei OC del Distretto 6. Lei appare nella mia interattiva We all fall down like toy soldiers come mentore, perché ha vinto la cinquantaseiesima edizione degli Hunger Games. All'epoca era già madre da circa tre mesi, solo che sia lei che il suo ragazzo - Aaron - vennero estratti per partecipare ai Giochi. Gaudio e tripudio, insomma. 
È la prima volta in cui scrivo qualcosa su di loro aldilà dell'interattiva - nella quale John veniva appena menzionato nella parte dal PoV di Franziska - quindi sono emozionata! 
La scena scritta qui sotto è da collocarsi circa un paio di mesi prima dei settantaduesimi Hunger Games, una sera, mentre i due stanno guardando la replica dei sessantanovesimi Hunger Games in tv. Qui Jonathan ha sedici anni compiuti da poco e Franziska ne ha trentaquattro. 

Ringrazio tantissimo  giraffetta per il prompt ♥



 



Picking up the pieces 



IV. «Non ti senti mai in colpa per tutti quei ragazzi morti?»

 
 

L’unico suono a rompere il silenzio nel salotto era la voce di Caesar Flickerman, che, durante il consueto appuntamento con le repliche degli Hunger Games, descriveva con particolare minuzie il modo in cui era stato ucciso uno dei tributi.
Jonathan sbadigliò, scivolando ancora di più sul divano e reclinando il capo all’indietro. I suoi occhi marroni erano socchiusi nello sforzo di rimanere sveglio, ma, di tanto in tanto, il sonno prendeva il sopravvento e si ritrovava con le palpebre abbassate.
Poco distante da lui, sua madre leggeva un libro, appollaiata sul divano. Tra le mani stringeva una fumante tazza di tè e lo sorseggiava piano.
Il sedicenne sospirò, passandosi una mano tra i corti capelli castani e rivolgendo uno sguardo seccato alla televisione. Non c’era nulla di meglio da guardare – del resto, l’unico canale era quello di Capitol City e sembrava che si divertissero a trasmettere i Giochi ogni sera, per mantenere vivo l’incubo. Avrebbe tanto voluto uscire e giocare a calcio, ma ormai era tardi e lui – dopo un intero pomeriggio passato a studiare matematica per la verifica del giorno dopo – voleva solo stare sdraiato sul divano, ad oziare.
Nel frattempo, la tv trasmetteva le riprese del maschio del Distretto 6 che moriva, tra atroci sofferenze, dopo essere stato morso da uno strano ibrido. 
Con la coda dell’occhio, Jonathan osservò sua madre, stringendo le labbra in un’espressione di disappunto. Franziska teneva gli occhi chiari – così diversi da quelli del figlio – puntati sulle pagine del libro, senza degnare di uno sguardo l’immagine del tributo – il suo tributo – che moriva. La presa delle sue dita intorno alla tazza, però, sembrava essersi fatta più salda – lo si intuiva facilmente, viste le nocche che, all’improvviso, erano sbiancate.
Il sedicenne abbassò ancora di più il volume del televisore, per impedire a sua madre di sentire i versi del giovane morente. Quella notte – senza ombra di dubbio – lui l’avrebbe sentita urlare e sarebbe dovuto andare nella sua stanza per accertarsi che stesse bene. Era un rituale comune, ormai, dopo tanti anni di solitaria convivenza. Franziska urlava e Jonathan si intrufolava nel suo letto per calmarla: andava avanti da quando il sedicenne aveva quattro anni, e si svegliava – tremante e sudato – pensando che anche la sua mamma stesse morendo, proprio come aveva fatto il suo papà quando lui aveva appena tre mesi. 
Le sue iridi scure corsero istintivamente a cercare quella vecchia foto di Aaron che stava su un mobile accanto al televisore. Lo ritraeva giovane e sorridente, proprio com’era prima che morisse. A sentire Franziska, Jonathan gli assomigliava. Non passava anno senza che gli ripetesse più di una volta quanto fossero simili i loro occhi - color cioccolato, come li definiva sempre - i loro capelli, il sorriso e persino le loro lentiggini. E in quei momenti, gli occhi verdi della donna erano velati di malinconia, e si posavano – tristi – su un punto lontano, a rincorrere dolorosi ricordi che sembravano far parte della sua memoria solo per farle male, affondando nel suo cuore come una coltellata, fredda e letale.
Ancora una volta, il giovane si ritrovò ad osservare sua madre, chiedendosi quanto fossero forti i suoi sensi di colpa nei confronti di quel ragazzo che era appena deceduto, come aveva annunciato lo sparo di cannone.
«Mamma…» Quella parola gli sfuggì dalle labbra in maniera involontaria, senza che lui pensasse minimamente a quello che stesse per dire. Sapeva che l’argomento Giochi e quello morte erano tabù, quando si trattava di sua madre, eppure sentiva la necessità di parlarne con lei, senza che neanche lui capisse il perché.
La trentaquattrenne alzò lo sguardo dal libro. «Dimmi, Johnny». 
Il ragazzo si morse il labbro inferiore, sfuggendo allo sguardo inquisitore della madre. Doveva solo trovare in sé la forza per dire quella semplice frase, che lo avrebbe – secondo lui – fatto sentire leggermente più vicino alla donna che aveva accanto. Eppure, le parole parevano sfuggirgli di bocca, mentre tentava di metterle in fila per parlare.
«Non…», fece un bel respiro, «… non ti senti mai in colpa per tutti questi ragazzi morti?» concluse, indicando la televisione con un cenno del capo. 
Franziska rimase immobile, guardandolo con aria sorpresa. Jonathan si osservò le ciabatte, sentendo che il sangue iniziava a fluirgli copiosamente nelle guance, facendolo arrossire. 
«Se… se non te la senti di rispondermi…» balbettò, ma sua madre fece un sorriso stanco e chiuse il libro, appoggiandolo – insieme alla tazza – sul tavolino da caffè posto nello spazio tra il divano e il televisore. 
La donna si avvicinò un poco al figlio. «Ogni giorno. Ogni ora. Ogni minuto» rispose a voce bassa. 
«Scusa se ti ho fatta star male». Parlò in maniera anche troppo veloce, Jonathan, inceppandosi a metà frase e continuando a fatica. 
La Vincitrice dei cinquantaseiesimi Hunger Games allungò un braccio verso il sedicenne, prendendolo per mano e intrecciando le sue dita a quelle del figlio. Gli sorrise con dolcezza, scostandogli – con la mano destra – un ciuffo di capelli castani dalla fronte.
«Non mi sono offesa e non sono stata male» mormorò, appoggiando la guancia contro il braccio del figlio –  ben più alto di lei. 
«Pensavo che non volessi parlare di certe cose». 
Franziska sciolse l’intreccio delle loro mani, abbracciandolo con delicatezza all’altezza della vita. Jonathan ricambiò la stretta, passando – goffamente – un braccio sulle spalle della madre. 
Lo aveva toccato come si toccavano le cose fragili, quelle che si sarebbero rotte alla prima caduta. Lo toccava così da anni, finché Jonathan ne avesse memoria. Ogni volta che i loro corpi entravano in contatto – per un abbraccio, un bacio sulla guancia o semplicemente dei pugnetti amichevoli sul braccio – il sedicenne non provava mai dolore. Franziska lo trattava come una persona che sarebbe volata via da un momento all’altro, come se temesse che anche il figlio – così simile al padre – la lasciasse. Era il sentimento che Jonathan percepiva ogni anno, alla Mietitura, quando sua madre lo stringeva forte, prima che lui andasse in piazza ad unirsi ai suoi coetanei. 
Posò un bacio sui capelli biondi e spettinati della madre, legati in un pratico chignon che non riusciva, tuttavia, a tenerli a posto. «Lo sai che io ogni tanto mi sento in colpa?»
La donna alzò la testa, osservandolo e sciogliendo l’abbraccio. Prese il volto del figlio tra le mani, fissandolo con aria preoccupata. «Johnny, ma che dici?»
Il sedicenne fece spallucce, grattandosi la nuca con aria imbarazzata. Non sapeva spiegare nemmeno lui quella strana malinconia che a volte prendeva possesso del suo animo, mentre stava da solo da qualche parte, a pensare – ed era un suo vizio, quello: pensava troppo.
«Ogni tanto… mi sento in colpa nei confronti di quei ragazzi che sono morti. Nei confronti di papà».
«Perché sei vivo?» La bionda sospirò, posando un bacio sulla fronte del ragazzo. «Non devi, d’accordo? Lo so che è orribile veder morire così tanta gente, lo so che è brutto. E papà… tu non c’entri niente con la sua morte. Aveva tante nomine, sì, ma le prendeva già prima che io rimanessi incinta».
«Avrei voluto conoscerlo». Jonathan sospirò di stanchezza, appoggiandosi allo schienale del divano e chiudendo gli occhi. Franziska gli carezzò i capelli.
«Lo avresti adorato» sussurrò. «E siccome ora ci sono solo io… ti ordino di andare a nanna!»
Il ragazzo aprì gli occhi di scatto, fissandoli sul televisore che riprendeva il Vincitore della sessantanovesima edizione mentre usciva dall’Arena. 
«Ma è presto» bofonchiò, lanciando un’occhiata all’orologio che ticchettava appeso alla parete. Segnava le dieci. 
«Lo so, ma domani hai una verifica di matematica, o sbaglio?» Franziska sorrise con aria furbetta, prima di alzarsi dal divano e battere le mani. «Su, su! A letto, Jonathan!»
Il ragazzo sbuffò, alzandosi. Si abbassò fino a dare un bacio sulla guancia alla madre. «Grazie per la chiacchierata» disse, per poi andarsene verso la sua stanza. 
Prima di farlo, gettò un’ultima, veloce occhiata alla foto di suo padre e il suo stomaco - seppur per poco - si strinse un'ultima volta in una morsa. 

 


Alaska's corner

Rieccomi :3
Spero che la storia sia piaciuta! Ne approfitto per ringraziare ancora giraffetta e dirle che ho adorato questo prompt! Era da tempo che desideravo scrivere qualcosina su questi due e finalmente ne ho avuto l'occasione. 
Comunque, la storia di Franziska e anche quella di Jonathan verranno spiegate in una futura long che magari non scriverò mai, visto che ne ho tantissime che mi frullano per la testa. Volevo parlare un po' dei suoi Hunger Games e di come è nato Jonathan, quindi spero davvero di farcela perché tengo molto a questi due piccini :3
E finalmente, con questa storia, sono riuscita a parlare un po' di Johnny, visto che nell'interattiva veniva appena appena accennato che fosse nato prima degli HG ai quali avevano partecipato i suoi genitori, ma non veniva detto altro. Quindi ne ho approfittato per far emergere un po' il suo carattere, ecco. Tra l'altro, giusto qualche giorno fa stavo sfogliando Ragazzo da parete ( o Noi siamo infinito, che dir si voglia ) e mi sono resa conto che assomiglia parecchio a Charlie, come modi fare! Solo che lui è un po' meno strano, ma fondamentalmente sono entrambi molto introversi e hanno il vizio di pensare troppo. xD
Che dire, spero davvero che vi sia piaciuta!
Un abbraccio, un bacio e un biscotto,
Alaska. ~

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Capitolo 5
*** O5 • Rue/Thresh ~ «Ma tu non ti stanchi mai?» • ***


Prompt: «Ma tu non ti stanchi mai?»
Personaggi: Rue; Thresh.
Coppia: Rue/Thresh; friendship.
Rating: verde.
Genere: introspettivo, malinconico, missing moment.
Lunghezza: one-shot [ 1.198 parole ]
Avvertimenti: //
Note: Rue e Thresh ormai li conoscono tutti, quindi non c'è bisogno di spiegazioni. Questa OS non mi è venuta molto bene, ma entrambi sono personaggi che mi piacciono molto. 
Mi piace immaginare che si siano conosciuti prima degli Hunger Games - o che comunque abbiano avuto qualche contatto, tra di loro.
Niente, buona lettura!

Ringrazio tantissimo three blind mice per il prompt ♥

 
 



Picking up the pieces 



V. «Ma tu non ti stanchi mai?»


 
La ragazzina portò una mano alla fronte, appena sopra gli occhi. I raggi del caldo sole estivo sembravano quasi accecarla, impendendole di guardare il paesaggio. Non che fosse una meraviglia: il Distretto 11 era costituito perlopiù da campi coltivati, che si estendevano per ettari e ettari, fino all’orizzonte. Lì – un po’ a fatica – si scorgevano i profili di alcune case – se così si potevano definire. Anche a quella distanza parevano più delle baracche decadenti, come quasi tutte le abitazioni dell’undicesimo Distretto di Panem.
Sospirando, Rue fece dondolare le gambe corte dal ramo sul quale si era arrampicata. I pochi minuti concessi ai lavoratori per la pausa pranzo stavano volgendo al termine e lei, dopo un veloce pasto a base di frutta, era andata ad appollaiarsi là sopra, con la speranza di riuscire a scorgere – tra le fronde degli alberi – una ghiandaia imitatrice.
L’undicenne si alzò, camminando leggera e silenziosa sul ramo, le braccia leggermente allargate per mantenere meglio l’equilibrio. Giunse al tronco e vi si appoggiò, iniziando la discesa, che completò in pochi secondi. Dopo anni, arrampicarsi sugli alberi era diventata una cosa così normale che poteva farlo benissimo ad occhi chiusi, senza rischiare di cadere.
Una volta che arrivò nei pressi del terreno, si staccò dal largo tronco con un balzo e atterrò, piegando leggermente le ginocchia per l’impatto.
Sistemato lo scompigliato chignon in cui aveva legato i suoi folti capelli scuri, si diresse verso il campo dove andava di solito a lavorare. Coloro che erano i suoi “colleghi” erano già all’opera e allungavano con aria stanca le braccia verso i rami degli alberi da frutto, cogliendo ciò che essi avevano da offrir loro.
Un secondo sospiro uscì dalle labbra di Rue, che, notato un Pacificatore in lontananza, si affrettò per raggiungere una pianta.
Al suo fianco, un ragazzo grande e grosso stava gettando pesche dall’aria deliziosa in un cesto di vimini e non dava segni di stanchezza. L’undicenne gli lanciò un’occhiatina, prima di cogliere anche lei un paio di frutti e gettarli nel medesimo contenitore.
Lavorare diventava sempre più stancante e la calura di inizio agosto non aiutava per niente, affondando ancora di più gli animi degli abitanti del Distretto 11 – già non troppo felici, dopo la settantatreesima edizione degli Hunger Games, durante i quali entrambi i tributi loro concittadini avevano perso la vita.
Era ancora troppo piccola per essere Mietuta, Rue, ma dall’anno dopo si sarebbe dovuta presentare in piazza, vestita dei suoi abiti migliori e della paura che da anni era insidiata nel profondo del suo animo. Non passava giorno senza che lei si immaginasse di abitare in un posto diverso, un luogo dove gli Hunger Games non esistevano e dove i bambini come lei non erano costretti a lavorare per tante ora al giorno.
Era stanca, Rue.
A soli undici anni era stanca di quell’orribile vita che avrebbe dovuto condurre anche da grande, dirigendosi al mattino nei campi e raccogliendo la frutta che sarebbe poi andata a Capitol City.
All’improvviso, una voce dietro di lei la fece voltare – così come fece il ragazzo accanto a lei.
Un bambino era a terra e urlava, mentre un Pacificatore – munito di frusta – lo sovrastava.
«Avevo fame! Volevo solo qualcosa da mangiare!» strillava il ragazzino, e nelle sue mani Rue notò una pesca morsicata.
Il soldato in uniforme bianca si abbassò, afferrandolo per la maglietta e trascinandolo via; non prima di aver urlato un «andate avanti a lavorare, voi!» riferito ai colleghi del ragazzino.
Rue tornò ad occuparsi della sua frutta, spaventata da quell’improvvisa svolta che avevano preso gli eventi. Ogni tanto aveva il terrore che un soldato della Capitale potesse picchiarla, proprio come avevano appena fatto con quel giovane che doveva avere pressappoco la sua età.
Con la coda dell’occhio, vide che il ragazzo accanto a lei aveva colto quasi tutti i frutti del suo albero. Rue non sapeva chi fosse – ricordava a malapena il suo nome, Thresh. Di certo non era un tipo di cui lei si sarebbe fidata: era alto almeno il doppio di lei e, probabilmente, pesava anche il doppio di lei. Aveva braccia muscolose e un volto sempre contratto e arrabbiato, come se avesse perso la facoltà di sorridere.
«Ti aiuto». La voce profonda e adulta di Thresh la fece sobbalzare. Si era talmente persa nei suoi pensieri che non si era resa conto di essersi fermata e aver lasciato il lavoro a metà.
Scosse la testa, sbrigandosi ad allungare una mano per raccogliere una pesca. Era tonda e vellutata, con un aspetto davvero delizioso. Sentì lo stomaco gorgogliare per la fame, e si affrettò a gettarla nel cesto di vimini per non cedere alla tentazione di addentarla.
«Grazie, ma non ce n’è bisogno» sussurrò, rivolta a Thresh. «Posso farlo anche da sola, tranquillo».
Con grande sorpresa da parte dell’undicenne, il ragazzo sorrise. «Se procedi a questa velocità, piccolina», indicò le sue braccia, che dopo aver colto l’ultimo frutto erano ricadute lungo i fianchi, «penso che finirai questa sera sul tardi, o domani».
Rue si costrinse ad abbozzare un sorrisetto. Nonostante la frase sarcastica, il tono del giovane era allegro e cordiale – stonava un po’, in confronto a quell’aspetto tanto cattivo che sembrava avere.
«Grazie» mormorò.
Thresh fece spallucce. «Non c’è di che. Ti sei spaventata, prima?»
L’undicenne si costrinse a scuotere la testa in segno di diniego, ma il ragazzo parve capire che quella era una bugia. Non era mai stata brava a mentire, Rue.
«Bisogna stare attenti, qui» concluse, prima di tornare al silenzio di prima e raccogliere le restanti pesche.
Anche la ragazzina non proferì parola, e quel silenzio durò per quella che doveva essere un’altra ora. Più passava il tempo, più la calura estiva si faceva sentire e ben presto Rue si ritrovò a cercare di detergersi il sudore con il magro braccio destro. Thresh, al contrario suo, sembrava instancabile, nonostante il sudore che gli colava lungo il volto.
La ragazzina lo invidiò. Voleva essere anche lei così grande e forte, per poter lavorare ore e ore e proteggere i suoi fratellini e le sue sorelline. Invece, si ritrovava con un corpicino magro e piccolo, che la faceva sembrare ben più giovane della sua età.
«Ti posso chiedere una cosa?» azzardò, guardando di sottecchi il suo collega. Thresh le lanciò una veloce occhiata e annuì, prima di tornare al suo albero.
«Tu non ti stanchi mai?»
Un largo sorriso si materializzò sul volto del ragazzo, mentre gettava l’ultimo frutto nel cesto.
«Sì, mi stanco». Mise le mani sulla zona lombare, inarcando leggermente la schiena all’indietro – un gesto che faceva capire a Rue quanto fosse effettivamente affaticato, dopo tutta una giornata passata a lavorare. «Ma resisto. E tu? Sei stanca?»
«Molto» ammise la ragazzina, grattandosi una guancia con aria distratta. «Ma resisto» aggiunse con un sorriso. Thresh lo ricambiò, prima di tornare al lavoro.
«Sei forte per la tua età, piccoletta».
E all’improvviso – dopo quel complimento gettato lì quasi per caso – Rue sentì tutta la stanchezza scivolare via. Dopotutto, bastava poco per far tornare felice una persona. Si sentì grata a Thresh per questo e sperò, presto o tardi, di estinguere quel piccolo debito che aveva nei suoi confronti.
Grazie, pensò, tornando a lavorare con rinnovata voglia di fare.


 

Alaska's corner

Non ho molto da dire, ad essere sincera. xD 
E' un po' che non aggiorno, ma non avevo voglia e sto passando un periodo un po' brutto per quanto riguarda la scrittura, quindi necessitavo di smuovermi un po' e ho pensato di concludere i progetti iniziati.
A dire il vero, questa OS l'ho scritta tipo mesi fa, ma poi, appunto, non ho più pubblicato.
Niente, come avete visto ho dato la mia idea di Distretto 11, un luogo molto oppresso. Spero di essere rimasta IC! Thresh lo immagino un po' come un gigante buono, che abbaia, ma non morde (spacca solo le teste con le pietre. xD)
Ringrazio ancora three blind mice per il prompt ♥
Spero sia piaciuta! Grazie a chi ha lasciato un commentino nelle puntate precedenti :3
Un abbraccio e un bacino,
Alaska. ~

 

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Capitolo 6
*** O6 • Keith/Blight ~ « Gatti » • ***


Prompt: Gatti;
Personaggi: Keith Wood (OC), Blight;
Coppia: Keith/Blight; Friendship; Tributo/Mentore;
Rating: verde;
Genere: missing moments; a little bit introspettivo. 
Lunghezza: One-Shot (1.914 parole);
Avvertimenti: //
Note: Also, credo che io debba dare qualche spiegazione in merito ai perché e ai per come.
Keith è un mio OC, tributo durante la sessantanovesima edizione degli Hunger Games. In realtà lo creai per una storia su Finnick e sui suoi Hunger Games, ma essendomi affezionata molto, ho voluto resuscitarlo. Nel mio headcanon ufficiale, comunque, Keith vince i sessantanovesimi Hunger Games, all'età di diciotto anni, dopo essere stato mandato ai Giochi come condanna per aver ucciso un Pacificatore che stava per abusare di sua sorella. Il suo mentore durante gli Hunger Games, appunto, è stato Blight, con cui ha instaurato un bel rapporto di amicizia. 
Verranno fatti alcuni accenni al fatto che la compagna di Distretto di Keith lo tratta in maniera fredda e distaccata; non vorrei aggiungere altro in questa OS per non fare spoiler, poiché la storia degli Hunger Games di Keith la vorrei raccontare in una futura long dal titolo Dunkelheit. 
Ah, sì, il ragazzo ha la fissa per il buio e la notte; nel mio headcanon nei Distretti più rivoltosi - come il 7 - vige il coprifuoco, anche perché immagino che nelle altre fazioni di Panem l'oppressione dei Pacificatori non sia easy come al Distretto 12 prima dell'arrivo di Thread. E Keith, che va in giro di notte, nei boschi (soffre d'insonnia, povero ciccY) è un potenziale criminale, ecco. Lo chiamano Gatto, sì x3 
Ultimo, ma non ultimo, lo so che il pv di Blight non è Bobby Jordan, aka l'attore che lo interpreta nei film. Purtroppo, di foto sue ce ne sono poche e con una risoluzione pessima, per cui ho preferito cercarne un altro, anche in base a come lo figuravo mentre leggevo il libro. Quello a sinistra nel banner è Keith e quello a destra Blight, dunque. Nel mio headcanon (moooolto complicato xD) lui ha vinto i cinquataquattresimi Hunger Games all'età di sedici anni. Volevo renderlo coetaneo di un paio di altri miei Vincitori che hanno vinto le due edizioni successive alle sue xD 
Spero vi piaccia!


Ringrazio tantissimo Tinkerbell92 per il prompt ♥



 
 
 



Picking up the pieces



VI. « Gatti »


 
Ansia. Paura. Agitazione.
Furono queste le prime emozioni che travolsero Keith Wood quando aprì gli occhi nello scompartimento dove era stata allestita la sua camera.
La squillante voce di Jane – l’accompagnatrice capitolina – aveva fatto sì che si destasse dal sonno poco profondo e agitato in cui era piombato qualche ora prima, al termine di un lungo tempo passato a girarsi e rigirarsi sul comodo materasso dove si era sdraiato la notte precedente.
«Svegliati, begli occhi! Ti attende una giornata lunga, ma strabiliante!» furono queste le ultime parole di Jane, prima che si allontanasse accompagnata dal solito ticchettio prodotto dai suoi tacchi a spillo sul pavimento in legno.
Grugnendo qualche imprecazione per essere stato svegliato da una tale e ripugnante donna, Keith si mise a sedere, toccando, con i piedi nudi, un morbido materasso, che giaceva accanto al suo letto.
Si stropicciò con vigore gli occhi, alzandosi e sbadigliando sonoramente. Gettò una breve occhiata alla sveglia posta sul comodino, appurando così che erano le otto di mattina.
Inarcò un sopracciglio con fare sorpreso. Era convinto che fosse molto più presto, dato il sonno che si trascinava dietro – si disse quindi che doveva essere tutta una conseguenza dell’aver dormito poco.
I suoi vestiti penzolavano da alcuni appendiabiti alla parete. Erano gli stessi che aveva indossato la sera prima, dopo la doccia, quando si erano riuniti tutti per osservare il riepilogo della Mietitura.
Ricordava ben poco di quel filmato – gli erano rimasti impressi solamente tre o quattro volti – ma decise che non era importante. Avrebbe avuto tutto il tempo nei giorni successivi di studiare la concorrenza. Quel mattino, con il sonno che sembrava non dargli tregua nemmeno mentre si metteva i comodi pantaloni della tuta, non riusciva a riordinare i pensieri. Sapeva solo che sarebbe dovuto andare nel vagone allestito a sala da pranzo, dove tutti lo stavano aspettando per la colazione.
Senza minimamente controllare il proprio aspetto allo specchio, il tributo del Distretto 7 si avvicinò alla porta – la quale, come previsto, si aprì automaticamente, dandogli accesso al corridoio che separava le varie stanze.
Si passò una mano tra i capelli castano scuro, cercando di metterli a posto alla bell’è meglio, giusto per non sorbirsi le prediche di Jane. Già il giorno prima non gli aveva dato tregua, tartassandolo su quanto fossero orribili i suoi capelli spettinati e le occhiaie che cerchiavano i suoi occhi verdi.
Keith aveva cercato di ribattere gentilmente e in maniera diplomatica, ma la parte arrabbiata di lui aveva preso il sopravvento e la bocca aveva sputato fuori un «li avresti anche te, se stessi per morire in questi Giochi di merda» che aveva zittito la capitolina e aveva fatto sì che il suo mentore gli lanciasse uno sguardo assassino.
Entrò nel vagone con uno sbadiglio, coprendosi la bocca appena in tempo. Al tavolo erano già seduti tutti: Jane, la sua compagna e i loro mentori. Blight – colui che era stato incaricato di curarlo in quei giorni – gli fece un cenno con la mano, indicandogli la sedia vuota dall’altra parte del tavolo, proprio davanti a lui.
Il diciottenne notò che il Vincitore era distante dagli altri membri del loro gruppo – forse, pensò Keith, era per parlare tranquillamente con lui della strategia, senza che nessun’altro sentisse i loro discorsi. Del resto, il giorno prima, la sua compagna di Distretto si era rifiutata fin da subito di fare squadra con lui; quando i mentori avevano chiesto loro cosa preferissero, la giovane gli aveva lanciato uno sguardo così fulminante che Keith aveva temuto di essere già entrato nell’Arena.
«Buongiorno» lo accolse il mentore, mentre versava del succo di frutta in un bicchiere stretto e lungo. «Dormito bene?»
Keith fece spallucce, prendendo la sedia e spostandola dal bordo del tavolo. Si sedette, avvicinandosi di nuovo e appoggiandosi alla superficie lignea – in quel momento coperta da tovaglie e vassoi – con i gomiti. Appoggiò le guance alle mani strette a pugno, con lo sguardo perso su una torta dall’aria prelibata.
«Mangia» ordinò Blight, dando un colpetto con il coltello che stava usando per spalmare la marmellata su un pezzo di pane tostato. «Devi farlo, se vuoi essere in forze».
«Non ho fame» borbottò Keith, ma il gorgoglio proveniente dal suo stomaco smentì la sua affermazione. Blight fece una risata.
«Sembra che lui non sia d’accordo». Indicò lo stomaco del tributo con un cenno del capo. Sorridendo suo malgrado, il diciottenne afferrò un muffin posato su un piatto lì vicino, avvicinandolo alle labbra con cautela, come se temesse che da un momento all’altro potesse trasformarsi in un ibrido.
Il pensiero di poter vedere quelle orribili bestie che tanto spesso aveva osservato in televisione gli fece stringere nuovamente lo stomaco, ma si impose di dare almeno un morso al dolce – che scoprì poi essere davvero delizioso.
«Dunque…» solitamente, Keith non era molto loquace alla mattina, ma in quel momento desiderava tutto fuorché pensare all’Arena e agli Hunger Games, «oggi che si fa?»
Blight addentò la fetta di pane spalmata di una marmellata dall’insolito colore vermiglio, masticando con lentezza e guardando qualche punto imprecisato del vagone; aveva l’aria pensierosa. Una volta ingoiato, scosse il capo con aria di noncuranza.
«Salone di bellezza» rispose semplicemente, alzando lo sguardo sul suo tributo. Keith aggrottò la fronte, domandandosi cosa intendesse.
Aprì la bocca per chiederglielo, ma Blight lo interruppe parlando prima di lui. «Arrivati a Capitol City sarai nelle mani del tuo staff di preparatori, che ti laveranno, coccoleranno» nel dire l’ultimo verbo fece il segno delle virgolette con le dita, «e truccheranno. Ti prepareranno per la parata, che sarà verso sera».
«Tutto qui?» Keith si aspettava di fare altro, non solo un intero pomeriggio passato tra le mani di un gruppo di diabolici capitolini.
Le labbra di Blight si incurvarono in un sorrisetto. «Hai fretta di cominciare?»
«No». Il diciottenne scosse la testa, afferrando una brocca di ceramica contenente del latte caldo con cioccolato. Un lampo di consapevolezza e di comprensione passò negli occhi marroni del Vincitore, ma sparì veloce come era arrivato.
«No, oggi non sarà nulla di che. Il vero spettacolo comincerà domani. Per intanto, direi che possiamo parlare dei tuoi punti di forza, che ne dici?»
Keith annuì, portando la tazza di latte alle labbra, mentre pensava a cosa rispondere. Non sapeva che punti di forza potesse avere, all’infuori del saper maneggiare le asce – cosa che ogni ragazzo del Distretto 7 sapeva fare quasi ad occhi chiusi, raggiunti i diciotto anni.
La bevanda calda parve anche riscaldare leggermente il suo animo, mentre gli riempiva la bocca di un sapore dolce, ma gradevole. Keith si sentì più sveglio di qualche minuto prima, ma comunque stanco e spaventato.
Osservò per un istante Blight, il quale, nell’attesa che il giovane rispondesse, si stava preparando un’altra fetta di pane. C’era qualcosa in lui che gli ispirava fiducia, anche se non sapeva spiegare che cosa esattamente. Forse i suoi occhi gentili, il suo sorriso ironico e l’aria gentile con cui lo aveva accolto il giorno prima, al suo arrivo sul treno. O forse era semplicemente il fatto che lui fosse riuscito a sopravvivere, che facesse in modo che Keith si fidasse di lui.
Fino a quel momento, il diciottenne aveva riposto la sua fiducia in poche cose e in poche persone. Era giunta l’ora di iniziare a provare quella fiducia anche nei confronti di qualcun altro.
«Le asce. Le so usare» rispose dopo un attimo di esitazione, con le mani ancora strette attorno alla tazza. Blight alzò gli occhi verso di lui e sorrise in maniera ironica.
«Questo lo so già. È la stessa cosa che mi dicono tutti i tributi quando salgono sul treno per andare a Capitol City». Appoggiò il coltello da burro su un tovagliolo accanto al piatto. «Ma saper solo maneggiare le asce non basta. Devi avere qualche altro talento nascosto».
Il giovane fu ben lieto che Blight non avesse citato il perché lui fosse andato agli Hunger Games – non come aveva fatto il suo migliore amico il giorno prima ai saluti, congedandosi con un «beh, Wood, hai già ucciso un Pacificatore, uccidere qualche bambinetto non sarà poi diverso». Era certo una frase ironica, fatta per sdrammatizzare, ma sentir nominare ciò che aveva fatto diventare Keith un tributo bruciava ancora come sale sulle ferite, anche a distanza di mesi.
Poi, all’improvviso, arrivò l’illuminazione.
I boschi. La notte.
Fece per rispondere, ma qualcosa lo bloccò. Era vietato girare per i boschi una volta che il coprifuoco era in vigore e nessuno a parte pochi fidati sapevano che Keith faceva cose tanto illegali.
Poi si ricordò anche che aveva deciso di fidarsi di Blight e decise che tanto valeva dirglielo. In fondo, lo stavano già mandando agli Hunger Games e rischiava di morire: un crimine in più saltato fuori all’ultimo momento non poteva affondare poi di tanto la sua dura situazione.
«Io…» indugiò un istante sulle parole da pronunciare, «… vado in giro. Di notte, nei boschi. Ho un buon senso dell’orientamento. E so muovermi furtivamente» abbassò lo sguardo sul muffin mangiucchiato che giaceva sul piatto, «… come un gatto» aggiunse quasi senza rendersene conto, e un sorrisetto malinconico incurvò le sue labbra.
«Un gatto?» Blight aggrottò la fronte, ma sorrideva.
«Un gatto» confermò Keith. «È il mio soprannome». Non sapeva perché gli stesse raccontando quell’aneddoto – di solito, lui non amava molto parlare della sua vita – ma sentiva il bisogno di sfogarsi e liberarsi, per non aver più sullo stomaco il peso della malinconia.
«Però, originale. E come mai ti chiamano così?»
Il tributo mangiò ancora un po’ del suo dolce, sovrappensiero. «Te l’ho detto. Mi so muovere al buio, in silenzio, e quasi meglio di quando c’è il sole. Ha iniziato mia sorella a chiamarmi così e tutti gli altri si sono aggregati».
«Gatto» sussurrò Blight, come se stesse parlando tra sé e sé. «Quindi, i tuoi talenti nascosti sono infrangere la legge e fare il gatto. Sei anche bravo a miagolare?»
Keith scoppiò a ridere, reclinando la testa all’indietro. La sua compagna di Distretto si girò verso di lui, fulminandolo con lo sguardo, ma ci fece poco caso. Era dal giorno prima che quella quindicenne gli si rivolgeva con freddezza, guardandolo dall’alto in basso come fosse stato uno scarafaggio.
«Se vuoi, posso farti vedere» propose, facendo l’occhiolino. Blight rise a sua volta, appoggiando il bicchiere sul tavolo.
«Magari un’altra volta». Il mentore ridacchiò, prima di morsicare un pezzo di pane.
«Cos’è, non ti piacciono i gatti?» ribatté Keith con aria di finto risentimento. «Sei un mentore degenere».
«Bada a come parli, Keith Denis Wood. La tua vita è quasi nelle mie mani, nelle prossime settimane. E comunque… i gatti mi sono sempre piaciucchiati, basta che non si mettano a graffiarmi mentre li carezzo».
«Non preoccuparti». Il diciottenne fece un mezzo sorriso. «Io graffio solo chi mi sta antipatico. Tu mi stai simpatico, per ora. E bada, per ora».
«Siamo quasi giunti a destinazione!» L’irritante voce di Jane interruppe il discorso tra mentore e tributo. Keith sbuffò, inclinando un po’ il capo verso destra per vedere fuori dal finestrino, ma il panorama era quello di poco prima. Probabilmente stavano per entrare nel passaggio tra le montagne che circondavano la Capitale.
«Allora» Blight riprese laddove avevano interrotto, «ti consiglio di tirare fuori gli artigli. Là fuori ci sarà tanta gente a starti antipatica».
Keith sorrise con aria da spaccone, prima di bere un altro sorso del suo latte – ormai quasi finito.
Mancava ancora poco meno di una settimana.
Avrebbe avuto un po’ di tempo per limare bene i suoi artigli e usarli nell’Arena. 

 

Alaska's corner

Oltre a voler ringraziare ancora Tinkerbell92 per il prompt, volevo anche ringraziare chi ha recensito fino ad ora ♥ Se mancano risposte alle recensioni, arriveranno presto u.u
Alla prossima!
Alaska. ~

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