Aquiloni

di Levyan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cartucce e Poké Ball ***
Capitolo 2: *** 4 Secondi ***



Capitolo 1
*** Cartucce e Poké Ball ***


Cartucce e Poké Ball

Cartucce e Poké Ball

 

L’aria era rarefatta. Calda e torrida.
L’insistente e pedante rintocco delle suole degli anfibi militari che cozzavano contro il pavimento del dormitorio risuonava nella testa del tenente Surge come il suono di un pianoforte stonato. Egli sostava in piedi sulla soglia della baracca e davanti a lui una delle sue squadre stava ultimando i preparativi. La caserma era in subbuglio e ogni soldato nascondeva la tensione e la paura sotto una falsa espressione determinata.
- Tenente! Qualche problema?
Surge si voltò.
- Va tutto bene? La vedo deconcentrata... - chiese il colonnello Fire dietro di lui.
Il biondo lo fissò per un momento con un’espressione spaesata stampata sul volto. I suoi occhi erano persi nel vuoto, le sue mani tremavano febbrilmente, sulle sue tempie scorrevano fiumi in piena di gocce di sudore.
- Sono... - balbettò insicuro.
Per un attimo fissò inebetito la figura del colonnello. Il fisico statuario, i capelli neri e gli occhi rossi luminosi che esprimevano tanta determinazione quanta serietà. Rossi e ardenti, quegli occhi. Come lo spirito da guerriero che ardeva in quell’uomo instancabile e sempre attivo.
- ...sono a posto. - Disse scuotendo la testa. - sono a posto.
- Bene! Abbiamo bisogno di lei per questa battaglia, si mostri positivo e vincente, deve infondere il suo spirito anche alle reclute! - disse quello abbozzando un sorriso e chiudendo la conversazione con una pacca sulla spalla.
Il colonnello Fire girò i tacchi e si avviò. Surge rimase solo al suo posto con la sensazione della mano di quell’uomo che ancora batteva sulle sue spalle, con il destino di una guerra che gravava sulle sue spalle.
 
Pochi minuti dopo, Surge si trovava già sull’US6-U1. Le ruote del veicolo sobbalzavano ad ogni buca, il rumore dell’armamentario imbracciato dai soldati cozzare tra loro o con le pareti del soffocante cassettone del camion cadenzava l’ansia di tutti riducendola ad un rumore effimero e fastidioso.
E per chi lo ha constatato, tutto ciò che è fastidioso e inesistente allo stesso tempo diviene la tortura peggiore.
Un’ora di viaggio. Nell’aria iniziavano a librarsi gli scoppi delle granate che appesantivano l’etere come decorazioni di glassa sulla superficie di una torta dietetica alla soia.
- Siamo quasi al fronte... - avvisò il guidatore.
L’ansia colava dal soffitto come umidità. Surge era seduto sul secondo posto alla destra del volante, in mano aveva la sua fidata Smith & Wesson M1917. La sicura era impostata, la sua mano stringeva l’impugnatura in una posizione di riposo che di riposo aveva pochissimo.
I nervi di Surge erano tesi, i suoi muscoli incordati e le sue ossa calcificate nella loro posizione.
Stava andando incontro alla guerra, incontro alla guerra.
Aveva sempre dato a tutti l’impressione di essere un duro, uno che non si sarebbe mai tirato indietro. Un capobranco.
Non si sarebbe mai tirato indietro, effettivamente questo era vero, ma almeno a se stesso poteva confessare di avere paura, di star provando terrore. Di non voler scendere da quel veicolo.
No. Questo no.
Doveva salvare Kanto, lui guidava la sua squadra, lui portava la speranza nel cuore degli abitanti della regione, nel cuore degli uomini che da tanto tempo aspettavano i “rinforzi americani”. Lui era i “rinforzi americani”.
Avrebbe combattuto.
- Ci siamo quasi! - annunciò il militare che era al volante.
Surge comprese, doveva dare coraggio alla sua squadra. Prima di iniziare a parlare scrutò uno per uno i membri di quella piccola unità che componeva  insieme a molte altre il plotone da lui comandato. I loro occhi erano come i suoi, le loro mani tremavano come le sue, la loro paura era la stessa sua.
- Tenente Surge... - sussurrò uno dei soldati tremolando.
Il ragazzo era attorno ai venticinque, capelli castani e occhi castani. Stritolava l’impugnatura del fucile con ansia proprio come faceva Surge.
- Roland, non sarà mica nervoso! - esclamò in uno spasmo di coraggio latente.
- No, tenente io... volevo chiederle se deve darci qualche dritta prima di scendere sul fronte... - disse quasi terrorizzato dall’ardore del suo sovrapposto.
Surge fu colto impreparato. Non era mai stato in mezzo al campo di battaglia, sotto i colpi, chiuso nella trincea.
- Un solo consiglio. Non farti vincere dalla paura, gli avversari sono umani, proprio come te. - prese ad improvvisare. - Hanno un cuore e un fegato, hanno una famiglia e una casa. Proprio come te. Tu hai una famiglia, Roland? - chiese come per cambiare discorso.
Il ragazzo rispose insicuro.
- Ho una moglie che è incinta di quattro mesi...
- Beh, ti faccio i miei più sentiti auguri, ma quello che volevo dirti è che se ascolterai i miei consigli, potrai rivederla e riabbracciarla. Non avere mai paura, il coraggio è quello che porta avanti la nostra grande e orgogliosa nazione... - concluse.
- Gr... grazie, signore... - balbettò quello.
- Possiamo scendere, ricordate le mie indicazioni. - fece il tenente Surge fuggitivo mentre scendeva dall’autocarro.
La squadra lo seguì.
 
Imbraccia il fucile, il metallo è freddo, senti il suo brivido percorrerti. Sai che puoi addirittura uccidere un uomo con quell’arma. Ti rendi conto? Togliere la vita ad una persona, non è una cosa da niente.
Stringi l’impugnatura, guardati attorno.
I colpi fischiano attorno a te. I proiettili ti sfiorano. Sei ad un passo da nemico. Anzi, il nemico è ad un passo da te.
Anche lui ha paura come te. Anche lui non vorrebbe essere qui come te.
È l’ultima battaglia e stai vincendo.
Stai vincendo.
Ardente della fiamma del suo spirito combattente, Surge si gettò dietro due rocce. Con il fucile centrava ogni suo bersaglio, nessuno lo aveva mai visto così grintoso.
Stava lottando da ore. I ranghi nemici si erano decimati e l’esercito di Kanto, aiutato da quello americano, stava vincendo.
Poco distante da lui c’era il colonnello Fire, stava riprendendo fiato dietro un albero. In mano stringeva il fucile proprio come lui, ma sulla sua mimetica e sul suo elmetto comparivano i simboli d’onore indicanti il suo grado. Gli occhi vermigli brillavano. Ma lui stava fermo.
- Tenente Surge! - lo chiamò. - Attento!
Surge, istintivamente, si piegò in due. Cozzò contro la roccia, proprio in corrispondenza di dove era la sua testa pochi attimi prima, un osso. Lì per lì, il tenente non comprese. Poi vide poco lontano, ai piedi di un albero, uno strano animale. Era marroncino e dalle sembianze rettiliane, come una specie di dinosauro, aveva un grosso teschio in testa che indossava come fosse una maschera. Non aveva mai visto nulla di simile.
- Che diavolo sei?! - esclamò spaventato.
- Stanno usando altre armi, si tratta di delle creature che qui chiamano Pokémon, tenente. - lo illuminò il colonnello Fire esclamando da lontano. - Sono pericolosi e molto potenti, l’esercito di Kanto ha preferito non usare loro per combattere perché la reputano un’azione disumana.
Surge annuì.
- Che devo fare? Lo ammazzo?
Il colonnello fece spallucce.
Surge allora si voltò di nuovo verso la creatura. Era scomparsa. Per un momento tutto si era fermato e le lancette degli orologi erano cadute a terra. Surge riprese fiato.
Altri colpi, altro sangue, altre morti. La guerra continuava.
Ad un certo punto, dietro le linee nemiche vide comparire piccole e grosse sagome che si diressero verso il nemico.
Uno stormo di grossi uccelli di color giallo-arancio passò sopra le loro teste e scese in picchiata sui soldati. Avevano la pellaccia dura e le lunghe creste sulle loro teste tutte mosse. Attaccavano a colpi di artigli o di becco qualsiasi cosa che capitasse loro a tiro. Nessuno di loro riusciva più a sparare.
Alcune unità nemiche si infiltrarono tra le linee dell’esercito americano e fecero razzia di decine di soldati.
Surge combatteva con il calcio del fucile con quella strana creatura e in lontananza vedeva che anche il colonnello Fire era perseguitato da uno di essi.
Non aveva mai combattuto in questo modo, non si era mai preparato a ciò, come poteva reagire?
Proiettili su proiettili, finalmente un colpo prese l’uccello nel punto tra collo e ali uccidendolo, ma non un colpo suo. Qualcuno aveva sparato da lontano.
Anche Surge fu liberato da quella furia pennuta.
Imbracciava il fucile in direzione dei due il soldato Roland. Il ragazzo aveva liberato tenente e colonnello da quegli uccelli.
- Roland! - esclamò Surge felice. Il ragazzo sorrideva soddisfatto.
Subito la sua espressione gioviale si tramutò in una smorfia isterica e preoccupata.
- Roland... - anche Surge si incupì. - ...sei troppo espost...
Niente da fare. Un proiettile sfondò la cassa toracica del soldato facendolo cadere. La chiazza di sangue macchiò l’erba e gli occhi di Roland si spensero quasi subito.
Surge rimase con gli occhi sbarrati, non si mosse.
Roland, il ragazzo, era morto. Aveva osato, si era esposto pur di salvare il suo sovrapposto, aveva avuto troppo coraggio. Era stato uno sciocco, ma qualcuno lo aveva spronato a non avere paura. Lui.
Surge strinse i pugni e sbatté il calcio del fucile contro la roccia.
- Roland! - esclamò.
Subito si accostò al bordo della roccia che lo proteggeva, prese a colpire, gli avversari cadevano uno dopo l’altro, i suoi colpi stavano sterminando lo squadrone nemico.
Notò qualcosa: una sfera rossa e bianca alla cintura di ogni soldato. Qualcuno la prendeva e la lanciava, questa si apriva e ne uscivano fuori, accompagnati da un fascio di luce, dei mostri tutti differenti. I nemici raddoppiavano, chi trovava le sfere dei compagni caduti le lanciava insieme alla propria. Il fronte avversario si stava ripopolando.
- Che cazzo... - Surge era ancora in preda alla sua furia.
Si certo, erano strani e anche insoliti, ma questi mostri morivano se colpiti da un proiettile. Surge prese a sparare anche a loro.
Proseguì con quest’andatura per alcuni minuti. Ad un certo punto udì un ruggito, si voltò. Era comparso alle sue spalle un grosso lucertolone arancione con le ali e una fiamma che ardeva sulla punta della sua coda. Ruggiva forte e raggiungeva quasi i due metri, si era presentato davanti a lui e minacciava di farlo fuori con le sue fauci. Anzi no. Nella bocca di quel rettile si formò una sfera di fuoco che divenne sempre più grande.
Surge, in preda al panico, sparò un colpo.
“Click!” Caricatore esaurito.
Il dragone si faceva sempre più prossimo quando...
Surge rimase esterrefatto. Una scossa elettrica, una specie di fulmine controllato si diresse verso il Pokémon arrostendolo all’istante. Che cosa era successo?
Un topo, un topo di quasi un metro, arancione e con una lunga coda che terminava con un fulmine era arrivato accanto a lui. Aveva lanciato lui quella scossa elettrica.
Surge lo fissò per un attimo senza osare alcuna mossa. Quello emise il suo verso quindi si voltò verso l’uomo sorridendo.
I loro occhi si incontrarono, avevano la stessa grinta in corpo. Lo stesso sguardo.
- Che cosa sei? - sussurrò Surge.
Come se nulla fosse, il Pokémon prese a bersagliare con le sue potenti scosse elettriche i volatili gialli che passavano sopra le loro teste abbattendone uno dopo l’altro.
- Ottimo, continua a colpire! - il Tenente si sporse di nuovo dal suo nascondiglio e riprese a sparare.
 
Le ore passarono veloci. L’esercito americano, nonostante il sostegno che i nemici avevano da parte di quelle creature, riprese a vincere.
Gli avversari cominciarono a vacillare nell’insicurezza. Surge sparava a raffica e guidava con la sua combattività tutto lo squadrone. Finalmente, i primi prigionieri. Nessuna uccisione, i nemici si davano per vinti.
- È l’ultima battaglia tenente! - esclamò il colonnello in un misto di felicità e calma. - E stiamo...
Surge si voltò allertato dallo spavento del colonnello. Un grosso Pokémon molto somigliante ad un rinoceronte bipede dalla corazza grigia lo stava caricando. Era immenso, Surge rimase paralizzato nella sua posizione. Il Pokémon che lanciava fulmini che lo stava aiutando lanciò una potente scossa contro quell’enorme bestia. Nemmeno un graffio. Il fulmine sembra non averlo colpito.
- Tenente!
Eroicamente, il colonnello Fire si gettò su Surge facendolo rotolare di lato. Il grosso corno del Pokémon rinoceronte mancò il biondo ma affondò nello stomaco del suo superiore. Fire fu scagliato lontano con Surge che seguì il suo percorso con gli occhi. Cadde a terra esanime e riversò dalla sua ferita una copiosa quantità di sangue tossendo un paio di volte.
- Colonnello Fire! - esclamò Surge.
Il Pokémon rinoceronte riprese l’equilibrio, voltandosi, lanciò un’occhiata furente al biondo.  Ruggì e si avventò contro di lui.
Surge per un istante vide la morte in volto, la bestia stava per colpirlo. Per fortuna aveva appena ricaricato. In uno spasmo premette il grilletto dell’arma che aveva in mano e una raffica di colpi si abbatté sul Pokémon segnando una linea che andava dal ventre alla fronte. Solo i proiettili che centrarono l’occhio e l’addome lo danneggiarono.
Il Pokémon si gettò all’indietro quasi travolgendo un albero. Dalle sue ferite iniziarono a sgorgare copiosi fiotti di sangue. Ansimò in preda a dei goffi spasmi per alcuni attimi e poi si spense. La creatura era morta.
Surge per un inesistente numero di secondi rimase a contemplare il suo lavoro. Ma poi un pensiero fece violentemente breccia nel vetro cristallino del suo sollievo. Il colonnello Fire.
Il biondo mollò il fucile, tutto si era fermato. Corse febbrile verso il corpo immobile dell’uomo che distava pochi metri dall’immenso Pokémon.
La mimetica del colonnello era tutta inzaccherata di sangue e in corrispondenza della ferita era completamente stracciata.
- Colonnello, colonnello! - Surge raggiunse l’uomo e lo scosse delicatamente con una mano. - Colonnello Fire! - esclamava spasmodicamente.
Nessuna risposta.
Il volto sporco e sudato del soldato era spento e bianchissimo. Non dava segni di vita.
- Noooo! - gridò Surge realizzando finalmente l’accaduto. Gridò a occhi chiusi, senza voler guardare ancora il corpo del suo amico, mentore e compagno.
Tolse l’elmetto e abbassò la testa sul corpo del suo amico. In quel momento l’ultimo colpo risuonò nell’aria.
Una grezza pallottola di piombo, una sporca invenzione della ferocia e dell’avidità umana, nata sporca, incontrò per ultima quell’immenso e nobile mare invisibile che era l’atmosfera, nata pura, sferzando il suo viscido trucco intriso di morte conferitogli dalla guerra appena conclusa.
Era tutto finito. Kanto era salva. Aveva pagato il suo prezzo.
 
- Signora... - le parole uscivano dalla bocca del tenente Surge come ricci di castagne che provano a passare nella canna di un fucile. Ricci di castagna dall’accento americano che provano a passare nella canna di un fucile. - Suo marito, il colonnello Fire... - niente, non riusciva ad andare avanti.
Il clima settembrino alleggeriva gli animi. Non era un settembre troppo caldo, nemmeno un settembre troppo freddo. Solo, un settembre.
La donna con indosso un grembiule da cucina che sostava sulla soglia appoggiata allo stipite della porta lo fissava con occhi persi.
Sicuramente aveva compreso, ma non voleva mettere bocca. Magari le cose potevano ancora cambiare.
- Ha perso la vita sul campo di battaglia. - Sospirò il biondo tutto d’un fiato ed evitando lo sguardo della donna.
La mora chiuse gli occhi, due lacrime solcarono le sue guance lentamente. Altrettanto lentamente giunsero i primi singhiozzi soffocati.
- È stato un eroe, sono, e forse siamo, vivi grazie a lui.
Come se l’effimerità di quelle parole potesse attutire in qualche modo il dolore di una perdita tanto grave.
Perché c’era la guerra?
Per soddisfare stupide voglie di potere di ricchi e avidi capi di stato che si divertono a veder morire per loro soldati che credono di offrire la propria vita alla patria per poi fingersi sconvolti e rattristati da una tragedia che loro stessi hanno causato.
Bella cosa!
Il tenente Fire, sposato, padre di un figlio, era nato a Biancavilla, piccolo paesino della regione di Kanto. Era cresciuto lì. Ecco come faceva a conoscere i Pokémon. Aveva studiato negli Stati Uniti e aveva fatto il militare lì. Aveva fatto carriera ed era salito sino al grado di colonnello. Lui stesso aveva addestrato Surge, lui stesso gli aveva insegnato tutti i suoi trucchi e le sue strategie, lui stesso aveva visto in quel ragazzo il talento di un vero guerriero.
In seguito era tornato a Biancavilla, dove si era sposato e si era fatto una famiglia.
E poi la chiamata. Fire aveva combattuto con l’esercito americano, ma non aveva lottato come alleato, bensì come nativo del posto.
Un eroe. Non vi era altro termine per definirlo.
Surge trovò il coraggio di riaprire gli occhi.
La donna stava riversando il suo dolore sul grembiule che calmo e pacato ascoltava i suoi singhiozzi e asciugava le sue lacrime.
Dietro di lei, Surge vide qualcuno.
Il suo voltò mutò. La compassione lo prese e la sorpresa si impossessò dei suoi occhi.
Un ragazzino. Avrà avuto più o meno tre anni. E aveva gli stessi, medesimi, identici occhi del colonnello Fire.
 
Mi hanno spiegato che cosa è successo. Molti hanno perso la vita, soprattutto figure importanti come Capipalestra e Superquattro. In seguito, i loro posti sono stati riempiti da ragazzi giovani, persino della mia età. Sabrina, Erika, Misty, Brock. Tutti venuti dopo.
Mi hanno detto che il tenente Surge stesso ha fondato una palestra.
Tutto è tornato alla normalità. Ora.
 
Sono sulla cima del Monte Argento e da qui ho quasi la completa vista di Kanto. Fantastica, è davvero fantastica. Come i Pokémon che la abitano.
Me ne sono reso conto solo ora.
 
Noi ridiamo, scherziamo, ci divertiamo e maturiamo in questo mondo.
Noi lo consideriamo un paradiso e lo arricchiamo e decoriamo con le nostre idee e facciamo maturare in esso i nostri sogni.
Ma se ciò ci è concesso, è solo perché qualcuno, prima di noi, si è sacrificato per la sua pace, ha lottato con le unghie e con i denti perché in esso regnasse l’armonia.
Non dimentichiamo ciò che è stato.
Non lasciamo scappare il ricordo delle gesta di molte persone venute prima di noi.
Vorrei dirti tutto questo, vorrei raccontarti molte cose, vorrei parlarti di come se n’è andato mio padre e di come è andata. Solo così puoi capire a fondo quanto sia bello questo mondo.
Questa è la storia della nostra terra ed io vorrei raccontartela, ma posso concederti solo alcuni puntini sospensivi.
Rosso
 
 
 
 
 
Minuscolo Spezzone Di Mondo
Eccoci qua!
Mi è venuta l’idea per questa raccolta ascoltando una canzone di Kenzie Kenzei chiamata Indovinello (consiglio a tutti, quell’uomo è un mostro e il suo album Can See Can’t Say è una perla!). Da lì mi son detto: “mah, belli gli aquiloni...” e ho iniziato a elaborare la metafora. È molto particolare come cosa e non ve la svelerò subito ma aspetterò...
Ecco, questa sfilza di OS rappresenterà proprio quello che mi viene in mente di tanto (tanto tanto tanto) in tanto (tanto tanto tanto). Ho già detto tanto?
Essì, perché le long che partorisco le porto avanti seguendo la trama che bene o male ho già fissa in testa, ma pubblicherò qualcosa su questa raccolta solo quando il mio cervellino mi concederà quell’ispirazione giusta per scrivere qualcosa di originale e significativo sui Pokémon.
Cercherò di metterci sempre dei significati profondi molto più espliciti di quelli che metto nelle long.
Eheh, quelli vi sfido a carpirli tutti...
Da questa potete ben vedere che ho voluto unire alcuni misteri del mondo Pokémon, come ad esempio la guerra alla quale si riferisce Lt. Surge e altri piccole domande che tutti più o meno ci saremo posti giocando ai videogiochi arricchendo anche con qualche idea personale.
Le storie saranno basate sul videogioco, ma qualche cosa sicuro mi verrà da scriverla anche su altro.
Ad esempio, “Finto” doveva essere parte di questo, ma poi ho preferito lasciarla una OS a sé stante.
Vabbuò, seguite Aquiloni se vi va, altrimenti andate a compare un paio di metri di filo spinato, imparate come fare un nodo a cappio e... e poi avete capito.
Bye!

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Capitolo 2
*** 4 Secondi ***


4 Secondi
 
 

Sono sveglio. Sono qui. Sono vivo.

Sento qualcosa dietro la mia schiena, qualcosa di pesante, qualcosa di grosso. Ma non mi interessa. Sono vivo.

È buio, qui dentro. È stretto, voglio uscire, la sensazione di costrizione mi sta dando alla testa, detesto il buio.

Espando il mio corpo, ecco cos’era a gravare sulla mia schiena. Delle ali, ho due ali, due enormi e meravigliose ali. Dio, come sono felice di essere vivo!

Apro le ali.

Sento che la mia gabbia si spalanca, il mio fardello si spezza, sto evadendo dalla mia prigione. Vedo nel buio aprirsi uno squarcio luminoso. Sembra un sole, un sole splendente.

Il sole... ricordo ancora che colore abbia? Non so neanche quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho visto il sole...

Prima potevo osservarlo da lontano, nascondendomi qui dentro. Spiavo il mondo esterno. Ma ricordo poco di quei giorni, quasi nulla. Non ero io quello, non ero io quello nascosto al buio che scrutava il mondo esterno da quel piccolo forellino.

Non ero io. Io sono vivo.

Lo squarcio si fa più ampio. Sempre di più.

L’ultimo sforzo, sento le ali fare resistenza, sento il mio corpo liberarsi dalle costrizioni, distrutto, stanco, devastato. Ma non mi fermo, non intendo fermarmi per restare qui dentro.

Tirò fuori la mia anima, evoco le mie ultime energie e spingo, sorgo da questa posizione sottomessa a me stesso, le mie ali non trovano più ostacoli. Lo squarcio diventa tutt’uno col cielo e attorno a me, il sole comincia a brillare, anche per me.

Sento la vertigine, mi sento cadere, non voglio cadere.

Mi rendo conto di avere delle forti zampe, riesco a rimanere sospeso, aggrappandomi. Sento le ali annichilite, infiaccate. Il sangue deve fluire dentro le loro venature, perché queste diventino utilizzabili. Le sento sempre più pesanti, si stanno riempiendo di liquido, si stanno riempiendo di sangue.

Ho il primo dubbio.

Come farò a portarle? Come potrò trascinare queste ali così pesanti?

Il mio corpo è troppo debole per loro.

Finalmente il loro peso smette di crescere e il loro volume di aumentare. Finalmente capisco. Non sono io a doverle trasportare, sono loro a dover trasportare me.

Sento la stanchezza del mio corpo svanire, il calore andarsene e la fatica allontanarsi.

Sono vivo e ho con me le mie ali.

Le allargo, fiero. La loro ampiezza è maestosa e il loro colore sgargiante. Sento l’aria muoversi attorno a me, il mondo muoversi attorno a me. Loro non spostano me, loro muovono tutto il resto.

Io rimango fermo, nel loro perfetto centro di equilibrio, mentre tutto il mondo viene spostato dalle mie ali. Sto volando.

Sto volando.

Mi sento così potente, così forte, così invincibile.

Arrivo in alto, seguo il sole, la luce.

Do due colpi, due rapidi movimenti e sono più in alto di una distanza che mai avrei pensato di percorrere in così poco tempo. Sto volando.

Mi poso su un ramo, il primo volo è stato fatto, ora tocca al secondo. E so per certo che, quando avrò spiccato il volo per la seconda volta, difficilmente deciderò di tornare a toccare il terreno.

Penso a come sarebbe una vita totalmente in volo, senza mai far riposare queste ali meravigliose, senza mai poterle fermare in modo da ammirarle.

Tutta la vita in volo.

Tutta la vita.

Tutta.

Una settimana.
Soltanto una settimana.

Una misera settimana. Sento l’ansia crescere dentro di me, le lacrime presentarsi agli occhi, lo stomaco stretto in una morsa di preoccupazione.

Ho solo una settimana da vivere...
Piango, ma poi qualcos’altro si presenta in cima alla lista delle priorità, ho fame, devo mangiare qualcosa, devo sopravvivere, ho bisogno di energie perché il mio corpo riesca a sopportare ancora fatica. Sento di dover inserire cibo nel mio corpo. Con la mia lunga bocca nera dalla forma di una cannuccia.
Ho fame, significa che sono vivo.
Mi muovo, sento gli istanti correre e lasciare un segno indelebile sul mio corpo. Un marchio permanente.
Mi avvicino ad un fiore, decido di affrontare gli schemi, non voglio passare tutta la mia vita in volo, atterro su uno dei petali del fiore. Bianco, candido, lucido. Il petalo è morbido e soffice, ma non abbastanza da lasciarmi cadere.
Allungo la mia bocca, la cui punta si inserisce nel cuore del fiore. Inizio a cibarmi, sento il polline che viene attratto all’interno della mia bocca. Che mi sfama, che mi delizia.
Dio, è buonissimo, ha un sapore divino.
Allargo di nuovo le ali, sono sazio, voglio volare.
Ritorna il dubbio.
Una settimana, sette giorni, centosessantotto ore, diecimilaottanta minuti, seicentoquattromilaottocento secondi. Potrei contarli, da ora fino alla mia morte, ammesso che avvenga con precisione. No, avrei già perso il conto, sono vivo da qualche minuto.
Sono vivo.
Volo e penso a quanto dev’essere stato stupido e cinico colui che mi ha creato, dandomi delle ali, questo corpo meraviglioso, questo cibo e l’opportunità di andare dove voglio ma concedendomi solo una settimana di vita.
Viaggio ancora. Incontro sulla mia strada foreste su foreste, natura, verde. Dove sono gli umani? Comincia a scendere la notte.
Un giorno.
Giungo sopra una città, le luci si accendono, la notte scompare. Decido di scendere.
Le persone mi guardano strano, si chiedono che cosa ci faccia io qui. Perché non capiscono che voglio passare i miei pochi giorni di vita dove voglio stare?
Gironzolo ancora per le strade svolazzando. Ad un certo punto le luci iniziano a darmi fastidio, i rumori della macchine cominciano a torturarmi e le voci delle persone a martellare il mio cervello.
Me ne vado, ma quando riprendo quota, mi rendo conto che si sta facendo giorno. La luminosità della città mi aveva ingannato, il sole sta sorgendo all’orizzonte, quanto tempo è passato?
Secondo giorno.
Voglio continuare a volare.
Sono vivo.
 
Sono ancora vivo.
Sto ancora nuotando.
Ancora, nello stesso mare, nelle stesse acque.
Giro l’angolo, il fondale è abitato da dei Clamperl. Almeno così li chiamano gli umani, strani esseri che vivono chiusi nelle loro case, in attesa di qualcosa che li sconvolga, che li uccida o che li trasformi in esseri migliori.
I Clamperl, intendo, non gli umani.
No, anche gli umani, ora che ci penso... ne ho visti tanti, ho vissuto abbastanza, ho assistito alla nascita di molte persone e alla loro morte, una dietro l’altra. Ricordo Michael, lui mi prese con sé da bambino, era felicissimo, diceva che ero una specie rara. Passarono gli anni, e ora ho in testa l’immagine di lui che mi saluta, mi augura il meglio, mi rigetta in mare... vecchio, stanco, prossimo alla morte.
E così tutti gli altri. Mi invidiavano. Non con cattiveria, ma con una punta di malinconia. Da giovani dicevano che ero fortunato, io, che non ero in continua lotta col tempo. Che su di me i giorni non gravavano. Poi, una volta divenuti vecchi, si ricredevano, mi chiedevano scusa affermando che non potevano capirmi, che la noia e la monotonia distruggono ogni cosa... persino la vita stessa.
Quando si decidevano a lasciarmi, provavano compassione per me. Sapevano che avrei passato molto altro tempo sulla terra. O meglio, in acqua.
Svolto per la fossa delle alghe e cominciò a scendere in profondità, in mezzo alle luminose antenne dei Lanturn che mi guidano come muti ciceroni.
Ormai sono abituato, negli ultimi anni ho avuto il tempo di esplorare i mari, gli oceani. Ma non li ho visti tutti e mi piacerebbe avere il tempo di farlo. Tuttavia da molto tempo non incontro nessun umano, forse da un secolo ormai, non pescano più, non nuotano più, non vanno più sulle loro barche.
Sono tornato a riva, un paio di volte. Adesso sono come i Clamperl, vivono nel loro guscio, silenziosi, solitari.
Non so più come divertirmi.
Sono ancora vivo.
Sono vivo, ancora.
Io mi annoio, cerco di uccidere la snervante attesa di questo percorso che fatica ad arrivare al termine... la vita è troppo lunga, la noia ci uccide prima che lo faccia il tempo. Per questo li capisco, i Clamperl e gli umani, quando decidono di nascere e morire soli, fermi, lontani da ognuno.
Anzi... li capirei, li capirei se loro fossero in vita da millenni, come me!
Un secolo, se sono fortunati... un secolo, se proprio la natura decide di essere clemente con loro.
Un secolo per provare tutte le emozioni del mondo, amore, gioia, rabbia, tristezza, delusione, felicità, odio, serenità... e loro lo buttano come fosse sabbia.
Anzi no.
Mezzo secolo. Perché, passata quella linea, cominciano a vivere di ricordi, come se avessero raggiunto un traguardo, e parlano di nostalgia, stanchezza, ricordi, esperienza...
Gli umani sono creature semplici, a loro basta poco per essere felici.
Ma hanno frainteso tutto.
A loro basta poco per essere felici, ma ciò non vuol dire che debbano accontentarsi di quel poco e vivere soltanto una frazione di ciò che la loro vita ha da offrire.
Vorrei poter vivere per sempre per farglielo capire. Mi chiamano Relicanth e io posso raccontare di aver visto il mondo.
Di aver avuto la mia vita, di aver avuto i miei compagni di avventure. Ora sono solo un vecchio e burbero pesce che si lamenta del mondo da dietro il suo teschio ingiallito.
Certe volte penso di aver vissuto troppo. Ogni mattina apro gli occhi cosciente e desideroso di ricominciare, ma dopo poco tempo quell’entusiasmo svanisce e lascia il posto alla malinconia, il tedio delle giornate sempre uguali, sempre identiche.
Sono vivo.
Ancora.
Ho provato molte emozioni, negative e positive, ho visto molti posti e nuotato in molte acque. Una volta sono stato persino in un acquario. Quella sì che è stata un’esperienza particolare. I cuccioli di umano che si fermavano dietro la vetrata mi ricordavano me nel mio primo secolo di vita, quando ancora lottavo con i fili dei pescatori per non essere pescato e combattevo a testa bassa contro gli scafi delle navi che violavano i confini del mio territorio.
Già... il mio primo secolo di vita.
C’era tanto da fare e da vedere, e se non c’era ero io ad inventarmelo.
I cuccioli di umano erano come me, mi chiedevo sempre cosa trovassero di interessante in un vecchio pesce. Poi l’ho capito, ho capito che erano portati a stupirsi per ogni cosa. A curiosare in ogni anfratto della realtà.
Ogni cosa a loro sconosciuta, diventava subito bellissima.
Anche io ragionavo così, da giovane.
Siamo fatti per essere felici di vivere. Solo, ne perdiamo la capacità col passare del tempo.
Io sento che il mio tempo sta per giungere, che la mia era sta per terminare, ma non so quando questo avverrà e sinceramente la cosa mi spaventa. Mi sentirei fuori posto a non essere più vivo dopo tutta questa eternità passata a non preoccuparsi minimamente di raggiungere l’orizzonte. Ma che importa? Io sono ancora in vita.
Sono vivo.
Sono ancora vivo.
 
Sesto giorno...
Sono stanco.
L’ansia grava su di me, le mie ali si fanno pesanti e la mia testa pure.
Sono davanti al fiore che mi ha nutrito ieri, credo di aver dormito su questo petalo, di esser caduto in un sonno profondo senza accorgermene.
Su questo petalo morbido e soffice... ah basta!
L’avevo già detto.
Quante cose ho scoperto si possono dire, tante parole che non conoscevo. Marciapiede, Pokémon, campanello, panettiere.
Beautifly.
Ho scoperto che gli umani mi chiamano Beautifly. Non che una misera identità potesse farmi vivere diversamente. Ho volato, mi sono nutrito, ho visto il mondo dall’alto.
Credo almeno di averlo visto tutto, non ne sono certo ma potrei averlo fatto, sono arrivato al quinto giorno di vita che continuavo a tornare nello stesso punto.
E poi le cose che sentivo di fare erano sempre le stesse.
 
Nuotare, combattere, respirare.
 
Scendere sui fiori, prenderne il polline, portarlo ad altri.
Non so quale sia il motivo di questa voglia di aiutare i fiori. Ma so che voglio farlo, so che è la mia missione. E mi sono reso conto che non abbiamo molto altro da fare, dopo tre giorni che continuiamo a vantarci delle nostre ali.
Ho incontrato anche altri Beautifly, ora che ci penso. Tra cui una femmina, bellissima, credo abbia già deposto le uova dei nostri figli.
Ora non so più che fare.
Continuo ad impollinare fiori, intanto. E continuo a passare in mezzo agli umani.
È divertente vederli quando si girano e sorridono, i bambini mi corrono dietro e sono felici. Ma io vengo inseguito da loro e riesco sempre a scappare.
Mentre lei... la morte mi sta dietro dal primo giorno. Mi dice che arriverà il mio momento, che dovrò cadere anch’io. E io non riesco a pensare ad altro.
 
Non so se è ora di arrivare alla fine.
 
Non riesco a pensare di dover arrivare alla fine.
Sono un essere...
...imperfetto.
 
La mia vita potrebbe essere meravigliosa ma mi ritrovo a sguazzare nella noia, a metà tra la paura di morire e la gioia di liberarmi di questa fatica.
 
Sento la stanchezza degli anni su ogni squama, ma ancora continuo ad avere uno scheletro capace di sopportare i secoli.
 
Impollino fiori.
 
Solco i mari.
 
Continuo la mia vita.
E continuo a pensare che essa sia troppo breve e troppo lunga al tempo stesso. In certi momenti vorrei che fosse migliore o che finisse in quell’istante.
Ma poi mi rendo conto che sarebbe uno schifo.
La mia dolce non-necessità di vivere è quanto di più indispensabile avessi mai avuto.
E ogni fiore che impollino, ogni umano che incontro... mi rendo conto che miliardi di altri esseri la hanno, proprio come me. Loro vivono, io vivo, noi viviamo.
Non lo facciamo per noi, non lo decidiamo. Ma viviamo. E più mi avvicino alla fine, più mi rendo conto di come sono stato perfettamente incastrato in questo enorme meccanismo.
Sono parte di qualcosa, sono vivo.
Non so se sia un bene o un male, ma vivo.
E giorni, anni, secoli o millenni.
Siamo parte di qualcosa di più grande, la mia vita è tutto ed è nulla.
 
Ho vissuto giorni.
Ho vissuto millenni.
Ma mi son sembrati solo quattro secondi.
Uno...
Due...
Tre...

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