Invece sto ridendo di te (e non mi vedi)

di fuoritema
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1.» You know nothing. ***
Capitolo 2: *** 2.» Stars are only visible in darkness. ***
Capitolo 3: *** 3.» Boulevard of broken dreams. ***
Capitolo 4: *** 4.» I'm only a crack in this castle of glass. ***



Capitolo 1
*** 1.» You know nothing. ***


Note iniziali:
 
Comincio con lo spiegare che questa storia è direttamente collegata a “No one can catch the motherfucking Fox” ed è un po’ difficile che ci capiate qualcosa non avendola letta. Però, se volete proseguire la lettura nonostante tutto, vi metto una piccola sintesi della storia di Rebekah Martin, personaggio principale della long.
Anche conosciuta come "Volpe del distretto nove", è il capo di una banda di ribelli del distretto nove, che distruggono spesso e volentieri i granai dei grandi proprietari terrieri. Il problema sorge quando viene catturata mentre cerca di recuperare un accendino lasciato sulla scena del crimine(?). A questo punto viene condannata a partecipare ai 67esimi Hunger Games (perché Snow è un simpaticone e la vuole ammazzare a tutti i costi). Prima della Mietitura, però, si ritrova a passare due/tre settimane in cella, e la storia parla proprio di questo.
 

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(I)
You know nothing.
 
 
 


La presa ferrea del proprietario del granaio le stringeva le braccia, entrambe schiacciate contro il muro, proprio come il suo corpo. E lui continuava a gridare, gli occhi piccoli e acquosi che esultavano più della sua voce.
 «L’ho presa, l’ho presa.» Le sue parole rimbombavano nella testa di Rebekah, che continuava a scalciare per liberarsi. Nella foga, il berretto che portava sempre in testa era caduto per terra, e la polvere che si era alzata mentre cercava di liberarsi lo aveva avvolto, sporcandolo.
«Lasciami» biascicò, cercando con il piede, a tentoni, l’accendino che era andata a recuperare, prima di cadere vittima di un agguato. Gabriel gliel’aveva sempre detto di non tornare indietro, ma quel giorno aveva accantonato i suoi consigli, per riprendere l’unica cosa che le era rimasta di lui.
«Credi che lo farei, ragazzina?» le chiese e lei perse un respiro, continuando a guardarlo con aria di sfida. Rispose, ma Roth era troppo occupato ad osservare se i Pacificatori stessero arrivando per ascoltarla. Le fiamme continuavano a divampare, in una scala di rossi e gialli, sovrapposti l’uno sull’altro. E l’odore del grano che bruciava le entrò nelle narici, raschiandole la gola. Eppure Rebekah non tossì, abituata com’era a quell’odore che l’aveva accompagnata per tutta la sua crescita. Le tornarono in mente le parole di Gabriel, quelle che le aveva detto prima di lasciarla per sempre, perché quel lavoro finiva solo con la morte e lei aveva finito per dimenticarsene. Ora lo ricordava, sì, ma non si sentiva pronta per ciò che l’aspettava.
«Buonasera, signor Roth. Vedo che ha catturato una Volpe» commentò un Pacificatore, usando il suo soprannome per deriderla. Le diede un’occhiata, come per accertarsi che fosse lei il capo dei ribelli del nove, poi fece cenno all’uomo di lasciarla andare. Non avrebbe mai pensato che la sua vita sarebbe potuta dipendere da un uomo così.
«Ti immaginavo più alta e pure maschio » le confessò il giovane, stringendole il mento tra pollice e indice. I loro sguardi erano come incatenati, come in una gara a chi abbassava il suo per primo.
«E io immaginavo sputassi di meno, mentre parli.»
Uno schiaffo le fece voltare il capo dall’altra parte, ma il sorrisetto vincente che aveva increspato le labbra della Volpe non accennò ad andarsene. Per un secondo, i suoi occhi vagarono per terra, alla ricerca dell’accendino perduto, e lo sbirro lo interpretò come un segno di resa.
«Portatela via. La interrogherò io stesso.»
Detto questo, la spinse verso la sua rovina, mentre Roth chiedeva un compenso per la sua cattura.
 
 

«Hai fame, ragazzo?»
Lo sguardo di Volpe, rannicchiata sul freddo pavimento, vagò per la cella. C’era puzza, forse dovuta alla precedente persona che era stata ospitata lì, ma quello era il problema minore. A volte, stesa con la testa attaccata alla porta, riusciva a vedere persino una falce di luna, se strizzava gli occhi, riuscendo a vedere nei buchi tra le mattonelle. Era un’abitudine che aveva preso stando chiusa lì dentro, perché fino a poche settimane prima non aveva degnato il cielo notturno neppure di uno sguardo. Non sapeva i nomi delle stelle, eppure, vederle lì ferme, le dava una certa sicurezza: non sarebbero mai andate via, si diceva, erano stabili e la loro posizione non sarebbe mai cambiata. In realtà anche loro si muovevano, certo, ma Rebekah preferiva dimenticare le nozioni basiche che le aveva dato Gabriel, in quei momenti. Le chiudeva fuori dal cervello, per poi farle rientrare la mattina seguente.
I carcerieri dicevano che tutto quello che stava sopportando chiusa lì dentro sarebbe diventato la normalità e che avrebbe dimenticato la sua vita e l’aria che le accarezzava la pelle in superficie, il mormorio del grano quando c’era vento. Tutto. Vuoto totale.
Aveva anche imparato a non ascoltarli – non che prima prestasse orecchio a quello che dicevano – perché erano dei Pacificatori, e le loro parole contavano meno di nulla.
«Sei sordo? Ti ho chiesto se hai fame!»
La ragazza schiuse un occhio, alzandosi dalla posizione che aveva assunto per addormentarsi. Aveva il corpo piegato in modo inumano e le sue braccia penzolavano giù dalle sue ginocchia senza forze per tutte quelle che aveva sprecato a tentare di trovare una posizione comoda. Le manette tintinnavano, quando scuoteva le mani, quando si muoveva, quando cercava di alzarsi ricadendo sulla schiena. Allora il dolore le intorpidiva il corpo e si accasciava per terra, inerme ed indifesa.
«Ragazzo?» ripeté la voce fuori alla porta.
«Sono una ragazza» precisò lei, puntando lo sguardo sulla finestra che dava sul corridoio. I suoi occhi scrutarono quelli del giovane che aveva parlato, poi lui abbassò i suoi e un sorriso comparve sulle labbra di Rebekah.
«Non si direbbe.» Il cigolio del legno mentre la porta si apriva la fece svegliare definitivamente e il turbinio di pensieri che l’assaliva nello stato di dormiveglia tacque di colpo. Cercò di alzarsi in piedi, appoggiandosi su un mattone sporgente del muro con entrambe le mani. I suoi piedi cercarono automaticamente un appiglio e si ritrovò ad appoggiare la schiena – ancora dolorante per le frustate che le aveva dato Ford – al muro per rimanere alzata. Trasformò una smorfia di sofferenza in un colpo di tosse, prima di rispondere alla domanda.
«Per questi?» Rebekah prese in mano una ciocca di capelli, facendo oscillare le catene che le tenevano legati i polsi. Ormai erano sporchi, aggrovigliati – cosa strana per quanto fossero corti. Erano cresciuti, negli ultimi tempi: le solleticavano le orecchie e, quando scuoteva la testa, le ricadevano davanti agli occhi in mazzetti scomposti. Appena avrebbe potuto, se li sarebbe  tagliati, si promise. Solo da piccola li aveva portati così lunghi, prima che Gabriel li accorciasse con il suo coltello senza badare alle sue storie.
«Non solo. Sembri un maschio anche per tutto il resto.» La luce proveniente dal corridoio illuminò il ragazzo e Rebekah poté guardarlo con più attenzione, socchiudendo gli occhi. Era alto – di certo più di lei, ma non ci voleva molto per superarla – e aveva il viso squadrato, bianco come cera, e gli zigomi pronunciati. Se non fosse stato un Pacificatore, avrebbe potuto fare il morto di fame. Gli sarebbe riuscito bene. Eppure la sua forma fisica rovinava tutto: le gambe e braccia erano muscolose e il torace non lasciava intravedere le ossa, cosa comune agli affamati del Mercato Nero.
«Devi essere Rebekah. Beh… Io sono Noah.»
Patetico.
La ragazza lo fissò, lasciando ben intendere quel commento nella sua espressione, e aspettò una sua reazione, un piede già pronto per scappare dall’altro lato della cella. Non aveva paura, era solo previdente. Solo previdente. Se l’era già ripetuto troppe volte, in quella settimana: quando guardava il pavimento mentre Ford le portava il cibo – pane e acqua, tanto per cambiare – o quando giocherellava con le manette, cercando invano di liberarsi i polsi. Da quei tentativi, però, guadagnava solo nuove cicatrici, che si aggiungevano alla massa già presente sul suo corpo.
«Mossa sbagliata.» Noah indicò il suo piede con un dito e in un attimo fu dietro di lei. «Non ti picchierei mai, se è questo che temi.»
Alla sua risposta – una risata che non aveva neppure tentato di trattenere – il Pacificatore inarcò un sopracciglio, confuso.
«Se è questo che temi… – borbottò a mezza voce Rebekah, imitando il suo tono – Credi davvero che abbia paura di te
«Non in particolare, ma dopo il colloquio con Ford, beh» ritentò Noah, non senza mimare le virgolette. Sembrava una pecora, quando parlava così e forse lo era: una delle tante pecore che seguivano il Pastore Snow belando dalla contentezza.
«Dopo il colloquio con Ford?»
«Sì – Messer Pecora aveva riacquistato la sua sicurezza – Dopo le frustate che ti sei presa per averlo provocato.» I suoi occhi si posarono un attimo sulle ferite della recente fustigazione, prima di posarsi di nuovo in quelli della giovane, che lo fissava con aria di sfida. Ora capiva perché tutti avevano perso la pazienza con lei e picchiarla sembrava l’unico metodo per cavarle parole di bocca, prima che il capo rendesse noto che sarebbe stato un Tributo e gli ordinasse di non sfiorarla neppure con un fiore – come le femmine.
«Non sai nulla della paura, peekeeper[1]
Rimasero zitti fino a che il silenzio non fu insopportabile e le parole furono abbastanza per colmarlo.
«So quanto basta per capire che sei terrorizzata» rispose Noah, abbassandosi al suo livello. Fu umiliante: lui la superava di almeno trenta centimetri e quell’aria altezzosa che aveva assunto le faceva venire voglia di prenderlo a pugni. Così, forse, gli avrebbe tolto quel sorriso sardonico dalle labbra.
«Non lo sono. Che cazzo sei venuto a fare qui?» gli chiese Rebekah, sputandogli quella domanda in faccia come aveva fatto tante volte Ford con lei.
«Ehi… calma… Volevo solo vedere come stava una Volpe in cattività.» L’occhiata che gli lanciò la rossa fu più eloquente di qualsiasi maledizione. Non avrebbe dovuto. Non poteva. Provò a scagliarsi contro di lui, i pugni serrati in un vano tentativo di colpirlo, ma le catene la fermarono e un gemito di dolore uscì dalle sue labbra.
«Davvero credevi di potermi picchiare? Stupida, stupida ragazzina» ghignò Noah. E quel commento, sebbene non fosse fatto con tanta cattiveria – come suggerivano le occhiate che stava lanciando ai suoi polsi martoriati – le fece male. Non fuori: dentro, ed era peggio di qualsiasi tortura avrebbero potuto infliggerle.
«Fa’ vedere» le ordinò, indicandoli con lo sguardo. Stavolta non era ironico, sembrava sinceramente dispiaciuto dello scatto d’ira che aveva provocato. Il giovane allungò una mano verso le catene.
«Mai.» Lei la respinse con il piede.
«Devo far venire altri sbirri a tenerti ferma, o basto io?» Domanda retorica: non voleva un’umiliazione così grande, e lui lo sapeva benissimo. Non le diede neppure il tempo di aprire bocca, che le sue mani si posarono sulle manette – con una delicatezza strana per delle mani così grosse – e iniziarono ad allentarle.
Rebekah si morse le labbra per non urlare, smettendo solo quando sentì il sapore ferroso del sangue in bocca. Lo inghiottì come bile e alzò gli occhi verso Noah, in un vano tentativo di fargli vedere che non aveva bisogno del suo aiuto, ma un gemito strozzato rese tutto vano. Lui la osservò, scrutò l’espressione aggrottata e le pieghe sulla sua pelle, poi raccattò la boccetta del disinfettante da terra.
«Quante volte hai provato a liberarti?» chiese, sorridendo leggermente.
«Che cazzo t’importa? Fasciamele, prima che ti dia un pugno.»
«Con le mani messe in questo stato? O forse mi maledirai fino alla fine dei tuoi giorni» aggiunse. Ora stava ridendo, una risata aspra, di qualcuno che non avrebbe voluto farlo, e per Rebekah non fu difficile farlo inciampare e cadere. Dal corridoio arrivarono distinte delle esclamazioni di scherno, che fecero sorridere di nuovo la ragazza.
«Non hai i piedi ben saldi per terra, Messer Pecora.»
La mano del giovane Pacificatore scattò per colpirle la guancia destra, ma si fermò a mezz’aria, quasi fosse congelata. «Non posso toccare una donna.» Noah scosse la testa, raccattando la boccetta da terra
«Cos’è, hai paura che ti cadano le mani?» lo rimbeccò lei, mettendosi i capelli apposto alla bell’e meglio con le mani appena liberate.
«Non posso e basta.»
«Buono a sapersi, ah… E di’ ai tuoi colleghi peekeeper che sono ridicoli» disse, girando lo sguardo sulle sbarre da cui si vedevano distintamente delle persone raccolte attorno alla porta. «Perché tu un minimo di onore ce l’hai. Loro no.»
Le sembrò di vedere Ford che si rimboccava le maniche, urlando un “ma chi si crede di essere” troppo forte per non essere udito in tutti i sotterranei. Scommise con sé stessa che quel commento era arrivato persino al loro capo e che qualcuno lo avrebbe fermato prima di compiere delle sciocchezze – dato che lei era intoccabile per ordine di Snow. Non avrebbero mai potuto mandare ai Giochi un Tributo pesto e sanguinante. Lo Show avrebbe perso visualizzazioni!
«Aspetta che la abbia tra le mani!»
«Per farci cosa?» chiese una figura appena arrivata fuori, con un tono carezzevole che non prometteva nulla di buono. Rebekah si congratulò con la sua bravura nel prevedere certe cose, stendendo le gambe davanti a sé, e scambiò uno sguardo con Noah, che si era appena seduto accanto a lei. Non sembrava essersela presa: anzi… Sembrava divertito dallo scompiglio che quella ragazzina stava creando. Forse anche lui detestava Ford. Forse, come lei, detestava quel posto anche più del suo collega.
«Ho onore davvero, secondo te? O era solo un modo di farlo incazzare?» le sussurrò in un orecchio, abbassandosi nuovamente per essere alla sua altezza.
Rebekah gli fece un sorriso piccolo piccolo, di quelli che increspano le labbra in un attimo e scompaiono per paura di essere rubati  dalle altre persone.
«Un po’ tutti e due – disse, spingendolo via di colpo con una spallata – E ora smamma, che non ospito a tempo indeterminato peekepers nella mia umile dimora.»
 
 
[1] Gioco di parole intraducibile in italiano. In inglese Pacificatore si dice “Peacekeeper”, ma Rebekah – come gli altri ribelli e quelli del popolo del nove – ha mutato la parola in “Pee-keeper.” E pee significa pipì, quindi… Lascio a voi il resto dell’interpretazione.
 
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Angolino dell’Autrice:
 
Comincio con il ringraziare Alaska__, che mi ha gentilmente concesso di usare il suo Signor Roth e l’idea che un ragazzo possa essere mandato ai Giochi per mostrare agli altri cosa succede a ribellarsi al regime. Lei ne ha vari, di OC che sono andati nell’Arena per questo motivo.
L’idea per questa long mi è venuta tre settimane fa, mentre guardavo Spirit per l’ennesima volta e ho accostato Rebekah – come avevo già fatto varie volte – a quel cavallo, unendola al comandante Amelia de “Il Pianeta del Tesoro” e la Volpe di “Pinocchio”. L’idea era raccontare tutto quello che era successo durante il periodo compreso tra la cattura e la Mietitura, in particolare il rapporto instaurato con quel pive… Noah. Con Noah. Lui non è un Peekeaper come gli altri e mi sto divertendo molto a  scrivere su lui e ‘Bekah.
Riguardo alla lunghezza di questa storia, dovrebbe avere circa quattro capitoli in tutto (tre normali e un epilogo, ma potrebbero anche diventare di più) di circa 2000 parole. È il mio primo esperimento nell’Introspettiva e sto pensando di integrarlo nella mia originale – modificandolo un po’, ovviamente – se mai arriverò a questo punto. Oltre a cercare di proporlo al concorso di scrittura che fanno a scuola mia, pur essendo una storia strana e inusuale.
In questi quattro capitoli vorrei cercare di approfondire questi due personaggi. Non soltanto Volpe, ma anche questo Pacificatore proveniente dal due, che diventerà molto importante in seguito.
I titoli dei vari capitoli saranno solo ed esclusivamente citazioni, proprio come i fan di GoT avranno notato leggendo “You know nothing, Jon Snow”. Non nascondo che continuo a vedermi la faccia di Ygritte davanti, quando lo leggo, ma mi sembrava abbastanza adatto nel contesto. E nulla… Ho sparato parole alla cavolo, che tanto non interessano a nessuno :3
Ringrazio tutti quelli che hanno letto e li invito a fare una capatina sulla mia pagina Facebook WIP(work in progress). Ora vado a farmi la doccia u-u
 
 
Talking Cricket
PS: Ringrazio con tutto il cuore PrincessLeila, che mi sta facendo da beta per questa mini-long <3

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Capitolo 2
*** 2.» Stars are only visible in darkness. ***


Note iniziali:
 
Comincio con lo spiegare che questa storia è direttamente collegata a “No one can catch the motherfucking Fox” ed è un po’ difficile che ci capiate qualcosa non avendola letta. Però, se volete proseguire la lettura nonostante tutto, vi metto una piccola sintesi della storia di Rebekah Martin, personaggio principale della long.
Anche conosciuta come "Volpe del distretto nove", è il capo di una banda di ribelli del distretto nove, che distruggono spesso e volentieri i granai dei grandi proprietari terrieri. Il problema sorge quando viene catturata mentre cerca di recuperare un accendino lasciato sulla scena del crimine(?). A questo punto viene condannata a partecipare ai 67esimi Hunger Games (perché Snow è un simpaticone e la vuole ammazzare a tutti i costi). Prima della Mietitura, però, si ritrova a passare due/tre settimane in cella, e la storia parla proprio di questo.
 

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(II)
Stars are only visible in darkness.
 
 
 


Erano rari i momenti in cui non c’era nessuno ad osservarla dalle grate, quasi fosse stata un animale pericoloso o una strega che li avrebbe inceneriti con lo sguardo. Erano rari, ma c’erano, fortunatamente. Senza, Rebekah sarebbe impazzita. Non le dava fastidio il fatto di essere scrutata, quanto che tutti la guardavano nello stesso modo: uno strano misto di interesse e pietà – quest’ultimo, sentimento strano per un Pacificatore. Aveva appena finito di modificare la frase pensata poco prima, cambiando l’ultima parola in gergo, che la porta si aprì.
Il solito cibo.
La scodella roteò fino ai suoi piedi, fermandosi proprio davanti a lei. Il cucchiaio era già all’interno, mentre della brocca dell’acqua non c’era neppure l’ombra. Sembrava che non avrebbe più potuto godersi la solitudine, perché qualcuno voleva giocare con lei a “ti do il cibo solo se parli”, passatempo che tra l’altro l’aveva già stufata. Le sue risposte, lei, le aveva usate tutte e il suo sarcasmo si era esaurito, ma non la voglia di lottare. O forse sì. Forse stava solo tentando di convincersi che quella ricaduta fosse solo un tentativo di celare i suoi veri pensieri agli sbirri, mentre era solo la fine della storia della sua vita.
«Mangi, ragazzo? O ti lascerai morire di fame?»
«Non me lo permetteresti comunque» sbuffò Rebekah, riconoscendo nella figura sulla porta, il suo carceriere più giovane. Il solito pivello.
Chissà come mai, la parola “solito” stava iniziando a spaventarla. Aveva persino iniziato a rivalutare le minacce di Ford e tutto quello che aveva detto a proposito dell’“abituarsi alla situazione in cui ci si trova” – ovviamente detto in maniera molto più semplice e rozza.
«Come sei veloce a capire le cose, Volpe!» esclamò divertito. I suoi occhi, con un guizzo, si andarono a posare sulla brocca che teneva nella mano destra, da cui cadevano alcune goccioline d’acqua.
«Passamela. O vorrai farmi morire di sete? Non credo che il tuo capo ne sarebbe contento.»
Noah roteò gli occhi con fare teatrale. «Stai perdendo colpi» constatò, ripensando a tutte le risposte che gli aveva dato in quei giorni e quel ”pivello”, pronunciato con scherno dalle labbra della prigioniera.
«Perché non reagisci. Ford già avrebbe tentato di menarmi-»
«E ci sarebbe riuscito.» Il giovane indicò con un cenno del capo le manette che le tenevano imprigionate le mani, poi le sue braccia magre. «Non avresti potuto difenderti» continuò, appoggiandosi al muro con le braccia conserte davanti al busto.
«Però avrei potuto urlare, e il tuo capo gli avrebbe fatto cambiare idea sul suo deplorevole comportamento» concluse Rebekah, proprio come aveva fatto lui poco tempo prima. Non le piaceva essere interrotta. Ricordava che la sorella di Axel lo faceva sempre troppo spesso e questo, unito al nome maschile che si portava dietro, era insopportabile. Volpe non si era mai fatta fermare dalle parole di qualcun altro, ciò nonostante, quando Noah la interrompeva, non le importava troppo. Sapevano entrambi dove sarebbe andata a parare.
«Un paio di nuovi lividi te li saresti beccati comunque.»
«Sai quanto cambia! Sono tutta lividi e cicatrici.» Per evidenziare l’ovvietà della cosa, inarcò un sopracciglio. Gli mostrò con noncuranza i due sul torace, che stavano diventando violacei, prima di esclamare stizzita: «non sono una marmocchia maltrattata, peekeaper.»
Noah scosse la testa. «Lo so, ma deve far male.»
«Basta non pensarci. E poi ci sono abituata. Non sono una privilegiata come te.» Loro se la sudavano, la vita: basti pensare quante volte Gabriel le aveva tirato un paio di schiaffi per aver detto la cosa sbagliata al momento sbagliato, o anche per delle innocue domande. Il suo carceriere era vissuto in una gabbia dorata – o meglio: un’Accademia bianca – lei no.
L’espressione che assunse il ragazzo la fece pentire all’istante delle sue parole, tuttavia continuò a stuzzicarlo su quell’argomento. Sembrava fragile, in quei momenti. Le sue labbra si serravano e i suoi occhi si spegnevano della luce giovanile che di solito emanavano.
«Non sono un privilegiato» sbottò, come un bambino appena rimproverato per una colpa non commessa. Staccò la schiena dal muro e, in un impeto di rabbia, calciò un sassolino contro la porta di fronte.
«Okay. Non lo sei. Hai soltanto vissuto in una bella casa, senza alzare nemmeno le tue chiappe dorate dal letto.»
«Mi sono allenato duramen-»
«Duramente per fare il Pacificatore – concluse, usando per la prima volta il vero termine – Cazzo, sei noioso! Non te l’ha mai detto nessuno?»
«Tu.»
«Ma chi sono io?» gli chiese, sorridendo ironica. Rebekah fece tintinnare le manette, lo fissò un’altra volta, poi, constatato che non le avrebbe risposto senza una spintarella, si alzò in piedi. Le sue mani cercarono un appoggio nel muro, anche se ormai ce la faceva da sola, nonostante il dolore che continuava ad espandersi per ogni suo nervo quando muoveva un solo muscolo. «Allora… Chiudi quella bocca da trota e degnami di una risposta.»
«Una Volpe»
«Sul serio» specificò la rossa, quasi felice che il suo soprannome non fosse cambiato.
«Il vecchio capo dei ribelli» disse Messer Pecora in un misero belato, che suonò strano persino per lui, che di belati era il re.
«Appunto. Nessuno.»
Il silenzio scese sulla loro conversazione come una coperta, senza che nessuno osasse interromperlo per dire anche una cosa stupida. Non c’era più niente da aggiungere e le pronte risposte di Noah si erano esaurite, proprio come la sua voglia di parlare con quella ragazzina dalla lingua tagliente. Così scosse la testa e uscì, silenzioso come solo lui poteva essere, lasciandosi dietro l’eco di una conversazione interrotta.
Patetico, ma non così tanto come sembrava.
 
 
***
 
 
Non c’era più nessuno, e il russare del carceriere sulla porta era l’unico sottofondo dei suoi tentativi di liberare le mani dalle manette. Dormiva ubriaco, forse reduce di una qualche nottata infuocata passata in compagnia di una povera popolana scelta a caso. Lui, Rebekah non si doveva sforzare per odiarlo: era dannatamente facile, proprio come lo era per tutti gli altri Pacificatori che le ridevano in faccia o discutevano su quanto sarebbe stato bello stuprarla. Solo Noah non si univa ai loro discorsi, facendosi da parte per lanciarle delle fugaci occhiate da dietro alle sbarre della porta. Poi lei faceva il verso ai suoi colleghi con gesti e entrambi dovevano trattenersi per scoppiare a ridere. Era l’unica cosa che le era rimasta della sua normalità, perché le altre le erano state brutalmente strappate via senza che potesse farci nulla.
Sbuffò. Aveva cominciato a tentare di liberarsi delle manette dal giorno prima, quando aveva iniziato ad usare l’estremità appuntita di una per liberare l’altra. Il dolore era insopportabile e quelle ferite che si erano rimarginate avevano iniziato a perdere di nuovo sangue. Ora era coagulato, e le imbrattava le mani, ma l’operazione era quasi compiuta. Rebekah strinse i denti per non urlare e fece scivolare i polsi via dalle manette, tenendole ben ferme sotto i piedi. Delle lacrime le scesero lungo le gote, insieme al sangue che ricominciò a scorrere con la liberazione della sinistra – più grossa di poco, visto che era mancina. Le chiavi erano nascoste sotto la brandina.
Cercò di figurarsi la faccia che avrebbe fatto Ford a vedere la cella spoglia, le manette lasciate in bella vista per prenderlo in giro, e con quel pensiero in testa Rebekah aprì la porta e la richiuse con leggerezza. I suoi passi coincidevano con i plic dell’acqua che cadeva dal soffitto in fondo al corridoio.
“Silenziosa come un fantasma.”
Si ripeté mentre i suoi piedi avanzavano quasi da soli verso la libertà. Era ora di pranzo: tutti i Pacificatori stavano consumando il loro cibo o vegliando davanti ad altre celle. I loro discorsi rimbombavano sulle pareti e l’eco li sdoppiava, li ripeteva milioni di volte fino a che le parole non si esaurivano. Rebekah scivolò verso la porta che dava sull’esterno – o almeno così si erano detti Ford e Quinn, parlando – e dovette chiudere gli occhi per abituarsi alla luce del sole, che nella sua cella filtrava dalla finestra a stento. Li strizzò più volte, incapace di figurarsi fuori dalla prigione. Guardò il cielo e inspirò profondamente: era il sapore della libertà, a lungo cercata e finalmente conquistata. Si scostò una ciocca di capelli da davanti agli occhi, prendendola tra pollice ed indice, non più impedita dalle manette. I suoi polsi continuavano a sanguinare.
“Che fai ancora qui? Va’ via!”
Si comandò, scuotendo appena la testa. Non voleva mica farsi riacchiappare! Era fuori alla cella per restarci, e fare il palo davanti alla porta di uscita sarebbe stata un’idea totalmente stupida. Così si mise a camminare. Non sapeva neppure dove, ma sapeva che ne aveva bisogno e che avrebbe trovato Raika e gli altri. Forse tutto sarebbe tornato come prima, anche se avrebbe dovuto nascondersi per non diventare una senza-voce. Forse nel distretto avrebbero cominciato a vederla come il fantasma di un Tributo scomparso prima di andare agli Hunger Games. E avrebbe ricominciato a fare il capo, come le si addiceva. Sorrise inconsciamente e si sistemò il berretto sulla testa, quello che aveva raccattato all’ultimo, nella polvere dell’angolo, e si spolverò la camicia alla bell’e meglio.
Se doveva farsi vedere da quella squinternata banda di canagliume vario[1], almeno lo facesse in modo presentabile.


 
***
 
 
«Lasciami!»
Le mani del ragazzo si strinsero ancora di più sulle sue, facendole scappare un urlo di dolore – e rabbia. Continuò a scuotere tutto il corpo, a impuntare i piedi per terra per non farsi trascinare via. «Lascia quelle cazzo di mani» precisò. I suoi occhi vagarono sulla presa ferrea che le teneva ferme le braccia, mentre valutava se morderlo sarebbe stata una buona idea.
«Davvero pensavi di poter scappare senza che se ne accorgesse nessuno?» le chiese il ragazzo con un mezzo sorriso sulle labbra. Noah non era vestito da Pacificatore: pantaloni, maglietta e scarpe erano da popolano. Solo il distintivo che teneva appuntato sulla tasca destra simboleggiava il suo lavoro. Sembrava che avesse voluto nasconderlo con un lembo della maglietta, tirandolo più che poteva, ma neppure questo era bastato per eliminarlo. Era sempre lì, lucido come uno scarabeo, e il rumore che faceva mentre il suo proprietario tentava di tenerla ferma era snervante.
«Levati quel coso… O vuoi farti menare in mezzo alla strada?» gli sputò in faccia, continuando a scorrere lo sguardo su di lui. Inizialmente, quando le sue mani si erano mosse per tenerla ferma, aveva temuto che fossero state di qualcun atro, ma la delicatezza di quel giovane era inconfondibile.
«Cosa credevi di fare? Ricongiungerti con i tuoi amichetti?» le chiese di risposta, senza dare peso alla domanda che lei gli aveva fatto poco prima. Smise di stringere così forte la presa, quasi preoccupato dai lamenti che emetteva la ragazza tra i denti.
«Ti sei distrutta i polsi, e per cosa, poi? Per farmi alzare da tavola e venirti a recuperare? Ne avremmo fatto tutti e due benissimo a meno.»
«L’idea era quella – Volpe ridacchiò, puntando i suoi occhi verdi in quelli di Noah – Ma sei arrivato troppo presto. Io proporrei di rifare la scena.»
«Avrei dovuto fregarmene.»
«Di cosa?»
«Di te. Mi crei solo problemi.»
«Ma guarda che genio. Non sapevi che la gente come me crea sempre casini a tutti. Per questo nel distretto mi odiano» gli spiegò con un ghigno. Non esistevano persone che la detestavano di più dei suoi concittadini – escludendo forse il signor Roth – o che non avessero considerato la sua cattura come una benedizione. Quelli però erano gli adulti, convinti che una ribellione come quella avrebbe compromesso la fragile economia del nove. Topi, li definiva spesso Rebekah, storcendo il naso di fronte a tanta paura. Lei lo era stato, un topo, ma poi Gabriel l’aveva presa con sé ed era diventata una Volpe.
Il suo sguardo vagò nuovamente verso la radura, osservando le figure che si muovevano furtive ai limitari del bosco. La recinzione era vicina – testimone il vuoto ronzio che si sentiva nell’aria. Un paio di teste bionde si potevano scorgere tra le fronde, seguite a distanza da un’altra, con i capelli scuri.
La ragazza sorrise, mentre Noah continuava a parlare a vuoto, convinto di essere ascoltato. Ormai non le stringeva più neppure i polsi, perché tanto non sarebbe fuggita via da lui. Lo sapevano entrambi, che non sarebbe più accaduto.
«Li conosci, eh?»
Rebekah distolse lo sguardo, aggiustandosi il berretto caduto un po’ troppo sulle ventitré durante la lotta che aveva fatto per liberarsi. «Conosco tutti, io» rispose sardonica.
«Beh… Loro li conosci meglio. Sono dei tuoi amici.»
Astuto, Messer Pecora.
«Forse sì, forse no. Saresti disposto a scommetterlo?»
«Per come mi stai rispondendo, sì.» Noah le puntò le mani sui fianchi e le girò il busto verso il punto che aveva fissato fino a poco prima. «Ma non mi interessa. Dobbiamo tornare dentro: io a fare il pivello che ha appena finito un pisolino e tu la Volpe che è stata tutto il pomeriggio in cella.»
«’Fanculo» fu la pronta risposta della giovane, che lo guardava con rabbia negli occhi. Che si aspettava? Un ringraziamento, forse, da una ragazza che odiava la sua razza da prima che nascesse. Voleva troppo. Un sorriso gli sarebbe bastato, si disse, facendola avanzare con delle spintarelle sulla schiena. Non avrebbe detto nulla a Ford: sarebbe stato il loro segreto e magari quella ribelle gliene sarebbe stata grata, un giorno. Abbastanza grata da rivolgergli un sorriso.
Intanto, da dietro agli alberi, l’odore di bruciato arrivava fino alle loro narici, forte e libero come un tempo era stata lei. 
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Angolino dell’Autrice:
 
Comincio con il ringraziare Alaska__, che mi ha gentilmente concesso di usare il suo Signor Roth e l’idea che un ragazzo possa essere mandato ai Giochi per mostrare agli altri cosa succede a ribellarsi al regime. Lei ne ha vari, di OC che sono andati nell’Arena per questo motivo.
Avete notato che sto rincollando i pezzi dell'Angolino dell'autrice della scorsa volta? No, perché altrimenti ve lo facco notare io. Diciamo che questo è più un capitolo di passaggio, in cui si approfondiscono un po' i due personaggi e il loro rapporto che, anche secondo me, è parecchio strano. E poi c'è una citazione de “Il Pianeta del Tesoro” e, quando riesco ad accostare Volpe al Comandante Amelia, mi sento realizzata. Come già ho detto alla mia beta, quello è il mio personaggio preferito come quel film è il mio preferito tra i Disney. Stranamente, l'ho visto tardi rispetto agli altri. Ma non è di questo che devo parlare. Credo di aver già detto tutto l'ultima volta – o almeno spero – perché oggi non ho proprio nulla da aggiungere. Il capitolo si spiega da solo.
Ah, per la parte in cui Rebekah si libera dalle manette ho dovuto fare una bella ricerca, perché non ero sicura che fosse possibile liberarsi e mi sono ricreduta. L'ha aiutata il fatto che non le avessero legato le mani dietro la schiena ma davanti, quindi è stato leggermente più facile.
Avete notato che ho aggiunto il banner sotto? L'ultima volta mi ero dimenticata di metterlo e ho dovuto modificare l'altro ieri al volo. Ho solo un'altra cosa da dire, prima di lasciarvi che già vi sarete addormentati. Le tre teste che di vedono spuntare alla fine del capitolo sono tre personaggi che sono molto importanti per Rebekah. Chi conosce la mia long dovrebbe sapere chi è il moro (Raika), mentre i due biondi sono i sovracitati Axel e Nicola Stalier.
Ringrazio tutti quelli che hanno letto e li invito a fare una capatina sulla mia pagina Facebook WIP(work in progress). Ora vado a sbattere la testa contro il muro perché non so come continuare la mia long... ._.

Talking Cricket
PS: Ringrazio con tutto il cuore PrincessLeila, che mi sta facendo da beta per questa mini-long <3

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Capitolo 3
*** 3.» Boulevard of broken dreams. ***


Note iniziali:
 
Comincio con lo spiegare che questa storia è direttamente collegata a “No one can catch the motherfucking Fox” ed è un po’ difficile che ci capiate qualcosa non avendola letta. Però, se volete proseguire la lettura nonostante tutto, vi metto una piccola sintesi della storia di Rebekah Martin, personaggio principale della long.
Anche conosciuta come "Volpe del distretto nove", è il capo di una banda di ribelli del distretto nove, che distruggono spesso e volentieri i granai dei grandi proprietari terrieri. Il problema sorge quando viene catturata mentre cerca di recuperare un accendino lasciato sulla scena del crimine(?). A questo punto viene condannata a partecipare ai 67esimi Hunger Games (perché Snow è un simpaticone e la vuole ammazzare a tutti i costi). Prima della Mietitura, però, si ritrova a passare due/tre settimane in cella, e la storia parla proprio di questo.
 

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(III)
Boulevard of broken dreams.
 
 
 


«Allora? Che ne sai di questo, eh?!»

Ford le sventolò il foglietto davanti agli occhi per l’ennesima volta, sfiorandole appena il naso con un lembo,  ma Rebekah continuò imperterrita a fissare una macchia di caffè in basso a destra, pur di non dargli la soddisfazione di vederla leggere. Per quanto ne sapeva, il Pacificatore la reputava un’analfabeta, o comunque una popolana incapace di decifrare un messaggio con velocità. Eppure la ragazza non era riuscita ad evitare di sbirciare tra quelle parole scritte in caratteri grezzi e aguzzi, interrotti solo dalle macchie. Si era sentita un’idiota, ma l’aveva fatto e ciò le aveva strappato un sorrisetto, che Ford aveva interpretato come un’offesa personale e si era sentito in dovere di punirla.
«Un cazzo.»
Lo schiaffo le strappò un lamento, senza la sua mano andasse a massaggiare il punto che lui le aveva colpito. Immaginò il segno formarsi rosso sulla sua pelle, espandersi e infine prendere una sfumatura violacea, come quella che contraddistingueva i lividi che aveva ancora sul torace. Erano passate due settimane, ma ancora non accennavano ad andarsene e, anche solo guardandole, Rebekah sentiva una morsa stringerle allo lo stomaco. Le facevano male, al solo ricordo. Anche i risultati dell’interrogatorio con Ford si sarebbero fatti vedere, senza dubbio, con il sottofondo delle risate degli altri sbirri.
«So che sai tutto. Potrei essere più buono, con te, se solo collaborassi» disse lui, sfregandosi i pugni l’uno contro l’altro. Si scrocchiò le nocche una, due, tre volte per avvertirla che ci sarebbe stata una seconda manche, e forse anche una terza, se non si fosse decisa a confidargli ciò di cui non sapeva nulla.
«Buono tipo vantarti di aver picchiato una donna?» gli chiese, retorica, e la risposta non le lasciò alcun dubbio riguardo al fatto che si fosse arrabbiato o meno. La mano scattò un’altra volta, implacabile, mentre le sue si serravano a pugno. Gliel’avrebbe fatta pagare, a lui e a tutti gli altri. A Snow, soprattutto.
«Parla!» I muri sdoppiarono la sua voce in mille altre, che continuarono a rimbombare per la stanza come sospese nell'aria. La fissò, il volto rosso d'ira, fino a che anche l’ultima eco tacque. Era un gioco di sguardi, lo stesso che aveva fatto con Noah giorni prima e che continuava a fare con tutti i carcerieri – perché, nonostante tutto, lei non si era arresa. Vinceva sempre: il suo sguardo vagava in quello del suo avversario a lungo, e nessuno riusciva a sostenerlo. Ford sembrava essersi convinto che colpirla significasse un’immediata vittoria per lui.
Patetico.
Più patetico del novellino, che era scomparso dalla sera del giorno prima, quando qualcuno aveva deciso di portarlo alla taverna e farlo ubriacare per bene. Era venuto da lei, prima che ciò accadesse, sostenendo di volerle portare una brocca d’acqua fresca, ma in realtà voleva solo parlare e Rebekah non era in vena di fare neppure quello, allora si erano fissati a vicenda, senza giocare, e lui aveva deciso di andarsene per sfuggire a quella pietosa situazione.
«Persino Noah sarebbe capace di darmele più forte di te, peekeep-»
Un’imprecazione fuggì dalle sue labbra insieme al suono secco prodotto dallo schiaffo. Fu in quel momento che si accorse dei commenti che provenivano da oltre la porta – o meglio – decise di ascoltarli. Tra le altre voci, che giudicavano la forza o lo scambio di battute tra i due, una si distinse. Era più pacata delle altre, quasi seria. Non ci fu neppure bisogno di capire a chi appartenesse.
«Chiamami un’altra volta così e te ne farò pentire!» urlò Ford con un mezzo ghigno. Sembrava provare piacere nell’interrogarla, nel cavarle le parole di bocca con la forza. Si divertiva, lui.
Oh, quanto mi divertirei a spaccarti quel naso in due, pensò la ragazza, trasformando un gemito in un colpo di tosse. Il Pacificatore parve soddisfatto del suo lavoro e le prese il mento tra il pollice e l’indice, proprio come aveva fatto il giorno in cui l’aveva catturata.
«Andiamo, ragazzina; lo sappiamo tutti che sono stati quelli della tua banda a distruggere il granaio» le disse in tono carezzevole, quasi le stesse spiegando la situazione. Passò un attimo interminabile, prima che la stretta si serrasse con rabbia. Sentiva il suo alito sul collo, sul viso, e le venne quasi voglia di sfidarlo ancora, ma una voce proveniente da fuori la fermò.
«E se anche fosse? Lei non ne sa nulla.»
In bilico tra la porta e l’esterno, Noah fissava la scena con aria impassibile, le labbra incurvate per far vedere quanto in realtà si stesse divertendo. Aveva la schiena poggiata sul muro e le gambe incrociate, quasi a prendere in giro il suo collega.
«Questo è da vedere» borbottò Ford. «’Cazzo fai qui, pivello?» gli chiese a bruciapelo, fissandolo con uno sguardo di fuoco. Il ragazzo si inumidì le labbra, pensando a cosa rispondere, ma Rebekah fu più veloce e l’occhiata che lui le lanciò – quasi la stesse pregando di non dire nulla – non servì a fermarla.
«A cercare di far funzionare il tuo cervellino» ridacchiò, massaggiandosi delicatamente il punto dove le dita avevano fatto presa. Chiuse gli occhi e strinse le labbra, preparandosi per una manata ancora più potente delle altre. Ma l’aspettò invano, perché quando si decise a riaprirli Noah teneva fermo il braccio del collega. Una scena abbastanza comica, considerata l’espressione stampata sul suo viso, eppure Rebekah non rise.
Perché l’aveva difesa?
«Il capo non vuole che la picchi ancora. O forse vuoi sentirtelo dire da lui?»
Quel pivello sembrava essere il mago delle domande retoriche e Ford sapeva solo rispondere a monosillabi o con frasi già fatte, avendo il cervello di un’ameba ripiena di plancton. Liberò il suo braccio con una mossa brusca, scoccando un’occhiata intimidatoria al giovane. «Gli sto solo facendo un piacere» rispose infine, muovendosi verso di lui a grandi passi. E l’altro fece un passo indietro.
Codardo.
«Un piacere che non vuole» specificò Noah. Si chinò per prendere una pagnotta da fuori la porta, come per non mostrargli che non riusciva a guardarlo a lungo, e gli indicò il corridoio. «Facciamo così: tu non hai mai varcato la soglia della cella e io non ho visto niente. Conviene ad entrambi, non credi?»
Lo stava minacciando. Certo che a volte i pivelli cacciavano fuori le unghie, se stuzzicati. Per l’ennesima volta, Rebekah si ritrovò a chiedersi perché lo odiasse così tanto, perché avessero quel piccolo, insignificante particolare in comune. Se non fosse stato così, avrebbe potuto detestare anche lui, si disse. Ma quella era solo una magra consolazione per il fatto che non riusciva a trattarlo come gli altri. Perché? La domanda le rimase in testa fino a quando Ford non uscì, furente, dalla cella e Noah si piegò davanti a lei. Viso contro viso, la ragazza non poté evitare di osservarlo, cosa che fino a quel momento aveva fatto solo di sottecchi.
«Cos’è? Mi stai facendo una radiografia della faccia?» Evidentemente, non era stata abbastanza accorta a non farglielo capire. Rebekah si sentì avvampare – cosa che non le era mai successa nei diciassette anni della sua vita – ma cercò di mascherare l’imbarazzo con una risata.
«No. Sto cercando di capire quanto ci vorrebbe per spaccarti il tuo bel muso» rispose sarcastica, stiracchiandosi con uno sbadiglio. Calcò la voce sull’aggettivo, giusto per capire che effetto avrebbe fatto al ragazzo sentirsi di dire che era bello.
«Ricominciamo a parlare di pugni? Hai le mani distrutte. O forse devo ricordartelo?» rispose, indicandole con un cenno del capo. Volpe sbuffò, avvicinando ancora di più il suo viso a quello del Pacificatore. Ora la distanza tra i due era minima, una distanza da bacio, che fece arrossire Noah. Uno a uno, si annotò mentalmente Rebekah.
«Scommetto che hai delle belle labbra, peekeeper» lo provocò, dandogli una spintarella mentre lui cercava di togliersi quell’espressione da trota dal viso. «Morbide» aggiunse, scoccando un’occhiata sull’oggetto del suo interesse. Fu allora che il ragazzo indietreggiò, quasi offeso da quell’affermazione.
«Che c’è? Non sei d’accordo con me?» gli chiese con un ghigno stampato sulle labbra. Lui non avrebbe mai reagito: era troppo pacifico, troppo buono, troppo… Troppo Pacificatore nel vero senso della parola. Se tutti fossero stati come lui, forse la ribellione sarebbe cominciata in anticipo e lei non si sarebbe trovata a vivere in una cella, come una bestia che sta per essere condotta al macello.
«Te l’ha rotto.» Noah avvicinò la sua mano al viso della ragazza, apprensivo, e seguì con un dito i suoi lineamenti fino ad arrivare alla bocca. La guardò, le chiese il permesso di trattarla da ribelle ferita con gli occhi e, per una volta, non si sentì rispondere con una battutina sarcastica. Non vide le mani di lei scostare le sue bruscamente, né cercò di trovare un senso a quel silenzio che si era impadronito della loro conversazione. Le tamponò solo il punto ferito con un fazzoletto bagnato, mentre gocce d’acqua sporca di sangue scendevano giù lungo le guance della giovane, come avrebbero fatto le lacrime che tratteneva dalla sua cattura – perché le Volpi non piangevano. E neppure i capi dei ribelli.
«Sarei dovuto arrivare prima» si rimproverò Noah, continuando a sfiorare le labbra di Rebekah con una delicatezza insolita per un Pacificatore, le cui mani erano più adatte a tirare ceffoni che non a medicare ferite. Nuovamente, lei non si scostò. Quel tocco non le dispiaceva così come le attenzioni che le stava dedicando da quando si erano conosciuti. Quanto era passato? Due, tre settimane? La goccia di sangue scese fino al suo collo, prima che Noah la fermasse con il suo fazzoletto.
«Perché mi aiuti?» gli chiese infine, scuotendo la testa come per dirgli che il suo ritardo non importava, che lei se l’era meritato, quel labbro rotto, perché non era stata capace di capire che stava giocando con il fuoco e aveva finito per accendere ancor di più l’ira di Ford. Era per colpa di una fottuta scintilla che si ritrovava lividi ovunque, e la fiamma che da essa era derivata stava per spegnersi. Forse sarebbe persino stato meglio così. «Perché assomigli a una persona che conosco molto bene.»
Era la terza volta che le dicevano una cosa del genere, e già la prima le aveva portato solo guai. Sembrava che agli unici di cui le importava qualcosa ricordasse dei vecchi fantasmi, sepolti nella parte più remota della mente. Sembrava dovesse sempre essere simile a qualcuno, e tutto ciò la faceva innervosire. In quei momenti, non era neppure più una Volpe.
Sbuffò, prima di sbottare con tono un po’ troppo seccato: «Ah, sì? Allora illuminami, genio. A chi somiglio?» Scostò la mano di Noah dal suo viso con un gesto brusco, il pugno sinistro che stringeva un lembo del suo berretto come un’ancora di salvezza.
«A me.»
Rebekah si dovette trattenere per non scoppiare a ridere con un gemito, perché anche quel semplice gesto le causava dolore al taglio che aveva smesso di sanguinare.
«A un peekeeper? Pensavo fossi pazzo, ma non fino a questo punto. Cosa cazzo ho in comune con un privilegiato del due, di grazia?» gli chiese, alzandosi di botto su, le mani appoggiate al muro. Lo fissò, cercando disperatamente di essere più alta per guardarlo negli occhi dalla giusta altezza. Avrebbe voluto poter osservare il suo viso, le piccole rughe che iniziavano a formarsi vicino agli occhi e l’espressione che aveva assunto.
«Non sono un privilegiato.»
Abbiamo riavvolto il nastro, constatò la ragazza. Mimò uno sbadiglio, si stese all’indietro e cominciò ad osservare il soffitto, intenzionata a finire il discorso lì. Era una battaglia già persa in partenza con lui. Noah poteva avere tutte le virtù del mondo, ma non avrebbe mai ammesso di aver buttato nel cesso tutto quel tempo per diventare una pecora.
«Hai ragione: sei solo un marmocchio. Hai passato dieci anni della tua vita ad allenarti per fare uno stupido esame. Come hai dovuto dimostrare la tua fedeltà a Snow? Hai corso per le strade del distretto due per cercare un bambino da uccidere tra le braccia della madre? E poi magari le hai dato una moneta per ripagarla della sua perdita[1]

Nel parlare, Rebekah aveva alzato la voce, puntando il suo indice accusatore sul petto di Noah. Qualsiasi Pacificatore cui si fosse rivolta così non avrebbe esitato a tirarle uno schiaffo o peggio, ma lui rimase fermo, immobile, con la mano poggiata sul muro per non indietreggiare. Poi scostò la mano della giovane, con delicatezza, quasi fosse una bambola di porcellana, perché lei era diventata così, di porcellana. Un solo tocco indelicato e le sue ferite – non solo fisiche, ma soprattutto morali – si sarebbero aperte e il fardello di quella colpa sarebbe gravato sulle spalle di Noah. Per sempre. Sembrava che quelle due parole lo seguissero ovunque andasse e l’eternità che simboleggiavano lo avrebbe inghiottito. Il suo lavoro era per sempre, il ricordo delle sue gesta sarebbe stato per sempre e quella ragazzina… beh, lei non sarebbe vissuta per sempre, proprio come le sue imprese non sarebbero state ricordate da nessuno. Chi avrebbe mai guardato con ammirazione un Pacificatore senza onore né forza di farsi rispettare? Noah aveva voluto solo essere di più di questo, aveva sperato di diventare forte come una guardia del Presidente, ma tutto il suo futuro gli era crollato davanti.
«Il nostro esame finale si basa sull’obbedienza, una cosa a te sconosciuta.»
«E dovrei forse ubbidire al Presidente, che odia noi dei distretti?»
«Non vi odia.»
«Ah… sì? – Rebekah incrociò le mani davanti a sé – E io sono qui perché mi vuol bene? Risparmiami queste cazzate! Non sono una stupida marmocchia del due che si beve tutto questo.»
«Non sono cazzate» si limitò a risponderle Noah, scrollando le spalle come per evidenziare la sua stupidità. Lo aveva ripetuto fin troppe volte in quelle tre settimane. La ragazza inarcò un sopracciglio.
«Certo che sono cazzate, Mr Intelligentone.» Rebekah gli rivolse un’occhiata ermetica, prima di ricominciare a ticchettare con le dita sul collo di una bottiglia in vetro ormai vuota. L’acqua era finita da tempo, quando Ford si era divertito a calciare il recipiente verso il muro per più volte. Però non era riuscito a romperlo. Si potevano notare, soprattutto sulla punta, delle scheggiature sul vetro. Si sarebbe rotto al prossimo urto, con ogni probabilità, ma lui non aveva avuto la soddisfazione di vederlo in mille pezzi. Proprio come non sarebbe successo con lei.
«Il Presidente odia solo quelli come te.»
«Detesta anche te» ribatté la ragazza, alzando gli occhi al cielo. Lo stava prendendo in giro, di nuovo, e lui non stava facendo niente per impedirlo. Eppure non accennava neppure a minacciarla: non sarebbe stato né utile né decoroso.

La chiamavano Volpe – come l’animale – forse per via di quei capelli rossi o forse perché… Ma cosa diamine gli avrebbe dovuto interessare? Era solo una stupida ragazzina, una ribelle del cazzo che non avrebbe mai fatto qualcosa nella vita. Il modo con cui lo guardava, mentre si rigirava il vetro tra le dita con aria annoiata, gli faceva venire voglia di rispondere a quegli sguardi. Così giocavano, a chi abbassava per primo gli occhi. Verdi contro azzurri, un gioco di battiti di ciglia, di forza d’animo e concentrazione. Ed era sempre lei a vincere, da quando l’aveva vista per la prima volta, premuta contro il muro dalle mani del proprietario del granaio che aveva incendiato. Persino quando era rannicchiata contro in muro, i pugni contratti per rabbia impotente e la schiena sanguinante, non aveva abbassato gli occhi.
«E perché dovrebbe detestarmi?» le chiese, inarcando le sopracciglia con fare canzonatorio.
Rebekah gli rispose in egual modo, poi sbuffò, quasi fosse troppo per lei anche solo parlare con un Pacificatore: «Lui odia la speranza. E tu speri di diventare qualcuno. Ma dovresti aprire gli occhi: lui ama solo sé stesso, degli altri non gliene frega un cazzo.»
Aprire gli occhi.
Per l’ennesima volta, Noah scosse la testa e uscì dalla cella senza che il silenzio si impossessasse della loro conversazione. Prima che quella conversazione diventasse troppo difficile da sostenere.
 
 
[1] Una semi-citazione da Tempesta di spade, quando il mercante che deve vendere gli Immacolati a Daenerys Targaryen.

 
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Angolino dell’Autrice:
 
Comincio con il ringraziare Alaska__, che mi ha gentilmente concesso di usare il suo Signor Roth e l’idea che un ragazzo possa essere mandato ai Giochi per mostrare agli altri cosa succede a ribellarsi al regime. Lei ne ha vari, di OC che sono andati nell’Arena per questo motivo.
Copio-incollo sempre le stesse frasi, ora ne avete avuto la certezza. Questo capitolo è di sicuro quello venuto soprattutto grazie alla mia beta (PrincessLeila) che, per la prima volta. ha fatto la cattiva e mi ha segnato un bel po' di cosette che andavano cambiate. Poi ha sclerato per la Noah/Rebekah, perché anche un cactus – o un'ameba ripiena di plancton – li vedrebbe bene come coppia. <3
Come forse avete notato, ho iniziato ad inserire più citazioni nelle mie storie e questa cosa mi diverte molto. Inizialmente avevo pensato di non dirvi dove ho citato qualche autore, ma poi ho optato per specificarlo, perché mi sembra più giusto <.< L'idea della scintilla ho voluto aggiungerla per fare una sorta di parallelismo tra 'Bekah e Katniss, due personaggi che non hanno nulla in comune tranne la voglia di ribellione.
Il titolo di questo capitolo viene dall'omonima canzone dei “Green day”, che adoro e si sposa molto bene con ciò che sta passando Noah. I suoi sogni di diventare Pacificatore e avere gloria sono stati brutalmente infranti, e adesso si ritrova faccia-a-faccia con la realtà. Povero, piccolo pecora pulcino :/
Ah, aspettatevi una sorpresa nel prossimo capitolo, povere anime che continuano a seguire questa storia nonostante gli aggiornamenti scostanti (mi sono bloccata sul quarto capitolo). <3

Talking Cricket

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Capitolo 4
*** 4.» I'm only a crack in this castle of glass. ***


Note iniziali:
 
Comincio con lo spiegare che questa storia è direttamente collegata a “No one can catch the motherfucking Fox”. Se volete proseguire la lettura nonostante tutto, vi metto una piccola sintesi della storia di Rebekah Martin, personaggio principale della long.
Anche conosciuta come "Volpe del distretto nove", è il capo di una banda di ribelli del distretto nove, che distruggono spesso e volentieri i granai dei grandi proprietari terrieri. Il problema sorge quando viene catturata mentre cerca di recuperare un accendino lasciato sulla scena del crimine(?). A questo punto viene condannata a partecipare ai 67esimi Hunger Games (perché Snow è un simpaticone e la vuole ammazzare a tutti i costi). Prima della Mietitura, però, si ritrova a passare due/tre settimane in cella, e la storia parla proprio di questo.
 

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(IV)
I'm only a crack in this castle of glass.
 
 
 


L’ennesimo sbuffo di aria gelida entrò nella cella. Rebekah non poteva vedere l’esterno da quelle sbarre, ma il vento poteva entrare e trasformare i suoi respiri in nuvolette bianche. Le avevano persino impedito di sentire l’odore del grano, di muoversi – tranne che nello spazio quadrangolare della stanza – di sentirsi viva sul serio, e non sepolta viva.
La ragazza si strinse le mani sotto la camicia ormai logora, cercando invano di scaldarsi con l’accendino che una volta portava in tasca. Ma non c’era più: loro gliel’avevano portato via. E quel “loro” comprendeva anche il pivello che l’aveva protetta come fosse stata una bambina indifesa, anche se un rifiuto sarebbe stata la risposta più possibile. Non avrebbe accettato l’aiuto di una qualsiasi altra persona. Si era spesso chiesta come fosse riuscito ad entrare nella sua vita, a venire accettato come un compagno di sventura – pur essendo un Pacificatore – e riuscire a tirarla su dall'abisso in cui era sprofondata. L’aveva osservata a lungo, prima posando lo sguardo sui suoi occhi, sulle sue mani e lei gliel’aveva lasciato fare anche se quelle occhiate la svuotavano. Ogni momento che passava con quel pivello le toglieva un po’ della Volpe in cui Gabriel l’aveva trasformata. Senza la corazza del buio e il calore del fuoco, quella copertura era destinata a dissolversi nell’aria.
Dall’esterno sentì gli sbuffi di Noah, costretto per l’ennesima volta a fare il turno di guardia mentre avrebbe voluto dormire – un altro dei problemi di essere l’ultimo arrivato. Si domandò come mai si fosse lasciato inviare in un distretto in culo al mondo, dove le uniche cose che potevano dare fastidio alla Capitale erano delle spighe di grano e un mucchio di ribelli che non era appoggiato neppure dal popolo. Il nulla assoluto, insomma, ma la Capitale non la pensava così. Qualsiasi comportamento anormale doveva essere soffocato sul nascere, e i suoi resti calpestati finché non ne fosse rimasto più niente.
 

«Ciao.»
«Che vuoi, Ford?»

Stralci della conversazione che stava avvenendo fuori le arrivarono alle orecchie: la voce di Noah appariva ferma, eppure nel suo tono era percettibile un leggero tremolio, quasi avesse paura di qualcosa. Dalle sbarre della porta Rebekah riuscì a vedere la sua espressione e non poté fare a meno di sorridere: non era stato capace di celare a lungo quella sua faccia da trota, il pivello. Appoggiò la schiena al muro della cella – facendo bene attenzione a farlo con delicatezza, sebbene sentisse ormai solo un leggero fastidio là dove c’erano le cicatrici – e si rigirò il cappello tra le mani. Non ricordava bene come lo avesse riavuto indietro: forse a darglielo era stato proprio Noah, dopo averlo strappato dalle luride mani di qualche altro Pacificatore come lui, o forse lo aveva rubato lei. La seconda ipotesi era di certo la più appagante, convenne tra sé e sé.
Passò le dita sulla tela grezza di cui era fatto, pulendolo dalla polvere che lo ricopriva quasi interamente. In alcuni punti il tessuto era sfilato, la visiera era un po’ sgualcita, ma averlo tra le mani la faceva sentire ancora il capo dei Ribelli e non una ragazza con un labbro spaccato, relegata nelle carceri del Nove dal abbastanza tempo giusto per perdere sé stessa. Era rimasta solo un’ombra, la vera Volpe se n’era già scappata tempo prima, quando Noah le aveva disinfettato le mani e lei gliel’aveva permesso.
 
Tese l’orecchio.
 
«Io? Niente. Volevo solo chiedere al mio amicone come andava la guardia notturna» rispose Ford con un sorriso che assomigliava più a un ghigno. Poteva quasi vederlo, Rebekah, e provò l’impulso di scagliarsi contro di lui per toglierglielo dalle labbra. Un bel calcio alle parti basse sarebbe bastato, si disse.
«Va bene. E adesso smamma.» In quei giorni, Messer Pecora aveva smarrito del tutto la sua sicurezza. Rispondeva in modo evasivo, parlava poco e chiudeva i loro discorsi con una facilità esasperante. Ha le mestruazioni, sicuro. Ma gli ovini potevano averle? La domanda le strappò l’ennesimo sorriso forzato – quello di chi non aveva neppure un buon motivo per essere divertito.
«Non così in fretta. Volevo controllare di persona.» Viscido. Talmente viscido da affogare nel suo viscidume. Avrebbe voluto urlargli quella parola, sentire il rimbombare dell’eco sui muri per tutto il corridoio. Avrebbe voluto vedere la sua reazione pur conoscendola già, e ripensare a quel momento come a una vittoria; ma soprattutto, intuire dalle occhiate che le avrebbe lanciato Noah che lui era del suo stesso parere.
«Hai controllato, no? Che vuoi fare?»
«Io? Volevo solo congratularmi con la prigioniera per il casino in cui mi ha cacciato.»
Ah, dunque era lei il motivo della sua graditissima visita. Che novità! Dal primo momento che l’aveva vista, Ford sembrava averla presa come il suo capro espiatorio per eccellenza – un pensiero condiviso, tra l’altro – e cercava sempre di farsi affidare compiti che riguardavano il cavarle parole di bocca. Sapere che lei era intoccabile doveva avergli dato una grande delusione, ma il Pacificatore non si era rassegnato a lasciarla in pace. Le cicatrici che aveva sulla schiena erano opera sua. E delle battutine che la ragazza non era riuscita a trattenere.
 
«Prova ad alzare le mani su di lei e…»
«Mi metti in punizione, amorino
 
Un colpo. Due. Ora riusciva più a sentire solo qualcuno degli insulti che saettavano dalle loro bocche, ancora seduta con calma per terra: si scoprì a parteggiare per Noah, quando intuì che uno dei due doveva essere stato messo a terra. Aveva partecipato ad abbastanza zuffe per capire quando era finita, e dai suoni si notava chiaramente che uno dei due si era arreso. Non ci fu neppure bisogno di intuire chi fosse.
Perché diavolo cadeva sempre nei trucchetti più stupidi?
Rebekah scattò in alto, tendendo le mani verso la finestrella che dava sul corridoio per vederli. Eppure non riuscì ad aprire gli occhi: si rifiutò di guardare ciò che aveva, anche se involontariamente, provocato. Si limitò a sentire, ancora appesa con le braccia alla grata, il suono di altri pugni che si abbattevano sul corpo di Noah. Come se l’altro li stesse rifilando a lei, un groppo alla gola le scese fino allo stomaco, facendola quasi piegare in due. Quanto avrebbe resistito[1]? La domanda le rimbombò nella testa, mentre tirava un pugno alla porta per distrarre Ford, mentre gli occhi del pivello incontravano i suoi per il tempo giusto a farle capire che le era grato. Continuò finché le ferite sulle sue mani non si riaprirono e l’odore del sangue le invase le narici. Forse così si sarebbero accorti che lei era ancora viva, ma quando si sentì cadere sul pavimento della cella capì che aveva perso la sua battaglia.
Di nuovo.

 
*


«Ragazzo?»
La rada barbetta di Noah le pizzicò la guancia, facendole rispondere alla domanda con qualcosa che somigliava più ad un grugnito che ad altro. Inizialmente doveva essere una battutina, ma la posizione in cui si trovava non era la migliore per parlare.
«Te l’ho già detto. Sono una ragazza» sbuffò, senza decidersi ad aprire gli occhi. Aveva le mani ancora strette a pugno, contratte, ma il sangue era sparito. Non una goccia, sostituita da un dolore sordo e persistente alle nocche. Schiuse gli occhi con calma, ritrovandosi quelli blu del ragazzo davanti, e avvicinò il suo viso a quello dell’altro, ridacchiando quando Noah si staccò da lei in modo brusco. La osservò dall’alto, un taglio vicino all’orecchio incerottato alla bell’e meglio, come per accertarsi che fosse sveglia sul serio.
«Sei un’idiota, ragazza» le disse con tono serio, calcando la voce sull’appellativo che le aveva rifilato. Mai, in quel mese, l’aveva chiamata così e Rebekah gli rispose con uno sguardo altrettanto serio, decisa a fargli abbassare lo sguardo per l’ennesima volta.
«Sei una stupida, stupida, stupida ragazza.»
«E perché mai lo sarei? Sentiamo.» Avrebbe incrociato le braccia, se le catene non l’avessero costretta a tenere le mani unite. «E queste?» aggiunse, indicandole con un cenno del capo. Le mosse leggermente, le tirò, poi gli rifilò un’occhiataccia che Noah interpretò come una richiesta di spiegazioni.
«Le mettiamo ai detenuti che ci creano problemi.»
«Questo lo sapevo già, genio» rispose sardonica, appoggiando la fronte contro quella del ragazzo. Spinse la testa leggermente più avanti, allontanandolo di qualche centimetro.
«Allora perché lo chiedi? – gli angoli della bocca del giovane si alzarono in un sorrisino – Non mi sembra che chi prende a pugni la porta della cella si possa definire un detenuto calmo e sottomesso.» Il suo sguardo vacillò sulle nocche della giovane, da cui stava già ricominciando a scorrere un filo di sangue, prima di posarsi sui suoi occhi.
«Ti sei incantato?» gli chiese, ghignando quando si accorse che Noah stava arrossendo. «Non capisco proprio perché tu puoi farmi radiografie alla faccia e io no.»
«Perché io sono bello.»
Rebekah scrollò le spalle. «E io sono la Fata Turchina» gli rispose per le rime. Era bello, per una volta, lasciarsi trasportare in discussioni così futili; in quei momenti smetteva di pensare alla cella, ai muri che parevano stringerla sempre di più e la puzza di disinfettante nell’aria. Dimenticava la Volpe, ormai scappata fuori nei campi di grano, e rimaneva da sola con Noah. Ancora non riusciva a spiegarsi quel malato potere con il quale il ragazzo riusciva a farsi strada nei suoi pensieri. Non riusciva a capire come facesse ad instaurare una conversazione sul nulla assoluto, in cui lei avrebbe parlato senza passare i suoi pensieri attraverso il setaccio del cervello. Lui era l’unico che riuscisse a capirla sul serio, lui capiva e basta.
«Strano, credevo fossi un ragazzo» rifletté ad alta voce, strappandole un sorriso. «Un ragazzo talmente stupido da distrarre Ford con dei pugni contro la porta» fece ancora, sedendosi davanti a lei. Separavano i loro visi dieci centimetri scarsi, mentre la sua gamba toccava quella della giovane.
«Ho impedito che te le desse sul serio. Scommetto che oggi le hai prese per la prima volta» lo punzecchiò Rebekah, tirandogli una leggera gomitata. Rise. «Tuo padre non ti ha insegnato a scegliere con più attenzione con chi batterti?[2]»
Il silenzio si sfasciò in milioni di schegge che ferirono Noah, e la ragazza lo vide dal sorriso forzato che esibì – anch’esso rotto dai ricordi. Aveva colto nel segno, pur non volendo.
«Tuo padre non è uno di quelli che insegna?» gli chiese, cercando invano di rimettere insieme una conversazione. Tentò anche di ristabilire un contatto visivo con il ragazzo, ma lui teneva gli occhi bassi. Gli toccò la gamba, poi gli girò la testa verso di sé, modellando la sua posizione come fosse stato una marionetta.
«No. E non ho voglia di parlarne.»
«Centro. Si è scopato tua madre e poi se n’è andato, o è rimasto per il tempo necessario a farti capire quanto fosse apatico nei vostri confronti?»
Per la prima volta, Noah le rivolse un’occhiata carica d’odio. Poi si scostò da lei, andandosene dalla cella con passi bruschi e pesanti. Avrebbero lasciato il segno, se ci fosse stata della neve, ma invece lasciarono un silenzio talmente pesate da gravare nella stanza per minuti interminabili. Solo in quel momento Rebekah si rese conto di aver esagerato.
Avrebbe dovuto scusarsi?
La domanda le torturò lo stomaco con insistenza, e continuò a farlo quando la ragazza poggiò la testa contro il muro. Si chiese se fosse malata, se quello fosse un semplice mal di pancia dovuto al poco cibo che aveva ingerito negli ultimi giorni. Si domandò quanto fosse passato dall’ultima volta che aveva toccato un vero pezzo di pane fresco, come quello che talvolta Axel le offriva mentre camminavano verso la recinzione, e una tenaglia le strinse lo stomaco con forza. Per la prima volta nella sua vita, si accorse di aver bisogno di qualcuno.
E quel qualcuno era Noah.

*


Scusami.
Lo sussurrò ai muri, gli occhi fissi sulla parete spoglia e le labbra serrate. Lo disse varie volte alle gocce che cadevano giù dal soffitto, bagnando il pavimento di acqua sporca, a sé stessa. E quella stupida, insulsa parola continuò a gravarle sulle spalle insieme al peso di una conversazione infranta così. Lui non le aveva chiesto quella domanda, non ne avrebbe neppure voluto parlare, e la sola risposta che era stato capace di darle era stata quella.
Quando la ciotola rotolò fino ai suoi piedi, arrivandole con precisione nella mano sinistra, Rebekah alzò lo sguardo. I suoi occhi, che prima fissavano le fughe tra le mattonelle, si posarono su quelli del Pacificatore. Noah rimase sulla porta, aspettando con un piede alzato per andarsene.
«Io-» iniziò con riluttanza. Mille parole le frullavano nella testa, ma non aveva il coraggio di pronunciarne neppure una. Incespicò sulla prima, un insulso balbettio di una frase lasciata a metà, poi scosse la testa. Ora non lo guardava più.
Da una qualsiasi persona si sarebbe aspettata un rifiuto, un’occhiata di sufficienza e lo sbattere di una porta ormai chiusa per sempre, ma lui non fece nulla. Gli importava sul serio di quelle scuse. Rebekah lottò con sé stessa perché la seconda parola uscisse dalle sue labbra in un rantolo strozzato che quasi neanche lei comprese.
«Cos'è, non parli più?»
No: non con te, almeno. Abbassò nuovamente la testa, gli occhi fissi sui suoi piedi come mai si era permessa di fare durante la sua vita. Diciassette anni buttati al vento, si annotò in mente, e anche tutti i momenti in cui aveva deciso di sfidare Ford. Il suo fuoco si era spento, ma lei non sarebbe rinata dalle sue ceneri come una fenice e non sarebbe volata via da lì. Delle sue ali era rimasto solo un ricordo – delle cicatrici laddove una volta sorgevano.
«Scusa» mormorò con voce talmente flebile da ritrovarsi a sperare che lui l’avesse sentita e di non dover quindi ripetere. Lo disse d'un sol fiato e, mentre Noah apriva la bocca per risponderle, aggiunse: «pivello
Gli angoli della bocca del ragazzo si distesero in un sorriso. «Non pensavo che l’avresti fatto» ammise.
«Non sono così orgogliosa» gli rispose infine, mentre la sua mente urlava scempio di azioni perché era esattamente il contrario.
«Oh sì che lo sei. Non ho mai visto nessuno più cocciuto di te» la prese in giro, evitando gli sguardi di fuoco che lei gli lanciava. Poi lo tirò verso di sé con il braccio serrato sui suoi pantaloni bianchi. Quasi lo fece cadere per terra, ma alla fine il pivello si sedette accanto a lei e le scompigliò i capelli – come non aveva mai fatto nessuno dalla morte di Gabriel.
«Ti detesto, Peekeeper» borbottò, «perché vuoi che mi scusi, perché sei sensibile fino all’inverosimile.» E mi ricordi che sono una ragazza.
«Forse è la cosa più dolce che tu mi abbia mai detto.»
Rebekah gli diede una leggera gomitata al fianco e rise, lasciando che il peso del suo “scusa” scivolasse via, lontano da quella conversazione. Si ritrovò a cercare la vicinanza con Noah, appoggiando il suo mento sulla spalla del ragazzo. Poi, colmarono la distanza che li aveva divisi fino ad allora – la distanza tra un Pacificatore e una ribelle – con le parole.

Era il terzultimo giorno che avrebbe passato in quella cella.




[1] L’ambiguità della frase è voluta, perché Rebekah si sta riferendo sia a Noah che a sé stessa.
[2] Citazione da “Il pianeta del Tesoro” (<3)

 
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Angolino dell’Autrice:
 
Comincio con il ringraziare Alaska, che mi ha gentilmente concesso di usare il suo Signor Roth e l’idea che un ragazzo possa essere mandato ai Giochi per mostrare agli altri cosa succede a ribellarsi al regime. Lei ne ha vari, di OC che sono andati nell’Arena per questo motivo.
La mia originalità in questi angolini sta morendo, juppy(?). Il fatto è che non so mai cosa dire, e finisco sempre per scusarmi per i tempi improponibili di attesa. In quest'ultimo mese non me la sono passata molto bene – lutto, compiti in classe a raffica, Aoristo – e non ho pensato né a pubblicare né a scrivere. Poi sto elaborando la mia prima originale per un concorso a scuola. Se volete farmi un piacere, passate a leggerla e magari lasciarci una mini-recensione (QUI). 
Come avrete notato, il rapporto tra Noah e Rebekah sta diventando sempre più stretto, complici tutti i miei tentativi di farli baciare andati a vuoto xD Scherzano, ridono, ma la stronzaggine di 'Bekah se ne esce tipo sempre. Sto pensando di aprire un'associazione per salvare il povero Messer Pecora dai continui maltrattamenti – e non sto parlando della zuffa che ha fatto con Ford ç__ç A proposito, prima o poi si prenderà la giusta rivincita, perché ho bisogno di dargli almeno una soddisfazione.
E niente... Giuro che non sparisco di nuovo, ma forse la prossima volta che mi farò vedere avrò un nuovo nick. Firmo con quello, nella speranza che non ci voglia molto.

Jiminy

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