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NOTA DELL'AUTRICE: *Eh-ehm* Credo siano
passati due anni dall'ultima long story shonen-ai che scrissi su questo sito. In
realtà ho molta vergogna e molti dubbi su questa storia: a- perché ha poche
paranoie rispetto alle precedenti; b- perché è molto romantica, e io non so
scrivere cose romantiche; c- perché le mie storie mi sembrano sempre noiose
Y____Y...
Devo dirvi un paio di cose. I capitoli sono
ventidue, mi sembra, e sono già stati scritti tutti. Non so ogni quanto posterò,
ma posterò, perché io odio quando non riesco a finire di leggere una storia. La
vicenda si snoda su due coppie molto diverse tra loro, introdotte in due momenti
diversi. Volevo inserire diverse visioni dell'amore, una più equilibrata,
l'altra un po', come dire, angst... ma mi sa che ho caricato troppo sul melenso
u____u. Ditemi voi.
Very Important Thing: Nel testo
troverete ripetuta ossessivamente questa frase: Without Contrary is no
Progression, ovvero Senza Contrasti non esiste Progresso, di un certo
William Blake, e, come dice il titolo, è la chiave di lettura. Mi sembrava
giusto puntualizzarlo. Per il resto, non fate caso a certi sproloqui sull'Arte.
Ho molte idee mie. Saltatele, sono noiose. Non so nemmeno come ci sono finite
nella testa di Lelio.
Buona Lettura ^_^
Giovedì sette Dicembre,
Una nevicata; un bigliettino; troppi caffè; una
riflessione disarmonica e l’Equilibrio Cosmico spezzato in molte parti.
I.
La strada era immacolata ai
suoi occhi. Un velo di neve copriva magicamente ogni dettaglio del parco
sottostante la finestra contro cui Lelio era stancamente appoggiato, stendendo
una sorta di letargo onirico sopra la terra. Lelio amava molto l’inverno –
freddo, puro, distaccato, gelido. In molti versi si riconosceva nella sua intima
solitudine e nella maniera in cui creava distanze tra le cose, sommergendole di
contrasti tra la luce ed il buio delle notti precoci. Quella mattina stava per
sorgere il sole. Di lontano, presumeva, sulla linea dell’orizzonte, l’alone
lattiginoso delle mattine di Dicembre incendiava il paesaggio dei colori
dell’aurora. Lui non li poteva vedere – scorgeva solo le sagome dei palazzi
stagliati contro il cielo di una Metropoli che cominciava a svegliarsi dal lungo
oblio notturno, e i riflessi di quei raggi fantasmagorici proiettati sul manto
di neve compatta. Avrebbe desiderato uscire e stare al freddo il più presto
possibile. Sospirò, scivolando ancora di più contro il vetro che si appannò del
suo fiato formando una traccia di circonduzioni fantasiose e di disegni astratti
particolarissimi.
“Cea. Siamo di nuovo in
ritardo. Ti prego.” Sembrava distrutto.
“Cosa? Cosa, ti prego –“
Mircea rispose dal bagno.
Lelio sentì qualcosa di pesante
cadere sul pavimento, o qualcuno, presumibilmente qualcuno, cioè Mircea, e pensò
che quel sottilissimo filo che lo sospendeva ancora sopra un mare di pace e
contemplazione della bellezza scintillante dell’inverno si fosse spezzato, e
l'avesse fatto precipitare di nuovo nella sua piccola tragedia quotidiana. Erano
le sette e mezza del mattino. Lui era stanco. Avrebbe solo voluto dormire, o per
lo meno vagheggiare con la mente in quello stato che è simile al sonno, e che
appanna la realtà di una certa quantità di incoscienza, di obnubilamento e di
fantasia.
“Sono pronto, sono pronto, sono
pronto, prontissimo e non siamo in ritardo e dov’è il mio caffè?” Cea entrò in
cucina correndo. Davvero Lelio non si spiegava come anche di mattina,
prestissimo, trovasse le forze per essere così disordinato.
“Il tuo caffè. È freddo.” Era
sempre più rannicchiato contro il vetro.
“Oh, ti sei svegliato male?”
Ora Lelio si voltò.
Pesantemente. Lo squadrò coi suoi occhi verdi e chiarissimi per l’albore della
mattina e sibilò che doveva parlare piano. “Sveglierai la belva feroce.”
Mircea impiegava
sorprendentemente venti minuti per alzarsi dal letto ma solo cinque per
prepararsi. In realtà trascinò Lelio in ascensore e finì di rivestirsi mentre
scendevano. Sul vialetto, di nuovo immerso nella sua beatitudine e nel silenzio
delle desolazioni antelucane, a Lelio sembrò di riguadagnare calma e serenità.
Il parco era spoglio e deserto, tranne per loro due, che camminando tracciavano
una scia caotica sopra la coltre bianca uniforme.
“Ha nevicato questa notte. Che
bello.”
“Cea, non lo devi
necessariamente dire tutte le volte che nevica.”
“Sai cosa farò ora?” Lo guardò.
“Ti ignorerò per tutta questa fantastica, meravigliosa, incredibile,
entusiasmante giornata, e non permetterò al tuo pessimismo abissale di rovinare
l’Equilibrio Cosmico della mia vita brillante.”
“Perfetto.” Lelio alzò le
spalle. Si accese una sigaretta perdendosi con la mente nel nitore della
camminata, mentre il vento gelido batteva sulla sua pelle scuotendolo di brividi
e di strane sensazioni di libertà e leggerezza.
II.
Quando Mircea tornò in classe,
trovò un bigliettino sopra la Linea-di-Demarcazione che aveva tracciato sul
banco per ricordare a Lelio con precisione dove finisse il suo territorio, e
fino a dove si potesse azzardare a guardare per non spezzare la precarietà
dell’Equilibrio Cosmico. “Ha violato la Legge dell’Equilibrio Cosmico!” Esclamò
guardando il foglietto ordinato invadere il suo spazio.
Il bigliettino diceva:
Data la tua
insofferenza e le tue escatologiche previsioni di cedimento di qualche assurda
membrana cosmica, poterò il mio potere altamente distruttivo altrove, e
precisamente in qualche posto ombreggiato giù nel cortile, con qualche persona
dolce e gentile dai capelli neri e dagli occhi verdi di sesso femminile e
decisamente innamorata di me che non passi tutto il tempo a ricordarmi quanto
instabile sia l’universo se io sono di cattivo umore.
Perdona il
disagio, Cea, sacerdote della Suprema Armonia Universale.
Mircea ripiegò con cura il
biglietto prima di cestinarlo, annotandosi mentalmente: e chi se ne frega. Due
minuti dopo era in cortile. Scese di corsa tre rampe di scale e si guardò
intorno cercando disperatamente con lo sguardo lei, la seduttrice,
l’ammaliatrice, la strega dalle lunghe ciglia svolazzanti. “Giulia!” La fermò
sorridendo – perché Mircea sorrideva sempre a chiunque dalle altezze vertiginose
del suo buonumore perenne –.
Lei si voltò sbattendo
vagamente le ciglia. “Sì, Cea?”
Cea si impose di chiarire a
Lelio, quando l’avesse visto e quando il pericolo di collasso dell’universo
fosse cessato, che Giulia non era affatto innamorata di lui, ma di qualsiasi
ragazzo che fosse minimamente bello. “Hai visto Lelio?”
Lei sembrò un po’ delusa. “Non
devi sempre rincorrerlo, sai.”
“E’ lui che semina le
bricioline.”
Lei ci pensò un attimo. “E’
andato a prendersi un caffè.”
Era prevedibile, considerata la
dipendenza di Lelio da nicotina e caffeina. La salutò gentilmente e ripercorse
al contrario le solite tre rampe di scale fino alle macchinette di erogazione
automatica. Cea lo poteva scorgere anche tra una folla di gente ammassata e
rumorosa – alto, slanciato, i lunghi capelli neri raccolti ordinatamente dietro
la schiena in una coda perfetta, bellissimo anche visto da quella posizione. Il
suo fascino dark spandeva un’aura magnetica attorno alla sua persona. Arrivando
fugacemente, Mircea si accorse che molti lo stavano guardando.
“Lelio!” Gridò dal
pianerottolo. “Fine delle ostilità!” Dichiarò.
Lelio si voltò, - eccoli i suoi
occhi verdi tanto penetranti! – Pensava lanciandosi su di lui. “Scusa-scusa-scusa!”
“Cea non c’è bisogno di
saltarmi addosso in mezzo a tutte queste persone!”
“Non sei arrabbiato con me,
vero?” Cea sbatté gli occhioni azzurri irresistibili.
Lelio lo abbracciò teneramente.
Era una sensazione che non si spiegava, ma di cui non riusciva a vergognarsi.
Lui era sempre grave e scostante, piuttosto di cattivo umore, riflessivo,
distaccato, immerso in contemplazioni intelligibili e, genericamente serio.
Serio con qualunque altra persona che non fosse lui. “No,” Gli sorrise.
III.
C’erano due persone che Lelio
amava sopra ogni altro nella sua vita, ed erano Mircea e sua sorella Ottavia.
Mircea, perché si conoscevano fin dal giorno in cui erano nati; Ottavia perché
nonostante abitassero in due case differenti, in due quartieri differenti, e si
dividessero i genitori in maniera equa, erano riusciti a mantenere un contatto
strettissimo e affettuoso. In realtà Lelio si considerava molto vicino alla
misantropia, e sicuramente un misogino. Se erano pochi i ragazzi che stimava,
praticamente nulle erano le ragazze con cui aveva un dialogo che andasse oltre
la provocazione.
Mircea era il suo esatto
contrario, a volte pensava, la sua compenetrazione, la sua controparte, il
bilanciamento del suo microcosmo. Gli sembrava impossibile che dopo tutto il
tempo trascorso assieme, dopo diciotto anni di quasi-convivenza, avessero potuto
sviluppare idee radicalmente opposte nei confronti del mondo. Se Cea era
caotico, Lelio era ordinato fino a livelli maniacali. Se Cea era costantemente
allegro e spensierato, lui si rabbuiava per cose da nulla e pensava tanto,
troppo. Se Cea sorrideva sempre bonariamente e voleva bene a tutti senza farsi
influenzare, lui non sopportava più della metà delle persone che conosceva e con
cui doveva interagire. Se Cea era un equilibrio perfetto e solare, lui era gli
estremi della passione portati allo sfinimento. Nonostante queste differenze
abissali ed incolmabili, gli voleva bene con tutto il cuore. A volte pensava di
amarlo come un secondo fratello. Non stava particolarmente bene. Non era felice
perché non era soddisfatto. Questo Mircea lo vedeva, sentiva il suo movimento
continuo, la sua spinta ed il suo slancio verso una situazione migliore, la
tensione che scorgeva la Felicità, senza mai afferrarla, senza mai capirla.
Proiettava timidamente i suoi limpidi raggi di sole.
“Sapevo che si sarebbe
ingelosito. Sono andato da lei solo per dirle dove trovarmi. Ho lasciato una
scia per essere seguito. È morboso, secondo te?”
“Dipende.” Lei guardò fuori
dalla finestra con una certa preoccupazione.
“Lo adoro e basta, Ottavia.”
Un’altra pausa caffè. Lelio si
nascondeva dietro l’armadio del corridoio per non essere trovato fuori classe
dal suo professore di filosofia che continuava misteriosamente ad andare avanti
e indietro.
“Sì! Lo sai come la penso.
Siete fatti l’uno per l’altro e vi volete bene e vi amate e starete insieme
tutta la vita felici e contenti, no?”
Lelio la trafisse con lo
sguardo di ghiaccio. “No.” Ammise. Chinò il capo.
“O, come si dice, – without
contrary is no progression. Voi siete la legge dell’ambivalenza. Tout
court.”
Lelio sembrò assorbire per un
secondo quelle parole. “Tu sei ossessionata.” Scosse la testa, appoggiandosi
contro il muro del corridoio. Guardò il cielo che era rimasto bianco e che gli
trasmetteva nell’animo solo una profonda sensazione di vuoto, un bisogno
inconfessabile di qualche riempimento superiore. Si sentiva malinconico e
triste. Non capiva nemmeno perché. L’ansia, quello strano senso di soffocamento
interiore, lo colpiva di tanto in tanto quando, pensieroso e sconvolto, si
perdeva nella sconfinata immensità dei suoi pensieri come in un naufragio
dell’intelletto.
“E’ strano sai,” Gli disse lei.
“Tu sei bello, intelligente e fortunato. Dovresti essere felice.”
“Dovrei.” Scosse la testa. “Ma
c’è un’inquietudine che mi lacera dentro. Una paura di non so quale
cambiamento.”
“Mm.” Lei scosse la testa.
“Capisco.”
Veramente Ottavia capiva sempre
tutto.
___
Martedì ho passato l'esame della patente!
Ok, era solo teoria, ma ero gasatissima e ho deciso di postare questa cosa che
giaceva ignorata da mesi tra i miei documenti.
Presentazioni: Io amo il nome Mircea. E' un
nome sconosciutissimo, ne ho contati due in tutta la Storia, il fratello di
Dracula (sì, si chiamava così) e un certo Mircea Eliade, uno studioso rumeno di
religioni ed esoterismo. Infatti è un nome slavo, deriva da 'mir', che in russo
vuol dire 'pace'. Mircea è qualcosa di biondo, chiaro, buono, scintillante, un
po' tonto a volte, lento e incasinato in tutto ma tanto tanto dolce e carino,
insomma, è il polo positivo. Lelio è più complesso e non ve lo sto a raccontare.
E' un esteta, ed è quello che incarna di più il mio pensiero. Per quanto
riguarda Ottavia... oddio, spero di non aver creato una Mary Sue! Lei sa tutte
le poesie a memoria, e a volte bisogna interpretarla perché parla per citazioni.
Come me conosce un sacco di ragazzi bellissimi a cui piacciono i ragazzi
bellissimi, per questo è ossessionata dallo slash e cerca con tutte le sue forze
di fare innamorare Mircea e Lelio. Ne è proprio convinta. Il Cerbiatto, detta
Giulia, per quanto vi sembri strano è un personaggio vero, una mia compagna di
classe che noi chiamiamo Piccolo Cervo perché sbatte le ciglia che sembra Bambi.
E' una ragazza simpatica, ma a volte sbatte le ciglia un po' troppo... E la
Belva... Beh, la Belva la incontrerete. E' il dio del tuono...
Non so perché non vengono gli
spazi. Scusatemi, non so usare il computer.
Sabato nove Dicembre,
Una retrospezione dalla
parte di Lelio – una digressione temporale; un bigliettino; un sogno indefinito
e alcune tragiche implicazioni trotterellanti di nome Vittorio
I.
Io e Mircea siamo nati lo
stesso giorno per una strana coincidenza. In realtà siamo vicini di casa. Quando
i miei genitori hanno divorziato, e mio padre se ne è andato portandosi via i
miei tre fratelli, io sono rimasto in quell’appartamento del centro città,
accanto al suo, riversando il vuoto di una perdita così grave e profonda
interamente sulla sua fragile spalla. In un certo senso credo abbia preso il
posto di tutti gli affetti che mi sono improvvisamente mancati.
La sera in cui per la prima
volta dovevo dormire senza Ottavia, avevo nove anni, mi sentivo così solo e
abbandonato che piansi per ore e ore nel cuscino. Ricordo che aprii la
portafinestra sul balcone che comunicava con la stanza di Cea, in piena notte, e
bussai delicatamente finché lui, un po’ assopito, non mi aprì. Mi addormentai
nel suo lettino. Da allora dormiamo nella stessa stanza ogni notte da quasi
dieci anni, e non ci è mai venuto in mente di interrompere questa abitudine. È
una cosa dolce e allo stesso tempo devastante. Mi è capitato di dormire con
altre persone, in modi decisamente più intimi, eppure in nessuna di quelle
occasioni sono riuscito a ritrovare il calore affettuoso che mi trasmette Cea
con la sua semplice vicinanza e col suo modo calmo di dormire soffiandomi sulla
guancia mentre respira.
Quella notte non riuscivo a
prendere sonno. Capita molto spesso alle persone ansiose come ero io. Osservavo
il soffitto buio cercando di scorgere attraverso l’immaginazione dei disegni
interessanti, delle luci fantasmagoriche o qualche passaggio verso un’altra
dimensione. Cercai di alzarmi senza fare rumore ed uscii sul nostro balcone.
Mi accesi una sigaretta e
sospirai sonoramente. I capelli mi ricadevano lunghi, forse troppo, sulle
spalle. Mi guardai intorno e fui come catturato in un vortice che mi conduceva
in basso, sempre più in basso, verso una caduta vertiginosa. La notte era
placida e serena, una di quelle che sembrano fatte apposta per restare svegli a
sognare ad occhi aperti, incantati in qualche immaginifica rêverie, o per
sussurrare parole dolci che si perdono nel vento. Le stelle dipingevano bagliori
lontani e siderali, quasi freddi nella loro distanza irraggiungibile.
Qualcuno aprì la porta dietro
di me e mi appoggiò una coperta sulle spalle.
“Scemo, non puoi rimanere fuori
sul balcone a congelare in queste lunghe notti d’inverno.” Cea aveva un tono
melodrammatico. Si sedette accanto a me e si avvolse nella coperta che mi aveva
portato. Lui non sa sopportare il freddo, e decisamente non lo sa apprezzare
come me.
“Sai, tutto questo pallore –
rischiara quasi la notte.”
“A me mette i brividi.”
“Trovi? Di solito sei felice
per nulla. Sei felice anche per la neve, perché riesci a trovare una bellezza
particolare dentro ogni cosa. Ma io sento solo un grande vuoto.”
“Puoi sentire un vuoto?
Non ha molto senso.”
“Non c’è l’ha, sì.”
Cea appoggiò il capo contro la
mia spalla. In fondo lui capiva che quella desolazione nottilucente non era
altro che un ricordo terribile dei legami che erano stati spezzati nella mia
vita.
“Non hai niente da dirmi?”
Scossi la testa. Non era
veramente una bugia – io non dovevo dire nulla, perché fondamentalmente non
capivo nulla. Provavo questo strano senso di sconforto nel mio petto, eppure
non lo sapevo riconoscere, non lo sapevo delineare, non riuscivo a definirlo in
una parola, in uno stato d’animo preciso.
Una stella brillava più delle
altre. Fissai il mio sguardo dritto alla sua luminosità, e decisi che quella
stella era Mircea. Tutte le volte che l’avessi guardata, mi sarei ricordato di
lui, di quella notte, del mio vuoto nella maniera assurda e talvolta insensata
in cui il flusso di coscienza e le associazioni di idee riescono a rievocare il
ricordo vago di un particolare, di un momento, di un’emozione attraverso
determinate percezioni.
II.
Cea cercava di nascondersi il
più possibile dietro alla pila di libri posata sul suo banco – perché riusciva
ad essere estremamente caotico anche a scuola. Si era appiattito contro la
superficie di compensato e pregava rivolto verso il crocifisso mentre l’indice
del professore di matematica scorreva perfidamente i nomi riportati sul
registro. Purtroppo lui si chiama Vanni, ed è l’ultimo dell’elenco in ordine
alfabetico. Questo facilita incredibilmente la sua estrazione senza per altro
invogliarlo a studiare matematica.
Scribacchiava qualcosa.
“Vanni!” Si alzò come un
condannato a morte e si trascinò verso la lavagna che per lui, presumibilmente,
doveva possedere la stessa malvagia voracità un buco nero in espansione.
Lo guardai allontanarsi con
aria afflitta e mi sentii improvvisamente molto solo e stretto nella mia
malinconia da ultimo banco occultato contro il muro. Era un bene. In un certo
senso, quando non ero particolarmente rattristato per Tutto-il-male-del-mondo,
mi piaceva stare da solo per un po’ di tempo. Serviva per pensare e per
analizzarmi con calma e tranquillità. In quei giorni pensavo di non riuscire più
a sopportare la presenza costante di persone attorno a me che non fossero sulla
mia lista buona, e questo mi indispettiva acuendo il mio proverbiale mal du
siècle, come diceva Ottavia.
Io ho il mal
du siècle!Pensavo, e più pensavo, più ci
cadevo, sprofondando come nelle sabbie mobili.
In realtà continuavo a
riflettere sul significato nascosto della mia dolce stellina risplendente sul
capo delle notti insonni, mentre tutto il resto del mondo dormiva placido e
tranquillo sotto una coperta di buio e di neve. Voltai la testa verso la
finestra. Il cielo era livido e tumultuoso, prossimo ad una nuova nevicata,
solcato da correnti invisibili e da nubi pesanti che rotolavano
rocambolescamente sulla sua superficie bassa e dolente, come
Quand le
ciel bas e lourd pèse comme un couvercle
Sur l’esprit
gémissant en proie aux long ennuis,
Et que de
l’horizon embrassant tout le cercle
Il nous
verse un jour noire plus triste que les nuits ;
mi provocava solo un convulso
senso di malessere ed un’agitazione inesprimibile. Avevo voglia di scappare.
Appoggiai la testa contro il banco – c’era un bigliettino scritto da Mircea
nella sua bella calligrafia, l’unica cosa in lui che fosse decentemente
ordinata. Diceva:
Quando leggerai questo
biglietto, per me sarà troppo tardi. Il tuo pessimismo, vedi, ha spezzato
l’Equilibrio Cosmico che tentavo di preservare, e ora sarà la fine, la caduta,
il collasso, il declino, il disfacimento, il clinamen, l’Ade, l’Averno, la
Morte, la ghigliottina, l’ordalia, il Giorno del Giudizio. Non ti devi
sentire in colpa.
Pensai che era un modo stupido
per convincermi a sentirmi in colpa. Ritirai il biglietto e mi rimisi a scrutare
laconicamente le nuvole in movimento nel cielo, così affaccendate e così
ipnotiche nel loro vuoto sonnolento, nella dolce lentezza delle loro forme
soffici eppure terribili.
III.
Vittorio era bellissimo,
biondo, riccioluto con due occhioni azzurri come il mare, la pelle rosea,
fresca, soffice di una pesca, i denti bianchi, il sorriso smagliante, le labbra
rosse a forma di cuore e una risata squillante che ti faceva perdere la testa.
Mircea lo amava alla follia, lo adorava, lo venerava quasi quanto la stabilità
dell’universo. Era una creatura deliziosa che a volte mi ingelosiva nella sua
meravigliosa purezza.
Noi lo chiamavamo
affettuosamente Thor, come il dio del tuono, e siccome suo padre era morto poco
dopo la sua nascita, e Mirca era diventato l’uomo di casa, si prendeva cura
della sua graziosa fragilità. Oramai aveva quasi tre anni e cominciava a
parlare. I bambini sono bellissimi quando cominciano a parlare e ti sussurrano
cose dolci nell’orecchio. Dopo la nascita di Vittorio ho scoperto di odiare gli
adulti ma di amare i bambini.
Quel pomeriggio stavamo facendo
il riposino. Fuori nevicava. Io non avevo dormito tutta la notte così decisi di
fargli compagnia, mentre Mircea provava a studiare. L’atmosfera di quella
giornata lugubre e pesante mi spingeva soltanto nel lettuccio comodo. Presi in
braccio Thor e ci infilammo insieme sotto le coperte.
Il suo corpicino tutto caldo e
fremente di vitalità mi scaldava in una maniera tenera che non si sarebbe mai
aspettato, mi accarezzava quasi di una consolazione straordinaria. Sbadigliando
strinse i pugnetti morbidi tra i miei capelli lunghi.
“Buonanotte!” Disse sistemando
la testolina contro il mio petto. Lo sentii tremare un po’ dal freddo.
“Thor –“ Gli sussurrai piano.
“Tu pensi che io sia triste?”
“Tu sei sempre un po’ triste.”
“Sì?”
“Sì.” Annuì col capo.
“E secondo te perché sono
triste?”
“Perché ti manca il tuo papà.”
Rispose con naturalezza, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Pensai un attimo. “A te non
manca?”
“Io ho Cea e te.”
“Non è come avere un papà.”
Non mi rispose. “Ti manca anche
una come la mamma, secondo me.”
Poi si addormentò sulla mia
spalla. Gli baciai la fronte e stringendolo forte mi addormentai anch’io in
pochissimi minuti.
Ho riavuto il mio piccy... che
cosa meravigliosa Y___Y
Lunedì undici dicembre.
Un viaggio in metropolitana;
degli zuccherini colorati che affogano; alcune notizie buone, molte notizie
cattive. Una lezione di estetica.
I.
A Mircea non interessavano
molto la compostezza e la misura. Neanche quando era in metropolitana. Si sedeva
occupando due sedili ed appoggiava la testa sul petto di Lelio lasciandosi
cullare dagli scossoni del treno in marcia, a volte addormentandosi, a volte
studiando, a volte semplicemente guardando il vuoto fisso delle luci
artificiali.
Quella mattina, Lelio non
sapeva perché, gli sembrava particolarmente bello. “Sei particolarmente bello,
oggi.” Gli aveva detto mentre scendevano in ascensore. Qualcosa lo faceva
risplendere di una radiosità raggiante. Probabilmente era solo un effetto della
candida sciarpa di lana bianca che gli incorniciava il volto di una luminosità
straordinaria, e che si rifletteva sui suoi capelli biondi e nei suoi occhi
chiari. La frangetta gli ricadeva scompostamente sulla fronte donandogli un’aria
sbarazzina, mentre i folti capelli scivolavano sulle sue spalle e sulla sua
schiena in riccioli perfetti.
Anche in questo lui e Cea erano
estremamente diversi. Mircea si vestiva in maniera molto svogliata e casuale,
sempre disordinata, noncurante degli accostamenti cromatici e delle stoffe.
Amava molto il rosso, specialmente l’amaranto, il bianco, il verde e l’azzurro
che esaltava i suoi occhi cerulei. Lui, invece, vestiva solo di nero. Sempre
nero. Ottavia diceva che il gotico era una cosa di famiglia, ma di certo lui
esasperava questa tendenza – nella maniera in cui esasperava ogni cosa. Il suo
guardaroba era un disastro inestricabile, un’immensa macchia monotona, scura e
buia. Non solo preferiva uno stile dark molto appariscente, gli piaceva anche
truccarsi. Aveva una collezione di accessori invidiabile, soprattutto orecchini
pendenti e cinture. Portava i capelli decisamente lunghi, cosa che risaltava
ancor di più il suo aspetto efebico, volutamente femmineo all’eccesso. I capelli
di Mircea, invece, erano sempre spettinati, se nessuno li sistemava per lui.
- Forse, - Pensava, - Il mio
Thor un giorno sarà splendido come te. – Perché oramai considerava Vittorio un
po’ anche figlio suo.
Mircea si appoggiò contro la
spalla di Lelio con la delicatezza che il suo fratellino aveva usato il
pomeriggio precedente, e si addormentò respirando piano. Lelio lo abbracciò. Si
sentiva vagamente infatuato, come se il suo profumo tanto dolce lo inebriasse.
Gli sembrava normale stringerlo, quanto lo era stato stringere Thor. Nel suo
petto batteva sempre la stessa sensazione di contentezza e di ansia
inspiegabile.
Lelio intuiva chiaramente, in
quel vagone freddo e deserto, che se da un lato Mircea emanava una luce candida
e delicata, lui offuscava ogni cosa con la sua ombra oscura. Questo lo spaventò
abbastanza. Era in momenti del genere, quando Cea non lo riportava a terra con
la sua voce sincera, che si perdeva in certe fantasie deraglianti. Non era
possibile, si disse, che fossero davvero così diversi, altrimenti se ne
sarebbe accorto molto, molto prima.
II.
Tutte le volte che facevano
colazione al bar, prima di entrare a scuola, Mircea ordinava “una cioccolata
calda con panna e zuccherini colorati e una brioche al cioccolato gianduia con
scagliette di mandorle e zucchero a velo”, mentre Lelio prendeva “il solito
caffè dall’aromatica e fortissima miscela ecuadoriana”. Era una sorta di rito
del buongiorno che si concedevano da sempre e che avevano imparato a prendere
come una delle tante cose riservate per loro due, soli.
Il bar era vicino alla loro
scuola, ma un po’ nascosto. Si chiamava ‘Ambra’ perché quella tinta dominava il
suo interno. A Mircea era piaciuto dalla prima volta che c’era passato davanti
perché aveva le vetrate colorate di rosso, di bordeaux, di giallo, d’oro,
d’arancio, d’ocra in stile liberty. Pensò che doveva essere luminoso in una
maniera molto particolare all’interno. Era uno spazio piccolo e raccolto, i
pochi tavolini erano bassi, di lacca nera con particolarissime decorazioni
floreali rosa, azzurre e arancioni, tutti coperti da tovaglie rettangolari di
stoffa simile al taffettà ricamate a disegni geometrici, sfilacciate ai bordi. I
tantissimi cuscini sparsi sulle sedie, sulle poltrone e sui divanetti erano
foderati della stessa stoffa. Su ognuno di questi tavoli erano poste piccole
lampade a forma di campanula rovesciata, stile Tiffany e decisamente retrò. Le
pareti erano tappezzate da carta da parati color avorio, oro e rosso, molto
rosso, ed ospitavano gli oggetti etnici più particolari e suggestivi. Il locale
profumava di incensi buonissimi. La specialità dell’Ambra era una brioche al
miele e cannella e scagliette di cioccolato bianco che persino Mircea trovava
troppo dolce. Era un posto ricercato e particolare anche nella carta – “Ma se
par chance volessi un banalissimo espresso?” Aveva detto Lelio la prima
volta. Poi aveva assaggiato il caffè dell’Ecuador e ogni cosa aveva ritrovato il
suo posto nel complesso disegno dell’Equilibrio Cosmico.
Così si sedettero nel loro
solito tavolino appartato, e Mircea tirò fuori il libro di letteratura italiana.
“La notizia buona,” Disse Lelio
quando arrivarono le ordinazioni, “E’ che mentre tu eri colpevolmente in giro
per i corridoi, la prof. ha detto che la verifica sarebbe stata rimandata alla
settimana prossima.”
“La notizia cattiva,” Rispose
Mircea, “E’ che è entrata la Giulia.”
Lelio si nascose dietro lo
schienale del divanetto reprimendo un brivido di terrore, mentre Mircea
scompariva con la sua solita abilità dietro una carta, mescolando la cioccolata
con aria preoccupata.
“Lelio!” Sussurrò. “Ho un’altra
brutta notizia. Ho affogato i miei zuccherini nel mare di cioccolata.”
“Ci sente, Cea, il Cervo capta
tutto. Zitto. Nasconditi meglio.”
“La bella notizia è che ho
ancora altri zuccherini colorati. Quelli rosa affondano più in fretta. C’è una
spiegazione fisica per questo?”
“Non guardare gli zuccherini!
Tieni d’occhio il Nemico!” Lelio si abbassò ancora di più.
“Non è il nostro Ne – cattiva
notizia. Mi ha visto.”
“Ti odio. Odio te e i tuoi
zuccherini. Specialmente quelli rosa.”
Giulia si avvicinò perplessa al
tavolo. “Che fai?” Esclamò.
Lelio, che era scivolato così
in basso da essere finito sotto il tavolo, rispose: “Oh, ho perso il mio
orecchino, che sorpresa, toh, guarda, l’ho trovato!”
“Io non vedo niente!”
Lelio urtò il tavolo con la
testa mentre cercava di alzarsi. Imprecò mentalmente contro la perversione
dell’Equilibrio Cosmico che faceva scontrare il suo Pianeta con
l’Asteroide-Femmine.
Mircea era comunque allegro per
i suoi zuccherini salvi. E poi lui era il buonumore, voleva bene a chiunque,
anche al Piccolo Cervo dalle ciglia svolazzanti.
Lelio si rassegnò appiattendosi
contro lo schienale del divanetto, preparandosi per una interessantissima ora di
conversazione.
III.
Un’altra pausa caffè. Lelio non
poteva resistere per molto tempo senza caffè, o senza pause caffè. E poi,
ultimamente, le lezioni di letteratura inglese erano noiose. Si era nascosto
dietro la siepe del cortile, esposto al freddo dicembrino, con la sua sigaretta
in mano e il bicchierino vuoto del caffè. Pensava. Di nuovo. E forse, questa
volta, faceva un po’ di chiarezza nella sua testa.
Il suo problema fondamentale,
in quel momento provava ad analizzare, era la sua mania dell’ordine, un bisogno
compulsivo di avere tutte le cose perfettamente a posto e a portata di mano,
ogni dettaglio nel suo quadro speciale – anche i pensieri – anche i sentimenti.
Questo provocava grandi scompensi nel suo animo, perché, lo capiva, le emozioni
non sono una cosa ben definita e schematizzabile razionalmente. La sua parte
precisa gravava fortemente sul suo lato passionale, e questo scontro lo faceva
impazzire ogni volta che si trovava di fronte a un problema che il primo livello
di se stesso non fosse in grado di risolvere. Affezioni, legami emotivi,
sentimenti, tormenti, dolori, tutto questo gli scivolava via dalle dita
facendolo soffrire di quella sua strana, romantica malinconia, di quel suo
impulso all’isolamento e al percorso interiore, di quella noia e di quella
sopraffazione che lo destabilizzavano.
In momenti simili, Lelio
costruiva per sé una barriera che nemmeno Mircea sarebbe stato in grado di
scalfire – si limitava a perdersi nella contemplazione di qualche dettaglio e a
lasciarsi trascinare da un flusso di pensieri invincibile, per svegliarsi mille
miglia più in là rispetto al punto di partenza.
Davanti al suo sguardo basso,
rattristato, freddo, si stagliava un albero morto nel grigiore dell’inverno.
Lelio pensò che un albero è comunque fortunato a morire in questa maniera
ciclica, perché la rigenerazione rende splendidi nel momento della rinascita.
Pensò anche che l’ordine e la precisione che lui cercava così tanto, e che in
natura si trovavano dentro ogni proporzione, in ogni segmento, in ogni traccia,
fossero il fondamento di ogni credo, di ogni fede, di ogni aspirazione – la
Bellezza – estetica, spirituale, ma pur sempre Bellezza. Lo intuiva
quando Cea gli parlava scherzosamente della precarietà dell’Equilibrio Cosmico.
L’Equilibrio Cosmico, per lui, era solo la Bellezza. Era la legge che regolava
la nascita e lo sviluppo di tutto ciò che è bello, fino alla sua morte, fino
alla sua rinascita nella primavera dei sensi e della vita.
Lelio si considerava sotto
molti punti di vista un esteta. Amava la Bellezza e si circondava di cose belle,
di persone belle. Di questo poteva essere sicuro. In ogni opera d’arte scorgeva
quel disegno imprescindibile dell’universo, la mano creatrice di Dio, l’armonia.
La Bellezza. Questo era il suo punto di riferimento. In esso trovava una piccola
consolazione a Tutto-il-male-del-mondo, una compensazione della bruttura di
certi momenti umani. La Bellezza era sublime e divina, trascendente e sacra. Per
lui era una filosofia, uno stile di vita che nella sua smania si avvicinava
all’edonismo. In fin dei conti, si diceva, la Bellezza suprema era il suo unico
approdo, il punto in cui l’ordine e la passione, i due poli opposti del suo
essere, si incontravano toccandosi e coincidendo perfettamente, salvandolo dalla
sua dicotomia lacerante: - C’è ordine nella bellezza del caos di Kandinskij, e c’è
passione nella bellezza ordinata di Michelangelo. La poesia è dirompente, eppure
metrica. Una chiesa è meravigliosa per la solidità rigorosa della sua pianta, e
tutta protesa verso Dio in una foga appassionata. –
Quella mattina Lelio risolse
uno dei tanti interrogativi che balenavano nella sua testa da qualche tempo – e
precisamente per cosa consacrare la sua vita alla fine di quell’ultimo anno di
scuola superiore. Doveva solo dirlo a Mircea.
___
Grazie Cipolla che mi ha
commentato. Molko Grazie (Molko *ç*). In realtà è una citazione che sono sicura
di aver già fatto almeno una volta. La uso sempre perché l'ho veramente
interiorizzata. Ma io amo la poesia francese, ecco...
Questo capitolo è stupido, ma
per favore commentatelo! Mi scuso per l'ultimo paragrafo, ma Lelio sono io, e
dovevo dire a qualcuno o a qualcosa queste elecubrazioni... il computer mi odia,
ora.
Una conversazione
introspettiva che inneggia alla notte; un post-it fosforescente. I fratelli
mancanti.
I.
La sua sola presenza
manifesta
Il meraviglioso splendore
Dei reami del mondo.
(Novalis; Primo Inno alla
Notte)
E mentre questo mondo si
addormentava freddo, mentre gli occhi delle persone si chiudevano dolcemente
accarezzati dal velo delle tenebre dischiuse nel cielo, mentre le percezioni si
perdevano in riverberi onirici e sfumature indistinte; due ragazzi rimanevano
sveglie nel cuore della notte scintillante. O meglio, uno era sveglio, mentre
l’altro tentava di non assopirsi sui cuscini soffici.
Lelio continuava a leggere dal
suo libro con una certa scintilla negli occhi. Mircea, sdraiato sul letto a
testa in giù per evitare di chiudere le palpebre, cercava di essere di compagnia
il più possibile.
Non un rumore usciva dalla loro
camera – parlavano in sussurri. La loro piccola stanza segreta era una bolla di
vetro imperturbabile preservata dall’oblio precipitato sul mondo-di-fuori. Tra
le quattro mura calde e intime dimoravano parole sospese e l’Equilibrio Cosmico.
“Hymnes an die Nacht!”
Disse Lelio all’improvviso, trascinando di nuovo Mircea nella sua realtà. “Lo
sai cos’hanno di speciale, e di così straordinariamente commovente?”
Mircea era troppo stanco per
riflettere.
“La Notte! Non è così stupido,
se ci pensi- è il senso di tutto il romanticismo. Dicono qualcosa di utile, i
romantici? Forse sì e forse no. Dicono qualcosa di vero? Non lo sappiamo. Dicono
qualcosa di bello. Di esaltante, di evocativo. Questo li pone, sotto un
certo punto di vista, ad un livello artistico superiore. La loro fantasia è
trascendente. Combinano le stagioni col cuore umano. Io mi posso innamorare di
un verso qualsiasi, di una pagina qualsiasi di Schiller, di Coleridge, Di Hugo –
non tanto perché esprimono idee giuste, ma perché dipingono immagini più
sconvolgenti di molti quadri.”
“Già.” Rispose Mircea. “Hai
intenzione di leggerlo tutto questa notte?”
“E’ una notte bianca.”
“La notte è fatta per dormire,
Lelio.”
“La notte è fatta per amare.”
“Amare un libro?”
“Per amare quello che c’è
dentro. Non sono parole, sono qualcosa che supera lo schema delle parole, è la
loro metafisica, è il significato che si portano dietro, ed è sempre la stessa
straordinaria teoria dell’associazione di idee. Mi posso appassionare fino a
dimenticare il sonno in certe visioni.”
“Lelio?”
“Sì?”
“Leggi nella tua mente ed
assimila ogni emozione che il tuo cuoricino ti suggerisce, poi, se vuoi, se
senti la tua anima grandiosa traboccare del sacro fuoco dell’Arte e della
Bellezza, non tentare di svegliarmi, ma aspetta domani mattina per
raccontarmi ogni cosa. Grazie, Buonanotte, Ciao.” Mircea si girò nel letto e
decise finalmente di volersi addormentare.
“Oh, no, Endimione! Non
dimenticare la tua Luna!”
“Zitto.”
Mircea era illuminato
fiocamente dalla lampada bassa che faceva luce a Lelio. I suoi capelli
splendevano nel buio della stanza e della Città; la sua figura trasmetteva una
tranquillità e una dolcezza meravigliose.
Lelio lesse tutti gli Inni alla
Notte. Fino all’ultima riga. Si sentiva pieno di una passione riverberante e di
quel senso notturno che Novalis gli aveva mostrato. Sapeva che non sarebbe
riuscito a dormire un solo istante, almeno fino a che non avesse albeggiato.
Cioè quando si sarebbe dovuto svegliare. Coprì bene Mircea che sognava
placidamente e rimase seduto ai piedi del letto fino al mattino. Per un po’ di
tempo rimase incantato a guardarlo come se appartenesse a una di quelle visioni
romantiche e tutte indefinite. Nel suo petto volava sempre quello strano senso
di inquietudine ed ansia.
Aspirami in te,
amato, con forza,
perché mi addormenti
e impari ad amare.
(Novalis; Quarto Inno alla
Notte)
II.
Mircea si risvegliò da solo nel
letto, tardissimo alla mattina. Sulla porta era attaccato un post-it giallo.
“Ossignore, prende gli occhi!”
Annunciò sbadigliando. Il chiarore del giorno investita la stanza. La macchia
fosforescente concentrava tutta la sua attenzione. Diceva:
Sono andato a
trovare i miei fratelli. Impegno imprevisto. Mi dispiace abbandonarti senza
averti fatto un minuzioso resoconto delle mie follie notturne. È tutto vero. Non
so verso che ora tornerò, e non so come potrai vivere senza la mia abbagliante
presenza. Eventualmente, prenditela con Ottavia, grazie. Lelio.
III.
Quella mattina Lelio usciva di
casa da solo sentendosi quasi scoperto su un fianco. La mancanza fisica di
Mircea cominciava a preoccuparlo. Camminò lentamente e rabbuiato anche
all’inizio di quella bella giornata tersa di sole. Ultimamente il clima era
stato grigio, fosco, cupo, invernale. Dicembre avanzava, passava la metà del
mese e si avvicinava a Natale.
Arrivò al locale
dell’appuntamento in perfetto orario – perché lui era puntuale, solo, Mircea lo
ritardava sempre. Entrò nell’elegante pasticceria. Ottavia era già seduta al suo
solito tavolino vicino alla finestra illuminata, tra Die e Nikita. Il granito
nero del tavolo e il tessuto scuro dei divanetti contrastavano nella loro
eleganza con il chiarore proveniente dall’esterno. A Mircea quel posto non
piaceva – “troppo formale, troppo scolorito.” Aveva detto una volta. Ma era
perfetto per lui, o, almeno, per quella parte di lui precisa, ordinata, pulita,
nitida.
Die e Nikita non erano
veramente suoi fratelli, erano figli di primo letto di suo padre, quindi,
rispetto a lui ed Ottavia, erano soltanto fratellastri. Dopo il divorzio dei
suoi genitori si erano trasferiti col papà e con la sua piccola sorellina. Non
avevano una grande differenza d’età, ma non avevano nemmeno lo stesso sangue.
Questo distacco e questa lontananza forzata, avevano scalfito ed parzialmente
inaridito i loro rapporti. C’era stato un tempo in cui, presumibilmente, li
aveva amati molto. Quell’affetto si era conservato intatto soltanto verso
Ottavia.
Die e Nikita erano tutto quello
che si può considerare Perfezione. Die stava per Diego, ma lui odiava il suo
nome. Ventitré anni e una prossima laurea in ingegneria genetica,
intelligentissimo, bellissimo, simpaticissimo, gentilissimo, perfettissimo.
Lavorava come modello per non pesare troppo sulle spalle di papà, che
doveva già sostenere parecchie spese. Ora la sua faccia stava sul retro di tutti
i giornali vagamente glamour. Alto, fisico scolpito, i suoi stessi lineamenti
molto femminili, due labbra splendide, grandi occhi blu, capelli scurissimi
lunghi fino alle spalle. La sua aura di perfezione luccicava fino a chilometri
di distanza. Peccato che l’unica cosa che avrebbe voluto fare nella sua vita era
suonare progressiv metal.
Nikita stava per Nicola, e
nessun aveva idea di come si fosse potuto trasformare in quel modo. Secondo
Ottavia, Nikita aveva una punta di fascino in più e un punta di intelligenza in
meno rispetto a Die, ma rimaneva comunque eccezionale. Studiava medicina ed era
in pari con gli esami, si sarebbe laureato entro due anni. Anche lui lavorava
come modello, era appena ritornato da New York. E anche lui, ovviamente, era
tutta quella serie di perfezioni encomiabili. Nikita era un po’ più alto di Die,
un po’ meno alto di Lelio e aveva la loro stessa faccia splendida. Occhi
azzurri, capelli lunghi fino a metà schiena e liscissimi, ultimamente tinti di
blu, che era il suo colore preferito. La frangia perfetta completava la cornice
del suo viso meraviglioso e sensuale. Al contrario di Die, che vestiva molto
simile a Lelio, era esasperato dalla moda e dalle firme. Non usciva di casa se
non era assolutamente in ordine e perfetto, ma soprattutto se non aveva i suoi
occhiali da sole, di cui aveva una collezione vastissima e milionaria. Nikita
sembrava all’apparenza inscalfibile nella sua totale superiorità rispetto ai
comuni mortali, ma, come Die sapeva, i figli non sono mai perfetti.
“Sono arrivato.” Lelio li
salutò sedendosi al tavolo.
“Ciao!” Ottavia saltò sul
divanetto. “Stavo loro dicendo che quella cosa.”
“Cosa?”
“Sì, che ti avevo detto quella
cosa. O avevo detto a Cea di dirti quella cosa. O cosa?” Guardò il vuoto
inclinando la testolina.
“Cosa?” Ripeté Lelio. Nikita
rise.
“Cioè, volevo dire che per
Natale papà mi ha chiesto di andare con lui a Parigi. Deve presenziare a qualche
riunione non-so-cosa il ventitré, e allora coglie l’occasione per un bel
week-end. Te l’avrei detto se non fossi stato impegnato a sfuggirmi.”
“Non sfuggivo a te, sfuggivo al
Cervo. È diverso. Tu non sbatti le ciglia con quella potenza impressionante.”
“Non ti farai scoraggiare da un
battito di ciglia, vero?”
“E’ mortale! Tu non ti rendi
conto del pericolo, quella può ipnotizzare.”
“Oh, la dovreste conoscere!”
Ottavia si rivolse ai due fratellastri. “Si chiama Giulia, ma noi la chiamiamo
Piccolo Cervo perché ha le ciglia come Bambi e continua a sbatterle pensando di
essere seducente.”
“E’ carina…” Disse Lelio
timidamente.
Ottavia lo fulminò.
“Solo perché non hai le sue
ciglia non significa che sia sbagliato sbatterle in continuazione.”
“Sai, Lelio, credo che le dirò
che trovi le sue lunghe ciglia flessuose molto attraenti.”
Lelio sbuffò. Andò al banco per
ordinare qualcosa di dolce e guardò di lontano il modo affettuoso in cui Ottavia
chiacchierava con Nikita di qualche trucco miracoloso per esaltare le ciglia –
perché stava facendo le imitazioni del Cervo. Die era soprappensiero.
“Divertente?”
“Le mie imitazioni sono uno
spasso.”
“Hai davvero intenzione di
lasciarmi solo per Natale?”
“Oh, no!” Rispose lei. “Tu stai
con Mircea. Lo sai, prima o poi papà lo chiederà anche a te, ma tu rifiuterai
come al solito, perché non passeresti mai Natale lontano dal tuo amore.” Sbatté
un po’ le ciglia.
“Chi? Chi è il tuo amore?”
Chiese Nikita.
“Nikita! Ma è Mircea!”
“Ah! Il nostro fratellino si è
innamorato.” Disse Die.
“Bella cosa,” Aggiunse Nikita.
“Si vede che sei più bello.”
“Io l’ho sempre detto…”
Puntualizzò Ottavia.
“Già, era evidente.” Riprese
Die.
“E poi l’amore è meraviglioso e
la vita è meravigliosa e tutto canta.” Nikita si portò una mano sulla fronte con
aria teatrale.
“Sì, Giulietta!” Die rideva di
nuovo.
“Cea è una persona di cui
ognuno si potrebbe innamorare.” Terminò Ottavia.
Lelio li guardava sconvolto con
la bocca aperta. Riuscì solo a dire – “Cosa?”
Definitivamente sentiva il
rumore dell’Equilibrio Cosmico che si squarciava sopra la sua testa. Si limitò a
guardare il suo caffè con insistenza.
___
Die e Nikita avranno un ruolo
importante tra qualche capitolo. Die soprattutto. Io lo amo. Ma questo non vi
interessa, no? Commentate ^_^
Una retrospezione dalla
parte di Mircea – un sogno assurdo in costume vittoriano; un’ubriacatura
magistrale e prevedibili effetti collaterali del mischiare la birra con molto
altro.
I.
Ricordo di aver guardato i
riflessi colorati dei bicchieri per molto tempo. O forse erano solo minuti. O
forse me lo sono solo immaginato, perché dovevo essere proprio ubriaco. Mi
ricordo questo: era sabato sera, faceva freddo, fuori le strade erano ghiacciate
e Lelio era di cattivissimo umore perché doveva guidare e non poteva bere, così
io avevo consumato anche la sua parte di alcol, perché, gli avevo detto, non si
spreca nulla. Avevo mischiato un po’ di cose, avevo fumato un paio di volte, e
questo era bastato a distruggermi entro le tre e mezza del mattino.
Marino era accanto a me, nelle
mie stesse condizioni. Parlava di cose che non capivo e che mi scivolavano
addosso senza che me ne rendessi conto. Dovevo partire dall’inizio? La mia
percezione temporale era totalmente distorta. In effetti non sapevo più dove
trovare l’inizio, o la fine. Vedevo i bicchierini e le bottiglie scintillare
davanti ai miei occhi di verde scuro e giallo e rosso e blu e di tutte le luci
che di tanto in tanto fendevano il buio dell’ambiente. La musica mi assordava e
mi stordiva ancora di più. Pensai che quei riflessi fossero particolari e quasi
belli, ipnotizzanti. Mi catturavano gli occhi, brillavano e mi incantavano.
“Dov’è Lelio?” Chiesi a Marino.
“Non lo so,” Rispose. “Se n’era
andato con quella ragazza, quella là mora.”
“Mm? Quella che sbatteva le
ciglia con frequenza?”
“Sì”
Ottavia arrivò e si sedette al
tavolo ridendo. Mi guardò coi suoi occhioni castani e cominciò a prendermi in
giro per la mia situazione tragica. Io ero ancora riverso sul tavolo, distrutto.
“Cosa c’è, stella?” Mi chiese.
“Mi gira la testa…”
“Oh!” Si spostò accanto a me e
mi scostò i capelli dal viso. “Sembri triste. Di solito sei allegro da sobrio ed
euforico da ubriaco. È successo qualcosa?”
Non so perché nella mia mente
le emozioni si facevano sempre così intense quando ero fuori della mia persona.
Sentivo una certa voglia di piangere e un senso di sconforto nel petto. Dovevo
avere gli occhi lucidi. “Lelio mi ha abbandonato nel momento del bisogno!”
“Oh, no –“
“Se ne è andato via col Cervo a
fare cose che non voglio conoscere e mi ha lasciato qui da solo col tuo amico
chiacchierone.”
Lei si voltò verso Marino, che
scoppiò a ridere e, intravedendo di lontano qualche conoscenza, si alzò
barcollando e se ne andò. “Non dire così, Cea, gli ho detto di venire perché eri
riverso sul tavolo e lui stava per cadere a terra. Marino è molto simpatico. Ha
lavorato con Die un sacco di volte e suona la batteria davvero splendidamente. È
molto simile a te nell’atteggiamento. Peccato che foste entrambi un po’, come
dire, alticci – avreste fatto amicizia.”
“Sì?”
“Ma si. Mi sembri un po’
svampito. Non piangere per quel cretino di mio fratello. Ora torna.”
“Sicura? Se ne è andato col
Cervo.”
Ottavia fece una smorfia
spaventosa e mormorò qualcosa che suonava molto come I’m gonna kill him and
I’m gonna squeeze him like an orange and I’m gonna chop him in pieces so small
and I’m gonna make a lemonade of his blood –
“L’ho già detto che è un
cretino?”
“Sì, Ottavia.”
“Poi lo sai che ti ama. E che
tu lo ami e che vivrete felici e contenti tutta la vita eccetera, io l’ho sempre
sostenuto.”
“Ma io non voglio che stia col
Piccolo Cervo. Cos’ha il Piccolo Cervo che io non ho? Le ciglia? Posso sbatterle
anch’io, guarda –“
“No-no, Cea, non è il caso.
Stai male. Appoggia la tua testolina leggera sul tavolo e fatti passare un po’
la sbornia.”
“Ottavia, dov’è Lelio? Vai a
cercare Lelio? Per favore.”
Ottavia mi guardò con uno
sguardo che voleva rimproverare, ma che era molto dolce. “D’accordo,” Disse. “Ma
tu non muoverti da qui, eh. Ti mando Marino?”
“No, no.” La sentii vagamente
ripetere:
“O toi dont
je reste interdit,
j’ai donc le
mot de ton abîme. ”
Ottavia conosceva a memoria un
numero impressionante di poesie.
Mi sdraiai sul divanetto
coperto da uno strano senso di malessere esteso a tutto il corpo, e mi
addormentai.
II.
Il cielo era pesante e scuro,
il bosco che stavo attraversando pareva incantato da qualche strano sortilegio
contorto che rattristava gli alberi dai colori violenti ed acidi – viola, verde
marcio, marrone scuro.
E io ero vestito con un
abitino turchese, un grembiulino di pizzo, calzette di seta e scarpe di vernice.
Cosa? Avevo anche un cerchietto tra i capelli.
“Questo non è possibile.”
Mormorai, continuando a seguire le tracce sul sentiero, mentre dietro di me le
mie orme venivano inghiottite e cancellate dalle tenebre.
Le sottogonne di tulle erano
fastidiose. “Non indosserò mica quelle mutandone enormi?” Mi domandai. Poi
scossi la testa. Stavo decisamente impazzendo.
Ricordavo in qualche misura di
essere precipitato per un buco stretto in un luogo che non era un luogo, ma un
incubo delle meraviglie, e di essere passato per una porticina piccola con una
chiave smisurata, di aver pianto fino a riempire un mare, e di essermi arenato
su una spiaggia dove avevo corso la Caucus Race con un Dodo. E mi chiamavo
Alice.
“Io non mi chiamo Alice!”
Esclamai sconcertato in mezzo al nulla della foresta.
“Un nome, cos’è un nome? Alice,
il tuo essere Alice non vincola la tua essenza di Mircea.”
“Lelio!” Era stato Lelio a
parlare. Era sdraiato in una maniera intricata ed impossibile sul ramo di un
albero, ed era completamente vestito in pelle nera. Rimasi un po’ perplesso.
“No, io sono lo Stregatto.”
“E’ tutto così misterioso,”
Protestai sistemandomi la manica a sbuffo del mio vestitino. “Tu sei Lelio. Ne
sono certo.”
“Ne sei certo? Puoi essere
certo di dire di essere certo di qualcosa? E poi, lo sai, Alice, i nomi sono
solo suoni senza senso. Quello che conta è la logica.”
“Ma io non sono Alice.”
Lo Stregatto soffiò.
“Stregattino,” Cominciai
timidamente. “Mi potresti dire verso che direzione incamminarmi per uscire da
qui?”
“Questo dipende in buona
misura da dove tu vorresti andare.” Replicò Lelio.
“Non mi interessa molto dove
–“
“Allora non importa la
direzione.”
“– finché andrò da qualche
parte.” Terminai.
“Oh, sicuramente lo farai,
se camminerai abbastanza.”
Alla fine domandai: “Che
razza di gente vive qui?”
“In questa direzione,”
Disse. “vive un Cappellaio: e in quella direzione vive un Leprotto Bisestile.
Visitali entrambi se ti và. Sono matti.”
“Ma non voglio stare in
mezzo ai matti!” Ripresi.
“Ah, non puoi evitarlo.
Siamo tutti matti qui. Io sono matto. Tu sei matto.”
E poi Lelio cominciò a
scomparire. Dal fondo del bosco una voce mi chiamò. Era il Cappellaio Matto?
Sembrava Marino vestito da Cappellaio Matto.
Mi svegliai improvvisamente in
mezzo a una discoteca. E non avevo nessun vestitino di raso blu.
III.
Il freddo della notte invernale
mi stava risvegliando dalla stanchezza, dallo stordimento, e dall’assurdità del
mio sogno nel Paese delle Meraviglie. Ero uscito nonostante Ottavia mi avesse
chiesto di rimanere fermo – non me lo ricordai prima di essere fuori, comunque.
Il cielo notturno era limpido e
puntellato di stelle luminose, la luna abbagliava di certi chiarori
soprannaturali. Se ci fosse stato Lelio, pensai, si sarebbe sicuramente perso ad
ammirare il cielo, perché lui può passare ore a fissare certi dettagli,
incantandosi nella contemplazione e viaggiando nel suo intricato mondo interiore
di riflessioni.
A volte pensavo di non riuscire
a capirlo.
Il locale era situato sopra un
piano rialzato da molte scale, centinaia di scale, che col freddo e con la neve
erano coperte di ghiaccio scivoloso. Non era una bella cosa alle quattro del
mattino, quando l’equilibrio è già compromesso da altri fattori. Scesi qualche
rampa e mi fermai dietro ad una siepe, in un angolino nascosto. Allora sospirai.
Quel gelo mi permetteva di tornare cosciente di me e consapevole delle mie
azioni, anche se mi sentivo ancora immerso in quel mondo metafisico di Alice.
Ancora volevo vedere Lelio.
___
Perdonate l'idiozia di questo
capitolo. Sì, Mircea è nel Paese delle Meraviglie, io amo Carroll. Lo amo
appassionatamente. Mi fa ridere e inquietare nello stesso istante, il che è
parecchio strano. Le parti in corsivo sono prese pari pari dal libro, il resto è
la mia rivisitazione sul tema. E quella cosa sul ti schiaccio ti trituro e
farò una limonata col tuo sangue non viene dalla mia mente malata e sadica e
macabra eccetera eccetera eccetera, ma era la frase del mio (sigh) ex prof di
inglese, Mr. Rota, che noi amorevolmente chiamavamo Dio per la sua aura di
santità e onnipotenza (essendo vicepreside, sapete...). Mi mancherà, Oh,
Rota. La vita senza Rota è come una banana senza buccia. Su commentate... By ^_^
Susy lo faccio per te. Lo
giuro. Ogni tanto mi ci vogliono anche delle soddisfazioni, e sono contenta e
posterò il nuovo capitolo e ho un sacco di cose da dire ma lo farò alla fine
perché - prima la storia.
Domenica diciassette
Dicembre,
Una svolta di primo mattino;
un Momento Giusto; un Cervo sconvolto e la realizzazione del Piano Diabolico
I.
Lelio non riusciva a
staccarsela di dosso, o a proteggersi dalle sferzate delle sue ciglia sbattenti.
Era misterioso il modo in cui Giulia poteva attaccarsi a un ragazzo senza
riuscire ad andarsene. Ed era pure misteriosa l’inimicizia che correva tra lei e
Ottavia, o gli sguardi colmi d’odio femminile che si erano scambiate quando lei
era venuta ad avvertirlo che Mircea si sarebbe suicidato per la sua defezione.
“Ma è colpa di questa qua!” Gli
sussurrò all’orecchio.
“E allora torna.”
Naturalmente, anche il Cervo
era tornato assieme a lui. Che poi Mircea non ci fosse e che sarebbero dovuti
uscire per recuperarlo non era un motivo sufficiente per abbandonare la presa.
Lelio sospirò infilandosi il cappotto e uscì sperando che cadesse dalle scale.
Invece non successe così.
Trovarono Mircea rannicchiato in un gomito della scala ghiacciata, immerso in
meditazioni sovrannaturali, che fumava una sigaretta.
“Ehi, Cea!”
Lui rialzò lo sguardo su quello
di Lelio e sorrise, dicendo: “Per questa volta ti perdono.”
“Ti sono venuto a cercare.”
“E la Giulia?”
“Oh, ignorala.” Lelio scrollò
le spalle sedendosi accanto lui.
“Cosa?” Giulia cercò di
piegarsi per inserirsi nella loro conversazione bisbigliata. Mircea stava
raccontando la sua allucinazione e lei capì solo vestitino azzurro con
maniche a sbuffo.
Ormai era troppo tardi. Lelio e
Mircea si guardavano negli occhi, sussurravano per capirsi solo tra di loro nel
modo impenetrabile in cui i compagni di una vita si raccontano segreti.
Mircea gli chiedeva: “Perché te
ne sei andato?”
"Mi ha trascinato via. Scusami.
Non pensavo che ti dispiacesse così tanto.”
“Non farlo più quando sono così
ubriaco ed emotivo.”
“Ora lo so. Sei ancora
ubriaco?”
“Non abbastanza. Ma sono ancora
emotivo.”
Lelio lo abbracciò. Gli sfiorò
i capelli con una mano delicata, come avevano fatto tante volte. Ma capì subito
che in quell’abbraccio c’era qualcosa di totalmente differente, e sconvolgente –
non riusciva a slegare gli occhi dai suoi, si sentiva una strana, dolce
sensazione crescere nel petto. Mircea arrossiva e continuava a sfiorarlo con lo
sguardo chiaro. Finché qualcosa si mosse. Qualcuno, forse. Magari tutti e due,
insieme, perché dovevano aver capito che quello era il loro momento.
“Che sensazione particolare,”
Si diceva. “Non starò sognando di nuovo?” Lelio credette di impazzire. Pensava,
fino a un momento prima, che non sarebbe mai riuscito a fare quello che stava
facendo, mentre invece era stato così semplice, così perfettamente naturale,
che non se ne vergognava nemmeno. Era bastato inclinare la testa, sfiorargli le
labbra con le sue, lentamente, gentilmente, con tenerezza, come voleva Cea, far
scivolare il braccio meglio dietro la sua schiena di modo che lui potesse salire
sulle sue ginocchia, e poi rimanere così, sospeso, tra una carezza e l’altra,
tra un calore e l’altro, tra un mormorio e l’altro, mentre il mondo, fuori dalla
loro piccola intimità, perdeva ogni importanza, ogni definizione, ogni
sussistenza.
II.
Quella mattina un Piccolo Cervo
troppo sconvolto per sbattere le ciglia mostrava la sua tessera all’entrata del
locale precipitandovisi dentro con furia. Cercò i soliti tavolini e vide Ottavia
di lontano, sul divanetto blu. Era arrivato anche Nikita. Si avvicinò collerica.
Non disse niente. Si voltò e se ne andò. Davvero.
Ottavia ridacchiò. “Il piano
funziona!”
“Quale piano?”
Ottavia guardò Nikita. Nikita
guardò Ottavia.
“Piano? Ho detto piano? Non
intendevo piano, ma –“
“Ottavia –“ Nikita
pronunciò il suo nome con un accento marcato. “Non avrai istigato di nuovo
Mircea a buttarsi tra le braccia di Lelio?”
“Chi, io?” Lo fissò
teneramente. “Perché dici così? Ho fatto molto di più.”
Prese Nikita per il polsino
della camicia e lo trascinò fuori a spiare gli esiti del piano.
III.
Ora veniva il momento
dell’imbarazzo. Lelio evitava di guardare Cea, e Cea evitava di guardare Lelio.
“Sono ancora seduto sulle tue
ginocchia.” Disse timidamente Mircea tentando di divincolarsi.
“Non fa nulla.”
“No?”
“No.”
Mircea lo abbracciò un po’
stordito, appoggiando la testa sulla sua spalla.
Lelio sospirò. Non si era mai
sentito così confuso in tutta la sua vita, così insicuro, così indeciso sul cosa
fare. Sapeva solo che per un momento il suo strano e profondo vuoto era stato
riempito da una grande soddisfazione, e che quella soddisfazione era seduta a
cavalcioni si di lui, aveva i capelli biondi e, presumibilmente, si stava
domandando che cosa sarebbe successo. Poi il bacio era finito, l’apnea era
finita, ed avevano sentito come il rumore di uno schianto, di qualcosa che si
infrangeva contro quelle scale ghiacciate.
“Stai bene?” Gli chiese.
“Così-così. Mi gira un po’ la
testa.”
“Sei ubriaco. Questo è
sbagliato.”
“Non sono abbastanza ubriaco da
dimenticarmi domani mattina cosa è successo.”
“Cosa è successo Cea?”
Mircea sembrò soppesare nella
sua testa questo pensiero, senza sapere da che parte cominciare a districarlo.
Era un’idea lineare che per lui assumeva una forma contorta, e diventava
indecifrabile.
“Io – credo di aver pensato che
fosse arrivato il nostro momento. Non lo so se –“
“Magari avevi ragione.”
A questo, proprio, Mircea non
sapeva rispondere. Non aveva nemmeno ragione di cosa contenesse un ‘Nostro
Momento’, se fosse importante come un momento di inizio verso qualcosa di
diverso, o se fosse solo un momento bloccato, cristallizzato, isolato dagli
altri momenti, e dovesse rimanere circoscritto ad un particolare segmento
temporale irripetibile. Per questo ancora non capiva se avesse avuto ragione o
no. Era un senso di smarrimento totale. Pensava fosse molto più facile, da una
parte, anche se non se lo sarebbe mai aspettato. In quell’istante, seduto in
quella posizione, avrebbe benissimo potuto dire – è solo un bacio e non
significa nulla; eppure dentro di sé, in una parte segreta della sua coscienza,
aveva perfettamente afferrato che quel Suo Momento aveva una valenza
spropositata e cambiava molte cose. Se fosse stato in vena di scherzi avrebbe
detto qualcosa circa la rottura dell’Equilibrio Cosmico, ma allora non se la
sentiva decisamente.
Lelio lo scosse dolcemente.
“Vuoi andare a casa?”
Lui annuì.
IV.
Condividere il letto non era
mai stato drastico come quella maledetta mattina. Lelio si era spostato verso la
parete e Mircea era sdraiato quasi sull’orlo del materasso. Si sforzavano
entrambi a stare il più distante possibile l’uno dall’altro, pensando
razionalmente che fosse meglio così e credendo inconsciamente di comportarsi in
maniera davvero stupida.
Alle sei del mattino Lelio aprì
gli occhi e si sporse verso Mircea, quasi fino a sfiorarlo.
“Ah!” Mircea alzò di scatto la
testa.
“Sei sveglio?”
“Non riesco a dormire.”
“Neanch’io.” Lelio ci pensò un
secondo. “Vuoi che vada in camera mia?”
“No! No, scusami, sono stupido.
E poi perché tu stai dalla mia parte del letto?”
Lo scavalcò un po’ assonnato
mentre Lelio si spostava verso il margine. “Scusa,” Gli disse, e si coricò
contro il suo petto. “Non c’è bisogno di prendere le distanze.”
Le abitudini sono qualcosa che
è impossibile spezzare senza conseguenze. Si radicano nella personalità di una
persona fino a condizionare molte propensioni. Dopo dieci anni, Mircea si poteva
addormentare solo se si sdraiava in un certo modo, da una certa parte del letto,
sfiorato da una certa persona. E fu così anche quella mattina.
___
Ok, non so come tu faccia
sempre a scrivere delle recensioni del genere, Susy, ma è bello sapere che c'è
qualcuno che sviscera i tuoi personaggi in questa maniera così... fine. E hai
ragione, Lelio e Cea sono simili a Giulio ed Henka, fondamentalmente perché sono
partiti dallo stesso modello (e ora rivelerò un segreto, ma mi sembra che questo
sito, non solo le mie fic, sia pieno di personaggi Anne Rice variazione sul
tema, ma magari mi sbaglio...). In un certo senso sono anche diversi, perché
sono trasformati in una sorta di estremizzazione. Sono diventati *ho rovesciato
il caffé è____é* sono diventati caratteri quasi puri, bianco e nero, nessuna
sfumatura, e questo era necessario. La costruzione della storia non è casuale -
fin dal titolo -. Ogni tanto mi dico, sono troppo surreali. Ma andavano fatti
così, perché la storia ha questo significato (che è venuto fuori da sé). Gli
altri due protagonisti sono più passionali e meno aulici, diciamo così...
Ah, e poi -
graziegraziegraziegraziegraziegraziegrazie(...)grazie. mille. E farei volentieri
un sacco di cose per te tra cui commentare Tale of my algid love ma sono pigra e
questo è il periodo più incasinato di diciott'anni di vita e c'è mancato tanto
così che lasciassi perdere troppe cose. Non avrei nemmeno aggiornato prima di
boh... un mese? Grazie. Tu studi lettere, vero? Anch'io volevo iscrivermi a
lettere. Sto straparlando, non darmi retta. Comunque per leggere leggo, lo
giuro. E Nicholas mi fa pensare. Molko più di quanto dovrebbe far pensare un
character. Oh, grazie.
Un Lunedì mattina travagliato; una lezione di francese
con M.me Marisa; una desolazione segreta e qualcosa-di-molto-importante taciuto
I.
Il Lunedì mattina è sempre il
momento più difficile. Presuppone una forza emotiva ed una volontà
impressionanti. Di Lunedì mattina Lelio impiegava più sforzi degli altri giorni
per svegliare Mircea, doveva preparare il doppio del caffè e doveva aspettare
più tempo perché fosse pronto. Anche se il Lunedì aveva una sua dolcezza
particolare. Cea si addormentava sempre sulla sua spalla, in metropolitana, e
poi arrivava a scuola ancora assopito.
La prima lezione del Lunedì era
per lui un abisso denso ed imperscrutabile, qualche complesso dogmatico che si
perdeva tra le nebbie dell’incoscienza e si ritrovava soltanto negli appunti di
Lelio. Si limitava ad appoggiare la testa sul banco e a dormire, oppure a
riposarsi chiudendo gli occhi, dimenticandosi la geografia economica e tutti i
problemi dell’umanità che disquisiti alle otto del primo giorno della settimana
erano parecchio sconfortanti persino per uno come lui.
La sveglia suonava solo alle
dieci. L’ora di francese non era un’ora come tutte le altre – era un’ora
divertente. Raramente facevano lezione. Di solito trovavano di meglio. La
professoressa di francese si chiamava Marisa ed era pazza nel senso più stretto
della parola. Entrava salutando in spagnolo –anche se non conosceva lo
spagnolo-, poi cantava la Marsigliese, poi faceva l’appello con l’accento
parigino ed infine imitava il professore di filosofia che parlava per suoni
nasali e assurdi gargarismi. Una volta Ottavia li aveva chiamati davanti alla
Marisa ‘Narciso e Boccadoro’. Da quel giorno, nelle ore di francese, Lelio era
Narciso e Mircea era Boccadoro. In particolare, l’ora di francese del Lunedì
combaciava con l’ora di informatica per Ottavia, e Ottavia, perfettamente
letterata e perfettamente umanista, non seguiva mai le ore di informatica, così
era sempre nella classe di suo fratello.
Quel Lunedì di due giorni dopo
l’Atto Sconfessato, non faceva eccezione. Lelio non aveva solo paura, era in
preda al panico più disperato, pensando a cosa sua sorella e la Marisa potessero
cavare fuori dalla precaria situazione. Quando sentì bussare delicatamente alla
porta e vide la testolina di Ottavia infilarsi sorridente dallo stipite,
chiedendo – “Puis-je Marisà?”, desiderò ardentemente di essere
inghiottito dal disordine in espansione sul banco di Mircea.
“Mais oui, Ottavià!”
E Ottavià entrò.
“Hai qualche idea?” Lelio
sgomitò a Mircea. Mircea sgranò gli occhi davanti alla scena.
“Prof, abbiamo notizie!
Di un mariage! Dans la classe.”
“Cosa?” La Marisa si alzò in
piedi facendo oscillare i suoi preziosi monili etnici e la sua lunga gonna di
velluto bordeaux.
Lelio si abbassò velocemente
sotto il banco.
“Chi si sposa?”
“Ma Boccadoro! Con –“
Mircea si alzò e guardò la
Marisa con occhioni dolci. “Prof,” Disse. “Ho sempre desiderato confessarle il
mio amore, mon amour, ma sono sempre stato schiavo dei pregiudizi più
squallidi!” Si slanciò verso di lei, raggiungendola e prendendole la mano tra le
sue con fare melodrammatico. “Lei lo sa, ma chère, che l’ho sempre
adorata nella sua bellezza, ma, vede, l’età che ci separa e le istituzioni che
ci dividono non sono indifferenti. Ora non posso più nasconderlo, mon coeur!
Io la amo!” Si inginocchio, sospirando. “Marisa – mi vuole sposare?”
“En
français, s’il te plait !”
“Voulez-vou m’-“
“Con chi ti sposi Boccadoro?
Che segreto stai coprendo?”
“Non confida nel mio vrai
amour, prof? Potrei renderla felice, se me lo concedesse. Mi dia un bacio!”
“E’ mio fratello.” Intervenne
Ottavia.
Lelio ebbe un fremito omicida
da sotto il suo banco.
“Narciso e Boccadoro, sì,”
Ammise la Marisa. “Lo sapevamo già tutti. Dov’è Narciso?”
Lelio si rialzò timidamente.
“Congratulazioni, sciocchini.
C’est magnifique! Vive la France, la
grande et noble France!”
“Ma io-“
“Quindi, Marisa, sta rifiutando
il mio giovane amore appassionato? Il mio ardore, il fiore dei miei anni, la mia
–“ Chiese Mircea.
“Oh, caro, il tuo cuore
appartiene già ad un uomo che ti renderà felice!”
“Marisa, mi sta prendendo in
giro?”
“Chi, moi? Ora vi faccio
vedere come muore Gavroche.”
II.
“La morte di Gavroche aveva
lasciato un vuoto incolmabile nella mia vita. Era la morte della libertà, come
la morte di Enjolras era la morte della speranza e della giustizia. Ho pianto
per Enjolras. Lui e i suoi amici rappresentavano la passione estrema di un’epoca
turbolenta, il progresso e le conquiste sociali, la ricerca di un mondo
migliore, loro erano il sacrificio disinteressato, il patriottismo, l’amore
radicale, l’ideale –“
“Puoi smetterla di cambiare
discorso?”
“Lelio, sei arrabbiato con me?”
Lelio la squadrò con una
cattiveria impensabile nello sguardo che diceva: cosa te lo farà pensare?
“Guarda che non l’ho baciato
io. Non puoi pensare che la colpa sia –“
“Ma tu non stai mai zitta?”
“Ora,” Si fermò lei in mezzo al
corridoio, socchiudendo gli occhi come quando pensava ai suoi Piani Diabolici,
“Stai esagerando. Lo sai cosa penso? Che tu sia frustrato. E sai anche perché?
Perché finalmente avevi trovato il coraggio di dichiarare il tuo amore sacro,
perpetuo e profondissimo a Mircea, ma sei stato abbastanza stupido da sprecare
la tua possibilità. E un po’ perché ti da fastidio il modo in cui lui glissa
l’argomento, cosa che non dovrebbe sussistere, dato che sei stato tu il primo a
cercare di cancellare il fatto.”
“Scusa?”
“Evidentemente sono l’unica che
ha conservato un po’ di oggettività.”
“Tu – tu non hai mai avuto una
briciola di oggettività. Tu vai avanti con questa storia del mio amore sacro,
perpetuo e profondissimo da anni, e non riesci a metterti il cuore in pace – tu
stai cercando di fare di me quello che non puoi essere, cioè la ragazza di
Mircea!”
“Non dirlo neanche per
scherzo.” Ottavia si rabbuiò, e per un attimo sembrò soppesare attentamente le
sue parole. Fece un gesto con la mano per invitarlo a proseguire. “Allora
spiegami perché seppellire tutto sotto una pesante coltre di imbarazzo.”
“Non ho seppellito tutto – è
lui che non vuole.”
Ottavia si fermò per la seconda
volta in mezzo al corridoio, il braccio che reggeva il caffè sospeso a mezz’aria
vicino alla bocca.
“Allora siete due cretini! Ti
sembra normale?”
“Mi sembra più normale che
baciare Mircea.”
“Qual è il tuo problema? Che è
un ragazzo? o che –“
“E’ Mircea! Non – non posso
neanche pensarci, è quasi un incesto nella mia mente.”
Ottavia sbuffò, soffiando nel
bicchierino del caffè. “Senti, non importa. Mi licenzio. È una cosa che non
riuscirete mai a risolvere, se la prendete così. Ascolta un’ultima cosa però.
Prova ad immaginarti un’altra persona accanto a te che progressivamente ti
conquisti e ti monopolizzi, momento dopo momento, allontanandoti da lui. E prova
a pensare lo stesso per Cea. E ora convincimi che non ti potrebbe dispiacere.”
Anche Lelio si fermò per un
istante. Improvvisamente sentiva di nuovo quel panico, e stavolta se lo
spiegava.
III.
Sua sorella aveva ragione,
forse solo in una piccola parte. In quel momento di fragilità emotiva e di
sospensione, accompagnato dalle desolazioni del silenzio, Lelio si accorgeva di
essersi addentrato per un cammino incredibilmente irto e difficile, e di essere
giunto a camminare sulla scintillante lama del rasoio. Una sfera perfetta che
collideva col suo destino.
Sorrise a se stesso. Forse il
senso di quel malessere era uno completamente diverso da ciò che aveva scorto
Ottavia nella sua sensibilità, e da ciò che lui aveva creduto di intuire. Forse
non era davvero la mancanza di qualcosa, uno stordimento confuso, un vortice che
risucchiava dentro di sé il senso di nullità e di negatività. Non c’era niente.
Non c’era, necessariamente, nemmeno l’abisso.
L’abisso, pensava Lelio, era
qualcosa di spaventoso che l’aveva sempre soggiogato nella sua idea di buio, di
infinito dilatarsi della solitudine, di espansione del male, del freddo, della
morte. In quel momento non riusciva più a vederlo sotto questa prospettiva – la
prospettiva di uno che lo guarda dall’alto, appeso alla superficie del mondo.
Lui non era più appeso sulla superficie del mondo. Non si rendeva neanche conto
di come avesse potuto non accorgersi di scivolare lentamente dall’orlo del
baratro, e precipitare. Ma vi era entrato, e ne era stato inglobato.
Sua sorella gli aveva mostrato
uno spiraglio di luce – gli aveva detto: stai in guardia, sei fragile. Se non ti
sforzerai, finirai per perdere tutto l’affetto che ti rimane. E lui aveva
sofferto, perché, in fondo lo sapeva, aveva combattuto ogni giorno per quella
scintilla di felicità che chiamava Mircea. Ma ora se la vedeva sfuggire tra le
dita, ed era lui stesso ad allontanarsene.
Non era Lelio che perdeva
Mircea. Era Lelio che non voleva Mircea, era Lelio che non voleva nessuno,
perché non aveva bisogno di nessuno. Questa solitudine gli pareva molto triste.
Lelio era uscito quel
pomeriggio già così buio, così addormentato sotto la volta scura e nebbiosa di
un cielo coperto di notte prematura, ed aveva trovato un deserto esteriore
riflesso nel suo deserto interiore. Si riconosceva in quel silenzio metafisico
che sussurrava mille parole svincolate dal suono, eppure così pregne di
significato. I suoi pensieri si modellavano con la stessa essenza intelligibile.
Ad un tratto, aveva creduto di scorgere questo senso, di afferrare questa idea –
il silenzio puro, sacro, cristallino. Stava bene nel silenzio, da solo, tra il
nulla e le desolazioni incantevoli. Si sentiva sicuramente meglio nel suo mondo
quieto, muto, isolato, languente, che tra gli affanni e le ricerche smodate
della gente insensibile, incapace di comprendere la purezza di molte cose e la
bellezza insita nei dettagli più piccoli del creato. Forse voleva davvero stare
da solo. Forse stava inconsciamente scappando da un legame più vincolante, più
intimo. Forse anche Mircea apparteneva al Mondo di Fuori, e non alla sua piccola
realtà fatta di invisibile ed inconoscibile. Forse una persona radiosa e solare
come lui doveva trovare calore, non desolazioni. Per questo, si disse
amaramente, Mircea avrebbe presto o tardi riconosciuto qualcuno di affine a lui,
e non lontano a distanze siderali, e freddo.
Lelio non si sentiva fatto per
vivere tra le strade del mondo. Così decise, mentre battevano le sei di sera,
mentre il vento gelido si rafforzava tagliando la sua faccia con mille cristalli
di ghiaccio, mentre qualcuno si avvicinava alla sua panchina e si sedeva
delicatamente accanto a lui, senza mormorare una parola.
___
Oggi accendo la tv per sbaglio
e vedo quel gran gnocco di Valo che parla con Cattelan. Mah, come va il mondo...
Poi Cattelan lo vedo ad Alessandria è____é. Se sapevo che a TRL andava Valo lo
fermavo al pub e lo imploravo di invitarmi! Tanto ne incrocerà di pazzi per
strada, no? Torniamo alle cose serie (sono sbalordita di quanto ultimamente la
mia natura fangirl stia surclassando il mio fantastico prog, ma vabbé...). Devo
anche andare dal dottore, povera me.
La Marisa, proprio come il
Cervo, non è inventata neanche un po'. Era la mia prof di francese e adorava la
morte di Gavroche (adorava tutte le scene di morte, veramente,) - Les
Misèrables. A perfect sphere colliding with our fate -
beh, indovinate di chi è la
canzone. Sono così prevedibile.
Ringraziamenti!
Diana V - Grazie
tantissimo! Sono contenta che la mia storia faccia passare le ore a qualcuno. La
noia è una brutta cosa... Per il resto spero che continuerai a leggere &
commentare & a farti piacere la storia, anche perché il finale tra Cea e Lelio è
piuttosto scontato. Ma stiamo per incontrare delle new entries...
Susy - Beh, io non ho
più parole, a parte awwwwwwwwwwwww, che non è proprio una parola ma rende più o
meno l'idea. Grazie millissime per il commento, non so cosa dire... tutto
azzeccato... ah, sì, una cosa - tu adori questi personaggi insopportabili come
il Cervo. Io l'ho sopportata. Con quelle ciglia che danzavano alla minima
opportunità. Ma è acqua passata perché è quasi Ottobre e oggi piove e domani
comincerà per me una nuova vita e sono veramente contenta per tutto questo. Ora
ho anche un po' di tempo in più per dedicarmi al sito. E per quanto riguarda
Molko, è sempre nel ramo fan girl delle mie propensioni musicali, perché se non
si fosse capito IO AMO I DREAM THEATER e tutto ciò che è vagamente progressiv
dai King Crimson in poi, ma questo non centra una cippa lippa. Lo dico perché a
volte mi vergogno. Un po' come per Bill Kaulitz o Valo o Jared Leto, insomma,
anche se dei Placebo mi piacciono -davvero- una decina di canzoni. Ciò non
toglie che nel mio vocabolario molto è diventato molko perché sono stupida.
Continua a commentare, neh... e continua a scrivere Tale che sono così
curiosa... Spero che la storia continui a prenderti. Non lo so, sono sempre così
scettica sui miei lavori. *Continua Taleeeeee of my Algid Loooooove*
Questo capitolo è dedicato a tutte le persone che pensano
Questo capitolo è dedicato a
tutte le persone che pensano, pensano, pensano, e pensano così tanto che
finiscono per perdere di vista il punto oggettivo del problema. A me capita
spesso. Anche a Lelio. A volte basterebbe un po' più di echissenefrega. Ah, e
poi alle mie due commentatrici, luv.
Lunedì diciotto Dicembre,
Una telefonata in mezzo alla
notte; un Secondo Momento Giusto e molte diverse complicazioni
I.
Ottavia dormiva difficilmente
col cellulare acceso. A volte se lo dimenticava sul comodino. Quella notte,
venne svegliata dal rumore della suoneria alle tre e trentacinque.
“Pronto?” Assonnata e stordita
com’era, non aveva neanche guardato il nome del Disturbatore Notturno.
“Otta!” Era Die. E Die non la
chiamava Otta da quando aveva tredici anni.
“Sì, Disturbatore Notturno?”
“Credo di avere un problema, e
sono in preda al panico, per cui niente feroce ironia e niente sarcasmo e
niente di niente dei tuoi commenti stupidi. Solo conforto, d’accordo?”
“Hai ammazzato qualcuno? E come
fai a essere così sveglio alle tre e –“
“Ottavia, ti prego.”
“Sì?”
“Te lo ricordi Hansi? –“
II.
Mircea guardava fuori dalla
finestra con una certa preoccupazione. Appoggiò la fronte contro il vetro freddo
e non poté fare a meno di rabbrividire scrutando al di là delle tenebre, verso
un punto imprecisato del parco. In quei momenti di quei giorni densi di freddo e
di ghiaccio pensava molto più di quanto la sua imperturbabilità lo sospingesse a
fare – e pensava a Lelio. In un certo senso era perfettamente conscio della
delicatezza della sua situazione. Anche se non lo voleva ammettere. Anche se
Lelio non lo voleva ammettere. Facevano finta di non vedere certi sguardi e di
non sentire certi fremiti nell’imbarazzo di poche parole. Questo lo infastidiva
incredibilmente, perché, pensava, era anche per metà colpa sua, e dentro di sé
capiva benissimo lo sbaglio. Era semplicemente un comportamento stupido, e non
aveva voglia, non aveva la minima intenzione di compromettere un rapporto così
saldo ed importante per la pigrizia di poche semplici dichiarazioni. Aveva visto
uscire Lelio da casa sua e scendere le scale verso il parco, nel freddo buio dei
pomeriggi dicembrini, e gli si era stretto il cuore, quasi come se potesse
intuire il filo dei suoi pensieri o la gravità delle constatazioni che passavano
sulla sua testa. Nel momento in cui se ne era andato, Cea aveva potuto scorgere
qualcosa spezzato irrimediabilmente. Era rimasto un’ora ad interrogarsi
sull’assurdità della situazione, finché non aveva deciso di avere troppa paura
per stare zitto e rischiare tutto. Allora si era alzato. Si era vestito ed era
uscito guidato dal caso, dall’intuito, dalla sensibilità, aveva cercato Lelio
fino a quando non l’aveva ritrovato seduto su una panchina, immerso in
meditazioni imperscrutabili. Non avrebbe nemmeno voluto disturbarlo in quei
momenti, così si sedette accanto a lui, silenziosamente, stringendosi nella
sciarpa, aspettando che la concentrazione dipinta sul suo volto scivolasse via
nell’oblio della notte. Sentiva il cuore battere fortemente per l’emozione.
Guardando in alto vedeva il cielo buio e denso – non limpido come quella
notte, ma scuro, coperto, nebbioso, indistinto. Forse stava per nevicare di
nuovo.
Non sapeva quanto tempo era
passato. Il vento gli sferzava il viso e gli attimi si congelavano nei suoi
brividi di freddo, uno dopo l’altro. Sarebbe potuta essere trascorsa
un’eternità, che Mircea, nell’apparenza dilatata della notte buia,
indistinguibile, protratta, se ne sarebbe facilmente dimenticato.
Lelio si voltò nella sua
direzione. Lelio trasfigurato da qualche nuova, appassionata scoperta, perché il
suo volto riluceva della consapevolezza sofferta, notò Mircea, soffiandosi tra
le mani per scaldarsele.
“Non puoi stare al freddo per
così tanto tempo.” Gli disse.
“Neanche tu.”
“Oh, no, io sono fatto per il
freddo.”
Mircea guardò verso il basso la
neve che si era concretata in un blocco di ghiaccio scivoloso e uniforme.
Luccicava vagamente illuminato da un lampione distante. Per il resto, tutto era
oscuro e silenzioso.
“Lelio, io ho pensato e ho
realizzato che dobbiamo parlare.”
“Dobbiamo parlare, è vero.”
“Io –“ Gli prese le mani tra le
sue e Lelio scoprì che erano fredde, gelide. Mircea non aveva mai le mani
fredde. Erano sempre soffici come quelle di una ragazza, e molto delicate.
“Non lo so perché ci
comportiamo da stupidi. È una cosa che è successa e che in quel momento ci
andava bene, perché era il Nostro Momento. Io non credo che tu voglia
dimenticarlo, come non lo voglio io, solo, ci sono molti dubbi nella mia testa.
Troppi dubbi. Per avere il coraggio anche solo di pensarlo ad alta voce.”
“E’ questo che vuoi chiarire?
Devo dirti un’altra cosa –“
“Aspetta. Hai una faccia
sconvolta. Tu sei distante, e io sono distante, e non va bene. Non mi interessa
se per te quel momento deve rimanere un momento, e non proseguire
in altri momenti così e sto dicendo una marea di parole senza senso,
scusa.”
“Non ti devi scusare.”
“Sono - confuso.” Mircea lo
guardò negli occhi. E Lelio pensò che con quello sguardo avrebbe potuto
sciogliere tutto il ghiaccio e tutta la neve caduta sulla Città. Forse anche il
suo impenetrabile Distacco.
A volte Lelio si fa prendere
dal flusso di coscienza. E ragiona quasi per inerzia. Arriva così lontano che
nemmeno si ricorda da che strada è passato. - Ho pensato davvero di lasciarlo?
Sono un idiota. - Improvvisamente aveva dimenticato tutti i suoi proponimenti di
solitudine, tutta la sua condizione desolata, tutto il suo piccolo mondo segreto
e deserto; perché si rese conto che voleva solo baciarlo di nuovo. Una volta,
due volte, dieci, cento, mille, fino a quando non l’avesse consumato. Mircea era
troppo bello velato da quella sottile tristezza che non doveva possedere
e che lui non doveva trasmettergli. Aveva freddo. Lo prese tra le braccia
un’altra volta, gli sfiorò il collo con le labbra, lo baciò sulle guance
screpolate dall'inverno. Non disse niente. Nessuno disse niente. Le parole, era
probabile, avrebbero rovinato un istante così perfetto, un nuovo Momento Giusto,
e questa volta definitivo. Mircea non sentiva neanche più il freddo, o
l’agitazione. Il cuore batteva per altri motivi. Socchiuse gli occhi solo per
essere sicuro di non avere un’altra allucinazione. Lelio gli soffiava sul collo,
sotto la sciarpa, e lui rabbrividiva a quel tocco delicato. Sentiva le sue
labbra posarglisi ovunque sul viso come per accarezzarlo, sulle guance,
sull’arco del sopracciglio – gli diceva: non curarti più di niente. In effetti
non aveva la forza di interessarsi al resto del mondo. Poteva concentrarsi su
quelle splendide sensazioni inaspettate, su quel calore interno, su quello
stordimento dolcissimo. Lo stava baciando di nuovo. Sentiva la sua lingua
sfiorare quella di Lelio e scivolare su di essa in mille modi differenti. Quando
aveva cominciato? Non se ne era nemmeno accorto. Non si era accorto dei
movimenti delle sue mani, o delle sue labbra, non si era accorto di niente –
solo del piacere. E allora gettò al vento tutte le indecisioni e le paure.
III.
Lelio si stava domandando
perché si trovasse lì in quel momento. Non si era mai sentito più in colpa
verso una persona in tutta la sua vita. Quella sera cenare da Mircea, con la
madre di Mircea, era una cosa che lo faceva sentire male per molti motivi.
Franca era brava e gentile esattamente come il suo bambino, sempre affettuosa e
disponibile e piena di positività. Anche allora gli sorrideva domandandogli con
la sua voce dolce e calma se volesse ancora tagliatelle.
“No, Franca, grazie.”
“Sicuro?” Franca lo guardò.
“Stasera voi due avete qualcosa che non va.”
Mircea si nascondeva dietro ad
un tovagliolo. Lelio avrebbe voluto scomparire. “Sai, la scuola… questo è un
periodo pessimo.”
“Oh, capisco.” Si sedette di
nuovo al tavolo.
Mircea prese in braccio
Vittorio. “Mi vuoi bene?” Gli chiese.
“Sì!” Thor lo guardava coi suoi
occhioni blu.
“Mi vorrai bene per sempre?”
“Sì!”
“Ricordatelo quando sarai
grande.”
“Promesso.” Gli diede un bacino
sulla guancia.
Lelio pensava di essere una
persona orribile, di aver rovinato a Franca il suo figlio grande, e di non
meritarsi di stare a tavola con lei e quelle due creature tutte bionde, allegre
e deliziose. Prima si approfittava della sua disponibilità, mangiava le sue
tagliatelle e poi circuiva suo figlio come ringraziamento. Anche Mircea sembrava
scosso. Doveva esserlo per forza. Aveva lasciato entrare in casa sua e sedere
alla sua tavola, davanti a sua madre, il ragazzo che l’aveva baciato. Non era
giusto. Ma l’idea più pesante di tutte, era che Franca non sapeva nulla, e li
trattava di conseguenza come persone normali. Almeno, così credeva Lelio.
Perché si sentiva anormale.
– Chissà, se glielo dicesse
mai, cosa succederebbe -, si chiese.
IV.
Lelio chiuse il libro, troppo
distratto per leggere. Si alzò e scostò le coperte dal letto. Mircea non si
spostava. “Vuoi che dorma sul pavimento? O devo occupare la tua parte di letto?”
“Non ce n’è bisogno.”
Lelio alzò gli occhi verso il
soffitto. Cercava di stemperare la tensione, ma in realtà avvertiva
perfettamente quella costrizione sul fondo dello stomaco che cercava di
mantenere nascosta e contenuta. Spostò di peso Mircea e si sdraiò accanto a lui.
“Perché hai aspettato così
tanto per venire a dormire?”
“Avevo paura di quello che
sarebbe potuto succedere se fossimo stati abbastanza svegli. Ma ora temo che
siamo comunque abbastanza svegli.”
“Già.” Mircea scivolò di nuovo
accanto a lui. “Vuoi dormire?” Gli sussurrò nell’orecchio.
“Non lo so.”
Spense la luce. Ritornò al suo
posto. Non parlò per dieci minuti, non si mosse nemmeno impercettibilmente. “Sei
sveglio?” Chiese, alla fine, riaccendendo la lampada sul comodino.
“Certo.”
“Forse non vuoi dormire.”
“Una parte di me non lo
vorrebbe davvero. È una parte molto convincente.”
“Capisco. Mi spaventa.”
“Io ti spavento?”
Mircea scosse la testa. “Non lo
so, non ho bisogno di conferme da parte tua. O di tempo. Questa sicurezza mi
rende paradossalmente indeciso.”
Lelio lo baciò sulla guancia.
“Dai, allora dormiamo.”
Cea spense di nuovo la luce.
Era inquieto. Anche se era ritornato alla sua parte di letto, e si era deciso a
dormire, sentiva ancora quel senso incontenibile. – Stupido. – Si disse. –
Respira. Chiudi gli occhi. Buonanotte. –
Cinque minuti dopo riaccendeva
la luce.
“Cea –“ Mormorò Lelio da sotto
il piumone.
“Scusa, non ce la faccio.
Scusa. Ho capito. Lo voglio fare. Dovevi solo saperlo.”
“Ah.”
Mircea non si coricò per la
terza volta. Rimase a cavalcioni su Lelio finché lui si mise a sedere e lo
guardò negli occhi.
“Ma non lo so fare.”
Lelio rise. “Neanch’io.”
Scivolò sotto le coperte, e i
vestiti scivolarono giù dalle coperte, sul pavimento così distante.
____
I LOVE YOU BAAAAAAAAAAAAAAABY(IES)
- avete presente la versione di Can't take my eyes of you di Matthew Bellamy? Ok,
questa è per voi, mie dolci commentatrici del cuore. Perché oggi sono al settimo
cielo, alla 9th cloud! Perché da oggi - da ieri cioè, - io ho una macchina. Mia.
Coi miei cd, i miei tappetini, il mio arbre magique e il sedile che non lo devo
spostare ogni volta che guido su e giù per cinque minuti per arrivare alla
frizione. Tutto questo è meraviglioso. Oh, il mio disordine. Lo amo. Tutti
dovrebbero avere una piccola Kassandra, anche sè è una Ka di sette anni con
90000 km, e non fa più di 120 all'ora. Echissenefrega, come dicevo prima. E'
mia.
Eh, beh, a parte questo, che
dovevo dire a tutto il mondo e verso l'infinito & oltre (scusate, è l'entusiasmo
del primo pieno pagato ancora da papà), veniamo alle cose importanti -
DianaV - Eccoti le new
entries. Hansi e Die. Non leggerlo all'inglese che sembra muori, am racumandi.
Di Die ne abbiamo già parlato, mentre Hansi... Hansi è un cretino. Hansi è il
mio lato intellettualoide barra militante barra spirito libero portato
all'eccesso, cioè: io sono così, vivo di arte e lasciatemi in pace, preferisco
morire di fame. Più o meno la fine che mi aspetta. Hai presente il fidanzato di
Rory, Logan? Fisicamente sono partita da lui. Non chiedermi perché. Logan è un
figo e basta.
Susy -Beh, io
non... non... non commenterò mai più un tuo capitolo. Non posso farlo. Ho un
blocco psicologico. Tu sei bravissima e dici delle cose a cui nemmeno avevo
pensato esplicitamente e - a te va bene anche se scrivessi solo WAAAAAAH TI
ADORO!, no? In caso contrario non commenterò più Tale, quando posterai, perché
mi vergogno troppo della mia incapacità recensitoria o come cavolo si dice. Non
ho idea se Hansi e Die ti piaceranno come questi due sfigati qua sopra. Anche
loro sono due estremi, seppur meno aulici, diciamo così. E per quanto riguarda
Narziss und Goldmund, pure io sono rimasta al mio filmino mentale che prendeva
una piega decisamente diversa dalla storia di Hesse. Ma l'hai detto tu (tanto
per cambiare è___é), io sono Ottavia, tu sei Ottavia, siamo tutte Ottavia.
Ottavia è la quintessenza della fangirl shonen-aista, quella che non può fare a
meno di vedere un bel ragazzo e accoppiarlo con un'altro bel ragazzo e
rivisitare tutte le varie storie di bei ragazzi in chiave yaoi. Funzioniamo
così, noi. Ottavia, tieni alto l'onore delle fangirl.
NB- La Roadrunner Record, nuova
casa discografica dei Dream Theater, mi paga ingenti quote mensili per i
messaggi subliminali su Portnoy & Co. La verità è che vi sto facendo il lavaggio
del cervello. Dream Theaaaaaaateeeeeeeeer.
Ok, comincia ad esserci un po'
di ritardo è___é. Pardon. Ho così tante cose da fare che non riesco a
trovare nemmeno il tempo per scrivere, e questo sta uccidendo la mia autostima.
Dedicato a Manzelli, il superuomo. WE ALL LOVE MANZELLI.
Martedì diciannove Dicembre,
Un risveglio imbarazzante;
un ascensore comprensivo; il Vettore-Mircea; un colloquio ambiguo e una
stanza tutta per loro
I.
Lelio si svegliò per primo,
come tutti i giorni. Si alzò dal letto ù e cercò si scivolare in bagno facendo
il meno rumore possibile. Dopo la doccia, doveva svegliare Mircea. Era un
compito difficile, perché Cea era refrattario alle mattine e si riaddormentava
sempre almeno tre volte, prima di alzarsi. Rimase a spiarlo per qualche minuto,
colpito ed illuminato dalla luce del sole che, riflessa dalle lenzuola bianche,
lo avvolgeva di una certa parvenza eterea.
“Cea?” Lo sfiorò scostandogli i
capelli dalla fronte.
“Mm…”
“Svegliati, sono le otto.”
“Sono solo le otto.”
“Vado a fare il caffè. Tu,
intanto, alzati.”
Per la prima volta nella sua
vita, Mirca si alzò subito. Aprì gli occhi sulla bella giornata di Dicembre e si
ricordò improvvisamente del motivo per cui nemmeno l’essere più preciso della
Terra –cioè Lelio- aveva sentito la sveglia. Si sdraiò sulla schiena e finse di
ammirare il soffitto per un secondo. Decisamente sentiva una specie di ansia e
un dolcissimo stordimento. Una mattina normale si sarebbe girato dall’altra
parte e addormentato di nuovo, tanto, pensava sempre, era già in ritardo. Ma
quel giorno era mosso da un’emozione concitata ed incontenibile che rubava i
canonici quindici minuti di indolenza e pigrizia di inizio mattinata. Era
completamente sveglio. E voleva vederlo. Sorrise. – Buongiorno, - Si disse. – E’
davvero un ottimo, ottimo inizio. -
Quando entrò in cucina il caffè
era appena stato versato nelle tazze. La caffettiera fumava ancora. Lelio lo
osservò con circospezione, come se stesse guardando qualcosa di nuovo e
sorprendente. “Cosa ci fai già qui?”
“Cerco di recuperare un po’ di
tempo.”
Mircea non poteva vedere il suo
volto sorridente nascosto dalla tazza di caffè. Si spiarono muti e imbarazzati
per qualche minuto.
“Dormito bene?”
“Sì. Bene. Profondamente. Non
ho neanche sentito la sveglia.”
Lelio studiò il suo caffè con
l’attenzione e la concentrazione di un chiromante che stia leggendo il futuro.
“Secondo te sarà così tutte le
mattine?”
“No,” Disse, scegliendo i libri
da portare a scuola per le lezioni. “Credo. È solo la prima.”
“Perché sei rosso, sai.”
Lelio lo trafisse. “E tu sei
indisponente.”
“Io? Non sono io quello che si
lamenta sempre di tutto. Io rispetto l’Equilibrio Cosmico, sono contento della
mia vita e accetto le conseguenze delle mie azioni, compreso il fatto che
probabilmente non riuscirò a sedermi per due giorni senza soffrire.”
II.
Lelio non aveva mai amato la
lentezza degli ascensori come quel giorno. E Mircea era
perfettamente d’accordo con lui.
III.
- Pray, sir – have you not
forgot to wind up the clock? - Mircea era immerso in un nugolo di pensieri
metafisici dalla cadenza molto simile agli orologi flosci di Dalì. Quel
reticolato di impressioni suscitato dalla sua fantasia fervida e in pieno stato
di evasione si condensava in filamenti tutti dilatati e molli, in un certo senso
incontenibili come una macchia che dilaga invadendo una superficie ed aumentando
il suo diametro pur mantenendo la stessa quantità di materia. Così pendeva in un
universo tutto suo in cui Spazio e Tempo perdevano le loro oggettivazioni e si
modellavano in mere unità individuali molto malleabili e flaccide. Questo lo
capiva, appoggiato contro il banco e pieno di sonno. Lo intuiva nella ferocia
inaspettata dei minuti che non erano più semplicemente sessanta secondi, ma
nella sua anima, nella sua coscienza, subivano la stessa liquefazione degli
orologi surrealisti.
Cea non sapeva perché, ma in
quella prospettiva distorta e soggettiva si sentiva molto Tristram Shandy.
Guardava le linee arricciate del libro e le pagine bianche, sentendosi un po’
linea arricciata e un po’ pagina bianca. Guardava anche il pendolo in copertina
riconoscendosi oscillante, decentrato, cinetico, spostato, confuso, insicuro,
controbilanciato. - Stupida intuizione, - Si diceva. – Non viaggiare. Non – sei
– un – pendolo. Non sono un pendolo. Non mi devo sentire un pendolo solo perché
sono confuso. Ah, questo è meravigliosamente flusso di coscienza. Peccato sia
così stupido. -
“Lelio?”
Lelio si voltò verso di lui.
“Sì?” Chiese.
“E’ stupido pensare di essere
un pendolo?”
Lelio lo guardò perplesso. “Sì.
Forse –“ Ci rifletté un istante. “Sì. È stupido. A meno che tu non pensi di
essere come un pendolo.”
Mircea disegnò una linea sul
banco.
“Questo non è molto positivo.”
“Sono le oscillazioni, Lelio.
Le incredibili, pericolose, destabilizzanti fluttuazioni dell’Equilibrio
Cosmico.”
Mentre Mircea trasmigrava in
pochi secondi attraverso le idee più diverse e i caos più totalizzanti, Lelio si
chiese se quell’improvviso senso di perdita e di confusione non fosse opera sua,
e si rispose: decisamente sì. Questo lo rattristò finché Mircea non gli rivolse
di nuovo la parola.
IV.
Lelio fermò sua sorella che
vagava tra i corridoi della scuola silente e cauta per una nuova pausa caffè.
Ottavia notò subito uno sguardo accigliato, e lo ricollegò a qualche strano
accadimento tra lui e Mircea, forse a una litigata, forse a un’incomprensione,
forse alla verità taciuta.
“Parla, dunque.”
Lelio la guardò imbarazzato
appoggiandosi alla macchinetta. “Ottavia –“ Cominciò timidamente. “Ho fatto
sesso con Mircea –“
“Anche tu!”
“Hai fatto sesso con Mircea!”
La prese per le braccia con furia senza sapere se essere più geloso per lei o
per Mircea.
“Non io, cretinetto. Die.”
“Die ha fatto sesso con Mircea?
Lo uccido.”
“Non con Mircea! Come avrebbe
fatto, dato che ora è a Roma? Eh?”
“Tu hai detto –“
“Io mi riferivo al verbo. Né
soggetto, né complemento di compagnia. I verbi sono più interessanti.”
“Quindi il soggetto è Die e il
complemento non è Mircea.”
Ottavia scrollò la testolina
ritirando il suo caffè. “No, infatti, è Hansi, sai. E siccome la tua idilliaca
situazione non richiede l’intervento provvidenziale del Deus ex Machina, che per
inciso sarei io, vi lascerò al vostro destino felice e pieno di soffici nuvole
rosa. C’è qualcuno che ha più bisogno.”
“Non è idilliaco.”
“Oh, no. Oggi sei più simpatico
per via dell’assestamento dell’Equilibrio Cosmico, allora. È una cosa che sorge
spontanea dal tuo buonumore costante.”
“Mircea si sente un pendolo. E
perché non si può fare un discorso intelligente, con te?”
“Queste cose, Lelio, sono
entrambe perfettamente naturali.”
V.
Lelio non era mai stato meglio
da solo, in casa, nell’ozio più totale di un pomeriggio languente. Dov’era sua
madre? Non lo sapeva. Non gli interessava. Non riconosceva più niente, perché
ogni dettaglio del mondo, della Città, del suo appartamento, della sua stanza
chiusa a chiave e colma di sospiri segreti, era come trasfigurato da quel
meraviglioso, luccicante e delirante sentimento che lo faceva palpitare,
distraendolo da mille pensieri pragmatici e trascinandolo in un universo pervaso
dalla perfezione e dalla bellezzasistematica . E dal piacere, certo.
Una notte invernale suggerisce
solo certi pensieri di pigrizia indolente. Scorreva le mani sul corpo tiepido di
Mircea e si stupiva di quanto potesse essere morbido. La sera precedente era
stato troppo impegnato ad imbarazzarsi per scoprire la fisionomia del suo
ragazzo – la pelle liscia e delicata, la sottigliezza del collo, la sua curva
quando si ricongiungeva alla spalla, il piccolo solco che si produceva nello
spazio lasciato dalla scapola, la perfezione del disegno dello sterno, la
dirittezza della colonna vertebrale, i piccoli incavi in corrispondenza
dell’osso sacro, la piattezza dello stomaco, la circonferenza sottile del busto,
la perfezione di tutti muscoli, il calore dell’inguine, la peluria bionda e
soffice sotto l’ombelico e sul pube, la rotondità dei fianchi quasi femminile,
la linea delicata delle gambe glabre, l’inclinazione del ginocchio, la fessura
dell’articolazione; e poi tutti i punti in cui sembrava provare maggiore piacere
– sotto il mento, attorno alle anche, sopra i glutei, sulle cosce, tra le
cosce, in quelle zone così intime. Ora lo esplorava con una curiosità tranquilla
e soddisfatta, accarezzandolo, sfiorandolo, toccandolo fuggevolmente con la
punta delle dita. Avrebbe voluto conoscere ogni particolare di quel corpo
splendido inarcato dal piacere sotto il suo peso, avrebbe desiderato scolpire
ognuna di quelle sensazioni e di quelle percezioni nella sua mente, e
conservarle per sempre accanto alle immagini delle opere d’arte più encomiabili.
Osservando la sua espressione di rapimento e il modo armonioso in cui i suoi
lunghi riccioli biondi si spandevano sul cuscino, pensò che forse quello sarebbe
stato il soggetto ideale del Quadro Perfetto, quello che avrebbe rappresentato
in un unico insieme Bellezza, Natura, Ordine, Sentimento, Passione, Superamento
e Sogno. Potrei dipingerlo.
___
Tristram Shandy. Ecco, è una
delle mie innumerevoli ispirazioni. Io adoro Sterne senza un motivo particolare,
solo mi ha fatto davvero ridere. Un genio. E pure la cosa della lineetta in
realtà è una sua idea, ma tanto non mi chiederà i diritti di copiright, no? Sono
un pochino depressed. Avrei voluto dedicare questo capitolo ad un'altra persona,
ma non lo farò. Per ora, almeno. E non capisco linguistica. Non ci riesco, è più
forte di me, in Cantina alle nove di mattina con la voce monotona che ti spiega
morfologia e sintagmi e il sonno arretrato perché ti sei alzata alle sei perché
c'è nebbia e i trattori cosa diavolo ci fanno in giro quando è ancora buio e i
treni hanno sempre orari improponibili - come faccio a non addormentarmi?
Thanks:
DianaV - Vedi, ho questo
potere magico coi computer. Scrivo cose così belle che il picci non regge e si
riavvia da solo. Perdita di dati. Pomeriggi interi buttati via. Un giorno
ucciderò il mio computer. Comunque questo dovrebbe essere l'ultimo capitolo
della prima parte - non che ci sia una vera prima parte, ma ora i due sfigati
come li chiamo amorevolmente sono sistemati per tutta la vita & oltre, quindi mi
concentro su Die e il falso Logan. Enjoy it.
Susy - I can no more.
Da Hopkins, per fare le fighe e tirarcela. yeah. Non posso dire più una parola.
Lo sai, ho letto ogni singolo capitolo uscito dal tuo account a parte le storie
dove c'è malinconico barra drammatico tra le indicazioni perché non mi va di
deprimermi ulteriormente, sono una persona così sensibile Y____Y. Beh, forse non
ho commentato tutto. Beh, forse dovrei farlo. Ma ho i complessi di inferiorità.
Tu sei Eccelsa. Emh... che altro ti posso dire... Ogni tuo commento è un
incentivo a continuare. Grazie grazie grazie. Sai vedere delle cesellature che
io nemmeno mi accorgo di creare. Forse non ci penso, mi vengono semplicemente
naturali. Ma stai convincendo pure me XP.
Lara - Ti avrei
volentieri mandato una mail di risposta, ma la mia casella di posta a volte
ragiona da sola e non sono mai sicura di quanto si affidabile, e poi meglio
mettere i commenti tutti insieme così, per non scontentare nessuno. Don't worry,
i commenti belli non stressando mai è___é. Sono felicissima che ti piacciano
come piacciano a me. Peccato non esistano. Noi fan dello shonen-ai abbiamo
quest'abilità innata di creare personaggi oh così belli & simpatici... dev'essere
una cosa da trauma per innamoramento da ragazzo gay, non so se ti è mai
successo. Auguri ai fratelli. Tifo per lo yaoi.
Nuovo capitolo, prima
descrizione di Die e Hansi. A questa velocità è probabile che vada in pari con
le date del racconto è___é
Enjoy -
Mercoledì venti Dicembre,
Due biglietti per il teatro;
uno specchio bivalente; un ponte silenzioso e qualche colpevole dispetto di Thor
I.
Die guardava l’immagine di
Ottavia riflessa nello specchio dalla cornice cesellata e pensava che fosse già
troppo tardi.
“Che cosa ci trovi di bello,
poi –“
Ottavia lo freddò. “Sai come si
dice? Guardare ma non toccare. Lui è l’étoile. Lui è la grazia, la
leggerezza, la bellezza, l’eleganza, la musica, l’arte, e tutto nello stesso
istante. È – è – guarda, non trovo neanche le parole per spiegarlo.”
“E perché ti devo accompagnare
io? Odio le cose formali. E odio i balletti.”
“Nescio, sed fieri sentio et
excrucior.Chi è venuto con te all’ultimo concerto dei Tool, caro?”
“Cosa c’entra, tu ci volevi
andare! Mi riempi la testa di confusione.”
Ottavia gli fece cenno con la
mano di stare zitto. Canticchiava – “I sit down with my son set to see the
crimson sunset –“ Era il suo pezzo preferito di A Change of Seasons, e Die
non gliel’avrebbe rovinato con stupide considerazioni e critiche invidiose
rivolte alla sua étoile preferita.
Lasciò che la melodia finisse
in quello strano modo – come era cominciata. A Change of Seasons le metteva
sempre I brividi per la sua lucida bellezza e per la sua affascinante
circolarità. Le ricordava molte poesie e molti pensieri che conosceva a memoria,
a furia di leggerli e rielaborarli nella sua testolina distratta.
“Die –“ Questa volta sembrava
seria, mentre si voltava con una sfumatura di apprensione dipinta sul volto. “Ma
ora tu – cosa vuoi fare?”
Die abbassò lo sguardo. “Lo sai
che amo la mia chitarra. Io – non lo so. Devo dirlo a papà?”
“Prima devi dirlo a te stesso.
Riflettici bene. È una decisione che ti toccherà molto, molto profondamente.”
Die ci stava già riflettendo.
Si chiedeva come ci fosse arrivato. Che cosa gli restava? Era come preso e
trascinato in due diverse direzioni, e tendeva dolorosamente sia verso l’una,
sia verso l’altra. Stava mettendo in gioco tutte le sue certezze e le sue
decisioni per un incontro così effimero. Hansi gli aveva inculcato un’idea –
lasciare l’ingegneria e ritornare a fare la cosa che gli riusciva meglio, e che
amava di più, la musica. Una parte di se stesso, lo sapeva, avrebbe voluto
rimanere sulla via che si era faticosamente costruito in tanti anni di sacrifici
– nella normalità rasente la perfezione: ottimo studio, possibilità
professionali, buona carriera, vita esemplare. L’altra metà di se stesso, quella
appassionata, quella avventata, quella nutrita di ideali, era stata rievocata in
una sola notte, e ora lo disturbava col suo fascino attraente. Lui l’aveva
cancellata, l’aveva seppellita assieme alle sue passioni infrante, l’aveva
posata delicatamente in un punto dell’anima che pensava non potesse più essere
raggiunto dalla vibrante energia vitale. Eppure, in una volta, in una breve,
intensa, odiosa notte, aveva riscoperto quella faccia della sua personalità,
forse la più sincera e la più vivida, ma anche la più pericolosa. In un momento
rivedeva quello per cui aveva combattuto per anni, e a cui aveva deciso di
rinunciare – per cosa? – per comodità, per convenienza, per convenzione. La
riscoperta era sconvolgente, vertiginosa – emozionante. Aveva risvegliato dentro
di lui un istinto sopito, e l’aveva reso di nuovo potente.
Hansi era stato suo compagno di
liceo. Avevano studiato insieme, e insieme si erano avvicinati alla musica.
Condividevano molte esperienze in quel periodo fresco, anche, sporadicamente, il
letto. Era un equilibrio instabile, molto lontano da quello tra Mircea e Lelio,
decisamente meno intimo e più amichevole, meno innamorato e più stoico. Alla
fine delle superiori avevano preso strade diverse. Die ricordava di essersi
separato da lui con un grande, enorme rimpianto, e di non essere riuscito a
sistemare le cose. Una sera, poco prima della fine della scuola, gli aveva
confidato che avrebbe lasciato perdere la chitarra. L’avrebbe ritirata in
qualche armadio chiuso, e avrebbe dimenticato l’esaltazione delle note della sua
musica. Non importava. La musica non viveva. E lui doveva pensare a qualcosa di
più concreto per sé, a un futuro fattibile. Hansi si era arrabbiato. Gli
aveva rinfacciato cinque anni di menzogne e di illusioni, gli aveva urlato che
era solo un meschino, una persona come tutte le altre – questo aveva
ferito Die maggiormente – e che stava spezzando un sogno coltivato per tanto
tempo, distruggendo due persone senza accorgersene. “Sei solo un’idealista.” Gli
aveva risposto. “A diciotto anni si può vivere di ideali, di rincorse, di
desideri e di ribellione. Ma a quaranta ci si guarda indietro e ci si accorge di
aver sbagliato tutto, di aver sprecato ogni possibilità.”
La domanda secca di Hansi gli
era rimasta nel cuore. Non era passato giorno della sua vita che non se la fosse
ripetuta svegliandosi, o prima di addormentarsi – “E allora un’esistenza stretta
non ha senso. Di che cosa potrai essere fiero, a quarant’anni? Chi guarderai
nello specchio, a quarant’anni?” Chi guardava nello specchio, anche a
venticinque? Aveva sempre segretamente pensato che Hansi avesse ragione.
Quella volta Hansi si era
voltato ed era uscito sbattendo la porta. Non si erano più parlati. Si erano
detti silenziosamente addio, e poi nulla. Finché un sabato sera non si erano
rincontrati per caso. Hansi era stato felice di vederlo, e Die era euforico.
Credeva fosse arrivato il momento per riparare all’errore più doloroso della sua
vita– avevano bevuto molto, troppo. Si era risvegliato alle tre di notte in un
letto che non era il suo e che profumava incredibilmente di un odore dolce,
presente nella sua memoria in un ricordo sfocato, e che evocava in lui
sensazioni abbandonate e piacevoli. Anche Hansi si era svegliato. Avevano
parlato fino al mattino come facevano anni prima, nel fiore della loro amicizia
e nel momento più scintillante di tutta la loro giovinezza – si erano confidati,
riavvicinandosi, quel segreto tanto vincolante da unirli, quell’amore che solo
loro potevano comprendere e di cui erano gli unici custodi. Die era ancora
stordito dall’alcol. Tra i baci gli aveva chiesto scusa mille volte, gli aveva
detto che gli dispiaceva, gli aveva rivelato quanto si sentisse male ogni giorno
per le sue ultime parole, per quella consapevolezza lacerante che lo faceva
impazzire. “Vieni con me!” Aveva riso Hansi accarezzandogli la testa. “Sì,
prendi questa stupida laurea e nascondila, poi dimenticati la matematica. Devi
imparare di nuovo solo le note.”
“Quelle non me le sono mai
scordate.”
Per Die era come tornare
indietro nel tempo e tuffarsi in un’epoca della sua vita che era stata felice,
meravigliosa. Ricordarsi come stesse bene. “Sai, mi sono mancate molte cose di
questo rapporto strano.”
Un bacio. Un’altro ancora.
Hansi gli diceva con gli occhi, dolcemente – hai deciso tu la tua strada. Ma
puoi tornare indietro e godere di questo fino alla fine, fino all’orlo.
Poi era arrivata la mattina. Le
porte di quella notte buia si chiudevano e sbattevano violentemente urtando le
pareti del sole assieme ai suoi desideri riscoperti. Se n’era andato di nuovo,
ma questa volta nessuno provava rabbia, odio, rimorso. Questa volta c’era stato
un bacio a fior di labbra, una carezza, un saluto delicato e un senso sospeso di
ritorno. Ricominciavano? Die avrebbe voluto capirlo. Era confuso, stordito,
felice. Forse sarebbe rientrato in quella stanza e avrebbe di nuovo assaggiato
il sapore speciale delle loro notti, quel profumo persistente, quel senso di
completezza; forse avrebbe chiuso, definitivamente, un capitolo difficile della
sua vita.
Per il momento si guardava
nello specchio, accanto ad Ottavia, e pensava a se stesso – alla sua essenza, ai
suoi vincoli, e a come, nella sua prospettiva contorta, desiderasse vedersi. Un
po’ cominciava a saperlo.
II.
“Questo film è noioso.” Mircea
si girò prono sul letto premendo il pulsante di pausa del telecomando. “Tua
sorella questa sera va alla Scala. Che fortuna.”
Ma Lelio dormiva, la testa
poggiata sul cuscino, gli occhi chiusi e le labbra distese in un candido
sorriso. Mircea si stupiva sempre del modo in cui Lelio si poteva addormentare,
così sereno, così rilassato, così estraneo dalla sua personalità in continuo
movimento. Credeva che Lelio facesse sogni complicati, possibilmente filosofici,
qualcosa che aveva a che vedere con la sua allucinazione vestita da Alice, ma
molto più serio. “Stai sveglio tutta la notte, vedi? Poi ti addormenti sul
nostro film.”
Lelio sognava un ponte
scintillante. Era a Venezia, o almeno credeva, ma non capiva né come ci fosse
arrivato, né cosa ci facesse. Il ponte fatto d’oro e drappeggiato elegantemente
in velluto cremisi si modellava sul canale, ed era sospeso nella nebbia di una
notte indefinita, confusa. Di lontano, vagamente, si scorgeva la sagoma di una
cupola maestosa, si vedevano i contorni dei pinnacoli preziosi che svettavano
contro il cielo e dovevano rilucere di meraviglia, illuminati dal chiarore del
giorno. Sulla Città era calato un velo di silenzio e quiescenza. Probabilmente
tutti dormivano, lui era l’unico essere sveglio, cosciente, vigile come una
sentinella sul confine impalpabile tra la realtà e il sogno. Sotto di lui
l’acqua scompariva inghiottita dalla foschia umida. Era come essere sollevati
sul nulla. Un senso di freddo, di gelo interno, lo pervadeva e lo faceva
rabbrividire assieme ad una sottile inquietudine. Nelle mani stringeva una
maschera. Se ne accorse solo dopo molti minuti che scrutava, immobile come una
statua, l’orizzonte celato. Non si ricordava se l’avesse sempre avuta, o se
improvvisamente se la fosse trovata tra le mani. Non si ricordava nemmeno se la
coscienza di stringerla l’avesse fatta apparire e concretizzata in un oggetto,
plasmandola materialmente dalla semplice idea astratta, o se fosse sempre stata
lì. Anche la maschera era ricca e opulenta come quella città circondata dal fumo
e probabilmente rialzata sul limite del mondo – la sua porcellana era lucida e
liscia, attorno alle fessure degli occhi si dipingevano sofisticate linee blu e
oro e viola, l’interno era delicato, rivestito in velluto cremisi, ogni
dettaglio era cesellato, preciso, perfetto, modellato nella piena consapevolezza
da mani artiste.
Dove si trovava, davvero? quel
ponte sospeso ed immobile, quello scenario altrettanto sospeso ed immobile non
erano che la rappresentazione onirica, una sfocata visione metafisica che
entrava in un’altra dimensione di torpore. E se lui era l’unico ad essere
sveglio, e ogni altra cosa era avvolta nella nebbia Questo significava che la
sua coscienza e la sua immagine interna erano ciò che rimaneva di un potere
superiore in un mondo di fantasmi opalescenti.
Quello che non capiva era
perché –
“Lelio!” Thor si gettò sulla
sua pancia. “Svelia, svelia, è presto!” Thor non sapeva ancora pronunciare la
‘gl’.
Lelio socchiuse gli occhi senza
capire molto bene cosa stesse succedendo. Guardò Vittorio abbracciato a lui sul
letto e Mircea che ridacchiava dietro lo stipite della porta.
“Sei stato tu! Tu gli hai detto
di svegliarmi! È molto crudele.”
“Trovi?”
“Stavo facendo un sogno così
surreale –“
“Thor, vai dalla mamma.”
Vittorio scese dal letto
trotterellando verso la cucina. “Buonanotte!” Rise.
“Buonanotte amore! Lelio, sei
arrabbiato con me?”
“Molto. Moltissimo. Per la
prima volta mi addormento e sono in pace con me stesso e tu –“
“Quindi sei arrabbiato con me?”
Ripeté Mircea sbattendo un po’ gli occhi.
“Oh, certo. Ma forse potrei
perdonarti. Forse. Dovrai sforzarti.”
Mircea sospirò. Un’altra notte
insonne.
___
Mi diverto a prendere in giro
il lato intellettualoide di Lelio. In fondo sono un po' così anch'io, a tratti
presa da tutto il mio orgoglio intellettuale, a tratti molko poco seria, come
avrete notato. E' che penso, e penso, e alla fine non ricordo mai come ci sono
arrivata. Boh. In realtà quando leggete queste parti "sofisticate" sono la
sottile ironia dei miei viaggi mentali, nient'altro. Sono così autoironica...
Punto uno - L'étoile è
l'unico, meraviglioso, inimitabile Roberto Bolle. I Tool sono un gruppo
che non so come definire - ma se amate le cose oscure e complesse ascoltateli -
e A Change of Seasons non lo dico neanche, beh... Devo aver infilato pure
un pizzico di Catullo, somewhere.
Punto due - Sapete, sono andata
al concerto dei Dream Theater. E' stato esaltante e doloroso (il giorno dopo) e
volevo saltare sul palco e fare altre cose molko stupide, di tutte le volte che
li ho visti, questa è stata senza dubbio la performance migliore. Li amo. Li
amo. Li amo. Oh, sono così depressa ora che sono lontani...
* THANKS *
DianaV - Sono contenta
che ti piaccia Ottavia, ho sempre paura di disegnarle troppo Mary Sue, le famale
characers. In effetti lei è insopportabile in senso buono. E' molko me, solo con
tre fratelli gnocchi. Per il resto, spero che il background della relazione tra
Die e finto-Logan ti sia piaciuta. In effetti tutta la loro relazione è basata
su quest'ambiguità di Die, che è come sospeso tra la "carriera" e la "musica",
tra la vita pragmatica e l'idealismo della sua adolescenza. Ma hai visto che
hanno sospeso Una Mamma per Amica! E io che aspettavo così tanto di godermi il
vero-Logan ç____ç! Depressioooon...
Susy -Non ti
preoccupare per il corto commento. Breve e intenso. Anche a me piaceva lo scorso
capitolo, pure se oggettivamente non lo dovrei dire ^///^. Tralaltro è la cosa
più graphic che abbia mai scritto, figurati. Non sono portata per le lemon (al
contrario di qualcuno che è splendido in certe scene *emh emh*). Una volta ho
letto da qualche parte, una frase di Eco, credo, che diceva una cosa tipo - Che
altro potrebbe desiderare uno scrittore, se non essere un avverbio? - C'ho
riflettuto parecchio, e gli do ragione. Gli avverbi non sono indispensabili, ma
sono precisi, definiscono, cesellano, in un certo senso sono la parte più
puramente estetica, ma non vana come gli aggettivi. Non so se rendo l'idea. La
linguistica mi rende confusa. Comunque non c'erano avverbi nella frase di
Ottavia, mi sembra di ricordare, quindi scelgo i verbi.
Lara - Sono felicissima
di aver ricevuto un altro tuo commento (ho appena scritto un'altro con
l'apostrofo!!! OMG!!!)
Per tutto quello che mi hai
detto, perché sei felice che Lelio e Cea siano felici e questa è una cosa
fondamentale, visto che in quanto scrittrice la massima realizzazione è creare
una sorta di legame empatico con il lettore. Lelio, in realtà, si è sempre
accorto della bellezza di Mircea. Solo non l'ha mai vista da quella prospettiva,
come se ci fosse "dentro". Era sempre stata la bellezza oggettiva di qualcosa di
esterno, ora, e più avanti diventa chiaro, la bellezza di Cea diventa intima,
coivolgente, al punto che tarattatta non vi anticipo le ultime righe della fic.
Ringrazio anche tutti i
lettori! Baci, al prossimo capitolo,
Questo capitolo è
decisamente stupido. E' nato un giorno che il mio lato stupido ha preso il
completo sopravvento sulla mia personalità. Si ringrazia gentilmente la Francia
per aver alimentato il fuoco dentro me. Sapete, avevo appena litigato con una
ragazza, e io odio litigare, lo odio. Per cui per esorcizzare la voglia di
fracassarle la vuota scatola cranica, ho scritto una lista dei suoi difetti
mettendo un tic di fianco a quelli sopportabili e/o superabili nel tempo, e nel
giro di due giorni tutti i punti avevano il tic perché sono troppo buona
-___-'''... Anche i difetti della lista di Cea sono sopportabili.
Venerdì ventidue Dicembre,
Una retrospezione dalla
parte di Mircea – Una mattina movimentata; una lista nera, una lista dorata
I.
L’ultimo giorno di scuola non è
il primo di vacanza. Questo lo sapevo bene, benissimo. Solo, non mi andava di
alzarmi dal letto perché era ancora buio, perché fuori faceva freddo, perché
avevo sonno, perché dovevo fare la verifica di filosofia e non ne avevo voglia,
perché probabilmente Lelio era di cattivo umore, perché sarei inciampato in
qualcosa non appena fossi uscito dal bagno, perché dovevo scegliere i vestiti, e
per mille altri motivi che nello stordimento seguente la sveglia precoce mi ero
dimenticato.
- Aggiungere alla mia lista:
distruttore di quieti sacrosante. – Dissi tra me e me. Poi mi alzai desolato,
impacciato, già stanco, e mi diressi verso la doccia.
L’acqua calda di prima mattina
aveva un impatto rilassante e delicato sulla mia pelle infreddolita dal gelo
della notte. – Se Lelio mi dicesse: se ti alzi subito puoi fare la doccia con
me, invece che strapparmi le coperte, le cose funzionerebbero molto meglio di
quanto non vadano ora. –
Quella mattina ero in preda a
speculazioni mistiche e sconvolgenti. Capitemi bene: la mia ricerca inane deve
contenere le rotture dell’Equilibrio Cosmico, così mi sono preposto da una vita
intera, e questo moto accidentale, questo processo storico che fa tendere il
mondo e la mia persona profumata di docciaschiuma al cioccolato fondente, parte
dalle piccole cose quotidiane, come il docciaschiuma al cioccolato fondente che
non sa di cioccolato fondente, come le brioches alla marmellata che hanno dentro
pochissima marmellata, come i capelli ricci che con l’umidità si increspano,
come le mattine invernali, le mattine in generale e Tutte le Cose che Odio in
Lelio. In particolare Tutte le Cose che Odio in Lelio. Negli ultimi giorni avevo
fatto una lista dei suoi difetti. Prima o poi gliel’avrei fatta leggere.
Uscii dalla doccia avvolgendomi
velocemente nell’accappatoio. Il mio corpo era stato scosso da brividi di gelo
non appena avevo messo piede fuori dal vaporoso calore del bagno. Guardai la
sveglia – le sette.
“Lelio, tesoro, per
quale assurda ragione mi hai svegliato mezz’ora prima del dovuto?” Urlai
dalla sua camera. Cioè dalla nostra. Quella notte avevamo dormito in casa sua.
Lo facevamo spesso perché sua madre comincia a lavorare molto presto in
ospedale, e la mattina avevamo la casa tutta per noi, mentre da me bisogna fare
attenzione a non svegliare la bestia feroce.
- Aggiungere alla mia lista:
perturbatore insensato di altrui sonno. -. Tirai fuori la lista e annotai
frettolosamente i punti 25 e 26. Sentivo rumore di passi nella mia direzione.
“Cosa c’è?” Lelio entrò nella
stanza. Nascosi la lista dietro la schiena e sorrisi falsissimo. “Sono solo le
sette. Che bisogno c’era di essere così perversi?”
“Come che bisogno c’era? Ero
già sveglio.”
“Questo non è un buon motivo
per svegliare me.”
“Cea, pensavo che potessimo
trascorrere questa mezz’oretta in più in maniera divertente. Mi annoiavo.”
Perché quando mi guardava con
quegli occhi io mi scioglievo e annullavo la mia volontà e mi facevo fare tutto
quello che voleva? Lelio si avvicinò a me, sedendosi sul bordo del letto.
“Solo se non sei troppo
assonnato.” Sussurrò al mio orecchio.
“Mm, oramai credo di essermi
svegliato completamente.”
“Bene.”
Scostò i capelli dalla mia
spalla e fece scivolare l’accappatoio per baciarmi sul collo. Gli presi la testa
tra le mani mentre saliva sempre un po’ di più per arrivare alla mia bocca.
- D’accordo cervello, questo
perdona decisamente tutti i suoi innumerevoli difetti. -
Alla fine ero comunque nel
letto. Mi sdraiai sulle coperte disfatte mentre le sue mani cominciavano a
viaggiare su tutto il mio corpo e ad accarezzarmi nei punti che aveva ormai
imparato alla perfezione con quelle sue dita affusolate, delicate, gentili. Mi
sfilò l’accappatoio. Ero di nuovo così impotente ed inerme sotto di lui, eppure
così euforico, così perso, così soddisfatto. Mi piaceva fare l’amore con lui in
ogni posto, ma preferivo di più farlo in casa sua, perché potevo urlare dal
piacere quanto volevo. Ero perso in un mondo solo mio e suo, e respiravo a
fatica tra un gemito e un’invocazione. Ricominciò di nuovo tutto, le mani, la
bocca, i corpi che si sfioravano sempre più accaldati, sempre più affannati,
sempre più eccitati, fino all’apice meraviglioso, quando mi inarcavo contro il
suo corpo e ricadevo esausto sulle lenzuola.
Lui sciolse l’abbraccio
delicatamente, e mi guardò per qualche secondo prima di chinarsi di nuovo verso
di me e sfiorarmi sorridendo. Dovevo essere arrossato, il petto si muoveva
velocemente e cominciavo a sentire il freddo. Il mio corpo si stava rilassando
di nuovo per tornare ad una situazione normale. – Chissà cosa pensa di me, in
questo momento, - Mi chiedevo sempre quando, appena dopo avermi lasciato andare,
si incantava a fissarmi con quello sguardo stranito.
“Credo che dovremo farci
un’altra doccia,” Mi bisbigliò all’orecchio, mentre percorreva le coperte e le
scostava per coprirmi.
“Magari potremmo farla insieme.
Solo per risparmiare tempo.”
“Sì –“
Un fruscio di carta. Lelio
sembrava incuriosito. Fermai la sua mano. “Aspetta, aspetta, aspetta!” Mi misi a
sedere sul letto.
“Cosa?”
Presi un lembo del foglio che
aveva tra le mani e lo tirai dalla mia parte.
“Che c’è?”
“Niente.”
“E’ tuo questo foglio?”
“Sì.”
“Perché non me lo vuoi far
leggere?”
“Perché –“ Una scusa, Cea, una
scusa! “Perché ho scritto i regali di Natale, tra cui il tuo, per cui,
evidentemente, non puoi vederlo.”
“Non sei capace a dirmi le
bugie, Mircea.”
“No, no!”
Me lo strappò dalle mani. Lo
lesse velocemente. O, credo, lesse solo il titolo. Mi guardò con uno sguardo
stupito. “Ah, è così!” Sibilò.
“Ma io –“
“Hai scritto una lista dei miei
difetti! Come hai potuto scrivere una lista dei miei difetti?”
“E’ perché hai un sacco di
difetti, una marea, e poi l’ho detto che non avresti dovuto vederla.”
“Grazie, la lasci lì sulle
lenzuola! Non posso credere di aver fatto l’amore sopra la lista dei miei
difetti.”
“Non è così tragico.”
“E’ un colpo basso!”
“Perché non mi chiedi la cosa
che dovresti, e cioè: ‘pensi davvero questo di me?’. E’ fatto apposta per
riflettere su questo.”
“Pensi davvero questo di me?”
“Ma no!”
“E allora che bisogno c’era?”
“E solo che – era un
promemoria, d’accordo? Sei arrabbiato con me?”
“Potevi fare un promemoria
delle mie qualità.”
“Veramente è scritto dietro.”
Lelio girò il foglio. “Oh.” Si
sedette di nuovo.
“E poi non ho bisogno di
ricordarmi i tuoi pregi, li ho sempre in mente.”
“Se questo è un subdolo
tentativo di recuperare la situazione, hai fallito miserevolmente. E niente
doccia insieme.” Si alzò, si rimise i pantaloni e se ne andò in bagno,
portandosi dietro la mia simpaticissima lista.
II.
Tutte le Cose che Odio in Lelio:
1-Maniaco compulsivo
dell’ordine
2-Costantemente affetto
da: mal du siècle, spleen, anguish, ennui, depressione, Weltschmerz e tutte
quelle cose disfattiste
3-Perturbatore
dell’Equilibrio Cosmico
4-Perturbatore del Mio
Equilibrio Interno
5-Amante più dei suoi
libri che di me
6-Amante più di Thor che
di me
7-Estremamente scostante
nei periodi di Voragine Mentale
8-Fratello di tre
complessati cronici
9-Fisimatore
professionista del prossimo felice
10-Distruttore di armonie
quotidiane & Buongiorno
11-Sottilizzatore logico
in ogni questione
12-Utilizzatore di tutta
l’acqua calda della doccia
13-Maniaco compulsivo
dell’ordine ANCHE per le cose altrui
14-Caffeinomane
inguaribile
15-Misogino, misantropo,
nemico del genere umano
16-Misterioso pensatore
insondabile
17-Mai, MAI!!!, contento
di nulla
18- Puntiglioso,
studioso, coscienzioso fino a farmi venire profondi sensi di colpa
19-Sfacciatamente amato
dalle ragazze, il che mi fa ingelosire a dismisura
20-Polemizzatore per ogni
minima cosa
21-Troppo veloce a
camminare
22-Fumatore prima di
baciarmi –ok, questo non è un vero difetto-
23-Scostante, lunatico,
di umore mutevole a velocità stellari
24-Salutista sfrenato
25-Distruttore di quieti
sacrosante
26-Perturbatore insensato
di altrui sonno
Tutte le Cose che Amo in Lelio:
1-E’ il mio ragazzo!
2-E’ il ragazzo più
bello del mondo
3-E’ il ragazzo più
intelligente del mondo
4-E’ il ragazzo più
dolce del mondo (con me)
5-Ha degli occhi che mi
fanno impazzire
6-Ha un nasino
meraviglioso
7-Mi canta le canzoni
dolci
8-Non ha più segreti per
il sottoscritto
9-Si diverte a
torturarmi
10-Si diverte anche in
altri modi con me…
11-Ha un profumo
buonissimo (Farenheit) Acqua di Giò)
12-Capisce sempre cosa ho
in mente
13-Mi fa le verifiche di
tedesco, di matematica, di storia, di geografia economica, di statistica
eccetera
14-Mi preferisce a tutte
le ragazze del mondo
15-Vuole molto bene a mio
fratello
16-Fa il caffè più buono
del pianeta
17-Non si stanca mai di
stare con me
18-Mi sistema sempre la
camera
19-Non si stanca mai di
ascoltare le mie idee stupide
20-E’ PERFETTO E
MERAVIGLIOSO E LO AMO DA MORIRE
21-Gli piace la stessa
musica che ascolto io
22-Gli piacciono gli
stessi film che piacciono a me
23-Odia il Piccolo Cervo
24-Adora ME!!!
25-Sopporta i miei scatti
di isteria felice
26-Non mi dice mai di
stare zitto quando parlo di assurde situazioni dell’Equilibrio Cosmico
___
Seriamente, non so cosa sia
questo. Non è un capitolo serio. Non è un capitolo. Il prossimo è consistente,
invece. Contenti? Sto studiando come una pazza in questi giorni . Sto
sviscerando la Waste Land, sapete...
Sto considerando l'idea di
scrivere un'altra long fic -shonen-ai, of course...-. Cioé, ne ho scritti nove
capitoli di getto e sono piena di idee, ma è una cosa talmente strana, e veloce,
e senza forma, che --- non lo so. E' scritta di getto, l'ho già detto? Per me è
un dramma... Boh. Boh. Boh. Tanto devo finirla, prima. Un giorno la vedrete e mi
saprete dire se è meglio questo stile (non precisamente quello di questo stupido
capitolo), quello di Bénédiction o quello di fic-per-ora-senza-nome.
Non ho altro da dichiarare ---
*** THANKS***
DianaV - Noooooo! Il
prossimo concerto dei Dream Theater contattatami, vengo a prenderti con la mia
fantastica Kassy e andiamo a distruggerci all togheter! Sono aperte le
iscrizioni! Non potete perdervi tanto entusiasmo e meraviglia *___*. Trovi
davvero che Ottavia sia una persona fantastica? Non mi conosci. E'
insopportabile. In senso buono, ok, ma è insopportabile perché io sono
insopportabile se divento sarcastica. E capita spesso. Così dicono i miei amici.
Però mi sa che hai ragione, il fatto di avere i fratelli gnocchi è uno
svantaggio... ma tanto, guarda, se anche non fossero parenti, sarebbero
occupati, o ordinati, o gay, quindi... Grazie mille come sempre per il commento
^_^
Manny_chan - Una
nuova commentatrice uahuahuah. Non sai che gioia provi dentro di me per i tuoi
commenti. Non preoccuparti di quello che scrivi, hai visto quello che scrivo io?
Ti ringrazio per aver letto tutto e commentato tutto. Eh, lo so, Cea è un
rubacuori. Per aver fatto innamorare uno come Lelio (quanto mi diverto a
prendere in giro Lelio, non avete idea XP)... Insomma, quando l'ho partorito, ho
infilato nella sua testolina tutto quello che di positivo vorrei trovare nelle
persone, non solo nel mio uomo ideale. Lelio è fortunato. Cea è semplicemente
perfetto. Grazie per aver commentato questo progressivo delirio.
Susy - *Awwwwwwwwwwwwwwwwww*
- Dopo aver letto il tuo commento ho sentito una strana sensazione di
onnipotenza durata cinque meravigliosi minuti. Ma andiamo con ordine. Perché
Die ha smesso di suonare? - C'è una ragione pratica, una psicologica e una
simbolica. La ragione pratica è che finto-Logan ci lavora, con la musica 24h on
24. Il che esclude la carriera di Die, e lui ha fatto una scelta in questo
senso. La ragione psicologica è che la chitarra ormai gli lascia un
insopportabile senso di colpa verso finto-Logan. Ho pensato, se io litigo con
una persona per me importante non sono così autolesionista da rifare le cose che
facevo con lui/lei. La ragione simbolica è quella che ho adottato anche per
Lelio e Cea, e cioè, questi personaggi sono dicotomici, sono bianco e nero senza
sfumature, sono mondi separati che lentamente imparano a compenetrarsi e a
sfumarsi l'uno con l'altro [La ragione vera è che avrei dovuto approfondire
meglio la cosa *emh emh*]. Ecco... ti ringrazio infinitissimissimamente per
quelle cose stupende che hai scritto alla fine del commento. Tutti vorrebbero
sentirsi dire questo, immagino. Pubblicare è il mio sogno da anni. Prima o poi
succederà, spero. Sto facendo leggere cose un po' alle persone che forse mi
torneranno utili - non sono le fic che pubblico, ma cose più serie e rifinite...
sto cercando concorsi eccetera. Se conosci un editore raccomandami. Se lo
conosco prima io ti raccomando XP. Scherzi a parte... spenderesti venti euro per
un mio romanzo? Sono molko fiera di me. Grazie infinitamente. Ti dedicherò un
libro.
Mi sono dilungata troppo...
beh... alla prossima! Baci a tutti,
Che stanchezza. Lavoro come una
stacanovista. Ehi, siamo a metà storia! Quindi comincio già a deprimermi per il
fatto che un giorno o l'altro finirò... Capitolo piuttosto cospicuo.
Domenica ventitre
Dicembre,
Un Piccolo Cervo che
potrebbe diventare Renna di Babbo Natale; molti incontri sulla stessa strada;
qualcuno di non troppo felice e un finale con sorpresa
I.
Lelio era uscito di casa di
primo pomeriggio, ma tra le strade affollate della Città era già calato il buio
denso. Gli dispiaceva che Mircea non fosse con lui. Si sentiva solo ed
immensamente amareggiato, camminando tra tutte quelle persone allegre,
spensierate, ridenti. La sera era quasi magica, ammantata dell’incredibile
profezia della neve e dallo scintillio degli addobbi e delle luci che decoravano
ogni angolo di strada. L’atmosfera aveva un suono tintinnante ed un profumo
dolce, come di cannella, di zenzero, di spezie, di qualcosa di lontano,
rievocato nella purezza dell’infanzia. Quei bagliori chiari emanavano un’aura
che nella sua più intima valenza sapeva veramente scaldare il freddo della
stagione ed illuminare di una certa patina dorata il buio fitto. Solo stringersi
nella sua sciarpa, per Lelio era un gesto di inappagabile serenità. Era tutto
così tranquillo, così speciale, così sospeso come in un incanto – la via
decorata a festa per il Natale gli ricordava quelle boccette di vetro in cui era
costruito un castello fatato in miniatura, e che facevano la neve candida,
delicata, magica, meravigliosa. Così era anche ammantata della stessa grazia
sussurrata delle favole dei bambini. Ma nel luccichio del suo oro, del suo
vermiglio, dei suoi velluti, dei suoi cristalli, coltivava segretamente
pure quel lato oscuro, che è la precarietà e la fragilità. Le bolle
di vetro si infrangono facilmente.
Voleva Mircea. Perché non era
con Mircea? si chiedeva, scaldandosi le mani col suo caffè. Erano le cinque di
pomeriggio dell’Antivigilia e lui percorreva le strade più affollate del centro
da solo, senza uno scopo ben preciso, senza una meta. I regali li aveva già
comprati. Era uscito perché non poteva stare in casa con lui, semplicemente.
Eppure allora cominciava a pentirsene.
Entrò in una profumeria – amava
molto i profumi, avrebbe potuto trascorrere giornate in quelle boutiques così
sofisticate e raffinate. Le boccette lo incuriosivano sempre coi loro colori e
le loro forme strane. Lelio aveva una particolare memoria olfattiva che gli
permetteva di ricordare ogni essenza e di riconoscerla non appena sentita, si
accorgeva immediatamente quando uno cambiava profumo, e aveva un ottimo intuito
nell’abbinare le fragranze alle persone, tanto che i suoi fratelli, anche
Ottavia, gli chiedevano sempre consiglio.
Allora la profumeria era
immersa di gente indaffarata a comprare gli ultimi regali. Si avvicinò allo
scaffale maschile e cercò quei profumi che non aveva ancora assaggiato, gliene
restavano molti. Passò da una boccetta all’altra, senza sapere perché,
semplicemente inebriato da quegli odori. Finché qualcuno toccò la sua spalla.
Si voltò improvvisamente –
“Die, mi hai spaventato. Potevo lasciarlo cadere.”
Die rise. “Che ci fai qui tutto
solo, fratellino?”
“Stavo scappando da Mircea.”
“Oh. Avete litigato?”
“E’ una storia stupida. Ma non
posso stare con lui.”
“Così affoghi il tuo dispiacere
ubriacandoti coi profumi?”
Lelio ripose la boccetta e ne
prese un’altra. “Voglio comprare un profumo.”
“Per te o per chi?”
“Non lo so. Dipende dal
profumo.”
“Capisco.” Die fece una piccola
pausa, inclinando la testa, anche se non capiva affatto. “Secondo te un profumo
è un regalo troppo scontato?”
Lelio si voltò di nuovo verso
di lui. “Un profumo,” Lo freddò. “Non è mai un regalo troppo scontato. È
prezioso, elegante, molto difficile ed affascinante, perché viene scoperto mille
volte. I profumi sono i regali più complicati da fare. Richiedono una grande
conoscenza della persona a cui li si vuole donare perché l’olfatto è un senso
molto delicato. Sono ambigui. Sono vellutati. Sono eterei. E se vuoi un
consiglio per Hansi, io gli prenderei Hugo.”
Die lo guardava incuriosito
mentre gli porgeva la boccetta dal liquido blu per fargliela annusare. “E poi
sono io che lavoro nella moda –“
“I profumi sono solo una forma
di propensione. Bisogna essere bravi ad interpretarli, tutto qui. Sono sulla
pelle. Sono una seconda pelle.”
“Dici che va bene?”
“Certo.” Lelio lo fissò per un
secondo. “E’ davvero per Hansi?”
Die scrollò la testa.
“Allora – va tutto bene.”
“La verità è che io e Hansi non
siamo due persone molto sentimentali.”
“Ma gli compri un regalo.”
“Lo vedrò a Natale. E mi va di
farlo, perché in fondo gli devo molto, anche se mi sta sconvolgendo la vita.”
“Die, io non avrei dubbi se
fossi al tuo posto. Starei con lui. Anche platonicamente, capisci? Solo, farei
quello che amo. È quello che lui significa, che ti dovrebbe muovere.”
Die lo osservò muoversi davanti
alla vetrina ancora per un paio di minuti, finché soddisfatto esclamò: “Ecco, ci
sono. Il profumo per Cea.”
II.
Il soffitto della caffetteria
era luminoso, inondato dal chiarore che quell’enorme lampadario emanava
dall’altezza del soffitto. Le pareti erano rivestite da carta da parati color
oro, e su tutti i tavolini ardeva una piccola bugia decorata da ghirlande di
abete ed agrifoglio. Tutta quella ricchezza opulenta e quello scintillio
consumistico, immerso nel calore soffocante della sala, non gli facevano lo
stesso effetto dell’alone natalizio che incontrava per le strade. Quelle piccole
luci erano molto più intime, perché erano avvolte dal freddo e dalla gente che
passava regalandosi un pensiero rivolto a qualcun altro.
E poi era affollatissimo. Lui e
Nikita avevano faticato per sedersi e riuscire ad avere le loro ordinazioni.
Questo faceva girare la testa a Lelio, che odiava la confusione, il brusio di
sottofondo, e soprattutto le risate futili delle persone stupide. Ma per
principio non si rifiuta mai una cioccolata in galleria. E suo fratello l’aveva
invitato.
“Allora, fammi vedere.” Gli
porse la borsa con la confezione.
“In realtà gli avevo già
comprato il regalo. Ma non resisto alla tentazione dei profumi. Hanno quelle
boccette tutte luccicanti e-“
“Molto buono.” Nikita ripose la
confezione accanto a Lelio. “Allora cosa fai per Natale?”
“Sto con Cea. Sono domande?”
“No, ma – perché non è qui
adesso?”
“Oh. È meglio che per un po’
stiamo distanti. Non lo posso vedere, ora come ora.”
“Avete litigato?”
“Lascia stare.”
Nikita si strinse nelle spalle.
“Io e Federica ci siamo lasciati. Pensavo che sarei stato con lei a Natale, ma
ora credo che andrò a Parigi con Ottavia. A meno che non trovi un’altra ragazza
entro i prossimi due giorni. Sally, forse. Era un po’ che le avevo promesso un
appuntamento. Fratellino, dovresti imparare da me!” Gli scoccò un’occhiata
eloquente. “Dovresti goderti le ragazze nei loro momenti migliori, senza curarti
del domani, non legarti a qualcuno che alla lunga, sicuramente, ti deteriorerà.
I fidanzamenti sono inutili. Rubano quello che c’è di bello in un rapporto
perché diventano banali.”
“Invece fare come te paga.”
“Io lo chiamo edonismo.
E morirò così – felice, facendo quello che amo.”
“Sarà.” Lelio si alzò dalla
sedia. “Visto che ti piace godere e spendere, pagami il conto.”
“Vai già?”
“Sì, è tardi, mi spiace. E tu
hai bisogno di tempo per conquistare.”
Nikita sorrise, mentre suo
fratello se ne andava. Lo guardò uscire dalla caffetteria inghiottito da una
marea di gente. Lelio, si disse, aveva qualcosa di più bello in quei giorni.
Aveva una lucina particolare che diceva lui: sono felice! Si chiese se fosse
merito dell’amore, o semplicemente dell’atmosfera. Gli faceva molta tenerezza.
Sotto certi punti di vista invidiava quella sua nuova perfetta armonia, anche se
continuava a non capirla.
III.
Una voce lo richiamò dalla sua
strada, mentre era intento a pensare fittamente. Si girò e vide il Piccolo Cervo
che gli faceva cenno di raggiungerla.
“Cosa c’è, Giulia?”
“Ciao Lelio. Come sta il tuo
fidanzato? Non è con te?” Pronunciò quel fidanzato con un particolare
accento.
“Evidentemente no.”
“Avete litigato?”
Lelio alzò gli occhi al cielo.
“Ce l’hai ancora con me perché l’ho baciato mentre tu eri lì? Oppure perché
avresti voluto farlo tu? Oppure – qual è il tuo problema?”
“Per me puoi anche fare quello
che vuoi –“. Scrollò le spalle. “Ma è un vero spreco. Comunque guarda – volevo
regalare quel libro di foto al Fabio. A lui piace molto la fotografia. Secondo
te è un buon regalo?”
“Io non lo conosco, Giulia.”
Nella sua mente, Lelio pensava
a come il Piccolo Cervo si evolveva in Renna di Babbo Natale e consegnava i
regali la notte del Ventiquattro Dicembre.
“Tu che cosa hai comprato a
Mircea? un vestitino di raso blu come quello di cui parlavate quella volta?”
Lelio la guardò per un attimo
senza capire. “Oh, no, un profumo e un -”
“Ah. Beh, io gli compro questo
libro.” Detto ciò si voltò entrando dalla piccola porticina della libreria.
Lelio osservò la vetrina ancora
per qualche istante, in preda a molte considerazioni. Non gli piaceva il modo in
cui Giulia gli parlava. Non gli era mai piaciuto, in effetti, ma allora era cambiato, era
diverso, e si era trasformato nel momento in cui li aveva visti insieme in quel
contatto così intimo.
-Avrei dovuto pensarci. – In
realtà odiava molte cose di quella gente senza originalità e senza spunti.
Odiava il modo in cui alcuni si voltavano a guardarlo se abbracciava Cea in
mezzo alla strada, o se gli sfiorava la mano. A Mircea non importava mai, lui
era perso. Per ciò non voleva negarglielo, o non voleva nascondersi, svelandogli
tacitamente che si vergognava del loro rapporto. Questo non cambiava di nulla la
sua insofferenza. Avrebbe volentieri preso le teste di quelle persone e le
avrebbe sbattute l’una contro l’altra fino a far entrar loro il concetto che
aveva in mente.
Il tintinnio della porta che si
apriva lo ridestò dai suoi pensieri. Qualcuno prendeva il libro di fotografie
dalla vetrina e lo sostituiva con un altro molto più bello, un libro vecchio,
dalla copertina rigida in cuoio blu rilegata a listelli dorati, e con la scritta
elegante dorata – Kinder und Hausmärchen.
“Questo lo devo comprare a
Mircea!”
Pazienza se era il terzo
regalo. Lui meritava tutto il bene del mondo.
IV.
Mircea era ancora a letto, gli
occhi arrossati, la testa che pulsava, un senso di stordimento e di malessere
insopportabile. Odiava ammalarsi. Odiava la sua salute cagionevole, per cui
stava male con sconcertante facilità. E odiava anche come Lelio odiasse le
malattie per le sue manie compulsive di ordine e precisione. Quella mattina gli
aveva sentito la fronte bollente e gli aveva misurato la febbre che era salita a
trentotto e tre. “Non posso stare qui!” Aveva detto. “Sei malato!”
“E’ solo un raffreddore,
Lelio.”
“Non importa, sei infetto.”
“Ma cosa?”
“Quarantena!” Aveva cominciato
a spruzzare qualcosa di sterilizzante nell’aria cercando di respirare il meno
possibile. “Io vado a farmi un giro. Non uscire dalla stanza per alcun motivo e
non fare entrare nessuno.” Prese la giacca con molta fretta. “Mi dispiace, ci
vediamo quando sarai guarito.”
“Ma io sto male! Devi rimanere
al mio capezzale!”
“Sei malato!”
“Dammi un bacino, almeno.”
Lelio lo guardò con compassione
ed uscì dalla stanza.
- Ormai, rifletté Mircea
sbirciando l’orologio, - Sono quasi tre ore che è uscito. Mi manca da morire. -
Ed in effetti era così. Gli
succedeva talmente di rado di non vederlo, che si sentiva come in preda a mille
solitudini interiori. Il silenzio aveva molti pregi. Lelio lo amava
immensamente, lo cercava, ma mai per periodi così lunghi da separarli.
Rigirandosi per l’ennesima volta nel letto sentì fitte percorrerlo per tutto il
corpo. La testa era talmente pesante che articolare idee coerenti era diventato
estremamente difficile.
La porta si socchiuse
lentamente lasciando entrare un piccolo spiraglio di luce nell’oscurità pesante
della camera. Mircea accese l'abatjour del comodino sperando fosse Lelio.
“Come stai Cea?” La vocina
squillante di Thor lo consolò enormemente.
“Oh, tesoro, vattene dalla
stanza. Posso attaccarti la febbre.”
“La mamma ha detto che posso
stare un po’ con te. Sei triste? Tu non sei mai triste. Mi spiace che stai male.”
“Sì lo so. Mi fa male ovunque. Ecco, vieni
su!” Lo sollevò sul letto accanto a sé.
“Perché non sei con Lelio?”
“Lui ha detto che non poteva
stare qui. Perché io sono malato.”
“E allora?”
“E allora non voleva prendersi
la febbre per Natale. Sai che brutto?”
“Che stupido che è.” Vittorio
sbuffò corrucciando la fronte e incrociando le sue piccole braccia sul petto.
“Non ti vuole bene.”
“Sì che me ne vuole.
Tantissimo. Tantissimissimo. È solo paranoico.”
“E che cosa vuol dire?”
Mircea lo baciò sulla tempia
perché era troppo, troppo bello. Con quei riccioli d’oro e quegli occhioni
curiosi lo faceva innamorare e lo riempiva di una tenerezza invincibile.
“Ascolta, Thor. Io e Lelio ci amiamo moltissimo. Che è ancora meglio di volersi
bene.”
“Uao.”
“Sì, davvero. È una sensazione
meravigliosa che ti fa battere forte forte il cuore e ti fa tremare un po’ le
gambe e ti fa mancare le parole. E poi ti gira la testa e ti senti bene solo a
guardare di lontano quella persona speciale. Poi, all’inizio, tutto ti sembra
come avvolto in una nuvoletta rosa. Questo si chiama innamoramento. È quello che
ti capita quando vedi la tua compagna all’asilo. Come si chiama?”
“Stefania.”
“Non è carina?”
“Sì!” Vittorio rise.
“Ma questo sentimento, che è
una specie di palloncino nella pancia che si gonfia, e si gonfia, e si gonfia,
finisce per occupare tutto lo spazio. Alla fine diventa indispensabile per
vivere, perché uno si abitua alla sua presenza che fa il solletico. È bellissimo
quando si arriva a questo punto e si scopre di non averne ancora abbastanza. A
me è successo così con Lelio. Magari, quando sarai fidanzato con la Stefania,
potrai capire quello che ti dico.”
“Sono già fidanzato con la
Stefania.”
“Ah. Perché non me l’hai
detto?”
Thor alzò le spallucce. “Ma
allora se ti ama tanto doveva stare con te –“
“Lui è fatto così. Odia le cose
disordinate, o le cose sporche, o le malattie.”
“Ma a te ti ama.”
“Vedrai che torna.”
Thor si appoggiò con la sua
testolina riccioluta contro il petto di Mircea, che si era seduto contro la
testiera del letto. “Lo sai che mi manca da impazzire? È un legame strano. Siamo
così abituati a stare vicini, che non sopporto le lontananze anche più brevi.”
“Non capisco.”
“E’ come se quel palloncino che
ho nello stomaco si sgonfiasse un po’.”
“Non sgonfiarti palloncino!”
“Thor, non toccarmi la pancia.”
Mircea abbracciò suo fratello
stretto a sé. Lo adorava. In quel momento avrebbe potuto soffocarlo di baci, se
non fosse stato pieno di raffreddore. Lo guardò mentre si addormentava tra le
sue braccia, nel buio e nel caldo della camera da letto. Pensò a Lelio, a dove
fosse in quel momento, a cosa stesse facendo, con chi lo stesse facendo. Sentiva
come una stretta al cuore, o una contrazione al palloncino. Gli dispiaceva. Non
era veramente triste, deluso, avvilito per come lui si era comportato – per il
fatto di essersene andato mentre stava così male. Semplicemente, si sentiva solo
e molto, molto geloso.
Anche se aveva provato a
spiegarlo a Thor, non capiva la natura quasi morbosa di quell’attaccamento.
L’aveva preso, quando era venuto, come qualcosa di perfettamente naturale, come
un sentiero che stavano già percorrendo in quella direzione, e che procedeva
sempre dritto. Molte volte si era soffermato a pensare se fosse giusto o no, se
stessero sbagliando, se si stessero illudendo – se quella era la loro strada, se
si erano solamente fatti trascinare dalla passione giovanile. Quello che non
capiva Mircea era il futuro, perché era convinto che non ci fosse niente di male
nel suo presente con lui. Ma aveva paura per ciò che sarebbe potuto succedere.
Aveva paura che se un giorno si fossero mai lasciati per qualche motivo che
andava oltre la sua comprensione, lui si sarebbe sentito proprio così, come quel
pomeriggio buio, tra i cuscini della sua camera, solo, triste, abbandonato,
inerme, malato, con un palloncino che si sgonfiava nella sua pancia. Solo, mille
volte più acuito.
Questo non avrebbe potuto
sopportarlo. Non poteva nemmeno pensare che un giorno lo avrebbe perso di vista,
che si sarebbero allontanati, magari litigando, magari odiandosi e
rinfacciandosi le cose come succede a molte coppie. Cosa avrebbe fatto a quel
punto? Si sarebbe lasciato andare? Avrebbe ricominciato con qualcuno che, sapeva
dal principio, non avrebbe mai potuto sostituire Lelio nella sua vita? E non era
per questo che avevano deciso di stare insieme, nonostante le convenzioni, il
buonsenso, i pregiudizi – perché si amavano, perché si piacevano, perché non
volevano doversi separare, prima o poi?
Decisamente si era trovato dentro ad un amore che era più grosso di lui e del
suo buonumore perenne. Ma stava così bene –
La porta si aprì di nuovo. E
questa volta era Lelio.
“Ciao, amore.” Sussurrò piano,
entrando nella penombra, nel caso in cui Mircea fosse addormentato.
“Ciao!” Cea gli fece cenno di
fare piano perché Thor stava riposando.
Lelio si avvicinò a lui con
cautela, inginocchiandosi davanti al letto. “Mi sei mancato!”
“Ma se sono passate appena tre
ore.”
“Sht –“ Lo baciò delicatamente
sulle labbra. “Mi sento in colpa.”
“Mm-“ Thor socchiuse gli
occhietti e stirò la schiena.
“L’hai svegliato, guarda.”
“Ciao Thor!”
“Sei tornato Lelio. Cea si
sentiva solo–“
“Lo so. E mi dispiace.”
“Vai un momento dalla mamma,
Thor.”
“Perché mi mandi sempre dalla
mamma?”
“Thor –“
Vittorio si alzò tutto
assonnato e se ne andò trotterellando verso la cucina.
Cea guardò Lelio. Lelio guardò
Mircea.
“Mentre eri via ho pensato a
Thor, sai.”
“Non a me?”
“A tutti e due. Tutti e tre. È
un po’ come se fosse il mio bambino, no? Non ha il papà. Ma è anche un po’ il
tuo bambino.”
“Sei ancora malato?”
“Sì.”
Lelio gli sfiorò la fronte
calda. “Non importa.” Un bacio leggero nel silenzio e nell’ermetico isolamento
di quella piccola camera preclusa al resto del mondo.
___
Perché mi mandi sempre dalla
mamma? - che gioia che sei, Thor. Sei il mio amore. Vittorio è il mio
personaggio preferito. E ho provato a far spiegare a Cea la natura del suo amore
almeno un milione di volte - a se stesso, a Ottavia, a Lelio, a Die... Mi è
riuscita solo con Thor. Perché ai bambini puoi parlare con quell'esattezza delle
immagini che un adulto non capisce. E' il mistero delle cose dei bambini. I
sentimenti li sentono e punto. A proposito... Hugo è per Hansi solo perché
l'anno scorso la pubblicità la faceva Jonathan Ryhs-Meyers *ç*. Poi immaginate
voi... Il libro è la raccolta delle fiabe dei Grimm... Cea ha un legame
particolare col mondo della fiaba.
Ditemi che vi ho sorpreso, con la
febbre! Please!
Ghghgh. L'altra sera sono
andata a vedere i Gamma Ray... alle due entriamo in autogrill -avevo una fame
che stavo per collassare-, e penso ora ci insultano perché stanno riposando
tutti. E invece... trenta persone vestite con la felpa degli Helloween &
un'altra decina con la maglia di Sprengsteen (perché al Datch c'era pure il suo
concerto) tra panini e brioches. Sto spendendo troppo in concerti. Non posso più
permettermene fino a quello degli HIM u___u.
By the way...
ANGOLO DEI RINGRAZIAMENTI:
Manny_chan: I commenti
sono sempre commenti. Io amo i commenti *quasi* quanto amo i Dream Theater, che
è davvero molko. Non ti scusare mai per un commento ^_^ (a meno che non mi
insulti). Davvero ti (vi) ha fatto ridere la scena
Oh-mio-dio-abbiamo-fatto-quella-cosa-sulla-lista-dei-miei-difetti? Ha fatto un
po' ridere anche me mentre la scrivevo, ma pensavo di essere l'unica a trovare
vagamente divertente una scena così idiota. Perché, ammettetelo, è una scena
idiota. Carina, ma profondamente stupida.
_Susy_: Don't worry.
Ovviamente finirà tutto meravigliosamente - cioè, non meravigliosamente e vissero
tutti felici e contenti. Ma è la Teoria del Compromesso. La impareranno a loro spese.
Vedrete... Anche a te ha fatto ridere la scena della lista! Ti pensavo una
persona seria. Sto scherzando XD. A quanto pare non sono la sola pazza. Parto
sempre con l'intenzione di scrivere qualcosa di serio, significativo & magari
utile al genere umano, poi purtroppo questa mia vena prende il sopravvento.
Cioè, sono i personaggi stessi che me lo chiedono. E' Lelio, è colpa sua. Ha
troppi difetti fastidiosi... mi diverto a prenderlo in giro, è come prendere in
giro una parte di me stessa! Mi sento divertita da tutto ciò. Che altro dire --- aggiorna aggiorna aggiorna!
DianaV: Il faccino di
Mircea io me lo sono immaginato, solo che non mi piace soffermarmi troppo sulle
descrizioni - diventa tutto un po' pesante. A volte un gesto dice di più che
un'interna moviola anatomica, comunque, per onor di cronaca, Cea si morde il
labbro inferiore e guarda a desta e a sinistra. Immaginate che Cea si morda
sempre il labbro, è un suo tic quando è imbarazzato. E' una cosa tenera, io la
adoro. Ti capisco per la questione ironia. Anch'io ho un carattere del genere
(tanti caratteri, veramente, ma uno in particolare così), tranne per l'autostima
che è a livelli piuttosto normali, né troppo alta, né troppo bassa.
Mi scuso estremamente,
umilmente & febbrilmente (eh?) per il ritardo enorme, il gap temporale, l'attesa
inane eccetera eccetera eccetera, ma, sapete, ho seri problemi di connessione
(oltre che una time table da suicidio titanico). Praticamente quando il mio
piccy è acceso a casa mia salta la connessione. E' uno strano fenomeno di
interferenza elettromagnetica che nemmeno fior fior di tecnici sanno spiegarsi.
Chiamerò Striscia la Notizia, ma nel frattempo dovrete accontentarvi delle
sporadiche volte in cui tempo & brother permettendo riesco a mettere le mani su
un computer funzionante. Scusate ancora.
Giovedì diciotto Gennaio,
Una prospettiva tra Die e la
finestra; un mare di blu; un esame; molti litigi; l’ambivalenza di un rapporto
strano
I.
Die stava seduto sulla mensola
della finestra, il libro tra le gambe. Studiava, forse. Nella sua mente, a
tratti, scorrevano molte idee e molte situazioni che non riusciva a cogliere
così velocemente ed efficacemente. Dietro a quel vetro appannato dall’umore
della pioggia scrosciante che si schiantava e che disegnava sulla superficie
traslucida motivi insensati e precipitosi, vedeva defluire un intero complesso
di pensieri devastanti. Non riusciva a concentrarsi. La giornata era fredda
nella maniera pregnante in cui sono fredde le giornate di temporale, e lo
scuoteva in mille brividi inarrestabili. Appoggiò la fronte contro il vetro.
Era Gennaio. Era passato un
mese esatto dal giorno in cui aveva rivisto Hansi, eppure quei momenti erano
stati trascinati via dalla corrente delle ore con lo stesso fluido precipitare
delle gocce contro le pareti. Aveva così voglia di uscire, di gettare via il suo
stupido libro e di concentrarsi sulle belle sensazioni di freschezza, di pulizia
e di sconfinamento che quel giorno buio, coperto, ovattato da una coltre spessa
di nuvole pesanti e quasi oniriche nei loro colori plumbei, grigi, foschi,
trasmetteva alla spossatezza della sua anima. Non una sola fibra di lui stesso
poteva essere quieta. Tutto tendeva verso una voragine, che è l’abisso della
coscienza, che è l’abbandono, che è il sonno, ed il sonno, talvolta, è morte
interiore. Die si sentiva arido, e contemporaneamente rinvigorito dalla dolcezza
della pioggia. E sentiva anche che quella pioggia non era pioggia, ma
semplicemente – aspettativa.
Era casa di Hansi. Casa sua.
Come c’era arrivato?
Aveva pensato intensamente a
lui, e a quello che c’era dentro di lui, che poi combaciava con quello che
nascondeva dentro se stesso con tanto accanimento. Per due settimane si era come
ritrovato immerso in un limbo incomprensibile, nella penombra, sul confine,
entro la linea di demarcazione che separa gli opposti, ma che non è né l’uno, né
l’altro, semplicemente il mezzo. Aveva cercato di fare chiarezza nel cataclisma
del suo sconvolgimento morale, e si era deciso a vedere Hansi. La vigilia di
Natale.
Hansi viveva da solo nel suo
appartamento moderno e perfettamente arredato che era finanziato dal padre ad
Anversa, e che quindi, nello scintillio dei suoi mobili e delle sue finiture,
era fatto tutto per lui. Die aveva sempre pensato che Hansi fosse una persona
estremamente lontana dalla passione, e, interiormente, piuttosto fredda. Almeno,
aveva sempre pensato così anche di se stesso. Allora non capiva molte cose – non
capiva cosa significasse quell’improvvisa felicità nel vederlo e nello sfiorare
la sua mano mentre gli porgeva il regalo impacchettato in una carta argentea col
nastro dal fiocco blu, non capiva la strana sensazione di contentezza nel salire
in ascensore accanto a lui, anche senza dirsi una parola, anche senza toccarsi,
anche senza guardarsi, non capiva nemmeno quella piccola, accidentale assenza
momentanea che aveva trasformato la sua Notte Santa in un piccolo, luccicante
momento di serenità. Hansi era danese, aveva i capelli biondissimi e corti, la
carnagione rosea, gli occhi sottili di un azzurro quasi trasparente, le fattezze
delicate, e Die lo associava spesso alla luce dei neon, abbagliante e chiara,
perché possedeva una sorta di aura traslucida ed opalescente che creava attorno
alla sua persona una forte dimensione magnetica ed abbagliante. Anche la sua
casa era così, possedeva quella luminosità subitanea e fulgida, ma bianca e
vacua. Tutto era moderno, ottimizzato, squadrato, preciso, rigoroso, funzionale,
abbacinante – acciaio, tanto acciaio, e pareti bianche e azzurrine, e tende blu,
e tappeti blu, e divani blu, e lenzuola blu bordate di argento. Più ci pensava,
più Die si convinceva che la maniera maggiormente efficace per descrivere Hansi
fosse dire – blu elettrico. Ed era strano accostarsi al blu elettrico, perché
lui era un nero profondo e scuro, e blu e nero non si combinano splendidamente.
Così aveva scoperto quella casa
blu e aveva imparato ad apprezzare la sua freddezza e la sua muta volumetria,
tanto vicina alla personalità più superficiale di Hansi. Si era fermato per la
cena, e per il dopo cena, ed aveva dormito tra le lenzuola blu, profumate della
sensazione remota e sfocata di anni passati, la testa di Hansi poggiata sulla
sua spalla e il suo respiro lento che gli accarezzava il collo, si era svegliato
lì ed era il Venticinque Dicembre – Hansi l’aveva lasciato dormire fino alle
nove di mattina, poi l’aveva svegliato saltandogli addosso perché era tardi e
bisognava aprire i regali, ed era incontenibile -, aveva trascorso con lui tutto
il giorno, e di nuovo la notte, e di nuovo un altro giorno, e di nuovo un’altra
notte, e di nuovo un altro giorno, ed ormai erano venti giorni che tornava.
- Mi sta succedendo qualcosa –
Si disse.
Soprattutto non capiva perché
si stesse comportando in quel modo. Hansi soffriva di sbalzi d’umore
incomprensibili. Un momento litigavano ferocemente perché Die continuava a
studiare la sua matematica e a comportarsi come se non fosse in casa sua, come
se la sua vita si fosse mantenuta identica a se stessa; il momento dopo gli
chiedeva scusa, e gli diceva che lo adorava, che non voleva più doverlo perdere,
che aveva paura a chiudere di nuovo quella porta.
Riflettendoci, Die capiva che
si trattava di una situazione paradossale. Viveva in casa di una persona che era
stata molto intima, ma che aveva perso per anni, e che conosceva di nuovo da un
mese appena. Rincontrare qualcuno dopo così tanto tempo, significa trovare un
estraneo. Ed in parte era vero. In parte stava accanto a lui, che gli era
completamente sconosciuto, ma che lo incatenava a sé follemente, con una
passione innegabile. Si sentiva pazzo. Litigavano troppo. Litigavano sempre
ed un secondo dopo facevano l’amore, e Die pensava di odiarlo e di amarlo,
intervallando questi stati d’animo ad una velocità frenetica. Cosa gli sembrava?
Anche allora, mentre Hansi
dormiva quietamente nel suo letto comodo, Die aveva l’impressione di amarlo e di
dovergli delle cose così grandi da sconvolgerlo, di volerlo toccare, di volerlo
svegliare affettuosamente per riempirlo di baci e ringraziarlo; ed
immediatamente sapeva che nel momento in cui lui si fosse alzato avrebbero
cominciato ad urlare l’uno contro l’altro. Sapeva che sarebbe uscito sbattendo
la porta e che sarebbe rientrato entro l’ora di cena, perché oramai si rendeva
conto di non aver altro luogo dove andare. C’aveva provato ogni giorno, ed era
stato un fallimento. Non aveva più nemmeno la voglia di tentare. Perché Hansi lo
metteva di fronte ad un tale dissidio? Perché lo amava, ma odiava le sue
decisioni? Perché non poteva fare a meno di lui.
Non voleva scegliere. La sua
situazione lo esasperava, era consapevole del fatto che la sua pesantezza lo
avrebbe logorato fino a porlo davanti ad una scelta. Non voleva scegliere. Non
voleva più rinunciare a qualcosa.
Hansi si mosse sotto le coperte
come un gatto. Il torpore del sonno lo avvolgeva ancora assieme al caldo
confortevole del letto che abbandonava. La stanza era immersa nel buio delle
sette di mattina di una notte piovosa che si stava sciogliendo nella luce del
giorno nascente, ma che ancora veniva soggiogata da luminose coltri blu
iridescenti e scrosci rumorosi. Nello stordimento del risveglio non vide subito
Die, seduto sul davanzale contro la finestra nel tentativo di sfruttare la
minima luce per leggere il suo libro. Si accese una sigaretta.
“Die –“ Lo richiamò.
“Ti sei svegliato? È presto,
puoi tornare a dormire. Oggi il tempo è triste.”
“Die –“
“Sì?”
Si sedette a cavalcioni su
Hansi. Gli sfilò la sigaretta appena accesa dalle mani affusolate di bassista e
tirò una volta, per poi spegnerla nel portacenere sul comodino.
“Cosa stavi facendo Die?”
“Cosa vuoi da me?”
“Nulla.” Hansi lo afferrò per
il bavero della camicia cominciando a baciarlo sul collo.
“E allora perché continui a
chiamarmi per nome?”
“Stavi aspettando che mi
svegliassi?”
“Ripassavo.”
Hansi lasciò la presa facendo
ricadere le braccia sul materasso. Lo guardò con occhi sgranati in cui, Die si
accorse, si dipinse subitamente il fuoco dell’ira alla quale era così propenso.
Alla quale erano così propensi.
“Ripassavi. Ripassavi.
Ti ho detto un milione di volte che odio questi maledetti libri di matematica, e
che odio la tua maledetta facoltà, che non la sopporto, e che nulla di tutto ciò
deve entrare in casa mia!”
“Ma io ho un esame, oggi.”
“A me non interessa!” Hansi
stava già gridando. Il suo bel volto delicato era contratto in un’espressione di
rabbia violenta e contrita. “Non – mi – interessa! Lo odio. Smettila!” Prese il
libro e lo sbatté con forza contro il pavimento, il più lontano possibile da
lui.
“Non puoi. Non puoi fare così.
Non puoi decidere cosa sia giusto o sbagliato per me e non puoi sbattere il mio
futuro sul pavimento!”
“Il mio futuro. Il mio
futuro! Stai dicendo un sacco di idiozie! Il tuo futuro non è in nessuno di
quegli stupidi libri, è con me, con me, hai capito? Ti odio, scendi dal mio
letto immediatamente!”
“No, tu mi ami, Hansi.” Ribatté
Die con tono calmo.
“Ti odio!” Hansi spinse Die,
che era ancora accovacciato sopra le sue gambe, giù dal letto. “Non voglio più
vederti, mi fa schifo il tuo mondo e il tuo modo di pensare e tutto quello che
sei voluto essere, e mi fa schifo averti tenuto in casa nonostante questa
consapevolezza!”
“Mi stai sbattendo fuori?”
“Ti odio!”
“Non gridare così amore –“
“Ti – odio, e voglio che tu te
ne vada coi tuoi maledetti esami!”
“Come puoi pensare di odiarmi
solo per questo? Sei un idiota. È quello che penso di te. Un idiota che non
capisce la direzione in cui gira il mondo e che vive sospeso su ideali a
fantasticherie che presto si scontreranno con la realtà.”
“Tu non pensi questo di me.”
“E tu non mi odii, bastardo.”
“Ti ho detto di andartene.”
Hansi si alzò e lo raggiunse. Gli parlava a fior di labbra. “Sei solo un fallito
e passerai la tua vita in un mondo grigio. Non voglio grigio in casa mia.”
“E tu sei solo un illuso che
vive sui soldi del suo papà molto ricco.”
“Vat-te-ne.”
Hansi lo baciò con foga. Anche
se avrebbe dovuto spingerlo via. Adorava maltrattarlo, adorava litigare, adorava
avere ragione fino a farlo piegare sotto di sé, per poi farsi coccolare. Gli
morse il labbro fino a farlo sanguinare. Sentì nella sua bocca il sapore
metallico di Die e lo morse ancora più forte, eccitato da quell’improvvisa
crudeltà carnale. Die sospirò un altro insulto nel bacio. “Ti ho rotto il
labbro.”
“Non importa.”
“Ti amo.”
“Lo vedi come sei incostante?”
“Ti amo. Mi dispiace.”
Lo baciò sulla guancia,
facendolo appoggiare contro il suo petto. In quei momenti lo sentiva davvero
debole, fragile, incerto, e si vergognava per il modo in cui aveva infierito su
di lui.
Lo lasciò riposare così per
molto tempo. Non sapeva se stesse dormendo o se avesse solo gli occhi chiusi.
Sentiva il suo respiro che si regolarizzava e il suo corpo che veniva scosso da
tremori. Lo abbracciò fortemente per un tempo che non avrebbe saputo
quantificare.
“Hansi, ti fa male?” Ogni tanto
provava a parlare per non cadere nella tentazione di addormentarsi.
“No.”
Era una bugia – “Bene.”
Rispose.
“Ti amo, lo sai.”
“Anch’io, da morire.”
“E’ che mi fai paura. Mi faccio
paura. A volte penso che l’unica cosa che davvero possiamo fare insieme è il
sesso.”
“A volte lo penso anch’io, ma
poi mi convinco che non è neanche vero questo, perché uno di noi sta sempre
male.”
“Die, ti prego, lascia stare la
matematica. Sei un genio, è vero. Ma non è il tuo spirito. Sei un musicista.”
Die aspettò qualche minuto in
silenzio pensando a quanto fosse difficile essere posti davanti a quella scelta,
e a quanto fosse assurdo per lui essere così vincolato a una persona, a un
ragazzo, da mettere in forse tutte le sue certezze.
Si alzò dal letto e andò in
bagno. Hansi avvertì il rumore dell’acqua scrosciante della doccia e si sentì
improvvisamente di nuovo invaso dalla collera. Si costrinse a respirare
profondamente finché Die riemerse dalla porta e cominciò a vestirsi.
“Was machst du?” Un
sibilo tagliente come una lama di rasoio.
“Hansi devo andare in
Università. Questo non significa che non ti ami.”
“Die –“ Si sollevò sul
materasso avvolto dal lenzuolo e lo guardò dritto negli occhi – “Dovresti
rimanere con me."
“Hansi, il colore della tua
pelle crea un contrasto meraviglioso con queste lenzuola. Ma è meglio senza.”
“Allora –“
“Hansi, devo categoricamente
andare.”
“Devi andare! E vattene – non
capisci niente di quello che ti dico. Vattene in università!” Prese i vestiti
che aveva gettato a terra e li lanciò oltre la porta della camera.
“Lo sai, signorino-troppo-viziato? Questa volta me ne vado davvero!” Uscì sbattendo la
porta della loro camera da letto.
“Certo è proprio quello che
voglio! Sei un idiota!”
“Non sono io l’idiota!”
“Vai via!”
Die si rivestì in fretta e
furia in cucina.
“Sappi che se uscirai da quella
porta ora non ti lascerò più entrare, hai capito?”
“Certo! Addio!”
Die uscì sbattendo di nuovo la
porta d’ingresso, la camicia abbottonata male, i pantaloni aperti, i capelli
spettinati, libri, cappotto, sciarpa, borsa in mano. Si sistemò in ascensore.
Era già arrabbiato col mondo di
prima mattina. Da quando stava con Hansi gli capitavano molti sbalzi d’umore dai
picchi più disparati – un momento si sentiva in paradiso, un momento avrebbe
desiderato spaccare il mondo.
Ma in fondo era una rabbia
passeggera. Die sapeva, sapevano entrambi, che sarebbe tornato a casa per l’ora
di cena.
___
Oh-oh-oh! Ho una marea di cose da
raccontare in questo random corner. First of All: BUON NATALE, nel caso posti
prima di Natale, sennò BUON RESTO DELLE FESTE! In mezzo c'è anche il mio
compleanno, quindi Auguri Marto!
Illo tempore, misi il mio profilo
nell'account. E andava tutto bene, sul mio piccy. Ma a quanto pare il mio piccy
ha delle disfunzioni rispetto agli altri computer del mondo, quindi non mi
stupirei se qualcosa fosse andato storto. Accendendo il computer del mio bro, ho
notato che è scritto in oh-così-minuscolo. Sareste così gentili da dirmi se lo
visualizzate ad una grandezza dignitosa? Grazie Mille. Io odio il mio
computer.
Ed ecco la mia nuova passione - che sta
quasi per battere i Dream Theater (incredibile!): ovvero i Led Zeppelin.
Sono letteralmente folgorata. Cioé, la cosa sarebbe finita lì, se non fosse che
il cantante, all'epoca del suo splendore, oltre a essere gnocco nel vero senso
della parola è pure UGUALE alla mia immagine mentale di Mircea. E' incredibile.
Io ero a bocca aperta. Biondo, riccioli d'oro, occhi azzurri, alto, slanciato,
pancino piatto, sexy, modo accentauto di gesticolare e toccarsi i capelli e
fumare e ridere sempre e dire cosmic energy (ebbene sì) e sguardo malizioso. Ok, Cea non è malizioso e non ha
peli sul petto, ma è praticamente Robert Plant! Io ho un dono di preveggenza
wahahahah! Per non dire che lui e Jimmy Page erano terribilmente slashy togheter.
Oh, andatevi a documentare. Ne vale la pena. Soprattutto musicalmente, visto che
i suddetti hanno recentemente passato la sessantina, ahimé.
In ultimo, ho una notizia devastante.
Almeno, io sono rimasta devastata. Ho conosciuto una ragazza romena e le ho
chiesto dell'origine del nome Mircea. Lei mi ha sorriso gentilmente e mi ha
detto: "Si dice Mircia." MIRCIA? MIRCIA! Avevo davvero intenzione di chiamare
mio figlio MIRCIA? Sono una donna disperata...
*
RINGRAZIAMENTI (MOLKO DI CORSA; SCUSATE):
_Susy_: Oh, My love. Aspettavo trepidante
la tua recensione. Ti rifaccio gli auguri di buone feste, e beh, sì. La tua
analisi è azzeccata. Lelio soffre di manie compulsive, ed il fatto che sia
tornato da Cea è qualcosa di veramente speciale per lui. Ha già fatto molko. E
io AMO Johnny (o Ugo, come lo chiamo per semplicità). Specialmente nei panni di
Ziggy Stardust.
Diana V: non preoccuparti dei paciughi con
le recensioni. Mi capita spesso è___é. E' proprio come hai detto te. Non importa
perché a Lelio di solito importa. Perché è un rompiballe,
fondamentalmente. E' più forte di lui. Eppure Amor vincit omnia o qualcosa del
genere. Qualcuno conosce il latino? Ia gavariù ruskii iisik... Grazie un milione
per il commento ad Aubade, mi ha fatto morire di piacere.
Manny chan: Grazie di tutto. Grazie per il
commento di Aubade, per il commento all'altra long shot di cui non ricordo il
titolo definitivo e per questo. Ti adoro. I love you. Ia tebia lubliu. Chissà
quando avrò una tastiera per il cirillico, uffa... Scusa la fretta convulsa ma
la linea potrebbe saltare da un momento all'altro. Grazie, grazie, grazie.
Well, lo so che è passata
un'eternità dall'ultimo aggiornamento. E so anche che è poco piacevole
centellinare una storia con questa esasperante lentezza, perché uno vuole anche
sapere come va a finire... mi spiace davvero, ma sfrutto ogni singolo ritaglio
di tempo che ho. Se vi può consolare, ho terminato di scrivere questa storia un
anno fa, quindi comunque, prima o poi, leggerete la fine. Patience!
Domenica venticinque
Febbraio,
Una scatola magica piena di
vecchie fotografie; una letterina; alcuni raggi di sole e molte, molte
riflessioni sull’oggi, sul domani, sulla Primavera
I.
Ho trovato una scatola
magica mentre sistemavo i tuoi armadi. Forse te la ricordi, probabilmente l’hai
dimenticata, perché la tua memoria è quanto di più pessimo ci sia su questa
terra. La scatola è rettangolare e tutta azzurra e bianca, di cartone spesso.
Emana ancora un incredibile odore di lavanda, tua mamma deve averci messo dentro
un sacchettino profumato quando l’ha ritirata, di quelli ricamati che si
chiudono col cordoncino–
Era la scatola delle nostre
fotografie. Di quando eravamo piccoli e dolci e puri e non pensavamo a
Tutti-i-Mali-del-Mondo, o a queste cose qui, e la nostra vita scorreva nella
pienezza incosciente e meravigliosa dell’avere cinque anni. Eravamo molto belli
e molto simili a come siamo adesso. Soprattutto tu. Ho chiesto a tua madre di
poterle vedere e lei mi ha lasciato la scatola con tutti i nostri ricordi –
sorpresa! Ho trovato i lavoretti che facevamo all’asilo. Hai disegnato noi due
coi piedi a forma di ruota. Non eri un granché in disegno. Io, invece, ero
bravissimo.
Volevo farle vedere a Vittorio. E
volevo farle vedere a te.
Sai, in questi giorni penso molto al nostro tempo, al nostro presente, al nostro
futuro. Rivivere per un momento il passato non può che infondermi un po’ di
consolazione.
Scusa le macchie di caffè. Mi è
scivolata la tazza mentre parlavo al telefono con Ottavia e mi faceva ridere.
Ah, sì, per quando ti sveglierai: –
buongiorno Mircea.
II.
Mircea si era seduto sul
tavolino, illuminato dai raggi di sole. Mentre Lelio mostrava a suo fratello le
foto di quando erano piccoli, lui si perdeva guardando lontano fuori dalla
finestra. Tutta quella luce doveva avere un suo scopo, pensava, nel disegnare il
mondo. Doveva viaggiare un milione di chilometri ed attraversare le galassie, e
l’universo, per precipitarsi proprio sulla Terra, sulla Città. Era forse un
luogo più bello che gli altri? Un luogo più meritevole? A volte credeva che quel
percorso fosse pura follia. Se lui fosse stato un raggio di sole, una luce
qualsiasi, e avesse potuto scegliere una sola direzione in cui viaggiare, un
solo vettore per cui muoversi, avrebbe deciso di tendere verso un luogo felice,
bello, meraviglioso. Magari nell’intero cosmo non esisteva un luogo migliore
della Terra, perché, ammetteva Cea, vista da fuori sembra una palla scintillante
di verde e di blu, ed è molto più suggestiva che la desolazione degli altri
pianeti. O magari i raggi di sole non possiedono libero arbitrio, e non decidono
della loro direzione, solo, sono sospinti da imprescindibili leggi matematiche e
fisiche che vincolano la loro inclinazione a seconda delle sorgenti di luce da
cui scaturiscono.
Mircea capiva un’altra cosa, e
si chiedeva come ci fosse arrivato, perché quel genere di pensieri era
tipicamente di Lelio, mentre lui si limitava ad assorbire le cose del mondo e a
pensare che tutto andasse comunque bene. Osservava la luce rigogliosa
profondersi in cascate sui vetri della Città, attraversando deserti siderali,
portandosi dietro la scienza ed il sapere eterno di un Dio esteso ovunque,
unilateralmente, compressa in un viaggio durato millenni ed immagazzinata in
semplici impulsi fotonici – non conteneva in sé un mondo? Non aveva vissuto un
miliardo di vite e di saggezze, assorbendo ogni cosa e rendendosi sempre più
viva, più sacra? Ora scendeva nel declino della sua parabola sconfinata e
precipitava come lance sul confine del mondo. Rimaneva sospesi per un attimo
negli occhi di chiunque avesse alzato lo sguardo e l'avesse ammirata,
accecandosi, poi si schiantava, deflagrava e nell’impatto si spezzava in mille
frammenti, in mille scintille. I riflessi battevano sulle porte delle case ed
annunciavano l’avvento di una nuova, magnifica giornata. Si rifrangevano contro
il vetro della sua finestra e penetravano come un fiume dorato fino a colpire il
tavolino di cristallo, e a baluginare nel chiuso spazio volumetrico della
stanza. Allora la riempivano del loro calore.
“Lelio, sai, sei io fossi un
raggio di sole vorrei rotolare in questa stanza, in questo momento, e morire
felice affogato nei visi delle persone che la abitano.”
“Scusa?”
Mircea gli sorrise gentilmente.
“Nulla. I raggi di sole hanno qualcosa di commovente per via del loro suicidio
quotidiano.”
Vittorio scrollò le spallucce
senza capire a cosa suo fratello si riferisse. Aveva steso le foto che gli
piacevano di più sul pavimento, e si era messo a giocare.
Lelio scattò una fotografia. A
Mircea, mentre assorto, preso da mille pensieri leggerissimi e dirompenti
fissava con insistenza qualcosa oltre la finestra.
“Vorrei farti un ritratto.”
“Mm?”
“Intendo, mi piacerebbe esserne
in grado. Sarebbe una rappresentazione grandiosa, e sacrificherei in esso la
passione intera della mia vita, perché sarebbe la realizzazione del mio
obbiettivo più grande – la rappresentazione della Bellezza, e di tutto ciò che
la Bellezza, con le sue ambivalenze, comporta. Sarebbe come completare l’opera
della mia esistenza. Ci penso da molto, vedi. Penso ad un soggetto ideale per
contenere in sé tutti i sentimenti del mondo nel medesimo istante, in
equilibrio. Il giorno che l’avrò realizzato sarà come dire che ho dato un senso
alle mie cose, a me stesso, sarà come ammettere che avrò raggiunto quell’armonia
che sento sfuggirmi da una vita e che tu, ogni tanto, riesci a farmi provare.
Per questo credo che sia tu il mio modello. Forse un giorno avrò il coraggio di
farlo. Terminare un lavoro del genere mi spaventa – significherebbe aver
compiuto il proprio percorso e non avere nient’altro di nuovo da scoprire, da
assaporare, da amare. Nient’altro in più. E il quadro diventerebbe
improvvisamente la rappresentazione della mia anima. Allora ho paura di farlo.
Credo che aspetterò. Prima o poi verrà il momento. Prima o poi la mia campana
suonerà. Sarà quando avrò definitivamente raggiunto quella pace che è perfetta
combinazione tra Ordine e Caos. In un certo senso sarà il mio momento migliore,
il mio ultimo bene, quello supremo, eppure sarà anche perdita del mio sfrenato
movimento e di questa ricerca che, in fondo, mi ha regalato davvero tanto.
Arriverà comunque per forza di cose. Non posso girare per tutta la vita. Se per
quel giorno tu sarai ancora qui accanto a me, avrai un posto nel mio quadro
migliore. Per ora guarderò la tua fotografia e penserò a questa luce suicida
attorno al tuo viso.”
“Certo che sarò ancora qui con
te!”
“Ho deciso che è a questo che
voglio votare la mia vita. All’Arte. È definitivo. Mi iscrivo all’Accademia.”
“Così non saremo più insieme.”
“Cea, non mi iscriverei mai e
poi mai a Filosofia. Rassegnati. È destino. Ed è naturale come lo è stato tutto
nella nostra storia – le persone vanno e vengono, nell’arco di una vita si
avvicinano, si sfiorano, se ne vanno.”
“E’ proprio questo che temevi.”
Lelio rise. “Sono solo
separazioni inutilmente brevi! Hai ragione,” Disse. “E’ vero. Ho avuto paura che
un giorno ci saremo potuti allontanare fino a non conoscerci più. Ma non sarai
mai questo il nostro caso. Ormai siamo legati da un vincolo troppo forte. E poi
ritornerò qui per forza di cose ogni pomeriggio, e ogni sera. Alla fine saranno
minime le ore che dovremmo trascorrere separati.”
“Saranno estenuanti lo stesso.”
“E’ solo questione di
abitudine.”
“Appunto.” Mircea si zittì per
un secondo, dimenticandosi delle inclinazioni dei raggi solari e sedendosi tra
le gambe di Lelio. Guardò Thor che giocava senza preoccupazioni.
“Io credevo che dopo la morte
di mio padre la mia vita fosse cambiata radicalmente, ed avesse preso una svolta
insostituibile. Mi sono trovato a sedici anni con una madre depressa ed un
bambino che aveva me come unico modello di riferimento. Invece oggi mi sveglio e
penso che tra pochi mesi succederà una rivoluzione della stessa portata nella
mia vita. Non dolorosa come la perdita di un genitore. Anzi, per certi versi
addirittura attesa. Forse ce ne andremo da qui, no? Avremo una casa nostra e
studieremo solo quello che ci piace. Per la prima volta sarà immergersi nel
mondo che abbiamo sempre guardato attraverso la finestra della nostra cameretta
sicura. Ed è abbastanza sconvolgente se ci pensi. Due giorni dopo aver preso la
patente ho realizzato – Mio Dio, ho la patente! E questo non vuol dire solo che
suo guidare, ma implica un milione di altre cose, tra cui il fatto che sono in
mezzo al traffico, e sono responsabile, e se domani volessi partire per Berlino
potrei salire in macchina, andare, e non tornare più. Nessuno potrebbe dirmi
nulla.”
“Io potrei dirti un sacco di
cose.”
“Ma alla fine posso decidere
per me stesso quello che mi sembra il meglio. Sta tranquillo non voglio fuggire
in Germania. Era un esempio stupido.”
“Ed è di questo che hai paura?”
“Del cambiamento. L’ho
affrontato una volta. I cambiamenti radicali sono devastanti. Ho le mie
abitudini e le mie giustificazioni. Poi il mondo cambia per me e crolla la terra
sotto i miei piedi.”
“E’ quello che anch’io, prima,
volevo dire.”
“L’avevo capito.”
Lelio soffiò sulla spalla di
Mircea. Un raggio di sole più fitto illuminò tutta la camera. Thor aveva smesso
di giocare e li guardava sorridendo.
“Cosa c’è, amore?”
“Sei tutto rosso! Volio andare
a fare un giro nel parco. Fa caldo oggi.”
Faceva caldo. L’aria diventava
più fresca e più sottile mentre la Primavera si depositava gentilmente su un
mondo che si svegliava pian piano dal letargo invernale. Mentre Mircea prendeva
Thor per mano e gli infilava il cappottino con la sua bella sciarpetta rossa,
Lelio pensava che fosse un episodio stupefacente di una giornata qualsiasi di
fine Febbraio, sovrastata da uno splendido cielo sereno, e che anche in quella
nuova stagione entrava qualcosa di reiterato, di propagato all’infinito in un
ciclo continuo ed eterno che recuperava la speranza dalle proprie ceneri. Il
tempo, gli sembrava, poteva affrontare spensieratamente le implicazioni del
Cambiamento senza mai una briciola della paura mortale. Perché alla fine era un
moto universale, ma era soprattutto un moto umano. Perché anche tutto ciò, nel
suo movimento perpetuo e nella sua dialettica inarrestabile, possiede una certa
quantità di bellezza per ogni cosa che è nuova, e fresca, e ordinata dalle leggi
della natura, e pulsante di vita e di passione.
___
Sono tanto stanca e depressa e quindi per
oggi niente commenti stupidi. Devo finire di studiare quel maledetto Lermontov.
Maledetto... Maledetto lumicino piagnucoloso! Scusate. Oggi sono fan di
Pirandello. Comunque siete andate a cercare la foto del bellissimo Roby ai tempi
d'oro dei Led Zeppelin? Vabbé... Ho in tasca il biglietto per gli Him e sono
contenta, sono innamorata e sono infelice perché lui è davvero tonto, non so più
come farglielo capire. E poi ho il maledetto Lermontov e tutti gli autori russi
dell'Ottocento che sono quasi Byron versione più enfatica e piena di sospiri...
mm...
Lo scorso capitolo non mi piaceva, lo
ammetto. Andava scritto, ma non me lo sono mai sentito dentro. Qui invece c'è
una grande parte di me stessa, me stessa l'anno scorso in preda al terrore del
cambiamento - me stessa dopo l'esame della patente XP -, quindi è come se in un
certo senso fosse vivo e contenesse tutto quel sole, non so se sono stata
chiara. Non so neanche se vi potrà piacere o vi annoierà, ma c'è dentro qualcosa
di molko vero e sentito.
SI RINGRAZIA - Manny-chan che
ancora pazientemente attende gli aggiornamenti. Il capitolo è tutto per te. Sono
fiera di averti fatto conoscere i Dream Theater. Sono contenta che ti piaccia lo
sfondo sentimentale dietro Die e Hansi, perché io a volte mi ritrovo a dire -
boh... Questi personaggi sono nati teste di *** sulla carta, quindi fanno quello
che vogliono senza rispetto per l'autorità indiscussa (cioè io). Presto si
comporteranno meglio (e poi ancora peggio). Comunque tutta la vicenda cerca di
tendere verso un equilibrio, alla fine. E poi odio le traggggedie!
Lo so, sono una bestia! Ci ho messo così tanto ad
aggiornare! Perono! Spero di essere più rapida, per i prossimi...
Ok, questo è il mio capitolo preferito. Lo ammetto. There
you are. Dadicato a Manny-chan che coi suoi casini nei commenti mi fa davvero
ridere (in senso buono!!!).
Martedì ventisette Febbraio,
Una retrospezione dalla parte di Die – La cometa; la
coperta; il mare; la natura e molte altre cose.
[Stars]
I.
Wish upon a star –
Ho posato il mio desiderio su
una stella. Una notte fredda ho definito così il mio destino, senza nemmeno
saperlo. Il bagliore lontano della mia stella avrebbe dovuto sussurrarmi la
dolcezza della sua realizzazione, le vibrazioni della sua luce, proiettate a
distanza siderale nel mio cuore, avrebbero dovuto ricordarmi la speranza di
vedere sempre una parte di me stesso illuminata, felice.
La stella non è né un ombra né
un abisso. Appesa alla volta blu della galassia sembra sorridere verso la terra
e consolare l’anima asciugandone via le lacrime con la brezza della notte
abbagliante. Le stelle sorridono, brillano, costantemente. A volte muoiono,
perché, in fondo, nemmeno la loro luce è eterna. Ma esse non sono solo
un’illusione destinata ad implodere in una gigantesca voragine di nero denso,
non sono solo la parvenza benigna di una ferita crudele e di un paradosso
scontato.
A volte, guardando il cielo,
guardando la bellezza di questo mondo e del mondo intelligibile sopra la mia
testa, ho come l’impressione che nulla, neanche il ricordo più sentito, permarrà
per sempre, e che ogni molecola di questo universo sia destinata a dissolversi
nella consunzione. La vita è un cerchio perfetto. Una stella si spegne mentre
un’altra riprende a battere, a pulsare nel suo splendido scintillio rincuorante.
Anche l’Amore funziona in questo modo. Per qualcosa che si ottiene c’è qualcosa
che va necessariamente perduto. Prima o poi un amore diventa un buco nero e
risucchia tutto ciò che lo circonda. Un
amore sfiorisce e un’altro rinasce. Una rosa appassisce, una rosa sboccia. E
questo contrasto manda avanti il mondo, lo trascina nel cambiamento, nella
progressione. Nella Rinascita. Un’altra notte, se starò attento, potrò scorgere
le avvisaglie della catastrofe, ed accarezzando la stella con sguardo dolce e
comprensivo potrò vederla brillare più intensamente per poi morire in una
deflagrazione grandiosa. Potrò prendere il mio desiderio e posarlo su un’altra
stella appena nata, ancora candida, ancora piccola ed incerta, coltivando la sua
luce con amore, e pensando: un giorno anche questa favilla sarà una guida
abbacinante, un monito irresistibile. Brucerà nel cielo alimentano il desiderio
cresciuto sulla sua materia immacolata.
Il desiderio che ho poggiato
sulla mia stella, la Felicità.
II.
Mi domando se le
stelle siano illuminate
perché ognuno
possa un giorno trovare la sua –
[A. de Saint
Exupery, Il Piccolo Principe]
“Sei come una specie di rosa
con le spine, ma, sai, le spine non servono a niente, perché i fiori sono
deboli.” Dissi. Non sapevo perché. Quel pomeriggio ero andato a trovare mio
fratello, e Vittorio mi aveva chiesto di leggergli una delle sue fiabe per
bambini. Il libretto breve tutto pieno di stelle, di rose, di pianeti e di
malinconia mi aveva riversato nel cuore una certa delicata, intangibile
tristezza. Con questa prospettiva scintillante e molto semplice, molto delicata,
avrei guardato le cose e le avrei studiate per un po’, perché una parte di tali
parole era riuscita a penetrare in me e a farmi pensare che, forse, quelle
avventure spaziali non erano solo fantasticherie di bambini, ma un mondo di
concetti importantissimi spiegati nella maniera più ingenua e toccante.
Mentre leggevo ad alta voce
della rosa del Piccolo Principe, avevo pensato che Hansi fosse un po’ rosa, ed
io fossi un po’ il Piccolo Principe. Avevamo una storia ed un legame molto
simile, in fondo.
Abitavamo su una stella. Una
stella che era tutta nostra, ma che era anche l’ideale, una stella minacciata da
mille avversità, una stella su cui potevo vedere cento albe e cento tramonti in
un giorno, una stella dalla quale fuggivo per non doverlo più ascoltare. E Hansi aveva quelle spine
commoventi – quelle spine che i fiori credono paurose, per sentirsi forti, e che
feriscono senza mai proteggerli davvero. La rosa era vanitosa e pretenziosa.
Voleva tutto per sé, ogni attenzione, ogni pensiero, ogni gesto. Così io avevo
lasciato la mia stella, e avevo cercato un posto migliore. Nel transitare
attraverso un percorso infinito di pianeti avevo incontrato le situazioni e i
tipi umani più disparati, e alla fine mi ero reso conto di voler solo ritornare
alla mia stella. Alla mia rosa. Anche abbandonando tutto il resto. Non c’era
nulla di più triste e suggestivo.
“Cosa?” Mi rispose Hansi.
“Niente,” Risi scuotendo la
testa. “Pensavo che sei come una rosa vanitosa, e che tenti di farmi credere che
sei forte, mentre sappiamo entrambi che hai bisogno di me.”
“In questo momento potrei anche
dirti che hai ragione.”
“Sai cosa diceva il Piccolo
Principe della sua rosa malaticcia? Diceva che non avrebbe mai dovuto
ascoltarla. Avrebbe dovuto annusarla, e guardarla come tutti i fiori. La rosa
era tenera, ma mostrava solo quella sua stupida vanità. Il Piccolo Principe non
poteva capirlo subito, perché era troppo giovane per realizzare tutto
quell’amore. Dopo essere partito, però, pensava sempre alla solitudine e alla
dolcezza nascosta della sua rosa.”
“Dove vuoi arrivare con
questo?”
"Tu
sei vanitoso ed egoista, ma lo sei solo in superficie, e nascondi sotto il
tuo sprezzo, e sotto la maschera di ira un mare di tenerezza. Ti vergogni a
dirlo.”
“Non è vero.”
Mi chinai per baciarlo e lui mi
lasciò fare, proprio come se non avesse appena negato l’evidente verità delle
mie parole. In quel momento mi sembrava di vivere un idillio . Capitemi
bene, sapevo che non sarebbe durato, e che presto ci saremo rimessi a litigare
scagliandoci addosso insulti e cattiverie. Non eravamo aulici come il Piccolo
Principe e la sua rosa, ma comprendevamo la stessa difficoltà che è
l’accettazione l’uno dell’altro. Allora credevo che avremmo avuto ancora molta
strada da fare per arrivare al nostro traguardo di aurea mediocritas. Per il
momento gustavo l’attimo che mi si presentava, lo afferravo senza cercare in
quelle stelle il mio futuro, senza scrutare le cabale babilonesi.
Un altro inverno finiva per me.
Quell’ultima notte della stagione era avvolta dall’alone luminoso del buio
opalescente, brillante – non del buio denso e scuro delle sere di tempesta. Era
un blu che poteva penetrare la vista, ed era proprio il colore di Hansi. Tra i
rami degli alberi si cristallizzavano gocce di pioggia caduta ore prima e
sfumata nell’alone del tramonto, ghiacciata nel gelo della notte, su cui si
rifrangevano i nastri argentei della luna, cadenti come mercurio sulla
nostra faccia. Sentivo il rumore del mare ancora agitato per l’acquazzone del
pomeriggio. Anche il terreno era bagnato per la pioggia, e dall’erba si alzava
una sorta di nebbiolina perlacea ed umida. Il mare ululava infrangendosi contro
la costa di alti scogli, e rotolava scrosciante e terribile nella sua furia
ordinaria.
Non so perché Hansi avesse
voluto portarmi lì, ma capivo fin d’allora che aveva avuto ragione, e che nella
pace desolata di quel prato incuneato sul mare avremmo potuto ritagliarci uno
spiraglio di paradiso dove tacere e dove
trasformare la nostra rabbia in semplice contemplazione. Tutto questo mi
stupiva. Mi aveva trascinato in macchina senza nemmeno dirmi cosa voleva fare,
dopo che ore prima mi aveva intimato di non farmi vedere mai più, e, tutto
sorridente, tutto contento, mi aveva mostrato un piccolo luogo da sogno, da
fantasia di Lelio – una costa a strapiombo su cui la vegetazione cresceva quasi
ai limiti della battigia. Quel luogo doveva essere meraviglioso d’estate. Doveva
caricarsi di fiori dalle tinte più disparate, rosa, viola, lilla, giallo,
magenta, arancio, rosso, azzurro, bianco, verde, e mille altre sfumature
screziate e meravigliose. I loro petali si sarebbero aperti un po’ per volta
durante la giornata, dischiudendosi alla luce del sole o nell’ombra della notte,
sprigionando mille inebrianti profumi.
Per il momento era ancora tutto
spoglio, e morto. Ma potevo intuire la rinascita in quel ciclo eterno e continuo
delle stagioni che non sentono sulle loro spalle il Cambiamento del mondo, il
mio Cambiamento.
Hansi mi abbracciò sotto la
coperta che aveva portato. Faceva freddo, ma non incredibilmente. Forse perché
lui si stringeva a me e mi scaldava col suo corpo, forse perché pensavo alle mie
fantasie e non mi accorgevo della realtà attorno a me.
“Ehi, ti stai addormentando?
Non mi avrai fatto fare tutta questa strada per niente –“
“Perché mi hai portato qui?”
“Volevo fare pace. E volevo
legare questo posto ad un ricordo bellissimo, quindi dovevi venire con me. Ogni
volta che tornerò qui penserò a questa notte e a come siamo finalmente riusciti
a capirci nel silenzio quieto delle stelle.”
“Ti basta questo?”
“No.”
Lo so che era romantico
al punto che, se ci avessi pensato un’ora prima, non l’avrei mai accettato – mi
sarei messo a ridere, avrei detto: è il desiderio di una ragazzina. Avrei
pensato che fosse stupido. Ma ero lì, ed ero in quel momento. Non avevo
riflettuto espressamente sulle conseguenze, così come non vi aveva riflettuto
Hansi. Capivo che non era come le altre
volte, e che non sarebbe mai più stato così, almeno per molto tempo. Lo guardavo
come la rosa del Piccolo Principe, così fragile, precaria, delicata, e nella sua
debolezza bellissima. Lo toccavo come se non avesse spine e non avesse vanità,
solo un disperato bisogno di riempire un senso di straniamento e di
incomprensione. La sua pelle chiara era
colpita dalla luce della luna e splendeva di una certa opalescenza, sembrava
marmo, ma era morbida e soffice come un petalo.
- E’ così che si ama
spassionatamente? – Mi chiesi. – Vorrei che ne fossimo capaci in ogni momento, e
che non ci sbranassimo l’uno con l’altro. -
Dimenticai ancora per un po’ le
nostre crisi. Era tra le mie braccia come sotto una campana di vetro. Dovevo
preservalo? Proteggo la mia rosa e prometto di non abbandonarla mai, anche se
non riuscirò a capirla.
Mi scostò una ciocca di capelli dal viso e
mi guardò come se non capisse.
- Ricominciamo, - Pensai.
Invece non ricominciammo
subito. Si aggrappò a me trascinandomi giù, sopra di lui, e rimase in
quella posizione, tremante, stanco, pensoso, per molti minuti. Forse, scrutando
il cielo, cercava la sua stella.
___
Conosco quasi il Piccolo Principe a
memoria, sapete. E' stato il libro col quale ho imparato a leggere e ancora
oggi, ogni tanto, me lo ripasso per bene. Riesce a commuovermi tutte le volte,
sempre. C'è una certa vibrazione in quel libro, non lo so spiegare... abbiamo un
rapporto speciale, di totale comprensione. E' come se lo avessi assorbito. Ma
non voglio tediarvi per questo. Ho finito con gli esami, due giorni di vacanza!
Uao! E un sacco di nuovi cd da ascoltare, tipo... mentre rivisitavo il chappy ho
messo su Elements of Persuasion e Ommioddio, ci credete che ancora non l'avevo
sentito? Io?!? La più grande fan al mondo dei Dream Theater! La verità è che mi
sto appassionando al glam metal, sleaze metal, hair metal come lo devo chiamare?
Boh... Merito di un tributo visto due settimane fa... Motley Crue... E la cosa
positiva è che sono quasi sempre gnocchi, i musicisti glam XD.
Ringrazio tantissimissimo Manny-chan...
tesoro, non importa se sbagli a fare copia incolla. Ho letto il tuo commento e
mi son detta: però anche tu Lermontov? Strano... Poi mi sono accorta che era il
mio "off topic" e ho cominciato a ridere, per cui grazie! Non te la prendere, 'ridere'
in senso positivo... io faccio sempre ridere così la gente, a detta dei miei
amici. Piaciuto il capitolo? Questo è il mio capitolo preferito.
Bonjour! E' passato un anno (e
siamo qua) dall'inizio della pubblicazione di Ambivalenze. Non avrei mai
previsto di essere così lenta, quindi vi chiedo di nuovo scusa. Comunque il
capitolo è per Susy, perché, anche se lei non lo sa, mi ha tirata davvero su,
su, su di morale.
Capitolo 16.
Sabato diciassette Marzo,
Una retrospezione dalla
parte di Nikita – un concerto; alcuni versi di Yeats e una Bisanzio molto, molto
più vicina di quanto ci si aspetti
I.
Non ricordavo di essere entrato
all’Eterea per più di un anno, forse per due. E non ricordavo nemmeno il motivo
per cui me ne ero tenuto così lontano. Mi venne in mente quella notte dal sapore
strano e dal cielo spalancato, quando rientrai tra le sue mura antiche quasi
come se stessi oltrepassando la soglia di un incubo e di una visione,
contemporaneamente. Mi ricordai, invece, com’era fatto, e che mi piaceva molto
all’epoca in cui ero più libero e più ribelle, ed amavo la musica ossessionante
fino ai primi albori del giorno. Era un locale molto strano e sicuramente
inaccessibile al di fuori di un ristretto gruppo di persone. Quando lo
frequentavo, era sempre popolato da strani individui convinti di essere vampiri
– erano necessari alcuni requisiti per entrare: essere bellissimi, essere
scintillanti, essere affascinanti. Si ascoltava solo metal, qualsiasi genere di
metal. Non c’era ressa, non c’era bolgia, ma una massa di gente accaldata che
scuoteva la testa sotto il palco ed un pubblico elegante accomodato sui
divanetti. Non c’era uno sprazzo di colore, ma profumi sempre meravigliosi
emanati dalle fragranti candele che bruciavano nelle nicchie della parete e dai
fiori.
L’Eterea era conosciuto quasi
come una leggenda in tutta la Città. Apriva solo il sabato a mezzanotte, e
chiudeva appena prima dell’alba. Era una casa vittoriana ancora immacolata come
un gioiello nel cuore pulsante della modernità del centro, circondata da un
vasto giardino curatissimo sbarrato da un elaborato cancello in ferro battuto,
fuori dal quale bisognava parcheggiare. Si entrava rigorosamente a piedi in
qualsiasi condizione, si salivano le scale della terrazza morta d’inverno e
fiorita d’estate di petali chiari sui quali si rifrangeva l’alone lunare nelle
notte terse. Il profumo era etereo. Percorrendo quella sorta di giardino
incantato si arrivava davanti ad un portone sul quale era intarsiato un albero
stilizzato d’argento, dal cui tronco si dipartivano sette rami, carichi di
frutti. Colpito dal riflesso della notte, l’albero luccicava del pallore del
metallo prezioso, avvolgendo il visitatore in un’aura ancora più spettrale.
Anche l’interno era
particolarissimo – a differenza del giardino calmo, sereno, soffuso, le stanze
erano state ristrutturate in uno stile decadente, ricco, opulento, ostentante
magnificenza – – drappi neri, cremisi, d’oro, di broccato, damascati,
tappeti etnici, divanetti in velluto scarlatto e nero, tavolini bassi di legno
laccato nero ad intarsi oro e rosso. Un particolare che mi si affacciò allora in
mente fu la grande quantità di fiori che ricadevano in cascate da mille vasi
posti su colonnette, nello spazio tra una grande finestra e l’altra, in piena
luce notturna – rose, camelie, grandi mazzi di tulipani sgargianti, di orchidee,
di narcisi, di gardenie, di begonie, di magnolie, di giacinti. Sul tavolo che
occupai quella notte, una candela nera dalla forma rotonda e dal lumicino fioco
ardeva tra una corona di gigli candidi. Alle pareti ancora rivestite di carta da
parati erano conservati ritratti di dame dagli abiti sfarzosi e dal volto
triste, candelabri finemente sbalzati, scudi araldici, arazzi , statue nivee.
Oltrepassando l’ingresso ci si
trovava in una sala scarsamente illuminata. Un lampadario di cristallo acceso in
un riverbero fatuo rimaneva sospeso al centro del soffitto conchiuso da due
scalee che si aprivano come forbici e si ricongiungevano nella piattaforma che
dava accesso alle stanze superiori.
Il locale aveva interamente
conservato la parvenza di villa – tetra, oscura, maledetta -, e su questa
leggenda ricuciva i suoi introiti e scovava la sua particolare clientela
notturna. Soltanto le stanze dell’ala est erano riservate alla cucina e al bar
vero e proprio, mentre tutto il lato destro era stato dedicato al palco per i
concerti. Il piano superiore era occupato da tavolini, saloni, salotti, piccole
sale più intime.
Come ogni dettaglio al suo
interno, il palco dell’Eterea aveva qualcosa di teatrale, un gusto spiccatamente
ardito e decadente, ma intriso della sua bellezza piena di fascino. Era poco
sopraelevato rispetto al pubblico, ancora costruito in legno, ed era sormontato
da un tendaggio rosso a balze, sfrangiato in oro alle estremità, che si apriva
come i sipari dei teatri antichi. La cornice delle pareti era realizzata in
grotteschi, forse erano originali, ed il pavimento era ancora in pietra viva.
Delle tre stanze adiacenti, anche le pareti ed il soffitto erano ricavate in
pietra.
Quella notte aprii la pesante
porta d’ingresso, e dalla luce fantasmagorica, evanescente, eterea del giardino
onirico, fui sbalzato all’improvviso nell’oscurità più densa dell’interno,
pulsante come un nucleo segreto delle sue mille sensazioni da scoprire.
Respirando quei profumi delicati e fragranti, immerso nelle impressioni della
musica fortissima, cercai mio fratello.
II.
Le persone che transitano in
queste stanze mi hanno sempre dato l’impressione di essere trasformate in
marionette, in immagini, in specchi di qualche luce superiore. Nella loro
bellezza sfaccettata, colpita dalle candele e dai riflessi della notte che
penetrano dalle finestre, acquistano per loro stessi un fascino morboso,
sensuale, ammaliante, ed accanto a queste parvenze conservano qualcosa di più
spirituale e puro, la loro bellezza ricercata. In questo modo danzano davanti ai
miei occhi, le loro gonne di pizzi e valenciennes, i loro velluti e le loro
sete, le camicie ricamate e i colletti finemente lavorati, i bottoni di
madreperla, i pantaloni di pelle, i gioielli sfavillanti, le braccia bianche, le
bocche dipinte di rosso, i capelli lunghi e fluttuanti, gli occhi dallo sguardo
penetrante, colmi di una punta di luce che sottende un mondo pazzo e misterioso.
Così si muovono, oscillando lievemente in movenze leggere. Così scorrono davanti
al mio sguardo incatenato, facendomi pensare che, forse, anch’io appartengo a
questa stessa dimensione, anch’io mi sposto nel medesimo modo, anch’io posseggo
certi riflessi tra i capelli, negli occhi, nell’incarnato diafano, anch’io sono
silenzioso e aristocratico, bello e oscuro. Forse anch’io faccio parte di
questa schiera di fantasmi che sfila come un una danza macabra senza scheletri
spogli, senza lutti e senza tristezze, solo, drappeggiata dello stesso scherno e
della stessa fatalità. In un certo senso credo sia vero anche questo. I loro
volti mi danno un’impressione strana di ambivalenza, di contrasto e di
ambiguità. Lelio una volta mi disse che manifestavano in questa loro essenza,
che manifestavamo, una duplicità contraddittoria – l’essere bellissimi in un
modo che sembra più elevato e più spirituale, dolce, etereo, come angeli, ed
essere bellissimi nel senso più carnale, diabolico e asfissiante del termine,
come vampiri. Eravamo per lui affini a certi quadri medievali pieni di
inquietudine, di angoscia e di tristezza combinati all’ascesi, alla ricerca, in
molti versi alla mondanità, tavole ed affreschi che riflettevano nelle loro
forme contorte, nelle loro allegorie complesse, tutta l’incertezza e l’ansia di
un’epoca della storia assediata da grandi tragedie. Eravamo le figure di Boch, di Brugel,
di Carnach. Questo lo intuivo guardando me stesso nei riflessi delle molteplici
specchiere , domandando alla mia controimmagine come avesse mai potuto
trovarmi una persona venuta da fuori, senza conoscere né la mia personalità, né
la seduzione decadente dell’Eterea che andava rispettata per la sua peculiarità
e per la magia silenziosa che la circondava come una barriera infrangibile.
Dietro di me si disegnò contro
lo specchio il riflesso di Die. Il suo volto si avvicinava. Mi toccò sulla
spalla, incerto, e io mi voltai. Non potevo parlare a causa del volume altissimo
della musica, e allora gli sorrisi, seguendolo quando lui mi fece cenno di
accompagnarlo. Mi stava portando nel giardino.
Mi accorsi che Die, quella
notte, aveva qualcosa di diverso dal solito. Sul suo viso era come sospesa una
certa contentezza e distensione, una sorta di sollievo che non mi sapevo
spiegare , ma che ipotizzavo dipendesse dal fatto di trovarsi in quel luogo
per lungo tempo dimenticato. Pensai che gli stesse succedendo quello
che succedeva a me nel riscoprire lentamente le situazioni di cui mi ero
innamorato, e che mi appassionavano, a partire dalla carta da parati color
zafferano fino agli strani profumi inebrianti o lo sfarzo dell’interno.
Un’atmosfera intoccabile ed
indicibile ci avvolgeva come una corolla, e non si sarebbe dischiusa fino al
mattino.
Die non parlò nemmeno quando
uscimmo. Ritirò la tessera per rientrare e camminò fino a raggiungere una
panchina di pietra in qualche angolo remoto del giardino, sotto le fronde
odorose della magnolia fiorita. La notte era calda, già afosa per la stagione.
Anche se amavo il freddo, la quiete e l’immobilità perfetta dell’aria adamantina
e l’aroma di fiori mi tranquillizzarono e mi misero a mio agio. Così fu per lui,
immagino. Si sedette scompostamente di fianco a me, e, guardandomi, mi sorrise
con una leggerezza che non gli leggevo sul volto da troppo, troppo tempo. Mi
sembrava un sorriso meraviglioso, pensai: - Die è felice, davvero felice, in
questo istante -, e allora ebbi lo sfrenato desiderio di poter raccogliere quel
sorriso e custodirlo per sempre, mostrandolo ai suoi occhi ogni volta che si
fosse dimenticato di questa felicità.
“Non volevo che venissi.”
“Lo volevi. Altrimenti non me
l’avresti detto, no?”
“Forse lo voleva una parte di
me che non ha ancora trovato il coraggio di ammetterlo.” Die chinò il capo. Con
le dita affusolate giocava coi petali rosa della magnolia. Sembrava tutto
sormontato da una patina di lucentezza e di sonno.
“Die, io sono molto contento
per te. E un po’ anche per me. A volte si dimenticano le cose importanti.
Ultimamente mi sono concentrato solo sullo studio e sul lavoro, e ho perso di
vista quello che veramente piace a me. È bello, ogni tanto, recuperare le
proprie affezioni. Per te, poi, è meraviglioso. Tu stai sacrificando la parte
più eccezionale di te stesso. Forse hai ragione. Però
vengono notti come queste, nelle quali ti puoi perdere e annegare, scordandoti
per un istante tutto ciò che ti sei convinto di essere. Puoi spogliarti e
rientrare nelle tue facoltà, nella tua vera dimensione. Sono felice per la
maniera in cui riesci a sorridere qui, tra questa gente. Non è lo stesso modo di
sorridere che hai fuori. Te ne sei accorto?”
Die mi strinse la mano con una
certa delicatezza.
“Sotto un certo punto di vista
ha ragione Hansi.”
“Nikita – io – è una cosa che
voglio dire solo a te. Per provare. Perché non ho convinto nemmeno me stesso.
Sai, ieri sera pensavo: tu sei l’unico col quale posso veramente provare tutto.
Sei l’unico che ogni giorno della mia vita è venuto a farmi forza. Quando la
mamma si è portata via Lelio è stato un po’ come essere spaccati. Tu ed io non
abbiamo differenze di sesso, e solo nove mesi di età. Pensiamo allo stesso modo.
Posso fidarmi di te?”
“Certo, stupido.”
“Io – credo di essermi –
innamorato.”
Risi. Non perché mi divertisse
ciò che mi aveva detto, ma per la singolarità della sua espressione.
Innamorato era qualcosa che Die non aveva mai detto. Nemmeno quando era un
ragazzino, nemmeno quando lui ed Hansi condividevano quella relazione di cui ero
tanto diffidente, ma che in realtà non significava nulla. Ora, invece, aveva
qualcosa di diverso tra le dita. Aveva un amore, ed un amore difficile.
Per un momento pensai a me
stesso. Capitemi bene, non ero veramente dispiaciuto, solo, un po’ geloso di
questo improvviso cambiamento delle sue attenzioni. Si era prevenuto nella sua
introduzione, ma capivo, me ne accorgevo da giorni, da settimane, che aveva
anche qualcun altro con cui condividere il suo tempo. Non riuscii a dispiacermi
per la mia situazione. In fondo avevo notato il suo sorriso, la sua felicità, e
dopo ventidue anni di amore spassionato per una persona la cosa più bella è
sapere che questa persona è comunque felice.
“E’ Hansi che mi ha trascinato
qui. Io non avrei mai immaginato che bastasse così poco – io e lui non ci
comportavamo così anni fa.”
“Eravate più piccoli.”
“Appunto! Ci volevamo più bene,
Nikita. Ora litighiamo sempre, e ci facciamo così male… non lo so. Non capisco
nemmeno io.”
“Qual è il problema, Die? Ti
sta mettendo con le spalle al muro? Lo sai che lentamente sposta l’ago della
bilancia dalla sua parte. Ed io, vedi, se fossi in te, lo lascerei pendere di
lì.”
“Dalla parte di Hansi.”
"Sì.”
Strinse la mia mano più forte.
“Ieri mi ha sbattuto fuori di casa.”
“Ah.”
“Io sono tornato all’ora di
cena, ed era come se non fosse successo nulla. Abbiamo certe crisi – cinque anni
fa vivevamo in pace. Facevamo sesso ogni tanto. Stavamo bene. Ora è come se
sapessimo che perderci sarebbe un addio definitivo. Un po’ ci odiamo per questa
condizione. Un po’ abbiamo entrambi paura di un nuovo cambiamento, in qualsiasi
direzione esso avvenga.”
“E Hansi?”
“Hansi è bello. Meraviglioso.
Mi dice: ‘Ti prego, suona con me, sabato prossimo all’Eterea’ e io gli rispondo:
‘Non metto più piede in quel locale da due anni. Non voglio rimanere
intrappolato nei suoi labirinti’. Lui me lo chiede ancora e io dico: ‘Sì’.
Perché?”
“Non capisci le cose
semplici!”
“Niki, e poi cosa faccio?”
Lo guardai con occhi un po’
materni ed amorevoli. “Non succederà nulla di sbagliato. A quel punto capirete
da soli cosa fare. Tu non sarai più categorico sulle tue posizioni e lui non lo
sarà più sulle sue, come in ogni rapporto.”
“Io non lo so. Hansi è così –
orgoglioso, e fisso nelle sue idee. Mi spaventa.”
“Non ti preoccupare.”
Die mi scrutò per un secondo.
“Parliamo sempre di me, ultimamente. Ma tu?”
“Io e Claudia ci siamo
lasciati. Ma domani sera esco con quella ragazza dello stage, come si chiama…
Lucrezia, Luciana, Lu –“
“Ludovica.”
“Quella lì.”
“Nikita,”
“Sì?”
“Dovresti cominciare a pensare
seriamente all’amore, sai?”
“Certo Die. E poi se anch’io mi
riduco come te, chi li raccoglie i nostri cocci?”
Die sospirò. “Vorrei avere anch’io un Mircea per essere sempre in pace con me stesso,
col mondo e con tutti.”
“Dovresti essere Lelio.”
“Se Ottavia fosse qui
snocciolerebbe una bella citazione. Ora è il momento giusto.”
“Credo di averla io la
citazione, questa volta.”
“Cioé?”
III.
And
therefore I have sailed the seas and come
To the
holy city of Byzantium.
Bisanzio è molto più vicina di
quanto ci immaginavamo.
Guardavo il palco, e sul palco
guardavo suonare Die, finalmente, dopo un tempo lunghissimo lontano dalle scene. Quella notte eravamo stati
soli, lui ed io. Mio fratello mi aveva confidato un segreto che doveva rimanere
nella mia testa e risuonare con lo stesso silenzio di un sarcofago, per non
spezzare qualcosa di importante, per non incenerire una situazione così
precaria. Eppure mi sembrava di scorgere qualcosa in più, rispetto al vuoto e
alla scelta. Cercando di spingermi oltre la corte di velluto del
proscenio, immaginavo di trovare una città fatta d’oro e di mosaici, di cupole
magnificenti, di sfarzi, di bellezza, di decadente eternità.
La nave che solca i mari si sta
dirigendo verso la sacra città di Bisanzio, carica del suo splendore religioso e
della sua potenza militare. Un tempo doveva essere stata tutto questo, e doveva
essere stata lucente, meravigliosa, un vero capolavoro dell’uomo. Ora ne restano
soltanto le immagini, le icone, i simulacri di una grandezza passata, scorta, ma
pur sempre viva nel ricordo tremolante della poesia. È un destino così tragico e
così auspicabile, perché transita direttamente in quel territorio sconosciuto –
l’immortalità.
Come si rapportava Bisanzio a
quella sera, la sacra Bisanzio? Pure la nostra notte era in un certo senso
sacra. Intuivo che era l’inizio di un viaggio verso una meta fondamentale nel destino di mio fratello. Il
suo percorso era vincolato ad approdare in una città dorata, o a terminare tra
gli abissi. Questo non lo sapevo. Ma guardavo la sua figura muoversi sul palco,
le sua mani correre sulla tastiera, il suo volto concentrato accarezzato da
timidi raggi di luce, e mi era perfettamente chiaro che quello era il suo
posto. La sua dimensione. La sua meta, l’essenza che ricercava tendendo una
vita verso il sogno, e che sempre gli sfuggiva. Doveva rimanere lì,
cristallizzato e preservato per sempre nel suo stato di perfezione. Invece tutto
sarebbe sfumato con lo scemare del buio e con lo spuntare dei primi, timidi
raggi di sole.
Speravo che Die capisse questo,
che si ricordasse della sua passione, che si riconoscesse nella sagoma ombrosa
ritagliata sul palco delle meraviglie, davanti alla platea acclamante, nel cuore
di una notte fatta apposta per sussurrargli all’orecchio la strada migliore da
percorrere.
“Tieniti stretta quest’illusione
anche domani mattina, quando ti sveglierai e ti accorgerai di aver respirato
l’aria di un paese fantastico.”
Sospirando, mi allontanai. Mostrai la carta all’ingresso e mi restituirono il
soprabito. Fui sollevato quando rimisi piede nel giardino muto e socchiuso al
confine del giorno, pronto ad esplodere nella purezza incantevole della
Primavera. Da una parte mi sentivo felice. Dall’altra parte, un po’ per me
stesso, un po’ per Die, ero inspiegabilmente dominato da una sensazione oscura,
una sottile, incomprensibile e malinconica tristezza.
___
All - is - rite - coz we're
- BREAKING THE CHAINZ!!! Oggi va così. Mi sono ripromessa di fare pubblicità
ai Crashdiet, quindi faccio pubblicità ai Crashdiet. Chi sono, direte voi. Sono
un gruppo sleaze metal svedese E che roba è, direte voi. Se non avete mai
sentito parlare di Motley Crue, non vi siete persi nulla. In caso contrario,
ascoltateli, e per tutte le fangirl come me, guardatevi le loro foto. Bene,
compiuta la buona azione della giornata. Il fatto è che se diventano famosi
magari vengono in Italy per un concerto headliner e io li posso vedere! Yeah!
Dunque, passiamo alle cose
serie, visto che aspetto ospiti e poi non ho tempo. L'Eterea, non esiste.
Vagamente ispirata a un posticino in Milano, ma non esiste. Esce direttamente
dal mio periodo più dark, e oggi mi sembra una cosa così lontana, che rivedendo
il capitolo mi è venuto da sorridere. E Nikita è un personaggio che purtroppo
non ho analizzato molko, ma che mi piace davvero. Davvero-davvero. E' bello e di
un'intelligenza pungente, come Otta. E' anche un cretino, fondamentalmente, uno
che ama divertirsi quasi fino all'autolesionismo. Un pirla, come diremmo noi. E'
simpatico!
Ringraziamenti:
Locke: Hai letto tutto
in poche ore, seriamente? o_o. E io ci ho messo un anno ad arrivare a questo
punto, che vergogna. Sono sempre contenta di avere nuovi commentatori, e nuovi
lettori, per cui grazie mille. Grazie per le tue belle parole, per i complimenti
(bla bla bla, lo so, non dovrei crogiolarmi così, ma è vero, sono come un gatto
a cui grattano la pancina, come un cipollino innamorato...). Die e Hansi sono
intensi, lo sono per forza. Loro sono pura passione, sono estrema conseguenza
dell'orgoglio eccetera. Sono nati con questo fine. Ma sono sicura che
risolveranno i loro problemi. E grazie soprattutto per quello che hai detto sul
mio stile, perché è il complimento più bello che mi si possa fare. Merci!
Manny-chan: Come al
solito, cara, grazie per la recensione. Sei una persona buffa è___é. Adoro le
persone come te. Anch'io sono buffa e faccio cose incredibili, insomma. Ti ho
davvero commossa? Ho scritto quel capitolo cercando proprio, anche a livello
formale, una semplificazione e una nota fiabesca, una prospettiva infantile, che
poi è la più semplice, la più immediata, e per certi versi la più giusta. E'
questo il Piccolo Principe, per me. Un libro che è una lezione di vita e di
convivenza, di amicizia. Brr, mi mette i brividi...
Stavolta
ci ho messo meno del previsto è___é. Sto migliorando,
right? In realtà sono in vacanza fino al 28, che poi diventa il
Primo Maggio e uao, A Week For One's Own.
La settimana scorsa abbiamo dovuto formattare il picci (no, non
è un plurale magestatis o come si chiama, eravamo in due sul
serio perché io sono un'incapace), il che non ha risolto i suoi
problemi di connessione, ma almeno ha eliminato il pericolo di collasso
al quale, ahimé, stava seriamente andando incontro. Per fortuna
sono una ragazza previdente e ho dicimila copie di backup di quello che
scrivo. Sono previdente solo in quello, anyway, perché ho perso
dei giga di musica... e sono triste.
Capitolo corto e non particolarmente significativo. Ma per la mia filosofia del cerchio comunque importante.
Domenica tre Giugno
Una retrospezione dalla parte di Lelio – alcuni ricordi dolorosi; un
cerchio e la fine di un lungo percorso
Era cominciata come una serata
afosa. Era trascorsa dolcemente nell’ozio prolungato
dell’estate quasi sopraggiunta col suo velo di trasparente freschezza e coi
colori abbaglianti del suo abito leggero. Era finita in una maniera che mi
aveva quasi commosso.
Successe un episodio che mi
ricordò l’inizio di tutta la nostra storia. Era l’una di notte, ed io non
riuscivo a prendere sonno. Qualcosa ronzava insistentemente nella mia testa
assieme alle immagini della nuova stagione. Quando mi succedeva, tornavo
in camera mia e passavo la notte leggendo per non disturbare il sonno di Mircea.
Ma poi –
Sentii delicatamente bussare alla
portafinestra del balcone comunicante tra le nostre due stanze. Scostai il
tendaggio, aprii la porta e lo guardai fermo sulla soglia, gli occhi rivolti
verso il basso, i capelli sciolti che gli ricadevano sulle spalle strette dalla
fredda brezza notturna. Non entrò subito. Rimase qualche secondo a tremare e
poi cominciò a parlarmi con una voce spezzata dal pianto.
“Mi sono svegliato e non ti ho
più visto – ho pensato – un anno fa è morto mio padre. Proprio questa notte.”
Qualcosa di pesantissimo mi colpì sulla testa. “Mi sento solo.”
“Me lo ricordo.” Ero senza
parole. Lo fissai con la stessa intensità con cui si fissa un apparizione.
Gli presi la mano teneramente
come un bambino e lo condussi all’interno.
“Scusami, sono un idiota. Dovevo
ricordarmelo. Scusami, scusami, non voglio che tu ti senta solo.” Mi
sentivo in colpa per non averci pensato, per averlo lasciato in balia di se
stesso in un momento così delicato.
“Non ti preoccupare.” Sembrava
ancora scosso.
Quando si sedette sul letto e mi
chiese gentilmente: “Posso dormire con te?” mi sembrò di vederlo ringiovanito
di dieci anni, di osservare ancora il bambino bellissimo che giocava con me e
mi voleva un mondo di bene senza sapere niente, senza capire niente di quello
strano legame contorto che ci univa. Dieci anni prima ero io che, piangendo,
bussavo alla sua porta e venivo accolto da un calore familiare e buono. Allora,
dopo tutto quel tempo, mi sembrò di assistere a una scena reiterata. Il suo sguardo un po’ perduto
ed il suo corpo premuto stretto contro il mio nella disperazione dell’angoscia
sembravano voler dire – questa è la chiusura di un cerchio, questo è il tornare
al punto di partenza, nella maniera meravigliosa in cui tutto ha avuto inizio,
questo è semplicemente mettere la parola fine ad ogni incertezza, ad ogni
insicurezza, ad ogni dubbio. Avevamo concluso il nostro percorso circolare che
ci aveva sostenuto per così tanto tempo, per così tante epoche della nostra
vita.
Mi baciò con la sua solita
delicatezza, timido, un po’ sconfortato. Volevo succhiare via
tutto il gelo che per un momento si era impadronito della sua splendida felicità. Non doveva
sentirsi solo. La mia vicinanza, il nostro contatto, dovevano
risvegliare dentro di lui la sicurezza che io gli sarei sempre stato accanto ed
avrei asciugato le sue lacrime, come aveva fatto lui a partire da
quella notte di tanti, tanti anni fa, ormai indistinta nella memoria ed
ammantata da un alone onirico e soffuso.
Mentre Cea si addormentava tra le
mie braccia, pensai che poteva succedere
davvero così, che poteva essere terminato per noi quel periodo meraviglioso e
dorato dell’adolescenza, e che le prime responsabilità di una vita matura,
indipendente, lontana dalla prigione di cristallo che ci aveva sempre
rivestiti, spezzata sotto il peso del Cambiamento, avrebbero cominciato ad
arrivare. Non sapevo cosa ne sarebbe stato
di noi mesi dopo, stagioni, anni dopo. Sicuramente saremmo rimasti insieme.
Forse saremmo andati lontano, forse avremmo viaggiato in posti meravigliosi ed
esotici, forse avremmo semplicemente condiviso un altro letto in un’altra
stanza solo per noi. Qualunque cosa ci avesse
riservato il futuro non potevo che incoraggiarla col sorriso che lui mi aveva
insegnato.
Lo strinsi più forte a me, come
per accertarmi che fosse davvero lì, sdraiato, addormentato, sereno anche dopo
certi abissi. Desideravo abbracciarlo in quel modo per tutte le notti della
nostra vita.
“Ti amo da morire,” Gli sussurrai
all’orecchio, anche se lui era già addormentato tranquillamente. Non importava.
Me l’aveva sentito pronunciare talmente tante volte da non aver nemmeno più
bisogno di conferme.
Chiusi gli occhi. Vidi per
l’ultima volta l’immagine del cerchio e mi convinsi ancora, definitivamente,
che ogni cosa è destinata a tornare al punto di partenza, qualsiasi sia il
percorso che compie sulla superficie del mondo, e che pure noi arrivavamo ad
una compenetrazione perfetta.
___
We are the Youth Gone Wild! Questa canzone ha conquistato la mia testa, oggi. Oltre a Tangerine
e a tutte le canzoni acustiche degli Zep. L'altro ieri un mio amico mi
ha portato i suoi sacri bootleg dei Led Zeppelin, i libi, il cofanetto
e persino uno dei (tutti) vinili che ha, comprati da suo padre ai tempi
in cui Jimmy Page aveva ancora i capelli neri da stregone. Uao. Roba da
collezionista. Mi teneva d'occhio mentre sfogliavo il materiale e
copiavo i bootleg. Continuava a dire: Martina, stai attenta. Ok,
è più fissato di me. Ok, è davvero incredibile. Ma
sto ascoltando quasi solo Zeppelin da tre giorni. Ma perché
dovrebbe interessarvi? Lunedì sono entrata nell'aula
d'esame cantando l'ultima di Elio e le Storie Tese. Imbarazzante...
Credo di riuscire a
postare il prossimo capitolo non in tempi escatologici, ergo
entro una quindicina di giorni. Ma non vorrei illudervi. Non prendetemi
sul serio! Mai!
Ringraziamenti:
Chloe90 - Uuuuuuuu
una nuova lettrice! Sono così felice, sono così
felice! Sono felice con poco, è vero, ma io lo faccio per
voi! E voi apprezzate! Così dovrebbe funzionare il mondo,
sempre. Peace & Love. Chiusa parentesi idiota, sono contenta sul
serio, e - addirittura ti ha quasi ridotta in lacrime? Ma no...
Kleenex... andrà tutto bene. Grazie, grazie, grazie. Ecco il
seguito. Spero continuerai a leggere.
Manny-chan - Mia adorabile
commentatrice fissa, non lo so se sei buffa o meno nella vita, ma lo
sei qui, e va benissimo XD! Comnque è giusto immaginarsi le
cose, intendo, è così che faccio di solito quando
leggo... L'Eterea è proprio così anche nella mia mente,
è eterea - nome scelto non a caso-, è inconsistente,
è pareti di vetro e profumo, in fondo. Le persone che ci
camminano lo sono altrettanto per suggestione, o per convinzione, non
lo so. Niki è così, almeno, ed ovviamente ci restituisce
il quadro filtrato dai suoi occhi delicati... By the way l'Eterea
è in sfitto ormai, mi sono evoluta verso Rainbow e
Wiskey-a-go-go, ultimamente, LA Sunset Strip, party e un sacco di
casino. All'Eterea non ci sono casinisti, sono tutti poeti e
pensatori... Sono tutti seri... Die ringrazia per le coccole e
ripete che con Hansi sistemerà tutto prima o poi. Lui è
un po' Youth Gone Wild...
Baci a tutti. Buon ponte del Primo Maggio!
Martolina
Un po' più in ritardo di quel che pensavo, comunque ---
Mercoledì undici Aprile
Una retrospezione dalla parte di Hansi – un orologio che non funziona
bene; una finestra sul cortile ed uno strano senso di agitazione. Una parola
Fine molto perentoria.
I.
Erano quasi le due di mattina, e mi
chiedevo dove potesse essere per ritardare così tanto rispetto alla sua solita
ora. Non mi aveva nemmeno chiamato. Non mi aveva avvisato. Nulla di nulla. Mi
aveva lasciato solo in balia della preoccupazione, della rabbia e di quello strano, pungente presentimento che diceva: ora non
tornerà più, è stanco.
Guardavo l’orologio con
insistenza ogni minuto, e mi sembrava che il tempo, in quell’assurda
dilatazione non scorresse mai e non lo riportasse mai da me. I battiti scanditi
e ripetuti ossessivamente mi facevano impazzire – un
secondo, un secondo in meno e lui sarà da te - un secondo in più in cui lui sarà
lontano da te.
Perché forse non sarebbe mai
tornato.
Quell’orologio non funzionava
correttamente, pensai ad un certo punto. C’era una frattura, una discrepanza
netta tra il mio tempo interno che aveva vissuto una giornata intera e quello
segnato nel quadrante rotondo che continuava a ticchettare con noncuranza i
suoi secondi nervosi, spossanti, eterni. Doveva esserci uno sbaglio, una
demarcazione tra la mia percezione interiore ed il mondo. O stavo diventando
pazzo per colpa di Die.
Gliel’avevo detto io di non rincasare.
Avevo gridato con la stessa ferocia di tutti i giorni che lo odiavo e che non
volevo più vederlo, ed allora era perfettamente naturale che fosse ancora fuori.
Non era nemmeno casa sua. Era una sensazione strana, essere
gelosi di una persona che quotidianamente cercavo di convincermi valere poco
per me, ma che sapevo essere fondamentale. Me ne stavo seduto sul divano grigio
e guardavo l’orologio, e poi la finestra, e poi di nuovo l’orologio. Il cielo
si era appena imbrunito, disperdendo le nuvole rosa e rosse in una pozza
profonda di blu – quel colore che non è ancora il buio denso ed impenetrabile,
ma una tinta che possiede una certa lucentezza elettrica, come sospesa al
confine tra notte e giorno, punteggiata del chiarore di stelle.
Mi alzai, agitato. Scostai il
tendaggio della finestra e osservai con attenzione il cortile illuminato dai
lampioni. Non mi resi conto di quanto tempo stetti a meditare in quella
posizione, né di cosa pensai, perché ogni mia immaginazione viaggiava per un
verso inspiegabile. Ogni tanto, sulla via lastricata che conduceva alla strada,
passava una persona. Io la studiavo attentamente cercando di distinguere
nell’oscurità sempre più fitta i contorni confusi di Die che si stava
avvicinando, che stava per aprire la porta e salire le scale e ritornare. Ma
non era mai lui. Erano mille volti indefiniti e sconosciuti che si perdevano
nella nebbia della mia memoria e nella tristezza della mia
posizione vigile, nascosta, curva su se stessa in una sorta di muta
colpevolezza.
Intanto era passata un’ora nella
mia più completa confusione. Avevo provato a fare di tutto – a leggere, ad
ascoltare musica, a rivedere i miei spartiti, a ritirare le cose che avevo
lasciato in disordine, eppure ogni volta mi sentivo stanco, mi afflosciavo su
una sedia e riprendevo il mio snervante percorso tra l’orologio e la finestra.
Odiavo sentirmi così male. Odiavo
capire di essere preoccupato per lui. Odiavo questo senso di attesa indicibile,
fremente, inspiegabile, e la debolezza nella quale mi faceva precipitare.
Odiavo sprecare ore preziose della mia vita davanti ad una finestra, cercando
di scorgere il volto di una persona che forse non sarebbe mai arrivata. Odiavo
sentirmi sconfitto per aver perso il controllo. Ma sopra a tutto odiavo Die che
mi faceva stare così male senza nemmeno accorgersene, senza nemmeno
preoccuparsene.
“Stupido orgoglio. Stupido,
maledetto, impossibile orgoglio.” Parlavo da solo. “Se quell’idiota pensa che
me ne starò qui tutta la sera a macerarmi per lui si sbaglia davvero.”
Presi il giubbotto ed uscii per
le strade silenziose.
II.
Il viale era
buio, e di tanto in tanto la luce artificiale di un lampione si apriva
una
breccia contro il mio viso. Anche se era ormai primavera inoltrata,
quella
stagione delicata come un sussurro e leggera, fresca, dipinta di colori
tenui e
soffusi, io non potevo che sentirmi nero e pieno di rabbia.
L’aria fredda della notte mi batteva sul volto. Non sapevo
nemmeno
dove stavo camminando. Erano le tre del mattino, la Città era
addormentata
sotto la sua coperta meravigliosa di stelle, e forse io ero
l’unica anima
inquieta che non riusciva a trovare uno spazio per sé, un luogo
dove fermarsi a
riposare.
Mi fermai su
una panchina sospesa al centro di un paesaggio deserto. In quello spiazzo
c’erano molti alberi ed un prato verde che probabilmente la mattina dopo si
sarebbe risvegliato come tutti gli esseri sui quali la primavera posa il suo sguardo.
Quella scena
di pace e quiete notturna mi riportò alla mente una sera che
avevo trascorso
con Die in riva al mare, in un posto che frequentavo da bambino e che
conservavo nel mio cuore come un piccolo rifugio segreto. Non sapevo
perché, ma
un giorno avevo deciso di voler condividere quello spazio
personalissimo ed
intimo con lui. Forse era stato uno sbaglio. All’inizio mi era
sembrato un
momento nel quale entrambi raggiungevamo uno stato superiore
– nel
quale non esistevano più le brutture del nostro rapporto. Sapevo
cosa rischiavo
conducendolo laggiù: gli mostravo il mio mondo e lasciavo che
lui vi penetrasse. Avrebbe potuto schiantarlo, distruggerlo, bruciarlo,
ed ero stato
io a consegnargli la chiave, a mostrargli la porticina scavata
nell’essenza più
taciuta di me stesso. Una mia piccola follia romantica. Perché
c’erano dei
momenti in cui pensavo veramente di essere pazzo di lui, di amarlo, di
volerlo
alla follia. Ma allora – allora ero stanco anch’io, ero
stremato dalle nostre
lotte quotidiane, dalla vanità e dall’inconsistenza del
nostro rapporto.
Quella notte
lui mi aveva detto che ero la rosa del Piccolo Principe. Me lo ricordo ancora,
e lo ricorderò per sempre come uno dei momenti più belli trascorsi assieme a
lui, perché non posso negare di aver sfiorato, in certi istanti, il paradiso.
Eppure anche quell’effimera illusione era sfocata con le luci del mattino,
quando, tornando a casa, spezzando la magia del tempo che ci preservava in
quell’aurea situazione, avevamo ripreso a litigare come prima.
Avrei voluto
non averlo mai rincontrato. Avrei voluto, quella sera di molti mesi prima,
ignorarlo, passargli oltre senza degnarlo di uno sguardo, dimenticarmi della
sua presenza. Avevo già sbarrato quel sentiero. Perché ci ero ritornato? Per
farmi del male? Avevo complicato una situazione perfetta, rendendola
impossibile. Ora lui transitava nella mia vita e abusava della mia pazienza. Io
l’avevo riportato a tanto. In fondo me l’ero cercata.
Ma stavo per
cedere. La diga che conteneva i miei sentimenti, la mia rabbia, il mio dolore,
la mia stanchezza, presto sarebbe stata distrutta da un colpo improvviso, ed
avrebbe lasciato dilagare il me stesso angry young man senza poterlo fermare.
Allora,
presupponevo, ci sarebbe stata una nuova parola Fine. Quella perentoria,
decisiva, indiscutibile. Disperata.
III.
Le luci erano
accese quando tornai a casa. Die doveva essere appena arrivato, perché si stava
ancora spogliando. Lo guardai in controluce mentre si sfilava la camicia
macchiata di vino rosso e la lasciava cadere per terra con la sua solita
fastidiosa noncuranza. Mi guardò
dalla specchiera mentre entravo in camera da letto e non disse una parola.
Nemmeno una singola sillaba di giustificazione. Eppure ero certo che leggesse
molte domande sul mio volto. Mi avvicinai
per primo e mi lasciai cadere sulla poltrona.
“Hansi, non
dovresti andare in giro a quest’ora del mattino da solo.”
“Mi pare che
non fossi l’unico.”
“Io non ero
solo.” Me lo rinfacciò con un sorrisino pieno di sprezzo e di falsità.
“E con chi
eri, di grazia?”
“Con i miei
amici. I miei compagni di corso. Festeggiavamo.” Sapeva quanto mi desse
fastidio di parlare non solo del suo corso,
ma anche dei suoi compagni di corso.
“Cosa
festeggiavi?”
“Il mio ultimo
esame.”
“Scusa?”
“Sì, l’ultimo
esame!” Me lo diceva con una soddisfazione che mi lasciò spiazzato.
“Prima della discussione della tesi.”
Sbattei gli
occhi un paio di volte prima di ribattere. “Ah.” Non sapevo cosa rispondere. “Potevi
dirmelo. Potevi dirmi dove andavi. O almeno, potevi dirmi che –“ Ero
tremendamente dispiaciuto. Anzi, mi sentivo come calpestato, stracciato,
disfatto. Mi aveva sfoderato un colpo in pieno stomaco. Sentivo ancora il
bruciore di quelle parole taglienti proferite con tanta subdola meschinità.
“Hansi, ma tu
odii che io ti parli di questi argomenti!”
Forse si
aspettava una reazione. Non risposi nemmeno. Mi sentivo improvvisamente stanco
e pervaso da un grande senso di vuoto. Voltai semplicemente le
spalle ed uscii da quella camera improvvisamente buia e fredda.
Seduto sul
divano della sala, pensai che era stato davvero, davvero crudele. Non
solo
aveva fatto una cosa che deprecavo, e questo, in fondo, nonostante
tutte le mie
urla ed i miei insulti, potevo anche lasciarlo passare. L’aveva
fatto senza
dirmi niente, tacendo con l’intento preciso di farmi del male. Il
mio ragazzo
si laureava, festeggiava coi suoi amici, e io nemmeno lo sapevo. Mi
sembrava
grottesco e terribile allo stesso tempo. Io mi sentivo completamente
disarmato. Non avevo nemmeno l’intenzione di tornare in camera
per vederlo
lontano un milione di chilometri col suo sorriso di vittoria stampato
sulla faccia.
- Che stupido,
- Mi dissi. – Ti sei innamorato. Ma è troppo tardi. -
Passai tutto
il resto della notte sveglio tra il divano e la finestra, mentre lui dormiva
senza preoccuparsi di niente, chiedendomi perché dovesse essere così spietato e
perché tutto andasse così stupidamente al contrario.
*
Buongiorno
Signori Ascoltatori! Sono cautamente felice, oggi, forse
ritornerà il sole e finalmente posseggo l'intera discografia di
Hanoi Rocks. Ne sono in-na-mo-ra-ta. Mi dilungherei milioni di righe ma
ho rotto il tasto spaziatura e separare le parole sta diventando una
sofferenza...
Ringraziamenti:
Manny-chan: Don't
cry,Manny, don't cry [and dont'you cryyyyyyyyy tonight...]! Eccoti un
capitolo dal finale assolutamente amaro per ripristinare l'Equilibrio
Cosmico...
Chloe90: Scusa se ti ho tenuto sulle spine per così tanto,
eccoti il nuovo capitolo,
sperando[boh.non.va.più.del.tutto...scusa.il.disordine]dicevo,sperando.non.la.prendi.come.una.tragedia...
19
Ok questo è per Silvia, se mai troverà il mio account...
Mi scuso come sempre per il ritardo, sono ingiustificabile. Comunque
siamo praticamente alla fine.
Enjoy!
Mercoledì 11 Aprile
Una mattina difficile che è anche il tramonto di un’epoca
I.
Die si era sdraiato tra le
lenzuola blu con un pesantissimo senso di colpa sul cuore e non era riuscito a
prendere sonno nemmeno per un secondo. Nella sala, poteva sentirlo dalla porta
socchiusa, anche Hansi era sveglio. Ogni tanto avvertiva il rumore dei suoi
passi sul pavimento mentre presumibilmente si avvicinava alla
finestra.
Gli dispiaceva in un modo
incommensurabile nell’amarezza di quello stillicidio notturno. Pensava di aver
davvero compiuto un’azione stupida.
Die era frustrato per molte cose
– in realtà, inizialmente aveva pensato di non raccontargli di quell’esame per
non farlo arrabbiare. Era stanco delle sue sfuriate e delle sue urla. Ma poi i
suoi compagni di corso l’avevano trascinato a festeggiare in un bel ristorante,
e allora si era per un secondo dimenticato di Hansi che lo aspettava a casa con
la sua rabbia livida. Dopo averlo
visto rientrare così tardi, in quello stato quasi sconvolto, non aveva
resistito farsi scappare tali cattiverie. Ora rimaneva in quello stato
languente, abbracciato al cuscino, il letto vuoto da una parte, sapendo di aver
veramente esagerato. Aveva scorto qualcosa sul volto di Hansi, il momento in
cui, con una tacita rassegnazione, invece che gridare come si sarebbe
aspettato, aveva chinato il capo e si era voltato in silenzio, dandogli le
spalle, uscendo dalla camera. Era qualche dettaglio della sua fisionomia che si
rilassava in una vaga espressione di dolore, e che rievocandolo nella mente gli
faceva male più di mille parole.
Si riscosse. Non era il momento
di pensare al dispiacere. Hansi l’aveva fatto arrabbiare, lo infastidiva ogni
giorno con le sue pretese, e lui era arrivato quasi allo stremo delle
forze. Davvero, era frustrato. E la frustrazione lo trasformava in un essere crudele.
Guardando il soffitto si accorse
che entrava una luce evanescente, un barlume brillante di qualche lampione
sospeso nella notte. Non si era nemmeno ricordato di chiudere le ante della
finestra. Quei piccoli sprazzi di chiarore soffuso formavano come delle
macchie, dei disegni intricati.
Cosa doveva fare? Poteva alzarsi,
ed andare a parlare con Hansi che comunque, era certo, non sarebbe tornato in
camera; oppure poteva rimanere fermo nella sua posizione, pretendendo di essere
tranquillo, ed aspettare la mattina per un chiarimento che forse non sarebbe
mai avvenuto.
Aveva la netta sensazione di
essere arrivato al limite. Che entrambi fossero arrivati al limite. E che non
ci sarebbero più state parole riparatrici.
Die si chiuse nel suo silenzio
pensoso e pieno di dubbi e di dispiaceri, fino al mattino, quando
dalle finestre dimenticate aperte un rivolo di luce solare scivolò nella camera
trovandolo ancora sveglio, irritato, meditabondo.
- Che due idioti orgogliosi che siamo,
- Si disse, alzandosi dal letto più stanco di quando si era coricato.
Entrò in sala. Non c’era nessuno.
II.
Hansi era uscito prestissimo,
quasi all’alba, un orario che per lui era sempre stato impensabile. Aveva scorto i primi raggi del
mattino illuminare le case, ed aveva pensato che, forse, avrebbero potuto
illuminare anche lui. L’aria fresca gli puliva la
faccia e attenuava il bruciore agli occhi che desideravano soltanto piangere.
Guardava la strada e si sentiva un po’ perduto in mezzo a tanta vastità di
cemento e a tutte le persone che incrociava, transitando loro accanto senza
nemmeno conoscerle, senza vederle quasi, senza distinguerle dalla massa
indiscreta che palpitava nei meandri della Città viva e florida.
Un tempo, invece, guardava il cielo.
Un tempo era stato un’idealista, un giovane appassionato pieno di idee e di
speranze per il futuro. Un tempo cercava per sé la vita, l’ebbrezza, la
contentezza. Ora si trovava tra le mani soltanto cenere. Forse aveva ragione
Die, ed allora una cosa gliel’aveva davvero insegnata, quando gli diceva che
non doveva credere nelle favole, non poteva più permetterselo, e che il suo
mondo era una bolla di sapone destinata a scoppiare scontrandosi con le
situazioni concrete della realtà.
Anche se aveva odiato quelle
parole con tutto il suo cuore, non poteva negare di cominciare a scorgere in
esse un po’ di verità. In quella strada affollata, illuminata
dal sole ed ombreggiata dalle alte cime dei palazzi, osservava le sue illusioni
spezzate scintillare di un ultimo disperato abbaglio. Una cosa
l’aveva certamente persa – tutto l’amore che provava per Die. Pensava di
poterlo ancora trattenere nonostante tutto. Era quasi riuscito a convincersi ad
accettare anche quel suo lato così estraneo, così deprecabile ai suoi occhi,
pur di non doverlo perdere ancora, pur di non vederlo uscire dalla soglia e
portarsi via il resto dei suoi sogni. Era bastata una parola, un sorriso
crudele, ed era tutto, tutto sfumato in una nebbia indefinita di stupore,
tristezza, vacuità. In quel momento Hansi aveva sentito qualcosa spezzarsi, ed
aveva capito che non c’era più niente da fare, che non era più possibile
riparare i cocci così minuti, così sfaccettati, così frammentati di quel loro
rapporto. Aveva chinato la testa in segno di sconfitta ed era uscito dalla
stanza senza fiatare.
Si sentiva deluso e prostrato per
quella notte. Era rimasto sveglio ore ed ore ad aspettare un semplice cenno,
una parola che non era arrivata. Che, ormai, non sarebbe più potuta
arrivare.
- Mi dispiace tantissimo, - Si
disse. – Abbiamo provato. E abbiamo visto che non ha funzionato. Anche se è
così doloroso ammetterlo. -
Hansi poteva scegliere di
rinunciare a lui e riconquistare la sua libertà, oppure di vivere
ancora attaccato a quelle menzogne logoranti che lo uccidevano giorno dopo giorno. In fondo al cuore sapeva che mai, per nessuno, avrebbe rinunciato alla sua
giovinezza.
____
RINGRAZIAMENTI [brevi perché ancora non riesco a scrivere]:
Manny-chan: o mia solita cara commentatrice del cuore, non posso comprare una nuova tastiera perché
ho un portatile! Lo cambierò presto btw... Comunque questi due
hanno capito tutto. Ancora non lo sanno, ma ci sono arrivati, meglio
tardi che mai, niet?
Dicembre:
Io sono in terribile debito con te di un ringraziamento come si deve
per le tue splendide recensioni. Avevo cominciato a leggere Liberaci
dal Male e mi era molko piaciuta, ma volevo aspettare che ci
fossero un po' di capitoli, e poi non ho mai tempo...
Lo so che sarete tutti in vacanza in questi giorni... Buone vacanze à tout le monde!
Terzultimo capitolo, people! Commenti sempre graditi!
___
Venerdì otto Giugno,
Un biglietto di congratulazioni; una festa non molto allegra per
qualcuno; una porta sempre spalancata sull’orizzonte delle Possibilità e un
Piccolo Principe che torna al suo asteroide
I.
Mi congratulo per il tuo successo accademico e ti auguro di trovare in questa strada tutta la soddisfazione e la felicità del mondo.
- Hansi
II.
“Sono passati tre giorni da
quella sera – davvero non te l’ho ancora raccontato?”
Nikita vedeva il sentimento morboso
con cui suo fratello stringeva il cartoncino bianco che Hansi gli aveva spedito
quella mattina.
Die proseguì. “In quel breve
lasso di tempo mi ha completamente ignorato. Ed io sono stato così stupido da non
fermarlo, da lasciarlo andare in simili condizioni, quando avevo capito
benissimo che sarebbe bastata una scusa sentita per sistemare il divario che ci
separava. Usciva alla mattina col suo basso – andava a provare. Ritornava a
casa con le dita screpolate per le sessioni interminabili. Fino a
qualche giorno prima mi chiedeva sempre di accompagnarlo e di suonare con lui.
Allora si alzava, mi salutava piano e usciva. Non
provava più a chiedermi dell’Università.
Sai, avevo quasi ceduto alle sue
pretese. Davvero. È strano – se mi avesse chiesto ancora un paio di volte di suonare ancora con lui, io avrei
accettato.
Una mattina, prima di uscire, mi ha detto che
me ne dovevo andare. Era casa sua, ed era giusto così, ma io non capivo, non
realizzavo. Mi disse semplicemente che non c’era più niente da fare, che da tre
giorni non ero più il suo ragazzo, e che non voleva più vedermi, sai perché? Ha
detto – ha detto che non mi amava più. Il momento in cui l’avevo calpestato e
deriso aveva realizzato che non gli bastavo più per la realizzazione dei suoi
stupidi ideali, e che ero diventato completamente trasparente, uniforme alla
realtà, ai suoi occhi. Mi ha detto anche che quel dolore sul
suo volto era solo la frustrazione per la perdita di un vincolo che gli
sembrava importante. Non per me, ma
per il concetto stesso che aveva del nostro amore. Non lo so, Nikita. A questo
non ho voluto credere fino in fondo. Una parte di me brucia ancora della
piccola speranza che lui, segretamente, sia innamorato come lo sono io.”
“Ti ricordi quella sera
all’Eterea?”
“Sì. È
stato bellissimo. Guardando indietro a momenti come quello, mi chiedo cosa ci
faccia qui.”
“Festeggi
la tua laurea.”
“Sai,
Nikita, io pensavo che sarebbe stato più facile da questo punto in poi. Da
quando Hansi è rientrato nella mia vita con la sua meravigliosa follia, tutte
le mie certezze sono crollate. Per mesi ho tenuto duro nello studio supportato
soltanto dalla consapevolezza di dover portare a termine qualcosa che avevo
iniziato. Per non buttare via quattro anni. Mi
dicevo che dopo la laurea tutto sarebbe stato più facile, e da quell’istante
sarei stato un ingegnere senza dubbi. Invece ora che sono qui con questo
stupido attestato tra le mani mi accorgo che – che non mi interessa. Che non è
il mio posto e che non voglio spendere tutta la mia vita in qualcosa che non
amo, rimpiangendo l’immagine della persona che avrei potuto essere se solo
avessi creduto un po’ di più nelle mie idee. È triste pensare che ormai non mi
rimane altro. Ma è troppo tardi. È assurdo. Ho precluso l’altra via con
le mie stesse mani, incatenandomi al presente. Mi sembra un incubo. Avrebbe
dovuto migliorare tutto, e invece –“
Die
venne interrotto da alcune persone che si avvicinarono a lui tendendogli la
mano per le solite frasi di circostanza e brindando alla sua salute coi loro
flutes pieni di vino dorato e spumeggiante.
II.
“Non
sei felice. Cosa posso fare per renderti felice?”
Die lo
adorava in quel momento. Se avesse potuto baciarlo, lo avrebbe fatto.
Di certo,
anche quando tutto gli andava storto, suo fratello, il suo vero
fratello,
sapeva stargli accanto con la solita delicatezza e con quella
comprensione che nessuno aveva di lui. Era come un libro aperto tra le
cui pagine
Nikita sapeva leggere mille incisi più importanti che tutte le
spiegazioni del
mondo. Loro erano sempre stati perfetti ed in sintonia – non
avevano mai
sofferto di quella rivalità o di quell’odio sottile e
competitivo che si
instaura tra fratelli.
Die si
lasciò andare contro il sedile dell’auto. “Non puoi fare nulla.”
- Com’è
bello Nikita, coi suoi capelli blu - Pensò distrattamente guardandolo. -
Per
fortuna gli restava lui.
“Die,
scommetti che invece so qualcosa di importante?”
III.
“Scendi.”
“Cosa?”
“Scendi.”
“No.”
“Scendi!
Al massimo torno a prenderti. Non fare i capricci. Sono sicuro che stavi
pensando a questo posto, e che il cartoncino che stai distruggendo tra le mani
significa molto più che un augurio distante.”
Die
aprì lo sportello della macchina, scese e rimase a guardare Nikita che faceva
la sua inversione e ripartiva per essere inghiottito dal traffico delle dieci
di sera.
Casa di
Hansi era particolarmente incantevole, un piccolo gioiello del centro storico,
ristrutturato all’esterno e completamente rimodernato negli interni. Le pareti
che davano sul cortile e sui giardini pubblici si aprivano in gradi finestre e
portefinestre mensolate o balconate, separate le une dalle altre da semicolonne
in rilievo, i piani erano evidenziati da bordature in stucco ed il cornicione
era estremamente lavorato, quasi barocco. L’effetto era suggestivo. Die si
fermava sempre ad ammirare la bellezza estetica di quel palazzo antico, così
diverso dagli appartamenti squadrati e razionali in cui era sempre stato
abituato ad abitare. Era composta di tre piani più la soffitta. Hansi occupava
la metà dell’ultimo piano e della mansarda. Nel cortile interno si apriva una
scala che arrivava alle portefinestre dei balconi – forse era stata costruita
come un antico sistema di sicurezza.
Die
salì. Prese
un respiro profondo. Bussò.
IV.
Fermo
al semaforo rosso, Nikita inclinò la testa spingendosi sul volante e sospirò.
Sperava vivamente di non dover tornare indietro a recuperare i frammenti
spezzati di suo fratello. Ripensò a quella notte all’Eterea, quando gli era
sembrato di scorgere così tanta luce per loro, e si disse che sì, in fondo
aveva ragione lui. Era solo questione di convinzione.
V.
Hansi si
avvicinò alla porta con un certo senso di ansia inspiegabile. Aveva appena mandato una cartolina a
Die. In un certo senso aveva il vago presentimento che potesse essere lui, che
fosse venuto per cercare di sistemare la situazione, magari chiedergli scusa.
Quello che non sapeva era come avrebbe reagito. Gli ci erano voluti giorni solo
per convincersi a mandare quel piccolo, banale augurio alla sua festa di laurea,
di certo sarebbe impazzito a trovarselo davanti, avrebbe compiuto esattamente
le cose che non si era riproposto di fare mentre, scrivendo il biglietto nella
sua calligrafia più leggibile, si vergognava della sua stupida speranza di
vederlo indietro.
Socchiuse la porta.
Die
indossava solo una leggera camicia nera di seta che risaltava particolarmente
il suo incarnato diafano e i suoi occhi blu. Era tanto che non lo vedeva, e che
non lo trovava così bello. Sospirando,
chinò la testa in segno di sconfitta. La sua mano stringeva già la maniglia ma
non si decideva ancora a lasciarla, preso nella sua mente tra le reti di una
complessa battaglia interiore.
Die lo
guardò attraverso quella sottile fessura. Pensò immediatamente al peggio – pensò, vedendo le
sue attitudini e la lentezza stanca con cui compiva ogni singolo movimento, che
fosse semplicemente esausto, e che l’ultima cosa che voleva fosse trovarselo di
nuovo davanti, una sera tranquilla. In un istante fu riempito dei dubbi che
aveva represso mentre saliva le scale – e se avesse trovato qualcun altro? E se
si fosse innamorato? E se lo stesse odiando davvero? E se –
Hansi
non apriva la porta perché sapeva che nel momento in cui avesse compiuto questa
semplice, banale azione, avrebbe nuovamente deciso in un singolo istante di un
nuovo capitolo della loro storia. Sapeva che allora Die non avrebbe nemmeno più
avuto bisogno di parlare per rivolgergli le sue scuse, o per dire qualsiasi
parola, qualsiasi frase. In quel momento la porta era diventata soltanto
l’ingresso di una nuova, lunga serie di Possibilità. Scostandola, avrebbe
lasciato penetrare nella stanza che era stata loro per tanto tempo una nuova
ventata dal mondo, avrebbe ammesso che nessuno dei due aveva ragione, e che né
la sua convinzione passionale, né l’orgoglio sfrenato di Die erano potuti
sopravvivere da soli, su quel mare di speranza crudelmente infrante dai loro
reciproci colpi di sfida.
In fin
dei conti voleva stare di nuovo bene. Voleva ancora essere la sua Rosellina
delicata, un po’ fiera e molto vanitosa, capricciosa, narcisista, sempre al
centro dei suoi pensieri e protetta gentilmente dal suo paravento, perché le
spine non erano artigli e non potevano preservarla dai Mali del mondo.
Dall’altra
parte della soglia, Die aspettava tremando per il freddo e per l’eccitazione. Sarebbe potuto restare in quella
posizione, immobile, immutabile, ieratico, per un milione di anni, per
un’eternità.
-
Aprimi, aprimi, aprimi, - Si diceva.
E Hansi
chiuse gli occhi per un momento. Gli sorrise gentilmente. Con un movimento
incredibilmente lento scostò l’uscio e gli fece cenno di
entrare.
VI.
Era
strano pensarsi di nuovo accanto a quel focolare così intimo, così conosciuto,
eppure sempre un po’ distante. Ogni traccia di freddezza era scomparsa. Non
sapeva nemmeno come fosse successo, ma si era ritrovato tra le sue braccia a
frenarlo dall’impeto di chiedergli scusa troppe volte, giurandogli che non
avrebbero litigato più, che aveva ragione, e che non voleva sprecare la sua
vita in un ufficio, in un lavoro grigio, in un appartamento grigio, assieme a
persone grigie ed uniformi, ma voleva restare con lui e con quella sua colorata
pazzia molto artistica, molto bohémienne, molto piena di vita.
Era
tutto piuttosto confuso nella sua testa. Un momento prima credeva che
situazioni di questo genere non capitano nella vita reale, e che non si
riaprono le porte già sbarrate due volte perché uno ti guarda con occhi pieni
di disperazione attraverso un vetro sottilissimo eppure così spesso e pesante.
Non lo faceva per Die. Lo faceva per se stesso. In un certo senso era egoista,
ma capiva che da quel momento sarebbe stato tutto diverso e, magari, più semplice.
Che quella volta erano finalmente cresciuti, che avevano imparato una regola
fondamentale della convivenza, che ormai il loro male era stato sradicato alla
radice dalla disperazione.
Il
Piccolo Principe doveva viaggiare per tutto l’Universo, incontrare ogni sorta
di persone, stringere amicizia con pecore disegnate, piloti in panne, volpi,
serpenti, ubriaconi e re, per poter finalmente tornare sulla sua stella, per apprezzare
il valore della sua incantevole, fragile Rosa. E per compire questo salto era
davvero necessario morire, una notte, nella quiete silenziosa del deserto.
Se tu vuoi bene a un fiore che sta in una
stella, è dolce, la notte, guardare il cielo. Tutte le stelle sono fiorite.
Due e-mail di racconti; una conversazione ironica nella caffetteria;
alcuni progetti per il futuro decisamente a lungo termine; una canzone e il rumore degli Anni Sprecati infranti
I.
A:ottavia.---@---.it
Cc:
Oggetto: Piccolo week-end prima degli esami
Allega:Foto 01;
Foto 03; Foto 04; Foto 10
Ciao Otta!
Mi sto divertendo da morire qui, anche se tuo fratello non sembra
essere dello stesso parere. Il sole splende, il cielo è azzurro, ci sono io, non so cosa trovi ancora da
lamentarsi. Questo ragazzo è un concentrato di negatività oscura e sensazionale
che presto o tardi finirà per incrinare l’armonia perfetta del mio Equilibrio
Cosmico. Un po’ c’è già riuscito. Capisco che sia agitato per gli esami, ma
continua, continua a ripetermi che non avremmo dovuto prendere nemmeno un
giorno di vacanza. È il quattordici Giugno, tra un mese è festa nazionale in
Francia, io sono contento, e il mondo è fantastico, almeno così cerco di
mettermi in testa. Cioè, non è che sia proprio convinto. Diciamo che il mio
microcosmo è fantastico.
Adesso Lelio dorme, per fortuna. È uno sfigato, si addormenta sempre
di pomeriggio e la notte si lamenta che non riesce a chiudere occhio. Ha i
ritmi un po’ sfalsati, sai… è anche colpa mia.
Salutami Nikita che sarà sicuramente con te, e magari Die e quel
gran gnocco del suo nuovo ragazzo. No, aspetta, io amo solo Lelio e troverò
attraente solo Lelio. Lo giuro. Ieri sera si è ubriacato un po’ e ha
improvvisato uno spogliarello cantando quella canzone stupida che fa I don’t feel like dancing – si chiama
così?... Gli faccio sempre alzare un po’ il gomito perché diventa di buonumore,
e io sono felice, e siamo felici insieme, e fine della storia.
Se fossi il re del mondo, saprei come sconfiggere il Male. L’acqua
fa male, il vino fa cantare. Fais ce que
tu voudras. Viva la Dive Bouteille. Sarei saggio e magnanimo come
Pantagruel, solo, decisamente più affascinante.
Baci ^_^
Cea (e, spiritualmente, anche Lelio)
II.
A:ottavia.---@---.it
Cc:
Oggetto: Otta, lo so che sei
invidiosa…
Otta, lo so che sei invidiosa, a- del mio
magnifico ragazzo; b- del mio magnifico bilocale al mare con vista su scogliera
e golfo. Ti inviterei qui, ma sai, volevo stare un po’ da solo, veramente da
solo, con Hansi, che ultimamente sta perdendo la sua vena schizofrenica e si
sta trasformando in un bravo ragazzo, in un lavoratore diligente, in un moroso
perfetto, il che mi incoraggia. Ero un po’ demoralizzato prima di partire. E’
tanto che non suono. Giuro che appena torno a casa mi impegno a provare e a
provare per ore tutto quello che mi viene in mente, dai Rush ai Tool. Prometto.
Per il momento voglio godere le meritate vacanze
che seguono il casino degli ultimi mesi della mia vita, eccetera eccetera eccetera. Ti racconterò quando torno, se torno, un
dì, della bellezza delicata e tutta profusa di luce, odori, suoni e sensazioni
di questo piccolo paradiso terrestre. Io e Hansi eravamo venuti una volta in
inverno, ma non rendeva in questo modo. Ricordo che c’erano un sacco di stelle,
e che non volevo tornare nella frenesia della realtà, perché era tutto
straordinariamente rallentato, come messo a giacere in una bolla di
cristallo isolata dal resto del mondo. Ora è un po’ più caotico, ma ugualmente
pittoresco e magico. I giardini sono meravigliosi. Devi venire, ti
innamoreresti di questo posticino arroccato, lo so.
Per il resto salutami quel disgraziato del mio
fratellastro, il suo santo ragazzo, e il mio dolce Nikita,
See you,
Die (Hansi è in giro, ma anche lui saluta, è___é)
III.
Nikita sorrise alzando gli occhi
dai fogli che sua sorella gli aveva portato, mentre lei beveva il suo caffè
abituale delle nove del mattino. Era una bella giornata di sole estivo, già
molto afosa. Presto sarebbe partita per Londra, e Nikita sarebbe scappato dalla
calura che cominciava ad addensarsi nei recessi della Città con instancabile precisione
annuale. Avrebbe viaggiato verso mille metropoli di mille colorati paesi
stranieri, posando per le più importanti macchine fotografiche, trovandosi ogni
volta una fidanzata diversa.
Ottavia sospirò, appoggiando la
tazzina sul piatto di ceramica. “E tu quando ti
trovi seriamente una ragazza?”
“Quando tu ti sposi Jonathan
Rhys-Meyers.” Rispose Nicola aprendo il giornale.
Ottavia sorrise con la sua
imperturbabile malizia.
IV.
Carry me to the
shoreline
Bury me in the sand
Walk me across the
water
And maybe you’ll understand –
Verso il tramonto Die si portò
alla terrazza sospesa su di un mare irreale di meraviglia. Gli scogli si
ergevano davanti alla sua vista bagnati dalla schiuma delle onde cristalline
sciabordanti e appena a pochi metri da essi si apriva il loro piccolo, curato
giardino fiorito di ogni genere di fiori e piante mediterranee. L’estate aveva
steso un velo profumato, sottile e frizzante su ogni cosa, cancellando la
precarietà e quel senso di perdita protrattosi per tutto il lungo inverno. Il
sole spandeva ancora il suo chiarore fulgido sulle macchie rosse, viola, blu,
rosa, iridate delle dolci corolle, e sul verde brillante delle foglie e
dell’edera arrampicata sopra ogni superficie. Gli pareva di godersi ogni
singolo istante di luce di quella fantasmagorica ascesa. L’indomani se ne
sarebbe tornato nel caos della Città ed avrebbe definitivamente cominciato un
nuovo capitolo della sua esistenza con Hansi e, soprattutto, con la sua
chitarra, dimenticandosi del fresco venticello che soffiava sul limitare della
spiaggia. Si era sentito seppellire a poco a poco e ora si ridestava.
Rimase incantato in quello stato
di contemplazione senza nemmeno accorgersi dell’arrivo di Hansi, seduto sui
gradini marmorei del piccolo spiazzo deserto e silenzioso.
“Ehi,” Lo richiamò dal suo assopimento.
“Che c’è?”
“Niente,” Si riscosse Die.
“L’estate fa miracoli. Ho sentito il rumore come di uno schianto.”
“E cos’era?”
Die alzò le spalle. Era il suono
dei suoi Anni Sprecati che precipitavano in mare.
“Posso prendere i bicchieri o hai
ancora sete?”
“No, fa pure.”
Hansi prese il vassoio dei
bicchieri vuoti e rientrò nell’appartamento, lasciando nuovamente Die immerso
nei suoi pensieri rivolti verso l’orizzonte sempre più rosso,
sempre più infuocato, sempre più carico di colori sanguinolenti, deflagranti,
potentissimi allo sguardo un po’ assente, un po’ malinconico, un po’ pervaso di
segreta dolcezza di colui che, un giorno qualsiasi di una stagione qualsiasi,
si ferma a scrutare tra le sue pieghe un qualche vago presagio per il proprio
futuro.
C’era un momento che Die amava
particolarmente del crepuscolo, ed era l’ultimo, il più dilatato, il più
invisibile, il più elettrico, e, di conseguenza, il più imperscrutabile – era
l’attimo in cui il sole spariva definitivamente sotto la linea del mondo,
trascinandosi dietro i barlumi iridescenti e le esplosioni cromatiche dei suoi
ultimi minuti. Allora scomparivano il rosa, il cremisi, il viola, lo zaffiro,
il magenta, l’ocra, l’arancio, il giallo, e rimaneva soltanto il buio appeso in
cielo, ancora privo di stelle e di profondità, sul cui tessuto baluginante già
si dipingeva la luna e contemporaneamente permanevano tracce del chiarore
diurno. Era proprio l’istante brevissimo in cui la notte conviveva col giorno e
l’oscurità si sposava con la luce, mescolandosi fino a dare vita ad un mistico
abbaglio, ad un tono screziato più denso verso l’oriente, più evanescente e
limpido verso Ovest, ancora trafitto da irrequiete scintille di sole ed
illuminato dalla stella vespertina. “Quella è la nostra stella!” Esclamò. “La
stella della Rosa e del Piccolo Principe.”
Rimase incantato alla balaustra
finché non vide il sole affogare nella placida distesa del Mediterraneo caldo.
Non aveva vere idee nella testa. Pensava più che altro al tramonto e al giorno
dopo, e si ripeteva due versi antichi e quella canzone meravigliosa con
particolare insistenza.
Taglia una corta speranza,
poiché la vita è breve
Non voleva tagliare una corta
speranza. In effetti sarebbe stato meglio così, ma gli dispiaceva. Voleva
tornare a sognare con la passionalità infantile di Hansi e pensare di poter
conquistare il mondo assieme a lui. Tutto attorno alla sua rivoluzione, molte
persone stavano cambiando, molte cose rimanevano statiche nella stessa
incoerente contraddizione. Nikita partiva per l’ennesima volta, Ottavia si
trasferiva per i canonici tre mesi in Inghilterra, ma, soprattutto, Lelio
cominciava la sua nuova vita all’Accademia di Belle Arti.
Cosa gli restava ora? Una corta speranza? - La corta speranza è
molto ragionevole, - Si disse. – Ma Hansi è un idealista.-
Erano molto, molto diversi. In un
certo senso ambivalenti.
In questo modo chiudeva il suo
cerchio. L’equilibrio è compenetrazione perfetta, sintesi degli opposti,
finalmente l’aveva capito. Era quella sorta di rigenerazione spontanea che galvanizzava
ogni istante il rapporto indissolubile tra Lelio e Mircea, quel vincolo che
aveva sempre cercato di comprendere e che suo fratello gli aveva esemplificato
nella lezione dell’Arte.
Era giunto il Vespro, col suo
buio e la sua luce, insieme. Il blu fosforescente ed il nero.
- E’ strano, - Pensò. – Come
tutto, anche in Natura, si fondi sulla legge delle proporzioni auree, e che
queste non siano altro che matematica universale, e che la matematica
universale sia il solo vero equilibrio sospendente ogni ambivalenza. -
Die lasciò il terrazzo, e,
voltandosi verso casa, gettò in mare tutte le corte speranze, la paura dei
contrasti, ogni traccia rimasta degli ultimi Anni Sprecati.
Once the stone
You’re crawling under
Is lifted off your
shoulders
Once the cloud that’s
raining
Over your head
Disappears
The noise that you
hear,
Is the crashing down
of Hollow Years
___
Portami sulla battigia
Seppelliscimi nella sabbia
Calpestami sul ciglio dell’acqua
E forse capirai –
Una volta che la pietra
Sotto la quale strisci
Sia scivolata via dalle tue
spalle,
Una volta che la nuvola da cui
piove
Sulla tua testa
Sparisca,
Il rumore che sentirai
Sarà lo schianto a terra degli
Anni Sprecati
(Dream Theater, Hollow Years)
***
Buongiorno miei dolci lettori! Non so chi di voi sia rimasto
sintonizzato, by the way eccovi il penultimo capitolo. L'ultmo a
dire il vero, perché il prossimo è l'epilogo, una
chiosa, anche se tecnicamente è stato il motivo per cui ne ho
scritti altri venti. Ebbene sì, sono partita dalla fine...
Sapete, sono al mare - esattamente dove starebbe Die -, quindi non ho
internet, devo ricorrere all'internet point e il tempo è
quel che è. Non riesco ovviamente a leggere le fic che stavo
seguendo, a commentare eccetera. Sono in astinenza da fic! Scusatemi.
Chissà se Susy ha aggiornato. Se Dicembre - boh, mi sento fuori
dal mondo.
Sto scrivendo una nuova long fic, per la cronaca. Lo dico
perché siamo agli sgoccioli e perché sono
già stati buttati giù venti capitoli, ma sui miei
quaderni e fogli volanti,chissà quando la batterò al
piccy.
Per il resto, buone vacanze a tutti, cercherò di aggiornare presto con la conclusione [anche se un po' mi dispiace].
SPECIAL THANKS TO:
Manny-chan: Che meraviglia, sei
tornata... sono contentissima! E hai ragione, ho un po' ignorato
Narciso e Boccadoro, ma volutamente... Intanto, sono sistemati
felicemente per il resto della loro esistenza in salute e malattia in
ricchezza e povertà e bla bla bla, e poi perché la
storia è costruita da due blocchi e la seConda parte
riguardava il blocco Die-Hansi, che come vedi s'è sbloccato (non
è un gioco di parole, giuro, ma rende l'idea u___u). Se ti
fa piacere la conclusione è tutta di Lelio.... Ti ringazio
infinitamente e ti auguro buone vacanze.
Vorrei mettere il
commento all'inizio, così potrete terminare la pagina con
l'ultimo, brevissimo capitolo. Ora che lo rileggo mi accorgo di quanto
sia stato inconsistente eppure in un certo senso essenziale per tutta
la storia... E' un capitolo che non dice niente, perché è
tutto concluso, ma è forse il più introspettivo... non lo
so. La poesia è di Keats, ed è una specie di
Verità per me, nonché per Lelio. La parte in corsivo sono
i miei veri appunti di inglese, ormai vecchi di tre anni quasi. Che
dire... doveva finire così e basta. Il disegno di Cea. Il
momento in cui Lelio lo vede come la cosa più bella del mondo.
End.
Sono molko
dispiaciuta di averci messo così tanto ad aggiornare. Ma questa
volta non accamperò scuse tipo il computer, il tempo, la scuola
e bla bla bla. La verità è che non avevo intenzione di
finire Ambivalenze solo dopo aver terminato di scrivere la mia nuova fan fiction e
così è stato. Presto la vedrete. E poi mi dispiaceva...
l'ultimo capitolo è sempre un piccolo dispiacere, ecco.
Per il resto ringrazio tutte le persone che hanno letto, e tutte le persone che hanno commentato. Ringrazio in particolare Manny-chan [voilà,
l'ultimo, il decisivo capitolo. Grazie del supporto per tutti questi
mesi, ti sono tantissimissimo riconoscente!]e Chloe 90
[qualsiasi cosa sia successa nella tua testa sono sicura che questo
capitolo non causerà scompaginamenti... vale lo stesso
ringraziamento di Manny-chan, grazie millissime per il tempo che hai
sprecato con la fic] che mi hanno ricensito per ultime. Un grazie anche
alle persone che volontariamente o no hanno ispirato questa fic, anche
quelle che oggi, dopo tanti anni, non fanno più parte della mia
vita.
Una poesia malinconia; una chiosa di spiegazione; una contemplazione
emozionante. Un’icona da incastonare
I.
“Beauty is truth,
truth beauty, - that is all
ye know on earth, and
all ye need to know.”
[Keats, Ode On A Grecian Urn]
Lelio aveva dormito per tutto il
pomeriggio, e allora non riusciva a prendere sonno. Non si era nemmeno
coricato. Era uscito sul balcone, aveva guardato il cielo coperto inclinando un
po’ la testa, come faceva quando si compiaceva delle sue visioni, ed era
tornato in camera pieno di freddo e di pensieri intangibili, soffusi, delicati.
A volte si stupiva delle corrispondenze perfette che poteva scorgere tra le
architetture della sua mente ed i caotici disegni delle stelle – e poi, il
cielo rappresentava il più ampio teorema della sua dottrina estetica.
Lelio aveva avuto una sorta di
illuminazione, quella mattina. Aveva letto delle righe che lo avevano fatto
sussultare e l’avevano riempito di una certa contentezza. Aveva cercato Mircea
e gli aveva detto con lo stesso tono di un bambino: “Ehi, guarda che cosa ho
trovato!”, ma nella sua testa pensava: tutta questa poesia, senza nemmeno
saperlo, e senza le rime o le assonanze, o la metrica, o le figure retoriche, era
già incisa nella mia testa. Di questo si era stupito non poco. Era giunto alla
conclusione che è molto difficile pensare originalmente, e che le idee, le
fedi, i concetti e le meditazioni, funzionano un po’ come l’energia: sono
regolate da una legge simile all’entropia –
viaggiano nel vento, raggiungono ogni persona che sia predisposta a farnsene
ricettacolo, si mantengono costanti nella loro quantità nei secoli, e, per
qualche inspiegabile decadimento, degradano progressivamente e con lentezza perdendosi
nel nulla irrisolto della materia morta.
In fondo la bellezza non
l’aveva inventata lui, e non solo lui l’aveva vissuta. Quel poeta aveva
ventidue anni, quando l’ispirazione, Adonai,
sospinse la sua mano sulle sudate carte componendo la sua Ode più bella, il
capolavoro dell’immortalità nell’Arte. Ma, forse, poteva capirla, poteva intuirla in
una maniera più profonda di
chiunque altro si approcciasse al suo scritto, perché
l’aveva rivissuta e
rielaborata nella sua stessa Immaginazione. Questo gli mostrava nuovi
gradi di perfezione, nuove sfumature, nuovi splendidi risvolti in una
teoria ambivalente,
piena di luci e di ombre, di esaltazione e di dolore soffuso, steso
delicatamente
come lo sfondo nero delle urne greche.
Scrisse un appunto veloce sul
libro –
Nuova
dimensione dello
spirito. Le figure incise sull’urna appartengono al mondo
immortale. Nella loro
immobilità cristallizzata contemplano un idillio. Il giovane
suona un flauto/pipa
(?). la sua musica è il suono dell’immaginazione, che
è SEMPRE, ed è anche ogni
volta nuovo e bellissimo, perché diviene ciò che noi
vogliamo sentire. La
Bellezza è ESTASI. “La Bellezza è verità, la
verità è Bellezza – è tutto ciò
che si sa del mondo, ed ogni cosa uno debba conoscere”
Chiuse il libro e lo ritirò.
Guardava Mircea e sorrideva. Gli sembrava che quella bellezza delicata
contenesse in sé una certa potenza di perfezione, e quindi un certo merito di
eternità. Era la seconda volta che pensava a fare di lui un’opera d’arte, e
consacrarlo per sempre all’immortalità, alla permanenza, alla memoria. Le curve
lievi del suo corpo, appena accennate sotto le lenzuola, lo riempivano di
tenerezza. – Probabilmente, - Si disse, - Questa è l’idea che ho sempre avuto
di lui, ed è il movimento che mi ha fatto segretamente innamorare. –
Perché Lelio era sensibile alla
Bellezza. E la Bellezza semplice ed appassionata generava nel suo animo
soltanto una strana sorta di morbida felicità.
Sei felice quando osservi qualcosa di meraviglioso? Gli domandava
la sua voce interiore. Sì.
Avrebbe dipinto quell’icona e
l’avrebbe conservata lucida e scintillante nel suo cuore. Per tutta la vita.