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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Chi è Peter Pan? *** Capitolo 2: *** Solo Sebastian *** Capitolo 3: *** Ti ricordi quella ninna nanna? *** Capitolo 4: *** Eccoti qua, Peter. *** Capitolo 5: *** Quel posto tra il sogno e la veglia. *** Capitolo 6: *** Il figlio di Peter Pan. *** Capitolo 7: *** L'ombra di Peter ***
«Sai, quel luogo che
sta tra il sonno e la veglia, dove ti ricordi ancora che stavi sognando? Quello
è il luogo dove io ti amerò sempre.»
― Hook Capitan Uncino. 1991
Il figlio di Peter Pan
Act 1 - Lost boy
1| Chi è Peter Pan?
Le onde, quella sera, erano insolitamente calme;
Sebastian se ne accorse non appena arrivò alla baia, camminando a passo svelto
per raggiungere la riva. Si guardò indietro un paio di volte, preoccupato dal
pensiero che sua madre potesse vederlo. Non sapeva che ora fosse – aveva solo
sei anni, in fondo – ma era sicuro che, di notte, i bambini non potessero
uscire di nascosto per andare in spiaggia. Non ne aveva mai visto nessuno da
solo, durante i suoi peregrinaggi serali: erano sempre in compagnia di qualche
adulto o di un fratello più grande.
Usciva lo stesso, però. Non poteva farne a meno: la
spiaggia, la sera, aveva qualcosa che lo affascinava. Gli piaceva il fatto di
poter avere il mare tutto per sé, perché erano poche le persone che visitavano
la baia a quell’ora. E poi, di notte, il vento era sempre più forte e le onde
si agitavano parecchio, libere di giocare indisturbate; e quello a Sebastian
piaceva da matti, così come adorava l’aria fresca che gli faceva il solletico
sul collo, facendo spuntare tanti piccoli puntini sul suo torace: si chiamava
pelle d’oca, quella sensazione. L’unico tocco più bello di quello del vento
erano le carezze che gli dava la mamma, le rare volte in cui, guardandolo negli
occhi, metteva da parte il suo primo nome per chiamarlo Sebastian. Soltanto
Sebastian.
Quella sera, tuttavia, non provò la solita sensazione di
solletico sulla pelle: faceva caldo e le onde si dondolavano lente, invece di
giocare alla cavallina tutte assieme. Il ragazzino si sedette sulla sabbia,
cercando un po’ goffamente di risvoltarsi i jeans. Si guardò attorno alla
ricerca di Adrian, il signore dai capelli così biondi da sembrare bianchi che
passeggiava per la baia ogni giorno. Spesso gli teneva compagnia, mentre
sedevano assieme sugli scogli. Voleva molto bene ad Adrian, anche se non rideva
mai e i suoi occhi erano così tristi da sembrare fatti di mare, tanto erano
pieni di lacrime. Lacrime che ogni tanto gli scivolavano sulle guance,
soprattutto mentre l’uomo raccontava una delle sue storie. Ne conosceva
moltissime ed erano talmente belle che Sebastian non poteva fare a meno di
ascoltarlo incantato, disegnando nella mente ogni immagine evocata dalle sue
parole, in maniera da poterle poi descrivere a sua madre.
Adrian, però, quella sera non c’era: di notte lavorava e
il suo mestiere era ciò che Sebastian sognava di poter fare una volta
cresciuto. Il ragazzino si schermò gli occhi con la mano e si voltò verso il
faro, la cui luce danzava sul mare a intermittenza: dentro a quella torre
Adrian sorvegliava il mare, così come prima di lui aveva fatto suo fratello Killian. E il loro nonno, Jeremiah,
prima ancora.
Sebastian sbadigliò, stropicciandosi un occhio con una
mano. Stava per alzarsi, deciso a raggiungere gli scogli, quando si accorse
della presenza di qualcuno alle sue spalle. Sobbalzò, colto alla sprovvista, ma
i suoi occhi si fecero d’un tratto incuriositi nell’incrociare quelli di una
bambina: la ragazzina lo stava fissando da lontano; i lunghi capelli finissimi
di un colore biondo-biancastro, che ricordava la sabbia, le nascondevano parte
del volto. Aveva un’aria furtiva e sembrava indecisa se avvicinarsi o meno.
“Mi stai spiando” osservò a quel punto Sebastian,
inclinando appena il capo verso destra. La bambina fece un passo indietro e il
coetaneo si morse il labbro inferiore: non voleva che andasse via. Era la prima
volta che gli capitava di trovare una bambina alla baia la sera tardi e avrebbe
solo voluto giocare con lei. Di solito non era molto bravo a stare con gli
altri ragazzini. Gli piaceva guardarli, questo sì, perché li trovava buffi. Un
po’ li invidiava, perché li sentiva ridere e piangere spesso e quelle erano due
cose che a lui riuscivano sempre parecchio difficili. Sorrideva molto,
Sebastian, e altrettanto di sovente aveva gli occhi tristi. Ma le lacrime
scivolavano giù a fatica oltre le sue palpebre ed erano poche le volte in cui
gli capitava di ridacchiare a lungo, come invece facevano molti ragazzini che
conosceva.
“Come ti chiami?” chiese a quel punto Sebastian, muovendo
qualche passo verso la bambina. La piccola esitò, rivolgendogli l’ennesima
occhiata diffidente. Com’è bella,
pensò Sebastian, osservandola meglio: con quei capelli biondo chiaro e gli
occhi grigi così grandi, sembrava quasi una fata.
“Non ti spiavo, guardavo solo” ribatté a quel punto la
ragazzina, facendo spallucce. “È che il papà ha detto che gli somigli, ma
secondo me non è vero” specificò poi, sfilandosi una ciocca di capelli dal
volto.
“Che vuoi dire?” chiese Sebastian, aggrottando le
sopracciglia. “A chi assomiglio?”
Si stropicciò i capelli, ponendosi la stessa domanda: a
chi assomigliava lui?
A mio papà, pensò istintivamente,
fasciandosi il torace nudo con le braccia: incominciava a fare un po’ freddo.
Dapprima gonfiò il petto con orgoglio, ma poi gli tornarono in mente gli
occhi tristi che trasformavano il volto di sua madre, le volte in cui la donna
si rabbuiava dopo averlo chiamato Finnick. La fierezza nel suo sguardo si
smorzò: non voleva assomigliare a suo papà; non lo conosceva nemmeno.
La bambina storse appena le labbra con espressione
impensierita.
“A Peter Pan” rispose dopo un po’, giocherellando con il
braccialetto di nodi che portava al polso. “Papà dice che sei il figlio di
Peter Pan.”
Sebastian le rivolse un’occhiata perplessa: lui non
conosceva nessun Peter Pan. Sapeva che ogni tanto veniva additato dai ragazzini
della zona perché era un po’ strano, ma quella bambina aveva tutta l’aria di
essere più bizzarra di lui.
“Ma non è vero” obiettò in fine in tono di voce pacato,
perché non voleva sembrarle arrabbiato. “Mio padre si chiamava Finnick, non
Peter Pan. Finnick come me” si sentì poi in dovere di aggiungere, nonostante
nessuno, a parte sua madre, utilizzasse più il suo primo nome da tempo.
La
bambina aprì la bocca per rispondergli, ma venne distratta dai movimenti di
qualcuno che si stava affannando per raggiungere la baia. Sebastian lo
riconobbe subito, per via dei capelli chiarissimi che gli incorniciavano il
volto magro.
“Lyla!”
esclamò Adrian prima di fermarsi per riprendere fiato: doveva aver corso dal
faro fino a lì. Solo in quel momento Sebastian si rese conto della forte
somiglianza fra l’uomo e la ragazzina che aveva di fronte.
È
lui tuo padre?” chiese, grattandosi perplesso la testa.
La bambina – Lyla– gli rivolse un’ultima occhiata
attenta, prima di correre via, per raggiungere l’uomo dai capelli chiari.
Adrian, adesso, non sembrava più così agitato; sorrise a Sebastian e gli
rivolse un cenno di saluto, prima di prendere per mano la bambina e
incamminarsi con lei verso il faro. Forse anche Lyla, si disse il bambino, era
scappata di nascosto per andare alla baia e il padre era venuto a recuperarla.
In quel momento Sebastian provò una fitta d’invidia nei
confronti della coetanea: lui usciva di casa quasi tutte le sere, d’estate, ma
nessuno era mai sceso in spiaggia a cercarlo. Sua mamma non si era mai accorta
dei suoi vagabondaggi notturni; le uniche volte in cui sembrava sempre
coglierlo sul fatto erano quelle in cui il bambino sgattaiolava in mansarda per
giocare con il tridente del padre: in quelle occasioni Annie lo trovava sempre
e lo sgridava, a tratti ridendo delle sue monellerie, a tratti piangendo per
l’apprensione al pensiero che il figlio avrebbe potuto farsi male. Tutte le
altre cose che Sebastian faceva si confondevano con i rumori che li
circondavano e la donna non le sentiva; le sue orecchie erano sempre troppo
occupate a cercare di captare una vecchia ninna nanna: quella che Finnick – il
vero Finnick - le canticchiava di tanto intanto, quando era ancora vivo.
Sebastian affondò l’alluce nella sabbia umida e tracciò
una riga, che venne subito cancellata da un’onda. Avrebbe voluto seguire Adrian
e sua figlia al faro, ma stava incominciando a farsi troppo buio. Se da un lato
desiderava che sua madre si accorgesse della sua assenza più di ogni altra cosa
al mondo, dall’altro lo turbava l’idea di impensierirla e farla stare male.
Così diede le spalle al mare e s’incamminò a passo svelto verso l’ingresso
della baia. Per un attimo gli tornarono in mente le parole di Lyla e non poté
fare a meno di aggrottare un’ultima volta le sopracciglia.
“Chi è Peter Pan?” mormorò fra sé, prima di stringersi
nelle braccia e attraversare di corsa la stradina che l’avrebbe condotto a
casa.
Nota dell’autrice.
Questa
storia è nata principalmente per essere una sorta di tributo a Hook Capitan
Uncino - complice forse la recente morte di Robin Williams - , che è da sempre uno dei miei film preferiti. Era da un po’ che
sognavo di tornare a scrivere sul faro del Distretto 4 e i suoi “guardiani”, perché Killian, fra i vari OC creati per le interattive assieme a Giraffetta,
è quel personaggio che ho sempre portato nel cuoricino.
Fin da quando scrissi “un bimbo sperduto” ho
sempre associato Finnick al personaggio di Peter Pan e riguardando un paio di clip su Hook, dove Peter è cresciuto e ha avuto dei figli, ho pensato istintivamente a Sebastian. La ninna
nanna della figlia di Peter, Maggie, mi ha fatto tornare in mente Sebastian ascolta
con gli occhi e il resto è venuto da sé.
Come sempre la storia era nata per essere una one-shot, ma si è pian piano trasformata in qualcosa di più
lungo, così ho pensato di dividerla. Per accentuare il parallelismo fra il
racconto e il film di Hook, ho suddiviso la trama nei tre atti che, nella
maggior parte dei casi, compongono una sceneggiatura. Ogni atto sarà composto da due
capitoli, e al terzo atto seguirà poi solo più l’epilogo. Quindi, in sostanza,
siamo già a metà del primo atto xD
Come già accennato, questa storia riprende in parte degli
avvenimenti raccontati in una precedente one-shot
intitolata “Un Bimbo Sperduto”.
Ho cercato di mantenere soprattutto lo stile e la struttura di quella, quindi i
toni sono un po’ surreali e ci sarà qualche mini flashback, nonché dei passaggi
che riprenderanno un paio di scene del
film Hook. Killian
Harbor, il ragazzino co-protagonista di Finnick in quel racconto è lo stesso Killian che viene menzionato qui (il fratello di Adrian) e
verrà nominato spesso nel corso della storia. Il personaggio di Adrian, così
come la baia dove si svolge la vicenda di Sebastian, dovrebbero fare comparsa
in un’altra mia storia che però non c’entra molto con gli Odair
(la famosa “storia dell’ancora” che qualcuno già conosce XDD), ed è anche per
questo che ho deciso di tornare a scrivere qualcosa sulla famiglia Harbor e
sullo stesso Sebastian.
Ringrazio
chiunque abbia letto questo primo capitolo.
Sebastian spinse da parte l’origami di
carta a cui stava lavorando e toccò il polso di Annie, per attirare la sua attenzione.
“Tu lo conosci Peter Pan?”
Qualcosa nello sguardo della donna
incominciò lentamente a mutare: l’aria assente lasciò il posto a un’espressione
sorpresa. Annie rivolse poi al figlio un sorriso luminoso e anche Sebastian
sorrise, di riflesso: la mamma se ne era
andata per un attimo, ma era riuscito a farla tornare da lui.
“Sì, è il protagonista di una favola”
spiegò la donna, accarezzandogli i capelli. Una punta di tenerezza le velò il
volto. “Tuo padre adorava quella storia,me l’ha raccontata tante volte.”
“E di che cosa parla?” domandò un
incuriosito Sebastian, sedendosi sul divano di fianco alla madre. Annie gli
prese una mano e la strinse fra le sue, sorridendo malinconica.
Scostò un ciuffo di capelli
dalla fronte di Finnick e tornò a disperdere lo sguardo nel mare. Il ragazzo
aveva la testa appoggiata sul suo grembo e gli occhi socchiusi.
“C’era un ragazzino…”
mormorò a quel punto il giovane Odair, serrando del
tutto le palpebre. “…Killian. È stato il primo
tributo a cui abbia mai fatto da mentore; avevo quindici anni, all’epoca. Lui
ne aveva solo tredici e a guardarlo non ne dimostrava più di undici o dodici.
Era così spaventato…”
Si interruppe per
sospirare. Annie riprese ad accarezzargli i capelli, soffermandosi di tanto in
tanto a sfiorargli il volto.
“…Un bimbo sperduto”
concluse Finnick, aprendo del tutto gli occhi e voltandosi verso ilmare. “È morto il terzo giorno di Giochi.”
Annie si mordicchiò un
labbro, sforzandosi di controllare il bisogno di portarsi le mani sulle
orecchie: il peso che gravava nel petto di Finnick faceva troppo rumore. Si
sentì improvvisamente triste, al pensiero di non sapere come consolarlo. Cercò
di rassicurarlo, mormorandogli che non era colpa sua e che un giorno, il mare,
avrebbe lavato via un po’ di quel dolore che si era impigliato nel petto di
entrambi. Quei sussurri che si scambiavano ogni tanto erano come ninna nanne e
avevano il potere di cullarli, come il vento culla le onde. Per questo Annie
continuò a mormorare a lungo – la sua voce un soffio lieve – fino a quando le
palpebre di Finnick non tornarono a chiudersi.
“Raccontami di lui”
sussurrò infine Annie, continuando ad accarezzargli il volto. “Raccontami di
questo bimbo sperduto.”
“Gli piacevano le favole”
rispose il ragazzo, stropicciandosi insonnolito un occhio. “L’ultima sera,
prima che iniziassero i Giochi, mi ha raccontato la sua preferita: parlava di
un ragazzino che non voleva crescere, un certo Peter Pan. Un tipetto un po’
presuntuoso, che viveva in un’isola in mezzo al mare e combatteva contro i
pirati. Era il capo-banda di un gruppo di orfanelli con nulla da perdere,
proprio come lui. Killian una volta mi ha detto che
glielo ricordavo, questo Peter…”
“Parla di un bambino che non voleva
crescere” rivelò infine Annie, sorridendo al figlio. “Viveva in un’isola
magica, popolata da fare e sirene, ma anche pirati. Lì, all’Isola Che Non C’è,
nessuno diventava mai grande. E si poteva volare…” aggiunse, con un guizzo di
vivacità nello sguardo.“…sarebbe bello
volare, no?”
Sebastian annuì, prima di aggrottare le
sopracciglia.
“Come si fa a volare?”
La madre gli rivolse un sorrisetto
enigmatico.
“Basta avere un pensiero felice…”
mormorò poi, abbassando teatralmente il tono di voce. “…un po’ di polvere di
fata e… Hop!” esclamò, allungandosi verso il bambino per fargli il solletico.
Sebastian sobbalzò, colto di sorpresa, ma poi sorrise, rannicchiandosi per
sfuggire al suo attacco.
“Si spicca un salto e si vola!”
concluse Annie, facendo scorrere il polpastrello sulla punta del naso del
figlio. Il ragazzino sorrise di nuovo, distogliendo timidamente lo sguardo. Sua
madre era bellissima quando scherzava con lui, ma quei moti di allegria la
sorprendevano di rado e Sebastian non era ancora riuscito ad abituarcisi. Gli
piacevano, però. Lo facevano sentire piccolo, come un qualsiasi bambino di sei
anni. E in quel momento, mentre sua
madre lo stringeva a sé per fargli le coccole, non poté fare a meno di pensare
che anche a lui sarebbe piaciuto non crescere mai.
Sarebbe stato bello, si disse, essere
come Peter Pan.
“Secondo te è lì che sta papà?” chiese
improvvisamente, sollevando la testa per incontrare lo sguardo della madre.
“All’Isola Che Non C’è?”
Il sorriso di Annie si fece d’un tratto
più malinconico, ma la vivacità nel suo sguardo resistette.
“Secondo me sì, Finn”
rispose, accarezzando i capelli del bambino. “E la notte vola fino alle nostre
finestre, per vegliare su di noi mentre dormiamo.”
Sebastian aggrottò impensierito le
sopracciglia: una punta di delusione incominciò a punzecchiargli fastidiosa lo
stomaco.
“No, non è vero” mormorò infine,
distogliendo lo sguardo. “Lui quello non lo fa” aggiunse in tono di voce secco,
continuando a fissare l’origami di carta a forma di stella abbandonato sul
tavolo.
Se suo padre avesse davvero vegliato su
di lui dalla finestra, le notti precedenti, l’avrebbe visto mentre sgattaiolava
via. L’avrebbe rincorso per impedirgli di vagabondare tutto solo e mezzo
svestito in giro per la baia, perché così facendo avrebbe potuto prendere e
freddo e ammalarsi. Ma non l’aveva fatto,
e nemmeno sua madre.
Nessuno lo faceva mai.
Sebastian deglutì e chinò il capo verso
il basso, sentendo gli occhi pungere e inumidirsi. Inspirò con forza e tornò a
voltarsi verso Annie, ma la donna sembrava assorta in qualche pensiero tutto
suo; qualcosa nella risposta secca di Sebastian aveva rubato la vivacità che
l’aveva colta fino a poco prima. Il bambino sospirò di nuovo: la mamma se n’era
andata un’altra volta.
“Gli assomigliava davvero, Finn” mormorò a quel punto la donna, sorridendo lievemente.
“A Peter Pan. Il suo sorriso era come quello di un bambino. E aveva degli occhi
tanto allegri, occhi verdi…” aggiunse, tornando a rivolgere la sua attenzione
al ragazzino. Si rabbuiò di colpo, quando notò le lacrime che Sebastian si
stava sforzando di trattenere. Gli occhi
lucidi del figlio la riportarono a lui con la forza di uno strattone.
Anniestrinse il bambino a sé,
appoggiando il mento sui suoi capelli.
“Va tutto bene, tesoro” gli mormorò
all’orecchio, cullandolo con i suoi sussurri, come un tempo Finnick aveva fatto
con lei; e lei con lui. “Va tutto bene.”
Sebastian tirò su con il naso,
affondando il volto nella maglia della madre.
“Non mi piace la storia di Peter Pan”
mormorò in un soffio, senza farsi sentire da Annie. Non gli stava molto
simpatico, quel ragazzino che non diventava mai grande: poteva restare piccolo
per tutto il tempo che voleva e vivere mille avventure per conto suo, mentre
gli altri erano costretti a crescere.
Peter Pan sarebbe rimasto un bambino
per sempre. Lui, invece, si sentiva già grande, e non era giusto. Non era
giusto proprio per niente.
Per un attimo gli tornò in mente la ragazzina
dai capelli chiari che aveva incontrato la sera prima alla baia. Lyla l’aveva
detto, che lui non assomigliava a Peter.
Io non sono il figlio di Peter Pan, pensò,
strofinandosi un occhio umido di lacrime con il pugno. Annie incominciò a
canticchiare una nenia a mezza voce, cercando di addormentarlo. Lentamente il
ragazzino si tranquillizzò, ma quel pensiero continuò a ronzargli fastidioso
per la testa, fino a quando la stanchezza non lo convinse a chiudere gli occhi.
Sono solo Sebastian. Sebastian e basta.
Note finali.
Ed ecco qui il secondo capitolo,
ambientato ancora durante l’infanzia di Sebastian. Ci tenevo che fosse Annie a
raccontare a Sebastian di Peter Pan, perché, così facendo, ho potuto inserire
quel piccolo flashback che mi ha aiutata a raccontare un po’ del rapporto fra
Finnick e questa favola. E a introdurre un po’ meglio Killian,
che verrà menzionato ancora nei prossimi capitoli. Killian
era il fratello di Adrian, il guardiano del faro. Per quanto riguarda Annie,
spero di essere riuscita a renderla abbastanza bene >.< Come avevo accennato
nelle note di ‘Sebastian ascolta con gli occhi’, ho sempre pensato che la morte
di Finnick abbia inciso molto sulla stabilità mentale della donna e ha questi
momenti di allontanamento dalla realtà in cui si lascia sommergere un po’ dai
ricordi del passato. E Sebastian ne risente molto.
Con questo capitolo si conclude il primo atto, quello
introduttivo, e la parte dedicata al Sebastian bambino.Nel secondo atto saranno passati più o meno
dieci anni e tornerà a fare comparsa Lyla. La storia è quasi interamente
ambientata alla baia, fatta eccezione per questo capitolo su Annie e l’ultimo
capitolo prima dell’epilogo. E niente, spero che continui a piacervi <.<
Il vento soffiava forte, spettinando le
onde come ogni sera, quando Sebastian arrivò alla baia per la sua solita
passeggiata notturna. Gli piaceva quando capitava; amava il mare agitato, perché
dentro di sé era tutto troppo fermo, statico. Si sentiva apatico, quando
trascorreva i pomeriggi in casa per tenere compagnia alla madre, e di tanto in
tanto si sorprendeva a pensare che sarebbe impazzito anche lui, prima o poi, se
non avesse avuto il pensiero delle sue nottate trascorse alla baia.
Non che non facesse nulla durante le
sue giornate. Essendo estate non aveva scuola, ma durante il giorno lavorava
dai Rivers, tre fratelli che possedevano un
peschereccio. Ogni tanto usciva a fare surf con qualche collega o compagno di
scuola, ma per la maggior parte del tempo se ne stava per conto suo. Preferiva
le visite alla baia, la pesca in solitario sugli scogli e le sporadiche
chiacchierate con Adrian Harbor, che faceva discorsi sempre più bizzarri, man
mano che invecchiava.
Le sue passeggiate notturne lo risvegliavano un po’, specialmente quando
il mare era così agitato come quella sera. Ciò nonostante, la solitudine di
quei momenti lo faceva sentire incredibilmente malinconico, come se avvertisse la
mancanza di qualcosa. Era una sensazione che non gli dispiaceva più di tanto: sapeva
che, se avesse smesso di uscire la notte per andare alla
baia, quella strana nostalgia che lo prendeva se ne sarebbe andata. E assieme a
quei picchi di malinconia improvvisa avrebbe perso anche ciò che gli mancava,
prima ancora di fare in tempo a capire cosa fosse.
Stava rimuginando su quella strana sensazione
di nostalgia, quando un rumore catturò la sua attenzione. Sebastian si voltò
incuriosito prima di sgranare gli occhi, sorpreso: una ragazza lo stava
osservando, ferma a qualche metro di distanza da lui. I capelli biondissimi le
danzavano attorno al corpo per via del vento, da quanto erano lunghi, e il
vestito bianco le attribuiva un qualcosa di etereo, quasi evanescente,
accentuato dai toni chiari della sua carnagione. Aveva un sorriso sottile,
sbarazzino ed enigmatico al tempo stesso: come
una fata, pensò il giovane, prima di scacciare infastidito quel pensiero.
In
quel momento la ragazza incominciò ad allontanarsi. Sebastian aggrottò
perplesso le sopracciglia e azzardò qualche passo verso di lei, ma lei
incominciò a correre.
“Aspetta!”
cercò di convincerla, smettendo di inseguirla. La ragazza si voltò per
sorridergli, ma continuò ad allontanarsi, diretta verso il faro. Il giovane
sbuffò e si lasciò cadere sulla sabbia, socchiudendo pigramente gli occhi; le
poche volte in cui trovava qualcuno durante le passeggiate notturne, quello
puntualmente si allontanava, lasciandolo nuovamente solo.
Era
quello il motivo per cui trovava quei momenti in riva al mare così malinconici;
era quella la sensazione che avvertiva, quando lasciava penzolare i piedi giù
dagli scogli o si sedeva sulla sabbia con la sola compagnia delle onde: si
sentiva solo. Aveva nostalgia di qualcuno che al suo fianco non c’era mai
stato; se fosse suo padre, o un fratello mai nato, o sua madre – la parte vera
di lei, quella che riusciva a vedere solo ogni tanto, nascosta dietro gli occhi
spenti di Annie – Sebastian non lo sapeva. Ma quel qualcuno mancava e il vuoto
che avvertiva al suo posto assorbiva tutto il resto. Era come un buco, che
risucchiava ogni forma di emozione troppo forte, buona o cattiva che fosse. E
così, tornava l’apatia.
Un
ricordo un po’ opaco gli attraversò la mente: riguardava un episodio avvenuto
almeno nove o dieci anni prima. Evocò lo sguardo diffidente di una bambina dai
capelli biondi che lo osservava di nascosto. Quell’immagine continuò a
punzecchiargli la mente per tutto il tempo che trascorse alla baia.
*
Sebastian dovette attendere la sera
successiva, prima di incontrare di nuovo la ragazza dai capelli biondi. Era
deciso a non lasciarla fuggire via, quella volta, e si era anche ripromesso di
rincorrerla se ce ne fosse stato bisogno, a costo di fare la figura del pazzo o
del maniaco. Lo innervosiva quel pensiero: non gli era mai piaciuto insistere
con le persone. Lui, nella sua solitudine, ci stava bene. Ogni tanto il peso di
tutti quei silenzi diventava insostenibile, ma al loro interno ci era cresciuto
e li aveva resi la sua casa: non poteva farne a meno, ormai. L’assenza di
solitudine lo attirava e spaventava al tempo stesso. Rincorrere qualcuno
equivaleva a gettarsi in uno di quei corsi d’acqua strattonati dalla corrente;
quella sera, tuttavia, non ebbe bisogno di farlo.
Quando raggiunse la baia, la ragazza
era già lì, con le ginocchia strette al petto e lo sguardo rivolto al mare:
sembrava quasi che lo stesse aspettando.
“Mi ricordo di te” azzardò Sebastian,
sedendosi al suo fianco. C’era qualcosa di malinconico nel suo sguardoche non aveva notato la sera precedente. “Sei
Lyla, vero?”
Non ne era certo: l’aveva vista solo di
sfuggita, di tanto in tanto, e si erano rivolti la parola solo una volta, prima
di quella sera. Ma i suoi capelli chiari e il suo aspetto insolito, quasi
fiabesco, erano difficili da confondere con quelli di qualcun altro.
L’espressione
della ragazza si fece tutto a un tratto più vispa.
“E tu dovresti
essere il figlio di Peter Pan” rispose,
sorridendo con aria malandrina. “Ma non mi hai ancora convinto: continui a non
sembrarmi lui.”
Il giovane
le rivolse un’occhiata seccata.
“Sebastian”
la corresse, appoggiandosi i gomiti sulle ginocchia. “Mi chiamo Sebastian.
Perché mi fissi e poi scappi via?” chiese poi.
La
giovane si fasciò i capelli con le mani, sistemandoseli meglio sulla schiena.
“Mi
incuriosisci” rispose infine, riprendendo a voltare lo sguardo in direzione del
mare. “Speravo di sentirti ridere, una volta o l’altra, ma sei sempre così
serio…”
Sebastian
le scoccò un’occhiata perplessa: quella ragazza lo straniva e di molto. Di
solito non aveva la tendenza a giudicare gli altri, visti i problemi di sua
madre. Inoltre, lui stesso veniva spesso etichettato come bizzarro, per via della
sua tendenza a isolarsi e le sue strane abitudini, come il voler andare in giro
mezzo svestito anche quando faceva freddo o le sue capatine notturne alla baia.
Ma Lyla era qualcosa di completamente diverso: nei modi di fare e in ciò che
diceva sembrava ancora una bambina, ma di tanto in tanto il suo sguardo tornava
a farsi malinconico e la ragazzina svaniva, lasciando il posto a un adulto
qualsiasi, triste e impensierito.
“Perché
mai uno dovrebbe ridere, guardando il mare?” osservò, tornando a voltarsi verso
di lei.
“Perché
è un gran bel gioco, ecco perché” rispose la ragazza, sotto lo sguardo sempre
più perplesso di Sebastian. “Da bambina mi bastavano un po’ di onde alte, per
essere felice; giocavo a saltarle o a rincorrerle, e nel farlo mi veniva spesso
da ridere. Tu lo facevi, da piccolo?”
Sebastian
scosse la testa.
“Beh,
dovresti farlo adesso” commentò Lyla, stringendosi nelle spalle. “Ci starebbe
proprio bene sul tuo volto.”
“Che
cosa?”
“Una
risata!”
Il
giovane roteò gli occhi.
“Tu
sei tutta matta” non riuscì a fare a meno di mormorare, passandosi una mano fra
i capelli. Lyla si strinse nelle spalle: non sembrava se la fosse presa.
Rimasero
in silenzio per qualche istante, ognuno avvolto dai rispettivi silenzi.
L’assenza di parole plasmò sul volto di Lyla l’espressione malinconica che
Sebastian aveva notato al suo arrivo e questo, in qualche modo, lo turbò. Non
gli piacevano le espressioni tristi: gli ricordavano quella spenta di sua
madre.
“Che
favola insulsa” mormorò dopo un po’, sdraiandosi sulla sabbia. La giovane gli
rivolse un’occhiata interrogativa.
“Peter
Pan” specificò Sebastian, prima di stringersi nelle spalle. “Che senso ha
raccontare ai bambini che si può smettere di crescere, quando non è vero?”
“Che
senso ha dire a un adulto cose come ‘Andrà tutto bene’ o ‘Chiusa una porta, si
apre un portone’, quando non è detto che accadrà?”
“Che
c’entra?” replicò Sebastian, passandosi una mano fra i capelli, per spolverarli
dalla sabbia. “Quelle sono cose possibili.”
“Anche
non crescere è possibile” obiettò Lyla, tornando a sorridere vispa. “A me è
successo.”
“Buon
per te, allora” ribatté il ragazzo, distogliendo lo sguardo. La giovane sospirò.
Il suo sguardo si persero per qualche istante, occupato ad esaminare le onde.
“Tuo
padre ci credeva, sai?” rivelò poi, catturando l’attenzione di Sebastian. “Papà
mi ha raccontato di una volta in cui sono venuti a giocare assieme qui alla
baia, quando era piccolo.”
Nel
sentir nominare il padre, Sebastian sembrò irrigidirsi; la sua espressione
mutò, lasciando trasparire una punta di ostilità.
“E
tu che ne sai di mio padre?” chiese, in tono di voce secco. Lyla sospirò una
seconda volta.
“Te
l’ho appena detto, papà lo conosceva.”
“Come?”
la interrogò ancora il giovane, alzando il tono di voce.
Lyla
gli rivolse un’occhiata diffidente, visibilmente infastidita dal suo tono
brusco. Sebastian non ci badò; parlare di suo padre non gli piaceva,
soprattutto se a ricordarlo erano gli estranei. Aveva sempre l’impressione che
tutti lo conoscessero meglio di lui – tutti,
perfino quelli che non l’avevano mai incontrato. Chiunque, prima o poi,
arrivava a mettere a confronto Finnick e Sebastian Odair:
qualcuno era convinto che si assomigliassero molto, altri erano dell’idea che
Sebastian avesse preso più dalla madre. In entrambi i casi, la conversazione
finiva sempre per spostarsi verso Finnick e ciò che aveva fatto, sia durante
gli Hunger Games che per la rivolta. Alle volte
Sebastian aveva come l’impressione che i conoscenti meno stretti dei suoi
genitori non sapessero parlare d’altro, al di fuori di quale bella persona
fosse stata suo padre. Gli veniva spesso detto che avrebbe dovuto sentirsi
orgoglioso di lui, ma nessuno sembrava disposto ad accettare che al figlio di
Finnick Odair, del padre, importasse ben poco: sapeva
di essere ingiusto, ma gli riusciva difficile provare affetto verso qualcuno
che non conosceva nemmeno. Non poteva sentirsi fiero di suo padre, quando un
padre, lui, non l’aveva mai avuto.
Eppure,
per quanto lo infastidisse sentir parlare sempre e solo di Finnick, una parte
di lui non si stancava mai di assorbire nuove informazioni. L’assenza del padre
nella sua vita era parte di quel buco al centro di se stesso – il vuoto che
trasformava ogni sua emozione più forte in apatia.
“Si
sono conosciuti durante il Tour della Vittoria; l’anno dei sessantaseiesimi Hunger Games” spiegò Lyla, distendendo le gambe sulla
sabbia. Sebastian fece mente locale per un istante, assimilando quelle frasi:
suo padre aveva partecipato ai sessantacinquesimi; l’edizione a cui si stava riferendo Lyla era stata la prima
in cui aveva fatto da mentore.
“Mio
zio Killian, il fratello di mio padre, era il tributo
di quell’anno.”
“Il
fratello di Adrian è morto negli Hunger Games?”
chiese conferma Sebastian. Aveva sentito parlare di Killian,
qualche volta, e sapeva che era morto quando era appena un ragazzino, ma non gli
era mai stato detto che avesse partecipato ai Giochi.
Lyla
annuì; un lieve sorriso nostalgico le increspò le labbra.
“Lo
chiamavano il piccolo guardiano del faro” rivelò poi, rivolgendo un’occhiata
distratta alla torre che illuminava il mare ad intermittenza. “Tuo padre è
stato il suo mentore. Erano entrambi molto giovani; più piccoli di noi.”
Sebastian
tornò a cingersi le ginocchia, osservando assorto la luce intermittente del
faro a cavallo delle onde; faceva fatica a immaginare suo padre da ragazzino:
la maggior parte delle fotografie che aveva visto gli erano state scattate tra
i diciotto e i ventitré anni, e ritraevano un giovane muscoloso e
incredibilmente attraente. Aveva visto
qualche filmato della preparazione ai sessantacinquesimi Hunger
Games e anche lì il padre gli era sempre sembrato più adulto dell’età che aveva
– forse per via del modo in cui era stato truccato e vestito.
“Mio
zio Killian adorava i racconti” proseguì Lyla. “Non
si vergognava ad ammetterlo, nonostante fosse ormai troppo grande per parlare
di favole. Quando passi la maggior parte
del tuo tempo su, al faro, non c’è nulla di più bello che guardare il mare e
rilassarsi ascoltando qualcuno che canta o che ti racconta una storia.”
Quelle
parole impressero addosso a Sebastian una fitta pungente di malinconia, la
stessa che avvertiva quando passeggiava in riva al mare la notte: era nostalgia
verso qualcosa che non aveva mai vissuto; l’immagine di una notte trascorsa a
sorvegliare le onde dall’alto, in compagnia di qualcuno, piuttosto che
accoccolarsi su uno scoglio in solitudine.
“La
favola preferita di Killian era quella di Peter Pan;
sai, nonostante si faccia sempre riferimento a Peter come a un bambino, in
qualche versione della storia si dice che
avesse smesso di crescere più o meno a quattordici anni[1]; la
stessa età che aveva tuo padre quando ha vinto gli Hunger
Games.”
Lyla
si interruppe, come se si aspettasseun
suo commento. Sebastian continuò a fissare il mare con sguardo assente e non
aggiunse nulla, così la ragazza riprese a parlare.
“Forse
era per quello che glielo ricordava: Peter Pan, dico. Finnick Odair ha dovuto vedersela con dei ragazzi ben più grandi di
lui, nell’arena, così come Peter lottava contro i pirati. E ogni anno preparava
a combattere un bimbo sperduto diverso: ragazzini come Killian.”
“Se
tuo zio è morto negli Hunger Games, tu come fai a
sapere tutto questo?” domandò a bruciapelo Sebastian, aggrottando le
sopracciglia con fare cinico.
“Per
via di mio padre; è stato lui a parlarmi di zio Killian,
la prima volta che mi ha raccontato la favola di Peter Pan. E di Finnick Odair: tuo padre e il mio hanno parlato molto, quando si
sono incontrati dopo il Tour della Vittoria. Papà era un bambino, all’epoca: penso
sia stato quello il giorno in cui sono venuti a giocare qui alla baia.”
L’immagine
di suo padre che Lyla stava disegnando nella sua testa era in netto contrasto
con quella che si era costruito nel corso degli anni, incollando mentalmente
assieme aneddoti e pezzi di conversazioni.Il
Finnick Odair che veniva mostrato dai filmati degli
emittenti di Capitol City e i Pass-Pro girati durante
la rivolta era un giovane incredibilmente bello e popolare, noto a tutti per la
sua vittoria agli Hunger Games in giovane età e per
il suo carisma. Non aveva nulla in comune con l’eterno bambino vestito di
foglie che non sapeva nemmeno cosa fosse un bacio. Erano poche le persone che
avevano ricostruito per Sebastian l’immagine di un Finnick Odair
che si avvicinava a quello raccontato da Lyla: una di queste era sua madre.
Qualche volta, da bambino, Sebastian le aveva chiesto di parlargli di lui e
Annie l’aveva accontentato, sorridendo malinconica al ricordo delle mani calde
e forti premute contro le sue orecchie, nei momenti in cui la paura prendeva il
sopravvento. O delle melodie che Finnick intonava a mezza voce per calmarla,
facendola ridere perché, a detta di Annie, suo marito era stonato come pochi.
Nenie che Sebastian non conosceva e non avrebbe mai sentito, perché suo padre,
morendo, se le era portate via con sé.
“Ti ricordi quella
ninnananna, Finnick?”
Annie sfiorò la mano del
figlio.
“Quella che mi cantavi per
zittire i brutti pensieri.”
“Sono Sebastian, mamma”
mormorò il bambino, scuotendo stancamente la testa. “Era papà che cantava per
te: io non conosco quella canzone.”
La
voce soffice di Lyla lo allontanò dalle sue riflessioni, riportandolo alla
conversazione.
“Papà
dice che in televisione sembrava un uomo adulto, ma che a guardarlo bene aveva
il sorriso di un bambino. È per questo che speravo di vederti ridere” aggiunse,
voltandosi verso di lui. “Per capire se gli assomigliassi. Forse sei davvero il
figlio di Peter Pan; magari hai solo dimenticato il tuo pensiero felice”
aggiunse in tono di voce scherzoso.
Sebastian distolse lo sguardo.
“Mi spiace deluderti, ma io non
assomiglio a mio padre” dichiarò infine, stringendosi nelle spalle. “E nemmeno
mi interessa essere come lui: non l’ho neanche conosciuto.”
“Se pensi di non conoscerlo, allora
come fai a sapere che non gli somigli?” chiese Lyla, arricciando le labbra a
formare un sorrisetto malandrino. Sebastian la fissò interdetto per un po’, sforzandosi
di trovare in fretta le parole adatte per risponderle. Prima di riuscire ad
aprire bocca, Lyla parlò di nuovo.
“Io non ricordo quasi nulla di mia
madre” rivelò all’improvviso, sollevando la testa verso l’alto, permettendo al
vento di accarezzarle il volto. “Se ne è andata quando ero molto piccola. Mio
padre non parla mai di lei, ma mi capita spesso di domandarmi come stia. Vorrei
sapere dove vive, cosa le piace fare. Se mi somiglia o se pensa mai a me…”
“Non ce l’hai con lei?” chiese
Sebastian, tornando a voltarsi verso la ragazza. Al suo posto avrebbe provato
rabbia, al pensiero di essere stato abbandonato. Incominciò a sentirsi nervoso,
senza riuscire a comprenderne il perché. Lyla si strinse nelle spalle.
“Sono stata arrabbiata per un bel
pezzo, ma poi ho deciso che non servisse a niente esserlo” rispose infine, sorridendo
con dolcezza. “Preferisco voler bene alle poche cose che ricordo di lei.”
Una folata di vento stuzzicò entrambi,
facendo rabbrividire la ragazza; Sebastian si sfregò il capo con espressione
colpevole, al pensiero di non avere nemmeno una felpa da prestarle. Se avesse
avuto troppo freddo, se ne sarebbe andata. E in quel momento si rese conto di
non sentirsi ancora pronto a restare solo. Il silenzio delle tante notti
trascorse alla baia fin da quando era bambino incominciava a sembrargli tutto a
un tratto meno confortevole.
“C’è una cosa di lei che mi ricordo
bene” esclamò in quel momento Lyla, riparandosi il corpo con le braccia. “È una
ninna nanna che mia madre mi cantava spesso per aiutarmi ad addormentarmi.”
La parola ninnananna innescò dei ricordi dolorosi, in Sebastian. Se la sentì
scivolare nel petto, aggiungendosi al peso che già avvertiva, ogni volta che indugiava
con lo sguardo sull’espressione spenta di sua madre.
“Non la ricordi?” mormorò Annie, sgranando preoccupata gli occhi.
“Non la conosco, mamma. Papà è morto: non ha mai cantato per me.”
“Ti
va di ascoltarla?”
Ancora
una volta la voce di Lyla gli fornì un appiglio per sfuggire ai ricordi.
Sebastian non rispose. La giovane lo osservò a lungo, prima di incominciare a
cantare, tornando a voltarsi verso il mare.
Sebastian ascoltò in
silenzio la prima strofa, ignorando il rumore del vento e il lamento delle onde
in lontananza. Lyla aveva una voce semplice, ma intonata, che calzava a
perfezione con la melodia malinconica che stava eseguendo. Qualcosa di quella
scena – l’immagine di una sconosciuta che cantava per lui una vecchia ninna
nanna – lo colpì e lo turbò e al tempo stesso. Pensò a sua madre e a tutte le
volte in cui, da bambino, si era addormentato al suono della sua voce, prima
che la donna si lasciasse andare lentamente, facendosi trasportare sempre più
alla deriva dai ricordi – lontana da se stessa, da suo figlio. Pensò a tutte le
volte che Annie gli aveva chiesto di cantare per lei una ninna nanna che
Sebastian non conosceva e al peso che avvertiva nel petto, quando era costretto
a risponderle con un: non posso. Pensò
a suo padre, al vuoto che sentiva proprio di fianco a quel peso, e all’insolita
nostalgia che provava verso qualcosa che non aveva mai avuto.
«Everyday
must end
But the night's our
friend
Angels always send a
star
When you're alone»
E infine pensò che
quella ninna nanna sapesse di lui; aveva la stessa cadenza malinconica dei suoi
pensieri, e lo faceva pensare alle passeggiate notturne fino alla baia, segnate
dalla solitudine. Sapeva di loro – di lui, di Lyla – e delle parole che si
erano scambiati quella sera. Se la sentì scivolare nel petto per adagiarsi sul
peso che avvertiva da quelle parti.
«And any star I choose
Watches over me
So I know I'm not alone
When I'm here on my own
Isn't that a wonder?
When you're alone
You're not alone
Not really alone»
Le parole della ninna nanna terminarono
e Lyla mugolò la melodia per una strofa, prima di interrompere il canto. A quel
punto la ragazza si alzò, scrollandosi via la sabbia dal vestito. Sebastian avvertì
una fitta di delusione, nell’accorgersi che stava andando via.
“Aspetta…” mormorò, trattenendola per il polso; si
interruppe, non sapendo bene come proseguire.
Si sentiva strano: aveva un nodo alla
gola e gli occhi gli pungevano, come se fossero sul punto di inumidirsi. Lyla
gli sorrise con dolcezza e, per un istante, Sebastian riconobbe nel suo sguardo
la stessa espressione che illuminava il volto di sua madre quando lo consolava,
da bambino.
Sentì un tocco delicato sui capelli e
una lieve stretta alla spalla; quando si girò da quella parte, la ragazza si
stava già allontanando in direzione del faro.
“A domani, Peter-non-Peter” lo salutò scherzosamente, voltandosi un’ultima volta
verso di lui.
Sebastian la osservò
allontanarsi fino a quando non la vide più, stringendosi nelle braccia per
ripararsi da una folata di vento più forte delle altre.
Impiegò diversi
minuti prima di convincersi ad andare a casa; la malinconia che lo accompagnava
ogni notte aveva incominciato a farsi più pungente da quando la giovane l’aveva
salutato. Quella sera, tuttavia, non era sola; c’era qualcos’altro ad accompagnare
i pensieri di Sebastian: una melodia.
Il suono dolce, ma
nostalgico di una ninna nanna.
Note finali.
Anzitutto, ci tenevo tanto a segnalare
che qualche giorno fa ho pubblicato la prima parte di un prequel (che ha due capitoli) di questa storia! S’intitola Footprints in the sand ed
incentrato sul passato di Finnick,
ma c’è qualche piccolo accenno che si lega a questo racconto: anche lì fa
comparsa la famosa baia protagonista
dei vagabondaggi notturni di Sebi, e ho cercato di intessere qualche altro
parallelismo fra Finnick e la favola di Peter
Pan. Viene anche detto da dove arrivi il nome di Sebastian. E anche il nome di qualcun altro che, però,
non ha ancora fatto comparsa u.u Sebastian stesso
farà comparsa nell’ultima parte, come anche Annie. E niente, ci terrei tanto a
ricevere un vostro parere!
Passando al capitolo, so che forse è un po’ “meh”, ma c’erano un sacco di cose che andavano dette e ho
dovuto condensarle tutte in questa parte. È incominciato il secondo atto e sono
passati più o meno dieci anni dai primi
due capitoli; Sebastian ha più o meno 16 anni e ritroviamo anche Lyla, che ne ha quindici. È un po’
stramba, quella ragazza xD Ma il suo carattere un po’
svampito e bambinesco mi sembrava in linea con i toni un po’ fiabeschi/surreali
della storia e, soprattutto, con la favola di Peter Pan.
La citazione iniziale è tratta dal
libro “Molto forte, incredibilmente
vicino” [in italiano è stata tradotta con: «Quel segreto era il buco al centro di me stesso dove
cadeva ogni felicità.»] e ci tenevo a riprenderla nel testo del capitolo, perché
mi la trovo molto adatta a descrivere lo stato d’animo di Sebastian.
Caratterialmente credo che lui abbia rubato qualcosina sia al Jack di Hook (il
figlioletto di Peter Pan/Robin Williams), in particolare per quanto riguarda i
conflitti interiori nei confronti della figura padre, sia al Peter adulto.
E viene spiegato anche il collegamento fra
la famiglia di Lyla e quella di Sebastian, grazie al suo racconto sullo zio Killian, che è
stato il primo tributo a cui un giovanissimo Finnick abbia fatto da mentore. La
sua storia era già stata raccontata in “Un bimbo sperduto”
ma ho cercato di riprendere qualcosa per giustificare meglio il parallelismo
fra la figura di Peter Pan e Finnick.
E niente, ho detto tutto! Un abbraccio e a presto!
Laura
[1] L’età di
Peter Pan è incerta e varia a seconda dei vari adattamenti che sono stati
fatti. Qualcuno pensa che Peter avesse smesso di crescere a quattordici anni,
perché James Barrie, nello scrivere di Peter, è stato
ispirato da un tragico episodio della sua infanzia (la morte del fratello
quattordicenne, David) e una frase che disse sua madre in proposito: devastata
dalla morte del figlio, la signora Barrie disse che
l’unica cosa da cui poteva trarre conforto era l’idea che il suo bambino non
sarebbe mai diventato grande.
[3] “When You Are Alone”, composta da John Williams. Fa parte della
Colonna Sonora di Hook Capitan Uncino: è la canzone che canta la piccola
Maggie, durante il periodo di prigionia sulla nave di Uncino. Qui trovate la
scena.
«Forget them, Wendy. Forget them all.
Come with me where you’ll never, never have to worry about grown-up things
again.»
― Peter Pan, 2003
L’estate di Sebastian, l’anno del suo
sedicesimo compleanno, trascorse tutta più o meno allo stesso modo. Le notti si
susseguivano l’una all’altra, ospitandolo alla baia, fino a quando il freddo
non incominciava a farsi troppo insistente perfino per lui. Qualcosa era
cambiato, tuttavia, nei suoi vagabondaggi notturni lungo la spiaggia. Durante
l’ultima settimana era capitato di rado che trascorresse le sue serate in
solitudine: Lyla passava a trovarlo sempre più spesso, le volte in cui non
restava al faro per mitigare i momenti di tristezza del padre. Le loro conversazioni
erano diventate ormai parte del suo rituale notturno, tanto quanto il vento o
le onde agitate dalla sua spinta.
“Lo sai come si chiama questo posto?”
gli chiese Lyla una sera, mentre erano entrambi intenti a bagnarsi i piedi
sulla riva.
Sebastian esitò per un istante, prima
di rispondere.
“Non conosco il nome vero” ammise
infine, “Ma mia madre e tuo padre la chiamano la Baia delle Impronte
Dimenticate.”
Lyla annuì.
“Sai, dicono che la sera le persone morte
camminino sulla spiaggia” mormorò poi, chinandosi per immergere le mani
nell’acqua. Sebastian fece una smorfia.
“Inquietante.”
“E che al mattino i loro cari trovino sulla
sabbia le impronte di chi hanno perso. Da bambina cercavo sempre quello di mio
nonno e dello zio Killian.”
Sebastian non rispose, limitandosi ad
ascoltare in silenzio. Un paio di giorni prima Lyla gli aveva raccontato
qualcosa sul passato della sua famiglia: suo nonno, il padre di Adrian e Killian, era stato capitano di una nave da trasporto merci
– una delle poche, prima della rivolta, che smerciava il pesce a Capitol City. Sebastian sapeva che suo nonno paterno, Gannet, aveva fatto un lavoro simile, prima di morire. In
una giornata un po’ burrascosa il signor Harbor era partito per raggiungere la
capitale e non aveva mai fatto ritorno. Da allora, sua moglie non era più stata
la stessa; trascorreva gran parte delle sue giornate alla baia, con lo sguardo
immerso fra le onde, come se ancora attendesse il ritorno del marito. Quel
racconto aveva colpito molto Sebastian; mentre Lyla gli parlava dello sguardo
spento di sua nonna e dei suoi silenzi interminabili, lui non aveva potuto fare
a meno di pensare a sua madre e alla tristezza che dominava l’aspetto sempre
più fragile della donna.
“Spesso trovavo due paia di impronte
vicine, una più grande e l’altra decisamente più piccola” proseguì la ragazza,
per nulla turbata dalla conversazione a senso unico che stava avendo: ci era
abituata, ormai. Capitava spesso che Sebastian si estraniasse, troppo abituato
a fare affidamento solo su se stesso e sui propri pensieri. “Sono sempre stata
convinta che fossero le loro.”
Ancora una volta, il ragazzo non disse
nulla. La questione delle impronte lasciate sulla spiaggia dalle persone care
che non c’erano più non gli era del completamente nuova – era una di quelle
leggende popolari che tutti, al Distretto 4, avevano sentito menzionare almeno
una volta. Ed era anche sicuro di aver cercato le impronte di suo padre sulla
sabbia assieme ad Annie, da piccolo. Solo, non aveva voglia di parlarne.
“Vedo che non sei ancora riuscito a
trovare il tuo pensiero felice, Peter-non-Peter” osservò ad un certo punto
Lyla, accennando all’espressione seriosa del coetaneo. “Di questo passo non
raggiungerai l’Isola Che Non C’ènemmeno
con tonnellate di polvere di fata.”
Il ragazzo roteò gli occhi e si
allontanò dalla riva per sdraiarsi sulla sabbia asciutta.
“Mi chiamo Sebastian” ricalcò per
l’ennesima volta, prima di mascherare uno sbadiglio con la mano. “Pensavo che
ti fossi arresa con questa storia di Peter Pan.”
Lyla scosse la testa e sorrise con fare
sbarazzino.
“Affatto. E stasera ti metterò alla
prova.”
“Come? Buttandomi giù da uno scoglio
per vedere se spicco il volo?”
La ragazza roteò gli occhi e lo
raggiunse.
“Facendoti ridere” rispose, afferrandogli una mano per convincerlo ad alzarsi.
“Dai, vieni con me!”
Sebastian chiuse
pigramente gli occhi e si rifiutò di muoversi. Lyla gli tirò il braccio per un
po’, fino a quando il giovane non si convinse a seguirla. Lo guidò verso la
riva e poi più distante, non badando ai risvolti ormai fradici deijeans di entrambi.
“Io non rido molto” si sentì in dovere
di ricordarle il ragazzo, indirizzando un’occhiata perplessa all’acqua che gli
arrivava poco sotto il polpaccio.
Lyla gli indirizzò il solito sorrisetto
sbarazzino.
“Me ne sono accorta.”
“E non soffro il solletico” aggiunse Sebastian,
stringendosi nelle braccia, per proteggersi dagli schizzi di acqua fredda.
Lyla lo ignorò e continuò a camminare.
Il giovane la inseguì con lo sguardo per qualche istante, prima di scuotere il
capo e convincersi ad andarle dietro.
L’aveva ormai raggiunta, quando
qualcosa si frappose sul suo cammino, facendolo inciampare. Cadde sulle
ginocchia e cercò di attutire il colpo con le mani, bagnandosi fino al
torace.Imprecò a denti stretti,
sfregandosi i palmi graffiati e si accigliò nell’intercettare l’espressione
divertita di Lyla. La ragazza incominciò a ridere, punzecchiandolo con il suo
sorriso più malandrino del suo repertorio.
“Mi hai fatto lo sgambetto?” sbottò
Sebastian. La giovane fece spallucce.
“Pensavi davvero che facendomi fare la
figura dell’imbecille mi avresti fatto ridere, o era tutta una trappola per
cercare di sbarazzarti di me?” borbottò il ragazzo, stringendosi le braccia
contro il petto. “Avrei potuto fracassarmi la testa.”
Lyla rise di nuovo, prima di sollevare
un po’ d’acqua con la mano per tirargliela addosso.
“Non fare il bambino…” lo punzecchiò,
quando Sebastian incominciò ad allontanarsi, per evitare gli schizzi.
“Io sono un bambino[1]…”
replicò ironicamente lui, stringendosi nelle spalle. “…Sono il figlio di Peter
Pan, no?”
Lyla gli sorrise e poi riprese a
camminare verso l’acqua più profonda. Ancora una volta Sebastian tentennò per
un po’, prima di convincersi a raggiungerla: faceva comunque troppo freddo per
restare fermi e non aveva nulla con cui asciugarsi.
“Ci beccheremo una polmonite” commentò infine, camminando un po’ distante da
Lyla, per evitare che lei gli giocasse un altro brutto scherzo.
“…Disse il ragazzo che passeggiava mezzo
nudo per la baia ogni notte” lo prese in giro la ragazza, portandosi una ciocca
di capelli dietro l’orecchio.
Sebastian roteò gli occhi.
“Non mi sono mai ammalato, fino ad ora”
replicò, immergendo una mano nell’acqua. Schizzò in direzione della giovane che
trasalì, colta di sorpresa. Lyla ricambiò subito il gesto, sollevando parecchia
acqua. Prima che Sebastian riuscisse a schizzarla di nuovo, la ragazza scattò
in avanti per sfuggirgli.
“Questa me la paghi” la minacciò l’amico,
traendo un lungo respiro prima di immergersi in acqua. Si gettò al suo
inseguimento, ignorando le sferzate d’acqua che Lyla gli stava indirizzando.
“Attento a te, Uncino!” lo avvertì la
giovane, quando Sebastian le arrivò alle spalle per bloccarle le braccia.
“Uncino a chi?”
L’afferrò per la vita, trascinandola
verso di sé. Cercò di immergerle la testa nell’acqua, ma nel divincolarsi Lyla
gli sferrò involontariamente una gomitata contro il petto. Sebastian mollò la
presa, soffocando un’imprecazione a denti stretti.
“Scusami!” esclamò all’istante la
ragazza, spostandogli le braccia per controllare il punto colpito. Sembrava
davvero dispiaciuta, ma era evidente, nonostante l’espressione colpevole, che
stesse facendo del suo meglio per non scoppiare a ridere. Sebastian si finse
offeso.
“Sei pericolosa” borbottò,
massaggiandosi la zona arrossata sul torace. Lyla gli scostò la mano, per
adagiare le dita contro il suo petto. Il ragazzo si irrigidì appena, prima di
rilassarsi a quel tocco; la pressione leggera dei suoi polpastrelli a contatto
con la sua pelle era delicata come ali di falena; come la ninna nanna che Lyla
aveva cantato per lui qualche settimana prima. Lentamente il tocco si trasformò
in una carezza e Sebastian provò la stessa sensazione piacevole che avvertiva
quando il vento gli solleticava la pelle le sere come quella, alla baia.
Lyla gli sorrise – la mano ancora
adagiata contro il suo petto. Per un attimo sembrò sul punto di dire qualcosa,
ma non lo fece: si limitò a immergere le dita libere nell’acqua. L’istante
successivo aveva già ripreso a schizzare Sebastian, cogliendolo di sorpresa una
seconda volta.
“Sei proprio una fata…” osservò in quel
momento il ragazzo, ricambiando il colpo per costringerla a fermarsi. Lyla
cercò di ripararsi con le braccia, ma Sebastian riuscì a bloccarle i polsi,
attirandola nuovamente a sé. “…Rompipalle e dispettosa come Trilly
e compagnia…”
“Ogni Peter Pan che si rispetti ha
bisogno di una fatina rompipalle…” replicò la ragazza, prima di lasciarsi
sfuggire un gridolino, quando Sebastian riprese a schizzarla. Strizzò gli occhi
e cercò di divincolarsi, mentre l’amico la bloccava contro il suo petto, per
impedirle di difendersi.
“Tutto questo è sleale!” si lamentò.
“Ti arrendi?” la canzonò il ragazzo,
sorridendo divertito. Lyla cercò di rispondere, ma fu costretta a richiudere
subito la bocca per difendersi da un nuovo attacco d’acqua.
“Sto per darti un’altra gomitata”
farfugliò più in fretta che poté, fra uno schizzo e l’altro. La sua frase gli
fece allentare la presa per un istante, e la giovane ne approfittò per scattare
in avanti. Riuscì a nuotare per qualche metro, prima che Sebastian la
raggiungesse. Questa volta era preparata e rispose ai suoi schizzi. Il ragazzo
la sollevò con facilità, pronto a bloccarle nuovamente le braccia per
difendersi in caso ce ne fosse stato bisogno.
Impiegò una buona manciata di secondi a
rendersi conto che Lyla aveva smesso di schizzarlo; non stava nemmeno cercando
di sfuggirgli. La giovane aveva incrociato i polsi dietro al suo collo, per
sorreggersi, e lo osservava con un insolito brillio di trionfo nello sguardo.
Rideva ancora, nella solita maniera aperta e sbarazzina che sembrava pervadere
ogni cosa che le appartenesse. Aveva il sorriso di una persona che si accorge
di aver vinto e, non appena il respiro cominciò a mancargli, Sebastian si rese
conto che le cose stessero andando veramente così.
Perché lui stava ridendo.
Rideva da un pezzo, ormai, ma ci fece
caso solo quando si accorse di avere il fiato corto e gli angoli delle labbra
indolenziti, a forza di tenerli inarcati verso l’alto. Rise ancora, contagiato
dal sorriso vistoso di Lyla. Scosse la testa in un rassegnato cenno di resa e,
finalmente, riuscì a regolarizzare il suo respiro.
Lyla, a quel punto, si liberò dalla sua
presa, senza scostare le braccia dal collo del ragazzo. Una delle sue mani
scese ad accarezzargli il petto, nel punto in cui lo aveva colpito poco prima.
Il suo sguardo sembrò dissolversi nel nulla per qualche istante, come se fosse
assorta in qualche pensiero tutto suo. Infine, la giovane fece risalire i
polpastrelli fino a sfiorare il volto di Sebastian e ripeté lo stesso gesto con
l’altra mano. Le sue dita percorsero con delicata attenzione i suoi lineamenti;
rincorsero il profilo delle sue guance e tracciarono il contorno delle sue
labbra, prima disalire ancora, a
sfiorargli con dolcezza le tempie. Infine la ragazza sorrise, scostandogli con
tenerezza un ciuffo di capelli dalla fronte.
“Eccoti qua, Peter[2]”
mormorò, immergendo le dita nell’acqua per intrecciarle a quelle di Sebastian.
Il ragazzo scosse la testa, prima di stringere le mani della giovane.
“Non sono Peter Pan” la contraddisse
ancora una volta, mordendosi un labbro: il suo tono di voce aveva perso un po’
della convinzione iniziale.
Lyla gli rivolse un’occhiata
malandrina.
“Se non sei Peter Pan allora, di certo,
saprai cos’è un bacio[3]”
lo canzonò, appoggiandosi a lui.
Sebastian sorrise. Adagiò la fronte
alla sua e contemplò per qualche istante il guizzo sbarazzino che ancora
accendeva lo sguardo di Lyla.
“Sì, credo di saperlo” confermò, rinforzando
la presa sulle sue mani, prima di lasciarla andare. Le accarezzò una guancia
con il dorso delle dita e la attirò a sé, adagiando le labbra alle sue.
La sensazione piacevole che tanto amava
e associava al vento lo sorprese all’improvviso, mentre le mani di Lyla
tornavano a scorrere lungo il suo torace. Le sue carezze gli percorsero il
petto, sfiorando quel peso che Sebastian aveva cresciuto dentro di sé fin da
quando era bambino. Per un attimo lo percepì in maniera nitida, stuzzicato
com’era dai suoi tocchi, ma sembrò pesare di meno del solito, come se qualcuno
lo stesse sostenendo assieme a lui. Anche la voragine che avvertiva al centro
di sé stesso si restrinse per un istante, modellata dalle carezze e dai baci di
Lyla. Se qualcuno l’avesse osservata in quel momento, avrebbe riconosciuto in
lei un’ombra, più che un frammento di nulla.
Un’ombra dispettosa, che punzecchiava
costantemente il suo proprietario.
L’ombra di un ragazzino che non voleva
crescere.
«Beh, Benvenuto
all’Isola Che Non C’è, Peter Pan da grande.»
― Hook Capitan Uncino,1991
*
Tornare a casa quella sera fu più
facile, rispetto ai giorni precedenti. Sebastian si sentiva pieno: l’apatia
aveva abbassato il tono di voce, lasciandolo libero di godersi il silenzio
della notte senza sentirsi triste o malinconico.
Attraversò la cucina al buio e
raggiunse il bagno a tentoni per cercare un asciugamano. Ne prese uno e
incominciò a strofinarsi i capelli, prima di tornare in corridoio. Una luce
fioca proveniva dalla stanza di sua madre e il ragazzo ipotizzò che fosse
andata a dormire con l’abat-jour accesa, come faceva ogni tanto, quando gli incubi
agitavano i suoi sogni. Finì di asciugarsi alla meno peggio e raggiunse la
stanza della donna, per assicurarsi che stesse bene.
La trovò addormentata, i capelli
castani a incorniciarle il volto. La mano destra era appoggiata al comodino,
non troppo distante da una delle due fotografie che adornavano il mobile.
Sebastian si sedette sul bordo del
letto, non badando ai propri jeans ancora fradici, e afferrò la cornice.
L’immagine all’interno raffigurava i suoi genitori al loro matrimonio. Erano
giovani e i loro sguardi radiosi facevano venir voglia di sorridere al solo
guardarli. La gioia provata da entrambi in quel momento era così evidente da
fare quasi male. Se Sebastian avesse dovuto spiegare a qualcuno cosa
significasse essere perdutamente innamorati, probabilmente gli avrebbe mostrato
quella fotografia. Si soffermò con lo sguardo sul volto allegro di suo padre;
sfiorò con i polpastrelli quei lineamenti ben definiti come Lyla, quella sera,
aveva fatto con il suo viso.Aveva un
sorriso genuino, in aperto contrasto con l’aria accattivante che assumeva
spesso in foto. Sembrava davvero un ragazzino, in quello scatto: un ragazzino
felice.
Sebastian spostò poi la sua attenzione
verso la figura di Annie, teneramente abbracciata al neo-marito. La sua
semplicità e la gioia evidenziata dal suo sguardo la rendevano incredibilmente
bella. Sebastian non aveva mai avuto l’occasione di conoscere quella ragazza
dal sorriso allegro e lo sguardo luminoso; era fuggita quando era morto suo
padre, lasciando solo il suo fantasma a prendersi cura della creatura che
portava in grembo. Il figlio di Peter
Pan.
Il ragazzo sistemò la fotografia al suo
posto e si passò le dita tra i capelli umidi, prima di voltarsi verso la madre.
Con delicatezza le prese la mano ancora appoggiata al comodino e gliela sistemò
sotto il lenzuolo. Il pensiero della fotografia dei suoi genitori gli fece
tornare in mente le parole scherzose di Lyla di quella sera: la menzione al suo
pensiero felice, quel qualcosa di essenziale per poter raggiungere l’Isola Che
Non C’è.
Sebastian non aveva mai avuto un
pensiero felice; c’erano stati momenti di serenità improvvisa, attimi che gli
avevano strappato un sorriso. C’erano le persone come Lyla che avevano il dono
di farlo sentire bene con poco, scacciando un po’ di quell’apatia che avvertiva
di tanto in tanto. Ma questo era quanto e immaginava che per la maggior parte
delle persone fosse così. Non per sua
madre, però.Annie Cresta ce l’aveva un
pensiero felice, l’aveva sempre avuto. Era impresso lì, in quella fotografia,
ma uno stupido scherzo del destino gliel’aveva portato via, spegnendo i suoi
occhi e adagiando un peso sul petto di Sebastian.
Il ragazzo inspirò con forza, prima di
chinarsi sulla donna. La baciò sulla guancia e osservò le sue palpebre fremere,
prima che lo sguardo assonnato di sua madre si posasse su di lui. Un lieve
sorriso ammorbidì l’espressione triste di Annie. Quando gli parlò, lo fece per
pronunciare l’unica parola che suo figlio aveva bisogno di sentirle dire da
tempo.
“Sebastian” mormorò, accarezzandogli
una guancia. “Come mai sei sveglio a quest’ora? E perché…” si interruppe,
passando una mano fra i capelli del figlio. Una punta di apprensione le
attraversò il volto. “…Come mai sei tutto bagnato?”
“Non è niente, mamma”.
Sebastian zittì le sue preoccupazioni
con un sorriso.
“Sto bene. Adesso cerca di dormire
ancora un po’”.
Restò vicino a lei per qualche altro
minuto, fino a quando Annie non si convinse che stesse bene e smise di fare
domande.
Mentre le palpebre della donna
tornavano a chiudersi, Sebastian le augurò la buonanotte e strinse la sua mano
un’ultima volta. Prima di lasciare la stanza scoccò un’ultima occhiata alla
foto del matrimonio dei suoi genitori. Spostò poi lo sguardo in direzione della
mensola sopra il comò, dove una manciata di cornici di legno mostravano un
bimbetto di tre o quattro anni, che sorrideva esibendo una finestrella fra i
denti.
Evocò il ricordo di Annie che gli
sorrideva dall’altra parte dell’obbiettivo e le passeggiate fatte assieme di
tanto in tanto, quando era ancora molto piccolo. Pensò a sua madre che lo
chiamava per nome, che se lo sedeva sulle ginocchia per fargli il solletico.
Ricordò un’Annie che gli raccontava di
suo padre, senza mai confonderlo con lui.
Ricordò una madre che lo vedeva – lo
vedeva per davvero. E un se stesso che rideva, mettendo in mostra il suo
sorriso sdentato.
Forse un tempo erano quelli, i suoi
pensieri felici.
«Non puoi
proteggerti dalla tristezza senza proteggerti anche dalla felicità.»
―Jonathan SafranFoer, Molto
Forte, Incredibilmente Vicino.
Note finali.
Ed eccoci qui con il nuovo
capitolo, quello che chiude il secondo atto! Penso che questo sia stato in
assoluto il più difficile da scrivere <.< Un po’ per via dell’evolversi
del rapporto fra Sebastian e Lyla (che sono sempre più pazzi xD) e un po’ perché sono affezionatissima alla scena di
Hook che mi ha ispirata e che mi commuove sempre (quella del bimbo sperduto che
tocca la faccia di Peter prima di convincersi che sia proprio lui <3). La
lotta in acqua dei due ragazzi è un po’ banale, ma ci tenevo a includerla per
riallacciarmi a un’altra citazione di Hook che è già stata accennata nei
discorsi di Lyla e che verrà ripresa nel prossimo capitolo.
La storia del nonno di Lyla
ricorda incredibilmente quella del papà di Finnick, Gannet,
che come lui è partito per il mare e non è più tornato. Footprints in the Sand (la storia in cui si parla anche
dei genitori di Finnick) è nata un paio di mesi dopo questa e mentre la scrivevo
non ho fatto molto caso all’analogia con ciò che è successo al Signor Harbor:
mi è venuto poi in mente dopo xD Si è quindi venuto a
formare un altro parallelismo fra il passato delle famiglie di Lyla e
Sebastian. Anche la leggenda della baia è stata inserita in Footprints,
dove è Mags a raccontare a un piccolo Finnick delle
impronte.
Ringrazio infinitamente le
persone che hanno recensito lo scorso capitolo <3 Nel pomeriggio corro a
rispondervi!
Intanto, siamo ormai a più di
metà della storia.Gli ultimi capitoli
saranno più brevi (tranne forse il prossimo) e tireranno in un certo senso le
somme del racconto!
Spero tanto che questa parte vi sia piaciuta!
Un abbraccio e a presto!
Laura
[1]Questo
è un altro piccolo riferimento a un dialogo di Hook, fra Peter Pan e suo figlio
Jack.
[2] La scena di
Lyla che tasta il volto di Sebastian e la frase che pronuncia fanno riferimento
a una delle scene più iconiche del film Hook: qui trovate la
scena.
[3]Nella favola di Peter Pan, quando Peter arriva a casa Darling, Wendy
si offre di dargli un bacio. Peter distende la mano, poiché non sa cosa sia un
bacioe pensa che la ragazzina stia per
dargli qualcosa.
Capitolo 5 *** Quel posto tra il sogno e la veglia. ***
Il figlio di Peter Pan
Act 3 - FindingNeverland
5| Quel
posto tra il sogno e la veglia
«Never say goodbye because goodbye means
going away and going away means forgetting.»
― J.M. Barrie, Peter Pan
Un paio di notti più tardi, Sebastian
fece uno strano sogno. Era alla baia come tutte le sere, ma i colori di ciò che
lo circondava erano più brillanti e la linea dell’orizzonte che separava cielo
e mare era sfumata, a malapena distinguibile. La superficie dell’acqua riluceva
di un inusuale luccichio, accentuato dalla luce intermittente del faro.
Proprio a metà di quella scena, a
cavallo dell’orizzonte, Sebastian notò una figura scura che volava in direzione
della spiaggia.Strizzò gli occhi e se
li schermò con la mano, inseguendo l’ombra man mano che si faceva più vicina.
Distinse la sagoma di un ragazzo, ma non era sicuro di vederla realmente. I
contorni erano confusi e, quando la luce del faro svaniva, l’ombra smetteva di
essere visibile.
Sebastian sbatté le palpebre,infastidito da quelle brusche scomparse. Quando
tornò ad aprire gli occhi una persona lo stava osservando, seduta sulla sabbia
a poca distanza da lui. Il cuore del ragazzo accelerò i suoi battiti.
Intercettò lo sguardo del nuovo
arrivato che gli rivolse un sorriso sghembo, alzandosi in piedi per
raggiungerlo. Sebastian lo esaminò con attenzione, non riuscendo a nascondere
una punta di esitazione nello sguardo: assomigliava
al giovane raffigurato nelle fotografie che decoravano le mensole nella stanza
di sua madre – e nel soggiorno, e in cucina – ma per certi aspetti sembrava diverso.
Era più bello, con quei capelli scompigliati, le guance rosse e gli occhi
accesi di una vivacità genuina, che ricordava quella di un bambino il giorno di
Natale. Era alto rispetto a Sebastian, e anche più muscoloso, ma per certi
versi sembrava più ragazzino di lui. Non era vestito di foglie, né teneva le
mani sui fianchi in quella posa spavalda tipica del bambino che non cresceva
mai. Eppure era lui, se lo sentiva.
“Papà?”
mormorò, quando il giovane fu abbastanza vicino. Finnick gli fece l’occhiolino.
“Ciao,
Sebastian” lo salutò, sorridendogli fiero. Si fissarono a vicenda per qualche
istante: il padre scosse la testa con espressione divertita, prima di
appoggiargli una mano sulla spalla. “Ma guardati, sei quasi alto quanto me!”
“Siamo
alla baia?” chiese Sebastian, infilandosi le sue in tasca e guardandosi
attorno. “Sembra… Diversa.”
Non
sembrava lo stesso posto di sempre. Eppure, a tratti, quei colori brillanti gli
risultavano familiari, come se li avesse già visti da qualche parte.
“Un
po’ diversa lo è” confermò Finnick, stringendosi nelle spalle. “Ma quando eri
piccolo la vedevi esattamente così. E anch’io.”
“Com’eri
da bambino?” chiese Sebastian, colto da un improvviso moto di curiosità. L’espressione
del padre si fece più vispa.
“Più o meno come te” rispose, infilandosi a
sua volta le mani in tasca. “Ma decisamente meno musone” aggiunse,
scompigliandogli scherzosamente i capelli. Sebastian si ritrasse,
indirizzandogli un’occhiata scontrosa.
“Non
sono mai stato un musone” si difese, scoccando un’occhiata distratta alle onde
che venivano loro incontro; fece qualche passo avanti, per immergere i piedi
nell’acqua.
“Hai
ragione” si trovò d’accordo Finnick, alzando le mani in cenno di resa. “Però
eri un tipetto piuttosto solitario. Forse hai passato troppo tempo con quel
Gale Hawthorne. E con Johanna visto che, a quanto
pare, vai sempre in giro mezzo nudo[1]”
aggiunse in un ghigno divertito.
Nel
sentir nominare Johanna e il suo fidanzato, Sebastian abbozzò finalmente un sorriso.
Non li vedeva più spesso da quando si erano trasferiti nel Distretto 12 assieme
a Joel, ma la loro presenza nella sua vita continuava a essere una costante
essenziale. Da bambino aveva trascorso molti fine settimana in loro compagnia;
i pomeriggi spesi a pescare con Gale, ridendo dei battibecchi fra lui e Johanna
e delle rispostacce che spesso gli rifilava la sua madrina, sarebbero sempre
rimasti fra i preferiti della sua infanzia.
“Pensavo
che quella fosse l’unica cosa che avessi preso da te” replicò Sebastian,
mettendosi a braccia conserte. “Nella maggior parte delle foto che ho visto,
sei sempre a torso nudo.”
Lo
era anche in quel momento, pensò il ragazzo, mettendo a confronto se stesso e
il padre. Entrambi indossavano solo i jeans e sembravano perfino avere una
postura simile, nonostante lui fosse a braccia conserte, mentreFinnick aveva ancora le mani nelle tasche.
Si
somigliavano; non eccessivamente, ma in maniera comunque evidente.
Erano
come Peter Pan e la sua ombra.
E
un’ombra, si disse Sebastian, non avrebbe mai potuto venire scambiata per l’originale.
Eppure, per quanto si sforzasse di evidenziare le differenze con il padre, le
persone finivano spesso per confonderlo con lui.
Finnick
si strinse ancora nelle spalle; per la prima volta il suo sorriso
sfumò leggermente, assumendo una sfumatura amara. Solo in quel momento a
Sebastian venne in mente che la maggior parte delle fotografie che ritraevano
suo padre erano state scattate dopo gli Hunger Games.
Ipotizzò che non avesse molta libertà di esprimersi in materia di abbigliamento.
O in qualsiasi altra cosa, probabilmente.
“Non
penso che quella sia l’unica cosa in cui mi somigli” osservò a un certo punto
Finnick, riesumando l’espressione allegra di poco prima. “Abbiamo molto in
comune. Bellezza a parte, ovviamente: quella l’hai ereditata da Annie”
aggiunse, con un’improvvisa punta di dolcezza nello sguardo. Sebastian distolse
il proprio, sentendosi tutto a un tratto in soggezione.
“Non
voglio essere te” mormorò, concentrandosi sui disegni di luce che il faro
tratteggiava sul mare. Il peso all’altezza del petto si fece più grave, nel
momento in cui il padre gli sfiorò la spalla.
“Nemmeno
io voglio che tu sia me” rispose Finnick, cercando di incontrare il suo
sguardo. “Tu sei anche migliore di me: sei Sebastian.”
Il
ragazzo non rispose; si chinò per immergere le mani nell’acqua e aggrottò
confuso le sopracciglia, quando si accorse che gli arrivava già alle cosce.
“Mi
manchi, sai?” rivelò in quel momento
Finnick, abbozzando un secondo sorriso triste. “E mi manca tua madre. A volte
la nostalgia è talmente forte che non riesco a pensare ad altro. Di solito,
quando mi capita, intreccio nodi. Per un po’ funziona, ma quando ti vedo andare
a zonzo da solo di notte la tristezza torna: sento come un peso sul petto”
aggiunse, toccandosi il torace.
Sebastian
si convinse finalmente a voltarsi verso di lui, attratto dalle sue parole:
conosceva quella sensazione. Aveva imparato a conviverci sin da quando era
bambino.
“Non puoi
sentire la mia mancanza” osservò improvvisamente, tornando a mettersi le mani
in tasca. “Non mi hai nemmeno conosciuto.”
“Vorrei
averlo potuto fare” rispose Finnick, facendo spallucce. “E comunque, mi manchi
lo stesso; mi manca farti da padre. Mi manca il non poterti accompagnare alla
baia la sera, non poter ridere con te, o prenderti in giro. Non poterti
sgridare per lo spavento che hai fatto prendere a tua madre quando eri piccolo
e ti sei messo a giocare con il mio tridente” aggiunse, non riuscendo a
trattenere un sorrisetto compiaciuto.
Sebastian
sorrise a sua volta, passandosi imbarazzato una mano dietro la nuca.
“Non
l’ho più toccato, da allora” rivelò poi. “Per pescare preferisco la canna o le
reti.”
“Va bene
così” commentò Finnick, prima di sorridergli malandrino.“Tanto non riusciresti comunque a usarlo bene
quanto me”lo canzonò poi, dandogli un
colpetto scherzoso con la spalla.
Sebastian inarcò
un sopracciglio con aria scettica, prima di ricambiare la spallata.
“Mi manchi
e basta, Seb” ripeté poi il padre, allargando le
braccia. “Non crescere è una bella rogna, se non lo si può fare con le persone
che si amano.”
Sebastian
lo fissò a lungo, prima di annuire.
“Mi manchi
anche tu…” ammise infine, tornando a distogliere lo sguardo. Il livello
dell’acqua si era alzato ancora e, quando il giovane si chinò per immergervisi, la trovò
insolitamente tiepida. “A volte, quando sto alla baia.”
Finnick si
accovacciò di fianco a lui sul fondo sabbioso.
“Non
puoi sentire la mia mancanza, non mi hai nemmeno conosciuto” lo scimmiottò con
un sorriso canzonatorio, ripetendo le stesse parole che gli aveva rivolto lui
poco prima. Sebastian sferzò l’acqua con la mano per schizzare il padre,
colpendolo in pieno volto. Finnick ribatté all’istante, e quei primi schizzi
diedero origine a una movimentata battaglia. Si azzuffarono giocosamente per
qualche minuto, spostandosi nell’acqua alta. Sebastian si sorprese più volte a
ridere di gusto, mentre prendeva il largo per sfuggirgli; suo padre era un
nuotatore decisamente più esperto di lui e lo riacciuffava ogni volta, attirandolo
a sé per sfregargli un pugno sui capelli.
Ogni
volta che il giovane immergeva la testa nell’acqua, ne usciva fuori più
alleggerito, come se avesse perso parte di quel peso che lo accompagnava da
anni. Esteriormente era il Sebastian di sempre, eppure, mentre giocava con suo
padre, si sentì il bambino che era stato una volta. Lo stesso ragazzino dal
sorriso sdentato delle fotografie che sua madre teneva in camera. Per un attimo
gli tornò in mente una conversazione che aveva avuto con Lyla durante uno dei
loro primi incontri.
“Perché mai uno dovrebbe ridere, guardando il mare?”
“Perché è un gran bel gioco, ecco perché.”
Sorrise,
immergendosi in acqua per nuotare fino a raggiungere Finnick: stava
incominciando a comprendere il significato della sua risposta.
“È
stato divertente” dichiarò infine, quando padre e figlio tornarono a riva,
fradici ed esausti. Si lasciò ricadere a peso morto sulla spiaggia e serrò le
palpebre, per difendersi dalla luce accecante del sole. Finnick non disse
nulla. Sebastian era convinto che l’avrebbe raggiunto per sedersi di fianco a
lui, ma quando riaprì gli occhi trovò suo padre ancora in piedi; lo stava osservando con la stessa espressione
fiera che aveva solcato il suo viso all’inizio del loro incontro. Gli fece
un’altra volta l’occhiolino e Sebastian avvertì una fitta insolita all’altezza
dello stomaco. Il peso all’altezza del petto tornò a farsi sentire, grave e
fastidioso come sempre.
“Stai
andando via, vero?” chiese il ragazzo, alzandosi per raggiungere il padre. Il
sorriso di Finnick si smorzò lievemente e, nel sguardo malinconico, Sebastian
riconobbe per un’istante lo stesso buio che oscurava gli occhi di sua madre.
Durò poco: una punta di vivacità tornòpresto a illuminare il volto dell’uomo. Finnick gli strinse
affettuosamente una spalla, prima di attirarlo a sé per abbracciarlo.
Sebastian
si strinse a lui, sforzandosi di imprimere nella mente ogni particolare di
quell’istante; l’abbraccio caldo di suo padre, la sicurezza emanata dalla sua
stretta, l’affetto che poteva percepire sulla pelle, mentre una mano di Finnick
gli arruffava i capelli un’ultima volta.
“Grazie
per aver creduto” gli sussurrò in un orecchio suo padre, prima di lasciarlo
andare. Lo guardò a lungo un’ultima volta, prima di incominciare a camminare
verso la riva. Si allontanò fino a quando l’acqua non fu alta a sufficienza per
permettergli di tuffarsi.
Sebastian
avvertì il bisogno improvviso di strizzare le palpebre. L’attimo prima di
chiudere gli occhi riconobbe una sagoma scura nel mare, che guadagnò velocità
fino ad alzarsi in volo.
La
inseguì con lo sguardo, fino a quando la sua vista non incominciò a farsi
offuscata.
A
quel punto serrò le palpebre; la sua mente si aggrappò con forza all’immagine
di quell’ombra nera:l’ombra di suo
padre.
*
“Papà?”
Sebastian sbatté le palpebre un paio di
volte, cercando di mettere a fuoco qualcosa nella semi-oscurità che lo
circondava. Rabbrividì, stuzzicato da una folata di vento. Era notte e lui era
sdraiato sulla spiaggia, a una decina di metri di distanza dalla riva. La
sabbia era fredda e il suo colore smorto non aveva nulla a che vedere con le
tinte brillanti della baia del suo sogno. Era pallida, come le dita affusolate
che gli stavano accarezzando i capelli in quel momento. Lyla gli sorrise con
dolcezza, scostandogli una ciocca di capelli ribelli dalla fronte.
“Ti sei addormentato” lo informò la
ragazza in poco più che un sussurro. Sebastian si sfregò gli occhi con il dorso
della mano; era sveglio, ma una parte di lui sembrava ancora assopita,
intrappolata in un limbo a metà fra le due versioni della stessa baia.
L’immagine di suo padre era ancora ben delineata nella sua mente, nitida e
pulita, come una fotografia. Sebastian chiuse gli occhi e ricordò il suo
sorriso sghembo, l’espressione scanzonata e a tratti insolente- da ragazzino presuntuoso – che aveva
esibito più volte durante il sogno.
Ricordò gli occhi di Finnick, verdi come i suoi.
Si voltò verso la riva, cercando di
distinguere l’inizio del mare con la fine del cielo, sfruttando la luce
intermittente del faro. Nel suo sogno, in quella zona, aveva scorto per la
prima volta l’ombra di suo padre, ma adesso che era sveglio di fronte a sé
vedeva solo buio.
“Pensi che prima o poi avrebbe deciso
di crescere?” mormorò improvvisamente, sollevando lo sguardo verso l’alto per
incontrare quello di Lyla. Aveva la testa appoggiata sulle sue gambe e la mano
della giovane era ancora intenta ad accarezzargli i capelli, “Peter Pan.”
Lyla annuì.
“Quando ami qualcuno con tutto te
stesso, vuoi solo diventare grande, in maniera da riuscire a contenere meglio quel
sentimento così forte. Vuoi crescere, per prenderti meglio cura delle persone a
cui vuoi bene. E sono certa che, prima o poi, questo sarebbe successo anche a
Peter.”
Sebastian rifletté in silenzio sulle
sue parole, distraendosi, di tanto in tanto, per ascoltare il rumore del vento.
“Avrebbe scelto di crescere, per me?”
mormorò infine. Non ebbe bisogno di specificare di chi stesse parlando: sapeva
che Lyla avrebbe capito. “Mi avrebbe amato, come amava mia madre?”
“Forse anche di più” rispose la
ragazza, facendo scivolare le dita fino a sfiorargli il collo. “Probabilmente ha
incominciato a volerti bene ancor prima che esistessi. E te ne vuole ancora.”
“Come?” replicò il ragazzo tornando a
chiudere gli occhi, sentendosi improvvisamente stanco. “Mio padre è morto.”
Aveva ripetuto quelle parole più e più
volte, nel corso dell’ultimo periodo. Tuttavia farlo quella sera dopo quel
sogno, con la risata di suo padre ancora impressa nella sua mente, non sortì lo
stesso effetto di sempre. Per quanto vera quella frase gli suonò bizzarra, come
se ancora faticasse a convincersi che l’incontro con Finnick fosse stato solo
una strana macchinazione della sua testa.
Lyla gli rivolse un sorrisetto
enigmatico prima di chinarsi, per avvicinare le labbra al suo orecchio.
“Sai, quel luogo che sta fra il sogno e
la veglia…” incominciò, in un sussurro. “…Dove ti ricordi ancora che stavi
sognando?”
Sebastian annuì: era lì che si trovava,
in quel momento.
Il sorriso della ragazza si estese.
“Quello è il luogo dove lui ti amerà
sempre[2]”
rivelò infine, con una rinnovata nota di tenerezza nel tono di voce.
Erano parole così semplici, e il suo tono
di voce così dolce, che per un istante Sebastian non poté fare a meno di
crederle. Chiuse fuori dalla sua mente il freddo e il pallore spettrale della
sabbia su cui era sdraiato e si addentrò più a fondo nel mondo fra il sogno e
la veglia, lasciandosi cullare dal tocco delicato delle carezze di Lyla.
Si addormentò con l’immagine di suo
padre negli occhi e, al suo risveglio, sentì il suo ricordo scivolargli nel
petto; proprio accanto a quel peso che non se ne sarebbe mai andato.
«È stato un gran bel
gioco, veramente!»
«Grazie per aver creduto.»
―Hook Capitan Uncino,1991
Note finali.
Ed eccoci arrivati al penultimo
capitolo. So di averci messo parecchio ad aggiornare, ma ultimamente ho
pubblicato una valanga di cose e non mi piace molto postare tutto assieme, così
ho rimandato di parecchio >.<
Questo capitolo è probabilmente il più
strambo, ma rispecchia un po’ l’atmosfera un po’ surreale di questa storia,
ambientata a tutti gli effetti in un periodo della giornata che sta a metà fra
il sogno e la veglia. Finalmente è stata introdotta la frase un po’ più famosa
del film “Hook”, quella che già avevo inserito prima del prologo, ad aprire il
racconto. L’idea del sogno, di far giocare Finnick e Sebastian è ancora una
volta forse un po’ banale, ma volevo riallacciarmi alla frase di Lyla – che è
poi è una ripresa della frase di Hook che chiude il capitolo – del capitolo
precedente. E niente, con questa parte si apre il primo atto, quello
conclusivo. Il prossimo capitolo è piuttosto breve e sarà l’ultimo, dopodiché
arriverà l’epilogo.
Ancora grazie infinite a chiunque stia
continuando a seguire questa storia!
Un abbraccio e a presto!
Laura
[1] Nel mio
head-canon legato al periodo post-epilogo della saga,
Johanna e Gale vivono assieme nel Distretto 2, e in seguito si trasferiscono
nel 12. Johanna è la madrina di Sebastian e lei, Gale e Joel (il figlioletto di
Gale) gli sono molto legati e vanno spesso a trovarlo.
[2] Questa
frase è un altro riferimento a una scena di Hook. La frase citata la pronuncia Trilly a un ormai adulto Peter Pan. Qui c’è il link
della scena.
«It is not in doing what you like, but in
liking what you do that is the secret of happiness.»
― J.M. Barrie, Peter Pan
Un anno dopo.
Sebastian
si schermò gli occhi con la mano per proteggersi da qualche raggio di sole più impertinente
degli altri. La baia, quel pomeriggio, ospitava diverse persone occupate a
godersi gli ultimi sprazzi d’estate, prima dell’arrivo dell’autunno. Il
ragazzo, tuttavia,era lì solo di
passaggio; proseguì lungo la spiaggia, e si fermò quando raggiunse l’ingresso
principale del faro.
Lì attirò
l’attenzione di uno dei manutentori, che stava spazzando l’uscio. Sebastian lo
conosceva perché era la stessa persona che ripuliva la spiaggia della baia la
sera e, di tanto in tanto, il giovane scambiava due parole con lui assieme a
Lyla.Era un ometto tutto pancia e
niente capelli, fatta eccezione per qualche ciuffo bianco sulle tempie. Era
solito tenere al caldo la testa calva sotto un berretto di lana rosso e Sebastian,
alle volte, si era dovuto trattenere per non rischiare di chiamarlo “Spugna”[1].
Quando
si accorse del ragazzo, scosse la testa con espressione rassegnata e borbottò
qualcosa a denti stretti.
“Non
ti consiglio di salire lassù, ragazzo” sbottò a un certo punto, prendendosi una
pausa e levandosi il cappello, per passarsi il dorso della mano sula fronte
sudata. “Quel rimbambito del guardiano sta dando i numeri più del solito. E
comunque, la tua bella non c’è” aggiunse, indicandogli la spiaggia con il
manico della scopa. “Sta lavorando giù al mercato.”
“Che
è successo ad Adrian?” chiese Sebastian, incuriosito dalle sue parole. Smeedley
sospirò.
“Beh,
come probabilmente saprai si è messo in testa di voler partire per chissà dove”
incominciò, appoggiandosi con il gomito alla sua scopa e guardando il ragazzo,
in cerca di una conferma.
Il
giovane annuì.
“So
che sta cercando qualcuno che lo sostituisca come guardiano” aggiunse. “Lyla
non vuole farlo; non come occupazione fissa, almeno: le piace il suo lavoro dai
Rivers.”
Smeedley
annuì frettolosamente, come se fosse impaziente di confidarsi con il ragazzo.
“Non
sono in molti che si presterebbero a fare un lavoro del genere, ma il signor
Harbor è stato fortunato” rivelò l’ometto. “Nel giro di un pomeriggio si sono
già proposti in tre per sostituirlo e lui sai che ha fatto?”
Sebastian
si strinse nelle spalle.
“Li
ha rifiutati tutti!” sbottò Smeedley, prima di indirizzare un’occhiata furtiva
verso l’alto. “Continua ad accampare scuse per aria, a fare strani discorsi…
Vaneggia! Te lo dico io!” proseguì, abbassando il tono di voce.
Il
giovane inarcò un sopracciglio.
“Strani
discorsi, del tipo…” replicò, facendogli cenno di spiegarsi meglio.
“Roba
folle, ragazzo. Poco fa l’ho sentito blaterare a proposito di pirati e bimbi
sperduti. Stamattina ha perfino chiesto a un povero diavolo quale fosse il suo
pensiero felice. Vuole assicurarsi che il suo faro non cada nelle mani
sbagliate, dice. Ma se continua così non farà altro che spaventare quei
poveracci che vengono qui a elemosinare un po’ di lavoro.”
Sebastian
non riuscì a impedirlo: un sorrisetto vispo corse a increspargli le labbra,
mentre ascoltava lo sfogo dell’uomo.
“Non
mi hai ancora detto perché sei passato” riprese
Smeedley, tornando a spazzare per terra. “La tua ragazza è al lavoro, no?”
Il
giovane fece spallucce.
“In
realtà stavo cercando proprio Adrian” ammise, mettendosi a braccia conserte.
“Sono uno di quei poveracci di cui parlavi prima: vorrei propormi come nuovo
guardiano del faro.”
Smeedley
smise nuovamente di spazzare, visibilmente sconcertato dalla rivelazione di
Sebastian.
“Ah”
borbottò dopo un po’, indirizzandogli un’occhiata perplessa. “Beh, buona
fortuna con quello, ragazzo. Vado a chiamartelo” si offrì, accantonando
malamente la scopa di fianco alla porta. “Chi devo dirgli che lo cerca? Il fidanzato
di sua figlia?”
Gli
occhi di Sebastian ebbero un guizzo divertito; il sorriso che gli arricciò le
labbra in quel momento illuminò il suo volto, velandolo di vivacità. Era un
sorriso scanzonato, da ragazzino.
“Gli
dica che sono il figlio di Peter Pan” rispose, facendogli l’occhiolino.
L’espressione
di Smeedley si fece, se possibile, ancora più corrucciata.
“Qui
siete tutti un po’ tocchi…”Sebastian lo
sentì borbottare fra sé, mentre saliva le scale.
Il
ragazzo si mise a ridere. Appoggiò una spalla al cornicione della porta,
attendendo l’arrivo di Adrian. Tutto a un tratto due mani gli coprirono gli
occhi, sorprendendolo alle spalle.
“Sbaglio
o qualcuno qui sta ridendo?” mormorò Lyla, circondandogli il collo con le
braccia. “Non è che adesso si mette a piovere?”
Il
giovane roteò gli occhi, senza smettere di sorridere.
“Stai
migliorando, Peter-non-Peter” osservò ancora la ragazza, mentre il fidanzato la
attirava a sé per la vita.
“Tu,
invece, sei ancora la solita fatina rompipalle” replicò Sebastian, chinandosi a
percorrerle il collo con le labbra. Lyla lo lasciò fare, stringendosi
ulteriormente a lui.
“Sei
tornata prima, dal lavoro” osservò poi il ragazzo. La giovane fece spallucce.
“Ho
chiesto di poter staccare un po’ in anticipo: volevo scoprire se avresti fatto
quello che mi aspettavo che avresti fatto”.
Sebastian le rivolse
un’occhiata perplessa.
“Mi sono perso al
primo ‘avresti’…”
Lyla rise, prima di
sollevare il volto per baciarlo.
“Sei qui per vedere
mio padre, no?”
Il ragazzo annuì.
“Non potevo certo
rischiare che il faro degli Harbor finisse in balia dei pirati…” scherzò,
ripensando con un ghigno all’espressione accigliata di Smeedley e al suo
sproloquio sulle stranezze di Adrian.
“Sei
sicuro, Sebastian?” lo interrogò a quel punto la ragazza, intrecciando le dita
alle sue.
La
malinconia che, di tanto in tanto, figurava nel suo sguardo quando erano soli
alla baia, minacciò di velare il suo sguardo. Sollevò la testa per avere un
rapido scorcio del faro e Sebastian fece altrettanto.
Il
ragazzo annuì; sì, era sicuro. Sapeva
che il compito del farista era decisamente meno esaltante rispetto a come se
l’era figurato da piccolo. Con l’avanzare delle tecnologie anche in
quell’ambito, un guardiano non era più tenuto da tempo a trascorrere le notti
nella torre, né tantomeno a viverci. Sebastian avrebbe dovuto occuparsi
principalmente di piccoli e saltuari lavori di manutenzione. Ciò nonostante,
l’idea di essere autorizzato a passare del tempo al faro ogni qual volta
volesse lo attirava troppo, per rinunciarci. Nell’ultimo periodo ci era stato
spesso, per tenere compagnia ad Adrian, realizzando un sogno che aveva
coltivato in gran segreto sin da bambino. E sapeva che rinunciare al faro era
stata una scelta sofferta sia per Lyla che per suo padre. Anche per questo
aveva scelto di occuparsene.
Inoltre
l’ultimo anno di scuola era ormai agli sgoccioli e, anche se aveva un posto di
lavoro assicurato al peschereccio dei Rivers, non gli
dispiaceva avere una mansione in più. Tenersi
impegnato lo aiutava a non sentire quel peso che, di tanto in tanto, avvertiva
ancora nel petto.
“Verrai a farmi
compagnia, qualche notte?” chiese, circondando la vita di Lyla con le braccia.
“Mi piacerebbe salire per guardare la baia dall’alto, ogni tanto.”
La giovane gli
sorrise.
“Ogni volta che
vorrai” lo rassicurò, spettinandogli i capelli.
E se fino a quel
momento il barlume di un dubbio aveva resistito silenzioso nella mente di
Sebastian, dopo quella promessa la certezza del ragazzo fu totale.
Non
gli veniva in mentre nulla di meglio per essere felice, che non fare una cosa
che amava, in compagnia di chi gli voleva bene.
Note Finali.
E
siamo così arrivati all’ultimo capitolo di questa storia: ormai manca solo più
l’epilogo! Quest’ultima parte non è particolarmente coinvolgente, lo so, ma era
necessaria per consolidare il cambiamento di Sebastian, specialmente per quanto
riguarda il modo con cui si rapporta al pensiero del padre. Finalmente, dopo
sette capitoli, abbiamo un Sebastian che si auto-definisce figlio di Peter Pan,
per la gioia della sua fatina rompipalle <3 Con l’epilogo faremo un ulteriore salto in
avanti nel tempo, e ritroveremo anche il personaggio di Annie. L’epilogo è
forse una delle scene a cui tengo più in assoluto, quindi spero davvero tanto
che non vi deluderà!
Ringrazio
di cuore le persone che hanno seguito questa mini-long fino a qui!
Un abbraccione e a
presto con l’epilogo!
Laura
[1]Il
personaggio di Spugna, in originale, si chiama Smee.
Per questoho scelto “Smeedley” come
nome per quest’ometto così somigliante a Spugna che incontra Sebastian.
Un paio di settimane dopo la fine della
scuola, Sebastian incominciò a tempo pieno il suo lavoro al peschereccio dei Rivers. Tuttavia, non abbandonò mai l’impiego come
guardiano del faro. Con il trascorrere degli anni le passeggiate notturne alla
baia vennero lentamente sostituire dalle serate trascorse ad ammirare il mare
dalla torre, o a guardare le stelle dal giardino nella sua nuova casa, dove si
era trasferito assieme a Lyla. Annie viveva con loro – Sebastian aveva
preferito non lasciarla sola – e Adrian, quando era di ritorno dai suoi
peregrinaggi in giro per Panem, passava spesso a trovarli.
Vivere con Lyla non era sempre semplice;
era ancora brava a farlo sorridere, ma il suo pensiero felice le veniva
trascinato via con frequenza dalle onde e, in quei momenti, il suo sguardo
tornava a farsi malinconico. Le giornate trascorse assieme alternavano curiosi
brandelli di felicità[1]
a momenti di tenue tristezza, quando il suono di una vecchia e polverosa ninna nanna
tornava a risuonare nelle loro orecchie.
E poi arrivò Maggie; quel vuoto che
Sebastian aveva avvertito sin da bambino si ridusse drasticamente la prima
volta che la vide, accoccolata al petto di Lyla.Aveva ereditato gli occhi verdi di suo padre
– gli stessi di Finnick – e, a detta di Annie,anche l’allegra spontaneità del nonno. Divenne subito chiaro che quella
bambina sempre sorridente fosse destinata a diventare il nuovo pensiero felice
di Annie Cresta. Maggie insegnò a Sebastian a piangere, nella maniera dolce e
delicata in cui avviene quando si è felici. Pianse la prima volta che si sentì
chiamare ‘papà’, e quando sua figlia gli capitombolò fra le braccia ridendo,
dopo aver compiuto i primi passi.
Nonostante quegli eccessi di lacrime
improvvisi, con l’arrivo di Maggie il tempo per rattristarsi divenne sempre
meno. Fino a svanire del tutto quando a lei si aggiunse il piccolo Jack.
Sebastian non impiegò molto a intuire che in lui ci fosse qualcosa di diverso,
rispetto alla sorella.Lo sguardo
disuo figlio scappava ogni volta che
cercava di incrociarlo. Di rado Jack dava cenno di accorgersi che qualcuno gli
stesse parlando. Aveva un suo mondo – un posto impenetrabile di cui solo lui
aveva la chiave per accedere – ed era lì dentro che viveva, la maggior parte
delle volte. La cosa più insolita di Jack era la sua fissazione per le ombre;
Sebastian lo sorprendeva spesso a muovere le mani alla luce di una lampada con
espressione assorta,incantato dal
disegno prodotto dalle sue dita sulla parete. Giocava spesso con la sua ombra:
la cercava sempre, specialmente nei momenti in cui si sentiva particolarmente
frustrato o spaventato. C’era qualcosa di quel rituale che lo faceva sentire al
sicuro.
“Jack è a casa” esclamava con un lieve
sorriso – ma senza mai guardare nessuno negli occhi – quando riusciva a
scorgerla a terra.
“Torna a casa, Jack[2]”
borbottava invece, preoccupato, quando non c’erano ombre attorno a lui. Per
Lyla e Sebastian non c’erano dubbi: la famiglia Odair
aveva trovato un terzo Peter Pan.
Se Maggie aveva insegnato a Sebastian a
piangere, assieme a Jack il giovane imparò a ridere più spesso. La risata di suo
figlio rallegrava spesso le passeggiate lungo la baia della famiglia Odair ed era anche incredibilmente contagiosa. Al padre
piaceva ridere con lui, perché sapeva che quella era la maniera più facile per
far capire a Jack che gli voleva bene.
Con il passare degli anni Sebastian
trovò finalmente il suo pensiero felice: era una sera come tante e la stavano
trascorrendo alla baia tutti e cinque: lui e Lyla, sua madre e i due bambini. Jack
stava rimirando affascinato le ombre degli oggetti sulla spiaggia alla luce
timida della luna e i genitori stavano cercando di partecipare al suo gioco,
tentando di intavolare una conversazione con il piccolo.
Maggie era seduta sulle ginocchia di
nonna Annie e stava sfogliando assieme a lei un vecchio album di fotografie. Si
soffermò a rimirarne una in particolare, che ritraeva i suoi nonni paterni il
giorno del loro matrimonio: era una copia di quella che Annie custodiva ancora
gelosamente in camera sua.
“Com’eri bella, nonna!” esclamò la bambina indicandola
con il dito. Annie le sorrise.
“Anche il nonno era bello. Lui è nonno Finnick, vero?”
La donna annuì.
“Questa foto è stata scattata il giorno del nostro
matrimonio” spiegò, sfiorando con tenerezza la testa della nipotina. Maggie
esaminò meglio la fotografia.
“Assomiglia a papà” osservò poi, tracciando con l’indice
il contorno del volto di Finnick. “Era bravo come lui?”
La nonna annuì di nuovo; un lieve alone di malinconia le
velò lo sguardo.
“Cantava sempre per me” mormorò poi, stringendo la
nipotina fra le braccia e ondeggiando a destra e a sinistra.
Lo sguardo della ragazzina si illuminò.
“Posso cantare anch’io per te, nonna?”
Annie le rivolse un’occhiata sorpresa, prima di
sorriderle.
“Certo. Certo che puoi, tesoro.”
Maggie si voltò verso di lei, per
poterla guardare negli occhi, e incominciò a cantare. Aveva una voce esile, che
si sposava bene con la melodia malinconica che stava eseguendo. La sua era una
canzone che Sebastian conosceva bene: era la ninna nanna che Lyla cantava di
tanto in tanto, ai bambini, per aiutarli ad addormentarsi. La stessa nenia che
aveva intonato durante uno dei loro primi incontri, da ragazzi.
Quando si voltò verso sua madre,
Sebastian si accorse che aveva gli occhi umidi di lacrime. Un alone di gioia,
misto a malinconia, le imperlava il volto. Per un attimo il vecchio peso
all’altezza del petto incominciò a farsi sentire con più insistenza nel giovane,
ma si assottigliò fino a sparire quando Annie parlò di nuovo.
“È questa” mormorò la donna, stringendo
a sé la nipotina, prima di posarle un bacio sui capelli. Lo sguardo di entrambe
andò a posarsi sulla pagina dell’album ancora aperta, dove un giovane sorrideva
allegro, abbracciando la donna che amava. Un giovane con un sorriso da
ragazzino. “È questa la ninna nanna, Finn.”
Sebastian non disse nulla; si limitò a
contemplare il sorriso raro di sua madre, osservandola ridere assieme a Maggie.
Si voltò poi verso destra, attirato dal rumore di suo figlio che schioccava
soddisfatto la lingua;accovacciato di
fianco a lui, Jack stava ancora giocando con la sua ombra.
“Jack è a casa” esclamò compiaciuto il
bimbo, appoggiando le mani sulla sabbia, come a voler toccare le cinque sagome
scure dei suoi familiari.
E, solo per un istante, a Sebastian
sembrò quasi di scorgerne una sesta.
L’ombra di suo padre.
L’ombra di Peter
Pan.
Note Finali.
Buongiorno! Finalmente mi sono decisa a
pubblicare l’epilogo di questa storia. Ho scelto di ambientarlo a distanza da
anni per dare una risoluzione ancora più ampia alla storia di Sebastian, ma
anche al resto dalla sua famiglia – a Lyla e Annie. Ovviamente non è detto che
la ninna nanna di Lyla (che qui canta la piccola Maggie) sia effettivamente
quella che Finnick cantava a Annie. Penso che Annie desideri crederlo talmente
tanto che per lei effettivamente è così. E, confesso, anche a me piace pensare
che in fondo lo sia.
Passando ai due nuovi piccoli di casa Odair, ci
tenevo a mostrarveli e ad aggiungere un paio di cosine su loro due. Anzitutto,
i nomi sono l’ennesimo tributo a Hook Capitan Uncino, dove i due figli di Peter
Pan si chiamano appunto Jack e Maggie. Maggie (il cui nome intero è
Margaret) si chiama come Mags nel mio head-canon. In “Footprints in the Sand”
Mags spiega a un piccolissimo Finnick che il suo vero
nome è Margaret e che suo padre la chiamava Maggie, ma che tutti la conoscevano
come Mags. Non penso che questo Sebastian lo sappia.
Mi piace pensare che il nome della bimba sia una coincidenza; oppure potrebbe
aver sentito parlare di Mags da Annie. Per Jack (il suo nome intero è
Jacob) devo fare ancora un discorso ulteriore: come siè potuto notare dal prologo è un bambino
particolare. È infatti affetto da una lieve forma di autismo. Ogni persona
affetta da autismo ha delle caratteristiche e delle stereotipie completamente
sue, ma ci sono tre tratti che accomunano tutte le persone rientranti nello spettro,
anche se i problemi sono più o meno gravi a seconda del grado di funzionamento:
deficit nell’interazione sociale (difficoltà a interpretare e a utilizzare il
linguaggio del corpo, per esempio. I bimbi autistici spesso e volentieri non
mantengono il contatto visivo e hanno difficoltà a interpretare il significato
delle varie espressioni facciali) deficit nel modo di comunicare (spesso
parlano di se stessi in terza persona, come fa qui Jack) e atteggiamenti
ripetitivi e stereotipati (nel caso di Jack, per esempio, c’è quest’ossessione
per le ombre).
Se volete conoscere un po’ meglio Jack
e il modo in cui interpreta il mondo che lo circonda, linko una raccolta di drabble che scrissi qualche tempo fa sul modo in cui lui
vive il ciclo delle stagioni: “Le stagioni di
Jack – Il mondo fuori.”
Che altro aggiungere? Grazie infinite a
chiunque abbia letto questa storia e, soprattutto, alle tre persone che l’hanno
recensita capitolo dopo capitolo. Tengo veramente moltissimo a questo racconto,
sia per via del mio vergognoso attaccamento alla favola di Peter Pan, che perché
l’ho scritta in un periodo un po’ così e quindi le ho attribuito un significato
un po’ speciale.
Ancora grazie infinite!
Un abbraccio e a presto!
Laura
[1]
Piccolissima ripresa dell’unico passaggio nella saga in cui viene menzionato il
figlio di Annie e Finnick: “Curiosi brandelli di felicità, come la foto del
figlio appena nato di Finnick e Annie” (Il Canto della Rivolta, Ultimo
Capitolo).
[2] Riferimento
al film “Hook” e, in particolare, alla scena in cui Jack (il figlio di Peter
Pan) sta giocando a Baseball sulla Jolly Roger e i pirati invertono i cartelli
con su scritto “Home Rune Jack”, formulando invece la frase “Run Home Jack” (Torna a casa, Jack).