Dark tales to fairy tipes

di Cyber Witch
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il medico della Peste ***
Capitolo 2: *** Il Cannibale ***
Capitolo 3: *** La fata e la Luna ***
Capitolo 4: *** La Dama di Fiori ***
Capitolo 5: *** Cleptomane d'Argento ***
Capitolo 6: *** Il macellaio ***
Capitolo 7: *** Il re senza corona ***
Capitolo 8: *** Il canto del cigno ***



Capitolo 1
*** Il medico della Peste ***


Il dottore della Peste





 

Spritzee adorava le fragranze. Non a caso era il Pokémon Profumo.
Usciva dalla sua tana sempre pregna di odore di gelsomino e lavanda alla ricerca di nuovi aromi.
I fiori di Baccarcadè avevano un odore tutto proprio e, nonostante servissero per indebolire le capacità dei tipo folletto, lei ne era attratta.
Si mosse goffamente verso gli arbusti con le gemme ancora da sbocciare e ne recise lo stelo. Li portò con sé, nascondendoli nella folta pelliccia che la ricopriva.
Scostò le fronde di alloro che coprivano la sua tana e inspirò con il naso pronunciato l’odore di erbe aromatiche dentro la piccola grotta.
Posò le gemme della bacca sopra un piccolo masso che aveva adibito a scrivania e sospirò. Sentiva che stava iniziando a piovere, magari avrebbe pure grandinato, e le piccole bacche si sarebbero tutte rovinate.
Osservò distrattamente i sacchetti che aveva rubato agli umani che passavano per quella strada, sempre più numerosi e sempre più goffi. Dentro vi riponeva le polveri che creava, per poi aggiungerci dell’acqua magica che Lapras portava ogni fine mese.
Spritzee osservò poi i panni pregni di sostanze aromatiche che aveva trovato nelle città degli umani.
La sua preferita era senz’altro quella che loro chiamavano “aceto”. Aveva un profumo forte ed acido, pungente, come piaceva a lei.
Lo adorava, ogni volta che riusciva ad intrufolarsi non vista nelle case della città si ricordava sempre di prenderne un po’.
Ed inoltre le era molto utile per nascondere la puzza acre del suo piccolo tesoro.
Spritzee sapeva – una di quelle conoscenze innate, di quelle che non hai bisogno di niente per imparare, come respirare – che le ossa immerse nell’aceto sbiancavano.
Doveva stare attenta, perché se le lasciava troppo a lungo poi diventavano molli e l’acido contenuto nel liquido le corrodeva, rendendo inutile il suo lavoro.
Aveva trovato quella strana passione per caso. Un umano senza Pokémon era caduto dal pendio scosceso che portava davanti alla sua tana. Un piede messo male, una roccia troppo appuntita ed il cranio dell’uomo si era frantumato.
Spritzee non seppe che fare, sul momento. Decise di spostare il cadavere, ma poi sentì quell’inebriante fragranza.
Il sangue che fuoriusciva ancora dal cranio aveva un aroma ferroso, differente dai delicati effluvi che era abituata ad odorare.
Era riuscita – con l’aiuto di Zangoose, che da sempre mal sopportava gli umani – a sezionare il cadavere e a posizionarlo dentro la sua tana.
Nelle varie tappe della decomposizione di esso, il Pokémon annusò e contemplò gli odori forti ed acri che giungevano dalla salma.
Si rese conto che erano troppo intensi per il suo naso delicato e decise quindi di coprili un po’ con il gelsomino e i fiori della Baccarcadè.
E poi arrivò l’illuminazione dell’aceto. Scarnificò le ossa e le mise a bagno nel liquido, osservandole ogni giorno diventare più bianche.
La sua collezione aveva quasi raggiunto i sei chilogrammi, rendendole difficile la gestione del piccolo spazio che aveva a disposizione.
Spritzee era molto orgogliosa del suo cumolo di ossa umane, le contemplava durante le giornate di neve, con il calore della terra che saliva.
Non aveva fatto menzione a nessuno di quello che stava progettando, nessuno doveva sapere quello che voleva fare. Un piccolo segreto, da mantenere solo con se stessa. Un progetto folle e particolare, che non aveva alcuna giustificazione.
Spritzee voleva uccidere.
Fin ad allora si era semplicemente limitata a raccogliere le ossa degli umani già morti. Si appostava davanti le finestre delle genti malate e vegliava la loro morte, con un’espressione apatica e senza emozioni.
Aspettava che l’uomo esalasse l’ultimo fiato e si avvicinava.
Aveva trovato un buon amico con cui condividere la faccenda, nonostante si fosse ripromessa di non farne menzione con nessuno. Rubavano la salma, lasciando un letto vuoto, una sedia scomposta una famiglia senza qualcuno...
La sezionavano, stando attenti a non rompere le ossa tanto preziose per Spritzee.
La carne non le interessava e la lasciava volentieri al suo compagno, contemplando le forme arrotondate delle rotule, la lunghezza dei femori, le cavità oculari e tutte le piccole falangi dei piedi.
I crani erano ottimi come contenitori, dato che – per lei – non avevano niente di particolare.
Le sue ossa preferite erano senz’altro le tibie, con la diafisi affusolata e le epifisi tozze. Le adorava e le trattava con sacrosanto rispetto, quasi come fossero reliquie.
Spritzee ormai aveva perso interesse nel vedere le persone morire da dietro una finestra, voleva sentire il cuore smettere di battere ed il respiro farsi sempre più fievole, lei voleva vedere la luce negli farsi fievole. Osservare lo stupore dell’umano nel constatare di essere stato ucciso da un Pokémon, una fatina che non avrebbe torto un capello a nessuno.
O magari – si ritrovava a pensare – ad un Pokémon vero e proprio.
Le ossa degli umani, alla fine, erano tutte uguali... avrebbe potuto cercare l’intera gamma di forme e dimensioni delle varie specie, scoprendone sempre di nuove. Annusare ogni sfumatura di odori che emanavano i cadaveri in putrefazione, le ossa immerse nell’aceto...
Sì, Spritzee voleva uccidere.
Non solo più umani, non solo più uomini.
Spritzee voleva conoscere.
Non solo più profumi, non solo più ossa.
Spritzee voleva vedere il dolore, e niente e nessuno avrebbe sospettato di un piccolo Pokémon rosa...




 

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Capitolo 2
*** Il Cannibale ***


Il Cannibale



 


 

Sylveon non era sempre stato un Pokémon selvatico. Prima era un Eevee di un Allenatore. Non ricordava come si chiamasse e non era nemmeno sicuro che fosse realmente un ragazzo.
Ormai aveva rimosso ogni singolo ricordo di quel dannato umano.
Era fuggito, una notte, la stessa notte in cui tutto era accaduto. Aveva corso, tanto e velocemente. Si era lasciato tutto alle spalle.
Si era ritrovato in quella foresta labirintica, dove non appena si cambiava direzione cambiava anche il sentiero su cui si camminava.
Aveva capito poi – solo dopo essersi fatto accettare – che era uno stratagemma dei Pokémon che ci vivevano per tener lontani gli umani.
Si era subito sentito a casa. Lì nessuno lo discriminava per il suo aspetto e tutti lo rispettavano. Aveva raggiunto la notorietà di eremita, evitava sempre la vita sociale che molti Pokémon intrattenevano nella foresta.
Sylveon non era nemmeno sempre stato così scontroso.
Come tutti gli Eevee era sempre molto felice di stare con il proprio umano, scodinzolando eccitato quando quest’ultimo lo tirava fuori dalla Pokéball.
Lo aveva allenato con amore, non risparmiandosi le coccole e le nottate passate assieme a parlare.
Il tutto si era rotto esattamente due anni dopo, quando l’Eevee che era si trasformò nel Sylveon che ormai conoscevano.
L’Allenatore gridò, si arrabbiò e pianse.
Non volevo qualcosa di femminile e rosa! Non ti ho allenato per farti diventare questo!” se li ricordava quegli urli. Quel calcio tirato in pancia.
Ma quello che fu più doloroso, per lui, erano gli sguardi di disgusto che gli aveva riservato.
Eevee aveva amato il suo umano, Sylveon non ne avrebbe più potuto vedere uno. Era fuggito, conscio che non avrebbe potuto essere più il benvenuto.
Sarebbe stato mandato via comunque, si disse.
Aveva corso così tanto, quella notte senza Luna. Non si era mai fermato, mai voltato. Non aveva mai ceduto.
Sylveon si era odiato, aveva visto semplicemente orrore quando per sbaglio era caduto davanti ad una pozzanghera.
Aveva pianto, osservando la notte lasciare il posto al giorno, in silenzio e lentamente. La rabbia era sfumata, il dolore no.
Aveva sentito le campane suonare le sei del mattino e aveva deciso, Sylveon, che quella era l’ora in cui anche lui sarebbe cambiato.
I fiocchi che aveva cosparsi sul corpo non erano più denigratori, ma ottime armi con cui strangolare.
Gli occhi azzurri che possedeva non erano polle di acqua cristallina, ma abissi in cui tuffarsi per poi non salire più a galla.
Si aperse un ghigno sul volto angelico di Sylveon, un ghigno che ogni singolo essere vivente avrebbe osservato prima di morire.
La sua tana era costantemente colorata di rosso scarlatto, sangue ancora fresco, budella lasciate a marcire, occhi che fissavano il vuoto e corpi il cui cuore non batteva più.
Sylveon era un assassino, ma si divertiva e nessuno gli aveva mai detto che quello non era giusto.
Sylveon si giustificava, quella notte di due anni fa il suo umano – che brutta parola era quella, così cacofonica – l’aveva ucciso, lui restituiva il favore.
Quando si osservava nelle pozzanghere si vedeva forte, il pelo un po’ ispido e poco curato, i fiocchi non erano più lindi, ma rossi. Rossi come il sangue che beveva, rossi come la carne che mangiava.
Rosso come il dolore che provava, ancora pungente, sempre vivo.
Aveva poi – per sbaglio – incontrato Spritzee. Quell’adorabile Pokémon selvatico, con il naso sempre in mezzo ai gelsomini.
La prima volta che l’aveva invitato nella sua tana non pensava che potesse riservargli quella piacevole sorpresa.
Fu anche lì tutto dettato dal fato. Scoprì per caso il cumolo di ossa che Spritzee conservava con dedizione.
Sylveon si interessò di trovare vittime e si offrì di fare il lavoro sporco, in cambio della carne di esse.
A Spritzee andava più che bene, essendo lei solamente interessata alle ossa.
I due avevano raggiunto una sorta di accordo, secondo il quale nessuno poteva far menzione dei loro affari, né tantomeno agire senza il consenso dell’altro. Per evitare guai.
Il Pokémon profumo, però, mostrò quasi subito disinteresse verso gli umani. A lui andava più che bene fino a quando poteva uccidere.
Ogni singola persona aveva un modo diverso di morire. C’era chi non se ne accorgeva, in genere erano i bambini. Erano sempre distratti dalla sua apparenza, troppo felici di aver visto un Sylveon per capire che lo stesso Pokémon voleva ucciderli e sbranarli.
Era diventato indifferente agli sguardi che pian piano perdevano lucentezza, diventando vacui e spenti. I bambini erano semplicemente piccoli adulti, più stupidi ed ingenui.
Alcuni umani cercavano di ribellarsi, di combattere. Ma poco potevano contro un Pokémon. Di loro preferiva le grida che doveva sopprimere con i suoi nastri. Li soffocava, generalmente. Ogni singola sfumatura del loro urlo era la più bella melodia che l’udito fino di Sylveon poteva sentire.
Acuto, grave, ancora acuto e poi silenzio. Quel silenzio finto che Sylveon amava. Quando l’umano smetteva di respirare lui udiva i fiati deboli di chi viveva sotto lo stesso tetto.
L’indomani non avrebbero più trovato nessuno. Nessuna salma su cui piangere e da seppellire.
A Spritzee, però, la passione era subito scemata. Diceva che le ossa erano tutte uguali, o più piccole o più grandi, ma non avevano alcuna differenza sostanziale.
Le sarebbe piaciuto – disse con una nuova luce negli occhi – provare le ossa dei Pokémon. Trovare altre forme a lei sconosciute ed ampliare la sua collezione.
Di Pokémon di altre regioni, di Pokémon ancora sconosciuti agli umani.
Sylveon subito non fu d’accordo. Se tutto ciò che voleva era semplicemente osservare delle ossa poteva benissimo andare a profanare qualche tomba, lui preferiva la carne umana.
Poi si rese conto di una cosa: Spritzee non voleva semplicemente vedere nuove ossa, lei voleva uccidere. Come lui.
Che avesse una motivazione differente, o che la motivazione non ci fosse proprio, non gli interessava.
Si accorse che anche il suo ex umano aveva preferito altri Pokémon a lui. Non era adatto, Sylveon.
E quale modo migliore per trovare la perfezione se non quello di andarla a cercare negli altri?
La carne dei suoi simili poteva essere gustosa come quella degli umani, lui non poteva saperlo, non l’aveva mai provata.
Acconsentì a scortarla verso la grande radura al centro della foresta, nella quale molti Pokémon si riunivano per passare tempo assieme o semplicemente per prendere il sole che nel fitto del bosco faticava a penetrare.
Scelsero con accuratezza la propria vittima: un Fletchling dispotico e noioso, che non faceva altro che disturbare la quiete della foresta con i suoi proclami inutili.
Lo osservarono per giorni, cercando di capire quando il momento giusto potesse essere e giunsero alla conclusione che l’unico modo per ucciderlo era quello che avevano usato con tutti gli altri. Nel sonno.
Nessuno ne avrebbe sentito la mancanza, nessuno avrebbe provato pietà per lui.
Si avvicinarono una notte di plenilunio, con i raggi della Luna che a stento illuminavano il percorso deserto. A Sylveon non fu difficile arrampicarsi fino al nido del Pokémon, come non gli fu difficile avvolgere i suoi nastri attorno al collo esile di Fletchling.
Morì in silenzio, non se ne accorse neppure. Sylveon lo scaraventò giù dal nido. Se per sbaglio non fosse morto la caduta sui massi l’avrebbe di certo ucciso.
Spritzee osservò catturata l’anatomia completamente differente da quella di ogni umano e si avvicinò silenziosamente alle piume, per odorarne la fragranza.
La vide che rabbrividiva quando sentì il profumo ferroso del sangue quasi aranciato alla luce pallida della Luna.
Con dedita attenzione Sylveon tranciò le gambe gracili del Pokémon, dandole subito a Spritzee ché non c’era niente da mangiare.
Passò poi alle ali e con cautela trapassò la cartilagine, cercando di non rovinare le ossa così care alla sua compagna.
Si lamentò quasi subito, Sylveon. Fletchling era troppo magro, non aveva niente da mangiare.
Spritzee rise, con quella risata innocente e cristallina, come se stesse semplicemente cucinando della bacche anziché sezionando un cadavere. Come se quello che facessero non fosse niente di sbagliato. Ma lo era veramente, sbagliato? Chi aveva loro proibito di fare tutto ciò? Nessuno.
E nessuno avrebbe mai fermato la loro opera.
Avrebbero assaggiato ogni carne di Pokémon.
Avrebbero visto ogni singolo osso che esisteva al mondo.
Avrebbero osservato ogni singola emozione che qualcuno provava nel morire e nel capire di essere stato ucciso da due Pokémon dal volto angelico e dall’aspetto innocente.
Spritzee fu contenta del loro bottino, lui un po’ meno dato che la sua pancia brontolava ancora.
Si sarebbe fatto bastare gli avanzi che aveva ancora nella sua tana, pensò, fino a quando non sentì una melodia dolce e che provocava in lui sonnolenza.
Decise di lasciare Spritzee da sola a contemplare la spina dorsale del Pokémon e di raggiungere la voce.
Quando si ritrovò in uno spiazzo nel quale la Luna piena si faceva osservare vide uno spettacolo che non avrebbe mai immaginato.
E capì che lui e Spritzee non erano i soli.


 

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Capitolo 3
*** La fata e la Luna ***


La Fata e la Luna


 
 




Clefairy aveva sempre vissuto in quella radura. Non aveva mai visto un umano. Ne aveva semplicemente sentito parlare attraverso i racconti degli altri Pokémon e da quel che dicevano doveva ammettere che non erano granché.
Zangoose – quel vecchio brontolone – continuava a ripetere che di loro non ci si doveva fidare, erano infidi. Continuava ad affermare che avrebbe preferito condividere la tana con un Seviper piuttosto che essere catturato da un umano.
Clefairy non ci dava molto peso, ormai era noto a tutti che Zangoose fosse irascibile e astioso verso chiunque, persino verso la propria immagine riflessa nella polla d’acqua della radura.
Doveva anche ammettere, però, che gli umani la incuriosivano. Avevano così tanti modi di dire una stessa parola. Fra Pokémon ci si capiva ad un solo sguardo, la comunicazione era molto ristretta, ma gli umani... loro gridavano, parlavano, sussurravano, cantavano.
Clefairy amava cantare, nelle notti di Luna piena di posizionava al centro della radura e inneggiava al satellite, con la sua voce delicata e quasi sussurrata.
Non voleva attirare nessuno, si diceva. Quei rituali erano per lei e per lei solamente, nessun altro avrebbe mai potuto anche solo capire perché facesse qualcosa del genere.
A dir la verità, nemmeno lei lo sapeva veramente. Si era scoperta un’ottima cantante e la sua natura la spingeva ogni volta a venerare la Luna piena. Lo faceva, semplicemente.
Lo amava, altrettanto facilmente.
Aspettava il plenilunio ogni mese, preparandosi febbrilmente per la notte che avrebbe speso nella radura ad osservare il cielo.
Il dramma capitava quando la Luna era coperta dalle nubi. Non riusciva a vederla, si disperava.
Senza Luna, come avrebbe mai potuto cantare? Come sarebbe riuscita ad adorarla?
Un plenilunio nuvoloso era, per Clefairy, peggio della morte. Era nella sua natura cantare alla Luna, lei doveva farlo. Sapeva che senza di esso non sarebbe riuscita ad andare avanti.
Successe una notte di quelle. Evidentemente il destino voleva veramente che tutti i Pokémon assassini nascessero in quel bosco scuro e pieno di insidie, dove i sorrisi di Luna erano spaventosi come i riverberi del coltello di un assassino.
Clefairy decise di cantare lo stesso, senza la sua amata, senza nessuno che potesse ascoltarla.
Quanto si sbagliava.
Qualcuno era lì per ascoltarla, anche se lo faceva inconsciamente.
Un gruppo di sei ragazzi, che stupidamente avevano pensato di sfidare il buio e la notte.
Clefairy cantava e loro ascoltavano, le note gentili della sua voce risuonavano nel silenzio del bosco e come erano belle.
Le orecchie dei giovani vennero cullate dalla melodia calma del Pokémon e senza rendersene conto si trovarono a cercarne sempre di più. Non bastava mai. Sempre di più.
Tremavano, ma avevano caldo e si spogliarono dei pesanti giacconi che indossavano.
Barcollavano, ubriachi della musica che Clefairy produceva.
Ridevano, altrettanto felici e per niente spaventati dall’idea della morte.
Clefairy li vide che giungevano e non s’azzittì. Continuò imperterrita, osservando gli occhi vacui dei ragazzi perdere sempre più lucentezza. Erano come la Luna! Come la sua amata nel cielo.
E quanto avrebbe pagato per vederla ogni notte? Aver la sicurezza che ogni singola notte ella ci fosse stata per ascoltarla cantare?
Quegli occhi erano la Luna. E lei aveva bisogno della Luna.
Morirono così. All’oscuro di tutto. Dodici bulbi oculari che erano delle piccole lune. Tutte per lei.
Pochi giorni dopo, però, gli occhi persero quel fantastico colorito lattiginoso.
Fu così che iniziò quell’interminabile catena di omicidi. E tutte le vittime si ritrovavano nella radura. Integre, ma senza occhi.
Due buchi rossi e neri, che davano sul vuoto. Le palpebre erano tranciate con malagrazia, il sangue che seccava e che formava lacrime che nessuna madre sarebbe stata in grado di asciugare.
Erano tutti giovani, le vittime di Clefairy, non oltre i vent’anni. Qualche coppia innamorata, qualche bambino che impunemente raggirava il coprifuoco... tutti attratti dalla melodia di morte del Pokémon.
In fondo fu anche grazie a questo che i Pokémon assassini si incontrarono.
Sylveon quella notte fu proprio attirato dalle musiche di Clefairy e si sa, la curiosità spinge a fare le azioni più pazze. Cautamente si avvicinò e osservò lo spettacolo più splendido mai visto fino ad allora.
Con quale brama Clefairy strappava gli occhi alle vittime in ginocchio? Che splendida tonalità di rosso carminio era il sangue che usciva da quelle cavità?
Era tutto così perfetto. La Luna, la canzoncina che Clefairy mormorava sottovoce e le vittime che si contorcevano in un’estati fatale e lussuriosa.
La cupidigia che aveva il Pokémon fata nel portarsi al grembo quelle piccole sfere biancastre? Perfetta.
Sylveon si chiese da quanto Clefairy facesse azioni del genere e intento a pensare fece un passo falso, e il Pokémon rosato si accorse di lui.
Bastò uno sguardo e si capirono.
Bastò un sospiro e divennero complici.
Spritzee raggiunse Sylveon e vide con somma gioia il corpo ancora scosso da spasmi che sanguinava steso sull’erba che si macchiava pian piano.
Si avvicinarono e osservarono l’umano contorcersi e morire, silenzioso e con un’espressione beata.
Non servirono parole ai tre per capire che quello era un’incontro voluto dal destino.
Pochi minuti dopo Clefairy ascoltava rapita i racconti di Spritzee sui Pokémon morti e sulle loro ossa e non appena fece menzione dei loro occhi vuoti ella ebbe un sussulto.
Erano tutti animati da uno stesso ideale. Trovare il diverso, provare ogni sensazione e non fermarsi.
Clefairy attirava le vittime, Sylveon le uccideva e Spritzee sezionava il corpo. Una squadra perfetta, ma ancora da migliorare.
Servivano ancora elementi, altrimenti l’orologio non avrebbe funzionato.
Ma la foresta era grande e di sicuro, qualche altro Pokémon assassino si sarebbe fatto vivo per uccidere qualcun altro.


 

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Capitolo 4
*** La Dama di Fiori ***


La Dama di Fiori






 
 
Florges era considerata la più bella nell’intera foresta e di questo se ne vantava. Il Pokémon amava svolazzare per i campi mostrando la sua chioma di fiori bianca come la neve.
Girava sempre con un piccolo gruppo di Flabebè e Floette  che, impressionate, ne seguivano le movenze aggraziate e femminee.
Se ne faceva vanto, ogni singolo giorno mostrava con eleganza la sua chioma di fiori rosa e ogni singolo Pokémon ne rimaneva affascinato. Le lunghe ciglia verde prato, il corpo sinuoso che si muoveva quasi come fosse un serpente, altrettanto silenzioso e letale.
La dama della foresta, degna regina di essa. I Floette al suo fianco l’attorniavano come uno stuolo di ancelle, arrivando persino a sacrificare il proprio fiore per raggiungere la sua bellezza. Molti umani venivano solamente per osservare la sua grazia, quasi come fosse un’attrazione turistica.
Florges questo non lo sopportava, lei doveva proteggere la foresta, non distruggerla con l’arrivo in massa di esseri goffi e rumorosi, spesso senza rispetto alcuno per le piante che erano appena nate, distruggendo tutto ciò che vedevano per puro divertimento.
Un giorno decise di allontanarsi dalla foresta, raggiungendo un piccolo paesello ai margini di essa. Non era molto grande, giusto qualche sparuta casupola, i bambini che in strada rincorrevano una palla, le madri in veranda ad osservarli.
Il Pokémon lo trovava quasi divertente, vedere come gli umani giocavano. La sua attenzione, però, venne attirata da una casa più piccola, isolata dalle altre. Era un po’ malconcia, il legno marcio del portico che minacciava di cadere.
Florges vi si avvicinò, trovando la porta cigolante semiaperta. La spinse, reprimendo un certo disgusto nel toccare la superficie deteriorata.
L’interno era pieno di libri, stipati senza cura. Una volta un Fletchling ne aveva portati un po’ alla radura, subito attirando l’attenzione di Espurr, lei non ci aveva dato molto peso.
Ora però, quei tomi così muffiti, sembravano volerla istigare ad aprirli.
Ne prese uno, dalla copertina senza decorazioni, di un marrone cuoio. Lo aprì e nella primissima pagina vide vergato a mano un nome che faticò a leggere.
Florges non sapeva propriamente parlare la lingua degli umani, ma leggere e decifrare le lettere non era difficile.
Quello che interpretò fu qualcosa come Erzsébet Báthory la contessa sanguinaria. Florges sbatté gli occhi un paio di volte, chiedendosi se le storie che aveva sentito sugli umani – sono tutti assassini le ripeteva Zangoose – fossero vere.
Siccome non pensava che qualcuno potesse mai entrare in quella baracca trovò un posto dove sedersi, posando il libro in grembo.
Saltò un paio di pagine troppo rovinate dall’umidità per capire cosa ci fosse scritto e capitò in una con un grosso e nero disegno di quello che sembrava un sarcofago.
Vi passò le dita vellutate sopra, sentendosi terribilmente attratta da quello che il libro chiamava con il nome di Vergine di Ferro.
Lesse, lesse tutto ciò che poteva leggere e quando finì le parole ricominciò a cercarne altre.
Quella donna sembrava essere capace delle follie più malate, Zangoose aveva ragione, probabilmente, tutti gli umani erano assassini.
Ma a Florges, quegli assassini, sembravano davvero in grado di divertirsi. Per un momento si sentì in colpa, lei doveva mantenere il suo candore, rimanendo bianca come la neve.
Prese con sé il libro sulla contessa sanguinaria, stringendoselo al petto, proprio dove nasceva quel fiocco nero che le fasciava i fianchi. Si guardò attorno, cercando con gli occhi se qualche umano potesse essere nei paraggi e quando constatò che non c’era nessuno si allontanò in fretta e furia verso la radura.
Nella corsa folle, folle come le azioni di Erzsébet Báthory, impigliò la propria chioma in uno di quei rami bassi, di quelli che si aggrovigliano ovunque, dei quali non ci si può liberare se non tagliandosi e graffiandosi.
Florges fece proprio questo: si tagliò. Una sottile linea rossiccia sulla sua guancia delicata, una ciocca di viticci bianchi, un gemito di dolore.
Continuò a correre, nonostante la guancia le facesse male e fosse dispiaciuta nell’aver perso un ciuffo della sua chioma.
Quando raggiunse la radura era già sceso il sole, quella notte era plenilunio. Se lo ricordava perché ogni mese qualcuno usciva di notte e cantava, le piacevano quei canti, tanto delicati quanto pungenti.
Florges non sapeva chi cantasse, ma non le interessava più di tanto.
Eppure quella notte lo vide, vide chi cantava.
Vide quella piccola Clefairy alzare il volto alla Luna, vide anche due ombre più distanti nascoste nei cespugli.
Il Pokémon osservò la scena e fu quasi tentata di intervenire quando due umani, un maschio ed una femmina, si avvicinarono a Clefairy.
Sembravano totalmente ignari del fatto che fosse pericoloso gironzolare nella foresta di notte e soprattutto del fatto che quattro occhi poco ben intenzionati li osservavano da un cespuglio.
La melodia di Clefairy s’interruppe improvvisamente, lasciando tutti i presenti col fiato sospeso.
Florges strinse a sé il libro polveroso, sentendo il cuoio della copertina piegarsi e fare qualche rumore strano, si preoccupò, perché pensava che Clefairy avesse potuto sentirla, ma poi quando vide che il Pokémon non si era interessata minimamente a lei tirò un sospiro di sollievo.
Poi Clefairy si rimise a cantare, facendo trattenere il fiato al Pokémon Giardino.
La sua guancia iniziava a fare male, e il sangue colava copioso. Non pensava che da un semplice graffio fosse potuto fuoriuscire così tanto sangue.
Un paio di braccia – o almeno pensava che fossero braccia – le presero il libro dalle mani, avvolgendole poi la bocca.
Solo dopo si accorse che erano lunghi e forti fiocchi, appartenenti a qualche Pokémon dal pelo irsuto.
Si girò, osservando il Sylveon che la osservava ringhiando.
Le pupille si dilatarono ed agì di istinto. L’Attacco Frustata che usò contro il Pokémon non era particolarmente forte, ma bastò per stupire l’avversario abbastanza forte affinché la lasciasse andare.
Il libro cadde quando i fiocchi di Sylveon si allontanarono dal corpo del Pokémon Giardino.
Mentre i due si scambiavano uno sguardo di sfida, Spritzee si avvicinò al libro, uscendo dal nascondiglio che usava quando Clefairy attirava le vittime.
La canzone era finita e la povera Clefairy non sapeva cosa fare per trattenere quei due ragazzini con un Klefki al loro seguito.
Sembravano essersi risvegliati dalla trance nella quale erano caduti e iniziavano a cercare di fuggire con le membra intorpidite.
Cadevano spesso, rompevano rami e facevano un gran chiasso e mentre Sylveon cercava di inseguirli i rami evocati da Florges furono più veloci.
Trapassarono la gola di entrambi, infilzandoli e facendoli aprire la bocca in un grido che morì presto, ma che svegliò un Hoothoot.
Sylveon rallentò la sua corsa verso le due vittime, infilando i suoi fiocchi dentro il torace di entrambi per estrarre il cuore ed essere sicuro che non si svegliassero più.
Spritzee brontolò qualcosa, che sembrava un rimprovero per Sylveon e i suoi metodi barbari che rovinavano tutte le ossa. Il Klefki al seguito dei due ragazzi si agitò, vedendo Clefairy avvicinarsi, con quei suoi occhi vuoti e circondati da occhiaie, le pupille piccole in un mare di bianco.
Florges, che si era appena resa conto di quello che aveva fatto, raggiunse i due cadaveri, ancora appesi per le gole ai due rami che si erano improvvisamente allungati per fermarli.
Allungò una mano di foglia verso il sangue che colava dalla gola di uno dei due, mentre Klefki si nascondeva dietro al Pokémon Giardino, sperando che lo proteggesse.
Un tintinnio di chiavi suggellò il patto che Florges non pensava mai di stringere.
Ora anche lei era un’assassina.
 








 

.:.Cyber-Spazio.:.

 Mi scuso tantissimo per il ritardo che possiamo definire abnorme ed oltremodo esagerato con il quale mi presento. La storia è un po' morta in seguito ad una mancanza di ispirazione - causata da situazioni poco gradevoli nella vita al di fuori di EFP -, con il progetto Courage è ripartita anche la mia voglia di fare.
Soprattutto considerando l'ultima maratona di Death Note che ho fatto vorrei essere stuprata dalla voce di Jacopo Castagna la voglia di scrivere di omicidi è ricominciata. In cantiere ho anche due capitoli di Nerium belli che pronti e una fanfiction un po' più spensierata, indovinante, una hotsummer. E io ho il potere, perché sappiate soltanto che io tengo stretto per gli organi genitali mio marito (ovvero quel disgraziato di Black)(hahaha, in realtà no, ma facciamo finta di sì), e vi basti sapere che se lo toccate vi lacero le carni e le metto in una scatoletta di tonno da dare alla caritas.

:)

Un inchino,
Cy.














P.S
Mi scuso se nell'immagine la chioma di Florges è già rossa. Capirete poi.

 

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Capitolo 5
*** Cleptomane d'Argento ***


Cleptomane d'argento



 

Quella nottata i due gemelli della famiglia in cui ospitava avevano deciso di fare un’avventura nel bosco poco lontano dalla città. Faceva sempre freddo, soprattutto di notte, quando il semplice riflesso del sole sulla Luna non riusciva a riscaldare.
In fondo, il riflesso di una cosa, non è la cosa stessa.
I due gemelli avevano quattordici anni, non erano gli umani più gentili che aveva incontrato e per questo mal sopportava l’ambiente famigliare nel quale era costretto.
Eppure, in un modo o nell’altro, erano riusciti a convincerlo, dicendo che siccome aveva lui le chiavi della casa, se i due se ne fossero andati senza che lui li seguisse, sarebbe stata colpa sua.
Klefki, allora, aveva pensato che poteva semplicemente tornare sullo scaffale, troppo in alto affinché i due potessero raggiungerlo, e non dare le chiavi a nessuno. Ed era intenzionato a farlo, fino a quando uno dei due non gli fece una proposta davvero molto allettante.
“Ti compreremo delle chiavi, tutte quelle che vuoi” aveva detto, sussurrando, il gemello che tentava di prenderlo.
A Klefki piacevano le chiavi, era inutile dirlo. Tintinnavano, erano luccicanti e portavano allegria. Allora aveva ceduto. Non poteva resistere, non alle chiavi.
Ognuno aveva la propria debolezza, la sua poteva essere particolare, ma non era nemmeno tanto strana considerando la sua natura.
Klefki era nato per quello: tenere con sé le chiavi, proteggerle da chi volesse rubarle. Ma se lui stesso, colui che doveva proteggere l’oggetto, era anche colui che voleva rubarlo, cosa sarebbe potuto succedere?
Preso da queste riflessioni, il Pokémon non si rese conto che i due gemelli l’avevano praticamente raggiunto e stavano tentando di acchiappare la chiave della porta.
“Dai, te ne porteremo tante altre!” aveva insistito uno di loro.
Klefki, troppo allettato dall’idea di avere con sé un’altra chiave, era sceso dallo scaffale troppo in alto e aveva dato la chiave ai due ragazzi, ricevendola subito indietro.
Li aveva seguiti fino nella foresta, nonostante il freddo i due sembravano stare bene. Seguivano quella strana melodia, che li aveva attirati. Era concentrato sulla chiave nuova che avrebbe ricevuto per rendersi conto di ciò che stava succedendo.
Tutto era accaduto talmente in fretta che non se ne era nemmeno reso conto. I due ragazzini sgozzati, appesi a due rami fuoriusciti da chissà dove.
Vide quei tre Pokémon dagli occhi stralunati avvicinarsi, seguiti da una Florges molto bella. Si nascose dietro di lei, sperando che i tre non gli volessero fare del male.
Anche se viveva al sicuro, in città, aveva comunque sentito delle voci che parlavano degli assassini nel bosco.
Florges toccò con le sue mani di foglia il sangue dei due ragazzini, mentre lui tentava in tutti i modi di nascondersi.
Si mosse troppo in fretta e le sue chiavi tintinnarono. Fu un lampo.
I fiocchi di Sylveon raggiunsero i due gemelli e, con una forza impensabile per un Pokémon del genere, li aprirono in metà.
Gli schizzi di sangue raggiunsero la chioma candida del Pokémon Giardino, macchiandola in più punti. La vide deglutire, osservandolo dall’alto.
Spritzee, fluttuando verso i due cadaveri lacerati, sembrò dispiacersi un po’. Si lamentò con Sylveon del fatto che la loro gabbia toracica fosse praticamente inutilizzabile.
Klefki non capiva a cosa si riferisse, ma affondò ancora di più contro il corpo morbido e delicato di Florges.
Il terzo Pokémon raggiunse i due ragazzini, stesi inermi per terra, inclinò la testa e delicatamente, con un sorriso di superiorità sul volto, infilò le dita artigliate dentro le cavità oculari.
Il Pokémon Portachiavi emise un sibilo, spaventato, ma al contempo attirato, dalla scena che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi.
Clefairy sembrava totalmente assorta nel suo piccolo mondo fatto di retine e pupille, mentre coi suoi occhi cerchiati di nero osservava quelli castani dei due gemelli, nelle sue zampe.
Sylveon e Spritzee, intanto, cercavano un modo per trascinare i due ragazzini lontano dal percorso, e Klefki e Florges li osservavano stupiti.
Compievano il loro lavoro come se l’incontro con i due non fosse mai successo. Sylveon si fermò e ringhiò contro Florges, come in una richiesta molto sgarbata di aiuto. Florges si riscosse dal torpore e con un semplice movimento di mani  fece spostare alcuni rami che presero i due ragazzini per le gambe e li appesero a testa in giù.
Spritzee svolacchiò fino alla pancia scoperta di uno dei due e pizzicò la pelle delicata, ferendola e facendola sanguinare. Il liquido cadde, raggiungendo la terra.
Il Pokémon osservò Sylveon, sorridendo graziosamente. In fondo, non avevano ancora visto cosa succedeva se qualcuno non aveva più sangue in corpo.
Klefki, guardando i due gemelli he una volta facevano parte della sua famiglia appesi così, senza vita, sentì una strana soddisfazione entrare nel suo corpo. Avevano due crateri al posto degli occhi, la bocca era aperta e il collo minacciava di rompersi per la posizione innaturale nella quale era costretto, ma Klefki era affascinato.
Certo, non avrebbe trovato una chiave come ricompensa, ma quella soddisfazione malata, forse, era molto meglio.
Le sue chiavi tintinnarono.
Poteva portarli al villaggio e avere altre soddisfazioni.
 




 




 


.:.Cyber-spazio.:.

attenzione: 
i fatti qua raccontati potrebbero differire dalla realtà.

Mi dico: Aw, ho ancora un po' di tempo prima di venerdì sera, rifinisco il capitolo dopo!
*un drago**no, un velociraptor**anzi, meglio un ninja assassino**ecco sì*
*un ninja assassino irrompe nella mia casa e mi proibisce di rivedere il capitolo e quindi rimane un po' troppo corto e scrauso*

E poi niente, mia mamma è tornata col sushi e quindi il ninja assassino si è fermato gentilmente a mangiare da noi, ma essenzialmente è per quello che non sono riuscita a rifinirlo. Sì, quello.

*va a piangere sulle foto di Xiumin*

Un inchino,
Cyber.

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Capitolo 6
*** Il macellaio ***


Il macellaio





 

Slurpuff non parlava. Raramente si muoveva. Slurpuff era rinchiuso da tempo in quella casa, quella con il tetto rosso e il porticato di legno.
Non era una vera casa, più che altro un negozio con dentro una stanza per dormire. Un pasticcere lo aveva salvato dalla pioggia, quando ancora era uno Swirlix, e la sua soffice pelliccia rosata era tutta un grande disastro appiccicaticcio.
 Viveva da re, l’unica cosa che doveva fare era tenere sott’occhio i vari composti per i dolci, ma Slurpuff aveva imparato col tempo che gli bastava rimanere vicino ad essi affinché non perdessero la loro fragranza. La sola vicinanza del Pokémon ai dolci sembrava rendere questi ultimi ancora più buoni e appetibili.
L’uomo che lo ospitava non pretendeva molto da lui: gli bastava che i suoi dolci fossero apprezzati e tutto sarebbe andato bene.
Slurpuff, però, non era sempre così accondiscendente. C’erano periodi nei quali si rifiutava di uscire dal letto, dove la pigrizia la faceva da padrone e si nascondeva dagli occhi del pasticcere che, in fondo, pretendeva da lui solo l’essenziale.
Il problema di Slurpuff non era le pretese, nemmeno troppo alte, del proprietario del negozio. Il problema di Slurpuff era trovare un buon motivo per poterle soddisfare.
In fondo, se solo avesse voluto, sarebbe potuto vivere bene anche senza il pasticcere. Fu così che un giorno, non tanto diverso da quello in cui l’uomo lo aveva trovato, Slurpuff riuscì a prendere l’iniziativa.
Davvero divertente ciò che la procrastinazione può far fare a qualcuno: preferire la fuga ad una semplice mansione.
Slurpuff non fece molto, sgattaiolò fuori dalla stanza ancora prima che il sole sorgesse. Sapeva che l’uomo si svegliava ai primi albori del mattino, ma sperando di essere abbastanza silenzioso, sarebbe riuscito ad eludere il pasticcere.
Ci riuscì, nonostante i suoi passi goffi e ben lungi dall’essere silenziosi. Forse il pasticcere si era svegliato, forse era a conoscenza del suo piano per evadere. Eppure non aveva fatto niente. Slurpuff non seppe ben identificare cosa provasse nel pensare certe cose.
Gli faceva venire una strana sensazione allo stomaco, diversa da quella che provava quando il pasticcere lo sgridava. Era rabbiosa, piena di furia.
Non aveva mai sentito qualcosa di simile, eppure fomentò quel sentimento fino a quando, accecato dalla rabbia, non si ritrovò nel mezzo di una radura.
Era uscito dalla cittadina e il sole aveva appena iniziato a sorgere. Nel bosco non ci era mai stato, non perché gli fosse proibito andarci – o forse era zona vietata, sinceramente Slurpuff non aveva mai fatto caso a quello che l’uomo gli diceva – ma semplicemente perché era troppo distante dalla comodità del letto di casa.
Forse quello gli sarebbe mancato, ma era troppo arrabbiato – troppo vivo – per poter pensarci in quel momento.
Semplicemente spinto dal pensiero del pasticcere che aveva preferito lasciarlo andare, Slurpuff, si inoltrò ancora più a fondo nella radura.
Si sarebbe coricato sopra un masso, avrebbe chiuso gli occhi, e avrebbe aspettato che la morte arrivasse. Dormire aspettando la fine, quello gli sarebbe piaciuto.
Una cosa che non gli sarebbe piaciuta, invece, era la sensazione dei vermi che si avvicinavano al suo cadavere. La carne dolce e profumata del suo corpo sarebbe marcita, andata in putrefazione e gli animaletti necrofagi avrebbero fatto della sua salma la propria casa.
Il delicato profumo di zucchero filato sarebbe diventato nauseabondo, troppo dolce e poi, dopo qualche settimana, un tanfo che avrebbe impestato la radura.
Il suo sangue, denso come marmellata alle fragole, sarebbe fuoriuscito dai buchi che i vermi avrebbero creato per mangiargli le interiora.
Oh, Slurpuff si sarebbe mangiato da solo se solo avesse saputo quanto dolce fosse la sua consistenza. I suoi pensieri lugubri riguardanti la sua morte non lo sfiorarono più di tanto, sarebbe stato insensibile a ciò che sarebbe avvenuto al suo corpo, quindi non si preoccupò oltre.
Senza accorgersene, proprio nello stesso modo secondo il quale era entrato nel bosco, si trovò a salire delle scale scavate nella roccia. Il Pokémon non sapeva dire se queste fossero state create dalla natura o dall’uomo, tanto erano perfette, quanto amalgamate con il resto dell’ambiente.
Le salì goffamente, ritrovandosi poi sopra ad un altipiano ricoperto di cespugli scuri ed erba troppo alta affinché si potesse vedere oltre il proprio naso.
Sentì un fruscio fra le fronde di qualche albero, ma non si preoccupò più di tanto. Era troppo stanco per pensare alle conseguenze della sua fuga e gli unici pensieri che gli sfioravano la mente erano quelli riguardanti i vermi che sarebbero venuti a mangiarlo una volta deceduto.
Non pensava certamente che sarebbe successo davvero. Non pensava davvero alla sua morte, non lo sfiorava minimamente la paura di morire in quella foresta.
Perché non gli importava più di tanto, si sarebbe seduto sopra ad un masso e avrebbe aspettato che qualche Pokémon, attratto dalla sua dolce fragranza, si sarebbe avvicinato, per ucciderlo e mangiarlo.
Sperava solamente in una morte indolore.
O forse no. Forse non sperava in niente, era troppo accidioso anche solo per sperare di sopravvivere. La vita non faceva per lui: troppe cose da tenere sotto controllo, troppe emozioni e troppo tutto.
Slurpuff stava bene da solo, in silenzio, coricato sopra quel masso. Come morto.
Incredibile come un desiderio così radicato nell’inconscio di qualcuno possa avverarsi. Può capitare raramente, ma Slurpuff fu certo di sentire il suo fiato venir meno, la sua vista offuscarsi e le sue membra intorpidirsi, prima di chiudere gli occhi davanti ad un ghigno e due occhi arrossati.
Stava morendo dissanguato, sarebbe stato ancora cosciente per percepire il dolore. Eppure, nonostante fosse sicuro di star per morire divorato da qualcuno, si sentì trascinare verso un fosso.
Non provò a ribellarsi, sarebbe stato inutile perché non era abbastanza forte per porre resistenza a chiunque lo stesse trascinando via.
La vista si sfuocò e per un attimo, assaggiò quello che significava morire.
 
Quando si svegliò Spritzee era al suo fianco, fluttuando tranquillamente in mezzo ad ossa appese con viticci, barattoli di vetro sporchi e trovati chissà dove e sangue.
Tanto sangue, tante ossa, tanti barattoli pieni di interiora e occhi che lo osservavano. Sylveon era accucciato nell’angolo, mentre riposava gli arti. Era ancora sporco del suo sangue color fragola, quindi Slurpuff aveva supposto che fosse stato lui a trascinarlo fino in quella tana.
Florges era seduta graziosamente sopra un piccolo ceppo di betulla, con Klefki in grembo tutto tremolante. Il Pokémon Giardino era composto e altero, la sua chioma a tratti rossa e a tratti bianca.
Slurpuff riuscì ad alzarsi, solo per venir bloccato di nuovo a terra da una mano sconosciuta. Era Clefairy, gli occhi spiritati come se non avesse dormito abbastanza.
Con un debole fischio di Clefairy, Sylveon si svegliò e scrollando i residui di rosso dalla sua pelliccia irsuta si avvicinò.
Con i suoi nastri, ed il ghigno sempre presente, prese due barattoli, obbligando Spritzee a spostarsi con un brontolio di disapprovazione.
Sylveon si avvicinò, gli occhi arrossati e stanchi, pieni di rabbia ma anche di curiosità.
Klefki tremava e Florges restava stoica ad osservare la scena del Pokémon quadrupede che si avvicinava a Slurpuff. Lo sormontò con la sua stazza, e gli aprì a forza la bocca.
Ciò che assaggiò non gli piacque per niente: sapeva di ferro, di terra ed era viscido. Lui non era abituato a certi sapori così forti.
A lui piacevano i dolci.
Cercò di ribellarsi, cercò in tutti i modi di chiudere la mascella, ma ciò lo obbligava a deglutire.
Non capiva perché gli stessero facendo certe cose, ma mano a mano che ingoiava interiora e carne umana, e di Pokémon e di qualsiasi altro essere vivente, Slurpuff iniziava a capire.
Volevano corromperlo.
Corrompere la sua dolcezza, la sua morbidezza. Il suo sangue di fragola e il suo dolce profumo di zucchero filato.
E Slurpuff era troppo pigro affinché potesse opporre resistenza. 



 



 



.:.Cyber-spazio.:.

Giuro che rispondo alle vostre recensioni, fatemi solo mettere a posto i pezzi della mia vita e poi arrivo. Lo giuro.

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Capitolo 7
*** Il re senza corona ***


Il Re senza Corona





 

We, fermati un attimo: in questo capitolo
 è presente un mio headcanon che dovrebbe anche spiegare
(almeno secondo me) la presenza dei Pokémon tipo folletto, quindi
non c’è nulla che si basi su fonti ufficiali, ma solo sulla mia fantasia, okay. E soprattutto
il grande “what if” che beh beh capirete.
 
But wait, there’s more: siccome la lingua italiana non
è così furba da avere aggettivi neutri, in questo
capitolo tutto ciò che riguarda aggettivi e pronomi è al maschile,
ma il Pokémon non ha sesso. Giusto per avvisarvi.

 
 

Da solo in quella caverna aveva avuto il tempo di osservare, e di pensare.
Una cosa che aveva capito era che non gli piaceva rimanere rinchiuso in spazi troppo stretti, un’altra era che non poter reagire se non per seconde vie era molto frustrante ed un’altra ancora era che osservare poteva rivelarsi molto divertente.
Certamente, rimanere fermo eoni in un buco non era certamente divertente, nemmeno se il farlo avesse contribuito alla calma relativa del mondo in cui vivevano.
Lui e Yveltal erano rinchiusi in quella calma da millenni, oramai iniziavano ad essere solamente leggende.
“Se non vedo non credo” stava diventando il motto principale di tutte le persone di quella regione, un poco alla volta il suo essere veniva dimenticato.
Xerneas non era solamente portatore di calma e pacificatore di popoli. Una volta era stato grande fautore di quella guerra durata anni fra Pokémon ed umani.
Doveva proteggere i propri figli, nasconderli agli occhi degli uomini.
I Pokémon Folletto erano ancora troppo ingenui per essere compagni di vita di esseri così violenti e goffi. Vissuti all’ombra, nascosti in foreste e caverne, si erano limitati ad osservare.
Xerneas aveva dato loro rifugio, quando ancora la sua natura era buona e generosa. E poi erano arrivati gli altri, quelli che per forza di cose avevano perito a causa degli umani.
Altri Pokémon che desideravano protezione. E lui non poteva non darla, non poteva rifiutare aiuto ad esseri così sofferenti.
Diede loro ciò che necessitavano e pian piano il loro corpo mutò. Ottennero abitudini e poteri pari a quelli dei Folletti e in cambio insegnarono a quest’ultimi come difendersi.
Dopo la guerra Xerneas ingaggiò una battaglia con Yveltal,  nella quale le loro due potenze di annullarono. In realtà nessuno ancora sa come esattamente i due si siano annullati a vicenda, ma alla fine l’unica cosa che rimase di loro furono due bozzoli interrati.
E in quel momento osservava, rinchiuso sotto una foresta, i figli dei suoi figli vendicarlo.
Quando aveva visto per la prima volta quella piccola Spritzee così affascinata dalle ossa si era fatto due risate. Non credeva che la cosa potesse degenerare così tanto.
Era arrivato Sylveon, Pokémon dall’anima corrotta che aveva subito conquistato la sua dolcezza ed empatia. Spritzee non capiva che stava uccidendo esseri viventi, ma forse quello era per il bene di entrambi.
Dopo si era aggiunta Clefairy, una di quei Pokémon che avevano chiesto riparo a lui. Non si ricordava di aver mai ascoltato voce più dolce, né ossessioni così potenti. Era seguita Florges, così bella e delicata.
Si ricordava del petalo da cui era nata: una rosa bianca con le spine così aguzze da far desistere tutti dal toccarla.
Klefki era arrivato per caso, ma da quello che poteva notare era molto più utile di quello che sembrava. Così piccino e dall’apparenza innocuo attirava più vittime di quanto la voce di Clefairy potesse fare.
E infine Slurpuff: corrotto a forza e trasformato in un mostro.
Era un esperimento, quello lo aveva capito, reso insensibile al dolore e alla compassione. Una macchina per uccidere.
Xerneas, una volta, era stato portatore di pace. Ma ora, in quella condizione, era solo invidioso.
Non poteva fare niente, bloccato, non vedeva la luce del sole né i raggi quieti della Luna.
Invidioso degli umani, che avevano acquistato così velocemente la fiducia dei suoi figli.
Invidioso dei suoi figli, che avevano la libertà di fare ciò che volevano.
E quando si creò una crepa nel suo bozzolo la sua invidia crebbe. Abbastanza grande da fargli credere in una via d’uscita, ma troppo piccola affinché potesse liberarsi.
Poi arrivò quell’uomo, dai capelli fulvi e l’atteggiamento superbo, prendendo il suo cuore e portandolo via dalla sua foresta.
Di notte riusciva a percepire i farneticamenti dell’uomo, parlargli di come il mondo perfetto si sarebbe creato solamente grazie alla morte degli uomini e dei Pokémon. Ripartire da zero, ricominciare.
Xerneas non lo capiva, sinceramente, ma cercava di rimanere di parte. Avrebbe sfruttato la sua unica buona occasione per salvarsi.
Era in debito con i suoi figli, che per anni e anni avevano tenuto la sua memoria viva, e inconsapevolmente lo avevano anche vendicato.
Tutte quelle morti, anche se solamente fatte per scopo personale e forse anche per curiosità, erano in realtà la sua personale vendetta.
Avrebbe marchiato a fuoco il suo nome con le opere dei Pokémon corrotti, assassini senza compassione.
Uomini e Pokémon lo avevano sottovalutato per anni, perché anche il Pokémon più calmo può diventare il più violento quando il seme del peccato si insinua dentro di esso.
Sette Pokémon, per altrettanti peccati.
Riusciva a vedere la gola di Spritzee, che voleva sempre di più, sempre più ossa, sempre più conoscenza.
Percepiva l’ira di Sylveon, così maltrattato dalla vita che ora la maltrattava in cambio.
Sentiva la superbia di Clefairy, che non ammetteva che nessun altro potesse cantare bene come lei, che guardava tutti con i suoi occhi vuoti.
Quasi toccava la lussuria di Florges, tanto bella quanto corrotta dentro. Sola ma desiderosa di compagnia.
L’avarizia di Klefki era tanto palese quanto scontata, tutto per sé, quanto si divertiva a raccogliere oggetti luccicanti dai cadaveri appesi per i calcagni.
E l’accidia di Slurpuff, trasformato in un mostro proprio a causa della sua pigrizia. Se si fosse mosso gli astri non si sarebbero mai allineati.
Lui ora non starebbe per fuoriuscire da quel bozzolo di invidia che per anni lo aveva rinchiuso e non si sarebbe ricongiunto ai suoi figli prediletti, per vivere di nuovo.
Per toccare e respirare e rendersi conto che il dolore che poteva infliggere non aveva nulla a che fare con il suo aspetto o la sua natura.
Xerneas poteva fare del male.
E l’uomo dai capelli rossi era solamente una piccola vittima per un bene più grande.
Il suo.

 


 







 


.:.Cyber-Spazio.:.
[sto cercando il simbolo dello yen per scrivere "yoo" in maniera swag, ma ho il culo pesante e quinti niende]
Allora, questo è il penultimo capitolo, o almeno l'ultimo + epilogo.
Mi scuso per il ritardo, davvero mi dispiace, ma i problemi di salute sono i problemi di salute e io ci nuoto dentro perché ehehe perché evidentemente non sono stata brava nella mia vita passata.
Quindi sì, il prossimo capitolo è l'ultimo, ovvero l'epilogo. E qua si spiega anche un po' l'idea base di tutta la storia e se non la capite sticazzi :D
E niente, io vado a baci.
Un inchino,
Cy.

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Capitolo 8
*** Il canto del cigno ***


Il canto del Cigno



 


 

«Ma come è possibile? Che siano successe tutte queste cose, intendo»
Guardai la donna posare la sua penna sopra il suo blocconote, portarsi gli occhiali sulla fronte spostando la sua frangia castana.
Gli occhi erano perplessi, le sopracciglia corrucciate e la gamba si muoveva nervosamente. Le dita della mano destra ticchettavano, le unghie laccate di rosso.
Era evidente che quella donna non appartenesse a quest’ambiente.
Il tailleur grigio che indossava era decisamente troppo elegante per qualcuno che si svegliava presto la mattina e andava a lavorare nei campi, le mani curate e senza calli, la carnagione lattea e le labbra soffici.
Niente rughe dovute al sole, né bocca screpolata a causa del freddo. Nessuna lentiggine o imperfezione, niente che facesse pensare che quella potesse aver vissuto in un pesino di campagna per tutta la vita.
Eppure l’avevo vista, non che abbia vissuto così a lungo, né che possa sapere di ogni singolo abitante di questo buco sperduto, ma l’ho vista.
Foto appese ai muri dell’ufficio del sindaco, stessi capelli castani e occhi verdastri, magari la faccia era più pingue in quelle immagini, ma indubbiamente aveva gli identici lineamenti del padre.
Scrollai le spalle, sistemandomi meglio la tracolla.
«Sono storie che mi raccontava mia nonna, non posso certamente garantire per la loro veridicità, Signora»
«Signorina» mi corresse.
Quale differenza ci fosse, non l’ho mai capita. E non mi è mai servito per andare avanti in questa vita, tuttavia annuii e mi corressi sottovoce.
«Ti dispiace se ti faccio qualche altra domanda?» mi chiese, sistemando il blocconote nella sua borsa e mettendo la penna in una tasca della giacca.
Scrollata di spalle.
«È okay»
Annuì anche lei, chiedendo se fosse meglio dirigersi verso un posto più riparato dal vento freddo che tirava quel giorno. Non che gli altri giorni fosse diverso, ma le dissi che casa mia non era tanto distante e che potevo offrirle un the.
«Sarebbe molto gentile da parte tua» mi sorrise, e nonostante sembrasse sincero riuscii a percepire l’ansia e il dubbio dietro di esso.
Quando arrivammo a casa mia le scostai la porta, facendola entrare per prima. Non sapevo se quello fosse il comportamento che il bon ton volesse, ma siccome la donna non si fece problemi entrai dopo di lei.
«Si accomodi pure, Signorina» le indicai un paio di poltrone nel salotto rustico appena dopo l’entrata e lei annuì come per trovare coraggio.
«Vuole il the?»
«Sarebbe molto gradito, grazie» mi rispose, accavallando le gambe e tirando fuori il suo blocconote.
Quando tornai con due tazze piene di liquido fumante lei ne prese un sorso, per poi posarla sopra il tavolo da caffè con un orribile centrino cucito a mano.
«Allora, che domande voleva farmi?» le chiesi, scaldandomi le mani con la tazza.
Avevo ancora l’uniforme della scuola, ma non pensavo potesse interessare qualcosa a quella donna quindi non mi tolsi nemmeno la giacca.
Mia madre aveva probabilmente spento il riscaldamento prima di uscire quella mattina, quindi la casa era ancora fredda e illuminata di una luce del pomeriggio, che sembrava quasi alogena.
«Da quanto ti vengono narrate queste storie?» mi chiese, guardandomi direttamente negli occhi.
«Uhm... ho diciassette anni e da che ricordo le ho sentite da quando ero piccolo... all’incirca da quando avevo tre anni»
«Non hai nessuna idea di quanto la tradizione sia iniziata?»
«Probabilmente tre generazioni fa, non lo so. Come mai le interessa? Non me lo ha ancora detto»
La vidi muovere una gamba nervosamente, alzando il piede da terra e facendo battere il tacco della scarpa con un ritmo sconclusionato.
«Sto scrivendo un articolo sulle tradizioni dell’est...» rispose senza troppo interesse. Quasi come se la cosa non fosse realmente importante.
«Sono sempre state riguardanti la morte?»
Scrollai le spalle.
«Da quel che ricordo»
«Le racconterai ai tuoi figli, un giorno? Per tradizione?»
«Non so» risposi semplicemente.
«È un’ipotesi, non sto implicando il fatto che tu debba avere figli» mi sorrise gentilmente, come se quello fosse il problema principale.
Scrollai la testa.
«Non è quello che intendevo, Signorina. Non so se voglio raccontare quelle storie ad un mio possibile bambino»
Presi un altro sorso di the, mentre la giornalista corrucciava le sopracciglia.
«Come mai?»
Alzai le spalle, posando la tazza di the sopra il tavolino al centro del salotto.
«Ho visto quello che fanno alle persone. Non continuiamo a raccontarle perché fanno parte della nostra tradizione, né per superstizione. Continuiamo a raccontarle perché abbiamo paura e perché sappiamo»
«Cosa sapete?»
«Che i Pokémon non sono sempre dalla nostra parte» le dissi, lanciandole un’occhiata da dietro un ciuffo di capelli ribelle.
«Suvvia, credi davvero che quelle favole siano vere?» ridacchiò nervosamente.
«Sì»
«Sì?»
«Sì» ripetei di nuovo. Mi alzai per posare la mia tazza nel lavabo e poi tornai a sedermi sulla poltrona.
«Anche voi avete visto quello che è successo con Elisio e il Pokémon Leggendario, i Pokémon non stavano impazzendo, stavano aprendo gli occhi»
«Oh, tutto quel disastro era accaduto solamente perché il Team Flare aveva iniziato a sfruttare i Pokémon, non crederai davvero che ci possano odiare?»
«Perché no? Se io posso odiare qualcuno come potrebbero non farlo loro?»
«Ma addirittura assassinare...?» la giornalista scosse la testa.
«Vale lo stesso. Io posso uccidere qualcuno, loro possono farlo ancora più facilmente e senza essere sospettati»
«Ma quindi, tutte queste sette favole venivano raccontate per cosa?» sviò l’argomento.
«Presumo per ricordare, per non farlo accadere di nuovo, perché le anime corrotte e putrefatte esistono e i peccati non sono estranei a nessuno»
«Parli molto bene per essere un diciassettenne che frequenta una scuola statale» borbottò sottovoce.
Scrollai le spalle, di nuovo.
«Abbiamo finito?»
«Un’ultima domanda, più tecnica che altro. Queste storie venivano raccontate ognuna un giorno diverso?»
Annuii.
«Beh, abbiamo finito allora. Grazie mille per la collaborazione»
«Non si preoccupi» mi alzai e l’accompagnai alla porta.
Nonostante portasse un paio di tacchi ero comunque più alto di lei.
«Le dimenticherà anche lei, vero?»
«Che cosa?»
«Le favole. Le dimenticherà, giusto?»
La giornalista scrollò le spalle, sistemandosi la borsa sulla spalla.
«Sono solo favole»
Annuii.
«Suppongo di sì. Faccia attenzione mentre torna a Luminopoli»
Mi sorrise, come se avesse interpretato ciò che avevo detto come un semplice augurio di buon rientro.
Quando fu lontano, quando ebbe girato l’angolo, entrai in casa.
Dalle scale scese il Sylveon di famiglia; aveva il pelo più irsuto e folto a causa della vita che faceva: sempre fuori a rincorrere Rattata.
«Ehi» lo salutai, chinandomi per carezzargli dietro le orecchie.
Mi guardò con i suoi grandi occhi azzurri, che sembravano tanto innocenti.
«Dimenticherà anche lei, dimenticano tutti» gli sussurrai, mentre strusciava il muso nel mio palmo.
Grattai via una crosta da dietro il suo orecchio e il pelo bianco sopra il suo mento era leggermente sporco di rosso.
«So che ti stava antipatico, ma potevi ridurti a misure meno drastiche» ridacchiai, osservandolo pulirsi il pelo con la lingua lunga e quasi biforcuta.
Dimenticherà, mi dissi, dimenticano tutti e per questo tutto ricomincerà.




 



 



Deh! Qua non è Cyber, sono Weep--
Cyber sfortunatamente non sta molto bene e quindi per evitare ulteriori ritardi ha deciso di darmi il compito di pubblicare ;) Quindi, in caso recensiate [o abbiate recensito] sappiate che Cy non risponderà prima che torni a stare bene!
Scusate per l'inconveniente, Cyber tornerà più potente che mai C:
com'è che dice lei?
Un inchino,
Weep.

P.S: ecco un piccolo messaggio da parte di CyCy.

Carissimi ragazzi e ragazze, prendo le sembianze di Papa Franceso per dirvi: grazie.
Mi rivolgo soprattutto al pubblico di Pokémon Courage, che nonostante il mio continuo ritardo e le complicazioni [ a mia discolpa posso dire per causa maggiore ], hanno continuato a leggere la mia storia. Non so quanto possiate averla goduta, ma questa storia significa davvero per me.
L'idea era di mio fratello, con la sua fissa per Tim Burton e proprio grazie a lui ho trovato queste immagini. Alcune cose sono andate male, e queste cose mi hanno fatto solamente legare di più alla mia storia. È piena di imperfezioni, se probabilmente me la sottoponessero per essere scelta come storia d'esordio, storcerei il naso e direi che "magari è anche una bella idea, ma non merita".
Quando ho iniziato a scrivere questa storia ero relativamente felice.
Ho smesso a metà, perché non riuscivo più a portarla avanti, e poi Andy mi viene a dire che "Senti, qua dobbiamo pubblicare qualcosa di tuo" 
E io sono "Perché no? Riprendiamola, facciamo vedere che non me ne frega niente":
Così ho continuato.
Dovete sapere una cosa di me: non mi affeziono mai. Mi verrete a dire che è una cosa impossibile, ma non mi sono affezionata mai a nessuna storia. Molte sono state interpretate male. Silenzio è stata regalata per sbaglio a qualcuno che non la meritava, perché non ha fatto niente per me. Quella persona può pensare che sia ancora per lui, ma posso garantire che Silenzio è stata scritta per me e per me soltanto.
Ma comunque, non mi affeziono. Se una persona a cui tengo mi venisse a dire che vorrebbe lasciare tutti i rapporti con me, magari piangerei e tenterei di arginare, ma dopo un giorno lascerei perdere.
Non mi affeziono, so portare rancore molto bene, ma non mi affeziono.
E lo stesso vale per questa storia.
Questo epilogo - questo canto del cigno - è una fine come un'altra. Di una storia come un'altra, che magari fosse stata narrata da un'altra sarebbe ancora migliore.
Non ringrazierò nessuno in particolare in questa piccola nota a piè di pagina, non dirò niente di strappalacrime, non lo sento questo distacco. Ho finito una storia, ma non sento in alcun modo la nostalgia di essa.
E forse mi verrete a dire "ma magari non era la storia giusta" e io vi risponderò con un sorriso e una scrollata di spalle.
Perché nella vita mi hanno detto che "dovevo aspettare la persona giusta", in vari aspetti [dalla mia sessualità, al mio rapporto con il prossimo, a persino a cosa mangiavo per pranzo], ma no.
Semplicemente sono così.
Non mi affeziono e probabilmente, anche se sono davvero riconoscente a tutti voi, non riuscirete a farmi affezionare alla vostra persona.
L'unica che ci è riuscita è proprio Weep, ma la nostra è una storia d'amore controversa che non può essere spiegata in una nota.
E beh, niente.
Un inchino,
Cyber.






 

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