Hunger Games 13

di degio14
(/viewuser.php?uid=750693)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Distretto 3 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Voglia di libertà ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Paura irrazionale ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Calma prima della tempesta ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Mietitura ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - In viaggio ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Strategia ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


                                                                        Prologo
Per chi non sapesse nulla di Hunger Games, e in tal caso consiglio a tutti la lettura della saga di Suzanne Collins, spiegherò brevemente in questo prologo le cose più importanti. Tralasciando i protagonisti e l’intreccio delle storie, farò una sorta di introduzione storica. In un’America post-apocalittica si è formato un regno, detto di Panem, strutturato in tredici distretti e una capitale, per l’appunto Capitol City, che ha instaurato un regime totalitario. Ogni distretto non poteva avere nessun contatto con gli altri, e aveva un ruolo nell’economia della capitale. Il distretto uno si occupava di metalli e pietre preziose, il due di armamenti, il tre della produzione di beni elettrici, il quattro della pesca, il cinque dell’energia, il sei dei trasporti, il sette della raccolta di legname, l’otto dell’industria tessile, il nove del frumento, il dieci dell’allevamento, l’undici degli altri beni agricoli, il dodici del carbone e il tredici del nucleare. L’eccessivo controllo da parte di Capitol City sui distretti portò a una ribellione di questi ultimi e a una guerra, con conseguente vittoria della capitale e distruzione del distretto tredici. La capitale aumento la stretta sui distretti dando vita ai cosiddetti “Giorni Bui”.Inoltre, per evitare ulteriori rivolte e ricordare ai Distretti che li aveva in mano ideò gli “Hunger Games” nonché giochi della fame, dove due ragazzi, un maschio e una femmina, per ognuno dei dodici distretti rimasti, si affrontavano in un combattimento mortale trasmesso in televisione sotto forma di reality show. La storia che segue, ovviamente di pura fantasia, racconta della tredicesima edizione degli Hunger Games.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Distretto 3 ***


Capitolo 1 – Distretto 3
La vita nel 3 non è mai stata così dura. Nonostante il controllo da parte della capitale si sia affievolito sempre più con il passare del tempo, sopravvivere è rimasta una faccenda complicata. Ed è proprio la sopravvivenza l’obiettivo di molti dei ragazzi del 3.
– È pronto anche questo, Mark – sospiro, indicando il nuovo congegno commissionato da Capitol City. Mark Smith, un uomo sulla quarantina, capo del mio settore, fa un cenno di assenso. Due operai vengono subito a ritirare il prodotto, che sarà inscatolato, infiocchettato e spedito su un treno merci a Capitol City.
Sono tre anni che lavoro alla Grande Fabbrica, nome che noi ragazzi del 3 utilizziamo per indicare il più grande edificio del Distretto, una prigione di cemento e acciaio costruita al fine di sviluppare tutti i beni e i congegni elettronici di cui Capitol City ha bisogno. Tre anni, in cui ho ottenuto ben sette promozioni, che mi hanno portato a occupare i Piani Alti della Grande Fabbrica. Tre anni infernali, in cui ho dovuto dannarmi l’anima pur di garantire alla mia famiglia un pasto sicuro.
È incredibile. Abito in uno dei distretti più ricchi ma faccio parte di una delle famiglie più povere. Mia madre lavora al secondo piano, specializzato nella produzione di televisori. È uno dei piani peggio pagati perché secondo Carbeck, il direttore generale, “i televisori servono poco e nulla a Capitol City, ne hanno fin troppi”. Un completo idiota. Sin dal primo giorno in cui ce l’hanno spedito ho capito che con lui le cose potevano solo peggiorare.
E riflettendo tra me e me, mi scervello per trovare una soluzione per sviluppare questa ennesima richiesta dalla capitale: un robot avente i tratti e le caratteristiche caratteriali di una persona. Mi viene ribrezzo a pensarci. Ci sono persone che muoiono di fame e questi ricconi non hanno altro da fare che chiedere congegni complicati e costosissimi solo per svagarsi un po’. Ma questa è la prerogativa della capitale. Non hanno niente da fare, sempre, e perciò sfogano su Distretti tutte i loro insulsi problemi. Non sono in grado di comprendere che siamo tutti umani.
Quasi rimpiango il giorno in cui sono passato al ventunesimo piano. La mia mente vaga nel passato, quando, all’età di soli 13 anni, mi costrinsero a compiere questo passaggio, che si sarebbe poi rivelato cruciale con l’andare degli anni. Ed io, che avevo fatto amicizia con i tanti ragazzi del quattordici, corsi da mia madre a piangere perché non volevo. Fu uno dei pochi momenti in cui non era ubriaca. Ricordo perfettamente quel giorno: mi prese tra le braccia e disse:
– Jake, ricorda sempre che tutti noi dobbiamo fare dei sacrifici – E così mi convinsi. Tutto sommato, non fosse per il fatto che avevo a che fare con i più idioti cittadini di Capitol City e le loro richieste assurde, mi era andata anche bene. Mark è un capo giusto, e i miei colleghi di poche parole, cosa che mi va più che bene, e sono anche ben pagato, cosa che mi garantisce la sopravvivenza nel Distretto.
La Grande Fabbrica è sviluppata così: ventitré piani, divisi per gruppi. I primi cinque per i beni standard, come televisori ed elettrodomestici vari, che non richiedevano grosse capacità, nonché i peggio pagati. I piani dal quinto al decimo si occupano del’illuminazione di Capitol City. I successivi cinque trattano invece i progetti che riguardano la città: palestre, ospedali, centri per la chirurgia, parrucchieri, casinò e qualunque edificio vi possa venire in mente è progettato qui. Salendo ancora si trovano i Piani Alti, dove solo i più esperti e i più intelligenti riescono ad arrivare. Qui vengono smistate le richieste più particolari provenienti dalla città, da complessi armamenti, a marchingegni complicati utilizzati per scopi poco chiari, sino a stupide richieste fatte dai cittadini più abbienti. Infine, ci sono due piani a parte: il ventitreesimo, dove c’è l’ufficio del direttore generale, e la zona dello Smistamento, cioè dove si smistano per l’appunto le varie richieste ai vari piani, e il ventiduesimo, avvolto da sempre ne mistero, che si occupa di tutte le richieste segrete di Capitol City, e i cui lavoratori, di cui non si conosce l’identità, condividono un particolare contratto con la capitale, che prevede chissà quali vantaggi.
Ogni giorno, il novanta percento degli abitanti del Distretto 3 si reca qui per lavorare e guadagnarsi da vivere. Al piano terra c’è un ascensore immenso, che può contenere fino a cinquecento persone, e ne trasporta più di dieci milioni al giorno. Si lavora dalle sette del mattino sino alle otto di sera, eccezion fatta per i ragazzi che ancora vanno a scuola, con una sola pausa di un’ora prevista per pranzo. Ed è per questo che posso definire, senza alcun dubbio, la Grande Fabbrica una prigione infernale.
Si può dire che le cose mi vanno di lusso. In effetti, se si considera che i piani crescono in importanza, e anche nel salario, per ovvi motivi, è tutto ok. Ma la sfortuna è quella che vivo da quando ho cominciato a capire qualcosa di come gira il mondo attorno a me. Mi hanno sempre detto tutti che sono uno dei ragazzi più intelligenti del Distretto, un genio. Ma io ho una teoria tutta mia sull’intelligenza … Il creatore ci fa brutti scherzi. La persona stupida non è conscia di esserlo, vive bene e non si rende conto della povertà, del controllo giornaliero a cui tutti siamo sottoposti. È solo la persona intelligente e conscia di esserlo che capisce il degrado e la disperazione, e per questo non potrà mai essere felice. E così grazie mille intelligenza, mi sei di grande aiuto. A parte garantirmi uno stipendio decente non farai altro che regalarmi delusioni, finchè non giungerà il momento di tirare le cuoia.
Questo genere di pensieri anima la maggior parte delle mie giornate lavorative. Non sono una persona ottimista, e lo so, ma chiunque troverebbe qualcosa a cui pensare per distogliersi dal fatto di stare svolgendo un lavoro che fa un diretto piacere agli abitanti di Capitol City.
Ed è su questi discorsi esistenziali che il microfono annuncia l’orario di chiusura. Mark ci saluta tutti, e io non ho ancora trovato soluzione su come costruire questo dannato robot. Ma non ha importanza per me, tanto è improbabile che mi degradino a un piano inferiore, sono fondamentale per loro. Sono intelligente.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Voglia di libertà ***


Capitolo 2 – Voglia di libertà
Arrivo a casa. È una delle poche cose di cui non mi posso lamentare. Sviluppata su due piani, risale a prima dei Giorni Bui, quando la vita era quasi godibile. Mio nonno la fece costruire quando mia madre aveva appena cinque anni. Questa è la sola cosa che mi ha raccontato di lui, oltre al fatto che si chiamava Jake, come me. D’altra parte, essendo più o meno sempre sbronza, è un po’ difficile per lei scendere nei particolari.
Entro e mi ritrovo in cucina. Sulla mia sinistra c’è un piccolo salotto, provvisto di un divanetto e della televisione, obbligatoria in tutte le case. Sulla destra invece, la sala da pranzo, arredata in modo essenziale. Salite le scale, ci sono le camere da letto. La mia consiste in un armadietto contenente tutto il necessario per sopravvivere, e, ovviamente, il letto. Ma la cosa che mi ha sempre incuriosito della mia stanza è il quadro appeso al muro. O meglio, un foglietto di carta incorniciato. E sopra ci sono scritti tre semplici versi, che ho impressi nella mente sin dal primo giorno in cui li ho letti:
Ma io vi dico, ricordate sempre
l’uomo colto può fingere la stupidità
ma il contrario, non potrà mai accadere
Mi sono sempre chiesto chi li abbia scritti, se mio padre o mio nonno, ma mia madre non ha mai saputo darmi una risposta. E mi piacerebbe anche capire cosa stiano a significare, se ci sia un’accezione intrinseca da svelare, ma non ho mai trovato risposta.
Stesa sul letto c’è proprio lei. La puzza di alcool è onnipresente nella sua camera, anche se ho tentato più volte di farla scomparire. Mi hanno raccontato che un tempo era la più brillante donna del Distretto, destinata ad arrivare in alto. Poi per quanto ne so io è arrivato mio padre. Hanno convissuto un anno, fino a che lui non ha scoperto che era incinta. E così, in un tempestoso giorno d’autunno è scomparso. Mia madre non è più stata la stessa. Prima che nascessi ha tirato avanti, un po’ vivendo alla giornata. A un certo punto però non ce l’ha fatta più, e si è rinchiusa in casa. In quel periodo sono nato io. Non è andata a lavoro per un mese, poi un gruppo di Pacificatori è venuto a trovarci. L’hanno trovata completamente ubriaca. Da allora ha sempre lavorato al secondo piano. Mi chiedo se effettivamente faccia qualcosa. E così la famiglia la tengo in piedi io, e lei si limita a cucinare e a sistemare casa.
Le do un bacio e mi stendo accanto a lei. Rimango un po’ steso sul letto, e lascio vagare i pensieri, che vanno irrimediabilmente a finire sulla Mietitura. Soltanto un giorno e mezzo mi separa dall’annuale appuntamento con l’evento più triste dell’anno. Rabbrividisco all’idea dei venti sottili foglietti di carta su cui, in bella grafia, è scritto il nome “Jake Lightning”. Ma bastano un paio di conti a farmi scacciare la paura: considerato che in tutto il distretto siamo circa cinquecentomila abitanti di cui solo una piccola parte sono ragazzi con età compresa tra i dodici e i diciotto anni, le mie probabilità di essere pescato sono estremamente scarse. E allora finalmente riesco a pensare ad altro. Domani è domenica, e non lavorerò. Essendo peraltro l’ultimo del mese, devo recarmi al Palazzo di Giustizia a ritirare i soldi. Una bella boccata d’aria. Ma come impiegare la giornata? Da mesi ormai la parola “giocare” ha perso ogni attrattiva per me. Mi ritrovo nei giorni vuoti a non fare nulla, a concentrarmi su problemi ben più gravi del semplice divertirmi. Mi ritrovo a domandarmi se avrò mai un futuro, in una situazione come questa. A lavoro tutto va bene, ma cosa farò nella mia vita? Passerò i miei restanti anni a non fare nulla? Sono domande che mi mettono ben più paura della semplice idea di andare a morire negli Hunger Games. Immagino sessant’anni, ogni giorno uguale all’altro, un limbo infinito, una prigione esistenziale che mi opprimerà sempre. E in quei giorni penso a come tutto sarebbe cambiato se Capitol City avesse perso la guerra. E non si tratta solo di capire che non ci sarebbero stati Hunger Games e i Distretti sarebbero scomparsi. Si tratta di immaginare la libertà.
Il distretto 3 aveva solo una cosa che gli altri distretti non hanno. Si trattava di una piccola biblioteca, di cui nessuno si occupa. Scoprii lì come potevo trascorrere il tempo: mi immersi nella lettura di libri più antichi di Panem stessa, risalenti a un’epoca precedente a quella che viene chiamata Catastrofe. Sono semplici frammenti di ciò che scrivevano genti lontane, provenienti da terre sconosciute, migliaia di anni fa. Un giorno lessi di un tipo, vissuto in una “nazione”, parola il cui significato mi sfugge, di nome Italia. Scriveva un piccolo racconto, che parlava di un tipo che, distrutto dal lavoro e dal dover mantenere qualcosa come una dozzina di persone, una sera sente il fischio di un treno, ed esce di testa. Immagina cose fuori dal comune, di viaggiare in altri paesi, di non avere responsabilità sulle spalle, insomma, di essere libero. Quel giorno compresi il significato della libertà.
Passai tutto il mio tempo libero in biblioteca, finchè un giorno, arrivando, trovai un ragazzo della mia età, a leggere libri. Presto lo imparai a conoscere e a condividere con lui i miei problemi, fino al punto in cui pensai che era l’unica persona che potevo arrivare a definire amico. Ad oggi, Martin Storm è il solo che frequento con regolarità. Ognuno dei due sa di parlare con l’altro per ingannare il tempo, per dare un senso alla giornata, da quando hanno chiuso la biblioteca. Forse uno dei giorni più brutti della mia vita, in cui ho scoperto di avere perso una parte di me e sicuramente una delle poche attrattive che il Distretto mi offriva e mi offre tuttora.
Martin lavora al tredicesimo piano, e si occupa dei progetti degli edifici necessari a Capitol City, in particolare degli ospedali. Penso che forse domani potrei cercarlo per passare un po’ di tempo assieme a lui. Mi risveglio dai miei pensieri: mia madre si è svegliata, sembra essersi ripresa. Si gira verso di me e poi si alza, barcollando, probabilmente diretta in cucina.
Mangio una piccola porzione di riso in bianco, accompagnata da una fettina di carne. Stasera mi è andata di lusso. Forse mia madre, in un qualche moto cerebrale imprevedibile, si è ricordata che domani sarà la vigilia della Mietitura. Buon per me, mangerò meglio almeno per questi due giorni.
Finita la cena, salgo in camera e mi stendo sul letto. Dalla finestra la luna, uno scintillante cerchio color latte, illumina pallidamente la camera. Accendo la lampadina, perchè sì, almeno l'elettricità nel nostro Distretto non manca mai, e apro l’armadietto. In un cassetto segreto, ho nascosto il mio bene più prezioso: il libro che lessi quel giorno. Sono anni che ho perso il conto del numero di volte che l’ho letto, ma devono essere davvero tante, se ricordo la maggior parte delle frasi e delle citazioni riportate a memoria. Apro il libro alla pagina duecentododici. Rileggo per l’ennesima volta il  mio passo preferito: “Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s'era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt'intorno”. Quanto vorrei poter sentire, anche solo per un attimo, quel fischio, e sentirmi libero anch’io.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Paura irrazionale ***


Capitolo 3 – Paura irrazionale
Mi sveglio. Dalla finestra entra il tenue bagliore del sole mattutino. Direi che è l’alba. Mi alzo e spalanco la finestra. Una leggera brezza mi accarezza il viso, e respiro a pieni polmoni. Questo potrebbe essere l’ultimo giorno al Distretto 3. Nonostante tutti i miei calcoli, non posso fare a meno di pensare alla Mietitura.
Mia madre dorme ancora. D’altre parte, lei non si sveglia prima delle dieci. Non ho fame, per cui decido di uscire. Il momento più bello della giornata qui, è proprio l’alba. Nessun Pacificatore che perlustra le strade, nessun treno merci che passa all’improvviso. Il silenzio ammanta il Distretto. Cammino lungo le vie della Città Vecchia, dove ci sono gli edifici più decadenti e si ammassano i miserabili. Se proseguissi mi ritroverei nella Nuova Città, composta dagli unici cittadini del Distretto che si possono definire agiati. Lì abita Martin, e penso anche sia sveglio, visto che anche lui è un tipo mattiniero. E infatti è così, lo trovo seduto sul gradino di casa sua a fissare il vuoto.
– Ciao Martin – lui alza lo sguardo, e lo riabbassa subito dopo. È fatto così, sembra sempre triste, ma devi imparare a capirlo. Ha perso la madre quando era piccolissimo, e suo padre è tutto il giorno al lavoro, per cui è quasi sempre abbandonato a sé stesso. Se fosse stato una persona normale, forse nemmeno sarebbe venuto in biblioteca, quel giorno. Ma io sono contento che l’abbia fatto.
– Ciao Jake – mi risponde, e fa’ spazio sul gradino, in modo che anch’io possa sedermi. Cominciamo a discutere di scuola e lavoro, lui mi parla dei colleghi al tredicesimo, che sono tutti ragazzi. È quasi un paradosso qui. Tutti i giovani, diciamo, fino ai vent’anni, lavorano nei Piani alti o giù di lì. Quando maturano definitivamente, occupano, se hanno la stoffa, ruoli di dirigenza, ed è questo che mia madre vorrebbe per me. Tutti quelli che invece non riescono ad andare avanti cominciano a retrocedere, fino ad arrivare ai primissimi piani. Un meccanismo che non lascia scampo.
Io e Martin continuiamo a parlare, fino a che il discorso non si posa inevitabilmente sulla Mietitura. Martin mi parla delle sue preoccupazioni, della sorella appena dodicenne che piange tutte le notti. L’ho vista un paio di volte mentre stavo con Martin: forse è la bambina più piccola che abbia mai visto, con un paio di enormi occhi azzurri, e i capelli biondo cenere.
– Jake, ma tu hai paura? – mi guarda, in attesa di una risposta.
– Come tutti – rispondo semplicemente, ed è la verità. Ma che ci crediate o no, forse ne ho addirittura di meno. C’è gente che dà completamente di matto quando si avvicina la Mietitura. Comincia ad allenarsi, a correre, come se servisse a qualcosa, quando finisci nell’Arena. Come se servisse correre a uccidere i bruti dell’uno e del due. Con il quattro è un altro discorso. Ho sempre pensato fossero Favoriti per le loro capacità, ma mai che fossero come i primi due. Di certo non si addestrano sin da bambini a maneggiare mostruose armi di distruzione. Loro semplicemente si ritrovano nell’Arena, e hanno quasi tutti grosse capacità con il tridente. E visto che almeno hanno qualche possibilità di vincere, ci provano. Qualche volta, ce la fanno. Ripenso al settimo anno. Una ragazza di nome Mags, che gareggiava proprio per quel distretto, un misto di bravura e di scaltrezza, riuscì a vincere. Non fu una di quelle particolarmente amate, era di poche parole, però appena capirono che ce la poteva fare, le arrivarono una serie infinita di regali, tra cui una rete. La sapeva maneggiare con destrezza, e imprigionò i Favoriti uno per uno, per poi ucciderli con le loro stesse armi.
Poi un altro pensiero si fa strada in me: in tredici anni di Hunger Games non c’è mai stato un vincitore del Distretto 3, il che equivale al non avere un mentore. Già siamo sfavoriti, siamo sempre tra i ragazzi meno forti fisicamente, nell’Arena. Ed è chiaro, tolti i Favoriti, i Distretti 5 e 6 che sono messi male quasi quanto noi, nel sette tagliano gli alberi, nell’8 si tesse, nel 9 si raccoglie il frumento, nel 10 si allevano gli animali, nell’11 si raccolgono altri prodotti della terra, nel 12 lavorano nelle miniere di carbone. Tutte cose che ti fortificano, ti abituano alla sofferenza, ti rendono capace di sopravvivere. Qui invece non c’è niente di tutto questo. Mi chiedo quanti anni ci vorranno per avere un vincitore.
Esprimo le mie preoccupazioni a Martin, e lui mi dice che è d’accordo. Poi mi fa una domanda che mi fa seriamente pensare:
– Jake, secondo te quante chance avemmo di riuscire a vincere se ci sorteggiassero? – una domanda difficile, perché è facile pensare che tutti hanno delle possibilità, che dipende più dall’arena e meno dai tributi, ma in fondo un Favorito ti taglia la gola bene in un prato quanto in una foresta.
– Poche Martin, troppo poche – lui mantiene la sua solita espressione, penso si aspettasse questa risposta. Poi fa una domanda che mi stupisce ancora di più:
– E tu, se capitassi nell’Arena, cosa faresti? Diventeresti un assassino secondo quello che vuole Capitol City, o cercheresti di non uccidere, limitandoti a scappare e a difenderti? – Ci ho già pensato, molte volte, quando sono solo. La verità è che avrei paura di scoprire un me stesso diverso, che l’istinto di sopravvivenza abbia la meglio sul mio modo di essere in condizioni normali.
– Non lo so, Martin, davvero. Penso che cercherei di sopravvivere, nei limiti delle mie capacità – Martin a questo punto rimane zitto, e ricomincia a fissare il terreno. Io rimango seduto lì per un altro po’, poi decido che è venuto il momento di fare colazione. Saluto Martin e mi dirigo a casa. Mia madre dorme ancora, così prendo una delle confezioni di cereali che mi mandano ogni mese e la scaldo sul fuoco. Visto che è un giorno importante e merita un pasto importante prendo anche un po’ di latte in polvere, ci aggiungo dell’acqua e riscaldo anche quello. Il prodotto finito, non è un granché, ma di certo è meglio delle gallette che ogni tanto mi rifila mia madre quando non abbiamo più niente. A scuola abbiamo una sottospecie di mensa, dove preparano roba immangiabile, ma almeno non mi tocca sprecare il cibo che c’è a casa. Addirittura, se prendiamo un bel voto, una volta a settimana, ci danno un biscotto a fine pasto.
Decido di uscire a correre. Adoro la corsa, riesce a calmarmi, e penso anche di esserci portato. A scuola sono il più veloce, e dicono che faccio i cento metri in meno di dodici secondi. Onestamente, non sono mai riuscito a capire bene la cosa, ma ne sono comunque orgoglioso.
Mi allontano verso i confini del Distretto. Io abito nella parte più a sud, la Grande Fabbrica è nell’esatto centro, e si raggiunge tramite dei treni. Mi ritrovo ben presto nel Bosco dei Fuggitivi. È chiamato così dagli abitanti di Città Vecchia, perché dicono che tutti coloro che cercano di scappare passano per quel bosco. Non so cosa ci sia all’estremo confine, ma si dice che si erga un muro immenso e insuperabile, perlustrato ventiquattro ore su ventiquattro dai Pacificatori. Non penso che se qualcuno abbia effettivamente tentato di fuggire abbia mai fatto ritorno.
Adoro questo posto, perché è l’unico luogo che Capitol City non ha distrutto. Qui la natura è in armonia con sé stessa, e la pace regna sovrana. Così mi stendo sull’erba. La volta arborea mi protegge dal sole di mezzogiorno. Un sottile raggio riesce a trapassarla e mi si poggia addosso, lasciandomi una sensazione di benessere. Sono poche le volte che mi sento davvero bene qui nel Distretto. Questa è una di quelle. Mi chiedo come si viva negli altri Distretti. Una volta, incontrai un tipo in questo bosco, che mi raccontò di provenire dal Distretto 5. Mi vide e si avvicinò per chiedermi in quale distretto fosse arrivato. E quando gli chiesi di descrivermi il suo, disse solamente:
   – Amico, fidati di me. Qua ve la passate decisamente meglio. Il 5 è un inferno di centrali a carbone, si lavora tutti i giorni della settimana, dall’alba al tramonto, non ci sono pause se non quella per pranzare, e i ragazzi cominciano a lavorare da quando sono piccolissimi – Mai come quella volta rimasi impressionato – Se riescono a prendermi, troverò il modo di farmi sparare. Non tornerò mai nel 5 – Poi scomparve. Non lo vidi più. Ancora oggi mi chiedo se sia riuscito a sopravvivere.
Decido di tornare a casa.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Calma prima della tempesta ***


Capitolo 4 – Calma prima della tempesta
Trovo una sorpresa ad aspettarmi. Mia madre sveglia, e sobria. È una cosa che accade di rado. Mi viene incontro e mi abbraccia. Poi, incredibilmente, dice:
– Tesoro, domani c’è la Mietitura. Oggi lascia fare tutto a me. Tu pensa a rilassarti – Sono talmente sconvolto, che non riesco a trovare le parole per rispondere a quella semplice affermazione. Allora mia madre mi sorride. Avevo dimenticato quanto fossero belli i suoi sorrisi. Mi seggo sul divano e, visto che non mi viene in mente altro, accendo la televisione. Come mi aspettavo, tutti i canali parlano dell’immediata Mietitura. Dopo un po’ mostrano le immagini dell’ultima edizione, vinta, tanto per cambiare, da un Favorito dell’uno. L’odio che provo per questi ragazzi è indescrivibile. Non mi hanno fatto niente, ma il semplice fatto che sono disposti a uccidere senza remore e si allenano alla carneficina risveglia una rabbia in me che non credevo neanche di avere.
Terminate le immagini della dodicesima edizione, appare uno scintillante Donald Flickerman ad annunciare che c’è stata una revisione delle regole. Questo cattura quasi istantaneamente la mia attenzione.
– Il nostro caro presidente Kuit, insieme alla Commissione Democratica, ha deciso che quest’anno, per il tredicesimo Hunger Games, al fine di ricordare la distruzione del Distretto 13 e le conseguenze che ha portato per tutti noi, sarà applicata una regola speciale: per ricordare ai ribelli tutti i giovani morti tra di loro, saranno sorteggiati soltanto ragazzi di dodici, tredici, quattordici e quindici anni – Sbianco, all’improvviso. Questo aumenta le probabilità che io esca in maniera impressionante! Non solo i ragazzi di dodici, tredici e quattordici anni hanno solamente uno, due o tre nomine, ma io, con le tessere, ho raggiunto addirittura venti nomine. E poi il numero dei ragazzi che partecipano alla Mietitura si è più o meno dimezzato.
Decido di non dirlo a mia madre, proprio oggi che sembra stare così bene. Spengo la televisione, ha dato fin troppe brutte notizie oggi. Decido che è arrivato il momento di andare a ritirare i soldi al Palazzo di Giustizia. Così, con il sole ancora alto, mi dirigo verso la Piazza Centrale, dove, davanti alla Grande Fabbrica, si erge il tanto odiato edificio. Lì mi aspetta Tom, un impiegato scelto da Capitol City, forse una delle poche persone che sopporto, nonostante abbia a che fare con la città. È il padre di uno dei miei colleghi, Ben, un ragazzo di diciassette anni con cui ho fatto amicizia. Tom ne parla sempre: è molto orgoglioso di suo figlio, così giovane ma così in alto, e si complimenta anche con me. Con lui posso fare discorsi normali, non è Martin, però gli voglio bene lo stesso.
Arrivo al Palazzo di giustizia in una mezz’ora abbondante, a piedi dista molto. Davanti all’ingresso, come sempre l’ultimo del mese, c’è Tom. Lo saluto e mi avvicino, lui mi passa la busta. Parliamo un poco, lui mi racconta che Ben ha appena saputo della nuova regola e sta festeggiando. Anche se non lo dà a vedere, anche lui sembra piuttosto sollevato. Mentre torno a casa, il sole si sta abbassando sulla linea dell’orizzonte. Arrivo a casa alle cinque del pomeriggio, e trovo mia madre che sta frugando nel mio armadio, forse in cerca del mio miglior vestito, da mettere domani.
Mostro i soldi a mia madre, che decide subito di spedirmi al mercato, dove, mi dice, devo comprare del cibo commestibile e il meno costoso possibile. Sembra combattuta su qualcosa, e io so anche cosa: non sa se chiedermi di comprare dell’alcool o no. Per mia fortuna decide di non farlo, d’altra parte ha una scorta in dispensa di diverse bottiglie. Penso che se non fosse un’alcolizzata potremmo fare quasi tutti i giorni un pasto decente. Esco e mi dirigo a est stavolta, dove si trova il mercato. Ci sono diverse bancarelle, alcune dedicate al cibo, altre ai vestiti, altre ancora dedicate a mobili e altre cose costose, ma non ci sono mai andato. Compro del pane e del formaggio, e mentre me ne sto andando incontro Sally. Sally è una collega di mia madre, che nel suo peggiore momento, subito dopo la scomparsa di papà, l’ha confortata ed aiutata sul lavoro. Per diversi anni è venuta ogni giorno a casa nostra a assistere mia madre e ad aiutarla, quando io ero ancora molto piccolo. Ormai è parecchio tempo che non viene, ma io la ricordo perfettamente perché in parte è stata lei a educarmi.
Mi fermo e la saluto: anche lei è venuta a fare compere, anche se la sua famiglia, per quel che ne so, se la cava bene. Suo marito lavora in non so quale piano della fabbrica, mentre suo figlio, che ho intravisto qualche volta sul lavoro, lavora nel piano inferiore al mio.
Parto per la terza volta nella giornata alla volta di casa: sono ormai le sette di sera. Trovo mia madre indaffarata nella pulizia di casa. Le racconto di Sally e lei mi sorride, dicendomi che quella donna mi ha voluto bene come un figlio, e forse è anche merito suo se siamo ancora vivi.
Sono stanco, è tutto il giorno che cammino avanti e indietro, e ho mangiato solo dei cereali e del latte. Vado a stendermi sul divano, e presto mi appisolo. Quando mi sveglio il cielo è blu notte, e mia madre sta cucinando qualcosa. Mi alzo e vedo a sedermi al tavolo della cucina. Mia madre porta in tavola un cosciotto di qualcosa di indefinibile. È il coronamento di una giornata che, riflettendoci, etichetterei in maniera positiva.
Io e mia madre mangiamo in silenzio, e, quando abbiamo finito, ci andiamo entrambi a stendere per dormire. Steso sul letto, prendo il mio libro e rileggo il mio passo preferito. Questo mi mette tranquillità in visione di ciò che mi aspetta domani. Ripongo il libro e comincio a pensare per l’ennesima volta alle probabilità, ma presto mi riesco a liberare anche di quei pensieri. Poi ripenso alla frase di Martin. “Quante chance avremmo di vincere se ci sorteggiassero?” Vorrei saperlo anch’io, mi dico.
Prima di addormentarmi, prego di avere una notte calma e senza sogni, per arrivare al meglio alla Mietitura. Vengo accontentato.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Mietitura ***


Capitolo 5 – Mietitura
Cerco di dormire il più possibile, ma verso le otto sono costretto a svegliarmi. Non riesco a prendere sonno, anche se la Mietitura è verso le due del pomeriggio. Vado in camera di mia madre, anche se lei sta ancora dormendo, e mi stendo accanto a lei. Le accarezzo i capelli, e penso a quanto sia bella quando dorme. Poi mi alzo, per rendermi presentabile. Che cosa assurda, cercare di essere il più belli possibile il giorno più triste dell’anno. Cercando di non pensarci preparo la piccola vasca che abbiamo scaldando l’acqua e, quando è tutto pronto, mi immergo, lasciandomi avvolgere dal calore. Così riesco a rilassarmi. Quando l’acqua si fa fredda esco e mi asciugo. Mi aggiusto i capelli alla meglio usando il pettine di mia madre, ricordo dei tempi passati. Poi la sveglio, e mi metto il vestito che mi aveva preparato ieri.
– Come stai bene, amore – Mi guarda e mi sorride, anche se non abbiamo esattamente le stesse opinioni in fatto di bellezza. Cambio discorso e chiedo:
– Hai intenzione di venire o resterai a casa? – L’anno scorso non venne alla Mietitura, anche se non capii bene se per l’alcool o semplicemente perché non voleva vedermi essere sorteggiato.
– Verrò amore, non preoccuparti – Questo suo tono un po’ mi rallegra, perché mi sembra di avere di nuovo una madre, un po’ mi innervosisce, dopo tutto quello che mi ha fatto passare. Ma so che la colpa non è sua. La colpa è di quell’uomo che, malauguratamente, è mio padre.
Mi sono sempre chiesto da dove provenisse. Se fosse di questo Distretto, se fosse ricco, se fosse povero, se avesse amato davvero mia madre. Non ho il coraggio di chiederlo, temo di provocare una brutta reazione in lei, che dopo tutti questi anni ancora non l’ha dimenticato e che, ne sono sicuro, non dimenticherà mai. Non mi è rimasto niente di lui, una foto, un indumento, un oggetto che gli era caro. Niente. Eccetto una cosa. Me stesso. E lo ricordo tutti i giorni quando la mattina mi guardo allo specchio. Me lo ricorda mia madre che ogni tanto vedo perdersi nei pensieri mentre mi guarda. E me lo ricorda tutta la mia vita, perché so che con lui sarebbe tutto diverso. Migliore.
Ma evidentemente per lui non sarebbe stato così. Ed eccoci qui, a poche ore dalla mia Mietitura, che in un certo senso può essere definita come la prima, in quanto non ho mai avuto tante possibilità di essere pescato quante ne ho oggi.
Mangio il pranzo svogliatamente, passando da un pensiero a un altro, come se temessi di concentrarmi troppo su qualcosa, e che la paura dilagasse nella mia mente. Continuo a fare calcoli inutili, perché credo che là sopra ci sia qualcosa, e che se ha deciso che la mia ora è arrivata, be’ allora nessun calcolo cambierà le cose.
Ed è con questo ottimismo che percorro la strada che mi separa dal Palazzo di Giustizia.  Ed è con questo ottimismo che mi confondo con la silenziosa folla che occupa la piazza. Ed è con questo ottimismo che vedo Alyssa Clarke, l’accompagnatrice dei tributi nonché annunciatrice della Mietitura.
Dai tanti video che ho visto direi che forse è una delle migliori cose che ci poteva capitare per quanto riguarda gli Hunger Games. Ho visto gli altri accompagnatori, agghindati in maniera indecente con parrucche e cappellini disgustosi, truccati così pesantemente da non capire quale sia realmente la loro faccia, ritoccati chirurgicamente in maniera talmente ossessiva da renderli creature grottesche.
Alyssa Clarke è l’eccezione. Vestita sempre in maniera decisamente standard, sempre secondo gli standard di capitolini, non si trucca e non si riempie di porcherie come tutti gli altri. È una donna che sarebbe definita solo “provocatoria” nel nostro Distretto, mentre passerebbe totalmente inosservata in una via di Capitol City.
– Buongiorno a tutti! – Esclama con voce frizzante – Oggi siamo qui per annunciare i Tributi maschio e femmina che parteciperanno alla tredicesima edizione degli Hunger Games – Nella piazza non vola una mosca, non si capisce bene se è per la tensione o per il disgusto verso ciò che sta per avvenire. Parte il video che ci ricorda annualmente il motivo degli Hunger Games, la rivolta dei Distretti che portò ai Giorni Bui, nonché alla creazione dei giochi. Sono tre anni che vedo il video ma ogni volta non riesco a fare a meno di pensare a come sarei voluto nascere trent’anni prima. Per rivoltarmi contro Capitol City, per morire con un obiettivo, per vivere davvero.
Ma sono solo sogni, e le parole di Alyssa mi riportano rapidamente alla realtà:
– Molto bene! Per chi di voi non lo sapesse, quest’anno hanno applicato delle regole particolari che concernono la Mietitura: per ricordare ai ribelli tutti i giovani morti tra di loro, saranno sorteggiati soltanto ragazzi di dodici, tredici, quattordici e quindici anni. Per cui i ragazzi di sedici, diciassette e diciotto anni non sono tenuti a partecipare, e possono andarsene – Evidentemente i disinformati ci sono, perché vedo un gruppo di ragazzi più vecchi, con in faccia un’espressione stupita e sollevata allo stesso tempo, staccarsi dalla massa e andarsene, ognuno per conto proprio.
– Direi che non ci sono altri annunci da fare, e quindi possiamo procedere all’estrazione. Come sempre, prima le signore – Se prima c’era tensione nell’aria, adesso si potrebbe tagliare a fette. Persino io, che per adesso devo soltanto aspettare, ho tutti i nervi tesi fino allo spasmo. Alyssa si avvicina alla boccia etichettata “Ragazze”, ci infila dentro la mano e prende un bigliettino. Intorno a me decine e decine di persone stanno trattenendo il respiro. Poi, quasi con fare liberatorio, Alyssa legge il nome sul bigliettino:
– Charlie Steel – Un soffio di voce, una piccola parola sussurrata al vento, con ogni probabilità mieterà una vittima innocente. Vedo una ragazza urlare, ma ero pronto a questo, e non mi scompongo, anzi cerco di non pensare che quella ragazza era stata mia collega al quattordici. Per fortuna non l’ho conosciuta bene, e ora posso fare finta di niente. Va alla destra di Alyssa e ci rimane, decisamente grigia in volto, ma con un minimo di dignità, visto che non è scoppiata in lacrime. Il tempo di augurarle silenziosamente buona fortuna che Alyssa si è già spostata vicino alla seconda boccia, quella che determinerà il mio destino. Cerco in tutti i modi di convincermi che non sarò io, che non sarà Martin, che non sarà nessuno che conosco, per attenuare il mio tremore. Ma non serve a niente. E così mi rassegno e ascolto e basta.
– E adesso passiamo ai maschietti – sospira Alyssa, che sembra a sua volta leggermente sconvolta, per quanto non centri nulla con le faccende del Distretto 3. Pesca il bigliettino e lo fissa intensamente. Non riesco più nemmeno a pensare, a formulare una frase. Poi, dopo istanti che sembrano anni, quando sono prossimo a un attacco nervoso, Alyssa mi libera da ogni peso:
– Jake Lightning – Sospira, e un sorriso amaro mi si dipinge in faccia, mentre il mio cervello si sblocca finalmente solo per pensare che probabilmente morirò. E su questo le probabilità sono decisamente più alte.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 6 - In viaggio ***


Capitolo 6 – In viaggio
Sbloccata la mente, anche le gambe si decidono ad agire, e mi portano meccanicamente, e quasi con volontà propria, alla sinistra di Alyssa Clarke.
– Ecco a voi i Tributi del Distretto 3 – Sento come in sogno la voce della nostra accompagnatrice. Nessuno applaude. Anche questo è un rituale quasi gettonato, ma dagli occhi della gente si capisce tutta la solidarietà che ha nei nostri riguardi.
Il Sindaco del distretto inizia a leggere il Trattato del Tradimento, che ho sempre considerato un’oscenità, persino per gli standard di Capitol City, e io cerco di mantenere la calma e di non lasciarmi sopraffare dalle emozioni.
Due Pacificatori, che sarebbero, sostanzialmente, due poliziotti addestrati dal Distretto Due, mi invitano, senza troppa gentilezza, a entrare nel Palazzo di Giustizia. Un attimo prima dell’ingresso riesco a scorgere mia madre in mezzo al pubblico, e capisco qual era la sua faccia quando capì che mio padre non sarebbe più tornato.
Mi portano in una stanza e mi lasciano lì, abbandonato a me stesso. Decido velocemente di concedermi ancora un po’ di tempo per assimilare l’idea che entrerò insieme ad altri ventitré ragazzi, tutti intenzionati ad uccidermi, in un’arena infernale. Trovo un divanetto e mi ci stendo, cercando di ricordarmi le esatte parole che dovrò dire a mia madre, ammesso che abbia la forze di venire a salutarmi. “Forse per l’ultima volta” mi si fa strada in mente, ma cerco di scacciarlo, perché so che lotterò. Perché la verità è che non sono diverso dagli altri.
In ogni caso, per mia fortuna mia madre arriva. Abbiamo solo cinque minuti, per cui dico tutto molto in fretta, e senza tanti giri di parole:
– Con i soldi che ti ho portato l’altro giorno puoi tirare anche per due mesi. Non lasciarti andare. Impegnati sul lavoro. Cerca di ottenere una promozione. Se riuscirò a tornare … – dico, e le leggo in faccia che neanche lei ci crede – Se riuscirò a tornare vivremo finalmente in pace – Il che è un assurdità. Qualche volta ho visto in televisione video di vincitori passati. Se non impazzisci nell’Arena ti lasci andare quando esci, chi all’alcool, chi alla droga, chi semplicemente si lascia andare e si abbandona a sé stesso, fino a raggiungere uno stato di completa apatia. I successivi minuti li impiego in un abbraccio prolungato con mia madre, e capisco che ci almeno proverà a sopravvivere.
La successiva visita, che per la verità non mi aspettavo, è di Martin. Come al solito è di poche parole, mi guarda semplicemente, e dice:
– Non ha importanza se ci credi o non lo fai. Io dico che hai delle possibilità. Giocatele, fino all’ultimo – Sembra starsene andando quando si gira nuovamente e mi abbraccia anche lui, cosa che non avrei mai creduto possibile.
– Stammi bene, Martin – Lo saluto con un cenno del braccio.
– Non preoccuparti, Jake, me la caverò –  Mi guarda per un ultima volta e se ne va. Sono nuovamente solo. Ma per poco. Un Pacificatore arriva e mi scorta verso un’altra uscita del Palazzo di Giustizia, dove prendo un’automobile, cosa che non ho mai fatto. Insieme a me c’è Charlie, con cui non ho ancora scambiato una parola, ma ci sarà tutto il tempo, sempre ammesso che lei voglia. Il viaggio è piuttosto breve e arriviamo alla stazione, dove, lungo il percorso verso il treno che ci porterà a Capitol City, vengo assalito da una folla di giornalisti. Cerco di rimanere il più freddo possibile e di rispondere in maniera diretta e precisa. Dopo un percorso che mi sembra infinito, il treno compare quasi magicamente davanti a me e a Charlie. Dopo l’ultima risposta riesco finalmente a salire nello scompartimento, e le porte dietro di me si chiudono, mentre il treno parte e il vociare si attutisce. Alyssa compare all’improvviso e ci mostra i nostri scompartimenti. Ne ho uno intero per me, provvisto di bagno con acqua corrente e vestiti puliti nei cassetti. È ancora presto, sono solo le cinque del pomeriggio, ed Alyssa mi informa che non saremo a Capitol City prima di domani pomeriggio. So che il Distretto 3 è uno dei più lontani dalla capitale. Mi dice anche di venire nel vagone comune per la cena, dove ci farà alcune presentazioni, tra un paio d’ore. Mi stendo sul letto e per la prima volta da quando è stato chiamato il mio nome alla Mietitura, riesco a fare il punto della situazione.
Parto dalle cose più semplici, come ad esempio il fatto che parteciperò agli Hunger Games, poi cerco di rispondere alle domande più complesse che mi pongo. Appunto mentalmente che devo ragionare sulla mia strategia. Cerco di capire i miei punti di forza fisici. Mi chiedo come potrebbe essere l’Arena. Queste riflessioni, paradossalmente, mi mettono tranquillità.
Dopo che mi sono calmato, riesco a pensare a questioni secondarie. Charlie. Me ne sono completamente scordato! I ritmi frenetici della giornata e i mille avvenimenti mi hanno fatto dimenticare alcune cose importanti. Comunque, più tardi a cena scoprirò che genere di persona è. Chissà invece che ne è degli altri ventidue Tributi. I Tributi! Corro verso il telecomando e accendo la televisione, appena in tempo per vedere il riepilogo delle Mietiture, e, ovviamente, per studiare i miei avversari.
Fin da subito i miei nemici mi colpiscono: i due ragazzi del Distretto Uno impressionano già al primo sguardo e si offrono entrambi volontari. Cosa non vera per il Due. I due ragazzi estratti, in particolare il maschio, non sembrano pericolosi come al solito, ed è un buon punto di vantaggio. Rivedo la mia Mietitura e provo un sospiro di sollievo. Senza saperlo, il sorriso che ho fatto dopo l’estrazione del mio nome, sembra quasi compiaciuto. Al Quattro il mio umore cambia di nuovo: la ragazza non è fisicamente impressionante come i primi due, ma si dirige con un sorriso sinistro verso il palco, cosa che mi fa risalire un brivido lungo la schiena. Il Cinque non mi preoccupa più di tanto. Due dodicenni piangenti, che non riescono a non farmi pena, vengono sorteggiati, ma mai sottovalutare l’avversario. I due del Sei non mi fanno né caldo né freddo, ma anche qui nel semplice modo di muoversi della ragazza trovo qualcosa di estremamente inquietante, anche se non so spiegarmi cosa. Nel Sette c’è una brutta sorpresa ad attendermi: un gigantesco mastino di cento e passa chili, tanto che penso che non possa avere quindici anni, si staglia sul palco, accanto alla ragazza, che è invece è minuta, piccola e sfuggente. L’Otto e il Nove non mi dicono nulla, nel Dieci c’è un ragazzo che definirei “interessante” in mancanza di altri termini, nell’Undici e nel Dodici i ragazzi sono completamente pelle e ossa, e so per esperienza che di solito non costituiscono un pericolo, non avendo abilità particolari.
Mi siedo sul letto e ricapitolo ancora una volta quali saranno i miei avversari, le cui abilità scoprirò meglio durante il periodo di addestramento, anche se per quello c’è ancora parecchio tempo. Le due ore sono passate e mi dirigo verso il vagone comune. E mentre lo percorro mi assale un dubbio: in assenza di mentore, chi si occuperà di sponsor e altri dettagli tecnici?La risposta mi arriva proprio a cena. Alyssa ci presenta Frank Bradwell, che sarà il nostro mentore sino alla fine dei giochi. Non so da dove provenga e che intenzioni abbia, ma mi piace sin dal primo istante, perché non ci tratta come ragazzini né tantomeno prende le cose alla leggera come gli abitanti di Capitol City. Ci spiega che lui è stato indirizzato a ricoprire questo ruolo per volontà del presidente e della Commissione Democratica. Sembra quasi irritato nell’esporci le parole di rito che ripete una volta l’anno da non so quanto tempo, e si fa strada in me l’ipotesi che questo sua irritazione nei confronti del presidente e Capitol City potrà essere utile per me. Ci fa sapere che tutto quello che riguarda la nostra strategia e le nostre abilità sarà discusso domani, quando, dopo la colazione, avremo molto tempo per dedicarci a tutto.
Finite tutte le conversazioni e calato il silenzio mi concentro sul cibo, che è sicuramente il più buono che abbia mai mangiato. Cerco di non esagerare nonostante l’appetito, che si è accumulato, diciamo, da circa quindici anni, ma ovviamente non ci riesco e quando vado a dormire sono completamente pieno e un po’ nauseato ma, per la prima volta nella giornata, sereno.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 7 - Strategia ***


Capitolo 7 – Strategia
Mi sveglio in un letto sconosciuto. Ci metto pochi secondi a ricordare, in una serie di immagini, cosa è successo ieri, e tutte le conseguenze dolorose che ha generato. Mi vesto e mi dirigo nel vagone comune. Trovo solo Charlie, che mi informa che Alyssa e Frank stanno discutendo nella stanza accanto. Non ho ancora modo di sviluppare un discorso con la ragazza del 3, d’altra parte la diffidenza è reciproca, nell’arena saremo avversari. Decido in ogni caso che sviluppare un’alleanza non è mai sbagliato, e secondo me la prima persona che dovrebbe venire in mente a chiunque è il ragazzo o la ragazza del proprio Distretto. Così cerco di approcciarmi. Il problema è che siamo in una situazione talmente disperata che non si possono fare discorsi normali, e d’altro canto non posso nemmeno chiederle se è preoccupata o cose simili, sarebbero domande ovvie e solo una perdita di tempo. Così decido di andare subito al sodo, nonché alla prima domanda che a suo tempo mi posi anch’io:
– Hai paura? – sbotto all’improvviso. Lei quasi si spaventa perché alza gli occhi all’improvviso e mi guarda. È la prima volta che la posso osservare, preso com’ero da tutti gli avvenimenti di ieri. La prima cosa che salta all’occhio sono gli occhi: due mezzelune grigioverdi che mi fanno quasi sentire in soggezione. E poi i capelli, una cascata d’ambra che sembra brillare di luce propria. Il primo impatto mi disarma, raramente ho visto qualcosa del genere nel nostro distretto, dove la maggior parte delle persone ha occhi nocciola e capelli castani, e quasi mi pento di avere posto la domanda. Sto per rassegnarmi a una mancata risposta, quando all’improvviso …
– Chi non ne ha … – La sua voce mi lascia una sensazione di benessere, e mi sto quasi  perdendo nei suoi occhi, quando ricordo la situazione e riesco a sillabare:
– Già – Mi sento estremamente stupido in questo momento, ma se non altro ci siamo sbloccati e riusciamo a iniziare un discorso decente. Anche se lei risponde in modo freddo e distaccato alle mie domande, capisco sin da subito che semplicemente non vuole sapere più del necessario su di me, né tantomeno condividere qualcosa. Non potremo tonare a casa entrambi. Non vuole rimpianti. Questa rivelazione così ovvia mi colpisce come un fulmine a ciel sereno, e quasi mi dispiaccio, perché una delle condizioni della mia vittoria è che lei muoia, anche se non necessariamente per mano mia.
Scaccio subito questi pensieri, nell’Arena non c’è posto per la compassione. Devo concentrarmi sull’obiettivo, ci sono altri ventidue Tributi, ed è già difficile che lei sopravviva il primo giorno. Continuiamo a parlare, ma mi è quasi passata la voglia di conoscere questa ragazza. Sarebbe controproducente. E così dopo qualche minuto lascio cadere il discorso e mi rifugio nel silenzio.
Finalmente arrivano Alyssa e Frank, che si aggiungono al tavolo e iniziano a fare colazione. Oggi potrebbe già essere uno dei giorni fondamentali per l’ideazione della strategia, e voglio subito capire se avremo un mentore effettivamente capace. Ma è inutile tirare i tempi, così lascio che sia lui sia Alyssa finiscano la colazione con calma prima di prendere la parola:
– Bene signor Bradwell … – Inizio – Per praticità chiamami Frank – Interviene lui – Ok. Allora, Frank, dovremmo parlare della strategia da adottare nell’Arena? – chiedo. Lui finisce con un morso la brioche e si alza: – Seguitemi – annuncia. Va a sedersi su una poltroncina a un angolo dello scompartimento e ci invita a fare altrettanto. Sono concentratissimo.
– Bene ragazzi. Senza perdere altro tempo, ditemi che cosa sapete fare che ritenete possa essere utile nell’Arena – Io e Charlie ci guardiamo spaesati, ognuno sperando che l’altro prenda la parola. Quando capisco che rischiamo di restare in silenzio per un tempo indeterminato mi decido e riesco a dire:
– Be’, io me la cavo con la corsa – Poi aggiungo – A scuola hanno detto che riesco a percorrere cento metri in dodici secondi – Lui mi squadra dall’alto in basso, come se mi vedesse per la prima volta – È un ottimo tempo. Può essere utile. Nient’altro? – Cerco di pensarci, ma non mi viene in mente niente. È chiaro che io sia un esperto di elettricità e cose simili, e spero lo sappia, ma mi auguro che non si aspetti che io sia in grado di maneggiare una spada o una lancia. E così faccio un cenno come per dire “tutto qui”. Lui capisce e, senza lasciar trasparire alcuna emozione, si gira verso Charlie, e le pone di nuovo la domanda. Lei non sa cosa rispondere, evidentemente non è in grado di fare niente di utile, o almeno lo crede. È proprio Alyssa a interrompere il discorso e a fare un’osservazione:
– È molto bella – Charlie arrossisce e Frank fa un cenno di assenso. Nonostante paia una cosa da poco, può essere utile nell’Arena, perché è facile essere amati da Capitol City se si è attraenti, e questo porta sponsor, e, in pratica, doni utili alla sopravvivenza.
– Ma io non so fare niente … – Scandisce la ragazza, abbassando lo sguardo.
La fragilità umana … Sembra così debole in questo momento, che vorrei quasi rincuorarla ma so di non poterlo fare. Maledico in silenzio Capitol City per avere ideato la battaglia più sadica e cruenta che ci sia mai stata. Mi chiedo chi si prese queste responsabilità, se si rese conto delle conseguenze a cui stava andando incontro.
– Allora ragazzi, voglio mettere subito in chiaro una cosa – Inizia Frank – Io lotterò sino all’ultimo istante per farvi sopravvivere, ma la situazione non è delle migliori. Spesso in passato ci sono stati dei mentori che hanno prediletto uno dei loro tributi a un altro. Se siete d’accordo, anche io farò così – Non ci posso credere. È vero, cose del genere sono successe in passato, ma nessun mentore è stato così folle da dirlo ai propri Tributi. Vorrei quasi urlarglielo in faccia.
E all’improvviso mi sento così debole che mi abbandono nella poltrona e chiudo gli occhi. Come farò a sopravvivere? Questo Frank, che mi aveva dato una bella impressione, è in realtà un idiota. Tanto varrebbe rispedirlo al presidente Kuit, per quel che mi interessa.      Vedo il volto di mia madre perso nel vuoto, mentre mi vede morire. Non ce la farà. Non sopravvivrà. Devo rassegnarmi, il passato non conta niente e il futuro non esiste. C’è solo il presente, il doloroso presente.
La domanda è ancora sospesa nell’aria quando Charlie interviene:
– E chi avresti intenzione di favorire? – Non mi ero nemmeno posto il problema, preso dall’assurdità della cosa. Bella scelta, tra la ragazza attraente e lo scaltro corridore.
– Avevo intenzione di favorire te – Alzo lo sguardo, per vedere se Frank mi sta guardando, ma non è così. Gli occhi neri e indifferenti di Frank sono fissi in quelli di Charlie.  Sento come un pugno colpirmi l’addome, e la debolezza rapidamente trasformarsi in arrendevolezza. Mi sta dichiarando morto, in pratica. Mi metto quasi a ridere, se ripenso ai discorsi con Martin. Avremmo qualche possibilità? No, siamo tutti destinati a morire. Ma all’improvviso accade l’impossibile.
– No, non sono d’accordo – La sua voce è stata chiara. I suoi occhi sono sinceri. E io sento un sentimento sconosciuto in petto, che mi fa paura.
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2807179